ὅρμος
ISSN 2036-587X
n.s. 2-2010
Ricerche di storia antica
Truppe e comandanti
nel mondo antico
Atti delle giornate di studio a cura di
Daniela Bonanno Rosalia Marino Daniela Motta
Università degli Studi di Palermo
Dipartimento di Beni Culturali
Sezione di Storia Antica
n.s. 2-2010
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Indice
Truppe e comandanti nel mondo antico
Atti del Convegno di Palermo, 16-17 novembre 2009
Rosalia Marino, Premessa
3
Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
5
Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
17
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
38
Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
55
Roberto Sammartano, La formazione dell’esercito di Dionisio I. Tra prassi, ideologia e propaganda
67
Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
79
Antonino Pinzone, L’interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l’Africano
91
Jonathan R.W. Prag, Truppe e comandanti: auxilia externa in età repubblicana
101
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
114
Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale
128
Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
138
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
157
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
164
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe: stereotipi culturali e ricerca di nuovi equilibri in Ammiano
Marcellino
175
Riassunti
189
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ISSN 2036-587X
n.s. 2-2010
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Contents
Troops and commanders in the ancient world
Proceedings of the Conference Palermo, 16-17 novembre 2009
Rosalia Marino, Introduction
3
Giovanna Bruno Sunseri, The battle exhortations in ancient historiography.
Rhetorical invention or fact
5
Francesca Mattaliano, The battle exhortation in Greek historiography:
Allocution practice and composition ways
17
Carmela Raccuia, Troops and commanders in Greek Sicily: cases study
38
Marco Vinci, Recruitment of picked troops in Syracuse during the Classical Age
55
Roberto Sammartano, The making of Dionysiusʼ army: Between praxis, ideology and propaganda
67
Luisa Prandi, Soldiers of Alexander the Great. Some remarks about their debts and sons
79
Antonino Pinzone, The interaction milites-imperator during the Hispanic expedition
of Scipio Africanus
91
Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
101
Daniela Motta, Honorary inscriptions of commanders:
the city of Ilion during the campaign against the pirates and the Mithridatic wars
114
Rosalia Marino, Policy and psycho-drama in military rhetoric in the triumviral age
128
Davide Salvo, Germanicus and Rhine mutiny
138
Giuseppe Zecchini, The military factor in Roman failure to conquer Germany
157
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. Dacians, Decebalus and Trajan’s Column
164
Marina Usala, The relationship between Julian and the troops: cultural stereotypes and
new balances in Ammianus Marcellinus
175
Abstracts
189
on line dal 15 giugno 2011
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ISSN 2036-587X
Premessa
Questo numero ospita gli Atti delle Giornate di Studio su “Truppe e
comandanti nel mondo antico. Tra politica società cultura” organizzate
nell’ambito delle attività del dottorato di ricerca in Storia della Sicilia e del
Mediterraneo antico (Palermo, 16-17 Novembre 2009). Il tema, inserito in un
ampio quadro prospettico, si presenta ancora come un fertile e vitale campo
esplorativo sulla funzione catalizzatrice di una trave portante dei meccanismi
statali nel mondo antico.
La forza propulsiva che gli eserciti liberarono sul territorio si riverberava,
infatti, oltre che sugli equilibri politici, sugli assetti socio-economici, in un
intreccio inestricabile di valori che interferivano nella sfera dei codici sociali e
morali. I fattori di dinamismo che emergono dai contributi degli studiosi che
hanno animato il dibattito, pur lambendo diversi aspetti della fenomenologia della
guerra, lungi dall’offrire una storia militare, aprono ad una riflessione che dagli
stadi precoci dell’evoluzione degli eserciti conduce sino al polimorfismo della
cultura, laica e religiosa, attraverso processi di interazione a corrente alternata. La
tradizione antica, inoltrandosi consapevolmente nel territorio di molte domande
qual è quello dominato dalla guerra, ha affinato gli strumenti euristici e, grazie al
medium efficace della retorica, è riuscita a ricostruire itinerari ideologici, scenari
politici, sfondi culturali e sociali, processi economici.
In tale cornice si inseriscono gli studi [presenti in questo volume] che, nella
emersione di strategie storiografiche, offrono nuovi spunti di riflessione, per
esempio, sui contesti nei quali parenesi e paraclesi si fanno oggetto di storia
lacerando il silenzio complice su vicende centrali che coinvolsero, quando non
travolsero, nel mondo greco e romano, vecchi assetti socio-politici (G. Bruno
Sunseri, F. Mattaliano, R. Marino) o sul problema socio-economico del pagamento
dei debiti che Alessandro Magno decise per i soldati macedoni e delle provvidenze
per i figli di quelli nati da donne asiatiche con implicazioni politico-strategiche
dato che l’iniziativa era funzionale a istanze militari di controllo duraturo sui
territori asiatici (L. Prandi).
Del grande laboratorio politico che in Sicilia coinvolse l’organizzazione
militare percepita come forza di supporto a svolte istituzionali e ad aggregazioni
surrettizie alla ricerca di equilibri sempre nuovi, spazi di partecipazione politica
vennero “fisicamente” condivisi – tra la nascita di apoikiai e la creazione di ipparchi
e di combattenti selezionati a Siracusa tra il 461 e il 397 a.C. – con truppe
mercenarie sicule che attiravano gli strali polemici di una storiografia greca
autoreferenziale sempre disposta ad evidenziare polemologie d’avanguardia
nell’isola (C. Raccuia, M.Vinci, R. Sammartano).
La consapevolezza di un impero territoriale multipolare da controllare e
ampliare si tradusse abbastanza presto, per la classe dirigente romana, nella ricerca
di formule organizzative polifunzionali, proiettate verso il coinvolgimento, a
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ISSN 2036-587X
Rosalia Marino, Premessa
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diverso titolo, di soggetti estranei al sistema. I criteri di attrazione nell’orbita
romana, ispirati a Realpolitik, venivano caricati di ideali ecumenici per camuffare
istanze di consenso di cui gli eserciti divenivano vettori privilegiati, nobilitando –
così ritengo – le azioni dei comandanti-uomini politici.
Lungo questa traiettoria si collocano le indagini relative: all’interazione
milites-imperator che, nel segno del massimo impegno, agevolò la vittoria di Scipione,
acclamato imperator a Cartagena (A. Pinzone); alla nomina di Romani al vertice
della gerarchia negli eserciti ausiliari oltre che all’investitura di comandanti
“indigeni” voluta dai Romani attraverso il sistema clientelare e la promozione nelle
strutture civiche locali (J. Prag); agli onori di dediche a comandanti romani da
parte della città libera di Ilio (80-62 a.C.) a conferma della fedeltà a Roma che,
generalmente, ricambiava con aiuti militari secondo i meccanismi
dell’organizzazione provinciale – onori che nell’epigrafe dedicata a Pompeo
preludono, nella menzione dei neoi fra i dedicanti, alle forme di omaggio nei
confronti degli imperatori romani, quale recupero del culto dei sovrani in epoca
ellenistica (D. Motta).
Una pagina di storia imperiale scritta dalle legioni presenti sul territorio
della Germania (magna) sino all’Elba lega i destini di quella provincia, la cui
creazione Augusto datava nell’8/7 a.C., alle drammatiche vicende che misero fuori
gioco Germanico e alle insurrezioni dell’esercito renano (nel 69 d.C. e sotto i
Flavi), che allertarono gli imperatori sui rischi che la provincia prefigurava per la
stabilità del loro potere (G. Zecchini).
Collocata in un panorama cronologicamente più ristretto, la rivolta delle
legioni del Reno contro Germanico delinea, nel secondo contributo sul tema, i
contorni di conflitti di potere – la domus imperiale, la Curia, il popolo – che
evidenziano nella sostanza un salto di qualità del ruolo dei militari sul piano dei
condizionamenti della politica e dell’accresciuto potere contrattuale. Proprio in
virtù della carica militare di Germanico, Agrippina pretese di assumere una
funzione centrale nel solco tracciato dalla madre e dalla sorella (D. Salvo).
La rappresentazione iconografica delle imprese di Traiano nella famosa
colonna sembra riscattare la dignità dei Daci di Decebalo, sottraendo formule e
schemi «alla logica degli stereotipi costantemente associati alla barbarie» nelle
iconografie ufficiali dello stato romano (A. Mandruzzato), anche se forse non si
può escludere che l’intento dell’artista sia stato quello di nobilitare gli avversari per
esaltare meglio la grandezza della vittoria romana.
La percezione di una svolta culturale, che si esprime nella dialettica tra
conservazione e innovazione, attraversa, nelle Res Gestae di Ammiano, i discorsi di
Giuliano alle truppe. Lo strumento della retorica ci mette al corrente delle
oscillazioni tra le aperture alle moderne istanze sociali e valoriali e la tensione
verso l’ideale della aeternitas di Roma che il sovrano doveva essere in grado di
realizzare, così come teorizzato nei circoli aristocratici (M. Usala).
Palermo, maggio 2011
Rosalia Marino
on line dal 15 giugno 2011
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GIOVANNA BRUNO SUNSERI
Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
Nell’introduzione al volume pubblicato nel 2004 sulla guerra dei Greci,
Hans van Wees1 rileva giustamente come tattica e strategia, armi e corazze e i
minimi particolari delle battaglie e delle campagne, sino a qualche decennio fa,
hanno mantenuto la loro posizione tradizionale di interessi dominanti degli
studiosi della guerra dei Greci. Il punto di vista di costoro appare, per certi versi,
distante dalla realtà che ritraggono, come «se fossero sospesi in una mongolfiera»,2
al di sopra del massacro che avviene sul campo, con un atteggiamento freddo,
privo di partecipazione affettiva nei riguardi delle truppe, dei singoli soldati
disperati, veri protagonisti della guerra.
Poco spazio è dedicato, in effetti, nelle opere di questi autori, al quadro più
ampio che spazia dalle cause e dagli obiettivi della guerra alla relazione fra guerra,
società e Stato. Tale tendenza, «buona solo a soddisfare le pazzie intellettuali di un
colonnello a riposo» si è fortunatamente attenuata dagli anni ’70 del secolo scorso,
ma, dico cose note, con la pubblicazione dell’opera di Yvon Garlan3 seguita da
numerosi contributi che hanno volutamente ignorato logistica, strategia e tattica4
nella consapevolezza che una guerra è sempre uno scontro tra collettività
organizzate. La guerra ha dunque una natura politica e pubblica, non è un fatto
privato e individuale; essa può venir compresa in pieno soltanto quando è vista nel
suo intero ed è correlata al proprio contesto sociale, economico e politico.
Ernst Jünger, il grande scrittore della guerra, si chiedeva, parafrasando
Marx: sarebbe possibile l’Iliade con il piombo e la polvere da sparo? È fuori da ogni
discussione che il soldato, in quanto uomo che pratica il mestiere della guerra, la fa
o si prepara a farla, cambia carattere, immagine, vocazione seguendo l’evoluzione
della pubblica morale, dei valori che animano la società, dei regimi politici e dei
1
H. van Wees, Greek Warfare, London 2004, 15.
La felice espressione è di V.D. Hanson, L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia
nella Grecia classica, trad. it. di D. Panzieri, Milano 2001, 45.
3
Y. Garlan, La guerre dans l’antiquité, Paris 1972. La citazione è dello stesso Garlan, ibid., 14.
4
Cfr. J. Keegan, The Face of Battle, NewYork 1976.
2
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Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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progressi tecnici. Anche un diverso modo di schierare le truppe può rivoluzionare
l’arte di far guerra.5 Non è un caso che al lacedemone Aristodemo che a Platea,
come riferisce Erodoto,6 si slancia pieno di furore fuori dallo schieramento, alla
maniera dell’eroe arcaico, pronto a morire più per liberarsi dell’onta subita (in
quanto unico dei trecento era scampato alle Termopili) che per salvare la patria, i
suoi stessi concittadini preferiscano Posidonio, figura emblematica della decadenza
degli ideali eroici e dell’affermazione di nuovi valori etici: egli, infatti, rimasto al
suo posto, si era battuto preoccupato più del bene collettivo che della gloria
personale.7
Tucidide, da par suo, contrapponeva la silenziosa coesione degli opliti
spartani alla rumorosa indisciplina di Macedoni e Illiri che, privi di un ordine
tattico, si impegnavano in combattimenti in cui ognuno faceva quello che voleva
senza ricevere ordini da chicchessia.8 Nello stesso mondo greco l’etica militare o
meglio la concezione della guerra, poteva variare da città a città con tutte le
conseguenze possibili per i protagonisti. Dalla diversità di approccio alla guerra
degli Ateniesi e degli Spartani, Pericle traeva spunto nella famosa 0razione funebre per
fare un confronto tra le due diverse società: «Anche nel modo in cui ci prepariamo
alle pratiche di guerra siamo diversi dai nostri avversari … In realtà più che dei
preparativi e degli stratagemmi, noi ci fidiamo del nostro coraggio, di cui diamo
prova nell’azione».9
Pur ammettendo che il discorso di Pericle, tenuto conto della circostanza
che l’ha prodotto, possa riflettere un’opposizione puramente retorica e quindi
ingannevole,10 non è da trascurare, tuttavia, il fatto che anche la città di Sparta, con
una sapiente ed efficace propaganda, tendeva a sottolineare la sua diversità con il
costruire e diffondere una certa immagine di sé dal forte contenuto ideologico:
un’idea militaresca della vita per cui l’unico valore è l’eroismo in guerra, l’unico
scopo la vittoria ed estremo ideale della gioventù spartana morire in battaglia per
5
Vd. tra gli altri G. Brizzi, Guerre des Grecs, guerre des Romains: les différentes âmes du guerrier ancien,
«Cahiers Glotz» X (1999), 39-41; Id., Il guerriero e il soldato: le linee del mutamento dall’età eroica alla rivoluzione
militare dell’Occidente, in M. Sordi (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, CISA XXVIII, Milano
2002, 87-107 e bibliografia ivi cit.; Id., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna
2002, 14 ss.; A.M. Snodgrass, The hoplite reform and the history, «JHS» LXXXV (1965), 119-122; P.
Ducrey, Guerre et guerriers dans la Grèce antique, Fribourg 1985.
6
Hdt. IX 71.
7
Per quanto concerne gli sviluppi ideologici vedi anche, Brizzi, Il guerriero e il soldato, cit., 87
ss. Per una analisi sociologica della guerra cfr. J. Freund, La guerre dans les sociétés modernes, in J. Poirier
(Éd.), Histoire des moeurs, Paris 2002 (1991), III. 1, 382-458.
8
Thuk. IV 126, 5. Sulla resa di Sfacteria, vd. G. Bruno Sunseri, La resa di Sfacteria e l’identità
spartana, «Thalassa» III (2006), 295-308.
9
Thuk. II 39, 1, 4. Cf. Xen. Lac. XIII 5; hell. VI 1, 5; Mem. III 5, 15, 21; III 12, 5; Arist. pol.
1338b 25-39. A proposito dell’astuzia spartana va ricordato quanto Euripide fa dire alla sua
Andromaca: «Abitanti di Sparta odiosi a tutti gli uomini, signori dell’inganno, maestri di
menzogne, orditori di trame malvage, intriganti, disonesti» (Androm. 445).
10
S. Hornblower, Warfare in Ancient Literature the Paradox of War, in Ph. Sabin - H. Van Wees M. Whitby (Eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare, I: Greece, The Hellenistic World and The
Rise of Rome, Cambridge 2007, 22-53.
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Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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difendere la patria. La resa degli Spartani a Sfacteria, nell’agosto del 425, difatti fu
per l’opinione pubblica greca un grande choc, come rileva con una certa enfasi lo
stesso Tucidide: «Senza dubbio, tra gli avvenimenti verificatisi nel corso della
guerra, questo fu per i Greci al di là di ogni logica previsione (παρὰ γνώμην), in
quanto ritenevano che i Lacedemoni né per fame, né costretti da alcuna altra
necessità avrebbero consegnato le armi, ma che piuttosto sarebbero morti senza
cederle, continuando a battersi al limite delle possibilità».11
Gli stereotipi, è vero, sono duri a morire; ma al di là della retorica bellicosa
e mortuaria che attraversa molta letteratura, è opportuno rilevare che la stessa
realtà presentava sovente numerose discrasie o dissonanze rispetto al modello
ideale non sempre facilmente riscontrabili nei meandri di una propaganda
contraddittoria.
Quali che fossero i veri o presunti motivi ideali con i quali i soldati
venivano incitati alla battaglia dai loro generali, motivi manipolati e sublimati
nell’affresco della Storia, della politica o delle ideologie che tutto inghiottono,
impastando la materia prima nel prodotto finito e confezionato per le
Rimembranze e per i posteri, non trascurabile appare il fatto che nel momento
dello scontro esisteva effettivamente un codice di valori condiviso sia dal
comandante che dai subalterni.
Sebbene la guerra occupi grandissima parte delle opere storiche antiche, i
riferimenti alla psicologia dei combattenti non sono numerosi. Tuttavia, pur dietro
l’ideologia dominante, qualche fugace concessione alla realtà permette di
intravedere drammi, dolori, scoraggiamento e paura accanto a “madri eroicamente
inumane”12 e a soldati che non esitano a combattere sino alla fine, in difesa della
patria. In particolare merita di essere ricordato, a questo riguardo, il racconto della
partenza della flotta ateniese per la Sicilia. Con il consueto lucido realismo che
contraddistingue le sue analisi, il laico Tucidide si sofferma a descrivere lo stato
d’animo sia di quelli che si accingevano ad imbarcarsi sia dei parenti o amici che li
accompagnavano alle navi. Uno stato d’animo ispirato a principi di Realpolitik, né
guerrafondaio, né ispirato ad un bolso pacifismo, ma laicamente consapevole dei
rischi cui si andava incontro con quella spedizione oltremare. «Gli abitanti della
città – così riferisce lo storico – scortavano ciascuno i propri cari, chi i parenti, chi
i figli, e procedevano pieni di speranza e, contemporaneamente, tra i lamenti: da
un lato pensavano che avrebbero fatto nuove conquiste, ma dall’altro si
chiedevano se mai li avrebbero rivisti, nel considerare quanto lontano dalla loro
terra venivano inviati. E così in quel momento, quando ormai si apprestavano a
separarsi e incombenti erano i pericoli, il pensiero degli spaventosi rischi in
agguato si insinuava nelle loro menti, più vivido di quanto non fosse allorché
avevano decretato la spedizione; pur tuttavia, tale era lo spettacolo di forza che si
parava loro dinnanzi che di fronte all’enorme massa di ogni genere di armamenti
11
12
Thuk. IV 4, 1.
L’espressione è di N. Loraux, Les Méres en deuil, Paris 1990, 23, 2.
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che si offriva ai loro occhi si riaccendevano di nuovo di coraggio».13 Non va
trascurato che sempre Tucidide aveva sottolineato il grande entusiasmo che la
spedizione in Sicilia aveva suscitato tra il popolo e tra i soldati che pensavano di
trarne grandi vantaggi di natura economica. Solo pochissimi fra gli Ateniesi non
erano favorevoli, ma se ne stavano in silenzio per paura di apparire cattivi patrioti
votando contro.14
Anche sul fronte opposto, a Sparta, la retorica patriottarda in taluni casi
sembra affievolirsi e con essa il rapporto paradigmatico tra soldato spartano e
coraggio portato alle estreme conseguenze. In seguito al disastro di Leuttra,
Senofonte così annota: «Nell’apprendere la notizia gli efori provarono un dolore, a
mio avviso inevitabile… Comunicarono quindi i nomi dei caduti ai parenti, con la
raccomandazione alle donne di non abbandonarsi a scene di dolore e di sopportare
in silenzio la sciagura».15 La sofferenza dei familiari in questo caso non è
mistificata, viene soltanto scoraggiata la manifestazione pubblica del loro lutto.16
Siamo ben lontani dalla madre, che rivedendo il figlio tornato a casa dopo una
battaglia dove erano caduti tutti i suoi compagni, gli rompe in testa una tegola e lo
uccide perché non ha fatto il suo dovere di morire anche lui sul campo insieme agli
altri17o di quell’altra che, avendo saputo che il figlio era caduto nel corso di un
combattimento così esclama: «Che si pianga per i vigliacchi, io, ragazzo, ti
seppellisco senza lacrime, tu che sei figlio mio e di Sparta».18 In tale contesto
profondamente ideologizzato va inserito anche un aneddoto, riferito da Diodoro e
relativo alla madre di Brasida.19 Costei, avendo appreso da alcuni emissari la notizia
della vittoria di Brasida e della sua morte, domandò come si fosse comportato il
figlio durante il combattimento. Quando quelli risposero che di tutti gli Spartani
era stato il migliore, la donna, anteponendo l’elogio della patria alla gloriosa
reputazione del figlio, aggiunse che suo figlio era agathos, ma che Sparta aveva figli
migliori di lui.
Da queste premesse vorrei partire per affrontate un aspetto della Greek way of
war, quello relativo all’atteggiamento dei combattenti, generali e soldati quando si
profilava lo spaventoso spettro dell’esercito nemico. La volontà del comandante e
la sorprendente importanza dell’individuo, pur in una scena di massa come quella
della lotta tra due eserciti avversari, furono ben evidenziati da Carl von Clausewitz
ancora nel pieno delle guerre napoleoniche.20
13
Thuk. VI 30-31 (Trad. di A. Corcella, Torino 1996).
Thuk. VI 24, 3-4.
15
Xen. hell. VI 4, 16.
16
Cfr. N. Bernard, À l’épreuve de la guerre. Guerre et societé dans le mond grec V e IV siècles avant notre
ère, Paris 2000, 126 ss.
17
Plut. Apopht. Lac. 5.
18
Plut. Apopht. Lac. 2.
19
Diod. XII 74, 2-4. L’aneddoto viene riferito anche da Plutarco (Lyc. 25, 8-9; mor. 190b e
240c).
20
C. Von Clausewitz, Della guerra, I 7 (Trad. it. di G.E. Rusconi, Torino 2000, 71 ss.).
14
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«Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più
terribile. “Pronti per l’assalto!” ripeté ancora il capitano. L’assalto! Dove si andava?
Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul
ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano.
Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra. Le
parole del capitano caddero come un colpo di scure. La nona era in piedi, ma io
non la vedevo tutta, talmente era addossata ai parapetti della trincea. La decima
stava di fronte, lungo la trincea, e ne distinguevo tutti i soldati.
Due soldati si mossero e io li vidi, uno a fianco dell’altro, aggiustarsi il
fucile sotto il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s’accovacciò su se stesso.
L’altro imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia?».
Questo brano, tratto da Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, descrive con
molta crudezza il momento che precede uno scontro durante la Grande guerra, e
precisamente il momento in cui, nonostante tutto, l’esortazione del capitano
spingeva i soldati al combattimento. Il forte nazionalismo che animava in quella
guerra i soldati di mestiere e quelli richiamati alle armi, non li esimeva però, cosa
del tutto naturale, dal provare sentimenti di paura in vista dello scontro. Per il
mondo antico noi non abbiamo racconti di soldati relativi alle guerre combattute,
alle loro sofferenze, al terrore della morte prima del combattimento. Tirteo
esortava i soldati a resistere, ben piantati con le gambe al suolo, mordendosi le
labbra con i denti.21 Plutarco descrive con grande efficacia la scena terrificante
dell’avanzare di una falange greca nella battaglia di Platea nel 479: «La falange
assunse in un baleno l’aspetto di un unico animale che, inferocito, si pone in
guardia e rizza il pelo».22 A tale riguardo, non è da trascurare la paura di Paolo
Emilio a Pidna, nel 168, nel vedere i Greci schierati: «Di fronte alla saldezza dei
loro scudi affiancati e alla violenza dell’urto un brivido di paura corse per le sue
vene; ebbe l’impressione di non aver mai veduto spettacolo più terrificante di
quello e spesso, ancora molto tempo dopo, ricordava l’emozione provata a
quell’apparizione».23 Ificrate, nonostante avesse più soldati dei nemici e gli indovini
che preannunciavano auspici favorevoli, secondo quanto leggiamo in Polieno, non
si decideva ad attaccare battaglia perché sentiva più il battere dei denti dei suoi
soldati che il clangore delle armi.24 Del disagio che provava il soldato greco prima
della battaglia, troviamo una flebile traccia nello Ierone senofonteo. Per evidenziare
le tensioni cui viene sottoposto il tiranno, Ierone ricorda, per analogia, quelle del
soldato prima della battaglia: «Se anche tu, Simonide, hai conosciuto l’esperienza
della guerra e ti sei mai trovato a doverti schierare contro la linea della falange
nemica, cerca di ricordare quale cibo mangiasti allora, quale sonno dormisti. Quei
21
Tyrt. fr. 8, 21-22.
Plut. Arist. 18, 2.
23
Plut. Aem. 19, 3.
24
Polyain. strat. III 9, 8.
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dolori che tu hai allora patito sono quei medesimi che – più acuti – conosce il
tiranno».25
Nonostante paure, timori del tutto naturali in un esercito, come sottolinea
Tucidide parlando dell’ultima ritirata delle truppe ateniesi in Sicilia,26 il cittadinosoldato affrontava il conflitto con grande determinazione.
Dei resoconti bellici degli storici antichi, forse i discorsi dei generali
pronunciati prima della battaglia possono fornirci qualche particolare sui momenti
che precedevano la battaglia, sull’atteggiamento dei combattenti sempre che
l’esaltazione dei valori bellici e delle ambizioni degli strateghi fosse pari al grado di
motivazione con cui i soldati affrontavano il conflitto. Come Iscomaco spiega
dettagliatamente a Socrate, l’abilità del comandante si riconosce qualora egli riesca
a rendere i subalterni compiacenti di obbedirgli e zelanti nel compiere le loro
missioni.27
Prenderò in considerazione, pertanto, i discorsi pronunciati da due generali
del grande conflitto peloponnesiaco, lo spartano Brasida, e l’ateniese Demostene,
per verificare su quali valori, su quali istanze facevano leva, da campi opposti, per
suscitare sentimenti di condivisione nei rispettivi soldati e spingerli al
combattimento con coraggio e determinazione.28
In questa sede non affronterò, in maniera approfondita, il dibattuto
problema relativo all’inserimento di discorsi nelle opere storiche su cui già
manifestavano perplessità gli antichi stessi. Dionigi di Alicarnasso, nell’opuscolo
retorico De Thucydide, in riferimento al dialogo dei Meli, trovava una contraddizione
tra i propositi tucididei di rigorosa veridicità e il carattere evidentemente fittizio di
molti discorsi.29 Di tale difficoltà peraltro era consapevole lo stesso Tucidide 30 che,
a proposito dei discorsi riportati nelle Storie, sottolineava di aver riferito quanto a
lui pareva (ὠς δ᾿ἀν ἐδόκουν ἐμοί) che ciascuno avrebbe appropriatamente riferito
nelle varie circostanze (τὰ δέοντα), attenendosi beninteso al senso generale delle
parole effettivamente pronunciate ἡ ξύμπασα γνώμη).31 Affermazione questa che
continua a suscitare non poche perplessità perché difficilmente conciliabili
appaiono i due criteri: quello dell’opportunità e della soggettività e quello della
25
Xen. Hier. VI 3, 7.
Thuk. VII 80, 3.
27
Xen. oik. 21, 5-9. Sull’ideologia del comando in Senofonte, cfr. N. Wood, Xenophon’s
Theory of Leadership, «C&M» XXV (1964), 33-66; M. Woronoff, L’autorité personelle selon Xénophon,
«Ktema» XVIII (1993), 41-48.
28
Secondo Platone (Phil. 55e-56 a-b), l’arte del comando non è una scienza esatta; essa non
obbedisce a precise norme cui i subordinati devono attenersi.
29
Dion. Hal. de Thucydide 41.
30
Thuk. I 22, 1.
31
Concordano con tale interpretazione P. Huart, Le vocubulaire de l’analyse psycologique dans
l’oeuvre de Thucydide, Paris 1968, 308; R. Nicolai, La storiografia nell’educazione antica, Pisa 1992, 65, 66; L.
Piccirilli, L’invenzione della diplomazia nella Grecia antica, Roma 2002, 66. Di diverso tenore, non del tutto
condivisibile, l’interpretazione di I. Plant, A Note on Thucydides I 22. 1: ἡ ξύμπασα γνώμη = General
Sense?, «Athenaeum» LXXVI (1988), 201-202. Su tale questione, vd. da ultimo L. Porciani, Come si
scrivono i discorsi. Su Tucidide I 22, 1 ἄ… μάλισ᾿εἰπεῖν, «QS» IL (1999), 103-135.
26
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16
Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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verità e oggettività; l’uno esclude l’altro o è comunque con l’altro in contrasto.32
Tuttavia, al di là delle rielaborazioni operate dallo storico, per lo meno nella forma
letteraria, non si può non convenire con quanti interpretano l’espressione
tucididea, «l’attenersi il più vicino possibile al senso generale di ciò che fu
effettivamente pronunciato», riferita alle argomentazioni non ai discorsi autentici
proferiti da politici o ambasciatori e quant’altri. Nella stesura dei discorsi egli avrà
proceduto sia tenendo conto di quanto poteva lui stesso ricordare sia selezionando
le testimonianze che si era procurato, privilegiando gli aspetti di particolare
interesse, integrando, ove necessario, con argomentazioni utili ai fini della
rappresentazione storica.33
In particolare, a proposito delle arringhe dei generali prima della battaglia,
quello che qui mi preme sottolineare è il ritenere tale prassi, sulla scia anche di
qualificati studi,34 un fatto storico, e non puro esercizio retorico, privo di alcun
referente storico, come è stato pure affermato.35
Sino al lavoro di Hansen del 1993, relativo alle parenesi belliche nell’antica
storiografia, l’esortazione del generale prima della battaglia era considerata, senza
ombra di dubbio, un fatto storico 36 e nessuno avrebbe considerato i discorsi di
battaglia come più problematici di altri discorsi in Tucidide. La maggior parte dei
generali avrebbe colto questa opportunità per arringare i propri soldati. Secondo
Hansen, invece, Tucidide avrebbe inventato l’orazione archetipica prima della
battaglia e dal momento che fu il primo degli storici avrebbe inaugurato una moda
che gli storici successivi avrebbero seguito senza molto dissentire. L’affermazione
categorica dello studioso lascia più dubbi che certezze dal momento che non viene
suffragata da alcuna prova. Ricordiamo, per esempio, che tra i compiti che Cesare
ricordava ai potenziali lettori del De bello gallico, tra cui ci sarebbero stati anche
personaggi esperti dell’arte militare, c’era il milites cohortari,37 accezione che è molto
di più, e in questo concordo pienamente con Ehrhardt,38 che poche parole di
incoraggiamento o un semplice apoftegma. Anche nella vita di Tiberio39 è chiara
l’allusione alle esortazioni dei generali. Questi ultimi esempi riguardano è vero il
32
Per l’ampia bibliografia su Thuk. I 22, 1, cfr. O. Luschnat, Thukydides, in RE, Suppl.-Bd.
XII, 1970, 1085-1354; Id., Thukydides, in RE, Suppl.-Bd. XIV (Nachträge zu Suppl.-Bd. XII, 10851353), 760-786. Si veda inoltre l’ ampia e articolata disamina in Piccirilli, L’invenzione della diplomazia,
cit. 65 ss.
33
Cfr. Nicolai, La storiografia nell’educazione, cit., 68.
34
Ch.W. Fornara, The Nature of History in Ancient Greece and Rome, Berkeley and Los Angeles,
1983, 162; W. Kendrick Pritchett, The Greek State at War, IV, Berkeley and Los Angeles 1985, 1-2; cfr.
V.D. Hanson (Ed.), Hoplite. The Classical Grek Battle Experience, London and N.Y. 1991, in particolare,
J. Lazenby, The Killing Zone, ibidem, 87-109; E.L. Wheeler, The General as Hoplite, ibidem, 121-174.
35
M.H. Hansen, The Battle Exhortation in Ancient Historiography. Fact or Fiction?, «Historia» XLII
(1993), 161-180.
36
S. Hornblower, A Commentary on Thucydides, II, Books IV-V. 24, N.Y. 1996, 81 ss.
37
Caes. Gall. 20.
38
C.T.H.R. Ehrhardt, Speeches before Battle?, «Historia» XLIV (1995), 120-121; M. Clark, Did
Thucydides invent the Battle Exortation?, ibidem, 375-376.
39
Plut. Tib. Gracch. 9.
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Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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mondo latino, ma anche per il mondo greco non mancano elementi che possano
supportarne l’esistenza. Senofonte, nell’Economico, fa dire a Socrate rivolto a
Critobulo: «E spesso l’agricoltore deve esortare i lavoratori non meno che lo
stratego i soldati…».40 Cambise si meraviglia del fatto che l’educatore del figlio
Ciro, non gli abbia insegnato alcun metodo per infondere coraggio ( προθυμίαν
ἐμβάλλειν) all’esercito.41 Analogamente, Socrate mostra stupore nell’apprendere
da un ipparco il suo scarso interesse per l’uso della dialettica ( τοῦ λέγειν
δύνασθαι) nel rapporto coi subordinati.42 Della consuetudine della parenesi bellica
rimane traccia anche nel resoconto tucidideo relativo alla battaglia di Mantinea del
418.43 Quest’ultima testimonianza, peraltro sfuggita anche a coloro che hanno
contestato Hansen, appare invece degna di considerazione.44
Prima dello scontro, lo storico così riferisce: «Quando oramai erano sul
punto di scontrarsi i singoli reparti ricevettero anche dai propri comandanti le
seguenti raccomandazioni: ai Mantineesi fu detto che avrebbero combattuto per la
patria e al tempo stesso per il dominio o la schiavitù; per non perdere l’uno, dopo
averlo sperimentato, e per non riprovare di nuovo l’altra. Agli Argivi fu detto che
avrebbero combattuto per l’antica supremazia e per la parità dei diritti che c’era
stata un tempo nel Peloponneso, per non subire le conseguenze di esserne privati
per sempre…. Agli Ateniesi fu detto che era bello non essere inferiori a nessuno
combattendo a fianco di molti e valorosi alleati, e che, se avessero riportato la
vittoria sugli Spartani nel Peloponneso avrebbero rafforzato e ingrandito il loro
impero e nessun altro avrebbe mai più attaccato il loro paese…. Invece gli Spartani,
reparto per reparto e accompagnati da canti di guerra che conoscevano, si
esortavano fra di loro con i ricordi, valorosi com’erano, sapendo che torna più
utile una lunga pratica di azioni che non una breve esortazione fatta di belle parole
(ἠ λόγων δι᾿ὀλίγου καλῶς ῤεθεῖσαν παραίνεσιν)».
Come si evince dal passo sopra indicato, lo storico si limita ad informare gli
eventuali lettori delle esortazioni dei comandanti senza ricorrere ad alcuno sfoggio
di retorica. Da sottolineare il giudizio negativo sull’oratoria militare dei
comandanti spartani che ricorre in altri contesti45 e dai quali sembra distaccarsi il
generale Brasida, definito da Tucidide uomo di grande intelligenza e onestà e non
un cattivo oratore, per essere uno Spartano.46 Proprio il riferimento al disprezzo
degli Spartani per le esortazioni fatte di belle parole induce a pensare che la
tipologia riportata nella storiografia costituisse, a dispetto delle affermazioni di
40
Xen. oik. 5, 16.
Xen., Kyr. I 6, 13.
42
Xen. mem. III 3, 11.
43
Thuk. V 69.
44
Su questa testimonianza, cfr. Hornblower, A Commentary on Thucydides, cit., 81.
45
Thuk. I 84, 3; 86, 3.
46
Thuk. IV 84, 2. Sulla presentazione tucididea del personaggio cfr. H.D. Westlake,
Individuals in Thucydides, Cambridge 1968, 148 ss.; L. Prandi, Sintonia e distonia fra Brasida e Sparta, in C.
Bearzot - F. Landuci (a cura di), Contro le ‘leggi immutabili’. Gli Spartani fra tradizione e innovazione, Milano
2004, 91-113.
41
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Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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Hansen, un genere retorico riconosciuto nella società greca. Ancora, la stessa
difficoltà avanzata dallo studioso circa l’impossibilità di tutte le truppe di ascoltare
l’arringa, credo che possa, in parte, essere superata sulla base di quanto fornisce la
tradizione stessa. Come leggiamo in Tucidide, Pagonda, il beotarca di Tebe,
pronunciò il discorso, prima della battaglia di Delio, dopo aver convocato i
battaglioni separatamente (προσκαλῶν ἑκάστους κατὰ λόχους) per evitare che
lasciassero tutti insieme il loro posto.47 Archidamo, invece, pronunciò il suo
discorso prima dello scontro con gli Arcadi, passando in rassegna i battaglioni.48
A questo punto, la domanda semmai più difficile a cui rispondere è con
quanta precisione o accuratezza gli storici antichi rappresentavano la sostanza dei
discorsi veramente pronunciati. Certamente l’affermazione di Plutarco49 che le
παρακλήσεις che Eforo, Teopompo e Anassimene hanno fatto pronunciare ai capi
militari immediatamente prima di una battaglia sono inadatte alla situazione,
sicché si può applicare ad esse il verso di Euripide «Nessuno dice queste
sciocchezze quando si trova vicino al ferro», non può essere generalizzata.
Nell’opera tucididea, infatti, logoi ed erga sono posti sullo stesso piano.50 A
ragione Polibio, memore dell’ammaestramento tucidideo può affermare: «Il
compito dello storico non consiste nell’ostentare la sua abilità oratoria ai lettori
ma piuttosto nel dedicare tutte le proprie energie alla scoperta e alla registrazione
di ciò che fu effettivamente detto o fatto e poi accertare la ragione per cui ciò che
fu fatto o detto portò al fallimento o al successo».51 In altre parole, la dichiarazione
programmatica di Tucidide nei noti capitoli metodologici52 può essere compresa,
come già evidenziato, nel senso che l’elaborazione dei discorsi da parte dello
storico viene fatta sulla base della compresenza, con pari validità, della coerenza
con le circostanze da un lato e della fedeltà di massima al senso generale di quanto
fu detto dall’altro.53 Quindi non una riproduzione fedele né delle parole, né degli
argomenti, ma la ricostruzione di fatti e parole compiuta dallo storico.54
A questo punto sembra opportuno passare in breve ad esaminare il
contenuto dei due discorsi di cui ho fatto cenno, e precisamente quello di Brasida e
quello di Demostene. Il primo pronunciato, prima di combattere contro gli Illiri,
47
Thuk. IV 91.
Xen. hell. VII 1, 10.
49
Plut. mor. 803 B.
50
Cfr. L. Canfora, Il ciclo storico, «Belfagor» XXVI (1971), 653-670.
51
Pol. XXXVI 1, 6-7.
52
Thuk. I 22: «e quanto ai discorsi che ciascuno pronunciò o nella fase che
immediatamente precedette la guerra o durante il suo svolgimento, era difficile ricordare
puntualmente alla lettera le parole dette: sia per me, relativamente ai discorsi che io stesso udii, sia
per coloro che me li riferivano attingendo alle varie fonti. I discorsi li ho perciò scritti –
attenendomi beninteso al senso generale di ciò che fu effettivamente detto – come a me pareva che
ciascuno avrebbe appropriatamente parlato nelle varie circostanze».
53
R. Nicolai, Il generale, lo storico e i Barbari: A proposito del discorso di Brasida in Thuc. IV 126, in G.
Arrighetti - M. Tulli (a cura di), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Atti del
Convegno (Pisa, 7-9 giugno1999), Pisa 2000, 145-155.
54
W.K. Pritchett, Essays in Greek History, Amsterdam 1994, 27-109.
48
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Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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dal generale Spartano davanti alla massa composita del suo esercito formata da
Peloponnesiaci, Calcidesi e per la prima volta nella storia di Sparta da 700 Iloti 55 il
secondo rivolto ai soldati ateniesi durante la spedizione a Pilo.56 Ho scelto
volutamente i discorsi di Brasida e di Demostene, perché Tucidide risulta
particolarmente informato su questi due personaggi che operano
contemporaneamente, su fronti opposti. La qual cosa è la riprova di informazioni
accurate avute dallo storico, perlomeno per Brasida, se non direttamente, almeno
da personaggi vicini al suo entourage.57 A proposito di Brasida, egli rileva che in un
discorso lo Spartano ha fornito una versione deliberatamente falsa.58 E molte delle
notizie relative all’impresa in Tracia riflettono più il pensiero di Brasida che del
governo spartano.59
Anche riguardo alla particolare vicenda di Pilo Tucidide si mostra prodigo
di dettagli relativi a fatti di non grande rilievo.60
La strategia comunicativa utilizzata dai comandanti nelle due occasioni è
apparentemente finalizzata a risollevare il morale delle truppe, colte da improvviso
panico, per usare lo stesso lessico tucidideo: «come di solito capita a grandi eserciti
che si lasciano prendere dal panico senza un motivo apparente ritenendo che gli
assalitori siano di gran lunga più numerosi di quelli che si presentano
effettivamente».61 In realtà, in entrambi i casi, i due comandanti tendono a trarre il
massimo vantaggio personale dalla situazione in cui si trovano facendo leva, opliti
tra gli opliti, al codice di valori condivisi. L’ideologia mostra la sua natura
imbonitoria.
Il comandante spartano, sin dalle prime battute sottolinea che non si
limiterà a pronunciare semplici parole di incoraggiamento alle truppe, ma fornirà
anche una informazione, anzi una corretta informazione in modo che i soldati
possano avere non una conoscenza superficiale, basata sulla vista o sul sentito dire,
ma una chiara visione della situazione.62 Egli contrappone lo stile di battaglia degli
Illiri, Barbari in cui ognuno è comandante di se stesso (il termine utilizzato è
αὐτοκράτωρ), cioè ognuno va in battaglia senza obbedire a chicchessia, senza un
ordine tattico, al modo di combattere degli Spartani e al loro innato valore. Su
55
Thuk. IV 126.
Thuk. IV 10.
57
H.D. Westlake, Thucydides, Brasidas and Clearidas, «GRBS» XXI (1980), 333-339;
Hornblower, A Commentary on Thucydides, cit., II 47, 280, 344 ss.; Nicolai, Il generale, lo storico, cit. 152.
58
Thuk. IV 108, 5. Sulle volute mistificazioni di Brasida anche Thuk. IV 85, 7.
59
Thuk. IV 117. Sull’indipendenza delle iniziative di Brasida, cfr. G. Daverio Rocchi,
Brasida nella tradizione storiografica: aspetti del rapporto fra ritratto letterario e figura storica, «Acme» XXXVIII
(1985), 69 ss., Cfr. anche Westlake, Individuals, cit., 153; S. Hodkinson, Social Order and the Conflict of
Values in Classical Sparta, «Chiron» XIII (1983), 279; J. Roisman, Alkidas in Thucydides, «Historia»
XXXVI (1987), 418; G. Wylie, Brasidas - Great Commander or Whiz-Kid? «QUCC» LXI (1992), 95.
60
S. Valzania, Settantadue giorni a Sfacteria, in Tucidide, Settantadue giorni a Sfacteria, Palermo
1993, 15-53; Bruno Sunseri, La resa di Sfacteria, cit., 295-306.
61
Thuk. IV 125, 1.
62
Thuk. IV 126, 1-4.
56
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questo fa leva per spingere all’attacco i soldati del Peloponneso, come egli
apostrofa le sue truppe, senza fare alcuna distinzione tra di esse: «Perciò, se
resisterete al loro attacco e al momento opportuno riprenderete la ritirata con
ordine e disciplina (κόσμῳ καὶ τάξει),63 più presto vi metterete al sicuro e
imparerete per l’avvenire che masse siffatte indugiano ad ostentare la loro forza
con minacce da lontano se uno resiste al loro primo assalto; ma a chi cede loro
terreno dimostrano immediatamente il loro coraggio con un rapido inseguimento
perché ormai si sentono al sicuro».
Il coraggio e l’audacia nell’affrontare i combattimenti non dovevano essere
disgiunti dalla lucidità nel valutare opportunamente le situazioni.
L’arringa di Brasida, in linea, presumibilmente, con una nuova visione
politico-strategica della sua città, è espressione di sano pragmatismo o di “prudente
saggezza” per usare le parole di Archidamo del famoso dibattito che si tenne a
Sparta alla vigilia della guerra del Peloponneso:64 «La stagione degli eroismi epici di
massa era tramontata per sempre».65
Quanto a Demostene, egli è il soldato figlio dell’ideologia democratica. Ciò
emerge già dall’esordio del discorso con cui arringa le truppe «uomini che insieme
a me affrontate questo pericolo», e dall’epilogo, «a voi chiedo di restare ora saldi al
vostro posto e, respingendo l’assalto presso il limite della riva rocciosa, di salvare
noi e la postazione».
La situazione di estrema difficoltà in cui l’esercito ateniese si è venuto a
trovare a Pilo, non lascia spazio, come dice Demostene, a calcolo o riflessione
alcuna. Essa impone invece audacia e valore. Certamente la facoltà di saper
ragionare, e giudicare e avere una visione globale è la facoltà di Pericle.66 Ma talora
il calcolo, il logismos, come sottolinea sempre il Pericle tucidideo, in altro contesto,
può condurre all’esitazione e procurare conseguenze irreversibili. Ma questo non si
adatta agli Ateniesi giacché essi sono gli unici a saper coniugare audacia con
riflessione.
«A differenza degli altri, noi possediamo anche questa qualità: siamo
estremamente audaci e nello stesso tempo valutiamo con distacco quello che
stiamo per intraprendere; per tutti gli altri, l’ignoranza spinge all’ardimento e la
riflessione induce ad esitare».67
Il discorso di Demostene, ricostruito dallo storico, presenta una fase di
elaborazione sicuramente in linea con le finalità della sua opera e con la
ricostruzione operata dallo storico della spedizione di Pilo e dell’ambigua
posizione di Demostene nella particolare vicenda. Esso non è in contrasto con il
tradizionale agire degli Ateniesi. La situazione particolare impone l’azione, non la
riflessione. L’audacia è dettata dal timore che possa verificarsi un combattimento
63
Thuk. IV 128, 6.
Thuk. I 84.
65
Cfr. Petrocelli, Il sorriso del lupo, in C. Petrocelli (a cura di), Lo spionaggio politico nella Grecia
classica, Palermo 1993, 43 ss.
66
Thuk. I 140, 1.
67
Thuk. II 40, 3; cfr. anche 40, 2.
64
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16
Giovanna Bruno Sunseri, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
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terrestre tra i suoi uomini e gli opliti lacedemoni, tale da pregiudicare l’esito di
quell’impresa. Un’impresa, fortemente voluta dallo stratego ateniese e condivisa
poi con coraggio dalle truppe che riusciranno, come è noto, nell’intento, grazie
anche alla nuova tattica di combattimento messa a punto dallo stesso Demostene
con il ricorso alle truppe armate alla leggera. Scelta che avrà la meglio sulla mitica
imbattibilità spartana.
Ma questa è un’altra storia.
Giovanna Bruno Sunseri
Dipartimento di Beni Culturali
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, 90128 Palermo
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 5-16
FRANCESCA MATTALIANO
La parenesi bellica nella storiografia greca:
prassi allocutiva e procedure compositive
Nella Grecia antica la pratica della parenesi bellica,1 ovvero la declamazione
di discorsi esortativi alle truppe in procinto di un’offensiva, si lega
indissolubilmente all’affermazione e alla diffusione del sistema oplitico:2 la
coesione di immense schiere di uomini pronti a scagliarsi contro il nemico doveva
essere costruita e scandita attraverso una precisa retorica dell’areté.3
La cosiddetta battle exhortation, voce generica riferita a un modello piuttosto
variegato di discorsi militari,4 non sembra costituire un genere letterario autonomo
ma piuttosto un micro-genere all’interno di quello storiografico. Con il termine si
intendono le esortazioni di un comandante ai soldati schierati nell’imminenza della
1
Il verbo παραινεῖν, in alternanza con παρακαλεῖν, è utilizzato da Tucidide per le
esortazioni alle truppe, mentre in Senofonte il termine impiegato per indicare la parenesi bellica è
παράκλησις. Per un esaustivo catalogo delle occorrenze si rimanda a J. Albertus, Die Παρακλητικοί
in der griechischen und römischen Literatur, Strassburg 1908, 9-16.
2
Sulle circostanze e le determinanti della riforma oplitica, come è noto, non vi è accordo
tra gli studiosi; in particolare, sulle rilevanti innovazioni che segnarono il definitivo declino del
combattimento “omerico”, basato sull’affermazione del kleos del singolo, e l’avvento della battaglia
per falangi attestata in età classica. Tuttavia l’isomorfismo tra potere politico e funzione militare,
condizione evidenziata dalla riflessione aristotelica che prevede la sostanziale reciprocità di ruolo
tra cittadino e guerriero, rende manifesto il legame imprescindibile sussistente tra prassi di
combattimento e ordinamento civico, consentendo di mettere in relazione la nascita del sistema
oplitico, fenomeno certo graduale, con l’avvento stesso della società poleica. Il complesso tema
dell’oplitismo non può in questa sede ricevere adeguata trattazione: si rimanda pertanto al lavoro di
P. Cartledge, La nascita degli opliti e l’organizzazione militare, in S. Settis (a cura di), Storia Einaudi dei Greci e
dei Romani, III, Milano 2008, 681-714, per un’ampia bibliografia e status quaestionis. Una diversa
proposta di lettura del fenomeno dell’oplitismo viene da M. Bettalli, Ascesa e decadenza dell’oplita,
«ὅρμος» n.s. I (2008-2009), 5-12.
3
Cfr. N. Cusumano, Spazio, corpo, identità. Definirsi e definire a Sparta, in M. Giangiulio - C. Peri
- G. Regalzi (a cura di), Definirsi e definire: percezione, rappresentazione e ricostruzione dell’identità, Atti del 3°
Incontro “Orientalisti” (Roma, 23-25 febbraio 2004), Roma 2005, 113-130: «anche nel mondo greco
i modi della guerra rivelano la società di cui sono espressione e sono perciò atti fondanti
dell’identità, continuamente definita e rifondata anche attraverso gli scontri col nemico esterno».
4
In area tedesca la battle exhortation è nota come Feldherrenrede e il primo studioso ad
occuparsene sistematicamente è Albertus, Die Παρακλητικοί, cit., cui fa seguito, in merito alla
composizione dei discorsi in Tucidide, il lavoro di O. Luschnat, Die Feldherrenreden in Geschichtswerk des
Thukydides, Leipzig 1942.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
| 18
battaglia, ma talvolta anche nel dispiegarsi della stessa. 5 In quest’ultimo caso,
tuttavia, in conformità a ragioni di contingenza, l’esortazione deve essere limitata a
brevi apophtegmata. Le modalità della comunicazione, come si vedrà in seguito,
possono altresì variare a seconda delle circostanze e dell’uditorio.
Prototipi di esortazioni sul campo in opere letterarie, esempi di una prassi
più che di un genere, occorrono già in alcuni passaggi dell’Iliade, costituendo
antecedenti autorevoli della cohortatio,6 e in seguito nell’elegia tirtaica,7 che tuttavia
si caratterizza per il forte impianto etico, per essere indirizzata a una ristretta
cerchia elitaria e per essere alimentata da sentimenti aristocratici.
Una più precisa codificazione della parenesi bellica, contraddistinta da
precise strutture retoriche e modalità espressive e manifestazione di forti principi
identitari e comunitari, si trova nella storiografia greca del V secolo a.C. In
Erodoto sono presenti alcuni esempi, anche se non nella struttura standardizzata
che sarà propria della storiografia tucididea. La maggior parte delle parenesi
erodotee figura infatti nella forma del discorso indiretto, come durante il famoso
syllogos degli epibati greci prima della battaglia di Salamina: «Intanto, già l’aurora
cominciava ad apparire e avendo essi radunati i soldati imbarcati sulle navi, fra
tutti Temistocle fu quello che tenne loro il discorso più appropriato: il suo parlare
era tutto un confronto tra le migliori disposizioni contrapposte alle disposizioni
peggiori, quali sogliono presentarsi nella natura degli uomini e nella loro
condizione, dopo averli incitati a preferire, tra i due, il partito migliore, giunto alla
fine della sua allocuzione, impartì l’ordine che salissero a bordo».8 L’oratio obliqua
5
Come notato da E. Keitel, Homeric antecedents to the cohortatio in the ancient historians, «CW»
LXXX (1987), 153-172, le parenesi omeriche sono pronunciate quasi sempre durante lo scontro.
Nella storiografia greca, invece, le esortazioni di norma lo precedono; a quanto risulta dalle
testimonianze storiche, inoltre, trascorreva molto tempo prima dello scontro effettivo tra due
eserciti: libagioni, dialoghi tra ambasciatori, manovre di schieramento e intonazione del peana. È
probabile che proprio a causa di questa lunga fase propedeutica alla battaglia nascesse la necessità di
esortare e motivare i soldati schierati. Altre esortazioni durante la battaglia si trovano in Curzio
Rufo, ad esempio in IV 15, 19: «Allora i Persiani, levato un gran grido, come sono soliti levare i
vincitori, si avventarono ferocemente sui nemici, come se li avessero sopraffatti da ogni parte.
Alessandro prese a rimproverare i suoi, atterriti, a rincuorarli, a riaccendere da solo la battaglia che
già stava languendo, e finalmente, risollevati gli animi, li lancia di nuovo nella mischia» (trad. A.
Giacone). Si vedano anche altri esempi in Curt. III 10, 4 -10; IV 14, 1-7.
6
Sulla parenesi omerica si vedano G.A. Kennedy, The ancient Dispute over Rhetoric in Homer,
«AJPh» LXXVIII (1957), 23-35 e Keitel, Homeric antecedents, cit., 153-172.
7
Cfr. G. Tarditi, Parenesi e areté nel Corpus tirtaico, «RFIC» CX (1982), 257-276 = in L.
Belloni - G. Milanese - A. Porro (a cura di), Studi di poesia greca e latina, Milano 1998, 149-166.
8
Hdt. VIII 83: Ηώς τε διέφαινε καὶ οἳ σύλλογον τῶν ἐπιβατέων ποιησάμενοι· προηγόρευε
εὖ ἔχοντα μὲν ἐκ πάντων Θεμιστοκλέης· τὰ δὲ ἔπεα ἦν πάντα <τὰ> κρέσσω τοῖσι ἥσσοσι
ἀντιτιθέμενα, ὅσα δὴ ἐν ἀνθρώπου φύσι καὶ καταστάσι ἐγγίνεται· παραινέσας δὲ τούτων τὰ
κρέσσω αἱρέεσθαι καὶ καταπλέξας τὴν ῥῆσιν, ἐσβαίνειν ἐκέλευσε ἐς τὰς νέας (trad. L.
Annibaletto). La tradizione erodotea è ripresa, con delle varianti, da Plutarco (Them. 12, 7-8), dove è
Temistocle che esorta Aristide a pronunciare la parenesi e non nel momento immediatamente
precedente allo scontro: «Temistocle, consapevole della dirittura di Aristide e particolarmente
ammirato della sua presenza in quel momento, gli rivela la missione di Sicinno e lo prega di aiutarlo
a trattenere i Greci e a procurare insieme a lui, col maggior credito di cui godeva, che disputassero
la battaglia in mare, nello stretto. Aristide elogiò Temistocle e si recò presso gli altri generali e i
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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di Temistocle offre un importante esempio delle testimonianze in possesso di uno
storico che potevano costituire l’ossatura di un logos parenetico.9
Le uniche due esortazioni erodotee espresse in forma diretta si trovano nel
nono libro: quella del comandante Armocide a mille opliti focesi poco prima della
battaglia di Platea10 e quella pronunciata dal comandante Leotichida prima della
battaglia di Micale. La particolarità di quest’ultima parenesi 11 è data dal fatto che lo
stratego, che si trova su una delle navi che costeggiano la spiaggia, non si rivolga ai
propri uomini, ma ai Sami schierati nel campo persiano: «Uomini della Ionia,
quanti di voi sono a portata di voce, sentite quello che vi dico, tanto i Persiani non
capiranno nulla dei moniti che vi rivolgo. Quando avrà luogo la battaglia, ci si
ricordi prima di tutto della libertà, e poi della parola d’ordine: Era.12 E questo chi
ha ascoltato lo riferisca a chi non l’ha udito».13 Il discorso non viene pronunciato
direttamente, ma per mezzo di un araldo e, tuttavia, appare importante la
precisazione «quanti di voi sono a portata di voce» cui fa seguito il monito di
diffondere il messaggio anche a coloro che non potevano averlo ascoltato. L’intera
esortazione si regge su una solidarietà molto forte, quella di identità linguistica, 14
capitani delle triremi incitandoli a combattere» (trad. C. Carena). Cfr. anche Plut. Arist. 18, 6, dove
tuttavia non si parla dell’esortazione.
9
Secondo W. Fornara, The Nature of History in Ancient Greece and Rome, Berkeley and Los
Angeles 1983, 163, Erodoto avrebbe ascoltato un reportage delle parole di Temistocle: «The
alternative could not be clearer. If Herodotus has invented this report of a speech, he is
fundamentally mendacious not only because the false notice is gratuitous but because it is not a
(mere) speech but the fabrication of a deed (ergon). Herodotus (on this view) has provided a false
description of an event, alleging that something occurred that did not take place. Suspicion of the
Greeks, and of Herodotus in particular, surely cannot reach this far. […] The only conclusion
possible is that Herodotus heard a report of Themistocles’ words». Una più cauta visione della
problematica troviamo in G. Abbamonte, Discorsi alle truppe: documenti, origine e struttura retorica, in G.
Abbamonte - L. Miletti - L. Spina (a cura di), Discorsi alla prova, Atti del Quinto Colloquio italofrancese, Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa (Napoli-S. Maria
di Castellabate, 21-23 settembre 2006), Napoli 2009, 29-46, 38, dove si prendono in considerazione
entrambe le possibilità: che Erodoto abbia ridotto il testo della sua fonte oppure offra un esempio
del tipo di documentazione a disposizione di uno storico.
10
Hdt. IX 17, 4: «O Focesi, è chiaro che costoro intendono darci senz’altro la morte, in
seguito alle calunnie, a quanto io credo dei Tessali. Ora è necessario che ognuno di voi si dimostri
prode, poiché è decoroso por fine alla vita nell’atto di compiere qualche cosa di grande e di
difenderci, piuttosto che lasciarci distruggere nel modo più turpe. Suvvia, che ognuno di essi impari
che, Barbari come sono, hanno tramato la morte contro dei soldati greci» (trad. L. Annibaletto). Su
questa orazione si veda L. Miletti, Contesti dei discorsi alle truppe nella storiografia greca: Erodoto, Tucidide,
Senofonte, in Abbamonte - Miletti - Spina (a cura di), Discorsi alla prova, cit., 47-61.
11
Il verbo παραινεῖν è usato in riferimento alle parole di Leotichida in Hdt. IX 99, 1.
12
Sull’utilizzo di parole d’ordine durante gli scontri cfr. Xen. Kyr. III 3, 58; VII 1, 10.
13
Hdt. IX 98: Ἄνδρες Ἴωνες, ὅσοι ὑμέων τυγχάνουσι ἐπακούοντες, μάθετε τὰ λέγω·
πάντως γὰρ οὐδὲν συνήσουσι Πέρσαι τῶν ἐγὼ ὑμῖν ἐντέλλομαι. Ἐπεὰν συμμίσγωμεν, μεμνῆσθαί
τινα χρὴ ἐλευθερίης μὲν πάντων πρῶτον, μετὰ δὲ τοῦ συνθήματος Ἥρης. Καὶ τάδε ἴστω καὶ ὁ μὴ
ἀκούσας ὑμέων πρὸς τοῦ ἀκούσαντος (t rad. F. Barberis).
14
Il passo richiama la risposta degli Ateniesi agli ambasciatori persiani giunti nel 479 a.C.
per proporre un’alleanza che non comprendesse i Lacedemoni. Gli Ateniesi rigettano le profferte
persiane adducendo come motivazione del diniego le ragioni costitutive che definiscono l’Hellenikon:
la comunità di sangue e di lingua dei Greci, i comuni santuari degli dei, i comuni culti e gli identici
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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da cui i Persiani per ovvie ragioni vengono esclusi e porta avanti una proposta di
fratellanza con i Greci della madrepatria basata su una parola d’ordine, il nome
della dea Era.
Già gli esempi erodotei presentano in nuce le principali questioni relative alle
modalità pratiche di comunicazione: Erodoto si pone dinanzi ai resoconti sulle
battaglie con un atteggiamento estremamente critico ed evidentemente non rischia
di attirarsi giudizi negativi relativi alle modalità di composizione dei discorsi e al
reperimento delle testimonianze.15 Tucidide, invece, nel riportare i discorsi dei
generali alle truppe, si dimostra fedele alle sue intenzioni programmatiche di I 2216
riportando il senso generale di quanto probabilmente detto. Inoltre, le esortazioni
riportate da Erodoto sono piuttosto brevi e concise, a differenza della maggior
parte di quelle tucididee.
Un’ampia casistica delle parenesi belliche nelle Storie di Tucidide è stata
raccolta e catalogata da Oddone Longo.17 Lo studioso evidenzia come, di fronte a
un uditorio indiviso, l’oratore cerchi di creare e sottolineare la compattezza
ideologica dei soldati: è il caso, ad esempio, del logos di Demostene a Pilo,18 dove si
registra l’esiguità del numero dei soldati, che dovevano essere un centinaio circa. 19
costumi e istituzioni. L’homoglossia, la condivisione della stessa lingua, è dunque una delle
caratteristiche costitutive che concorre a definire l’identità e l’unità di un ethnos. Cfr. Hdt. VIII 144,
2 su cui si vedano: G. Nenci, Discussion, in O. Reverdin - B. Grange (Édd.), Hérodote et les peuples non
grecs, Entretiens sur l’antiquité classique 35, Genève 1990, 33; M. Moggi, Straniero due volte: il barbaro e il
mondo greco, in M. Bettini (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari 1992, 5176; J.M. Hall, Ethnic identity in Greek antiquity, Cambridge 1997; R. Thomas, Ethnicity, Genealogy, and
Hellenism in Herodotus, in I. Malkin (Ed.), Ancient Perceptions of Greek Ethnicity, Cambridge and London
2001, 213-233, 215.
15
Degna di considerazione la posizione di Miletti, Contesti dei discorsi, cit., 49-50, che si
stupisce di come ancora oggi Erodoto sia considerato un semplice precursore del genere e non
piuttosto l’iniziatore.
16
Per una rassegna degli studi tucididei sui discorsi si rimanda al volume di A. Rengakos A. Tsakmakis (Eds.), Brill’s companion to Thucydides, Leiden-Boston 2006, e in particolare al contributo
di J.V. Morrison, Interaction of Speech and Narrative in Thucydides, 251-277, in esso contenuto. Si vedano
anche Ph.A. Stadter (Ed.), The speeches in Thucydides, Chapel Hill 1973, e, per il capitolo metodologico
di I 22, L. Porciani, Come si scrivono i discorsi. Su Tucidide I 22, 1 ἂν … μάλιστ᾿ εἰπεῖν, «QS» IL (1999),
103-135.
17
O. Longo, I discorsi tucididei: uditorio indiviso e scomposizione d’uditorio, «Museum Criticum»
XVIII (1983), 139-160.
18
Thuk. IV 9, 4 - 10, 5. Sulla parenesi di Demostene si veda S. Santelia, Tucidide. Settantadue
giorni a Sfacteria, Palermo 1993, n. 32, 130: «Nell’esordio del discorso con cui arringa le truppe,
Demostene cita volutamente tutte le qualità che dovrebbero caratterizzare un valente stratego, per
dimostrare come esse debbano sempre accompagnarsi all’audacia e al valore militare. Anzi si
sottolinea come è opportuno che, in situazioni di estrema difficoltà, la riflessione, la capacità di
calcolare cedano il posto all’azione risoluta e alla fiducia in se stessi». La studiosa segnala altresì la
ricorrenza di alcuni termini cari al progetto tucidideo quali ξυνετός, ἐκλογιζόμενος, λογισμόν, e
legati alla sfera semantica dell’ingegno e all’abilità di agire su situazioni concrete. Sugli aspetti
connessi al vocabolario tucidideo si rimanda a P. Huart, Le vocabulaire de l’analyse psycologique dans l’ouvre
de Thucydide, Paris 1968.
19
In Thuk. IV 10, 2 è detto che Demostene prese con sé sessanta opliti con pochi arcieri,
notazione quest’ultima che dovrebbe far risalire il numero a non più di cento elementi in totale dal
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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Mentre nel caso di un uditorio articolato si ricorre spesso alla pratica della
scomposizione, mediante un appello alle singole unità, differenziate per etnico,
ruolo o grado militare, oppure attraverso la cosiddetta epipolesi: il comandante
percorre le differenti sezioni delle truppe ripetendo più volte uno stesso messaggio
breve e conciso.
Gli interventi più noti che inevitabilmente hanno segnato gli studi sulla
battle exhortation sono i due contributi di Mogens Herman Hansen.20 Lo studioso
danese, attraverso analogie con eventi della storia moderna, conclude che la
maggior parte dei discorsi parenetici riportati da storici quali Tucidide o
Senofonte, per l’eccessiva lunghezza e complessità dei periodi, non potevano essere
uditi dall’intero esercito schierato e che per siffatta ragione sono da ritenersi pura
costruzione, sebbene autorevole, degli antichi. Tra le varie argomentazioni Hansen
propone un argumentum ex silentio: dal momento che non ci sono pervenuti
frammenti di discorsi parenetici21 (come invece delle demegoriai e dei presbeutikoi logoi)
e che non vi è cenno ad essi nella trattatistica antica, la battle exhortation sarebbe,
secondo lo studioso, «a type of speech found in historiography but not in rhetoric.
It is known as a literary genre only and consequently there is good reason to
question its existence as a genuine type of speech to be delivered before a battle
and not just read in an account of the battle».22
Una tesi tanto negazionista appare eccessiva soprattutto dal punto di vista
metodologico e se le conclusioni di Hansen possono essere condivisibili in certa
misura (le battle exhortations sarebbero in effetti composizioni retoriche costruite ad
arte dagli storici) non altrettanto condivisibile è il dato dell’impossibilità materiale
momento che la notazione “pochi” dovrebbe riferirsi a un numero inferiore rispetto a quello degli
opliti.
20
M.H. Hansen, The battle exhortation in ancient historiography. Fact or fiction?, «Historia» XLII
(1993), 161-180 e Id., The little grey Horse. Henry V’s Speech at Agincourt and the Battle Exhortation in Ancient
Historiography, «Histos» II (1998), ora in «C&M» LII (2001), 95-115, con l’inserzione di una terza
appendice che offre spunti di riflessione inerenti al tema trattato. Si veda infra, p. 24.
21
Come già notato da W.K. Pritchett, The General’s Exhortation in Greek Warfare, in Essays in
Greek History, Amsterdam 1994, 27-109, Hansen tralascia le declamazioni di Lesbonatte di Mitilene,
autore di età imperiale che compone due discorsi fittizi di un generale alle sue truppe. Una di esse
non presenta precisi riferimenti temporali, mentre l’altra è il logos di un generale ateniese tenuto nel
413 a.C. prima di uno scontro contro i Lacedemoni. Su questo argomento si veda anche J.C.
Iglesias Zoido, The battle exhortation in ancient Rhetoric, «Rhetorica» XXV (2007), 141-158, 154-155.
22
Hansen, The battle exhortation, cit., 165-166. M. Clark, Did Thucydides invent the battle
exhortation?, «Historia» XLIV (1995), 375-376, in netta opposizione ad Hansen, riassume così il suo
pensiero: «in Hansen’s view, once ancient troops had begun to take up information for an
approaching battle their generals could not possibly harangue them with the sort of lengthy
orations we find in ancient historians who record them». Secondo Hansen sarebbe stato proprio
Tucidide, all’inizio della catena storiografica l’inventore del genere. Non si occupa direttamente
delle arringhe militari H. van Wees, La Guerra dei Greci, Gorizia 2009, 311, poiché ritiene, in linea
con il punto di vista di Hansen, che: «i lunghi e rifiniti discorsi che ritroviamo nella maggior parte
delle fonti debbono essere una finzione letteraria: le arringhe vere, in apparenza, consistevano in
brevi frasi ed esortazioni e potevano venire interrotte bruscamente quando il nemico cominciava ad
avanzare».
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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di discorsi lunghi:23 se al contrario dimostrassimo la possibilità di pronunciarli,
analizzando i singoli discorsi nel loro contesto storico, il problema sarebbe
nuovamente quello della modalità di elaborazione dei logoi nelle opere storiche e del
loro rapporto con la realtà storica al di là della “patina” retorica. Ad esempio, in
Tucidide la maggior parte delle esortazioni parenetiche è pronunciata da Brasida in
area tracia: è forse probabile che lo storico ateniese, la cui famiglia era originaria di
quell’area, avesse informazioni di prima mano.
In merito a questi aspetti, la storiografia greca sembra oscillare
continuamente tra problematiche di natura pratica (possibilità o meno che i logoi
parenetici venissero uditi) e piena accettazione del paradigma retorico codificato.
Sembra infatti che proprio a partire da Tucidide si consolidi una sorta di accordo
tra autore e fruitori dell’opera secondo cui, al pari delle convenzioni sceniche del
teatro, il reportage dei discorsi diveniva fededegno.
È possibile notare, tuttavia, come a tale tendenza di “drammatizzazione”
della storia se ne affianchi una antitetica: prima di tali logoi Tucidide riporta talvolta
il numero preciso degli uomini schierati, come se intendesse effettivamente inserire
i suoi “pezzi” di retorica in un contesto quanto più possibile reale e concreto. Lo
storico ateniese riferisce, ad esempio, che le esortazioni erano pronunciate per
mezzo di alte grida, come nel caso delle battaglie notturne, piuttosto temute da
parte dei soldati: «i Siracusani e gli alleati come vincitori si esortavano con grida
altissime, dato che di notte era impossibile farsi intendere in qualche altro modo, e
intanto resistevano a chi li assaliva»;24 o quelle navali, dove il rumore dei vogatori e
dei flussi marini era senz’altro prevalente: «[Brasida], vedendo che per l’asprezza
del luogo i trierarchi e i timonieri, anche se da qualche parte sembrava possibile
l’approdo, esitavano e guardavano di non far cozzare le navi l’una contro l’altra, si
rivolgeva loro con alte grida, dicendo che non era ragionevole che risparmiassero
dei legni e trascurassero i nemici, i quali avevano costruito un forte sulla loro
terra»;25 o nel caso di epipolesi: «Nicia, vedendo che l’esercito era scoraggiato e in
preda a un grande turbamento, passandolo in rivista cercava, per quanto era
23
Contro le tesi di Hansen si segnalano i lavori di Pritchett, The General’s Exhortation, cit., 27109; C.T.H.R. Ehrhardt, Speeches before battle?, «Historia» XLIV (1995), 120-121; Clark, Did Thucydides
invent, cit., 375-376.
24
Thuk. VII 44, 4: οἵ τε γὰρ Συρακόσιοι καὶ οἱ ξύμμαχοι ὡς κρατοῦντες παρεκελεύοντό τε
κραυγῆ οὑκ ὀλίγῃ χρώμενοι, ἀδύνατον ὂν ἐν νυκτὶ ἄλλῳ τῳ σημῆναι, καὶ ἅμα τοὺς
προσφερομένους εδέχοντο (trad. F. Ferrari). La testimonianza tucididea fa luce sull’aspetto della
gestualità in un discorso parenetico: durante la notte non si poteva infatti comunicare come di
giorno e quindi attraverso il canale visivo si integravano le eventuali carenze acustiche di un logos
parenetico.
25
Thuk. IV 11, 4: τριηραρχῶν γὰρ καὶ ὁρῶν τοῦ χωρίου χαλεποῦ ὄντος τοὺς τριηράρχους
καὶ κυβερνήτας, εἴ που καὶ δοκοίη δυνατὸν εἶναι σχεῖν, ἀποκνοῦντας καὶ φυλασσομένους τῶν
νεῶν μὴ ξυντρίψωσιν, ἐβόα λέγων ὡς οὐκ εἰκὸς εἴη ξύλων φειδομένους τοὺς πολεμίους ἐν τῇ
χώρᾳ περιιδεῖν τεῖχος πεποιημένους. L’azione è descritta in maniera pressoché identica in Diod.
XII 62, 2. Nel brano di Diodoro, tuttavia, l’esortazione è rivolta a gran voce al solo pilota della
nave di Brasida, e non a tutti i trierarchi e timonieri come in Tucidide. Dato che la fonte di
Diodoro sembra Tucidide, è probabile che l’Agirinense volesse riportare l’intero evento in una
cornice più realistica non ritenendo possibile che un solo uomo, sebbene a gran voce, potesse
raggiungere con la voce tutti i timonieri contemporaneamente.
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possibile in quella situazione, di incoraggiarlo ed esortarlo, alzando sempre più la
voce man mano che li incontrava, spinto dall’impeto e nella speranza che il suo
forte gridare potesse servire a qualcosa».26
Anche in Senofonte sono presenti molte indicazioni “realistiche” sulla
battaglia, come in un passaggio delle Elleniche dove è descritto un discorso
esortativo rivolto a quasi un migliaio di soldati:27 «Gli uomini di Phyle occuparono
a loro volta la strada, con una profondità non superiore a dieci file di opliti,
rinforzati alle spalle da peltofori, lanciatori di giavellotti e di pietre, questi ultimi
in numero cospicuo perché si erano aggiunti quelli provenienti dal Pireo stesso.
Nell’imminenza dell’attacco nemico Trasibulo diede ordine ai suoi di deporre gli
scudi; egli fece altrettanto, senza tuttavia abbandonare le altre armi e ritto in
mezzo alle truppe, tenne un discorso».28 La notazione sulla disposizione
dell’esercito rende certo più verosimile la possibilità di ascolto della lunga
esortazione di Trasibulo.29
Trattare il problema delle arringhe militari ci pone così dinanzi alla
questione delle modalità di fruizione delle orazioni.30 Da questo punto di vista,
l’atto comunicativo informativo, appare strettamente legato a quello ingiuntivo,
ossia la possibilità che le esortazioni fossero udite dall’intero esercito è anche
subordinata alla necessità di ricevere i comandi durante le fasi della battaglia.
Se pensiamo a un’assemblea di cittadini riuniti attorno al palco dell’oratore,
l’efficacia della mediazione è chiaramente subordinata alla possibilità che il
messaggio venga udito dal maggior numero possibile di individui.31 L’epitaffio di
Pericle per i caduti del primo anno di guerra venne pronunciato, secondo quanto
26
Thuk. VII 76: ῾Ορῶν δὲ ὁ Νικίας τὸ στράτευμα ἀθυμοῦν καὶ ἐν μεγάλῃ μεταβολῇ ὄν,
ἐπιπαριὼν ὡς ἐκ τῶν ὑπαρχόντων ἐθάρσυνέ τε καὶ παρεμυθεῖτο, βοῇ τε χρώμενος ἔτι μᾶλλον
ἑκάστοις καθ᾿ οὓς γίγνοιτο ὑπὸ προθυμίας καὶ βουλόμενος ὡς ἐπὶ πλεῖστον γεγωνίσκων ὠφελεῖν
τι (trad. A. Corcella).
27
28
Xen. hell. II 4, 10.
Xen. hell. II 4, 12: οἱ δὲ ἀπὸ Φυλῆς ἀντενέπλησαν μὲν τὴν ὁδόν, βάθος δὲ οὐ πλέον ἢ εἰς
δέκα ὁπλίτας ἐγένοντο. ἐτάχθησαν μέντοι ἐπ᾿ αὐτοῖς πελτοφόροι τε καὶ ψιλοὶ ἀκοντισταί, ἐπὶ δὲ
τούτοις οἱ πετροβόλοι. οὗτοι μέντοι συχνοὶ ἦσαν· καὶ γὰρ αὐτόθεν προσεγένοντο. ἐν ᾧ δὲ
προσῇσαν οἱ ἐναντίοι, Θρασύβουλος τοὺς μεθ᾿ αὑτοῦ θέσθαι κελεύσας τὰς ἀσπίδας καὶ αὐτὸς
θέμενος, τὰ δ᾿ἄλλα ὅπλα ἔχων, κατὰ μέσον στὰς ἔλεξεν (trad. G. Daverio Rocchi).
29
Xen. hell. II 4, 13-17. Cfr. Hansen, The little grey Horse, cit., 109, che ammette la possibilità
che il discorso di Trasibulo fosse effettivamente ascoltato dai soldati schierati.
30
E. Anson, The General’s pre-battle Exhortation in Graeco-Roman Warfare, «G&R» LVII (2010),
304-318, con una serie di calcoli basati principalmente su studi sulla trasmissione del suono,
conclude che il numero massimo di uomini schierati in grado di ascoltare interamente i discorsi di
un comandante era, con un margine di approssimazione, di circa 1200.
31
O. Longo, L’informazione e la comunicazione, in M. Vegetti (a cura di), Oralità, Scrittura,
Spettacolo, Milano 1983, 15-29, nota che «nel caso speciale del contingente militare, può accadere che
un’informazione o un ordine vadano diffusi mentre il gruppo è in marcia: in questo caso, non
potendosi riunire un’assemblea, si sovviene alla necessità di una rapida diffusione della
comunicazione con la tecnica del parenghyan, e cioè del far passare il comando, la notizia, la parola
d’ordine, di bocca in bocca, mettendo in opera una vera e propria catena di trasmissione
dell’informazione». Si veda anche Id., Tecniche della comunicazione nella Grecia antica, Napoli 1981.
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riferisce Tucidide, da «una tribuna fatta costruire elevata per essere ascoltato dal
maggior numero possibile di persone».32
Aristotele, che si occupa a più riprese33 delle problematiche connesse con la
diffusione del suono, in particolare del linguaggio umano, è ben consapevole del
fatto che «la voce, che è una specie di flusso, si sente meglio dall’alto in basso che
dal basso in alto»34 e trattando il problema della giusta dimensione di una polis
diffida dalle comunità composte da un numero troppo ampio di cittadini: «chi
potrebbe esserne l’araldo – domanda lo Stagirita – se non uno con la voce di
Stentore?».35 Per Aristotele, è il raggio di ricezione della voce del κῆρυξ a
determinare i confini stessi della polis: la dimensione dello spazio civico e la stessa
comunità degli abitanti vengono così a definirsi attraverso una delimitazione
invisibile – ma assolutamente vincolante – di tipo percettivo-uditivo.
Sul versante “mediatico” – con riferimento al medium di trasmissione – i testi
aristotelici rappresentano inoltre un’importante spia di come gli antichi fossero al
corrente di alcuni piccoli espedienti per esercitare la voce rendendola forte e capace
di raggiungere distanze elevate: uno di questi era l’essere a digiuno, dal momento
che la voce risulta alterata se si grida dopo aver mangiato. Proprio per questo
motivo, afferma Aristotele, «coloro che esercitano la voce, per esempio gli attori, i
coreuti e altri artisti dello stesso genere, fanno gli esercizi sempre al mattino presto
e a digiuno».36
Oltre agli accorgimenti incentrati sull’emissario dell’atto comunicativo è
probabile pensare – pur in assenza di specifiche testimonianze a riguardo – che vi
potessero essere anche degli strumenti utilizzati per amplificare la voce. A tal
proposito Hansen, in una breve appendice al suo secondo articolo sulla battle
exhortation,37 riferisce che lo scienziato tedesco Athanius Kircher, vissuto nel
diciassettesimo secolo, nella sua opera Phonurgia Nova,38 inserisce un capitolo
intitolato De cornu Alexandri Magni. In esso, Kircher racconta di essersi imbattuto in
un manoscritto inedito conservato nella Biblioteca Vaticana intitolato Secreta
Aristotelis ad Alexandrum magnum nel quale era descritto un corno di cinque cubiti di
diametro capace di richiamare i soldati dispersi per cento stadi. Hansen, definendo
“megafono” lo strumento descritto da Kircher così commenta: «I am certainly not
the first to have wondered how Alexander the Great could deliver a speech to his
army when drawn up in full battle line». L’esempio condotto da Kircher nella sua
32
Thuk. II 34, 7. Al riguardo, sembra interessante la dichiarazione di Isocrate che nel
Filippo (Isokr. Phil. 81) afferma di essere stato, fra i suoi concittadini, il meno adatto alla politica,
poiché non dotato di «voce sufficiente» ( οὔτε γὰρ φωνὴν ἔσχον ἱκανήν).
33
Lo ha fatto nel De sensu, nel De Anima e nei Problemata XI.
34
Ar. probl. 904 a.
35
Ar. pol. 1326 b. L’interrogativa retorica, evidentemente volta a colpire le poleis troppo
numerose perché difficilmente governabili, attraverso un’espressione idiomatica pone in risalto
tuttavia il tema della fruizione di un messaggio da parte della comunità quale costitutivo della
stessa.
36
Ar. probl. 901b.
37
Si veda supra, n. 20.
38
A. Kircher, Phonurgia nova, sive de mirabilibus prodigiis soni, vocisque per machinas omnis generis
propagandi, Kempten 1673.
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Phonurgia Nova su come i bovari richiamassero i buoi al pascolo concorre però a
smentire che il corno di Alessandro fosse un megafono: gli armenti non erano
certo richiamati dai discorsi dei pastori, ma semplicemente dall’effetto acustico
dello strumento. Lo strumento usato da Alessandro era certamente utilizzato per
chiamare a raccolta i soldati o per dare segnali prestabiliti e non per trasmettere
loro la voce umana.39
La contingenza dei logoi parenetici è senz’altro correlata al tema del phobos,40
la paura indiscriminata che si impadronisce delle truppe in procinto della battaglia;
benché esso sia soggetto diffuso nella storiografia antica, è ben lungi dall’essere un
topos letterario. All’incertezza dell’esito finale si aggiungono infatti le condizioni
fisiche degli uomini spesso logorati da ore di marcia, scarsità di viveri e lunghe
attese in piedi con condizioni climatiche avverse; dovevano essere minuti di
frenetica agitazione collettiva e un buon generale doveva senz’altro utilizzare
qualsiasi sistema per tenere coeso lo schieramento e alto il morale per la buona
riuscita della battaglia.41 Nessun esercito poteva sottrarsi alla paura,42 neanche i
coraggiosi Lacedemoni quando, in un episodio descritto da Tucidide, di ritorno al
proprio accampamento «videro che i nemici erano a poca distanza, tutti già
schierati, e che erano scesi dalla collina. Quello che gli Spartani provarono in quel
momento fu senza dubbio il più grande spavento di cui avessero memoria».43
Nel trattato Sul comandante, scritto intorno alla metà del I secolo d.C., il
filosofo platonico Onasandro44 mette in guardia proprio dagli attacchi notturni alle
città assediate, perché capaci di generare panico e confusione tra le truppe:
«Nessuno riesce ad essere lucido in simili circostanze, ma addirittura di molti
episodi non verificatisi si parla come fossero accaduti, e non potendo capire dove i
nemici attaccheranno né quanti sono né in quanti punti daranno la scalata alle
39
Sull’utilizzo delle trombe in guerra abbiamo peraltro diverse attestazioni: come
strumento per incoraggiare le truppe si veda Ath. X 414f-415a, dove è detto che Amaranto di
Alessandria, nella sua opera Questioni di teatro, raccontava delle notevoli doti del trombettiere
Erodoro di Megara. Quest’ultimo, pur essendo poco più alto di un metro e mezzo, era in grado di
suonare contemporaneamente due trombe e di produrre un suono capace di raggiungere suoni
altissimi. Nel 303 a.C., durante l’assedio di Argo da parte di Demetrio, poiché i soldati non
riuscivano a posizionare la torre alle mura della città, «Erodoro diede il segnale con le sue due
trombe e l’intensità del suono riempì i soldati d’un ardore che li costrinse a spingere avanti la
macchina» (trad. R. Cherubina). La particolarità della preparazione fisica dai trombettieri, come si
ricava dalle pagine di Ateneo, relativa alle capacità “manducatorie” dei suonatori (Erodoro era
solito mangiare sei chenici di pane e venti libbre di carne accompagnati da due boccali di vino)
appare in stridente contrasto col digiuno raccomandato da Aristotele per gli oratori. Sull’utilizzo
delle trombe per stratagemmi militari si vedano Polyaen. V 23 e Onasand. 42, 17.
40
Sul tema della paura negli eserciti si veda V.D. Hanson, L’arte occidentale della Guerra.
Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Milano 1989, 109-117.
41
Per una nutrita rassegna si veda Hanson, L’arte occidentale della Guerra, cit., 109-117.
42
Cfr. Thuk. VII 80, 3: «Ma come suole avvenire in tutti gli eserciti, soprattutto quelli più
grandi, che sorgano cioè paure e terrori, tanto più se si trovano a marciare di notte, per una terra
ostile e con i nemici non molto distanti, i soldati caddero in preda allo scompiglio» (trad. A.
Corcella).
43
Thuk. V 66, 1-2 (trad. L. Canfora e A. Favuzzi).
44
Onasandro sarebbe un filosofo platonico secondo la Suda (s.v. Ὀνόσανδρος).
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mura, nasce un andare e venire di corsa in tutte le direzioni che genera Panico e
confusione».45 Lo stesso Tucidide riferisce del terrore provato dai Siracusani
durante l’assalto ateniese all’Epipole a causa di un attacco notturno improvviso 46 e
del panico che si impadronì dei soldati di Brasida durante una missione in
Macedonia al sopraggiungere della notte.47 Al terrore sconsiderato che scoppia
durante un assedio è dedicato un apposito passaggio dei Poliorcetica di Enea Tattico.48
Quest’ultimo segnala gli strumenti migliori per sopire tali sentimenti: intonare il
peana o diffondere la voce che si tratta di un attacco di panico, non causato dunque
da cause contingenti. E ancora due intere sezioni degli Strategemata di Frontino49
sono dedicati proprio agli stratagemmi ideati per esortare l’esercito alla battaglia e
per dissolverne la paura.
Numerose sono le testimonianze sugli imbarazzanti effetti di incontinenza
che il terrore per la guerra poteva causare finanche nei comandanti: soprattutto
Aristofane ama scherzarci sopra con battute più o meno velate sintomatiche del
fatto che il problema doveva essere ben noto al suo pubblico. L’esempio più
esplicito di tale casistica figura nella Pace quando il commediografo prende di mira
il capitano di fanteria eccessivamente arrogante e sfarzoso che si gloria del suo
manto scarlatto. Quello stesso mantello, avverte Aristofane, quando giungerà il
momento di combattere «prenderà un colore diverso!». 50 Sullo stesso tema si
segnala che anche Plutarco, nella Vita di Arato, riprende una delle accuse messe in
circolazione contro il generale degli Achei. In un primo momento, si limita a
riportare che Arato «aveva chiaramente paura e sfiducia quando affrontava una
guerra e una battaglia»51 ma, in seguito, riferisce che la vittoria contro il tiranno di
Argo Aristippo «mise a tacere le continue calunnie, le dicerie, le facezie, le arguzie
degli adulatori dei tiranni, tuttavia questi per far loro cosa gradita, raccontavano
come, nel corso delle battaglie, lo stratego degli Achei avesse disturbi intestinali,
come torpore e vertigini lo cogliessero all’apparire del trombettiere». 52
45
Onasand. 41, 2 (trad. C. Petrocelli, come le successive di Onasandro).
Thuk. VII 43, 6: «I Siracusani, gli alleati e Gilippo con i suoi uomini accorsero allora in
aiuto delle fortificazioni avanzate; ma, dato che l’azione avversaria era avvenuta quando meno se
l’aspettavano, di notte, attaccarono in preda allo spavento, cosicché furono respinti dagli Ateniesi e
dovettero da principio ritirarsi» (trad. A. Corcella).
47
Thuk. IV 125, 1: «Sicché, quando ormai entrambi pensavano di ritirarsi per paura di
quegli uomini bellicosi, ma per i loro contrasti non avevano affatto deciso quando partire, calata la
notte i Macedoni e la massa dei barbari furono colti da un improvviso timore, come di solito capita
a grandi eserciti che si lasciano prendere dal panico senza un motivo apparente; e ritenendo che gli
assalitori fossero di gran lunga più numerosi di quelli che si presentarono effettivamente, e che
mancasse poco al loro arrivo, si volsero improvvisamente in fuga per tornare in patria» (trad. A.
Favuzzi e S. Santelia).
48
Ain. Takt. 27. M. Bettalli (a cura di), in Enea Tattico. La difesa di una città assediata
(Poliorketica), Pisa 1990, 292, nel suo commento al testo segnala come il notevole spazio dedicato da
Enea al tema della paura sia testimonianza dell’importanza del fenomeno presso gli antichi.
49
Frontin. strat. XI-XII.
50
Aristoph. Pax 1176.
51
Plut. Ar. 10, 2 (trad. M. Manfredini, come la successiva).
52
Plut. Ar. 29, 7.
46
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Oltre ai discorsi esortativi, abbiamo testimonianza di ulteriori sistemi
utilizzati dai comandanti per risollevare gli animi delle truppe: ad esempio, la
somministrazione di vino. Plutarco nella Vita di Dione riferisce come Dionisio II
durante l’assalto del 357 a.C. contro la città di Siracusa in mano a Dione «fatti
riempire di vino schietto i mercenari, li mandò di corsa contro la fortificazione
fatta dai Siracusani intorno all’acropoli».53 I barbari al comando del tiranno «con
molta audacia e grande tumulto abbatterono il muro e si gettarono sui Siracusani:
nessuno osava resistere e respingerli tranne i mercenari di Dione». 54 Come si evince
dalla testimonianza plutarchea, il vino55 veniva utilizzato al fine di rendere più
ardimentosi i soldati, in questo caso dei mercenari che non potevano certo trovare
nelle parole del proprio comandante motivazioni altrettanto persuasive. Talvolta il
vino invece poteva rivelarsi un’arma contro i soldati che ne avessero abusato, come
nel caso della sconfitta spartana a Leuttra dove l’uso eccessivo di vino prima della
battaglia aveva contribuito, secondo una voce riferita da Senofonte, ad agitare i
soldati.56
Un altro sistema, secondo Onasandro, era quello di portare dinanzi alle
truppe i soldati nemici catturati, dopo averli avvinti in catene e terrorizzati a
parole. Col loro aspetto essi riveleranno «quanto siano privi di coraggio, miseri e
degni di nessuna considerazione e che loro stanno per combattere contro uomini
siffatti, i quali a tal punto temono la morte, da afferrare le ginocchia e prostrarsi ai
piedi di ciascuno».57 Secondo Onasandro, l’esercito prende coraggio
(ἐπαναθαρρεῖ) da questa visione «avendo già conosciuto in anticipo l’aspetto dei
nemici e i loro patimenti».58
È possibile considerare tale pratica un’evoluzione di uno dei topoi retorici
sull’inferiorità del nemico in cui la parenesi si esprime attraverso il doppio canale
della vista e dell’udito.
Grida di esortazione potevano essere lanciate anche da parte degli stessi
59
soldati e, talvolta, era anche opportuno diffondere notizie menzognere per tenere
alto il morale, come fece Agesilao quando rivelò al proprio esercito che Pisandro
era morto nella battaglia di Cnido ma aveva vinto la battaglia navale. Per
legittimare l’annuncio compì un sacrificio di buoi per festeggiare la vittoria e nello
scontro che ne seguì i suoi uomini «ebbero la meglio, per l’idea che gli Spartani
avevano vinto sul mare».60
Tali sistemi “alternativi” alla parenesi bellica, sintomatici della copiosa
aneddotica fiorita attorno al tema del phobos, non scalfiscono il peso e il valore del
53
Plut. Dio 30, 5 (trad. P. Fabrini, come la successiva).
Plut. Dio 30, 6.
55
Un intero paragrafo è dedicato al tema da Hanson, L’arte occidentale, cit., 167-173.
56
Cfr. Xen. VI 4, 8.
57
Onasand.14, 3.
58
Onasand.14, 4.
59
Cfr. Thuk. VII 44, 4: «Ché i Siracusani e gli alleati come vincitori si esortavano con grida
altissime, dato che di notte era impossibile farsi intendere in qualche altro modo, e intanto
resistevano a chi li assaliva» (trad. F. Ferrari).
60
Cfr. Xen. hell. IV 3, 13-14.
54
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logos parenetico, di fondamentale propedeuticità allo scontro. Tra le doti
espressamente richieste a un comandante, di basilare importanza figura lo stretto
binomio costituito dalle abilità propriamente strategiche e da quelle oratorie.
Tracciando il ritratto di Socrate nei Memorabili,61 Senofonte segnala come il
proprio maestro si rendesse «utile a coloro che aspiravano all’onore delle cariche
pubbliche, spingendoli a impegnarsi nelle cose che desideravano». 62 Il Socrate
senofonteo afferma che la tattica è solo uno degli aspetti che dovrebbero dirsi
propri di un buon generale; e se l’arte oratoria non figura tra le qualità
espressamente citate dall’autore, tuttavia la capacità di «fornire ciò che serve ai suoi
soldati»63 e di «rendere felici coloro su cui comanda» è da intendersi come il dovere
di ogni buon comandante di soddisfare le esigenze delle proprie truppe al di là dei
semplici bisogni materiali.64 Poco oltre, nel medesimo capitolo, a un ipparco neoeletto Socrate presenta la necessità di «toccare l’animo dei cavalieri» e di
«infiammarli contro i nemici» al fine di rendere più valorosi i propri uomini»;65 e
alla domanda di quest’ultimo se tra le doti di un buon comandante di cavalleria
Socrate intendesse suggerire anche quella oratoria, la risposta è offerta attraverso
un’interrogativa retorica: «E tu credevi» replicò «che l’ipparco dovesse essere
muto? Non ti è mai venuto in mente che quante cose abbiamo imparato secondo
la legge, bellissime, con le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate
attraverso la parola?». E, come a volere sottolineare la concreta difficoltà per gli
Ateniesi nel farsi udire, non essendo popolo dotato per natura di particolare
euphonia, Socrate sottolinea come la dote più importante per essi sia il desiderio di
gloria, il quale «più di ogni altra cosa li incita ad azioni belle e onorevoli». 66
Più che considerazioni “socratiche” tali notazioni sembrano piuttosto
appunti senofontei: più volte nelle sue opere lo storico ateniese ritorna sul
problema delle qualità specifiche di un buon comandante; nell’Ipparchico segnala che
compito «di un buon ipparco è saper individuare coloro che nell’attacco contro il
nemico diano prova di accorta capacità, fedeltà, ardore e saldezza d’animo. Infatti
egli deve essere capace di discorsi e azioni sulla cui scorta quelli al suo comando
comprenderanno che è un bene obbedirgli, seguirlo e andare dritto all’attacco
contro i nemici, desidereranno elogi e saranno in grado di tradurre in pratica con
fermezza le nozioni ricevute».67
61
Xen. mem. III 1-5 (trad. Anna Santoni, come le successive).
Xen. mem. III 1, 1.
63
Xen. mem. III 1, 6.
64
Su questo aspetto si vedano Xen. Ag. 2, 8 e 6, 4, dove si parla del favore dimostrato dalle
truppe di Agesilao verso i suoi continui incitamenti.
65
Xen. mem. III 3, 7.
66
Xen. mem. III 3, 13. Il concetto è ribadito anche oltre a III 5, 3: «E inoltre gli Ateniesi
sono i più desiderosi di gloria e i più capaci di grandi sentimenti fra tutti gli uomini; e queste doti li
incitano non poco ad esporsi al pericolo per la propria gloria e per il bene della patria».
67
Xen. hipp. VIII 21-22 (trad. C. Petrocelli, come le successive dell’Ipparchico). Medesime
qualità Senofonte auspica si trovino anche in alcuni elementi dello schieramento equestre: «A tutti i
costi è necessario che a chiudere la fila sia posto un uomo dotato di capacità: essendo infatti valido,
se occorresse lanciarsi contro i nemici, saprebbe come esortare quelli davanti a sé a riprendere
62
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Lo stesso Senofonte, nel tratteggiare il personaggio dello stratego siracusano
Ermocrate, di cui Tucidide riporta tre importanti logoi diretti,68 riferisce che nel
periodo della guerra in Ionia, il comandante siracusano era solito riunire ogni
giorno nella propria tenda i più capaci tra i trierarchi, i timonieri e i soldati di
marina per metterli a parte dei propri progetti e insegnare loro l’arte oratoria: «e li
esercitava obbligandoli ad esporre discorsi, ora improvvisati, ora preparati. Per
questo Ermocrate godeva di grande fama nel sinedrio, in quanto sembrava
prendere la parola e consigliare per il meglio».69
La prassi della pratica parenetica nell’esercito lacedemone trova una sua
precisa codificazione anche nella Costituzione degli Spartani dove Senofonte mostra un
quadro verosimile della funzione paracletica delegata alla figura, tipicamente
spartana, dell’enomotarco: «Istruzioni ed esortazioni sono rivolte dal comandante
di plotone (enomotarches), perché ogni plotone (enomotia) non riesce a sentire
completamente che gli ordini provenienti dal proprio comandante». 70
La tradizione senofontea sulle capacità oratorie di un buon comandante71 si
fissa inoltre nella trattatistica militare successiva. Secondo Onasandro, a un bravo
coraggio, se invece si rivelasse opportuno ripiegare, impartendo sagge direttive dall’ultima fila
potrebbe verosimilmente salvare i suoi compagni» (Xen. hipp. II 5).
68
Cfr. Thuk. IV 59-64; VI 33-34; VI 76-80. Su Ermocrate di Siracusa si vedano F. Grosso,
Ermocrate di Siracusa, «Kokalos» XII (1966), 102-143; H.D. Westlake, Hermocrates the Syracusan, in Essays
on the Greek historians and Greek history, New York 1969, 101-122; N.G.L. Hammond, The Particular and
the Universal in the speeches in Thucydides with special reference to that of Hermocrates at Gela, in Stadter (Ed.), The
Speeches in Thucydides, cit., 49-59; G. Fontana, Alcune considerazioni su Ermocrate siracusano, in I. Gasperini (a
cura di), Scritti sul mondo antico in memoria di F. Grosso, Roma 1981, 151-163; M. Sordi, Ermocrate di Siracusa:
demagogo e tiranno mancato, in Scritti sul mondo antico, cit., 595-600; C. Bearzot, Τἀπόρρητα ποιεῖσθαι.
Ancora su Ermocrate e Teramene, «RIL» CXXVIII (1994), 271-281; G. Vanotti, Quale Sicilia per Ermocrate?,
in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini (a cura di), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003,
179-197; D. Sinatra, Le accuse allo stratega siracusano Diocle e la politica di Ermocrate, «Thalassa» II (2005), 131145; G. Vanotti, L’Ermocrate di Diodoro: un leader ‘dimezzato’, in C. Bearzot - F. Landucci Gattinoni (a
cura di), Diodoro e l’altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Atti del Convegno
(Milano, 15-16 gennaio 2004), Milano 2005, 257-281; F. Mattaliano, Forme di associazione nella Sicilia del
V secolo a.C., «ὅρμος» VIII (2006), 49-64.
69
Xen. hell. I 1, 30-31 (trad. G. Daverio Rocchi).
70
Xen. Lak. pol. 13, 9: καὶ παρακελεύονται δὲ τ῵ ἐνωμοτάρχῳ· οὐδ' ἀκούεται γὰρ εἰς
ἑκάστην πᾶσαν τὴν ἐνωμοτίαν ἀφ' ἑκάστου ἐνωμοτάρχου ἔξω· (trad. L. Canfora). Il passo,
tuttavia, può essere inteso anche in altro modo, sulla scorta della traduzione di ἀκούω: piuttosto
che col significato proprio di “percepire la voce” con quello di “dare ascolto”. I componenti di ogni
enomotia, legati da giuramento a ogni comandante, prestavano ascolto soltanto alle esortazioni
provenienti dai propri enomotarchi. Nella testimonianza senofontea, dunque, non necessariamente
si deve leggere, a mio avviso, una notizia sull’impossibilità di ascoltare nessun altro al di fuori del
proprio comandante. Sulla figura dell’enomotarco si veda anche Xen. Lak. pol. 11, 4.
71
Le notazioni socratiche relative alle capacità oratorie di un buon comandante sembrano
contrapporsi decisamente alle dichiarazioni che lo stesso Senofonte mette in bocca a un altro dei
suoi personaggi-chiave: nella Ciropedia, Ciro il Grande afferma che «non c’è esortazione al mondo,
per quanto efficace, che possa trasformare all’istante in soldati valorosi uomini che valorosi non
sono» (Xen. Kyr. III 3, 50). Le parole di Ciro, tuttavia, non intacca il senso delle dichiarazioni
dell’Ipparchico, ossia che le strategie oratorie siano doti essenziali di un buon comandante. La
considerazione sull’inutilità delle esortazioni, piuttosto, caratterizza efficacemente la figura del
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generale sono esplicitamente richieste abilità dialettiche e forza espressiva per la
parenesi bellica: «Bravo oratore: da questa qualità credo verrà all’esercito il
vantaggio più grande; quando infatti un comandante schiera l’esercito in vista della
battaglia, l’incitamento delle parole lo rende sprezzante dei pericoli e desideroso di
gloria; una tromba, quando risuona nelle orecchie, non incita gli animi allo
scontro di guerra, così come un discorso – pronunciato per incitamento al valore
militare – spinge la volontà di guerra verso i rischi; qualora poi accadesse
all’esercito una qualche sventura, l’incoraggiamento della parola risolleva gli
animi».72 Le parole del proprio comandante, dalle proprietà “terapeutiche”, sono
infatti paragonate alle cure prodigate a un malato dalla scienza medica, delle quali
risultano ben più efficaci nel difficile compito di rianimare coloro che si trovano in
difficoltà.73 Il paragrafo si chiude con un efficace sillogismo volto ad affermare il
valore dell’oratoria militare: «Nessuna città darà vita ad una spedizione militare
senza generali, né sceglierà un generale che non abbia familiarità con la facoltà di
eloquio».74
Il trattato onasandreo non si distingue per originalità dei contenuti né per le
scelte stilistiche; oltretutto per il periodo di composizione dell’opera saremmo più
portati a riconoscere una diversa realtà della res militaris, quella romana coeva.
Tuttavia, in tale opera, caratterizzata da una notevole sovrapposizione dei piani
cronologici che molto spesso porta a dei veri anacronismi,75 la realtà militare
ellenica appare presente e viva nel ricordo, soprattutto per il riferimento a fonti
greche che, sebbene mai menzionate esplicitamente, risultano comunque
riconoscibili. Senofonte, come si diceva, è certamente modello fondante, oltre a
Isocrate e Polibio, identificabili in alcune caratterizzazioni del generale.76 Il topos
letterario delle esortazioni alle truppe prima di uno scontro si è dunque
cristallizzato e si trova pienamente codificato in un’opera che non si segnala per il
comandante persiano e il suo disprezzo verso un coraggio che non giunga dalla coscienza del
proprio valore personale.
72
Onasand. 1, 13: λέγειν δ' ἱκανόν· ἔνθεν γὰρ ἡγοῦμαι τὸ μέγιστον ὠφελείας ἵξεσθαι διὰ
στρατεύματος· ἐάν τε γὰρ ἐκτάττῃ πρὸς μάχην στρατηγός, ἡ τοῦ λόγου παρακέλευσις τῶν μὲν
δεινῶν ἐποίησε καταφρονεῖν, τῶν δὲ καλῶν ἐπιθυμεῖν, καὶ οὐχ οὕτως ἀκοαῖς ἐνηχοῦσα σάλπιγξ
ἐγείρει ψυχὰς εἰς ἅμιλλαν μάχης, ὡς λόγος εἰς προτροπὴν ἀρετῆς ἐναγωνίου ῥηθεὶς αἰχμάζουσαν
ἀνέστησε πρὸς τὰ δεινὰ τὴν διάνοιαν, ἄν τέ τι συμβῇ πταῖσμα περὶ τὸ στρατόπεδον, ἡ τοῦ λόγου
παρηγορία τὰς ψυχὰς ἀνέρρωσε.
73
Onasand. 1, 13-14: «Il discorso di un generale, di efficacia tale da alleviare le disgrazie
verificatesi fra gli uomini, è di gran lunga più utile dei medici che seguono i feriti. I medici infatti
curano con i farmaci solo i feriti, il generale invece rianima coloro che si trovano in difficoltà e ne
risolleva gli animi».
74
Onasand. 1, 16. οὐδὲ χωρὶς στρατηγῶν οὐδὲ μία πόλις ἐκπέμψει στρατόπεδον, οὐδὲ
δίχα τοῦ δύνασθαι λέγειν αἱρήσεται στρατηγόν.
75
Si veda D. Ambaglio, Il trattato «Sul comandante» di Onasandro, «Athenaeum» LIX (1981), 353-
377, 357.
76
Su tali aspetti si rimanda al volume di C. Petrocelli (a cura di), Onasandro. Il generale.
Manuale per l’esercizio del comando, Bari 2008 e ad Ambaglio, Il trattato, cit., 358-366.
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suo valore pratico, ma che certamente, come è stato brillantemente sostenuto da
Delfino Ambaglio, aveva un suo valore culturale.77
Hansen ritiene che il logos parenetico non possa costituire un genere
letterario a sé stante perché non vi sarebbe alcun cenno ad esso nella trattatistica
antica. Lo studioso segnala altresì come nella Retorica e nella Retorica ad Alessandro
Aristotele dedichi invece ampio spazio alle modalità di composizione dei discorsi
deliberativi e giudiziari stupendosi di come «any mention of the genre can be
found in rhetorical textbook».78 Sebbene possiamo convenire con Hansen che una
vera e propria codificazione del genere non trovi spazio nell’opera aristotelica,79
tuttavia gli argomenti dominanti dei logoi parenetici sembrano espressamente
enucleati proprio in un passaggio della Retorica.
Il brano, che per l’interesse offerto al tema riporteremo nella sua interezza,
fa probabilmente luce sul desiderio aristotelico di sistematicità nei confronti di una
materia non ancora pienamente formalizzata: «Queste sono inoltre le disposizioni
d’animo nelle quali gli uomini si sentono coraggiosi: quando pensano di aver
conseguito molti successi e di non aver sofferto, oppure quando si sono trovati
spesso in mezzo ai pericoli e ne sono scampati; è infatti in due modi che gli uomini
diventano insensibili di fronte ai pericoli, o perché non li hanno mai sperimentati,
o perché hanno la possibilità di trovare aiuti (come ad esempio nelle situazioni di
pericolo in mare hanno fiducia nel futuro quelli che non hanno mai sperimentato
una tempesta e quelli che, per loro esperienza, dispongono di mezzi di soccorso);
inoltre, quando una cosa non incute timore a chi è loro pari, ai loro inferiori o a
quelli cui si ritengono superiori (e si ritengono tali rispetto alle persone sulle quali
hanno ottenuto il predominio – sia che lo abbiano ottenuto su loro stesse, o sui
loro superiori o sui loro pari); e anche quando credono di disporre di mezzi più
ampi e più numerosi, superiorità grazie alla quale risultano temibili (e tali mezzi
sono l’abbondanza di ricchezze, la forza fisica e quella rappresentata da amici,
terre, equipaggiamenti militari: tutte queste cose o le più importanti); quando non
abbiano fatto torto a nessuno, o a pochi o a persone tali da non doverle temere; e,
77
Non credo si possa considerare artefatta la tradizione riportata dalle fonti sulle specifiche
doti oratorie richieste ai comandanti, tuttavia sarebbe opportuno fare delle distinzioni tra
comandanti di cavalleria e di fanteria. Presumibilmente i primi, consapevoli del buon livello
culturale dei propri sottoposti, dovevano dedicare più tempo alla preparazione dei discorsi affinché
in essi i cavalieri potessero ritrovarvi non solo i nobili principi aristocratici utili a rinsaldare il
sentimento di appartenenza al gruppo, ma anche una elaborata costruzione formale. Al contrario, il
comandante di eserciti, come si vedrà in seguito, poteva probabilmente concedersi qualche
deviazione dalla norma esponendo un discorso meno elaborato formalmente ma che potesse essere
recepito e compreso dalla totalità dell’esercito.
78
Cfr. anche Hansen, The battle exhortation, cit., 164: «It is much more important to
recognize that the genre is absent from the rhetorical treatise as well».
79
Iglesias Zoido, The battle exhortation, cit., 157-158, conclude la sua analisi affermando che la
mancata codificazione sulla battle exhortation da parte della trattatistica antica sia dovuta
principalmente al carattere “misto” del genere parenetico che condividerebbe il proprio statuto con
le demegoriai, i discorsi funebri e, in generale, con i discorsi legati alla guerra, come quelli assembleari:
un dato che giustificherebbe anche le numerose oscillazioni onomastiche da parte degli storiografi.
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nel complesso quando la relazione con gli dèi sia buona, in senso generale e in
particolare per quel che riguarda segni e oracoli (l’ira ispira infatti coraggio, e il
fatto di non aver commesso un torto ma di averlo subito genera ira e si suppone
che gli dèi vengano in soccorso di chi subisce ingiustizie); e anche quando, sul
punto di intraprendere qualche azione, credono di non dover soffrire alcun male o
di avere successo. E abbiamo concluso per ciò che ispira paura o coraggio». 80
In questo passaggio denso di suggestioni, Aristotele enuclea i principali
argomenti cui un oratore può attingere al fine di infondere coraggio al proprio
uditorio. Gli stati d’animo in cui gli uomini si sentono coraggiosi, infatti, sono –
come ricorda lo stesso Aristotele – la frequente esperienza, o, al contrario, la totale
inconsapevolezza dei pericoli, la sicurezza che, in previsione di una minaccia,
scaturisce dalla coscienza della propria preparazione, dalla consapevolezza dei
mezzi posseduti, dalla propria posizione in relazione alle circostanze e dalla
posizione degli avversari ritenuti pari o inferiori e, infine, la legittimità del proprio
agire in virtù di una relazione positiva con la divinità.
Il passo in questione, dunque, assolvendo a una precisa funzione espositiva,
crea una sorta di repertorio di argomenti utili per la composizione di un logos
parenetico. La maggior parte di questi aspetti sono già riscontrabili nei logoi
tucididei: ad esempio, l’esperienza dei pericoli e la grandezza dei mezzi a
disposizione sono i due capisaldi del discorso parenetico del re spartano
Archidamo nell’imminenza della prima invasione dell’Attica, 81 il favore delle
condizioni contingenti è ricordato da Demostene nel suo logos a Pilo,82 la legittimità
della propria posizione in rapporto alla divinità si trova nell’esortazione del
80
Aristot. rhet. 1383 a 19 - 1383 b 19: ἔστι δὲ θαρραλέα τά τε δεινὰ πόρρω ὄντα καὶ τὰ
σωτήρια ἐγγύς, καὶ ἐπανορθώσεις ἂν ὦσι καὶ βοήθειαι πολλαὶ ἢ μεγάλαι ἢ ἄμφω, καὶ μήτε
ἠδικημένοι μήτε ἠδικηκότες ὦσιν, ἀνταγωνισταί τε ἢ μὴ ὦσιν ὅλως, ἢ μὴ ἔχωσιν δύναμιν, ἢ
δύναμιν ἔχοντες ὦσι φίλοι ἢ πεποιηκότες εὖ ἢ πεπονθότες, ἢ ἂν πλείους ὦσιν οἷς ταὐτὰ συμφέρει,
ἢ κρείττους, ἢ ἄμφω. αὐτοὶ δ' οὕτως ἔχοντες θαρραλέοι εἰσίν, ἂν πολλὰ κατωρθωκέναι οἴωνται
καὶ μὴ πεπονθέναι, ἢ ἐὰν πολλάκις ἐληλυθότες εἰς τὰ δεινὰ καὶ διαπεφευγότες ὦσι· διχῶς γὰρ
ἀπαθεῖς γίγνονται οἱ ἄνθρωποι, ἢ τ῵ μὴ πεπειρᾶσθαι ἢ τ῵ βοηθείας ἔχειν, ὥσπερ ἐν τοῖς κατὰ
θάλατταν κινδύνοις οἵ τε ἄπειροι χειμῶνος θαρροῦσι τὰ μέλλοντα καὶ οἱ βοηθείας ἔχοντες διὰ τὴν
ἐμπειρίαν. καὶ ὅταν τοῖς ὁμοίοις φοβερὸν μὴ ᾖ, μηδὲ τοῖς ἥττοσι καὶ ὧν κρείττους οἴονται εἶναι·
οἴονται δὲ ὧν κεκρατήκασιν ἢ αὐτῶν ἢ τῶν κρειττόνων ἢ τῶν ὁμοίων. καὶ ἂν ὑπάρχειν αὑτοῖς
οἴωνται πλείω καὶ μείζω, οἷς ὑπερέχοντες φοβεροί εἰσιν· ταῦτα δέ ἐστι πλῆθος χρημάτων καὶ
ἰσχὺς σωμάτων καὶ φίλων καὶ χώρας καὶ τῶν πρὸς πόλεμον παρασκευῶν, ἢ πασῶν ἢ τῶν
μεγίστων. καὶ ἐὰν μὴ ἠδικηκότες ὦσιν μηδένα ἢ μὴ πολλοὺς ἢ μὴ τούτους παρ' ὧν φοβοῦνται, καὶ
ὅλως ἂν τὰ πρὸς τοὺς θεοὺς αὐτοῖς καλῶς ἔχῃ, τά τε ἄλλα καὶ τὰ ἀπὸ σημείων καὶ λογίων·
θαρραλέον γὰρ ἡ ὀργή, τὸ δὲ μὴ ἀδικεῖν ἀλλ' ἀδικεῖσθαι ὀργῆς ποιητικόν, τὸ δὲ θεῖον
ὑπολαμβάνεται βοηθεῖν τοῖς ἀδικουμένοις. καὶ ὅταν ἐπιχειροῦντες ἢ μηδὲν ἂν παθεῖν *μηδὲ
πείσεσθαι+ ἢ κατορθώσειν οἴωνται. καὶ περὶ μὲν τῶν φοβερῶν καὶ θαρραλέων εἴρηται (trad. M.
Dorati).
81
Thuk. II 11, 1: «Peloponnesiaci e alleati! Anche i nostri padri intrapresero molte
spedizioni all’interno del Peloponneso e fuori, ed i più anziani tra noi non sono privi di esperienze
di guerra. Mai però fino ad ora avevamo condotto una spedizione con un apparato bellico più
poderoso di questo» (trad. M. Cagnetta). Altri esempi in merito all’esperienza dei pericoli in Thuk.
II 87, 1; IV 92, 3.
82
Cfr. Thuk. IV 9, 4 -10, 5.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37
Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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beotarco Pagonda di Eolade ai Beozi.83 Un caso esemplare è il logos parenetico di
Brasida84 rivolto probabilmente ai soli trecento soldati di retroguardia con lui nella
regione macedone della Lincestide.85 I cardini dell’esortazione riguardano il valore
degli uomini cui è rivolta e il disprezzo per il nemico da affrontare: «Costoro
rappresentano una prospettiva temibile per quelli che non li conoscono: si
presentano, infatti, come temibili alla vista a causa del loro numero e l’intensità
delle loro grida è difficile da sopportare, mentre il loro agitare le armi a vuoto ha
un effetto minaccioso. Tuttavia, quando si tratta di venire alle mani contro
avversari che sopportano queste manifestazioni, risultano ben diversi: non
disponendo, infatti, di uno schieramento, non sono indotti a vergognarsi di
abbandonare una posizione quando vengono incalzati; inoltre, dal momento che la
fuga e l’attacco sono considerati presso di loro ugualmente onorevoli, anche il loro
coraggio non viene messo alla prova, mentre una battaglia, nella quale ciascuno si
comporta in maniera autonoma, offre i migliori pretesti per mettersi in salvo in
maniera decorosa».86
Sembra inoltre che la modalità di rielaborazione dei discorsi praticata da
Tucidide assuma una precisa funzione testuale: attraverso una prolessi narrativa
degli eventi la maggior parte delle circostanze segnalate dai comandanti nei logoi
parenetici si verifica puntualmente nel corso della narrazione. La lungimiranza
83
Thuk IV 92, 7: «fiduciosi che sarà dalla nostra parte il dio di cui empiamente i nemici
occupano il tempio con un forte, e fiduciosi per le vittime che nei nostri sacrifici appaiono
favorevoli, devono attaccare costoro» (trad. F. Ferrari).
84
Thuk. IV 125. Importante è in questo discorso di Brasida il riferimento alla διδαχή su cui
cfr. Petrocelli (a cura di), Onasandro. Il generale, cit., n. 43, 149: «Brasida vuole offrire una διδαχή
incentrata sul valore degli uomini che ha dinanzi, grazie al quale si sono ottenute molte vittorie ma
anche la δυναστεία; i barbari sono terribili solo in apparenza, ma fanno più affidamento sul terrore
che incutono piuttosto che sulle reali capacità belliche, per le quali si dimostrano disorganizzati e
vili». Si veda anche Hammond, The Particular and the Universal, cit., 50: «The particular elements are
minimal: the dismay of the deserted Greeks, the yelling and spear-brandishing of the Illyrian
savages, and the tactic Brasidas advised of standing firm under attack and of orderly withdrawal as
occasion offered. The universal elements are prominent; they are what Brasidas calls ta megista
(126.1). They are as follows. Prowess in battle is due to aretê, itself developed in a society which is
free and is not dominated by a military clique. Any unknown opponent is alarming; to learn his
true measure is advantageous if he is weaker than he seems but may be disadvantageous if he is
stronger than he seems. Free range fighting permits a man to run away: but fighting in a regiment
under discipline involves a sense of honor and an obligation to stand one’s ground. […] That the
universal elements far out-weigh the particular elements is due not only to Thucydides’ preference
for the universal but also to the fact that the actual words of Brasidas could hardly have been
obtained by him».
85
Forse esorta i soli trecento soldati scelti che erano di retroguardia con lui e non l’intero
esercito. Si veda Longo, I discorsi tucididei, cit., 147.
86
Thuk. IV 126, 5: οὗτοι δὲ τὴν μέλλησιν μὲν ἔχουσι τοῖς ἀπείροις φοβεράν· καὶ γὰρ
πλήθει ὄψεως δεινοὶ καὶ βοῆς μεγέθει ἀφόρητοι, ἥ τε διὰ κενῆς ἐπανάσεισις τῶν ὅπλων ἔχει τινὰ
δήλωσιν ἀπειλῆς. προσμεῖξαι δὲ τοῖς ὑπομένουσιν αὐτὰ οὐχ ὁμοῖοι· οὔτε γὰρ τάξιν ἔχοντες
αἰσχυνθεῖεν ἂν λιπεῖν τινὰ χώραν βιαζόμενοι ἥ τε φυγὴ καὶ ἡ ἔφοδος αὐτῶν ἴσην ἔχουσα δόξαν
τοῦ καλοῦ ἀνεξέλεγκτον καὶ τὸ ἀνδρεῖον ἔχει (αὐτοκράτωρ δὲ μάχη μάλιστ' ἂν καὶ πρόφασιν τοῦ
σῴζεσθαί τινι πρεπόντως πορίσειε), τοῦ τε ἐς χεῖρας ἐλθεῖν πιστότερον τὸ ἐκφοβῆσαι ὑμᾶς
ἀκινδύνως ἡγοῦνται (trad. M. Moggi).
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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degli strateghi sembra assolvere una particolare finalità di caratterizzazione
dell’ethos: le previsioni di Archidamo 87 e di Formione,88 ad esempio, hanno un
preciso riscontro nelle successive azioni militari e la stessa parenesi di Demostene a
Pilo ha il merito di incidere direttamente sugli eventi futuri (nel caso specifico gli
Ateniesi riusciranno a mantenere una difficile posizione sul territorio spartano). La
circostanza prolettica non si verifica però indiscriminatamente in tutti i logoi. La
prassi storiografica di Tucidide non si lascia cristallizzare in formule standardizzate
e la sua procedura compositiva offre anche un eloquente prototipo di deviazione
dalla norma: è il caso della “inadeguata” parenesi di Nicia ai trierarchi prima
dell’ultima battaglia navale contro i Siracusani. 89 Lo sventurato stratego ateniese,
conscio della pericolosa situazione del suo esercito in Sicilia, poco prima della
definitiva disfatta, chiama a raccolta i trierarchi ricordando loro i principali
argomenti parenetici: il valore dei padri, la libertà della patria e «tutti quegli
argomenti a cui gli uomini, quando si trovano in un frangente del genere, fanno
sempre ricorso senza curarsi di aver l’aria di ripetere vecchi discorsi triti e ritriti,
sempre simili in ogni occasione – i richiami alle mogli, ai figli, agli dei patrii – ma
che pure vengono gridati a gran voce perché si ritiene che siano effettivamente utili
nel momento in cui la paura regna sovrana». 90 L’evidenza di una crepa estesa che
incrina la fede dottrinaria del momento parenetico è eloquente spia di un
sentimento di fuga dalle prescrizioni imposte da un genere letterario, circostanza
questa che, contestualizzata, restituisce anche una lucida caratterizzazione del
“personaggio” Nicia, la cui mancata fiducia nell’incisività della parenesi si traduce
inevitabilmente in un’inefficacia sul versante militare.
Una volta rilevata l’importanza della prassi allocutiva parenetica e
dell’oratoria quale arma essenziale della «panoplia di un comandante»91 e segnalata
la consuetudine invalsa nella storiografica greca di indicare le modalità pratiche di
allocuzione delle esortazioni attraverso notazioni sulla disposizione dell’uditorio e
sulle strategie allocutive, riteniamo che sussista la possibilità concreta che i logoi
parenetici potessero essere effettivamente pronunciati e ascoltati dalle truppe
schierate. Ogni singolo contesto andrà altresì analizzato in relazione alle
circostanze, al tipo di uditorio e al momento di allocuzione. Le procedure
compositive dei logoi, infatti, variano in relazione agli obiettivi e alle scelte
stilistiche operate dal singolo storico: in Tucidide, la rielaborazione storiografica è
87
Thuk. II 10, 3-11. Anche U. Fantasia (a cura di), Tucidide. La guerra del Peloponneso. Libro II,
Pisa 2003, 260, nota un certo parallelismo tra le riflessioni di Archidamo e lo svolgimento delle
vicende in 21, 2.
88
Si veda soprattutto Thuk. II 90, 3.
89
Cfr. D. Lateiner, Nicias’ inadequate Encouragement (Thucydides 7. 69. 2), «CPh» LXXX (1985),
201-213.
90
Thuk VII 69, 2 (trad. A. Corcella).
91
P. Fleury, La flûte, le générale et l’esclave: analyse de certaines métaphores rhétoriques chez Fronton,
«Phoenix» LV (2001), 108-123.
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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senz’altro presente e fedele agli intenti programmatici di I 22;92 in Erodoto, i logoi
sembrano costruiti su una serie di notazioni schematiche reperibili dalle fonti; in
Senofonte, generale e storico allo stesso tempo, appare costante il ricorso a
indicazioni sulle capacità oratorie di un comandante di eserciti. Le massime
stilisticamente elevate contenute nei brani degli storici sono probabilmente distanti
dalla prassi allocutiva; tuttavia, per ritenere artificioso l’intero genere non si ritiene
probante il tema dell’impossibilità dell’ascolto del messaggio parenetico.
Senz’altro, discorsi tanto elaborati si confacevano più ai fruitori delle opere
storiche che alle schiere dei soldati, ma non appare un criterio metodologicamente
corretto concludere che tutte le allocuzioni ampie e articolate non potessero avere
luogo.93 A questo proposito,94 sembrano importanti alcune notazioni plutarchee.
Il biografo di Cheronea, nel suo trattato Sull’arte di ascoltare, mette in guardia
proprio dalle trappole insite in una copiosa dissertazione: «Come in guerra, così
anche in un ascolto ci sono molti vani apparati: la canizie, l’intonazione suadente,
lo sguardo accigliato e la tendenza all’autoelogio di chi parla, ma soprattutto le
acclamazioni, gli applausi e i sobbalzi del pubblico sconcertano l’ascoltatore
giovane e inesperto, che finisce per essere trascinato via dalla corrente». 95 E ancora
più oltre: «la maggior parte dei sofisti, quando disserta o declama, non si limita a
utilizzare le parole per velare i pensieri, ma, addolcendo la voce con modulazioni,
morbidezze e trilli, manda in delirio e in visibilio l’uditorio».96 Le grida degli altri
soldati, lo spirito di commilitanza, magari anche una nutrita claque coinvolgevano il
singolo soldato in una sorta di ebbrezza da retorica bellica.
92
Il noto capitolo metodologico è testimonianza imprescindibile sulle procedure
compositive dei discorsi tucididei. Cfr. Thuk. I 22, 1: «E quanto ai discorsi che ciascuno pronunciò
o nella fase che immediatamente precedette la guerra o durante il suo svolgimento, era difficile
ricordare puntualmente alla lettera le parole dette: sia per me, relativamente ai discorsi che io stesso
udii, sia per coloro che me li riferivano attingendo alle varie fonti. I discorsi perciò li ho scritti –
attenendomi beninteso al senso generale di ciò che fu effettivamente detto – come a me pareva che
ciascuno avrebbe appropriatamente parlato nelle varie circostanze» (trad. L. Canfora).
93
È probabile che qualche deroga alla veridicità storica a favore di una rappresentazione
d’effetto sia stata compiuta in alcune circostanze, ma ciò non può e non deve essere ritenuta la
norma. A questo proposito si vedano le conclusioni di Anson, The General’s, cit., 317: «While
Hansen is certainly correct that those speeches supposedly given to large numbers of soldiers
spread across half a mile or more are fictional, a relatively small force could be and probably was
addressed in toto».
94
Cfr. K. Yellin, Battle Exhortation: the rhetoric of combat leadership, University of South Carolina
2008. Lo studioso, comandante di marina e dottore di ricerca in scienze della comunicazione, che
analizza i diversi livelli cronologici delle esortazioni da campo, partendo proprio dal mondo greco,
sottolinea come anche il solo tono della voce possa avere un effetto rassicurante, come nel caso dei
neonati e degli animali, e spesso anche la sola vista del comandante serva a infondere coraggio negli
animi dei soldati. Probabilmente più i discorsi erano lunghi più i soldati venivano confortati dal
suono della voce della propria guida, che magari segnalava con il tono di voce concetti e parole
chiave che potevano essere ribaditi più volte nel corso dell’esortazione con effetti sui soldati più
rassicuranti certamente dei brevi incitamenti.
95
Plut. mor. 41 b-c (trad. G. Pisani, come la successiva).
96
Plut. mor. 41 c.
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Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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Proprio sullo scarto sussistente tra prassi militare e retorica libresca è
significativa una testimonianza di Polibio:97 lo storico acheo, riportando i maggiori
capi d’accusa contro il predecessore Timeo, definisce i tre livelli di ciò che lui
ritiene «il caposaldo degli avvenimenti che tiene insieme l’intera materia storica»;
essi sarebbero: i discorsi pubblici (demegoriai), le esortazioni (parakleseis) e i discorsi
degli ambasciatori (presbeutikoi logoi). Per ciascuno dei tre tipi Polibio riporta un
preciso esempio tratto dall’opera timaica: rispettivamente il logos di Ermocrate a
Gela nel 424 a.C.,98 la parenesi bellica di Timoleonte al Crimiso99 nel 340/339 a. C.
e il noto logos100 di Gelone agli ambasciatori greci nel 480 a.C.
Il testo del secondo passaggio, quello sulle esortazioni belliche, recita così:
«E che dire poi di quel passo in cui Timoleonte, nel medesimo libro, esorta i Greci
alla battaglia contro i Cartaginesi, proprio mentre erano sul punto di scontrarsi
con nemici superiori per numero? Innanzi tutto, Timoleonte consiglia ai suoi di
non considerare il numero degli avversari, ma la loro mancanza di coraggio. –
Difatti – dice – pur essendo tutta quanta la Libia ininterrottamente abitata e piena
di uomini, tuttavia nei proverbi, quando intendiamo accentuare l’idea di
solitudine, noi diciamo “più solitario della Libia”, non certo riferendoci alla
mancanza di popolazione ma all’assenza di coraggio dei suoi abitanti. E, in
generale – dice Timoleonte – chi potrebbe aver paura di persone tali che,
nonostante la natura abbia conferito al genere umano una peculiarità rispetto agli
altri animali, alludo alle mani, se le portano tuttavia appresso inoperose per tutta la
vita, tenendole nascoste dentro le tuniche? Ma la cosa peggiore – aggiunge – è il
fatto che i Cartaginesi, sotto le loro tunichette, portino delle mutande, in modo da
non farsi vedere dai nemici durante le battaglie quando muoiono…».101
In primo luogo, Polibio si stupisce del contenuto certo inadatto al tenore di
un’orazione bellica, ma non dell’orazione in sé, e neanche del momento in cui
97
Pol. XII 25 a.
Su cui cfr. anche Thuk. IV 59-64. Su Ermocrate si veda supra, n. 68.
99
Su Timoleonte si vedano M.J. Fontana, Fortuna di Timoleonte. Rassegna delle fonti letterarie,
«Kokalos» IV (1958), 3-23; M. Sordi, Timoleonte, Palermo 1961, Ead., Timeo e Atanide, fonti per le vicende di
Timoleonte, «Athenaeum» LV (1977), 239-249; S. Dagasso, Timoleonte a Corinto, «ACME» LIX (2006), 322; C. Bearzot, La Sicilia isola «sacra a Demetra e a Core» (Diod. 16.66.4-5), «Aristonothos» II (2008), 141151.
100
Si rimanda a S. Cataldi, Tradizioni e attualità nel dialogo dei messaggeri greci con Gelone (Erodoto VII
157-162), in M. Giangiulio (a cura di), Erodoto e il ‘modello erodoteo’. Formazione e trasmissione delle tradizioni
storiche in Grecia, Trento 2005, 123-171.
101
Pol. XII 26, a: Τί δὲ πάλιν ὅταν ὁ Τιμολέων ἐν τῇ αὐτῇ βύβλῳ παρακαλῶν τοὺς
98
Ἕλληνας πρὸς τὸν ἐπὶ τοὺς Καρχηδονίους κίνδυνον, καὶ μόνον οὐκ ἤδη μελλόντων συνάγειν εἰς
τὰς χεῖρας τοῖς ἐχθροῖς πολλαπλασίοις οὖσι, πρῶτον μὲν ἀξιοῖ μὴ βλέπειν αὐτοὺς πρὸς τὸ πλῆθος
τῶν ὑπεναντίων, ἀλλὰ πρὸς τὴν ἀνανδρίαν; καὶ γὰρ τῆς Λιβύης ἁπάσης συνεχῶς οἰκουμένης καὶ
πληθυούσης ἀνθρώπων, ὅμως ἐν ταῖς παροιμίαις, ὅταν περὶ ἐρημίας ἔμφασιν βουλώμεθα
ποιῆσαι, λέγειν ἡμᾶς ‘ἐρημότερα τῆς Λιβύης’, οὐκ ἐπὶ τὴν ἐρημίαν φέροντας τὸν λόγον, ἀλλ' ἐπὶ
τὴν ἀνανδρίαν τῶν κατοικούντων. καθόλου δέ, φησί, τίς ἂν φοβηθείη τοὺς ἄνδρας, οἵτινες τῆς
φύσεως τοῦτο τοῖς ἀνθρώποις δεδωκυίας ἴδιον παρὰ τὰ λοιπὰ τῶν ζῴων, λέγω δὲ τὰς χεῖρας,
ταύτας παρ' ὅλον τὸν βίον ἐντὸς τῶν χιτώνων ἔχοντες ἀπράκτους περιφέρουσι; τὸ δὲ μέγιστον ὅτι
καὶ ὑπὸ τοῖς χιτωνίσκοις, φησί, περιζώματα φοροῦσιν, ἵνα μηδ' ὅταν ἀποθάνωσιν ἐν ταῖς μάχαις
φανεροὶ γένωνται τοῖς ὑπεναντίοις ... (trad. M. Sonnino).
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37
Francesca Mattaliano, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure compositive
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veniva pronunciata, sintomo ormai delle poche deroghe a criteri di verosimiglianza
che il paradigma della parenesi bellica nella storiografia, fissato da Tucidide,
concedeva e in cui l’intento moralistico e quello letterario erano senz’altro
prevalenti. Polibio, secondo Vattuone «totalmente inadatto, quanto a mentalità e
cultura, per comprendere ed accogliere la storiografia timaica», 102 si stupisce degli
sciocchi proverbi menzionati da Timoleonte e riferiti da Timeo. Quest’ultimo,
tuttavia, com’è noto, proprio sul comandante corinzio, aveva presumibilmente
materiale di prima mano, dati i rapporti sussistenti tra Timoleonte e il tiranno
Andromaco, padre dello storico tauromenita. Probabilmente Polibio, preso dalla
foga della sua critica non è in grado di comprendere l’operazione timaica che,
riportando la parenesi bellica timoleontea, fa luce proprio sullo scarto sussistente
tra l’elaborazione storica e la realtà di campo, dove i richiami alla tapéinosis del
nemico, alla sua sventura, all’abbandono degli dèi, venivano certo declinati in
maniera diversa rispetto all’elaborata retorica tucididea. Battute volgari e
conclusioni semplicistiche sui costumi cartaginesi non oscurano certo la figura del
condottiero corinzio; piuttosto, aiutano a comprendere meglio la sua figura
storica, le sue abilità oratorie e i felici rapporti instaurati con le truppe, di cui
dimostra di conoscere bene il livello culturale.
L’operazione timaica sul successo del Crimiso è spia eloquente di una
tendenza critica sviluppatasi nei confronti delle convenzioni “sceniche” della battle
exhortation e di cui il punto d’approdo è una notazione plutarchea nei Politika
Paraggelmata. Lo scrittore di Cheronea, dopo aver lodato lo stile solenne e grandioso
delle Filippiche e, fra i discorsi di Tucidide, quello dell’eforo Stenelaida, del re
Archidamo a Platea e di Pericle dopo lo scoppio della peste, con un’efficace
citazione di un verso appartenente al perduto dramma satiresco euripideo
Autolico,103 stigmatizza un genere letterario la cui divaricazione dalla pratica da
campo era ormai percepita come netta: «Quanto invece agli artifici retorici e alle
frasi tornite che Eforo, Teopompo e Anassimene, fanno pronunciare dopo aver
armato e schierato a battaglia gli eserciti, si può dire che:
nessuno, vicino al ferro, è tanto sciocco!».104
Francesca Mattaliano
Dipartimento di Beni culturali
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, 90128 Palermo
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
102
71.
R. Vattuone, Sapienza d’Occidente. Il pensiero storico di Timeo di Tauromenio, Bologna 1991, 110 n.
103
L’intero frammento è conservato da Ateneo (X 5, 413 C). Sull’Autolico si vedano F.
Angiò, Euripide. Autolico, fr. 282 N.2, «Dioniso» LXII/2 (1992), 83-94; A. Iannucci, Euripide (satiresco) e
gli ‘sportivi’: note di lettura a Eur. fr. 282 N2, «Quaderni di Filologia, Linguistica e Tradizione Classica
dell’Università di Torino» XI (1998), 31-48; N.P., Euripides Satyrographos, Stuttgart-Leipzig 1998.
104
Plut. mor. 803 b : «Οὐδεὶς σιδήρου ταῦτα μωραίνει πέλας» (trad. G. Pisani).
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 17-37
CARMELA RACCUIA
Truppe e comandanti nella Sicilia greca.
Casi di studio
La stimolante tematica proposta da Lia Marino per questo – ormai regolare
– appuntamento in seno alle attività del Dottorato di ricerca da lei diretto, è per
me un’occasione preziosa per mettere a fuoco riflessioni sedimentate nel tempo e
nuovi spunti di analisi sulla fenomenologia del binomio truppe-comandanti nella
Sicilia greca.
In particolare, nel vasto campo della polemologia, sempre attuale e proficuo
per messe di contributi,1 la mia attenzione è attirata dalle implicazioni sociali ed
istituzionali sottese alla formazione di eserciti poleici variamente articolati, e, in
seno alla catena di comando, dall’esplorazione nei “quadri” intermedi, liminali tra
l’espletamento di un mandato civico, il concreto apprendistato nell’esercizio del
potere militare, l’irresistibile tentazione di tradurre tale comando in potere
tirannico.2
1
Ricordo, tra i più recenti, i due volumi di Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (VIIIIII sec. a.C.), Arte, prassi e teoria della pace e della guerra, Atti delle quinte giornate internazionali di studi
sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo (Erice, 12-15 ottobre 2003), Pisa
2006; P. Sauzeau - T. Van Compernolle, Les armes dans l‟antiquité: de la technique à l‟imaginaire
(Montpellier, 20-23 marzo 2003), Montpellier 2007; E.L. Wheeler (Ed.), The armies of classical Greece,
Aldershot 2007. Sul tema rinvio ai contributi – densi di riferimenti bibliografici e rassegna delle
interpretazioni antiche e moderne – di P. Cartledge, La nascita degli opliti e l‟organizzazione militare, in S.
Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, 2: Una storia greca I. Formazione, Torino 1996, 681-714;
K-J. Hölkeskamp, La guerra e la pace, ibid., II. Definizione, Torino 1997, 481-539; M. Bettalli, L‟esercito e
l‟arte della guerra, ibid., III. Trasformazioni, 728-742, nonché all’agile dossier di A. Cristofori, La guerra, ibid.,
4: Atlante, I, Torino 2002, 421-526.
2
In questa direzione, se statisticamente è significativo l’esito della carica di stratega, non
meno ricche di opportunità appaiono altre funzioni, come quella di ipparco su cui più oltre
indugerò. Per il dossier sulle “carriere” dei tiranni, H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, München
1967; sulla strategia autocratica H. Scheele, ΢ΣΡΑΣΗΓΟ΢ ΑΤΣΟΚΡΑΣΩΡ. Staatsrechtliche Studien zur
griechischen Geschichte des 5. und 4. Jahrhunderts, Leipzig 1932; su casi particolari C. Bearzot, Strategia
autocratica e aspirazioni tiranniche. Il caso di Alcibiade, «Prometheus» XIV (1988), 39-57, e per la realtà
focidese S. Consolo Langher, Stati federali greci, Messina 1996, 201-208, 219-223.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
| 39
1. Mi sembra opportuno premettere ai casi di studio su cui mi soffermerò
alcune considerazioni d’ordine generale sul nodo problematico dell’organizzazione
militare nelle poleis greche di Sicilia. È evidente infatti che le modalità
dell’insediamento, la correlata difesa ai fini di uno stabile radicamento e, perché
no, di un’auspicabile espansione, debbono avere imposto alle comunità la
tempestiva costituzione di un potenziale militare non episodico ma affidabile ed
immediatamente attivo. Invero, nelle apoikiai di Sicilia gli echi di conflitti con
residenti ostili filtrano, già all’atto di fondazione, per Siracusa, Lentini, Gela,
Agrigento: l’espulsione dei Siculi da Ortigia comportò un conflitto, al pari degli
scontri nel territorio leontinoo, presentati col termine polemos;3 mura furono
costruite per tempo a Gela4 e, secondo una tradizione eterodossa, vi effettuarono
servizio di phylakia5 quegli antenati di Terone che vantavano una
compartecipazione alla fondazione di Agrigento dopo una vittoria sui “barbari”;6 e
ancora, l’ecista Antifemo si era vittoriosamente scontrato con i Sicani. 7
Registriamo, in controtendenza, la munificenza di un «principe amico»8
locale, Iblone, ma i Siculi di Ortigia – e, verosimilmente non solo loro – finirono
sconfitti, scacciati e destinati alla schiavitù.9
3
In Thuc. VI 3, 2-3, ricorrono i termini exelaunein e polemos; per Lentini vd. anche Polyaen.
V 5, 1. Su questa ed altre fondazioni è canonico il rinvio a J. Bérard, La colonisation grecque de l‟Italie
méridionale et de la Sicile dans l‟Antiquité, Paris 1957, trad. it. La Magna Grecia, Torino 1963, nonché alle
singole voci in BTCGI.
4
Thuc. VI 4, 3 (è la celebre e problematica connessione con Lindioi, su cui si vedano la
recente messa a punto di P. Anello, La storia di Gela antica, in «Per servire alla storia di Gela», Colloquio
I.S.S.A. (Gela, 2-3/X/1998), «Kokalos» XLV (1999), 386-398 ed il contributo di R. Sammartano, Le
tradizioni letterarie sulla fondazione di Gela e il problema di Lindioi, ibid., 471-499).
5
In Schol. Pind. Pyth. II 15d, alla vulgata sulla agiatezza di Terone, accolta da Ippostrato, si
oppone la malevola versione sui progonoi emmenidi che vivevano stentatamente a Gela ἐπὶ φυλακῇ
μισθαρνούντες. In chiave di organizzazione militare, la menzione della phylakia è comunque
rilevante, al di là della sua afferenza al vivace dibattito su itinerario, nobiltà e ricchezza degli
ascendenti di Terone (su cui mi sono soffermata in La fondazione di Gela, «Kokalos» XXXVIII (1992),
273-302, partic. 289 ss.).
6
Schol. Pind. Ol. II 15b.
7
Per il saccheggio di Omface, Paus. VIII 46, 2 e IX 40, 4. Nell’amplificare le difficoltà
affrontate da Antifemo ed Entimo per realizzare la ktisis, Artemone ricorda infine le lotte nel
territorio contro i Sicani (ap. Schol. Pind. Ol. II 16b= FGrHist 569 F1).
8
Le peripezie del gruppo megarese in Thuc. VI 4, 1. Mutuo la definizione da D. Musti, La
Magna Grecia, Roma-Bari 2005, 62 ss., ove si focalizza l’importanza del “potere locale amico” in area
magnogreca.
9
Con antagonisti siculi sono generalmente identificati i douloi, detti Cilliri, che più tardi
collaborarono col demos di Siracusa per scacciarne i Gamoroi: Hdt. VII 155, 2 (è l’antefatto alla
situazione critica che sfociò nell’appello rivolto da costoro a Gelone, ancora signore di Gela, perché
intervenisse a mediare in Siracusa, nel 485/4 a.C.). Su ciò B. Bravo, Citoyens et libres non citoyens dans les
cités coloniales à l‟époque archaïque. Le cas de Syracuse, in R. Lonis (Éd.), L‟étranger dans le monde grec, 2, Nancy
1992, 43-85; N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia, Firenze 1994, 281 ss.; G. Mafodda,
La monarchia di Gelone tra pragmatismo, ideologia e propaganda, Messina 1996, 67 ss.; S. Consolo Langher, Un
imperialismo tra democrazia e tirannide: Siracusa nei secoli V e IV a.C., Roma 1997, 4 ss.; M. Hofer, Tyrannen,
Arystokraten, Demokraten. Untersuchungen zu Staat und Herrschaft im griechischen Sizilien von Phalaris bis zum
Aufstieg von Dionysios I, Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt a.M.-New York-Wien 2000, 84 ss.
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Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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Come si rispose dunque da parte degli apoikoi alla necessità di strutturare
l’organizzazione militare delle neonate comunità, atteso che vecchi e nuovi
contrasti con precedenti occupanti il territorio si profilano come una realtà
endemica ravvivata dall’infittirsi di fondazioni secondarie, fossero esse vere e
proprie comunità poleiche che phrouria utili al controllo politico, militare ed
economico di una chora dilatata?
Gli ecisti e la prima generazione di apoikoi, consapevoli che machai, polemos ed
eris appaiono inestirpabili dall’esperienza relazionale umana,10 affrontata
l’emergenza del primo impatto, debbono aver considerato come vitale l’esigenza di
disporre durevolmente di truppe addestrate, funzionali ad azioni militari efficaci,
sia di tipo puramente difensivo che di respiro espansionistico, tradottosi anzi, ben
presto, in aspirazione egemonica. Tra i modelli disponibili importati dagli ecisti –
talora prestigiosi rampolli di ascendenza eroica, come l’eraclide Archia – l’ipoteca
culturale omerica poteva aver operato in duplice direzione, attivando da un lato
l’ambizione di emulare eroi esemplari, conduttori di popoli (ἡγεμόνες… καὶ
κοίρανοι),11 dall’altro enfatizzando, in un contesto di frontiera, la maniera greca di
combattere κόσμηθεν ἅμ᾿ ἡγεμόνεσσιν ἕκαστοι, cioè ordinatamente e
sinergicamente,12 disposti in file serrate ed incalzanti, in silenzio e timorosi dei
capi,13 con un diakosmos opposto allo sciamare urlante degli “altri guerrieri” «simili a
gru che stridono in cielo quando fuggono l’inverno e le sue piogge incessanti…».14
En passant, in merito ai concetti di taxis e kosmos va ricordato come il saggio
Nestore suggerisca e motivi la migliore disposizione delle truppe: «dividi gli
uomini kata phyla, kata phretras, o Agamennone, perché fra di loro si aiutino…; se fai
così e gli Achei ti obbediscono, saprai allora chi dei duci, chi dei guerrieri è vile o
valoroso; combatteranno a gruppi distinti; e saprai se è volontà degli dei che tu
non abbatta la città, oppure è viltà degli uomini e ignoranza di guerra». 15 Che si
10
Paradigmatica l’ampia genealogia della Notte, madre di Eris, che a sua volta genera
Πόνον ἀλγινόεντα… ῾Τσμίνας τε Μάχας τε Υόνους τ᾿ Ἀνδροκτασίας, nonché Pseudea, Logoi,
Dysnomie, Ate, Horkos: Hes. Theog. 223-232, da affiancare ad Op. 14-15, dove la cattiva Eris è detta
nutrice di polemos e dēris.
11
Hom. Il. II 487, in avvio a quel Catalogo delle navi, la cui composizione e confluenza nel
poema è oggetto di serrato dibattito tra chi lo ritiene un fossile dall’età micenea e chi vi scorge
riflessi di epoche successive: vd. D. Marcozzi - M. Sinatra, Il catalogo delle navi: un problema ancora aperto,
«SMEA» XXV (1984), 303-316 e Alcuni aspetti del «Catalogo delle navi» del II libro dell‟«Iliade» come riflesso di
una situazione di transizione, in D. Musti (a cura di), La transizione dal Miceneo all‟Alto Arcaismo. Dal palazzo
alla città, Atti del Convegno internazionale (Roma, 14-19 marzo 1988), Roma 1991, 145-154; F.
Bertolini, La guerra di Troia, in I Greci, cit., 2. I, 1227-1230 (con altra bibliografia). Per i termini
koiranos e poimen laon cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969, II, 89-95.
Quanto ad Achille e Aiace, è noto come essi costituissero, ancora agli occhi di Aristotele, eroi
esemplari per megalopsychia (Analit. poster. II 13, 97 b).
12
Hom. Il. III 1.
13
Il. IV 427-432: ἐπασσύτεραι Δαναῶν κίνυντο φάλαγγες Éνωλεμέως πόλεμόνδε…κ.τ.λ..
14
Hom. Il. III 2-6 (trad. M.G. Ciani, Iliade, Torino 1998, 205). Per la coppia di opposti
diakosmos e diaspasma si vedano, ad es., Thuc. IV 93, 5 e Plut. Lyc. XXII 5.
15
Hom. Il. II 362-368, su cui A. Andrewes, Phratries in Homer, «Hermes» LXXXIX (1961),
120-140; P. Carlier, La regalità: beni d‟uso e di prestigio, in I Greci, cit., 2. I, 255-294, partic. 263 s.; J.K.
Davies, Strutture e suddivisioni delle poleis arcaiche, ibid., 599-652, partic. 607 ss. In generale, su questi
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Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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tratti di una modalità realmente esperita nella cd. età eroica o di una
retrodatazione della pratica e dell’etica oplitica (quali si apprezzano, ad es.,
nell’elegia parenetica di Tirteo) in questi versi affiora una precettistica empirica,
illuminante su aspetti squisitamente tecnici (come il potenziamento dell’efficacia
bellica grazie alla collaborazione istintiva all’interno di cerchie parentali o gruppi
ristretti) e sui quadri mentali ed i valori ispiranti truppe e comandanti (come la
corretta individuazione di meriti e demeriti, l’equa corresponsione di premi o
sanzioni per un comportamento da guerriero ἐσθλός o κακός o ἀφραδὴς
πολέμοιο).
E così, all’inizio del VII a.C., un altro eraclide, il rodio Antifemo, a cui
merito la tradizione ascrive successi militari a spese di Omface, può aver disposto il
potenziale umano e militare della neo-fondata Gela con quel criterio filetico
ternario – adombrato nel διὰ τρίχα κοσμηθέντες e nel τριχθὰ δὲ ᾤκηθεν
καταφυλαδόν dei Rodii governati da Tlepolemo –16 che appare comunque
consustanziale alle genti di stirpe dorica;17 e di nomima dorika, appunto, Antioco e
Tucidide accreditavano la fondazione rodio cretese.18 In questa direzione, un valido
indizio mi sembra rappresentato più avanti da quella triade, formata da Gorgo,
Testore, Epiterside, cui, nella tradizione diodorea,19 si affidarono i dori Cnidi nel
580 a.C., dopo che il loro heghemon Pentatlo era caduto nel conflitto fra Selinuntini
e Segestani. Lasciando ai margini le incompatibilità col noto frammento
antiocheo,20 mi sembra che questa sostituzione “triumvirale” adombri, sul campo,
un’articolazione militare del gruppo cnidio secondo un criterio tripartito,
consueto nel mondo dorico. Ed Archia, Antifemo, gli Cnidii, che Erodoto
gruppi minori cfr. M. Guarducci, L‟istituzione della fratria nella Grecia antica e nelle colonie greche d‟Italia,
Roma 1937-1938; D. Roussel, Tribu et cité. Etudes sur les groupes sociaux dans les cités grecques aux époques
archaïque et classique, Besançon-Paris 1976; N.F. Jones, Public Organization in ancient Greece: a documentary
Study, Philadelphia 1987.
16
Hom. Il. II 655 e 668; significativamente le navi guidate da Tlepolemo sono nove: II 654.
Su questi versi D. Musti, Continuità e discontinuità tra Achei e Dori, in Id. (a cura di), Le origini dei Greci. Dori
e mondo egeo, Roma-Bari 1990, 37-71, partic. 38 ss. con n. 3; Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 611 s.
17
Tyrtaeus fr. 19, 8 West = 10, 3, 65 Gentili-Prato, dal quale si desume una modalità di
combattimento univoca pur nella distinzione tra Panfili, Illei e Dimani. Sulle tribù e le obai, oggetto
delle disposizioni licurghee, Plut. Lyc. VI 1-3 (vd. commento ad l. di L. Piccirilli, Plutarco. Le vite di
Licurgo e di Numa, Milano 1980, 235 s.); sull’articolazione dell'esercito spartano in funzione delle tre
tribù, J.F. Lazenby, The Spartan Army, Warminster 1985, 68 ss. Per i nomi delle partizioni interne e
dei rispettivi responsabili (polemarchi, locaghi, penteconteri, enomotarchi), vd. Thuc. V 66, 3 e 68,
3 (i lochoi constano di quattro sottounità o pentekostyes, ciascuna formata da quattro enomotiai). Alla fine
del V ca. sono attestate le morai basate sulla suddivisione in classi di età: Hölkeskamp, La guerra e la
pace, cit., 513, con nutrita bibliografia (in Xen. Lac. Resp. XI 4, abbiamo il dato numerico di sei morai
di cavalleria e altrettante di opliti).
18
Thuc. VI 4, 3. Sul punto mi sia lecito rinviare al mio Riflessioni e ipotesi sugli ordinamenti di
Gela arcaica, in S. Consolo Langher - C. Raccuia - G. Mafodda, Studi di Storia greca. Forme del potere,
problemi storiografici e percorsi istituzionali in Sicilia, Messina-Civitanova Marche 2007, 123-219.
19
Diod. V 9, 2. Per l’afferenza di Cnido all’esapoli (e poi pentapoli) dorica Hdt. I 144, su
cui D. Asheri, Erodoto. Le Storie. Libro I. La Lidia e la Persia, Milano 1988, 349.
20
FGrHist 555 F 1 ap. Paus X 11, 3 su cui vd. ora C. Cuscunà, I frammenti di Antioco di Siracusa.
Introduzione, traduzione e commento, Torino 2003, 133-143, con discussione ed ampia bibliografia.
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Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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definisce apoikoi degli Spartani,21 afferiscono tutti a quella cultura che attribuiva allo
stesso Licurgo l’introduzione delle istituzioni militari (τα; εjς ποvλεμον ε[[χοντα)
con le unità giurate (o enomotiai), le triakades,22 gli oulamoi,23 imperniando solidamente
(se non maniacalmente) il kosmos spartano sulla virtù militare e, per ciò, destando
poi le critiche di Platone e di Aristotele.24
Del resto, ad esemplificazione della vitalità pratica e culturale delle phylai in
quest’ambito e, pur nella variabilità delle denominazioni, possiamo richiamare –
per una metropolis, Lindo – l’attestazione di tre tribù nell’offerta XV della cd.
Cronaca25 o la tarda menzione di Illei in un’epigrafe di quell’Agrigento che ricevette
νόμιμα δὲ τὰ Γελῴων,26 mentre ad Imera, e dunque in un contesto civico misto e
spesso rimaneggiato,27 ricorre menzione di phyla danklaia nell’arcaica legge di
ridistribuzione della terra, edita da Antonietta Brugnone.28
21
Hdt. I 174, 2; cfr. I. Malkin, The Spartan Mediterranean, Cambridge 1994, 67 ss.
In tal senso Hdt. I 65, 5, su cui Asheri, Erodoto. Le Storie. Libro I, cit., 307 ss., ed Hdt. IX
53, 2 (per il cd. lochos pitanate). Per queste formazioni/partizioni, interne ai lochoi, e per la cavalleria
(vd. nota successiva) oltre al citato Lazenby, The Spartan army, cfr. M. Clauss, Sparta. Eine Einführung in
seine Geschichte und Zivilisation, München 1983, 153 ss.
23
Philosteph. FHG III, 33 fr. 30, ap. Plut. Lyc. XXIII 1: si trattava di squadroni di cavalleria
formati da cinquanta unità in formazione quadrata. Nel medaglione di Erodoto su Sparta arcaica, in
connessione al secondo conflitto con Tegea, ricorre menzione di un corpo parallelo di agathoergon
formato da anziani che, usciti dal servizio attivo di cavalleria, annualmente e cinque alla volta,
confluivano in questa formazione e svolgevano funzione di ricognizione nel territorio (Hdt. I 67,
5). Cavalieri per antonomasia erano i cento (Hdt. VI 56) o meglio trecento elementi scelti che
affiancavano e vigilavano sul re nelle campagne militari (Hdt. VII 205, 2 e VIII 124, 3; Thuc. V 72,
4; in Xen. Lac. Resp. IV 3, si precisa che la selezione dei trecento è effettuata da tre ippagreti).
24
Plat. Leg. I 630d; 631 c; Aristot. Pol. II 9, 1271b.
25
Chron. Lind. XV = FGrHist 240 F 8. Le tribù degli Eliadi, degli Autoctoni e dei Telchini,
in seguito ad una vittoria nelle Lampadodromie, avevano offerto ad Atena ciascuna un pinaka
panarchaikon dove erano raffigurati il phylarchos e nove dromeis: cfr. C. Highbie, The Lindian Chronicle,
Oxford 2003, 93 ss.; sulle variabili denominazioni tribali nell’isola, Roussel, Tribu et cité, cit., 222 ss. e
Jones, Public Organization, cit., 242 ss.
26
Così Thuc. VI 4, 4. IG XIV 952, cfr. L. Dubois, Inscriptions grecques dialectales de Sicile, Rome
1989, 210 nr. 185, datata intorno al 210 o nel corso del I sec. a.C.
27
Thuc. VI 5, 1: καὶ φωνὴ μὲν μεταξὺ τῆς τε Φαλκιδέων καὶ Δωρίδος ἐκράθη, νόμιμα δὲ
τὰ Φαλκιδικὰ ἐκράτησεν. Una più marcata coloritura dorica volle imprimere più tardi Terone,
dopo aver composto la ribellione degli Imerei al proprio figlio Trasideo (476/5 a.C.): ad elementi
dori e a quanti degli altri ne avessero il desiderio fu rivolto il suo invito a ridisegnare la cittadinanza
(Diod. XI 48, 6-9; 49, 3). Caduta infine la signoria emmenide, la polis riaccolse i suoi profughi (Diod.
XI 76, 4). Per le peculiarità linguistiche ed istituzionali della città e per la sua storia cfr. G. Vallet,
Rhégion et Zancle, Paris 1958, 85 ss., 295 ss., 313 ss.; H. Meier-Welcker, Himera und die Geschichte des
griechischen Sizilien, Boppard am Rhein 1980.
28
A. Brugnone, La legge di Himera sulla ridistribuzione della terra, «PP» LII (1997), 262-305; Ead.,
Nomima Kalkidika, in Atti Quarte Giornate Internazionali di studi sull‟area elima (Erice, 1-4 dicembre 2000), I,
Pisa 2003, 77-91; sull’alfabeto della città Ead., Gli alfabeti arcaici delle poleis siceliote e l‟introduzione
dell‟alfabeto milesio, «ASNP» s. III, XXV 4 (1995), 1297-1327, partic. 1303 ss. Che si tratti di un
“fossile” dell’originaria filiazione dalla città sullo Stretto (Thuc. VI 5, 1) o di una rivitalizzazione
per effetto dell’afflusso di profughi danklaioi (come vuole G. Manganaro, Metoikismos dei Danklaioi a
Mylai, in B. Gentili - A. Pinzone (a cura di), Messina e Reggio nell‟Antichità: storia, società, cultura, Atti del
Convegno della S.I.S.A.C., (Messina-Reggio Calabria, 24-26 maggio 1999), Messina 2002, 83-95,
partic. 90) il nesso è propositivo dell’esistenza di una partizione interna al corpo civico imereo
22
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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A queste, ed altre partizioni similari (comprensive, ad es., di lemmi come
demoi, phratra, pentekostys, triakas, hikas di Camarina, o pentas di Gela)29 si può pensare
come alla griglia “paraistituzionale”30 entro cui andava a disporsi il potenziale
demografico della apoikia: una sorta di pinax mentale scaturito dall’assegnazione
primaria dei lotti, una “fucina” in cui si forgiava il sinolo dei diritti e dei doveri di
apoikoi che lievitavano in politai e stratiotai. In altri termini, la dimensione individuale
e privata veniva indirizzata dalle incognite ed emergenze ambientali verso la
costruzione solidale e comunitaria d’una nuova identità civica, sia pure
quantitativamente provvisoria in ragione di rincalzi coloniari, inclusioni, decessi,
rinunce.
Nella corsa all’armamento, nel senso concreto del dotarsi di ta hopla
funzionali al combattimento, e nelle implicazioni di tipo economico e psico-fisico
che ciò comportava, si lascia dunque individuare il nesso profondo, direi
germinale, con la titolarità dello statuto civico, con la dimensione politica del
soggetto, col dinamismo sociale, economico ed istituzionale della comunità, da cui
trae consistenza l’icastica definizione della guerra quale «grande levatrice delle
comunità politiche».31 In questo senso, soprattutto per le apoikiai isolane, vale
innescata dal “fattore etnico”. Altro termine pregnante potrebbe essere quel lochos che è stato
sottinteso su ghiande missili (di II a.C.?) rinvenute a Monte Iato da H.O. Isler, Glandes.
Schleudergeschosse aus den Grabungen auf dem Monte Iato, «AA» II (1994), 239-254. Quanto all’esistenza di
tribù a Siracusa cfr. Cic. Verr. II 51, 127 (con la precisazione numerica di tre); Plut. Nic. 14, 6 (su cui
infra); multiplo di tre appare il numero degli strateghi siracusani al tempo della spedizione ateniese
(Thuc. VI 72, 4: collegio di quindici, poi semplificato in tre, vd. Thuc. VI 103, 4).
29
Le attestazioni epigrafiche relative all’esistenza di phylai, phratriai, demoi in ambito coloniale
appaiono ancora «tutte relativamente recenti»: F. Cordano, Antiche fondazioni, Palermo 1986, 132;
Ead., Le istituzioni delle città greche di Sicilia nelle fonti epigrafiche, in M.I. Gulletta (a cura di), Sicilia epigraphica,
Atti del convegno di studi (Erice, 15-18 ottobre 1998), «ASNP» s. IV, Quaderni 1, Pisa 1999, 149158; M.L. Lazzarini, Instrumentum publicum. Problemi di organizzazione civica in Magna Grecia e in Sicilia
tra V e IV sec. A.C., in A. Storchi Marino (a cura di), L‟incidenza dell‟antico. Studi in onore di E. Lepore,
Napoli 1996, 415-425; L. Del Monaco, Le fratrie di Camarina e gli strateghi di Siracusa, «MediterrAnt» VII
2 (2004), 597-613, con altra bibliografia. Per le funzioni di tali organizzazioni – alcune attestate in
Grecia già dalla metà del VII a.C. – vd., in generale, Roussel, Tribu et cité, cit., 93 ss.; K.W. Welwei,
Die Griechische Polis, trad. it. La polis greca, Bologna 1988, 75 ss., e Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 619
ss., con n. 76 per altra bibliografia. Per la defixio da Gela con la lectio π]ενταδα, Dubois, IGDS, 155
ss. nr. 134 b l. 8; cfr. A.P. Miller, Studies in early Sicilian epigraphy. An opisthographic lead tablet, Diss.
Chapel Hill 1973, e D. Jordan, ap. W.C. West, New light on an opistographic lead tablet in Chapel Hill, Atti
XI Congresso internazionale di Epigrafia greca e latina (Roma, 18-24 settembre1997), Roma1999,
205-214.
30
Ovviamente, uso l’aggettivo non nel senso negativo corrente (con riferimento a un quid
di parallelo e inquietante) ma con accezione diacronica e funzionale (oscillante tra pre- e metaistituzionale), applicabile cioè a “catalizzatori polivalenti” del potenziale umano della apoikia, ed
esprimente “contesti d’interazione”. Condivido, infatti, quanto – in calce all’esegesi di Xen. Hier. IX
5-7 – scrive il Davies, Strutture e suddivisioni, cit., 606, sulle varie unità minori, depositarie di «funzioni
molteplici», in cui non è possibile «separare unità ‘militari’ da unità ‘civili’».
31
Così Y. Garlan, L‟uomo e la guerra, in J.P. Vernant (a cura di), L‟uomo greco, Roma-Bari 1991,
85.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
| 44
l’“assioma” weberiano – riecheggiante in recenti contributi – che legge la polis
arcaica come associazione di guerrieri, come polis degli opliti.32
Ma è la stessa riflessione antica ad imprimere questa direzione: Aristotele,
nel secondo libro della Politica, nella rassegna critica loro dedicata, apprezza che
acclamati modelli teorici di costituzione – da Ippodamo a Platone –33 abbiano
previsto la presenza di custodi, guerrieri, difensori; mentre il punto debole del
modello vagheggiato da Falea di Calcedone, centrato sull’uguaglianza dei possessi,
viene individuato proprio nell’inesistenza di una forza militare,34 sotto l’illusoria
convinzione che l’isomoiria – «non difficile da realizzare negli stati in corso di
fondazione» – annulli in radice l’insorgere di contese.35
E, di suo, lo Stagirita, convinto com’è che ogni polis è una comunità
costituita in vista del bene supremo,36 stigmatizza più oltre il cumulo delle cariche
abituale presso i Cartaginesi con l’icastica raccomandazione che «una cosa sola è
fatta benissimo da uno solo, e il legislatore deve badare alla realizzazione di questo
e non comandare che lo stesso individuo suoni il flauto e cucia le scarpe».37 Di più,
egli afferma che questo principio “politico” è valido anche «nelle cose militari e
navali: in questi due settori il comandare e l’obbedire si ripartisce, per così dire, tra
tutti», e non in base al censo –come nella pur ben governata Cartagine –38 ma in
32
M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, hg. J. Winckelmann, Tübingen 1964, II, 660 ss., 796,
826 s., trad. it. Economia e società, Milano 1974, 203 ss., 375, 826 s.; cfr. Cartledge, La nascita degli opliti,
cit., 693 ss.; Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 483 ss. (con ampia bibliografia e rassegna delle
diverse interpretazioni sullo spazio della guerra nella realtà greca). Nel vivace dibattito sulla genesi
ed essenza della polis, si vedano ora le importanti puntualizzazioni di M. Giangiulio, Stato e statualità
nella polis: riflessioni storiografiche e metodologiche. Ovvero del buon uso di Max Weber e del paradigma dello stato
moderno, in S. Cataldi (a cura di), Poleis e politeiai. Esperienze politiche, tradizioni letterarie, progetti
costituzionali, Atti del Convegno Internazionale di Storia Greca (Torino, 29-31 maggio 2002),
Alessandria 2004, 31-53; e, ancora, la riflessione a tutto campo di C. Ampolo, Il sistema della «polis».
Elementi costitutivi e origini della città, in I Greci, 2. I, cit., 297-342, col forte richiamo a non astrarre la città
dal suo contesto storico e dall’insieme di relazioni tra i membri di una comunità, inclusa la lotta
politica vuoi intestina (stasis) vuoi esterna (mache, polemos: 305, 312 ss.). Per il dibattito su formazione,
articolazione e fenomenologia delle apoikiai, in particolare, M. Lombardo, Poleis e politeiai nel mondo
“coloniale”, in Cataldi (a cura di), Poleis e politeiai, cit., 351-367.
33
Cfr. rispettivamente Pol. II 8, 1267 b e II 6, 1265 b. Su Ippodamo cfr. I. Lana, L‟utopia di
Ippodamo di Mileto, in Id. Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 107-137 e P.B. Falciai, Ippodamo di
Mileto architetto e filosofo, Firenze 1982.
34
Pol. II 7 1267 a: ἀναγκαῖον ἄρα τὴν πολιτείαν συντετάχθαι πρὸς τὴν πολεμικὴν ἰσχύν,
περὶ ἧς ἐκεῖνος οὐδὲν εἴρηκεν. Su Falea, forse contemporaneo di Platone, cfr. W. Nestle, s.v. Phaleas,
RE XXXVIII, Stuttgart 1938, 1658 s.; I. Lana, Le teorie egualitarie di Falea di Calcedone, in Id., Studi sul
pensiero politico classico, cit., 215-230; R. Vattuone, Alcune riflessioni sulla νομοθησία di Falea di Calcedone,
«RSA» X (1980), 145-155.
35
Pol. II 7, 1266 a-b: Δεῖν ἴσας εἶναι τὰς κτήσεις τῶν πολιτῶν.
36
Αὔτη δ᾿εἰσὶν ἡ καλουμένη πόλις καὶ ἡ κοινωνία ἡ πολιτικὴ; si tratta della nota sphragis
iniziale della Politica (I 1, 1252 a), su cui E. Lanzillotta, Lo stato del cittadino nella Politica di Aristotele, in
Cataldi (a cura di), Poleis e Politeiai, cit., 385-391.
37
Pol. II 11, 1273 b.
38
Pol. II 11, 1272 b; Aristotele ritorna sulla costituzione di Cartagine anche in IV 7, 1293 b.
Sul punto cfr. A. Santoni, Considerazioni su Aristotele e la guerra di conquista. Tre stati modello: Sparta, Creta e
Cartagine, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 29-44.
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Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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rapporto alla capacità specifica di ciascuno. Dunque, sebbene la caratura militare
non compaia nella nota definizione del polites in assoluto, qualificato «dalla
partecipazione alle funzioni di giudice (krinein) ed alle cariche (archein)»,39 nel
delineare una politeia ben temperata Aristotele precisa che essa deve risultare solo di
chi possiede le armi40, aggiunge che, dopo la fase monarchica, la prima costituzione
tra gli Elleni «risultò di combattenti» e ricorda che, ad Atene, con Dracone la
politeia ἀπεδέδοτο … τοῖς ὅπλα παρεχομένοις.41
2. Ma veniamo dallo scenario aurorale e dall’analisi teoretica a quel V secolo
a.C. sul quale la tradizione storiografica sull’isola, meno avara e desultoria rispetto
ai tre secoli precedenti, elargisce notizie di scontri, sciorina dati su eserciti e
comandanti, risuona pressoché continuativamente del fragore delle armi.42
È questo un tempo, in cui l’intreccio, la complessa alchimia degli aspetti
economici, sociali, istituzionali e culturali sottesi alla fenomenologia militare
nonché al suo stretto legame con l’esercizio e le forme del potere si manifestano
con drammatica asprezza, al punto che Mauro Moggi si è chiesto se la guerra in
Sicilia nel V e IV sec. non assuma tratti di particolare efferatezza.43 In effetti, nella
storia “militare” dell’isola, con la sua variegata composizione antropica ed i
dinamismi connessi, si erano accumulate e come incattivite le varie tipologie di
conflitto: dai movimenti di migrazione/pressione ai sussulti di resistenza epicoria,
39
Pol. III 1, 1275 a.
Pol. IV 13, 1297 b; di seguito si precisa che tra i Maliesi sono inclusi nel corpo civico,
oltre agli opliti in servizio, anche quelli ormai a riposo che però non possono ricoprire
magistrature.
41
Pol. IV 13, 1297b: δεῖ δὲ τὴν πολιτείαν εἶναι μὲν ἐκ τῶν τὰ ὅπλα ἐχόντων μόνον ; Ath.
Resp. IV 2. Nel valorizzare l’analisi aristotelica sullo sviluppo delle comunità poleiche in relazione
all’organizzazione militare, Cartledge, La nascita degli opliti, cit., 693 ss., scrive: «secondo la
concezione aristotelica, essere cittadino significa, tra l’altro, essere un guerriero, un membro della
milizia cittadina, e il tipo di cittadinanza di cui si gode … dipende direttamente dal tipo di guerriero
che si è» (694). Lo studioso è, peraltro, consapevole che si tratta di un modello interpretativo
governato da «un profondo isomorfismo tra potere politico e funzione militare», addirittura
imputabile di meccanicismo laddove Aristotele individua rigide corrispondenze tra funzioni
lavorative (agricoltori, meccanici, mercanti, teti), nerbo militare (cavalleria, fanteria pesante,
fanteria leggera e marina), caratteristiche del suolo (adatto al maneggio dei cavalli o allo
schieramento di fanti) e tipologie di governo (oligarchia potente dei facoltosi allevatori di cavalli,
oligarchia e governi popolari): Pol. VI 7, 1321a.
42
Per le vicende belliche isolane, non volendo appesantire un apparato bibliografico che,
dalle fondative monografie di Holm e Freeman, si è dilatato in maniera impressionante, mi limito
a rinviare a G. Maddoli, Il VI e il V secolo, in E. Gabba - G. Vallet (a cura di), La Sicilia antica, II,
Napoli 1980, 1-102; S. Consolo Langher, Un imperialismo tra democrazia e tirannide. Siracusa nei secoli V e
IV, Roma 1997; M. Gras, L‟Occidente e i suoi conflitti, in I Greci, cit., 2. II, 61-85; L. Braccesi - G. Millino,
La Sicilia greca, Roma 2000 e ai due densi volumi di Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit.
43
M. Moggi, Peculiarità della guerra in Sicilia?, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit.,
67-89. Per l’ambito magnogreco si veda M. Lombardo, La norma e l‟eccesso: la guerra tra Sibari e Crotone e
alcuni aspetti della “greek way of war”, in M. Sordi (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Milano
2002, 43-67.
40
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dalle scaramucce frontaliere alle revanches dettate dall’«etica della ritorsione»,44 dalla
volontà competitiva/espansiva45 alla aggressività sistematica che taluno definisce
«caccia agli schiavi» o ai servi.46 In questa specifica direzione, dopo la doulosyne
inflitta ai Siculi/Cilliri in area siracusana, possiamo registrare altri eloquenti
episodi come, proprio in apertura di V secolo, la decisione di patteggiare
ἀνδραπόδων τὰ ἡμίσεα τῶν ἐν τῇ πόλι, misthòs che Ippocrate concordò con i Sami
occupanti Zancle47 o, ancora, l’avvio del demos di Megara Iblea ed Eubea alla vendita
fuori dalla Sicilia, decisa da Gelone.48 E, riguardo al ruolo strutturale della schiavitù
nella vita economica e sociale di Siracusa, piace richiamare anche l’adagio presente
in Aristotele, «c’è schiavo e schiavo, c’è padrone e padrone», corredato della
preziosa notizia che in quella città esisteva un maestro/istruttore degli schiavi.49
Comunque nelle dinamiche militari isolane vediamo intersecarsi e
combinarsi:
- istanze identitarie che, spronate da tensioni nel territorio, cementavano
meccanismi di autodeterminazione rafforzandosi anche attraverso la prova delle
armi;50
44
Così Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 487 s. Paradigmatico del “dovere della vendetta”
è il riferimento di Gelone allo “invendicato” Dorieo (Hdt. VII 158, 2; sul personaggio e le sue
“peripezie” cfr., fra gli ultimi, S. De Vido, Gli Elimi. Storie di contatti e di rappresentazioni, Pisa 1997, 172
ss.; L. Braccesi, L‟enigma Dorieo, Roma 1999; E Galvagno, Politica ed economia nella Sicilia greca, Roma
2000, 20 ss.).
45
Per l’incidenza della mentalità agonale e dei «competitive values» nell’attivismo bellico,
anzi nella vita stessa delle comunità greche, cfr. E. Havelock, War as a way of life in classical culture, in E.
Gareau (Éd.), Valeurs antiques et temps modernes, Ottawa 1972, 15-78. In particolare, il tema della guerra
di aggressione in Aristotele è focalizzato in Santoni, Considerazioni su Aristotele, cit., 29-44.
46
Garlan, L‟uomo e la guerra, cit., 59-64 (con rinvio alle concezioni di Platone e di Aristotele,
e sulla scia di M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum, in Handwörterbuch der Staatswissenschaft, Jena 19093,
trad. it. Storia economica e sociale dell‟antichità, Milano 1981, 20 s.); Id., Guerra, pirateria e schiavitù, in M.
Finley (a cura di), La schiavitù nel mondo antico, trad. it. Roma-Bari 1990, 3-26, partic. 13 ss.; J. Andreau
- R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, trad. it., Bologna 2006, 74 s.; Santoni, Considerazioni su
Aristotele, cit., 30 s.
47
Hdt. VI 23, 5; su queste vicende cfr. Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 130 ss. e S. Consolo
Langher, Zancle in età arcaica e classica (La ktisis. Ippocrate. I Sami. Anassila), in Ead., Siracusa e la Sicilia greca,
Messina 1996, 377-415, partic. 394 ss.
48
Hdt. VII 156, 2-3.
49
Pol. I 7, 1255 b: καὶ ὁ δοῦλος καὶ ὁ ἐλεύθερος (che riecheggia un verso dal Pancratiaste di
Filemone, comico nativo forse di Siracusa ed attivo al tempo di Alessandro Magno, citato in Suda
s.v. πρὸ, cfr. R. Kassel - C. Austin, Poetae comici Graeci, VII, Berolini et Novae Eboraci 1989, 256 fr.
57). Contestualmente, Aristotele precisava che a Siracusa c’era una episteme doulike: Ἐκεὶ γὰρ
λαμβάνων τις μισθόν ἐδίδασκε τὰ ἐγκύκλια διακονήματα τοὺς παίδας.
50
Per questo aspetto, J.P. Vernant, Introduction, in Id. (dir.), Problèmes de la guerre en Grèce
ancienne, Paris 1968, 19 ss.; Hölkeskamp, La guerra e la pace, cit., 486 s.: «la polis che andava
consolidandosi assorbiva in sé il mondo della guerra e faceva dell’elemento bellico un aspetto
costitutivo integrante della propria cultura politica». Ne constatiamo un significativo riflesso in
quei donativi che, orgogliosamente inviati a santuari metropolitani a suggello di scontri nelle aree
di nuovo insediamento, sono spesso corredati di dediche identificative della comunità vittoriosa e
del vinto (cfr., in merito, Di Vita, Olimpia e la Grecità siceliota, «SicAnt» II (2005), 63-73; A. Jacquemin,
I grandi santuari greci e la guerra attraverso la documentazione epigrafica, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo
antico, cit., 3-9; K.W. Arafat, War and Greek sanctuaries in Pausania‟s description of Greece, ibid., 11-18).
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- implicazioni socio-economiche, che, annoverando la guerra tra le attività
acquisitive naturali,51 potevano favorire – se non istituzionalizzare – la
divaricazione tra funzione guerriera e attività lavorativa (come suggeriscono il
binomio Cilliri-Gamoroi e la sperimentazione degli Cnidi nelle Eolie);52
- articolazioni produttive e – soprattutto dal V a.C. in avanti – innovazioni
nelle tecnologie nautica e poliorcetica;53
- interferenze tra pratica militare ed assetto politico, facilitate dalla
comprovata utilità di un’azione bellica resa efficace dall’addestramento e dalla
familiarità col comando: due requisiti spendibili in vista dell’affermazione di un
potere personale che in Sicilia ha spesso stravolto comunità poleiche, alterandone
la compagine civica e la realtà urbana, e – agitando slogan etnico-culturali – si è
spesso autogiustificato e celebrato quale campione nella lotta contro il “pericoloso
nemico”.54
Non stupisce pertanto che staseis55 e tyrannides, appaiano spesso il frutto
avvelenato di un apprendistato militare o magistratuale. I loro effetti indotti, sul
piano socio-economico e politico, sono fenomeni quali il fuoruscitismo, il
mercenariato, l’appannamento dell’etica oplitica, le spregiudicate manipolazioni di
corpi civici, i risentimenti di archaioi politai e le resistenze di xenoi/neopolitai, le
51
Istruttivo, in questa direzione, Aristot. Pol. I 8, 1256 b: passando in rassegna le attività
produttive “autarchiche” (autophytoi ergasiai) di nomadi, predoni, pescatori, cacciatori, contadini –
negati agli scambi o al commercio – il filosofo considera l’arte bellica arte d’acquisizione quasi per
natura, comprensiva della caccia praticata contro le bestie e contro quegli uomini che, nati per
obbedire, si rifiutano. Su questa guerra «giusta» cfr. Santoni, Considerazioni su Aristotele e la guerra di
conquista, cit., 30 ss.
52
Diod. V 9, 3-6. L’insediamento cnidio nelle Eolie è una preziosa attestazione riguardo
alla istituzionalizzazione di ruoli funzionali differenti per la “comunità cittadina”, in questo
apportando forse una variante rispetto al noto binomio “asimmetrico”, Spartiati-Iloti (in merito alla
diversificazione tra funzione guerriera/titolarità della terra e lavoro dei campi cfr., e.g., Aristot. Pol.
II 10 1271b, con rubricati i casi degli iloti per Sparta e dei perieci per Creta).
53
In fatto di armamenti, per i secoli V e IV a.C., possiamo allineare le informazioni
sull’abilità del siracusano Cefalo, padre di Lisia, che, su invito di Pericle, trasferì ad Atene la sua
attività di produttore di armi e scudi (Lys. XII 4); i dati sulla progettazione, per impulso di Dionisio
il Vecchio, di grandi navi a quattro e a cinque ordini di remi (Diod. XIV 41, 3; 42, 2-3) e
sull’invenzione della catapulta ed altre armi da lancio in funzione della lotta contro i Cartaginesi
(Diod. XIV 42-43); il dettaglio sulla produzione di tuniche siciliane afferenti all’hoplismos, un cui
esemplare fu indossato da Alessandro, quale ὑπένδυμα, sotto la corazza doppia di lino (Plut. Alex.
XXXII 8). In generale, sul tema, C. Solís Santos, Macchine, tecniche e meccanica, in I Greci, cit., 2. III, 705728, partic. 709.
54
Scontato il rinvio ai Dinomenidi o a Dionisio il Vecchio. Come si è visto (supra, n. 51),
sotto il profilo teorico Aristotele definiva giusta la guerra contro gli uomini che, nati per essere
schiavi, si rifiutavano e, in Pol. I 2, 1252b, citando Euripide (Iph. Aul. 1000), affermava l’equazione
barbaro-schiavo. Sul phobos del nemico punico nella politica dei vari signori siracusani cfr. G.
Mafodda, Studi dionigiani, in Consolo Langher – Raccuia - Mafodda, Forme del potere, problemi storiografici,
percorsi istituzionali in Sicilia, cit., 223-311 (partic. 293 ss.), con la bibliografia pertinente.
55
In merito (riecheggiando vagamente i rilievi mossi da Dario a Megabizo: Hdt. III 82, 3),
si ricordi l’osservazione di Aristotele, critica rispetto all’utopistica politeia egalitaria di Falea: «Le
sedizioni nascono non solo dall’ineguaglianza degli averi ma anche degli onori: i due motivi, però,
operano in senso opposto, giacché le masse si rivoltano per l’ineguaglianza della proprietà, le classi
superiori per gli onori, se sono distribuiti in maniera uguale» (Pol. II 7, 1266 b).
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redistribuzioni di terre e case, l’avvio al “genere” giudiziario per risolvere questioni
gravanti sulla proprietà, la ridefinizione di meccanismi regolativi della politeia
affidata a normative, scritte e sancite da giuramenti.
Sono tutti temi che di per sé costituiscono altrettanti casi di studio
monografico, si avvalgono di un’ampia, articolata base documentale e vantano una
cospicua messe di contributi illuminanti.
3. In margine a due di questi fenomeni che nel V sec. a.C. vengono
decisamente in superficie, ovvero il mercenariato e l’articolazione delle cariche
militari, con l’apparizione dell’ipparchia, piace qui recuperare alcuni spunti
pescando in un bacino abbastanza inusuale. Si tratta infatti di due proverbi
conservati nella Paroimion Epitome di Zenobio, un erudito di età adrianea sul quale
periodicamente ritorno e che sta conoscendo un rinnovato interesse.56 Richiamo
brevemente i dati strutturali della raccolta zenobiana, nata – come la coeva opera
di Diogeniano –57 a tavolino; l’autore dichiara, infatti, il suo debito nei confronti
di due paremiografi precedenti, ovvero Lucio/Lucillo di Tarra, e il ben più noto,
infaticabile, Didimo.58
Il primo dei due proverbi che ha attirato la mia attenzione recita ΢ικελὸς
στρατιώτης ed è così chiosato da Zenobio: «soldato siculo, detto proverbialmente
poiché si ricorreva a soldati stranieri, come per lo più quelli di Ierone».59 Presente
anche nella raccolta che va sotto il nome di Diogeniano col lapidario commento
56
W. Bühler, Zenobii Athoi proverbia vulgari ceteraque memoria aucta ed. et enarrata, Gottingae 19871999 (I, 1987, Prolegomena; IV-V, 1982-1999); E. Lelli (a cura di), I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e
Diogeniano, Soveria Mannelli 2006; C. Raccuia, La fondazione di Gela, cit., 281 ss.; Ead., Rileggendo Zenobio:
una nota sulla percezione e rappresentazione dei Siculi, «Polifemo» IV (2004), 195-212; Ead., Pirati e barbari.
Rappresentazioni di Fenicio-Punici nella Sicilia greca, in Greci e Punici in Sicilia tra V e IV secolo a.C.,
Caltanissetta-Roma 2008, 173-191; Ead.,“Schiavo comprato col sale”. Riflessioni sul tema, relaz. al XXXII
Colloquio internazionale del GIREA (Messina, 15-17 maggio 2008), in c.d.s.
57
Su questo autore ci informa Suda, s.v. Διογενειανὸς Ἡρακλείας; nella sua produzione
figuravano una Lexis pantodape (epitome delle omonime raccolte di Panfilo e Zopirione) ed un Peri
potamon, emendato da Schott (1612) in Peri paroimion; cfr. E.L.A. Leutsch - F.G. Schneidewin, Corpus
Paroemiographorum Graecorum, I, Göttingen 1839 (phot. Nach. Hildesheim 1958), XXVII ss.; cfr. L.
Cohn, Diogenianos 4, in RE V 1 (1903), 778-783; e, più recentemente, Bühler, Zenobii Athoi proverbia,
cit., I, 188 ss.; Lelli, I proverbi greci, cit., 29 ss.
58
Su questi letterati, dopo le voci di A. Gudeman, Lukillos, in RE XIII (1927), 1785-1791; di
L. Cohn, Didymos, in RE V (1905), 445-472, e di H. Gärtner, Zenobios, in RE z.R. XIX (1972), 11 s.; si
vedano ora R. Tosi, La lessicografia e la paremiografia in età alessandrina e il loro sviluppo successivo, in La philologie
grecque à l‟époque hellénistique et romaine, Entretiens Hardt 40, Genève 1994, 143-209; Lelli, I proverbi greci,
cit., 25 s.
59
Zenob. V 89: παροιμιῶδες. Ἐπεὶ ξένοις ἐχρῶντο στρατιώταις ὡς ἐπὶ πολὺ οἱ ὑπὸ
Ἱέρωνα. Il codice B, ovvero il Bodleiano, Auct. T 2.17 (ed. T. Gaisford, Paroemiographi Graeci, 1836)
presenta la variante sikelikos ed aggiunge a Ierone la qualifica τὸν τύραννον. Sulla recensio B dello
Zenobius vulgatus cfr. Buehler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 126 ss.
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«si servivano sempre di xenoi»,60 il proverbio ritorna nel lessico di Esichio con
un’esegesi così implementata:61 ὡς ἐπιπολὺ οἱ περὶ Ἱέρωνα τὸν τύραννον ὡς
διορθουμένων (Albertius διωθουμένων) αὐτῶν τὸν μισθὸν μηδενὶ ἀποδιδόντων
(Albertius μηδενὸς ἀποδίδοντος), ovvero «soldato siculo: detto proverbialmente
poiché si ricorreva a soldati stranieri, come per lo più quelli di Ierone il tiranno, in
quanto essi riscuotevano la ricompensa62, senza restituire il dovuto a nessuno». Gli
interventi albertiani63 sul tradito, consistenti nella modifica di διορθουμένων in
διωθουμένων e di μηδενὶ ἀποδιδόντων in μηδενὸς ἀποδίδοντος, risentivano della
suggestione di Macario,64 nella cui raccolta appariva il proverbio «il soldato siculo
rifiuta il compenso», con valenza antifrastica come denuncia il suo uso per «quelli
che fingono di respingere (o di dedicare) ciò che nessuno dà loro» (ἐπὶ τῶν
ἀποθεῖσθαι προσποιουμένων ἃ μηδεὶς αὐτοῖς δίδωσιν), per cui l’esegesi finale del
detto farebbe del soldato siculo il prototipo di coloro che fingono di disdegnare la
ricompensa o pretendono di offrire (e addirittura consacrare) somme puramente
virtuali.65
Se in generale le espressioni proverbiali prendono le mosse da un’esperienza
reale esprimendone il senso in maniera concentrata ed icastica e con l’ambizione di
diventarne emblematiche – come aveva scritto Aristotele –66 è da ritenere che in
questo adagio si stigmatizzi un tratto comportamentale di militanti “siculi”. Che
l’aggettivazione infatti sia utilizzata nel senso etnico proprio e non come un vago
sinonimo di “isolano” mi pare venga confermato dal confronto con altri proverbi
della raccolta zenobiana, in cui il termine indica indubitabilmente i Siculi e ne
60
Diogen. VIII 6: ξένοις ἐχρῶντο ἀέι. Cfr. Apostol. XV 47, in Leutsch-Schneidewin, CPG,
II, Göttingen 1851, 641. Come si può agevolmente constatare nel caso in esame, le spiegazioni
apposte nel Diogeniano vulgato sono sempre più concise rispetto a Zenobio.
61
Hesych. s.v. ΢ικελὸς στρατιώτης. Del proprio debito rispetto a Diogeniano
Paremiografo fa cenno lo stesso Esichio nella prefazione al suo lessico, ma il proverbio in oggetto –
contenuto nelle Paroimiai demodeis ek tes Diogenianou synagoges, o Diogeniano vulgato – esibisce
un’interpretazione la cui estensione ha indotto Leutsch-Schneidewin, CPG, I, cit., XXVIII ss., ad
ipotizzare l’uso di una perduta redazione dei proverbi commentati in maniera più circostanziata da
Diogeniano o il ricorso ad altri autori vantato dal lessicografo. Sulle fonti di Esichio, K. Latte,
Hesychii Alexandrini Lexicon, I, Hauniae 1953, VIII-XI; Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 302.
62
Uguale significato del verbo in Pol. XI 28, 5.
63
Johannes Alberti, Hesychii Lexicon, cum notis doctorum virorum integris, vel editis antehac, nunc auctis
et emendatis, Lugduni Batavorum 1766.
64
Machar. VII 65 (΢ικελὸς στρατιώτης μισθὸν διωθεῖται), cfr. Leutsch-Schneidewin, CPG,
II, cit., 208). Su questo erudito bizantino, autore della raccolta Rhodonia, e su Apostolio, raccoglitore
di un cospicuo materiale paremiografico, ereditato poi da suo figlio Arsenio, si vedano O. Crusius,
Apostolios, in RE III Hlb. (1895), 182 s.; Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., I, 275-277 e 291-299; e, in
breve, Lelli, I proverbi greci, cit., 55.
65
Sul variabile significato di ἀποθεῖσθαι (respingere, rifiutare, ma anche dedicare), cfr.
ThGL s.v., 1591.
66
Sines. Enc. calv. XXII 85=Aristot. fr. 13 Rose: παλαιᾶς εἰσι … φιλοσοφίας
ἐγκαταλείμματα περισωθέντα διὰ συντομίαν καὶ δεξιότητα (con enfatizzazione della
concentrazione ed efficacia comunicativa del proverbio). Cfr., in merito, A.M. Ieraci Bio, Il concetto
di paroimia in Aristotele, «RAAN» LVI (1978), 235-248. Va altresì ricordato che Aristot. Rhet. 1376 a;
1395 a, 10-12; 1395 b, sottolineava il ruolo strumentale e probatorio della “massima” specie nel
campo della comunicazione giudiziaria.
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irride dei comportamenti come nei detti «il Siculo e il mare»;67 «il Siculo rubacchia
uva acerba»68 ed, indirettamente, anche nel modo di dire «patto di Locresi» a danno
dei Siculi.69 Notiamo inoltre che – eccetto l’ultimo – i tre proverbi sono racchiusi
tutti nella quinta centuria; che l’interpretamentum di V 84 rinvia all’uso del detto in
una commedia di Epicarmo70 e che, infine, nella raccolta è presente ed usato
correttamente anche il termine Sikeliotai: si pensi alle espressioni «o è morto o
insegna a leggere», sc. ai figli dei Sicelioti71 e «la mensa di Siracusa», inclusa tra le
città siceliote.72
Tornando dunque al nostro “soldato siculo”, è evidente che sotto il profilo
storico la spiegazione dell’adagio rinvia espressamente ad un uso intensivo di
mercenari, Siculi compresi, sotto Ierone, di cui proprio ieri si è parlato. Preme poi
evidenziare, una volta di più, la cattura nel proverbio di una communis opinio
irridente e negativa nei confronti di questa componente anellenica: se in Zenobio –
e, ancor di più, in Diogeniano – figurava una spiegazione “neutra” e così asciutta
da indurre a sospettare che tra i Siculi l’opzione verso il mercenariato fosse
talmente diffusa da non richiedere un chiarimento (anzi da apparire quasi
antonomastica), il corollario apposto al detto da Esichio, restituendo un prezioso
frustulo di immaginario collettivo,73 crocifiggeva le abborracciate milizie sicule allo
67
Zenob. V 51 ( Ὁ ΢ικελὸς τὴν θάλασσαν), cfr. Diogen. VII 6. Questa la vicenda che ne
sta all’origine: «Dicono che un mercante siculo che trasportava fichi naufragò; dopo, standosene
seduto su uno scoglio e guardando il mare in bonaccia, disse: – So cosa vuole, vuole i fichi!». Su
questo ed i successivi proverbi, mi sia lecito rinviare al mio Rileggendo Zenobio: una nota sulla percezione e
rappresentazione dei Siculi, cit., 207 ss.
68
Zenob. V 84 (΢ικελὸς ὁμφακίζεται); cfr. Diogen. VIII 15. Implicitamente ai Siculi può
ricondursi l’altro proverbio (IV 54) «Più dei Calliciri» in cui Zenobio precisava «così erano
chiamati in Siracusa coloro che attorniarono i Geomoroi. Da ciò proverbialmente, se per avventura
volevano indicare un affollamento, usavano dire che “erano più dei Calliciri”. Costoro erano
schiavi – δοῦλοι – ed espulsero i padroni. Il motivo della loro chiamata in causa sta nel fatto che
confluirono da ogni parte nello stesso punto sì che soverchiarono i padroni».
69
Zenob. IV 97 (Λοκρῶν σύνθημα), corredato della spiegazione «si impiega per chi è
ingannatore» ed esemplificato con un rinvio ad antefatti mitici o, «secondo altri», all’inganno dei
Locresi nei confronti dei Sikeloi, all’atto della fondazione di Locri Epizefiri. Cfr., in merito, Bühler,
Zenobii Athoi proverbia, cit., IV, 61-66; Lelli, I proverbi greci, cit., 441 s.
70
Kassel-Austin, PCG, I, Berolini et Novae Eboraci 2001, 137 fr. 239; cfr. Lelli, I proverbi
greci, cit., 461, n. 538.
71
Zenob. IV 17 (ἤτοι τέθνηκεν, ἢ διδάσκει γράμματα), che richiama la dolorosa sorte dei
prigionieri ateniesi dopo l’Assinaro. Questo il corollario apposto da Zenobio: «alcuni morirono,
altri furono presi prigionieri e insegnavano a leggere ai figli dei Sicelioti. E quelli che erano riusciti
a scappare ad Atene e venivano interrogati sulla sorte di quelli rimasti in Sicilia, dicevano: “O è
morto o insegna a leggere”». Il particolare ricorre anche in Diod. XIII 33 e Plut. Nic. 19. Cfr.
Diogen. V 9. In merito, Lelli, I proverbi greci, cit., 427, n. 363.
72
Zenob. V 94 (΢υρακουσία τράπεζα) sulla habrosyne dei Sicelioti. Sul detto cfr. Lelli, I
proverbi greci, cit., 463, n. 549. Diogen. VIII 7, presenta invece ΢ικελικὴ τράπεζα e nella recensio B
σικελή.
73
Appare esercizio fantasioso, seppur allettante, decifrare la matrice non proprio benevola
di questo giudizio esplicativo attestato da Esichio: essa può indifferentemente inscriversi tanto in
una cornice isolana (si potrebbe pensare ad un personaggio della scena comica o ad uno storico dalla
risentita vena civica) quanto al di fuori di essa e coerente con la ben nota visualizzazione dell’isola
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
| 51
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
stereotipo di gente taccagna e debitrice incallita (se seguiamo la lezione dei codici)
o millantatrice (se accettiamo la modifica albertiana). In ogni caso, è evidente che
nell’isola la milizia e lo spirito oplitico erano illanguiditi o profondamente
rimaneggiati in seguito alle manipolazioni del corpo civico attuate dai tiranni ed al
ricorso sistematico a forze mercenarie.
E veniamo all’altro proverbio che, a mio parere, configura un duplice,
prezioso contributo di tipo “tecnico” e politico-culturale. Si tratta della espressione
ἱππάρχων πίναξ, ovvero «la tavoletta degli ipparchi», cui Zenobio appone questa
esegesi: «poiché presso i Siracusani gli ipparchi segnalavano i nomi degli
indisciplinati scrivendoli su registri o tavolette» ( Ἐπεὶ παρὰ ΢υρακουσίοις οἱ
ἵππαρχοι
ἐν
πίναξι
παρεσημειοῦντο).74
τὰ
ὀνόματα
γράφοντες
τῶν
ἀτακτούντων
Il proverbio che, con qualche variante, è ricordato anche da Esichio, 75
richiama irresistibilmente la mentalità sottesa al detto κύρβεις κακῶν corrente ad
Atene e riferito a provvedimenti legislativi impopolari per le punizioni
comminate.76
Stando alla ambientazione puntualizzata da Zenobio (e certo risalente ai
suoi predecessori Lucillo e Didimo),77 siamo indotti a postulare l’esistenza di questi
importanti “ufficiali” – meglio noti per la realtà ateniese –78 anche
nell’organizzazione militare di Siracusa, con specifiche funzioni di comando e
responsabilità di sorveglianza e sanzione per gli indisciplinati.
L’altro rilevante dato, di sapore politico e culturale, che preme recuperare
in questa inopinata fonte, è l’affermarsi della annotazione scritta e – probabilmente
– pubblica dei nominativi di quanti, con termine altamente tecnico sono definiti
ataktounton: in verità, si è fortemente tentati di supporre, già a monte, elenchi scritti
come terra dagli eterogenei abitanti, a rischio di ekbarbarosis (cfr. rispettivamente gli ochloi xymmiktoi
evocati da Alcibiade in Thuc. VI 17, 2-4, e Plat. Ep. VIII 353 a).
74
Zenob. IV 42. Sul lemma πίναξ (chiosato come sanis ezographemene) Phot. s.v.
75
Hesych. s.v. ἱππάρχου πίναξ: nel testo manca la localizzazione in Siracusa (e invece di epei
si citano enioi).
76
Zenob. IV 77: «un codice dei misfatti. Kyrbeis erano chiamate dagli Ateniesi le tavole
triangolari (sanides trigonoi) su cui erano incise le leggi e le pene per i colpevoli. Per cui si disse il
proverbio per chi compie misfatti» (tr. Lelli, I proverbi greci, cit., 175); sul detto nello Zenobio Atoo
cfr. Bühler, Zenobii Athoi proverbia, cit., IV, 108-113, con elenco dei loci (ad es., Aristoph. Av. 1354;
Lys. 30, 17, 20; Plat. Resp. 298) e rassegna delle opinioni sulla struttura delle kyrbeis, cui va ad
aggiungersi G. Nenci, La ΚΥΡΒΙΣ selinuntina, «ASNP» s. III, XXIV 2-3 (1994), 459-466.
77
Il Latte, Hesychii Alexandrini Lexicon, I, 364, in apparato al testo di Esichio, propone a
monte il nome di Epicarmo, seguito da punto interrogativo.
78
Aristot. Ath. resp. XLIX 2 e LXI 4-5, si sofferma sull’arruolamento dei cavalieri in seno
alle tribù, per cura dei dieci katalogeis; precisa che i selezionati sono subordinati ai rispettivi phylarchoi,
a loro volta sottoposti a due soli ipparchi, e che questi hanno nei confronti dei cavalieri le stesse
attribuzioni degli strateghi sugli opliti; aggiunge, infine, che i filarchi sono omologhi ai tassiarchi
dell’esercito oplitico. Oltre alla vetusta sintesi di E. Caillemer, Hipparchos, in DAGR, III, Paris 1900,
188-193, vd. ora L.J. Worley, Hippeis. The cavalry of ancient Greeks, Boulder 1994 e, per l’arruolamento,
J. Ducat, Xénophon et la sélection des «hippeis», «Ktema» XXXII (2007), 327-340.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
| 52
di reclutabili e reclutati, magari differenziati per “armi”. Più che nel parallelismo
con Atene, dove è ben attestata la redazione di un pinax contenente i nominativi
del ruolo dei cavalieri,79 una valida testimonianza in tale direzione trapela nella vita
di Nicia di Plutarco dove, poco prima del richiamo di Alcibiade dalla spedizione in
Sicilia, si narra della cattura, nel porto interno, di una nave siracusana a bordo
della quale c’erano le tavolette (sanidas) con annotati i nomi dei cittadini siracusani
divisi per tribù. Si aggiunge anche il particolare che le tavolette di norma erano
riposte (keimenai) nel tempio di Zeus Olimpio, fuori città, e che, nell’emergenza
dell’attacco ateniese, erano state prelevate per procedere all’arruolamento di quanti
fossero in età da servizio militare.80 Da parte sua, Tucidide fornisce un dettaglio
significativo su questo sito “sensibile” allorché, riferendo operazioni militari
successive, precisa che un terzo della cavalleria siracusana fu lasciato di stanza ἐπὶ
τῇ ἐν τῷ Ὀλυμπιείῳ πολίχνῃ.81
Se dunque non v’è dubbio che, alla fine del V a.C., le procedure di
arruolamento si siano standardizzate avvalendosi della modalità scritta, mancano
appigli cronologici per inquadrare questa conversione da un pinax mentale ad uno
reale. Volendo valorizzare la menzione di ipparchi nel nostro proverbio, la prima
attestazione letteraria di questa carica militare in Sicilia si inquadra notoriamente
nel settennato di Ippocrate, di cui Gelone appunto fu hipparchos.82 Quanto alla
vocazione ippotrofica dei Pantaridi di Gela, degli Emmenidi e Dinomenidi, essa è
troppo nota perché mi ci soffermi in dettaglio e ne ricordi anche la prestigiosa
sanzione nella grande poesia celebrativa e negli anathemata destinati ai grandi
santuari metropolitani83. Eloquenti, del pari, le testimonianze archeologiche (si
79
In Aristot. Ath. resp. XLIX 2, ricorre la menzione di una sorta di ruolo permanente dei
cavalieri, redatto su un pinax che veniva aperto dai filarchi (anoixantes) ed aggiornato in seno alla boule
ove si depennava chi avesse giurato di essere ormai inabile al servizio τῷ σώματι ἢ τῇ οὐσίᾳ.
80
Plut. Nic. XIV 6-7 (cfr. L. Piccirilli, Plutarco. Le vite di Nicia e di Crasso, Milano 1993, 286 s.);
segue il dettaglio sulla preoccupazione degli indovini nel constatare il gran numero dei nomi
contenuti.
81
Thuc. VII 4, 6 (seguirà la narrazione degli scontri in cui – a varie riprese – restano
impegnati cavalieri e fanti siracusani guidati da Gilippo). In particolare, sulla consistenza originaria
della cavalleria siracusana (ca. 1200 unità col supporto dei contingenti da Gela e Camarina) Thuc.
VI 64, 1 e 67, 2.
82
Hdt. VII 154, 1; Tim. FGrHist 566 F 18. Deliberatamente contengo i riferimenti
bibliografici su Ippocrate e Gelone a Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, I-II, cit., 137 ss. e 597 s.;
Maddoli, Il VI e V secolo, cit., 30 ss.; Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 127 ss. e 273 ss.; S.N. Consolo
Langher, Politiche egemoniche e ristrutturazioni sociali nelle tirannidi di età arcaica e nella repubblica siracusana
postdinomenide, in Ead., Siracusa e la Sicilia greca, cit., 211 ss.; Mafodda, La monarchia di Gelone, cit., 28 ss.; L.
Braccesi, I tiranni di Sicilia, Roma-Bari 1998, 21 ss., 31 ss.; Hofer, Tyrannen, Arystokraten Demokraten, cit.,
81 ss., 97 ss.
83
Sul punto si vedano i contributi menzionati in n. 50 e nella nota precedente; per gli
anathemata mi sia consentito il rinvio al mio Tra eusebeia e dynamis. Donativi „eccellenti‟ dalla Sicilia alla
Atena Lindia, in M. Caccamo Caltabiano - C. Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, basileia,
Imperium. Forme, prassi e simboli del potere nel mondo greco e romano, Giornate seminariali in onore di S.N.
Consolo Langher (Messina, 17-19 dicembre 2007), Messina 2010, 97-122.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
| 53
pensi, ad es., ai numerosi acroteri equestri a Gela) 84 e quelle numismatiche che, a
Gela e a Siracusa, propongono l’effigie di cavalieri con una scelta tipologica che
dissimula una complessa ideologia del potere e veicola un raffinato messaggio.85
In questa temperie ben potrebbe inquadrarsi quella tavoletta bronzea –
forse proveniente da Casmene-Monte Casale –86 che fissa per iscritto la concessione
di ἀτέλεια ed ἔγκτασις e la partecipazione alle ἀρχαί, con l’apparente eccezione
per la carica di ipparco. In letteratura prevale un inquadramento cronologico del
documento nel V sec. iniziale, poiché alla linea 3 compare la menzione di Gamoroi
che ha suggerito una connessione del testo all’esilio di costoro a Casmene dal 491
a.C.: una lontananza da Siracusa cui, come attesta Erodoto, porrà fine Gelone.87 E
dunque (sempre che non si tratti di un antroponimo) potremmo disporre, per
questo torno di tempo, di un’ulteriore attestazione dell’esistenza e dell’importanza
di questa carica nonché del ruolo pregnante dei comandi militari nella dimensione
civica.
Tuttavia i primi hippeis, nella storia politico-militare dell’isola, vengono
ricordati già sul finire del VII a.C., in relazione all’assunzione della tirannide in
Lentini da parte di Panezio88 onde – al di là della dubbia interpretazione del
termine nel senso di guerrieri a cavallo – si è legittimati a postulare «uno sviluppo
tattico precoce della cavalleria» nell’Occidente greco rispetto alla maggior parte
della grecità metropolitana.89
Ma, quanto alla connessione con la procedura di una “conta”, con la
trasparenza e “pubblicità” di un sistema di gratifiche e punizioni attraverso lo
strumento scrittorio, sembra proprio che le condizioni più propizie per siffatta
mentalità (o comunque per il suo irrobustimento) si lascino individuare
soprattutto dopo il tempo terribile delle manipolazioni e destrutturazioni civiche
attuate dai vari tiranni. Nell’urgenza di ridefinire identità e patrimoni di archaioi
politai, di rintuzzare le reazioni risentite di neopolitai, di restaurare o adeguare
84
Ne sono stati restituiti dall’Athenaion di età arcaica (tempio B, VI a.C.), esplorato da P.
Orsi, Gela. Nuovo tempio greco arcaico in Contrada Molino a Vento, «NSc» IV (1907), 38-40. Analoghe
decorazioni provengono da un edificio sull’acropoli (primo quarto del V a.C.) e sono state
rinvenute nel fondo di una cisterna: P. Orlandini, Nuovi acroteri a forma di cavallo e cavaliere dall‟acropoli di
Gela, in Miscellanea G. Libertini, Catania 1958, 117-128; cfr. R. Panvini (a cura di), Gela. Il Museo
archeologico. Catalogo, Gela 1998, 29, 39 s., 61, 67, 171.
85
Cfr. M. Caccamo Caltabiano, La mistica e il ruolo politico. L‟ideologia del cavaliere nell‟età delle
tirannidi siceliote, in R. Pera (a cura di), L‟immaginario del potere. Studi di iconografia monetale, Roma 2005, 132, partic. 23, con la suggestiva lettura simbolica del cavaliere/signore vittorioso, cacciatore di fiere
e di avversari.
86
SEG IV, n. 27; Dubois, IGDS, 275 s., n. 219; Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 283 n. 43, e, di
recente, D. Erdas, Forme di stanziamento militare e organizzazione del territorio nel mondo greco: i casi di Casmene e
Brea, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico, cit., 45-55.
87
Hdt. 7, 155; Erdas, Forme di stanziamento militare, cit., 46 s.
88
Eus. II 91 Schoene, 97b Helm: secondo il noto stratagemma conservato in Polyaen. V 47,
Panezio avrebbe eliminato gli euporoi e gli hippeis della città, con l’aiuto degli eniochoi. Su ciò Luraghi,
Tirannidi arcaiche, 11 ss., il quale propende a ritenere tali hippeis omologhi agli omonimi «guerrieri
aristocratici, che costituiscono lo strato sociale più elevato, per i quali il cavallo è in prima istanza
un simbolo di status, mentre il suo impiego militare è limitato al trasporto dei guerrieri stessi» (14).
89
Così Luraghi, Tirannidi arcaiche, cit., 179.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
Carmela Raccuia, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
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meccanismi e regole nelle comunità liberate, la tecnica scrittoria era destinata ad
accrescersi ed affermarsi quale strumento di garanzia e tutela dei diritti e dei doveri
civici.
Carmela Raccuia
Dipartimento di Scienze dell’Antichità
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Messina
Polo Annunziata
98168 Messina
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 38-54
MARCO VINCI
Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
Nel corso degli ultimi quattro decenni si è assistito ad un proliferare di
studi riguardanti la guerra nel mondo antico, o meglio tutto il complesso delle
problematiche connesse con il concetto anglosassone di «warfare», espressione che
in italiano non trova una traduzione appropriata. Mi sembra, però, che
l’attenzione degli studiosi si sia incentrata principalmente su due poli
complementari ed opposti al contempo: da un lato sulla figura del cittadino-oplita
possessore di terra, fondamento essenziale della polis in età arcaica; dall’altro sul
fenomeno del mercenariato, affermatosi alla fine del V secolo e poi pienamente
diffusosi nel IV, cui diedero impulso sia ragioni di tipo demografico (la
cittadinanza non bastava da sola come bacino di reclutamento) sia l’evolversi della
tecnica e delle tattiche di guerra.1 Nonostante l’identità tra oplita e cittadino
iniziasse ad attenuarsi, comunque essa non si dissolse del tutto, persino quando i
mercenari acquistarono ovunque maggiore importanza militare rispetto alla leva
ordinaria dei cittadini, cui però non si voleva veramente rinunciare dal momento
che così si sarebbero colpite nel loro nucleo anche l’autoconsapevolezza e l’identità
collettiva di ciascuna polis.
È forse in virtù di questa motivazione, e della crescente richiesta di
professionalità nei combattimenti, che andrebbe spiegata l’istituzione di corpi
d’armata speciali che si pongono in una posizione mediana tra le truppe ordinarie e
le bande di μισθοφόροι. Le fonti attestano per diverse realtà politiche l’impiego di
unità speciali costituite per la maggior parte dei casi da opliti, che pertanto
continuano a rappresentare il nerbo dell’armamento di uno stato. I termini
solitamente adoperati per designare queste milizie sono λογάδες ed ἐπίλεκτοι che
trovano però diversa diffusione cronologica: ad esempio, in scrittori come Erodoto
e Tucidide si registra un uso esclusivo di λογάδες, mentre nell’ultimo scorcio del
V secolo a.C., come dimostra un frammento di Ctesia di Cnido, inizierà ad
affermarsi anche ἐπίλεκτοι che, in alcuni autori come Senofonte, e in netta
La bibliografia sull’argomento è vastissima: per una veloce rassegna V.D. Hanson, The
Status of Ancient Military History: Traditional Work, Recent Research, and On-Going Controversies, «The Journal of
Military History» LXIII (1999), 379-413; per gli studi più recenti Ph. Sabin - H. van Wees - M.
Whitby (Eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare, I-II, Cambridge 2007 (da qui in avanti
CHGRW).
1
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
| 56
controtendenza rispetto al passato, rimpiazzerà totalmente λογάδες.2 In
successione di tempo i due vocaboli, adoperati indifferentemente come sinonimi,
saranno di gran lunga i più diffusi per definire truppe scelte a carattere sia
temporaneo che permanente.3 A λογάδες/ἐπίλεκτοι corrispondono in ambito
romano le forme lecti/delecti derivanti dalla medesima radice indeuropea (*leĝ);4
diversa, invece, è la natura dei cosiddetti extraordinarii che, seppur Polibio assimila al
greco ἐπίλεκτοι, designano nella fattispecie truppe d’élite reclutate tra i contingenti
delle comunità italiche alleate di Roma, come del resto specifica lo stesso
Megalopolitano.5
La diversa natura e abbondanza delle fonti al riguardo lascia pensare che
l’istituzione di truppe speciali rientrasse nell’ordinaria amministrazione di molte
città-stato tanto che, perfino nella tragedia, troviamo qualche riferimento a queste
unità (Eur. Hec. 525, Andr. 324). Purtroppo non conosciamo né la composizione né
le modalità di reclutamento di questi eserciti; gli stessi manuali di poliorcetica
rimangono vaghi in proposito pur menzionando in diversi passi il coinvolgimento
di truppe scelte in operazioni belliche: ad esempio Polieno usa sia λογάδες che
ἐπίλεκτοι; Onasandro (22, 1) dedica un paragrafo all’uso di ἐπίλεκτοι, così come si
legge nella titolatura, definiti però λογάδες nel prosieguo della narrazione dove
sembra circoscrivere l’impiego di questi contingenti speciali a funzioni ausiliarie.6
Tuttavia a tale ricchezza documentaria non corrisponde a tutt’oggi una trattazione
organica generale e i parziali studi al riguardo si dimostrano alquanto insufficienti. 7
William Kendrick Pritchett – nella sua monumentale opera divenuta punto
di riferimento negli studi specialistici – pur dedicando all’argomento poche pagine,
operò una prima e sostanziale distinzione tra Selected corps of citizen troops e Specialized
training. Nel primo gruppo lo studioso passava in rassegna alcune realtà politiche
per le quali le fonti attestavano l’impiego di corpi speciali in genere: i seicento
Per Ctesia FGrH 688, F 1b: Σεμίραμις μετὰ στρατιωτῶν ἐπιλέκτων μαχομένη καὶ τῶι
προτερήματι δεξιῶς χρησαμένη, τοὺς ᾿Ινδοὺς ἐτρέψατο; per Senofonte Hell. V 3, 23; VII 1, 19; VII
2
2, 10; VII, 2 12; An. III 4, 43; VII 4, 11.
3
Per un elenco comprendente altre varianti cfr. Poll. I 176: στρατιῶται ἐπίλεκτοι,
ἔκκριτοι, πρόκριτοι, δόκιμοι, εὐδόκιμοι, ἄριστοι, ἀριστεῖς, ἀριστεύοντες, κρατιστεύοντες, λογάδες,
λόγιμοι.
J. Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, I-III, Bern und München 1959, II, 658;
P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecques, I-IV, Paris 1968-1980, III (1974), 626.
5
Polyb. VI 26, 6. Per gli extraordinarii R. Cagnat, in Daremberg - Saglio, II 1 (1892), 945-946
e W. Liebenam, in RE VI 2 (1909), 1696-1698 con le fonti e la bibliografia relativa; per un’analisi
aggiornata P. Erdkamp, Polybius and Livy on the Allies in the Roman Army, in L. de Blois - E. Lo Cascio
(Eds.), The Impact of the Roman Army (200 BC-AD 476) Economic, Social, Political, Religious and Cultural Aspects.
Proceedings of the Sixth Workshop of the International Network Impact of Empire (Roman
Empire, 200 BC-AD 476), Capri, March 29-April 2, 2005, Leiden-Boston 2007, 47-74.
6
Per il passo in questione cfr. B. Campbell, Greek and Roman Military Writers. Selected readings,
London-New York 2004, 112.
7
Così V. Alonso - K. Freitag, Prolegomena zur Erforschung der Bedeutung der Eliteeinheiten im
archaischen und klassischen Griechenland, «Gerion» XIX (2001), 199-219, 200. Molto scarno il lemma
Ἐπίλεκτοι curato da A. Hauvette, in Daremberg - Saglio, II 1 (1892), 666; altrettanto succinto, oltre
che inadeguato, l’omologo a firma di E. Szanto, in RE VI 1 (1907), 157 che restringe lo statuto di
«Elitetruppen» ai soli contingenti della Lega Achea.
4
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66
Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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ἐπίλεκτοι che a Siracusa scacciarono i mercenari nel 461 a.C.; i trecento ἐπίλεκτοι
Beoti impiegati nella battaglia di Delio del 424 a.C; i mille ἐπίλεκτοι argivi (421-
418 a.C.) scelti tra i più giovani che eccellevano in vigore fisico; i trecento
ἐπίλεκτοι componenti il Battaglione Sacro (ἱερὸς λόχος) tebano (379-338 a.C.); gli
Ἐπάριτοι della Lega Arcadica (371-363 a.C.) nati in seguito ad una rivolta guidata
da Tebe contro Sparta; i trecento Elei di cui parla Senofonte (365-364 a.C.); i 2.500
Cartaginesi componenti uno ἱερὸς λόχος che combattè nel 340 a.C. contro
Timoleonte e nel 310 a.C. contro Agatocle.
Nel secondo gruppo il Pritchett incluse truppe speciali, addestrate a compiti
specifici e ben definiti, la cui attestazione ricorre solo per Sparta dove troviamo i
cosiddetti Σκιρῖται e gli ἱππεῖς. I primi, così chiamati perché erano Arcadi
provenienti dalla Sciritide, combattevano nell’ala sinistra dell’esercito, avevano
funzione di avanguardia ed erano spesso associati alla cavalleria; i secondi, che a
dispetto del nome non erano cavalieri ma opliti a cavallo, costituivano la guardia
del corpo del re; dapprima cento (Hdt. VI 56), divennero trecento all’epoca di
Leonida che li scelse personalmente per combattere alle Termopili (Hdt. VII 205,
2; VIII 124; Thuc. V 72; Strab. X 4 18).8
Nel corso degli anni lo studio del Pritchett è stato arricchito e
ulteriormente perfezionato.9 Una lacuna importante era costituita dal caso di
Atene, studiato e approfondito da Lawrence A. Tritle il quale operò una seconda
distinzione. Lo studioso notò che mentre λογάδες restava circoscritto alle opere di
Erodoto e Tucidide, le fonti sia letterarie che epigrafiche, comprese tra la metà del
IV fino al II secolo a.C., si riferivano a truppe scelte ateniesi adoperando solo ed
esclusivamente ἐπίλεκτοι. Da qui Tritle dedusse che ad Atene – non essendosi
verificata l’identità semantica riscontrabile in altre realtà politiche – tale variatio
terminologica fosse correlata ad una diversità strutturale in base alla quale λογάδες
designasse truppe scelte ma temporanee e improvvisate, cioè reclutate
nell’occasione di un particolare evento contingente, mentre ἐπίλεκτοι si riferisse a
truppe scelte permanenti, istituite appunto dal IV secolo in poi. Tritle addusse
come esempi di truppe temporanee i trecento Ateniesi al comando di
Olimpiodoro nella battaglia di Platea del 479 a.C., di cui ci parlano Erodoto (IX
21, 3) e Plutarco (Arist. 14, 5), e i trecento λογάδες impegnati nei combattimenti
attorno alle mura di Siracusa nel 414 di cui riferisce Tucidide (VI 100, 1; VI 101,
W.K. Pritchett, The Greek State at War, I-V, Berkeley-Los Angeles 1971-1991, II (1974), 221225 con le fonti e la bibliografia relativa. Secondo E.L. Wheeler, The General as Hoplite, in V.D.
Hanson (Ed.), Hoplites. The Classical Greek Battle Experience, London-New York 1993, 121-170, 131
queste unità speciali potrebbero avere avuto rapporti di continuità con la falange di epoca arcaica
sebbene l’appartenenza ad esse, in epoca classica, non fosse più garantita da privilegi ereditari.
9
Si veda la rassegna in G. Daverio Rocchi, “Promachoi” ed “epilektoi”: ambivalenza e ambiguità della
morte combattendo per la patria, in M. Sordi (a cura di), “Dulce et decorum est pro patria mori”. La morte in
combattimento nell‟antichità, Milano 1990, 13-36; utile anche il catalogo con altri esempi in Alonso Freitag, Prolegomena, cit., 204-215.
8
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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4).10 A mio avviso, però, stabilire sulla scorta di criteri esclusivamente
terminologici la natura improvvisata o permanente di questi contingenti non mi
pare così probante in quanto ogni attestazione andrebbe singolarmente appurata e
contestualizzata. Si noti, infatti, che nel caso della battaglia di Platea tali
combattenti sono definiti sia da Erodoto che da Plutarco οἱ λογάδες dove
l’articolo determinativo indicherebbe piuttosto un corpo permanente;11 al
contrario, nel caso dell’assedio a Siracusa, il contesto sembrerebbe suggerire un
ingaggio temporaneo, circoscritto a quella specifica missione.
Atene offre inoltre qualche notizia in più sulle modalità di reclutamento
dove gli ἐπίλεκτοι, come si è detto, sono menzionati anche in alcuni decreti che
ammontano ad una trentina. Ne prendo ad esempio tre. Nel primo di essi,
risalente al 330 a.C., la tribù Antiochide onora il tassiarco Proclide per l’eccellente
servizio svolto (SEG III 116). In questo decreto (ll. 2-3) si fa menzione di ἐπίλεκτοι
πρεσβύτεροι, segno che esistevano anche ἐπίλεκτοι νεώτεροι. Al 317 a.C. risale il
decreto della tribù Cecropide (SEG XXI 319) che onora i propri ἐπίλεκτοι per
avere ucciso alcuni pubblici nemici; in un terzo decreto (SEG XXV 149),
probabilmente del 303 a.C., gli ἐπίλεκτοι volontari ateniesi onorano Demetrio
Poliorcete con una grande statua equestre di bronzo nell’Agorà in riconoscimento
dei recenti successi militari contro Cassandro. Queste epigrafi dimostrano che tali
unità militari erano suddivise ed organizzate κατὰ φυλάς e per fasce d’età sotto il
comando di un tassiarco e godevano di una propria autonomia ed identità civica
perché non solo erano oggetto di pubblici provvedimenti ma emettevano
promulgazioni proprie. Si tratta dunque di corpi indipendenti che si affiancano alle
truppe oplitiche regolari ma con la sostanziale differenza di ricevere un intenso
addestramento specifico.
Soffermandoci su Siracusa, punto focale della nostra indagine, abbiamo
visto con il Pritchett che la polis siceliota disponeva di truppe scelte già dal 461 a.C.,
quando un corpo di ἐπίλεκτοι ἑξακόσιοι pose fine a una rivolta di mercenari che
avevano occupato l’isola di Ortygia e l’Achradina. A ricompensa del loro valore
(ἀριστεῖα), questi seicento uomini ricevettero una mina d’argento a testa, come
specifica Diodoro (XI 76, 2): μετὰ δὲ τὴν μάχην οἱ Συρακόσιοι τοὺς μὲν
ἐπιλέκτους, ὄντας ἑξακοσίους, αἰτίους γενομένους τῆς νίκης, ἐστεφάνωσαν
ἀριστεῖα δόντες ἀργυρίου μνᾶν ἑκάστῳ. Secondo la cronologia diodorea la rivolta
era scoppiata due anni prima, nel 463, poiché i mercenari erano stati esclusi dalla
partecipazione alle pubbliche cariche. Questo provvedimento era stato ratificato
dall’assemblea istituita dal nuovo governo di stampo repubblicano, affermatosi in
seguito al rovesciamento della tirannide dinomenide nel 466/5.12 L’uso di truppe
10
L.A. Tritle, Epilektoi at Athens, «AHB» III (1989), 54-59, 54-56. Sul carattere temporaneo
delle truppe speciali impegnate a Platea si è espressa anche Daverio Rocchi,“Promachoi” ed “epilektoi”,
cit., 29.
11
Dello stesso avviso Pritchett, The Greek State at War, cit., 224. Lo studioso, a seguito
dell’articolo del Tritle, trattò il caso di Atene nel quinto ed ultimo volume della sua opera (1991),
484 n. 733.
12
La data del 461 come fine del conflitto è accettata, seppur con qualche perplessità, da E.A.
Freeman, History of Sicily from the Earliest Time, I-IV, Oxford 1891-1894, II (1891), 313 n. 2; al contrario
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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scelte a Siracusa prima della metà del V secolo a.C. è spiegabile dunque alla luce
della storia del mercenariato in Sicilia che si afferma precocemente rispetto ad altre
zone del mondo greco. Si pensi infatti che Gelone introdusse a Siracusa, in un
momento imprecisato, diecimila mercenari e che ancora settemila di essi
perduravano all’interno della città dopo l’abbattimento della tirannide (Diod. XI
72, 3; 73): non è impossibile supporre che tra le misure adottate dall’assemblea,
oltre all’esclusione di costoro dai diritti politici, vi fosse anche l’istituzione di corpi
speciali che potessero tenere testa all’efficienza militare di tali individui.
Negli studi anteriori alla disamina del Pritchett l’intervento da parte di
questo corpo d’armata scelto è stato variamente recepito: o è stato acquisito senza
porsi alcun interrogativo sull’identità di questi uomini13 o non è stato affatto
menzionato14 o al contrario ha suscitato suggestioni tali da sconfinare in ipotesi
peregrine. La più audace è senza dubbio quella di coloro che attribuiscono agli
ἐπίλεκτοι un ruolo politico all’interno della nuova compagine statale. Il primo a
proporre un’ipotesi di tal genere fu Hermann Wentker il quale vi riconobbe una
milizia combattente a favore dell’antico ceto aristocratico siracusano che, secondo
lo studioso, dopo la cacciata del tiranno, aveva preso le redini del governo della
città.15 Più oltre, rispetto al Wentker, sono andati coloro che hanno proposto
l’assimilazione degli ἐπίλεκτοι con i cosiddetti χαριέστατοι τῶν πολιτῶν,
definizione che Diodoro adopera per connotare i maggiorenti della Siracusa postdinomenide.16 Questa tesi muove dal confronto con i seicento membri, definiti
anch’essi χαριέστατοι τῶν πολιτῶν, componenti un sinedrio oligarchico
(ἑξακοσίων συνέδριον) attestato dalle fonti per l’epoca di Agatocle 17 ma la cui
G. Busolt, Griechische Geschichte, I-III, Gotha 1893-1904, III 1 (1897), 172 n. 2 ritiene un’eventualità
impossibile la resistenza dei mercenari per un periodo così lungo; a questa affermazione obietta W.
Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, Prag 1929, 67 n. 10 il quale ipotizza che essi avrebbero potuto
ricevere aiuto via terra dai mercenari di Aitna come aveva sostenuto già K.J. Beloch, Griechische
Geschichte, I-IV, Strassburg 1912-1927, II 1 (1914), 128. L’aiuto da parte degli Aitnaioi è a mio avviso
impossibile da sostenere dato che i ribelli erano isolati da ogni collegamento con l’entroterra, ma
evidentemente Beloch e Hüttl sono ancora legati alla concezione topografica ottocentesca di
Siracusa secondo cui per Achradina si intendeva tutta la zona costiera nord-orientale, dalla sponda
antistante Ortygia fino all’insenatura di Santa Panagia, cioè la fascia orientale dell’altipiano roccioso
delle Epipolai. Anche G. Manganaro, La caduta dei Dinomenidi e il „politikon nomisma‟ in Sicilia nella prima
metà del V sec. a.C., «AIIN» XXI-XXII (1974-1975), 9-40, 10 ritiene improbabile che il conflitto si
fosse risolto solamente nel 461 stante il vuoto di un anno (il 462) riscontrabile nel resoconto
diodoreo.
13
Così in Freeman, History of Sicily, II, cit., 314 e in A. Holm Storia della Sicilia nell‟antichità, I-III,
Torino 1896-1901, I (1896), 472.
14
Busolt, Griechische Geschichte, III 1, cit., 172; Beloch, Griechische Geschichte, II 1, cit., 128; Hüttl,
Verfassungsgeschichte von Syrakus, cit., 67 non fanno parola dei seicento epilektoi.
15
H. Wentker, Sizilien und Athen. Die Begegnung der attischen Macht mit den Westgriechen, Heidelberg
1956, 80 criticato acutamente da M. Wörrle, Untersuchungen zur Verfassungsgeschichte von Argos im 5.
Jahrhundert vor Christus, Bonn 1964, 130 n. 102. La visione di Wentker, che ammette una continuità
della Adelsherrshaft per la Siracusa post-tirannica, è negata da P.A. Brunt, Athens and Sicily, «CR» VII
(1957), 243-245 che approda all’estremo opposto teorizzando l’affermazione di una democrazia tout
court.
16
F.P. Rizzo, La repubblica di Siracusa nel momento di Ducezio, Palermo 1970, 5-14.
17
Diod. XIX 4, 3; 5, 6; 6, 3-5.
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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istituzione viene fatta risalire da alcuni studiosi alle riforme costituzionali operate
da Timoleonte.18 Come si può notare, l’unico dato in comune tra gli ἐπίλεκτοι e
tale consesso oligarchico è il numero dei componenti, cioè seicento; per il resto
tale teoria appare alquanto debole e non esente da critiche espresse da più parti e
alle quali mi associo.19 Escluso dunque ogni coinvolgimento di tipo politico di
questi militari, altri hanno tentato di dare corpo all’idea che costoro fossero
mercenari corrotti passati dalla parte avversaria, stante l’elargizione di un donativo
così ingente.20 A smentire questo assunto basti la constatazione che, seppur
nell’antichità la modalità di pagamento più usuale per i mercenari fosse costituita
da premi in danaro e che spesso alcuni tipi monetali venissero emessi proprio in
occasione di tali ricompense,21 arguire da ciò che gli ἐπίλεκτοι fossero stranieri
prezzolati non mi pare così evidente; anzi bisogna tenere presente che non era
insolito, anche in Sicilia, ricompensare i mercenari sia con danaro liquido che con
terre e beni requisiti ai cittadini.22 In effetti è probabile che l’alto valore della
somma corrisposta (si ricordi che una mina era l’equivalente di 100 dracme ovvero
1/60 di talento) si possa spiegare interpretando le 600 mine come una sorta di
emissione commemorativa, coniata cioè nella speciale occasione di una così
importante vittoria, non necessariamente conseguita da parte di μισθοφόροι.23
Oltretutto, se costoro fossero stati mercenari, Diodoro lo avrebbe quasi
certamente specificato come dimostra un passo, relativo all’epoca di Agatocle, in
cui menziona μισθοφόροι ἐπίλεκτοι.24 Da quanto detto bisogna allora identificare
questi «scelti» con truppe cittadine selezionate. A questo punto si pone il dubbio se
questi seicento uomini fossero stati reclutati per l’occasione di tali turbolente
vicende all’interno dell’esercito regolare o se costituissero un corpo a sé stante e
Cfr. S.N. Consolo Langher, Siracusa e la Sicilia greca tra età arcaica ed alto ellenismo, Messina 1996,
255-279; Ead., Un imperialismo tra democrazia e tirannide. Siracusa nei secoli V e IV a.C., Roma 1997, 179 con la
bibliografia relativa.
19
Ad es. J. Briscoe, Ducetius, «CR» XXIV (1974), 245-247, 246; Manganaro, La caduta dei
Dinomenidi, cit., 10 n. 2; D. Asheri, Sicily, 478-431 B.C., in CAH2, V (1992), 147-170, 166 n. 20.
20
P. Green, Diodorus Siculus. Books 11-12.37.1. Greek history, 480-431 B.C. The Alternative Version,
Austin 2006, 147 n. 91.
21
M. Trundle, Greek Mercenaries. From the Late Archaic Period to Alexander, London 2004, 83; Id.,
Ancient Greek Mercenaries (664-250 B.C.), «History Compass» III (2005), 1-16, 7.
22
I Siracusani ricompensano con 100 mine i mercenari di Dione che nel 357 liberano la città
dalla tirannide di Dionisio II (Plut. Dion. 31, 1); di converso nel 406 Dionisio I con i beni confiscati
ai magnati geloi paga i suoi soldati (Diod. XIII 93, 1-3) mentre nel 396 dona loro la città e il
territorio di Leontini (Diod. XIV 78, 1-3).
23
Secondo alcuni studiosi la nuova moneta corrisponderebbe al decadrammo d’argento
solitamente identificato con il cosiddetto Damareteion, così C.M. Kraay, Greek Coins and History. Some
Current Problems, London 1969, 19-42; Id., The Damareteion Reconsidered: a Reply, «NC» XII (1972), 13-24.;
Id., Archaic and Classical Greek Coins, Berkeley 1976, 205, 211; Manganaro, La caduta dei Dinomenidi, cit.,
29 sgg.
24
Diod. XIX 72, 2: χωρὶς γὰρ τῶν συμμάχων καὶ τῶν ἐκ Συρακουσσῶν καταγραφέντων εἰς
18
τὴν στρατείαν μισθοφόρους ἐπιλέκτους εἶχε πεζοὺς μὲν μυρίους, ἱππεῖς δὲ τρισχιλίους
πεντήκοντα.
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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permanente di professionisti.25 A mio avviso, l’uso dell’articolo determinativo
farebbe propendere per questa seconda soluzione.26
Un ulteriore impiego di truppe scelte a Siracusa è attestato nelle fasi iniziali
dell’assedio posto alla città siceliota dagli Ateniesi nel corso della grande
spedizione. Come si cercherà di dimostrare, anche attraverso il confronto con le
altre fonti, la menzione più o meno esplicita da parte di Tucidide di questi
contingenti è, in un modo o nell’altro, finalizzata ad attenuare le responsabilità di
alcuni errori tattici commessi dagli strateghi siracusani, soprattutto di Ermocrate
nei confronti del quale, com’è noto, lo storico ateniese nutrì una certa
ammirazione.27
Il primo episodio si riferisce all’estate del 414, quando cioè dopo la pausa
invernale, i Siracusani, avendo saputo che gli Ateniesi erano in procinto di passare
all’attacco, si organizzano per sbarrare agli avversari le vie d’accesso all’altopiano
delle Epipole, posizione dominante e strategica (VI 96, 1-2). Tucidide fornisce
preliminarmente tre informazioni, quasi delle premesse, che troveranno, come
vedremo, una loro ragion d’essere nello sviluppo degli avvenimenti (VI 96, 3):
1) i Siracusani sono impegnati, sul far del giorno, a passare in rassegna le
truppe sulla pianura nei pressi del fiume Anapo (καὶ οἱ μὲν ἐξελθόντες πανδημεὶ
ἐς τὸν λειμῶνα παρὰ τὸν ῎Αναπον ποταμὸν ἅμα τῇ ἡμέρᾳ […] ἐξέτασίν τε
ὅπλων ἐποιοῦντο);
2) gli strateghi eletti con Ermocrate sono entrati «da poco» in carica
(ἐτύγχανον γὰρ αὐτοῖς καὶ οἱ περὶ τὸν ῾Ερμοκράτη στρατηγοὶ ἄρτι
παρειληφότες τὴν ἀρχήν);
3) i Siracusani hanno già «in un primo tempo» selezionato un contingente
di seicento λογάδες a capo del quale pongono un certo Diomilo, profugo di
Andros, con il precipuo compito di impedire agli Ateniesi di impadronirsi delle
Epipole (καὶ ἑξακοσίους λογάδας τῶν ὁπλιτῶν ἐξέκριναν πρότερον, ὧν ἦρχε
Διόμιλος φυγὰς ἐξ ῎Ανδρου, ὅπως τῶν τε ᾿Επιπολῶν εἶεν φύλακες, καὶ ἢν ἐς
ἄλλο τι δέῃ, ταχὺ ξυνεστῶτες παραγίγνωνται).
Gli Ateniesi però, al comando di Nicia, precedendo con tempestività il
piano dei Siracusani, nottetempo salpano di nascosto da Catania, dove hanno
svernato, facendo scalo nel luogo chiamato Leone, al nord delle Epipole. Qui
fanno sbarcare le truppe di fanteria mentre ormeggiano le navi a Thapsos, l’attuale
Tale incertezza per il caso di Siracusa è espressa da P. Hunt, Military Forces, in CHGRW, I,
108-146, 144.
26
Così anche E.L. Wheeler, Land battles, in CHGRW, I, 186-222, 220 che parla di «permanent
unit». Meno credibile mi sembra l’opinione di Wentker, Sizilien und Athen, cit., 173 n. 356 secondo
cui gli ἐπίλεκτοι siracusani non furono un’unità permanente ma sarebbero stati reclutati di volta in
volta all’occorrenza.
27
Il grado di stima da parte di Tucidide per Ermocrate sembra oggi ridimensionato rispetto al
passato a partire dalle considerazioni di F. Grosso, Ermocrate di Siracusa, «Kokalos» XII (1966), 103143, soprattutto 126. Secondo F.T. Hinrichs, Hermokrates bei Thukydides, «Hermes» CIX (1981), 46-59
l’alta considerazione di Tucidide per Ermocrate deriverebbe da un confronto con la vicenda
politica di Alcibiade, simile per certi aspetti a quella del generale siracusano. Per una bibliografia sul
personaggio cfr. G. Vanotti, Quale Sicilia per Ermocrate?, in C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini (a
cura di), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003, 179-197, 180 n. 4.
25
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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penisoletta di Magnisi, dopo aver bloccato l’istmo con una palizzata. Dal Leone
corrono con facilità alle Epipole e salgono sull’Eurialo prima che i Siracusani se ne
accorgano e possano arrivarci abbandonando il prato e la rivista (VI 97, 1-2). Nella
descrizione dello scontro (VI 97, 3-4), dall’esito disastroso per i Siracusani, le tre
premesse assumono i connotati di vere e proprie attenuanti degli errori tattici
commessi dai Sicelioti, constatazione che salta ancor di più agli occhi dal confronto
con Plutarco (Nic. 17, 1) e Diodoro (XIII 7, 3) in cui tali giustificazioni sono del
tutto assenti.
1) Tucidide pone la rivista delle truppe cittadine nel punto più lontano ed
opposto al luogo dell’attacco, specificando che le due zone distavano non meno di
venticinque stadi; Plutarco e Diodoro non accennano affatto a questioni di
topografia e distanza;
2) Tucidide dice che i tre strateghi plenipotenziari sono entrati in carica da
poco tempo (ἄρτι). Questa precisazione cozza inevitabilmente con
un’affermazione precedente in cui lo storico rivela invece che gli strateghi furono
eletti nell’autunno del 415, dopo la grave sconfitta subita all’Olympieion dove gli
Ateniesi avevano installato il loro quartier generale. Ermocrate, in assemblea,
aveva giudicato eccessivo il numero di quindici strateghi giacché proprio ad un
siffatto frazionamento del comando imputava la disfatta subita (Thuc. VI 72). Per
questo motivo i comandanti furono portati da quindici a tre, e con pieni poteri, tra
i quali vi era lo stesso Ermocrate (Thuc. VI 73, 1). Per Diodoro (XIII 4) i tre
strateghi sono eletti addirittura al momento della partenza della flotta ateniese,
cioè prima che iniziassero le ostilità. Giulio Beloch, tentando di fornire una
spiegazione di quella che sembra essere una palese incongruenza tucididea, conciliò
le due affermazioni presupponendo che le elezioni degli strateghi avessero avuto
luogo verso il solstizio d’inverno mentre la loro entrata in carica sarebbe avvenuta
tre mesi più tardi, all’equinozio di primavera, coincidente con l’inizio dell’anno
civile a Siracusa.28 Al contrario, per Santo Mazzarino, la predilezione nei confronti
di Ermocrate raggiungerebbe qui il suo culmine tanto da condurre Tucidide alla
menzogna. Questa è l’unica chiave di lettura possibile, secondo lo studioso, per
spiegare l’inciso στρατηγοὶ ἄρτι παρειληφότες τὴν ἀρχήν (Thuc. VI 96, 3) «parole
in cui c’è, indubbiamente, un’intenzione apologetica, che fa a pugni con la
verità».29
3) Plutarco e Diodoro menzionano i nomi dei condottieri di parte ateniese:
il primo, concentrato sulla figura di Nicia, parla al singolare per meglio esaltare le
virtù del generale ateniese; il secondo nomina esplicitamente anche Lamaco.
Tucidide al contrario ricorda due esponenti di parte siracusana: Ermocrate e
Diomilo, il luogotenente a capo dei seicento λογάδες, del quale tramanda oltre al
G. Beloch, L‟impero siciliano di Dionisio, Roma 1881, 17 seguito da Hüttl, Verfassungsgeschichte von
Syrakus, cit., 78-79.
29
S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, Roma-Bari 20003, 284.
28
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nome, unica attestazione nell’ambito dell’onomastica greca, anche il demotico.30
Primo fra tutti, William Mitford tentò di fornire una motivazione plausibile del
perché Tucidide citasse esplicitamente questo personaggio non altrimenti noto.
L’isola di Andros, la più settentrionale delle Cicladi, è – durante la guerra del
Peloponneso – alleata di Atene: Diomilo sarebbe stato pertanto un dissidente che
avrebbe messo al servizio della parte avversaria la propria esperienza delle tattiche
militari ateniesi e Tucidide ne ricorderebbe il nome e l’etnico per rimarcare
l’inefficienza dei comandanti siracusani.31 Altri hanno visto in Diomilo ora un
mercenario32 ora un ὁπλομάχος al comando di una unità permanente, diretta
filiazione del contingente del 461.33 In effetti dalla narrazione sembrerebbe
prevalere a prima vista il carattere di temporaneità di questo battaglione, reclutato
in un momento particolarmente concitato. Tuttavia l’avverbio πρότερον farebbe
pensare ad una misura attuata in un tempo precedente sia alla rassegna militare
presso l’Anapo sia all’entrata in carica degli strateghi, quasi a giustificare che
l’elezione di questo corpo non rientrasse nelle responsabilità di costoro. Secondo
Tucidide, Diomilo e circa trecento dei suoi uomini vengono uccisi nello scontro,
unico dato su cui le tre fonti concordano, nonostante sulla composizione e identità
delle forze militari accorse alle Epipole, sussistano alcune varianti. Tucidide
menziona infatti, oltre ai λογάδες di Diomilo, degli indefiniti ἄλλοι con cui
designa il resto dell’esercito siracusano; Diodoro parla genericamente di
Συρακόσιοι; Plutarco affianca ai λογάδες, di cui però non fornisce il nome del
comandante, i reparti della tanto decantata cavalleria, particolare attinto molto
probabilmente da Filisto.34 Alla luce di quanto detto si chiarisce allora la menzione
esplicita in Tucidide di Diomilo, oscuro luogotenente straniero, il quale avrebbe
meritato una lode come eroe anziché una menzione come vittima, o forse sarebbe
meglio dire capro espiatorio, di un palese errore tattico compiuto dagli strateghi
siracusani.35
S. Hornblower, A Commentary on Thucydides, I-III, Oxford 2003-2009, III (2009), 524:
«Διόμιλος: ‘Diomilos’. A rare name; this is the only attestation in LGPN I-VA. Why named?
Honoris causa? Because his family were a source?».
31
W. Mitford, The History of Greece, I-V, London 1784-1818, II (1790), 479; così più o meno
anche D. Kagan, The Peace of Nicias and the Sicilian Expedition, New York 1981, 261.
32
P. Green, Armada from Athens, New York 1970, 188.
33
E.L. Wheeler, The hoplomachoi and Vegetius Spartan drillmasters, «Chiron» XIII (1983), 1-20, 3-4 n.
16; Id., Land battles, cit., 220.
34
Così P. Pédech, Philistos et l‟expédition athénienne en Sicile, in M.J. Fontana - M.T. Piraino - F.P.
Rizzo (a cura di), Φιλίας Χάριν, Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, I-VI, Roma 1980, V,
1710-1735, 1728; per una rassegna bibliografica sulla Quellenfrage della Vita di Nicia plutarchea cfr. U.
Laffi, La tradizione storiografica siracusana relativa alla spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a.C.), «Kokalos» XX
(1974), 18-45, 28 n. 44.
35
Thuc. VI 97, 5 informa che, dopo la battaglia, gli Ateniesi eressero un trofeo e si
accordarono per la restituzione delle salme ai Siracusani (καὶ μετὰ τοῦτο οἱ ᾿Αθηναῖοι τροπαῖόν τε
στήσαντες καὶ τοὺς νεκροὺς ὑποσπόνδους ἀποδόντες τοῖς Συρακοσίοις […]). Vincenzo Mirabella
(1570-1624), Delle antiche Siracuse, II, Palermo 1717, 124 n. 178, tav. VIII; 129-130 n. 189, tav. IX
interpretando erroneamente il passo, confuse il trofeo con un ipotetico sepolcro di Diomilo e la
restituzione dei cadaveri con la loro sepoltura. Da qui dedusse di aver individuato nella zona
denominata Sinerchia, compresa tra l’Eurialo e l’Anapo, il luogo ove vennero sepolti Diomilo e i
30
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Nonostante la morte di Diomilo, Tucidide continua a parlare,
relativamente all’anno 413 a.C., di un contingente di seicento uomini posto a
guardia delle Epipole, ritornate frattanto in mano siracusana. Lo scenario di guerra
passa da azioni condotte prevalentemente sulla terraferma al mare. Gli Ateniesi
costruiscono un muro di circonvallazione che stringe la città da un capo all’altro
come in una morsa; tuttavia ciò non basta perché resta comunque aperta la via del
mare sia quello esterno sia quello interno al Porto Grande dove, da Thapsos,
trasferiscono la flotta determinandone il blocco e un diretto controllo della costa
orientale (VI 102, 3). Da questo momento il Porto Grande di Siracusa è al centro di
quattro grandi battaglie navali. Alla fine della seconda, che vede per la prima volta
i Siracusani vittoriosi, gli Ateniesi tentano di riprendere il controllo delle Epipole
per riaprire un effettivo assedio di Siracusa. Dopo un tentativo fallito di
distruggere mediante macchine da guerra le fortificazioni della città (VII 43, 1), le
truppe ateniesi, nottetempo e con un lungo giro, salgono in forze sull’Eurialo (VII
43, 2). Giunte sulle Epipole, al comando di Demostene, uccidono alcuni uomini
del corpo di guardia; la maggior parte riesce però a fuggire e a dare l’allarme (VII
43, 3-4). È in questo frangente che entrano in gioco i seicento uomini cui si è
accennato: costoro sono schierati in prima posizione a guardia di questo settore del
distretto ma, nonostante il loro rapido soccorso, sono volti in fuga dagli avversari
(VII 43, 4). Tucidide non specifica se si tratti di truppe scelte, ma il numero degli
uomini e la missione di guardia alle Epipole portano a identificare questi
combattenti come diretti sostituti dei λογάδες di Diomilo sbaragliati qualche
tempo prima. La reazione siracusana non si fa attendere e il merito di aver respinto
i nemici viene conferito da Tucidide ad un drappello di Beoti (VII 43, 7).36
Medesima versione dei fatti troviamo in Plutarco (Nic. 21, 7); Diodoro però (XIII
11, 4) fornisce dell’episodio una variante non indifferente in quanto attribuisce
l’allontanamento degli Ateniesi non ai Beoti ma ad Ermocrate, ora alla testa di un
contingente di uomini scelti di numero imprecisato.37 La versione diodorea
stupisce ancor di più alla luce della scarsa e superficiale attenzione che il Siciliano
riserva allo stratego siracusano, menzionato solo quattro volte nell’ambito della
trattazione della seconda spedizione ateniese in Sicilia.38 Tuttavia essa non sarebbe
300 epilektoi uccisi dagli Ateniesi. Effettivamente le moderne indagini archeologiche hanno
confermato la presenza della necropoli vista dal Mirabella, cfr. M. Musumeci, Indagini archeologiche a
Belvedere e Avola, «Kokalos» XXXIX-XL (1993-1994), 1353-1366, 1353-1360; resta però da dimostrare
la destinazione proposta dallo studioso siracusano costruita, come si è detto, su una cattiva
interpretazione di Tucidide, menda già a suo tempo evidenziata da Giacomo Bonanni († 1636), Delle
antiche Siracuse, I, 215-216.
36
Sulla presenza dei Beoti fra i difensori di Siracusa cfr. M. Sordi, La partecipazione dei Beoti alla
spedizione in Sicilia del 413 a.C., in J. Bintliff (Ed.), Recent Developments in the History and Archaeology of Central
Greece. Proceedings of the 6th International Boeotian Conference, Oxford 1997, 227-229.
37
Diod. XIII 11, 4: τῶν δὲ Συρακοσίων πανταχόθεν συνδραμόντων ἐπὶ τὸν τόπον, ἔτι δὲ
῾Ερμοκράτους μετὰ τῶν ἐπιλέκτων ἐπιβοηθήσαντος, ἐξεώσθησαν οἱ ᾿Αθηναῖοι καὶ νυκτὸς οὔσης
διὰ τὴν ἀπειρίαν τῶν τόπων ἄλλοι κατ' ἄλλους τόπους ἐσκεδάσθησαν .
Per questa valutazione e in generale sulla figura di Ermocrate in Diodoro cfr. G. Vanotti,
L‟Ermocrate di Diodoro: un leader „dimezzato‟, in C. Bearzot - F. Landucci (a cura di), Diodoro e l‟altra Grecia.
Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Milano 2005, 257-282, 279.
38
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 55-66
Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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priva di fondamento giacché, secondo uno stratagemma di Polieno (I 43, 1),
sempre durante l’assedio ateniese del 413, Ermocrate al comando di ἑξακόσιοι
ὁπλίται reprime una rivolta di schiavi che, evidentemente, approfittano del
momento di difficoltà in cui si vengono a trovare i Siracusani. Se dunque gli
ἐπίλεκτοι diodorei sono da identificare con gli ἑξακόσιοι tucididei, come è stato
ragionevolmente supposto,39 la tradizione storiografica sembrerebbe aver agito
ancora una volta in funzione filo-ermocratea, sia pur attraverso espedienti diversi.
Se infatti Tucidide nel narrare la sconfitta siracusana (VII 43, 4) si limita ad
omettere il nome di Ermocrate, Diodoro va oltre: non solo tace della disfatta –
silenzio in verità giustificabile data la natura compendiativa della Bibliotheke – ma,
nel riferire della vittoria, sostituisce ai Beoti il contingente di scelti agli ordini di
Ermocrate. L’incongruenza è stata spiegata da alcuni presupponendo come fonte
dell’episodio Timeo che, in forza della sua nota avversione a Gilippo, gli avrebbe
preferito Ermocrate, defraudando così di qualunque merito la componente
spartana.40 Altri hanno supposto a monte Filisto il quale – volendo rendere
giustizia a Gilippo, a cui riconosceva apertamente un certo valore (FGrH 556 F 56
= Plut. Nic. 19, 6) – avrebbe ricordato il ruolo rivestito nella battaglia da ciascun
contingente, notizia che l’abbreviatore Eforo avrebbe a sua volta semplificato
tramandando il solo nome di Ermocrate.41 Più semplice, a mio avviso, è ammettere
una derivazione, sia pur mediata ma non necessariamente compendiata, da Filisto
il quale in un’ottica filo-siracusana avrebbe preferito insistere sui meriti dei suoi
concittadini in una vittoria dalle conseguenze così importanti per tutta la
spedizione.42
Il numero di seicento uomini che, come abbiamo visto, troviamo quasi
sempre correlato a contingenti scelti, fu assunto da Adolf Holm come una riprova
di un reclutamento attuato nell’ambito delle tre presunte tribù doriche in cui la
popolazione siracusana dovette essere suddivisa, evenienza non impossibile se
instauriamo un confronto con il caso di Atene sopra esaminato. 43 Un passo della
W. Stern, Zu den Quellen der sicilischen Expedition, «Philologus» XLII (1884), 438-470, 442 n. 12;
Id. Beiträge zu den Quellen der sicilischen Geschichte. Zur Kritik der Nachrichten des Philistos und Timaios über die
sicilische Expedition, Pforzheim 1886, 12; R. Zoepffel, Untersuchungen zum Geschichtswerk des Philistos von
Syrakus, Diss. Freiburg im Breisgau 1965, 134.
40
E. Bachof, Timaios als Quelle Diodors für die Reden des dreizehnten und vierzehnten Buches, «Neue
Jahrbücher für Philologie und Paedagogik» CXXIX (1884), 445-478, 473-474, seguito da Stern,
Beiträge zu den Quellen der sicilischen Geschichte, cit., 12. Per i giudizi negativi di Timeo su Gilippo Plut.
Nic. 19, 5-6 = FGrH 566 F 100a; Plut. Nic. 28, 3-4 = FGrH 566 F 100b; Plut. Timol. 41, 4 = FGrH
566 F 100c; Laffi, La tradizione storiografica siracusana, cit., 30 nn. 46 e 47.
41
Pédech, Philistos et l‟expédition athénienne en Sicile, cit., 1726.
42
Com’è noto, la critica moderna è concorde nel riconoscere le fonti di Diodoro,
relativamente alla spedizione ateniese in Sicilia, in Eforo e Timeo, a loro volta mediatori di Filisto,
fonte principale per la storia siciliana, cfr. C. Bearzot, Filisto di Siracusa, in R. Vattuone (a cura di),
Storici greci d‟Occidente, Bologna 2002, 91-136, 111. Per l’episodio in questione G. Busolt, Plutarchs Nikias
und Philistos, «Hermes» XXXIV (1899), 280-297, 295 parla genericamente di «syrakusanische
Darstellung» espressione che in Griechische Geschichte, cit., III 2 (1904), 735 lo studioso rettificherà in
«philistisch-syrakusanischen Darstellung»; Filisto è ammesso con certezza da Laffi, La tradizione
storiografica siracusana, cit., 18-45, 20-21 n. 13, 27 n. 39 e da Sordi, La partecipazione dei Beoti, cit., 227.
43
Holm, Storia della Sicilia, cit., III (1901), 183-184 n. 1.
39
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Marco Vinci, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
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vita plutarchea di Nicia ci informa che al tempo della spedizione ateniese in Sicilia
i Siracusani fossero registrati κατὰ φυλάς su delle tavolette depositate nel
santuario suburbano di Zeus Olimpio (Plut. Nic. 14, 5-6): si trattava molto
probabilmente di un sistema per stabilire, fra l’altro, quanti avessero l’età prescritta
per l’arruolamento. Di φυλαί con funzioni militari ci parla Tucidide in relazione
agli avvenimenti del 414 a.C. (VI 100, 1). Da un passo delle Verrine di Cicerone (II
51, 126-127), apprendiamo che la scelta dell’amphipolos di Zeus Olimpio, sommo
magistrato dell’ordinamento timoleonteo (Diod. XVI 70, 6), era sorteggiato
annualmente cum suffragiis tres ex tribus generibus, espressione controversa che per alcuni
costituisce la dimostrazione della presenza delle tre tribù,44 per altri alluderebbe
alla scelta ristretta nell’ambito di tre nobili famiglie ereditarie di quel sacerdozio, in
quanto il termine latino genus sarebbe da accostare al greco γένος piuttosto che a
φυλή.45
È probabile però che il bacino di reclutamento si fosse con gli anni
notevolmente ampliato dato che i Siracusani nel 409 a.C. inviano a soccorso di
Selinunte e di Akragas, insidiate dalla minaccia cartaginese, στρατιῶται τρισχίλιοι
ἐπίλεκτοι (Diod. XIII 59, 1).
Con l’instaurazione della tirannide di Dionisio I, il corpo di seicento
ἐπίλεκτοι sembra permanere sotto altre forme se, come sostenne il Beloch,
dobbiamo intravedere nella guardia del corpo di seicento uomini che il tiranno si
fa assegnare nel 405 (Diod. XIII 95, 5) una «riorganizzazione del corpo scelto di
600 opliti».46 Nel 397 a.C., durante l’assedio di Mozia, un tal Archilo di Thurii è a
capo di un numero imprecisato di ἐπίλεκτοι artefici della sofferta espugnazione
della città (Diod. XIV 52, 5; 53, 4). Questa è l’ultima attestazione da parte delle
fonti delle truppe scelte siracusane, un tempo civica arma di difesa, ora strumento
esiziale nelle mani del tiranno.47
Marco Vinci
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
Ivi, 163 n. 11; Busolt, Griechische Geschichte cit., I (1893), 419 n. 2; G. De Sanctis, Scritti minori,
Roma 1976, IV, 468 n. 1; M. Sordi, Timoleonte, Palermo 1961, 117.
45
Beloch, L‟impero, cit., 15; Id. Griechische Geschichte, cit., III 1 (1922), 590; E. Ciccotti, Il processo di
Verre. Un capitolo di storia romana, Milano 1895, 68; E. Pais, Ricerche storiche e geografiche sull‟Italia antica,
Torino 1908, 343 n. 1; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell‟antica Sicilia, Catania 1911, 136 n. 4; Hüttl,
Verfassungsgeschichte von Syrakus, cit., 122-123; H.D. Westlake, Timoleon and the Reconstruction of Syracuse,
«CHJ» VII (1942), 73-100, 90.
46
Beloch, L‟impero, cit., 21.
47
È evidente che questa è l’ultima attestazione di epilektoi reclutati all’interno della compagine
civica siracusana; come abbiamo visto infatti Agatocle assolderà forze scelte tra le fila di reparti
mercenari (vd. supra, n. 24).
44
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ROBERTO SAMMARTANO
La formazione dell’esercito di Dionisio I.
Tra prassi, ideologia e propaganda
Sulla conquista del potere assoluto da parte di Dionisio I (406 a.C.), com’è
noto, l’unica narrazione pervenuta in forma completa è quella fornita da Diodoro
Siculo, che si caratterizza per i suoi toni fortemente critici nei confronti del
protagonista.1 Lo storico di Agirio sottolinea a più riprese come Dionisio, sin dai
suoi esordi sulla scena politica siracusana, abbia sfruttato la grave situazione di
pericolo determinata dall’offensiva punica in Sicilia per instaurare un sistema di
potere autocratico forte, di tipo militare, e modellato sull’esperienza delle più
antiche tirannidi del mondo greco. Il giovane seguace di Ermocrate, infatti, da
quando si era distinto per il suo valore in alcuni combattimenti contro i
Cartaginesi, aveva guadagnato grande reputazione presso i Siracusani e per questo
motivo «fu indotto a concepire grandi aspettative e congegnò ogni cosa per
diventare tiranno della sua patria».2
La fonte diodorea, che viene comunemente identificata con Timeo, 3 mette
in evidenza come il passo decisivo verso l’instaurazione della tirannide sia stato la
1
Diod. XIII 91-96. Per l’analisi puntuale di questi capitoli diodorei vd., in particolare, K.F.
Stroheker, Dionysios I. Gestalt und Geschichte des Tyrannen von Syrakus, Wiesbaden 1958, 42 ss.; M. Sordi
1990, L‟elezione di Dionigi, «Messana» I (1990), 17-26 = La dynasteia in Occidente (Studi su Dionigi I),
Padova 1992, 25-32; B. Caven, Dionysius I. War-Lord of Sicily, New Haven-London 1990, 56 ss.; S. PéréNoguès, Les enseignements d‟un récit: l‟exemple des débuts politiques de Denys l‟Ancien selon Diodore de Sicile,
«Pallas» LXXIX (2009), 105-118.
2
Diod. XIII 92, 1.
3
Sulla fonte diodorea sempre valide sembrano le considerazioni formulate a più riprese da
M. Sordi (vd., soprattutto, L‟elezione di Dionigi, cit., 17-26), secondo la quale gli accenti di aperta
condanna verso i metodi illegittimi seguiti dal tyrannos per salire al potere assoluto sono imputabili
all’uso diretto da parte di Diodoro dell’opera di Timeo, celebre per la sua ostilità quasi viscerale nei
confronti di Dionisio. Timeo, a sua volta, si sarebbe basato sul racconto dettagliato del Perì Dionysíou
di Filisto, di chiara tendenza filo-tirannica, ma lo avrebbe riscritto in chiave negativa, eliminandone
gli aspetti encomiastici e ribaltando il quadro positivo della dynasteia dionisiana tratteggiato dal
“teorico della tirannide”. La tesi è condivisa ora da C. Bearzot, Filisto di Siracusa, in R. Vattuone (a
cura di), Storici greci d‟Occidente, Bologna 2002, 91-136, 122, che sottolinea come nel resoconto
diodoreo «la versione di Filisto, con la sua ricchezza di documentazione, la sua competenza
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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creazione di un potente esercito personale, formato da mercenari e da cittadini
legati a Dionisio da obblighi di fedeltà. Per raggiungere tale obiettivo il seguace di
Ermocrate non solo faceva in modo di gettare continuamente discredito sugli altri
strateghi siracusani, ma cercava anche con tutti i mezzi possibili di crearsi un
seguito personale tra le truppe dell’esercito siracusano.
Dionisio si era segnalato in ben due occasioni per il maldestro tentativo di
procacciarsi il favore delle milizie siracusane con allettanti promesse di denaro. La
prima volta a Gela, quando utilizzò i beni confiscati ai ricchi aristocratici, fatti
condannare a morte dopo un giudizio sommario, per pagare gli stipendi dovuti ai
mercenari guidati dallo spartano Dexippo, che erano stati inviati dai Siracusani per
presidiare la città rodio-cretese.4 Nella stessa circostanza, Dionisio promise una
paga doppia ai 2.000 fanti e 400 cavalieri che lo avevano seguito fin lì, affinché
potesse procurarsi, come sottolinea Diodoro, «il favore sia dei soldati che erano a
Gela sia di quelli venuti con lui».5 Egli tuttavia non riuscì nell’intento, soprattutto
a causa del rifiuto di Dexippo di prendere parte alla sua impresa. Il condottiero
lacedemone, evidentemente, aveva già compreso la natura del piano di Dionisio, e
non è certo un caso che per indicare tale piano Diodoro usi qui il termine epibole,
allusivo forse ad un tentativo di colpo di stato a Siracusa (vd. infra).
La seconda occasione si presentò pochi giorni dopo, durante la concitata
assemblea in cui Dionisio venne nominato strategos autokrator. Approfittando del
torbido clima di accuse reciproche, della confusione generale e del crescente timore
per l’avanzata dell’esercito cartaginese in direzione di Gela, egli fece approvare in
tutta fretta, al termine della seduta, un decreto che autorizzava il raddoppio della
paga ai soldati, con la scusa che ciò serviva da sprone per le truppe in vista dello
scontro ormai inevitabile con i Punici.6 Appare chiaro che in realtà con questa
proposta, come non manca di osservare in chiave polemica la fonte diodorea,
Dionisio mirava a ottenere il consenso dell’esercito in vista di un colpo di mano a
Siracusa. Il tentativo, tuttavia, non andò subito in porto. Appena terminati i lavori
dell’assemblea i Siracusani si resero conto dell’errore commesso e in città cominciò
a formarsi subito un movimento di opposizione contro il neo-eletto strategos
autokrator. La reazione di Dionisio fu, come al solito, prontissima. Allo scopo di
politico-militare e la sua impostazione favorevole, traspare pure sotto i commenti ostili del
mediatore, che spesso palesano il loro carattere posticcio rispetto alla struttura di base del
racconto». Poco seguito ha riscosso invece la tesi proposta da L.J. Sanders, Dionysius of Syracuse and
Greek Tyranny, London-New York-Sydney 1987, secondo cui la fonte diretta di Diodoro sarebbe
Filisto, sia pure rielaborato da parte dello storico di Agirio. Sull’uso di Eforo da parte di Diodoro
per alcune sezioni della narrazione su Dionisio I vd., ora, G. Mafodda, L‟ascesa politica di Dionisio I nella
tradizione storiografica diodorea tra demagogia e strumentalizzazione del “pericolo cartaginese”, in D. Ambaglio (a
cura di), συγγραφή 7. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como 2005, 137149; T. Alfieri Tonini, Il destino del tiranno nell‟aneddotica diodorea su Dionisio I, «Aristonothos» II (2008),
93-108.
4
Diod. XIII 93, 1.
5
Diod. XIII 93, 1. Sull’episodio vd. ora P. Anello, Violenza e consenso nella Sicilia di fine V secolo
a.C., «Hormos» VIII (2006), 7-13, sp. 12, secondo la quale l’obiettivo reale di tutta l’operazione
geloa era quello di acquisire le ricchezze dei benestanti locali.
6
Diod. XIII 95, 1.
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Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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prevenire un repentino voltafaccia delle masse siracusane, egli spostò il teatro delle
operazioni a Leontini, ove fece trasferire un contingente militare non piccolo
composto dai più giovani fra i Siracusani atti alle armi.7 La scelta del luogo
rispondeva ad una duplice strategia: la città di origine calcidese era allora un
phrourion di pertinenza siracusana, ma si trovava ad una distanza tale da non essere
coinvolta direttamente nelle lotte tra le varie fazioni politiche a Siracusa. Per
questo motivo Dionisio sperava che i suoi avversari, tra cui in primo luogo gli
appartenenti alle classi agiate dei dynatoi, non lo seguissero subito fin lì, ma
attendessero ancora qualche giorno a Siracusa, forti della presenza in città di una
parte ancora cospicua dell’esercito regolare e di truppe mercenarie. Inoltre,
Leontinoi in quel momento accoglieva una massa consistente di stranieri e profughi
provenienti dalle città siceliote già cadute in mano punica, che erano ben disposti a
collaborare con Dionisio per i notevoli vantaggi personali che avrebbero ottenuto da
un eventuale rovesciamento della situazione politica a Siracusa.8 Non è escluso,
peraltro, che a Leontinoi fossero presenti anche alcuni gruppi di esuli siracusani,
che erano stati richiamati poco tempo prima dallo stesso Dionisio, con il pretesto
che la città aveva bisogno di uomini disposti a morire per la propria patria
piuttosto che di soldati provenienti dall’Italia e dal Peloponneso. 9 Il riferimento era
chiaramente alle truppe di Italioti e di Greci della madrepatria arruolate a suo
tempo da Dexippo, che con tutta evidenza sfuggivano al controllo diretto da parte
di Dionisio. Il rimpatrio degli esuli siracusani era considerato invece dallo stratega
come una possibile fonte di reclutamento per il suo esercito personale.
Il phrourion di Leontinoi, quindi, si presentava come un bacino di raccolta di
uomini di varia origine ed estrazione, tra i quali vi erano sia cittadini siracusani sia
stranieri che aspiravano a prendere la cittadinanza siracusana. Dionisio inscenò qui
uno scontro armato, per far credere che i suoi avversari politici avessero ordito una
congiura contro di lui; quindi, appena scese la notte, si rifugiò sull’acropoli
fingendo di organizzarvi la resistenza. Grazie a questo stratagemma la mattina
seguente persuase la folla lì riunita a concedergli una guardia del corpo personale di
seicento soldati, che gli avrebbe permesso finalmente di soddisfare le sua ambizioni
di potere. Così conclude il racconto Diodoro: «e si dice che ciò facesse ricalcando
Pisistrato di Atene: il quale pure, dicono, dopo essersi ferito da solo si presentò
all’assemblea come vittima d’un attentato, e con questo espediente ottenne dai
cittadini un corpo di guardia che usò per procurarsi la tirannide; anche Dionisio
7
Diod. XIII 95, 2.
Sulla particolare condizione di Leontinoi in questi anni vd. M. Giuffrida, Leontini, Catane e
Nasso dalla II spedizione ateniese al 403, in φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, IV,
Roma 1980, 1139-1156, 1143; S. Berger, Great and Small Poleis in Sicily: Syracuse and Leontinoi, «Historia»
XL (1991), 129-142, 137 ss.; R. Vattuone, „Metoikesis‟. Trapianti di popolazioni nella Sicilia greca fra VI e IV
sec. a.C., in M. Sordi (a cura di), Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, CISA XX, Milano 1994, 81113, 91 s.; G. Vanotti, Leontini nel V secolo, città di profughi, in M. Sordi (a cura di), Coercizione e mobilità
umana nel mondo antico, CISA XXII, Milano 1995, 89-106, 102-105; M. Giuffrida, I Dionisî e l‟area calcidese,
in N. Bonacasa - L. Braccesi - E. De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî. Atti della settimana di
studio (Agrigento, 24-28 febbraio 1999), Roma 2002, 417-426, 421.
9
Diod. XIII 92, 2.
8
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78
Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
| 70
allora, ingannando il popolo con una macchinazione quasi identica, agiva in
direzione della tirannide».10
La versione dei fatti offerta da Timeo/Diodoro mira, in definitiva, a
presentare l’episodio di Leontinoi come l’atto culminante di una lunga serie di
tentativi fatti da Dionisio per creare la base militare del proprio potere assoluto.
Sulla scia di altre esperienze tiranniche del mondo greco, Dionisio aveva utilizzato
mezzi ingannevoli e illegittimi per trasformare la carica costituzionale di strategos
autokrator, assegnatagli con regolare delibera dell’assemblea, in quella di tyrannos, che
egli stesso si attribuì quando ormai aveva il pieno controllo delle forze militari a
Siracusa (XIII 96, 1).
Sullo stesso episodio di Leontinoi, tuttavia, dovevano circolare altre
versioni, certamente più favorevoli a Dionisio, che cercavano di porre l’accento
sulla legittimità delle decisioni prese in quel frangente. Ne abbiamo una traccia, sia
pur labile, in una celebre notizia attinta da Cicerone a Filisto, che com’è noto
aveva fornito nella sua opera storiografica un’immagine positiva della tirannide
dionisiana.11
Racconta Cicerone che Dionisio, mentre attraversava un fiume nei pressi di
Leontinoi, si trovò costretto ad abbandonare il suo cavallo poiché era stato
travolto dalle acque del fiume; ma quando si era ormai allontanato, sentì un nitrito
e vide il cavallo avvicinarsi con uno sciame d’api attorno alla criniera; di lì a poco
Dionisio cominciò a regnare (paucis post diebus regnare coeperit).12 Lo stesso evento è
riferito da Eliano, con l’aggiunta di alcuni particolari che spiegano il messaggio
contenuto nel prodigio: l’apparizione miracolosa delle api venne interpretato dagli
indovini siculi denominati Galeotai come un segno premonitore del potere regale
che Dionisio avrebbe conseguito dopo poco tempo (ὅτι ταῦτα μοναρχίαν δηλοῖ).13
Come ho già cercato di dimostrare in un’altra sede, dietro la densa
simbologia del prodigio di Leontinoi si possono scorgere i termini della
10
Diod. XIII 95, 2.
Tra i numerosi studi sulla ideologia filo-monarchica di Filisto si segnalano soprattutto,
tra i più recenti, M. Sordi, Filisto e la propaganda dionisiana, in Purposes of history. Studies in Greek
Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C. Proceedings of the International Colloquium (Leuven,
24-26 may 1988), Studia Hellenistica XXX, Lovanii, 1990 159-171= La dynasteia in Occidente, cit., 93104; G. Vanotti, Filisto teorico della tirannide, in L. Braccesi (a cura di), Hesperìa, 4. Studi sulla Grecità di
Occidente, Roma 1994, 75-82; Bearzot, Filisto di Siracusa, cit., 91-136; K. Meister, Filisto e la tirannide, in
Bonacasa - Braccesi - De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî, cit., 453-462; M. Sordi, Dionigi I e gli
intellettuali: tirannide-regalità nell‟interpretazione delle fonti, in E. Luppino Manes (a cura di), Storiografia e regalità
nel mondo greco. Colloquio interdisciplinare (Chieti, 17-19 gennaio 2002), Alessandria 2003, 267-277.
12
Philist. apud Cic. div. I 73 = FGrHist 556, F 58. Allo stesso storico siracusano risale anche
il sintetico racconto di Plinio il Vecchio (nat. VIII 64; 158), che però, a differenza di quanto
riportato da Cicerone, qualifica come tirannide il potere ottenuto da Dionisio subito dopo
l’accaduto. Va notato che Felix Jacoby riporta nella raccolta dei frammenti di Filisto solo il brano
di Cicerone, dandone per scontata la perfetta corrispondenza con l’estratto di Plinio. In realtà, le
pur lievi divergenze fra le due citazioni possono essere spiegate, a mio avviso, con l’uso indiretto di
Filisto da parte di Plinio.
13
Aelian. var. XII 46.
11
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78
Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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rappresentazione offerta da Filisto sul nuovo sistema di governo instaurato da
Dionisio.14
Nel mondo antico molteplici sono le valenze simboliche e religiose legate
all’immagine dell’ape.15 Una delle più note proiezioni semantiche collega questo
insetto alla sfera del potere regale, in virtù della spontanea e quasi “naturale”
sovrapposizione fra la figura dell’ape regina, che sta al vertice dell’organizzazione
interna dell’alveare, paragonabile ad una società strutturata in senso rigidamente
piramidale, e il modello politico della monarchia di stampo assolutistico.16 La
comunità dell’alveare incarna il modello di una società perfetta, strutturata in
maniera armonica nelle sue articolazioni interne e organizzata nel complesso
secondo il sistema razionale tipico di un esercito o di una comunità statale. Le api
infatti «rappresentano un esempio straordinario ed ineguagliabile di società
comunitaria in cui l’unica priorità conosciuta risiede esclusivamente nel bene
comune».17 Ma al contempo è un tipo di società che non può funzionare senza la
figura centrale dell’ape “regina”, che nell’ottica maschilista dei Greci diventa il “re
delle api”. Tra il sovrano e la comunità dell’alveare si instaura sempre un rapporto
non soltanto molto stretto, ma anche ben equilibrato tra le due parti. Se è
indubbio che al re delle api «si deve l’esistenza stessa della collettività»,18 è pur vero
che la schiera dei sudditi svolge un ruolo di non secondaria importanza ai fini del
mantenimento e della difesa del potere del sovrano.
Lo sciame di api rappresenta, in sostanza, il modello perfetto di una
monarchia assoluta di tipo militare, imperniata sulla disciplina e sull’ordine delle
truppe regolari. È quanto viene indicato esplicitamente da Varrone,19 e soprattutto
da Plinio il Vecchio, il quale paragona l’apparato della difesa dell’alveare al ben
regolato sistema delle guardie more castrorum.20 Afferma a tal proposito Plinio,
utilizzando una terminologia desunta non a caso dal lessico militare, che «una
volta stretta attorno ad un capo (duce prenso) tutta la schiera (agmen) resta compatta;
ma, se lo perde, essa si fraziona, emigrando verso altri capi. In nessun caso possono
stare senza re. Tuttavia, li uccidono a malincuore quando ce ne sono molti, e
preferiscono distruggere le celle di quelli che nascono, se disperano del raccolto».21
14
R. Sammartano, Il satiro e le api. Le profezie dei Galeotai su Dionisio nell‟opera di Filisto, in M.
Caccamo Caltabiano - C. Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme,
prassi e simboli del potere politico nel mondo greco e romano. Atti delle giornate seminariali in onore di S.N.
Consolo Langher (Messina, 17-19 dicembre 2007), Messina 2010, 165-191.
15
Sulla ricca e complessa polisemia delle api e del miele nel mondo antico, vd., tra tutti, M.
Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell‟anima, Roma 1994, 205-235; F. Roscalla,
Presenze simboliche dell‟ape nella Grecia antica, Firenze 1998; M. Giuman, Melissa. Archeologia delle api e del miele
nella Grecia antica, Roma 2008.
16
Vd. soprattutto D. Peil, Untersuchungen zur Staats und Herrschaftsmetaphorik in literarischen
Zeugnissen von der Antike bis zur Gegenwart, München 1983, 167 ss.; Roscalla, Presenze simboliche dell‟ape nella
Grecia antica, cit., 15 ss.; e Giuman, Melissa, cit., 17 ss.
17
Giuman, Melissa, cit., 20.
18
Giuman, Melissa, cit., 20.
19
Varr. rust. III 16, 9.
20
Plin. nat. XI 20; 10.
21
Plin. nat. XI 56; 18.
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Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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La “scelta” del capo da seguire appare dunque la condizione necessaria per il
benessere dell’intera collettività. Lo sciame, infatti, in caso di perdita della propria
guida, è costretto ad andare subito in cerca di una valida alternativa per la propria
sopravvivenza. Ma non solo. Tra il re delle api e lo sciame si stabilisce un “patto”
di reciproca assistenza: il gruppo si sottopone sua sponte alla guida di un capo, ma
allo stesso tempo deve assolvere al ruolo non secondario di difesa del sovrano,
eliminando tutti quei componenti dell’alveare che possano aspirare a posizioni di
comando e minacciare il potere centrale, riconosciuto da tutti come l’unico potere
legittimo. In poche parole, gli sciami d’api hanno il delicato compito di indicare
chi è degno del potere e chi invece non è predestinato a ricoprire ruoli di
comando.
Per tornare dunque al prodigio di Leontinoi, la scena delle api che salvano
il cavallo di Dionisio da una morte ormai certa e lo riaccompagnano fino al
proprio padrone (secutum vestigia domini examine apium iubae inhaerente) costituisce una
calzante metafora del pieno consenso accordato dall’esercito e dall’intera massa dei
sudditi verso il potere assoluto che si stava per affermare a Siracusa. I segni
comparsi in occasione del miracoloso salvataggio avrebbero indicato, nel messaggio
lanciato da Filisto, che nella fase decisiva del passaggio dalla strategia autocratica al
governo monocratico il favore mostrato dagli dei passava attraverso l’investitura
del popolo siracusano, che individuava in Dionisio la guida più adatta a ricoprire
ruoli di comando legittimandone così il nuovo tipo di potere assoluto.22
Alla rappresentazione ideologica in chiave positiva del potere dionisiano
doveva corrispondere nell’opera di Filisto anche una versione dell’episodio di
Leontinoi che tendesse a dimostrare la piena legittimità “costituzionale” della
carica “monarchica” assegnata in quella circostanza a Dionisio. Le decisioni prese
dalla folla riunita nel phrourion siracusano erano infatti al centro di una controversia
storiografica, che riguardava in primo luogo la validità giuridica della guardia del
corpo assegnata a Dionisio.
22
Resta però da chiarire come mai nel brano di Filisto trasmesso da Plinio il potere
conseguito da Dionisio viene definito come una tirannide (eoque ostento tyrannidem a Dionysio occupatam),
mentre Cicerone adopera i termini regnare e regnum, equivalenti al concetto di “monarchia” presente
nel passo di Eliano. È verosimile che l’oratore abbia letto direttamente e ammirato l’opera dello
storico siracusano, da lui definito come et doctum hominem et diligentem et aequalem temporum illorum (Cic. div.
I 39 = FGrHist 556, F 57). Secondo la convincente ipotesi di Sanders, Cicerone ha avuto modo di
cogliere nel Perì Dionysíou notevoli punti di contatto con le proprie idee sulla figura esemplare del
princeps, al punto da adottare proprio il ritratto di Dionisio elaborato da Filisto come uno dei
modelli principali per la stesura di pagine famose del De Republica dedicate alla forma ideale della
monarchia (L. Sanders, Cicero and Philistus, «Kokalos» XXXII (1986), 3-17). Di contro, Plinio non
sembra avere una grande dimestichezza con l’opera di Filisto, dal momento che lo cita, oltre al
passo preso in considerazione, in una sola occasione certa, allorché accenna alla notizia relativa al
nome Pyrrhum dato al cane del tiranno Gelone (nat. VIII 144 = FGrHist 556, F 48). È invece alquanto
probabile che le notizie di derivazione filistiana siano giunte a Plinio per il tramite di altre fonti
intermedie, tra cui in primo luogo l’opera di Timeo, ben nota all’autore latino. Se si accetta
l’ipotesi della ricezione della tradizione filistiana attraverso il filtro timaico, allora si può
comprendere come mai la caratterizzazione originaria del potere dionisiano in termini di legittima
monarchia e di regnum slitti nel dettato pliniano su un piano del tutto negativo.
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Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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Da alcune indicazioni di Platone23 e di Aristotele24 si ricava che la
concessione di un corpo di phylakes ai magistrati che erano ritenuti in pericolo di
vita era una prassi abbastanza frequente nelle poleis greche, anche se veniva sfruttata
molto spesso dai demagoghi per accedere alla tirannide. I problemi sorgevano
quando non veniva rispettato il numero massimo di guardie concesse
dall’assemblea popolare, come testimonia proprio il caso di Pisistrato addotto a
paragone da Diodoro. Le fonti principali sulla tirannide di Pisistrato (Erodoto,
Aristotele e lo stesso Diodoro) non specificano quanti fossero i phylakes (korynephoroi)
accordati dagli Ateniesi al capo dei diacrii, ma sappiamo grazie ad un passo della
Vita di Solone di Plutarco che l’ekklesia approvò la proposta di un tale Aristone di
concedere a Pisistrato soltanto cinquanta mazzieri;25 la delibera, però, venne di
fatto disattesa nel momento in cui, come riferisce Plutarco, «il popolo, approvato
il decreto, non sottilizzava più nei confronti di Pisistrato neppure circa il numero
dei mazzieri, ma tollerava che ne mantenesse e radunasse apertamente quanti
voleva, finché egli occupò l’acropoli».26 Secondo una divergente notizia di
Polieno27 e di uno scolio a Platone28 i mazzieri utilizzati da Pisistrato erano in
realtà trecento, mentre stando a Diogene Laerzio29 arrivavano anche a
quattrocento. Queste diverse indicazioni difficilmente possono essere considerate
solo il frutto di un’esagerazione intervenuta nella tradizione,30 ma corrispondono
più probabilmente alla cifra delle guardie del corpo reclutate di fatto da Pisistrato
in contravvenzione al limite stabilito dal decreto di Aristone.
Tutto lascia pensare che un problema analogo sia sorto appunto in merito
alla decisione votata a Leontinoi a favore di Dionisio. Afferma infatti lo storico di
Agirio che lo strategos autokrator, non appena venne autorizzato a dotarsi di una
guardia del corpo di seicento soldati, cominciò a scegliere, tra le persone più
“bisognose e audaci”, quelle più adatte a partecipare al suo esercito personale, e alla
fine raggiunse una cifra superiore alle mille unità. Le ragioni che avrebbero spinto
Dionisio a non tenere conto del limite legale di phylakes si possono dedurre dallo
stesso racconto diodoreo. Senza l’ampliamento del numero di guardie del corpo,
infatti, non sarebbe stato possibile fronteggiare la prevedibile reazione della
fazione oligarchica guidata da Dafneo e Demarco, che poteva contare ancora
sull’appoggio di una parte dell’esercito regolare cittadino e di alcune frange
dell’esercito impegnate in quel momento fuori dai confini del territorio siracusano.
Inoltre, occorreva fare i conti ancora con i 1.500 (o forse più) mercenari stanziati a
Gela sotto la guida dello spartano Dexippo.
23
Plato rep. VIII 566 b.
Aristot. rhet. I 1357 b, 30-36.
25
Plut. Sol. 30, 3.
26
Plut. Sol. 30, 5.
27
Polyaen. I 21, 3.
28
Schol. ad Plato rep. 566 b.
29
Diog. Laert. I 66.
30
Come pensa invece L. Piccirilli, in M. Manfredini - L. Piccirilli (a cura di), Plutarco, La vita
di Solone, Milano 1977, 274.
24
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Che Dexippo ricoprisse un ruolo determinante in questo frangente si può
evincere da un episodio riferito da Diodoro in XIII 93, 4. Quando Dionisio si
trovava a Gela, prima della sua nomina a strategos autokrator, aveva invitato Dexippo
a partecipare «alla sua impresa», ricevendo però un netto rifiuto da parte dello
Spartano. Dietro questa espressione è forse possibile vedere il progetto di un colpo
di stato a Siracusa, come suggerisce il termine epibole adoperato da Diodoro.31 La
richiesta di collaborazione avanzata da Dionisio denota certamente che Dexippo
poteva avere un peso notevole in un’eventuale azione tesa al rovesciamento del
governo repubblicano a Siracusa. Pertanto, il rifiuto opposto dallo Spartano non
può essere visto semplicemente come un mancato accordo per questioni di denaro,
tanto più che Dionisio si era già premurato di pagare la guarnigione stanziata a
Gela mediante le confische dei beni degli aristocratici fatti giustiziare dal demos
geloo. Piuttosto, tale diniego acquista una più precisa coloritura politica, se si
ritiene, secondo la convincente ricostruzione di S. Péré-Noguès, che Dexippo fosse
rimasto sempre allineato alle posizioni dell’oligarchia siracusana, vuoi per
convinzioni ideologiche personali, orientate più verso un regime oligarchico di
tipo spartiata che verso un governo autoritario di stampo tirannico, vuoi per una
tenace fedeltà, per ragioni di opportunismo, al partito guidato da Dafneo e
Demarco, ancora molto influente durante le vicende di Gela.32 In teoria, Dionisio,
subito dopo la sua elezione a strategos autokrator, avrebbe avuto tutte le carte in regola
per richiamare a Siracusa Dexippo, ma sapeva bene che così facendo avrebbe
rischiato di consegnare i mercenari nelle mani dell’opposizione oligarchica, data la
situazione politica ancora fluida ed incerta all’interno di Siracusa.
Fatto sta che soltanto dopo aver aggiunto al piccolo esercito di Leontinoi
una guardia del corpo superiore alle mille unità Dionisio si trovò finalmente nelle
condizioni di rispedire Dexippo a Sparta, nel timore che questi potesse «restituire
la libertà ai Siracusani». Fece seguito subito dopo il tentativo di attrarre i
mercenari di Gela dalla sua parte con le solite lusinghe, a dimostrazione del ruolo
determinante svolto da quei 1.500 xenoi presenti a Gela, aumentati forse nel
frattempo a più di duemila unità. Questi ultimi, del resto, una volta privati della
guida dello Spartano, non avevano più motivo di passare dalla parte di Dafneo, il
quale, ormai quasi del tutto isolato, venne prontamente giustiziato.
Che la questione del numero dei phylakes accordati a Dionisio fosse
considerata di cruciale importanza per le sorti di Siracusa viene confermato da un
interessante passo della Politica di Aristotele, ove si trova un curioso particolare
dello stesso episodio ambientato a Leontini: quando Dionisio avanzò la richiesta di
una guardia del corpo uno fra i presenti consigliò i Siracusani di concedergliela in
misura tale che la milizia personale di Dionisio avesse una consistenza «superiore a
quella dei cittadini presi singolarmente o riuniti in gruppi, ma inferiore rispetto a
quella della massa» (εἶναι δὲ τοσαύτην τὴν ἰσχὺν ὥστε ἑκάστου μὲν καὶ ἑνὸς καὶ
31
È quanto ipotizza in maniera convincente Sordi, L‟elezione di Dionigi, cit., 27-28.
S. Péré-Nogués, Un mercenaire grec en Sicile (406-405): Dexippe le Lacédémonien, «DHA» XXIV, 2
(1998), 7-24, sp. 16 s.
32
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συμπλειόνων κρείττω τοῦ δὲ πλήθους ἥττω).33 Come sottolinea Aristotele, questa
proposta corrisponde alla prassi seguita normalmente dagli archaioi quando
concedevano la guardia del corpo ad un cittadino scelto come guida della città,
indicato come esimneta o tiranno. Lo stesso criterio doveva essere adottato,
secondo il parere del filosofo, per stabilire il numero di soldati da assegnare ad un
basileus affinché questi potesse difendere le leggi patrie. La notizia di Aristotele
viene solitamente messa in relazione con il passo di Diodoro sulla delibera presa a
Leontinoi in merito al numero di guardie concesso a Dionisio. Secondo lo
Stroheker, la proposta avanzata dall’anonimo personaggio può coincidere grosso
modo con la cifra di seicento uomini accordata allo stratega plenipotenziario, in
quanto i cittadini siracusani allora presenti a Leontinoi non raggiungevano tale
cifra.34 Sembra tuttavia più plausibile che l’indicazione, volutamente vaga e
generica, della consistenza della guardia del corpo si accordi meglio con un numero
più elevato di phylakes, e più vicino al numero degli uomini effettivamente reclutati
da Dionisio (più di mille, secondo Diodoro), piuttosto che con la cifra netta di
seicento guardie. Dal testo aristotelico non si evince con chiarezza, in effetti, a
quale numero si riferisse il proponente per indicare il limite minimo delle guardie
del corpo: si tratta dei pochissimi cittadini siracusani allora presenti a Leontinoi,
oppure dell’intera comunità siracusana (come lascerebbe pensare il contesto della
notizia di Aristotele)? E inoltre, cosa intendeva esattamente il proponente con il
termine plethos usato per indicare il limite massimo delle guardie consentite:
alludeva all’insieme degli abitanti di Siracusa, oppure alla grande massa riunitasi a
Leontinoi, comprensiva di esuli, stranieri oltre che di una parte dei Siracusani
(plethos è il termine che non a caso ritroviamo in Diodoro, a proposito della folla
presente nel phrourion al momento dell’arrivo di Dionisio)? È senz’altro più
economico pensare che la proposta sia stata presentata in termini appositamente
ambigui (all’interno di una situazione già di per sé poco chiara) sì da permettere a
Dionisio un’arbitraria applicazione della delibera e dunque una maggiore libertà
nella scelta del numero dei phylakes.
Se questa lettura è corretta, se ne deduce che la notizia di Aristotele risale ad
una versione dei fatti alternativa rispetto alla ostile tradizione diodorea, e protesa a
difendere il tiranno dalle accuse mosse dai contemporanei di aver superato in
maniera illegittima ogni limite consentito per la formazione del suo corpo di
guardia.
Si ritiene generalmente che la fonte diretta di questa informazione, così
come degli altri exempla riguardanti la tirannide dionisiana presenti nella Politica di
Aristotele, sia da individuare in Eforo di Cuma.35 Ciò nonostante, come ha
ribadito di recente R. Vattuone, non è irragionevole vedere in Eforo il tramite di
informazioni risalenti in ultima analisi a Filisto, data la stretta corrispondenza tra
33
Aristot. pol. 1286 b, 34-40.
Stroheker, Dionysios I, cit., 151 ss.
35
Sul problema, in generale, dell’uso di Eforo da parte di Aristotele vd., da ultimo, M.
Moggi, Eforo e Aristotele, in Eforo di Cuma nella storia della storiografia greca. Incontro internazionale di studi
(Fisciano-Salerno, 10-12 dicembre 2008), in c.d.s.
34
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le sequenze storiografiche di Aristotele sulla tirannide di Dionisio e le tematiche
presenti nell’opera filistiana.36 È verosimile infatti che per gli argomenti relativi
alla signoria dionisiana Eforo si sia basato direttamente sull’opera di Filisto, da lui
certamente letta e forse anche apprezzata, come attestano, oltre ad una
testimonianza assai controversa offerta dalla Vita di Dione di Plutarco,37 anche altre
sezioni dell’opera diodorea meno ostili nei confronti di Dionisio, che secondo
l’opinione prevalente derivano appunto da Filisto per il tramite Eforo. 38
Ma come sarebbe avvenuta in concreto, secondo Filisto, l’investitura
popolare del potere di Dionisio? La risposta può essere fornita dalla lettura in
controluce del testo di Diodoro. Riconsideriamo nuovamente il passo. Lo storico
di Agirio afferma (XIII 95, 5) che grazie allo stratagemma dell’aggressione simulata
nella chora leontinese, Dionisio riuscì a convincere la massa (plethos) raccoltasi nel
phrourion che i suoi oppositori stavano organizzando una congiura per eliminarlo, e
in questo modo persuase la folla (ochlos) ad assegnarli una guardia del corpo di
seicento soldati scelti. Nel testo, a ben vedere, non si dice con chiarezza da chi
fosse composto esattamente il plethos riunitosi a Leontinoi nella mattina successiva
alla sceneggiata dell’agguato. Secondo lo Stroheker Dionisio si sarebbe assicurato
in questa circostanza il favore dei Siracusani più giovani ed abili con le armi, e la
folla (ochlos) che approvò l’assegnazione della guardia del corpo sarebbe stata una
sorta di rappresentanza popolare avente la funzione e le competenze dell’assemblea
dell’esercito.39 Per la Sordi, invece, quella tenutasi a Leontini sarebbe stata
un’assemblea costituita formalmente da alleati e da mercenari, ma non da
Siracusani, durante la quale sarebbe stato conferito a Dionisio un potere di tipo
monarchico, distinto dal titolo di strategos autokrator, e assimilato piuttosto ad una
basileia di carattere territoriale, corrispondente alla carica di archon tes Sikelias con cui
il dinasta verrà onorato più tardi in tre decreti ateniesi.40
Comunque sia, è indubbio che la fonte di Diodoro, data la sua profonda
avversione a Dionisio, ha voluto sottolineare il carattere illegittimo dei
provvedimenti presi nella circostanza, in quanto deliberati non dall’intera
36
R. Vattuone, La necessità del tiranno. Tendenze della storiografia greca di IV sec. a.C. sulla dinastia
dionigiana, in Bonacasa - Braccesi - De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî, cit., 533-553, 544.
37
Plut. Dion 36, 3. Su questo passo, tuttavia, è in corso un vivace dibattito, incentrato
sull’identificazione dell’autore che, nel giudizio di Plutarco, sarebbe stato capace «di ammantare di
motivi dignitosi le azioni ingiuste e le peggiori abitudini, e a trovare parole decorose»: vd., da
ultimi, R. Vattuone, Eforo e Filisto (apud Plut. Dio 36.3), in D. Ambaglio (a cura di), συγγραφή 2.
Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como 2000, 65-71; Vattuone, La necessità del
tiranno, cit., 538-544, il quale ritiene che il soggetto della frase plutarchea sia Filisto; mentre, C.
Bearzot, Ancora sul giudizio di Eforo a proposito di Filisto (Plut. Dion XXXVI, 3 = FGrHist 70 F 220), in D.
Ambaglio (a cura di), συγγραφή 4. Materiali e appunti per lo studio della storia e della letteratura antica, Como
2002, 125-134 (ed ivi discussione della bibliografia precedente), sostiene che Plutarco si riferisca qui
a Eforo. Nessun dubbio permane invece sull’atteggiamento favorevole mostrato da Eforo nei
confronti di Filisto: vd., da ultima, Bearzot, Ancora sul giudizio di Eforo a proposito di Filisto, cit., 126 s.
38
Cfr. Bearzot, Filisto di Siracusa, cit., 119-122.
39
Stroheker, Dionysios I, cit., 151 ss.
40
Sordi, L‟elezione di Dionigi, cit., 31 s. Per i decreti onorifici attici: Tod, II, 1948, n. 108 (24
ss.), n. 133 (102 ss.), n. 136 (107 ss.).
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Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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cittadinanza siracusana bensì da un’accozzaglia di persone di varia origine che
erano prive dei necessari diritti politici; una moltitudine che poteva raggiungere
numeri assai elevati, tant’è che viene indicata con i termini generici plethos e ochlos,
ma che non aveva i requisiti politici per poter essere equiparata al corpo civico
siracusano. A stretto rigore, non è escluso che di questa moltitudine facessero
parte, oltre ai soldati di età inferiore ai 40 anni, anche gruppi di cittadini
appartenenti ai ceti più bassi di Siracusa, spostatisi nel frattempo a Leontinoi nella
speranza che il colpo di mano dello strategοs autokrator potesse migliorare la loro
posizione economica e sociale. Lo suggerisce lo stesso Diodoro qualche riga più
avanti, laddove afferma che tra i più recenti sostenitori di Dionisio vi erano, in
particolare, τοὺς χρημάτων μὲν ἐνδεεῖς,41 i quali si unirono ai mercenari presenti
a Siracusa e a quelli richiamati da Gela, nonché alle torme di «esuli ed empi
radunati da ogni parte, sui quali Dionisio sperava di costituire la base più salda
della tirannide»,42perché cercavano di riscattarsi dalla loro condizione precaria
passando nelle fila dell’esercito dionisiano. La presenza di questi gruppi di
Siracusani autorizzava dunque lo strategos autokrator a dare una veste di legalità
all’assemblea radunata nel phrourion. Era questo il passo decisivo per la formazione
di un vasto e temibile esercito legato direttamente a Dionisio, di fronte al quale gli
altri Siracusani, rimasti in città, non poterono più opporre alcuna resistenza: essi
erano infatti minacciati all’interno delle mura dalle armi dei mercenari e all’esterno
dall’esercito di Imilcone, sicché furono costretti ad accettare, obtorto collo, la
proclamazione di Dionisio a sovrano assoluto (tyrannos, nel testo diodoreo).
Anche in questo caso, il racconto originario di Filisto traspare attraverso la
versione “riveduta e corretta” del mediatore Timeo. Tutto lascia pensare, infatti,
che lo storico “amico della tirannide” 43 abbia voluto ribaltare del tutto le accuse
lanciate dagli avversari politici verso i metodi ingannevoli e coercitivi adottati da
Dionisio per estorcere ai Siracusani il riconoscimento formale della sua signoria.44
Le basi di tale potere erano costituite, nella visione di Filisto, non da un manipolo
di persone prive di diritti e marginali rispetto al corpo civico siracusano, come
vuol far intendere il commento ostile confluito nel dettato diodoreo, ma piuttosto
da masse cospicue di cittadini siracusani di pieno diritto (celate forse dietro i
41
Diod. XIII 96, 1.
Diod. XIII 96, 2.
43
Secondo la formula adoperata da Nep. Dion 3, 1: […] Philistum […] hominem amicum non magis
tyranno quam tyrannidi, sulla quale vd., in particolare, Vanotti, Filisto teorico della tirannide, cit., 75-82; e,
ora, Meister, Filisto e la tirannide, cit., 453 ss.
44
È un dato di fatto, come osserva a ragione Stroheker, Dionysios I, cit., 150, che le fonti non
fanno mai riferimento ad una legittimazione popolare dell’usurpazione del potere da parte di
Dionisio. Secondo quanto afferma F. Sartori, Sulla δυναζηεια di Dionisio il Vecchio nell‟opera diodorea,
«Critica storica» V, 1 (1966), 58: «l’illegalità cominciò quando lo stratego autocratore si circondò di
una guardia del corpo e ottenne, con mezzi non sempre leciti, la conferma pluriennale e poi
permanente di tale magistratura». Sul problema della legittimità del potere dionisiano vd., ora,
Péré-Nogués, Les enseignements d‟un récit, cit., 105 ss., la cui ricostruzione delle vicende legate
all’elezione di Dionisio, tuttavia, si discosta molto dal quadro offerto dalle fonti letterarie.
42
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78
Roberto Sammartano, La formazione dell‟esercito di Dioniso I. Tra prassi, ideologia e propaganda
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termini generici plethos e ochlos presenti nel testo diodoreo?),45 masse che peraltro
venivano a costituire il nerbo dell’esercito dionisiano. Ce n’era abbastanza per
affermare con orgoglio che lo “sciame” rappresentato dall’esercito vedeva
nell’investitura di Dionisio a sovrano incontrastato della scena politica siracusana
l’unica via di salvezza per le sorti della città minacciata dall’esercito punico.
Roberto Sammartano
Dipartimento di Beni Culturali
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, 90128
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
45
A tal proposito può sembrare suggestivo (se non lo si vuole intendere come una semplice
coincidenza) il fatto che il termine plethos venga adoperato anche da Eliano (var. XII 46) in
riferimento allo sciame d’api che avrebbe circondato la mano di Dionisio durante il tentativo di
salvataggio del cavallo.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2 2010, pp. 67-78
LUISA PRANDI
I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
Il tema del pagamento dei debiti ed il tema delle provvidenze per i figli dei
soldati macedoni partecipanti alla spedizione asiatica di Alessandro Magno hanno a
prima vista in comune il fatto che si ricollegano a grandi distribuzioni di denaro da
parte del re. Tuttavia, poiché non si tratta di elargizioni necessarie che ogni
comandante dovrebbe prevedere ma di iniziative che derivano da scelte particolari
del re, essi ci consentono di esplorare i caratteri del rapporto fra l’egemone e le sue
truppe, fra il singolo che detiene il potere ed una massa di persone che da lui
dipendono.
Occorre ricordare sempre quanto sia difficile indagare e conoscere le reali
intenzioni di Alessandro, data la situazione in cui versa per noi l’Alessandrografia:
le opere degli storici di prima generazione in frammenti, poi una soluzione di
continuità e infine, fra il I sec. a.C. e il II d.C. un gruppo di autori dipendenti da
quelli ma influenzati, inevitabilmente, sia dall’elaborazione multiforme della
tradizione su un personaggio così fuori dagli schemi, sia dal contesto politicoculturale in cui essi vivevano. Farò ancora riferimento a questi problemi, quando
mi parrà necessario nel considerare le singole testimonianze, perché la decisione di
Alessandro di estinguere i debiti dei soldati e quella di emanare provvidenze per i
figli di sangue misto sono esemplari anche dal punto di vista metodologico.
1. Nel 324 le nostre fonti collocano la decisione di procedere ad un
censimento dei debiti contratti dai soldati e alla loro estinzione con denaro da lui
appositamente destinato. Gli autori però non sono concordi circa l’occasione
precisa.
Arriano (VII 5, 1-3), Plutarco (Alex. 70, 3) e Trogo/Giustino (XII 11, 1-3) ne
parlano in connessione con la cerimonia delle nozze multiple fra i membri del suo
stato maggiore e nobili persiane, nonché con i festeggiamenti per quelle di massa
già avvenute fra i soldati e donne asiatiche,1 collocati a Susa dai primi due e
1
Che si trattasse di una regolarizzazione di unioni di fatto è opinione diffusa, cfr. fra gli
altri N.G.L. Hammond, The Genius of Alexander the Great, London 1997, 188; J.C. Yardley - W.
Heckel (Eds.), Justin. Epitome of the Philippic History of Pompeius Trogus. Books 11-12: Alexander the Great,
Oxford 1997, 271; E. Fredricksmeyer, Alexander the great and the Kingship of Asia, in A.B. Bosworth -
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ISSN 2036-587X
Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
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genericamente nell’area di Babilonia dal terzo; 2 invece Diodoro (XVII 109, 1-2) e
Curzio (X 2, 9-11) la collocano sempre a Susa ma la collegano con il momento, di
poco successivo, del congedo dei Macedoni inabili al servizio militare che sfociò in
una sorta di ammutinamento. Questa diversità si riflette sull’indicazione dei
destinatari del gesto, che per Arriano e Trogo/Giustino sono genericamente i
soldati della spedizione ma per Diodoro e Curzio sono il gruppo dei veterani;
Plutarco ha un’espressione apparentemente ambigua, perché nel contesto dei
lussuosi festeggiamenti organizzati dal re per le nozze parla semplicemente di
“debitori”. 3
Anche a proposito della somma impegnata vi è una discrepanza: 10mila
talenti per Diodoro e 10mila talenti con una rimanenza di 130 per Plutarco e
Curzio, mentre Arriano e Trogo/Giustino parlano di 20mila talenti.
Quanto alla reazione dei soldati indebitati, se si escludono Diodoro e
Trogo/Giustino che sono assai sintetici e non conservano particolari, abbiamo tre
racconti in Arriano, Curzio e Plutarco che occorre considerare con più attenzione
perché non sono omogenei e presentano un unico dato comune: che ad un certo
punto Alessandro fece disporre per l’accampamento delle tavole per la
distribuzione del denaro.
Arriano infatti offre una narrazione articolata nella quale, all’offerta del re
di ripianare i debiti previa registrazione di nomi e di somme, corrisponde una
diffusa sfiducia da parte dei soldati ed una forte renitenza al controllo; Alessandro
è deluso e chiama in causa il carisma del sovrano che deve dire il vero e per questo
deve essere creduto dai sudditi;4 soltanto allorché provvede comunque a far
collocare i tavoli nell’accampamento e dispone che il denaro venga distribuito
contro la presentazione di un συμβόλαιον, ma senza registrare nomi, i soldati
approfittano lietamente dell’occasione. Invece nel racconto di Curzio, che è
fortemente contrassegnato da un tono moralistico a proposito dei debiti contratti
per lusso e da una vena sarcastica a proposito del rapporto deteriorato fra
Alessandro e le sue truppe, il re chiede una dichiarazione esplicita dei debiti; i
soldati esitano perché non vogliono controlli ma quando vengono disposte
nell’accampamento le tavole con il denaro procedono alle dichiarazioni. Non
sembra di percepire un cambiamento di regole come in Arriano, da una
registrazione completa dei nomi ad una consegna semplice contro la visione di un
contratto da parte dell’incaricato: qualunque cosa intendesse Curzio scrivendo
‹cum› fide facta professio est, nella frase non è evidente un cedimento da parte di
E.J. Baynham (Eds.), Alexander the Great in Fact and Fiction, Oxford 2000, 158-59; C.G. Thomas,
Alexander the Great in his World, London 2007, 20.
2
Nell’Epitome di Giustino compare solo il toponimo Babilonia, probabilmente un esito del
lavoro di selezione e abbreviazione; secondo Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 272 Trogo seguiva
la tradizione che collocava a Susa l’ammutinamento; cfr. F. Sisti - A. Zambrini (a cura di), Arriano.
Anabasi di Alessandro, II, Milano 2004, 590 su Susa.
3
Cfr. anche infra n. 5.
4
Per il tema del rapporto fra il re e la verità, ben presente in Arriano, rimando a L. Prandi,
Il monarca greco, in G. Zecchini (a cura di), Lo storico antico. Mestieri e figure sociali, Atti del Convegno
(Roma, 11-12 novembre 2007), Bari 2010, 53-64.
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Alessandro; e questo è tanto più notevole in quanto l’autore romano è fonte
notoriamente non favorevole al Macedone.
Con la testimonianza di Plutarco, a prima vista poco più che un aneddoto,
siamo calati in medias res. Il biografo infatti, dopo aver genericamente detto che
Alessandro pagò i debiti a coloro che ne avevano contratti, 5 si sofferma (70, 4-6) sul
caso di un ufficiale – Antigene o Atarria – 6 che si era fatto registrare come
debitore sebbene non lo fosse, presentando una persona che assicurava di avergli
prestato denaro; la successiva scoperta della frode, e la rimozione dal comando che
aveva, condussero l’ufficiale sull’orlo del suicidio, tanto che alla fine il re, anche in
considerazione che si trattava di un valoroso, gli lasciò il denaro.
Il caso di Antigene/Atarria potrebbe offrirci uno spiraglio su qualche
risvolto pratico dell’operazione di ripianamento, come la possibilità di ottenere
somme di denaro su testimonianze verbali e non su contratti; 7 inoltre, anche se
non chiarisce i dubbi sull’esistenza di una registrazione (negata da Arriano ma
apparentemente ammessa da Curzio), sembra presupporre un elenco di nomi e di
obblighi che permettesse anche a posteriori di scoprire e verificare le frodi, e ci
prospetta la possibilità di atteggiamenti non di renitenza al controllo ma di
sfruttamento piuttosto disinvolto della situazione.
Per tracciare ora un bilancio della nostra documentazione, credo occorra
puntualizzare in primis che le differenze fra gli autori non sono tali da far ipotizzare
5
Il testo greco suona τὰ χρέα τοῖς δανείσασιν ὑπὲρ τῶν ὀφειλόντων αὐτὸς διαλύσας e non
mi sembra autorizzi a pensare agli sposi quali destinatari, come fa C. Bradford Welles (Ed.), Diodorus
Siculus. Books XVI. 66 - XVII, Cambridge (Mass.)-London 1963, 438 n. 3. La formulazione che
Plutarco usa quando ne parla, senza collegamenti con le nozze, in De Al. M. fort. aut virt. – cfr. nota
seguente – contiene ancora un riferimento generico ai debitori ma i beneficiari del provvedimento
di Alessandro sono esplicitamente i Macedoni (ὅτε τῶν χρεῶν ἠλευθέρου Μακεδόνας Ἀλέξανδρος
καὶ διελύετο τοῖς δανεῖσασιν ὑπὲρ πάντων).
6
Plutarco riporta per due volte il caso del sedicente debitore che viene smascherato, in
Alex. 70, 4-6 e in De Al. M. fort. aut virt. II 7 (Mor. 339b). Caratterizzazione del personaggio, monocolo
come Filippo, e dipanarsi della vicenda sono analoghi ad eccezione del dato dell’atimia che è
menzionata solo nella Vita; nel primo caso il protagonista è chiamato Antigene, nel secondo la
tradizione manoscritta ha Tarria, probabilmente Atarria. In De Al. M. fort. aut virt. anche Antigene è
citato ma per ricordare che si finse inabile al servizio per poter tornare in patria con la donna greca
di cui era innamorato; una vicenda che in Alex. 41 ha invece come protagonista l’altrimenti ignoto
Euriloco. L’accostamento fra i nomi Antigene e Atarria si ripropone in un passo di Curzio (V 2), in
cui essi figurano insieme a Filota come i tre vincitori di una gara di valore in Sittacene e sono
definiti uomini coraggiosi ma inclini ai piaceri e al lusso. Per una disamina dei problemi suscitati da
queste testimonianze rimando, oltre a J.R. Hamilton, Plutarch, Alexander: A Commentary, Oxford 1969,
196 per quanto riguarda Plutarco, a W. Heckel, The Marshals of Alexander’s Empire, London 1992, 308312, ripreso in W. Heckel, Who’s Who in the Age of Alexander the Great. Prosopography of Alexander’s Empire,
Oxford 2006, 31 e 60.
7
Plutarco è l’unico autore che conservi un cenno, peraltro non chiarissimo, al fronte dei
creditori. Già Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 438 n. 3, si domandava da chi mai tanti
soldati avessero potuto ottenere denaro in prestito. Una posizione peculiare è assunta in merito da
N.G.L. Hammond, The Genius of Alexander the Great, Chapel Hill 1997, 188 – cfr. anche infra n. 8 –
secondo il quale i prestatori di denaro non potevano che essere asiatici e il fatto che Alessandro
pagò i debiti senza nulla chiedere (lo studioso non considera la renitenza dei soldati alle richieste di
registrazione) dimostra che non discriminava le etnie.
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più di un saldo dei debiti da parte di Alessandro. 8 Sembra piuttosto di essere di
fronte a due filoni di tradizione: uno, rappresentato da Arriano e da
Trogo/Giustino, che collegano il provvedimento ai festeggiamenti per le nozze
miste di Susa, individuano i destinatari genericamente nelle truppe e l’ammontare
della somma impegnata in 20mila talenti; l’altro, rappresentato da Diodoro e da
Curzio, che collegano il provvedimento alla decisione di congedare a Susa i
veterani macedoni, lo considerano a loro finalizzato e individuano l’ammontare
della somma impegnata in 10mila talenti con un resto di 130. Rispetto a questo
schema, Plutarco – come spesso gli accade – è portatore di elementi misti:
momento e destinatari del primo, cifra del secondo. 9
Oltre a ciò, è interessante rilevare che nelle testimonianze di ambedue i
filoni l’iniziativa di Alessandro – che è di per sé un gesto di risanamento – ha il
risultato di far emergere invece un grave deterioramento dei rapporti fra lui e le
truppe. I soldati infatti considerano l’offerta di pagamento dei debiti un gesto di
dissimulazione e nutrono sfiducia circa le vere intenzioni del re: questo è evidente
in Curzio ma forse ancora più evidente in Arriano, di solito fonte non incline ad
enfatizzare situazioni negative per Alessandro.
Se la diversa collocazione dell’episodio all’interno del 324, in rapporto alle
nozze o in rapporto al congedo, abbia un preciso significato e se si possa definire
quale delle due sia più probabile sono a questo punto quesiti fondamentali.
Tuttavia prima di procedere in questo senso, è necessario considerare anche le
notizie sull’atteggiamento di Alessandro nei confronti delle unioni miste dei
soldati e dei figli nati da esse, non per complicare inutilmente lo scenario ma
proprio per riuscire a decidere su basi più certe.
2. A differenza delle informazioni sui debiti, quelle sulle iniziative per i figli
dei soldati fanno riferimento a momenti della spedizione scaglionati su anni
diversi: il 330, il 326 e infine, ancora una volta, il 324.
Una testimonianza particolarmente interessante, anche perché offre una
visione di sintesi, è quella di Trogo/Giustino (XII 4, 2-11): egli fra l’assunzione da
parte di Alessandro dei costumi persiani e l’eliminazione di Filota e Parmenione,
quindi nel 330, parla della decisione di regolarizzare le unioni miste fra soldati
macedoni e prigioniere persiane e di stabilire provvidenze per l’educazione dei figli
(alimenta, instrumenta), nonché premi di prolificità e reversibilità della paga per gli
orfani; l’intento che viene attribuito ad Alessandro è quello di rendere più stanziali
8
Come suggerisce invece N.G.L. Hammond, Sources for Alexander the Great of Plutarch’s Life and
Arrian’s Anabasis Alexandrou, Cambridge 1993, 285 n. 16: una prima volta, in relazione alle nozze,
con uno stanziamento di 20mila talenti, e una seconda con uno stanziamento di 10mila, dopo
l’organizzazione del rientro dei Macedoni. Per alcune riflessioni, peraltro non conclusive, sul
denaro per i pagamenti cfr. G. Le Rider, Alexandre le Grand. Monnaie, finances et politique, Paris 2003, 8993.
9
Non capisco su quali basi Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 393 n. 2, dica che
Plutarco e Trogo/Giustino riportano la medesima tradizione. Un quadro delle testimonianze ora
in J.E. Atkinson - J.C. Yardley (Eds.), Curtius Rufus, Histories of Alexander the Great. Book 10, Oxford
2009, 121-122.
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in Asia i Macedoni e di poter avere in futuro nei loro figli dei rinforzi già in loco e
legati alla terra d’Asia.10
Momento e motivazioni assai diverse costituiscono invece l’oggetto della
prima di due testimonianze diodoree. Lo storico (XVII 94, 4) mostra Alessandro,
alla vigilia della progettata spedizione contro i Gandaridi nel 326, molto impegnato
in opere di captatio benevolentiae presso le sue truppe: all’esercito, in pessime
condizioni fisiche e di equipaggiamento dopo anni e anni di campagne, concede
libertà di saccheggio;11 riunisce intanto donne e bambini dei soldati, offrendo alle
prime vettovaglie per un mese e per i secondi provvidenze specifiche commisurate
al valore dei padri. L’espressione greca ἐπιφορὰς ταγματικὰς ... κατὰ τοὺς τῶν
πατέρων συλλογισμούς costituisce quasi un hapax in questa forma, anche se lascia
intendere bene quale fosse il fine dell’iniziativa.12
Tutto ciò non impedì, come è noto, che gli venisse espresso un netto rifiuto
a proseguire oltre verso Oriente.
A proposito del 324, l’anno del pagamento dei debiti, possediamo tre
testimonianze, correlate al momento del congedo dei veterani. Ancora Diodoro
(XVII 110, 3), soffermandosi sul processo di equiparazione militare degli Iranici ai
Macedoni, segnala che Alessandro a Susa fece calcolare ἀκριβῶς il numero dei figli
nati da unioni con prigioniere – in totale circa 10mila – e che stanziò delle risorse
perché ricevessero un’educazione da uomini liberi. Più articolato è il passo di
Arriano (VII 12, 1-3) il quale, dopo il resoconto dell’ ammutinamento dei
Macedoni e della sua sofferta conclusione,13 ricorda che i veterani macedoni da
congedare a Opis erano circa 10mila, che ognuno ricevette oltre la paga 1 talento
per il viaggio, e attribuisce ad Alessandro lo scrupolo di non far trasportare in
Macedonia anche le donne asiatiche e gli eventuali figli, per non creare là problemi
di coesistenza; il re assicurò peraltro che avrebbe fornito a questi ultimi
un’educazione militare macedone e che li avrebbe riportati egli stesso ai padri in
età adulta. Va notato che Arriano commenta che si trattava di promesse vaghe e
incerte, immagino soprattutto l’ultima. Da parte sua Plutarco (Alex. 71, 9), quando
dice che Alessandro congedò i veterani con ricchi doni e riconoscimenti, aggiunge
il dato – a prima vista eterogeneo – che rese ἐμμίσθους gli orfani dei caduti.
Se si trascura per adesso il fatto che Diodoro ambienta il fatto a Susa e
Arriano invece ad Opis – su questo torneremo – l’elemento comune a
Trogo/Giustino, ad Arriano, al primo passo di Diodoro e, parzialmente, anche a
Plutarco è che Alessandro intendeva garantire sopravvivenza ed addestramento
10
Il passo sembra una razionalizzazione delle notizie ed ha come risultato quello di
obliterare la gradualità cronologica delle iniziative; cfr. anche infra n. 14.
11
Che accanto al sostantivo χώραν si accolga la lezione πολεμίαν, come Bradford Welles,
oppure quella παραποταμίαν, come Goukowsky, probabilmente doveva trattarsi di una zona in
realtà amica; cfr. Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus, cit., 392 n. 1 e P. Goukowsky, Diodore de
Sicile. Bibliothèque historique. Livre XVII, Paris 1976, 251.
12
L’unicità della notizia diodorea è già stata segnalata da Bradford Welles (Ed.), Diodorus
Siculus, cit., 393 n. 2 e da Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 252.
13
Sull’opportunità di mantenere per questi fatti la definizione e il concetto di
ammutinamento cfr. I. Worthington, How Great was Alexander?, «AHB» XIII (1997), 45.
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militare ai figli delle unioni miste. Questa misura appare poco congruente con la
situazione del 330, dove la colloca Trogo/Giustino, perché allora era forse troppo
presto perché il fenomeno delle unioni miste avesse un peso per così dire sociale:14
non è fuori luogo pensare che l’epitomatore, o forse anche Trogo stesso, nel
contesto delle scelte orientalizzanti di Alessandro abbia sintetizzato la sua politica
verso gli Iranici, anticipandone indebitamente gli aspetti salienti;15 che si tratti di
una sorta di sintesi sembra confermato anche dagli accenni al fatto che i successori
di Alessandro lo imitarono in questo, e alla formazione del corpo degli Epigoni,
che qui con un fraintendimento sembrano i figli delle unioni miste. 16
Quanto alla prima delle due testimonianze di Diodoro, quella relativa al
17
326, essa riferisce di provvidenze non soltanto strumentali ma anche
estemporanee nella realizzazione: esse paiono destinate – non meno della raccolta
di bottino per i soldati18 o del vettovagliamento per un mese per le loro donne – a
garantire il benessere dei figli per un certo tempo; inoltre avevano come
caratteristica di essere in rapporto di proporzionalità con il valore dei padri, e
questo potrebbe anche far pensare che il rifiuto dei soldati a proseguire la marcia e
le conquiste ne avesse vanificato l’applicazione.
Nel 324 invece, quando collocano le iniziative a favore dell’educazione dei
figli di unioni miste tanto Arriano quanto il secondo passo di Diodoro e Plutarco,
erano assai attuali e anzi non rinviabili, molti problemi organizzativi della
conquista; inoltre l’allontanarsi nel ricordo degli ultimi scontri vittoriosi imponeva
un’attenzione non più rivolta ai premi del valore. In questo quadro risultano ben
comprensibili le ricognizioni attribuite ad Alessandro, quella sui soldati in debito e
quella sui figli delle unioni miste, tanto più che la seconda si collega all’esigenza di
un duraturo controllo su territori assai vasti rispetto alle possibilità della
Macedonia.
3. È il momento di riprendere la questione che ho lasciato precedentemente
in sospeso al fine di introdurre i dati relativi ai figli dei soldati, cioè quando
avvenne nel 324 il pagamento dei debiti e, soprattutto, chi ne furono i destinatari.
Dal momento che le nostre fonti sono esplicite nel collegare il fatto o alle
nozze, come Arriano, Plutarco e Trogo/Giustino, o al congedo, come Diodoro e
14
Cfr. anche D.W. Engels, Alexander the Great and the Logistic of the Macedonian Army, BerkeleyLos Angeles 1980, 36, a proposito di Arr. I 24,1.
15
Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 206-207, ipotizza interventi attualizzanti di Trogo e di
Giustino, pur segnalando, 208, l’unicità delle notizie dell’Epitome nel contesto cronologico del 330 e
suggerendo la possibilità di notizie date in prospettiva futura. Cfr. anche supra n. 10.
16
Cfr. Anche Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 208. Invece A.B. Bosworth, Alexander and
the Iranians, «JHS» C (1980), 18 pensa ad un corpo di Epigoni di sangue misto, in un certo senso
parallelo a quello dei giovani Iraniani: tuttavia le testimonianze che egli adduce per suffragare tale
idea sono in realtà le medesime che qui utilizzo e che si riferiscono ad anni successivi; inoltre va
tenuto presente che i primi figli delle unioni con donne persiane dovevano essere nati al più presto
fra Isso e Gaugamela e quindi avere, alla morte di Alessandro, meno di 10 anni.
17
Della quale Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 252, sottolinea l’isolamento nella
tradizione.
18
Cfr. supra n. 12.
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Curzio, purtroppo non mi sembra che definire il luogo in cui in realtà si verificò il
cosiddetto ammutinamento dei Macedoni – se a Susa o piuttosto ad Opis, come i
moderni ritengono – 19 sia fondamentale per comprendere meglio questi fatti.
Qualche riflessione merita invece un dato che fa la sua comparsa in molte
delle nostre testimonianze, il numero 10mila. A fronte di tante cifre dettagliate e
differenti fra loro che l’Alessandrografia conserva a proposito di perdite umane in
battaglia, ma anche di entità di bottino o di distribuzioni di denaro,20 nei passi che
ho qui considerato ricorre ossessivamente lo stesso numero a proposito di realtà
diverse.
Sono 10mila, in Arriano VII 4, 8, i Macedoni che regolarizzarono a Susa le
unioni con donne asiatiche e che Alessandro fece accuratamente registrare, e
gratificare con doni nuziali; altrettanti sono i veterani macedoni che vengono dopo
non molto congedati, in Arriano VII 12, 1 e in Diod. XVII 109, 1.
Ma sono 10mila anche i figli nati da unioni di soldati macedoni con donne
persiane, fatti censire con cura da Alessandro in occasione del suddetto congedo, in
Diodoro XVII 110, 3.
Passando dagli uomini alle cose, 10mila sono i talenti che secondo Diodoro
XVII 109, 2, Plutarco 70, 3 e Curzio X 2, 20, Alessandro aveva messo a
disposizione per il ripianamento dei debiti.
Può essere banale notare che 10mila è una cifra arrotondata e che potrebbe
essere convenzionale ma diviene fuori luogo pensarlo dal momento che nostre
fonti lo presentano come il risultato di registrazioni e calcoli accurati. Vale la pena
di segnalare in tal senso sia il dato conservato in Plutarco 70, 3, che 9mila erano le
tazze auree donate dal re agli sposi di Susa, sia il logos cui accenna Arriano VII 11, 9,
che al banchetto di riconciliazione fra Alessandro e i Macedoni dopo
l’ammutinamento ad Opis parteciparono 9mila commensali: un numero forse
arrotondato ma significativamente diverso.
Purtroppo però il fatto che le fonti indichino con la stessa cifra ora il totale
dei Macedoni sposati con donne asiatiche ora quello dei Macedoni destinati al
congedo non è di aiuto per comprendere se i debitori sollevati dall’impegno, a
spese di Alessandro, appartenessero all’una o all’altra categoria. Che coloro che
regolarizzarono le unioni fossero le stesse persone che vennero poi congedate
appare difficile da dimostrare; e sarebbe anche non facile comprendere perché
Alessandro abbia in primavera solennizzato le unioni di soldati che subito dopo, in
19
Cfr. P.A. Brunt (Ed.), Arrian. History of Alexander and Indica, II, Cambridge (Ma)-London 1983, 218
n. 1 e 219 n. 2; J. Seibert, Die Eroberung des Perserreiches durch Alexander den Grossen auf kartographischer
Grundlage, Wiesbaden 1985, 186-187; Yardley - Heckel (Eds.), Justin, cit., 273 e Heckel, Alexander
Conquest of Asia, in W. Heckel - L.A. Tritle (Eds.), Alexander the Great: a new History, Chichester 2009,
52; Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 121-122. Invece Goukowsky, Diodore de Sicile, cit.,
267, preferisce seguire le fonti che parlano di Susa.
20
Rinvio, quale esempio, a Diod. XVII 64, 6 a proposito del bottino distribuito dopo la
vittoria di Gaugamela; a Diod. XVII 74, 3-5, a proposito del congedo dei Greci e degli incentivi per
l’arruolamento. Cfr. anche Curt. V 1, 45 e VI 2, 17.
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estate, non soltanto congedò per evidenti inabilità al servizio ma ai quali – come
segnala Arriano – non consentì di portare con sé le nuove famiglie.21
Ulteriori riflessioni merita, nella prospettiva del rapporto comandantetruppe, la reazione negativa dei soldati alla richiesta di registrare nomi e somme.
Essi sembrano quasi preferire di rimanere in debito piuttosto che manifestare i
particolari della propria situazione finanziaria al controllo del re. Mi fa piacere
segnalare qui un’ipotesi che il collega Bosworth mi ha comunicato prima della sua
pubblicazione: che i soldati temessero la ricognizione promossa dal re perché
ricordavano bene che dopo l’assassinio di Parmenione i militari scontenti e
protestatari erano stati indagati, identificati e radunati in una compagnia di
disciplina (ἀτάκτων τάγμα, cfr. Diod. XVII 80, 4).22
Questo atteggiamento di sfiducia, questo timore che un gesto
apparentemente positivo come il ripianare dei debiti nascondesse, da parte di
Alessandro, l’arrière pensée moraleggiante di voler verificare il tenore di vita dei
soldati non mi sembra in carattere con il momento delle nozze di Susa in cui lo
collocano Arriano e Trogo/Giustino: il re in quell’occasione allestì cerimonie e
festeggiamenti di eccezionale sfarzo per tutte le coppie coinvolte e fece mostra di
una ricerca del lusso che difficilmente avrebbe potuto nell’immediato criticare o
condannare in altri.23
La reazione dei militari si attaglia piuttosto al momento, di poco successivo,
in cui i essi videro il re assumere una serie di iniziative sorprendenti o sgradevoli
per loro.24 Dall’accoglienza entusiasta mostrata agli Epigoni, il cui arrivo deve
essere stato spettacolare e certo non improvviso o imprevisto; all’ufficializzazione
di un congedo per i Macedoni inabili al servizio, che scontentò sia chi sarebbe
dovuto partire sia chi sarebbe dovuto rimanere, perché ciò che sembrava
21
Dubbi anche in W. Heckel, The Conquests of Alexander the Great, Cambridge 2008, 139-140, il
quale conclude che qualche sovrapposizione fra i due gruppi dovesse però esistere, e Atkinson Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 122.
22
Cfr. anche Polyaen. IV 3, 19.
23
Cfr. Chares 125F4 (= Athen. XII 538b-539a). Sono maggiormente incline a considerare i
matrimoni di Susa come l’esplicitazione di una sorta di patto di governo, cfr. in tal senso Hamilton,
Plutarch, Alexander, cit., 195; A.B. Bosworth, Conquest and Empire, Oxford 1988, 157 e Alexander the
Great, in D.M. Lewis - J. Boardman - S. Hornblower - E.M. Harris (Eds.), CAH, 2nd Ed., VI,
Cambridge 1994, 840; P. Briant, Alexandre le Grand, Paris 19944, 114; Heckel, The Conquests of Alexander
the Great, cit., 137-139, che vi individua il momento di fondazione di una nuova aristocrazia; G.
Weber, Alexander’s Court as Social System, in Heckel - Tritle (Eds.), Alexander the Great: a new history, cit.,
92. Pensa invece ad una politica di fusione Fredricksmeyer, Alexander the great and the Kingship of Asia,
cit., 159. Sulla possibilità che la cerimonia di Susa avesse anche un significato di legittimazione
religiosa per Alessandro cfr. M. Marchini, Alessandro, Sisigambri e le nozze di Susa, «RSA» XXXIV
(2004), 273-284.
24
Non mi sembra opportuno enfatizzare fra le iniziative sgradite ai Macedoni le nozze
multiple, come fa Hammond, The Genius of Alexander the Great, cit., 188, perché molti di loro avevano
unioni di fatto con donne asiatiche e ne avevano avuto dei figli. Cfr. invece C. Mossé, Alessandro
Magno. La realtà e il mito, (trad. it.), Roma-Bari 2003, 48-49; e Thomas, Alexander the Great in his World,
cit., 215, la quale pone inoltre in evidenza le affinità fra la politica matrimoniale di Alessandro e
quella di Filippo; nonché Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 122, che rileva la differenza
fra nozze e arrivo degli Epigoni.
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allontanarsi nel tempo e nello spazio era il rientro di Alessandro in Macedonia. 25 Si
potrebbe osservare che l’ammutinamento dei Macedoni mise in luce tanto la sua
debolezza quanto la sua forza come comandante;26 e si risolse almeno sul momento
perché egli seppe dimostrare, con un ennesimo ricorso all’imitatio Achillis,27 che non
lui aveva bisogno di loro ma loro di lui e che la loro posizione di preminenza –
visibile a tutti nel corso del banchetto di riconciliazione dei 9mila che ho già
menzionato – era indiscussa28 ma da lui derivava.
Tutto ciò può incoraggiare, io credo, a prendere in più seria considerazione
la tradizione accolta da Diodoro e da Curzio, che narrano del pagamento dei debiti
dopo l’arrivo degli Epigoni e lo collegano con l’ammutinamento, e a ritenere che il
provvedimento fosse diretto prevalentemente ai Macedoni che erano destinati al
rientro.29 A favore di questa possibilità vorrei aggiungere qualche elemento
particolare.
Pur con tutta la prudenza che richiede lo sfruttamento di dati presenti in
discorsi messi sulla bocca di Alessandro, vorrei attirare l’attenzione
sull’allocuzione ai Macedoni ammutinati di Arriano (VII 9-10):30 essa contiene
elementi – come la localizzazione a Susa dell’ammutinamento e la menzione dei
debiti pagati ai Macedoni – che contrastano con l’esposizione narrativa dell’Anabasi
25
Come afferma Curt. X 2, 12, cfr. Briant, Alexandre le Grand, cit., 116; Worthington, How
Great was Alexander?, cit., 44; Mossé, Alessandro Magno, cit., 36-37, coglie il problema del rientro di
Alessandro ma ne colloca la percezione da parte dei soldati in occasione delle nozze: io credo che
fosse invece il congedo, ed i movimenti di truppe collegati, a rendere visibile che il re non sarebbe
tornato in patria. Sulla perdita di centralità della Macedonia si sofferma E.Carney, Women in
Alexander’s Court, in J.Roisman (Ed.), Brill’s Companion to Alexander the Great, Leiden-Boston 2003, 247.
26
Sottolinea la debolezza di Alessandro E. Carney, Artifice and Alexander History, in A.B.
Bosworth - E.J. Baynham (Eds.), Alexander the Great in Fact and Fiction, Oxford 2000, 283-84; ne
sottolineano invece la forza Hammond, The Genius of Alexander the Great, cit., 190; W. Heckel, A King
and his Army, in W. Heckel - L.A. Tritle (Eds.), Alexander the Great : a new History, Chichester 2009, 81.
27
Cfr. le interessanti suggestion di Carney, Artifice and Alexander History, cit., 283-284.
28
Circa la preminenza conservata dai Macedoni cfr. E. Badian, Alexander the Great and the
Unity of Mankind, «Historia» VII (1958), 429-430; Bosworth, Conquest and Empire, cit., 160; Briant,
Alexandre le Grand, cit., 119; Worthington, How Great was Alexander?, cit., 54; Weber, Alexander’s Court as
Social System, cit., 95-96. Pensa invece ad un successo della politica “asiatica” Hammond, The Genius of
Alexander the Great, cit., 190.
29
Mi sembra un elemento rivelatore il fatto che anche Bosworth, Conquest and Empire, cit.,
158, nel ripercorrere i fatti del 324, abbia la sequenza ragionata nozze-Epigoni-debiti-congedo.
Situazione non dissimile in J.D. Grainger, Alexander the Great Failure. The Collapse of the Macedonian
Empire, London 2007, 90, che ricorda l’iniziativa per i debiti come un mezzo per riconciliare i
Macedoni inaspriti per la formazione degli Epigoni.
30
Scettici Brunt (Ed.), Arrian, cit., 532-33; A.B. Bosworth, From Arrian to Alexander, Oxford
1988, cit., 112-113; E. Carney, Macedonians and Mutiny: Discipline and Indiscipline in the army of Philip and
Alexander, «CP» XCI (1996), 29, 33 e 38. Fiduciosi D.B. Nagle, The cultural Contest of Alexander Speech at
Opis, «TAPhA» CXXVI (1996), 152; N.G.L. Hammond, The Speeches in Arrian’s Indica and Anabasis,
«CQ» XLIX (1999), 249. G. Squillace, Propaganda macedone e spedizione asiatica: gli oikeioi logoi di
Alessandro Magno alle truppe, «LEC» LXXII (2004), 217-234 affronta il problema dei discorsi con un
sostanziale ottimismo. Cfr. anche infra n. 31.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90
Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
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e richiamano piuttosto quella di Diodoro.31 Infatti a VII 10, 3 il re dice di avere,
con grande magnanimità e senza fare indagini, pagato i debiti da loro contratti
nonostante i grandi bottini, e a 10, 7 ricorda come luogo dove loro lo hanno
“abbandonato” la città di Susa. Il fatto che Arriano conoscesse la tradizione che
collocava a Susa l’ammutinamento e che collegava il pagamento dei debiti al
congedo (e non alle nozze), e che l’abbia incorporata con qualche stridore, visto
che esponeva i fatti secondo una successione cronologica e topografica diversa,
dovrebbe far riflettere.32
Inoltre l’aneddoto che Plutarco conserva sul falso debitore, pur essendo
narrato in concomitanza con le nozze e pur contenendo elementi di incertezza
sull’identità del protagonista,33 riconduce almeno per uno dei due nomi attestati
alle operazioni di rimpatrio: Antigene è infatti ricordato da Iust. XII 12, 8 fra gli
ufficiali che con Cratero e Poliperconte dovevano condurre i congedati verso la
costa dell’Asia Minore.34
Infine vi è il fatto che Alessandro offrì ai Macedoni che rimanevano nei
ruoli la somma di 3 talenti, mentre ai congedati assegnò – oltre alla paga - 1 talento
ciascuno per le spese del viaggio: è ovvio che tale disparità di trattamento è nella
logica di qualsiasi congedo parziale, come mostra nel caso di Alessandro quello dei
Greci nei primi anni della spedizione,35 ma una conseguenza fra le altre è che i
Macedoni rimasti in servizio nel 324 avevano a disposizione una somma con la
quale provvedere anche a saldare eventuali debiti.
4. Se – accanto a questa che suggerisco come un’ipotesi di lavoro – vi è una
via per uscire anche meglio da questo labirinto, peraltro non inusuale
nell’Alessandrografia, di dati e di particolari difficili da organizzare in un quadro
sistematico e coerente, forse è quella comunque pericolosa di sondare le ragioni del
Macedone. A condizione di riuscire a farlo sfuggendo almeno in parte ai luoghi
comuni della ricerca moderna.
Sovente il percorso mentale delle indagini su Alessandro mira a
comprendere quale idea o progetto egli avesse nella mente quando prese
determinate decisioni; in pratica, riteniamo che egli avesse delle finalità teoriche e
31
Un discorso è prestato ad Alessandro anche in Curt. X 2, 15-30 e 3, 7-14, in una parte
dell’opera che soffre di lacune di trasmissione; a X 2, 25 compare un’allusione ai debiti. Cfr., per
una visione d’insieme, Atkinson - Yardley (Eds.), Curtius Rufus, cit., 126-129, che considera il
confronto con Arriano e il problema delle fonti.
32
Mi sembra riduttivo pensare ad una scelta dettata solo dalla maggior risonanza di Susa,
come suggerisce Bosworth, Conquest and Empire, cit., Oxford 1988, 107, o da motivazioni retoriche,
come suggerisce Sisti - Zambrini (a cura di), Arriano, cit., 605. Siamo più probabilmente di fronte a
due tradizioni che non si armonizzano bene nell’opera di Arriano, cfr. anche Atkinson - Yardley
(Eds.), Curtius Rufus, cit., 126-127.
33
Cfr. supra n. 6.
34
Di Atarria non sappiamo nulla di definito, ma anche nulla che contrasti con la possibilità
che fosse coinvolto.
35
Cfr. Diod. XVII 74, 3-4 (a chi si arruolò ex novo toccarono 3 talenti); Curt. VI 12, 17;
Plut. Alex. 42, 5; Arr. III 19, 5; Iust. XII 1, 1.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90
Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
| 89
che cercasse il modo di concretizzarle.36 Questo è un sistema che può essere
adeguato all’itinerario della conquista, intendo dire agli aspetti tattico-strategici,
ma non mi sembra lo sia altrettanto per gli argomenti che vi ho proposto.
Probabilmente nel 324 Alessandro stava soprattutto facendo i conti, e conti non
rinviabili, con varie conseguenze della conquista stessa. 37
L’esistenza di una diffusa situazione di indebitamento – che 10mila fossero i
debitori o i talenti destinati non cambia di molto questa sensazione – 38 costituiva
un disagio o disordine di tipo socio-economico che non poteva essere
impunemente ignorato. La scelta di non effettuare una generica distribuzione di
denaro, che forse le truppe avrebbero preferito ma che rischiava di essere
sperperato, e di intervenire invece direttamente ed in modo mirato sui debiti
rispecchia la volontà di risolvere con sicurezza tale problema. 39 Può essere utile
notare che Alessandro non ignorava né disdegnava l’uso di distribuzioni generiche,
in cui il denaro non era vincolato ad un particolare uso: ricordo ancora che dopo il
congedo degli inabili egli assegnò 3 talenti ad ognuno di coloro che rimanevano nei
ranghi.
Analogamente, l’esistenza di figli generati da soldati macedoni con donne
asiatiche era una realtà di fatto, inevitabile fardello di un decennio di campagne, e
doveva essere una realtà numericamente non trascurabile – anche tenendo conto di
un immaginabile alto tasso di mortalità infantile – e quindi problematica.
Alessandro, assumendosi una forma di responsabilità nel loro mantenimento e
nella loro educazione,40 potrebbe aver cercato di trarre da tale fardello un partito
non svantaggioso nella prospettiva – ben attestata da Trogo/Giustino – di avere in
futuro soldati in Asia. Non del tutto differente da questa è l’iniziativa presa nel 326
di addestrare militarmente una schiera di giovani iranici, 41 i cosiddetti Epigoni che
fecero la loro comparsa nel fatidico 324 fra le nozze e il congedo, probabilmente
prima dell’offerta di pagamento dei debiti:42 anche ammettendo che il totale di
30mila attestato nelle fonti sia esagerato, doveva trattarsi di forze fresche
36
Mi riferisco ovviamente a temi come l’orientalizzazione, la successione ai Persiani, la
fusione fra i popoli.
37
Sull’importanza del 324 come anno di sostanziale stasi dal punto di vista militare e di
attività invece da quello organizzativo cfr. Heckel, The Conquests of Alexander the Great, cit., 141;
Thomas, Alexander the Great in his World, cit., 19-20.
38
Mi sembra però semplicistico pensare – come fa Bradford Welles (Ed.), Diodorus Siculus,
cit., 438 n. 3, in base alla notizia di Arr. VII 12, 1 – che ogni uomo avesse avuto un talento.
39
Trovo interessanti le riflessioni di Worthington, How Great was Alexander?, cit., 43-44, sulla
debolezza del ricorso al denaro per risolvere situazioni difficili ma ritengo che, nel caso dei debiti,
Alessandro abbia usato lo strumento finanziario con oculatezza anche se questo non scongiurò un
ammutinamento.
40
Elemento sottolineato da Goukowsky, Diodore de Sicile, cit., 268.
41
Non va trascurato il fatto, messo in evidenza da Thomas, Alexander the Great in his World,
cit., 214, che l’incorporazione nell’esercito di contingenti allogeni aveva dei precedenti nelle
decisioni di Filippo.
42
L’arrivo di un cospicuo corpo militare non poteva non essere preavvertito con un certo
anticipo e non era quindi necessario che gli Epigoni giungessero al campo perché i Macedoni
sapessero di loro.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90
Luisa Prandi, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
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comunque considerevoli, che Alessandro non avrebbe potuto, o comunque
dovuto, trascurare, correndo magari il rischio che andassero ad alimentare
opposizioni locali, guerriglie o instabilità nei territori conquistati. 43
Colte in questa prospettiva, le iniziative parallele di Alessandro nei
confronti degli Iranici e dei mezzosangue appaiono le soluzioni date da un
comandante a situazioni di surplus di risorse umane. Che la scelta pragmatica di
costituire, nell’immediato con gli Epigoni ed in prospettiva con i figli delle unioni
miste, effettivi militari potenzialmente vincolati a lui e all’Asia corrisponda anche
ad una visione del mondo in cui l’appartenenza etnica non era immediato motivo
di discriminazione, e per gli Iranici contava semmai il rango sociale, è innegabile.44
Ma ci si può domandare se veramente avrebbe potuto adottare, in modo proficuo,
un comportamento diverso.
Luisa Prandi
Dipartimento di Arte, Archeologia, Storia e Società
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Verona
Via San Francesco 22 - 37129 Verona
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
43
Cfr. un cenno in Sisti - Zambrini (a cura di), Arriano, cit., 591. Per una rassegna delle
testimonianze sugli Epigoni, a beneficio di un’ipotesi sul rapporto con gli insediamenti promossi
dal Macedone, rimando a N.G.L. Hammond, Alexander’s Newly-Founded Cities, «GRBS» XXXIX
(1998), in part. 244-247.
44
Questo si può ammettere anche senza attribuire ad Alessandro una politica di fusione,
della quale fu portavoce in antico Plutarco nei moralia sul Macedone e teorizzatore principale in età
moderna W.W. Tarn (rinvio d’obbligo alla confutazione di Badian, Alexander the Great and the Unity of
Mankind, cit., in part. 428-430 e 438-439, per gli episodi di Susa e di Opis che qui interessano). Cfr.
in tal senso, fra gli altri, A.B. Bosworth, Alexander and the Iranians, «JHS» C (1980), 1-21, in maniera
ragionata e documentata, ripreso poi in Bosworth, Conquest and Empire, cit., 161; Briant, Alexandre le
Grand, cit., 104 e 118-119; Worthington, How Great was Alexander?, cit., 53, ripreso in Worthington,
Alexander the Great. Man and God, London 2004, 246-47 e Mossé, Alessandro Magno, cit., 70-71, che
sottolineano la pragmaticità delle sue azioni; A.Sh. Shahbazi, Irano-Hellenic Notes. 3. Iranians and
Alexander, « AJAH» n.s.II 2003, 24; Heckel, Alexander ‘s Conquest of Asia, in W. Heckel - L.A. Tritle
(Edd.), Alexander the Great : a new History, Chichester 2009, 51.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 79-90
ANTONINO PINZONE
L’interazione milites-imperator
nella spedizione ispanica di Scipione l’Africano
Vorrei innanzitutto ringraziare le carissime amiche e colleghe Lia Marino e
Clara Gebbia, nonché gli altri organizzatori tutti, per l’invito a partecipare a
queste importanti giornate seminariali, un’occasione che mi ha permesso di
riprendere alcune riflessioni avviate un paio di anni fa e di riproporle ad un
pubblico di specialisti di tematiche attinenti l’oggetto della mia relazione e mi
riferisco in particolare, ma non soltanto, ai colleghi Giovanni Brizzi, che abbiamo
appena ascoltato, e al presidente di questa seduta, Giuseppe Zecchini.
Il tema da me prescelto non è certo nuovissimo e su esso si sono in fondo
cimentati, chi più chi meno, quanti in passato si sono trovati a discutere delle
imprese di Scipione l’Africano e delle sue altissime doti di comandante e stratega,
fin dai tempi, oserei dire, dei famosi raffronti fra grandi condottieri, romani e non
romani, quali quello liviano,1 quello lucianeo2 e la più tarda Collatio inter Scipionem
Alexandrum Hanibalem et Pyrrum, attribuita ormai unanimemente a Francesco
Petrarca.3
Le grandi capacità strategiche e militari di Scipione sono ormai conosciute
in tutte le sfaccettature e sono state valutate in tutte le possibili articolazioni
prospettiche. Chi volesse approfondire nei particolari tali tematiche può rivolgersi
ai numerosi scritti di Brizzi (non ultimo il suo avvincente romanzo su Scipione e
Annibale) per avere tutte le risposte del caso.4
La vittoria finale contro Annibale, a Zama, mostrò il grado di affinamento
raggiunto dall’Africano nell’applicazione delle nuovissime e spregiudicate tattiche
e strategie che avevano consentito al grande condottiero cartaginese di sbaragliare
ripetutamente le legioni romane (il riferimento è alla nova sapientia, indice di un
1
Liv. IX 17-19; XXXV 14, 5-12.
Luc. dial. X 12.
3
Cfr. G. Martellotti, La Collatio inter Scipionem Alexandrum Hanibalem et Pyrrum. Un
inedito del Petrarca nella Biblioteca della University of Pennsylvania, in Mediaeval and Renaissance Studies in Honor of
B.L. Ullman, II, Roma 1964, 145-168 (ora in Id., Scritti petrarcheschi, a c. di M. Feo e S. Rizzo, Padova
1983, 321-346). Utili osservazioni sullo Scipione petrarchesco in A. Tedeschi, La partenza di Scipione
per la Spagna fra problemi di coscienza e problemi di tradizione letteraria (Livio, Silio Italico e Petrarca a confronto),
«Aufidus» VIII (1994), 7-24.
4
Il romanzo storico in oggetto è G. Brizzi, Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma,
Roma-Bari 2007 (con elenco dei suoi numerosi titoli relativi al tema, 387-389).
2
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
| 92
rovesciamento di prospettive etico-politico-militari che tanta fortuna avrebbe
avuto nel prosieguo della storia di Roma),5 ma non si può evitare di risalire alla
guerra condotta in Hispania per meglio cogliere i termini del processo evolutivo che
avrebbe portato Scipione a raggiungere vertici nell’arte militare mai attinti prima
da generali romani. Secondo gli studi più recenti6 è in Spagna, con lui, che sembra
esser nata la struttura coortale delle legioni, innovazione che era tradizionalmente
attribuita dagli studiosi a Gaio Mario; così come l’apertura pubblica della
coscrizione ai capite censi, una misura che, al di là della coloritura rivoluzionaria in
essa individuata concordemente dagli storici antichi, non era però del tutto nuova,
avendo altri fatto, in maniera però occulta, quello che Mario avrebbe reso
pubblico.7 La legalizzazione dell’uso ebbe conseguenze imprevedibili come quella
di creare eserciti professionali e, soprattutto, quella di instaurare strettissimi
vincoli di fedeltà fra truppe e comandanti, col risultato che i soldati, ormai veri e
propri professionisti, finirono col considerarsi al servizio del loro dux prima che
della res publica, con le devastanti ripercussioni delle guerre civili a tutti noi più che
note.8
Va da sé che un saldo vincolo di solidarietà tra milites e dux non aveva certo
bisogno di riforme siffatte per nascere ed affermarsi, come mostrano numerosi
esempi, molti dei quali riguardanti proprio Scipione fin dai tempi della sua
avventura ispanica.
Non è mia intenzione entrare nella ricostruzione minuziosa degli eventi
che riguardarono l’Africano negli anni del suo incarico in terra di Spagna né sui
relativi aspetti storiografici, su cui ha contribuito a far luce abbastanza
5
Cfr. Liv. XLII 47, 9 (Haec seniores, quibus nova ac callida minus placebat sapientia; vicit tamen ea pars
senatus, cui potior utilia quam honesti cura erat). Cfr. J. Briscoe, Q. Marcius Philippus and nova sapientia, «JRS»
LIV (1964), 66-77.
6
Cfr. M.J.V. Bell, Tactical Reform in the Roman Republican Army, «Historia» XIV (1965), 404-422;
le cui conclusioni sono sviluppate in G. Brizzi, I Manliana imperia e la riforma manipolare: l‟esercito romano
tra ferocia e disciplina, «Sileno» XVI (1990), 185-206, 201 ss.; Id., Fides, Virtus, Disciplina, in C. Fiore (a
cura di), Stato maggiore dell‟esercito. Esercito e comunicazione, Latina-Roma 1993, 69-100, 94 ss.; Id., Storia di
Roma, Bari 1997, 535; Id., Il guerriero, l‟oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna 2002, 113 ss.
7
Come scrisse già H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, I3,
Berlin 1920, 453, la riforma mariana dell’arruolamento «ha dato la forma corrispondente ad un
fatto già esistente». Sulla tematica cfr., fra le tante, le varie posizioni di A. Schulten, Zur Heeresreform
des Marius, «Hermes» LXIII (1928), 240; J. Harmand, Le proletariat dans la légion de Marius à la veille du
second Bellum civile, in J.-P. Brisson (Éd.), Problemes de la guerre à Rome, Paris 1969, 161 ss.; Id., L‟armèe et le
soldat à Rome de 107 à 50 avant notre ére, Paris 1967, 9-25; P.A. Brunt, Italian Manpower, 225 B.C.-A.D. 14,
Oxford 1971, 391-415; E. Gabba, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973, 1-174; M.
Sordi, L‟arruolamento dei capite censi nel pensiero e nell‟azione politica di Mario, «Athenaeum» n.s. L (1973), 379385; H. Aigner, Gedanken zur sogenannten Heeresreform des Marius, Innsbruck 1974, 11-23; K. Hopkins,
Conquerors and Slaves, Cambridge 1978, 25-37; R. Marino, Mario e i capite censi, in La rivoluzione romana:
inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1982, 128-138; e, da ultimo, C.A. Matthew, On the Wings of Eagles. The
Reform of Gaius Marius and the Creation of Rome‟s First Professional Soldiers, Newcastle 2010.
8
Sugli effetti della professionalizzazione dell’esercito cfr., ad es., E. Gabba, Il declino della
milizia cittadina e l‟arruolamento dei proletari, in A. Schiavone (dir.), Storia di Roma, II 1, Torino 1990, 691
ss.; Id., L‟età della tarda repubblica, in Id., D. Foraboschi, D. Mantovani, E. Lo Cascio, L. Troiani,
Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, 120 ss.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100
Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
| 93
recentemente il nostro Zecchini in una convincente relazione tenuta nel convegno
sulla Hispania della Fondazione Canussio, ai cui Atti naturalmente rimando.9
Vorrei solo limitarmi a proporre alcune piccole riflessioni riguardanti la gestione
dei soldati da parte del comandante durante l’impresa e sulla considerazione che
per converso questi avevano nei suoi confronti.10
Bisogna anzitutto dire che l’adozione di tattiche spregiudicate come quelle
di Annibale da parte di un generale, tattiche non più statiche, come quelle
tradizionali, ma altamente dinamiche, complesse, spregiudicate, presupponevano
grande flessibilità, donde, ad esempio, l’intelligente scelta dell’introduzione di
unità compatte, ma agili e numericamente congrue come le coorti (unità di 600
uomini in tre manipoli, intermedie tra questi e la legione), che avevano anche «il
merito di scandire lo schieramento nel senso della profondità, dando vita ad un
reparto più solido e compatto».11 Un generale che, messa da parte la concezione
“cavalleresca” e arcaica della guerra e l’obsoleto codice bellico dei romani, volesse
far uso di tali tattiche, frutto dei più avanzati dettami della scuola militare
ellenistica, la migliore del tempo, doveva poter contare su soldati assolutamente
fedeli e altamente disciplinati ed addestrati, pronti senza esitazione alcuna a
recepire le direttive del dux, per controbattere immediatamente le inattese mosse di
un nemico scaltro, geniale e perfido, senza alcun senso di rispetto della tradizionale
fides.12 Quanto leggiamo nelle fonti conferma che il giovanissimo Scipione aveva
piena coscienza di ciò e di conseguenza adottò nella provincia iberica, ai tempi
della sua primissima esperienza di comandante in capo, cui l’abilitava l’imperium
proconsulare per la prima volta concesso ad un privatus,13 comportamenti atti ad
accrescere nei soldati che militavano nel suo esercito sia il senso della fedeltà al
comandante che quello della più rigorosa disciplina.
Il discorso della fedeltà riguardava anche, se non soprattutto, la
componente dell’esercito costituita dai socii, cioè precipuamente dai guerrieri
ispani, che, spregiata l’alleanza punica, erano andati a schierarsi a poco a poco
sotto le sue insegne. Non è difficile pensare che gli atti di magnanimità nei
confronti dei locali e soprattutto degli ostaggi liberati dalle mani dei cartaginesi a
9
G. Zecchini, Scipione in Spagna: un approccio critico alla tradizione polibiano-liviana, in G. Urso (a
cura di), Hispania Terris Omnibus Felicior. Processi ed esiti di un processo di integrazione. Atti del Convegno
Internazionale (Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001), I Convegni della Fondazione Canussio,
Pisa 2002, 87-103.
10
In generale, sulle strutture di comando romane e la Spagna, utili R.C. Knapp, Aspects of the
Roman Experience in Iberia 206-100 B.C., Valladolid 1977; V. Sumner, Proconsuls and Provinciae in Spain
218/7-196/5 BC, «Arethusa» III (1979), 85-102; R. Develin, The Roman Command Structure and Spain 218190 B.C., «Klio» LXII (1980), 355-368; R.T. Ridley, The Extraordinary Commands of the Later Republic – a
Matter of Definition, «Historia» XXX (1981), 280-297; M. Salinas de Frias, El gobierno de las provincias
hispanas durante la república romana (218-27 A.C.), Salamanca 1995; J.-M. Roddaz, Les Scipions et l‟Hispanie,
«REA» C (1998), 341-358.
11
Brizzi, Scipione e Annibale, cit., 121.
12
Su tutto ciò vd. Brizzi, Il guerriero, cit. e la bibliografia ivi citata.
13
Sul tema, da ultimo, W. Blösel, Die „Wahl‟ des P. Cornelius Scipio zum Prokonsul in Spanien im
Jahr 210 v. Chr., «Hermes» CXXXVI (2008), 326-347 (al quale si rimanda per la bibliografia
precedente).
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100
Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
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Cartagena (le donne in particolare) ricordati dalle fonti 14 avessero lo scopo
precipuo di attirare dalla sua parte il maggior numero possibile di ispani, cosa che,
a giudicare dagli eventi tràditi, gli riuscì pienamente. Un esempio tra i tanti, molto
significativo, è quello che riguarda il giovane Allucio che si vede del tutto
inaspettatamente restituita la bellissima fidanzata senza riscatto alcuno, perché
l’oro, che i genitori della ragazza hanno a tal uopo destinato e che Scipione rifiuta
ma è poi costretto ad accettare, viene subito trasformato da Publio in dote nuziale
per i futuri sposi, col risultato che di lì a poco tempo il giovane principe corre a
schierarsi nell’esercito romano alla testa di un gran numero di cavalieri (ben 1400
secondo Livio.)15 Atteggiamenti fondamentalmente propagandistici, non c’è
dubbio, ammantati di generosa magnanimità dalle fonti, che avevano grande
impatto tra gli ispani, distogliendoli dall’alleanza punica, ma in contemporanea
rendendoli oltremodo riconoscenti verso il loro benefattore, per il quale avrebbero
volentieri combattuto da quei formidabili guerrieri che erano e volentieri dato in
battaglia la loro vita.
La fedeltà e la benevolenza dei soldati la si guadagna in tante maniere e
mettendo in atto accorgimenti che sicuramente saranno stati codificati nella
casistica riguardante qualsiasi modello di perfetto condottiero. A giudicare dalle
fonti Publio ne era ben conscio. Non solo non lesinò gli elogi per i combattenti di
Spagna, a cui già al suo arrivo riservò lodi sperticate, riconoscendo che, sebbene
sconfitti due volte in veloce successione, non si erano scoraggiati e avevano
mantenuto il controllo della provincia, tenendo a bada un nemico molto superiore
di forze.16 L’intensità degli elogi crebbe poi a dismisura in seguito alle vittorie
subito da lui riportate, come quella dell’espugnazione di Cartagena.17 La
susseguente contesa per l’assegnazione della corona murale, reclamata in
contemporanea da un legionario e da un socius navalis con l’appoggio dei relativi
comandanti e commilitoni, vide all’opera un Publio non soltanto generoso e giusto
(con la sua salomonica decisione di premiare entrambi), ma altamente perspicace e
lungimirante: sia esercito che flotta gli sarebbero rimasti riconoscenti. Queste doti
sono ampiamente testimoniate dagli elogi e dai premi che distribuì poi a piene
mani prout cuiusque meritum virtusque erat,18 traendoli dal bottino concesso ai soldati una
volta conquistata la città.19 Il tutto secondo la rigida regola tramandataci da
Polibio, che ricorda il giuramento dei singoli soldati di non impossessarsi di nessun
oggetto predato.20
14
Liv. XXVI 49 e 50.
L’episodio è riferito da Liv. XXVI 50, 1-14; Val. Max. IV 3, 1; Sil. XV 268 ss. Nel
Rinascimento l’episodio divenne esemplare e furono numerose le sue riproduzioni pittoriche, tese
ad esaltare “La continenza di Scipione”. A scopi politici lungimiranti rispondeva anche la decisione
di liberare il giovane nipote di Massinissa (Liv. XXVII 19).
16
Liv. XXVI 20, 1 ss.
17
Liv. XXVI 48, 4: Militum deinde virtutem collaudavit, quod eos non eruptio hostium, non altitudo
moenium, non inexplorata stagni vada, non castellum in alto tumulo situm, non munitissima arx deterruisset, quominus
transcenderent omnia perrumperentque.
18
Liv. XXVI 48, 14.
19
Liv. XXVI 46, 10.
20
Polyb. X 16.
15
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Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
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La fedeltà dei soldati era garantita dalla benevolenza del comandante, ma
anche dalla sua severità, come mostrano ampiamente gli eventi del 206 legati al furor
in castris ad Sucronem ortus.21 Tornato dall’abboccamento con Siface in terra d’Africa,
Scipione era caduto gravemente ammalato e si era addirittura diffusa la notizia
della sua morte, cosa che provocò una seditio tra parte delle truppe (Omnia libidine ac
licentia militum, nihil instituto ac disciplina militiae, aut imperio eorum qui praeerant, gerebatur,
scrive Livio).22 Ripreso il controllo della situazione, con un giusto mix di iusta ira e
di clementia,23 di rigore, cioè, e umanità, Publio punì con la morte i capi e i
promotori dell’ammutinamento, ma perdonò tutti gli altri, cui fece subito
distribuire lo stipendium, nella ritardata corresponsione del quale avevano essi
indicato la causa prima dell’ammutinamento.24 Questo ci dà naturalmente lo
spunto per inserire anche la puntualità nel pagamento del soldo tra gli elementi
capaci di assicurare fedeltà ed obbedienza al comandante. Il discorso ai ribelli del
Sucrone riportato da Polibio25 ci fa capire come Scipione ritenesse anche essenziale,
in tale prospettiva, che il comandante distribuisse fatiche e pericoli in maniera equa
e uniforme tra i suoi uomini e così i vantaggi e le gratificazioni.
Né si deve trascurare tra gli elementi utili alla captatio benevolentiae l’efficacia
dell’esempio personale del comandante, soprattutto in battaglia, quando il dux deve
essere hortator testisque (secondo un comportamento di Marcello sottolineato da
Livio),26 ma deve anche essere praesens, partecipare in prima persona, come faceva
Scipione,27 alla battaglia, correre, con le dovute precauzioni (precisate da Polibio
nel racconto dell’assalto a Cartagena),28 gli stessi rischi dei suoi uomini, secondo
quella che era affermata tradizione negli eserciti romani, i cui capi non
disdegnavano neppure, all’occorrenza, di ricorrere a gesti estremi come la devotio
per assicurare la vittoria ai loro uomini e alla loro res publica.
Oltre che di fedeltà e obbedienza un denso rapporto del comandante col
suo esercito si nutre anche di disciplina ed esercizio. L’ozio dei soldati è di per sé
pericoloso (e l’episodio del Sucrone, secondo le parole riferite da Livio o da
Polibio, ne dà una chiara dimostrazione),29 ma l’esercizio diventa essenziale se si
voglia disporre di soldati all’altezza della situazione, fisicamente in forma, allenati
al combattimento, capaci di eseguire prontamente le evoluzioni richieste. Anche a
questo provvedeva Scipione se si deve prestar fede al dettagliato racconto polibiano
21
Per la vicenda (Liv. XXVIII 24, 5 ss.) cfr. E.T. Salmon, Scipio in Spain and the Sucro Incident,
«Studii Clasice» XXII (1986), 77-84; e G. Chrissanthos, Scipio and the Mutiny in Sucro, «Historia» XLVI
(1997), 172-184.
22
Liv. ibid.
23
Liv. XXVIII 25.
24
Polyb. XI 25-30; Liv. XXVIII 24, 5-29.
25
Polyb. XI 28.
26
Liv. XXVII 14, 4.
27
Liv. XXVI 41 e 44.
28
Polyb. X 13, 1.
29
Liv. XXVIII 24, 5 ss. Polibio, in particolare, nel descrivere gli eventi (XI 25), attribuisce a
Scipione l’affermazione che non bisogna permettere che prevalgano l’ozio e l’inerzia, specialmente
quando le cose vanno bene e si dispone di grande abbondanza di mezzi.
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Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
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e a quello liviano relativi al duro addestramento cui avrebbe sottoposto i suoi
uomini dopo la presa di Cartagena.30 Per farla breve, la tradizione storiografica
pervenutaci ci presenta uno Scipione che niente trascurò in terra ispanica per farsi
benvolere, rispettare ed ubbidire dal suo esercito, che, da parte sua, corrispose in
pieno alle aspettative.
L’Africano fu accusato dai suoi avversari politici di adottare atteggiamenti
regali (e non solo a livello meramente storiografico). La cosa, come è noto, era
strettamente collegata anche con un paio di episodi della epopea militare di
Scipione in terra ispanica31 e tramandatici da Polibio nel X libro delle Storie32 e, in
parte, da Livio, nel XXVII dei suoi ab Urbe condita libri.33
Il racconto polibiano è quello più dettagliato ed è per noi prezioso nella
misura in cui le fonti di informazione di cui poteva disporre lo storico acheo (si
pensi, ad es., a Lelio, testimone oculare dei fatti, o ad altri esponenti della cerchia
degli Scipioni, con cui il Megalopolitano aveva grande familiarità) erano molto
attendibili.34 Altrettanto preziosa è la tradizione liviana relativa ai detti eventi, che,
pur essendo di chiara ascendenza polibiana, mostra una evidente commistione con
elementi desunti da buona fonte annalistica.35
Stando a quanto si legge in Polyb. X 40, già durante la marcia verso Becula
(siamo nel 207), Edecone e Indibile lo avevano interpellato col titolo di re
(ἁπάντων βασιλέα προσφωνούντων), prosternandosi davanti a lui. Senza
rifletterci su, Scipione aveva allora fatto passare la parola (ἀνεπιστάτος αὐτὸν
παρέδραμε τὸ ρηθέν). Ma quando, dopo la battaglia, tutti gli iberi
concordemente lo chiamarono re, si rese conto dell’enormità della cosa e, riunitili,
dichiarò che accettava il titolo di “regale” (βασιλικὸς μεν ἔφε βούλεσθαι καὶ
λέγεσθαι παρὰ πᾶσι), ma che non acconsentiva né ad essere re, né a ricevere il
titolo di re da nessuno (βασιλεύς γε μὴν οὔτε ἐθέλειν (εἷναι) οὔτε λέγεσθαι
παρ᾿ οὐδενί). Ciò detto ordinò loro di salutarlo col titolo di στρατηγός. Livio
tramanda una versione analoga a quella polibiana. Aggiunge, desumendolo
probabilmente dalla buona fonte annalistica cui si accennava prima o facendo di
30
Polyb. X 20; Liv. XXVI 51, 3 ss.
Per la consistente bibliografia sulla spedizione ispanica si rimanda a Brizzi, Storia di Roma,
cit., 505; e a Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 87 ss.
32
Polyb. 10, 40.
33
Liv. XXVII 19, 3-6. Che il dilungarsi sull’episodio servisse nel racconto storiografico a
coprire quello che in realtà, nonostante la vittoria riportata sul campo, era stato quasi un insuccesso
(poiché Asdrubale era riuscito ugualmente a disimpegnarsi e a procedere verso l’Italia e la tragica
disfatta del Metauro), sosteneva R. Combès Imperator: recherches sur l‟emploi et la signification du titre
d‟imperator dans la Rome républicaine, Paris 1966, 59 s. Un giudizio non del tutto positivo su Scipione a
Becula (un “successo tattico”, ma un “insuccesso strategico”) in Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 95 s.
34
Per la possibilità polibiana di attingere a certe fonti (circolo dell’Emiliano, Lelio), cfr., ad
es., A. Aymard, Polybe, Scipion l‟Africain et le titre de “roi”, «Revue du nord» XXXVI (1954), 121-128, 125
(ora in Id., Etudes d‟Histoire ancienne, Paris 1967, 391); R.M. Haywood, Studies on Scipio Africanus,
Baltimore 1933, 38; F.W. Walbank, A Historical Commentary of Polybius, II, Oxford 1967, 252; É.
Foulon, BASILEUS SKIPIWN, «BAGB» 1992, 10.
35
G. De Sanctis, Storia dei Romani, 3, 2, Firenze 1916, 480 n. 60; Aymard, Polybe, cit., 1954, 30
s.; Walbank, A Historical Commentary, cit., 252; Foulon, BASILEUS, cit., 10.
31
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Antonino Pinzone, L‟interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione l‟Africano
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suo una riflessione dettata da atmosfere ideologiche a lui più vicine, che Scipione
avrebbe precisato che regium nomen alibi magnum, Romae intolerabile esse e che pertanto sibi
maximum nomen imperatoris esse ... quo se milites sui appellassent. Era disposto ad accettare
solo il titolo di imperator, con cui era stato acclamato dai suoi milites, non quello di
re.36 Sul tema della regalità di Scipione mi sono intrattenuto altrove37 e questo mi
esime dal trattare l’argomento, peraltro inutile ai fini del mio discorso.
Il passo liviano prima riportato, secondo molti studiosi (con in testa
Combès), costituirebbe la primissima attestazione del titolo di imperator, che tanta
fortuna avrebbe poi avuto nel corso dei secoli.38 Il confronto col testo polibiano,
dove si legge che Scipione avrebbe accettato di essere chiamato στρατηγός – non
c’è l’uso del termine αὐτοκράτωρ, che da età sillana in poi e per tutta l’età
imperiale sarebbe stato il corrispondente greco del termine imperator –39 e i noti
riscontri epigrafici,40 ci inducono a credere che con tale termine durante l’età
scipionica si indicasse il detentore di un potere esclusivamente militare e che esso
fosse intimamente collegato con l’acclamazione del capo vincitore da parte delle
truppe a lui subordinate.41 Le considerazioni del de oratore ciceroniano42 con la netta
distinzione tra l’imperator e il rei publicae rector, l’inserimento dell’Africano tra gli
imperatores dotati dei necessari requisiti (administratores belli gerendi con tutti i compiti
connessi, esperti, sia per ingegno naturale che per studi teorici, dei problemi della
guerra),43 confermano, se ce ne fosse bisogno, tale interpretazione. Si potrebbe
forse discutere, ma bisognerebbe molto approfondire l’indagine, come non è
possibile fare in questa sede, l’idea di quanti sostengono che Scipione avrebbe
conferito al titolo un valore istituzionale, dato che si trovava in una condizione
giuridica speciale, che era poi, notoriamente, quella del privatus cum imperio, di un
privatus, cioè, che, al di fuori del tradizionale cursus honorum, ricopriva i comandi più
elevati, anche di rango proconsolare.44
36
Liv. XXVII 19, 6.
Cfr. (anche per i relativi riferimenti bibliografici) A. Pinzone, La regalità di Scipione, in M.
Caltabiano, C. Raccuia, E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli
del potere politico nel mondo greco e romano. Giornate seminariali in onore di S. Nerina Consolo Langher
(Messina 17-19 Dicembre 2007), Pelorias 18, Soveria Mannelli 2010, 385-391.
38
Combès, Imperator, cit. Sul tema cfr. pure le posizioni, anche contrastanti, di De Sanctis,
Storia, cit., 454 n. 18; A. Momigliano, Ricerche sulle magistrature romane, II, Imperator, «BCAR» LVIII
(1930), 52 (ora in Id., Quarto Contributo, Roma 1969, 282); M.A. Levi, L‟appellativo imperator, «RFIC» LX
(1932), 207 ss.; H.H. Scullard, Scipio Africanus, Soldier and Politician, Bristol 1970, 76; 81; R. Develin,
Scipio Africanus Imperator, «Latomus» XXXVI (1977), 110-113 ; P.M. Martin, L‟idée de royauté à Rome, II:
Haine de la royauté et séductions monarchiques (du IV e siècle av. J.–C. au principat augustéen), Clermont Ferrand
1994, 297.
39
Cfr. Combès, Imperator, cit., 55 ss.; Develin, Scipio, cit., 111.
40
CIL II 3836; I2 2, 622 (cfr. Liv. XLIV 2, 7); II 5041; I2 2, 626.
41
Cfr Combès, Imperator, cit., 55 ss.; e soprattutto 111 ss.; Scullard, Scipio, cit., 96; H.
Versnel, Triumphus, Leiden 1970, 340 ss.; Develin, Scipio, cit., 110-113; B. Tisè, Imperialismo romano e
imitatio Alexandri. Due studi di storia politica, Lecce 2002, 51 s.
42
Cic. de or. I 210-211.
43
Tisè, Imperialismo, cit., 51.
44
Cfr. Combès, Imperator, cit., 55 ss.; Develin, Scipio, cit., 110; Tisè, Imperialismo, cit., 51.
Sull’imperium pro consule concesso all’Africano per la sua spedizione ispanica (per cui Liv. XXVI 18;
37
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Ma non è esattamente su questo aspetto del problema, peraltro
dibattutissimo, che volevo richiamare la vostra attenzione, quanto piuttosto
sull’acclamazione a imperator dei soldati, sul suo momento, sulle cause. Su tali aspetti
della problematica le fonti tacciono completamente e sta quindi a noi cercare di
chiarirli. Quanto al possibile momento dell’acclamazione, mi pare difficile pensare
ad altro che a quello dell’arrivo di Scipione in Spagna tra i soldati rimasti a
difendere la provincia o a quello immediatamente successivo alla gloriosa e
importante conquista di Nova Carthago. Nel primo caso l’acclamazione si
visualizzerebbe come un riconoscimento a Scipione del suo buon diritto a essere
soggetto attivo di imperium, un riconoscimento, però, fatto a scatola chiusa, forse in
rispondenza alla grande fiducia nei suoi mezzi che il giovane mostrava, al presunto
favore divino di cui si vociferava godesse, o, forse meglio, in omaggio al padre e
allo zio, sotto le cui insegne molti di quegli uomini avevano militato. Sicuramente
più probabile riterrei il secondo momento, quando la vittoria venuta in seguito alla
lungimiranza e alle grandi capacità del comandante e all’aiuto divino, come
pensavano in molti (contro la volontà di Scipione e del suo razionalismo
ampiamente rivendicato da Polibio),45 aveva mostrato che era degno dell’imperium
che gli era stato conferito a Roma ancorché privatus, e soprattutto che era “ancora”
titolare di tale imperium. Non suonino strane o erronee queste ultime parole, ma a
me risulta difficile liberarmi dall’impressione, fortemente alimentata dalla lettura
di molte acute pagine di Pierangelo Catalano, che la mente e gli animi dei romani
dello scorcio finale del terzo secolo a.C. non si fossero ancora del tutto liberati
dalle arcaiche convinzioni ingenerate dal rispetto di norme spaziale – giuridico –
religiose, come quella che voleva che il magistrato perdesse l’imperium conferitogli a
Roma secondo la procedura, cioè col benestare dell’augure (auspicato) e con la lex
curiata de imperio,46 già solo attraversando un corso d’acqua, che frapponendosi tra
cielo, uomo e terra, faceva venir meno quel compatto nesso verticale
imprescindibile per il suo mantenimento.47 O ancora, se vogliamo, l’importanza
Val. Max. III 7, 1; App. Ib. 18-19; Cass. D. LVII 39-40; Zon. IX 7) cfr. Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, II3, Leipzig 1887, 652, 659 n. 4; De Sanctis, Storia, cit., 454 n. 18; Levi, L‟appellativo, cit.,
210-218 ; H. Siber, Römische Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Lahr 1952, 214 s.; D. Kienast,
Imperator, «ZRG» XCI (1961), 403-421, 408 ; W.F. Jashemski, The Origins of the Proconsular and the
Propraetorian Imperium to 27 B.C., rist. anast. Roma 1966, 29; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the
Roman Republic, I, Cleveland 1968, 280; Scullard, Scipio, cit., 32; F. De Martino Storia della costituzione
romana, Napoli 19732, II, 224; P. Pinna Parpaglia, La carriera di Scipione nella guerra annibalica, «Labeo»
XXVI (1980), 339-354, 344 s.; Brizzi, Storia di Roma, cit., 200; Id., Scipione e Annibale, cit., 367;
Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 89; e Blösel, Die „Wahl‟, cit. (con ulteriore bibl.).
45
Cfr. infra, n. 50.
46
Cfr. J. Toutain, Imperium, in D.A.G.R. III, 1900, 418 s.
47
Mi riferisco in particolare a P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano.
Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, «ANRW» II 18, Berlin-New York 1978, 535 s., con
sottolineatura dell’importanza della differenza nel diritto augurale di terra e aqua. L’interruzione
dell’augurium aquae intercessu, è testimoniata da Serv. ad Aen. IX 24. Altra documentazione in A.
Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l‟antiquité, IV, Paris 1882, 230 ss.; e R. von Scheliha, Die
Wassergrenze im Altertum, Historische Untersuchungen 8, Breslau 1931, 56 ss. Per l’importanza
religiosa dell’acqua, vd. M. Ninck, Die Bedeutung des Wassers im Kult und Leben der Alten. Ein
symbolgeschichtliche Untersuchung, Philologus Suppl. 14, 2, Leipzig 1921
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giuridico – sacrale della terra Italia ai fini del conferimento di cariche magistratuali,
del mantenimento di certe prerogative, dello svolgimento di determinati riti
augurali,48 una condizione assente in territorio provinciale (come mostra il caso di
Levino, che, nel 210, vuole procedere alla nomina di un dictator in Sicilia e il senato
glielo impedisce perché l’ager Romanus necessario per la nomina era circoscritto
all’Italia (eum in Italia terminari).49 Sono diversi gli esempi che si potrebbero
aggiungere a tal proposito, ma che il rispetto dei limiti di tempo mi induce a
tralasciare.
Sulla base del presupposto prima enunciato, l’acclamazione di Scipione ad
imperator da parte dei soldati potrebbe avere un significato che travalica quello di
uno scontato ossequio al proprio generale: gli eventi di Carthago Nova (con
particolare riferimento anche al preteso intervento nettunio sulla marea che aveva
favorito l’assalto)50 dimostravano ampiamente che l’imperium di Publio non si era
volatizzato nel tragitto da Roma alla Spagna (o che perlomeno una difficilmente
proponibile ripetizione dei riti augurali in Spagna glielo avesse fatto recuperare). I
soldati avrebbero potuto fare un atto di fede acclamando Scipione subito, al suo
arrivo, ma solo il suo comportamento, la sua vittoria, l’uccisione di un certo
numero di nemici,51 avrebbero dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che
egli deteneva ancora l’imperium, quell’imperium (e quell’auspicium) che, come sembra
credere Livio in un passo molto significativo ai nostri fini,52 i ribelli del Sucrone,
rompendo sacramenti religionem, avrebbero poi rinnegato. Quello dei soldati finiva
con l’essere non solo un riconoscimento, ma anche una testimonianza precisa, che,
48
Sul tema della terra Italia, vd. Catalano, Aspetti, cit. 534 ss.; Id., Appunti sopra il più antico
concetto giuridico di Italia, «AAT» XCVI (1961-1962), 198-228; V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari
romane, Milano 1974, 3-4, n. 9; G. Urso, Il concetto di alienigena nella guerra annibalica, C.I.S.A. XX, Milano
1994, 223-236; H. Mouritsen, Italian Unification: A Study in Ancient and Modern Historiography, London
1998, 50 s.; e E. Bispham, From Asculum to Actium. The Municipalization of Italy from the Social War to
Augustus, Oxford 2007, 53 ss.
49
Liv. XXVII 5, 15; cfr. 29, 5, su cui cfr. De Martino, Storia, cit., 272; W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römisches Völkerrecht im dritten und zweiten Jahrhundert v. Chr., München 1968, 161
n. 5; Catalano, Aspetti, cit., 501; A. Pinzone, Provincia Sicilia. Ricerche di storia della Sicilia Romana da Gaio
Flaminio a Gregorio Magno, Catania 1999, 83; Bispham, From Asculum, cit., 67.
50
Cfr. Liv. XXVI 45, 9: hoc ... in prodigium ac deos vertens Scipio ... Neptunium iubebat ducem itineris
sequi. Non Scipione, ma alcuni storici avrebbero, secondo il razionalista Polibio (X 8 e 9), attribuito
ad un intervento divino o alla fortuna il merito della riuscita dell’impresa, dovuta invece a
fenomeni naturali noti al giovane generale, per averli appresi da pescatori del luogo. Nella vasta
bibliografia sull’argomento, vd., ad es., Scullard, Scipio, cit., 59-60; A. e M. Lillo, On Polybius X, 10-12
and the Capture of New Carthage, «Historia» XXXVII (1988), 477-480; B.D. Hoyos, Sluice-gates or Neptune
at New Carthage 209 B.C., «Historia» XLVII (1992) 124-128; E. Foulon, Polybe X, 2-20: la prise de
Carthagène par Scipion, «RPh» LXIII (1989), 241-264; Id., Un miracle de Poséidon: Polybe X, 8, 15, «REG»
CX (1998), 503-517; B.J. Lowe, Polybius 10.10.12 and the Existence of Salt-Flats at Carthago Nova,
«Phoenix» LIV (2000), 39-52; Tisè, Imperialismo, cit., 50; Zecchini, Scipione in Spagna, cit., 94; A.
Acimovic, Scipio Africanus, New York 2007, 8 ss.
51
Per come l’acclamazione ad imperator fosse legata al numero dei nemici uccisi (con cifre
crescenti nel tempo), cfr. E. De Ruggiero, Imperator, in D.E., IV, 1950, 41 s. (con rinvio a Cic. Phil.
XIV 5, 12; App. b.c. II 44; Diod. XXXVI 14; Cass. D. XXXIV 40; Val. Max. II 8, 1).
52
Liv. XXVIII 27, 4.
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al di là (o prima) della vittoria, si alimentava del complesso dei fatti e degli
atteggiamenti messi in essere dal futuro Africano fin dal momento in cui aveva
messo piede in Spagna, soprattutto quelli che avevano per destinatari i suoi soldati.
In tale prospettiva l’acclamazione ad imperator finiva per assumere i connotati di una
vera e propria sanzione di un patto tra milites e condottiero, un patto che entrambe
le parti si dovevano impegnare a conservare e rispettare con tutte le loro forze.
Antonino Pinzone
Dipartimento di Scienze dell’Antichità
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Messina
Polo Annunziata
98168 Messina
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 91-100
JONATHAN R.W. PRAG
Troops and commanders:
auxilia externa under the Roman Republic*
I. Introduction
During the last two centuries of the Roman Republic, the Roman state
made use of troops from outside of Italy, i.e. from peoples not included in the
formula togatorum, and who were not part of the socii ac nomen Latini. These soldiers can
be classified under the semi-formal designation of auxilia externa, although the term
is used with little regularity, and they are more usually described by our sources in
diverse ways (typically by ethnic, e.g. ‘Aetolians’, and/or type of soldier, e.g.
funditores); frequently their presence can only be inferred or guessed at. 1 The
evidence exists to suggest that the use of these troops was extensive, but their
existence is rarely acknowledged in modern discussions of the Roman army, and
there is to date no systematic collection or analysis of the material as a whole.2
*
This paper derives from ongoing work on a monograph provisionally entitled Non-Italian
Manpower: auxilia externa under the Roman Republic, with support from the AHRC; see already J.R.W.
Prag, Auxilia and gymnasia: a Sicilian model of Roman Republican Imperialism, «JRS» XCVII (2007), 68-100. I
am grateful to Prof.ssa R. Marino for the invitation to participate at the conference at which a
version of this paper was first presented, and to the department of ancient history at Palermo as a
whole, and Davide Salvo in particular, for their generous hospitality.
1
The key texts are: Fest. 16 L: Auxiliares dicuntur in bello socii Romanorum exterarum nationum ...;
Varro ling. V 90: auxilium appellatum ab auctu, cum accesserant ei qui adiumento essent alienigenae; Liv. XXII 37,
7-8 (a view attributed to Hieron II in early 216 BC): Milite atque equite scire nisi Romano Latinique nominis
non uti populum Romanum; levium armorum auxilia etiam externa vidisse in castris Romanis; itaque misisse mille
sagittariorum ac funditorum, aptam manum adversus Baliares ac Mauros pugnacesque alias missili telo gentes.
2
Of note are: A. Afzelius, Die römische Kriegsmacht während der Auseinandersetzung mit den
hellenistischen Grossmächten, Aarhus 1944, 90-98 reviews the Livian evidence for 200-167 BC; C.
Hamdoune, Les auxilia externa africains des armées romaines, IIIe siècle av. J.-C.- IVe siècle ap. J.-C, Montpellier
1999, 7-104 discusses the Numidian evidence in detail; F. Cadiou, Hibera in terra miles. Les armées
romaines et la conquête de l’Hispanie sous la République (218-45 av. J.-C.), Madrid 2008, 611-84 discusses the
Spanish evidence in detail; J.B. McCall, The Cavalry of the Roman Republic, London 2002, 100-113 on
cavalry auxiliaries. The best overviews of the place of Republican auxiliaries can be found in G.L.
Cheesman, The Auxilia of the Roman Imperial Army, Oxford 1914, 7-11, and V. Ilari, Gli Italici nelle strutture
militari romane, Milan 1974, 25 n. 1. By contrast, J. Harmand, L’Armée et le Soldat à Rome de 107 à 50
avant notre ère, Paris 1967, 41-51 largely repeats the misleading generalisations of Passerini, Marquardt
and others.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
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This study will take the existence and use of such auxilia in the Republican
period for granted, and instead focuses on the question of who commanded the
units of auxilia. In existing studies the specific question of who commanded these
troops is rarely addressed. Modern scholarship either emphasises our lack of
knowledge, or notes the (limited) presence of native commanders, or suggests that
things became more regularised over time (although how this took place is
generally unclear). Most observations are restricted to the civil war period (i.e.
post-49 BC), in which period Roman commanders are common; this is part of a
more general tendency only to examine auxilia from 49 BC onwards.3 The nearest
thing to a discussion of relevance is to be found in Suolahti’s Junior Officers of the
Roman Army; Suolahti’s focus was not, however, the foreign auxilia and his study
did not go below the level of praefectus.4 For practical reasons, the discussion which
follows will be restricted to land forces only, looking firstly at the evidence for
Romans in command of auxilia – broadly, but not wholly, equivalent to the upper
levels of command – and secondly at the evidence for non-Romans commanding
auxilia – generally, but not entirely, equivalent to the level of individual unit
commanders. This latter section will incorporate some discussion of the problem
of classification of auxilia (allies, auxiliaries, or mercenaries?), since it is relevant to
the level of autonomy with which they were entrusted. This will be followed by a
brief consideration of the value of “native” commanders and the Roman
recognition of this, through clientela and mechanisms of reward and civic
incorporation. By way of conclusion, I shall speculate briefly on some possible
patterns of development that might be discernible. The material cited throughout
is intended to be exempli gratia, rather than exhaustive.
II.i Romans commanding auxiliaries
It follows from the simple existence of auxiliary forces that senior Roman
commanders frequently commanded a mixed force, which included units of
foreign auxiliary soldiers. Below the level of overall command however, several
ranks of Roman officer can be discerned in command of these bodies of auxiliary
soldiers. Perhaps the most striking are those occasions when, typically, Roman
legati command reasonably substantial numbers of auxiliaries, often in autonomous
actions, and often without any Roman or Italian troops in attendance.5 Legati are
3
See especially D.B. Saddington, The Development of the Roman Auxiliary Forces from Caesar to
Vespasian (49 B.C. - A.D. 79), Harare 1982, on imperial auxilia. T. Yoshimura, Die Auxiliartruppen und
die Provinzialklientel in der römischen Republik, «Historia» X (1961), 473-495 has relevant comments on
auxilia and clientela.
4
J. Suolahti, The Junior Officers of the Roman Army in the Republican period. A Study on Social Structure,
Helsinki 1955, esp. 203-204 (although the passages there cited do not always support the claims in
the text).
5
Liv. XXX 42, 3 (Greece, 203-201 BC, activities of M. Aurelius, cf. XXX 26, 4, XXXI 3, 46); Liv. XXXV 39 and 50 (Greece, 192 BC, activities of T. Quinctius and L. Villius); Liv. XLII 56,
3-4 (Greece, 171 BC, activities of P. Lentulus with Boeotians); Liv. Per. L (Macedonia, 150 BC, legati
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113
Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
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also to be found commanding the various units of auxiliary troops in the battle
line.6 However, if instances involving legati appear to predominate, it is nonetheless
true that both quaestors and military tribunes are also to be found fulfilling
broadly similar roles.7 Praefecti can also be found in this sort of position, but at this
point the situation becomes much less clear-cut – partly because the evidence is
limited, and partly because, in contrast to the pre-Social War organisation of the
Italian allies who were placed under the command of the praefecti sociorum, the
organisation of the foreign auxiliaries seems to have been much more fluid.8 On
the rare occasions when we explicitly find Roman praefecti commanding auxilia,
these can either be in overall command of multiple units as in many of the cases
noted above, or else in the rather varied and dynamic situations of local garrisons,
or, most frequently in the available evidence, in the specific role of cavalry
commander.9
However, two points need to be made concerning the examples cited so far.
Firstly, almost all of these Roman commanders, whatever their rank, were
commanding multiple units, often of varying sorts. In general, when a Roman
commanding Achaean auxiliaries, cf. Cic. prov. 5); BE 1963, 220 (Asia, 129 BC, actions of Q.
Servilius Caepio); Caes. Gall. II 11 (Gaul, 57 BC, legati sent out with cavalry), III 11 (Gaul, 56 BC,
legatus sent out with cavalry), V 17 cf. V 5 (Britain, 54 BC, C. Trebonius leads Gallic cavalry with
legionary support).
6
Liv. XLII 58, 11-14 (Greece, 171 BC); Sall. Iug. 100, 2-4 (Africa, 107 BC); Cic. fam. XV 4, 8
(Cilicia, 51/50 BC).
7
Liv. XXI 49, 7 (Sicily, 218 BC, legati and tr. mil. commanding local forces); Liv. XXII 21,4
(Spain, 217 BC, anonymous tr. mil.); Plut. Aem. 15, 3 (Greece, 168 BC, Scipio Nasica as tr. mil.); Sall.
Iug. 105, 1-2 (Africa, 107 BC, Sulla as quaestor, leading cavalry, Balearic funditores, sagittari, and a cohors
Paeligna); Syll.3 700 (Lete, Macedonia, 118 BC, actions of a quaestor with what may well have been
local auxiliaries); CIL X 7258 (= I2 843 = ILLRP 446) and IG XIV 282 record Sicilian garrison
forces at Eryx under the overall command of a quaestor, as probably does P. Ryl. 473, 1 (fragment
of Sallust, on which see C.F. Konrad, Marius at Eryx, «Historia» XLVI (1997), 28-64). Note also the
interesting case of Pol. X 17, 9-10, when Scipio Africanus puts a quaestor in charge of 2000 Iberian
δημόσιοι at New Carthage in 210 BC.
8
Contra Suolahti, Junior Officers, cit., 204 who simply states that, «The infantry detachments
from the provinces, apart from their own officers also had Roman prefects who shared the
command». He cites five passages from Caesar (Gall. I 39, 2; III 7, 3; III 11, 1; VI 29, 4; Bell. Afr. 86,
3) in support of this claim, none of which however demonstrate the point explicitly, and only the
latter three of which actually refer to Roman praefecti commanding auxiliaries, in all three cases
cavalry, not infantry. On praefecti sociorum and the Italians, see Ilari, Gli Italici, cit., 127-132.
9
Liv. XXIV 40, 7-17 (Q. Naevius Crista, praef. soc., 214 BC, commanding Italian allies but
also local troops at Apollonia); Liv. XLIII 18, 5-11 (a similar role played by praefecti praesidii, with
Roman and local troops, Illyria, 170/169 BC); Sall. Iug. 77, 4 (108/7 BC, four cohorts of Ligurians
under a praefectus); Sall. Iug. 46, 7 (Africa, 109 BC, auxiliarii equites distributed among the tr. mil. and the
praef. cohortium); Caes. Gall. VIII 28 (Gaul, 51 BC, Q. Atius Varus, praefectus equitum). M. Antonius
appears to have been Gabinius’ praefectus equitum, 57-55 BC, commanding Germans, Gauls, and
various local forces (see Plut. Ant. 3, Caes. civ. III 4, and Ios. ant. Iud. XIV 84 with bell. Iud. I 162). A
problem of terminology also arises, as in e.g. Caes. Gall. I 52, where P. Crassus is described as qui
equitatui praeerat (Gaul, 58 BC), but in subsequent years he appears to be a legatus, not a praefectus; it is
not clear that the verb praeesse necessarily equates to praefectus esse. On praefecti, see esp. G. Tibiletti,
Governatori romani in città provinciali, «RIL» LXXXVI (1953), 64-100; T. Ñaco del Hoyo, Gadès et les
précédents des attributions politiques des praefecti praesidii républicains, «DHA» XXXV (2009), 1-19.
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commander is named, the subordinate commanders of individual units or peoples
are omitted in our sources (an inevitable consequence of the Romano-centric
nature of most of our evidence), although examples to the contrary certainly exist
and we shall consider such (normally native) commanders below. 10 Secondly, just
because we know of Roman commanders, it does not follow that the commanders
above the level of the individual units were always Roman. Quite apart from the
many ambiguous cases, there are, as we shall see in the next section, reasonably
clear cases of non-Romans higher up the hierarchy, especially once we get onto the
looser structures associated with “allies”.11 Lastly, one should keep in mind the
variety created by non-typical areas of operation, such as the occasional mentions
of Roman specialists (usually centurions) working with non-Romans, for example
the unnamed centurion helping the Cyzicenes with mining operations when their
city was besieged by Mithridates, c. 73 BC.12
Actual Roman commanders of individual units of auxiliaries at the lowest
level are, unsurprisingly perhaps, very hard to find. The only certain examples of
which I am aware belong to the period after the Social War: a cavalry decurio under
Caesar in the Gallic War called L. Aemilius, and a cavalry decurio under Pompeius
in the Mithridatic War (the uncle of Pompeius Trogus).13 While we cannot say
anything more about the case of L. Aemilius, that of Pompeius Trogus’ uncle
opens up a further consideration, namely that the principal context in which we
find local troops under the immediate command of a Roman citizen is likely to be
in a situation where a member of the local élite has been enfranchised (and so not
necessarily holding the post because they were Roman citizens). Something similar
would seem to be implied by the case of one Piso Aquitanus, whose death Caesar
describes in the context of a cavalry action led by praefecti equitum.14 The cavalry
10
Liv. XLIV 30, 13 (Illyria, 168 BC, local cavalry and infantry commanders of the
Parthini, supplementing the existing auxilia of Anicius); SEG XV 254 (Achaeans honouring their
own στρατηγός, after service under a consul Domitius; transl. in R.K. Sherk, Rome and the Greek East
to the Death of Augustus, Cambridge 1984, no. 11; discussion with earlier bibliography in R.M. KalletMarx, Hegemony to Empire, Berkeley 1995, 352-353). There are also occasions when we cannot know
the exact structure, as e.g. the tribunus militum sent out cum expeditis auxiliis in 217 BC, who may or
may not have had subordinate commanders (Liv. XXII 21, 4).
11
E.g. the ἵππαρχος Biesios leading Spanish cavalry in 153 BC, who may or may not be
Roman (App. Ib. 47): J.S. Richardson, Wars of the Romans in Iberia, Warminster 2000, 144 suggests the
text is corrupt as the name is unknown; see however, J.S. Traill, Persons of Ancient Athens, IV, no.
265590 and W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin 1904, 587 add. 133; Suolahti, Junior
Officers, cit., 282 suggests that he was a Hispanus by birth, «the prefect of his national cavalry
contingent», and he is the only non-Italian example included in his study (but Suolahti
subsequently lists him as an Italus (no. 52) in his main list).
12
Diod. XXXVII 22b; cf. Liv. XXIV 48, 2-13 for Q. Statorius, a legatus, training troops for
Syphax of Numidia, 213 BC.
13
Caes. Gall. I 23, Iust. XLIII 5, 11-12; note also CIL I2 1860 = ILLRP 500, although it may
be of civil war date.
14
Caes. Gall. IV 12: vir fortissimus Piso Aquitanus, amplissimo genere natus, cuius avus in civitate sua
regnum obtinuerat, amicus ab senatu nostro appellatus; cf. the case of C. Valerius Procillus, serving Caesar and
fluent in Gallic, whose father «had been presented with the citizenship by C. Valerius Flaccus»
(Caes. Gall. I 47).
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were certainly Gallic, but Piso’s precise rank and relationship to them is left
unstated, although he is described as grandson of the tribal rex and a formal amicus
of the Roman people. In any case, his name as given by Caesar surely implies an
enfranchised Gaul.15 At the same time, it is clear that at least some of Caesar’s
praefecti equitum were unenfranchised natives, not Romans, as in the case of
Vertiscus, the princeps civitatis of the Remi, described explicitly as a praefectus equitum,
in command of his own cavalry as a part of Caesar’s army, but whose name
suggests that he was not enfranchised.16 Alongside the occasional enfranchisement
of native commanders this latter example illustrates the way in which Roman
titles came to be applied to non-Roman commanders. Both of these aspects will be
addressed further below. As regards command structures, we are therefore left
with glimpses of a very fluid organisation, in which some of the individual unit
commanders were Romans, rather than natives, while some of those at the level of
praefectus, or equivalent, were non-Romans.
II.ii Non-Romans commanding auxiliaries
Notwithstanding the partial counter-examples noted at the end of the
previous section, the general rule can be proposed that the auxilia were, in all
periods of the Republic, led by their own native commanders (under some overall
Roman command). This reflects the situation reported for the Italian socii by
Polybius, but we lack an equivalent explicit statement for the non-Italian allies,
even if a passing observation by Cicero concerning the provision of naval forces
by all Rome’s socii, both Italian and provincial, certainly implies such a situation in
its reference to local nauarchi.17 The command of individual units by their local
leaders is indeed well-attested and would seem to be unproblematic.18
15
Cf. App. Ib. 66 (Spain, 143 BC), C. Marcius, a Spaniard ( ἄνδρα Ἴβηρα), sent out on
multiple occasions from Italica against Viriathus by the Roman commander.
16
Caes. Gall. VIII 12: amisso Vertisco, principe civitatis, praefecto equitum.
17
Pol. VI 21, 5; Cic. II Verr. V 60: Sumptum omnem in classem frumento stipendio ceterisque rebus suo
quaeque nauarcho civitas semper dare solebat. […] Erat hoc, ut dico, factitatum semper, nec solum in Sicilia sed in omnibus
provinciis, etiam in sociorum et Latinorum stipendio ac sumptu, tum cum illorum auxiliis uti solebamus. («All
expenditure on the fleet, for grain, pay and everything else, each city has always entrusted to its
own navarch, as a matter of habit. […] This was done, as I say, repeatedly and always, not only in
Sicily, but in all the provinces, and likewise for the pay and expenses of the allies and Latins, at the
time when we were accustomed to employ auxilia from them.») Much of the rest of the speech
concerns Verres’ treatment of various Sicilian nauarchs. On this passage and the question of pay,
see esp. C. Nicolet, Le stipendium des alliés italiens avant la guerre sociale, «PBSR» XLVI (1978), 1-11 (repr.
in Censeurs et publicains, Paris 2000, 93-105).
18
A few examples from many: the diverse units with their own leaders that joined
Flamininus against Philip V in 197 BC (Liv. XXXIII 3, 7-10); Thurrus, the Spanish chieftain who
supported Ti. Sempronius, Spain 179 BC (Liv. XL 49, 5-7); Catmelus, with 3000 Galli, supporting
C. Manlius Volso, in Istria, 178 BC (Liv. XLI 1, 8); Gallic cavalry under Cassignatus, dux Gallorum,
engaged the cavalry of Perseus, 171 BC (Liv. XLII 57, 5-7); the praetor Anicius supplemented his
forces with Parthinian auxiliaries under their own commanders, Illyria 168 BC (Liv. XLIV 30, 8-
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Furthermore, these auxilia could be entrusted with autonomous action, whether in
the case of Vertiscus and the Remi under Caesar, already cited, or Muttines and his
Numidians serving as the advance guard for L. Cornelius Scipio’s march through
Thrace in 190 BC, or in the appointment by a Roman legatus of local forces (under
their own commander) to garrison duty in the war against Aristonicus. 19
However, the common presence of native commanders and their potential
for autonomous action raises the difficult question of classification: to what extent
should one distinguish between different categories of auxiliary troops in the
Roman army? There have been several attempts do so, but although these schemes
overlap, there is little uniformity.20 Leaving aside for a moment the thorny
problem of mercenaries, it is at least tempting to suggest that the principal
difference would seem to be between Rome’s major allies (including, but not
restricted to “client-kings”) and ad hoc levies from provincial/subject peoples.
However, it is very hard to insist upon any formal classification of Rome’s “allies”
in this regard, not least since the category of ally (socius) itself appears relatively
flexible (certainly not dependent, for instance, upon the existence of a written
foedus).21 Nonetheless, forces provided by those such as the Attalids, the Achaeans,
the Aetolians, and the Rhodians in the early second century BC, or even Deiotarus
in the mid-first century BC, clearly have a rather different status compared to the
smaller units of civic and tribal peoples levied by Roman commanders in the field.
This is best demonstrated by the presence of non-Roman commanders at Roman
consilia, or those instances when they hold substantial positions of command on the
battlefield.22 Given the apparent lack of strictly applied formal categories of ally,
the decisive factor may be the much more practical and realistic one of the
proportion of participation/size of force and therefore the more intangible factor
13); Achaeans who served under a consul Domitius honour their own strategos (SEG XV 254);
Mauretanian auxiliaries under their commander Gomon in the Second Slave War, Sicily, c.104 BC
(Diod. XXXVI 5, 4).
19
Muttines (himself a Roman citizen by this date, Liv. XXVII 5, 7), Liv. XXXVIII 41, 1214; local troops honour their commander Hephaistion son of Alkaios of Sardis, appointed by the
Roman legatus Q. Servilius Caepio to a garrison command in Maeonia, E. Lydia, c.129 BC (BE 1963,
220 = TAM V 1, 528). See also, e.g., the Chaeronaeans assisting Sulla, 86 BC (Plut. Sulla 17, 6-7); or
the Poemaneni ordered by the Roman proconsul to send a garrison, under their own commander
Nikander son of Menophilos, to Ilion in 80/79 BC (OGIS 443 = IGR IV 196 = I.Ilion 73).
20
Four different schemes in P.A. Brunt, Italian Manpower, Oxford 1987, 169; Ilari, Gli Italici,
cit., 25-27 n. 1; Yoshimura, Die Auxiliartruppen, cit., 479; Cheesman, The Auxilia, cit., 8.
21
See e.g. Kallet-Marx, Hegemony to Empire, cit., 195 and note the pairing in Cic. Balb. 49, ...
qui sociis, qui foederatis in defendenda re publica nostra spem praemorium eripi vellet? For recent discussion of
Roman treaties see J.W. Rich, Treaties, allies and the Roman conquest of Italy, in P. de Souza - J. France
(Eds.), War and Peace in Ancient and Medieval History, Cambridge 2008, 51-75.
22
Participation at consilia: Liv. XXXIV 26, 4-6 (principes Graeciae at consilium of Flamininus, 195
BC), cf. XXXIV 33, 5 (sociorum etiam principibus adhibitis habuit consilium); Liv. XLIV 36, 8 (Macedonia,
Pydna, 168 BC, legati circa imperatorem ducesque externi erant…). Major positions of command, e.g. App.
Syr. 31 (Eumenes commands the left wing at Magnesia). Note the Athenian perspective on service
at Pydna under Rome and the Attalids (Moretti, ISE I 35, transl. in Sherk, Rome and the Greek East,
cit., no. 23): Kalliphanes «campaigned with the Romans and with King Eumenes’ brothers Attalus
and Athenaios».
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of authority. In Rome’s early campaigns in Greece, the allies frequently provided
at least half of the military force – an explicit recognition of this situation is to be
found in the treaty of c.211 BC with the Aetolians, which included clauses for the
division of booty.23 Throughout this period, Roman commanders commonly
appear alongside foreign commanders, whether Attalid kings, Achaean generals, or
Rhodian navarchs.24 Although this sort of situation would appear to become less
common over time, as both Rome’s allies diminished in power and Rome’s own
forces and reach increased – so, for instance, Iugurtha’s position at Numantia in
134/3 BC is clearly subordinate to Scipio and Rome – nonetheless such a situation
never entirely disappeared, as Cicero’s relationship with Deiotarus in 51 BC makes
clear:25 context and basic relations of power would therefore seem to be the
defining factors.
At the opposite end of the scale it is no easier to distinguish the status of
the smaller, often specialised, units of foreign troops regularly employed by Rome,
or their commanders. There is little agreement among modern authors over
whether Rome did, or did not, employ mercenaries among its auxilia.26
Ideologically it was an important part of Roman self-presentation that they did
not employ mercenaries, and the occasional explicit mention of their use in the
third century is frequently treated both as exceptional and with moralising intent
by our sources.27 All the same, mercenaries certainly serve under Rome at one
23
Roman-Aetolian treaty: Moretti, ISE II 87 = Sherk, Rome and the Greek East, cit., no. 2 (cf.
Liv. XXVI 24, 11; Pol. IX 39, 1-3; XVIII 38, 5-9); joint campaigning and command, e.g. Pol. IX 42,
1-4, Liv. XXVI 26, 1-3, XXVII 30, 1-3.
24
Liv. XXXI 44-46 (Romans with Attalus and others); Pol. XVIII 1, 3-4 (Achaeans,
Aetolians, and Rhodians at Nicaea with Flamininus); Pol. XXI 20, 3-21, 4 cf. XXX 1, 2 (general
account of Attalid participation); Liv. XXX 33, 2 (Massinissa at Zama holding comparable position
to Laelius). Note the negative perspective on such co-operation expressed in the Senate in Liv.
XXXVIII 45, 9 (concerning Manlius Glabrio and Attalus, 189/8 BC). Foreign commanders occupy
substantial roles in the Third Macedonian War also, as in Liv. XLII 58, 11-14 or XLII 65, 12-14.
25
Iugurtha at Numantia: App. Ib. 89, Sall. Iug. 7-9, Vell. II 9, 4 (but compare already Liv.
XXXVIII 20-23 for the treatment of the young Attalus, suggesting that this is as much about status
of a prince in contrast to a king); Deiotarus in Cilicia: Cic. Att. VI 1, 14, fam. XV 4, 5.
26
There is no adequate treatment of this problem. Cheesman, The Auxilia, cit., 8 perhaps
comes closest in his simple observation that the Romans «... could imitate their opponents and
raise mercenaries, although they might save their pride by including such contingents as “allies”».
G.T. Griffith, The Mercenaries of the Hellenistic World, Cambridge 1935, devotes a mere two pages (234235) to the question of mercenaries in the service of Rome, but while arguing for a distinction
between mercenaries and auxiliaries, his list of examples rapidly loses sight of that distinction. Vice
versa, L. Keppie, The Making of the Roman Army, from Republic to Empire, London 1984, 23 appears to
imply that all Roman auxiliaries were mercenaries (cf. Afzelius, Die römische Kriegsmacht, cit., 98).
Neither J.A. Krasilnikoff, Mercenary Soldiering in the West and the Development of the Army of Rome, «ARID»
XXIII (1996), 7-20 nor Hamdoune, Les auxilia externa africains, cit., 20-30 significantly advance the
discussion. Contrast the rather different perspective offered by E. Gabba, Il declino della milizia cittadina
e l’arruolamento dei proletari, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, II.1,
Torino 1990, 691-695 at 692, that Roman auxiliary service replaced earlier local traditions of
mercenary service.
27
The locus classicus is the hiring of Celtiberians by the elder Scipiones in Spain, in 213-212
BC (principally Liv. XXIV 49, 7-8 (213 BC), and XXV 33 (212 BC)), with Livy’s comments
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remove (i.e. in the employ of a Roman ally, such as Hieron II or the Attalids),
while the status, for instance, of Cretans serving Rome in the second century is
very unclear indeed.28 Crete was hardly under direct Roman control for most of
this period, and yet the contribution of troops was not merely requested, but
apparently “ordered”. Whether these troops served for pay, or merely in the
expectation of booty and in order to keep the regional “superpower” favourable is
unknown: in the most notorious case (171 BC), Livy employs both the verbs rogare
and imperare of the Roman request for troops, and the Senate alludes to official
friendship with the Roman People (the Cretans were however serving on both
sides).29 However, for the purposes of this discussion, it is not clear from the
evidence that it made much, if any, difference to command structures. Smaller
units of auxiliaries, whether local levies or mercenary units, almost universally
come with their own commanders, who are in turn under the orders of the senior
Roman commanders, either directly or at one remove. 30
One notable feature of these native commanders of auxilia, visible in
Roman armies of the mid- to late Republic, is that they often appear to hold
positions with Roman titles, despite their clearly non-Roman status. Examples
from within literary texts of this practice are inevitably problematic, since they
may simply reflect the indiscriminate use by Roman authors of what, for them,
was standard vocabulary. However, Caesar’s use of the term praefectus for some of
his Gallic cavalry commanders would seem to belong in a different category from
including the advice to Roman generals never to allow auxiliaries to outnumber Roman forces
(XXV 33, 6; subsequent Roman campaigns in the East show little sign of heeding such advice). For
the discourse over the use of mercenaries by Rome, e.g. Pol. III 109, 6-7, VI 52, Diod. XXIX 6, 1.
See e.g. A.M. Eckstein, Mediterranean Anarchy, Interstate War and the Rise of Rome, Berkeley 2006, 154 n.
158 for the wider currency in antiquity of the negative view of mercenaries in relation to a citizen
army. Hamdoune, Les auxilia externa africains, cit., 20-30 explores the relationship between
mercenaries and deserters (from the non-Roman side); by no means every instance of mercenary
service under Rome can be so explained, but the theme is important, ideologically at least: note e.g.
Liv. XXXIV 19, 3-9 (Spain, 195 BC), where the consul offers to buy the service of the Turditani, or
Diod. XXXVII 18 (Italy, 90 BC) when the consul’s initial offer of citizenship to a Cretan is met by
laughter and is followed by the more material offer of 1000 drachmai.
28
Pol. III 75, 7 (Cretans provided by Hieron II, 216 BC); Liv. XXVIII 7, 4-6 (Attalids
employing Cretans when fighting alongside Rome, 207 BC); Liv. XXXII 40, 4 (600 Cretans
supplied to Flamininus by Nabis of Sparta); Liv. XXXVII 39, 10 (Cretans on the right flank at
Magnesia, subsequently, XXXVII 41, 9-12, shown to be under Eumenes’ command); Liv. XXXVIII
13, 3 (Cretans amongst the Attalid forces which join Manlius Glabrio); Plut. Aem. 15-16, cf. Pol.
XXIX 15, 1 (Cretans with Aemilius Paullus in 168 BC); Val. Max. IX 3, 7 (Cretans in Spain, 141
BC); Plut. C. Gracchus 16, 3 (Cretans in Rome, 121 BC); Diod. XL 1, 1-2 (Cretans in Rome, 69 BC,
defending their record of service); Caes. Gall. II 7 (in Gaul, 57 BC).
29
Liv. XLII 35, 6-7 (171 BC levy for Macedonian War), Cretan archers requested (incertus
numerus, quantum rogati Cretenses misissent), and legati are sent to make the request; yet in Liv. XLIII 7, 1-4
(170 BC) Cretan envoys in Rome report that they sent as many as were ordered (quantum sibi
imperatum). The same passage contains acknowledgement of Cretans serving Perseus also (cf. XLII
51, 7, XLII 58, 6). The Cretans are then told to demonstrate their friendship with the Roman
People by recalling those serving on the Macedonian side.
30
Cretan commanders are mentioned at Plut. Aem. 15, 4 (Harpalus); Liv. XXXV 28, 8 and
29, 1 (Telemnastus); Liv. XXXVIII 13, 3 (Leusus).
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 101-113
Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
| 109
examples of such usage in say Livy or Cicero, since in the former case it is actually
a Roman commander reporting on his own troops and consciously choosing to
use such language. At the same time, Cicero’s professed outrage at the idea of a
Syracusan being placed in command of a Romano-Sicilian fleet in 71 BC, which
Cicero claims would ordinarily have been commanded by a legatus, quaestor, or
praetor (or even a praefectus or tribunus militum), in fact rather implies that such
appointment of a non-Roman was by no means unknown, even if the title which
Cleomenes of Syracuse either used, or was granted, remains obscure (although
praefectus seems most likely).31 Moreover, epigraphic sources suggest that the
practice visible in Caesar is not simply careless use of language. Two clear
examples come from Sicily, where native Sicilians acting as the commanders of a
special Sicilian garrison based at the sanctuary of Venus Erycina at Eryx in western
Sicily are described as χιλίαρχοι (i.e. tribuni militum).32 A third example is the
Thracian Amatokos, son of Teres, honoured at Chaeronea for his service under
Sulla as a χιλίαρχος ἱππέων.33 The title, which lacks a direct parallel, is most easily
explained as a variation upon the normal Greek for praefectus equitum, rather than
signifying the non-existent title of tribunus equitum. Both Sicilian and Thracian
examples illustrate a process of “Romanisation” which has clear parallels in
military, civic, and juridical contexts, namely the gradual adoption of Roman
forms and terms.34 Mommsen aptly commented on the Sicilian examples that,
[Videtur] dux pro tribuno fuisse, quod deinde Graeci ore rotundo ut solebant paullo inflatius
extulerunt.35 The fact that Iugurtha learned Latin while serving in the camp of Scipio
at Numantia is another illustration of the general processes involved, as well as
offering one very simple explanation for the adoption of Roman titles, namely
translation into a common tongue.36 These instances are important indicators of
the ways in which the military service of auxilia acted as a potential channel for
integration in much the same way as Italian service in the Roman army is often
31
Cic. II Verr. V 82ff. Cleomenes is variously called dux, praefectus, and imperator by Cicero (V
89-91, 94); the last of these at least is patently ironic; the individual Sicilian ships’ captains are also
variously called praefecti navium (V 91) and navarchi (V 102), which pairing certainly implies little more
than translation.
32
IG XIV 282 (Segesta, Greek chiliarch under Roman quaestor), 355 (Halaesa, Greek
chiliarch); cf. CIL X 7258 (Eryx, fragmentary Latin text recording both quaestor propraetore and a tribunus
militum, names lost).
33
M. Holleaux, Décret de Chéronée relatif à la première guerre de Mithradates, in Études d’épigraphie et
d’histoire grecques, Paris 1938, I, 143-159, with comments at 150.
34
An apparent early example of the uncertainties of translation in the unusual choice of
ἐπιμελητάς for praefectus in Entella B1, Sicily (see M. Corsaro, La presenza romana ad Entella: una nota su
Tiberio Claudio di Anzio, «ASNP» ser. 3, XII 3 (1982), 993-1032). Obvious examples of the general
phenomenon include the Lex osca Tabulae Bantinae (M.H. Crawford, Roman Statutes, London 1996, I,
no. 13) or the Tabula Contrebiensis (J.S. Richardson, The Tabula Contrebiensis: Roman Law in Spain in the
Early First Century B.C., «JRS» LXXIII (1983), 33-41).
35
Comment ad CIL X 7258.
36
Sall. Iug. 101, 6.
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Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
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presumed to have done so.37 The fact that commanders, who were in turn the local
élite, offer the principal illustrations of this process should come as no surprise.
III. Rewards, citizenship, and clientela
There is no doubt that the native commanders of auxiliary units occupied a
pivotal role, not simply in the chain of command, but in ensuring the loyalty, or
otherwise, of such troops, as well as indirectly in the potential acculturation of
such forces. Individuals can be found in close intimacy with Roman commanders,
virtually their contubernales – whether Eumenes’ brother Attalus in the Third
Macedonian War, Iugurtha with Scipio Aemilianus at Numantia, or the Scythian
Olcaba with Lucullus in the Mithridatic Wars. 38 Such proximity and trust entailed
risk also. As already noted, Livy used the most famous case of such betrayal (by
the Celtiberians of the elder Scipiones in Spain in 212 BC) to make precisely this
point, but there are other examples, such as the use by the Italians of one of
Iugurtha’s sons to encourage the desertion of the Numidians serving under Sex.
Caesar in the Social War in 90 BC, or the attempt by Olcaba to murder Lucullus. 39
The military service of 40 Spanish nobles under Tiberius Gracchus in 179 BC, to
ensure the loyalty of their home community, is a good demonstration of the issues
involved, combining hostage-taking with the more constructive –- and potentially
rewarding – role of military service.40 The risks of desertion and betrayal highlight
the importance of the local princeps for levying, leading, and maintaining, or
winning over, the loyalty of these troops, and in turn the importance of the
relationship to Rome of that local princeps.41
As already noted, one means by which that relationship could be
reinforced was through the granting of citizenship (although, as the laughter of a
Cretan soldier at the very idea illustrates, this was hardly a sufficient incentive in
all cases).42 Whether Rome paid any of its auxilia or not (see above, nn. 17, 26, 27),
37
For a recent discussion, see R. Pfeilschifter, The allies in the Republican army and the
Romanization of Italy, in R.E. Roth - J. Keller (Eds.), Roman by Integration: dimensions of group identity in
material culture and text, JRA Suppl. LXVI, Portsmouth RI 2007, 27-42, who adopts a deliberately
negative assessment of the extent to which this might be true (acknowledged on p. 35).
38
Attalus, Pol. XXX 1, 2; Iugurtha, Sall. Iug. 7-9; Olcaba, App. Mith. 79; cf. Cic. Balb. 40 for
the general principle, and Dio XXVI fr. 89, 4 for the expectation.
39
Iugurtha’s son in the Social War, App. civ. I 42; Olcaba, App. Mith. 79.
40
Liv. XL 47, 10.
41
See especially Yoshimura, Die Auxiliartruppen, cit. on this particular theme. Caes. Gall. V
5-7 well illustrates the concerns (but compare already the Gallic chieftain Contionatus described in
Diod. XXXIV/XXXV 36). The case of Polybius is exemplary, beginning with his service as hipparch
of the Achaeans (Pol. XXVIII 6, 9), negotiating demands of military service from Roman generals
in the Third Macedonian War (Pol. XXVIII 13, XXIX 24), his subsequent transportation to Rome
as a hostage (Pol. XXX 13, 8-11, XXX 32, cf. Paus. VII 10, 11, Liv. XLV 31, 9), his later service at
Carthage alongside Scipio (Pol. XXXVIII 19-22 and esp. Amm. XXIV 2, 16-17), and his role in the
reorganisation of Greece after 146 BC (Pol. XXXIX 3, XXXIX 8, 1, Paus. VIII 30, 8-9 and 37, 2).
42
Diod. XXXVII 18 (Italy, 90 BC).
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Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
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it is certain that Rome frequently rewarded the auxilia, and in particular the leaders
of those auxilia: such practice was an important part of encouraging and
maintaining loyalty, as well as developing personal loyalty and friendship between
Roman and native leaders. Most obviously, and as detailed extensively by Cicero
in the Pro Balbo, such soldiers, and especially their commanders, could receive
citizenship virtutis causa. The best known examples are the various African and
mercenary commanders who transferred their loyalty from Carthage to Rome in
the Punic Wars, such as Muttines and Moericus. 43 Cicero in the Pro Balbo lists a
greater number of examples from the first century, but this need not be more than
a reflection of his normal tendency to use exempla from the preceding two
generations where possible. The famous bronze inscription from Asculum appears
somewhat unusual, in that here we see an entire unit receiving citizenship, rather
than the commanders alone – for which the unusual circumstances of the Social
War might provide sufficient explanation on this occasion. 44 However, apart from
the relatively limited use of civitas virtutis causa, it is important to emphasise (because
it has been denied) that auxiliaries could also be rewarded in the “normal” fashion
with dona militaria, in contione, as after the battle near Sycurium in Greece in 171 BC,
when the disgraced Aetolian duces were sent to Rome for punishment, whereas
«The Thessalians were praised before an assembly (pro contione laudati), and their
leaders (duces) were also awarded presents for valour (virtutis causa donati)».45 It is
however true that there is, so far as I know, no evidence for auxiliaries
participating in a triumph and distribution of booty at Rome, in contrast to the
Italian allies.46 Material rewards could also include substantial benefits such as land,
as in the grants of land in Sicily made to various of those who had assisted
Marcellus in 211 BC, or to the Gaetulians who had served under Marius (lands in
43
Cic. Balb. passim, but esp. 5-6, 22-24, 26, and the list of individuals at 50-51. For Muttines,
Liv. XXVII 5, 6-7, cf. Syll.3 585 ll. 86-7; Moericus the Iberian, Liv. XXVI 21, 9-13. Compare the
material collected in A. O’Brien-Moore, M. Tullius Cratippus, Priest of Rome, «YCS» VIII (1942), 25-49
at 38ff and in E. Badian, Foreign Clientelae, Oxford 1958, 302-308.
44
ILS 8888 = CIL I2 709 = ILLRP 515, on which see N. Criniti, L’Epigrafe di Asculum di Gn.
Pompeo Strabone, Milan 1970, esp. 43-48, 188-192; G.H. Stevenson, Cn. Pompeius Strabo and the Franchise
Question, «JRS» IX (1919), 95-101 at 98-100. Earlier block enfranchisments of Italians virtutis causa are
attested however, e.g. Marius and the Camerinum cohorts (Cic. Balb. 46, Val. Max. V 2, 8, Plut.
Mar. 28, 3), or Campanian equites in 338 BC (Liv. VIII 11, 15-16) and 215 BC (Liv. XXIII 31, 10-11).
45
Liv. XLII 60, 8-10. Compare, e.g. Liv. XXIX 35, 3 (rewards granted to Massinissa, his
officers and troops after Zama), XXXVIII 23, 11 (praise of Attalus in contione by Manlius Vulso);
Cic. II Verr. III 185-187 (military rewards in contione for Siculos praeterea potentissimos nobilissimosque in 71
BC). For further examples of rewards in the Republican period, see also V.A. Maxfield, The Military
Decorations of the Roman Army, London, 126-127. C.S. Mackay, Sulla and the Monuments: Studies in his Public
Persona, «Historia» XLIX (2000), 161-210 at 169 n. 27 asserts that such rewards are only attested
jointly with citizenship, as in the Asculum inscription, but this ignores the literary evidence which
contradicts that claim, and his discussion is limited to the problematic restoration of Syll.3 744,
which records uncertain honours for an Aetolian in the service of Sulla (which could be either
material and/or citizenship).
46
On Italian participation see Ilari, Gli Italici, cit., 140-142, and Pfeilschifter, The allies in the
Republican army, cit., 31, 36-38.
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North Africa, c. 103 BC).47 Again, the point to be highlighted is that in the
majority of these cases, it is the leaders of the auxilia who are singled out. This
pattern is then repeated in the local honours which we can see granted to the
individuals who organise and lead such units, a process which emphasises the
important interaction between Roman treatment and local standing, and the
crucial role in binding centre and periphery together played by the auxiliaries’
own commanders.48
IV. Conclusions
Although the evidence for auxilia externa under the Republic is surprisingly
plentiful, it is probably not sufficient to identify significant trends over time,
particularly in relation to specific practices such as structures of command. With
that caveat in place, it is nonetheless tempting to speculate on possible changes in
practice and developments in the later Republic, and in particular possible changes
in practice after the Social War when the Italian socii no longer constituted a
distinct part of the Roman army, with the result that the auxilia now constituted
the principal secondary branch of the Roman army. 49 There are some grounds for
suggesting that two particular phenomena appear to be more visible in the postSocial War period, and might therefore reflect an increasing incorporation and
regularisation of auxilia externa in the structure of the Roman army of the late
Republic. Firstly, the only securely identifiable examples of individual unit
commanders holding Roman citizenship, noted above (§ II.i), belong to the postSocial War period. Secondly the only secure examples of native commanders using
Roman titles likewise appear to belong to the post-Social War period. If these are
genuine trends – and not, for instance, simply a function of the increasing quantity
of evidence in the late Republic –, then they do provide some grounds for
assuming increased integration and “Romanisation” of the auxilia over time. The
granting of citizenship as a reward in particular to local elites, and the (continued)
service of these men in command of non-citizen units is a very logical
47
Liv. XXVI 21, 9-13; Bell. Afr. 56. For rewards to an individual, cf. also Liv XLIV 16, 4-7
(Onesimus, son of Pytho, a Macedonian nobilis, granted ager publicus in the territory of Tarentum in
169 BC). Zonar. VIII 15 has a story that Carthaginian allies (or mercenaries) deserted to Rome in
exchange for land in Sicily in 250 BC. Note the demand for land in return for military service
made by the Cimbri, Teutones and Tigurini in 109 BC, rejected by the Senate (Florus I 38, 1-3).
48
E.g. Syll.3 744 (cited above) records honours from Sulla within an honorific erected by
the Aetolian league; SEG XV 254 (cited above); Moretti, ISE I 35 (cited above); SEG XLIV 867 and
BE 1963, 220 from the war against Aristonicus in Asia Minor; IG XIV 282 and 355 for local
commanders in a Sicilian garrison (cited above).
49
Cf. McCall, The Cavalry, cit., 100-113 for the suggestion that the final transition from
citizen to auxiliary cavalry was effected at the time of the Social War.
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Jonathan R.W. Prag, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
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development and an obvious precursor to the later Imperial practice of granting
the auxilia citizenship at the end of their service.50
Such a conclusion is appealing, even if speculative. The more fundamental
point that should be emphasised, however, is the simple fact of the widespread
presence of local elites in a (subordinate) position of command, at the head of their
own fellow soldiers, within most, if not all, Roman armies across the later
Republican empire. The existence of such a situation should not come as a
surprise, and is very much in line with the sort of flexible, adaptive, and frequently
integrative (but of course also exploitative) imperialism that is so familiar in the
Republican empire; but its significance for understanding processes of
Romanisation and imperial control in the mid- to late Republic has almost
certainly been greatly understated and deserves considerably more attention in
future.
Jonathan R.W. Prag
Merton College, University of Oxford
Merton Street
Oxford OX1 4JD
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
50
Cf. A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 19732, 245-246, linking the
practice of granting viritane citizenship, especially virtutis causa, with stages in the expansion of
Roman power.
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DANIELA MOTTA
Gli onori civici ai comandanti:
il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
Due iscrizioni che onorano comandanti a vario titolo collegati alla salvezza
di Ilio contribuiscono ad illuminare il quadro politico della storia della polis nel
ventennio intercorso fra la fine della prima guerra mitridatica e la complessiva
risistemazione data all’Oriente da Pompeo.
Riguardo alle sorti della città ed al trattamento ricevuto nel corso della
prima guerra contro Mitridate informano diffusamente Strabone 1 ed Appiano che
nel Mithridateios prendeva spunto probabilmente anche dalla perduta opera storica
dell’amaseno.2 Stando a Strabone, un tempo Ilio era soltano una κώμη, finché non
venne innalzata al grado di polis da Alessandro dopo la vittoria del Granico,
ricevendo proprio dal re macedone tanti benefici; fra questi l’abbellimento del
tempio di Atena, prima μικρόν ed εὐτελές, e soprattutto la eleutheria ed aphoria.3
Tuttavia la polis, che da Roma aveva ottenuto condizioni di favore dopo la guerra
contro Antioco III,4 aveva subito una dura sorte nel corso del primo conflitto
1
Strab. XIII 1, 26-27 C 593-594.
App. Mithr. 53; Sulle fonti del libro mitridatico di Appiano vd. le osservazioni di A.
Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, Historia Einzelschriften 124, Stuttgart 1999, 59-75; per
Mastrocinque le Storie di Strabone diventano fonte fondamentale per il Mithridateios nella seconda
parte dell’opera, a partire dalla narrazione delle campagne di Licinio Murena (vd. Appiano, Le guerre
mitridatiche, a cura di A. Mastrocinque, Milano 1999, XII-XIII).
3
Strab. XIII 1, 26 C 593.
4
Che Ilio fosse stata beneficiata dai Romani già dopo la guerra contro Antioco è attestato
da Livio XXXVIII 39, 10, che ricorda la concessione di immunitas e l’attribuzione di Rhoeteum e
Gergithum, e ciò secondo lo storico non tam ob recentia ulla merita quam originum memoria. La veridicità
della notizia, anche se non trova conferma in Polibio, è da ultimo sostenuta da J. Briscoe, A
Commentary on Livy. Books 38-40, Oxford 2008, 141-142. Sui dati forniti dal passo liviano cfr.: A.
Brückner, Geschichte von Troja und Ilion, in W. Dörpfeld (Hg.), Troja und Ilion. Ergebnisse der Ausgrabungen in
der vorhistorischen und historischen Schichten von Ilion, 1870-1892, II, Athens 1902, 586; D. Magie, Roman Rule
in Asia Minor to the End of the Third Century after Christ, I, Princeton 1950, 108, sottolinea che i privilegi di
Ilio furono ottenuti in quell’occasione «although it had contributed nothing and had even received
Antiochus»; R. Bernhardt, Imperium und Eleutheria. Die römische Politik gegenüber den freien Städten des
griechischen Ostens, Diss., Hamburg 1971, 66 e Rom und die Städte des hellenistischen Osten (3.-1. Jahrhundert
v.Chr.), HZ Sonderheft 18, München 1998, 91-92, per il quale la testimonianza prova che la leggenda
troiana diviene dall’inizio del II secolo parte della «Selbstdarstellung» romana in Oriente; a favore
della possibilità che tale beneficio sia stato ottenuto a seguito di un’ambasceria inviata da Ilio, che
2
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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contro il sovrano pontico. Nell’86 Fimbria dopo l’ammutinamento nei confronti
del console Valerio Flacco, percorrendo la provincia d’Asia, si era abbandonato ad
ogni violenza insieme al suo esercito punendo τοὺς καππαδοκίσαντας e le città
che non gli avevano aperto le porte.5 Ilio era fra le poleis colpite, poiché aveva
mostrato fedeltà a Silla e non aveva accolto Fimbria considerandolo alla stregua di
un brigante (λῃστής).6 L’attacco che ne era seguito aveva permesso al ribelle di
prendere possesso della città in soli undici giorni. La disfatta di Ilio è rievocata con
dovizia di particolari da Appiano, che la illustra in termini di distruzione
dell’intera polis, cui non era sfuggito nemmeno il tempio di Atena e chi vi aveva
trovato rifugio.7 Erano vicende che nella storiografia trovavano facile parallelo
nelle sventure che la tradizione epica aveva attribuito ad Ilio per mano di
Agamennone.8 In seguito, dopo la disfatta di Mitridate, Silla aveva lasciato liberi gli
Iliensi, così come i Chii, i Lici, i Rodii ed i Magneti, ed Appiano individuava le
ragioni di tale privilegio nella volontà di Silla di ricompensarli della symmachia o per
quanto avevano subito per la prothymia che avevano mostrato nei suoi confronti.9
vantava i legami di consanguineità, si è espresso A. Erskine, Troy between Greece and Rome. Local Tradition
and Imperial Power, Oxford 2001, 175-176.
5
Le violenze di Fimbria e del suo esercito in Asia sono descritte, oltre che da Strab. XIII 1,
27 C 594 e App. Mithr. 53, anche da Diod. XXXVIII/XXXIX 8 e Cass. Dio fr. 104, 6 (Boissevain I
348, 24-30). Sulla storia delle vicende di Fimbria alla luce della comparazione della tradizione
letteraria Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, cit., 60-62. Sul personaggio ed il problema della
carica da lui ricoperta, su cui non vi è accordo fra le fonti, cfr. in particolare gli studi di A.W.
Lintott, The Offices of C. Flavius Fimbria in 86-5 B.C., «Historia» XX (1971), 696-701 e Mithridatica,
«Historia» XXV (1976), 489-491 ed inoltre J. Muñiz Coello, C. Flavius Fimbria, Consular y Legado en la
provincia de Asia (86-84 a. de C.), «SHHA» XIII-XIV (1995-1996), 257-275.
6
Strab. XIII 1, 27 C 594. Sulla distruzione di Ilio anche Liv. per. LXXXIII, Cass. Dio fr.
104, 7 (Boissevain I 348, 31-349, 1) e fra la tradizione tardoantica, in particolare Aug. civ. III 7 e
Oros. VI 2, 11.
7
Appiano (Mithr. 53) tuttavia riferisce una tradizione secondo la quale la statua di Atena era
rimasta intatta nonostante il crollo delle mura; la notizia si ritrova anche in Aug. Civ. III 7 che
attingeva da Livio (fr. 17 dal l. LXXXIII).
8
Su queste vicende e il loro significato politico, sull’analisi della tradizione letteraria e delle
sue divergenze, soprattutto relative alle modalità di ingresso di Fimbria nella città, cfr.: Brückner,
Geschichte von Troja und Ilion, cit., 587-588; Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 228, 234; A.N. SherwinWhite, Roman Foreign Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, London 1984, 244; R. Bernhardt, Polis und
römische Herrschaft in der späten Republik (149-31 v.Chr.), Untersuchungen zur antiken Literatur und
Geschichte 21, Berlin-New York 1985, 61; R.M. Kallet-Marx, Hegemony to Empire. The Development of the
Roman Imperium in the East from 148 to 62 B.C., Berkeley-Los Angeles-London 1995, 275; in
particolare anche per una comparazione con i più recenti dati archeologici sugli effetti distruttivi
della presa della città vd. Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 238-241.
9
App. Mithr. 61, su cui vd. A. Mastrocinque, Comperare l’ immunitas, in Τὸ πάντων
μέγιστον φιλάνθρωπον. Città e popoli liberi nell’ imperium Romanum, Atti del Convegno (Roma, 1415 gennaio 1999), «MediterrAnt» II, 1 (1999), 85-93, in part. 88-89 con riguardo alla questione
dell’identificazione dei Magneti, se in essi debba riconoscersi Magnesia sul Meandro o Magnesia del
Sipilo. Inoltre secondo Oros. VI 2, 11 Silla restaurò quanto era stato distrutto. Sullo status della città
in quegli anni vd.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 234; Sherwin-White, Roman Foreign Policy in the
East, cit., 245; Bernhardt, Imperium und Eleutheria, cit., 127-128; B.C. McGing, The Foreign Policy of
Mithridates VI Eupator King of Pontus, Leiden 1986, 111-112 nota la mancanza di dati sulla lealtà di Ilio e
sulla sua resistenza nei confronti di Mitridate, mentre fu il rifiuto di ammettere Fimbria che le valse
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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Questo quadro trova conferma in Strabone, secondo il quale Silla aveva consolato
gli Iliensi πολλοῖς ἐπανορθώμασι, mentre Cesare rappresentava colui che,
emulando l’esempio del macedone, sarebbe stato successivamente benefattore della
città. Ricordando, inoltre, i vincoli di syngheneia che legavano Roma ad Enea ed in
particolare la gens Iulia alla discendenza dell’eroe troiano, il geografo riconosceva a
Cesare l’aver garantito e protetto la eleutheria ed aleitourghesia della polis: χώραν τε δὴ
προσένειμεν αὐτοῖς καὶ τὴν ἐλευθερίαν καὶ τὴν ἀλειτουργησίαν αὐτοῖς
10
συνεφύλαξε.
Le due iscrizioni onorarie iliensi per comandanti si inseriscono dunque
nell’ambito delle nostre conoscenze sulla storia della città aggiungendo qualche
ulteriore informazione al quadro delineato sulla base delle fonti letterarie, per
quanto riguarda il rapporto della polis con Roma.
1. La prima iscrizione che si prenderà in considerazione è datata all’anno 80
a.C. Si tratta di un’epigrafe apposta in onore di un Nicandro, figlio di Menofilo,
11
il favore di Silla; H. Behr, Die Selbstdarstellung Sullas. Ein aristokratischer Politiker zwischen persönlichen
Führungsanspruch und Standessolidarität, Europäische Hochschulschriften R. III, Geschichte und ihre
Hilfswissenschaften Bd. 539, Frankfurt am Main 1993, 157 pone le relazioni fra Silla e la città di Ilio
nel solco del «Venus-Bezug» coltivato quale «Sympathiegewinn» presso i Greci e per legittimare la
presenza romana in Oriente; Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 241-244 evidenzia la
continuità della vita della città, nonostante i danni causati dall’esercito fimbriano, e richiama
l’attenzione sull’uso propagandistico da parte di Silla, quale favorito di Afrodite, dell’immagine di
protettore di Ilio, in quanto forma di legittimazione e promozione non tanto presso il mondo
greco quanto a Roma stessa.
10
Strab. XIII 1, 27 C 595, su cui cfr.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 405; Bernhardt,
Imperium und Eleutheria, cit., 154-155; Polis und römische Herrschaft, cit. 205; Erskine, Troy between Greece
and Rome, cit., 247-248, accanto all’ipotesi più comune secondo cui Cesare beneficiò la città durante
il suo soggiorno in Asia dopo la disfatta di Pompeo, fa riferimento alla possibilità che tali benefici
siano da ascrivere al periodo in cui il destino di Pompeo era ancora sconosciuto e quindi era
fondamentale attrarre dalla propria parte le città greche. La libertà ed immunitas di Ilio sono
testimoniate anche in un’epigrafe frammentaria, in cui il privilegio appare garantito da un
magistrato romano il cui nome è perduto, forse Silla o Cesare: Brückner, Geschichte von Troja und Ilion,
cit., 457-458 N. XVI; IGR IV 199; R.K. Sherk, Roman Documents from the Greek East. Senatus Consulta
and Epistulae to the Age of Augustus, Baltimore 1969, 277-279, nr. 53; P. Frisch, Die Inschriften von Ilion, IK
3, Bonn 1975, nr. 77; E. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit. Eine neue Pompeius-Inschrift
aus Ilion, in E. Schwertheim - H. Wiegartz (Hg.), Die Troas. Neue Forschungen zu Neandria und Alexandria
Troas II., Kolloquium 13/15-03-1995, Universität Münster, Asia Minor Studien 22, Bonn 1996, 175194, 180 n. 13. Sull’immunitas del territorio del tempio di Atena stabilito da un censore della gens
Iulia, forse nell’89 o nel 61 (IGR IV 194; IK Ilion, nr. 71) vd. quanto osservato da C. Nicolet in J.C.
Dumont - J.-L. Ferrary - P. Moreau - C. Nicolet, Insula sacra. La loi Gabinia-Calpurnia de Délos (58 av. J.C.), Edition et commentaire sous la direction de C. Nicolet, CEFR 45, Rome 1980, 119-122, e
Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, 195 e n. 442.
11
OGIS 443; IGR IV 196; IK Ilion, nr. 73. Si riporta di seguito il testo secondo l’edizione di
P. Frisch:
Ἐπεὶ τοῦ ἀνθυπάτου Γαίου Κλαυδίου Ποπλίου υἱοῦ Νέρωνος ἐπιτάξαντος
τοῖς Ποιμανηνῶν ἄρχουσιν ἐξαποστεῖλαι πρὸς ἡμᾶς εἰς παραφυλακὴν
τῆς πόλεως στρατιώτας καὶ ἐπ’ αὐτῶν ἡγεμόνα, Ποιμανηνοί,
ὄντες ἡμῶν φίλοι καὶ εὐνόως διακείμενοι πρὸς τὸν δῆμον ἡμῶν
ἐξαπέστειλαν τούς τε στρατιώτας καὶ ἐπ’ αὐτῶν ἡγεμόνα Νίκ[αν]δρον Μηνοφίλου, ὃς καὶ παραγενόμενος εἰς τὴν πόλιν ἡμῶν [τήν]
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distintosi in qualità di ἡγεμών a favore della città di Ilio. Per motivi cronologici,
sebbene nel testo pervenuto non ci sia riferimento ai nemici combattuti dal
comandante, il documento è stato connesso da Ormerod e Frisch con il problema
della pirateria.12 Le motivazioni dell’elogio nei confronti di ἡγεμών e στρατιώται
non si discostano dal repertorio comune di questo tipo di documentazione.
L’accento è posto sulla condotta rispettosa dei militari durante la permanenza nella
polis. Di Nicandro, cui è attribuito l’epiteto di ἀνὴρ καλὸς καὶ ἀγαθός, è elogiata
τὴν ἐνδημιάν […] καλὴν καὶ εὐσχήμονα καὶ ἀξίαν τοῦ τε ἡμετέρου δήμου καὶ
13
τῆς ἑαυτοῦ πατρίδος; analogamente dei neaniskoi a lui sottoposti è lodata
14
ἐνδημίαν εὔτακτον […] καὶ ἄμεμπτον. Si tratta dunque di una formula di
ringraziamento per un comportamento scevro da quegli elementi di conflittualità
che la presenza di un contingente militare in città avrebbe potuto innescare in
termini di prevaricazione e soprusi. La lealtà del comandante è sottolineata dalla
πίστις κάλλιστα καὶ ὁσιώτατα da lui osservata nella difesa tanto della polis quanto
τε ἐνδημίαν ποιεῖται καλὴν καὶ εὐσχήμονα καὶ ἀξία[ν τοῦ τε ἡμετέ]ρου δήμου καὶ τῆς ἑαυτοῦ πατρίδος, τήν τε τῶν [ὑποτεταγμένων]
ἑαυτῶι νεανίσκων ἐνδημίαν εὔτακτον παρ[έχεται καὶ ἄμεμπ]τον, καθάπερ ἐπιβάλλει ἀνδρ[ὶ καλῶι καὶ ἀγαθῶι, καὶ τὴν ἐγκε]χειρισμένην ἑατῶι πίσ[τιν κάλλιστα καὶ ὁσιώτατα διατηρεῖ]
τὴν ὑπὲρ τῆς φυλακ[ῆς τῆς τε πόλεως καὶ τῆς χώρας, καὶ πλείστην]
εἰσφέρεται σπουδὴ[ν καὶ προθυμίαν ὑπὲρ αὐτῆς
]
ἐκκλίνων οὐδέν[α κίνδυνον
]
[․]μων κατα[--
12
].
H.A. Ormerod, Piracy in the Ancient World. An Essay in Mediterranean History, London 1924,
206, n. 4: Frisch, Die Inschriften von Ilon, cit., 176. Più cauto sulla possibilità che l’epigrafe si riferisca ad
incursioni di pirati si dichiara P. de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, Cambridge 1999, 123-124,
che tuttavia ricorda la notizia di Appiano (Mithr. 63) relativa all’attacco di bande di pirati che si
spingevano ad assalire anche le città prima della partenza di Silla dall’Asia.
13
IK Ilion, nr. 73, ll. 6-9.
14
IK Ilion, nr. 73, ll. 9-10. Sulla funzione del ginnasio per l’addestrametno dei neoi/neaniskoi
alla guerra vd.: V. Launey, Recherches sur les armées hellénistiques, BEFAR 169, Paris 1950, 813-873 (860
con riferimento all’iscrizione di Ilio); P. Roesch, Une loi fédérale béotienne sur la préparation militaire, in Acta
of the fifth international Congress of Greek and latin Epigraphy Cambridge 1967, Oxford 1971, 81-88, sulla legge
del koinon dei Beoti concernente la nomina di didaskaloi che istruissero la gioventù locale anche con
riguardo alle esercitazioni militari di paides e neaniskoi; Ph. Gauthier - M.B. Hatzopoulos, La loi
gymnasiarchique de Béroia, Μελετήματα 16, Athènes 1993, 68-72, 104-105, sulla legge ginnasiarchica di
Beroia, importante testimonianza sul ruolo del ginnasio quale centro locale d’istruzione militare, ed
anche probabilmente quale centro militare amministrativo; L. Migeotte, Les dépenses militaires des cités
grecques: essai de typologie, in J. Andreau - P. Briant - R. Descat (textes rassemblés par), Économie antique.
La guerre dans les économies antiques, Entretiens d’archéologie et d’histoire 5, Saint-Bertrand-deComminges 2000, 145-176, in part. 152-154; M.B. Hatzopoulos, L’organisation de l’armée macédonienne
sous les Antigonides. Problèmes anciens et documents nouveaux, Μελετήματα 30, Athènes 1989, 137; D. Kah,
Militärische Ausbildung im hellenistischen Gymnasium, in D. Kah - P. Scholz (Hgg.), Das hellenistische
Gymnasium, Wissenkultur und Gesellschaftlicher Wandel 8, Berlin 2004, 47-90; M-B. Hatzopoulos,
La formation militaire dans les gymnases hellénistiques, ibidem, 91-96; L. D’Amore, Ginnasio e difesa civica nelle
poleis d’Asia Minore (IV-I sec. A.C.), «REA» CIX (2007), 147-173, in part. 170 a proposito dell’epigrafe
di Ilio.
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Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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della chora,15 mentre soltanto in secondo luogo compaiono le qualità più
prettamente ascrivibili alla sfera del valore militare, quali σπουδή e προθυμία
adoperati senza sottrarsi ad alcun pericolo (ἐκκλίνων οὐδένα κίνδυνον). Lessico e
contenuto del decreto colgono nell’eutaxia, ovvero nella disciplina del contingente,
la condizione essenziale del buon rapporto con la città, 16 ed il richiamo al rispetto
della disciplina, che si trova di norma in questa tipologia di documenti in età
ellenistica, non stupisce nel decreto iliense tanto più in quanto emanato da una
città libera.
L’occasione dell’intervento dell’ἡγεμών costituisce un primo punto di
riflessione. È indubbiamente significativo che, su ordine del proconsole Gaio
Claudio Nerone,17 i Ποιμανηνοί abbiano inviato στρατιώται e con essi un
ἡγεμών allo scopo di salvaguardare la città (εἰς παραφυλακὴν τῆς πόλεως). È
noto come già qualche anno addietro in Asia si fosse fatto ricorso alle forze locali
da parte di L. Licinio Murena, lasciato da Silla dopo la pace di Dardano nella
provincia d’Asia per allestire una spedizione contro i pirati: Cicerone informa
infatti che alla città di Mileto era stato ordinato di fornire dieci navi ex pecunia
vectigali, come d’altronde pro sua quaeque parte Asiae ceterae civitates.18 Tuttavia l’efficacia
dell’intervento di Murena era stata irrilevante, a giudizio di Appiano, poiché egli
19
οὐδὲν ἐξείργαστο μέγα. Negli anni 80-79, periodo al quale si data l’iscrizione di
Ilio, anni in cui era proconsole d’Asia Claudio Nerone, doveva aver assunto il
comando delle operazioni navali antipiratiche Gneo Cornelio Dolabella, in qualità
di proconsole della Cilicia, avendo quale suo legato Verre. Mentre di fatto tutto ciò
aveva dato occasione a depredazioni nei confronti dei provinciali da parte del
15
Sul siginificato del termine pistis nell’ambito dei rapporti interstatali greci, concetto
ricorrente nelle formule degli horkoi dei trattati, si vd. S. Calderone, Pistis-Fides. Ricerche di storia e
diritto internazionale nell’antichità, Biblioteca di Helikon, Testi e studi 1, Messina 1964, 33-57.
16
Su questo aspetto vd.: Launey, Recherches sur les armées hellénistiques, cit., 633-689; L. Robert,
Études d’épigraphie grecque, «RPhil» s. 3, I (1927), 97-132, in part. 121=Id., Opera minora selecta. Épigraphie et
antiquités grecques, Amsterdam 1969, III, nr. 69, 1052-1087, in part. 1076; Id., Collection Froehner. I.
Inscriptions grecques, Paris 1936, 75; L. et J. Robert, La Carie, II, Paris 1954, 289; J. et L. Robert, Fouilles
d’Amyzon en Carie. I. Exploration, histoire, monnaies et inscriptions, Paris 1983, 198; N.B. Crowther, Euexia,
Eutaxia, Philoponia: Three Contests of the Greek Gymnasium, «ZPE» LXXXV (1991), 301-304, in part. 303;
F.J. Fernández Nieto, Los reglamentos militares griegos y la justicia castrense en época helenística, in G. Thür - J.
Vélissaropoulos-Karakostas (Hgg.), Symposion 1995. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte
(Korfu, 1-5. September 1995), Akten der Gesellschaft für griechische und hellenistische
Rechtsgeschichte 11, Köln 1995, 221-244, in part. 224-228; A. Chaniotis, Foreign Soldiers – Native girls?
Constructing and Crossing Boundaries in Hellenistic Cities with Foreign Garrisons, in A. Chaniotis - P. Ducrey
(Eds.), Army and Power in the Ancient World, Stuttgart 2002, 99-113, in part. 99-105. Sul significato di
eutaxia nella sfera militare in età ellenistica G. Salmeri, Empire and Collective Mentality: The Transformation
of eutaxia from the Fifth Century BC to the Second Century AD, in B. Forsén - G. Salmeri (Eds.), The Province
Strikes back Imperial Dynamics in the Eastern Mediterranean, Papers and Monographs of the Finnish
Institute at Athens 13, Helsinki 2008, 137-155, in part. 142.
17
Su questo magistrato vd. Broughton, MRR II, 80. Il personaggio è ricordato da Cicerone
(II Verr. I 71-76, 83-84) quale giudice nel processo che vide condannato Filodamo di Lampsaco.
18
Cic. II Verr. I 35, 89. In proposito vd. H. Pohl, Die römische Politik und die Piraterie im östlichen
Mittelmeer vom 3. bis zum 1. Jh. v Chr., Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte 42,
Berlin-New York 1993, 258-259; de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, cit., 154.
19
App. Mithr. 93. Pohl, Die römische Politik und die Piraterie, cit., 258-259.
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legato corrotto, la resistenza in concreto agli attacchi era lasciata spesso alle
iniziative locali. Spedizioni di soccorso potevano essere inviate a favore dei propri
vicini in difficoltà da città alleate di Roma, per via degli obblighi di symmachia
previsti dal foedus, come nel caso di Astipalea,20 giunta in aiuto di Efeso a seguito
del saccheggio del santuario di Artemide.21 In altri contesti l’intervento militare
doveva seguire l’ordine delle autorità romane a comunità facenti parte della formula
provinciae. È quest’ultimo il caso dei Ποιμανηνοί scesi in campo a favore di Ilio, per
disposizione del proconsole. Nel frangente di pericolo Ilio doveva aver avanzato
una richiesta di aiuto al magistrato provinciale che di norma poteva procedere
all’invio di soldati solo dietro l’autorizzazione della stessa città, stante la
condizione di quest’ultima di eleutheria che la esentava dallo stazionamento di
phrourá.22 L’iscrizione, menzionando φιλία ed εὔνοια dimostrate dal popolo dei
Ποιμανηνοί verso il demos di Ilio, mette in luce i vincoli di affinità che
congiungono le due comunità quale impulso all’invio del contingente. Tuttavia,
nell’incipit dell’epigrafe il ricordo dell’epitagma proconsolare ai magistrati dei
Ποιμανηνοί costituisce il riconoscimento della suprema autorità rappresentata
dall’organizzazione provinciale nella regolamentazione dei rapporti fra le poleis,
anche quando c’è in gioco, da una delle due parti, una città libera quale era Ilio a
quel tempo.
Un secondo nodo problematico è rappresentato dall’identificazione di
Poimanenon. In realtà, l’iscrizione di Ilio costituisce la prima attestazione di questa
località, successivamente menzionata nelle fonti letterarie a partire da Plinio il
Vecchio fino ad autori di tarda età bizantina: la questione è stata recentemente
ristudiata da F.M. Kaufmann e J. Stauber che hanno rispolverato l’ipotesi di una
identificazione con il sito di Eski Manyas in Misia, sito che ha restituito un certo
numero di iscrizioni comprese fra I secolo a.C. e I d.C. rivelanti «eine städtische
Kultur».23 Una di tali epigrafi attesta la presenza di un ginnasio, dei suoi
ginnasiarchi, di neoi, epheboi e paides,24 e si può ritenere quindi che i neaniskoi
20
IG XII 3, 173; Sherk, Roman Documents, cit., nr. 16, in part. 95-96, ll. 26-44.
IG XII 3, 171; IK Ephesos Ia, nr. 5. Su questa iscrizione cfr. Ormerod, Piracy in the Ancient
World, cit., 206, e soprattutto de Souza, Piracy in the Graeco-Roman World, 100-101 che conclude «the
suppression of piracy was the concern of both the Romans and their allies».
22
Vd. a tal proposito, ad esempio, quanto previsto dagli statuti di città libere quali
Afrodisia e Termesso a proposito dello stazionamento di soldati in città: J. Reynolds, Aphrodisias and
Rome. Documents from Excavation of the Theatre at Aphrodisias conducted by Professor T. Erim, together with some
related Texts, JRS Monographs 1, London 1982, 92-93, doc. 9, ll. 1-6; M.H. Crawford, Roman Statutes,
BICS Suppl. 64, London 1996, 334, nr. 19, ll. 6-11. In generale, sui privilegi delle città libere in
campo militare J.-L. Ferrary, La liberté des cités et ses limites à l’époque républicaine, in Τὸ πάντων μέγιστον
φιλάνθρωπον, «MediterrAnt» II, 1 (1999), cit., 69-84, in part. 74-75.
23
P.M. Kaufmann - J. Stauber, Poimanenon bei Eski Manyas? Zeugnisse und Lokalisierung einer kaum
bekannten Stadt, in Studien zum antiken Kleinasien II, Asia Minor Studien 8, Bonn 1992, 43-85 (citazione a
p. 69), cui si rinvia per la completa raccolta e discussione di fonti letterarie ed epigrafiche.
24
H.G. Lolling, Inschriften aus den Küstenstädten des Hellespontos und der Propontis, «AM» IX (1884),
15-35, in part. 28-34; F.W. Hasluck, Inscriptions from Cyzicus, «JHS» XXIII (1903), 75-91, in part. 89-91;
Kaufmann - Stauber, Poimanenon bei Eski Manyas?, cit., 63-67, nr. 10. L’iscrizione fa menzione
dell’aiuto di Asclepiade nel corso della guerra alessandrina e secondo Hasluck (90, n. 6) seguito da
Kaufmann e Stauber (67) la notizia sarebbe da leggere in parallelo a quanto trasmesso da Irzio (de
21
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Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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comandati da Nicandro fossero stati addestrati proprio in tale struttura. Stando a
Stefano Bizantino si trattava di χωρίον Κυζίκου,25 mentre semplicemente come
26
χωρίον τῆς Μυσίας il luogo è indicato in Elio Aristide. Ilio era stata dunque
soccorsa da una comunità situata nelle vicinanze della più nota polis cizicena, ma
che tale comunità si trovasse nel territorio di sua pertinenza rimane ipotesi
opinabile. Per un verso, la testimonianza di Stefano Bizantino potrebbe infatti
essere pertinente ad epoca più tarda. Per altro verso l’attestazione di magistrati
locali, gli ἄρχοντες dei Ποιμανηνοί dell’iscrizione di Ilio, e di ginnasiarchi
nell’epigrafe proveniente dal sito di Eski Manyas non implica di per sé l’autonomia
di questa comunità rispetto alla più importante città di Cizico: anche nel caso di
pertinenza al territorio ciziceno resta plausibile la coesistenza di quelle strutture
amministrative e culturali che sono tipiche di una polis. È verosimile, in realtà, che
Poimanenon sia stata parte di quell’incremento territoriale che Cizico ottenne
dopo il 73, a seguito della sua eroica resistenza all’assedio di Mitridate. Infatti,
stando a Strabone, dopo quella data Cizico fu ricompensata della sua fedeltà alla
causa dei Romani con la libertà ed insieme con l’aggiunta di territorio a quello che
già possedeva: ἐλευθέρα μέχρι νῦν καὶ χώραν ἔχει πολλὴν τὴν μέν ἐκ παλαιοῦ,
27
τὴν δὲ τῶν Ῥωμαίων προσθέντων. Per gli anni precedenti proprio l’iscrizione di
Ilio, con l’ingiunzione del proconsole di fornire soldati, implicherebbe che la
comunità di Poimanenon non doveva far parte del territorio di una città libera, cui
formalmente non si poteva ingiungere la prestazione di assistenza militare, in
quanto esclusa dalla formula provinciae.28
D’altra parte, un contributo alla comprensione dei rapporti esistenti fra
Cizico ed Ilio negli anni, immediatamente successivi, del terzo conflitto
mitridatico può provenire da un passo della plutarchea Vita di Lucullo relativo al
famoso assedio di Cizico, posto dal sovrano pontico e sostenuto dagli abitanti con
coraggio encomiabile in nome della fedeltà ai Romani ed in attesa di un Lucullo
che tardava ad arrivare. La straordinaria resistenza dei Ciziceni era oggetto di
ammirazione, secondo Plutarco, anche presso gli dei: fra gli aneddoti rievocati a
questo proposito dal biografo vi era quello relativo alla dea Atena che era apparsa
in sogno a molte persone di Ilio, grondante sudore e con un lembo del peplo
bell. Alex. 13) sulle dodici navi dall’Asia facenti parte della flotta di Cesare e da CIG 3668 (= IGR IV
135) sull’aiuto dei Ciziceni a Cesare contro i pompeiani in Africa.
25
Steph. Byz. Ποιμανηνόν· πόλις ἤτοι φρούριον. ἔστι δ᾿ καὶ χωρίον Κυζίκου. Τὸ ἐθνικὸν
ὁμοίως (Meineke 530).
26
Aristid. Hier. Log. 4, 3 (Dindorf I 502).
27
Strab XII 8, 11 C 576. Così interpreta già J. Teichmann, Das Territorium der Stadt Kyzikos zu
Beginn der römischen Kaiserzeit, in A. Schütte - D. Pohl - J. Teichmann (Hgg.), Studien zum antiken
Kleinasien, Friedrich Karl Dörner zum 80. Geburtstag gewidmet, Asia Minor Studien 3, Bonn 1991,
139-150. Sulla condizione di Cizico in questi anni vd.: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 234;
Bernhardt, Imperium und Eleutheria, cit., 134, secondo cui la città ottenne da Lucullo anche un
foedus sebbene non specificato dalle fonti; Id., Polis und römische Herrschaft, cit., 65; J. Thornton, Una città
e due regine. Eleutheria e lotta politica a Cizico fra gli Attalidi ed i Giulio Claudii, in Τὸ πάντων μέγιστον
φιλάνθρωπον, cit., «MediterrAnt» II, 2 (1999), 497-538, in part. 506-508.
28
Secondo Teichmann, Das Territorium der Stadt Kyzikos, cit., 147-148, l’iscrizione di Ilio
indica che «den Ort als eine von Kyzikos unabhängige Stadt».
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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stracciato, raccontando come stesse tornando dall’aver soccorso i Ciziceni. 29 A
riprova di ciò Plutarco fa menzione di un cippo, un tempo esistente presso Ilio,
che recava decreti connessi con questo fatto (δόγματα καὶ γράμματα). La notizia è
significativa delle relazioni fra le due città che in occasione dell’assedio avevano
dovuto esplicitarsi attraverso manifestazioni pubbliche di sostegno. I decreti
menzionati da Plutarco esprimevano la devozione alla dea, con cui gli Iliensi
ricordavano la miracolosa salvezza della vicina Cizico accreditando, in maniera
autocelebrativa, l’importanza del culto; forse vi erano commemorati comandanti
vittoriosi, devoti alla divinità, comandanti ciziceni oppure iliensi che avevano
cooperato alla difesa. D’altra parte, da un altro passo della biografia plutarchea si
può dedurre la fattiva collaborazione di Ilio in quel frangente e la fedeltà verso
Roma mantenuta dalla polis. Secondo lo storico di Cheronea, infatti, il generale
romano dopo il suo ingresso a Cizico era avanzato verso l’Ellesponto ed aveva
messo in cantiere un flotta;30 quindi entrato in Troade, era stato allarmato da una
visione di Afrodite, mentre si trovava accampato nel tempio della dea, ed avvertito
da alcuni di Ilio dell’avvistamento di tredici triremi del re Mitridate dirette a
Lemno. Questa informazione avrebbe indotto Lucullo all’immediato intervento in
mare ed evitato un sicuro disastro.
In ogni caso, al di là delle ipotesi, l’esistenza presso Ilio di decreti connessi
con le vicende dell’assedio di Cizico, unitamente all’iscrizione in onore di
Nicandro e dei Ποιμανηνοί, è testimonianza di una reciprocità nella condivisione
dei pericoli bellici da parte delle poleis della stessa area schierate dalla parte romana,
ora sul piano concreto ora su quello delle manifestazioni di devozione religiosa che
dovevano aver luogo in tali contesti.
2. La fedeltà a Roma da parte di Ilio rimane inalterata nel corso della terza
guerra mitridatica. Un’attestazione in tal senso è costituita dal secondo documento
epigrafico che si intende analizzare in questa sede, un’iscrizione dedicata in onore
di Pompeo da parte del demos e dei neoi di Ilio, studiata in anni recenti da E.
Winter.31 Per quel che concerne la datazione, il decreto presenta un terminus post
quem costituito dalla menzione della terza acclamazione imperatoria di Pompeo,
che risale agli anni 63-62 a seguito dei successi contro Mitridate, ed è d’altronde da
considerare precedente al ritorno del generale a Roma nel 61. Pompeo è inoltre
ricordato in qualità di πάτρων καὶ εὐεργήτης τῆς πόλεως e l’iscrizione
29
Plut. Luc. 10. Cfr. McGing, The Foreign Policy of Mithridates VI Eupator, cit., 148, su questo
passo, esempio della propaganda religiosa antimitridatica, ed ancor prima più in generale, sulla
propaganda sillana ispirata alla religione greca che vedeva in Silla il favorito di Afrodite
confrontarsi con il nuovo Dioniso.
30
Plut. Luc. 12.
31
E. Schwertheim, Forschungen in der Troas im Jahre 1988, VII Araştırma sonuçları toplantısı
1989, 229 ss. (non vidi); AE 1990, nr. 940; Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 176:
ὁ δῆμος κα[ὶ οἰ ν]εόι ǀ [Γναῖον Πο]μπήιον, Γναίου [ὑ]ίον, Μάγνον, τὸ τρίτον ǀ Αὐτοκράτορα, τὸν
πάτρωνα καὶ εὐεργέτην τῆς πόλεως ǀ [εὐσεβεία]ς ἕνεκεν τῆς πρὸς τὴν θεὸν τὴν οὖσαν αὐτῶι ǀ [--]ν καὶ εὐνοίας τῆς πρὸς τὸν δῆμον ἀπολύσαντα ǀ [τοὺς μὲν ἀνθρώπους ἀπό τε τῶν βαρβαρικῶν
πολέμων ǀ [καὶ τῶν π]ιρατικῶν κινδύνων ἀποκαθεστάκοτα δὲ ǀ [τὴν εἰρ]ήνην καὶ τὴν ἀσφάλειαν
καὶ κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν.
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documenta, insieme ad altre, l’importanza dei rapporti clientelari istituiti dal
generale con le città dell’Oriente.
Ad attestare i legami fra Pompeo e la polis è anche un’altra iscrizione
pervenutaci dal territorio di Ilio, che è caratterizzata tuttavia da un formulario
assai più sintetico, con la menzione del dedicatario, questa volta il solo demos, che
celebra il generale sempre come τὸ τρίτον αὐτοκράτορα.32 Viceversa della
ricchezza di motivi della prima iscrizione menzionata in onore di Pompeo vanno
ricordati almeno alcuni aspetti maggiormente significativi. A motivazione della
dedica sono citate per un verso l’eusebeia nei confronti della dea, per un altro l’eunoia
verso il demos, un termine che rientra nella consuetudine del lessico delle epigrafi
onorarie e che rinvia al contesto evergetico dell’iscrizione. Il motivo dell’eusebeia
impone invece alcune ulteriori riflessioni. A giudizio di Engelbert Winter, essa
alluderebbe all’attività di munificenza di Pompeo nei confronti del tempio della
dea che era andato distrutto per opera di Fimbria nel corso della prima guerra
mitridatica. Ciò certamente darebbe ragione anche dell’epiteto di euergetes attribuito
al comandante, ma più in generale va ricordata la frequente presenza della eusebeia
verso la dea in varie iscrizioni di Ilio,33 che è spia del significato mistico che il
santuario di Atena conferiva alla città attirando i visitatori stranieri; un viaggio ad
Ilio di re e comandanti militari doveva includere sempre un sacrificio alla dea quale
gesto propiziatorio divino che mirava al tempo stesso al favore della popolazione
locale.34 L’eusebeia di Pompeo e la sua possibile, correlata opera evergetica nel
campo dell’edilizia religiosa, evidentemente in occasione del passaggio del generale
nella città, sono indicative della volontà di rinsaldare i legami con la polis anche da
un punto di vista ideologico, nel solco della tradizione leggendaria che rintracciava
nelle radici troiane le origini di Roma, e che di lì a breve sarebbe divenuta
fortunato ed esclusivo patrimonio culturale della gens Iulia. Inoltre, l’eventuale
attività evergetica di Pompeo ispirata ad eusebeia appare del tutto comprensibile
anche considerando la funzione di questo culto nella propaganda religiosa
antimitridatica.35 Il secondo epiteto riferito a Pompeo, quello di patron, è pertinente
alla sfera più precipuamente giuridica e denuncia l’inclusione della città in quella
rete di clientele che Pompeo veniva costruendo in Oriente fissando i vincoli
reciproci a seguito della risistemazione di tutta l’area prima del suo rientro a
Roma.36 C’è da chiedersi se in tale riordino fosse prevista, per Ilio, una conferma di
32
CIG 3608; IGR IV 198; IK Ilion, nr. 74.
Per i confronti cfr. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 177.
34
Su questi aspetti vd. Erskine, Troy between Greece and Rome, cit., 226-253.
35
Su cui cfr. supra, n. 29.
36
Per il significato del termine patron attribuito a magistrati provinciali da parte delle città
ellenistiche e sulla funzione di tali dediche vd. J. Touloumakos, Zum römischen Gemeindepatronat im
griechischen Osten, «Hermes» CXVI (1988), 304-324; J.-L. Ferrary, The Hellenistic World and Roman Political
Patronage, in P. Cartledge - P. Garnsey - E. Gruen (Eds.), Hellenistic Constructs. Essays in Culture, History,
and Historiography, Berkeley-Los Angeles-London 1997, 105-119; sull’incremento delle attestazioni di
clientele delle città dell’Oriente nei confronti di patroni di rango senatorio negli anni delle
campagne piratiche e mitridatiche condotte da Pompeo vd. C. Eilers, Roman Patrons of Greek Cities,
Oxford 2002, 146. Per l’importanza dei rapporti clientelari di Pompeo con le città dell’Oriente vd.
Bernhardt, Rom und die Städte des hellenistischen Ostens, cit., 48. Sulla riorganizzazione pompeiana
33
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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quella libertà che già Silla aveva garantito all’indomani della pace di Dardano,
sebbene il nome di Pompeo non compaia nel testo straboniano, che menziona solo
le benemerenze verso la polis di Silla e di Cesare. In questa direzione potrebbe
orientare il confronto con un’iscrizione da Mitilene, la quale proprio da Pompeo
aveva ottenuto per la prima volta la eleutheria:37 questa iscrizione onora il generale
con formulario per certi versi analogo a quella di Ilio, ricordando la liberazione
τοὶς κατάσχοντας τὰν οἰκημέναν πολέμοις καὶ κατὰ γᾶν καὶ κατὰ θάλασσαν.38
Come si è ipotizzato, l’occasione della dedica di Ilio dovette essere fornita dal
passaggio di Pompeo nel viaggio che lo portò al rientro in Italia, così come delle
diverse tappe di questo itinerario sono testimonianza le epigrafi onorarie
concernenti Pompeo apposte da poleis dell’Oriente greco, nelle quali egli figura con
il titolo di patron ed euergetes.39 In tale circostanza la città probabilmente si attendeva
una conferma dei privilegi concessi da Silla.
Se la documentazione non consente di rispondere in maniera definitiva,
l’analisi dell’iscrizione restituisce comunque significative suggestioni a propostio
della rappresentazione di Pompeo vincitore e del rapporto fra il comandante e la
città.
Di particolare interesse è la definizione di Pompeo, fornita dalla dedica,
come colui che ha liberato gli uomini dai βαρβαρικοὶ πόλεμοι nonché dai
πιρατικοὶ κίνδυνοι. Si tratta di un elogio che probabilmente non rinvia a vicende
specifiche che avevano coinvolto la polis, come è evidente invece per l’iscrizione in
onore di Nicandro, ma che denota il consenso della città ai temi della pubblicistica
pompeiana. Le gesta di Pompeo sono infatti definite in relazione all’intero genere
umano, τοὺς ἀνθρώπους, così come ecumenico è il valore di εἰρήνη e ἀσφάλεια
ristabilite κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν.40 Studi recenti hanno messo in evidenza
come la formula κατὰ γὴν καὶ κατὰ θάλασσαν, che si trova in età imperiale
dell’Oriente: Magie, Roman Rule in Asia Minor, cit., 368-378; Sherwin-White, Roman Foreign Policy in the
East, cit., 226-234; M. Gelzer, Pompeius. Lebensbild eines Römers, Stuttgart 19842, 87-99; Kallet-Marx,
Hegemony to Empire, cit., 323-334; R. Seager, Pompey the Great, Oxford 20022, 60-62; E. Baltrusch, Caesar
und Pompeius, Geschichte kompakt. Antike, Darmstadt 2004, 34-37.
37
IG XII 2, 202; Syll.3 751. Sullo status di eleutheria di questa città, su cui pesò favorevolmente
la provenienza dello storico Teofane, vd. in particolare: A. Donati, I Romani nell’Egeo. I documenti
dell’età repubblicana, «Epigraphica» XXVII (1965), 3-59, in part. 20-25 e 29; L. Robert, Théophane de
Mytilène à Constantinople, «CRAI» 1969, 42-64=Id., Opera minora selecta. Épigraphie et antiquités grecques, V,
Amsterdam 1989, nr. 119, 561-583; Bernhardt, Polis und römische Herrschaft, cit., 246; Kallet-Marx,
Hegemony to Empire, cit., 331; G. Grimm, «Der als Gott erscheint». Gnaeus Pompeius Theophanes von Mytilene –
Ein wenig bekannter Wohltäter Griechenlands, «AW» XXXV (2004), 63-70.
38
Syll.3 751; ILS 8776.
39
Si tratta del koinon delle città ionie, di Pompeiopoli, Mileto, Side, per cui vd.: Magie, Roman
Rule in Asia Minor, cit., II, 1230 n. 28; Donati, I Romani nell’Egeo, cit., 42 ss; Bernhardt, Polis und römische
Herrschaft, cit., 176 e n. 273 con bibliografia; Eilers, Roman Patrons, cit., 235, C92; 236 C94; 261 C146;
262, C149. Sulla nuova dimensione costituita dall’attribuzione dell’epiteto ellenistico di euergetes
riferito in queste iscrizioni a Pompeo da ultimo anche Baltrusch, Caesar und Pompeius, cit., 35.
40
Si veda l’interessante parallelo della singolare espressione τοὺς ἀνθρώπους, che rinvia ad
una prospettiva ecumenica, con IK Ephesos II, nr. 251, dedica delle città greche d’Asia a Giulio
Cesare definito τοῦ ἀνθρωπίνου βίου σωτήρ, su cui Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer
Zeit, cit., 194.
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Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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riferita ad alcuni principes a partire da Augusto, sia caratteristica di iscrizioni
onorarie aventi per destinatario proprio Pompeo.41 Oltre che nell’epigrafe in
esame, l’utilizzo del sintagma compare in altri tre documenti, di cui è stata
proposta una datazione negli anni 63-62, provenienti da Mitilene, Miletupolis e da
Klaros, relativamente al koinon degli Ioni: in tutte queste iscrizioni il generale è
definito ἐπόπτης γῆς καὶ θαλάσσης.42 Il motivo certamente non è nuovo
trovando attestazione già a partire dal V secolo, e tuttavia ha affermazione in
connessione con personaggi romani per la prima volta riferito a Pompeo; con ogni
probabilità è quindi da ricondurre alla propaganda che il generale romano
promuoveva di se stesso.43 Prima ancora che nelle epigrafi greche questo concetto
ha attestazione nel lessico latino: terra marique è la corrispondente iunctura che si
riscontra nella tradizione letteraria latina, come evidenziato dalle famose
definizioni ciceroniane inerenti al comando pompeiano del 67, intorno alla
diffusione delle sue gesta terra marique ed al suo imperium terra marique.44 Il valore
ecumenico del potere di Pompeo emerge dalla iscrizione di Mitilene sopra
menzionata ed è parimenti sintetizzata da Cassio Dione, che commenta la fine
avvenuta παραλόγως di un condottiero quale Pompeo, che aveva ottenuto
innumerevoli vittorie in Africa, in Asia, in Europa καὶ κατὰ γῆν καὶ κατὰ
45
θάλασσαν. D’altra parte, in quegli anni il sintagma con ogni probabilità era in
uso come forma di elogio nei confronti di chi aveva combattuto vittoriosamente
contro i pirati. Si pensi, ad esempio, al decreto cirenaico che versosimilmente è da
datare proprio intorno al 62-61, come proposto dalla Reynolds, in cui ad essere
oggetto di onore è un privato benefattore, un cittadino discendente da nobili
antenati, di nome Apollodoro, che aveva assunto il comando di neaniskoi per
combattere i pirati, indicati ora come κακοῦργοι, ora come πιρατικοὶ στόλοι, che
avevano approfittato della situazione di anarchia interna per praticare azioni di
41
K. Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien. Beiträge zur archäologischen Überlieferung aus der Zeit
der Republik und des Augustus, I, Roma und Promagistrate, Instanbuler Mitteilungen 23, Tübingen 1979, 62;
J.-L. Ferrary, Les inscriptions du sanctuarie de Claros en l’honneur de Romains, «BCH» CXXIV (2001), 331376, in part. 341-345; C. Schuler, Augustus, Gott und Herr über Land und Meer. Eine neue Inschrift aus
Tyberissos im Kontext der späthellenistischen Herrscherverehrung, «Chiron» XXXVII (2007), 383-403, in part.
389-397; L. Amela Valverde, La «nueva» inscripción de Pompeyo Magno en Claros, in M. Mayer I Olivé - G.
Baratta - A. Guzmán Almagro (Ed.), XII Congressus internationalis epigraphiae graecae et latinae. Provinciae
imperii Romani inscriptionibus descriptae, (Barcelona, 3-8 Septembris 2002), Monografies de la Secció
Històrico-Arqueològica X, Barcelona 2007, I, 41-48.
42
Mitilene: IGR IV 54; ILS 8776; Syll.3 751; Miletupolis: F.W. Hasluck, Inscriptions from the
Cyzicus District, 1906, «JHS» XXVII (1907), 61-67, in part. 64; ILS 9459; IK Kyzikos II, nr. 24; Claros:
Ferrary, Les inscriptions du sanctuarie de Claros, cit., in part. 341-345.
43
A. Momigliano, ‘Terra marique’, «JRS» XXXII (1942), 53-64, in part. 62-64, che nota in
particolare come «Ruler over Land and Sea had been the condition of Athenian liberty; Ruler over
Land and Sea had been the Hellenistic defintion of a sovereign» (p. 64); e da ultimo L. Amela
Valverde, Terra marique. Un dato pasado por alto en relación con Pompeyo Magno (Dio Cass. 42, 5, 2),
«Helmantica» LV (2004), 225-230.
44
Cic. Sest. 67; Balb. 16; Manil. 56. Cfr. in proposito Ferrary, Les inscriptions du sanctuaire de Claros,
cit., 343; Amela Valverde, Un dato pasado por alto, cit., 226; Schuler, Augustus, Gott und Herr, cit., 396397.
45
Cass. Dio XLII 5, 2. Su questo passo Amela Valverde, Terra marique, cit.
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Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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brigantaggio.46 Nella parte frammentaria del testo l’espressione κατὰ γᾶν καὶ κατὰ
θά[λασσαν47 ne documenta l’uso in relazione a successi contro i pirati. Pompeo,
potendo impossessarsi in piena coerenza di tale formulario, ne faceva un simbolo
del suo ruolo di pacificatore a livello ecumenico. La prospettiva universale adottata
da Pompeo a proposito delle sue gesta in Oriente trova importante riscontro nella
iscrizione il cui testo è restituito da un frammento diodoreo, in cui il generale si
vanta τὴν παράλιον τῆς οἰκουμένης καὶ πάσας τὰς ἐντὸς ᾿Ωκεανοῦ νήσους
ἐλευθερώσας τοῦ πειρατικοῦ πολέμου, oltre che per aver soccorso o sottomesso
un lungo elenco di popoli secondo una struttura che sarà ripresa dalle Res Gestae
Divi Augusti.48
Anche la definizione dei πόλεμοι cui Pompeo ha posto termine come
βαρβαρικοί, con indubbio riferimento alle guerre mitridatiche, mentre non
possiede paralleli nel linguaggio epigrafico come evidenziato dal Winter,49 indica
l’adesione della polis di Ilio ai motivi utilizzati nella battaglia ideologica
antimitridatica presso il mondo greco orientale. L’autorappresentazione di
Pompeo come vincitore di barbari è infatti una costante nella definizione delle
fonti letterarie dell’impresa contro il sovrano pontico tanto nella biografia
plutarchea, che per il resoconto delle guerre orientali doveva derivare dallo storico
Teofane di Mitilene, quanto in Cassio Dione, così come più in generale quali
barbari sono designati i nemici affrontati dai Romani in tutti i conflitti contro
Mitridate.50
46
J.M. Reynolds, A civic Decree from Benghazi, «SLSR» V (1973-1974), 19-24; A. Laronde, Cyrène et
la Libye hellénistique. Libykai Historiai de l’époque républicaine au principat d’Auguste, Étude d’Antiquités
africaines 22, Paris 1987, 463-472 (citazione a p. 465, ll. 8 e 15).
47
Ibid., 465, l. 24.
48
Diod. XL 4. Su questa testimonianza vd. Greenhalgh, Pompey. The Roman Alexander, London
1980, 176 e di recente W. Dahlheim, Gnaeus Pompeius Magnus - «immer der erste zu sein und die anderen
überragend», in K.-J. Hölkeskamp - E. Stein-Hölkeskamp (Hgg.), Von Romulus zu Augustus. Große
Gestalten der römischen Republik, München 2000, 230-249, 238. Si veda anche nella biografia di Plutarco
(Pomp. 45, 2) il resoconto del trionfo pompeiano nel 61, in cui l’elenco delle popolazioni sconfitte
che appare nelle scritte fatte sfilare nel corteo si chiude con τὸ πειρατικὸν ἅπαν ἐν γῇ καὶ θαλάσσῃ
καταπεπολεμήνον.
49
Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 177.
Cfr. ad esempio: Plut. Pomp. 35, 3 (sulla partecipazione delle Amazzoni a fianco dei
barbari, nello scontro di Pompeo contro gli Albani, lanciatosi all’inseguimento di Mitridate); App.
Mithr., 104 (con riferimento alla giustizia e lealtà di Pompeo presso i barbari, che sembrerebbe
riflettere una tradizione filopompeiana a differenza di altri passi dell’opera appianea, su cui vd. le
osservazioni di Mastrocinque, Studi sulle guerre mitridatiche, cit., 108); inoltre Cass. Dio XXXVI 45, 2
(πρὸς δὲ δὴ τὸν τῶν βαρβάρων πόλεμον παρεσκευάζετο); 48, 4-5; 49, 3; 54, 4. Sulla
rappresentazione dei barbari in Plutarco ed in particolare su alcuni dei topoi presenti nella biografia
di Pompeo relativi a Mitridate ed al suo popolo vd. Th.S. Schmidt, Plutarque et les Barbares. La
rhétorique d’une image, Collection d’études classiques 14, Louvain-Namur 1999, 111, 162. Sulla
descrizione plutarchea della campagna orientale di Pompeo, evidentemente dipendente da Teofane
di Mitilene e che aderisce alla autorapppresentazione del generale sia nel richiamo ad Alessandro
Magno, sia nell’immagine di pacificatore dei confini dell’ecumene vd. il commento alla biografia di
H. Heftner, Plutarch und der Aufstieg des Pompeius. Ein historischer Kommentar zu Plutarchs Pompeiusvita. Teil I:
Kap. 1-45, Europäische Hochschulschriften R. III Geschichte und ihre Hilfwissenschaften 639,
Frankfurt am Main 1995, 224. Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 191 sottolinea
50
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Infine, è necessario riflettere sul fatto che ad apporre la dedica compaiano,
oltre al demos come consuetudine, anche i neoi. L’identificazione del loro ruolo
appare problematica. Per un verso, neoi non sempre appare come sinonimo di
neaniskoi, riferendosi il secondo termine più tecnicamente alla sfera militare;51 si è
visto come neaniskoi si alterni a stratiotai nell’iscrizione iliense in onore di Nicandro.
Per altro verso, come notato dal Winter, il contesto della dedica a Pompeo farebbe
ritenere che la menzione dell’organizzazione dei neoi sia qui correlata
all’adempimento di compiti militari ed ai conseguenti benefici da loro ottenuti
quale ricompensa dal generale romano.52 La preparazione alla vita militare era
certamente una delle attività pregnanti delle organizzazioni giovanili nel mondo
ellenistico,53 e dunque non è inverosimile interpretare la presenza dei neoi quali
dedicanti come segno della partecipazione di contingenti della città alle guerre
condotte da Pompeo. L’appoggio militare al condottiero di una città, cui era stata
riconosciuta la eleutheria per la fedeltà mostrata a Roma nel primo conflitto
mitridatico, doveva essere garanzia del rinnovo di tale beneficio. Tuttavia, accanto
a questa interpretazione della presenza dei neoi nella dedica, non vanno trascurate le
numerose attestazioni del ruolo di queste organizzazioni nell’ambito del culto dei
sovrani ellenistici.54 Da Ilio proviene un documento che testimonia tali
manifestazioni religiose, l’iscrizione datata al 281 menzionante concorsi istituiti
dalla città in onore di Seleuco I sotto la direzione del ginnasiarca. 55 Certamente la
dedica da parte dei neoi in onore di Pompeo costituirebbe un’eccezione dal punto di
vista cronologico, se la si vuole intendere come ripresa di tradizioni rimontanti ad
epoca ellenistica: gli studi della documentazione in nostro possesso hanno messo in
l’antinomia presente nell’iscrizione fra la menzione dei barbari e quella degli anthropoi che Pompeo
avrebbe liberato. Per converso Mitridate tentava di far apparire stranieri i Romani presso le
popolazioni che aspirava a controllare: si pensi all’adesione dell’Armenia Minore a Mitridate per il
misos nei confronti dei Romani διὰ τὸ ὀθνεῖον in Cass. Dio XXXVI 9, 2.
51
Così C.A. Forbes, NEOI. A Contribution to the Study of Greek Associations, Philological
Monographs II, Middletown 1933, 61-67, secondo cui pur nella sostanziale corrispondenza fra i due
termini «Neaniskoi seem to have been more concerned with military affairs than neoi» (p. 65), come
per altro testimoniato dall’iscrizione iliense in onore di Nicandro. Launey, Recherches sur les armées
hellénistiques, cit., 859-862 sulla pertinenza precipuamente militare del termine neaniskoi rispetto alla
valenza più ampia dell’efebia. Sull’uso dei termini neoi e neaniskoi in epigrafi di contesto militare vd.
da ultimo B. Dreyer - H. Engelmann, Die Inschriften von Metropolis, I, Die Dekrete für Apollonios: Städtische
Politik unter den Attaliden und im Konflikt zwischen Aristonikos und Rom, IK 63, Bonn 2003, 34-38.
52
Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 185.
53
Cfr. supra, n. 14.
54
Vd. in proposito Forbes, NEOI, cit., 55; J. Delorme, Gymnasion. Étude sur les monuments
consacrés à l’éducation en Grèce (des origines à l’Empire romain), BEFAR 196, Paris 1960, 342-346; S. Aneziri D. Damaskos, Städtische Kulte im hellenistischen Gymnasion, in Kah - Scholz (Hgg.), Das hellenistische
Gymnasion, cit., 247-271, in part. 262-268. Più in generale sul tema del culto dei sovrani presso le città
ellenistiche F.W. Walbank, Könige als Götter. Überlegungen zum Herrscherkult von Alexander bis Augustus,
«Chiron» XVII (1987), 365-382.
55
IK Ilion, nr. 31 (in part. ll. 9-10 per la notizia relativa ad un agon di neoi ed epheboi). Vd.
Forbes, NEOI, cit., 23-24; Delorme, Gymnasion, cit., 342 n. 8 che si chiede se questo documento non
costituisca la più antica attestazione al riguardo; Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit,
cit., 185, che mette in evidenza a questo proposito l’importanza sociale del ginnasio nella città.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127
Daniela Motta, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
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evidenza che, se è vero che i neoi ricorrono in numerosi documenti d’Asia Minore
in onore di magistrati romani o imperatori, d’altra parte in età preaugustea non vi
è attestazione di dediche di statue innalzate da corporazioni o privati per magistrati
romani.56 Ma non si può trascurare la profonda innovazione che con Pompeo si
registra in termini di autorappresentazione, che si esplicita sia nella introduzione di
nuovi epiteti che entreranno nell’uso di età imperiale, quale il già menzionato
57
ἐπόπτης γῆς καὶ θαλάσσης, sia nel richiamo al modello di Alessandro Magno,
che doveva tradursi in un forte stimolo per le città ellenistiche. 58 La probabile
presenza di Pompeo presso Ilio nel suo viaggio orientale ricalcava l’itinerario
alessandrino.59 Il fatto che il testo dell’iscrizione, pur in un contesto militare del
tutto evidente, sia slegato da riferimenti localistici, menzionando guerre che
avevano coinvolto tutta l’Asia e dalle quali Pompeo aveva liberato l’intero genere
umano, può indirizzare verso una lettura diversa del significato della dedica
apposta dai neoi.
Nel 63-62 Pompeo aveva raggiunto in Oriente l’apice del successo, a seguito
delle vittorie militari abilmente messe a frutto nella caleidoscopica costruzione di
un potere personale, che ad arte si sostanziava di immagini allusive ad ideali
ecumenici; a lui rimaneva il compito della risistemazione amministrativa di quelle
aree con la connessa distribuzione di privilegi a città e territori. Forse la menzione
dei neoi nell’epigrafe iliense indica l’inizio di una trasformazione dei modi in cui
una città dell’Oriente greco si rivolgeva a magistrati romani, retaggio degli onori ai
sovrani ellenistici e preludio agli atti di omaggio verso gli imperatori. 60
Daniela Motta
Dipartimento di Beni Culturali
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, 90128
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
56
Vd. Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien, cit., 59; Winter, Stadt und Herrschaft in
spätrepublikanischer Zeit, cit., 184.
57
Cfr. supra, n. 41.
58
Tuchelt, Frühe Denkmäler Roms in Kleinasien, cit., 125: «Erst Pompeius griff mit seiner
Nachahmung Alexanders über das hinaus, was hellenistischen Städte bereit waren, römischen
Machthabern an Auszeichnungen zuzugestehen». D. Michel, Alexander als Vorbild für Pompeius, Caesar
und Marcus Antonius. Archäologische Untersuchungen, Coll. Latomus 94, Bruxelles 1967, 47-50, evidenzia il
richiamo ad Alessandro Magno nelle iscrizioni greche onorarie che recano gli epiteti di megas,
magnos, ktistes e soter. Per il richiamo ad Alessandro rappresentato anche dalla fondazione di città vd.
in particolare A. Dreizehnter, Pompeius als Städtegründer, «Chiron» V (1975), 213-245; Seager, Pompey the
Great, cit., 60.
59
Secondo Greenhalgh, Pompey. The Roman Alexander, cit., 165, Pompeo visitò Ilio «to enjoy
the satisfaction wich Agamennon had felt after the fall of Troy».
60
Sulla nuova dimensione di questa iscrizione che preannuncia l’età imperiale Bernhardt,
Polis und römische Herrschaft, cit., 176 e Winter, Stadt und Herrschaft in spätrepublikanischer Zeit, cit., 194.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 114-127
ROSALIA MARINO
Politica e psicodramma
nella retorica di campo in età triumvirale
La declinazione delle tensioni ideali nelle allocuzioni esortative e nei
discorsi – in oratio recta o obliqua – dei comandanti in campo in età triumvirale passa
attraverso la polifonia narrativa che orienta la proiezione di icone politiche nei
tenebrosi scenari del “dopo-Cesare”.
In un vortice emotivo che trascina il lettore, il confronto tra gli
schieramenti registra il protagonismo degli eserciti che si fanno specchio e,
insieme, immagine del rovesciamento dei valori di una società disorientata, alla
ricerca di referenti credibili.1 E mentre alla palpabile accelerazione del tempo
storico fanno riscontro le dinamiche poste in essere dall’inarrestabile cammino
verso cesure politico-istituzionali,2 lo strumento della retorica, oltre a scandire i
Ancora centrali sul tema gli studi di E. Gabba attenti agli intrecci del proletariato militare
e della plebe urbana con i potenti capifazione, oltre che alla maturazione di processi di
discontinuità “indotta” in un clima di grave fervore intellettuale quale fu appunto quello qui preso
in esame per cui vd. in particolare L’età triumvirale, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura
di), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 1. La repubblica imperiale, Torino 1990, 795-808 con
bibliografia. Presupposti anche gli studi ormai classici di H. Botermann, Die Soldaten und die römische
Politik in der Zeit von Caesars Tod bis zur Begrundüng des zweiten Triumvirats, Zetemata 46, 1, München 1968;
I. Hahn, Die Legionsorganization des zweiten Triumvirates, «AAnt» XVII (1969), 285-313; H. Aigner, Die
Soldaten als Machtfaktor in der ausgehenden römischen Republik, Innsbruck 1974; V. Ortmann, Cicero, Brutus
und Octavian. Republikaner und Caesarianer. Ihr gegenseitiges Verhältnis im Krisenjahr 44/43 v. Chr., Bonn 1988;
sul potere dei dinasti grandi generali nel quadro istituzionale rivisto da Silla vd. M. Pani, La politica
in Roma antica. Cultura e prassi, Roma 1997, 152 s. e 234 s.
2
La tesi che nega cesure politiche dopo le Idi di marzo del 44 per privilegiare l’idea di un
processo evolutivo all’insegna di una sostanziale continuità nell’articolazione dei rapporti tra i
protagonisti sulla scena e i vari gruppi politici, trascura il fatto che nella tradizionale dialettica delle
consorterie si introdusse, di là da progetti strategici definiti, un potenziale eversivo che mise a nudo
– nel merito e nel metodo – i punti di criticità non che della compagine sociale, dell’apparato statale
nel suo complesso. Alleanze schizofreniche ed estemporanee, di cui i matrimoni dinastici divennero
collante strutturale, fanno emergere l’inefficacia politica del Senato unicamente votato alla
sopravvivenza più che a rafforzare le istituzioni e, ancora, alla mercé di potentati giudicati meno
pericolosi. La tendenza psicostorica “inquinante” che, da una prospettiva teleologica, appanna il
profilo dinamico degli eventi riletti in età imperiale sino ai giudizi di Dio di Orosio (sui rischi di
tale lettura A. Giardina, Cesare vs. Silla, in G. Urso (a cura di), Cesare: precursore o visionario?, Atti del
Convegno Internazionale (Cividale del Friuli, 17-19 settembre 2009). I Convegni della Fondazione
N. Canussio 9, Pisa 2010, 31-46) viene superata negli studi di F. Rohr Vio da analisi di ampio
respiro che riescono a cogliere nella frammentazione del quadro politico l’itinerario ideologico –
1
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ISSN 2036-587X
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ritmi delle drammatiche vicende che condussero ad Azio, consente di individuare,
nei frastagliati affreschi di scelte di campo fluide, il livello di consapevolezza
politica e l’intreccio ossimorico di reciprocità e asimmetria. 3 E così, la deliberata
marginalizzazione storiografica dei fautores dei triumviri,4 diviene speculare alle
istanze ideologiche di età imperiale che, nulla concedendo alla rimozione della
memoria, recuperano il coinvolgimento delle masse nella deriva delle
responsabilità, masse la cui autonomia di giudizio viene espressa, in chiave di
radicalizzazione, tanto nel cuore pulsante di Roma, quanto nelle aree
municipalizzate della penisola.5
tra Modena e il II triumvirato – filtrato, quando non costruito, da Cicerone e rivisto più tardi in
chiave cesariana dagli storici filoaugustei: vd. specialmente Publio Cornelio Dolabella. Ultor Caesaris
Primus. L’assassinio di Gaio Trebonio nella polemica politica del postcesaricidio, «Aevum» LXXX (2006), 105119; ma anche Marco Emilio Lepido tra memoria e oblio nelle Historiae di Velleio Patercolo, «RCCM» XLVI, 2
(2004), 235-256 con una cospicua e consapevole bibliografia. Sugli indirizzi storiografici relativi al
problema della definizione delle forme di governo a Roma, che attraversa il territorio più esteso del
rapporto tra democrazia e aristocrazia (oligarchia) quale viene rappresentato dalle fonti, si sofferma
in termini esaustivi M. Pani, La politica, cit., 140-155. Lo studioso sottolinea i limiti di indagini a
indirizzo sociologico che tengono in scarsa considerazione la storicizzazione dei fenomeni non
riconducibili sotto un unico denominatore. Sui fattori di debolezza del senato illuminante F. De
Martino, Storia della Costituzione romana, IV 1, Napoli 1961, 43-48.
3
Sul valore e il tenore di rinvii allusivi o espliciti a vicende della storia più recente nella
raccolta di materiali declamatori antologizzati da Seneca il Vecchio da ultima E. Migliario, Le
proscrizioni triumvirali fra retorica e storiografia, in M.T. Zambianchi (a cura di), Ricordo di Delfino Ambaglio,
Biblioteca di Athenaeum 55, Como 2009, 55-66, sulle orme di E. Gabba, Miscellanea triumvirale, in A.
Gara - D. Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente alla fine della repubblica romana. Scritti in onore di
Mario Attilio Levi, Como 1993, 127-134. Ma cfr. anche G. Mazzoli, La guerra civile nelle declamazioni di
Seneca il Retore, in Ciceroniana. Atti del XII Colloquium Tullianum (Salamanca 2004), Roma 2006, 45-57; F.
Berti, Scholasticorum Studia. Seneca il Vecchio e la cultura retorica della prima età imperiale, Pisa 2007.
4
“Comprimari” li definisce la Rohr Vio, Publio Ventidio Basso. Fautor Caesaris tra storia e
memoria, Roma 2009. Sulla riflessione di Appiano relativamente alle vicende e agli immediati
antefatti di questo periodo vd. gli studi di Chiara Carsana, Il dibattito politico a Roma nel 49-48 a.C. e i
discorsi di Appiano, «RIL» CXXXVIII (2004), 215-232; La cultura storica di Appiano nel II libro delle Guerre
civili, in L. Troiani - G. Zecchini (a cura di), La cultura storica nei primi due secoli dell’impero romano, Roma
2005, 231-241. Fondamentale per le problematiche di carattere storiografico il Commento storico al libro
II delle Guerre Civili di Appiano (parte I), Pisa 2007.
5
Per una valutazione politica ad ampio spettro delle vicende sino ad Azio ancora utile De
Martino, Storia della Costituzione, cit., 43-78. Sul problema centrale del rapporto fra crisi e
trasformazione M. Pani, L’ultimo Cicerone fra crisi dei principes e ciclo delle repubbliche, in A. Gara - D.
Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente, cit., 21-36. Per l’irruzione sulla scena politica delle
masse A. Rini, La plebe urbana a Roma dalla morte di Cesare alla sacrosancta potestas di Ottaviano, in M.
Pani (a cura di), Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romana, Bari 1983, 161-190. Sui nuovi
equilibri sino al secondo triumvirato, ma dall’ottica della continuità di politiche di gruppo R.
Cristofoli, Dopo Cesare. La scena politica romana all’indomani del cesaricidio, Napoli 2002, con recensione
abbastanza analitica di F. Rohr Vio in «RCCM» XLVI (2004), 347-349; Ead., Ex virtute nobilitas
coepit: percorsi di affermazione politica nell’età del secondo triumvirato, «AIV» CLXIII (2004-2005), 19-46.
Sull’opposizione optimates-populares che, mentre non esaurisce – dal nostro punto di vista – il
problema di contrapposizioni di classe, riflette in ogni caso sistemi di valori M.T. Schettino, I partiti
politici nell’età postsillana, in G. Zecchini (a cura di), Partiti e fazioni nell’esperienza politica, Contributi di
Storia antica 7, Milano 2009, 87-104 e per una storia degli studi sulla lotta politica nella Roma
tardo-repubblicana, G. Zecchini, I partiti politici nella crisi della repubblica, ibid., 105-119. Sui processi
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Trascinati, infatti, dallo sfondo verso il centro della scena, instabili gruppi
di pressione sollecitavano di volta in volta, anche per il tramite degli eserciti
presenti sul territorio, riflessioni a “corrente alternata” sul deficit di democrazia,
stimolando presso gli intellettuali del neonato regime il dibattito sul significato e
sulle ragioni dell’adesione culturale, più che politica, – così riteniamo – al
Principato.
I valori di libertà e democrazia, gridati nelle assemblee civili e militari,
persero a poco a poco la loro carica ideologica ed emotiva diluendosi nei tatticismi
di cesariani e cesaricidi con un naturale approdo a rovesciamenti di prospettiva che
implicavano, in ogni caso, l’evocazione della tirannide e/o della monarchia anche
se ridotte a semplici fantasmi intellettuali.6
Alla vigilia della guerra di Modena, le ombre di bandiere strumentalmente
esibite da Antonio e Ottaviano, nel nome della tutela dello stato e del bene dei
cittadini, si proiettavano sinistramente sul popolo, traducendo in disincanto
opzioni frustranti. I più infatti ταῖς στρατείαις ἅμα καὶ ταῖς ἐσφοραῖς
βαρούμενοι erano convinti che chiunque avesse vinto τῷ νικήσαντι δουλεύσουσι.7
evolutivi dell’ordine senatorio E. Gabba, Il senato romano nell’età dell’imperialismo e della rivoluzione, in
AA.VV., Il Senato nella storia. Il Senato nell’età romana, I, Roma 1998, 85-127. Sul rapporto con le aree
municipalizzate della penisola M. Sordi, Ottaviano e l’Etruria nel 44 a.C., «StEtr» XL (1972) 3-17; C.M.
Volponi, Lo sfondo italico della lotta triumvirale, Genova 1975; E. Bispham, From Ausculum to Actium. The
Municipalization of Italy from the Social War to Augustus, Oxford 2007; G. Bandelli, La formazione delle clientele
dal Piceno alla Cisalpina, in J. Mangas (Ed.), Italia e Hispania en la Crisis de la Republica romana, Actes del III
Congreso Hispano-Italiano (Toledo, 20-24 septiembre 1993), Madrid 1998, 51-70. Sui rapporti di
singole aree municipali con Roma, U. Laffi - M. Pasquinucci (a cura di), Ausculum, I, Pisa 1975, XILXII; Id., Sull’organizzazione amministrativa dell’Italia dopo la guerra sociale, in Akten des VI. Internationalen
Kongresse für Griechische und Lateinische Epigraphik, München 1972, 37-52; ora in Id., Studi di storia romana e
di diritto, Roma 2001, 113-135; importanti gli atti del convegno Les bourgeoisies municipales italiennes aux IIe
et Ier siècles av. J-C., Parigi-Napoli 1983; L. Gasperini - G. Paci, Ascesa al senato e rapporti con i territori
d’origine. Italia: regio V Picenum, in AA.VV., Epigrafia e ordine senatorio, Tituli IV 2, Roma 1982, 201-244;
507-509; G. Bandelli, Considerazioni sulla romanizzazione del Piceno (III-I sec. a.C.), in Il Piceno romano dal III
sec. a.C. al III d.C., Atti XLI Convegno di Studi Maceratesi (Abbadia di Fiastra - Tolentino, 26-27
novembre 2005), Macerata 2007, 1-26.
6
C. Dognini, Cicerone, Cesare e Sallustio: tre diversi modelli di “libertas” nella tarda antichità, «InvLuc»
XX (1998), 85-101; C. Monteleone, Prassi assembleare e retorica libertaria. La Quarta Filippica di Cicerone, Bari
2005; R. Marino, Sulla percezione del regnum a Roma in età repubblicana, in M. Caccamo Caltabiano - C.
Raccuia - E. Santagati (a cura di), Tyrannis, Basileia, Imperium. Forme, prassi e simboli del potere politico nel
mondo greco e romano. Giornate seminariali in onore di S.N. Consolo Langher (Messina, 17-19
dicembre 2007), Pelorias 18, Messina 2010, 375-384. Questi studi presuppongono J. Bleicken, Der
Begriff der Freiheit in der letzen Phase der römischen Republik, «HZ» CXCV (1962), 1-20.
7
Cass. Dio XLVI 32, 1. Le categorie politico-ideologiche al servizio della storia di quegli
anni aprono in Cassio Dione all’analisi sociologica che individua nella irritazione del popolo (oἰ
πλείοι) i fattori di crisi del sistema aggredito dalle turbolenze e sovrastato dalle richieste incalzanti
dei militari. Neppure Appiano aveva risparmiato critiche al πλῆθος (il termine è più esplicito) che
durante i contrasti scoppiati subito tra Antonio e Ottaviano, aveva tenuto un atteggiamento
fluttuante, passando dalla parte di chi prometteva di più (BC III 39-45, 164-184, 207. Ma vd. anche
Cass. Dio XLV 13, 1). Analogamente si era comportato l’ὄχλος dei militari al servizio di Antonio
console, scegliendo di sfuggire alla fatica dei campi grazie ai donativi promessi dal figlio di Cesare,
mentre i cavalieri Celti, per lo stesso motivo passarono per la seconda volta ad Antonio (Cass. Dio
XLVI 37, 2). Sulla guerra di Modena (Cass. Dio XLVI 29-39; App. B.C. III 49, 198-199, III 50; 52,
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E così il risalto, nel resoconto di Cassio Dione, al generale smarrimento
delle coscienze e alla reazione schizofrenica del Senato incapace di qualsivoglia
strategia politica di fronte alle spregiudicate alchimie tattiche dei vari gruppi di
potere, apre ampi squarci – anche se in chiave assolutoria dell’ordo – su ribaltamenti
di responsabilità.8
In un soprassalto di appartenenza lo storico introduce il sospetto sul
coinvolgimento di Ottaviano nella morte dei consoli in carica, Irzio e Pansa,
volendo giustificare l’abolizione dei privilegi concessi poco prima dal Senato9 e
stigmatizzare, razionalizzandolo, un percorso storico costruito attraverso
l’intreccio di diagnosi e prognosi, di futuro cioè (l’età di Settimio Severo) e passato
(l’età triumvirale), sul filo di una memoria consapevolmente selezionata.10
Il disastro della Cisalpina viene letto, quindi, come l’esito scontato di una
crisi generale di valori la cui soluzione, affidata all’intervento della Τύχη, avrebbe
213; 76, 308; 399, 408; Cic. Phil. V e VII; Plut. Ant. 17. Ma vd. anche Cic. Phil. III 11, 28 in cui si
esalta come vittoria della libertà l’azione illegale di Ottaviano, la diserzione delle legioni e la loro
disobbedienza verso il comandante, il rifiuto di Decimo Bruto di lasciare la Cisalpina) il vero
paradosso della politica – puntuale la ricostruzione di J.M. Roddaz, L’héritage, in F. Hinard (sous la
direction), Histoire romaine. Tome I. Des origines à Auguste, Paris 2000, 825-912, in part. 836-841), ma cfr.
anche i contributi di V. Manfredi, Le operazioni militari intorno a Modena nell’aprile del 43 a.C., CISA 1,
Milano 1972, 126-145, H. Bengtson, Untersuchungen zum Mutinensischen Krieg, in Id., Kleine Schriften zur alten
Geschichte, München 1974, 479-531.
8
XLVI 34, 1-5. Colpisce la rappresentazione di un senato ondivago, che opera scelte
tattiche funzionali all’autodifesa di classe, mentre la riflessione sui vizi della natura umana giustifica
l’esito finale, e cioè che τόν τε δῆμον καταλυθῆναι καί δυναστείαν τινὰ γενέσθαι (§ 4).
9
Cass. Dio XLVI 39, 1. Tale sospetto è presente in Tacito Ann. I 10. Sull’episodio della
morte dei consoli in carica durante la guerra per il governo della Cisalpina, episodio sicuramente
centrale per la ricerca di soluzioni “costituzionali”, vd. la recente ricostruzione di L. Canfora, 19
agosto 43 a.C. Ottaviano e la prima marcia su Roma, in I giorni di Roma, Bari 2007, 33-53, che attraverso una
rilettura delle fonti focalizza l’attenzione sui due giganti politici di quei giorni convulsi, Cicerone e
Ottaviano. Ma vd. anche B. Zucchelli, Il colloquio tra Ottaviano e Pansa in Appiano (b.c. 3,75-76), in Studi di
Filologia classica in onore di G. Monaco I: Letteratura greca, Palermo 1991, 439-453 e Roddaz, L’héritage, cit.
838 s. La versione di Cassio Dione vuole forse giustificare l’abolizione di quei privilegi che, in
contrasto con le tradizioni patrie, avevano costituito in un passato recente la base del potere
personale di alcuni dinasti. La misura restrittiva, emanata contro Antonio e Ottaviano, doveva
suonare come un avvertimento per quello dei due che sarebbe risultato vincitore, tanto più in
quanto si sarebbe fatta ricadere la responsabilità sullo sconfitto (XLVI 39, 2). L’ostilità dello storico
nei confronti di Ottaviano emerge poi dalla sottolineatura della svolta autoritaria che Ottaviano
console diede ai provvedimenti urgenti che premiavano i militari τοῖς μὲν ὅσa τε καὶ ὅθεν
ἐψήφιστο τοῖς δὲ λοιποῖς ὡς ἑκάστοις, λόγῳ μὲν οἴκοσθεν ἔργῳ δὲ ἐκ τῶν κοινῶν ἔδωκε (XLVI 46,
5). Sulla devozione dei soldati e la sottomissione (ἐδουλώσατο) dei senatori al giovane XLVI 48, 1.
10
Negli ultimi anni la bibliografia sull’opera di Cassio Dione si è arricchita di pregevoli
contributi. Dalla prospettiva nella quale ci siamo collocati indicheremo quelli che ci sembrano più
significativi, pur essendo passati da puntuali analisi filologiche: D. Fachner, Untersuchungen zu Cassius
Dios Sicht der römischen Republik, Altertumswissenschftliche Texte und Studien 14, Hildesheim 1986; G.
Wirth, Einleitung zu Cassius Dio. Römische Geschichte, Band 1, Zürich-München, 1985; A.M. Gowing, The
triumviral Narratives of Appianus and Cassius Dio, Michigan 1992. Vanno tenuti presenti P. Grattarola, I
cesariani dalle idi di marzo alla costituzione del secondo triumvirato, Torino 1990 e Cristofoli, Dopo Cesare, cit.
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innalzato il crinale tra buoni e cattivi, tra vincitori e vinti, a scapito, in ogni caso,
della democrazia.11
Nel quadro delle vicende del triumvirato la centralità dell’elemento militare
diviene punto di snodo dei grovigli politici che, solo nella lotta armata e per la
lotta armata, avrebbero orientato il cammino della storia: ἀσθενέστατα γὰρ ἤδη
τὰ ψηφίσματα πρὸς τοὺς τὰς δυνάμεις ἔχοντας pensava Lepido nel momento in
cui rinunciò a marciare con Planco sull’Ι talia per fermarsi in Gallia su ordine del
senato e fondare Lugudunum.12
Il pessimismo sul recupero della legalità trova espressione nella valutazione
dionea degli esiti politici di Filippi letti come il naturale approdo alla monarchia
poiché οὐ γὰρ ἔστιν ὅπως δημοκρατία ἄκρατος, ἐς τοσοῦτον ἀρχῆς ὄγκον
προχωρήσασα, σωφρονῆσαι δύναται.13
I percorsi di teoresi politiche divaricate trovano proprio a Filippi una
perfetta sintesi nelle parakleseis ai soldati che, costruite a notevole distanza dai fatti,14
sottolineano con accenti drammatici la discontinuità segnata dalla vittoria contro i
Cass. Dio XLVI 34, 4-5. Contrasta con tale visione deterministica la dichiarazione
programmatica di Cassio Dione sul distacco dello storico dalla materia narrata παίδευσις […] τὰ
11
μάλιστα εἶναι […] ὅταν τις τὰ ἔργα τοῖς λογισμοῖς ὑπολέγων τήν τε ἐκείνων φύσιν ἐκ τούτων
ἐλέγτῃ καί τούτους ἐκ τῆς ἐκείνων ὀμολογίας τεκμηριοῖ. La colpevolizzazione del senato raggiunge
toni più alti quando se ne descrive l’incapacità di misurarsi con Ottaviano sulla base di un
programma esente da ambiguità e da colpi di mano quale quello di onorarne i nemici nell’ignoranza
del risultato finale (XLVI 40, 1-6; ma cfr. anche 41, 1-5). Le critiche a soluzioni repubblicane alla
vigilia di Modena sembrano volere orientare verso l’assoluzione dei cesariani e giustificare gli ormai
vicini accordi di Bologna (Cass. Dio XLVI 55, 1-5; App. B.C. IV 2, 4-7; Plut. Ant. 19). Ma gli
attacchi pressoché indiscriminati ai protagonisti e ai comprimari, ai civili e ai militari, alle masse e
alle élites vogliono trasmettere la percezione del naufragio dei codici sociali e politici. L’imperativo
della svolta avrebbe ricevuto la sua consacrazione presentandosi come il superamento naturale, in
quanto volontario, dei danni del terremoto che aveva aggredito il cuore dell’impero. La ritrovata
armonia tra vincitori e vinti, quale turner point imprescindibile, superava così le antinomie nel nome
del bene comune.
12
XLVI 50, 5; ma vd. Vell II 63, 1. Su Lepido cfr. il vecchio ma puntuale L. Hayne, Lepidus’
Role after the Ides of March, «Acta Classica» XIV (1971), 109-117; A. Allély, Lépide le triumvir, Bordeaux
2004; e per una migliore comprensione del percorso del triumviro “oscurato” M. Amela Valverde,
Lépido en Spagna, «Hispania antiqua» XXVI (2002), 35-58 e ancora Roddaz, L’héritage, cit., passim; Rohr
Vio, Marco Emilio Lepido tra memoria e oblio, cit., 235-256.
13
XLVII 39, 5. Sui passaggi storici che condussero a Filippi attraverso il triumvirato la
bibliografia è sterminata. Ci limitiamo a ricordare in questa sede, oltre ai citati studi sul “dopo
Cesare”, P. Walmann, Triumviri rei publicae constituendae. Untersuchungen zur politischen Propaganda im Zweiten
Triumvirat (43-30 v. Chr.), Frankfurt am Main 1989; Gara-Foraboschi (a cura di), Il triumvirato costituente,
cit.; U. Gotter, Der Diktator ist tot! Politik im Rom zwischen den Iden des März und der Begründung des zweiten
Triumvirats, Stuttgart 1996; J.M. Roddaz, Les triumvirs et les provinces, in E. Hermon (Éd.), Pouvoir et
“Imperium”, Diáphora VI, Napoli 1996, 77-96. Sul peso politico ed economico che ebbero le
proscrizioni come immediata conseguenza dell’accordo a tre fondamentale F. Hinard, Les
proscriptions de la Rome républicaine, CEFR 83, Roma 1985 e da una prospettiva socio-economica L.
Canfora, Proscrizioni e dissesto sociale nella repubblica romana, «Klio» LXII (1980), 431.
14
Cass. Dio XLVII 42, 1-5. Dal racconto emerge una forte tensione nel nome della libertà
e della democrazia che caratterizza i discorsi dei comandanti dal campo dei repubblicani
preoccupati dell’uguaglianza dei cittadini di fronte la legge, e non, come i cesariani, del governo su
tutti i propri concittadini o delle promesse di ricchi donativi.
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tirannicidi. I discorsi si traducono in manifesti programmatici funzionali – è il caso
di Cassio Dione – ad una denuncia forte della svendita dell’ideologia patriottica
erosa da promesse al rialzo di donativi che «eccitavano» – ἐπέρρωσε – i soldati.15
La vicenda di Filippi rappresentò, in definitiva, sul versante storiografico, il
tornante della crisi della repubblica attorno al quale coagulare l’attenzione per
l’esemplarità dei temi che essa suggeriva e per la riproposizione di una scala
valoriale alla quale ci si sarebbe richiamati di lì a poco nello scontro finale tra i due
titani rimasti sulla scena.
L’avvolgente corrente emozionale che attraversa la trama dei racconti di
diversa ispirazione sulla tragedia personale di Bruto e Cassio se, da un lato, porta in
superficie l’intreccio inestricabile di psicologismo e tatticismo, di cui, si resero
protagonisti gli eserciti, dall’altro, proprio attraverso l’esaltazione dell’eroismo
degli “eredi spirituali” di Cesare, sembra volere rendere più incisiva la vittoria degli
avversari politici.
I circostanziati e concitati discorsi rivolti alle truppe destinatarie di vere e
proprie lezioni di politologia, mentre permisero agli oratori di turno di filtrare
spinte ideologiche, linee programmatiche, aggregazioni estemporanee, adesioni e
diserzioni, fecero da cornice a quadri politici dinamici, delineati più tardi da una
prospettiva teleologica aperta alla percezione del processo irreversibile verso la
rivoluzione del 27 a.C.16
Il martellante elogio della democrazia nelle reiterate esortazioni di Bruto e
Cassio alle truppe chiamava in causa quella parte del Senato che, per essere ostile ai
triumviri, non poteva che condividere l’azione eversiva delle due vittime della
“coerenza” politica, promossi a custodi della libertas.
XLVII 42, 5, 1. La percezione del cambiamento nell’articolazione dei rapporti fra
truppe, comandanti e imperatore, si riflette nel disincanto e nel pessimismo ai quali cedette Agrippa
dopo la vittoria navale su Sesto Pompeo quando ribadì ciò che soleva dire agli amici intimi e cioè
che οἱ πλείους τῶν ἐν ταῖς δυναστείαις ὄντων οὑδένα ἐθέλουσι κρείττων σφῶν εἶναι, concludendo
che per sfuggire ai problemi il comandante deve affrancare quanti sostengono il potere supremo
dalla difficoltà delle imprese e attribuire loro il merito del successo (XLIX 4, 2-4)
16
Gli argomenti che Cassio sviluppa (alla vigilia dello scontro a Filippi) in una delle
allocuzioni esortative più intense dei Romaika appianei insistono, all’interno di un’ampia
retrospettiva storica, sul valore della reciproca fiducia che le promesse ai commilitoni sin lì
mantenute, incoraggiavano a coltivare (IV 90, 377). Le ragioni del partito anticesariano,
adeguatamente enfatizzate, penetrano nella coscienza collettiva dei militari con il conforto delle
tecniche della retorica, divenendo una metafora della crisi in atto, che registrava il protagonismo
degli eserciti. Nei quadri delineati da Appiano mentre la figura di Antonio viene definita a tinte
fosche e Ottaviano rimane nell’ombra, la centralità riconosciuta al senato come istanza suprema
della legalità sollecita nello storico un’attenta riflessione sul valore della guerra come affermazione
di una giustizia condivisa dal favore della divinità (IV 94, 391-406). Su Appiano oltre al già citato
Gowing, The triumviral Narratives, cfr. D. Magnino, Le “Guerre civili” di Appiano, in ANRW II 34, 1,
Berlin-New York 1993, 523-554 e Id., Appiani Bellorum Civilium Liber tertius, Testo critico,
introduzione, traduzione e commento a cura di, Firenze 1984. Utile anche I. Hahn, Appian und seine
Quellen, in G. Wirth (Hg.), Romanitas–Christianitas. Untersuchungen zur Geschichte und Literatur der römischen
Kaisezeit, Berlin-New York 1982, 251-276.
15
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Dalla consapevolezza della forza contrattuale degli eserciti 17 alla scelta
programmatica del suicidio in caso di sconfitta,18 alla fede indiscussa nella
Fortuna,19 questi sapientissimi ac fortissimi viri20 sarebbero divenuti, proprio in virtù
della scelta estrema, il propugnacolo dei valori collettivi che travalicano il tempo,
tranne poi a far coincidere nella lunga durata la morte del progetto politico di
Cesare con congiunture di segno positivo che, nei fatti, avevano permesso la
rivitalizzazione di consorterie, al di fuori però di etichette di partito,
eventualmente funzionali a istanze di visibilità.
Il rapporto di reciproca dipendenza dei comprimari dell’emergenza,
icasticamente espresso da Appiano nel discorso di Pisone contro Cicerone –
κατηγορεῖ γὰρ ᾿Αντωνίου τυραννίδα καὶ κόλασιν στρατιωτῶν, ἀεὶ τῶν
ἐπιβουλευόντων τὰ στρατεύματα θεραπευόντων, οὐ κολαζόντων –21 trova
conferma nella molteplicità di casi rappresentati dalle fonti che trasferirono la
dialettica politica negli accampamenti. Significativo l’episodio della rivolta dei
veterani che, puntando su nuovi parametri distributivi dell’ager publicus,
stravolgevano vecchi e nuovi equilibri socio-economici con il rischio, per di più, di
trasformare larghe fasce di ceti possidenti in strumenti di manovra dei nuovi
rampanti della politica individuati in Lucio Antonio e Fulvia. 22
Le esitazioni di Ottaviano, rimasto in Italia alla ricerca di soluzioni
indolori, costituirono terreno fertile per una rivolta di militari in congedo, il cui
protagonismo animò e potenziò il contrasto con i parenti di Antonio sino alla
guerra di Perugia (41 a.C.).23
Plut. Brut. 38 e 46; di defezioni di soldati si parla in 39, 9.
Plut. Brut. 40, 8: ἀλλ᾿ ἀπαλλάξομαι, τὴν τύχην ἐπαινῶν, ὅτι Μαρτίαις εἰδοῖς δοὺς τῇ
πατρίδι τὸν ἐμαυτοῦ βίον, ἄλλον ἔζησα δι᾿ ἐκείνην ἐλεύθερον καὶ ἔνδοξον. Dello stesso valore
morale la risposta di Cassio all’amico ἢ γὰρ νικήσομεν, ἢ νικῶντας οὐ φοβηθησόμεθα.
19
Un pathos struggente attraversa il testo sul rapporto culturale di Bruto con la Τύχη. Ma
vd. Flor. II 17, 10 dove si afferma che quanto efficacior est fortuna quam virtus: at quam verum est, quod moriens
efflavit, non in re, sed in verbo tantum esse virtutem. Sul rapporto privilegiato della Fortuna con i capi
carismatici cfr. R. Marino, Felicitas. Una dea dall’ambiguità politica, «Mythos» I (1989), 127-137.
20
Flor. II 17, 15 dove l’ammirazione si rivolge anche alle modalità scelte per la morte da
Bruto e Cassio che, in coerenza con la loro dottrina filosofica, non si servirono delle loro mani per
non violarle (ne violarent) sed in emolitione fortissimarum pessimarumque animarum iudicio suo, scelere alieno uterentur.
Su Bruto e Cassio come «gli ultimi veri romani» Suet. Tib. 61.
21
App. B.C. III 56, 233. Ma vd. anche Plut. Ant. 76. Sul rapporto fra triumvirato e
assegnazione di terre si veda il classico L. Keppie, Colonisation and Veteran Settlement in Italy 47-14 B.C.,
London 1983 e Gabba, L’età triumvirale, cit., con bibliografia.
22
Cass. Dio XLVIII 9, 3. Cfr. App. B.C. V 25, 98; 27, 105 e sulla spiegazione alle truppe dei
motivi della guerra contro Ottaviano 39, 159-166 e ancora i paragrafi 176-190. Uno squarcio
emotivo, che sembra veicolare il rifiuto – sul piano concettuale – della guerra civile in V 46, 196 che
descrive la spontanea comunanza che si creò tra i soldati di Lucio e quelli di Ottaviano come tra
commilitoni. Sulle vicende del movimento creato in Italia dai due cognati cfr. soprattutto J.M.
Roddaz, Lucius Antonius, «Historia» XXXVII (1988), 317-346 ripreso in L’héritage, cit., spec. 854-864.
23
Cass. Dio XLVIII 14, 4-5 sulla tragica fine degli abitanti di Perugia. Sulla guerra di
Perugia – un secondo bellum italicum (Roddaz, L’heritage, cit., 864) – cfr. E. Gabba, The Perusin War and
Triumviral Italy, «HSCP» LXXV (1971), 139-160; P. Wallmann, Untersuchungen zur militarischen Problemen
des Perusinischen Krieges, «Talanta» VI (1975), 58-76; M. Sordi, La guerra di Perugia del libro V dei Bella Civilia
di Appiano, «Latomus» XLIV (1985), 301-316.
17
18
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Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale
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Incerti sul loro futuro, quelli pretesero risposte precise e definitive sulla
distribuzione di terre già deliberata da Ottaviano e ostacolata dalle parti in causa,
che ottennero correzioni alle misure assunte precedentemente, alimentando lo
scontro che culminò nell’uccisione di centurioni e di sostenitori del triumviro.
Questi, per placarli, dovette assicurare che τοῖς τε συγγενέσι σφῶν καὶ τοῖς
τῶν ἐν ταῖς μάχαις πεσόντων πατράσι καὶ παισὶ τὴν χώραν, ὅσην τινες αὐτῶν
εἷχον, ἀφεθῆναι24 provocando la reazione cruenta del popolo e numerosi incendi.
La confusione e l’incertezza del quadro politico che produceva accordi poco chiari,
spinsero i veterani a marciare su Roma e a pretendere di leggere e siglare patti
definitivi.
Il cedimento di Ottaviano, che aveva rischiato di essere ucciso, si spinse
sino all’accettazione della clausola sulla nomina dei militari a giudici dei contratti
che i nuovi criteri di assegnazione delle terre prevedevano e alla trascrizione di tale
decisione su tavolette cerate sigillate e consegnate in custodia alle Vestali. Lucio e
Fulvia, dipinti come sobillatori delle rivolte che attraversarono la penisola, si
rifiutarono di sedere al tavolo delle trattative con i veterani che Cassio Dione, per
bocca loro, definì con efficacia «senatori caligati». 25
Il “sistema” dell’interdipendenza di truppe e comandanti contribuì fra
l’altro ad una nuova articolazione della morfologia socio-economica nelle aree
municipali, percepita quale effetto naturale della fenomenologia della guerra civile
e destinata a creare nuove sacche di clientela.26
La tragedia dei vinti offrì alla storiografia spunti di riflessione sulle ragioni
dei vincitori, sulle politiche personalistiche, sugli scompaginamenti sociali. E, sullo
sfondo del dramma umano che si consumava all’ombra delle armi, sembra
delinearsi con contorni nitidi l’interazione, a livello puramente concettuale, di
truppe e comandanti la cui tensione emotiva, affidata a dialoghi serrati, sollecita
nel lettore l’esigenza tutta psicologica di superare il guado nel quale affogava la
Cass. Dio XLVIII 9, 3. La logica dello scambio di favori tra comandanti-uomini delle
istituzioni e truppe trova spazio nel racconto su rivendicazioni “sindacali” delle legioni di
Ottaviano nel corso della guerra contro Lepido in Sicilia. Il triumviro ἅτε μηδενὸς ἔτι πολεμίου οἱ
παρόντος, ἐν ὀλιγωρίᾳ αὐτοὺς ἐποιεῖτο (XLIX 13, 2). Quelli minacciavano però di congedarsi
convinti che Ottaviano avrebbe ceduto a causa della prevedibile guerra civile. Ma sul debole filo di
un compromesso con la coscienza, smentito dai fatti, lo storico costruisce un profilo etico di
Ottaviano-comandante, tranne a modificarlo poco dopo. La dura reazione contro i soldati viene
ricondotta alla convinzione che μηδὲν δεῖν τὸν ἄρχοντα παρὰ γνώμην ὑπὸ τῆς τῶν στρατιωτῶν
βίας ποιεῖν, ὡς καὶ ἄλλο τι αὖθίς σφων διὰ τοῦτο πλεονεκτῆσαι ἐθελησόντων (XLIX 13, 4). Il
giovane congedò sia i soldati che avevano combattuto con lui a Modena, sia quelli che avevano
maturato dieci anni di servizio, per trattenere i rimanenti, aggiunse che in avvenire non avrebbe
reintegrato alcuno dei congedati οὐδ᾿ ἂν τὰ μάλιστα ἐθελήσῃ. Promesse di premi ribaltarono la
situazione anche perché ai centurioni ὡς καὶ ἐς τὰς βουλὰς αὐτοὺς τὰς ἐν ταῖς πατρίσι καταλέξων,
ἐπήλπισε. In tal modo placò i soldati ai quali diede immediatamente il denaro, subito dopo le terre:
XLIX 13-14, 1-4.
25
Cass. Dio XLVIII 8, 12.
26
Sul progetto politico elaborato da Cesare in cui «l’esercito rappresentava una delle
occasioni maggiori di integrazione degli alleati italici dopo il bellum sociale» e sull’accesso agli honores
per gli esponenti delle élites italiche cfr. per ultimo Rohr Vio, Publio Ventidio Basso, cit. 170 s.
24
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Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale
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coerenza di scelte di parte responsabili, nel nome e nel segno di un programma
credibile di rinnovamento.
Secondo questo schema si struttura il racconto sulla fine di Antonio, il cui
progetto politico venne filtrato dalle lenti deformate e deformanti della
propaganda augustea.27
L’ipoteca culturale dei valori della res publica, ben presenti alla storiografia
più tarda, orientò la rimodulazione dei puntelli ideologici della vicenda triumvirale
sino al suo epilogo, ancorandoli ai sintagmi cristallizzati di tirannide e democrazia,
di schiavitù e libertà cui, però, gli eserciti non sempre furono permeabili. 28
La possibilità che la retorica di campo offriva alla riflessione politica e
all’analisi introspettiva permisero, per esempio, di ricondurre le colpe politiche di
Antonio all’ambito delle patologie amorose che sfibravano le virtù civiche:
“l’anima dell’amante”, disse un tale scherzando, vive in un corpo altrui giacché
Antonio si lasciò trascinare da Cleopatra, dopo Azio, quasi fosse attaccato e si
muovesse con lei.29
Plut. Ant. 76. Prima dello scontro ad Azio Antonio chiese ai suoi soldati di valutare
tanto i pericoli che le speranze, e di puntare sui vantaggi della vittoria con gli immancabili richiami
al valore della libertà e ai rischi della tirannide (vd. i capp. 43-44). La sensazione che si respira dai
temi che rimbalzano in queste allocuzioni conferma il livello di percezione della fine di un’epoca
fondata sui valori tradizionali urlati sino ad Azio. Sui “vizi” della propaganda esemplare ci sembra
il tentativo in Cassio Dione di scagionare Ottaviano dalla ferocia delle proscrizioni che egli
addirittura avrebbe frenato e disciplinato grazie al provvedimento, sostenuto da lui, che ne fissava
le regole (XLVII 7, 1-5).
28
Accanto ai casi di svendita della coerenza sin qui indicati, la vicenda di Filippi, dove le
allocuzioni dei protagonisti trovano ampio spazio nei racconti di Appiano e di Cassio Dione,
costituisce la cartina di tornasole di un sentire diffuso tra i comandanti dei rischi che derivavano
dagli eserciti recalcitranti ad un pieno coinvolgimento politico. Paradigmatiche in tal senso le
riflessioni di Bruto e Cassio, di Antonio e Ottaviano – inserite alla fine delle parakleseis dallo storico
di Alessandria – sulla propensione delle truppe alle defezioni e al passaggio di fronte, a meno di
“foraggiamenti” cospicui (B.C. III 86, 353-357; 87, 358-360; 88, 361-366; IV 124, 520-521; 126, 525529; V 47, 197). Anche in Cassio Dione è palpabile il senso della volubilità degli eserciti per
esempio nell’episodio dello scontro tra il Senato e Ottaviano per l’attribuzione del consolato a
quest’ultimo, scontro nel quale non sfuggì a nessuno il peso di quelli per la ricomposizione delle
fratture che straziavano la res publica (XLVI 39-46). Ma si possono richiamare numerosi altri esempi
su questo tema destinato ad arricchirsi di un elenco interminabile di colpi bassi quali strumento
della lotta politica (XLVIII 13, 1-4 dove si fa dire ad Ottaviano di ritenere che μηδὲν δεῖν τὸν
27
ἄρχοντα παρὰ γνώμην ὑπὸ τῆς τῶν στρατιωτῶν βίας ποιεῖν, ὡς καὶ ἄλλο τι αὖθίς σφων διὰ τοῦτο
πλεονεκτῆσαι ἐθελησόντων (§ 4); cfr. anche XLV 18-47 in cui il discorso di Cicerone contro
Antonio – una lunga rassegna di quegli anni turbolenti – contiene numerosi riferimenti al
comportamento degli eserciti e XLVI 1-28: il discorso di Caleno in difesa di Antonio).
29
Plut. Ant. 66, 7 ma vd. anche 36, 1-7. Sull’attribuzione di questo detto a Catone il
Vecchio in altri luoghi dell’opera plutarchea vd. P. Boyancé, Caton ou Catulus?, «REG» LXVIII
(1955), 324 ss. Sul rapporto di Antonio con le truppe cfr. R. Scuderi, M. Antonio nell’opinione pubblica dei
militari, CISA V, Milano 1978, 117-137. A fronte di una bibliografia sterminata sul triumviro ci
limitiamo a segnalare saggi riguardanti l’organizzazione della propaganda dal datato C.L. Babcock,
Dio and Plutarch on the Damnatio of Antony, «CP» LVII (1962), 30 ss.; a J. Geiger, An overlooked Item of the
War of Propaganda between Octavian and Antony, «Historia» XXIX (1980), 112-114; P. Walmann,
Münzpropaganda in den Anfängen des Zweiten Triumvirats (43-42 v. Chr), Bochum 1977; A.J. Woodmann,
Velleius Paterculus. The Caesarian and Augustan Narrative (2, 41- 93), Cambridge 1983. Limitatamente alla
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Rosalia Marino, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale
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L’idealizzazione dei protagonisti, accomunati nel racconto degli storici da
aspettative ireniche che, in taluni casi sembrano appiattirsi e omologarsi negli
scenari sconvolti dal rumore cupo delle armi, trovò un medium efficace nelle
allocuzioni dei comandanti ispirate al valore supremo della libertas, ormai percepita
come tragicamente assente.
E l’insistente richiamo ad essa sottolinea la consapevolezza della svolta
politica che, oltre a cancellare i partiti «nel momento in cui avevano cominciato a
prendere forma»,30 accelerò la creazione di una formula costituzionale più matura e
adeguata al governo dell’impero, grazie al superamento dello strapotere dei
“dinasti” e allo spazio lasciato formalmente intatto al senato ormai storicamente
rigenerato, ma politicamente disarticolato.31
Rosalia Marino
Dipartimento di Beni Culturali
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, 90128
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
prima fase del “dopo Cesare” K. Matijević, Marcus Antonius Consul-Proconsul-Staatsfeind. Die Politik der
Jahre 44 und 43 v. Chr., Rahden 2006. Per la ricostruzione delle alleanze A. Valentini, Gli Antoniani nelle
Historiae di Velleio Patercolo: il caso di Lucio Munazio Planco, «RCCM» L (2008), 71-96. Sul metodo di
Plutarco C.B.R. Pelling, Plutarch’s Method of Work in the Roman Lives, «JHS» IC (1979), 74-96; Id.,
Plutarch’s Adaptation of his Source-Material, «JHS» C (1980), 127-140; B. Scardigli, Die Römerbiographien
Plutarchs. Ein Forschungsbericht, München 1979.
30
Partiti e fazioni, cit., 119.
31
Su questi aspetti vd. l’analisi magistrale di Pani, La politica, cit., 237-250.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 128-137
DAVIDE SALVO
Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
Il resoconto tacitiano1 dell’ammutinamento delle legioni stanziate lungo il
confine renano nel 142 offre interessanti spunti di riflessione su aspetti di storia
politica e sociale. La rivolta si configura come un tentativo di delegittimazione di
Tiberio messo in atto dalla fazione giulia della domus Augusta che utilizzò l’elemento
militare come strumento di pressione politica sul nuovo imperatore che si
accingeva, non senza riluttanza,3 a ricevere il gravoso fardello dell’imperium
lasciatogli dal suo predecessore.
Augusto morì a Nola il 19 agosto del 14 d.C. 4 Svetonio scrive che Tiberio
esitò a lungo prima di assumere il potere imperiale a causa di tre pericoli che
incombevano su di lui, cioè la rivolta dello schiavo Clemente, la congiura di Druso
Libone e l’ammutinamento delle legioni stanziate in Germania e in Pannonia;5 in
particolar modo egli temeva la sedizione delle legioni renane, che spingevano
Germanico ad impossessarsi del potere, a tal punto che finse di essere ammalato
affinché il nipote, con animo più tranquillo, aspettasse celerem successionem.6
1
Tutti i passi di Tacito sono tratti dagli Annales. L’esposizione della vicenda costituisce un
case-study che permette di indagare il metodo di lavoro seguito da Tacito nella stesura degli Annales
(fonte principale della rivolta) e contribuisce a svelare alcune linee guida presenti nell’opera.
2
L’episodio ha ispirato il dramma per musica di Giovanni Legrenzi, Germanico sul Reno,
libretto di Giulio Cesare Corradi, rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1676.
3
Tac. I 11-12; Suet. Tib. 24; Cass. Dio LVII 2, 4-7; 3, 2-4.
4
Suet. Aug. 100, 1 e Cass. Dio LVI 29, 2 e 30, 5. Il giorno della morte è registrato anche nei
fasti Amiterni e nei fasti Ostienses. Cfr., inoltre, Vell. II 123 e Tac. I 5. Sulle reazioni che suscitò la
morte di Augusto e sul funerale celebrato a Roma cfr. Suet. Aug. 100 e Cass. Dio LVI 31, 34 e 42,
ma anche Vell. II 124, 3. Cfr. A. Fraschetti, Roma e il principe, Bari 20052, 40-44 e 66-81.
5
Sull’ammutinamento delle truppe stanziate in Pannonia vedi il dettagliato resoconto di
Tacito I 16-30, ed inoltre Vell. II 125, Cass. Dio LVII 4 e il breve cenno in Suet. Tib. 25, 1. Cfr. V.
Pagan, The Pannonian Revolt in the Annals of Tacitus, in C. Deroux (Ed.), Studies in Latin Literature and Roman
History, XII, Bruxelles 2005, 414-427 con bibliografia. Alcuni studiosi, analizzando le analogie
esistenti nelle narrazioni delle due rivolte, sono arrivati alla conclusione che i due racconti sono
l’uno la duplicazione dell’altro. L’ipotesi del «conte géminé», prospettata per la prima volta da E.
Bacha, Le génie de Tacite: la création de Annales, Bruxelles 1906, 103-104 e 287-290, è stata ripresa da D.O.
Ross, The Tacitean Germanicus, «YClS» XXXIII (1973), 209-227 e A.J. Woodman, Mutiny and Madness:
Tacitus Annals 1.16-49, «Arethusa» XXXIX (2006), 203-329 (con una lista delle corrispondenze tra i
due resoconti alle pp. 305-307).
6
Suet. Tib. 25. Cfr. M. Pani, La politica in Roma antica. Cultura e prassi, Roma 1997, 259-260.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
| 139
Tiberio, dunque, nonostante avesse l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas
e quindi, de iure, fosse legittimato a governare,7 era ben consapevole della presenza a
corte di agguerriti gruppi di potere pronti a indebolire la sua posizione. Lo stesso
schema della successione appariva tutt’altro che fissato in modo definitivo. A tal
proposito Pani, giustamente, sottolinea il fatto che «all’avvicinarsi di Augusto
verso la fine della propria reggenza la discussione a Roma sul problema della
successione era probabilmente più viva di quanto, in seguito, uno schema di
successione ormai collaudato non portasse gli stessi storici antichi delle generazioni
successive a considerare».8 In alcuni ambienti di corte, infatti, si discuteva la
possibilità di designare un princeps civitatis,9 mentre in altri si vagliavano le
candidature familiari interne alla domus Augusta; i rumores registrati da Tacito,
sembrano alquanto critici sia nei confronti di Agrippa Postumo, qualificato come
trux et ignominia accensus, sia verso Tiberio, la cui personalità si contraddistingueva
non solo vetere atque insita Claudiae familiae superbia, ma anche per la sua incapacità di
arginare le bramosie di potere della madre Livia, nonché quelle di Germanico e
Druso, definiti adulescentes qui rem publicam interim premant quandoque distrahant.10
Nel passo tacitiano sono ben delineati le dinamiche e i protagonisti dello
scontro che incise profondamente nella vita politica dell’Impero dopo la morte di
Augusto: da un lato vi era Tiberio, scelto da Augusto come suo legittimo
successore, dall’altro Agrippa Postumo, giovane strumentalizzato da gruppi di
potere che in base a legami di consanguineità con il defunto imperatore
rivendicavano il loro diritto a governare e che avevano come referente Agrippina.
Vi era poi Germanico,11 cui veniva attribuito – a torto o a ragione – un
M. Pani, Lotte per il potere e vicende dinastiche. Il principato fra Tiberio e Nerone, in G. Clemente - F.
Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 2: I principi e il mondo, Torino
1991, 226-227.
8
M. Pani, Tendenze politiche della successione al principato di Augusto, Bari 1979, 7. Cfr. inoltre Id.,
La politica in Roma antica, cit., 258-259.
9
Tac. I 13, 2-3. Su questo passo cfr. Pani, Tendenze politiche, cit., 8-9 e Id., Principato e società a
Roma dai Giulio Claudi ai Flavi, Bari 1983, 18.
10
Tac. I 4, 3-5. Cfr., inoltre, I. Shatzman, Tacitean Rumours, «Latomus» XXXIII (1974), 560561 ed E. Keitel, Principate and Civil Wars in the Annales of Tacitus, «AJPh» CV (1984), 315. In un altro
passo Tacito (IV 57, 3) afferma che Augusto vagliava la possibilità di designare Germanico come
successore ma, vinto dalle preghiere della moglie Livia, alla fine scelse Tiberio imponendogli di
adottare Germanico.
11
A parte le monografie di V.F. Akveld, Germanicus, Groningen 1961 e B. Gallotta,
Germanico, Roma 1987, la figura di Germanico è stata trattata direttamente in numerosi articoli tra i
quali ricordiamo W. Seston, Germanicus héros fondateur, «PP» V (1950), 171-181; M. Pani, Osservazioni
intorno alla tradizione di Germanico, «AFMB» V (1966), 107-120; D.C.A. Shotter, Tacitus, Tiberius and
Germanicus, «Historia» XVII (1968), 194-214; S. Borzsák, Das Germanicusbild des Tacitus, «Latomus»
XXVIII (1969), 588-600; C. Rambaux, Germanicus ou la conception tacitéenne de l’histoire, «AC» XLI (1972),
174-199; Ross, The Tacitean Germanicus, cit., 209-227; H.W. Bird, Germanicus Mytheroicus, «EMC» XVII
(1973), 94-101; A. Wankenne, Germanicus, ideal du Prince selon Tacite, «LEC» XLIII (1975), 270-277; L.W.
Rutland, The Tacitean Germanicus. Suggestions for a Re-Evaluation, «RhM» CXXX (1987), 153-164; C.
Pelling, Tacitus and Germanicus, in T.J. Luce - J. Woodman (Eds.), Tacitus and the Tacitean tradition,
Princeton 1993, 59-85; O. Devillers, Le rôle des passages relatifs à Germanicus dans les Annales de Tacite,
«AncSoc» XXIV (1993), 225-241; alla figura del principe giulio-claudio, inoltre, sono stati dedicati
due convegni: G. Bonamente - M.P. Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, il
7
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156
Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
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protagonismo politico che se da un lato preoccupava lo zio Tiberio, dall’altro
alimentava le velleità di potere della moglie Agrippina. Si ricrearono, dunque,
quelle tensioni esistenti tra le varie fazioni della famiglia imperiale, combattute
energicamente da Augusto ma mai sopite del tutto,12 che causarono episodi di
rottura quali la rivolta delle legioni stanziate lungo il Reno.
Punto di inizio della nostra indagine sarà l’ampia sezione del primo libro
degli Annales (capp. 31-49) riservata alla descrizione della rivolta. Tacito inizia il
resoconto scrivendo che apud ripam Rheni vi erano due eserciti:13 quello stanziato a
nord, composto da quattro legioni (I, V, XX e XXI),14 ubbidiva ad Aulo Cecina,15
personaggio nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno (Macerata - Perugia, 9-11 maggio 1986), Roma
1987, e A. Fraschetti (a cura di), La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Convegno
Internazionale di Studi (Cassino, 21-24 ottobre 1991), Roma 2000.
12
Augusto fu talmente risoluto nel combattere queste tensioni da non avere alcuna
esitazione a infliggere l’esilio a sua figlia Giulia e ai suoi nipoti, Giulia Minore e Agrippa Postumo.
Su Giulia Maggiore vedi Vell. II 100, 2-5; Sen. benef. VI 32; Plin. nat. VII 149 e XXI 9; Tac. I 53, 1-2;
IV 44, 3; VI 52, 2; Suet. Aug. 65, 2-7; 101, 5; Tib. 10, 1; 11, 7; 50, 2; Cass. Dio LV 10, 12-16; 14, 1;
Macr. Sat. I 11, 7. Cfr. inoltre G. Zecchini, Il Carmen De Bello Actiaco, Stuttgart 1987, 64-73; 7677; F. Rohr Vio, Le voci del dissenso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Padova 2000; Ead., Reviviscenze
dell’eredità politica cesariana nello scandalo del 2 a.C., in G. Cresci Marrone - A. Pistellato (a cura di), Studi in
ricordo di Fulviomario Broilo, Padova 2007, 531-548; A. Galimberti, Fazioni politiche e principesse imperiali (I-II
sec. d.C.), in G. Zecchini (a cura di), “Partiti” e fazioni nell’esperienza politica romana, Milano 2009, 126-127;
F. Cenerini, Dive e donne. Mogli, madri, figlie e sorelle degli imperatori romani da Augusto a Commodo, Imola 2009,
24-28. Su Giulia Minore vd. Tac. III 24, 3 e IV 71, 4; Suet. Aug. 19 e 65; Schol. Iuv. VI 158. Cfr.
inoltre B. Levick, The Fall of Julia the Younger, «Latomus» XXXIV (1976), 301-309; A. Luisi,
L’opposizione sotto Augusto: le due Giulie, Germanico e gli amici, in M. Sordi (a cura di), Fazioni e congiure nel
mondo antico, CISA 25, Milano 1999, 181-192; Cenerini, Dive e donne, cit. 28-31. Su Agrippa Postumo
Vell. II 104, 1 (adozione da parte di Augusto) e II 112, 7; Tac. I 6; Suet. Aug. 65, 2 e Tib. 22; Cass.
Dio LV 32, 1 e LVII 3, 5-6; Plin. nat. VII 150; Plut. de garrul. 11, 508 a. Vd. inoltre S. Jameson,
Augustus and Agrippa Postumus, «Historia» XXIV (1975), 287-314; M. Sordi, La morte di Agrippa Postumo e
la rivolta di Germania del 14 d.C., in Scritti di storia romana, Milano, 2002, 309-323 (= Studi su Varrone, sulla
retorica, storiografia e poesia latina. Scritti Riposati, II, Rieti-Milano 1979, 481-495); J. Bellemore, The Death of
Agrippa Postumus and Escape of Clemens, «Eranos» XCVIII (2000), 93-114. Cfr. nn. 67 e 75.
13
Sulla divisione degli eserciti in Germania vedi C. Rüger, Germany, in A.K. Bowman - E.
Champlin - A. Lintott (Eds.), The Cambridge Ancient History, X, The Augustan Empire. 43 BC - AD 68,
Cambridge 1996, 528-529. Sulla composizione e le trasformazioni dell’esercito nella prima età
imperiale, sul reclutamento e i vari dislocamenti delle legioni vedi G. Forni, Il reclutamento delle legioni
da Augusto a Diocleziano, Roma 1953; L. Keppie, The Making of the Roman Army. From Republic to Empire,
London 1984, 173-198 e 205-212. Cfr. anche B. Campbell, The Roman Army: 31BC - AD337, New
York 1994 e Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, ed. it.,
Roma 2008.
14
Legio I Germanica, V Alaudae, XX Valeria Victrix e XXI Rapax. Cfr. Keppie, The Making, 205206 e 211.
15
Su Aulo Cecina cfr. A. Barrett, Aulus Caecina Severus and the Military Woman, «Historia» LIV
(2005), 301-314. Lo studioso ricostruisce la carriera politico-militare di Cecina soprattutto
soffermandosi su una delle pagine più misogine degli Annales, cioè III 32-35, dove viene riportato
l’intervento in senato del nostro personaggio il quale proponeva che ai magistrati provinciali non
fosse permesso di condurre nelle province le loro mogli, in quanto la donna «non solo è debole e
impari alle fatiche ma, se presa dalla sfrenatezza, è esigente, intrigante, assetata di potere» (ann. III
33, 3). Ritorneremo più avanti su questo passo. Sulla misoginia negli storici romani cfr. Cenerini,
Dive e donne, cit. 9-11. Sulle donne in età giulio-claudia cfr. M.F. Nanna, Donne in politica in età giulio-
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mentre quello che si trovava a sud, anch’esso composto da quattro legioni (II, XIII,
XIV e XVI),16 era affidato a Gaio Silio. Il comando supremo era esercitato da
Germanico.17 La presenza di ben otto legioni rendeva il fronte renano un punto
nevralgico di grandissima importanza, il cui controllo poteva alterare gli equilibri
di potere.18
Quando si diffuse la notizia della morte di Augusto,19 l’esercito stanziato
negli alloggiamenti estivi in finibus Ubiorum sotto il comando di Cecina20 in rabiem
prolapsus est:21 la scintilla della rivolta scoppiò tra i soldati della quinta e ventunesima
legione e in seguito divampò anche tra gli uomini della prima e ventesima legione i
quali speravano che Germanico non sopportasse l’impero di un altro e che daret se
legionibus vi sua cuncta tracturis. Da rilevare che la matrice politica della rivolta risulta
preponderante in Cassio Dione, il quale scrive che i soldati dislocati in Germania
τὸν Γερμανικὸν καὶ Καίσαρα καὶ πολὺ τοῦ Τιβερίου κρείττω ὁρῶντες ὄντα,
οὐδὲν ἐμετρίαζον ἀλλὰ τὰ αὐτὰ προτεινόμενοι τόν τε Τιβέριον ἐκακηγόρησαν
καὶ τὸν Γερμανικὸν αὐτοκράτορα ἐπεκάλεσαν.22
In Tacito, invece, la vernacula multitudo,23 giunta da Roma in seguito a recenti
arruolamenti e che, a giudizio dello storico, era lasciviae sueta, laborum intolerans, iniziò
a sobillare ceterorum rudes animos, che reclamavano congedi anticipati per i veterani,
claudia, in Epigrafia e territorio, politica e società. Temi di antichità romane, Bari 1983, 137-153; sulle figure
femminili nelle opere di Tacito, tra i tanti studi, cfr. B. Riposati, Profili di donne nella storia di Tacito,
«Aevum» XLV (1971), 25-45 e la rassegna bibliografica ragionata di K. Gilmartin, Women in Tacitus
1903-1986, in ANRW II 33, 5, Berlin-New York 1991, 3556-3574.
16
Legio II Augusta, XIII Gemina, XIV Gemina e XVI Gallica. Cfr. Keppie, The Making, 205 e 210211.
17
Tac. I 31, 2. Il comando supremo di Germanico sulle otto legioni renane è ricordato
anche in I 3, 5.
18
Cfr. G. Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania, in questo stesso
volume. Da un passo degli Annales (IV 5) siamo a conoscenza del fatto che nel 23 d.C. Tiberio
disponeva in totale di 25 legioni. Da questo dato, riferibile anche al 14 d.C., emerge che quasi un
terzo delle forze armate romane (48.000 uomini su un totale di 150.000) erano state dispiegate lungo
il Reno tanto che Tacito (in IV 5, 1 citato prima) evidenzia che praecipuum robur Rhenum iuxta, commune
in Germanos Gallosque subsidium. Cfr. E. Luttwak, The Grand Strategy of the Roman Empire. From the First
Century A.D. to the Third, Baltimore-London, 1979, 16-17.
19
La cronologia degli eventi dalla morte di Augusto sino alla conclusione della rivolta è
stata ricostruita, in modo minuzioso, da B. Levick, Tiberius the Politician, London 1976, 69-79; secondo
la studiosa la notizia della morte di Augusto arrivò agli eserciti renani non prima del 27 agosto, la
delegazione senatoria raggiunse Ara Ubiorum intorno al 9 ottobre (data dell’allontanamento di
Agrippina e Gaio dagli accampamenti) e la carneficina finale a Vetera è collocabile il 19 ottobre.
Dunque secondo tale ricostruzione la rivolta continuò a divampare per più di 50 giorni (27/28
agosto-19 ottobre).
20
In merito all’attività di Cecina durante la rivolta delle legioni Barrett, Aulus Caecina
Severus, cit., 312, osserva che «Tacitus find fault with Caecina, berating his failure to control events,
and suggesting that his nerve broke in the general violence».
21
Woodman, Mutiny and Madness, cit., 319, rileva che anche Vell. II 125, 1, associa il termine
rabies ai soldati che diedero l’avvio agli ammutinamenti. Lo studioso, analizzando le occorrenze di
termini quali rabies, ira, furor e simili, arriva alla conclusione che Tacito, nel descrivere gli
ammutinamenti, trae dal linguaggio medico «metaphorical terms of (mental) illness» (329).
22
Cass. Dio LVII 5, 1.
23
Cfr. infra, 152-153.
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paghe migliori per i giovani e vendetta per i soprusi da parte dei centurioni.24
Seguirono gravi disordini che sfociarono nell’assassinio dei centurioni e
nell’anarchia.25
A questo punto nel resoconto degli Annales fa la sua comparsa Germanico.
La sua “apparizione” segna una pausa narrativa all’interno del racconto relativo
alla rivolta; Tacito, infatti, dedica un capitolo (I 33) alla descrizione del giovane
principe, dei suoi legami familiari e delinea il Leitmotiv dei primi due libri della sua
opera, cioè lo scontro Tiberio-Germanico: scrive infatti che Germanico, il quale
aveva sposato Agrippina, nipote di Augusto, dalla quale aveva avuto molti figli,26
era fortemente preoccupato a causa dell’odio segreto che Tiberio e Livia covavano
nei suoi confronti. Inoltre lo storico aggiunge che Germanico era molto amato
presso il popolo romano poiché era vivo ancora il ricordo del padre Druso, di cui
si riteneva che si rerum poti<t>us foret, libertatem redditurus.27
Dopo questa pausa narrativa, Tacito riprende le fila del racconto e scrive
che Germanico, il quale si trovava in Gallia per un censimento, dopo aver
vincolato con un giuramento di fedeltà le Belgarum civitates, giunse agli accampamenti
estivi nel territorio degli Ubii, dove regnava una grande confusione: ai rivoltosi,
che gli erano andati incontro lamentandosi delle dure condizioni della leva, ordinò
di ricomporre i manipoli.
Dopo che l’ordine – molto lentamente – fu ricostituito, il comandante
parlò ai soldati dapprima elogiando Augusto, poi ricordando le vittorie di Tiberio
e la fedeltà dei Galli.28 Alla fine quando biasimò il comportamento dei rivoltosi
scoppiarono dei disordini: tutti protestarono per le dure condizioni della leva, i
veterani con grida chiedevano il congedo dopo trent’anni di servizio, altri ancora
reclamavano il pagamento dei legati di Augusto e offrivano il loro supporto nel
caso in cui Germanico volesse diventare imperatore; non appena udì queste parole
il giovane principe, quasi scelere contaminaretur, balzò giù dalla tribuna dalla quale
aveva pronunciato il suo discorso;29 quando i soldati gli sbarrarono il passo e lo
Tac. I 31.
Tac. I 32.
26
Tacito mette in evidenza la discendenza diretta di Agrippina da Augusto con lo scopo,
secondo Ross, The Tacitean Germanicus, cit., 214, «to emphasize Germanicus’ alliance with the Julian
side».
27
Tac. I 33, 2. Gli orientamenti repubblicani di Druso Maggiore sono menzionati anche in
II 82, 2 dove i seniores ricordavano una battuta del condottiero e sostenevano che Druso e il figlio
Germanico erano stati tolti di mezzo perché populum romanum aequo iure complecti reddita libertate agitaverint.
Su questi passi cfr. Shatzman, Tacitean Rumours, cit., 573 e 577 e O. Devillers, Tacite et les sources des
Annales, Louvain-Paris 2003, 195. Sentimenti repubblicani animavano anche una parte della
storiografia, purtroppo perduta, risalente agli ultimi anni del principato di Augusto e al regno di
Tiberio, come ad esempio le opere di Tito Labieno, Cassio Severo, Cremuzio Cordo e Seneca il
Retore definiti da A. Rostagni, Storia della letteratura latina, II, Torino 1952, 294-307 “gli storici della
libertà”. Cfr. D. Salvo, Intellettuali e potere sotto il principato di Tiberio, «ExNovo» V (2008), 43-58. È
ipotizzabile che all’interno di questo filone storiografico (incluso Tito Livio) sia stata elaborata la
caratterizzazione di Druso come restauratore della libertà repubblicana.
28
Tac. I 34.
29
I passi relativi ai discorsi che Germanico pronunciò ai rivoltosi (ann. I 34, 2 - 35, 4; 39, 56; 42-43) sono stati esaminati da C. Buongiovanni, Il generale e il suo “pubblico”: le allocuzioni alle truppe in
24
25
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minacciarono, Germanico estrasse un pugnale con l’intenzione di trafiggersi ma i
suoi amici lo trattennero.30 A questo punto avvenne un episodio, narrato sia da
Tacito sia da Cassio Dione, che rivela tutta la drammaticità della situazione: i
rivoltosi lo incitarono a ferirsi con il pugnale e un soldato di nome Calusidio gli
offrì la sua spada dicendo che quella era più affilata. Vedendo che Germanico era in
balia dei ribelli e incapace di fronteggiare la situazione, gli amici, approfittando di
un momento di tranquillità, lo condussero nella sua tenda. 31
Dopo aver valutato la pericolosità della situazione, il condottiero,
consigliato dal suo entourage, simulò di aver ricevuto una lettera da Tiberio, nella
quale venivano soddisfatte le richieste dei soldati e si stabiliva di elargire i donativi
promessi da Augusto in quantità doppia.32
I rivoltosi, sospettando che la lettera fosse un’invenzione, pretesero che le
disposizioni di Tiberio fossero applicate all’istante. I congedi ai veterani furono
rilasciati subito, mentre si stabilì che i donativi fossero elargiti nei quartieri di
inverno. I soldati della quinta e ventunesima legione, però, pretesero di essere
pagati prima di lasciare gli accampamenti estivi: Germanico fu costretto, allora, a
sottrarre denaro dalla cassa militare. Soddisfatti nelle loro richieste i rivoltosi si
mossero verso i quartieri di inverno: la prima e la ventesima legione si diressero ad
Ara Ubiorum, la quinta e la ventunesima a Vetera, a sessanta miglia di distanza
mentre Germanico raggiunse le quattro legioni che si trovavano sotto il comando
di Silio e, dopo aver ricevuto il loro giuramento di fedeltà, ritornò ad Ara
Ubiorum.33
In questa località scoppiarono nuovi disordini quando da Roma giunse una
delegazione inviata dal senato con a capo Lucio Munazio Planco:34 i soldati della
ventesima legione cominciarono ad accusare Planco, credendo che fosse giunto per
revocare ciò che era stato loro concesso. In preda al furore, di notte, irruppero in
casa di Germanico, dopo aver abbattuto le porte, e strapparono il loro comandante
dal letto minacciandolo di morte se non avesse consegnato loro il vessillo. Ancora
una volta Germanico appare completamente incapace di arginare il furore dei suoi
soldati e privo della dignità di comandante. Dopo l’irruzione, i ribelli, riversatisi in
strada, maltrattarono i legati e costrinsero Planco a fuggire presso gli
Sallustio, Tacito e Ammiano Marcellino, in G. Abbamonte - L. Miletti - L. Spina (a cura di), Discorsi alla
prova. Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa, Atti del Quinto
Colloquio italo-francese, Napoli - S. Maria di Castellabate (Sa) 21 - 23 settembre 2006, Napoli 2009,
63-80 (su Germanico cfr. soprattutto 67- 69 e 75); lo studioso ha rivolto la sua attenzione non solo
al carattere retorico e contenutistico delle adlocutiones ma anche agli “aspetti tecnici”, come ad
esempio l’acustica del discorso, la presenza del podio, etc.
30
Tac. I 35, 1-4.
31
Tac. I 35, 5; Cass. Dio LVII 5, 2 che però omette il nome di Calusidio.
32
Tac. I 36. La stessa notizia in Cassio Dione LVII 5, 3.
33
Tac. I 37.
34
Su questo personaggio cfr. R. Hanslik, Munatius 31, in RE XVI 1, 1933, 551. Stesso
resoconto in Cassio Dione LVII 5, 4-5, il quale però, aggiunge una considerazione, attribuibile alla
fonte da lui seguita, secondo cui Tiberio comunicò ai senatori inviati in Germania solo quello che
desiderava far sapere a Germanico, nascondendo i suoi veri propositi per paura che il nipote, in
combutta con i legati, potesse tramare qualcosa.
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accampamenti della prima legione.35 Il giorno seguente Germanico pronunziò un
discorso ai rivoltosi chiarendo i motivi per cui era giunta la delegazione, (cioè la
notifica del decreto con il quale Tiberio concedeva al nipote la carica di proconsole
a vita oltre che offrire conforto per la morte di Augusto) 36 e biasimò il
comportamento violento dei soldati. Infine congedò la delegazione e la fece
scortare da cavalieri.37
Tacito riporta i commenti sull’operato di Germanico: al generale veniva
rimproverato di non dirigersi verso l’esercito della Germania Superiore per
ricevere aiuti, di aver elargito con troppa facilità i donativi cedendo alle pressioni
dei rivoltosi (biasimo che si ritrova anche in Velleio Patercolo che paragona,
crediamo in modo polemico, la severità di Druso in Pannonia, con l’indulgenza di
Germanico)38 e di tenere il figlio e la moglie incinta inter furentes omnis humani iuris
violatores.39 Germanico, allora, decise di mandare al sicuro, presso i Treviri, il figlio
Caligola e la moglie Agrippina, la quale, seppur recalcitrante, alla fine fu costretta
dalle insistenze del marito ad andare via.40
A questo punto Tacito descrive la patetica scena dell’allontanamento di
Agrippina e di Gaio, accompagnati da altre donne, e del sentimento di vergogna
provato dai rivoltosi alla vista del muliebre et miserabile agmen. Quegli stessi rudi e
violenti soldati, che Germanico non era stato in grado di contrastare, appaiono ora
in preda alla commozione e pentiti delle loro azioni al solo pensiero della nobiltà e
della fecondità di Agrippina e del piccolo Gaio, il quale in castris genitus, in contubernio
legionum eductus, era chiamato militari vocabulo Caligulam, perché era solito indossare le
calzature militari ad concilianda vulgi studia. Mentre alcuni soldati affollandosi intorno
alla donna la supplicavano di restare, altri imploravano Germanico di impedire che
la moglie andasse via.41 Il comandante, dopo una lunga adlocutio retoricamente
Breve accenno a questo fatto in Cassio Dione LVII 5, 6.
Tac. I 14, 3.
37
Tac. I 39.
38
Vell. II 125, 4: Quo quidem tempore, ut pleraque ignouit Germanicus, ita Drusus, qui a patre in id ipsum
plurimo quidem igne emicans incendium militaris tumultus missus erat, prisca antiquaque seueritate usus, ancipitia sibi
tamque re quam exemplo perniciosa, et his ipsis militum gladiis quibus obsessus erat,obsidentes coercuit.
39
M.F. Williams, Four mutinies: Tacitus Annales 1.16-30; 1.31-49 and Ammianus Marcellinus Res
Gestae 20.4.9-20.5.7; 24.3.1-8, «Phoenix» LI (1997), 56, mette in evidenza il fatto che trattenere
Agrippina e Gaio fino a quel momento in mezzo ai ribelli si rivelò, alla fine, una scelta giusta – e
forse frutto di calcoli ben precisi – se è vero che i rivoltosi cambiarono atteggiamento quando
videro la donna e il bambino lasciare l’accampamento.
40
Tac. I 40.
41
Tac. I 41. R. Mellor, Tacitus, New York-London, 1993, 124, descrive il passo come «a
contrived scene and a melodramatic one». È possibile che la descrizione dell’allontanamento di
Agrippina e Gaio confluita negli Annales si trovasse nei Commentari di Agrippina Minore. Il tono
patetico del passo e il grande rilievo dato ad Agrippina e alle donne del suo seguito rivelano non
solo un intento celebrativo nei confronti della donna ma anche, a nostro avviso, una sensibilità
femminile in contraddizione con i toni misogini usati altrove da Tacito (cfr. ad esempio l’episodio
di Cecina nn. 13 e 88). Crediamo, inoltre, che Tacito abbia mutuato la descrizione direttamente dai
Commentari senza la mediazione di fonti intermedie quali ad esempio Plinio. Ma cfr. nn. 86 e 97.
35
36
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costruita e infarcita di echi virgiliani,42 assecondando le richieste dei soldati, fece
ricondurre al campo il piccolo Gaio, mentre Agrippina, prossima al parto, rimase
presso i Treviri.43
Siamo di fronte a una vera e propria glorificazione di Agrippina di cui
troviamo traccia in un altro passo di Tacito, che esamineremo più avanti,44 nel
quale Tiberio, lamentandosi del fatto che Agrippina aveva grande potere presso
l’esercito, sosteneva che compressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non
quiverit.45
Il confronto con il resoconto di Svetonio e Cassio Dione svela pienamente
il carattere celebrativo sotteso al passo tacitiano. Mentre Svetonio, senza fare alcun
accenno ad Agrippina, sostiene che i rivoltosi si placarono solamente alla vista del
42
251.
Cfr. R.T.S. Baxter, Virgil’s influence in book 1 and 2 of the Annals, «CPh» LXVII (1972), 249-
43
Tac. I 44, 1. L’identità del nascituro non è sicura. Svetonio (Cal. 7) scrive che Agrippina
diede alla luce nove figli tra i quali sei raggiunsero l’età adulta (Nerone, Druso, Caligola, Agrippina
Minore, Livilla e Drusilla), due morirono subito dopo il parto e un altro neonato, nato a Tivoli
nell’11 d.C. e chiamato Gaio Cesare, si spense in tenera età. Il biografo, inoltre, aggiunge che
Agrippina Drusilla Livilla continuo triennio natae (sunt). A ciò bisogna aggiungere che Tacito sostiene che
Agrippina partorì per l’ultima volta a Lesbo all’inizio del 18 d.C. dando alla luce Livilla. Se si
interpreta l’espressione di Svetonio continuo triennio come “nate in tre anni consecutivi”, e se si accetta
la notizia di Tacito relativa a Livilla, bisogna collocare la nascita di Drusilla nel 17 e quella di
Agrippina nel 16. Questa ricostruzione però non è accettabile in quanto siamo a conoscenza del
genetliaco di Agrippina (6 novembre secondo gli Acta Fratrum Arvalium e i Fasti Antiates) e da Tacito si
desume che Livilla nacque nel gennaio del 18. Quindi se si colloca la nascita di Agrippina Minore il
6 novembre del 16 e quella di Livilla nel gennaio del 18 risulta impossibile che la moglie di
Germanico abbia potuto partorire anche Drusilla nel 17. Già il Mommsen, Die Familie des Germanicus,
«Hermes» XIII (1878), 245-265 (= Gesammelte Schriften, IV, Berlin 1906, 271-290) aveva messo in
evidenza la questione e aveva ipotizzato che la notizia di Tacito fosse inesatta ritenendo più
probabile che Livilla fosse nata alla fine del 17, Drusilla alla fine del 16 e Agrippina nel novembre
del 15. Se così fosse il bambino che Agrippina portava in grembo durante la rivolta è uno dei figli
morti subito dopo il parto (così Mommsen, Die Familie., cit.: «Ich habe weiter die Möglichkeit
erwogen, einer der beiden früh verstorbenen Sohne des Germanicus im Herbst des J. 14 geboren
sein können», 259). Altri studiosi sostengono che l’espressione continuo triennio vada interpretata nel
senso di “nell’arco di un triennio” e credono che in quelle drammatiche circostanze venne al
mondo Agrippina Minore (novembre del 14) mentre le sue sorelle nacquero nel periodo compreso
tra novembre del 14 e novembre del 17. Contro questa ipotesi, però, osta il fatto che Agrippina
Minore nacque ad Ara Ubiorum cioè Colonia (cfr. Tac. XII 27, 1), mentre Tacito sostiene che
Germanico allontanò la moglie da Colonia in modo che potesse partorire in sicurezza presso i
Treviri. Su tutta la questione vedi J. Humphrey, The Three Daughters of Agrippina Maior, «AJAH» IV
(1979), 125-143; H. Lindsay, A Fertile Marriage: Agrippina and the Chronology of her Children by Germanicus,
«Latomus» LIV (1995), 8-9; D.W. Hurley, The Politics of Agrippina the Younger’s Birthplace, «AJAH» n.s. II
(2003), 95-117 e soprattutto le considerazioni di A. Barrett, Agrippina Mother of Nero, London 1996,
269-271 (appendice del libro dedicata proprio a “The Year of Agrippina the Younger’s Birth”), riprese
anche in Id., Agrippina: Sex, Power and Politics in the Early Empire, New Haven - London 1996, 230-232.
44
Cfr., infra, 152.
45
Tac. I 69, 4. Suggestivo appare il parallelo istituito dalla Williams, Four mutinies, cit., 59, la
quale paragona il ruolo avuto dalla donna nel domare la rivolta in Germania con quello di Seiano
in Pannonia. Cfr., inoltre, Galimberti, Fazioni politiche, cit., 133.
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piccolo Gaio,46 nella versione di Cassio Dione lo svolgimento dei fatti differisce
totalmente da quanto narrato negli Annales. Lo storico niceno, infatti, riporta che i
ribelli per fare pressione su Germanico catturarono ᾿Αγριππῖναν, τοῦ τε
᾿Αγρίππου καὶ τ῅ς ᾿Ιουλίας τ῅ς τοῦ Αὐγούστου θυγατέρα οὖσαν, καὶ τὸν υἱόν,
ὃν Γάιον Καλιγόλαν, ὅτι ἐν τῷ στρατοπέδῳ τὸ πλεῖστον τραφεὶς τοῖς
στρατιωτικοῖς ὑποδήμασιν ἀντὶ τῶν ἀστικῶν ἐχρ῅το, προσωνόμαζον,
ὑπεκπεμφθέντας ποι ὑπὸ τοῦ Γερμανικοῦ συνέλαβον. καὶ τὴν μὲν ᾿Αγριππῖναν
ἐγκύμονα οὖσαν ἀφ῅καν αὐτῷ δεηθέντι, τὸν δὲ δὴ Γάιον κατέσχον. χρόνῳ δ᾿
οὖν ποτε καὶ τότε, ὡς οὐδὲν ἐπέραινον, ἡσύχασαν, καὶ ἐς τοσαύτην γε
μεταβολὴν ἦλθον ὥστε καὶ αὐτοὶ τοὺς θρασυτάτους σφῶν αὐτοκέλευστοι
συλλαβεῖν. 47
Nel racconto di Dione non compare la schiera di donne che mestamente si
allontana dagli accampamenti, non vi sono soldati commossi alla vista di
Agrippina e Gaio e che scongiurano Germanico di fare rimanere la moglie, non vi
è, insomma, traccia della patetica scena descritta da Tacito.48
Dopo l’allontanamento di Agrippina, i soldati, con animo mutato,
cercarono i più sediziosi e li punirono facendo strage di uomini, che Germanico,
volutamente,49 non impedì.50
Sistemate le cose ad Ara Ubiorum, la rivolta divampò negli accampamenti
di Vetera, dove si trovavano la quinta e la ventunesima legione.51 Questa volta
Germanico appare più risoluto: scrisse lettere a Cecina nelle quali esortò gli stessi
soldati a punire i facinorosi e aggiunse che, nel caso in cui il suo ammonimento
fosse stato disatteso, egli avrebbe punito tutti i legionari senza distinzione tra
buoni e cattivi. Ne scaturì una vera e propria carneficina durante la quale i soldati
trucidarono i sediziosi.52 Tacito descrive la truculenta strage, che qualifica come
guerra civile, con un certo trasporto emotivo; egli scrive che i sediziosi
impugnarono le armi per difendersi, scatenando in tal modo una feroce lotta dove
uomini che fino a poco prima avevano condiviso i pasti e il riposo ora si
fronteggiavano pronti ad uccidersi. Quando più tardi Germanico entrò negli
accampamenti dei ribelli, vide uno spettacolo agghiacciante di fronte al quale non
Suet. Cal. 9. La notizia viene in parte corretta in Cal. 48, 1, dove si afferma che Caligola
meditò di massacrare le legioni che post mortem Augusti seditionem olim moverant…quod et patrem suum
Germanicum ducem et se infantem tunc obsedissent. Cfr. D.W. Hurley, Gaius Caligula in the Germanicus tradition,
«AJPh» CX (1989), 316-338 e G. Guastella (a cura di), Gaio Svetonio Tranquillo. La Vita di Caligola,
Roma 1992, 108 e 256.
47
Cass. Dio LVII 5, 6-7.
48
Le differenze, come vedremo più avanti (infra, 151), quando si esamineranno i problemi
connessi con la Quellenforschung dell’episodio, dipendono dall’uso di fonti diverse da parte dei due
storici.
49
La Williams, Four mutinies, cit., 56, commentando l’episodio, scrive che «Germanicus is
very conscious of his image and by this action that is really non-action he is able to have the ringleaders punished without incurring any resentment» e aggiunge che «this episode illustrates
Germanicus’ mild character».
50
Tac. I 44, 1-4.
51
Tac. I 45, 1.
52
Tac. I 48.
46
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poté trattenere plurimas lacrimas.53 Con questa orrida scena di morte54 Tacito
conclude il resoconto della rivolta.
Anche Cassio Dione accenna alle stragi compiute dagli stessi soldati e in più
afferma che χρόνῳ δ᾿οὖν ποτε καὶ τότε, ὡς οὐδὲν ἐπέραινον, ἡσύχασαν.55 La
Sordi ha richiamato l’attenzione su questo passo sottolineando il fatto che «la
soluzione della rivolta non venne da un magistrale colpo di scena operato da
Germanico con una tempestiva ed abile mozione degli affetti, ma dalla stanchezza
subentrata col tempo nei soldati … quando si accorsero che non concludevano nulla e
che era inutile aspettare ulteriormente».56 La studiosa ipotizza che i rivoltosi
aspettassero l’arrivo di Agrippa Postumo, fratello di Agrippina.
Il giovane fu fatto uccidere subito dopo la morte di Augusto (non è chiaro
se per ordine di Tiberio, di Livia o dello stesso Augusto) prima che un suo schiavo,
di nome Clemente potesse liberarlo e condurlo ad exercitus Germanicos. 57 Tacito
precisa che Clemente arrivò troppo tardi a Planasia a causa della lentezza della
nave su cui viaggiava e, dal momento che il suo padrone era stato giustiziato,
cambiò i suoi piani: rubò le ceneri di Agrippa, si nascose in luoghi impervi e si fece
crescere barba e capelli in modo da somigliare al suo padrone. Per mezzo di
complici fece spargere la voce che Agrippa era vivo e quando nel 16 sbarcò ad
Ostia una multitudo ingens lo accolse con giubilo. Tiberio con uno stratagemma riuscì
ad imprigionarlo e dopo averlo interrogato lo fece giustiziare in secreta Palatii parte
ordinando poi che il suo corpo fosse portato via in gran segreto. Si vociferava
inoltre che multi e domo principis equitesque ac senatores avevano aiutato lo schiavo nel suo
tentativo di rivolta.58 Si potrebbe avanzare qualche ipotesi circa la loro identità.
La contemporaneità con la congiura di Druso Scribonio Libone, accusato di
res novas moliri59 (e di esercitare pratiche astrologiche, riti magici e l’interpretazione
dei sogni),60 risulta significativa: i due episodi potrebbero essere collegati tra di loro
e si potrebbe supporre che l’espressione res novas moliri/ νεωτερίζειν alluda a un
coinvolgimento di Libone nella vicenda di Clemente. Se si accetta tale ipotesi,
Tac. I 49, 1-2.
Mellor, Tacitus, cit., 124 considera questa scena, insieme a quella dell’allontanamento di
Agrippina e Gaio «the most graphic drama produced in ancient Rome».
55
Cass. Dio LVII 5, 7.
56
Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 321.
57
Tac. II 39, 1.
58
Sulla congiura di Clemente cfr. M.L. Paladini, La morte di Agrippa Postumo e la congiura di
Clemente, «Acme» VII (1953), 313-329; J. Mogenet, La conjuration de Clemens, «AC» XXXIII (1954), 321330; I. Cogitore, Mancipii unius audacia (Tacite Annales II, 39, 1): le faux Agrippa Postumus face au pouvoir
de Tibère, «REL» LXVIII (1990), 123-135; Bellemore, The death of Agrippa Postumus, cit.; O. Devillers F. Hurlet, La portée des impostures dans le Annales de Tacite: la légitimité imperial à l’épreuve, in M.A. Giua (a
cura di), Ripensando Tacito (e Syme). Storia e storiografia. Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 30
novembre - 1 dicembre 2006), Pisa 2007, 136-141 e 146-151; R. Marino, Schegge di storia sociale nella
storiografia sull’età giulio-claudia, «MediterrAnt» XI (2009), cds.
59
Tac. II 27-32; Suet. Tib. 26; Cass. Dio LVII 15, 4-5.
60
Tra le fonti che ricordano la vicenda di Druso Libone (vedi n. precedente), solo Tacito
riporta le accuse connesse con le pratiche magiche. Su questo aspetto e sulla repressione attuata da
Tiberio cfr. D. Salvo, Sull’oniromanzia nel mondo greco-romano, «Hormos» IX (2007), 314-317.
53
54
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sarebbe svelata l’identità di un primo complice, cui ipoteticamente potrebbe essere
aggiunto il nome di Scribonia, madre di Giulia Maggiore e amita di Libone la quale,
secondo Seneca,61 cercò di convincere il nipote a non suicidarsi.
Crediamo, comunque, che il ruolo più importante in tutti questi episodi sia
stato quello di Agrippina Maggiore, l’unica figlia di Giulia a trovarsi nelle
condizioni di poter orchestrare piani eversivi contro Tiberio e che forse aveva
precedentemente pianificato un altro tentativo per liberare il fratello, fatto
ricordato da Svetonio, il quale scrive che Lucio Audasio, un infermo di mente e di
corpo, e Asinio Epicado, ex gente Parthina ibridae, cercarono di rapire Giulia Maggiore
e Agrippa Postumo dai luoghi dove erano stati relegati per portarli ad exercitum.62
L’episodio è stato variamente datato.
Mentre la Levick sostiene che «the attempt of Asinius and Epicadus may
have been engineered by her daughter (si riferisce a Giulia Minore) in A.D. 8»,63
collegandolo in tal modo alle trame sovversive della nipote di Augusto e del suo
amante Decimo Silano, la Sordi, invece, colloca l’episodio nel 13 d.C. 64 La studiosa
pone in rilievo il fatto che in questo piano sia coinvolto l’esercito e sostiene che ciò
è indizio di un cambiamento di strategia da parte della fronda gravitante intorno
alle due Giulie. Dopo la relegazione di Giulia Minore, Agrippina rimase l’unica
discendente diretta di Augusto a poter avere la possibilità di riorganizzare il
gruppo di fronda della pars giulia e ad essa, dunque, sembrano riconducibili queste
nuove modalità di azione dell’opposizione. Se dietro il tentativo di Audasio ed
Epicado vi è Agrippina, l’episodio trova la sua collocazione cronologica nel 13 o 14
d.C., quando la donna si trovava sul fronte renano.65
L’interesse per questo episodio non si esaurisce con le considerazioni
appena svolte. È stato rilevato che il nomen di Epicado, Asinio, rimanda alla gens
Asinia cui apparteneva Asinio Gallo, che fu uno dei protagonisti della scena politica
fino al 33, anno della sua morte, e che sembra essere stato molto vicino ad
Agrippina dopo la morte di Germanico.66 La Sordi ipotizza che tra i due vi sia
Sen. epist. VIII 70, 10
Suet. Aug. 19: Audasius atque Epicadus Iuliam filiam et Agrippam nepotem ex insulis, quibus
continebantur, rapere ad exercitus. La Levick, Tiberius, cit., 61, seguita da Sordi, La morte di Agrippa Postumo,
cit., 313 osserva che la notizia del biografo è inesatta: al tempo della congiura, infatti, Giulia si
trovava a Reggio e non più a Pandataria.
63
Levick, Tiberius, cit., 61.
64
Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 316-317.
65
Per questo aspetto è importante ricostruire i movimenti di Agrippina e Germanico nel
13 e 14 d.C. Da Svetonio Cal. 8 sappiamo che la donna si trovava ad Anzio il 31 agosto del 12 d.C.,
dove partorì Caligola, che l’anno successivo Germanico fu inviato al fronte renano, e che Augusto
nel maggio del 14 d.C. inviò il piccolo Gaio in Germania alla madre. È lecito pensare che
Agrippina si trovava sicuramente accanto al marito verso gennaio-febbraio del 14, se al tempo della
rivolta, cioè ottobre, era prossima al parto. Nulla vieta di ipotizzare che Agrippina avesse seguito il
marito già a partire dal 13, quando Germanico fu preposto alle otto legioni che erano stanziate
lungo il Reno (Tac. I 3, 5).
66
Notizie su Asinio Gallo in Tac. I 13, 2; VI 23, 1; Cass. Dio LVIII 3, 1-7. Sulle vicende di
questo complesso personaggio rimandiamo agli studi di D.C.A. Shotter, Tiberius and Asinius Gallus,
«Historia» XX (1971), 443-457; M. Pani, Seiano e la nobilitas: i rapporti con Asinio Gallo, «RFC» CVII
(1979), 142-156; K.A. Raaflaub, Grundzüge, Ziele und Ideen der Opposition gegen die Kaiser im 1.Jh. n. Chr.:
61
62
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stato un accordo politico – rumores circolanti nel 33 insinuavano vi fosse stato
persino un rapporto adulterino –67 che portò al tentativo di liberazione di Giulia
Maggiore per mezzo di individui di condizione libertina e popolare. È utile
ricordare che le due Giulie avevano avuto un grande seguito presso la plebs urbana
utilizzata spesso come strumento di pressione sull’imperatore. Alcuni episodi, su
cui vale la pena soffermarsi, mettono in evidenza questo legame.
Nel 6 a.C. il ceto popolare aveva chiesto il consolato per il quindicenne
Gaio Cesare, provocando lo sdegno di Augusto, che si rifiutò di accordare il
privilegio al nipote ma che fu costretto a causa delle incalzanti richieste a
concedere al giovane una carica sacerdotale.68 Nel 3 d.C. a causa delle insistenti
suppliche di perdonare Giulia da parte del popolo romano, l’imperatore fece
trasferire la figlia sulla terraferma, precisamente a Reggio, con condizioni di vita
più miti.69
Altri episodi significativi, collocabili nel 6 e 7 d.C. sono riportati da Cassio
Dione, il quale narra che a causa di una carestia 70 e degli effetti di un incendio ὁ
ὅμιλος ἤσχαλλε. Ad alimentare il malcontento contribuì l’introduzione di
un’imposta del cinque per cento sulle eredità e sui lasciti dei defunti che Augusto
aveva stabilito per far fronte alle ingenti spese militari.71 Lo storico niceno dichiara
apertamente che vennero discussi molti piani per attuare un vero e proprio “colpo
di stato” e che alla fine si scatenò una caccia agli eversori – con l’istituzione di
taglie – che fece piombare la città di Roma nel caos. Egli inoltre riporta la notizia
che venne sospettato un certo Publio Rufo, dietro al quale, però, vi erano ἕτεροι δὲ
τῷ ἐκείνου ὀνόματι καταχρώμενοι καινοτομεῖν ἐπιστεύοντο . Questo
personaggio è forse identificabile con il Plauzio Rufo, che congiurò insieme a
Lucio Emilio Paolo, marito di Giulia Minore.72 È condivisibile l’ipotesi della
Levick73 che scorge dietro le macchinazioni di Rufo le trame del gruppo di Giulia
Minore e del marito che proprio quell’anno fu incriminato per lesa maestà.
Versuch einer Standortbestimmung, in Opposition et résistance à l’Empire d’Auguste à Trajan, Entretiens Hardt 33,
Vandoeuvres - Genève 1987, 9-10.
67
Tac. VI 25, 2.
68
Cass. Dio LV 9, 2.
69
Giulia era stata relegata a Ventotene nel 2 a.C. da dove poi, nel 3 d.C., fu trasferita a
Reggio dove morì. Tacito ( I 53, 1) è l’unico a riportare i nomi dei due luoghi di relegazione; Cassio
Dione (LV 10, 14) indica solo la relegatio a Pandataria mentre Svetonio (Aug. 65) afferma
genericamente che dopo cinque anni Augusto ex insula in continentem transtulit eam (cioè Giulia); Velleio
Patercolo (II 100, 5), infine, scrive sbrigativamente che Iulia relegata in insulam e aggiunge che la madre
Scribonia – voluntaria exilii comes – la seguì. Vedi inoltre supra, n. 12.
70
La carestia si diffuse a settembre, come si ricava da Cassio Dione LV 26, 3 dove si
specifica che Augusto, a causa di questa calamità vietò banchetti pubblici per festeggiare il suo
compleanno, che ricorreva, secondo Svetonio Aug. 5, 1, il 24 settembre.
71
Cass. Dio LV 25, 5- 26, 1. Questa tassa, insieme a quella relativa alla vendita degli schiavi
(vd. infra, n. 75), fu utilizzata per alimentare l’erario militare. Su questo aspetto cfr. G. Brizzi, Il
guerriero, l’oplita, il legionario, Bologna 2002, 139-140.
72
Suet. Aug. 19, 1.
73
Levick, Tiberius, cit., 58-59.
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Dalla confusa narrazione di Cassio Dione sembra di capire che questo stato
di agitazione, momentaneamente rientrato allorché la carestia era cessata e
Germanico e Claudio avevano organizzato giochi gladiatori in onore del padre
Druso,74 si protrasse in realtà fino ai Ludi Megalenses del 7 d.C. (4-10 aprile) quando
lo storico registra nuovamente malumori del popolo a causa del divampare di una
nuova carestia e del prolungarsi dello sforzo bellico, malumori che, anche in questa
circostanza, furono accresciuti dall’introduzione di una nuova tassa 75 e dalle
limitazioni delle spese per i munera gladiatoria.76
In questo infuocato clima in cui difficoltà economiche, disagio sociale e
spietate lotte politiche interne alla domus Augusta convergevano creando una humus
ideale per la progettazione di piani eversivi da parte dell’opposizione, Augusto
relegò Agrippa Postumo a Sorrento (probabilmente nei primi mesi del 7 d.C.) e
diede il suo patrimonio all’erario militare.77 Secondo la Levick78 il giovane
principe, dalla Campania, protestò contro il trattamento che Augusto gli aveva
riservato privandolo dei beni familiari e inviò una lettera all’imperatore. Questa
asperrima epistula – così la definisce Svetonio –79 fu divulgata dal plebeo Giunio
Novato, cui Augusto inflisse una multa. Questo personaggio potrebbe essere stato
collegato a Decimo Giunio Silano,80 l’amante di Giulia Minore. L’accusa del
giovane principe fu diffusa probabilmente nello stesso periodo in cui scoppiarono
disordini che turbarono l’elezione dei magistrati alla fine del 7 d.C. e costrinsero
Augusto a scegliere personalmente i magistrati a causa delle lotte tra le varie
fazioni.81 Vista la gravità della situazione, il vecchio imperatore prese la decisione
di trasferire il nipote a Pianosa dove rimase fino al momento della sua uccisione
nel 14 d.C. È ipotizzabile che i disordini popolari del 7 d.C., la divulgazione della
lettera da parte di Novato e il confino a Pianosa di Agrippa Postumo, siano eventi
74
75
LV 27, 3-4. A questi giochi fa riferimento Plin. nat. VIII, 4.
Si tratta della vicesima venalium mancipiorum, cioè una tassa sulla vendita di schiavi. Cfr. supra,
n. 72.
LV 31, 3-4.
LV 32, 1-2. Agrippa Postumo dapprima fu confinato a Sorrento (Suet. Aug. 65, 2) e in
seguito fu trasferito a Planasia (Suet. Aug. 65, 9: (scil. Augustus) Agrippam nihilo tractabiliorem, immo in dies
amentiorem in insulam trasportavit saepsitque insuper custodia militum). Tacito (I 3, 4) e Cassio Dione (LV 32, 2)
indicano il nome dell’isola ma non accennano al periodo trascorso a Sorrento. In Schol. Iuv. VI
158, invece, è riportato erroneamente che Agrippa fu confinato in Sicilia. Vd. Inoltre supra n. 12.
78
Levick, Tiberius, cit., 59-61. La ricostruzione della studiosa per gli avvenimenti del 7 d.C.
è seguita anche da Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 311-313.
79
Suet. Aug. 51.
80
Levick, Tiberius, cit., 60. Decimo Giunio Silano divenne l’amante di Giulia dopo la morte
del marito Lucio Paolo, accusato di lesa maestà nel 7 d.C. Coinvolto nello scandalo dell’ 8 d.C. fu
esiliato ma nel 20 d.C. rientrò a Roma grazie all’intervento del fratello, M. Silano, che godeva di
grande influenza presso la corte di Tiberio. L’uomo, però, non ricoprì più cariche pubbliche. Cfr.
Tac. III 24.
81
LV 34, 2. Augusto promulgò una lex Julia maiestatis, con la quale diede un assetto stabile al
crimine di lesa maestà, nel 27 a.C. o 8 d.C. Se si accetta quest’ultima data è possibile che
l’imperatore abbia preso l’iniziativa di ridefinire il crimen maiestatis proprio a causa della gravità degli
eventi connessi con le trame eversive della nipote Giulia. Vedi Ulpiano in Dig. 47, 10, 5 e cfr. R.A.
Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic and Augustan Principate, Johannesburg 1967.
76
77
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connessi tra di loro e orchestrati da un regia occulta dietro la quale è possibile
scorgere l’azione eversiva di Giulia Minore e Decimo Silano che furono esiliati
l’anno successivo.82
Se evidenti appaiono le connessioni tra plebs urbana e i circoli delle due
Giulie, non vi è alcuna traccia di collegamenti con l’esercito, che invece, come si è
già detto, entrerà a far parte dei piani politici di Agrippina, la quale in vari modi
cercò di garantirsi l’appoggio dei legionari. Quando nel maggio del 14 d.C. Gaio fu
portato in Germania, la madre lo utilizzò come strumento per ricavare un facile
consenso tra i soldati; a questo proposito si costruisce ad arte la notizia della
nascita del piccolo in castris83 e si usano accorgimenti quali ad esempio abbigliare il
piccolo gregali habitu e fargli indossare quelle caligae, dalle quali riceverà il celebre
soprannome, con il solo proposito di compiacere quei soldati che ben presto si
affezionarono al bambino manipulario habitu.84
La stessa Agrippina non si sottraeva a simili espedienti: durante
un’operazione bellica contro i Germani, in un momento di grande difficoltà,
assunse le funzioni di comandante, distribuì ai soldati vesti e bende, e si collocò
presso un ponte a tributare lodi e ringraziamenti alle legioni che ritornavano.85 A
questo protagonismo di Agrippina,86 forse, alludeva Cecina nel suo discorso al
82
Cfr. Pani, Tendenze, cit., 71-90.
Suet. Cal. 8. La nascita in castris di Caligola era sostenuta da Plinio il Vecchio in polemica
con Getulico che sosteneva che il bambino fosse nato a Tivoli. La notizia, che si ritrova anche in
Sen. const sap. 18, 4 e Athen. IV 148, fu accolta poi da Tacito. Cfr. Guastella, Gaio Svetonio, cit., 100106.
84
Suet. Cal. 9. Cfr. Guastella, Gaio Svetonio, cit., 107-108.
85
Tac. I 69, 1-2. Tacito scrive di aver desunto la notizia da Plinio il Vecchio. Disamina del
passo in Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-332. Secondo R.G. Lewis, Imperial Autobiography from Augustus
to Hadrian, in ANRW II 34, 1, Berlin-New York 1993, 655, seguito da Devillers, Tacite et les sources, cit.,
37, Plinio probabilmente ricavò questa informazione dai Commentari di Agrippina Minore, sui quali
cfr. C. Questa, Studi sulle fonti degli Annales di Tacito, Roma 1960, 145 e n. 60 e il già citato Devillers,
Tacite e les sources, 35-37. Vd. anche nn. 42 e 97. Il passo, inoltre, è stato analizzato da M. Kaplan,
Agrippina semper atrox: a Study in Tacitus’s Characterization of Women, in C. Deroux (Ed.), Studies in Latin
Literature and Roman History, I, Bruxelles 1979, 412-413, che qualifica l’atto di Agrippina di passare in
rassegna le truppe come «one of the cardinal acts of Roman non – feminity» (412). L’autore mette
in rilievo il fatto che Tacito caratterizza le due Agrippine, madre e figlia, utilizzando termini come
audax, ferox e atrox che di solito vengono associati a personaggi maschili e, inoltre, sottolinea il fatto
che tale connotazione, quando riferita a donne, ha solo una valenza negativa mentre associata a
uomini, soprattutto in ambito bellico, può assumere connotazioni neutre (sulla ferocia in Tacito cfr.
H.W. Traub, Tacitus’ Use of Ferocia, «TAPA» LXXXIV (1953), 250-261 (soprattutto 256-257 relative
ad Agrippina Maggiore). Cfr. inoltre D.C.A. Shotter, Agrippina the Elder - a Woman in a Man’s World,
«Historia» IL (2000), 346.
86
Negli anni successivi alla morte di Germanico, il protagonismo politico di Agrippina si
scontrerà con le ambizioni di potere di Seiano. Tacito IV 17, 3 scrive che nel 24 d.C. il panorama
politico a Roma era dominato dalla lotta tra le partes di Agrippina e quelle di Seiano. A tal proposito
R.A. Bauman, Women and Politics in Ancient Rome, London 1992, 143, considera le partes Agrippinae «the
first specific political movement to be headed by a woman». Cfr. inoltre Galimberti, Fazioni politiche,
cit., 132-133.
83
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senato quando affermava che praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum.87
Tacito aggiunge che l’atteggiamento della donna e la strumentalizzazione di Gaio
colpirono Tiberio il quale credeva che quelle azioni fossero mirate a sollecitare il
favore dei soldati non soltanto contro nemici esterni. L’imperatore constatava che
nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet,
tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari
velit. potiorem iam apud exercitus Agrippinam quam legatos, quam duces; conpressam a muliere
seditionem, cui nomen principis obsistere non qui verit. 88
È opportuno ora interrogarsi sul motivo per cui proprio le legioni del Reno
costituirono la base operativa dei progetti eversivi di Agrippina. La risposta a tale
domanda si trova in Tacito e Cassio Dione. Il primo, in un passo che abbiamo già
preso in considerazione all’inizio del nostro discorso,89 scrive che quando la
notizia della morte di Augusto arrivò negli accampamenti renani la vernacula
multitudo, nuper acto in urbe dilectu incominciò a scaldare ceterorum rudes animos.90 Il
secondo precisa il momento in cui avvenne l’arruolamento affermando che
Germanico per sedare la rivolta congedò coloro che avevano sorpassato l’età per la
ferma militare, i quali per lo più provenivano ἐκ τοῦ ἀστικοῦ ὄχλου che
Augusto aveva arruolato μετὰ τὴν τοῦ Οὐάρου συμφοράν 91 I metodi di
coscrizione dopo la disfatta di Teutoburgo furono molto brutali: Cassio Dione
scrive che un disperato Augusto,92 poiché non erano rimasti molti uomini in età di
Tac. III 33, 3. In questa adunanza del senato del 21 d.C. Cecina chiedeva che fosse
imposto ai governatori il divieto di portare nelle province le loro mogli in quanto le donne erano
un intralcio nella gestione della provincia; prova di ciò era il fatto che le cause di molti processi di
malversazione a carico di funzionari provinciali erano riconducibili all’avidità femminile.
L’allusione, però, potrebbe essere riferita anche a Plancina, che seguì il marito Pisone in Siria, dove
furono implicati nella morte di Germanico e ritenuti responsabili dei disordini che ne seguirono. In
questa provincia Plancina nec intra decora feminis tenebat, sed exercitio equitum, decursibus cohortium interesse (Tac.
II 55, 6). Cfr. Barrett, Aulus Severus Caecina, cit., 303-304, M. Sordi, La donna etrusca, in Misoginia e
maschilismo in Grecia e Roma, Genova 1981, 61-63 e Galimberti, Fazioni politiche, cit., 131.
88
Tac. ann. I 69, 3-4.
89
Cfr. supra, 141.
90
Tac. I 31, 4.
91
Cass. Dio LVII 5, 4. La clades Variana (sulla quale cfr. Vell. II 117-119; Suet. Aug. 23; Cass.
Dio LVI 18-22; Tac. I 60, 3 - 62), ebbe come conseguenza non solo il massiccio arruolamento di
masse cittadine ma anche, probabilmente, il ripensamento della politica espansionistica in
Germania e l’abbandono dell’obiettivo di estendere i confini dell’impero romano sino al fiume
Elba; contro questa interpretazione si è espresso J. Von Ungern-Sternberg, Germania Capta. Die
Einrichtung der germanischer Provinzen durch Domitian in römischer Tradition, in W. Dahlheim - W. Schuller - J.
Von Ungern - Strenberg (Hgg.), Festschrift Robert Werner zu seinem 65. Geburtstag. Dargebracht von Freunden,
Kollegen und Schülern, Xenia 22, Konstanz 1989, 165 ed ora anche Zecchini, Il ruolo dei soldati, cit., il
quale attribuisce a Tiberio, e non ad Augusto, il rinvio di piani di conquista del territorio
germanico compreso tra il Reno e l’Elba. In generale sulla politica di Augusto e Tiberio in
Germania cfr. M.A. Giua, Roma e i Germani, in G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba (a cura di), Storia
di Roma, 2. L’impero mediterraneo. 2: I principi e il mondo, Torino 1991, 507-522 (con bibliografia) e Rüger,
Germany, cit., 517-534.
92
Sulla disperazione di Augusto all’annunzio della disfatta di Varo vedi Cassio Dione,
secondo il quale l’imperatore τήν τε ἐσθ῅τα … περιερρήξατο, καὶ πένθος μέγα ἐπί τε τοῖς
ἀπολωλόσι καὶ ἐπὶ τῷ περί τε τῶν Γερμανιῶν καὶ περὶ τῶν Γαλατιῶν δέει ἐποιήσατο
87
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| 153
reclutamento, per mezzo di metodi “polizieschi” – confische e condanne a morte –
costrinse ad arruolarsi coloro che, pur essendo nell’età giusta, erano riluttanti ad
entrare nell’esercito; inoltre tramite sorteggio riuscì a chiamare alle armi un
cospicuo numero di liberti e soldati già congedati che inviò in Germania al seguito
di Tiberio.93 Questi metodi coercitivi, che probabilmente vennero percepiti come
un vero e proprio sopruso, portarono in Germania una massa malcontenta – e
quindi più facilmente manovrabile – di uomini poco motivati nelle imprese
militari e sottoposti per di più a dure condizioni di vita; tutto ciò modificò
profondamente la composizione delle legioni renane e creò un background idoneo
alle trame eversive di Agrippina, la quale sembra aver assimilato la capacità della
madre di acquisire e organizzare il consenso della plebs urbana arruolata ora tra i
ranghi dell’esercito. L’attuazione dei suoi piani eversivi, inoltre, fu facilitato dal
fatto che a capo di queste legioni fosse stato posto il marito Germanico.
Come si è già accennato prima,94 esistevano due tradizioni storiografiche
diverse relative all’ammutinamento delle legioni del Reno:95 una riconosceva le
(LVI 23, 1) e Svetonio, il quale sostiene che Augusto rimase talmente sconvolto dalla notizia ut per
continuos menses barba capilloque summisso caput interdum foribus illideret vociferans “Quintili Vare legiones redde!”
diemque cladis quotannis maestum habuerit ac lugubrem (Aug. 23, 2).
93
LVI 23, 1-3: καὶ οὔτε πολιτική οἱ ἡλικία ἀξιόλογος ὑπελέλειπτο, καὶ τὰ συμμαχικά, ὧν
τι καὶ ὄφελος ἦν, ἐκεκάκωτο. ὅμως δ᾿ οὖν τά τε ἄλλα ὡς ἐκ τῶν παρόντων παρεσκευάσατο, καὶ
ἐπειδὴ μηδεὶς τῶν τὴν στρατεύσιμον ἡλικίαν ἐχόντων καταλεχθ῅ναι ἠθέλησεν, ἐκλήρωσεν
αὐτούς, καὶ τῶν μὲν μηδέπω πέντε καὶ τριάκοντα ἔτη γεγονότων τὸν πέμπτον, τῶν δὲ
πρεσβυτέρων τὸν δέκατον ἀεὶ λαχόντα τήν τε οὐσίαν ἀφείλετο καὶ ἠτίμωσε. καὶ τέλος, ὡς καὶ
πάνυ πολλοὶ οὐδ᾿ οὕτω τι αὐτοῦ προετίμων, ἀπέκτεινέ τινας. ἀποκληρώσας δὲ ἔκ τε τῶν
ἐστρατευμένων ἤδη καὶ ἐκ τῶν ἐξελευθέρων ὅσους ἠδυνήθη, κατέλεξε, καὶ εὐθὺς σπουδῆ μετὰ
τοῦ Τιβερίου ἐς τὴν Γερμανίαν ἔπεμψεν.
Cfr. supra, 146.
Recentemente S.J.V. Malloch, The End of the Rhine Mutiny in Tacitus, Suetonius, and Dio, «CQ»
LIV (2004), 198-210, riprendendo un’idea prospettata da Mommsen, Die Familie, cit., 258, ha messo
in dubbio l’ipotesi della duplice tradizione relativa all’ammutinamento sostenendo che «Tacitus and
Dio are not based on different tradition on the end of Rhine mutiny: they display similarities to
one other which indicate that they drew on a common source; discrepancies in details and in
presentation, on the other hand, arise as a result of their different narratives strategies». Le
argomentazioni di Malloch si basano sul presupposto che Tacito «engaged with his source material
and considered it a legitimate part of his task to contribute artistically to his narrative». Tacito,
inoltre, sarebbe stato agevolato nella rielaborazione “artistica” del suo materiale dal fatto che negli
Annales vi è più spazio narrativo rispetto all’opera di Cassio Dione, il quale, invece, è costretto a
riassumere la fonte nei punti essenziali e a tralasciare tutti i dettagli. Sebbene queste considerazioni
risultino in generale valide, nel caso specifico della fine della rivolta renana, però, non siamo di
fronte a dettagli omessi, abbellimenti retorici e capacità scrittorie diverse (che pur esistono tra
Tacito e Cassio Dione) ma abbiamo due resoconti che narrano fatti differenti: se Tacito dice che
Agrippina e Gaio furono allontanati da Germanico in mezzo a uno stuolo di soldati piangenti e
doloranti per l’accaduto, ciò non può essere considerato una rielaborazione artistica della notizia
dionea secondo la quale i soldati catturarono i due che di nascosto erano stati inviati altrove, a
meno che Tacito non abbia attuato una vera e propria mistificazione delle notizie che ricavava dalle
fonti. Nonostante il raffronto tra i due testi, le tesi dello studioso non ci sembrano convincenti.
Sulla rielaborazione letteraria del materiale relativo agli ammutinamenti in Pannonia e Germania
cfr. F.R.D. Goodyear, The Annals of Tacitus, I, Cambridge, 1972, 30 e Mellor, Tacitus, cit., 124.
94
95
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Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
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motivazioni politiche della rivolta, l’altra quelle sociali;96 la prima fu seguita da
Cassio Dione,97 la seconda da Tacito.98 La Sordi reputa più credibile la versione di
Dione,99 mentre la Giua ritiene che la tradizione confluita in Tacito sia più
fededegna, svalutando così le implicazioni politiche della rivolta.100 La studiosa
porta a sostegno della sua tesi il resoconto di Velleio Patercolo, il quale scrive che i
ribelli cercavano novum ducem, novum statum, novam rem publicam e che ausi sunt minari
daturos senatui, daturos principi leges; modum stipendii finem militiae sibi ipsi constituere conati
sunt.101
Alla luce di tale testimonianza riteniamo che le rivendicazioni sociali e
politiche siano state compresenti nelle richieste dei rivoltosi; le due tradizioni,
La discrepanza tra le fonti era già stata messa in evidenza da J. Froitzheim, Ein
Widerspruch bei Tacitus und seine Losung, «RhM» XXXII (1877), 345-46 e G. Kessler, Die Tradition über
Germanicus, Berlin 1905, 23-30. Più recentemente ha analizzato questo aspetto Questa, Studi sulle fonti,
cit., 30-31 e 104-145, che, sviluppando un’intuizione di F.A. Marx, Die Quellen der Germanenkriege bei
Tacitus und Dio, «Klio» XXVI (1933), 323-329, ha ipotizzato che per i libri tiberiani l’opera di Aufidio
Basso fosse stata la fonte comune di Cassio Dione e Tacito e che quest’ultimo, nel resoconto
relativo alla rivolta delle legioni renane e alle campagne militari del 14-16 di Germanico, si fosse
distaccato dal resoconto di Aufidio preferendo la narrazione contenuta nei Bellorum Germaniae libri
XX di Plinio il Vecchio. La Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 320, osserva che le divergenze tra
Tacito e Cassio Dione diventano rilevanti a partire dall’episodio dell’allontanamento di Agrippina
e Gaio e per tal motivo ritiene che Tacito si sia staccato dalla fonte comune a partire da questo
episodio. Perplessità su questa ricostruzione sono avanzate da Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-335.
Sull’utilizzo dell’opera annalistica di Aufidio Basso da parte di Tacito e Cassio Dione cfr. G.
Walser, Rom, das Reich und die Fremden Völker in der Geschichtsschreibung der frühen Kaiserzeit, Basel 1951, 65;
E. Noè, Storiografia imperiale pretacitiana. Linee di svolgimento, Firenze 1984, 80-82; Gallotta, Germanico, cit.,
119 n. 45; Devillers, Tacite et les sources, cit., 12-15 con bibliografia precedente. Sull’uso dei libri XX
bellorum Germaniae di Plinio da parte di Tacito, invece, cfr. Walser, Rom, das Reich, cit., 65; Gallotta,
Germanico, cit., 119 n. 45; Hurley, Gaius Caligula, cit., 330-335; Devillers, Tacite et les sources, cit., 17-21 e
soprattutto n. 124 con bibliografia; sulla data di composizione e sulla prefazione dell’opera di Plinio
cfr. Noè, Storiografia imperiale, cit., 129-130. Da rilevare che Plinio attinge notizie da una tradizione
filogermaniciana precedente ben consolidata.
97
Tale tradizione trova eco anche in Suet. Cal. 48, 1.
98
Tracce di essa in Suet. Cal. 9.
99
Sordi, La morte di Agrippa Postumo, cit., 321.
100
M.A. Giua, Germanico nel racconto tacitiano della rivolta delle legioni renane, «RIL» CX (1976), 102113, reputa che «la relazione tacitiana sulla rivolta delle legioni germaniche non può essere ridotta
entro i limiti di quella visione agiografica della figura di Germanico che domina la versione data da
Cassio Dione e, più ancora, da Svetonio. Questi ultimi, facendo del personaggio il perno attorno al
quale ruota la narrazione, sembrano accogliere pressoché incondizionatamente una tradizione
dinastica che, interessata a porre in primo piano il contrasto Tiberio-Germanico, doveva
interpretare in chiave politica l’episodio della sedizione» (112-113). La stessa studiosa ribadisce la
sua posizione sia in Contesti ambientali e azione umana nella storiografia di Tacito, Como 1988, 91-94, dove
sostiene che nei capitoli dedicati alla sedizione delle legioni e alle spedizioni militari del 14-16 d.C.
«Tacito non si limita ad accogliere quella visione agiografica del giovane principe (scil. Germanico)
che risaliva probabilmente ad un tradizione dinastica ma inserisce una pluralità di temi entro lo
schema convenzionale ereditato dalla storiografia del I sec. d.C.» (92), sia in Una lettura della biografia
svetoniana di Tiberio, in ANRW II 33, 5, Berlin - New York 1991, 3740- 3741 dove scrive che «il ruolo
di Germanico nei resoconti di Svetonio e Cassio Dione risulta enfatizzato sulla scia di una
tradizione dinastica» (3741). La posizione della Giua è condivisa da Gallotta, Germanico, cit., 82-84.
101
Vell. II 125, 1-2.
96
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Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
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infatti, appaiono complementari ed entrambe attendibili in quanto nella rivolta la
matrice politica e quella sociale si intrecciarono e si fusero creando una situazione
di instabilità in cui le ambizioni di potere delle classi alte si confusero con le
rivendicazioni sociali dei ceti bassi. Pani 102 giustamente pone l’accento sul fatto che
le legioni rivendicavano un proprio ruolo nella nomina del nuovo imperatore,
contestando la legittimazione di Tiberio da parte del senato. In questa
contrapposizione tra esercito e senato si inserisce l’opposizione capeggiata da
Agrippina che, facendo leva sul disagio sociale, proponeva ai soldati personaggi
alternativi a Tiberio con la prospettiva, forse, di un miglioramento della loro
attuale condizione; non è da escludere che le concessioni e le elargizioni di
Germanico alimentassero le speranze dei ribelli. Per tal motivo crediamo che le
legioni avrebbero accettato Germanico più facilmente rispetto ad Agrippa
Postumo, che le fonti presentano come un giovane ribelle ed inetto, che
trascorreva il suo tempo a pescare e che per questo motivo si faceva chiamare
Nettuno.103
Il comandante, però, non si prestò alle macchinazioni della consorte e del
suo entourage, come chiaramente afferma Cassio Dione scrivendo che Germanico
δυνηθεὶς ἂν τὴν αὐτοκράτορα ἀρχὴν λαβεῖν... οὐκ ἠθέλησε. Τιβέριος δὲ ἐπῄνεσε
μὲν αὐτὸν ἐπὶ τούτῳ, καὶ πολλὰ καὶ κεχαρισμένα καὶ ἐκείνῳ καὶ τῆ ᾿Αγριππίνῃ
ἐπέστειλεν, οὐ μέντοι καὶ ἥσθη οἷς ἔπραξεν, ἀλλὰ καὶ ἐπὶ πλεῖον αὐτὸν ὡς καὶ
104
τὰ στρατεύματα ἀνηρτημένον ἔδεισεν.
Anche le altre fonti sono concordi nel ritenere che il comandante non
nutriva velleità di potere: come si è già detto quando i soldati gli proposero di
diventare imperatore egli balzò giù dalla tribuna sulla quale si trovava «come se si
fosse macchiato di un delitto».105 Sarà proprio la fermezza dell’uomo nel
mantenere il vincolo di fedeltà a Tiberio a decretare la fine della ribellione e il
fallimento dei piani della moglie. Giustamente Velleio Patercolo ritiene che alla
rivolta mancò qui contra rem publicam duceret, non qui sequerentur.106
Negli anni successivi, però, il comandante si orientò sempre di più verso
atteggiamenti meno lealisti e ispirati a concezioni dinastiche di stampo ellenistico.
Segnali di questo cambiamento sono riscontrabili sia nell’elaborazione del tema
della imitatio Alexandri107 sia nell’atteggiamento tenuto durante il suo viaggio in
Pani, Lotte per il potere, cit., 227.
Cass. Dio LV 32, 1.
104
Cass. Dio LVII 6, 2.
105
Tac. I 35, 4. Cfr. p. 5.
106
Vell. II 125, 2.
107
Tra i tanti studi cfr. G. Cresci Marrone, Germanico fra mito d’Alessandro ed exemplum
d’Augusto, «Sileno» IV (1978), 209-226 (=Germanico e l’imitatio Alexandri in Oriente, in G. Bonamente M.P. Segoloni, Germanico. La persona, la personalità, cit., 67-77) e D. Sidari, Problema partico e imitatio
Alexandri nella dinastia giulio-claudia, Venezia 1982, 51-70. Secondo L. Braccesi, Germanico e l’imitatio
Alexandri in Occidente, in Bonamente – Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, cit. 5365, il tema dell’imitatio Alexandri sarebbe stato elaborato già nel 15 in Occidente durante la spedizione
verso il Mare del Nord.
102
103
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Davide Salvo, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
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Egitto del 18 d.C., effettuato senza il permesso dell’imperatore. 108 Si potrebbe
inoltre supporre che Tiberio, resosi conto della pericolosità delle legioni renane
così facilmente manovrabili dal gruppo di opposizione capeggiato da Agrippina,
abbia maturato l’idea di allontanare il comandante dalla Germania e di mandarlo il
più lontano possibile; cosa che puntualmente avvenne nel 17 d.C. quando
l’imperatore lo inviò in Oriente e nello stesso tempo assegnò il governo della Siria
a Pisone al quale fu affidato il compito, afferma Tacito, di tenere a freno
Germanico.109
A questo punto dell’indagine riteniamo si possa sostenere che la rivolta
delle legioni renane abbia avuto origine da un complesso intreccio di motivazioni:
lotte politiche interne alla domus Augusta,
disagio sociale dei legionari,
contrapposizione tra senato ed esercito. Se da un lato Germanico costituì
l’elemento catalizzatore di queste spinte, dall’altro la sua fedeltà a Tiberio permise
di ricomporre la sedizione prima che potesse degenerare in un vero e proprio
“colpo di stato” ad opera della moglie. Sul ruolo della donna nella vicenda
crediamo sia interessante ricordare come nel 29 d.C., a distanza di quindici anni
dall’ammutinamento, in certi ambienti di corte si ritenesse – a torto o a ragione –
che Agrippina potesse perfugere ad Germaniae exercitus e che per tal motivo fosse deciso
di esiliarla.110 Indizio – forse – del fatto che il ruolo di Agrippina nella rivolta delle
legioni dovette essere più centrale di quanto le fonti lascino intuire.
Davide Salvo
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
Tac. II 59, 2. Germanico entrò ad Alessandria senza l’autorizzazione del principe,
trasgredendo, in tal modo, le disposizioni di Augusto. Cfr. C. Questa, Il viaggio di Germanico in Oriente e
Tacito, «Maia» IV (1957), 291-321; M. Pani, La missione di Germanico in Oriente: politica estera e politica interna,
in Bonamente - Segoloni (a cura di), Germanico. La persona, la personalità, cit., 1-23; Gallotta, Germanico,
cit., 147-181.
109
Tac. II 43, 4.
110
Tac. IV 67, 4; Suet. Tib. 53. Cfr. Galimberti, Fazioni politiche, cit., 133.
108
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 138-156
GIUSEPPE ZECCHINI
Il ruolo dei soldati nella mancata conquista
della Germania*
Le campagne di Druso maggiore tra il 12 e il 9 e poi quella di Tiberio nell’8
a.C. avevano ridotto la Germania in uno stato adatto alla sua provincializzazione;
così ci riferisce Velleio (sic perdomuit eam, ut in formam paene stipendiariae redigeret prouinciae)1
e così ci conferma sotto il medesimo anno Aufidio Basso, conservatoci dal Chronicon
di Cassiodoro (inter Albim et Rhenum Germani omnes Tiberio Neroni dediti):2 non per nulla
per quest’impresa Tiberio si meritò il trionfo proprio a suggellare l’avvenuta
conquista.
Tra le due date dell’8/7 a.C e del 9 d.C. (battaglia di Teutoburgo) ci dovette
essere una provincia di Germania (magna), di cui Varo fu l’ultimo governatore (con
ogni probabilità lo precedette almeno C. Senzio Saturnino fino al 7 d.C.); 3 in
questi anni Augusto aveva forse già steso una prima redazione delle Res gestae, dove
dà chiaramente per avvenuta la sottomissione della Germania sino all’Elba: Gallias
et Hispanias prouincias et Germaniam qua includit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis fluminis
pacaui.4 L’uso del verbo pacare è tecnico nell’indicare una realtà che si giudica ormai
sotto controllo e non a caso è ripreso dai Commentarii di Cesare, che lo impiega per
descrivere la situazione in Gallia prima dello scoppio della grande insurrezione del
54/53 a.C. (omni Gallia pacata);5 la distinzione tra la Spagna e la Gallia definite
prouincias e la Germania non definita corrisponde proprio alla situazione di questo
periodo, quando la Germania era già conquistata, ma non se ne era ancora
compiuto il censimento, né avviata la conseguente riscossione del tributo,
operazioni di cui fu incaricato proprio Varo, come peraltro si può ricavare con
* Una versione più ampia delle prime pagine di questo saggio è stata utilizzata in G.
Zecchini, La politica di Roma in Germania da Cesare agli Antonini, «Aevum» LXXXIV (2010), 187-198, 189196.
1
Vell. II 97, 4.
2
Cassiod. Chron. 588.
3
W. Eck, Augustus und die Grossprovinz Germanien, «Kölner Jahrbuch» XXXVII (2004), 11-22;
su Saturnino in particolare cfr. Vell. II 105.
4
Res gestae diui Augusti 26.
5
Caes. BG III 28, 1.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
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sufficiente certezza da Cassio Dione;6 l’espressione ad ostium Albis fluminis indica con
chiarezza i confini orientali della recente conquista.
Augusto morì cinque anni dopo Teutoburgo, ma, pur avendone tutto il
tempo, non intervenne in questo punto delle Res gestae: la sconfitta di Varo non lo
indusse a modificare i confini “sino all’Elba” del suo impero. Naturalmente, se si
opta per una redazione unica delle Res gestae nel 14,7 le considerazioni precedenti
acquisiscono una forza ancora maggiore, nel senso che Augusto riteneva pacata la
Germania sino all’Elba anche dopo Teutoburgo. D’altra parte già nel 13 Augusto
stesso affidò a Germanico, l’erede al trono, che egli intendeva imporre a Tiberio, il
comando supremo degli eserciti renani. 8 Allora, quando Augusto aggiunse in calce
al consuntivo del suo principato il consiglio di mantenere l’impero nei suoi confini
(addiderat…consilium coercendi intra terminos imperii), si deve, a mio avviso, dedurne che
egli si riferisse al confine dell’Elba, non a quello del Reno.9
La figura di Arminio, il vincitore di Teutoburgo, era anch’essa in piena
sintonia con questa visione augustea dei rapporti romano-germanici: il principe dei
Cherusci era con ogni probabilità anche un cavaliere romano, il prefetto di un
contingente ausiliario cherusco reclutato per la guerra in Pannonia del 6-9, e aveva
servito con efficienza e fedeltà sotto Tiberio;10 poi per motivi, che restano in
ultima analisi non chiari, che di solito si collegano con le pesanti conseguenze
fiscali della provincializzazione,11 ma che potrebbero anche riguardare l’esigenza di
affermare il proprio carisma presso i Cherusci, si era ribellato, come i capi gallici
dell’insurrezione contro Cesare, Vercingetorige e Commio, che prima avevano
goduto della sua amicizia e sotto di lui avevano svolto il proprio apprendistato
militare; a Teutoburgo aveva guidato contro le legioni di Varo non certo barbari
sprovveduti, bensì soldati esperti delle tecniche romane di combattimento: lo
scontro era stato tra legiones ed auxilia.
Come è noto, la reazione romana è da situarsi tra il 15 e il 17 e fu affidata a
Germanico; ci si può domandare perché si sia aspettato qualche anno, ma la
risposta è qui abbastanza soddisfacente: dopo la terribile rivolta pannonica, appena
domata, anche il più forte esercito del mondo aveva bisogno di una pausa; inoltre
l’esigenza immediata era quella di impedire che la ribellione si estendesse e
coinvolgesse le truppe ausiliarie dell’esercito renano, affini agli uomini di Arminio:
L. Nonio Asprenate assolse in modo egregio a questo compito;12 la tarda età di
6
Dio LVI 18, 3 si riferisce a imposizione di ordini come a schiavi e ad esazioni come a
sudditi, che si potrebbero rendere con la locuzione iura ac tributa.
7
Così ora A.E. Cooley, Res Gestae Divi Augusti, Cambridge 2009, 42-43.
8
Tac. Ann. I 3, 5.
9
Tac. Ann. I 11, 4 (e cfr. anche Dio LVI 33, 5). Questi termini sono riferiti all’Oriente da D.
Timpe, Der Triumph des Germanicus, Bonn 1968, 34, al Reno da K. Christ, Zur augusteischen
Germanienpolitik, «Chiron» VII (1977), 149-205, all’Elba molto opportunamente, ma anche
isolatamente solo dall’ormai dimenticata dissertazione di B.J. Wendt, Roms Anspruch an Germanien,
Hamburg 1961.
10
Su Arminio ritengo sempre attendibile l’accurata ricostruzione di D. Timpe, ArminiusStudien, Heidelberg 1970.
11
Così in breve D. Kienast, Augustus, Prinzeps und Monarch, Darmstadt 19993, 373 n. 202.
12
Vell. II 120, 3 e Dio LVI 22, 2b col commento di Timpe, Arminius-Studien, cit., 104-115.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
| 159
Augusto e l’approssimarsi di una non facile successione consigliò di non farsi
trovare coinvolti in una difficile opera di riconquista. Tuttavia, domate le
inquietudini delle truppe sul Reno e sul Danubio, il nuovo principato esordì
proprio con l’avvio di un recupero della Germania sino ad allora solo dilazionato,
ma da tutti atteso almeno fin dal 13.
Germanico condusse due campagne nel 15 e nel 16, conseguì un successo,
che Tacito ci presenta come importante, ma non dirimente, ad Idistaviso, diede
sepoltura ai caduti di Teutoburgo e recuperò una delle insegne perdute da Varo. 13
Si apprestava a rimettersi in campagna l’anno successivo per proseguire un’opera
ancora incompiuta, il cui orizzonte geografico era ancora quello augusteo
dell’Elba: egli stesso lo aveva chiaramente indicato su un monumento da lui eretto
e dedicato a Marte, Giove e Augusto in seguito alla sconfitta dei popoli tra il Reno
e l’Elba, come ci riporta Tacito (debellatis inter Rhenum Albimque nationibus).14 Invece fu
richiamato a Roma per celebrare il 26 maggio del 17 il trionfo, che poneva fine in
forma spettacolare alle sue campagne germaniche e di fatto sanciva, almeno per il
momento, la rinuncia alla riconquista della Germania; dopo la sua morte precoce,
avvenuta in Oriente due anni dopo, nel 19, gli onori funebri, che gli furono
concessi, ribadirono in modo esplicito il significato del suo trionfo.
Infatti la tabula Siarensis annovera tra i meriti di Germanico quelli di aver
sconfitto i Germani, di averli tenuti lontani dalla Gallia, di aver ricuperato le
insegne perdute a Teutoburgo e di aver vendicato una sconfitta dovuta all’inganno
(Germanis bello superatis [et longissime?] a Gallia summotis receptisque signis militaribus et uindicata
frau[dulenta clade] exercitus p.R.):15 di riconquista della perduta provincia non c’è più
traccia.
Da un lato dunque il richiamo di Germanico a Roma, il suo trionfo
presentato come atto di chiusura della questione germanica e l’assenza di ulteriori
iniziative in Germania per tutto il resto del lungo governo di Tiberio indicano in
modo inequivocabile che l’imperatore aveva rinunciato ai territori tra il Reno e
l’Elba. Dall’altro lato la rinuncia stupisce e va motivata, perché è del tutto
contraria alla tradizione romana; lasciamo stare l’esempio di Cesare, che non pensò
affatto a rinunciare alla conquista gallica né dopo Atuatuca, né dopo Gergovia: in
questo caso siamo infatti di fronte a una guerra personale e a un territorio non
ancora costituito in provincia; pensiamo invece ai due casi successivi della
Britannia e della Dacia: davanti alla terribile rivolta di Boudicca Nerone pensò
13
Idistaviso: Tac. Ann. II 16-18; sepoltura dei caduti a Teutoburgo: Tac. Ann. I 61-62;
recupero dell’aquila della XIX legione: Tac. Ann. I 60, 3; recupero della seconda insegna: Tac. Ann.
II 25, 1; della terza nel 41: Dio LX 8, 7. Cfr. ora M. Colombo, Le tre 'aquilae' di Varo: Tacito, Germanico
Cesare e l'imperatore Tiberio, «RSA» XXXVIII (2008), 133-145.
14
Tac. Ann. II 22, 1.
15
Tab. Siar. I 13-15. L’integrazione et longissime, che qui accolgo, è di W.D. Lebek, Die drei
Ehrenbögen für Germanicus, «ZPE» LXVII (1987), 129-148, 137, mentre l’editio princeps aveva et deinceps; in
ogni caso l’integrazione proposta da J. Deininger, Germaniam pacare. Zur neueren Diskussion über die
Strategie des Augustus gegenüber Germanien, «Chiron» XXX (2000), 749-771, 754-755 (et ultra oppure et trans
Albim) sarebbe in evidente contrasto con la volontà di Tiberio di tacere dell’Elba, confine
individuato da Augusto e ora abbandonato, ed è perciò da respingere.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
| 160
seriamente di rinunciare all’isola, ma, pur non essendo né espansionista, né
tradizionalista, abbandonò l’idea perché temeva che ciò apparisse troppo
disonorevole;16 la Dacia fu invece abbandonata da Aureliano in seguito alla
gravissima crisi del III secolo, ma sia Costantino, sia ancora Valente circa un secolo
dopo pensarono seriamente di rioccuparla, perché la consideravano una provincia
solo temporaneamente perduta;17 ancora Giustiniano riteneva “cosa sua” la
Britannia e sollecitò gli Ostrogoti a migrare su quell’isola e a riconquistarla in suo
nome:18 ciò che era appartenuto all’impero si poteva in qualsiasi momento
rivendicare, poiché era per sempre Romani nominis.
Come è noto, il problema della rinuncia se l’era già posto Tacito. Secondo
questo storico Tiberio aveva interrotto e sospeso la riconquista della Germania per
meschina gelosia nei confronti di Germanico19 così come Domiziano aveva
impedito ad Agricola di conquistare Ierne (l’Irlanda) per i medesimi motivi: 20 per
Tacito, sempre così sospettoso e prevenuto nei confronti del potere imperiale, c’è
il risentimento personale e la volontà di ridimensionare valorosi esponenti del ceto
senatorio dietro queste scelte di príncipi giudicati in modo molto negativo.
È sempre bene non fidarsi di Tacito; tuttavia, al di là delle spiegazioni
fornite, egli ci conferma che oltre un secolo dopo i fatti, quando scrive gli Annales a
cavallo fra Traiano e Adriano, la decisione di Tiberio era vista come una frattura
rispetto alla politica augustea e ci si interrogava sui motivi di quella decisione.
Io credo che la ragione principale della rinuncia alla Germania sia stata
l’esigenza di non destabilizzare il potere imperiale. Una Germania sottomessa da
Germanico avrebbe conferito a quest’ultimo un prestigio incompatibile col suo
ruolo di successore designato di Tiberio, ma a lui per il momento sottoposto (SC de
Cn. Pisone patre ll. 35-36: dum in omni re maius imperium Ti. Caesari Aug(usto) quam Germanico
Caesari esset); dietro Germanico si profilava l’ombra dell’ambiziosa moglie
Agrippina, già ambigua protagonista della rivolta delle legioni renane nel 14;
un’elementare prudenza consigliava quindi a Tiberio di rimuovere una coppia così
pericolosa dal settore germanico e di tutelarsi da un’eventuale usurpazione: non la
gelosia suggerita da Tacito dunque, ma, se mai, l’insicurezza sulla propria
legittimità e una cautela forse eccessiva ispirarono Tiberio. Poi, dopo la morte di
Germanico, affidare a un altro la conquista della Germania sarebbe suonato come
un affronto alla memoria del giovane principe così precocemente scomparso:
Tiberio non era certo uomo da commettere simili imprudenze.
La decisione di Tiberio fu dettata dunque, a mio avviso, da ragioni
contingenti, ma essa non legava i suoi successori: perché dopo la sua morte nel 37
non si riprese ciò che Germanico aveva lasciato incompiuto contro la sua volontà?
Perché soprattutto non lo fecero i successori di Tiberio, Caligola e Claudio, che
16
Suet. Nero 18.
Per questa problematica cfr. M. Raimondi, Temistio e la prima guerra gotica di Valente,
«MedAnt » III (2000), 633-683; Ead., Costantinopoli e la politica militare nei discorsi di Temistio a Costanzo II
(Or. III e IV), «MedAnt» V (2002), 769-812.
18
Procop. BG VI 6.
19
Tac. Ann. II 26, 5.
20
Tac. Agr. 39-40.
17
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
| 161
erano rispettivamente il figlio e il fratello di Germanico, legati alla sua memoria e
alla sua eredità?
Di Caligola in realtà sappiamo che stava valutando un’iniziativa militare di
grande portata in Britannia o, più probabilmente, proprio in Germania, quando fu
costretto a rientrare precipitosamente a Roma per ragioni di ordine interno: 21 la
sua morte precoce gli impedì di sviluppare una qualsiasi forma di politica estera di
ampio respiro. Claudio invece ne ebbe tutto il tempo, ma scelse la Britannia: in lui
sul modello di Germanico prevalse indubbiamente il modello di Cesare, di cui fu
attento imitator.22 In Germania nel 47 l’ambizioso fratellastro della moglie di
Caligola, Cn. Domizio Corbulone, coltivò progetti di conquista riguardo al
territorio dei Cauci, che l’imperatore stroncò sul nascere, proibendogli di muover
guerra, giacché riteneva formidolosum paci uirum insignem: Corbulone se ne lamentò
invano.23 Di Nerone si è già accennato: a differenza del suo predecessore non ebbe
mai mire di conquista e si rassegnò a consolidare l’occupazione della Britannia
quasi a malincuore e per puro senso del dovere. 24
Nel 68/69 la fine della dinastia giulio-claudia ridiede alla Germania un
ruolo da protagonista, ma in senso opposto a quello che i Romani si auguravano:
fu l’esercito del Reno a svelare gli arcana imperii, almeno secondo Tacito,25
proclamando il proprio comandante, Vitellio, imperatore, e fu l’esercito del Reno
con le sue truppe ausiliarie gallogermaniche a invadere l’Italia e a saccheggiarla così
da evocare l’antico sacco di Roma da parte dei Galli.26 Ancora tra il 69 e il 70
l’imperium Galliarum costituito a cavallo del Reno dalla collaborazione tra i notabili
gallici Classico, Sabino e Tutore e il bátavo Giulio Civile fece intravedere i pericoli
di un’alleanza tra barbari capace di minacciare tutto il sistema difensivo di Roma
sul basso Reno.27
Superata la crisi, la nuova dinastia flavia necessitò di un decennio di pace e
di assestamento; questa esigenza peraltro non impedì a Vespasiano di preparare
attraverso la spedizione di Cn. Pinario Clemente nel 73/74 l’avanzamento del
confine germanico al Meno e la conseguente annessione dei cosiddetti agri
decumates.28 In effetti, quando l’ambizioso figlio minore di Vespasiano, Domiziano,
divenne imperatore nell’81, tutto era pronto per una vigorosa ripresa
dell’espansionismo romano. In teoria tre direttrici erano aperte alle nuove
conquiste, la britannica, la germanica e la dacica, e Domiziano scelse quest’ultima,
21
Sulla progettata spedizione germanica di Caligola (Tac. Agr. 13, 4; Germ. 37, 5; Dio LIX
21, 1-2) cfr. ora E. Bianchi, La politica dinastica di Caligola, «MedAnt» IX (2006), 597-630, 623 n. 125.
22
Sull’imitatio Caesaris di Claudio cfr. B. Levick,Claudius: Antiquarian or Revolutionary?, «AJPh»
IC (1978), 79-105.
23
Tac. Ann. XI 19, 2-20,1; Dio LX 30, 4-6. Cfr. B. Levick, Divus Claudius, London 1990, 151155.
24
Cfr. supra n. 16.
25
Tac. Hist. I 4, 2.
26
Per l’esercito di Vitellio qualificato come Senonum furias cfr. Stat. Sil. V 3, 198.
27
Su questo cosiddetto imperium Galliarum basti il rinvio a G. Zecchini, Los druidas y la oposición
de los Celtas a Roma, Madrid 2002, 123-126 (ove bibliografia precedente).
28
Per gli ornamenta triumphalia decretati a Cn. Pinario Clemente cfr. CIL XI 5271; in genere
sulla politica germanica di Vespasiano cfr. B. Levick, Vespasian, London 1999, 160-162.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
| 162
preludio alla grande conquista traianea.29 Ora, di fronte a questa spettacolare
avanzata fino ai Carpazi, sul fronte germanico, tra il Reno e l’Elba, non successe
nulla dal punto di vista militare, se non due brevi campagne contro i Catti (82 e
89),30 ma si verificò invece proprio un’usurpazione, sia pur rapidamente rientrata,
quella di L. Antonio Saturnino nell’89;31 il fatto che Traiano, prima di diventare
imperatore, avesse comandato proprio l’esercito sul Reno, non lo indusse a
manifestare un particolare interesse per quei territori; anzi, anche qui egli
mantenne il recente assetto amministrativo introdotto da Domiziano con la
trasformazione dei due distretti militari dell’alto e basso Reno in due normali
province, la Germania superior e la Germania inferior.32
Proprio questa provincializzazione è il primo passo formale verso la
rinuncia alla Germania: di Germanie se ne creano addirittura due, ma nessuna di
queste occupa neppure parte dell’antica provincia di Germania di età augustea. Il
secondo passo, altrettanto formale, è il consolidamento del limes renano sotto
Domiziano, a cui Traiano e Adriano apportarono aggiunte di non grande rilievo:33
per quanto, come è noto, non si debba intendere il concetto di limes come un
confine lineare,34 resta il fatto che si aggiungeva una fitta rete di fortificazioni in
senso parallelo al corso del Reno e del Meno e si rinforzava così quella percezione
del Reno come barriera naturale tra l’impero e il barbaricum esterno, quale Cesare
aveva per primo intuito. Si può dire che così dall’Elba di Augusto si tornava al
Reno di Cesare.
Il rinvio di ogni progetto di conquista della Germania fino all’Elba
fu quindi un’iniziativa di Tiberio, ma questo rinvio si trasformò gradualmente in
un definitivo abbandono, perché fu confermato da tutti gli imperatori successivi.
La motivazione per tale uniformità di comportamenti e di scelte trascende allora
ogni contingenza e va ricercata nella struttura stessa dell’impero. Penso che essa si
possa individuare all’interno del rapporto tra principe ed esercito; proprio Tiberio
aveva ben chiaro che il suo potere si fondava sulla lealtà dei militari, come ci
29
Sulle guerre daciche (84-86) e pannoniche (89-95) di Domiziano cfr. B.W. Jones, The
Emperor Domitian, London 1992, 138-143 e 150-154.
30
Sulle guerre contro i Catti cfr. A. Becker, Rom und die Chatten, Darmstadt 1992 e R.
Wolters, Die Chatten zwischen Rom und den germanischen Stämmen. Von Varus bis zu Domitianus, in H.
Schneider (Hrsg.), Feindliche Nachbarn. Rom und die Germanen, Köln-Wien 2008, 77-96.
31
Sulla rivolta di Saturnino cfr. Dio LXVII 11 e Suet. Domit. 7, su cui sempre Jones, The
Emperor Domitian, cit., 144-150.
32
Sull’istituzione delle due province di Germania superior e inferior agli inizi del regno di
Domiziano mi limito a rinviare agli status quaestionis di M.T. Raepsaet-Charlier - G. RaepsaetCharlier, Gallia Belgica et Germania Inferior, in ANRW II 4, Berlin-New York 1975, 11-299 e di Ch.M.
Ternes, Die Provinz Germania Superior im Bilde der jüngeren Forschung, in ANRW II 5.2, Berlin-New York
1976, 726-1200.
33
Limes germanico: E. Birley, Hadrianic frontier policy, in E. Swoboda (Hrsg.), Carnuntina, GrazKöln 1956, 25-33; D. Baatz, Zur Grenzpolitik Hadrians in Obergermanien, in E. Birley - B. Dobson - M.G.
Jarret (Eds.), Roman Frontier Studies 1969, Cardiff 1974, 112-124 e da ultimi A.R. Birley, Hadrian. The
restless Emperor, London 1997, 113-122 e R. Wiegels Limes. Germania, in Der neue Pauly VII, Stuttgart
1999, 200-203.
34
Cfr. G. Forni, «Limes». Nozioni e nomenclature, CISA XIII, Milano 1987, 272-294.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
Giuseppe Zecchini, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
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testimonia il SC de Cn. Pisone patre:35 in questo testo redatto dal senato nel 20
certamente d’accordo con l’imperatore e affisso in tutti gli hiberna sparsi per
l’impero si riconosceva senza ipocrisie che la salvezza di Roma dipendeva dalla
domus Augusta, ma che quest’ultima a sua volta si reggeva sulla fides e sulla pietas dei
soldati; ai soldati, fondamento e baluardo dell’impero, veniva anche affidato il
compito di vigilare sulla lealtà dei loro comandanti e di ubbidire solo a quelli a
loro volta fedeli al nomen Caesarum; in un certo senso si affidava demagogicamente ai
soldati il compito di “commissari politici” dei loro superiori: Tiberio si fidava dei
soldati più che dei loro ufficiali, che pure egli stesso aveva scelto, e si mostrava così
ben consapevole delle radici “cesariane” del principato, nato dal rapporto diretto
tra imperator e militari, che scavalcava ed escludeva la gerarchia di estrazione
senatoria, prima legata alla repubblica, ora insofferente del nuovo potere e
potenzialmente foriera di usurpazioni.
Ora, l’esercito renano era proprio la parte più cospicua di tutte le forze
armate romane: se è vero, come ho appena osservato, che il principe affidava ai
soldati il compito di conservare la fedeltà nei suoi confronti, è altrettanto vero che
concedere a un comandante un successo come la sottomissione della libera
Germania gli avrebbe conferito una popolarità presso le truppe difficilmente
controllabile, avrebbe indotto i soldati stessi nella tentazione di trasferire la
propria lealtà dal principe lontano al vittorioso condottiero vicino, sarebbe stata,
in altre parole, la via maestra verso l’usurpazione. I timori di Tiberio furono
confermati forse già nel 47 da Corbulone, poi nel 69 da Vitellio e ancora nell’89 da
Saturnino: bastava essere alla guida dell’esercito renano per essere tentati dal
contrapporsi all’imperatore e tanto più pericoloso sarebbe stato allora un
governatore della Germania, dotato per necessità di un ingente numero di legioni.
Si deve quindi concludere che la causa non unica, ma principale della
reiterata decisione di lasciare libera la Germania fu l’esigenza, drammaticamente
avvertita da tutti i príncipi, di privilegiare la stabilità interna del potere imperiale
fondata sulla fedeltà degli eserciti.
Giuseppe Zecchini
Dipartimento di Scienze storiche
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli 1 - 20123 Milano
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
35
Sc de Cn. Pisone patre ll.159-165 (item senatum probare eorum militum fidem, quorum animi frustra
sollicita- / ti essent scelere Cn.Pisonis patris, omnesq(ue), qui sub auspicis et imperio principis / nostri milites essent, quam
fidem pietatemq(ue) domui Aug(ustae) praestarent, eam sperare / perpetuo praestaturos, cum scirent salutem imperi nostri
in eius domu<s> custo- / dia posita<m> esse{t}: senatum arbitrari eorum curae atq(ue) offici esse, ut aput eos ii, / qui
quandoq(ue) ei<s> praessent, plurumum auctoritatis <haberent>, qui fidelissuma pietate / salutare huic urbi imperioq(ue)
p(opuli) R(omani) nomen Caesarum coluissent), su cui rinvio a G. Zecchini, Regime e opposizioni nel 20 d.C.: dal
S.C. de Cn.Pisone patre a Tacito, CISA XXV, Milano 1999, 309-335, 330-331.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 157-163
ANTONELLA MANDRUZZATO
“Dalla parte degli infedeli”.
I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana*
Nel suo ben noto libro sull’arte romana nel “centro del potere” del 1969,1
nel quale riprende e amplifica le idee formulate un trentennio avanti intorno
all’anonimo Maestro creatore dei rilievi della Colonna Traiana, 2 R. Bianchi
Bandinelli scrive: « Quel rispetto per il nemico vinto, che si trova espresso sulla
Colonna Traiana, era ancora un riflesso di un’etica derivata dalla cultura greca e
dalla filosofia stoica. […] Ma nei rilievi della Colonna Traiana vi è anche qualche
cosa di più. Si resta dubbiosi se nella evidente simpatia con la quale sono raffigurati
i Daci […] si debba riconoscere un tratto superiore della equanimità di giudizio
voluta da Traiano o non piuttosto l’espressione di sentimenti personali dell’artista
che come provinciale conosceva direttamente la miseria della soggezione a Roma». 3
La sapiente, filologica disamina degli aspetti stilistico-formali del rilievo che
si dipana sulle spire della Colonna, di cui il Bandinelli ha colto il valore fortemente
innovativo, ha avuto un’eco vasta e duratura nella storia degli studi. Il ritratto
d’artista che emerge dalle sue pagine è quello di un raffinatissimo innovatore, che
rielabora con sicurezza i portati della tradizione ellenistica, dettando un linguaggio
nuovo che ne fa il maggiore rappresentante dell’arte di Roma: idea questa che –
com’è noto – ha segnato una tappa fondamentale negli studi sull’arte romana.4
*Le figure sono tratte da F. Coarelli, La Colonna Traiana, Roma 1999.
1
R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969.
2
Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 230-250. Id., Il «Maestro delle imprese di Traiano», in
Storicità dell’arte classica, Firenze 19502, 209-228: il saggio, apparso per la prima volta su «Le Arti» I
(1938-1939), 325-334, con il titolo Un problema di Arte Romana: Il «Maestro delle imprese di Trajano» e
ripubblicato in Storicità dell’arte classica (Firenze, 1943 e 19502, Bari 19733), è stato riproposto come
pubblicazione a sé stante nel 2003, a cura della Soprintendenza archeologica di Roma, con una
breve storia delle edizioni.
3
Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242.
4
Bianchi Bandinelli, Il Maestro, cit., in particolare 217, 220, 278 n. 237; Id., Roma. L’arte
romana, cit., 229, 242, 249-250; Id., La Colonna Traiana: documento d’arte e documento politico (o Della libertà
dell’artista), in Dall’ellenismo al medioevo, Roma 1978, in particolare 137. Sulla storia critica del ‘Maestro’:
S. Settis, s.v. Imprese di Traiano, Maestro delle, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995, 93-95, con bibl.
prec.. Nella ricca produzione critica intorno all’artista ideatore, segnalo, in particolare, G. Becatti,
La Colonna Traiana, espressione somma del rilievo storico romano, in ANRW II, 12.1, 1982, 551-552 e F.
Coarelli, La Colonna Traiana, Roma 1999, 28-31. Un’articolata analisi della personalità del Maestro,
chiamato al «compito ben arduo […] di misurarsi con i desideri del committente e con le attese del
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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L’incursione da parte dello studioso nel campo dei sentimenti personali del
Maestro, con il riferimento alla “simpatia” per i vinti espressa nella narrazione
delle campagne daciche, non ha avuto uguale fortuna: ne è stata sottolineata
l’incompatibilità con la destinazione stessa del monumento, eretto per esaltare le
doti di condottiero e le virtù di buon sovrano di Traiano e per eternare la sconfitta
dei barbari suoi avversari.5 Ciò ha portato non solo a porre in discussione la
“partecipazione emotiva” del Maestro nella rappresentazione dei vinti, ma anche il
rapporto tra il committente e l’artista creatore, e l’effettivo livello di autonomia di
quest’ultimo.6
“Simpatia”: così Bianchi Bandinelli definisce l’atteggiamento del Maestro
nei confronti dei Daci. Sympátheia, conformità di sentire, ma anche compassione, e
si chiede se non sia «l’espressione di sentimenti personali dell’artista». A chiarire il
senso di tale interrogativo provvede egli stesso, ribadendo con chiarezza che la
Colonna «dal punto di vista della tematica, senza dubbio [è] un’opera d’arte al
servizio della propaganda imperiale e di carattere celebrativo». «La superiore
libertà dell’artista» si manifesta, a suo giudizio, «nel modo di rappresentare e
comporre l’argomento nei suoi episodi, tanto che allo scopo egli ha creato un
pubblico» cui era destinato il lungo racconto a rilievo, è in S. Settis, La Colonna, in S. Settis - A. La
Regina - G. Agosti - V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988, 100 sgg.
5
«Oggi […] si tende a non sopravvalutare gli indizi che […] sembrano incoraggiare una
lettura di questo tipo, forse un po’ troppo modernizzante nel suo applicare a un monumento
ufficiale di età romana una sensibilità e un’attenzione per i risvolti sociali delle vicende belliche che
il mondo antico non ha certamente mai avuto»: così riassume le posizioni della critica recente S.
Rambaldi in Alterità etnica e conquista: lo straniero nell’arte romana, «Griseldaonline» II (2002-2003), 3. Sulla
questione è tornato a più riprese S. Settis: La Colonna, cit., 230; Id., Fuga e morte di Decebalo, in H.-U.
Cain - H. Gabelmann - D. Salzmann (Hgg.), Festschrift für Nikolaus Himmelmann, Mainz a. Rhein 1989,
381-382; Id., Imprese di Traiano, cit., 94. Ricordo, inoltre, E. La Rocca, Ferocia barbarica, «MDAI(R)»
CIX (1994), passim, in particolare 3-5, e più recentemente Martin Galinier, che fa sue e sviluppa le
osservazioni avanzate da G.G. Belloni (La Colonna Traiana: qualche questione, «Aevum» LXIV, 1 (1990),
101-102) e da G.Ch. Picard (L’idéologie de la guerre et ses monuments dans l’Empire romain, «RA» 1992, 1, 136138): M. Galinier, La Colonne Trajane et les Forums Impériaux, Roma 2007, 65, n. 171; 67. Sul tema,
ampiamente dibattuto, della rappresentazione del Barbaro sui monumenti ufficiali di Roma
ricordo: La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 1-40; P. Zanker, I barbari, l’imperatore e l’arena. Immagini di violenza
nell’arte romana, 38-62; Id., Le donne e i bambini barbari sui rilievi della Colonna Aureliana, 63-78, in Un’arte per
l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002; Rambaldi, Alterità etnica e
conquista, cit., 1-9, e i più recenti saggi di J.J. Aillagon, I Barbari e Roma, 42-53, A. Chauvot, La
rappresentazione romana dei Barbari, 156-159, ed E. Rosso, I Barbari nell’arte romana (I-III sec. d.C.), 162-165, in
J.J. Aillagon (a cura di), Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo, Catalogo della Mostra di Palazzo
Grassi (Venezia), Milano 2008. Pone fortemente l’accento sulla persistenza della tradizione
culturale dell’ellenismo nella resa delle figure e nella funzione dei barbari sulla Colonna il Settis, da
ultimo nel saggio La Colonna traiana: l’imperatore e il suo pubblico, in F. Bertini (a cura di), Giornate filologiche
«Francesco Della Corte», IV, Genova 2005, 65-86, in particolare 81-85.
6
Mi chiedo se questa lettura colga pienamente il pensiero del Bandinelli, sempre attento al
ruolo centrale del “committente”, che sottolinea come «la tematica di fondo della narrazione è
senza dubbio l’esaltazione dell’imperatore», perfettamente interpretata dal Maestro nella
concezione complessiva del fregio. Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 128.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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linguaggio formale nuovo».7 La libertà dell’artista appare dunque consegnata alla
sfera della “creazione artistica”, attraverso una costante e consapevole
rielaborazione di modi e di modelli tràditi dalla cultura ellenistica, genialmente
espressa in tutto lo svolgersi della vicenda, e in particolare negli episodi che vedono
protagonisti i Daci: «… artisticamente – scrive – proprio le raffigurazioni della
resistenza dacica sono fra gli episodi più validamente espressi».8
Quale che sia il ruolo attribuito ai Daci nel rilievo della Colonna, il lungo
racconto della conquista della loro terra mette in scena, innanzi tutto, l’operato di
Traiano e del suo esercito, poiché «la Colonna è in primo luogo la celebrazione
delle vittorie daciche e delle virtutes di Traiano, non certo un monumento eretto a
gloria imperitura dell’avversario»,9 avversario destinato alla sconfitta fin dalle
battute iniziali della prima guerra.10
Nel coerente sviluppo della narrazione vi sono, tuttavia, alcune scene che,
per il loro contenuto, o per le formule e gli schemi adottati nella rappresentazione
di Decebalo e dei suoi uomini, si sottraggono alla logica degli stereotipi ricorrenti;
su di esse intendo soffermarmi, seguendo le vicende che si svolgono sul fusto
marmoreo.
Il resoconto delle imprese daciche si apre con l’attraversamento del
Danubio e prosegue con le fasi iniziali dell’avanzata nel territorio nemico; il primo
contatto con i Daci è raffigurato nella scena XVIII,11 nella quale un Dace “comato”
viene condotto davanti a Traiano per essere interrogato: «presentazione, sì, di un
episodio della guerra (nota Settis) – ma anche – perché prima comparsa dei Daci
sulla Colonna – condensatissima prolessi che nella sorte di uno solo prefigura la
sconfitta di un popolo».12 Ma è nella raffigurazione della battaglia di Tapae, primo
scontro tra i due eserciti, quando le truppe romane stanno per travolgere le ultime
resistenze degli avversari, che appare per la prima volta Decebalo (scena XXIV): al
margine della mischia, poco distanti dai combattenti incalzati dalle truppe
imperiali, due Daci avanzano a fatica tra i caduti trasportando il corpo di un
compagno, laica pietà contrapposta alla figura del re che assiste impotente, tra gli
alberi, alla disfatta dei suoi.13
7
Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242. E ancora Id., La Colonna Traiana, cit., in
particolare 136-137.
8
Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana, cit., 242. A questo riguardo, si veda anche Il Maestro delle
imprese, cit., 215-216.
9
La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 5.
10
Ne è un esempio l’episodio, raffigurato nella scena IX, dell’uomo caduto dal mulo alla
presenza di Traiano, se se ne accetta l’interpretazione come omen: Settis, La Colonna, cit., 192 sgg.; C.
Ampolo, L’omen victoriae della Colonna Traiana: Il principe e l’uomo caduto dal mulo, «ArchClass» XLVII
(1995), 317-327.
11
La numerazione delle scene segue quella di C. Cichorius, Die Reliefs der Trajanssäule, Textband IIIII, Berlin 1896-1900. Settis, La Colonna, cit., tav. 21; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 16. Su questa scena
cfr. le considerazioni di Martin Galinier, La Colonne Trajane, cit., 47.
12
Settis, La Colonna, cit., 153.
13
Settis, La Colonna, cit., 206; 145, fig. 52 e tav. 31. Coarelli, La Colonna, cit., tav. 24. Com’è noto,
non vi è accordo sul numero di ricorrenze del re dace nella rappresentazione delle vicende belliche,
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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È noto che le scene di battaglia non costituiscono il soggetto principale del
fregio, benché questo tramandi le vicende di due spedizioni militari; al contrario,
assai più ampio è lo spazio riservato alla descrizione delle attività di pacificazione e
di riorganizzazione del territorio, intese ad esaltare le capacità di governo di
Traiano e la funzione civilizzatrice di Roma. 14 Proprio tali scene – che sottolineano
il ruolo protagonista dell’esercito romano, del quale il principe è sì il comandante
supremo, ma costantemente partecipe delle vicende belliche, circondato com’è dai
suoi ufficiali, e impegnato nelle fatiche della guerra insieme ai suoi soldati –
mostrano anche gli effetti dell’avanzata romana nel paese dei Daci. Così assistiamo
alle vicissitudini della popolazione civile, costretta ad abbandonare i propri villaggi
incendiati e a fuggire portando con sé armenti e masserizie, ritirandosi davanti al
nemico: particolarmente pesante il bilancio alla fine della seconda guerra quando,
morto suicida il re e con lui una parte dei nobili, la resa a Traiano appare
definitiva, e le terre assegnate ai veterani vengono sgomberate dai loro precedenti
occupanti. E con grande crudezza sono descritte le scene di battaglia, scandite dalla
disposizione delle figure dei caduti,15 tutti Daci, come richiede la destinazione
celebrativa del monumento,16 e dai gesti di disperazione e di sofferenza dei
guerrieri sopravvissuti, come quelli che, all’inizio dell’offensiva in Mesia, guardano
i compagni travolti dalla corrente del Danubio (scena XXXI).17
In tale contesto narrativo mi sembra meriti particolare attenzione la scena
successiva: nonostante le perdite subìte nell’attraversamento del fiume, l’esercito
dacico sferra un attacco contro una fortezza romana presidiata da truppe ausiliarie
(Fig. 1). Di questo episodio il Bandinelli ha posto in evidenza la capacità degli
assedianti di apprestare «una difesa militare assai più efficiente delle consuete masse
di armati barbarici».18 Sostenuti dalla cavalleria sarmatica, in questa circostanza i
Daci vengono rappresentati come capaci di coordinamento e di organizzazione, in
modo ben diverso, dunque, dallo stereotipo del barbaro feroce e caotico, e per
questo inferiore all’avversario romano, di fronte al quale è destinato alla sconfitta.19
e non tutti gli esegeti riconoscono Decebalo nel Dace “pileato” raffigurato nella scena XXIV. In
proposito si veda ora Galinier, La Colonne Trajane, cit., 64, n. 160.
14
Settis, La Colonna, cit., 120-121.
15
Su cui il Bandinelli si è particolarmente soffermato. Ricordo le sue considerazioni in Il Maestro
delle imprese, cit., 215-216, Roma. L’arte romana, cit., 249-250 e La Colonna Traiana, cit., 137 (con precisi
richiami all’ellenismo pergameno). I modelli greci ed ellenistici degli schemi utilizzati per le
rappresentazioni dei vinti sono stati indagati a più riprese dagli esegeti della Colonna. Per la
bibliografia fondamentale si veda Settis, La Colonna, cit., 114 sgg., n. 57. Sull’utilizzo e la
“reinvenzione” di tipi pergameni da parte del Maestro interessanti le osservazioni di A. Stewart,
Attalos, Athens and the Akropolis. The Pergamene “Little Barbarians” and their Roman and Renaissance Legacy,
Cambridge 2004, 170 sgg. Sulla ricezione dei modelli ellenistici delle scene di battaglia nel rilievo
storico romano si veda T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, Torino 1993, 35-42.
16
Settis, La Colonna, cit., 121.
17
Settis, La Colonna, cit., tav. 38; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 30.
18
Grazie anche alla presenza di tecnici militari che Roma aveva dovuto consegnare dopo le
sconfitte subìte da Domiziano: Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 132-133. Settis, La
Colonna, cit., tav. 40; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 31.
19
«Soccombenti o già vinti, soltanto in attesa di essere trucidati dai soldati romani, se non già
stesi a terra morti», per usare l’efficace descrizione di Zanker, Le donne e i bambini barbari, cit., 63. Non
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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Nella scena XXXII, inoltre, ricorrono precisi dettagli compositivi, utilizzati anche
in una sequenza di assedio romano, quello alla cerchia di fortezze daciche poste a
difesa di Sarmigezetusa, durante la seconda guerra (scena CXIII).20
Tornando al racconto della prima guerra – scandita dal succedersi di
adlocutiones e sacrifici officiati dall’imperatore, battaglie e assedi, ambascerie,
dedizione di barbari – lo stesso messaggio è ribadito dalla rappresentazione di un
gruppo di Daci al lavoro, impegnati nel disboscamento per completare alcune
opere difensive (scena LXVII), che nella studiata alternanza delle pose richiama
analoghi schemi utilizzati per raffigurare i soldati romani (Fig. 3).21 Quasi a
sottolineare questa affinità, la scena successiva mostra dei legionari impegnati a
trasportare tronchi e ad edificare un campo (Fig. 4).22 Attraverso la combinazione
di schemi analoghi, che appartengono a un codice visivo di immediata
comprensione, i Daci, benché già consegnati alla sconfitta, sembrano tuttavia
affrancati dall’abituale condizione di subalternità nei confronti dei loro avversari.
Tale messaggio viene nuovamente suggerito sul finire della seconda spedizione,
quando Decebalo, l’esercito dacico ormai in rotta, si rivolge ai suoi uomini
secondo gli stereotipi dell’adlocutio imperatoria: ma su questo torneremo più avanti.
La prima guerra si chiude con il saluto di Traiano alle guarnigioni lasciate di
stanza in Dacia; la scena dell’imperatore che arringa le truppe dall’alto di un podio
è seguita dalla raffigurazione della Vittoria alata che scrive su uno scudo le res gestae
dei Romani, immagine enfatizzata dai trofei con le armi daciche e con le armi
sarmatiche che la affiancano.23
Di grande impatto è la lunga sequenza che precede le scene ora descritte, e
che mostra la sottomissione dell’esercito dacico e del suo comandante a Traiano,
attorniato dagli ufficiali e dalla guardia pretoriana. Il Maestro crea una perfetta
coincidenza tra schemi figurativi (nobili “pileati” inginocchiati ed enfaticamente
protesi verso la figura seduta dell’imperatore / prigionieri a capo scoperto, in
piedi, le mani legate dietro la schiena / schiera di Daci inginocchiati seguita da un
gruppo di uomini in piedi, con le braccia protese in un gesto di supplica) e valenze
ideologiche: a chiudere la sequenza, in netta contrapposizione con l’imperatore
seduto, è Decebalo, in piedi su una roccia. Il gesto di supplica rivolto a Traiano è
si pongono in atto, in sintesi, quei modelli comportamentali costantemente associati alla “barbarie”
ampiamente descritti da La Rocca, Ferocia barbarica, cit., passim. Della superiorità ideologica
dell’esercito romano rispetto ai Daci «crude and uncivilized» si è occupato N. Hannestad, Rome –
Ideology and Art. Some distinctive Features, in M. Trolle Larsen (Ed.), Power and Propaganda. A Symposium on
ancient Empires, Copenhagen 1979, 370. L’inserimento della scena in un sistema di “lettura verticale”,
nel quale diventerebbe l’enunciazione dell’inevitabile sconfitta dei barbari (Settis, La Colonna, cit.,
208 e 222), non ne inficia, a mio avviso, la rilevanza e la singolarità.
20
Mi riferisco in particolare al gruppo di tre Daci che si spingono sotto le mura con un
movimento avvolgente nella scena XXXII (Fig. 1), cui fanno riscontro le figure di tre combattenti
romani, compresi nel gruppo di armati che si accalcano sotto gli spalti nemici nella scena CXIII (Fig.
2). Settis, La Colonna, cit., tavv. 39, 209; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 31, 137.
21
Settis, La Colonna, cit., tav. 109; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 74-75.
22
Settis, La Colonna, cit., tav. 111; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 76. Sul significato e sul valore
delle scene di lavoro: Settis, La Colonna, cit., 198, con bibl. prec.
23
Settis, La Colonna, cit., tavv. 136-138; Coarelli, La Colonna, cit., tavv. 91-92.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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compensato e quasi contraddetto dalla postura e dallo sguardo fermo che rivolge al
vincitore; il profilo, cesellato sullo sfondo, appare improntato ad un forte
patetismo (Fig. 5).24 Già in questa scena, come in altre successive di cui diremo,
nella raffigurazione di Decebalo sono utilizzati, dunque, alcuni «meccanismi
formulari»25 ideati per rappresentare l’imperatore: la posizione elevata, rispetto alla
massa di figure circostanti, l’atteggiamento nei confronti di Traiano, e la presenza
alle sue spalle di due comites che si guardano reciprocamente. Di indubbia efficacia è,
poi, l’atteggiamento del Dace nei confronti di Traiano.
Nella scena successiva il suo popolo, smantellate le opere difensive come
imponevano le condizioni dettate da Roma, abbandonati i villaggi, prende la via
dell’esilio.26
Il re compare di nuovo durante i preparativi di una grande offensiva contro
le guarnigioni romane rimaste in Dacia, all’inizio delle operazioni della seconda
guerra. Benché sia raffigurato senza alcuna enfatizzazione in mezzo ai suoi, egli è
chiaramente individuabile tra gli altri guerrieri: per sottolinearne la presenza,
vengono messi in opera infatti, anche in questo caso, gli stessi accorgimenti
riservati alla rappresentazione di Traiano, ponendolo tra due figure di nobili
“pileati” i cui sguardi convergono verso di lui (Fig. 6).27 Viene così ribadito il
rapporto di collaborazione e di prossimità che unisce il capo dei Daci al suo
esercito, nello stesso modo in cui viene costantemente sottolineato il rapporto
strettissimo di Traiano con i suoi ufficiali e il sentimento di assoluta lealtà delle sue
truppe.
Episodio centrale della seconda spedizione è la presa di Sarmigezetusa,
preceduta da lunghe manovre di avvicinamento: sul fregio si alternano l’assedio e
lo smantellamento di un sistema di fortificazioni posto a difesa della capitale con
sortite e scontri in campo aperto.28 Il frenetico susseguirsi di tali avvenimenti è
interrotto dalla rappresentazione della sottomissione di un nobile “pileato” a
Traiano alla presenza della guardia pretoriana, momento protocollare che smorza
la climax innescata dagli eventi precedenti.29 Di seguito, improvvisa, la sequenza
dell’incendio della città per mano dei Daci, che si aggirano con le torce tra le loro
stesse case prima di darsi la morte per sottrarsi alla cattura. «Ai fatti qui
rappresentati non c’erano testimoni romani – scrive S. Settis – e mai come qui, in
quella che è certamente la scena più originale e il più alto raggiungimento della
24
Becatti, La Colonna Traiana, cit., 560; Settis, La Colonna, cit., tavv. 128-131; Coarelli, La Colonna,
cit., tavv. 86-88.
25
È proprio l’uso delle “formule di attenzione” normalmente riservate a Traiano che
«assicurano l’identità del sovrano nemico» (Settis, La Colonna, cit., 144). In generale, sull’uso delle
“formule di attenzione” nel racconto della Colonna, ibid., 137-148.
26
Settis, La Colonna, cit., 126-128.
27
È questo lo schema più usato per Traiano: Settis, La Colonna, cit., 144. Si veda ad esempio
l’episodio della sottomissione di alcuni nobili daci alla presenza di Traiano e dei suoi ufficiali (scene
XXXIX-XL): Settis, La Colonna, cit., tav. 56; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 41 (Fig. 7).
28
Sull’uso dei rilievi della Colonna per integrare gli eventi descritti dall’epitome di Xifilino e
dagli excerpta bizantini del testo dioneo si veda G. Migliorati, Cassio Dione e l’mpero romano da Nerva ad
Antonino Pio alla luce dei nuovi documenti, Milano 2003, 67 sgg.
29
Scena CXVIII: Settis, La Colonna, cit., tav. 222; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 145.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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Colonna, la scarna notizia di un evento ha saputo trasformarsi in drammatica
rappresentazione di passioni, che non potevano essere raccontate se non
assumendo, per osservarle, il punto di vista del nemico». 30 Il potente racconto del
suicidio collettivo coinvolge sia nobili “pileati” sia semplici “comati” e si chiude
con il gruppo costituito da un nobile che piange un compagno reggendone il corpo
senza vita: nuova, profonda suggestione consegnata agli artisti delle epoche
successive.31
Decebalo non compare in queste fasi concitate della guerra, né quando
vengono avviate le operazioni destinate a fiaccare le ultime resistenze dei Daci. È
durante l’assedio di un forte romano, estremo tentativo messo in atto per opporsi
al nemico vittorioso, che, di nuovo secondo una “formula di attenzione”
ampiamente utilizzata nelle rappresentazioni di Traiano, lo vediamo in piedi tra
due nobili “pileati”. Il re e i suoi compagni volgono lo sguardo a seguire l’azione
dall’esito annunciato: sulle mura del forte è già esposto il cadavere di uno dei
Daci.32
E veniamo alle ultime battute della vicenda bellica, quando è Decebalo a
tenere un discorso alle truppe, l’ultimo della guerra e l’unico del re immortalato
sulla Colonna. In un bosco, in piedi tra i suoi, si rivolge loro secondo modi e gesti
che attingono allo stesso repertorio al quale si ispirano le adlocutiones imperatorie: è
la fine, per l’esercito dacico, il re stesso si prepara a tentare la fuga, come mostra la
presenza nella scena del suo cavallo, in primo piano, tenuto per le briglie da un
soldato (Fig. 8).33 Le immagini successive ci mostrano alcuni Daci in corsa tra gli
alberi, mentre altri scelgono di darsi la morte per sottrarsi alla cattura. Il discorso
di Decebalo è immediatamente successivo alla rappresentazione dell’adlocutio di
Traiano (Fig. 9), di cui costituisce l’efficace contrappunto: il re barbaro è
presentato nello stesso schema dell’imperatore.34
Tali scene precedono di poco l’ultima apparizione di Traiano sulla
Colonna. Questi, infatti, non partecipa alle operazioni conclusive della spedizione.
Comparirà invece ancora il suo avversario, quando, dopo una lunga fuga insieme a
pochi compagni, incalzato dalla cavalleria nemica, si sottrarrà al disonore della
cattura togliendosi la vita (Fig. 10).35 La sua morte segna la fine dell’ultima
30
Settis, La Colonna, cit., 136. Scene CXIX-CXX: Settis, La Colonna, cit., tav. 225; Coarelli, La
Colonna, cit., tav. 146.
31
Scena CXXI: Settis, La Colonna, cit., tav. 230; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 149.
32
Scene CXXXIV-CXXXV. Settis, La Colonna, cit., 144, 180 sgg.
33
Settis, La Colonna, cit., 170, 143-144, tav. 256; Coarelli, La Colonna, cit., tav. 165.
34
Nelle nove scene di adlocutio di Traiano, sei nella prima e tre nella seconda guerra, lo schema
dell’imperatore presenta alcune varianti; d’immediata evidenza, e di forte significato, la posizione
del braccio destro, talvolta proteso in avanti e verso l’alto, o piegato, la mano stretta intorno a un
rotulo, o ad una lancia a due punte, o ancora piegato e accostato al corpo, come appare nella scena
esaminata e nell’adlocutio di Decebalo.
35
Settis, La Colonna, cit., passim, in particolare 115, 206, 226 sgg., con bibl. prec. Della
rappresentazione del suicida, creata apportando significative varianti al tipo del barbaro/supplice, e
dell’originale messaggio visivo così veicolato, si è recentemente occupato anche Stewart, Attalos,
Athens and the Akropolis, cit., 173: «[…] the designer radically shifts the meaning of the whole motif,
converting it from an icon of barbarian abjection into one of bitter recalcitrance».
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
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resistenza dei Daci. Le truppe romane alle quali verranno presentate la testa e la
mano destra di Decebalo, sono impegnate ormai solo in operazioni di
pacificazione del territorio. La popolazione civile – morto il re, sbandati e in fuga
gli ultimi difensori – lascia la propria terra e si avvia, con poche masserizie e con le
greggi, verso le nuove sedi assegnate.
Poche, e isolate nel lungo racconto della Colonna, sono le scene prese in
esame. Tuttavia ho creduto utile evidenziare come che riscattano l’immagine che
esse danno degli antagonisti barbari sembri affrancata dal consueto e consolidato
ruolo subalterno, generato dalla loro stessa alterità, che li destina alla sconfitta. 36
Sia quegli episodi che hanno come protagonisti i Daci, raffigurati nell’assedio di un
forte romano, o nel taglio degli alberi per il potenziamento delle opere di difesa,
sia quelli dove appare Decebalo, ora impegnato in un consiglio di guerra tra i
nobili “pileati”, ora ritratto mentre segue le fasi di una battaglia, o, infine, mentre
parla agli ultimi guerrieri fedeli prima di tentare la fuga, tutti ci trasmettono
un’idea del nemico barbaro che non trova confronti nel repertorio ufficiale
corrente.37 Essi devono avere la giusta collocazione nel percorso conoscitivo e
nell’analisi dei portati della nuova cultura figurativa espressa attraverso schemi e
strutture compositive del fregio, che inducono vari livelli di interpretazione, e che
ancora una volta evidenziano la singolarità della personalità artistica che ha
concretato le intenzioni del committente imperiale.
Antonella Mandruzzato
Dipartimento di Beni culturali
Università di Palermo
Viale delle Scienze (Ed. 12)
90128 Palermo
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
36
Non ritengo che questa interpretazione delle singole scene si giustifichi soltanto con il
carattere “narrativo” della Colonna (su cui si vedano Bianchi Bandinelli, La Colonna Traiana, cit., 129,
e La Rocca, Ferocia barbarica, cit., 5), né mi sembra che sia in conflitto con una lettura complessiva, in
cui tali scene sono integrate nel sistema di rimandi del racconto: cfr. Settis, La Colonna, cit., 159, 208,
222.
37
Valga l’esempio, proprio per l’età traianea, del Grande Fregio: A. M. Leander-Touati, The
Great Trajanic Frieze: the Study of a monument and of the Mechanisms of Message Transmission in Roman Art,
Stockholm 1987.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
Fig. 1 - Colonna Traiana, scena XXXII.
Assedio di una fortezza romana.
Fig. 3 - Colonna Traiana, scena
LXVII.
Daci al lavoro.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
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Fig. 2 - Colonna Traiana, scena CXIII.
Assedio delle fortezze intorno a Sarmizegetusa.
Fig. 4 - Colonna Traiana, scena
LXVIII. Legionari al lavoro.
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
Fig. 5 - Colonna Traiana, scena LXXV. Resa di Decebalo.
Fig. 6 - Colonna Traiana, scena XCIII.
Decebalo partecipa a un consiglio di
guerra.
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Fig. 7 - Colonna Traiana, scene XXXIXXL. Traiano accoglie la sottomissione di
alcuni nobili daci.
| 173
Antonella Mandruzzato, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna Traiana
Fig. 8 - Colonna Traiana, scene CXXXIXCXL. Discorso di Decebalo alle truppe.
Fig. 9 - Colonna Traiana, scena CXXXVII.
Discorso di Traiano alle truppe.
Fig. 10 - Colonna Traiana, scena CXLV. Suicidio di Decebalo.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 164-174
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MARINA USALA
Il rapporto di Giuliano con le truppe:
stereotipi culturali e ricerca di nuovi equilibri in Ammiano Marcellino
La rappresentazione storiografica del rapporto tra eserciti e generali, quale
microcosmo in cui si manifestano le caleidoscopiche tensioni dell’impero romano
nel IV secolo, sottoposto alle pressioni dei barbari lungo i confini e ai grovigli delle
dinamiche sociali, registra la centralità di Giuliano l’Apostata nell’opera di
Ammiano Marcellino.1
La lettura degli eventi, connotata in senso etico-politico, restituisce un
profilo del giovane imperatore coerente con i fattori di discontinuità di un’età
complessa, tesa tra un’aspirazione al cambiamento delle dinamiche culturali e la
ricerca di nuovi equilibri sociali e politici, mentre i Rerum Gestarum Libri,2
inquadrandosi nel generale movimento di rinascita pagana in linea con il progetto
voluto da certa parte dell’aristocrazia senatoria, offrono un affresco, spesso
deformato nei toni, ma non artefatto delle vicende, che consente di chiarire la
tipologia dei rapporti e le modalità di relazioni instaurate da Giuliano con le
truppe.
Così, un’esplorazione in tale direzione contribuirà a definire l’orizzonte
ideale del cambiamento in atto, relativo non solo alla rappresentazione ideologica
della figura del sovrano ma anche alla trasformazione delle relazioni sociali
orientate verso nuovi di tipi di gerarchie e verso nuovi modelli di organizzazione.3
1
Amm., Rerum gestarum libri, trad it. Le storie a cura di Antonio Selem, Torino 2007.
Per le complesse problematiche concernenti il messaggio politico e culturale dell’opera di
Ammiano si rimanda tra gli altri a V. Neri, Ammiano e il cristianesimo. Religione e politica nelle «Res Gestae»
di Ammiano Marcellino, Studi di Storia Antica 11, Bologna 1985, su cui l’interessante recensione di A.
Marcone, «Athenaeum» LXXV (1987), 592. Sul metodo storiografico dello storico e
sull’importanza del panegirico come modello letterario: G. Sabbah, La méthode d’Ammien Marcellin:
recherches sur la construction du discours historique dans le Res Gestae, Paris 1978; sui problemi fontuali
dell’opera cfr. R. Marino, Patologie tra etica e politica in Ammiano Marcellino, in R. Marino - C. Molè - A.
Pinzone (a cura di), Poveri ammalati e ammalati poveri. Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure
assistenziali nell’Occidente romano in età tardoantica, Atti del Convegno di Studi (Palermo, 13-15 ottobre
2005), Catania 2006, 486 n. 2 con bibliografia. Per una valutazione sui legami intertestuali con le
fonti d’età classica e sulle capacità di manipolazione della scrittura da parte del più importante
scrittore della seconda metà del IV secolo si veda G. Kelly, Ammianus Marcellinus. The Allusive Historian,
Cambridge 2008.
3
In merito al particolare rapporto tra insegnamento ed educazione religiosa dell’Apostata,
affrontato agli inizi del secolo scorso, interessante la lettura proposta da A. Marcone, Il Giuliano
2
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 176
Le epiche battaglie,4 le strategie adottate dall’Apostata e la sua biografia
storica che, in alcuni casi sembra oltrepassare il limite di una prospettiva scientifica
per il fascino che può esercitare, sono note e sono state ripetutamente indagate;5
nel nostro caso, si tenterà di intravedere, attraverso l’intelaiatura del racconto
ammianeo, quel codice di comportamento sperimentato dal giovane imperatore
che pur riproponendo il canonico cliché del capo militare lo aveva profondamente
rinnovato nella sostanza.
In questo modo, anche grazie alle caratteristiche morali e umane del
Giuliano delle Res Gestae, considerato strenuus et rector al punto che ignoratus ubique dux
esset an miles,6 sarebbe stato realizzato il progetto di restaurazione della romanitas
l’Apostata di Gaetano Negri, in Sul Mondo Antico. Scritti vari di storia della storiografia moderna, SUSMA 7,
Milano 2009, 191-205=L. Canfora (a cura di), Studi sulla tradizione classica per Mariella Cagnetta, Bari 1999,
311-329.
4
La bibliografia sull’Apostata è assai vasta e ci limitiamo a ricordare: oltre l’oramai classico
J. Bidez, La vie de l’empereur Julien, 2 ed., Paris 1965; R. Browning, The Emperor Julian, London 1975;
G.W. Bowersock, Julian the Apostate, London 1978; P. Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano. Lo
statista, il soldato, il filosofo, Milano 1984. Per un aggiornamento bibliografico L’Empereur Julien et son
temps, «AntTard» XVII (2009), 9-250. Su Giuliano personaggio e sui rischi di parzialità di giudizio
derivanti dal fascino della biografia del giovane imperatore: A. Marcone, L’imperatore Giuliano e la crisi
del IV secolo, «PP» CXCII (1980), 235-240. Sull’adozione di tattiche di guerriglia testimoniate da
Ammiano a proposito delle strategie giulianee: N.J.E. Austin, Ammianus on Warfare. An investigation into
Ammianus’ military knowledge, Coll. Latomus 165, Bruxelles 1979, 44; J.M. Carrié, Eserciti e strategie, in A.
Carandini - L. Cracco Ruggini - A. Giardina (a cura di), Storia di Roma, III, L’età tardoantica, I, Crisi e
trasformazioni, Torino 1993, 83-151; Y. Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta
dell’impero, Roma 2008, con riguardo 57-77. Su Giuliano modello di riferimento sia per il suo
progetto politico che per la sua figura morale si veda anche Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 300-303.
5
Sull’interesse di Giuliano per l’arte militare già S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo.
Ricerche di storia tardo-romana, Roma 1951, 129-130 e 132; G.A. Crump, Ammianus and the Late Roman
Army, «Historia» XXII (1973), 91-103; sul fascino del personaggio di Giuliano cfr. A. Marcone,
Giuliano l’Apostata, Firenze 1994, 9-10 successivamente 60 e ss.; J. Bouffartigue, Julien entre biographie et
analyse historique, in L’Empereur Julien et son temps, cit., 79-89.
6
XXIV 6, 11-15; lo storico pur provando nei riguardi del giovane comandante una grande
ammirazione riconosce che questi appare segnato da una forma levioris ingenii (XXV 4, 16). Il passo
indicato si riferisce alla battaglia contro i Persiani combattuta presso il canale artificiale
Naarmalcha, che collegava il fiume Tigri all’Eufrate, organizzata da Giuliano facendo ricorso ad
un’antica tattica omerica che prevedeva l’inserimento dei soldati meno agguerriti nelle file centrali
dell’esercito. Tutto il racconto è pervaso dallo spirito eroico del comandante che, armato alla
leggera, non si risparmierà in alcun modo combattendo in mezzo ai suoi uomini e rimanendo in
campo per tutta la durata dello scontro. Anche Zosimo (III 24-26), seppur con un tono più asciutto,
evidenzia la grande astuzia strategica di Giuliano che riuscirà a ribaltare, a favore dei Romani e dei
Goti alleati, una situazione di svantaggio, accusando al termine della battaglia un’assai improbabile
perdita di soli settantacinque uomini a fronte dei duemilacinquecento Persiani caduti. L’attenzione
di Giuliano alle sorti degli eserciti era anche connessa al fatto che in quel momento risultava
necessario far fronte all’insieme dei pericoli derivanti tra l’altro dallo stato di corruzione, generato
dagli intrighi di corte e dalla decadenza dello spirito militare, allorché con gli interventi posti in
essere da Settimio Severo si era proceduto ad un profondo rinnovamento del servizio militare, per
renderlo più allettante, e della geografia del reclutamento aperta alle periferie dell’Impero. Sul
rapporto tra esercito romano e reclutamento anche C. Giuffrida Manmana, L’esercito del principato. Il
reclutamento. Il limes, in Storia della Società Italiana, III, Milano 1996, 435- 480 con ampia bibliografia; Le
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 177
coerente con quella prassi politica allora in atto che si distingueva per alcuni
connotati di tipo propagandistico se non addirittura di rituale rappresentativo.7
Nel contempo, a dispetto di una pretesa oggettività dello storico, nella fitta
trama degli avvenimenti sarà possibile intravedere valutazioni e giudizi che, sia
pure con qualche reticenza, tendono a fissare i personaggi alle loro responsabilità
in un momento di trasformazione dell’impero e di cui lo stesso storico sarebbe
stato testimone non indifferente.
Sul versante della costruzione testuale, i procedimenti formali svelano la
cifra stilistica persino nella stesura, a volte concitata se non drammaticamente
formulata, per cui se il nostro autore risulta generalmente parco nel ricorso ai
discorsi diretti, la presenza di un congruo numero degli stessi, concentrati nella
parte dell’opera dedicata al regno dell’Apostata, sembra confermi la volontà di
tratteggiarne a tutto tondo il ruolo di protagonista nella scena politica.8
Punto di avvio della nostra riflessione sono due allocuzioni, pronunciate da
Costanzo alle truppe, il cui messaggio sarebbe stato riutilizzato in un’ottica ben
diversa proprio dallo stesso Giuliano.
Il primo intervento9 si inscrive in un momento delicato per le sorti della
stabilità imperiale allorquando il sovrano, dopo aver deciso di muovere guerra agli
Alamanni per i loro continui attacchi in Gallia, alla vigilia dello scontro armato in
prossimità del fiume Reno, forse consapevole delle condizioni di difficoltà in cui si
trovava l’esercito, deciderà di accettare la proposta di pace dei barbari,
presentandola «a giuste condizioni» e soprattutto «conveniente per lo Stato».10
L’Augusto, cogitationibus magnis attonitus, aveva optato per il ritiro militare, ma
poiché temeva pericolose reazioni che avrebbero potuto innescare la miccia dei
rovesciamenti, aveva radunato le truppe e le alte cariche presenti e, con scaltra
lungimiranza e raffinate capacità oratorie, era riuscito a plagiare l’assemblea in
modo tale che la proposta di pace fosse percepita come esito di una scelta
condivisa.
Bohec, L’esercito romano, cit. 91-130 ma soprattutto Carrié, Eserciti, cit., 85-87 e poco oltre 137 sulla
fisionomia degli eserciti nel IV secolo.
7
Al riguardo anche Marcone, Giuliano, cit., 11. Per la disapprovazione di Costanzo da parte
di Ammiano si veda A. Selem, L’atteggiamento storiografico di Ammiano nei confronti di Giuliano dalla
proclamazione di Parigi alla morte di Costanzo, «Athenaeum» IL (1971), 89-110.
8
Per il ricorso alle tecniche dei panegirici come i discorsi diretti, gli elogi e le digressioni in
alcuni passaggi cruciali del racconto ammianeo per delineare a tutto tondo l’immagine di un
Giuliano eroe romano Sabbah, La méthode d’Ammien Marcellin, cit., 243-292 e 321-346 ma anche M.
Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano Marcellino: tra panegirico e realtà, in Giuliano
imperatore. Le sue idee, i suoi amici, i suoi avversari, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lecce, 10-12
dicembre 1998), «Rudiae» X (1998), 344-345.
9
XIV 10.
10
Per il confronto dell’imperatore con le truppe per giustificare le trattative diplomatiche
con i barbari si vedano le considerazioni di R. Marino, Su alchimie diplomatiche tra Roma e barbari in età
tardoantica, in D. Bonanno - R. Marino - D. Motta (a cura di), Guerra e diplomazia nel mondo antico. Tra
istanze politiche e strategie culturali, Atti delle Giornate di studio (Palermo, 21-22 novembre 2008),
«῞Ορμος» n.s. I (2008/2009), 265.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 178
Così il richiamo ai compiti del soldato e a quelli del comandante che
«provvede equamente ad ognuno» poiché «custode della vita di tutti ben sa che gli
interessi della sua gente sono difesi esclusivamente da lui» richiama, a nostro
avviso, quella che è stata definita l’ideologia politica della civilitas11 consolidatasi nel
corso del IV secolo.
Dello stesso tenore si può considerare anche la conclusione del discorso
allorchè sono enucleati i caratteri ideali del princeps tranquillus, condottiero di eserciti
nonché temperanter adhibere modum adlapsa felicitate decernens.12
La prassi inaugurata dal sovrano risultava permeata di valori quali
l’humanitas, la tranquillitas, la modestia, di matrice vagamente pacifista, che,
sconfinando nella sfera militare, avrebbero però inquinato quell’arte che sino ad
allora si era distinta per il coraggio, la temerarietà e l’aggressività, caratteri su cui
da sempre si era fondato il codice di comportamento dei duces e degli eserciti.
A questo manifesto dai sottili e contraddittori richiami ideologici, farà da
pendant il secondo discorso, pronunciato qualche tempo dopo, al momento della
nomina di Giuliano a Cesare nel 355, dopo la condanna a morte del fratello di
questo, Gallo.13
Come prevedibile, lo storico antiocheno presenta uno scenario di contesto
assai grave in cui diversi gruppi di barbari premevano lungo il confine renano, in
Pannonia e in Mesia Superiore mentre, in Oriente, i Persiani iniziavano nuove
operazioni di mobilitazione armata ed allora il suggerimento dell’imperatrice di
designare il giovane fratello del Cesare, testé condannato, si sarebbe rivelato
oculato per i successi militari.14
11
In merito all’uso dei termini civilis e civilitas estesi in età imperiale alla sfera ideologicopolitica cfr. A. Marcone, A proposito della “civilitas” nel Tardo Impero: una nota, «RSI» XCVII (1985), 969982=Id., Di Tarda antichità. Scritti scelti, SUSMA 6, Milano 2008, 29-40, in part. 30-31 n. 8.
12
Nella seconda metà del secolo trova luogo l’idea di un’apertura dei sovrani alla
promozione di uno spazio di consenso assembleare e popolare che acquisirà una certa rilevanza
anche come ideologia politica. Nel nostro caso la coincidenza dello stereotipo del buon principe
con quello di buon comandante, in coerenza con la considerazione che l’impero romano fosse una
monarchia caratterizzata in senso militare, presenta alcuni segnali del cambiamento culturale che
aveva investito la società del IV secolo. Al riguardo anche A. Marcone, Giuliano e lo stile dell’imperatore
tardoantico, «Rudiae» X (1998), 43-58=Id., Di Tarda antichità, cit., 127-139, in part. 128.
13
Sulla condanna a morte di Gallo Cesare e sui suoi presunti crimini cfr. XIV 11, mentre il
capitolo XV 8 è dedicato alla nomina di Giuliano; il resoconto di Zosimo (II 55, 1-3) si concentra
soprattutto sulle responsabilità di alcuni eunuchi di corte che avrebbero ordito un piano contro il
Cesare mentre tace sulle presunte crudeltà compiute in Oriente dallo stesso con la complicità della
moglie. Al riguardo anche F. Conca, Storia e narrazione nella Storia Nuova di Zosimo, in U. Criscuolo (a
cura di), L’antico e la sua eredità, Napoli 2004, 153-166.
14
Il resoconto dettagliato in XV 8, 2-18; al momento della nomina Giuliano si trovava in
Acaia e indossava il pallio, la sopravveste greca, segno distintivo, se non ostentato, di quanti si
dedicavano agli studi filosofici. Per una riflessione più ampia sulle problematiche politiche relative
all’eredità di Costantino, vedi G. Gigli, La dinastia dei secondi Flavii: Costantino II, Costante, Costanzo II
(337-361), Roma 1959, 140 ss.; C. Di Spigno, Studi su Ammiano Marcellino, «Helikon» III (1963), 301ss.;
J. Burckhart, L’età di Costantino, Roma 1970, con riguardo all’introduzione di Santo Mazzarino; D.
Bowden, The Age of Constantine and Julian, London 1978, in particolare 28 e ss.; Ch. Pietri, La politique de
Constance II: un premier césaropapisme ou l’imitatio Constantini?, in L’Église et l’Empire au IVe siècle, Entretien
Hardt 34, Genève 1989, 162; N. Baglivi, Da Diocleziano a Costantino: un punto di vista “storiografico” in alcune
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 179
Zosimo, a proposito della nomina di Giuliano, ricorderà che Eusebia,
donna colta e oltremodo intelligente, per convincere il marito dell’opportunità di
tale scelta, aveva fatto leva su alcuni “particolari” punti di forza del candidato come
la giovane età, la semplicità del carattere e l’inesperienza politica, qualità che, pur
risultando non adeguate alla gravità della situazione che invece avrebbe richiesto la
presenza di uomini esperti nel comando, sembravano essere invece solide garanzie
agli occhi di chi intravedeva nei propri collaboratori potenziali oppositori in
campo politico.15
Così le parole dell’Augusto, pronunciate al momento dell’investitura,16
richiamando l’attenzione sui compiti che avrebbe dovuto svolgere il giovane
cugino, consentono riflessioni di più ampio respiro circa le capacità e le
competenze necessarie per ricoprire il ruolo a cui era stato chiamato.
Il Cesare, rappresentante di un’auctoritas derivante direttamente dal potere
imperiale, avrebbe solo dovuto difendere la Gallia, funestata da pericolose rivolte
mentre, solo dopo il successo conseguito sui Franchi, sarebbe stato chiamato
«valoroso tra i valorosi».17
In quell’occasione la sollecitazione dell’imperatore ad essere moderatamente
critico nei confronti dei pigri e dei neghittosi, crediamo possa riferirsi all’esigenza
del potere centrale di tenere alta l’attenzione sui fenomeni di insubordinazione
rappresentazioni tardoantiche, G. Bonamente - F. Fusco (a cura di), Costantino il Grande: dall’antichità
all’umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata, 18-20 dicembre 1990),
Macerata 1992-1993, 59-72; A. Cameron, Il tardo impero romano, Bologna, 1995, in particolare 86-141 e
poco oltre 151 ss.; A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma 2002.
15
III 1, 1-3; con grande senso pratico l’abile consigliera politica farà notare che il sovrano
poteva temere, dalla nomina del Cesare, solo una disgrazia mortale proprio per il cugino inesperto.
In seguito la stessa avrebbe convinto il marito ad affidare a Giuliano anche l’amministrazione dei
territori sottoposti al suo controllo militare servendosi, come lascia intendere lo storico, delle stesse
argomentazioni che aveva utilizzato in precedenza. Al riguardo G. Bonamente, Giuliano l’Apostata e il
Breviario di Eutropio, Roma 1986, 19-45; Cameron, Il tardo impero, cit., 109-113.
16
Come di consueto all’investitura aveva fatto seguito la celebrazione del matrimonio con
Elena, sorella dello stesso Costanzo (Zosimo III 2, 1). Per il progetto politico dell’imperatrice
Eusebia si veda N. Aujoulat, Eusébie, Hélène et Julien. I. Le témoignage de Julien. II. Le témoignage des historiens,
«Byzantion» LIII (1983), 78-103 e più oltre 421-452. Sul complesso intreccio di calcoli politici fatti
dall’imperatrice per la nomina di Giuliano si veda Marino, Patologie tra etica e politica in Ammiano
Marcellino, cit., 489-490 n. 12. Per il discorso pronunciato da Costanzo al momento della nomina del
Cesare, Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae, cit., 346.
17
Parla di ruolo di immagine attribuito al giovane cugino del sovrano al momento
dell’ingresso nella scena politica anche Marcone, Giuliano, cit., 34-36. Sulla cerimonia d’investitura si
veda R. Teja, Il cerimoniale imperiale, in Storia di Roma, III, L’età tardoantica, I, Crisi e trasformazioni, cit., 624629. Sui compiti del giovane Cesare Ammiano (XV 8, 13) riferisce: si hostilibus congredi sit necesse, fixo
gradu consiste inter signiferos ipsos, audendi in tempore consideratus hortator, pugnantes accendens praeeundo cautissime
turbatosque subsidiis fulciens, modesteque increpans desides, verissimus testis adfuturus industriis et ignavis. Per le
competenze dei signiferi in battaglia si veda Arriano nell’opera dedicata alla trattazione delle
strategie militari (Ars Tattica 14, 4). Il signifero era in genere colui che indicava materialmente il
cammino da seguire sia in battaglia che in marcia e che nell’accampamento si occupava di gestire i
depositi di denaro posti sotto le edicole ma aveva anche compiti di vigilanza sul commercio e
sull’approvvigionamento. Su ciò cfr. Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine
del terzo secolo, rist. Roma 2008, 63-64.
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Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 180
disciplinare degli eserciti,18 intanto che il registro delle responsabilità dell’Apostata,
limitato alla sfera militare, pur ricalcando un modello di cerimoniale imperiale, in
sostanza gli aveva precluso la possibilità di interferire nello spazio politico e di
governo che, almeno per il momento, sarebbe rimasto di esclusiva pertinenza
dell’Augusto in carica.19
Il discorso di Costanzo trova il suggello nella fragorosa e consueta
approvazione della maggior parte dei soldati anche se, viene fatto notare, quasi
come un’anticipazione degli eventi futuri, gli stessi non intendevano lodare in
maniera cortigiana il Cesare preferendo riservargli una grande severità di giudizio
pari a quella dei censori.20
L’operato del giovane comandante da subito avrà come modello di
riferimento Costantino il Grande, lo zio che, paradossalmente, poteva essere
considerato il diretto responsabile dell’innesto della religione cristiana nelle fibre
del sistema culturale romano, mentre, i suoi inaspettati successi militari sul fronte
occidentale e il prestigio presso le truppe provocheranno timori e sospetti nonché
un inevitabile allontanamento tra i due potenziali contendenti. 21
Un primo tentativo del Cesare, apparentemente maldestro, di proporsi in
termini alternativi al modello di comportamento rappresentato da Costanzo si
registra già nel 357 alla vigilia della battaglia di Strasburgo.22
18
Anche Zosimo (III 3, 1-2) ricorda che Giuliano subito dopo la sua nomina a Cesare aveva
scoperto che la maggior parte degli eserciti era corrotta e non in grado di opporre resistenza ai
barbari che riuscivano ad attraversare il fiume Reno senza alcuna difficoltà. Il tema della disciplina
militare nel IV secolo preoccupava non poco le alte gerarchie militari. La storiografia più recente ha
conosciuto sostanzialmente due scuole di pensiero: la prima che ha ritenuto un luogo comune l’idea
del rilassamento dei soldati, l’altra che lo ha assimilato a quello delle epoche precedenti. Al riguardo
A.D. Lee., The army, in A. Cameron - P. Garnsey (Eds.), The Cambridge Ancient History, XIII, The Late
Empire AD 337-425, Cambridge 1998, 211-237. Altri ritengono che il periodo fosse caratterizzato da
un netto declino evidenziato dai numerosi casi di diserzione rispetto al passato. Su ciò, cfr. A.
Milan, Le forze armate nella storia di Roma antica, Roma 1993; Y. Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica.
Da Diocleziano alla caduta dell’impero romano, Roma 2008, 126-129.
19
Zosimo (III 5, 3) evidenzia il legame che da subito avrebbe unito i soldati a Giuliano di
cui ammiravano «la semplicità di vita, il coraggio in guerra, la moderazione nei guadagni» virtù che
poco alla volta suscitarono l’invidia dell’imperatore.
20
XV 9, 17.
21
Per il frequente paragone con i grandi del passato come Alessandro e Traiano quale
emerge dalle Res Gestae, Bowersock, Julian, cit., 16; Marcone, Giuliano, cit., 11; più recentemente I.
Tantillo, L’imperatore Giuliano, Roma-Bari 2001. Sulla volontà di Ammiano di costruire un racconto,
centrato anche sulla contrapposizione esemplare tra l’imperatore Costanzo e Giuliano, cfr. Kelly,
Ammianus Marcellinus, cit., 303-304.
22
XVI 12, 3; sulla fortitudo e sul genio militare del giovane comandante ancora lo storico in
XXV 4, 10-14. Per una valutazione sulle pressioni esercitate dagli Alamanni, dai Franchi e dai
Sassoni, Zosimo (III 1) a proposito degli avvenimenti del 357, sottolinea l’esiguità del numero dei
soldati affidati al comando di Giuliano e il dilagante fenomeno della corruzione dei soldati. Il
Cesare pertanto avrebbe dovuto far ricorso all’arruolamento di numerosi volontari per affrontare i
nemici. Al riguardo anche Kaegi (Constantine’s and Julian’s strategies of strategic surprise against the Persians,
«Athenaeum» LIX (1981), 209-213) ne ha valorizzato le scelte strategiche; H. Elton, Warfare in Roman
Europe AD 350-425, Oxford 1996, 254-256. La Caltabiano (Giuliano Imperatore nelle Res Gestae, cit., 350)
evidenzia il contesto, di grande drammaticità, in cui risulta inserito il discorso proposto da
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 181
In maniera non casuale lo storico farà allora ricorso all’espediente narrativo
dell’eloquio per riproporre toni e contenuti già sperimentati in occasione della
rinuncia al combattimento con gli Alamanni,23 solo che, nell’episodio che aveva
visto l’Augusto protagonista, l’esercito era apparso condividere le motivazioni
addotte ed accettare la proposta di rinunciare allo scontro, mentre nel caso del
cugino, si assisterà ad una plateale reazione di opposizione dei soldati nei suoi
confronti.
L’intervento, con un consueto refrain, è preceduto dal dettagliato
riferimento alle congiunture metereologiche ed organizzative che avevano
costretto il comandante a spostare a marce forzate l’esercito al fine di predisporre
quanto necessario per affrontare una battaglia campale.
Sul piano della narrazione colpisce il coup de théâtre che vede Giuliano
protagonista, il quale, dopo i preparativi per l’imminente battaglia, annuncia
inaspettatamente di essere costretto a posticipare lo scontro ritenendo che i propri
uomini, stanchi ed affamati, non fossero ancora pronti.
La paventata rinuncia, presentata come una necessità imposta dalle
debilitate condizioni fisiche delle truppe, otterrà una reazione di opposizione da
parte degli stessi soldati i quali, «digrignando i denti ed esprimendo il loro
desiderio di combattere percuotendo gli scudi con le lance» avevano messo in
discussione la decisione annunciata dal loro comandante.24
Colui che poteva esser ritenuto il nuovo campione della romanità, solo
apparentemente “costretto” dai suoi uomini a scendere in campo, era stato in
effetti posto in una posizione drammaticamente antitetica rispetto a quella
dell’immagine sbiadita e anti-eroica di Costanzo, promotore di un accomodante
accordo di pace con i barbari qualche anno prima.
L’episodio, in una prospettiva di più ampio respiro, non aveva
rappresentato un momento di difficoltà del giovane comandante quanto piuttosto
una sua probabile mossa per indurre le truppe, provate dai lunghi trasferimenti e
dalle marce, a una presa di posizione decisa e a favore del conflitto armato.
Che l’intervento di Giuliano fosse stato riferito proprio per enfatizzare la
reazione dei soldati, emulatori del loro comandante, non sembra ipotesi peregrina:
infatti giova ricordare che lo stesso, nel corso del racconto ammianeo, sarà ritratto
come un campione di coraggio, pronto al combattimento.
In questo caso la scelta di presentarlo rinunciatario era stata funzionale
semmai all’intento di deformazione e di demolizione del cliché del princeps tranquillus,
Giuliano ai suoi soldati, alla vigilia della battaglia di Argentoratus. Sulla sopravvalutazione della
vittoria, in funzione dell’esigenza dello storico di amplificare la percezione delle abilità militari del
giovane Cesare anche la Marino, Su alchimie diplomatiche, cit., 266. In merito al nome del luogo, teatro
della celebre battaglia, è da notare che in Ammiano (XV 11, 8; XVI 2, 12 e 12; XVII 1, 1) compare il
toponimo Argentoratus; per le altre varianti del toponimo vd. M. Ihm, Argentorate, in RE II.1,
Stuttgart 1895, 713-714.
23
XVI 12, 9-12; ancora Marino, Su alchimie diplomatiche, cit., 267-268.
24
XVI 12, 13. Anche Kelly (Ammianus Marcellinus, cit., 313-317) si sofferma sulle modalità
narrative e testuali con cui è riferito l’episodio della battaglia di Strasburgo evidenziando una serie
di esempi del passato a cui lo storico intendeva richiamarsi in maniera ideale.
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Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 182
cauto amante della pace e che in Giuliano trovava un modello alternativo di
comportamento.
In virtù di ciò le parole di ringraziamento di un ignoto alfiere, per avergli
fatto riscoprire la voglia di combattere, sigleranno, in maniera coerente, la chiusa
dell’episodio dando voce a quel tentativo di recupero del mito dell’invincibilità
romana allora in atto.25
Il definitivo distacco da Costanzo è riferito di lì a poco, nel capitolo26
dedicato alla proclamazione di Giuliano Augusto da parte delle truppe a lui fedeli.
Il passo, con grande perizia narrativa, è costruito con un procedimento
dicotomico che vede opporre alla lucida tranquillità di Giuliano la tumultuosa
insicurezza delle truppe.
Per enfatizzare il momento, l’Antiocheno costruisce uno scenario
drammatico che avvolge il lettore in un’atmosfera elettrizzata e carica di pathos;
l’accampamento è descritto in preda ad un furore irrazionale, attraversato da voci
sempre diverse, a volte assolutamente contrastanti, come quella relativa alla
notizia, rivelatasi infondata, della morte del comandante, e che avranno l’effetto di
accrescere lo stato di insicurezza generale.
Solo all’inizio della sequenza, in contrasto con la risolutezza del carattere, il
comandante è descritto timoroso e incerto sul partito da prendere, come a voler
evitare l’accusa di un suo coinvolgimento nel pronunciamento militare, eppure è
consapevole della causa di malcontento dei militari, residenti nella regione gallica
ma costretti a spostarsi in Oriente per difendere i confini dalle scorrerie dei
Persiani.27
Per il momento, non volendo disobbedire a un ordine superiore, il Cesare,
che ritiene un’ingiustizia assai grave separare le famiglie dagli uomini, si limiterà a
25
XVI 12, 18 assai interessanti le parole del soldato: Cunctis igitur summis infimisque approbantibus
tunc opportune congrediendum, … Exclamavit subito signifer: «Perge, feliccissime omnium Caesar, quo te fortuna prosperior
ducit; tandem per te virtutem et consilia militare sentimus. Praevius ut faustus antesignanus et fortis, experieris quid miles
sub conspectu bellicosi ductoris testisque individui gerendorum, modo adsit superum numen, viribus efficiet excitatis». Al
discorso avrebbe fatto seguito la reazione dell’esercito pronto a schierarsi.
26
XX 4. Per Ammiano la morte delle mogli dei due contendenti avrebbe spezzato in
maniera irreversibile il sottile legame familiare che fino a quel momento li aveva uniti: XXI 1, 5 per
la morte di Elena e XXI 64 per quella di Eusebia. Secondo Libanio (or. XXXVII 9-10) l’improvvisa
e per certi versi misteriosa morte di Elena, assistita da un medico amico dello stesso Giuliano,
sarebbe stata adoperata dai detrattori del giovane antagonista di Costanzo per suscitare imbarazzo e
sospetti nella corte vd. Marino, Patologie tra etica e politica, cit., 490, n. 12.
27
Al riguardo anche Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano, cit., 83-85; sui negoziati con
Sapore II cfr. R.C. Blockley, The Romano-Persian Treaties of AD 299 and 363, «Florilegium», VI (1984),
28-49. Per l’analisi delle fonti sulla spedizione contro i Persiani si veda M.H. Dodgeon - S.N.C.
Lieu, The Roman eastern Frontier and the Persia Wars (AD 226-363): A Documentary History, London- New
York 2003, 201-235. Zosimo (III 9, 1-7) intravede, nell’ordine di trasferimento delle truppe, il
tentativo dell’imperatore di indebolire il Cesare i cui successi militari rappresentavano una
minaccia per la sua autorità. Sul racconto della proclamazione di Giuliano e sui problemi fontuali
in Zosimo, Bowersock, Julian, cit., 49-50. Libanio (or. XVIII 106) farà riferimento all’esitazione di
Giuliano al momento della nomina.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 183
concedere loro l’autorizzazione ad andare sui carri militari per seguire quanti
erano stati costretti al trasferimento.28
L’accelerazione degli eventi, “ufficialmente” imposta dai soldati, affranti dal
rischio di perdere il comandante, darà infine ragione all’autorevolezza politica e
militare che Giuliano aveva progressivamente acquisito.
Saranno infine le truppe più fedeli a decidere di opporsi alla volontà
imperiale, proclamando il nuovo Augusto mentre questi, per non tradire il patto
di fedeltà che lo legava, almeno sulla carta, all’imperatore, continuerà a rifiutare il
titolo.
Il ritmo convulso degli avvenimenti, ancora per poco, farà da sfondo al
travaglio del Cesare che, nel corso della sequenza, si andrà trasformando da
paredro comprimario in antagonista del dominus, occupando il teatro degli eventi in
modo sempre più deciso e propositivo.
La seconda parte del capitolo, proseguendo il racconto della sedizione,
continua a focalizzare l’attenzione sulla figura esemplare di Giuliano finalmente
disposto, in virtù della fiducia accordata dai suoi sostenitori, ad accettare
l’investitura imperiale e con essa le grandi responsabilità politiche e di governo.
La «quiete assoluta» che promanava la figura dell’Apostata contribuisce a
creare, attorno alla sua persona, un’aura taumaturgica e benevola per le sorti degli
uomini che a lui speravano di potersi affidare e insieme a dissipare quella terribile
incertezza in cui ancora molti si trovavano.
L’incipit del capitolo successivo29 registra il cambiamento dello stato d’animo
dei soldati finalmente «pieni di entusiasmo e lieti» per aver trovato un sovrano in
grado di difenderli e di chiamarli a nuove e gloriose imprese.
Tutta la sequenza narrativa si illumina di una nuova luce, generata dalla
fiducia nel futuro, e troverà una solenne conclusione nel leitmotiv del racconto
dell’apparizione onirica avuta dal giovane Augusto.
Il sogno del Genio dello Stato,30 che rimprovera Giuliano perché sembrava
voler sfuggire alle responsabilità cui era stato chiamato già in altre occasioni, è in
effetti la stereotipata celebrazione di un’investitura politica che intendeva
richiamarsi a quel codice semico che aveva accompagnato l’immagine
28
Per le problematiche relative all’ ingiusto provvedimento da parte di Costanzo, pressato
lungo i confini orientali e nel contempo intenzionato ad indebolire il prestigio del giovane Cesare si
veda: G. Negri, Giuliano L’Apostata, Genova 1990, 64-65.
29
XX 5; a proposito dell’acclamazione imperiale di Giuliano, Eutropio (X 16) si limiterà a
dire che questo era stato proclamato con il consenso dei soldati. Per il racconto eutropiano della
ribellione di Giuliano nei confronti dell’imperatore Costanzo vd. Bonamente, Giuliano l’Apostata,
cit., 76-78.
30
Anche Zosimo (III 9, 6-7), a proposito del dubbio di Giuliano se accettare la nomina
proposta dalle truppe, farà ricorso al topos del sogno profetico attribuendo al sole l’annuncio della
morte, «odiosa e dolorosa» di Costanzo di lì a qualche mese. Al riguardo Athanassiadi-Fowden,
L’imperatore Giuliano, cit. , 85-87; Neri (Ammiano e il Cristianesimo, cit., 41-42) rileva che il riferimento
alla visione onirica, riferita in segreto ai soldati più intimi, possa essere considerato come un
espediente proposto dallo storico per sostenere la veridicità di quanto raccontato. Sul frequente
ricorso e sull’importanza dei sogni e delle visioni per Giuliano, confronta, tra gli altri, anche
Bowersock, Julian, cit., 17-18.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 184
dell’istituzione imperiale nel corso dei secoli e che nel caso di Giuliano lasciava
trasparire un’apertura verso una concezione teocratica del regno.31
Confortato dall’approvazione generale e dall’investitura divina, l’Apostata
può finalmente sganciarsi dall’autorità vessatoria di Costanzo, cosa che farà
inviandogli una lettera in cui, con toni che non lasciano spazio ad alcun
compromesso, presenta la sua idea di governo32 e di organizzazione degli eserciti,
ridefinita sui principi politici della collegialità, delle responsabilità e delle
specifiche competenze.
Il rischio di una guerra, paventata dalla reazione dell’Augusto, che non
voleva accettare in alcun modo le condizioni poste dal cugino considerato
usurpatore, sarebbe stato evitato solo dalla notizia della sua morte improvvisa e
per motivi naturali.33
Il destino aveva deciso che l’impero, per il momento, dovesse restare sotto
l’egida di un unico dominus.
Nel capitolo XXI è riferito un altro discorso fatto da Giuliano imperatore
alle truppe, subito dopo la sua proclamazione. Da notare che molto
opportunamente li chiama commilitoni, compagni d’arme ed a loro si considera
unito già dai primi anni della sua giovinezza, dal momento che il ricordo di tante
battaglie combattute insieme non poteva che rinsaldare quel legame di fiducia che
li aveva portati a sceglierlo come sovrano con la benedizione divina.
Nella duplice veste di dominus, «attento ad alti obiettivi», e di comandante
dell’esercito, le sue parole pretendono, in effetti, di richiamare in auge alcuni
canoni di tradizione pagana come la benedizione degli dei e il sostegno della
fortuna, considerate formule di buon auspicio di una liturgia capace di garantire la
stabilità dell’impero e il successo militare.
31
Giuliano parlando ai commilitoni a cui si considerava «unito già dai primi anni della
giovinezza» avrebbe ricordato di essere stato elevato alla dignità augusta per volontà divina (sempre
Ammiano al capitolo XXI 5). Per il tema della costrizione divina come risulta rappresentata da
Ammiano cfr. S. Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, in L’Empereur Julien, cit.,
«AntTard» XVII (2009), in particolare 120-121 e n. 9; riguardo alla particolare concezione religiosa
dell’impero in Giuliano sono molto interessanti le considerazioni di M. Mazza, Filosofia religiosa ed
“Imperium” in Giuliano, in B. Gentili (a cura di), Giuliano Imperatore. Atti del Convegno della S.I.S.A.C.
(Messina, 3 aprile 1984), Urbino 1986, 39-108 con bibliografia; inoltre Marcone, Giuliano, cit., 11-13.
Riguardo lo stretto legame tra il sogno e il sistema ideologico politico del mondo romano cfr. R.
Marino, Il sogno e l’ideologia della vittoria, in R. Marino - D. Motta - S. Giannobile (a cura di), Sogni e
visioni nel mondo antico, Giornate di studio (Palermo, 17-18 ottobre 2007), «῞Ορμος» IX (2007), 185194.
32
XX 8: il capitolo riferisce di una lettera che l’Apostata invierà al collega Costanzo dopo
aver accettato l’investitura dei soldati che erano stati considerati rivoltosi. L’inizio del capitolo è
caratterizzato da una dichiarazione di fedeltà rispetto ai compiti che gli erano stati assegnati cui
però farà seguito la perentoria proposta di collaborazione paritaria, rispetto alle condizioni che lo
stesso Giuliano pensava di proporre al fine di garantire la sicurezza dello Stato. Sull’atteggiamento
di Giuliano nei riguardi del cugino e sul suo progetto di condivisione del potere politico e militare
cfr. Negri, Giuliano, cit., 75-76.
33
Lo stesso Giuliano (Misop. 357 b) afferma che per volontà divina lo scontro con Costanzo
aveva avuto un esito a lui favorevole. Sul ricorso ai sogni e ai vaticini per annunciare la morte
dell’augusto cfr S. Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica, cit., 121-122.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
| 185
Parimenti, la sottolineatura di un Giuliano tranquillus, moderatus in pace ma
cautus et consideratus in crebritate bellorum, ne completerà lo stereotipato breve ritratto,34
in una sorta di epifania del futuro campione, simbolo di una romanità rinnovata.
La cerimonia d’investitura e la conseguente richiesta di una solenne promessa di
fedeltà «secondo l’abitudine di quanti hanno fiducia nei loro comandanti» segnerà
il momento di massima tensione dell’episodio cui farà seguito l’approvazione
dell’assemblea, desiderosa rerum novandarum, ed espressa con urla orrende e tremendo
fragore di scudi.
Come antica consuetudine, i soldati avrebbero poi prestato giuramento,
accostando le spade al collo e invocando su loro stessi le peggiori maledizioni in
caso di tradimento.35
Le truppe avevano trovato in Giuliano un nobile duce, vincitore fortunato
di popoli e di re, la cui statura morale, ben si conciliava con l’auspicata possibilità
di promuovere una saldatura tra elaborazione politica ed elaborazione culturale,
necessaria premessa per realizzare un recupero della rappresentazione ideologica
della romanitas vittoriosa.
Nonostante il legame di rispetto e di fiducia che univa il sovrano ai soldati,
al punto che il suo esempio di coraggio accendeva in tutti il desiderio di
comportarsi in maniera valorosa,36 lo stesso avrebbe dovuto affrontare alcuni casi
di diserzione, dando prova di saperli reprimere con fermezza proprio per evitare
pericolose reiterazioni.
Così alla notizia dell’improvviso attacco di tre squadroni romani e del furto
di un vessillo da parte del capo persiano Surena, Giuliano, concitus ira immani,
festinatione ipsa tutissimus riuscirà a raggiungere il luogo dell’agguato respingendo gli
aggressori con una violenza inaspettata.37
Ciò che poi colpisce è il racconto della dura reazione nei confronti delle
truppe che erano fuggite dall’accampamento. In maniera esemplare, secutus veteres
leges, punirà per prima cosa i due tribuni sopravvissuti, sciogliendoli dal giuramento
di fedeltà poiché li aveva ritenuti desides e ignavos, in seguito individuerà dieci uomini
34
Nel capitolo XVII 11 troviamo il riferimento al fatto che Giuliano, pur vittorioso in
Gallia, sarà deriso dagli invidiosi e chiamato pigro e timido. Sull’adventus del Cesare e sulle modalità
di rappresentazione di tale evento si veda anche Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae, cit.,
passim.
35
XXI 15 come prevedibile il racconto della morte di Costanzo sarà preceduto da presagi e
premonizioni per suffragare l’idea della nomina di Giuliano voluta dal destino. Sul discorso alle
truppe al momento del giuramento di fedeltà si veda Browning, The emperor, cit., 117-118.
36
In XXIV 12, sono ricordate ancora una volta le virtù militari di Giuliano. Questi
appariva sempre pronto al combattimento disposto in prima fila al punto che, con il suo coraggio,
accendeva in tutti i soldati il desiderio di comportarsi valorosamente. Lo stesso era rappresentato
come exemplum di specchiata moralità e coraggio, non amante del lusso e dei donativi come ricorda
lo stesso Zosimo (tutto il III libro è dedicato al nostro personaggio). Un’appassionata rilettura delle
imprese del giovane sovrano è presente in Negri, Giuliano, cit., 101-106. Sull’importanza simbolica
delle insegne militari si veda tra gli altri Milan, Le forze armate, cit., 252-256.
37
Per quanto concerne le difficoltà incontrate dal comandante durante la campagna
persiana: Athanassiadi-Fowden, L’imperatore Giuliano, cit., 208 -209 in particolare n. 8.
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 175-188
Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
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tra i fuggitivi e, dopo averli pubblicamente degradati, procederà alla loro condanna
capitale.
Da severo dux aveva voluto stigmatizzare l’accaduto, proprio per
scoraggiare sul nascere il ripetersi di altri casi del genere, facendo ricorso alla
decimazione, una pratica che, com’è noto, apparteneva alla tradizione militare
romana e che prevedeva la pena di morte individuale o collettiva.38
Nel contempo da accorto capo politico, attento a non fomentare
pericolose forme di malcontento che avrebbero potuto destabilizzare la sua
autorità, si rivolgerà al resto delle truppe confermando la promessa fatta a suo
tempo di un donativo di argenteos nummos centenos a testa per celebrare il successo
conseguito nella campagna militare persiana.
L’intervento non susciterà l’approvazione auspicata poiché il premio
promesso non era stato ritenuto congruo e pertanto, alla reazione di malcontento,
lo stesso Augusto si troverà costretto ad una replica moderata ma ferma, in cui
avrebbe richiamato all’attenzione dei suoi uomini, le difficili condizioni
economiche dell’erario e di lui stesso, privato delle ricchezze, nonostante le nobili
origini.39
Il rimprovero, a dire dello storico Ammiano, avrebbe placato i malumori al
punto che tutti i presenti si sarebbero poi decisi a rinnovare la promessa di
sottomissione in attesa di tempi migliori.
Per l’occasione, l’allusione ad un grande della storia, come Traiano,40 per
l’abitudine comune ai due imperatori di incoraggiare i propri uomini riferendosi
non già alle persone care ma alla grandezza delle imprese militari – affinché il
ricordo di quanto già compiuto potesse servire da incitamento per il futuro –
serviva probabilmente a richiamare alla mente dei soldati la grandezza del loro
comandante anche nei momenti di difficoltà.
In seguito, il riferimento all’epica vittoria ottenuta presso il canale
Naarmalca, poco plausibile per le cifre riferite di 2500 persiani colpiti a fronte della
perdita di soli 70 uomini dalla parte romana, vedrà Giuliano, sicuro di sé,
38
Anche Zosimo (III 19, 2) ricorda che sarebbe stato punito solo il capo degli esploratori,
reo di aver abbandonato il vessillo ai nemici, togliendogli la cintura da cui pendevano pugnale e
spada, segni distintivi della condizione del soldato e del suo importante servizio. Per Milan (Le forze
armate, cit., 205 e 258) ancora nell’età imperiale la decimazione consisteva nell’allontanamento dei
soldati dall’esercito mentre la disciplina era ispirata alla difesa dei valori civici. Nello specifico le
osservazioni di Athanassiadi-Fowden (L’imperatore Giuliano, cit., 236-238) riguardano le difficoltà
incontrate durante la spedizione persiana che avrebbero influito in maniera negativa sul
temperamento del comandante al punto che, poco alla volta, questi avrebbe perso i contatti con la
realtà finendo per differenziarsi da Alessandro Magno, suo modello politico e umano.
39
XXIV 3. Sulla modificazione dell’ideale della generosità da parte di Giuliano cfr.
Marcone, Giuliano, cit., 52 e sul rimprovero fatto ai soldati in quell’occasione, 62.
40
Il capitolo (XXV 4), come consuetudine del genere biografico classico, si richiama ai
grandi sovrani del passato. Di necessità di emulazione dei grandi del passato, come Alessandro,
parla Marcone, Giuliano, cit., con particolare riguardo 58-59, ma anche Kelly, Ammianus Marcellinus,
cit., 299-300.
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Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
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incarnare ancora una volta l’ideale del valoroso comandante, esempio per quanti si
sarebbero cimentati in altri combattimenti.41
Al termine dello scontro, dopo aver indicato per nome i compagni d’arme
che si erano distinti, li avrebbe insigniti di corone navali, civiche e castrensi,
mentre la prosecuzione dei festeggiamenti con il sacrificio cruento di un toro
sembra si possa considerare piuttosto come un atto di tipo propagandistico, teso a
confermare quella volontà politica allora messa in campo dall’imperatore che si
realizzava anche mediante il recupero delle vecchie rappresentazioni liturgiche
della vittoria militare di chiara origine pagana. 42
Il rito però, anche agli occhi di Ammiano, era apparso funesto e foriero di
cattivi presagi per le particolari modalità con cui si era concluso – la fuga di tutti
gli animali, eccetto uno solo che sarebbe stato così sacrificato all’altare – velando di
tristezza il momento dei festeggiamenti.
In effetti, la parabola discendente del giovane sovrano era iniziata e si
sarebbe conclusa di lì a poco in battaglia aperta, in maniera coerente con
quell’immagine stereotipata del valoroso combattente.
L’autore, ricorrendo al modello della tradizione biografica, riuscirà a
rappresentare l’immagine “ovvia” del giovane Augusto che affronta il momento
esiziale in maniera non diversa da quella di altri grandi del passato.43
Al momento del commiato dai compagni d’arme, Giuliano, ricordando le
imprese realizzate e i servigi resi all’impero, ut alumnus rei publicae, preferiva tacere
sul nome del successore dichiarando di desiderare solo un buon imperatore.
Che tale scelta velasse una strategia politica, ci sembra trovi conferma nelle
parole di un anonimo ufficiale, se non addirittura di Ammiano stesso, forse
presente in quella tragica circostanza,44 il quale, rivolgendosi ai compagni, li
spronava a non individuare alcun candidato sino a quando tutto l’esercito non
fosse stato riunito, onde evitare il rischio di pericolosi pronunciamenti.
41
Per le considerazioni storiografiche relative alla ripetizione del racconto della battaglia
vedi n. 6.
42
Anche Marcone, Giuliano, cit., 23-26. Per quanto concerne i riferimenti ai sacrifici cruenti
di animali lo stesso storico (XXV 4, 17) aveva sottolineato con una qualche ironia: «si credeva che,
se fosse ritornato (scil. Giuliano) dalla campagna contro i Parti, sarebbero spariti tutti i buoi». Poco
dopo il giovane sovrano sarà paragonato all’imperatore Marco Aurelio per la consuetudine,
comune ad entrambi, di effettuare riti sacrificali. Per il ricorso alle decorazioni militari di tipo
tradizionale: V.A. Maxfield, The military decoration of the Roman army, London 1981, 250-251.
43
Dopo aver salutato i suoi compagni discuterà sulla nobiltà d’animo sino alla fine con i
filosofi Massimo e Prisco. Per il racconto sulla morte di Trasea Peto simile nei modi a quella del
nostro personaggio: Tac. Ann. XVI 34. Libanio (or. XXIV 6) nel riferire la morte di Giuliano
sospetta che il sovrano fosse stato colpito da qualche soldato che militava nell’esercito romano. È
da notare però che Ammiano e Zosimo non lasciano trapelare alcun sospetto al riguardo. Su ciò
Cameron, Il tardo impero, cit., 123-124; Bowersock, Julian, cit., 116-118.
44
Dello stesso parere Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano, cit., 341 n. 17
ma anche Cameron, Il tardo impero, cit., 110-111. Sui passaggi autobiografici ravvisabili nel racconto
di Ammiano, cfr. anche Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 35-44 ma soprattutto 96-97 laddove si fa
riferimento alla sequenza relativa alla morte di Giuliano.
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Marina Usala, Il rapporto di Giuliano con le truppe in Ammiano Marcellino
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In tal modo quella che può essere considerata un’espressione di Realpolitik –
frutto della lucida consapevolezza45 dell’imperatore che nessun altro avrebbe
proseguito con il suo programma di governo – sarebbe stata consegnata, grazie al
racconto ammianeo, in una prospettiva sublimata seppur alterata nel significato,
come l’estremo gesto di un comandante,46 sensibile alle sorti del suo esercito,
attento a scongiurare il pericolo di conflitti interni derivanti dalla scelta da parte
sua di un eventuale successore.
Il meccanismo dei rapporti di Giuliano con le truppe, emerso dalla sapiente
rappresentazione storiografica e retorica dei Rerum Gestarum Libri di Ammiano, è
apparso un prodotto destinato ad un pubblico aristocratico, colto e difensore della
tradizione, interessato ancora nel IV secolo all’elaborazione di un modello di
sovrano in grado di realizzare un’idea grandiosa di romanitas. 47
La prassi instaurata dall’Apostata, non si sarebbe però affermata in maniera
univoca, ma avrebbe percorso binari a volte contorti se non addirittura
contaminati da elementi etici e morali differenti, d’ispirazione a volte
genericamente pacifista se non cristiana.
Del resto tali dinamiche erano lo specchio di una società, attraversata da
grandi contraddizioni, divisa tra il bisogno di recuperare i modelli che in passato
avevano garantito a Roma e alla sua classe dirigente il controllo politico e militare
sul palcoscenico della storia dei popoli, e un presente, privo di precisi riferimenti
culturali e non più in grado di assicurare gli stessi esiti.
Pertanto il complesso progetto di Giuliano, nei modi riproposti da
Ammiano, per il ricorso a interventi dalle geometrie variabili che sembravano
lambire i tratti di una prospettiva antistorica e utopica, non poteva che
rappresentare la Weltanschauung che lo aveva idealmente nutrito e lo spirito di
un’epoca di profonda trasformazione.
Marina Usala
[email protected]
on line dal 15 giugno 2011
45
Negri, Giuliano, cit., 115; Bowersock, Julian, cit., 106.
Sulla figura di Giuliano, costruita come modello rinnovato di imperatore romano
adattato ai progetti politici dell’aristocrazia senatoria del IV secolo: J. Matthews, The Roman Empire of
Ammianus, London 1989, 81-114; Caltabiano, Giuliano Imperatore nelle Res gestae di Ammiano, cit., 343 e
inoltre 350; più recentemente Conti, Da eroe a Dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, cit., 124126.
47
Sulla ricostruzione del regno di Giuliano come emerge dalla lettura complessiva delle Res
Gestae, si veda Kelly, Ammianus Marcellinus, cit., 316-317.
46
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Giovanna BRUNO SUNSERI, Le arringhe dei generali alle truppe fra retorica e realtà
La guerra è il tema dominante della storiografia antica e di conseguenza le
parenesi belliche sono ampiamente attestate in quasi tutti gli storici. Scopo
dell’indagine è lo studio delle esortazioni dei generali prima della battaglia in
Tucidide. L’analisi che qui si propone intende in primo luogo sottolineare la
storicità di tali esortazioni e quindi valutare su quali sentimenti o valori facevano
leva i generali per spingere i soldati ad affrontare il combattimento con audacia e
determinazione. In particolare l’attenzione si è rivolta alle esortazioni di due
generali, lo spartano Brasida e l’ateniese Demostene che da fronti opposti
combattono durante la guerra del Peloponneso. Tucidide, generale a sua volta, è
stato fedele, secondo quanto dichiara nei noti capitoli metodologici, nel riportare i
discorsi dei due strateghi e mostra, tra lʼaltro, di essersi accuratamente
documentato. Brasida potrebbe essere stato tra coloro che fornirono informazioni
allo storico, informazioni poi rielaborate dal punto di vista stilistico e lessicale.
Anche il discorso di Demostene risponde alle stesse finalità e riflette perfettamente
l’ambigua posizione del generale ateniese nella particolare vicenda di Pilo.
Battaglia  arringa  Tucidide  retorica  realtà
Since war is the dominant subject matter in ancient historiography, the
general’s speech to his men before battle is attested in almost all historians. The
aim of the work was the study of the commander exhortations before the battle in
Thucydides. Particular attention was devoted to the exhortations by two
commanders during the Peloponnesian War: Brasidas, from Sparta, and
Demosthenes, from Athens. The scope was to investigate what arguments they
used in order to spurring the troops in the battle with audacity. Fact or Fiction?
Thucydides had been a general himself. The speeches which he puts into generals’
mouths before battle are not rhetorical invention. They keep as close as possible
to the total sense of what was truly said on these occasions. Brasidas may have
been among the informants from whom Thucydides derived material for the
narrative on event and for the battle exhortation to his army. The speech of
Demosthenes before the battle reflects the point of view of Thucydides concerning
both expedition of Pylos and ambiguous role played by the general in that
occasion.
Battle  exhortation  Thucydides  rhetorical invention  fact
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010
ISSN 2036-587X
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Francesca MATTALIANO, La parenesi bellica nella storiografia greca: prassi allocutiva e procedure
compositive
Nell’articolo vengono analizzate le principali questioni relative alle esortazioni ai
soldati, soprattutto in relazione alle modalità pratiche di comunicazione e alla
prassi di rielaborazione dei testi nelle opere storiografiche antiche. Attraverso
l’analisi di alcune notazioni delle fonti in merito alle indicazioni realistiche di
allocuzione alle truppe, al tema del phobos diffuso negli eserciti e alle specifiche doti
richieste ai comandanti di esercito, si avanzano alcune osservazioni che giungono a
posizioni in parte lontane da quelle di Mogens Herman Hansen, anche se non del
tutto opposte. Lo studioso danese ritiene infatti che la maggior parte dei discorsi
parenetici sia da ritenersi pura costruzione, sebbene autorevole, degli antichi: per
l’eccessiva lunghezza e complessità dei periodi, non potevano essere udite
dall’intero esercito schierato e nella trattatistica antica non vi sarebbe alcun cenno
al genere delle battle exhortation. A tale proposito, saranno esaminati un brano della
Retorica in cui Aristotele sembra teorizzare proprio il modello delle parenesi
belliche e un’orazione di Timoleonte risalente a Timeo il cui testo sembra molto
vicino a quella che poteva essere la realtà della pratica militare.
Parenesi bellica  storiografia  Tucidide  Erodoto  Timeo
The article analyzes the main subjects of the ancient battle exhortations, especially
the ways of communication and the practice of text’s reprocessing in the Greek
historiography. Throughout the analysis of some fonts about the realistic
suggestions of soldier’s keynote, as well as the popular theme of phobos in the army
and the specific skills required to the commanders, we get to some observations
that come from different opinions, but not so far from Mogens Herman Hansen’s
point of view. The Dutch scholar thinks that most of the battle exhortations are a
fictitious ancient reconstruction: the complexity and length of the sentences, in
fact, couldn’t be heard from soldiers in the field and furthermore in rhetorical
theory there is not any sign of the battle exhortation. For this reason it will be
analyzed a text of Aristotele’s Rhetorica, in which the Author seems to theorize the
pattern of battle exhortation, and a speech of Timoleon, written by Timaeus and
reported by Polybius, whose text seems to be very close to the real military
practice.
Battle exhortation  historiography  Thucydides  Herodotus  Timaeus
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Carmela RACCUIA, Truppe e comandanti nella Sicilia greca. Casi di studio
La prima parte del contributo è centrata sulla ricostruzione dell’organizzazione
militare nelle apoikiai di Sicilia. L’esame delle fonti storiografiche consente di
ritenere tale esigenza precoce, anzi contestuale alla fondazione delle città perché
necessaria al loro impianto e funzionale alla loro affermazione. Ne discende che i
conflitti nel territorio – e presto le contese fra le stesse comunità greche – possono
aver accelerato il processo di irrobustimento della polis favorendo il senso
comunitario e di appartenenza. In questo senso è valida quell’equazione fra politai
ed hoplitai che Aristotele individuò come la prima politeia tra gli Elleni e si
comprende come, proprio per la mancata inclusione di forze militari, il filosofo
censurasse il modello utopistico di Falea di Calcedone. Tra le conseguenze più
significative della guerra vanno sottolineate, in Sicilia, le ricadute economiche
come la diffusione di forza-lavoro schiavile o servile (Aristotele ci informa
addirittura che a Siracusa esisteva una episteme doulike) e la produzione e la ricerca
avanzata in fatto di tecnologia militare. Nell’ultima parte dell’indagine, sono
analizzati due aspetti specifici della storia militare isolana attraverso l’esegesi di due
proverbi presenti nelle raccolte di Zenobio e Diogeniano. Nel primo affiora la
communis opinio sul conto dei Siculi, mercenari millantatori e avidi. Il secondo è
doppiamente prezioso perché permette di recuperare l’esistenza di ipparchi in
Siracusa fra i cui compiti rientra pure la prassi di registrare per iscritto i casi di
insubordinazione.
Sicilia greca  organizzazione militare  mercenari  ipparchi  pinakes
The first part of this contribution focuses on the military organization in the
apoikiai of Sicily. Historical sources suggest that this need was early, indeed at the
same time of the foundation of the cities because it was deemed necessary to their
success and expansion. It follows that the conflicts in the territory, and soon the
struggles between the Greek communities themselves, may have accelerated the
process of the strengthening of the polis favouring the sense of community and
belonging. So we understand the equation between politai and hoplitai, that Aristotle
identified as the first politeia among the Greeks. We also understand why he
criticized the utopian model of Phaleas because it did not include military forces.
One of the most significant consequences of the war in Sicily is represented by the
spreading of the servile or slave workforce: Aristotle tells us that in Syracuse there
even existed an episteme douliké. Another aspect is the production and advanced
research in terms of military technology. In the third part, the survey analyzes
specific aspects of the island’s military history through the exegesis of two
proverbs in the collections of Zenobius and Diogenian. The first saying reflects the
common opinion that Sikeloi were boastful and greedy mercenaries. The second is
doubly valuable because it allows us to suggest the existence of hipparchoi in
ὅρμος - Ricerche di Storia Antica n.s. 2-2010, pp. 189-198
Riassunti/Abstracts
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Syracuse, one of whose tasks was the practice of recording cases of
insubordination on pinakes.
Greek Sicily  military organization  mercenaries hipparchs  pinakes
Marco VINCI, Reclutamento di truppe scelte a Siracusa in età classica
L’articolo passa in rassegna le fonti letterarie attestanti il reclutamento di armate
speciali, composte da combattenti selezionati (epílektoi), a Siracusa tra il 461 e il 397
a.C. Dall’analisi e dal confronto con altre realtà politiche si delineano le
caratteristiche di questi contingenti che si configurano come corpi d’armata dalla
natura permanente, composti da unità minime di 600 opliti. In Tucidide la
menzione di queste truppe scelte, impiegate per fronteggiare l’assedio ateniese del
414/3, sembrerebbe finalizzata ad attenuare le responsabilità di alcuni errori tattici
commessi dagli strateghi siracusani, soprattutto Ermocrate.
Siracusa  epilektoi  seicento opliti  Ermocrate
The article reviews the literary sources concerning the recruitment of special
armies, composed of selected soldiers (epílektoi), in Syracuse between 461 and 397
BC. The analysis and the comparison with other political realities allow to define
those contingents as permanents corps, consisting of a minimum of 600 hoplites.
The words of Thucydides about the picked troops used to face the Athenian siege
during 414/3 BC, would seem to be aimed at mitigating the responsibility of some
tactical errors committed by the Syracusan generals, especially Hermocrates.
Syracuse  epilektoi  six hundred  hoplites  Hermocrates
Roberto SAMMARTANO, La formazione dell’esercito di Dionisio I. Tra prassi, ideologia e
propaganda
In questo contributo sono esaminate le vicende relative allo stratagemma di
Leontinoi del 406 a.C. grazie al quale Dionisio I riuscì a ottenere una guardia del
corpo personale e a formare la base militare del suo potere autocratico. Su questa
vicenda circolavano due versioni antitetiche. Da una parte, la tradizione ostile,
risalente a Timeo e confluita nel racconto di Diodoro Siculo, poneva l’accento sui
provvedimenti illegittimi presi da Dionisio, non solo a Leontinoi ma sin dalla sua
prima comparsa sulla scena politica siracusana, per creare un esercito personale
molto forte e di dimensioni maggiori rispetto alle milizie regolari siracusane e ai
gruppi di mercenari guidati dallo spartano Dexippo, che gli consentì di
proclamarsi tiranno di Siracusa. Dall’altra, Filisto, della cui versione restano alcune
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tracce in un passo della Politica di Aristotele e in una citazione di Cicerone, mirava
invece a rappresentare la formazione dell’esercito di Dionisio come un processo
legittimo, paragonabile alla spontanea sottomissione di uno sciame d’api al potere
carismatico dell’ape “regina”; tale processo permise allo strategos autokrator di
trasformare il suo potere in una “monarchia” basata sul consenso di tutto l’esercito
e della massa dei Siracusani accorsi in quel frangente a Leontinoi.
Dionisio I  Filisto  Leontinoi  tirannide  monarchia  api
This paper examines the ruse lead by Dionysius I in Leontinoi in 406 BC in which
he obtained body guards and formed the military basis of his autocratic power.
There were two antithetical versions circulating in regard to this episode. On the
one hand, the hostile tradition, which is dated back to Timaeus and merged into
Diodoro, stressed on the illegitimate measures taken by Dionysius, not only in
Leontinoi but also in Syracuse. Since his first appearance on political stage, he had
managed to create a very strong personal army, greater than the regular militia in
Syracuse and the groups of mercenaries led by Spartan Dexippus, which allowed
him to declare himself tyrannos of Syracuse. On the other hand, Philistus, whose
report can be traced back to a passage of Aristoteles’ Politics and in a quotation by
Cicero, aimed at representing the making of Dionysius’ army as a legitimate
process, comparable to the spontaneous obedience of a swarm of bees to the
charismatic power of the “queen bee”; such process allowed the strategos autokrator to
turn his power into a “monarchy”, grounded on the consensus of the whole army
and the mass of Syracusans, who in this juncture rushed to Leontinoi.
Dionysius I  Philistus  Leontinoi  tyranny  monarchy  bees
Luisa PRANDI, I soldati di Alessandro Magno, i loro debiti e i loro figli
Il pagamento dei debiti dei soldati macedoni e le provvidenze per i loro figli nati da
unioni con donne asiatiche sono legati a grandi distribuzioni di denaro da parte di
Alessandro nel 324, quando egli stava facendo i conti con le conseguenze della
conquista; la tradizione antica su entrambi costituisce un caso di studio
metodologicamente esemplare. Il pagamento dei debiti era un gesto di risanamento
ma fece emergere un grave deterioramento dei rapporti fra lui e le truppe: vari
elementi inducono a datarlo dopo l’arrivo degli Epigoni, collegandolo con
l’ammutinamento dei Macedoni, e a ritenere che riguardasse prevalentemente i
veterani destinati al rientro. La ricognizione attribuita ad Alessandro sul numero
dei figli di sangue misto era un’iniziativa doverosa e mostra che egli intendeva
garantire loro sopravvivenza ed addestramento militare, anche in vista
dell’esigenza di un duraturo controllo sui territori asiatici.
Alessandro Magno  veterani  debiti  figli  Asiatici
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Riassunti/Abstracts
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This topic is a good case of study, on a methodological perspective, because
ancient sources are not unanimous. In 324 B.C. Alexander decided to discharge all
the debts of his soldiers but this action indicated that the relationship between the
king and the troops had got worse; some evidences invite to date this episode after
the arrival of the Epigoni, linking it with the strong discontent among the
Macedonian troops to mainly refer it to the veterans discharged and directed
home. The idea of counting the number of the soldiers’ sons born from Asian
wives was an almost necessary measure: Alexander wanted to guarantee to them
survival and military training, in order to, in the future, maintain the control of
the Asiatic territories.
Alexander the Great  veterans  debts  sons  Asia
Antonino PINZONE, L’interazione milites-imperator nella spedizione ispanica di Scipione
l’Africano
I comportamenti di Scipione con i suoi soldati ai tempi della sua spedizione
ispanica erano funzionali all’ottenimento del massimo impegno e, naturalmente,
alla buona riuscita dell’impresa. La risposta fu del tutto positiva. L’intesa raggiunta
con l’esercito è testimoniata, tra l’altro, dall’acclamazione a imperator, avvenuta,
probabilmente, dopo la vittoria di Cartagena.
Interazione  milites  imperator  Hispania  Scipione
Scipio’s behaviors with his soldiers to the times of the Hispanic expedition was
functional to the obtaining of the maximum engagement and, naturally, to the
good resolution of the enterprise. The answer was completely positive. The
understanding caught up with the army is testified, among other things, by the
acclamation to imperator, happened, probably, after the victory of Cartagena.
Interaction  milites  imperator  Hispania  Scipio
Jonathan R.W. PRAG, Troops and commanders: auxilia externa under the Roman Republic
This paper examines what it is possible to say about who commanded the nonItalian, auxiliary troops which frequently served in the armies of the Roman
Republic. The discussion is restricted to land forces, looking firstly at the evidence
for Romans in command of auxilia – mostly found at the upper levels of command
– and secondly at the evidence for non-Romans commanding auxilia – mostly
found at the level of individual unit commanders. The problem of classification of
auxilia (allies, auxiliaries, or mercenaries?) is briefly considered, with reference to
their military autonomy. The final section explores the potential value of ‘native’
commanders and Roman recognition of this, through clientela and mechanisms of
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reward and civic incorporation. The paper concludes with brief speculation on
developments in practice over the course of the Republic.
Età repubblicana  esercito romano  ausiliari  magistrati romani  capi militari 
alleati  mercenari
Il campo d’indagine sui comandanti delle truppe ausiliarie non-italiche che
prestavano servizio in epoca repubblicana è circoscritto alle truppe di terra.
L’analisi ha riguardato in primo luogo le testimonianze relative alla presenza di
Romani a capo degli auxilia, quindi ad alto livello gerarchico, e, in seconda battuta,
i non Romani al comando di tali truppe. Mentre il problema della classificazione
degli auxilia è stato affrontato marginalmente – alleati, mercenari, ausiliari – uno
spazio più ampio è stato dedicato all’importanza dei comandanti scelti dai Romani
sul territorio in base a sistemi clientelari e civici. Una breve riflessione sugli
sviluppi di questa pratica in età repubblicana chiude il contributo.
Roman Republic  Roman army  auxiliaries  Roman magistrates  military
commanders  allies  mercenaries
Daniela MOTTA, Gli onori civici ai comandanti: il caso di Ilio tra guerre piratiche e mitridatiche
L’analisi di due iscrizioni onorarie per comandanti dedicate dalla città di Ilio
consente di acquisire utili informazioni sul rapporto della polis con Roma nel
periodo compreso fra l’anno 80 a.C e la conclusione della spedizione di Pompeo in
Oriente, confermando il quadro offerto dalle fonti letterarie di fedeltà all’imperium
Romanum. Il primo documento illustra il modo in cui Ilio ottiene il soccorso di una
comunità vicina per ordine del proconsole romano d’Asia, probabilmente per
difendersi da attacchi di pirati, ed offre un esempio delle procedure attraverso cui
una città quale Ilio, nella sua posizione privilegiata di eleutheria, poteva usufruire di
aiuto militare secondo i meccanismi dell’organizzazione provinciale romana. Il
secondo documento onora Pompeo con un linguaggio che rinvia alla dimensione
ecumenica delle conquiste del generale romano e prelude, anche nella menzione
dei neoi fra i dedicanti, alle forme di omaggio nei confronti degli imperatori
romani, quale recupero del culto per i sovrani in uso presso le città ellenistiche.
Ilio  Neoi/neaniskoi  comandanti militari  Pompeo
The analysis of two honorary inscriptions of military commanders dedicated by
the city of Ilion illustrates the relationship between the polis and Rome in the
period between 80 BC and the conclusion of the expedition of Pompey in the
East. These documents confirm the fides of the city to the imperium Romanum, as
represented in the literary sources. The first inscription sets out the way Ilion
obtains the aid of a neighboring community by order of the Roman proconsul of
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Asia, in order to defend itself against attack pirate ’attack. It offers an example of
the procedures by which a city such as Ilion, in its privileged position of eleutheria,
could benefit from military assistance in accordance with the Roman provincial
administration. The second inscription honors Pompey with a language that refers
to the ecumenical dimension of the conquests of the Roman general: even in the
reference of the neoi as dedicators, it represents a re-establishment of the worship of
the rulers as practiced in the Hellenistic cities and anticipates the paying of
homage to the Roman emperors.
Ilion  Neoi/neaniskoi  military commanders  Pompey
Rosalia MARINO, Politica e psicodramma nella retorica di campo in età triumvirale
Da Modena a Filippi la retorica di campo diviene la metafora delle tensioni
politiche che attraversarono i cupi scenari del “dopo Cesare”, la cifra della crisi che
travolse la repubblica provocando un cortocircuito tra le parti in campo. Gli
appelli ai valori della democrazia e della libertà risuonano con una ripetitività
logora che riconduce l’ispirazione narrativa nel perimetro della propaganda da una
prospettiva teleologica.
Modena  Filippi  Cesare  democrazia  libertà  tirannide
From Mutina to Philippi the military rhetoric became the metaphor of the
political tensions that traversed the dismal scenarios after Caesar’s death, the
character of crisis which overwhelmed the republic provoking a short-circuit
between the parties involved. The appeals to values of democracy and freedom
resounded with worm-out repetitiveness which took narrative inspiration back
into propaganda’s perimeter from a teleological perspective.
Modena  Philippi  Caesar  democracy  freedom tyranny
Davide SALVO, Germanico e la rivolta delle legioni del Reno
La rivolta delle legioni renane ebbe origine da un complesso intreccio di
motivazioni: lotte politiche interne alla domus Augusta, disagio sociale dei legionari,
contrapposizione tra senato ed esercito. Nella vicenda un ruolo importante fu
ricoperto da Agrippina Maggiore la quale, in continuità con l’attività di fronda
svolta dalla madre e dalla sorella, ordì trame eversive contro Tiberio sfruttando
l’importante carica militare ricoperta dal marito Germanico.
Germanico  Agrippina Maggiore  Tiberio  Tacito
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The mutiny of the Rhine legions originated from a complex twist of motivations:
the political fights within the domus Augusta, the social unrest of soldiers and the
contrast between the senate and the army. Agrippina the Elder who had the
political legacy of her mother and sister, played an important role: she plotted to
deprive Tiberius of his power using the military prominence of her husband
Germanicus.
Germanicus  Agrippina the Elder  Tiberius  Tacitus
Giuseppe ZECCHINI, Il ruolo dei soldati nella mancata conquista della Germania
Secondo Augusto la Germania (magna) sino all’Elba era ridotta in provincia sin
dall’8/7 a.C. La rinuncia a questa provincia da parte di Tiberio era contraria al mos
Romanus: essa si spiega nel 17 d.C. col timore di rendere Germanico troppo
popolare e potente; nel 69 e poi sotto i Flavi le insurrezioni dell’esercito renano
convinsero gli imperatori che ancor più la provincia di Germania (magna) sarebbe
stata un rischio troppo grande per la stabilità del loro potere.
Roma  Germania  Teutoburgo  Tiberio  S.C. de Cn. Pisone patre
From Augustus’ point of view the Germania (magna) until the Elbe river had to
be considered a province since 8/7 B.C. Tiberius’ decision to give it up was against
the mos Romanus: in 17 A.D. it was justified by the fear that Germanicus would have
become too popular and too mighty. In 69 A.D. and then under the Flavians the
uprisings of the Rhine army persuaded the emperors that a province of Germania
(magna) would have been a still more dramatic challenge to the stability of their
power.
Rome  Germany  Teutoburg  Tiberius  S.C. de Cn. Pisone patre
Antonella MANDRUZZATO, “Dalla parte degli infedeli”. I Daci, Decebalo e la Colonna
Traiana
Lo studio riguarda il ruolo svolto dai Daci e da Decebalo nel racconto del fregio
della Colonna Traiana secondo la lettura di diversi studiosi, a partire da R. Bianchi
Bandinelli, e dalla sua ben nota ricostruzione della figura dell’anonimo “Maestro
delle Imprese di Traianoˮ. Segue la lettura di alcune scene (quali la XXXII, la LXVII,
la XCIII), che vedono protagonisti il capo dace e il suo popolo. Si tratta di sequenze
episodiche nel lungo e coerente racconto della Colonna, che celebra la tragica e
inevitabile sconfitta del popolo dace, le quali, per contenuto, o per formule e
schemi adottati, sembrano sottrarsi alla logica degli stereotipi costantemente
associati alla barbarie sui monumenti ufficiali romani.
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Colonna Traiana  Dacia  Daci  Decebalo  Traiano
The role played by Dacians and Decebalus on frieze of Trajan’s Column in the
different opinions of some scholars, beginning from that of R. Bianchi Bandinelli
and from his well know figure of the anonymous ’Maestro delle Imprese di
Traiano’. Some scenes on the frieze are considered afterwards: XXXII, LXVII, XCIII
…, on which Decebalus and Dacians are protagonists. These scenes are isolated in
the long and coherent report on tragic, unavoidable Dacians’ defeat, but it seems
that they are not in accord with the idea of Barbarians represented on Roman
official reliefs.
Trajan’s Column  Dacia  Dacians  Decebalus  Trajan
Marina USALA, Il rapporto di Giuliano con le truppe: stereotipi culturali e ricerca di nuovi
equilibri in Ammiano Marcellino
Attraverso il racconto di Ammiano Marcellino, l’articolo affronta il complesso
sistema dei rapporti tra Giuliano l’Apostata e le truppe, improntato in alcuni casi
alle moderne istanze sociali e valoriali ed in altri ad un ritorno alla tradizione. La
ricostruzione del meccanismo dei rapporti di Giuliano con i suoi soldati, emerso
dalla sapiente rappresentazione storiografica e retorica dei Rerum Gestarum Libri,
consente inoltre di rivedere in una luce diversa proprio l’opera dello storico che
appare un prodotto destinato ad un pubblico aristocratico, colto e difensore della
tradizione, interessato ancora nel IV secolo all’elaborazione di un modello di
sovrano in grado di realizzare un’idea grandiosa di Romanitas.
Ammiano Marcellino  Giuliano l’Apostata  soldati
Through the narration of Ammianus Marcellinus, the paper deals the complex
system of relations between Julian the Apostate and the troops, based in some
cases on the new social and cultural instances and in others on a return to
tradition. The reconstruction of the mechanism of Julian’s relationship with his
soldiers, showed by the expert and historiographical rhetoric representation of
Rerum Gestarum Libri, also allows to review from a different point of view the really
work of the historian, that appears as a product devoted to an aristocratic
audience, cultured and defender of the tradition, still interested in the fourth
century on the elaboration of a model of a monarch able to realize a great idea of
Romanitas.
Ammianus Marcellinus  Julian the Apostate  soldiers
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