Centro di Studi Normanno-Svevi
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Un regno nell’impero
I caratteri originari del regno normanno nell’età sveva:
persistenze e differenze (1194-1250)
Atti delle diciottesime giornate normanno-sveve
Bari - Barletta - Dubrovnik, 14-17 ottobre 2008
a cura di
Pasquale Cordasco e Francesco Violante
Mario Adda Editore
Bari
2010
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Fulvio Delle Donne
La rappresentazione del potere e le sue liturgie:
le testimonianze letterarie
Balsama, thus, aloe, miristica, cinnama, nardus,
regibus assuetus ambra modestus odor,
per vicos, per tecta fragrant, redolentque per urbem,
thuris aromatici spirat ubique rogus1.
[Balsami, incenso, aloe, miristica, cinnamo, nardo e ambra, odore misurato
adatto ai re, si diffondono per le strade e per le case, si spandono per la città;
dappertutto spira il rogo dell’incenso aromatico].
Con la citazione di questo passo, con cui Pietro da Eboli celebrava l’incoronazione imperiale di Enrico VI avvenuta a Roma
il 15 aprile 1191, terminavo la relazione tenuta nella precedente edizione delle Giornate normanno-sveve. E concludevo affermando che il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli costituiva un momento di rottura decisivo rispetto alla precedente proPetrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis. Eine
Bilderchronik der Stauferzeit aus der Burgerbibliothek Bern, edd. T. Kölzer,
G. Becht-Jördens et al., Sigmaringen 1994, vv. 264-267. Questa edizione offre
anche le fotografie a colori dell’intero manoscritto. Comunque, il testo è stato
ben edito anche da Ettore Rota [RIS2, XXXI, 1] Città di Castello 1904-1910,
e da Gian-Battista Siragusa [FSI, 39, 1-2], 2 voll., Roma 1905-1906. Le traduzioni dei testi sono mie.
1
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duzione cronachistica e letteraria del Regno meridionale2. Infatti,
se gli autori di età normanna si rifacevano ancora a criteri valutativi incentrati soprattutto sugli aspetti visibili e tangibili della fisicità e della corporeità, in Pietro da Eboli si nota un’aspirazione a
delineare, rafforzare e idealizzare il carisma che illumina il potere
del sovrano-imperatore, glorificandone la dinastia con richiami a
una tradizione allegorica e mistica assolutamente nuova per l’Italia meridionale.
Gli accenti ieraticamente mistici, che aprono la strada a una
nuova propaganda per un potere non più solo regio ma anche imperiale, vengono, del resto, ribaditi da Pietro da Eboli con ulteriore forza suggestiva nella descrizione della sacra liturgia dell’incoronazione:
Primo papa manus sacrat ambas crismate sacro,
ut testamentum victor utrumque gerat.
Brachia sanctificans, scapulas et pectus inungens:
“in Christum domini te Deus unxit”, ait.
Post hec imperii correptum tradidit ensem,
quem Petrus abscissa iussus ab aure tulit.
Ensis utrimque potens, templi defensor et orbis,
hinc regit Ecclesiam, corrigit inde solum.
Iura potestatis, pondus pietatis et equi,
signat in augusta tradita virga manu.
Anulus ecclesie, regnorum nobilis arra
offertur digitis, Octaviane, tuis.
Quam geris aurate, Cesar, diadema thiare
signat3 apostolicas participare vices.
Post hec cantatis ad castra revertitur ymnis,
Cfr. F. Delle Donne, Liturgie del potere: le testimonianze letterarie, in
Nascita di un regno. Poteri signorili, istituzioni feudali e strutture sociali nel
Mezzogiorno normanno (1130-1194), Atti delle XVII Giornate normannosveve (Bari, 10-13 ottobre 2006), a c. di R. Licinio, F. Violante, Bari 2008, pp.
369-370.
3
Nel ms., c. 104v, dopo signat è aggiunto un te sottolineato, che
evidentemente va espunto, per motivi metrici.
2
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mandat, in Apuliam quisque quod ire paret4.
[Dapprima il papa consacra entrambe le mani col sacro crisma, perché da
vincitore possa portare l’uno e l’altro testamento. Santificando le braccia e ungendo le scapole e il petto, disse: “In Cristo del Signore Dio ti unse”. Dopo
queste cose, consegnò la brandita spada dell’impero, che Pietro, quando gli fu
comandato, allontanò dall’orecchio che aveva troncato. Spada potente in entrambi i lati, destinata a difendere il tempio e il mondo: con un lato regge la
Chiesa, con l’altro corregge la terra. Lo scettro consegnato all’augusta mano definisce i diritti del potere, il peso della pietà e dell’equità. L’anello della
Chiesa, nobile pegno dei regni, è offerto alle tue dita, o augusto Ottaviano. Il
diadema della dorata tiara che tu, Cesare, porti, significa che tu partecipi agli
apostolici vicariati. Immediatamente dopo, cantati gli inni, torna agli accampamenti: ordina che tutti si preparino ad andare in Apulia].
Ogni momento della celebrazione viene rappresentato non
con l’intento meramente descrittivo del cronista che vuole fissare un’immagine per renderla visibile ai lettori attraverso il colore
delle parole, ma con quello evocativo di chi tende ad aprire uno
spiraglio sugli arcana misteriosi che avvolgono i simboli del potere terreno e spirituale. Dunque, ogni gesto viene volto in chiave
simbolica, alludendo al legame inscindibile che unisce il mondo
celeste coi suoi rappresentanti terreni.
Probabilmente, Pietro da Eboli non partecipò effettivamente
alla cerimonia, ma, se anche avesse assistito tanto da vicino da
poter cogliere ogni dettaglio e ascoltare ogni parola, la sua rappresentazione non sarebbe mutata. Sembra, infatti, che egli abbia
perseguito una scelta ben precisa e abbia reinterpretato un ordo
coronationis, riassumendone i momenti che potessero essere più
significativi per rappresentare l’origine celeste del potere imperiale, superiore a qualsiasi altro potere regio5. E sicuramente fePetrus de Ebulo, Liber cit., vv. 276-291.
Cfr., tuttavia, R. Elze, Le insegne del potere, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle XI giornate
normanno-sveve (Bari, 26-29 ottobre 1993), a c. di G. Musca, Bari 1995, p.
117, in cui si afferma che «dei cronisti del Regno meridionale dei secoli XII e
4
5
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ce convergere la sua prospettiva con quella imposta dallo stesso
Enrico VI, se è vero quanto ci racconta Ruggero di Hoveden: ovvero, che nel 1194 l’imperatore fece aprire i sepolcri di Tancredi e di suo figlio Ruggero, «et spoliavit eos coronis et sceptris et
caeteris regalibus ornamentis, dicens quod ipsi non erant de iure
reges, immo regni invasores et violentes detentores», ovvero «li
spogliò delle corone, degli scettri e degli altri ornamenti regali,
dicendo che essi non erano veramente re, ma invasori del regno e
suoi violenti detentori»6.
Il tono ieratico e l’intento misticamente celebrativo usati da
Pietro da Eboli spiccano soprattutto se li si mette a confronto con
la descrizione fatta da Ottone di San Biagio dell’ingresso in Palermo del medesimo Enrico VI:
Tandem summa industria civium cum maximis sumptibus triumphali
pompa preparata tota coronatur civitas, (...) thure, myrra aliisque speciebus
odoriferis intus et extra civitatem redolentibus plateis; amotoque a civitate
procul imperatore cum exercitu, cives per turmas suas secundum modum dignitatum, condicionum etatisque differenciam egressi (...) ordine stacionario
in obviam procedebant, singulis quibusque pro suo modo vel arte cum omnibus musice dicipline instrumentis plausum exhibentibus. Imperator autem
non minori industria (...) omni armorum splendore rutilantem miliciam exhibuit, binis et binis longo tractu civitatem versus pedetemptim incedentibus.
Ipse autem cum principibus imperiali gloria et ornatu subsecutus civitatem
ingreditur7.
[Infine, preparata con pompa trionfale, grazie alla somma industria dei cittadini, con enorme ricchezza, tutta la città viene coronata, (...) profumando le
piazze, dentro e fuori la città, di incenso, di mirra e di altre spezie odorose; ed
essendosi allontanato dalla città l’imperatore col suo esercito, i cittadini, usciti in gruppi secondo la loro dignità e condizione e secondo la differenza di età
XIII nessuno ha usato tale testo», ovvero un Ordo.
6
Roger de Hoveden, Chronica, ed. W. Stubbs [Rolls Series, 51], III, London 1870, p. 270.
7
Otto de Sancto Blasio, Chronica, ed. A. Hofmeister [MGH, SS. rer.
Germ., 47], Hannover 1912, pp. 62-63.
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
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(...) gli venivano incontro con ben definito ordine, ciascuno offrendo il proprio
plauso con strumenti musicali secondo il suo modo e la sua arte. L’imperatore,
con non minore industria (...) con tutto lo splendore delle armi mostrò i suoi
soldati lucenti per lo splendore delle armi, che incedevano a piedi, a due a due,
per lungo tratto verso la città. Egli, poi, con i principi, seguendo con gloria e
ornamento imperiale, entra nella città].
Nella descrizione di Ottone, l’interesse è spostato verso la
rappresentazione tangibilmente icastica del trionfale ingresso
imperiale. E, se anche nella descrizione dell’incoronazione imperiale fatta da Pietro da Eboli veniva ricordato il profumo delle spezie, ma solo come prolusione all’evocazione del supremo
potere imperiale che promana da Dio, Ottone si sofferma su di
esso per dare alla scena quella concretezza sensoriale che persegue anche nella contrapposizione dei due cortei: quello cittadino, che sfila ordinatamente facendo risuonare gli strumenti musicali, e quello imperiale che, altrettanto ordinatamente, luccica
per il riflesso delle armi. Insomma, viene impegnato quasi ogni
organo percettivo.
Ma Ottone di San Biagio appartiene a una tradizione troppo
eccentrica, che ci porterebbe troppo lontano dal Regno e dal nostro percorso, per cui torniamo a Pietro da Eboli e al suo registro
misticamente evocativo e non descrittivo, che, d’altronde, si ravvisa anche nei versi che celebrano la nascita di Federico II come
l’avvento di una nuova età dell’oro.
O votive puer, renovandi temporis etas (...)
Pax oritur tecum, quia, te nascente, creamur;
Te nascente, sumus quod pia vota petunt;
Te nascente, dies non celi sidera condit;
Te nascente, suum sidera lumen habent;
Te nascente, suis tellus honeratur aristis;
Suspecti redimit temporis arbor opes.
Luxuriant montes, pinguescit et arida tellus (...)
Non aquilam volucres, modo non armenta leonem,
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Non metuent rabidos8 vellera nostra lupos9.
[O fanciullo desiderato, o età di un tempo destinato a rinnovarsi (...) La pace nasce con te, perché, con la tua nascita noi stessi siamo rigenerati; con la tua
nascita siamo ciò che chiedono le devote preghiere; con la tua nascita il giorno non nasconde le stelle del cielo; con la tua nascita le stelle hanno la propria
luce; con la tua nascita la terra si copre di spighe; l’albero riguadagna le ricchezze dell’età sospirata. I monti lussureggiano, si fa pingue l’arida terra (...)
Gli uccelli non avranno timore dell’aquila, gli armenti non avranno timore del
leone, le nostre pecore non avranno timore dei feroci lupi].
Simile annuncio dell’avvento di una novella età dell’oro, del
resto, Pietro lo dà anche a proposito di Enrico VI:
Felix nostra dies, nec ea felicior ulla (...)
Evomuit serpens virus sub fauce repostum,
Aruit in vires mesta cicuta suas.
Nec sonipes griphes nec oves assueta luporum
Ora timent: ut ovis stat lupus inter oves.
Uno fonte bibunt, eadem pascuntur et arva
Bos, leo, grus, aquila, sus, canis, ursus, aper.
Non erit in nostris moveat qui bella diebus;
Amodo perpetue tempora pacis erunt10.
[Felice il nostro giorno, nessun altro più felice (...) Il serpente ha vomitato
il veleno nascosto nelle sue fauci, la mesta cicuta è rimasta priva di forze. Gli
armenti non temono i grifoni e le pecore non temono, come di consueto, le bocche dei lupi: come una pecora il lupo sta in mezzo alle pecore. A un’unica fonte
si abbeverano e pascolano negli stessi campi, la mucca, il leone, la gru, l’aquiRapidos riportano il codice e gli editori. Ma proponeva l’emendamento
già Emanuele Rocco nella sua traduzione dell’opera, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, ed. G. Del Re, I, Napoli 1845, p. 433, 454 n.
9
Petrus de Ebulo, Liber cit., vv. 1377, 1381-1387, 1393-1394. Cfr. anche
T. Sampieri, La cultura letteraria di Pietro da Eboli, in Studi su Pietro da Eboli, Roma 1978, pp. 67-87.
10
Petrus de Ebulo, Liber cit., vv. 1523, 1525-1533.
8
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
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la, il maiale, il cane, l’orso e il cinghiale. Non vi sarà nessuno, nella nostra età,
che muoverà guerra; d’ora in poi vi saranno per l’eternità tempi di pace].
Insomma, sembra che con l’arrivo di Enrico VI e la nascita di
Federico II, almeno attraverso la rappresentazione di Pietro da
Eboli, si sia venuto a creare un clima di attese mistiche, capace
di fondere insieme tradizioni profetiche varie, da quelle bibliche a quelle sibilline. Tradizioni che, forse, trovavano un modello più immediato nell’opera di Goffredo da Viterbo, che, con
la sua particolare teoria della translatio imperii, attribuisce alla
imperialis prosapia sveva il ruolo escatologico di guida finale
del mondo11.
Ma se Pietro da Eboli ha inaugurato, nel Regno e nella parte
meridionale dell’Impero, questa particolare rappresentazione
sacrale del sovrano-imperatore, quanto essa ha permeato la
rappresentazione liturgica del potere e – per rimanere nell’ambito
imposto dall’argomento di questa relazione, che impedisce di
trattare argomenti specificamente liturgici, quali gli Ordines
di incoronazione o le Laudes Regiae12 – quanto, in particolare,
ha influito sulla produzione letteraria? Il problema si presenta
complesso, anche perché bisognerebbe, innanzitutto, definire
entro limiti certi l’ambito della “letteratura”, che, naturalmente,
ha confini molto labili. E poi si dovrebbe stabilire cosa si intenda
per “liturgia del potere”: problema anche questo di difficile
interpretazione.
Nelle scorse “giornate” normanno-sveve avevo provato a dirimere tali questioni scegliendo di dedicare prevalentemente l’atSui rapporti tra Pietro da Eboli e Goffredo da Viterbo cfr. F. Delle DonIl potere e la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce 2005, pp. 29-57.
12
Su tali argomenti cfr. almeno Die Ordines für die Weihe und Krönung
des Kaisers und der Kaiserin, ed. R. Elze [MGH, Fontes iuris, 9], Hannover
1960, pp. 61-87; R. Elze, Eine Kaiserkrönung um 1200, in Adel und Kirche.
G. Tellenbach zum 65. Geburtstag dargebracht, Freiburg 1968, pp. 365-373;
E. Kantorowicz, Laudes Regiae. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e
sul culto del sovrano nel Medioevo, Milano 2006 (ed. orig. Berkeley - Los
Angeles 1946, da cui si cita).
11
ne,
500
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tenzione, da un lato alla produzione storiografica, dall’altro alle
descrizioni delle cerimonie di incoronazione fatte da autori più o
meno vicini all’evento dal punto di vista cronologico e geografico. Provo, pertanto, a fare lo stesso anche ora, ma sono costretto a
denunciare subito una difficoltà: per gli anni in cui fu sovrano Federico II, la produzione storiografica del Regno – almeno quella
che non è legata esclusivamente ad ambiti territoriali troppo circoscritti – è ridotta a ben poca cosa.
A quanto pare, molte notizie avrebbe potuto fornire Mainardino da Imola, ma la sua opera è perduta13. Per una parte dell’epoca
federiciana, in sostanza, rimangono solo i Chronica di Riccardo
di San Germano e l’anonimo Breve chronicon de rebus Siculis.
Ma se proviamo a vedere in che modo tali fonti descrivono le varie incoronazioni di Federico, sorprendentemente non riusciamo a
trovare granché. Infatti, Riccardo, a proposito dell’arrivo a Roma
di Federico nell’aprile del 1212 (Riccardo lo pone però al 1211),
prolusione alle incoronazioni successive, dice solo che «a papa
Innocentio et ceteris cardinalibus, senatu populoque Romano ingenti cum honore receptus est»14, «fu accolto con grande onore
da papa Innocenzo e dagli altri cardinali, dal senato e dal popolo
romano», e il Breve chronicon si limita a ricordare che «divertit
Rome ad eundem dominum papam; et ipse animavit e confortavit
Cfr. F. Güterbock, Eine zeitgenössische Biographie Friedrichs II. Das
verlorene Geschichtswerk Mainardinos, in «Neues Archiv», 30 (1905), pp. 3583.
14
Ryccardus de Sancto Germano, Chronica, ed. C.A. Garufi [RIS2, VII,
2], Bologna 1936-1938, p. 34. Il testo citato è quello della seconda redazione
dell’opera; nella prima redazione, riportata nella stessa pagina dell’edizione
citata, si dice: «ab Innocentio papa et ceteris cardinalibus, senatu populoque
Romano ingenti cum guadio receptus est». Sull’incoronazione cfrDie Regesten
des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II., Heinrich (VII.), Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard 1198-1272, edd. J.F. Böhmer, J.
Ficker, E. Winkelmann [Reg. Imp. V, 1-3], Innsbruck 1881-1901, (rist. anast.
Hildesheim 1971), 660b. D’ora in poi questi regesti saranno siglati BF, mentre
P. Zinsmaier, Regesta Imperii. Nachträge und Ergänzungen [Reg. Imp. V, 4],
Köln - Wien 1983, verrà siglato Z.
13
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eum ad eundum»15, «andò presso lo stesso papa signore di Roma;
e quello lo incoraggiò e lo confortò ad andare». Né l’una, né l’altra fonte, poi, forniscono informazioni, ancorché minime, sull’incoronazione a Francoforte (del 5 dicembre 1212)16 o su quella di
Magonza (del successivo 9 dicembre)17.
Certo, tale mancanza o scarsezza di informazioni relativamente alle incoronazioni tedesche di Federico può essere spiegata, in queste opere, con la lontananza geografica degli eventi. Ma
neanche in altre cronache troviamo descrizioni molto più ampie.
Solo per limitarci a quelle che offrono informazioni più precise
o minuziose (ma non sempre esatte), a proposito dell’incoronazione di Francoforte Raniero Leodiense dice questo: «Fredericus puer Frechenfor revertitur, dominica prima adventus Domini
eligendus in imperatorem (...). Dominica prima adventus Domini maximus conventus principum convenit, et Fredericum puerum imperatorem elegit, inter quos fuerunt nuntii domni pape et
nuntii regis Francie; et sicut nobis relatum est, fuerunt ibi 5 milia militum»18, ovvero «il fanciullo Federico ritorna a Francoforte, per essere eletto imperatore la prima domenica di avvento del Signore (cioè il 2 dicembre) (...). La prima domenica di
avvento del Signore venne un gran numero di principi ed elesse
imperatore il fanciullo Federico: tra questi vi furono i nunzi del
papa e i nunzi del re di Francia; e, così come ci è stato riferito,
furono in quel luogo cinquemila cavalieri». A proposito dell’elezione a Magonza, Ogerio Pane racconta che Federico «die vero dominica veniente, nona die videlicet decembris, in civitate
Magantie honorifice coronam recepit ab archiepiscopis, episcopis et principibus, qui ius coronandi reges ab antiquo tempore
Breve chronicon de rebus Siculis, ed. W. Stürner [MGH, SS. Rer. Germ.
in usum scholarum, 77], Hannover 2004, p. 68.
16
Cfr. BF, 680a.
17
Cfr. BF, 680b.
18
Reinerius Leodensis, Annales, ed. G.H. Pertz [MGH, SS, 16], Hannover
1859, p. 665.
15
502
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sunt consecuti»19, ovvero «nella successiva domenica, cioè il 9
dicembre, nella città di Magonza fu incoronato con onore da arcivescovi, vescovi e principi che da tempo antico ebbero il diritto di incoronare i re». Insomma, anche in queste fonti troviamo
descrizioni piuttosto scarne e prive di connotazioni molto significative.
Similmente il Breve chronicon non parla affatto dell’incoronazione di Aquisgrana del 25 luglio 1215; mentre esigua è l’attenzione che le riserva Riccardo di San Germano, anche se, in connessione con questo evento, egli si limita a comunicare che «eo
anno rex Fridericus in rependium collati sibi celitus beneficii de
triumphi de Ottone dico imperatore apud Aquisgranam sponte se
crucis caractere insignivit»20, ovvero che «in quell’anno il re Federico, in ricompensa del beneficio ricevuto dal cielo della vittoria ottenuta contro il detto imperatore Ottone, presso Aquisgrana
si insignì spontaneamente del segno della croce». E simile atteggiamento si riscontra generalmente anche in altre cronache, pur
se qualcosa in più, tuttavia, si trova in Guglielmo Britone, il quale
dice che Federico
Aquigranis accedens, honorifice est receptus et dyademate totius Theuthonie coronatus […]. A tempore quo Theuthonici obtinuerunt dinastiam imperii
hec semper apud eos consuetudo quasi quedam lex inviolabiliter observatur,
quod electus imperator nunquam coronatur a papa Romano, nisi prius fuerit
rex coronatus Aquigranis; et postquam ibidem semel tulerit coronam, nichil
restat, nisi ut in imperatorem Rome a summo pontifice coronetur; et hoc fit
propter reverentiam et maiestatem Karoli Magni, cuius corpus requiescit ibidem. Eodem die quo rex Fredericus coronatus fuit ibidem crucem assumpsit,
terre Ierosolimitane viriliter succursurus21.
Ogerius Panis, Annales, ed. G.H. Pertz [MGH, SS, 18], Hannover1863,
p. 132.
20
Ryccardus de Sancto Germano, Chronica cit., p. 61; nella prima redazione dell’opera, la notizia non è riportata. Sull’evento cfr. BF 810b
21
Willelmus Britto, Gesta Francorum. Continuatio, ed. G. Waitz [MGH,
SS, 26], Leipzig 1925, p. 318.
19
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[Venendo ad Aquisgrana, fu accolto onorevolmente e coronato col diadema di tutta la Germania (...). Dal tempo in cui i Tedeschi ottennero la dinastia
dell’impero, questa consuetudine è sempre osservata inviolabilmente da loro
quasi come fosse una legge, che l’imperatore eletto non viene mai incoronato
dal papa romano se non sia stato prima incoronato re ad Aquisgrana; e dopo
che abbia portato lì la corona non resta che venga incoronato imperatore a Roma dal sommo pontefice; e ciò viene fatto per la reverenza e la maestà di Carlo
Magno, il cui corpo riposa in quel luogo. Nello stesso giorno in cui Federico fu
incoronato, prese la croce nello stesso luogo, per soccorrere coraggiosamente
la terra di Gerusalemme].
Guglielmo Britone non si sofferma molto, o forse si può dire che non si sofferma affatto, sull’incoronazione federiciana in
sé, ma sposta l’attenzione sul significato simbolico della scelta di Aquisgrana come sede dell’incoronazione imperiale. Scelta che rivela la stessa tensione ad allungare le radici del proprio
ruolo imperiale che può essere riscontrata già nell’uso, a partire
dal 1157, dell’espressione «Sacrum Imperium», forse un calco
di quella più antica e più consueta «Roma Sacra»22; ma soprattutto in alcune operazioni solo apparentemente estranee alla propaganda politica, come, ad esempio, la canonizzazione di Carlo
Magno, che Federico Barbarossa festeggiò il 29 dicembre 1165,
il giorno in cui veniva ricordato anche David23. In questo modo, il Barbarossa – seguito poi dal nipote Federico II, che ne organizzò la traslazione delle spoglie, riponendole in uno scrigno
adornato, tutt’intorno, dalle effigi di tutti gli imperatori medie-
Cfr. O. Hiltbrunner, Die Heiligkeit des Kaisers. Zur Geschichte des Begriffs Sacer, in «Frühmittelalterliche Studien», 2 (1968), pp. 13, 25; H. Appelt,
Die Kaiseridee Friedrich Barbarossas, «Österreich. Akad. d. Wiss., Phil.-hist.
Kl.», Sb. 252, 4. Abh., 1967, pp. 11 ss.; H.M. Schaller, Die Kaiseridee Friedrichs II., in Stupor Mundi, a c. di G. Wolf, Darmstadt 19822, p. 498 (il saggio
è apparso la prima volta in Probleme um Friedrich II., a c. di J. Fleckenstein,
Sigmaringen 1974, pp. 109-134, ed è stato poi ripubblicato in Id., Stauferzeit.
Ausgewählte Aufsätze, Hannover 1993, pp. 53-83).
23
Cfr. Appelt, Kaiseridee cit., p. 27.
22
504
Fulvio Delle Donne
vali, lui stesso compreso24 – sancì in maniera ufficiale il rapporto, già in vario modo affermato dal sovrano carolingio25, tra il
fondatore dell’impero d’Occidente e il biblico re eletto da Dio,
e tra se stesso e Carlo, proponendo, contemporaneamente, anche
una sorta di continuità dinastica, la stessa riaffermata dal punto
di vista “storico” da Goffredo da Viterbo26, che, come abbiamo
già accennato, dovette offrire a Pietro da Eboli il modello per il
tenore misticheggiante dei suoi elogi e dell’intero terzo libro del
suo Carmen.
Procediamo oltre, e vediamo come Riccardo di San Germano
tratta dell’incoronazione romana di Federico II a imperatore, avvenuta il 22 novembre 1220. Il testo è questo:
Fredericus rex vocatus a papa venit cum consorte sua Constantia ad coronam, (...) et ambo in principis apostolorum basilica mense novembris in festo
beate Cecilie magnifice satis cum omnium Romanorum gratia et honore sunt
imperii diademate insigniti. Quorum coronationi dictus Stephanus Casinensis
abbas, nec non comes Rogerius de Aquila, comes Iacobus de Sancto SeveriCfr. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, (ed. orig. Berlin
1927-1930), p. 73; W. Stürner, Friedrich II., I, Darmstadt 1992, pp. 172 ss.
Frequente è anche il richiamo a David: spesso Federico scrive «noster predecessor David, rex inclitus Israel», ad es. in Historia diplomatica Friderici
secundi, ed. J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Paris 1852-1861, (d’ora in poi siglato
HB ), IV, p. 528, (BF 2077); HB, VI, p. 2 (Petr. De Vin., Epist., I, 13; BF 3218
Z); cfr. anche Acta imperii inedita, ed. E. Winkelmann, Innsbruck 1880, I, n.
338, p. 299 (BF 2172 Z). Come tale è anche celebrato da alcuni adulatori: cfr.
Kantorowicz, Federico II cit., p. 185.
25
La questione del «Regnum Davidicum» carolingio è stata spesso
affrontata da diverse prospettive. Si veda, comunque, E. Rieber, Die Bedeutung
alttestamentlischer Vorstellung für das Herrscherbild Karls des Grossen und
seines Hofkreises (diss.), Tubinga 1945, p. 101 ss.; Kantorowicz, Laudes
Regiae cit., pp. 55 ss.; J. Fleckenstein, Das Bildungsreform Karls des Grossen
als Verwirklichung der Norma rectidunis, Bigge - Ruhr 1953, pp. 68 ss.; J. M.
Wallace-Hadrill, Early Germanic Kingship in England and on the Continent,
Oxford 1971, p. 100; H. Steger, David, rex et propheta, Nürnberg 1961, pp.
128 ss.; P. Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian
Poetry, Oxford 1987, pp. 64 ss.
26
Le sue opere sono edite da G. Waitz in MGH, SS 22, Hannover 1872.
24
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
505
no, comes Ryccardus de Celano et nonnulli de regno barones interfuerunt. (...)
Tunc ipse imperator per manus Ostiensis episcopi, qui postmodum in papam
Gregorium est promotus, resumpsit crucem, votum publice innovavit multosque qui intererant nobiles idem facere animavit27.
[Il re Federico chiamato dal papa viene con sua moglie Costanza a farsi incoronare (...) ed entrambi nella basilica del principe degli apostoli, nel mese
di novembre, nel giorno di santa Cecilia, sono magnificamente insigniti della
corona dell’impero con la grazia e l’onore di tutti i Romani. Alla loro incoronazione furono presenti Stefano abate cassinese, nonché il conte Ruggero di
Aquila, il conte Giacomo di San Severino, il conte Riccardo di Celano e altri baroni del regno. (...) Allora lo stesso imperatore, per mano del vescovo di
Ostia, che poi fu fatto papa Gregorio, riprese la croce, rinnovò pubblicamente
il voto e esortò i molti nobili che erano presenti a fare lo stesso].
Quell’incoronazione imperiale fu senz’altro un evento importante, epocale, che dovette seguire una liturgia suggestiva e capace di impressionare l’immaginario dei contemporanei, ma forse soprattutto dei moderni, se si leggono le affascinanti pagine
che Ernst Kantorowicz dedica alla descrizione della cerimonia28.
Tuttavia, Kantorowicz, per i dettagliati particolari che forniva, si
ispirava a un ordo coronationis che probabilmente venne seguito in quella occasione, non a una fonte precisa29. Invece Riccardo di San Germano si limita a comunicare brevemente la notizia
dell’evento, dedicando l’attenzione, più che alla coppia imperiaRyccardus de Sancto Germano, Chronica cit., p. 83. Il testo della
prima redazione è alle pp. 82-83: «Rex ipse cum consorte sua Constantia
de Alamannia (...) cum suis principibus et militari copioso exercitu Romam
veniens, mense novembris in principis apostolorum basilica magnifice satis cum
omnium Romanorum gratia et honore in festo beate Cecilie imperii dyademate
insignitur. Cui coronationi dictus abbas Stephanus (...) satis honorabiliter et
decenter interfuit. Illic etiam comites regni et barones venientes (...). Venit
etiam tunc ad eum Riccardus de Celano».
28
Cfr. Kantorowicz, Federico II cit., pp. 97-99.
29
Sul probabile Ordo che venne seguito nell’incoronazione cfr. Die Ordines cit., pp. 61-87; Elze, Eine Kaiserkrönung cit., pp. 365-373.
27
506
Fulvio Delle Donne
le, ai notabili presenti, di cui fornisce l’elenco30.
Dunque, se certamente solenne fu l’incoronazione, come afferma anche Riccardo, permane qualche dubbio sul modo in cui
essa fu osservata e accolta dai contemporanei, dal momento che
anche il Breve chronicon de rebus Siculis si limita a dire:
Anno dominice incarnationis M°CC°XXI°, mense novembris VIIIIe indictionis, papa Honorius coronavit apud sanctum Petrum imperatorem Fredericum filium imperatoris Henrici et imperatricis Constantie, quem proditores regni Sicilie expulerant, et successerat in Alamaniam, quem Theotonici receperunt tanquam dominum suum. Cum quo coronata fuit dicta uxor eius Constantia filia regis Aragonum31.
[Nell’anno 1221 dell’incarnazione del Signore, nel mese di novembre, nona indizione, il papa Onorio incoronò in San Pietro l’imperatore Federico, figlio di Enrico e dell’imperatrice Costanza, che i traditori del regno di Sicilia
avevano cacciato e che si era recato in Germania, e che i Tedeschi accolsero
come loro signore. Con lui fu coronata sua moglie Costanza, figlia del re di
Aragona].
Comunque, un’ulteriore informazione viene fornita da colui
che celebrò l’incoronazione, papa Onorio III, che, il 15 dicembre
1220, comunica questo breve resoconto a Pelagio, cardinale-vescovo di Albano e legato papale in Terra Santa:
Tue fraternitati exponimus, nos dominica ante adventum Domini proxima
karissimum in Christo filium nostrum Fredericum, Romanorum imperatorem
semper augustum et regem Sicilie, et illustrem imperatricem consortem eius
in principis apostolorum basilica cum inestimabili alacritate ac pace civium
L’elenco dei presenti è implicitamente differente nel Chronicon Suessanum, in Raccolta di varie croniche, diari ed altri opuscoli così italiani come
latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, ed. A.A. Pelliccia, I, Napoli
1780, p. 52, secondo cui «fuerunt cum eo [Frederico] omnes barones et comites
regni, excepto comite Thomasio de Molisio», ovvero «furono con lui tutti i baroni e i conti del regno, tranne il conte Tommaso di Molise». Cfr. anche BF, 1202a.
31
Breve chronicon cit., pp. 70-72.
30
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
507
Romanorum sollemnissime coronasse. Qui facta tribus diebus in Monte Malo
mora continua, tandem prestita nobis securitate, quod tibi et christiano exercitui in proximo martio succursum magnifice destinabit et in sequenti augusto
personaliter transfretabit, regnum cum pace et gaudio est ingressus, ea que ad
subsidium Terre Sancte pertinent provisurus32.
[Esponiamo alla tua fraternità che, nella domenica immediatamente precedente all’avvento del Signore, abbiamo incoronato molto solennemente, nella
basilica del principe degli apostoli, il nostro carissimo figlio in Cristo Federico,
imperatore dei Romani sempre augusto e re di Sicilia, e l’illustre imperatrice,
sua consorte, con inestimabile alacrità e con la pace dei cittadini Romani. Federico, avendo atteso ininterrottamente per tre giorni a Monte Mario, avendoci rassicurato che nel prossimo marzo destinerà a te e all’esercito cristiano un
magnifico aiuto, e che nel successivo agosto attraverserà il mare di persona, è
entrato nel regno con pace e gioia, per provvedere a quelle cose che sono connesse con il soccorso della Terra Santa].
Attraverso questa comunicazione veniamo informati di qualche altro dettaglio, ma ancora una volta l’attenzione viene subito
sviata dalla cerimonia vera e propria alla promessa di aiuto per la
Terra Santa. Per di più, colpisce che dell’incoronazione viene sottolineata la inestimabilis alacritas e la pax civium Romanorum.
Quasi che il pontefice, dimenticando la solennità del divino ufficio connesso con la sacra investitura, badasse piuttosto al mantenimento dell’ordine pubblico e si preoccupasse di non far andare
troppo per le lunghe la faccenda, così da non scatenare la rivolta dei cittadini romani. Del resto, il resoconto papale insiste non
sul significato spirituale della cerimonia, ma su quello più terreno
dell’organizzazione dei soccorsi per la Terra Santa, la cui urgenza imponeva quell’incoronazione necessaria solo a preparare più
in fretta le cose.
Ma andiamo ancora oltre e vediamo cosa dice Riccardo di San
Germano proprio a proposito della Terra Santa e dell’incoronazione gerosolimitana di Federico.
Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, ed. C.
Rodenberg, I, Berolini 1888, p. 111, n. 157.
32
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Ipse [Fredericus] in Iherusalem profectus est, ubi eo die, quo civitatem
sanctam ingressus est imperator, archiepiscopus Cesaree nuncius patriarche
adveniens, civitatem ipsam et specialiter sepulchrum Domini supposuit interdicto, de mandato patriarche ipsius, primitias recuperationis ipsius non benedictione, sed anathemate prosecutus33.
[Federico partì per Gerusalemme, dove, nello stesso giorno in cui l’imperatore entrò nella città santa, venendo l’arcivescovo di Cesarea, nunzio del patriarca, sottopose all’interdetto la stessa città e specialmente il sepolcro del Signore, per mandato dello stesso patriarca, avendo quello ottenuto le primizie
del riacquisto non con la benedizione ma con l’anatema].
Tutto qui! E l’incoronazione? Ebbene, Riccardo non ne parla
affatto. Ora, in seguito agli studi di Hans Ebherard Mayer34, sappiamo che la notizia dell’autoincoronazione fu il frutto di un’interpretazione volontariamente parziale fomentata dalla propaganda antifedericiana. Lo stesso Mayer ha suggerito che la descrizione più veritiera di quanto avvenne a Gerusalemme il 18 marzo
1229 è quella fornita da Ermanno di Salza, maestro dell’Ordine
Teutonico vicino a Federico II:
Dominus imperator cum universo exercitu christiano venit Ierusalem die
sabbati XVII martii et die dominico sequenti ibi in honore Regis eterni portavit
coronam. (...) Non audivit divina, tamen coronam simpliciter sine consecratione de altari accepit et in sedem, sicut est consuetum, portavit35.
Ryccardus de Sancto Germano, Chronica cit., p. 159.
H. E. Mayer, Das Pontifikale von Tyrus und die Krönung der Lateinischen Könige von Jerusalem. Zugleich ein Beitrag zur Forschung über Herrschaftszeichen und Staatssymbolik, in «Dumbarton Oaks Papers», 21 (1967),
pp. 141-232: 200-211, a cui si rimanda per un’analisi dettagliata delle fonti.
Sulla questione, comunque, cfr. anche W. Stürner, Federico II, re di Gerusalemme, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle XIV giornate normanno-sveve (Bari, 17-20 ottobre 2000), a c. di G. Musca, Bari 2002,
pp. 159-175.
35
Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, ed. L. Weiland, II,
Hannover 1896, p. 167, n. 123.
33
34
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
509
[L’imperatore venne a Gerusalemme con tutto l’esercito cristiano sabato 17
marzo e la successiva domenica, lì, portò la corona in onore del Re eterno. (...)
Non ascoltò gli uffici divini, tuttavia, senza consacrazione, semplicemente prese la corona dall’altare e la portò al seggio, come è consueto].
La relazione di Ermanno di Salza, al di là del problematico significato dell’espressione coronam portare, minimizza senz’altro
la portata dell’evento, ma chissà se questo può spiegare l’assoluto
silenzio di Riccardo di San Germano, che, comunque, certamente non dovette apprezzare l’operato del papa, tanto da arrivare a
dire:
Verisimile enim videtur, quod si tunc imperator cum gratia ac pace Romane ecclesie transisset, longe melius et efficacius prosperatum fuisset negotium
Terre sancte. Sed quantam in ipsa sua peregrinatione persecutionem pertulerit ab ecclesia, cum non solum quod pro velle ipsum dominus papa excommunicaverit, verum etiam quod ipsum excommunicatum scirent et tamquam
excommunicatum vitarent eundem patriarche Iherosolmitano mandavit, magistris domorum Hospitalis et Templi36.
[Infatti, sembra verosimile che, se allora l’imperatore fosse passato oltremare con la grazia e con la pace della Chiesa romana, il trattato della Terra
Santa avrebbe avuto effetti di gran lunga migliori e più efficaci. Ma quante avversità ricevette dalla Chiesa nella sua stessa peregrinazione, dal momento che
non solo il papa lo scomunicò con un atto di suo arbitrio, ma ordinò anche al
patriarca di Gerusalemme e ai maestri degli ordini dell’Ospedale e del tempio
che sapessero che era scomunicato e che lo evitassero in quanto scomunicato].
L’impresa d’oltremare compiuta da Federico, nel bene o nel
male, dovette senz’altro colpire i contemporanei, e dovette incidere notevolmente sulla coeva propaganda politica, sia quella di
parte imperiale sia quella di parte papale, se è vero che sul manifesto-enciclica che Federico emanò dopo essere rientrato in possesso di Gerusalemme, si appuntò l’attenzione dell’una e dell’altra fazione, tanto da farci pervenire due redazioni completamente
36
Ryccardus de Sancto Germano, Chronica cit., p. 159.
510
Fulvio Delle Donne
diverse della parte conclusiva37. Del resto, la conquista incruenta
di Gerusalemme sembrava portare a compimento l’unione di Occidente e Oriente preannunciato dalle profezie sibilline a cui si
richiamava anche Pietro da Eboli, quando nei vv. 1397-1406 del
suo Carmen celebrava i presagia del piccolo Federico. Un’unione che poteva annunciare l’avvento dell’imperatore della fine dei
tempi, che avrebbe riportato l’età dell’oro, ma che poteva anche
costituire la realizzazione del regno dell’Anticristo, sempre preannunciata dai vaticini e confermata dalle interpretazioni bibliche
pseudogioachimite38: a seconda delle strade che avrebbe preso la
propaganda cancelleresca imperiale e papale.
Ma della produzione cancelleresca non è il caso di soffermarci
qui39, per cui torniamo alla descrizione di quanto avvenne a GeruCfr. Constitutiones cit., II, p. 166, nr. 122.
H. Bresslau, Juden und Mongolen 1241, in «Zeitschrift für die Geschichte der Juden in Deutschland», 1 (1887), pp. 99-102; 2 (1888), pp. 382383; G. Wolf, Kaiser Friedrich II. und die Juden. Ein Beispiel für den Einfluß
der Juden auf die mittelalterliche Geistesgeschichte, in Judentum im Mittelalter, a c. di P. Wilpert, Berlin 1966, pp. 435-441 (ristampato in Stupor Mundi
cit., pp. 774-783); Schaller, Endzeit-Erwartung und Antichrist-Vorstellungen
in der Politik des 13. Jahrhundert, in Stupor Mundi cit., p. 425 (l’articolo è
stato pubblicato la prima volta in Festschrift für Hermann Heimpel zum 70.
Geburtstag, Göttingen 1972, pp. 924-947; ed è stato ultimamente ristampato in
Id., Stauferzeit cit., pp. 25-52); R. E. Lerner, Federico II mitizzato e ridimensionato post mortem nell’escatologia francescano gioachimita, in Id., Refrigerio dei Santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Roma 1995, pp.
147-167 (ed. or. in The Use and Abuse of Eschatology in the Middle Ages, a c.
di W. Verbeke, D. Verhelst, A. Welkenhuysen, Leuwen 1988, pp. 359-84). Più
in generale cfr. almeno N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Milano 1965 (ed.
or. London 1957); B. Töpfer, B., Il regno futuro della libertà, Genova 1992
(ed. orig. Berlin 1964); M. Reeves, The influence of prophecy in the later Middle Ages, Oxford 1969.
39
Sui caratteri della produzione cancelleresca sveva cfr. soprattutto H. M.
Schaller, Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. Ihr Personal und ihr Sprachstil,
in «Archiv für Diplomatik», 3 (1957), pp. 207-286; 4 (1958), pp. 264-327.
Inoltre, su tali aspetti, mi si permetta di rimandare all’introduzione a Nicola
da Rocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003, e a quella a Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze
2007. Cfr. anche Delle Donne, Il potere cit., pp. 59-97; B. Grévin, Rhétorique
37
38
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
511
salemme, e leggiamo quanto ci dice il Breve chronicon Siculum:
XVIIa vero die ipsius mensis martii, in illa die dominica, qua cantabatur:
“Letare, Ierusalem, in diem, festum agite omnes qui diligitis Eum”, hoc factum
fuit: ipse imperator cum omni exercitu Christianorum civitatem ipsam gaudentes intraverunt. Et qui scripsit personaliter interfuit, et a veritatis tramite non
discordat, cum oculis suis viderit et de causa certe scientie testimonium perhibeat. Quantum enim in storiis legitur, a tempore Heradii40 et Corradi imperatorum nullus imperator civitatem ipsam intravit nisi ipse Fredericus, quam
Christiani pacifice et quiete possederunt, quousque Crosminii supradicti ipsam
occupaverunt. Nunc autem in anno M°CC°LXXII° veniat in medium angelus
septimus tuba caniturus et dicat: “Ierusalem, surge et sta in excelso, et vide iocunditatem, que veniet tibi per Dominum Deum tuum ab oriente, et noli flere,
quia cito veniet salus tua. Leva igitur in circuitu oculos tuos, et vide exercitum orientalium Christianorum, qui congregabitur ad revelationem et gaudium
tui. Inundatio enim camelorum ipsorum orientalium operiet terram, dromedarii Madian et Epha onusti apparebunt, aurum et thus deferent, ut tuam edificent ruinam”41.
[Invero il 17 dello stesso mese di marzo, in quella domenica in cui si cantava “Allietati per il giorno, Gerusalemme, fate festa tutti voi che Lo amate”, fu
fatto ciò: lo stesso imperatore e tutto l’esercito dei cristiani entrarono gioiosamente nella stessa città. E chi scrive partecipò personalmente e non si allontana dalla verità, avendo visto con i suoi occhi e offrendo sulla cosa la testimonianza della certa conoscenza. Secondo quanto si legge nelle storie, infatti, dal
tempo degli imperatori Eraclio e Corrado nessun imperatore se non lo stesso
Federico entrò nella stessa città, che i cristiani possedettero in pace e in quiete
fino a che i menzionati Corosmini non la occuparono. Ora, poi, nell’anno 1272
venga il settimo angelo destinato a suonare la tromba e dica: “Gerusalemme,
du pouvoir médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen XIIIe-XIVe siècle, Roma 2008.
40
Certamente Heradii è un errore di archetipo che andrebbe corretto in
Heraclii, anche se si trova in tutti e tre i mss. che trasmettono l’opera (Napoli,
Bibl. Naz., VIII C 9; Bibl. Apost. Vaticana, Ott. Lat. 2940; Bibl. Apost. Vaticana, Vat. Lat. 7145).
41
Breve Chronicon cit., p. 90.
512
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sorgi e sta’ nell’eccelso, e vedi la giocondità che verrà per te da Oriente grazie
al Signore Dio tuo, e non piangere, perché presto verrà la tua salvezza. Alza,
dunque, attorno i tuoi occhi, e vedi l’esercito dei cristiani orientali che si riunirà per sollievo e per la gioia tua. Infatti, l’inondazione degli stessi cammelli
orientali riempirà la terra, i dromedari carichi a Madia ed Efa appariranno, porteranno oro e incenso per edificare la tua rovina”].
Neppure il Breve chronicon, opera di qualcuno che partecipò
direttamente all’impresa d’oltremare, dice nulla dell’incoronazione di Gerusalemme, pur se, richiamando gli accenti profetici tratti dal libro di Isaia (60, 1 ss.), insiste sull’eccezionale significato
messianico dell’evento.
Insomma, nessuna cronaca scritta dai contemporanei di Federico in un territorio soggetto alla sua giurisdizione sembra aver
prestato attenzione alla liturgia connessa con la celebrazione del
potere proprio nel momento in cui, attraverso le cerimonie di incoronazione, viene sancito il carattere sacro del potere stesso. È
necessario chiedersi il perché e cercare di capire se si tratta di una
scelta consapevole, frutto di un adeguamento a una linea imposta
dalla propaganda, oppure se il rilievo di quelle cerimonie fu tanto
scarso da non lasciare, di fatto, tracce nette. Ma su questo torneremo dopo aver raggiunto il limite cronologico prefissato da queste
Giornate normanno-sveve: forse, alla fine, la risposta potrà essere
resa più chiara anche dal confronto tra i diversi atteggiamenti che
avremo esaminato.
Procediamo, allora, sul percorso che abbiamo iniziato a seguire, quello delle descrizioni delle cerimonie di incoronazione fatte dai cronisti coevi e geograficamente vicini, e subito dobbiamo
constatare che diverse opere dedicate specificamente alla storia
del regno partono dalla morte di Federico II: un momento che
dovette segnare un discrimine insormontabile. E tra queste opere spiccano quelle del cosiddetto Iamsilla, di Saba Malaspina e,
solo in parte, per quanto riguarda i nostri fini, di Bartolomeo di
Neocastro.
Cominciamo a vedere quello che dice lo pseudo-Iamsilla, strenuo sostenitore e difensore di Manfredi, di cui si dilunga a cele-
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
513
brare le virtù e delle cui imprese fornisce spesso resoconti molto
dettagliati42. Ma, giunto alla fine dell’opera che si conclude con
l’incoronazione dello Svevo, celebrata in seguito alla diffusione
della falsa notizia della morte di Corradino, ecco quello che dice:
Quo rumore audito, comites et alii magnates regni, praelati etiam ecclesiarum in Sicilia ad principem profecti sunt (...) unanimiter omnes petentes ab eo,
ut ipse princeps (...) ipsius regni gubernaculum et coronam tamquam rex et ipsius regni verus haeres acciperet: qua petitione unanimiter sibi facta ab omnibus, idem princeps, per concordem omnium comitum et magnatum ac etiam
praelatorum regni electionem in regem electus, coronam regni Siciliae in maiori ecclesia Panormitana, juxta consuetudinem et ritum praedecessorum suorum regni Siciliae, solemniter accepit, anno Dominicae incarnationis 1258, die
undecima mensis augusti, primae indictionis43.
[Sentita la notizia [della morte di Corradino], i conti e gli altri magnati del regno, e anche i prelati delle chiese della Sicilia andarono dal principe
Manfredi (...) chiedendo tutti unanimemente che lo stesso principe (...) assumesse la guida e la corona del regno come se fosse il re e il vero erede dello
stesso regno: ed essendogli stata fatta da tutti unanimemente questa richiesta,
lo stesso principe eletto re per concorde elezione di tutti i conti i magnati e
Sulla rappresentazione di Manfredi nell’opera dello pseudo-Iamsilla
cfr. soprattutto E. Pispisa, Nicolò di Jamsilla. Un intellettuale alla corte di
Manfredi, Soveria Mannelli 1984; F. Delle Donne, La cultura di Federico II:
genesi di un mito. Il valore della memoria e della philosophia nell’Historia
dello pseudo Iamsilla, in Id., Politica e letteratura nel Mezzogiorno medievale, Salerno 2001, pp. 75-109, in cui si propone anche che l’autore di questa
parte dell’opera sia da riconoscere in Nicola da Rocca. Sui problemi strutturali
dell’opera cfr. F. Delle Donne, Gli usi e i riusi della storia. Funzioni, struttura, parti, fasi compositive e datazione dell’Historia del cosiddetto Iamsilla, in
«Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 113 (2011), in corso
di stampa, in cui si arriva alla conclusione che l’opera del cosiddetto Iamsilla
è una silloge elaborata all’inizio del Trecento, in cui vengono messe assieme
tre cronache precedenti scritte da diversi autori, rielaborate in chiave filo-sveva
anche con l’aggiunta di alcuni inserti.
43
Nicolaus de Jamsilla, Historia, in RIS, a c. di L. A. Muratori, VIII, Mediolani 1726, col. 583; l’edizione del Muratori fu riprodotta anche in Cronisti
cit., ii, pp. 105-200: il passo citato si trova a p. 200.
42
514
Fulvio Delle Donne
anche i prelati, prese solennemente la corona nella maggiore chiesa di Palermo, secondo la consuetudine e il rito dei suoi predecessori del regno di Sicilia, nell’anno 1258 dell’incarnazione del Signore, il giorno 11 di agosto, prima indizione].
Sicuramente stupisce che la descrizione dell’incoronazione di
Manfredi, a cui naturalmente, sin dall’inizio, aveva teso tutta la
cronaca, sia sbrigata tanto in fretta. L’anonimo autore, insistendo
sul fatto che l’incoronazione era stata un’idea dei grandi del regno, nonché sull’unanimità della richiesta, vuole senz’altro liberare Manfredi dall’accusa di aver ordito macchinazioni per dare
compimento alla sua ambizione e al suo desiderio di potere. Per
cui si potrebbe pensare che lo pseudo-Iamsilla abbia volutamente omesso una descrizione troppo enfaticamente celebrativa, proprio per indurre il lettore a vedere in Manfredi un campione di
modestia e umiltà. Di certo, però, questa scelta risulta nettamente in contrasto con il precedente registro celebrativo, a partire dai
giochi di parole, nelle prime pagine, sul nome di Manfredi, tutti imperniati sulla sua grandezza e sulle sue eccezionali virtù44.
Oppure con il racconto dell’ingresso a Lucera, su cui vale la pena soffermarsi. La porta della città, abitata dai Saraceni, è stata chiusa per ordine del traditore Giovanni Moro, e non rimane
altra possibilità se non entrare attraverso un condotto di scarico
dell’acqua piovana che passava sotto la porta. Non essendoci altra scelta, Manfredi, «nec advertens ingressus illius turpitudinem,
sed magnae fructum gloriae», cioè «non badando alla turpitudine di quell’ingresso ma al frutto della grande gloria», accetta di
passare attraverso il cunicolo che lo costringeva a procedere «non
tamquam homo directus, sed tamquam reptile incurvatus terraeque prostratus»45, ovvero «non diritto come un uomo, ma curvo
come un rettile e prostrato a terra».
Quod Saraceni videntes, magnaque ex illa principis miranda quidem, sed
44
45
Nicolaus de Jamsilla, Historia cit., coll. 497-498 (Cronisti cit., p. 108).
Ivi, col. 531 (Cronisti cit., p. 143).
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
515
necessaria humilitate permoti: “Numquid – inquiunt – ferendum est, ut dominus noster ita viliter civitatem intret? Effringamus igitur portas, ut ingrediatur,
sicut principem decet”. Uno ergo impetu facto irruerunt ad portas ipsasque fregerunt, et intus principem cum magno gaudio recipientes, ipsum usque ad medium civitatis in brachiis suis relevatum a terra portaverunt46.
[I Saraceni, vedendo ciò e commossi da quella meravigliosa ma necessaria
umiltà del principe: “Possiamo mai sopportare – dissero – che il nostro signore
entri in città tanto vilmente? Rompiamo dunque le porte perché entri così come
si conviene a un principe”. Fatto un solo impeto si lanciarono contro le porte e
le ruppero, e, accogliendo dentro il principe con grande gioia, alzatolo da terra
lo portarono in braccio fino al centro della città].
Questo racconto appare emblematico della rappresentazione
della dignità che lo pseudo-Iamsilla attribuiva al rappresentante
del potere regio. Le connotazioni che colorano i pensieri e le azioni dei Saraceni sono, naturalmente, mediate dall’arte dell’autore.
Un suddito fedele non può sopportare, infatti, che il suo signore
si umili strisciando come la più infima delle bestie, neppure se costretto dalla necessità. Un principe, seppure virtuosamente umile, non può concretamente esserlo di fronte a chi gli è sottomesso: egli deve passare attraverso la porta e non sotto di essa, perché questo gli si conviene. E non può non sfuggire l’ingombrante
presenza dell’autore, quando indulge sul particolare di Manfredi
che viene portato in braccio: colui che avrebbe dovuto strisciare a
terra non può più subire il contatto di quel vile elemento che fino
a un momento prima era il simbolo della più infima umiliazione,
ma deve essere innalzato in cielo.
Insomma, se in questa occasione lo pseudo-Iamsilla non dimostra di avere remore nella celebrazione della dignità di Manfredi e
– diciamo – nel richiamo esplicito alle liturgie connesse col potere, perché non avrebbe dovuto fare lo stesso a proposito della descrizione dell’incoronazione, evento di gran lunga più importante
e liturgicamente ben più rilevante? Quella di avvolgere nel silenzio gli eventi dubbi non è la sola tecnica che un letterato può usa46
Ivi, col. 531 (Cronisti cit., p. 144).
516
Fulvio Delle Donne
re per evitare di macchiare la rappresentazione encomiastica del
celebrato; e lo pseudo-Iamsilla, abile “panegirista”, lo sa bene.
Allora, anche questo caso – richiamandosi implicitamente al retaggio di una tradizione precedente – potrebbe, forse, confermare
lo scarso interesse per la descrizione delle incoronazioni che abbiamo riscontrato riguardo a Federico II, se non fosse che il testo
attribuito al cosiddetto Iamsilla presenta alcuni problemi strutturali, su cui qui non è il caso di soffermarsi.
Lo stesso atteggiamento riguardo alla cerimonia di incoronazione di Manfredi si rileva, del resto, anche in Saba Malaspina,
ma con finalità diverse. In Saba Malaspina, strenuamente ostile a
Manfredi, naturalmente l’ottica viene rovesciata. Così, Manfredi
non viene spinto a diventare re per le insistenti richieste dei grandi
del regno, ma «indicit (...) diem coronationis sue, quam apud civitatem Panormitanam, regum Siciliae sequens vestigia, promulgaverat celebrandam», ovvero «intima il giorno della sua incoronazione, che aveva promulgato che si dovesse celebrare nella città
di Palermo, seguendo le orme dei re di Sicilia»47. Alcuni notabili,
«prompte, minus tamen provide» («prontamente ma non prudentemente») accorrono; altri, con scuse e stratagemmi vari, fanno in
modo di non presenziare alla cerimonia, «ut saltem missam coronacionis et horam unctionis regie evitarent», cioè «per evitare
almeno la messa dell’incoronazione e l’ora dell’unzione regia»48.
Naturalmente, anche Saba, come lo pseudo-Iamsilla, dirige abilmente la sua narrazione, e, insistendo specificamente sulla messa e sull’unzione, vuole far intendere che quelli sono i momenti
imprescindibili della liturgia di un’incoronazione che, se non si è
potuta evitare, almeno si può e si deve allontanare dallo sguardo,
negandone, quindi, di fatto il valore. Tanto più che la descrizione
della cerimonia vera e propria viene svolta in questo modo:
In ecclesia tandem Panormitana, quam regum Sicilie porphirea et anabastrica monumenta materia et arte pretiosa decorant, in regem Siciliae per quoSaba Malaspina, Chronik, ed. W. Koller, A. Nietschke [MGH, SS, 35],
Hannover 1999, p. 117.
48
Ivi, p. 118.
47
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
517
sdam presules Manfredus inungitur et per regni barones assitentes prelatis
regali dyademate coronatur. In testimonium autem unctionis et coronationis
huiusmodi iussit cyrografum confici rethorico stilo contextum sub sigillis et
subscriptionibus presulum et baronum, qui sollemnitatis illius festiva gaudia
fuerant comitati49.
[Infine, nella chiesa di Palermo, che i monumenti di porfido e di alabastro
dei re di Sicilia abbelliscono con materia e arte preziosa, Manfredi viene unto
re di Sicilia da alcuni prelati, e viene coronato col diadema regale dai baroni
del regno che assistevano i prelati. A testimonianza dell’unzione e dell’incoronazione fatta in quel modo, ordinò che, con stile retorico, venisse rogato un atto munito dei sigilli e delle sottoscrizioni dei presuli e dei baroni che avevano
partecipato alle gioie festive di quella solennità].
Come quei prelati che avevano scelto di non partecipare, anche Saba Malaspina preferisce allontanare lo sguardo dalla cerimonia, facendolo, di fatto, scivolare sui monumenti che abbelliscono il duomo di Palermo. D’altronde, ci si può anche distrarre a
guardare le preziose bellezze che adornano il luogo, perché sembra proprio che il nostro autore voglia farci capire in tutti i modi
che quell’incoronazione non aveva alcun valore; e che di questo
fosse consapevole anche lo stesso Manfredi, che cerca di conferirle una parvenza di significato giuridico ricorrendo alla stesura
di un documento, certamente inefficace, ma formalmente munito
di tutti i necessari elementi intrinseci ed estrinseci, come lo stile,
i sigilli e le sottoscrizioni.
Dunque, nel caso dell’incoronazione di Manfredi, Saba Malaspina volontariamente sceglie di sorvolare su alcuni dettagli,
rivelando la sua ideologia. In un caso simile, però, preferisce
seguire un’altra strategia. Quando Carlo d’Angiò, il 6 gennaio 1266, viene incoronato re a Roma, Saba descrive l’evento in
questo modo:
Interea Karolus in basilica principis apostolorum aput Urbem per quattuor
cardinales illuc per dominum Clementem agentem apud Urbemveterem prop49
Ibidem.
518
Fulvio Delle Donne
terea destinatos in regem Sycilie delinitur et regali, prout moris est, dyademate coronatur. In cuius coronatione memoranda solennitatum festa sunt acta et
nova gaudiorum tripudia festivaque solennia celebrata. Ludunt enim more quo
supra generaliter omnes equites, maxime nobiles Romani. Ac quilibet (...) celebriora constituit illius diei gaudia, ut tantae rei negocium memoriter effluat
et perhenniter memoretur. Iam Gallicorum post hec superveniens multitudo
circumfluit (...). Propter quod vel extingui celeriter anxiant in propria furia vel
cedis occisione aut sperati auri copia saturari aut preciosis farciri mobilibus
amplo voto cogitant et affectant50.
[Carlo, intanto, nella basilica del principe degli apostoli, a Roma, è investito re di Sicilia da quattro cardinali a questo destinati da papa Clemente, che si
trovava a Civitavecchia, e secondo l’usanza è coronato col diadema regale. Per
la sua incoronazione furono fatte memorabili feste solenni e furono celebrati
nuovi tripudi gioiosi e solennità festose. Gareggiano infatti, secondo il costume di cui si è già detto proprio tutti i cavalieri e specialmente i nobili romani.
E ciascuno (...) rese più solenni le gioie di quel giorno, così che un così grande
evento non esca dalla memoria e venga ricordato perennemente. Dopo queste
cose, sopravvenendo, già arriva la moltitudine dei Francesi (...). Per la qual cosa bramano di morire presto nella propria furia, o, dopo aver fatto strage di nemici, desiderano e ardono di saziarsi con l’abbondanza dello sperato oro o di
riempirsi con i beni preziosi che possono portar via].
Qui, più che il silenzio si cerca la ridondanza verbale, capace,
magari, di evocare il tripudio della folla. Certo, neppure in questo
caso Saba si sofferma sulla liturgia dell’incoronazione vera e propria, anche se non ne mette in dubbio la legittimità, piuttosto preferisce soffermarsi sui giochi festosi che la accompagnano. Tuttavia, anche l’evocazione del rumore, come il silenzio, viene usato
strumentalmente per far spiccare il giudizio dell’autore, che subito si affretta a far aleggiare su quell’atmosfera gioiosa il presagio
della distruzione portata dai Francesi – poco dopo paragonati ad
astori rapaci51 – che si pongono come unico intento quello di sac50
51
Ivi, p. 158.
Ivi, p. 162, rr. 8-16.
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
519
cheggiare e devastare il regno di Sicilia.
Già in precedenza Saba aveva rivelato la sua predilezione per
la rappresentazione delle scene festose, a proposito dell’ingresso
dello stesso Carlo a Roma, avvenuto tra gli osanna, i tripudi e le
giostre descritte minutamente, perché «non est ergo sane memoria, quod pro aliquo domino Romani usque ad illa tempora tam
magnalia ostentamenta congesserint», ovvero «non si ricorda che
i Romani abbiano organizzato tanto grandi spettacoli fino a quel
tempo per qualche signore»52. E anche in seguito mostra la stessa
tensione, quando si sofferma lungamente sulla rappresentazione
dell’ingresso a Roma del giovane Corradino, avvenuta il 24 luglio 1268:
Quodque magnum est et auditu mirabile, mulierum choree ludencium intra Urbem in cimbalis et timpanis, lituis et viellis et in omni musicorum genere
concinunt. (...) De domo in domum in oppositum consistentem iactatis ad modum arcus aut pontis cordis et funibus vias medias desuper non lauro vel ramis
arboreis, sed caris vestibus et pellibus variis velaverunt, suspensis ad cordas
stropheis, flectis, dextrocheriis, (...) bursis sericis, cultris (...), cortinis, tovaliis
et linteaminibus contextis auro siricoque per totum, vittis, velis et pallis deauratis, que doctus opifex citra et ultra mare de diversa e operosa materia caraque texuerat. Hiis igitur ornamentis omnes fere Urbis vie per quas Corradinus
erat vadens ad Capitoleum transiturus, taliter adornantur. Nec fuit aliqua illius
pompositatis et glorie comparatio, quando Romani regem Karolum venientem
universaliter exceperunt53.
[E ciò che è grande e mirabile a sentirsi, cori di donne cantano nella città
al suono di cembali, di timpani, di flauti, di viole e di ogni genere di strumento
musicale. (...) E gettate da una casa all’altra corde e funi a mo’ di arco o ponte, coprirono il centro delle strade non con alloro o rami d’albero, ma con vesti preziose e pelli variopinte, e, sospese alle corde, si vedevano fasce, scudi,
braccialetti, (...) e borse di seta e coltri (...), cortine e tovaglie e lini intessuti
interamente con fili d’oro e seta, e bende, veli e pallî dorati che il dotto artefi-
52
53
Ivi, pp. 152-153.
Ivi, p. 198.
520
Fulvio Delle Donne
ce di qua e di là del mare aveva tessuto con varia, difficile e preziosa materia.
In questo modo, dunque, erano ornate quasi tutte le vie di Roma, per le quali
Corradino doveva passare per recarsi al Campidoglio. Né vi fu alcuna comparazione con la pompa e la gloria dimostrata quando tutti i Romani accolsero il
re Carlo che veniva].
Anche qui Saba si compiace nel mettere in scena la rappresentazione di una folla festante, accompagnamento liturgico certamente degno della più solenne delle incoronazioni, e certamente
più grandioso di quello riservato all’Angioino. Ma incoronazione
non vi fu, e Saba si guarda bene dal dire che i Romani accolsero Corradino con laudes imperatorie, come invece fa il più tardo Tommaso Tosco54. Anche in questo caso, infatti, la folla funge
solo da apparato scenografico, e, come nel caso dell’accoglienza
riservata a Carlo d’Angiò, essa era ancora ignara delle devastazioni che avrebbero portato i Francesi, qui è inconsapevolmente
manovrata dal senatore Enrico di Castiglia55, che, «non sine premeditata astutia», aveva ordinato che la folla accorresse incontro
a Corradino:
Intendebat enim per populum ipsum et miliciam Urbis, quanta in Urbe
posset, ostendere, quodque verisimiliter daret credere, quod Romanos omnes
promptos et paratos fidelibus et devotis animis habere senator ipse poterat contra regem, ac per huiusmodi ostentamenta pomposa et fallacia Romanorum
predictorum dicto Corradino patefaceret voluntatem56.
Thomas Tuscus, Gesta imperatorum et pontificum, ed. G.H. Pertz [MGH,
SS, 22], Hannover 1872, p. 522, r. 15. Su Tommaso Tosco che appartiene a un
altro ambiente e segue altra ideologia cfr. M. Zabbia, Il Regno nelle cronache
comunali prima e dopo la battaglia di Benevento, in Suavis terra, inespugnabile castrum. L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina,
a c. di F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 115-131; Id., Manfredi di Svevia nella
cultura storiografica delle città italiane tra Due e Trecento, in Scritti per Isa.
Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a c. di A. Mazzon, Roma 2008,
pp. 896-914.
55
Sul ruolo della massa e del popolo nella rappresentazione di Saba cfr.
l’introduzione a Saba Malaspina, Chronik cit., p. 30 ss.
56
Ivi, pp. 197-198.
54
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
521
[Infatti, attraverso il popolo stesso e la milizia di Roma, quanta potesse raccoglierne nella città, intendeva mostrare, e darlo a credere in maniera verisimile, che lo stesso senatore poteva avere tutti i Romani pronti e preparati, con
animi fedeli e devoti, contro il re, e con tali pompose e fallaci ostentazioni voleva manifestare al detto Corradino la volontà dei Romani].
Del resto, anche Corradino viene rappresentato come un fanciullo ingenuo e ignaro delle macchinazioni ordite a suo danno, perché la sua è una «iuvenilis mens casus incauta futuri
previdere»57, cioè «una mente fanciullesca non preparata a prevedere i casi futuri». Egli è per Saba un bambino meritevole solo di
compassione quando, catturato, viene portato a Napoli:
Corradinus sane terrore mutus et metu nichil audet palam temere proloqui
nec secum infelici condolere de casu, sed tantum pia matris recenset viscera et
futurum in eo gemitum matris plorat: “Ha, ha – inquid – o genitrix, me missum
ad tanta pericula, quasi casus filialis praenuntia deplorabis”58.
[Corradino, muto per il terrore e la paura, non osa dire nulla, né dolersi in
se stesso del suo infelice destino, ma soltanto va meditando sui pii affetti della
madre e piange il suo futuro dolore. “Ahimé – dice – madre mia, tu, quasi presaga della fortuna del figlio, piangerai me mandato a tanti pericoli!”].
Dunque, con questi accenti patetici, Saba nega di fatto a Corradino quella dignità eroica che spetterebbe a un sovrano; così
come Carlo d’Angiò aveva negato a lui e a Federico di Baden finanche la liturgia di una sepoltura conveniente al suo lignaggio:
«decori artus acephali non tumulantur, sed humantur corpora sic
obtruncata»59; «le belle membra senza testa non vengono tumulate, ma vengono coperti da terra i corpi così troncati»; seguendo anche in questo la sorte di Manfredi che «sine tumulo (...)
Ivi, p. 200.
Ivi, pp. 213-214.
59
Ivi, p. 215.
57
58
522
Fulvio Delle Donne
sepelitur»60, «è sepolto senza tumulo».
Ma se Saba può avere pietà per la vicenda di un fanciullo ingannato e tradito, non può averla per la sua dinastia, fonte di sventura e desolazione:
Posteritas igitur Frederici, cuius emula quasi fuit transgressio genitoris,
tanquam succedens criminibus avitis, evanuit (...). Pereunt aquile pulli (...).
Radix non germinat ulterius Frederici, nec serpens ulterius sibilat, nec absorbet sue commentationis effectum, nec viciosa cupidus frendet amplius detentione possessor. Arbor
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huiusmodi non facit plus surculos, neve floret, nec fructus producit ulterius valituros. Ruit
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irreparabiliter domus, et machina toto convellitur, eiusque successio sue perhennis desolationis incomoda perhenniter
deplorabit61.
[Dunque, la posterità di Federico, a cui fu quasi nemica la trasgressione
del genitore, come seguendo ai crimini aviti, svanì (...). Muoiono i piccoli
dell’aquila (...). La radice di Federico più non germoglia, né il serpente sibila
ancora, né ottiene l’effetto della sua ricerca, né più il bramoso possessore freme rabbiosamente per il vizioso possesso. Tale albero non fa più germogli, né
fiorisce, né produce più frutti che possono maturare. Crolla irrimediabilmente
la casa e la struttura cede interamente, e la sua progenie piangerà perennemente i danni della perenne desolazione].
Ecco che improvvisamente riaffiorano quegli accenti profetici e sibillini che abbiamo visto caratterizzare l’opera di Pietro da
Eboli. Solo che se in Pietro essi erano usati per esaltare il ruolo
salvifico della dinastia sveva, in Saba sono ribaltati per decretarne
la perenne maledizione.
Ma essi si ritrovano anche nell’Historia di Bartolomeo di Neocastro. Bartolomeo accenna solamente all’incoronazione di Manfredi, a quella di Carlo d’Angiò, e quasi sorvola sull’ingresso a
Roma di Corradino62. Ma quando arriva alla sua esecuzione caIvi, p. 177.
Ivi, p. 215; ma simili accenti si riscontrano anche nelle pp. 92-93.
62
Bartolomeo di Neocastro, Historia Sicula, ed. C. Paladino [RIS2, XIII,
60
61
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
523
pitale non può fare a meno di fermarsi. E, dopo avergli fatto pronunciare un lungo discorso di commiato, prosegue:
Hiis dictis, spiculatorem et socios ad osculos recipit, et, oculos ad superos
erigens, ait: “Creator omnium Christe, coelestis rex gloriae, si calix iste a me
transire non debet, in manus tuas commendo spiritum meum”. Et deinde terrae
acquiescens, collum composuit supra petram, cuius cervicem, nudato gladio,
separavit ab humeris spiculator. In eo scriptura perficitur dicens: “Pullus aquileus filius viduae in gremio Nymphae Dardaneae mactabitur supra petram”. O
misera sortis humane conditio! O fragile conditionis humanae mysterium! Qui
iam magnificabatur a singulis, deformis truncus factus, vilibus iacet egregius
iuvenis in arenis. ����������������������������������������������������������������
(...) Quid nasci de Caesare profuit, si culpa peccati et severitate iudicii gloria regis, qui quadam similitudine summis aequiparatur coelestibus, morti succubuit tamquam praedo?63
[Dette queste cose abbraccia il carnefice e i compagni, e poi, levati gli occhi al cielo, dice: “Creatore di tutte le cose, Cristo re di gloria, se questo calice non deve passare da me, raccomando nelle tue mani il mio spirito”. Quindi,
distesosi a terra, accomodò la testa sopra la pietra e il carnefice, sfoderata la
spada, gli spiccò la testa dalle spalle. In lui si compì la scrittura che dice: “sarà
ucciso sulla pietra l’aquilotto figlio della vedova nel grembo della ninfa dardania”. O misera condizione della sorte umana! O fragile mistero della condizione umana! L’egregio giovane, già da tutti magnificato, ora, fatto deforme,
giace nella vile polvere. (...) A cosa giovò nascere da un cesare, se per la colpa
3], Bologna 1921-1922, pp. 5-6, 8. Dell’incoronazione di Manfredi si limita a
dire: «in civitate Panormi coronatur a suis» («è incoronato dai suoi nella città
di Palermo»); di quella di Carlo dice: «ecce iam in Urbem Sanctam properat
comes dominus Carolus; pastore volente, regali sceptro regni Siciliae coronatur, et, tradito vexillo, regnum potenter ingreditur» («ecco che già si affretta
verso la città santa; per volontà del pastore, il conte signore Carlo viene coronato dello scettro del regno di Sicilia e, avuto il vessillo, entra potentemente
nel regno»); dell’ingresso a Roma di Corradino fa menzione così: «Sacram Urbem ingreditur (...) ibique Conradinus auget et roborat vires suas, ac, Romanis
comitantibus, ad bellum vehitur contra regem Carolum hostem eius» («entra
nella città santa (...) e lì accresce e rafforza le sue forze, e, accompagnandolo i
Romani, è spinto alla guerra contro il re Carlo, suo nemico»).
63
Ivi, p. 9.
524
Fulvio Delle Donne
di un peccato derivato dalla severità del giudizio, la gloria del re, che per similitudine è equiparato agli esseri più alti del cielo, soccombette alla morte come
fosse un predone?].
Anche Bartolomeo rappresenta Corradino come tronco senza
testa che giace nella polvere. Anch’egli, come Saba, fa ricorso
al compiersi dei vaticini, che hanno predetto la morte dell’aquilotto64. Tuttavia, sorprendentemente, non solo eguaglia il potere
regio a quello divino, ma, facendo ricorso a un’immagine usata
– come vedremo – dalla più ardita propaganda filo-sveva, equipara Corradino a Cristo, al suo sacrificio salvifico, nel momento
in cui deve bere l’amaro calice (cfr. Matt., 26, 42; Luc., 22, 42) e
viene messo a morte come un ladrone assieme ai ladroni. Evidentemente era rimasta nelle sue orecchie l’eco dei manifesti federiciani, che la foga antiangioina fa tornare alla memoria, magari fuori contesto, ancora a distanza di circa mezzo secolo, quando ormai il nome degli svevi è stato annebbiato dal corso degli
eventi, tanto da arrivare perfino a confondere il primo Federico
con il secondo65.
Certo stupisce meno trovare simili accenti nell’Adhortatio
con cui l’esule Pietro da Prezza esorta il marchese Federico di
Meissen, zio di Corradino, a far vendetta di chi «contra iustitiam,
immo, quod est gravius, contra Deum, (...) contra ius omne belli, contra consuetudinem priscis moribus approbata, que neminem regem, quem in armis cepissent, vita privandum provide statuerunt (...) tanti regis sitivit sanguinem, eius carne non veritus
I testi dei vaticini sibillini di questo periodo sono raccolti in O. HolderEgger, Italienische Prophetieen des 13. Jahrhunderts, in «Neues Archiv der
Gesellschaft für altere deutsche Geschichtskunde», 15 (1889-90), pp. 141178; 30 (1905), pp. 321-386, 714-715; 33 (1908), pp. 95-187. Cfr. anche F.
Kampers, Kaiserprophetieen und Kaisersagen im Mittelalter. Ein Beitrag zur
Geschichte der deutschen Kaiseridee, München 1895; e Id., Die deutsche Kaiseridee in Prophetie und Sage, München 1896 (rist. anast., Aalen 1969).
65
Cfr. Bartolomeo di Neocastro, Historia cit., p. 2, dove si dice che dal
matrimonio tra Enrico e Costanza nacque Federico I, e da lui Federico II.
64
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
525
saturari»66, ovvero «contro ogni giustizia, anzi contro Dio stesso, (...) contro ogni diritto di guerra, contro l’antica consuetudine confermata dall’uso, la quale previde che mai nessun re preso in battaglia potesse essere ucciso (...) ebbe sete del sangue di
così grande re né dubitò di saziarsi delle sue carni». Sicuramente, l’orazione di Pietro da Prezza è più articolata ed è unicamente incentrata sulla vicenda di Corradino, tanto che può ricorrere
a diversi registri e argomentazioni per dimostrare non solo la ferocia inumana e blasfema di Carlo, ma anche la sua illegittimità.
Così può deridere l’Angioino, che discende da Carlo Magno così come un «cuculus ab aquila seu murilegus a leone»67, cioè come un «cuculo dall’aquila o un sorcio dal leone»; mentre invece
è Corradino colui che è «ex imperatorum antiquorum prosapia
propagatum»68, ovvero «disceso da prosapia di antichi imperatori», la cui stirpe non solo fa capo a Carlo Magno – come abbiamo
visto che veniva affermato già dalla propaganda del Barbarossa
– ma arriva fino a Enea69. E può anche spingere il suo interlocutore, il terzo Federico, a compiere il proprio destino:
Nomen habes et numerum ab augusto divo cesare Friderico secundo serenissimo patre tuo, cuius magnarum alarum aquile tu Fridericus tertius, verus
pullus, quemadmodum testantur scripture, predicant prophetie, naturalium rationum argumenta convincunt, fidelium mentes esuriunt et infidelium animi
perhorrescunt, supervolabis altius ascensurus instanter, ad quam tibi scala iam
erecta paratur universalis dominii monarchia70.
[Prendi il nome e il numero dall’augusto divo cesare Federico serenissimo
tuo avo, della cui aquila dalle grandi ali tu, Federico terzo, vero figlio, come
attestano le scritture, affermano le profezie, dimostrano gli argomenti delle ragioni naturali, le menti dei fedeli sono assetate e gli animi degli infedeli hanno
Petrus de Pretio, Adhortatio, in Cronisti cit., II, p. 692.
Ivi, p. 690.
68
Ivi, p. 692.
69
Ivi, p. 697.
70
Ibidem.
66
67
526
Fulvio Delle Donne
terrore, volerai, pronto a salire subito più in alto dove, essendo già innalzata la
scala, ti è preparata la monarchia del dominio universale].
Il destino di Federico di Meissen è già scritto e annunciato dalle profezie. La nidiata dell’aquila dalle grandi ali preconizzata da
Ezechiele (17, 3) non è stata distrutta, ma c’è ancora un aquilotto
pronto a spiccare il volo verso la signoria del mondo.
Insomma, i toni profetici e sibillini tipici di quella particolare
rappresentazione della ieratica liturgia del potere che aveva connotato il primo rappresentante della progenie italica degli Staufen
tornano improvvisamente a caratterizzare anche l’ultimo. A giudicare dalla produzione storiografica che abbiamo analizzato, essi sembravano spariti da circa tre quarti di secolo. Ma è proprio
così? Davvero durante il periodo di regno di Federico II, Corrado
e Manfredi quel registro era stato bandito? Certamente no, se leggiamo i testi prodotti dalla cancelleria sveva, che in questa occasione – come abbiamo già detto – non possiamo analizzare.
Non possiamo, tuttavia, non accennare almeno al preconium di
Federico II scritto da Pier della Vigna71, le cui lettere costituiscono i vertici più alti della produzione cancelleresca sveva. In questo testo, più che altrove, si sintetizza tutta la concezione politica
che caratterizza l’impero svevo: in esso si esplicita la liturgia del
potere che l’accompagna. In esso si sommano e si rimandano vicendevolmente, in chiave mistico-religiosa, citazioni dai testi biblici e dai componimenti di Boezio che trattavano di Dio72.
Hunc siquidem terra, pontus adorant, et ethera satis applaudunt, utpote qui
mundo verus Imperator a divino provisus culmine, pacis amicus, caritatis patronus, iuris conditor, iusticie conservator, potentie filius mundum perpetua ratione gubernat.
Petrus de Vinea, Epistolae, III, 44. L’edizione dell’epistolario a cui si
può fare riferimento è quella curata da J. R. Iselin (Iselius), Basileae 1740 (ris.
anast., intr. di H. M. Schaller, Hildesheim 1991). Il preconium, tuttavia, è edito
criticamente in Delle Donne, Il potere cit., pp. 63-64.
72
Cfr. Delle Donne, Il potere cit., pp. 65-97.
71
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
527
[Se certamente la terra e il mare lo adorano e i cieli lo applaudono come
vero imperatore concesso al mondo dal divino culmine, amico della pace, patrono della carità, fondatore del diritto, preservatore della giustizia, figlio della
potenza governa il mondo con perpetua ragione].
L’imperatore è posto da Dio al vertice del mondo: anzi l’uno si
identifica nell’altro. Per questo il mondo deve esultare della protezione offerta da Federico. E il concetto viene ulteriormente ribadito quando si raffigura lo stesso mondo che invoca Federico
come suo signore in una affannosa gradatio amplificante, già introdotta dal nesso precedente:
Talem namque totus orbis vocabat in dominum; talem requirebat iustitia
defensorem, qui in potentia strenuus, in strenuitate preclarus, in claritate
benignus, in benignitate sapiens, in sapientia providus, in providentia foret
humanus73.
[E infatti tutto il mondo acclamava come signore lui; la giustizia cercava
come difensore lui, destinato a essere strenuo nella potenza, splendido nella
strenuità, benigno nello splendore, sapiente nella benignità, provvido nella sapienza, umano nella provvidenza].
Una gradatio che serve a introdurre una più precisa descrizione della divina capacità dell’imperatore di pacificare anche i
contrari:
In eo denique insita forma boni, tanquam livore carens, elementa ligat et
elementata coniungit, ut conveniant flammis frigora, iungantur arida liquidis,
planis associentur aspera, et directis invia maritentur.
Parte di questa espressione si ritrova anche nelle laudes di Edoardo d’Inghilterra scritte da Stefano di San Giorgio ed improntate fortemente all’elogio di Federico, ma in maniera più limitata nell’estensione e nella solennità:
Eduardo è solo «strenuitate preclarus, claritate sublimis, sublimitate flexibilis»; cfr. E. Kantorowicz, The Prologue to ‘Fleta’ and the school of Petrus de
Vinea, in Id., Selected Studies, Locust Valley - New York 1965, p. 175; questo
saggio fu pubblicato per la prima volta in «Speculum», 32 (1957), pp. 231-249.
Il testo è stato edito criticamente in Una silloge epistolare cit., pp. 40-44, n. 43.
73
528
Fulvio Delle Donne
[In lui certamente l’insito aspetto del bene, come fosse privo di livore, lega
gli elementi generanti e congiunge quelli generati, in maniera che il freddo si
unisca con le fiamme, il secco si congiunga col liquido, l’aspro si associ al levigato, il contorto si coniughi col lineare].
Date queste premesse, con Federico sarà raggiunta la pienezza
dei tempi, con lui tornerà l’età dell’oro: lui è l’atteso messia vaticinato dalle sibille. Con lui il mondo avrà fine, così come aveva
avuto origine con Adamo: i due termini, creazione e redenzione,
coincideranno con l’instaurazione, da lui operata, del regno della
giustizia. Col suo avvento tornerà il regno della pace e, sradicate
le radici del male, non ci sarà più bisogno di armi. «Gladii conflantur in vomeres», «le spade si trasformeranno in vomeri», profetizza Pier della Vigna, usando un’espressione tratta da Isaia (2,
4), che l’adoperava per descrivere l’avvento del Messia. Abbiamo visto che anche Bartolomeo di Neocastro farà la stessa equiparazione a proposito di Corradino, ma il paragone che mette in
connessione Federico con Cristo, col Dio fatto uomo assume, in
un’epoca in cui si attendeva un messia incarnato, una connotazione escatologica e ieratica talmente radicata da travalicare i limiti
del gioco letterario.
Certo, le strategie della propaganda federiciana furono complesse e tali da collocarsi su diversi livelli, da quello sublime
dei manifesti cancellereschi, a quello popolare dei “blasoni”
cittadini74. E dovette essere lo stesso imperatore svevo a contribuire in maniera decisiva alla formazione del proprio mito, e
anche alla determinazione di quella sua figura delineata coi caratteri demoniaci dell’Anticristo. Ogni suo gesto era probabilmente studiato in maniera tale da poter essere interpretato tanto
Sui motti poetici attribuiti a Federico II in dileggio o in onore delle città,
soprattutto pugliesi, cfr. soprattutto F. Delle Donne, Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia. L’Itinerario di Federico II di anonimo pugliese, Salerno
1998. Sull’uso della dizione “blasone popolare”, attribuito a tali componimenti
cfr. R. Corso, Presunti motti di Federico II di Svevia sulle città pugliesi, in «Il
folklore italiano», 7 (1932), pp. 193-199, e Id., Blasoni popolari, in «Almanacco calabrese», 6 (1956), p. 25.
74
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
529
come compiuto dal rappresentante di Dio inviato sulla terra per
salvarla, tanto dall’Anticristo, la bestia demoniaca che avrebbe portato alla dissoluzione della cristianità. Abbiamo già accennato alle contrastanti reazioni connesse con il suo ingresso
trionfale a Gerusalemme; ma, allo stesso modo, anche nel Natale del 1239, quando procedette tra la folla benedicendo e facendosi precedere dalla croce e dalle parole di Giovanni Battista75, egli si rifaceva a una liturgia legata alla tradizione regale
bizantina, tedesca e anche normanna76, tale, però, da poter anche essere inteso come rivelatore della sua natura satanica, perché proprio in tale modo era tramandato che si sarebbe comportato l’Anticristo77. Similmente potettero diffondersi le voci che
egli amava farsi chiamare precursore dell’Anticristo o che aveva rinnegato il dogma della verginità della Madonna o aveva
definito Cristo come impostore78.
Insomma, soprattutto a partire dalla vittoria di Cortenuova,
ossia dal tentativo di rendere finalmente universale e assoluta la
propria signoria, e in connessione con lo scontro più violento che
lo oppose al papato, Federico amò palesarsi coi tratti del Cesare
antico, dell’imperatore messianico e dell’anticristo: tre epifanie
che mostravano le facce di un medesimo personaggio, che solo le diverse circostanze facevano apparire diverso e mutevole79.
Egli seppe sfruttare in maniera del tutto unica le aspirazioni di un
mondo che sentiva imminente la propria fine. Probabilmente, in
tale modo, Federico non fece altro che seguire la strada già tracciata dai suoi antenati svevi, ma esasperando il carattere irrazionalistico della propria propaganda imperiale.
In tale contesto, allora, i testi letterari che cercavano di ricostruire storicamente e, più o meno razionalmente, le linee della
75
Così riferisce un anonimo sostenitore papale in una relazione al concilio
di Lione del 1245: cfr. Acta imperii cit., I, n. 723, p. 569 (BF 7549).
76
Cfr. Schaller, Kaiseridee cit., p. 514, n. 58.
77
Cfr. Id., Endzeit-Erwartung cit., p. 436.
78
Epistolae saeculi XIII cit., p. 653; BF 7245 Z.
79
Cfr. Kantorowicz, Federico II cit., p. 618.
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Fulvio Delle Donne
sua azione politica non dovettero essere considerati da Federico lo
strumento privilegiato per la costruzione del consenso, per l’elaborazione della propria liturgia del potere. In maniera parzialmente diversa dovettero, invece, comportarsi i suoi successori, e soprattutto Manfredi, che, non potendosi ammantare della dignità
imperiale, dovette cercare di giustificare il proprio ruolo e la propria discendenza, come sembrerebbe dimostrare l’opera “apologetica” dello pseudo-Iamsilla.
Tale circostanza potrebbe spiegare l’esiguità di quei componimenti epico-storici, che pure accompagnarono le azioni degli
ascendenti più diretti di Federico o quelle di Manfredi. Ma, soprattutto, in tale modo potrebbe essere spiegato il poco conto in
cui Federico tenne gli autori cortigiani che dalle loro lodi speravano di ottenere onori e doni. Questo è il caso di quei poeti che si
affollarono intorno a lui al momento della sua incoronazione imperiale. Essi, sperando di ritrovare presso la corte sveva lo stesso «Pregio» e «Dono» che, in Italia, si erano estinti con la morte
di Guglielmo Malaspina, nell’autunno del 1220 riconobbero nel
giovane Federico, che tornava in Apulia dopo otto anni di permanenza in Germania, colui che riconduceva nella penisola la corte
più splendida del mondo. Molti trovatori, spontaneamente o seguendo i loro protettori, si accodarono al corteo di colui che stava
per essere unto imperatore, quel corteo che seguiva proprio quelle strade lombarde ed emiliane che attraversavano i territori in cui
quei poeti cortigiani avevano trovato più cordiale accoglienza. Aimeric de Peguilhan, autore di un sirventese da lui stesso intitolato La Metgia, è colui che più di ogni altro può rappresentare quali
fossero, in quella circostanza, le attese e le aspirazioni del mondo
trobadorico e feudale italiano. Federico è dipinto come un medico
della scuola di Salerno che viene a risanare Pretz e Dons che ormai languivano tra piaghe e malattie80: egli conosce tutti i mali e
tutti i beni e non chiede compenso per le sue pratiche ristoratrici,
anzi lo concede.
La comparazione tra sovrano e medico risale a Plat., Rep., 341c; 345c;
357c; Polit., 297e. Essa è poi ripresa sistematicamente dalla tradizione eulogica
greca e latina.
80
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
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Anc hom non vi metge de son joven,
Tant larc, tant bel, tant bon, tant conoissen,
Tant coratgos, tant ferm, tant conqueren,
Tant ben parlan ni tant ben entenden
Quel ben sap tot e tot lo mal enten,
Per que sap miells meizinar e plus gen
E fai de Dieu cap e comenssamen,
Qe l’einsegna gardar de fallimen81.
[Non si vide per l’innanzi medico della sua giovinezza, tanto liberale, tanto
bello, tanto buono, tanto dotto, tanto coraggioso, tanto fermo, tanto attraente,
tanto ben parlante e tanto bene intendente da sapere tutto il bene e da intendere
tutto il male; infatti egli sa medicare meglio e più gentilmente, e fa capo e incominciamento da Dio, che gli insegna a guardarsi dall’errore].
Aimeric caratterizza Federico, che forse neppure vide mai, con
le stesse virtù che la letteratura romanza d’oltralpe attribuiva ai
signori “cortesi”. Ma il “gioco” letterario prevedeva, in cambio,
ricompense. Ricompense, che, probabilmente, non vennero mai
concesse, se altri poeti, come Elia Cairel, lamentarono l’avarizia
e la mancanza di «cortesia» del giovane sovrano82. In ogni caso
nessun altro trovatore, in seguito, si tratterrà presso il nuovo imperatore: gli altri sirventesi che parlano di Federico furono scritti
lontano da lui e dettati dall’incalzare degli eventi. Una situazione
non dissimile, del resto, dovettero trovare anche Minnesänger come Walther von der Vogelweide, che ritroviamo presso Federico
Poesie provenzali storiche relative all’Italia, ed. V. De Bartholomaeis, I,
Roma 1931, nr. LXIX, p. 247, con traduzione a p. 249.
82
Falchetto di Romans, che, come aveva già fatto quindici anni prima Rambaldo di Vaqueiras con Baldovino di Fiandra, manda un conselh a Federico
in cui lo invita a coltivare il «Pregio» e a tenere i cordoni della borsa aperta,
perché la ruota della fortuna gira e chi si trova in alto presto potrà ritrovarsi
in basso (Poesie provenzali cit., II, n. LXXI, pp. 3-7), ed Elia Cairel lamenta
che non può più seguire colui che è signore dell’impero «qu’el te ma persona
magra / si que nom pot mordre lima», ovvero perché lo tiene così magro che
neppure la lima può morderlo (Ivi, II, nr. LXXII, p. 9).
81
532
Fulvio Delle Donne
solo nei primi anni di regno83, e un poeta cortigiano come Enrico
di Avranches, autore di tre carmi latini composti in onore dell’imperatore probabilmente nel 1235-1236, ovvero durante la sua permanenza in Germania84.
Insomma, Federico dovette essere certo consapevole dell’opportunità di tenere ben distinti i campi di applicazione e di ricezione dei diversi tipi di comunicazione, concedendo poco spazio
a quel tipo di produzione celebrativa o giustificativa, che pure poteva presentare forti connotazioni politiche85. Politica e propaganda dovettero essere considerate cose troppo delicate e importanti
per lasciarle organizzare e proporre, senza controllo, a cronisti e
poeti86. Federico II, diversamente da Manfredi, non ebbe bisogno
della ricostruzione giustificativa di uno pseudo-Iamsilla.
Forse, Federico II non sentì la necessità di storici che descrivessero i fasti delle sue incoronazioni, perché la liturgia del potere doveva essere esplicitata preferibilmente in altri campi e con
altri strumenti. E soprattutto con quello dei manifesti ufficiali, redatti in quella lingua ricercata e sofisticata, sovraccarica e bizzarSulla presenza di poeti tedeschi alla corte di Federico II cfr. I. Frank,
Poésie romane et Minnesang autour de Frédéric II. Essai sur les débuts de
l’école sicilienne, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 3 (1955), pp. 51-83.
84
Essi sono stati editi da Winkelmann, Drei Gedichte Heinrichs von Avranches an Kaiser Friedrich II., in «Forschungen zur Deutschen Geschichte», 18
(1878), pp. 482-492. Cfr. anche J.C. Russel, Master Henry of Avranches as an
international poet, in «Speculum», 3 (1928), pp. 34-63.
85
Il sirventese era proprio la forma in cui venivano composte le poesie di
carattere politico. Per comprendere, inoltre, in quale stretto contatto quel tipo
di componimenti stessero con la cronaca e la vita politica quotidiana, basta
ricordare che Dante (Inf. XXVIII, 112 ss.) presentava Betran de Born come
seminatore di discordia. Cfr. anche M. De Riquer, Il significato politico del
sirventese provenzale, in Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, a c.
di V. Branca, Firenze 1973, pp. 287-308.
86
Cfr. A. Varvaro, Potere politico e progettualità culturale nel Medioevo
e in Federico II, in Nel segno di Federico II. Unità politica e pluralità
culturale del Mezzogiorno, Atti del IV Convegno Internazionale di Studi della
Fondazione Napoli Novantanove (Napoli, 30 settembre - 1 ottobre 1988),
Napoli 1989, p. 87.
83
La rappresentazione del potere e le sue liturgie
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ra, che venne elaborata presso la cancelleria dagli illustri dictatores che – così come amavano talvolta definirsi87 – furono i sacerdoti dell’ecclesia imperialis, ai quali fu affidato l’incarico di
propagare e diffondere i misteri inspiegabili di quel supremo ente
politico e spirituale. Ed essi, con la loro prosa elevata a “insegna
di potere”88, assolsero perfettamente quell’incarico, consegnando
all’eternità – proprio come voleva Federico II – la mistica simbologia degli arcana Imperii, ai quali conferirono una metafisica
corporeità.
Cfr. Delle Donne, Il potere cit., pp. 82 ss.; nonché l’introduzione a NicoRocca, Epistolae cit., pp. XL-XLIII.
88
Sul concetto di “insegna di potere”, limitato, però, ai soli oggetti materiali (come corone, scettri etc.) che costituiscono il corredo liturgico dei sovrani,
cfr. P. E. Schramm, Kaiser Friedrichs II. Herrschaftszeichen, Göttingen 1955;
Id., Le insegne del potere di Federico II, in Atti del Convegno di Studi su Federico II (Jesi 28-29 maggio 1966), Jesi 1976, pp. 73-82; R. Elze, Le insegne
cit., pp. 113-129. Sull’applicazione del concetto nel suo senso più esteso cfr.
Delle Donne, Il potere cit., p. 26.
87
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