Domenica
il fatto
Harvard, la vendetta delle streghe
La
di
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
VITTORIO ZUCCONI
il reportage
Repubblica
Le scuole divise dell’Irlanda del nord
JOHN LLOYD
Br
Trent’anni
dopo
Fabbrica e sindacato,
centro sociale ribelle,
lotta armata
clandestina
Le tre vite
del compagno R,
FOTO PAOLO PEDRIZZETTI GRAZIA NERI
l’ultimo terrorista
JENNER MELETTI
S
PADOVA
uona presto la sveglia al secondo piano di via Volturno 23/1.
Un quarto d’ora dopo le cinque bisogna essere in piedi. Appena il tempo per lavarsi la faccia poi giù dalle scale, cercando
di non fare rumore, perché nell’appartamento di sotto c’è la
signora Sriyanikontha, arrivata dal Pakistan, che ha i bambini piccoli. Un
caffè veloce al Rosy’s bar proprio di fronte a casa (a quell’ora i giornali ancora non sono arrivati) e via in macchina, dieci chilometri verso Vigonza.
Alla “Fin. Al”, lavorazione trafilati di alluminio, il turno del mattino inizia
alle sei. Ma è bello entrare in fabbrica assieme ai compagni che hanno gli
occhi ancora pieni di sonno. «Ciao Davide», «Davide, ci vediamo in mensa?». È bello perché qui Davide non è solo un operaio e nemmeno solo un
sindacalista. È il vero leader della fabbrica e quando c’è l’assemblea tutti
l’ascoltano in silenzio e gli danno ragione. Ha fatto il pieno di voti anche
nell’ultima elezione per la Rsu, la Rappresentanza sindacale di base. «Solo tu sei capace di strappare qualcosa ai padroni. Davide, tu sì che conosci
le leggi». Davide Bortolato, trentasei anni compiuti il 7 novembre, quando entra alla “Fin. Al” è «il compagno della Fiom», quello che ha finito il liceo scientifico Curiel a pieni voti e poi è andato a lavorare perché «non serve essere i primi della classe a scuola, bisogna esserlo in fabbrica».
(segue nelle pagine successive)
GIORGIO BOCCA
i luoghi
hisono questi nuovi terroristi? Diversi o identici a quelli degli anni Settanta? Certamente molto simili, figli della stessa incapacità di adeguarsi al mondo come è. Ho
chiesto trent’anni fa a Giorgio Semeria, brigatista del
gruppo storico, ciò che potrei, che vorrei chiedere oggi
ai terroristi di ultima generazione: abbiamo età diverse, storie diverse, ma siamo cresciuti nello stesso Paese, letto gli stessi libri, gli stessi giornali, partecipato agli stessi mutamenti della produzione e delle tecniche, agli stessi andirivieni della storia... e dunque come è possibile che abbiamo visto il mondo, la vita in modi così diversi? «Non so dirtelo — rispose allora Semeria — so solo che avevo nausea dello stato delle cose, terrore di doverlo accettare, di essere condannato a vivere in quella gabbia».
Guardo i nuovi terroristi, leggo le loro dichiarazioni, le loro storie e
riconosco la patologia di quelli che sono come sono e non possono
rinunciare a quello che sono, impazienti, ossessivi, presuntuosi, decisi a ridefinire tutto, la società, se stessi, la produzione, il tempo libero. Sicuri delle loro analisi quanto più sono lontane dalla realtà,
marxisti quanto più sideralmente lontani dal marxismo, dallo storicismo, dal materialismo, senza accorgersene fichtiani idealisti, del tipo «posso ciò che voglio, se dici non posso è segno che non vuoi».
(segue nelle pagine successive)
Mosca, i fantasmi della vecchia Russia
C
DEMETRIO VOLCIC
cultura
Dc-Pci, la guerra fredda di celluloide
FILIPPO CECCARELLI
la lettura
Il gioco del calcio, miseria e nobiltà
EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI
le tendenze
Il reggiseno, cent’anni di vita spericolata
LAURA LAURENZI
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
la copertina
Brigatisti 2007
Le tre vite del compagno R
JENNER MELETTI
(segue dalla copertina)
a Davide Bortolato è un uomo
che unisce molte vite. È il
«compagno Davide», e basta,
quando entra al Gramigna, il
“collettivo politico autogestito” dove da più di vent’anni si
sogna la rivoluzione e si organizzano cortei con
passamontagna in testa e manici di piccone in
mano. E nell’ultimo anno Davide Bortolato è
diventato anche «il compagno Roberto», capo
clandestino del nucleo padovano delle nuove
Brigate rosse. Ha cercato di vivere queste tre vite — operaio sindacalista, compagno antagonista nel collettivo, sergente dell’esercito rosso
— cercando di non farle incontrare mai. Ha
dormito poco, ha macinato migliaia di chilometri, ha raccontato molte bugie. Anche alla
donna che sta con lui, Manuela Musolla, che è una funzionaria dirigente della Fiom
provinciale. I Nocs hanno
preso Davide a casa della
donna, alle cinque di lunedì.
Lo hanno ammanettato, incappucciato e portato via. Solo in quel momento la signora ha scoperto che Davide,
«affettuoso, sempre gentile»,
era un capo delle nuove Br. È
riuscita a dire soltanto: «Sono
sconvolta».
Adesso che è stato arrestato, Davide Bortolato ha perso
anche il suo vero nome. Nel
“comunicato sindacale” approvato dai centodieci lavoratori della “Fin. Al” di lui si dice soltanto che è «un componente della Rsu coinvolto nei
fatti contestati dalla magistratura di Milano» e si esprimono ovviamente «rabbia,
amarezza e sorpresa». Eppure qui in fabbrica — era entrato quindici anni fa — Davide
Bortolato ha passato le sue
giornate più belle. I turni iniziano alle sei del mattino, alle
due del pomeriggio e alle dieci di sera. Un altro caffè alla
macchinetta, prima di timbrare il cartellino, poi il lavoro di taglio e di assemblaggio
dell’alluminio per gli infissi.
«Nel pre-contratto del 2004 Davide ha organizzato settanta ore di sciopero ma è riuscito a
conquistare un aumento di centoventi euro,
trenta in più di quelli ottenuti da Cisl e Uil che
avevano fatto l’accordo separato con il governo Berlusconi».
Sono importanti, trenta euro al mese. Con i
turni, se hai più di dieci anni di anzianità, porti a casa millecentocinquanta euro. Se non fai i
turni, arrivi appena a mille. Per chi inizia alle
sei, alle undici c’è la pausa di mezz’ora per la
mensa. Con un euro, pasta al ragù, pollo e verdure. Nel documento del Comitato politico
per la ricostruzione del Partito comunista, trovato dietro l’armadio nell’appartamento di via
Volturno, c’è scritto che si può entrare nel sindacato ma senza sostenerlo davvero. L’iscrizione serve solo a reclutare i militanti più frustrati o rabbiosi. Davide non obbedisce, non
segue la linea. Per la Fiom si impegna davvero
e i risultati delle elezioni in fabbrica, a voto segreto, lo dimostrano. «Lui era il leader con cui
parlavi di piattaforma e contratto ma anche
della strage di Erba, degli operai giovani che
quando finisce il turno scappano come se
uscissero di galera, di questo Tfr che chissà come andrà a finire». La fabbrica sta cambiando,
ma unisce ancora. E soprattutto in mensa parli di tutto. «Uno come Davide aveva successo
perché era preparato su tutto, tranquillo e
ad un bancomat, per finanziare l’organizzazione. Dovrà fare sopralluoghi continui, prima di
avere l’ok dei milanesi.
Senza soldi non si fa la rivoluzione e Bortolato si dà da fare, come se organizzasse il versamento delle quote sindacali alla Fiom. «Noi di
Padova possiamo contare su un giro di una
ventina di compagni che possono contribuire
a livello economico. Un compagno a mille
euro al mese secondo me ce la può fare…
Bisogna cominciare ad essere più regolari nel pagamento delle quote. Bisogna
essere più stabili… e risparmiare.
Mobilito tutti: servono i sghei». Porta millecinquecento euro ad Alfredo Davanzo, clandestino all’estero. Altri mille euro per
«finanziare il suo rientro in
Italia». Bortolato non si lamenta mai. Non è come
Vincenzo Sisi, cin-
Un solo “amore vero,
per la rivoluzione”
STAGIONE DI PIOMBO
Davide Bortolato, 36 anni, sindacalista
e “nuovo brigatista”. Qui sopra, il muro
esterno del centro sociale “La Fucina”
di Sesto San Giovanni. Per la copertina
e come cornice delle pagine è stata
utilizzata la foto di Paolo Pedrizzetti
(Grazia Neri) scattata nel 1977 durante
gli scontri in via De Amicis, a Milano
IMAGES
FOTO GETTY
Famiglia di ceto medio,
liceo con ottimi voti
ma niente università
“perché non serve
essere i primi
della classe a scuola,
bisogna esserlo
in fabbrica”, così come
vent’anni prima di lui
aveva fatto il brigatista
Roberto Ognibene
FOTO ANSA
FOTO FOTOGRAMMA
M
sempre pronto a darti una mano».
Anche quando diventa “Roberto” e si incontra con «Prof., Sberla e Tyson» che stanno reclutando l’esercito rosso, Davide Bortolato cerca di essere preparato e tranquillo. Ma non è facile diventare brigatista, si subiscono anche
umiliazioni. Ci sono i ragazzi più giovani, ma
anche quelli più anziani di lui. Come Claudio
Latino detto Gallinella, cinquant’anni e Bruno
Ghirardi, cinquantuno anni, che a Milano fanno i capi e guardano un po’ dall’alto in basso
quelli che arrivano da Padova. Sono già stati
clandestini, hanno assaggiato la lotta armata,
hanno provato la galera. Durante un incontro
con Bortolato, parlano di un attentato contro
una casa di Berlusconi, discutono di cosa si
debba fare contro Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro. «Non è che gli puoi fare nient’altro che farlo fuori». A “Roberto” invece si limitano a chiedere di trovare un posto dove provare le armi, e soprattutto di organizzare un furto
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Davide Bortolato ha trentasei anni. Col nome di “Roberto”
è il capo del nucleo padovano delle nuove Br. Ma è anche
il sindacalista Fiom che guida gli scioperi nella fabbrica
di trafilati d’alluminio dove lavora. E anche il “compagno”
che dà la linea ai ragazzi ribelli del Centro sociale Gramigna
quantaquattro anni, che quando riceve un rimborso di mille euro è tutto felice. «Così metto a
tacere i familiari. Loro non capiscono che la rivoluzione ha un costo».
Si fa il colpo al bancomat, finalmente. Ma
questi apprendisti del terrore, che si infilano in
bicicletta contromano e cambiano strada decine di volte quando hanno un appuntamento,
non sanno che sulla Ford Kia di Bortolato, e non
solo su quella, la Digos ha messo un Gps satellitare e controlla ogni movimento. Così, quando si trovano davanti al bancomat di Albignasego e si mettono a siliconare la macchina dei
soldi per farla saltare con il gas, i poliziotti fanno suonare l’allarme e mettono tutti in fuga. Per
una volta, il compagno “Roberto” perde la calma. «Porca puttana, tutta sta fatica per fare un
cazzo. Mi girano i coglioni. Adesso facciamo
qualcosa di politico».
La strada verso il terrorismo è tutta in discesa. Si provano le armi nelle campagne di San
Martino di Venezze. Bortolato accompagna in
auto quelli che sparano e poi controlla che non
arrivino «gli sbirri». Ma non si accorge che i poliziotti sono già lì: «Dalle ore 17,50 alle 18 del 19
novembre 2006 si sono sentite brevi e ripetute
raffiche di mitra». Bortolato si esalta. Al ristorante cinese Song He di Milano, in una delle
tante «riunioni strategiche» fatte a portata di
microfono direzionale o di microspie della polizia, dirà a compagni: «Gli strumenti suonano
bene». Ora anche i milanesi si fidano dei padovani. Si possono decidere gli obiettivi «strategici», fra i tanti di cui si è discusso per mesi. Ma arriva l’ora dei reparti speciali. Porte sfondate,
“bombe” che assordano e abbagliano, pistole
puntate. Alla stessa ora, tutti i nuovi soldati dell’esercito rosso si trovano buttati giù dal letto e
ammanettati prima che riescano a capire cosa
stia succedendo.
Per comprendere perché il «compagno della Fiom» diventi anche il «compagno Roberto»
I brigatisti Settanta, tic e manie visti da vicino
Maglie colorate e doppiopetti
così il terrore litigava sul look
GIORGIO BOCCA
(segue dalla copertina)
il terrorista, il brigatista vuole tutto e subito, vuole soprattutto uscire dalla vita come è, avere una vita fuori dalla norma, sordo a ogni richiamo della ragione, imprudente quanto più cerca di essere prudente, uno che entra e esce dalle gabbie che fabbrica con le sue mani. Il terrorismo è comprensibile solo perché esiste, evento irresistibile quando si alza nel mondo il vento ardente del furore e il terrorista si alza e va alla morte degli altri e sua. Mi ha raccontato Lauro Azzolini: «Ero a Reggio Emilia da ragazzo e andavo in giro in camioncino a distribuire bombole di gas. Portavo con me anche una bomboletta
di vernice rossa spray e scrivevo sui muri dappertutto: W le Brigate rosse. Di
brigatisti allora a Reggio ce ne erano tre, Ognibene, Bonisoli, Franceschini.
Capirono che c’ero anche io e io andai con loro».
È la incontenibile sindrome terrorista che li fa incontrare e che se li trascina dietro
verso la inevitabile cattura, la inevitabile galera. Diversissimi fuori, identici dentro. Ricorda Morucci: «Il primo incontro con i compagni del nord lo ebbi a Milano. Io e Adriana arrivammo da Roma su un’auto spider color argento, in jeans e maglioni colorati.
Ognibene e Franceschini, i compagni del nord, indossavano dei doppiopetti scuri
come impiegati delle pompe funebri. Capii che non vedevano l’ora di separarsi dalla nostra imprudenza romanesca».
La follia comune teneva assieme le Br e gli antichi vizi dell’uomo si riproducevano nel loro moralismo settario. Si stenterà a crederlo ma anche nel terrorismo, anche nel quotidiano rischio della morte le ambizioni del comando, dell’affermazione personale, le debolezze personali restavano e si nascondevano. C’erano due
donne nella colonna torinese che più diverse non potevano essere: la Vai, aggressiva al massimo, uscita da anni di miseria e di malattie, con un rancore sociale divorante; e la Ponti, un donnino grazioso e feroce capace di uccidere senza la minima esitazione che si lamenta perché il “logistico” non vuole pagarle un
sapone speciale per la sua pelle delicata. Un giorno la sentono dire: «Le Br mi
hanno aperto degli spiragli, certe cose della vita non mi bastano più». Ha piantato un marito infermiere per far carriera nelle Br e la fa con fredda determinazione. Micaletto, il comandante della colonna genovese, la capisce di istinto e
glielo dice, quando muore Piancone, il suo compagno, e lei non ha un momento
di turbamento: «Tu sei contenta che il tuo uomo sia caduto, così puoi entrare
nella direzione del fronte». Per gli intellettuali carichi di prudenze e di dubbi
pratici Micaletto è la quintessenza del brigatista, è «un brigatista per intenditori», come dice il professor Fenzi. «Parlava pochissimo ed era sempre molto
ironico. Non rispondeva volentieri, a volte canticchiava: “È inutile che bussi,
qui non ti risponderà nessuno”, ma comunicava sicurezza, aveva la capacità
di essere lui l’organizzazione. La impenetrabilità delle Br genovesi è stata tutta opera sua».
E nelle Br c’era Mario Moretti, un personaggio drammatico che ha accettato di parlare con me del tema centrale, del rovello di un terrorista: la rivoluzione ti giustifica se uccidi? «Moretti — gli chiedevo nei nostri incontri a San Vittore, quando cercai di capire il terrorismo — ma era proprio necessario uccidere l’avvocato Croce solo perché presidente dell’ordine degli avvocati torinesi al tempo del primo processo alle Brigate rosse? Bisognava proprio piantargli
una pallottola in testa per dissuadere gli avvocati torinesi dal partecipare al processo?». «Noi — rispondeva — non abbiamo ucciso l’avvocato Croce come persona, ma la sua funzione». È un ragionamento politico a cui un terrorista non può
rinunciare ma è un dubbio che si porta dietro insoluto per tutta la vita.
E
bisogna andare nel capannone del Gramigna
(«l’erba cattiva non muore mai»). Davide Bortolato entra qui quando è ancora al liceo e non
si è mai allontanato. Questo è il posto dove «il
Proletariato non dimentica» e anche adesso
che sono stati trovati i kalashnikov si continua
a dire che «il vero terrorismo è costruire basi di
guerra». Si fanno anche feste, ogni tanto. Per la
Befana, «Bruxemo ea vecia», bruciamo la vecchia, che naturalmente è Romano Prodi. Un
paio di cinquantenni ricordano a ragazze e ragazzi i bei tempi antichi, quando Padova voleva dire rivolta e ogni notte bruciavano i fuochi
dell’Autonomia.
Ma i “miti” non sono Toni Negri e soci. Tutti
invece conoscono la storia di Walter Maria Greco detto Pedro, autonomo padovano ucciso a
Trieste il 9 marzo 1985 dalla polizia. «Hanno
detto che era armato ma quando è caduto a terra hanno visto che in mano aveva solo un ombrello». Tutti conoscono Nicola Pasian, «che ha
vissuto una vita intensissima in pochi anni».
Prima autonomo, poi latitante, sempre ribelle.
Morto in un incidente nel 1997. «Guidava l’auto senza patente, non accettava nessuna regola». È qui, nel capannone con Che Guevara sulla facciata, che «si tramanda l’amore vero, quello per la rivoluzione».
Davide Bortolato — famiglia di ceto medio, genitori separati, tre fratelli, madre segretaria di scuola media e consigliere comunale a Vigonza — rinuncia all’università per
andare in fabbrica perché così avevano fatto,
quasi vent’anni prima di lui, i brigatisti rossi
come Roberto Ognibene. E Bortolato passa il
testimone ad altri ragazzi che hanno poco
più di vent’anni e come lui hanno lasciato il
liceo per «indossare la tuta da operaio». «Li
vedi lì fuori dal centro, tengono addosso la
tuta anche quando vanno a una riunione o a
bere birra. La tuta è un simbolo, per qualcuno una divisa». Sono una cinquantina, i militanti. A comandare è «il collettivo». La militanza è la ragione di vita. Occupazioni di case, manifestazioni a volto coperto. Vanno
anche all’estero: sono andati a Praga a sfasciare un Mc Donald’s. Ragazzi di vent’anni
che vivono per la politica, per il comunismo.
L’amore arriva solo dopo. «Il collettivo decide se la ragazza scelta è quella giusta. Certo,
puoi sempre andartene, ma se vuoi essere
del Gramigna devi sapere che l’individuo
non può decidere da solo». Tredici sfratti, a
volte con le ruspe, con amministrazioni di
destra e di sinistra, «ma noi risorgiamo dalle
nostre ceneri». L’importante è trovarsi, dopo
la fabbrica, a discutere del Chapas o dell’imperialismo americano e annunciare a tutti
che «la guerra non è solo in Afghanistan, in
Iraq o in Libano ma è anche a casa nostra».
Davide Bortolato eredita dai «vecchi» un
testimone che scotta le mani e brucia la vita.
Senza rimorsi, lo passa a chi ha vent’anni
adesso. Ai fratelli Alessandro e Massimiliano
Toschi (sono fra quelli che hanno lasciato la
scuola) che ora come tutti gli altri si trovano
accusati di «partecipazione a banda armata
con finalità terroristiche e di eversione dell’ordine democratico». Testimone passato
anche ad Amarilli Caprio, studentessa poi
operaia che a ventisette anni viene mandata
all’università statale di Milano ma solo per
cercare «nuove reclute». Con lei il fidanzato
Alfredo Mazzamauro. Per loro, davanti ai milanesi, garantisce Davide Bortolato. «Sono
fra i più fervidi militanti del Gramigna».
Nel giardino della casa popolare di via Volturno (Davide Bortolato aveva occupato un
appartamento, poi l’ha avuto in affitto dopo
una sanatoria) sono spuntate le prime viole.
Non c’erano, lunedì, quando i poliziotti sono
venuti a prendere Massimiliano Toschi che
abitava nello stesso appartamento del capo.
Una sistemazione comoda, così si poteva
partire assieme, a qualsiasi ora, per un sopralluogo a un bancomat o per controllare il
casolare con i kalashnikov. E poi bisogna tenerseli vicini, i ragazzi da crescere.
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il fatto
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
Nel 1692 per impiccare tre cittadine di Salem accusate di avere scambi
con il Maligno ci si rivolse alla neonata università sulla riva del fiume Charles
già riconosciuta come indiscussa autorità. I professori benedissero l’esecuzione
Oggi, dopo oltre tre secoli, la scuola più importante del mondo,
“l’incubatrice della virilità americana”, abbatte il suo antico
Rivoluzioni
tabù: Catherine Drew Gilpin Faust è nominata presidente
UNA PIOGGIA DI NOBEL
Tra i 43 harvardiani insigniti del premio, sono stati
Nobel per la pace Theodore Roosevelt nel 1906 ed Henry
Kissinger nel 1973; Nobel per la letteratura T.S. Eliot
nel 1948. Nel 2005 il professor Roy J. Glauber, docente
ad Harvard di teoria dei quanti, ha vinto il Nobel per la fisica
VITTORIO ZUCCONI
BOSTON
L
e prime tre impiccate furono
donne. Nessuno, in quel villaggio di puritani chiamato Salem
in omaggio a Jerusalem, si era
meravigliato quando tre donne, Titùba la
schiava nera, Sarah Good e Sarah Osborn, le
sue succube e complici, avevano ammesso i
propri commerci carnali con il Maligno, nell’anno del Signore 1692. Da oltre due secoli,
da quando Papa Innocenzo VIII aveva pubblicato nel
1487 il Malleus Maleficarum, il martello delle streghe, ogni buon cristiano,
cattolico o protestante che
fosse, sapeva bene che le
donne erano portate alle
consorterie sataniche. «Essendo che il sesso femminile è preoccupato di faccende della carne, perché è nato da una costola d’uomo e
le femmine sono animali
imperfetti e corrotti».
Ma i bravi Puritani di Salem volevano essere certi. Per mettersi la coscienza a posto, si rivolsero a dottori indiscussi della legge e della fede e si affidarono
a quel seminario-università da pochi anni
aperto nella vicina Boston ma già investito
da un’aureola di indiscussa autorità: Harvard. E il giudizio estratto dai testi e dalle opinioni dal presidente della neonata Università, il reverendo Increase Mather, e dal figlio, l’altrettanto reverendo Cotton Mather,
non lasciarono dubbi. Tutti gli indizi, le manifestazioni, le convulsioni, i cedimenti alla
carne di quelle tre donne provavano la loro
colpevolezza. La schiava Titùba e Sarah
Osborne furono impiccate. Sarah Good, che
era incinta, fu incarcerata in attesa del parto.
Il neonato morì di freddo in cella. La puerpera fu impiccata. E il primo omicidio di americane uccise nel nome della lotta al demonio, fu consumato con la benedizione dell’Università destinata a divenire la più celebrata e premiata al mondo. Quell’Harvard
che ha come motto, nel sigillo araldico, tre
sillabe: Ve-ri-tas.
Trecentoquindici anni, quanti ne sono
trascorsi dall’impiccagione di quelle donne
alla scelta di una donna per guidare Harvard
fatta in questi giorni, possono sembrare molti per assistere alla rivincita delle “streghe”.
Ma per un’istituzione che predata di un secolo e mezzo la nascita degli Stati Uniti d’America e che, come disse forse scherzando
un suo noto “alunno” e insegnante, Henry
Kissinger, «sicuramente sopravviverà anche
alla fine del mondo», sono una fulminea rivoluzione, uno scatto bruciante di sensibilità. Quando ci si crede, e si è, l’ombelico del
sapere, del potere e della veritas, ammettere di avere
avuto torto nel giudicare le
donne può anche richiedere tre secoli. La Chiesa cattolica ne ha impiegati altrettanti per ammettere,
con Papa Wojtyla, che in
fondo in fondo Galileo non
aveva tutti i torti. E la Harvard University è quanto di
più vicino a un Vaticano l’America possieda e veneri,
per il suo immenso e crescente potere temporale,
per la impronta che si allarga sulla società americana.
Con sette presidenti degli Stati Uniti e quarantatré premi Nobel tra i propri cardinali,
compresi due italiani, Rubbia e Giacconi, comunque transitati anche loro da Harvard, un
poco di spocchia cardinalizia e autoreferenziale è comprensibile. Eppure, sorprendendo anche la scrittrice bostoniana e premio
Pulitzer, Ellen Goodman che «mai avrebbe
previsto una donna chiamata a guidare Harvard prima di una donna presidente», la storica cinquantanovenne Catherine Drew Gilpin Faust è stata la prescelta come nuovo Papa. Satana, se ne fosse capace, sorriderebbe
al pensiero che la prima femmina presidente dell’Università degli ex cacciatori di stre-
ghe porti il nome di Faust.
Se non fosse già defunto da centoventi
anni, certamente non sarebbe sopravvissuto a questa notizia quel presidente
emerito di Harvard e considerato il
creatore del suo trionfo nel ventesimo
secolo, l’insigne chimico e matematico Charles Eliot, che nel 1869 definì
l’insigne istituzione come «la incubatrice della virilità americana» e
buttò in scienza le tesi di Innocenzo VIII quando aggiunse che
«le donne hanno capacità mentali inferiori
agli uomini».
Sorpresissima sarebbe
rimasta
anche la
madre
della dottoressa
Gilpin
Faust,
che inv a n o
aveva
spiegato alla
figlia, nella Virginia natale, che «questo è un mondo che appartiene agli
uomini e prima ti rassegni, figlia mia, meglio è».
Né molto meglio si deve
sentire il presidente deposto, Lawrence Summer, già ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, che dannò il
proprio regno all’inferno
della political correctness
con una famosa osservazione sulle donne che non
possederebbero «le qualità
intrinseche» necessarie per
assumere una cattedra ad
Harvard. Dove ci sono, proporzionalmente, meno professoresse nelle facoltà di quante signore ci siano nell’amministrazione Bush, non accusabile
di sfrenato femminismo.
Tanta spasmodica, ammirata e
invidiosa attenzione per la più antica e incomparabilmente più ricca
università privata americana, con
una “dote” finanziaria di circa trenta
miliardi di dollari donati da ex alunni e
un costo annuale fra retta e alloggio vicino ai cinquantamila dollari per studente,
è ovviamente la conferma della unicità di
Harvard non soltanto nel panorama accademico americano, ma nella storia di questa
nazione. Se quel nome, Faust, è solo una
coincidenza, non lo è il fatto che la nuova
presidentessa sia una delle
massime specialiste di storia americana. Dunque, è
un caso unico di una storica chiamata a fare la storia,
e non più soltanto a scrivere di storia.
Sobbalzino pure sulle loro sedie gli studenti delle
altre celebri università
americane, le consorelle
della Ivy League, legate dai
rampicanti che ne coprono le facciate e dalla qualità
dell’insegnamento e dalla,
per noi italiani, sconvolgente disponibilità di mezzi economici
(Harvard ha la terza biblioteca nel mondo,
dopo la Library of Congress e la British Library). È un fatto che nessuna delle altre
grandi, dentro e fuori la “Lega dell’Edera”,
neppure Yale e Princeton che pure con essa
rivaleggiano formando il triangolo detto di
“Yarverton”, ha il prestigio assoluto dell’università creata, con i propri libri personali e i
propri soldi, dall’inglese John Harvard, un
religioso laureato a Cambridge ed emigrato
in questo terreno sulla riva nord del fiume
Charles ribattezzata, comprensibilmente,
Cambridge. Anche il Times di Londra, ingoiando l’orgoglio british per le sue Oxford e
Cambridge, ha definito Harvard e il vicino
L’ex rettore
disse che solo
gli uomini hanno
le “qualità
intrinseche”
IL FONDATORE
L’anno della fondazione dell’Harvard College
è il 1636. L’Università prende il nome dal primo
donatore, il ministro protestante John Harvard,
che alla sua morte lasciò una ricca biblioteca
e la metà dei suoi beni immobili
per quella carica
FAMOSI NEL MONDO
Molti gli ex-allievi
famosi: oltre allo
scrittore T.S. Eliot,
il compositore
Leonard Bernstein,
il vice di Clinton
Al Gore, il papà
di Jurassic Park
Michael Crichton
e il primo capo
di governo donna
pakistano
Benazir Bhutto
LE DONNE
Nel 1943, a causa della guerra
e dell’assenza di numerosi
insegnanti impegnati
al fronte, le ragazze
della sezione femminile
sono ammesse
all’interno
del campus
per seguire
i corsi
dei maschi
Sotto il motto
Veritas
ne potrebbe
campeggiare
uno più onesto:
Potestas, potere
19.789
studenti nel 2004
35%
Una donna al potere
iscritti di varie etnie
70%
23mila $
i borsisti
la borsa di studio media
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
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“Mo en of th merica o
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Sout l War”. È al 1672, ad
Civi idente, d laureato
pres n essersi
a no vard
Har
DAL CAMPUS ALLA CASA BIANCA
Sette presidenti degli Stati Uniti hanno studiato ad Harvard:
John Adams, John Quincy Adams, Rutherford B. Hayes,
Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, John
F. Kennedy e, da ultimo, George W. Bush (prima laureato
a Yale, come suo padre, e poi specializzato ad Harvard)
Mit, «le due migliori università del mondo».
Sotto il simbolo dei tre libri - tre Bibbie
- aperte sulle sillabe di Veritas, potrebbe campeggiare oggi un altro motto latino più onesto: Potestas, potere, perché potere - politico, finanziario,
scientifico - è ciò che oggi realmente Harvard vende in cambio dei
duecentomila dollari necessari
per una laurea quadriennale,
più le altre centinaia di migliaia
per i livelli superiori di master
e di dottorato. I duemila fortunati liceali
ammessi a
frequentare il primo
anno, sono il dieci
per cento
dei ric h i e denti,
c o scienti
di essere “la
crème
de la
crème” prodotta dalle
scuole superiori, poiché nessun mediocre
studente oserebbe
neppure tentare la fortuna. E se i meccanismi
di accettazione sempre
apparentemente meritocratici conoscono
purtroppo le solite eccezioni del favoritismo e
del familismo, come dimostrano i casi celebri di
John Kennedy, di John
Kerry e di George Bush,
mediocri studenti ammessi a Harvard o a Yale in forza
della family connection, i
prodotti della antica macchina crimson, cremisi, il colore ufficiale della scuola,
prendono titoli di studio nella
materia essenziale per avere
successo nella vita: la conoscenza di chi guiderà la nazione,
il suo governo, le sue aziende, le
sue università. La legge del «non è
importante che cosa conosci, ma chi
conosci» trova a Harvard la propria
massima espressione.
«Ad Harvard non diventerai un avvocato migliore», scrisse con la solita
punta di invidia malevola un avvocatoscrittore di grande successo, Michael Crichton, «ma conoscerai gli avvocati migliori. O, ancora meglio, incontrerai i futuri
clienti più ricchi». In una società ufficialmente senza classi e senza nobiltà ereditaria, le
università come Harvard
rappresentano quanto di
più vicino esista a un meccanismo di cooptazione e
di autoriproduzione del
potere e delle caste. Non è
un caso se i bostoniani di
più alto rango sociale, e
destinati ad Harvard, sono stati soprannominai
“bramini”. Chi vi vuole
accedere, deve imboccare fin dall’asilo le strade
giuste, e con asili privati
che ormai chiedono fra i cinque e i diecimila dollari all’anno per i bambini di tre
anni, la strada è sbarrata per la maggioranza ancora prima di avere imparato a fare
pipì nel vasino.
La popolazione americana nella metà inferiore dei redditi manda appena il dieci per
cento degli studenti nelle trenta università
top americane (su tremila) mentre il dieci
per cento più alto dei redditi copre il settantaquattro per cento degli iscritti. È più facile, relativamente, per un cittadino straniero trovare un posto, soprattutto nei corsi
post laurea, di quanto lo sia per un americano nato ad esempio nel Sud, perché la
presenza di dottorandi europei, asiatici,
africani, mantiene quell’aura di internazionalità che Harvard ricerca e che serve a coltivare il proprio prestigio internazionale.
Qui studiarono l’ammiraglio Yamamoto, lo
stratega di Pearl Harbor, e il presidente
francese Jacques Chirac, e vi tenne lezione
Romano Prodi.
Il sentimento di essere coloro che erediteranno l’America, e con essa buona parte
del mondo, non ha bisogno di essere coltivato o insegnato, perché dalle finestre dei
dormitori o dalle classi la testimonianza di
appartenere ai “bramini”
della terra è ovunque. Da
queste stesse piazze e strade oltre il fiume Charles,
che divide Cambridge da
Boston, uscirono sette presidenti: John Adams, laureato nel 1775, quando ancora le graduatorie fra gli
studenti erano stabilite
non in base ai voti ma «attraverso il rango sociale
delle loro famiglie»; suo figlio (a proposito di famiglie) John Quincy Adams;
Rutheford Hayes; Theodore Roosevelt; suo cugino Franklin Delano
Roosevelt; John F. Kennedy (che non riuscì
a completare però il master); e George W.
Bush. E se per il futuro incombono i rischi di
una Yalie, una laureata in legge a Yale come
Hillary, o di un prodotto della New York
University come Rudy Giuliani, Harvard ha
un solido cavallo in gara in Barak Hussein
Obama, il primo studente di colore chiamato a dirigere la Harvard Law Review, la rivista di studi di giurisprudenza.
Qualunque sia la corsa, se il traguardo è
importante, ci sarà un fantino con la casacca crimson, cremisi, in gara. L’ideologia non
conta, conta il potere. Harvardiano è l’ideologo più garrulo della destra neo con, William Kristol, come harvardiano è il ministro
della giustizia in carica e sommo giustificazionista delle tecniche di interrogatorio che
altrove si chiamerebbero torture, Alberto
Gonzales. Ma harvardiano è il capofila della sinistra nel partito democratico, il senatore di New York Charles Schumer, come lo
è il verdissimo Ralph Nader. Anche il creatore di un serial televisivo di successo mondiale quale Dr. House, Peter Blake, è laureato ad Harvard. Ci studiò anche Bill Gates, ad
Harvard, senza laurearsi.
La scarsità di donne, in un elenco di notabili e di potenti che richiederebbe le pagine gialle, è evidente e ha un’altra conferma
nel fatto che soltanto da otto anni, dopo essere stata trattata semplicemente come un
annex, un’appendice, l’università femminile di Radcliffe, gemella di campus, è stata
finalmente assimilata e parificata ad Harvard. Ma nessuna parificazione, e nessuno
sforzo di creare “diversità”
di pelle, di cultura e di genere, è riuscita ancora a
scardinare la cabala dei
porcelli, anzi, per essere
corretti e classici, dei Porcellians, il club esclusivamente maschile e aperto
soltanto al sangue più blu
del potere e della ricchezza,
che dal 1791 raccoglie l’essenza migliore, e peggiore,
di questa mirabile istituzione del sapere. Tra i Porcellians, che esibiscono
nelle loro riunioni riservate
distintivi a forma di porcellino all’occhiello,
non si entra, si viene chiamati, e persino un
futuro presidente come Franklin Roosevelt
fu respinto perché giudicato troppo populista. Ne rimase amareggiato per tutta la vita e neppure quattro elezioni consecutive
alla presidenza della nazione, record che
resterà imbattibile, lo consolò, forse perché
il cugino Teddy, invece, ci era riuscito.
Oserà adesso una donna presidente
spezzare anche l’ultima incubatrice della
“virilità” sopravvissuta nella fabbrica dei
Nobel e dei ministri? Sarà sicuramente tentata di farlo, a costo di pestare il codino al demonio. O ai porcelli.
In una società
ufficialmente
senza classi
i bostoniani sono
soprannominati
“bramini”
LE DIECI FACOLTÀ
Dopo i quattro anni obbligatori per tutti ci si può
specializzare in arte e scienze, economia,
medicina, design, teologia, odontoiatria,
giurisprudenza, scienze politiche, scienze
dell’educazione, scienze della salute
CARRIERE FEMMINILI
La prima donna
ad insegnare
ad Harvard è stata
Alice Hamilton
nel 1919. Nel 1956
viene assunta la prima
donna full professor,
Cecilia PayneGaposchkin, docente
di astronomia
Oggi le insegnanti
sono il tredici
per cento
del totale
CREMISI
Il cremisi (crimson
in inglese) è il colore ufficiale
dell’Università dal 1910,
scelto in omaggio a Charles
Eliot, ex campione
di canottaggio
diventato rettore
che scelse sciarpe
di questo colore
per il suo
team
Neanche
Franklin
Roosevelt riuscì
a entrare nel club
esclusivo
dei Porcellians
vendica le streghe
27.448$
la retta più economica
35.600$
il dottorato più costoso
15mln 931
i libri della biblioteca
25 mld di $
le donazioni del 2005
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
il reportage
Separati in casa
Un gruppo di madri, riunite in una cittadina
nordirlandese, discutono della possibilità di spezzare
la storica divisione tra scuole cattoliche e protestanti
La località è Omagh, dove nove anni fa un attentato
uccise ventotto persone. Dopo un dibattito imbarazzato
e teso, i progetti di integrazione fanno passi avanti
JOHN LLOYD
“Qui da noi c’è
un forte razzismo
Una delle cause
è l’insegnamento”
AFFRESCHI DI PROPAGANDA
Murales di propaganda repubblicana
e unionista a Belfast (le foto
risalgono alla fine degli anni Novanta)
FOTO REUTERS
vise. La Chiesa cattolica insisteva che
tutti i cattolici dovevano frequentare
scuole cattoliche; il governo nordirlandese, dominato dai protestanti, fece
uno sforzo per creare scuole miste, ma
rinunciò quasi subito, senza sforzarsi
più di tanto: molti protestanti preferivano scuole separate. E così, per oltre
ottant’anni, le scuole nella provincia
sono state cattoliche o “statali” (che
voleva dire, per lo
più, protestanti).
La maggior parte
degli osservatori, e
molti cittadini
nordirlandesi, ritengono che scuole divise significhino comunità divise: è più facile
odiare, perfino uccidere, gente che
non hai mai incontrato.
Ma di fronte alla
domanda diretta «Che cosa fareste?» - dare una risposta non era
semplice. Alla fine, però, qualcuno ha rotto il silenzio. Una donna
che chiameremo
Mary e che durante la mattina spesso aveva assunto
un ruolo guida
nella discussione
ha fatto un lungo
respiro e parlando
lentamente e misurando le parole
ha detto: «Mi piace
l’idea di un’istruzione cattolica. Mantiene un equilibrio fra istruzione e moralità. È bello
avere un’istruzione religiosa. Ha una
lunga storia, una storia positiva, e a me
FOTO MAGNUM/CONTRASTO
n una stanza, con otto donne,
una delle quali è lì per presiedere la riunione. Nella cittadina di
Omagh, nell’Irlanda del nord,
dove nell’agosto del 1998 una bomba
lasciata in un furgoncino da un gruppo
di terroristi repubblicani, in una strada
affollata da gente che faceva shopping,
uccise ventotto persone, in maggioranza donne - una era incinta - e in
maggioranza cattoliche.
La stanza era silenziosa. Le donne
evitavano di guardarsi negli occhi. Erano state radunate, insieme ad altre
centocinquanta persone, un sabato
mattina di inizio febbraio, per discutere dell’istruzione dei loro figli. In realtà,
la convocazione era rivolta anche ai
padri ma, com’è nella natura delle cose, a rispondere all’invito sono state soprattutto le madri, le donne. La richiesta era quella di partecipare a un sondaggio deliberativo sulla scuola, un
progetto ideato da un professore americano, James Fishkin. Tutti gli intervenuti avevano compilato un lungo questionario prima di venire; e un altro
questionario li aspettava al termine
della giornata, scandita alternativamente da discussioni in piccoli gruppi
e sessioni plenarie in cui tutti i centocinquanta genitori intervenuti potevano porre delle domande a un gruppo di
amministratori scolastici ed esperti del
settore.
Questo gruppo di donne aveva passato la mattinata insieme, inizialmente con un certo disagio, dato che nessuna si conosceva; poi, con l’aiuto della donna che presiedeva la riunione
(una moderatrice di professione), avevano cominciato a parlare più liberamente, discutendo della qualità delle
scuole frequentate dai figli, della difficoltà degli esami, se la selezione scolastica sia necessaria o meno, tutti interrogativi che stanno a cuore ai genitori
di ogni parte del mondo. Durante la
sessione plenaria del mattino avevano
fatto delle domande, poi alcune di loro
erano andate a pranzo insieme.
Quando è ripresa la riunione, però,
c’è stato un momento di silenzio e di disagio. La pausa tra la domanda fatta
dalla moderatrice e la risposta che non
arrivava si prolungava. Le donne si
spostavano nervosamente sulle sedie
disposte a semicerchio nella spoglia
sala delle riunioni dell’istituto di formazione professionale superiore della
città. La moderatrice ha riformulato la
domanda, ma la risposta è stata ancora il silenzio.
La domanda era una delle tante che
la gente, in Irlanda del nord, cerca di
evitare. Quelle donne sarebbero state
disposte a mandare i loro figli in una
scuola di un’altra fede? I protestanti sarebbero stati disposti a mandare i loro
figli a scuola con i cattolici, e viceversa?
In Irlanda del nord - dopo la divisione dell’isola nei primi anni Venti,
quando la Repubblica irlandese proclamò l’indipendenza dalla Gran Bretagna e il Nord, in maggioranza protestante, rifiutò di unirsi alla nuova Repubblica e insistette per rimanere sotto la corona inglese - le scuole sono di-
FOTO CORBIS
I
OMAGH
sta bene».
Un’altra donna, Bernadette, che anche lei era stata fra le più attive nelle
sessioni mattutine, ha preso la parola
per sostenere la posizione di Mary. «La
cosa spaventosa dell’istruzione pubblica è che tratta i bambini come unità.
La cosa importante è l’etica della scuola. Io capisco le argomentazioni di chi
vuole una scuola integrata; ma il governo è ingenuo se pensa che mettere
protestanti e cattolici nella stessa
scuola possa cambiare qualcosa. In
ogni caso, in questa cittadina, c’è dialogo fra di noi, non è un problema se sei
cattolico o se sei protestante».
Mentre le prime due parlavano, una
delle altre donne, di nome Carol, sembrava irrequieta, ed è intervenuta parlando velocemente, quasi con aggressività: «Io sono decisamente a favore
dell’integrazione scolastica. Non penso che sia un’idea ingenua, tutt’altro.
In questo momento, a Omagh, esiste
un forte razzismo e una delle cause è la
divisione delle scuole. Secondo me ci
illudiamo se diciamo che c’è dialogo
fra di noi».
Un altro momento di silenzio. Come
in qualsiasi gruppo di persone civilizzate l’intenzione delle donne era di rimanere in buoni rapporti con le altre.
E così era stato, fintanto che non era
stato affrontato questo argomento.
Ora si trovavano di fronte a una domanda che le invitava a dire: la mia religione è migliore della tua e voglio tenere i miei figli lontano dai tuoi. Una
quarta donna, Christina, è intervenuta, anche in lei in modo quasi aggressivo, per replicare a Carol: «La religione
è parte della tua identità: l’essere cattolici è una parte importante di quello
che sei. Se perdi la tua identità, non sai
più chi sei e da dove vieni. I bambini
perderebbero rapidamente la loro
identità se imboccassimo la strada
dell’integrazione scolastica».
Poi ha preso la parola una donna di
nome Brenda, che fino a quel momen-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Irlanda del nord, un muro tra i banchi
Più tardi, nella riunione plenaria, gli
esperti che rispondono alle domande
cercano di nascondere il loro disaccordo e si comportano educatamente. Ma
una cosa esce fuori con chiarezza. Protestanti e cattolici hanno una visione
fondamentalmente differente della
scuola. Per la maggioranza dei protestanti, le scuole devono essere responsabilità dello Stato. La religione deve
avere un ruolo, ma
molti dicono di
non essere contrari all’integrazione
se verrà lasciato
spazio alla religione. Per gli esponenti cattolici all’interno del gruppo di esperti - uno
era un gesuita,
un’altra una suora
preside di una
scuola - la scuola fa
parte di una trinità
della fede cattolica
composta da famiglia, scuola e comunità. Le scuole,
secondo loro, non
potrebbero decidere di diventare
miste, perché sono gestite sulla base della fede in Dio.
Tra gli esperti
c’era un uomo
chiamato Michael
Wardlow, direttore del Consiglio
per l’integrazione
scolastica dell’Irlanda del nord.
Wardlow dice che
il suo movimento è
nato vent’anni fa,
quando un gruppo di genitori, stanchi
della divisione, hanno messo in piedi
una scuola integrata in un’aula della
cittadina di Lagan. Oggi circa il sei per
cento dei bambini nordirlandesi frequenta una scuola integrata e la percentuale è in crescita: sono state fondate nuove scuole e qualcuna di quelle
già esistenti - tutte protestanti - hanno
votato a favore dell’integrazione.
Wardlow dice che la gente ha un’idea
sbagliata delle scuole integrate: sono
scuole fortemente religiose, l’unica
differenza è che sono presenti entram-
“Se unificassimo
gli istituti, i bambini
perderebbero presto
la loro identità”
FOTO GETTY IMAGES
to aveva parlato poco. Dall’accento e
dal modo di parlare sembrava provenire da un ambiente più popolare rispetto a quelle che avevano parlato prima,
tutte donne della classe media. «Secondo me l’integrazione scolastica è la
strada giusta. Io sono cattolica, ma ho
sposato un protestante. I miei figli vanno a una scuola cattolica. Mia figlia,
quando la gente glielo chiede, dice:
“Mia mamma è verde e mio papà è
arancione” [i colori che identificano rispettivamente i repubblicani e gli
unionisti] e ne è tutta orgogliosa. Ma
qui sento molta ostilità. Se la gente frequentasse le stesse scuole, fin da piccoli, ce ne sarebbe meno».
L’ultima a prendere la parola è una
ragazza, vestita piuttosto male, che fino a quel momento non aveva mai parlato. Anche lei sembra meno benestante delle altre: parla con chiarezza e con
enfasi. «Io sono favorevolissima all’integrazione scolastica. Anche la mia famiglia è mista: io sono protestante e il
mio compagno è cattolico. Mio figlio
ha frequentato scuole cattoliche e
scuole protestanti, e ha amici dall’una
e dall’altra parte. Dovrebbe essere così
per tutti».
Le inibizioni cominciano a cadere,
gli schieramenti diventano più evidenti. Mary riprende la parola con decisione. «Vogliamo una società atea? Vogliamo che la separazione fra Stato e
Chiesa arrivi al punto in cui è arrivata?».
Carol replica seccamente: «Io penso
che Stato e religione debbano essere
separati. Secondo me, dire che c’è
un’etica cattolica nelle scuole, e che
quest’etica è migliore, è arrogante: siamo tutti cristiani, dopotutto».
La moderatrice interviene con gentilezza per spegnere sul nascere il diverbio. La conversazione continua, ma
ben presto scivola su questioni di minore importanza, come condividere i
campi sportivi o prevedere giorni in cui
le scuole fanno lezione insieme. La sessione giunge a termine.
LA PROTESTA
Altri murales sui muri di Belfast
La foto grande è stata scattata
nel quartiere cattolico di Falls
be le religioni. La scuola chiude sia in
occasione delle festività cattoliche che
delle festività protestanti. Vengono insegnati anche i precetti dell’altra confessione. Alla morte di Giovanni Paolo
II, tutti i bambini hanno partecipato a
un servizio funebre.
È straordinario che in uno Stato democratico avanzato ci sia tutta questa
necessità di fare discorsi del genere; è
straordinario che abbia tutta quest’importanza. Nel resto della Gran Bretagna ci sono scuole anglicane e scuole
cattoliche, e anche scuole metodiste,
quacchere, ebraiche e battiste. Tutte
queste scuole hanno elementi legati alla tradizione delle rispettive fedi, ma
tutte, quale più quale meno, sono miste, con genitori che cercano le scuole
migliori per i loro figli: e tutte sono finanziate dallo Stato.
Ora, in Gran Bretagna, anche i musulmani chiedono di avere delle loro
scuole: una richiesta a cui molti guardano con timore, perché è dimostrato
che le scuole islamiche possono insegnare ai bambini a odiare i cristiani e gli
ebrei. L’esempio dell’Irlanda del nord
non è incoraggiante: dove esistono divisioni e sfiducia, la segregazione scolastica sembra peggiorare le cose. E
una volta che si creano scuole separate, tornare alle scuole miste è difficile.
Alla fine della giornata, i partecipanti all’incontro di Omagh hanno riempito i loro questionari. Analizzandoli, è
uscito fuori che sia i protestanti che i
cattolici, in molti casi, avevano cambiato idea: avevano un’opinione migliore gli uni degli altri, si guardavano
con meno diffidenza, ed erano molto
più numerosi, una netta maggioranza,
quelli che pensavano che l’integrazione scolastica fosse una buona cosa. La
sfida ora ricade sulle spalle dei politici,
e soprattutto delle gerarchie ecclesiastiche. Seguiranno l’orientamento dei
loro fedeli? Eviteremo un’altra divisione nelle scuole britanniche?
traduzione di Fabio Galimberti
Repubblica Nazionale
FOTO AFP
LE TAPPE DI UNA GUERRA CIVILE
Col trattato del 1921 l’Irlanda del nord rimane sotto il dominio britannico.Travagliata
da una politica di discriminazione nei confronti della minoranza cattolica
la regione piomba nella guerriglia: il 30 gennaio 1972 (“the Bloody Sunday”)
tredici civili vengono uccisi da soldati britannici. Per tutti gli anni Ottanta il terrorismo
prevale sui negoziati e i morti sono migliaia. Nel 1998 l’Accordo del Venerdì Santo
permette di avviare un processo di pace
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
i luoghi
Tombe monumentali
Nel famoso cimitero moscovita di Novodevichy sono sepolti
molti dei maggiori scrittori, musicisti e pensatori russi, accanto
alle personalità politiche di spicco del settantennio comunista
Adesso, per un programma di RaiSat Extra, un grande
conoscitore di quel mondo si è aggirato in mezzo alle lapidi
e ne ha raccontato le storie, singolarissime eppure esemplari
I fantasmi della vecchia Russia
Krusciov insultò lo scultore d’avanguardia Neizvestny:
“Il mio asino avrebbe dipinto meglio
con la sua coda”. Ma quando Krusciov morì
la sua famiglia si rivolse a lui per il sepolcro
va obbedire alla moglie che gli chiedeva di mangiare
questo o quell’altro, di cambiarsi la cravatta o qualcosa del genere. Era una famiglia molto legata e lui si divertiva con lei, ma riceveva anche stimoli intellettuali.
Il testo che segue è tratto dalle prime due puntate
della nuova serie di Extraterreni, un programma
di Valeria Paniccia in onda ogni sabato alle 22,30
dal 24 febbraio su RaiSat Extra, il canale satellitare
Rai su Sky diretto da Marco Giudici. È un viaggio
della memoria attraverso i cimiteri monumentali
Prima tappa Mosca, dove il giornalista Demetrio
Volcic racconta Novodevichy, il camposanto
di un monastero che dal secolo scorso ospita
le spoglie di personaggi celebri
Nikolai Vasilevic Gogol (1809-1852), scrittore
Non era sepolto a Novodevichy. A un certo momento quando hanno deciso di fare la rappresentativa nazionale dei personaggi celebri, l’hanno disseppellito dal monastero Danilovskij e l’hanno portato
qui nel 1931.
Aveva una salute cagionevole e ogni tanto cadeva in
preda a crisi mistiche che culminarono in una specie
di autopunizione. A un certo punto non volle più mangiare né lavarsi né curarsi. Una crisi di inedia. «È dunque necessario morire», disse, «e io sono pronto. Morirò». Gli legarono le mani e cominciarono a curarlo, gli
bagnarono la testa con l’acqua fredda, gli fecero le sanguisughe e via con quello che per l’epoca poteva essere l’accanimento terapeutico. Una notte, in preda al
delirio, si svegliò e urlò: «La scala, fate presto, la scala!».
Si riaddormentò e morì nel sonno. Trovarono una lettera, scritta qualche tempo prima che diceva: «Ci sarà
una scala, pronta a esserci lanciata dal cielo e una mano, tesa verso di noi, ci aiuterà a salire».
DEMETRIO VOLCIC
jaceslav Mikhailovic Molotov (18931986), ministro degli Esteri di Stalin, e
sua moglie Polina (1897-1970).
Fedelissimo di Stalin, insieme a Kaganovic, Molotov era un grande servitore
dello Stato e in questa funzione ha avuto momenti di declino, momenti di semiombra o penombra e poi è sempre rispuntato di nuovo. Morì alle
prime luci della perestrojka. Lo hanno mandato in posti secondari, in Mongolia addirittura, lui il grande diplomatico, e negli ultimi anni della sua vita è stato spedito a Vienna come rappresentante sovietico presso
l’Agenzia atomica internazionale dove faceva l’ambasciatore, posto di scarso rilievo ma di bella vita. E lì l’ho
incontrato.
Un giorno passeggio per la strada vedo un signore
che aveva una faccia conosciuta e una signora cinque
o sei metri dietro. I due non si scambiano una parola,
fanno qualche chilometro, poi si siedono nella loro
macchina, partono, il tutto senza le guardie del corpo.
La donna è la moglie, Polina, che aveva trascorso alcuni anni nei campi di concentramento, accusata di un
complotto ebraico e persino di corruzione sessuale.
Era amica della Golda Meir, il primo ambasciatore
israeliano a Mosca. Nel ‘48 era stato creato lo Stato di
Israele e Polina, per promuovere la causa di Israele, mise in piedi un comitato ebraico a Mosca, con l’appoggio di Stalin il quale aveva capito l’importanza della
faccenda e fece entrare nel comitato, presieduto da
Polina, i più illustri ebrei della città. Compilata la lista
degli ebrei influenti, entro pochi mesi caddero tutti in
disgrazia, e la moglie di Molotov fu spedita nel lager.
Quando, subito dopo la morte di Stalin, Beria, ministro
degli interni, l’anima nera del regime, rilascia dal lager
la signora Polina, Molotov va a prenderla. Lei gli chiede: «Che cosa c’è di nuovo?». «Lo sai no, che è morto
Stalin?», risponde lui. E lei si mette a piangere.
Non perdonò il marito; perdonava Stalin, ma non
perdonava il marito che non aveva fatto tutto il possibile per salvarla dal lager. Molotov era presente a tutte
le cene che Stalin organizzava di notte nella sua dacia
e i compagni lo prendevano pure in giro, chiedendogli: «Ma come sta tua moglie?». Tutti erano a conoscenza del fatto che lei, Polina, si trovava in un lager.
V
Sergei Mikhailovic Eisenstein (1898-1948), regista
cinematografico
Sergei Eisenstein ha realizzato sette film, tutti sotto
l’influenza diretta di Stalin il quale era molto interessato alla trilogia su Ivan Groznij, “Giovanni il terribile”.
Stalin per certi versi durante la guerra si identificava
nella figura del grande zar russo e dunque anche meditava sui mezzi necessari per dominare la Russia nel
momento in cui combatteva Hitler. Pertanto voleva
essere informato sia sulla sceneggiatura sia su come
procedevano i lavori. Questo evidentemente disturbava Eisenstein che non si sentiva molto libero. Il problema però era anche un altro. La casa di Prokofiev,
quella di Eisenstein e quella di Osip Mandel’stam, distavano in linea d’aria trecento, quattrocento metri
dal Cremlino. La rivoluzione russa nasce anche sotto
la speranza di una rinascita culturale e gli artisti ci credevano. Allora non deve meravigliarci il fatto che esistono delle lettere che il regista indirizzò a Stalin, ma
anche lettere di scrittori a Stalin, missive a cui puntualmente venivano date delle risposte. Era un circuito molto limitato, geograficamente chiuso, e si sapeva
tuttavia che se Stalin, volubile, cambiava il parere in
qualche modo si poteva lavorare ancora e andare
avanti ma anche trovarsi ai margini o peggio. Stalin voleva un Ivan Groznij non proprio modellato sulla sua
figura ma non in contrasto con le sue idee sul potere. È
stata realizzata la prima parte, il secondo film, intitolato La congiura dei boiardi, è uscito ma non ha circolato tra il pubblico in quanto il Comitato centrale del
Pcus lo giudicò negativamente. Il regista ebbe un infarto e la terza puntata non è stata realizzata. Sergei
Mikhailovic Eisenstein è stato gay, intellettuale, ebreo.
Nessuna delle tre cose piaceva in quel momento al regime.
Andrei Andreevic Gromyko (1909-1989), ministro
degli Esteri dell’Urss
La caratteristica dei grandi diplomatici sovietici è
stata di essere servitori dello Stato. Hanno seguito le
Vladimir Vladimirovic Majakovskij (1893-1930),
poeta
Un po’ è dimenticato perché con l’ideologia un po’
è scesa anche la sua immagine. Era il “megafono della
rivoluzione”, così lui si definiva, e la sua poesia era
esplicitamente politica anche se poi era un personaggio molto più complesso di quanto appariva a prima
vista. Aveva quattordici anni, figlio di un guardaboschi, e già si era dato alla poesia. Conobbe nel ’12 Marinetti. Gli piacevano i futuristi italiani, e scrisse un documento antiborghese: si definiva un futurista comunista. Uomo molto piacevole, anche fisicamente.
Quando qualcosa gli andava bene amava radersi i capelli a zero. Di bella presenza, aveva molti contatti in
Occidente, in quanto la donna principale della sua vita, Lili Brik, aveva una sorella che si chiamava, è morta
sì, si chiamava Elsa Triolet, la quale era sposata con il
poeta francese Louis Aragon, e da qui il collegamento
del poeta con il mondo intellettuale francese e occidentale.
[A proposito dell’interrogativo sulla vera ragione del
suicidio di Majakovskij, se si sia trattato di amore, disgrazia politica o disillusione sull’ideale comunista]
Alla povera Lili Brik, tutti quanti le chiedevano la stessa cosa, e lei per trent’anni ripeteva — lo ha detto anche a me — che se lei fosse stata presente in quei giorni lui non si sarebbe ammazzato perché lei lo conosceva. C’era di mezzo anche la delusione d’amore, forse si sentiva un invecchiato, lui vitalista spinto, forse
qualcuno lo ha offeso; perché il poeta è sensibile, anche quando si tratta del megafono della rivoluzione.
13
SOTTO LA NEVE
In alto a sinistra, una veduta del cimitero moscovita di Novodevichy; a destra Demetrio Volcic tra le tombe; sopra
la tomba di Konstantin Stanislavsky. Nella pagina di destra, dall’alto in senso orario, i monumenti funebri
di: Molotov e sua moglie Polina; lo scrittore Mikhail Bulgakov sotto la neve; Sergei Eisenstein; Andrei Gromyko;
Anton Cecov; Raissa Gorbaciova; Nikolai Gogol; Vladimir Majakovskij; Nikita Krusciov
decisioni dell’Ufficio politico, certamente non una loro politica personale, ma si sono adoperati per realizzare le decisioni del loro vertice. Un diplomatico di
punta vale qualcosa. È molto difficile sostituirlo, quando manca una ragione precisa. Se uno che ha speso
tanti anni alle Nazioni Unite nel dialogo con gli Stati
Uniti, poi sparisce, bisogna pur spiegarlo. Si può inviare un sostituto ma sono i Gromyko che hanno realizzato la politica, hanno dato anche un proprio apporto: quando c’erano due vie, la possibilità di un dialogo, la possibilità di sprigionare la forza della mediazione e della diplomazia, avendo come alternativa la
guerra e il conflitto, hanno sempre puntato sulla via
tranquilla, guadagnandosi un buon nome nella diplomazia mondiale.
È lui che ha votato e ha sempre sottolineato di essere stato il primo ad aver votato per l’istituzione dello
Stato di Israele; la politica sovietica sosteneva Israele,
in quanto Israele era avversato dalla Gran Bretagna.
Più tardi invece è prevalsa la lobby araba nel vertice sovietico e Gromyko doveva imporre un’altra linea. Il
problema nella diplomazia è spesso lo stile: uno spostamento che il nostro aveva affrontato, benché personalmente, pensiamo soltanto alla moglie attivista
ebraica, lui abbia saputo farlo bene.
Anton Pavlovic Cecov (1860-1904), drammaturgo
Il suo teatro fu un grande insuccesso all’inizio. Al suo
debutto nell’ottobre del 1896 al teatro Aleksandrinskij,
a San Pietroburgo, fu un clamoroso fiasco e nessuno lo
aveva apprezzato e anche di Try sestry, “Tre sorelle”, dicevano: «Beh, la trama è molto semplice, tre ragazze
dalla provincia vogliono andare a Mosca, che ci vadano, si prendano un biglietto, anziché star sedute per
tutti e tre gli atti su un divano». Poi si scoprì che si può
leggere il teatro a più livelli, quello della quotidianità
molto bassa, il secondo livello è psicologico e il terzo
raggiunge le dimensioni di una parabola umana. E
dunque le pause avevano un ruolo espressivo non meno del dialogo, le didascalie erano ampie e descrittive,
e quel tipo di dramma era un vero e proprio teatro d’atmosfera, di stati d’animo. Alla fine del Diciannovesimo secolo, nel 1898, Il gabbiano, la pièce di Cecov, ottiene un grande successo e diventa anche il simbolo
del teatro borghese, che è molto lontano dal teatro popolare, satirico, crasso ma anche molto lontano dal
teatro aristocratico.
Raissa Maksimovna Gorbaciova (1932-1999), moglie di Mikhail Gorbaciov, ultimo leader sovietico
L’Unione Sovietica non era abituata a vedere le mogli dei capi nello svolgimento della propria funzione.
Qualche volta, in penombra, la moglie di Lenin; la moglie di Stalin si è suicidata nel ‘32. Dopo non abbiamo
visto nessuna signora del regime accompagnare il marito all’estero, fare della beneficenza, comportarsi come se fosse la prima compagna occidentale. In Russia
hanno sempre contato di più i padri che le madri e nel
caso delle zarine queste diventavano “padrine”.
Il loro era un bellissimo matrimonio che durava da
quarantasei anni, si amavano molto, si completavano,
discutevano di politica e delle questioni da risolvere.
Noi corrispondenti abbiamo accompagnato i Gorbaciov nelle visite di Stato e ovviamente si parlava di tutto. Lei era sempre presente e interveniva nelle discussioni di politica. Era in disaccordo su piccoli dettagli
della vita quotidiana. Lui era compiaciuto e divertito;
dopo aver preso in una giornata mille decisioni dove-
Nikita Sergevic Krusciov (1894-1971), segretario
generale del Partito comunista sovietico
L’autore [della tomba] si chiama Ernest Neizvestny.
Era, ed è ancora, il migliore scultore russo, anche se
adesso vive in America. Era il dicembre del 1962 quando, in una celebre visita al Maneggio di Mosca, Krusciov vede le sue opere d’avanguardia e lo insulta dicendo: «Il mio asino avrebbe dipinto meglio con sua la
coda, perché fai diventare mostri gli uomini sovietici?». E Neizvestny ebbe il coraggio di rispondere: «Segretario generale, io ho fatto la guerra, ho combattuto
per l’Unione Sovietica, non può darmi del traditore, ho
diritto di vedere il mondo così come lo vedo io». Krusciov arriva a insultarlo dandogli del pideraz, del pederasta, ma pronunciava male la parola. La risposta
dello scultore pesca nelle favole russe e dice: «Lei Nikita Sergevic è mezzo diavolo e mezzo angelo. Se in lei
vince l’angelo sarà un bene per tutta la Russia, ma guai
se dovesse vincere in lei il diavolo». È questa la ragione
per cui l’ultimo riposo di Nikita Krusciov è costruito
con la pietra bianca da angeli e con il marmo nero che
è il colore del diavolo. Dopodiché Ernest Neizvestny
venne tolto da tutte le associazioni degli artisti, che
contavano molto, e gli venne negata la possibilità di
esporre nei musei.
Senonché, quando Krusciov è morto la sua famiglia
si rivolse proprio a Neizvestny, dicendogli che nei suoi
scritti Krusciov si era in qualche modo scusato ed era
rimasto dispiaciuto per quanto aveva detto. Verso la fine della sua vita si era ravveduto e aveva annunciato
che il partito non deve intromettersi nelle vicende dell’arte e che dunque si pentiva di quel suo giudizio,
quella volta alla mostra del Maneggio. L’ho visitato un
giorno nel suo studio, l’artista, mentre realizzava questa testa in bronzo. Ecco, l’ha fatto mezzo diavolo,
mezzo angelo. La testa avrebbe dovuto essere metà in
oro, metà in bronzo ma l’oro avrebbe potuto esser portato via da una gazza. Le gazze a Mosca sono un problema. Tant’è vero che ai tempi russi e sovietici esisteva un reparto falconieri al Cremlino che addestrava i
falchi da lanciare contro le gazze che rischiavano di rovinare e portare via le cipolle dorate delle chiese.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
3
7
La moglie di Molotov
non lo perdonò mai
Sergei Eisenstein
era gay, intellettuale, ebreo
di non aver fatto il possibile
per salvarla dal lager
Nessuna delle tre
cose piaceva al regime
15
1
5
6
2
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11
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
Per trent’anni, dal 1946 al 1975, prima che la tv
restasse la sola padrona del campo, i due grandi
partiti di massa del dopoguerra si sono sfidati
a colpi di film proiettati nella sale, negli oratori, nelle sezioni. Ora un convegno
alla Camera riporta alla luce queste pellicole segnate dal tempo: pubblicità
elettorale rudimentale, eppure specchio di un Paese in rapida evoluzione
FILIPPO CECCARELLI
A
ROMA
llaricerca della cinepolitica perduta, nei meandri
di archivi che d’un tratto si
accorgono di aver accumulato tesori. Fotogrammi sgranati e
messi a repentaglio da macchie che
esplodono sugli schermi degli odierni
dvd. Pellicole che sfidano il tempo per
spiegarlo meglio. Immagini insieme
fantasmatiche e mummificate, ma proprio per questo decisive e definitive.
I film di propaganda dei comunisti e
dei democristiani, grosso modo. Quaranta, cinquanta, sessant’anni fa gli italiani se li sorbirono al buio, nei cinema,
in parrocchia, in sezione. Religiosamente assistevano a quelle visioni, tra ombre
e abbagli, cielo e terra, santi e diavoli, troni celesti e povera gente.
Togliatti che dopo l’attentato del 1948
gioca a scacchi in giardino
con Longo. Voce dello
speaker: «E guardate il
compagno Secchia
com’è tranquillo!». Secchia si accende la pipa,
guarda la cinepresa, fa un
mezzo sorriso. Oppure.
Primo piano, ad allargare,
di un libro aperto. Si tratta
dell’Imitazione di Cristo
che De Gasperi portò con
sé in carcere. Stacco, musica: la sedia vuota del presidente del tribunale che lo
condannò a quattro anni
per antifascismo. Altro
stacco: la foto incorniciata
della moglie e delle figlie
bambine che l’illustre prigioniero teneva accanto al
pagliericcio di Regina Coeli.
Esterno, giorno. Le corse
ciclistiche e gli incontri di
boxe organizzati sulla spiaggia, sotto il sole, dall’Associazione Amici dell’Unità. Milioni di lettori, centomila diffusori s’intitola il cortometraggio,
1949. L’anno prima, per spingere il popolo ad andare a votare, i Comitati Civici hanno fatto
riadattare a Eduardo De Filippo
la celebre scenetta di Questi fantasmi
sulla preparazione del caffè alla napoletana. E ancora alla fine degli anni Sessanta, in un film pilota di Eros Macchi,
compaiono Franco e Ciccio, al bar. Fanno gli spiritosi sulla cassiera: «Vita stret-
ta! Gambe lunghe!» commenta Ciccio da
intenditore. Solo alla fine, come di sfuggita, convengono che occorre votare Dc.
Anche il sonoro di questi cine-reperti,
denso com’è di salti e fruscii, rinvia a un
tempo vertiginosamente lontano dall’epoca televisiva. Quando non sono cori
solenni, vagamente sovietici, o canti gregoriani, la voce dello speaker risuona
stentorea oppure ammic-
Nella retrospettiva
autentiche gemme
di grandi registi
cante. Comunque asseconda il più completo dispiegamento di simboli: decine
di falci che svettano al sole, sfilate di crocifissi, piazze strapiene di folla, a perdita
d’occhio.
Tra mercoledì 28 febbraio e giovedì 1
marzo la Camera dei deputati si aprirà
per la prima volta a un flusso quasi ininterrotto di immagini. Le hanno fornite,
in lodevole concordanza, la Fondazione
Archivio Audiovisivo del Movimento
Operaio, l’Istituto Luigi Sturzo, la Cineteca del Comune di Bologna, l’Istituto
Gramsci Emilia-Romagna. Montecitorio ospita un convegno-monstre: Cinema di propaganda. La comunicazione
politica in Italia attraverso il Cinema.
1946-1975. Sette presentatori, sette relazioni introduttive (significativa quella di
Tatti Sanguineti), una tavola rotonda finale con Andreotti e Macaluso (che per
un attimo si rivedrà in foto, giovanissimo, su un cartellone che illustrava al modo dei cantastorie il sacrificio del sindacalista Turiddu Carnevale). Previsti nella due giorni quasi sessanta interventi,
una specie di sinedrio composto da studiosi, registi, critici, esperti di comunicazione, nonché dai superstiti di quella
lunga stagione nella quale, attraverso le
immagini, si forgiò appunto l’immaginario della Prima Repubblica: da Ettore
Bernabei a Pupi Avati, da Giuseppe De
Rita a Goffredo Fofi, passando per Paolo
Mereghetti, Bartolo Ciccardini, Giuseppe Bertolucci, Gian Luigi Rondi, Francesco Rosi, Turi Vasile, Damiano Damiani,
Edoardo Novelli.
Una retrospettiva che riporta alla luce
preziose gemme, offrendole a generazioni di cinefili. Fonti, ispirazioni, esperimenti. Le prime prove, ad esempio, dei
fratelli Taviani che per il Pci si misurarono con un Mezzogiorno (Sicilia all’addritta, 1959) in bilico fra la preistoria, il
terzo mondo e la tragedia greca. Come
pure certe sequenze del 1956 sul Primo
Maggio delle Acli, con atterraggio di un
Cristo bronzeo elitrasportato da Roma a
Milano: «Con somma gioia di Federico
Fellini — nota Tatti Sanguineti — che tre
anni dopo, nell’apertura de La dolce vita,
imbarcherà sullo stesso elicottero, che
trasporta il Cristo lavoratore, anche
Marcello Mastroianni e Paparazzo».
Cinepolitica a suo modo profetica.
Cartoni animati democristiani contro
Achille Lauro, davvero molto simile a un
proto-Berlusconi: dispiego di quattrini,
conflitto di interessi, sovrana megalomania, utilizzo elettoralistico del calcio e
del tifo. Oppure Modugno, che sempre
per lo scudo crociato racconta una barzelletta su Krusciov e canta «Libero, sono liberoooo!». Sketch comunisti e divorzisti con Gianni Morandi in versione
famigliare, Gigi Proietti che si profonde
in gorgheggianti virtuosismi sul «No»,
Pino Caruso ritratto in uno specchio barocco e uno scanzonatissimo Nino Manfredi, al trucco.
Propaganda elementare, anzi primordiale, e vista con gli occhi dell’oggi
per certi aspetti anche un po’ selvatica.
All’inizio ancora indissolubilmente dominata dalla parola, come dimostrano le
tante inquadrature di titoli di giornale,
scritte sui muri («Vota comunismo») o
frasi riprese dai cartelli delle manifestazioni e ripetute in voce con straniante effetto karaoke. Eppure, per quei tempi,
una comunicazione del tutto efficace,
espressiva, professionale, pur nella sua
limitata varietà di forme, comunque in
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
MANIFESTI
Nella pagina accanto, due manifesti elettorali
del Pci: il primo, contro le basi americane,
è del 1958; il secondo è datato 1946. Qui a destra,
tre poster della Dc datati 1952, 1959 e 1953
Le immagini di queste pagine sono fornite
dalla banca dati on-line Manifestipolitici.it,
a cura dell’Istituto Gramsci Emilia Romagna,
e dall’Istituto Luigi Sturzo
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Partecipenguineti
Luciano ranno, tra gli altri
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Mimmo Cci, Pietro Scoppo e
Anselmi, alopresti, Gian Mla,
Sandro C
ario
urzi
grado di accendere la fantasia e mobilitare le emozioni di un’Italia che più
profondamente e intimamente ideologizzata non poteva essere, tanto meno
sembrare.
Il cinema restava, come aveva detto
Mussolini, «l’arma più potente». E così,
come il Centro Cinematografico Cattolico di padre Galletto si peritava di promuovere, bocciare o esprimere riserve
sui film, con lo stesso intento pedagogico un opuscolo del Pci venuto fuori durante l’organizzazione del convegno
consigliava la proiezione di questa o
quella pellicola e intimava di «denunciare» e «smascherare» altri film, in genere
americani, «per il loro carattere fascista e
guerrafondaio».
A vedere il materiale della Dc e del Pci
nel suo insieme, a perdifiato, appare evidente la riserva di sacralità che le due
chiese secolari trasmettevano alle rispettive masse di fedeli. In primo piano
e sullo sfondo dei filmati cattolici abbondano croci, chiese, basiliche, cupole, campane che si sciolgono festose. E
papi, pasti, mamme, nascite, bimbi che
vengono al mondo in tuguri: «È un maschio! Un maschio!» si felicita la levatrice
con il papà, il protagonista di Nasce una
speranza (1952), un poverissimo contadino pugliese le cui condizioni verranno
sensibilmente migliorate dalla riforma
agraria e poi dall’entrata in funzione della Cassa per il Mezzogiorno.
Ma anche l’ecclesia rossa ha la sua fede, il suo Olimpo, i suoi riti sacrali. Nel
film di Giuseppe De Sanctis sul VII congresso del Pci all’Adriano (1951), dove
compare a un certo punto un bellissimo
Berlinguer, le delegazioni regionali, in
costume, recano doni al banco della presidenza con lo spirito — altro che materialismo storico! — di chi depone offerte
votive sopra un altare: prodotti industriali, modellini, capi di vestiario, generi alimentari (un’enorme mortadella),
addirittura una pecora viva, portata a
braccia dalla Sardegna. Oltre alle stoviglie carcerarie di Antonio Gramsci, chia-
C’era anche una lista
comunista di film
“buoni e cattivi”
ITALIA IN BIANCO E NERO
ramente assurte al ruolo di reliquie.
E tuttavia, ferma restando l’asprezza
del conflitto tra le due confessioni, i due
popoli, le due tribù, a distanza di mezzo
secolo si resta impressionati dalla specularità delle loro immagini. O meglio:
sembra di cogliere nel complesso del
materiale una corrispondenza di tipo archeologico, una simmetrica divisione
dei compiti. Per cui, spiega bene Sanguineti, se il monolitismo comunista si concentrò sul film, sul suo valore artistico e
d’autore, i prodotti cattolici, spesso anonimi e di assai variegata provenienza
(Comitati Civici, Spes, Rai, Istituto Luce,
Settimana Incom, anche filmati made in
Usa) dicono chiaramente che la Dc preferì dedicarsi a tutto quanto stava dietro
Sopra, proiezione
all’aperto in un paese
del Lazio negli anni
Quaranta. Nell’altra pagina
in basso, un camioncino
elettorale della Dc
e intorno al film: apparati, produzione,
distribuzione.
Lo stesso vale per l’approccio, lo stile e
i contenuti. Nel senso che la cinematografia del Pci si ispira ai modelli del neorealismo, mentre quella democristiana
traduce in immagini la retorica della ricostruzione. Ma il punto è che l’Italia di
allora, dopo tutto, era una sola, e ad entrambe le culture politiche apparteneva
nella sua stragrande maggioranza. Un
paese ancora agricolo sospeso tra macerie e risanamento. Un panorama almeno all’inizio segnato da bestie, covoni,
sacchi di farina, sguardi famelici, carriole, canottiere, biciclette, bambini con il
sedere scoperto, adolescenti in pantaloni a “zompafosso”, e muri scrostati, fango, assalti al treno, dormitori, mutilati.
Né la Dc, né tanto meno i cineasti comunisti volevano o potevano ignorarne
quella realtà visiva. In un documentario
comunista sulla dura vita degli operai
immigrati nella periferia di Milano (Il
prezzo del miracolo, l’anno è il 1963) si
mostrano i segni scandalosi di quel che
di lì a poco si sarebbe chiamato benessere, additando al ludibrio degli spettatori il tutto esaurito alla Scala, le vetrine
con il caviale, le acconciature delle signore borghesi, un’auto sportiva (definita, per non fare pubblicità ai padroni,
«cilindrata da sette milioni») e pure un
innocente barboncino. Il tutto a sottolineare una diversità quasi più antropologica che ideologica.
Ma l’impressione è che la più flessibile e lungimirante cine-politica cattolica
raccolse proprio quella sfida lì; e ai dolenti accenni sociali, alle coreografie funerarie per la morte di Togliatti (stupendi i materiali sovietici girati a Yalta nel-
l’agosto del 1964), alla poetica della miseria e del riscatto, cinquant’anni prima
di Berlusconi lo scudo crociato rispose
mettendo in scena la speranza, l’ottimismo prudente, il sogno di progresso graduale ma inesorabile. E quindi esibiva a
tutto spiano ruspe, ciminiere, tralicci
dell’elettricità, lavori di bonifica, famigliole e bambini in salute, pranzi e cene.
E sì: la Scala riapre, «l’Italia ritorna a cantare!», s’entusiasma lo speaker; «gli italiani riscoprono la bellezza!», e si vede
una bella ragazza discinta; «ci invadono
milioni di turisti!», detto con l’aria di chi
ben altre invasioni ha vissuto e teme che
possano avvenire di nuovo.
Ma forse aveva già vinto, la Dc, prima
di inventarsi la tv a sua immagine e somiglianza, perché mossa dall’istinto,
sul piano ottico, visivo e cognitivo andò
spedita al cuore dei più inconfessabili e
vibranti archetipi dell’identità nazionale: la furbizia, tanto più risolutiva, quanto più misurata e perfino bonaria. Detta
in modo brutale: vinse, tenne il potere e
fece a lungo il suo comodo perché riuscì
a far sentire i suoi elettori meno fessi.
Meno disposti ad abboccare all’amo
delle promesse come Il compagno
Gnocco Allocco, del 1958, non a caso raffigurato in un acquario all’inizio del film
in compagnia di pesci boccaloni. Un
ometto brutto e mezzo calvo che è sempre in prima riga negli scioperi, scrive di
continuo sui muri «Viva la pace», «Viva
la pa...» e subito un uomo belloccio e determinato gli completa la scritta in «Viva
la pasta al sugo»; e alla fine spende un
sacco di soldi per comprarsi un’orrida
crosta da un pittore d’avanguardia, e
quello con i soldi si compra da bere, e si
ubriaca pure.
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Riti collettivi
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
L’Argentina di Kempes e quella di Maradona,
l’Inghilterra e le Malvinas, l’Uruguay con il suo inno
da otto minuti, il Paraguay di Chilavert, il Messico
dell’Azteca, l’Italia, il suo Mondiale e i suoi scandali
Due scrittori, davanti a una bottiglia di vino, pane
e formaggio, parlano del più grande spettacolo del mondo
Dialogo sul calcio e sulla guerra
EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI
re 12.00. Una grande cucina con un tavolo con il piano in marmo. Sul tavolo due piatti e due bicchieri; un
tagliere e del pane; un bel pezzo di spalla e un coltello. Dalla porta entrano due persone: uno, N., è alto,
ben messo, scarmigliato e ha in mano una bottiglia di
Faugère del 2002 alla quale sta per tirare il collo; l’altro, V., è pure alto, ma è più sottile, e porta sotto braccio tre bei tocchi di formaggio.
N. Che si deve fare?
V. Si deve ragionare intorno al calcio sudamericano, all’Argentina, ma poi si va anche oltre.
N. (Indica il caprino ricoperto di cenere)Si mangia anche la cenere?
V. Certo.
Toc! Salta il tappo della bottiglia.
V. (Versa il vino nei bicchieri) [...] Il mio cuore di tifoso ha sempre
battuto dalla parte sbagliata rispetto a tutte le ragioni che uno come
me dovrebbe avere per scegliere da che parte stare. Per esempio, io,
nel ‘78, tifavo per l’Argentina. Appassionatamente. Ma era l’Argentina dei colonnelli! Eppure mi commuovo solo a pensare a quei giocatori lì: Kempes, Luque, Tarantini, Olguín.
N. Galván.
V. Galván. Nell’86, invece, io tifavo contro l’Argentina, e quando
Maradona fece gol di mano, mi indignai perché per me quella partita fu rubata a una squadra che doveva vincere i Mondiali. Ed era una
squadra molto ma molto più bella, l’Inghilterra di allora, se pure gli
inglesi mi stanno anche sui coglioni. Ho tifato contro l’Argentina
nell’86 e ho tifato contro l’Argentina nel ‘90 quando giocò con la Germania. Perché tifavo contro Maradona. Eppure il mio cuore batte
per Maradona, capito? Io tifo per la Juve, ma in teoria non dovrei esser tifoso della Juve, dovrei star dietro a tutte le retoriche del Torino,
della Fiorentina… Perché, mi chiedo, io, in fondo, trovo giusta questa contraddizione?
N. Senti: io ti posso dire perché tifavo per l’Argentina nel ‘78 e perché mi sembrava una squadra straordinaria. Perché i giocatori, il loro aspetto e il modo in cui giocavano in campo, erano la cosa più lontana dai colonnelli che ci potesse essere: le zazzere tenute in quel modo e chiaramente poco lavate; i baffoni; i riccioli di Tarantini; i capelli
lunghi sulle spalle di Kempes e di Luque. E mi sembrava che l’essenza di quella squadra fosse, in assoluto, la vera forma di protesta contro l’Argentina di quei tempi. Per questo mi piaceva.
V. Ti piaceva perché era poco marziale. [...]
N. Tu, contro Maradona, hai detto delle cose impegnative, ma io
non l’ho mai giudicato perché sono sempre stato accecato dal grande amore per lui. E [...] a me quel colpo di mano sembrò geniale e mi
sembrò la vendetta per le Malvinas perché, alla fine, ogni partita Argentina-Inghilterra è la guerra delle Malvinas. In fondo ho perdonato quel gesto a Maradona perché non ho mai perdonato gli inglesi
per aver silurato il General Belgrano, forse l’unico incrociatore argentino, e aver ammazzato un mucchio di gente. [...] (Addenta un
pezzo di formaggio) E che è questo?
V. Caprino piccante.
O
N. (Dopo aver mandato giù un boccone) Buono! [...]
V. Ma io non credo che Maradona abbia fatto quel gol di mano perché dall’altra parte c’erano gli inglesi. [...] (Alza il bicchiere e beve un
sorso) È buonissimo, ‘sto vino.
N. È biodinamico.
V. Cioè?
N. Cioè senza chimica, nessun diserbante, tutto ciò che gli è stato
fatto è stato fatto a mano, in cantina lo hanno lasciato stare. [...]
V. Però a me, francamente, questa cosa del gol di mano non mi va
giù. [...]
N. Guarda che prima del gol di mano lui aveva fatto quel gol incredibile…
V. No! lo ha fatto dopo.
N. Sicuro? [...] Comunque, io ti dirò che quando nel ‘90 ci furono i
Mondiali, durante quella partita a Milano quando tutto il pubblico
fischiò l’inno argentino e Maradona disse: “Hijos de puta!”, io [...] lo
giudicai un gesto veramente eroico e pensai: «Se fossi argentino, gli
darei tutto, a quest’uomo». Perché nel momento in cui ti insulta una
nazione e gli altri giocatori argentini stanno zitti, lui, la bestia vera,
ha fatto un grande gesto in mondovisione. [...]
V. (Taglia una fetta di formaggio) Toma valdostana.
N. Sentiamo.
V. Io, invece, esultare a un gol di Maradona, mai.
N. Davvero?
V. Non ero io a deciderlo, ma il mio cuore, sul campo di calcio. Forse ero semplicemente contro la dittatura di un genio e di un talento
così insolente che sul campo si permetteva di tutto. [...]
N. E comunque Maradona era amato dai suoi compagni perché li
faceva giocare bene tutti. Ti ricordi Careca? Lo lanciava in diagonale e lui tirava il gol nell’angolo opposto della porta. Giordano, Carnevale… Pensa che faceva queste cose e la sera prima magari aveva preso cocaina. [...] Pensa a come avrebbe giocato se non l’avesse presa,
la cocaina. [...]
V. Più di così che cosa doveva fare?
N. Io spero che non muoia, perché se muore per la droga è una tragedia per i ragazzi. Che il cuore non gli ceda!
Zidane ha chiamato suo figlio Enzo
in onore di Francescoli, il giocatore
più bello che il Sudamerica abbia
mai avuto. Alzò una coppa
con un braccio rotto come Beckenbauer
V. Se non muore Keith Richards, perché deve cedere il cuore di Maradona?
N. Keith Richards bisognerebbe ammazzarlo. Maradona, invece,
deve vivere, invecchiare e diventare saggio.
V. (Riempie nuovamente i bicchieri)… [...]
N. Senti, alla fine gli argentini sono parenti nostri e parenti veri. Anche i nomi (si alza in piedi e con tono solenne): Mario Alberto Kempes, Leopoldo Luque. A guardarli sembravano due motociclisti sfortunati e invece giocavano a calcio, e anche bene. [...] (Alza il bicchiere) A me piacerebbe raccontare il grande calcio sfortunato del Sudamerica.
V. Ma ti ricordi i Mondiali di Francia? Tutta la partita il Paraguay,
negli ottavi di finale, — ottavi di finale! — contro i francesi, Chilavert
tranquillizzava i suoi dieci inferiori compagni, perché non valevano
mica nulla i suoi compagni.
N. C’era Gamarra il rosso.
V. Chilavert sapeva che se si andava ai rigori, vinceva lui. Perché lui
li parava.
N. E li tirava pure.
V. E questi persero ai supplementari, le maglie sudicie…
N. Bianche e rosse con i pantaloncini blu: una roba orrenda, da dilettantissimi. Come quelle squadre costrette a indossare la maglia
con i pantaloncini di riserva…
V. Ma hanno tutti e tre i colori della loro bandiera addosso. Però io
mi ricordo Chilavert che, invece di incazzarsi con i compagni quando Blanc segnò a dieci minuti dalla fine dei supplementari, lui, Chilavert, li consolò. Non li mandò affanculo come fanno i portieri, giustamente, tutte le volte che vengono presi d’assedio per colpa dei difensori. Li consolò. Perse e pareva avesse vinto lui. Questo vuol dire
essere grandi, ragazzi. [...] Ma li vogliamo enumerare questi eroi sudamericani sudici e bravissimi a giocare a calcio?
N. Teófilo Cubillas; Marco Etcheverry, il boliviano, tocco di palla,
velocità di base pazzesca, capelli lunghissimi, basso.
V. Basso, ma non lo buttavi mai in terra.
N. Era duro come un sasso.
V. E Ayala? Forse era ancora più basso di Etcheverry.
N. Come si chiamava di nome?
V. Guillermo.
N. A me viene in mente Tony Ayala, detto El Torito, pugile imbattuto che quando buttava a terra l’avversario, gli sputava. Stava per fare il Mondiale, che avrebbe vinto di sicuro, ma stuprò una donna e
finì in galera. C’è stato per vent’anni, è uscito poco fa e ha ricominciato.
V. Il Messico invece è sempre stato un po’ deludente. L’unico paese del Sudamerica che ha avuto due volte i Mondiali in casa e non ha
mai vinto.
N. Avevano lo stadio Azteca, però.
V. Hugo Sánchez che faceva gol di testa e di piede.
N. Il portiere Campos.
V. Già. Però, proprio perché ha sempre avuto giocatori buoni, come ha fatto a non aver mai avuto un momento di vera gloria? Aveva
tutto e aveva i Mondiali in casa.
N. Gli mancava la tecnologia.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
LIBRO E DVD
I due dialoghi tra Edoardo Nesi e Sandro Veronesi
(Conversazione etilica in margine al calcio in Sudamerica
e Conversazione a 90°) sono tratti da La matematica del gol
a cura di Marta Trucco (Fandango, 184 pagine +dvd 50’, 20
euro). Raccoglie scritti di Francesco Piccolo, Carlo Verdelli,
Antonio Dipollina e molti altri. Il dvd è Con la mano di Dio,
il documentario di Umberto Nigri che, prendendo lo spunto
dal gol di mano di Maradona all’Inghilterra nell’86, rievoca
la guerra delle Malvinas. In libreria il 23 febbraio
I disegni di queste pagine sono di Gianluigi Toccafondo
e sono tratti da Io sono el Diego (Fandango Libri 2002)
‘‘
Edoardo Nesi
Io non l’ho mai giudicato perché sono sempre stato
accecato dal grande amore per lui. E a me quel colpo
di mano sembrò una vendetta. Non perdonai
mai agli inglesi il siluramento del “General Belgrano”
ILLUSTRAZIONI DI GIANLUIGI TOCCAFONDO
‘‘
Sandro Veronesi
Quando Diego fece quel gol di mano mi indignai
perché quella partita fu rubata a una squadra
che doveva vincere. Anche se non mi stavano
simpatici gli inglesi erano una squadra più bella
V. Che c’entra? Guarda che questi messicani si sono inventati la
ola, vogliamo dirlo? Nel 1986. Prima non esisteva, la ola. [...] Altro che
tecnologia.
N. Dico tecnologia perché vincere un Mondiale, per una nazione,
è un po’ come fare una navicella spaziale: è una faccenda di una difficoltà spaventosa. [...]
V. Suvvia.
N. All’ultimo Mondiale il Senegal arrivò quasi in fondo — e ora non
so se sia vero ma mi garba pensare che sia andata così — ma poi finirono i quattrini!
V. Ah ah ah! [...]
N. Ma, scusa un attimo, e il Perù? E Ramón Quiroga? E la storia di
Ramón Quiroga?
V. Ma… la vendette davvero la partita con l’Argentina?
N. Sì, sì. E lo disse proprio. E lo scrisse, anzi: fece lettera aperta sul
Clarín.
V. (Abbacchiato) Prese sei gol.
N. (Ride) Sei gol!
V. Ed era un portiere talmente forte che io francamente non ci credevo che fosse venduta… Ci rimasi male, ricordo. (China la testa) E
ci rimango male pure adesso. [...]
N. Poi c’è anche l’Uruguay che ha una bella storia.
V. Io in Uruguay ci sono stato e ti dico la verità: la sai la cosa più bella che ha fatto Zidane nella sua vita? Stiamo parlando di Zidane, lo sai
qual è il capolavoro di Zidane?
N. (Alza le sopracciglia con fare interrogativo)…
V. Chiamare Enzo suo figlio.
N. Eh, sì.
V. In onore di Enzo Francescoli, che era meno famoso di lui. Era già
meno famoso di lui, quando gli nacque il figlio. Era famoso nel Torino e nel Cagliari, soprattutto nel Cagliari perché lui aveva quel procuratore, come si chiama?
N. Casal.
V. Paco Casal, sì. Sempre coi pantaloni di pelle. Comunque Enzo
Francescoli è, secondo me, il giocatore più bello, più bello, che il Sudamerica abbia avuto. […] Io ho visto Francescoli alzare la Coppa
America con un braccio rotto alla Beckenbauer, perché giocò la finale, lo stroncarono ma giocò a casa sua a Montevideo. Era come vedere il mondo andare a posto, non so come dire. Lui segnò il rigore
decisivo. [...]
N. E poi ci sono i brasiliani. Però per essere un Mondiale sudamericano bisogna che si giochi là e non in Brasile. Il Brasile è un mondo
a sé.
V. Il Brasile è un altro continente. Se si parla tutti la stessa lingua e
in Brasile no, ci sarà una ragione… Nel calcio non è Sudamerica, il
Brasile.
N. Sicché dei brasiliani non si parla.
V. Dei brasiliani, no. Io in Uruguay ci sono stato. Sempre la bandiera hanno e gli inni nazionali li cantano per intero. L’inno dell’Uruguay è una cosa commovente, dura otto minuti, altro che. Non finisce più. A me mi commuovono tutti gli inni nazionali: però quelli
sudamericani hanno un’aria da melodramma di seconda mano. Come c’hanno di seconda mano tutti i monumenti: il Campidoglio è
copiato dal Campidoglio americano che è copiato dal Pantheon di
Parigi che è copiato da San Pietro di Roma. Ma gli inni sono romanze d’amore, che sembrano non aver a che fare con la patria ma invece ce l’hanno, e sono talmente solenni che a sentirli ti commuovi. [...]
V. e N. si ritrovano verso l’ora di pranzo allo Sporting a Prato. L’estate è finita, l’Italia ha vinto i Mondiali, la Juve è in serie B. Decidono
di fare una sauna. Anzi, prima un bagno turco. Dentro non c’è nessuno e la temperatura si aggira intorno ai 60 gradi. Ma le voci rimbombano e il discorso non sempre è comprensibile.
N. Io, a proposito dei Mondiali, vorrei dire una cosa. Torniamo un
po’ indietro ai minuti finali di Italia-Australia. Noi siamo in dieci, Totti è zoppo, la nostra unica punta è Iaquinta. È finita. I Mondiali per
noi sono finiti. Siamo stati eliminati. Quella fuga di Grosso che è rimasto in difesa per tutta la partita, da dove viene? ‘Sto Grosso fa uno
slalom straordinario, poi il tonno del terzino australiano…
V. ...abbocca, certo. Ma se ti ricordi, non fa fallo. Non era rigore.
Però dinanzi a un gesto del genere, doppio dribbling in area all’ultimo minuto, e poi giù in terra, anche l’arbitro abbocca per forza.
Gli Azzurri in Germania
ci credevano. Sono stati come
l’ispettore Clouseau: perché
lui lo vuole prendere il ladro,
lui ci crede sempre e alla fine lo piglia
N. [...] E allora mi è sembrato un segno del destino... che negli italiani si riconosce prima che negli altri.
V. Ecco il discorso è questo: noi, voglio dire, non io, ma loro, ecco,
ci credevano. Perché, se non ci credevano, Grosso non avrebbe fatto quella cosa lì. Loro si sono preparati per vincere il Mondiale. Sono
stati come l’ispettore Clouseau: perché lui lo vuole prendere il ladro,
lui ci crede sempre, e alla fine lo piglia. Gli azzurri hanno fatto così.
Come è possibile? [...]
Fa caldo. Decisamente molto caldo. Il vapore sale con ampie volute dove si attorcigliano parole intere.
N. E poi in conferenza stampa lo dicevano che se lo sentivano…
V. Li volevano buttare fuori prima ancora di cominciare: Cannavaro, Buffon, tutti via li volevano mandare. E questi non solo hanno
resistito, ma hanno vinto.
N. Senza meritarlo.
V. No. Meritandolo ma senza giocare bene. Via! [...]
Si passa dal bagno turco alla sauna finlandese, il caldo è più secco
e le voci non rimbombano.
N. Ma te, per esempio, questa vittoria, la senti tua o no? Ora.
V. Ora no. In verità io non l’ho mai sentita mia perché ero a Los Roques, l’ho vista là. [...] Quando son tornato Lippi non c’era più e veramente era finito tutto. Sicché alla prima partita della nazionale — battuta 2-0 in casa con la Croazia — mi son detto: ma ho sognato o che?
Forse sono vecchio, ho detto. Perché nell’82 godetti un anno. [...]
N. Già, perché non è durato? È colpa nostra o lo è anche per gli altri?
V. Secondo me è una cosa collettiva. In Federazione si sono scordati di mettere la stelletta nella prima uscita. Via! Vai a fare la passerella a Livorno e ti scordi di mettere la quarta stelletta? [...] Noi siamo
stati per due mesi e mezzo prima del Mondiale tutti i giorni concentrati su quell’altra rumba…
N. Nella lavatrice, a girare…
V. Sollecitati da un’altra cosa che era lo scandalo. Quindi il Mondiale è stato un accidente, nel frattempo. Pensavamo tutti di andare
a fare una figuraccia e poi la cosa importante era la Juve in B, il Milan
in B o in A. [...] Senti, a proposito di Milan, ma a te sembra giusto che
la Juve sia in B e quegli altri no?
N. Io credo che sia giusto che la Juve sia in B. Però come hanno fatto la Lazio e la Fiorentina a non finirci, è del tutto incomprensibile.
[...] Però per la Juve è un lavacro meraviglioso. [...]
V. È strano ma ora a me il calcio mi interessa di meno, tutto quanto. Perché? Sarà per quella faccenda dello scandalo?
N. Quella faccenda è stata devastante. [...] Poi ci sono tutti quegli
altri, i giornalisti, i telecronisti e quelli che stavano dietro. Io non credo molto però a questo repulisti. Mi dispiace per tutti quelli del processo… io lo guardavo spesso… il dottor Aldo, i tifosi coi cartelli che
ridevano di lui… il casino fenomenale… [...]
N. Però adesso che sono praticamente disidratato, io voglio dire:
non si fa così. Se si ha il convincimento che una partita sia truccata,
si rovina tutto. (affranto) Non si fa così. Come si dice al bambino che
dice le bugie. (ancora più affranto) Non si fa così. E il calcio, non lo
guarda più nessuno.
Tratto da La matematica del gol, © 2007 Fandango Libri
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
Cinque concerti-mito per festeggiare
i suoi ottant’anni. E per provare a far
rivivere quella Parigi febbrile, quando
“la cultura esplodeva in bolle iridate” davanti ai suoi giovani
occhi e Boris Vian raccontava la “masnada di dissennati
perdigiorno”delle strade di Saint-Germain-des-Prés
Greco
la musa
degli
esistenzialisti
IL MANUALE/1
UOMO
CAPELLI
Scompigliati che cadono
a ciocche sulla fronte
(vedi il famoso ritratto
di Arthur Rimbaud,
padre
dell’esistenzialismo)
CAMICIA
Stropicciata e aperta
fin quasi all’ombelico,
sia in estate
che in inverno
SCARPE
Dai colori sgargianti
a strisce orizzontali
GIUSEPPE VIDETTI
S
PARIGI
ul marciapiede di Boulevard Saint-Germain che va
dal Flore ai Deux Magots, due dei caffè letterari più
rinomati della capitale francese, gruppi di turisti
transitano ignari. Sono capitati in un hotel nei paraggi con un pacchetto all-inclusive. Chiedono ai vigili la direzione per Champs-Elysées, Concorde, Louvre. E naturalmente Torre Eiffel. Non sanno di essere nel quadrilatero magico
della rive gauche. Sessant’anni fa il quartiere di Saint-Germain-des-Prés diventò la tana degli esistenzialisti, in una Parigi esplosiva che profumava d’arte e di quella joie de vivre che
Picasso aveva raccontato a pennellate nel celebre quadro dipinto a Antibes, una sorta di manifesto della rinascita dello spirito umano dopo gli anni bui della guerra.
Nel 1947 Picasso è a Parigi, dove ha messo a punto le scene
di uno spettacolo di teatrodanza, Le rendez-vous, che contiene “Les Feuilles mortes”, una delle canzoni più potenti del secolo: testo di Jacques Prévert, musica di Pierre Kosma, coreografia di Roland Petit. E lavora alla realizzazione di un Oedipe
roidi Sofocle che va in scena al Théâtre des Champs-Elysée. Bighellona, come gli altri artisti e le loro corti, nel quadrilatero
che sembra esplodere sotto i colpi del jazz degli alleati, i ritmi
caraibici, le percussioni africane, e Stephane Grappelli e Boris
Vian e Orson Welles e Jean Cocteau e Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir con la cravatta che ha appena pubblicato Il secondo sesso e Camus che sta per pubblicare La peste e negresse esotiche dai seni al vento molti anni prima dello spogliarello di Aiché Nana al Rugantino di Roma. Anche Greta Garbo fa
la sua apparizione al Tabou. Ma la musa degli esistenzialisti è una francese di Montpellier, si chiama Juliette Greco. Nel ’47, quando incide la prima canzone, ha vent’anni, è
meravigliosamente bella, libera, anticonformista, ma già con molte storie dolorose da raccontare. Nella sua autobiografia,
Jujube, ricordando quell’anno si racconta in
terza persona: «La cultura esplode in bolle
iridate davanti agli occhi attoniti di Jujube.
Al Tabou, ogni notte, lei distinguerà, secondo il capriccio delle onde della vita di quella
Parigi traboccante di idee e di desideri, i volti di Albert Camus, François Mauriac e Simone de Beauvoir, che ha occhi azzurri come un mare in burrasca. Quando li tiene abbassati su un foglio per ore intere, al Flore o
al Deux Magots, ci si chiede se il foglio bianco non prenderà
fuoco».
Il mito continua, a dispetto delle mode. Ieri sera, al Théâtre
du Châtelet, la Greco ha tenuto l’ultimo di cinque concerti tutto-esaurito con cui ha festeggiato i suoi ottant’anni, compiuti
il 7 febbraio, ma soprattutto i sessant’anni di carriera, perché
spegnere le candeline sulla torta è una cosa che ha sempre detestato. «Sono felice di essere ancora qui, di poter camminare,
correre, di sentirmi così piena di vita», ha detto ai parigini prima di cantare le ultime dodici “creature” incise nell’album Le
temps d’une chanson, in cui accanto a brani di Brel, Trenet e
Gainsbourg ha incluso anche Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno.
Accarezzata dalle luci di scena, sembra ancora il volto-immagine degli esistenzialisti che Boris Vian inserì nel suo Manuale di Saint Germain-Des-Prés, di cui recentemente Rizzoli
New York ha pubblicato una preziosa ristampa in inglese (Editori Riuniti ne ha curato un’edizione nel ’99 con il titolo La Parigi degli esistenzialisti). Una delle foto più belle del libro la mostra su un letto disfatto dell’hotel La Louisiane, nella camera
d’angolo che era stata di Sartre, il corpo nudo avvolto in un lenzuolo, mentre sistema un microsolco sul giradischi. Sulla moquette lisa c’è un caos, tipicamente esistenzialista, di bottiglie,
“E con una poesia
si pagava
il conto al bistrot”
DONNA
CAPELLI
Lisci lunghi
fino al petto
ACCESSORI
Nelle tasche
dei pantaloni topolini
bianchi addomesticati
TRUCCO
Severamente proibito
l’uso del make-up
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
FOTO DI GRUPPO
Le foto nella pagina
di sinistra dall’alto
in basso: un gruppo
di giovani esistenzialisti;
Django Reinhardt;
Jean Renoir; interno
del Club Tabou
Nella foto centrale,
Giuliette Greco
all’Hotel Louisiane
In questa pagina,
dall’alto in basso
e da sinistra a destra,
l’interno della Rose
Rouge; William Faulkner
con amici; Jean-Paul
Sartre e Boris Vian;
Don Carlos Bian e amici;
Orson Welles; Stephane
Grappelli; Marc Doelnitz
e un’amica;
Simone de Beauvoir
Tutte le immagini sono
tratte dal libro di Boris
Vian Manuel
de Saint-Germaindes-Prés (Rizzoli
America, 2005,
190 pagine, 40 dollari)
IL MANUALE/2
LA GIORNATA
UNDICI - UNA
Bagno di sole al de Flore
(nella foto)
UNA
Colazione,
il più delle volte a credito,
in uno dei bistrot
della zona,
come “Les assassins”
di Rue Jacob
TRE-SEI
Al caffè de Flore
La domenica il Flore
è rimpiazzato
dal Deux Magots
(nelle foto)
SEI-SEI E MEZZO
Chi ha una casa
si ritira
per lavorare un po'
OTTO-MEZZANOTTE
Al Bar Vert
MEZZANOTTE-DIECI
Al Tabou
Il sabato il Tabou
è rimpiazzato
dal Bal Nègre (nella foto)
Fonte: Boris Vian,
Manuel de
Saint-Germain-des Prés
tazze, cucchiaini, libri e copertine di dischi sparsi alla rinfusa.
Nella prefazione, Vian annota: «Intorno al 1947 Saint-Germain-des-Prés diventò repentinamente la mecca del mondo
intellettuale». In quello stesso anno l’artista, che oltre a scrivere suona la tromba, canta e trascorre notti ad alto tasso alcolico al Tabou, pubblica quattro libri, tra cui Autunno a Pechino,
e ingordo di gloria dichiara: «Sarò contento solo quando in
Francia si dirà V come Vian». E quasi ci riesce. Nel mese di aprile una copia del suo Sputerò sulle vostre tombe, istantaneo best seller pubblicato con lo pseudonimo di Vernon Sullivan,
viene trovato accanto al cadavere di una ragazza strangolata
dall’amante, un commesso viaggiatore che poi si toglie la vita
in un bosco fuori città. Dalle pagine della cultura e dello spettacolo, Vian finisce involontariamente in quelle della cronaca
e della politica, insieme alla «masnada di dissennati perdigiorno» che popolano le strade del quartier latin.
La verità è che lì si sta consumando una rivoluzione in cui
cultura alta e bassa si mischiano senza pregiudizi. Il pianista
Henry Renaud, che nel ’47 aveva ventidue anni, ricorda:
«Saint-Germain ha fatto per la musica ciò che Montparnasse
ha fatto per la pittura dopo il 1918. E non si trattava di una musica qualsiasi. Era jazz». Sartre, travolto dall’energia degli artisti d’oltreoceano ma al tempo stesso preoccupato da quell’ondata di musica d’importazione, in un articolo intitolato
Jazz 1947 scrive: «La musica jazz è come la banana: la si deve
mangiare sul posto».
Il Tabou era più trasgressivo di un rave, restava aperto fino
alle dieci del mattino. Nel pomeriggio i modaioli — i più facoltosi erano già “schiavi” del new look di Dior, che nel ’47 aveva
aperto il suo atélier — prendevano lezioni di be bop dai maestri afroamericani. Poi si ballava tutta la notte con la musica di
Coleman Hawkins o Charlie Parker. Miles Davis non aveva ancora ventitré anni quando sbarcò a Parigi. Con la ventiduenne
Jujube fu amore a prima vista. Nella sua autobiografia Davis
racconta: «Non mi ero mai sentito così in vita mia: l’euforia di
trovarmi in Francia e di essere trattato come un essere umano.
Io e Juliette passeggiavamo lungo la Senna, tenendoci per mano e baciandoci, guardandoci negli occhi e baciandoci di nuovo. Magia pura, mi sentivo ipnotizzato, ero in uno stato di trance. Juliette è stata la prima a insegnarmi che si può amare qualcun altro oltre la musica. Era April in Paris e sì, ero innamorato». Restò un paio di settimane. Sartre gli chiese: «Perché non
la sposi?». E lui: «L’amo troppo per renderla infelice». E si dileguò. «Non era a causa della sua reputazione di Don Giovanni
o per questioni di droga, come molti pensano», dice oggi Greco. «Sapeva quali problemi avrei avuto in America se avessi
sposato un uomo di colore».
A ottant’anni Jujube conserva intatti stile e charme. Gli stessi che folgorarono Miles: «Lunghi capelli neri, bellissima, chic,
un portamento che la rende diversa da tutte le altre». Si nasconde ancora dietro elegantissimi abiti neri che si confondono con la scena buia, così la visione del suo viso pallido, una
maschera inconfondibile, arriva chiara e nitida anche agli
spettatori delle ultime file. Qualcosa, nel tanto dolore e nella
malinconia che da sempre affogano le sue canzoni, lascia indovinare un tentato suicidio (proprio dopo aver girato Belfagor, nel 1965) e i troppi funerali degli eroi di Saint Germain che
se ne sono andati, come canta drammaticamente in J’arrive
dell’amico Brel («Di crisantemo in crisantemo i nostri amici incominciano ad andarsene…»). Sa di essere l’unica sopravvissuta di tutti quei volti che affollano il “manuale” di Vian, l’ultima testimone di un’epoca gloriosa. «È gentile che la vita mi abbia portato fin qui», dice. «Le persone anziane hanno più paura della morte di quanta ne hanno i giovani, ma io sono rimasta all’immaturità, non la temo. Mi aiutano le canzoni: hanno
il profumo di un istante, eppure ce ne sono alcune che ti accompagnano per tutta la vita, entrano a far parte della memoria collettiva. E hanno l’effetto di una madeleine di Proust. Ma
io vivo sempre con sorpresa il presente. Solo un po’ di nostalgia quando ripenso a un’epoca in cui si poteva pagare il conto
del ristorante con una poesia».
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
i sapori
Marmellate, liquori digestivi, biscotti, prodotti dell’orto, torte e piatti
casalinghi: in molti monasteri italiani l’ospitalità è un’antica vocazione
che adesso viene raccontata in due docufilm realizzati per Rai Tre
Si svelano così quelle ricette della “gastronomia benedetta”
Cibo dell’anima
che custodiscono e tramandano da decenni i segreti della semplicità
Ravioli
alle
bietolone
Crostini
con
le interiora
Abbazia
di Novacella
Monastero
di Bose
Convento
dell’Annunciata
Fondato nel 1142
dal vescovo
di Bressanone Hartmann,
il complesso è formato
da una chiesa tardobarocca, da un chiostro gotico,
dal pozzo dei miracoli
e da una sontuosa biblioteca
I monaci agostiniani producono
ottimi vini bianchi aromatici
e una tisana di erbe coltivate
nel maso Rauter
Creata nel 1965
da Enzo Bianchi, teologo
attivissimo nel dialogo
fra Chiesa e società,
ristrutturando e ampliando
le rovine di una chiesa romanica,
è una comunità monastica aperta
a uomini e donne di chiese
cristiane diverse, sotto
la guida di un priore. La coltivazione
di orto e frutteto si traduce
in confetture, gelatine e conserve
Del 1500, divenne
santuario mariano, noto
per la cura degli appestati
nell’epidemia del 1630
Dopo secoli
di abbandono, i frati Servi di Maria
nel 1960 l’hanno riportato all’antica
vita religiosa, culturale e artistica
Dalle vigne del convento, nasce
un eccellente Chardonnay
di Franciacorta, con l’etichetta
Bellavista
VARNA DI BRESSANONE (BZ)
MAGNANO (BI)
ROVATO (BS)
Via Novacella 1
Tel. 0472-836189
Località Bose
Tel. 015-679115
Piazza Santissima Annunciata 2
Tel. 030-7721377
Badia di Santa Maria
della Neve
Monastero
di Camaldoli
Due anni dopo
la costruzione, cominciata
nel 1471, venne annesso
un piccolo convento,
per una ventina di frati
Dopo varie vicissitudini, i monaci
benedettini sublacensi sono tornati
ad abitarlo a metà Ottocento
Storica ed eccellente,
la produzione di polline, pappa reale
e mieli di qualità diverse
nel bel laboratorio apistico
Avvolto in un bel bosco
e costruito a pochi
chilometri dall’Eremo
Sacro grazie al conte
Maldoli (ca’ Maldoli,
da cui il nome), fu a lungo sede
ospedaliera per poveri e pellegrini
I monaci benedettini camaldolesi
vantano una generosa produzione
di liquori (Elisir dell’Eremita, Lacrima
d’Abeto), tisane, caramelle,
confetture, porcini
AREZZO
Via Badia 28
Tel. 0521-355017
Località Camaldoli
Tel. 0575-556012
Sarde
in
carpione
Cucina
Chiostro
del
Quel che passa il convento
le scelte
Tra le centinaia
di monasteri sparsi
dalla Val d’Aosta
alla Sicilia, alcuni
offrono ospitalità
ai non-religiosi
(quasi sempre
con un’offerta
libera). Spesso
si distinguono anche
per la produzione
di “chicche”
alimentari. Ecco
qualche indirizzo
per orientarsi
LICIA GRANELLO
ra, labora… et ede; prega, lavora e mangia. L’estensione
del precetto di San Benedetto è fondamentale nella vita di
molti monasteri, se è vero, come diceva Santa Teresa d’Avila, che «quando il corpo sta bene l’anima canta». Semplice, genuina e tradizionalissima, la cucina del chiostro
rappresenta la summa della cucina casalinga, moltiplicata per il numero dei monaci, impreziosita da piccoli grandi dettagli, a
partire dall’orto. Conventi e monasteri ne vantano di bellissimi, veri
giardini di verdura, spesso vissuti come luoghi di meditazione e raccoglimento. Ogni gesto — dalla semina alla raccolta — nei precetti dei padri fondatori ha una fortissima valenza di omaggio e ringraziamento,
che si traduce in pratiche di agricoltura virtuosa. Niente chimica, niente coltivazioni intensive, rispetto dei ritmi della natura.
Dagli orti, i frati cucinieri ricavano gli ingredienti di zuppe, frittate, sughi, contorni; i frutti vanno ad alimentare torte e macedonie. Per restare nei limiti del precetto senza mortificarsi, si adottano piccoli trucchi
squisiti, come nel caso delle fritture. È nato così il tempura, apparentemente importato dalla gastronomia giapponese, e invece inventato nei
monasteri medievali durante i tempora, ovvero i tempi di penitenza
(Quaresima).
Il resto della produzione viene trasformato in confetture, composte,
gelatine, sottoli e sottaceti, che riempiono gli scaffali della dispensa, dello spaccio interno o dei negozi che li comprano in esclusiva.
Ma dentro questi piccoli antri di gastronomia benedetta c’è molto di
più. Ben lo raccontano due documentari — Storie di clausura e Storie di
dolci— realizzati da Piero Canizzaro e in onda nei prossimi giorni su RaiTre: storie di povertà e redenzione, di sublimazione e riscatto.
Le monache benedettine di Monte San Martino, per esempio, svelano che i pasti sono un momento di comunione, una liturgia «per rende-
O
re lode al Signore». Cibo e preghiera vengono vissuti come strumenti che
consentono di star bene e di trasmettere un messaggio positivo agli altri.
Ma ci sono anche racconti di ribellione, come quello di Maria Grammatico, affidata bambina alle suore e vissuta vent’anni nel convento di
clausura di San Carlo di Erice, Sicilia, gestito da monache custodi gelosissime di antiche ricette di pasticceria di alto livello. Maria — che oggi
ha 67 anni — negli anni riuscì a impossessarsi di tanto sapere dolciario.
Una volta lasciato il convento e aperto un piccolo laboratorio autonomo, cominciò a sfornare cannoli e cassatine. Una scelta felicissima, se è
vero che ormai l’Antica pasticceria del convento manda cabaret dei suoi
dolcetti in tutto il mondo.
Dolci e non solo. Dallo straordinario formaggio Munster (monastero)
alsaziano al prezioso miele di girasole, chiostri e conventi regalano vere
prelibatezze senza limiti tra dolce e salato. Su tutte, regnano incontrastati gli alcolici. Dura nel tempo il mito dei Mastri birrai trappisti, seguaci
dell’abate cistercense francese La Trappe (1600). Quattrocento anni dopo, sette monasteri (sei in Belgio e uno in Olanda) continuano a regalarci bionde, rosse e scure di grandissimo valore. Altra delizia, la mitica
Chartreuse, liquore raffinatissimo preparato alla Grande Chartreuse,
nei pressi di Grenoble. Merito primario dei monaci benedettini, al seguito delle armate cristiane in Terra Santa, che a suo tempo avevano carpito dai manoscritti arabi i segreti della distillazione.
Non vi basta? Comprate la Guida ai monasteri d’Italia (di Tarallo e
Grasselli) e regalatevi un week end spiritual-gastronomico. Oltre a monasteri che offrono ospitalità spartana e pasti semplici, l’Italia abbonda
di monasteri trasformati in veri tempi gourmand e locande di lusso, dalla Frateria di Padre Eligio in giù. Ma non vi illudete: dopo l’Elisir del Frate chiudi-pasto, la preghiera di ringraziamento è d’obbligo.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
Frutta secca
di origine
siciliana
Polenta
al nero di seppia
e bucatoli
Benedettine
Santa Croce
Santa Maria del Monte in Gerusalemme
Monastero
di Santa Chiara
Santa Maria
di Montevergine
Monastero
di Santo Spirito
Monastero sorto nel 1108,
ristrutturato a metà
del Cinquecento
è da sempre nelle mani
delle monache benedettine
che ne hanno fatto un accogliente
centro spirituale con seminari
e consulenze psicologiche
Le monache si dedicano con pari
perizia alla produzione di vino, olio,
distillati, oltre ai tradizionali dolci
e ai biscotti regionali
Annesso alla basilica
fondata nel Quarto secolo
da Sant’Elena, madre
dell’imperatore
Costantino, venne
edificato nel 1712
I monaci cistercensi lavorano
il bellissimo orto ricavato
nell’anfiteatro romano
Si producono mieli, marmellate,
cioccolato e liquori a base
di erbe officinali
Secondo tradizione,
la fondazione,
nel Dodicesimo secolo,
si deve a una seguace
di santa Chiara, alcuni
anni dopo la visita di san Francesco
in Abruzzo. Le suore clarisse
continuano a produrre
i “dolci del monastero”: mostaccioli,
pasta di noci, rafaioli con marmellata
e le bocche di dama nera,
con mandorle e cioccolato
Il trittico architettonico
sorto all’inizio
del Dodicesimo secolo
a 1270 metri – monastero
benedettino, abbazia
territoriale e santuario mariano –
ospita anche mostre e concerti
La produzione di liquori d’erbe
è ultrasecolare: si va dall’anisetta
benedettina al cognac medicinale
Eccellente anche la produzione
di miele
Nato per una donazione
nel 1290, ebbe lunga vita
tranquilla fino al 1944,
quando fu occupato
dai militari e divenne
caserma di guerra. A gestirlo,
le monache cistercensi, ordine
fondato in Francia da tre monaci
benedettini. Oltre ai tradizionali dolci
di marzapane, viene realizzata
una variante del cus cus
con pistacchi e mandorle
BEVAGNA (PG)
ROMA
ATRI (TE)
MERCOGLIANO (AV)
AGRIGENTO
Corso Matteotti 15
Tel. 0742-360135
Santa Croce in Gerulasalemme 12
Tel. 06-7014779
Santa Chiara 11
Tel. 085-87206
Via Montevergine
Tel. 0825-72924
Cortile Santo Spirito
Tel.0922-20664
Pasta reale
in
minestra
Dal peccato di gola di Adamo ed Eva
alla sapienza segreta degli chef in saio
MASSIMO MONTANARI
onaci e gastronomia: un’abbinata vincente. Le affascinanti storie di monasteri immersi nella campagna o fra i boschi facilmente si sposano con immagini di prodotti sani e gustosi, cibi affettuosamente preparati, modi di vita piacevolmente sobri, saperi secolari che profumano di zuppe fumanti, erbe medicinali, salutari elisir, formaggi squisiti.
In realtà, il rapporto della cultura monastica col cibo è caratterizzato da un’ambiguità di fondo. Scelte di vita moderate e discrete, come quelle raccomandate da san Benedetto, si incrociarono sempre
Il merito dei monaci nell’evoluzione
con atteggiamenti feroci verso i piaceri del corpo, primo fra tutti il piacere alimentare, tanto pericoloso quanto necessario, dato che per vivere bisogna mangiare: un piacere “basico”, dunque, inevidella gastronomia del mondo è grande
tabile, in qualche modo propedeutico ad altre attenzioni fisiche, ad altri vizi e piaceri. Questo penUn nome su tutti: Dom Perignon, il frate che,
savano i padri del pensiero monastico, agli albori del Medioevo cristiano, osservando come lo
cercando di imprigionare le bollicine dei vini ristesso progenitore Adamo si fosse macchiato di una colpa “originaria” occasionata dalla passione per un frutto proibito: in buona sostanza, un peccato di gola.
fermentati nelle bottiglie della sua cantina, inventò
La diffidenza nei confronti del cibo, e più in generale del piacere fisico, legittimava singolalo
Champagne. La maggioranza dei formaggi franri esperienze di “anti-cucina” volte ad annullare le qualità organolettiche dei cibi: quando l’abate Lupicino ritornò al suo monastero — racconta un testo agiografico dell’alto Medioevo — cesi sono nati nei monasteri, a partire dal munster (tere si accorse, dal profumo che usciva dalle cucine, che i monaci erano intenti a preparare pesci mine latino monasterium, nome di un monastero-vilsucculenti e altre gustose vivande, ordinò di mescolare tutto insieme e di farne un indistinto
pastone. Le pratiche di astinenza e di digiuno, prescritte da ogni regola monastica, sono laggio fondato nel 660 in Alsazia). Francesi e monaespressione di questa cultura, certo non tenera nei confronti del cibo.
cali anche i distillati d’uva. Nei centri religiosi tedeMa paradossalmente, furono le stesse regole dell’astinenza a generare attenzioni propriaschi, invece, vengono prodotti meravigliosi distilmente gastronomiche. Soprattutto l’esclusione della carne dalla dieta monastica, che, con molati di frutta. Ma i frati-gourmand più famosi sodalità diverse da comunità a comunità, rappresentò per tutti la scelta di base, rese necessaria
un’opera paziente di valorizzazione dei prodotti alternativi, zuppe di verdura e di legumi, mineno i trappisti belgi, capaci di inventare un
stre di pasta, uova e formaggi, per non dire dei pesci, che della carne furono l’immediata alternatiproprio stile di birra, con tanto di marva. E poi confetture e conserve di ogni genere, con un’attenzione ossessiva alla dispensa, che ai monaci doveva garantire una completa autosufficienza per impedire che, in linea di principio, vagassechio registrato ed esclusivo di
ro a cercar cibo fuori dalla comunità. La solitudine monastica, funzionale alla meditazione e alla preproduzione
ghiera, produsse in tal modo una sintonia sghemba con la società contadina, attenta anch’essa a far quadrare il bilancio alimentare, a garantirsi dal pericolo incombente della fame.
In tal modo il monastero diventa, quasi a dispetto della scelta di vita che lo genera, un luogo formidabile di
elaborazione della cultura gastronomica. L’icona del monaco goloso, stereotipo consegnato da una lunga tradizione orale e letteraria, fonda le sue ragioni su questo fondo di verità. Al quale si aggiunge il fascino del “segreto”, di pratiche e consuetudini gelosamente conservate al riparo dalla corruzione mondana. L’attribuzione monastica può così diventare un valore aggiunto di segno inequivocabilmente positivo. «Quanti formaggi», si chiedeva Léo Moulin, «non sono monastici nelle loro origini?».
Nelle loro origini, non saprei. Ma sul piano del marketing è indubbio che quella attribuzione funziona. Sarebbe però ingiusto dimenticare i pastori e i contadini che, lavorando con (e per) i monaci, contribuirono in
maniera decisiva a costruire il nostro patrimonio gastronomico.
M
I monaci
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Cassetto intimo
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
Nel 1907 la rivista “Vogue” pubblica foto e disegni
dell’indumento femminile “moderno” che prende
il nome di brassière. Comincia così - tra coppe,
forme, stecche, lycra, pizzi e gel al silicone
di nuova generazione - la carriera di uno dei capi
più rivisitati e sexy dell’armadio delle donne
ROMANTICO
SEXY
PRIMAVERILE
Romantici cuoricini colorati su fondo
bianco e merletto rosa per il reggiseno
proposto da Dolce e Gabbana
con tanto di logo sul pizzo
Trasparente, rosso fuoco,
con il ferretto: decisamente sexy
il modello La Perla con doppie
spalline sottili in raso
Push-up in pizzo rosa e piccoli pois
con spalline color cioccolato
su cui spicca un ricamo floreale
È una delle proposte di Intimissimi
ANIMALIER
PREZIOSO
CLASSICO
A forma di triangolo in tulle imbottito
ma con effetto maculato. Proposto
da Yamamay in verde, perfetto
per le giovanissime
Push-up realizzato in prezioso tulle
con giochi di macramè e fiocchetti
Fa parte della serie Sharon di Parah
della collezione primaverile
Realizzato in morbido raso con balza
in pizzo a contrasto, il reggiseno
Triumph è un classico rivisitato
in chiave moderna
Cent’anni vissuti pericolosamente
LAURA LAURENZI
ompleanno tondo per il reggiseno. Taglia il traguardo dei cento anni ed è in ottima salute, rivisitato e riproposto in
ogni forma possibile, arma suprema di
seduzione, feticcio dei feticci, ma anche
indumento indispensabile per la sua
praticità a miliardi di donne indipendentemente dalla moda e dalle mode.
Un compleanno labile: non esiste una vera data di
nascita. Il reggiseno - modello a fascia - è già presente nei mosaici di Villa Armerina. Il 1907 è però l’anno
in cui la rivista Vogue, con il nome di brassière, comincia a pubblicare foto e disegni dei primi reggiseni che potremmo definire «moderni». Gli americani e
gli inglesi abbreviano e nasce la parola bra. Prima in
francese reggiseno si diceva soutiens-gorge ed era
molto più parente del corsetto contenitivo. Nato in
Francia, saranno poi gli americani a perfezionarlo e a
dargli la forma che ha più o meno conservato in questo secolo di vita.
In realtà già nel 1889 una signora francese, Herminie Cadolle, borghese agiata ma anche femminista
convinta, aveva presentato all’Esposizione Universale di Parigi una sua creazione che si avvicinava molto alla versione poi codificata e pubblicata nel 1907:
due coppe di cotone munite di bretelle, dunque il seno separato nel mezzo, una rivoluzione. Ma ci vorranno anni e anni prima di mandare definitivamente
in cantina le stecche di balena e altre torture.
Il primo brevetto di un reggiseno moderno ha la data del 1914, quando una ricca dama newyorkese,
Mary Phelps Jacob, deposita il marchio di una sua invenzione con il nome di “Caresse Crosby” e la cede alla Warner per 1.500 dollari: un reggiseno senza armatura che non fa trasparire segni. Il prototipo se lo era
fatto da sola un anno prima utilizzando due fazzoletti ed un nastro, buttando il punitivo corsetto - praticamente un cilicio- alle ortiche.
Nel 1917 l’industria bellica esorta le donne americane a fare a meno di reggiseni dotati di parti metalliche. In questo modo furono risparmiate circa 28mila
tonnellate di metallo, quanto bastava - si rilevò patriotticamente - per costruire due navi da guerra. Negli anni Dieci e Venti prevale il reggiseno che appiattisce. Il seno Liberty è piccolo e la donna è androgina:
guardate le incisioni di Aubrey Beardsley e le sue Salomè. Negli anni Trenta un’emigrata russa di nome
Ida Rosenthal fonda negli Stati Uniti assieme al marito un’azienda che farà fortuna producendo reggiseni, la Maidenform, la prima che crea misure differenziate per le coppe con le diverse categorie per circonferenza. Nel 1931 la Warner immette sul mercato i
primi reggiseni con le bretelle elastiche, ma sarà durante la Seconda guerra mondiale, grazie al nylon inventato nel ’38, che trionferanno le fibre sintetiche,
utilizzate per ripiego in mancanza di materie prime
naturali come la seta, la gomma, il cotone.
Gli anni Cinquanta sono gli anni delle maggiorate:
seni abbondanti dopo le ristrettezze e i patimenti della guerra. Nasce il reggipetto imbottito, antenato artigianale del push-up. Persino Marilyn Monroe - lo
abbiamo visto quando, nell’ultima asta dei suoi memorabilia, è stata impudicamente messa all’incanto
persino la sua biancheria personale - utilizzava i famosi “pescetti”: le imbottiture ovali rimovibili da sistemare all’interno delle coppe.
Reggiseno è una parola da pronunciare a bassa voce, con pudore, arrossendo. Nell’Italia moralista di
quegli anni Carosello, la trasmissione simbolo del nostro boom economico, ha un suo catalogo di termini
da censurare che vieta l’uso di parole considerate «indecenti», fra cui spicca proprio reggiseno.
I formidabili anni Sessanta sono anche quelli del
rogo. Che tirasse aria punitiva, per il seno e il reggiseno, lo si capiva già dal successo di una modella - diventata presto un modello - come la penitenziale
C
Repubblica Nazionale
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53
✯ LE STAR ✯
‘‘
La fanciulla
(...) e il corsettino
di broccato
che sosteneva
il seno
con due punte
ricurve, davano
alla fanciulla
una grazia
orientale
Da CENERE
di Grazia Deledda
MARILYN MONROE
SOPHIA LOREN
BRIGITTE BARDOT
MADONNA
Una giovanissima
Marilyn al telefono
nei primi anni
Cinquanta: la star
divenne famosa
anche per le sue
forme “burrose”
e le sue scollature
Sophia Loren
in reggiseno nero
nella celebre
scena dello strip
del film Ieri, oggi
e domani, regia
di Vittorio De Sica
1963
È il 1957 B.B
recita ne Gli amanti
del chiaro di luna
ha un aria
sbarazzina
e un modello
di reggiseno
a balconcino
La rockstar
fece scandalo
nei concerti
anni Novanta
con i reggiseni
aggressivi
“costruiti” per lei
da J. Paul Gaultier
Reggiseno
il
Twiggy, simil-anoressica, emaciata e con un busto taglia zero. Il 1968 è l’anno in cui le femministe danno
fuoco, idealmente ma anche materialmente, ai loro
reggiseni. Accade di fronte al grande albergo in cui si
tengono le finalissime del concorso di Miss America.
Nello storico falò, filmato dai telegiornali, c’è di tutto:
giarrettiere, piastre per capelli, pinzette, cere depilatorie, scarpe con i tacchi a spillo, tutto quello che viene catalogato come arma di oppressione e strumento di tortura finalizzato a rendere la popolazione femminile del pianeta «donne oggetto». Ma il simbolo supremo di discriminazione e ineguaglianza fra i sessi,
più di ogni belletto, di ogni trucco e ogni inganno, è
considerato il reggiseno.
Mandato in soffitta dalle purghe emancipatorie, in
realtà mai tramontato, il reggiseno aveva però già fatto il suo ingresso nella leggenda e nel nostro immaginario collettivo, conquistandosi un posto d’onore fra i
miti e le icone del Ventesimo secolo. Il reggiseno di Mata Hari, che vi custodiva documenti segreti. Quello, anzi quelli della miliardaria Barbara Hutton, che li collezionava a centinaia. Il reggiseno di Marilyn, che in
Quando la moglie è in vacanza racconta di «tenere gli
intimi in frigorifero». Il balconcino delle grandi dive:
nero con nastrino per la Loren nel celebre spogliarello
di Ieri, oggi, domani, a quadrettini Vichy per la Bardot,
color carne e scultoreo per Gina Lollobrigida. Il reggiseno diventa materia di provocazione, se non addirittura di parodia da fumetto, in mano a stilisti come Jean
Paul Gaultier e Vivienne Westwood. Ecco i turbo-reggiseni a forma di siluro esibiti da Madonna.
Il resto è storia recente, anzi, cronaca dei nostri
giorni. La riabilitazione, i progressi tecnologici, la ricerca. Abbiamo capito che il reggiseno non soltanto
non opprime (al massimo comprime) ma sostanzialmente aiuta, dona, ed è il più versatile dei nostri indumenti o accessori, più un alleato che un nemico e
non soltanto in palestra, indipendentemente dalla
sua carica erotica. Contiene i forti, sostiene i deboli e
raduna i dispersi, osserva goliardicamente un collezionista. L’anno 1994, che vede il lancio del Wonderbra, e cioè del reggiseno col push-up che fa lievitare
anche i busti meno dotati, fa da spartiacque. È l’anno
che dà il via all’impiego delle nuovissime tecnologie
applicate alla biancheria intima. La fine del secondo
millennio e l’alba del terzo consacrano il trionfo del
seno abbondante, vero o presunto che sia, ingrandito ed esaltato dal reggiseno col trucco o magari dal bisturi, vessillo di una femminilità esagerata.
Oggi viviamo gli anni della biancheria “esternabile”,
così sexy e sofisticata da doverla ostentare sotto le giacche. Modellante, effetto lifting, o semplicemente riparatrice, come ha sfilato nei giorni scorsi al Salone annuale dell’intimo di Parigi. Un intimo che non si accontenta più di coprire e scoprire elegantemente le nudità ma piuttosto le plasma, le scolpisce, le rimpolpa,
le sfina. L’industria ci propone ogni giorno reggiseni
con optional ed effetti speciali sempre nuovi e diversi,
in una corsa fantascientifica verso la biancheria intelligente, quando non addirittura parlante. Abbiamo il
reggiseno che cambia colore al momento dell’ovulazione, quello con l’airbag, quello che controlla il dispendio calorico, quello supervolumizzante che si
gonfia a volontà con apposita cannuccia. Il reggiseno
dotato di microchip in grado di monitorare battito cardiaco e pressione. Quello antiaggressione che consente di dare l’allarme via radio. Il reggiseno dotato di un
bip luminoso che entra in funzione per segnalare i pericoli dal cielo, battezzato non a caso Armageddon,
realizzato con il tessuto usato dalla Nasa per le tute degli astronauti. Quello al titanio, capace di memorizzare la forma iniziale impressa la prima volta. Il reggiseno a olio, quello aerodinamico progettato sui principi
del frisbee, l’antifumo, che rende l’aroma della sigaretta intollerabile e infine quello anti buco nell’ozono
e pro risparmio energetico. È in pelliccia ecologica, con
imbottitura al gel: si infila qualche secondo nel forno a
microonde e aiuta a combattere il grande freddo.
LA STORIA
1907
La rivista Vogue
pubblica col nome
di brassière
foto, modelli
e disegni dei primi
reggiseni moderni
La parola del capo
viene abbreviata
e diventa bra
1928
Ida Rosenthal,
immigrata russa,
fonda con il marito
William l’azienda
Maidenform: qui
vengono definite
per la prima volta
le misure di coppa
dei reggiseni
1959
Warners e Dupont
producono
il materiale
sintetico
che cambierà
la vita della donne:
la lycra. Così
il reggiseno
diventa impalpabile
1994
Arriva Wonderbra:
il reggiseno
non copre
nè sostiene più
ma evidenzia
con il push-up
le rotondità
femminili
È una rivoluzione
2007
Ad aria, ad olio,
con silicone
incorporato
con microchip
che riscalda
o luminescente:
il reggiseno
da indumento
diventa gadget
Repubblica Nazionale
54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007
l’incontro
Maestri della regia
Nel tempo, per i suoi modi
e per il contenuto delle sue pellicole,
da “Mani sulla città” a “Il caso
Mattei”, il popolo di Cinecittà
gli ha affibbiato il nomignolo un po’
sfottente di “professore”
E lui, a 84 anni,
infaticabile,
non si sottrae ai doveri
(e ai vezzi) del pedagogo
“Io faccio cinema
della realtà”, dice
della propria opera,
“per questo è diverso. Si fa in tante
maniere il cinema per carità...
Però bisogna saperlo fare”
Francesco Rosi
ice, scandendo le parole: «Quando si parla di
Mani sulla città se ne
parla per la speculazione edilizia. Ma è riduttivo. Come
quando definiscono il mio “cinema
politico”. Riduttivo. Quel film, stia
bene attento, è la storia di come viene
cambiata a un terreno la destinazione
assegnata dal piano regolatore. E la
storia di come un imprenditore delle
costruzioni, realizzando un illimitato
conflitto di interessi, riesce a diventare assessore all’urbanistica da consigliere comunale che era, per potersi
servire di quel potere a vantaggio delle proprie imprese. Da qui parte il riconoscimento di qualcosa che era valido ieri, 1963, come è valido oggi.
Rendere legale attraverso il potere
politico corrotto ciò che è illegale.
Non so se mi sono spiegato».
Si è spiegato forte e chiaro Francesco Rosi. Sempre sulla breccia, a 84
anni peraltro artisticamente attivi: la
regia teatrale di Napoli milionaria
prima, e ora di Le voci di dentro, con
occhio attentissimo alla sensibilità
“politica” dell’Eduardo dell’immediato dopoguerra, fratello stretto del
Rossellini della trilogia neorealista:
fondatori paralleli, anche se l’uno
non sapeva niente dell’altro, di uno
sguardo radicalmente nuovo sull’Italia. Il regista non perde un’occasione
né un colpo, malgrado quel pizzico di
civetteria che gli fa dire: «Ma sono
stanco, e poi non mi va di parlare, parlare. Non mi piace». (Gli piace eccome, invece. Non è sua la tentazione di
fare come lo zi’ Nicola di Eduardo che
sceglie il silenzio «perché è inutile
parlare ai sordi»). Passa da un omaggio alla carriera a una laurea honoris
causa, alla commemorazione di que-
cato preciso. «Io ho fatto cinema della realtà», dice. Combinazione dentro
la quale è nascosto il “Rosi touch”, il
suo tocco. Cinema: «Il linguaggio di
comunicazione più potente che esista. Fa sentire e vedere, emozionare e
identificare, fa soffrire e sperare insieme ai personaggi. Io faccio il cinema, racconto storie di uomini e di
passioni umane, di virtù e difetti».
Realtà: «Scelgo fatti che hanno importanza storica, ma non altero la verità. Non inserisco elementi di fantasia per fare il cinematografo. Tutto
documentato, riscontrabile storicamente e giudiziariamente. Però non
faccio film a tesi o di propaganda.
Coinvolgo lo spettatore, che è interlocutore: lo chiamo a partecipare al
processo, per capire».
Se non fosse chiaro: «Non dico che
Mattei è stato ucciso ma porto elementi vagliati che affacciano il dubbio. Non invento. E così per Giuliano.
I nomi dei presunti mandanti della
strage di Portella non li ho fatti. Perché
il film non me l’avrebbero fatto girare,
ed era più importante farlo. Non potevo convocarli io se non li aveva convocati il tribunale. Avrei voluto ma mi
avrebbero mandato in galera. E Lucky
Luciano: gli interrogatori si fondava-
I film sono
il linguaggio
di comunicazione
più potente che esista
Fanno sentire
e vedere, emozionare
e identificare
FOTO CONTRASTO
D
ROMA
sto o l’altro dei vecchi compagni e
colleghi che non ci sono più; non si
sottrae a un dibattito né a un’intervista, oggi su Napoli domani sulla mafia. Non è narcisismo, è senso del dovere. Anche correndo, pazientemente, il rischio di dover subire un’interpretazione riduttiva della sua opera.
Del resto, lui è stufo di sentirselo ripetere, ma resta verissimo che ad
ogni emergenza napoletana, ad ogni
ripresa di discorso sul separatismo siciliano e sulla strage di Portella della
Ginestra come momento fondante
della moderna criminalità mafiosa, e
ad ogni periodico risveglio di interesse per la fine del fondatore dell’Eni, i
giornali corrono da lui e corrono ai
suoi Mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei. Perché, come solo i capolavori (vedi La dolce vita di
Fellini, Il sorpasso di Risi, Rocco e i
suoi fratelli di Visconti e pochi altri),
quei film — quindi fiction, e fino a
prova contraria elaborazioni di una
soggettività artistica — sono diventati documenti, più veri del vero.
La sua Napoli è rimasta naturalmente, e sempre, nel cuore del suo interesse e al centro della sua passione.
E nei mesi scorsi, fitti di rinnovate
emergenze cui qualcuno ha avuto la
tentazione di far fronte con l’esercito,
Rosi non si è fatto pregare a scendere
in campo per dire e ripetere ciò in cui
crede. Questo: «Purtroppo tutto ciò
che ho raccontato molti anni fa è
profondamente radicato nell’ambiente e nella città di Napoli. La cui
storia è storia di plebe. Napoli ancora
oggi vive una tragedia che è conseguenza della mancanza di lavoro.
Della mancanza di legalità e di stabilità sociale. E della mancanza di istruzione e di educazione civile alla convivenza e al rispetto per gli altri: le
condizioni per il formarsi di una
mentalità diversa, capace di opporsi
alla sopraffazione; a un degrado e a
una corruzione nei quali la criminalità organizzata si è insinuata con violenza feroce e si è fatta dominante a
tutti i livelli, malgrado gli sforzi dei
tanti cittadini onesti e delle istituzioni. Ma guai a dimenticare che Napoli
è questione nazionale».
Rosi sa bene che c’è un tessuto di
consenso alla camorra perché è l’unica a dare “lavoro”. Continua a difendere la sua proposta di aprire le scuole, di tenerle aperte fino a sera perché
siano luogo di aggregazione alternativo e sano per i ragazzi. Parlando come è fatale del boom editoriale di Gomorra, il libro-inchiesta di Roberto
Saviano, dice che ha un po’ paura della sua possibile, anzi probabile versione cinematografica: «Mi allarma il
rischio dell’estetizzazione del terrore».
Francesco Rosi rivendica con orgoglio di non aver mai fatto «il cinematografo». Affermazione che va forse
decodificata, che ha però un signifi-
no sulla documentazione dell’Onu. Io
li ho fatti “passare”», ecco la chiusura
del cerchio perfetto, «attraverso i personaggi e le facce e le sensibilità degli
attori, il grande Volonté per primo.
Coloro che comunicano l’emozione.
La realtà è talmente piena di spunti
spettacolari che non c’è bisogno di ricrearla attraverso la fantasia».
E qui, con vezzo tipico del maestro,
anzi del “professore” secondo il nomignolo un po’ sfottente che nel tempo il popolo di Cinecittà gli ha affibbiato, Rosi conclude: «Il mio cinema
ha questo di diverso. Si fa in tante maniere il cinema, per carità... Però bisogna saperlo fare». Finto modesto,
assolutamente cosciente di quanto
sia grande quello che ha fatto.
E infaticabile. Veramente infaticabile. Di recente lo abbiamo accompagnato in una serie di occasioni celebrative a distanza ravvicinata tra loro.
Dall’università di Siviglia che gli ha
chiesto di tenere una lezione, all’Accademia dell’immagine dell’Aquila che
lo ha voluto per inaugurare il suo anno
accademico (ma dietro l’angolo lo
aspettano un omaggio primaverile in
Lussemburgo e uno parigino in estate). Sfidando (senza caderci) la pedanteria del professore, Rosi è l’unico dei
grandi autori italiani che, distinguendosi dalla pur nobilissima stirpe dei
commedianti cultori dello scetticismo e di un esibito (ma finto) cinismo,
non lesina mai partecipazioni, spiegazioni, confronti, precisazioni. Insomma un comportamento che nasce da
una profonda consapevolezza. Quella
di essere portatore di grande responsabilità civile. E di essere chiamato ad
assolvere a un dovere educativo, didattico: l’introduzione della storia del
cinema — del suo patrimonio artistico, civile, emotivo — nelle materie
d’insegnamento scolastico è un pallino di Rosi. E una proposta che non si
stanca mai di rilanciare. Un’altra è la
creazione di un canale satellitare culturale europeo. Del maestro, insomma, ha il talento, e del professore la vocazione. Più forte di lui.
Altra cosa che i critici ripetono di lui
e di cui lui forse si è stufato. Colpisce
che questo giovane e promettente intellettuale napoletano del dopoguerra, formatosi in una temperie piena di
belle promesse, da Ghirelli a Patroni
Griffi, da La Capria a Vittorio Caprioli,
invece di seguire una delle tante strade per cui sembrava tagliato — poteva
diventare un uomo di legge, un giornalista di prim’ordine, un leader politico, uno storico — si sia invece ritrovato a venticinque anni o giù di lì accanto a Luchino Visconti ad Acitrezza
sul set de La terra trema. «Io non ho
frequentato scuole di cinema. Ma è
come se le avessi fatte tutte le scuole,
le accademie e i centri sperimentali di
cinematografia». In effetti un “diploma” così non può che segnare. E Rosi
ne è stato segnato profondamente.
Ma la cosa rara è che ha portato dentro il cinema, dentro l’arte della regia,
trasfigurandole in stile, tutte quelle
chances e tutti quei numeri di cui era
dotato il giovanissimo intellettuale
napoletano del dopoguerra. L’uomo
di legge e lo storico, il giornalista e il
politico. Caso davvero unico. Quale
artista, come lui, riassume in sé lo studio e la comunicazione, la riflessione
e l’emozione, quell’insieme particolarissimo che gli ha permesso, ha permesso a molti dei suoi film, di scavare
a fondo nei problemi e contemporaneamente di colpire al cuore il pubblico? «Troppo americani», disse qualcuno dei suoi primi film, storcendo il
naso. Ma quanti americani hanno pescato dalla sua lezione? Rendendogli
peraltro merito: da Sidney Pollack a
Oliver Stone.
Il suo sguardo è terribilmente esigente. Verso se stesso — con tutta la
lecita soddisfazione per ciò che ha
fatto, ma sempre da implacabile perfezionista — e quindi verso gli altri.
Dal suo santuario-studio in uno dei
posti più belli di Roma, a un passo da
Trinità dei Monti, legge, consulta,
classifica, ritaglia. E telefona. Rosi è
uno che, se gli è piaciuto il film magari di un collega anche molto più giovane, non esita ad alzare il telefono
per complimentarsi. Quella volta che
chiamò Gabriele Muccino questi rimase a bocca aperta, incerto se fosse
uno scherzo.
Segue, s’informa, commenta, partecipa, s’indigna Francesco Rosi.
Non lascia che le ombre dell’età avanzata, del tempo che passa, del rimpianto per chi non c’è più lo sovrastino. E non dice che era meglio prima
(anche se qualche volta di sicuro lo
pensa, ma chi non sarebbe tentato soprattutto se parte di un gruppo che è
stato artefice di una sfilza di capolavori). È presente nell’oggi e guarda al
futuro con (relativa) fiducia.
‘‘
PAOLO D’AGOSTINI
Repubblica Nazionale
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