Rossella Villani
LA PITTURA NAPOLETANA IN BASILICATA - SECONDA PARTE
La pala dell’altare maggiore nella cattedrale di Matera
A
cquistata a Napoli da Giovanni Pietro Sanità, canonico della cattedrale, utilizzando
il lascito testamentario del fratello Silvestro del 1580, la cona sull’altare maggiore
della cattedrale materna, opera magistrale, si pone al crocicchio di diverse culture ed
è stata analizzata, fino alla definitiva attribuzione da parte di G. Previtali1 a Fabrizio Santafede,
alla luce del vasto movimento della pala d’altare meridionale originatasi dall’apporto fiammingo in Italia.
L’enorme pala è composta da una tavola centrale centinata, sormontata da un ovato e da una
predella con otto scomparti (quattro sulla fronte e quattro sui plinti delle colonne).
Nell’ovato superiore è rappresentata la Trinità, nella pala centrale la Madonna in aria con il
Bambino e in basso i SS. Giovanni Battista, Pietro, Paolo, Donato d’Arezzo, Biagio di Sinope e
il committente Giovanni Pietro Sanità. La predella è costituita dai seguenti riquadri: Visione
di S. Eustachio, S. Caterina, Caduta di S. Paolo, Salomè con la testa del Battista, Visitazione,
Martirio di S. Pietro, un Santo Vescovo, S. Giovanni in Oleo.
Questo tipo di struttura a Retablo è tipicamente napoletana e, più precisamente, oltre ad essere connessa con la colossale struttura architettonica lignea con colonne a tutto tondo, sormontata da un ovale, completata da una predella che poteva essere costituita da un solo elemento centrale e due laterali o da vari riquadri, che comincia a configurarsi a Napoli dopo il
1570, essa riflette quella particolare commistione dello stile fiammingo con le esperienze vasariane2.
Ma oltre all’aggancio con la tradizione post-vasariana portata a compimento dai maestri fiamminghi per quanto attiene specificamente alla struttura della cona, emerge dall’analisi stilistica e formale della stessa un richiamo continuo e costante all’opera di Marco Pino.
Claudio Strinati, nel 1978, pur notando il nome Santafede in un manoscritto del Gattini, ne
esclude completamente la paternità della cona materana, dato che non si conosceva ancora la
fase giovanile del pittore tutta incentrata sull’arte di Marco Pino, e avanza l’ipotesi, più accre-
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La seconda metà del
Cinquecento in Basilicata
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ditabile, dell’appartenenza di questo artista a una delle botteghe più fervide e operose dell’epoca, quella messinese di Deodato Guinaccia3.
Del resto, nello stesso periodo, anche G. Previtali colloca l’opera nell’ambito dei fiamminghi
attivi a Napoli nella seconda metà del Cinquecento4, finchè chiarito il quadro della produzione del giovane Fabrizio Santafede, nell’82 gli assegna l’opera materana5.
Francesco Curia in Basilicata
Francesco Curia, figlio del più famoso Michele Curia da identificare con il Maestro di
Montecalvario, sembra essere l’autore delle due bellissime opere presenti a Colobraro: la
Madonna con Bambino, San Leonardo ed offerenti nella parrocchiale di San Nicola, firmata e
datata 15956, e la tavola con Madonna del Carmine e i SS. Francesco d’Assisi e Francesco da
Paola, nella chiesa di Sant’Antonio, da collocarsi attorno al 1598.
La prima tela, scoperta nella parrocchiale di San Nicola e restaurata dalla Grelle nel 1975,
mostra la Madonna in alto, al di sopra delle nubi, San Leonardo in primo piano a sinistra e i
due coniugi committenti, ritratti con i costumi dell’epoca, a destra, sullo sfondo di un fosco
paesaggio in tempesta.
Un’iscrizione recita: Hoc opus fieri fecerunt notarius Angelus Pitius de terra Colo(brari) et
Ioannella de pane et vino de Tarsio eius uxor ad honore beate Marie (sem)per virginia et S.
Leonardis 1595. Francs Curia…
Nonostante il deterioramento della tela la mano di Francesco Curia è più che manifesta nelle
pennellate veloci, nei tocchi sintetici, nel cromatismo abbagliante, nella saldezza e monumentalità del disegno, nella “tensione, al limite della rottura, d’uno spazio metafisico e metastorico che riassorbe in un unico vortice umano e divino, presente e passato”, cui si riferisce la
Grelle quando si interroga sui motivi e le mediazioni che hanno indotto “l’oscuro notaio di
Colobraro ad avvalersi del più moderno ed intellettualistico pittore napoletano […]”.
In effetti Francesco Curia, formatosi sui maestri di Caprarola, quali Taddeo e Federico
Zuccari, Jacopo Bertoia, Giovanni de’ Vecchi e Raffaellino da Reggio, attento successivamente al pittoricismo di Teodoro d’Errico e rivolto, infine, a modelli e schemi più consoni al clima
della Controriforma, grazie alla sua originalità compositiva e alle sue qualità pittoriche, che
attestano i moderni portati luministici, dà nuova linfa alla pittura napoletana.
Gli elementi caratteristici della pittura di Francesco Curia, quali il vivo pittoricismo, la versatilità del segno, la rapidità e la sintesi del disegno, l’esplosione delle immagini e nel contempo
l’armonia di forme che tutto amalgama e unifica, si riscontrano nell’altra sua opera di
Colobraro, la Madonna del Carmine tra i SS. Francesco d’Assisi e Francesco da Paola.
Si tratta di un dipinto in cui trovano posto, al di sotto di un’icona raffigurante la Madonna del
Carmine, S. Francesco d’Assisi, fondatore dell’omonimo ordine, e S. Francesco da Paola, fondatore dell’ordine dei Minimi.
I due Santi, genuflessi sullo sfondo di un cupo paesaggio marino avvolto da nebbie azzurrognole -costante della pittura di Francesco Curia- si rivolgono con atteggiamento supplice verso
la Vergine, inquadrata in una semplice cornice dorata, ai lati della quale spuntano, da un alone
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Colobraro (Mt), Chiesa del convento di S. Antonio - Madonna del Carmine con i SS Francesco d’ Assisi
e Francesco da Paola - (foto S.B.A.S. - Matera)
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luminoso di color giallo, le teste e le ali multicolore - abbozzate con pennellate sommarie e
veloci- di cherubini.
La bellezza dell’opera risiede soprattutto nel sorprendente cromatismo e accostamento di colori brillanti. L’artista qui impegnato non diluisce il colore, né tanto meno procede per tonalità
digradanti, ma stacca le zone cromatiche in funzione di un gradevole contrasto pittorico.
Ancora una volta Francesco Curia sembra costruire le immagini non con il disegno, ma con il
colore; è quest’ultimo che plasma le forme, donando loro nuova vitalità ed energia in funzione di una pittura dichiaratamente manierista.
Le opere di Francesco Curia in Basilicata, e più precisamente a Colobraro, sono da mettere
sicuramente in relazione alla massiccia presenza francescana in Basilicata, dato che una di essa
appartiene alla chiesa del convento di Sant’Antonio dei Frati Minori Osservanti di Colobraro
e, quindi, ai dettami compositivi e stilistici voluti dalla Controriforma, ma è anche indice della
presenza, in una delle province del Regno ritenute più povere e ritardatarie, di una committenza colta e raffinata che guarda al di là dei suoi confini e non si contenta di opere “di maniera” stereotipate e copiate dai più famosi maestri napoletani.
Le tavole del Buono a Brienza
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Nella chiesa dell’Annunziata a Brienza sono state ritrovate due tavole attribuite a Silvestro
Buono, maestro napoletano di spicco attivo, nella capitale, nella seconda metà del XVI secolo: una Pietà e un Eterno Benedicente.
Le due opere, attualmente racchiuse da cornici di stucco settecentesche e situate rispettivamente sull’arco trionfale che dalla navata immette nel coro e sulla parete di fondo del coro,
dovevano originariamente appartenere ad un’unica grande pala d’altare i cui altri elementi
sono andati smarriti.
L’Eterno doveva fungere sicuramente da cimasa e non è improbabile che la Pietà fosse collocata al di sotto di essa in asse con la tela centrale di cui oggi non resta traccia ma che, considerando i due dipinti superstiti, doveva essere di enormi proporzioni e probabilmente accompagnata da altri pannelli dispersi.
Si è ipotizzato che la tavola centrale contenesse una Annunciazione sia sulla base dell’inventario degli arredi della chiesa, redatto da padre Angelo da Brienza, in cui figura, subito dopo la
Pietà summenzionata, un’Annunciazione, attribuita assieme alla stessa Pietà al Giordano; sia
sulla base di un opuscolo di uno studioso locale, del 1872, che menziona ancora
l’Annunciazione, attribuendola al Santafede.
Del resto l’intestazione stessa della chiesa lascia supporre che vi doveva essere una grandiosa
cona, probabilmente collocata sull’altare maggiore, dedicata alla Vergine Annunciata.
Le due tavole superstiti presentano tutti i caratteri della pittura di Silvestro Buono: le figure
monumentali, plastiche, dinamiche, ancorché espressive e tese in funzione di una resa drammatica della narrazione pittorica; il disegno nitido e chiaro, i colori smaltati e brillanti, la luminosità diffusa e trasparente. L’Eterno rappresenta la summa di tutte queste caratteristiche: il
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mantello rigonfio sul dorso e svolazzante forma una improbabile esse che imprime movimento alla poderosa figura dalla barba bianca e dai capelli lanosi anch’essi svolazzanti, a mò di strani serpenti; le mani perfettamente disegnate, la destra tesa a benedire e la sinistra poggiata sul
globo; i lineamenti tesi di un volto bello, dalle sopracciglia leggermente corrugate al naso diritto, agli zigomi pronunciati, allo sguardo nero e profondo. Immagine di un Dio affascinante e
tenebroso, più vicino agli dei pagani che al canuto Padre Creatore cristiano.
La Pietà, anch’essa vicina alle altre opere di Silvestro Buono, presenta Cristo in primo piano,
disteso su un lenzuolo bianco, affiancato da Giovanni Battista a sinistra, la Madonna al centro e la Maddalena a destra, reclinata sulle gambe di Cristo, intenta ad aggiustare il lenzuolo.
Tutta la composizione è incentrata sulla figura orizzontale del Cristo cui fa da contraltare la
perpendicolare Madonna, affiancata da un Giovanni dal volto femmineo e piagnucolante
incorniciato da bei riccioli castani e dalla Maddalena dalla superba acconciatura rinascimentale, in cui trova posto una treccia che circonda tutto il capo e scende sul collo lungo ed elegante mettendo in risalto un volto delicato, deliziosamente afflitto.
Per Nuccia Barbone Pugliese, che per prima ha identificato nelle tavole di Brienza la mano
del Buono7, “la Maddalena, inclinata sul sarcofago a sorreggere le gambe del Deposto, replica
con minime varianti, la gemella santa della Pietà di Avellino del 1551 per la stringente somiglianza dei volti, della ricercata acconciatura e, persino dell’abbigliamento sontuoso, reso con
studiati effetti pittorici nella diversa consistenza materia del velluto e del broccato. Il corrispettivo dell’Evangelista, che, dall’altra parte del sepolcro, sostiene il capo inerte del Cristo è,
invece, nella paletta del duomo di Sorrento, alla quale, com’è noto, il Previstali ha proposto di
collegare, sebbene cautamente, “per l’effetto di severità iconica ottenuta con mezzi moderni,
polidoreschi”, un’altra tavola conservata nella chiesa di S. Caterina a Formiello, raffigurante
tre ieratici e statuari Santi Giacomo, Giovanni Battista e Pietro (?)”.
Resta a questo punto da chiarire quale sia il nesso tra la chiesa di Brienza e l’attività di un pittore tanto rinomato nella Napoli della seconda metà del XVI secolo, che, a parte la Pietà di
P ittura in B asilicata
Brienza (Pz), Chiesa dell’Annunziata
- Eterno Padre - (foto S.B.A.S. - Matera)
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Brienza (Pz), Chiesa dell’Annunziata - Pietà - (foto S.B.A.S. - Matera)
Avellino del 1551, l’Annunciazione di Sant’Agnello del 1582 e l’Adorazione dei Magi di S.
Caterina a Formiello del 1597, rimane pressoché nebulosa.
Ciò che si sa con certezza è che la chiesa della SS. Annunziata di Brienza fu fatta edificare, nel
1571, dall’ordine francescano dei Minori Osservanti, insediatisi a Brienza agli inizi del
Cinquecento, in un monastero intitolato alla Vergine Annunziata al di fuori della cinta muraria della città.
Alla costruzione della nuova chiesa quasi sicuramente partecipò finanziariamente il signore del
luogo, Marcantonio Caracciolo, marchese di Brienza dal 1569, citato dalla storiografia locale
in qualità di benefattore della chiesa e committente della decorazione pittorica ad opera di
Girolamo Santafede.
Potrebbe dunque essere stato ancora lui a commissionare, prima della sua morte, avvenuta nel
1573, l’opera eseguita da Silvestro Buono.
Ecco che ancora una volta si spiega la presenza di opere napoletane di un certo livello in
Basilicata con l’esistenza di una classe egemonica locale dai gusti raffinatissimi, quasi sempre
strettamente e indissolubilmente legata agli ordini francescani che da tempo presidiavano il
territorio.
NOTE:
1
G. PREVITALI, La cona dell’altare grande della Cattedrale di Matera e la giovinezza di Fabrizio Santafede, in “Scritti in
onore di Ottavio Morisani”, Catania, 1982, pp. 293-301.
2
6
Secondo Claudio Strinati (C. STRINATI, La cattedrale di Matera, 1978, p.87): “Nel decennio che va dal 1570 al 1580
si era venuto puntualizzando, nella cultura artistica meridionale un tipo di quadro incomparabile rispetto alle analoghe
tipologie elaborate nell’Italia centrale e settentrionale. […]Questo tipo di struttura era stato inventato quando la pre-
fino al 1568-70. […]Poco dopo il 1570 erano cominciate ad apparire forti innovazioni formali in questo campo. Più o
meno in questi anni, per esempio, era nata un’opera fondamentale il Trittico di S. Maria di Montecalvario in Napoli
[…] Quest’opera importantissima nello svolgimento della pittura meridionale nasceva comunque da un’esperienza di
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senza nel Napoletano di pittori fiamminghi, divenne una prassi costante e non una sporadica apparizione come era stato
tipo vasariano in quanto lo stile rifletteva la concezione figurativa proposta dal Vasari in Napoli nel quinto decennio del
IBIDEM, 1978, pp. 85-93.
4
G. PREVITALI, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino, 1978, p. 137.
5
G. PREVITALI, La cona dell’altare grande della Cattedrale di Matera e la giovinezza di Fabrizio Santafede, in “Scritti
in onore di Ottavio Morisani”, Catania, 1982, pp. 293-301.
6
Questa datazione è stata messa in discussione da Leone De Castris (P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento
a Napoli 1573-1606 l’altra maniera, 1991, pp. 107-139)che l’ha corretta in 1598.
7
N. BARBONE PUGLIESE, Silvestro Buono, Eterno Benedicente e Pietà in “L’antico nascosto”, Catalogo della
Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Matera, 1987, pp. 65-69.
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secolo, elaborata da discepoli diretti e seguaci ancora nel decennio successivo […]”.
3
BIBLIOGRAFIA:
F. BOLOGNA, Roviale Spagnolo e la pittura napoletana del Cinquecento, Napoli, 1959;
M. ROTILI, L’arte del Cinquecento nel Regno di Napoli, 1976, pp. 127-152;
G. PREVITALI, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino, 1978;
C. STRINATI, La cattedrale di Matera, 1978, p.85-93;
GRELLE IUSCO, Arte in Basilicata, Catalogo della Mostra, Roma, 1981, pp. 88-90;
G. PREVITALI, La cona dell’altare grande della Cattedrale di Matera e la giovinezza di Fabrizio Santafede, in “Scritti in
onore di Ottavio Morisani”, Catania, 1982, pp. 293-301;
N. BARBONE PUGLIESE, Contributo alla pittura napoletana del Seicento in Basilicata, in “Napoli Nobilissima”, fasc.
III-IV, 1983;
N. BARBONE PUGLIESE, Silvestro Buono, Eterno Benedicente e Pietà in “L’antico nascosto”, Catalogo della
Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Matera, 1987, pp. 65-69.
P. LEONE DE CASTRIS, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in AA.VV., La pittura in Italia. Il
Cinquecento, a cura di G. Briganti, Milano 1988.
P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli 1573-1606. L’ultima maniera, 1991, pp. 107-139;
P. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli 1540-1573. Fasto e devozione, Napoli 1996.
F. SCHIAVONE, Madonna del Carmine con San Francesco d’Assisi e San Francesco da Paola, Francesco Curia, Colobraro
(MT), Chiesa del Convento di Sant’Antonio, in “Restauri in Basilicata 1993-1997”, Catalogo della Soprintendenza per
i Beni Artistici e Storici di Matera, 1998, pp. 54-57;
A. GRELLE IUSCO, Arte in Basilicata. Aggiornamenti all’edizione del 1981, Ristampa anastatica, 2001.
7
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