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L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum
Anno CLII n. 66 (46.012)
Città del Vaticano
domenica 18 marzo 2012
.
Due esplosioni colpiscono sedi istituzionali
A cinquant’anni dalla morte di Giuseppe De Luca
Terrore a Damasco
L’intelligenza
e la salvezza dell’anima
Kofi Annan cerca una soluzione politica della crisi
DAMASCO, 17. Non si placano le violenze in Siria. Due esplosioni hanno
colpito questa mattina Damasco, la
capitale del Paese arabo, provocando
ventisette vittime e circa cento feriti.
Stando alle prime ricostruzioni ufficiali, due autobombe hanno colpito
il quartiere di Al Qasaa, lungo Boulevard Baghdad, e la zona di Duwar
Al Jamalek. Nessuna rivendicazione,
al momento.
Secondo le autorità e i media ufficiali siriani, le due esplosioni volevano colpire le sedi dei servizi di sicurezza dell’Aeronautica e della Sicurezza criminale, dipendente dal Ministero degli Interni e che si occupa
tradizionalmente dei criminali comuni. L’agenzia ufficiale Sana riferisce
che le due autobombe, parcheggiate
nei pressi dei due edifici, sono esplose intorno alle 7:30 ora locale. La televisione di Stato parla di «attentati
terroristici». La Cnn parla anche di
una terza esplosione avvenuta su un
autobus, notizia che però non è stata confermata dal Governo.
Sul piano diplomatico, Kofi
Annan, inviato dell’Onu e della
Lega araba per la Siria, ha parlato
ieri ai quindici membri del Consiglio
di Sicurezza, chiedendo loro di
«raggiungere una posizione unica».
Annan ha annunciato che presto invierà in Siria alcuni consiglieri per
colloqui con le autorità al fine di valutare la possibilità di far arrivare
successivamente osservatori internazionali. Damasco ha già detto di
considerare positivamente l’ipotesi.
La crisi siriana — ha spiegato Annan
— deve essere «gestita con molta
cautela: ogni errore di calcolo che
conduce a un’escalation avrebbe un
impatto sulla regione, sarebbe estremamente difficile da controllare». La
Francia ha ribadito che «al momento non c’è un’opzione militare: è
escluso — ha spiegato il ministro degli Esteri, Alain Juppé — che ci si
lanci in una tale operazione senza
un mandato delle Nazioni Unite».
L’Unione europea ha reso nota l’intenzione di mantenere la sua delegazione diplomatica a Damasco, nonostante alcuni Stati Ue abbiano deciso di chiudere le ambasciate: Lo ha
ribadito il portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue,
Catherine Ashton.
In una lettera al Consiglio di Sicurezza, il Governo siriano ha ribadito che le operazioni delle forze di
sicurezza e dell’esercito sono dirette
a «proteggere i cittadini e disarmare
i terroristi». A questi ultimi, infatti,
Damasco attribuisce la responsabilità
delle violenze.
Intanto, sul terreno le violenze
nelle città proseguono. Secondo
quanto riportano gli attivisti, ieri si
sarebbero verificati numerosi scontri
in diverse località. Almeno quattordici persone — hanno riportato alcune fonti dei Comitati di coordinamento locali — sono state uccise a
Raqqa, a est di Aleppo, finora mai
stata toccata dai combattimenti. Una
proposta concreta è stata formulata
dalla Turchia. Secondo quanto dichiarato dal primo ministro Recep
Tayyip Erdogan, Ankara sta valutando la creazione di una «zona cuscinetto» al confine con la Siria. Ha
infatti raggiunto quota 16.000, con
un salto di circa 900 persone rispetto a soli due giorni fa, il numero di
profughi siriani accolti al momento
Giorgio Napolitano chiude le celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia
Un risveglio di coscienze
Il presidente ringrazia la Santa Sede, «L’Osservatore Romano» e la Cei
Giorgio Napolitano durante la cerimonia al Quirinale
ROMA, 17. I bambini cantano in coro l’inno di Mameli mentre su un
grande schermo scorrono le immagini di un anno di celebrazioni. È
cominciata così oggi al Quirinale,
alla presenza del capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, la cerimonia
che ha concluso il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.
Presentando il bilancio e il significato della ricorrenza e offrendo al
presidente della Repubblica l’occasione per un giro d’orizzonte sulla
congiuntura politica italiana. Nel
trarre a inizio ottobre le prime conclusioni dell’esperienza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ha detto Napolitano, «scrissi che si era prodotto un
risveglio di coscienza unitaria e na-
zionale». E, ha aggiunto, «quei
frutti li stiamo raccogliendo anche e
in particolare nella fase speciale e
cruciale che la vita pubblica italiana
ha imboccato tre mesi fa». Fase
dalla quale è emerso un atteggiamento di «nuova consapevolezza e
responsabilità condivisa». Pensando
al clima in cui si è svolta a novembre la difficile crisi politica, ha affermato il presidente, tutto sarebbe
stato più arduo se in precedenza
«non si fosse ritrovato e potenziato
quel senso di interesse generale da
far prevalere sull’interesse particolare, il senso e valore della coesione
nazionale e sociale come leva per
superare — oggi al pari di ieri — sfide e prove ineludibili». Il sostegno
delle forze politiche al Governo
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Per la festa di san Giuseppe
In questa raffigurazione popolare san
Giuseppe porta tra le sue braccia il piccolo Gesù. A sua volta il bambino lo
accarezza e lo sostiene, con la croce in
mano e sotto lo sguardo amoroso e
protettivo della Vergine. È un’immagine ingenua e nello stesso tempo molto
espressiva con la quale «L’O sservatore
Romano» rivolge al Papa, che con il
nome del patrono della Chiesa universale è stato battezzato, gli auguri più
cordiali per la sua festa onomastica.
Auguri che il giornale esprime da parte
dei suoi lettori, unendosi a quelli di
tantissime donne e di tantissimi uomini
che in tutto il mondo guardano al Pontefice con attenzione, affetto e ammirazione. Anche Benedetto XVI, come il
suo santo protettore, mostra Gesù — sul
quale proprio in questi giorni sta completando un’opera che resterà — ed è
da lui sorretto, sotto lo sguardo di Maria, figlia di Israele e immagine della
Chiesa. (g.m.v.)
4
l 19 marzo 1962 moriva,
nell’ospedale dei Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, don
Giuseppe De Luca, prete romano.
Giunto quasi alla soglia dei sessantaquattro anni, stava vivendo momenti entusiasmanti e terribili. Il
felice rapporto stabilito con Giovanni XXIII sembrava insperatamente riscattare il periodo difficile
del pontificato di Pio XII, in cui si
era sentito ignorato e incompreso
da chi doveva aiutarlo; ma proprio
quella relazione nuova e diretta col
Papa metteva in crisi i suoi storici
legami con gli antichi maestri e
colleghi del seminario romano, Domenico Tardini e Alfredo Ottaviani, mentre si profilavano le prime
tensioni intorno al Vaticano II che
stava per incominciare.
Ma chi è stato veramente De
Luca? E cosa significa ricordarlo
oggi, a mezzo secolo dalla scomparsa, in un mondo e in una Chiesa vertiginosamente mutati? Di De
Luca girano molte, forse troppe
immagini. L’amico dei letterati e
degli artisti, il generoso sostegno di
storici e filologi, il suscitatore di
un’ideale accademia di dotti con
un’editrice così paradossalmente
antieconomica, le Edizioni di Storia e Letteratura, da essere sempre
sull’orlo del naufragio e del fallimento; oppure il confidente, l’ispiratore e il ghost writer di politici di
vari schieramenti, da Giuseppe
Bottai a Luigi Sturzo, da Alcide
De Gasperi a Palmiro Togliatti, da
Franco Rodano ad Adriano Ossicini. Oppure ancora lo scopritore di
una «scienza nuova», la storia della pietà, di quello stato in cui l’uomo sente presente Dio per consuetudine d’amore e lo esprime nelle
forme più diverse, dalle poesie raffinate di un Petrarca alle canzoncine spirituali, alle umili devozioni
del popolo cristiano. Quasi contemporaneamente alla scuola francese delle «Annales», De Luca proponeva e operava una rivoluzione
storiografica ancora più audace:
non la mentalità o la lunga durata
al posto della storia-battaglia e della grande politica, ma la pietà come vera essenza dell’uomo, al centro di un’antropologia rinnovata.
Per questa «storia della pietà» valeva la pena creare un «Archivio»,
una rivista — davvero il sogno della
sua vita — che ne raccogliesse le infinite tracce nelle direzioni più imprevedibili, anche nelle espressioni
dell’empietà che, a modo suo, gli
appariva una forma di pietà a rovescio, comunque un grido, un’implorazione, un’invocazione.
De Luca, certo, è stato tutto
questo e altro ancora, in una personalità incredibilmente complessa e
non priva di contraddizioni. Eppure De Luca è innanzitutto altro: un
prete che ha fatto del suo rapporto
con Gesù Cristo nella Chiesa il
senso della sua esistenza; e in nome di questo rapporto ha trasformato la vita sua e di molti altri (da
Giuseppe Sandri a Romana Guar-
I
nieri, a Giovanni Antonazzi) che lo
hanno incontrato. Vivendo in mezzo alla gente (i vecchietti delle Piccole Suore della Carità a San Pietro in Vincoli o i letterati del
«Frontespizio» e della Morcelliana), immerso in una vasta e ramificata famiglia meridionale, ai margini di una Curia romana che conosceva come pochi. Ma al tempo
stesso da perpetuo outsider, da isolato, da cane sciolto che si paragonava a Benedetto Giuseppe Labre,
sicuro di morire sui gradini di una
chiesa, però tutto teso a professare
una sola certezza che, nelle apparenti variazioni di superficie, lo ha
sempre animato con indefettibile
coerenza. «Tu hai visto — scriveva
all’amico Giovanni Battista Montini il 9 gennaio 1952 — che il mio
tentativo era di riscattare il clero
italiano da una cultura di echeggiamento e traduzione, e ricondurlo a
una dottrina d’iniziativa e di coordinazione. Essere fedeli sino all’estremo della vita, ed essere larghi
sino al limite della verità che ha i
limiti molto in là (se pure li ha, sinonimo di Dio). Dimostrare, nell’umile fatto, che si può essere con
l’erudizione più spinta, con la poesia più nuova, ed essere con Cristo
e con la Chiesa: ecco il sogno nel
quale ogni giorno cerco di tramutare la mia vita». E sei mesi prima, il
13 giugno 1951, sempre a Montini
confidava quale era la sua «mèta
vera, la più lontana in apparenza,
la più vicina in affetto: l’amore di
Cristo, ma insieme con tutta la
scienza e con tutta l’arte. Pazzo desiderio, ma necessario, se Lo amiamo davvero. Tutto è suo, ma perché sta nelle mani de’ suoi nemici?
Dobbiamo riscattarlo».
Ecco il segreto della sua missione in partibus infidelium, ai confini
del Regno: una fede veramente cattolica, larga quanto i confini della
verità, amica dell’intelligenza, e per
questo capace di parlare con i più
lontani. «Ci siamo dimenticati —
ricordava De Luca al Comitato
Cattolici Docenti Universitari a
San Giovanni a Porta Latina il 9
dicembre 1956 — che l’anima non la
salviamo, senza impegnare a fondo
l’intelligenza. Tutta l’intelligenza. È
l’intelligenza una cosa che o c’è o
non c’è, ma insomma lei sola dà legna all’amore». Per una Chiesa fedele, consapevole e orgogliosa della sua storia, che è sempre, alla fine
dei conti, una mirabile sequela del
Maestro. Insomma, ci sono tanti
motivi per non dimenticare, a cinquant’anni dalla morte, don Giuseppe De Luca, e per tornare a leggerlo e studiarlo. Perché «l’anima
non la salviamo, senza impegnare a
fondo l’intelligenza».
Scrittore e letterato
ma soprattutto sacerdote
Prete romano
VINCENZO PAGLIA
A PAGINA
5
NOSTRE INFORMAZIONI
Il cardinale Bertone alla messa
per i cinquant’anni dell’Oftal
Non c’è dolore inutile
Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha celebrato sabato mattina, 17 marzo, la messa
nella basilica Vaticana per l’O pera federativa trasporto ammalati a
Lourdes (Oftal) che ha festeggiato l’ottantesimo compleanno.
Donaci il silenzio
A PAGINA
Monti, ha continuato Napolitano,
«non mortifica la politica, ma contribuisce a rivalutarla, a riaccreditarla nella sua missione più autentica
di espressione dell’interesse generale e di rafforzamento della compagine nazionale». Secondo il capo
dello Stato, gli italiani hanno dimostrato una maturità sorprendente e
sono stati stimolati dal recupero dei
valori nazionali e morali. «Né possiamo dimenticare — ha sottolineato
il capo dello Stato — la presenza
della Santa Sede anche attraverso la
partecipazione alla cerimonia commemorativa del 20 settembre 1870 a
Porta Pia, la voce del Pontefice per
la celebrazione del 17 marzo e l’attenzione dell’Osservatore Romano,
le iniziative della Cei: tutti contributi spontanei, impegnativi e di indubbio significato». Tra i presenti,
il nunzio apostolico in Italia, arcivescovo Adriano Bernardini, e l’arcivescovo di Perugia - Città della
Pieve, Gualtiero Bassetti, vicepresidente della Conferenza episcopale
italiana.
Il Santo Padre ha ricevuto nel
pomeriggio di venerdì 16 Sua
Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale William Joseph
Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il santo visto da Paul Claudel
INOS BIFFI
di PAOLO VIAN
in territorio turco. Lo ha riferito il
vice premier turco, Besir Atalay, come riporta l’agenzia Anadolu. «Non
vogliamo un guerra civile, nessuna
divisione, né alcun intervento militare straniero» ha detto Atalay aggiungendo che «i problemi regionali dovrebbero essere risolti dai Paesi della
regione».
(secolo
XIX,
«Sacra Famiglia»
pittura su vetro, Centro studi devozioni popolari, Canicattini Bagni, Siracusa)
PAGINA 8
Il Santo Padre ha ricevuto
questa mattina in udienza:
le Loro Eminenze Reverendissime i Signori Cardinali:
— Marc Ouellet, Prefetto della
Congregazione per i Vescovi;
— Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova (Italia), Presidente della Conferenza Episcopale Italiana;
Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Guy Bagnard,
Vescovo di Belley-Ars (Francia).
Il Santo Padre ha nominato
Nunzio Apostolico in Lesotho
Sua Eccellenza Reverendissima
Monsignor Mario Roberto Cassari, Arcivescovo titolare di
Tronto, Nunzio Apostolico in
Sud Africa, Botswana, Namibia
e Swaziland.
Nomina di Amministratore
Apostolico
Il Santo Padre ha nominato
Amministratore Apostolico «sede vacante et ad nutum Sanctae
Sedis» della Diocesi di Faisalabad (Pakistan) l’Eccellentissimo
Monsignore Rufin Anthony, Vescovo della Diocesi di Islamabad-Rawalpindi.
In occasione della solennità
di san Giuseppe
il nostro giornale non uscirà.
La pubblicazione riprenderà
con la data 20-21 marzo.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 2
domenica 18 marzo 2012
In vista del prossimo vertice Ue a Copenaghen
Intervento della Santa Sede
Merkel apre al rafforzamento
del fondo salva-Stati
Per arginare la violenza
sui bambini
BERLINO, 17. Con il Portogallo che
rischia il secondo salvataggio e la
Grecia che potrebbe aver bisogno
del terzo, l’eurozona ha bisogno di
rafforzare il suo fondo salva-Stati in
fretta. Questo il messaggio lanciato
ieri dal cancelliere tedesco, Angela
Merkel. «Continueremo a discutere
per valutare la possibilità di un uso
combinato dell’Efsf e dell’Esm» ha
detto Merkel, mettendo fine alla sua
intransigenza sull’aumento delle difese europee contro il contagio della
crisi dei debiti, le uniche in grado
di rassicurare i mercati.
Merkel ha quindi spiegato che i
ministri delle Finanze hanno già discusso dell’ipotesi e torneranno sulla questione nella riunione informale di fine mese a Copenaghen. Per
allora, con la posizione della Germania più aperta al dialogo, potrebbero anche prendere una prima decisione sull’utilizzo combinato dei
due fondi, quello temporaneo Efsf
che scade a giugno 2013 e quello
permanente Esm che entra in vigore
a luglio 2012. Insieme, darebbero vita a un firewall di 750 miliardi di
euro, ovvero la somma dell’Esm da
500 miliardi e di quello che resta
dell’Efsf, cioè 250 miliardi.
Ma questa è considerata a Bruxelles l’ipotesi più «ambiziosa»: secondo fonti vicine al dossier, si punterebbe invece a un compromesso al
ribasso, per cui all’Esm verrebbero
sommati soltanto i 192 miliardi di
Pubblichiamo la traduzione italiana
dell’intervento svolto l’8 marzo dall’arcivescovo Silvano M. Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, durante
la 19ª sessione ordinaria del Consiglio
dei diritti dell’uomo.
Il cancelliere tedesco (Afp)
euro che l’Efsf ha già bloccato per
Grecia, Irlanda e Portogallo. Questo aumento consentirebbe di evitare che a luglio sia il solo salva-Stati
permanente a farsi carico dei salvataggi decisi finora, riducendo la sua
capacità da 500 miliardi a 308.
Il compromesso al ribasso, che secondo diverse fonti sarà discusso a
Copenaghen a fine mese, vedrebbe
quindi una capacità complessiva del
firewall di salire a 692 miliardi di
Nuovi arrivi
al vertice
di Deutsche
Bank
BERLINO, 17. Nuovi ingressi nel
management board di Deutsche
Bank. I nomi sono tutti legati al
prossimo arrivo di Jürgen Fitschen
e Anshu Jain al vertice della banca tedesca. Tra i nuovi membri del
management board, tutti quarantenni, accanto a Stephan Leithner
e a Henry Ritchotte, compare anche Stuart Lewis, nominato chief
risk officer del gruppo. Stuart
Lewis — dicono fonti di stampa —
è anche membro del consiglio di
sorveglianza di Deutsche Bank in
Italia, guidata da Flavio Valeri.
Salgono così a due i consiglieri
del management board che siedono nel consiglio di amministrazione dell’istituto in Italia, presieduto
da Jürgen Fitschen. Deutsche
Bank è attualmente guidata dallo
svizzero Josef Ackermann, che ricopre inoltre la carica di presidente dell’Associazione internazionale
delle banche.
Chevron
sospende l’attività
in Brasile
SAN PAOLO, 17. La Chevron, gigante petrolifero americano, ha
chiesto all’Agenzia nazionale del
petrolio (Anp) di poter sospendere temporaneamente la sua attività
in Brasile «per studiarne meglio la
sua situazione geologica». Lo ha
reso noto la stessa compagnia in
un comunicato diffuso dopo che,
nella piattaforma petrolifera di
Frade, 370 chilometri a nordest
della costa di Rio de Janeiro, è
stata individuata una nuova fuoriuscita di greggio dopo quella di
quattro mesi fa. L’Anp non ha dato informazioni specifiche sulla
consistenza della nuova perdita di
petrolio, limitandosi a dire che
«non dovrebbe essere grande». La
precedente, nella stessa area, era
di 3.000 barili. La Chevron, che è
stata multata severamente per la
perdita di petrolio avvenuta lo
scorso novembre, ha invece assicurato al quotidiano «Folha» che
«sono già state adottate le misure
per arginarla».
L’OSSERVATORE ROMANO
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POLITICO RELIGIOSO
Non praevalebunt
euro. I 250 miliardi restanti dell’Efsf
sarebbero riassorbiti dagli Stati o
potrebbero restare a disposizione fino a nuovo ordine dei ministri. Il
fronte del no all’ipotesi ambiziosa
da 750 miliardi di euro è guidato
comunque dalla Germania, che non
vuole dare l’impressione di creare
una sorta di parafuoco troppo potente, perché bisognerebbe poi assicurarne la sopravvivenza in modo
permanente.
Signora Presidente,
la Delegazione della Santa Sede desidera ribadire la sua profonda
preoccupazione, espressa anche da
altre delegazioni, per la piaga dei
bambini innocenti, gravemente feriti
nel loro benessere fisico, emotivo e
spirituale dalle violenze alle quali
sono stati sottoposti. Come ha osservato il Segretario generale delle
Nazioni Unite Ban Ki-moon nel
suo discorso in occasione dell’evento speciale per incoraggiare la ratifica di Protocolli Opzionali della
Convenzione sui Diritti del Fanciullo, «l’infanzia è un tempo di innocenza e di apprendimento, un tempo per formare il carattere e trovare
una via sicura verso l’età adulta. La
triste verità, però, è che troppi bambini nel mondo di oggi subiscono
terribili abusi» (Osservazioni del
Segretario Generale delle Nazioni
Unite, 27 maggio 2010).
Mentre la Rappresentante speciale del Segretario generale per la violenza sui minori ha riferito di sviluppi positivi in diverse regioni del
mondo, ha anche illustrato molte
Non verranno più richieste le autorizzazioni per manifestare
Cambia la strategia
dell’opposizione russa
MOSCA, 17. L’opposizione russa,
dopo tre mesi di manifestazioni
anti Putin infrantesi contro la valanga di voti raccolti dal futuro
presidente nelle elezioni del 4
marzo, ha deciso di cambiare strategia. Come racconta il quotidiano «Nezavisimaja Gazeta», una
parte della divisa opposizione ha
in programma di continuare a
scendere in piazza a Mosca, senza
però più concordare i raduni con
le autorità cittadine. Il primo appuntamento previsto è per oggi in
piazza Pushkin, già teatro di una
delle ultime manifestazioni contro
i risultati delle presidenziali, finita
il 5 marzo con il fermo di 250 persone — tra cui il blogger Alexei
Navalny — che avevano tentato di
rimanere in piazza oltre l’orario
previsto. Obiettivo della protesta
odierna è anche il reportage
dell’emittente statale Ntv che due
sere fa ha dipinto i dimostranti
come gente prezzolata al servizio
degli Stati Uniti per destabilizzare
il Paese, come ha accusato più
volte lo stesso Putin. Intanto, è
stato scarcerato ieri sera il capo
del Fronte di sinistra Serghiei
Udaltsov, uno dei leader della
protesta anti Putin, condannato
l’altro ieri a 10 giorni di reclusione
per una marcia non autorizzata: la
sua pena è stata commutata in
una multa di 1000 rubli (25 euro).
Udaltsov aveva iniziato uno sciopero della fame e della sete.
L’arresto di una manifestante a San Pietroburgo (LaPresse/Ap)
La Moldova elegge dopo tre anni
il presidente della Repubblica
CHISINAU, 17. Dopo tre anni di stallo istituzionale, il Parlamento della
Moldova ha eletto il nuovo presidente della Repubblica. Con 62 voti su 101, l’Assemblea di Chisinau
ha infatti nominato ieri Nicolae
Timofti, dal 2010 a capo del Consiglio supremo della magistratura.
Per il nuovo presidente — rilevano
gli analisti — si tratta della prima
esperienza in politica, dopo trentasei anni di carriera giudiziaria.
Timofti, sostenuto dal partito Alleanza per l’integrazione europea,
era l’unico candidato alla carica.
Ha superato il quorum necessario
per esser eletto (61 voti) grazie
all’appoggio di tre parlamentari socialisti. I trentanove deputati del
Partito dei comunisti — informano
le agenzie di stampa internazionali
— hanno invece votato contro.
Timofti è il quarto presidente del
Paese dalla sua indipendenza
dall’Unione sovietica, nel 1991. D opo l’elezione, il nuovo presidente
della Moldova (uno dei Paesi più
poveri d’Europa) ha affermato di
sostenere con forza le aspirazioni
del Governo di centro del primo
ministro, Vlad Filat, di entrare in
Europa, ma allo stesso tempo ha
garantito che sarà un capo dello
Stato apolitico.
GIOVANNI MARIA VIAN
don Sergio Pellini S.D.B.
Carlo Di Cicco
Segreteria di redazione
direttore responsabile
vicedirettore
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Antonio Chilà
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TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE «L’OSSERVATORE ROMANO»
Piero Di Domenicantonio
redattore capo
redattore capo grafico
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telefono 06 698 83461, 06 698 84442
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Gaetano Vallini
segretario di redazione
sfide persistenti che occorre affrontare per assicurare la sicurezza e il
benessere dei bambini in ogni settore e circostanza della vita e del benessere sociale. Circa 300.000 bambini sono coinvolti in oltre 30 conflitti nel mondo, venendo utilizzati
come combattenti, messaggeri, facchini, cuochi e vittime di rapporti
sessuali forzati. La maggior parte di
loro viene reclutata in modo brutale. Circa 115 dei 215 milioni di bambini lavoratori nel mondo sono impiegati in lavori pericolosi. Purtroppo, alcuni studi hanno dimostrato
che la violenza contro i bambini
può verificarsi in diversi ambienti: a
casa, a scuola o in altri ambiti educativi, negli istituti o in altre strutture di assistenza residenziale per
bambini i cui genitori non possono
dare loro cure adeguate e appropriate, nel luogo di lavoro, nelle carceri
o in altri tipi di centro di detenzione. A questi rischi tradizionali di
abuso si aggiungono le nuove tecnologie che, come dimostra una ricerca basata su dati concreti, spesso
bombardano i bambini con immagini e informazioni dannose e spaventose, o li spingono a partecipare ingenuamente a fori manipolati da
persone interessate a predare questi
bambini per ragioni egoistiche e lesive (cfr. Lost in Cyber World – a
project explaining the dangers harbored
by the Internet – Information for parents and educators, Progetto In Via,
Rete sociale dell’Arcidiocesi di Berlino, settembre 2011).
La violenza sessuale nei confronti
dei bambini è particolarmente ripugnante ed esige maggiore attenzione
da parte non solo dei governi nazionali e degli enti preposti a fare rispettare la legge, ma anche di ciascun componente della società, poiché la responsabilità di proteggere i
nostri figli deve essere condivisa da
tutti i membri della famiglia umana,
aiutandoli a godere della dignità
umana donata da Dio e accompagnandoli nella loro maturazione in
modo attento e sano.
Signora Presidente, questa Delegazione è acutamente consapevole
delle azioni assai deplorevoli commesse da alcuni ministri religiosi, i
quali hanno tradito i valori stessi
che predicano in nome delle loro rispettive tradizioni di fede, commettendo atti aberranti di abuso sessuale nei confronti di minori. La mia
Delegazione desidera precisare che
la Chiesa cattolica ha continuato a
sviluppare e ad adottare misure decisive, volte a monitorare con attenzione i provvedimenti presi dalle
strutture collegate alla Chiesa per
evitare che in futuro si verifichino
nuovi casi di abuso sessuale nei
confronti di minori in ambito religioso. Di fatto, in diverse occasioni
la Chiesa ha affermato che, senza
pregiudicare il foro interno sacramentale, le norme del diritto civile
che impongono di denunciare questi
crimini alle autorità preposte devono essere sempre rispettate (cfr. Lettera circolare per aiutare le Conferenze
episcopali nel preparare linee guida per
il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di
chierici, 3 maggio 2011). Nel corso di
un recente incontro di alto livello
che si è tenuto a Roma su questo
tema è stato lanciato un nuovo
«Centro per la protezione dell’infanzia», basato su internet, al fine
di aiutare le istituzioni collegate alla
Chiesa cattolica a formare il clero e
altro personale legato alla Chiesa
nella prevenzione degli abusi su minori (cfr. http://elearning-childprotection.com).
In un recente discorso ai vescovi
degli Stati Uniti d’America, Papa
Benedetto XVI ha «voluto riconoscere personalmente la sofferenza inflitta alle vittime [degli abusi sessuali]
e gli sforzi onesti compiuti per garantire l’incolumità dei nostri bambini e per affrontare in modo appropriato e trasparente le accuse quando vengono mosse». Il Santo Padre
ha inoltre espresso l’auspicio «che
gli sforzi coscienziosi della Chiesa
per affrontare questa realtà aiuteranno tutta la comunità a riconoscere le
cause, la vera portata e le conseguenze devastanti dell’abuso sessuale e a rispondere con efficacia a
questa piaga che affligge tutti i livelli della società», osservando che
«come la Chiesa si attiene giustamente a parametri precisi a questo
proposito, tutte le altre istituzioni,
senza eccezioni, dovrebbero attenersi agli stessi criteri» (Discorso di Papa Benedetto XVI ai presuli della Conferenza dei Vescovi cattolici degli Stati
Uniti d’America in visita ad Limina,
26 novembre 2011).
Signora Presidente, questo Consiglio, e la società nel suo insieme,
non devono ingannarsi pensando
che gli abusi sessuali nei confronti
di minori sono limitati ad alcune
istituzioni. Permeano in modo insidioso tutti gli elementi della società,
e nella maggior parte dei casi si verificano in famiglia, nel vicinato e
nell’ambito sociale diretto del bambino. Devono essere riconosciuti
con onestà e prevenuti con efficacia
al fine di tutelare la sicurezza e la
salute fisica ed emotiva dei bambini
che, a loro volta, costituiscono il futuro della società.
Accordo in Africa
contro
il lavoro minorile
DAKAR, 17. La lotta al lavoro minorile nella zona occidentale
dell’Africa riceverà un nuovo impulso in seguito all’accordo raggiunto ieri tra la Comunità economica degli Stati africani occidentale (Ecowas) e l’Ufficio internazionale del Lavoro (Ilo). In
base all’intesa, siglata nel corso
di colloqui cui hanno partecipato
rappresentanti delle due organizzazioni, l’Ecowas si assumerà il
compito di coordinare e gestire i
vari piani di contrasto al lavoro
minorile messi a punto dai vari
Paesi della regione. Il lavoro minorile è ritenuto una delle piaghe
più dolorose dell’Africa occidentale e viene usato soprattutto nelle piantagioni di cacao di Costa
d’Avorio, Ghana e Nigeria, Paesi
che da soli producono il 70 per
cento del cacao immesso annualmente sul mercato mondiale.
Arenato il dialogo di riconciliazione
tra Serbia e Kosovo
BELGRAD O, 17. L’Unione europea e
il Kosovo hanno ribadito la ferma
opposizione alla decisione di Belgrado di organizzare anche in territorio kosovaro le elezioni legislative
serbe del prossimo 6 maggio. Una
presa di posizione — ha detto il rappresentante speciale dell’Ue in Kosovo, Samuel Žbogar — che non favorisce il dialogo in atto fra Belgrado e Pristina, né può risolvere i problemi esistenti. L’Ue, ha aggiunto
Žbogar, non ha il potere di impedire la tenuta di elezioni, anche se
nessun problema può essere risolto
con misure unilaterali, ma solo con
il dialogo e il negoziato. La contra-
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rietà della Ue riguardo alle elezioni
serbe in Kosovo è stata espressa anche dall’alto rappresentante della
Politica estera, Catherine Ashton.
«Si tratta di una decisione in contrasto con le leggi e la costituzione
della Repubblica del Kosovo, e in
totale contraddizione anche con la
risoluzione 1.244 del consiglio di sicurezza dell’Onu e con le altre norme internazionali, che hanno sancito l’indipendenza del Kosovo», ha
subito detto il premier kosovaro,
Hashim Thaçi. La decisione di Belgrado ha subito provocato il blocco
del dialogo con il Kosovo, condizione necessaria per l’avvio del nego-
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ziato di adesione della Serbia alla
Ue. Riguardo alle legislative in Serbia, i partiti dovranno presentare le
proprie liste entro il 21 aprile, corredate da almeno 10.000 firme di persone che appoggiano la formazione
politica. Gli elettori sono poco più
di sette milioni, chiamati a rinnovare i 250 seggi del Parlamento unicamerale. La soglia di sbarramento
per l’ingresso dei partiti in Parlamento è fissata al 5 per cento. Il 6
maggio si voterà anche per le elezioni municipali e per quelle regionali in Voivodina, la parte più ricca
e sviluppata nel nord della Serbia,
al confine con l’Ungheria
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L’OSSERVATORE ROMANO
domenica 18 marzo 2012
pagina 3
Si conclude il Forum di Marsiglia
La crisi alimentare mette a repentaglio la vita di milioni di persone
Luci e ombre
sull’acqua
Emergenza siccità
sempre più grave nel Sahel
di PIERLUIGI NATALIA
Ha mostrato qualche nuova luce,
ma anche ombre persistenti, la sesta
edizione del Forum mondiale
dell’acqua, che si avvia in queste
ore a conclusione a Marsiglia, dopo
una settimana di confronto tra ventimila delegati, in rappresentanza di
organizzazioni internazionali, Governi, enti locali, organizzazioni
non governative e aziende. Nonostante importanti dichiarazioni di
principio, anche questa edizione ha
confermato la lentezza del cammino
verso la piena affermazione del diritto all’acqua potabile come diritto
umano fondamentale, uno dei più
importanti obiettivi da tempo indicati dalle Nazioni Unite. Non c’è
stata, cioè, l’accelerazione da molti
auspicata dell’impegno a rendere
concreto e applicato il principio,
sancito dalle Nazioni Unite stesse
nel 2010, che l’acqua appartiene ai
beni collettivi la cui salvaguardia
non può essere affidata ai meccanismi di mercato.
Una dichiarazione ministeriale
approvata a Marsiglia per consenso
dai delegati dei 130 Stati partecipanti, impegna garantire maggiore
tutela del diritto universale all’accesso all’acqua potabile — che ancora tre anni fa, nella quinta edizione
del Forum nel 2009 a Istanbul, alcune delegazioni non riconoscevano
— ma il contrasto strutturale tra servizio pubblico e società private non
è stato ancora sciolto. Nella dichiarazione, comunque, si sottolineano
le «interconnessioni tra acqua, sicurezza alimentare e energia» e si
chiedono «politiche coerenti tese
allo sviluppo dell’economia verde e
alla tutela degli ecosistemi, generatrici di una crescita sostenibile e di
occupazione».
È emersa anche, da alcune parti,
la richiesta di un tribunale internazionale dell’acqua, presso il quale le
popolazioni vittime di violazioni di
questo diritto possano fare ricorso.
Per esempio, il premio Nobel per la
pace Mikhail Gorbaciov, ultimo
presidente della disciolta Unione
Sovietica, si è detto «personalmente
molto favorevole alla creazione di
un tribunale internazionale incarica-
Nel 2050
inquinamento
raddoppiato
BRUXELLES, 17. Nel 2050 le emissioni di anidride carbonica
nell’atmosfera saranno del 50 per
cento superiori a quelle attuali.
A denunciarlo è l’O rganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), in un
rapporto pubblicato a Bruxelles.
«A meno che non intervengano
cambiamenti globali nel mix
energetico i combustibili fossili
soddisferanno circa l’85 per cento della domanda di energia nel
2050, il che implica un aumento
del 50 per cento delle emissioni
di gas a effetto serra e il peggioramento dell’inquinamento dell’aria urbana».
Secondo l’Ocse, l’economia
globale nel 2050 sarà quattro
volte più grande di oggi e il fabbisogno energetico crescerà dell’80 per cento. I combustibili
fossili, petrolio, carbone e gas
costituiscono l’85 per cento delle
fonti energetiche attuali mentre
le rinnovabili, tra cui i biocarburanti, coprono il 10 per cento del
fabbisogno energetico e il nucleare il restante 5 per cento. «A
causa della dipendenza dai combustibili fossili, prosegue il rapporto, le emissioni di anidride
carbonica cresceranno del 70 per
cento e questo contribuirà a fare
salire la temperatura globale di
3/6 gradi entro i prossimi 90 anni. Nel 2010 le emissioni globali
di biossido di carbonio hanno
raggiunto il massimo storico di
30,6 miliardi di tonnellate. Ma il
rapporto dell’Ocse non si limita
a queste previsioni e lo scenario
è quello di un futuro catastrofico, con un aumento delle morti
provocate dall’inquinamento fino
a 3,6 milioni l’anno, una crescita
della domanda di acqua del 55
per cento con una diminuzione
delle specie vegetali ed animali
del 10 per cento.
to di giudicare coloro che sono colpevoli di crimini ecologici, che si
tratti di leader di aziende o di capi
di Stato o di Governo».
Del resto, il contrasto tra diritti
generali e interessi particolari trova
su questo tema una delle sue maggiori evidenze e ostacola gli sforzi
di dare soluzioni concrete a quella
che resta una delle massime emergenze mondiali. Lo confermano,
nonostante alcuni successi registrati
negli ultimi anni, i dati sui quali ci
si è confrontati a Marsiglia.
Circa ottocento milioni di persone nel mondo, secondo le stime più
caute, vivono ancora senza acqua
potabile, ma applicando parametri
meno restrittivi tale cifra si moltiplica, con quasi due miliardi di esseri
umani che hanno a disposizione solo risorse idriche insalubri e tre miliardi e mezzo, la metà della popolazioni mondiale, che usano sia pure saltuariamente acqua non sicura.
A questo si aggiunge che mancano
adeguati servizi igienici per due miliardi e mezzo di persone, il che costituisce la prima causa di malattie.
Come in molti altri aspetti della
convivenza internazionale, anche su
questo c’è forte disparità tra le diverse parti del mondo, con l’Africa
subsahariana nella condizione peggiore, dato che i suoi abitanti e senza accesso all’acqua potabile sono
più del 40 per cento del totale.
La situazione minaccia di peggiorare, in assenza di soluzioni concrete, come potrebbero essere quelle
delineate nel documento messo a
punto dal Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, come contributo della Santa Sede alla sesta
edizione del Forum. Secondo l’O rganizzazione per la cooperazione e
la sviluppo economico (Ocse), la
domanda mondiale di acqua aumenterà del 55 per cento da qui al
2050, a causa della crescita demografica e dell’incremento dell’urbanizzazione. L’Ocse sostiene quindi
che è necessario elaborare al più
presto un modo di «utilizzare l’acqua in un modo razionale, oltre che
fissare tariffe adeguate per scoraggiare gli sprechi».
Ma il punto cruciale, come sottolineato anche dal documento del
Pontificio Consiglio, è quello di
una vera governance internazionale
dell’acqua. Il che non significa ovviamente prevaricare sulle iniziative
locali o statali, ma svolgere un’azione di coordinamento e di orientamento per una valorizzazione e un
uso armoniosi e sostenibili dell’ambiente e delle risorse naturali in vista della realizzazione del bene comune mondiale.
Proprio il Pontificio Consiglio ricorda come occorra un assetto di
istituzioni che garantisca a tutti e
ovunque un accesso all’acqua regolare e adeguato, indicando standard
qualitativi e quantitativi, offrendo
criteri che aiutino a promuovere legislazioni nazionali compatibili con
il diritto all’acqua riconosciuto internazionalmente, monitorando le
iniziative degli Stati per il rispetto
degli impegni. In sintesi, serve una
governance che garantisca il primato della politica sull’economia e la
finanza, per perseguire l’obiettivo
di uno sviluppo sostenibile e inclusivo.
Presidenziali
a Timor
Orientale
DILI, 17. Dopo una giornata di sostanziale calma, si sono chiuse oggi
le urne a Timor Orientale, a nord
dell’Australia (1,1 milioni di abitanti) per le terze elezioni presidenziali
del Paese nei suoi dieci anni di indipendenza dall’Indonesia. Lo spoglio dei voti è cominciato subito,
ma i risultati non si conosceranno
prima della prossima settimana. Per
la prima volta, sono state le autorità
timoresi e non l’Onu a gestire le
elezioni, che costituiscono un banco
di prova per testare la stabilità del
più giovane e più povero Paese
dell’Asia. Presenti anche numerosi
osservatori internazionali. L’attuale
presidente, José Ramos-Horta, premio Nobel per la pace nel 1996 per
il lavoro diplomatico nell’ottenere
l’indipendenza da Jakarta, si candida per un secondo mandato di 5
anni, ma si confronta con un nutrito campo di altri 9 candidati.
Distribuzione di cibo in un campo profughi (LaPresse/Ap)
Anche la Cina esprime preoccupazione per l’annuncio delle autorità nordcoreane
Ban Ki-moon invita Pyongyang
a desistere da esperimenti missilistici
NEW YORK, 17. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si dice
«seriamente preoccupato» per l’annuncio della Corea del Nord del
quarto lancio di un missile balistico
o di un satellite. In una nota, resa
nota dal Palazzo di Vetro, il segretario Ban Ki-moon invita il regime
comunista di Pyongyang ad attenersi alla risoluzioni 1874 delle Nazioni Unite che proibisce il lancio
di satelliti mediante tecnologia mis-
silistica balistica, e quindi a ripensare la propria decisione.
Anche la Cina ha mostrato
preoccupazione per l’annuncio della Corea del Nord di lanciare ad
aprile un missile a lunga gittata per
mettere in orbita un satellite in occasione del centenario della nascita
del suo fondatore Kim Il Sung. Il
vice ministro degli Esteri, Zhang
Zhijun, secondo quanto riporta
l’agenzia Xinhua, si è incontrato
Obama e Karzai confermano
il ritiro delle truppe Isaf nel 2014
WASHINGTON, 17. Il presidente
statunitense, Barack Obama, e
quello afghano, Hamid Karzai,
hanno confermato che il ritiro
delle forze internazionali dall’Afgahanistan avverrà nel 2014,
come previsto. Lo ha reso noto ieri sera la Casa Bianca, spiegando
che la riconferma è avvenuta durante una telefonata di Obama a
Karzai. I due leader «hanno riconfermato l’impegno condiviso»
verso l’intesa in base alla quale
«le forze afghane completeranno
il processo di transizione e assumeranno la piena responsabilità
della sicurezza in tutto il Paese
entro la fine del 2014», rende noto la Casa Bianca. Karzai aveva
detto di voler anticipare il ritiro
della forza multinazionale dopo le
forti tensioni causate dal rogo di
copie del Corano in una base
americana e l’uccisione di 16 civili
afghani da parte di un soldato
statunitense. E a proposito del dibattito su un eventuale ritiro anticipato delle truppe dell’Isaf
dall’Afghanistan, il ministro tedesco della Difesa, Thomas de Maiziere, ha spiegato che una proposta di Berlino sull’argomento arriverà verso settembre e non prima
del vertice Nato di Chicago.
con l’ambasciatore in Cina di
Pyongyang, Ji Jae Ryong, esprimendogli la preoccupazione di Pechino, secondo quanto riporta un
comunicato del ministero cinese.
La decisione della Corea del
Nord ha già ricevuto condanne da
tutto il mondo. Preoccupazione è
stata espressa ieri oltre che dal
Giappone
—
ha
chiesto
a
Pyongyang di usare «moderazione
ed astenersi» dai suoi propositi — e
dalla Corea del Sud, anche dalla
Russia, dalla Gran Bretagna e dalla
Francia. Gli Stati Uniti hanno avvertito la Corea del Nord che gli
aiuti alimentari promessi «difficilmente» saranno consegnati se verrà
effettivamente lanciato un satellite
con un missile a lungo raggio.
«Questo creerà ovviamente tensione e renderà piuttosto difficile l’attuazione di qualsiasi accordo alimentare», ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato americano, Victoria Nuland. L’azione del
regime nordcoreano, ha aggiunto,
«costituirà una minaccia alla sicurezza regionale e sarebbe inoltre incoerente rispetto al recente impegno preso dalle autorità di
Pyongyang a evitare test missilistici
a lungo raggio». Solo 16 giorni fa,
infatti, il regime comunista di
Pyongyang aveva annunciato di voler riprendere i colloqui sul suo
controverso programma nucleare e
sospendere le attività missilistiche.
Confronto tra il partito di maggioranza del Congresso I e l’opposizione comunista
Elezioni nello Stato indiano del Kerala
Manifesti elettorali nella città di Piravom (Ansa)
NEW DELHI, 17. Sullo sfondo della
vicenda dei marò italiani, si sono
aperte oggi le urne nel collegio elettorale di Piravom, nei pressi di
Kochi, per un’elezione suppletiva ritenuta cruciale per la tenuta del Governo dello Stato indiano del Kerala.
Un test elettorale, rilevano gli analisti, che sarà cruciale per lo Stato meridionale, che dovrà riconfermare la
leadership del governatore, Oommen Chandy, esponente del Partito
del Congresso I, di Sonia Gandhi.
Per garantire la massima sicurezza e
trasparenza, le operazioni nei seggi
elettorali sono riprese da telecamere
a circuito chiuso. Gli elettori sono
chiamati a scegliere tra il partito di
maggioranza del Congresso e l’opposizione dei comunisti. La tenuta è
molto importante per il Congresso
che, senza Piravom, perderebbe tre
seggi nell’Assemblea parlamentare
dello Stato.
NIAMEY, 17. Con l’imminente arrivo
della stagione secca, rischia di aggravarsi la siccità nella regione saheliana dell’Africa occidentale, che
provocherà una forte situazione di
disagio per milioni di persone, per
lo più bambini sotto i cinque anni
di età. La Fao ha lanciato un appello per la raccolta di fondi addizionali per scongiurare la crisi alimentare. L’appello pone come obiettivo
minimo la raccolta di fondi pari a
circa 70 milioni di euro, con i quali
assistere 790.000 famiglie di agricoltori e allevatori della zona. Dai recenti studi computi dalla Fao, si stima che siano almeno 15 milioni le
persone a rischio nel Sahel (Niger,
mali, Burkina Faso, Ciad, senegal,
Gambia e Mauritania), in parte a
causa del calo della produzione nel
settore agropastorale.
E, come sempre accade, sono i
bambini a essere maggiormente colpiti. Il dato è impressionante. L’organizzazione umanitaria Save the
Children ha infatti detto che oltre
2,6 milioni di bambini sono a forte
rischio perché non hanno accesso ai
nutrienti fondamentali. E se l’esito
della carenza di cibo in alcuni casi
non è mortale, l’inadeguata e insufficiente alimentazione può tuttavia
procurare danni permanenti, sia fisici che mentali. Save the Children ha
rilevato come siano almeno 170 milioni — pari a un bambino ogni
quattro — quelli che soffrono di rachitismo, numero che salirà a 450
milioni entro il 2015 se non ci saranno interventi adeguati e incisivi. Sono dati, sottolinea l’organizzazione,
che rischiano di crescere a causa delle gravi crisi alimentari che stanno
flagellando la zona del Sahel e del
Corno d’Africa. Anche l’Unicef ha
chiesto alla comunità internazionale
di agire subito, affinché in Africa
non si consumi una nuova tragedia.
«Una catastrofe senza precedenti sta
inseguendo i bambini nel Sahel e ci
aspettiamo che nei prossimi sei mesi,
più di un milione di bambini dovranno essere inseriti in centri nutrizionali perché colpiti da malnutrizione acuta e grave», ha dichiarato
il direttore regionale dell’Unicef.
Villaggio cristiano
attaccato
in Nigeria
ABUJA, 17. Ancora un attacco contro
i cristiani nel nord della Nigeria. Almeno dieci persone sono rimaste uccise durante alcuni raid compiuti
oggi da uomini armati in un villaggio a maggioranza cristiana nella
Nigeria settentrionale. Lo riferisce la
polizia in una nota ripresa dall’agenzia France Press. «Non meno
di dieci persone sono morte nell’attacco a Nayi da parte di sconosciuti
armati», ha precisato alla stampa il
portavoce della polizia dello Stato
nigeriano di Kaduna. Quattro le
persone rimaste ferite. Gli assalitori,
ha spiegato ancora il portavoce delle
forze dell’ordine del Kaduna, sono
andati direttamente nelle case delle
loro vittime. Tra le vittime — informa l’agenzia Ansa — c’è anche un
pastore protestante.
Cinque morti
su un barcone
a Lampedusa
ROMA, 17. Ancora una tragedia
dell’immigrazione irregolare nel
Mediterraneo. Un barcone con almeno una sessantina di migranti è
stato soccorso oggi dalle motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza italiana, a
circa settanta miglia a sud dell’isola di Lampedusa. Sul barcone,
che nella notte aveva lanciato l’allarme, sono stati trovati cinque cadaveri. I sopravvissuti sono apparsi tutti fortemente debilitati per la
lunga permanenza in mare; i più
gravi
sono
stati
trasbordati
sull’isola. Ieri erano sbarcati a
Lampedusa, direttamente in porto, 54 migranti, tra cui quattro
bambini. Altri cinque profughi
erano stati salvati dalla Guardia
Costiera davanti alla costa di Marsala, dopo essere rimasti per ore
in mare aggrappati a una boa.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
domenica 18 marzo 2012
Il san Giuseppe di Paul Claudel
Religiosità e tradizioni popolari nelle celebrazioni siciliane e pugliesi in onore dello sposo di Maria
D onaci
il silenzio
La festa e i falò
di INOS BIFFI
atriarca interiore»,
così è chiamato san
Giuseppe da Paul
Claudel in Feuilles
de saints — il santorale di Corona benignitatis anni Dei —
dedito, come già da ragazzo dopo le fatiche quotidiane, alla preghiera e alla
Sapienza. Secondo la visione evocata
dalle ampie e lente sequenze del Poeta,
che offrirebbero materia per l’affresco di
un gran pittore: «Quando gli attrezzi
sono rimessi al loro posto e il lavoro
della giornata è terminato»; «quando
dal Carmelo al Giordano Israele dorme
nel grano e nella notte, come già
quand’era un giovanotto e incominciava
a fare troppo buio per darsi alla lettura,
Giuseppe entra, con un gran sospiro,
nella conversazione con Dio», facendo,
così, la scelta preferenziale della Sapienza, la stessa «che le viene condotta perché la prenda come sposa».
Il poeta è specialmente impressionato
dall’intima
tranquillità
che
regna
nell’anima di Giuseppe e dalla profusione dei doni che lo ricolmano: «Egli è
silenzioso come la terra nell’ora della
rugiada»; «Egli è nell’abbondanza e
nella notte; egli è con la gioia; egli è
con la verità». Ed ecco nella solitudine
di Giuseppe l’ingresso di Maria, tutta
circondata dal suo abbraccio: «Maria è
in suo possesso ed egli la recinge da
ogni lato. Non in un solo giorno ha imparato a non essere più solo».
Essa ha conquistato ogni fibra «di
questo cuore adesso saggio e paterno».
Ed è come se la Genesi si riavverasse:
Giuseppe, lo sposo, è «nuovamente nel
Paradiso in compagnia di Eva!», che in
segno di devota tenerezza piega verso
«P
Oltre cento sodalizi giuseppini che tra luminarie, poesie e pani merlettati esprimono la fede del popolo
di lui il proprio volto. «Questo volto di
cui tutti gli uomini han bisogno si volge
con amore e sottomissione verso Giuseppe». Ora «egli sente, quasi fosse un
improvviso braccio gentile, il sostegno
di questo essere profondo e innocente»:
e la sua preghiera non è più la stessa;
né la stessa è l’antica attesa. E «non c’è
più la nuda Fede nella notte; è l’amore
che spiega e opera», l’amore che nel Padre ha la sua sorgente. «Giuseppe è con
Maria e Maria è con il Padre».
Ma anche noi siamo chiamati a prender parte al loro mistero. Il canto, così,
prosegue sotto forma di un’appassionata preghiera affidata all’intercessione di
Giuseppe. «Patriarca interiore, Giuseppe, otteneteci il silenzio»: «Perché, alla
fine, sia aperto il varco a Dio, le cui
opere oltrepassano la nostra ragione»;
«Perché la Sua luce non sia spenta dalla nostra lampada e la Sua parola dal
rumore che noi facciamo»; «Perché cessi l’uomo, e venga il Vostro Regno e si
compia la Vostra Volontà»; «Perché ritroviamo l’origine con le sue profonde
delizie»; «Perché il mare si plachi e incominci Maria, colei che possiede la
parte migliore e scioglie la riluttanza
dell’antico Israele».
Chiediamo il dono dell’interiorità e
dell’operosità serena e silenziosa, che
sono i tratti che secondo Claudel hanno
contrassegnato la vita e la santità di
Giuseppe, nota solo a Dio. Di lui non
ci è tramandata nemmeno una parola,
eppure dalla sua paterna sollecitudine il
Figlio di Dio e di Maria è stato custodito e salvaguardato. Per questa custodia e salvaguardia non occorre parlare.
Bisogna fare. Anzi bisogna lasciar fare a
Dio e non intralciare con iniziative nostre il suo disegno.
di TARCISIO STRAMARE
«Finito di stampare nel mese di
marzo 2012». Si tratta di una
coincidenza voluta, perché il volume che presentiamo è dedicato
proprio a La festa di san Giuseppe, dalla Sicilia alla Puglia, a cura di Vincenza Musardo Talò
(Manduria, Talmus-Art, pagine
208, euro 54,60). Un’edizione di
lusso con sovracoperta a colori
raffigurante un delicato san Giuseppe in adorazione, opera di
Filippo Lippi, e con la presentazione di Vittorio Sgarbi.
Statua processionale in cartapesta
(1771, Noci, Bari)
Grande varietà di toni per la figura paterna che resta sempre attuale in libreria
A ciascuno di suo
di ISABELLA FARINELLI
«Questa non è una sedia» direbbe
Magritte osservando la copertina del
libro di Flavio Insinna Neanche con
un morso all’orecchio (Milano, Mondadori, 2012, pagine 212, euro 16). Niente di surreale qui però: la vecchia sedia di legno è lo strumento di cui,
date le ridotte dimensioni dell’ascensore, si son dovuti servire per trasportare d’urgenza suo padre e caricarlo
nell’ambulanza. Ma l’oggetto domestico, abbandonato in strada accanto
al semaforo, diventa il simbolo di
«migliaia di colazioni, di caffè, di forza che facciamo tardi a scuola» e, per
associazione, il segno di ogni intimità
violata. La sedia viene dunque riportata con cura nell’androne.
Si affollano in libreria nello scaffale
delle novità proprio in questi giorni
— quando molti Paesi a tradizione
cattolica associano festa di san Giuseppe e festa del padre — titoli nei
quali la figura paterna è chiamata in
causa in una varietà di toni, dalla nostalgia al conflitto alla parodia, che
non necessariamente si escludono: la
peculiarità comune a queste storie,
pur attraverso la gamma di sfaccettature dall’autobiografia al paradosso, è
il desiderio di un confronto autentico. Il romanzo più recente della cosmopolita Amélie Nothomb («franponese» come si definisce per la doppia matrice linguistica franco-nipponica) si intitola Uccidere il padre (Roma, Voland, 2011, pagine 91, euro 9)
ma, al di là di quel che sembra promettere, descrive un lungo e appassionato cercarsi di padre e figlio, non
solo reciproco ma anche identitario.
Il contesto altamente simbolico
della giocoleria, nel quale la storia si
situa, serve alla Nothomb per giocare
a sua volta sullo scambio delle parti.
A Reno, nel Nevada, il quattordicenne Joe, abilissimo nei giochi di carte,
viene messo urbanamente alla porta
dalla madre perché troppo sincero col
nuovo compagno di lei, che ironicamente si chiama anche lui Joe. Trova
però un padre e un maestro in Norman, che lo accoglie in casa insieme
alla compagna Christina, fire dancer. I
tre formano un nucleo compatto fino
al debutto di Joe al Burning Man, il
festival nel Black Rock Desert dove,
per una settimana all’anno, un grande insediamento sorge e scompare
senza lasciar tracce, culminando
nell’incendio di una immensa sagoma. Su quella sabbia «di una finezza
e di una dolcezza quasi insopportabili» si consumano sia l’iniziazione del
giovane ormai diciottenne alle droghe
pesanti sia quella che sembra a tutta
prima una rivisitazione del mito di
Edipo. Quanto sia profondo il colpo
psicologico inferto al padre si misura
però solo nelle ultime sconvolgenti
pagine, perché «i figli che non vengono riconosciuti dal proprio padre
ne soffrono, ma esiste una sofferenza
più grande: quella di un padre che
non viene riconosciuto dal
proprio figlio».
Almeno dai tempi di James
George Frazer e del suo Ramo d’oro, non v’è chi non senta il fascino dei cicli di vitamorte-rinascita espressi dal
patrimonio mitico e rituale di
tante culture, con un “passaggio” attraverso grandi sofferenze che impegnano insieme
la terra e gli uomini. Vi si ricorre talora anche nel sottolineare la collocazione (almeno
millenaria) della festa di san
Giuseppe alle soglie della
primavera, con la tradizione
agricola dei falò per bruciare,
non senza valore simbolico, i
residui del passato. Meno frequentemente accade di sentir
ricordare Leone XIII e la
Quamquam pluries, l’enciclica del 15
agosto 1889 ripresa da Giovanni Paolo II un secolo dopo nella Redemptoris
custos, ma sono numerosi gli interventi magisteriali sul tema, come quelli
di Pio XII culminati nel 1955 nell’istituzione della festa liturgica di san
Giuseppe artigiano il primo maggio.
Leone XIII ripercorse le antichissime
origini e al tempo stesso pose le basi
moderne della considerazione di Giuseppe (già patrono della Chiesa cattolica con Pio IX) come «custode della casa» familiare ed ecclesiale e «tutore dell’onestà» proponendolo, pertanto, a modello dei padri. Papa Leone rafforzava questa figura come baluardo alla terra desolata di valori che
lasciava intravvedere sullo sfondo;
pochi anni più tardi, dopo la Grande
guerra, la poetica eliottiana — Thomas Stearns Eliot, Il sermone del fuoco,
a cura di Massimo Bacigalupo (Milano, Rcs 2012, pagine 231, euro 7,90) —
portava all’estremo, incluso il marciume, i riti e i miti della fertilità, frantumando deliberatamente capisaldi
della classicità “occidentale”.
Nel percorso eliottiano, mimato su
quello dantesco, si tende a individuare la risalita dagli inferi nel delicato
ricongiungersi di passato e futuro dei
Quattro quartetti («i bambini nel melo
/ non intesi, perché inattesi»), ma anche la «post-cultura», diagnosticata
da George Steiner nel 1970 rileggendo Notes towards the Definition of Culture (cui Eliot lavorò all’indomani
della seconda guerra mondiale), sembra mostrare il lato di recuperata fertilità proprio sul rovescio di ogni possibile retorica del passato, incluso
quello personale e familiare. «Mio
padre non amava la musica»: la frase
di apertura del romanzo autobiografico di Edoardo Albinati Vita e morte
di un ingegnere (Milano, Mondadori,
2012, pagine 150, euro 18) sembra
Si va dall’autobiografia al paradosso
Ma il tratto comune
resta sempre lo stesso
Il desiderio di un confronto autentico
un’eco latente al malcelato, celeberrimo ossimoro che apre La terra desolata: «Aprile è il mese più crudele». È
la tonalità delle successive, lancinanti
frasi di Albinati: «Mio padre era un
uomo allegro» — sì ma, per contrappasso, il figlio adulto si sottrarrà ai
tentativi paterni di instaurare una
complicità giocosa, salvo sospettare
nell’espressione degli affetti «un terribile equivoco» quando si manifesta la
caducità.
«Mio padre si è ammalato ed è
morto nel giro di nove mesi»: da qui
in poi, il travaglio di Albinati è quello di ogni uomo che arriva in prima
linea nel confronto con la morte e la
vita. «È già morto? mi chiedevo tenendo la mano di mio padre come
davanti a mio figlio mi ero chiesto, è
nato?». Le ultime pagine di Albinati
hanno il ritmo di un battito cardiaco
che si arresta e riprende, del padre e
del figlio dinanzi allo stesso mistero
che finalmente, sincronicamente, li
unisce. Il confronto senza veli con la
verità diventa esplicitamente spietato
verso ogni narcisismo e finzione transitoria: Albinati scrittore guarda con
distacco le frasi e le immagini con le
quali già prevede di descrivere la vicenda, «come se da tutto quel dolore
non dovesse uscire che una pagina».
Ma l’uomo Edoardo incontra, sulla
via del ritorno, un simbolo non premeditato: una coppia di arcobaleni
che sembrano l’uno figlio dell’altro e
gli infondono «una curiosa felicità».
Tanta sontuosità, inconsueta
per la figura nascosta del nostro
santo, potrebbe far pensare a
una ricercata captatio benevolentiae del lettore, se non fosse che
lo stesso Sgarbi dimostra non solo la sua personale sensibilità
verso san Giuseppe nel testo a
lui dedicato («Iconografia giuseppina nell’arte colta»), ma anche il suo coinvolgimento emotivo, maturato a Salemi, la città
dove è stato sindaco fino al 15
febbraio 2012 e nella quale si celebra una delle più belle feste
italiane di san Giuseppe.
Diciamo subito che il volume
è non solo da leggere, ma soprattutto da “vedere”. Coloro
che vi hanno collaborato, infatti,
si soffermano nella descrizione
accurata dell’argomento prescelto, sviluppandone tutti i dettagli,
ma offrono contemporaneamente
allo sguardo numerosissime immagini, da essi ritenute indispensabili ed efficaci per documentare quanto affermato e rendere visibile quanto sarebbe difficile
immaginare. Essi stessi si sentono coinvolti nelle cose che hanno “veduto” e desiderano farle
vedere.
Oggetto della ricerca sono la
Sicilia («Terra di san Giuseppe»)
e la Puglia («Omaggio a san
Giuseppe»), regioni di consolidata devozione verso il grande
patriarca. I sodalizi giuseppini in
Puglia e in Sicilia sono infatti oltre il centinaio e sovrastano congiuntamente quelli delle altre regioni della penisola italiana. Una
raccolta sistematica e documentata della loro storia e attività
potrebbe essere oggetto di
un’ampia pubblicazione.
«San Giuseppe è il santo più
festeggiato in Sicilia e la sua ricorrenza liturgica non è confinata solo al 19 marzo, ma anche alla domenica successiva e per i
due mesi successivi». Giusto un
esempio, su quarantadue comuni
dell’agrigentino, otto lo festeggiano esclusivamente in chiesa,
undici lo festeggiano per le strade, e i rimanenti ventitré traslano
la ricorrenza tra maggio e agosto. Il santo è il protettore di
quarantacinque comuni dell’isola, dislocati nelle nove province.
Sono almeno una decina i soprannomi dati al santo ricorda
Claudio Paterna. In Sicilia sedici
comuni hanno eletto san Giuseppe a patrono principale e ventisei a loro compatrono; in Puglia
sono sei i comuni posti sotto il
suo patrocinio e molto attive le
confraternite che ne portano il
nome.
Sotto il titolo «Asterischi» incontriamo, a chiusura del volume, altri contributi: quello già ricordato di Vittorio Sgarbi, e poi
quelli di Vincenza Musardo Talò
(«Dalla Sicilia alla Puglia: le
confraternite di san Giuseppe
custodi della religiosità popolare»), Stefania Colafranceschi
(«“A te, o beato Giuseppe”: il
culto di san Giuseppe nei santini»).
Nulla è tralasciato. Si passa
dai falò (denominati in cento
modi diversi) alle spettacolari luminarie, dai colori dei fiori al loro fantasioso ornamento,
dalle grandiose processioni
alle cavalcate (Scicli) e
drammatizzazioni (Assoro),
dalle forme poetiche (Cantate, Parti di san Giuseppe)
alle semplici invocazioni,
dalle
preziose
statue
all’umile strumento dei
santini. Molto spazio è dato alla preparazione dei cibi secondo determinate regole, ma ciò che colpisce
maggiormente è la simbiosi
tra la devozione e il pane,
presente
in
molteplici
espressioni (tavolate, mense, cene, altari). Nel “pane
quotidiano” si realizza il
passaggio della semplice
fede del popolo alle opere
caritative più immediate. L’umile
condizione della santa Famiglia
e le sue vicissitudini, che avevano richiesto la concretezza della
solidarietà, parlano direttamente
al cuore, traducendosi in un richiamo sempre attuale, ieri come
oggi, di soccorrere in modo concreto chi è nel bisogno.
La festa di san Giuseppe diventa così «una festa di chiesa,
di piazza e di casa», chiara dimostrazione di una fede vissuta.
Musardo
Talò,
curatrice
dell’opera, considerando i tanti
rituali delle feste giuseppine,
«artari, ammìtu, cene, tavolate, e
così via», li definisce in modo
espressivo «liturgia della mensa
dei santi», sostanzialmente originati dallo spirito di carità, mossa, è vero, da esigenze e motivazioni di devozione personale, ma
con generosa ricaduta nelle opere di misericordia spirituale e
materiale a vantaggio del prossimo.
Le confraternite non sono in
nessun modo un residuo storico
del passato, da sostituire semplicemente con forme più moderne
di aggregazione; nate e sviluppate in un tessuto sociale che si ripete continuamente e ovunque,
esse hanno la funzione di fornire
a quanto ha il merito di essere
“umanitario”, da qualunque parte esso venga, quell’humus spirituale, che lo alimenta senza
esaurirsi mai.
Pani merlettati a Salemi
Dall’estasi
all’adorazione
Dal libro qui presentato pubblichiamo alcuni stralci del saggio
«Iconografia giuseppina nell’arte
colta».
di VITTORIO SGARBI
n uno dei palazzi della
piazza, a Guastalla, io la
vidi quasi trent’anni fa: una
tavola, cosa rara per un pittore
del Settecento come Piazzetta,
un San Giuseppe con il Bambino. Il dipinto, in verità, non era
né pubbicato né conosciuto, né
confermato come Piazzetta da
nessuno oltre alle persone che,
con sensibilità, lo avevano visto
come me negli anni precedenti.
Dunque venne conosciuto e
pubblicato per la prima volta
da me. Decisi di acquistarlo e
così divenne mio del tutto. Il
dipinto è stato restaurato da
Gianfranco Migliardi e venne
concesso quasi subito in prestito al Museo della città di Guastalla.
Il destino mi ha condotto,
nel corso degli anni, ad acquistare anche un bellissimo disegno di Piazzetta con il medesimo soggetto: il San Giuseppe
con il Bambino della collezione
Alverà di Venezia, un disegno
notificato.
Piazzetta è uno dei grandi
pittori del Settecento Veneziano, meno conosciuto di Tiepolo. È pittore di grandi pale
d’altare e di soffitti di chiese, e
coltiva una pittura di genere
con soggetti popolari che ha
determinato una scuola con artisti notevoli come Maggiotto,
Nogari, Angeli, Giulia Lama. È
certamente un grande maestro.
Ma i suoi temi più frequenti restano quelli religiosi, in una
particolare interpretazione, retorica e scenografica, del naturalismo.
La sua esperienza è maturata
in ambito emiliano, vicino a
I
Il disegno a carboncino
Giuseppe Maria Crespi, in una
tradizione realistica — benché
egli non sia un pittore realista
— che ha la sua ascendenza nel
naturalismo di Caravaggio. Rimane sempre in Piazzetta un
fondo scuro, un effetto di penombra, di contrasto, di chiaroscuro che è la sua caratteristica.
Dal punto di vista del disegno
e della felicità pittorica egli è
esattamente come Tiepolo, ma
mentre Tiepolo è portato verso
i chiari e verso la natura e la
luce del giorno, Piazzetta è
portato verso la notte, verso gli
interni, verso gli scuri. Entrambi sono grandi disegnatori.
Notevole testimonianza delle
capacità del Piazzetta, anche
nel breve sviluppo, con una
sintesi più risoluta di quella del
Tiepolo, è la felicissima composizione del San Giuseppe con
il Bambino, in un originalissimo
scorcio che mostra la testa del
santo di sotto in su, con lo
sguardo volto al cielo in una
suprema visione divina (formidabile la velocità dello sguardo
rapito, col bianco lampo negli
occhi).
La tavola di Guastalla
Il Bambino si proietta verso
di noi non solo con la concentrazione dello sguardo felino,
come contornato da una maschera disegnata dall’ombra e
inarcata sul naso emergente alla
luce, ma con tutto il suo corpo
plastico e morbido, dalle carni
premute dalla mano energica
del padre. Ne sentiamo l’elastica consistenza, sulla quale
emerge il braccio tornito dalla
luce, di densa pasta pittorica,
con un perfetto chiaroscuro. In
tutto il dipinto la pittura è vibrante, con rapidi guizzi, veloci
sottolineature, fino al grumo
bianco del panneggio increspato. Tutta la superficie dipinta è
in tensione, vibra, e restituisce
volumi pieni, compatti, elastici.
Nella prospettiva di una
pubblicazione di questo dipinto, il Piazzetta assume quasi il
ruolo di un patrono, di un testimone, di una mascotte. Infatti è mascotte questo bellissimo Bambino che rappresenta,
ancora in chiave caravaggesca,
il divertimento di Piazzetta,
con il potente contrasto e con
il chiaroscuro che offusca il
volto dispettoso di questo Gesù, esaltandone lo sguardo penetrante.
Il tema di Giuseppe con il
Bambino poi dovette appassionare il Piazzetta, che lo affrontò anche in un grande disegno
già in collezione Alverà, a Venezia. Un foglio imperiale in
cui si indaga diversamente il
rapporto fra il padre e il Bambino: san Giuseppe vigila, con
paterna, amorosa attenzione sul
Bambino disteso e dormiente,
agli antipodi di quello sveglissimo e spiritato della tavola.
San Giuseppe passa dall’estasi,
nella quale pare inebriato, alla
contemplazione, all’adorazione.
L’OSSERVATORE ROMANO
domenica 18 marzo 2012
pagina 5
Il 19 marzo di cinquant’anni fa moriva Giuseppe De Luca, scrittore, letterato ma soprattutto sacerdote
Prete romano
di VINCENZO PAGLIA
icordo con nitidezza il 19 marzo
1962. All’inizio dell’ultima ora,
nella seconda liceo del Seminario Romano Minore, il professore di italiano, don Antonio Pongelli, iniziò dicendoci che era morto «un
grande prete romano, un grande scrittore e
letterato, ed era un ex-alunno del Seminario». Capii poco allora, ma già l’anno successivo, un amico di don De Luca, monsignor Domenico Dottarelli, venne a parlarci
con passione di questo prete romano. A cinquanta anni dalla morte, dobbiamo cogliere
ancora la ricchezza della sua opera. Per parte mia vorrei offrire solo qualche breve riflessione, dal sapore della testimonianza, su don
Giuseppe “prete romano”, un appellativo a
lui carissimo, che getta non poca luce
sull’intera sua esistenza e di tanta parte del
clero che a Roma si è formato e vissuto.
Intendiamoci, sarebbe sufficiente l’appellativo “prete”, come del resto lo stesso De
Luca ha più volte sottolineato. Egli era un
sostenitore, persino fanatico, del “prete prete”, ossia del prete senza aggettivi: «Il prete
o è o non è, e quando è ha da esser prete»
(Annuario, p. 289). E prete per lui significava «dir messa, amministrare i sacramenti,
istruire il popolo cristiano, consolare i malati, far la dottrina. E far la dottrina non è fare della cosiddetta cultura religiosa; far la
dottrina è dare il pane, far della cultura religiosa è parlar del pane» (Ivi). Il resto per
un prete è accidente.
E don Giuseppe non voleva vanificare
l’essenza con gli accidenti. Del resto, le qualità menzionate, sono tutte del soggetto. Essere prete romano, no. La qualifica viene da
fuori, da quella Roma che impregna la mente e il cuore di chi si lascia formare da quella
Chiesa che presiede alla carità. De Luca ne
era consapevole. Appare chiaramente nei capitoli II e III della monografia che dedicò al
cardinale Bonaventura Cerretti, intitolati al
Seminarista e al Prete a Roma. Mentre racconta di Cerretti, De Luca parla anche di sé.
Come Cerretti, aveva partecipato pure lui da
ragazzo alle celebrazioni papali in San Pietro: «Quei ragazzi, giunti appena dal contado e con la pelle bruciata dai soli e dai geli
delle scoperte campagne e della montagna
alta, entrati che fossero al Seminario Vaticano, con la loro tonachina indosso “paonazza”, e suvvi una cotta bianca riccia e in capo
una berretta nera, avevano il diritto di assistere alle funzioni papali, come clero della
basilica vaticana, ed erano uno dei numeri
del Solennissimo Corteo. Facevano parte del
gran rito. E bisognava essere venuti da famiglia di piccola provincia, e aver preso parte a
quegli sfilamenti — con gli occhi bassi, ma
non tanto da non vedere gli occhi di invidia
della gente pigiata intorno, o la fierezza dei
parenti venuti a veder più noi che il Papa —
bisogna avervi preso parte per comprendere
quale grande lezione sia, pel cuore di un
giovinetto, il solo assistervi. Bisogna aver visto sorridere su di voi seminaristi (...) il vecchio Pontefice, dall’alto della sedia gestatoria, traballante come sull’ondeggiare della
folla, nel pallore della esaltazione trionfale,
per non nutrire poi verso il resto del mondo
che una benevola commiserazione, ma niente altro» (De Luca, Cerretti, pp. 34-35).
R
In un inedito e incompiuto scritto del
1945, intitolato Prete, De Luca rievoca quel
mondo vaticano nel cui grembo era cresciuto, scrutandolo ben oltre quel che appariva e
che non mancava anche di criticare: «Bisogna essere volgari assai, ottusi e faziosi, per
non sentire la meraviglia umana del Vaticano e dei suoi abitatori. Nessun fatto eguale,
nella storia dell’uomo. Nessun luogo simile,
su tutta la faccia della terra. Di qualsivoglia
idea, di qualsiasi religione, di ogni più crudele sentimento si sia impregnati, entrando
in vaticano si entra in un incantamento. (...)
Un posto, anche quello, di uomini e uomini
anormalissimi, cioè preti; intricato di pettegolezzi e amarezze e, chi se ne scandalizzerà? Schifezze abominevoli. Pur tuttavia, che
posto! (...) Sorge, a un tratto, un’occasione,
e tu vedi quel mondo, quegli uomini trasfigurarsi come per un incantesimo, e
temi e tremi: veramente par
che allora scenda tra essi e
lì l’Eterno, aleggi fermo
l’Invisibile. Quando il Papa
discende, vivo o morto, in
San Pietro, e tutto il suo
mondo lo precede e lo segue, tu te ne stai in un canto a guardare e a sentire:
questi uomini, pensi, sono
della misura di quelle architetture, e camminano, non
come noi negli anni, ma come la sola dinastia degna
che li scandisca, nei secoli»
(Guarnieri, Don Giuseppe, p.
63).
Torna in mente l’altra pagina straordinaria
sulla sua messa a Trastevere: «Da qualche
giorno dico messa la mattina a Santa Maria
in Trastevere. E se per caso il sole nascente
riesce, anche lui ma lui dalle finestre, a entrare in quella chiesa e per quell’ora, io non
vi dico, amici, che incendio, diventa il mosaico dell’abside: una cosa tutta di fuoco e
di luce, come avrebbe potuta vederla in visione soltanto un san Giovanni a Patmos».
Parla poi di don Wilmart, vissuto per anni
accanto alla basilica e dei suoi studi su di essa che riprendeva in mano. E aggiunge che
vuole leggerli per «intonarsi alla chiesa della
sua messa». È una frase che mi ha sempre
impressionato. Credo si possa dire che il
prete romano è, appunto, un prete che s’in-
Convegno
all’Istituto Sturzo
Nel testo qui pubblicato anticipiamo
stralci dell’intervento che il vescovo
di Terni-Narni-Amelia terrà il 19 marzo
a Roma, all’Istituto Luigi Sturzo,
organizzato dall’Associazione
don Giuseppe De Luca, dalle Edizioni
di Storia e Letteratura e dallo stesso
istituto, in occasione
del cinquantenario della morte di don
De Luca. Interverranno, tra gli altri,
Adriano Prosperi e Lucetta Scaraffia,
con testimonianze di Adriano Ossicini
e Marisa Rodano.
L’ultimo pensiero del sabato sera
Per «L’Osservatore Romano» Giuseppe De Luca scrisse numerosi articoli e curò diverse rubriche, la più famosa delle quali è «“Bailamme” ovverosia pensieri del sabato sera» — di cui pubblichiamo l’ultimo frammento, uscito sul giornale del 18 marzo 1962. La rubrica fu poi raccolta
in un volumetto postumo del 1963. Bisogna ricordare inoltre «I commenti al Vangelo» (a partire dal 1951 ma già anticipati da «La parola eterna», dal 1936 fino al 1942), le rubriche
«Libri» e «Fra i libri» tutte sempre siglate. Per il settimanale, di taglio più popolare, «L’Osservatore della Domenica» il prete lucano curò sotto pseudonimi come “Il cameriere di turno” o
“Il dito nell’occhio” rubriche quali «Olio e aceto» (tra il 1934 e il 1936), «Per conoscenza»
(tra il 1947 e il 1948), «Favole vecchie moralità eterna» e «Favole per modo di dire» (ambedue tra il 1950 e il 1952).
di GIUSEPPE DE LUCA
Quando noi ci accostiamo all’altare per celebrare la santa Messa, oppure entriamo in
un confessionale, o ci prepariamo ad amministrare un sacramento, il battesimo per
esempio oppure l’estrema unzione, nessun
dubbio potrebbe passarci per la testa che
noi siamo sul punto di compiere un’azione
la quale appartiene, totalmente, vale a dire
nella sua fonte, nella sua sostanza, nel suo
fine, in tutte insomma le sue cause, al
mondo soprannaturale. Ci vorrebbe una
iniquità, diabolica propriamente, a far servire una di codeste azioni a uno scopo terrestre di vanità, di lucro, di potenza.
Quando invece rivolgiamo la parola al
popolo, molto spesso noi pensiamo più alla parola nostra che non alla parola di Dio.
Ci preoccupiamo più vivamente, allora, di
quello che diremo e a come lo diremo, della parte che spetta a noi: che figura si farà,
come ce la caveremo, che cosa diranno, che
nome ne uscirà tra i colleghi, che stima ne
godrò coi superiori, quanto mi daranno di
retribuzione, e così via.
Se il prete è letterato, c’entrerà anche la
letteratura; se è sociologo, la sociologia. Se
è, e può anche essere (metaphisice non repugnat) un poltrone e uno scansafatiche, non
penserà a nulla e a nessuno, nemmeno a se
stesso, tanto meno a Dio; salirà sul pulpito, aprirà bocca e a finché ha fiato lui, la
predica dura. L’abitudine e la sfacciataggine vengono sempre in soccorso.
Di fronte e contro questo quadro, sta la
consapevolezza, perché non dire la coscienza, che un prete non potrà mai né evitare
né attenuare che il predicare la parola di
Dio è un atto di vita soprannaturale, come
dare la comunione. Egli sa benissimo che
deve dire e dare la parola di Dio, la quale
non si disprezza e maltratta senza qualcosa
d’un sacrilegio, come a disprezzare le sacre
specie. Quale raccoglimento, quale attenzione sacra, quale (diciamolo pure) quale
terrore lo domina, nell’atto di parlare? Sente che chi parla per il suo labbro è Colui
stesso, in nome del quale egli dice: Ego te
absolvo; e dice, non meno prodigiosamente,
Hoc est corpus meum?, e sente che non solo
chi parla è il Padre, o il suo Figliuolo Unigenito, che è poi il suo Verbo eterno fattosi
carne e nostro Primogenito, ma coloro che
ascoltano sono i nostri fratelli, figli adottivi
di Dio al pari di noi, ai quali siamo tenuti
a spezzare il pane quotidiano della parola
di Dio, così come somministriamo il pane
eucaristico?
La predicazione, o è questo, e non è altro, o è una maschera sul nostro volto, sul
volto dei nostri fratelli, sul volto (se fosse
ancora possibile velarlo ancora così, come i
soldati fecero nel cortile di Pilato) sul volto
di Gesù.
tona a Roma, alle sue chiese, alla sua pietà,
alla sua secolare storia civile e soprattutto religiosa: è come una linea infuocata che traversa il cristianesimo dell’antichità e quello
del medioevo, quello della riforma e del
Cinquecento romano con lo straordinario
coetus sanctorum, e poi la Roma a cavallo tra
Ottocento e Novecento e quella del dopoguerra.
La storia del clero romano deve trovare
ancora una sua sintesi, sebbene non manchino studi di non poco interesse per i diversi
periodi. Come pure manca una storia della
Curia Romana che De Luca aveva più volte
auspicato. Dai diversi studi emerge tuttavia
una dimensione complessa che lega strettamente il prete romano alla storia di questa
Chiesa, una storia lunga e complessa, straordinariamente ricca e mescolata anche a peccati e tradimenti. In estrema sintesi —
prendendo in prestito le parole stesse di don Giuseppe
— si potrebbe dire che essere preti romani vuol dire essere «intonati» alla «pietà
romana» come si è manifestata nei secoli e che comunque trova alimento nel
legare Gesù, la Chiesa, Maria e il Papa. Al termine
della sua vita don Giuseppe
sembra sintetizzarla nel biglietto scritto a monsignor
Capovilla: «Sono stato un
peccatore e un outsider, ma
ho amato Gesù, la Chiesa, il
mio sacerdozio e, me lo lasci dire, il Papa»
(Mater Dei, p. XXI).
Don De Luca è stato senza dubbio un
prete romano, appunto un outsider o, come
disse altra volta, «prete randagio». E fin dal
Seminario. La sua predilezione per la letteratura insinuò dubbi nei superiori sulla genuinità della sua vocazione. È Dottarelli a
raccontarlo: «De Luca — scrive l’allora vicerettore — nella sera del febbraio del 1921,
nella quale, studente del quarto anno di teologia aveva dovuto assistere all’ordinazione
sacerdotale dei suoi compagni di studi, era
venuto a piangere nella stanza del Vicerettore. Singhiozzando, con parole commoventi e
rare in un seminarista, si stava tormentando
perché era stato escluso dall’ordinazione sacerdotale». Terminò dicendo: «Se non mi si
vorrà prete, rimarrò laico; ma sarò un infelice» (Mater Dei, p. VIII).
In verità, nell’ottobre dello stesso anno
venne ordinato prete. E fu fedele a questa
scelta sino alla fine. Più avanti, all’amico
Minelli, scriverà: «prete a Roma, rinunciai
alla carriera; cristiano e prete, tuttavia rinunciai alle agevoli propagande e spacconate del
corrente ministero sacerdotale; uomo d’un
certo ingegno, e forse con lustro di talento,
non mi posi per nessuna via battuta d’insegnamento superiore o di ufficiale e ufficiosa
autorevolezza giornalistica. Lasciai marcire
tante ambite cose, innanzi a me (...) e cinsi
di una dolorosa bohème il travaglio mio, in
vista d’essere e fare qualcosa» (De Luca Minelli, Carteggio, p. 499). Don Giuseppe
poggiava il suo sacerdozio in una visione
spirituale, soprannaturale. Ed è ciò che lo teneva saldo nella molteplicità e diversità dei
rapporti che ha intessuto negli anni.
Il letterato sapeva di dover anzitutto
ascoltare e meditare la parola. In uno dei
commenti ai vangeli della domenica scrive:
«Gesù amò la parola, amò il silenzio. Il miglior padre e custode della parola è il silenzio. A noi, molto spesso, accade il contrario.
(...) La parola, assai spesso, è bisogno di vanità, e degenera in cicaleccio o in cultura,
cioè, in ambedue i casi, in perditempo. Chi
fa cultura, una cultura a se stante, crea uno
schermo all’efficacia vera della parola divina:
la irretisce in una ragnatela discorsiva e discettante, e non la fa scendere sull’anima»
(De Luca, Commenti al vangelo festivo, 1969,
pp. 231-232). Dopo aver stigmatizzato l’errore di aver trasformato «il pane di vita in oggetto di studio e non più che oggetto di studio», afferma: «La Sacra Scrittura stessa,
che era nella mani della Chiesa come pane
che essa spezzava ai figliuoli, la si è voluta
dare nelle mani degli specialisti (cosiddetti),
i quali Dio solo sa quello che ne hanno
fatto».
Accorato era il suo appello ai parroci italiani perché tenessero in gran cura la predica,
che per lui era l’essenza della vita cristiana: «Cristo non è
venuto e non è vissuto e non è morto
per altro; e tuttavia
per i cristiani conta
così poco» (De Luca, Prefazione a N.
Monterisi. Trent’anni
di episcopato, 1950, p.
IX). Si comprende
l’accorato appello ai
parroci
italiani:
«Preparate intanto la
predica. Quei preti
sbrodoloni,
che
aprono bocca e le
danno fiato, e si parCon Jean Leclercq all’eremo di Frascati in una foto dei primi anni Cinquanta
lano addosso come
un bambino che
mangia la minestra in brodo, si comportano
Di don Giuseppe si possono e si debbono
malissimo. Sono inescusabili. (...) Nessuno ha dire molte cose, anche perché moltissimi soil diritto, mai, di porgere la parola di Dio in no i suoi meriti, conosciuti e non, e altretvestaglia: peggio ancora, non lavati, non tanto importanti le sue relazioni e realizzasbarbati, non vestiti» (Annuario del Parroco, zioni. Non è caso che ricorre costante nei ri1961, p. 584). Chi parlava così della parola di- cordi di chi lo ebbe vicino il suo essere previna e sentiva di doverla presentare integra, te: Riccardo Del Giudice riporta il suo connon amava salire sui pulpiti, odiava la facile tinuo ripetere «lasciatemi fare il prete»; Aloratoria tinta di retorica, ma sapeva che era do Ferrabino, esaminando la sua Storia della
urgente nutrire in maniera più profonda la Pietà, ne parla come «Il prete spietato»; Rocultura del clero per sfuggire alla trappola di dolfo Paoli ne sintetizza la molteplice attiviun devozionismo vuoto e pericoloso. Pochi tà: «Un erudito, un prete, un amico»; monerano i preti persuasi di dover uscire nel cam- signor Giovanni Fallani lo ricorda «Sacerdopo aperto della cultura e del confronto con la te e amico degli artisti»; Togliatti riconosce
società. L’esser prete, e prete romano, da par- la sua distanza nella differenza: «Lui sacerte di don De Luca è la testimonianza di come dote, io non credente»; e Mario Praz le raccoglie tutte: «Il vero sacerdote».
servire la Chiesa e il mondo.
Carmelitane e Menorah
Candelabri viventi
Anticipiamo uno degli interventi previsti il
19 marzo nell’ambito del convegno «I
carismi degli Ordini nel dialogo interreligioso oggi» che si svolgerà dal 18 al 20
marzo presso l’abbazia di San Pietro a Salisburgo.
di CRISTIANA D OBNER
L’antica Regola del Carmelo, nata nei
primi decenni del XIII secolo, è un mirabile pezzo d’antiquariato oppure un dono, semprevivo, da cui possono sbocciare risposte odierne e legate strettamente
Marc Chagall, «Menorah»
al sentire con la Chiesa? E questo non
in un fare che prospetti incontri, convegni, giornate di studio, ma in un quadro
di semplice esperienza radicata nella
quotidianità, che viva il mistero d’Israele
e il mistero dell’unità della Chiesa.
Noi carmelitani siamo nati nella Terra
promessa, sul Monte Carmelo. Il maestro di Israele André Neher sostiene che
la Terra è un soggetto che parla, che
Don Divo Barsotti nei ricordi del cardinale Carlo Caffarra
Lo starets di Settignano
«Nei suoi diari — risponde il cardinale Carlo Caffarra a Camillo Langone che
lo ha intervistato sulla figura e l’opera di don Divo Barsotti (su «Il Foglio»
del 17 marzo) morto a Settignano (Firenze) nel 2006 — scrive che se non ci si
sente partecipi del peccato di ogni persona non si è ancora incontrato Cristo».
E continua: «Qui si sente l’influsso della spiritualità russa. Uno dei suoi meriti è stato quello di aver cominciato a far conoscere all’occidente i mistici
orientali come san Serafino di Sarov, sulla cui tomba è andato a pregare, e Silvano del Monte Athos, l’asceta che diceva “Tu devi stare all’inferno con i peccatori senza disperare: questa è la posizione del cristiano”». «In tempi di sobrietà obbligatoria e impoverimento forzato — scrive Langone — mi è piaciuto
molto questo passaggio: “La povertà e il distacco hanno un valore solo in
quanto sono condizione per seguire Gesù. Chi è povero e non segue Gesù è
più misero e più lontano da Cristo di colui che non ha rinunciato ai suoi beni”». Concorda Caffarra: «Don Divo pur vivendo la povertà, non ha mai avuto il culto della povertà. Diceva che la povertà assoluta è impossibile per l’uomo, che deve possedere qualcosa altrimenti non può vivere. Più che di povertà amava parlare di umiltà e diceva che questo è il vero messaggio di Francesco d’Assisi, non il pauperismo». (silvia guidi)
può divenire, se lo si sa ascoltare, l’orizzonte della storia intera. Sgorga allora il
fremito della speranza e si fonda la vita
monastica pensata come il risvolto interiore di quel pellegrinaggio esteriore che
tanto segnò e segna la vita della Chiesa.
La stessa vita carmelitana può essere
pensata come un radicamento in Gerusalemme. Propongo perciò una lettura
della Regola nel simbolo, così da poter
riconoscere e costruire una “teologia della presenza” che suggerisca e spinga oltre, a vivere e a donarsi in pienezza.
Presenza nel simbolo che si trova
espressa nella Menorah, il candelabro a
sette bracci.
Prendiamo le mosse dalla tradizione
rabbinica: il volto della persona ha sette
aperture, e la persona diventa una menorah vivente che arde se il suo cuore arde
ricevendo la Luce, ed è spenta invece
quando non l’accoglie e si lascia intristire dalle tenebre.
L’espressione del volto e degli occhi
infatti comunica quanto viene vissuto
interiormente. Chi sale il Monte Carmelo e fa sua la Regola, desidera “permanere”, dimorare in una comunione di vita con la Trinità. L’esistenza diventa così
“logica”, non secondo la logica dell’informatica, della filosofia, ma secondo il
Lògos, cioè il Figlio che per noi si è fatto
Uomo. Da qui il dimorare giorno e notte nella Parola del Signore. Nel Tempio
a Gerusalemme ardeva sempre la luce
perenne, che, come spiegano i maestri,
«offriva alle genti la testimonianza che
la Presenza divina dimorava su Israele».
Così la vita carmelitana, vita orientata
dalla Parola e alla Parola rivolta, in una
creazione continua. Edith Stein lo colse
sinteticamente: «Meditare la legge del
Signore può essere una forma di preghiera, quando assumiamo la preghiera
nel suo ampio significato abituale. Pensiamo però al “vigilare nella preghiera”
come all’inabissarci in Dio, proprio della
contemplazione, allora la meditazione
ne è solo una via». Se si ritorna al volto,
si scopre che l’incontro è la relazione di
amicizia, di favore e benevolenza, mentre se il volto si ritira subentra la triste
situazione di sfavore.
Quella menorah simbolica che è il volto di chi vive nel Carmelo anela proprio
all’incontro pieno e luminoso. La menorah risale all’esperienza del deserto del
popolo di Israele ed è il simbolo della
luce che si dona a quella menorah simbolica che è il volto della persona, cioè
al popolo d’Israele e chi «appartiene al
cammino» (Atti, 9, 2), cioè ai cristiani
che guardano, con il cuore unito e purificato al Signore stesso. Cristo è quella
Luce da cui si attinge la luce per accendere ogni giorno un braccio della menorah, e i sette bracci sono i doni dello
Spirito Santo. Cristo è il centro della
Regola e per chi vive in Cristo i doni
dello Spirito si sviluppano e si dilatano.
Ogni carmelitano può essere la fiamma
riaccesa dalla Luce e accendere tutte le
altre luci, con una vita in cui fede e preghiera ne siano i cardini, per non camminare nella luce degli uomini ma nella
Luce di Dio. Per noi significa divenire,
nell’esilio terreno e nel dimorare nel deserto, nell’esodo continuo, una menorah
vivente e palpitante, un volto acceso.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
domenica 18 marzo 2012
Le nozze possono essere celebrate solo per sancire l’unione tra uomo e donna
La comunità cattolica sollecita aiuti umanitari
I vescovi anglicani inglesi
e il matrimonio
Incontro alla sofferenza
nel tunnel siriano
LONDRA, 17. Il significato tradizionale del matrimonio, come unione
istituzionalizzata tra un uomo e una
donna, non può essere cambiato e il
progetto del Governo di Londra per
consentire a persone dello stesso
sesso di celebrare le nozze va contro
le convinzioni fondamentali dell’attuale società: è la chiara prima risposta data dai vescovi anglicani inglesi al primo ministro David Cameron che vorrebbe proporre ai
membri del Parlamento alcune modifiche alle norme che regolano
l’istituzione del matrimonio per
consentire, in un prossimo futuro, a
coppie di persone dello stesso sesso
di celebrare le nozze.
Sul sito in rete della Church of
England si precisa che dopo che il
Governo ha annunciato una consultazione sulla possibilità di ridefinire
il significato di matrimonio in modo
di dare la possibilità anche a due
persone dello stesso sesso di contrarre questo patto, si è ora in attesa
di una risposta ufficiale da parte del
Consiglio dei vescovi anglicani inglesi a questa consultazione, ma, nel
frattempo, vengono pubblicate una
serie di recenti prese di posizione
sul tema da parte dei membri più
rappresentativi del clero.
A novembre
la seconda
edizione
del Meeting
Cairo
IL CAIRO, 17. È stata annunciata
nella capitale egiziana la prossima
edizione del Meeting Cairo, manifestazione svoltasi per la prima
volta, sulle orme del Meeting di
Rimini per l’amicizia tra i popoli,
in Egitto nel 2010 e sostenuta dal
lavoro di 150 volontari cristiani e
musulmani. La seconda edizione
si svolgerà dal 2 al 4 novembre
prossimi con il tema: «Educazione
alla libertà».
Per Wael Farouq, docente
all’American University e fondatore del Meeting Cairo questo «è un
momento storico per noi, quella
che è stata un’avventura nel 2010
diventa oggi un vero e proprio
soggetto civile della società egiziana». Infatti, è stata costituita la
fondazione Meeting Cairo, la prima fondazione che nasce dopo la
rivoluzione in Egitto, da coloro
che nel 2010 avevano promosso
l’evento: alcuni giuristi musulmani
desiderosi di portare nel loro Paese l’esperienza di dialogo e amicizia vissuta al Meeting di Rimini.
La manifestazione sarà promossa
dalla Fondazione stessa, in collaborazione con il Meeting di Rimini. «Con noi — ha aggiunto Wael
Farouq — ci saranno oltre cento
volontari egiziani e in tanti ci
stanno chiedendo di partecipare
dagli Stati Uniti e dall’Europa».
Sostengono l’evento anche le
Chiese copto ortodossa, copto cattolica e l’università di Al Azhar.
Nel corso di un intervento svolto
il 28 febbraio a Ginevra, Svizzera,
davanti ai dirigenti del World
Council of Churches, Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury e
primate dell’Anglican Communion,
ha affermato che «le leggi cambiano
in conseguenza della maggiore coscienza da parte di intere società su
quello che sono e che vorrebbero
divenire». Per l’arcivescovo di Canterbury «quando si dice che la mancata legalizzazione del suicidio assistito o, addirittura, del matrimonio
fra due persone dello stesso sesso
perpetua la stigmatizzazione e
l’emarginazione di alcune persone,
ritengo che sia un dovere sottolineare che stigma ed emarginazione vanno comunque affrontati su un piano
culturale piuttosto che su quello
della legge».
In un’intervista rilasciata al «Daily Telegraph» il 27 gennaio, l’arcivescovo di York, John Sentamu, ha affermato che «non dobbiamo torturare la lingua inglese. Il matrimonio
è una relazione tra un uomo e una
donna. Noi vescovi nella Camera
dei Lord abbiamo sostenuto la possibilità di riconoscere a livello civile
le convivenze, perché crediamo che
le amicizie siano comunque buone
per tutti. Ma poi, trasformare una
convivenza domestica registrata in
un matrimonio, non è il ruolo del
Governo che non può creare istituzioni che non sono di sua competenza. Non credo che sia il ruolo
dello Stato definire che cosa è il
matrimonio. Questa definizione si
trova nella tradizione e nella storia,
e non può essere cambiata nel corso
di una notte, non importa quanto
sia potente chi vuole cambiarla. Abbiamo visto dittatori farlo in contesti diversi ma io non voglio che siano ridefinite quelle che io chiamo in
modo molto chiaro fondamenta sociali che esistono da molto tempo».
I vescovi anglicani hanno anche
sottolineato che il Governo di Londra, nel caso che voglia consentire a
coppie dello stesso sesso di sposarsi,
dovrebbe prima risolvere il problema che riguarda l’istituzione giuridica del matrimonio che «coinvolge,
su un piano di assoluta parità, sia le
coppie che scelgono di celebrare la
cerimonia in chiesa sia quelle che
invece preferiscono il rito civile».
Per i presuli, la proposta di distinguere il matrimonio religioso e quello civile rischia di creare confusione
tra cerimonia e istituzione.
DAMASCO, 17. I cristiani assistono
impotenti alla sofferenza del popolo
siriano. Per questo, «la missione
umanitaria è una iniziativa benedetta, che incoraggiamo con forza». È
quanto ha detto l’arcivescovo Mario
Zenari, nunzio apostolico in Siria,
commentando l’annuncio di una imminente missione umanitaria. Operazione congiunta fra emissari del
Governo siriano, esperti dell’Onu e
dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Per il presule «c’è
bisogno di uno sforzo urgente: anche se non abbiamo ancora i particolari sul suo svolgimento, è un intervento apprezzabile e tanto atteso.
Speriamo che, nel campo dell’assistenza umanitaria, si attivino sforzi
e interventi sempre maggiori».
Quanto ai profughi che continuano a lasciare il Paese verso il Libano
e la Turchia, il presule sottolinea
all’agenzia Fides come «l’esodo
preoccupa noi tutti in Siria. L’uscita
forzata dalla propria Patria, in queste condizioni di sofferenza, muove
a compassione: soffriamo insieme
con loro. Sono povere famiglie che
lasciano in fretta e furia la propria
vita, la casa, gli affetti, verso un futuro ignoto di precarietà. Nell’insieme, la gente soffre ed è stanca per il
lungo conflitto» che dura ormai da
un anno. In Siria, insomma, la Primavera araba «tarda ad arrivare,
mentre le speranze della gente si affievoliscono». Infatti, «la situazione
è davvero complicata, ma la questione più grave è che non si vede la fine del tunnel».
Di «vicolo cieco» parla anche
l’arcivescovo di Damasco dei Maroniti, Samir Nassar, il quale esprime
sentimenti di riconoscenza nei confronti del Papa. «La sofferenza che
viviamo è grande. Stiamo assistendo
impotenti al dramma. Per fortuna il
Santo Padre Benedetto XVI colma il
vuoto chiedendo pace, giustizia,
dialogo e riconciliazione». Il presule
maronita, a un anno dall’inizio della
rivolta e della violenza nel Paese, ricorda che «quella che era iniziata
come una piccola manifestazione
nella parte meridionale della Siria, il
15 marzo 2011, si è ora trasformata
in una crisi che inghiotte ogni città
del Paese. Di fronte a una crisi che,
in un anno, è cresciuta dal livello
locale a proporzioni regionali, la Siria è diventata una zona di conflitto
internazionale, in cui la posta in
gioco, che è politica, militare ed
economica, sta plasmando il futuro
del Paese».
In particolare, monsignor Nassar
registra che «il conflitto è in un vicolo cieco: da un lato, un forte po-
tere centralizzato che rifiuta di farsi
da parte; dall’altro, una sollevazione
popolare che non accenna ad arrendersi, nonostante l’intensità della
violenza. Questo conflitto, che sta
paralizzando il Paese, ha portato
sanzioni economiche, inflazione,
svalutazione della moneta locale (60 per cento), aumento della disoccupazione, distruzione, popolazioni
sfollate e vittime a migliaia». La
gente «è sottoposta a pressioni
enormi e intensa sofferenza, che cresce col passare del tempo. Odio, divisioni e miseria aumentano, in assenza di atti di compassione e di
aiuti umanitari. La Siria sembra
stretta nella morsa di una impasse
mortale». Quanto alla condizione
dei cristiani, l’arcivescovo maronita
sottolinea come «l’attuale situazione
di stallo sta alimentando l’angoscia
dei fedeli che, alla fine di ogni messa, si salutano con un addio, avvertendo così incerto il loro futuro. La
chiusura delle ambasciate a Damasco ha reso impossibile ottenere i visti, in modo da limitare notevolmente la possibilità di lasciare il
Paese». In tale contesto «di grande
tormento e divisione la famiglia diventa l’unico rifugio per le vittime
della crisi. La famiglia agisce come
uno scudo che garantisce la sopravvivenza della società e della Chiesa.
Per questo motivo, di fronte a tale
tragedia, la Chiesa ha scelto di focalizzare la propria attenzione e pre-
In un libro gli articoli di Egidio Picucci scritti per «L’Osservatore Romano»
L’ospite degli umili
Anticipiamo, qui di seguito, quasi per
intero, la prefazione al libro L’ospite
degli umili (Todi, Tau Editrice, 2012,
pagine 193, euro 14) che raccoglie gli
articoli del cappuccino Egidio Picucci
scritti per il nostro giornale e per il
supplemento settimanale pubblicato tra
il 1979 e il 2007.
di RAFFAELE ALESSANDRINI
Raccogliere articoli e pubblicarli in
un libro espone sempre l’autore a
correre qualche rischio, poiché, in
genere, un pezzo giornalistico è stato scritto per un giorno o al massimo per una settimana. Sorgono in
tal caso forti dubbi se l’argomentazione proposta fosse pertinente alle
ragioni di quando fu scritto. Al contrario se quello stesso articolo seppe
rispondere, più o meno esaurientemente alle esigenze di allora, come
non pensare che oggi non sia inesorabilmente datato?
Ma per i testi raccolti in questo
volume il ragionamento fin qui abborracciato, non regge.
Non solo perché sono opera di un
giornalista di razza, quale Egidio Picucci è senza ombra di dubbio, ma
perché a modesto avviso di chi scrive, queste pagine possono sfidare
impunemente tanto la dimensione
sincronica che quella diacronica poiché vantano una dote che se ne ride
tranquillamente del passato e del futuro. Una dote, o meglio un carisma, che san Paolo chiama profezia.
E, al contrario di ciò che si potrebbe
credere, il profeta vive sempre nel
presente e quanto dice è una chiamata provvidenziale non per domani, ma già per oggi. «Noi ci ricor-
diamo di quello che viene» diceva
san Giovanni Crisostomo.
Ricercare la verità dovrebbe essere
un dovere per tutti; saperla comunicare senza inseguire successi e affermazioni personali, è prerogativa di
pochi.
Padre Egidio Picucci è un missionario che ha sempre viaggiato da
povero tra i poveri di mezzo mondo;
e neppure oggi riesce a starsene fermo. Di tanto in tanto si rimette in
moto, si guarda in giro e poi ritorna,
per raccontare quanto ha visto, chiamando ogni cosa col suo nome, con
garbo ed equilibrio innati, e senza
curarsi del politicamente corretto. Il
Vangelo è la sola lampada, e il solo
criterio, che guida il suo cammino.
Se poi consideriamo che si tratta di
un cammino francescano e per giunta cappuccino («che — pedibus calcantibus — va piano e va lontano»
come cantava Ugo Piazza – Puf, il
medico-poeta amico di Paolo VI, nella poesia d’angolo dell’«O sservatore
della Domenica» del 17 luglio 1966
parlando proprio di un giovanissimo
padre Egidio allora fresco autore di
una raccolta di Nuovi Fioretti france-
scani), abbiamo già una prima indicazione di fondo.
Padre Picucci ci parla della realtà
delle persone, piccole e grandi, illustri o umili, ricordando che c’è amore e c’è speranza per ognuno; anche
nelle circostanze apparentemente più
oscure e senza via d’uscita. La fame,
la sete, la lebbra, i bambini-soldato,
le ingiustizie e le crudeltà, le morti
patite dai tanti giusti e innocenti che
incontriamo in queste pagine sono
di quelle che spingono alla rabbia e
ribellione. Ma «se Gesù è morto
perdonando non è più possibile
odiare» come dice un uomo nell’Albania degli anni Novanta, al quale
nelle settimane prima di Pasqua hanno ucciso il figlio, finché il venerdì
santo egli rinuncia alla vendetta e
decide di consegnare il kalashnikov
al prete che lo è andato a trovare.
In queste pagine si coglie anche
un costante richiamo al magistero
autorevole della Chiesa che affonda
le sue radici nella Tradizione e nella
Parola di Dio; ciò che sorprende è
scoprirne poi i riscontri più inaspettati nella sapienza e dalla testimonianza degli umili e dei poveri. La
pace allora comincia spesso con un
sacrificio scaturito da un atto di carità e di accoglienza gratuita verso i
nemici, o i fratelli apparentemente
lontani.
Al di là delle molte parole comunemente dette e scritte dagli uomini
dell’informazione, per le speranze
del mondo, alla fine resta un fatto
decisivo e incontrovertibile che risalta in questi scritti di padre Egidio: il
Verbo non si è fatto “carta”, ma
“carne” e i suoi fratelli più piccoli
continuano a darne testimonianza.
ghiera per le famiglie, fornendo loro
tutto l’aiuto e il sostegno possibile».
Ma, intanto, «la crisi non sembra
volgere al termine. Piuttosto, la
tempesta è sempre più forte e non si
vede la fine del tunnel. Dove andrà
e che fine farà la Siria?». Con tale
preoccupazione, i cristiani vivono la
Quaresima, «in silenzio, con il cuore pesante e gli occhi rivolti a Cristo
Risorto, che guida i nostri passi sulla via del perdono e della pace».
Sulle chiese in Kuwait
Il gran mufti
d’Arabia Saudita
non cambia idea
KUWAIT CITY, 17. Eliminare tutte
le chiese cristiane. In Kuwait si
riaccende la polemica sulla proposta avanzata nelle scorse settimane da un gruppo parlamentare
islamista che ha annunciato una
proposta di legge per vietare nel
piccolo emirato la costruzione di
chiese e altri luoghi di culto non
islamici. Ad alimentarla, in queste ore — secondo quanto riferiscono diverse fonti d’informazione — è la dichiarazione del gran
mufti dell’Arabia Saudita, lo
sceicco Abdul Aziz Al-Asheikh,
per il quale «è necessario distruggere tutte le chiese». Un’affermazione che la più alta autorità legislativa del Paese sunnita — dove ogni religione non islamica è
fuori legge — ha fatto incontrando una delegazione kuwaitiana,
che lo ha appunto sollecitato
sull’interpretazione della sharia
riguardo alla presenza di luoghi
di culto non islamici. Salvo poi
chiarire che le sue parole si riferivano alle sole «chiese presenti
nella regione», poiché «non ci
possono essere due religioni in
Arabia».
Una presa di posizione che,
come accennato, in Kuwait si innesta alle polemiche suscitate
dalla proposta di legge del gruppo parlamentare islamista AlAdala Bloc (Gruppo della giustizia) che intende vietare la costruzione di chiese e altri luoghi di
culto non islamici. Una proposta
che — come riferisce l’agenzia Fides — ha incontrato vasti dissensi
nella società civile. Il parlamentare Nabeel Al Fadhel ha rilevato
che «la Costituzione stabilisce
chiaramente la libertà religiosa e
il diritto di tutte le persone a
praticare le proprie credenze religiose». E per l’organizzazione
Kuwait Human Rights Society si
tratta di una proposta «irresponsabile che diffonde tensione e
odio tra i cittadini».
†
Il Comandante e il Corpo della Guardia Svizzera Pontificia partecipano al
dolore della famiglia per la scomparsa
dell’ex vice comandante
GREGOR VOLKEN
tenente colonnello
assicurando un ricordo nella preghiera.
L’OSSERVATORE ROMANO
domenica 18 marzo 2012
pagina 7
Il cardinale Bagnasco alla veglia per le vittime delle mafie
I vescovi chiedono al Governo di Dublino d’istituire un ministero per i cittadini che lavorano all’estero
Educazione
alla legalità
La ricorrenza di san Patrizio in Irlanda
dedicata a quanti devono emigrare
GENOVA, 17. Contro «la violenza e
il male» generati dalle mafie occorre soprattutto puntare «sull’educazione e la formazione dei nostri ragazzi, dei nostri giovani al bene, alla verità, alla giustizia e alla legalità». È l’indicazione che il cardinale
arcivescovo di Genova e presidente
della Conferenza episcopale italiana
(Cei), Angelo Bagnasco, ha offerto,
nella serata di ieri, in occasione della celebrazione nella cattedrale della
città della «Veglia ecumenica in memoria di tutte le vittime innocenti
delle mafie», organizzata dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti.
Parlando di fronte a oltre cinquecento familiari di vittime delle attività criminali, il porporato ha esortato «a non arretrare di fronte alla
violenza e al male anche se la tentazione sarebbe forte» e di «continuare a tenere vivo un fuoco di memoria, di preghiera, di speranza, di
fede in Dio e nei valori di solidarietà». E, rivolgendosi ai fedeli che
hanno gremito la cattedrale, il presidente della Cei ha affermato: «Voi
siete una testimonianza viva di
quella che è l’anima più profonda
del nostro popolo, della nostra gente. Il Vangelo ci ricorda di non temere, di non avere paura e voi,
questa sera, come sempre, siete la
testimonianza del coraggio, della
forza, del credere al futuro, di credere di poter vivere insieme in modo più sicuro e più giusto».
La veglia è stata organizzata
dall’associazione Libera nel capoluogo ligure, dove oggi si svolge la
XVII Giornata del ricordo e dell’impegno in ricordo delle vittime delle
mafie, caratterizzata da una lunga
marcia lungo le strade della città.
Un momento di profonda commo-
zione ha suscitato durante la veglia,
la lettura dei nomi delle vittime di
lunghi anni di odio e di violenza
che hanno caratterizzato la storia
del Paese. Un lungo elenco di nomi
che sono risuonati all’interno della
chiesa, accompagnati da preghiere
al «Dio della speranza» affinché
«asciughi tutte le lacrime».
Tantissimi i giovani presenti nella
cattedrale, nati in particolare tra gli
anni Ottanta e Novanta, quando
l’attività della mafia culminò con
una serie di stragi. E proprio con
uno sguardo privilegiato alle presenti e future generazioni, il cardinale Bagnasco ha voluto indicare la
necessità di puntare sulla formazione. Per superare la mafia, ha evidenziato il porporato, servono «l’educazione e la formazione dei nostri ragazzi, dei nostri giovani al bene, alla verità, alla giustizia e alla
legalità» e, ha aggiunto, «di quanto
ci sia bisogno di tutto questo, è sotto gli occhi di tutti, non soltanto in
riferimento a certe “piovre” che ben
sono conosciute nel nostro Paese,
come in altre parti del mondo, ma
per qualunque altra situazione».
Per questo, ha proseguito il cardinale, «è quanto mai necessario recuperare l’educazione alla verità e
ai valori autentici che la cultura
contemporanea, sotto la spinta di
interessi di diversa natura vuole distruggere». Perché nel contrasto alla criminalità, ha concluso il presidente della Cei, anche «le forze
dell’ordine sono insufficienti senza
l’educazione che deve iniziare nelle
famiglie, cuore dello Stato e nella
scuola. È la strada giusta che prende il male alla radice e lo trasforma
in bene».
DUBLINO, 17. I vescovi irlandesi hanno chiesto al Governo di Dublino
l’istituzione di un ministero per gli
emigrati. La richiesta, formulata nei
giorni scorsi da monsignor John
Kirby, vescovo della diocesi di
Clonfert e direttore del Consiglio
episcopale irlandese per gli emigrati,
è motivata dalla constatazione che
negli ultimi anni, a causa della crisi
economica e della conseguente povertà, è aumentato il numero di irlandesi che decide di cercare lavoro
all’estero. In un comunicato riportato dall’agenzia Sir, il vescovo John
Kirby ha sottolineato che «non è
certamente esagerato dire che il flagello dell’immigrazione colpisce
ogni famiglia irlandese. Perciò serve
dare una risposta politica che si dimostri tangibile». Per il presule è
necessario che «il Governo prenda
in considerazione l’istituzione di un
ministero con specifiche responsabilità nei confronti dei nostri emigrati». Il responsabile del Consiglio
episcopale ha inoltre precisato che
l’istituzione del nuovo dicastero
«avrebbero un duplice beneficio: in
Irlanda, potremo essere aggiornati
con più frequenza sulle situazioni
che sperimentano i nostri emigrati.
E loro saranno rassicurati perché
consapevoli del nostro sostegno».
Secondo l‘ufficio centrale di statistica a Dublino, nei primi quattro
mesi del 2011 sono emigrati oltre
quarantamila cittadini irlandesi, un
aumento del 45 per cento rispetto
all’anno 2010.
Nei giorni precedenti alla festa
nazionale di san Patrizio, che si celebra oggi sabato 17, i vescovi irlandesi avevano annunciato che per
l’occasione erano stati messi in programma incontri con alcune delegazioni di emigrati e i responsabili
delle cappellanie all’estero. La richiesta di questi incontri era stata
avanzata sempre dal direttore del
Consiglio episcopale irlandese per
gli emigrati, il vescovo Kirby, che ha
a più riprese sottolineato gli effetti
della crisi economica nel corso degli
ultimi anni. Il Consiglio episcopale
irlandese per gli emigrati ha preparato una cartella informativa per gli
emigrati che viene distribuita oggi
in occasione della festa di san Patrizio. La cartella è stata voluta per
dotare gli emigrati di informazioni
che permetteranno a loro di prende-
re decisioni che saranno utili per
sostenerli nella loro nuova vita all’estero.
Questa cartella include una ricerca sulla realtà dell’emigrazione con
la storia degli emigrati irlandesi.
Inoltre, vengono riportate alcune
delle loro esperienze personali e le
storie di coloro che lavorano per sostenere le comunità degli irlandesi
all’estero. Negli opuscoli vi sono anche indicazioni per aiutare nelle
scelte coloro che desiderano emigrare. Tra queste, vi sono dettagliate
istruzioni su come devono essere
elencati nelle domande d’emigrazione i necessari requisiti per ottenere il
visto e le informazioni, nazione per
nazione, sui costi medi degli affitti
degli alloggi, sulle possibilità di trovare velocemente un’occupazione,
sulle norme da rispettate per essere
coperti anche all’estero dall’assicurazione sanitaria. Nella cartella è anche presente un libretto di preghiere
per ricordare a chi si trova all’estero
che la fede in Dio non deve mai essere dimenticata. Tra le varie orazioni, c’è quella appositamente dedicata ai migranti.
I dati di un’analisi condotta negli Stati Uniti
Video per i giovani realizzato dalla Conferenza episcopale spagnola
Comunità religiose
sempre più tecnologiche
YouTube
e vocazioni sacerdotali
WASHINGTON, 17. L’utilizzo delle
moderne tecnologie di comunicazione da parte delle comunità religiose
negli Stati Uniti appare in costante
aumento. Il ruolo che i cosiddetti
social network e, internet in generale, hanno assunto nell’ambito delle
attività di sviluppo di istituti e organizzazioni, non soltanto cattolici,
ma anche di altre confessioni cristiane e di altre religioni, è divenuto vitale. È la “fotografia” che emerge da
un’analisi dal titolo «Virtually Religious: Technology and Internet Use
in American Congregation». Si tratta di uno studio che prende in esame sostanzialmente un decennio di
riferimento, mostrando come nel
tempo le comunità abbiano sviluppato un forte orientamento verso
nuove strategie comunicative.
Un dato su tutti rende significativa la trasformazione: secondo lo
studio nel 1998 soltanto il 22 per
cento delle comunità, incluse anche
le parrocchie cattoliche, si servivano
del sistema di posta elettronica (email) per curare e sviluppare i contatti con i fedeli e più in generale le
persone residenti nel proprio territorio o altrove. Nel 2010, la percentuale è salita in maniera notevole fino a sfiorare il 90 per cento. Inoltre,
anche l’utilizzo in generale di altri
strumenti di comunicazione, come
ad esempio facebook, ha ottenuto
una sempre più crescente attenzione. Sempre nel 2010, a tale riguardo, è risultato che circa i due terzi
delle comunità religiose hanno fatto
ampio ricorso alla posta elettronica
e all’ampia consultazione della rete
per rendersi sempre più «aperte»
agli ambienti esterni.
A presentare l’analisi — di cui riferisce l’agenzia Catholic News — è
stato nei giorni scorsi un docente
presso l’Hartford Institute for Religion Research dell’Hartford Seminary, un istituto educativo di studi
inerenti i rapporti tra le varie comunità religiose, situato nello Stato del
Connecticut. Il docente, Scott
Thumma, ha spiegato che, mettendo assieme tutte le tecnologie comunicative, si è concluso che un quarto
di tutte le comunità religiose ne fanno un uso fondamentale, mentre
soltanto un terzo appaiono considerarle poco importanti. Soprattutto
l’ampio utilizzo delle nuove tecnologie comunicative risponde all’esigenza di confrontarsi con lo sviluppo delle stesse comunità, che hanno
necessità di raggiungere fedeli spesso sparsi in località lontane e acces-
sibili con difficoltà. Secondo Thumma, «se si hanno dimensioni occorre
anche servirsi della tecnologia». A
tale riguardo si citano come esempio le comunità religiose composte
da oltre 250 fedeli, di cui il 46 per
cento ricorrono essenzialmente a internet per comunicare. Dimensioni
delle comunità religiose, ma anche
spazi territoriali assai vasti, visto che
si tratta degli Stati Uniti, sono dunque considerate le caratteristiche determinanti che concorrono a determinare lo sviluppo dell’utilizzo delle
nuove tecnologie. Il ricorso alla posta elettronica, per esempio, è considerato pertanto uno strumento di
sviluppo per le stesse comunità. Per
il docente «se una comunità si avvale di e-mail o di blog ha più canali
per promuovere se stessa». Anche
l’utilizzo dei blog appare gradualmente più diffuso: almeno il 3 per
cento delle comunità ne fanno uso.
Così come anche l’utilizzo degli archivi informatici per conservare in
maniera sempre più efficiente i dati.
L’indagine dell’associazione webmaster cattolici italiani
Preti su Facebook
ROMA, 17. In Italia, un sacerdote
su cinque è iscritto a Facebook.
Percentuale che sale fino al 59,7
per cento nel caso dei seminaristi.
Lo rileva uno studio condotto dal
Centro di ricerca sull’educazione ai
media all’informazione e alla tecnologia (Cremit) dell’Università
cattolica del Sacro Cuore di Milano e dal dipartimento istituzioni e
società dell’università di Perugia
che hanno indagato per conto
dell’Associazione webmaster cattolici italiani (WeCa) sull’uso di Facebook da parte di sacerdoti, religiosi e seminaristi. Dai dati emerge che il 20 per cento dei preti
diocesani e religiosi ha un profilo
su Facebook, una percentuale ele-
vata se la si confronta con il dato
più generale dei cittadini italiani.
Secondo la ricerca, inoltre, si registrano «una differenza numerica
di presenza da parte delle religiose
rispetto ai religiosi e differenze tra
nord e sud del Paese: è il sud in
questo caso che appare come l’universo maggiormente digitalizzato
rispetto a un nord che invece sembra essere meno incline all’uso dei
media sociali e partecipativi».
Infine, l’associazione WeCa,
all’interno dei quindicimila siti cattolici italiani, ha assegnato un premio a padre Antonio Spadaro,
direttore di «Civiltà Cattolica»,
per la categoria «siti personali»
(www.cyberteologia.it).
MADRID, 17. «Non ti prometto un
grande stipendio, ti prometto un lavoro fisso» e «una vita appassionante»: la Chiesa spagnola, in deficit di
vocazioni, si rivolge anche a YouTube per stimolare i giovani a scoprire
la vocazione sacerdotale. In occasione della celebrazione della giornata
del seminario, che si svolge nella
maggior parte delle diocesi il 19
marzo, la Conferenza episcopale
spagnola (Cee) ha realizzato e pubblicato un video, della durata di
due minuti e mezzo. Il filmato, diffuso attraverso YouTube e diverse
reti sociali come Facebook e Twitter,
ha lo stesso obiettivo della campagna avviata per le vocazioni sacerdotali: la sensibilizzazione della società e in particolare della comunità
cristiana «sul tema delle vocazioni e
del servizio sacerdotale per l’evangelizzazione e la promozione umana».
Nel video — che comprende immagini girate in occasione della
Giornata mondiale della gioventù di
Madrid — nove giovani sacerdoti
diocesani lanciano un messaggio coraggioso, gioioso, suadente, ma soprattutto rendono un’originale testimonianza di fede proponendo una
scommessa forte per vivere «una vita appassionata». Si rivolgono ai
coetanei che sentono di avere la vocazione a farsi avanti e chiedono loro: «Quante promesse hai ricevuto
che non sono poi state mantenute?». Per poi elencare — sottotitolate
in inglese — le proprie: «Non ti prometto che ciò che dirai verrà ascoltato, ma che vorrai ripeterlo più volte»; ed ancora: «Non ti prometto
una vita di avventure, ma una vita
appassionante»; «Non ti prometto
la comprensione di chi ti circonda,
ti prometto che sapranno che hai
fatto la cosa giusta», aggiunge un
altro. E un altro ancora: «Non ti
prometto una decisione facile, ti
prometto che non te ne pentirai
mai».
Il video, pur nella sua sua sinteticità, riesce in modo efficace e attrente a lasciare intuire «la grandezza del sacerdozio che si fonda sulla
testimonianza di Gesù Cristo»,
sull’incontro con una persona che
salva e fa liberi. Infatti il video si
conclude con l’immagine del volto
di Cristo e con una voce ferma, suadente che afferma: «Non prometto
una vita di avventura, prometto una
vita appassionata».
Il testo del video è stato preparato attraverso le risposte date da più
di cento sacerdoti diocesani di tutta
la Spagna, intervistati sul tema della
carenza delle vocazioni sacerdotali
in un contesto storico come l’attuale
segnato dalla secolarizzazione e dal
materialismo, ove sembra sempre
più affievolirsi il senso di Dio. Una
situazione a cui si aggiungono le
conseguenze della generalizzata crisi
economica e finanziaria che sta investendo l’Europa e i mercati internazionali. La disoccupazione nel
Paese ha raggiunto il livello record
nell’Ue del 22,85 per cento a fine
2011, e del 49,9 per cento fra i meno
di 25 anni.
Pur in un contesto così difficile,
tuttavia, si profilano all’orizzonte
«segni di speranza». Secondo i dati
resi noti dalla stessa Conferenza episcopale il numero di sacerdoti è au-
mentato del 4,2 per cento nell’ultimo anno: sono attualmente 1.278
contro però il 1.738 del 2002.
La Conferenza episcopale spagnola con il video sulle vocazioni
sacerdotali, realizzato di concerto
con la Commissioni episcopali per i
seminari e per le università e con
l’Ufficio Cee delle comunicazioni
sociali ha inteso offrire «una comunicazione innovativa», una sorta di
«scommessa appassionata» per il futuro, specialmente dei giovani spagnoli. Non a caso la campagna per
le vocazioni sacerdotali ha quest’anno come motto generale: «Passione
per il Vangelo» e come poster i giovani che innalzano la croce, quando
Benedetto XVI ha chiuso la Giornata
mondiale della gioventù di Madrid
nell’agosto del 2011.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
domenica 18 marzo 2012
A colloquio con il cardinale Santos Abril y Castelló, arciprete della basilica papale di Santa Maria Maggiore
Messa del cardinale Bertone per gli ottant’anni dell’O ftal
Al servizio della Chiesa
tra diplomazia e pastorale
Non c’è
dolore inutile
di NICOLA GORI
Alle spalle ha una lunga carriera diplomatica il cardinale Santos Abril y
Castelló, arciprete della basilica di
Santa Maria Maggiore. Un impegno
che l’ha portato a servire la Santa
Sede in molti Paesi dell’Africa,
dell’Asia e dell’America del Sud, ma
è stato in Europa che ha dovuto affrontare le sfide più impegnative e
drammatiche, come la guerra del
Kosovo. Era infatti nunzio apostolico nella Repubblica Federale di Jugoslavia quando iniziarono i bombardamenti Nato su Belgrado. Scelse di rimanere sul posto per affrontare la crisi con equilibrio e coraggio
limitando i danni non solo alle rappresentanze diplomatiche, che lo
avevano eletto loro portavoce — caso
unico in tempo di guerra per un
nunzio apostolico — ma anche alla
Chiesa. In questa intervista al nostro
giornale ripercorre con grande partecipazione il periodo di permanenza
nella nunziatura del Paese balcanico
e anticipa alcuni progetti che ha in
animo per il suo nuovo incarico nella basilica liberiana.
garante della sicurezza di tutte le
missioni anche di quelle che non
hanno relazioni con noi». Pur trattandosi di un periodo difficile è stato possibile salvare vite umane e risolvere molte cose a livello diplomatico e di interesse per la Chiesa.
Ci racconta la sua esperienza di
insegnante di spagnolo di Giovanni
Paolo II?
Nel 1978, l’anno in cui è stato
eletto Giovanni Paolo II, ero a capo
della sezione di lingua spagnola della Segreteria di Stato. All’udienza
generale del mercoledì leggevo
l’elenco dei gruppi spagnoli presenti.
Un giorno, dopo l’udienza, Giovanni Paolo II mi chiese quante persone
nel mondo parlassero spagnolo. E
quando gli dissi che erano quasi la
Maria Maggiore. Come intende svolgere questo ruolo?
Il nome stesso indica che è il più
importante tempio dedicato alla Madonna, anche se non è stato il primo
a essere costruito: quello di Efeso è
anteriore. Data questa importanza,
molte chiese mariane hanno avuto
l’onore di venire affiliate a Santa
Maria Maggiore, godendo così di alcuni privilegi e indulgenze concesse
alla basilica liberiana. Sono ben cosciente dell’importanza di questo
tempio per la pastorale e per la devozione alla Madonna. Per questo,
penso di dedicare tutte le mie energie per mantenere tutto quello di
bene che è stato fatto fino a ora e se
possibile intraprendere qualche nuova iniziativa che possa aiutare di più
la pietà dei fedeli per promuovere la
Nella sua carriera diplomatica ci sono
degli episodi che le sono rimasti impressi in maniera particolare?
Ho svolto un lungo servizio diplomatico. Ho iniziato, infatti, la
mia carriera diplomatica nel 1967, e
ho girato diversi Paesi per rappresentare la Santa Sede. Il ricordo più
vivo di questi anni è legato al mio
incarico nella Repubblica Federale
di Jugoslavia. Ero appena arrivato,
nel febbraio 1996, e mi sono trovato
ad affrontare una difficile crisi: la
guerra del Kosovo che sconvolse la
regione. Belgrado era sotto i bombardamenti notturni della Nato.
L’ho vissuta direttamente l’esperienza di quel conflitto. A Belgrado, il
nunzio apostolico non era il decano
del Corpo diplomatico, ma visto che
il decano era quasi sempre assente,
gli ambasciatori vollero eleggere un
coordinatore e un portavoce che difendesse le missioni diplomatiche.
Scelsero me, all’unanimità. Non fu
un compito facile da interpretare.
Ho dovuto prendere delle decisioni
non semplici e proporre al governo
dei cambiamenti radicali per far rispettare le missioni diplomatiche.
Come ha affrontato quei momenti?
Ho avuto degli incontri con alcuni esponenti governativi durante i
quali ho ribadito certe esigenze assolute. Devo dire con risultati positivi.
Ci può fare qualche esempio?
Ricordo che, tanto per dirne una,
avevano vietato ai i diplomatici di
riunirsi tra di loro. Mi sono opposto
molto energicamente e ho avvertito
che avremmo comunque continuato
ad esercitare un nostro diritto in
quanto diplomatici. Sono stato oggetto di intimidazioni e minacce, ma
alla fine hanno dovuto rispettare la
nostra decisione. Altra criticità fu
quando venne bombardata l’ambasciata cinese. Ci riunimmo e decidemmo di inviare una formale protesta alla Nato per chiedere la protezione delle missioni diplomatiche.
Scrissi personalmente all’allora segretario della Nato. L’ambasciatore
cinese apprezzò molto e a crisi conclusa mi disse: «Vediamo come la
Santa Sede sa agire rispettando i diritti di tutti e come il decano sa anche essere indipendente per rendersi
Catechesi
attraverso l’arte
alla Gmg di Rio
Una «catechesi per immagini»: è
questo il senso della mostra sul
volto di Cristo, che sarà allestita
in occasione della XXVIII Giornata
mondiale della gioventù a Rio de
Janeiro nel 2013.
Organizzata dalla Fondazione
Giovanni Paolo II del Pontificio
Consiglio per i Laici, l’esposizione si terrà presso il Museo di Belle Arti della capitale carioca e sarà articolata in cinque sezioni («Il
volto di Cristo», «La chiamata
degli Apostoli», «Le parabole
della vita cristiana», «I santi seguaci di Cristo», «Maria via maestra verso Cristo»), che presenteranno
altrettanti
capolavori
dell’arte visiva europea.
vità dell’arciprete. Ho notato che
esiste la buona volontà di operare
per il bene pastorale della basilica,
affinché svolga adeguatamente la
sua missione.
Nella basilica si conservano numerose
opere d’arte inestimabili. Come pensate
di valorizzare questo patrimonio e renderlo fruibile ai fedeli e al pubblico?
Le opere d’arte sono effettivamente tante in questa basilica. Conservarle e restaurarle per mantenerle
nello splendore originario implica
diverse responsabilità, da quella dei
servizi tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per
esempio, a quella dei Musei Vaticani. È opportuno perciò continuare a
promuovere questa buona intesa esistente. È mia intenzione fare il possibile perché queste opere siano disponibili per la visita dei fedeli e
servano per far riflettere sui testimoni di fede del passato e sulle radici
cristiane della nostra società. Pensiamo per esempio all’icona della Salus
Populi Romani. Le visite organizzate,
ma anche i singoli pellegrini e non
solo romani, che passano per la basilica si soffermano a vedere questa
icona che ha una tradizione antichissima. L’immagine è collocata in un
posto di rilievo all’interno della cappella paolina e credo che identifichi
la basilica. È mia intenzione valorizzarla al massimo, perché Maria offre
la possibilità di avvicinarsi a Dio. La
stessa cosa si può dire della reliquia
della culla e del presepe di Arnolfo
di Cambio. Avere una reliquia come
questa significa ravvivare nella coscienza dei fedeli il ricordo
dell’umiltà della nascita di Gesù.
Durante la solennità del Natale al
momento del Gloria in excelsis Deo si
va processionalmente davanti a essa
per ricordare il canto degli angeli.
Da spagnolo come vive il particolare
legame che unisce questa basilica al re
Juan Carlos?
La basilica di Santa Maria Maggiore in un’antica stampa
metà della Chiesa, esclamò: «allora
un Papa non può non saper parlare
lo spagnolo». In quel momento non
avrei mai immaginato che di lì a poco mi avrebbe chiesto di insegnargli
la mia lingua. Rimasi molto sorpreso
e quasi in imbarazzo. Il Papa mi mise però subito a mio agio. Andavo
da lui tutti i giorni appena aveva un
po’ di tempo, perché si stava preparando il viaggio in Messico, voleva
imparare in fretta. È stata un’esperienza molto bella e conservo bei ricordi sulla sua capacità straordinaria
di imparare e del suo buon umore.
Nel novembre scorso il Papa l’ha nominata arciprete della basilica di Santa
devozione alla Madonna. La mia intenzione è di far sì che la basilica diventi anche un centro di irradiazione
del magistero del Papa in tutti i
campi. Il suo magistero deve essere
non solo ascoltato, ma promosso, insegnato, ripetuto in maniera tale che
i fedeli si nutrano di quel ricchissimo insegnamento.
Quali sono i compiti dell’arciprete della
basilica?
I compiti sono quelli di guidare e
coordinare la vita della basilica in
collaborazione con il capitolo. È
proprio il capitolo, composto da vescovi e sacerdoti, che sostiene l’atti-
Ho avuto un piacere particolare
nell’essere nominato arciprete della
basilica non solo per l’affetto a Maria, ma per il legame che questa
chiesa ha con la mia patria. In molte
occasioni i reali spagnoli hanno beneficato la basilica. Basti per tutti ricordare che il primo oro che arrivò
dall’America fu offerto per dorare il
tetto della basilica. Un fatto che,
sembra sia storicamente accertato. I
reali, poi, sono intervenuti molte
volte nel corso dei secoli per abbellire e decorare la basilica. A memoria
di questo legame storico, è conservata una statua di Filippo IV, il re che
ha fondato l’opera pia spagnola,
un’istituzione che si incarica di aiutare i pellegrini che si recano a Roma e in Terra Santa. L’opera è ancora attiva ed è molto legata all’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Ogni re che sale sul trono spagnolo è protocanonico del capitolo
liberiano.
Un angolo di paradiso è già qui
sulla terra, proprio dove l’amore
riesce a dare significato alla sofferenza. È una prospettiva di speranza quella che il cardinale Tarcisio
Bertone, segretario di Stato, ha
riaffidato sabato mattina, 17 marzo,
all’Opera federativa trasporto ammalati a Lourdes (Oftal) che, con
una messa celebrata nella basilica
Vaticana, ha festeggiato l’ottantesimo compleanno.
Una storia di servizio ecclesiale
sempre in prima linea, ha sottolineato il cardinale nell’omelia, con
una priorità indiscussa: le persone
malate. È «soprattutto a loro», e a
quanti li assistono, che il segretario
di Stato ha portato «il beneaugurante saluto e la paterna benedizione del Santo Padre, che si unisce
spiritualmente a noi in questo momento così carico di fede».
I malati, ha assicurato, non sono
mai soli. La Chiesa è con loro e
l’Oftal lo testimonia. Partendo da
questa certezza, il cardinale ha
spiegato che «in ogni vostro pellegrinaggio a Lourdes o in altri santuari mariani, vi viene ridonato
l’amore di Cristo. E rinasce tra voi
un legame, un vincolo di amicizia,
un patto, che non termina dopo
quei giorni di intensa spiritualità,
di grande comunione e di profonda fede. Continuate a vedervi, ad
amarvi, a stare gli uni vicini agli altri, mediante la preghiera e le visite
reciproche. Questo significa prendere l’altro a casa propria, come
Giovanni fece con Maria. In un
mondo dove la solitudine appare
come una legge ferrea e inesorabile, e dove chi è debole viene emarginato e dichiarato inutile, noi cristiani, che sotto la croce siamo stati
affidati a Maria, viviamo e portiamo l’amore». «Ciascuno di noi —
ha detto il porporato — non importa se sano o malato, non importa
se giovane o anziano, fa parte di
quella famiglia che rinasce dalla
Croce. È la famiglia dei figli di
Dio. E questo è già il paradiso, la
stupenda realtà di cui ci ha parlato
san Paolo, dove né tribolazione né
angoscia, né persecuzione né pericolo
possono
mai
separarci
dall’amore di Dio in Cristo Gesù.
L’amore del divino Maestro infatti
ci fa vivere e gustare già da ora un
po’ di paradiso». È Maria, ha aggiunto, il riferimento più sicuro per
quanti vivono l’esperienza della
sofferenza. Ha quindi ricordato ai
presenti l’importanza del provenire
«da tante città e paesi diversi, con
tante storie differenti. Ciascuno di
voi ha comunque una preghiera nel
cuore e un desiderio spirituale da
presentare a Gesù per mezzo
dell’intercessione di sua Madre.
Nel vostro peregrinare a Lourdes,
dopo il primo pellegrinaggio di
monsignor Alessandro Rastelli cento anni fa, e nella vostra consuetudine orante con la Vergine Immacolata, voi avete compreso che Maria accoglie tutte le preghiere dei
suoi figli; nessuna nostra parola,
nessun nostro desiderio è perduto;
nessuna nostra sofferenza, nessuna
nostra pena è inutile; tutto e tutti
Maria raccoglie e anche presenta
oggi all’altare del cielo».
Infine il segretario di Stato ha
commentato il brano del Vangelo
che descrive la scena ai piedi della
croce di Gesù. «Anche noi, spiritualmente, riviviamo quell’esperienza — ha concluso — assieme a Maria e al giovane discepolo Giovanni; noi sani e malati; in modo particolare voi, malati, che portate sul
corpo i segni della malattia come
Gesù portava i segni della croce.
Oggi ancora una volta contempliamo quel Crocifisso. In verità, quella croce non era la fine, anzi era la
sconfitta del male, la sconfitta
dell’egoismo. In Gesù crocifisso
vinceva l’amore per Dio e per gli
altri». Tra i concelebranti il presidente generale dell’Oftal, monsignor Angelino e i monsignori Piechota e Lucchini della segreteria
particolare del cardinale. Il rito è
stato diretto da monsignor Karcher, cerimoniere pontificio, assistito dai monsignori Sanchirico e
Kwambamba.
L’arcivescovo Fisichella a un convegno sulla nuova evangelizzazione
Per una testimonianza cristiana convincente
«Oggi più di ieri la Chiesa dev’essere testimone della salvezza» e «saper creare nuovi segni» capaci di convincere anche ai nostri giorni «quanto il Vangelo sia un’ancora in grado
di radicare il senso dell’esistenza». E questa è
anche una delle maggiori sfide che interpellano il Pontificio Consiglio per la promozione
della Nuova Evangelizzazione, secondo quanto affermato dal suo presidente, l’arcivescovo
Rino Fisichella, in occasione di un convegno
svoltosi lunedì 12 marzo, alla Pontificia Università della Santa Croce, in vista dell’anno
della Fede e del prossimo Sinodo dei vescovi.
Approfondendo il tema dei lavori «Comunicazione della fede e testimonianza cristiana», il presule è partito dal presupposto che
«la testimonianza rappresenta l’ultima parola»
pronunciata dal cristiano «per dare credibilità
alla sua fede, consapevole che essa equivale a
offrire in dono la propria vita per amore».
Perché — ha aggiunto «i discorsi e la dialettica delle parole potranno spesso vincere l’altro;
la testimonianza, al contrario, sarà in grado di
convincere».
Dopo aver ricostruito il significato storico,
giuridico e semantico del termine testimonianza, monsignor Fisichella ne ha individuato i tre elementi fondamentali: anzitutto il fatto riferito, poi il soggetto che lo afferma e, infine, i destinatari. «Spesso — ha avvertito — si
è portati a dare maggior importanza al contenuto, senza considerare la responsabilità di
chi riferisce. Il valore della testimonianza, invece, si specifica proprio in questa relazione
che la differenzia da altre forme di comunica-
zione. Il contenuto testimoniato non può prescindere dal considerare il testimone. Nella testimonianza non esiste delega».
Del resto — ha proseguito nella sua riflessione il presidente del dicastero per la Nuova
Evangelizzazione — la Sacra Scrittura utilizza
la categoria della testimonianza in maniera ricca e pluriforme, soprattutto nel Vangelo di Giovanni,
dove «Cristo è il testimone
perfetto e fedele del Padre» ed «è nello stesso
tempo testimone e testimonianza, perché
in Lui l’essere rivelazione e rivelatore
s’identificano». Di
questo «sono testimoni privilegiati gli
apostoli che hanno
vissuto in intimità
di vita con Lui; loro
stessi sono inviati nel
mondo come testimoni
di ciò che Egli ha compiuto».
Quindi monsignor Fisichella ha elencato alcune caratteristiche della testimonianza, così come
emergono dalla Scrittura e soprattutto dai
Vangeli. Primo: il testimone non è una persona qualsiasi, al contrario è depositario di una
chiamata che lo abilita alla missione della testimonianza. Quest’ultima non è concepita
come un’attestazione per se stessi; piuttosto, è
realizzata per essere recepita e giudicata da altri. Essa, poi, rappresenta un forte impegno
di vita, anzi è la vita stessa che testimonia. Infine la testimonianza non è da considerare come un’iniziativa dell’uomo, piuttosto è dono
gratuito di Dio, che sceglie, elegge e abilita.
Infine nell’ultima parte del suo intervento l’arcivescovo ha messo in luce le implicazioni della testimonianza per questo la
nuova evangelizzazione.
Dal concilio Vaticano II
in poi, tutto il magistero della Chiesa ha
mostrato quanto i
testimoni siano «insostituibili e necessari» per la nuova
evangelizzazione e
quanto la testimonianza sia «vitale
per la Chiesa nello
svolgimento della sua
missione nel mondo»;
anzi essa «è la prima via
da percorrere. L’annuncio
del Vangelo di Gesù richiede
testimoni convinti, capaci di mettere la propria esistenza a servizio della
verità di un annuncio che può essere accolto
solo tramite loro». Poi, «una volta colto il valore della testimonianza, si è introdotti in una
personale ricerca di verità, che possiede tappe
che devono essere percorse. Il testimone fa da
apripista, ma la sua opera continua. La vita
della comunità e la vita sacramentale sono
spazi di nuova evangelizzazione mediante i
quali si fa di nuovo appello alla conversione e
alla fede».
In secondo luogo — ha proseguito il presule — «la testimonianza crea una relazione tra i
soggetti. Quando il testimone annuncia i contenuti della fede gioca in prima persona la
sua credibilità. Nell’annunciare, infatti, egli
deve essere in grado di far percepire la verità
dei contenuti e la convinzione dell’avere trovato un senso alla sua vita. Quando il testimone è veritiero diventa immediatamente degno di fede e per questo credibile». E «non
sfugge da questo orizzonte neppure chi riceve
la testimonianza. Egli, infatti, non solo percepisce la credibilità del testimone, ma è chiamato anche a giudicare il grado di sincerità
che questi esprime. Solo in questo modo potrà seguirlo».
Da qui per il relatore «l’assunzione del testimone come nuovo evangelizzatore» acquista «un valore peculiare», soprattutto «in un
periodo come il nostro, con un tasso di individualismo mai sperimentato prima». In definitiva — ha concluso — «la vita del nuovo
evangelizzatore dovrà essere trasparente con il
messaggio che porta con sé, pena la non percezione della verità del Vangelo», in quanto
«la nuova evangelizzazione ha bisogno di testimoni capaci di evidenziare come la potenza
dello Spirito sia ancora oggi capace di trasformare il cuore dando coraggio e passione per
la verità», anche «in un contesto di estesa indifferenza che porta inevitabilmente verso forme di agnosticismo e mancanza di fede».
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