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GraziaSanta D.
&
Silvia Grimaldi
Quegli sfigati
della IV G
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isbn
978-88-548-7613-2
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I edizione: settembre 2014
Stavo scrivendo tutt’altro, ma questo è
venuto fuori quasi di prepotenza. I figli,
si sa, vengono sempre a modo loro e al
loro tempo.
Dedicato a chi va a scuola e a chi ci è
andato. A chi ci ha lavorato e chi si
prepara a lavorarci.
Premessa
In questo libro si possono distinguere due parti.
Consideriamo dapprima la parte relativa a lezioni
e commenti, cioè l’Appendice a cura di Silvia Grimaldi. Siamo qui nell’ambito della realtà: le lezioni,
letture, analisi di brani letterari esprimono opinioni
personali ma sono frutto anche di studi e corsi. Anche l’ambito biografico è qui aderente alla realtà.
Nella parte narrativa, il romanzo vero e proprio, la
narrazione è a due voci.
Narrazione in terza persona, che riferisce le vicende di Santa come sono state raccolte da Silvia Grimaldi. In questo caso la narratrice assume il punto
di vista della protagonista, anche se costei, sia detto
fra noi, fin da ragzzina doveva essere una bella rompiscatole.
Forse sarebbe stato necessario considerare i fatti anche dal punto di vista di quelli che avevano a che fare
con lei.
In altri momenti la voce di Santa emerge in prima
persona, a narrare le vicende fino all’epilogo, abbastanza drammatico.
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GraziaSanta D. & Grimaldi
Si tratta, dopotutto, di un romanzo storico e di formazione, che, fatte le dovute proporzioni, appartiene
alla stessa categoria de I Promessi Sposi.
Valgono quindi le considerazioni sull’argomento dei
rapporti fra verità e invenzione, a suo tempo studiate
e messe in pratica da Alessandro Manzoni. Perciò i
luoghi e gli ambienti possono essere abbastanza riconoscibili, reali, anche se presentati in fasi e condizioni
da riferirsi a tempi passati.
Così pure storicamente definiti sono gli elementi di
metodologie educative e scolastiche, nelle varianti
che si sono succedute negli anni dal periodo dell’ultima guerra mondiale fino a oggi.
Sono anche reali le opere artistiche, letterarie, filmiche e di studio cui si fa riferimento; così pure alcuni
personaggi che possono essere considerati pubblici.
I fatti e i personaggi del romanzo, invece, sono frutto
di invenzione e di rielaborazione fantastica del ricordo e del sogno.
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Breve nota sul titolo del libro
Il termine “sfigati” è di uso abbastanza recente e non
era usato certo negli anni ‘60. Termine apparentemente volgare e gergale, forse può trovare una origine nobile, addirittura risalente a Dante.
Potrebbe infatti derivare da una espressione metaforica che troviamo nella Divina Commedia, precisamente Inferno, canto XV, versi 61-66.
Dante riceve una predizione da Brunetto Latini, suo
antico maestro, riguardo alla malvagità dei fiorentini.
Ma quello ingrato popolo maligno,
che discese di Fiesole ab antico
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.1
1. Spiegazione letterale dei versi: Ma questo popolo ingrato e maligno, che
anticamente fu originato da Fiesole, e ancora ha il sapore di pietre e montagne,
ti si farà nemico a causa del tuo onesto operare, e ciò è cosa naturale, dato che
non è conveniente al dolce fico cercare di dare frutti in mezzo agli aspri e spinosi alberi di sorbo.
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Quindi la persona onesta, intelligente e capace è qui
indicata con la metafora “dolce fico”. La versione
“figo”, oggi prevalente nel senso di dotato, pare derivare da influsso provenzale.
Per cui, dalla mancanza di dette positive qualità potrebbero derivare le espressioni quali sfiga, sfigati e
simili, a significare persone e situazioni prive di carattere, di riuscita e di fortuna.
Il termine sfigati è stato qui usato per definire i ginnasiali novellini degli anni ‘50 e ‘60, timidi e soggetti
a batoste e sofferenze.
Ma all’epoca si sarebbe invece usato il termine “imbranati”, e infatti il primo titolo del libro era Quegli
imbranati della IV G.
Si è poi preferito il termine sfigati come più adatto
ai lettori di oggi, più incisivo ed anche più eufonico
nel titolo.
Attenzione, comunque, a quei versi di Dante, che in
effetti si possono adattare anche alla situazione vissuta dalla protagonista nell’ultimo anno come docente.
Se vogliamo considerarla come un dolce fico.
A noi personalmente, forse per motivi salutari e dietetici, piacciono molto di più le sorbe dei fichi.
E si adattano anche di più al nostro carattere.
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CAPITOLO PRIMO
Primo giorno di scuola
Quella notte, fece perfino il classico sogno di inizio
anno scolastico.
Cercava, nei corridoi, scale e sale professori di una
grande scuola, la sua classe, quella dove avrebbe dovuto fare supplenza.
Aveva paura di essere in ritardo. Bella figura, essere
in ritardo il primo giorno di scuola!
Non sapeva se fosse peggio per un’alunna o per una
professoressa, un ritardo di questo genere.
Forse per tutte e due, dopotutto era sempre un mettersi in evidenza sgradevolmente, a meno che non si
fosse uno di quei fortunati individui che hanno sempre la parola, il sorriso e la battuta pronta e non si
sentono per niente a disagio in simili situazioni.
Le risuonò lontano, in modo indistinto, una frase nella mente, un frammento: “Lo vedi? È così che si deve
essere!”
Non ricordava assolutamente chi avesse detto una
cosa simile e quando. Provava però come un fastidio,
un dolore sordo nell’animo.
E insieme uno strano senso di colpa.
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Apprese, da una sorta di vicepreside, che la sua classe, dove aveva le prime due ore di lezione, era la
terza A.
E poco dopo riuscì a fare il suo ingresso nella classe, che era una specie di vecchia cappella con banchi quasi chiesastici tutti disordinatamente assiepati
intorno alla cattedra, occupati da ragazzi di circa
diciassette anni, vestiti con berrettini lunghi di maglia, da gnomi, calzini spaiati e a punta, maglioncini
a righe, tutti che fumavano e ciccavano con aria svagata, assonnata.
Non diedero segno di capire che lei fosse la docente,
eppure, di sicuro, aveva almeno quaranta anni più di
loro.
Pigramente qualche ragazzo accarezzava le spalle della sua ragazza o si scambiavano cicche di gomma filanti, o si baciavano in modo bavoso ma seducente,
con un lieve risucchio.
C’era un odore caratteristico e una lieve nebbiolina,
che non avrebbero dovuto esserci: li riconosceva abbastanza bene, nonostante la sua incrollabile virtù.
Ma dopotutto era un’insegnante messa alla prova da
decenni di generazioni contestatarie, non le facevano
certo paura simili situazioni.
Mentre passava tutti la ignorarono e solo una vocetta
fece una osservazione sulla sua capigliatura fluente e
da poco colorata con l’henné.
«Deve essere appena andata dal parrucchiere!»
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Quegli sfigati della IV G
Ma non ne fu toccata più di quel tanto.
Si fece largo, con cortese fermezza, ma amichevolmente, tra quei giovani corpi ammassati e un po’ sudati, anche perché, decisamente, quei maglioncini e
quei berrettoni erano troppo caldi per il 12 settembre.
Prese posto alla cattedra, senza che nessuno si spostasse, anzi le si accalcavano addosso tranquillamente,
ma questo non le dava nessun disagio.
Ora si sentiva tranquilla, a posto e sicura di dominare
la situazione nel modo migliore.
Così, senza nessun preambolo, cominciò a recitare
lentamente, a memoria, iniziando a voce bassa e misteriosa e man mano la voce aumentava di volume
ed assumeva diverse intonazioni. Era il primo canto
della Divina Commedia.
Tutti ascoltavano, sereni, continuando le loro personali occupazioni e manipolazioni, e questo a lei non
dispiaceva, era contenta per loro e ci stava bene. Nelle sue classi avevano sempre regnato l’amore e l’amicizia, anche dopo piccoli screzi iniziali.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita…
«In genere questi versi vengono interpretati come lo
smarrimento nella selva del peccato. Io penso che si
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tratti anche di un periodo di grave crisi nella vita di
Dante, in cui egli non sa quale sia la strada da prendere, i princìpi da seguire, i compagni da scegliere…»2
E continuava, come decine e decine di volte aveva
fatto, tra lo stupore dei giovani allievi ammirati per la
sua memoria.
Ma questi non si meravigliarono per nulla e anche di
questo fu contenta.
Però, in mezzo alla lezione accolta con tanto buon
garbo da quella classe fumogena, alloppiata, qualcuno bussò alla porta e lei pensò ad una ispezione delle
autorità per l’insolita tranquillità dei discenti.
Invece entrò una specie di giovane missionaria con
un fascio di opuscoli religiosi in mano, che invitò a
partecipare agli esercizi spirituali due volte alla settimana, e le chiese gentilmente se potesse dare intanto
lettura di uno di quei fogli alla classe.
Accettò e si accorse con gioia che la vista le si era
snebbiata completamente e che riusciva a leggere
bene come un tempo.
“Lo vedi, dovevo proprio tornare a lavorare a scuola!”
si disse tutta contenta e cominciò a leggere a voce alta
il miracoloso opuscoletto di argomenti religiosi.
Ma a questo punto ci fu come una brusca e buia interruzione della coscienza e all’improvviso si ritrovò
2. Per la lettura e spiegazione del I canto della Divina Commedia, vedi in
fondo al libro.
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distesa in un lettuccio che sembrava di ospedale, in
camicia da notte, e ad un lato le stava una delle sue
figlie, sorridente e più giovane dell’attuale, lei pure
in pigiama, alla quale chiese cosa fosse successo.
«Ti sei addormentata di botto, come fai spesso, lo sai,
e ti hanno portata qui perché non ti svegliavi».
Si sentiva desolata, privata della classe, e della lezione,
umiliata, ridotta di nuovo alla condizione di malata,
impotente. Così si svegliò di colpo e vide che erano
già le cinque, e la convocazione per la supplenza era
per le otto.
Aveva pensato che non si sarebbe agitata per niente,
dato che era una esperienza lavorativa a perdere, non
si aspettava più di essere chiamata per le supplenze,
ci aveva rinunciato, solo l’anno prima aveva ancora
pianto ogni volta che doveva rifiutare una chiamata
per motivi di salute, e ne erano arrivate davvero tante. Poi si era abituata all’idea.
E invece era agitata, riuscì a fare la doccia e una colazione leggera e gli altri preparativi necessari, e uscirono di casa, lei e il marito che la accompagnava,verso
le sette e venti. Ma quando mai era andata a scuola
accompagnata, dopo il quarto ginnasio, da ragazzina,
mai più.
Da decenni era sempre lei che accompagnava gli altri,
da quando aveva preso la patente, a diciannove anni, e
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non aveva smesso mai, solo in quest’ultimo periodo,
ma ormai erano quasi tre anni…
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Lo vedi? È così che si deve essere!