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INDICE
1.1 – L’INFANZIA..............................................................................................................................6
1.2 – LE TRE ADOLESCENZE................................................................................................................8
1.3 – GLI ANNI DEI CAFÉS.................................................................................................................13
1.4 – DA «ORPHEU» AD «ATHENA».................................................................................................18
1.5 – LA SOLITUDINE E LA MORTE......................................................................................................23
1.6 – ARCHEOLOGIA PESSOANA..........................................................................................................26
2.1 – OPERE ORTONIME ED ETERONIME...............................................................................................31
2.2 – QUALI NOMI?.........................................................................................................................40
2.3 – ALBERTO CAEIRO....................................................................................................................47
2.4 – RICARDO REIS........................................................................................................................56
2.5 – ÁLVARO DE CAMPOS...............................................................................................................63
2.6 – ANTÓNIO MORA.....................................................................................................................74
2.7 – FERNANDO PESSOA ORTONIMO...................................................................................................89
3.1 – LE DUE CORRENTI DEL NEOPAGANESIMO....................................................................................106
3.1.1 – La corrente ortodossa..............................................................................................110
3.1.2 – La corrente eterodossa.............................................................................................118
3.2 – LA FINZIONE DEL “DRAMA EM GENTE”......................................................................................129
3.2.1 – L’arte è espressione drammatica.............................................................................133
3.2.2 – Tra verità e finzione..................................................................................................144
3.3 – IL NEOPAGANESIMO COME TEORIA ESTETICA ..............................................................................149
3.3.1 – Valenza artistica di una patologia............................................................................151
3.3.1 – La religione della coscienza plurale........................................................................160
A.
FERNANDO PESSOA.........................................................................................................................169
A.1.1 Opere edite in Portogallo e negli altri Paesi lusofoni................................................169
A.1.2 Opere edite in Italia....................................................................................................171
B.
GENERALE.....................................................................................................................................193
1
“Sê plural como o universo!”.
Fernando Pessoa
“Anche le cose sono parole,
scrigni di sillabe divine: parole
«dimora dell’Essere», e voi
gli scribi del mistero, o poeti.
Un solo verso – perla
rara che le cose in recessi
impervi racchiude
geloso –, un solo verso,
fessura sull’infinito come
il costato aperto di Cristo –, anche
un solo verso può fare
«più grande l’universo»”.
David Maria Turoldo
2
INTRODUZIONE
Il presente studio si propone di analizzare il progetto artistico del poeta
portoghese Fernando Pessoa (1888-1935).
La tesi che si intende dimostrare è che tale progetto sia espresso narrativamente attraverso l’organizzazione, da parte dell’autore, del cosiddetto “movimento neopagano portoghese”. A tale scopo ho articolato il discorso in tre capitoli. Il
primo è dedicato a chiarire le coordinate spazio-temporali e culturali nelle quali si
compie l’opera del Poeta. Il secondo analizza più in profondità le singole parti del
racconto, “dramma”, che Pessoa organizza attraverso il ricorso a personalità fittizie (i cosiddetti “eteronimi”). Il terzo e ultimo capitolo mette in relazione le personalità fittizie col tema del “neopaganesimo” e, quindi, con le teorie estetiche dell’autore.
Scorrendo la biografia del poeta, avremo modo di capire quanto egli fosse
conosciuto in vita e quanto effettivamente avesse pubblicato. Ciò che emerge dal
suo famoso baule, nel quale era solito conservare tutti i suoi scritti e che fu ritrovato soltanto dopo la morte, colpisce, più che per la grande quantità di fogli, per
l’ingente numero di nomi differenti con i quali questi sono firmati. Non si tratta,
però, dell’utilizzo di semplici pseudonimi, ma dell’invenzione di eteronimi in qualità di personalità altre, fittizie, che rappresentano una diversità di contenuti e stili
rispetto all’autore originale. Di tutti i settantadue nomi che appaiono dal baule
solo quattro possono considerarsi eteronimi a tutti gli effetti. Caratterizzati da un
medesimo grado di completezza, Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos e António Mora sono uniti da un comune progetto: la restaurazione del “paganesimo”.
Ma non solo gli eteronimi possono considerarsi personalità fittizie: in un
senso che capiremo meglio nel secondo capitolo, lo stesso Fernando Pessoa non
esiste che come assenza, come racconto a sua volta dei suoi eteronimi. E anch’egli
è impegnato nella costituzione del “movimento neopagano”.
Analizzate individualmente le problematiche di ciascuna di queste cinque
personalità, le si metteranno in relazione proprio alla costituzione del neopagane3
simo. Questo ci permetterà di risalire al significato che l’arte ha per Fernando Pessoa e alla sua aspirazione ad essere un poeta drammatico, in quanto è nel dramma
che si realizza il maggior grado di spersonalizzazione dell’artista. Una spersonalizzazione che non è solo voluta, ma forse anche subita come patologia e che sta
ad indicare una frammentarietà costitutiva della coscienza del Poeta. Il neopaganesimo, perciò, quale salvaguardia della pluralità dei racconti, e tali si configurano
gli eteronimi, si dimostra essere la narrazione del tentativo di rappresentare la pluralità della coscienza di Pessoa. Un tentativo, un progetto, che però fallisce nell’impossibilità tragica di esprimere fino in fondo questa pluralità coscienziale di
base.
Pessoa sopravvive così come un “dio minore” che, nel tentativo di riprodurre la creazione della pluralità, mantenendola plurale, prerogativa del vero Dio,
si scopre umano, troppo umano, per essere l’inizio di un nuovo cosmo, tanto che
tutto gli sfugge dalle mani in una dolorosa deflagrazione di sè.
Lo studio filosofico di Pessoa si rende necessario, quindi, come ricostruzione del progetto dell’artista in relazione alle sue teorie estetiche. Il tutto sempre
secondo quel nobilissimo principio di António Mora per cui “o que é preciso é
compenetrarmo-nos de que, na leitura de todos os livros, devemos seguir o autor e
não querer que elle nos siga”1. A tal proposito sono stati fatti interagire tutti i testi
di Pessoa che potessero farci penetrare nel progetto della sua arte: poesie, prosa
“neopagana”, appunti personali, pagine di diario e lettere.
Il Poeta portoghese ha scritto su ogni tipo di argomento. Da intellettuale ha
preso parte alle querelles politiche del suo tempo, come da appassionato di occultismo si è interessato di simbologia, cabbala e gnosi. Tutto ciò sarà accennato di
volta in volta, quando se ne presenterà l’occasione, in riferimento all’analisi della
tematica principale. La scelta di concentrarsi sul “neopaganesimo, infatti, è ciò
che ci permetterà di entrare nel labirinto della coscienza e dell’arte di Fernando
Pessoa.
1
“Ciò che è necessario è compenetrare, nella lettura di ogni genere di libro, dimodoché dobbiamo
seguire noi l’autore e non volere che sia lui a seguirci”, 20-81v, F. Pessoa, Obras de António Mora.
Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. VI, edizione di Luís Filipe B. Teixeira, Imprensa
Nacional – Casa da Moeda, Lisboa, 2002, p. 370.
4
NOTE GENERALI
All’interno dello studio si sono utilizzati alcuni particolari segni grafici in
riferimento all’edizione degli scritti di Fernando Pessoa. Il segno (…) sta ad indicare uno spazio lasciato in bianco dall’autore. Il segno /* / mette in rilievo una lettura ipotizzata dal curatore dell’edizione dell’originale pessoano.
Inoltre, per i documenti dell’edizione critica, in coda alle citazioni, si è
sempre fornito il rimando numerale all’Archivio di Fernando Pessoa conservato
presso la Biblioteca Nazionale di Lisbona.
Tutti i testi sono stati riportati nella loro stesura originale e le traduzioni
sono state realizzate da me medesimo. In caso contrario se ne riporta l’indicazione
del traduttore in nota.
Le ricerche bibliografiche sono state effettuate, per la quasi totalità, durante un mio soggiorno di tre mesi a Lisbona, grazie alla borsa di studio del progetto
“Interstudy – Azione tesi all’estero”, finanziato dall’Università Cattolica del Sacro
Cuore, nell’ambito di un progetto formativo promosso dal Fondo Sociale Europeo, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dalla Regione Lombardia.
È durante la mia permanenza a Lisbona che ho avuto la possibilità di conoscere il prof. Luís Filipe B. Teixeira, dell’Universidade Lusófona de Humanidades
e Tecnologias, che mi ha fornito notizie fondamentali circa il lavoro da svolgere e
con pazienza e disponibilità ha discusso personalmente e via mail quanto venivo
maturando. A lui il mio sincero ringraziamento.
5
CAPITOLO I
LE COORDINATE IMPRESCINDIBILI
“I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia”.
(Octavio Paz, da Ignoto a se stesso)
1.1 – L’infanzia
Fernando António Nogueira Pessôa2 nasce a Lisbona il 13 giugno 1888, figlio legittimo di Joaquim de Seabra Pessoa e di Maria Madalena Pinheiro Nogueira. Nasce alle 15 e 20 del giorno in cui ricorre la festività di Sant’António. I suoi
primi vagiti vengono emessi in un appartamento al quarto piano del Largo di San
Carlo, tra la Igreja dos Martires e il Teatro São Carlo. E, come scrive João Gaspar
Simões nella sua biografia di Fernando Pessoa, “não se nasce por acaso entre um
teatro e uma igreja”3.
Il padre, Joaquim de Seabra Pessoa (1850-1893), nato a Lisbona, figlio del
generale Joaquim António de Araújo Pessoa e di Dionísia Seabra, era un modesto
impiegato della Segreteria di Stato e, appassionato di musica, collaborava alla sezione di critica musicale del «Diário de Notícias». La famiglia paterna aveva origini ebraiche. Un antenato, Sancho Pessoa da Cunha, originario di Montemor-o-
2
L’accento circonflesso sulla “o” sarà tolto dallo stesso Fernando Pessoa, come spiega all’amico
Mário de Sá-Carneiro, in una lettera del 4 settembre 1916: “Vou fazer uma grande alteração na
minha vida: vou tirar o acento circunflexo do meu apelido. Como [...] vou publicar umas coisas em
inglês, acho melhor desadaptar-me do inútil ^, que prejudica o nome cosmopolitamente” (“Farò un
grande cambiamento nella mia vita: toglierò l’accento circonflesso dal mio cognome. Poiché [...]
pubblicherò alcune cose in inglese, credo sia meglio liberarmi dell’inutile ^, che pregiudica il
nome cosmopolitamente”), Fernando Pessoa, Correspondência. 1923-1935, edizione a cura di
Manuela Parreira da Silva, Assírio & Alvim, Lisboa, 1999, p. 220.
3
“Non si nasce per caso tra un teatro e una chiesa”, João Gaspar Simões, Vida e obra de Fernando
Pessoa. História duma geração, Publicações Dom Quixote, Lisboa, 19875 (I ed. 1950), p. 38.
6
Velho, subì anche un processo dall’Inquisizione di Coimbra nel 1706 perché cristão-novo4.
La madre, Maria Madaleina Pinheiro Nogueira (1862-1925), originaria
delle isole Azzorre e figlia del consigliere Luís António Nogueira, famoso giureconsulto, e di Madalena Xavier Pinheiro, era una donna molto colta. Parlava il
francese, l’inglese, il tedesco e il latino. Nella famiglia materna scorreva sangue di
“fidalgos” (“nobili”) e questo spiega perché Pessoa, in una nota biografica scritta
da lui stesso il 30 Marzo 1935, dirà che i suoi ascendenti generali erano una mistura di nobili ed ebrei5.
Gli anni dell’infanzia furono anni relativamente felici, dove l’unica tensione familiare fu data dalla presenza, in casa del Poeta, della nonna paterna Dionísia, che soffriva di gravi turbe psichiche. Ad allietare quegli anni contribuisce anche l’arrivo, nel gennaio del 1893, di Jorge, fratello di Fernando e secondogenito
della famiglia Pessoa.
Mentre appunto la famiglia del futuro Poeta gode di una certa serenità affettiva ed economica, non si può dire altrettanto del Portogallo, duramente impegnato in quegli anni, sotto il regno (1861-1889) di Dom Luís I, a fronteggiare gli
inglesi sul terreno delle colonie africane. Nel 1890 gli inglesi minacciarono con
un ultimatum i portoghesi, se questi non avessero cessato subito le spedizioni volte a congiungere i territori dell’Angola e del Mozambico. Dom Luís accettò l’ultimatum, al prezzo di un malcontento generale dei suoi sudditi che lo accusarono di
debolezza. Chi risultò favorito da questa situazione furono i repubblicani, che al
momento opportuno seppero come sfruttare la perdita di credibilità della Monar-
4
Quando nel 1492 la Corona di Spagna, con i re Fernando d’Aragona e Isabella di Castiglia,
espulse gli ebrei dal suolo spagnolo, gran parte di questi cercò rifugio nel vicino Portogallo, che in
un primo momento li accolse. Ma anche qui la presenza di un gran numero di ebrei non parve conveniente al Re cattolico. Così nel 1496 Dom Manuel I decretò la cacciata degli ebrei dal suolo lusitano, offrendo loro la possibilità di rimanere a patto di convertirsi al cattolicesimo. Questa comportava inoltre la sostituzione del nome originario ebraico con un nome portoghese. Gli ebrei convertiti furono soprannominati “cristiani-nuovi”. Nel 1536 l’Inquisizione portoghese iniziò, però, una
nuova opera di persecuzione e cacciata di tutti i “cristiani-nuovi”, accusati di professare in segreto
la fede ebraica e di praticarne i riti.
5
“Ascêndencia geral – misto de fidalgos e de judeus” (“Ascendenza generale – misto di nobili ed
ebrei”), F. Pessoa, Obra em Prosa de Fernando Pessoa. Escritos íntimos, cartas, e páginas
autobiográficas, introduzione, organizzazione e note di António Quadros, Publicações EuropaAmérica, Mem Martins, 1986, p. 252.
7
chia, organizzando nel 1910 il colpo di stato che doveva instaurare nel paese la
Repubblica.
Ma anche i giorni felici della famiglia Pessoa sembrano volgere al termine.
Il padre del futuro Poeta era malato, infatti, da lungo tempo, seppur lievemente, di
tubercolosi. Così tra gennaio e giugno del 1893 Joaquim Pessoa, in seguito ad una
forte crisi, è costretto ad abbandonare la casa della sua famiglia per trasferirsi
presso la residenza del dottor Korth, suo grande amico. La madre, presa tra la cura
del marito malato e dal figlio appena nato, affida Fernando alle attenzioni delle
due domestiche della casa di Largo San Carlo, Joana ed Emília.
Il 12 luglio 1893 i medici comprendono che per Joaquim c’è poco da fare e
si prende la decisione di riportarlo nella casa di famiglia, dove, alle 5 del mattino
del 13 luglio, muore, stroncato dall’ultimo attacco di tisi. Restano la moglie e i
due figli, di cui il secondo, Jorge, non gode di ottima salute.
La morte del padre di Pessoa lascia la famiglia non solo nello sconforto,
ma anche nell’impossibilità di mantenere il precedente stile di vita. La madre è
costretta a mettere all’asta i mobili e a cercare un’abitazione più modesta.
Il 1894 non comincia meglio. Il 2 gennaio muore anche il fratellino più
piccolo di Fernando, Jorge. Sembra davvero sia finita un’epoca, almeno quella in
cui, per usare un’espressione dell’eteronimo Álvaro de Campos, “festejavam o dia
dos meus annos, / eu era feliz e ninguem estava morto”6.
1.2 – Le tre adolescenze
Alla fine del 1894, la madre di Fernando Pessoa conosce il comandante
João Miguel Rosa, console ad interim in Sud Africa, che sposa per procura il 30
dicembre 1895. Così Fernando e sua madre, la mattina del 6 gennaio 1896, si imbarcano per raggiungere il nuovo capo-famiglia a Durban. Comincia quella che
6
“Festeggiavano il mio compleanno, / io ero felice e nessuno era morto”, Anniversario, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. II, edizione di Cleonice Berardinelli, Imprensa Nacional – Casa da Moeda, Lisboa, 1990, p. 217.
8
Pessoa, in una lettera a José Osório de Oliveira7, chiama la sua “prima adolescenza”, quando “vivia e era educado em terras inglesas”8.
A otto anni, il primo contatto scolastico con la lingua inglese avviene nel
Convento dei Frati irlandesi della West Street di Durban. Successivamente, nell’aprile del 1899, si immatricola alla Durban High Scool.
Nel frattempo, dal secondo matrimonio di Madalena Pinheiro col console
Rosa, nascono due bambine, Henriqueta Madalena (1896) e Madalena (1898). Nel
1900 la famiglia si allarga ancora con la nascita di Luís Miguel.
Pessoa è un ottimo studente e, sebbene nella sua famiglia si mantenga ancora l’usanza di parlare in portoghese, impara in fretta la lingua inglese. A
riguardo, Simões afferma che Pessoa “assimilara tão profondamente o novo
idioma que não só o falava como se fosse um colono inglês de origem londrina”9,
ma l’aveva fatta diventare la lingua della “propria vida mental, pensando, falando
e escrevendo como se, em verdade, nunca tivesse pensado, falado e escrito em
quelquer outra língua”10. Ed è proprio dalla conoscenza dell’inglese che il Poeta
trarrà una delle sue principali fonti di sostentamento, in qualità di traduttore di lettere commerciali.
Negli anni della “prima adolescenza”, sarà fondamentale la scoperta di
Dickens, tanto che proprio un suo testo, il Pickwick Paper, sarà letto e riletto dal
Poeta anche in età adulta, a ricordo di quel tempo felice.
Nel giugno del 1901 João Miguel Rosa viene nominato console effettivo in
Sud Africa. Di lì a poco, però, muore la secondogenita Madalena. Forse anche per
questo la famiglia, nell’Agosto, si imbarcherà per ritornare in Patria per un breve
periodo, portando con sé il cadavere della figlioletta affinché venga seppellito in
Portogallo.
7
La lettera, destinata al giornalista e saggista José Osório de Oliveira, è priva di data di invio. Sia
João Gaspar Simões nella già citata Vida e Obra de Fernando Pessoa (p. 67), sia il volume delle
lettere di Fernando Pessoa a cura di Manuela Pereira da Silva (Correspondência. 1923-1935, cit.,
p. 278 e p. 453) attribuiscono la missiva al 1932.
8
“Quando vivevo ed ero educato in terra inglese”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p.
278.
9
“Aveva assimilato così profondamente la nuova lingua che non solo la parlava come se fosse un
colono inglese di origine londrina”, João Gaspar Simões, Vida e obra de Fernando Pessoa. História duma geração, cit., p. 68.
10
“Propria vita mentale, pensando, parlando e scrivendo come se, in verità, non avesse mai pensato, parlato e scritto in altra lingua”, ibid., p. 69.
9
A Lisbona, appena quattordicenne, Pessoa pubblica la sua prima poesia,
Quando a dor me amargurar (Quando il dolore mi affligge), sul giornale «O Imparcial», che lo definisce bambino “simpatico e irrequieto”, i cui versi “muito promettem do talento do esperançoso poeta”11.
A settembre la famiglia deve imbarcarsi nuovamente per Durban. Comincia allora la “seconda adolescenza” di Fernando Pessoa.
Quando, però, tutti si apprestano, al Cais di Terreiro do Paço in Lisbona, a
salire sulla nave diretta in Sud Africa, il quattordicenne Fernando scompare. Verrà
ritrovato, dopo molte preoccupazioni dei suoi familiari, sdraiato in una cabina, rapito dalla pagina di un giornale, intento a risolvere una sciarada. Come se nulla
fosse accaduto.
A Durban si iscrive alla Commercial School e nel dicembre del 1903 sostiene l’esame di ammissione all’Università del Capo di Buona Speranza. Su 899
candidati si classifica primo e vince la prima edizione del Queen Victoria Memorial Prize, per un saggio in lingua inglese. È ammesso così alla Facoltà di Lettere,
pur continuando a frequentare la Durban High School, alla quale si era reimmatricolato nel febbraio del 1904. A quell’epoca, infatti, e in quelle regioni, quando
c’era una sola Università per Stato, questa diventava piuttosto l’ente preposto ad
esaminare la preparazione degli studenti, che comunque potevano studiare nelle
scuole dell’insegnamento secondario, frequentando classi corrispondenti ai differenti livelli universitari.
Pessoa, già addentro ormai alla letteratura inglese, legge Shakespeare, Milton e i poeti del periodo romantico: Byron, Shelley, Keats e Tennyson. Apprezza
inoltre Edgar Allan Poe, Carlyle e Pope. Su tutti, però, “dominaram meu espírito
Shakespeare e Milton”12.
Nell’agosto del 1905 ritorna in Portogallo con l’intenzione di iscriversi alla
Facoltà di Lettere dell’Università di Lisbona.
11
“I cui versi molto promettono del talento di speranzoso poeta”. La poesia di Fernando Pessoa,
con il breve commento del giornale, viene pubblicata per la prima volta in «O Imparcial», Ano II,
n. 433, 18 Julho de 1902, e ripubblicata in «Revista da Biblioteca Nacional», Lisboa, s. 2, vol. 3, n.
3, Setembro-Dezembro 1988, p. 99.
12
“Dominarono il mio spirito Shakespeare e Milton”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit.,
p. 279.
10
Lisbona, in questi dieci anni di soggiorno sud-africano, non gli sembra certo cambiata molto, anzi, dal punto di vista politico, addirittura peggiorata. La situazione economica del Paese è quasi al collasso, con i lavoratori che organizzano
scioperi durissimi, quasi ogni giorni. Il re Dom Carlo I (1889-1908), incapace di
resistere alle pressioni inglesi contro l’espansione coloniale in Africa del Portogallo, appare sempre di più incapace di gestire la crisi economica e di unire i portoghesi intorno a quell’idea forte di nazione che, da sempre, aveva permesso loro di
affrontare dignitosamente i momenti più bui della storia.
“No que posso chamar a minha terceira adolescência, passada aqui em
Lisboa, vivi na atmosfera dos filósofos gregos e alemães, assim como na dos
decadentes franceses, cuja acção me foi subitamente varrida do espírito pela
ginástica sueca e pela leitura da Dégénérescence, de Nordau”13, dice Pessoa di sé.
Oltre a frequentare la Facoltà di Lettere, grazie all’eredità della nonna paterna
Dionísia, defunta l’agosto del 1907, il giovane Fernando tenta di avviare una piccola attività imprenditoriale: apre la tipografia Ibis, destinata, però, al fallimento
in poco tempo. Come in poco tempo abbandonerà l’Università.
Lontano dalla famiglia, solo, Pessoa, per vivere, comincia a tradurre lettere
commerciali. Il giovane lisboeta, però, coltiva sempre la passione per la poesia e
per la critica letteraria e non può tenersi lontano dai dibattiti politico-culturali che
animano il Portogallo in quel periodo.
A due anni dalla caduta della monarchia (5 ottobre 1910), infatti, i problemi per il Portogallo sembrano lontani da una soluzione e ogni partito o corrente
politica, filosofica o letteraria propone le sue ricette. Tra questi, affascinò Pessoa
il movimento “saudosista”14, di rinnovamento dello Stato più per l’azione letteraria
e filosofica che non per l’azione politica.
13
“In quella che posso chiamare la mia terza adolescenza, passata qui a Lisbona, ho vissuto nell’atmosfera dei filosofi greci e tedeschi, così come in quella dei decadenti francesi, la cui azione
mi è stata prontamente spazzata dallo spirito grazie alla ginnastica svedese e alla lettura della Dégénérescence di Nordau”, Ibid., p. 279.
14
Il “saudosismo” (da “saudade”, in italiano “nostalgia”) fu quel movimento nazionalista portoghese, poetico e filosofico, di carattere simbolista, che nei primi anni del Novecento ebbe come
rappresentante l’associazione della “Renascença Portuguesa”, il cui organo di stampa era la rivista
«A Águia». Il saudosismo si proponeva di cercare le ragioni del rinnovamento nelle radici dell’anima portoghese, criticando sia le soluzioni materialistiche dei socialisti, sia il positivismo, sia le
pretese di potere del vecchio regime.
11
Se la prima poesia pubblicata risale a quando Pessoa aveva quattordici
anni, il suo vero esordio letterario avviene con l’articolo A Nova Poesia Portuguesa Sociologicamente Considerata15 (La nuova poesia portoghese considerata dal
punto di vista sociologico) dell’aprile 1912, pubblicato proprio sulle pagine della
rivista saudosista «A Águia»16.
Pessoa ravvisa, nella vitalità creatrice della nuova generazione letteraria
portoghese, i segni della nascita imminente di un “Supra-Camões”17, un “grandepoeta”, e questi non sarebbe stato che il bagliore di un periodo di prosperità per il
Portogallo, sotto tutti i punti di vista, poiché la corrente letteraria “precede sempre
a corrente social nas épocas sublime de uma nação”18.
15
Oggi in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, edizione di Fernando Cabral Martins,
Assírio & Alvim, Lisboa, 2000, pp. 7-17.
16
«A Águia», rivista di arte, scienza, filosofia e critica sociale, uscì alle stampe dal 1910 al 1932 e
vide il periodo di maggior prosperità sotto l’influenza di Teixeira de Pascoaes (1912-1916). Gli
esponenti più vivaci, oltre Teixeira de Pascoaes, furono il filosofo Leonardo Coimbra, il critico
António Sergio e i poeti Jaime Cortesão, Mário Beirão e Afonso Lopes Vieira.
17
Luís Vaz de Camões (1524-1580) è considerato il più grande poeta della letteratura portoghese.
Nato, con molta probabilità a Lisbona, da una famiglia di nobili decaduti, ricevette un’ottima educazione presso uno zio a Coimbra. Fu introdotto successivamente nella corte reale e frequentò così
in gioventù gli ambienti dell’aristocrazia lisboeta. I due anni del servizio militare lì passò in Marocco e qui, in battaglia, perse un occhio. Nel 1552 a causa di una rissa, in cui ferì un funzionario
di palazzo, fu incarcerato. L’anno successivo, in cambio del condono della pena, fu inviato nelle
Indie. Non ritornerà più in patria fino al 1570. In questi anni, di alterne miserie e fortune, viaggiò
moltissimo tra le Indie e l’Africa e raccolse così, sul campo, tutto il materiale poetico per il suo capolavoro, Os Lusíadas (I Lusiadi). Col pretesto narrativo del viaggio di Vasco da Gama
(1497-1499), Camões vi narra la storia del Portogallo fino all’epoca della famosa spedizione di
circumnavigazione dell’Africa. Quello che accadrà fino ai giorni del poeta viene raccontato da altri
personaggi, per mezzo di profezie.
Il manoscritto, scampato ad un naufragio del suo autore, fu pubblicato a Lisbona nel 1572 e letto
in presenza del re Dom Sebastião, che gli procurò una pensione triennale. Ma nonostante ciò, Camões morì nel 1580 in miseria e con lui si spense il grande Portogallo che aveva narrato, occupato
ormai dalle truppe spagnole.
18
“Precede sempre la corrente sociale nelle epoche sublimi di una nazione”, F. Pessoa, Crítica.
Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 16 (corsivo dell’autore).
12
1.3 – Gli anni dei cafés.
L’articolo del “Supra-Camões” procura al giovane Fernando l’accusa di
megalomania, perché si pensa che il Poeta indichi se stesso come “Messia” della
nuova generazione di scrittori.
Contemporaneamente, cominciano a deteriorarsi anche i rapporti con “Renascença portuguesa”. Pessoa nel marzo del 1913 pubblica un feroce articolo contro uno dei maestri di questo movimento, Afonso Lopes Vieira, che ha scritto da
poco un libro per bambini: Bartolomeu Marinheiro (Il marinaio Bartolomeo). Fernando accusa di una colpa gravissima chi fa della nozione di Patria il proprio credo letterario e politico:
“E, por último, para tudo de nocivo ser, o sr. Lopes Vieira é até anti-pedagógico, porque
quem escreve
Que era de antes o mar? Um quarto escuro
Onde os meninos tinham medo de ir,
merece uma inquisição de professores.
Educados na estupidez pela leitura das obras infantis do sr. Lopes Vieira, levados ao antipatriotismo pelo inevitável desdém que um livro como o Bartolomeu Marinheiro leva a ter pelo
navegador que ali aparece vestido de bebé de Carneval, cheios de fobias por lhes terem sido
metaforizadas na infância coisas como que um quarto escuro é logicamente terrível, os homens do
Portugal de amanhã (adoptados escolarmente, como tudo o dizemos neste artigo leva a crer que
sejam, os livros do sr. Lopes Vieira) terão por Shakespeare o sr. Júlio Dantas, por Shelley o sr.
Lopes Vieira... e serão espanhóis”19.
19
“E infine, affinché sia totalmente nocivo, il sig. Lopes Vieira è perfino anti-pedagogico, perché
chi scrive: «Che cosa era innanzitutto il mare? Una stanza buia / Dove i bambini avevano paura di
andare», merita una inquisizione di professori. Educati nella stupidità per la lettura delle opere infantili del sig. Lopes Vieira, portati all’anti-patriotismo per l’inevitabile disprezzo che un libro
come Il marinaio Bartolomeo induce ad avere per quel navigante che lì appare vestito da bambino
di carnevale, pieni di paure per essergli stato metaforizzato nell’infanzia che una stanza oscura è
logicamente terribile, gli uomini del Portogallo di domani (adottati nelle scuole i libri del sig. Lopes Vieira, poiché da tutto ciò che diciamo in quest’articolo così sembra essere) considereranno
Shakespeare il sig. Júlio Dantas, Shelley il sig. Lopes Vieira… e saranno spagnoli”, Naufrágio de
Bartholomeu in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., pp. 79-80.
13
Eppure, nelle sue lettere al dirigente di “Renascença Portuguesa” e
segretario della rivista «A Águia», Álvaro Pinto, Pessoa continua a ripetere che
“sou quanto há de mais renascente em toda a extensão da alma”20. Cosa stava accadendo? Pessoa credeva certo in un nuovo Rinascimento, ma questo si sarebbe
dovuto manifestare nella fusione di natura e anima. Ai portoghesi spettava il compito, non di stabilire il principio d’azione presente nel coltivare il rimpianto delle
grandezze passate nell’anima di ciascuno, come avveniva per i saudosisti, ma di
unire l’esperienza del Rinascimento, per cui “a Realidade é a Alma”21, con l’esperienza del Romanticismo, per cui “a Realidade é a Natureza”22.
Pessoa si sentiva diverso dai vari Teixeira de Pascoaes23, Leonardo Coimbra e António Lopes Vieira: di fatto era di un’altra generazione, “àquela que apareceu posteriormente”24 a tutti questi.
Il distacco vero e proprio da “Renascença Portuguesa” avviene in seguito
al rifiuto della pubblicazione, alla fine del 1913, del “drama estático” O Marinheiro (Il marinaio).
Tra il 1912 e il 1914 il Poeta lisboeta aveva allargato la cerchia dei suoi
amici. Aveva conosciuto quello che sarebbe stato il suo più grande amico, il poeta
Mário de Sá-Carneiro, che morì suicida a Parigi, nel 1916. E proprio l’amico Mário, in una lettera del 3 febbraio 1913, scrive:
“O que é preciso, meu querido Fernando, é reunir, concluir os seus versos e publicá-los
não perdendo energias em longos artigos de crítica nem tão-pouco escrevendo fragmentos
20
“Sono quanto c’è di più rinascimentale in tutta l’estensione dell’anima”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 78.
21
“La realtà è l’anima”, F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 74.
Pessoa spiega il significato del “nuovo Rinascimento” nella lettera inviata, al giornalista Boavida
Portugal, a proposito dell’inchiesta letteraria effettuata dal giornale «República», tra settembre e
dicembre 1912, circa la questione del Supra-Camões e della condizione della poesia portoghese.
La lettere viene pubblicata la prima volta col titolo Inquérito à vida literária. Uma réplica ao snr.
dr. Adolfo Coelho, in «República», Lisboa, 2ª Série, n. 608, 21 setembro 1912 e ripubblicata in F.
Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., pp. 44-53 e in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e
Entrevistas, cit., pp. 68-77.
22
“La realtà è la natura”, ibid., p. 74.
23
Sulla divergenza tra Pessoa e Pascoaes si può leggere di Luís Filipe B. Teixeira l’interessante
Pascoaes/Pessoa: A origem de uma divergência ou o «caminho-de-ferro» da Saudade ao
Trascendentalismo, pubblicato in, sempre del medesimo autore, Pensar Pessoa. A dimensão
filosófica e hermética da obra de Fernando Pessoa, Lello Editores, Porto, 1997, pp. 49-76.
24
“Quella che è apparsa posteriormente a tutti questi”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922,
cit., p. 72.
14
admiráveis de obras admiráveis mas nunca terminadas. É preciso que se conheça o poeta Fernando
Pessoa, o artista Fernando Pessoa – e não o crítico só – por lúcido e brilhante que ele seja”25.
Pessoa, infatti, fino ad allora aveva pubblicato solo una poesia, benché fin
dall’infanzia ne avesse scritte numerose. Seguirà il consiglio dell’amico solo in
parte, perché pubblicherà subito due poesie, ma per tutta la vita, non pubblicherà
nessun libro di versi in portoghese, eccetto, Mensagem (Messaggio), 1934, e i versi in lingua inglese 35 Sonnets (35 Sonetti), 1918; Antinous (Antinoo), 1918 (I
ed.); English Poems I-II (Poesie inglesi I-II), 1921, con Antinous (II ed.) e Inscriptions (Iscrizioni); English Poems III (Poesie inglesi III), 1921, con Epithalamium (Epitalamio).
Le poesie pubblicate sono Paúis (Paludi) e Ó sino da minha aldeia (Oh
campana del mio villaggio) sotto il titolo unico di Impressões do Crepuscolo (Impressioni crepuscolari), sulle pagine dell’unico numero della rivista «A Renascença», nel mese di febbraio del 1914. Paúis darà il via alla corrente artistica, di breve o quasi nulla durata, del paúlismo che, insieme all’intersezionismo e al sensazionismo, sarà uno dei generi letterari inventati da Pessoa.
Libero da impegni editoriali, Pessoa incontra sempre più spesso gli amici
della sua generazione. Oltre a Mário de Sá-Carneiro, sono presenti agli incontri
della Brasileira e del Martinho26 Santa-Rita Pintor, Almada Negreiros, Luís de
Montalvor, Armando Côrtes-Rodrigues, Alfredo Guisado, António Ferro, José
Pacheco.
Il 1914 è l’anno più importante della vita di Fernando Pessoa, l’anno del
suo “giorno trionfale”, in cui nascono i tre grandi eteronomi del Poeta, Alberto
Caeiro, Ricardo Reis e Álvaro de Campos. Il giorno trionfale è l’8 marzo27, come
25
“Ciò che è necessario, mio caro Fernando, è riunire, concludere i suoi versi e pubblicarli non
perdendo energie in lunghi articoli di critica e nemmeno scrivendo frammenti meravigliosi di opere meravigliose ma assolutamente incomplete. È necessario che si conosca il poeta Fernando Pessoa, l’artista Fernando Pessoa – e non solo il critico – per lucido e brillante che sia”, Mário de SáCarneiro, Cartas de Mário de Sá-Carneiro a Fernando Pessoa, edizione a cura di Manuela Parreira da Silva, Assírio & Alvim, Lisboa, 2001, p. 40.
26
La Brasileira, era una nota catena di caffè della Baixa di Lisbona, la zona ricostruita dal Marchese de Pombal dopo il terribile terremoto del 1 novembre 1755, che distrusse quasi tutta la città.
Oggi ne rimane solo uno, nel quartiere dello Chiado, dove a far compagnia ai clienti è stata posata
una statua in bronzo di Pessoa. Il caffè Martinho, sempre nella zona della Baixa, fu chiuso invece
nel 1968.
15
il 13 gennaio 1935 scrive a Adolfo Casais Monteiro, “e nunca poderei ter outro
assim”28.
L’8 marzo 1914 il Poeta aveva appena 26 anni.
D’allora in poi Fernando farà del nascondimento e della maschera una filosofia di vita e quello che egli mostrerà del suo genio creativo al pubblico e agli
amici non sarà che parte di un’impresa strabiliante che comincerà a ri-velarsi solo
dopo la sua morte.
Questo è anche un periodo di forti crisi nevrasteniche ed è sempre in questi
anni che comincia a prendere corpo il Livro do Desassossego (Libro dell’inquietudine), la grande opera incompiuta del semi-eteronimo Bernardo Soares.
Comunque, Pessoa continua a pubblicare, seppure in maniera frammentaria, e con la nascita della rivista «Orpheu»29 la sua popolarità, come quella dei suoi
amici, crescerà sempre di più. Anche se si tratta di una popolarità legata soprattutto allo scandalo dell’avanguardia modernista del gruppo di «Orpheu».
Il primo numero della rivista esce nel marzo del 1915, con grande clamore:
“«Somos o assunto do dia em Lisboa»; sem esagero lhe digo. O escândalo é
enorme. Somos apontados na rua, e toda a gente – mesmo extra-literária – fala no
Orpheu”30 e in una lettera successiva: “Tantos e tais foram os artigos, que em três
semanas o Orpheu se esgotou – «totalmente, completamente se esgotou»”31.
27
Questa sembra essere una data piuttosto simbolica, poiché Pessoa scrive in eteronimi almeno dal
1907.
28
“Non potrò mai averne uno simile”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 343.
29
«Orpheu», rivista trimestrale di letteratura e periodico dell’avanguardia modernista portoghese
uscì in soli due esemplari tra gennaio e giugno del 1915. I direttori del primo numero (gennaiomarzo 1915) erano, per la sezione portoghese, Luís de Montalvor, e, per la sezione brasiliana, Ronald de Carvalho. I direttori del secondo (aprile-giugno 1915) erano invece Fernando Pessoa e Mário de Sá-Carneiro. La rivista, che si ispirava al simbolismo di Mallarmé, Verlaine e Pessanha, al
futurismo di Martinetti, Picasso e Withman e al super-realismo di André Breton, non si limitò solo
a reinventare queste correnti letterarie nella misura della lingua portoghese, ma, grazie al contributo fondamentale di Pessoa, produsse essa stessa nuovi stili e nuovi “ismi” quali il paúlismo, l’intersezionismo e il sensazionismo. Fecero parte del gruppo raccolto attorno alla rivista i portoghesi
Luís de Montalvor, Fernando Pessoa, Mário Sá-Carneiro, José de Almada-Negreiros, Armando
Côrtes-Rodrigues, Alfredo Pedro Guisado, Raul Leal, Santa-Rita Pintor e i brasiliani Ronald de
Carvalho e Eduardo Guimarães. Parteciparono anche Ângelo de Lima, allora internato in manicomio, e l’eteronimo di Pessoa Álvaro de Campos.
30
“«Siamo il soggetto del giorno a Lisbona»; glielo dico senza esagerazioni. Lo scandalo è enorme. Siamo indicati per strada, e tutte le persone – anche al di fuori dei letterari – parlano di «Orpheu»”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 161 (grassetto dell’autore).
31
“Tanti e tali sono stati gli articoli, che in tre settimane «Orpheu» si è esaurito – «si è esaurito totalmente e completamente»”, ibid, p. 162 (corsivo e grassetto dell’autore).
16
Nel primo numero, Pessoa pubblica finalmente la pièce teatrale O Marinheiro, rifiutata l’anno prima dai tipi di «A Águia», e pubblica anche l’eteronimo
Álvaro de Campos, con le poesie Ode Triunfal (Ode trionfale) e Opiário (Oppiario).
Pessoa è il punto di riferimento dei ragazzi di «Orpheu»32, e, se il primo
numero è legato all’esperienza della poesia paúlica, con i suoi elementi del vago,
del sottile e del complesso33, il secondo vede la creazione di un altro stile letterario, l’intersezionismo. La poesia Chuva Obliqua (Pioggia obliqua), firmata da
Fernando Pessoa, è il manifesto di questa nuova corrente, lanciata sì come
corrente, “mas não com fins meramente artísticos, mas, pensando esse acto a
fundo, como uma série de ideias que urge atirar para a publicidade para que
possam agir sobre o psiquismo nacional, que precisa trabalhado e percorrido em
todas as direcções por novas correntes de ideias e emoções que nos arranquem à
nossa estagnação”34.
Dalle paludi dell’anima, generate dall’angoscia, in Paúis, il poeta Pessoa
passa ad indagare le intersezioni del piano della realtà con quello del sogno, e più
che definire una corrente, l’intersezionismo definisce meglio ancora un processo
“for in those poems it has been my intention to register, in intersection, the mental
simultaneità of an objective and of a subjective image, such as the room a dreamer
is in and the image his dream contains”35. L’intersezionismo, quindi, si sarebbe
dovuto mostrare come il processo che ognuno avrebbe cercato di ricostruire dentro di sé, quale cifra dell’intimo rapporto nell’uomo tra mondo esteriore e mondo
32
Fernando J. B. Martinho sostiene che “Fernando Pessoa é, na realidade, o «chefe de fila» da geração do Orpheu, e como tal o reconhecem os seus companheiros de aventura” (“Fernando Pessoa
è, in realtà, il «capofila» della generazione di «Orpheu», e come tale o riconoscono i suoi compagni di avventura”). F. J. B. Martinho, Pessoa e a moderna poesia portuguesa – do “Orpheu” a
1960, Biblioteca Breve, Lisboa, 1991, p. 28. Nel testo si prosegue citando tutte le testimonianze
degli intellettuali del gruppo di «Orpheu» a riguardo dell’influenza artistica esercitata su di loro da
Pessoa.
33
Si legga a tal proposito il saggio critico di Pessoa A Nova Poesia Portuguesa no Seu Aspecto
Psicológico, oggi in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., da p. 42 a 49.
34
“Non con un fine meramente artistico, ma, pensando profondamente a questo atto, come una serie di idee che urge attirare per pubblicità affinché possano agire sullo psichismo nazionale, il quale ha bisogno di essere occupato e percorso in tutte le direzioni da nuove correnti di idee ed emozioni che ci liberino dalla nostra stagnazione”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p.
141.
35
“Poiché in queste poesie è stata mia intenzione registrare, in intersesioni, la simultaneità mentale
di un’immagine soggettiva e oggettiva, allo stesso modo come la stanza dove si trova il sognatore
e le immagini che il suo sogno contengono”, ibid., p. 193.
17
interiore. Invece Chuva Obliqua fu accolta piuttosto come il manifesto di una
scuola letteraria, la cui imitazione pedissequa era il rischio che Pessoa le voleva
evitare, quando precisò in che senso occorresse parlare di “corrente” a proposito
dell’intersezionismo.
Su queste tracce, e parallelamente agli altri due, compare, già dal primo
numero di «Orpheu», il terzo “ismo” di Pessoa, o meglio, lo rivela al pubblico il
suo eteronimo Álvaro de Campos: si tratta del sensazionismo, il cui celebre motto
è “sentire tutto in tutti i modi”. Nella lettera del 4 giugno 1915 al «Diário de Notícias», Álvaro de Campos, circa la sua Ode Triunfal, dichiara che “nem sou interseccionista (ou paúlico) nem futurista. Sou eu, apenas eu, preocupado apenas
comigo e com as minhas sensações”36.
Gli amici di «Orpheu», però, hanno risorse sufficienti solo per pubblicare
due numeri e, benché abbiano già pronto il terzo, l’avventura è destinata a concludersi. O forse no?
“De resto, Orpheu não acabou. Orpheu não pode acabar. Na mitologia dos antigos, que o
meu espírito radicalmente pagão se não cansa nunca de recordar, numa reminiscência constelada,
há a história de um rio, de cujo nome apenas me entrelembro, que, a certa altura do seu curso, se
sumia na areia. Aparentemente morto, ele, porém, mai adiante – milhas para além de onde se
sumira – surgia outra vez à superfície, e continuava, com aquático escrúpolo, o seu leve caminho
para o mar. Assim quero crer que seja – na pior das contingências – a revista sensacionista
Orpheu”37.
1.4 – Da «Orpheu» ad «Athena».
36
“Né sono intersezionista (o paúlico) né futurista. Sono io, appena io, preoccupato solo con me
stesso e con le mie sensazioni”, ibid., p. 164.
37
“Del resto, «Orpheu» non è terminato. «Orpheu» non può terminare. Nella mitologia degli antichi, che il mio spirito radicalmente pagano non si stanca di ricordare, in una reminiscenza costellata, c’è la storia di un fiume, il cui solo nome ricordo vagamente, che ad un certo momento del suo
percorso si nascondeva nella sabbia. Apparentemente morto, esso, però, più avanti – anche migliaia di chilometri rispetto a dove era scomparso – compariva un’altra volta in superficie e proseguiva, con scrupolo acquatico, il suo leggero cammino per il mare. Così voglio credere che sia – nella
peggiore delle contingenze – la rivista sensazionista «Orpheu»”, F. Pessoa, Correspondência.
1905-1922, cit., p. 172-173.
18
Un altro evento luttuoso colpisce il cuore di Pessoa. Il 26 aprile 1916, in
un Hotel di Parigi, muore suicida l’amico Mário de Sá-Carneiro. Fernando rimane
ancora più isolato, dopo che già la zia Anica, con la quale aveva vissuto gli ultimi
tre anni, era partita per la Svizzera nel novembre del 1914. Con la scomparsa di
Mário de Sá-Carneiro e la morte, nel 1918, di Santa-Rita Pintor e Amadeo de Sousa Cardoso, il gruppo di «Orpheu» si disgrega.
A poco servirà il tentativo di Almada Negreiros di mantenere in vita i propositi del gruppo con la rivista «Portugal Futurista»: ne uscirà un solo numero nel
novembre del 1917, sul quale Pessoa pubblica, a nome di Álvaro de Campos, Ultimatum, un violento attacco contro tutti i conformismi intellettuali dell’Europa
dell’epoca.
Tutto questo, mentre nel 1916 il Portogallo entrava in guerra contro la
Germania e nel 1917 inviava le prime truppe sul fronte francese agli alleati antigermanici.
Il 1917 è anche l’anno del colpo di stato del Maggiore Sidónio Pais che,
istaurata la dittatura, il 9 maggio 1918 si fa proclamare presidente della Repubblica. Ma il 14 dicembre dello stesso anno Sidónio Pais viene ucciso facendo sprofondare il Portogallo, ancora una volta, in una grande incertezza politica. Pessoa,
anch’egli entusiasta dell’esperienza “sidonista”, rimane sconvolto dall’evento.
Negli anni successivi ritornerà spesso alla questione sidonista e al problema (o auspicio) di una dittatura in Portogallo. Basti ricordare l’articolo Como organizar
Portugal (Come organizzare il Portogallo) del 1919 e la poesia À Memoria do
Presidente-Rei Sidónio Pais (In memoria del presidente-re Sidónio Pais) del 1920
e, alcuni anni più tardi, l’opuscolo O Interregno: defeza e giustificação da Dictatura militar em Portugal (L’interregno: difesa e giustificazione della dittatura militare in Portogallo) del 1928, quest’ultimo successivamente disconosciuto38.
Le sue esternazioni politiche spesso hanno messo l’uno contro l’altro i critici e gli studiosi della sua opera, chi impegnato a dimostrarne l’opposizione alla
dittatura, chi invece a sostenere l’esatto contrario, facendone un facinoroso del
38
Nel 1935 Pessoa dirà che “O folheto «O Interregno», publicado em 1928, e constituindo uma defesa da Ditadura Militar em Portugal, deve ser considerado como não existente” (“L’opuscolo Interregno, pubblicato nel 1928, che costituisce una difesa della dittatura militare in Portogallo, deve
essere considerato come non esistente”), Nota biográfica, in Obra em Prosa de Fernando Pessoa.
Escritos íntimos, cartas, e páginas autobiográficas, cit., p. 252.
19
“fascio”39. Ma non sarà questa un’altra maschera dell’uomo che diceva: “La mia
vita è la mia opera”?
Il 5 ottobre 1919 muore a Pretoria il patrigno di Fernando, il console João
Miguel Rosa. La madre del Poeta si prepara così a rientrare in patria con gli altri
figli: sbarcherà a Lisbona il 30 marzo del 1920.
Sempre nel 1920, nel mese di marzo, al davanzale di quest’opera che è
Pessoa si affaccia una donna, l’unica di cui abbiamo notizia, che ne rapisce il cuore per circa un anno. Si chiama Ofélia Queirós ed ha 17 anni.
Nelle lettere che Pessoa le scrive compare un altro eteronimo, il giocatore
di sciarade A. A. Crosse40, il quale, se avesse vinto i soldi dei concorsi del Times
ai quali partecipava, avrebbe potuto permettere agli innamorati di cambiare vita.
Insieme. Ma il “namoro”41 si interrompe misteriosamente nel novembre di quell’anno:
“O meu destino pertence a outra Lei, de cuja existência a Ofelinha nem sabe, e está
subordinado cada vez mais à obediência a Mestres que não permitem nem perdoam. Não é
necessário que compreenda isto. Basta que me conserve com carinho na sua lembrança, como eu,
inalteravelmente, a conservarei na minha”42.
Chi sono questi maestri ai quali Pessoa deve obbedienza? Pessoa attribuisce il titolo di “maestro” all’eteronimo Alberto Caeiro. Sta parlando di lui? Ma
Caeiro, per l’anagrafe fittizia inventata da Pessoa, non muore nel 1915? Si tratta
forse dei maestri di qualche ordine occulto? Nel 1915 Pessoa aveva tradotto dei
testi di esoterismo, che, come riportato in una lettera all’amico Sá-Carneiro43, ave39
A riguarda ricordo l’aspra polemica, tutta italiana, tra Antonio Tabucchi e Brunello de Cusatis.
Nell’articolo del 31 maggio 2001 apparso sul «Corriere della Sera», A. Tabucchi criticava aspramente le affermazioni di B. de Cusatis, contenute nel saggio F. Pessoa, Scritti di sociologia e teoria politica, Settimo Sigillo, Roma, 1994, che dipingono un Pessoa “fascistoide e filo-salazarista”.
40
Lettera a Ofélia Queirós del 22 marzo 1920 in F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p.
322.
41
La parola “namoro” in portoghese si riferisce al periodo di fidanzamento di due persone, precedente alla promessa di matrimonio. Con la promessa di matrimonio i due da “namorados” diventano “noivos”, “promessi sposi”, in attesa di passare a “casados”, “sposi”.
42
“Il mio destino appartiene ad un’altra Legge, della cui esistenza la piccola Ofelia non sa, ed è subordinato sempre di più all’obbedienza verso maestri che non vogliono né perdonano. Non è necessario che comprenda ciò. Basta che mi conservi con affetto nel suo ricordo, come io, immutabilmente, la conserverò nel mio”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 316.
43
Lettera a Mário de Sá-Carneiro del 6 dicembre 1915 in op. cit., pp. 181-183.
20
vano esercitato un gran fascino sul Poeta, il quale conosceva anche gli scritti dei
Rosacroce e vantava doti medianiche. È Pessoa un iniziato ai riti dell’occultismo
o di qualche loggia massonica? Fernando continua a mascherarsi. L’amore, che
trae la sua forza dalla verità e non dalla finzione, deve così ritrarsi.
Nel 1921, con alcuni amici, fonda la casa editrice Olisipo, con la quale
pubblica la seconda edizione di Antinous e poi Inscriptios ed Epithalamium. Antinous ed Epithalamium erano le prime due parti di un libro concepito, in cinque
poemi, sul fenomeno amoroso:
“Os dois poemas citados formam, com mais três, um pequeno livro que percorre o círculo
do fenómeno amoroso. E percorre-o num ciclo, a que poderei chamar imperial. Assim temos: (1)
Grécia, Antinous; (2) Roma, Epithalamium; (3) Cristianidade, Prayer to a Women’s Body; (4)
Império Moderno, Pan-Eros; (5) Quinto Império, Anteros. Estes três últimos poemas são
inéditos”44.
Nel 1922 esce la rivista «Contemporânea», con lo scopo di portare avanti
la tradizione di «Orpheu», a stabilire la continuità di quel “fiume scomparso sotto
la sabbia”. Eppure, nonostante i buoni propositi, Pessoa non potrà fare a meno di
annotare, in una lettera del 4 agosto 1923 a José Cortes-Rodrigues, che la rivista
“è, de certo modo, a sucessora de Orpheu. Mas que diferença! Que diferença!”45.
Su «Contemporânea» Fernando Pessoa pubblica il racconto O Banqueiro
Anarquista (Il banchiere anarchico), 1922; l’articolo di critica letteraria António
Botto e o Ideal Estético em Portugal (António Botto e l’ideale estetico in Portogallo), 1922; le poesie Mar Português (Mare portoghese), 1922 e O Menino da
sua Mãe (Il bimbo della mamma), 1926 e la poesia di Álvaro del Campos Lisbon
Revisited, 1923.
Nel 1923, in un’intervista rilasciata al giornalista e poeta Alves Martins,
Pessoa parla del futuro del Portogallo come della realizzazione del “quinto Impero”, riprendendo il mito dell’Antico Testamento46, narrato nel sogno di Nabucodò44
Lettera a João Gaspar Simões del 18 novembre 1930 in F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935,
cit., p. 220.
45
“È in un certo qual modo la succeditrice di «Orpheu». Ma che differenza! Che differenza!”, F.
Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 16.
46
Libro di Daniele, 2, 36-45.
21
nosor. Il profeta Daniele, che spiega il sogno al re babilonese, annuncia che “il
Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso
ad altro popolo: stritolerà ed annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per
sempre”47. Pessoa vede l’avvento di questo regno nella creazione del “Paganesimo
Superiore” da parte del popolo portoghese. Ma come creare il Paganesimo
Superiore? “Ser tudo, de todas as maneiras, porque a verdade não pode estar em
faltar ainda alguma cousa!”48 e conclude affermando che “na eterna mentira de
todos os deuses, só os deuses todos são verdade”49.
L’annuncio del “quinto Impero” sembra legarsi all’antica leggenda nazionale del ritorno del re Dom Sebastião50, morto nel 1578 nella battaglia di el-Ksar
el-Kébir, figura alla quale Pessoa si era appassionato già da alcuni anni, come dimostra la lettera del 1914 al filosofo Sempaio Bruno51. Dom Sebastião, infatti, incarnava da secoli la speranza di riscossa del popolo lusitano per un ideale transstorico di splendore, pace e dominio sugli altri popoli.
47
Libro di Daniele, 2, 44.
“Essere tutto in tutti i modi, perché la verità non può risiedere nel mancare ancora qualche
cosa!”, O Escritor Fernando Pessoa expõe-nos as suas ideias sobre os vários aspectos da arte e
da literatura portuguesas, oggi in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 199.
49
“Nell’eterna menzogna di tutti gli dei, solo gli dei sono verità”, ibid., p. 199.
50
Dom Sebastião (1554-1578), figlio di João III, re del Portogallo, e di Giovanna d’Austria, figlia
di Carlo V e di Giovanna la Pazza, ereditò il regno a soli tre anni nel 1557. La reggenza passò allora inevitabilmente alla madre fino al 1568. Il re, educato da precettori gesuiti, era cresciuto con il
sogno di convertire tutti gli infedeli e di fare del Portogallo la più forte nazione del mondo. Nel
1574 gli si presentò la doppia occasione, di convertire gli infedeli e di estendere i domini portoghesi, con le guerre di successione del Marocco. Incoraggiato da Filippo II, re di Spagna, e dal
Papa, intervenne nella lotta tra i principi ereditari arabi con un contingente di 18.000 armati. Ma il
4 agosto del 1578, presso el-Ksar el-Kébir, il suo esercitò riportò una sconfitta tremenda nella quale persero la vita 8.000 cristiani, tra cui egli stesso. Il suo corpo, però, non fu mai ritrovato. La misteriosa scomparsa del re, avvenuta alla vigilia della dominazione spagnola del Portogallo
(1580-1640), fece sorgere la leggenda che Dom Sebastião, “o Encoberto”, non fosse morto e che
un giorno sarebbe ritornato per guidare il Portogallo al comando di tutte le nazioni. Il movimento
che crede in questo avvento messianico prende il nome di “sebastianismo”.
51
L’8 settembre 1914 Fernando Pessoa scrive: “Para uma natural aptidão para os requintes das coisas simplex, como, no caso presente, o patriotismo, e também por uma indefinida veia messiânica
– já expressa em artigos em A Águia, onde o menos que se vaticina é o, agora muito próximo, aparecimento de um super-Camões, sinto que me atrai o misterioso, e porventura importantíssimo, fenómeno nacional chamado o Sebastianismo” (Per una naturale attitudine alle ricercatezze delle
cose semplici, come, nel caso presente, il patriotismo, e anche per una indefinita vena messianica –
già espressa nell’articolo apparso su «A Águia», dove il meno che si vaticina è l’apparizione, ora
molto prossima, di un grande-poeta, sento che mi attrae il misterioso, e forse importantissimo, fenomeno nazionale chiamato sebastianismo), F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., pp.
122-123 (corsivo mio). Per questo egli fa, subito dopo, esplicita richiesta, a Sempaio Bruno, di riferimenti bibliografici per approfondire la questione.
48
22
Eppure non si notano delle somiglianze anche tra l’annuncio del “SupraCamões” e quello del “Quinto Impero”? Pessoa, però, non si esprime ma chiaramente, mantenendo una commistione continua di piani tra l’artistico, il filosofico,
lo storico e il religioso.
Nel 1924 Fernando fonda, insieme a Ruy Vaz, un’altra rivista: «Athena»52.
Dalle esperienze “orfiche” di «Orpheu», dove era caratteristica la rappresentazione dello spirito moderno attraverso il rombo delle macchine e il clamore dello
scandalo, si passa ad un’esaltazione delle forme classiche dell’arte e della poesia,
più vicine all’apollineo che non al dionisiaco di «Orpheu».
Su «Athena» pubblicano per la prima volta gli eteronomi Ricardo Reis con
Odes – Livro I (Odi – Libro I), n. 1, 1924, e Alberto Caeiro con delle poesie scelte
dal O Guardador de Rebanhos (Guardiano di greggi) n. 4, 1925, e dai Poemas Inconjuntos (Poesie sciolte), n. 5, 1925.
Compaiono anche gli articoli dell’eteronimo Álvaro de Campos O que é a
Metaphysica? (Che cosa è la metafisica?), n. 2, 1924, e Apontamentos para uma
Esthetica Não-Aristotelica (Annotazioni per un’estetica non aristotelica), n. 4,
1925.
Pessoa ortonimo pubblica, invece, alcune poesie sciolte e le traduzioni del
Corvo (n. 1, 1924) di Edgar Allan Poe, de La Gioconda (n. 2, 1924) di Walter Pater e di due racconti di O. Henry (n. 3, 1924), oltre alla presentazione del primo
numero di «Athena» e a un ricordo di Mario de Sá-Carneiro (n. 2, 1924).
Appena dopo l’uscita dell’ultimo numero di «Athena», nel febbraio del
1925, il 17 marzo la madre di Fernando, Maria Madalena Nogueira, muore.
1.5 – La solitudine e la morte
In seguito alla morte della madre, le crisi depressive del Poeta si acutizzano tanto che, in una lettera del 31 agosto 1925, arriva a chiedere di essere interna52
«Athena. Revista de Arte», uscì in 5 numeri tra il 1924 e il 1925 e fu diretta da Ruy Vaz e Fernando Pessoa. Rappresentò il momento di passaggio dal primo modernismo, della rivista
«Orpheu», al secondo, quello espresso della rivista «Presença». Vi collaborarono António Botto,
Mário Saa e Raúl Leal.
23
to in manicomio53. Non sarà meno critica la situazione nel 1929 quando scriverà a
João Gaspar Simões: “Tenho estado sujeito, estes último dias, a tempestades
mentais, que conto aproveitar literariamente, mas que, enquanto se não
aproveitam, duram”54.
Nel 1926 il Poeta cambia totalmente genere di impegno e, con il cognato
Francesco Caetano Dias, passa a dirigere la «Revista de Comércio e Contabilidade». L’unica fonte di sostentamento di Pessoa, fin dall’arrivo a Lisbona, era stata
la traduzione di lettere commerciali per ditte di import-export. In questo campo,
oltre agli studi giovanili di contabilità, il poliedrico Fernando aveva sviluppato conoscenze da vero specialista.
Il 1926 è un anno cruciale per il Portogallo. Dopo il golpe militare del 28
maggio, che pone fine alla prima Repubblica, con il generale Gomes da Costa,
sale alla ribalta il generale Oscar Carmona, che obbliga Costa a lasciargli il potere
il 9 luglio. Il 15 marzo del 1928 Carmona sarà nominato presidente della Repubblica. Nella formazione del primo governo, il 18 aprile 1928, spunta il nome di
Oliveira Salazar, come ministro delle finanze.
Nel marzo del 1927 esce una nuova rivista, «Presença»55, che si richiama
anch’essa all’esperienza del modernismo di «Orpheu», nonostante nessuno dei direttori avesse preso parte al gruppo degli “orfici”.
Pessoa, nonostante non abbia mai pubblicato un libro di versi in portoghese, diventa punto di riferimento anche per i giovani di «Presença» e sul terzo numero, uno dei direttori, il poeta José Regio, arriva a scrivere che “Fernando Pessoa tem estofo de Mestre, e è o mais rico em direcções dos nossos chamados mo-
53
Non si sa se questa lettera, indirizzata a un mittente sconosciuto, sia mai stata inviata. È pubblicata in F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., pp. 87-88.
54
“Sono stato soggetto, questo ultimi giorni, a tempeste mentali, che spero di sfruttare letterariamente, ma che, mentre non si sfruttano, permangono”, ibid., p. 169.
55
Presença. Folha de Arte e crítica, uscì tra il 1927 e il 1940. Fondata a Coimbra e diretta in un
primo momento da Branquinho da Fonseca, João Gaspar Simões e José Regio, vi presero parte, tra
gli altri, il poeta e critico Adolfo Casais Monteiro e poi Edmundo de Bettencourt, Adolfo Rocha
(con lo pseudonimo di Miguel Torga), Alberto de Serpa, Luís de Montalvor, Mário Saa, Raul Leal
e António Botto. Il gruppo di artisti aveva eletto come Maestri gli intellettuali di «Orpheu» e ne
portava avanti la tradizione, ispirandosi anche, in campo europeo, a Marcel Proust, André Gide,
Paul Valéry, Guillaume Apollinaire e Luigi Pirandello. La rivista si opponeva all’appiattimento
dell’arte nel mondo accademico per un’esaltazione dell’individualità e dell’intuizione nel campo
della creazione artistica.
24
dernistas”56. João Gaspar Simões, co-direttore della rivista, gli dedica perfino uno
studio all’interno del suo libro Temas ( 1929).
Fernando, oltre al genio che dimostrava nelle poesie come nei saggi, alimentava una certa aura di mistero attorno a sé per questo suo non rivelarsi mai totalmente, per il suo modo di scrivere in eteronimi e per i suoi molteplici interessi,
dalla letteratura all’astrologia passando per la storia e l’esoterismo. È normale
quindi che, ancora in vita, Pessoa alimentasse studi sulla sua arte. Anche se, a dire
il vero, si trattavano, nel caso specifico di Simões, di applicazioni del paradigma
psicanalitico per l’interpretazione della sua poesia. Pessoa non gradisce, allora, e
rigetta i modelli interpetativi di questo studioso, non solo per quanto lo riguardava, ma anche per ogni studio critico sull’opera dell’artista in generale. Le precisazioni che fa in tal senso vogliono proprio porre un freno soprattutto a quei critici
che ricorrono allo psicologismo nell’analisi delle opere artistiche e i ragazzi di
«Presença» sono tra questi.
Pessoa collabora con la rivista a partire dal quinto numero e su «Presença»
pubblica alcune delle sue poesie più importanti, tra le quali Autopsicografia, n. 36,
novembre 1932, ed Eros e Psique, nn. 41-42, maggio 1934, e a firma di Álvaro de
Campos Aniversário (Anniversario), n. 27, giugno-luglio 1930, e Tabacaría (Tabaccheria), n. 39, luglio 1933. Cominciano ad apparire anche le prime parti del Livro do Desassossego, opera che in vita Pessoa non pubblicherà mai integralmente.
Nel 1929 Pessoa riprende i contatti con Ofélia, ma per pochissimi mesi,
fino ai primi giorni del 1930, quando Álvaro de Campos si intromette per dissuadere la ragazza dal continuare la relazione con il Poeta. Pessoa, del resto, era già
assorbito totalmente dalla sua opera e l’opera stessa lo richiamava.
Con l’esoterismo rimarrà invischiato nel caso della scomparsa da Lisbona
del mago inglese Aleister Crowley, arrivato in Portogallo il 2 settembre 1930. E
all’esoterismo si rifanno le poesie pubblicate O Ultimo Sortilegio (L’ultimo sortilegio), 1930, e Iniciação (Iniziazione), 1932.
Pessoa, però, nonostante la vicinanza spirituale degli amici di «Presença»,
vive nella più completa solitudine e la presenza di alcuni parenti al suo fianco non
56
“Ha stoffa da maestro, ed è il più ricco dei nostri chiamati modernisti”, José Régio, Da Geração
Modernista, in Presença, Coimbra, n.º 3, 8 Abril 1927, p. 25.
25
sarà di conforto ad un sentimento di malinconia che ha radici ben più profonde. A
poco a poco comincia a bere e gli ultimi anni della sua vita non saranno che un
pellegrinaggio nelle varie cantine della città, in cerca di qualche “delitro”57 che lo
liberasse dalle sue turbe psichiche.
Intanto, il 5 luglio 1932, a capo del governo era salito Oliveira Salazar.
Aveva inizio così il lunghissimo periodo di dittatura che avrebbe dovuto portare
alla creazione dell’ “Estado Novo” (“Stato nuovo”).
Proprio dal Segretariato della Propaganda Nazionale, nel 1934, viene bandito un concorso letterario per la migliore opera poetica di spirito nazionalistico.
Pessoa vi partecipa con il libro Mensagem, e si classifica secondo. L’unico libro
in portoghese di Fernando Pessoa risulta un’opera simbolica, di quel simbolismo
che tanto richiama i miti del “quinto Impero” e di Dom Sebastião, ma di difficile
interpretazione. Così come di difficile interpretazione, e quantomeno curioso, appare il suo articolo in difesa delle associazioni segrete, minacciate da una possibile legge di messa al bando58.
Fernando è ormai consumato dall’alcool, dalla fatica di dormire pochissimo, passando il giorno negli studi commerciali e la notte a scrivere, e dalla solitudine, forzata, ma anche ricercata in vista di un ideale superiore da compiere.
Il 27 novembre 1930 viene colto da una crisi di cirrosi epatica, malattia
della quale pare soffrisse da tempo, e ricoverato all’Ospedale S. Luís. Tre giorni
dopo, la sua vita si spegne e, prima che lo avvolga l’oscurità della morte, chiede:
“Dá-me os óculos” (“Dammi gli occhiali”). Sono le sue ultime parole. È il 30 novembre 1935, quarantasette anni dopo i vagiti di Rua São Carlo.
1.6 – Archeologia pessoana
La fortuna editoriale di Pessoa ha inizio con la sua morte. Dal ritrovamento di un baule nel quale era solito conservare tutti i suoi documenti cominciano a
delinearsi i contorni di una personalità multipla, che firma i suoi scritti con una
57
In una fotografia che lo ritrae mentre beve, il Poeta a Ofélia Queirós, destinataria dell’immagine,
scrive sul retro: “Fernando Pessoa em flagrante delitro”.
58
F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., pp. 500-513.
26
miriade di nomi differenti e che ci lascia una grande quantità di opere incomplete.
Dal baule ci sono giunti 27.543 fogli59, tra manoscritti, dattiloscritti e misti, i quali
oggi costituiscono l’Archivio di Fernando Pessoa, conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Lisbona. Ne fanno parte gli scritti, poesie pubblicate e inedite, prose
di vario genere, liste di bibliografie, appunti biografici, minute di sue lettere, lettere inviate da terzi e tutti quei testi, di poesia o prosa, che gli venivano inviati da
conoscenti e amici.
Chissà se si tratta di tutto il materiale che ci ha lasciato Fernando Pessoa,
oppure qualcosa manca all’appello60? Di sicuro, infatti, sappiamo che l’ordine con
il quale si presentano i suoi scritti è stato alterato, perché molte sono le mani che,
nel tentativo di inventariarli e catalogarli per la pubblicazione, ne hanno “rimescolato le carte”.
I primi ad intraprendere il disegno di pubblicazione sono stati i suoi amici
Luís de Montalvor e João Gaspar Simões che, per i tipi di Ática, dal 1942 al 1946
hanno curato l’edizione di cinque testi di poesie sotto il titolo Obras Completas de
Fernando Pessoa: Poesias de Fernando Pessoa (Poesie di Fernando Pessoa),
1942; Poesias de Álvaro de Campos (Poesie di Álvaro de Campos), 1944; Odes
de Ricardo Reis (Odi di Ricardo Reis), 1945; Poemas de Alberto Caeiro (Poesie
di Alberto Caeiro), 1946.
Queste pubblicazioni, come recentemente dimostrato dai rilievi dell’edizione critica, furono realizzate con criteri altamente soggettivi, privilegiando ciò
che era compiuto e di più facile lettura, arrivando persino ad alterare il testo omettendone parti sconvenienti.
Morto Luís de Montalvor nel 1947 ed esautorato Simões dalla pubblicazione per volontà della famiglia di Pessoa, altri studiosi, ognuno con un proprio criterio filologico, intraprendono la redazione dei rimanenti scritti. Si prosegue così,
senza una catalogazione scientifica, fino al 1969, quando la Direção Geral de Ensino Superior e das Belas Artes e il Ministerio da Educação, in accordo con gli
eredi di Pessoa, all’epoca ancora custodi del baule, decidono di costituire il primo
gruppo di lavoro per l’inventariazione dell’Archivio, sotto la guida di Jacinto do
59
AA. VV., A inventariação do espólio de Fernando Pessoa: tentativa de reconstituição, in
«Revista da Biblioteca Nacional», Lisboa, s. 2, vol. 3, n. 3, Setembro-Dezembro 1988, p. 201.
60
Si legga ibid., p. 202.
27
Prado Coelho. Il lavoro, infatti, non poteva essere ulteriormente procrastinato,
date anche le voci che volevano il baule in procinto di abbandonare il Portogallo61.
Da questo primo tentativo di inventariazione deriva l’attuale ordine del
materiale, ma “esta disposição, que poderá ter sido herdada em parte dos editores
da Ática, quando percorreram o Espólio para fazer as suas seleções, de modo
nenhumo reflecte o estado em que Pessoa terá deixado arrumados os seus papéis,
estado que dificilmente se pode conjecturar”62. Il lavoro va avanti, fra alterne vicende63, dal ’69 al ’74 e termina con l’inventariazione di appena 6000 documenti
sui 27.543 esistenti.
Il grande passo, che segna una svolta nelle possibilità di studio del lascito
artistico di Pessoa, viene compiuto quando lo Stato portoghese, nel 1979, ne acquista l’Archivio. Il 4 dicembre del 1979 i documenti vengono trasferiti nella Biblioteca Nazionale. Il passaggio, in questo modo, oltre ad assicurarne una migliore
conservazione, permette agli studiosi un più agevole accesso all’originale pessoano. Si inaugura una nuova e rinnovata stagione di studi.
Nel 1982, grazie all’impegno di Jacinto do Prado Coelho, Maria Aliete
Galhoz e Teresa Sobral Cunha, escono per la prima volta in versione unitaria i
frammenti del Livro do Desassossego64. Nel 1988 vede la luce anche il Faust di
Pessoa65.
Intanto, però, l’idea di una catalogazione generale dell’Archivio del Poeta
non viene abbandonata e, nonostante l’evidente difficoltà di ricostruire una tale
“frammentarietà ”, dal 1982 al 1986 si tenta nuovamente l’impresa. Ma questa
viene a sua volta interrotta dall’idea di creare, non solo un gruppo che si occupi
61
Si legga quanto riportato in ibid., p. 200.
“Questa disposizione, che poteva essere stata ereditata in parte dagli editori di Ática, quando
persorsero l’Archivio per fare le loro selezioni, non riflette in nessun modo lo stato in cui Pessoa
aveva lasciato raccolti i suoi scritti, stato che difficilmente si può congetturare”, AA. VV., A catalogação do Espólio de Fernando Pessoa, in «Revista da Biblioteca Nacional», Lisboa, s. 2, vol. 7,
n. 1, Janeiro-Junho 1992, p. 160.
63
I fatti che intercorsero in questo periodo circa i rapporti con il materiale pessoano e la famiglia
del Poeta sono ben documentati nell’articolo AA. VV., A catalogação do Espólio de Fernando
Pessoa, in «Revista da Biblioteca Nacional», Lisboa, s. 2, vol. 7, n. 1, Janeiro-Junho 1992, pp.
159-170.
64
Livro do desassossego por Bernardo Soares, recolha e transcrição de textos de Maria Aliete
Galhoz e Teresa Sobral Cunha, prefacio e organização de Jacinto do Prado Coelho, Ática, Lisboa,
1982.
65
Fausto. Tragédia Subjectiva, edição de Teresa Sobral Cunha, Editorial Presença, Lisboa, 1988.
62
28
della catalogazione, ma che ne curi anche un’edizione completa degli scritti secondo precisi criteri filologici, che organizzi insomma un’edizione critica. Il progetto di essa viene avviato dal Governo nel 1985, che nomina presidente della
commissione la lusofila italiana Luciana Stegagno Picchio.
Qualcosa, però, non funziona e i lavori non partono, fino a che nel 1988
viene nominato successore della Stegagno Picchio il filologo Ivo Castro e la commisione si insedia presso la Biblioteca Nazionale di Lisbona, nel mese di maggio,
col nome di Grupo de Trabalho para o Estudo do Espólio e a Edição Crítica da
Obra Completa de Fernando Pessoa, universalmente identificata come l’Equipa
Pessoa66.
Dal 1988 fino ad oggi importanti sono le novità che emergono dal lavoro
dell’Equipa.
Innanzitutto, con l’utilizzo di un modello editoriale critico-genetico, si passa ad analizzare la totalità degli scritti di Pessoa: quelli da lui pubblicati, le edizioni postume e gli inediti. Soprattutto, per gli inediti, si considera fondamentale
un’analisi relazionata con i documenti pubblicati in vita dal Poeta o postumi.
Infatti, sostiene Ivo Castro, “há una diferença fundamental entre a técnica de
publicar inéditos e a edição crítica: aquele considera cada manuscrito como um
indivíduo, que decifra, identifica, transcreve e publica, quer diplomaticamente, se
lhe conservar todas as características gráficas, quer modernizadamente”67.
L’edizione critica, al contrario, “reduz a um único texto vários manuscritos,
naquilo que eles têm de igual ou equivalente, valorizando apenas as variantes que
em alguns pontos os separam”68.
Con tale metodo e, nominalmente indipendenti dall’edizione critica, vengono raccolti e pubblicati nel 1996, per opera di Luís Filipe Teixeira, i testi del
“movimento neopagano portoghese”69 e nel 2002, come VI volume dell’edizione
66
Per conoscere l’intera vicenda della costituzione dell’Equipa Pessoa e per capirne i criteri
metodologici si consiglia la lettura integrale di Ivo Castro, Editar Pessoa, Edição crítica de
Fernando Pessoa, Imprensa Nacional-Casa da Moeda, Colecção «Estudos», vol. I, Lisboa, 1990.
67
“C’è una differenza fondamentale tra la tecnica per pubblicare inediti e l’edizione critica: la prima considera ogni manoscritto come un individuo, che decifra, identifica, trascrive e pubblica, sia
diplomaticamente, nel conservarne tutte le caratteristiche grafiche, sia modernamente”, ibid., p. 32.
68
“Riduce ad un unico testo vari manoscritti, in ciò che loro hanno di uguale o equivalente, valorizzando solo le varianti che in alcuni punti li separano”, ibid., p. 32.
69
F. Pessoa, Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, recolha e
transcrição de Luís Filipe B. Teixeira, Fundação Calouste Gulbenkien – Acarte, Lisboa, 1996.
29
critica, la totalità degli scritti del filosofo neopagano António Mora, eteronimo di
Fernando Pessoa.
Se l’opera dell’Equipa inizialmente prevedeva la realizzazione di un’edizione della totalità dei documenti dell’Archivio, oggi facciamo i conti con un ennesimo progetto incompiuto. Ancora in fase di pubblicazione70, essa si è limitata
alla fissazione delle poesie di Pessoa e dei suoi eteronimi e ha tralasciato, eccezion fatta per le Obras de António Mora, un’edizione più ampia della prosa.
L’Equipa oggi è stata sciolta e si è persa, dunque, la più importante occasione per una mappatura globale dell’opera di Fernando Pessoa, il quale, così,
sembra difendere a tutti costi la frammentarietà dei suoi scritti, quasi che i frammenti in sé siano la più importante testimonianza della sua ricerca artistica.
70
I testi in fase di pubblicazione sono: del vol. I, Poemas de Fernando Pessoa, i tomi I, Até o
1914, II, 1915-1920, IV, 1931-1933, Mensagem e poemas publicados em vida, Rubai e Rubayat; il
vol. IV Poemas de Alberto Caeiro.
30
CAPITOLO II
NOMI, ATTORI E RUOLI
“Se qualcuno cercasse di capire il tuo sguardo
Poeta difenditi con ferocia
il tuo sguardo son cento sguardi che ahimè ti hanno
guardato tremando”.
(Alda Merini, da Vuoto d’amore)
2.1 – Opere ortonime ed eteronime
Nel leggere le opere di Fernando Pessoa sono due gli elementi che colpiscono l’attenzione, prima di ogni altra osservazione. Innanzitutto, il cospicuo numero di falsi nomi con il quale il Poeta portoghese ha firmato i suoi scritti. In secondo luogo, la diversità di stili e di contenuti che distinguono le poesie e la prosa
di ciascun nome fittizio da un altro. In effetti, ogni nome designa in sé uno stile di
scrittura e una concezione del mondo e della vita organici, che, però, a confronto
con gli altri, si dimostra differente, a volte in maniera perfino contraddittoria.
La studiosa Teresa Rita Lopes, tra quelli utilizzati pubblicamente e quelli
inediti ritrovati nel famoso baule, cataloga ben settantadue nomi differenti71.
Incontriamo: Alexander Search, Vicente Guedes, Bernardo Soares, António Mora,
Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos, il Barão de Teive, A. A. Crosse,
Raphael Baldaya e molti altri ancora.
71
La mappa completa dei settantadue nomi, compilata in un presumibile ordine di apparizione, può
essere letta nel capitolo Personagens e enredo contenuto in Teresa Rita Lopes, Pessoa por conhecer, vol. I, Roteiro para uma expedição, Editorial Estampa, Lisboa, 1990, pp. 167-169.
31
Fernando Pessoa, nelle lettere agli amici e dalle pagine delle riviste dove
scriveva, riguardo questa “moltitudine”, ha parlato prima di “pseudonimi”72 e poi,
sempre più chiaramente, li ha definiti “eteronimi”. Ma che cosa è un “eteronimo”?
In che cosa si differenzia da uno “pseudonimo”?
Di per sé, l’adozione di pseudonimi in campo letterario o filosofico non
era una novità. Esempio evidente è Søren Kierkegaard che, in ambito filosofico, si
era servito abbondantemente di nomi falsi per pubblicare i suoi scritti73 e del quale
non sappiamo quanto di lui conoscesse il Poeta.
In Pessoa è proprio la quantità di nomi e la disomogeneità generale dei relativi scritti che creano il primo grande ostacolo per chiunque voglia avvicinarsi
all’interpretazione della sua poesia e della sua estetica. Al contempo, l’impossibilità di ridurre le tante voci del Poeta ad una sola univoca voce sembra dare origine
al fascino che ha coinvolto e coinvolge semplici lettori e comunità scientifiche di
tutto il mondo, a tal punto che questo portoghese “col passare degli anni rischia di
diventare uno dei più importanti poeti del Novecento”74.
Siamo ancora nel 1904, a Durban, e Pessoa pubblica una poesia col nome
di Charles Robert Anon. Occorre attendere, però, gli anni tra il 1914 e il 1915 perché si rafforzi in lui l’intenzione di firmare alcune poesie con nomi inventati. Proprio in questo periodo gli amici Mário de Sá-Carneiro e Armando Côrtes-Rodrigues hanno modo di leggere le prime composizioni di Alberto Caeiro, Ricardo
La parola “pseudonimo” è il composto di yeudo/j (falso) e o1noma (nome). In italiano non
tutti i dizionari ne riportano derivati, ad esempio “pseudonimia”. Solo il Grande Dizionario della
Lingua Italiana riporta “pseudonimia” come il “carattere di un’opera pubblicata sotto nome fittizio” (Salvatore Battaglia, Grande dizionario della Lingua Italiana, a cura di Giorgio Barberi
Squarotti, UTET, Torino, 1988, vol. XIV PRA-PY).
73
Non abbiamo nessuna testimonianza diretta o indiretta che Pessoa conoscesse l’opera filosofica
di Søren Kierkegaard. Il problema della pseudonimia nel filosofo danese, del resto, non è mai
emerso con forza, almeno fino a quando Cornelio Fabro scrive: “La pseudonimia è quindi un gioco
che però Kierkegaard ha fatto e ha preso molto sul serio e sul quale spesso gli interpreti sono passati o senz’accorgersi affatto o con troppa leggerezza” (Cornelio Fabro, Introduzione a Kierkegaard, Opere, Sansoni Editore, Firenze, 1972, p. XXX, corsivo mio). Per una conoscenza delle
possibili relazioni che si possono stabilire tra Kierkegaard e Pessoa si vedano: Eduardo Lourenço,
Kierkegaard e Pessoa ou as máscaras do absoluto, in Fernando. Rei da nossa Baviera, Imprensa
Nacional-Casa da Moeda, Lisboa, 1993, pp. 97-109; Ana Haterly, Fernando Pessoa - Retrato
encontrado em Søren Kierkegaard, in Actas do II Congresso Internacional de Estudos Pessoanos
(Nashville, 1983), Centro de Estudos Pessoanos, Porto, 1985, pp. 263-277; Luis de Oliveira e
Silva, Estética e etica em Kierkegaard e Pessoa, in «Revista da faculdade de Ciências socias e
humanas», Universidade Nova de Lisboa, Lisboa, n. 2, 1988, pp. 261-272.
74
A. Tabucchi, Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa, Feltrinelli, Milano, 2000, p.
11.
72
32
Reis e Álvaro de Campos e i frammenti iniziali del Livro do Desassossego di Vicente Guedes prima, Bernando Soares poi.
Nel commentare le poesie di Caeiro, Reis e Campos, Mário de Sá-Carneiro
si rivolge a Fernando avvertendo che “será bom não nos esquecermos que toda
essa gente é um só: tão grande, tão grande... que, a bem dizer, talvez não
precisasse de pseudónimos...”75. Se dunque in questa lettera del 27 giugno 1914
Sá-Carneiro definisce questi nomi come “pseudonimi”, dobbiamo desumere che
anche Fernando utilizzasse lo stesso termine per presentarli all’amico. Per di più
la parola “eteronimo”, nelle lettere di Sá-Carneiro, non comparirà mai76.
Il 19 gennaio 1915 abbiamo una testimonianza diretta di Pessoa che, ad
Armando Côrtes-Rodrigues, ribadisce per iscritto il proposito di “lançar pseudonimamente a obra Caeiro-Reis-Campos”77.
Leggiamo anche, sulla pseudonimia, la lettera a Francisco Fernandes Lopes del 26 aprile 1919:
“É conveniente, no caso de se empregarem pseudónimos, fazê-lo segundo um sistema,
dando a cada pseudopersonalidade um certo número de atribuções constantes; isto, simplesmente,
para não destruir a estética da pseudonimía, e, se os pseudónimos forem nomes portugueses, com
aparência de nomes reais, para manter o carácter dramático que essa obra impõe, o entre-destaque
das diversas «pessoas»”78.
E più avanti:
“Esta cisão em personalidades pseudónimas é tanto mais precisa quanto, por ora, somos
(quase) numericamente ninguém; em primeiro lugar, não é qualquer que serve para esta obra, pois
75
“Sarà bene non dimenticarsi che tutta questa gente è uno solo: così grande, così grande… che, a
ben dire, forse non avrebbe bisogno di pseudonimi”, Mário de Sá Carneiro, Cartas de Mário de
Sá-Carneiro a Fernando Pessoa, cit., p. 115.
76
Mário de Sá-Carneiro, come sappiamo, muore suicida a Parigi nel 1916. Con sé aveva la maggior parte delle lettere scrittegli da Pessoa, le quali, nel tumulto della situazione, sono andate perdute. Dei due ci resta purtroppo solo la corrispondenza conservata nell’Archivio di Fernando Pessoa.
77
“Lanciare pseudonimamente l’opera Caeiro-Reis-Campos”, F. Pessoa, Correspondência.
1905-1922, cit., p. 142.
78
“Nel caso in cui si impieghino pseudonimi, è conveniente farlo secondo un sistema, dando a ciascuna personalità un certo numero di attributi costanti; questo, semplicemente, per non distruggere
l’estetica della pseudonimia, e, se gli pseudonimi saranno nomi portoghesi, con apparenza di nomi
reali, per mantenere il carattere drammatico che questa opera impone, l’inter-distacco tra le diverse
«persone»”, ibid., p. 277.
33
é preciso dar provas de força e disciplina mental, e, em segundo lugar, o servilismo dos
portugueses para com o estrangeiro é de tal ordem que alguns colaboradores mentalmente
possíveis são temperamentalmente impossíveis”79.
Il Poeta lisboeta parla di sé come di una scissione in personalità “pseudonime” e arriva persino a stabilire quali debbano essere i caratteri dell’estetica della
pseudonimia: innanzitutto gli pseudonimi devono essere articolati in un sistema, e,
perché il sistema mantenga il carattere di “dramma”, devono avere la parvenza di
nomi reali e mantenere sempre gli stessi caratteri.
Quindi, i settantadue nomi inventati da Pessoa e i loro relativi scritti rispondono alle regole dell’estetica della pseudonimia, così come è stata codificata
a Francisco Fernandes Lopes. Cominciamo a comprendere il perché di tanti nomi
e la loro reciproca disomogeneità: ci troviamo di fronte ad un sistema narrativo
organico dove ogni pseudonimo svolge un ruolo ben preciso.
Ma la parola “pseudonimia” non appare troppo ristretta rispetto al significato che qui le viene attribuito? Si può parlare solo di “pseudonimi” circa Alberto
Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos e gli altri, se la funzione che svolgono è
quella di essere personaggi di una narrazione organica?
Nel 1928 Fernando Pessoa sente la necessità di chiarire ulteriormente il significato dello scrivere con nomi inventati e, dalle pagine di «Presença», spiega:
“O que Fernando Pessoa escreve pertence a duas categorias de obras, a que poderemos
chamar ortónimas e heterónimas. Não se poderá dizer que são autónimas e pseudónimas, porque
deveras o não são. A obra pseudónima é do autor em sua pessoa, salvo no nome que assina; a
heterónima é do autor fora da sua pessoa, é de uma individualidade completa fabricada por ele,
como o seriam os dizeres de qualquer personagem de qualquer drama seu”80.
79
“Questa scissione in personalità pseudonime è tanto più necessaria quanto, per ora, siamo (quasi) numericamente nessuno; in primo luogo non serve nessuno per questa opera, poiché bisogna
dare prove di forza e disciplina mentale, e, in secondo luogo, il servilismo dei portoghesi verso l’estero è di tale ordine che alcuni collaboratori mentalmente possibili sono per temperamento mentale impossibili”, ibid., p. 278 (corsivo dell’autore).
80
“Ciò che Fernando Pessoa scrive appartiene a due categorie di opere, quelle che potremmo chiamare ortonime e quelle che chiameremo eteronime. Non si potrà dire che sono autonime e pseudonime, perché davvero non lo sono. L’opera pseudonima è dell’autore in persona, eccetto nel nome
con cui firma; quella eteronima è dell’autore al di fuori della sua persona, è di una individualità
completa da lui fabbricata, come lo sarebbero le frasi di qualche personaggio di qualche suo dramma”, Tábua bibliografica – Fernando Pessoa in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas,
cit., p. 404.
34
Con questa Tábua bibliografica (Tavola bibliografica) il Poeta quarantenne sembra finalmente sciogliere la questione dei falsi nomi. Egli infatti considera
le sue opere come appartenenti a due categorie: le “ortónimas” e le
“heterónimas”81. Lasciamo in sospeso per ora le riflessioni sulla prima categoria e
occupiamoci della seconda.
All’espressione “obras pseudónimas” giustappone “obras heterónimas”.
Lo preferisce, spiega, perché, nel caso di questi nomi fittizi, non si tratta affatto di
pseudonimia, ma di “heteronímia”. Che cosa significa allora opera eteronima?
Qual è la differenza con un’opera pseudonima?
Tra pseudonimia ed eteronimia, c’è una somiglianza, che è data dal firmare gli scritti con un nome diverso da quello dell’autore. Ma, nonostante ciò, la differenza è sostanziale. Risiede tutta nella radice greca dei due composti82. Mentre
lo pseudonimo è semplicemente un nome (gr. o1noma))) yeudo/j (“falso”),
che non corrisponde a quello vero dell’autore, l’eteronimo è un nome e3teroj
“Heterónimo” è anch’esso un composto di due termini greci, e3teroj (altro) e o1noma
(nome). In italiano il vocabolo ha tre significati, a seconda se viene preso come aggettivo o come
sostantivo. Come aggettivo ne ha due: il primo si riferisce ai nomi che sono in rapporto di eteronimia tra loro, dove l’eteronimia è quel fenomeno per cui “coppie naturali di oggetti o di esseri animati sono denominati con nomi di diversa etimologia”, e si fa l’esempio di “fratello-sorella” e
“maiale-scrofa”; il secondo riguarda un’“opera pubblicata con nome diverso da quello
dell’autore”. Come sostantivo si dice sempre dell’ “opera eteronima” (Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana 1998, Zanichelli, Milano, Aprile 1997). Anche in portoghese si distingue tra aggettivo e sostantivo. Per l’aggettivo troviamo gli stessi due significati italiani, solo che
per il secondo ci si concentra sul fatto che l’opera è pubblicata da una personalità creata dall’autore. Il sostantivo portoghese invece è radicalmente differente. Non denota più l’opera, ma la “personalidade criada por um autor, com qualidades e tendências próprias” (“personalità creata da un autore, con qualità e tendenze proprie”, in Dicionário da língua portuguesa 2003, Porto Editora, Porto, Novembre de 2002). È evidente qui l’influsso di Pessoa sulla lingua portoghese. Noi useremo il
sostantivo “eteronimo”, nella grafia italiana, secondo il significato del sostantivo portoghese. In
base a ciò l’aggettivo “eteronimo” e tutti i derivati in generale della parola si riferiranno al significato portoghese (l’ “eteronimia” diventa allora il processo creativo che mette al mondo gli eteronimi), secondo le indicazioni di senso del Poeta portoghese, le quali oggi, per il mondo lusofono,
come possiamo notare, fanno parte di un patrimonio linguistico comune.
82
Di Fernando Pessoa non sappiamo il suo livello di conoscenza del greco antico. Yara Frateschi
Vieira si interroga in tal senso circa la capacità del Poeta di leggere autonomamente l’Antologia
greca, senza confronti con traduzioni in una lingua moderna: “Mas parece que o seu conhecimento
de grego não era suficiente para que uma leitura do original prudesse bastar-lhe” (“Ma sembra che
la sua conoscenza del greco non era sufficiente perché un lettura dell’originale potesse bastargli”),
Pessoa, leitor da Antologia grega, in Actas do IV Congresso Internacional de Estudos Pessoanos.
Secção Brasileira. São Paulo, 1988, Centro de Estudos Pessoanos, Fundação Engenheiro António
de Almeida, Porto 1990, vol. II, p. 439). Di certo egli possedeva un manuale di grammatica greca
(Adolphe Kaegi, Grammaire abrégé de la langue grecque, Librarie Fischbacher, Paris, 19012),
come testimonia la sua Biblioteca privata, e i rudimenti della lingua non gli erano ignoti.
81
35
(“differente”), perché l’individualità fittizia che si nasconde dietro questo nome è
“altra” rispetto all’autore che ne crea l’opera poetica o di prosa.
L’individualità fittizia, però, perché sia veramente “altra” occorre anche
che sia “completa”, dice Pessoa. Ma in cosa deve essere “completa”? Nel progetto
di pubblicazione dell’opera eteronima, le Ficções do Interludio, il Poeta sottolinea
che:
“Nos autores das Ficções do Interludio não são só as ideias e os sentimentos que se
distinguem dos meus: a mesma técnica da composição, o mesmo estilo, é diferente do meu. Aí
cada personagem é criada integralmente diferente, e não apenas diferentemente pensada”83.
Ogni personaggio deve essere integralmente differente da Fernando per
sentimenti, idee e stile letterario. Inoltre, in caso di pubblicazione, l’autore avrà
cura di crear loro biografie, oroscopi e fotografie84. Utilizzando così la parola “eteronimo”, si sceglie di attribuire pubblicamente l’autorità degli scritti a individualità fittizie che, in realtà, avranno tutte la parvenza di un’esistenza reale.
Ora si chiarisce il perché di tanto silenzio, intimato agli amici quando presentava loro le poesie di Caeiro, Reis e Campos e ne spiegava l’opera ancora in
termini di pseudonimia. La già citata lettera ad Armando Côrtes-Rodrigues termina, infatti, con un “tudo isto, escuso dizer-lhe, é segredo”85 e quella a Francisco
Fernandes Lopes è ancora più esplicita. Dopo aver illustrato i caratteri dell’estetica degli pseudonimi-eteronimi, come abbiamo visto in precedenza, Pessoa gli domanda ancora un po’ di attenzione:
83
“Negli autori delle Ficções do Interludio non sono solo le idee e o sentimenti che si distinguono
dai miei: la stessa tecnica di composizione, lo stesso stile, sono differenti dal mio. Lì ogni
personaggio è creato integralmente differente, e non soltanto differentemente pensato”, F. Pessoa,
Páginas íntimas e de auto-interpretação, textos estabelecidos e prefaciados por Georg Rurolf Lind
e Jacinto do Prado Coelho, Edições Ática, Lisboa, 1966, pp. 105-106.
84
Sempre nella Tabua bibliografica leggiamo infatti che “tudo isto constará de biografias a fazer,
acompanhadas, quando se publiquem, de horóscopos e, talvez, de fotografias” (“Tutto questo sarà
composto da biografie, accompagnate, quando si pubblichino, da oroscopi e, forse da fotografie”,
F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 405). Tra gli scritti di Pessoa si trovano
effettivamente gli oroscopi di Alberto Caeiro (21-34r), Ricardo Reis (21-108r) e Álvaro de Campos
(144Y-23v, 144Y-24). Questi si possono leggere pubblicati in Luís Filipe B. Teixeira, Pensar Pessoa. A dimensão filosófica e hermética da obra de Fernando Pessoa, Lello Editores, Porto, 1997,
pp. 118-121.
85
“Tutto questo, mi scusi se glielo dico, è segreto”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit.,
p. 144.
36
“Outro ponto, e importante: V. continue guardando, sobre todos estes pontos, desde a
essência aos atributos do plano, o mais rigoroso silêncio. Uma das condições favoráveis para uma
obra destas é que surja inesperadamente. Ao António Soares, por exemplo, que V. me diz estar aí,
e de quem sou amigo e a quem muito estimo, não convém dizer palavra disto. É um rapaz
inteligente, e não é mau, mas esses homens de café são sempre inseguros em matéria de reserva;
têm um prazer mórbido em revelar segredos, isto independentemente do temperamento que
tenham. Por isso lhe peço segredo, e confio em que V. o guardará”86.
Non ci meravigliamo più, allora, nel leggere il dispiacere di Pessoa, perché
costretto a pubblicare l’opera completa dei suoi eteronimi sotto il suo vero nome,
dal momento che “já é tarde, e portanto absurdo, para o disfarce absoluto”87.
Passiamo ora a considerare la prima categoria di scritti, le “obras ortónimas”88. Apparentemente non sembrano esserci problemi: ortonime sono quelle
opere a firma dell’autore. Ma il Poeta sente anche il bisogno di specificare che
non si tratta di opere “autónimas”89. Perché?
Nella parola “autonimo”, indicata dalla radice greca au)to/j, risuona
un’autoreferenzialità che Fernando sembra non voler attribuire agli scritti firmati
con il suo vero nome. “Ortonimo” in fondo dice di più e di meno: dice di meno
perché nell’indicare o0rqo/j (“corretto”) solo il nome non esprime il valore degli
scritti, se questi cioè possano essere attribuiti realmente al Poeta anagrafico, oppu86
“Altro punto, e importante: lei continui a conservare, su tutti questi punti, dall’essenza agli attributi del piano, il più rigoroso silenzio. Una delle condizioni favorevoli per una tale opera è che
sorga inaspettatamente. Per esempio, ad António Soares, che Lei mi dice trovarsi lì, e del quale
sono amico e che stimo molto, non conviene proferir parola di ciò. È un ragazzo intelligente, e non
è male, ma questi uomini da caffè sono sempre inaffidabili in materia di riservatezza; provano un
piacere morboso nel rivelare segreti, e questo indipendentemente dal carattere che hanno. Per ciò
le chiedo il segreto, e confido che Lei lo manterrà”, ibid., p. 279.
87
“Ormai è tardi, e pertanto assurdo, per il mascheramento assoluto”, F. Pessoa, Correspondência.
1923-1935, cit., p. 270.
88
“Ortónimo” è un composto dei termini greci o0rqo/j (corretto, giusto) e o1noma (nome). In
italiano il vocabolo non esiste. Nella lingua portoghese, invece, la parola “ortónimo” si trova come
traslitterazione del composto greco e significa appunto “nome vero, reale” (Dicionário da língua
portuguesa 2003, Porto Editora, Porto, Novembre de 2002). D’ora in avanti, anche per l’italiano,
useremo “ortonimo” (nella grafia senza accento), e ogni suo derivato, con lo stesso significato del
portoghese, che ne salvaguarda il valore etimologico greco.
89
“Autónimo” è anch’egli un composto di termini greci: au)to/j (stesso) e o1noma (nome). In
italiano il vocabolo non esiste, mentre in portoghese si trova sia come aggettivo (“si dice di un’opera pubblicata sotto il vero nome dell’autore”, in Dicionário da língua portuguesa 2003, cit.), sia
come sostantivo (“segno che rinvia a se stesso come segno”, ibid.). Noi utilizzeremo il termine
come aggettivo, con il medesimo significato del portoghese.
37
re ad una personalità fittizia che porti lo stesso nome; dice di più perché, nel privarli di autoreferenzialità, lascia intendere che gli scritti ortonimi debbano leggersi in relazione con quelli eteronimi. L’opposizione tra opere autonime ed eteronime impedirebbe quella relazione che, mantenendo le dovute distinzioni, si instaura, invece, tra scritti ortonimi ed eteronimi.
Chi è allora l’autore degli scritti a firma di Fernando Pessoa? È anch’egli
una personalità fittizia alla maniera degli eteronimi? Qui è il Poeta, ancora una
volta, che ci aiuta a capire:
“O certo, porém é que o author d’estas linhas – não sei bem se o author d’estes livros –
nunca tive uma só personalidade, nem pensou nunca, nem sentiu, senão dramaticamente, isto è,
numa pessoa, ou personalidade, supposta, que mais propriamente do que elle proprio pudesse ter
esses sentimentos”90.
L’autore vive attraverso le personalità che inventa, gli eteronimi, “mas a
poesia ortónima não è a poesia de uma personalidade, e sim a de uma
personalidade que analisa a sua inexistência, precisamente porque as outras lhe
existem”91, così afferma il critico e poeta Jorge de Sena. Il suo saggio, O heterónimo Fernando Pessoa e os Poemas Ingleses que publicou (L’eteronimo Fernando
Pessoa e le poesie inglesi che pubblicò), prosegue sostenendo che allo stesso
modo bisogna considerare gli scritti di prosa ortonimi, dove il carattere ludico e
paradossale a cui tendono evidenzierebbe la convinzione del Poeta che “a libertade só se conquista não pela afirmação da personalidade mas pela anulação dela na
personificação estética”92.
Pessoa-lui-stesso (l’ortonimo), quindi, non è che lo svuotamento di ogni
personalità, personaggio a sua volta nell’essere “medium” (intermediario) dei per90
“Quello che è certo, però, è che l’autore di queste righe – non so bene se l’autore di questi libri –
non ha mai avuto una sola personalità, né ha mai pensato o sentito nulla se non in forma drammatica, cioè, in una persona, o in una personalità, supposta, che più propriamente di lui potesse avere
questi sentimenti”, 20-70r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa,
cit., p. 107.
91
“La poesia ortonima non è la poesia di una personalità, ma quella di una personalità che analizza
la sua inesistenza, precisamente perché le altre esistono in lei”, Jorge de Sena, O heterónimo Fernando Pessoa e os Poemas Ingleses que publicou, contenuto nel libro, Fernando Pessoa & Ca Heterónima (estudios coligidos 1940-1978), Edições 70, Lisboa, 20003, p. 271 (corsivo dell’autore).
92
Ibid., p. 272.
38
sonaggi da lui inventati93, principio e fine del processo drammatico degli eteronimi94. E solo nell’essere intermediario di numerose tendenze, l’ortonimo vive la sua
oscura genialità95, quasi un esistere in contumacia. Questi rappresenta così l’assenza del poeta che dialoga con la presenza degli eteronimi e in ciò “o Pessoa ele-mesmo não é menos heterónimo do que eles”96.
Ma la relazione non si dà solo tra ortonimo ed eteronimi. Se è vero che ciascuno eteronimo per essere tale deve avere un’individualità completa, quindi che
“ciascun personaggio forma una specie di dramma”, è anche vero che “tutti insieme formano un altro dramma”: “É um drama em gente, em vez de em actos”97. Per
questo, insieme a Tabucchi, possiamo parlare degli eteronimi come “dei personaggi che giocano una parte sul palco della poesia” e sostenere che:
“La poesia di Pessoa ha un senso se la si intende come un unicum, come un Poema dotato
di un’intima coerenza, anche se composto da voci contraddittorie, non come un coacervo di poesie
eccentriche e autosufficienti”98.
93
“A cada personalidade mais demorada, que o author d’estes livros, conseguiu viver dentro de si,
elle deu uma indole espressiva, e fez d’essa personalidade um auhor, com um livro, ou livros, com
as idéas, as emoções, e a arte dos quaes, elle, o author real (ou porventura apparente, porque não
sabemos o que seja a realidade), nada tem, salvo o ter sido, no escrevel-as, o medium de figuras,
que elle-proprio creou” (“A ogni personalità successiva, che l’autore di questi libri, è riuscito a vivere dentro di sé, ha dato un’indole espressiva e ha fatto di questa personalità un autore, con un libro, o libri, con idee, emozioni e arte, delle quali lui, l’autore reale (o forse apparente, perché non
sappiamo che cosa sia la realtà), non ha nulla, eccetto l’essere stato, nello scriverle, l’intermediario
delle figure che lui stesso ha creato”), 20-70r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica
de Fernando Pessoa, cit., p. 107.
94
A. Tabucchi definisce l’ortonimo proprio in questo senso, quale “fine e principio del sistema eteronimico” (Interpretazione dell’eteronimia di Fernando Pessoa, in “Studi mediolatini e volgari”,
vol. XXIII, 1975, p. 179).
95
Nell’Heróstrato leggiamo: “Há no génio um elemento obscuro – esse elemento obsuro, real mas
difícil de definir, a que se chama mediunidade quando assume determinados aspectos” (“C’è nel
genio un elemento oscuro – questo elemento oscuro, reale, ma difficile da definire, che si chiama
«mediunidade» quando assume determinati aspetti”), F. Pessoa, Heróstrato e a Busca da
Imortalidade, edição de Richard Zenith, Assírio&Alvim, Lisboa, 2002, p. 111.
Il testo prosegue con l’esempio di Napoleone che dominò il suo tempo proprio perché fu veicolo di
un vasto numero di tendenze della sua epoca. Il termine “mediunidade” assume così il chiaro significato di “intermediazione”, non perdendone tuttavia quella carica esoterica che conferisce a
questo elemento del genio un aspetto oscuro. Come intendere altrimenti le parole: “Fu l’epoca ad
inviare Napoleone affinché entrasse in essa, e fu Napoleone a dominarla perché così l’epoca gli
aveva ordinato”?
96
“Pessoa-lui-stesso non è meno eteronimo di loro”, Jorge de Sena, op. cit., p. 270.
97
F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 405.
98
A. Tabucchi, Interpretazione dell’eteronimia di Fernando Pessoa, in op. cit., p. 145.
39
Non è senza motivo, allora, che in entrambe le parole “ortonimo” ed “eteronimo” si rimuove ogni riferimento all’autore reale degli scritti. Ma chi è reale?
L’autore stesso, in fondo, non sa cosa sia l’esistere o se sia più reale un personaggio di un dramma o chi lo scrive:
“Afirmar que estes homens todos differentes, todos bem definidos, que lhe passaram pela
alma incorporadamente, não existem — não pode fazê-lo o autor d’estes livros; porque não sabe o
que é existir, nem qual, Hamlet ou Shakespeare, é que é mais real, ou real na verdade”99.
2.2 – Quali nomi?
Ogni lettura degli scritti di Pessoa che prescinda dalla loro intrinseca relazionalità appare, alla luce delle cose sinora dette, un tradimento del progetto letterario e filosofico del Poeta. Non possiamo trascurare, infatti, che tutti insieme gli
scritti formino un altro dramma. L’interpretazione che si limita ad isolare l’eteronimo di turno si accontenta appena di un primo livello di “ascolto”, quello, ad
esempio, che raggiungerebbe qualora un direttore d’orchestra facesse suonare la
Traviata solo dai primi violini. Il risultato sarebbe comunque di grande rilievo, ma
nella sua parzialità ci penalizzerebbe molto nel privarci della meravigliosa
polifonia originaria: “A obra complexa, cujo primeiro volume é este, é de
substancia dramatica, embora de forma varia – aqui de trechos em prosa, em
outros livros de poemas ou de philosophias”100.
Inoltre, non ci sarebbe armonia in Pessoa se tutto avesse origine in lui solo
da elementi discordi. Già Platone sosteneva, ad esempio, che l’armonia musicale
nascesse da cose prima discordi, l’acuto e il grave, ma che poi venissero rese concordi dall’arte della musica:
99
“Affermare che questi uomini tutti differenti, tutti ben definiti, che gli hanno attraversato l’anima
incorporalmente, non esistano – non può farlo l’autore di questi libri, perché non sa cosa sia l’esistere, né chi, tra Amleto o Shakespeare, sia più reale, o reale nella verità”, 20-71r, F. Pessoa,
Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 108.
100
“L’opera complessa, il cui primo volume è questo, è drammatica per sostanza, sebbene abbia
differenti forme – qui scritti in prosa, in altri libri di poesia o di filosofia”, ibid., p. 107.
40
“Infatti, non sarebbe certamente possibile che nascesse armonia da cose che rimangono
tuttavia discordi, ossia dall’acuto e dal grave, giacché l’armonia è consonanza, e la consonanza è
un consenso. Il consenso, però, non può nascere da cose discordanti fino a che rimangono discordanti. E ciò che è discordante e non è accordato è impossibile ridurlo ad armonia”101.
La varietà e la disomogeneità degli scritti del Poeta non ci devono dunque
spaventare: anche per questo l’opera non è immediatamente accessibile a tutti ed è
complessa nella misura in cui dobbiamo capirne la lingua, perché, sostiene lo stesso Pessoa, “ninguém pode esperar ser compreendido antes que os outros aprendam a língua em que fala”102.
A cosa danno il loro consenso gli eteronimi? Quale dramma unitario ne
rappresenta l’armonica polifonia? Il passo in avanti che ora dobbiamo compiere, è
proprio quello di capire quale “drama” ci vogliono raccontare i settantadue nomi
di Pessoa. Solo così potremo comprendere le parole di ognuno e la storia che tutti
insieme narrano. Dobbiamo, cioè, entrare il quel circolo ermeneutico per cui dalla
narrazione si comprende il personaggio e dal personaggio si spiega la narrazione.
Dall’intreccio continuo dei due piani generale-particolare potremo sperare di
schiarire un po’ il mistero che avvolge tutta l’opera del Poeta.
Prima di tutto occorre capire quali siano i personaggi della narrazione, gli
eteronimi autentici, perché è chiaro fin da subito che non tutti quei settantadue
nomi lo sono. Forse lo sarebbero potuti essere, ma di fatto non lo sono tutti.
Se gli eteronimi sono personalità fittizie complete, differenti, dall’autore
che ne compone l’opera, per sentimenti, idee e stile letterario, notiamo subito che
è lo stesso Pessoa che usa la parola con una certa parsimonia. In un caso esplicitamente parla addirittura di “semi-eteronimo”. E spiega che chiama così Bernardo
Soares “porque, não sendo a personalidade a minha, é não diferente da minha,
mas simples mutilação dela. Sou eu menos o raciocínio e a afectividade. A prosa,
salvo que o raciocínio dá de tenue à minha, é igual a esta, e o portugês
perfeitamente igual”103. La diversità di stile sembra essere una discriminante tal101
Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1998, 187 B, pp. 111-113.
“Nessuno puó sperare di essere compreso prima che gli altri apprendano la lingua in cui parla”,
dalla lettera del 4 giugno 1915 al Direttore del «Diário de Notícias», in F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 163.
103
“[…] perché, non essendo mia la personalità, non è differente dalla mia, ma una sua semplice
mutilazione. Sono io meno il raziocinio e l’affettività. La prosa, eccetto in ciò che il raziocinio dà
102
41
mente forte che Fernando sente la necessità di precisare come per Bernardo Soares non ci troviamo di fronte ad un eteronimo vero è proprio. In un altro testo
leggiamo infatti che:
“Os tipos de figuras distinguem-se do seguinte modo: nas que destaco em absoluto, o
mesmo estilo me é alheio, e, se a figura o pede, contrário, até, ao meu; nas figuras que subscrevo
não ha diferença do meu estilo próprio, senão nos pormenores inevitáveis, sem os quais elas se não
distinguiriam entre si”104.
Ci sono allora figure totalmente differenti e ce ne sono altre sotto le quali
chi scrive è l’autore stesso, il quale ne condivide lo stile di scrittura; noi potremmo dire il tono della voce. Se proseguiamo nella lettura scopriamo che appartengono a questa categoria il Barão de Teive e, guarda caso, Bernardo Soares.
“O ajudante de guarda-livros Bernardo Soares e o Barão de Teive – são ambas figuras
minhamente alheias – escrevem com a mesma substância de estilo, a mesma gramática e o mesmo
tipo e forma de propriedade: é que escrevem com o estilo que, bom ou mau, é meu. Comparo as
duas porque são casos de um mesmo fenómeno – a inadaptação à realidade da vida, e, o que é
mais, a inadaptação pelos mesmos motivos e razões”105.
I due sono accomunati dal fatto che adottano il medesimo stile di scrittura
di Pessoa. Perciò non possono essere accomunati alle “figure” che si distaccano in
assoluto dall’autore, gli eteronimi appunto.
di sottile alla mia, è uguale a questa, e il portoghese perfettamente uguale”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 346.
104
“I tipi di figure si distinguono nel modo seguente: in quelle che distacco in assoluto, lo stesso
stile mi è estraneo, e, se la figura lo richiede, perfino contrario al mio; nelle figure sotto cui scrivo
non c’è differenza con il mio stesso stile, eccetto in dettagli inevitabili, senza i quali queste non si
distinguerebbero tra di loro”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 103. Traduco il termine “subscrever” (“sottoscrivere”), come “scrivere sotto”, perché mi è sembrato strano
che il Poeta non abbia usato il più comune vocabolo portoghese “assinar” (“firmare”), se il sottoscrivere si riferiva semplicemente al firmare le opere di questo secondo tipo di figure. Invece “subscrever” non esplicita a firma di chi sono le figure, ma dà risalto al fatto che sia il Poeta stesso a
nascondersi dietro di loro, al contrario del primo esempio di figure, e che perciò lo stile letterario
che ne derivi sia il medesimo.
105
“L’aiutante contabile Bernardo Soares e il Barão de Teive – sono entrambe mie figure estranee
– scrivono con la stessa sostanza di stile, la stessa grammatica e lo stesso tipo e forma di proprietà:
il fatto è che scrivono con uno stile che, bene o male, è mio. Comparo i due perchè sono casi di
uno stesso fenomeno – l’inadattamento alla realtà della vita, e, cioè che è di più, l’inadattamento
per gli stessi motivi e ragioni”, ibid., p. 104.
42
Del Barão de Teive non abbiamo molto. Solo uno scritto A educação do
estoico106 e qualche altro frammento mai pubblicati in vita da Pessoa. Di lui, per
giunta, non si dice affatto che sia un “semi-eteronimo”, anche se la comunanza
con Bernardo Soares ci può far dire questo per analogia.
Come per il Barão de Teive, possediamo scarne indicazioni anche dello
scrittore di gialli Abilio Quaresma107, di Frederico Reis108, di A. A. Crosse, il cui
nome conosciamo solo perché menzionato nelle lettere a Ofélia Queirós109, e così
di molti altri.
Come fare, dunque, a stabilire dei ruoli precisi se cominciamo a constatare
che Pessoa, oltre a non aver pubblicato in maniera organica nessuno scritto delle
personalità fittizie, ci ha lasciato anche numerose opere incomplete? Come fare a
ricostruire “il drama” e la funzione dei singoli attori se ciò che possediamo è per
lo più “fragmentos, fragmentos, fragmentos”?
Per affermare chi sia un eteronimo autentico e così comprenderne la funzione dobbiamo certo servirci dell’individuazione di personalità differenti secondo i canoni stabiliti, ma non possiamo farlo se non utilizzando anche dei criteri
meramente di quantità. Ovvero esaminare quanto Fernando Pessoa dice, progetta
e crea di un nome.
Sempre a proposito degli scritti di Bernardo Soares, il Poeta dice che devono essere pubblicati come sussidio, “pois que o B. S. não é um heterónimo, mas
uma personalidade literária”110. Il Livro do Desassossego di Bernardo Soares funge dunque da appoggio al “drama” degli eteronimi. Allora per analogia dobbiamo
dire che tale è anche la funzione del Barão de Teive. Ma, in base a quanto abbiamo di lui, che aiuto ne ricevono gli scritti eteronimi? Non molto. Per altro Pessoa
non inserisce il nome in nessun progetto di pubblicazione. Quindi, questo probabi106
Oggi si può leggere il testo in Barão de Teive, A Educação do Estóico, edição de Richard
Zenith, Assírio&Alvim, Lisboa, 2000.
107
I suoi romanzi gialli, progettati in numero di otto, non arrivarono ad essere che frammenti o
semplici schemi narrativi, cfr. F. Pessoa, Pessoa por conhecer, vol. II, Textos para um novo mapa,
Editorial Estampa, Lisboa, 1990, p. 262,
108
Di Frederico Reis, fratello o cugino del più famoso Ricardo, abbiamo solo uno scritto di Considerações sobre a poesia de Ricardo Reis, pubblicato postumo in F. Pessoa, Páginas íntimas e de
auto-interpretação, cit., pp. 386-387.
109
Si legga F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., pp. 321-322, p. 326, p. 331 e p. 336.
110
“Poiché B. S. non è un eteronimo, ma una personalità letteraria”, così scrive il Poeta a João Gaspar Simões nella lettera del 28 luglio 1932, in F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p.
269.
43
le “semi-eteronimo”, questa “personalità letteraria” ha ancora bisogno di definizione e la morte prematura di Pessoa toglie al Barão de Teive la possibilità di una
“esistenza autentica”. Perché gode di “esistenza autentica”, quindi, non solo l’eteronimo, ma anche chi, quale personalità letteraria, serva loro da sostegno. E noi
dobbiamo poter avere in mano sufficienti documenti di Pessoa dove si provi questo.
Così sappiamo che Bernardo Soares, pur non essendo eteronimo, svolge
una funzione, all’interno del “drama” Pessoa, che noi possiamo provare a ricostruire, ricordandoci, però, che anche del Livro do Desassossego Fernando non
pubblicò che frammenti e l’opera, così come l’abbiamo noi oggi, è il risultato del
collage meticoloso di più studiosi.
Quelli, invece, che hanno un ruolo ben definito in qualità di eteronimi sono
senz’altro Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Álvaro de Campos. Il Poeta stesso
afferma che:
“As obras heterónimas de Fernando Pessoa são feitas por, até agora, três nomes de gente
– Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Estas individualidades devem ser consideradas
como distintas da do autor delas”111.
Il “fino ad ora” lascia intendere che ci possano essere altri eteronimi.
Nella lettera a João Gaspar Simões, del 28 luglio 1932, Pessoa illustra perfino un progetto editoriale per Caeiro, Reis e Campos:
“Formarão uma série intitulada Ficções do Interludio, ou outra coisa qualquer que de
melhor me ocorra. Assim, o título do primeiro volume seria, pouco mais ou menos: Fernando
Pessoa – Ficções do Interlúdio – I. Poemas Completos de Alberto Caeiro (1889-1915). E os
seguintes de mesmo modo, incluindo um, curioso mas muito difícil de escrever, que contém o
debate estético entre mim, o Ricardo Reis e o Álvaro de Campos”112.
111
“Gli scritti eteronimi di Fernando Pessoa risultano composti, fino ad ora, da tre nomi di gente –
Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos. Queste individualità devono essere considerate
come distinte dal loro autore”, F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 404.
112
“Formeranno una serie intitolata Ficções do Interludio, o in qualche altro modo migliore che mi
sovvenga. Così, il titolo del primo volume sarebbe, poco più poco meno: Fernando Pessoa – Ficções do Interlúdio – I. Poemas Completos de Alberto Caeiro (1889-1915). E i successivi nella
stessa maniera, includendone uno, curioso ma molto difficile da scrivere, che contenga il dibattito
estetico tra me, Ricardo Reis e Álvaro de Campos”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit.,
p. 270.
44
Anche qui, come in precedenza, si sottolinea però che non si tratta di un
progetto chiuso, perché, potranno essere inclusi “ainda, outros heterónimos, pois
ainda há um ou outro (incluindo um astrólogo) para aparecer”113. Di chi si tratta?
L’astrologo di cui si parla potrebbe essere Raphael Baldaya, che menziona,
già nel 1915, anche Sá-Carneiro: “A sua incarnação em Raphael Baldaya, astrónomo de longas barbas é puramente de morrer a rir”114. Raphael Baldaya è autore di
un piccolissimo Tratado da Negação115 (Trattato della negazione) e di un compendio di Princípios de Metafísica Esotérica116 (Principi di metafisica esoterica). Dunque Pessoa parla di Raphael Baldaya, scrive per lui, ma del suo nome non si trova
traccia in nessun progetto.
Su chi, invece, si trovano numerosi progetti scritti è il filosofo António
Mora117. Il suo nome viene inserito affianco alla triade degli eteronimi ufficiali,
come testimoniano i manoscritti rinvenuti nell’Archivio di Fernando Pessoa e
pubblicati nel 2002 in un unico volume dedicato interamente ad António Mora. I
progetti fanno tutti riferimento alla costituzione di un movimento “neopagano”
portoghese di cui farebbero parte Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos e António Mora. Si tratta dello stesso “paganesimo trascendentale” che Pessoa
menziona all’amico Sá-Carneiro118?
Tra questi progetti con riferimenti ad António Mora, in alcuni, compare citato anche il Livro do Desassossego di Bernardo Soares119. O meglio, il Livro do
Desasocego di Vicente Guedes, primo autore fittizio dell’opera, poi sostituito dal
contabile Bernardo Soares. Sulla posizione del Livro, per una eventuale pubblicazione, ci sono documenti contrastanti: in due viene inserito alla fine degli scritti
113
“Ancora, altri eteronimi, infatti ce n’è uno o un altro (incluso un astrologo) da far comparire”,
ibid., p. 270.
114
“La sua incarnazione in Raphael Baldaya, astronomo dalla barba lunga è semplicemente da morir dal ridere”, Mário de Sá-Carneiro, op. cit., p. 249.
115
Pubblicato in F. Pessoa, Textos filosóficos, estabelecidos e prefaciados por António de Pina
Coelho, Ática, Lisboa, 1968, I vol., pp. 42-44.
116
Pubblicato in T. R. Lopes, Fernando Pessoa et le drame simboliste. Heritage et creation,
Fundação Calouste Gulbenkian – Centre Cultural Português, Paris, 1977, pp. 510-512.
117
F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit. pp. 153-168.
118
“[...] «paganismo trascendental» (é este o nome que eu dou ao modo de pensar a que havia
chegado)”, “«paganesimo trascendentale» (è questo il nome che dò al modo di pensare a cui ero
arrivato)”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 183.
119
Si tratta di: 5-83r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit.,
p. 155; 20-68r, ibid., p. 156; 48B-IIr, ibid., pp. 159-160; 48C-29r, ibid., p. 162.
45
degli eteronimi120, in altri due per primo121. Ma, comunque sia, non sembra essere
considerato però parte integrante del “neopaganesimo”, a confermare piuttosto la
sua funzione di sostegno, o preparatoria o conclusiva del piano dell’opera.
In un testo, sicuramente anteriore al 1929, che forse propende per una funzione preparatoria del Livro do Desassossego, Pessoa prova a darci il quadro complessivo:
“Estes livros serão os seguintes, por enquanto: Primeiro, este volume, «Livro do
Desasocego», escripto por quem diz de si-proprio chamar-se Vicente Guedes; depois «O
Guardador de Rebanhos» e outros poemas do (tambem, e do mesmo modo, fallecido) Alberto
Caeiro”122.
E spiega che:
“Este Alberto Caeiro teve dois discipulos e um continuador philosophico. Os dois
discipulos, Ricardo Reis e Alvaro de Campos, seguiram caminhos differentes; tendo o primeiro
intensificado e tornado artisticamente orthodoxo, o paganismo descoberto por Caeiro, e o segundo,
baseando-se em outra parte da obra de Caeiro, desenvolvido um systema inteiramente differente, e
baseado inteiramente nas sensações. O continuador philosophico, António Móra (os nomes são tão
inevitáveis, tão imposto de fora como as personalidades), tem um ou dois livros a escrever, onde
provará completamente a verdade metaphysica e pratica, do paganismo”123.
L’opera di Caeiro, Reis e Campos, dunque, non può prescindere da quella
del filosofo António Mora, il quale, anche se non viene mai definito “eteronimo”
o “semi-eteronimo”, ci sembra svolgere proprio questo ruolo, perché perfino lo
120
5-83r, ibid, p. 155 e dact. 48C-29r, ibid., p. 162.
20-71r, ibid., p. 108 e lettera a João Gaspar Simões del 28 luglio 1932 in F. Pessoa,
Correspondência. 1923-1935, cit., pp. 268-271.
122
“Questi libri saranno i seguenti, per adesso: primo, il volume «Livro do Desasocego», scritto da
chi dice di se stesso chiamarsi Vicente Guedes; successivamente «O Guardador de Rebanhos» e
altri poemi di (morto anche lui e nello stesso modo) Alberto Caeiro”, 20-71r, F. Pessoa, Obras de
António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 108.
123
“Questo Alberto Caeiro ha avuto due discepoli e un continuatore filosofico. I due discepoli, Ricardo Reis e Alvaro de Campos, hanno seguito percorsi differenti; avendo il primo intensificato e
reso artisticamente ortodosso il paganesimo scoperto da Caeiro e il secondo, basandosi su un’altra
parte dell’opera di Caeiro, sviluppato un sistema interamente differente e basato completamente
sulle sensazioni. Il continuatore filosofico, António Mora (i nomi sono tanto inevitabili, tanto imposti da fuori come le personalità), deve scrivere uno o due libri, dove dimostrerà completamente
la verità metafisica e pratica del paganesimo”, ibid., p. 108.
121
46
stile di scrittura è differente dai sentimenti e dai pensieri del suo autore che, una
volta, da ragazzo, ebbe a dire di sé: “I was a poet animated by philosophy, not a
philosopher with poetic faculties”124. E António Mora è un filosofo a tutti gli effetti.
Allora possiamo affermare che, più di Baldaya sicuramente, può essere
António Mora l’altro eteronimo, pronto per apparire, a cui si fa riferimento nella
sopraccitata lettera a Simões. Lo testimoniano le parole di Fernando, i suoi progetti e l’ingente mole di scritti che ci ha lasciato quasi totalmente inesplorata.
Anche il testo sul sistema dei quattro eteronimi termina, però, lasciando la
possibilità ad altri eteronimi di apparire sulla scena: “É possivel que, mais tarde,
outros individuos, d’este mesmo genero de verdadeira realidade, appareçam”125.
Molti sono davvero apparsi nella vita interiore di Pessoa, come testimoniano quei settantadue nomi, molti hanno lasciato più che una semplice traccia, come
Alexander Search126, ma solo di alcuni possiamo dire: “Eteronimi”. Se lo facciamo, è perché questi sono legati da un progetto chiamato “neopaganesimo” che,
seppure incompleto anch’esso, è il progetto più definito che troviamo del “drama
em gente”. In questo senso ci soffermeremo ora a conoscere più da vicino gli eteronimi Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos, António Mora e l’ortonimo, alpha e oméga della narrazione.
2.3 – Alberto Caeiro
124
“Io ero un poeta animato dalla filosofia, non un filosofo con qualità poetiche”, F. Pessoa, Obra
em Prosa de Fernando Pessoa. Escritos íntimos, cartas, e páginas autobiográficas, cit., p. 23.
125
“È possibile che, più avanti, altri individui, di questo stesso genere di vera realtà, appaiano”,
20-71r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 108.
126
Alexander Search sembra essere la personalità fittizia creata da Pessoa per scrivere poesie in inglese. I suoi documenti si riferiscono tutti al periodo tra il 1907 e il 1908, ma non si esclude che
Pessoa abbia cominciato a crearne la personalità già in precedenza. Comunque quello che appare
assodato è che Search smetta di scrivere dopo il 1908, prima della nascita degli eteronimi ufficiali
del Poeta portoghese. Per comprendere la problematica della collocazione dell’opera di Search si
legga il tomo II del V volume dell’edizione critica, Poemas Ingleses. Poemas de Alexander
Search, edição de João Dionísio, Imprensa Nacional – Casa da Moeda, Lisboa, 1997.
47
Di Alberto Caeiro sappiamo, da Pessoa e da Ricardo Reis127, che nasce il
1889 a Lisbona e muore, sempre nella stessa città, il 1915 per tubercolosi. La
creazione della finzione si arresta a questi scarni dati biografici a rispettare la volontà dello stesso Caeiro:
“Se, depois de eu morrer, quizerem escrever a minha biografia,
Não há nada de mais simples.
Tem só duas datas – a da minha nascença e a da minha morte.
Entre uma e outra cousa todos os dias são meus”128.
Álvaro de Campos si sofferma, invece, sulla descrizione del suo aspetto:
occhi azzurri, capelli biondi, zigomi pronunciati, colore pallido, altezza media con
un “estranho ar grego, que vinha de dentro e era uma calma, e não de fora, porque
não era expressão nem feições”129.
È abile Fernando Pessoa a creare nell’immaginazione del lettore un volto a
cui associare le poesie di Caeiro, ma a non andare troppo oltre, col rischio che si
dimentichi la centralità del testo poetico. Reis ne corrobora l’intenzione: “Seus
poemas são o que houve nelle de vida”130. Certo è, infatti, che prima sono nate le
poesie, solamente quelle, poi è venuto il nome, quindi la creazione del personaggio, con biografie, testimonianze e oroscopi. Lo stesso Pessoa, nella famosa lettera sulla genesi degli eteronimi a Casais Monteiro, spiegando come Caeiro sia nato
127
Pessoa ci dà le notizie biografiche di Caeiro nella lettera ad A. Casais Monteiro del 13 gennaio
1935, cfr. F. Pessoa, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 344. Ricardo Reis accresce le
informazioni di qualche piccolo dettaglio: “Alberto Caeiro da Silva nasceu em Lisboa a (...) de
Abril de 1889, e nessa cidade falleceu, tuberculoso, em (...) de (...) de 1915. A sua vida, porém,
decorreu quase toda numa quinta do Ribatejo; só os primeiros dois anos d’elle e os últimos meses
foram passados na sua cidade natal” (“Alberto Caeiro da Silva è nato a Lisboa il (...) di aprile del
1889, e in questa città è morto, di tubercolosi, il (...) di (...) del 1915. Trascorse quasi tutta la sua
vita, però, in un casale del Ribatejo; passò nella sua città natale solo i primi due anni e gli ultimi
mesi”), 21-73r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição
crítica, cit., p. 21.
128
“Se, dopo la mia morte, volessero scrivere la mia biografia, / non c’è niente di più semplice. / Si
compone solo di due date – quella della mia nascita e quella della mia morte. / Tra l’una e l’altra
cosa tutti i giorni sono miei”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de
Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, recolha, transcrição e notas de Teresa Sobral Cunha,
posfácio de Luís de Sousa Rebelo, Editorial Presença, Lisboa, 1994, n. 20, p. 126.
129
“Strana aria greca, che proveniva da dentro e era una quiete, e non dall’esterno, perché non era
né dell’espressione né dei lineamenti”, 16A-14r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica
de Fernando Pessoa, cit., p. 113.
130
“Le sue poesie sono ciò che c’è stato in lui di vita”, 21-73 r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o
ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 22.
48
con l’intenzione di fare uno scherzo a Sá-Carneiro, ne mostra l’ordine di apparizione degli elementi:
“Levei uns dias a elaborar o poeta, mas nada consegui. Num dia em que finalmente
desistira – foi em 8 de Março de 1914 -, acerquei-me de uma cómoda alta, e, tomando um papel,
comecei a escrever, de pé, como escrevo sempre que posso. E escrevi trinta e tantos poemas a fio,
numa espécie de êxtase cuja natureza não conseguirei definir. Foi o dia triunfal da minha vida, e
nunca poderei ter outro assim. Abri com um título, «O Guardador de Rebanhos». E o que se seguiu
foi o aparecimento de alguém em mim, a quem dei desde logo o nome de Alberto Caeiro.
Desculpe-me o absurdo da frase: aparecera em mim o meu mestre. Foi essa a sensação imediata
que tive”131.
Alberto Caeiro, alla fine, comporrà tre raccolte di poesie: O Guardador de
Rebanhos, O Pastor Amoroso (Il pastore innamorato) e Poemas Inconjunctos.
Tutte di genere bucolico, come voleva lo scherzo a Sá Carneiro. Ma, tra spontaneità e intenzionalità, Caeiro risponde solo in parte al tentativo di creare una poesia bucolica. Perché la sua non è dello stesso genere degli antichi, di Teocrito, di
Mosco o di Virgilio per intenderci. Non si cantano né amori, né gare di musica tra
pastori e dei. Non c’è nessun riferimento alla vita della pastorizia.
Il “pastore”, qui, è il poeta, Caeiro: “Sou um guardador de rebanhos”132,
che, però, subito specifica: “Eu nunca guardei rebanhos, / mas é como se os guardasse”133. Come è possibile? Un pastore che non ha mai portato al pascolo nessuna
bestia? Il rapporto si sposta più in profondità ad indicare come in realtà sia l’anima del poeta ad essere come un pastore, il quale “conhece o vento e o sol / e anda
pela mão das Estações / a seguir e olhar” 134. Il peregrinare dell’anima, paragonato
131
“Passai alcuni giorni a elaborare il poeta, ma senza ottenere nulla. Un giorno, nel quale alla fine
avevo desistito – era l’8 marzo 1914 -, mi avvicinai ad un alto comò, e, dopo aver preso un foglio,
cominciai a scrivere, in piedi, como scrivo sempre quando posso. E scrissi trenta e più poesie di
getto, in una specie di estati la cui natura non saprei definire. Fu il giorno trionfale della mia vita, e
non ne potrò mai avere un altro così. Aprii con il titolo, «Il guardiano di greggi». E ciò che seguì
fu l’apparizione in me di qualcuno, a cui diedi subito dopo il nome di Alberto Caeiro. Mi perdoni
l’assurdo della frase: era apparso in me il mio maestro. Fu questa la sensazione immediata che
ebbi”, F. Pessoa, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 343.
132
“Sono un guardiano di greggi”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de
Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. IX, p. 58.
133
“Io non ho mai guardato greggi / ma è come se l’avessi fatto”, ibid., n. I, p. 41.
134
“Conosce il vento e il sole / e va per la mano delle stagioni / a seguire e guardare”, ibid., n. I, p.
41.
49
a quello del pastore, è un andare per il mondo “a guardare” e a “seguire il passare
delle stagioni”. Il gregge diventa allora ciò si custodisce dopo aver guardato:
“O rebanho é os meus pensamentos
E os meus pensamentos são todos sensações.
Penso com os olhos e com os ouvidos
E com as mãos e os pés
E com o nariz e a bocca.
Pensar uma flor é vel-a e cheiral-a
E comer um fructo é saber-lhe o sentido”135.
Il pastore è l’anima e il gregge sono i pensieri, ma i pensieri sono sensazioni. Quale rovesciamento di prospettiva attua la poesia di Caeiro se Campos, in
qualche occasione, accusò l’impressione che “estava discutendo, não com outro
homem, mas com outro universo”136? La ricostruzione integrale del paganesimo,
la cui opera di Caeiro rappresenta, come né i greci né i romani conobbero mai,
passa attraverso una riforma delle nostre sensazioni. Dice Reis, infatti, che l’opera
del suo “maestro” “foi um progresso de sensações, ou, antes, de maneiras de as
ter, e uma evolução intima de pensamentos derivados de taes sensações
progressivas”137, tale che “creou um conceito do universo que é contra nossas
interpretações”138.
Caeiro, servendosi di un’efficace similitudine, ci sta dicendo che i suoi
pensieri sono sensazioni e che se vogliamo pensare ad una cosa dobbiamo utilizzare gli organi di senso e non l’intelletto. Per ciò il conoscere la verità diventa un
coricarsi nella realtà di cui si ha percezione, anche se non sono coinvolti tutti e
cinque i sensi:
135
“Il gregge è i miei pensieri / e i miei pensieri sono tutte sensazioni. / Penso con gli occhi e con
gli orecchi / e con le mani e i piedi / e con il naso e la bocca. / Pensare un fiore è vederlo e annusarlo / e mangiare un frutto è assaporarne il gusto”, ibid., n. IX, 58.
136
“Stavo discutendo, non con un altro uomo, ma con un altro universo”, 16A-17 r, F. Pessoa,
Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 116.
137
“Fu un progresso di sensazioni, o, prima, dei modi di averle, e un’intima evoluzione dei pensieri
derivati da tali sensazioni progressive”, 21-73r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão.
Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 22.
138
“Ha creato un concetto di universo contrario alle nostre interpretazioni”, 21-74r, ibid., p. 22.
50
“Por isso quando num dia de calor
Me sinto triste de gosal-o tanto,
E me deito ao comprido na herva,
E fecho os olhos quentes,
Sinto todo o meu corpo deitado na realidade,
Sei a verdade e sou feliz”139.
Sono le sensazioni, infatti, che ci restituiscono il mondo così come esso è:
le cose, dice Caeiro, non sono che quello che ci appaiono e sono in quanto non
sono altro da quello che appaiono140:
“O luar atravez dos altos ramos,
Dizem os poetas todos que elle é mais
Que o luar atravez dos altos ramos.
Mas para mim, que não sei o que penso,
O que o luar atravez dos altos ramos
É, alem de ser
O luar atravez dos altos ramos,
É não ser mais
Que o luar atravez dos altos ramos”141.
Come le cose “sono” perché “non sono altro”, così anche i ricettori di questa trasparenza ontologica, i sensi, sono posti al riparo dall’errore, secondo la stessa logica:
139
“Per questo quando in una calda giornata / mi sento triste di goderne tanto, / e mi sdraio disteso
sull’erba, / e chiudo gli occhi accaldati, / sento tutto il mio corpo coricato nella realtà, / so la verità
e sono felice”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis.
Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. IX, p. 58.
140
Nel suo saggio, Fernando Pessoa ou a metafísica das sensações, il filosofo José Gil osserva
acutamente che l’essenziale della logica dell’emozione metafisica di Caeiro risiede nell’affermare
che una cosa “é o que é” (“è ciò che è”) e che la “positividade da coisa só se obtém graças à negação de tudo o que ela não é, negação de todo o «halo» possível” (“positività della cosa si ottiene
sono grazie alla negazione di tutto quello che non è, negazione di tutto l’«alone» possibile”). José
Gil, op. cit., p. 125.
141
“Il chiaro di luna attraverso degli alti rami, / dicono tutti i poeti che è di più / del chiaro di luna
attraverso degli alti rami. / Ma per me, che non so ciò che penso, / ciò che il chiaro di luna attraverso degli alti rami / è, al di là di essere / il chiaro di luna attraverso degli alti rami, / è non essere
nulla più / che il chiaro di luna attraverso degli alti rami”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto
Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. XXXV, p. 85.
51
“O que nós vemos das cousas são as cousas.
Porque veriamos nós uma cousa se houvesse outra?
Porque é que ver e ouvir seriam illudirmo-nos
Se ver e ouvir são ver e ouvir?”142.
I poeti mistici e i filosofi tutti dovrebbero allora preoccuparsi di capire perché le cose si diano in questa trasparenza, piuttosto che andare alla ricerca di inesistenti significati occulti, dal momento che “o unico sentido intimo das cousas / É
elles não terem sentido intimo nenhumo”143. E ancor più chiaramente:
“As cousas não teem significação: teem existência.
As cousas são o unico sentido occulto das cousas”144.
Ma il problema dei mistici, e dei filosofi in generale, è quello di non avere
gli occhi solo per vedere, come vanta di sé Caeiro. Non basta infatti “abrir a
janella / para ver os campos e o rio”145, né basta “não ser cego / Para ver as arvores
e as flores”146, occorre anche “não ter philosophia nenhuma”147.
Se pensare è non comprendere il mondo, allora non dobbiamo avere nessuna filosofia, ma solo sensi e il pensiero stesso, nei versi del poeta, non diventa altro che una malattia degli occhi, la quale ne corrompe l’innocenza dello sguardo.
Che valore avrebbero, però, tutte le poesie di Caeiro sulle cose e sui sensi,
se anch’esse sembrano essere parti di una grande metafisica? Non c’è forse una
contraddizione tra i due ruoli svolti da Caeiro, quello del “filosofo” che giustifica
l’affermazione della trasparenza delle cose e quello del “poeta” che nega ogni filosofia per coglierne proprio la trasparenza? Noi, in realtà, ci troviamo di fronte
142
“Ciò che noi vediamo delle cose sono le cose. / Perché vedremmo noi una cosa se ce ne fosse
un’altra? / Perché vedere e sentire sarebbero un illuderci / se vedere e sentire sono vedere e sentire?”, ibid., n. XXIV, p. 74.
143
“L’unico senso intimo delle cose / è il loro non aver nessun senso intimo”, ibid., n. V, p. 49.
144
“Le cose non hanno significato: hanno esistenza. / Le cose sono l’unico senso occulto delle
cose”, ibid., n. XXXIX, p. 89.
145
“Aprire la finestra / per vedere i campi e il fiume”, ibid., n. 1, p. 113.
146
“Non essere cieco / per vedere gli alberi e i fiori”, ibid., n. 1, p. 113.
147
“Non avere nessuna filosofia”, ibid., n. 1, p. 113.
52
alla manifestazione di un grado minimo di metafisica, quella che “basta quando
non si pensa a niente”148.
Ma la cosa più sconcertante è come, in questa negazione del pensiero delle
cose, si perda anche la possibilità di nominarle. La poesia, allora, nel tentare di
esprimere questo indicibile, sceglie la via della negazione e di farsi essa stessa
non-poesia:
“A única coisa que uma pedra lhe diz é que nada tem para lhe dizer. Pode-se conceber um
estado de espírito parecido com este, mas não pode conceber-se num poeta. Esta maneira de olhar
para uma pedra pode ser definida como a maneira totalmente não-poética de a olhar”149.
Nella totale identificazione della sensazione alla cosa, dello sguardo a ciò
che è visto, Caeiro sa che non sempre rimane coerente al suo progetto e si scusa
se, per dire che la natura è indicibile, ha bisogno “da linguagem dos homens / Que
dá personalidade às coisas, / E impõe nome às coisas”150, perché “as coisas não
têm nome nem personalidade: / Existem”151. Così, a maggior ragione, i nomi universali nascondono ancora di più il mondo alla nostra percezione:
“Falaram-me em / homens/, em humanidade,
Mas eu nunca vi / homens/ nem vi humanidade.
Vi um homem assombrosamente diferente um do outro
Cada um separado do outro por um espaço sem homens”152.
Il linguaggio umano cela la trasparenza e la “semplicità divina” che appartengono, invece, alle cose. Secondo José Gil, possiamo distinguere, allora, due
148
Perciò Caeiro scrive che “há metaphysica bastante em não pensar em nada” (“C’è sufficiente
metafisica nel non pensare a niente”). Ibid., n. V, p. 48.
149
“L’unica cosa che una pietra gli dice è che non ha nulla da dirgli. Si può concepire uno stato di
spirito simile a questo, ma non può concepirsi in un poeta. Questa maniera di guardare una pietra
può essere definita come la maniera totalmente non-poetica di guardare”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 346.
150
“Del linguaggio degli uomini / che dà personalità alle cose, / e impone nomi alle cose”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. XXVII, p. 77.
151
“Le cose non hanno nome né personalità: / esistono”, ibid., n. XXVII, p. 77.
152
“Mi hanno parlato in uomini, in umanità, / ma io non ho mai visto uomini né ho visto umanità. /
Ho visto un uomo meravigliosamente differente uno dall’altro / ciascuno separato dall’altro da uno
spazio senza uomini”, ibid., n. 32, p. 131.
53
fasi nella poesia di Caeiro: la prima fase è data dal discorso meta-poetico che riflette sul tradimento del dire l’indicibile natura delle cose. La seconda fase è data
dal tentativo di scrivere un’antipoesia che sia in grado solo di indicare le cose, affinché si compia quella perfetta unione tra senziente e sentito e il lettore abbia
l’impressione che il poeta sia l’albero di cui parla:
“E ao lerem os meus versos pensem
Que sou uma qualquer cousa natural –
Por exemplo, a arvore antiga
À sombra da qual quando creanças
Se sentavam com um baque, cansados de brincar,
E limpavam o suor da testa quente
Com a manga do bibe riscado”153.
Per questo, evidenzia ancora Gil, non dobbiamo stupirci se nella poesia di
Caeiro non troviamo descritti gli oggetti nominati: già il dire che “a coisa é apenas
uma coisa”154 è una forma di opacizzazione della sensazione originaria. Ma è il minimo indispensabile affinché si possa ritornare alle cose, perché “le cose sono l’unico senso occulto delle cose”.
Questo desiderio di trasparenza e di identificazione si ripercuote inevitabilmente anche sullo stile poetico di Caeiro, il quale dice che se non usa le rime è
perché in natura non si trovano due alberi uguali: “Penso e escrevo como as flores
têm cor”155. Se nemmeno la natura è regolare perché la poesia che ci invita a ritornare alle cose dovrebbe esserlo? I suoi versi, per questa mancanza assoluta di
regolarità, sembrano “traducções para linguagem humana de poemas escriptos no
idioma dos Deuses, que na versão conservam o divino equilibrio, a divina calma,
a unidade sobrehumana de obras de mãos immortais”156. Nei versi di Caeiro, dun153
“E al leggere i miei versi pensino / che sono una qualche cosa naturale – / per esempio, l’albero
antico / alla cui ombra quando erano bambini / si sedevano con un tonfo, stanchi di giocare, / e si
asciugavano il sudore dalla testa calda / con la manica del grembiule a righe”, ibid., n. I, p. 43.
154
“La cosa è appena la cosa”, J. Gil, op. cit., p. 123.
155
“Penso e scrivo come i fiori hanno colore”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro.
Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. XIV, p. 63.
156
“Traduzioni in linguaggio umano di poemi scritti nell’idioma degli dei, che nella versione conservano il divino equilibrio, la divina calma, l’unità sopra-umana di scritti di mani immortali”,
21-106r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit.,
p. 37.
54
que, la traduzione immediata di quella disorganicità per cui “a Natureza è partes
sem um todo”157, apice dell’oggettivismo assoluto che, secondo le parole di Ricardo Reis, la sua poesia persegue con dovizia.
Nel movimento che va dall’uomo alle cose, ossia il rivolgersi alla loro trasparenza attraverso le sensazioni, il “guardiano di greggi” ritrova la misura del
suo essere: “Eu sou do tamanho do que vejo”158. Ciò che è guardato, l’albero o la
pietra, se visto nella trasparenza di uno sguardo innocente, restituisce all’uomo il
proprio spazio nel mondo, che è l’essere il soggetto del vedere. Se infatti “a minha
alma só pode ser definida por termos de fora”159, chi ci restituisce al nostro ruolo
di “pastori che guardano” sono solo le cose fuori di noi, e più propriamente gli occhi degli altri uomini.
“Eu queria ter o tempo e o sossego suficientes
para não pensar em coisa nenhuma,
para nem me sentir viver,
para só saber de mim nos olhos dos outros, reflectido”160.
Come le cose esistono perché viste con innocenza, così l’uomo esiste perché misurato dalle cose viste: nello sguardo autentico chi è visto è restituito al
proprio “non essere altro” e chi vede ad un’esistenza tutta esteriore. In questo duplice movimento dal soggetto all’oggetto del vedere e dall’oggetto al soggetto si
radica la differenza che separerà i due discepoli di Alberto Caeiro: Álvaro de
Campos e Ricardo Reis. Il primo sembra considerare solo quei versi di Caeiro che
dicono: “Olhando para as minhas idéas e vendo o meu rebanho”161, dove il gregge,
abbiamo visto, sono le sensazioni. Il secondo si ispira ai versi: “Olhando para o
meu rebanho e vendo as minhas idéas”162. Per l’uno Caeiro è totalmente un poeta
sensazionista, mentre per l’altro assolutamente no. Per il primo è un poeta istintivo, per il secondo poeta intellettuale tutt’altro che istintivo. A seconda che si pri157
“La Natura è parti senza un tutto”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de
Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. XLVII, p. 98.
158
“Io sono della misura di ciò che vedo”, ibid., n. VII, p. 51.
159
“La mia anima può essere definita solo per termini esterni”, ibid., n. 50, p. 140.
160
“Io vorrei avere il tempo e la tranquillità sufficienti / per non pensare a nessuna cosa / né per
sentirmi vivere, / per sapere di me solo negli occhi degli altri, riflesso”, ibid., n. 40, p. 134.
161
“Guardando le mie idee e vedendo il mio gregge”, ibid., n. I, p. 42.
162
“Guardando il mio gregge e vedendo le mie idee”, ibid., n. I, p. 42.
55
vilegi il movimento di esteriorizzazione, dal percipiente al percepito, oppure il
movimento di ritorno, dalle sensazioni al soggetto.
Ma per tutti Caeiro è e rimane il grande maestro del neopaganesimo
portoghese, “na sua essencia absoluta tal como nem os gregos nem os romanos,
que viveram nelle e porisso o não pensaram, o puderam fazer”163. Con la sua
poesia Caeiro è “o revelador da Realidade, ou, como elle mesmo disse, «O
Argonauta das sensações verdadeiras» - o grande Libertador, que nos restituiu,
cantando, ao nada luminoso que somos; que nos arrancou á morte e á vida,
deixando-nos entre as simles coisas, que nada conhecem, em seu decurso, de viver
nem de morrer”164. In questo modo Caeiro é “qualcuno”: il “S. Francesco d’Assisi
del nuovo paganesimo”165, nonostante le imperfezioni che pure gli appartengono o
i compromessi accettati nella “traduzione” in lingua umana della semplicità divina
della natura.
“Sou o Descobridor da Natureza.
Sou o Argonauta das sensações verdadeiras.
Trago ao Universo um novo Universo
Porque trago ao Universo ele-proprio”166.
2.4 – Ricardo Reis
“Aparecido Alberto Caeiro, tratei logo de lhe descobrir – instintiva e subcoscientemente –
uns discípulos. Arranquei do seu falso paganismo o Ricardo Reis latente, descobri-lhe o nome, e
ajustei-o a si mesmo, porque nessa altura já o via”167.
163
“Nella sua essenza assoluta, tale come né i greci, né i romani, che lo avevano vissuto e per questo non vi avevano riflettuto, lo avrebbero potuto fare”, 21-73r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o
ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 22.
164
“Il rivelatore della realtà, o, come disse lui stesso, «l’Argonauta delle vere sensazioni» - il grande liberatore, che ci ha restituito, poetando, al nulla luminoso che siamo; che ci ha strappato alla
morte e alla vita, lasciandoci tra le semplici cose, che nulla conoscono, nel loro decorso, del vivere
né del morire”, 21-74r, ibid., p. 23.
165
L’espressione è di António Mora, cfr. 121-16r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 234.
166
“Sono lo Scopritore della Natura. / Sono l’Argonauta delle vere sensazioni. / Porto all’Universo
un nuovo Universo / perché gli porto se stesso”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro.
Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. XLVI, p. 97.
167
“Apparso Alberto Caeiro, mi occupai subito di trovargli – istintivamente e subcoscientemente –
alcuni discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli trovai il nome, lo
56
Reis era “nell’aria”. O meglio, era lì pronto ad apparire come discepolo del
falso paganesimo di Caeiro. Ma perché “falso”? Lo vedremo più avanti.
Come per Caeiro, Pessoa si preoccupa di creare il contesto nel quale inserire le poesie di Ricardo Reis. Lo vuole nato ad Oporto nel 1887 ed, educato in un
collegio di gesuiti, lo fa medico. Inoltre Reis “vive no Brasil desde 1919, pois se
expatriou expontaneamente por ser monarquico”168.
Dal suo maestro Caeiro, il dott. Ricardo recepisce in pieno la lezione della
purificazione dello sguardo sulle cose e sulla natura, l’oggettivismo assoluto,
come lui stesso lo aveva chiamato. Anche Reis, infatti, si schiera apertamente
contro ogni pensiero che inquini la percezione del mondo esteriore:
“Para què complicar inutilmente,
Pensando, o que impensado existe? Nascem
Hervas sem razão dada –
Para ellas olhos, não razões, tenhamos”169.
Se le cose esistono senza un motivo, perché affannarsi inutilmente a pensare a ciò che è, senza essere pensato? Si afferma anche qui, come per Caeiro, l’importanza del solo “vedere”, dell’impiegare esclusivamente i sensi nella conoscenza del mondo esteriore. Tutto il resto non conta nulla:
“Emquanto eu vir o sol luzir nas folhas
E sentir toda a briza nos cabellos
Não quererei mais nada.
Que me pode o Destino conceder
Melhor que o lapso sensual da vida
Entre ignorâncias destas?”170.
adattai a lui, perché in questo periodo già lo vedevo”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit.,
p. 343.
168
“Vive in Brasile dal 1919, quando espatriò spontaneamente per le sue idee monarchiche”, ibid.,
p. 345.
169
“Perché complicare inutilmente, / pensando, ciò che impensato esiste? Nasce / l’erba senza una
data ragione - / per lei occhi, non ragioni, abbiamo”, 52-25r, F. Pessoa, Poemas de Ricardo Reis,
Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. III, edição e introdução de Luiz Fagundes Duarte, Lisboa,
1994, p. 173.
170
“Finché vedrò il sole brillare nelle foglie / e sentirò tutta la brezza nei capelli / non chiederò più
niente. / Che cosa mi può concedere il Destino / di meglio che il lasso sensuale della vita / nell’ignoranza di ciò?”, 51-54r, ibid., p. 157.
57
Perfino la gloria, l’onore e la ricchezza non sono nulla di fronte alla “consciencia lucida e solemne / Das cousas e dos seres”171. L’uomo deve custodire solo
ciò che gli deriva dagli insegnamenti del proprio corpo: “Apprende o que te ensina / Teu corpo, teu limite”172. Il corpo, quale limite dell’uomo, è il mezzo con cui
noi conosciamo la realtà e attraverso cui la realtà si dà a noi. Come ci ritorna,
però, questa realtà, esperita grazie ad un “limite”?
“Mas dorme em cada campo o outomno d’elle
O hynverno cresce com as folhas verdes”173.
Nello sfolgorio delle foglie si nasconde già il loro morire. Il nostro corpo
esperisce il non essere eterno delle cose. Le sensazioni consegnano al limite fisico
che è il nostro corpo anche il limite temporale degli esseri: la morte. Così per analogia, anche l’uomo, ente tra gli enti, esperisce il proprio limite temporale:
“Ólho os campos, Neëra,
Verdes campos, e sinto
Que um dia virá a hora
Em que não mais os olhe”174.
Tutta la poesia di Reis è una riflessione a posteriori sulle nostre sensazioni.
Se Caeiro, infatti, ci aveva insegnato che l’uomo è il custode dello sguardo innocente sulla natura, Reis compie un passo in più e la sua custodia diventa un’analisi
cruda della caducità dell’uomo. La vita, seppure ci sembri lunga, non è che un
tempo breve e l’uomo non vive che un giorno, come le rose dei giardini di Adone:
“As rosas amo dos jardins de Adonis,
Essas volucres amo, Lydia, rosas,
Que em o dia em que nascem,
Em esse dia morrem.
171
“Coscienza lucida e solenne / delle cose e degli esseri”, 51-23r-v, ibid., p. 118.
“Apprendi ciò che ti insegna / il tuo corpo, tuo limite”, 52-19r, ibid., p. 158.
173
“Ma dorme in ogni campo il proprio autunno / L’inverno cresce con le foglie verdi”, 52-19 r,
ibid., p. 159.
174
“Guardo i campi, Neera, / i verdi campi, e sento / che un giorno arriverà l’ora / in cui più non li
guardi”, 51-50r, ibid., p. 120.
172
58
A luz para ellas é eterna, porque
Nascem nascido já o sol, e acabam
Antes que Apollo deixe
O seu curso visivel.
Assim façamos nossa vida um dia,
Inscientes, Lydia, voluntariamente
Que ha noite antes e após
Do pouco que durâmos”175.
E nel vivere solo un giorno non consideri l’uomo la possibilità che ci sia
stato un “ieri” o ci sia un “domani”. Occorre vivere “inscientes” (“in-scienti”),
senza cioè nessuna scienza di ciò che siamo stati e di ciò che saremo, perchè essa
“não põe / Mais flores do que Flora pelos campos, / Ném dá de Apollo ao carro /
Outro curso que Apollo”176. Sia l’uomo, allora, custode della caducità, ma custode
impassibile e ignaro del mutare delle cose e dell’abisso che la sorte potrebbe interporre tra il bicchiere che svuotiamo e quello che riempiamo:
“Não queiras, Lydia, edificar no spaço
Que figuras futuro, ou prometter-te
Amanhã. Cumpre-te hoje, não sperando.
Tu mesma és tua vida.
Não te destines, que não és futura.
Quem sabe se, entre a taça que esvazias,
E ella de novo enchida, não te a sorte
Interpõe o abysmo?”177
175
“Amo le rose dei giardini di Adone, / queste effimere rose, Lidia, io amo, / che nel giorno in cui
nascono / anche muoiono. / La luce per loro è eterna, perché / nascono quando il sole è già nato, e
finiscono / prima che Apollo lasci / il suo corso visibile. / Così facciamo la nostra vita un giorno, /
ignoranti, Lidia, volontariamente / della notte che c’è prima e dopo / del poco che duriamo”, ibid.,
n. II, p. 65.
176
“Non pone / più fiori di Flora nei campi, / né da al carro di Apollo / un altro percorso che quello
di Apollo”, 51-100r-v, ibid., p. 111.
177
“Non volercostruire, Lidia, nello spazio / che ti immagini futuro, o prometterti / un domani.
Realizzati oggi, senza sperare. / Tu stessa sei la tua vita. / Non darti un destino / perché non sei futura. / Chi sa se, tra la tazza che svuoti, / e quella che riempi di nuovo, la sorte non ti / interponga
l’abisso?”, ibid., n. XVII, p. 73.
59
Pessoa, sotto il nome di Frederico Reis, afferma che l’opera di Ricardo è
imbevuta di un “epicureismo triste”178. All’epicureismo, che pone il proprio criterio di verità nelle sensazioni, quasi come si è visto precedentemente per Caeiro e
ora per Reis, si aggiunge l’aggettivo “triste”, che in una certa misura sembra tradirne il possesso dell’atarassia179. “Triste” è il sentimento che scaturisce dalla visione della caducità delle cose.
Ma la morte non era un “nulla” per gli epicurei? Come, dunque, provare
tristezza dinnanzi al perire delle cose? Nella Epistola a Meneceo Epicuro scrive,
infatti, che la morte non è “nulla”, “perché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa”180 e questa “retta conoscenza che niente è per
noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo,
ma togliendo il desiderio dell’immortalità”181.
Ciò non vuol dire, però, che Epicuro negasse che vi fossero uomini che
soffrissero dinnanzi alla morte e alla caducità degli esseri. Il suo possesso dell’atarassia era, anzi, il tentativo filosofico di allontanare questa angoscia dall’animo
umano182. Non un possesso immobile, ma un possesso da ricercare, mai posseduto
definitivamente, una lotta con se stessi. E questa aspra lotta tra filosofia e angoscia, tra razionale e irrazionale, è la stessa che anima, con toni differenti, la poesia
di Lucrezio e quella di Orazio183, al quale si ispira direttamente Ricardo Reis che,
se ha contratto qualche debito nei confronti di Epicuro, è proprio grazie ad Orazio184.
178
L’unico scritto che abbiamo a firma di Frederico Reis, come già visto, è un commento all’opera
di Ricardo Reis e qui leggiamo che “resume-se num epicureismo triste toda a filosofia da obra de
Ricardo Reis” (“tutta la filosofia dell’opera di Ricardo Reis si riassume in un epicureismo triste”),
F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 386.
179
Atarassia è il sostantivo greco che definisce la condizione del saggio epicureo. Esso vuol dire
“calma”, “imperturbabilità”.
180
Epicuro, Epistola ad Menoeceum, in Opere, a cura di Graziano Arrighetti, Einaudi, Torino,
19722 (I ed. 1960), 124, 7-8, p. 108.
181
Ibid., 124, 9-12, p. 108.
182
Per comprendere meglio il tema dell’atarassia in Epicuro come lotta tra angoscia esistenziale e
dominio della ragione, si legga l’interessante riabilitazione di Lucrezio all’ortodossia epicurea in
Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, vol. III, Vita e Pensiero, Milano, 1997, pp. 278-283.
183
Orazio aderì all’epicureismo per tramite degli insegnamenti di Filodemo di Gadara.
184
Pessoa conosceva certamente la filosofia di Epicuro per tramite di manuali di storia della filosofia, ma non sappiamo se ne avesse fatto una lettura diretta. Conosceva molto bene, invece, Orazio
del quale si era preoccupato di studiarne con attenzione anche la metrica, come testimonia il libro
che possedeva nella sua biblioteca, cfr. Orazio, Oeuvres d'Horace. Avec une étude biographique et
litteraire de la metrique et la prosodie dans les odes par F. Plessis e P. Lejay, Hachette, Paris,
19093.
60
È in Orazio, infatti, che si avverte il senso di angoscia nei confronti della
certezza della morte e il suo “Carpe diem, quam minimum credula postero”185 diventa un invito a godere del tempo presente, dove questo tempo, scrive Reis, siamo noi stessi: “Colhe / O dia, porque és elle”186.
Se la morte è la certezza della fine, del limite temporale della vita che si dà
nell’incertezza di un’ora non conosciuta, all’uomo rimane solo il vivere nelle sensazioni presenti e non “rimandare al futuro le gioie della vita”187:
“Tam cedo passa tudo quanto passa!
Morre tam joven ante os deuses quanto
Morre! Tudo é tam pouco!
Nada se sabe, tudo se imagina.
Circunda-te de rosas, ama, bebe
E cala. O mais á nada”188.
Nel non attendersi l’immortalità189, che appartiene solo agli dei, l’uomo è
obbligato a concentrarsi su ciò che vive “hic et nunc” e così, se da un lato l’angoscia della morte sembrava una contraddizione, da un altro è proprio questa che
sembra esaltare l’importanza veritativa delle sensazioni.
Reis, attraverso Orazio ed Epicuro, trova un modo per non ignorare il senso di caducità che compare nella più pura percezione degli enti. E, oltre a non
ignorarlo, lo tematizza nella ricerca, però, di non farne prevalere lo sgomento nella vita dell’uomo. Perciò, dice Álvaro de Campos, per Ricardo Reis noi non
dobbiamo fare altro che “conformemo-nos com esse universo externo, o unico que
185
“Così cogli / la giornata, non credere al domani”, Orazio, Odi ed Epodi, traduzione di Enzo
Mandruzzato, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1996, p. 98.
186
“Cogli / il giorno, perché sei lui”, 51-94r, F. Pessoa, Poemas de Ricardo Reis, Edição crítica de
Fernando Pessoa, cit., p. 178.
187
Orazio, Le satire. Le epistole, traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli Editore, Bologna,
1942, libro I, epistola 11, v. 23, p. 295.
188
“Così presto passa tutto ciò che passa! / Muore così giovane prima degli dei quanto / muore!
Tutto è così poco! / Nulla si sa, tutto si immagina. / Circondati di rose, ama, bevi / e taci. Il più al
niente”, 51-43r, F. Pessoa, Poemas de Ricardo Reis, Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p.
152.
189
“Immortalia ne speres, monet annus et almum / quae rapit hora diem” (“E non sperare cose eterne – l’annata ripete / e l’ora che ruba il fertile giorno”, trad. di E. Mandruzzato), Orazio, Odi ed
Epodi, cit., p. 364.
61
temos, assim como nos conformariamos com o poder absoluto de um rei, sem
discutir se é bom ou mau, mas simplesmente porque é o que é”190.
Non potendo cambiare l’universo, continua Campos nel suo commento a
Reis, “reduzamos a nossa acção ao minimo, fechando-nos quanto possivel nos
instinctos que nos foram dados, e usando-os de modo a produzir o menos
desconforto para nós e para os outros, pois tem egual direito a não ter desconforto.
Moral negativa, mas clara”191. Cosa ci resta da fare? “Comamos, bebamos e
amemos (sem nos prender sentimentalmente á comida, á bebida e ao amor, pois
isso traria mais tarde elementos de desconfortos); a vida é um dia, e a noite é
certa”192.
Da poeta Reis racchiude il consiglio per vivere felici in una metafora: sia
l’uomo come quei giocatori di scacchi, che non lasciarono il proprio gioco neppure nell’estremo pericolo della vita193.
Allo stesso modo, lo stile poetico diventa la regola di un gioco, quasi
un’autodisciplina, affinché la riflessione sulla caducità delle cose non sia un ostacolo alla loro percezione, ma sia invece stimolo a godere di ciò che si ha: “É isto –
este conceito tam fundamente negativo das coisas – que dá à poesia de Ricardo
Reis aquella durezza, aquila frieza, que ninguem negará que tem, por mais que a
admire; e quem a admira – pouca gente – é por essa mesma frieza, aliás, que a admira”194. Nella rigidità della metrica oraziana, Reis trova quasi una difesa all’entropico sgomento del perire e appare riflettervi l’ordine mentale e la tranquillità di
190
“Conformiamoci a questo universo esterno, l’unico che abbiamo, così come ci conformeremmo
al potere assoluto di un re, senza discutere se sia buono o malvagio, ma semplicemente perché è
ciò che è”, 71A-21r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit.,
pp. 129-130.
191
“Riduciamo la nostra azione al minimo, rinchiudendoci per quanto possibile negli istinti che ci
sono stati dati, e usandoli in modo da produrre il minor sconforto per noi e per gli altri, poiché abbiamo lo stesso diritto a non avere sconforto. Morale negativa certo, ma chiara”, 71A-21r, ibid., p.
130.
192
“Mangiamo, beviamo e amiamo (senza attaccarci sentimentalmente ai cibi, alle bevande e all’amore, dal momento che ciò porterebbe più avanti elementi di sconforto); la vita è un giorno, e la
notte è certa”, 71A-21r, ibid., p. 130.
193
Cfr. 51-25r-26r, F. Pessoa, Poemas de Ricardo Reis, Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p.
129.
194
“È ciò – questo concetto così fondamentalmente negativo delle cose – che dà alla poesia di Ricardo Reis quella durezza, quella freddezza, che nessuno negherà che abbia, per quanto l’ammiri;
e chi la ammira – poche persone – è per questa stessa freddezza, d’altronde, che la ammira”,
71A-22r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 129-130.
62
chi, saggio, “se contenta com o espectaculo do mundo”195. A differenza di Caeiro,
infatti, il verso libero è bandito dalla sua poesia:
“Ponho na altiva mente o fixo exforço
Da altura, e á sorte deixo,
E a suas leis, o verso;
Que, quando é alto e regio o pensamento,
Subdita a phrase o busca
E o scravo rythmo serve”196.
Con un ritmo “schiavo” del pensiero, poichè la poesia di Reis è
rigorosamente classica nella forma, essa appare “totalmente destituida de vibração
– mais ainda que a de Horacio, apesar do maior conteudo emotivo e
intellectual”197. Ed è a tal punto intellettuale questa poesia, e pertanto fredda, che
“quem não comprehender um poema d’ella (o que facilmente succede, dada a
excessiva compressão) não lhe apprehende o rhythmo”198. Forse è anche per tale
motivo che i suoi versi sembrano distanti e la sua figura ci risulta persino antipatica, come sostiene Tabucchi199. La vita di Ricardo Reis, però, abbiamo visto, è una
lotta tra lo sgomento “per il giorno in cui non si avranno più gli occhi” e comunque l’imprescindibile compito di “vedere” senza pensare, come insegnato dal
maestro Caeiro. E in questo suo combattimento interiore Reis sembra non aver interesse per alcuno, nella ricerca di allontanarsi dalla vita come uno spettatore dal
palco o come un’esule volontario.
2.5 – Álvaro de Campos
195
“Si contenta con lo spettacolo del mondo”, 51-12r-13r, ibid., p. 94.
“Pongo nell’altezzosa mente il fisso sforzo / del momento, e alla sorte lascio, / e alla sua legge,
il verso; / che quando è alto e regale il pensiero, / sottomessa la frase lo cerca / e lo schiavo ritmo
serve”, ibid., n. VII, p. 67.
197
“Totalmente priva di vibrazione – ancora di più di quella di Orazio, nonostante il maggiore contenuto emotivo e intellettuale”, 71A-22r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de
Fernando Pessoa, cit., p. 130.
198
“Chi non ne comprenda una poesia (cosa che accade facilmente, data l’eccessiva compressione)
non ne coglie il ritmo”, 71A-22r, ibid., p. 130.
199
Cfr. A. Tabucchi, Interpretazione dell’eteronimia di Fernando Pessoa, in op. cit., p. 172.
196
63
Immediatamente, come derivazione opposta a Reis, dalle poesie di Caeiro
sorsero anche quelle di Álvaro de Campos: “Num jacto, e à máquina de escrever,
sem interrupção nem emenda, surgiu a «Ode Triunfal» de Álvaro de Campos – a
Ode com esse nome e o homem com o nome que tem”200.
Come per gli altri due, anche per Campos Pessoa si preoccupa di creare
una biografia e un volto. Campos nasce a Tavira nella regione dell’Algarve il 15
ottobre 1890, viene educato inizialmente “por um tio-avô, padre, que lhe instillou
um certo amôr ás coisas classicas”201 e in seguito, dopo il liceo, viene inviato in
Scozia per studiare ingegneria, prima meccanica e poi navale. Fisicamente “é alto
(1m,75 de altura – mais 2 cm do que eu), magro e um pouco tendente a curvarse”202, ha un viso “entre branco e moreno, tipo vagamente de judeu português,
cabelo porém liso e normalmente apartado ao lado, monóculo”203.
Quando già aveva compiuto tre quarti degli studi in ingegneria204, ci racconta lo stesso Álvaro, partì per un viaggio in Oriente, da dove si portò, secondo
la testimonianza di Fernando Pessoa, le immagini per la poesia Opiario. Al ritorno
da questo viaggio, “desembarcando em Marselha, e sentendo um grande tédio de
seguir, vim por terra até Lisbôa”205. È in questa occasione che, nella finzione letteraria di Pessoa, Álvaro de Campos ha modo di incontrare il suo maestro Alberto
Caeiro. Leggiamo il racconto dell’incontro nel ricordo commosso di Campos:
200
“Di getto, e a macchina da scrivere, senza interruzione o correzione, nacque l’«Ode Triunfal» di
Álvaro de Campos – l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 343.
201
“Prozio, padre, che gli infuse un certo amore per le cose classiche”, 69-47r, F. Pessoa, Poemas
de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. II, edizione di Cleonice Berardinelli, Imprensa Nacional – Casa da Moeda, Lisboa, 1990, p. 268.
202
“È alto (1,75 m. di altezza – 2 cm in più di me [Pessoa, nda], magro e un po’ tendente a curvarsi”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 345.
203
“Tra il bianco e il bruno, vagamente del tipo dell’ebreo portoghese, capelli però lisci e con la
fila a lato, monocolo”, ibid., p. 345.
204
In questo passo Campos dice di essere partito per l’Oriente a tre quarti del suo corso universitario in Scozia e dopo di essere ritornato a Lisbona. Ma Campos non si firmava come “ingegnere” e
Pessoa, nel rivolgersi a lui, non lo chiama proprio con questo titolo accademico? Era laureato o
meno? Le informazioni sono contrastanti e sembrerebbe che Álvaro de Campos non abbia mai
condotto a termine i suoi studi. Insomma, più ingegnere per temperamento che per effettivi meriti
accademici.
205
“Sbarcando a Marsiglia, e provando un grande tedio nel proseguire, venni per terra fino a Lisboa”, 16A-14r, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 113.
64
“Um primo meu levou-me um dia de passeio ao Ribatejo; conhecia um primo de Caeiro, e
tinha com êle negócios; encontri-me com o que havia de ser meu mestre em casa dêsse primo. Não
ha mais que contar, porque isto é pequeno como toda a fecundação”206.
Anche nella finzione del “drama” Pessoa si serve di un espediente per mostrare la filiazione dell’opera di Campos rispetto a quella di Caeiro. È infatti proprio grazie a Caeiro che Álvaro de Campos impara un nuovo modo di stare al
mondo. In questo nuovo modo, però, trova una strada tutta personale di accoglimento dell’oggettivismo assoluto di Caeiro, in contrasto con quella dell’altro discepolo Ricardo Reis. Per Caeiro, ricordiamolo, “a sensação è tudo”207 e “o
pensamento é uma doença”208. Ma per sensazione Caeiro intende “a sensação das
coisas tais como são, sem acrescentar quaisquer elementos do pensamento
pessoal, convenção, sentimento ou qualquer outro lugar da alma”209. Anche per
Campos la sensazione è tutto, “mas não necessariamente a sensação das coisas
como são, antes das coisas conforme sentidas. De modo que vê a sensação
subjectivamente e envida todos os seus esforços, uma vez que assim pensa, não
para desenvolver em si a sensação das coisas como são, mas toda a casta de
sensações de coisas, e até da mesma coisa”210.
Quello che conta allora non è percepire le cose così come esse sono, ma
avere sensazioni delle cose per come esse sono sentite. La considerazione che gli
oggetti sono in quanto mediati dai sensi sposta l’attenzione dalle cose alle sensazioni che un soggetto sviluppa, con una radicalizzazione estrema dell’importanza
del soggetto:
206
“Un giorno un cugino mi prese per andare a passeggiare a Ribatejo; conosceva un cugino di
Caeiro, con il quale intratteneva degli affari; mi sono incontrato con quello che sarebbe divenuto il
mio maestro in casa di questo cugino. Non c’è altro da raccontare, perché questa è una piccola
cosa come la fecondazione. Vedo ancora, con l’anima lucida, che le lacrime del ricordo non mi
piegano, perché la visione non è esterna. Lo vedo però di fronte a me, e vederlo forse eternamente
come la prima volta lo vidi”, 16A-14r, ibid., p. 113.
207
“La sensazione è tutto”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 349.
208
“Il pensiero è una malattia”, ibid., p. 349.
209
“La sensazione delle cose così come sono, senza aggiungervi qualsiasi elemento del pensiero
personale, convenzione, sentimento o qualche altro luogo dell’anima”, ibid., p. 349.
210
“Ma non necessariamente la sensazione delle cose come sono, innanzitutto delle cose secondo
come sono sentite. Di modo che vede la sensazione soggettivamente e impegna tutte le sue energie, una volta che pensa così, non per sviluppare in sé la sensazione delle cose come sono, ma tutta
la specie di sensazioni di cose, e perfino della stessa cosa”, ibid., pp. 349-350.
65
“Não creio em nada senão na existencia das minhas sensações; não tenho outra certeza,
nem a do tal universo exterior que essas sensações me apresentam. Eu não vejo o universo
exterior, eu não oiço o universo exterior, eu não palpo o universo exterior. Vejo as minhas
impressões visuaes; oiço as minhas impressões auditivas; palpo as minhas impressões tacteis. Não
é com os olhos que vejo, mas com a alma; não é com os ouvidos que oiço, mas com a alma; não é
com a pelle que palpo, é com a alma. E, se me preguntarem o que é alma, respondo que sou eu. De
aqui a minha divergencia fundamental do fundamental intellectual de Caeiro e de Reis, mas não no
fundamental instinctivo e sensitivo em Caeiro. Para mim o universo é apenas um conceito meu,
uma synthese dynamica e projectada de todas as minhas sensações”211.
Le cose non rappresentano più una certezza, una evidenza originaria dell’esistenza come poteva essere per Alberto Caeiro. Esse non sono che le sensazioni che un soggetto ha di loro. Se le cose non sono che le mie “impressioni” di
esse, io non potrò che risultare dall’accoglimento di tutte queste “impressioni”.
L’identità e il ruolo dell’uomo si basano, allora, sul “sentir tudo de todas as
maneiras, / Viver tudo de todos os lados, / Ser a mesma cousa de todos os modos
possiveis ao mesmo tempo, / Realizar em si toda a humanidade de todos os
momentos / Num só momento diffuso, profuso, completo e longiquo”212. Non è
sufficiente, infatti, avere delle sensazioni, occorre sviluppare in noi stessi tutte le
sensazioni possibili di un oggetto e di tutti gli oggetti:
“E eu o complexo, eu o numeroso,
Eu os saturnalia de todas as possibilidades,
Eu o quebrar do dique de todas as personalizações,
Eu o excessivo, eu o succesivo, eu, o (...)
211
“Non credo in niente se non nell’esistenza delle mie sensazioni; non ho altra certezza, nemmeno
quella di un tale universo esteriore che queste sensazioni mi presentano. Io non vedo l’universo
esteriore, io non odo l’universo esteriore, io non tocco l’universo esteriore. Vedo le mie impressioni visuali; odo le mie impressioni uditive; palpo le mie impressioni tattili. Non è con gli occhi che
vedo, ma con l’anima; non è con gli orecchi che ascolto, ma con l’anima; non è con la pelle che
tocco, è con l’anima. E se mi chiedessero che cosa sia l’anima, risponderei che sono io. Qui sta la
mia fondamentale divergenza dal fondamento intellettuale di Caeiro e Reis, ma non dal fondamento istintivo e sensitivo di Caeiro. Per me l’universo è appena un mio concetto, una sintesi dinamica
e proiettata di tutte le mie sensazioni”, 71A-22r e 23r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição
crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 131.
212
“Sentire tutto in tutti i modi, / Vivere tutto da tutte le angolazioni, / Essere la stessa cosa in tutti
i modi possibili allo stesso tempo, / Realizzare in sé tutta l’umanità di tutti i tempi / In un solo momento diffuso, profuso, completo e lungo”, 70-15r, A Passagem das Horas. Ode sensacionista
(d’ora in avanti solo come A passagem das horas), in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos.
Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 148-149.
66
Eu o prolixo até de continencias e paragens,
Eu que tenho vivido atravez do meu sangue e dos meus nervos
Todas as mobilidades /*competentes/ a todas as metaphysicas
Que tenho desembarcado em todos os portos da alma,
Passado em aeroplano sobre todas as terras do espirito,
Eu o explorador de todos os sertões do raciocinio,
O (...)
O creador de Weltanschauungen”213.
Perfino per sentire me stesso dovrò moltiplicarmi e seguire tutte le sensazioni possibili che ho percepito o percepirò, a riprova che il soggetto non è altro
che le sensazioni che percepisce. Tanto maggiore sarà il loro numero, tanto più io
sarò soggetto, tanto più sarò me stesso:
“Multipliquei-me para me sentir,
Para me sentir, precisei sentir tudo,
Transbordei, não fiz senão estravasar-me,
Despi-me, entreguei-me,
E ha em cada canto da minha alma um altar a um deus differente”214.
Non ci meravigliamo, allora, di trovare in Álvaro de Campos poesie, come
l’Ode Triunfal, che siano totalmente dedicate al trionfo delle macchine, della luce
elettrica, delle metropolitane e dei treni, insomma di tutto quanto generi nuove
specie di sensazioni:
“Como eu vos amo a todos, a todos, a todos,
Como eu vos amo de todas as maneiras,
Com os olhos e com os ouvidos e com o olfacto
213
“E io il complesso, io il numeroso, / Io saturnalia di tutte le possibilità, / Io il distruttore dei limiti di tutte le personalizzazioni, / Io l’eccessivo, io il successivo, io, il (…) / Io il prolisso perfino
della moderazione e dell’interruzione, / Io che ho vissuto attraverso il mio sangue e i miei nervi /
tutte le mobilità – competenti – a tutte le metafisiche / Che sono sbarcato in tutti i porti dell’anima,
/ Che sono passato in aeroplano su tutte le terre dello spirito, / Io l’esploratore di tutte le foreste del
raziocinio, / Il (…) / Il creatore di Weltanschauungen”, 71-31, A Partida, in F. Pessoa, Poemas de
Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 175.
214
“Per sentirmi mi sono moltiplicato, / Per sentirmi ho avuto bisogno di sentire tutto, / Sono traboccato, non ho fatto altro che straripare / Mi sono svestito, mi sono abbandonato, / E in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente”, 70-15r e 15v, A Passagem das Horas, in F.
Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 150.
67
E com o tacto (o que palpar-vos representa para mim!)
E com a inteligência como uma antena que fazeis vibrar!
Ah, como todos os meus sentidos teem cio de vós!”215.
Le macchine producono sensazioni e perciò occorre amarle, e amarle fino
a congiungersi con loro, affinché, nel percepirne l’attività, noi stessi diventiamo
treni, navi, calore ed elettricità:
“Giro dentro das hélices de todos os navios.
Eia! Eia-hô! Eia!
Eia! Sou o calor mecânico e a eletricidade!
Eia! e o rails e as casas de máquinas e a Europa!
Eia e hurrah por mim-tudo e tudo, máquinas a trabalhar, eia!”216.
Tutto ciò, che ha il sapore della modernità di inizio Novecento e che porta
in sé i segni del passato e le aspettative del futuro, non è che l’amplificazione
massima della possibilità di avere sensazioni sempre differenti, tanto che “cada
momento é um carneval immenso”217 e “a vida uma tremenda bebedeira”218. E la
dinamica delle sensazioni trova nel motore la sua espressione metaforica: “Ah,
poder exprimir-me todo como um motor se esprime! / Ser completo como uma
máquina! / Poder ir na vida triunfante como um automóvel último-modêlo!”219.
È così irruenta la sua volontà di sentire che Álvaro de Campos finisce con
lo strabordare dai versi delle sue poesie nella vita reale di Lisbona e nella vita privata di Fernando Pessoa. Álvaro infatti scrive lettere220, partecipa ai dibattiti cultu215
“Come vi amo tutti, tutti, tutti, / Come vi amo in tutti i modi, / Con gli occhi e con gli orecchi e
con l’olfatto / E con il tatto (e quale ebrezza rappresenta per me il toccarvi!) / E con l’intelligenza
come un’antenna che voi fate vibrare! Ah, quale fregola hanno di voi tutti i miei sensi!”, Ode
Triunfal, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p.
68.
216
“Giro dentro le eliche di tutte le navi. / Eia! Eia-ho! Eia! / Eia! Sono il calore meccanico e l’elettricità! / Eia! E i reils e le sale macchine e l’Europa! / Eia e urrá per me-tutto e tutto, macchine
al lavoro, eia!”, ibid., p. 73.
217
“Ogni momento è un carnevale immenso”, 64-73, Autoscopia, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro
de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 62.
218
“La vita una tremenda ubriacatura”, ibid., p. 62.
219
“Ah, potermi esprimere tutto come si esprime un motore! / Essere completo come una macchina! / Poter andare nella vita trionfante come un’automobile ultimo modello”, Ode Triunfal, in F.
Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 66.
220
Si leggano le lettere: al «Diário de Noticías» del 4 giugno 1915, in F. Pessoa, Correspondência.
1905-1922, cit., pp. 163-165; a «A Capital» del 6 luglio 1915, in ibid., p. 167; a José Pacheco del
68
rali del tempo con articoli221 e si intromette perfino nell’unica relazione sentimentale di Fernando Pessoa, con lo scopo di porle fine222.
Ma da principio la sua opera viene quasi equivocata con i sentimenti del
futurismo e in effetti futuristi potrebbero sembrare l’Ode Triunfal e il violento articolo Ultimatum. Campos rigetta tutto questo perché nei suoi scritti “sou eu,
apenas eu, preocupado apenas comigo e com as minhas sensações”223.
Le sue non sono “parole in libertà” come quelle di Marinetti, ma appunto
“sensações-em-libertade”224 (“sensazioni-in-libertà”) come quelle del poeta americano Walt Whitman a cui Campos dedica una poesia. È a Whitman, “sempre moderno e eterno, cantor dos concretos absolutos / Concubina fogosa do universo disperso”225, che Campos si ispira per rincorrere le sue sensazioni, libero di fronte ad
ogni possibilità di essere:
“Abram-me todas as janellas!
Arranquem-me todas as portas!
Puxem a casa toda para cima de mim!
Quero viver em libertade no ar,
17 ottobre 1922, in ibid., pp. 404-406 (I ed. «Contemporânea», Lisboa, n. 4, Outubro de 1922 col
titolo De Newcastle-on-Tyne Alvaro de Campos escreve à «Contemporânea); a Ferriera Gomes,
senza data, in F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., pp. 118-121 (I ed. «A Informação»,
Lisboa, n. 61, 17 de Setembro de 1926 col titolo Carta-resposta ao inquérito de Augusto Ferreira
Gomes); a «Presença» del 24 marzo 1928, in ibid., p. 133.
221
Si leggano gli articoli: Ultimatum, in «Portugal Futurista», Lisboa, n. 1 (unico), Novembro de
1917, pp. 30-34, tradotto in italiano in F. Pessoa, Una sola moltitudine, a cura di A. Tabucchi, vol.
I, Adelphi, Milano 19989 (I ed. 1979), pp. 421-436; Aviso por causa de moral, in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., pp. 200-201 (La prima edizione era un volantino sfuso con
le indicazioni del luogo di composizione e dell’anno: Europa, 1923); O que é a Metaphysica?, in
ibid., pp. 231-235 (I ed. «Athena. Revista de arte», Lisboa, vol. I, n. 2, Novembro 1924, pp.
59-62); Apontamentos para uma Esthetica Não-Aristotélica, in ibid., pp. 236-245 (I ed. in due
parti: parte I, «Athena. Revista de arte», Lisboa, vol. I, n. 3, Dezembro 1924, pp. 113-115, parte II,
in «Athena. Revista de arte», Lisboa, vol. I, n. 4, Janeiro 1925, pp. 157-160); Ambiente, in ibid.,
pp. 367-368 (I ed. «Presença», Coimbra, n. 5, 4 Junho de 1927, p. 3); Nota, in ibid., p. 411 (I ed.
Catálogo do I Salão dos Independentes, Lisboa, 1930, introduzione); Nota ao acaso, in ibid., pp.
520-521 (I ed. «Sudoeste», Lisboa, n. 3, Novembro de 1935, p. 7).
222
La lettera in questione riguarda la seconda fase del “namoro” di Fernando con Ofélia Queirós
ed è datata 25 settembre 1929. Qui Campos consiglia alla signorina di gettare l’immagine mentale
che si è fatta di Pessoa nell’acquaio, dato che è impossibile sbarazzarsene materialmente. F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., pp. 163-164.
223
“Sono io, appena io, preoccupato soltanto di me stesso e delle mie sensazioni”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 164.
224
Saudação a Walt Whitman (Omaggio a Walt Whitman), 70-5v, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro
de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 120.
225
“Sempre moderno ed eterno, cantore dei concreti assoluti / Concubina focosa del disperso universo”, 70-5, ibid., p. 118.
69
Quero ter gestos fóra do meu corpo,
Quero correr como a chuva pelas paredes abaixo,
Quero ser pisado nas estradas largas como as pedras,
Quero ir, como as cousas pesadas, para o fundo dos mares”226.
In questa “orgia bacchica di sensazioni-in-libertà” si fondono insieme soggetto e oggetto. Nel congiungersi di soggetto e oggetto, il soggetto finisce, però,
col mischiare all’oggetto qualità dell’animo umano quali pensieri e immaginazioni che Caeiro aveva assolutamente vietato. L’immaginazione, ad esempio, per la
sua caratteristica di produrre nuove sensazioni in quanto assembla e smonta le
sensazioni percepite dai sensi, sembra realizzare il proposito “di sentire tutto in
tutti i modi”, forzando ogni limite di spazio e di tempo. Ma essa, l’immaginazione, pone in crisi il soggetto che non sa a chi essere leale: se alle sensazioni percepite dall’esterno o alle sensazioni prodotte dei suoi sogni interiori:
“Estou hoje dividido entre a lealdade que devo
À Tabacaria do outro lado da rua, como coisa real por fora,
E à sensação de que tudo é sonho, como coisa real por dentro”227.
Nella sintesi che l’anima opera delle sensazioni essa è in grado, attraverso
l’immaginazione, di crearne di nuove mai percepite e, a volte, come nell’Ode marittima, basta la visione di una nave che attracca o di una che parte per accendere
dentro l’anima “il volano” che regola il flusso delle proprie immagini interiori,
percepite un giorno e quindi ora solo ricordate, oppure mai provate, desiderate e
quindi immaginate.
L’immaginazione, in modo ancora più esplicito, è paragonata a “um Arco
de Triumpho” (“un arco di trionfo”) sotto il quale “passa toda a Vida” 228, e da cui
il poeta osserva tutto ciò che accade sotto di lui. Il soggetto sembra guadagnare
226
“Mi spalanchino tutte le finestre! / Mi sfondino tutte le porte! / Mi levino tutta la casa di
dosso! / Voglio vivere libero nell’aria, / Voglio avere gesti fuori dal mio corpo, / Voglio correre
come la pioggia che cade sulle pareti, / Voglio essere calpestato nei viali come le pietre, / Voglio
affondare nei mari come le cose pesanti”, 79-8r, ibid., p. 126.
227
“Oggi sono diviso tra la lealtà che devo / Alla tabaccheria dall’altro lato della strada, come cosa
reale esterna, / E alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale interna”, Tabacaria, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 196.
228
“Passa tutta la vita”, 71-4r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 179.
70
per un istante un certo distacco dal mondo, ma dura poco: la potenza delle sensazioni percepite fa sì che l’arco si fonda con la vita senza che noi riusciamo più a
distinguere cosa appartiene alle cose fuori di noi e cosa invece aggiungiamo noi
alla visione del mondo con l’immaginazione. Campos è, allora, tutte le cose, l’universo che sente perché vive e che sente perché immagina:
“Mas eu proprio sou o Universo,
Eu proprio sou sujeito e objecto,
Eu proprio sou Arco e Rua,
Eu proprio cingo e deixo passar, abranjo e liberto,
Fito de alto, e de baixo fito-me fitando,
Passo por baixo, fico em cima, quedo-me dos lados,
Totaliso e transcendo,
Realiso Deus numa architectura triumphal
De arco de Triumpho posto sobre o universo,
De arco de triumpho construido
Sobre todas as sensações de todos que sentem
E sobre todas as sensações de todas as sensações...
Poesia do impeto e do giro,
Da vertigem e da explosão,
Poesia dynamica, sensacionasta, silvando
Pela minha imaginação fora em torrentes de fogo,
Em grandes rios de chuva, em grandes vulcões de lume”229.
Scompare la linea di demarcazione tra i “frutti dell’albero dell’immaginazione”230, oggetti sentiti perché immaginati dal soggetto, e il mondo, fatto di oggetti percepiti dal soggetto esternamente. Tutto è “sensazione” e tutte le sensazio229
“Ma io stesso sono l’Universo, / Io stesso sono soggetto e oggetto, / Io stesso sono l’arco e la
strada, / Io stesso cingo e lascio passare, abbraccio e libero, / Osservo dall’alto, e dal basso mi fisso che osservo, / Passo in basso, resto su, mi fermo di lato / Totalizzo e trascendo, / Realizzo Dio
in un’architettura trionfale / Di un arco di trionfo posto sull’universo, / Di un arco di trionfo costruito / Su tutte le sensazioni di quelli che ne hanno / E su tutte le sensazioni di tutte le
sensazioni… // Poesia di impeto e da passeggio, / Di vertigine e d’esplosione, / Poesia dinamica,
sensazionista, che fischia / Fuori, in torrenti di fuoco, attraverso la mia immaginazione, / In grandi
fiumi di pioggia, in grandi vulcani di lava”, ibid., pp. 180-181.
230
Ode maritima, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa,
cit., p. 85.
71
ni sono “reali”, immaginazioni e dati sensoriali, perché in fondo non è che il soggetto che fa essere gli uni e gli altri.
Campos non sente più le cose come il “guardiano di greggi”, attento a non
mischiare nulla del soggetto alle cose che sentiva e a non produrne di nuove con
l’immaginazione, ma al contrario mischia le sensazioni esterne a quelle prodotte
dalla sua anima, proprio perché l’uomo non è più un “guardiano di greggi”, ma un
“souteneur” (“lenone”)231 delle sensazioni, considerate prostitute, le quali non fanno che vendersi ad ogni angolo della sua anima.
Si origina qui l’infelicità di Campos che, pur avendo cercato di sentire tutto, in realtà, scopre di non aver sentito nulla:
“Viajei por mais terras do que aquellas em que toquei...
Vi mais paysagens do que aquellas em que puz os olhos...
Experimentei mais sensações do que todas as sensações que senti,
Porque, por mais que sentisse, sempre me faltou que sentir
E a vida sempre me doeu, sempre foi pouco, e eu infeliz”232.
Campos, a un certo punto, si accorge che sono più le cose che ha sentito
perché immaginate che quelle sentite perché esterne a lui. Il poeta non si è astenuto dal considerare le cose solo per quello che esse sono, ma forte del fatto che esse
sono perché viste da un’anima ha aggiunto a queste sensazioni gli elementi dell’animo che Caeiro, non a caso, gli aveva proibito. In questo modo ha percorso tutte
le sensazioni possibili, in tutti i modi possibili, anche quelli dell’anima, come abbiamo visto per l’immaginazione, e l’anima ha fatto sorgere in lui il pensiero che
egli non sia altro che quello che ha desiderato essere:
231
Leggiamo la colorita espressione nei versi dello stesso Álvaro de Campos: “Fui para a cama
com todos os sentimentos, / Fui souteneur de todas as emoções” (“Sono andato a letto con tutti i
sentimenti, / Sono stato il lenone di tutte le emozioni”), 70-16r, A passagem das horas, II parte, in
F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 166.
232
“Ho viaggiato in più terre di quelle che in cui ho messo le mani… / Ho visto più paesaggi di
quelli sui quali ho posato gli occhi… / Ho sperimentato più sensazioni di tutte quelle che ho sentito, / Perché, per più che sentissi, sempre mi è mancato di sentire / E la vita mi ha sempre fatto
male, sempre è stato poco, e io infelice”, 70-13r, A Passagem das Horas, in F. Pessoa, Poemas de
Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 152.
72
“Sou quem falhei ser.
Somos todos quem nos supusemos.
A nossa realidade é o que não conseguimos nunca”233.
Nel suo desiderio di partire, seguendo le sensazioni, ha seguito i suoi sogni
e i suoi desideri senza partire mai e si scopre “fatigado de estar pensando em sentir outra coisa”234:
“Assim fico, fico... Eu sou o que sempre quer partir,
E fica sempre, fica sempre, fica sempre,
Até a morte fica, mesmo que parta, fica, fica, fica”235.
L’universo, così chiaramente “eu” (“io”), sembra diventare un luogo dolorosamente instabile e incomprensibile di fronte al quale si prova quella stessa nausea “que é o sentimento que sabe que o corpo tem a alma”236. Quando si accorge di
questo è troppo tardi e non basta essere “cansado da intelligencia” (“stanco dell’intelligenza”)237 perchè “pensar faz mal ás emoções” (“pensare fa male alle emozioni”)238, né servono i pianti rivolti al maestro tradito:
“Mestre, Alberto Caeiro, que eu conheci /*como/ proprio
E a quem depois abandonei como um apontador reles,
Hoje reconheço o erro, e chóro dentro de mim,
Chóro com a alegria de vêr a lucidez como que chóro
E embandeiro em arco á minha morte e á minha fallencia sem fim,
Embamdeiro em arco ao descobril-a, /*só/ a saber quem /*ella/ é.
233
“Sono chi ha sbagliato ad essere. / Tutti siamo chi ci siamo immaginati. / La nostra realtà è ciò
che non raggiungiamo mai”, 70-59r, Pecado Original, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos.
Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 240.
234
“Stanco di star pensando di sentire un’altra cosa”, 69-54r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de
Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 348
235
“Così resto, resto... Io sono colui che sempre vuole partire, / E resta sempre, resta sempre, resta
sempre, / Fino alla morte, anche se parte, resta, resta, resta…”, 70-13v, A Passagem das Horas, in
F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 153.
236
“Che è il sentimento che sa che il corpo ha l’anima”, 69-10r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de
Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 220.
237
711-16r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p.
222.
238
Ibid., p. 222.
73
Ergo-me em fim das almofadas quasi arrumadas
E volto ao meu remorso sadio”239.
Álvaro de Campos arriva addirittura a rimproverare Caeiro di avergli insegnato un nuovo modo di stare al mondo, quell’oggettivismo assoluto decaduto ormai in un soggettivismo oggettivo240, e, quasi con rabbia, gli chiede: “Porque é que
me accordaste para a sensação e a nova alma, / Se eu não saberei sentir, se a minha alma é de sempre a minha?”241.
Nella ricercata unità di soggetto e oggetto, Campos vede che tutto si annichilisce in fumo, lo stesso di quelle sigarette che ama fumare e al cui odore culla
le sue sensazioni. Il poeta perde, così, sia il mondo di fronte a sé, del quale si chiede “perché esiste”242, sia perde la propria esistenza scoprendosi un nulla contenitore di sogni:
“Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
Àparte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo”243.
2.6 – António Mora
239
“Maestro, Alberto Caeiro, che io ho conosciuto come capace / e che dopo ho abbandonato come
un controllore scadente, / Oggi riconosco l’errore, e dentro di me piango, / Piango con l’allegria di
vedere la lucidità con cui piango / E festeggio la mia morte e la mia mancanza senza fine, / La festeggio nello scoprirla, solo nel sapere cosa essa sia. / Alla fine, però, mi alzo dai cuscini quasi ordinati / E torno al mio sano rimorso”, 71-16, A Partida, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., P. 179.
240
Addiamento, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa,
cit., p. 204.
241
“Perché mi hai destato alla sensazione e alla nuova anima, / Se io non sapevo neppure sentire se
la mia anima fosse sempre la mia?”, 69-5r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição
crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 301.
242
“Se alguma coisa foi porque é que não é? / Ser não é ser?” (“Se qualche cosa è stata perché ora
non è più? / Essere non è essere?”). Questa è la domanda filosofia per eccellenza a cui giunge l’inquietudine di Campos. 69-47r, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de
Fernando Pessoa, cit., p. 268.
243
“Non sono niente. / Non sarò niente. / Non posso voler essere niente. / A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo”, Tabacaria, F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 196.
74
António Mora appare per la prima volta sulla scena dell’eteronimia come
il protagonista del racconto Na Casa de Saude de Cascaes (Nella casa di salute di
Cascais) 244. A dire il vero Pessoa, in questo racconto, utilizza due nomi differenti
per la stessa persona: il dott. Gama Nobre e il dott. António Mora, a riprova di
come, sebbene sia chiara fin dall’inizio l’intenzione di Pessoa circa la figura dell’eteronimo, il nome sia venuto in seguito.
Mora è un paziente della clinica psichiatrica di Cascais, ridente cittadina
balneare nei pressi di Lisbona. Ai due uomini che si recano nella clinica per incontrarlo, il narratore del racconto (Fernando Pessoa) e il dott. Gomes, António
Mora appare subito come un personaggio fuori dal normale.
“Surprehendeu-me de repente, no tomar para uma pequena clareira, uma figura imponente
que, de toga á romana, a cabeça de todo branca artistica no descoberto, recitava n’uma voz (Bella
voz! disse eu ao dr. Gomes) o principio da lamentação de Prometheu no drama de Eschylo. Ao
proximar-nos viu-nos e apressando ligeiramente o declamar para chegar ao fim d’esse periodo,
virou-se para nós, chegado esse, e saudou o meu acompanhador”245.
L’internato era “alto e de uma bizzarria com a qual o seu trajo antigo
maravilhosamente quadrava”246, aveva capelli e barba bianchi e “um olhar vivo e
altivo, onde talvez apenas o observador precauto qualquér luz acharia que trahisse
a alienação do espirito”247. Il narratore, interdetto dalla figura del “louco” (pazzo),
è incuriosito soprattutto dal motivo di quella lamentazione prometeica. Perché, infatti, Mora recita il proemio del Prometeo incatenato di Eschilo? La domanda viene posta anche dal narratore e il paziente sembra gradire.
Eschilo, sostiene
244
Il racconto (cfr. F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp.
93-105), come tutti gli scritti attribuiti ad António Mora, mai pubblicato e incompiuto, doveva servire sicuramente a fornire un’immagine dell’eteronimo al lettore. Pessoa, infatti, non ci lascia altri
dati biografici di Mora, comunicando addirittura quel poco che abbiamo attraverso un artificio letterario.
245
“Subito mi sorprese, nel prendere per un piccolo spiazzo, una figura imponente che, con una
toga alla romana, la testa tutta bianca, artistica nella parte scoperta, recitava ad una voce (Bella
voce! Dissi io al dott. Gomes) il principio del lamento di Prometeo nel dramma di Eschilo. Nell’avvicinarci, ci vide e accelerando leggermente la declamazione per arrivare alla fine di questo
pezzo, si voltò verso di noi, terminatolo, e salutò il mio accompagnatore”, 2719 B3-15r, ibid., p. 95.
246
“Alto e di una bizzarria con la quale il suo abbigliamento antico si accordava meravigliosamente”, ibid., p. 95.
247
“Uno sguardo vivo e altezzoso, dove forse solo l’osservatore prevenuto potrebbe trovarvi qualche luce che tradisca l’alienazione dello spirito”, ibid., p. 95.
75
António Mora, rappresenta la Grecia e “a antiguidade classica, a verdadeira e
unica civilização para chegar á qual o mundo foi oscuro desde a sua creação, e
depois da qual tornou a escurecer!”248, cosicché si può affermare che “tudo antes
d’isso foi pre-historico, tudo depois d’isso proto-historico”249. Oggi, prosegue, gli
uomini vivono come degenerati, perché sono venti secoli che si va perpetrando
una decadenza inarrestabile, da quando cioè il cristianesimo spazzò il mondo pagano. Tutto il mondo moderno, infatti, “nasceu de um movimento que o christianismo representa”250 e questo movimento è per essenza decadente, poiché è nato
tra “ignorantes grosseiros, creado entre escravos, ladrões, prostitutas e gente corrupta”251 che hanno preteso distruggere quanto veniva dal paganesimo, per cambiare la loro condizione sociale. Ma da quale concezione filosofica trassero forza i
“corrotti”? Dalla concezione antitetica a quella dei greci, i quali “acceitavam a
Natureza como ella era”252, che voleva la natura sottomessa a verità superiori e a
logiche ad essa estranee. Se, dunque, nell’antichità pagana “a vida foi supremamente feliz, e supremamente grande porque foi supremamente a vida”253, nell’età
cristiana ci troviamo a vivere confusi e disorientati perché abbiamo creduto di poter vivere noi la nostra vita, di modificarla, dimenticandoci che è la nostra vita
“que nos vive” (“che ci vive”)254. La pretesa di porci al di sopra della natura ci ha
resi inumani.
Ma la scelta di piangere la decadenza attuale dell’uomo moderno con le
parole del Prometeo incatenato vuole essere solo un elogio dell’età classica? Perché non scegliere altri brani di Eschilo allora, ugualmente rappresentativi di quel
periodo di splendore? O forse la scelta di Prometeo non è a caso e Pessoa vi nasconde metaforicamente un giudizio di valore sul ruolo di António Mora all’interno dell’opera eteronima e, più in generale, su tutta l’opera eteronima per l’umanità?
248
“L’antichità classica, la vera e unica civiltà per arrivare alla quale il mondo è stato nel buio dalla sua creazione, e dopo la quale è ritornato a ottenebrarsi!”, 2719 B3-15v, ibid., p. 95.
249
“Tutto prima di questo periodo è preistoria, tutto dopo protostoria”, 2719 B3-15v, ibid., p. 95.
250
“È nato dal movimento che il cristianesimo rappresenta”, 55G-39r, ibid., p. 97.
251
“Rozzi ignoranti, creato tra schiavi, ladri, prostitute e gente corrotta”, 55G-39r, ibid., p. 98.
252
“Accettavano la natura come era”, 2719 B3-3v, ibid., p. 102.
253
“La vita fu assolutamente felice, e assolutamente grande perchè fu assolutamente vita”, 2719
3
B -13r, ibid., p. 95 (corsivo dell’autore).
254
Scrive António Mora: “Não vivemos a nossa vida; a nossa vida é que nos vive” (“non viviamo
la nostra vita; è la nostra vita che ci vive”), 2719 H-28r, ibid., p. 105.
76
Prometeo, il titano della mitologia greca, è colui che ha donato il fuoco
agli uomini, dopo averne rubato una scintilla dal carro del Sole. Per questo furto,
Zeus lo fa incatenare ad una montagna del Caucaso e comanda che un’aquila gli
strappi il fegato sempre nascente.
“Ho limpida scienza, io, in anticipo, di ciò che sarà. Nessun male verrà, improvviso, a
sorprendermi. Certo, io devo portare il mio peso fatale – quanto mi tocca – più sciolto che posso:
so che è assurdo resistere contro un duro, fisso destino. Eppure, né star muto, né non star muto m’è
dato ugualmente, su quel che mi capita ora. Ho offerto privilegi ai viventi ed eccomi, soffro sotto
le stanghe di questa stretta fatale. Quel giorno, a colmare uno stelo di canna, intrappolo di frodo lo
zampillo del fuoco. Esso riluce, da allora, tra gli uomini, artefice, strada maestra d’ogni mestiere
ingegnoso. Fu questo il peccato: ora ne sconto il castigo, qui, perso nel cielo, trafitto nei ceppi”255.
Prometeo ricopre, così, due ruoli fondamentali, entrambi legati al duplice
significato del suo nome. Prometeo deriva, infatti, da pro/ (“prima”, ma anche “a
vantaggio”, “in difesa”) e mhqh/j (dal verbo manqa/nw, “imparo”, “so”, “conosco”) e significa sia “colui che sa prima”, sia “colui che provvede”. Da un lato,
con la conoscenza anticipata del futuro, ogni suo pronunciamento diventa profezia. Dall’altro, con il dono del fuoco, e così simbolicamente della tecnica, la sua
azione si volge alla liberazione dell’uomo dallo stato di barbarie. La facoltà predittiva, unendosi ad un’azione di tipo “soterico”, si trasforma in “provvidenza”. E
la provvidenza di Prometeo per gli uomini viola i comandi di Zeus, che invece ne
ha decretato la distruzione. Perciò, la cura degli uomini non ha posto nel consiglio
degli dei e la violazione “provvidente” deve essere punita con l’allontanamento
forzato e con l’infliggere un dolore continuo, che possa portare anche alla pazzia.
Il mito di Prometeo è fortemente carico di significati simbolici perché sia
stato scelto a caso. C’è almeno una evidente analogia “topica” che dovrebbero farci arrivare alla conclusione che António Mora si identifichi con il titano, come se
anch’egli fosse, in una qualche misura, portatore di una luce per un’umanità ottenebrata. Entrambi, infatti, vivono incatenati, ai confini del mondo, l’uno sulle
montagne del Caucaso, l’altro in una clinica psichiatrica, Caucaso di ogni comuni255
Eschilo, Prometeo incatenato, in Prometeo incatenato. I Persiani. I sette contro Tebe. Le supplici, traduzione di Ezio Savino, Garzanti, Milano, 1998, p. 15.
77
tà umana. Tutti e due pagano il fio per una qualche colpa commessa? Di Prometeo
il mito ce lo racconta, ma di António Mora lo deduciamo per analogia con la punizione. Ma quale fuoco l’eteronimo pessoano ha donato agli uomini? In che modo
ha cercato di rischiarare un’epoca oscurata dagli asserti decadenti del Cristianesimo? Ascoltiamo la possibile risposta che ci offre Álvaro de Campos:
“Esse realmente, recebendo de Caeiro a mensagem na sua totalidade, se exforçou por
traduzil-a em philosophia, esclarecendo, recompondo, reajustando, alterando aqui e alli. Não sei se
a philosophia de António Mora será o que seria a de Caeiro, se o meu mestre a tivesse. Mas
acceito que seria a philosophia de Caeiro, se elle a tivesse e não fosse poeta, para a não poder
ter”256.
António Mora, dunque, è l’organizzatore filosofico dell’oggettivismo assoluto insegnato da Caeiro. A lui il compito di “esclarecer” (schiarire) la dottrina
fondamentale del neopaganesimo portoghese. Dal racconto si passa, così, alla
realtà della produzione dottrinaria di Mora. Questa si trova espressa principalmente in quattro opere di prosa, frammentarie e incomplete: O Regresso dos Deuses
(Il ritorno degli dei), Os Fundamentos do Paganismo (I fondamenti del paganesimo), Introducção ao Estudo da Metaphysica (Introduzione allo studio della metafisica), Dissertação a favôr da Allemanha (Dissertazione in favore della Germania).
La filosofia di António Mora non ha solo la pretesa di illuminare l’insegnamento di Caeiro: una volta fatto questo, il suo compito è di schiarire le tenebre
che avvolgono gli uomini, da che il Cristianesimo (chiamato con disprezzo “cristismo”) ha fatto la sua comparsa sulla terra, in modo da convertirli al nuovo paganesimo. Ma chi è il pagano?
Il pagano è un oggettivista, vede le cose e le accetta così come sono, mentre “foi o Christianismo que trouxe à civilização occidental a necessidade de sub-
256
“Questi, realmente, ricevendo da Caeiro il messaggio nella sua interezza, si sforzò di tradurlo in
filosofia, rischiarando, ricomponendo, risistemando, cambiando qui e lì. Non so se la filosofia di
António Mora sia quella che sarebbe di Caeiro, se il mio maestro l’avesse avuta. Ma accetto che
sarebbe la filosofia di Caeiro, se ne avesse avuto una e non fosse poeta, per non poterla avere”,
71A-23r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 132.
78
stituir o universo”257. Per questo, afferma provocatoriamente Mora, “não seremos
injustos se dissermos que o Christianismo foi na civilização europeia a primeira
fórma conhecida de opio ou da cocaina”258. La religione si origina, infatti, da due
considerazioni metafisiche fondamentali: la prima sostiene che “o sujeito, para
cada sujeito, è dado como umo só, porque cada qual, de directamente subjectivo,
conhece apenas o seu proprio spirito”259; la seconda che “o objecto é dado pela
multiplicidade das cousas externas”260. Così, noi saremo oggettivisti quando applicheremo le facoltà dello spirito per relazionarci con la realtà esterna, mentre saremo soggettivisti quando impiegheremo le medesime facoltà per concentrarci solo
su noi stessi.
Il paganesimo, volendo purificare le relazioni tra soggetto e oggetto, non
fa che seguire il semplice corso della natura che ha il suo dato fondamentale proprio nella ulteriore inspiegabilità di soggetto e oggetto, nel loro esser semplicemente posti come coscienza e materia. Ma come si giunge a questo risultato? Senz’altro partendo dall’analisi di cosa sia reale.
“A «realidade»”, ci dice António Mora, “divide-se em dois assumptos: a
Consciencia e a Realidade. Uma é o com que se «percebe» o mundo-exterior;
outra é esse proprio mundo exterior”261. E in un altro testo ancora: “Ha só duas
realidade: a Consciencia e a Materia”262. Da queste risposte comprendiamo come
Mora faccia un uso polisemantico del concetto di “realtà”. Nel primo caso abbiamo una “realtà più ampia” che comprende “coscienza” e “realtà”, qui intesa come
il mondo esteriore. Nel secondo caso si identifica la realtà, che il mondo esteriore
rappresenta, con la materia e viene riconosciuta reale anche la “coscienza”. In due
passi successivi leggiamo poi chiaramente che “Os sentidos teem de commum o
257
“È stato il cristianesimo che ha portato alla civiltà occidentale la necessità di sostituire l’universo”, 21-48r, ibid., p. 191.
258
“Non saremo ingiusti se dicessimo che il Cristianesimo è stato nella civiltà europea la prima
forma conosciuta di oppio o di cocaina”, 21-48r, ibid., p. 191.
259
“Il soggetto, per ogni soggetto, è dato come uno solo, perché ciascuno, di direttamente soggettivo, conosce appena il proprio spirito”, 21-12r-v, ibid., p. 178.
260
“L’oggetto è dato per la molteplicità delle cose esterne”, 21-12r-v, ibid., p. 178.
261
“La «realtà» si divide in due temi: la coscienza e la realtà. Uno è con che si «percepisce» il
mondo esteriore; l’altro è questo stesso mondo esteriore”, 22-23r-v, ibid., p. 294 (corsivo dell’autore).
262
“Ci sono solo due realtà: la coscienza e la materia”, 22-3r, ibid., p. 321.
79
dar-nos a realidade, que dão como exterior”263 e che “a nossa noção de realidade é
da materia, do Exterior, que nos vem”264. Quindi reale, nel suo significato primo, è
ciò che è materiale.
Anche per la coscienza? Dobbiamo dedurre, cioè, che la coscienza sia reale perché materiale anch’essa, alla stregua del mondo esteriore? Ma se così fosse
perché parlare di due realtà differenti riguardo la materia e la coscienza se in entrambi i casi la nozione di realtà, secondo le parole del nostro eteronimo filosofo,
dovesse proviene dal mondo esteriore?
Del problema se ne accorge anche Mora che, dopo aver affermato che
quando diciamo che uno spirito è reale lo consideriamo come materia, si chiede:
“De que ordem é, porém, a idea que temos do nosso espirito? Não temos nós a noção de
que elle é real, de que existe? Temos”265.
Nel cercare di risolvere il problema della materialità della coscienza, la
questione si illumina con l’aggiunta di un altro significato alla parola “reale”: reale è anche ciò che esiste. Ma l’esistenza della coscienza non è certo quella della
corporeità, perché non possiamo affatto dire che “essa noção nos é dada como
sendo realidade do nosso corpo”266.
Allora in che senso possiamo dire che la coscienza è reale?
Facciamo attenzione che “o Exterior, para nós, é dado pelo nosso espirito.
Mas o nosso espirito, ao mesmo tempo, não nos é dado senão pelo Exterior”267.
Infatti “o Exterior só podia ser dado como Exterior se alguma cousa o desse como
tal”268. E ciò che rende esteriore il mondo esteriore è appunto l’opposizione all’interiorità, alla coscienza. Possono dirsi reali nel medesimo modo due fattori contra263
“I sensi hanno in comune il darci la realtà, che danno come esteriore”, 121-11r-v, ibid., p. 300
(corsivo dell’autore).
264
“La nostra nozione di realtà è dalla materia, dall’esterno, che ci proviene”, 15A-43r, ibid., p.
325.
265
“Di che ordine è, però, l’idea che abbiamo del nostro spirito? Non abbiamo noi la nozione che
sia reale, che esista? L’abbiamo”, 15A-43r, ibid., p. 325.
266
“Questa nozione ci è data come se fosse la realtà del nostro corpo”, 15A-43r, ibid., p. 325.
267
“L’esteriorità, per noi, è data dal nostro spirito. Ma il nostro spirito, allo stesso tempo, non ci è
dato se non attraverso l’esteriorità”, 15A-43r, ibid., p. 326.
268
“L’esteriorità solo poteva essere data come esteriorità se qualcosa la desse come tale”, 15A-43r,
ibid., p. 326.
80
stanti? Se la coscienza può dirsi reale, lo può sicuramente in un altro modo rispetto alla materia.
In verità, specifica meglio António Mora, ciò che è reale della coscienza è
solo il suo “insieme”: “Só o conjunto (por assim dizer) da Consciencia é
«real»”269. L’unità della coscienza si contrappone così alla pluralità del mondo
esteriore, costituito da oggetti, “mas a unidade é o post-consciencia de si, não o
que se passa em nós, que reconhecemos como multiplo, e, de sorte, conosco, mais
ou menos visivelmente, mero espelhar do multiplo Real”270. L’insieme reale della
coscienza é il rispecchiare la molteplicità della realtà. Tanto più abbiamo coscienza dell’esterno, tanto più allora crescerà il grado di coscienza di noi stessi.
Se della coscienza è reale solo il rispecchiare unitario della molteplicità del
“reale”, la coscienza in quanto “realtà” non è se non il principio unificante di una
molteplicità dispersa.
Come infatti per la coscienza è reale il suo “conjuncto”, così non c’è propriamente un “mondo”, quale insieme, “conjuncto”, degli oggetti esterni, e la coscienza può dirsi “reale” in maniera differente dal mondo esteriore:
“Ha objectos exteriores apenas, a somma dos quaes nunca constitue um todo, porque a
idéa de todo 1) ou é a d’um todo vago e indefinido e nesse caso é transposta do nosso espirito –
que assim forçosamente se concebe a si – para o exterior, 2) ou é a d’um todo intuido, e isso é o
todo de qualquer objecto material, e essa idéa não se pode applicar ao universo sem que o universo
fique ipso facto dado por um objecto, visivilmente tal, e elle não o é na sua (supposta)
totalidade”271.
Nel caso della coscienza, “reale” è il proprio esser cosciente, soggetto, nel
caso degli oggetti esterni “reale” è l’essere materia, oggetto. Ma come si dà il rea269
“Solo l’insieme (per così dire) della coscienza è «reale»”, 15A-44r, ibid., p. 326 (corsivo dell’autore).
270
“Ma l’unità è la post-coscienza di se, non ciò che accade in noi, che riconosciamo come multipla, e, fortunatamente, con noi, più o meno visibilmente, mero rispecchiare della molteplicità del
reale”, 12B-12r, ibid., p. 192.
271
“Ci sono solo oggetti esteriori, la somma dei quali non costituisce mai un tutto, perché l’idea di
tutto 1) o è quella di un tutto vago e indefinito e in questo caso è trasposta dal nostro spirito – che
così forzosamente si concepisce a sé – all’esteriorità, 2) o è quella di un tutto intuito, e questo è il
tutto di un qualch oggetto materiale, e questa idea non si può applicare all’universo senza che l’universo sia, perciò, dato come un oggetto, visibilmente tale, e non lo è affatto nella sua (supposta)
totalità”, 144X-84r, ibid., p. 292 (corsivo dell’autore).
81
le esteriore, l’oggetto, al reale interiore, il soggetto? Il reale esteriore si dà al reale
interiore (la coscienza come insieme) solo per mezzo dei sensi, e questo darsi alla
coscienza quale insieme è ciò che chiamiamo conoscenza:
“Fonte de conhecimento, que saibamos que o é, não temos outra que não os sentidos. Os
dados dos sentidos são dados com exterioridade absoluta, com communidade entre os sentientes, e
com verificabilidade. Sendo dados com exterioridade, d’elles nos vem a noção de realidade; sendo
dados com communidade entre os sentientes, podemos consideral-os como independentes do
nosso espirito, porisso que são egualmente presentes ao espirito de outrem; sendo verificaveis,
podemos considerar como absoluta a realidade do exterior que estabelecem, porque resiste ao
exame e á prova”272.
E non sono gli oggetti ad essere contenuti nelle mie sensazioni, ma sono le
mie sensazioni ad essere come radiazioni degli oggetti. Così la materia può esistere senza coscienza, mentre una sensazione (un dato sensoriale) non può essere
senza una coscienza che la percepisca.
E possiamo conoscere questa coscienza, possiamo aver coscienza della coscienza?
“A consciencia é pura mas incognoscivel; só podemos saber que ella é consciencia. Mas
não é só isto. Não pode ser conhecida, não ha que haver conhecimento d’ella. Aquillo a que se
chama «conhecimento» é uma cousa que só se pode ter do mundo exterior. Conhecer uma cousa é
aprehendel-a sob quantos aspectos ella comporta sob os nossos sentidos”273.
Se infatti avessimo coscienza della coscienza (autocoscienza) saremmo
esterni alla nostra coscienza. Saremmo, cioè, oggetti a noi stessi e questo implicherebbe cadere in uno dei gravi errori che la filosofia, soprattutto da Kant in poi,
272
“Fonte di conoscenza, che sappiamo che lo è, non ne abbiamo altra che quella dei sensi. I dati
dei sensi sono dati con esteriorità assoluta, con comunanza tra i senzienti, e con verificabilità. Essendo dati con esteriorità, da loro ci viene la nozione di realtà; essendo dati con comunanza tra i
senzienti, possiamo considerarli come indipendenti dal nostro spirito, per il fatto che sono ugualmente presenti allo spirito di altri; essendo verificabili, possiamo considerare come assoluta la
realtà dell’esteriorità che stabiliscono, perché resiste a esami e a prove”, 121-98r, ibid., p. 297.
273
“La coscienza è pura ma inconoscibile; possiamo solo sapere che è coscienza. Ma non è solo
questo. Non può essere conosciuta, non c’è da avere conoscenza di lei. Ciò che si chiama «conoscenza» è una cosa che si può avere solo del mondo esteriore. Conoscere una cosa vuol dire apprenderla sotto gli aspetti che comporta sotto i nostri sensi”, 22-3 r, ibid., p. 321 (corsivo dell’autore).
82
ha commesso: attribuire alla “coscienza” proprietà della “realtà” e viceversa.
António Mora sostiene, infatti, che:
“Dos erros que consistem em attribuir á Consciencia as qualidades da Realidade, o
principal e mais grave é aquelle que, sobretudo desde Kant, corre na philosophia como o seu
insophismavel principio basilar – o de que a Realidade existe, senão apenas, por certo que
primariamente, atravez da Consciencia”274.
Qui Mora ha ben presenti le parole di Kant a riguardo della conoscenza:
“Sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta
dall’esperienza. Infatti potrebbe esser benissimo che la nostra conoscenza empirica fosse un composto di ciò che riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi
aggiunge da sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili); aggiunta, che noi propriamente
non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non
ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti nella distinzione”275.
Nella ricerca kantiana delle conoscenze a priori dell’animo umano, che intervengono nella rappresentazione di tutti gli oggetti, l’eteronimo pessoano ravvisa il pericolo di una commistione fra piani, realtà e coscienza, che egli, secondo le
parole di Caeiro nel non aggiungere alle cose percepite nulla del soggetto percipiente, vuole assolutamente separati. Ma il dire che gli oggetti sono conosciuti in
quanto rappresentazioni e che queste rappresentazioni si danno secondo principi a
priori dell’animo umano, rappresentazione a se stesso nell’autocoscienza, significa forse affermare che gli oggetti esistono solo perché conosciuti da un soggetto?
È Kant stesso che cerca di rispondere alla domanda quando compie la sua
famosa critica alle due correnti dell’idealismo “empirico”: quello “dommatico” di
Barkeley e quello “problematico” di Cartesio. Il primo “considera lo spazio, con
tutte le cose a cui esso aderisce quale condizione inseparabile, come qualcosa in
se stesso impossibile, e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici imma274
“Degli errori che consistono nell’attribuire alla coscienza le qualità della realtà, il principale e il
più grave è quello che, soprattutto da Kant in poi, si verifica nella filosofia come il suo indiscutibile principio basilare – quello che dice che la realtà esiste, se non appena, certamente in maniera
primaria, per mezzo della coscienza”, 121-54r, ibid., p. 296.
275
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, traduzione di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Editori Laterza, Bari, 2000 (I ed. 1909-1910), p. 34.
83
ginazioni”276. Il secondo “dichiara indubitabile solo una affermazione empirica,
cioè: Io sono”277.
Osserva allora il filosofo tedesco che “l’idealismo dommatico è inevitabile, quando si consideri lo spazio come una proprietà che debba spettare alle cose
in se stesse; giacché in tal caso, con tutto ciò a cui serve di condizione, è un non
essere”278. Ma nel paragrafo sull’Estetica trascendentale della Critica della ragion
pura Kant ha dimostrato come lo spazio sia un a priori formale delle intuizioni
sensibili, non un attributo degli oggetti in sé. L’idealismo problematico invece
non si pronuncia su ciò, ma “mette avanti la sua impotenza a provare con una
esperienza immediata un’esistenza fuori dalla nostra”279. In fondo, continua Kant,
dobbiamo anche ringraziare questo tipo di idealismo perché con la sua ragionevolezza nel voler cercare una “solida maniera filosofica di pensare”280 ci obbliga a
che la prova desiderata ci mostri “che noi delle cose esterne abbiamo non semplici
immaginazioni, ma anche esperienza”281.
E quale prova ha Kant dalla sua parte, in cosa si differenzia il suo “idealismo trascendentale”?
Se tutti i fenomeni non sono che semplici rappresentazioni, e non cose in
sé, e il tempo e lo spazio non sono che forme sensibili della nostra intuizione, ma
non determinazioni da sé date, o condizioni degli oggetti come cose in sé, non si
avrà difficoltà a dimostrare come l’esistenza della materia si dia contemporaneamente all’esistenza di noi stessi in quanto esseri pensanti, soggetti di rappresentazioni.
“Infatti io ho coscienza delle mie rappresentazioni; queste dunque esistono, ed esisto io
stesso che ho queste rappresentazioni. Ma gli oggetti esterni (i corpi) sono semplici fenomeni,
quindi nient’altro che una specie delle mie rappresentazioni, i cui oggetti soltanto per queste rappresentazioni sono qualcosa; ma, separati da esse, non son nulla. Esistono dunque tanto le cose
esterne quanto io stesso, ed entrambi invero sulla testimonianza immediata della mia autocoscienza, con la sola differenza, che la rappresentazione di me stesso come soggetto pensante si riferisce
276
Ibid., p. 189.
Ibid., p. 188.
278
Ibid., p. 189.
279
Ibid., p. 189.
280
Ibid., p. 189.
281
Ibid., p. 189.
277
84
semplicemente al senso interno; le rappresentazioni, invece, che designano esseri estesi, anche al
senso esterno”282.
Stando così le cose, per Kant “non è necessario concludere alla realtà degli
oggetti esterni più che alla realtà dell’oggetto del mio senso interno (del mio pensiero), perché da ambo le parti non sono se non rappresentazioni, la cui percezione
immediata (coscienza) è insieme prova bastevole della loro realtà”283.
Lo scontro tra Kant e Mora avviene, soprattutto, sul terreno della considerazione degli oggetti. Per Kant gli oggetti, se considerati in rapporto a noi, si danno come fenomeni, rappresentazioni, se considerati a prescindere da questo rapporto si danno come noumeni, “cose in sé”. Solo dei fenomeni abbiamo conoscenza, mentre del noumeno assolutamente no. La possibilità dell’esperienza viene
fondata in base alla possibilità degli oggetti considerati in rapporto a noi, perché
l’esperienza non è che del soggetto. Infatti non avrebbe senso fondare l’esperienza, che è solo di un soggetto, su qualcosa che è in sé e del quale non abbiamo appunto conoscenza, rapporto.
Per António Mora gli oggetti sono e basta, sia che vengano conosciuti o
meno, e come tale vuole che si considerino. Abbiamo visto infatti come per lui la
materia, gli oggetti, esistano senza coscienza. Ai suoi occhi, quindi, l’idealismo
trascendentale di Kant, sebbene il filosofo tedesco si definisca dualista, nel non
considerare gli oggetti in sé, ne fa dipendere l’esistenza dall’animo umano, con
una conseguente antropomorfizzazione della realtà esterna: “Basta que se note o
seu centralizar na alma tudo”284, sottolinea Mora del pensiero di Kant, il quale è “o
subjectivismo christão levado a teoria maxima”285. La possibilità, poi, per la coscienza di essere autocoscienza e quindi rappresentazione, oggetto a se stessa, non
fa che accrescere le distanze tra i due.
Ma quello di António Mora – potrebbe rispondere Kant286 – è il tentativo di
chiedersi che cosa sono gli oggetti in se stessi, senza nessun rapporto coi sensi,
282
Ibid., p. 556.
Ibid., p. 556.
284
“Basta che si noti il suo centralizzare tutto nell’anima”, 121-40v, F. Pessoa, Obras de António
Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 264.
285
“Il soggettivismo cristiano elevato alla massima teoria”, 121-40v, ibid., p. 264.
286
Ipotizziamo una possibile risposta del filosofo di Köenigsberg al suo critico postumo.
283
85
ovvero uno “spingere le nostre inchieste al di lá dei limiti in cui l’esperienza possibile può fornircene l’oggetto”287. Per l’eteronimo pessoano, effettivamente, la ricerca del dato fondamentale dell’esperienza ha portato all’individuazione nella coscienza e nella materia dei due termini irriducibili della natura, due realtà non ulteriormente spiegabili. Ma queste sono entrambi due realtà per sé alla maniera
kantiana? Oppure ciò che Mora, nella critica a Kant, arriva a sostenere involontariamente è solo il “per sé” del mondo esteriore, mentre la coscienza, quale insieme
unitario che rispecchia la molteplicità del reale, è “per gli oggetti” e non “per sé”?
La metafisica per Mora è quella ricerca della verità che parte dal più assoluto e incontrovertibile dei dati dell’esperienza: “Esse dado é a coexistencia do sujeito e do objectos, do objecto de conhecimento e do sujeito conoscente”288. Ma la
metafisica “é a procura da verdade, que só pode ser concebida como uma”289 per
questo essa diventa il tentativo di “reduzir a um monismo o dualismo do datum
fundamental da experiencia”290. Il mondo esteriore e la coscienza, però, non possono essere ridotti all’unità pena la perdita dei caratteri dell’uno e dell’altro in un
miscuglio anti-naturale che neghi il proprio punto di partenza. Il dualismo assoluto, ovvero l’assoluto parallelismo di soggetto e oggetto, è così lo sviluppo organico dell’oggettivismo assoluto di Caeiro. Ma in che senso “parallelismo”?
Forse aveva ragione Kant, nella sua obiezione, e Mora considera inespressamente coscienza e realtà come cose in sé?
Coscienza e realtà, interiorità ed esteriorità, anche per Mora, abbiamo visto, si danno solo in opposizione, e perciò in relazione. Se infatti, utilizziamo
l’immagine di Caeiro, “il guardiano di greggi” e “il gregge” fossero solo per sé
non sarebbero ciò che sono, l’uno per l’altro, soggetto conoscente e oggetto conosciuto291. Dobbiamo scartare allora l’idea di parallelismo tra coscienza e mondo
esteriore, inteso come l’essere per sé delle due realtà. Ma il ritrattare sul paralleli287
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 561.
“Questo dato è la coesistenza di soggetto e di oggetto, dell’oggetto della conoscienza e del soggetto conoscente”, 22-20r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa,
cit., p. 301.
289
“È la ricerca della verità, che solo può essere concepita come una”, 22-20r, ibid., p. 301.
290
“Ridurre a un monismo il dualismo del dato fondamentale dell’esperienza”, 22-20r, ibid., p.
301.
291
Non trascuriamo il “conoscente” e il “conosciuto”, che dicono tutto della relazione esistente tra
soggetto e oggetto.
288
86
smo significa ammettere la relazione di questi due piani. Leggiamo, ad esempio,
in un passo che “a existência de Sujeito e objecto e a relação entre elles são os
dados essenciaes da experiencia”292. C’è dunque “relazione”: forse un altro dato irriducibile della natura?
“Para poder affirmar que, além da Consciencia e da Materia ha, pelo menos, um outro
facto – a relação entre elles, porque se entende que a Materia é dada á Consciencia – e a
Consciencia é a Consciencia da materia – tinhamos que provar: 1) que é legitima a applicação da
idéa de relação á Consciencia e á Materia no que, empreguem-se as palavras, em relação uma com
a outra; 2) que conhecemos sufficientemente a Consciencia e a Materia para poder affirmar d’ellas
mais alguma cousa do que existem; 3) que – ao contrario do que é evidente e provaremos – a idéa
de relação não nasce da Materia puramente, das relações entre as cousas, sendo, porisso mesmo,
inapplicavel fóra da Materia”293.
Viene sconfessato il dualismo assoluto? Di certo viene sconfessato il parallelismo di soggetto o oggetto quale loro essere indipendenti l’uno dall’altro, mentre, se teniamo in considerazione i rispettivi concetti di realtà che soggiacciono ai
due, dal punto di vista degli attributi e delle reciproche funzioni il dualismo rimane. Ma è un dualismo che, paradossalmente secondo le intenzioni di Mora, corre il
rischio di cadere in un monismo dove il vero assoluto è la “relazione”.
Ma è proprio nella sconfessione del parallelismo, inteso quale essere per sé
delle due realtà, e, al contrario, nella salvaguardia delle differenze di realtà fra coscienza e mondo esteriore, che Mora si inserisce nella tradizione dell’oggettivismo assoluto di Caeiro. Già in Caeiro infatti, benchè non esplicitato forse in maniera chiara, il divieto di non aggiungere allo sguardo, alle nostre percezioni del
mondo, i pensieri, se riconsegnava l’oggetto alla sua identità e purezza, restituiva
292
“L’esistenza di soggetto, oggetto e relazione tra loro sono i dati essenziali dell’esperienza”,
25-28r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 326.
293
“Per poter affermare che, al di là della coscienza e della materia, c’è, per lo meno, un altro fatto
– la relazione tra di loro, perché si intende che la materia è data alla coscienza – e la coscienza è la
coscienza della materia – dobbiamo dimostrare: 1) che è legittima l’applicazione dell’idea di relazione alla coscienza e alla materia in ciò che, si impieghino le parole, è in relazione una con l’altra;
2) che conosciamo sufficientemente la coscienza e la materia per poter affermare di loro più dell’esistenza; 3) che – al contrario di ciò che evidente e lo dimostreremo – l’idea di relazione non nasce dalla materia puramente, dalle relazioni tra le cose, essendo, per questo motivo, inapplicabile
fuori dalla materia”, 25-24r, ibid., p. 328.
87
anche al soggetto conoscente il suo ruolo di soggetto di sensazioni. Anche per
Mora infatti:
“O homem que vê em cada objecto uma outra cousa qualquer, que não seja isto, não pode
ver, amar ou sentir esse objecto. O que dá a cada cousa o valor de ter sido creada por «Deus», dálhe o valor por o que ella não é, mas por o que ella lembra. Os seus olhos estão postos nessa cousa,
e alhures o seu pensamento”294.
Così sono i panteisti, i mistici cristiani, i materialisti e i razionalisti quelli
per i quali il mondo è appena i loro pensieri, figli tutti del vizio cristiano di “substituir o homem á natureza”295. Il paganesimo nasce invece dalla terra, “da natureza directamente” (“direttamente dalla natura) e attribuisce a ogni oggetto la sua
vera realtà:
“A sensação da realidade era directa nos gregos e nos romanos, em toda a «antiguidade»
classica. Era immediata. Entre a sensação e o objecto – fosse esse objecto uma cousa do exterior
ou um sentimento – não se interpunha uma reflexão, um elemento qualquer extranho ao proprio
acto de sentir”296.
Con l’avvento del Cristianesimo la limpidezza della sensazione si è intorbidita:
“A presença no pensamento das idéas de espirito, de Deus, de outra-vida, concebidas
como eram, levaram a uma decomposição da Realidade, qual os gregos a haviam concebido”297.
294
“L’uomo che vede in ogni oggetto un’altra cosa qualsiasi, che non sia quest’oggetto, non può
vederlo, amarlo o sentirlo. Ciò che dà a ogni cosa il valore di essere stata creata da «Dio», le dà il
valore per ciò che non è, ma per ciò che ricorda. I suoi occhi sono posti su questa cosa, e il suo
pensiero altrove”, 21-44r, ibid., p. 211.
295
“Sostituire l’uomo alla natura”, 21-44v, ibid., p. 212.
296
“La sensazione della realtà era diretta nei greci e nei romani, in tutta l’«antichità» classica. Era
immediata. Tra la sensazione e l’oggetto – fosse una cosa esteriore o un sentimento – non si interponeva la riflessione, un elemento qualsiasi estraneo all’atto proprio di sentire”, 20-96r, ibid., p.
273.
297
“La presenza nel pensiero delle idee di spirito, di Dio, di altra vita, concepite come erano, portarono a una decomposizione della realtà, quale i greci l’avevano concepita”, 20-96 v, ibid., p. 273
(corsivo dell’autore). Occorre notare come qui si adoperi la parola spirito non quale sinonimo di
coscienza, come visto sinora, ma quale riferimento alla credenza negativa dell’immortalità dell’anima e alla sua conseguente superiorità valoriale rispetto al corpo.
88
La filosofia di Mora, nonostante le molte ambiguità inespresse o esplicitate, è uno sforzo di paganizzazione degli sguardi e delle intelligenze, nel tentativo
di donare la luce necessaria affinché gli oggetti siano percepiti come sono e i soggetti non inseguano loro stessi negli sguardi che offrono al mondo, relazione equilibrata dei due, piuttosto che parallelismo, armonia. Così Mora raccoglie su di sé
l’onere di diventare un nuovo Prometeo e il racconto iniziale non fa che confermare ora, dopo le nostre considerazioni circa la “provvidenza” di questo eteronimo, come anche la “previsione” faccia parte del suo ruolo: il principio coincide
con l’esito della missione, quasi che Pessoa volesse ricordare ai lettori che è nell’origine la colpa di ogni atto:
“E donde viene agli esseri la nascita, la avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”298.
2.7 – Fernando Pessoa ortonimo
C’è un momento preciso in cui comprendiamo come la poesia di Pessoa
sia un dialogo con i suoi eteronimi, e anzi, come essa sorga quale reazione all’esistenza dei suoi interlocutori immaginari, ovvero alla loro inesistenza reale:
“Escritos que foram esses trinta e tantos poemas, imediatamente peguei noutro papel e
escrevi, a fio também, os seis poemas que constituem a «Chuva Oblíqua», de Fernando Pessoa.
Imediatamente e totalmente... Foi o regresso de Fernando Pessoa Alberto Caeiro a Fernando
Pessoa ele só. Ou melhor, foi a reacção de Fernando Pessoa contra a sua inexistencia como
Alberto Caeiro”299.
298
I presocratici. Frammenti e testimonianze, vol I, introduzione, traduzione e note di Angelo Pasquinelli, Einaudi, Torino, 1976, p. 44.
299
“Una volta scritte queste trenta e più poesie, immediatamente presi un altro foglio e scrissi, di
getto anche questa volta, le sei poesie che compongono «Chuva oblíqua» (Pioggia obliqua), di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa Alberto Caeiro a
Fernando Pessoa lui solo. O meglio, fu la reazione di Fernando Pessoa contro la sua inesistenza
come Alberto Caeiro”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 343.
89
Nel caso specifico si tratta del ritorno di Fernando Pessoa a sé stesso (l’ortonimo), una volta composte le poesie de O guardador de rebanhos di Caeiro.
Chuva oblíqua ristabilisce così un equilibrio: dopo l’esaltazione del mondo esteriore fatta nell’oggettivismo assoluto di Caeiro, Pessoa recupera il suo mondo interiore, simmetrico al primo e interamente dispiegato nel suo cuore300.
Qui, in modo chiastico, i due “paesaggi” del mondo esteriore e interiore si
intrecciano, si attraversano, si contrappongono, si rimandano l’uno all’altro. Le sei
poesie che compongono Chuva oblíqua sono ognuna un quadro di intersezioni, e
ne comprendiamo così il sottotitolo: Poemas intersecionistas (Poesie intersezioniste). Nella prima ciò che attraversa il paesaggio esterno è “o meu sonho d’um porto infinito”301 e i due piani, mondo esteriore e mondo interiore, si contrappongono
per l’intensità delle luce che li illumina: “O porto que sonho è sombrio e pallido /
E esta paysagem é cheia de sol d’este lado… / Mas no meu espirito o sol d’este
dia é porto sombrio / E os navios que sahem do porto são estas arvores ao
sol...”302. Nel secondo quadro il paesaggio esteriore è la pioggia che cade e quello
interiore è una chiesa che si illumina secondo il cadere della pioggia: “Illumina-se
a egreja por dentro da chuva d’este dia, / E cada vela que se acende è mais chuva a
bater na vidraça…”303. E come la pioggia cessa di battere così “apagam-se as luzes
da igreja”304 nello spirito di Fernando. Nella terza poesia il poeta sta scrivendo sul
foglio e dalla sua penna si liberano il profilo della Sfinge, delle piramidi e del re
Cheope: “A Grande Esfinge do Egipto sonha por este papel de dentro… / Escrevo
– e ela aparece-me através da minha mão transparente / E ao canto do papel
300
Leggiamo a tal proposito le osservazioni di Luciana Stegagno Picchio: “Il «Guardador de rebanhos» del nominalista Alberto Caeiro era stato peraltro la descrizione di una serie di paesaggi
esterni, mentre «Chuva oblíqua» del ritrovato Fernando Pessoa è il recupero del paesaggio interno.
Come se, stanco di possedere solo l’ «olhar nítido como um girassol», lo sguardo nitido come un
girasole di Alberto Caeiro, stanco di sentire tutto il suo corpo immerso nella realtâ, il poeta assaporasse nel recupero dell’altro paesaggio simmetrico ed all’esterno e spiegato nel cuore dell’uomo,
quel ritorno a se stesso, «Fernando Pessoa ele só, che coincide con il recupero della propria totalità”. L. S. Picchio, «Chuva Oblíqua»: dall’Infinito turbolento di F. Pessoa all’Intersezionismo portoghese, in «Quaderni Portoghesi», Giardini Editore, Pisa, n. 2, Primavera 1977, p. 54.
301
“Il mio sogno di un porto infinito”, Chuva oblíqua, I, in F. Pessoa, Ficções do interludio
(1914-1935), edição de Fernando Cabral Martins, Assírio&Alvim, Lisboa, 2000, p. 13.
302
“Il porto che sogno è buio e pallido / E questo paesaggio è pieno di sole da questo lato… / Ma
nel mio spirito il sole di questo giorno è porto buio / E le navi che escono dal porto sono questi alberi al sole…”, I, ibid., p. 13.
303
“Si illumina la chiesa all’interno della pioggia di questo giorno, / E ogni candela che si accende
è più pioggia che batte sulle vetrate…”, II, ibid., p. 14.
304
“Si spengono le luci della chiesa”, II, ibid., p. 14.
90
eguem-se as pirâmides… // Escrevo – perturbo-me de ver o bico da minha pena /
Ser o perfil do rei Quéops...”305. Nella quarta il paesaggio esterno è la stanza del
poeta, dove il silenzio si trasforma in un sogno di tamburelli e di danze d’Andalusia: “Que pandeiretas o silêncio deste quarto!... / As paredes estão na Andaluzia…
/ Há danças sensuais no brilho fixo da luz”306. Nella quinta il paesaggio esterno ritorna un giorno di sole e il paesaggio interiore è il sogno di una fiera al chiaro di
luna: “Noite absoluta na feira iluminada, luar no dia de sol lá fora”307. Nell’ultima
poesia è la musica del teatro che fa sognare al poeta la sua infanzia quando giocava a palla: “O maestro sacode a batuta, / E lânguida e triste a música rompe… /
Lembra-me a minha infância, aquele dia / Em que eu brincava ao pé dum muro de
quintal”308.
Per Álvaro de Campos è proprio in questa poesia che Fernando Pessoa fotografa la condizione della sua anima. Pessoa, infatti, “não existe, propriamente
fallando”309. Anzi, la sua esistenza è conseguenza della presenza di altri, ad esempio di Alberto Caeiro per Chuva oblíqua. Allora, si domanda Campos, “que coisa
pode exprimir melhor a sua sensibilidade sempre intellectualizada, a sua attenção
intensa e desattenta, a sua subtileza quente de analyse fria de si mesmo”310 se non
questa poesia di “intersecções, onde o estado da alma é simultaneamente dois,
onde o subjectivo e o objectivo, separados, se junctam, e ficam separados, onde o
reale e o irreal se confundem, para que fiquem bem distinctos” 311? Ma in che modo
Pessoa arriva ad ottenere questa individualità? Certo, in opposizione a Caeiro,
Reis, Campos e Mora, ma su cosa diverge?
305
“La grande Sfinge dell’Egitto sogna all’interno di questo foglio… / Scrivo – e lei mi appare attraverso la mia mano trasparente / E nell’angolo del foglio si ergono le piramidi… // Scrivo – mi
turbo nel vedere che la punta della mia penna / È il profilo del re Cheope…”, III, ibid., p. 15.
306
“Che tamburelli il silenzio di questa stanza!... / Le pareti sono in Andalusia… / Ci sono danze
sensuali nel luccichio fisso della luce”, IV, ibid., p. 16.
307
“Notte assoluta nella fiera illuminata, chiaro di luna nel giorno di sole lá fuori”, V, ibid., p. 16.
308
“Il maestro muove la bacchetta, / E languida e triste la musica irrompe… / Mi ricorda la mia infanzia, quel giorno / In cui io giocavo ai piedi di un muro di cortile”, VI, ibid., p. 17.
309
“Non esiste propriamente parlando”, 71A-25r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 120.
310
“Che cosa può esprimere meglio la sua sensibilità sempre intellettualizzata, la sua attenzione intensa e disattenta, la sua calda sottigliezza della fredda analisi di se stesso”, 71A-26r, ibid., p. 120.
311
“Intersezioni, dove lo stato dell’anima è simultaneamente due, dove il soggettivo e l’oggettivo,
separati, si uniscano, e restino separati, dove il reale e l’irreale si confondono, affinchè restino ben
distinti”, 71A-26r, ibid., p. 120.
91
C’è un momento d’inizio, nella finzione letteraria, del recupero del mondo
interiore da parte di Pessoa e questo coincide con la poesia Chuva oblíqua. Ma
Chuva oblíqua non sembra essere piuttosto il punto d’arrivo, come sostiene Campos, della coesistenza parallela e relazionale di soggetto e oggetto, quella argomentata filosoficamente anche da António Mora?
Per Caeiro, Reis e Mora, ognuno nel suo modo specifico, il mondo esteriore è solamente il mondo esteriore. Le cose sono lì di fronte e non sono altro che
ciò che ci appaiono. Per Campos, invece, infedele discepolo di Caeiro, le cose
sono le sensazioni che ne abbiamo. E per Fernando?
“Ah, tudo é symbolo e analogia.
O vento que passa, esta noite fria,
São outra cousa que a noite e o vento
Sombra de Ser e de Pensamento”312.
Versi quasi idenditici si leggono anche nella rivisitazione che Pessoa fa del
mito di Faust:
“Ah! Tudo é simbolo e analogia!
O vento que passa, a noite que esfria
São outra cousa que a noite e o vento –
Sombras de vida e de pensamento.
Tudo que vemos é outra cousa.
A maré vasta, a maré ansiosa,
É o eco de outra maré que está
Onde é real o mundo que há.
Tudo que temos é esquecimento.
A noite fria, o passar do vento
São sombras de mãos cujos gestos são
A ilusão mãe desta ilusão.
312
“Ah, tutto è simbolo e analogia. / Il vento che passa, questa fredda notte, / Sono altra cosa che la
notte e il vento / Ombre di Essere e Pensiero”, 119-25r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa.
1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. I, tomo III, edição de Ivo Castro, Imprensa
Nacional - Casa da Moeda, Lisboa, 2001, p. 58.
92
*
Tudo trascende tudo
E é mais real e menos do que é”313.
Il simbolo (gr. su/mbolon, dalla preposizione su/n, “insieme”, “nello
stesso tempo” più il verbo ba/llw, “getto”, letteralmente quindi “getto insieme”)
era la metà di una moneta o di una medaglia, usata nell’antica Grecia come segno
di riconoscimento delle persone. Platone, nel Simposio, fa dire ad Aristofane che
anche gli uomini sono come delle “contromarche” che l’amore cerca di portare ad
unità314. Per Aristotele “i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno
luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce” 315. Il simbolo, allora, dice “qualcosa per qualcos’altro”, il pezzo di metallo x (significante)
per l’identità y (significato), oppure il suono x (significante) per il sentimento y
(significato), ma dice anche che la pienezza del suo significato sta nel presentarsi
coimplicato a ciò a cui rimanda. Significante e significato si appartengono, si
“gettano insieme”, pur nella differenza dei loro generi. Ma ciò non basta. La relazione simbolica può darsi anche tra significato e significato, quando ad esempio,
mantenendo uno stesso significante, col rispettivo significato principale si “getti
insieme” a questo significato principale un altro significato, che chiameremo secondario, non per valore, ma per ordine di apparizione. Così il significante sopra313
“Ah tutto è simbolo e analogia! / Il vento che passa, la notte che rinfresca / Sono altra cosa che
la notte e il vento – / Ombre di vita e di pensiero. // Tutto ciò che vediamo è altra cosa. / La marea
vasta, la marea ansiosa, / è l’eco di un’altra marea che sta / dove è reale il mondo che c’è. // Tutto
ciò che abbiamo è dimenticanza. / La notte fredda, il passare del vento / Sono ombre di mani i cui
gesti sono / L’illusione madre di questa illusione. * Tutto trascende tutto / Ed è più e meno reale di
ciò che è”, 29-12 (dopo * 30-55), F. Pessoa, Fausto. Tragédia subjectiva, edição de Teresa Sobral
Cunha, Editorial Presença, Lisboa, 1988. p. 5.
314
Nel celebre mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone l’amore viene paragonato al
desiderio che gli uomini hanno di ritrovare la propria metà mancante. Infatti un tempo, essi erano
rotondi, con quattro mani, quattro gambe e con una testa con due visi opposti. La loro natura era
così perfetta che un giorno pensarono di scalare l’Olimpo per assalire gli dei. Zeus e gli dei, però,
per difendersi non potevano ucciderli, perché altrimenti ne avrebbero perso gli onori. Che cosa potevano fare? Decisero di dividerli in due in modo da indebolirli e da moltiplicarne il numero per riceverne onori maggiori. Così, una volta divisi, gli uomini presero a ricercare quella parte con la
quale erano stati perfetti. A tal proposito Platone fa sostenere ad Aristofane che “ciascuno di noi,
pertanto, è come una contromarca di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole”. Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1998, 191 D 3-5, p. 131.
315
Aristotele, Dell’espressione, in Organon, a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano, 2003, 16 a,
p. 57.
93
vanzerà il suo significato principale, dato che in sé racchiude una ulteriorità di
senso dicibile solo da un secondo significato.
Nel nostro caso il vento e la notte, quali “questo vento” e “questa notte”
percepiti dal Poeta (significanti), sono percepiti con un altro significato (secondario). Se “todo o mundo é um grande livro aberto / Que em ignorada lingua me sorri”316, noi dobbiamo imparare a leggere quale “ulteriorità d’essere di cui appunto
pur dice il segno”317 si adombra nella determinatezza di ciò che percepiamo. Dunque per Fernando sembra che il mondo esteriore non sia né ciò che che appare né
ciò che noi percepiamo.
Il vento, poi, non è più quello di Caeiro che, al suo spirare non ha altro da
dire al “guardiano di greggi” che è vento318, ma è la voce dell’abisso che sta nelle
cose:
“Ronda o vento, ronda o vento,
O vento ronda o meu ser,
E faz do meu pensamento
Um arvoredo a tremer.
É a voz do chaos que vem
Ás almas novas lembrar
O abysmo que as coisas tem
Sob o ceu, a terra e o mar”319.
316
“Tutto il mondo è un grande libro aperto / Che in una lingua sconosciuta mi sorride”, 33a r, F.
Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. I, tomo
V, edição de Luís Prista, Imprensa Nacional - Casa da Moeda, Lisboa, 2000, p. 94.
317
Virgilio Melchiorre, La via analogica, Vita e Pensiero, Milano, 1996, p. 49.
318
Leggiamo per intero la poesia di Caeiro: “«Olá, guardador de rebanhos, / Ahi á beira da estrada,
/ Que te diz o vento que passa?» // «Que é vento, e que passa, / E que já passou antes, / E que
passará depois, / E a ti o que te diz?» // «Muita cousa mais do que isso. / Falla-me de muitas outras
cousas. / De memoria e de saudades / E de cousas que nunca fôram.» // «Nunca ouviste passar o
vento. / O vento só falla do vento. / O que lhe ouviste foi mentira, / E a mentira está em ti.»”
(“«Ehilá, guardiano di greggi, / Lí sul margine della strada, / Cosa ti dice il vento che passa?» //
«Che è vento, e che passa, / E che già è passato prima, / E che passerà anche dopo, / E a te cosa ti
dice?» // «Molte più cose di queste. / Mi parla di molte altre cose. / Di ricordi e di nostalgie / E di
cose che non sono mai state.» // «Non hai mai sentito passare il vento. / Il vento solo parla del vento. / Quello che gli hai sentito dire è una menzogna, / E la menzogna sta in te.»”), F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit.,
n. X, p. 59.
319
“Gira intorno il vento, gira il vento, / Il vento gira intorno al mio essere, / E rende il mio pensiero / Una foresta che trema. // È la voce del caos che viene / A ricordare alle anime giovani / L’abisso che le cose hanno / Sotto il cielo, la terra e il mare”, 60A-24 r, F. Pessoa, Poemas de Fernando
94
Anche il mare è l’eco di qualcosa d’altro, di un segreto al quale, il suo essere questo mare che vedo, rimanda:
“O mar que fito
São as ondas que são.
Vem uma, e outra, e tem
O mesmo quebrar quedo
Que chia e estruge bem.
E vão-se todas sem
Que eu saiba o seu segredo”320.
Le cose rinviano a un abisso, un segreto che non riusciamo a penetrare con
gli occhi. L’uomo percepisce il mondo e le cose nel mondo non sono né solo ciò
che sono (Caeiro, Reis e Mora), né sono solo le nostre percezioni (Campos).
Quale sporgenza di significato celano allora le cose?
“O mistério supremo do Universo
O único mistério, tudo em tudo
É haver um mistério do universo,
É haver o universo, qualquer cousa,
É haver haver”321.
Ció che le cose nascondono è il “perché” della loro esistenza, un “perché”
che non può essere mostrato all’uomo, ma la cui domanda sollecita la curiosità
della sua intelligenza : “Céus, montes, pedir-vos não poder / Que entorneis na minha alma esse segredo / Que vos faz existir e eu sentir-vos!”322. Sono le cose, dunque, che interrogano il soggetto percipiente, sono loro che lo mettono “spalle al
muro” di fronte alle ragioni inconoscibili dell’esistenza: “Não posso mais, não
Pessoa. 1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 186.
320
“Il mare che fisso / Sono le onde che sono. / Una viene, e un’altra, e hanno / Lo stesso infrangersi calmo / Che stride e rimbomba bene. / E se ne vanno tutte senza / Che io sappia il loro segreto”, 62B-3r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 146-147.
321
“Il mistero supremo dell’Universo / L’unico mistero, tutto in tutto / È che ci sia un mistero dell’universo, / È che ci sia l’universo, qualche cosa, / È che ci sia l’esserci”, 30A-21, F. Pessoa, Fausto. Tragédia subjectiva, cit., p. 11.
322
“Cieli, monti, non potervi chiedere / Che riversiate nella mia anima questo segreto / Che vi fa
esistere e io sentirvi!”, 29-63, F. Pessoa, Fausto. Tragédia subjectiva, cit., p. 29.
95
posso, suportar / Esta tortura intensa – o interrogar / Das existências que me cercam…”323. Quasi torturato, il Poeta rimpiange d’aver perso l’innocenza dello
sguardo, quella alla quale tanto si era dedicata l’opera di Caeiro, e con questa perdita, in fondo, si sono perse le cose stesse. Le cose, infatti, nel loro celare altro,
vengono perdute da chi le percepisce. Così, chi sente il mondo non può far altro
che disperarsi di una ragione che non conosce e di un “sole” che non ha più.
“Nunca mais, nunca mais eu te verei
Como te vi, oh sol da tarde, nunca,
Nem tu, monte solene de verdura,
Nem as cores do poente desmaiando
Num respirar silente. E eu não poder
Chorar a vossa perda (que eu perdi-vos),
Mas nem as lágrimas poder achar –
Por amargas que fossem – com que outrora
Eu me lembrava que vos deixaria”324.
Ma che cosa significa “perdere” le cose? Non è forse il segno ciò che “pur
dice” quell’ulteriorità di senso che si nasconde in un secondo significato? Che
cosa, infatti, ci richiama l’attenzione a che quello che abbiamo davanti sia un di
più di ciò che ci sta innanzi se non il segno che percepiamo? Forse è vero, senza
significante non potremmo mai percepire il mistero che si nasconde dietro di esso,
ma è anche vero che questo suo celare “altro”, questo “non dire tutto”, può far dimenticare che il segno sia un “qualcosa”. Caeiro non potrebbe che ribellarsi a questo occhio “mistico” che osserva il mondo, “mistico” come dice di sè Fernando325.
Se da un lato, allora, il simbolo unisce due significati, dall’altro smaterializza il significante in un velo. Il significante diventa la trasparenza attraverso la quale cogliere il “perché” dell’esistenza. È in questa trasparenza, però, che si insinua quel
323
“Non posso più, non posso, sopportare / Questa intensa tortura – l’interrogare / Delle esistenze
che mi circondano…”, 29-62, ibid., p. 28.
324
“Mai più, mai più io ti vedrò / Come ti vidi, oh sole del meriggio, mai, / Né tu, monte solenne di
verzura, / Né i colori del tramonto che sbiadisce / In un respirare silenzioso, E io non poter piangere la vostra perdita (perché io vi ho perso), / Né poter trovare le lacrime – / Per amare che fossero –
con le quali un tempo / Mi ricordavo che vi avrei lasciato”, 29-63, ibid., p. 29.
325
“Mystico intelletual” (“Mistico intellettuale”), 21-6r, Obras de António Mora. Edição crítica de
Fernando Pessoa, cit., p. 145.
96
dubbio che ci fa “perdere” le cose: è reale ciò che guardiamo? Oppure tutto il
mondo è un sogno?
L’intelligenza, persa l’innocenza del non aggiungere altro alla sensazione
del mondo, ha guadagnato una trasparenza che non sa scrutare. Nel non sapere più
se il mondo sia ciò che ci sta innanzi o altro, il dubbio che esso sia sogno prende il
sopravvento. Nei sogni la facoltà di sentire non scompare, essa rimane inalterata,
mentre l’intelligenza si smarrisce in un mondo del quale non coglie più le ragioni,
incapace a dare senso alle sensazioni che continua a recepire. Allo stesso modo,
allora, potrebbe essere la vita, della quale l’intelligenza intuisce un perché, quasi
come un’inquietudine che trasmettono le cose, ma che non conosce. E come nei
sogni, anche nella vita rimane solo la facoltà di sentire. Il dubbio, allora, diventa
una certezza:
“Sim este mundo com seu céu e terra,
Com seus mares e rios e montanhas,
Com seus arbustos, aves, bichos, homens,
Com o que o homem, com translata arte
De qualquer outra, divina, faz –
Casas, cidades, cousa, modos –
Este mundo que sonho reconheço,
E por sonho amo, e por ser sonho o não
Queisera deixar nunca, e por ser certo
Que terei que deixá-lo e ver verdade,
Me toma a gorja com horror de negro
O pensamento da hora inevitável,
E a verdade da morte me confrange”326.
L’intelligenza, rappresentata da Faust, non può che arrendersi dinnanzi al
sogno che è la vita. Se la vita è sogno, si apre una frattura anche tra ciò che il Poeta percepisce e ciò che sa di sé per ciò che percepisce. Se le cose percepite in
326
“Sì questo mondo con i suoi cielo e terra, / Con i suoi mari e fiumi e montagne, / Con i suoi ar busti, uccelli, bestie, uomini, / Con ciò che l’uomo, con traslata arte / di Qualche altra, divina, fa
– / Case, città, cose, abitudini – Questo mondo che un sogno riconosco, e per essere sogno lo amo,
e per essere sogno non lo / Vorrei lasciare mai, e per essere certo che dovrò lasciarlo e vedere la
verità, / Mi prende la gola con un orrore scuro / Il pensiero dell’ora inevitabile, / E la verità della
morte mi affligge”, 29-41, F. Pessoa, Fausto. Tragédia subjectiva, cit., p. 19.
97
Caeiro restituivano al soggetto conoscente il ruolo di soggetto di uno sguardo innocente, senza pensiero, sul mondo, nell’ortonimo le cose percepite sono sogno e,
come tali, non si ha coscienza se siano reali o meno. Quindi, se non si sa nulla della realtà delle cose percepite, e di ciò a cui rinviano, come possono queste dire
qualcosa del soggetto che le percepisce?
Come abbiamo visto in precedenza, la percezione si dá anche nel sogno,
mentre l’intelligenza è sconfitta a priori nel tentativo di comprendere il perché
dell’esistenza. E se l’intelligenza è sconfitta nel tentativo di conoscere il sogno
che la vita è, essa non può nemmeno dire nulla dell’identità del Poeta che percepisce le cose sognate. Si apre così una frattura tra ciò che l’ortonimo sente e ciò che
sa di sé.
“Na noite que me desconhece
O luar vago transparece
Da lua ainda por haver.
Sonho. Não sei o que me esquece,
Nem sei o que prefiro ser.
Hora intermedia entre o que passa,
Que nevoa incognita esvoaça
Entre o que sinto e o que sou?
A brisa alheiamente abraça.
Durmo. Não sei quem é que estou.
Doe-me tudo por não ser nada.
Da grande noite embainhada
Ninguem tira a conclusão.
Coração, queres? Tudo enfada.
Antes só sintas, coração”327.
327
“Nella notte che mi disconosce / Il vago chiaro di luna traspare / Da una luna che ancora deve
spuntare. / Sogno. Non so cosa mi dimentica, / Né so ciò che preferisco essere. // Ora intermedia
tra ciò che accade, / Quale nebbia incognita si leva / Tra ciò che sento e ciò che sono? / La brezza
alienamente abbraccia. / Dormo. Non so chi è che sono ora. // Tutto mi duole per non essere niente. / Dalla grande notte rinfoderata / Nessuno tira la conclusione. / Cuore, vuoi? Tutto annoia. /
Prima solo senti, cuore”, 120-17r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição
crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 171-172.
98
L’intelligenza è smarrita. Essa paga la colpa per aver violato l’irriducibile
superficie che le cose hanno nel tentativo di conoscere il mistero che le fa essere.
Una volta corrotte le cose, del Poeta resta solo il “cuore di nessuno”, cuore, appunto, sensazioni, ma senza identità, di nessuno.
“Sonho. Não sei quem sou neste momento.
Durmo sentindo-me. Na hora calma
Meu pensamento esquece o pensamento,
Minh’alma não tem alma.
Se existo, é um erro eu o saber. Se accordo
Parece que érro. Sinto que não sei.
Nada quero, nem tenho, nem recordo.
Não tenho ser nem lei.
Lapso da consciencia entre illusões.
Phantasmas me limitam e contêm.
Dorme. Inscientes de alheios corações,
Coração de ninguem!”328.
Le sensazioni sono per il Poeta l’unico mezzo per relazionarsi al mondo,
come era accaduto per Campos, nonostante i due partano da presupposti differenti: il mondo quale simbolo del mistero dell’esistenza, per il primo, il mondo come
le sensazioni del soggetto, per il secondo. Forse anche per questo motivo Pessoa
afferma che l’unico eteronimo che ha conosciuto di persona è proprio Álvaro de
Campos, a sottolineare una continuità di vedute, un “anceio” per incontrare la propria identità almeno nelle sensazioni del mondo: “A mim, pessoalmente, nenhum
me conheceu, excepto Álvaro de Campos”329.
328
“Sogno. Non so chi sono in questo momento. / Dormo sentendomi. Nell’ora calma / Il mio pensiero dimentica il pensiero, / La mia anima non ha anima. // Se esisto è un errore che io lo sappia.
Se mi sveglio / Sembra che sbagli. Sento che non sono. / Non voglio niente, non ho niente, non ricordo niente. / Non ho essere né legge. // Lasso di coscienza tra illusioni. / Fantasmi mi delimitano
e mi contengono. / Dormi, ignaro degli altrui cuori, / Cuore di nessuno!”, 16-38r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 49.
329
“A me personalmente non mi ha conosciuto nessuno eccetto Álvaro de Campos”, 20-72 r, F.
Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 109.
99
Nei momenti in cui più è forte la perdità d’identità da parte dell’ortonimo
“sonhador e inutil”330, l’unica cosa che gli ridá una gioia dell’esistenza è l’orizzonte lontano pieno di sole, anche se tutto questo fosse una illusione:
“Em meus momentos escuros
Em que em mim não há ninguém,
E tudo é névoas e muros
Quanto a vida dá ou tem,
Se, um istante, erguendo a fronte
De onde em mim sou soterrado,
Vejo o longíquo horizonte
Cheio de sol posto ou nado,
Revivo, existo, conheço;
E, inda que seja ilusão
O exterior em que me esqueço,
Nada mais quero nem peço:
Entrego-lhe o coração”331.
Ritroviamo nell’ortonimo la stessa sete di Campos, quel “sentir tudo de
todos / Os feitios!”332, come se si volesse togliere ogni barriera all’anima per darle
la possibilità di uscire fuori di sé: “Deixo ao cego e ao surdo / A alma com
fronteiras, / Que eu quero sentir tudo / De todas as maneiras”333. E la sensazione
non si limita al momento in cui viene percepita nel sogno della vita, ma “existe
sempre a sensação / Ainda quando ella acabou”334, come la luna continua ad essere
330
“Sognatore e inutile”, 15-13r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 18.
331
“Nei miei momenti bui / Quando in me non c’è nessuno, / E tutto è nebbia e muri / Quanto la
vita dà o ha, // Se, un istante, alzando la fronte / Da dove sono sotterrato in me, / Vedo il lontano
orizzonte / Pieno del sole che tramonta o che sorge, // Rivivo, esisto, conosco; / E, sebbene sia illusione / L’esteriore nel quale mi dimentico, / Niente di più voglio né chiedo: / Gli abbandono il
cuore”, Fresta, in F. Pessoa, Ficções do Interludio. 1914-1935, cit., p. 96.
332
“Sentire tutti in tutte / Le maniere!”, 120-42r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa.
1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 208.
333
“Lascio al cieco e al sordo / L’anima con frontiere, / Che io voglio sentir tutto / In tutti i modi”,
120-38, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa,
cit., p. 199.
334
“Esiste sempre la sensazione / Ancora dopo che è passata”, 33-19 r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 44.
100
vista in un cielo invaso dalla luce solare. Questa permanenza della sensazione offre la materia della quale si serve l’immaginazione del Poeta per comporre e
scomporre nella propria anima ciò che ha sentito. E ciò che l’immaginazione
produce non è meno reale della sensazione vissuta: “Ha angustias sonhadas mais
reaes / Que as que a vida nos traz, ha sensações / Sentida só com a imaginal-as /
Que são mais nossas do que a nossa vida”335.
I prodotti dell’immaginazione del Poeta come potranno essere più reali degli oggetti percepiti, se di questi non sappiamo se siano reali o meno? Ci troviamo
di fronte ad un paradosso o a una confusione che attanaglia l’ortonimo, “novelo
embrulhado para o lado de dentro”336, dice Campos. Da un lato il fallimento dell’intelligenza nel comprendere il “perché” dell’esistenza se ci ha indicato almeno
la domanda, ha tolto, però, realtà al mondo esteriore. Dall’altro i prodotti dell’immaginazione di Fernando sembrano essere più reali di questo mondo esteriore. Da
un lato la vita si confonde col sogno, dall’altro il sogno si percepisce come vita.
Non c’è più distinzione tra la vita e il sogno e tutto, in fondo, potrebbe essere frutto del sonno di Pessoa.
Vita e sogno si intersecano, realtà e irrealtà si confondono, e il tutto avviene nello spazio interiore dell’ortonimo. Come uscire da questo circolo e arrivare al
mistero delle cose? L’ortonimo ci prova in due modi: il primo è grazie all’immaginazione, il secondo grazie all’esoterismo.
Per quanto riguarda l’immaginazione è opportuno considerare un’opera
teatrale giovanile di Fernando Pessoa, scritta tra il 1913 e il 1915, nel pieno dell’elaborazione dell’eteronimia: O Marinheiro (Il marinaio).
Tutto il racconto si svolge in una notte, elemento immancabile per il sonno. Tre fanciulle, che non sappiamo se siano reali o meno, vegliano un’amica
morta e per trascorrere il tempo decidono di narrarsi di “un passato che potrebbero
non aver mai avuto”: si narrano i loro sogni. Tra i tanti sogni raccontano di un marinaio che, naufragato su un’isola deserta, cominciò a sognare una patria che non
aveva mai avuto:
335
“Ci sono angosce sognate più reali / Che quelle che la vita ci dà, ci sono sensazioni / Sentite
solo immaginandole / Che sono più nostre della nostra vita”, 16-52r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 249.
336
“Giovane ingarbugliato per il suo lato interno”, 16A-16r, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 115.
101
“Ao princípio ele criou as paisagens; depois criou as cidades; criou depois as ruas e as
travessas, uma a uma, cinzelando-as na matéria da sua alma – uma a uma as ruas, bairro a bairro,
até às muralhas dos cais de onde ele criou depois os portos... Uma a uma as ruas, e a gente que as
percorria e que olhava sobre elas das janelas... Passou a conhecer certa gente, como quem a
reconhece apenas... Ia-lhes conhecendo as vidas passadas e as conversas, e tudo isto era como
quem sonha apenas paisagens e as vai vendo... Depois viajava, recordando, através do país que
criara...”337.
Era così simile ad una patria vera questa che il marinaio aveva sognato
che, quando cercò di ricordarsi come era fatta la sua vera patria, scoprì che l’aveva dimenticata. Così viveva il marinaio, fino a che una nave, un giorno, non approdò a quell’isola. Ma il marinaio non c’era già più.
Tabucchi sostiene che la situazione del Marinheiro ricorda la sciarada del
prigioniero nella cella, con le due porte della salvezza e del patibolo. A guardia di
ogni porta stanno due sentinelle, delle quali una dice la verità e un’altra la menzogna. Il prigioniero, per salvarsi, dovrà chiedere ad una sentinella quale è la porta
che secondo l’altra sentinella conduce alla salvezza e, quindi, prendere l’altra porta. Allo stesso modo il marinaio, “che è sogno di un sogno, si libera sovvertendo il
sogno, o ripercorrendolo in senso contrario, cioè sognando chi lo sogna”338. In
questo modo il Marinaio “evade dal sogno come dalla bocca di un imbuto, chiude
il circolo e si dissolve; e dissolvendosi fa dissolvere con l’alba coloro che sognandolo lo fecero sognare”339.
Proviamo a stabilire una relazione tra la pièce e la poesia dell’ortonimo.
Con l’immaginazione il Poeta è in grado di ri-produrre le sensazioni percepite dalle cose, che sono sogno, i cui prodotti saranno a loro volta oggetto di sensazione.
337
“Dapprima creò i paesaggi; poi le città, poi le strade e le traverse, ad una ad una, cesellandole
nella materia della sua anima, ad una ad una le strade, quartiere per quartiere, fino ai muraglioni
dei moli, dove creò i porti… Ad una ad una le strade e la gente che le percorreva o che guardava
su di esse dalle finestre. Cominciò a conoscere certe persone, come uno che le conoscesse
appena… Cominciò a conoscere le loro vite passate, e le conversazioni, come uno che sognasse
paesaggi e allo stesso tempo li vedesse veramente… Poi viaggiava, ancora in ricordo, attraverso il
paese che aveva creato…” (la traduzione in italiano è quella dell’ed. di A. Tabucchi), F. Pessoa, Il
marinaio. Dramma statico in un quadro, traduzione di A. Tabucchi, Einaudi, Torino, 2003, p.
26-29.
338
A. Tabucchi, Una sciarada per Il Marinaio, in F. Pessoa, Il marinaio. Dramma statico in un
quadro, cit., p. 58 (ripubblicato col titolo di “Il Marinaio”: una sciarada esoterica?, in A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, cit., pp. 102-108).
339
Ibid., p. 58.
102
Tra le cose percepite c’è ovviamente anche l’ortonimo, sogno a sua volta di se
stesso: “We are dreams our ourself”340. L’ortonimo poi, come precedentemente
mostrato, non esiste se non come dialogo con gli eteronimi. Egli è un’assenza,
“non esiste propriamente parlando”, che dialoga con una presenza. Solo che qui la
presenza è un prodotto dell’immaginazione, un sogno. Gli eteronimi allora potrebbero essere quelle tre fanciulle che vegliano l’amica morta e che sognano di un
Marinaio, l’ortonimo, che sogna a sua volta chi lo sogna, dove la patria non sarebbero altro che gli eteronimi. Il circolo si dissolve nel momento in cui gli eteronimi
prendono coscienza di essere un sogno, attraverso la storia del Marinaio, il quale
si era dissolto già quando da sognato era diventato sognante.
Tutto questo però a cosa porta? Alla soluzione del circolo e quindi, verosimilmente, alla conoscenza da parte dell’ortonimo del mistero del mondo che si
nasconde dietro il sogno che le cose sono. Ma con la dissoluzione del sogno, del
velo tra l’ortonimo e la verità, scompare anche la ragion d’essere dell’ortonimo,
che non era se non in quanto sognato. Per questo possiamo dire che l’immaginazione è una soluzione ri-velativa del mistero del mondo, dato che nel momento in
cui si toglie un velo, un altro, il sipario di un teatro, viene chiuso sulla fine di una
rappresentazione. E la verità, aveva ragione Gorgia, se la si raggiunge non può essere comunicata:
“Górgias, antigo Górgias, que dizias
Que se alguém algum dia compreendesse,
Atingisse a verdade, não podia
Comunicá-la aos outros – já entendo
O teu profundo e certo pensamento
Que ora não compreendia. Tenho em mim
A Verdade sentida e compreendida,
Mas fechada em si mesma, que não posso
Nem pensá-la. Senti-la ninguém pode”341.
340
“Noi siamo i sogni di noi stessi”, F. Pessoa, Poemas Ingleses. Antinous, Inscriptions,
Epithalamium, 35 Sonnets. Edição crítica de Fernando Pessoa, vol. V, tomo I, edição de João
Dionísio, Imprensa Nacional - Casa da Moeda, Lisboa, 1993, n. 1, p. 67.
341
“Gorgia, antico Gorgia, che dicevi / Che se qualcuno un giorno capisse, / Raggiungesse la verità, non potrebbe / Comunicarla agli altri – comincio a capire / Il tuo profondo e certo filosofema /
Che fino ad ora non intendevo. Ho in me / La verità sentita e capita, / Ma chiusa in se stessa a tal
punto da non poterla / Nemmeno pensare. Sentirla nessuno può”, 29-62, F. Pessoa, Fausto. Tragé-
103
Pessoa cerca però anche un’altra soluzione per raggiungere il mistero del
mondo e lo fa attraverso le scienze esoteriche. Conoscitore della kabbala, delle
dottrine teosofiche, dei segreti delle stelle, l’ortonimo non smette di pensare che
anche solo dal mondo esteriore si possano raccogliere quei segni che, debitamente
organizzati e interpretati, possano svelare il segreto delle cose.
Ma come possono essere organizzati i segni del mondo esteriore se l’intelligenza non può conoscere ciò che le cose nascondono? In che modo comprendere
una lingua senza aver nessun indizio dell’alfabeto in cui è scritta? L’organizzazione dei segni del mondo esteriore non è affatto una organizzazione libera dell’intelligenza che scruta, ma essa è possibile solo dopo che la verità stessa abbia detto
qualcosa su di sè. Senza una comunicazione con la verità, con la sapienza segreta,
è impossibile la conoscenza. La conoscenza non è nemmeno adatta a tutti e per
questo essa rimane segreta, anzi, essa si serve del mondo come di un velo che tenga lontani gli uomini, impegnati a chiedersi se sia reale o meno ciò che vedono.
Così, come il Faust di Goethe, anche l’ortonimo si dà alla magia, quale comunicazione diretta con la verità, o con coloro che la custodiscono, gli spiriti:
“Non possiedo né terra né denaro,
non ho gloria né onori in questo mondo;
questa vita non la vorrebbe un cane!
Per questo mi sono dato alla magia,
se mai per forza e bocca dello spirito
qualche segreto mi si palesasse,
e non dovessi più sudare amaro
a raccontare quello che non so,
e potessi conoscere nel fondo
che cosa tiene unito il mondo”342.
L’ortonimo, però, in questa strada magica, sembra trovare piuttosto un
passatempo, che una vera soluzione al perché dell’esistenza:
dia subjectiva, cit., p. 27.
342
Johann Wolfgang von Goethe, Faust.Urfaust, intr. di Gert Mattenklott, pref. di Erich Trunz,
trad., note e comm. di Andrea Casalegno, Garzanti, Milano, 1990, pp. 33-35.
104
“Kabbalas, gnoses, mysterios, maçonarias
Tudo tive na mão
Na busca anciosa que enche minhas noites e dias.
Mas nunca o meu coração”343.
Un passatempo, quello dell’esoterismo, che non è in grado di riempire il
cuore, l’unica cosa che abbiamo sempre, anche se stessimo sognando. La via dell’esoterismo, a ben vedere, risolve il circolo vita-sogno perché neppure lo pone,
nel superamento per conoscenza diretta del sogno che la vita potrebbe essere.
Dunque, benchè l’ortonimo non si stanchi mai del tutto di studiare l’esoterismo, è
nella ricerca di ciò che riempie il cuore che si potrà trovare il “perché” delle cose
e il “chi noi siamo”. Con Chuva oblíqua il cuore si riempie nel momento in cui si
richiamano mondo esteriore e sogno, immaginazione. L’occultismo, comunicazione diretta oltre il sogno della vita, toglie in fondo all’uomo proprio la possibilità di
sentire il mondo. Il sentire il mondo, e nel sentirlo sognare il sogno che il mondo
è, permetterà poi all’ortonimo di raggiungere la verità.
“Nunca acho uma attitude plana
Na vida estupid e tranquilla;
Mas, meu Deus, sinto a dor humana!
Nunca me tires o sentil-a!”344.
343
“Kabbala, gnosi, misteri, massoneria / Tutto ho avuto in mano / Nella ricerca ansiosa che riempie i miei giorni e le mie notti. / Ma mai il mio cuore”, 47-22 r, F. Pessoa, Poemas de Fernando
Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 59.
344
“Non trovo mai una posizione in piano / Nella vita stupida e tranquilla. / Ma, Dio mio, sento il
dolore dell’uomo! Non togliermi la possibilità di sentirlo!”, 62-18av, O Silva, in F. Pessoa, Poemas
de Fernando Pessoa. 1934-1935. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 52.
105
CAPITOLO III
IL DRAMMA NEOPAGANO
“Notte canterò, genitrice di dei e uomini”.
(Da Profumo di Notte, Inni orfici)
3.1 – Le due correnti del neopaganesimo
Fino ad ora abbiamo analizzato le singole voci degli attori del “drama”
pessoano. Gli eteronimi, come avevamo preannunciato, manifestano opinioni contrarie e strumenti letterari differenti (versi liberi, metriche rigorose, oppure prosa).
Le differenze si danno perciò anche in quel progetto che, abbiamo detto, dovrebbe
unificarne intenzioni e sforzi: il neopaganesimo. Álvaro de Campos, in questo
senso, ci fornisce una descrizione schematica per ognuno dei componenti il movimento neopagano:
“O meu mestre Caeiro não era um pagão: era o paganismo. O Ricardo Reis é um pagão, o
António Mora é um pagão, eu sou um pagão; o proprio Fernando Pessoa seria um pagão, se não
fôsse um novelo embrulhado para o lado de dentro. Mas o Ricardo Reis é um pagão por carácter, o
António Mora é um pagão por inteligência, eu sou um pagão por revolta, isto é, por temperamento.
Em Caeiro não havia explicação para o paganismo; havia consubstanciação”345.
Tutti fanno riferimento a Caeiro, ognuno, però, “canta” a suo modo quell’ideale pagano che intende restaurare. Notiamo soprattutto una grande contrarietà
345
“Il mio maestro Caeiro non era un pagano: era il paganesimo. Ricardo Reis è un pagano, António Mora è un pagano, io sono un pagano; lo stesso Fernando Pessoa sarebbe un pagano, se non
fosse un giovane ingarbugliato per il suo lato interno. Ma Ricardo Reis è un pagano per aspetto,
Antonio Mora è un pagano per intelligenza, io sono un pagano per rivolta, cioè, per temperamento.
In Caeiro non c’era spiegazione del paganesimo; c’era consustanzialità”, 16A-16 r, F. Pessoa,
Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 115.
106
nell’aspetto fondamentale della riflessione di ciascun eteronimo: alla domanda
“che cosa è il mondo?”, infatti, otteniamo tre generi di risposte.
Per Caeiro, Reis e Mora il mondo è ciò che il soggetto ha di fronte, esterno
a sé, ed è solo questo, niente altro. Per Campos il mondo sono le proprie sensazioni. Per Pessoa il mondo è sia ciò che sta di fronte sia ciò che sta “além” (al di là)
di esso, così da non sapere cosa sia reale o meno, cosa sia prodotto del sogno e
cosa esista di per sé.
Campos, però, si pente della sua risposta sul mondo: l’aver violato i precetti di Caeiro nel relazionarsi al mondo con l’utilizzo sfrenato della propria facoltà di sentire e dell’immaginazione ha consegnato Campos all’ignoranza della propria identità e della realtà del mondo stesso. Se potesse tornare indietro Campos
certo non rinnegherebbe il suo maestro e questo ci fa concludere che, in fondo, per
lui, la risposta giusta sul mondo sia quella di Caeiro, di Reis e di Mora, alla maniera del detto di S. Paolo: “Conosco il bene, ma faccio il male”346.
La frattura vera e propria, dunque, si dà solo tra gli eteronimi e l’ortonimo,
l’unico convinto fino in fondo che il mondo sia altro da ciò che appare.
Lo stesso Pessoa sostiene, infatti, che la sua “demonstração da verdade do
paganismo se baseia em argumentos de especie quasi contraria”347. Ed è perchè
“dou ao paganismo uma interpretação diversa da da maioria d’elles; mais lata me
parece, mais doentia, quero crer; mas differente, e isso é o que importa” 348, che
Fernando non se la sente di scrivere il volume introduttivo del “Neo-Paganismo
Portuguez” (“neopaganesimo portoghese”). Come potrebbe scriverne un’introduzione chi sembra discostarsi da esso in maniera così radicale?
Mentre i suoi compagni possono essere definiti “pagãos ortodoxos, filhos
da primitividade grega”349, Pessoa, invece, dice di essere “um pagão decadente, do
346
L’espressione corretta si trova nella Lettera ai Romani di San Paolo: “Io non compio il bene che
voglio, ma il male che non voglio”, Rm. 7, 19.
347
“Dimostrazione della verità del paganesimo si basa su argomenti di specie quasi contraria”,
21-7r, F. Pessoa, Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p.
5.
348
“Do al paganesimo una interpretazione diversa da quella della maggior parte di loro; mi sembra
più ampia, più malsana, voglio credere; ma differente, ed è questo che conta”, 21-5r, ibid., p. 4.
349
“Pagani ortodossi, figli della primitività greca”, 21-5r, ibid., p. 4.
107
tempo do outomno da Belleza, do somnolescer da limpidez antiga”350, il cui paganesimo è più propriamente quello “syncretico de Juliano Apostata”351.
Le due correnti del paganesimo, che qui si delineano, nonostante tutto,
“concordam em uma attitude essencial, sendo porisso que podem constituir uma
corrente que, embora pequena é definida”352. Il proposito, che coalizza questi due
gruppi, è dato, come non di rado avviene, “de um inimigo commum a combater,
da commum aversão, porventura, em que a specificidade da corrente assenta”353.
Qual è dunque questo nemico? Risponde per tutti Fernando: “É a religião de
Christo, e os resultados que d’ella provieram, porque por ella representados, á
civilização a que pertecemos”354.
La lotta al cristianesimo, che tutti chiamano spregiativamente “cristismo”,
diventa così elemento di coesione pagana, anche se un’altra divergenza si apre tra
le due fazioni per il modo stesso con il quale affrontare e vincere questa guerra:
“Aquelle ramo da corrente neo-pagan portugueza que se pode designar o ramo
ortodoxo, a dentro do conceito de paganismo, considera a religião christan como um
producto da decadencia romana, que se fixou, porque representa um stado social
continuo. Considera o christismo em parte como uma mera heresia pagan, heresia que
attinge a essencia e não a fórma, da fé; considera, além d’isso o christismo uma violação
das leis de equilibrio que regem, ou devem reger, a nossa civilização; considera-o ainda
como productor de uma degenerescência nas idéas e nos sentimentos de onde deriva o
stado perpetuamente morbido da nossa civilização”355.
350
“Un pagano decadente, del tempo dell’autunno della Bellezza, dell’intorpidimento della limpidezza antica”, 21-6r, ibid., p. 4.
351
“Sincretico di Giuliano l’Apostata”, 21-7r, ibid., p. 5.
352
“Concordano in una disposizione essenziale, ed è per ciò che possono costituire una corrente la
quale, sebbene piccola, è ben definita”, 21-4r, ibid., p. 5.
353
“Da un nemico comune da combattere, per la comune avversione, forse, che caratterizza la specificità della corrente”, 21-4r, ibid., p. 5.
354
“È la religione di Cristo, e gli effetti che da lei sono pervenuti, perché da questa rappresentati,
alla civiltà alla quale apparteniamo”, 21-4r, ibid., p. 5.
355
“Quel ramo della corrente neopagana portoghese che si può definire come il ramo ortodosso, all’interno del concetto di paganesimo che si è stabilito, considera la religione cristiana come un prodotto della decadenza romana, perché ne rappresenta uno stato sociale ininterrotto. Considera il
cristismo in parte come una mera eresia pagana, eresia che attinge all’essenza e non alla forma della fede; considera, al di là di ciò, il cristismo una violazione delle leggi di equilibrio che reggono, o
devono reggere, la nostra civiltà; lo considera ancora come il produttore di una degenerazione nelle idee e nei sentimenti da cui proviene lo stato perennemente malato della nostra civiltà”, 21-4r-v,
ibid., p. 6.
108
La corrente ortodossa considera il “cristismo” un frutto della decadenza
dell’Impero romano e una religione dell’eccesso, secondo la definizione di António Mora, la quale non ha fatto altro che degenerare i pensieri e i sentimenti degli
uomini, consegnando la civiltà occidentale ad una decadenza peggiore di quella da
cui è stata originata. L’unica soluzione possibile è contrastrare il “cristismo” opponendogli un modo di pensare radicalmente contrario, quale quello dell’oggettivismo assoluto pagano, ma in un modo che neppure i greci e i romani lo ebbero
mai, secondo cioè gli insegnamenti di Alberto Caeiro.
Invece “o outro ramo do nosso neo-paganismo acceita a sensibilidade
moderna e os seus resultados morbidos, reconhecendo-os como morbidos”356, ma
considerandoli allo stesso tempo come inestirpabili. Quindi, anzicchè “aspirar a,
ou julgar mesmo possivel, uma reimplantação do paganismo, julga que o
paganismo serve apenas para base eterna da nossa civilização, devendo porém
servir de disciplina ás emoções creadas pelo christismo”357.
Questa seconda corrente, rappresentata “apenas por Fernando Pessoa”358,
crede infatti che il “cristismo” non sia altro che una interiorizzazione errata del paganesimo e che il movimento neopagano non debba far altro che correggerne l’interiorizzazione.
Infatti:
“Ao passo que os neo-pagãos orthodoxos acham que a interiorização do paganismo é
phrase sem sentido, poisque interiorizar o paganismo é abolil-o, Fernando Pessoa crê que o erro e
a morbidez do christismo não derivam do facto de elle ter interiorizado o paganismo, mas sim de o
não ter sabido interiorizar, de ter errado o caminho para a alma. Em outras palavras, o que havia a
fazer ao paganismo para o interiorizar, era descobrir qual o sentido interior do polytheismo, o que
era, na sua essencia subjectiva, o polytheismo”359.
356
“L’altro ramo del nostro neopaganesimo accetta la sensibilità moderna e i suoi risultati malati,
riconoscendoli come malati”, 21-4r, ibid., p. 6.
357
“Aspirare, o considerare solo possibile, un reimpianto del paganesimo, giudica che il paganesimo serve soltanto da base eterna alla nostra civiltà, dovendo però servire da disciplina alle emozioni create dal cristismo”, 21-4r, ibid., p. 6.
358
“Soltanto da Fernando Pessoa”, 21-4v, ibid., p. 6.
359
“Mentre i neopagani ortodossi ritengono che l’interiorizzazione del paganesimo è una frase senza senso, poiché interiorizzare il paganesimo vorrebbe dire abolirlo, Fernando Pessoa crede che
l’errore e la malattia del cristianesimo non derivino dal fatto che abbia interiorizzato il paganesimo, ma piuttosto che non l’abbia saputo interiorizzare, che abbia errato il cammino per l’anima. In
altre parole, quello che c’era da fare per interiorizzare il paganesimo, era scoprire quale fosse il
senso intimo del politeismo, cosa fosse, nella sua essenza soggettiva, il politeismo”, 21-4r, ibid.,
109
Per correggere l’interiorizzazione del “cristismo” occorre comprendere
l’intimo senso del politeismo che caratterizza il paganeismo, cioè l’aspetto soggettivo del politeismo pagano. Ma cosa vuol dire tutto ciò? Hanno ragione gli eteronimi che la soluzione propiziata da Pessoa alla guerra contro il cristianesimo è
senza senso? Oppure Fernando attraverso la messa in scena del dramma pagano
degli eteronimi non vuole dirci qualcosa proprio del suo essere “poeta drammatico”?
Vediamo allora come si configurano in dettaglio le due correnti, nel tentativo di comprendere quale sia questo paganesimo che il nostro poeta portoghese
inscena attraverso il “drama em gente”.
3.1.1 – La corrente ortodossa
Se il mondo è solo ciò che sta di fronte, il soggetto che vive in questo
mondo è tutto concentrato sulla pluralità con la quale il mondo si dà. Se la realtà
si dà poi nella forma di una pluralità, quale forma dovrà assumere la religione, che
si presenta anch’essa come una realtà esteriore?
“A realidade, para nós, surge-nos directamente plural. O facto de referirmos todas as
nossas
sensações
á nossa consciencia
individual que impõe
uma unificação falsa
(experimentalmente falsa) á pluralidade com que as cousas nos apparecem. Ora a religião
apparece-nos, apresentase-nos como realidade exterior. Deve portanto corresponder ao
characteristico fundamental da realidade exterior. Esse characteristico é a pluralidade de cousas. A
pluralidade de deuses é, portanto, o primeiro characteristico distinctivo da uma religião que seja
natural”360.
Quale religione si manifesta nella forma di una pluralità di dei? Il paganesimo greco-romano, risponde António Mora. Ecco perché, continua Mora, è il papp. 7-8.
360
“La realtà, per noi, ci appare direttamente plurale. È il fatto di riferire tutte le nostre sensazioni
alla nostra coscienza individuale che impone una unificazione falsa (sperimentalmente falsa) alla
pluralità con la quale le cose ci appaiono. Ora la religione ci appare, si presenta a noi come realtà
esterna. Deve pertanto corrispondere alla caratteristica fondamentale della realtà esterna. Questa
caratteristica è la pluralità delle cose. La pluralità degli dei è, quindi, la prima caratteristica distintica di una religione che sia naturale”, 21-13 r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica
de Fernando Pessoa, cit., pp. 179-180.
110
ganesimo la religione più naturale di tutte e solo una religione di questo tipo è in
grado di educare e orientare le società. Infatti, la vera caratteristica di un movimento religioso è quella di saper esprimere e guidare una civiltà.
È altrettanto vero, però, interviene Ricardo Reis, che di politeismi ce ne
sono stati e ce ne sono molti. Perché proprio il paganesimo greco-romano sarebbe,
dunque, la religione “mais natural de todas”361?
Nel Prefacio a Alberto Caeiro (Prefazione ad Alberto Caeiro), Ricardo
Reis, oltre al politeismo del mondo greco-romano, al quale si richiama esplicitamente il neo-paganesimo portoghese, ne individua almeno altri due: il politeismo
dell’India e quello del nord Europa. È chiaro, allora, che “o polytheismo, de per
si, não constitue, porém, o paganismo greco-romano”362. Quali sono gli elementi
specifici per cui possiamo dire che il paganesimo è la religione più naturale di tutte, dato che il fatto di essere un politeismo non sembra sufficiente? Solo un’analisi
comparata dei vari politeismi forse potrà darci una risposta: Reis comincia dall’analisi delle differenze tra politeismo indiano e greco.
“A distincção entre o polytheismo indio e o grego não precisa ser feita por mim: fel-a, de
uma vez para sempre, Herodoto, em uma phrase precisa e feliz. As divinidade indias são (disse) de
forma humana (greek), as gregas de natureza humana (greek). A distincção é de aquellas que
completamente circumnavega o assumpto. Porque, mesmo nos ponctos em que as duas religiões
encaram a subida do homen a deus, na religião grega elle sobe pelo exercicio sobrehumano das
qualidades humanas, isto é, das qualidades que, no seu exercicio normal, apoiam e edificam a
vida; na religião inda, por contrario, as qualidades que elevam o homem a sobrehomem são
qualidades onde se nega a vida, são as qualidades asceticas, as praticas caritativas que viciam o
egoismo individual e civico, a somma das renuncias que contradiz o normal prazer que o homem
normal tem na vida. De sorte que a semelhança entre estes dois systemas religiosos é puramente
externa”363.
361
“Più naturale di tutte”, 21-13r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando
Pessoa, cit., p. 179.
362
“Il politeismo di per sè, non costituisce, però, il paganesimo greco-romano”, 21-16r, F. Pessoa,
Fernando Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 27 (corsivo dell’autore).
363
“Non è necessario che io faccia la distinzione tra il politeismo indiano e quello greco: la fece,
una volta per tutte, Erodoto, in una frase precisa e felice. Le divinità indiane sono – disse – di forma umana (greco), quelle greche di natura umana (greco). La distinzione è di quelle che avvolgono completamente l’argomento. Perché, anche nei punti in cui le due religioni considerano l’ascesa
dell’uomo a dio, nella religione greca egli ascende grazie all’esercizio super-umano delle proprie
qualità umane, cioè, delle qualità che, nel suo esercizio normale, reggono ed edificano la vita; nel-
111
Il politeismo indiano assomiglia solo formalmente a quello greco, dato che
l’uomo per arrivare a dio deve negare se stesso e rinunciare al mondo con pratiche
ascetiche, quasi che nel mondo non si vedesse altro che un male da combattere. Il
greco, al contrario, è nel mondo che trova la via per edificare se stesso e per raggiungere la divinità.
Il politeismo del nord Europa, invece, ha in comune con il politeismo
greco-romano che “as divinidades são representações humanas alargadas, e não
negações da humanidade”364. Mentre però “os deuses gregos são objectivações
formaes dos instinctos humanos, os deuses nordicos são objectivações amorphas,
vastas sombras mais do que grandes pessoas”365, le cui caratteristiche si avvicinano
di più alla religiosità meno delimitata e precisa dei romani, che non a quella fissa
e stabile dei greci. Senza che ci sia nessuna negazione del mondo, senza una differenza sostanziale, piuttosto una differenza formale tra i caratteri delle divinità.
La vera caratteristica del paganesimo greco-romano, per Ricardo Reis, non
è da rintracciarsi solo nel politeismo, ma anche nel “caracter firmamente objectivo
que nelle transparece”366:
“Este objectivismo absoluto dos gregos e dos romanos, que nos primeiros principalmente
floriu na speculação e na interpretação da vida, e nos segundos na segura experiencia e
comprehensão pratica, ou, como diria um synthetico excessivo, que nos primeiros era intelligencia
e emoção, e vontade nos segundos – este objectivismo, digo, é que constitue a essencia do
paganismo”367.
la religione indiana, al contrario, le qualità che elevano l’uomo a super-uomo sono qualità che negano la vita, qualità ascetiche, pratiche caritative che corrompono l’egoismo individuale e civico,
somma di rinunce che contraddicono il normale piacere che l’uomo normale ha nella vita. Di
modo che la somiglianza tra questi due sistemi religiosi è puramente esterna”, 21-16r-v, ibid., pp.
27-28.
364
“Le divinità sono rappresentazioni umane allargate, e non negazioni dell’umanità”, 21-16v,
ibid., p. 28.
365
“Gli dei greci sono oggettivazioni formali degli istinti umani, gli dei nordici sono oggettivazioni
amorfe, vaste ombre più che grandi persone”, 21-16v, ibid., p. 28.
366
“Nel carattere fermamente oggettivo che in questo traspare”, 21-10r, ibid., p. 25.
367
“Questo oggettivismo assoluto dei greci e dei romani, che nei primi fiorì principalmente nella
speculazione e nell’interpretazione della vita, e nei secondi nella sicura esperienza e comprensione
pratica, o, come direbbe un sintetico eccessivo, che nei primi era intelligenza ed emozione, e volontà nei secondi – è questo oggettivismo, dico, che costituisce l’essenza del paganesimo”, 21-10 v,
ibid., p. 25.
112
Perciò una rinascita attuale del paganesimo, nel XX secolo, è possibile
solo a partire dal recupero di quell’oggettivismo assoluto dei greci e dei romani
che caratterizza la vera essenza del paganesimo e che l’opera di Alberto Caeiro
compie in maniera mirabile: “Tudo o mais que se tente não passa de reproducção
esteril dos elementos secundarios ou mesmo accessorios do paganismo antigo”368.
Una rinascita avviene sempre dopo un morte, una scomparsa, e oggi non si
renderebbe necessario ricostituire il paganesimo se questo non fosse stato scalzato
da un’altra religione: il cristianesimo. Ma come si innesta il cristianesimo nel paganesimo greco-romano? Quali conseguenze porta con sé questo passaggio? Il cristianesimo è una vera religione oppure è semplicemente una corruzione dello spirito pagano? Come far rinascere il paganesimo?
Caeiro, Reis, Campos e Mora vivono tutti in un’epoca profondamente cristiana. Molti prima di loro hanno cercato di restaurare il paganesimo, ma nessuno
è riuscito a liberarsi dal sentimento cristiano con il quale hanno desiderato fare
ciò. I riferimenti espliciti ai falsi pagani sono a Matthew Arnold, a Oscar Wilde e
a Friedrich Nietzsche. Così, di loro, al massimo può dirsi che “teem uma ansia
christan do paganismo”369, ma “em nenhum caso se pode d’elles dizer que teem
um conceito justo do paganesimo”370. Certo gli esponenti dei falsi movimenti
pagani “podem sentir altamente a belleza e a calma dos deuses; mas de que serve
que o façam, se por pagan que seja, ou pretendam que seja, a sua intelligencia –
ou, quando muito, a sua imaginação –, a sua sensibilidade está secularmente
christianisada?”371. Di tutti, a giudizio di Reis e Mora, il peggior falso pagano è
proprio il filosofo tedesco Nietzsche, del quale, dice Reis, “é melhor que não fallemos, tão repellentemente christan se contorce aquella debil e doentia mentalidade”372. E António Mora prosegue con la stessa severità che “a crueldade contra si-
368
“Tutto il resto che si tenta non è che una riproduzione sterile di elementi secondari o proprio accessori del paganesimo antico”, 21-10v, ibid., p. 25.
369
“Hanno una ansia cristiana del paganesimo”, 21-62r, ibid., p. 32.
370
“In nessun caso si può dire di loro che hanno un concetto giusto del paganesimo”, 21-62 r, ibid.,
p. 32.
371
“Possono sentire in maniera superiore la bellezza e la calma degli dei; ma a cosa serve che facciano ciò, se per pagani che siano, o pretendano essere, la loro intelligenza – o, quando molto, la
loro immaginazione –, la loro sensibilità sono secolarmente cristianizzate?”, 21-62r, ibid., p. 32.
372
“È meglio non parlarne, tanto repellentemente cristiana si contorce quella mentalità fragile e
malata”, 21-62r, ibid., p. 32.
113
proprio, que Nietzsche prega tem, até, um sabor christão que não engana”373. Nietzsche, infatti, nasconde nel suo modo di essere uno spirito di privazione e di eccesso tipici di una mentalità fortemente cristiana. L’ “eccesso” del “cristismo” è
dato dal fatto di essere una religione che non pone la bellezza morale nella conformazione delle azioni umane alla realtà naturale, la cui caratteristica è l’equilibrio.
“A harmonia das nossas faculdades, e a moderação no seu emprego, foram cousas
difficeis em todos os tempos; quanto mais difficeis não são em uma epocha, degeneração da
degeneração, em que a harmonia é uma palavra do diccionario, e a moderação uma reliquia de que
nenhum supersticioso spera milagres, e a que nenhum crente presta culto”374.
Per questo motivo il “cristismo”, come ad esempio il buddismo, è l’ispiratore di una morale squilibrata e tutti coloro che si mostrano amanti dell’eccesso,
seppure questa eccedenza si svolga nella critica al “cristismo” stesso, non sono in
realtà che cristiani mascherati. L’avvertimento di Mora è chiaro:
“Lembremo-nos, porém, que, ao combatermos o christismo, uma das cousas que mais
nelle combatemos é o excesso, o exaggero, a extravasão. Tenhamos presente a todos os momentos
essa divisa do nosso lábaro. Nós que combatemos o exaggero, se cahimos nelle, não só erramos,
como seremos vencidos, porque passamos para o inimigo”375.
In che modo combattere efficacemente il “cristismo”, senza ricadere nella
sua mentalità proprio nel momento in cui lo si contrasta? “Façamos da harmonia,
da disciplina, e da moderação a cidadella do nosso destino e do nosso
pensamento”376.
373
“Perfino la crudeltà contro se stesso, che Nietzsche esalta, ha un sapore cristiano che non inganna”, 12B-11r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 212.
374
“L’armonia delle nostre facoltà, e la moderazione nel loro impiego, sono state cose difficile in
tutti i tempi; quanto più difficili non sono allora in una epoca, degenerazione della degenerazione,
in cui l’armonia è una parola del dizionario, e la moderazione una reliquia da cui nessun superstizioso spera miracoli, e a cui nessun credente presta culto”, 12A-18r, F. Pessoa, Obras de António
Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 244.
375
“Ricordiamoci, però, che, nel combattere il cristismo, una delle cose che più combattiamo in
esso è l’eccesso, l’esagerazione, lo straripare. Teniamo presente in ogni momento questo motto del
nostro stendardo. Noi che combattiamo l’esagerazione, se cadiamo in essa, non solo sbagliamo,
ma saremo anche vinti, perhè passiamo al nemico”, 12A-18v, F. Pessoa, Obras de António Mora.
Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 244-245.
376
“Facciamo dell’armonia, della disciplina e della moderazione la fortezza della nostra meta e del
nostro pensiero”, 12A-19r, F. Pessoa, Obras de António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa,
114
Ma questo non basta. È evidente, infatti, come per affrontare un nemico sia
necessario studiarne con meticolosa precisione tutte le caratteristiche. Quali sono,
dunque, i caratteri del “cristismo”? Perchè trionfò sul paganesimo greco-romano?
Innanzitutto, leggiamo nell’analisi di Ricardo Reis, occorre porre attenzione al fatto che il “cristismo” viene favorito proprio dal clima di decadenza dell’Impero romano. Infatti “o christismo não era, a principio, se não uma neo-seita
judaica”377.
Al monoteismo iniziale rigido, intollerante e moralistico dei giudei si uniscono successivamente due elementi che, con molta probabilità, sostiene Reis,
provengono dall’oscura setta degli Esseni: “O primeiro é um humanitarismo egualitario e fraternitario”378, che fin dall’origine non era solo una teoria, ma una pratica di vita, “porque communitariamente viviam os essenios”379; il secondo, intrinsecamente legato al primo, “era um mysticismo ascetico, fortemente sentimental
(como o não seria com o acompanhamento fraternitario egualitario?), eivado das
peores deliqiescencias de superstição orientista”380.
In questo modo, così formato, il sistema religioso dei cristiani apparve a
Roma. Qui, la profonda decadenza dei valori pagani, che giá era in atto, e il clima
privo di ogni contegno morale, fu terreno fertile per lo sviluppo del nuovo sistema
religioso.
Anzi, fu anche dall’incontro con la paganità decadente dell’Impero romano, che il “cristismo” potè ricevere nuove influenze sul piano dottrinale e politico.
Sul piano dottrinale, dalla conoscenza del neoplatonismo il “cristismo”
guadagnò quegli elementi che ne avrebbero diminuito la connotazione giudaica
originaria. Il monoteismo duro degli israeliti si ammorbidì grazie soprattutto al
contributo dei neoplatonici alessandrini della scuola di Filone d’Alessandria, che
tinsero il pensiero dei cristiani di un misticismo ancora maggiore di quello che già
non proveniva loro dagli Esseni.
cit., p. 245.
377
“Il cristismo all’inizio non era che una nuova setta giudaica”, 52A-39r, F. Pessoa, Fernando
Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 44.
378
“Il primo è un umanitarismo egualitario e caritativo”, 52A-42v, ibid., p. 46.
379
“Perché gli Esseni vivevano comunitariamente”, 52A-42v, ibid., p. 46.
380
“Consisteva in un misticismo ascetico, fortemente compassionevole (come non lo sarebbe da
una vita in comune caritatevole ed egualitaria?), proveniente dalle peggiori deliquescenze della superstizione orientale”, 52A-42v, ibid., p. 46.
115
Sul piano politico, lo spirito cristiano di evangelizzazione si trasformò in
un vero e proprio imperialismo, secondo il modello lasciato dall’Impero di Roma.
In un clima di totale decadenza, la decadenza che il “cristismo” stesso rappresentava, esso divenne l’autentica espressione dello spirito del popolo, detronizzando il paganesimo degli antichi. Qualcunò tentò di porre rimedio al dilagare
della nuova religione, ad esempio l’imperatore Giuliano, ma ormai i presupposti
per un ritorno del paganesimo non c’erano più: tutto era morto, “o spirito do paganismo stava morto”381.
Scomparso lo spirito del paganesimo, il “cristismo” ne integrò perfino, a
suo modo, i tratti formali del politeismo. Infatti “o supersticianismo da decadencia
podia perder o sentido aos seus deuses, mas não perdia a memoria exterior das
suas figuras”382 e il “cristismo” le vivificò secondo il proprio spirito: “Os deuses
tornaram-se os santos”383. Si era formata, dunque, la dottrina della Chiesa cattolica.
In sintesi, secondo la corrente ortodossa, possiamo riassumere a tre gli elementi caratteristici del “cristismo”: il monoteismo, il misticismo e l’imperialismo,
mutuati rispettivamente il primo dagli ebrei, il secondo dai neoplatonici e il terzo
dall’Impero romano.
Per combattere il “cristismo” e restaurare il paganesimo occorrerà seguire
tre percorsi, tanti quanti sono gli elementi che lo compongono:
“Temos que atacar o mysticismo e o subjectivismo abjectos do occultismo e do
protestantismo decadente. Temos que atacar o humanitarismo e a democracia, productos christãos,
filhos prodigos do christismo. E temos que oppôr resistencia, ainda que intellectual, ao stulto
imperialismo moderno, imagem e similhança da Egreja Catholica, que viola aquelle principio da
nacionalidade cujo symbolo maximo é a Cidade Stato dos gregos e dos romanos”384.
381
“Lo spirito del paganesimo era morto”, 52A-46r, ibid., p. 50.
“La superstizione della decadenza poteva perdere il senso degli dei, ma non poteva perderne la
memoria esteriore delle figure”, 52A-46v, ibid., p. 50.
383
“Gli dei divennero i santi”, 52A-46v, ibid., p. 50.
384
“Dobbiamo attaccare il misticismo e il soggettivismo abietti dell’occultismo e del protestantesimo decadente. Dobbiamo attaccare l’umanitarismo e la democrazia, prodotti cristiani, figli prodighi del cristismo. E dobbiamo resistere, anche intellettualmente, allo stolto imperialismo moderno,
a immagine e somiglianza delle Chiesa cattolica, che viola quel principio della nazionalità il cui
simbolo massimo è la Città Stato dei greci e dei romani”, 21-27r, ibid., pp. 54-55.
382
116
E tutto questo dovrà avvenire avendo sempre ben presente che l’attacco
fondamentale va portato contro la sostanza del cristismo, quel “criterio subjectivo,
excedencial, extra-humano na interpretação das cousas”385 che vuole le cose “altro” da ciò che ci appaiono.
A questo punto, però, si impone un’osservazione. Cristo dov’è? Quale critica viene mossa a colui che è il fondatore riconosciuto della religione cristiana?
Si parla tanto, infatti, di caratteri del cristianesimo, del “cristismo”, ma non si dice
nulla del centro della religione di Pietro e Paolo. Anzi, sembra propria che Cristo
non sia un elemento fondamentale: tutto ciò che il “cristismo” è lo mutua da altro,
nessuna originalità quindi in esso.
Oppure si tratta di un silenzio carico di significato e allora ipotizzeremmo
che per i neopagani ortodossi egli non sia che una narrazione simbolica, la quale
racconta di un uomo come gli altri che ebbe in sorte di essere il capostipite di una
nuova religione, perché creduto Dio, ma che formalmente sarebbe potuto essere
sostituito da qualsiasi altra persona chè la religione avrebbe mantenuto le medesime caratteristiche, mutando solo di nome.
A dire il vero, però, troviamo una poesia di Caeiro sulla figura di Gesù: è il
poema VIII de O Guardador de Rebanhos. Qui Gesù viene rappresentato come
l’eterno bambino, che, scappato dal Paradiso e rifiutata la divinità, vive con il poeta e gli insegna a guardare il mondo:
“A Criança Eterna acompanha-me sempre.
A direção do meu olhar é o seu dedo apontado.
O meu ouvido atento alegremente a todos os sons
São as cócegas que êle me faz, brincando, nas orelhas”386.
385
“Criterio soggettivo, eccedente, extra-umano nell’interpretazione delle cose”, 21-27r, ibid., p.
55.
386
“L’eterno bambino mi accompagna sempre. / La direzione del mio sguardo è il suo dito che indica. / Il mio ascolto, attento allegramente a tutti i suoni, / È il solletico che mi fa, giocando, negli
orecchi”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de
Álvaro de Campos, cit., n. VIII, p. 56.
117
Caeiro conclude la sua storia di Gesù chiedendosi: “Porque razão que se
perceba / Não há de ser ela mais verdadeira / Que tudo quando os filósofos
pensam / E tudo quanto as religiões ensinam?”387.
Di Gesù ciò che conta, quindi, è più il fatto che sia una storia raccontata388
che in sé un racconto che contenga verità storiche, cioè che Gesù sia Dio e uomo.
Sembra allora che anche i tratti caratteristici del cristianesimo siano in fondo relativi a chi li racconta. Se poi nei fatti si sono affermati questi elementi particolari
considerati fino ad ora con il nome di “cristianesimo”, tutto ciò può davvero essere avvenuto perché si è trattato dell’espressione più adeguata di una civiltà decadente. Non dimentichiamoci delle parole di Mora, cioè che la religione è l’espressione di una civiltà.
Allora di Cristo non se ne deve fare nessuna analisi, come effettivamente
fanno gli eteronimi, non si deve esprimere nessuna critica alla sua persona. Per
andare contro Cristo lo si deve raccontare secondo l’espressione di un’altra civiltà. Il pagano Caeiro sa tutto ciò e racconta di Cristo, senza pretendere che sia l’unico racconto possibile, ma pretendendo per sé la dignità della possibilità. Una
nuova civiltà pagana, perciò, non deve eliminare Cristo, ma dargli un posto nel
pantheon con gli altri dei. Anche così il cristianesimo può essere sconfitto, togliendogli la pretesa di univocità del racconto mitico:
“Não a ti, Christo, odeio ou te não quero.
Em ti como nos outros creio deuses mais velhos.
Só te tenho por não mais nem menos
Do que elles, mas mais novo apenas”389.
3.1.2 – La corrente eterodossa
387
“Per quale comprensibile ragione / Non può essere più vera questa / Di tutto quanto i filosofi
pensano / E di tutto quanto le religioni insegnano?”, F. Pessoa, Poemas completos de Alberto
Caeiro. Préfacio de Ricardo Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., n. VIII, p. 57.
388
Per tutte le parole che si riferiscono al “raccontare” si utilizzarà da qui fino alla fine de La corrente ortodossa il corsivo. Ciò per mettere in risalto l’importanza che la tematica ha nel “drama”
neopagano e in tutta la teoria estetica di Fernando Pessoa. Del “mito” e del “racconto” ne parleremo più approfonditamente in seguito.
389
“Non sei tu Cristo che odio o non voglio, / Credo in te come negli altri dei più anziani. / Solo
che ti considero né meno né più / Di loro, ma soltanto più giovane”, 51-30r, F. Pessoa, Poemas de
Ricardo Reis, Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 134.
118
L’unico rappresentante della corrente eterodossa del neopaganesimo è Fernando Pessoa. Anche se per molti aspetti potrebbe essere considerato un “eterodosso” anche Álvaro de Campos. Ma, da quanto conosciuto su di lui in precedenza, il suo pentimento circa l’aver abbandonato la strada di Caeiro ci autorizza a
considerarlo un pagano ortodosso, semmai alquanto “indisciplinato”.
Tra i due gruppi la divergenza fondamentale si dà a livello della risposta
sulla realtà del mondo. Fernando Pessoa fornisce un’interpretazione della realtà
del mondo che è davvero contraria a quella di Caeiro, Reis, Mora, radicalizzazione forse della nozione di Campos (o viceversa?).
Fernando, consegnando la verità del mondo ad una realtà trascendente,
solo simbolizzata dalle cose che vediamo, sembra sconfessare totalmente l’oggettivismo assoluto del paganesimo di Caeiro. Come possono allora due correnti che
partono da presupposti contrari arrivare a formare il medesimo “movimento neopagano”? Può solo la lotta contro il “cristismo” unificare ciò che si presenta così
diviso e la cui unità ha tanto il sapore di una contraddizione? O forse quello che è
importante è proprio che i due tipi di paganesimo siano differenti e che la contraddizione sia superata nel momento in cui viene posta?
Conviene, quindi, che passiamo all’analisi dei caratteri di questo paganesimo eterodosso, “paganismo trascendental” o “paganismo superior”, nelle definizioni che ne dà lo stesso Poeta, il quale difende le sue tesi contro la scuola di
Caeiro in un libro incompleto dal titolo proprio di Paganismo Superior. Theoria
do Paganismo (Paganesimo superiore. Teoria del paganesimo)390.
Il paganesimo superiore, se combatte come gli “ortodossi” il cristianesimo,
al contrario non ne vuole la totale eliminazione. O meglio, ritiene che alcune
istanze del cristianesimo siano positive e che come tali vadano mantenute: in
modo particolare il riferimento è alla “sensibilità”, cioè alla facoltà di sentire dell’uomo sviluppatasi durante il “cristismo”. Se le cose sono in rapporto ad una trascendenza che sta oltre di esse, colui che le percepisce non sarà rivolto esclusivamente al mondo fuori di lui, ma comincerà a congetturare dentro di sé su ciò che
non vede e che sa essere la ragione di tutto. L’attenzione e la concentrazione dal390
Il testo, giuntoci più che incompleto del tutto frammentario, si trova in F. Pessoa, Fernando
Pessoa e o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., pp. 119-129.
119
l’oggetto si spostano al soggetto, ovvero l’unica via per raggiungere quella trascendenza invisibile. La ragione si scopre, però, incapace ad arrivare a questa trascendenza e nell’incapacità consegna il mondo all’illusorietà. Il “cristismo” sa che
l’universo è illusorio e opera in questa direzione, “mas a sua maneira de entender
essa direção é que está errada”391. Dove sbaglia allora il cristianesimo?
Il “cristismo” è il risultato dell’unione di tre elementi: il primo è “a interiorização do paganismo, isto è, a spiritualização do hellenismo” 392; il secondo è “a
emergencia extra-judaica do monotheismo judeu”393; il terzo è “a influencia cosmopolita do imperio romano”394.
Dall’analisi del primo punto scopriamo che “o paganismo hellenico tem
duas feições: a exoterica, que è a do mito popular e admite os deuses, objectivista,
patente, consoante o são todas as manifestações populares, e, sobretudo, todas as
manifestações do spirito grego; e a esoterica, que o helleno aprendia apenas nos
mysterios, a parte occulta do paganismo, ligada interiormente – mais, mesmo, que
a parte normal – aos velhos cultos e sacerdocios do Egypto e do Oriente
indefinido”395.
Il “cristismo”, con il suo porre la verità oltre le cose del mondo, eredita i
caratteri dell’esoterismo pagano, il quale aveva cominciato ad affermarsi da Pitagora in poi come “adoecimento do spirito objectivo”396, e in questo senso il “cristismo” può dirsi un “paganismo esoterico”397.
In modo ancora più esplicito possiamo dire che, dall’impossibilità di progredire oggettivamente, il paganesimo cominciò a interiorizzarsi per sopravvivere:
“só subjectivando-se podia continuar”398. E secondo quali modalità avrebbe dovuto
391
“È la sua maniera di intendere questa direzione che è errata”, 24-69r, ibid., p. 124.
“L’interiorizzazione del paganesimo, cioè, la spiritualizzazione dell’ellenismo”, 24-70r, ibid., p.
122.
393
“Il pericolo extra-giudaico del monoteismo giudaico”, 24-70r, ibid., p. 122.
394
“L’influenza cosmopolita dell’Impero romano”, 24-70r, ibid., p. 122.
395
“Il paganesimo ellenico ha due volti: quello essoterico, che è quello del mito popolare e che ammette gli dei, oggettivista, accessibile, a cui gli sono consone tutte le manifestazioni popolari, e,
soprattutto, tutte le manifestazioni dello spirito greco; e quello esoterico, che il greco apprendeva
soltanto nei misteri, la parte occulta del paganesimo, collegata interiormente – più che l’altra – ai
vecchi culti e sacerdozi dell’Egitto e dell’Oriente oscuro”, 24-70r, ibid., p. 122 (corsivo mio).
396
“L’ammalarsi dello spirito oggettivo”, 24-70v, ibid., p. 122.
397
“Paganismo esoterico”, 24-71r, ibid., p. 123.
398
“Solo soggettivandosi poteva continuare”, 26-76r, ibid., p. 124.
392
120
soggettivarsi correttamente il paganesimo? Pessoa parla di tre momenti, ma ne indica alla fine solo due:
“1) Na reducção dos phenomenos objectivos a symbolicos, desmaterializandose assim.
Não se lhe erra as proporções ou a fórma de realidade; dá-se a essa realidade um sentido
de echo e não de palavra, não de questão mas de interpretação.
2) Na attenção dada aos phenomenos subjectivos de modo a dar-lhes ou a sentir-lhes, uma
realidade concreta tão certa como a dos phenomenos objectivos. Isto é, no alargamento da
experiencia directa pela observação intensiva dos phenomenos do spirito”399.
Grazie alla smaterializzazione dei fenomeni oggettivi, sostiene Fernando, è
possibile giungere a considerare oggettivamente anche i fenomeni dello spirito. Il
“cristismo” sembra favorire questa soggettivizzazione della realtà, anzi, la sua vittoria sul paganesimo avvenne proprio grazie al fatto che comprese prima di tutti
come ciò di cui c’era bisogno era una rivalutazione in tal senso dei fenomeni dell’animo umano. Dove si trova allora l’errore del cristianesimo? Forse troveremo la
risposta dall’analisi degli altri due caratteri che lo costituiscono, in particolare dal
monoteismo giudaico.
Alla critica dell’elemento giudaico del cristianesimo si deve gran parte dell’opera dell’unico pagano che non si arrese all’idea di veder trionfare il “cristismo”. L’imperatore Flavio Claudio Giuliano (332-363 d. C.) tra il 361 e il 363 d.
C. tentò una restaurazione del paganesimo, già da Costantino non più religione
dell’Impero romano (editto di Milano, 313 d. C.). Il 4 febbraio 362 Giuliano dichiarò equivalenti per l’Impero romano tutte le religioni, abolendo i privilegi della
religione cristiana, e il 17 giugno dello stesso anno vietò ai cristiani l’insegnamento della retorica. Il tentativo di arrestare la diffusione del cristianesimo non si
compì però, rispetto a quanto accaduto nei decenni addietro, con spargimento di
sangue, a riprova che la lotta di Giuliano avvenne a livello dottrinale. Quale fu,
399
“1) Nella riduzione dei fenomeni oggettivi a simbolici, smaterializzandosi così. Non si sbagliano le proporzioni o la forma della realtà; si dà a questa realtà un senso di eco e non di parola, non
di problema, ma di interpretazione. 2) Nell’attenzione data ai fenomeni soggettivi in modo da dare
o sentir loro una realtà concreta talmente certa come quella dei fenomeni oggettivi. Cioè, nell’allargamento dell’esperienza diretta grazie all’osservazione intensa dei fenomeni dello spirito”,
26-76v, ibid., p. 124.
121
quindi, l’impegno dottrinale di Giuliano, quello al quale dice di ispirarsi anche il
nostro Poeta portoghese?
Per Giuliano la religione dei cristiani “n’est que un furberie purement
humaine, et malicieusement inventée, qui, n’aiant rien de divin, est pourtant venue
à bout de seduir les esprits foibles, et d’abuser de l’affection que les hommes ont
pour le fables, en donnant un couleur de verité et de persuasion à de fictions
prodigieuse”400. Il cristianesimo, anche per l’imperatore, deriva dalla fusione di
elementi della religione ebraica e della religione dei greci. Ma ciò che i cristiani
hanno preso dall’una e dall’altra religione non sono che le cose peggiori: dagli
ebrei “la haine implacable contre toutes les differentes religions des Nations”401,
mentre “le genre de vie infâme et méprisable, qui pratique dans le paresse et dans
la legéreté, ils l’ont pris des Grecs”402.
Dall’ebraismo hanno portato con sè, poi, racconti divini che sono ancora
più assurdi e falsi di quelli pagani. Infatti essi, nel giudicare stolti e falsi i miti pagani, avevano considerato solo quelli che si narravano presso le persone più ignoranti, mentre sembravano ignorare del tutto i miti narrati dai filosofi. Così, ad
esempio, accade che il racconto della creazione presentato nel libro della Genesi
della Bibbia, in rapporto a quello nel Timeo di Platone, non mostra nessuna credibilità logica, dato che appunto affinché un mito sia vero non è sufficiente “écrire
dans un Livre: Dieu a dit, et les choses ont été faites”403 perché occorre considerare “si ces choses qu’on dit avoir été faites par la volonté de Dieu, ne sont pas contraire à l’essence de choses: au quel cas elles ne peuvent avoir été faites par la volonté de Dieu, qui ne peut changer l’essence de choses”404.
400
“Non è che una furberia puramente umana, e maliziosamente inventata, che, non avendo niente
di divino, è pertanto venuta con lo scopo di sedurre gli spiriti irragionevoli e di abusare della predisposizione che gli uomini hanno per le favole, dando un colore di verità e di persuasione a delle
finzioni prodigiose”, Reflexions de l’Empereur Julien sur le dogmes de la religions chrétienne, in
Deffense du paganisme par l’Empereur Julien, a cura del Marquis D’Argens, Chretien Frederic
Voss, Berlin, 1764, p. 3.
401
“L’odio implacabile contro tutte le differenti religioni delle nazioni”, ibid., p. 7.
402
“Lo stile di vita infame e spregevole, che praticano nell’ozio e nella leggerezza, essi l’hanno
preso dai greci”, ibid., p. 7.
403
“Scrivere in un libro: «Dio ha detto, e le cose sono state fatte»”, ibid., p. 73.
404
“Se queste cose, che si dicono essere state fatte dalla volontà di Dio, non siano contrarie alla
loro stessa essenza: nel qual caso esse non potevano essere state fatte dalla volontà di Dio, che non
può affatto cambiare l’essenza delle cose”, ibid., p. 73.
122
I cristiani, ereditando il monoteismo giudaico secondo racconti inverosimili, hanno ereditato dagli ebrei anche l’intolleranza verso tutte le altre divinità. Ma
essi non si sono ricordati della religione dei loro padri quando hanno abbandonato
la legge ebraica, come per il divieto di cibarsi di alcune carni, in favore di una vita
lassista e amorale.
“S’il faut que je vous dise ce que je pense, vous vous êtes efforcés de vous couvrir de
confusion: vous avés choisi parmi le Dogmes, que vou avés pris, ce qui convient également aux
gens méprisable de toutes les nations: vous avés pensé devoir conserver, dans vôtre genre de vie,
ce qui est conformé à celui des cabaretiers, des publicains, des baladins, et de certe espece
d’hommes que leur ressemblent”405.
Che dire poi riguardo a questo Gesù, il Cristo, dal cui prende il nome il
movimento dei galilei? Se fosse Dio, come sostengono i suoi discepoli, si contraddirebbe il monoteismo del quale i cristiani si dicono continuatori, poiché si dovrebbe parlare di due dei.
La pretesa di affermazione dei cristiani è corrotta dunque, come il loro credo. L’imperatore Giuliano, chiamato con disprezzo da Gregorio Nazianzieno lo
“apostata”, che in greco significa il “rinnegato”, cercò di porre un argine al cristianesimo, in nome del ritorno al paganesimo degli antichi, un paganesimo che accettasse tutti gli dei e tutte le religioni, sincretico verso ogni credo.
Quali sono allora i punti in comune fra Giuliano e Pessoa? Da quanto detto, infatti, è possibile osservare come, in primo luogo, li accomuna la stessa analisi di un cristianesimo quale risultato della fusione di elementi giudaici e greci. Ma
c’è anche un altro aspetto, che non abbiamo ancora menzionato e che unisce i due
pagani: si tratta dell’attenzione che entrambi rivolgono all’occultismo. Infatti Giuliano mostrò da sempre “un attaccamento quasi morboso alle pratiche
teurgiche”406, manifestando una incoerenza nell’utilizzo, da un lato, della raziona-
405
“Se è necessario che vi dica ciò che penso, voi vi siete sforzati nel coprirvi di confusione: voi
avete scelto, dai dogmi che avete preso, ciò che ugualmente conviene a persone spregevoli di tutte
le nazioni: voi avete pensato di dover conservare, nel vostro stile di vita, quelle cose che sono conformi agli attori, ai pubblicani, ai saltimbanco, e a tutto il medesimo genere di uomini”, ibid., pp.
153-155.
406
G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. IV, cit., p. 660.
123
lità quale verifica dei contenuti veritativi dei racconti mitici e, dall’altro, dell’irrazionale pratica della teurgia.
Anche Pessoa, da parte sua, è un profondo conoscitore dell’occultismo,
studioso della Kabbala ebraica, della teosofia, dei riti dei Rosacroce. Per di più di
se stesso dice anche di avere capacità medianiche. In una lettera del 24 giugno
1916 alla zia Ana Luísa Nogueira, Fernando descrive come principiarono a manifestarsi in lui facoltà para-normali:
“Aí por fins de Março (se não me engano) comencei a ser médium. Imagine! Eu, que
(como deve recordar-se) era um elemento atrasador nas sessões semiespirístas que fazíamos,
comencei de repente, com a escrita automatica. Estava uma vez em casa, de noite, tendo vindo da
Brasileira, quando senti a vontade de, literalmente, pegar numa pena e pô-la sobre o papel”407.
Nei confronti dell’occultismo Pessoa, pur mantenendo un’attenzione costante lungo tutto l’arco della sua vita, dimostra un atteggiamento critico, apparentemente più di Giuliano, consapevole della contraddizione che c’è tra paganesimo
e teosofia, per la vicinanza, in un certo qual modo, di quest’ultima alla mentalità
cristiana. Eppure è forse per quelle poche somiglianze che ci sono tra paganesimo
e teosofia che per tutta la vita Fernando manifesterà interesse per l’occultismo. Il
richiamarsi e il respingersi a vicenda delle due dottrine porta il Poeta ad avere delle forti crisi di identità, percepite come vere e proprie crisi psichiche. Quali sono
407
“Intorno alla fine di Marzo (se non mi sbaglio) cominciai ad essere medium. Si immagini! Io,
che (come si ricorderà) ero un elemento di impaccio nelle sessioni semispiritiche che facevamo,
cominciai improvvisamente con la scrittura automatica. Mi trovato in casa, di sera, dopo essere
rientrato dalla Brasileira, quando sentii la volontà, letteralmente, di prendere una penna e di appoggiarla sopra un foglio”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., pp. 215.
La lettera prosegue con la descrizione dettagliata del modo in cui si manifestava la scrittura automatica di Fernando. Ne riportiamo un altro breve passo: “De vez em quando, umas vezes
voluntariamente, outras obrigado, escrevo. Mas raras vezes são «comunicações» compreensíveis.
Certas frases percebem-se. E há sobretudo uma coisa curiosíssima – uma tendência irritante para
me responder a perguntas com numeros; assim como há tendência para desenhar. Não são
desenhos de coisas, mas de sinais cabalísticos e maçónicos, símbolos do ocultismo e coisas assim
que me perturbam um pouco” (“Di tanto in tanto, alcune volte volontariamente, altre obbligato,
scrivo. Ma raramente si tratta di «comunicazioni» decifrabili. Certe frasi si capiscono. E c’è soprattutto una cosa curiosissima – una tendenza irritante a rispondere alle mie domande con numeri;
così come si mostra la tendenza a disegnare. Non sono disegni di oggetti, ma di segni cabalistici e
massonici, simboli dell’occultismo e cose di questo genere che mi preoccupano poco”), ibid., p.
215.
124
gli elementi di somiglianza e quali quelli di contrasto tra paganesimo e teosofia?
In che modo si relaziona la teosofia al cristianesimo?
Fernando Pessoa, nella lettera del 6 dicembre 1915, consegna all’amico
Sá-Carneiro i suoi pensieri in proposito, lasciando a noi un prezioso documento
per la ricostruzione dell’intero processo creativo del Poeta portoghese. Pessoa tra
il 1915 e il 1916 traduce per la Livraria Clássica Editora alcuni testi di teosofia,
tra i quali quelli di Annie Besant (1847-1933)408, femminista, fondatrice del Partito
Laburista inglese e famosa esponente della “Società Teosofica”, e di Charles
Webster Leadbeater (1847-1934)409, Vescovo della Chiesa anglicana liberale, chiaroveggente, membro anch’egli della “Società Teosofica”, e questo gli dà la possibilità di conoscere l’argomento in maniera approfondita. È proprio da questo
primo serio contatto con essa che sorge la crisi psichica confessata a Sá-Carneiro:
“A que apareceu agora deriva da circunstância de eu ter tomado conhecimento
com as doutrinas teosóficas”410. Con la traduzione dei testi, come logico, il Poeta
ha avuto modo di conoscere “a essência do sistema” 411, la quale “abalou-me a um
ponto que eu julgaria hoje impossível, tratando-se de qualquer sistema
religioso”412. Cosa lo colpisce maggiormente? “O carácter extraordinariamente
vasto desta religião-filosofia; a noção de força, de domínio, de conhecimento
superior e extra-humano que ressumam as obras teosóficas, perturbaram-me
muito”413. Gli stessi turbamenti erano capitati già in precedenza “com a leitura de
um livro inglês sobre Os ritos e os Misterios dos Rosa-Cruz”414, ma sicuramente
non in maniera così forte come dopo una conoscenza approfondita della teosofia.
Perchè, però, la teosofia provoca nel poeta una crisi di tal genere, “uma crise gra408
Si tratta di Os ideaes de Teosophia, Lisboa, 1915.
Sono i testi: Compendio de Teosophia, Lisboa, 1915 (II ed. 1921); A clarividência, Lisboa,
1916; Auxiliares Invisíveis, Lisboa, 1916.
410
“Quella [la crisi, nda] che si è manifestata adesso deriva dal fatto che io sia venuto a conoscenza delle dottrine teosofiche”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 182.
411
“L’essenza del sistema”, ibid., p. 182.
412
“Mi ha turbato a tal punto che io oggi giudicherei impossibile, trattandosi di un sistema religioso”, , ibid., p. 182.
413
“Il carattere straordinariamente vasto di questa religione-filosofia; la nozione di forza, di dominio, di conoscenza superiore ed extra-umana che trapelano dalle opere teosofiche mi hanno turbato
molto”, ibid., p. 182.
414
“Con la lettura di un libro inglese su I riti e i misteri dei Rosacroce”, ibid., p. 182. Il libro a cui
si riferisce Pessoa è, con molta probabilità, quello di Hargrave Jennings dal titolo The rosicrucians, their rites and mysteries, a tutt’oggi conservato nella Biblioteca personale del Poeta.
409
125
ve – afferma lo stesso Pessoa - de um espírito felizmente capaz de ter crises destas”?415
Il primo elemento, di tipo repulsivo, è dato dall’incombatibilità tra l’essenza del suo paganesimo e la teosofia, poiché questa si dà sostanzialmente come
“um sistema ultracristão – no sentido de conter os princípios cristãos elevados a
um ponto onde se fundem não sei em que além-Deus”416.
Il secondo elemento, di tipo attrattivo, è dato dal riflettere “em que a
Teosofia, porque admite todas as religiões, tem um carácter inteiramente parecido
com o do paganismo, que admite no seu panteão todos os deuses”417.
In sintesi, quindi, “a Teosofia apavora-me pelo seu mistério e pela sua
grandeza ocultista, repugna-me pelo seu humanitarismo e apostolismo (V.
compreende?) essenciais, atrai-me por ser parecer tanto com um «paganismo
transcendental» (é este o nome que eu dou ao modo de pensar a que havia
chegado), repugna-me por se parecer tanto com o cristianismo, que não
admito.”418.
Dal confronto con la teosofia traiamo anche qualche elemento in più per
definire il paganesimo eterodosso di Fernando. Le dottrine teosofiche hanno in comune con il paganesimo il fatto di accettare tutte le religioni e tutti gli dei nel proprio pantheon. Ma queste hanno in comune con il cristianesimo un principio di
trascendenza unitaria e uno spirito “umanitario” e di “proselitismo” che le rendono invece avverse al paganesimo. Se il proselitismo è un carattere che il cristianesimo trae dall’influenza dell’Impero romano, e come tale è un elemento di decadenza rispetto al paganesimo, perché anche l’umanitarsimo viene condannato da
Pessoa?
415
“Una grave crisi di uno spirito felicemente capace di avere crisi di tal sorta”, ibid., p. 182 (corsivo dell’autore).
416
“Un sistema ultracristiano – nel senso di contenere i principi cristiani elevati a un punto dove si
fondono in non so che oltre-Dio”, ibid., p. 182.
417
“sul fatto che la teosofia, poiché ammette tutte le religioni, ha un carattere completamente simile a quello del paganesimo, che ammette nel suo pantheon tutti gli dei”, ibid., p. 182.
418
“La teosofia mi spaventa per il suo mistero e per la sua grandezza occultista, mi ripugna per il
suo umanitarismo e apostolismo (mi capisce?) essenziali, mi attrae per essere così simile ad un
«paganesimo trascendentale» (è questo il nome che io do al modo di pensare a cui ero arrivao), mi
ripugna per essere tanto simile al cristianesimo, che non accetto”, ibid., pp. 182-183 (corsivo dell’autore).
126
Occorre specificare che non è solo Pessoa che rigetta l’umanitarismo cristiano, ma tutto il movimento del “neopaganesimo portoghese”, anzi esso è uno
dei punti sui quali tutti si trovano d’accordo. L’umanitarismo infatti è il risultato
di una morale del disequilibrio (cristiana) che non si accorda con una morale dell’equilibrio (pagana).
Come mai però anche il principio della trascendenza del mondo viene visto come un elemento di contrasto con il paganesimo eterodosso? Più che la trascendeza, che deriva dalla considerazione dell’abisso che le cose nascondono dietro la loro apparenza, è l’unità che darebbe questa trascendenza alla realtà a contrastare con il pensiero di Fernando. Infatti la teosofia ammette tutti gli dei nel
senso di una tolleranza generale di culti, e studia tutte le religioni considerate
espressioni della medesima sapienza, ma proprio questa medesima sapienza, trascendente la realtà del mondo, rappresenta l’elemento unitario che Pessoa ravvisa
simile al monoteismo giudaico, quindi caratteristica fondamentale del “cristismo”.
Fernando non critica perciò il fatto che il mondo non contenga in sé le ragioni del
proprio esistere, ma anzi lo reputa un momento fondamentale per ritornare a focalizzare l’attenzione anche sul soggetto: non a caso utilizza il termine “paganismo
trascendental” per definire il suo paganesimo, quasi a voler sottolineare, con quel
“trascendentale” il mistero che celano gli oggetti.
Da una parte allora abbiamo che la teosofia è simile al paganesimo, dall’altra che è simile al cristianesimo. Ecco l’origine della crisi di Pessoa. L’utilità
per noi di questa crisi sta nel poter comprendere come il paganesimo di Pessoa si
dia nell’accettazione di tutti gli dei e di tutte le religioni:
“Que português verdadeiro pode, por exemplo, viver a estreiteza estéril do catolicismo,
quando fora dele há que viver todos os protestantismos, todos os credos orientais, todos os
paganismos mortos e vivos, fundindo-os portuguesemente no Paganismo Superior? Não quiramos
que fora de nós fique um único deus! Absorvamos os deuses todos!”419.
419
“Quale vero portoghese può, per esempio, vivere la ristrettezza sterile del cattolicesimo, quando
al di fuori ci sono da vivere tutti i protestantesimi, tutti i credi orientali, tutti i paganesimi morti e
vivi, fondendoli portoghesemente nel «paganesimo superiore»? Non vogliamo che fuori di noi resti un unico dio! Assorbiamo tutti gli dei!”, F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit.,
p. 199.
127
Ma questa accettazione del politeismo, affinchè si stratti di vero paganesimo eterodosso, deve darsi senza nessun principio trascendente che ne unifichi gli
sforzi. E da queste considerazioni, forse, prende avvio il terzo passaggio del processo di soggettivizzazione del paganesimo che Pessoa non menziona. Nel “cristismo”, i fenomeni dell’animo umano sono tutti ricondotti ad unità. Il monoteismo
giudaico manifesta così il suo influsso a livello psichico. Perché il processo di
soggettivizzazione del paganesimo sia completo e corretto occorrerà allora che i
fenomeni spirituali, nella loro conquista di oggettività, non vengano ricondotti ad
una qualsiasi unità, ma restino molteplici per come essi si danno dal contatto diretto col mondo.
Comprendiamo ora meglio perchè poi a Pessoa non interessi abolire totalmente il cristianesimo, se lui stesso non esita a definirsi un “cristiano gnóstico”420,
e coltivi la teosofia nonostante gli elementi che contrastano il paganesimo superiore, la quale passione resterà sempre una pratica isolata, dato che il Poeta non
farà mai parte ufficialmente di nessuna setta massonica o rosacroce421.
Ricapitolando, il paganesimo eterodosso di Pessoa si dà secondo tre modalità: in primo luogo con la dematerializzazione del mondo esteriore, cioè dichiarando il mondo “simbolo”. In secondo luogo con la conquista di oggettività dei fenomeni dell’animo umano secondo un’allargamento del concetto di esperienza:
come possono essere sentiti gli oggetti esteriori, così possono essere sentiti gli oggetti interiori. In terzo e ultimo luogo mantenendo plurali gli oggetti interiori senza ricondurli a nessun tipo di unità. Così avremo inteso il significato soggettivo
del politeismo e avremo realizzato il paganesimo superiore. Ma avremo realizzato
il “neo-paganismo portuguez”? Definendo il paganesimo superiore infatti non ab-
420
La definizione estesa della sua “posição religiosa” (“posizione religiosa”) Pessoa la dà nella famosa Nota biografica del 30 marzo 1935, un mese esatto prima della sua morte: “Cristão gnóstico,
e portanto inteiramente oposto a todas as Igrejas organizada, e sobretudo à Igreja de Roma” (“Cristiano gnostico, e pertanto interamente opposto a tutte le Chiese organizzate, e soprattutto alla
Chiesa di Roma”), in F. Pessoa, Obra em Prosa de Fernando Pessoa. Escritos íntimos, cartas, e
páginas autobiográficas, cit., p. 253.
421
Nell’articolo Associações secretas, pubblicato sul «Diário de Lisboa» il 4 febbraio 1935 e scritto in difesa della Massoneria, contro una proprosta di legge di messa al bando della stessa, Fernando Pessoa dichiara: “Não sou um maçon, nem pertenço a qualquer outra Ordem, semelhante ou diferente” (“Non sono un massone, né appartengo a un qualche altro ordine, simile o differente”),
ora in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 502.
128
biamo fatto altro che accrescere la distanza tra gli eteronimi e Fernando Pessoa. Il
contrasto non è superato.
3.2 – La finzione del “drama em gente”
Il racconto del neopaganesimo non ha fatto altro che accendere contrasti e
divisioni, porre contraddizioni e ulteriodi problemi all’interpretazione dell’opera
poetica di Fernando Pessoa. In che modo, allora, il neopaganesimo funge da elemento unificante del “drama em gente”? Nella comune lotta al cristianesimo? Sì,
certo, l’unità del racconto neopagano la si ottiene dalla guerra che eteronimi ed ortonimo combattono contro il cristianesimo. Anche qui sarebbe più corretto dire,
però, che la lotta funge da fattore unificante solo contro gli effetti del cristianesimo sulla mentalità contemporanea, mentre si dà ancora divisione nell’analisi di
cosa sia il cristianesimo e nel modo con il quale sconfiggerlo.
Tutto questo, abbiamo detto, è il racconto del “drama em gente”. Giustappunto si tratta di un “drama” e se vogliamo capire qualcosa di più dell’arte poetica
di Pessoa dobbiamo proprio fare attenzione al fatto che egli è un “poeta dramático”, come lui stesso ha detto.
Molti critici, alcuni ancora vivo il Poeta, hanno cercato di spiegarne l’arte
secondo le teorie più svariate. Eduardo Lourenço, nella storia della critica pessoana, individua almeno tre generi di interpretazioni:
“A primeira consistui em encontrar na vida do Poeta, na sua psicologia real ou suposta, as
motivações dessa diversificação em poetas, caraterística da sua criação literária; a segunda, em
mostrar, através da análise de cada um dos poetas que Pessoa pretendeu ser, que a apregoada
autonomia não resiste a um exame, nem dos temas, nem das particularidades estilísticas; a terceira,
finalmente, reenvia essa estranheza, diagnosticada como simples difracção de um comportamento
histórico absurdo característico de uma classe sem futuro inteligível para essa mesma história de
que é reflexo”422.
422
“La prima è caratterizzata dal trovare nella vita del Poeta, nella sua psicologia reale o supposta,
le motivazioni di questa differenziazione in più poeti, caratterisitca della sua creazione letteraria; la
seconda, dal mostrare, attraverso l’analisi di ciascun poeta che Pessoa ha preteso di essere, che la
tanto proclamata autonomia non resiste a un esame, né dei temi, né delle particolarità stilistiche; la
terza, finalmente, rimanda questa stranezza, diagnosticata come semplice diffrazione di un com-
129
I rappresentati di ciascuna sono rispettivamente João Gaspar Simões423, Jacinto do Prado Coelho424 e Mário Sacramento425.
Ad uno in particolare, João Gaspar Simões, Fernando risponde in maniera
diretta. Simões nel libro O Mistério da Poesia (Il mistero della poesia) dedica
un’intera sezione all’amico Pessoa, del quale ne spiega l’arte con l’utilizzo della
psicanalisi freudiana. Simões sostiene nel suo libro che gli eteronimi del Poeta
sono frutto della nostalgia di un’infanzia felice, prima della morte del padre e del
secondo matrimonio della madre, traumi che toglieranno a Fernando la spensierattezza dell’infanzia sulla vita.
La risposta di Pessoa a questa interpretazione è inequivocabile: “Nunca
senti saudades da infância; nunca senti, em verdade, saudades de nada”426. La
nostalgia che egli prova del passato è “somente saudades de pessoas idas, a quem
amei; mas não é a saudade do tempo em que as amei, mas a saudade delas: queriaas vivas hoje, e com a idade que hoje tivessem, se até hoje tivessem vivido”427.
Ciò che proprio Fernando non tollera è l’utilizzo del paradigma freudiano
nella critica letteraria. Sebbene ammetta di non aver “lido muito de Freud, nem
sobre o sistema freudiano e seus derivados”428, egli considera la psicanalisi un sistema imperfetto, riduttivo e utilissimo. È imperfetto “se julgamos que nos vai dar
a chave, que nenhum sistema nos pode dar, da complexidade indefinida da alma
humama”429. È riduttivo perchè “tudo se reduz à sexualidade, pois nada se reduz a
portamente storico assurdo caratteristico di una classe senza un futuro intelligibile per questa stessa storia di cui è il riflesso”, Eduardo Lourenço, Pessoa revisitado, Gradiva, Lisboa, 20003, p. 25
(corsivo dell’autore).
423
Il libro di riferimento per comprendere la posizione di Simões è la sua monumentale Vida e
obra de Fernando Pessoa, cit. (I ed. 1950); anche se si occupa di una lettura psicanalitica dell’opera di Pessoa già in Temas, Coimbra, 1929 e in O Mistério da poesia, Coimbra 1931.
424
Si legga Diversidade e Unidade em Fernando Pessoa, Editorial Verbo, Lisboa, 199811 (I ed.
1949 per Editorial Império).
425
Si legga Fernando Pessoa. Poeta da Hora Absurda, Vega, Lisboa, 19853 (I ed. 1958 per Editora Contraponto).
426
“Non ho mai sentito nostalgia dell’infanzia; non ho mai sentito, per la verità, nostalgia di nulla”,
F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 254.
427
“Nostalgia solamente delle persone andate, quelle che ho amato; ma non è nostalgia del tempo
in cui le amai, ma è nostalgia di loro: le vorrei vive oggi, e con l’età che oggi avessero, se avessero
vissuto fino ad oggi”, ibid., p. 254.
428
“Letto molto di Freud, né sul suo sistema o sui suoi derivati”, ibid., p. 254.
429
“Se giudichiamo che ci darà la chiave, che nessun sistema ci può dare, della complessità indefinita dell’anima umana”, ibid., p. 254.
130
uma coisa só, nem sequer na vida intra-atómica”430. È utilissimo perchè ha insegnato agli psicologi a considerare tre aspetti dell’anima umana, prima sottovalutati o sconosciuti del tutto:
“(1) o subcosciente e a nossa consequente qualidade de animais irracionais; (2) a
sexualidade, cuja importância havia sido, por diversos motivos, diminuída ou desconhecida
anteriormente; (3) o que poderei chamar, em linguagem minha, a translação, ou seja, a conversão
de certos elementos psíquicos (não só sexuais) em outros, por estorvo ou desvio dos originais, e a
possibilidade de se determinar a existência de certas qualidades ou defeitos por meio de efeitos
aparentemente irrelacionados com elas ou eles”431.
Nonostante tutto ci sono allora degli elementi positivi nel freudismo, i
quali fanno dire a Pessoa che “esse sistema e os sistema análogos ou derivados
devem por nós ser empregados como estímulos da argúcia crítica, e não como
dogmas científicos ou leis da natureza”432.
L’interpretazione psicanalitica viene dunque fortemente ridimensionata da
Pessoa stesso433, mentre per le altre due, quella di Coelho e Sacramento, chi le ridimensiona è Eduardo Lourenço. Nel suo saggio Pessoa revisitado Lourenço
sostiene che tutti e tre i punti di vista “storici” su Pessoa hanno una cosa in
comune: “Todas interrogam Pessoa, todas põem ao poeta e à sua criação questões
que são mais delas que dele, todas o convocam com um máximo de boa
consciência diante da instância crítica”434. Così facendo, però, “é Pessoa quem
deve prestar contas a propósito da sua estranheza”435 obbligandolo a “responder
430
“Tutto si riduce alla sessualità, poiché niente si riduce ad una sola cosa, nemmeno nella vita intra-atomica”, ibid., p. 254.
431
“1) l’inconscio e la nostra conseguente qualità di animali irrazionali; 2) la sessualità, la cui importanza precedentemente era stata, per diversi motivi, diminuita o sconosciuta; 3) quello che potrei chiamare, nel mio linguaggio, la traslazione, ossia, la conversione di certi elementi psichici
(non solo sessuali) in altri, per impaccio o allontanamento degli originali, e la possibilità di determinarsi l’esistenza di certe qualità o difetti per mezzo di effetti apparentemente non relazionati con
quelle o quelli”, ibid., p. 251.
432
“Questo sistema e i sistemi analoghi o derivati devono essere da noi impiegati come stimoli dell’acume critico, e non come dogmi scientifici o leggi di natura”, ibid., p. 253.
433
Mentre la psicanalisi viene criticata, Pessoa non smetterà mai di spiegare che il suo caso letterario è dovuto anche ad una malattia psichiatrica che egli individua nella “neurastenia”. Di ciò, però,
parleremo più approfonditamente in seguito.
434
“Tutti interrogano Pessoa, tutti pongono al poeta e alla sua creazione problemi che sono più
loro che suoi, tutti lo convocano con un massimo di buona coscienza di fronte all’istanza critica”,
E. Lourenço, Pessoa revisitado, cit., p. 27 (corsivo dell’autore).
435
“È Pessoa che deve dar conto della sua stranezza”, ibid., p. 27 (corsivo dell’autore).
131
diante do tribunal da Sinceridade, da Ordem Moral, da Ordem Ideológica” 436.
Invece, quello che andrebbe realmente fatto, conclude il filosofo portoghese, è
“começar por aceitá-lo na sua estranheza, real ou aparente, preferindo
interrrogarmo-nos a respeito dessa estranheza, buscando compreendê-la no que é
e significa, em vez de querer, antes de tudo, reduzi-la”437.
In che modo, allora, deve esercitare il proprio mestiere di critico colui che
voglia avvicinarsi a comprendere l’opera di un artista, senza operarne riduzioni
forzose? La risposta è di Fernando Pessoa, che conosceva molto bene il mestiere
di critico letterario per non aver mai smesso di praticarlo:
“A função do crítico deve concentrar-se em três pontos: (1) estudar o artista
exclusivamente como artista, e não fazendo entrar no estudo mais do homem que o que seja
rigorosamente preciso para explicar o artista; (2) buscar o que poderemos chamar a explicação
central do artista (tipo lírico, tipo dramático, tipo lírico elegíaco, tipo dramático poético, etc.); (3)
compreendendo a essencial inexplicabilidade da alma humana, cercar estes estudos e estas buscas
de uma leve aura poética de desentendimento”438.
Come non tenere in considerazione i suggerimenti di Fernando? Ignorarli
sarebbe da ottusi, perché è a partire da questi consigli critici, infatti, che potremo
comprendere qualcosa di più del neopaganesimo e delle parole di ogni eteronimo.
Pessoa, però, non si ferma qui. Nel tentativo di distogliere Simões da miraggi interpretativi, egli ci dice chiaramente che “o ponto central da minha personalidade
como artista é que sou um poeta dramático”439 perché “tenho, continuamente, em
tudo quanto escrevo, a esaltação íntima do poeta e a despersonalização do drama-
436
“Obbligandolo a rispondere davanti al tribunale della sincerità, dell’ordine morale, dell’ordine
ideologico”, ibid., p. 27.
437
“Cominciare ad accertarlo nella sua stranezza, cercando di comprenderla in quello che significa,
anzicché voler, prima di tutto, ridurla”, ibid., p. 27 (corsivo dell’autore).
p. 27.
438
“La funzione di critico deve concentrarsi su tre punti: 1) studiare l’artista esclusivamente come
artista, e non facendo entrare nello studio più dell’aspetto umano di quanto non sia rigorosamente
necessario per spiegare l’artista; 2) cercare quella che potremmo chiamare la spiegazione centrale
dell’artista (tipo lirico, tipo drammatico, tipo lirico elegiaco, tipo drammatico poetico, ecc.); 3)
comprendendo l’essenziale inesplicabilità dell’anima umana, circondare questi studi e queste ricerche di una leggera aura poetica di ignoranza”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 255.
439
“Il punto centrale della mia personalità come artista è che sono un poeta drammatico”, ibid., p.
255.
132
turgo”440. Sembra, dunque, che abbiamo in mano la chiave per entrare nell’arte del
Poeta: “Desde que o crítico fixe, porém, que sou essencialmente poeta dramático,
tem a chave da minha personalidade”441. Anche se non ricorderemo mai abbastanza come perfino questa chiave, messaci in mano da Fernando, non sarà che un piccolo indizio per avvicinarsi di più al mistero della sua anima, il quale, in quanto
mistero, è segno di una profondità che definitivamente solo Dio può conoscere.
3.2.1 – L’arte è espressione drammatica
L’aiuto fornitoci dal Poeta portoghese, però, è grande. Infatti il critico che
voglia indagarne l’arte sa “que, como poeta, sinto; que, como poeta dramático,
sinto despegando-me de mim; que, como dramático (sem poeta), transmudo
automaticamente o que sinto para uma expressão alheia ao que senti, construindo
na emoção uma pessoa inexistente que a sentisse verdadeiramente, e por isso
sentisse, em derivação, outras emoções que eu, puramente eu, me esqueci de
sentir”442.
L’espressione “poeta dramático” deve essere scomposta in tre parti. L’aspetto poetico è dato dal “sentire”. Quello “drammatico” è dato dal trasformare
ciò che si sente in un’espressione estranea al contenuto stesso della sensazione, in
modo da costruire una persona inesistente che a sua volta possa sentire quanto
viene espresso estraneamente dal soggetto. Il poeta drammatico è colui che unisce
i due aspetti: sente allontandandosi da se stesso.
La parola “dramma” non ha più nulla a che vedere, dunque, con il significato greco dal quale proviene: dra&ma, “azione”. Aristotele, infatti, nella Poetica scrive che la tragedia e la commedia si chiamano “drammi” proprio “perché
440
“Ho continuamente, in tutto quanto scrivo, l’esaltazione intima del poeta e la spersonalizzazione
del drammaturgo”, ibid., p. 255.
441
“Dal momento che il critico si concentra, però, sul fatto che sono essenzialmente poeta drammatico, ha la chiave della mia personalità”, ibid., p. 255.
442
“Che, come poeta, sento; che, come poeta drammatico, sento allontanandomi da me stesso; che,
come drammatico (senza poeta), trasferisco automaticamente tutto ciò che sento in una espressione
estrana al contenuto della sensazione, costruendo nell’emozione una persona inesistente che la
possa sentire veramente, e per questo sentisse, derivatamente, altre emozioni che io, puramente io,
mi sono dimenticato di sentire”, ibid., p. 256.
133
imitano persone che agiscono”443. Per Pessoa “drama” è l’espressione della facoltà
di sentire del poeta in modo da costruire una persona “altra”, il cui contenuto
espressivo sia diverso rispetto alla sensazione originaria del poeta. Così si può benissimo dare un “drama” senza movimento, “estático”, secondo il genere che lo
stesso Fernando inventa e sviluppa444, perché ciò che conta è esprimere sensazioni.
Con il rovesciamento di significato della parola “drama”, ciò che viene
stravolto per intero è il concetto aristotelico che sta dietro alla poesia come arte.
Aristotele, infatti, afferma che “l’epopea e la tragedia ed ancora la commedia e il
ditirambo ed anche gran parte dell’auletica e della citaristica, tutte, prese nel loro
assieme, si trovano ad essere imitazioni”445: per il filosofo greco, quindi, la poesia,
e l’arte in generale, è “imitazione”446. E per Pessoa?
In una lettera ad Adolfo Rocha, forse mai spedita da Fernando e presumibilmente del 1930, il nostro Poeta scrive:
“1) Toda a arte se baseia na sensibilidade, e essencialmente na sensibilidade. 2) A
sensibilidade é pessoal e intransmissível. 3) Para se transmitir a outrem o que sentimos, e é isso
que na arte buscamos fazer, temos de decompor a sensação, rejeitando o nela é puramente pessoal,
aproveitando nela o que, sem deixar de ser individual, é todavia susceptível de generalidade,
portanto compreensível, não direi já pela inteligência, mas ao menos pela sensibilidade dos
outros”447.
Le sensazioni sono il fondamento dell’arte e scopo dell’arte è esprimere
queste sensazioni in modo che “create an object which will be a sensation to
others”448. Come arrivare a ciò? Il passaggio da una sensazione in quanto tale ad
una espressione artistica si dà in tre fasi: la prima è “a consciência dessa
443
Aristotele, Poetica, a cura di Domenico Pesce, Bompiani, Milano, 2000, 1448 a 28-29, p. 57.
Il riferimento è al testo teatrale O marinheiro che porta come sottotitolo la dizione Drama estático.
445
Aristotele, Poetica, cit., 1447 a 14-17, p. 53.
446
Con le parole di Władysław Tatarkiewicz conviene ricordare che Aristotele concepisce l’imitazione “non come copia fedele, bensì come rapporto libero nei confronti della realtà da parte dell’artista, che può rappresentarla in modo soggettivo”, W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2001, p. 299.
447
“1) Tutta l’arte si basa sulla sensibilità, e essenzialmente sulla sensibilità. 2) La sensibilità è
personale e intrasmissibile. 3) Per trasmettere ad un altro ciò che sentiamo, ed è questo che proviamo a fare con l’arte, dobbiamo scomporre la sensazione, eliminando in questa ciò che è puramente
personale, sfruttando invece ciò che, senza perdere di individualità, è tuttavia suscettibile di essere
generalizzato, pertanto di essere compreso, non direi già dall’intelligenza, ma al meno dalla sensibilità degli altri”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 209.
444
134
sensação”449 (la ricezione coscienziale), la seconda è la “consciência dessa consciência da sensação”450 (la sensazione intellettualizzata), la terza è “l’espressione
armonica”.
La prima fase si riferisce alla ricezione coscienziale del contenuto di una
sensazione, cioè al suo essere presente alla coscienza come sensazione in quanto
tale, indipendentemente dalla sua origine, se essa provenga da un oggetto esterioreo o da un oggetto interiore. A questo punto Pessoa ci spiega che “toda a
sensação é composta de mais do que o elemento simples de que parece
consistir”451. Infatti la più semplice delle sensazioni è formata da tutti questi
elementi insieme: “a) a sensação do objecto sentido; b) a recordação de objectos
análogos e outros que inevitável e espontâneamente se juntam a essa sensação; c)
a vaga sensação do estado de alma em que tal sensação se sente; d) a sensação
primitiva da personalidade da pessoa que sente”452. L’esser presente della sensazione a livello coscienziale, l’essere intenzionale della coscienza, per usare una
espressione cara alla fenomenologia, “transforma-a já numa sensação de ordem
diferente”453, appunto in una sensazione che può essere intellettualizzata.
E qui comincia la seconda fase, dove la sensazione “passa a ser concebida
como intelectualizada, o que dá o poder de ela ser expressa”454. Ma cosa vuol dire
che una sensazione è “intellettualizzata”? Risponde José Gil che per Fernando
Pessoa “intelectualizar a sensação é abstrair dela um perfil, uma linha que permita
ligá-la a outras sensações ou conteúdo psíquicos”455. L’esser presente della
448
“Creino un oggetto che sia una sensazione per gli altri”, F. Pessoa, Correspondência.
1905-1922, cit., p. 234 (corsivo dell’autore). La definizione è contenuta in una lettera non datata e
destinata ad un editore inglese, con lo scopo di richiedere la pubblicazione di un’antologia di poeti
“sensazionisti”, movimento a cui aveva dato vita lo stesso Fernando.
449
“La coscienza della sensazione”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p.
192.
450
“La coscienza della coscienza della sensazione”, ibid., p. 192.
451
“Tutta la sensazione è composta di più elementi, rispetto a quello semplice in cui sembra consistere”, ibid., p. 193.
452
“a) la sensazione dell’oggetto sentito; b) il ricordo degli oggetti analoghi e degli altri che inevitabilmente e spontaneamente si congiungono a questa sensazione; c) la vaga sensazione dello stato
psichico in cui si coglie tale sensazione; d) la sensazione originaria della personalità di colui che
sente”, ibid., p. 193.
453
“La trasforma già in una sensazione di ordine differente”, ibid., p. 192.
454
“comincia ad essere concepita come intellettualizzata, cosa che dà la possibilità di esprimerla”,
ibid., p. 192.
455
“Intellettualizzare la sensazione significa astrarre da essa un aspetto, una linea che permetta di
collegarla ad altre sensazioni o contenuti psichici”, J. Gil, op. cit., p. 30.
135
sensazione nella coscienza, infatti, ne origina il processo di scomposizione, dal
quale si formano tre specie di sensazioni: la prima è “uma sensação decomposta
pela análise instintiva ou dirigida, nos seus elementos componentes”456; la seconda
è “uma sensação a que se acrescenta conscientemente qualquer outro elemento
que nela, mesmo indistintamente, não existe”457; la terza è “uma sensação que de
propósito se falseia para dela tirar um efeito definido, que nela não existe
primitivamente”458. Ecco le tre possibili intellettualizzazioni di una sensazione.
Non è sufficiente dunque, per scomporre una sensazione, eliminarne solo
l’elemento personale. Ma è necessario che una sensazione sia analizzata fino in
fondo, che sia portata alle sue estreme conseguenze ed esaminata in tutte le sue
possibilità. È anche questo il significato del “sentire tutto in tutte le maniere”, precetto cardine della poetica di Fernando. Ma come fare tutto ciò? Grazie all’intelletto e all’immaginazione, facoltà della coscienza, il primo per la sua capacità di
astrazione e di analisi, la seconda per il suo comporre e ricomporre i prodotti dell’analisi in sensazioni “altre”. Una sensazione intellettualizzata è così una sensazione astratta, scomposta e ricomposta dall’intelletto e dall’immaginazione. Solo
ora può essere espressa. Ma come?
Arriviamo così alla terza ed ultima fase del procedimento artistico. L’espressione è sempre il frutto di una riflessione e di una organizzazione del proprio
contenuto. Una volta stabilito quest’ultimo, quello che è necessario fare è organizzare l’espressione, “costruirla” affinché diventi essa stessa un “oggetto di sensazioni per gli altri”. A tal proposito Fernando Pessoa riassume i momenti della seconda e della terza fase in tre principi e li chiama “principles of art” (“principi
dell’arte”):
“The three principles of art are 1) every sensations should be expressed to the full, that is,
the consciousness of every sensation should be sifted to the bottom; 2) the sensation should be so
expressed that it has the possibility of evoking – as a halo round a definite central presentation –
the greatest possible number of other sensatios; 3) the whole thus produced should have the
456
“Una sensazione scomposta dall’analisi istintiva o coordinata nei suoi elementi componenti”,
ibid., p. 193.
457
“Una sensazione alla quale si aggiunga coscientemente qualche altro elemento che in essa, anche indistintamente, non esiste”, ibid., p. 193.
458
“Una sensazione che si falsifica di proposito con lo scopo di ottenere un preciso effetto, che in
essa non esiste originariamente”, ibid., p. 193.
136
greatest resemblance to an organised being, because that is the condition of vitality. I call these
three principles 1) that of Sensation, 2) that of Suggestion, 3) that of Construction”459.
La sensazione intellettualizzata, astratta, deve essere espressa in maniera
organica, proporzionata, affinchè produca negli altri il maggior numero di sensazioni ed essa diventi “viva”460. Pessoa cita a tal proposito quel principio di Aristotele per cui un racconto poetico deve essere “como um animal” (“come un animale”)461, non per sostenere che la bellezza richiede proporzione, ma per affermare
che “bello” è ciò che e vivo e ciò che è vivo produce e recepisce sensazioni. E
l’arte, allora, non è una semplice espressione della coscienza delle sensazioni, una
coscienza della coscienza delle sensazioni, ma è “the harmonic expression of our
consciousness of sensations”462, dove l’armonia rappresenta l’aspetto imprescindibile per la vitalità delle nostre espressioni artistiche.
Considerate le caratteristiche dell’espressione artistica non ci resta che
analizzare come essa si dia nei differenti strumenti espressivi, poiché per Fernando non tutti gli strumenti espressivi formano oggetti artistici, non tutte le “arti”
rientrano nella “vera arte”.
459
“I tre principi dell’arte sono: 1) ogni sensazione deve essere espressa pienamente, cioè, la coscienza di ogni sensazione deve essere investigata fino in fondo; 2) la sensazione deve essere
espressa in modo tale da evocare – come un alone intorno ad una manifestazione principale definita – il maggior numero possibile di altre sensazioni; 3) il tutto così prodotto deve avere la maggiore somiglianza possibile con un organismo, perché è questa la condizione della vitalità. Chiamo
questi tre principi: 1) della sensazione, 2) della suggestione, 3) della costruzione”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 240.
460
Per capire meglio il significato di vitalità di un’opera artistica occorrerà attendere l’analisi dell’aspetto drammatico della poesia che facciamo in seguito.
461
F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 240. Fernando sintetizza icasticamente il ragionamento di Aristotele sulla proporzione delle parti nel racconto della tragedia. Leggiamo per intero
il testo dello Stagirita: “Ancora, ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costituita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia
casuale; il bello infatti sta nella grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti, e perciò non potrebbe essere bello né un animale piccolissimo (perché la visione si confonde attuandosi in un tempo pressocché impercettibile) né uno grandissimo (perché la visione non si attua tutta assieme e
per chi guarda vengono a mancare dalla visione l’unità e la totalità) come se per esempio un animale fosse di diecimila stadi. Dimodoché, come per i corpi inanimati e gli animali deve esserci sì
una grandezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con lo sguardo, così anche per i racconti deve esserci una lunghezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con la memoria”, Aristotele, Poetica, cit.,
1450 b 34 – 1451 a 6, p. 73.
462
“L’espressione armonica della nostra coscienza delle sensazioni”, F. Pessoa, Correspondência.
1905-1922, cit., pp. 234.
137
“Eu considero a literatura como a única verdadeira arte, e as outras «artes» todas como o
resultado de sensibilidades incompletas: a pintura, a escultura, a arquitectura, por exemplo, como
produtos de um incompleto desenvolvimento mental”463.
È il grado di intellettualizzazione di una sensazione che stabilisce anche la
sua capacità di produrre negli altri il maggior numero possibile di sensazioni. Tanto più quindi un artista avrà scomposto le proprie sensazioni, tanto più non le
esprimerà in oggetti plastici visibili, ma in letteratura, dando modo ai suoi lettori
di sviluppare le medesime facoltà intellettive e immaginative nello scomporre le
sensazioni. Così pensando, Pessoa congiunge insieme “intellettualizzazione” ed
“espressione”, dimodoché la determinata espressione è sempre rivelativa di un determinato artista. Ed è proprio la capacità di intellettualizzare le proprie sensazioni
che stabilisce chi è artista o meno: “Toda a gente sente. Toda a gente pensa. Nem
toda a gente, porém, sente com pensamento ou pensa com emoção. Por isso há
muita gente e poucos artistas”464.
Arte, utilizzata come sinonimo di letteratura465, è dunque l’espressione armonica della coscienza delle sensazioni. Si tratta di una “espressione armonica”
particolare, però, dato che per lui l’arte, specifica Fernando in una lettera a Francisco Costa, è “essenzialmente drammatica”:
“Para mima, pois, a arte é essencialmente dramática, e o maior artista será aquele que, na
arte que professa – porque em todas as artes, condicionado isto pela «matéria» delas, se podem
fazer dramas, isto é, sentir dramaticamente – mais intensa – profusa e complexamente vivir todo
quanto não é ele, isto é, que mais intensa, profusa – e complexamente exprimir tudo quanto em
verdade não sente, ou, em outras palavras, sente apenas para exprimir”466.
463
“Io considero la letteratura come l’unica vera arte e tutte le altre «arti» come il risultato di sensibilità incomplete: la pittura, la scultura, l’architettura, ad esempio, come prodotti incompleti di un
incompleto sviluppo mentale”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 123.
464
“Tutta la gente sente. Tutta la gente pensa. Non tutta la gente, però, sente con il pensiero o pensa con l’emozione. Per questo ci sono molte persone e pochi artisti”, F. Pessoa, Correspondência.
1923-1935, cit., p. 17.
465
Pessoa dichiara chiaramente che la parola arte “è por mim empregada como sinónima de
«literatura», e não num sentido mais lato, que o meu critério estético não admite”, p. 123.
466
“Per me l’arte, del resto, è essenzialmente drammatica, e il maggiore artista sarà colui che, nell’arte che professa – perché in tutte le arti, condizionato dalla loro «materia», si possono fare
drammi, cioè, sentire drammaticamente – più intensamente e in maniera profusa e complessa, vive
tutto ciò che non è lui, cioè, che più intensamente e in maniera profusa e complessa esprime tutto
quanto in verità non sente, o, in altre parole, sente solo per esprimerlo”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 84. L’elemento drammatico sembra rivalutare tutte quelle “arti” che Pessoa
138
Se l’espressione rivela il grado di intellettualizzazione di una sensazione,
allora più una sensazione sarà intellettualizzata, cioè astratta ed immaginata, più
l’artista esprimerà, paradossalmente, qualcosa che non ha sentito realmente, e sentirà solo per esprimere ciò che non sente. Il contenuto dell’espressione artistica
sarà così “altro” rispetto alla sensazione che l’ha originata e solo colui che avrà attinto al massimo livello di intellettualizzazione potrà dirsi “artista drammatico”.
Drammatico dice allora del grado massimo di intellettualizzazione di una sensazione. Come c’è un grado massimo, però, c’è anche un grado minimo per l’intellettualizzazione delle sensazioni, i quali gradi si manifestano nella differenza dei
generi dell’espressione poetica, dove “poesia” sta per letteratura467.
Prendendo spunto da Aristotele, Pessoa ravvisa la necessità di una classificazione dei generi di poesia. Se, però, essi per Aristotele sono classificati in base a
tre criteri molto precisi e rigorosi, “e cioè per il loro imitare o in materiali diversi
o cose diverse o in maniera diversa e non allo stesso modo”468, per Pessoa il discorso è diverso.
Innanzitutto perché non si dá una diversità di materiale a livello dell’espressione artistica, poiché l’unico “materiale” dell’arte, cosiddetta tale, è la nuda
parola. Inoltre il contenuto e lo stile delle espressioni dipendono tutte dall’intellettualizzazione delle sensazioni e quindi, se si dà una diversità di contenuti e stili,
ciò avviene perché alla base c’è un diverso modo di avere sensazioni intellettualizzate. Fernando sostiene allora che “os géneros não se separam com tanta
facilidade íntima”469, e piuttosto invece “da poesia lírica à dramática há uma
gradação contínua”470. È dall’osservazione di questa gradualità tra i diversi generi
aveva scartato dalla definizione generale di arte. In realtà questa momentanea riabilitazione non fa
che confermare come l’arte dipenda dal grado di analisi delle sensazioni a cui l’artista giunge nella
propria coscienza. Se poi la materia condiziona inevitabilmente anche l’espressione pare ovvio che
un poeta sarà più portato ad intellettualizzare le proprie sensazioni di uno scultore. La parola, infatti, richiede uno sforzo di immaginazione in piú rispetto a ciascuna altra “materia” e questo sforzo non è che il segno esteriore di una maggiore capacità astrattiva e immaginativa.
467
Arte, letteratura e poesia si riferiscono tutte all’espressione di sensazioni intellettualizzate: perciò possono tranquillamente dirsi tutte sinonimi.
468
Aristotele, Poetica, cit., 1447 a 17-19, p. 53.
469
“I generi non si separano con tanta facilità intima”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 106.
470
“Dalla poesia lirica a quella drammatica c’è una gradazione continua”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 106.
139
di poesia che potremo comprendere meglio il meccanismo di intellettualizzazione
drammatica della sensazione.
Nel primo testo che prendiamo in esame, dal titolo Os graus da poesia lírica (I gradi della poesia lirica), la gradazione sembra darsi solo all’interno della
poesia lirica, e il Poeta si dimostra alquanto equivoco nell’utilizzo delle rispettive
parole e dei significati di “poesia lírica” e “poesia dramática”. In un caso, che
spiegheremo in seguito, il significato di “poesia dramática” sembra contrastare
perfino quello della lettera a Simões.
Scrive Pessoa che “o primeiro grau – quello più comune e meno meritorio
– da poesia lírica é aquele em que o poeta, de temperamento intenso e emotivo,
exprime espontânea ou reflectidamente esse temperamento e essas emoções”471. In
questi poeti “a intensidade da emoção procede, em geral, da unidade do
temperamento”472 e “os seus poemas giram em torno de determinado número, em
geral, pequeno, de emoções”473. Perciò di loro si dice semplicemente che “um é
«um poeta do amor», outro «um poeta da saudade», um terceiro «um poeta da
tristeza»”474. Il secondo grado “é aquele em que o poeta, por mais intelectual ou
imaginativo, pode ser mesmo que só por mais culto, não tem já a simplicidade de
emoções, ou de limitação delas, que distingue o poeta do primeiro grau”475. Si
tratta sempre di un poeta lirico, che tuttavia è in grado di scrivere su “assuntos
diversos, unificando-os todavia o temperamento e o estilo”476, poiché “sendo
variado nos tipos de emoção, não o será na maneira de sentir” 477. Il terzo grado
della poesia lirica “é aquele em que o poeta, ainda mais intelectul, começa a
despersonalizar-se, a sentir, não já porque sente, mas porque pensa que sente; a
471
“Il primo grado della poesia lirica è quello in cui il poeta, di temperamento intenso ed emotivo,
esprime spontaneamente o riflessivamente questo temperamento e queste emozioni”, F. Pessoa,
Páginas de estética e de teoria e crítica literárias, textos estabelecidos e prefaciados por Georg
Rudolf Lind e Jacinto do Prado Coelho, Edições Ática, Lisboa, 1966, p. 67.
472
“L’intensità dell’emozione procede, in genere, dall’unità del temperamento”, ibid., p. 67.
473
“Le sue poesie girano intorno a un determinato numero, in genere, piccolo, di emozioni”, ibid.,
p. 67.
474
“Uno è «un poeta d’amore», un altro «un poeta della nostalgia», un terzo «un poeta della tristezza»”, ibid., p. 67.
475
“È quello in cui il poeta, per essere più intellettuale o immaginativo, può anche essere solo per
più istruzione, già non ha la semplicità delle emozioni, o la loro limitatezza, che distingue invece il
poeta del primo grado”, ibid., pp. 67-68.
476
“Temi diversi, unificandone tuttavia il carattere e lo stile”, ibid., p. 68.
477
“Essendo vario nei generi di emozioni, non lo sarà nella maniera di sentire”, ibid., p. 68.
140
sentir estados da alma que realmente não tem, simplesmente porque os
compreende”478. Siamo giunti, così, “na antecâmara da poesia dramática, na sua
essência intima”479, dove “o temperamento do poeta, seja qual for, está dissolvido
pela inteligência”480 e la sua opera si trova unificata “só pelo estílo, último reduto
da sua unidade espiritual, da sua coexistência consigo mesmo”481. Il quarto grado è
molto più raro a trovarsi dei precedenti ed è quello in cui “o poeta, mais intelectual ainda mas ugualmente imaginativo, entra em plena despersonalização”482. A
questo punto il poeta “não só sente, mas vive, os estados de alma que não tem
directamente”483 e si troverà a spesso comporre “poesia dramática, pròpriamente
dita, como fez Shakespeare, poeta substancialmente lírico erguindo a dramático
pelo espantoso grau de despersonalização que atingiu”484. Ma non tutti scriveranno
“poesia dramática pròpriamente dita”485 e nell’uno o nell’altro caso il poeta “continuará sendo, embora dramáticamente, poeta lírico”486. Sembra che la scala poetica
sia giunta al culmine, invece Fernando vi aggiunge un ulteriore passaggio, che
non termina di spiegare, e che però è sufficiente a darci le caratteristiche del quinto grado.
“Suponhamos, porém, que o poeta, evitando sempre a poesia dramática, externamente tal,
avança ainda um passo na escala da despersonalização. Certos estados de alma, pensados e não
sentidos, sentidos imaginativamente e por isso vividos, tenderão a definir para ele uma pessoa
fictícia que os sentisse sinceramente (...)”487.
478
“È quello in cui il poeta, ancora più intellettuale, comincia a spersonalizzarsi, a sentire, non già
perché sente, ma perché pensa che sente: a sentire stati dell’anima che non ha realmente, semplicemente perché li comprende”, ibid., p. 68.
479
“Nell’anticamera della poesia drammatica, nella sua essenza intima”, ibid., p. 68.
480
“Il carattere del poeta, sia quale sia, è dissolto dall’intelligenza”, ibid., p. 68.
481
“Solo dallo stile, ultimo fortino della sua unità spirituale, della sua coesistenza con se stesso”,
ibid., p. 68.
482
“Il poeta, ancora più intelletuale ma ugualmente immaginativo, entra in piena spersonalizzazione”, ibid., p. 68.
483
“Non solo sente, ma vive, gli stati dell’anima che non ha direttamente”, ibid., p. 68.
484
“Poesia drammatica, propriamente detta, come fece Shakespeare, poeta sostanzialmente lirico
asceso a drammatico per lo spaventoso grado di spersonalizzazione a cui arrivò”, ibid., p. 68.
485
“Poesia drammatica propriamente detta”, ibid., p. 68.
486
“Continuerà ad essere, sebbene drammaticamente, poeta lirico”, ibid., p. 69.
487
“Supponiamo, però, che il poeta, evitando sempre la poesia drammatica, esternamente tale,
avanzi ancora un passo nella scala della spersonalizzazione. Certi stati dell’anima, pensati e non
sentiti, sentiti immaginativamente e perciò vissuti, tenderanno a definire per il poeta una persona
fittizia che li senta sinceramente […]”, ibid., p. 69.
141
Da questo testo appare evidente come Pessoa utilizzi la parola “poesia dramática” con due significati: il primo si riferisce ad una poesia drammatica “pròpriamente dita” ed “externamente tal”, il secondo non è specificato, ma può essere
desunto dal primo. Se infatti può darsi una poesia drammatica “propria” o “esterna” se ne potrà evidentemente anche dare una “impropria” o “interna”, forse quella del nostro Fernando. “Proprio” ed “esterno” sono aggettivi che possono essere
riferiti alla forma nella quale si compone poesia drammatica, al fatto cioè che essa
“formalmente” viene concepita come rappresentazione teatrale. Si tratta di una
poesia drammatica “propria” perché si confà al modo tradizionale di essere ideata
(per il teatro) ed “esterna” perché l’essere rappresentata non è che l’elemento visibile di quella che deve comunque restare una sua caratteristica intrinseca: la spersonalizzazione.
La scala dei generi di poesia ha messo in luce come l’intellettualizzazione
di una sensazione dipenda dal carattere del poeta, a seconda che questi sia capace
o meno di analizzare con l’astrazione intellettuale e immaginativa le proprie sensazioni. La scala poetica sembra trasformarsi in un viaggio, allora, che il poeta
percorre, una sorta di percorso iniziatico verso l’ideale di perfezione dell’arte stessa. E quest’ideale di perfezione dell’arte è riposto nell’altro significato di “poesia
drammatica”, quello cioè “improprio” ed “interno”. È “impropria” perché non segue la tradizione, senza essere concepita come rappresentazione teatrale e quindi
senza esserne soggetta alle regole classiche, ed “interna” perché tutta incentrata
sull’elemento fondamentale di qualsiasi poesia drammatica: il processo di spersonalizzazione, culmine del grado di analisi delle proprie sensazioni.
Ci conviene allora leggere il secondo testo che, in maniera più esplicita,
parla della graduazione tra i generi di poesia e della spersonalizzazione. Qui perfino la poesia lirica viene concepita come un determinato livello di spersonalizzazione, seppur minimo, a seconda della predisposizione del poeta. Il percorso verso
la spersonalizzazione completa viene, inoltre, ridotto da cinque a quattro gradi e
Fernando, senza equivoci, ci parla della poesia drammatica con il secondo significato, che abbiamo ricostruito dal “non-detto” pessoano, del testo precedente, e,
dal “detto” lampante, della lettera a Simões. Leggiamo il documento per intero:
142
“O primeiro grau da poesia lírica é aquele em que o poeta, concentrado no seu
sentimento, exprime esse sentimento. Se ele, porém, for uma criatura de sentimentos variáveis e
vários, exprimirá como que uma multiplicidade de personagens, unificadas sòmente pelo
temperamento e o estilo. Um passo mais, na escala poética, e temos o poeta que é uma criatura de
sentimentos vários e fictícios, mais imaginativo do que sentimental, e vivendo cada estado de alma
antes pela inteligência que pela emoção. Este poeta exprimir-se-á como uma multiplicidade de
personagens, unificadas, não já pelo temperamento e o estilo, pois que o temperamento está
substituído pela imaginação, e o sentimento pela inteligência, mas tão-sòmente pelo simples estilo.
Outro passo, na mesma escala de despersonalização, ou seja de imaginação, e temos o poeta que
em cada um dos seus estados mentais vários se integra de tal modo nele que de todo se
despersonaliza, de sorte que, vivendo analìticamente esse estado de alma, faz dele como que a
expressão de um outro personagem, e, sendo assim, o mesmo estilo tende a variar. Dê-se o passo
final, e teremos um poeta que seja vários poetas, um poeta dramático escrevendo em poesia lírica.
Cada grupo de estados de alma mais aproximados insensìvelmente se tornará uma personagem,
com estilo próprio, com sentimentos porventura diferentes, até opostos, aos típicos do poeta na sua
pessoa viva”488.
Ormai il significato per Pessoa della parola “poeta dramático” appare chiarito e con esso appare chiaro il modello di arte che ha in mente. Il dramma di cui il
Poeta parla non prevede nessun tipo di struttura rappresentativa, affinché non sia
colto come finzione ciò che in realtà non lo è. Il poeta drammatico, infatti, è colui
che sente, che ha sensazioni, ecco l’elemento lirico della poesia, le cui sensazioni
sono analizzate, composte e ricomposte nella sua mente attraverso l’intelletto e
l’immaginazione e che, quanto più saranno indagate con l’intelletto e l’immaginazione in tutte le loro possibilità, tanto più si discosteranno dal loro contenuto originario, si astrarranno formando una personalità fittizia, ecco l’elemento dramma488
“Il primo grado della poesia lirica è quello in cui il poeta, concentrato sul suo sentimento, esprime questo sentimento. Se lui, però, sarà una creatura di sentimenti variabili e vari, li esprimerà
come una molteplicità di personaggi, unificati solo dal carattere e dallo stile. Un passo in più, nella
scala poetica, e abbiamo il poeta che è una creatura di sentimenti vari e fittizzi, più immaginativo
che sentimentale, il quale vive ogni stato dell’anima prima con l’intelligenza che con l’emozione.
Questo poeta si esprimerà come una molteplicità di personaggi, unificati, non già dal carattere o
dallo stile, poiché il carattere è sostituito dall’immaginazione, e il sentimento dall’intelligenza, ma
soltanto dal semplice stile. Un altro passo, nella stessa scala di spersonalizzazione, ossia di immaginazione, e abbiamo il poeta che in ciascuno dei suoi vari stati mentali si integra a tal punto in
loro che si spersonalizza completamente, dimodoché, vivendo analiticamente questo stato dell’anima, fa di esso come dell’espressione di un altro personaggio, e così, lo stesso stile tende a variare.
Si dia il passo finale, e avremo un poeta che sarà vari poeti, um poeta drammatico che scrive in
poesia lirica. Ogni gruppo di stati dell’anima più vicini insensibilmente si muterà in un personaggio, con stile proprio, perfino con sentimenti differenti, finanche opposti, a quelli caratteristici del
poeta nella sua viva persona”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 106-107.
143
tico, che, a sua volta, sarà fonte di sensazione per gli altri (oggetto artistico) e sarà
in grado di sentire (soggetto, poesia “viva”) per l’artista. Si tratterà di una personalità fittizia con tutte le caratteristiche di una vera.
3.2.2 – Tra verità e finzione
Le caratteristiche degli eteronimi esaminate fino ad ora e l’analisi di Pessoa sul processo di spersonalizzazione, a questo punto, ci fanno trarre la conclusione che gli eteronimi, quali personalità fittizie, sono originati dal processo di intellettualizzazione delle sensazioni. Ma cosa vuol dire che il Poeta scrive in personalità fittizie? Non dobbiamo credere, forse, alle parole di Pessoa quando si esprime nei suoi eteronimi? Oppure negli eteronimi possiamo ritrovare il pensiero di
Fernando?
Se, ad esempio, ci limitassimo ad una lettura superficiale della poesia Autopsicografia non avremmo che la conferma di come il poeta sia un fingitore e
l’indicazione a non prestar fede alle sue parole. La poesia, pertanto, rimarrebbe legata ad un sostanziale suo “esser falsa”, ontologicamente incapace di esprimere
una qualche verità. Ma leggiamone insieme il testo per intero:
“O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente.
E os que lêem o que escreve,
Na dor lida sentem bem,
Não as duas que ele teve,
Mas só a que eles não têm.
E assim nas calhas de roda
Gira, a entreter a razão,
144
Esse comboio de corda
que se chama o coração489.
A ben vedere, infatti, il poeta è un fingitore molto particolare. Nella prima
strofa della poesia, Pessoa chiarisce che il poeta arriva a fingere dolore quel dolore che sente per davvero. Il primo dato importante da registrare è che, quindi, la
verità non viene esclusa affatto dalla poesia. Essa, nonostante sia una finzione,
mantiene pur un qualche contenuto di verità, collocato al livello del “sentire”.
Vero è ciò che si sente, indipendentemente dalla realtà o meno dell’oggetto
sentito. La verità, perciò, non è univoca, poiché dipende dalla varietà delle sensazioni dell’uomo: “Uma verdade por dia... / Um mundo por sensação...”490 sostiene
Fernando. Il passare ad indicare la varietà delle sensazioni fa sì che la verità non
sia più pensata come un possesso stabile, ma come una continua ricerca:
“A verdade, se ella existe,
Ver-se-ha que só consiste
Na procura da verdade
Porque a vida é só metade”491.
È ricerca di cosa? Ricerca di sensazioni, ricerca del proprio “cuore”, immagine poetica per indicare il primo ricevere le sensazioni da parte della coscienza, siano esse quelle di un ubriaco o quelle di un astemio:
“Vinha bebado sempre para casa
Resmungando uma cousa só metade.
Mas os que não vêm bebados p’ra casa,
Trarão consigo mais verdade?
489
“Il poeta è un fingitore / Finge talmente / Che arriva a fingere che è dolore / Il dolore che davvero sente. // E quelli che leggono ciò che scrive, / Nel dolore letto sentono bene, / Non i due che lui
ha avuto, / ma solo quello che essi non hanno. // E così su binari in tondo / Gira, a intrattenere la
ragione, / Questo treno a molla / che si chiama cuore”, Autopsicografia, in Ficções do Interludio.
1914-1935, Assírio & Alvim, Lisboa, 1998, p. 94.
490
“Una verità per giorno… / Un mondo per sensazione…”, 119-46 r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1933-1934. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 128.
491
“La verità, se esiste, / Si vedrà che consiste solo / Nella ricerca della verità / Perché la vita è
solo metà”, 33-45r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1933-1934. Edição crítica de
Fernando Pessoa, cit., p. 170.
145
Sim, o que é vinho tolda a intelligencia:
O homem sonha e suppõe que isso é pensar.
Mas o não beber vinho dá sciencia?
O andar direito é acertar?
Não, o criterio é outro; que o que importa
Não é saber, cá neste mundo vão,
Se se pode encontrar a casa e a porta,
Mas se se encontra o coração”492.
Il concetto di verità in Pessoa, congiungendosi alla ricerca delle sensazioni, si dimostra così omnicomprensivo e della realtà e dell’irrealtà. Come si dà,
però, la relazione tra verità e finzione, se vero è ciò che si sente? Finto sarà ciò
che non si sente?
Per capire il concetto di finzione in Fernando Pessoa dobbiamo ricordarci
che la prerogativa di fingere viene attribuita al poeta. La poesia, in quanto arte, si
basa sulle sensazioni e ha come compito quello di esprimerle agli altri per mezzo
di parole. La poesia esprime la verità delle sensazioni. Ma queste non sembrano
essere un contenuto immediatamente esprimibile. L’espressione in quanto tale, infatti, richiede mediazione. La cesura tra verità e finzione si dà, così, nel momento
dell’espressione. Cosa accade tra il sentire del poeta e l’espressione poetica?
Nel paragrafo precedente abbiamo appreso che in Pessoa tra la sensazione
e l’espressione poetica, o artistica, si dà la mediazione della coscienza, attraverso
l’intelletto e l’immaginazione. Una sensazione non può essere espressa senza l’intervento di queste due facoltà. L’intervento dell’intelletto, unitamente a quello
dell’immaginazione, fa sì che una sensazione non sia più quella percepita originariamente, ma che, intellettualizzata, possa essere espressa. Tanto più sarà intellettualizzata, quindi, tanto più essa diventerà altro rispetto al proprio inizio. Ed è
questo “diventare altro” che la finzione indica.
492
“Tornavo ubriaco a casa. / Brontolando solo una mezza cosa. / Ma coloro che non tornano
ubriachi a casa, / Porteranno con sé più verità? // Sì, quello che è vino tolta l’intelligenza: / L’uomo sogna e suppone che questo è pensare. / Ma il non bere vino da scienza? / L’andar diritto è colpire giusto? / No, il criterio è un altro; ché ciò che importa / Non è sapere, qui in questo mondo
inutile, / Se si può incontrare la casa e la porta, / Ma se si incontra il cuore”, 62B-21 r, F. Pessoa,
Poemas de Fernando Pessoa. 1933-1934. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., pp. 162-163.
146
Se diventa altro solo ciò che è stato veramente percepito, il poeta, che ha
per mestiere quello di esprimersi, non può che essere il fingitore di una vera sensazione. Non si tratta, allora, di porre l’accento sulla finzione in quanto non essere
reale di qualcosa, ma sul fatto che essa sia l’espressione di altre sensazioni, che
per poter essere espresse non possono essere sentite semplicemente col cuore:
“Dizem que finjo ou minto
Tudo que escrevo. Não.
Eu simplesmente sinto
Com a imaginação.
Não uso o coração”493.
Il compito della poesia, almeno della poesia intesa alla maniera di Fernando Pessoa, la poesia drammatica, è da ricercarsi nell’espressione di quelle finzioni
che sono le sensazioni una volta intellettualizzate, la quale espressione permette ai
lettori di recepire tutte quelle sensazioni che non hanno e che perciò possono dirsi
nuove. La produzione di nuove sensazioni, nel lettore, si origina una volta che la
poesia sposta il baricentro dell’attenzione dal suo essere espressione al non essere
le sensazioni espresse quelle del lettore. Chi legge, infatti, non coglie né il vero
dolore sentito dal poeta, né quello espresso per finzione, ma il dolore che non ha.
In questo modo il problema non è dato dal credere o meno alle parole del
poeta, e, di conseguenza, di Pessoa, ma dall’esserci presenti, per mezzo della poesia, sensazioni che non abbiamo. Così viene assolto il compito dell’arte, ovvero
nel produrre “oggetti che siano sensazioni per chi li percepisce”.
La poesia eteronima, dunque, si inserisce in questa logica della finzione:
essa è l’espressione di ciò che il Poeta ha intellettualizzato, luogo della finzione,
dopo aver sentito, luogo della verità. Da un lato partecipa della verità delle sensazioni originarie del Poeta, dall’altro partecipa della finzione della sua analisi che
l’ha resa sensazioni di altro genere.
Ma con la formazione di sensazioni di altro genere e la conseguente
espressione in oggetti artistici a firma d’altri, quelle che nascono sono delle vere e
493
“Dicono che fingo o mento / Tutto ciò che scrivo. No. / Io semplicemente sento / Con l’immaginazione. / Non uso il cuore”, Isto, in Ficções do Interludio. 1914-1935, Assírio & Alvim, Lisboa,
1998, p. 95.
147
proprie personalità fittizie, in tutto e per tutto differenti dal Poeta che le origina,
secondo quei criteri che abbiamo stabilito nel secondo capitolo di questo studio. Il
loro esser fittizie, allora, non è dato dalla mancanza di realtà, e del resto Pessoa
non sa cosa sia reale e cosa no, ma dall’essere altre rispetto alle sensazioni originarie di Fernando.
Con una coscienza del genere non possiamo pretendere, certo, di recuperare nella poesia degli eteronimi il pensiero di Fernando Pessoa, quasi nascosto dietro di essa. Lui, infatti, l’autore materiale di questi scritti, “nem concorda com o
que nellas vae scripto, nem discorda. Como se lhe fôsse dictado, escreve; e, como
se lhe fosse dictado por quem fosse amigo, e portanto com razão lhe pedisse para
que escrevesse o que dictava, acha interessante – porventura só por amisade – o
que dictado, vae escrevendo”494. Le personalità fittizie, gli eteronimi, infatti, non
sono affatto maschere di un pensiero unico che si nasconde dietro di esse. Si tratta
di attori differenti che recitano ruoli differenti, la cui presenza si manifesta in Fernando quale molteplicità di anime: “Não sei quanta almas tenho. / Cada momento
mudei”495.
Se il pensiero di Pessoa non è rintracciabile negli scritti eteronimici, non
possiamo nemmeno parlare di lui come di un mentitore, perché “estas cousas passaram-se, garanto”496. O meglio, possiamo parlare sia di un fingitore per quanto riguarda l’intellettualizzazione delle sensazioni, sia di un sincero per quanto interessa la ricerca semplice delle sensazioni.
“Not sincerity in the absolute, but some sort of sincerity, is required in art, that it may be
art. A man can write a good love sonnet in two conditions – because he is greatly in love, or because he is greatly in art. He must be sincere in the love or in the art; he cannot be great in either,
or in anything, otherwise. He may burn inwardly, not thinking of the sonnet he is writing; he may
burn outwardly, not thinking of the love he is figuring. But he must be on fire somewhere”497.
494
“Né concorda con ciò che in esse c’è scritto, né dissente. Come se gli fosse dettato, scrive; e,
come se gli fosse dettato da un amico, e pertanto a ragione li chiedesse di scrivere ciò che dettava,
ritiene interessante – forse solo per amicizia – ciò che, dettato, scrive”, 20-70 r, F. Pessoa, Obras de
António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 107.
495
“Non so quante anime ho. / Sono cambiato ogni momento”, 60A-29r, F. Pessoa, Poemas de
Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 197.
496
“Queste cose sono accadute, glielo garantisco”, 48C-29r-v, F. Pessoa, Obras de António Mora.
Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 111.
497
“Affinché l’arte possa essere arte, non le si richiede una sincerità assoluta, ma un tipo di sincerità. Un uomo può scrivere un buon sonetto d’amore in due condizioni – perché è consumato dall’a-
148
Non si tratta quindi di ottenere una sincerità assoluta nell’arte, cosa per altro che le è impedita a priori per l’essere espressione, ma sicuramente di partire da
un minimo di sincerità, che è quella di avere sensazioni.
3.3 – Il neopaganesimo come teoria estetica
Se Fernando Pessoa rigetta la verità come possesso stabile, per legarla indissolubilmente alla dimensione della ricerca di sensazione, appare evidente che
neppure noi possiamo studiare la sua opera con la pretesa di trovarvi una verità
comune a tutte le sue personalità, che appartengono già all’ambito della finzione,
dell’esser altro. La chiave che il Poeta stesso ci ha fornito non dice affatto di intrinseche concordanze di pensiero fra i suoi eteronimi, al contrario, ha lo scopo di
mantenere ben separati i personaggi del dramma: quelle che indica sono solo le
modalità in cui sorge tutta la moltitudine. L’arte come espressione drammatica
salvaguarda, pertanto, l’impossibilità ad essere univoco di un uomo, il quale, per
natura e per ingegno, è, e decide di essere, una moltitudine: “Quem, que seja português, pode viver a estreiteza de uma só personalidade, de uma só nação, de uma
só fé?” Ecco la domanda che Pessoa pone a tutt’oggi.
L’artista non è il compositore di questa o quella poesia, con questa o quella
determinata visione del mondo, con questo o quel particolare stile; egli non è un
solo scrittore, ma “tutta una letteratura”: “Só quando o indivíduo se converte, pela
inteligência, em um pequeno universo, tem matéria, na impressão, em que assim
se converte, para fazer o que chamamos arte”498.
Abbiamo letto e analizzato gli scritti di Pessoa proprio lasciandoci guidare
dall’unico principio che egli ammette: non avere opinioni fisse, espressione paradossale del suo abbandono alla molteplicità delle sensazioni. Perciò:
more, o perché è consumato dall’arte. Deve essere sincero nell’amore o nell’arte; non può essere
illustre in nessuna di queste due cose in altro modo. Può bruciare dentro; può bruciare fuori, senza
pensare all’amore che sta immaginando. Ma deve ardere in qualche modo”, F. Pessoa, Heróstrato
e a Busca da Imortalidade, cit., p. 150.
498
“Solo quando l’individuo si converte, grazie all’intelligenza, in un piccolo universo, ha materia,
nell’impressione, in quello che così si converte, per fare ciò che chiamiamo arte”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 191.
149
“Hoje defendo uma cousa, amanhã outra. Mas não creio no que defendo hoje, nem
amanhã terei fé no que defenderei. Brincar com as ideias e com os sentimentos pareceu-me sempre
o destino supremamente belo. Tento realizálo quando posso”499.
Il principio in questione, allora, più che in senso di precetto, per evitare
equivoci lessicali, deve essere inteso come “origine”, l’a)rxh/ dell’opera intellettuale di Fernando, che considera compito degno dell’intellettuale l’essere un
“criador de anarquias”500.
In una delle ultime lettere a Casais Monteiro, che gli faceva notare come
per le sue poesia non si potesse parlare di un’evoluzione, ribadisce ancora una
volta il concetto che egli ha solo una attitudine: quella del drammaturgo, cioè di
chi gioca con “sentimenti ed idee”.
“O fenomeno da minha despersonalização instintiva, a que aludi em minha carta anterior,
para explicação da existência dos heterónimos, conduz naturalmente a essa definição. Sendo
assim, naõ evoluo: VIAJO. (Por um lapso da tecla das maiúscolas, saiu-me sem que eu quisesse
essa palavra em letra grande. Está certo, e assim deixo ficar). Vou mudando de personalidade, vou
(aqui é que pode haver evolução) enriquecendo-me na capacidade de criar personalidade novas,
novos tipos de fingir que compreendo o mundo, ou, antes, de fingir que se pode compreendê-lo.
Por isso dei essa marcha em mim como comparável, não a uma evolução, mas a uma viagem: não
subi de um andar para outro; segui, em planície, de um para para outro lugar. Perdi, é certo,
algumas simplezas e ingenuidades, que havia nos meus poemas de adolescência; por isso, porém,
não é evolução, mas envelhecimento”501.
499
“Oggi difendo una cosa, domani un'altra. Ma non credo in ciò che difendo oggi, né domani avrò
fede in quello che difenderò. Giocare con le idee e con i sentimenti mi è sembrato da sempre destino sommamente bello. Quando posso provo a realizzarlo”, F. Pessoa, Obra em Prosa de Fernando
Pessoa. Escritos íntimos, cartas, e páginas autobiográficas, cit., p. 46.
500
“Creatore di anarchie”, ibid., p. 46.
501
“Il fenomeno della mia spersonalizzazione istintiva, alla quale ho alluso nella mia lettera precedente, per la spiegazione dell’esistenza degli eteronimi, conduce naturalmente a questa definizione. Essendo così, non evolvo: VIAGGIO. (Per un lapsus del tasto delle maiuscole, mi è uscita,
senza che lo volessi, la parola in caratteri grandi. È giusto, e così la lascio). Cambio personalità (è
qui che ci può essere evoluzione) arricchendomi nella capacità di crearne di nuove, nuovi modi di
fingere che comprendo il mondo, o, prima, di fingere che si possa comprenderlo. Perciò ho dato
questa marcia in me come comparabile, non a un’evoluzione, ma a un viaggio: non sono salito da
un piano all’altro; sono passato, in piano, da un luogo ad un altro. Ho perso, sicuramente, alcune
semplicità e ingenuità, che c’erano nelle mie poesie dell’adolescenza; questo, però, non è evoluzione, ma invecchiamento”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 350.
150
Con l’ironia che spesso lo contraddistingue quando gli tocca di parlare di
sé ai suoi amici, Pessoa salda chiaramente la sua poetica alla creazione di altre
personalità, la quale non è che il viaggio sperimentale della sua intellettualizzazione di sensazioni. La poesia, perciò, si rivela indice dei cambiamenti di luogo della
coscienza di Fernando e indizio, forse, di un’istabilità mentale che non appartiene
tanto alla sfera della volontà, quanto sembra appartenere, invece, all’indole naturale del Poeta. Ma si tratta solo di un indizio?
3.3.1 – Valenza artistica di una patologia
Fernando Pessoa durante tutta la sua vita è stato vittima di numerose crisi
psichiche. In una occasione, particolarmente eclatante, chiede perfino di essere internato in un manicomio:
“Creio estar sofrendo um acesso – ligeiro, suponho, e, se assim é, curavel – de loucura
psicasténica. Como, se é certo o que de mim presumo – e se não é certo, é provavel que o meu
diagnóstico de leigo seja brando –, é recomendável o internamento em manicómio, e o Decreto de
11 de Maio de 1911 permite, num número qualquer de um dos seus artigos, que o próprio doente
requira esse internamento, vinha pedir-lhe o favor de me dizer como e a quem esse requerimento
se faz, e com que documentos, se alguns são desde logo precisos, deve ser fundamentado”502.
Della lettera, inviata ad un destinario sconosciuto e datata 31 agosto 1925,
non si sa se essa sia stata poi effettivamente spedita. Quello che può interessarci è
che il Poeta, nel tentativo di auto-analizzarsi, definisce il suo male psichico “pazzia psicastenica”.
La psicastenia, come è stata tematizzata dal medico e psicologo francese
Pierre Janet (1859-1947), appare essenzialmente un disturbo dell’apprendimento
del reale. La struttura del sistema nervoso, articolato in funzioni superiori e fun502
“Credo che sto soffrendo di un attacco – leggero, suppongo, e, se così è, curabile – di pazzia
psicastenica. Poiché, se è certo ciò che presumo di me – e se non è certo è probabile che la mia
diagnosi da profano sia blanda, è raccomandabile l’internamento in manicomio, e il decreto
dell’11 maggio 1911 permette, in non so che numero dei suoi articoli, che sia lo stesso paziente a
richiedere l’internamento, vengo a chiederle il piacere di informarmi su come si faccia la richiesta,
e con quali documenti, se qualcuno sia necessario da subito, deve essere giustificato”, F. Pessoa,
Correspondência. 1923-1932, cit., p. 88.
151
zioni inferiori, deve la sua stabilità ad una correlazione armonica delle sue funzioni. Ognuna delle due funzioni richiede, poi, un determinato livello di energia,
maggiore in quella superiora, minore nell’inferiore. Là dove si ha un abbassamento dell’energia nelle funzioni superiori, predisposte alla percezione e all’elaborazione della realtà, si manifesta la psicastenia come stato di depressione.
Ma questa non è certo la prima definizione che Pessoa prova a dare della
sua condizione psichica. Già nel 1919, in una lettera ai fratelli Durville503, famosi
magnetizzatori, aveva scritto di sé come di un “istero-nevrastenico”:
“Au point de vue psychiatrique, je suis um hystéroneurasthénique, mais, heureusemente,
ma neuripsychose est assez faible; l’élément neurasthénique domine l’élément hystérique, et cela
fait que je n’aie pas de traits hysterique extérieurs – aucun besoin du mensonge, aucune instabilité
morbide dans les rapport avec les autres, etc. Mon hystérie n’est qu’intérieur, elle n’est que bien à
moi; dans ma vie avec moi-même j’ai toute l’instabilité de sentiments et de sensations, toute l’oscillation d’émotion et de volonté que caractérisent la névrose protéiforme”504.
E la lettera prosegue con l’indicazione dell’elemento di instabilità e mutevolezza rappresentato dall’isteria:
“Excepté dans les choses intellectuelles où je suis arrivé à des conclusion que je tiens
pour sûres, je change d’avis dix fois par jour; je n’ai l’esprit assis que sur des choses où il n’y a pas
possibilité d’émotion. Je sais que penser de telle doctrine philosophique, ou de tel problème
503
Hector ed Henry Durville erano due famosi “magnetizzatori” che, a Parigi, sul finire dell’Ottocento, avevano fondato l’École pratique de Massage et de Magnetisme. Il magnetismo fu l’importante movimento filosofico, scientifico e terapeutico fondato dal medico austriaco Franz Anton
Mesmer (1734-1815) con l’opera Mémoire sur le découvert du magnétisme animal (Memoria sulla
scoperta del magnetismo animale, 1779). Egli riteneva che i corpi, più delle calamiti, trasmettono
un’energia, un “fluido”, in grado di agire sugli altri organismi e di esercitare un’azione terapeutica
per il ristabilimento del livello di tale supposto “fluido”, là dove carente. I magnetizzatori cercarono allora con il loro fluido di irrorare il corpo dei pazienti, in sedute individuali e che, in seguito,
divennero collettive e a distanza.
504
“Dal punto di vista psichiatrico, io sono un istero-nevrastenico, ma, felicemente, la mia neuropsicosi è piuttosto debole; l’elemento nevrastenico domina l’elemento isterico, e ciò fa che io non
mostri dei tratti isterici esteriori – nessun bisogno di menzogne, nessuna instabilità malata nei rapporti con gli altri, ecc. La mia isteria non è che interiore, essa non si manifesta che a me; nella mia
vita con me stesso io ho una completa instabilità dei sentimenti e delle sensazioni, una totale oscillazione dell’emozione e della volontà che caratterizzano la nevrosi proteiforme”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922, cit., p. 286.
152
littéraire; je n’ai jamais eu d’opinion ferme sur n’importe quel de mes amis, sur n’importe quelle
forme de mon activité extérieur”505.
Anche di questa lettera non si può dire se essa sia mai stata spedita e a noi
non ne rimane che una parte. Quasi che Pessoa nel momento di chiedere aiuto ci
ripensi e si abbandoni alla ricerca di una diagnosi tra sé e sé, nel tentativo di superare il problema analizzandolo, come se la richiesta di un aiuto esterno sia finanche troppa azione per chi afferma: “L’action pèse sur moi comme um damnation;
agir, pour moi, c’est me faire violence”506.
Anche a Simões, nel 1932, Pessoa scrive che “do ponto de vista humano –
em que ao crítico não compete tocar, pois de nada lhe serve que toce – sou um
histeroneurasténico com a predominância do elemento histérico na emoção e do
elemento neurasténico na inteligência e na vontade (minuciosidade de uma,
tibieza de outra)”507. E al possibile tratto isterico-neurastenico della sua coscienza
il Poeta attribuisce anche la nascita degli eteronimi, come leggiamo nella già citata lettera del 1935 a Casais Monteiro sulla loro genesi:
“A origem dos meus heterónimos è o fundo traço de histeria que existe em mim. Não sei
se sou simplesmente histerico, se sou, mais propriamente, um histero-neurasténico. Tendo para a
segunda hipótese, porque há em mim fenómenos de abulia que a histeria, propriamente dita, não
enquadra no registro dos seus sintomas. Seja como for, a origem mental dos meus heterónimos
está na minha tendência orgânica e constante para a despersonalização e para a simulação”508.
505
“Eccetto nelle questioni intellettuali dove sono arrivato a delle conclusione che ritengo sicure,
io cambio d’opinione dieci volte per giorno; non ho lo spirito fisso che su questioni che non interessano l’emozione. So cosa pensare della tal dottrina filosofica, o del tal problema letterario; ma
non ho mai avuto un’opinione costante su non importa quale dei miei amici, su non importa quale
forma della mia attività esteriore”, ibid., p. 286.
506
“L’azione pesa su di me come una dannazione; agire, per me, vuol dire usarmi violenza”, ibid.,
p. 287.
507
“Dal punto di vista umano – che non compete analizzare al critico, poiché non gli serve a nulla
– sono un istero-nevrastenico con una preponderanza dell’elemento isterico nell’emozione e dell’elemento nevrastenico nell’intelligenza e nella volontà (minuziosità nell’una, debolezza nell’altra)”, F. Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 255.
508
“L’origine dei miei eteronimi è la profonda impronta dell’isteria che esiste in me. Non so se
sono semplicemente isterico, se sono, più propriamente, un istero-nevrastenico. Propendo per la
seconda ipotesi, perché ci sono in me dei fenomeni di abulia che l’isteria, propriamente detta, non
inquadra nel registro dei suoi sintomi. Sia come sia, l’origine mentale dei miei eteronimi risiede
nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione”, ibid., p. 340.
153
Da tutte e tre queste testimonianze la conclusione che possiamo trarre è
che Pessoa abbia ricercato una definizione per la sua particolare attitudine alla
spersonalizzazione, come la presenza degli eteronimi dimostra, e che nello stesso
tempo abbia avvertito che in lui si manifestava una condizione psichica ambivalente: da un lato l’operosità interna delle sue emozioni, che attribuisce all’isteria,
dall’altro lo stato di passività che sembra colpire la volontà, e che indica nel tratto
nevrastenico. Ma questi disturbi avvengono contemporaneamente, oppure in successione come se fossero causa ed effetto l’uno dell’altro?
Se leggiamo ancora dalla lettera a Monteiro troviamo che la tendenza alla
spersonalizzazione si manifesta quando il Poeta è ancora bambino, o più precisamente:
“Desde que me conheço como sendo aquilo a que chamo eu, me lembro de precisar
mentalmente, em figura, movimentos, carácter e história, várias figuras irreais que eram para mim
tão visíveis e minhas como as coisas daquilo a que chamamos, porventura abusivamente, a vida
real. Esta tendência, que me vem desde que me lembro de ser um eu, tem-me acompanhado
sempre, mudando um pouco o tipo de música com que me encanta, mas não alterando nunca a sua
maneira de encantar”509.
Fernando, quindi, si percepisce come “io” nell’alterità di personaggi inesistenti, nella relazione ad un “tu” mentale che ne scinde la coscienza almeno dai sei
anni in poi, come lui stesso ci racconta:
“Lembro, assim, o que me parece ter sido o meu primeiro heterónimo, ou antes, o meu
primeiro conhecido inexistente – um certo Chevalier de Pas – dos meus seis anos, por quem
escrivia cartas dele a mim mesmo, e cuja figura, não inteiramente vaga, ainda conquista aquela
parte da minha afeição que confina com a saudade. Lembro-me, com menos nitidez, de uma outra
figura, cujo nome já me não ocorre mas que o tinha estrangeiro também, que era, não sei em quê,
um rival do Chevalier de Pas”510.
509
“Da quando mi conosco come essendo colui che chiamo io, mi ricordo che ho mentalmente bisogno, in figure, movimenti, carattere e storia, di varie figure irreali che erano per me così visibili
e mie come quella che chiamiamo, forse abusivamente, la vita reale. Questa tendenza, che mi viene da quando mi ricordo di essere un io, mi ha accompagnato sempre, cambiando un po’ il genere
di musica con la quale mi incanta, ma non alterando mai il suo modo di incantare”, ibid., p. 341.
510
“Ricordo, così, quello che mi pare essere stato il mio primo eteronimo, o piuttosto il mio primo
amico inesistente – un certo Chevalier de pas – dei miei sei anni, nel nome del quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non interamente vaga, ancora conquista quella parte del mio affet-
154
Ma queste, si può obiettare, sono cose che capitano a tutti i bambini. “Sem
dúvida – risponde Pessoa – mas a tal ponto as vivi que as vivo ainda, pois que as
relembro de tal modo que me é mister um esforço para me saber que não foram
realidade”511 e a trent’anni di distanza ancora li ascolta, li sente e li vede, “repito:
oiço, sinto, vejo”512.
L’ipotizzato aspetto isterico della sua coscienza, sottolineato da Fernando,
non potrebbe suggerirci, però, che questa testimonianza, sulla naturale apparizione
degli eteronimi, non sia altro che una mistificazione?
In una qualche misura potrebbe esserlo, anche se l’esattezza del rilievo
comporta necessariamente un’analisi di tipo psichiatrico che esula dalle nostre
competenze e dall’oggetto del presente studio. Però possiamo far notare che se anche non possediamo documenti reali che comprovino la creazione di personalità
fittizie all’età di sei anni, ne possediamo invece a partire dai dodici anni di Fernando. Segno comunque di una spersonalizzazione molto precoce. A questo punto
si impone, però, una riflessione: se precedentemente abbiamo dimostrato che, in
ambito artistico, la spersonalizzazione degli eteronimi è il frutto dell’intellettualizzazione delle sensazioni, il dire ora che essa è frutto di una possibile isteria toglie
al procedimento letterario ogni elemento di volontarietà. Infatti l’ipotizzata isteria
in questione, richiamandosi esplicitamente ad una sua influenza sulla mutevolezza
di tutto ciò che interessa le sensazioni, dice in altri termini del fondamento dell’arte drammatica di Fernando Pessoa. Se poi l’isteria viene relegata dal Poeta alla
sola sfera emotiva, forse essa si discosta dal concetto generale di isteria ben analizzato tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
In quegli anni lo studio dell’isteria trova finalmente un suo spazio all’interno dell’analisi scientifica. Con il neurologo francese Jean Martin Charcot
(1825-1893) le lezioni sull’isteria guadagnano perfino l’onore delle cronache.
Egli, da convinto organicista, ritiene che la causa scatenante le manifestazioni
isteriche, ovvero disturbi motori, sensoriali e comportamentali, sia da ricercarsi
to che confina con la nostalgia. Mi ricordo, con meno nitidezza, di un’altra figura, il cui nome ora
non mi sovviene ma che era ugualmente straniero, che era, non so in che cosa, un rivale dello Chevalier de paz”, ibid., p. 342.
511
“Senza dubbio, ma a tal punto le ho vissute che le vivo ancora, poiché le ricordo in un modo
tale che è mistero lo sforzo che faccio per rendermi conto che non sono state reali”, ibid., p. 342.
512
“Ripeto: ascolto, sento, vedo”, ibid., p. 342.
155
nella struttura nervosa del paziente, anche se poi, in palese controsenso rispetto
alla sua eziologia clinica, per la cura, si serve della suggestione ipnotica, più vicina, nell’ambito dei disturbi psichici, alla teoria del magnetismo animale che a
quella organicista. A questa confusione tra aspetti diagnostici e terapia, che aveva
fatto definire come isteriche sia affezioni neurologiche sia manifestazioni di suggestione, cerca di porre un argine il successore di Charcot alla Sâlpetrière, Joseph
Babinski (1857-1932). Per le suggestioni, che non sono a base organica, Babinski
propone di utilizzare il termine “pithiatisme” (dalla Pizia, l’oracolo dell’antico
santuario di Apollo a Delfi) mentre il termine isteria continua ad indicare una disfunzione del sistema nervoso. È Sigmund Freud (1856-1939) che supera il modello organicista per un nuovo modello, di tipo “ideogeno”: l’origine dell’isteria
non si dà nel funzionamento del sistema nervoso, ma si trova nello sviluppo psicosessuale dell’individuo. Il termine ritorna così ad occuparsi dell’isteria come suggestione, in maniera ben differente e meglio organizzata rispetto a Charcot, per
passare ad indicare una nevrosi di difesa dell’individuo, nevrosi che non implica
nessuna degenerazione o indebolimento del sistema nervoso.
Pessoa, invece, non appare per nulla preoccupato di ricostruire un’eziologia precisa della sua eventuale isteria. Quando qualcuno prova a farlo per lui, vedi
Gaspar Simões, ne critica aspramente il tentativo. Soprattutto, in questo caso, a
Fernando interessa togliere ogni dubbio sulla possibile causa “ideogena” dell’eteronimia. A tal proposito si rivolge la critica contro il paradigma freudiano applicato all’interpretazione di un artista: nessun trauma infantile è fonte dell’arte.
Fonte dell’arte è invece l’intellettualizzazione delle sensazioni, il modo in
cui le sensazioni sono presenti nella coscienza quali frutto di analisi e immaginazione. Così, specifica Pessoa, è questo particolare modo di essere presenti delle
sensazioni che genera in lui sofferenza:
“Estou num destes momentos em que tudo perde o sabor a vida que tem e em que adoece
dentro de nós o nosso modo de sentir as coisas; repare que eu digo que adoece, não as sensações,
mas o modo como elas são sensações”513.
513
“Mi trovo in uno di questi momenti in cui tutto perde di sapore, la vita che ha e in cui si ammala
dentro di noi il nostro modo di sentire le cose; faccia attenzione che dico che si ammala, non le
sensazioni, ma il modo con cui esse sono sensazioni”, F. Pessoa, Correspondência. 1905-1922,
cit., p. 112.
156
Il riferimento di Pessoa all’isteria dice allora dell’ “essere tutto in tutti i
modi”, della sua coscienza frammentata, del suo non essere altro che una macchina per esprimere tutti gli stati possibili dell’anima:
“Havendo-me habituado a não ter crenças nem opiniões, não fosse o meu sentimento
estético enfraquecer, em breve acabei por não ter qualquer personalidade, excepto uma
personalidade expressiva; transformei-me numa mera máquina apta a exprimir estados de espírito
tão intensos que se converteram em personalidade e fizeram da minha própria alma a mera casca
da sua aparência casual”514.
A questo livello l’artista, il genio, si differenzia dall’uomo comune e
dall’artista qualunque: una diversità che fa del vero artista un “doente” (“malato”),
il quale “deve, visto que a natureza o faz doente, visto que ela só através da
doença o possibiliza artista, viver inteiramente essa sua doença, cumprir
integralmente a vontade da Natureza, seguindo á risca o papel de doente que ela
lhe distribuiu no drama absurdo da Vida”515. Il minimo di eziologia ammesso da
Pessoa è proprio nel considerare la frammentazione coscienziale del poeta come
un fattore naturale.
E per questo motivo Fernando non chiede di essere guarito nella sua attitudine naturale ad intellettualizzare le sensazioni in maniera anormale. Ai fratelli
Durville scrive infatti che “en tant que telle, et parce qu’elle est sous contrôle,
mon emotivité ne me fait pas de mal; je l’aime même beaucoup parce qu’elle m’est utile pour la vie litteráire que je mène à côté de ma vie pratique” 516. Di questo
egli non vuole cambiare nulla: “Le mal n’est pas là”517.
514
“Poiché mi sono abituato a non avere credi né opinioni, non ne risulti indebolito il mio sentimento estetico, in breve sono pervenuto al non avere nessuna personalità, eccetto una personalità
espressiva; mi sono trasformato in una mera macchina atta ad esprimere stati dello spirito così intensi che si sono convertiti in personalità e hanno fatto della mia propria anima il mero guscio della loro apparenza casuale”, F. Pessoa, Páginas íntimas e de auto-interpretação, cit., p. 214.
515
“Deve, visto che la natura lo fa malato, visto che essa solo attraverso la malattia lo possibilita ad
artista, vivere interamente questa sua malattia, compiere integralmente la volontà della natura, seguendo alla lettera il ruolo di malato che gli ha dato nel dramma assurdo della vita”, F. Pessoa,
Correspondência. 1905-1922, cit., p. 228.
516
“Mentre perdura, e poiché è sotto controllo, la mia emotività non mi fa affatto male; al contrario
l’amo molto perché mi è utile per la vita letteraria che conduco affianco della mia vita pratica”, F.
Pessoa, Correspondência. 1923-1935, cit., p. 286.
517
“Il male non è là”, ibid., p. 286.
157
Quello che egli chiede, e che nello stesso chiedere si dimostra debole, è di
“magnetizzare” la sua coscienza, di ottenere dell’energia psichica per sorreggere
lo sforzo di frammentazione e di molteplicità coscenziale, affinché sia sviluppata
anche la parte volontaristica della sua psiche.
La psicastenia e la nevrastenia dicono proprio di una debolezza del sistema
nervoso, dove la psicastenia è un approfondimento della sintomatologia che ha in
comune con la nevrastenia. Quest’ultima, tematizzata per la prima volta dal medico americano George Beard (1839-1883) tra il 1868 e il 1880, sta ad indicare infatti la scarsa quantità di energia nervosa di alcuni uomini e la loro conseguente
“diminuita efficienza nelle prestazioni fisiche e psichiche”518. Anche i termini psicastenia e neurastenia sembrano essere utilizzati da Pessoa più per descriverne i
sintomi che per una più approfondita indicazione eziologica. Ed in tal senso appare omnicomprensivo e privo di equivoci il riferimento all’abulia, ovvero a quell’indebolimento della volontà, che consegue ad una non meglio specificata carenza di energia nervosa.
L’aspetto nevrastenico di Pessoa si manifesta, quindi, come incapacità ad
agire e, a João Lebre e Lima, lo paragona ad una mano che gli strangola l’anima:
“Neste dia de sol, claro e simples, assaltou-me um tédio de tal maneira profundo que não
o posso exprimir senão expondo-lhe que sinto uma mão a estrangular-me a alma”519.
Fernando parla di tedio e anche di depressione per indicare la sua carenza
di volontà. Così, a Jaime Cortesão il 22 gennaio 1913 il Poeta comunica che si
trova a vivere un periodo completamente tragico, “em que sou o Atlas
involuntário de um mundo de tédio, que quase fisicamente e localmente me pesa
sobre os ombros”520 e ad Armando Cortes Rodrigues il 4 ottobre 1914 scrive che
“o meu estado de espírito actual é de uma depressão profunda e calma”521.
518
Dall’Introduzione di Franco Scalzone a Perché l’isteria? Attualità di una malattia ontologica, a
cura di F. Scalzone e Gemma Zontini, Liguori Editore, Napoli, 1999, p. 13.
519
“In questo giorno di sole, limpido e semplice, mi ha preso un tedio in tal modo profondo che
non lo posso esprimere se non dicendole che sento una mano che mi strangola l’anima”, F. Pessoa,
Correspondência. 1905-1922, cit., p. 111.
520
“L’Altante involontario di un mondo di tedio, che quasi fisicamente e ben localizzato mi pesa
sulle braccia”, ibid., p. 71.
521
“Il mio stato di spirito attuale è di una depressione profonda e calma”, ibid., p. 127.
158
Questa assenza di volontà ha l’effetto più immediato nell’incapacità ad organizzare i frammenti della sua coscienza:
“O facto é que neste momento atravesso um período de crise na minha vida. Preocupa-me
quotidianamente a necessidade de dar ao conjunto da minha orientação, tanto intelectual como
«existente na vida», uma linha metódica e lógica. Quero disciplinar a minha vida (e,
consequentemente, a minha obra) como a um estado anárquico, anárquico pelo próprio excesso de
«forças vivas» em acção, conflito e evolução interconexa e divergente. Não sei se estou sendo
perfeitamente lúcido. Creio que estou sendo sincero. Tenho pelo meno aquele amargo de espírito
que é trazido pela prática anti-social da sinceridade. Sim, eu devo estar a ser sincero”522.
La volontà, infatti, solo la volontà “convert our casual thought into a system and thus give it a body”523. E non si tratta che di una volontà sull’esteriore, la
quale non implica altro che azione: “C’est la volonté d’action, la volonté sur l’extérieur, qui me manque; c’est faire qui m’est difficile”524.
Una carenza di tal sorta non può che togliere ogni futuro al Poeta per lasciarlo immerso in un presente frammentato di istanti, la cui frammentazione è
causa di immobilità:
“Escrevo-lhe hoje por uma necessidade sentimental – uma ânsia aflita de falar consigo.
Como de aqui se depreende, eu nada tenho a dizer-lhe. Só isto – que estou hoje no fundo de uma
depressão sem fundo. O absurdo da frase falará por mim. Estou num daqueles dias em que nunca
tive futuro. Há só um presente imóvel com um muro de angústia em torno. A margem de lá do rio
522
“Il fatto è che in questo momento attraverso un periodo di crisi nella mia vita. Mi preoccupa
quotidianamente la necessità di dare all’insieme del mio orientamento, tanto intellettuale come
«esistente nella vita», una linea metodica e logica. Voglio disciplinare la mia vita (e, di conseguenza, la mia opera) come uno stato anarchico, anarchico per il proprio eccesso di «forze vive» in
azione, conflitto ed evoluzione interconnessa e divergente. Non so se sono perfettamente lucido.
Credo che sto parlando sinceramente. Ho per lo meno quell’amaro nello spirito che è prodotto dalla pratica antisociale della sincerità. Sì, mi trovo ad essere proprio sincero”, ibid., pp. 120-121.
523
“Convertirà il nostro pensiero casuale in un sistema, dandogli, così, corpo”, F. Pessoa, Heróstrato e a Busca da Imortalidade, cit., p. 132.
524
“È la volontà d’azione, la volontà sull’esteriore, che mi manca; il fare mi è difficile”, F. Pessoa,
Correspondência. 1905-1922, cit., p. 287 (corsivo dell’autore).
159
nunca, enquanto é a de lá, é de cá; e é esta a razão íntima de todo o meu sofrimento. Há barcos
para muitos portos, mas nenhum para a vida não doer, nem há desembarque onde se esqueça”525.
In sintesi, quindi, Pessoa si scopre in balia di una patologia che nomina,
forse maldestramente, isteria, e che ha i caratteri di una deformazione naturale del
“modo in cui si hanno le sensazioni”. Il “sentire tutto in tutte le maniere” è dunque
indice di una sua alterazione coscienziale, i cui effetti sono una frammentazione
continua. Mário Saraiva526, psichiatra portoghese, a riguardo della frammentazione
di Pessoa parla esplicitamente di schizofrenia. Se la conclusione sia corretta o
meno non sta a questo studio dimostrarlo: il campo dal filosofico sconfinerebbe
nel clinico. Soprattutto potrebbe farci perdere di vista che l’aspetto umano di Pessoa è stato indagato solo per capire quanto siano frutto di volontà o meno gli eteronimi. Se essi sono il risultato di una intellettualizzazione psicotica delle sensazioni, quindi involontaria, l’aspetto dell’abulia ci richiama al fatto che Pessoa
stesso ne ricerca una volontarietà, ovvero un’organizzazione. Una volontarietà,
però, che, facendoli organismi completi, li mostri davvero come “altri”, rispetto a
se stesso. Una volontarietà che in realtà non si darà mai a completazza, assalita
dallo strabordare della spontaneità della frammentazione.
3.3.1 – La religione della coscienza plurale
La poesia di Fernando Pessoa deve la sua origine, quindi, ad una frammentazione coscienziale del proprio autore. È l’abnorme capacità di intellettualizzare le sensazioni che ne determina una deflagrazione mai vista, fino ad ora, nella
storia della letteratura. Il fatto che si tratti di una particolare patologia, come afferma M. Saraiva527, non svaluta affatto il talento di chi la compone. Tutt’al più
525
“Oggi le scrivo per una necessità sentimentale – un’ansia afflitta di parlare con lei. Come da qui
si capisce, io non ho niente da dirle. Solo questo – che oggi mi trovo nella profondità di una depressione senza fondo. L’assurdità della frase parlerà per me. Sono in uno di quei giorni in cui non
ho mai avuto futuro. C’è solo un presente immobile con un muro di angustia intorno. La riva dall’altra parte del fiume non è mai, in quanto di là, da questa parte; ed è questa la ragione intima di
tutta la mia sofferenza. Ci sono barche per molti porti, ma nessuna per il non soffrire della vita, né
c’è una possibilità di sbarcare dove si dimentichi”, ibid., p. 208.
526
Si leggano a tal proposito i testi O Caso Clínico de Fernando Pessoa, posfácio de Luís Duarte
Santos, Ed. Referendo, Lisboa, 1990 e Pessoa. Ele próprio, Clássica Editora, Lisboa, 1992.
527
M. Saraiva, Pessoa. Ele próprio, cit., p. 90.
160
potrà richiedere degli approfondimenti specialistici in futuro, indipendenti dall’aspetto letterario. Indipendente solo perché l’arte non si risolve totalmente nell’intellettualizzazione delle sensazioni, dove “fondarsi” non vuol dire “esaurirsi” appunto.
L’arte comporta anche espressione e l’espressione si dà come costruzione,
una costruzione intimamente determinata dal contenuto che esprime. E nel nostro
caso specifico l’arte è la costruzione, o l’organizzazione, di sensazioni intellettualizzate: si tratta di arte drammatica. Senza organizzazione, infatti, non ci sarebbe
propriamente un oggetto artistico vivo, il quale è tale solo se è capace di divenire
esso stesso percepito e percipiente. Per Pessoa dunque il problema appare chiaro:
organizzare la sua naturale e anormale attitudine a intellettualizzare le sensazioni
in oggetti artistici, capaci sia di generare sensazioni sia di percepirne. Gli eteronimi dicono di questo duplice aspetto oggettuale e soggettuale dell’avvenimento
artistico pessoano.
La poesia eteronima viene pertanto organizzata in personaggi. Si creano
caratteri, biografie, firme e oroscopi in modo che “ciascuno sia una specie di
dramma”, un frammento organico della coscienza deflagrata. Ogni eteronimo è,
dunque, insieme di involontarietà e di volontarietà, la cui finzione risiede prima di
tutto nell’essere una sensazione intellettualizzata, altra rispetto a quella originariamente percepita, determinata perciò non volutamente e in un certo senso subita.
È nel subire di Pessoa la spersonalizzazione, la deflagrazione, che risiede la sua
stanchezza nervosa. Stanchezza che da un lato è frutto dell’attività di intellettualizzazione delle sensazioni e dall’altro dello sforzo nell’organizzarne espressivamente i contenuti.
Ma per l’arte drammatica non è sufficiente che i frammenti organici della
coscienza di Pessoa, gli eteronimi, siano solo in se stessi degli oggetti completi,
come isolati. È anche necessario, affinché la costruzione delle personalità sia veramente completa, e la finzione totale, che essi interagiscano fra di loro.
A tal proposito la costruzione “do outro drama” prevede che essi costituiscano un movimento religioso chiamato “neopaganesimo portoghese”. E al movimento, giustamente, in quanto attore anch’egli del dramma, partecipa lo stesso
Fernando Pessoa. Perché, però, è nella costruzione di un movimento neopagano
161
che Pessoa impiega gli sforzi poetici e filosofici dei suoi personaggi e di se
stesso? Perché in una religione e, soprattutto, in questa religione particolare?
Il neopaganesimo, abbiamo visto, dice di un movimento per nulla compatto, frazionato com’è in due correnti, e che però deve pur mostrare una qualche
concordanza al suo interno. Su cosa danno il loro comune assenso gli scritti dei
neopagani?
Forse sulla risposta alla domanda “che cosa è il mondo”? E come potrebbe
essere, dato che ognuno risponde in maniera differente?
Forse che sia la lotta al “cristismo” l’elemento di unità che ricerchiamo? Il
cristianesimo rappresenta effettivamente per tutti i neopagani un nemico da combattere, ma le differenti modalità con cui deve svolgersi questa lotta ci fanno
escludere che la lotta al “cristismo” sia l’elemento di concordanza del neopaganesimo.
Oppure si tratta del politeismo, professato sia dagli ortodossi che dall’eterodosso Pessoa? Credono tutti nella pluralità degli dei? Tutti parlano degli dei,
certo, anche se le definizioni che danno di essi mutano costantemente. Per Alberto
Caeiro gli dei sono semplicemente corpo, un corpo il cui spazio è anche anima:
“Por isso se diz que os deuses nunca morrem.
Por isso os deuses não têm corpo e alma
Mas só corpo e são perfeitos.
O corpo é que lhes é alma
E têm a consciência na própria carne divina”528.
Ricardo Reis parla degli dei come di coloro che, dialogando con gli uomini, fanno esistere le cose e tra le cose si nascondono e chiedono culto, non conoscienza, perché esistono al di sopra della verità:
“Acima da verdade estão os deuses.
A nossa sciencia é uma falhada copia
528
“Perciò si dice che gli dei non muoiono mai. / Per questo gli dei non hanno corpo e anima / Ma
solo corpo e sono perfetti. / È il corpo che gli è anima / E hanno la coscienza nella loro carne divina”, O Penúltimo Poema, in F. Pessoa, Poemas completos de Alberto Caeiro. Préfacio de Ricardo
Reis. Posfácio de Álvaro de Campos, cit., p. 151.
162
Da certeza com que elles
Sabem que ha o Universo.
Tudo é tudo, e mais alto estão os deuses
Não pertence á sciencia conhecel-os,
Mas adorar devemos
Seus vultos como ás flores,
Porque visiveis á nossa alta vista,
São tão reaes como reaes as flores
E no seu calmo Olympo
São outra Humanidade”529.
Campos, invece, vede la pluralità degli dei come conseguenza del suo essere tutto proteso verso le sensazioni delle cose. È la sua forza immaginativa che
gli fa ammettere: “E ha em cada canto da minha alma um altar a um deus differente”530. Ed è la stessa furia che gli fa credere di essere lui stesso un dio, un dio di
un culto al contrario:
“Era preciso ser Deus, o Deus dum culto ao contrário,
Um Deus monstruoso e sâtanico, um Deus dum pantheismo de sangue,
Para poder encher toda a medida da minha fúria imaginativa,
Para poder nunca esgotar os meus desejos de identidade
Com o cada, e o tudo, e o mais-que-tudo das vossas vitórias!”531.
529
“Al di sopra della verità stanno gli dei. / La nostra scienza è una copia fallita / Della certezza
con la quale loro / Sanno che c’è l’universo. // Tutto è tutto, e più in alto si trovano gli dei / Non
compete alla scienza conoscerli, / Ma dobbiamo adorarne il volto / come per i fiori, // Perché visibili alla nostra vista, / Sono tanto reali come reali sono i fiori / E nel loro calmo Olimpo / Sono altra umanità”, 51-20r, F. Pessoa, Poemas de Ricardo Reis, Edição crítica de Fernando Pessoa, cit.,
p. 114.
530
“E in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente”, 70-15 v, A Passagem das
Horas, in F. Pessoa, Poemas de Álvaro de Campos. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p.
150.
531
“Era necessario essere Dio, il Dio di un culto al contrario, / Un Dio mostruoso e satanico, un
Dio di un panteismo di sangue, / Per poter riempire tutta la misura della mia furia immaginativa, /
Per poter non esaurire mai i mei desideri di identità / Con l’ogni, e il tutto, e il più-che-tutto delle
vostre vittorie!”, Ode Marítima, ibid., p. 96 (corsivo mio).
163
Il filosofo Mora ritiene che gli dei siano il primo grado dell’astrazione, rapresentino cioè quelle “idéas humanas em passagem de noções concretas para
idéas abstractas”532.
Per Fernando Pessoa sono gli dei e il destino che reggono il mondo senza
che gli uomini abbiano una ragione o una volontà:
“Mas nós, todos
Effeitos, em nada nosso, alma e gesto
Filhos dos deuses e do ser superior,
Filhos do Fado obscuro, sem razão
Senão para só ver, sem ter vontade,
Senão para cumprir, sem ter vontade,
O que os deuses vão mandar que queiramos,
O que o Destino quis que elles mandassem”533.
Ma forse non lo reggono così per caso, poiché lo stesso dio sembra non sapere cosa sia l’esistere:
“Como é que qualquer cousa pode ser,
Como é que existe o ser e o haver,
Como é que ha o que ha um ser qualquer –
Isto nem eu nem Deus sabe dizer.
Porisso, attento di ignorar tudo,
O melhor é ser solemne, calmo e mudo
Cheio de tudo, e vida e espanto”534.
532
“Idee umane in passaggio dalle nozioni concrete alle idee astratte”, 21-58r, F. Pessoa, Obras de
António Mora. Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 238.
533
“Ma noi, tutti / Effetti, per niente nostri, anima e gesto / Figli degli dei e dell’essere superiore, /
Figli dell’oscuro fato, senza ragione / Se non per vedere, senza aver volontà, / Se non per compiere, senza avere volontà, / Ciò che gli dei ci mandano che vogliamo, / Ciò che il destino ha voluto
che loro ci mandassero”, 144G-58r-v, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1921-1930. Edição
crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 13.
534
“Come è che qualche cosa possa essere, / Come è che esiste l’essere e l’esserci, / Come è che
c’è quello che è un essere qualsiasi – / Questo né io né Dio lo sappiamo dire. / Per questo, attento
ad ignorare tutto, / La cosa migliore è essere solenne, calmo e muto / Pieno di tutto, di vita e di stupore”, 47-19r, F. Pessoa, Poemas de Fernando Pessoa. 1933-1934. Edição crítica de Fernando
Pessoa, cit., p. 179.
164
A questo punto però dobbiamo chiederci se non siano lecite tutte le definizioni che si danno degli dei, come sosteneva Caeiro, per il semplice fatto che esse
sono racconti, miti, e non c’è un contenuto narrativo superiore ad un altro, ma
solo una pluralità di racconti. In questo senso comprendiamo perché Pessoa afferma che l’essenza del paganesimo si dà “nas pluralidade dos deuses como essencia da mythologia”535. Se ciò che conta allora non è tanto chi sono gli dei e
cosa fanno, ma quanti sono i racconti che se ne danno, il neopaganesimo è politeista nel senso che esprime una pluralità di racconti e l’accordo generale dei neopagani sembra proprio essere su questo punto, sebbene non tematizzato in maniera
esauriente.
Se poi riflettiamo come gli stessi neopagani non siano altro che la pluralità
dei drammi, o racconti, di una coscienza frammentata, comprendiamo bene che il
neopaganesimo è quel movimento che indica l’arte stessa di Fernando Pessoa,
quest’ultima quasi paragonabile al lavoro di una ricamatrice:
“A uma bordadora dum país longiquo foi encomendado pela sua rainha que bordasse,
sobre seda ou cetim, entre folhas uma rosa branca. A bordadora, como era muito jovem, foi
procurar por toda a parte aquela rosa branca perfeitíssima, em cuja semelhança bordasse a sua.
Mas sucedia que umas rosas eram menos belas do que lhe convinha, e que outras não eram brancas
como deviam ser. Gastou dias sobre dias, chorosas horas, buscando a rosa que imitasse com seda,
e, como nos países longínquos nunca deixa de haver pena de morte, ela sabia bem que, pelas leis
dos contos como este, não podiam deixar de a matar, se ela não bordasse a rosa branca. Por fim,
não tendo melhor remédio, bordou de memória a rosa branca que lhe haviam exigindo. Depois de
a bordar foi compará-la com as rosas brancas que existem realmente nas roseiras. Sucedeu que
todas as rosas brancas se pareciam exactamente com a rosa que ela bordara, que cada um delas era
exactamente aquela”536.
535
“Nella pluralità degli dei come essenza della mitologia”, 24-65v, F. Pessoa, Fernando Pessoa e
o ideal neo-pagão. Subsídios para uma edição crítica, cit., p. 121 (corsivo dell’autore).
536
“A una tessitrice d’un paese lontano fu ordinato dalla sua regina che tessesse, su seta o raso, tra
delle foglie una rosa bianca. La tessitrice, che era molto giovane, andò in cerca per tutto il mondo
di quella rosa bianca perfettissima, della cui somiglianza tessesse la sua. Ma capitava che alcune
rose erano meno belle di quello che le serviva, e che altre non erano bianche come dovevano essere. Spese giorni e giorni, ore piene di lacrime, in cerca della rosa che potesse imitare con la seta, e,
poiché nei paesi lontani non manca mai di esserci la pena di morte, ella sapeva bene che, per la
legge di racconti come questi, non poteva sfuggire alla morte, se non avesse tessuto la rosa bianca.
Alla fine, non avendo soluzione migliore, tesse a memoria la rosa bianca che ricercava. Dopo d’averla tessuta andò a paragonarla con le rose bianche che esistevano realmente nei roseti. Capitò allora che tutte le rose bianche erano esattamente come quella che aveva tessuto, che ognuna di
quelle era precisamente la rosa intessuta”, Fábula, in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entre-
165
Il racconto sintetizza in maniera mirabile tutta la teoria in Fernando Pessoa
della poesia come dramma. Gli eteronimi e l’ortonimo sono quella rosa bianca,
per ricamare la quale la tessitrice va in giro per il mondo in cerca del modello.
Non trovandone uno degno e, nello stesso tempo, però, avendo osservato molto,
ella è in grado di comporla con la sua memoria, dove la memoria sembra piuttosto
l’immaginazione. Una volta intessuta la rosa, il racconto, questa diventa realtà,
corpo, carne.
Allo stesso modo la poesia di Pessoa non è che un continuo intessere trame
di figure ideali che, quando composte, possano arricchire l’universo di un po’ di
bellezza: “Quem morrendo, deixa escripto um verso bello deixou mais ricos os
ceus e a terra e mais emotivamente mysteriosa a razão de haver estrellas e
gente”537.
E si tratta di figure che vogliono esprimere le forze nascoste della psiche di
Pessoa, quell’intellettualizzazione delle sensazioni così profonda e misteriosa,
sempre in cerca di una trama che, facendole essere complete, le faccia essere miti,
oggetti creati e creanti: “Desejo ser um creador de mythos, que é o mysterio mais
alto que pode obrar alquem da humanidade”538.
vistas, cit., p. 102.
537
“Chi morendo lascia scritto un verso bello ha reso più ricchi il cielo e la terra e più emotivamente misteriosa la ragione di esserci stelle e uomini”, 20-72r, F. Pessoa, Obras de António Mora.
Edição crítica de Fernando Pessoa, cit., p. 109.
538
“Desidero essere un creatore di miti, che è il mistero più profondo che può compiere un membro dell’umanità”, 20-73r, ibid., p. 109.
166
CONCLUSIONE
Il neopaganesimo è il tentativo che Pessoa attua per dire della sua coscienza naturalmente plurale. È la religione dello stato di anarchie, di forze vive, che
organizza la frammentazione del Poeta in arte e che perciò la rende esprimibile.
Ma “organizzare” in questo senso non diventa forse sinonimo di “ricostruire”? E
cosa pretende di ricostruire Pessoa?
Ovviamente ciò che è frammentato, ovvero la sua identità. Ma la ricostruzione che egli intende non deve tradire il dato fondamentale della sua coscienza,
cioè il suo essere plurale. L’affannosa vita del Poeta si articola allora nella ricerca
di un’armonia che risuoni nello stesso tempo come disarmonia, di una parola che
sia capace di non unificare mentre indica, e nell’indicare resti plurale. Ed è proprio questa tensione che riscontriamo nell’espressione mitica dell’opera di Fernando. Una tensione che rimane costante fino agli ultimi giorni e che in quanto
tensione dice di un’incompletezza, di una mancanza. Purtroppo, infatti, né la poesia compie il suo destino, né il Poeta il suo ideale.
Il neopaganesimo, come gli scritti degli eteronimi e di tutta la restante galassia pessoana, sono incompiuti. Perfino quegli scritti che sono stati pubblicati
non lo sono stati che in maniera frammentaria. Perché per pubblicare occorre
un’organizzazione completa, totale, che dica della coscienza plurale di cui è
espressione. Ma Pessoa fallisce e ciò che di lui abbiamo è un’identità smembrata.
Egli stesso, infatti, percepisce i suoi scritti come “disjecta membra”, fallimento
del non poter esprimere la pluralità: “E o que de todos nós, artistas grandes ou
pequenos, verdadeiramente sobrevive, - são fragmentos do que não sabemos que
seja; mas que seria, se houvesse sido, a mesma expressão da nossa alma”539.
Studiare Pessoa vuol dire allora due cose: la prima ricostruirne il progetto
poetico, la seconda concentrarsi sullo stato reale della sua poesia. Se in questa tesi
l’obiettivo principale è stato quello di ricostruire il progetto pessoano, quello che
539
“E ciò che di tutti noi, artisti grandi o piccoli, veramente sopravvive sono frammenti di ciò che
non sappiamo che sia; ma che sarebbe, se ci fosse stato, la stessa espressione della nostra anima”,
O Homen de Porlock, in F. Pessoa, Crítica. Ensaios, Artigos e Entrevistas, cit., p. 492.
167
rimane da fare per il futuro è riflettere sul fallimento di Pessoa. L’affermazione
suona forse paradossale, ma nel fallimento della sua poesia, come sistematizzazione organica della pluralità della coscienza, si apre, forse, una possibilità di relazione con filosofie e arti più recenti. Con Fernando Pessoa, infatti, l’arte si ritrova in
mano degli oggetti particolari: private della possibilità di una narrazione le poesie
del Poeta sopravvivono come frammenti, figure senza più un carattere illustrativo.
Si tratta del corpo senza organi di Deleuze? Di quel corpo, cioè, che “non è definito dall’assenza di organi, né semplicemente dall’esistenza di un organo indeterminato, ma si definisce attraverso la presenza temporanea e provvisoria di organi determinati”540? Sono gli scritti di Pessoa questo corpo senza organi, espressione delle forze che sottostanno alla sensazione? Le poesie di Pessoa come i quadri di
Francis Bacon?
Certo è che un qualsiasi studio sul Poeta portoghese non può più prescindere da una ricognizione della totalità dei suoi scritti. A quasi settant’anni dalla
sua morte, l’edizione critica si è arrestata ai soli testi poetici con l’aggiunta delle
Obras de António Mora, mentre il mercato dell’editoria mondiale brulica di postcostruzioni non sempre affidabili e con notevoli varianti l’una dall’altra.
Per approfondire la conoscenza scientifica di Pessoa, allora, si dovrebbe
fare in primis la “fotografia” globale dei suoi scritti, senza escluderne, ma anzi
mettendo in conto, una quanto mai utile lemmatizzazione, che serva come punto
di partenza per ogni ricerca futura.
540
Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995, p. 106.
168
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Il teatro degli eteronimi. L`estetica di Fernando Pessoa