Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma
R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A
Editoriale: Pluralismo non solo culturale
Tutta un’altra storia
Il nome di Dio è Amore.
La dimensione teo-logica della carità
Le opere e i giorni
Novità sulla valutazione
IR o IRC? Un po’ di tutto o un po’ per
il tutto
Insegnamento della Religione
Cattolica nella Scuola Primaria ed
alunni diversamente abili
In “media” virtus. Pluralità di strategie
didattiche nella Secondaria di I grado
Riprese & dettagli
Incontri romani
A classi aperte
Notizie legali e sindacali
Diario scolastico
Materiali e documenti
2/2006
Religione
Scuola
Città
Religione Scuola Città
RIVISTA PER LA SCUOLA
DELLA DIOCESI DI ROMA
Anno XII (2006) n. 2
Sommario
EDITORIALE
Manlio Asta Pluralismo non solo culturale
3
Giuseppe Lorizio La Deus caritas est e la scuola
6
Direttore responsabile
Angelo Zema
Direttore
Manlio Asta
Angelo Zappelli Novità sulla valutazione
20
Mario De Luca IR o IRC? Un po’ di tutto o un po’ per il tutto
27
Antonio Passaro IRC nella Primaria e alunni diversamente abili
34
Livio Giorgioni Pluralità di strategie didattiche nella Secondaria di I grado
39
Consiglio di redazione
Carmine Brienza - Giuseppe Iovino
Filippo Morlacchi - Alessandro
Tarzia - Grazia Palma Testa
Pasquale Troìa
Immagini e didascalie
Pasquale Troìa
Registrazione
Tribunale di Roma
Autorizzazione n. 137
del 11.04.1994
Progetto grafico e
impaginazione
Studio PardiniApostoliMaggi
www.pardiniapostolimaggi.it
Stampa
Tipolitografia Trullo S.r.l.
Via Idrovore della Magliana, 173
00148 Roma
Finito di stampare nel mese di
luglio 2006
www.tipolitografiatrullo.it
Contributo per le spese
di stampa
e 15,00 in c.c.p. n. 30214001
intestato a:
Amministrazione Ufficio
Catechistico Vicariato di Roma
indicare la causale del versamento
Editore
TUTTA UN’ALTRA STORIA
Federico Corrubolo Un romano nel Far West
42
LE OPERE E I GIORNI
Pasquale Troia Le opere e i giorni
46
RIPRESE & DETTAGLI
Andrea Monda La Bella e la Bestia
53
INCONTRI ROMANI
Paolo Aragona Ostia per l’Africa
59
A CLASSI APERTE
M. Ferragina, C. Basile I disturbi dell’apprendimento della lettura
61
NOTIZIE LEGALI E SINDACALI
Angelo Zappelli La ripartizione diocesana del secondo contingente
65
Diocesi di Roma
Direzione, redazione e
amministrazione
Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a
00184 ROMA
DIARIO SCOLASTICO
Filippo Morlacchi Diario scolastico
67
MATERIALI E DOCUMENTI
S.E. Mons. Rino Fisichella La cultura cattolica: identità e forza educativa di una
tradizione
71
Editoriale
S
Stavolta la nostra rivista si presenta più articolata del solito. Una
pluralità di voci e di temi – speriamo un coro, e non una confusione, sebbene le parziali dissonanze facciano parte della buona
musica – vogliono esprimere la complessità del mondo di oggi,
che si rifrange nel mondo della scuola.
La storia del pensiero umano è segnata dalla tensione dialettica tra
l’uno e il molteplice, l’identità e la differenze. Né un monismo parmenideo né un politeismo privo di centro possono adeguatamente
«salvare i fenomeni», cioè
rendere ragione della
realtà. Accentuare troppo il
centro significa non vedere
tutta l’articolata fioritura
delle infinite manifestazione della vita; soffermarsi
solo sulla molteplicità dei
particolari comporta l’impossibilità di cogliere il
senso dell’insieme.
Il mondo della scuola
sembra oggi oscillare pericolosamente tra la Scilla del centralismo
e la Cariddi della frammentazione. Una sperimentazione sregolata, la libertà delle istituzioni periferiche che rifiutano ogni controllo, una resistenza campanilistica del locale ad accettare logiche più
ampie del proprio piccolo orticello sembra affiancata oggi da un
rigurgito di centralismo. E forse questa seconda tendenza è più vivace e preoccupante dell’altra. Ne è prova – ci sembra – la recente
polemica sulla valutazione dell’IRC. Angelo Zappelli, che ne ricostruisce le dinamiche, lascia intendere che su questo campo si so-
Pluralismo –
non solo
culturale
3
no sovrapposte ingiustamente le prescrizioni di diversi soggetti
istituzionali, che hanno prevaricato la legittima autonomia dichiarata dal DPR 275/99. Non sarebbe stato possibile lasciare alle singole istituzioni scolastiche decidere se compilare la valutazione di
religione in una scheda a parte o invece insieme alle discipline? Il
principio della personalizzazione, la logica dell’apprendimento,
l’attenzione al territorio e tante altre innovazioni che sono ormai
patrimonio condiviso della riflessione pedagogico-didattica e della
nuova scuola suggeriscono che sarebbe bene evitare tutte le superflue imposizioni dall’alto, cercando invece di promuovere le iniziative locali, pur senza dimenticare la necessaria coesione del corpo sociale e l’orientamento condiviso al bene comune. Il principio
di sussidiarietà, uno dei cardini della dottrina sociale della Chiesa,
lo ripete da decenni.
Il contributo del prof. De Luca ritorna ancora sul tema dell’«avalutatività» nell’IRC. Uno studio onesto del fenomeno religioso
nella sua integrità non può limitarsi alla presentazione asettica di
riti e fenomeni, senza sforzarsi di lasciar cogliere agli alunni il
“profumo” della sensibilità religiosa e della fede. Sarebbe come voler insegnare scienze motorie senza mai portare gli alunni in palestra o fare un corso di cucina senza mettersi alla prova con i fornelli. La scuola deve formare per la vita, e non chiudersi in astrazioni autoreferenziali.
Ecco perché in questo numero ci siamo occupati, ad esempio, di
alunni diversamente abili (A. Passaro), e inauguriamo una nuova
rubrica curata da M. Basile e C. Basile, intitolata «A classi aperte»,
in cui verranno offerte riflessioni per aiutare – anche nell’ora di religione – alunni in difficoltà. Sulla stessa linea si collocano le riflessioni di L. Giorgioni sulle diverse strategie didattiche nella
scuola secondaria di I grado. Il vero pluralismo nella scuola, oggi
tanto sbandierato, non deve significare la sostituzione di una cristianità tramontata con una diversa omogeneità, ma la valorizzazione sincera e accogliente delle differenze reali che ciascuna classe
e ciascuna scuola esprimono. Le differenze reali: non quelle previste nella mente di un legislatore centralistico che vuol imporre le
sue norme – che siano favorevoli o sfavorevoli alla Chiesa, in questa sede non conta –, tornando a fare della scuola l’espressione pe4
riferica di una struttura verticistica invece che la manifestazione
viva della concreta comunità territoriale. La Chiesa, pur con le
inevitabili lentezze ed imperfezioni legate alle fragilità degli esseri
umani che la compongono, ha sempre saputo mettersi in ascolto
delle differenze e delle originalità di ciascuno, come ricorda l’articolo di F. Corrubolo. L’auspicio è che la scuola impari a diventare
davvero la scuola di tutti.
Un evento ecclesiale di rilevanza culturale come la pubblicazione
di una lettera enciclica non poteva esser trascurato in una rivista
per insegnanti. Ecco allora l’impegnativo articolo di Mons. Lorizio, che può costituire una lettura formativa e di ricco contenuto
per approfondire i temi sviluppati dal Papa e utilizzare con maggior consapevolezza e competenza questo documento magisteriale
anche nell’attività didattica. Per chi trovasse troppo difficile questo
approccio, la rubrica di cinema, dedicata stavolta al cartone animato de “La Bella e la Bestia” offre una proposta più semplice e
direttamente fruibile per affrontare il tema dell’amore gratuito che
«rende amabile ciò che ama».
Un augurio di una serena estate agli IdR e a tutti i nostri lettori.
Manlio Asta
In copertina: Luigi Fillia, Case di Lerici, Torino, Galleria Civica d’Arte
Molteplici e varie metafore hanno figurato la scuola in tutta la sua storia, sia nel
lessico dei pedagogisti e degli insegnanti che in quello degli studenti. Ma forse
un unico denominatore di sana retorica li accomuna: la scuola come casa. Già
in ebraico era chiamata bet midrash (“casa della ricerca”); essa non è un luogo
qualsiasi, né un non-luogo (secondo l’invenzione lessicale dell’antropologo etnologo M. Augé). È un luogo abitato: una piccola oikoumene, una terra dove gli
abitanti la qualificano. È una casa dove la comunità e le sue relazioni la qualificano come habitat di persone (il senso di Gemeinschaft [“comunità”] deve pur
prevalere su quello di Gesellschaft [“società”]). È una comunità dove le relazioni
sono quasi parentali (il maestro genera alla cultura i suoi studenti, per cui anticamente era chiamato
padre e reciprocamente chiamava figlio il suo studente). Una comunità educante in cui entri bambino
e diventi grande (anche se non sempre adulto). Una scuola a colori – come le case di questa immagine
– è la speranza di una comunità dai colori della diversità culturale, religiosa, sociale e civile. Se la speranza non è colorata dai sogni degli abitanti di queste case, vana è la nostra opera di docenti e di genitori. Come illusorio è quanto lasciamo credere di insegnare ai nostri studenti.
5
Il nome di Dio è Amore.
La dimensione teo-logica della carità
di Giuseppe Lorizio*
«Chi è Dio?», la domanda risuonava nella
ricordava molto da vicino quello aristotelichiesetta adibita ad aula di catechismo, deco, cui l’enciclica Deus caritas est dedica
un’importante citazione, in un passaggio
clamata dalla voce stridula ma decisa della
decisivo e fondasuora e non passava
mentale, nel quale,
che qualche secondo
Il prof. Lorizio ci offre una dotta riflessione
mentre da un lato
perché il folto grupsull’enciclica di Benedetto XVI «Deus carinon si nega il
po di fanciulli, rigotas est». Mettendo a confronto metafisica
profondo valore del
rosamente diviso fra
dell’essere e metafisica dell’amore, il testo
pensiero greco-arimaschietti e femmipapale viene attentamente riletto, riporstotelico, si marca
nucce, scandisse a
tando con ampiezza gli autori che vi sono
anche la differenza
sua volta la risposta:
citati, in particolare lo Pseudo Dionigi, di
teo-logica rispetto al
«Dio è l’Essere percui viene messo in luce l’apporto innovatomessaggio biblico,
fettissimo Creatore e
re rispetto alla precedente tradizione pagagià veterotestamentaSignore del cielo e
na (Platone), giudaica (Filone) e cristiana
rio: «La potenza didella terra», per ag(Gregorio Nisseno e Origene). Confrontanvina che Aristotele,
giungere, poco più
dosi con la più recente riflessione teologica,
al culmine della filoavanti che Egli «ci ha
l’autore argomenta che la presunta opposisofia greca, cercò di
creati per conoscerlo,
zione tra verità e carità è solo un falso dicogliere mediante la
amarlo e servirlo in
lemma. La presentazione della riflessione
riflessione, è sì per
questa vita, e per godi A. Rosmini sul tema dell’amore e le posogni essere oggetto
derlo poi nell’altra,
sibili applicazioni all’IRC concludono questo impegnativo contributo, che può aiutadel desiderio e dell’ain paradiso». Formure gli IdR a comprendere meglio – e dunmore — come realtà
le la cui comprensioque
sfruttare
in
maniera
ottimale
anche
amata questa divine, nonostante le
nell’attività didattica – l’enciclica.
nità muove il mondo
maldestre spiegazio—, ma essa stessa
ni che ci venivano
non ha bisogno di niente e non ama, solofferte, ci sfuggiva, ma che racchiudevano e
tanto viene amata. L’unico Dio in cui Israecustodivano una sapienza antica, richiamale crede, invece, ama personalmente. Il suo
ta a salvaguardia della trascendenza divina,
amore, inoltre, è un amore elettivo: tra tutti
che il pensiero moderno in modalità diveri popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con
se, ma sempre ideologicamente configurate,
lo scopo però di guarire, proprio in tal mocercava di negare ed eludere. Si trattava ando, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo
che di formule il cui impianto speculativo
* Preside dell’ISSR “Ecclesia Mater” e ordinario di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense.
6
Fonografo Pathé, modello 1907
Riprodurre è un’azione che descrive e connota
un obiettivo dell’insegnare. È sinonimo (un po’
sintetico) di azioni che mirano a verificare le
capacità dello studente di riproporre, dire a memoria, indicare qualcosa di precedentemente visto/ascoltato…, insomma un «fare memoria».
Cioè si chiede al ragazzo di essere un riproduttore, un fonografo (per usare un termine arcaico). E tale abilità riguarda tutto ciò che fa parte
del passato, di ciò che è già avvenuto, è già stato
detto, visto, fatto… È quella parte del passato
che deve diventare memoria. Solo in relazione
alla memoria lo studente può fare da fonografo.
Diversamente sarebbe un immemore ripetitore
“temporis acti”, allorquando l’insegnante inserisce un gettone o comincia a girare quella manovella che dà motore e movimento al fonografo
che – se non è rotto – comincia a riprodurre.
Oggi gli studenti spesso sono molto “rotti” ad
avere a che fare con un passato trapassato, che
non permette di acquisire competenze e spesso
restituisce soltanto l’odore di muffa e non il profumo della tradizione e dell’antichità.
amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente
agape» (DCE, n. 9, sottolineatura mia).
1. Metafisica dell’esodo
Una lunga tradizione speculativa, nata da
un geniale fraintendimento del testo biblico, aveva alimentato la “metafisica dell’Esodo”, elaborata su base agostiniana, strutturata e formulata nelle diverse tonalità
dell’ontologia ispirate dalle dottrine tommasiane dell’«Ipsum esse subsistens» e
dell’«actus essendi», secondo le due linee
convergenti, caratteristiche della «filosofia
cristiana», disegnate da É. Gilson: quella
della perfezione e quella dell’infinità, entrambi qualificazioni dell’Essere da cui si
diramano1. Felix culpa! dovremmo dunque
esclamare di fronte a questo fraintendi1
mento di Es 3,14, se da esso si è generata
tanta e così alta speculazione non solo teologica, ma filosofica. Quanto ad Agostino,
al di là dei problemi filologici che una corretta ricostruzione del testo di Confessioni
XIII, 31,46 pone, penso possa essere utile
sottolineare l’orizzonte pneumatologico in
cui situa il nostro rapportarci al bene. «Attraverso lo Spirito – scrive l’Ipponate – noi
vediamo come tutto ciò che in qualche
modo è, è buono, poiché è da colui che
non è in qualche modo, ma è Colui che è»
[«per quem videmus, quia bonum est, quidquid aliquo modo est: ab illo enim est, qui
non aliquo modo est, sed quod est est»]. Non
bisogna tuttavia dimenticare che una lettura (fraintendimento) in chiave ontologica
del testo veterotestamentario era già stata
intravista da quel grande mediatore cultu-
Cfr É. GILSON, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 19833, p. 65.
7
rale fra Bibbia e filosofia (Atene e Gerusalemme) che fu Filone Alessandrino: «Fra le
virtù quella di Dio sussiste davvero dal
punto di vista ontologico, poiché Dio è il
solo che resti saldo nell’essere. “Io sono colui che è” (Es 3,14) fa comprendere che le
realtà a Lui inferiori non sono, dal punto
di vista ontologico, veri e propri esseri,
bensì sono considerate sussistenti solo nell’opinione corrente» 2. Che è come dire
l’ente o è creato o è nulla, ossia o è amato
o non esiste. Ma con questo siamo ancora
nell’orizzonte ebraico, ovvero possiamo ancora intendere questo rapporto di amore
come rapporto fra Dio, il mondo e
l’uomo3. Il messaggio cristiano interviene a
dire che Dio è amore in sé e non solo in
rapporto al mondo e all’uomo, ossia offre
la prospettiva trinitaria come unico possibile coerente svolgimento della metafisica
agapica. La Rivelazione sarà dunque manifestazione di questo amore e la sua credibilità apparterrà unicamente alla sua virtus
amativa4.
Alla precedente indicazione ontologica
possiamo accostare almeno due altre acute
osservazioni filoniane, la prima delle quali
ha il senso di un monito: «Egli dice: Io sono
colui che è il che equivale a la mia natura è
di essere, non di essere nominato. Ma perché
il genere umano non sia privato del tutto
di una denominazione da dare al Bene supremo, Egli concede loro di servirsi di questo nome: Signore Iddio delle tre nature:
l’insegnamento, la perfezione e l’esercizio,
di cui nelle Scritture sono simboli Abramo,
Isacco e Giacobbe»5. Infine un invito: la
“risposta oracolare” data a Mosé è tale da
lasciar intendere che «non essendovi in Dio
alcuna cosa che l’uomo sia in grado di afferrare con la mente, egli ne conosca almeno l’esistenza»6.
Rispetto alle questioni connesse con la “metafisica dell’Esodo”, Edith Stein, rifacendosi
proprio al luogo agostiniano sopra citato,
annoterà: «Mi sembra molto importante
che a questo punto non si dica: “Io sono
l’essere” oppure “Io sono l’ente”, ma invece
“Io sono colui che sono”. Quasi non si osa
chiarire queste parole con altre. Tuttavia, se
l’interpretazione agostiniana è esatta, si può
dedurre: colui il cui nome è “Io sono”, è
l’essere in persona»7. Solo un essere personale, infatti, può creare. E qui incrociamo il
luogo forse speculativamente più rilevante
della nostra enciclica, dove leggiamo: «L’amore appassionato di Dio per il suo popolo
– per l’uomo – è nello stesso tempo un
amore che perdona. Esso è talmente grande
da rivolgere Dio contro se stesso, il suo
amore contro la sua giustizia. Il cristiano
vede, in questo, già profilarsi velatamente il
mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo
che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue
fin nella morte e in questo modo riconcilia
giustizia e amore. L’aspetto filosofico e storico-religioso da rilevare in questa visione
della Bibbia sta nel fatto che, da una parte,
ci troviamo di fronte ad un’immagine strettamente metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma
questo principio creativo di tutte le cose –
il Logos, la ragione primordiale – è al contempo un amante con tutta la passione di
2
Quod deterius, 159, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Bompiani, Milano 2005,
p. 525.
3
Cfr F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005.
4
Cfr H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977.
5
De mutatione nominum, II, 11-12, in FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati…, cit., p. 1549.
6
De somniis, I 231, in ibid., p. 1735.
7
E. STEIN, Essere finito ed essere eterno. Per un’elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 19994, p. 367.
8
un vero amore. In questo modo l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape» (DCE, 10).
2. Metafisica agapica
Questa visione erotico-agapica di Dio
affonda le sue radici in un’antica tradizione,
quella che potremmo denominare, senza
volerla in alcun modo contrapporre alla
precedente, della “metafisica agapica” o
“metafisica della carità”. Lo stesso pontefice, acuto interprete di Agostino, rimanda
non solo a questo grande maestro del pensiero credente, in alcuni passaggi significativi dell’enciclica, ma svela la fonte della sua
visione erotico-agapica del Dio cristiano rimandando al cap. IV del De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi. E questo riferimento precede quelli agostiniani, invertendo così la cronologia dei personaggi. Siamo
in ogni caso anche qui di fronte a un’antica
sapienza, non tanto nutrita della metafisica
aristotelica, quanto del pensiero platonico,
nonché di quel neoplatonismo meritevole
dei primi tentativi di conciliazione fra le
due grandi figure speculative dell’antica
Grecia. Si tratta, per dirla con una certa
brutalità determinata dall’impossibilità di
fornire in questa sede adeguati approfondimenti, di declinare quella “filosofia dinamica” dell’essere, richiamata anche dalla Fides
et ratio (FeR, 97) e di indicare con chiarezza
e determinazione nella vis amativa la dynamis che muove Dio, il mondo e l’uomo (i
tre elementi della Stella della Redenzione) e
ne determina il rapporto.
L’autore del corpus dionisiano osa molto (e
siamo grati al suo coraggio speculativo, che
tante pagine della grande filosofia cristiana
ha ispirato) perché, pur nell’orizzonte apofatico, ci suggerisce di nominare Dio, nella
maniera meno impropria e idolatrica possi-
bile ed indica all’enciclica la prospettiva
teologica ispiratrice della prima parte. Segnaliamo qui, perché a nostro avviso particolarmente istruttivi, tre luoghi o momenti
attraverso cui si esprime la trasgressione
nell’opera dello Pseudo Dionigi: a) rispetto
a Filone; b) rispetto a Platone; c) rispetto a
Gregorio di Nissa e ad Origene. Né mi
sembra troppo lontana dal vero l’ipotesi interpretativa secondo cui è forse proprio a
causa di queste trasgressioni (riconducibili
ad un unico movimento speculativo) che
l’autore non solo resta anonimo, ma chiede
al suo lettore-interlocutore Timoteo di custodire nel segreto quanto è andato esponendo.
a) La trasgressione rispetto a Filone riguarda il divieto di nominare Dio. Divieto sostanzialmente accolto dallo Pseudo Dionigi
in linea teorica, ma di fatto trasgredito nelle
pagine della sua opera sui nomi divini. Potremmo raccogliere intorno al senso di questa trasgressione alcune riflessioni, la prima
delle quali concerne la pertinenza della
proibizione rispetto alle possibilità dell’uomo di nominare Dio. È Lui al contrario che
si nomina e nominandosi denomina gli uomini e le cose. In questo senso il nome proprio di Dio può essere solo rivelato e non
attinto razionalmente. La ragione – diceva
già Filone – potrà giungere ad indicarne l’esistenza, ma non a chiamare per nome il
Creatore del cielo e della terra. Ma, proprio
perché innominabile, a Dio si addicono
molti nomi, anzi tutti i nomi: «Così dunque – scrive l’anonimo – alla Causa di tutte
le cose e che è superiore a tutte le cose non
si addice nessun nome e si addicono tutti i
nomi delle cose che sono, perché sia regina
[il termine greco è basilèa] di tutte le cose e
tutte le cose gravitino intorno a lei e da lei
dipendano come causa, principio e come fine ed ella, secondo il sacro detto, sia tutta
9
in tutti e sia veramente celebrata come […]
custodia e domicilio [di tutte le cose]»8. Di
qui dunque non l’indicazione di un solo
nome, ma di una pluralità di nomi, in analogia col famoso passo della metafisica aristotelica dove si dice che l’essere si dice in
molti modi [tò dé òn lèghetai mèn pôllachôs:
Metafisica G 2 1003 a 33-349]. E tuttavia la
polisemia non degenera in anarchia, in
quanto si offre in una “gerarchia” (termine
caro all’anonimo) dei nomi, che così avranno una struttura piramidale. In questo quadro alla sfera del primo nome, che è il Bene, appartengono i tre nomi di Luce, Bellezza, Amore e, solo successivamente i tre
nomi di Essere, Vita, Sapienza, cui seguono
tutti gli altri.
b) La trasgressione rispetto a Platone riguarda l’attribuzione del termine Eros a Dio
e quindi l’identificazione Eros-Agape. Il “divino” filosofo non aveva osato tanto. Egli
giunge fino al punto di indicare Eros come
demone, attribuendogli un ruolo di mediazione, fra il cielo e la terra, i divini e gli
umani. E non è certo un caso se tale identificazione venga asserita da una donna, quella Diotima di Mantinea, il cui nome evoca
la mitica figura dell’amante che ha ispirato
il grande poeta F. Hölderlin, cantore peraltro della nostalgia degli dei e della Grecia
felice, casa di tutti i celesti. Ma la figura
dell’«eterno femminino che ci trae verso
l’alto» (W. Goethe) non è solo immanente
e pagana, si pensi all’Afrodite terrena e a
quella celeste delle Enneadi plotiniane, richiamata proprio a proposito di Eros e della sua dimensione divina. Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac ci hanno insegnato
ad interpretare cristianamente l’eterno femminino in riferimento alla Vergine Madre,
la quale «ci mostra che cos’è l’amore e da
dove esso trae la sua origine, la sua forza
sempre rinnovata» (DCE, 42). I commentatori non mancano di rilevare la cautela
con la quale lo Pseudo Dionigi si accinge a
parlare di Dio in termini erotici, soprattutto in considerazione del fatto che le Scritture non indicano mai Dio col nome di eros e
solo due volte dicono che gli uomini lo devono amare usando il relativo verbo, mentre comunemente si usa come noto la terminologia legata all’agape. Ciò accade, dice
l’Autore, perché il termine eros è troppo
spesso inteso in senso volgare. Abbiamo bisogno quindi di una sorta di «purificazione
della ragione» (formula che l’enciclica ripete tre volte, in altri contesti ai nn. 28 e 29)
per poter accedere ad una prospettiva erotico-agapica, che non sia fuorviante o addirittura irriverente. Ed è la ragione purificata
(o redenta) che riesce a cogliere ed esprimere il senso autentico dell’eros, ossia il suo
carattere estatico. Ancora una volta la dipendenza dallo Pseudo Dionigi risulta evidente: non è l’eros ebbro e indisciplinato che
può esprimere il nome divino, ma appunto
l’eros estatico (DCE, 4), di cui ad esempio
in questo passaggio del presunto areopagita:
«L’Amore divino è estatico, in quanto non
permette che gli amanti appartengano a se
stessi, ma a quelli che essi amano»10, cui fa
eco l’enciclica: «Sì, l’eros vuole sollevarci “in
estasi” verso il Divino, condurci al di là di
noi stessi, ma proprio per questo richiede
un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (DCE, 5), e, più
De divinis nominibus, I, 7, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere. Gerarchia celeste - Gerarchia ecclesiastica - Nomi divini - Teologia mistica - Lettere, Rusconi, Milano 1981, pp. 262-263.
9
ARISTOTELE, Metafisica, saggio introduttivo, testo greco a fronte e commentario di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993, II,
pp. 130-131.
10
De divinis nominibus, IV, 134, in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit., 310-311.
8
10
avanti: «amore è “estasi”, ma estasi non nel
senso di un momento di ebbrezza, ma estasi
come cammino, come esodo permanente
dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il
ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di
Dio» (DCE, 6).
c) La trasgressione rispetto ai precedenti patristici (il Nisseno e Origene) si situa sulle
precedenti considerazioni e riguarda l’annotazione dei commentatori secondo cui l’originalità dell’anonimo sta proprio nell’aver
innestato in Dio la prospettiva agapico-erotica, laddove chi lo ha preceduto non ha ritenuto di dover valicare il limite antropologico, interpretando i due termini e il loro
nesso come atteggiamenti fondamentali
dell’uomo verso Dio. La prospettiva squisitamente teologica viene comunque salvaguardata per il fatto che si tratta appunto di
una erotica della grazia, pur sempre antropologicamente declinata e non innestata
nella vita divina stessa e nel mistero del Dio
unitrino.
Richiamando ancora una volta l’Agostino,
caro al teologo Ratzinger, per indicare questo percorso propriamente speculativo e, direi, metafisico, si è evocata la figura della
“terza navigazione”. La navigazione a gonfie
vele secondo le indicazioni della “filosofia
naturalista”, a dire di Eustazio, aveva condotto Platone nelle secche dell’immanentismo, la seconda navigazione che egli intraprende coi remi lo conduce a percepire la
trascendenza dell’essere, sola capace di spiegare a fondo gli stessi fenomeni fisici. Ma il
grande filosofo era giunto a un limite, da
lui stesso profondamente avvertito, allorché
aveva intravisto la necessità di una rivelazione divina per poter procedere nel cammino:
così afferma nel Fedone 85d: «Perché su tali
11
questioni a me pare, o Socrate, come forse
anche a te, che avere in questa nostra vita
una idea sicura, sia o impossibile o molto
difficile; ma d’altra parte non tentare ogni
modo per mettere alla prova quello che se
ne dice, e cessare di insistervi prima di aver
esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di
uno spirito saldo e sano. Perché insomma,
trattandosi di tali argomenti, non c’è che
una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o
trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti
umani che sia se non altro il migliore e il
meno confutabile, e, lasciandosi trarre su
codesto come sopra una zattera, attraversare
così, a proprio rischio, il mare della vita:
salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una
divina rivelazione». Ora questa terza navigazione – come suggerisce un autorevole interprete sia di Platone che di Agostino – si
compie col legno-barca della croce,11 che,
come abbiamo avuto già modo di constatare, l’enciclica richiama in maniera decisa e
decisiva.
La possibilità dunque di “raccogliere”, ossia
tener insieme l’essere e Dio passa attraverso
la logica dell’incarnazione e della redenzione,
sicché il teologo Ratzinger, così poteva affermare: «Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelano identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla
base di tutte le cose ma come amore creatore
fino a diventare compassione verso al creatura. La dimensione cosmica della religione
che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e
Cfr AGOSTINO, Amore Assoluto e “Terza navigazione”, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.
11
divennero una cosa sola […]. Il tentativo di
ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso
comprensibile alla nozione di cristianesimo
come religio vera deve, per così dire, puntare
ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia.
Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere oggi – come sempre in ultima
analisi – nel fatto che l’amore e la ragione
coincidono in quanto veri e propri pilastri
fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro
unità essi sono il vero fondamento e lo scopo
di tutto il reale»12. Il fondamento agapicoerotico che Benedetto XVI ci mostra nell’enciclica rinviando implicitamente a quella che
amiamo denominare una “metafisica della
carità”, induce ovviamente ad escludere ogni
contrapposizione dialettica fra questa prospettiva teoretica e quella derivante dalla metafisica dell’essere o dell’esodo come l’abbiamo sopra descritta. E a questo proposito ci
sia consentito richiamare un altro grande
maestro del pensiero credente, studiato dal
teologo Ratzinger, San Bonaventura e l’icona
dei due cherubini: «Il primo fissa lo sguardo,
innanzi tutto e principalmente sull’Essere
stesso, affermando che il primo nome di Dio
è “Colui che è”. Il secondo fissa lo sguardo
sul Bene stesso, affermando che questo è il
primo nome di Dio. Il primo modo riguarda
in particolare il Vecchio Testamento, il quale
proclama soprattutto l’unità dell’essenza divina, per cui fu detto a Mosé: “Io sono Colui
che sono”. Il secondo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralità delle Persone divine, battezzando “nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (Itinerarium mentis in Deum, V, 2).
A questo riguardo bisognerà altresì annotare come il tentativo di conciliare i nomi di-
vini del bene e dell’essere e quindi la metafisica della carità con la metafisica ontologica (o ontoteologica) secondo cui il bene o
dilectio riguarderebbe il mistero di Dio
quoad nos, mentre l’essere indicherebbe tale
mistero in sé risulti poco convincente e teologicamente non pertinente se si considera
il Dio del Nuovo Testamento nella prospettiva che gli è più propria, che è quella del
“Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo”
e dello “Spirito di Cristo”. L’articolazione
trinitaria della formula Deus caritas risulta
quindi decisiva ed imprescindibile proprio
sul piano o livello fondativo, ed è in questo
orizzonte o fondamento agapico che si situa
il principio kenotico, attraverso cui il dinamismo estatico dell’eros trova espressione e
configurazione storica. «“Se vedi la carità,
vedi la Trinità” scriveva sant’Agostino»
(DCE, 19). La citazione del De Trinitate risulta particolarmente significativa ed apre
alla necessità dell’articolazione trinitaria
della metafisica agapica, escludendo altresì
il falso dilemma, molto attuale in alcuni
settori della teologia contemporanea, tendente a contrapporre verità e carità.
3. Tra verità dell’essere e verità dell’amore
L’attitudine antimetafisica di alcuni esiti del
pensiero Novecento, soprattutto in quello
che è stato definito l’ambito continentale, e
che si potrebbe anche denominare ermeneutico, mette in campo un ulteriore falso
dilemma, coinvolgendo in esso lo stesso cristianesimo, la cui concezione della carità sarebbe radicalmente alternativa rispetto al
concetto di verità elaborato in sede metafisica13. In questa sede propriamente filosofica stupisce in particolare la confusione, ripetuta a mo’ di ritornello, fra la dimensione
J. RATZINGER, «La verità cattolica», in Micromega 2/2000, p. 53.
Si pensi alle posizioni convergenti di G. Vattimo e R. Rorty, recentemente riproposte in R. RORTY – G. VATTIMO, Il futuro
della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005.
12
13
12
oggettiva del vero (che ovviamente dal nostro punto di vista è irrinunciabile) con la
prospettiva oggettivante (attribuita appunto
ad una interpretazione in chiave metafisica
della verità). Il rifiuto, certamente condivisibile, della seconda prospettiva, sembrerebbe dover necessariamente determinare la rinuncia ad ogni forma di oggettività, in particolare in ambito religioso, la cui appartenenza va ancora una volta reclusa nel privato delle coscienze, appunto soggettive.
Queste tesi, peraltro molto diffuse non solo
in Italia, in quanto tendenti ad esasperare la
tematica della kenosi, come autosvuotamento
di Dio, non mancano di esercitare un influsso non marginale anche su alcune proposte
teologiche recenti14, tendenti ad esempio ad
indicare il dinamismo kenotico in sede intratrinitaria15, come principio e fondamento
della logica della fede cristiana, che a questo
punto andrebbe meglio denominata come
una vera e propria (il)logica16. Dal punto di
vista invece di un’autentica logica della fede,
mi sembra sia più corretto esprimersi in questi termini: la logica della fede cristiana ri-conosce il proprio principio nella kenosi del Logos, ovvero nel Lògos sarx eghèneto (Gv 1,18),
dove il verbo dice riferimento al carattere storico di tale principio, e attraverso tale principio scopre il proprio fondamento nel nome
del Dio neotestamentario che è ho Theòs agàpe estìn (1Gv 4,8). Sicché la logica della fede
cristiana ha un principio kenotico e un fondamento agapico su cui poggia e attraverso i
quali si costituisce e si esprime. Il principio
kenotico va tuttavia interpretato e riflesso
nella dinamica propria dell’inno della lettera
ai Filippesi (2,6-11) in cui è attestato, dove alla kenosi del servo fa riscontro la sua esaltazione e glorificazione. Questa impostazione
14
«Con la fine della metafisica, scopo delle attività intellettuali non è più propriamente la conoscenza della verità, bensì quella
“conversazione” nella quale ogni argomento ha il fondato diritto di trovare un accordo senza ricorrere ad alcuna autorità. Lo
spazio lasciato vuoto dalla metafisica non deve più essere riempito da nuove filosofie che pretendano di esibire un fondamento
estraneo alla “conversazione”. Nella cultura contemporanea questa posizione non è rappresentata solo dall’ermeneutica, ma anche da scienziati come Thomas Kuhn e Artur Fine, da filosofi come Robert Brandom e Bas van Frassen e di teologi come Jack
Miles e Carmelo Dotolo [di quest’ultimo si cita La rivelazione cristiana. Storia, evento, mistero, Paoline, Milano 2002]» (S. ZABALA, «Introduzione. Una religione senza teisti e ateisti», in R. RORTY – G. VATTIMO, op. cit., p. 21). Un’analoga tendenza, forse
molto meglio mascherata, a contrapporre carità e verità, nell’orizzonte antimetafisico, la rinveniamo in V. MANCUSO, Per amore.
Rifondazione della fede, Mondadori, Milano 2005, dove leggiamo: «La verità infatti non è un teatro metafisico nascosto dietro
chissà quale stella, ma è il bene degli uomini all’interno della vita concreta che coincide, ultimamente, con il bene della loro anima» (p. 39), e più avanti: «Ciò che è in gioco nella fede non è il soprannaturale; di esso “non si deve farne un oggetto, altrimenti
lo si abbassa”, insegna Simone Weil. Ciò che è in gioco, piuttosto è questo mondo» (p. 40), «Se si vuol essere cristiani, non si
tratta di professare una dottrina. Si tratta di lavorare» (p. 252) ecc. con i soliti luoghi comuni contro l’intellettualismo che caratterizzerebbe la sottolineatura della valenza veritativa della fede cristiana. Tra le altre posizioni teologiche nelle quali la tematica
della kenosi assume un rilievo fondativo ed esclusivo, cfr K. RUHSTORFER «Credere e pensare: la presenza della rivelazione in
occidente», in Il regno attualità 50 (2005) pp. 343-355.
15
Ad esempio H. U. von Balthasar sostiene che «l’annichilamento di Dio (nell’incarnazione) ha la sua possibilità ontologica nell’autorinuncia eterna di Dio, la sua donazione tripersonale». Di qui deriverebbero e qui si fonderebbero la kenosi della creazione, con particolare riferimento alla libertà creata e quella della croce. Per questa sintesi del pensiero balthasariano utilizziamo F.
G. BRAMBILLA, Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998, pp. 241-242, il quale
non manca di rilevare il debito balthasariano verso Bulgakov, «liberato dalle sue escrescenze sociologiche» (ib., p. 241). Giustamente, a nostro avviso, L. Ladaria rileva come la tesi di von Balthasar risulti certamente suggestiva e particolarmente significativa in ordine al tentativo di pensare l’Assoluto in prospettiva agapica, ma anche come il termine kenosi vada più realisticamente
applicato alla vicenda del Figlio e quindi alla sua vicenda storica e risulti problematico inserirlo nella trinità immanente, se non
attraverso un’analogia troppo spinta, che finisce con lo smarrire il senso stesso della parola (cfr a tal proposito L. LADARIA, La
Trinità mistero di comunione, Paoline, Milano 2004, pp. 226-227). Analoghe osservazioni critiche si possono altresì rivolgere all’utilizzo del termine kenosi in rapporto alla creazione. Come abbiamo rilevato in altra occasione, rifacendoci a Rosmini, il nascondersi di Dio va posto piuttosto in relazione alla vicenda del peccato e trova un suo ulteriore momento drammatico di nascondimento nella croce.
16
Coerentemente con una prospettiva radicalmente antimetafisica o postmetafisica, questa tendenza alla illogica viene richiamata da V. VITIELLO, «La metafisica della seconda persona», in Hermeneutica. Annuario di filosofia e di teologia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 34-37.
13
fondamentale del tema impone un’articolazione che ci sembra di poter esporre secondo
i seguenti passaggi: a livello gnoseologico, la
logica della fede cristiana esige un pensiero rivelativo, nel quale il riconoscimento del vero
non può mai essere disgiunto dall’esercizio
della libertà e dal coinvolgimento della carità;
in secondo luogo la logica della fede cristiana
è una logica del paradosso (nei tre sensi – dirompenza, antinomia e compimento – che
abbiamo indicato altrove); in terzo luogo la
logica della fede cristiana è una logica simbolico-sacramentale, o se si vuole “eucaristica”
(anche per questo aspetto rimandiamo ad altri nostri lavori). Il fondamento agapico della
logica cristiana esige a sua volta che l’ontologia e la metafisica che vi si dischiudono debbano essere intese e sviluppate nel senso di
una ontologia trinitaria e di una metafisica
della carità. Si tratta, per il teologo fondamentale, della capacità di credibilità che solo
l’amore può ingenerare e sviluppare e l’aggancio con le precedenti riflessioni è costituito dalla possibilità (che per chi scrive è una
vera e propria necessità) di innestare la tematica della “credibilità” dell’amore nel quadro
della prospettiva agapica. In questo senso
vengono a coincidere la credibilità della Rivelazione con quella dell’amore17.
Questo momento della nostra riflessione
può felicemente incrociare un famoso frammento 582 di Pascal: «Ci facciamo un idolo
della stessa verità; perché la verità senza la
carità non è Dio, è la sua immagine e un
idolo che non bisogna amare né adorare; e
meno ancora bisogna amare o adorare il suo
contrario che è la menzogna»18. Una pro-
spettiva di particolare interesse, nella quale
l’orizzonte amativo si coniuga felicemente
con l’istanza veritativa e la riflessione sulla
libertà e il suo esercizio, possiamo rinvenirla
in sede fenomenologica, frequentando sia la
prospettiva scheleriana dell’«amore che fa
vedere»19, dove si ha modo di ritrovare una
feconda attenzione alla figura del “pensiero
rivelativo”, sia le riflessioni di Dietrich von
Hildebrand, dove l’essenza dell’amore, come “risposta al valore”, assumendo la forma
della Überverantwort, si declina in termini
di coinvolgimento fra l’aspetto del dono e
quello della libertà. Il luogo in cui queste
dimensioni si armonizzano è da rinvenirsi
nell’affettività, dove conoscenza e volontà
svolgono ciascuna nel suo ambito il loro
ruolo. La figura dell’amore sponsale, in
questa prospettiva fenomenologica, svolge
un ruolo paradigmatico rispetto alle altre
forme di amore e alle loro espressioni. In
ogni caso la dimensione della gratuità del
dono non viene ad annientare la responsabilità della volontà libera, bensì a farle assumere un atteggiamento di cooperazione nella sanzione della relazione affettiva. Hildebrand così riassume il proprio pensiero a riguardo: «Vediamo dunque che ci sono due
dimensioni della donazione di sé. La prima
è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare
volendolo, che è una pure voce del cuore.
[La seconda è la voce del nostro libero nucleo personale = Die Zweite ist die Stimme
unseres freien Personzentrums – espressione
non presente nella traduzione italiana]. La
seconda è il sanzionamento della presa di
17
Cfr H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, cit.; su questo tema balthasariano cfr R. FISICHELLA, Hans Urs von Balthasar. Dinamica dell’amore e credibilità del Cristianesimo, Città Nuova, Roma 1981. Alla “credibilità dell’amore” è stato intitolato il convegno celebrativo del centenario della nascita del teologo svizzero organizzato per ottobre 2005 presso la Pontificia Università Lateranense.
18
B. PASCAL, Pensieri, Opuscoli e Lettere, a cura di A. BAUSOLA, Rusconi, Milano 1978, p. 661 (fr. 582 Brunschvicg = 597 Chevalier).
19
Cfr il bel libro di G. DE SIMONE, L’amore fa vedere. Rivelazione e conoscenza nella filosofia della religione di Max Scheler, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
14
posizione donativa, affettiva dell’amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione
di sé raggiunge il suo carattere pieno»20. La
fenomenologia, anche quando tratta dell’amore di Dio, evita accuratamente ogni riferimento intradivino e, coerentemente col
suo metodo e con le sue impostazioni, resta
sul terreno più propriamente antropologico
ed ontologico, lasciando alla teologia ulteriori approfondimenti.
Concluderei osservando che la riflessione
sul rapporto fede/ragione, sviluppata nell’ambito della “metafisica agapica” da un lato non intende instaurare alcuna alternativa
rispetto alla classica “metafisica dell’essere”,
ma consentire al lumen Revelationis di rivestirla della nuova luce che emana dal Vangelo; d’altro lato rende fondamentalmente
estrinseca la domanda circa il rapporto della fede con la ragione e della teologia con la
filosofia nei termini di una “filosofia prima”
oppure di una “filosofia ermeneutica”. Inoltre il ricorso alla prospettiva della “metafisica agapica” consente di evitare una sorta di
“riduzionismo ontologico”, nonché di ripensare radicalmente il modulo teologicofondamentale della triplex demonstratio, che
– spesso anche per ragioni condivisibili –
stenta a lasciarsi superare soprattutto nelle
proposte elaborate in ambito tedesco, anche
di recente21, intrecciandosi e non di rado
confondendosi col “modello antropologico
trascendentale”, magari rivisitato e riproposto in forme diverse. Infine la prospettiva
da noi adottata consente di smascherare il
falso dilemma tendente a porre in alternativa verità e carità.
A questo proposito vale la pena richiamare
un passaggio dell’omelia pro eligendo Pontifice, nella quale l’allora, ancora per poco,
cardinale J. Ratzinger così si esprimeva: «Ed
è questa fede – solo la fede – che crea unità
e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a
questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come
fanciulli sballottati dalle onde – una bella
parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana.
In Cristo, coincidono verità e carità. Nella
misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la
verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)».
4. Le forme della carità in Antonio Rosmini
La tematica del Deus Caritas ha svolto un
ruolo preminente nella speculazione rosminiana. L’unità e trinità di Dio risplende nell’essere uno e triniforme. Da notare che è
l’essere che riflette Dio, non viceversa, e la
struttura agapica è determinante, anche
perché, come Dio e l’essere, la carità è una e
trina: alla forma dell’essere reale corrisponde la carità temporale (quella per es. esercitata dalle nostre Caritas); all’essere ideale, la
carità intellettuale (penso ad esempio al
progetto culturale e ad ogni attività di servizio teologico nella Chiesa); all’essere morale, la carità spirituale (penso al dono di sé
di quanti sono perseguitati e messi a morte
solo perché cristiani, ma anche alla martyria
testimonianza che siamo chiamati ad vivere
nel quotidiano).
D. VON HILDEBRAND, Essenza dell’amore, introduzione, traduzione, note e apparati di P. PREMOLI DE MARCHI, Bompiani,
Milano 2003, p. 191.
21
Risulta fin troppo evidente nella strutturazione dell’Handbuch der Fundamentaltheologie l’adozione di questo modulo: Cfr W. KERN H. J. POTTMEYER - M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Vol. I: Trattato sulla religione; vol. II: Trattato sulla rivelazione;
vol. II: Trattato sulla Chiesa; vol. IV: Trattato sulla gnoseologia teologica, trad. it. Queriniana, Brescia 1990; ma esso viene a determinare strutturalmente ad esempio anche le proposte di H. VERWEYEN, La Parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale,
Queriniana, Brescia 2001; J. WERBICK, Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2002.
20
15
Il cap. VI della sezione VIII delle Costituzioni dell’Istituto della Carità22 contiene la
descrizione e la gerarchizzazione delle tre
forme della carità. Tutta la sezione, che riguarda le diverse opere di carità, si apre con
un articolo concernente l’universalità della
virtù teologale, espressa in questi termini:
«L’amore è l’atto con cui la volontà tende
verso il bene, ed è puro e perfetto quando
non tende che verso il bene: infatti allora
l’uomo vuole solo il bene, e perché è bene.
Perciò questa volontà ama il bene dovunque sia, e ama di più quello che è più bene,
e in tutto cerca il massimo bene. Quindi
chi non ama Dio, che è il massimo bene,
semplicemente neppure ama: se infatti
amasse veramente, certo amerebbe Dio. E
perciò la Scrittura parla semplicemente dell’amore come della vera carità, quando dice: “Chi non ama rimane nella morte” (1
Gv 3,14); e: “le sono perdonati i suoi molti
peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47).
Non dice “Chi non ama il fratello”, ma solo: “Chi non ama”, e neppure: “Poiché ha
amato me”, ma “Poiché ha amato”. Infatti
l’uomo che ha veramente in sé l’amore vuole ogni bene, perché vuole solo il bene, e
così vuole il bene che c’è in Dio, il quale è
bene senza attributi, e il bene che può esserci nell’uomo per qualità e partecipazione. E ciò significa amare Dio e l’uomo. Da
ciò si vede che la carità è di sua natura universale, perché si estende a tutti i beni, secondo la specie e il grado di bontà per cui
ciascuna cosa è buona»23.
Ma, aggiunge il testo, sebbene l’uomo sia
dotato da Dio di un cuore capace dell’infinito, tuttavia egli «per la limitatezza delle sue
forze e soprattutto per la piccolezza del suo
corpo, non può fare, per quanto sta in lui, se
non poche delle molte cose che vorrebbe.
Perciò ognuno, nell’esercizio pratico della carità deve porsi saggiamente un limite, perché
i suoi sforzi, rivolti a molte cose, non si disperdano inutilmente. E quindi in questa
comunione di fratelli, per valutare le forze
dei singoli e adattare loro gli uffici di carità,
sono stabiliti coloro che si giudicano più dotati di scienza e discrezione, con il compito
di adattare i pesi alle forze di ciascuno e distribuire gli uffici di carità fra molti in modo
che ognuno compia il massimo bene possibile, e dalle opere dei singoli messe insieme
provenga il massimo bene che si può ottenere con il lavoro concorde di molti. E dato
che dallo sforzo di molti, che collaborano
concordemente e sono mossi da un’unica intenzione, si può avere un bene maggiore che
se le stesse persone lavorassero singolarmente
e separate, seguendo il loro giudizio personale; da ciò si capisce quanto tutti coloro che
amano veramente debbano amare questa comunione di fratelli, poiché essa è il mezzo
senza cui non si può compiere il bene maggiore»24. Dalla universalità della carità si fa
provenire «quell’aurea indifferenza a qualunque opera di carità. Infatti, chi desidera il
maggior bene possibile, deve guardare non
solo a quello che fa lui direttamente, ma a
tutto ciò che dall’opera sua ridonda nella
somma di tutti i singoli beni. Quindi, anche
se a lui sembra di fare poco bene, capirà tuttavia quanto grande diverrà quel poco di bene per il fatto che serve al grande bene che si
accumula dall’opera di tutto il corpo della
Società; e certo lui da solo non potrebbe fare
22
Il testo, pubblicato per la prima volta in edizione integrale, naturalmente in lingua latina, nel 1875 a Londra, porta come titolo completo Constitutiones Societatis a Charitate nuncupatae. Qui utilizzeremo la traduzione italiana che accompagna l’edizione
critica curata da D. SARTORI (Città Nuova – CISR, Roma, Stresa 1996 = EC, 50).
23
EC, 50, pp. 436-437.
24
EC, 50, pp. 436-439.
16
di più, e nemmeno i singoli senza un’unica
direzione»25.
A proposito delle forme della carità, bisogna ricordare che il testo richiama ai membri dell’Istituto una indicazione fondamentale, che, ispirata alla suprema regola dell’umiltà, li invita a rimanere nello stato di vita
comune a tutti i fedeli (il laicato) e a non
cercare di diventare presbiteri o dottori se
non in seguito alla chiamata divina e al suo
severo discernimento26. Ed ecco come vengono descritte le tre forme di carità:
«Gli uffici di carità, rispetto al bene del
prossimo, a cui tendono direttamente, sono
di tre specie. La prima specie comprende
quegli uffici che tendono a giovare immediatamente al prossimo in ciò che riguarda
la vita temporale: e questa si può chiamare
carità temporale. La seconda specie comprende quegli uffici che tendono a giovare
immediatamente al prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà intellettuali: e questa si può
chiamare carità intellettuale. La terza specie
comprende gli uffici di carità che tendono a
giovare al prossimo in ciò che spetta alla
salvezza delle anime: e questa si può chiamare carità morale e spirituale»27.
La terza forma della carità viene chiamata
morale, in quanto «dispone l’uomo a compiere i doveri morali» e spirituale, in quanto
è la stessa carità «elevata all’ordine soprannaturale, per cui l’uomo aderisce a Dio, ciò
a cui tendono i mezzi religiosi con cui l’uomo, ottenuta la divina grazia, può adempiere gli obblighi morali»28.
In analogia con le tre forme dell’essere si dà
dunque un primato della terza forma sulle
altre due, poiché «la carità spirituale tende a
dare al prossimo ciò che è bene di per sé e
solo bene, cioè la vita eterna. Invece la carità temporale e l’intellettuale offrono agli
uomini soltanto beni relativi e parziali, che
si possono dire beni solo in quanto sono ordinati con l’intenzione al bene assoluto della carità spirituale e ad esso in qualche modo dispongono. Perciò, parlando in senso
stretto, le tre suddette specie di carità appartengono ad una sola [...], e quindi dobbiamo esercitare la carità temporale e l’intellettuale solo al fine di salvare le anime e
di onorare nelle persone il nostro Dio e Signore Gesù, che volle prendere su di sé i bisogni di tutti noi»29. E aggiunge: «La principale e suprema specie di carità è la terza,
che tende ad un bene più grande e più vero; poi eccelle la seconda specie, perché la
formazione dell’intelletto è la più importante delle cose temporali e serve più da vicino alla specie suprema; la prima invece è
la minima specie di carità»30.
Il lavoro di chi si occupa di teologia (e conseguentemente di chi insegna religione)
nella Chiesa e nella società civile va dunque
annoverato nell’esercizio della forma intellettuale della carità e chiama in causa il rapporto fra Verità e Carità. La carità viene descritta come “via” della verità e sua “pienezza”, per cui l’Istituto dovrà «custodire in
modo preclaro, contemplare ed indagare la
verità, promuovendo in modo ottimo ed
instancabile la cognizione della verità fra gli
EC, 50, pp. 438-441.
«Poiché lo stato che noi scegliamo è quello dell’umiltà e ci collochiamo fra i discepoli e non fra i maestri d’Israele, non dobbiamo abbandonare questo stato a noi carissimo senza un valido motivo e, quando possiamo, dobbiamo preferire quella carità che
è propria di tutti i fedeli, assumendo lo stato di dottori e pastori solo quando si rende evidente la divina chiamata» (EC, 50, pp.
468-469).
27
EC, 50, pp. 466-469.
28
EC, 50, pp. 468-469.
29
EC, 50, pp. 468-469.
30
EC, 50, pp. 468-469.
25
26
17
uomini. Di qui deriva il genere di carità che
abbiamo chiamato intellettuale, il quale
tende immediatamente ad illuminare ed arricchire di cognizioni l’intelletto umano»31.
La ricerca e la condivisione del vero, in
quanto esercizio della carità intellettuale, si
deve compiere nell’orizzonte della profonda
unità, che, nella prospettiva sapienziale propria del Roveretano, caratterizza l’autentico
sapere. A questo proposito le Costituzioni
distinguono fra l’ordine assoluto della verità e quello relativo, laddove il primo fa sì
che «tutte le scienze diventano una sola,
ammirevole per chi la contempla e per l’unica essenza, in cui si scorgono tante cognizioni, la quale essenza è l’oggetto della beatitudine umana, cioè Dio; e per l’unico e
fecondissimo principio, cioè Dio, da cui
derivano tutte le cose; e infine per l’unico
ottimo fine, che è sempre Dio, a cui tutte
tornano. E quando si pensano tutte le cose
unificate nella loro essenza, principio e fine,
in tutte si onora e si conosce il principio e il
fine di tutte, per cui Cristo disse: “Questa è
la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo” (Gv 17,3). Quando dunque ci dedichiamo alle scienze con l’unico fine di conoscere Dio, di obbedirgli e di aderire a lui
con tutte le forze, lo studio di tutte le scienze diventa la scienza pratica di Dio, la sapienza, poiché allora in ogni cosa meditiamo la sua legge e la sua volontà, e consideriamo i suoi precetti; e di questa scienza
Cristo dice ancora: “E io so che il suo comandamento è vita eterna” (Gv 12,50)»32.
Nella prima forma di carità doniamo ciò
che abbiamo, nella seconda ciò che sappiamo, nella terza noi stessi. Se l’essere ha a
che fare con la carità e viceversa, questa, nel
31
32
EC, 50, 620-621.
EC, 50, 620-623.
18
suo esercizio concreto e quotidiano, non
può non ispirarsi alla triadicità delle sue
forme, esprimendo, attraverso tale fondamentale riferimento, la propria origine trinitaria ed il proprio radicamento nel Dio
uno e trino. La forma intellettuale della carità svolge un importante ruolo di mediazione tra il pensiero e il vissuto, fra la carità
oggetto di speculazione teosofica e l’esercizio di essa nella concretezza dell’esistenza.
Questo ruolo di mediazione risulta imprescindibile se non si vuole che la carità temporale diventi mero assistenzialismo e la
martyria si offra in forme di fanatismo.
5. Spunti per l’IRC
Una prima indicazione fondamentale che a
mio avviso l’insegnante di religione può assumere da un’attenta lettura dell’enciclica si
aggancia immediatamente alle riflessioni appena svolte ed in particolare alla sottolineatura del carattere intellettuale della carità. In
questo orizzonte il lavoro quotidianamente
svolto da chi insegna religione cattolica può,
anzi deve, essere percepito e vissuto come
autentico esercizio della carità, soprattutto
in quella forma che Rosmini chiamava intellettuale e che noi potremmo definire culturale. Mostrare infatti la rilevanza dell’evento Cristo nell’ambito proprio della realtà
scolastica, che eminentemente è quello della
cultura, è infatti compito proprio, tra gli altri, dell’insegnante di religione. Tale collocazione del proprio insegnamento infatti consente che esso venga sottratto da un’interpretazione meramente nozionale dello stesso, senza tuttavia proporsi in forma di pura
e semplice presenza accogliente e attenta ai
bisogni delle persone che lavorano e abitano
l’ambiente scolastico.
La formazione degli insegnanti dovrebbe
forse maggiormente tener conto di questo
orizzonte agapico del sapere, nel quale – come direbbe K. Barth – si vive e si inserisce
quello erotico della scienza. In questo senso
allora non si tratta di un’opzionalità affidata
al capriccio delle persone, ma di qualcosa
che riguarda la natura stessa del messaggio e
della comunità credente, cui ne è affidata la
custrodia e la missione.
Una seconda indicazione generale può innestarsi sulla necessità di mostrare la dimensione affettivo-erotica della fede, all’interno di un’attenta e adeguata educazione
dell’affettività, così complessa e difficile soprattutto se rivolta all’età evolutiva. Qui è
questione di equilibrio: l’insistenza su questa dimensione emozionale del credere può
infatti facilmente generare impulsi sporadici di rapporto con Dio, dimenticandone la
fatica della ragione e della volontà. Compito del docente-educatore sarà dunque sempre e comunque quello di aiutare e favorire
il recupero delle dimensioni conoscitiva e
volitiva, allorché emergesse con prevalenza
schiacciante l’appiattirsi della fede dei propri interlocutori sulla dimensione meramente affettiva. E viceversa, sostenere e
promuovere tale dimensione, quando essa
fosse dimenticata o abbandonata o ritenuta
avulsa dall’atto del credere cristiano.
Una terza indicazione generale riguarda l’esperienza della carità come gratuità e il suo
rapporto con la giustizia. È connessa alla
credibilità di un insegnamento la necessità
del docente di valutare giustamente i risultati raggiunti dai propri allievi, senza tuttavia mai confondere la valutazione dei risultati stessi con un giudizio sulla persona.
Riuscire a far percepire questa differenza
comporta certamente grande fatica, ma alla
fine ripaga, anche in termini di riconoscimento del proprio lavoro da parte di studenti e colleghi. Posso testimoniare personalmente di contatti positivi, ad anni di distanza, con studenti cui magari avevo assegnato una valutazione bassa. Ricordiamo
sempre il messaggio bonhoefferiano della
“grazia a caro prezzo”.
Altri spunti, soprattutto in relazione alla specificità della rivelazione cristiana del nome di
Dio credo possano essere facilmente colti a
partire dai confronti con la filosofia e le religioni monoteiste presenti in questo mio breve commento soprattutto alla prima parte
dell’enciclica Deus caritas est. Si tratta della
consapevolezza dell’unicità-universalità del
messaggio cristiano da cui nasce un autentico
dialogo interreligioso e interculturale, ma si
tratta anche di cogliere e far cogliere l’amore
umano (si pensi alla metafora sponsale che
l’enciclica richiama) nella sua irriducibile peculiarità e nella sua indiscutibile universalità.
Vorrei ora concludere tornando allo Pseudo
Dionigi e richiamando l’invocazione alla
Trinità, riportata nella Teosofia rosminiana:
«Trinità sovrasostanziale superdivina e superbuona, custode della teosofia dei cristiani, conduci noi direttamente al vertice superinconoscibile e splendido e altissimo
delle Scritture occulte, là dove i misteri
semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati, nella caligine luminosissima del silenzio che insegna in modo arcano; caligine che fa risplendere in maniera
superiore nella massima oscurità ciò che è
splendidissimo, e che in maniera esuberante
riempie le intelligenze prive di occhi di
splendori meravigliosi, nella piena intangibilità e invisibilità».33
Mistica Teologia, 997b-1000a. La traduzione cui facciamo riferimento è DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere, cit.
33
19
Novità sulla valutazione
di Angelo Zappelli
Secondo il Tar del Lazio la modalità di
ciuci”) caratterizzanti la fine della Prima
comunicazione del voto dell’IRC resta diRepubblica, rischia di incidere dolorosasciplinata dall’art. 309 del Testo Unico e
mente sul futuro dell’IRC nel suo rapporquindi il voto non può essere incluso nelto con le riforme scolastiche. In controla scheda di valutazione, insieme alle altre
tendenza rispetto all’atteso (e forse da
discipline, come disposto dal Miur nella
qualcuno temuto) rafforzamento della dicircolare sul portfosciplina nel suo setlio del novembre
tore ritenuto più
Il prof. Zappelli ricostruisce la vicenda, or20051. In mancanza
debole, quello della
mai nota a molti, della recente controverdi altre norme o
valutazione, nonosia sulla valutazione dell’IRC, valutazione
chiarimenti, di qui
stante il consolidache il Tar ha imposto di inserire in una
mento del rapporto
agli scrutini finali,
scheda a parte, dopo che una circolare midi lavoro degli IdR
si dovrà tornare innisteriale del Miur aveva disposto il concon l’accesso al ruodietro di dodici antrario. In questo conflitto ideologico tra orlo consentito dalla
ni, al dettato delganismi istituzionali, che fine fa la tanto
legge 186 del 2003,
l’art. 309 del Dedecantata autonomia scolastica? Come non
il perenne conflitto
creto Legislativo n.
ritenere che sia la circolare ministeriale sia
tra l’ex-ministro
297 del 1994 (il coi ricorsi al Tar costituiscano l’espressione
Moratti e le orgaTesto
siddetto
degenerata della stessa volontà centralistinizzazioni sindacali
Unico)2, il quale dica? Come restituire alle scuole la loro legitha prodotto un ulsponeva che il voto
tima autonomia? E come liberare l’IRC da
teriore segnale di
dell’IRC andasse
pregiudizi – purtroppo bilaterali – di nafragilità per l’IRC.
posto su un allegato
tura ideologica, riconoscendogli appieno la
sua qualità di disciplina scolastica?
Speriamo che almedella pagella stessa.
no le scuole riescaUna norma ormai
no a tenere diritto il timone della barca,
desueta, preriforma, fac-simile di un pascontando sulla loro autonomia, senza farsaggio della legge clerico-fascista del
3
si condizionare troppo dal clima conflit1930 , sorta dodici anni fa all’interno del
tuale
clima di scambi politici (i cosiddetti “inC.M. n. 84 del 10.11.2005. Mentre l’articolo va in stampa, il Ministero ha preso atto delle ordinanze del Tar con nota prot.
690 del 09.06.06 e con nota prot. 5596 del 12.06.06, con cui si precisa che le istituzioni scolastiche «dovranno» rispettare l’art.
309 del Testo Unico. Le note sono reperibili sul sito web del Miur. Si tenga conto di questi aggiornamenti nella lettura del presente articolo.
2
«Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia , per gli alunni che di essa si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae».
3
La legge n. 824 del 5.6.1930 recita all’art. 4: «Per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale
l’alunno segue l’insegnamento ed il profitto che ne ritrae».
1
20
RENÉ MAGRITTTE, Il balcone, Gand, Museum voor Schone Kunsten
Spesso è questa la condizione di alcune ore di lezione: si vedono in classe tante sedie e banchi ‘vuoti’ perché
occupati da studenti assenti seduti (realmente) al balcone delle ore di lezione e presenti (virtualmente) ad osservare quel che l’insegnante dice e fa nel “mezzo del cammin della sua vita”. I banchi sono i silenziosi ed
umili testimoni di pazienti ore sopportate, tollerate, partecipate, vissute dagli studenti. Meriterebbe una
maggiore considerazione. Almeno per renderli più ergonomici. Essi ospitano per molte ore il corpo della
mente dei nostri studenti. E per molte altre attendono che suoni la prima campana per poterli ancora ospitare. Una scuola senza sedie e banchi? Certo una scuola peripatetica. Ma da qualche parte bisogna fermarsi
a riflettere. E cercare da sedersi. Perché gli ospiti di tali sedie siano presenti è necessario imparare a farli sentire abitanti di quel balcone degli eventi della vita e della cultura che ogni giorno avvengono durante il
tempo della scuola. E nello stesso tempo fare in modo da lasciare quelle sedie per farli diventare protagonisti
di nuovi eventi di vita e di cultura. Perché se oggi sono al balcone, domani saranno per la strada della vita
a produrre e a fare. Ma per non aspettare molto, forse queste sedie vanno lasciate un po’ vuote, così da lasciar pensare che stanno agendo e operando e che sono loro spettatori e protagonisti del loro agire.
L’accaduto
Il Tar del Lazio è stato richiesto di esprimersi in due riprese da gruppi di ricorrenti
diversi ma convergenti negli obiettivi, simpatizzanti di due organizzazioni sindacali
della scuola: i Cobas e la Cgil. Le questioni
poste erano varie, a proposito del portfolio
previsto dalla legge di riforma Moratti nel
2003 ma osteggiato dalle organizzazioni
sindacali. L’analoga circolare ministeriale
del precedente anno scolastico 2004/054
aveva già proposto per la scuola primaria
un modello nuovo di scheda di valutazione,
in cui il voto dell’IRC era incluso, superando il dettato del Testo Unico. La ragione è
semplice: tra il Testo Unico e la circolare,
cioè tra il 1994 ed il 2004, la legislazione
scolastica è cambiata notevolmente. È in
questo intervallo che si collocano infatti le
due principali ondate di riforme scolastiche
dell’età democratica: quella attribuita al ministro Berlinguer e quella al ministro Moratti. Sia l’una che l’altra hanno introdotto
una serie di innovazioni tali da consentire
di giudicare agevolmente superato l’art.
309. Si pensi solo all’autonomia didattica
ed al portfolio.
In omaggio all’autonomia, in vigore dal 1°
settembre 2000, il modello di scheda proposto per il 2004/05 accompagnava la circolare solo in forma di esempio, senza valore vincolante. In alcune scuole si era posto
il problema del rispetto della vecchia norma
del Testo Unico e si era giunti anche ad
espressioni del Collegio docenti, a volte a
favore a volte contro l’inclusione stessa. In
generale, tuttavia, la tendenza al rientro del
voto dell’IRC nella scheda era maggioritaria. La forma di mera proposta, rispettosa
dell’autonomia delle singole scuole, aveva
evitato al Miur i ricorsi giuridici. Stavolta
invece, con la circolare del novembre 2005,
il Miur non si è limitato a «proporre» ma
ha «disposto» una scheda uguale per tutti,
senza rispettare l’autonomia didattica delle
singole istituzioni scolastiche e contraddicendo formalmente l’art. 309, ritenuto ormai di fatto superato, senza abrogarlo esplicitamente come gli artt. 144 e 177 sulla
scheda in generale. In questo modo ha favorito la contestazione giuridica, portandola ai ricorsi collettivi dinanzi ai Tar, tra i
quali ha trovato, al Tar del Lazio, un gruppo di tre giudici favorevoli al rispetto del
vecchio art. 309. Le ordinanze del Tar del
1° febbraio 2006 sospendono quindi il valore della circolare sul punto in questione5.
In attesa della sentenza su cui presentare ricorso successivo al Consiglio di Stato, il
Miur emana un breve comunicato in cui
afferma che, prendendo atto della sospensiva, le scuole «potranno» continuare a redigere la scheda senza il voto dell’IRC, allegandolo in una scheda esterna, così come si faceva prima6. Molti ne hanno dedotto che,
sospesa la circolare del 2005, la questione
era tornata, in pratica, alla situazione dell’anno precedente, in cui il Miur aveva solo
«proposto» una soluzione, lasciando libere
le scuole di decidere autonomamente. Nelle
scuole tuttavia l’ordinanza del Tar del Lazio, pubblicizzata dalle organizzazioni sindacali succitate, peraltro in piena campagna
elettorale, ha provocato un ritorno diffuso
al voto dell’IRC posto sulla scheda allegata.
La Flc-Cgil, evidentemente non soddisfatta
della soluzione, ha posto alla stessa corte un
altro ricorso contro la nota del Miur tro-
Vedi la C.M. n. 85 del 3 dicembre 2004.
Vedi le ordinanze n. 741 e 742 dell’1 febbraio 2006 emesse dalla sezione terza quater del Tribunale Amministrativo del Lazio
formata dai giudici Mario Di Giuseppe, Linda Sandulli e Umberto Realfonzo.
6
Vedi la nota ministeriale del 3 febbraio 2006.
4
5
22
vando disponibile lo stesso terzetto di giudici a ripetere l’ordinanza anche su questo
atto, precisando che la sospensiva precedente non consentiva la possibilità di derogare
dall’art. 309 del Testo Unico7. In breve quindi siamo giunti all’attuale situazione, per
cui l’art. 309, in attesa delle sentenze e dei
ricorsi ai gradi superiori, è tornato ad esprimere un valore vincolante per le scuole,
senza deroghe, almeno così per il Tar del
Lazio, per i Cobas e per la Cgil.
Le perplessità
Gli interrogativi posti dall’intera questione
sono molti. Proviamo ad elencarne ed esaminarne alcuni. Innanzitutto riguardo il
principio dell’autonomia, tanto declamato
da tutti come il cardine di ogni riforma scolastica, il punto di non ritorno per qualsiasi
innovazione. Che fine ha fatto l’autonomia
didattica e organizzativa delle singole scuole? Sul voto dell’IRC forse non vale? Sull’IRC vige una sorta di embargo, di zona
franca dalle norme comuni? Qual è il collegamento della questione con il Regolamento sull’autonomia? Come sono conciliabili
queste pretese centralistiche sul voto di una
disciplina con il principio dell’autonomia?
Perché le scuole non potrebbero decidere
autonomamente sulla forma di comunicazione della valutazione finale alle famiglie?
In secondo luogo: ma si può sapere perché
tanto accanimento su una questione che
sembra così marginale? In fondo si tratta
solo di un dettaglio: non della valutazione
in sé, non della disciplina in sé, ma solo
della forma di comunicazione alle famiglie!
Cosa si nasconde dietro tanta acredine? Perché solo il voto dell’IRC dovrebbe andare
all’esterno della scheda? Cosa c’è di tanto
delicato o di tanto mostruosamente contagioso nel voto dell’IRC per doverlo allontanare dal voto delle altre discipline? Nella revisione concordataria non si affermava che
l’IRC si svolge «nel quadro delle finalità della scuola»8? Come si conciliano tali norme
tra loro? Perché non si dice chiaramente il
motivo per cui il voto di una disciplina dovrebbe andare a parte dalle altre? Cosa c’è
di misterioso e di riservato nella scelta di
una opportunità formativa? Si tratta forse
di un ‘dato sensibile’ legato alla privacy? La
scelta che le famiglie hanno compiuto sull’IRC rappresenta un loro diritto o una vergogna da nascondere? Se, come afferma
l’Intesa, la scelta sull’IRC «non deve determinare alcuna forma di discriminazione»9,
come si può tollerare tale differente modalità di comunicazione? Non ci si riferisce
certo alla discriminazione tra chi sceglie
l’IRC o le sue alternative, ma a quella tra
questa disciplina (e/o le sue alternative) e le
altre. Anche gli insegnamenti facoltativi e
opzionali hanno la valutazione nella stessa
scheda, perché l’IRC no?
In terzo luogo: come si può uscire dall’evidente contraddizione tra la lettera della
norma e la realtà della scuola? Quale può
essere una soluzione coerente con il quadro
pattizio e con le riforme scolastiche? Quali i
tempi e le forze occorrenti per una soluzione duratura?
L’autonomia
In effetti il principio dell’autonomia esce
praticamente svilito dall’intera partita. Tutti
vogliono scavalcarla, l’autonomia, quando
si parla dell’IRC. Né il Miur né i suoi oppositori provano alcun rispetto per la voce delle singole scuole. Eppure il Regolamento
Vedi l’ordinanza del Tar Lazio del 15.3.2006.
Legge n. 121 del 25.3.1985, art. 9,2.
9
Dpr n. 751 del 16.12.1985, punto 2.1 lett. a).
7
8
23
dell’autonomia consente alle scuole di ricorrere alla flessibilità nell’uso delle metodologie didattiche, nell’impiego delle risorse professionali e strumentali, nella programmazione dei tempi del curricolo e degli insegnamenti10. Sembra invece che sul
voto dell’IRC si giochi per entrambi una
partita sproporzionata, di mero e vecchio
sapore ideologico. La scuola italiana ha forse ben altri problemi, schiacciata com’è tra
una riforma e l’altra, considerata solo come
terreno di scontro tra le fazioni opposte.
Per le scuole infatti il problema non si pone, ma viene imposto dall’esterno; si tratta
solo del voto di una disciplina un po’ diversa, vista l’origine pattizia, ma una disciplina
tutto sommato alla stessa stregua delle altre,
caratterizzata dalla stessa dignità meramente scolastica. Nelle singole scuole non si è
affatto appassionati ed interessati alla collocazione del voto dell’IRC, rientrato infatti
in pagella nel momento in cui ci si allontanava dall’ideologizzazione. Semmai si può
dire che le scuole siano attualmente ‘intimorite’ dal tema, visto che i contendenti le
attribuiscono tanto valore. I ricorsi al Tar
sono del resto un tema classico degli interventi terrorizzanti nei collegi docenti. Al di
là di queste sentenze non si riscontra alcuna
volontà particolarmente emarginante relativa all’IRC. Lo dimostra il fatto che già prima della riforma e del famigerato portfolio
il voto dell’IRC stava silenziosamente rientrando nella scheda comune. Le disposizioni successive all’autonomia avevano consentito alle singole scuole di stampare per proprio conto il documento di valutazione.
L’occasione aveva provocato il rientro del
voto dell’IRC in quasi tutte le scuole che vi
si erano impegnate, grazie ad una conside10
11
Vedi il Dpr n. 275 del 8.3.1999, all’art. 4.
Vedi la legge n. 824 del 5.6.1930, all’art. 4.
24
razione più pragmatica. Perché non lasciare
quindi alle singole scuole di decidere in piena autonomia le modalità di trasmissione
alle famiglie dell’andamento scolastico del
proprio figlio? Perché non rispettarle nelle
loro capacità autonome? Come non ritenere che sia la circolare ministeriale sia i ricorsi al Tar costituiscano l’espressione degenerata della stessa volontà centralistica?
Appare evidente che sulla questione occorrerebbe una sana opera di deideologizzazione.
In questa opera un ruolo decisivo dovrebbe
spettare all’autonomia delle singole scuole, le
più dotate della pratica didattica necessaria
per riportare a tale sfera il problema in oggetto, senza confonderlo con questioni ideologiche legate ai rapporti tra Chiesa e Stato.
Il sillogismo e le interpretazioni divergenti
Venendo al nodo centrale della questione,
l’uso del sillogismo aristotelico sembra opportuno e chiarificante: tutte le discipline
scolastiche esprimono il proprio voto sulla
stessa scheda; l’IRC è una disciplina scolastica a tutti gli effetti; quindi l’IRC esprime
il proprio voto sulla stessa scheda. Il problema sorge tutto nella seconda affermazione
del sillogismo. È questa che non trova tutti
d’accordo. Sembra che sull’identità scolastica dell’IRC siano copresenti e si intersechino due linee interpretative: quella dell’assimilazione e quella dell’atipicità. La prima si
basa sull’enunciato della revisione concordataria del 1984 e sull’Intesa del 1985 per
concludere positivamente, che, quindi, la
comunicazione del voto deve essere analoga
a quella delle altre discipline. La seconda linea interpretativa si basa invece ancora sul
vecchio Concordato del 1929, che con la
sua legge applicativa11 negava voti ed esami
all’IR obbligatorio e catechistico, optando
per una forma di comunicazione speciale,
prima inserita nella pagella scolastica e poi
degenerata nell’allegato di cui al quarto
comma dell’art. 30912.
In fondo la partita del voto in pagella si gioca ancora su due concezioni divergenti dell’IRC: la scolastica e la catechistica. La concezione scolastica è quella coerente con la legislazione recente e con la dottrina conciliare.
La concezione catechistica è invece coerente
con i Patti del ’29, con la legge applicativa
del ’30 e, sopravvivendo alla revisione del
1984, con l’art. 309 del Testo Unico. La linea prevalente nel lungo periodo è indubbiamente quella scolastica, visto che vanta
dalla sua già tanti provvedimenti: dal ruolo
degli IdR alla presenza dell’IRC nel quadro
orario e nel credito scolastico, tutte vicende
che richiamano per analogia quella in oggetto. La più recente di tali vicende riguarda
la pubblicabilità dei voti dell’IRC sui tabelloni esterni usati soprattutto dalle scuole secondarie superiori per comunicare i risultati
finali degli scrutini. Con una nota del 2004
il Miur ha risolto la disputa confermando la
presenza di tale voto sulla base della motivazione che l’IRC, una volta scelto, «assurge al
medesimo rango delle altre discipline»13. Principalmente questa linea interpretativa ha
dalla sua le sentenze della Corte Costituzionale del 1989 e del 1991, in cui si delinea
una disciplina pienamente scolastica e curricolare, cioè inserita nel percorso formativo
offerto dalla scuola pubblica, che tuttavia
per lo studente è facoltativa, da scegliere o
non, secondo il principio della libertà di coscienza14. Il punto debole di tale linea è rap-
presentato purtroppo dalla mancata abrogazione esplicita, sia della legge 824 del ’30 sia
dell’art. 309 del Testo Unico. Peccato di distrazione o di presunzione?
La linea minoritaria è invece quella catechistica, superata dai tempi ecclesiali e scolastici, ma non dai tempi dell’ideologizzazione
anticlericale di stampo ottocentesco, alleata
paradossalmente dell’intransigentismo cattolico. Per entrambi l’IRC non può che essere uno strumento dottrinale, non propriamente di carattere culturale. Dimostrare l’estraneità dell’IRC dal contesto scolastico,
per poi passare ad altre forme di presenza
della cultura religiosa nella scuola, è per entrambi l’obiettivo condiviso. Ora, la comunicazione del voto su un allegato della scheda di valutazione dimostra appunto tale
estraneità. Questa linea interpretativa è riuscita nel 1986 ad ottenere un ordine del
giorno della Camera su tale questione15, ripreso da una circolare ministeriale16, ed è
poi riuscita anche a strappare l’inserimento
dell’esclusione dalla scheda comune al
quarto comma dell’ormai famoso art. 309
del Testo Unico. Il motivo invocato, ma ora
sottaciuto, sarebbe quello della presunta discriminazione provocata dalla presenza del
voto dell’IRC in pagella. È evidente come
l’argomento riveli la sua aleatorietà nella facile ribaltabilità: non sarebbe maggiormente discriminatoria l’esclusione dalla pagella
della valutazione di una disciplina scelta e
svolta dal 90% degli alunni e delle famiglie?
Le possibili soluzioni
Non c’è dubbio che nel lungo periodo la
soluzione più idonea, visto il processo di
12
Confronta la pressoché identica formulazione delle due espressioni legislative, sia pur a 64 anni di distanza, contenute nelle
precedenti note 2 e 3.
13
Nota ministeriale del 16 giugno 2004 prot. 10642.
14
Vedi la C.M. n. 9 del 18.1.1991.
15
Vedi la risoluzione della Camera dei Deputati del 16.1.1986 n. 6-00074.
16
Vedi la C.M. n. 11 del 21.1.1987.
25
scolarizzazione dell’IRC nel quadro concordatario e la deideologizzazione dovuta all’autonomia delle scuole, sia quella dell’inserimento in pagella della valutazione dell’IRC, così come delle sue alternative. Altra
cosa è stabilire il percorso politico e giuridico in base al quale si possa giungervi in un
lasso di tempo più o meno breve. Certamente la via più semplice sarebbe quella
dell’abrogazione pura e semplice dell’art.
309 ma l’incertezza dell’attuale fase di transizione politica e la sua mancata abrogazione nel contesto più favorevole appena trascorso, la rende una soluzione poco probabile.
Attualmente si è in attesa della sentenza del
Tar contenente le motivazioni della sospensiva. Immediatamente dopo, il Miur o altri,
se lo riterranno opportuno, potranno ricorrere al Consiglio di Stato e poi ancora più
su ad altre corti, per dirimere nelle aule giudiziarie quella che dovrebbe essere una semplice questione poco più che amministrativa. Nel frattempo le scuole ed i loro operatori vivono la vicenda da lontano, con un
certo senso di impotenza. L’empasse in cui
ci si trova in questa fase riflette l’incertezza
politica sull’esito delle riforme scolastiche,
sottoposte al vaglio delle opposte maggioranze al governo nelle ultime legislature. La
loro alternanza alla guida del Miur ha sottoposto la scuola ad ondate opposte di richieste di cambiamento, senza giungere ad
esiti chiari e condivisi dalla maggioranza
dei protagonisti del complesso mondo della
scuola.
La conclusione positiva delle analoghe e recenti vicende attinenti all’IRC, come quella
sul credito scolastico e quella sui tabelloni
esterni dovrebbe consentire di aspettarsi una
soluzione finale nella stessa direzione, cioè
nel senso dell’inserimento in pagella, anche
se dopo passaggi magari controversi e dolorosi. I segnali provenienti dalle vicende degli ultimi anni sono abbastanza eloquenti, oltre
che coerenti. Il Garante sulla privacy ha già
chiarito diverse volte, ad esempio, che la partecipazione all’IRC non costituisce impedimento alla pubblicazione dei voti, non trattandosi di ‘dati sensibili’17. Lo stesso Tar del
Lazio nel fornire la risposta ad analoghi ricorsi in occasione dell’ordinanza 128/99 sul credito scolastico aveva sollecitato a interpretare
la valutazione dell’IRC come quella di una
ordinaria disciplina scolastica, senza riscontrarvi elementi di discriminazione una volta
effettuata la libera scelta18. Così anche sul
tentativo di estromettere il voto dell’IRC dai
tabelloni esterni delle scuole, infine, il Miur
ha efficacemente commentato nel 2004 che:
«l’aver scelto di ricevere l’insegnamento della religione cattolica non denuncia di per sé l’intimo
convincimento della fede abbracciata, che, ovviamente, può essere diversa da quella cattolica,
ma soltanto il desiderio di essere correttamente
acculturati sulla predetta materia».
17
Vedi il più recente comunicato del Garante sulla privacy del 14.6.2005, dopo quelli del 13.6.2000 e del 3.12.2004; in esso
egli ribadisce che «i dati relativi agli esiti scolastici, per quanto riferiti a minori, non sono dati sensibili, non riguardano cioè informazioni sullo stato di salute, le opinioni politiche, le appartenenze religiose, l’etnia o gli stili di vita, ma attengono esclusivamente al
rendimento scolastico degli allievi».
18
Il Tar del Lazio, con sentenza resa nota il 15 settembre del 2000 ma risalente al novembre del 1999, ha giudicato inammissibili i ricorsi contro l’O.M. n. 128 del 14 maggio del ’99 in cui si includeva il voto dell’IRC nel computo del credito scolastico da
assegnare ogni anno agli alunni del triennio della secondaria superiore.
19
Nota già citata al n. 13.
26
IR o IRC?
Un po’ di tutto
o un po’ per il tutto
Mario De Luca
In un manifesto del New Age due metafore
Infatti già da qualche tempo circolano in
sembrano ben esprimere l’atteggiamento di
vari ambiti culturali italiani, riflessioni sulalcuni teorici dell’educazione di fronte alle
l’opportunità di trasformare l’insegnamento
religioni:
della religione cattolica in insegnamento
«Che cosa chiede un
avalutativo delle relimonaco Zen a un
gioni3, presentandole
Il prof. De Luca ci invita a riflettere sul
un po’ tutte, arcaiche
banco dove si vendorapporto tra razionalità ed emotività in ree contemporanee, seno hot dog? – Famlazione all’IRC. L’insegnamento – ormai è
condo criteri da conmene uno ripieno di
consapevolezza condivisa – non può ridur1
cordare. Ricordiamo
tutto» .
si ad una semplice consegna di nozioni teo«Ramtha: Ora, se
che
il termine «avariche; anche l’insegnamento della religione
è stato colutatività»
uno crede nel diavodunque deve fare i conti con un patrimoniato da Max Weber
lo e un altro non ci
nio di valori religiosi esistenziale e vissuto.
(1864-1920); in alcrede, chi ha ragioÈ possibile acquisire vere competenze in
cuni suoi studi sone, chi è nella verità?
questo ambito con un insegnamento esclucio-filosofici ritiene
– Discepolo: Tutti e
sivamente avalutativo? E, in caso di rispoche nella sua attività
due. – Ramtha: Persta negativa, quale plausibilità ne risulta
ché? – Discepolo:
di studio e ricerca lo
per un IRC confessionale, in uno progetto
Perché ognuno ha la
scienziato sociale
non di semplice multiculturalità indifferentista, ma di interculturalità vissuta?
sua propria verità. –
non debba inserire i
Ramtha: Corretto,
propri giudizi di va2
corretto» .
lore rispetto ai fenomeni che analizza.
Le due metafore esprimono la concezione
Di rilievo la posizione di Flavio Pajer, Presiche ogni religione sia eguale alle altre e che
dente del Forum Europeo per l’istruzione
se si vuole si possono mettere tutte all’interreligiosa nelle scuole pubbliche. In uno dei
no di un’unica disciplina di insegnamento,
suoi interventi nella rivista della Scuola susenza riflettere sulle ricchezze e le specificità
periore dell’economia e delle finanze (CeRche ciascuna vive ed incarna nella propria
DEF) leggiamo al paragrafo 5.4 una delle
tradizione.
motivazioni che ci lascia inquieti almeno
R. S. MILLER and the Editors of New Age Journal, As Above So Belows. Paths to Spiritual Renewal in daily Life, J. P. Tarcher, Los
Angeles 1992, p. 5.
2
RAMTHA – DOUGLAS JAMES MAHAR, Voyage to the New World, Masterworks, Friday Harbour (Washington) 1985, p. 246.
3
Cfr L. CORRADINI, Insegnamento avalutativo della religione, interculturalità, confessionalità: quale possibile convivenza in «Religione Scuola Città» (2006), I, pp. 27-32.
1
27
FORTUNATO DEPERO, La toga e il tarlo, 1914, Rovereto, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di
Trento e Rovereto.
È un automa confezionato, le cui parti sono appese e legate, nemmeno composte. È una metafora visiva di
uno studente che ammassa, addiziona, aggrega conoscenze e abilità, le ‘impara’ e non le apprende, si configura e non si forma, sa portare il passo meccanicamente con quanto gli è stato insegnato ma non ha appreso
a camminare autonomamente. Insegnare può produrre autonomi o formare persone, indurre ad una unità
organica dei saperi o ad una aggregazioni di materie scolastiche, lasciare che la multiculturalità sia composita o a trasformarla in un processo di interazioni e dialogo culturale. Ma l’insegnare produce sempre qualcosa. E se questo ‘qualcosa’ non libera e non crea autonomia, fa certamente danno. Il tarlo di questo automa
è forse nella presunzione di sentirsi in toga. Come quando un docente pensa di essere un professore perché finalmente ha un impiego (ed ora anche un ruolo). Oppure uno studente pensa di essere promosso perché assicura la presenza in classe e garantisce almeno le due interrogazioni per fare media. Quanto meccanicismo
didattico da superare!
quanto alcuni interventi successivi: L’istruzione religiosa tra emozione e ragione scientifica4. È il titolo di un paragrafo in cui si cerca di superare l’IR confessionale con un insegnamento di storia delle religioni neutro/ale, avalutativo. L’«emozione» richiama
quello che è oggi l’IR legato all’identità religiosa del territorio; la ragione scientifica è
l’ipotesi dell’IR aconfessionale tradotto in
storia delle religioni.
In questo articolo vorremmo porre l’accento sull’ambizione di sostenere, al cospetto
del pluralismo religioso e della nuova configurazione europea, la conferma di una “via
italiana” all’IRC, attraverso la riflessione pedagogica, giustificandone la plausibilità e
articolandone la praticabilità. Rifletteremo
sui due termini «emozione» e «ragione
scientifica», poi sulla necessità di aprire
qualche strada nuova, non in alternativa ma
in forma complementare all’IRC.
Riflessione pedagogica
Il dibattito pedagogico ha negli ultimi anni
invitato a muoversi nella logica del policentrismo formativo, della società educante
e dell’educazione permanente. In una prospettiva di sistema formativo integrato, la
scuola concorre alla piena umanizzazione
degli alunni e ad un rispettoso esercizio delle libertà fondamentali dell’uomo, riconosciute a livello internazionale, attraverso l’opera di un insegnamento/apprendimento
sistematico e critico della cultura e dei suoi
linguaggi.
La mediazione della cultura religiosa, operata all’interno della scuola in vario modo
ed in forma disciplinata e sistematica dal-
l’IR, trova la sua finalizzazione propria nel
favorire una conoscenza intenzionale e ragionata del fenomeno religioso, specialmente nelle configurazioni presenti nel
contesto vitale (ecco il senso della confessionalità in Italia), e nel contribuire a che
tutti abbiano la possibilità: di comprendere
la cultura in cui vivono; di situarsi responsabilmente nella propria storia e vita comunitaria; di conseguire una adeguata maturità di scelta di fronte a questa fondamentale dimensione della cultura e dell’umano
che è la religione; di abilitarsi a convivere e
a collaborare civilmente nella comprensione
e nel rispetto delle scelte altrui.
Per tali motivi l’IR non si può ridurre nei
suoi contenuti ad una semplice rassegna storico-critica delle religioni. Non si può limitare all’esposizione delle sole fonti, nel suo
rapporto con le culture o con le altre confessioni e religioni.
Se è vero che la religione nella sua essenza
sembra andare oltre la religione istituzionalizzata, è altrettanto vero che questa stessa
essenza non è disgiungibile dalle forme storiche e confessionali in cui si mostra.
La scuola può svolgere la funzione educativamente critica e razionale cui è deputata
solo se sa “fare i conti” (pensare/ponderare,
come suggerisce l’etimologia, è un contare e
pesare), per il tempo necessario, con le conoscenze, i giudizi ed comportamenti assorbiti da ciascuno nella cultura e radice di appartenenza, attraverso la narrazione e rinarrazione delle ‘storie’5 nelle quali si riconosce, in atteggiamento d’ascolto, di dialogo e
di conversazione con altre storie. Un procedere lento, e non scontato, verso l’intersog-
Cfr Quale istruzione religiosa nelle scuole dell’Europa multireligiosa?, in http://rivista.ssef.it/site.php?page=20041220083446200.
Cfr. J.S. BRUNER, La ricerca del significato (1990), trad. it. Bollati-Boringhieri, Torino 1993; ID., La cultura dell’educazione
(1996), trad. it. Feltrinelli, Milano 1997; H. GARDNER, Educare al comprendere (1991), trad. it. Feltrinelli, Milano 1993; A. MC
INTYRE, Dopo la virtù (1981), trad. it. Feltrinelli, Milano 1988; F. KERMODE, Il segreto della parola (1989), trad. it. Il Mulino,
Bologna 1993.
4
5
29
gettività comunicativa tra comunità diverse
che è, però, anche l’unico che offre a ciascuno la garanzia di giungere il più lontano
possibile, ma rispettando la «coscienza morale e civile di ciascuno», dai punti di partenza in tema di maturità, capacità critica,
equilibri esistenziale e sociale.
Istruzione o (d-)istruzione religiosa: tra
emozione e ragione scientifica
Il tentativo di proporre un’istruzione religiosa in chiave di storia delle religioni e di
qualsiasi forma di scienza delle religioni
neutrale e “asettica”, richiama da vicino la
sensibilità pedagogica dell’illuminismo: la
necessità di illuminare con le sole forze della ragione, individuando il diritto dell’uomo di giudicare liberamente. Non dimentichiamo che un nuovo illuminismo può caratterizzarsi in analogia col passato come
naturalismo, come laicismo, come liberalismo. È naturalistica la spiegazione data alla
religione, che assume tendenze deistiche
con Voltaire (1694-1778), quando non
perviene addirittura all’ateismo di un
d’Holbach (1723-1789); è laico l’illuminismo non solo per la sua lotta alla Chiesa ed
ai suoi istituti assistenziali ed educativi, ma
anche per l’energica affermazione di un’educazione civile da estendere a tutti i cittadini: così Nicolas de Condorcet (17431794), che affida allo Stato il diritto di impartire l’istruzione, perché ad esso spetta il
dovere di illuminare i cittadini e di condurli alle verità della sola scienza.
Non diversa la posizione dell’emozione che,
se ben intesa, può risultare pedagogicamente
rilevante. Essa ci richiama il romanticismo
che è, più ancora dell’idealismo, assertore delle forze creative riposte nella fantasia e nel
sentimento, considerate talvolta in opposizio6
ne alla stessa ragione. Ne consegue che sono
soprattutto l’attività estetica e quella religiosa
ad esprimere la pienezza della spiritualità ed a
costituirsi come le supreme forme di conoscenza della realtà, ma – come precisa Schleiermacher – la vita dovrà essere vissuta con
religione, cioè a dire con partecipazione attiva
all’Assoluto, piuttosto che per la religione, in
senso dogmatico o teologico. Atteggiamenti
panteistici o pan-enteistici e un largo simbolismo completano le caratteristiche del fenomeno romantico, che, sul piano civile e politico,
si collega, in tutta Europa, ai movimenti risorgimentali che avrebbero condotto a sviluppare lo spirito di unità nazionale dei popoli.
La scuola non può continuare a funzionare
come scuola della sola istruzione, secondo
la sua impostazione originaria, nata dall’Illuminismo che, privilegiando la mera razionalità, sottovaluta quel corpo, quella formazione motoria, quella formazione emotivoaffettiva, che oggi sono riconosciute parte
integrante e imprescindibile della piena formazione della persona umana.
La scuola è nata come scuola del sapere, e
stenta a divenire la scuola dei saperi: il sapere (conoscenze, nozioni, “retorica delle conclusioni”), il saper fare (capacità, abilità,
competenze) e il saper essere (motivazioni,
interessi, atteggiamenti).6
Al riguardo, è opportuno sottolineare che la
formazione integrale implica la formazione
di tutte le dimensioni della personalità, in
primis quella emotivo-affettiva (intelligenza
emotiva), sia perché l’amore dell’apprendere deve costituire la finalità educativa primaria da perseguire ai fini dell’equilibrio
complessivo della personalità, sia perché
senza l’amore dell’apprendere non tutti gli
alunni apprendono nella scuola e fuori della scuola per tutto il corso della loro vita.
D. GOLEMAN, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1997; ID., Lavorare con Intelligenza Emotiva, Rizzoli, Milano 1999.
30
Formazione significa acquisizione non di
sole conoscenze, ma anche di capacità e soprattutto di atteggiamenti7, di motivazioni,
di interessi, di amori: l’amore della matematica, l’amore della storia, l’amore della
geografia, l’amore della botanica, l’amore
della lettura, l’amore della grammatica, e
anche la passione per la tradizione culturale
e religiosa di appartenenza. Occorre che gli
alunni apprendano «la gioia e il gusto di
imparare e di fare da sé, perché ne conservino l’abito oltre i confini della scuola, per
tutta la vita» e questa gioia può essere appresa solo se l’attività educativa e didattica
risulta sempre fondata su quella che Bruner
chiama la volontà di apprendere8
La scuola non può limitarsi a far immagazzinare fredde e aride conoscenze, e non può
limitarsi nemmeno a far acquisire capacità,
ma deve impegnarsi anche a far maturare
atteggiamenti, facendosi carico soprattutto
della formazione dell’intelligenza emotiva .
Questa prospettiva mette molto in dubbio
l’adeguatezza di un insegnamento religioso
avalutativo, ma può portare all’apprezzamento di altre tradizioni e culture religiose.
Promuovere una scuola nella quale non ci si
accontenta di spiegare il “come”, ma si indagano i “perché” significa entrare nell’orizzonte della scuola per la persona, «scuola
dell’educazione integrale della persona», come si sottolinea ad esempio nelle Indicazioni per la scuola secondaria di primo grado
in relazione agli obiettivi generali del processo formativo. Le discipline – e fra queste
l’IR confessionale – non hanno valore in sé
e per sé, ma solo nella misura in cui sono
orientate alla maturazione dell’alunno, apportando ciascuna il proprio contributo
specifico.
IRC confessionale o IR avalutativo?
Se riflettiamo concretamente sulla scuola, ci
risulta difficile pensare un insegnamento delle religioni avalutativo, così come ci è difficile
pensare in genere un insegnamento
neutro/ale. Basti pensare alle discipline di storia, italiano, filosofia, educazione civica o alla
cittadinanza: nessun docente può esprimersi
nozionisticamente, senza manifestare un minimo di calore o coinvolgimento nell’argomento proposto e disposto in senso scolastico e
formativo. Senza riferirsi necessariamente alla
riforma Moratti, che ha tentato di dare
un’impronta propria (per lo più personalista)
alle modalità di realizzazione dell’insegnamento, un insegnante di religione confessionale si contraddistingue per:
• la chiarezza della posizione nei confronti
della disciplina insegnata;
• la correttezza della comunicazione dei
contenuti perché affrontati in prima
persona, perché approfonditi con titolo
accademico specifico oltre che collegati
con il contesto socio nazionale europeo,
senza obiettivi di indottrinamento;
• l’inserimento in una tradizione secolare
simbolica/liturgica con valori civili ed
etici incarnati.
Ipotesi su percorsi di storia delle religioni in
prospettiva di fenomenologia storicocomparata sono state da tempo pensate e proposte, ma
permane un legittimo dubbio sull’effettiva
neutralità nell’esposizione e traduzione dei
contenuti in azione didattica. Nell’istante stesso in cui un mito viene narrato, un simbolo o
un rito vengono “interpretati”, un fondatore
viene descritto, una fonte testuale letta, perfino i gesti o il tono della voce forniscono una
comunicazione di “valutazione” implicita od
esplicita del contenuto trasmesso.
7
E. CRESSON, Insegnare ad apprendere. Verso la società conoscitiva. Libro bianco su istruzione e formazione, Lussemburgo, Commissione Europea, 1995; F. CAMBI (a cura di), Nel conflitto delle emozioni – Prospettive pedagogiche, Armando, Roma 1999.
8
J. S. BRUNER, Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma 1967.
31
Un IR confessionale (non necessariamente cattolico: si può pensare anche ad altre confessioni presenti nella scuola con le finalità, gli
obiettivi e i percorsi formativi della scuola)
può rivelarsi molto più “scolastico” – cioè
formativo – e onesto di una generica storia
delle religioni. E ci sembra corretto l’uso del
termine IR confessionale, non necessariamente cattolico, perché se questo è ratificato da
un accordo tra la Chiesa cattolica e lo Stato
italiano, considerando in alcune aree geografiche nazionali la dominanza di un cristianesimo ortodosso, valdese o comunque riformato, potrebbe con nuove intese di queste
confessioni con lo Stato italiano, ratificarsi
un IR parallelo, con le stesse caratteristiche
scolastiche di quello cattolico.
A sostegno di queste riflessioni va sottolineato
che la scuola ha acquisito negli ultimi anni
grazie alle scienze pedagogiche e didattiche un
ruolo educativo soprattutto in tre direzioni:
a) presa di coscienza e riflessione personale
e collettiva su significati e valori che guidano le azioni umane sia individuali che
collettive;
b) iniziazione non solo a significati, valori
e principi regolativi della vita comunitaria, ma anche a comportamenti che a
questi si ispirino in modo coerente;
c) interiorizzazione, sulla base di esperienze vive e coinvolgenti, di valori e significati di natura etica, sociale, politica,
estetica, culturale, spirituale e, oggi in
particolare, ecologica, soprattutto se essi
hanno un particolare rilievo sul piano
della vita pubblica e della convivenza
democratica.
In particolare la psicologia cognitiva, ha
evidenziato l’impossibilità di scindere, e
tanto meno contrapporre, nel concreto atto
9
didattico e in quello di apprendimento, le
dimensioni emozionali, cognitive e volitive.
Solo una concezione didattica riduzionista
e asfittica può pensare che l’impegno di acquisizione di conoscenze, capacità e atteggiamenti possa esplicarsi in un contesto povero di significati, di valori, di aperture al
futuro, di avventure intellettuali e sociali.
Ciò che fa della scuola un’istituzione specifica è il suo carattere di finalizzazione verso
conquiste personali, sociali e culturali fondamentali, riconosciute come tali dalle varie comunità, secondo piani e progetti che
intendono sollecitare, guidare e sostenere
tutti in questo cammino in modo sistematico e continuo.
L’esperienza e l’interiorizzazione di valori e significati di natura sociale, comunitaria, politica, etica, estetica, culturale, spirituale sono
corpo e sangue dell’impegno educativo della
scuola. Non nel senso di indottrinamento o
di proselitismo, ma di viva esperienza di vita9.
Come presentare altre tradizioni religiose
nel curricolo di IR confessionale?
Il percorso di un’educazione interculturale
è indicato in maniera suggestiva da Giuseppe Milan attraverso un parabola:
Un saggio, guardando da lontano, grida:
«Vedo una belva avvicinarsi!»
Poco dopo, osservando la medesima figura,
esclama:
«Vedo un uomo venirmi incontro!»
Infine, quando l’altro gli è ormai accanto,
afferma:
«C’è un fratello con me alla mia mensa!».10
La parabola descrive un punto di partenza,
un itinerario, una situazione di arrivo: evoca, in sintesi, la struttura essenziale di un
processo educativo all’alterità e all’ospitalità.
Cfr G. DALLE FRATTE, Fine e Valore. Per una giustificazione dei fondamenti etici della pedagogia, Armando, Roma 1992, pp. 109-126.
G. MILAN, Abbattere i muri, costruire incontri. Contributi all’educazione in ambito sociale e interculturale, Cleup, Padova 2002, p. 9.
10
32
Il pensiero e la prassi dell’interculturalità
hanno ancora molti passi da compiere.
«Pur essendo recepito in vari documenti
nazionali e europei di politica educativa,
numerosi pedagogisti esperti nel settore denunciano che il concetto di pedagogia interculturale manca di una chiara definizione semantica e di una condivisa elaborazione epistemologica»11.
L’approccio educativo di tipo multiculturale
vuole portare al rispetto delle culture “diverse” e quindi a forme di convivenza non
conflittuale; rischia però di produrre separatezze e di rimanere prigioniero di schematismi rigidi e statici.
L’approccio interculturale è il tentativo di
una nuova sintesi, aperta all’universalità ma
non pregiudizialmente indirizzata lungo la
deriva dell’indifferentismo. Comunque un
punto va precisato con vigore: dire interculturalità non significa dire relativismo. Né
buona pratica interculturale è quella che
mette fra parentesi identità e appartenenze
per favorire l’incontro su un terreno neutro,
ovvero di nessuno. Chi ha deciso che questa
è l’unica strada possibile? Alla vulgata fin
troppo facile dell’interculturalità all’insegna
del relativismo va contrapposta la ricerca di
un approccio che metta insieme identità e
differenza, secondo la logica del riconoscimento reciproco. Educare “nel” pluralismo,
rispettando da una parte la soggettività della libertà di coscienza e dall’altra l’oggettività della verità12. Non si fa adeguatamente
caso ad un paradosso: il relativismo annulla
le differenze, rende indifferenti le differen-
ze, scompaginando la grammatica del dialogo ed esiliando la trascendenza stessa.
L’educazione religiosa interculturale si pone
come una dimensione fondamentale dell’educazione interculturale 13 . Si tratta di
un’occasione da cogliere e valorizzare. Risulterà arricchente sia a chi appartiene alla
tradizione cristiana sia per chi appartiene
ad altre tradizioni etiche e religiose. Le precedenti annotazioni già hanno contribuito
a disegnare alcune linee portanti dell’atteggiamento educativo e didattico da coltivare
nel lavoro scolastico. Ritengo utile richiamare il criterio principale di azione:
«Didatticamente, realizzare un’educazione
religiosa di impronta interculturale non significa insegnare a conoscere tutte le religioni, accostandole sullo stesso piano, per
poi lasciare all’educando la possibilità di decidere quella che gli sembra più giusta: aggiungere l’aggettivo “interculturale” all’insegnamento religioso vuol dire insegnare la
religione alla quale si è liberamente scelto di
aderire, quella ritenuta appropriata per la
realizzazione del soggetto; ma accanto all’educazione ad una determinata etica, ad un
certo credo e ad un dato culto, occorre educare all’incontro, al confronto e al dialogo
con i soggetti di orientamento religioso differente»14.
Una valida forma di educazione religiosa
interculturale potrà anche essere rappresentata dall’attenzione al carattere universale
dell’esperienza cristiana, di vissuti cristiani
nei diversi continenti, fenomeno carico di
promesse e insieme di inquietudini15.
Cfr A. PORTERA, Pedagogia interculturale in Italia e in Europa. Aspetti epistemologici e didattici, Vita e pensiero, Milano 2003.
Le tre parti in cui l’opera è suddivisa presentano la situazione della pedagogia interculturale in Europa, alcuni approfondimenti
teorici, esperienze e proposte didattiche.
12
Cfr. P. VIOTTO, Presupposti filosofico-pedagogici dell’educazione di ispirazione cristiana, in AA.VV., Educare, sfida quotidiana per
le scuole materne FISM, Roma, FISM 1998, pp. 63-64.
13
«L’educazione religiosa interculturale non solo è possibile e auspicabile, ma anche inevitabile»: ivi, p. 21.
14
A. PORTERA, Pedagogia interculturale…, cit., pp. 21-22.
15
Cfr P. JENKINS, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004.
11
33
Insegnamento della Religione
Cattolica nella Scuola Primaria
ed alunni diversamente abili
di Antonio Passaro
dicap, concepire le diverse abilità apre l’inConcepire le diverse abilità
segnante ad uno spazio relazionale e comu«Questi bambini nascono due volte. Devono
nicativo basato sulla fiducia, sul credere
imparare a muoversi in un mondo che la prinelle potenzialità e nelle possibilità. Si passa
ma nascita ha reso più difficile. La seconda
cioè dalla descrizione delle negazioni, alla
dipende da voi» (G. Pontiggia)
affermazione dei diversi spazi di espressione
Il processo d’integrazione scolastica degli
e di realizzazione,
alunni diversamente
ponendo al centro di
abili attuato in Italia,
Il prof. Passaro, dopo aver chiarito l’imporquesta visione l’imche ha il suo riferitanza
di
riconoscere
l’apertura
dinamicomagine ed il valore
mento più completo
evolutiva espressa dalla locuzione di «didella persona.
nella legge 104/92, è
versamente abile», invita a prendere in
stato assunto come
L’uomo non vale per
considerazione il ruolo positivo, e talora
patrimonio della culla sua bellezza o per
perfino determinante che l’IdR può svolgetura del nostro Paela perfezione fisica e
re nelle classi in cui siano presenti tali
se. Da un suo esame
neanche per la sua inalunne/i. Il lavoro può essere fruttuosaattento si può sottotelligenza: vale in
mente svolto sia nei confronti dell’alunna/o
lineare, oggi, il bisoquanto uomo. Ogni
stessa/o, sia nei confronti del gruppo classe,
gno di raggiungere
uomo, sano o malato,
con una crescita per tutti.
una migliore qualità
giovane o anziano, fisicamente perfetto o
delle buone pratiche
malato, è un figlio di Dio ed ha un destino di
didattiche, alla luce della moderna ricerca
vita eterna. Ogni creatura, nessuna esclusa,
metodologica, e di stabilire migliori sinergie,
porta in sé l’immagine del Creatore.
fra azioni formative, educative e riabilitative.
Quando si parla di alunni diversamente
In particolare, in questi ultimi anni, si è anabili ci si riferisce ad una popolazione moldato divulgando il termine “diversamente
to eterogenea per tipologia, con situazioni
abile”, a sostituire il termine di handicappadiverse, in relazione anche alle dimensioni
to, nella ricerca di superare lo statico conpsicologiche, contestuali e sociali, non clascetto di normalità, proponendo l’idea di insificabile o etichettabile. L’approccio all’atendere la normalità come pluralità di diffelunno diversamente abile richiede di afrenze e non come uniformità, definita dalla
frontare il problema partendo dall’assunto
comparazione con standard o livelli di preche la situazione non può essere considerata
stazioni prefigurati.
in una visione statica e assoluta, ma vada
Senza dimenticarsi dei deficit o degli hanvalutata in riferimento agli aspetti partico34
GIACOMO BALLA, Lampada ad arco, 1909,
New York, Museum of Modern Art
La notte dell’ignoranza oscura la realtà. La luna fino ad ora aveva fatto da unica luce nella notte. Ora
una lampada la illumina, rischiarando anche la luna, e lascia non solo apparire il reale, ma orienta
verso la realtà schegge e frammenti di luce perché ricreino di notte quella realtà che di giorno il sole permette di esprimersi. Nell’analogia che si può intravedere, la luce del sapere (che non equivale all’illuminismo della ragione) permette di guardare e contemplare la realtà, penetrandola con l’intelligenza
del sapere e la comprensione del cuore. Lo studente
resta illuminato e illuminerà. Sarà la luce della
notte successiva a quella in cui l’insegnante lo illumina. L’arco della sua luce non potrà essere segmentato da frammenti di luce ma da effusioni di “fiamme di luce” per incendiare di sé la realtà ed accenderla a nuove realtà future. Tutto questo è possibile
con l’energia. L’insegnare educa a produrre energie,
perché anche le notti di questi tempi siano illuminate. E la scuola ne è la centrale energetica.
lari che la caratterizzano ed all’ambiente sociale in cui vive la persona.
Ne deriva una conoscenza/valutazione che
dovrà riferirsi alle informazione ed alle osservazioni, alla raccolta cioè di un insieme
di dati utili a costruire un intervento, cercando di valorizzare gli aspetti positivi, superando la sola connotazione clinica e medicalizzante, e assumendo valenze psicologiche e sociali.
Con la legge 104/92, si sono introdotti i
concetti di Diagnosi Funzionale e di Profilo
Dinamico Funzionale, strumenti interdisciplinari e non prettamente clinici, descrittivi
di situazioni in un contesto di natura dinamica, con verifiche e modifiche periodiche,
centrate nell’evidenziare le potenzialità e
non solo i danni, che contengono al loro
interno modalità e tecniche di intervento.
Il Piano Educativo Individualizzato, che ne
scaturisce, con il concorso di tutte le com-
ponenti che operano nei riguardi della persona dell’alunno, genitori-specialisti-educatori-insegnati, potrà essere la base di avvio
per l’équipe pedagogica, su cui elaborare le
unità di apprendimento e costruire il piano
di studi personalizzato.
L’insegnamento della Religione Cattolica
In questo lavoro di costruzione del percorso
scolastico, l’IdR deve offrire il suo contributo, consapevole della situazione dell’alunno
e del valore che la disciplina che insegna
può trasmettere. Nella sua funzione docente, attraverso gli organi collegiali, potrà promuovere, all’interno della sua scuola, tutte
le forme di accoglienza utili al processo di
facilitazione dell’inserimento, diffondendo
la cultura della diversità e dandole risonanza e valore nel POF.
«Ogni istituzione scolastica predispone con
la partecipazione di tutte le sue componenti
35
il piano dell’offerta formativa. Il Piano è il
documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa
ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia»
(Art. 3 D.P.R. 275/99).
Nella sua funzione docente, all’interno dell’équipe pedagogica, potrà contribuire alla ricerca di metodologie e strategie di lavoro per
una conduzione del gruppo classe che valorizzi la presenza dell’alunno diversamente
abile e gli permetta di esprimere la sua partecipazione, progettando percorso laboratoriali
nei quali possa inserirsi a pieno titolo.
Infine, come docente della disciplina di Religione Cattolica, potrà attuare una didattica che parta dai bisogni emozionali dell’alunno diversamente abile, per ricostruire
gradualmente la sua identità e la sua coscienza, attraverso la stesura di un piano di
studi personalizzato, basato su di un approfondimento mirato degli Obiettivi Specifici di Apprendimento e contemplando le
difficoltà e le possibilità dell’alunno.
L’emanazione del D.P.R. 30/3/2004, concernente l’approvazione degli OSA propri
dell’insegnamento della Religione Cattolica, nell’ambito delle Indicazioni Nazionali
per i piani di studio personalizzati nelle
scuole primarie e paritarie, ha fornito ai docenti un ulteriore spunto di riflessione ed
un considerevole materiale di riferimento
per la stesura degli obiettivi formativi.
Se ci riferiamo agli alunni diversamente
abili, occorre considerare che, nella loro logica interdisciplinare, gli OSA della R.C.
testimoniano la ricerca costante di una unitarietà dell’insegnamento, tenuto conto del
principio della unità del sapere, poiché pur
concernenti un preciso ambito disciplinare,
sono aperti alla interdisciplinarietà.
36
Nella loro espressione, indicano, inoltre, il
livello essenziale di prestazione da far raggiungere, con una ampia e possibile “modellatura” dei percorsi.
Nella costruzione di questo «abito di conoscenze e abilità» a misura dell’alunno, le Indicazioni Nazionali forniscono un quadro
di riferimento su cui basarsi, nella progettualità, che tenga conto di alcuni principi
validi per tutte le situazioni di disabilità e
centrati su:
– valorizzare le esperienze del fanciullo
– riconoscere la corporeità come valore
– valorizzare la diversità delle persone e
delle culture come ricchezza
– praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale.
Si ritiene utile sottolineare alcuni aspetti di
questi Obiettivi Formativi Generali che
possano fungere da guida per il docente di
Religione Cattolica nella sue scelte metodologiche.
• Partire dall’esperienza concreta dell’alunno
e valorizzarla sarà il migliore avvio per il
momento basilare dell’accoglienza. La storia di vita di ogni persona è una ricchezza e
va conosciuta, analizzata, studiata per compenetrarsi nell’altro e comprenderne i bisogni. Un alunno diversamente abile può aver
vissuto diverse situazioni fortemente negative o traumatizzanti che hanno inciso nel
suo sviluppo psicologico. Basti pensare ai
periodi di ospedalizzazione, alle deprivazioni affettive conseguenti, ai dolori fisici, ai
vissuti di abbandono percepiti ed altro. Ciò
implicherà un atteggiamento di forte rassicurazione, una valorizzazione delle potenzialità, un lavoro di rinforzo dell’autostima
per ricostruire nel bambino una immagine
di sé positiva ed una identità personale e
sociale
• Riconoscere la corporeità come valore condurrà ad attuare un insegnamento legato al-
l’esperienza agita e guidata, al toccare, al
manipolare al muoversi, e connessa all’esperienza senso percettiva, nella consapevolezza che l’apprendere nella dimensione simbolica è inscindibile dalla funzione epistemica della corporeità.
• Quando si afferma che la diversità delle
persone e delle culture è fonte di arricchimento, viene a sottolinearsi l’importanza di
utilizzare situazioni reali dalle quali far nascere la coscienza ed il rispetto delle diversità, per una presa di coscienza della realtà
degli handicap. Sarà compito dell’insegnante, nel quotidiano lavoro in aula, come sottolineato nelle Indicazioni, di «trasformare
l’integrazione dei compagni in situazione di
handicap in una risorsa educativa e didattica per tutti».
• Praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale comportano il costruire situazioni reali, nella vita quotidiana della classe, nelle quali gli alunni possano sperimentare l’impegno personale, con un lavoro attivo e condiviso. In questa immagine
l’alunno diversamente abile deve poter offrire e ricevere stimoli affinché possano
formarsi, in tutti gli alunni, identità e cittadinanze solidali.
Dalla lettura degli Orientamenti metodologico-didattici, nelle Raccomandazioni per il
contributo specifico dell’IRC alla elaborazione dei piani di studio personalizzati nella
scuola primaria, a cura della CEI, viene evidenziato un percorso logico che si dipana
dagli Obiettivi generali agli Obiettivi specifici, propri della disciplina RC per permettere la stesura degli Obiettivi Formativi. Si
sottolinea che gli OF si realizzano attraverso la predisposizione di compiti di apprendimento accessibili agli alunni e, quindi,
commisurati alle loro possibilità apprendimentali e, riferendoci ad alunni particolari,
bisognerà scegliere obiettivi essenziali, chia-
ri e significativi che possano essere corticalizzati/appresi.
La loro applicazione richiede un processo
graduale di apprendimento con modalità
che rispettino le caratteristiche dell’alunno
diversamente abile (tempi di attenzione,
grado di memorizzazione, scansione delle
fasi di consolidamento) e metodologie che
rispondano ai bisogni imposti dalla tipologia di minorazione (scelta di sussidi e di
materiale strutturato, uso di strumenti
informatici e di ausili specifici).
Inoltre, l’IdR nel presupposto che gli OF
rispondano tutti al principio della sintesi e
dell’ologramma, dovrà ricercare con i docenti del suo team tutte le possibili connessioni con i contributi delle discipline e della
educazione alla Convivenza Civile. «E dentro, o dietro, le educazioni che scandiscono
l’educazione alla Convivenza Civile vanno
sempre riconosciute le discipline, così come
attraverso le discipline non si fa altro che
promuovere l’educazione alla Convivenza
Civile e, attraverso questa, niente altro che
l’unica educazione integrale di ciascuno a
cui tutta l’attività scolastica è indirizzata»
(dalle Indicazioni Nazionali).
La scelta degli Obiettivi Formativi impegna
il docente a commisurarsi con il mondo
dell’alunno diversamente abile, con il suo
essere, esprimersi, muoversi, comunicare,
relazionarsi, interagire con l’ambiente, con
le sue difficoltà, con i suoi ritmi, con i suoi
bisogni, con le sue stranezze comportamentali. La formulazione più logica, considerato l’alunno e le sue difficoltà, richiede di
partire dalla sua esperienza per adeguarsi al
suo particolare universo semantico.
Ciò presuppone un momento osservativo e
riflessivo, un’accoglienza dell’altro e delle
sue difficoltà per arrivare ad una condivisione totale, che permetta la costruzione di un
processo di crescita affettivo-relazionale
37
(sentirsi accolto, sentirsi contenuto) e poi
cognitiva (apprendere a…).
Anche l’insegnante di RC dovrà poter dare
il suo contributo, assieme all’insegnante di
sostegno ed agli insegnanti curricolari, per
la configurazione di UDA progressive e integrabili, considerando che le unità di insegnamento/apprendimento hanno la loro efficacia solo se sono interpretate come uno
spazio di mediazione progettuale tra le conoscenze da impartire e le caratteristiche apprendimentali degli alunni a cui sono destinate. In questa prospettiva il progetto educativo sarà la risultante di una espressione
collegiale riferita agli aspetti indicati nel
Profilo Dinamico Funzionale (art. 4 –
D.P.R. 24/02/94).
Considerazioni finali
L’IdR, nella scuola, si trova spesso a doversi
confrontare, da solo, con situazioni apprendimentali e comportamentali di alunni diversamente abili, di cui non sempre ha l’esatta informazione; a ciò si aggiunge la pratica, non corretta, di non far coincidere le
ore dell’insegnante di sostegno con quelle
di RC, per potenziare altri momenti didattici, ritenuti più formativi.
Di conseguenza, la presenza in classe di un
alunno diversamente abile può essere vissuta come un problema di non facile soluzione, mentre, nei limiti temporali dell’intervento, anche l’IdR potrebbe offrire un suo
valido contributo, tenendo conto di alcune
linee guida su cui basare la personale azione
didattica ed educativa:
– approfondire la conoscenza della persona dell’alunno per la relazione;
– collaborare con il docente di sostegno
per rendere il proprio intervento didattico più efficace;
– costruire in aula un clima di accoglienza, sensibilizzando il gruppo classe e
38
motivandolo alle forme di interrelazione
e di socializzazione delle esperienze, che
valorizzino la presenza dell’alunno diversamente abile;
– ampliare nella propria didattica il momento della produzione espressiva (musicale, pittorica, psicomotoria, recitativa), nella quale l’alunno possa offrire
meglio il suo contributo;
– curare la propria formazione in servizio
approfondendo il tema delle diversità;
– partecipare ai GLHO (gruppi di lavoro
operativi), nei quali esprimere il personale punto di vista e la collaborazione
alla stesura del Piano Educativo Individualizzato;
– contribuire a costruire nella scuola, e
fuori di essa, un ambiente “abilitato” ad
accogliere le diversità.
Si è consapevoli oggi che i livelli di competenza di un alunno così particolare non si
raggiungono con i miglioramenti ottenibili
con la cura, l’educazione e la riabilitazione,
ma solo ottimizzando l’ambiente di vita,
motivandolo adeguatamente alla accettazione delle diversità, abbattendo i pregiudizi,
le paure, gli atteggiamenti pietistici, per favorire accoglienza e condivisione, basilari
per la cultura dell’integrazione.
Tutta la ricerca pedagogica sulla coeducazione nel processo di integrazione di alunni
disabili e non, ha posto in evidenza esiti
positivi nell’aver favorito e potenziato il
processo di apprendimento e di socializzazione degli uni e degli altri, costruendo personalità di migliore equilibrio sociale e psicologico, solidali e tolleranti che sapranno
in futuro coniugare efficienza e solidarietà.
In questa prospettiva l’IdR può avere una
marcia in più se riesce a promuovere quella
cultura dell’accoglienza, da cui nasca una
volontà organizzativa rivolta a promuovere
un reale progetto di abilitazione.
In “media” virtus
Pluralità di strategie didattiche
nella Secondaria di I grado
Livio Giorgioni
la realtà dei ragazzi e dunque ragionevol«Non era meglio continuare a chiamarla
mente foriere di efficacia.
scuola media?». Invece no. La Riforma le ha
La suddivisione della scuola secondaria di
dato un nome più lungo, difficile da proprimo grado in un biennio iniziale ed un
nunciare e gravido di tensioni al suo intermonoennio conclusivo riflette abbastanza
no: secondaria, ma di primo grado; seconfedelmente i processi dello sviluppo evolutidaria, ma nel primo ciclo.
vo di cui si è parlato.
Eppure, forse, queChi è dunque l’alunsta scomodità lessino della scuola secale esprime meglio
Il prof. Giorgioni ci riferisce in breve la
condaria di primo
la natura di questo
sua esperienza di “pluralismo didattico”
grado?
complesso e affascinella secondaria di I grado: nel corso di soli
Le considerazioni
nante ordine scolatre anni, l’evoluzione degli alunni è così
sulle possibili stratestico. E non a caso
consistente da rendere non solo consigliabigie didattiche da
il più breve tratto di
le, ma assolutamente necessario adottare
adottare nelle unità
studi previsto dalla
strategie diversificate. Il docente è il primo
di apprendimento
scuola italiana (un
a dover riuscire a padroneggiare la comnon possono presolo triennio), è a
plessità del mondo contemporaneo.
scindere dalla risposua volta suddiviso
sta a questa domanal suo interno (un
da fondamentale. Intendo dunque trattegbiennio e un monoennio finale). Esso atgiare, seppure sommariamente, un ritratto
traversa come un treno in corsa la fase inidell’alunno di scuola media nelle sue fasi
ziale, più delicata ed intensa, della età
evolutive essenziali in riferimento alla sua
evolutiva dei ragazzi; come si suol dire, arvita scolastica. Traggo queste considerarivano da noi bambini ed escono adulti:
zioni dalla mia personale esperienza e mi
profondamente mutati non solo nel corpo
scuso per i limiti inevitabili della mia anae nella mente, ma anche nelle attitudini,
lisi.
negli interessi, nell’atteggiamento verso se
In prima media arriva un alunno carico del
stessi, i coetanei, i docenti, lo studio e cobagaglio di esperienze della scuola primaria.
sì via.
In quegli anni ha imparato a rapportarsi
Richiamare questi dati fondamentali, ben
con i compagni e con il mondo degli adulti
noti alla psicologia e alla pedagogia è imcollocandosi in una relazione educativa: l’aportante perché è solo dalla analisi attenta
dulto, in questo caso l’insegnante, è colui
di questi elementi che è possibile concepire
da cui si può e si deve imparare, sia dai
un piano di strategie didattiche aderenti al39
Da Cuadernos de pedagogía, mensile spagnolo di pedagogia, n. 349, settembre 2005, p. 78.
L’illustrazione è emblematica. Certamente evidenzia un’interazione asimmetricamente speculare tra docente
e discente. Se continueranno a guardarsi, senza guardare insieme gli ‘oggetti’ del sapere, probabilmente questa illustrazione apparirà come conflittuale o almeno alterante quella discrezionalità o privacy che dovrebbe
tutelare l’arte dell’insegnare e quella dell’apprendere. Ma forse rappresenta anche quella correlazione di specularità e di ricerca di spazi e tempi di dominanza tra docente e discente. Come anche quella reciprocità
che caratterizza l’asimmetria dell’interazione comunicativa dell’insegnare-apprendere. In tutti i modi rappresenta una comune base minimale di condivisione. Troppo poco per relazionarsi, ma tanto per non trascurarsi reciprocamente!
contenuti che trasmette che dall’esempio
personale. L’allievo intuisce, in maniera più
o meno consapevole, che nell’apprendere
dall’adulto si gioca la chance della sua crescita. Egli cresce, dunque per progressiva
identificazione con il mondo dei grandi e
l’insegnante diventa per lui figura di riferimento a cui guardare con fiducia. Ecco perché accoglie con disponibilità i percorsi
suggeriti e gli strumenti necessari: egli è fiero del suo quaderno e dei suoi libri, che
utilizza volentieri.
40
In prima media, gli elementi di discontinuità con la scuola elementare possono generare una sana sfida con se stesso e una
forte carica motivazionale a fare meglio e di
più. Anche la didattica, dunque, dovrà mirare a valorizzare le conoscenze pregresse e
le competenze acquisite ed insieme ad incoraggiare l’impiego di tutte le abilità in vista
di apprendimenti nuovi, motivando insieme l’entusiasmo e la responsabilità. Nello
sviluppo delle unità di apprendimento può
essere molto utile il metodo chiamato coo-
perative learning, in cui gli allievi, divisi in
gruppi di esperti, sono direttamente coinvolti nell’apprendimento proprio ed altrui,
e sono incoraggiati ad impegnarsi con serietà sentendosi responsabilizzati dai docenti e gratificati dal riconoscimento dei compagni. Questo metodo consente anche al
docente di riconoscere le potenzialità come
anche i limiti di ciascun alunno, sui quali
lavorare in seguito. L’esperienza insegna, infatti che, se soprattutto all’inizio gli allievi
hanno bisogno del suo aiuto per minimizzare la dispersione e migliorare l’organizzazione del lavoro, in seguito essi stessi si sorprendono piacevolmente dei propri successi
e sviluppano rapidamente abilità che neppure pensavano di avere, superando così
ansie ed insicurezze.
L’irrompere dei processi evolutivi tra la fine
della seconda e l’inizio della terza media
muta significativamente questo contesto.
Alla rapida crescita fisica corrisponde, nella
persona dell’allievo, una diversa coscienza
di sé. Muta profondamente il rapporto con
i compagni e soprattutto con i docenti ed il
mondo della scuola tout court: ora l’alunno
non è più orgoglioso del proprio quaderno
e del libro a cui guarda sovente come a elementi che rimandano al suo passato di
bambino in cui non si riconosce più e che
intende superare. Inoltre, similmente al
rapporto con i genitori, egli inizia a comprendere il proprio processo di crescita non
più in termini di identificazione ma di differenziazione e a volte contrapposizione
con gli adulti. Egli non si fida più ciecamente, ma si sente in diritto e in dovere di
vagliare criticamente tutto ciò che la scuola
gli propone.
La relazione educativa, è evidente, si fa più
complessa e non di rado assume i toni della
opposizione polemica. Ora l’alunno vuole
dire la sua, tende a porsi in un rapporto di
tendenziale parità con il docente da cui non
accetta più niente a scatola chiusa; tende a
rifiutare l’apprendimento passivo e ad esso
preferisce il confronto. Conosciamo bene i
rischi di tale impostazione se viene eccessivamente assecondata: lezioni in cui ci si limita a dire la propria opinione su argomenti di attualità, ma senza ascoltare veramente, e soprattutto senza apprendere, secondo
quel falso modello dialogico inculcato da
molte trasmissioni televisive per adolescenti
e giovani.
Questo dato pone indubbiamente elementi
di forte problematicità, ma può anche costituire una chance positiva che stimoli nuovi percorsi nella pianificazione di strategie
didattiche. Nella mia esperienza trovo utile
portare ai ragazzi di terza media a comprendere le conoscenze acquisite nei due anni
precedenti come mattoni con cui costruire
ora edifici di saperi adulti e consapevoli, ossia come basi di riferimento per ragionare e
discutere evitando la deriva sterile dell’opinionismo relativista. Un solo esempio: il sesto comandamento imparato in prima, il
sacramento del matrimonio imparato in seconda divengono la base per una riflessione
etica sulla sessualità alla luce degli orientamenti della società attuale e costituiscono
un filtro critico per la lettura di giornali, la
visione di film, ecc.
La didattica per concetti può essere particolarmente adatta e consigliabile, nello sviluppo di unità di apprendimento nell’ultimo
anno di secondaria di primo grado. Essa,
infatti, servendosi di tecniche quali il brainstorming, soddisfa l’esigenza dei ragazzi di
dire la loro e al tempo stesso li aiuta a ordinare e comprendere meglio le loro conoscenze, a riconoscere i limiti e le contraddizioni insite nelle loro argomentazioni e ad
allargare gli orizzonti del proprio sapere
grazie all’ascolto degli altri.
41
T U T T A
U N ’ A LT R A
S T O R I A
Un romano nel far west
di Federico Corrubolo
Tutti sappiamo chi sono gli indiani. Li abbiamo visti tante volte assaltare diligenze, urlare sui cavalli, rendersi responsabili di tremende crudelità nei film western. E naturalmente venire puniti in qualità di «cattivi»
per tutte le loro malefatte. Il «cattivo» è una
funzione insopprimibile in ogni forma narrativa. Esprime la parte oscura che ci portiamo dentro e si invoca la sua sconfitta grazie
alle forze del bene che parimenti ci portiamo
dentro. Ogni epoca ha i suoi cattivi esattamente come ha i suoi eroi. E così di volta in
volta vediamo susseguirsi i persiani, i cartaginesi, giù giù fino ai giapponesi, ai tedeschi:
tutti potentissimi ma irrimediabilmente
sconfitti dai «nostri», i buoni di turno, greci,
romani o americani che siano.
A differenza di quanto accaduto per i tedeschi o i cartaginesi, agli indiani è toccato
anche l’onore di venire «ricuperati» in qualità di vittime, di minoranze perseguitate.
Chi scrive ricorda benissimo le lunghe lezioni di capi scout infervorati dal movimento degli «indiani metropolitani» che nel
1977-’78 ci persuadevano che il tepee era
una struttura sociale pari se non superiore
al branco e che il Grande Spirito aveva molto da insegnare a Kipling e a Baden-Powell.
Oggi gli indiani d’America non sono più di
moda come minoranza perseguitata. Su
questa “poltrona” si sono insediate altre culture e civiltà, che vengono chiamate in causa (perlopiù da pensatori occidentali) per
stigmatizzare vari aspetti dell’occidente: la
sua insensibilità, la sua avidità, la sua inca42
pacità di dialogo. Papa Benedetto ci ricorda
che l’Occidente «odia se stesso» e per autoaccusarsi adopera di volta in volta argomenti diversi. Si tratta di un caso unico fra
le grandi culture del mondo. Nessun Bantu
o Yoruba dell’Africa mette in discussione il
fatto che la sua tribù è la migliore del mondo, e considera un fatto del tutto ovvio che
veri uomini siano solo i Bantu o gli Yoruba:
gli altri sono solo mezzi uomini che propriamente non esistono davvero (di qui le
feroci lotte tribali che dilaniano l’Africa
moderna e l’inefficacia dei tentativi occidentali di «democratizzarla»). La situazione
non cambia molto se ci spostiamo in Medio Oriente: le lotte feroci tra sciiti e sunniti in Iraq stanno lì a ricordarci che ciascuna
delle due parti si ritiene il vero Islam e invoca sull’altra la guerra santa. La Cina e
l’India non hanno nessun dubbio sulla loro
innata superiorità, ed è patetica la sorpresa
con cui l’Europa fa i conti con un «nazionalismo indù» come fosse una novità, ed
una ideologia imperialistica cinese che da
Marco Polo in poi non è mai tramontata.
Basta scorrere (dopo opportuna traduzione!) i testi scolastici di storia in uso in questi paesi per convincersi che il concetto di
«pluralismo» (con l’inquietudine che ne deriva) è del tutto assente in queste millenarie
civiltà, che per tutta una serie di ragioni
non si sono mai confrontate se non con se
stesse.
Vale la pena di sottolineare che il caso Occidente è diverso. La curiosità dell’occiden-
T U T T A
U N ’ A LT R A
tale per l’altro da Erodoto in poi è una costante. Inferiore fin che si vuole, d’accordo,
ma pur sempre altro-da-sé. E il Vangelo ha
conservato questo orientamento. La missione ad gentes è stata condotta certamente allo scopo di illuminare e far progredire popoli «inferiori», ma di fatto ha cambiato la
mentalità degli stessi missionari, rendendo
l’Occidente capace di ammettere l’esistenza
di un mondo altrui, diverso dal proprio e
degno di rispetto ancorché in molti casi
considerato inferiore.
Una riprova singolare di questo sta nella eccezionale vicenda di un mio parrocchiano
ottocentesco, Filippo Rappagliosi, che da
via Leonina (20 metri dalla chiesa della
Madonna dei Monti, in pieno centro storico di Roma) finì proprio fra gli indiani
d’America, giusto all’epoca del «far west», di
Kit Carson e del generale Custer. Questo
simpatico giovane romano era nato nel
1841 e a 15 anni entrò nella compagnia di
Gesù, per diventare missionario. Dopo 13
anni di formazione, nell’autunno 1873 si
imbarcò per l’America e giunse nel Montana dopo quattro mesi di viaggio. Iniziò il
suo apostolato fra le Teste-Piatte, ne imparò
lingua e costumi e dopo un anno di predicazione si sposto più a Est, fra i Pendentid’-orecchio. Alla fine del 1876 passò fra i
Piedi-neri, dovette imparare daccapo la lingua (del tutto diversa dalle precedenti) e vi
rimase fino alla morte, avvenuta il giorno
dopo quella di Pio IX, il 7 febbraio 1878, a
37 anni. Un anno dopo i suoi familiari raccolsero le sue lettere che vennero pubblicate
a cura della Compagnia di Gesù1.
S T O R I A
Dai suoi racconti emerge non solo la realtà
della vita e della religiosità di alcune tribù
indiane che non ci hanno lasciato alcun documento scritto, ma anche la volontà di
comprendere la loro mentalità e persino di
apprezzarne le virtù. Pur nel sostanziale
quadro interpretativo della civiltà migliore
che deve far progredire una civiltà inferiore,
l’atteggiamento del giovane romano è cordiale ed affettuoso. In nome della fede in
Cristo Gesù si mostra capace di accettare
usi e costumi lontanissimi dai suoi. A volte
ne ride e li presenta come strani e «curiosi»,
ma senza cadere nella derisione. Il suo stile
è brioso e vivace. Vale la pena di ascoltare
qualcosa.
Un capo indiano tiene un breve discorso alla sua tribù la sera del Venerdì Santo 1874:
(Vi metto qui per intero il piccolo suo discorso ed è proprio quale egli l’ha fatto, perchè io l’ho chiamato in camera, me lo son
fatto ridire, l’ho scritto ed ora ve lo traduco
alla lettera in italiano): «Uomini e donne tu
tutti ti sei adesso confessato, e tu tutti ti
vuoi adesso comunicare. Prenderai tu forse
dopo di nuovo il peccato? Se tu vuoi riprendere il peccato e comunichi è un grande
peccato, se tu ti sei confessato volendo riprendere il peccato, è un grande peccato.
Ho finito». Poi s’incominciò la Messa cantata2.
L’abbigliamento degli indiani in un giorno
di festa è descritto con precisione:
Quel giorno erano vestiti a festa, cioè, chi ne
avea, era avvolto in una coperta di lana nuova, oppure una pelle di bufalo ucciso all’ultima caccia. Poi colori rossi in faccia o solo in
Memorie del P. Filippo Rappagliosi d. C. d. G., missionario apostolico nelle montagne rocciose, Roma, 1879. Debbo alla cortesia di
una discendente, Elisabetta Ponti Rappagliosi le fotocopie di questo volume ormai introvabile.
2
Memorie..., Lettera XI, Stevensville 11 aprile 1874, p. 91.
1
43
T U T T A
U N ’ A LT R A
fronte, o solo alle guance, o solo al mento, o
per tutto il viso, le orecchie e il collo, secondo il gusto di ciascuno; e conchiglie, e grani
di vetro, e cocci e filo di ottone o di ferro attorcigliati alle trecce, e collane di vario colore e specchi e crocefissi e medaglie pendenti
sul petto, e tutto il resto che vi descriverò
più a comodo un’altra volta. In una parola
una vera mascherata per noi, ma per loro
l’ultima moda3.
Ecco le cronache di un mese mariano fra i
Piedi-neri:
La nostra buona madre Maria Santissima ha
dovuto rassegnarsi a far qui la figura d’una
buona selvaggia con tutta quella roba che le
abbiamo messo addosso: perché dovete sapere che quello, che dalle parti nostre sono i
voti d’oro e d’argento e le pietre preziose e le
gemme, qui sono tutti i gingilli d’ogni genere de’ buoni selvaggi. La Madonna della
missione di S. Ignazio ha una raccolta di doni tutta sua propria. Al petto una bella collana di conchiglie, e poi molti giri di grani
di vetro a vari colori con il risalto di qualche
grosso dente di lupo, qualche unghia di orso
ed altre galanterie. Intorno al quadro vesti,
cinte, fazzoletti, scarpe, maniglie d’ottone o
di ferro, specchi, catenelle, bottoni ed ogni
altro simile oggetto avuto dai bianchi e prima d’ora sconosciuto ai selvaggi. Nel mettere in ordine tutto questo tesoro (o questo
sacco di robivecchi come diremmo noialtri
romani) mi ci volle non poca pazienza. Trovai tra le altre offerte un cucchiaino da caffè
ed un secchiello di latta che mi dettero non
poco da fare per metterli al posto con qual-
S T O R I A
che decoro. Voltalo di qua, voltalo di là, mi
pareva sempre un cucchiaino da caffè! Poco
dopo aver finito d’ordinare ogni cosa tornai
in chiesa e trovai un selvaggio in piedi sopra
un banco che stava con molta devozione occupato ad attaccare la sua offerta. Era un
pezzetto di coccio e tre fiammiferi e me li era
andati a mettere proprio all’orecchio della
Madonna! Poi si mise con la testa piegata
sulla spalla, guardando fisso e parea che dicesse : «sì, stanno bene»4.
Ancora più interessanti le osservazioni sul
«galateo dei selvaggi» descritto in una lettera al fratello Luigi:
Te ne stai un giorno in camera scrivendo o
leggendo. Ecco che uno di fuori apre la porta e entra. Chi è? Un selvaggio. Come è entrato senza dirti niente, così senza dirti niente si mette a sedere dove più gli piace in camera tua. Piglia la sedia, oppure si mette a
giacer per terra davanti a te o dietro le tue
spalle, con la faccia voltata dove vuole, né
più né meno che se tu non ci fossi. Non dicono mai al principio per qual motivo son
venuti: per qualche tempo non dicono nulla: anzi, se tu appena essi entrano, domandi
che vogliono, sei sicuro di averne per risposta ta che significa nulla. Saranno venuti per
maritarsi, o perché il padre o la madre sta
per morire, ma risponderanno ta. Allora tu
seguiterai a leggere o scrivere come se nessuno ci fosse in camera; sei padrone tu come
sono padroni loro: oppure potrai discorrere
di quel che vorrai, aspettando che venga
fuori il rospo come dicono i romani, perché
sei sicuro che per qualche cosa sono venuti.
Memorie..., Lettera XI Stevensville, 11 aprile 1874, pp. 91-92. Vale la pena di osservare che quando il giovane gesuita scrive
bufalo riproduce l’inglese buffalo, termine che in italiano identifica il bisonte, la principale risorsa economica degli indiani dell’epoca.
4
Memorie..., Lettera XVIII, S. Ignazio, 10 maggio 1875, p. 115.
3
44
T U T T A
U N ’ A LT R A
Finalmente dopo una mezz’ora, un’ora di
perdi tempo il selvaggio ti interrompe e dice: vieni che c’è uno che sta per morire! Sia
timidità, sia regola di aspettare prima di domandare, il fatto è che questo è il loro modo
di fare...
Le cerimonie poi usate nell’entrare si usano
nell’uscire, vale a dire il selvaggio si alza
senz’altro e esce di tua camera come un cane
muto. Se ti ha domandato qualcosa; una
medaglia, un poco di tabacco da fumo, un
poco di patate e che so io: tu gli dai la cosa
ed egli se la piglia e se ne va: Grazie, oh,
quanto è gentile, Vostra riverenza c’ha un cuore d’oro! Che? ci vuol altro, queste son parole
inutili da queste parti. Se poi viceversa il selvaggio ti dà qualche cosa tu hai da fare lo
stesso e sei dispensato dal dire grazie.
Sono molti i passi interessanti (ed a volte
spassosi) contenuti nelle ventinove lettere
del volume. Dietro al tono vivace e scanzonato traspare però un profondo rispetto per
il modo di credere e di vivere dei «selvaggi».
Rappagliosi descrive il loro modo di credere
e ne resta spesso edificato, pur annotando
di continuo l’enorme distanza culturale,
mentale che separa i «pastori» dal «gregge».
Dovendo però concludere vale la pena di
citare almeno l’inizio di una lettera del luglio 1875, la prima scritta dalla missione di
5
6
S T O R I A
S. Pietro, nel Montana del Nord. Essa riveste infatti un carattere in qualche modo
emblematico:
Eccomi arrivato a S. Pietro. È una grande
consolazione per un romano. Ma questo S.
Pietro è un po’ differente da quel di Roma. Il
Palazzo e la Basilica qui consistono in due piccole case di travi e di fango, col tetto coperto
di terra: ognuna delle due case non è altro,
ben inteso, che una camera a pian terreno. La
piazza è il nostro campo, e il colonnato lo formano le montagne e colline che chiudono
tutto intorno la nostra piccola valle...5
Forse proprio qui troviamo una chiave di
lettura profonda del dialogo fra culture. Il
gesuita romano che immagina nel Montana
una piazza S. Pietro di terra e di fango dimostra di essere un cristiano «apostolico romano» e proprio per questo capace di vedere sotto qualunque cielo un frammento della Chiesa catholica. Un giovane capace di
vedere il mondo con occhi non suoi e di
portare al mondo il Vangelo della Chiesa
senza complessi e senza paure.
Padre Filippo morì assistito da un ufficiale
dell’esercito americano, protestante. I
«suoi» selvaggi lo piansero amaramente. La
sua tomba è nella città di Helena, nel Montana centrale. In fondo, il cielo è lo stesso di
quello di via Leonina...
Memorie..., Lettera XIV, Stevensville, 12 giugno 1874, p. 105.
Memorie..., Lettera XIX, S. Pietro, 27 luglio 1875, p. 116-117.
45
L E
O P E R E
E
I
G I O R N I
Le opere e i giorni
di Pasquale Troìa
È il secondo anno. Di
questo festival biblico.
Un’idea originale.
Che lascia stupiti alcuni e sospettosi forse
altri. Ma intanto il festival si celebra, la
gente partecipa numerosa, la Bibbia si
lascia ospitare da tutto
ciò che l’uomo ritiene
degna di lei e della
Parola del Dio che in
essa si rivela.
✔ Il tema di quest’anno: I luoghi
delle scritture.
✔ La finalità e i destinatari: il Festival
è rivolto a tutti coloro che desiderano avvicinarsi alla Bibbia. Che questo incontro
avvenga per la loro fede, oppure solo per
curiosità, o magari per il gusto del bello
espresso nell’arte sacra, o attratti dal gioco,
l’importante è l’incontro tra l’uomo di oggi,
in cerca di risposte per continuare a vivere,
e il Libro che, pur affondando le sue radici
lontano dal nostro tempo, rimane tuttavia
Parola viva, rispondente alle attese dell’uomo contemporaneo.
✔ Le sezioni: i luoghi della Scrittura sono vissuti lungo il filo conduttore della manifestazione, che rimane quello della Bibbia in
rapporto ai cinque sensi e strutturano le
sezioni del festival:
• udito: parolacheparla: Le scritture parlano in
echi molteplici, suscitando ascolto riflessivo e
interrogante… (conferenze, presentazione di
libri, seminari formativi, staffetta di lettura);
• vista: paroladavedere: Le scritture dischiudono
l’invisibile, affinando lo sguardo sino a farne
46
contemplazione… (itinerari museali, leggere
un’icona, installazioni d’arte, multimedia,
spazio cinema);
• gusto: gustarelaparola: Le Scritture sono cibo
da condividere, rinviamo a un’altra fame e
un’altra sete… (aperitivi biblici, a pranzo
con l’autore, stand gastronomici);
• tatto: parolatralemani: Le scritture non sono
semplici segni tracciati, chiedono coinvolgimenti partecipi… (Bibbia scritta a mano,
giochi e laboratori, percorsi biblico-narrativi, burattini);
• olfatto: profumodiparola: Le Scritture divengono buon odore diffuso da chi le prega, le
musica, le canta, le danza, le recita, le mette
in versi… (spettacoli teatrali, recital, danze,
mimo, concerti).
✔ Il programma: molto interessante, con autorevoli personalità: cfr. www.festivalbiblico.it.
Oggi esiste anche l’Associazione Amici del Festival Biblico: è un gruppo di persone che si
sta formando attorno ad un grande desiderio:
rendere possibile il sogno di una vera e propria festa della Bibbia.
Quando queste notizie saranno lette, il festival
sarà concluso. Ma saranno informazioni sulla
sua esistenza e quindi da mettere in programma per il prossimo anno e per una possibile
partecipazione.
Le Monde è un autorevole e storico quotidiano francese. Ma oltre all’impegno nel
raccontare ed interpretare la storia quotidiana, mensilmente
documenta e racconta
i diversi mondi ed
universi delle culture
e della storia: Ecco allora le pubblicazioni
L E
O P E R E
settimanali de Le Monde des Religions, Le
Monde de l’Education…
La rivista (82 pagine) è pregevole non solo
per gli argomenti e per il tema del dossier
che ogni numero presenta, ma anche per la
qualità narrativa ed artistica delle immagini.
Il linguaggio è chiaro, essenziale, paratattico,
illuminante e con tutte quelle caratteristiche
che qualificano il francese e la rendono una
lingua che permette di parlare di ‘idee chiare
e distinte’. I titoli sono efficaci, le espressioni sono da adottare come sintesi concettuale
delle tematiche ma anche come efficaci formule di comunicazione.
Autorevoli sono gli autori degli articoli e gli
intervistati. Molto utile le informazioni sulle
riviste religiose (per esempio Christus, Choisir, …) o che pubblicano articoli di interesse
religioso (Études, L’arche, il mensile del giudaismo francese…). Molto attuali e spesso
documentati con interviste e articoli le pubblicazioni religiose. Alcune (purtroppo poche) di queste poi le troviamo tradotte in
italiano. Ovviamente un panorama dei convegni, seminari ed incontri religiosi francesi.
Il sacro e il religioso nella sua contemporaneità e nelle sue storie e tradizioni è documentato e raccontato con tutti i suoi linguaggi: artistici, teologici, musicali, liturgici, letterari…
La rivista pubblica anche dei numeri speciali
(l’ultimo è Le judaïsme, 20 clés pour comprendre) e guide e strumenti per conoscere il mondo storico e attuale delle religioni.
Una possibile difficoltà da parte di qualche
collega: è scritta in francese. E beh! È soltanto una lingua e non una difficoltà! Ed una
lingua europea, cioè della comunità/unione
della quale siamo cittadini. Oggi non possiamo privarci dei prodotti culturali europei
solo perché la lingua può farci ostacolo. Provate a chiedere a chi si è innamorato di qualche ragazza che parlava altre lingue. Pur di
amarla e di ‘conquistarla’, ha imparato non
solo la sua lingua, ma magari è andato a vivere anche nella sua nazione di cui ora è un
cittadino!
E
I
G I O R N I
La rivista è apprezzata per lo sforzo e l’impegno a mostrare bene «le numéro d’équilibriste
nécessaire pour présenter les differentes religions en respectant leur identités sans prendre
parti pour l’une ou l’autre». Il sito amplifica
queste informazioni e le documenta: www.lemonde-des-religions.fr/index.php.
AA.VV., La luce sul
tetto del mondo. Il
Buddismo raccontato
ai bambini, collana
Nuovi amici, Edizioni
Dehoniane Bologna
2006, ISBN 88-1076503-6, € 6,00.
È la terza pubblicazione della collana (le
prime due le abbiamo
già recensite ed erano Mio cugino ha la
kippà, L’Ebraismo raccontato ai bambini e Salam aleikum, Yasmin. L’Islam raccontato ai
bambini: vedi RSC 2/2005).
La collana “Nuovi Amici”, attraverso esperienze e linguaggi comprensibili per i bambini, presenta i tratti caratteristici delle varie religioni perché la conoscenza favorisca il dialogo e l’amicizia, allontanando il sospetto e la
paura. Anche questa bellissima pubblicazione
contribuisce egregiamente alle finalità della
collana. Effettivamente sono raccontate e
spiegate parole come “nirvana”, l’“ottuplice
sentiero”, “mantra”, purificazione, “quattro
nobili verità”… ed alla fine buddismo e cristianesimo a confronto. Il tutto in modo ludico e mediante storie di bambini e con qualche attività. La pubblicazione è aperta a ricevere «qualche avventura sui nuovi amici» che
possono essere inviate a: [email protected]. oppure a: Redazione EDB Junior, via
Nosadella, 6 – 40123 Bologna. Chi sa che gli
IdR con i loro bambini della Scuola dell’Infanzia e con i ragazzi della Scuola Primaria
non inventino altre storie condivise, considerando che le classi ormai sono sempre più ‘colorate’ di multiculturalità e multireligiosità…
47
L E
O P E R E
Da alcuni
anni l’Assessorato alle
Po l i t i c h e
Educative e
Scolastiche del Comune di Roma organizza e
promuove iniziative, eventi e pubblicazioni
per una educazione interculturale a Roma.
Abbiamo avuto modo di parlarne altre volte
su queste pagine. I protagonisti di questa educazione sono le scuole, i suoi studenti e i loro
docenti. E tutte quelle istituzioni ed agenzie
che oggi cooperano per contribuire a trasformare Roma in una città più solidale ed ospitale, secondo la sua tradizione e secondo un obbligato senso del futuro. Le iniziative sono
molteplici e diverse. Conoscerle non sempre è
facile. Gli strumenti e i mezzi sono
• Intermundia News (il bimestrale sulle iniziative di Educazione Interculturale a Roma): ma spesso le informazioni sono già
‘avvenute’ e si arriva ad iniziative già realizzate. Però sul bollettino sono documentati
eventi, progetti scolastici, pubblicazioni. Il
bollettino è inviato in tutte le scuole ma
più comodamente è visibile ondine su
www.comune.roma.it/dipscuola.
• Un appuntamento annuale in maggio durante la Festa Intermundia nei Giardini di
Piazza Vittorio, recentemente intitolati a
Nicola Calipari, a Roma.
• Frequentare periodicamente la sede dell’Assessorato in via Capitan Bavastro, 94 –
00154 Roma. Con la presenza spesso si riscattano più informazioni e materiali che
non con una semplice telefonata (sempre
possibile ai numeri 06/671070008 dell’Assessorato e 06/671070201 del Dipartimento). Da tener presente che molti materiali e strumenti sono distribuiti gratuitamente (sempre garantendo una utilizzazione didattica).
• Istituire in ogni scuola un polo di informazione, coordinamento e promozione di iniziative interculturali per un’educazione alla
convivenza civile, interculturale ed interre48
E
I
G I O R N I
ligiosa. Così come prevedono e richiedono
i documenti della scuola della Riforma.
Molti docenti di religione collaborano con le
iniziative dell’Assessorato; in particolare con il
Tavolo Interreligioso (coordinato dalla
prof.ssa Paola Gabrielli).
Che dire di tutto questo ‘fervore’ istituzionale?
Almeno alcune osservazioni:
✔ finalmente le istituzioni si assumono queste
responsabilità civili e specificamente educative; da ricordare che le istituzioni sono fatte di persone che professionalmente (o meno) sono motivate in questi progetti;
✔ il lessico di questi progetti ed iniziative predilige sempre la preposizione inter-, ma
spesso viene confusa con quella multi-; per
cui si caratterizzano come interculturali attività e progetti che sono di reciprocità multiculturale, cioè promuovono una reciproca
conoscenza delle realtà culturali ed etniche
mediante progetti, attività, iniziative e pubblicazioni. Tale conoscenza reciproca è fondamentale, ma soltanto preliminare per una
educazione interculturale, che ovviamente
richiede un progetto educativo. Affinché la
conoscenza non si stemperi in curiosità soddisfatte ma inneschi invece un processo di
cambiamento di comportamenti e di mentalità che qualificano identità dialogiche.
✔ Molti insegnanti di religione partecipano a
queste iniziative interculturali. Alcuni garantiscono una presenza soprattutto a livello di base, nel fare lezione o nel promuovere progetti interculturali. Ma la loro presenza non è ancora ‘adulta’ professionalmente e istituzionalmente. I loro progetti e
le loro iniziative spesso restano circoscritte
alla scuola o al territorio, mentre alcune,
per la loro qualità e per il paradigma culturale ed educativo che le caratterizza, meriterebbero di essere promossi ad una informazione più estesa e forse anche alla pubblicazione. Come per esempio ha fatto il nostro
collega prof. Dario De Santis e forse come
lui anche altri (che però non fanno pervenire informazioni) (cfr. box a p. 51).
L E
O P E R E
✔ Nell’ambito delle istituzioni cattoliche esistono molte associazioni, piccole istituzioni
locali ed iniziative che promuovono il dialogo interculturale e specificamente interreligioso. Ma spesso la loro presenza è nella
‘sacrestia’ del mondo. O forse nella piazza
antistante la parrocchia. Molte sono assenti
nella cooperazione istituzionale, comunale,
nazionale ed europea. Spesso tale assenza
trova la sua autogiustificazione nelle lamentate difficoltà economiche o forse nella
scarsa presenza di operatori. Non sempre è
così. Il più delle volte è dimenticanza,
espressione di una mentalità che privilegia
la prossemicità del bisogno e non anche
l’organizzazione delle risposte ai bisogni.
Per esempio nell’ultima pubblicazione del
Tavolo interreligioso (quella del libro e del
DVD “Conoscere l’altro. Luoghi di culto a Roma”: cfr. box a p. 50) sono documentati i
luoghi di culto di cinque comunità religiose presenti a Roma e che hanno aderito al
Tavolo interreligioso, ma non sono presenti
i luoghi di culto cattolici! In questo modo
non è né garantita la multireligiosità delle
comunità religiose presenti a Roma né tanto meno la finalità del dialogo interreligioso che il progetto intende realizzare. Le
motivazioni di tale assenza? Ovviamente alcune si possono immaginare (certamente
non possono essere documentate tutte: ma
perché? Certamente è stata fatta una scelta:
ma con quale criterio?). Mentre altre motivazioni non sono dovute all’Assessorato né
al suo Tavolo interreligioso. Per l’assenza
delle comunità cattoliche le motivazioni
sono quelle del Vicariato di Roma e del suo
Ufficio per la pastorale scolastica. Più volte
ed in diverse occasioni il suo Direttore,
mons. Manlio Asta, ha precisato e documentato le motivazioni per cui non è stato
firmato il protocollo di intesa tra l’Assessorato e il Vicariato di Roma a proposito del
tavolo interreligioso: in realtà, il Vicariato si
è reso disponibile «a partecipare a tavole rotonde e a dibattiti a più voci su temi specifi-
E
I
G I O R N I
ci e a dare il suo contributo alla eventuale
stesura di sussidi» (come ha scritto mons.
Asta già nell’aprile 1998 e poi ripetuto ad
ottobre 2001), ma il Vicariato non è stato
più interpellato da parte dell’Assessorato.
Viceversa, il Vicariato ha declinato l’invito
a partecipare ad iniziative di “presentazione” delle diverse religioni o confessioni da
parte del Tavolo interreligioso perché, a differenza di esse, la Chiesa cattolica ha già
uno spazio specifico nella scuola, senza intraprendere attività extrascolastiche. Infatti
– argomenta mons. Asta – mentre può essere significativo ascoltare un esponente di
altra religione che presenta la propria esperienza spirituale in due ore, sembra superfluo fare altrettanto per presentare il cattolicesimo, quando c’è un’ora a settimana di
tempo per farlo. Al contrario, sarebbero
benvenuti i dibattiti e le tavole rotonde con
la presenza anche di esponenti cattolici, o
la partecipazione alla produzione di sussidi
[come il DVD di cui parliamo]; ma la collaborazione del Vicariato non è stata più richiesta per simili iniziative. Evidentemente
l’Assessorato chiedeva una partecipazione
senza differenze (“o tutto il pacchetto, o
niente”). E questo spiega l’assenza delle
‘realtà cattoliche romane’ nelle iniziative
del Tavolo interreligioso. Tale documentazione chiarisce le motivazioni da un punto
di vista formale ed istituzionale, ma non risolve la reale assenza di informazioni sui
luoghi di culto cattolico a Roma che l’utente si attende e di cui non può che rilevare l’assenza. Anche perché nel precedente
CD-ROM (Conoscere l’altro: Culture e religiosi. Tavolo Interreligioso di Roma) sono stati
coinvolti due IdR (il prof. Gianmario Pagano e il prof. Pasquale Troìa) nel presentare
le caratteristiche essenziali del cristianesimo
di confessione cattolica. In quest’ultimo invece riscontriamo soltanto un’assenza che
non passa ovviamente inosservata, anche
perché è rilevante e dominante la presenza
delle chiese cattoliche a Roma!
49
L E
O P E R E
Il DV D Luoghi di
Culto a Roma si apre
con un magnifico e
azzurro cielo di Roma, attraversato da
uccelli, con il cupolone di san Pietro in
primo piano e campane a festa, ed una
voce che annuncia:
«Roma è per tutti la città della cattolicità,
ma da sempre, dal suo stesso nascere è stata anche il crocevia di popoli, culture e religioni diverse». Sei studenti delle scuole di
Roma, dai nomi e dalle identità multietniche e multireligiose (Krystle, Daniel, Francesca, Furio, Jawid, Margherita), vanno alla scoperta dei luoghi di culto di sei comunità religiose di Roma: qui incontrano un
rappresentante di queste comunità che
spiega la simbologia dei luoghi, la loro
funzione, i modi di pregare dei credenti ed
alcune caratteristiche della fede. Gli studenti osservano, domandano, esprimono
curiosità.
Gli incontri cominciano
✔ nella moschea di Monte Antenne a Roma (con Omar Camilletti del Centro
Culturale Islamico d’Italia),
✔ poi nel monastero buddista di Santa
Cittarama [=il giardino del cuore sereno] (con Bhikkhu Chanda Palo, Unione Buddhista Italiana),
✔ e di seguito nel luogo di culto della comunità valdese a Roma (in piazza Cavour, con il pastore Antonio Adamo,
Coordinamento delle Chiese Protestanti);
✔ nell’unico tempio induista in Italia (ed
il terzo tempio in tutta Europa) (con
Svamini Hamsananda Giri, Unione Induista Italiana);
✔ nel Tempio maggiore [sinagoga] nel
ghetto ebraico di Roma (con Anna
50
E
I
G I O R N I
Ascarelli Blayer Corcos, Comunità
Ebraica di Roma).
Ed infine l’incontro con Maria Coscia,
assessore alle politiche educative scolastiche del Comune di Roma (nello sfondo
delle ‘cupole’ della sinagoga e delle chiese
cattoliche romane) che spiega le finalità
del Tavolo interreligioso: riconoscere che
«le religioni sono una parte importante
delle culture di ciascun paese» ed educare
gli studenti al dialogo tra le culture e le
religioni.
Il DVD permette di percepire alcune
quotidianità religiose di queste comunità e soprattutto alcuni elementi che
spiegano le gestualità delle preghiere e le
simbologie dei luoghi, motivando il tutto con gli elementi che caratterizzano le
loro religioni. Queste ‘presentazioni’ si
prestano molto bene ad una introduzione ad un approfondimento sui diversi
ambiti che il DVD presenta, stabilendo
comparazioni e rintracciando elementi
dialogici. All’insegnante di religione e al
docente di arte il compito di far immaginare e documentare (con qualche visita o con un percorso iconografico adeguato) gli elementi che caratterizzano
(pur nella loro diversità stilistica e culturale) i luoghi di culto dei cristiani cattolici.
Ho già sperimentato (nel biennio di un
Liceo Scientifico) l’utilità di questo DVD:
funziona e permette anche di proporre
attività e suscitare domande e problematiche da parte degli studenti obbligando
spesso il docente di religione a studiare
‘con più contemporaneità’ i credenti appartenenti a quelle religioni che spesso i
libri di testo (e non solo quelli di religione) lasciano apparire come lontane nel
tempo e circoscritte ad aree geografiche
lontane da noi. Invece tutti siamo presenti in mezzo a tutti.
L E
O P E R E
Il nostro collega di
IRC, il prof. Dario
De Santis, con gli
studenti della classe
2E del Liceo-Ginnasio “Dante Alighieri”, nell’ambito del
tema proposto dal
Tavolo interreligioso
“I luoghi di culto
nelle diverse religioni” per l’anno scolastico 2004-05 ha presentato al suo Istituto un progetto interessante che gli è stato approvato e finanziato.
Ora quel progetto è una realtà. È un DVD
con due filmati, differenti tra loro solo per
la presenza o meno di sottotitoli chiarificatori delle immagini. Il primo filmato, con
sottotitoli, tende a coinvolgere soprattutto
la sfera cognitiva dello spettatore, il secondo, senza sottotitoli, privilegia la sfera sensibile ed emotiva. Questo DVD è stato presentato al Tavolo interreligioso del Dipartimento delle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, ricevendone
Paolo Aragona, Il sorriso
del cuore, Newton Compton Editori, Roma 2006,
pp. 142, ISBN 88-5410604-6, € 7,90.
Walter Veltroni, che presenta questo romanzo, lo
definisce «la storia di un
atto d’amore». È la storia
della scoperta di se stessi mediante un’esperienza
di adozione, quindi della scoperta di «una nuova visione dell’esistenza, quella di poter amare
anche a distanza, di amare chi vive in realtà diverse». Il romanzo esemplifica e racconta le
maggiori tematiche che l’adozione a distanza
porta con sé: «il desiderio della solidarietà che è
nel cuore di ognuno ma che convive, spesso,
con il desiderio della gratificazione; il senso del
possesso che si prova nei confronti di chi si aiuta; la tentazione che si ha di diventare artefici
E
I
G I O R N I
un vivo apprezzamento. Le riprese avevano
tre ambiti di interesse:
✔ immagini del culto dal vivo
✔ il rito e il comportamento rituale dei
credenti
✔ la musica sacra delle diverse tradizioni
religiose.
Perciò il titolo del DVD opportunamente è
“L’uomo e il tempio. Tra parole, silenzi e
musica. Un viaggio tra vecchi e nuovi culti
nella capitale del cattolicesimo”.
La scelta delle religioni si è basata su di un
criterio cronologico relativo alla presenza e
all’arrivo delle diverse fedi a Roma: Ebrei,
Cristiani di confessione e tradizione cattolica, valdese, luterana, Testimoni di Geova,
Cristiani ortodossi, Bahai, Musulmani,
Hare Krishna, Buddisti di tradizione tibetana, Buddisti giapponesi di tradizione
Soka Gakkai, Sikh, Buddisti della comunità cinese di Roma.
Il DVD può essere richiesto al nostro collega
([email protected]), che è anche disponibile a condividere le esperienze e quindi a facilitare realizzazioni di progetti simili.
della vita degli altri e di colonizzane il cuore».
Aragona costruisce una storia breve (70 pagine)
e – da buon insegnante – la rende leggibile anche alla luce di «materiali per la riflessione e l’approfondimento» (a cura del prof. L.O. Rintallo)
didatticamente finalizzati per ognuno dei sette
capitoli del romanzo con spunti di riflessione e
approfondimenti disciplinari. Un’ottima idea
che documenta il romanzo esemplificando e
spiegandone il contesto storico, culturale ed interdisciplinare. Valorizzando ancor più le parole
e la storia fino a rendercelo meno romanzo e più
realtà. Come ulteriore espressione dell’amore che
Aragona pratica per l’Africa e i suoi abitanti, ha
completato questa polivalente pubblicazione con
«La nostra Africa. Breve guida cinematografica
con 35 schede di film» (a cura del giornalista G.
Maritati). In appendice la scheda di “Ostia per
l’Africa”, il Coordinamento giovanile nato nel
2004 per volontà del “Gruppo studentesco di
iniziativa sociale” del Liceo scientifico “A. La51
L E
O P E R E
briola” di Ostia, dove insegna il prof. Aragona.
Ed infine, utili indirizzi e siti web delle organizzazioni promotrici di ‘Ostia per l’Africa’ e altre
organizzazioni impegnate per il Malawi.
La pubblicazione (più che soltanto un romanzo) permette agli insegnanti (e non solo di IRC)
di avere a disposizione strumenti e linguaggi diversi ma tutti globalizzati e finalizzati a creare –
soprattutto a scuola – opportunità di conoscenza e di amore per gli africani e di sostegno per i
volontari e i missionari che nelle terre del “continente di Gesù Cristo” si fanno operatori di pace e di giustizia. Per saperne di più, vedi l’articolo della rubrica Incontri romani (pp. 59-60).
È stato pubblicato il Catalogo della Terza Rassegna
internazionale di illustrazione per l’infanzia che abbiamo recensito nell’ultimo numero 4 del 2005. Il
tema è quello dell’acqua.
Le pagine del catalogo
raccolgono le illustrazioni
(a tutta pagina) in mostra
con una scheda biografica per ciascuno dei 63
artisti. Le immagini sono belle, comunicative,
coinvolgenti, particolari ed originali. Gli ideatori
della mostra (M. Maggio e A. Nante) presentano la rassegna e gli illustratori. Presenti altri contributi come quello di E M. Gallizoli (fenomenologo della religione) che propone una breve
scheda de L’acqua nelle religioni. Il formato del
catalogo è 21x28,5, copertina in brossura, pubblicato da Edizioni Messaggero di Sant’Antonio,
Basilica del Santo, via Orto Botanico, 17, 35123
Padova.2005, 207 pagine, € 25,00, ISBN 88250-1709-X.
Cuadernos de pedagogía
è una importante rivista
di pedagogia, che quest’anno celebra il suo
31° anno di pubblicazione. Edita a Barcellona, documenta e rileva
anche le attività delle altre regioni della Spagna.
52
E
I
G I O R N I
È una rivista mensile, di ben 118 pagine
(ogni numero costa 7,5 euro), edita da CISSPRAXIS (www.praxis.es) che appartiene al
Gruppo Editorial Wolters Kluwe, un’azienda
editoriale presente in 25 paesi che realizza
pubblicazioni in campo educativo, scientifico, medico, formativo… La rivista è stampata in tre colonne, facilitando così la lettura
(eccetto il dossier sul tema del mese che è in
due colonne). È scritto in uno spagnolo molto accessibile, chiaro e semplice, nonostante
la complessità di alcune problematiche pedagogiche. La rivista si articola in diverse sezioni tra le quali una parte rilevante è riservata
alle esperienze didattiche ed ai progetti educativi, e al tema del mese. Attualità, reportage, agenda dei convegni e delle attività nazionali, così come spazi per le opinioni e un notevole e speciale spazio per la recensione di
libri e strumenti didattici.
Cuadernos de pedagogía ha come destinatari i
docenti e gli operatori della scuola, dalla
Educazione infantile (0-6 anni, distinta in
due cicli da 0-3 a 3-6), all’Educazione primaria (da 6 a 12 anni suddivisa in 3 cicli),
alla ESO (Educazione secondaria obbligatoria, dai 12 ai 16 anni suddivisa in due cicli,
dai 12-14 ai 14-16 anni) ed infine al Bachillerato (dai 16 ai 18 anni) che dà luogo al titolo di Bachiller (maturo). Gli argomenti e le
tematiche proposte sono quelle che ogni docente si augura di leggere: perciò la rivista risponde bene ai bisogni professionali degli insegnanti. A differenza di altre riviste (anche
italiane) Cuadernos de pedagogía non presenta
materiali didattici immediatamente fruibili
(non è una rivista didattica), bensì propone
studi, opinioni, esperienze e quanto di professionalmente utile al docente. Gli autori
sono qualificati come docenti universitari,
ma anche maestri e docenti che ogni giorno
vivono la loro professione in classe con gli
studenti. Nei numeri consultati manca una
qualche presenza di riferimento ai problemi
pedagogici dell’insegnamento della religione.
Le immagini sono fotografiche ma anche illustrazioni e disegni dei bambini, a volte
molto efficaci.
R I P R E S E
&
D E T T A G L I
La Bella e la Bestia,
di Gary Trousdale (Usa 1991)
di Andrea Monda
Ecco un altro film che si rivela davvero efficace, all’interno di un corso di religione cattolica nelle classi medie superiori (ma suppongo anche in quelle inferiori), in particolare per introdurre gli studenti ad un tema
che è il tema del cristianesimo: la carità.
Come ha ben evidenziato la prima enciclica
di Benedetto XVI, la carità non è un argomento ma è l’essenza, il cuore stesso del
messaggio cristiano perché Deus Caritas est.
Non si può quindi eludere, nei cinque anni
di corso, un continuo ritornare su questa dimensione, davvero essenziale, della religione
cattolica.
Un prezioso ausilio per impostare e sviluppare il discorso cristiano sulla carità è la pellicola realizzata dalla Disney nel 1991, sotto
forma di cartone animato (dopo la prima
versione di Jean Cocteau del 1946 con Jean
Marais) che riprende l’antica e famosa favola
francese.
Ausilio prezioso per una serie di motivi: il
film rappresenta una delle ultime migliori
pellicole della Disney, per bellezza dei disegni e delle musiche (2 premi Oscar per colonna sonora e canzone) e, soprattutto, la
maggior parte degli studenti conoscono bene il film per averlo visto, magari qualche
anno prima, in VHS o DVD (inoltre è molto facile procurarsene una copia in uno dei
suddetti supporti). Del resto è uno di quei
film (un altro è Men in black, già presentato
in questa rubrica, vedi n. 2/2005) che, proprio perché è perfettamente noto agli studenti, non necessita di una nuova visione in
classe, ma può essere illustrato e spiegato
puntando solo sulla memoria della classe; in
questo film non c’è infatti una sequenza particolare, una scena-chiave (come nel caso di
Galline in fuga, vedi n. 1/2006) ma il tema
della carità, che qui è ciò che si vuole illuminare e sviluppare, emerge prepotentemente
da tutto il racconto e il senso della storia. La
carità è, in qualche modo, la cosiddetta
“morale della favola”; come già detto, infatti,
qui ci troviamo di fronte ad una favola classica, con tanto di morale.
n n n
Innanzitutto, la favola…
I giovani studenti delle classi medie superiori,
al contrario dei loro genitori e dei loro nonni,
hanno per lo più perso il contatto con il
mondo delle favole e con l’oralità del racconto, peculiarità fondamentale di quel mondo.
Se conoscono alcune favole non è perché
qualcuno, in famiglia, gliel’ha raccontate ma
proprio grazie alla continua riproposizione in
versione animata della Disney. Non è molto
(si perde davvero tanto senza la dimensione
orale-relazionale della narrazione), anche perché la “commercializzazione” operata dalla
Disney di questi testi è senz’altro “pesante”,
ma comunque è qualcosa. Su questa piccola
base si può costruire un discorso, una riflessione. Importante è riuscire a trasmettere l’aspetto più bello del mondo delle favole: la
meraviglia. Su questo tema hanno scritto pagine mirabili due scrittori inglesi, entrambi
molto apprezzati, tra l’altro, da Giovanni
53
R I P R E S E
Paolo II e da Benedetto XVI: Gilbert Keith
Chesterton e Clive Staple Lewis. Più modestamente anch’io mi faccio aiutare dalle intuizioni di questi due grandi scrittori per stimolare la riflessione degli studenti.
In particolare Chesterton, nel suo capolavoro, Ortodossia, afferma molto acutamente:
«…tutti amano le novelle meravigliose perché esse toccano la corda di un antico istinto
del meraviglioso, ciò è provato dal fatto che
nella primissima infanzia non abbiamo
nemmeno bisogno delle novelle delle fate, ci
bastano le novelle. La vita per se stessa ci pare interessante. Un bambino di sette anni si
entusiasma a sentir dire che Tommy aprì
una porta e vide un dragone; un bimbo di
tre anni si entusiasma solo a sentir dire che
Tommy aprì una porta. I ragazzi amano le
novelle romanzesche; i bambini amano
quelle realistiche perché le trovano romanzesche. Infatti soltanto a un bambino, io credo, si potrebbe leggere un romanzo realistico moderno senza annoiarlo. […] Una novella delle fate non è più o meno bella perché possano esserci più dragoni che principesse; è bella perché è una novella. La misura di ogni felicità è la riconoscenza. Tutte le
mie convinzioni sono rappresentate da un
indovinello che mi colpì fin da bambino.
L’indovinello dice: che disse il primo ranocchio? La risposta è questa: “Signore come mi
fai saltare bene”. In succinto c’è tutto quello
che sto dicendo io. Dio fa saltare il ranocchio e il ranocchio è contento di saltellare».
Forse sta qui il segreto del famoso ammonimento di Cristo: “se non diventerete come
bambini non entrerete nel regno dei cieli”. I
bambini si meravigliano e vivono tutto con
stupore e gratitudine. Che cos’è questo atteggiamento se non la fonte da cui nasce
quel capolavoro della poesia e della spiritualità che è Il Cantico delle Creature di San
Francesco d’Assisi?
Il cristiano, la cui fede è basata sull’annuncio della Buona Novella, non può non ama54
&
D E T T A G L I
re la dimensione delle novelle meravigliose,
del racconto e della (sana) fantasia. È una
dimensione, quella del racconto, primigenia
nell’uomo, in cui l’uomo ritrova se stesso
amando egli sempre raccontare e ascoltare
storie (per questo aspetto mi permetto di
rinviare al mio precedente articolo sul film
Big Fish in RSC n. 3/2005). Mi sembra
quindi già importante, attraverso la lettura o
la visione di testi come questo de La Bella e
la Bestia, far riassaporare il gusto del racconto meraviglioso ai ragazzi, un gusto che
spesso viene erroneamente associato alla dimensione dell’infanzia (e quindi poi abbandonato). È invece una dimensione fondamentale quella della meraviglia, al punto che
lo stesso Chesterton affermava: «Il mondo
non finirà perché finiranno le meraviglie,
ma perché finirà la meraviglia».
n n n
… e la sua morale.
Un altro aspetto molto importante delle favole è quello del significato morale. Ogni favola
che si rispetti ha la sua bella morale. Nel citato saggio Ortodossia c’è un capitolo, il quarto,
che l’autore intitola esplicitamente La morale
delle favole e ad un certo punto vi leggiamo:
«Le cose in cui ho sempre creduto di più sono le novelle delle fate: che a me sembrano
essere cose interamente ragionevoli. Il paese
delle fate non è altro che il soleggiato paese
del senso comune. Abbiamo la lezione di Cenerentola; che poi è la stessa del Magnificat:
“exaltavit humiles”. Abbiamo la famosa lezione della Bella e la Bestia: una cosa deve essere
amata prima di essere amabile».
Perfetta definizione della morale de La Bella e
la Bestia. Ricordiamo tutti la trama della favola:
Bella si sacrifica per il padre, caduto prigioniero nel castello della Bestia e, sostituendosi a lui, comincia a convivere con il mo-
R I P R E S E
struoso padrone dell’antico maniero maledetto da un odioso sortilegio. La presenza di
Bella esercita un effetto sul suo ospite che
pian piano, si addolcisce e rivela, sotto e oltre le orribili sembianze, un’intelligenza e soprattutto un cuore umano. Purtroppo le apparenze spesso creano le condizioni favorevoli per la crescita e la diffusione della diffidenza, del pregiudizio e della discriminazione e quindi nel finale della storia gli abitanti
del villaggio si uniscono per cacciare la Bestia e finiscono per ucciderlo. Un bacio d’amore di Bella farà rinascere la Bestia che rivelerà il suo vero aspetto (ovviamente bello e
aitante).
I temi e le suggestioni che emergono da
questa storia sono molteplici: l’amore vicario
di Bella nei confronti del padre; la capacità
dell’amore di andare oltre i pregiudizi; il
conflitto tra relazioni vere e profonde da una
parte, e dall’altra la paura che porta alla diffidenza e alla discriminazione; l’amore che
supera la violenza e la morte.
Ognuno di questi meriterebbero una discussione a se stante, ma in questa sede è forse
opportuno soffermarsi sul tema principale,
così come ben evidenziato dalla frase di
Chesterton, il tema della carità: «…una cosa
deve essere amata prima di essere amabile».
Viene in mente la frase del vangelo di Giovanni: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto
voi» (Gv 15,16). L’amore cristiano, o agape, è
riconoscere l’amore “primario” di Dio per
l’uomo e ricambiare a quel dono d’amore.
Come ha affermato Benedetto XVI nella sua
prima enciclica: «Egli per primo ci ha amati e
continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore. Dio
non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo
“prima” di Dio, può come risposta spuntare
l’amore anche in noi» (n. 17).
È questa la dinamica della carità, ben rappresentata dalla favola della Bella e la Bestia
&
D E T T A G L I
e ben spiegata dal già citato C.S.Lewis, altro
grande scrittore inglese (oggi molto noto
grazie alla trasposizione cinematografica,
sempre marca Disney, del suo best-seller Le
Cronache di Narnia), “allievo spirituale” di
Chesterton, che nel suo saggio Il cristianesimo così com’è afferma che «Il cristiano pensa
che ogni azione buona da lui compiuta scaturisca dalla vita di Cristo che è in lui; non
pensa che Dio ci ami perché siamo buoni,
ma che Dio ci rende buoni perché ci ama,
proprio come il tetto di una serra non attira
il sole perché è luminoso, ma è luminoso
perché il solo ci sbatte sopra» e in un altro
saggio, I 4 amori, distingue l’amore-naturale
da quello soprannaturale e osserva che:
«…l’“amore dono” naturale è diretto sempre
verso oggetti che l’innamorato considera intrinsecamente amabili… Ma il divino “amore dono” che è nell’uomo gli permette di
amare ciò che, per sua natura, non è amabile: i lebbrosi, i criminali, i nemici, gli imbecilli, i burberi, chi si atteggia a uomo superiore, chi si fa beffe del prossimo”.
È la situazione della favola: la Bestia è tutto
fuorché “amabile”, assomiglia piuttosto molto ad un lebbroso, un criminale, un nemico.
«Amate i vostri nemici»: l’esortazione di Cristo, risuona con tutta la sua saggezza paradossale. È questo il senso ultimo della vicenda narrata dal film. Bella è ospite-prigioniera
di un “nemico”, di un mostro che stava per
uccidere il padre. Ma ecco che spunta l’amore, l’amore-dono divino, la carità. Un amore
che cambia il cuore dell’uomo, lo converte.
n n n
Amore, conversione e paura
Al naturale sentimento di paura che l’assale,
Bella risponde con l’amore soprannaturale e
così facendo apre una breccia nella dura (e
mostruosa) corazza che ricopre il cuore della
Bestia, induritosi in tanti anni di emargina55
R I P R E S E
zione e discriminazione subite da tutto le
persone che lo hanno avvicinato. L’amore di
Bella pian piano compie il miracolo e rende
amabile la Bestia. Questo processo nel film è
bene evidenziato quando il regista fa vedere
i tentativi della Bestia di rendersi piacevole
agli occhi di Bella. È la scena del “corteggiamento” di Bella da parte della Bestia, che il
regista condisce con scene piene di humour,
come quando si vede la Bestia che davanti
allo specchio adorna la sua folta criniera con
fiocchetti azzurri e rosa e altre amenità. Ma
oltre il sorriso c’è in controluce una profonda verità: amore produce amore, ricevere l’amore porta a donarlo, a restituirlo. Come
dice il Papa, ecco che “spunta” l’amore in
noi, una volta che ci rendiamo conto dell’amore di Dio che si riversa, di continuo, sulla
nostra persona, sulla nostra esistenza. Non è
un processo semplice, e l’esito non è facile
né scontato, come viene bene rappresentato
dal finale tragico della storia. La stessa dialettica della carità non mette l’uomo al sicuro dalle “ferite” della vita. Come osserva
sempre C.S. Lewis nel suo saggio, la carità è
qualcosa di così grande che mette in crisi
l’uomo: «Noi desideriamo essere amati per
la nostra intelligenza, bellezza, generosità,
belle maniere, utilità. Non appena ci accorgiamo, invece, che qualcuno di sta offrendo
il più alto di tutti gli affetti – la carità – siamo colti da un autentico malore… In una
situazione simile, ricevere è più duro e forse
più santo che non donare… Chiunque abbia dei buoni genitori, una buona moglie o
marito, o dei bravi figli, potrà essere sicuro
che, in determinate circostanze – magari anche per sempre, per quanto riguarda un suo
particolare atteggiamento o abitudine – egli
è oggetto di carità, e non amato perché amabile, ma perché colui che è l’amore stesso è
nel cuore di chi lo ama».
La carità è pura gratuità, è amore senza un
motivo, senza un perché. Ed è proprio per
questo che solo la carità permette un cam56
&
D E T T A G L I
biamento nell’uomo e nella sua storia, che
mette in moto un processo di conversione.
La Bestia, ancora prima della magica trasformazione finale, è già trasformato, meglio dire “trasfigurato” dall’amore di Bella. Egli è
più gentile e umano, prima ancora di diventare umano anche nelle fattezze fisiche. Come a dire, già prima del Paradiso, l’uomo
già sulla terra si trova in un cammino di lenta e continua conversione e trasfigurazione.
Un cammino che può procedere solo “a colpi d’amore”. Bella è colei che “colpisce” la
Bestia al cuore, in profondità, e avvia il suo
processo di purificazione e santificazione.
Tutto questo è più chiaro se si confronta il
comportamento di Bella con quello degli altri abitanti del villaggio. Questi non amano
“per primi” come fa Bella e non si possono
rendere quindi conto della trasformazione
della Bestia. Non vedendo la “bellezza” nascosta nella bestia essi rispondono alla mostruosità fisica della Bestia con la loro mostruosità spirituale e con la loro chiusura interiore. Si chiudono a causa della paura e
vorrebbero chiudere fuori dal proprio piccolo cuore la Bestia, eliminandola del tutto.
Interpellati dall’altro, dal diverso (e quanto è
“diverso” la Bestia!), rispondono cedendo alla paura e al sospetto, generando pregiudizi
e violenza. Essi cedono al primo e al più forte sentimento che la vista della Bestia provoca, la paura.
n n n
Amore oltre il sentimento
La favola de La Bella e la Bestia è un testo
infine che permette una riflessione su due
aspetti legati al concetto di amore che qui
esprimerò in termini estremamente sintetici:
1) l’opposto dell’amore non è l’odio ma la
paura; 2) l’amore non è un sentimento.
Sul primo punto, la vicenda di Bella è esemplare: la giovane ragazza, all’inizio della vi-
R I P R E S E
cenda, nelle segrete del tenebroso castello di
proprietà dell’orribile Bestia, si trova nella
situazione in cui lo scontro con la (comprensibile) paura è estremo. Solo un atto di
volontà, che si concretizza in un atto di fiducia, apertura, speranza, può farla uscire
dalla paralisi della paura. È l’atto che non
viene compiuto dagli abitanti del villaggio,
che si lasciano trasportare dal sentimento
della paura che finisce, inevitabilmente, per
sfociare nell’odio violento. Quando affronto
questo discorso con i ragazzi vedo che “faccio colpo”. Anche se essi alla mia domanda
«Qual è l’opposto dell’amore? » rispondono,
istintivamente, «l’odio!», poi si rendono subito conto che atteggiamenti come l’indifferenza e la diffidenza sono segnali di una
chiusura peggiore. Da qui spesso nasce una
riflessione (che si allarga anche nella dimensione sociale) sul tema della paura e l’ignoranza come fonti su cui crescono i cattivi
frutti del sospetto e del pregiudizio. Anche
qui seguire il filo della storia raccontata nel
film può essere di grande aiuto.
Infine, in alcuni casi, si può arrivare ad affrontare un tema davvero difficile; mi riferisco al secondo punto: l’amore non è (solo)
un sentimento, ma, appunto, come appena
detto, un atto di volontà, di fiducia, di affidamento concreto, impegnativo, stabile.
Ritroviamo tale affermazione, apparentemente paradossale, anche nella enciclica del
Papa Deus Caritas est. In particolare, dice
Benedetto XVI che la fede cristiana non nasce da una grande idea o da una filosofia,
ma dall’incontro con Gesù e «nello sviluppo
di questo incontro si rivela con chiarezza che
l’amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può
essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma
non è la totalità dell’amore» (n. 17).
Questo è, ovviamente, un durus sermo, un
discorso duro per le orecchie dei nostri studenti adolescenti, un’età in cui la sfera sentimentale e affettiva sembra essere quella asso-
&
D E T T A G L I
lutamente prevalente. Inoltre il mondo in
cui sono immersi (la società contemporanea,
dominata dai mass-media e dal loro linguaggio per immagini, spesso superficiale e semplificatore) è un mondo che esalta e assolutizza la sfera puramente interiore e sentimentale, creando spesso non pochi problemi
a livello relazionale. Anche per questo è un
discorso che vale la pena fare, lasciandoci
guidare anche dalle immagini della favola
nonché dalle preziose parole del Santo Padre: le prime e le seconde si muovono efficacemente in parallelo.
«L’incontro con le manifestazioni visibili
dell’amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall’esperienza
dell’essere amati» scrive Benedetto XVI ed è
facile riscontrare questi concetti con le immagini della Bestia, «sorpreso dalla gioia» (è
il titolo della splendida autobiografia di C.S.
Lewis), colto in contropiede dall’esperienza
di essere amata per la prima volta nella vita.
«Ma tale incontro» avverte il Papa, «chiama
in causa anche la nostra volontà e il nostro
intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente
è una via verso l’amore, e il sì della nostra
volontà alla sua unisce intelletto, volontà e
sentimento nell’atto totalizzante dell’amore.
Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai
“concluso” e completato; si trasforma nel
corso della vita, matura e proprio per questo
rimane fedele a se stesso. Idem velle atque
idem nolle – volere la stessa cosa e rifiutare la
stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico contenuto dell’amore: il diventare l’uno simile all’altro, che
conduce alla comunanza del volere e del
pensare. La storia d’amore tra Dio e l’uomo
consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di
pensiero e di sentimento e, così, il nostro
volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per
me una volontà estranea, che i comanda57
R I P R E S E
menti mi impongono dall’esterno, ma è la
mia stessa volontà, in base all’esperienza che,
di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo
sia io stesso. Allora cresce l’abbandono in
Dio e Dio diventa la nostra gioia. Si rivela
così possibile l’amore del prossimo nel senso
enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e
con Dio, anche la persona che non gradisco
o neanche conosco» (ancora il n. 17).
È la situazione descritta nella Bella e la Bestia: Bella finisce per amare una persona che
non conosce e tantomeno gradisce, una persona per nulla “gradevole”. In fondo ogni
storia d’amore umana nasce dall’incontro tra
due persone che fino a quel momento non
si conoscono (quando non capita che i due
già si sono conosciuti e, come si suol dire,
“cordialmente detestati” – ogni volta che
faccio questa battuta c’è sempre qualche studente che mi racconta di essere ora fidanzato con una persona che fino a qualche tempo prima trovava insopportabile).
Ma come può accadere questo miracolo
dell’amore? Ci suggerisce il Papa che :
«Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che
è diventato comunione di volontà arrivando
fino a toccare il sentimento. Allora imparo
a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù
Cristo». È quello che fa Bella con la Bestia,
lo guarda con gli occhi del cuore. Continua
l’enciclica: «Io vedo con gli occhi di Cristo
e posso dare all’altro ben più che le cose
esternamente necessarie: posso donargli lo
sguardo di amore di cui egli ha bisogno.
Qui si mostra l’interazione necessaria tra
amore di Dio e amore del prossimo, di cui
la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto con Dio manca
del tutto nella mia vita, posso vedere nell’altro sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina. Se però
58
&
D E T T A G L I
nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente “pio” e compiere i miei “doveri religiosi” allora s’inaridisce anche il rapporto
con Dio. Allora questo rapporto è soltanto
“corretto”, ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo,
a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa
per me e su come Egli mi ama. I santi –
pensiamo ad esempio alla beata Teresa di
Calcutta – hanno attinto la loro capacità di
amare il prossimo, in modo sempre nuovo,
dal loro incontro col Signore eucaristico e,
reciprocamente questo incontro ha acquisito il suo realismo e la sua profondità proprio nel loro servizio agli altri. Amore di
Dio e amore del prossimo sono inseparabili,
sono un unico comandamento. Entrambi
però vivono dell’amore preveniente di Dio
che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di un “ comandamento” dall’esterno
che ci impone l’impossibile, bensì di un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un
amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L’amore cresce attraverso l’amore. L’amore è “divino”
perché viene da Dio e ci unisce a Dio e,
mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a
che, alla fine, Dio sia “tutto in tutti” (1Cor
15, 28)» (n. 18).
Ho lasciato, volentieri, ampio spazio alle parole del Papa perché, in modo semplice e
profondo, sintetizzano molto efficacemente
il senso di tutto il discorso che scaturisce
dalla visione di un film come La Bella e la
Bestia, altrettanto semplice e profondo. L’amore è sempre “primo”, precede ogni altra
attività o conoscenza umana; solo se si dona
e si riceve l’amore si può amare a propria
volta e diventare amabili, come la famosa e
antica favola francese felicemente dimostra.
I N C O N T R I
R O M A N I
Ostia per l’Africa
di Paolo Aragona
naria”, sia per le garanzie che poteva offrire a liIl Coordinamento giovanile “Ostia per l’Africa”
vello di fattibilità e di trasparenza nei progetti
è nato nel 2004 per iniziativa del “Gruppo stuche per le possibilità che una struttura associatidentesco di iniziativa sociale” del Liceo scientifiva come una Onlus può garantire in termini
co “A. Labriola” di Ostia, gruppo fondato nel
amministrativi.
1998 da don Franco De Donno, viceparroco di
Lo scopo principale che il Coordinamento si è
S. Monica, a Ostia Lido, e docente di religione
prefissato sin dalla prima riunione costitutiva
presso l’Istituto. L’idea di fare qualcosa di “spedel giugno 2004 è quello di aggregare le diverse
ciale” per l’Africa a partire dalle varie esperienze
iniziative che sul territorio si occupano dell’Ache già sul territorio del XIII Municipio venivafrica per avvicinare l’intera realtà territoriale di
no portate avanti per il continente più povero
Ostia al continente africano, ai suoi valori culdel mondo, è nata nell’aprile 2004 su suggeriturali e alle sue problematiche sociali ed economento del sindaco Veltroni che, in occasione
miche. Per manifestare nella concretezza questa
della manifestazione Italia-Africa, avvicinato da
attenzione alle esigenze
don Franco e dagli studi una realtà così didenti del suo gruppo,
Il prof. Paolo Aragona, IdR presso il Liceo
versa e così drammatiha invitato i ragazzi a
scientifico “A. Labriola” di Ostia Lido, ci
camente provata è stariprodurre in piccolo
presenta le iniziative del coordinamento
to lanciato il primo
nel loro quartiere
giovanile “Ostia per l’Africa”, che stanno
progetto e cioè la reaquanto a Roma si stava
consentendo la costruzione di una scuola
lizzazione di una scuofacendo in grande stile.
in Malawi, ma soprattutto sono riuscite a
la primaria a Matola,
L’invito, piuttosto che
coinvolgere centinaia di ragazzi di Ostia
villaggio del distretto
spaventare, ha prodotin un progetto missionario di alto profilo.
di Balaka, nello stato
to una risposta immedel Malawi. Il Malawi
diata e i giovani si sono
è uno dei paesi più poveri del mondo dove la
messi all’opera per individuare le realtà più impiaga dell’Aids ha prodotto, su una popolazione
portanti che avrebbero potuto appoggiare ed ardi 12 milioni di abitanti, più di un milione di
ricchire un progetto che all’inizio aveva solo tanorfani. La scelta del Malawi e, nello specifico,
to entusiasmo ma un nome e un programma
del distretto di Balaka non è casuale. Infatti socerti: “Ostia per l’Africa”.
no più di trent’anni che l’Associazione “SeconLa prima organizzazione che è stata contattata
da Linea Missionaria” opera per il territorio del
per la sua lunga esperienza di solidarietà con
Malawi mediante la realizzazione di numerosi
l’Africa è stata l’Associazione “Seconda Linea
progetti (asili, scuole, dispensari, pozzi) e l’iniMissionaria” – Onlus, da quasi 40 anni gruppo
ziativa primaria delle adozioni a distanza (fino
missionario della Parrocchia di S. Monica, parad oggi circa 1700 orfani sono stati adottati atrocchia sin dal 1982 gemellata con la Diocesi di
traverso l’associazione parrocchiale).
Mangochi, in Malawi. Insieme all’Associazione
Il costo della struttura, comprensivo di otto auOnlus, ai gruppi giovanili della Parrocchia, alla
le, arredo scolastico e abitazioni per gli insesezione locale della Comunità di S. Egidio, il
gnanti (obbligatorie per legge in quanto la moGruppo studentesco d’Iniziativa Sociale del Libilità in Malawi è estremamente difficile per la
ceo Labriola ha deciso di fondare un’associaziocondizione delle strade e per l’inesistenza di
ne di fatto che avesse come referente per i promezzi pubblici) è stato quantificato in 125 mila
getti concreti in Africa “Seconda Linea Missio59
I N C O N T R I
Euro. L’entità di tale somma
non ha scoraggiato i giovani,
che si sono messi subito all’opera per raccogliere i fondi nella
speranza di riuscirvi in non più
di due anni. Sono state messe
in cantiere, fin dall’inizio, moltissime iniziative di carattere
musicale, teatrale, culturale in
genere, espositivo. Tutta l’estate
del 2004 e la primavera e l’estate del 2005 sono
state un fiorire di occasioni per la raccolta del
denaro e, soprattutto, per la sensibilizzazione
della gente, poco abituata a vedere dei giovani
impegnare le loro energie e sacrificare il loro
tempo per un obiettivo che, ai più, sembrava
troppo arduo da raggiungere. Già alla fine dell’estate del 2005, il 31 agosto, i giovani del
Coordinamento hanno consegnato a P. Mario
Pacifici, parroco di Balaka, di ritorno con il
gruppo musicale “Alleluia band” del Malawi
dalla Giornata della Gioventù di Colonia, i primi 25 mila Euro. Dopo l’entusiasmo di quella
serata, tra canti e balli “fuori ordinanza”, con
davanti un solo anno per trovare gli altri 100
mila Euro, i giovani hanno stretto i ranghi e
con una concretezza fuori dal comune hanno
cominciato a coinvolgere, senza timidezza, tutte
le realtà del territorio che man mano venivano
loro a tiro. Politici di ogni schieramento, uomini e donne di spettacolo, imprenditori. E così
sono cominciate a venir fuori mille altre occasioni. È stato stipulato un accordo con la società “Latte di Nepi” che ha accettato di inserire
sulle proprie confezioni di latte il logo di “Ostia
per l’Africa” che corrisponde, per ogni litro, a
una donazione di 15 centesimi. È stato coinvolto il cantante Marco Masini
che ha devoluto parte del ricavato del concerto tenuto
ad Ostia lo scorso mese di
aprile. È stato prodotto e
commercializzato il CD Musicale Volo libero con canzoni
composte e cantate dai giovani della Parrocchia di S.
Monica, che sono anche stati
60
R O M A N I
ospiti della trasmissione “Buona Domenica”.
Tutte queste occasioni più la
generosità dei bambini che rinunciavano ai regali di prima
comunione, degli sposi che inserivano “Ostia per l’Africa” e
la scuola di Matola nella propria lista di nozze, hanno portato, in meno di un anno, a superare gli 80 mila Euro. Un’ultima iniziativa
dalla quale si sperano, con il contributo di tutti,
di ricavare parte dei prossimi 45 mila Euro è la
pubblicazione e la distribuzione di un romanzo
sull’adozione a distanza dal titolo Il sorriso del
cuore edito dalla Newton & Compton e già in
libreria (vedi la recensione a p. 51).
La speranza è che nel mese di ottobre 2006,
quando i giovani del Gruppo studentesco del
Labriola con alcuni rappresentanti del Coordinamento e con il loro caro don Franco, andranno in Malawi insieme al sindaco Veltroni per
inaugurare la scuola, già oggi a buon punto, subito venga rilanciata un’altra occasione d’intervento che, nella consapevolezza del bene fatto,
possa decollare da Ostia per atterrare in Africa
sulle ali dello stesso entusiasmo che sta per consentire ai bambini di Matola, fino ad oggi privi
di una scuola, di sognare un futuro possibile.
Ma anche il Coordinamento “Ostia per l’Africa”, grazie a ragazzi di buona volontà, a una
scuola aperta al quartiere, a dirigenti scolastici
“illuminati” e a una Chiesa locale che sa integrarsi col territorio e relazionarsi con le realtà
istituzionali, è stato ed è il frutto di un sogno,
quello dei tanti che hanno creduto e profondamente ancora credono che c’è spazio per la speranza perché il cuore dell’uomo, anche se qualcuno vorrebbe far loro credere il contrario, è ancora capace di
progettare amore.
Per approfondire:
www.ostiaperlafrica.it
www.lineamissione.com
A
C L A S S I
A P E R T E
I disturbi
dell’apprendimento
della lettura
Massimiliano Ferragina e Caterina Basile
dando luogo alla difficoltà che cercheremo
Gli adulti, ad un certo livello della propria
di trattare in questo piccolo spazio di spunalfabetizzazione, specie se tale livello è meti per la riflessione. Infatti non pretendiamo
diamente elevato, non leggono più ma,
di fornire gli strumenti per una “formaziosemplicemente, “vedono” le parole e immene” nell’ambito dei disturbi dell’apprendidiatamente le traducono in immagini, in
mento ma di suggerire riflessioni e strategie
concetti complessi, in astrazioni. Per questo
che rimandano, da un lato, ad approfondimotivo, probabilmente, non comprendiamenti ulteriori ,e
mo più come l’apdall’altro, a struttuprendimento della
Inauguriamo la rubrica «A classi aperte»,
rare interventi di cui
lettura sia determiche offrirà indicazioni e suggerimenti per
l’insegnante, se è un
nato da una serie di
la didattica dell’IRC nella scuola primaprofessionista, conofattori molto comcon
bambini
“difficili”.
ria,
in
particolare
sce bene le tecniche.
plessi che comprenIn questo primo contributo si affrontano i
dono, non solo la cadisturbi di apprendimento della lettura.
pacità di riconoscere
Nello specifico
il simbolo grafemico,
dell’IRC
ma di tradurlo in un suono, di correlarlo ad
Riconoscere il “disturbo di apprendimento
un altro grafema e quindi ad un altro suostrumentale della lettura” non è semplice,
no, che spesso non è semplicemente la
specie nei primi due anni della scuola prisomma dei due suoni ma dà come risultato
maria, in quanto condizionato dallo sviun fonema diverso; e, infine, comprendere
luppo della maturità intellettiva del bamche più fonemi correlati danno luogo un
bini che non sempre corrisponde all’età
insieme di suoni che rimandano ad un conanagrafica, ma segue percorsi del tutto
cetto che la nostra mente contestualizza e
personali. Ma, già nel primo biennio, un
colloca nell’ambito della propria esperienza
segno di tale disturbo può essere l’eccessirendendolo concreto pur nella sua molteva lentezza nella lettura (meno di tre grafeplicità (casa = villa, appartamento, capanna,
mi letti, al secondo, può essere un indipalazzo, ecc.).
zio). Una volta individuato il problema
Nei disturbi che riguardano l’apprendimencon l’intervento dello psicoterapeuta, si
to dei meccanismi della lettura, ad un qualpossono predisporre una serie di piccoli
che livello, tali correlazioni si inceppano
interventi.
61
A
C L A S S I
A P E R T E
Se il disturbo è significativo o se ci troviamo nella prima classe della scuola primaria,
una serie di piccoli esercizi di lettura con
parole collegate all’argomento che stiamo
trattando, riconoscibili per il loro rimando
al concetto, può servire per offrire all’alunno in difficoltà a “leggere” il significato prima che il significante, associandoli poi più
facilmente:
Esempio:
Gli esempi sopra riportati sono stati realizzati con la semplice tecnica del Paint, al
computer, ma nulla vieta al poliedrico insegnante di Religione Cattolica di avvalersi
delle proprie capacità pittoriche o di utilizzare schede già strutturate con poesie, filastrocche (la rima aiuta la memorizzazione),
piccoli testi dove la parola è affiancata dall’immagine. Con l’aiuto del computer e
delle ClipArt e un semplice lavoro di copiaincolla non sarà difficile realizzare quanto ci
serve.
Gli esempi riportati sia in questa pagina
che nelle due schede a p. 64 mettono in
evidenza come, con semplici interventi, si
possa permette al bambino con difficoltà
nell’apprendimento proprio della lettura di
inserirsi fattivamente nell’attività della classe senza sentirsi estraneo. Mantenendo questa struttura d’intervento si può rendere la
scheda offerta all’alunno sempre più complessa sostituendo alle semplici parole intere frasi, sempre accompagnate da immagini
esemplificative.
62
Non sempre è dislessia
Solitamente la prima reazione che si ha di
fronte ad un bambino con difficoltà nel
leggere è quella di considerare il problema
come dislessia perché magari risulta più facile intervenire avvalendosi dello specialista.
La dislessia è una deficienza sensoriale circoscritta, è una difficoltà ad organizzare dinamicamente precisi circuiti mentali. Il disturbo dell’apprendimento della lettura invece è da considerarsi un sintomo e può essere il risultato di un insegnamento errato,
di un insufficiente esercizio o di un superficiale lavoro a casa e comunque non sempre
sfocia nella dislessia. In questo caso anche
l’insegnante di religione può fare molto avvalendosi degli strumenti didattici e contenutistici a sua disposizione.
La lettura e l’IRC
La lettura, per l’insegnante di religione in
particolare, è importantissima. Spesso viene
sottovalutata. Con la lettura si aprono al
fanciullo mondi che altrimenti rimarrebbero esclusi alla sua conoscenza e, in alcuni
casi, vista la complessità dei contenuti, la
A
C L A S S I
lettura risulta lo strumento privilegiato per
la loro trasmissione, e ancora prima di essere un riconoscimento visivo delle lettere
dell’alfabeto è un atto mentale e come tale
suscita nel bambino una serie di reazioni a
catena nel suo immaginario e nella sua fantasia. Imparare a leggere vuol dire non solo
riconoscere, ma anche accettare e collegare i
segni (le lettere) che compongono le parole,
e sappiamo tutti quanto questo sia fondamentale per una disciplina come la nostra.
La lettura comunque rimane un processo
abbastanza complesso. Importante è per
l’insegnante di religione creare percorsi didattici specifici per il bambino che presenta
questo disturbo ma anche informarsi dai
colleghi del team su chi in classe presenta questo disturbo, evitando così di mettere l’alunno in difficoltà e soprattutto per adeguare i
contenuti della programmazione alle capacità del singolo apprendimento con unità
di apprendimento mirate al potenziamento
della lettura.
Si possono inoltre formare delle unità d’apprendimento strutturate in modo da far lavorare la classe o l’alunno su dei testi biblici
semplificati, con schede di lettura, dove le
parole sono affiancate da figure. In questo
modo si offre al bambino una griglia mentale interpretativa del rapporto tra la figura
e la relativa lettera. L’IRC come disciplina è
privilegiata in quanto lavora con una infinita gamma di segni, immagini e figure che
associandole alle lettere contribuisce all’apprendimento della lettura stessa.
Dal computer al laboratorio di lettura
Poiché abbiamo a disposizione una vasta serie di strategie didattiche finalizzate al superamento delle difficoltà dell’apprendimento
A P E R T E
della lettura, non dimentichiamo il computer come validissimo strumento. Visualizzare le lettere sullo schermo e leggerle creando
delle semplici sillabe che unite forniranno
la parola da associare al disegno, sembrerà
un gradevole gioco più che un percorso di
facilitazione dell’apprendimento. Possiamo
anche proporre agli alunni dei semplici giochi di anagrammi che gli consentono di
rendersi conto della funzione delle singole
lettere accompagnate da espressioni allegoriche o semplici giochi di pensiero che, come dei veri giocattoli, aiutano a superare
barriere altrimenti invalicabili. Inoltre questo tipo di lettura abitua il bambino a leggere in modo intelligente con attenzione e
comprensione evitando letture di sola
espressione affrettate o superficiali. Molto
importante è che l’insegnante di religione
abbia chiaro che la lettura non è una competenza solo dell’italiano e che come docente può fare tantissimo. Un vantaggio che
l’IdR ha sugli altri docenti è che agendo su
più classi ha uno sguardo d’insieme, e come
tale può promuovere in collaborazione attività di lettura di testi anche riguardanti la
religione a livello laboratoriale. Il laboratorio di lettura è un luogo privilegiato in cui
si realizza una situazione d’apprendimento
che coniuga le singole conoscenze e abilità
su compiti unitari e significativi per gli
alunni. La caratteristica principale del laboratorio di lettura didatticamente parlando è
quella di realizzare gruppi di alunni della
stessa classe o per classi parallele, riuniti per
livello di apprendimento o per seguire meglio ancora un progetto assecondando liberamente le attitudini degli alunni e gli interessi comuni. Il docente di religione infine
nella sua piena libertà di insegnamento può
63
A
C L A S S I
strutturare percorsi di apprendimento della
lettura individuando nel “contesto” l’elemento di facilitazione utile all’interpretazione dei significati; il contesto di volta in
volta può essere costituito da un libro, da
A P E R T E
un racconto, un’insegna o altro che possa
stimolare il desiderio d’apprendere, tutto in
progressione per poter passare da una lettura per immagini a una lettura per interpretazione e quindi correggere il disturbo.
Schede fotocopiabili
Ritaglia e incolla mettendo in ordine
Metti la didascalia giusta alla sequenza corrispondente
64
N O T I Z I E
L E G A L I
E
S I N D A C A L I
La ripartizione diocesana
del secondo contigente
di Angelo Zappelli
Il 1.9.2006 entra in ruolo il secondo contingente di docenti di religione vincitori
del concorso. La notizia è confermata dal
perfezionamento di tutti gli atti, a partire
dall’autorizzazione del Consiglio dei mini-
Codice
Dizione in chiaro
diocesi
stri (22 dicembre 2005), passando per il
Decreto presidenziale (17 gennaio 2006)
fino al Decreto ministeriale di ripartizione
regionale (13 aprile 2006) ed ora al Decreto di ripartizione diocesana per il Lazio
TOTALE
Assunzioni
Assunzioni
Assunzioni
a.s. 2005/06
a.s. 2005/06
a.s. 2005/06
scuola infanzia/primaria
scuola secondaria
I e II grado
G1
G2
G3
G4
G5
G6
G7
G8
G9
GA
GB
GC
GD
GE
GG
GI
GL
GN
Albano
Anagni - Alatri
Civita Castel1ana
Civitavecchia - Tarquinia
Frascati
Frosinone - Veroli - Ferentino
Gaeta
Latina - Terracina - Sezze - Priverno
Montecassino
Palestrina
Porto - S. Rufina
Rieti
Roma
Sabina - Poggio Mirteto
Sora - Aquino - Pontecorvo
Tivoli
Velletri - Segni
Viterbo
26
5
12
6
6
13
11
23
6
6
13
6
124
8
8
13
8
10
15
3
8
3
4
7
5
13
3
3
8
3
66
5
5
8
5
5
11
2
4
3
2
6
6
10
3
3
5
3
58
3
3
5
3
5
TOTALE
304
169
135
65
N O T I Z I E
L E G A L I
(16 giugno 2006) di cui si pubblica di seguito la relativa tabella.
Entrano in ruolo altri 3.077 docenti di religione cattolica su tutto il territorio nazionale, aggiungendosi ai 9.229 già immessi con il primo contingente. La percentuale degli IdR di ruolo passa così dal
40% al 55% dei posti esistenti. Per il Lazio si tratta di 304 nuovi docenti in ruolo,
169 della scuola dell’infanzia e primaria,
135 della scuola secondaria, di primo e secondo grado. Quantitativamente, aggiungendoli agli 877 del primo contingente, si
forma un corpo di 1.181 IdR di ruolo nel
Lazio sui quasi duemila esistenti. Scorrendo le cifre, visto che i dati si riferiscono
all’organico 2005/06, si nota che la proporzione tra docenti della primaria e della
secondaria è sempre più spostata a favore
della primaria, che cresce di poco ma ancora costantemente. La diocesi che assorbe
da sola quasi la metà degli IdR del Lazio è
ovviamente Roma, seguono a distanza Al-
66
E
S I N D A C A L I
bano e Latina (incrementata rispetto al
primo contingente).
Cosa succederà ora? Innanzitutto i nominativi dei docenti in posizione utile in graduatoria del concorso saranno sistemati dall’Ufficio regionale in un elenco alfabetico e inviati alle rispettive diocesi le quali lo restituiranno aggiungendo le sedi scolastiche di destinazione (di solito le medesime in cui già
si trovano). Nella seconda metà di luglio a
tali docenti giungerà un telegramma di convocazione per un dato giorno (sempre di fine luglio) in cui recarsi all’Ufficio regionale
di via Pianciani a Roma per la stipula del
contratto a tempo indeterminato. Sulla data
di partenza del contratto la soluzione stabilita per il secondo contingente è quella della
distinzione tra la data della decorrenza economica, al 1.9.06, e quella della decorrenza
giuridica, retrodatata al 1.9.05. Il che significa che l’anno di prova e di formazione sarà
il 2006/07 e che quindi il ruolo sarà loro
confermato solo con il 1.9.07.
D I A R I O
S C O L A S T I C O
Diario scolastico
di Filippo Morlacchi
XII Forum europeo per l’insegnamento
della religione
Si è tenuto a Vienna dal 19 al 23 aprile
2006 il XII Forum dell’EuFRES (European
Forum for Religious Education in Schools –
www.eufres.org). Si tratta di un organismo
costituito da un gruppo di esperti di vari
paesi europei, inclusi quelli dell’Est, che si
riuniscono ogni due anni per analizzare situazioni, problemi ed ipotesi inerenti all’insegnamento scolastico della religione nelle
scuole. Il tema di quest’anno era di indubbia
attualità: Futuro per cielo & terra. Sostenibilità e Spiritualità. Hanno preso parte al Forum quasi una cinquantina di partecipanti
da oltre venti paesi europei. Le relazioni
principali sono state affidate al prof. Herbert
Pietschmann, docente di fisica teorica all’Università di Vienna, il quale per una intera
giornata ha guidato il gruppo su tematiche
di filosofia della scienza e sul rapporto scienza-fede, e al prof. Markus Vogt, che si è soffermato soprattutto sulla teologia della creazione. Qualche piccola difficoltà è sorta per
l’assenza di traduzione simultanea (non a
tutti il tedesco è familiare…), ma superando
qualche intoppo “babelico” grazie alle competenze e alla collaborazione di numerosi
partecipanti, la discussione è sempre stata
vivace e costruttiva. Al di là delle ricche conferenze, ancor più proficuo ed interessante è
stato infatti il confronto diretto tra persone
impegnate nell’insegnamento scolastico della religione a vario titolo (IdR, responsabili
diocesani, ufficiali di ministero, ecc.) di varia provenienza geografica. È stato possibile
condividere esperienze, segnalare iniziative
originali, ascoltare punti di vista comple-
mentari, verificare sintonie inaspettate e
promuovere orientamenti comuni. Interessantissimi sono stati i resoconti di coloro che
provenivano dai paesi ex-comunisti (ad es.
Lituania e Germania orientale): in queste
terre l’insegnamento scolastico della religione ha poco più di un decennio di vita, e tuttavia viene svolto con straordinario impegno
e senso di responsabilità in un ambiente
realmente difficile e spesso indifferente. Altrettanto interessante è stato il dibattito sull’importanza di una educazione religiosa
aperta all’interculturalità, ma attenta all’integrità dottrinale delle diverse confessioni:
argomento sul quale si è registrata una diffusa sintonia dalla Spagna (dove non è facile
fare i conti con la politica scolastica di Zapatero), al Belgio, alla Croazia, ecc. Da ultimo
segnaliamo che Mons. Manlio Asta, direttore dell’Ufficio Scuola di Roma, è stato eletto
tra i membri del «Kuratorium», cioè la commissione organizzativa dell’EuFRES. Gli altri membri sono attualmente: Avellino Revilla Cuñado (spagnolo, presidente); Wilfried Lenssens (tedesco, tesoriere); Johan Hisch (viennese, a cui spetta il merito dell’eccellente organizzazione logistica del Forum)
e Rudi Palos (croato). Flavio Pajer, la cui
presenza tra i membri del Kuratorium non
era più rinnovabile per limiti statutari, conserva la responsabilità della redazione del foglio di collegamento dell’associazione. Al
termine del convegno sono stati suggeriti alcuni possibili argomenti per il prossimo Forum: un confronto con le raccomandazioni
ufficiali del Consiglio d’Europa, oppure i
conflitti religiosi nella nuova Europa, o ancora il significato e l’utilità dell’insegnamen67
D I A R I O
S C O L A S T I C O
to religioso confessionale. È possibile che la
sede sia Roma, se le altre ipotesi prospettate
(Budapest e Bruxelles) non risulteranno praticabili. In ogni caso, ci saremo.
Convegno regionale dei docenti cattolici
Per la prima volta il 3 maggio 2006 è stato
convocato un Convegno Regionale dei docenti cattolici. Sono stati invitati docenti cattolici
di ogni disciplina e grado, attivi nelle scuole
statali e cattoliche delle diocesi del Lazio. Il tema di studio era senza dubbio rilevante ed impegnativo: Tradizione religiosa, cultura e scuola.
La presenza dei cattolici nella scuola. Il luogo
prescelto era all’altezza del tema: il prestigioso
auditorium dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore ha accolto più che degnamente i convegnisti (circa duecento: un numero non elevatissimo, considerato il numero dei potenziali partecipanti, ma più che soddisfacente, tenendo conto che era la prima iniziativa di
questo genere). L’evento è stato promosso ed
organizzato dalla Conferenza Episcopale Laziale insieme alla Commissione per la Pastorale della Scuola, anche grazie al generoso contributo di diverse associazioni cattoliche operanti nell’ambito della scuola (Fidae Lazio, Fism, Aimc, Uciim, Scuola Nuova), che hanno
consentito agli organizzatori di offrire anche
un eccellente coffee-break. L’indirizzo di saluto ai partecipanti è stato rivolto da S.E. Mons.
Lorenzo Loppa, Vescovo di Anagni-Alatri, delegato della Conferenza Episcopale Laziale per
la Pastorale della Scuola. La relazione principale su «La cultura cattolica: identità e forza
educativa di una tradizione» è stata affidata a
S.E. mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranenese. Il tema della
trasmissione della fede è stato sviluppato da
mons. Fisichella a partire da un’analisi del cosiddetto “testamento pastorale” di San Paolo
1
agli anziani di Efeso (At 20), ripercorrendo
poi numerosi passi neotestamentari in cui viene menzionato il dinamismo del tradere da cui
scaturisce la traditio. È la consegna vitale di sé
stessi che forma la tradizione e la cultura: ecco
perché – è stato affermato – se non si mette al
centro la persona non si dà vera tradizione, né
si può costruire un’autentica identità culturale.1 Sono state poi lette alcune brevi comunicazioni; tra queste, le spumeggianti considerazioni di Mons. Carmine Brienza hanno vistosamente raccolto il consenso dell’uditorio, poco prima che Mons. Asta chiudesse i lavori.
Ci auguriamo che questa iniziativa, che ha co-
Il testo completo della relazione di Mons. Fisichella è pubblicato alle pp.71-78 del presente fascicolo.
68
D I A R I O
S C O L A S T I C O
stituito un’originale novità in vista di una migliore conoscenza reciproca tra docenti di fede
cattolica, non rimanga un evento occasionale,
ma dia invece il via ad una feconda
“tradizione”, da rinnovare di anno in anno.
Il futuro della riforma
Il nuovo governo si è ormai insediato da oltre un paio di mesi. Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, attraverso pochi atti
ufficiali ed alcune interviste, ha già lasciato
intravedere quale potrà essere – prevedibilmente – il futuro della riforma della scuola
nel corso dell’attuale legislatura: alcuni aspetti secondari verranno forse cancellati (come il
tutor e il portfolio), mentre altri elementi pedagogici generali (come il principio della
personalizzazione) dovrebbero essere conservati. Intanto, la sperimentazione per il secondo ciclo è stata bloccata: troppi problemi, soprattutto in relazione alle diverse competenze
tra stato e regioni, per iniziare nel prossimo
anno scolastico. Purtroppo, a seguito delle
controversie ben note agli addetti ai lavori e
in conseguenza dell’intervento del TAR del
Lazio sollecitato da alcuni sindacati2, il ministero si è espresso sfavorevolmente in relazione alla possibilità di esprimere la valutazione
dell’IRC insieme alle altre discipline scolastiche. Torna dunque in vigore il vecchio Testo
Unico, il cui art. 309 prescrive la redazione di
una nota a parte. Ma ci auguriamo che questo non sia il segno di una recrudescenza di
ostilità nei confronti del lavoro, professionalmente sempre più qualificato, degli IdR. Deve essere chiaro a tutti che l’IRC concorre alla formazione integrale dell’alunno ed è illegittimo relegarlo in un ghetto di subalternità,
magari indorando la pillola con l’idea di uno
“statuto speciale”. Molto interessante sarà ca2
3
pire che fine potrà fare il progetto di una valutazione degli insegnanti: forse gli IdR che
si sono sottoposti alla valutazione concorsuale – magari dopo decenni di insegnamento –
sono più preparati di altri di fronte a questa
prospettiva. Che tuttavia rimane altamente
problematica ed incerta: chi sarebbe competente a valutare? In base a quali parametri?
Con quali esiti? La questione è decisamente
complessa. Per saperne di più su cosa accadrà, ovvero – per dirla con Croce – per capire «ciò che è vivo e ciò che è morto» della
riforma Moratti, possiamo anticipare che il
Ministro Fioroni ha accettato di partecipare
all’incontro degli IdR previsto per l’inizio del
prossimo anno scolastico: l’appuntamento è
fissato per sabato 9 settembre presso il Santuario del Divino Amore. Un’occasione preziosa per sapere cosa ci aspetta.
I dati statistici sull’IRC per il 2005/06
Sono stati resi noti recentemente i dati statistici ufficiali relativi all’IRC nell’A.S.
2005/20063. Da tredici anni ormai il Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica della CEI commissiona all’Osservatorio Religioso del Triveneto l’elaborazione dei dati che le diverse diocesi italiane inviano sull’IRC. Quest’anno hanno
restituito il questionario 189 diocesi italiane
su 226 (83,6%); il numero di alunni di
scuola statale rilevati corrisponde all’81,5%
del totale: una parte della popolazione studentesca che, seppure non coglie la realtà
nazionale nella sua interezza, è cospicua e significativa. Il 2005/06 non lascia registrare
novità significative rispetto ai dati degli anni
precedenti, ma solo la conferma di un trend
di lieve flessione degli alunni avvalentisi, che
corrispondono al 91,6%, con il corrispettivo
Sulla questione, cfr l’articolo alle pp. 20-26.
Consultabili sul sito della CEI: www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=328.
69
D I A R I O
S C O L A S T I C O
8,4% di non avvalentisi; calcolando anche
gli alunni delle scuole cattoliche si raggiunge
circa il 92,4% della popolazione studentesca
italiana: un dato sostanzialmente solido e
ancora abbastanza consolante. La variazione
nell’ultimo triennio corrisponde mediamente al -1,1%, con un calo più marcato nelle
scuole dell’Infanzia (-1,7%), seguite dalle secondarie di II grado (-1,5); la scuola primaria tiene meglio di tutte (-0,5%). Gli IdR
sono nella stragrande maggioranza laiche e
laici (84,4%); in poco più di un decennio la
quota di sacerdoti e religiosi si è contratta fino a dimezzarsi (dal 36,6% del ’93/94 al
15,6% del ’05/06). Si conferma l’osservazione secondo cui le percentuali di non avvalentisi sono molto più modeste nel Sud (solo 1,7%) che nel Nord (13,4%, ben al di sopra della quota nazionale) e nel Centro
(9,3%; per questo dato si consideri però che
la Toscana, regione con la più elevata percentuale di non avvalentisi – ben 16,9% –
viene computata insieme al Centro e non al
Nord). Il Lazio si attesta sul 7,5%, circa un
punto percentuale al di sotto della media
nazionale. Segnaliamo anche – purtroppo –
che le Diocesi del Lazio partecipanti alla ricerca sono state in proporzione le meno numerose: solo 16 su 22. Riepilogando, la situazione non è affatto tragica come di tanto
in tanto alcuni giornali vorrebbero farci credere; tuttavia una certa flessione è innegabile, e il fenomeno da non sottovalutare ci
sembra quello relativo alla secondaria di II
grado (l’età in cui una scelta di fede può maturare o perdersi) e quello relativo alla scuola
dell’infanzia (comprensibile soprattutto a
partire dalla nuova composizione multietnica e multireligiosa della popolazione). Si
tratta di rimboccarci le maniche e fare di
tutto affinché il contributo scolastico della
religione cattolica non venga considerato
uno spazio di egemonia (o un posto di lavoro) da conservare, ma come un’occasione
preziosa per far conoscere la «gioia della fede» anche alle nuove generazioni.
Dati statistici nazionali sull’IRC – percentuale di alunni avvalentisi
Anno
scolastico
2005/06
2004/05
2003/04
2002/03
2001/02
2000/01
1999/00
1998/99
1997/98
1996/97
1995/96
1994/95
1993/94
70
Scuola
dell’infanzia
Scuola
primaria
Secondaria
di I grado
Secondaria
di II grado
Totale
94,7
95,1
96,4
95,8
96,3
96,8
96,7
96,7
96,7
96,5
97,0
96,5
96,6
95,2
95,5
95,8
96,0
96,4
96,8
96,5
96,9
97,0
96,8
97,3
97,2
96,3
93,1
93,2
94,1
94,3
94,7
95,1
94,9
95,1
95,6
95,7
95,6
96,0
95,4
85,0
85,3
86,5
87,5
87,6
88,1
86,7
87,5
88,2
88,1
88,8
90,3
88,6
91,6
91,8
92,7
93,0
93,2
93,6
92,9
93,4
93,6
93,7
93,9
94,4
93,5
M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
La cultura cattolica: identità e
forza educativa di una tradizione
S.E. Mons. Rino FISICHELLA*
Un testamento che rimane vivo
«Voi sapete come mi sono comportato con
voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia
e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le
prove che mi hanno procurato le insidie dei
Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine
di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e
nelle vostre case, scongiurando Giudei e
Greci di convertirsi a Dio e di credere nel
Signore nostro Gesù… Non ritengo tuttavia
la mia vita meritevole di nulla perché conduca a termine la mia corsa e il servizio
che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete
più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo io dichiaro solennemente oggi davanti
a voi che io sono senza colpa riguardo a
coloro che si perdessero, perché non mi
sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio… Io so che dopo la mia
partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che
non risparmieranno il gregge; perfino di
mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli
dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando
che per tre anni, notte e giorno, io non ho
cessato di esortare tra le lacrime ciascuno
di voi. E ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità per tutti i santificati… Detto questo, si inginocchiò con
tutti loro e pregò…» (At 20,17-38).
Non è senza significato che poniamo questa nostra riflessione alla luce del testamento di Paolo. Il tema della cultura e del
valore della tradizione tocca diverse problematiche connesse che, comunque, si
condensano intorno ad un aspetto del tutto
peculiare: come si può trasmettere la fede
oggi e permettere che questo processo sia
inserito nella cultura e produca cultura? Paradosso quasi insormontabile. Siamo chiamati a guardare al futuro e verificare come
incidere nel presente della Chiesa e mi introduco con un testamento di un apostolo
ormai anziano, sul punto di donare la propria vita con il martirio che strappa lacrime
ai suoi uditori perché dice loro che non lo
vedranno più! Tutto questo, tuttavia, ha un
suo senso. Trasmettere la fede non è un
passatempo per teologi chiamati a intrattenere il pubblico; è un impegno di chi ha
compreso seriamente il proprio battesimo.
E nessuno potrà mai dimenticare che prima di trasmettere un contenuto si deve
considerare l’atto con il quale si trasmette.
Questo è il primo punto decisivo con il quale ci introduciamo.
È sufficiente riprendere tra le mani il testamento di Paolo per verificare subito che,
stranamente, non parla di ciò che egli ha
trasmesso – come ha fatto, ad esempio in
altri due casi parlando dell’eucaristia (1
Cor 11) e della risurrezione del Signore (1
Cor 15) – ma di come egli si è comportato
da apostolo e da maestro della fede. Tutti i
verbi che san Paolo usa indicano un’azione
concreta, uno stato d’animo, una decisione
di vita e un impegno che egli si è assunto:
«come mi sono comportato», «ho servito»,
«non mi sono mai sottratto», «predicare»,
«istruire», «condurre a termine», «rendere
testimonianza», «dichiarare», «affidare»,
«pregare»…; la prima impressione che si
ricava è quella dell’apostolo che nel momento in cui sa che sta trasmettendo sta
consegnando se stesso e la sua vita. L’atto
del trasmettere è, quindi, un atto mediante
* Il testo riproduce integralmente la conferenza che Mons. Fisichella ha pronunciato il 3 maggio 2006 in occasione dell’incontro degli Insegnanti Cattolici del Lazio presso l’Auditorium dell’Università Cattolica.
71
M A T E R I A L I
il quale ci si consegna. Non si consegna
primariamente un contenuto; si consegna
se stessi e tutto ciò che si è. Questo è l’impegno della fede che si raccoglie proprio
nella indissolubilità di un credere come un
atto con il quale ci si abbandona alla grazia di Dio che agisce in noi e mediante il
quale si accoglie il Vangelo di Gesù Cristo.
Trasmettere è un atto complesso, ma nello
stesso semplice. È complesso perché
composto di una serie di fatti che lo compongono e accompagnano; nello stesso
tempo, è di una semplicità disarmante,
perché richiama alla forma più fondamentale e originaria che ognuno di noi possiede, quella di esercitare la propria libertà.
Trasmettere è davvero un atto di libertà con
il quale si offre la propria vita come garanzia di verità e di senso. Se per tutta la vita
dovessi rincorrere un’ipotesi senza mai arrivare a mostrare la sua affidabilità, sarebbe difficile poter comprendere che la si lascia come eredità. La vita richiede il rischio
della libertà che sa accogliere la sfida della
verità ultima sulla propria esistenza come
risposta definitiva alla domanda di senso.
«Le ipotesi possono affascinare, ma non
soddisfano» – scriveva Giovanni Paolo II
nella Fides et ratio – ed è vero. Deve venire
il momento in cui, in forza della libertà che
opera in noi e che realizza la personalità di
ognuno, si sceglie di affidare la propria vita
a una verità che si coglie come dono e offerta piena di senso. Questo sì è il momento in cui si può anche scrivere un testamento, descrivendo il cammino di una vita
che merita di essere trasmessa perché ha
portato significato all’intera esistenza personale.
Cristo trasmesso del Padre
Queste considerazioni, comunque, devono
avere un loro fondamento, non possono essere solamente una riflessione del teologo
a commento di un passo biblico. E la verità
profonda di questo ragionamento proviene
da ciò che costituisce il mistero della nostra fede: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio,
viene offerto dal Padre all’umanità per
esprimere la sua presenza perenne nel
mondo. La prima vera trasmissione è l’atto
con il quale il Padre dona se stesso nel
72
E
D O C U M E N T I
proprio Figlio. È una generazione che non
conosce tramonto, perché permane come
l’espressione massima dell’amore che sa
donare senza nulla chiedere in cambio.
Gesù Cristo, nelle parole di Giovanni all’inizio del suo vangelo, viene proprio presentato come il Verbo che è nel «grembo del
Padre», cioè l’Unigenito, colui che è l’unico
amato e che in questo amore, unico e immutabile perché eterno, egli genera continuamente come espressione culminante
del suo amore. «Nessuno ha mai visto il
Padre, l’Unigenito che è Dio nel grembo
del Padre, lui lo ha rivelato e interpretato»
(Gv 1,18): un amore, quindi, che si dona e
offre nel generare, nel trasmettere se stesso. E l’evangelista è ancora più esplicito,
quando afferma: «Dio ha così amato il
mondo da consegnare il suo unico Figlio»
(Gv 3,16).
La trasmissione entra nella storia e non rimane una pura teoria sulla vita di Dio in se
stesso; qui, al contrario, viene esplicitato il
modo della consegna e ci viene detto che
è un donare tutto quanto egli possiede ed
è: l’amore che si consuma e offre fino alla
fine senza nulla chiedere in cambio perché
nessuno potrebbe corrispondere pienamente all’amore di Dio. L’enciclica di Benedetto XVI acquista in questo orizzonte tutto
il suo valore programmatico non solo per la
vita di fede, ma soprattutto per l’impegno
culturale che immette quando chiede di far
diventare l’amore stile di vita e contenuto
proprio dell’esistenza credente. Per ritornare allo specifico del nostro tema, comunque, l’atto della trasmissione e della consegna del Figlio da parte del Padre è un atto
che dice semplicemente amore. E la cosa
diventa ancora più impressionante nel momento in cui il Figlio stesso è chiamato alla
consegna suprema. Prima di consegnare e
trasmettere qualcosa, egli consegna se
stesso al Padre in un atto che dice puro
amore di obbedienza alla sua volontà. È
sempre l’evangelista Giovanni che coglie
immediatamente la portata di questo fatto
quando sottolinea che nel momento della
sua morte Gesù «tradidit Spiritum» (Gv
19,30): consegna lo Spirito. Lo fa anzitutto
in riferimento al Padre portando così a
compimento quella visibilità dell’amore nel-
M A T E R I A L I
la storia dell’umanità che si fa concreto e
visibile nella morte stessa assunta come
forma di amore. Lo fa nei confronti della
sua Chiesa e di quanti crederanno in lui, a
cui consegna lo Spirito come presenza visibile e creatrice di un cammino che attraverserà i tempi e i mondi per restituire poi
al Padre il popolo dei redenti. Da ogni parte volgiamo lo sguardo, permane questa
condizione che ci assorbe e ci avvolge
completamente. Trasmettere è un atto fecondo che si fa forte della presenza del
creator Spiritus. Domandiamoci: perché la
Chiesa sente l’esigenza nei momenti più
delicati della sua vita, e soprattutto quando
deve chiedere la coerente comprensione
della fede da trasmettere e spiegare in diversi momenti e a popoli differenti, di invocare il creator Spiritus che visiti la mente
dei credenti? Il digitus paternae dexterae
che tocca Adamo è segno di vita che viene
creata dalla presenza di Dio e che costituisce la sintesi di ogni vera condizione dell’uomo e del suo rapporto con Dio. La dignità della persona sta tutta qua, nell’essere toccata dallo Spirito che crea e per questo forma in ognuno la somiglianza e l’immagine con il creatore. A partire da qui si
trasmette la forza che permette – nonostante la disobbedienza del peccato – di riportare al nuovo Adamo che trasmette vita
nuova.
Dobbiamo considerare, da ultimo, l’espressione storica permanente del trasmettere
da parte di Gesù. Egli lo fa con i suoi discepoli nell’ultima cena, offrendo ancora
una volta se stesso. Il pane e il vino sono
segno che rinviano a colui che in essi è
rappresentato e significato. Il Crocifisso e
Risorto rimane veramente presente nel segno del pane e del vivo perché lui così ha
voluto imprimere nella storia il dono totale
di sé. Dove c’è vera tradizione, là vi è una
fecondità di vita che non termina e alla
quale non si può rinunciare. Se vogliamo
seguire l’evangelista Giovanni anche in
questo caso, allora dobbiamo comprendere il cammino che ci invita a fare. Lui non
racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma ci
lascia il testamento del Signore. I discorsi
di addio di Gesù (Gv 13-17) non sono altro
che l’atto della trasmissione di sé; anche
E
D O C U M E N T I
qui troviamo i punti salienti della sua esistenza: il servizio che si esprime nel lavare
i piedi (13,1-15), l’amore al più lontano che
si manifesta nell’atto di donare a Giuda il
boccone prelibato del banchetto (13,2630), la reciprocità dell’amore tra i fratelli come segno concreto della sua presenza in
mezzo a noi (13,34-35.14,14-21), l’invito a
non disperderci, ma a «rimanere in lui» in
un’unità profonda e radicale come quella
dei tralci alla vite (15,1-7), il cammino verso
la verità intera su di lui e su di noi che sarà
data per la presenza dello Spirito (16,13) e
la sua preghiera come protezione perenne
per quanti saranno nel mondo a rendere
testimonianza alla sua verità (17,1-26).
L’eucaristia è insieme atto e contenuto con
il quale Cristo trasmette se stesso alla sua
Chiesa. A noi viene dato così il pegno di
ciò che sarà la nostra vita e l’impegno perché quotidianamente ci apriamo al suo
amore.
Trasmettere con il rischio di tradire
Sarei poco realista se pensassi che questo
atto di trasmettere non fosse segnato anche dal pericolo del tradire. Non è un caso
che proprio all’atto di Gesù di consegnare
se stesso sia presente, come un’ombra opprimente, la consegna che Giuda fa del
Maestro. Vendendo al sinedrio Gesù, egli
sembra non voler compiere un opera di trasmissione al futuro, ma intende relegare nel
passato della legge ciò che costituisce la
storia, senza comprendere l’originalità e la
novità dell’amore. In ogni trasmissione che
la Chiesa e il credente compiono vi è sempre all’erta il pericolo del tradimento. Quante volte, forse senza neppure accorgersene, lo «Spirito è tradito e consegnato alla
lettera» (H.U. von Balthasar). Ciò avviene
ogni qual volta l’amore di Dio viene svuotato del suo mistero e ridotto a pura logica;
così come quando la radicalità del suo
vangelo viene annacquata per permettere
di condurre una vita più tranquilla e maggiormente comoda, illudendo di poter tenere insieme la volontà di Dio e i propri progetti.
Ciò che Dio compie e trasmette non potrà
mai essere un reperto archeologico, non
potrà mai essere rinchiuso nel passato. Il
73
M A T E R I A L I
suo testamento è di oggi perché fino ad
oggi, ancora oggi egli si consegna con un
atto unico e supremo che non è mai ripetitivo, ma sempre originario; l’amore non può
mai essere monotono perché diventa asfittico, privo di vitalità e incapace di generare. Sorgono inevitabili, a questo punto, delle questioni che concernono più direttamente l’ambito del processo culturale: quale linguaggio è possibile assumere per trasmettere? Il linguaggio assunto che deve
trovare corrispondenza dell’interlocutore è
capace di contenere in sé la verità da trasmettere? In che modo lo stile di vita dei
credenti è capace di essere veicolo di trasmissione? Forse, in tutta questa serie di
domande permane forte il rimprovero di
Gesù: «Siete veramente abili nell’eludere il
comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione… annullando la parola di
Dio con la tradizione che avete tramandato
voi» (Mc 7,9.13).
La persona al centro
Quanto abbiamo cercato di dire finora ci riporta a uno dei temi centrali della nostra riflessione: la persona. È necessario che si
riparta dal valore e dal senso della persona
per ricostruire un tessuto culturale lacerato
da opinioni che non riescono a cogliere la
profondità del mistero contenuto. La memoria di ciò che «persona» significa deve
riprendere posto nelle nostre lezioni, catechesi e gli strumenti propri che la Chiesa
possiede, non per vanagloria né per trionfalismo alcuno, ma solo ed esclusivamente
per permettere un salto qualitativo nell’attuale momento di passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo determinante che l’occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l’originalità del concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si può rileggere
la storia del progresso e della maturazione
civile, culturale, sociale e politica. Fino al IV
secolo, il termine è soggetto a una lunga
discussione sul suo significato più coerente. Nell’accezione latina – che risentiva dell’origine etrusca – il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica infatti
la maschera che copriva il volto dell’attore.
Nella semantica greca, il termine pròsopon
74
E
D O C U M E N T I
indica ugualmente la maschera teatrale,
ma insieme ad esso anche «ciò che cade
sotto gli occhi», «ciò che si vede». La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole esplicitare la fede nella Trinità e la presenza di tre persone con un’unica natura; alla stessa stregua, i primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di
Gesù Cristo, il fatto che la sola persona divina era presente nella natura umana e in
quella divina. Si deve alla grande intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino ai nostri giorni. Egli ha
saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la persona è se stessa nella relazione con l’altro. Saranno i concili, in seguito a stabilire dogmaticamente
l’esattezza della formula; ciò che importa,
comunque, è verificare che sulla base della chiarificazione trinitaria e cristologia del
concetto si viene a produrre una delle conquiste più rivoluzionarie della cultura universale. Persona è un’identità propria che
si qualifica nella sua relazione con l’altro.
Per cogliere in profondità il valore semantico, è necessario comprendere la sua derivazione dalla sfera della fede nella Trinità.
Nell’unità della natura divina, che non è divisa, ma partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e differenziano come
Padre, Figlio e Spirito Santo; ognuna delle
tre persone vive solo in relazione con l’altra
in una forma di donazione e accoglienza
totale che permette loro di essere identificate come Padre che tutto dona, Figlio che
tutto riceve e Spirito Santo come Frutto del
tutto dare e del tutto ricevere. La persona,
insomma, si qualifica per la relazione d’amore che le permette di essere ciò che è.
È alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della
persona nel mondo contemporaneo e lo
sviluppo che essa ha avuto nelle diverse
istanze scientifiche. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello
della sua dignità e del suo valore universale e, quindi, l’attenzione che è dovuta ad
ogni persona, a tutta la persona e al bene
di tutte le persone. Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole
salvaguardare il concetto di persona e la
sua dignità è determinante che essa riman-
M A T E R I A L I
ga legata a Dio che ne garantisce l’esatta
comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la
sua immagine e somiglianza; nella misura
in cui si dimentica la persona, si dimentica
anche Dio che ne è la sua garanzia ultima.
La conseguenza inevitabile che sembra
proiettarsi all’orizzonte è quella di un’ulteriore Wende; questa svolta, tuttavia, non
pone più al centro l’uomo, ridotto ormai a
un ruolo marginale nei confronti della stessa natura, ma la tecnica. Se, d’altronde, la
tecnica è in grado di determinare l’esistenza personale fin dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di porre limiti
alla sperimentazione sulla cellula umana
scavalcando le stesse regole che si era
data in precedenza, allora non si potrà evitare il verificarsi delle logiche conseguenze. L’uomo, sulla scena del teatro di questo
mondo, non potrà più giocare il ruolo di
protagonista a cui si era abituato per secoli, ma deve necessariamente lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la
sua stessa esistenza. Si riaffaccia sulla
scena del mondo la tetra figura di Medea
che uccide i suoi figli (O. Fallaci); è proprio
così, la tecnica creata dall’uomo per rendere più umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l’uomo stesso quasi
si trattasse di un nuovo e mai mutato complesso di Edipo. È ormai condivisa l’analisi
secondo la quale il nostro contemporaneo
ha talmente delegato la tecnica a produrgli
ogni cosa, da non comprendere più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha assunto il ruolo di domina non solo
della natura, ma anche dell’uomo riducendolo a un oggetto della sua sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni.
Se cresce la tecnica, ma non aumenta di
conseguenza anche l’orizzonte spirituale
dell’uomo e la persona non permane in una
dinamica di maturazione verso la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò che
possediamo come di più prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e dell’apertura infinita verso cui si è indirizzati. Condizione mortale, perché in questo modo non
solo cessa il vero progresso, ma l’uomo
stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non
E
D O C U M E N T I
ha più uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso quell’orizzonte di senso ultimo che dà risposta alle
sue domande fondamentali. Per paradossale che possa sembrare, la tecnica allontana anche ogni domanda sul limite, illudendo di una eternità che non può essere
data dalla produzione dell’uomo. Si dovrà
guardare con occhio vigile a come il pensiero maturato in Europa si porrà nel prossimo futuro nei confronti della sofferenza e
della morte. Le tesi di M. Heidegger, solo
per fare un esempio, diventeranno archeologia filosofica; la morte non sarà più l’ultimo baluardo da affrontare nella libertà propria della decisione di vita, ma un evento
da scongiurare per l’illusione dell’immortalità. La morte non sarà più interpretata come un accadimento naturale e inevitabile
della vita, piuttosto una sciagura da evitare
come qualsiasi altra malattia. Come si
porrà l’uomo davanti alla morte dopo l’illusione della tecnica di allontanarla per sempre da lui? Con la dignità propria della libertà cosciente o come una stupida conclusione che non si è potuto evitare? E se
la vita sarà più o meno indefinita, ci sarà
ancora qualcuno disposto a offrire la propria vita per gli altri? Le biotecnologie favoriranno un attaccamento alla vita oppure la
renderanno insopportabile? Interrogativi
non affatto ovvi e tanto meno inattuali; saranno sul tappeto nello sviluppo del pensiero a partire già da domani e provocheranno la fede dei credenti.
La crisi di identità che stiamo vivendo è
sotto gli occhi di tutti. Tolto il concetto di
persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade nell’arroganza del più forte.
Ne deriva la pretesa di imporre il diritto individuale su quello sociale e la conseguente distruzione di modelli sui quali l’occidente è fondato. Imporre l’esistenza del diritto
individuale porta a imprimere nella società
la volontà degli individui, spezzando in
questo modo il concetto stesso di persona
come relazione. Contraddizione insanabile,
frutto dell’individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni possibile tensione
verso il bene comune. La prima conseguenza di questo stato di crisi è la solitudine in cui è caduto l’uomo contemporaneo.
75
M A T E R I A L I
Privo di una relazione salda che gli consente di comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso; incapace di
collocarsi e di comprendersi, tende a rinchiudersi in se stesso con la conseguente
mancanza di amore e donazione gratuita. I
rapporti diventano soggetti all’interesse individuale e la violenza dell’uno sull’altro ha
la meglio. In questo contesto è necessario
porre anche la crisi del matrimonio e della
famiglia. Colto dalla paura di una incapacità stabile alla relazionalità e all’amore, si
apre la strada a modelli che contraddicono
e distruggono ogni relazione sociale. Il tentativo di minare alla base anche lo stesso
concetto di matrimonio monogamico e tra
persone di sesso diverso non è che uno
degli ultimi bastioni che una cultura in crisi
intende abbattere per l’imposizione di un
progetto, estraneo al mondo, alla natura e
alla stessa cultura che ha il solo intento di
eliminare l’uomo.
Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo
sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce in un
processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa di cui i credenti anzitutto dovrebbero
farsi carico. La tradizione per noi non significa soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene, indica, piuttosto, la partecipazione
diretta a una viva trasmissione della fede
che ispira e genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la
memoria perenne dell’evento salvifico di
cui sono responsabili nel mondo e, all’interno di questo momento, ripensare il ruolo
della loro partecipazione alla missione
evangelizzatrice della Chiesa. Ogni azione
credente, infatti, anche quella sociale, politica e culturale porta con sé la peculiarità
di essere annuncio del vangelo che salva.
Il recupero del senso della tradizione e del
suo valore per il futuro è una strada da percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un recupero
di spessore speculativo, ma soprattutto un
atto con il quale si prende coscienza della
sua validità e una decisione di riproporla
come carica di senso per il futuro.
76
E
D O C U M E N T I
La fede compagna di vita
Giungiamo, così, al termine della nostra riflessione considerando la fede che deve
essere trasmessa. È ancora papa Benedetto che ci ricordava a Köln: «Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di lui. Una
grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla» (Omelia del 21 agosto
2006). Vorrei solo lasciare quasi a commento di queste parole, due testi in proposito che risalgono entrambi a s. Agostino,
mediante i quali possiamo cogliere un insegnamento più profondo e attuale per la nostra stessa opera di trasmissione. Non entrerò nelle tecniche o nei particolari di come trasmettere; quanto ho detto all’inizio è
lo scenario significativo che consente di
cogliere il mio pensiero in proposito e ha
già in sé – per chi vuole coglierle – le concrete applicazioni. Ciò che a me preme
maggiormente è consegnare strumenti di
riflessione perché la vostra intelligenza si
provocata e la vostra libertà trovi esplicitazione concreta.
Il primo testo presenta un fatto interessante: l’obbligo di imparare a memoria il credo. A più riprese, il santo vescovo sollecita
i catecumeni a imparare a memoria il simbolo, spiegando loro il significato della sua
consegna (traditio) e della sua riconsegna
(redditio): «Ecco dunque: vi ho proposto
questo breve discorso su tutto il simbolo,
come vi dovevo. Mentre il simbolo lo udrete
tutto di seguito, vi ritroverete tutto quanto è
stato brevemente sintetizzato in questo discorso. Le parole del simbolo non dovete
assolutamente scriverle per impararle a
memoria, ma dovete mettervele in testa solo ascoltando; e neanche scriverle dopo
che le avrete imparate, ma dovete conservarle sempre nella memoria e così riportarle alla mente. D’altronde tutto ciò che ora
sentirete nel simbolo è contenuto nei testi
divini delle Sacre Scritture e tutto vi capita
di ascoltarlo, or qua or là, secondo l’opportunità. Ma quel che, raccolto così e redatto
in una forma particolare, non è consentito
scrivere, richiama alla mente quella promessa di Dio quando, annunciando per
mezzo del profeta la nuova alleanza, disse:
“Questa è l’alleanza che io concluderò con
loro dopo quei giorni, dice il Signore: porrò
M A T E R I A L I
la mia legge nel loro animo e la scriverò nel
loro cuore”. Per realizzare questa cosa,
quando si sente il simbolo, lo si deve scrivere non su tavolette o su qualunque altra
materia, ma nei cuori. Ed egli che vi ha
chiamati al suo regno e alla sua gloria,
quando sarete stati rigenerati con la sua
grazia, vi concederà che sia scritto nei vostri cuori anche per mezzo dello Spirito
Santo, perché possiate amare quello che
credete e la fede operi in voi per mezzo
della carità, e così possiate piacere al Signore Dio dispensatore di ogni bene non
come servi che temono la pena, ma come
uomini liberi che amano la giustizia. Ed ecco ora il Simbolo che, già catecumeni, vi è
stato istillato per mezzo delle Scritture e dei
discorsi della Chiesa, ma che dai fedeli deve essere confessato e professato sotto
questa breve formula»1.
Nell’unico testo che possediamo sulla redditio, il vescovo di Ippona introduce così il
suo discorso ai catecumeni nella V domenica di quaresima: «Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che
oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede
della madre Chiesa sopra il fondamento
stabile che è Cristo Signore. Voi dunque lo
avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel
cuore lo dovete tenere sempre presente, lo
dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo
nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo,
dovete vegliare in esso con il cuore»2. Queste ultime espressioni fanno comprendere
un ulteriore elemento della prassi primitiva:
il credo non veniva recitato in primo luogo
durante l’eucaristia, ma nella preghiera
quotidiana. Non è un dato importante per
noi oggi? Recitare ogni giorno il credo in
cui sono stato battezzato; recarmi sulla
tomba di Pietro e fare lì la mia rinnovata
professione di fede come lui la fede davanti al martirio… allora sì che la domenica risulterà più comprensibile professare insieme a tutta la Chiesa la stessa, unica fede.
Un ultimo tratto emerge dagli scritti di s.
Agostino ed è la professione pubblica del1
2
E
D O C U M E N T I
la fede; nessuno di noi cada nella trappola
che siamo uomini privati nei nostri impegni
e privati in chiesa la domenica. Il cristiano
è sempre, per sua stesa natura, un uomo
pubblico e attesta pubblicamente chi è.
Nelle Confessioni un brano attira la nostra
attenzione in proposito. Agostino racconta
delle sue frequentazioni con Simpliciano,
durante il periodo milanese, a cui aveva
confidato delle sue letture dei filosofi platonici tradotte dal retore Vittorino. Alla gioia
di Simpliciano per questa notizia, si aggiunse una confidenza: la conversione del
grande retore. «Evocò i suoi ricordi di Vittorino da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi
narrò dell’amico non tacerò, poiché offre
l’occasione di rendere grande lode alla tua
grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero
straordinario di filosofi, era stato maestro
di moltissimi nobili senatori; così meritò e
ottenne, per lo splendore del suo altissimo
insegnamento, un onore ritenuto insigne
dai cittadini di questo mondo: una statua
nel Foro romano. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora
quasi tutta invasata, delirava per la dea
del popolino di Pelusio e per mostri divini
di ogni genere e per Anubi l’abbaiatore, i
quali un giorno contro Nettuno e Venere e
Minerva presero le armi. Roma supplicava
ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio
Vittorino li aveva difesi per lunghi anni con
eloquenza terrificante. Eppure non arrossì
di farsi garzone del tuo Cristo e infante alla
tua fonte, di sottoporre il collo al giogo dell’umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce… A detta di Simpliciano, leggeva
la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: “Devi sapere che sono ormai cristiano”.
L’altro replicava: “Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché
non ti avrò visto nella chiesa di Cristo”.
S. AGOSTINO, Sermo 212,2.
ID., Sermo 215,1.
77
M A T E R I A L I
Egli chiedeva sorridendo: “Sono dunque i
muri a fare i cristiani?”. E lo affermava sovente, di essere ormai cristiano, e Simpliciano replicava sempre a quel modo, ed
egli sempre ripeteva quel suo motto sui
muri della chiesa… Perso il rispetto verso
il suo errore, e preso da rossore verso la
verità, all’improvviso e di sorpresa, come
narrava Simpliciano, disse all’amico: “Andiamo in chiesa, voglio divenire cristiano”.
Simpliciano, che non capiva più in sé per
la gioia, ve lo accompagnò senz’altro. Là
ricevette i primi rudimenti dei sacri misteri;
non molto dopo diede anche il suo nome
per ottenere la rigenerazione del battesimo, tra lo stupore di Roma e il gaudio della
Chiesa. Se i superbi s’irritavano a quella
vista, digrignavano i denti e si maceravano, il tuo servo aveva il Signore Dio sua
speranza e non volgeva lo sguardo alle
vanità e ai fallaci furori… Infine, venne il
momento della professione di fede. A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da
un luogo elevato, al cospetto della massa
dei fedeli una formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l’amico, proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si
sarebbe emozionato per la vergogna. Ma
Vittorino amò meglio di professare la sua
salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la salvezza,
eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva
vergognarsi del tuo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le
sue parole senza vergognarsi delle turbe
insane. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo
che lo conoscevano. Ma chi era là, che
non lo conosceva? Risuonò dunque di
bocca in bocca nella letizia generale un
grido contenuto: “Vittorino, Vittorino”; e come subito gridarono festosi al vederlo, così
tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con
sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero vo3
ID., Confessiones, VIII, 2,2-5.
78
E
D O C U M E N T I
luto portarselo via dentro al proprio cuore,
e ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell’amore e del gaudio»3.
La commozione della narrazione non deve
far perdere di vista le importanti notizie che
riguardano il nostro tema: «A Roma chi si
accosta alla tua grazia recita da un luogo
elevato, al cospetto della massa dei fedeli
una formula fissa imparata a memoria».
Per concludere
La fede ci mette dinanzi alla visione dell’uomo più impegnativa che possa esistere. Dobbiamo ricordarci di questa nostra
pretesa; essa si scontra con tutte le parvenze di libertà che vengono proposte e
che, di fatto, limitano la formazione della
persona perché ne impediscono il suo
vero sviluppo. È per questo che stiamo
sotto il fuoco incrociato perché ciò che
proponiamo è scomodo, controcorrente e
impedisce di ridurre l’uomo a un puro oggetto di mercato e l’amore a un puro fatto
transeunte di un fine settimana. Nessuno
di noi, tuttavia, potrebbe prendere sul serio la consegna di Cristo se non comprendesse che questa comporta l’essere trascinati con lui in un’offerta di amore che
sa consegnarsi a ciò che agli occhi del
mondo appare come sconfitta e fallimento. Possiamo esser emarginati, ma questo
può essere anche la nostra forza. Certamente ci saranno molti che comprenderanno che dinanzi all’ideologia della banalità e dell’effimero che sa solo offrire
concerti dell’ultima ora o divertimento
sfrenato senza più regole, è necessaria
un’opposizione profetica, tipica delle sentinelle che siamo chiamati ad essere e
che ci rende non solo davvero moderni
dinanzi al decadimento attuale, ma lungimiranti nel saper rispondere agli interrogativi che sorgono in tanti coetanei al termine di un lugubre fine settimana (cfr J.
Ratzinger, Il Sale della terra, San Paolo,
p. 271). Saremo veramente «sentinelle
del mattino» se avremo in noi il coraggio
per la Verità, l’unica che può realmente
puntare gli occhi sulla bellezza dell’amore
senza rimane folgorata.
In quarta di copertina: un miniatore eporediese [1000-1001] illustra san
Gregorio che detta i testi allo scriba Pietro. Dal Sacramentario del vescovo
Warmondo, Ivrea, Biblioteca Capitolare, cod. 31/LXXXVI, fol. 8v.
Certamente nessun insegnante pretenderà essere un san Gregorio Magno (per
giunta “insignis praesul et auctor” ed ispirato [si guardi la colomba dello Spirito
Santo davanti al suo orecchio]) come nessuno studente il suo personale “scriptor”.
Ma in qualche modo quotidianamente ambedue lo sono.
Nel colophon delle Omelie su Ezechiele di Gregorio Magno, X secolo, nella
lunga dedica l’amanuense esprime il senso e la fatica del suo lavoro:
«Labor scribentis refectio legentis. Haec deficit corpore, ille proficit mente. Quisquis in eo proficeris, mihi fratri Leoni meminisse digneris, qui
hunc propriis manibus exaravi hunc librum [...] O quam dulcis est navigantibus portus: ita scriptori novissimus versus. Tria digita scribunt, totum corpus laborat. Dorsum inclinat, costas in ventrem mergit et omne
fastidium corporis nutrit. Ideo tu, lector, leniter folia versa, manus lava,
et sic librum tene et ei aliquid pro vestitura consterne. Deo gratias».
(«La fatica di chi scrive è nutrimento per chi legge. Questa indebolisce il
corpo, quello giova alla mente. Chiunque ne trarrà vantaggio, voglia ricordarsi di me frate Leone, che questo scrisse di propria mano […]. O
quanto dolce è il porto per i naviganti: così è per lo scrittore l’ultimo verso. Tre dita scrivono, tutto il corpo si affatica. Il dorso si piega, le costole
affondano nel ventre e tutto alimenta il disgusto del corpo. Perciò tu, o
lettore, gira le pagine con dolcezza, lavati le mani, e così conserva il libro
e dagli qualcosa come protezione. Rendiamo grazie a Dio»).
Un omaggio allo studente ed un invito alla “compassione” educativa dell’insegnante, ambedue scriptores et auctores di storie quotidiane e di nuove forme
di cultura.
79
Scarica

Religione Scuola Città