LA STORIOGRAFIA
UMANISTICA E
RINASCIMENTALE
La scoperta
del metodo storico
Caratteri della storiografia
umanistica
Fra Quattro e Cinquecento la storiografia europea si rifonda:
1.
Si riprende – essenzialmente a livello formale - il modello
classico latino (assai meno quello greco)
2.
Si mette in discussione la periodizzazione biblica (sei età,
quattro monarchie, ecc.)
3.
Si riscopre la dimensione immanente e umana della storia
(laicizzazione)
4.
La storiografia teologica è confinata nella cerchia della
storiografia ecclesiastica e confessionale
5.
Ritorna l’idea di ciclicità della storia rapportata alla vita
umana
6.
Si affermano nuove forze motrici della storia: la Natura e la
Fortuna
7.
Nasce la filologia come disciplina ausiliaria storia
Gli storici e le fonti
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Inizialmente gli storici che usavano fonti
documentarie non erano considerati degli
innovatori e non pretendevano di esserlo.
Nel comporre le loro opere gli storici umanisti
seguivano di solito un’unica fonte. Non era loro
costume vagliare tutte le relazioni disponibili ed
elaborare una propria versione come risultato
di questa ricerca.
Fonti come testimoni oculari
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Di conseguenza per gli umanisti c’era un solo
problema di metodo critico: stabilire i criteri per
individuare fra le fonti narrative quella più attendibile
da usare come base per la propria ricostruzione
storica.
Gli umanisti non seppero elaborare un sistema per
determinare questi criteri. L’unico punto su cui
convenivano era che l’attendibilità di una fonte
normativa dipendeva dalla prossimità temporale
dell’autore agli avvenimenti narrati.
(Felix Gilbert)
Storia e Fortuna
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Per gli storici umanisti il mondo della storia è il regno
della Fortuna, una forza autonoma e incontrollabile con
potere illimitato sulle cose umane.
Diversa dalla Provvidenza divina, la Fortuna non era
mossa da un disegno razionale o riconducibile ad
un’intelligenza superiore.
Paradossalmente, questa visione del potere della Fortuna
e dell’impotenza umana diede maggior attrattiva allo
studio della passato e alla ricerca storica, intesa come
ricerca delle leggi nascoste dell’agire umano e della
politica.
Le spiegazioni di come si erano svolte le cose parvero più
interessanti dei precetti sul modo di condursi.
Storia e letteratura
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Gli umanisti sono innanzitutto letterati che scrivono di
storia (scrittori di storia più che storici), come Petrarca o
Boccaccio.
Per molti di loro (Valla, Bruni, Bembo, Sabellico, lo stesso
Machiavelli) la storiografia è un’arte – come la retorica - al
servizio della politica.
Al tempo stesso la storiografia deve fondarsi sulla
filologia e sull’erudizione critica (raccolta, esame e critica
delle fonti).
Nasce un nuovo genere storiografico-letterario come la
biografia (Vasari, V. Da Bisticci) basata sulle fonti, ma
tesa a caratterizzare una personalità (artisti o letterati,
non solo santi o eroi).
La riscoperta della storiografia
antica
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“La montagna di testi storici antichi recuperati
nei secoli XV e XVI rendeva lo scrivere storia
in Europa occidentale un’operazione molto più
complicata e discutibile di quanto fosse mai
stata a partire dal VI secolo. Essa fu affiancata
da scritti teorici sull’arte della storia in una
misura che era sconosciuta al medioevo
latino”.
(A. Momigliano)
La storiografia antica come
modello ideale
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La lettura delle opere degli storici classici non
stimola però lo studio dell’antichità, ma viene
usata come guida per scrivere sugli eventi
contemporanei.
Come gli storici classici, lo storico umanista è
un individuo che non descrive solo fatti, ma
popone un’interpretazione e mette le sue
capacità a disposizione del “mercato” (le corti
delle nuove monarchie nazionali).
Storici italiani in Europa
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Finché la tecnica (conoscenza della lingua
latina, stile, retorica) è prerogativa degli
intellettuali italiani gli storici delle monarchie
europee saranno essenzialmente italiani.
Paolo Emilei, veronese, in Francia
Polidoro Vergilio, urbinate, in Inghilterra
L. M. Siculo, palermitano, in Spagna
P. Buonaccorsi, fiorentino, in Polonia
Giuseppe Giusto Scaligero, gardesano, in
Olanda.
La storiografia umanistica
dall’Italia all’Europa
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1.
2.
3.
La nuova storiografia nasce in Italia e
dall’Italia si diffonde in tutta Europa.
Il modello è quello classico, ma l’ispirazione è
diversa:
Il ritorno all’antico è innanzitutto un obiettivo
formale e letterario
L’universalismo è sostituito dal patriottismo.
La secolarizzazione non esclude la
trascendenza divina
Dalle cronache medievali alla
storiografia umanistica
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Inizialmente gli storici umanisti al servizio delle monarchie
europee (Lorenzo Valla a Napoli; Paolo Emilei in Francia;
Polidoro Vergilio in Inghilterra; L. M. Siculo in Spagna;
Giuseppe Giusto Scaligero in Olanda; P. Buonaccorsi in
Polonia) riprendono le cronache del tardo medioevo per
trasporle in latino classico (la “forma umanistica”).
Successivamente provvederanno a scrivere nuove storie
“alla maniera degli antichi” ad uso dei sovrani.
Mediante queste storie riscritte i sovrani cercano di
legittimare il loro potere di fronte all’Europa colta.
Solo ora nasce una vera tradizione nazionale
comprensiva di leggende e di miti delle origini.
Stato moderno e storiografia
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Con gli Stati moderni (XIV-XVI secc.) nasce
anche la storiografia moderna che è
innanzitutto storiografia nazionale.
Ecco perché la storiografia del XVI secolo
guarda soprattutto al modello romano
(nazionale) piuttosto che a quello greco (non
nazionale).
Il modello greco (cittadino) gode invece di
buona fortuna nell’Italia delle cento città.
LORENZO VALLA (1407-1457)
LORENZO VALLA (1407-1457)
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Lorenzo Valla nasce a Roma nel 1407 da famiglia
piacentina, il padre è avvocato. Non ancora
ventenne inizia le sue polemiche con un opuscolo
anticiceroniano (Paragone tra Cicerone e
Quintiliano). Punta ad ottenere una segreteria
pontificia, ma senza esito.
Da Roma passa a Pavia dove ottiene la cattedra di
retorica e scrive il trattato filosofico De voluptate
(1432), sotto forma di dialogo.
Nel 1433 lascia Pavia per sfuggire all'ostilità dei
giuristi locali, in una Epistola de insigniis et armis
contro Bartolo di Sassoferrato.
Soggiorna a Milano e a Firenze per poco tempo.
LORENZO VALLA (1407-1457)
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Nel 1437 è a Napoli dove viene nominato lettore e
segretario di re Alfonso I d'Aragona (allora in conflitto con
il papa Eugenio IV), e dove rimane un decennio,
scrivendo le sue opere più importanti: gli Elegantiarum
libri, contro il latino medievale, i Disputationes dialecticae
libri tres (1439), contro la tradizione aristotelica, il De
libero arbitrio (1439) e la celebre Declamatio (1440) che
verrà pubblicata solo nel 1523 da U. von Hutten, con un
ironica dedica a Leone X contro le pretese temporali della
Chiesa di Roma.
Le sue dure polemiche contro i frati (De professione
religiosorum, 1442) lo conducono davanti all'Inquisizione
arcivescovile di Napoli dalla quale si salva grazie alla
protezione del sovrano.
LORENZO VALLA (1407-1457)
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Nel 1447 ritorna a Roma, sotto la protezione del nuovo
papa Niccolò V che lo nomina scrittore apostolico.
In questi ultimi anni polemizza vigorosamente con Poggio
Bracciolini; critica la storiografia liviana, rivalutando la
"libertà repubblicana" di Roma; pubblica varie traduzioni
dal greco e le In Novum Testamentum adnotationes
(iniziate a Milano nel 1434), poi utilizzate da Erasmo da
Rotterdam, dagli esegeti protestanti e da Spinoza.
Suo ultimo scritto è un ironico Encomium di san
Tommaso d'Aquino, nel quale polemizza contro
l'ignoranza fratesca, il gergo scolastico e dichiara
Tommaso inferiore agli antichi Padri.
Muore a Roma il 1 agosto 1457.
De falso credita et ementita
Constantini donatione declamatio,
(Napoli 1440)
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Valla procede con metodo: prima formula le ipotesi, poi le
confuta una ad una, senza lasciare nulla di intentato. Solo
alla fine lancia le sue invettive contro la tirannia papale
("Potremmo noi ammettere come legale l'origine della
potenza papale, che vediamo essere causa di tanti delitti e di
tanti mali di ogni genere?" p.102), cogliendo l'occasione per
parlare contro i miracoli e il culto dei santi.
All'inizio introduce anche alcune orazioni immaginarie (del
senato e del popolo romano, di Silvestro e dello stesso
Costantino) per rendere più efficace il discorso. Valla tratta il
falsificatore da bugiardo e da ignorante muovendo da quattro
assunti principali.
Valla procede quindi alla confutazione vera e propria del
testo su quattro diversi piani.
Quattro assunti principali
1.
2.
3.
4.
Costantino e Silvestro non avevano la personalità
giuridica per donare e per accettare il dono;
anche se così fosse stato, mai Costantino donò, né
Silvestro accettò il dono, ma i territori dell'Impero
rimasero sempre sotto la sovranità degli
imperatori;
nulla diede Costantino a Silvestro, ma semmai al
suo predecessore Melchiade da cui fu battezzato;
è falso che il testo della Donazione si trovi nelle
decretali della Chiesa o nella Vita di S. Silvestro;
non se ne fa cenno in alcuna cronaca medievale.
1. Confutazione sul piano logico
• Perché mai Costantino, imperatore
guerriero, avrebbe dovuto alienare la
parte migliore dell'impero,
calpestando le prerogative del senato
e diseredando i suoi figli?
• Se il papa possedeva tante terre,
quando, perché e per mano di chi le
avrebbe poi perdute?
2. Confutazione sul piano
teologico
• La Chiesa non dovrebbe accettare
beni terreni (Cristo rifiutò di diventare
re) e tanto meno prerogative imperiali
e militari.
3. Confutazione sul piano
storico
• Il testo della pretesa donazione contiene
anacronismi;
• cita o ricalca passi della Bibbia che
Costantino (appena convertito) non poteva
conoscere;
• descrive attributi imperiali (il diadema e la
corona) introdotti solo dopo Costantino;
• nomina luoghi (le basiliche di S. Pietro e
S. Paolo) inesistenti all'epoca di
Costantino.
4. Confutazione sul piano
diplomatico
• Un documento così importante avrebbe
dovuto essere conservato in più copie, è
impossibile che non si sia conservato
l'originale; è altresì impossibile che
l'originale sia stato scritto su semplice
carta (e non su pietra, su marmo, su
bronzo) e che sia stato nascosto dentro il
sepolcro di S. Pietro; anche ammesso che
il testo conosciuto sia una copia del secolo
VIII, da dove proviene e da chi fu fatta?
5. Confutazione sul piano
filologico
• Il testo contiene incongruenze
linguistiche e stilistiche, barbarismi e
solecismi; il latino del testo è tardo e
non è quello del IV secolo.
Conclusione
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In definitiva: la donazione è stata ritenuta vera per
sette secoli solo per ignoranza e malafede.
Il falso, costruito nell'interesse dei papi, è stato - a
ragione - sempre rifiutato dagli imperatori greci,
privati delle loro terre d'Occidente, mentre è stato
accettato solo dagli imperatori "latini", in quanto essi
stessi sarebbero una creazione del papa (Stefano III
e la "traslatio Imperii") che si arroga il diritto di
incoronarli, usurpando una prerogativa del senato e
del popolo romano.
Niccolò Machiavelli (1469-1527)
La formazione (1469-1498)
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Niccolò Machiavelli nasce a Firenze da antica famiglia patrizia
impoverita. Suo padre Bernardo è un colto giurista legato ai •
circoli umanistici.
Della sua adolescenza poco sappiamo, se non che a dieci anni
scrive già in latino e divora i libri della biblioteca paterna, ma
non conosce il greco, il che rappresenta per lui una chiara
discriminante intellettuale rispetto al mondo degli umanisti
fiorentini.
Nel 1498, nel quinto ed ultimo anno del governo di Girolamo
Savonarola, è fra i candidati all'incarico di secondo segretario
della Signoria, ma non l'ottiene; pochi mesi dopo, caduto il
Savonarola, ottiene il ben più importante incarico di primo
segretario della Cancelleria, addetto alla magistratura dei "Dieci
di libertà e di pace", che dirigevano i rapporti con l'estero e le
imprese militari, incarico che manterrà per quindici anni fino al
1512.
Gli anni operosi (1498-1520)
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In questi anni M. sarà incaricato, per conto della Repubblica, di
molte delicate missioni in Italia (a Siena, Pistoia, Urbino, Roma,
Imola e in Romagna nel 1502-1503) e all'estero (in Francia nel
1500, 1504 e 1510 e in Germania nel 1507-1508 con
Francesco Vettori).
Principale consigliere del Gonfaloniere Pier Soderini,
esponente del partito antimediceo, M. ne sostiene la politica
con gli scritti e con gli atti.
Caduta la repubblica e ritornati i Medici a Firenze nel 1512, M.
viene allontanato dagli uffici, incarcerato per breve tempo ed
infine costretto a ritirarsi nella sua casa di campagna presso
San Casciano, dove scrive i Discorsi (1513-1519) e il Principe
(1513-1515). Attenuandosi il regime del confino, si reca di
tanto in tanto a Firenze dove frequenta il circolo intellettuale • di
palazzo Rucellai (i cosiddetti "Orti oricellari").
Fra il 1519 e il 1520 scrive i Libri dell'arte della guerra.
Gli ultimi anni (1520-1527)
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Nel 1520 ritorna a Firenze e svolge qualche missione per conto
di cittadini privati (missione a Lucca del 1520).
Viene presentato al cardinale Giulio de‘ Medici (futuro papa
Clemente VII), presidente dello Studio fiorentino, dal quale
riceva l’incarico di scrivere una storia della città di Firenze.
Fra il 1520 e il 1525 scrive le Istorie fiorentine, presentate
solennemente a Roma nel 1525.
Negli ultimi anni di vita M. partecipa alla difesa di Firenze •
contro Carlo V ed assiste alla caduta dei Medici e all’effimera
restaurazione della repubblica, ma il nuovo governo, diffidente,
gli nega ogni incarico.
Muore a Firenze nel 1527: l'anno del "sacco di Roma".
L’opera
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L'anno 1512 (ritorno dei Medici a Firenze) rappresenta la svolta cruciale nella
vita di M., dalla vita attiva di uomo politico alla vita contemplativa di storico e
letterato, ma la cesura fra il politico e il letterato non è così netta; dopo il 1512
M. opera quasi esclusivamente nell'intento di ottenere un incarico politico e per
questo cerca la protezione dei potenti (Medici compresi). Il paradosso risiede
semmai nel fatto che, mentre M. si presentava come scrittore con obiettivi
politici pratici, non faceva più parte del ceto dirigente, anzi era un oppositore
del governo aristocratico.
In ogni caso il Principe e i Discorsi sono l'opera di un uomo politico sconfitto,
che riflette sugli errori dai quali è stato provocato il fallimento della sua causa.
La contraddizione fra il Principe ("manuale per i tiranni") e i Discorsi
("idealizzazione di una libera repubblica") è solo apparente: in realtà in
entrambe le opere basilare è il tema della direzione politica; nel primo testo M.
guarda le cose dall'alto, nel secondo dal basso. M. intendeva fare per la politica
ciò che altri avevano fatto per l'arte, il diritto e la medicina: chiarire e codificare i
princìpi seguiti dagli antichi. Egli tuttavia non intende enunciare norme di valore
generale applicabili alla condotta di ogni individuo, ma solo considerazioni
politiche destinate ai politici e dedotte dall'esperienza.
Le leggi della politica dipendono
dal contesto
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In politica non esistono leggi immutabili.
Occorre infatti distinguere fra la politica
che M. suggerisce per gli uomini che
vivono liberamente (nei Discorsi) e
quella che indica come inevitabile per la
civiltà corrotta (nel Principe).
Virtù
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La “Virtù” è un concetto chiave di M.: ma non
indica la virtù cristiana, bensì la forza e il
vigore che derivano dalle azioni umane.
La Virtù è un requisito essenziale per il
comando e può essere posseduta sia da un
singolo (il Principe) che da un corpo collettivo
(la Repubblica).
Non è un dono naturale, ma un risultato.
Morale e politica
Machiavelli non postula l’immoralità della
politica, ma constata semplicemente che
le leggi della politica sono autonome da
quelle della morale.
Politica e morale sono autonome, ma non
avulse: solo nella Repubblica retta da
buone leggi si può esplicare pienamente
la virtù.
I Discorsi su Tito Livio
(1513-1519)
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Livio, storico di Roma repubblicana, offre spunti di riflessione allo
storico, ma soprattutto all’uomo politico:
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1) nesso libertà-civiltà (“tutte le terre e le provincie che vivono libere
in ogni parte fanno profitti grandissimi”)
2) corruzione=negazione di libertà(“è impossibile in una città
corrotta mantenere uno stato libero”)
3) fragilità delle dittature (“gli regni i quali dipendono solo dalla virtù
di uno uomo, sono poco durabili”)
4) superiorità dello “Stato popolare” …
5) … basata sulla “civile equalità” (“le repubbliche bene ordinate
hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri”)
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I Discorsi su Tito Livio
(1513-1519)
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6) pericolo rappresentato dalle signorie territoriali (“coloro che non
solo oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni
abbondantemente, ma che comandano a castella ed hanno sudditi
che ubbidiscono loro”)
7) Fortuna e Virtù sono in rapporto inversamente proporzionale
(“dove gli uomini hanno poca Virtù, la Fortuna mostra assai la potenza
sua”)
8) “le buone leggi sono il cardine del vivere civile”
Francesco Guicciardini
(1483-1540)
Francesco Guicciardini (1483-1540):
gli esordi (1483-1513)
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Francesco Guicciardini nasce a Firenze da una famiglia di ricca
e potente aristocrazia (terre, commerci, cariche politiche).
Studia a Firenze, Ferrara e Padova e si laurea in diritto civile a
Pisa (1505).
Intraprende la carriera politica svolgendo alcune missioni
diplomatiche minori per conto della Signoria. Nel 1508 sposa
Maria Salviati, di famiglia aristocratica povera, ma influente
nella politica fiorentina. Inizia in questo periodo anche l'attività
letteraria, componendo le Storie fiorentine (1509).
Giovane ambizioso e capace, ottiene dalla Repubblica incarichi
diplomatici sempre più importanti: nel 1511 è nominato
ambasciatore presso la corte di Spagna, dove rimane fino al
1513.
Francesco Guicciardini (1483-1540):
al servizio dei Medici e dei Papi
(1515-1527)
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Caduta la repubblica, passa al servizio dei Medici per conto dei quali
scrive i due discorsi Come assicurare lo stato ai Medici (1515).
Alla fine del 1515 passa al servizio di papa Leone X (Giovanni de'
Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) che gli affida importantissimi
incarichi politici e militari:
- nel 1516 è governatore di Modena;
- nel 1521 è governatore anche di Reggio Emilia;
- nel 1522 è governatore di Parma e difende la città contro i francesi;
- nel 1524 è nominato da papa Clemente VII (Giulio de' Medici, nipote
di Leone X) presidente del governo di Romagna e riconduce all'ordine
i territori ribelli;
- nel 1526 è incaricato delle trattative diplomatiche per la Lega di
Cognac (contro l'Impero) ed è nominato Luogotenente generale
dell'esercito pontificio.
Si afferma come uno degli uomini di Stato più potenti d’Italia.
La sconfitta della Lega ed il sacco di Roma (1527) inducono
Guicciardini a ritornare a Firenze, dove è stata appena restaurata la
repubblica.
Francesco Guicciardini (1483-1540):
gli ultimi anni (1527-1540)
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Scrive il dialogo Del reggimento di Firenze (1526).
Considerato filomediceo è confinato nella sua villa di Finocchietto,
dove si dedica all'attività letteraria e storiografica. Nel 1528 scrive le
orazioni Consolatoria, Accusatoria e Difensoria, a difesa del proprio
operato politico; nel 1529 le Considerazioni intorno ai Discorsi di
Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio.
Nel 1530 è accusato dalla repubblica fiorentina di "macchinazioni
contro lo stato" e condannato in contumacia, ma la restaurazione
medicea gli permette di rientrare a Firenze e riprendere l'attività
politica al servizio dei Medici e poi di Clemente VII.
Assume, suo malgrado, una parte preminente nella persecuzione dei
capi della repubblica.
Dal 1531 al 1534 è vicedelegato pontificio a Bologna, ma dopo la
morte di Clemente VII - pur rimanendo nella cerchia dei consiglieri dei
Medici - non avrà più incarichi di rilievo. Ritiratosi nella sua villa di S.
Margherita in Montici, si dedica alla composizione della Storia d'Italia
che lascia quasi ultimata al momento della morte nel 1540.
Il castello di Poppiano Guicciardini
L’opera e il pensiero
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Quella di Guicciardini è una storia politica,
diplomatica e militare sul modello di Tucidide, ma
con attenzione prevalente alla politica estera e al
contesto europeo.
G. abbandona la dimensione cittadina – che era
ancora quella di Machiavelli - per assumere uno
sguardo più ampio.
Sa che il mondo non può essere trasformato
(disincanto), ma bisogna sapersi adattare alle
situazioni e trarne profitto. Il suo realismo rasenta il
cinismo.
La Storia d’Italia (1537-40)
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Storia d’Italia dalla discesa di Carlo VIII (1494) fino
alla morte di papa Clemente VII de’ Medici (1534).
Le fonti sono o dirette (testimonianza), o tratte dalla
memoria o dal suo ricco archivio, o dall’Archivio del
Consiglio dei Dieci.
I personaggi (Lorenzo de Medici, Ludovico il Moro,
Carlo V, Clemente VII) sono ben caratterizzati
psicologicamente e i loro discorsi sono quasi sempre
tratti da lettere o testi
Il pessimismo
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Guicciardini osserva e descrive l’inesorabile
declino dell’Italia sulla scena europea fino
alla catastrofe finale: la “fine della libertà
italiana” (1530).
Gli eventi storici sono dominati dalla Fortuna
e l’uomo non ha modo di garantirsi il
successo, neppure usando intelligenza e
virtù. Può solo resistere all’avversità
coltivando il proprio “particulare”.
L’Italia dalla pace di Lodi (1454)
alla discesa di Carlo VIII (1494)
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Ritornando con nostalgia ai beati anni Novanta del
Quattrocento – gli anni immediatamente precedenti la morte
di Lorenzo de’Medici – Francesco Guicciardini, ormai
conclusa una brillante carriera politica e ritiratosi a vita
privata, nei primi anni Trenta del Cinquecento individuava
con lucido pessimismo alcune fra le cause della crisi politica
che aveva scatenato circa mezzo secolo di guerre italiane
portando alla fine della «libertà italiana».
L’Italia del 1490 nelle parole di
Francesco Guicciardini
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«Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse
allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbono l’origine
tanti mali) cominciorno con tanto maggiore dispiacere e spavento
negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più
liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio
romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi
costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza
a declinare alla quale con meravigliosa virtù e fortuna era salito,
non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato
stato tanto desiderabile, quanto era quello nel quale sicuramente
si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento
novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti».
Lorenzo de’Medici (1449-1492)

“… si attribuiva laude non
piccola alla industria e virtù di
Lorenzo de’ Medici, cittadino
tanto eminente sopra ‘l grado
privato nella città di Firenze che
per consiglio suo si reggevano le
cose di quella repubblica, potente
più per l’opportunità del sito,
per gli ingegni degli uomini e per
la prontezza de’ denari, che per
grandezza di dominio.”
Papa Innocenzo VIII (1432-1492)

“… e avendosi egli … ridotto a
prestar fede … a’ consigli suoi
Innocenzo ottavo pontefice
romano …”

Lorenzo de’ Medici fa
sposare la figlia Maddalena
con il nobile Franceschetto
Cybo, figlio del papa
Innocenzo VIII (Gian
Battista Cybo)
La conservazione della pace
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Lorenzo de’ Medici …

“… procurava con ogni studio che le cose d’Italia
in modo bilanciate si mantenessino che più in una
che in un’altra parte non pendessino…”
Ferdinando I di Aragona re di
Napoli (1427-1494)


“… concorreva nella medesima
inclinazione della quiete comune
Ferdinando di Aragona re di
Napoli, principe certamente
prudentissimo e di grandissima
estimazione;
… con tutto che molte volte per
l’addietro avesse dimostrato
pensieri ambiziosi e alieni da’
consigli della pace …”
Alfonso d’Aragona duca di Calabria
(1448-1495), poi Alfonso II di Napoli



Ferdinando d’Aragona
era…
“… molto stimolato da
Alfonso duca di Calavria, suo
primogenito, il quale …”
Sposa nel 1465 Ippolita Maria
Sforza, figlia di Francesco
duca di Milano, dalla quale
avrà la figlia Isabella sposa nel
1488 di Gian Galeazzo Sforza,
nipote di Francesco.
Gian Galeazzo Sforza, duca
spodestato

“… il quale malvolentieri tollerava
che Giovan Galeazzo Sforza duca
di Milano, suo genero, maggiore già
di venti anni, benchè di intelletto
incapacissimo, ritenendo solamente
il nome ducale fusse depresso e
soffocato …”
La sorte del ducato di Milano
Gian Galeazzo Sforza (1469-1494) figlio di Galeazzo
Maria Sforza duca di Milano e di Bona di Savoia.
 Alla morte del padre (1476) viene posto sotto la
tutela della madre, ma nel 1480 lo zio Lodovico
Sforza ottiene con un colpo di stato la reggenza sul
ducato di Milano, usurpando di fatto il potere anche
dopo la maggior età di Gian Galeazzo – sposo nel
1488 di Isabella di Napoli, figlia di Alfonso d’Aragona
- che viene relegato a Pavia dove muore (forse
ucciso) nel 1494.
Lodovico Sforza detto “il Moro”
usurpatore del ducato di Milano

Gian Galeazzo Sforza…

“… depresso e soffocato da
Lodovico Sforza suo zio: il quale
avendo più di dieci anni prima, per
la imprudenza e impudichi costumi
della madre madonna Bona, preso
la tutela di lui e con questa
occasione ridotte a poco a poco in
potestà propria … tutti i
fondamenti dello stato,
perseverava nel governo … da
principe”.
Lodovico il Moro (1452-1508)




Lodovico Sforza (1452-1508) detto il Moro, figlio di
Francesco Sforza e fratello minore del duca di Milano
Galeazzo Maria Sforza, marito di Bona di Savoia e padre di
Gian Galeazzo.
Alla morte del fratello (1476) muove guerra a Bona di
Savoia, reggente in nome del piccolo Gian Galeazzo,
ottenendo nel 1480 la tutela del nipote e la reggenza del
ducato.
Duca di fatto, ma non di diritto, Lodovico prima si allea con
Napoli contro Venezia, poi (1494) con Carlo VIII di Francia
contro Ferdinando d’Aragona.
Con il regno di Luigi XII (1498), discendente da una Visconti
e in quanto tale pretendente al ducato di Milano, viene
spodestato e catturato dai francesi.
“…per fare contrapeso alla
potenza de’ viniziani …”
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Ferdinando d’Aragona riteneva che…
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“… per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani,
formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere
necessaria l’unione sua [di Napoli] con gli altri e
specialmente con gli stati di Milano e di Firenze
…”
Ferdinando, Lodovico e Lorenzo …
… e la potenza di Venezia

«Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i
medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace,
si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di
Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della
repubblica fiorentina, per difensione de’ loro stati; la quale,
cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti,
era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti
i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo
per fine principalmente di non lasciare diventare più potenti i
viniziani, i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati,
ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati
da’ consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e
travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che
potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia».
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7. La storiografia umanistica e rinascimentale