SALTERNUM SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ARCHEOLOGICA A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO REG. TRIB. DI SALERNO N. 998 DEL 31/10/1997 ANNO XVI - NUMERO 28-29 GENNAIO/DICEMBRE 2012 FELICE PASTORE Introduzione L tenacia di alcuni Sindaci del Centro-Nord se si è concretizzato questo sogno che ha tema e titolo ‘Italia Langobardorum. Centri di culto e di potere (568-774)’, approvato e ratificato poi dall’UNESCO come sito seriale, senza non poche difficoltà. Un’iniziativa di grande impatto mediatico e politico, ma assai carente sotto l’aspetto culturale. La dimenticanza di importanti centri di età longobarda - voluta o frutto di ignoranza storica - è stata molto grave: sono stati scelti solo sette siti. Il fatto più eclatante, tuttavia, è stato trascurare l’unico esempio rimasto in Europa di palatium longobardo, vale a dire il Complesso monumentale di San Pietro a Corte a Salerno, che fu sede del potere di duchi e principi. Questa straordinaria testimonianza di architettura longobarda, sopravvissuta all’incuria degli uomini, presenta meravigliosi resti in elevato che inglobano monofore e bifore; ad essi si affiancano i frammenti, oggi musealizzati, di un titulus dettato per Arechi II da Paolo Diacono, i resti in opus sectile di un litostrato pavimentale e di un mosaico parietale a tessere d’oro, risalenti all’VIII secolo. Le motivazioni dell’esclusione, quelle circolate in ambienti politici e istituzionali, sono state a dir poco clamorose: «questo sito è stato escluso perché non rientra nel periodo cronologico del progetto». Motivazione molto riduttiva, inaccettabile e che non fa onore agli studiosi e ai cultori della materia. Ecco perché si è scelto di pubblicare l’articolo dello storico P. Natella in questa sede e di presentarlo alla XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Anche quest’anno il Gruppo Archeologico Salernitano sarà protagonista dell’evento pestano con il Convegno Nazionale Il Santuario Longobardo di Monte Sant’Angelo e il Culto Micaelico in Italia (sabato 17 novembre), al quale interverranno i maggiori rappresentanti del progetto Italia Langobardorum e alcuni tra i massimi studiosi del Culto Micaelico. a volontà di pubblicare su questo numero di ‘Salternum’ (anno XVI, nn. 28-29) il saggio Italia e Longobardi di Pasquale Natella, in evidenza prima dell’Editoriale, ha un preciso significato politico, che trova ragione nelle attività svolte negli anni dal Gruppo Archeologico Salernitano per la valorizzazione e il riconoscimento culturale del Complesso Monumentale di San Pietro a Corte. Un monumento eccezionale nel panorama storico-artistico della Storia europea. In un primo momento si era pensato di pubblicarlo su altre Riviste specializzate, probabilmente più conosciute, poi si è ritenuto opportuno presentarlo sul nostro periodico, notiziario più radicato nel territorio, proprio perché questo saggio nasce dall’esigenza di far chiarezza (si spera in maniera definitiva!) sul ruolo strategico assunto dalla città di Salerno nella seconda metà dell’VIII secolo. Un secolo, da molti studiosi definito inquieto, che vide la disfatta dei Longobardi nell’anno 774, quando a dire di molti eruditi - Carlo Magno, il re dei Franchi chiamato in Italia dal Papato, avrebbe cancellato con un semplice gesto - quello di alzare in alto le corone longobarde e franche - l’identità del popolo sconfitto. La vittoria di Carlo ebbe il potere di indirizzare il corso della Storia in una maniera sicuramente diversa da quella che le avrebbero impresso i Longobardi se avessero conseguito la vittoria alle Chiuse di Pavia, ma non ebbe la forza di cancellare l’identità di quel popolo. A distanza di molti secoli da quell’evento, due Comuni, Cividale del Friuli e Brescia, con la stessa unità d’intenti, decisero di dar vita a un progetto, che in un certo senso vide coinvolto anche il Gruppo Archeologico Salernitano, insieme alla Società Friulana di Archeologia. La storia sarebbe troppo lunga da raccontare. In breve, il progetto doveva rendere lustro ad un’etnia, la cui storia durò non due, come alcuni continuano a sostenere, ma ben cinque secoli. Si deve alla -3- PASQUALE NATELLA Longobardi e Italia Recuperi e rinnovi sprovvisto di autenticità socio-politica. Nelle fonti longobarde o comunque occidentali non c’è traccia del sostantivo, che compare ad “Oriente”, e il suo divenire ha resuscitato uno dei maggiori longobardisti italiani, Nicola Cilento (Le origini della signorìa Capuana nella Longobardia minore, Istituto Storico Italiano p. il Medioevo, 1966, pp. 47-49) quando rammenta che Teofane scrisse dell’invìo in Longobardìa: Θεοδότου τοῦ ποτε ῥηγὸς τῆς μεγάλης Λογγιβαρδίας, “di Teodoto già re della grande Longobardìa”. L’asserzione prospetta un dato fondamentale: i Longobardi sono dal VI alla seconda metà dell’XI secolo una nazione, un’etnìa localizzata, una patria riconosciuta a livello mondiale, massime a Bisanzio ove, come tutti gli altri potenti si continuava a ritenere l’Italia res nullius, e se ne dichiaravano padroni e donni ora Bisanzio stessa come lascito dell’Impero Romano post teodosiano, ora i Papi per il trattato del 754 di Quierzy, ora i Franchi ultimi conquistatori. Frammezzo a questi intrighi i non esigui Longobardi andati via dalle Chiuse, da Pavia, da Brescia, da Verona guardavano a zone ove loro fratelli s’erano sviluppati, e nell’866 Adelchi di Benevento riconobbe come il principe Arechi II di Benevento-Salerno avesse retto fra il 762 e il 787 le reliquie del suo popolo nobiliter et honorifice, due avverbi non scritti pro forma ma che dimostravano al contempo appartenenze a sistemi giuridici in uso da Alboino in poi, duchi, conti, marepahis, gastaldi longobardi, e continuazione sostanziale della predetta patria tramite l’aiuto divino che “Italiae regnum genti nostrae langobardorum subdidit /consegnò il regno d’Italia alla nostra gente di Longobardi”. Solo una, appunto, leguleistica cronologia riterrebbe non fondati tali uomini e principii in base alla circostanza che tutto viene a mancare quando si forma un altro governo che, badiamo bene, perché non risorga il precedente deve, esplicitamente, nei fatti annientar- Premessa N el Dicembre del 2011 è trascorsa la commemorazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Ci siamo di nuovo riconosciuti nazione comune, come del resto proprio per i Longobardi aveva intuito il Manzoni quando in essi aveva intravisto un concetto portato a termine, nascita cioè d’un popolo, l’italiano, che per cinque e non due secoli era stato formato dal progredire delle sue regioni. Nel preparare l’Adelchi Manzoni li aveva studiati con i mezzi della più recente storiografia del tempo, muratoriana e straniera, e le pagine della tragedia manzoniana sono un documento delle origini dell’Italia, o meglio di quella che sarebbe dovuta diventare l’Italia. Da qualche tempo l’inquadramento generale dei Longobardi risente di fratture, forse anche ingenerate da equivoci politici, contro cui la critica storica non ha affilato le armi di risposta. C’è bisogno di un aggiustamento che porti ad una revisione di giudizi storici. Vedo, infatti, una sorta di leguleismo storiografico che possiamo velocemente indicare come normalizzazione formalistica del popolo longobardo, ritenuto finito dopo la sconfitta di Desiderio e vagamente sopravvissuto in qualche frangia esterna d’Italia. Il longobardo non è un popolo che sopravviva sparso, vicatim, alla vittoria di Carlo Magno ma riorganizza proprio in quelle frange un governo autonomo, e ad esso si riferivano le intenzioni manzoniane nella figura di Adelchi che ai suoi prospetta un futuro etnico - politico da preparare altrove, com’egli nei fatti tenta nel richiedere all’imperatore di Bisanzio una tuitio, divenuta subito operativa. E’ con l’accettazione da parte di Bisanzio di Teodòto, ovverosia del nome nuovo che i greci danno ad Adelchi, che parte la stessa nozione di Longobardìa, ed essa viene sù proprio quand’egli passa per Salerno, nel Sud, territorio che si riterrebbe Per espressa volontà dell’Autore, il testo non è stato sottoposto ad alcuna revisione da parte del Comitato Scientifico di ‘Salternum’. L’ A. è altresì responsabile delle scelte redazionali non conformi a quelle adottate dalla Rivista. -5- SALTERNUM monio nel 762, a destreggiarsi avvedutamente costruendo castelli e cinte murate, pronto a far vedere all’intero mondo ciò di cui era capace, se non proprio un re di certo un suo alter ego. lo, o fisicamente secondo tecniche note oppure mai più esplicitamente ricordarlo, rielaborarlo, studiarlo, perdonarlo. Perché Carlo Magno non lo fece?, Perché era cattolico convinto?, E le sue varie stragi e vendette belliche?, E perché del popolo vinto scelse di autonominarsi rex Langobardorum?. Una risposta politica è subito pronta: non aveva tempo, e quello che gli rimaneva doveva spenderlo contro Avari, bizantini e “orientali”. Dichiararsi re bastava. Troppo semplice. L’Italia non era una steppa, un’arida provincia di bestie da soma. Carlo dové accorgersi di aver agito in un contesto che si sarebbe diversificato solo con formidabili ricambi, ma non era sicuro né di poterlo fare di persona pur in presenza del suo lungo governo né che avrebbero saputo farlo i suoi figli. Duecento anni erano bastati per costruire un’etnìa consolidata, di cui ad ogni piè sospinto si vedevano le tracce. E nessuno avrebbe rinunciato al proprio sangue. Questo era longobardo speciale. A Salerno era stata portata dal marito, principe Arechi II, la di costui moglie - figlia di re Desiderio, Adelperga; qui stette per circa sei mesi l’altro figlio di Desiderio, Adelchi; a Salerno visse Paolo diacono i cui versi ivi trovati furono incisi sul palazzo principesco; Benevento condivideva con Salerno le sorti; ad Acerenza fu gastaldo Sicone di stirpe regia di Cividale; nel 787 – anno della morte di Arechi II – Carlo Magno dové emanare una legge che impediva ai Longobardi del Nord di attraversare Spoleto e rinserrarsi a Benevento e nel Meridione; ancora nell’848 ci si riferiva con chiarezza “De Waregnangis nobilibus, mediocribus et rusticis hominibus qui usque nunc in terram vestram fugiti sunt / agli stranieri nobili, medi e gente comune che sono fuggiti nella vostra terra”. Più significativo l’accenno nell’816-818, ai tempi di Ludovico il Pio, al caso di quel Godoaldo che dall’avamposto franco (poi spostato a Capua) di Spoleto “instinctu diaboli postposita fidelitate sua ad Beneventanos qui tunc temporibus domno et genitori nostro Karolo imperatori ribelles erant se contulisset / istigato dal diavolo se n’era andato, rinunciando ai suoi doveri di fedeltà, presso i Beneventani che s’erano ribellati al genitore signor nostro imperatore Carlo”, ove il cenno della guerra al 773-774 fa capire che la risoluzione e le mosse di Adelchi erano partite subito. Il cognato si rassegnava a Carlo e al papa, lo sappiamo, nel 787 con la restituzione di Terracina quando questi chiamò per l’ultima volta Carlo in Italia. Da quel momento, Arechi II, proprio da Salerno, iniziò, poco dopo il suo matri- Salerno e i monumenti longobardi E il fatto singolare è che proprio a costui, Arechi II, vanno addebitate alcune delle maggiori, sopravvissute realtà artistiche e culturali dell’intera storia dei Longobardi, così clamorosamente ignorate dall’UNESCO quando ha approvato come “longobardi” solo sette siti nostrani (v. sito seriale www.italialangobardorum.it). In verità, pare che l’esclusione di Salerno sia dovuta a macra ignoranza della storia medievale e per risarcire il mal compiuto anche per altre zone (non solo Pavia [la capitale dei Longobardi !], che da sola, pur con oggetti e arredi minori, si sarebbe dovuta scegliere, come diceva un attore, a prescindere) occorrerà rivedere e aggiornare la sessione parigina del Giugno 2011. A tal proposito la prof. Donatella Scortecci dell’Università degli Studi di Perugia con una lunga e precisa relazione al 3° Convegno Nazionale Le presenze longobarde nelle regioni d’Italia tenutosi nell’ottobre del 2011 a Nocera Umbra, ha rilevato come in presenza di dubbi in merito alla scelta dei siti pur dopo l’aggiornamento del 1977 e del 2008 i paesi partecipanti avranno la facoltà di rivedere le decisioni prese, con un occhio specifico proprio alle realtà monumentali longobarde continuate a sussistere, e ad essere integrate e aumentate, lungo tutto il non lungo percorso dei Franchi occupanti. Il palatium Arechi II, il duca di Benevento, e dal 774 autonominatosi princeps gentis langobardorum, sposò nel 762 la figlia di Desiderio, Adelperga, colei che dà nobile protezione. Ella ebbe come maestro Paolo diacono e pervenuta a Salerno lo richiamò perché del marito scrivesse una lunga epigrafe da apporre nel palatium. Una concomitanza di avvenimenti rese possibile il progetto, un dieci anni necessari perché a Paolo risultasse acclarato e confermato il valore politico, istituzionale, nazionale di Arechi II quale garante sommo della Longobardìa tutta visto che, ormai, Desiderio solo su due harimann, uomini dell’esercito, poteva confidare dal punto di vista della risposta a Carlo, il figlio dalla mazza ferrata sempreinmano e il genero. Il nostro Arichis, germoglio [frutto] dell’esercito, era di Cividale e apparteneva stirpe ducum regumque, ad una stirpe di -6- PASQUALE NATELLA del decumano maggiore di epoca romana - si trova inglobato nel bel mezzo del centro antico e storico della città che, come ogni altro in Italia, è asservito completamente al privato, richiestissimo per la vicinanza ai complessi aggregativi pubblici. Ciononostante ne sono evidenti i setti con le strutture originarie ad archi, colonne e capitelli su via Arechi. Questo lato si pone alla fine della serie di terrazzamenti rocciosi in declivio dal castello onde oggi si ha la doppia prospettiva di poter entrare sull’attuale piano di campagna in ambienti direttamente conducibili alla prima metà dell’VIII secolo - ancorché come detto – in mano privata, e salendo di poco, scendere invece di parecchio nelle fondamenta. A Nord sta l’ampia cappella palatii, dedicata a San Pietro, quadrata e con abside fondale della medesima geometria, i cui muri ad opus beneventanum hanno confermato all’esterno e all’interno la tecnica edilizia altomedievale databile alla metà del secolo VIII, ivi compreso il litostrato dai bei colori. Su due lati correvano bifore su archi per apportare luce all’interno. La ragione della sua sopravvivenza integrale si deve a singolari tratti d’uso. Il palazzo, dopo i figli di Arechi e per tutto il tempo fino alla conquista normanna del 1076-1077, che pose fine al sub-Ducato e al Principato longobardi durati per cinquecent’anni, divise con un’altra costruzione normanno-sveva le funzioni amministrative cittadine, e cominciò ad avere specifica autonomia pre e postfeudale dal X alla fine del XV secolo. Poiché dalla seconda metà del XIII secolo in poi la Universitas civium, ovverosia la Città con i suoi apparati amministrativi ne rivendicava l’intero usufrutto, dato che mai era venuta meno l’appartenenza ad una struttura già governativa, al principio del XVI secolo il re pensò di eliminare ogni lite dando San Pietro a Corte in Commenda. I rettori, chiamati abbati per comodità sacra e per puro omaggio titolare al capo d’un’aula vasta e compatta, cominciarono a svendere il tutto sui vari fronti, tranne nella continuazione settentrionale dell’attuale Largo San Pietro a Corte, che fu destinata a sede Municipale ed Archivio, mentre nella cappella medesima fu consentita, quando occorresse, l’escussione pubblica delle lauree a dottori concesse dalla Scuola Medica Salernitana. Interrotte tali funzioni (il Municipio e l’Archivio trasmigrarono nel palazzo S. Antuono di fronte, e la Scuola Medica non oltrepassò il 1811) anche questa parte fu venduta a privati. duchi e di re, per i primi in quanto che fra i suoi capostipiti si trovava il duca friulano Gisulfo II ucciso nel 610 dagli Avari e dei secondi Grimoaldo, figlio di Gisulfo II (assunto come figlio da Arechi I duca di Benevento), poi re dei Longobardi nel 662. Si vede bene perché, con tali precedenti, Arechi II pensasse a costruir di sé un’immagine degna e decorosa di dux e di princeps, anzitutto misurandosi prima, nel 762, con atti di governo del suo enorme territorio che andava dagli alti monti della Laga ai confini col Piceno, ad Amantea sotto Cosenza e a Metaponto ad Ovest di Taranto, e poi al decennio predetto con la costruzione in Salerno del suo palazzo, noto come San Pietro a Corte. Ora, se si tien mente ai sette siti prescelti dall’UNESCO come testimoni dell’Italia Langobardorum, sei sono sacri e uno soltanto civile, il castrum di Castel Seprio. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle chiese, ma avendo i Longobardi movimentato l’Italia con elezioni regali, cambi di potere, guerre intestine ed esterne, nascite e riprese di città e centri, la mancanza di edifici pubblici spiegabile con il loro destino, appunto, di pubblico, soggetto a manomissioni e distruzioni ab imis, marca ancor più platealmente il non aver preso in considerazione questa città campana fidandosi d’una cronologia, che è del tutto errata e rispondente solo al predetto giudizio formalistico. Scomparsi i palazzi regi e ducali di Pavia, Cividale, Benevento, Capua, Spoleto, rimane solo Salerno. Dopo Verona Adelchi vi fu tra Novembre e primi di Dicembre del 773, ospitato dal cognato per ben sei mesi fin quando cioè il Regno non finisse completamente nel Giugno 774, sicché non solo per quei mesi Salerno con Benevento, non ancora presa Pavia, fu la capitale della Longobardia ma la dimora di Arechi II si trovò ad essere l’unico segno istituzionale d’un popolo non ancora estinto. Accade pure, tra l’altro, che Salerno sia fra le poche testimonianze d’un periodo fondamentale per la storia d’Europa visto che del palatium se ne salva più o meno quanto è rimasto delle altre sedi del potere civile altomedievale (quella di Aachen trasformata in Rathaus nel 1300; dei Goti sopravvive solo l’immagine nel mosaico di Ravenna; della Magnaura di Bisanzio fra l’Ippodromo e il mare si conoscono plessi posteriori e giardini ma null’altro). Esteso per un’intera insula e poggiante all’angolo Nord sulla primitiva murazione bizantina il palatium arechiano - posto anche a cavallo -7- SALTERNUM Dal 640 in poi tre gruppi di case s’erano insediati parallelamente alla fortificazione (ove oggi si trovano gli edifici lungo le vie Municipio Vecchio, Dogana Vecchia, Giovanni da Procida, Fasanella) e rappresentavano, con le insulae longobarde addensate intorno alla poco distante chiesa primigenia di S. Maria dei Barbuti, il nerbo a fare del popolo longobardo salernitano (Fig. 1). Paolo diacono e il titulus arechiano Nel 1976 per consolidare gli ambienti superiori della cappella palatii furono eseguiti degli sterri sommari di tutto ciò che dal Quattro - Cinquecento attraverso dei buchi nel pavimento era stato buttato da lì nelle capaci fondamenta (altezza consolidata: più di 6 metri del solo scavo, escluso l’attacco alle volte giunto a 8/9 metri) ove fu trovata una terma romana, riusata nel Tardo Antico come necropoli e nel Medioevo come chiesa affrescata con un ambone. Dopo pochi anni il prof. Paolo Peduto, ordinario di archeologia medievale dell’Università degli Studi di Salerno, bloccò la presa per la discarica e salvò dai rifiuti già ad essa destinati i frammenti. Egli dové affrontare un’immane cernita quotidiana, e con la certosina pazienza dei chirurghi, riuscì a comporre le evidenze monumentali di quanto la tradizione letteraria aveva conservato. Negli archivi europei, infatti, erano disperse le poesie che Paolo diacono, a Benevento e a Salerno dal 762-763 al 774, aveva composto per il palazzo, e nel secolo XVII uno degli esametri per eccellenza era già conosciuto da due eruditi, uno dei quali, il marchese Giulio Ruggi d’Aragona, lo trascrisse direttamente dal palatium. Nel procedere al rilevamento, il prof. Peduto rintracciò l’esigua parte di quest’ultimo, apposta lungo le pareti interne della cappella in una lunga epigrafe di lettere incise su marmo orientale bianco, lettere alte 35 cm. e di spessore da 3 a 4,2 cm. Poste in un ductus quadro entro solchi corniciali tali lettere furono forate (e i fori sono, naturalmente, visibili) e ricoperte da lamine di bronzo (od ottone), poi dorate. Disperse le lamine negli sterri predetti s’è salvata solo una piccola parte delle lastre marmoree, e precisamente le lettere capitali ... GE / DUC / CLEME / ST, utili alla ricomposizione dell’esametro del poeta che nell’invocazione a Cristo Lo sollecitava circa i destini del duca, DUC AGE DUC CLEMENS [Arichis pia suscipe vota], “Guida, accetta e indirizza benigno [e sostieni i pii voti di Arechi]”. Le lettere ST erano la quinta e la sesta dell’inizio dell’invocazione [Chri] ST [e], oppure la quarta e la quinta del perfetto [Con] ST [ruxit] della quinta linea ove era ricordata la cappella, costruzione degna della Gerusalemme ebraica. Fig. 1 - Salerno. Area del tratto pre e post palaziale longobardo sul decumanus maximus romano (vie Dogana Vecchia-via dei Mercanti). A sinistra le fare citate, tutte convergenti su via Canali (in forte declivio) alla cui destra nell’incontro con vicolo Adelberga sta il palatium arechiano. Tra il Vicolo Guaimaro IV e il vicolo dei Barbuti si trova la prima chiesa pubblica longobarda di Salerno, Santa Maria dei Barbuti. Sulla murazione fu innalzato il complesso, la cui ampiezza dal 762 al 773 -774 veniva ad essere determinata dal necessario scavalco sul decumano (via Giovanni da Procida) e l’altra via (Dogana Vecchia) nata dalle esigenze di movimento degli abitati. All’ampiezza corrispose una profondità derivata poiché la zona era in forte declivio. Il piano di campagna tardoantico e altomedievale fino al 762 circa era stato colmato nei detti terma e chiesa, ragion per cui nell’usare le altimetrie esistenti Arechi II dové costruire nell’ipogeo per 13 metri d’altezza i pilastri delle basi degli ambienti e della cappella. Da quel punto ebbe inizio il palatium e si arrivò, in tal modo, ad una costruzione che svettava di molto sulle case vicine, e approssimativamente – misurata sul prospetto della cappella che dà sul largo San Pietro a Corte – ebbe un’altezza di circa 15 metri fuori terra attuale (nel Cinquecento per l’intera protezione degli ampliamenti e restauri venne su un tetto a spioventi che aumentò ancora l’elevato). La meraviglia per un così ardito impianto non passava inosservata, e in quegli anni Paolo diacono lo scrisse: L’area palaziale All’incrocio settentrionale del decumanus maximus di Salerno (via Tasso) col torrente, che dal castello scendeva al mare (oggi via Canali), fu innestata una murazione urbica bizantina. -8- PASQUALE NATELLA “Arichis... omne quod hic spatiis effertur in ardua vastis... suppetias dedit esse suis portumque quietis, “Arechi… volle che per i suoi fossero rifugio e porto di pace questa complessa struttura che si erge in alto per un lunghissimo tratto” Si notino il sostantivo e gli aggettivi, ardua è scelta tacitiana (ardua urbis moenia), un innalzare, un sollevare che contemporaneamente dia segnali di suppetias, aiuto, soccorso in caso di guerre, e controllo qual Imperatore da un alto podio che veda la città, mentre attorno s’allargano, fabbriche realizzate per un lunghissimo tratto. Dal composto vastis spatiis si ha certezza areale, morfologica, una simultaneità di accordi spaziali che compongono una massa compatta di ambienti, scavalchi, supportici, rialzi, come si osserva a volo d’uccello (Fig. 2). Ancor meglio, sempre da Nord (ove si trova l’accesso da Napoli, Capua, Roma) fornisce dati dell’assieme il prospetto (Fig. 3) lungo via Canali (in primo piano). Come si vede, all’estrema sinistra il piccolissimo pianoro su largo San Pietro a Corte, includente il campanile anzidetto, posiziona gli sfalsamenti altimetrici sui quali i costruttori di VIII secolo agirono con il livellare e il distribuire valichi, scale e anditi, parte dei quali è documentata nel XIII secolo. Dopo lo scalone e il muro Nord compare via Dogana Vecchia (con portico sulle vie Mercanti - Arechi). Qui, in un modesto largo ipotizzai l’ingresso principale, già su colonne, Fig. 2 - Salerno. Planimetria da Nord dell’insula dell’area palaziale longobarda (da Gambardella). I neri basali sono, a sinistra, largo S. Pietro a Corte e vicolo Adelberga (vi si scorge la piccola cupola del campanile del XII-XIV secolo), al centro il decumanus maximus romano di via Dogana Vecchia che dopo gli scavalchi continua con l’inizio di via Mercanti ove a sinistra sta la grande cupola di S. Salvatore de fondaco (sec. XVI), a destra via Giovanni da Procida che sbocca su via Arechi con l’innesto verso un vicino supportico. che in alto attraverso una scala monumentale (v. oltre) menava ai successivi plessi edilizi affaccianti sulla successiva via Giovanni da Procida, il cui portico dà in pieno sulla via Arechi. Un altro supportico, all’estrema destra, completa l’allungamento del palatium verso mare che, tuttavia, si fermava proprio su quest’ultimo edificio giacché all’intorno vicoli e vie ne determinavano la fine. Fig. 3 - Salerno. Prospetto da Nord dell’insula palaziale di Arechi II (da Gambardella). -9- SALTERNUM L’apprestamento areale imponente rende ragione almeno di due motivi d’interesse, il primo derivato dalla circostanza che, in effetti, Arechi II volle che la sua dimora fosse in una qualche maniera adiacente ai primitivi fabbricati a fare longobarde indicati, e il secondo che s’era data l’occasione di dividere la zona pubblica (sulle vie Dogana Vecchia, Largo S. Pietro a Corte, vicolo Adelberga) da una privata, che denominai ‘burgensatica’, ovvero pertinente alla famiglia. Convengo che scavi ulteriori e messa a giorno delle pareti originarie su via Arechi potranno risolvere al meglio l’ipotesi ma è certo che proprio su tale strada la continuità morfologica-spaziale riceve spinta al ragguaglio. Eccone una visione parziale (Fig. 4). Una successiva chiarifica ancor meglio (Fig. 5 ). Nell’andar oltre, dopo l’arco la via Arechi termina, e inizia un altro scavalco (Fig. 6) che rappresenta la conclusione del palatium di Arechi II verso il mare. In tal modo venne sù una più rattenuta estensione sulla zona Est, lì dove si fece ricorso ad edifici conglo- banti le diverse funzioni pubbliche di cui si parlò circa il salvataggio epocale dell’insieme. Il prospetto della cortina (Fig. 7) rende noti i vari interventi, qui rilevati (il libro del Gambardella è del 1983) prima che si procedesse ai radicali restauri attuali che consentono la visione primigenia del palazzo: a sinistra, lungo vicolo Adelberga vediamo il campanile e la vasta parete settentrionale della cappella palatii; seguono il protiro e lo scalone, eretti nel 1567; e, in prosecuzione, nell’innesto di Largo San Pietro a Corte con via Canali, l’area del palazzo S. Antuono, vecchia sede otto-novecentesca del Comune di Salerno. In tale zona, sull’allora piano di campagna, si stese un tavolato ligneo semplice (non v’è traccia di agganci d’un ponte) per oltrepassare il torrente in discesa dal castello. Fig. 4 - Salerno. Via Arechi. Parete meridionale del palatium longobardo. In fondo, a sinistra colonna (cerchiata) con capitello corinzio all’angolo dell’uscita dal portico sul decumanus via Dogana Vecchia –inizio via dei Mercanti, al lato della chiesa di S. Salvatore de fondaco (cfr. Fig. 2). Al centro colonna ed arco; al primo piano, tra due balconi, archi incidenti sul porticato. Fig. 5 - Salerno. Via Arechi. Particolare della parete palaziale longobarda di VIII secolo su porticato retto da colonna con capitello corinzio. A sinistra, l’uscita dal portico su via Giovanni da Procida. Arechi II e la sua Corte, 773 - 774 Oltre che Paolo diacono tutti i cronisti e grammatici longobardi furono colpiti, in età coeva o di non molto posteriore, dalla personalità di Arechi II (fig. 8). - 10 - PASQUALE NATELLA Radoalt, fino a poco tempo fa ignoto autore del Chronicon Salernitanum, ne diede particolari veridici perché essendo della città di cui trattava poté attingere, nel periodo in cui scrisse (954-964), dalla viva voce di anziani, e da uomini di cultura del suo tempo che si rifacevano forse a fonti scritte poi perdute (... “a maioribus nostris..., a veteranis illorum, nostri maggiori e uomini molto vecchi”, specificherà in un suo passo). Abbate di san Benedetto (986-990), Radoalt discendeva dal trisavolo omonimo vissuto un vent’anni dopo la scomparsa dei figli di Arechi (Grimoalt 806/Alais fratello 806-807) e le notizie, dopo una sessantina d’anni, non dovevano essere in famiglia né scomparse né alterate da aggiunte o sottrazioni di particolari. Arrivato al punto della sua istoria in cui si narrò la fase ultima delle risorse per la ricostituzione a Benevento e a Salerno del Regno – guerre condotte con Adelchi, presa - ripresa di territori beneventani in contestazione col papa - Radoalt stese una relazione diplomatica dei rapporti Carlo Magno – Arechi II. Già Fig. 7 - Salerno. Cortina del lato Est del palatium arechiano (da Gambardella). orientato a risolvere pacificamente le questioni con questo principe italico Carlo, che era sceso a Capua per incutergli timore fra il Gennaio e il Febbraio del 787, inviò suoi ambasciatori a Salerno, e la descrizione radoaltiana è un capolavoro storico-politico: [Karolus]… unum eminentissimus (vir) e suis proceribus Salernum (misit)… Qui dum properasset Salernum cum suis non paucis fidelibus… [Arichis] non paucis e suis proceribus in eorum misit occursum…, et in scale ipsius palacii adolescentes hinc inde astare fecit, qui gerebant in manibus sparvarios cum ceteri huiusmodi avibus… deinde iuvenes astare fecit… quidam enim ex his ad tabulam ludebant. Idipsum hinc inde, ut diximus,canos spargens astare fecit, deinde senex undique circumstans cum baculis in manibus, inter quos ipse Princeps in trono aureo in eorum residens medium… Dum [legati] sunt urbem ingress…statim palaccio adierunt; cunque ad scalas iam dicti palaccii pervenissent… responsum est: “ In antea perambulate! “. Dum paulisper alium in locum devenirent, … responsum est: “ In antea pergite!... “ Ite in antea! “ Dum properassent in aulam in qua ipse Princeps erat, cernerunt… ipsum Arichis in throno aureo… Ipse Princeps Arichis, ad vesperum, diversos cibos, vina quoque precipua variaque poccionum genera transmisit, atque in regia aula eum cum suis, fidelibus morari iussit… Et [legati]videns autem omnem sapienciam Arichis, et palacium quod hedificaverat, et cibos mense eius, et habitacula servorum, et ordines ministrancium, vestesque eorum et pincernas, miratus est valde. Fig. 6 - Salerno. Sbocco dal portico di via Arechi sulla via Pietra del Pesce. - 11 - SALTERNUM [Carlo] mandò uno dei più eminenti tra i suoi cortigiani a Salerno…Mentre il legato con non pochi suoi fedeli si avvicinava a Salerno [Arechi] mandò non pochi maggiorenti incontro all’ambasciatore e al suo seguito…[In città, frattanto], all’uno e all’altro lato della scalinata del palazzo [di S. Pietro a Corte Arechi] fece disporre alcuni giovani che reggevano con le mani sparvieri e altri simili uccelli; distribuì, poi, paggi adolescenti,…e altri giovani giocavano tra loro presso un tavolo. Qua e là fece sistemare sparpagliate persone anziane e, infine, fece disporre in circolo alcuni vecchi con in mano un bastone e, circondato da essi, in un trono di oro, sedeva il principe. [I legati] si avviarono verso il palazzo: giunti alla scalinata del suddetto palazzo…fu loro risposto – Andate Avanti. Quando di lì a poco entrarono nella sala…la risposta fu: Proseguite!..., Andate avanti. Entrati finalmente nella sala dove era il principe videro…lo stesso Arechi seduto in un trono di oro…In serata il principe Arechi fece preparare per loro cibi diversi, vini pregiati e svariati con molte altre bevande e dette ordine che l’ambasciatore col suo seguito abitasse nel palazzo reale…E [il legato] osservando la grande sapienza di Arechi, il palazzo che aveva edificato, i cibi della sua mensa, le abitazioni del personale, le schiere dei ministranti, le loro vesti, i coppieri, era rimasto molto ammirato” (Radoalt - Chronicon Salernitanum, X sec., (11-20) Il passo restituisce appieno il senso d’un palatium di respiro europeo. Non dimentichiamo che Arechi II è al governo del suo Principato, e una volta firmati i patti con Carlo viene lasciato al suo posto. Non si conosce, così, nessun governatore Franco del Principato, ancorché tutte le cronache Franche e non ribadissero che conquistata Pavia Carlo inviasse ovunque suoi uomini a detenervi potere. Ancora per otto mesi Arechi Fig. 8 - Biblioteca Apostolica Vaticana. Particolare della miniatura ad inchiostro visse fra quelle mura, e poté predidi vari colori rappresentante il Duca di Longobardi meridionali, Arechi II, in sporre un bilanciamento di fatti e piedi e rivestito dei paramenti solenni da opinioni che mentre da una parte cerimonia (anno 762) - Cod. Vat. Lat. 4939, f. 81 r. favorisse e facesse continuare il suo governo, dall’altra sintomatizzasse il corso delle concessioni di Carlo Magno, che apparivano, ed erano, non dettate da supremazia ma da volontaria scelta di fermare un corso inevitabilmente bellico. I figli di Arechi, forti di tale appoggio, capiscono che i tempi impongono scelte drastiche, e se Romualdo null’altro poté a causa della sua morte il 21 Luglio del medesimo anno, il Grimoalt per il salvataggio dei suoi territori porta alle estreme conseguenze il disegno politico di sopravvivenza e lotta contro il medesimo Adelchi. Una svolta drammatica di Longobardi contro Longobardi inimmaginabile fino a qualche mese prima. Sintomo, realtà, immagine, concretezza areale stanno alla base dello sviluppo di questo palatium salernitano, degna sede di re, principi e duchi che mai verrà meno nella coscienza collettiva degli italiani, e che ora stiamo ribadendo. - 12 - PASQUALE NATELLA Commentario bibliografico Per superare formalistiche o addirittura ancora scolastiche posizioni che rallentano le ricerche sulle effettive realtà politiche e insediative dei Longobardi, studi recenti stanno chiarendo fasi nascoste o poco studiate, e ne rimando a qualcuno ove, fra l’altro, è ripresa parte degli argomenti storici qui esposti, ad es. F. BORRI, L’Adriatico tra Bizantini, Longobardi e Franchi. Dalla conquista di Ravenna alla pace di Aquisgrana, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, 112, 2010, pp. 14-16, 22-25, 29-30 e sgg., e G. MARONI, La memoria di Desiderio e Adelchi nella tradizione medioevale, in “Aevum”, LXXXV (2011), n. 2, pp. 567-616. Sulle fonti manzoniane I. WOOD, ‘Adelchi’ and ‘Attila’: the barbarians and the Risorgimento, in “Papers of the British School at Rome“, LXXVI (2008), pp. 233-255. Su Adelperga e Arechi II cfr. N. ACOCELLA, Le origini della Salerno medievale negli scritti di Paolo Diacono, in “Rivista di Studi Salernitani”, 1968, n. 1, pp. 23-68. La relazione della prof. Donatella Scortecci dell’Università degli Studi di Perugia è in corso di stampa nei citati Atti del III. Convegno Nazionale Le Presenze Longobarde in Italia, a cura della Federarcheo – Gruppi Archeologici d’Italia – Società Friulana di Archeologia. Ritratto di Arechi II da re e pur da miles con lo scramasax avaro-bulgaro in spalla, su fattura di XII sec. in P. BERTOLINI, Actum Beneventi. Documentazione e notariato nell’Italia meridionale langobarda (secoli VIII-IX), Milano, Consiglio Nazionale del Notariato, 2002. I rilievi plano-assonometrici del centro longobardo in C. GAMBARDELLA, Salerno disegnata. Disegno ed enigma, Napoli, Società Editr. Napolet., 1983. Affrontai in analisi storico-filologica Arechi II, Palaccium et ecclesiam instituit. Storia del complesso longobardo di San Pietro a Corte di Salerno, in ‘San Pietro a Corte. Recupero di una memoria nella città di Salerno’ a cura del Gruppo Archeologico Salernitano, Altrastampa edizioni, Napoli, 2000, pp. 87-143; ID., L’occupazione longobarda di Salerno, in Archeologia w teorii i w praktyce, Varsavia, Accademia Polacca delle Scienze, 2000, pp. 397-417 [Miscellanea di studi in onore di Stanisław Tabaczyński] (= rielabor. con aggiunte in Atti del Convegno Il popolo dei Longobardi meridionali (570-1076)..., Salerno, Gruppo Archeologico Salernitano, 2009, pp. 11-23). Per Radoalt e il Chronicon Salernitanum v. H. TAVIANI-CARROzzI, La Principauté lombarde de Salerne (IX.e-XI.e siècle)..., Roma, École Française de Rome, 1991, I, pp. 81-95. - 13 - SALTERNUM SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ARCHEOLOGICA A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO GABRIELLA D’ HENRY Editoriale D a un po’ di tempo – in tempo di spread, ma anche precedentemente – non si parla più di ‘Cultura’, tant’è che ho avuto il sospetto che si tratti di uno di quei termini andato in disuso. Non parliamo poi di ‘Beni Culturali’, di cui è stato detto, da un ex ministro, che con questi «non si mangia». Esiste ancora un Ministero che se ne dovrebbe occupare, ma il precedente Ministro, offesosi per qualche suo motivo, non se ne è interessato, preferendo commissariare gli Enti preposti alla tutela e valorizzazione; e l’attuale Ministro – offeso anch’egli? – non mostra di interessarsene troppo. Qualche notizia buona, però, è trapelata. Per esempio, dall’Aquila arriva la novità che è stato progettato il restauro dell’ex Mattatoio, restauro affidato all’architetto Bulian, uno dei più attenti funzionari dei Beni Culturali: esso sarà la nuova sede del Museo Nazionale d’Abruzzo, e vi verrà esposta parte della quadreria che era conservata nel Forte Spagnolo; e che anche il Forte sarà soggetto ad un parziale recupero. Questo fa supporre che l’èra caratterizzata dal predominio della Protezione Civile - che ha avuto il coraggio di rifiutare l’assistenza gratuita di Giuseppe Basile, valido funzionario dell’Istituto Centrale per il Restauro ora in pensione - sta declinando. Quello che ora preoccupa di più è la situazione dell’Emilia-Romagna dopo il terremoto. L’impressione, a chi ne sta fuori, è che stia avvenendo un gioco al massacro: quanti campanili sono stati rasi al suolo, quante chiese e monumenti? Si comprende la pericolosità dei ruderi in condizione precaria; ma anche in questo caso sembra che il Governo dei ‘tecnici’ si sia affidato alla Protezione Civile, emarginando e mortificando, in pratica, le Soprintendenze. E sì che l’esperienza positiva friulana o marchigiana avrebbe potuto insegnare qualcosa. Pare che Pompei, con i suoi crolli, sarà beneficata da una quantità di progetti e finanziamenti per la sua messa in sicurezza: aspettiamo a vedere se in questo caso si seguirà la strada maestra o dovremo assistere una volta di più ad uno sperpero di denaro pubblico. - 17 - ADRIANO CAFFARO - GIUSEPPE FALANGA Giovan Battista Passeri e l’antichità classica tra ‘etruscheria’ e archeologia1 afferma: «Dispiace a noi che siamo etruschi La scoperta appassionata dell’antico e massimamente dispiace a me nato a ’età dell’Illuminismo è definita da Farnese tra i Volsini e i Tarquini (…)»3. Il Giambattista Vico il periodo nel padre Domenico, che godeva di ampia fama, quale gli uomini ‘finalmente riflettodopo aver esercitato la professione in diverse no con mente pura’2. E’ l’età in cui la filosofia razionalista condiziona, di generazione in località dell’Italia centrale, tra Orvieto e Todi, generazione, le dinamiche economiche e l’aTerni e Norcia, Acquasparta e a Farnese, nel zione politica, la vita culturale e l’attività 1718 si trasferì a Pesaro per stabilirvisi come amministrativa dello Stato moderno, mossa Fig. 1 - Ritratto di Giovan medico primario all’Ospedale cittadino4. Battista Passeri (1775). Olio Le continue trasferte nelle campagne da una finalità generale di modernizzazione. su tela (cm 60 x 50). Pesaro, Oliveriana, Sala orvietane diedero occasione al figlio Giovan In Italia, il rinnovamento giuridico-funzio- Biblioteca Passeri. Battista, ancora fanciullo, di osservare con nale delle strutture operative degli Stati precoce ingegno molti oggetti e fenomeni regionali si accompagna allo sviluppo demonaturali, come i fossili del Monte Peglia, che furono grafico e all’affermazione di una nuova classe sociale meticolosamente raccolti e classificati. Se all’età di sei di origine piccolo-nobiliare e neo-borghese. E’ a queanni era ad Orvieto, a tredici era già a Roma, per seguisto ceto progressista, animato da idee illuministiche, re con diligenza gli studi grammaticali, di disegno ed che appartiene Giovan Battista Passeri, che può essearchitettura. A Roma, nel novembre 1711, fu avviato re annoverato tra i più prolifici ed eclettici scrittori da Gian Vincenzo Gravina5 e dal gesuita Giulio marchigiani del Settecento. Vitelleschi6 agli studi di giurisprudenza. Un apprendiLa vicenda biografica e intellettuale di Giovan stato d’incidenza capitale, quello col Gravina, il quale Battista Passeri assume valore testimoniale nella disamilo introdusse negli ambienti accademici dell’Arcadia. na particolare del processo con cui si realizza l’evoluzio‘Feralbo’ sarebbe stato il nome pastorale assunto dal ne culturale dal collezionismo alla museologia, dall’etrugiovane studioso che, tra le elucubrazioni storico-filoscheria all’archeologia. Snodandosi nel Settecento dei sofiche e le giovanili finzioni poetiche, guadagnò preLumi e delle Belle Lettere, del Razionalismo e del sto un vasto credito nell’ambito culturale romano7. A Rococò, quella vicenda predilige circuiti geografici di Roma il Passeri ebbe occasione di approfondire i prochiara ascendenza storica, estesi per lo più nell’Italia centrale, mostrandosi in grado di connettere, in via pri interessi artistici grazie alla frequentazione dei più ideale, le due sponde italiche – la tirrenica e l’adriatica – esperti architetti del tempo, come Filippo Juvarra8 e, fino a quasi a delimitare un’unica area geo-culturale. forse, Luigi Vanvitelli9. Nel 1715 rientrò a Todi, per Giovan Battista Passeri nasce a Farnese, presso volere del padre. Vi rimase due anni. Lì, intanto, nelViterbo, il 10 novembre 1694, da Domenico, medico l’aprile 1716 conseguì la laurea che lo abilitò all’attivicondotto originario di Gubbio, e da Anna Maria tà forense. A Pesaro il Passeri giunge intorno al 1720. Evangelisti, di nobile famiglia laziale. E’ il Passeri stesQui si cimentò nell’attività forense; ma sono le disciso a sfatare il mito della sua nascita in terra marchigiapline umanistiche – in modo speciale la filologia e l’arna, quando nel De tribus vasculis etruscis encaustice pictis, cheologia – a calamitare i suoi interessi. E per di più edito nel 1772 dalla Stamperia Mouckiana di Firenze, ravvivati da una profonda e quasi atavica passione per L - 19 - SALTERNUM porte dell’eternità. Lungo le sponde del Mar la civiltà etrusca. Fin dagli inizi della sua forAdriatico, lo studioso trovò stimoli ed occamazione culturale seppe esprimere in nuce la sioni diverse per realizzare le proprie mire futura attrazione per l’antica arte italica. Ed culturali. La vastità degli interessi coltivati è tale passione, alimentata da una sostanziadall’illustre ‘pesarese’ – testimoniata da una le continuità di attività e di interessi, a far sì bibliografia copiosissima che annovera più che il Passeri possa oggi a pieno titolo essedi 600 opere tra le stampate e le manoscritre ricordato tra i maggiori rappresentanti Fig. 2 - Giovan Battista dell’etruscheria, insieme con Anton Passeri. Stampa (cm 28,5 x te, insieme ad un migliaio di epistole – com(Da ‘L’Album. Giornale plica alquanto gli sforzi per una definizione Francesco Gori10 e Mario Guarnacci11. Egli 21,5). Letterario e di Belle Arti’, avrebbe più tardi collaborato al Museum Roma, Tipografia delle Belle univoca del profilo intellettuale del Passeri. Arti, 1853-59, p. 340). Etruscum del Gori, pubblicato in tre volumi Ciò perché nella sua figura come nella sua per la prima volta a Firenze tra il 1737 e il vicenda s’addensano – com’è tipico degli 1743, traendo dalle pitture vascolari, da statuette, vasi, eruditi enciclopedisti – tratti ed aspetti che rifuggono cippi ed urne, gemme e lampade fittili la fonte diretta la fisionomia del semplice letterato antichista ed di tanti altri opuscoli che avrebbe dedicato alle antichiarcheologo. Per poi ricomporsi piuttosto in un ritratto tà italiche. E più tardi ancora, nel 1750, insieme con eccentrico che non ignora la varietà dei saperi da lui l’amico filologo avrebbe di fatto dato alle stampe, approfonditi e sviluppati, dalla filologia alla musica, sempre a Firenze, il Thesaurus gemmarum antiquarum dalla ceramica all’architettura, dagli studi naturalistici astriferarum. ai più noti e forse banalizzati interessi archeologici di La presenza del Passeri ad Urbino (1755-57) non ‘etruscheria’. Le Lettere Roncagliesi, stampate a Venezia 12 mancò di lasciare tracce . Nel centro urbinate l’artra il 1738 ed il 1739, raccolgono la memoria di questa cheologo fondò il nucleo originario del Museo pratica archeologica ‘smodata’. Allo stesso 1739 risale Lapidario e, su incarico del Cardinal Giovan l’opera-catalogo Lucernae fictiles Museij Passerij, una Francesco Stoppani, diede impulso notevole all’immasistematica inventariazione del patrimonio archeologine opera di sistemazione del patrimonio artistico, co pesarese ristretto alle sole testimonianze fittili. Nel archeologico ed epigrafico. S’infittirono intanto le 1755 il Passeri pubblica la Lettera a Monsù Cartoccio, relazioni di confronto e scambio culturale con altri approccio eccentrico ed efficace alla tradizione antiautorevoli rappresentanti della cultura del tempo, non quaria e spia originale delle istanze più avanzate di estranei tra l’altro al mondo ecclesiale. Nel volgere di riformulazione del dibattito culturale in corso sull’auqualche decennio, la cultura archeologica del Passeri si torità degli antichi e sull’invenzione dei moderni. Nel dilata grazie ad un’indefessa ricerca, di continuo 1759 l’editore Guglielmo zerletti manda in stampa le aggiornata su fonti e documenti ed alimentata dalla Osservazioni del signor abate Giambattista Passeri da Pesaro, partecipazione a diverse accademie italiane – l’Arcadia uno degli uditori e consiglieri della legazione di Urbino, sopra e la Quirina di Roma, l’Etrusca di Cortona e la Crusca l’avorio fossile e sopra alcuni monumenti greci e latini conservae la Colombaria di Firenze, quella di Palermo o ti in Venezia nel museo dell’eccellentissima patrizia famiglia l’Istituto di Bologna – ed europee come Olimütz in Nani. L’opera è integrata nello stesso anno da una Moravia e la Reale di Londra. ‘sezzione seconda’, la Continuazione delle osservazioni La nomina di archeologo dei possedimenti del sopra alcuni monumenti greci, e latini del museo Nani. Granduca di Toscana è sintomatica del prestigio matuA Lucca il Passeri pubblica, nel 1767, per i tipi del rato per merito dell’erudizione. La carriera ecclesiastiprestigioso editore e librario Leonardo Venturini il In ca, intrapresa dal Passeri dopo la morte della moglie, Thomae Dempsteri libros de Etruria regali paralipomena, quisembrò poi agevolargli la strada, tanto che fu eletto bus tabulae eidem Operi additae illustrantur. Accedunt disserVicario Generale dal Vescovo di Pesaro. Un incidente tationes de re nummaria Etruscorum, de nominibus lo strappa da questa vita: il Passeri precipita nel burroEtruscorum, et notae in tabulas Eugubinas, audace supplene che fiancheggia la sua villa di Roncaglia, presso mento al pioneristico De Etruria regali del Dempster. Pesaro, e muore il 4 febbraio 1780. La tipografia romana di Johannis zempel congeda La città di Pesaro che fu la patria d’adozione del tra il 1767 ed il 1775 le Picturae Etruscorum in vasculis Passeri lo accolse nell’abbraccio che gli dischiuse le nunc primum in unum collectae explicationibus con tanto di - 20 - ADRIANO CAFFARO – GIUSEPPE FALANGA dall’empiria dilettantistica per intraprendere la via della scientificità, che la porterà ad essere ribattezzata ‘etruscologia’ e a definirsi, quindi, come studio sistematico della civiltà etrusca ed in particolare delle sue espressioni artistiche e linguistiche. La formazione enciclopedica del Passeri lo abilitò all’approccio a qualsiasi materia, in forza della competenza metodologica acquisita. Di fatto conferma che «fu originale nel sistemare l’Etrusca antichità; siccome fu eccellente nella storia naturale e nella cognizione delle belle arti». Fig. 3 - Giovan Battista Passeri. Incisione di Johann Jacob Haid (1704-1767): «Ioannes L’attività e l’opera del Passeri si collocaBaptista Passerius, Protonotarius Apostol. no nella prospettiva della storia civile Episcopi Pisaurensis Vicar general Societ. regiae Londin aliarumque Italicarum europea i cui riferimenti culturali pogmembrum - nat. d. 10 Novembr. MDCXCIV». New York, Stephen A. giano su di una rinnovata attenzione per Schwarzman Building, Print Collection. le antiche civiltà. Gli interessi per l’antico popolo etrusco s’intensificarono in special modo dopo la pubblicazione del De Etruria regali, opera di Thomas Tra ‘etruscheria’ e archeologia Dempster, edita tra il 1723 ed il 1724. E’ un periodo La poliedricità degli interessi coltivati dal Passeri, la in cui furono tra l’altro fondate l’Accademia etrusca ed partecipazione alla vita culturale di molte accademie in il Museo a Cortona (1726), insieme con la Società Italia ed in Europa, nonché il lungo soggiorno a Roma Colombaria a Firenze (1735). Lo scavo delle necropodal 1707 al 1715 e, dunque, il discepolato con li di Volterra e, più tardi, di quella a Tarquinia incoragVincenzo Gravina, vissuto con impegno e fervore, giò gli studi sull’antica Etruria, inducendo studiosi più non potevano non sortire effetti incisivi sul suo peno meno eclettici della disciplina ad esplorare un’area siero. Di fatto, ancorandolo alla lezione degli antichi e geo-culturale fino ad allora ignota a molti e che non inducendolo, in particolare, all’attenta considerazione smise di esercitare il suo fascino. degli esperimenti architettonici più recenti. Il Passeri non fu immune dalla curiosità inconteniVa detto che la fama di archeologo esperto di etrubile che muoveva intuito e acribia nella direzione del scheria ha contribuito in passato a ridurre alquanto il glorioso passato italico; da una smania prorompente volume esorbitante dell’identità culturale del Passeri, per tutto quanto avesse in qualche modo meritato – limitando anche i percorsi critici volti ad un più ampio nella considerazione delle tracce materiali e del signifirecupero di una testimonianza tra le più singolari delcato culturale ad esse connesso – un posto di riguardo l’erudizione settecentesca europea. Avranno forse all’ombra di un’epoca più remota del decantato retagpesato su questo ritardo anche il carattere audacemengio romano. La febbre dell’etruscheria colpì anche lui te pioneristico del pesarese o quel suo volersi presened il germe virale agì dal di dentro, sintetizzando tanto tare in veste di eterno Pisaurensis. Mai dimentico non il materiale mnemonico che s’era sedimentato nel suo tanto della patria effettiva – giacché i suoi natali per immaginario sin dall’infanzia trascorsa in terra toscodavvero non erano marchigiani, ma laziali – quanto di umbra quanto le sollecitazioni culturali offertegli da quella Pesaro che lo accolse ventiquattrenne e gli diede l’atteso incentivo a far fruttare le conoscenze umaniadulto in ambito accademico. Dalla corrispondenza stiche e, finalmente, a proiettarle su scala europea. E epistolare emerge la voracità di un autodidatta che col va pure detto che – con limiti condizionanti e tra moltempo, a furia di masticare tracce inattendibili e notiteplici contraddizioni – col Passeri l’etruscheria comzie false confezionate a partire da reperti comunque pie i primi passi lungo il processo di affrancamento frammentari, ha imparato a non fidarsi delle ricostru- dissertazioni illustrate. Nel 1772 è pubblicato, nel tomo XXII della ‘Nuova Raccolta di Opuscoli Scientifici e Filologici’ il discorso Della ragione dell’architettura. E’ l’opera forse più nota del Passeri e responsabile del credito ampio guadagnato nell’ambito della critica d’arte con la capacità, per certi aspetti innovativa dell’Autore di argomentare temi e questioni centrali della storia architettonica. Nel 1774, intanto, lo stesso zempel dà alla luce Linguae Oscae specimen singulare quod superest Nolae in marmore musei seminarii cum adnotationibus Joh. Baptistae Passerii Pisaurensis e il De marmoreo sarcophago Eugubino arcana Bacchi mysteria exprimente in vestibulo monasterii splendidissimae Congregationis Olivetanorum adservato epistola Joh. Baptistae Passerii. - 21 - SALTERNUM dir poco paradossale con la crescente attenzione al contesto europeo o, per lo meno, alle vicende contemporanee dei principali Paesi europei. Ciò valse anche per la storiografia artistica. Nel quadro europeo del Seicento, emergono le linee di gusto di una italianità che non aveva ancora ben definita un’identità storica unitaria, ma capace, tuttavia, di esprimere mediante artisti apprezzati delle istanze estetiche eccellenti subito recepite e riconosciute, per quanto diversificate, in altri Paesi europei. La temperie culturale cui partecipa il Passeri archeologo ed erudito, non a caso fiero anch’egli di rivendicare un’appartenenza locale specifica, rivisita i contesti geo-culturali delle manifestazioni artistiche municipali e li permea di spirito patriottico, in una prospettiva di rivalsa ideale che in qualche modo prefigura il riscatto risorgimentale dell’identità italiana. Quando il Passeri pone ad esempio alcuni casi d’arte locale – vedi il rinvio alle architetture orvietane – altro non fa che elevare del ‘materiale particolare’ a testimonianza generale di un indirizzo artistico la cui portata è extra-provinciale, perché carica di un valore morale che dà corpo ad aspetti concreti della plurima realtà locale e si rivela fondante per la fisionomia di un intero popolo. L’attenzione al ‘concreto’ connota la storiografia settecentesca. La ricerca retrospettiva delle origini – vedi l’orizzonte raggiunto a ritroso del retaggio etrusco in una Tuscia prodiga di memoria – è ideologicamente motivata dall’intenzione di recuperare la forma autentica – architettonica, scultorea o letteraria che sia - perché ritenuta incorrotta. In tal modo, è respinta in una regione primitiva al di là del divenire storico che l’avrebbe preservata dalle mode e dai rivolgimenti epocali fino a giustificarne l’elezione a modello. Ai cultori dell’etruscheria come il Passeri è però addebitata la smodata esaltazione, compromettente l’attesa di scientificità di tante trattazioni. Queste si vorrebbero ‘storiche’ ed invero sintomatiche – secondo l’impietosa sentenza di Momigliano - di «una forza disgregatrice, una reale malattia della cultura italiana» che colpì finanche gli ingegni più eleganti, come quello del Maffei14. Il più accorto scetticismo sull’opera del Passeri e sull’etruscheria in generale non deve tuttavia appiattire la dialettica critica intorno a quella figura e a quella pratica; vale invece considerare la possibilità di tener salva la valenza culturale di certa passione antiquaria che, come nel caso del Passeri, torna utile a connotare buona parte del costume settecentesco15. zioni immaginose e a tentare invece la via impervia, ma più cauta, di una congettura scientifica seppure imbastita con qualche coccio di lucerna o con le disperse tessere di un mosaico. L’iter evolutivo che vede il Passeri maturare una responsabilità maggiore nell’esercitare il ruolo di ricercatore è tutto racchiuso tra i due poli estremi del ‘reperto’ e del ‘libro’, ossia dell’indagine fortunosa condotta su campi sempre troppo avari e dei testi letti e scritti con serenità e lucidità. La maturazione del Passeri sta nell’aver integrato l’ansia classificatoria dei pezzi rinvenuti con l’ambizione enciclopedica ai saperi molteplici che afferiscono alla scienza antiquaria. Il fatto che il primo volume del Lucernae fictiles Museij Passerj appaia nel 1739, quando l’erudito aveva già 45 anni, può essere indicativo di questa evoluzione dalla pratica dilettantistica alla saggia meditazione. Un interessante punto di discussione può essere intanto definito dal ‘volume’ delle ricerche storicoartistiche passeriane, dal modo singolare in cui l’illustre Pesarese seppe inserirsi nel panorama storiografico settecentesco, per evidenziare momenti di continuità o di diffrazione rispetto alle posizioni emergenti in un dibattito europeo di durata ultra-secolare. Relegare l’opera del Passeri nell’alveo dell’antiquaria erudita, limitandosi tutt’al più a valutarne la funzione documentaria e compilativa come unico elemento connotativo, potrebbe risultare inadeguato oltre che improduttivo, fin tanto da sminuire la risonanza di un’azione culturale più vasta, condotta senza che si esentasse mai dall’assunzione esplicita di responsabilità nell’elaborazione critica delle informazioni archeologiche che, a mano a mano, lo studioso andava recuperando nei territori locali. Si tratta di capire quale sia stato l’apporto dato dagli scritti passeriani alla dialettica che anima la storiografia tra Sei ed Ottocento e che oppone la rivalsa entusiastica delle tradizioni regionali alla maturazione di una coscienza storica unitaria dell’arte italiana13. Si consideri, del resto, che già gli studi storici seicenteschi avevano confermato una sostanziale tendenza localistica, non a caso corrispondente al mancato decollo di programmi di ricerca condivisi intorno al tema della storia d’Italia. La prevalenza dei modelli regionalistici, a discapito di descrizioni condotte con sguardo panoramico e di portata unitaria, si spiegava con l’intenzione degli studiosi di volere dettagliare e circoscrivere le vicende storiche in ambiti analitici particolari e di trovare una corrispondenza a - 22 - ADRIANO CAFFARO – GIUSEPPE FALANGA denotare la percezione che l’archeologo aveva dell’attività svolta e dell’importanza ad essa riconosciuta16. In tal senso, l’approccio all’antico conosce momenti di cui si dà ragione entro un percorso di crescita, sicché la conoscenza critica sembra farsi più matura e certa nella misura – come abbiamo detto – in cui essa è investita dalla sensibilità arcadica che tanto eleva la materia storica con l’artificio letterario, fino a farne una trama poetica. Il Passeri, del resto, era un membro dell’Arcadia. Egli fu testimone del’aspirazione ad una rinnovata civiltà, perché appassionato e prolifico rappresentante di un sistema culturale che, da un lato, andava promuovendo l’atteggiamento pioneristico proprio di chi rischia finanche la reputazione nelle sperimentazioni più ardite della ricerca scientifica e, dall’altra, andava ispessendo la coscienza storica dell’arte in tanti eruditi che dall’antiquaria ritennero di poter desumere qualche pretesto d’antropologia italica. Quella del Passeri è un’avidità irrefrenabile, una sete implacabile di cose rare e singolari che si riversa in un’ansia d’accumulo, in una smodata tensione al possesso. Elementi che sembrano connotare la figura dell’archeologo – al di là dei riferimenti oggettivi della vicenda storica e personale – con tratti psicologici tali da meritargli quasi la degna comparsa in una commedia del Molière o del Goldoni. L’anima ambigua dell’archeologo-collezionista, ossia il duplice profilo di erudito e antiquario, sempre sospeso tra sete di conoscenza ed ingordigia di possesso, impedisce infatti un’assimilazione sommaria della sua figura culturale alla moda passatista del tempo, giacché nel lumeggiare l’una si finirebbe con l’oscurare l’altra. Se la coscienza dell’antico esercita nel Passeri una funzione determinante di orientamento estetico e di formazione culturale, l’attività letteraria, l’esercizio poetico ed il costante aggiornamento sulla moda corrente agevolano quel divertito e convinto appressarsi all’antichità classica che configura finanche uno stile di ricerca, un modo del tutto singolare di ‘metterci del proprio’ in quel che si fa. La Mascherata pesarese composta dal Passeri nel 1729 tradisce tale attenzione e ne rivela soprattutto la ‘leggerezza’, ossia lo spirito ricreativo attraverso cui l’archeologo veste i panni dello sceneggiatore e prende licenza per rileggere la romanità in chiave carnevalesca. Quella del Passeri è, di fatto, una romanità ‘reinventata’, assunta cioè come spunto ideativo per l’immaginazione mitologica più che come Quella del Passeri è un’identità camaleontica dai tratti complessi, che tuttavia è possibile decifrare se si considera l’evoluzione dei suoi molteplici interessi culturali. Da esordiente tombarolo in terra etrusca e romana a spasmodico collezionista antiquario di urne e medaglie, di iscrizioni, statue e monete il Passeri diviene erudito più attento e scrupoloso, intento nella maturità non tanto e non più ad accumulare per sé reperti antichi di fattura varia quanto a penetrarne il mistero dell’origine, nonché a carpire l’essenza culturale dell’oggetto nascosta dietro le apparenze. La pratica ‘tombarola’ appresa da fanciullo gli valse da tirocinio diretto nell’acquisizione di quelle conoscenze archeologiche che più tardi avrebbe divulgato in tante opere erudite. Tale confidenza con l’antico – tolta l’alea romantica che, ammantando la memoria delle civiltà perdute, rischierebbe di falsarla – va interpretata in chiave evolutiva, giacché essa muta nel tempo per dilatarsi dall’esperienza giovanile di ritrovamenti occasionali alla più matura riflessione sistematica sulle arti del passato. E, forse, ciò che resta nel mutare dei giorni e degli offici è proprio lo sguardo ammirato con cui il Passeri investiva finanche il più minuto reperto fittile, per ricostruirvi tutt’intorno – complice l’immaginazione erudita – la civiltà artistica di cui il frammento era superstite. La cultura, per l’appunto, era affare di cuore e, come tale, non poteva tenere a freno la vivace invadenza dell’emozione. In questo senso, il Passeri fu sì accademico, ma perché appassionato. La stessa insistenza con cui dichiarava di volere essere ricordato come un ‘pesarese’, sebbene i suoi natali – com’è noto – non fossero marchigiani, può essere accolta come indizio di una personalità incomprimibile, che non seppe né potette rinunciare ai propri connotati ideali, per non ritrovarsi smarrita, fuor di patria. Se Orvieto lo fece sognare, Pesaro gli consentì di realizzare quei sogni. La consapevolezza, dunque, di una vita vissuta nello slancio quasi titanico volto al recupero delle cose remote – che, debitamente raccolte e studiate, arricchisce la memoria civile dei moderni e li orienta alla retta comprensione del tempo presente – può essere incontrovertibilmente considerata un dato strutturale della figura e della vicenda passeriana, tant’è che essa è un elemento pressoché reiterato nelle ricostruzioni biografiche manoscritte e a stampa. Il fatto che il Passeri stesso avvertisse il bisogno di redigere un’autobiografia, di correggerla e finanche postillarla sembra - 23 - SALTERNUM te di un uomo che tentò l’impossibile per dare forma – quella ‘remota’ d’ogni recupero – al desiderio di stringere nel palmo la memoria dell’antico. La testimonianza del Passeri assume, in tal senso, un significato rilevante, giacché la sua ricerca appassionata di tracce del passato italico impone, per così dire, una ‘virata’ critica nella disamina degli orientamenti estetici settecenteschi. Essa partecipa di quelle esperienze culturali che provano l’esistenza di un filone di studi e ricerche incentrato sulla civiltà pre-romana e tanto basta a far esigere una dilatazione – o un ridimensionamento – del concetto generico e d’uso massivo di ‘neoclassico’. Lo abbiamo visto: gli eruditi non volsero lo sguardo soltanto alla civiltà omerica e, se a quella guardarono, non mancarono poi di relazionarla – in una sintesi feconda continuata anche nel secolo successivo – al retaggio storico ed artistico che alimentò la tradizione e il costume italico. E’ questa ambivalenza di sguardo e di approccio a caratterizzare il discorso passeriano sulle ragioni dell’architettura. fonte per la ricerca storica. Le sollecitazioni ricevute dall’ambiente arcadico inducono il Passeri a trasfigurare l’antichità romana, i suoi costumi e le sue arti, i suoi valori e le sue strutture, in un mito della fantasia in cui ogni azione può essere accolta come gesto scenico. La premura – che più tardi egli maturerà – di condividere con altri studiosi le notizie storiche di cui è venuto in possesso giunge ad equilibrare la smania antiquaria. Alla passione per l’etruscheria, subentra nell’età matura una cura di tipo già scientifico che dischiude percorsi pubblici di analisi e di sistemazione del materiale raccolto. D’altro canto, il progetto di istituire quella stessa Accademia Pesarese che avrebbe curato la stampa dei volumi passeriani, sebbene fondata nel 1730 dall’Olivieri, trova il suo ideatore reale proprio in un Passeri attivissimo già qualche anno prima sul fronte della ricerca scientifica e letteraria, orientante infine tale ricerca allo scopo di dare un assetto museale ai reperti rinvenuti. Il fatto è che per il Passeri la scienza antiquaria andava contemplata tra le ‘Scienze Poetiche’ e queste, insieme allo studio delle ‘Lettere Sacre’ e delle ‘Scienze Matematiche’ avrebbero costituito i tre indirizzi culturali della Nuova Accademia marchigiana. Dunque, un erudito eclettico, ma prudente; un letterato creativo, ma conservatore: questo è il Passeri. La quantità incommensurabile dei reperti che il Passeri agogna di possedere per accrescere il patrimonio del Museo pesarese non disperde l’attenzione per il ‘pezzo’ unico, per la singolarità di un frammento che merita comunque di essere riconosciuta e valorizzata. Sono le Lettere scritte a Pesaro dal 1727 al 1730 indirizzate all’Olivieri, durante il soggiorno romano di questi, a tradire l’incontenibile smania di possesso. Così scrive il Passeri a proposito di una lucerna «Io me la tengo sul tavolino, la vagheggio, e ne godo quanto si può mai…»17. I riferimenti testuali ai reperti – che si tratti di iscrizioni, statue o lucerne – sono pressoché tutti retoricamente sciolti in forma iperbolica, perché il linguaggio dell’esagerazione è il solo che possa comunicare – per di più con i modi colloquiali che si confanno ad un amico quale è l’Olivieri – l’energia emotiva che vitalizza la relazione con le cose e a qualifica con i connotati medesimi di chi le osserva e da esse è attratto. E’ nel confronto epistolare con l’Olivieri che si palesa la personalità del Passeri antiquario. Nello spazio definito tra la passione antiquaria comune ai due eruditi e l’estrazione sociale tra loro così diversa, va plasmandosi la fisionomia febbricitan- Il discorso ‘Della ragione dell’architettura’ Un archeologo sì, ma anche un teorico dell’arte. L’eclettismo culturale di Giovan Battista Passeri sembra obbedire alla logica dispersiva degli studi particolari, ma l’indirizzo estetico che orienta la passione per l’antico, seppure non retto da un impianto speculativo sistematico ed unitario, ordina un’indefessa attività di riflessione che risulta essere quanto meno articolata e generale. Nell’arco storico-culturale esteso tra il Barocco ed il Neo-classicismo, il contributo teorico e critico offerto dal Passeri al dibattito europeo sull’architettura del Settecento s’attesta nell’area di interessi molteplici e vari che raccoglie i pronunciamenti di molti altri letterati dell’epoca, in particolare dediti ai fatti dell’architettura e non impegnati in via diretta, con mansioni operative, in quest’arte tanto complessa. Negli scritti del Passeri vige un’ambivalenza non soltanto formale, che investe l’ordine delle idee e dei concetti. Essa esprime non tanto la mitezza astratta di una scrittura teorica che ambisce a divenire critica quanto la piena adesione al clima culturale del tempo. Quella scrittura manifesta cioè una certa duplicità nell’approccio mediatore tra la ricchezza della tradizione artistica italiana e le istanze di innovazione che prendono quota negli ambienti intellettuali europei. Del resto, la cultura enciclopedica settecentesca si nutre delle novità emergenti dalla memoria delle arti e delle - 24 - ADRIANO CAFFARO – GIUSEPPE FALANGA tica certe imprudenze formali e, al massimo, prende distanza da talune arditezze ornamentali19, senza mai inoltrarsi nell’ambito della valutazione specifica spettante ai competenti, evitando quindi di sentenziare e condannare con troppa facilità. Ragionando sulla scorta della formazione letteraria e del buon gusto maturato negli anni di studio, l’erudito ha saputo elaborare una visione originale delle questioni artistiche contemporanee, fino a distinguersi nel panorama generico dei facili dilettantismi per l’acume indagatore e per la vastità delle conoscenze divulgate. Il Passeri ragiona da ‘intendente’ più che da architetto, giacché egli comprensibilmente è privo di pratica professionale. Egli, del resto, non è architetto. Però, non è affatto inesperto circa i temi più dibattuti nel campo dell’architettura, per cui può trattare in modo adeguato di piante, alzati ed ornati degli edifici. La misura di tale adeguatezza è data, per così dire, dal riscontro critico guadagnato già ai tempi suoi, perché il Comolli20 lo elogiava, l’Olivieri21 lo stimava e, ancora, il Muratori22 lo esaltava. Il Passeri sembra, di fatto, essere impegnato più a dissotterrare il sostrato ideale delle invenzioni architettoniche che a presidiare con ipotesi e congetture un campo d’azione che non gli è proprio. Del resto, l’Articolo I del Sommario passeriano non dà adito ad equivoci sul metodo adottato dall’Autore: «L’Architettura ha la sua particolare filosofia (…)». E, ancora, nella Prefazione, lo studioso dichiara che solo l’esame delle ragioni dell’architettura consente di adeguare ogni scelta o azione ad un principio ideale recondito, che regge con saldezza l’arte architettonica e al quale occorre che ci si attenga come ad una ‘legge universale e fondamentale’. La ragione dell’architettura è, dunque, un «raffinamento della ragion naturale». Tale perfezionamento è stato ottenuto nei secoli con «lunga esperienza e studio» e si è realizzato col concorso di tutti gli uomini dotati di buon senso. L’impostazione ‘funzionalista’ del discorso passeriano emerge qui con limpidezza. La teoria ha bisogno di incontrare la realtà per trarne motivi di giustifica o di verifica. D’altro canto, è la storia ad offrire sostanza alle speculazioni fatte. La mente dell’Autore corre così ai fasti dell’arte romana in età imperiale per chiarire che non è la lussuosa magnificenza dello stile antico a suscitare riprovazione. Il Passeri di fatto motiva quei fasti in base al principio che l’arte debba servire il scienze di un’antichità che resta col suo remoto orizzonte ad orientare le singole invenzioni moderne. Il trattato Della Ragione dell’Architettura è pubblicato nel 1772 a Venezia nel XXII tomo del numero V della ‘Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici’. Nel 1806 il tipografo Niccolò Gavelli dà alle stampe a Pesaro una seconda edizione del Discorso, includendolo nel tomo I delle ‘Opere del Canonico Giovanni Andrea Lazzarini’. La doppia edizione, a distanza di pochi decenni, attesta il credito guadagnato dalla teoria artistica del Passeri negli ambienti culturali in cui un certo surplus di ‘attenzione’ al modello antico era considerato un fattore indispensabile ad una ‘concentrazione’ selettiva maggiore delle potenzialità espressive del linguaggio moderno. La memoria dell’antico diviene, in un certo qual modo, uno strumento critico. Il testo tradisce, non a caso, la sapiente ambivalenza della scrittura del Passeri, che è alimentata dal tentativo di conciliare, in sede storica e teorica, l’interesse antiquario con la critica architettonica, cavalcando – per così dire – la polemica in corso tra i nostalgici del gusto antico ed i più audaci fautori dell’architettura di marca borrominiana18. Passeri auspica che la disciplina architettonica abiliti all’impiego razionale dei mezzi tecnici e delle formule linguistiche in proporzione alle attese estetiche e alle esigenze funzionali degli edifici. Ad orchestrare tale operazione è la Ragione, riconducibile alla ragionevolezza che sa adattare con malleabilità proficua la premessa teorica fondante il rigore dei principi costruttivi al fine ultimo degli usi pratici. Senza perciò disgiungere il piano concreto della progettazione, che cerca la coerenza strutturale, da quello del velleitario compiacimento visivo, raccordandoli nel segno della funzionalità determinata dal criterio dell’utile. La ragione diviene il criterio per la valutazione estetica di un edificio, ma dal Passeri tale fattore discriminante non è invero mai adottato in senso assoluto ed esclusivo, perché la sensibilità ‘ottica’ per gli effetti superficiali dell’invenzione – che si tratti di chiaroscuro tra pieni e vuoti o della vivacità ornamentale di talune facciate o, ancora, della variegata disposizione planimetrica – impone che le leggi formali dettate dall’intelletto si contemperino con quelle della visione. Di qui, il tratto ‘moderato’ della tendenza razionale palesata negli scritti del Passeri, quell’inclinazione razionale d’ascendenza vitruviana con cui l’Autore s’approccia allo stile moderno e alle sue ‘stravaganze’. Egli cri- - 25 - SALTERNUM logiche e le soluzioni stilistiche che connotano gli edifici antichi e moderni. Il giudizio rivela spesso uno zelo eccessivo nello ‘smontare’ le mode eccentriche e gli artifici retorici che erano stati applicati contra la ragione in talune costruzioni architettoniche. L’intento del Passeri – lo ripetiamo – è pedagogico, non scientifico; vuole emendare il gusto estetico, non definire un procedimento tecnico per l’architettura universale. E se l’argomentazione teorica s’avvale di materiale specialistico, indugiando talvolta sulla trattazione di temi specifici, le osservazioni vogliono perlopiù orientare gli architetti nella retta valutazione del da farsi, secondo lo stile e la convenienza. Si pensi ai testi di idraulica, al Trattato d’idrostatica o della direzione delle acque (Biblioteca Oliveriana, ms. 270); alle Osservazioni intorno alla direzione dei fiumi (Biblioteca Oliveriana, ms. 280 cc. 72r – 82, datate Pesaro 1723); alla Geometria pratica e alla Prospettiva delle architetture (Biblioteca Oliveriana, ms. 270, 1719-1723). E si pensi, con argomentazioni rese più evidenti dalla fattispecie della materia urbanistica, all’opuscolo di architettura Urbs Regia, con tavole disegnate dal Passeri stesso, un’opera che il Passeri ricorda di aver cominciato a stendere in gioventù e di aver ripreso dopo circa quarant’anni (Biblioteca Oliveriana, ms. 298)23. Il discorso Della ragione dell’architettura consta di quattro articoli. Nell’Articolo I, il Passeri chiarisce i fondamenti estetici della sua teoria artistica ed afferma che la ragione è una «legge perenne»; la costanza del suo dettato è riconosciuta in primis alla Natura, sua fonte incontrastata. Lo studio e l’esperienza dei singoli artisti, in ogni epoca e cultura, conferiscono forza di legge alle scelte operate in Architettura, ad onta dell’improvvisazione creativa e dell’irregolarità capricciosa che privano qualsiasi opera del suo principio razionale. Nell’Articolo II ci si sofferma sull’invenzione della figura in pianta; sull’alzato in prospetto; sui complementi ornamentali. Perciò l’Autore manda in rassegna le figure poligonali per valutarne l’idoneità come schemi su cui impiantare gli edifici: premesso l’elogio del cerchio, accettabili sono le piante ovali, meno raccomandate sono le quadrate; le piante ortogonali sono preferibili alle esagonali, mentre le mistilinee – tanto care al Barocco – sono comprensibilmente da aborrire. Nell’Articolo III il carattere polemico del lungo saggio emerge tonante nella disamina degli errori commessi nell’alzato delle fabbriche. In particolare, talune facciate di chiese e palazzi sono criticate per la moda costume senza smarrire il senso naturale del proprio inverarsi. Per il Passeri, l’architettura moderna deve guardarsi dagli eccessi inventivi del decoro che, nell’accrescere la materia degli edifici, rischiano di offuscare la ragione prima a cui aveva obbedito la costruzione degli edifici stessi. Il confronto con l’arte classica regge fino ad un certo punto, tant’è l’Autore mette in guardia da facili quanto improprie comparazioni, per osservare che, per quanto fastosi, gli edifici dell’età antica non si sono mai discostati dall’‘idea primigenia’. La condanna fa il consuntivo di un’intera esperienza estetica: gli antichi si sono limitati ad abbellire la Natura e, così facendo, hanno definito l’‘ottimo’ in architettura; i moderni, invece, si sono ostinati ad abbellire l’arte, così discostandosi dalla Natura al punto da smarrire la cognizione del ‘perfetto’ in architettura. Ma la ragione dell’architettura – dichiara il Passeri – non è il tipo esemplare rappresentato in uno o in un altro momento storico, giacché non c’è un modello culturale da elevare a legge perenne, tanto più ci si fermi su di un piano di valutazione formale. Qui la distanza dalla concezione ‘neoclassica’ dell’arte: occorre guardare alle forme dei Greci e dei Romani senza tuttavia intenderle come leggi dell’arte, perché quei modelli rispondono a circostanze storiche e di costume civile oggi obliate e, pertanto, non può essere riconosciuta loro alcune funzione predittiva. Quello del Passeri è un esame storico del concetto architettonico che non disdegna, ed è ovvio, la lezione degli antichi; anzi si guarda bene dal decantare l’esemplarità sovra-storica, presumibilmente insuperata, della classicità, sebbene essa resti un fatto singolare degno di studio ed ammirazione da parte dei moderni. La ragione dell’architettura, insomma, non prescinde dal progresso delle arti, non esclude cioè a priori la possibilità di trovare espressione soddisfacente nei frangenti temporali che costellano la vicenda storica dell’arte. La ragione architettonica ha, quindi, una sua storicità che è giustificata dal fatto – osserva il Passeri – che alcuni tipi architettonici in uso nel passato potrebbero risultare non più funzionali nel presente, come ad esempio si può constatare nella transizione evolutiva dai templi pagani alle chiese cristiane. La critica passeriana si mostra così animata dallo scrupolo di vagliare con ragionamenti generali, ma circostanziati da alcuni casi esemplari, le impostazioni - 26 - ADRIANO CAFFARO – GIUSEPPE FALANGA dei ‘ghiribizzi’ che esagerano contro ragione gli accessori ornamentali a discapito dell’ordine naturale della costruzione. Nell’Articolo IV, l’Autore accende i riflettori sui tanto denigrati ornati moderni, posti sovente a confronto con i belli esempi degli antichi, i quali si ritiene sapessero meglio adornare con giusta ragione e corrispondenza. Non sorprende, pertanto, che le premesse estetiche di matrice classicistica esposte nei primi capitoli tornino ora a mo’ di conclusione dell’intero scritto: la ragion dell’Architettura dee combattere contro la corruttela del gusto. Nel Discorso il Passeri dichiara che solo le arti del disegno, a differenza delle altre, hanno il privilegio di alterare con la fantasia l’ordine naturale delle cose, senza limitarsi ad imitarle. Esse possono andare oltre la contemplazione della Natura, per giungere finanche a ‘creare’ con l’ausilio della ‘magnanima fantasia’. E tra le arti cosiddette ‘maggiori’, l’Architettura si distingue per un’estensione ulteriore di diritti esercitati sulla Natura. Quest’arte, infatti, vanta una gamma maggiore di possibilità inventive rispetto alla Pittura e alla Scultura. Mentre la ragione impone ai pittori e agli scultori di attenersi alla verità evidente delle cose apparenti, agli architetti l’esercizio della ragione offre il privilegio di varcare i confini della Natura e di ideare nuovi modi costruttivi unitamente alle formule ornamentali. Il Passeri analizza la causa del disordine generato dagli architetti moderni e ritiene che essa stia nel fatto che la pretesa di suscitare meraviglia abbia troppo concesso all’ingegno, senza che fosse assecondata la ragione. La mutevolezza dei gusti provoca oscillazioni d’opportunità e decoro nella creazione artistica, la quale nasce inficiata dall’effimera ricerca della novità e della sorpresa. Al contrario, il riconoscimento della funzionalità strutturale dell’opera ed il rispetto dei canoni formali assicura immutabilità al giudizio che, a sua volta, conferisce fama ed autorità alle creazioni secondo ragione. La conformità ai principi di natura determina la ‘durata’ del piacere estetico o del buon gusto. Passeri asserisce, a mo’ di prova conclusiva, che ogni qualvolta, in passato, sia degenerato il costume civile dei popoli o siano obliate le arti e le scienze, al pari s’è registrata la decadenza del buon gusto. Una speranza forse ingenua, un’utopia in salsa già neoclassica dilata lo sguardo critico del Passeri, che attende l’avvio di un nuovo ciclo etico e culturale che restituisca agli uomini il gusto della ‘ben ragionata Architettura’. - 27 - SALTERNUM Note Un contributo più ampio sarà pubblicato nella collana «L’officina dell’arte» edita dall’Arci Postiglione. 2 VICO 1744 in BATTISTINI (a cura di) 1990, vol. I, p. 515; II, p. 1532. 3 Tra le ricostruzioni biografiche notevoli, si ricordano: DEGLI ABATI OLIVIERIGIORDANI 1780; ONDEDEI 1780; SALUSTRI 1850. Un importante contributo alla definizione del profilo umano e culturale del Passeri – che tiene in debito conto le fonti biografiche sopra citate – è costituito dal più recente saggio di LOMBARDI 1988, pp. 275-293. 4 La profonda competenza medica di Domenico Passeri può essere provata da una significativa attività di ricerca e divulgazione scientifica. Tra le opere principali, si ricordano: I riflessi Consultivi (1703); Aeris salubris specimen etc. (1712); L’osservazione Anatomica (1731). 5 Il contributo di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) alla definizione dell’estetica classicistica moderna si qualifica per la coniugazione della poetica arcadica secondo i principi del razionalismo cartesiano dettati dalla ‘ragionevolezza’ più che dalla tradizione. Cfr. VECCHIETTI 1924; PICCOLOMINI 1984; CARENA 2001. 6 Giulio Vitelleschi (1684-1759) fu un religioso della Compagnia di Gesù, tra i predicatori più colti ed accreditati del primo Settecento. 7 Cfr. il già citato DEGLI ABATI OLIVIERIGIORDANI 1780. 8 Filippo Juvarra (1678-1736) fu tra i massimi architetti e scenografi del barocco moderno. Allievo di Carlo e Francesco Fontana, fu attivo soprattutto nella Torino dei Savoia, dei quali fu architetto di fiducia già dal 1714. Cfr. GRITELLA 1992; TAVASSI LA GRECA 1981, pp. 25-26; BOSCARINO 1973, pp. 133; 159. Riferimenti utili sull’estetica barocca dello Juvarra in chiave razional-funzionalista sono in BENEDETTI 1985. 1 Luigi Vanvitelli (1700-1773), figlio del noto pittore vedutista Gaspare, fu allievo di Antonio Valeri. Concorsero alla sua formazione, insieme agli studi della trattatistica antica e rinascimentale, l’esemplarità delle opere architettoniche del Bernini e del Borromini, del Fontana e dello Juvarra. Divenuto architetto della Fabbrica di San Pietro a Roma nel 1726 ed impegnato in varie opere a Roma, nelle Marche ed in Lombardia, il Vanvitelli è soprattutto noto per la progettazione e realizzazione della Reggia di Caserta (1752-1845) su incarico del re di Napoli Carlo di Borbone (cfr. DE FUSCO et ALII 1973; DE SETA 1998; VARALLO 2000). 10 Anton Francesco Gori (1691-1757) fu tra i maggiori esperti di Etruscologia e gemmologia del primo Settecento fiorentino. Nel 1717 fu ordinato sacerdote e designato Priore di San Giovanni. Nel 1735 fondò l’Accademia colombaria ed insegnò Storia nello Studio Fiorentino. Raccolse a Roma innumerevoli iscrizioni cristiane col proposito di redigere un Corpus. Scrisse l’importante Museum Etruscum in tre volumi (17361743), opera canonica dell’Etruscologia ed il ponderoso Museum Florentinum in sei volumi (1740-1742), raccolta di antiche iscrizioni conservate a Firenze, nonché il Thesaurus veterum diptychorum in tre volumi (1759), (cfr. DE BENEDICTIS – MARzI 2004). 11 Mario Guarnacci (1701-1785), archeologo e poeta arcade tra i più qualificati, fu un appassionato etruscologo. Pur soggiornando stabilmente a Roma, dove raccolse numerosi reperti antichi, amava ritornare sovente alla natia Volterra per approfondire le ricerche etrusche. Il suo impegno in ambito archeologico e letterario ruotava intorno al tentativo costante di dimostrare il primato etrusco nella formazione della civiltà antica. Fu questa la tesi argomentata nell’opera maggiore Origini italiche o siano memorie istorico-etrusche sopra l’antichissimo regno 9 - 28 - d’Italia e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più remoti, pubblicata in tre tomi a Lucca tra il 1767 e il 1772 (cfr. Mario Guarnacci 2002). 12 LUNI 1988, p. 40. 13 BOLOGNA 1982. 14 MOMIGLIANO 1960, pp. 275-271; CIPRIANI 1998, pp. 27-63. 15 Così Massimo Pallottino: «Più che per il valore delle congetture e delle conclusioni, sovente arbitrarie e fantastiche, e per la natura del procedimento critico, la etruscheria settecentesca va giudicata positivamente per la passione e per la diligenza delle ricerche e della raccolta del materiale archeologico e dei monumenti, che talvolta, nel caso di documenti perduti, conserva tuttora un certo valore» (PALLOTTINO 1975, p. 4). 16 Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms. 1822, lett. v. (cfr. LOMBARDI 1988, p. 279). 17 Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms 338/I, n. 33, c. 83, gennaio 1730; cfr. anche Ms 338/I, n 40, c. 98, maggio 1730, (cfr. LOMBARDI 1988, p. 280). 18 ASSUNTO 1979, pp. 155-156; GRAVAGNUOLO - CAPPELLIERI 1988. 19 LOSITO 1988, pp.485-513. 20 COMOLLI 1988-1992, pp. 287-91): «(…) il Passeri o si riguardi la sua profonda dottrina, e la vasta erudizione delle sue opere, o si considerino le virtuose e amabili qualità de’ suoi costumi può francamente sta a fronte di tutti que’ nobili, e valenti antiquarj, e letterari, che colle loro osservazioni, e fatiche hanno sì gloriosamente illustrato il nostro». 21 L’amico Annibale Olivieri (DEGLI ABATI OLIVIERI-GIORDANI 1780) afferma che il Passeri «à più di ogni altro illustrata la nostra Patria». 22 Il Passeri fu denominato dal Muratori «antiquario maestro del mondo», (GRISERI 1959, IX, p. 838). 23 GAMBUTI 1787, pp. 17-62. ADRIANO CAFFARO – GIUSEPPE FALANGA Bibliografia ASSUNTO R. 1979, Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell’Europa barocca, Napoli. BENEDETTI S. 1985, Il ‘comodo’ ed il ‘necessaro’ contributo ad uno Juvarra ‘ragionevole’, in Studi Juvarriani. 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Tale entusiasmo contagiò anche i paesi europei, soprattutto Inghilterra, Francia e Germania e persino l’America. Ciò diede vita a un fiorente commercio di antichità con l’estero. Celebre è il caso del fratello di Napoleone, Luciano, divenuto principe di Canino, che operò grossi scavi nei suoi possedimenti, recuperando una ricca quantità di materiali di pregio, molti dei quali poi venduti all’estero. Il Bideri mette in scena come vittime della mania antiquaria alcuni discendenti dei Sanniti abitanti in Benevento. Sono uomini e donne, ragazzi e anziani, di diversa estrazione sociale e culturale. Lo scavo, in questo caso, è effettuato in una cantina che si crede appartenuta all’antica dimora di Ponzio Telesino Sannita. Capo della spedizione e indiscusso conoscitore di antichità per la sua fama di bibliotecario e antiquario è don Prosdocimo2. Ma è il giovane Menicuccio ad aprire una breccia nel muro di confine e ad illustrare agli altri ciò che riesce a distinguere nell’oscurità di un locale leggermente sottostante a quello in cui si trova il gruppo. Generale delusione suscita la mancanza di monete d’oro e di gemme. Donna Florida esplode dichiarando di amare solo le cose antiche che ‘hanno corso in società’ e di essere pronta a cedere ‘tutte le lapidi di cui è murato Benevento’3. In realtà l’apertura realizzata nel muro immette nel laboratorio dello speziale. Tutti gli oggetti ivi contenu- ti sono pertanto contemporanei o solamente un po’ vecchi e polverosi. Ma don Prosdocimo è pronto a dare una spiegazione per ognuno di essi che non contrasti, anzi addirittura assecondi la sua teoria. Così, quando gli viene riferito che numerosi sono i vasi e di varie dimensioni, subito proclama che lì era il sepolcro della famiglia di Ponzio, con vasi sepolcrali, lacrimatori e cinerari4. Un vaso affumicato viene scambiato per un bucchero pregiato5 e una pila per l’acqua turata da un - 31 - SALTERNUM porre e a redarre l’atto di costituzione della Società dei Trovatori, che tutti gli astanti devono sottoscrivere, impegnandosi a dividere in parti uguali i proventi sperati dalla vendita del tesoro nelle più grandi città d’Europa e d’America13. Con questa spiritosa presa in giro degli amanti dell’archeologia, si può dire che G. E. Bideri abbia completato, in chiave comica, un ciclo di opere da lui dedicate alla storia antica. Sue tragedie, infatti, hanno per argomento la distruzione di Sibari, l’infelice avventura di Alessandro il Molosso in Italia, la fine di Alarico e la dolorosa condizione dei cittadini di Poseidonia, ormai conquistata dai Lucani14. Si tratta sempre di avvenimenti che avevano avuto il loro corso, o almeno il loro epilogo, nel Meridione d’Italia. E i loro protagonisti erano stati sul punto d’imprimere un corso diverso alla storia. Tale predilezione trova la sua spiegazione nella natura stessa del personaggio Bideri. tappo di legno per un gran vaso egizio6. Neppure le osservazioni degli astanti, che nutrono qualche più che legittimo dubbio, smuovono il vecchio antiquario dalle sue certezze. Egli è pronto a slanciarsi nelle più fantasiose interpretazioni. L’acqua non è acqua ma oro potabile7, un sacco di tela bianca, che non avrebbe potuto resistere intatto per duemila anni, per il sacco di amianto in cui sarebbe stato cremato il cadavere di Ponzio8. L’arrivo del Magistrato e dei soldati guidati dal giovane della spezieria che, a causa dei rumori, ha paventato un furto, svela l’inanità delle teorie di don Prosdocimo e pone fine ai sogni di ricchezza dei Trovatori fanatici. I personaggi della commedia manifestano, pur nella stringatezza del dialogo, i diversi atteggiamenti del popolo nei riguardi dell’antico che andava riscoprendosi a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento. Donna Florida è l’espressione di quanti badano esclusivamente al valore economico e hanno in disdegno le elucubrazioni culturali che non si traducono in denaro9. Significativa è la sua frase nella scena dodicesima del terzo atto10: «Andiamo cercando denaro, e non pietre», con cui proclama il suo totale disinteresse per le statue. Petronilla, proprietaria della cantina, mostra verso i defunti che si crede riposino in quel sepolcro in via di spoliazione una pietà che si traduce in pianto. La sua avversione al disturbo della quiete eterna dei morti è fenomeno frequente in tutte le epoche e in tutte le culture. I giovani Menicuccio, Annetta, Giulietta e Carluccio partecipano con entusiasmo all’avventura, come è naturale alla loro età, ciascuno speranzoso di dare una svolta al proprio destino grazie al tesoro di Ponzio. Il personaggio più emblematico resta però don Prosdocimo. Egli è il ritratto di tanti studiosi che poggiano le loro certezze nelle parole degli antichi, accettate, in virtù della loro antichità, con totale acquiescenza, senza alcun intervento critico. La sua cultura è esclusivamente libresca e in effetti egli si vanta di aver studiato sui «libri numismatici»11. Ha la presunzione di non ingannarsi mai «sopra le antichità»12, basandosi pedissequamente su quanto si trova scritto in un vecchio volume, privo di frontespizio, e che pertanto nulla può indicare circa l’attendibilità dell’autore. Il fatto che il libro sia databile al Quattrocento è già per don Prosdocimo indiscutibile prova della veridicità del suo contenuto. Ma nemmeno don Prosdocimo è indifferente al risvolto economico dell’impresa. E’ lui, infatti, a pro- Questi godette di buona notorietà nei teatri anche stranieri in quanto autore dei testi di due opere di Gaetano Donizetti, Gemma di Vergy e Marin Faliero, ma sentì fortemente, e per tutta la vita, la sua appartenenza al mondo meridionale. Prova ne è il fatto che volle specificata nel frontespizio del suo Teatro edito e inedito la qualifica italo-greco, siculo-albanese15. Apparteneva per nascita a una famiglia di origine greco-albanese trasferitasi in Sicilia all’epoca della espansione turca. Da ragazzo era stato avviato agli studi religiosi ma la sua irrequietezza e l’amore per il teatro lo spinsero a Napoli dove iniziò la carriera come attore, poi capocomico e drammaturgo. Ritornato a Palermo nel 1848, vi fondò una scuola di recitazione. Fu anche giornalista e autore di un’opera, Passeggiata per Napoli e contorni, in cui sono raccolte scene della vita popolare e del folclore napoletano16. E’ pertanto comprensibile che a fungere da scenario ne I trovatori fanatici sia stata prescelta una città del Sud come Benevento invece di una località dell’Italia centrale in cui, all’epoca, avvenivano continue e ricche scoperte. Opportuni, oltre che inevitabili, sono nella commedia i riferimenti alle antichità beneventane. Il monumento più insigne, l’arco onorario di Traiano, è chiamato in causa da don Prosdocimo che intende rimarcare la maggiore antichità rispetto ad esso della cantina teatro dell’indagine17. Più avanti don Procopio, che possiamo considerare l’equivalente al maschile di donna Florida, rifiutando sdegnosamente un premio - 32 - MARIA ROSARIA TAGLÉ che, per illustrare al suo uditorio il valore dei Sanniti, il dotto antiquario citi proprio l’episodio delle Forche Caudine24. Nella commedia ricorre l’allusione a spiriti diabolici, streghe e magia. A beneficio del nucleo originario dei cercatori, don Prosdocimo stigmatizza che la diffusione della notizia della presenza di un tesoro non è colpa di nessuno di loro bensì dello spirito maligno che è solito presiedere a tutti i grandi tesori. Tale spirito, vantando diritto di possessione sul luogo dove si trova e temendo di esserne cacciato, cerca di dissuadere i trovatori creando disappunto e astio25. A Petronilla vien spontaneo il paragone con le streghe alla proposta di iniziare lo scavo a mezzanotte26. E, nei casi più straordinari, si pensa all’intervento del diavolo. A lui è attribuita la metamorfosi della statua in sacco e dell’oro in acqua27. Le allusioni al mondo magico si inseriscono all’apparenza in modo del tutto naturale e spontaneo in una vicenda che si svolge al buio, di notte, nella massima segretezza possibile, e che ha per fine – non dimentichiamolo – la profanazione di un sepolcro a scopo essenzialmente di lucro. Non è difficile dedurre che il Bideri, tanto interessato agli aspetti del folclore napoletano, sia rimasto affascinato dalle leggende di Benevento che hanno il loro fulcro nella figura delle streghe, antico retaggio dei riti longobardi prima della conversione al cristianesimo di quel popolo invasore28. Si deve all’abilità di commediografo del Bideri se i riferimenti magici si inseriscono nel dialogo senza la pesantezza retorica dell’erudizione. in statue, proclama che per lui sono sufficienti le statue di Port’Aurea18. Ora, Port’Aurea altro non è che il nome dato all’Arco di Traiano fino alla metà dell’Ottocento. Già in epoca longobarda, infatti, il monumento era stato inglobato nella nuova cinta muraria della città, diventandone una delle porte di accesso, appunto la Porta Aurea19. E i frequenti richiami alle antichità egizie dimostrano quanto fosse noto nell’Ottocento il legame fra Benevento e la cultura egizia favorita dall’imperatore Domiziano. D’altronde il grande obelisco, oggi situato in piazza Papiniano, era stato rinvenuto nel 162920 e certo non dovettero mancare altri ritrovamenti sporadici, sebbene la maggior parte dei reperti di arte egittizzante riferibili al tempio di Iside venisse recuperata solo nel 190421. Il Bideri, inoltre, ebbe cura di scegliere per il presunto antico proprietario della cantina, Ponzio Telesino, un gentilizio sicuramente sannita. Le fonti antiche parlano di due membri appartenuti certo alla stessa famiglia che portarono tale nome. Il più antico, figlio o nipote di Ponzio Herennio, guidò vittoriosamente i Sanniti contro i consoli Postumio e Veturio, infliggendo all’esercito romano, nel 321 a. C., l’infamia delle Forche Caudine22. Anche il C. Ponzio Telesino più giovane fu un valente generale che nell’82 a. C. tenne pericolosamente in scacco l’esercito romano agli ordini di Silla, spingendo l’assedio fin sotto le mura di Roma presso la porta Collina23. Ma il personaggio a cui si riferisce il Bideri, attraverso ovviamente il solito don Prosdocimo, è il primo dei due. Lo si deduce dal fatto - 33 - SALTERNUM Note Sulla situazione degli studi di antichità fra Settecento e Ottocento, cfr. BLOCH 1977, pp. 14-43. Per gli scavi di Luciano Bonaparte, cfr. in part. p. 34. 2 Il termine ‘antiquario’ nell’uso comune designava in Italia, tra il Settecento e la metà dell’Ottocento, non tanto il mercante di antichità quanto il collezionista, spesso privo di cognizioni approfondite sul mondo antico. In proposito, cfr. SALMERI 1993, pp. 267298. In letteratura l’esempio più famoso di antiquario in questa accezione del termine è il conte Anselmo Terrazzani della commedia goldoniana La famiglia dell’antiquario, che dilapida un patrimonio per acquisire al suo museo personale, a prezzi assurdi, qualunque paccottiglia gli venga presentata come antica. 3 Atto II, scena I, p. 12. 1 Atto IV, scena IV, pp. 42 ss. Ivi, p. 45. 6 Ivi, p. 47. 7 Ivi, p. 48. 8 Ivi, p. 44. 9 Atto II, scena I, pp. 12 ss. 10 Atto III, scena XII, p. 35. 11 Atto I, scena II, p. 5. 12 Atto II, scena II, p. 14. 13 Atto III, scene X, XI e XII, pp. 32-37. 14 A ciascuna di queste tragedie la scrivente ha dedicato uno studio: TAGLÉ 2005, pp. 245252; EAD. 2006, pp. 245-251; EAD. 2007, pp. 209-215; EAD. 2010, pp. 337-341. 15 La seconda edizione corretta e riveduta dall’Autore fu pubblicata a Napoli nel 1854 dallo Stabilimento Tipografico di G. Gataneo. 4 5 - 34 - SALLUSTI 1968, pp. 361 ss.; zANETTI 1954, col. 485 (qui il cognome è riportato nella forma Bidera). 17 Atto I, scena II, p. 4. 18 Atto III, scena XII, p. 35. 29 DE CARO – GRECO 1981, p. 187. 20 IID., Ibidem. 21 MARUCCHI 1904, pp. 118-127. 22 Liv. IX, 1-15; App. III, 2-7. 23 Vell. 2. 27; Plut., Sulla, 29, 1-4; App. I, 431. 24 Atto IV, scena II, p. 39. 25 Atto II, scena X, p. 23. 26 Atto III, scena XII, p. 37. 27 Atto IV, scena IV, p. 48. 28 PIPERNO 1640 (1984), in part. pp. 5 ss.; 17; 31. 16 MARIA ROSARIA TAGLÉ Bibliografia BLOCH R. 1977, Gli Etruschi, Milano, pp. 14-43. na dell’Ottocento, Napoli, pp. 267-298. DE CARO S. – GRECO A. 1981, Campania, Roma-Bari. TAGLÉ M. R. 2005, L’imbarbarimento di Poseidonia, un dramma dell’Ottocento e un caso di etruscheria, in ‘Rassegna Storica Salernitana’, n.s., 44 (dicembre), pp. 245-252. MARUCCHI O. 1904, Nota sulle sculture di stile egizio scoperte in Benevento, in ‘Notizie degli Scavi’, pp. 118-127. PIPERNO P. 1640, Della superstitiosa noce di Benevento. Trattato historico, Napoli (rist. anast. 1984, Sala Bolognese). TAGLÉ M. R. 2006, Alessandro re de’ Molossi a Pandosia: una tragedia di Giovanni E. Bideri, in ‘Rassegna Storica Salernitana’, n.s., 46 (dicembre), pp. 245-251. 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In parallelo è stato eseguito un dettagliato studio geomorfologico della cartografia in scala 1:25.000 (STR Regione Campania 1984, foglio n. 39) ed in scala 1:5.000 (CASMEz, 1983 e CTR del 2003), delle fotoaeree storiche e della cartografia storica. Tale approccio morfo-crono-stratigrafico integrato consente di valutare i cambiamenti dell’assetto litoraneo indotti dalle trasformazioni antropiche e quelli indotti dalla dinamica litoranea naturale, principalmente dovuti alle oscillazioni del livello del mare ed agli apporti sedimentari fluvio-costieri e vulcanoclastici. Vincenzo Amato - Amedeo Rossi Premessa e metodologie n questo contributo si affronteranno alcuni risultati preliminari frutto di uno studio avviato da tempo sull’evoluzione costiera del Golfo di Salerno. In questa sede focalizzeremo il nostro interesse sulla costa dell’attuale città di Salerno, negli ultimi anni oggetto di una marcata opera di urbanizzazione e di progressiva cementificazione che ha cambiato radicalmente l’assetto geomorfologico originario. Di recente nuove opere urbane di alto impatto hanno permesso di realizzare diverse indagini geologiche di sottosuolo (sondaggi geognostici, prospezioni) finalizzate sia alla caratterizzazione geo-meccanica dei terreni che alla valutazione del record archeologico. In tale ambito i nuovi dati archeo-stratigrafici, uniti a quelli noti in letteratura1, hanno consentito di ipotizzare la posizione delle linee di riva in alcuni settori della città sia in epoca preistorica che storica e di tentare di ricostruire l’originaria conformazione geomorfologica precedente alla grande urbanizzazione del XIX e del XX secolo. Le successioni stratigrafiche riscontrate in settori chiave della costa, tra l’attuale porto a NO e la foce del fiume Fuorni a SE, sono state interpretate utilizzando i moderni metodi della stratigrafia a limiti inconformi (Unconformity Boundary Stratigraphic Units, UBSU2) al fine di valutare correttamente gli ambienti di sedimentazione che si sono succeduti nel corso della storia geologica più recente. La presenza di livelli vulcanici (tephra) e di livelli archeologici ha consentito di inquadrare nel tempo le principali unità UBSU. In alcuni casi i livelli più significativi delle successioni stratigrafiche sono stati oggetto di datazioni radiometriche (C14) e di approfondite analisi e tephro-stratigrafiche e paleoambientali (pollini e macroresti vegetali e paleoecologiche (malaco-faune e microfossili calcarei), alcune di queste ancora in corso di studio, al fine di ulte- I Cenni di geologia Il territorio comunale di Salerno è in parte ubicato nel settore più esterno della catena appenninica, nell’Unità dei Monti Picentini ed in parte nel settore nord-occidentale della depressione strutturale Piana Sele-Golfo di Salerno. Nelle aree più interne e nella porzione nord-occidentale del territorio comunale (fig. 1) vi affiorano i terreni dei membri triassici della successione carbonatica di piattaforma, ascrivibili all’Unità Monti-Picentini-Taburno e rispettivamente costituiti in prevalenza da una successione di età triassica costituita dal basso verso l’alto da dolomie biancastre e grigio chiare, da calcari e calcari marnosi e da dolomie grigie stratificate. Questi litotipi affiorano diffusamente nel settore occidentale della città ed alla base del Monte Stella, dove sono in contatto tettonico con i calcari cretacicomiocenici della successione carbonatica (fig. 1). Le successioni terrigene sono altresì rappresentate dall’Unità di Villamaina (Tortoniano superioreMessiniano) e dalle Argille Varicolori (CretacicoOligocene). Queste ultime sono generalmente interca- - 37 - SALTERNUM modeste pendenze affiorano diffusamente spesse coperture piroclastiche delle eruzioni tardo-quaternarie dei vulcani napoletani (Vesuvio e Campi Flegrei) (fig .1). Tali depositi sono per lo più sciolti o debolmente addensati, frequentemente rimaneggiati con spessori variabili da pochi metri fino a circa 30 metri. Ad Est di Fratte affiora il Tufo Grigio Campano litoide, a fessurazione colonnare e di colore giallastro nella porzione terminale, tagliato dalla profonda valle del fiume Irno. Le fasce pedemontane di raccordo alla pianura costiera (fig. 1), sono costituite, invece, da potenti successioni di aggradazione costituite prevalentemente da materiali vulcanoclastici rimaneggiati alternati a livelli limosi ed argillosi derivanti dalla disgregazione fisica dei versanti e dall’alterazione in situ. Inoltre le principali aste torrentizie che solcano i versanti hanno accresciuto le fasce pedemontane con ripetuti alluvionamenti costruendo corpi deposizionali ventagliformi (conoidi alluvionali). Tali fenomeni alluvionali sono stati recentemente attivi interessando particolarmente il settore occidentale della città ed in particolare la zona del centro storico di Salerno. Infatti sono noti i danni provocati dalle alluvioni del 1954 e le varie fasi ricostruttive di età storica del centro antico5. Nella fascia costiera affiorano potenti successioni stratigrafiche in cui si alternano livelli fluvio-palustri e transizionali con livelli sabbiosi eolico-marini (fig. 1). La genesi di tali successioni è legata prevalentemente alle oscillazioni glacio-eustatiche tardo-quaternarie ed in secondo luogo alle attività tettoniche tardo-quaternarie. In particolare i depositi litoranei sono costituiti prevalentemente da sabbie medie e grossolane, dell’attuale complesso spiaggia-duna e da sabbie ghiaiose, specialFig. 1 - Carta geologica del territorio comunale di Salerno. 1. Area urbanizzata; 2. Depositi piroclastici tardo-quaternari; 3. Detriti di falda tardo-quaternari; 4. Alluvioni recenti ed attuali (a) ed antiche (b); 5. Conglomerati di Eboli e di Salerno; 6. Unità di mente in prossimità delle foci Villamaina: membro sabbioso-arenaceo e membro argilloso; 7. Complesso carbonatico mesozoico terziario: prevalentemente dei principali corsi d’acqua. dolomitico e calcareo; 8. Principali lineamenti tettonici. late alle Argille dell’Unità di Villamaina e sono presenti occasionalmente in affioramento, mentre si rinvengono in vari sondaggi geognostici al di sotto della copertura detritico-piroclastica di età quaternaria. L’Unità di Villamaina3 affiora diffusamente nel settore centrale dell’area comunale (fig. 1), dove dal membro argilloso inferiore passa verso l’alto a sabbie ed arenarie debolmente cementate, a granulometria uniforme, con taluni livelli di puddinghe poligeniche. Lungo la fascia di cresta della dorsale Masso della Signora-Colle Pignolillo, l’Unità di Villamaina risulta tagliata in discordanza dalla Formazione dei Conglomerati di Salerno (Pliocene inferiore? Pleistocene inferiore)4. Tale successione è costituita da conglomerati ad elementi ghiaiosi prevalentemente carbonatici debolmente cementati e riferibili a depositi di antiche conoidi alluvionali e da conglomerati con abbondante matrice sabbiosa giallo-ocra di ambienti fluviali. Lungo la valle dell’Irno, nella fascia pedemontana del Monte Stella ed in altre zone caratterizzate da - 38 - VINCENZO AMATO - AMEDEO ROSSI I fondovalle fluviali invece sono occupati da potenti successioni stratigrafiche di depositi alluvionali costituite da ghiaie; sabbie, sabbie ghiaiose e/o limose e limi. A luoghi i depositi appaiono disposti in modesti, limitati e discontinui terrazzamenti in alveo. Inoltre nel sottosuolo dell’area urbana occidentale e nella fascia costiera del lungomare fino alla foce del fiume Irno, sono presenti depositi detritico-alluvionali e marini, frammisti a piroclastiti e soprattutto a terreni di riporto. mascherati dalle urbanizzazioni dell’ultimo secolo, che si raccordano ai rilievi ed alle fasce pedemontane mediante delle ripide scarpate di abrasione marina (paleofalesie). In particolare il settore di costa alta è presente nella zona nord-occidentale della città, dove una falesia attiva è tagliata direttamente nelle dolomie e nei calcari dolomitici mesozoici. Il settore su cui insiste il centro storico (fig. 2) presenta un’ampia fascia costiera sabbiosa che si raccorda al settore pedemontano mediante una ripida scarpata (paleofalesia), oggi antropizzata, tagliata nei depositi della fascia pedemontana, accresciutasi durante le fasi glaciali del Quaternario recente ed in particolar modo durante l’Ultima Glaciazione per il continuo apporto di materiali detritico-colluviali derivanti dalla disgregazione fisica dei rilievi retrostanti. Tale scarpata fu generata dall’azione trasgressiva del mare durante la rapida risalita del livello marino che avvenne nei primi millenni dell’Olocene e che ebbe il suo apice a circa L’evoluzione geomorfologica del tratto costiero L’area comunale di Salerno presenta forme del paesaggio tipiche di una zona costiera tirrenica, caratterizzata da tratti con costa alta, da tratti con ampi litorali sabbiosi, che si raccordano mediante più o meno ripide fasce pedemontane ai rilievi calcareo-dolomitici, e da tratti di litorali sabbiosi (dune costiere), le quali recavano verso l’interno ampi settori depressi (lagune, paludi, stagni costieri), oggi poco visibili in quanto Fig. 2 - Carta delle paleolinee di riva con alcune ipotesi sulla localizzazione delle aree portuali antiche del settore di costa salernitana compreso tra il limite occidentale della Città ed il Torrione. In evidenza la linea di riva della massima trasgressione avvenuta in epoca preistorica (circa 6000 anni fa), la linea di riva di Età romana (III sec. a. C. - V sec. d. C.), e la linea di riva precedente alle urbanizzazioni degli ultimi secoli, mappate su carta 1:5.000 con curve di livello (equidistanza ad 1 metro) per la sola fascia costiera e pedemontana. - 39 - SALTERNUM Il settore terminale del fiume Irno, tenuto oggi da imponenti sponde antropiche, risulta incassato di alcuni metri nei depositi alluvionali di età alto-pleistocenica, posti a valle del terrazzo di Tufo Grigio Campano, formatosi circa 39.000 anni fa, su cui sorge il sito archeologico di Fratte. Risulta chiaro che la trasgressione olocenica favorì una ingressione marina all’interno della vallata alluvionale generandovi una sorta di rias stretta e profonda. Solo il rallentamento dei ritmi di risalita del livello del mare e l’aumento del carico solido del fiume avvento a partire da 6000 anni fa e particolarmente accentuato negli ultimi 2500 anni fa ha permesso il riempimento del tratto terminale del fiume e favorito la progradazione costiera. Su come è avvenuta la seconda fase non è possibile recuperare informazioni precise in quanto l’urbanizzazione ha mascherato completamente eventuali forme fluviali legate alle divagazioni del fiume. Nella carta ottocentesca del Rizzi zannoni il corso del fiume Irno è rappresentato mediante due tracciati distinti, quasi rettilinei e paralleli, con il più occidentale, punteggiato da mulini, passante per l’attuale zona della ferrovia, e sfociante nei pressi dell’attuale Piazza Mazzini. Tale aspetto paesaggistico disegnato dal Rizzi zannoni potrebbe essere messo in relazione ad un corso del fiume Irno a più aste (di tipo braided), anche se risulta complicato immaginare una delle due aste pensile sull’altra, visto che quella più occidentale doveva sormontare l’attuale ripiano della ferrovia. Pertanto il Rizzi zannoni potrebbe avere rappresentato un canale di corrivazione antropico ad utilizzo dei mulini che correva pensile sul fondovalle e che prendeva le acque dell’Irno poche centinaia di metri più a monte. Tale tecnica di gestione controllata delle acque fluviali ad uso dei mulini mediante un canale pensile sull’alveo caratterizzava molti contesti fluviali dell’Italia meridionale fino agli inizi del secolo scorso8. La fascia costiera immediatamente ad Oriente ed ad Occidente la foce del fiume Irno presenta ancora oggi, nonostante le urbanizzazioni che vi insistono, caratteri di un litorale sabbioso che fino al secolo scorso conservava il tipico aspetto di spiaggia-duna. Tali lineamento costiero che si estende fino al settore orientale di Salerno potrebbe essersi aggiunto nel corso dell’Olocene recente (ultimi 2500 anni) e legarsi alle note fasi progradazionali indotte dai cambiamenti climatici e dalle antropizzazioni che hanno interessato i settori terminali dei fiumi e le aree costiere mediter- 6.000 anni fa. A valle della paleofalesia, invece è presente un’ampia fascia costiera sabbiosa, formatasi durante gli ultimi 6000 anni, quando i ritmi di risalita del livello del mare rallentarono fortemente, e quando le deiezioni alluvionali dei numerosi torrenti cittadini presero il sopravvento sulle dinamiche francamente marine. Tale trend evolutivo progradazionale fu alimentato fortemente anche dagli arrivi dei prodotti distali delle eruzioni oloceniche dei vulcani napoletani, in particolar modo dell’eruzione di Agnano M. Spina (avvenuta 4.100 anni fa) e soprattutto dell’eruzione di Pompei (79 d. C.). Infatti dai dati a disposizione, la linea di costa del centro antico di Salerno sembra essere avanzata più velocemente proprio negli ultimi 2000 anni. Tale rapidissima progradazione fu più spinta proprio in corrispondenza delle antiche foci fluviali dei torrenti che solcavano il centro antico fino al secolo scorso. Infatti, a tale proposito, sono ben noti gli eventi alluvionali che interessano il centro antico e l’area costiera ed in particolare l’area dell’attuale bacino portuale6. Non è da escludere che qualcuna delle foci fluviali sia stata sede di bacini portuali e di carenaggio in epoca romana e medievale, così come sembra emergere da alcune cartografie storiche e da dati archeologici (fig. 2). L’ultima fase evolutiva dell’area costiera del centro antico di Salerno è quella che vede una continua avanzata della linea di costa per colmamenti e riporti antropici, legati a varie fasi di ristrutturazione ed urbanizzazione del litorale avvenute prevalentemente durante l’ultimo secolo. Il settore costiero prossimo alla foce del fiume Irno, è dominato dalle urbanizzazioni e dalle opere marittime che sono state costruite negli ultimi decenni. Infatti dal confronto di varie carte topografiche storiche, dalla lettura delle foto aeree del 1943 e dai dati stratigrafici emersi da alcuni sondaggi geognostici, risulta che il tratto costiero che va dal Molo Masuccio Salernitano, Piazza della Concordia, Piazza Mazzini, fino alla Lungomare C. Colombo si è aggiunto per riporti antropici solamente dopo il 1943. In questo settore, inoltre, i dati stratigrafici permettono di ipotizzare una linea di riva di epoca romana decisamente più interna rispetto all’attuale, collocabile intorno alla curva di livello dei 5 m s.l.m., quasi a ridosso dell’attuale corso Vittorio Emanuele. Tale dato potrebbe essere esteso anche al settore del centro antico, così come dimostrato di recente7. - 40 - VINCENZO AMATO - AMEDEO ROSSI riparata fino a diventare stagni e paludi costiere e passaranee9. Tale progradazione ha isolato dal mare il masso re ad ambienti fluvio-palustri durante gli ultimi 2500 roccioso-conglomeratico del Torrione che in epoca anni. Alcune di queste depressioni fluvio-palustri più preistorica e protostorica era proteso verso mare vicine alle foci dei torrenti che solcano la fascia pedecostituendo un promontorio (fig. 2). Su quando il montana-costiera, come quelle vicine alla foce del torTorrione si trovò in posizione più interna rispetto alla rente Fuorni, resistettero fino al secolo scorso quando linea di costa, i dati a disposizione non permettono un furono bonificate. Un importante dato cronologico sulvincolo cronologico ben preciso, anche se molto prol’assetto paleogeografico della costa orientale di Salerno babilmente già in epoca romana poteva esistere un è fornito dalla presenza del livello vulcanico dell’eruziocordone sabbioso dunale e/o di spiaggia che lo sepane di Agnano M. Spina (4100 anni fa) all’interno di rava dal mare. depositi limosi ed argillosi di ambienti lagunari protetti Il settore compreso tra il Torrione e la foce del nella zona compresa tra Pastena e San Leonardo, sugfiume Fuorni, anche se fortemente urbanizzato, è stato gerendo che le popolazioni preistoriche, attestate a interessato da una evoluzione paleogeografica olocenimonte del salto di quota (paleofalesia)12 dovettero per ca molto simile a quella dell’intera pianura del fiume forza di cose confrontarsi con tale conformazione della Sele, di cui rappresenta la parte più nord-occidentale10. Infatti al di sotto delle abitazioni dei quartieri di costa. Tali autori segnalano la presenza di depositi Pastena, Mercatello, Mariconda e S. Leonardo sono riconducibili ad un evento di tsunami che ha interessato presenti sedimenti tipici di un sistema di barriera-laguna che è dapprima avanzato verso terra e successivamente verso mare (fig. 3). Infatti al di sotto dei terreni di riporto antropico delle recenti urbanizzazioni sono presenti, nella fascia più esterna, le sabbie eolico marine del cordone dunare e di spiaggia, che fino a poco tempo fa caratterizzavano la fascia litoranea salernitana, al di sopra dei depositi limoso-argillosi a luoghi torbosi di ambienti retrodunari, mentre nella fascia più interna la successione dei depositi è inversa alla precedente. Tale assetto stratigrafico, unito alla presenza di un salto di quota di diversi metri nella zona più interna, quasi a ridosso dell’attuale tangenziale, permette di ipotizzare che il settore orientale di Salerno fu interessato, nei primi millenni dell’Olocene e fino a circa 6.000 anni fa, da un’estesa trasgressione marina, che portò la linea di costa a lambire la fascia pedemontana dei rilievi siltoso-arenacei ed argilloso-siltosi, generando il salto di quota (paleofalesia). La trasgressione marina fu causata dagli elevati ritmi di risalita del livello del mare (cm/anno)11. Appena i ritmi di risalita del livello del mare rallentarono vistosamente (mm/anno), a partire da circa 6000 anni fa, la linea di costa cominciò a progradare mediante la giustapposizione di cordoni dunari e depressioni retroduna- Fig. 3 - Carta delle paleolinee di riva con alcune ipotesi sulla localizzazione delle aree portuali antiche del settore di costa salernitana compreso tra il Torrione ed il limite sud-orientale della città. In evidenza la ri via via più avanzati fino a raggiungere la posi- linea di riva della massima trasgressione avvenuta in epoca preistorica (circa 6000 anni fa), la linea di riva di Età romana (III sec. a. C. - V sec. d. C.) e la linea di riva precedente alle urbanizzazioni degli ultimi zione attuale. Le depressioni retrodunari ospita- secoli, mappate su carta 1:5.000 a sole curve di livello con equidistanza ad 1 metro per la sola fascia rono ambienti dapprima di laguna aperta, poi costiera e pedemontana. - 41 - SALTERNUM sia alcuni siti archeologici posti sui ripiani che stanno a monte della paleofalesia (a quote prossime ai 25 metri s.l.m.) che i depositi di alcuni sondaggi geognostici collocati in vari settori della pianura costiera orientale di Salerno. Tale evento va giustificato e chiarito anche alla luce dell’assetto paleogeografico che vede la presenza di sistemi di barriera-laguna nel periodo preistorico e protostorico e la presenza della paleofalesia che, a San Leonardo, superava i 10 metri di altezza. Le lagune costiere passarono ad ambienti fluvio-palustri in un periodo precedente l’arrivo dei prodotti distali dell’eruzione di Pompei, in quanto questi ultimi sono intervallati a depositi limosi ed argillosi di ambienti palustri, a paleosuoli ed a livelli sabbioso-ghiaiosi alluvionali. Le cause di tale cambiamento furono dovute sia alla chiusura del sistema barriera-laguna, con un cordone litoraneo continuo su tutta la falcata marittima salernitana, che al concomitante aumento degli apporti solidi dei numerosi torrenti che solcano i rilievi della zona orientale di Salerno, favoriti anche dall’arrivo dei prodotti dell’eruzione di Pompei, anche se non è da escludere probabili opere di bonifiche eseguite in epoca romana. Non è da escludere che le aree lagunari e palustri poste alle spalle dei cordoni dunari e nelle vicinanze delle foci fluviali sia stata sede di bacini portuali e di carenaggio in epoca romana e medievale. Vincenzo Amato Gli approdi sulla fascia costiera di Salerno. Il contributo dei dati archeologici e della cartografia storica La recente edizione della mostra dedicata alla storia di Salerno antica13 offre nuove e stimolanti prospettive per analizzare e ricostruire le dinamiche antropiche di un comprensorio territoriale nodale. La parte antica della città di Salerno14 è situata sulla fascia di raccordo morfologico che dalle pendici del monte Bonadies degrada verso la piana costiera e verso il mare; l’area è caratterizzata dalle morfologie aspre dei rilievi carbonatici che bordano il centro urbano a Ovest e a Nord. Numerosi corsi d’acqua, oggi in parte incanalati e cementati, solcano i rilievi scorrendo in valli strette e notevolmente incise. I torrenti Fusandola, S. Eremita e Rafastia hanno vincolato l’articolazione urbanistica della città in tutte le sue fasi e sono state causa di alcuni eventi di eccezionale gravità: solo come esempio, basti ricordare che tra la fine del IV sec. d. C. e l’inizio del V sec. d. C. Salerno fu invasa da una alluvione ricordata anche nelle fonti epigrafiche15. Dal punto di vista geomorfologico la fascia costiera salernitana presenta alcuni tratti favorevoli agli approdi. Oltre al noto approdo di Età romano-imperiale della Punta del Fuenti16 (fig. 4.1), ad Ovest della marina di Vietri sul Mare, la documentazione archeologica fornisce alcuni elementi sulla presenza nel centro storico di Salerno di un bacino portuale naturale. Fig. 4 - Carta archeologica con gli approdi e la linea di riva di Età romana. - 42 - VINCENZO AMATO - AMEDEO ROSSI saranno state alla base della nascita della colonia come sembra sottolineare la stessa fonte (Liv. 32, 7, 3) quando afferma che furono messi in affitto i dazi di entrata e di uscita delle dogane di Capua, Pozzuoli e di Castro24. Allo stato attuale delle ricerche il sito di Fratte, pur presentando poche tracce di occupazione databili alla seconda metà del III sec. a. C., resta topograficamente un luogo adatto in cui collocare un insediamento fortificato25. I dati archeologici, tuttavia, restituiscono un territorio ricco di testimonianze che vanno inserite in una prospettiva topografica più articolata, di cui anche il diffuso sistema infrastrutturale costituito dall’asse viario lungo la riva sinistra del fiume Irno e dal tracciato costiero che si segue fino a Pontecagnano sono testimonianza (fig. 4)26. Il sito prescelto per la fondazione coloniale coincide, invece, con l’attuale centro storico, racchiuso tra il versante meridionale del colle Bonadies, i torrenti Fusandola ad Ovest e Rafastia ad Est e la fascia costiera (fig. 4). La necropoli urbana della colonia si dispone lungo l’asse stradale in uscita dalla città, corrispondente all’attuale Corso Vittorio Emanuele: le sepolture si distribuiscono tra il II sec. a. C. e il V sec. d. C. 27. Recentissime indagini svolte in occasione della ripavimentazione di Corso Vittorio Emanuele e di Via Vicinanza hanno permesso di individuare altri nuclei di necropoli risalenti ad epoca tardo-antica28. Il dato interessante, oltre alla presenza delle sepolture, è il rinvenimento lungo Via Vicinanza di un grosso scarico di anfore da trasporto che ha fatto ipotizzare la presenza di un scalo, probabilmente più tardo, al confine tra Via Vicinanza e Corso Garibaldi e quella che doveva essere in epoca romana la linea di costa, quindi in un’area molto prossima a Piazza Mazzini (fig. 4.4). Altre possibili aree di approdo, soprattutto di età imperiale, sono da segnalare lungo la costa litoranea a Sud-Est della colonia presso il forte la Carnale (fig. 4.5), tra le foci del Mercatello e del Mariconda (fig. 4.6), dove è da localizzare un vicus, e, più a Sud, alla foce del fiume Picentino, nei pressi di Torre Picentina29. In considerazione del quadro archeologico pluristratificato emerso dai dati esaminati è stato avviato uno studio comparato sulla cartografia storica. Sia pure nella piena consapevolezza dei limiti che questo tipo di studi incontra in un contesto ambientale come quello indagato, le immagini cartografiche documentano un paesaggio costiero che conserva ancora elementi significativi ed utili alle ricostruzioni topografiche. Ad Occidente del torrente Fusandola, infatti, sembra collocarsi un’insenatura naturale che forniva un ormeggio sicuro (fig. 4.3) e che la presenza di evidenze archeologiche databili tra Età tardo-arcaica e classica potrebbe segnalare in uso già da questa fase rientrando nel sistema di approdi facenti capo al centro etrusco-campano di Marcina (fig. 4.7)17. Questa vocazione portuale dell’insenatura del Fusandola sembra rafforzarsi nel corso dell’età ellenistica momento al quale risale l’impianto dell’area sacra di via Monti, che attesta attraverso la documentazione numismatica una intensa relazione commerciale con Ebusus nelle Baleari18, e, successivamente, con l’impianto della colonia quando, pur in assenza di chiare testimonianze archeologiche, l’area diventa il porto della città, lungo il confine occidentale19. Secondo la tradizione tràdita da Livio (Liv. 32, 29, 3-4), la colonia è fondata nel 194 a. C. «ad castrum Salerni», facendo riferimento ad un insediamento posto a controllo del territorio già attivo alla fine del III sec. a. C. Una recente rilettura topografica ribadisce la preesistenza del Castrum nei pressi o nello stesso luogo della colonia identificando due possibili siti: il settore urbano a Nord-Est del Duomo, protetto ad Ovest dal torrente S. Eremita e ad Est dal torrente Rafastia, oppure l’altura di Via Indipendenza, gravitante sull’insenatura ad Ovest del Fusandola20. Diversamente, E. De Magistris, riprendendo un’interpretazione avanzata da A. R. Amarotta, propone di collocare il Castrum Salerni a Fratte di Salerno, nel luogo dell’insediamento sannitico messo in luce sulla collina di Scigliato e identificato, secondo la sua lettura del passo di Strabone (V, 4, 13), con il poleonimo di Sàlernon21. Se la netta scansione temporale tra il Castrum e la colonia è vera, bisogna anche ammettere che Castrum Salerni potrebbe riflettere una dipendenza del Castrum da una realtà insediativa maggiormente articolata22; a tal proposito potrebbe anche essere valida l’ipotesi avanzata ancora di recente23 di collocare il Castrum sul mare come parte di un più ampio sistema di controllo imperniato su un insediamento pre-coloniale. La presenza dell’area sacra di via Monti e di altre evidenze di IV e III sec. a. C. nel luogo stesso dell’insediamento della colonia non è un argomento dirimente per l’una o per l’altra ipotesi. Resta, tuttavia, la problematicità strategico-insediativa del controllo di un bacino portuale, quale quello del Fusandola, e, nel contempo, della bassa valle dell’Irno: due priorità che - 43 - SALTERNUM e presso l’Archivio di Stato di Napoli31. In questa documentazione cartografica, Salerno, rappresentata nella parte più alta della penisola Sorrentina, ha un impianto urbano riprodotto simbolicamente con edifici, torri e mura disegnati in rosso: sono ben visibili sia il castello sul colle Bonadies sia le mura protese verso il mare. Sulla costa, nella parte in basso, oltre i confini murati della città, in una zona denominata Santa Teresa, si riconosce un lungo molo unito alla terraferma, che delimita una insenatura marginata in basso da una chiesa (Sant’Anna in Porto Salvo?). Nella parte alta della rappresentazione cartografica, oltre i limiti della città, si scorge una doppia foce del fiume Irno, oltre la quale, su una lieve altura, è collocata la torre del forte La Carnale (fig. 5). La rappresentazione ‘aragonese’ offre la prima immagine di un bacino portuale composto da una insenatura e da un lungo molo. Successivamente una rappresentazione anonima del XVI secolo (fig. 6) mostra alcuni elementi del paesaggio costiero salernitano diversi da quelli già riscontrati sulla cartografia ‘aragonese’: l’insenatura scomparsa è ora occupata dalla foce del Fusandola, mentre il molo è ridotto in ruderi e presso di esso ormeggiano alcune le imbarcazioni32. L’affresco del 1606-1609 della Cripta del Duomo di Salerno che rappresenta l’Assedio di Ariadeno Barbarossa del 1544 mostra di nuovo l’insenatura, parzialmente in uso (si nota una piccola imbarcazione), delimitata ad Occidente da S. Anna in Porto Salvo e ad Est dai bastioni della fortificazione cinquecentesca. Sulla stessa rappresentazione emergono dal mare alcuni ruderi di arcate pertinenti probabilmente ad un molo e prospicienti la Chiesa di S. Anna, ad Ovest dei L’individuazione delle principali tappe attraverso le quali si è storicamente costruito il paesaggio contemporaneo, è stata condotta secondo i criteri dell’indagine stratigrafica, procedendo dall’immagine più recente alle rappresentazioni cartografiche più antiche. Questo procedimento ha permesso di riconoscere tratti che possono configurarsi come forme significative di permanenza e sopravvivenza dei paesaggi del passato. Il paesaggio odierno, infatti, è un mosaico di sistemi di sfruttamento dello spazio, antichi e moderni, che si sono sovrapposti e integrati fino a costituire un unico tessuto funzionale ancora oggi sottoposto a trasformazioni. Oltre alla documentazione cartografica ampiamente nota in letteratura30, un contributo importante alla ricostruzione del paesaggio costiero della città di Salerno medievale e moderna viene dalla recente riedizione di alcune copie settecentesche di carte geografiche aragonesi conservate presso la Biblioteca Nazionale Francese Fig. 5 - Salerno nella Cartografia ‘Argonese’ (da LA GRECA-VALERIO 2008). Fig. 6 - Salerno nella Cartografia ‘Argonese’ (da LA GRECA-VALERIO 2008). Fig. 7 - Particolare dell’affresco del XVII (Cripta del Duomo di Salerno). - 44 - VINCENZO AMATO - AMEDEO ROSSI ruderi, vi è una insenatura portuale con alcune imbarcazioni ormeggiate (fig. 7). Quest’ultima immagine, molto realistica, è in parte mantenuta nei secoli successivi e diverrà la base per le più recenti viste della città dal mare, ad eccezione di una rappresentazione del 1653, con l’episodio dell’assalto dei Francesi (fig. 8): su questa l’insenatura tra l’attuale teatro Verdi e la chiesa dell’Annunziata non è più attiva, rimanendo la memoria topografica affidata alla denominazione ‘Porto Salvo’ che si nota sull’incisione, mentre i ruderi del molo sono anch’essi scomparsi. La costa e la città di Salerno sono rappresentate in una stampa di un Anonimo degli inizi del XVIII secolo e in una incisione del Salmon nello stesso secolo (figg. 9-10). Nelle due rappresentazioni è privilegiata una vista da mare che sembra riprendere in parte la raffigurazione ‘aragonese’ e, soprattutto, quella dell’affresco della Cripta del Duomo: si notano bene in evidenza l’insenatura di Sant’Anna in Porto Salvo e i ruderi del molo che emergono dal mare. Sebbene sulle rappresentazioni dal XVI al XVIII appaiano differenti restituzioni della linea di costa ad Occidente della città, tutte le fonti iconografiche sembrano conservare la vocazione portuale dello specchio d’acqua antistante l’attuale chiesa di Sant’Anna precedente al Cinquecento. Per avere un rilievo cartografico più affidabile bisogna attendere la realizzazione dell’Atlante del Regno di Napoli a cura del Rizzi Fig. 8 - Particolare della rappresentazione del Perrey (1653) (da PERONE 2007). Fig. 9 - Stampa di un anonimo del 1702 (da PERONE 2007). - 45 - SALTERNUM Fig. 10 - Stampa dal Salmon (incisione di F. Sesione del 1763, da PERONE 2007). l’area portuale che cresce e ingloba il vecchio molo degli inizi del XIX secolo. Dall’ampio excursus cronologico condotto sulla cartografia e sulle raffigurazioni dei vedutisti si impongono alcune riflessioni storico-topografiche, che andranno approfondite con ulteriori ricerche di archivio, geomorfologiche e archeologiche. Come noto, alcuni dati archeologici e morfologici fanno ipotizzare che almeno in epoca romana la linea di costa seguisse l’attuale isoipsa di 5 m s.l.m.33. In particolare, il profilo della costa antica, così come ricostruito in base alle rappresentazioni e ad alcune considerazioni morfologiche, restituisce una insenatura portuale ad Ovest del Fusandola. La sua conformazione, molto evidente nelle raffigurazioni tra XVI e XVIII secolo, documenta come l’area portuale di età contemporanea insista in parte sull’accesso a questo bacino attivo e utilizzato sin dall’età tardo-arcaica e che, a buon diritto, può risalire già alla colonia romana34. Nelle rappresentazioni si segnala, oltre all’insenatura, la presenza di un molo ormai in ruderi che sembra aver caratterizzato, per un lungo periodo, il paesaggio di questo tratto di costa: al molo sono infatti riconducibili almeno due arcate impostate su imponenti pilae, delle quali emergono i ruderi affioranti dal mare. La disposizione del molo informa su un possibile ampliamento del bacino portuale, reso necessario per Fig. 11 - Atlante Geografico del RIZZI ZANNONI (1808), Tavola n.14 (particolare). zannoni agli inizi del XIX secolo: in esso appare un tratto de ‘Il Molo’ in mezzo al mare dinanzi alla chiesa di Sant’Anna (fig. 11). Quanto rappresentato sulla tavola dell’Atlante del Rizzi zannoni è confermato da alcune vedute dei primi trent’anni del XIX secolo in cui sono rappresentati il Molo e la piccola baia portuale, ora dinnanzi alla Chiesa di Sant’Anna al Porto prima del progressivo allargamento attestato dalle raffigurazioni successive. Tra queste ricordiamo in particolar modo la pianta del Comune di Salerno del 1868 e le efficaci rappresentazioni del TCI del 1928 e del 1963 che documentano la definiva urbanizzazione dell’area e l’avanzamento del- - 46 - VINCENZO AMATO - AMEDEO ROSSI l’insabbiamento dovuto al costante apporto detritico del torrente Fusandola e delle correnti marine35. Amarotta ritiene i ruderi raffigurati sulle stampe le strutture portuali del periodo svevo-angioino collegandole al momento in cui, nel 1260, avvenne la costruzione di un nuovo porto ad opera di Manfredi di Svevia36. Valorizzando questa prospettiva interpretativa non è impossibile immaginare che il molo svevo-angioino abbia inglobato una precedente opera portuale di età romana37. Infatti la struttura del molo, visibile allo stato di rudere sulle rappresentazioni grafiche, sembra trovare un suggestivo confronto tipologico con il molo di Puteoli, costruito su pilae in calcestruzzo e databile alla prima età imperiale (fig. 12)38. Come riportato dalle fonti documentarie già agli inizi del XIV sec. le strutture portuali svevo-angioine sembrano degradate dalle avverse condizioni meteo marine, fino a diventare nel Cinquecento totalmente Fig. 12 - Il molo di Pozzuoli in una stampa del 1768 (da BENINI 2004). inattive; da questo momento gli unici approdi funzionanti sembrano essere la marina dinanzi all’Annunziata e quella di Porta Nova39. Amedeo Rossi - 47 - SALTERNUM Note BUDETTA et ALII 1998; per le recenti indagini archeologiche su Salerno cfr. CAMPANELLI 2011. 2 Le ‘unità stratigrafiche a limiti in conformi’ sono unità litologiche delimitate al tetto ed a letto da chiare superfici di discontinuità stratigrafiche, quali superfici di erosione, paleosuoli, tephra, ecc. , così come definito da SALVADOR 1994. Le unità litologiche e le interpretazioni paleoambientali dei numerosi sondaggi geognostici eseguiti sono state descritte seguendo le indicazioni di TUCkER 2011. 3 Recentemente, PAPPONE et ALII 2008 ascrivono tali terreni del Monte Giovi alla Formazione delle Arenarie e Sabbie di Montecorvino di età Messiniano-Pliocene inferiore. 4 Recentemente tali Conglomerati di Salerno sono stati ascritti (PAPPONE et ALII 2008) al SuperSintema Eboli ed in particolare al Membro sabbioso-ghiaioso dei Conglomerati di Eboli, di età Pleistocene inferiore e di ambienti fluviali e di conoide alluvionale. 5 AMATO 2006. 6 DI MAIO et ALII 2003; AMATO 2006. 7 DI MAIO et ALII 2003. 8 La presenza di mulini è già attestata da documenti del X e XI sec. d. C. (IANNELLI 2011, pp. 254-255). 9 AMATO 2006. 10 BARRA et ALII 1996; AMATO et ALII 2012. 11 LAMBECk et ALII 2011. 12 DI MAIO - SCALA 2011. 13 CAMPANELLI 2011. 1 Da ultimo, su Salerno antica, cfr. IANNELLI 2011. 15 ROMITO 1996, pp. 121-124; LAMBERT 2010, pp. 296-298. 16 NAPOLI 1972, pp. 392-393. Sugli approdi minori in Campania cfr. BENINI 2006. 17 Su questa ipotesi cfr. GALLO - IANNELLI 2001, p. 211; sulla identificazione di Marcina con Fratte cfr. da ultimo il dibattito ripreso in DE MAGISTRIS 2012, pp. 11-22, in particolare su Marcina e Salerno alle pp. 11-16 e nota 1. Quanto restituito dai dati archeologici rende più articolato il panorama dell’occupazione del territorio in età pre-romana: gli insediamenti tardo-arcaici e classici sembrano diffusi tra Vietri sul Mare, Salerno e Fratte, con una evidente preminenza gerarchica di quest’ultimo, secondo il modello proposto nel 1984 da E. Greco; in questa prospettiva resta dubbia la lettura di recente riproposta di identificare Marcina con Vietri sul Mare soprattutto sulla base della misurazione precisa delle distanze riportate da Strabone sull’istmo tra Pompei e Marcina (DE MAGISTRIS 2012): di diverso avviso è L. Vecchio (VECCHIO 1990, pp. 19-20) , il quale afferma che nella lettura straboniana non vi sono ostacoli di natura ‘cartografica’ a collocare Marcina a Fratte; tale metodo di ricostruzione topografica, inoltre, non valuta appieno la possibilità che l’Amasiota, per quanto riprenda sicuramente fonti più antiche e riproduca misurazioni corrette, è fonte tarda (I sec. a. C. - I sec. d. C.) rispetto ai luoghi che descrive e che non vede e di cui resta probabilmente solo una percezione. 14 - 48 - Sull’area sacra di via Monti, cfr. GALLO IANNELLI 2001, pp. 207; 209-210 e da ultimo IANNELLI 2011, p. 256. 19 AVAGLIANO 1982, pp. 49-50. 20 IANNELLI 2011, pp. 248-249. 21 DE MAGISTRIS 2012, pp. 16-22. E. De Magistris, citando gli scavi Sestieri e Iannelli (DE MAGISTRIS 2012, pp. 20-21), corrobora questa identificazione per la presenza di sbarramenti sulle strade di accesso realizzati durante l’assedio annibalico al castro, fondandosi su una lettura estremamente evenemenziale del dato archeologico. Sui recenti scavi a Fratte si vedano i volumi sugli scavi editi dall’Università di Salerno e il contributo edito nel volume curato da A. Campanelli (CAMPANELLI 2011). 22 E. De Magistris (DE MAGISTRIS 2012, nota 18) afferma che le funzioni militari di Sàlernon e Salernum erano nettamente distinte, sebbene i due poleonimi siano la traduzione letterale l’uno dell’altro (App., BC, 1,42). Ad un attento esame, invece, la scansione temporale e topografica tra il Castrum e la colonia risulta netta, come già precisato sia in ROSSI 1999a, p.17 sia in ID. 1999b, p. 270, nota 31 (non citato da De Magistris) dove si afferma che la colonia è situata ad castrum Salerni «…sorto a controllo del territorio durante gli avvenimenti degli ultimi decenni del III sec. a. C. Lo stesso Strabone menziona Salerno a proposito di un intervento romano volto a fortificare, dopo la seconda guerra Punica, l’insediamento posto poco distante dal mare. Anche un passo di Silio Italico indurrebbe a pensare 18 VINCENZO AMATO ad un insediamento di nome Salernum precedente alla deduzione coloniale. Silio (Punica, VIII, 582) pone, infatti, Salernum nell’elenco delle città che inviarono un loro contingente militare in forza ai Romani in Apulia durante la guerra annibalica (fine del III sec. a. C.)». E’ proprio questa fonte (Silio) - non ricordata in DE MAGISTRIS 2012 - che rafforza la presenza di un insediamento precedente alla fondazione coloniale di cui il Castrum è parte integrante (già VARONE 1982, p. 5-6). 23 IANNELLI 2011, p. 248-249. 24 La fonte, già menzionata da AVAGLIANO 1982, se riferita a Salerno, avvalorerebbe la presenza nel luogo dove verrà fondata la colonia di un’area doganale (da mettere in relazione con la presenza del porto?) appartenente ad un insediamento strutturato. Dubbi sulla lettura della fonte liviana sono in VARONE 1982, pp. 6-7. 25 Su Fratte cfr. PONTRANDOLFO SANTORIELLO - TOMAy 2011; per la fase dopo la metà del III sec. a. C., A. Pontrandolfo suggerisce una vocazione rurale degli edifici individuati (PONTRANDOLFO SANTORIELLO 2011, pp. 175-176). Sulle fasi tra fine IV sec. a. C. e prima metà del III sec. a. C. restano non risolte alcune aporíe: ad esempio il rapporto tra le strutture abitative e il gruppo di tombe di fine IV-inizi III sec. a. C. poste sulla collina di Scigliato. In ROSSI 1999b, p.273-274 identificavo dagli inizi del III sec. a. C. un ulteriore salto di qualità nell’insediamento di Fratte quando sembrano evidenti le tracce di un abitato basato su una organizzazione ‘urbana’ - AMEDEO ROSSI regolare che poi viene abbandonato alla metà del III sec. a. C. 26 I percorsi in cui si inseriscono le strade sembrano essere già attivi nel corso del III sec. a. C. Per la viabilità lungo il basso corso del fiume Irno si veda il recente rinvenimento di via Irno (PIERNO 2011), mentre per la viabilità costiera, già ipotizzata e ricostruita in base alla fotolettura da ROSSI 1999a e ID. 1999b, cfr. IANNELLI 2011. 27 ROMITO 1996. 28 ALTOBELLO 2010; MIRABELLA 2010. 29 Per gli approdi di Forte la Carnale e del vicus di Mercatello, cfr. GALLO - IANNELLI 2011 e IANNELLI 2011, mentre sul porto alla foce del Picentino cfr. da ultimo BONIFACIO 2004-2005, con bibliografia. Presso Torre Picentina recenti indagini archeologiche hanno messo in luce una complessa struttura con area termale e residenziale. 30 Uno dei più recenti cataloghi sulle rappresentazioni cartografiche della città di Salerno è stato curato da PERONE 2007. 31 Sulla edizione della cartografia aragonese cfr. LA GRECA - VALERIO 2008. 32 Non è escluso che i ruderi siano quelli del Molo di età sveva (cfr. AMAROTTA 1989, pp. 138-139). 33 DI MAIO - IANNELLI 1995; da ultimo IANNELLI 2011, pp. 249; 263. 34 Secondo Amarotta, nel XIII sec. d. C. la linea di costa era da collocare grosso modo all’altezza dei palazzi che si dispongono lungo la parte nord di piazza Luciani (AMAROTTA 1982, p. 116). Una possibile ubicazione del porto romano in questa - 49 - insenatura venne fatta già in AVAGLIANO 1982, pp. 49-50. Con le dovute cautele è suggestivo notare come la conformazione dell’insenatura del Fusandola e la sua disposizione topografica si avvicini a quella che accoglie il porto romano di Napoli e rinvenuta in Piazza Municipio, tra Castel Nuovo e la chiesa di S. Maria in Porto Salvo. L’indagine archeologica è stata condotta in occasione della costruzione della Linea 1 della Metropolitana di Napoli (CARSANA et ALII 2009, fig. 1). 35 All’altezza di Salerno, attualmente, le correnti meteo marine sono prevalenti da Ovest e da Sud-Ovest. Lo stesso Piri Reis (XV-XVI sec. d. C.) afferma che il porto di Salerno è poco utilizzabile, perché soggetto ad insabbiamento (BONI 1994). Sulle alluvioni del Fusandola e, più in generale, sugli eventi alluvionali avvenuti a Salerno in età storica cfr. ESPOSITO - PORFIDO VIOLANTE 2004. 36 AMAROTTA 1989, pp. 138-139. 37 In LA GRECA, VALERIO 2008, pp. 41-42, partendo dalla raffigurazione aragonese si avanza l’ipotesi che il molo possa essere la traccia del porto longobardo o di quello romano. 38 BENINI 2004, p. 37-38, fig. 3. Un altro esempio di molo su pilae è stato riconosciuto a Sapri (TOCCACELI 2003). 39 FINELLA 2005, pp. 103-106. Recenti indagini presso Porta Nova, in piazza Flavio Gioia, confermano la presenza di un approdo, attestato dal XIII-XIV sec. d. C. (GALLO - IANNELLI 2001, p. 214). SALTERNUM Bibliografia ALTOBELLO R. 2010, Le necropoli di Corso Vittorio Emanuele, in ‘Salternum’, XIV, 24-25, pp. 119-123. AMAROTTA A. R. 1982, Dinamica urbanistica nell’età longobarda, in Guida alla Storia di Salerno 1982, vol. 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Il pensiero religioquesto studio, conoscere i numeri e le caratteristiche so è in gran parte la conseguenza logica di questi fatdelle diverse divinità delle genti che osserviamo, ma tori. piuttosto l’atteggiamento che quelle persone hanno Ogni popolazione è portata ad immaginare le pronei confronti del divino, come avvertono la presenza prie divinità in ragione delle abitudini di vita che le della divinità, se la guardano con timore o con fiducia sono proprie e a caricarle dei valori che in quella sociee soprattutto se credono realmente e quanto. La relità sono prevalenti. A nessuno sfugge che le divinità giosità è un modo di essere dell’animo umano nepdei popoli nomadi della steppa non possono essere le pure necessariamente legato ad un culto particolare. stesse che sono venerate da un popolo sedentario di Va anzi osservato che molto spesso proprio quelle agricoltori. E ancora più differenti saranno i riti reliconvinzioni definite eretiche dal credo ufficiale di giosi propri delle due etnie. Difficilmente dei nomadi una certa religione raccolgono un seguito di partecipotrebbero avere dei luoghi di culto fissi e, meno che panti forse esiguo, ma particolarmente convinto ed mai, dei templi, così come li intendiamo noi, per le entusiasta. loro cerimonie religiose e, per conseguenza, i riti, pure Così è ora e così è stato in Antico. se presenti, non potranno che essere diversi da quelli Nella storia del pensiero religioso s’incontrano delle popolazioni che vivono stabilmente su un terridivinità che tutto sanno e tutto vedono, che sono torio. Nel momento in cui quei popoli dovessero camcapaci di conoscere ogni più intimo pensiero degli biare le loro abitudini, passando dalla vita di nomadi a uomini, ma che talvolta possono anche essere ‘gabbaquella delle popolazioni sedentarie, allora cominceranno a porsi il problema della casa del dio o degli dèi a te’ con estrema facilità. Il mito di Prometeo ne è una somiglianza di quelle degli uomini. E in quell’abitazioprova evidente1. Questo mito, ma non solo questo, ci ne del dio o degli dèi, fuori o dentro non importa, rivela che, presso i Greci, accanto all’aspetto ossequiocelebreranno i riti religiosi. so, di venerazione e di adorazione nei confronti della - 53 - SALTERNUM colti o le epizoozie che falcidiano il bestiame. Se i razziatori possono essere respinti con le armi, non si può fare la stessa cosa contro nemici invisibili che hanno il potere di distruggere le messi o di uccidere gli animali domestici senza una ragione apparente ed allora l’uomo non può fare altro che rivolgersi al soprannaturale, nel tentativo di esercitare un qualche controllo su delle forze ignote altrimenti incontrollabili. L’uomo agricoltore, a differenza di quello dedito alla sola raccolta del cibo o alla caccia, deve più degli altri esercitare il proprio senso d’osservazione e guardare ad un futuro molto più lontano di quanto sia richiesto ad altri gruppi umani. Di volta in volta gli occorre vedere e sentire il lavoro del momento come un fattore indispensabile per un raccolto che sarà possibile solo dopo diversi mesi, che potrebbe anche non esserci o essere inferiore alle attese. Nel caso meno fausto, bisogna che sappia distinguere ciò che è addebitabile ai propri errori nell’esecuzione del lavoro, o nella valutazione delle qualità del suolo messo a coltura, da quanto invece si sottrae ad ogni indagine razionale perché si trova al di fuori del bagaglio di conoscenze di cui l’agricoltore dispone. Tutto questo, unitamente ad una ingenuità di fondo che è propria di coloro che interpretano ancora tanti fenomeni che si presentano poco frequentemente, siano naturali o illusori, come espressione di forze soprannaturali, riservava uno spazio notevole nella percezione del trascendente ai ‘prodigia’, che venivano percepiti come espressione della volontà degli dèi o come una chiara manifestazione della loro collera. Tito Livio fa spesso riferimento a questi eventi che generavano turbamento e scompiglio nella comunità anche se, per quanto lo riguarda, mostra di non credervi granché (cfr., ad es. Ab Urbe condita, XXI, 62.1). Dall’insieme di questi fattori – osservazione della natura e percezione dell’esistenza di un quid imponderabile ed incomprensibile che però ha effetto sulle cose umane - è scaturito da una parte un avanzamento culturale, che potremmo definire rivoluzionario, dovuto ad un più attento e profondo studio ed analisi della natura e dall’esigenza di inventarsi e costruirsi attrezzi idonei alla coltivazione dei campi ed a tutto ciò che ad essa si connette, dall’altra lo sviluppo di un pensiero religioso complesso, con caratteristiche proprie, con ogni evidenza del tutto diverso da quello dei cacciatori-raccoglitori, derivato forse da una concezione spiritualistica della realtà in cui quell’uomo si trova divinità, ne esistevano altri scherzosi, umoristici, quando non addirittura ridanciani2. Un atteggiamento, questo dei Greci, che sarebbe inutile cercare nella religiosità romana, caratterizzata da una severa austerità, che si attenuerà molto lentamente solo a cominciare dal tardo periodo repubblicano, quando la penetrazione di religioni di provenienza orientale e la diffusione di una mentalità più giocosa, caratteristica della cultura greca, porteranno ad un diverso rapporto con il divino. In questo periodo cominciano ad apparire opere che si discostano dalla comune religiosità come quella di T. Lucrezio Caro, De Rerum Natura, ma anche qualche graffito sui muri delle città che si rivolge alle divinità in modo spiritoso e confidenziale quale in precedenza nessuno avrebbe mai immaginato3. La prima caratteristica che appare più delle altre evidente nell’uomo romano è l’appartenenza a un popolo di agricoltori e di pastori, assuefatto alla concretezza rude ed assidua del lavoro dei campi, alla necessità di curare gli animali d’allevamento, soprattutto a mettere in relazione diretta il quotidiano impegno lavorativo di colui che con fatica lavora la terra con lo sperato successivo benessere, che tuttavia non potrà mai essere del tutto sicuro. Persone che sono abituate ad un lavoro duro, costante, ma soprattutto fatto di riflessione su ogni atto che compiono, aduse ad una concretezza che si manifesta nel linguaggio prima e nelle leggi successivamente. Una razza di gente che porta con sé costantemente il ricordo delle antiche origini contadine: nomi come Ovidio, Asinio, Catulo, Porcio, Cornelio, Agricola, di remota derivazione, ma che s’incontrano ancora nella tarda età imperiale, ci rivelano quanto profondo fosse il legame dei Romani con il mondo rurale. Osserveremo, di passaggio, che, in quella società, fino alla tarda Repubblica ed al periodo imperiale, ai patrizi era fatto divieto di svolgere commerci: erano attività disdicevoli per i nobili, ai quali era concesso solo di vivere dei proventi delle proprietà terriere4. Naturalmente, con il passare del tempo, il divieto fu aggirato in vari modi, tuttavia rimase sempre formalmente in vigore. Pastori ed agricoltori sanno anche quanto le loro risorse possano essere in pericolo a causa delle razzie da parte di altre popolazioni, ma anche in conseguenza di eventi strani ed incomprensibili come le avverse condizioni climatiche che rovinano e annullano i rac- - 54 - PIETRO CRIVELLI Come si vede le divinità olimpiche greche, etrusche e romane sono notevolmente simili, appartenenti ad un unico ceppo di probabile derivazione pre-ellenica6, ma anche, almeno in parte, di provenienza orientale, penetrato poi nel contesto etrusco e quindi romano. a vivere. Sicuramente sarà accaduto che eventi favorevoli o contrari si siano verificati dopo gesti o atti che, da un punto di vista razionale, non avevano nulla a che vedere con quegli eventi, ma che, nel modo di ragionare di uomini piuttosto ingenui, venivano percepiti non come una mera e casuale successione di fatti, ma piuttosto come una relazione di causa ed effetto. La ragione dice di no, ma quanti sono coloro che ancora oggi, dovendo affrontare un evento di una certa importanza, mettono in tasca un portafortuna o indossano qualche capo di vestiario o accessorio che ‘aveva portato bene’ in un altro momento analogo! In questo modo comincia a delinearsi un codice di pratiche magico-religiose. Ma colui che è capace di simili collegamenti, pure arbitrari, è anche un attento osservatore dell’ambiente che lo circonda e probabilmente è nella mente dell’uomo agricoltore che prende maggiormente consistenza l’idea di una vita vegetale: le piante nascono vivono e muoiono, ma, per quanto lo riguarda, non debbono assolutamente morire anzitempo e solo un dio ha il potere di allontanare quel pericolo. Sembra che nel pensiero religioso dei Romani si possano distinguere due aspetti principali. Il primo, il più antico, è quello che può collegarsi alle origini remote di una società contadina preoccupata soprattutto dai problemi legati alla sopravvivenza della famiglia ed alla cura e alla difesa della terra e del bestiame che la garantisce. L’altro, più recente, nasce e si sviluppa in un momento successivo, quando Roma, formatasi gradatamente come città e non dal solo punto di vista urbanistico, ma come civitas, vale a dire come insieme di cittadini, è assorbita nell’orbita politica e culturale etrusca. Vediamo invero che, accanto a divinità d’origine chiaramente agropastorale, se ne venerano altre – soprattutto Giove, Giunone e Minerva – appartenenti ad un sentimento religioso più ‘cittadino’, nel senso che è legato maggiormente alla polis e meno al mondo agricolo. In realtà la citata ‘Triade Capitolina’ rappresenta il trasferimento in ambito romano dell’equivalente triade etrusca costituita da Tinia, da sua moglie Uni e da Menerva. Tre divinità maggiori assimilabili alle greche Zeus, Hera e Athena, conosciute a Roma appunto come Giove, Giunone e Minerva5. In modo analogo entrarono a Roma altre divinità d’origine ellenica: i Diòscuri, Castore e Polluce, e poi Apollo/Helios, Venere/Afrodìte, Priàpo, ecc. Gli dèi della famiglia e della casa A Roma esistevano molte divinità esclusive di quel popolo, non facilmente assimilabili ad altre appartenenti a gruppi umani diversi da quello in esame. Erano, innanzi tutto, quelle proprie alla prima fase di sviluppo della religiosità romana, divinità ancestrali che, col passare del tempo, furono considerate minori dagli esponenti dell’aristocrazia, ma non per questo meno importanti nel modo di sentire del popolo. Forse, per la loro presenza avvertita come continua ed immediata nella vita quotidiana di chi vive essenzialmente di un’economia contadina, quelle divinità erano percepite come più vicine alle necessità primarie molto più di quanto non lo fossero quelle olimpiche. Si prova una certa emozione all’immaginare quel contadino che compie tutti gli atti quotidiani, legati al lavoro dei campi, come un continuo rito religioso. Di volta in volta invoca o, quanto meno, pensa a Sterculinius perché lo assista nella concimazione; Segetia, perché favorisca la semina; Nodutus che deve proteggere la crescita degli steli del farro o dell’orzo o anche del frumento curandone la formazione dei nodi; Tutilina, la dea che proteggeva la buona conservazione delle messi, dopo la mietitura, quando erano state riposte nel granaio. Ma questi sono soltanto pochi esempi di tutte quelle divinità, note col nome di Indigitamenta7. Erano circa centocinquanta e sicuramente in origine appartenevano al culto privato, nondimeno rientravano nella competenza dei Pontifices, che ne avevano compilato un elenco e ne regolavano le cerimonie. M. Terenzio Varrone (116-27 a. C.) aveva trattato l’argomento in una sua importante opera, Antiquitates humanarum et divinarum, in 41 libri. Purtroppo è andata perduta ed è una delle tante che avrebbero permesso allo storico una migliore conoscenza della cultura e della civiltà romana. Fortunosamente qualche notizia si è salvata attraverso le citazioni che ne hanno fatto alcuni autori cristiani, fra tutti Agostino8, Tertulliano e Arnobio. Dimostrazione questa dell’importanza che gli stessi attribuivano all’antico credo religioso dei Romani, ovviamente pur senza condividerlo, anzi avversandolo - 55 - SALTERNUM I Romani avevano fatto di quella divinità un punto di riferimento della totalità del loro popolo. La divinità romana, a differenza della greca Hestia, assume anche delle funzioni di garanzia pubblica: alle Vestali, sue sacerdotesse, vengono affidati, per essere custoditi, gli atti pubblici, ma anche quelli privati, come i testamenti. Erano sei, ma nel IV secolo d. C. ne fu aggiunta una settima. Dimostrazione questa che, in quel periodo in cui il Cristianesimo era in espansione, anche se ancora minoritario, quella divinità era ancora percepita dal popolo di Roma come di un’importanza fondamentale. Il sacro fuoco di Vesta resterà acceso per secoli fino a quando, nel 391 sarà spento per ordine di Teodosio I. Il valore ideale assunto dalla dea è dimostrato fra l’altro dal fatto che mai nel suo tempio fu eretta una statua che la rappresentasse9: la divinità era già ben simboleggiata dalla fiamma che ardeva perennemente. Le sacerdotesse di Vesta erano scelte dal Pontifex Maximus, da colui cioè che era il costruttore del ponte ideale che univa il popolo di Roma agli dèi e solo alla sua autorità erano soggette. Obbligate alla verginità, conducevano una vita austera, che procurava loro il rispetto più profondo di tutto il popolo. Di qui le funzioni ‘notarili’ di cui erano investite. E’ importante notare che erano donne, perché a Roma era la donna (domina) che reggeva e regolava la vita della casa (domus). Non a caso ho parlato di popolo di Roma perché, a mano a mano che la Repubblica prima e l’Impero poi estendevano i loro confini, le divinità di cui ci stiamo occupando rimanevano ancora comprese nella città. Si diffondeva e s’imponeva il culto della Triade Capitolina, quello del Genius dell’imperatore, ma quelli più profondamente ed autenticamente romani restavano, salvo rare eccezioni, racchiusi entro il Pomerium, l’ambito sacro dell’Urbs10. Da quanto sopra accennato appare evidente che la religione dei Romani ebbe, nella sua fase iniziale, un contenuto essenzialmente magico. Un popolo di agricoltori e di pastori sentiva la necessità di difendere la propria fonte di sostentamento contro le avversità che si presentavano, spesso senza preavviso di sorta e, in assenza di altre cognizioni di carattere più scientifico, si rifugiava in pratiche magiche. Molte di queste, sviluppatesi in tempi remoti, continuarono a sopravvivere fino a tempi molto più recenti. Magici sono i luoghi di culto: se le altre divinità possono essere adorate e venerate ovunque si trovi un loro tempio, quelle roma- decisamente. A questo proposito, per una precisa valutazione della loro testimonianza, si deve mettere bene in evidenza che lo scopo di quegli scrittori era quello di esaltare il Cristianesimo e, di conseguenza, porre nella luce più negativa possibile il paganesimo, per cui hanno certamente riferito gli aspetti che più convenivano per sostenere adeguatamente la loro tesi, tacendone altri. Il loro intendimento non era certamente quello di fornire un contributo alla conoscenza della storia. Alle divinità agropastorali ne vanno aggiunte altre in apparenza meno direttamente collegabili al mondo rurale e che rivestono un valore particolare nella cultura religiosa del popolo romano. Una di queste è Vesta, assimilabile in parte alla greca Hestia, che assume in ambito romano un rilievo del tutto peculiare. Mentre Hestia fra le divinità greche rappresenta poco più di un semplice nome, la dea romana è la custode del fuoco, sacro sia per la domus, sia per tutto l’insieme della comunità dei cittadini. Deve essere intesa come colei che protegge l’insieme dei focolari domestici della civitas e come tale raccoglie tutti attorno a sé. Il suo tempio, piuttosto piccolo e di forma circolare, ricorda la più antica capanna del contadino illuminata e riscaldata dal focolare centrale intorno al quale si svolge la vita familiare. Quel fuoco domestico è sacro: serve a riscaldare durante il freddo invernale, a cuocere il cibo, a illuminare la notte e a dare sollievo agli ammalati. Riflettendo su quanto potesse essere difficile, con i mezzi allora disponibili, d’inverno ed in una giornata piovosa, all’interno di una capanna, riaccendere un fuoco che si è spento, magari avendo sotto mano solo della legna umida, si può comprendere quale valore avesse per quelle persone la custodia amorevole di quella fonte di energia che poteva significare la sopravvivenza. Il culto del focolare domestico è un qualche cosa che tutti i popoli hanno profondamente sentito: Omero descrive il supplice che entrava nel mègaron di colui al quale chiedeva protezione e aiuto ed andava a sedersi presso il focolare. In epoche a noi molto più vicine i regesti indicavano le famiglie esistenti su un dato territorio come ‘fuochi’. I più anziani di noi ricordano ancora nei paesi le massaie che bussavano alla porta delle vicine per chiedere una ‘palettata’ di brace. Uno scambio di favori tra vicini che rinsaldava la coesione sociale e contribuiva a facilitare la vita. - 56 - PIETRO CRIVELLI ma non esclude l’intimo sentimento di pietas. E’ un pensiero che è vivo anche presso i Greci, che immaginano un ‘daimon’ (δαίμων) distributore agli uomini del loro destino. Allora è superstizione o che cosa? Come considerare l’augure che, dopo avere diviso simbolicamente il cielo con il bastone ricurvo, il lituus, osserva attentamente il volo degli uccelli traendone ‘auspici’, o l’aruspice che, per un motivo analogo, scruta le viscere degli animali sacrificati o ancora il pullarius che custodiva i polli sacri ed interpretava la sorte ed il volere divino osservando come quelli beccavano o rifiutavano il becchime? In fondo non c’è tanta differenza con chi oggi afferma di predire il futuro ‘leggendo’ le foglioline di the o i fondi del caffè rimasti nella tazzina, ma l’augure e gli altri svolgevano la loro funzione ufficialmente, al servizio della Res Publica. Com’è noto la magia la si immagina con due aspetti ben distinti: l’uno, quello che è comunemente denominato ‘magia bianca’, tende a controllare le forze malefiche cercando di allontanarle e d’impedire che possano arrecare danni; l’altro, la ‘magia nera’, pervasa di cattiveria e malignità, si sforza di scaricare addosso agli altri le forze del male. I Romani dovevano avere ben presenti questi due aspetti della magia, perché fin dalle leggi delle XII tavole (451/450 a. C.) infatti malum carmen incantare, cioè fare opera d’incantesimo per provocare la morte di qualcuno o per danneggiare le messi o il raccolto altrui (fruges excantare), è considerato un delitto fra i più gravi, passibile di pena di morte14 e ciò significa che era convinzione comune che simili operazioni potevano avere qualche effetto reale. Tuttavia le pratiche magiche, cacciate dalla porta, finivano per rientrare dalla finestra perché, per esempio, la medicina dell’epoca non disponeva di molti medicamenti e per conseguenza accompagnava o addirittura sostituiva la terapia con invocazioni e riti magici. Ancora si debbono ricordare le ben note tabellae defixionum, lamine di metallo, soprattutto di piombo, sulle quali si incidevano formule d’invocazione per se stessi oppure di maleficio ai danni di persone odiate. Erano per lo più opera di gente d’umili condizioni e di livello culturale inferiore alla media, visto che la lingua usata era quella caratteristica degli strati più bassi della popolazione15. Queste tabellae furono diffuse anche in Grecia, anzi per la maggior parte sono scritte in greco16. Naturalmente non possiamo sapere quanto i Romani credessero nell’efficacia di simili azioni. Se ne sono legate al territorio, ad alcuni punti di esso e non ad altri, per cui non sono esportabili. Osservando con attenzione ci si rende conto che, in pratica, quasi tutti i luoghi della città avevano un certo contatto col magico e col divino, molto spesso in senso ostile per gli uomini. Alcuni di questi erano rivestiti di ‘negatività’ per motivi in cui s’intrecciava l’aspetto umano, politico con quello superstizioso della damnatio memoriae. A chiarire il concetto valga per tutti quanto ci riferisce T. Livio a proposito dell’Isola Tiberina11: cacciato l’ultimo Tarquinio, il Senato decise che i beni del monarca spodestato non fossero né restituiti e neppure confiscati, ma abbandonati al saccheggio della plebe, in modo che questa non potesse più neppure immaginare di riconciliarsi con il re deposto. Poiché nelle terre presso il Tevere che erano state di proprietà dei Tarquini il farro era già maturo e non era lecito usarlo per scopi alimentari – quia religiosum erat consumere12 - venne comunque falciato e gettato nel fiume. In quel periodo dell’anno la portata d’acqua era scarsa e la massa vegetale si arenò, trattenendo anche fango e pietre; altri sassi furono aggiunti e fu così che si formò un’isola. Da notare che da allora l’Isola Tiberina ha sempre conservato nei tempi una connotazione in certo modo negativa; nel Medio Evo ospitò un lazzaretto e vi è tuttora un ospedale, luogo di sofferenza. Nel santuario di Cerere esisteva una specie di pozzo consacrato agli dèi Mani, il mundus (detto anche mundus Cereris); s’immaginava che questo fosse come una via di comunicazione fra l’universo dei vivi e quello dei morti13. Rimaneva chiuso tutto l’anno salvo tre giorni: 24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre. In quei giorni si diceva che mundus patet ovvero che il mundus era aperto ed era vietato ogni atto pubblico. Questa commistione fra una divinità preposta all’attività agricola ed alla fertilità (Cerere) e quelle dei morti non deve sembrare strana se si pensa che in Grecia Prosèrpina, la figlia di Demetra (la Cerere greca), era divenuta la sposa di Ade, il dio degli Inferi. I due concetti di fertilità e quindi di vita e quello della morte sono spesso contigui, pur essendo contrari. Bisogna anche tenere presente che i confini fra magia, superstizione e religione sono spesso molto labili ed indefinibili. Lo stesso concetto di divinità frequentemente resta vago, l’espressione numen (numina al plurale) è generica ed incerta, si riferisce a delle divinità non chiaramente connotate e questa indeterminatezza è di per sé un impedimento ad ogni forma di culto liturgico, - 57 - SALTERNUM Si esorcizzava il pericolo della siccità con il rito dell’aquaelicium nel corso del quale si portava in processione il lapis manalis18, una pietra che si riteneva che avesse la capacità di richiamare la pioggia. Era una pietra che normalmente non doveva essere spostata: «Manalem lapidem putabant esse ostium Orci, per quod animae inferorum ad superos manarent, qui dicunt manes»19. Qualche cosa di molto simile al già ricordato mundus. Come si vede, la suggestione dell’Aldilà e del contatto col mondo dei morti era sempre presente alla mente dei Romani. Si credeva nell’esistenza dei lemures, fantasmi dei trapassati insepolti o morti per violenza che vagavano senza pace. Per esorcizzare la loro presenza c’era la festa dei Lemuria che si riteneva fosse stata istituita da Romolo per placare l’anima di Remo da lui ucciso. Durante la cerimonia il pater familias si metteva in bocca delle fave nere che poi sputava alle proprie spalle ripetendo l’atto per nove volte. Sembra che il rito degli Argei, celebrato alle idi di maggio, nel corso del quale le vergini vestali gettavano nel Tevere dal ponte Sublicium20 ventisette fantocci umani fatti di vimini e di paglia, fosse anch’esso dedicato ad invocare la pioggia. In questo caso si direbbe che ci si trovi di fronte alla sopravvivenza simbolica di un ancestrale sacrificio umano spiegabile con la vitale importanza di propiziare la pioggia apportatrice di vita. E sembra esserci una certa relazione fra il lapis manalis che chiudeva le porte dell’Aldilà ed il sacrificio umano rappresentato dalla liturgia degli Argei: la morte per la vita, ancora una volta si accostano i due concetti opposti in un dualismo che precede la speculazione filosofica. Quest’atto sacrificale era diffuso nella storia dell’uomo antico molto di più di quanto noi comunemente si possa pensare. In tempi storici Tito Livio ci ricorda una cerimonia del genere avvenuta dopo la sconfitta di Canne (216 a. C.) secondo i modi prescritti dai Libri Sibillini. Lo storico si affretta a dire che l’evento era insolito per la tradizione romana, ma dice anche che il luogo nel Foro Boario era «… iam ante hostiis humanis… imbutum» insolito dunque ma non per questo del tutto sconosciuto21. Anche da questi avvenimenti si può notare come la sacralità dei luoghi abbia un’importanza assoluta: non sarebbe stato mai possibile trasferire altrove i riti appena citati. Le divinità prima ricordate degli Indigitamenta fanno parte di quel periodo arcaico in cui le pratiche magi- ascoltiamo Virgilio dobbiamo supporre che tutto sommato la credenza in un potere soprannaturale, evocabile con parole e canti, capace di sovvertire le leggi della fisica e della natura fosse abbastanza radicata, ma un poeta non necessariamente deve sentirsi legato alla verità e neppure al plausibile. «Carmina vel caelo possunt deducere Lunam; carminibus Circe socios mutavit Ulixi; frigidus in pratis cantando rumpitur anguis»17. Una delle preoccupazioni più grandi per gli agricoltori è sempre stata - lo è anche attualmente - quella della siccità: un periodo troppo prolungato di assenza di precipitazioni mette a rischio il lavoro di un anno, da quello può derivare una carestia e, per conseguenza, un momento caratterizzato da furti, rapine, tensioni sociali, instabilità politica, razzie da parte di popoli confinanti. Anche il pericolo dell’insorgenza di epidemie a causa della denutrizione, che attenua la capacità di resistenza alle infezioni, e dell’esigenza di nutrirsi con qualsiasi cosa paia appena commestibile. In ultima analisi, l’equilibrio economico – nel senso etimologico del termine – di una società di agricoltori è molto più delicato di quanto normalmente si possa immaginare e può essere facilmente compromesso da eventi su cui non è possibile esercitare alcun controllo. Piogge troppo scarse o troppo abbondanti, improvvise gelate fuori stagione, invasione d’insetti come le cavallette, tutto questo ed altro ancora può colpire mortalmente una società che non è ancora riuscita a dotarsi di adeguate protezioni contro gli eventi sfavorevoli, tenendo anche conto che in quei tempi arcaici la produzione agricola non era ancora così avanzata da assicurare dei raccolti d’abbondanza sufficiente per accantonare delle riserve per fare fronte a periodi difficili. In questo contesto a quegli uomini il ricorso alle cerimonie magiche sembrava essere l’unica soluzione disponibile. Queste, presumibilmente, all’inizio furono di carattere privato, familiare, ma ben presto, riguardando interessi comuni a tutta la società, divennero di interesse generale e perciò praticate da gruppi sempre più estesi, fino ad essere celebrate pubblicamente ed in forma solenne. Per scongiurare tutti i pericoli a cui era esposta una società ancora estremamente fragile nella sua struttura fu necessario elaborare una serie di riti che, nelle speranze di tutti, avessero il potere di allontanare quelle sciagure. - 58 - PIETRO CRIVELLI i confini tra le varie proprietà agricole. Nel corso della festa dei Terminalia (23 febbraio) i proprietari dei due terreni confinanti celebravano insieme, congiuntamente, i riti che consistevano sostanzialmente nella esortazione, più che nella preghiera, rivolta al dio di restare sempre nella più assoluta immobilità. L’economia pastorale esigeva, a sua volta, che ci fossero altre divinità per proteggere e favorire la crescita delle greggi: fra queste, una delle più antiche se non la più antica in senso assoluto, era il dio Fauno, in onore del quale il 15 febbraio si celebravano i Lupercali (Lupercalia), una festa particolarmente sentita dal popolo romano, al punto da sopravvivere fino alla fine del V secolo d. C. (a. 492) quando papa Gelasio I riuscì a farla sopprimere. Non sembra esagerato pensare che sia stata celebrata per oltre un millennio. Plutarco24 ne dà una descrizione e spiega che in origine doveva trattarsi di una festa purificatoria. In ogni modo se ne forniscono due spiegazioni: l’una ritiene che sia stata una cerimonia intesa a proteggere le greggi dai lupi, l’altra che volesse rievocare il mito di Romolo e del gemello Remo allattati da una lupa che aveva il suo covo in una grotta sul Palatino, il lupercale appunto. Forse le due ipotesi coesistevano fino dalle origini. O forse no, perché Romolo potrebbe essere concettualmente nato come mitico fondatore di Roma in un periodo successivo a quello dei primi insediamenti abitativi che poi formeranno la città. Sappiamo anche che le fustigazioni a cui i sacerdoti sottoponevano coloro che incontravano durante la corsa che concludeva la cerimonia erano particolarmente gradite, specialmente dalle donne, in quanto ritenute apportatrici di fertilità. La fertilità, umana, animale, della terra era un’altra preoccupazione dei nostri progenitori, non ultimi i Romani. Essa rappresentava una crescita delle risorse, quelle del bestiame e della terra, per garantire la sopravvivenza degli uomini, quella umana per assicurare la continuità delle famiglie. Non dobbiamo trascurare il fatto che la vita media era notevolmente più breve di quella odierna e che la mortalità infantile, per malattia o per disgrazia, era, in confronto con quella attuale, addirittura enorme. Spesso in una famiglia in cui erano nati dieci figli ne arrivavano all’età adulta non più di due o tre. Il numero dei decessi delle partorienti appare, ai nostri occhi, semplicemente spaventoso; d’altra parte era ancora elevatissimo nel XIX secolo della nostra era. Gli antichi avevano piena che stanno per assumere la dignità di riti religiosi e sono rivelatrici della primitiva visione panteistica del mondo, quando si riteneva che tutto quanto cadeva sotto i sensi umani avesse una sua carica spirituale, anche la terra, le piante, gli animali, le rocce, il vento, le montagne, l’acqua dei fiumi, dei laghi, la pioggia. Mettono in evidenza il rapporto continuo e costante dell’uomo romano con il divino: ogni atto che si compie nella coltivazione del campo, ogni evento nella vita familiare, comporta un’invocazione ad una divinità che a quell’atto o evento sovrintende, dall’invocazione a Cunina, che protegge il neonato in culla, fino a Libitina, divinità dei funerali; da quando si sparge il letame invocando Sterculinius perché la concimazione sia proficua, al momento in cui si sparge la semente pregando Segetia, al tempo successivo in cui si supplica Nodutus perché i nodi dello stelo inizino a formarsi correttamente o la dea Matuta nel momento della mietitura e ancora alle preghiere durante il rito delle Robigalia per allontanare il pericolo della ruggine del grano e così via, è un continuo atto religioso, di una religiosità profondamente sentita e praticata di cui, questo è importante, il Pater familias è il sacerdote. La sua competenza sacerdotale comprendeva anche il culto dei Penates, divinità che originariamente sovrintendevano alle necessità primarie, quelle della dispensa, delle vettovaglie (penus)22, dei Lares23, divinità protettrici della familia, e di tutto ciò che ad essa appartiene, nonché quello dei Manes numi tutelari dei familiari defunti. L’ambiente contadino è esclusivo, nel senso che non ama intromissioni nella sfera del proprio privato: ogni familia, cellula elementare del consorzio umano, mantiene i rapporti esterni solo per il tramite del pater familias, e sono questi, nel loro insieme, che stabiliscono le norme a cui debbono tutti uniformarsi, delegando alcuni di loro alla celebrazione dei riti religiosi. Come l’insieme dei patres darà vita al Senato, così l’insieme dei sacerdoti familiari sarà all’origine dell’ordine sacerdotale pubblico. Una società di agricoltori doveva necessariamente salvaguardare la proprietà della terra posseduta, i cui confini dovevano essere ritenuti sacri. Di qui l’esigenza di porli sotto la tutela del dio Terminus, che, in origine vigilava sui limiti delle proprietà private, ma che, in seguito, seguendo la linea evolutiva su accennata, estese le sue funzioni ai confini della Res Publica. Una divinità statica, immobile, così come dovevano essere - 59 - SALTERNUM vano comunque, per il culto e per i riti, racchiuse all’interno della cinta muraria dell’Urbe, entro il Pomerium, lo spazio sacro in cui non era lecito entrare in armi né introdurre divinità d’origine non romana, salvo rare eccezioni27. Ma di conquista in conquista i territori soggetti a Roma s’ingrandivano, comprendendo progressivamente sempre altre terre e altre città. Questi nuovi spazi dovevano essere dominati e controllati non solo con la forza delle armi, ma anche con il prestigio derivante dal sostegno che gli dèi romani avevano fornito alle legioni. Per questo motivo in tutte le città principali dell’impero venne eretto, nel foro, il tempio dedicato al culto della Triade Capitolina28. Questo simboleggiava la gloria e la potenza di Roma; non a caso, quando si celebrava un trionfo, il corteo, formatosi nel Campo Marzio, entrava in città attraverso la Porta Triumphalis, percorreva la strada lungo il Circo Massimo, poi la Via Sacra e, attraversato il Foro, saliva al Campidoglio al tempio di Giove Ottimo Massimo. Culto di Stato, solenne, celebrato con grande pompa, quello della Triade Capitolina sembra che sia stato vissuto dal popolo romano più come una festa civile che come un rituale religioso. Rispetto al tipo di cerimonia la partecipazione delle masse popolari poteva essere anche entusiastica, ma tuttavia mancante di quel senso di intima religiosità che cerca quel contatto col divino che era invece presente negli atti liturgici per altre divinità. L’osservanza scrupolosa, si può dire ossessiva, del rispetto del rito liturgico era un’altra delle caratteristiche della religiosità del popolo romano. La cerimonia della dichiarazione di guerra ad un altro popolo, mantenuta e rispettata scrupolosamente anche se con una modifica resasi necessaria allorché la distanza da Roma del nemico di turno rendeva impossibile il lancio del pilum nel suo territorio da parte del pater patratus, il sacerdote capo dei fetiales (si aggirò la difficoltà costringendo un prigioniero di guerra all’acquisto di un terreno che di volta in volta fu indicato come territorio del nemico del momento) è tuttavia rivelatrice dell’origine magica di quel gesto chiaramente aggressivo, simboleggiante un’anticipazione di quella che, nei desideri di chi li compiva, doveva essere la conquista effettiva del territorio nemico. I templi della religiosità che possiamo definire ufficiale servivano anche a scopi non religiosi, profani. Spesso venivano usati per tenervi sedute del Senato e ciò, tenuto conto del rispetto, almeno dichiarato, per coscienza di quanto poco bastasse per passare dalla vita alla morte e pertanto cercavano aiuto, rifugio e protezione nei riti magici e religiosi. In questo modo la magia dei tempi arcaici si trasformava progressivamente in religio a mano a mano che le cerimonie, dapprima confuse e regolate dal ‘fai da te’, si uniformavano e regolarizzavano con procedure liturgiche uniformi per ciascuna divinità. Le divinità della Res publica Con queste divinità si entra in una nuova fase del pensiero religioso dei Romani. Alcune sono semplicemente la conseguenza del passaggio di una pratica religiosa dall’ambito strettamente familiare a quello più vasto e solenne del culto di Stato. Così è stato in parte per i Lupercalia, così soprattutto per Vesta e per Giano. Quest’ultimo fu forse fra le più antiche divinità del Pàntheon romano, collocato inizialmente in una posizione preminente fra gli dèi degli idigitamenta quale primo fra gli dèi, custode e protettore della familia, della casa simboleggiata dalla porta domestica, divenne ben presto il dio responsabile della protezione delle porte urbiche e perciò della città. Era chiamato Ianus Pater, ma anche con molti altri epiteti, tra cui Divum Deus o Divum Pater, cioè Dio degli Dèi o Padre degli Dèi. Unico fra gli dèi più importanti dell’Urbe non aveva un suo flamen particolare: forse proprio per sottolinearne l’importanza i riti in suo onore erano celebrati personalmente dal re durante il periodo monarchico e, successivamente all’istituzione della Repubblica, dal Rex Sacrorum che aveva ereditato le funzioni religiose e liturgiche che prima erano state di stretta competenza regale. Le notizie circa l’ubicazione del suo tempio restano incerte, sappiamo però che esisteva ed era ancora pressoché intatto quando nel corso della Guerra Gotica, durante l’assedio di Roma (536-537 d. C.) alcune persone tentarono di aprirlo25. Il Cristianesimo si era oramai affermato ovunque, tuttavia vi erano ancora alcune persone che tentavano di rievocare gli antichi culti: infatti, nella Roma pagana quel tempio doveva rimanere chiuso in tempo di pace per essere invece aperto quando era in corso qualche guerra. Talvolta Giano veniva associato a Quirino, altra divinità esclusiva di Roma, nella quale si vedeva Romolo, il mitico re fondatore della città, deificato26. Tutte queste divinità citate, ma anche altre, pure se appartenenti alla devozione pubblica della città, resta- - 60 - PIETRO CRIVELLI ambasciatori, moltissimi come schiavi, retori, filosofi, architetti, medici. Tutti portavano con sé qualche cosa di nuovo e di esotico. Inoltre era consuetudine che giovani romani si recassero all’estero per completare il loro ciclo di studi, soprattutto in Grecia. Non pochi erano coloro che si recavano nelle varie province dell’Impero al seguito dei magistrati incaricati di governarle. A questi si aggiungano i militari che rimanevano per anni nelle località ove erano acquartierati. In questo modo si aprirono molti spiragli attraverso i quali culti esotici si fecero strada nell’ambiente religioso romano. A dire il vero se il fenomeno della diffusione delle religioni estranee alla tradizione romana si sviluppò maggiormente nel periodo a partire dal I secolo a. C. era tuttavia incominciato molto prima: addirittura le prime avvisaglie si ebbero quando il re Tarquinio dispose l’acquisto da Cuma dei Libri Sybillini che si voleva fossero stati dettati dalla Sibilla Cumana. Per la consultazione e l’interpretazione dei responsi in essi contenuti fu necessario creare un apposito collegio sacerdotale denominato Decemviri sacris faciundis. Si aprì così un varco attraverso il quale diverse divinità del Pàntheon greco penetrarono a Roma32. I templi che furono ad esse eretti furono sempre collocati al di fuori del Pomerium a significare che erano tollerate e rispettate, ma restavano comunque non romane. Nel corso del III secolo a. C. insieme con altre divinità greche si era diffuso anche il culto di Bacco, l’equivalente romano del greco Diòniso, dio del vino e dell’ebbrezza. I festeggiamenti in suo onore, naturalmente, portavano ad eccessi di ogni genere, per cui il Senato, allarmato, nel 186 a. C. emise il famoso Senatus consultum ultimum de Bacchanalibus con il quale venivano proibiti dappertutto quei riti orgiastici. Vietati i Bacchanalia, riprese vigore l’antico culto italico di Libero, dio analogo a Bacco, ma con feste e cerimonie molto più sobrie33. Un altro episodio di riprovazione ufficiale verso talune di queste forme parareligiose si ebbe alcuni anni dopo, nel 139, quando furono espulsi da tutto il territorio della Res Publica gli astrologi Caldei. Il Senato dunque s’impegnò fortemente per tentare di limitare la penetrazione dei culti esotici34, soprattutto di quelli giudicati incompatibili con la cultura romana, ma i risultati non ebbero un esito apprezzabile. Su quel grande monumento della romanità che fu la rete viaria dell’impero viaggiavano e si spostavano non solo le merci e gli uomini, ma anche e soprattut- quel consesso e per le sue deliberazioni, poteva rientrare nella sacralità di quella istituzione. Abbiamo visto che nel tempio di Vesta taluno – per esempio Cesare – depositava il proprio testamento. Il tesoro della res publica era custodito nel tempio di Saturno29. Giovenale in una sua satira (14, 261-262) parla di un’intrusione nel tempio di Marte Ultore in conseguenza della quale i ricchi di Roma rinunciarono a depositarvi le loro ricchezze. Sarà bene tuttavia rammentare che la parola templum per i Romani aveva un significato diverso da quello che gli attribuiamo noi. Templum poteva essere un edificio, aedes, ma anche uno spazio aperto sacro. Ambedue, spazi ed edifici, per essere considerati templa dovevano essere dichiarati tali dagli Augures, i sacerdoti che, dopo avere osservato il volo degli uccelli, stabilivano che quel luogo era gradito agli dèi. Erano perciò tali sia il tempio di Saturno sia i Rostra nel foro ed anche il Lupercus. Da questi e da altri esempi si deve arguire che luoghi ed edifici sacri svolgevano una funzione di garanzia pubblica. Il legame col divino doveva assicurare che ogni atto che ivi si compiva era assolutamente corretto e legale. Naturalmente la pietas raramente coincideva con la realtà. Bisogna anche avere presente che sia presso i Romani, sia presso i Greci e sia presso altri popoli la religione, la sacralità, il divino servivano anche a creare una protezione là dove il potere politico non riusciva a giungere; per esempio ad evitare la falsificazione delle monete30. I culti ‘peregrini’ Nella tarda Repubblica e poi durante l’Impero molti culti stranieri cominciarono ad apparire a Roma ed in Italia. Ciò avveniva perché i mercanti dalle origini più disparate giungevano nelle città della penisola e soprattutto nella capitale portando, oltre alle mercanzie, gli usi ed i costumi anche religiosi, delle loro terre di provenienza31. L’Urbe era diventata in quel periodo la città più grande e potente del mondo allora conosciuto – si è calcolato che ai tempi di Augusto avesse raggiunto e forse superato il milione di abitanti, mentre, in quegli stessi tempi, l’intera popolazione mondiale non superava i 130 milioni d’individui - rappresentava un polo di attrazione per tutti coloro che ne avessero sentito parlare. Molti vi giungevano come ostaggi, per esempio lo storico Polibio, altri come - 61 - SALTERNUM braio 54 a. C. al fratello Quinto, che si trovava in Gallia con Cesare, dice testualmente: «Lucreti poemata ut dicis ita sunt, multis luminibus ingenii, multae tamen artis» [«(proprio) come dici tu il poema di Lucrezio è frutto di un ingegno luminoso e di grande arte»]. Il respingimento della religione da parte di Lucrezio diventa più comprensibile se si pone attenzione agli avvenimenti storici occorsi nello spazio della sua breve vita: dapprima la Guerra Sociale, poi la lotta feroce fra Mario e Silla, indi la dittatura di Silla, subito dopo la guerra servile di Spartaco con la crocifissione di seimila schiavi lungo la via Appia e ancora la congiura di Catilina. Si direbbe che ce ne fosse abbastanza per nutrire seri dubbi sull’esistenza degli dèi o sulla volontà degli stessi di regolare le cose umane. Nella Roma repubblicana non esisteva una letteratura religiosa paragonabile alla Bibbia ebraica, ai Vangeli o ai Veda della religione indù. Non esisteva neppure qualche cosa di assimilabile ai Comandamenti, idonei a regolare i rapporti umani con l’autorità incombente del divino, per cui i reati contro la persona o la proprietà erano perseguiti duramente con la forza della legge, ma dal punto di vista strettamente religioso avevano una rilevanza del tutto marginale. Nella Grecia arcaica il colpevole dei delitti di sangue, i più gravi socialmente, si riteneva che fosse perseguito dalle Erinni e doveva sottoporsi ad una cerimonia di purificazione, una specie di assoluzione religiosa, ma a Roma era diverso. In fondo, secondo la tradizione, la fondazione della città era avvenuta contestualmente ad un fratricidio. Si poteva credere di più o di meno alle divinità, ciascuno poteva sentirle o immaginarle a suo modo, ma non esisteva assolutamente nulla che potesse essere avvicinato ad un pensiero religioso valido per tutti i credenti, un’ortodossia e, per conseguenza logica, neppure un’eresia. L’unica cosa importante, da tutti avvertita, era che i servizi religiosi, almeno per quanto concerneva quelli pubblici, fossero celebrati nel modo corretto. Esisteva una correttezza formale, ma non di pensiero. Questo modo incerto e scarsamente partecipativo del popolo di Roma alla religione di Stato favorì da un lato la sopravvivenza delle divinità di più antica origine e quindi più vicine al comune modo di sentire della plebe e dall’altro la penetrazione di culti esotici, prevalentemente di origine orientale. Si è già parlato del culto dionisiaco dei Bacchanalia che evolse in modo eccessivamente trasgressivo, al to le idee, le consuetudini, i sentimenti ed i pensieri degli stessi ed, ovviamente, anche il pensiero religioso. E la sensibilità religiosa romana, nel mentre aborriva l’ateismo, era estremamente rispettosa e tollerante verso le altre confessioni. Ricordiamo che l’accusa rivolta ai Cristiani e che servì a giustificare le persecuzioni a cui vennero sottoposti era proprio quella di ateismo. Per questi motivi anche i culti esotici ebbero libero ingresso a Roma. L’unica limitazione che si pose fu quella di rispettare la sacralità romana del Pomerium. A questo punto preme un’altra osservazione molto importante. La religiosità romana prevedeva dei riti, in gran parte consuetudinari, dei culti, ma non una speculazione filosofica applicata alla religione, uno studio del divino assimilabile alla teologia. Solo Cicerone (De Natura Deorum) si rivolge la domanda di che cosa sia la divinità e di come gli dèi si pongano nei confronti dell’umanità. Il grande oratore s’immagina una conversazione fra tre personaggi di rilievo: uno stoico, Q. Lucilio Balbo, un epicureo, C. Velleio e Aurelio Cotta, pontefice massimo, ma aderente all’accademismo platonico. L’opera si articola in tre libri, nei quali ciascuno dei i tre espone il proprio punto di vista. «E’ opera d’incalcolabile valore per le notizie che ci fornisce sulla filosofia della religione nell’antichità e, specie sulla teologia epicurea; ed è anche opera affascinante per la sua tormentosa problematicità»35. Cicerone sembra propendere per la posizione di Balbo, lo stoico, che vede gli dèi come «provvidenziali reggitori del cosmo»36 in contrasto con quella dell’epicureo che ritiene che essi esistano, ma che non s’interessino minimamente delle questioni umane, e, in parte, con quella di Cotta che, sebbene rivesta la più alta carica religiosa della Res Publica, mostra di ritenere la religione nulla di più di un mezzo idoneo ad esercitare un controllo sulle masse popolari. Per questo motivo, secondo Cicerone, i sacerdozi debbono rimanere nelle mani dell’aristocrazia: «la costante dipendenza del popolo dai consigli e dall’autorità dell’aristocrazia terrà insieme lo Stato»37. Più o meno contemporaneamente all’oratore, anche se in modo totalmente diverso, il problema era stato affrontato da Tito Lucrezio Caro (ca. 98 – 54 a. C.) strenue sostenitore dell’Epicureismo (fondato sull’Atomismo di Democrito) con la sua opera De Rerum Natura. Cicerone sembrava apprezzare notevolmente l’arte di Lucrezio, perché in una lettera del feb- - 62 - PIETRO CRIVELLI portate a sei da Anco Marzio – il collegio dei Fetiales, degli Auguri e quello dei Salii, nonché la costruzione del tempio di Giano. Secondo la leggenda, dunque, i maggiori sacerdozi romani sarebbero apparsi in un momento di poco successivo (circa 50 anni) alla fondazione della città e poiché erano costituiti in collegia, comprendevano un numero cospicuo di cittadini in una comunità ancora piuttosto esigua, per cui, tenendo conto anche dei culti rimasti nell’ambito domestico e officiati dal pater familias, si deve concludere che nella Roma arcaica erano ben pochi coloro che non erano investiti di una funzione religiosa. Ricordiamo sinteticamente i sacerdozi di maggior rilievo: Flamines, 3 maggiori e 12 minori, erano addetti ciascuno al culto di una singola divinità, il più importante era il Flamen Dialis, addetto al culto di Giove. Pontifices: 16, sorvegliavano e governavano i culti, con a capo il Pontifex Maximus, che col tempo diverrà la massima autorità religiosa dello Sstato. Augures: 16, interpretavano gli auspici ed il volere divino. Vestales: se ne è già trattato. Duoviri sacris faciundis: divenuti Decemviri sotto Anco Marzio e poi Quimdecemviri al tempo di Silla, erano addetti all’interpretazione dei Libri Sibillini. Epulones: addetti ai banchetti sacri. A questi vanno aggiunti: Fratres Arvales: 12, addetti al culto di Dia – divinità arcaica poi identificata con Cerere –, nel mese di maggio compivano una cerimonia (Arvalia) di purificazione dei campi. Luperci: 24, compivano le cerimonie cui si è già fatto cenno (15 febbraio). Salii: 24 Sacerdoti-guerrieri di Marte, custodi dei 12 scudi (ancilia), il primo dei quali fu donato a Numa da Marte e gli altri furono fabbricati uguali al primo per evitarne il furto. Fetiales: 20, erano incaricati del rito corretto per le dichiarazioni di guerra. punto da essere vietato; ma in seguito, attraverso la stessa porta, fecero il loro ingresso Iside, Cibele, Mitra, le religioni misteriche, soprattutto quella dionisiaca, l’Ebraismo ed il Cristianesimo, oltre ad altre religioni di minore importanza. Per contro uscirono dalla città per diffondersi in vari luoghi, al seguito dei veterani che si stabilivano nelle colonie, altre divinità molto sentite a Roma, ma non legate ad un luogo particolare della città, come la Mater Matuta38, la Fortuna Virilis oppure Pomona, grandemente venerate nel periodo repubblicano ma trascurate successivamente, che si ricollegavano agli ancestrali culti della fertilità con aspetti diversi e non facilmente distinguibili. In ultima analisi sembra che si possa affermare che i culti più antichi presenti a Roma, attualmente meno noti al grande pubblico, siano stati quelli maggiormente e più intimamente sentiti dall’uomo romano che li praticava con regolarità e, presumibilmente, con fede sincera. Erano anche le pratiche religiose alle quali, come si è visto, si ricorreva ufficialmente nei momenti di massima difficoltà, quando la stessa sopravvivenza della Res Publica era messa in pericolo. I culti di Stato sarebbero apparsi ai nostri occhi molto più vicini a festività civili o nazionali che a vere e proprie cerimonie religiose, mentre le nuove religioni indicate in precedenza si diffusero rapidamente fra i vari strati della popolazione - il Mitraismo soprattutto nell’ambiente militare - per il loro contenuto soteriologico mirante al riscatto dell’uomo mediante la fede. I culti di Stato rimasero in vita fino alla fine del IV secolo, come estremo tentativo su base ideologica di difendere l’Impero nella sua fase declinante. I sacerdozi romani Abbiamo detto - e su questo non sembra che vi possano essere dubbi - che il sacerdote su cui si fonda la religiosità del popolo romano è il pater familias e che, con la trasformazione della comunità in ‘civica’, un certo numero di riti da privati divenne collettivo e pertanto le funzioni religiose vennero officiate da un numero più ristretto di personaggi, con a capo il re, massimo reggente politico e religioso della nuova società. Tito Livio (I, 20) fa risalire l’istituzione dei sacerdozi al re Numa Pompilio, uomo saggio e mite che s’impegnò per dare alla Roma bellicosa di Romolo un’impronta più moderata. A lui, secondo Plutarco (Vita di Numa), si deve l’istituzione dei collegi dei Flamines, dei Pontifices, delle Vestali – quattro in origine, *** Mi sembra giusto concludere con una considerazione. Graecia capta ferum victorem cepit et artis intulit agresti Latio. Così il Orazio39 compendia in poche parole il rapporto culturale fra la Grecia e Roma. In realtà la dipendenza culturale era molto più antica della conquista militare della Grecia. Sorvoliamo sulla sospetta indicazione dell’anno 510 per la cacciata dei Tarquini in modo da farla coincidere con quella dell’espulsione dei Pisistratidi da Atene; non consideriamo neppure l’adozione del culto dei Diòscuri dopo la battaglia del lago Regillo (circa 496 a. C.) e neanche - 63 - SALTERNUM fuori di dubbio che Tarquinio Prisco fosse figlio di Demarato, il greco di Corinto, appartenente alla famiglia dei Bacchidi, giunto esule in Etruria per sottrarsi alla tirannide di Cipselo. Rimanendo più aderenti all’argomento trattato, ricorderemo che coloro che guidavano i coloni greci nelle imprese coloniali, gli ‘ecisti’, dopo la morte erano fatti oggetto di un culto semidivino, il culto eroico. Una sorte molto simile sembra che sia stata quella riservata a colui che in qualche modo fu l’ecista di Roma, Romolo, figlio di Marte, accolto nel consesso divino col nome di Quirino così come era avvenuto ad Eracles, l’eroe per eccellenza, figlio di zeus. l’invio di una commissione senatoriale ad Atene per studiarne il sistema legislativo (a. 454) in previsione della promulgazione di quelle leggi ricordate come delle ‘dodici Tavole’40. Ancora, secondo la mitologia romana, Saturno, il greco Crònos, quando fu detronizzato e cacciato dal figlio Giove (zeus), venne nel Lazio ove fu accolto benevolmente da Giano e qui insegnò agli uomini l’agricoltura. La commistione fra le due culture fu sempre notevole fino dai tempi più antichi, favorita evidentemente dai rapporti con l’Etruria del periodo orientalizzante, nonché dalla vicinanza con le città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia. D’altra parte sembra ormai - 64 - PIETRO CRIVELLI Note Prometeo, nel corso di un rito di eccezionale solennità che aveva visto il sacrificio di un toro, divise la vittima in due parti: pose da un lato la carne sotto la pelle, dall’altro le ossa scarnificate coperte del grasso dell’animale; quindi invitò zeus a scegliere. Il dio scelse la parte del grasso pregustando la golosità di quanto immaginava di trovare sotto, e s’infuriò di brutto quando s’accorse d’essere stato buggerato dallo scaltro Prometeo. 2 Si pensi alla situazione ‘boccaccesca’ in cui si trovarono Afrodite ed il suo amante Ares quando furono intrappolati ‘sul fatto’ con una rete da Efesto, il marito tradito che aveva convocato gli altri dèi per assistere alla scena. 3 Valga per tutti il seguente, rinvenuto dal Maiuri a Pompei, nella Basilica: «Venga chiunque ama. A Venere voglio spezzare le costole a bastonate, e fiaccarle i lombi, alla dea. Se lei può trapassarmi il tenero petto, perché io non potrei spaccarle la testa con un bastone? ». 4 Lex Claudia, 218 a. C. Ma la norma doveva essere molto più antica. 5 Originariamente la Triade era costituita da Giove, Marte e Quirino. In seguito gli ultimi due furono sostituiti da Giunone e Minerva. E’ incerto quando sia avvenuto il mutamento. In ogni modo i tre Flamines maggiori – complessivamente erano quindici - continuarono sempre ad essere quelli della Triade più antica. 6 BLOCH 1959, p. 140. 7 Da «in digito», invocare le divinità. 8 AURELIO AGOSTINO, De Civitate Dei, IV, 8. 9 SCULLARD 1992, vol. I, p. 467. 10 Da osservare che il Flamen Dialis, sacerdote del culto esclusivo di Giove, era soggetto ad una serie enorme - ed oppressiva - di limitazioni, tra le quali vi era quella di non potersi allontanare al di fuori del Pomerium per più di una notte. Divennero eccezionalmente tre al tempo di Augusto. 11 T. Livio II – 5,1, ss. 12 Ibidem. La parola religiosus ha il significato di un divieto sacrale, divino, ma anche imposto dai doveri verso altri uomini. 13 Tra i significati della parola mundus è com1 preso quello di ‘ordine cosmico’. 14 ARANGIO-RUIz 1989, p. 74. 15 MARINUCCI 1989, p. 38 16 CALABI LIMENTANI 1985, p. 311. 17 Ecl. VIII vv. 69-71: «gl’incantesimi possono perfino staccare la luna dal cielo / con incantesimi Circe trasformò i compagni di Ulisse / con l’incantamento nei prati si fa crepare il freddo serpente». 18 Manes erano le divinità dei defunti. 19 Così Paolo Diacono nell’epitome a Festo, p. 115 L. Quella pietra che si trovava fuori della porta Capena, nei pressi del tempio di Marte, dunque costituiva l’elemento di chiusura fra due mondi che dovevano restare separati, il mondo (universo) dei vivi e quello dei defunti. Per non arrecare turbamento allo stato delle cose la si poteva spostare solamente in casi di assoluta necessità: l’esigenza di salvare il raccolto, fonte di vita, era uno di questi, ma il tutto doveva svolgersi secondo precise norme sacrali. 20 Da ricordare che quel ponte, per un vincolo magico-religioso era costruito di legno e senza metalli. 21 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 57. 22 In una fase storica successiva i Penates assunsero la caratteristica di divinità genericamente protettrici della casa, legate in qualche modo agli antenati, ed erano venerati, assieme ai Lares, nell’atrio della casa, presso il focolare, ove era posto un tabernacolo con un altarino. E’ questo il significato che si ritrova in Virgilio (Aen. I, 68). In una ulteriore estensione cittadina vennero venerati anche i Penates della città, fino a quando il loro culto fu proibito da Teodosio (392 d. C.). 23 I Lares in origine rientravano fra le divinità che proteggevano il podere e la familia; successivamente la loro competenza venne estesa ad un ambito più vasto e diverso: il quartiere cittadino rappresentato dall’incrocio di due strade il compitum (Lares Compitales). Tale nuova funzione comportava dei riti a cui provvedevano sacerdoti minori organizzati in Collegia Compitalicia ai quali erano ammessi anche gli schiavi. - 65 - PLUTARCO, Vita di Romolo, 21. PROCOPIO DI CESAREA, Storia delle guerre (όι υπέρ τών πολέμων λόγοι) I, 125. 26 PLUTARCO, Vita di Romolo, 28-29. 27 Una di queste riguardò l’introduzione del culto dei Dioscuri. 28 La denominazione di ‘Triade Capitolina’ si deve agli storici del XIX secolo. 29 BEARD 2000, p. 49. 30 La zecca di Roma fu posta in un luogo adiacente al tempio di Giunone Moneta (moneo), sul Campidoglio ove ora sorge la chiesa di S. Maria in Aracoeli. E facile capire l’etimo della parola ‘moneta’. 31 Nell’ormai lontano 1939, in una casa pompeiana, appartenuta ad un mercante, che affaccia su via dell’Abbondanza si rinvenne una statuetta eburnea, alta 25 cm, di una divinità indiana: Laksmi. Dea della bellezza era la sposa di Visnù, analoga all’Afrodite greca. 32 I Tarquini erano etruschi e Cuma era uno dei punti di contatto tra il mondo etrusco e quello greco. 33 E’ interessante osservare che in Grecia Dioniso, corrispondente al Bacco romano, aveva l’appellativo di Lieo, dal verbo lyo (λύω) = sciogliere, allentare. A Roma, analogamente, il nome di Libero evocava il senso di libertà, anche eccessiva e sfrenata, che è spesso la conseguenza del consumo del vino. 34 TACITO, Annales, II, 85. 35 PARATORE 1993, p. 226 36 ID., Ibidem. 37 CICERONE: De Legibus, II, 12. Con molta arguzia Edward Gibbon, nella sua monumentale opera Declino e caduta dell’Impero Romano, riferendosi alle molte religioni presenti a Roma, afferma che esse erano tutte vere per la plebe, tutte false per i filosofi e tutte utili per lo Stato (GIBBON 1998). 38 Era rappresentata seduta in trono con uno o più (fino a dodici) neonati in grembo. 39 ORAzIO, Epistolarum Lib. II, 1, 156/7: «La Grecia conquistata conquistò a sua volta il selvaggio vincitore e introdusse le arti nell’agreste Lazio». 40 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, III, 31. 24 25 SALTERNUM Bibliografia ARANGIO-RUIz V. 1989, Storia del Diritto Romano, Napoli. CALABI LIMENTANI I. 1985, Epigrafia Latina, Milano. PARATORE E. 1993, Letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano. BEARD M. 2000, Gli spazi degli dei, le feste, in Roma Antica, a cura di A. GIARDINA, Roma, pp. 35-56. GIBBON E. 1998 (ed.), Declino e caduta dell’Impero Romano, Milano. SCULLARD H. H. 1992, Storia del Mondo Romano, Milano. BLOCH R. 1959, Gli Etruschi, Milano. MARINUCCI G. 1989, Introduzione all’Epigrafia Latina, Roma. - 66 - FRANCESCO MONTONE Il barbaro che Roma non sconfisse: il vandalo Genserico in una similitudine del poeta tardoantico Sidonio Apollinare N Al re vandalo fu imposto di non interferire con gli affari italiani e di lasciare Italia e Sicilia. Genserico si preparò alla guerra. L’imponente spedizione militare di Antemio si rivelò fallimentare, garantendo a Genserico e al regno vandalico una prospera sopravvivenza. Nel 476 il re barbaro fece pace con l’imperatore zenone, e morì l’anno successivo, il 25 gennaio. Questi rapidi cenni biografici e storici sono utili per comprendere il ruolo che Genserico giocò nei decenni finali dell’impero romano d’Occidente. Non è un caso, quindi, che il re barbaro diventi figura centrale nei tre panegirici che l’intellettuale gallo-romano Sidonio Apollinare4 recitò per alcuni degli ultimi imperatori di Roma: Avito (455-456), Maioriano (458-461), Antemio (467-472). Nei panegirici sidoniani, costruiti con uno stile prezioso e lussureggiante5, la campagna militare per sconfiggere Genserico è importante motivo ideologico, in quanto punto di partenza per una possibile rinascita della potenza dell’impero d’Occidente: il re barbaro diviene personaggio letterario, in quanto i suoi vizi e la sua ferocia devono far risaltare le virtù dell’imperatore che di volta in volta Sidonio va ad elogiare. el V secolo il regno vandalico conobbe un importante periodo di crescita e sviluppo, grazie alla debolezza dell’impero romano d’Occidente, ormai vicino alla caduta finale, e grazie soprattutto alla personalità del suo sovrano Genserico1. Figlio illegittimo di Godigisel, fratellastro del re dei Vandali Gunderico, Genserico salì al trono nel 428, divenendo re dei Vandali e degli Alani. Giordane2 lo descrive così: «statura mediocris et equi casu claudicans, animo profundus, sermone rarus, luxoriae contemptor, ira turbidus, habendi cupidus, ad sollicitandas gentes providentissimus, semina contentionum iacere, odia miscere paratus». Fu proprio Genserico a guidare il suo popolo dalla Spagna all’Africa nel 429. Dopo anni di scontri strinse un’alleanza con Roma nel 435, in cambio della quale ricevette delle terre in Africa. Nel 439, però, attaccò l’Africa proconsolare, conquistando Cartagine il 19 ottobre. Nel 442, grazie, probabilmente, al genio strategico di Ezio3, pervenne ad un foedus con Valentiniano III, che rispettò fino alla morte del grande generale romano e all’ascesa al trono di Petronio Massimo (a. 455). I Vandali ottennero il riconoscimento della sovranità sull’Africa Proconsolare, sulla Byzacena, sulla parte orientale della Numidia, mentre lasciarono ai Romani la Mauretania, la parte occidentale della Numidia e la Tripolitania. Nel 455 Genserico sbarcò in Italia e, dopo Alarico nel 410, saccheggiò Roma, portando con sé in Africa la moglie e le figlie di Valentiniano. Nel 460 Roma tentò la riscossa con l’imperatore Maioriano, che allestì una potente flotta contro Genserico. La sorte, tuttavia, era dalla parte del Vandalo, che con l’aiuto di alcuni traditori riuscì a catturare tutta la flotta ed a costringere l’imperatore di Roma a rinunciare alla spedizione e a chiedere la pace. Nel 467 Roma tentò ancora una volta di soggiogare il regno vandalico. In quell’anno, infatti, Leone I, imperatore romano d’Oriente, impose sul trono d’Occidente un suo uomo, Antemio. Fig. 1 - K. Brjullov (1799-1852), Genserico saccheggia Roma (Mosca, Tretyakov Museum). - 67 - SALTERNUM L’esortazione, rivolta ai tre sovrani, ad organizzare spedizioni militari contro Genserico non rientra solo nella costruzione, tipica della letteratura d’elogio, di una contrapposizione tra l’imperatore e un barbarus hostis6 da sconfiggere; consente, infatti, di comprendere la lungimiranza politica dello scrittore tardoantico, che si rendeva conto che da una vittoria sui Vandali passava la possibilità di un riscatto dell’Urbs. Come sottolinea Álvarez Jiménez7, il regno vandalico era la vera minaccia per l’impero d’Occidente, dal momento che, fatto senza precedenti, aveva significato la creazione del primo stato barbaro su suolo romano8. Nella costruzione ideologica messa in atto da Sidonio per supportare i tre imperatori, lo scontro con Genserico rappresenta la IV guerra tra Roma e Cartagine. Questo Leit-motiv, che compare anche nei panegirici per Avito e per Antemio9, ha un’importanza centrale nel discorso di elogio per Maioriano10 (recitato a Lione il 28 dicembre del 458); in esso la figura di Genserico è ossessivamente presente, in virtù della spedizione militare che l’imperatore era in procinto di intraprendere contro il re vandalo. Fig. 2 - Ms Fabr. 91 4°, che contiene anche opere di Sidonio Apollinare (Copenhagen, Kongelige Bibliotek). - 68 - Sidonio immagina che una Roma bellatrix dia udienza a tutte le province dell’Impero (vv. 13-39), raffigurate con fattezze femminili, secondo l’iconografia tradizionale. Esse si presentano a rendere omaggio con atto di sottomissione; ultima è la dea Africa, lacerata a causa dei soprusi del re dei Vandali, Genserico, che di essa si era impadronito nel 439. Ella rivolge alla dea Roma una lunga allocuzione (vv. 56-349), in cui supplice chiede che Maioriano venga a liberarla. Nella sezione proemiale del suo discorso (vv. 56106) l’Africa deplora il giogo vandalico e ricorda tutti i pericolosi nemici che l’Urbs nella sua gloriosa storia è riuscita a sopraffare: Porsenna, Brenno e soprattutto Annibale, che è arrivato a vedere le mura di Roma (vv. 85-87)11. Il Leit-motiv si presenta ai vv. 99-10412: la guerra contro Cartagine sarà la quarta guerra punica e Maioriano potrà, terzo dopo i due Scipioni, fregiarsi dell’appellativo di Africanus, dopo aver sconfitto il nuovo Annibale, Genserico. Particolarmente interessante è la sezione finale dell’allocuzione della dea (vv. 327-349); l’Africa, infatti, fornisce un ritratto infamante di Genserico: egli ha perso ormai l’originario valore in quanto schiavo dei vizi ed è temuto non tanto per le proprie forze, quanto per quelle dei popoli barbari che sono al suo servizio. Egli è divenuto un crapulone infiacchito; termine di confronto è ancora una volta Annibale, che era venuto meno alla sua proverbiale frugalità durante gli ozi capuani, quando un nemico più forte di lui era riuscito a sopraffarlo: la Campania felix13. Il Vandalo, quindi, eguaglia in ferocia il tremendo Cartaginese, ma non è paragonabile al predecessore né per imprese né soprattutto per doti fisiche ed austerità (si ricordi il famoso ritratto del generale punico fornito da Liv. 21, 4). La peroratio finale (vv. 347349) riprende il Leit-motiv già evidenziato: la campagna bellica contro Genserico sarà la quarta guerra tra Roma e Cartagine. Sidonio si appropria di celeberrimi lemmi virgiliani; la dea Africa, infatti, invoca, come Didone14, un ultor che possa vendicarne l’onta subíta (vv. 348-349: «ultorem mihi redde, precor, ne dimicet ultra / Carthago Italiam contra»). Particolarmente illuminante, inoltre, è il racconto (vv. 510 ss.) della traversata delle Alpi compiuta da Maioriano, che dimostra doti di generale infaticabile al punto da stupire persino un soldato unno che combatte per Roma: è Maioriano, non Genserico, colui che è stato in grado di imitare Annibale, Cesare, Traiano in una grande impresa quale era la traversata delle Alpi!15 FRANCESCO MONTONE Sidonio esorcizza così il terrore che Genserico incuteva a Roma. L’introduzione dell’exemplum storico di uno dei più grandi nemici di Roma, il terribile Annibale, è funzionale, quindi, alla deminutio di Genserico ed all’esaltazione del Princeps. Un analogo procedimento si può ravvisare nella similitudine dei vv. 8898, oggetto specifico della nostra analisi; in essa Genserico è assimilato ad un feroce cinghiale: «Quid merui? Fatis cogor tibi bella movere, cum uolo, cum nolo. Trepidus te territat hostis, sed tutus claudente freto, velut hispidus alta sus prope tesqua iacet claususque cacuminat albis os nigrum telis gravidum; circumlatrat ingens turba canum, si forte velit concurrere campo; ille per obiectos vepres tumet atque superbit, vi tenuis fortisque loco, dum proximus heia venator de colle sonat: vox nota magistri lassatam reparat rabiem; tum vulnera caecus fastidit sentire furor. Quid proelia differs?». «Che male ho fatto? Sono spinta dal destino a muoverti guerra, quando voglio, quando non voglio. Ti terrorizza un nemico impaurito, ma al sicuro perché circondato dal mare, come un irsuto cinghiale si trova presso alte lande desolate, e circondato aguzza la nera bocca gravida di bianche armi; un’ingente torma di cani gli latra intorno, se per caso vuole dar battaglia in campo aperto; quello tra rovi frapposti tronfio insuperbisce; scarsa la potenza: a dargli forza è la postazione, finché il cacciatore vicinissimo grida “eccolo” dal colle: la voce conosciuta del padrone rianima la furia rilassata; allora il cieco furore lo rende insensibile alle ferite. Perché differisci la lotta?». Fig. 3 - Moneta dell’epoca di Maioriano (Roma, Palazzo Massimo). te l’interna agitazione di chi si trova in una situazione eccezionale, l’eccitazione frenetica che precede un’azione decisiva, o la tempesta interiore di chi subisce un colpo e non trova lì per lì la forza di reagire’17. E’ parola tipica del vocabolario epico relativo alla paura ed è frequente, in particolare, negli epici di età flavia18. L’Africa, quindi, è terrorizzata da un barbaro che ha perso le sue sicurezze19. L’impunità di cui gode Genserico è dovuta solo alla posizione geografica (si noti l’allitterante omoteleuto tutus…trepidus), dal momento che il mare si frappone tra Roma e l’Africa (si osservi che al tutus claudente freto corrispondono, nella similitudine, il per obiectos vepres ed il fortisque loco). Si osservi, inoltre, la pregnanza del poliptoto claudente…claususque, che contribuisce a rafforzare l’accostamento proposto tra Genserico e il cinghiale, entrambi accerchiati, l’uno dal mare, l’altro dai cani. Si noti, inoltre, che Sidonio sembra riecheggiare Sen. Ag. 892 ss.: «At ille, ut altis hispidus20 silvis aper / cum casse vinctus temptat egressus tamen / artatque motu vincla et in cassum furit» Lo scrittore gallo-romano, tuttavia, preferisce ad aper un termine più prosaico come sus (nel mondo antico il maiale è simbolo di voracità e stupidità21). Tesquum, termine della sfera religiosa con valore assimilabile a templum22, è utilizzato in senso non tecnico per indicare lande desolate e selvagge: cfr. Hor. epist. 1, 14, 19, «…nam quae deserta et inhospita tesqua»; Lucan. 6, 41, «…nemorosaque tesqua». Il verbo cacumino, utilizzato più volte da Sidonio23, è attestato solo in Ov. Met. 3, 195 («…summasque cacuminat aures»), nell’episodio della metamorfosi di Atteone in cervo, e in Plin. Nat. 10, 145, a proposito delle uova degli animali acquatici. E’ evidente, quindi, il ‘prelievo’ ovidiano, quasi ci trovassimo, anche nel testo sidoniano, di fronte ad una metamorfosi di un uomo in un animale: Genserico ‘si bestializza’, ‘si trasforma’ in un feroce cinghiale. Sidonio è solito infarcire i suoi complessi tessuti linguistici di furtivae lectiones24, di spie linguistiche la cui potenza allusiva non va assolutamente sottovalutata. Una turba canum25, va ricordato, assale anche Atteone (Met. 3, 225 - «ea turba» -, in riferimento a tutti i cani che il poeta Sulmonese ha elencato nei versi preceden- L’Africa ribadisce in primo luogo che è costretta dal destino allo scontro con Roma; è chiara l’allusione al giuramento di Didone, che aveva sancito l’inimicizia secolare tra i due popoli16. Roma, comunque, ha terrore di un nemico che in realtà è in preda alla paura. Si noti a v. 89 la triplice allitterazione della ‘t’ (trepidus te territat), che rende la sensazione di terrore che nasce al solo pensiero di Genserico, cui contribuisce l’intensivo territat. Trepidus è messo in rilievo dall’iperbato e dalla collocazione tra cesure; il vocabolo assume a partire da Virgilio un’accezione interiore-psicologica ed indica preferibilmen- - 69 - SALTERNUM rum (per le attestazioni cfr. ThlL VIII 84, 69-83); cfr. ad esempio Ov. Trist. 4, 6, 7-8, «quaeque sui monitis obtemperat Inda magistri / belva; magister»; il termine, inoltre, può essere sinonimo di pastor, pecudum custos (per le attestazioni cfr. ThlL VIII 80, 45 ss.). Caecus… furor si trova in Sen. Oed. 590 (in clausola); cfr., però, anche Verg. Aen. 2, 244, …caecique furore e Hor. epod. 7, 13, furorne caecus (altri luoghi sono segnalati in ThlL III 44, 40-42). Per le attestazioni del verbo fastidio con infinito cfr. ThlL VI1 311, 52-69. Il v. 98 si chiude con una reminiscenza di Claudiano: quid proelia differs rimanda infatti a Claud. carm. 8, 385, sed proelia differs ed a carm. 18, 500, quid vincere differs; cfr. tuttavia Ov. Met. 6, 52, nec iam certamina differt e la clausola proelia differ di Sil. 7, 330. Un altro importante ipotesto, tuttavia, è nella mente di Sidonio: la famosa similitudine virgiliana in cui Mezenzio circondato dai Troiani è assimilato ad un cinghiale assalito dai cacciatori con i loro cani (Aen. 10, 707-718): «ac velut ille canum morsu de montibus altis actus aper, multos Vesulus quem pinifer annos defendit multosque palus Laurentia, silua pastus harundinea, postquam inter retia ventumst, substitit infremuitque ferox et inhorruit armos, nec cuiquam irasci propiusve accedere virtus, sed iaculis tutisque procul clamoribus instant: haut aliter, iustae quibus est Mezentius irae, non ulli est animus stricto concurrere ferro, missilibus longe et vasto clamore lacessunt: ille autem inpavidus partis cunctatur in omnis, dentibus infrendens et tergo decutit hastas» 30. «E come quel cinghiale cacciato dagli alti monti dal morso dei cani, che per molti anni il Vesulo folto di pini e per molti la palude laurentina difesero, nutrito tra le selve di canne, incappato tra le reti, si ferma e freme feroce e arruffa le spalle, né alcuno ha il coraggio di aizzarlo e avvicinarsi ulteriormente, ma lo incalzano con giavellotti e urli sicuri da lontano: non diversamente, di coloro che hanno giusta ira verso Mezenzio, nessuno ha l’ardire di assalirlo con la spada snudata; lo attaccano da lontano con dardi e con vasto clamore ma quello impavido si volge contro tutte le parti, digrignando i denti, e scuote con lo scudo le aste». ti): non è affatto casuale, quindi, il recupero di quel «cacuminat» (Met. 3, 195) dell’ipotesto ovidiano, che il lettore colto è chiamato ad individuare dalla furtiva lectio inserita da Sidonio nel suo mosaico testuale26. Tipici della poesia tardoantica sono, inoltre, i contrasti coloristici27: si notino il chiasmo albis / os nigrum telis, il rejet inverso e la particolare accezione semantica dell’aggettivo gravidus. «Os…gravidum telis» ricalca Sil. 7, 445, «gravidam telis…pharetram»28; Sidonio, però, utilizza l’aggettivo, che propriamente ha il significato di praegnans, in senso lato; è così enfatizzato il contrasto tra la nera bocca e le bianche zanne della belva, vere e proprie armi letali. Anche telum, d’altronde, è utilizzato in senso lato29. Il verbo circumlatro, utilizzato de canibus, si ritrova prima di Sidonio nella Consolatio ad Marciam (22, 5) di Seneca (che lo usa in senso figurato) e in Ammiano Marcellino (22, 16, 16). In senso figurato Sidonio lo utilizza in epist. 4, 24, 5. Che egli abbia ancora in mente Ovidio lo confermano le consonanze con Met. 4, 422423, «…modo more ferocis / versat apri, quem turba canum circumsona terret» (la similitudine ovidiana viene, però, molto ampliata: terret è stato sostituito e ampliato dall’allitterante trepidus te territat, circumsona da circumlatrat). Non è casuale, comunque, che l’Autore tardoantico riecheggi lemmi delle Metamorfosi: Genserico perde del tutto le sue connotazioni umane, in quanto la sua animalesca ferocia lo assimila ad un cinghiale. Nel «per obiectos vepres» vi è forse un’eco di un altro luogo del Sulmonese (Met. 5, 628-629): «aut lepori, qui vepre latens hostilia cernit / ora canum». Il furore animalesco del cinghiale cui Genserico è assimilabile è enfatizzato dalla giustapposizione di tanti termini che attengono alla sfera del furore (tumet, superbit, rabiem, caecus…furor) o che connotano il carattere selvaggio dello scenario in cui si svolge la concitata caccia (tesqua, obiectos vepres); si noti, inoltre, l’enfasi conferita agli alternanti stati d’animo della preda (il superbo incrudelire, l’infuriare della rabbia attenuatasi, il furore cieco che s’inasprisce a mano a mano che la belva avverte l’acutizzarsi del dolore delle ferite). Un altro prezioso gioco linguistico è realizzato dal chiasmo «vi tenuis fortisque loco», in cui si realizza un’antitesi quasi ossimorica tra tenuis, da una parte, vi e fortis dall’altra. Per quanto riguarda l’insolita definizione del cacciatore come magister, Sidonio si è forse ispirato ad una particolare accezione semantica del sostantivo, che è talvolta utilizzato de doctore, domitore, rectore bestia- Sul ‘bestiale’ Genserico viene proiettata, sia pure con il ricorso ad una criptica allusività, anche l’ombra sinistra del tirannico e superbo Mezenzio dell’Eneide, personaggio antitetico al pius Enea. Sebbene Sidonio - 70 - FRANCESCO MONTONE quello di aizzare la fiera da vicino: il cinghiale sidoniano, infatti, «lassatam reparat rabiem», ed il suo furor diviene caecus. Sidonio ha, cioè, messo in scena gli effetti di quel comportamento che i cacciatori virgiliani avevano accuratamente evitato: è evidente, quindi, come l’autore tardoantico, pur avvalendosi di lemmi di altri auctores, entri in competizione con il testo virgiliano, da cui parte per dipanare il suo filo narrativo. L’ipotesto dell’Eneide è, perciò, imprescindibile, in quanto punto di partenza per l’elaborazione di nuove immagini, costruite con lemmi tratti da altre testualità. Diverse, inoltre, sono le modalità con cui i due autori rappresentano la rabbia del cinghiale; se Sidonio, come detto, disseminava il suo testo di termini afferenti alla sfera semantica della rabbia e del furore, Virgilio, magistralmente, in un solo esametro (v. 711: «substitit infremuitque ferox et inhorruit armos»), con l’allitterazione della labiale e l’eftemimera, riesce a esprimere lo stato di frenetica rabbia che pervade il cinghiale. L’irasci del v. 712 viene richiamato poco dopo dall’irae di v. 714, contribuendo ad accostare strettamente cinghiale e Mezenzio, cui il sostantivo è riferito; la ‘bestializzazione’ del crudele tiranno è resa anche dal fatto che Virgilio ha rappresentato con un’identità di immagini l’azione dei cacciatori e quella dei Troiani: si noti- abbia preferito testualità e sintagmi di altri auctores, l’ipotesto virgiliano agisce in maniera permanente da ‘sottofondo’; è la traccia sottesa che aiuta a comprendere le modalità di composizione del poeta tardoantico che, come assemblando un complesso ‘puzzle’, intreccia le tessere che gli forniscono gli auctores prescelti in un nuovo sapiente ordito. Il poeta gallo-romano tenta, così, di celare il più possibile gli ipotesti dai quali preleva i suoi lemmi, in modo tale che solo il lettore arguto possa cogliere la sostanza della sua polifonica operazione linguistica. Lo scrittore tardoantico, quindi, sostituisce all’aper l’hispidus sus; preferisce l’immagine ovidiana della turba canum che circonda latrando la belva a quella virgiliana del «canum morsu…/ actus aper» (cambia anche il participio riferito al cinghiale; alla belva virgiliana è accostato actus, a quella sidoniana clausus). Sidonio rifiuta di dare una precisa contestualizzazione geografica alla sua scena di caccia; si noti, però, come sostituisca al de montibus altis virgiliano il de colle; il Vesulus…pinifer e la Laurentia palus hanno difeso il cinghiale virgiliano; Genserico è sicuro claudente freto (si noti che l’aggettivo tutus, riferito da Sidonio al vandalo, è utilizzato dal Mantovano a proposito dei dardi e dei clamori dei cacciatori che attaccano la belva a prudente distanza, per non rischiare nulla). Il cinghiale virgiliano è stato nutrito tra le selve di canne (silva…harundinea); l’hispidus sus sidoniano si trova alta prope tesqua e, scoperto, trova nell’ambiente circostante una protezione naturale (obiectos vepres). Se Virgilio focalizza la sua attenzione sugli iacula gettati dai cacciatori, il poeta gallo-romano assume il punto di vista della belva, che impazzisce di dolore a causa delle ferite (vulnera), effetto del lancio di dardi; nel testo sidoniano compaiono dei tela, ma si tratta in realtà di un utilizzo traslato del termine, riferito, come detto, alle zanne del cinghiale. Un’altra oppositio coinvolge il comportamento umano nelle due similitudini: nel testo virgiliano i cacciatori incalzano la preda a distanza e da lontano (procul) emettono clamores, badando a non aizzarlo; in Sidonio, invece, compare un solo venator, chiamato magister, quasi stesse addomesticando la belva, ed è ormai proximus. Va notato che anche nel panegirico compaiono notazioni acustiche (heia…vox nota magistri), di segno opposto, però, rispetto a quelle dell’Eneide: alle lontane voci virgiliane si contrappone l’urlo dell’unico cacciatore, ben distinto (vox nota) dalla belva, che ottiene proprio l’effetto che i cacciatori virgiliani volevano scongiurare, Fig. 4 - N. Dell’Abate (1510-1571), Turno con Mezenzio e Camilla (Modena, Galleria Estense). - 71 - SALTERNUM modificate, stravolte, variate e intessute con segmenti linguistici di altri auctores, per raggiungere diverse finalità poetiche. La similitudine offre, in conclusione, un ulteriore esempio del modo di procedere di Sidonio: Genserico non è assimilabile ai nemici di Roma, se non per crudele ferocia, in quanto non ne possiede le capacità: la sua dissolutezza non è paragonabile nemmeno a quella dell’Annibale degli ‘ozi capuani’, unico momento in cui il generale punico venne meno alla sua encomiabile austerità; la sua ferocia è assimilabile a quella di uno degli acerrimi nemici del pater Aeneas, Mezenzio; del mitico re, però, il trepidus Genserico non possiede affatto quelle doti militari che lo rendono inpavidus. In tal modo Sidonio rassicurava il suo uditorio, terrorizzato da Genserico, che doveva davvero sembrare un nuovo ‘Annibale’; egli, infatti, era riuscito nell’unica impresa non realizzata dal generale punico: il saccheggio di Roma. Gli exempla mitici e storici di cui sono disseminati i panegirici e l’allusione fitta e preziosa alle parole dei grandi auctores della tradizione letteraria latina non hanno, in definitiva, solo una finalità estetica, ma anche uno scopo politico-propagandistico. Lo scrittore gallo-romano continuava a credere nella possibilità di far rivivere il mito di Roma; richiamando continuamente gli exempla del glorioso passato e facendo rivivere in nuovi tessuti linguistici le parole dei ‘classici’ riaffermava la sua fede nell’Urbs31. Le speranze del poeta tardoantico erano destinate, purtroppo, ad un clamoroso fallimento: Genserico, infatti, riuscì a superare indenne le campagne militari mosse contro di lui da Maioriano e da Antemio. La parabola esistenziale del re vandalo diviene, anzi, emblema della debolezza di un impero ormai vicino alla caduta finale: se lo stesso Sidonio dava una centralità epocale allo scontro di Roma con i Vandali, come momento di un possibile ritorno ai fasti del passato e di una renovatio del potere imperiale, gli insuccessi contro Genserico furono il manifesto più potente dell’irreversibilità della crisi dell’Impero d’Occidente. I panegirici sidoniani assurgono così ad ‘ultimo canto del cigno’. Al poeta gallo-romano, divenuto in seguito vescovo di Clermont-Ferrand, toccò l’amara sorte di morire in un’Alvernia occupata del re dei Visigoti Eurico, dopo aver sostenuto, insieme al cognato Ecdicio, la resistenza contro i barbari e dopo aver subìto, per qualche tempo, anche l’onta dell’esilio. La stella di Roma, oramai, declinava. no il poliptoto clamoribus – clamore e la variatio iaculis…missilibus: i cacciatori scagliano giavellotti procul e urlano; i soldati di Enea scagliano dardi e longe emettono clamores. L’animalesco furore del re è reso, in particolare, dal dentibus infrendens. All’immagine di Mezenzio, che sembra quasi digrignare i denti come il cinghiale, si oppone quella della belva sidoniana che aguzza nella nera bocca le zanne letali. Sidonio, tuttavia, ha lasciato nel suo testo una spia lessicale che rinvia chiaramente al testo virgiliano: concurrere. Il verbo, però, viene inserito in un diverso tessuto semantico: se i soldati di Enea evitano di stricto concurrere ferro Mezenzio, di giungere, cioè, ad uno scontro frontale, preferendo scagliare dardi a distanza, i cani sidoniani tentano di circondare la belva, per impedirle di correre in campo aperto. Il distacco di Sidonio dal testo virgiliano è in realtà dettato dalla volontà di pervenire ad un’allusiva deminutio di Genserico: se Mezenzio è inpavidus e viene attaccato da molti uomini a distanza, il re vandalo che terrorizza l’Africa è un trepidus hostis, la cui sicurezza è dovuta soltanto al mare che si frappone tra l’Africa e Roma. Il cinghiale sidoniano, cui è assimilato Genserico, a differenza di quello virgiliano, è attaccato da un solo cacciatore (con la sua torma di cani), che non ha affatto timore di avvicinarsi sempre più alla belva e di intimorirla con urla ben distinte (la vox nota pare proprio in voluta oppositio rispetto ai tutis…clamoribus virgiliani). Genserico, quindi, non è paragonabile a Mezenzio, se non per furore bestiale. Virgilio prende le distanze da Mezenzio (e dal modello di eroe omerico), così lontano dal protagonista del suo épos, che accosta al suo statuto di eroe quello di uomo in grado di essere simpatetico anche con coloro che sono condannati dal fato; Sidonio, invece, tenta ostinatamente di pervenire ad una deminutio di Genserico, personaggio bestiale, che non per sua abilità è riuscito fino ad adesso a sottrarsi alla vendetta di Roma. Egli ha in comune con Mezenzio solo la ferocia animalesca, non certo il valore: questo spiega il diverso muoversi nello spazio di chi bracca i due cinghiali (alla circospezione dei cacciatori virgiliani si oppone lo spavaldo avvicinarsi del cacciatore sidoniano) e la mancanza, nell’autore tardoantico, di termini che attestano il coraggio dei cacciatori (cfr. nel testo virgiliano virtus e animus). Il panegirista, quindi, si è avvalso di molteplici echi testuali, senza perdere di vista, però, il celeberrimo modello virgiliano, le cui immagini sono state riprese, - 72 - FRANCESCO MONTONE Glossario Allitterazione: ripetizione di una lettera o sillaba in parole successive. Cesura: il termine ‘cesura’, nella metrica latina, definisce una pausa (da caedo = ‘taglio’) predisposta attraverso la costruzione del verso e funzionale alla sua lettura, che cade nel mezzo di un piede e al termine di una parola (dunque in maniera tale da spezzare un piede, mai una parola). Le cesure principali dell’esametro latino sono la pentemimera (cade dopo il quinto mezzo piede), l’eftemimera (cade dopo il settimo mezzo piede), la cesura del terzo trocheo (cade dopo la prima breve del terzo piede), la tritemimera (cade dopo il terzo mezzo piede). Chiasmo: consiste nella disposizione incrociata degli elementi costitutivi di una frase, in modo da cambiarne l’ordine logico. Es.: Cesare fui e son Iustiniano (Dante Alighieri, Paradiso, VI 10). Eftemimera: cfr. Cesura. Iperbato: l’alterazione dell’ordine di due parole nell’ambito di un verso o di una frase, con l’inserimento di altre parole. Ipotesto: con ipotesto si intende il modello, imitato con intento emulativo, che l’autore allusivamente richiama al lettore dotto. Lemma: in linguistica, e in particolare in morfologia, costituisce una forma canonica di una parola. Omoteleuto: in una frase o in un verso è l’utilizzo di termini successivi che hanno lo stesso fonema finale. Es.: Mesto orto (Carducci). - 73 - Oppositio: consiste nell’accostamento di due parole o frasi di significato opposto. Ossimoro: antitesi di parole differenti fra loro che vengono accostate per dare un senso paradossale. Es.: Dotta ignoranza. Poliptoto: consiste nel ricorrere di un vocabolo con funzioni sintattiche diverse. Es.: Starsene ‘con le mani in mano’. Sintagma: combinazione di due o più elementi linguistici linearmente ordinati nella catena fonica. Variatio: procedimento che consiste nel modificare a livello fonetico, grammaticale, sintattico-morfologico o semantico i meccanismi della ripetizione. SALTERNUM Note Il presente lavoro elabora alcune considerazioni di un più ampio e articolato contributo sulla figura di Genserico in Sidonio Apollinare, contenuto nella Tesi di Dottorato di Ricerca di chi scrive, in fase di stesura, sotto la guida del Chiar.mo Prof. C. Formicola (Università degli Studi di Napoli “Federico II”). 1 Cfr. in particolare PLRE II, pp. 496-499. 2 Getica 168. 3 Seguo la convincente ricostruzione di zECCHINI 1983, pp. 169-183. 4 Sidonio Apollinare (430 ca. - 486), ultimo letterato dell’Impero romano d’Occidente, fu autore di un corpus di 24 carmina (tra cui tre panegirici) e di 9 libri di epistulae. Membro dei principali circoli intellettuali dell’aristocrazia gallo-romana, sposò Papianilla, figlia di Eparchio Avito (che divenne imperatore nel 455); nel 468 fu nominato praefectus urbi dall’imperatore Antemio. Nel 470 ca. divenne vescovo della cittadina francese di Clermont-Ferrand. Sulla vita di Sidonio cfr. almeno HARRIES 1994. Le principali edizioni dei panegirici sidoniani sono: ANDERSON 1936; LOyEN 1960; BELLèS 1989. Rimando, inoltre, soprattutto ai seguenti studi: LOyEN 1942; MATHISEN 1979, 1985 e 1991; REyDELLET 1981; BONJOUR 1982; WATSON 1998; CONSOLINO 2000 (cfr. in particolare le pp. 190-195); CONDORELLI 2001 e 2008, pp. 20-25; STOEHR-MONJOU 2009; CONSOLINO 2011. Mi permetto di citare anche un mio contributo (MONTONE 2011). Una chiara ed efficace sintesi delle principali problematiche dei carmi I-VIII di Sidonio si trova in DEVILLERS-STOEHR-MONJOU 2009. Altri studi che concernono, in particolare, il panegirico a Maioriano saranno indicati infra. Si ricordi che nella raccolta dei carmina, organizzata dallo stesso Sidonio, il Panegirico ad Avito, del 456, è il carmen 7, il Panegirico a Maioriano, del 458, è il carmen 5, il Panegirico ad Antemio, del 468, è il carmen 2. 5 Sul preziosismo come cifra stilistica di Sidonio si veda LOyEN 1943 (cfr. in particolare le pp. 152-53: lo stile prezioso si com- pone di un aspect alexandrin, che comporta la scelta di motivi futili, di soggetti frivoli e ispira sottigliezza e artificiosità di stile, di un aspect asianiste, che implica la grandiloquence et la coquetterie, di un aspect scolaire, che comporta lo sfoggio di una certa pedantesca erudizione). Cfr. anche STOEHR-MONJOU 2009; la studiosa sviluppa a proposito del panegirici sidoniani il concetto di poétique de l’éclat. Sulla letteratura come lusus nell’aristocrazia gallo-romana cfr. LA PENNA 1995. 6 Cfr. LASSANDRO 2000, p. 60: ‘la figura del barbaro è vista dai panegiristi in contrapposizione a quella del romano, come se le due realtà rappresentassero l’antitesi tra bene e male…ai barbari, hostes per antonomasia, andava attribuita ogni qualità negativa, la violenza, la ferocia, l’aggressività, ecc.’. Cfr., in particolare, per l’opposizione tra il princeps e i barbari nei Panegyrici Latini, le pp. 5970. Cfr. anche DE TRIzIO 2009, pp. 18-23. 7 ÁLVAREz JIMÉNEz 2011, p. 170. 8 «The whole conflict represented a new opportunity to rebuild the Empire, strangled as it was in such a very hard juncture» (ÁLVAREz JIMÉNEz 2011, p. 171). Si noti anche quanto scrive REyDELLET 1981, pp. 53; 57-58; 63: lo studioso osserva che in Sidonio dietro l’uso costante di exempla storici c’è l’idea di un revival del potere imperiale. I modelli proposti per i principi elogiati sono Traiano, Marco Aurelio, uomini d’azione, con una polemica evidente nei confronti dei Teodosidi. 9 Cfr. carm. 7, 444-446: «heu facinus! In bella iterum quartosque labores / perfida Elisseae crudescunt classica Byrsae. / Nutristis quod, fata, malum…»; ibid. v. 588: «Hic tibi restituet Libyen per vincula quarta»; vv. 550-556 (in cui è rievocata la seconda guerra punica): «…dubio sub tempore regnum / non regit ignavus. Postponitur ambitus omnis / ultima cum claros quaerunt: post damna Ticini / ac Trebiae trepidans raptim respublica venit / ad Fabium; Cannas celebres Varrone fugato / Scipiadumque etiam turgentem funere Poenum / Livius electus fregit…»; carm. 2, 348-351: «…hinc Vandalus hostis / urget et in nostrum numerosa classe quotannis / militat excidium, conversoque ordine fati / torrida - 74 - Caucaseos infert mihi Byrsa furores»; vv. 530-535 (in cui si ricorda la guerra annibalica): «… si ruperit Alpes / Poenus, ad adflictos condemnatosque recurre; / improbus ut rubeat Barcina clade Metaurus, / multarus tibi consul agat, qui milia fundens / Hasdrubalis, rutilum sibi cum fabracaverit ensem, / concretum gerat ipse caput…». 10 Sulle origini, ascesa e regno di Maioriano cfr. RE XIV 3 (1928), s. v. Maiorianus (E. Enßlin); MAX 1975; PLRE II, pp. 702 s.; MATHISEN 1998. Sui vari aspetti del principato di Maioriano e sul panegirico sidoniano cfr., oltre a LOyEN 1942, pp. 59-84, anche OOST 1964; MAX 1979; MATHISEN 1979a; ROUSSEAU 2000; MENNELLA 2000; GIOVANNINI 2001; BROLLI 2003/2004; OPPEDISANO 2009 e 2011; ÁLVAREz JIMÉNEz 2011. 11 «me quoque (da veniam quod bellum gessimus olim) / post Trebiam Cannasque domas, Romanaque tecta / Hannibal ante meus quam nostra Scipio vidit». 12 «quid mare formidas, pro cuius saepe triumphis / et caelum pugnare solet? quid quod tibi princeps / est nunc praeterea eximius, quem saecula clamant / venturum excidio Libyae, qui tertius ex me / accipiet nomen? Debent hoc fata labori, / Maioriane, tuo…». 13 Cfr. in particolare i vv. 339-349: «ipsi autem color exsanguis, quem crapula vexat, / et pallens pinguedo tenet, ganeaque perenni / pressus acescentem stomachus non explicat auram. / Par est vita suis. Non sic Barcaeus opimam / Hannibal ad Capuam periit, cum fortia bello / inter delicias mollirent corpora Baiae / et se Lucrinas qua vergit Gaurus in undas / bracchia Massylus iactaret nigra natator. / Atque ideo nunc dominum saltem post saecula tanta / ultorem mihi redde, precor, ne dimicet ultra / Carthago Italiam contra...». Sui toponimi campani in Sidonio Apollinare mi permetto di citare un mio contributo: MONTONE 2011a. 14 Cfr. Aen. 4, 622-629: «tum uos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum / exercete odiis, cinerique haec mittite nostro / munera. Nullus amor populis nec foedera sunto. / Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor / qui face Dardanios ferroque sequare colonos, / nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires. / Litora litoribus contra- FRANCESCO MONTONE ria, fluctibus undas / imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque». Sulla presenza di Annibale nell’Eneide cfr. CASSOLA 1984. 15 La traversata delle Alpi, infatti, non era solo prerogativa di Annibale. Era, infatti, un noto tópos della tradizione panegiristica, in quanto permetteva di esaltare le qualità dell’imperatore, in cui si incarnava il perfetto vir militaris. Essa compare nel panegirico a Traiano di Plinio (12, 2-3), nei Panegyrici Latini (III [XI] 9; IX [XII] 3, 3 e XII [II] 45, 4); in Claudiano (carm. 7, 89 ss. e 26, 340 ss.), oltre che nella tradizione epica: in uno degli inserti poetici del Satyricon, il Bellum Civile, Petronio aveva cantato l’analoga impresa di Cesare (122, 144-82 e 123, 183208), che lo stesso Lucano aveva riassunto in un solo verso (1, 183, «Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes»). Come sottolinea DEWAR 1994, anche il poeta egiziano Claudiano nel De Bello Getico assimila il barbarus hostis, in questo caso Alarico, ad Annibale, evocando la traversata delle Alpi compiuta dal re visigoto (vv. 197-200); l’exemplum del Cartaginese, come avverrà in Sidonio, è introdotto per esaltare Stilicone e per denigrare Alarico; Stilicone, infatti, supera Alarico nella capacità di sopportazione di freddo e neve dimostrata da Annibale e vendica le Alpi violate dal barbaro (vv. 194-195; 400-401). 16 Aen. 4, 622-629. 17 CREVATIN 1990, p. 264. 18 MACkAy 1961, p. 310. 19 Trepidus, tuttavia, potrebbe anche essere connesso ad un episodio del 456: la rovinosa sconfitta dei Vandali in Corsica ad opera di Ricimero, ricordata anche nel Panegirico ad Antemio (v. 367). 20 Per l’utilizzo di hispidus con sus o aper cfr. ThlL VI3 2833, 9-11. Cfr. BETTINI - FRANCO 2010, pp. 172 ss. Cfr. Varro lL 7, 11, 1: «nam curia Hostilia templum est et sanctum non est; sed hoc ut putarent aedem sacram esse templum * esse factum quod in urbe Roma pleraeque aedes sacrae sunt templa, eadem sancta, et quod loca quaedam agrestia, quod alicuius dei sunt, dicuntur tesca»; cfr. Forcellini, s. v., IVb e OLD, s. v.. 23 Cfr. carm. 7, 412; 23, 294; epist. 2, 2, 5; 7, 12, 2. 24 Cfr. GUALANDRI 1979. 25 Per i luoghi in cui si descrive un aper a canibus in retia actus cfr. ThlL II 208, 70 ss. Cfr. in particolare Ov. fast. 2, 231, sicut aper longe silvis latratibus actus. 26 Sulle tecniche di imitatio sidoniana si vedano in primo luogo due studi fondamentali: CONSOLINO 1974 e GUALANDRI 1979. Interessanti osservazioni offrono anche alcuni contributi che indagano sul riutilizzo sidoniano di luoghi degli autori ‘classici’: si vedano ad esempio VEREMANS 1991 (sul rapporto tra Virgilio e Sidonio); MONTUSCHI 2001 e ROSATI 2004 (sul rapporto tra Ovidio e Sidonio); BROCCA 2003/2004 (sul rapporto tra Rutilio e Sidonio nel Panegirico ad Avito); MAzzOLI 2005/2006 (sul rapporto tra Orazio e Sidonio); FORMICOLA 2009 (sul rapporto tra Properzio e Sidonio). Non del tutto soddisfacente COLTON 2000, che affronta il rapporto di Sidonio con Virgilio, Orazio, Ovidio, Rutilio, ma limitandosi a evidenzia21 22 - 75 - re i loci similes. Sull’autocoscienza poetica sidoniana rimando senz’altro a CONDORELLI 2008. La studiosa compie una brillante analisi dei luoghi in cui emerge la voce dell’autore, contribuendo ad evidenziare gli elementi di novitas introdotti dal poeta galloromano, non sterile e pedissequo imitatore e fruitore della tradizione classica, ma autore nelle cui opere è possibile rinvenire una tensione fra tradizione e innovazione (p. 243). 27 Sui giochi di colore e sulle connessioni tra arte e letteratura nel periodo tardoantico cfr. ROBERTS 1989, passim. 28 Silio riprende Hor. carm. 1, 22, 3-4, nec venenatis gravida sagittis, / Fusce, pharetra, su cui cfr. il commento di Porfirione: gravida…pro gravi ac per hoc plena μεταφορικῶς. 29 Telum è infatti riferito «to the natural weapon of an animal, insect…» (OLD, s. v., 4). 30 Cfr. su questi versi il commento di HARRISON 1991, pp. 240-243 e PARATORE 2001, pp. 292-293. Sulla figura di Mezenzio nell’Eneide cfr. almeno il magistrale LA PENNA 1980. Sull’imitatio virgiliana di Sidonio, oltre ai già citati CONSOLINO 1974, GUALANDRI 1979, passim, VEREMANS 1991, cfr. GEISLER 1887, ubicumque; COURCELLE 1976 e 1984; NAzzARO 1988; CONDORELLI 2008, passim. 31 Con il culto per la letteratura latina l’aristocrazia gallo-romana cerca di difendere la propria identità e la propria Romanitas nel momento in cui si trova a dover convivere con i barbari invasori: cfr. a proposito il bellissimo MATHISEN 1993, pp. 105-118. SALTERNUM Bibliografia Abbreviazioni ‘AHB’ = ‘The Ancient History Bulletin’. ‘Incontri triestini di filologia classica’, 3, pp. 297-314. ‘ASNP’ = ‘Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa’. CASSOLA F. 1984, Annibale, in Enc. Virg. I, Roma, pp. 183-185. ‘CPh’ = ‘Classical Philology’. COLTON R. E. 2000, Some literary influences on Sidonius Apollinaris, Amsterdam. Enc. Virg. = Enciclopedia Virgiliana, I-V/2, Roma 1984-1991. ‘InvLuc’ = ‘Invigilata Lucernis’. OLD = Oxford Latin Dictionary, GLARE P. G. W. (ed.), Oxford 1968-1982. 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MARIO MOLES L’affresco dei ‘due Santi’ della Chiesa di Santa Maria de Lama di Salerno: San Nicola e Santo martire I l brano di pittura, indicato come ‘coppia di Santi’1, proveniente dalla cripta della Chiesa di Santa Maria de Lama2 e conservato al Museo Diocesano di Salerno, risalente con tutta probabilità alla fine del XII o ai primi decenni del XIII secolo, ha dimensioni di circa 1,00 m x 1,40 m ed è, purtroppo, piuttosto degradato e lacunoso per tutta l’estensione del perimetro (fig. 1). L’affresco è stato staccato tra gli anni 1983 e 1988 dal pilastro H della parete meridionale3 della cripta e conserva ancora oggi la curvatura superiore. Esso fa parte del secondo ciclo pittorico della cripta; due sono, infatti, i cicli4, ambedue con caratteristiche simili ovvero con Santi ieraticamente raffigurati frontalmente che testimoniano lo schematico ed elementare repertorio bizantino che nel meridione d’Italia trova larga diffusione e persistenza per alcuni secoli. Il ciclo pittorico più antico risale probabilmente all’epoca della fondazione di Santa Maria de Lama (X/XI sec.) quando la chiesa aveva pianta quadrata ed un’unica abside orientata sull’asse N-S. Essa doveva certamente essere tutta affrescata considerando la posizione dei lacerti dei brani tutt’ora visibili. Le figure dipinte, infatti, decorano ancora quello che rimane della parete est della chiesa originaria, dove, successivamente, furono realizzate le due absidiole attualmente visibili con la inevitabile perdita delle altre figure che componevano una teoria di Santi. Di questo ciclo di affreschi ricordiamo, sulla parete est, un Santo non identificato a causa della perdita di circa la metà di destra della figura, un altro Santo non ancora identificato, sant’Andrea e, forse, la Vergine stante con ai piedi, inginocchiato, il committente. Sulla parete nord sono visibili san Bartolomeo, sulla parete ovest manca ogni traccia di decorazione, ma, con tutta probabilità, anch’essa ospitava degli affreschi analogamente a quella est. Il secondo ciclo (fine XII-inizi XIII sec.) presenta una serie di Santi rappresentati iconicamente entro semplici cornici rettangolari di colore rosso o rosso e ocra. Sulla parete est sono visibili san Lorenzo e Santo Stefano, mentre sulla parete nord in una piccola abside la Madonna in trono con Bambino affiancata da due Angeli, con a sinistra un Santo acefalo non identificato e a destra altri due figure di Santi non identificati in quanto in gran parte mutile. Sulla parete meridionale, dove trovava posto su un pilastro l’affresco oggetto del presente studio, è visibile, sull’ultimo pilastro a destra, san Leonardo (in passato identificato come Santa Radegonda5). Fig. 1 - San Nicola e Santo martire, XII -XIII sec. Salerno, cripta della chiesa di Santa Maria ‘de Lama’ (ora al Museo Diocesano). - 79 - SALTERNUM Lo schema compositivo dell’affresco in esame è molto semplice: alla sinistra dell’affresco un Santo in paramenti vescovili e accanto un Santo dall’aspetto giovanile, ambedue ritratti a figura intera con inquadratura frontale. Lo sfondo è di colore blu e su tre lati è parzialmente visibile una cornice di colore rosso; non si notano elementi di divisione tra le due figure. Il Santo di sinistra è rappresentato con fronte spaziosa, capelli bianchi e poco folti, barba corta nonché incorniciato dall’aureola. Indossa le insegne vescovili, lo sticharion bianco (tunica), visibile parzialmente in basso, un phelonion (mantello di forma conica) parzialmente sbiadito, ma, all’origine, certamente di colore rosso, l’omophorion bianco (stola lunga decorata con grandi croci, che gira intorno al collo e scende sul davanti, corrispondente al pallio, più corto, dei paramenti vescovili occidentali) ripiegato sul braccio sinistro. La mano sinistra, che regge il libro del Vangelo, non è visibile in quanto risulta nascosta dal phelonion, mentre la mano destra è benedicente alla greca. Tutto ciò fa supporre che il Santo vescovo raffigurato sia san Nicola da Myra6 ed, infatti, da una attenta analisi autoptica della parte sinistra dell’affresco si nota che tra la testa e la cornice, circa all’altezza della bocca del Santo vescovo, sono ancora visibili due lettere, una N ed una I, che certamente erano la parte inizialiale del nome NICOLAUS (fig. 2). Fig. 2 - San Nicola e Santo martire - particolare, XII -XIII sec. Salerno, cripta della chiesa di Santa Maria de Lama (ora al Museo Diocesano). - 80 - E’ interessante ricordare come anche nell’‘ipogeo D’ della Chiesa di San Pietro a Corte a Salerno sia presente un affresco che ritrae san Nicola con accanto forse san Giorgio a cavallo nell’atto di uccidere il drago (fig. 3)7. Accertato che il Santo Vescovo ritratto nell’affresco è san Nicola, rimane ora da analizzare il Santo alla sua sinistra con la testa parzialmente mutila nella parte destra. E’ ritratto come un giovane dai lineamenti delicati, i capelli scuri ed, apparentemente, ricci o comunque mossi e con l’aureola che gli incornicia il capo. Indossa una tunica bianca in parte coperta da un mantello di colore rosso, fermato al lato destro del collo probabilmente da una fibula. La mano destra impugna, stringendola al petto, una sottile e semplice croce bianca, mentre la sinistra è aperta con il palmo rivolto verso l’osservatore in segno di pace. Degni di attenzione sono i polsi di ambedue le mani in quanto non appaiono nudi, ma ricoperti da strisce molto simili a dei polsini o a dei bracciali, in cuoio o in metallo, di un abbigliamento militare o, altrettanto probabile, può essere ciò che è visibile di un abito indossato al di sotto della tunica. E’ un martire rappresentato non in un contesto terreno, ma nel suo stato di beatitudine, in trionfo dopo la morte: la croce non indica la sua morte terrena, ma testimonia la sua sofferenza e diventa l’emblema della sua vittoria sulla morte, come la croce di Cristo8. Per una sua identificazione è bene partire da alcuni elementi disponibili, ovvero la giovane età, gli abiti indossati, la posizione delle mani, la croce e, di non minore importanza, l’accostamento a san Nicola. Partendo proprio da quest’ultimo elemento, è utile ricordare come nei secoli XI-XIII, nella decorazione delle chiese, soprattutto in area meridionale, si seguisse un programma iconografico in cui venivano ritratti temi tipicamente bizantini, Déesis, Madonne in trono con Bambino, Arcangeli, Santi Apostoli, Santi martiri, Santi guerrieri e Santi taumaturghi (spesso accostati tra loro), Asceti caratterizzati da abiti poveri, simbolo di scelta di povertà, e Sante vergini come Margherita, Marina, Teodosia, vestite con tunica, mantello e velo (maphòrion). I Santi taumaturghi come Nicola, Cosma e Damiano, Biagio, Giacomo e Andrea venivano raffigurati con gli abiti inerenti alla funzione da loro svolta all’interno della chiesa: san Nicola, ad esempio, è sempre vestito da vescovo nell’atto di benedire. MARIO MOLES Accanto a san Nicola trovano spesso posto alcuni Santi guerrieri, come san Giorgio, san Demetrio, san Teodoro non solo armati di corazze, lance, scudi e stendardi e spesso a cavallo, ma anche vestiti con tunica, mantello e impugnanti la croce del martirio. Fig. 3 - San Nicola e san Giorgio (?), XIII sec. Salerno, chiesa di San Pietro a Corte. Fig. 4 - San Giorgio e San Nicola, XI sec. Cripta di Santa Maria degli Angeli, Museo del Poggiardo (LE). Tra questi affreschi sono di notevole importanza, al fine dell’identificazione del Santo ritratto accanto a san Nicola, oltre al già citato affresco di San Pietro a Corte, le testimonianze iconografiche della cripta di Santa Maria degli Angeli, risalenti all’XI sec., e conservate nel Museo del Poggiardo (LE) con san Nicola e san Giorgio a cavallo (fig. 4) e con san Nicola e san Fig. 5 - San Giorgio e San Nicola, secondo quarto XIII sec. Chiesa della S.ma Annunziata, Minuta di Scala (SA). - 81 - Demetrio in abito alla bizantina con la croce del martirio9; della Chiesa di San Biagio a San Vito dei Normanni (BR), databili alla fine del XII sec., con sulla parete laterale destra dell’ingresso raffigurati tre Santi, san Nicola, san Demetrio e san Giorgio, ambedue su cavallo bianco; della Chiesa rupestre di San Nicola a Mottola (TA), risalenti all’XI-XIII sec., con più raffigurazioni di san Nicola e con due rappresentazioni di san Giorgio a cavallo10; della Chiesa della S.ma Annunziata di Minuta di Scala (SA) con san Giorgio armato di scudo e lancia e san Nicola (XIII sec.) al di sotto della Visitazione (fig. 5)11. Interessanti sono anche gli affreschi della Chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello (LE)12, risalenti ai secoli XI-XIV, tra cui l’affresco, posto a decorazione della parete sinistra dell’abside, con san Nicola accanto ad un Santo martire (fig. 6). Di notevole rilievo sono, Fig. 6 - San Nicola e Santo inoltre, i portali di bronzo di martire, XIII sec. Chiesa di Santa Maria della Croce, Barisano da Trani per il Casaranello (LE). Duomo di Ravello (1179), di Trani (ca. 1185) e di Monreale (ca. 1190) con effigiati, nelle formelle, concepite come vere e proprie icone bizantine, Cristo, la Madonna, il Battista, Profeti, Apostoli e Santi: nel portale del Duomo di Ravello sono raffigurati specularmente nella parte centrale delle due ante la Vergine col Bambino tra san Nicola in trono e san Giorgio a cavallo mentre uccide il drago. Oltre a san Giorgio è presente anche, come Santo guerriero, sant’Eustachio13. Analogamente nel portale di Monreale compaiono san Nicola e san Giorgio; in quello di Trani14, invece, san Nicola pellegrino, patrono di Trani, e san Giorgio; in ambedue i casi, però, i due Santi non sono accostati. Di analoga importanza sono, altresì, i mosaici del Duomo di Cefalù, della Chiesa della Martorana, della Cappella Palatina a Palermo e del Duomo di Monreale15, dove le figure sono disposte in ordine gerarchico secondo la tradizionale iconografia bizantina. Nel ciclo musivo di Cefalù del XII secolo16, iniziato nel 1131 per volere di Ruggero II, sono raffigurati sulla parete a destra dell’abside nella fascia inferiore i Santi Teodoro, Giorgio, Demetrio e Nestore e le figure dei Santi Nicola, Basilio, Giovanni Crisostomo e Gregorio (fig. 7). SALTERNUM Nella Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo17, nota con il nome della ‘Martorana’, fondata nel 1143 e completata nel 1151, per volere di Giorgio d’Antiochia ammiraglio siriaco di Ruggero II, sono allineati nei sottarchi, entro medaglioni, Santi guerrieri (sant’Artemio, san Nestore, san Demetrio, san Giorgio, san Teodoro, san Mercurio, san Procopio, tutti con la croce del martirio) e Santi vescovi (san Gregorio di Nissa, san Basilio, san Giovanni Crisostomo, san Nicola e san Gregorio Teologo, fig. 8). Nella Cappella Palatina18, fatta erigere attorno alla metà del XII secolo da Ruggero II di Sicilia all’interno del Palazzo dei Normanni di Palermo, esempio unico di fusione di tradizioni artistiche differenti, sono raffigurati, sulla parete antistante a quella con gli Episodi della vita di Gesù Cristo, i Dottori e i Santi della Chiesa greca e, nei medaglioni degli intradossi delle arcate longitudinali, i Santi guerrieri, mentre in quelli dell’intradosso dell’arcata trionfale i Santi taumaturghi. Verso la tribuna reale sono, infatti, orientate le immagini di Santi guerrieri (Teodoro, Demetrio, Nestore e Mercurio) e di san Nicola, poste tutte sul lato esterno dell’arco nord per dare maggiore risalto al re e ai suoi familiari che si trovavano nella tribuna19. Nel Duomo di Monreale20, o Chiesa di Santa Maria la Nuova, eretta per volere del sovrano normanno Guglielmo II e ultimata intorno al 1186, sono rappresentati nel timpano del secondo arco trionfale i Santi militari Giovanni, Mercurio, Giorgio, Teodoro, Demetrio e Paolo (fig. 9), mentre sulle colonne del quarto arco, che immette nel fulcro dell’abside centrale, dominano gli Evangelisti Matteo e Giovanni il Fig. 7 - Santi guerrieri e Santi vescovi, XII sec. Duomo di Cefalù (PA). Fig. 9 - Santi Giovanni, Mercurio, Giorgio, Teodoro, Demetrio e Paolo, XII sec. Duomo di Monreale (PA), timpano del secondo arco trionfale. Fig. 8 - Santi Teodoro, Mercurio, Procopio e Santi vescovi tra cui Gregorio di Nissa, Basilio, Giovanni Crisostomo e San Nicola, XII sec. Palermo, chiesa della Martorana. - 82 - Teologo e nel registro sottostante due Santi particolarmente significativi per la Chiesa orientale, Nicola, e per la Chiesa occidentale, Martino. La forte presenza dell’arte bizantina in Italia è riscontrabile anche negli splendidi mosaici del Duomo di san Marco a Venezia. Nella cappella di sant’Isidoro di Chio (1343-1355) figurano sulla lunetta occidentale san Nicola accanto alla Vergine e tra le due finestre della sala san Giorgio martire in abito alla bizantina azzurro e mantello rosso con la croce del martirio nella mano destra e con la sinistra alzata21. Oltre agli affreschi e ai mosaici, potrebbe risultare interessante considerare, con la dovuta cautela, diverse e svariate tipologie figurative che, pur non essendo affini al nostro brano di pittura, hanno lo scopo di rendere testimonianza di come la ricorrenza di raffigurazioni secondo la tradizionale iconografia bizantina, ampiamente diffusa in area occidentale, sia indipendente dalla destinazione di tali immagini (private e MARIO MOLES bizantina, come il celebre reliquario della Vera Croce pubbliche, teologiche e devozionali) e indipendente custodito presso il Tesoro della Cattedrale di Limburg anche dal secolo di appartenenza. Possono cambiare il an der-Lahn della metà del X secolo e giunto in Santo o i Santi scelti dai committenti, ma si segue, con Occidente in seguito al saccheggio di Costantinopoli varianti, il classico programma iconografico bizantino. del 1204 e appartenente al Tesoro del Grande Palazzo Le varie tipologie figurative, infatti, pur nella loro con probabile committenza dei sovrani o dono a loro diversità, sono simili nel contenuto, che a volte è oridestinato26. ginale in quanto portatore di idee artistiche nuove, a Sul coperchio risaltano otto placchette e unità quavolte, invece, riproduce pedissequamente un tipo icodrate con figure di Santi vescovi e di Santi guerrieri, nografico ben stabilito e spesso ripetuto e riprodotto posti a guardia dei protagonisti centrali27. Partendo nei secoli. dall’angolo superiore sinistro, si riconoscono i Santi Per quanto detto, potrebbe essere utile, dunque, Giovanni Crisostomo, Teodoro, Eustachio, Demetrio, rilevare come sia ricorrente l’accostamento iconograGiorgio, Nicola, Gregorio Nazianzieno, Basilio, distrifico tra san Nicola e Santi guerrieri martiri sia nelle buiti secondo un assetto precisamente cadenzato e antiche raffigurazioni orientali su tavola sia in alcune significativamente ordinato28. testimonianze dell’oreficeria medio-bizantina e della Un’altra grandiosa opera di oreficeria è la Pala scultura in avorio. Ad esempio, nell’icona di san Nicola d’oro, prodotta per la basilica di San Marco a Venezia con Santi sui margini del Monastero di Santa Caterina nel X secolo ed arricchita fino al XIV secolo29. Gli del Monte Sinai22 della fine del X secolo, che è la più antica immagine a mezza figura di san Nicola secondo smalti seguono, soprattutto nella parte inferiore, un una tipologia con larga diffusione sia nell’arte bizantiprogramma ben definito che corrisponde a quello 23 na sia in quella dell’antica Russia , prodotta forse proclassico della Chiesa bizantina. Tra i Santi, d’interesse prio nel monastero del Sinai, sono rappresentati, sui per il presente lavoro, figurano san Giorgio, raffiguramargini laterali, quattro Santi guerrieri, a sinistra to più volte e in varie vesti, con lancia e spada, con Demetrio e Teodoro, a destra Giorgio e Procopio e croce doppia o con croce semplice, san Demetrio con sul margine inferiore Santi taumaturghi, san croce, san Teodoro sia con croce sia con lancia, san Pantaleone al centro e ai lati Cosma e Damiano24. Procopio con lancia, sant’Oreste guerriero, In un’altra icona di san Nicola con Déesis e Santi del sant’Eustachio, Santi vescovi (san Giovanni Monastero di Santa Caterina del Monte Crisostomo, san Basilio …) e Santi tauSinai dell’XI secolo (steatite) con cormaturghi (san Gregorio, san Cosma, nice degli inizi del XIV secolo (la san Damiano …). steatite forse fu incorniciata per Altri esempi, in cui emerge essere utilizzata nel monastero l’accostamento di san Nicola ai del Sinai), san Nicola è raffiguSanti martiri guerrieri, utili al rato tra i pilastri della Chiesa, presente lavoro, sono forniti Pietro e Paolo, con al di sopra dalla scultura in avorio30. Il ‘trittico Harbaville’ (fig. 11) è Cristo tra la Vergine e san Giovanni Battista, mentre al uno dei più notevoli avori margine inferiore san Giorgio, usciti dalle botteghe imperiali il monaco del deserto Onofrio di Costantinopoli al tempo e il vescovo Biagio di della rinascenza macedone, Amòrion (fig. 10)25. datato alla metà del X secolo e Un ulteriore aiuto all’ipoconservato al Museo del tesi di lettura, orientata semLouvre. Il trittico è scolpito su pre a mettere in luce l’accostaentrambe le facce. All’interno, mento iconografico tra san nella parte superiore sono rafNicola e i Santi martiri guerfigurati i personaggi della rieri, viene da alcune testimoDéesis e gli Arcangeli, nel regiFig. 10 - San Nicola con Déesis e Santi (steatite), XI sec; cornice inizi nianze dell’oreficeria medio- XIV sec. Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai. stro inferiore cinque Apostoli. - 83 - SALTERNUM Le valve ospitano simmetricamenstra con il palmo aperto verso chi te, nella parte superiore, coppie di osserva (fig. 13). Santi militari (a sinistra Teodoro A trittico chiuso figurano, nel Tirone e Teodoro Stratilate, a registro superiore (alle spalle dei destra Giorgio ed Eustachio, fig. Santi guerrieri), Santi in abiti vesco12), che indossano un mantello fervili che reggono il Vangelo e benemato sulla spalla destra e reggono dicono (san Giovanni Crisostomo una lancia ed una spada; nella parte e san Clemente di Ancyra, san inferiore, specularmente sulle ante, Basilio di Cesarea e san Gregorio coppie di Santi martiri, per lo più Fig. 11 - Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec. Parigi, Nazianzeno), mentre nella parte Museo del Louvre. guerrieri, ma abbigliati con tunica e inferiore (alle spalle dei Santi martimantello ornato dal tablion, impuri) alternatamente un’altra coppia di gnanti una piccola croce (a sinistra Eustrazio ed Areta, Santi, un vescovo taumaturgo ed un Santo martire a destra Demetrio e Procopio); nei medaglioni com(san Nicola e san Severiano, san Giacomo il Persiano paiono i Santi Mercurio e Tommaso apostolo, Filippo e san Gregorio), l’uno in veste episcopale che regge il apostolo e Pantaleone. Vangelo, l’altro in tunica e mantello che impugna una In riferimento a San Demetrio, si noti come l’icocroce; nei medaglioni esterni, invece, compaiono solo nografia sia molto simile al Santo dell’affresco del Santi taumaturghi, Cosma e Damiano, Foca e Biagio. Museo Diocesano in veste da martire in tunica e manIl trittico ‘Harbaville’ è simile al trittico dei Musei tello e con la mano destra che regge la croce e la siniVaticani risalente all’ultimo quarto o alla fine del X Fig. 12 - San Giorgio e Sant’Eustachio, Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec. Parigi, Museo del Louvre. - 84 - Fig. 13 - San Demetrio e San Procopio, Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec. Parigi, Museo del Louvre. MARIO MOLES tito, le labbra sottili ed un’espressione più severa, come è evidente già dall’iconografia più antica di san Demetrio con tunica, croce e corona della Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI sec.), (fig. 18)35. Egli, inoltre, indossa un mantello generalmente azzurro o verde, mentre san Giorgio sempre rosso, come secolo (figg. 14 - 15) e al trittico Casanatense del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma della metà del X secolo, appartenenti, probabilmente, a membri dell’aristocrazia o della corte imperiale. I tre avori, infatti, pur presentando alcune differenze31, manifestano un programma iconografico comune, nel quale rientra anche san Nicola raffigurato con accanto o alle spalle un Santo martire, spesso, guerriero. Altri due trittici della metà del X secolo, simili per iconografia, obbediscono ad un identico programma con Santi martiri e guerrieri, Santi vescovi e taumaturghi, uno conservato al Cabinet des médailles di Parigi, l’altro noto come ‘trittico Borradaile’ del British Museum32. A queste due opere può essere accostata una piccola valva di trittico eburneo, conservata nel Départment des objets d’art del Louvre, anch’essa datata alla seconda metà del X secolo, dove san Teodoro, pur essendo un Santo guerriero, è rappresentato, come altri Santi guerrieri, con un’ampia tunica riccamente drappeggiata ricoperta da un mantello fermato sulla spalla destra33 e con una piccola croce nella mano destra come in un’icona del monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, risalente al VI secolo, con i Santi Giorgio e Teodoro ai lati della Vergine che impugnano la croce del martirio (fig. 16). Dopo aver messo in luce quanto l’accostamento iconografico tra san Nicola e alcuni Santi martiri guerrieri sia ricorrente nelle varie tipologie figurative e nelle varie epoche, potrebbe risultare, infine, utile, per l’identificazione del Santo ritratto accanto a san Nicola nell’affresco conservato nel Museo Diocesano di Salerno, analizzarne le caratteristiche fisiognomiche, in quanto i Santi spesso si distinguono sensibilmente gli uni dagli altri sia per tratti somatici sia per varietà di espressioni. Il volto imberbe e ovale del Santo, i lineamenti delicati, il naso regolare che tradisce la ricerca di una realtà anatomica, gli occhi grandi e intensi con un’abbozzata vena naturalistica, i capelli ricci che, per la parte ancora visibile, gli incorniciano il viso coprendone le orecchie, le labbra carnose e l’espressione soave (fig. 17) ricordano la fisionomia di san Giorgio34 di tanti affreschi, mosaici ed icone (cfr. supra). Confrontando, inoltre, le immagini di san Giorgio con l’iconografia degli altri Santi martiri guerrieri, spesso accostati a san Nicola, emergono chiare le differenze. San Demetrio, infatti, ha un viso dai lineamenti più marcati e meno delicati, con capelli lisci e corti che lasciano scoperte le orecchie, il naso appun- Fig. 14 - Sant’Agatonico e San Nicola, Trittico, verso, ultimo quarto - fine del X sec. Musei Vaticani. Fig. 15 - San Teodoro Stratilate e San Giorgio, Trittico, recto, ultimo quarto fine del X sec. Musei Vaticani. Fig. 16 - Vergine in trono tra i Santi Teodoro e Giorgio, VI sec. Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai. - 85 - SALTERNUM potrebbe trovare giustificazione in quanto risulta dall’iconografia più recente in abito egli, Santo medico e taumaturgo, è ritratto militare dei mosaici del Duomo di Cefalù, nella città sede della Scuola medica salernidella Chiesa della Martorana o di alcune tana. icone. Prima di ipotizzare la committenza del Anche tra san Giorgio e gli altri Santi secondo ciclo di affreschi cui appartiene il guerrieri si notano alcune evidenti diffenostro affresco, è utile ricordare, come renze: san Teodoro, san Mercurio e affermato dal Delogu45, che la chiesa fu di sant’Eustachio36 vengono molto più spesso rappresentati con la barba, san Nestore e Fig. 17 – Particolare di Santo proprietà di una famiglia nobiliare longomartire accanto a San Nicola, XIIsan Procopio37 senza barba, ma con i XIII sec. Salerno, chiesa di Santa barda, la famiglia del principe Gisulfo II, capelli ondulati e lunghi fino al collo petti- Maria de Lama. ultimo principe longobardo di Salerno dal nati all’indietro che lasciano scoperte le 1052 al 1078, figlio di Guaimario IV. Nel orecchie e tutti indossano comunemente documento più antico relativo alla chiesa, mantelli non di colore rosso38. risalente all’aprile del 1055, la cappella Tra gli altri Santi martiri finora inconrisulta già divisa tra gli eredi di Mansone, trati accanto a san Nicola si possono, infifedelissimo di Guaimario IV, a cui venne 39 ne, escludere sia san Severiano , in quanrestituito, grazie all’intervento del principe, to rappresentato come uomo maturo e con il Ducato di Amalfi, e Guido, fratello del la barba, sia sant’Agatonico (fig. 14), in principe Guaimario IV e zio del giovane quanto, anche se fisiognomicamente raffiGisulfo. La fondazione della chiesa gurato come giovane imberbe e riccioluto, potrebbe essere attribuita alla volontà è raramente presente nell’iconografia del comune di Guido e Mansone oppure al Santo di Myra. solo Mansone, i cui eredi, in un secondo Potrebbe, però, risultare suggestiva l’imomento, ne avrebbero donato parte a 18 - San Demetrio e San dentificazione del Santo martire con san Fig. Guido, duca di Sorrento dal 1036. La Policarpo, VI sec. Ravenna, chiesa 40 Pantaleone , dai tratti somatici molto simi- di Sant’Apollinare Nuovo. decorazione pittorica sarebbe, però, stata li a san Giorgio41, incontrato nei programaffrescata qualche anno più tardi, su richiemi iconografici. San Pantaleone viene, sta del conte Giovanni, figlio del duca però, generalmente raffigurato con gli strumenti della Mansone di Amalfi, IOHANNES C., nome che comsua professione di medico e/o con la palma del marpare sotto il santo non identificato al margine sinistro tirio (figg. 19-20). della parete est e che è citato nel documento del 1055: La prima notizia relativa alla presenza di una relidi qui troverebbe giustificazione la presenza negli quia di San Pantaleone risale al 1112, anno in cui fu affreschi di sant’Andrea, raffigurato in posizione di consacrato a Ravello (SA), in territorio amalfitano, un primo piano al fianco destro della Vergine, il cui culto altare in onore del Santo in platea Sancti Adiutoris, la è strettamente legato alla cittadina di Amalfi. principale piazza della città dove è documentata sin In un’altra epigrafe presente ai piedi di San dal 1138 la presenza della Chiesa di San Pantaleone, Bartolomeo sulla parete nord si legge: + VRSVS annessa nel 1288 al convento di Sant’Agostino. Il sanHOC PING(ERE) FECIT. La comproprietà della gue, originariamente conservato in un’unica e grande chiesa lascerebbe pensare che i committenti siano più ampolla42 nella Chiesa del Santo, fu poi traslato nel d’uno46, anche se solitamente, quando si trattava di Duomo di Ravello43. chiese private, il committente era uno solo, nel nostro A tal riguardo ricordiamo che la Chiesa di Santa caso, per il primo ciclo, il personaggio in panni laici Maria de Lama sorge a Salerno nel ‘quartiere degli raffigurato in ginocchio ai piedi della Vergine, per il Amalfitani’44, i quali potrebbero, all’interno della quale, però, non si è conservata nessuna iscrizione47. Chiesa, aver manifestato la loro devozione non solo Si ricordi, inoltre, che Guaimario IV di Salerno dal nei confronti di sant’Andrea, protettore di Amalfi, ma 1036 in poi fu in stretti rapporti con la famiglia noranche nei confronti di san Pantaleone, protettore di manna degli Altavilla che si stava affermando Ravello. Un altro motivo di tale rappresentazione nell’Italia meridionale, legame che trovò sigillo con il - 86 - MARIO MOLES matrimonio della principessa Sichelgaita, sua figlia, con Roberto il Guiscardo nel 1058. Al fine di ipotizzare la committenza del secondo ciclo di affreschi, è utile focalizzare l’attenzione sulla presenza di san Nicola tra i santi affrescati nel secondo ciclo, datato tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo48, che potrebbe far supporre una committenza normanna o normanno-sveva, così come per la Chiesa di san Pietro a Corte49, in quanto i Normanni diedero, già nel corso del secolo XI, un grande contributo all’affermazione nell’Italia meridionale del culto di San Nicola, che diventò loro Santo protettore. I Normanni, infatti, conquistata Bari nel 1071, avevano portato a termine, in appoggio dei Baresi, l’impresa della traslazione delle spoglie di san Nicola dalla Turchia a Bari nel 1087, e divennero, così, i principali propagandisti della devozione al Santo, il cui culto era stato però, introdotto già dai monaci di lingua e cultura bizantina50. Altro Santo particolarmente venerato dai normanno-svevi è san Giorgio51, spesso raffigurato accanto a san Nicola. San Giorgio, infatti, era il Santo Cavaliere, paladino della fede, le cui miracolose apparizioni avevano aiutato i Normanni nella loro guerra agli infedeli. Nel racconto di Goffredo Malaterra52, monaco normanno dell’XI sec., si narra che San Giorgio, risplendente di luce, avesse guidato i Cristiani alla vittoria sui Musulmani nelle vicinanze di Cerami in Sicilia, battaglia vinta da Ruggero d’Altavilla nel 1063. Questa battaglia segnò la conquista della Sicilia da parte dei Normanni che, da quel momento, venerarono San Giorgio come loro patrono e protettore attribuendogli il titolo di ‘Vittorioso’. La grande diffusione del culto di San Giorgio si ebbe, inoltre, in Europa, proprio in conseguenza delle Crociate in Terrasanta e, più precisamente, ai tempi della battaglia di Antiochia nel 109853. Alla luce di quanto è emerso dall’analisi degli accostamenti tra Santi nelle varie tipologie figurative e dall’analisi storica, l’affresco conservato nel Museo Diocesano di Salerno rappresenta, dunque, san Nicola accanto ad un Santo martire, forse, san Giorgio con tunica, mantello e croce del martirio. Tale conclusione potrebbe essere suffragata sia dall’identità accertata del Santo vescovo e dal frequente accostamento iconografico di san Nicola con Santi martiri guerrieri (soprattutto san Giorgio), con attestazione sin dall’epoca bizantina e diffusione sotto la dominazione normanno-sveva, sia dalle caratteristiche peculiari dei tratti somatici e dell’abbigliamento di san Giorgio che lo Fig. 19 - San Nicola (XIII-XIV sec.), Santa Barbara e San Pantaleone (XII-XIII sec.). Matera, chiesa di San Nicola dei Greci. rendono maggiormente riconoscibile rispetto agli altri Santi martiri guerrieri. Ciò non toglie, però, che qualsiasi altra ipotesi di lettura, come il Santo martire Pantaleone (che, anche se attestato molto meno frequentemente accanto a san Nicola, troverebbe giustificazione all’interno di una chiesa di proprietà degli eredi del duca Mansone d’Amalfi), possa essere plausibile considerando, sia le diverse componenti culturali e il sostrato iconico dominante nella realtà del tempo, sia le condizioni dell’affresco che risulta lacunoso e privo di iscrizioni leggibili accanto al Santo martire. Fig. 20 - San Pantaleone, X-XI sec. Pattano di Vallo della Lucania (SA), Abbazia di S. Maria chiesa di San Filadelfo. - 87 - SALTERNUM Note D’ELIA 2011, p. 45. Sulla Chiesa di Santa Maria de Lama cfr. D’ANIELLO 1991; DE FEO 1991; MAURO 1999; BRACA 2000; VALITUTTI - VISENTIN 2007. 3 D’ANIELLO 1991, p. 49; BRACA 2000, p. 33. 4 Sull’analisi dei due cicli e sull’ipotesi di datazione del primo ciclo al X-XI sec. e del secondo ciclo alla fine del XII - inizi del XIII sec. cfr. MAURO 1999 e VALITUTTI VISENTIN 2007. Sulla datazione al X-XI sec. degli affreschi cfr. D’ANIELLO 1991 e, infine, sulla datazione del primo ciclo al sec. XI e del secondo ciclo ai primi decenni del sec. XIII cfr. BRACA 2000. 5 Sull’identificazione di Santa Radegonda cfr. D’ANIELLO 1991, p. 49. 6 Su san Nicola cfr. DEL RE 1967, CIOFFARI 1997, BACCI 2006, BACCI 2009. 7 Sull’affresco di san Nicola e san Giorgio nella Chiesa di San Pietro a Corte cfr. MOLES 2011. 8 Sulla croce dei martiri cfr. UNDERWOOD 1966, 1, p. 154. 9 Sono, altresì, presenti un altro san Giorgio con Vergine col Bambino ed un altro san Nicola sempre con Vergine col Bambino, provenienti dalla stessa cripta. Sull’analisi degli affreschi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli nel Museo del Poggiardo cfr. LUCERI 1933. 10 Sono, inoltre, da considerare, anche se ridotti in pessimo stato, gli affreschi della Chiesa dei S.S. Stefani a Vaste (LE), risalenti a due cicli del X-XI sec. e del XIV sec., con Santi vescovi tra cui san Nicola seguito da altri due santi di difficile interpretazione, forse san Giorgio e san Demetrio; della chiesa rupestre di Santa Margherita a Mottola (TA), dove su una parete è rappresentato un episodio del ciclo della vita di san Nicola (XI-XII sec.) e su un’altra san Giorgio con altri Santi (affreschi purtroppo in gran parte sbiaditi). Sulle chiese rupestri in Puglia cfr. FONSECA 1970; GENTILE 1987; CHIONNA 1988; FALLA CASTELFRANCHI 1991; DELL’AQUILA MESSINA 1998; LAVERMICOCCA 2001. Di rilievo sono anche gli affreschi della Grotta 1 2 dei Santi di Cava d’Ispica (RA) con più di trenta Santi (affreschi in gran parte danneggiati che non permettono di stabilire quali appartengano al periodo premusulmano e quali alla ripresa del culto bizantino) tra cui san Giorgio e san Teodoro (riconoscibili per la didascalia), san Nicola (del cui nome sono riconoscibili alcune lettere) ed ancora san Demetrio (di cui si leggono solo due lettere) e san Nestore con armatura, spada e lancia. Sulla Grotta dei Santi a Cava d’Ispica (AGNELLO 1951; ID. 1962; DI STEFANO 1986; ID. 1997; RIzzONE - SAMMITO 2003). 11 Sulla Chiesa della S.ma Annunziata di Minuta di Scala cfr. BRACA 2003, p. 193. 12 Sulla Chiesa di Casaranello cfr. PRANDI 1961; PISANò 1989; BUCCI MORICHI 1998. 13 Sul portale del Duomo di Ravello cfr. BRACA 2003, pp. 179-190. 14 Sui portali di bronzo di Trani e di Monreale cfr. CARELLA - DI MAGGIO 1973, BELLI D’ELIA 1980, WALSH 1990. 15 Sui mosaici cfr. CILENTO 2009; sulla Cappella Palatina cfr. anche BRENk 2010. 16 Nel catino dell’abside centrale domina il Cristo Pantocratore, in atto benedicente con Angeli, Arcangeli e Profeti, la Madonna orante tra gli Arcangeli, gli Apostoli Pietro e Paolo accompagnati dagli Evangelisti e nella fascia sottostante altri Apostoli. Sulle pareti del bema sono rappresentati Santi e Profeti che, all’altezza della partitura delle figure absidali, si dispongono su quattro registri. 17 Nel programma iconografico viene riproposto Cristo benedicente a figura intera, al cui cospetto figurano Angeli, Profeti e Apostoli con il gruppo degli Evangelisti. 18 Le pareti, gli archi, gli intradossi, la cupola, il presbiterio sono ricoperti di mosaici che mostrano la Genesi, la vita di Cristo e degli Apostoli Pietro e Paolo, Santi, Angeli e Profeti, in un trionfo di luce che nasce da milioni di tessere dorate. 19 Nelle chiese di Bisanzio il rispetto del dogma era assolutamente vincolante sia nella scelta del programma iconografico sia nel suo orientamento nonostante l’importanza attribuita dai Bizantini al basileus. I - 88 - sovrani normanni, invece, la cui tradizione di fede era ben diversa da quella bizantina, non ebbero timore di allontanarsi dal consueto programma iconografico bizantino per l’esaltazione dei re della terra. 20 L’apice di tutto il ciclo coincide, ancora una volta, con le immagini di Cristo Pantocratore e della Madonna, circondati da gerarchie Angeliche, Profeti, Apostoli e Santi. 21 Nella cappella di sant’Isidoro di Chio, dove sono narrate la Passio del Santo, l’Inventio e la sua Translatio nella Repubblica, figurano sulla lunetta orientale il Cristo in trono tra san Marco e sant’Isidoro, sulla lunetta occidentale la Vergine in trono col Bambino tra san Giovanni Battista e san Nicola e tra le due finestre della sala san Giorgio. I mosaici delle due lunette e san Giorgio sono più legati alla tradizione iconografica bizantina, mentre le narrazioni delle storie di sant’Isidoro risentono di un maggiore influsso occidentale. Sull’analisi dei mosaici della Cappella di Sant’Isidoro cfr. DE FRANCESCHI 2003; per l’immagine di san Giorgio martire messo a confronto con il san Giorgio di san Salvatore in Chora a Istanbul del XIV sec. cfr. ID., Ibid., p. 13. 22 Sui tesori del Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai cfr. EVANS 2004. 23 Sempre solo a titolo esemplificativo illustro alcune icone russe conservate nella Galleria Tretyakov a Mosca, nelle quali si può riscontrare l’ampia diffusione del programma iconografico bizantino in cui san Nicola è presente insieme a san Giorgio e ad altri Santi martiri guerrieri. Nell’icona Salvatore sul trono con Santi della seconda metà del XIII-XIV secolo, di ambito novgorodiano, il Salvatore è incorniciato lateralmente dalle figure di san Giorgio e san Demetrio di Tessalonica, san Clemente papa e sant’Ignazio, il profeta Elia e san Nicola. Nell’icona Nicola con Déesis e Santi scelti della Chiesa di San Leontij a Rostov del XV secolo, san Nicola è, ancora una volta, attorniato ai lati da Apostoli, Santi vescovi e Santi martiri: san Pietro, san Paolo, san Basilio, san Gregorio il Teologo e i megalo- MARIO MOLES martiri san Demetrio, san Giorgio, santa Parasceve, santa Caterina, san Giuliano, sant’Eustachio e forse santa Barbara. L’icona può essere considerata come un’immagine teofanica: un pántheon di intercessori nella preghiera all’inizio del Giudizio Universale. San Nicola taumaturgo e i ranghi dei Santi martiri, con le scene della preghiera della Madre di Dio, di Giovanni il Battista e degli Arcangeli Michele e Gabriele alla presenza di Cristo Pantocratore, producono un’immagine sacra nella quale si assommano forze spirituali apotropaiche (BACCI 2006, p. 231). Nell’icona Natività della Madre di Dio con Santi del XIV-XV secolo di Novgorod, la Madonna è sormontata da san Nicola e il profeta Elia con accanto i Santi martiri, san Demetrio e san Giorgio (NORIS UCHANOVA 2009). In un’altra icona Miracolo di san Giorgio e il drago del XV-XVI secolo, si trova sullo sfondo, nell’angolo in alto a sinistra, san Nicola che benedice san Giorgio nel posto in cui generalmente si raffigura Cristo benedicente. Nella simbologia della teologia ortodossa il Santo di Myra in abiti vescovili rappresenta l’incarnazione del Figlio di Dio (cfr. BACCI 2006, p. 232). In un altro gruppo di icone prodotte a Pskov, raffiguranti la discesa agli inferi, cioè la resurrezione di Cristo nella tradizione ortodossa, san Nicola è rappresentato sul margine superiore al centro della schiera di Santi tra la Vergine e un Santo martire (forse san Giorgio) con il probabile ruolo di intermediario nel passaggio all’aldilà (cfr. l’icona Discesa agli inferi e san Nicola al centro di una sequenza di santi, fine del XIV secolo, San Pietroburgo, Museo Russo), ruolo che nella tradizione europea occidentale apparteneva all’apostolo Pietro. Queste immagini erano, dunque, caratterizzate da un significato funerario, in quanto alludevano alla futura resurrezione dei morti. Può darsi che la funzione di Nicola come principale intercessore per i defunti presso Dio abbia determinato la collocazione delle sue immagini e dei suoi cicli agiografici negli ambienti annessi al lato sud degli edifici sacri (come le cappelle laterali del bema o diakonikà), nei quali si officiavano le cerimonie funebri (cfr. BACCI 2006, p. 83). A tal riguardo è interessante rilevare che anche a Santa Maria de Lama è stato raffigurato san Nicola ed il Santo martire sulla parete meridionale. 24 Le figure sulla cornice rappresentano l’idea del regno dei Cieli e la gerarchia di Santità della Chiesa ideale, il cui vertice è Cristo Pantocratore. Il Santo vescovo Nicola rappresenta una delle massime espressioni dell’ordine sacerdotale consacrato da Cristo attraverso gli Apostoli; è difensore della fede e sta accanto ai Santi soldati e, in forza dei miracoli compiuti, è un Santo taumaturgo come altri Santi taumaturghi. In questo modo san Nicola viene glorificato in tutte le principali manifestazioni della sua Santità. Sulle icone cfr. BACCI 2006, p. 205. 25 ID., Ibid., p. 210; p. 113 per l’affresco di San Nicola tra i Santi Antonio Abate, Onofrio, Giorgio (inizio XV sec.) nella Chiesa di Santo Stefano a Soleto (LE). 26 Si tratta di una cassetta d’argento dorato costituita da una teca porta-reliquie con un altro reliquario di precedente realizzazione montato in foggia di croce a doppia traversa che custodisce sette frammenti della Vera Croce e protetto da un coperchio a scorrimento. Sulla stauroteca di Limburg an derLahn cfr. GINNASI 2009, pp. 97-108 (per le fotografie cfr. pp. 101-103). 27 L’insieme decorativo più rilevante della stauroteca è la Déesis la cui unità compositiva, concepita secondo regole di simmetria, mostra Apostoli ed Evangelisti, che fanno da corona alla scena principale, proteggendola in modo analogo al ruolo difensivo svolto dai Santi Vescovi e dai Santi guerrieri. 28 Altro esempio è la famosa illustrazione al foglio 3r. del Salterio di Basilio II, codice Gr. 17, custodito presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e databile attorno all’anno 1000, che mostra l’immagine del Basileus in vesti militari affiancato da sei ritratti di Santi guerrieri collocati, tre per - 89 - lato a difesa della rappresentazione centrale. Le due opere sono accomunate dalla presenza dei medesimi Santi militari: sulla pagina veneziana, tra gli altri, grazie alle iscrizioni si riconoscono Teodoro, Demetrio e Giorgio, ossia tre figure su cinque (quella in basso a sinistra non conserva la relativa legenda) riconducibili anche al programma iconografico della stauroteca. Sul salterio di Basilio II cfr. GINNASI 2009, pp. 107-108. 29 Sulla Pala d’oro cfr. HAHNLOSER POLACCO 1994. 30 Sui trittici in avorio cfr. FLAMINE 2010, pp. 140-147. 31 Ad es. nel trittico dei Musei Vaticani nel verso accanto a san Nicola c’è sant’Agatonico martire e non san Severiano (fig. 14), mentre alle sue spalle c’è san Demetrio martire con accanto sant’Eustrazio e non san Procopio, nel recto, invece, i santi guerrieri sono Teodoro Tirone e, forse, Eustachio, Teodoro Stratilate e Giorgio (fig. 15). Per altre differenze cfr. FLAMINE 2010, pp. 144-145. 32 Nel trittico del Cabinet des médailles i Santi raffigurati all’interno dei tondi sulle valve sono i Profeti Elia e Giovanni Battista, gli Apostoli Pietro e Paolo, i martiri Stefano e Pantaleone, i Vescovi Giovanni Crisostomo e Nicola, i Santi taumaturghi Cosma e Damiano. Nel ‘trittico Borradaile’ nella valva sinistra sono rappresentati i Santi Ciro, Giorgio e Teodoro Stratilate, Mena e Procopio; in quella di destra i Santi Giovanni, Eustachio e Clemente di Ancyra, Stefano e kyrion. 33 Sul Cabinet des médailles conservato nella Bibliothèque nationale de France di Parigi, sul ‘trittico Borradaile’ del British Museum e sulla piccola valva di sinistra di un trittico eburneo, conservata nel Départment des objets d’art del Louvre, cfr. FLAMINE 2010, pp. 145-147 (per le fotografie cfr. pp. 138-139). 34 Su San Giorgio cfr. BALBONI - CELLETTI 1965; BALBONI 1983; kAFTAL 1986; DE’ GIOVANNI - CENTELLES 2004; GIORDANO 2005; ONETO 2009. 35 Cfr. anche san Demetrio nella Chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma (VII sec.) e in San Luca in Focide (XI sec.). SALTERNUM Cfr., a titolo esemplificativo, l’icona de I Santi Giorgio, Teodoro e Demetrio, XII sec., Ermitage, San Pietroburgo; il mosaico di san Mercurio, XII sec., Cappella Palatina, Palermo; l’affresco di sant’Eustachio, XIXII sec., Cripta di Sant’Eustachio, Matera. 37 Cfr. l’affresco di san Nestore, XIII sec., Castello normanno di Paternò (CT) e l’icona san Procopio e la Vergine, 1280 ca., Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai, con san Teodoro e san Giorgio ai margini laterali inferiori di san Procopio e con san Nicola al margine laterale centrale destro della Vergine. 38 Sull’iconografia dei santi cfr. kAFTAL 1986. 39 Crf san Severiano accanto a san Nicola nel trittico ‘Harbaville’ verso, metà X sec., Museo del Louvre. 40 Egli era un medico del II-III secolo d.C., che fin dall’antichità godette di un vasto culto sia in Oriente sia in Occidente, al pari dei santi Cosma e Damiano coi quali divise nella rappresentazione agiografica il model36 lo martiriale e taumaturgico di Santi medici “anargiri” e molti tratti leggendari stereotipi al pari di altri Santi intercessori. 41 Cfr., a titolo esemplificativo, san Pantaleone, X-XI sec., Catacomba di Nicomedia; l’affresco di san Pantaleone, XI-XII sec., Monastero di Veljusa, Macedonia; l’icona di san Pantaleone con scene della sua vita, XIII sec., Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai. 42 I vescovi di Ravello incominciarono a donarne piccole quantità ad altre comunità: così nacquero le ampolle (molto più piccole) conservate a Costantinopoli, a Montauro (Cz), a Martignano (LE), a Caiazzo(CE), a Vallo della Lucania (SA), nel Monasterio de la Encarnación di Madrid. 43 Per il culto di san Pantalone a Ravello cfr. IMPERATO 1970; BUONOCORE 2008. 44 Sugli amalfitani deportati a Salerno nel X e XI secolo per volere di Sicardo, principe longobardo, cfr. VALITUTTI - VISENTIN 2007 nel paragrafo Il vicus Amalphitanorum. 45 DELOGU 1977, pp. 141-142. 46 D’ANIELLO 1991, p. 56. - 90 - VALITUTTI - VISENTIN 2007. La datazione trova fondamento sia nello stile pittorico sia in alcuni stilemi come le decise ombreggiature che segnano i lineamenti dei volti, i pesanti panneggi e la mancanza di volumetria dei corpi. 49 Cfr. MOLES 2011. 50 CIOFFARI 1997, p. 223. 51 Per la bibliografia su san Nicola e san Giorgio cfr. note 6 e 34. 52 MALATERRA 2002. 53 Accadde che, nell’anno 1098, durante una delle più furiose battaglie, i cavalieri crociati e i condottieri inglesi vennero soccorsi dai Genovesi i quali ribaltarono l’esito dello scontro e consentirono la presa della città, ritenuta inespugnabile. Secondo la leggenda il martire si sarebbe mostrato ai combattenti cristiani in una miracolosa apparizione con un gruppo di cavalieri (tra cui San Mercurio e San Demetrio) su cavalli bianchi, sventolanti bandiere in cui campeggiavano croci rosse in campo bianco (NAPOLITANO 2004, p. 79). 47 48 MARIO MOLES Bibliografia AGNELLO G. 1951, Santuarietti rupestri cristiano-bizantini della Sicilia, Firenze. AGNELLO G. 1962, Le arti figurative nella Sicilia bizantina, Palermo. BACCI M. 2006 (a cura di), San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, Milano. BACCI M. 2009, San Nicola il Grande Taumaturgo, Roma-Bari. BALBONI D. 1983, San Giorgio: martire, Roma. BALBONI D. - CELLETTI M. C. 1965, s.v. Giorgio, in Bibliotheca Sanctorum, IV, Roma, pp. 512-531. BEkENEVA N. - CHEREDEGA N. 2009 (a cura di), Images saintes, Maitre Denis, Roublev et les autres, Galerie nationale Tretiakov, Martigny. BELLI D’ELIA P. 1980, Le porte di bronzo, in La Puglia fra Bisanzio e l’Occidente. 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In questo territorio è possibile incontrare una varietà di ecosistemi e tre fiumi che lo conformano ineluttabilmente: il Suárez, il Fonce e il Chicamocha. I nostri studi possono confermare, supportati dalle fonti bibliografiche, che i Guane erano caratterizzati da un livello sociale di confederazione di cacicazgos (dipartimenti), governati da un cacique principale (capo indigeno) chiamato Guanentá che viveva nell’area della Mesa de Geriras, attuale Mesa de Los Santos (fig. 1), nella zona settentrionale del territorio Guane dove aveva tre residenze. I caciques minori altrettanto avevano le proprie dimore però queste avevano una dimensione inferiore. I Guane avevano un modello di insediamento misto: disperso ed a nuclei. Nel primo, costruivano le proprie dimore su terrazze artificiali a metà del pendio, in prossimità delle fonti d’acqua, sui terreni meno scoscesi e stabili, lì dove si incontravano i terreni più fertili e generosi per le coltivazioni; in alcuni casi costruivano sistemi di canalizzazione delle acque onde Introduzione Guane furono il gruppo sociale più rappresentativo dell’attuale Dipartimento di Santander che gli Spagnoli incontrarono al momento della conquista avvenuta nel 1540. I Guane appartenevano ‘ai pagani organizzati’, costituenti quelle società complesse nelle quali la religione adorava il dio sole. Questa popolazione, oggi scomparsa, abitò la regione andina santandereana e il numero di indigeni che la componeva diminuì rapidamente mano a mano che l’impatto della colonizzazione ed il processo di mescolamento fra le razze aumentavano. Furono essenzialmente agricoltori, colonizzarono la regione occupandola sia orizzontalmente che verticalmente arrivando ad abitare anche ad altezze elevate sfruttando così i diversi ‘piani’ climatici e ricavando in tal modo il massimo profitto dalla coltivazione delle terre integrando il tutto con una gestione oculata e corretta delle risorse idriche e dei suoli disponibili. Il territorio Guane fu colonizzato nella sua totalità, nonostante la scarsità di oro e altri metalli preziosi che caratterizzava la regione. Gli Spagnoli occuparono lentamente il territorio iniziando così il processo di trasformazione del paesaggio a partire dalla fondazione di piccoli villaggi, realizzazione di strade, creazione di piccole comunità, di fattorie, introducendo piante ed animali del vecchio mondo, la religione cattolica ed il sistema legale e razziale tipico dei colonizzatori. Oggi purtroppo di questo antico, operoso e nobile popolo quasi non è rimasta traccia, se non in qualche piccolissimo e remoto insediamento (fig. 3). I Brevi note sul popolo Guane L’analisi della formazione del paesaggio culturale nell’area Guane, inizia con l’analisi del paesaggio precedente la conquista. E’ necessario comparare i cambiamenti per stabilire le similitudini e le differenze. Fig. 1 - La Mesa de los Santos (PALMISANO 2008). - 93 - SALTERNUM Pratica diffusa nel popolo Guane era la mummificazione dei propri defunti, ciò veniva effettuato avvolgendoli in triplici strati di mantelli di pregiata manifattura, finemente lavorati e disegnati. Le mummie erano avvolte generalmente in due coperte di cotone più interne e poste a contatto con il cadavere e infine da una terza posta più esternamente e realizzata in fique, una fibra vegetale molto resistente. Il tutto formava un efficace involucro protettivo in grado di conservare alla perfezione i defunti. Nella Cueva de los Indios individuata nella Mesa de los Santos, uno dei siti più grandi ed importanti dell’archeologia precolombiana Guane, sono state trovate numerose mummie (fig. 4), molte intatte, che hanno permesso di ricostruire alla perfezione tale pratica oltre che collezionare numerosi e bellissimi tessuti. La varietà topografica e climatica dell’area abitata dai Guane generava diversi ecosistemi, questi furono sapientemente utilizzati per ottenere risorse differenti. In ciascuno di questi ecosistemi, i Guane usufruirono delle risorse disponibili di fauna, flora, acqua, suoli, minerali, ecc. sempre rispettandone l’essenza naturale, infatti, nonostante l’intenso sfruttamento dovuto alla numerosa popolazione residenziale, non si è verificato un depauperamento del sistema ma il tutto è stato ‘usato’ secondo uno sfruttamento ecosostenibile. Numerosi rilevamenti sono stati effettuati nell’area di studio al fine di realizzare una mappatura in grado di confrontare lo stato attuale dell’area con quella che doveva essere al tempo dell’arrivo degli Spagnoli. Attualmente le città di Cabrera, Barichara, Guane, Villanueva, San Gil, Pinchote e Los Santos insistono su di Fig. 2 - Entrata alla Cueva de los Indios (PALMISANO 2008). evitare che la terra, a causa delle condizioni climatiche spesso proibitive, si inaridisse eccessivamente. Nel modello a nuclei i Guane realizzavano insediamenti circoscritti, perlopiù nelle pianure, dove vivevano i caciques: qui le case venivano realizzate in prossimità di fonti d’acqua dolce, dei campi coltivati e dei boschi ove raccogliere legna, frutti e cacciare selvaggina. Praticavano altresì la tecnica della roza y quema (taglia e brucia), ossia aprivano varchi nell’erba alta della selva, successivamente la incendiavano e con le ceneri fertilizzavano la terra. Costruivano strade per collegare i diversi insediamenti, per favorire scambi commerciali e consentire spostamenti di uomini e materiali. Queste strade erano solitamente realizzate sulle creste delle montagne da dove discendevano seguendo percorsi a ‘zigzag‘ fino agli insediamenti. Altresì realizzavano percorsi ripidissimi per giungere alle grotte ove erano custoditi i loro defunti (fig. 2), o per rifugiarsi e difendersi dai nemici e successivamente dagli Spagnoli. Fig. 3 - Villaggio Chibcha di Choachí, Dipartimento di Cundinamarca (PALMISANO 2009). - 94 - NIDIA YANETH GARCIA - CARMEN GENTILE - MAURIZIO PALMISANO un territorio popolato a bosco secco tropicale che lascia il passo, all’aumentare dell’altitudine, ad un bosco secco premontano; subito notiamo la discordanza con quanto riportato dai cronisti spagnoli dell’epoca, i quali parlavano di una zona denominata lomerío (alta collina) ove erano presenti numerose fonti d’acqua sotterranee e ottima argilla per la costruzione di mattoni; questa zona era la più popolata ed è quella che propriamente fu chiamata guane dai colonizzatori. Studi ambientali hanno dimostrato che la zona ha subito profondi processi di alterazione, sicuramente antropici, e storicamente iniziati con l’arrivo degli Spagnoli e continuati sino ai giorni nostri. I suoli subirono un rapido impoverimento dovuto ad un’indiscriminata deforestazione, ciò portò inesorabilmente ad una maggiore vulnerabilità del territorio a causa delle forti piogge, del vento e delle alte temperature dominanti sull’area; ciò provocò anche una diminuzione del quantitativo di acqua disponibile. Le mappe realizzate dagli Spagnoli, all’epoca del loro arrivo, mostrano il sovrappopolamento dell’area, eppure nonostante questa occupazione intensiva del territorio gli indigeni vivevano in perfetta armonia con la madre terra; in seguito le cose cambiarono… è emblematico il caso della laguna di Barichara, che dopo l’arrivo degli spagnoli in breve tempo si prosciugò completamente. In queste aree i Guane si dedicavano alle proprie attività principali come l’agricoltura, la pesca e la caccia, tra le specie coltivate spiccava il mais, la patata, i fagioli, la yucca, la zucca, il cotone, il cacao, il tabacco, il peperoncino piccante ed il fique, una fibra vegetale molto resistente. Pesce e selvaggina erano molto abbondanti contribuendo a fornire un adeguato sostentamento a questa numerosa popolazione. I Guane conoscevano ed usavano un calendario molto preciso (PALMISANO 2010) che permetteva loro di regolare perfettamente i cicli di semina e raccolto, in tal modo effettuavano due raccolti l’anno di mais e cotone. La coltivazione del cotone per la fabbricazione di svariati manufatti è uno degli aspetti più conosciuti e caratterizzanti del popolo Guane. I loro indumenti, le borse, i cappelli, le coperte e soprattutto i loro mantelli erano molto elaborati, alcuni erano bianchi, altri erano tessuti in diversi colori e motivi elaborati raffiguranti splendidi disegni. Questi mantelli erano impiegati sia per vestirsi sia come merce adoperata per acquistare altri beni. Fig. 4 - Mummia Guane (dal caveau del Museo del Oro di Bogotá, PALMISANO 2009). La qualità dei filati e dei pezzi tessuti incontrati in tutta l’area comprendente le regioni di Cundinamarca, Boyacá e Santander, evidenzia che il cotone occupò un posto distaccato nella società precolombiana. Altra fibra molto importante incontrata nei tessuti Guane e Muisca era il fique, una pianta originaria dell’America tropicale, da sempre legata con la vita contadina colombiana. Al contrario del cotone, il fique non fu relazionato all’uso personale, però fu legato, come lo è ancora oggi, alla realizzazione di cordami, strumenti ed una grande varietà di borse. Infine, una terza fibra utilizzata fu il capello umano, filato per la realizzazione di meravigliosi copricapo e tessuti mediante l’impiego di aghi di legno. Successivamente, con l’arrivo degli Spagnoli, arrivarono anche le pecore e con esse la lana, che risultò di grande utilità in particolare nelle regioni alte e fredde; il cotone pertanto, fu poco a poco sostituito dalla lana. L’arte della tessitura per il popolo Guane raggiunse livelli di perfezione e di elaborazione tali da diventare quasi un simbolo, un modello da ostentare nelle cerimonie importanti, da utilizzarsi come alti tributi, addirittura come merce di scambio per acquistare oro e smeraldi; i colonizzatori impararono presto ad apprezzarne il valore tanto da utilizzarli sempre più frequentemente. Le tecniche della filatura, della tessitura e della colorazione dei capi prodotti, raggiunse livelli molto sofisticati, i Guane, è universalmente riconosciuto, furono coloro che posero le basi dell’industria santandereana, fiore all’occhiello della moderna industria tessile colombiana. - 95 - SALTERNUM confina a oriente con i rilievi della Sierra Nevada del Cocuy che separa questa regione con le pianure Orientali, a Occidente con la regione del Carare-Opón e della valle del Magdalena e infine a Nord con i rilievi andini denominati páramos di Santurban; in quest’area è compresa la nostra zona di studio. Area di studio L’area di studio comprende il territorio ove si insediò e abitò questa popolazione precolombiana; in pratica risulta essere ubicata tra la valle del fiume Frio, la Mesa de los Santos e Piedecuesta. In quest’area attualmente risiedono alcune città importanti come Bucaramanga, Piedecuesta e Floridablanca, purtroppo l’alta urbanizzazione attuale del territorio nonché l’esiguità dei fondi disponibili ha limitato moltissimo l’estensione degli scavi archeologici, compromettendo in tal modo la piena caratterizzazione dell’area. Fonti bibliografiche (HERRERA 2006) citano che, durante l’epoca coloniale, gli spagnoli quasi sempre rispettarono l’origine degli indigeni, in particolare quando necessitava traslocarli in un luogo diverso da quello di origine, rispettando in tal modo ‘la loro nazione’, ossia la loro provenienza e il loro territorio, configurando così l’ordine regionale del territorio colombiano. Gli indigeni dovevano essere traslocati rispettando le condizioni fisiche, climatiche e territoriali al fine di evitarne infermità e consentendo il loro nuovo posizionamento in prossimità di altri gruppi che parlavano il medesimo idioma al fine di evitare conflitti. I limiti occidentali del territorio Guane si estendono sino al limite occidentale del fiume Suárez, fino alle alte cime della Serranía de los Cobardes; dal lato orientale, il limite stabilito tradizionalmente è posizionato nella valle del fiume Chicamocha; purtroppo questi limiti geografici risultano approssimati poiché le fonti storiche sono imprecise a riguardo, infatti, la similitudine tra i Guane ed i Muisca, popolazioni ambedue appartenenti al medesimo ceppo di etnia Chibcha, fa sì che i limiti geografici caratterizzanti gli insediamenti dei due gruppi, spesso si intersecano fornendo informazioni sbagliate sulle rispettive aree topografiche. Ciò ha fatto sì che i territori ritenuti un tempo appartenenti ai Guane erano invece di chiara etnia Muisca e viceversa; fortunatamente le differenze di stili di vita tra le due popolazioni e la particolare inclinazione di un gruppo rispetto all’altro per la dedizione a forme di artigianato diverse ha permesso di effettuare una demarcazione più chiara delle rispettive aree tipiche d’insediamento. Quindi è stato possibile definire con maggiore precisione il territorio dove i Guane abitarono, territorio che comprende le valli dei fiumi Chicamocha, Suárez, Fonce e Lebrija che separano gli altipiani di Barichara, Los Santos e Bucaramanga, quest’area Risultati e discussione Nei tessuti realizzati dal popolo Guane, si incontrano differenze non solo nella forma, ma anche nella funzione e nel contenuto espressivo e simbolico, mediante i quali è possibile analizzare, grazie uno studio approfondito dei contenuti, le varianti caratterizzanti ciascuna cultura. Per la comprensione dell’universo della tessitura, è possibile stabilire tre differenti gruppi: il primo composto dai vestiti incluso il copricapo, le coperte, i mantelli, i pantaloni, le fasce; il secondo, per i beni utili della casa come l’amaca, le coperte, i tappeti, i cesti e le borse; il terzo, infine, per gli strumenti come le bisacce, le trappole e le reti da pesca. La bellezza di questi tessuti, come gia detto, fu valorizzata dai conquistatori, i quali ammirandone la qualità, inviarono ripetutamente esemplari ai Reali di Spagna come regalo di grande stima. I tessuti realizzati dai Guane si differenziavano sostanzialmente in due tipi: i dipinti ed i decorati. I primi erano caratterizzati da coperte di grandi dimensioni, di colore bianco o crema, con settori colorati in rosso. I colori venivano applicati mediante l’impiego di rulli, timbri e pennelli. Generalmente le tele Guane erano costituite da una parte centrale più ampia e da due laterali molto simili e di dimensioni ridotte. Le tele del secondo tipo, denominate ‘colorate’, erano realizzate con tecniche più complesse, grazie ad un gioco di fili, precedentemente tinti, che producevano motivi artistici a carattere prevalentemente geometrico oltre che figure zoomorfe ed antropomorfe. Per realizzare disegni complessi i Guane adoperavano nell’ordito del telaio fili di diverso colore, alternandoli durante la fase della tessitura. Questo era possibile grazie all’uso di orditi complementari, in altre parole, impiegavano due set suppletivi di ordito di tinta differente. In questo modo facevano sì che un colore predominasse su un lato della tela, mentre l’altro predominava sul lato opposto. Il disegno quindi risultava visibile su ambedue le superfici, in forma negativa e - 96 - NIDIA YANETH GARCIA - CARMEN GENTILE - MAURIZIO PALMISANO positiva, ad esempio rosso su fondo crema e crema su fondo rosso. I colori impiegati per tingere i propri tessuti erano tutti di origine vegetale e minerale e, opportunamente miscelati tra loro, davano origine ad un’ampia gamma di colori. Il colore più diffuso nei mantelli era il marrone ottenuto da sangue animale ed un rosso più chiaro ottenuto dall’asfodelo, una pianta della famiglia delle Liliaceae. Impiegavano varie tonalità di verde impiegando foglie di vite o gemme di alberi di diversa specie. I toni azzurri erano estratti dai fiori del frutto della passione e delle patate, oltre che dai semi di avocado; il giallo era ottenuto dalle radici di zafferano, dai semi dell’annatto (Bixa orellana, pianta tropicale). Infine il rosso, meno frequente incontrato, che era estratto dal cactus spinoso e mescolato alla cocciniglia oppure estratto dagli ossidi delle terre rosse. Tutti questi colori ovviamente necessitavano essere fissati ai tessuti, a tale scopo i Guane utilizzavano alcuni mordenti come la calce spenta o l’estratto di avocado; per ottenere una colorazione nera ponevano le tele a fermentare nel fango. Nel realizzare i mantelli, introducevano fili di ordito colorati, generalmente in marrone scuro, tali fili formavano stretti raggi i quali erano destinati a delimitare le aree da colorare successivamente. I procedimenti impiegati per ottenere tessuti di alta qualità contemplavano l’uso di telai verticali, aghi in legno, cotone ritorto, intessuto e colorato. Ordito e trama, i due elementi fondamentali che costituiscono il tessuto, erano abilmente maneggiati sostenendo le fibre in un telaio di legno formato semplicemente da quattro assi unite perpendicolarmente fra loro. Questo telaio rudimentale, utilizzato prevalentemente in posizione verticale appoggiato ad una parete, era talvolta impiegato anche in posizione orizzontale a livello del pavimento o, obliquamente, agganciato alla cinta. Questi telai erano completati da altri elementi fondamentali come i volani, i separatori e le mazze, costruiti in legno duro o pietra solitamente decorati, oltre a delle piccole asticelle, realizzate in osso, impiegate per separare l’ordito. Questi oggetti erano poi decorati con bellissimi motivi ornamentali, Fig. 5 - Un volano Guane. geometrici e non, quasi a sottolinearne l’importanza e valorizzarne l’uso, erano i soli oggetti che, gelosamente custoditi, venivano tramandati alle generazioni successive. L’insieme di tutti questi oggetti, abilmente maneggiati, diede come risultato la gamma vastissima di tecniche di tessitura incontrate nel più antico popolo di tessitori al mondo. Tra le tecniche più diffuse abbiamo quella della red sin nudos o anillado, quella dell’anudado e quella dello sprang entrelazado o entrelazado reciproco. La red sin nudos, era realizzata facendo compiere al filo un giro completo ed una croce i quali, ripetendosi orizzontalmente tante volte, consentivano di ottenere la larghezza desiderata; ogni ciclo completo era poi unito a quello precedente e così via. La tecnica dell’anudado, si praticava grazie l’impiego di un piccolo bastoncino di legno, o mediante le dita stesse, facendo in modo che il filo venisse passato all’interno di ciascun nodo. Si formava così una fila di anelli nei quali andava ad inserirsi la fila successiva di nodi. Questo assicurava che tutti gli anelli fossero della medesima ampiezza e che la maglia si formasse senza irregolarità. Infine lo sprang entrelazado o entrelazado reciproco, termine di origine scandinava, indicava la tecnica di tessitura che consisteva nel legare l’insieme dei fili utilizzati ad entrambe le estremità, in tal modo la tessitura da un estremo si ripeteva in maniera speculare dall’altro. L’uso di più fili, torcendoli nel verso opposto a quello iniziale, consentiva di ottenere filo a due capi molto più resistenti. La torsione poteva essere destrorsa o sinistrorsa; nei Guane i fili realizzati erano prevalentemente sinistrorsi a differenza di quelli realizzati dai Muisca che, invece, erano destrorsi. L’insieme di queste tecniche, tramandate di generazione in generazione e gelosamente custodite, consentiva di realizzare il tessuto. Il tessuto, unione di fibre, incontro di fili, incontro di mondi, unione di uomini. Il tessuto come attività umana, come esperienza integrale di vita, come pensiero che relaziona l’ambiente con le esigenze fisiche e spirituali che l’uomo speri- - 97 - SALTERNUM menta, condivide e trasforma in oggetti utili ed estetici, unendo le conoscenze teoriche acquisite nel tempo a quelle dei retaggi storici frutto delle esperienze della comunità; è una struttura tradizionale che svolge un ruolo chiave nelle tribù indigene della Colombia. Le tecniche ancestrali comprendono nodi, legami, connessioni ed intrecci di fibre naturali che interagiscono con il lavoro compiuto manualmente dando vita all’oggetto tessuto, dove ogni artefatto diventa espressione materiale caratteristica di ciascuna cultura. Il tessuto, come creazione umana risponde ad un sentimento, ad una ragione spirituale e ad una necessità fondamentale di sopravvivenza; gli oggetti tessuti sono impiegati per procurarsi cibo, attraverso una rete o un canestro, per vestire si tessono coperte, mantelli e ruanas, per trasportare e conservare si utilizzano cesti e mochilas, per riposare si realizzano amacas, per proteggersi, sognare e condividere si costruiscono le malocas. L’oggetto tessuto è un simbolo, all’interno del contesto socio culturale nel quale esso vede e svolge la sua funzione di segno; è un linguaggio, non verbale, mediante il quale si compie la connessione integrale tra la natura, il mito, l’uomo, la società e l’oggetto stesso che, come manifestazione materiale, integra la sua struttura ed il suo contenuto per far parte della vita quotidiana di ogni comunità. La diversità si presenta nelle diverse espressioni materiali che si concretizzano intorno al tessuto, dive- Fig. 6 - Tessuto Guane (dal caveau del Museo del Oro di Bogotá, Palmisano 2009). nendo espressione di ciascun gruppo umano secondo le sue conoscenze ancestrali, il suo ambiente e le sue esigenze e come unità tra le diverse tribù indigene della Colombia che condividono l’arte della tessitura, l’attitudine nel tessere, nell’arte di incrociare fibre, fino ad evidenziare come l’impiego del tessuto, legato al corpo ed al pensiero delle culture indigene, dia testimonianza della sua vita e dei suoi costumi. In questo contesto è stato realizzato il presente lavoro, ovvero con lo scopo di riconoscere e certificare la cultura precolombiana Guane come la progenitrice dell’arte tessile colombiana, unica al mondo per la qualità dei tessuti e per l’unicità dei meravigliosi disegni (fig. 6). - 98 - NIDIA YANETH GARCIA - CARMEN GENTILE - MAURIZIO PALMISANO Bibliografia Corporación de Educación Superior – UNITEC; **Comitato per la Valorizzazione della Cultura Storica del Territorio Campano; *** Consiglio Nazionale delle Ricerche. * ACEVEDO DíAz M. 1955, La Mesa de los Santos, in ‘Revista Jiménez de Quesada’, II, 8-9, Bogotá. ARDILA DIAz B. 1938, Un monumento de los indios Guane, in ‘Estudio’, 73-74, Bogotá. ARDILA D. I. 1986, El pueblo de los guanes: Raíz gloriosa y fecunda de Santander, Bogotá. ARENAS E. 2004, Los guane, el pueblo de la cingla, Universidad Santo Tomás, Bucaramanga. CADAVID CAMARGO G. 1986, Investigaciones arqueológicas en el área guane, Bogotá. 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GIUSEPPE LAURIELLO A proposito di un raro reperto chirurgico: il set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi S trumentario di interessante valore storico e medioevo (Paolo d’Egina, VII sec.)4 e agli inizi dell’età didattico per studenti di medicina e specializmoderna (Ambroise Paré, 1510-1590)5 con dubbi risultati e quale estrema possibilità di salvare una vita, anche zandi ORL, oltre che per cultori della disciplina, perché presa in considerazione all’ultimo momento e è un raro set da intubazione laringea O’Dwyer-Egidi, quindi ad altissimo rischio, la tracheotomia assume conservato presso il Museo ‘Roberto Papi’ di Salerno, dignità di vero intervento chirurgico solo dopo le granla cui datazione può essere fissata tra la fine dell’ultidi scoperte anatomiche susseguitesi da Andrea Vesalio mo decennio del XIX secolo e i primi anni del XX, (1514-1564)6 in poi. Per citare qualche nome, basta considerata l’introduzione del metodo O’Dwyer nel ricordare Bartolomeo Eustachio (1510-1574)7, 1885, la versione Egidi nell’89 e l’epoca in cui ha iniGirolamo Fabrici d’Acquapendente (1533-1616)8, zio la diffusione della lotta immunologica contro la 1 Giulio Casseri (1552-1616)9 e le loro indagini sulla fonadifterite (primo ventennio ‘900). La difterite, conosciuta in passato con il nome di zione, condotte con metodo rigorosamente scientifico. ‘squinanzia’, oggi pressoché scomparsa fortunatamenAl Casseri si deve la costruzione di una prima cannula te su gran parte del pianeta grazie alla provvidenziale d’argento da inserire in trachea, ed ancora una cannula profilassi immunitaria2, è stata nei secoli scorsi una è proposta nel 1625 da Santorio Santorio (1561-1636)10, malattia di spaventosa incidenza tra i bambini, con tubi più volte sostituiti da vari altri modelli più o meno ondate epidemiche, il cui triste ricordo è scritto negli perfezionati nel corso del secolo XVIII. annali di storia della medicina; una malattia infettiva, Tra questi primi operatori va ricordato ancora acuta, contagiosa, che ha colpito duramente l’infanzia, Antonio Musa Bresavola (1490-1554)11, la cui memoria del 1546 riporta il caso di un paziente in preda a esiziale per i danni neuro e miocardiotossici prodotti un grave ascesso peritonsillare, da lui trattato con tradall’esotossina batterica (Corynebacterium diphteriae) e cheotomia, in seguito al rifiuto di questi di essere opesoprattutto per la formazione di pseudomembrane rato da un barbiere chirurgo. biancastre, dure, tenacemente aderenti alle mucose A praticare per primo tale intervento su una vasta interessate, in specie quelle della gola e del laringe e casistica va citato Marco Aurelio Severino (1580quindi sulla glottide, con difficoltà del respiro ingrave1656)12, che lo applica presso l’oscente fino alla morte per soffocamento (croup). spedale Incurabili di Napoli nel La tracheotomia, cioè l’apertucorso di una grave epidemia di ra di una breccia operatoria nella difterite scoppiata nel 1610, utitrachea a livello cricotiroideo per lizzando l’incisione verticale sugconsentire il respiro, è stata nei gerita da Fabrici, ma con tecnica secoli scorsi l’unico disperato piuttosto disinvolta e brutale, da rimedio ad una morte sicura e suscitare severe critiche al riguaratroce, che interveniva a concludo. sione di un decorso orribile. Un effettivo progresso negli Tentata empiricamente in età studi e nella tecnica si deve molto romana (Antillo, II sec.)3, nel Foto 1 - Set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi (5 cannule più tardi a Pierre Bretonneau in metallo, una pinza posa-cannula, 1 estrattore, 1 apribocca). - 101 - SALTERNUM (1778-1862)13. Questo clinico francese non solo chiarisce le diverse forme cliniche della difterite: faringea e laringea, dando alla malattia il nome che tuttora porta (dal greco διφθέρα: membrana coriacea), in luogo della corrente dizione di ‘angina maligna’ e intuendo tra l’altro nella presenza di un microrganismo la causa determinante, ma applica con pieno successo la tracheotomia nel 1825. Per tale manovra utilizza un divaricatore a tre branche, strumento di sua invenzione14. Ma il vero padre di tale atto operatorio per unanime riconoscimento è Armand Trousseau (18011867)15, allievo del Bretonneau. Il clinico francese, perfezionando la tecnica del maestro e adottando per il paziente la posizione supina a collo iperesteso, invece di quella seduta comunemente utilizzata, disseziona i tessuti nel pieno rispetto dei piani muscolari e dei vasi sanguigni, inserendo il tracheotomo tra 2° e 3° anello tracheale. Ma soprattutto consiglia di praticare l’intervento nelle prime fasi della malattia, ritenendo a ragione che solo una decisione precoce può assicurare un pieno successo16. La metodica però all’epoca non è esente da rischi, specie nei bambini, da cui un fervore di studi alla ricerca di un mezzo meno invasivo, che consenta una sufficiente ventilazione al piccolo paziente, ricerca che porta all’introduzione dell’intubazione laringea nella pratica clinica. L’idea iniziale è del tedesco G.F.Dieffenbach, che nel 1839 effettua alcuni cateterismi laringei presso l’Ospedale della Carità di Berlino, purtroppo con risultati deludenti17. Nel 1858, invece, il pediatra francese Eugène Bouchut (1818-1891)18 presenta alle autorità accademiche un nuovo metodo da lui sperimentato: l’intuba- Foto 2 - Georges Chicotot – Le tubage, 1904. zione laringea per via orotracheale, da utilizzare in corso di difterite nei piccoli pazienti in preda a crisi asfittiche per ostruzione della glottide da pseudomembrane. L’apparecchiatura, sperimentata con successo su cinque casi, consiste nell’introdurre una piccola cannula metallica dritta tra le corde vocali, assicurandola all’esterno della glottide con un filo di seta e trattenendovela per alcuni giorni fino a una sufficiente regressione del processo pseudomembranoso. «Vi sono due mezzi - scrive l’ideatore della metodica - per dar passaggio all’aria. L’uno consiste nell’aprire la laringe o la trachea per collocarvi una cannula doppia, la cui parte interna può essere facilmente cambiata. L’altra si limita a collocare nella laringe un piccolo tubo cilindrico, introdotto direttamente attraverso la bocca con l’aiuto di una sonda, come se si volesse fare un cateterismo laringeo, e questa è l’intubazione (tubage de la glotte)»19. Purtroppo l’innovazione incontra l’ostinata contrarietà di Trousseau, relatore dell’Accademia, che, rilevando tra l’altro la presenza di alcune imperfezioni, che ne rendono disagevole l’impiego, critica fortemente l’utilità pratica della nuova tecnica, pur elogiandola sotto un profilo teorico, convincendo la Commissione degli accademici a respingere la proposta20. In realtà il catetere, pur opportunamente calibrato, non si adattava perfettamente all’anatomia del laringe ed era causa di lesioni e dolore. In un primo momento il Bouchut, si pone alla ricerca di un sistema capace di ovviare l’inconveniente: studia infatti il modo di porre in laringe due tubi concentrici, di cui l’interno facilmente rimovibile e quindi con la possibilità di liberare la cannula dalla ostruzione delle pseudomembrane. Presenta infatti successivamente un set di cateteri adatti allo scopo, ma l’amarezza dell’avversione e del dissenso nei riguardi della sua realizzazione lo inducono a desistere da ulteriori perfezionamenti tecnici e abbandona le ricerche21. Maggiore fortuna invece ottiene Joseph O’Dwyer (1841-1898)22, pediatra americano, che nel 1885, in seguito al disperato tentativo di introdurre ‘alla cieca’ per via orotracheale dei tubi flessibili con estremità smussa in bambini colpiti da croup durante un’epidemia, intuisce che è possibile praticare una intubazione laringea con buona probabilità di successo e ne realizza l’applicazione. Il suo metodo, comunicato ai pediatri americani e sostenuto dal grande maestro Abraham Jacobi (1830-1919)23, viene accolto con favore, incon- - 102 - GIUSEPPE LAURIELLO trando un grande successo sia per la facilità della manovra che per la tecnica meno invasiva e non cruenta. In realtà lo strumentario di O’Dwyer si presenta sostanzialmente sovrapponibile a quello di Bouchut, discostandosene solo per alcune modifiche che lo rendono molto più tollerato. Il set è costituito da una serie di piccole cannule in metallo dai bordi arrotondati, con alcuni fori nella estremità superiore per consentirne l’ancoraggio. Mediante una speciale pinza angolata, la cannula è introdotta nello spazio glottideo e fissata al laringe. La pinza possiede sul manico una levetta, che opportunamente premuta, consente il rilascio in situ del cateterino. L’intervento avviene a paziente seduto di fronte l’operatore, che, mantenendogli la bocca aperta con un apposito strumento, uncina l’epiglottide con il dito indice della mano sinistra, guidando con l’uso della pinza la cannula tra le corde vocali e sistemandovela. Negli adulti o nei bambini più grandicelli, dove l’organo è situato più in basso, ai fini della manovra si serve di uno specchietto laringeo24. Oltre all’autorevole consenso di Jacobi, l’intubazione tracheale di O’Dwyer ottiene l’approvazione totale e incondizionata anche di quello stesso Trousseau, che anni prima l’aveva negata allo sfortunato Bouchut. Con tali patrocini di altissimo livello, la metodica è accolta in tutto il mondo scientifico e correntemente applicata laddove se ne ravvisi l’indicazione e la necessità. La consacrazione definitiva si ha nel 1900 a Berlino, al Congresso Internazionale di Medicina, nel corso delle sezioni unificate di Laringologia e Pediatria, dove avviene il felice e fatidico incontro tra Bouchut e O’Dwyer. Ambedue presentano le loro casistiche e i loro risultati ampiamente positivi. In questa occasione O’Dwyer con grande signorilità riconosce pubblicamente la priorità dell’invenzione a Bouchut, confessando di non aver avuto mai notizia delle sue pubblicazioni, mentre Bouchut si compiace con l’americano per la vasta risonanza e diffusione del metodo, che ha saputo imprimere nel suo paese, cosa che in Francia non gli era stato consentito per l’ingiustificata avversione dei propri connazionali. Negli anni immediatamente successivi sono apportate alcune piccole modifiche agli strumenti originali, ai fini di migliorarne ulteriormente la tollerabilità, ma senza che queste possano offuscare minimamente la paternità dell’ideatore. In Italia il metodo è diffuso dall’otorinolaringoiatra romano Francesco Egidi25, già forte di una vasta esperienza di tracheotomie. Il suo primo intervento è del 1889, anno in cui la conoscenza della tecnica raggiunge l’Europa, intervento che descrive in una sua memoria consegnata in letteratura26. Nel 1891 l’Egidi apporta una propria modifica all’attrezzatura, cavitando lo strumento per consentire al paziente una sufficiente ventilazione anche durante l’atto operatorio27. Le cannule, di metallo o di ebanite, sono di varia grandezza e lunghezza e nella parte superiore presentano una specie di colletto e una sporgenza non completa o testa che rimane nel vestibolo e si adagia nella regione posteriore aritenoidea. L’anno successivo l’A. presenta al 1° Congresso della Società italiana di Laringologia i risultati comparativi delle sue esperienze con la tracheotomia e con l’intubazione, dimostrando la pari efficacia dei due metodi nel risolvere la stenosi, ma nello stesso tempo la loro ininfluenza sul decorso della malattia28. Ulteriori modeste modifiche all’attrezzatura sono apportate nel 1895 e nel 1902 dall’italiano, che in una sua pubblicazione: Intubazione della laringe e tracheotomia, data alle stampe a Roma nel 1906, riassume l’intera storia dell’intubazione, la sua metodologia e le indicazioni, descrivendo due nuovi strumenti di sua ideazione aggiunti al set: l’uncino per fissare la trachea e il dilatatore bivalve. Intanto un nuovo affascinante capitolo va aprendosi nel campo della difesa dalla difterite, destinato alla definitiva vittoria sul male: la sieroterapia e la vaccinoprofilassi. In seguito agli studi di Luigi Pasteur (1822-1895)29 sulla immunizzazione attiva contro le infezioni, Emil Behring dimostra come il sangue di animali colpiti dalla difterite e guariti riesca a guarire anche altri animali, tra cui l’uomo, attinti dalla malattia. Nasce così nel 1891 il siero antidifterico, con il quale finalmente i bambini condannati dal terribile male, sono strappati alla morte. Il ciclo di ricerche febbrili sul processo morboso, iniziato nel 1883 con Edwin klebs (1834-1913)30 e la prima scoperta di un microrganismo nelle pseudomembrane difteriche, identificato l’anno dopo da Friedrik Loeffler (1852-1915)31, proseguito con la successiva scoperta nel 1888 dell’esotossina prodotta dal batterio da parte di Emil Roux (1853-1933)32 e Alexandre yersin (1863-1943)33 e conclusosi con la scoperta dell’antitossina e la realizzazione del primo siero antidifterico nel 1891 da - 103 - SALTERNUM parte di Emil Behring e Shibasaburo kitasato (18561931)34, va chiudendosi, ma non del tutto. Dal 1920 diviene disponibile il vaccino antidifterico, costituito da anatossina difterica, proposta da Gaston Ramon (1886-1963)35 e altri, cioè da tossina inattivata con formaldeide, nel senso che ha perduto il potere patogeno, ma ha conservato quello antigene, cioè la capacità di stimolare anticorpi di difesa e quindi di protezione dalla malattia. L’incidenza della mortalità per difterite, che con il solo siero s’è ridotta dal 60% al 20%, con l’introduzione del vaccino scende a livelli trascurabili. Il breve ciclo storico dell’intubazione laringea, pertanto, pur sostenuta dal prof. Giuseppe Gradenigo (1859-1926), valente cattedratico a Napoli, che la consiglia come iniziale tentativo prima di una eventuale tracheotomia, si esaurisce rapidamente in pochi decenni; il suo strumentario, caduto in completo disuso, è abbandonato e disperso. Solo qualche raro esemplare è recuperato. Dell’epoca e della metodica ci ha lasciato una suggestiva scena il pittore George Chicotot, medico artista di primo Novecento. E’ un dipinto olio su tela del 1904, conservato presso il Museo dell’Assistenza Pubblica di Parigi. Ritrae una scena di intubazione eseguita dal dott. Albert Josias (1852-1906) su un bambino con croup, intervento che si svolge nell’ospedale Bretonneaux di Parigi alla presenza di allievi e studenti. L’espressione del viso di questi ultimi lascia trapelare la forte tensione del momento. Colpisce tra l’altro il gesto deciso dell’operatore nell’atto di ritirare la pinza porta cannula e fissare con il dito indice della mano sinistra il piccolo catetere nella glottide del bambino, trattenuto sulle ginocchia dell’infermiera e con la testa bloccata tra le mani dell’assistente. Nello stesso tempo un secondo medico sta preparando sul tavolo il siero antidifterico. Significativo il messaggio: a destra, l’attesa, con gli osservatori che trattengono il respiro; al centro, l’atto salvifico immediato sulla morte incombente; a sinistra, il siero risanatore e la promessa di guarigione futura. - 104 - GIUSEPPE LAURIELLO Note Il siero antidifterico fu scoperto da Emil von Behring (1854-1917) nel 1890 e iniettato con successo in un bambino in corso di malattia nel 1891. Il vaccino, preparato per la prima volta nel 1910, fu disponibile in massa solo dopo il 1920. 2 Attualmente il tasso annuo nel mondo va dal 0,5-1 x 100.000 al 27-32 x 100.000 secondo i Paesi. Una vasta epidemia è stata segnalata nell’ex Unione Sovietica nel 1990, in seguito all’interruzione della vaccinazione di massa. 3 Chirurgo del II sec. d. C., i suoi scritti, pervenutici in frammenti, si ritrovano in gran parte sparsi in alcune opere di Autori bizantini come Oribasio. Riscoperti e pubblicati nel 1799 dallo Sprengel (SPRENGHEL 1799) valgono a presentare l’Autore come ottimo medico e valente operatore. Particolarmente interessanti le descrizioni del trattamento della cataratta, degli aneurismi e della chirurgia plastica del volto. 4 Medico greco del VII sec., attivo ad Alessandria, ci ha lasciato una vasta opera: Epitome, in 7 libri, un condensato della medicina in auge in età altomedievale, con descrizioni di interventi chirurgici con tecniche interessanti, punto di riferimento degli Autori a lui successivi come il chirurgo arabo Albucasi e i chirurghi salernitani Ruggiero e Rolando (cfr. GOODALL 1934, pp. 167-176). 5 Restauratore e padre della chirurgia moderna. Inizialmente barbiere chirurgo e poi chirurgo laureato, prestò la sua opera prima all’Hotel Dieu di Parigi e poi nelle armate di Enrico II di Valois. Fu medico di altri tre re dopo Enrico: Francesco II, Carlo IX ed Enrico III. Portò molte innovazioni nella cura delle ferite, come l’uso di unguenti lenitivi e cicatrizzanti sulle ferite al posto dell’olio bollente e la legatura dei vasi dopo amputazione. 6 Grande revisore critico e riformatore delle conoscenze anatomiche, fino allora cristallizzate sul pensiero galenico. Docente giovanissimo di anatomia e chirurgia presso l’Università di Padova, pubblica nel 1543 il famoso De humani corporis fabrica, sui cui 1 fondamenti anatomici ha origine la medicina moderna. A lui si deve la prima dettagliata descrizione dell’intubazione tracheale su animale condotta con successo (VESALIUS 1543). 7 Docente di anatomia presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, introduce negli ospedali romani lo studio del cadavere ai fini di approfondirne la struttura e la più completa conoscenza e di stimolare in tal modo l’investigazione scientifica. Per il forte impulso dato al progresso della medicina, il suo nome va inserito tra i fondatori della Anatomia moderna. Le Tabulae anatomicae, incise da Eustachio nel 1552 e sfortunatamente perdute, furono ritrovate e pubblicate dal Lancisi (1655-1720) solo nel ‘700. 8 Docente di anatomia e chirurgia nell’Ateneo padovano, successore di Gabriele Falloppio, realizzò la costruzione del ‘Teatro anatomico’, tuttora esistente e visitabile. Fu maestro di William Harvey, scopritore della circolazione del sangue. Pur non avendola mai praticata in vivo, descrisse la tecnica della tracheotomia, da condurre con incisione verticale della trachea e l’introduzione in essa di un piccolo catetere diritto: un intervento consigliato in caso di estrema necessità (cfr. RAJESH - MEHER 2006, pp. 2-33). 9 Allievo di Fabrici e suo successore sulla cattedra padovana, da servo anatomico a Maestro d’anatomia, è stato tra i più brillanti anatomici del suo tempo, specialmente nello studio degli organi di senso e della fonazione. La cannula da lui impiegata era curva e provvista di una serie di fori. 10 Professore di medicina teorica presso l’Università di Padova, propugnatore e realizzatore delle misurazioni fisiche e biologiche in medicina. Fondatore della scuola cosiddetta ‘iatromeccanica’, costruì una bilancia per lo studio del metabolismo, un pulsilogio per la misura della frequenza cardiaca ed il primo termometro clinico. Scrisse il De statica medica (1612), un libro che è un classico della storia della fisiologia. 11 Medico e botanico di Ferrara, medico di - 105 - papa Paolo III, allievo del celebre naturalista Nicolò Leoniceno e maestro dell’anatomico Gabriele Falloppio (cfr. GOODALL 1934, pp. 167-176). 12 Nella storia della medicina il Severino appare come una singolare figura di chirurgo. Laureatosi presso l’Almo Collegio di Salerno, lavorò come chirurgo ordinario nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli e quindi come docente di anatomia e chirurgia presso l’Università partenopea. La sua attività professionale fu caratterizzata da deciso interventismo. Ed infatti il suo essere eccessivamente sbrigativo e spietato al tavolo operatorio in un’epoca di prudenza e di attendismo, giustificata dalla assenza di una anestesia e di un’antisepsi, gli procurò dure condanne morali, tanto da essere addirittura allontanato per un certo periodo dall’incarico pubblico. Il suo scritto più noto è la Zootomia democritea (1645), considerato quale primo testo di anatomia comparata nella storia della disciplina. In esso è riportata l’Anathomia porci del salernitano Cofone (XII sec.). 13 Diresse l’ospedale di Tours e intuì prima di Pasteur la natura microbica delle malattie infettive. 14 Cfr. TROUSSEAU 1833, p. 41. 15 Primario medico presso l’Hotel Dieu di Parigi e cattedratico di farmacologia presso la Facoltà di Medicina, scrisse alcune celebri memorie sulla tisi laringea e sulle malattie della fonazione. Membro autorevole dell’Accademia di Medicina francese ed anche deputato all’Assemblea Costituente. 16 TROUSSEAU 1852, pp. 279-288. 17 LATRONICO 1977, p. 510 18 Laringologo, neurologo e oftalmologo, lavorò in vari ospedali parigini, tra cui l’Hotel Dieu. Il suo nome è legato anche agli studi sulla nevrastenia e alla descrizione della laringite miliarica. Di lui ci resta ancora una Storia della medicina, pubblicata nel 1886. 19 Da BOUCHUT 1858, cit. in LATRONICO 1977, p. 510. 20 TROUSSEAU 1858. 21 LATRONICO 1977, p. 510, ricorda che SALTERNUM durante la concitata seduta accademica solo J. F. Malgaigne, chirurgo e storico medico brillante, difendesse la metodica, ma purtroppo, soggiunge, «la sua parola si spense in quel consesso di dotti e non riuscì ad impedire che la nuova idea fosse accantonata per oltre venti anni». 22 Cfr. GOERIG - FILOS - RENz 1988, pp. 244-251. 23 Famoso pediatra americano, ebreo di origine tedesca, fondò il primo ospedale per bambini a New york e un dipartimento pediatrico presso il Mount Sinai Hospital. Fu docente di pediatria nell’Università di New york e nella Columbia University. Fondò anche un primo giornale di Ostetricia e Malattie delle donne e dei bambini, distinguendosi in diverse lotte per riforme sociali. 24 O’DWyER 1885, p. 145 ss. 25 L’Egidi, abile e rapido operatore, conseguì la libera docenza nel 1902 e fu fondatore della Società Italiana di Otorinolaringoiatria. 26 EGIDI 1889, pp. 97-106. 27 ID. 1891. 28 ID. 1882, pp. 215-218. 29 Gli studi sulla fermentazione alcolica, condotti da questo scienziato francese, portando alla scoperta dei microrganismi specifici, gettano le basi della microbiologia, della moderna immunologia e della preparazione dei vaccini. Realizzazione di Pasteur è la vaccinazione antirabbica, ottenuta con una emulsione di midollo seccato di animale morto di rabbia. 30 Docente di patologia e batteriologia in varie Università (Berna, Praga, zurigo, Chicago), descrisse per la prima volta nel 1883 il bacillo della difterite. 31 Batteriologo, lavorò con Robert koch dal 1879 al 1894, isolò nel 1884 il bacillo della difterite. 32 Microbiologo francese, collaboratore di Pasteur, compì ricerche fondamentali sul - 106 - colera dei polli, sul carbonchio, sulla rabbia, realizzando vari vaccini. Insieme a kitasato, isolò l’esotossina difterica, responsabile degli effetti tossici della malattia. Dal 1904 fu direttore dell’Istituto Pasteur, incarico che mantenne fino alla morte. 33 Medico svizzero, assistente e collaboratore stretto di Emile Roux, in un suo soggiorno di studi a Hong kong nel 1894 scoprì con kitasato il bacillo della peste (Yersinia pestis). 34 Microbiologo giapponese, collaborò con Robert koch nel laboratorio di Berlino; nel 1889 preparò con Behring l’anatossina per la difterite e l’antrace. A Hong kong con yersin scoprì il bacillo della peste (cfr. supra, nota 33). 35 Veterinario e biologo francese, contribuì alla preparazione e allo sviluppo dei vaccini contro la difterite e il tetano, sviluppando il metodo di inattivazione della tossina difterica con l’uso della formaldeide. GIUSEPPE LAURIELLO Bibliografia BOUCHUT E. 1858, Mémoire sur une nouvelle méthode de traitement de l’asphyxie du croup, par le tubage du larynx, ‘Comptes rendus de l’Académie des sciences’, 18 settembre 1858, in ‘Acad.Med.Paris’, 23, pp. 11601162. EGIDI F. 1882, Sopra 82 tracheotomie e 84 intubazioni come contributo alla statistica, in Atti 2° Congresso Soc. It. Laring., Roma, pp. 215-218. EGIDI F. 1889, La prima intubazione della laringe per croup fatta in Italia con l’apparecchio dell’O’Dwyer, in ‘Arch. It. Laring.’, 11, pp. 97106. EGIDI F. 1891, Modificazioni agli apparecchi di intubazione laringea, Roma. GOERIG M. – FILOS k. – RENz D. 1988, Joseph O’Dwyer, a pioneer in endotracheal intubation and pressure respiration, in ‘Anasth. Intens. Notfallmed’, 23, (5), pp. 244-251. GOODALL E.W. 1934, The story of tracheostomy, in ‘Brit. J. Childr. Dis.’, 31, pp. 253-272. TROUSSEAU A. 1858, Du tubage de la glotte et de la trachéotomie, Paris. LATRONICO N. 1977, Storia della pediatria, Torino. VESALIUS A. 1543, De humani corporis fabrica Libri VII, Basel. O’DWyER J. 1885, Intubation of the Larynx, in ‘New Jork Medical Journal ’. Per ulteriori approfondimenti RAJESH O. – MEHER R. 2006, in Historical Rewiew of Tracheostomy, in ‘Int. J. Othorin.’, 4 (2), pp. 1178-83. BARTHEz E. 1858, Descours sur la trachéotomie, Paris. BARTHEz E. 1859, Mémoire sur la diphterie, Clinique européenne, Paris. SPRENGHEL k. 1799, Antilli, veteris chirurgi fragmenta, Halle. BRETONNEAU P. 1826, Traité de la diphtérite, angine maligne ou croup épidemique, Paris. TROUSSEAU A. 1833, Mémoire sur un cas de trachéotomie pratiquée dans le périod extrème de croup, in ‘Journal des connaissances médicochirurgicales’. LANCRy G. 1886, De contagion de la diphtérie, transport et isolement des diphtèriques dans les hopitaux d’enfants de Paris, Paris. TROUSSEAU A. 1852, Nouvelles recherches sur la trachéotomie pratiquée dans le périod extrème du croup, in ‘Annales de Médicine Belge et étrangère’, pp. 279-288. - 107 - SPERATI G. – FELISATI D. 2007, Bouchut, O’Dwyer and laryngeal intubation in patients with croup, in ‘Acta Othorin. It.’, 27, pp. 320-323. ELIANA MUGIONE Segnalazione ANNA FERRARI, Dizionario dei luoghi del mito. Geografia reale e immaginaria del mondo classico, Rizzoli, Collana BUR Dizionari, Milano 2011, 1056 pp. I l volume di Anna Ferrari, Dizionario dei luoghi del mito. Geografia reale e immaginaria del mondo classico, ha il merito di restituire al mito una dimensione geografica che permette di cogliere a pieno lo stretto legame tra la dimensione paradigmatica della tradizione mitica e letteraria e il suo rapporto con il mondo reale. Come sottolinea l’Autrice nella sua Introduzione, «non c’è racconto mitico che non sia collocato in un luogo specifico, a volte immediatamente riconoscibile, altre volte destinato a rimanere per noi moderni poco più che un nome». L’approccio al mito appare così catapultato in una dimensione spaziale nella quale si muovono gli uomini, come gli dèi e gli eroi. Partendo dai luoghi, dunque, l’Autrice ricostruisce, attraverso testimonianze letterarie - a volte supportate, anche se più raramente, da quelle archeologiche - un percorso di luoghi popolati da dèi e da eroi. Un Dizionario dei ‘luoghi del mito‘ piuttosto che dei ‘soggetti mitologici’, che tende a stabilire il legame esistente tra i diversi miti, proprio grazie alla condivisione di uno stesso spazio. Da archeologa non posso fare a meno di sottolineare come una visione di questo tipo coincida con l’evoluzione degli studi degli ultimi anni, che hanno sottolineato lo stretto rapporto tra l’uomo e l’ambiente e che hanno visto lo sviluppo di nuovi filoni di ricerca, come ad esempio l’archeologia dei paesaggi. Dunque un paesaggio del mito, restituendo a questo, oltre che la sua dimensione storica, politica, sociale e istituzionale anche lo stretto legame con lo spazio in cui leggende e tradizioni sono calate. Il volume comprende 1600 voci, in ordine alfabetico, dedicate a località menzionate nelle fonti greche e romane come teatro di eventi della mitologia, di avventure di dèi, di eroi e personaggi leggendari, di prodigi soprannaturali: città, villaggi, monti, fiumi, sorgenti, laghi e paludi, mari e foreste, regioni, stati, isole e regni. In ogni località i racconti del mito sono diffusamente ricordati e riassunti, facendo ricorso a frequenti citazioni dalle fonti antiche, con un indice finale utilissimo che consente il passaggio dal luogo al mito e dal mito al luogo. E’ chiaro che, a partire da questi presupposti, sarebbe auspicabile giungere a ricostruire una vera e propria ‘geografia del mito’, che, tenendo conto di come culti e leggende si sono stratificati nel tempo, possa restituire il milieu culturale e sociale di ambiti territoriali diversificati. *** Dietro autorizzazione dell’Autrice, pubblichiamo due voci-tipo dal Dizionario dei luoghi del mito, scelte anche in omaggio alle terre dove si svolge principalmente l’attività del Gruppo Archeologico Salernitano. - 109 - «PAESTUM Anticamente chiamata Posidonia (Gellio, XIV, 6, 4), è una delle più celebri città greche d’Occidente, ancora oggi meta di visitatori per la bellezza e l’ottimo stato di conserva- SALTERNUM «VELIA Per gli antichi Greci nota come Hyèla, Hyèle ed Elèa, in latino Velia, la città sorse nel VI secolo a.C. sulla costa della Campania affacciata sul mar Tirreno. Una tradizione raccontava che era stata fondata dai Focesi, i quali, insediati in Asia Minore e oppressi dai Persiani, presero il mare alla ricerca di nuove terre, spingendosi verso Occidente e raggiungendo l’Italia e la costa della Gallia (Ammiano Marcellino, XV, 9,7). La mitologia la metteva in relazione con la storia di Palinuro, l’infelice timoniere della nave di Enea, che nei pressi di Velia era precipitato in mare: quando Enea, durante il suo viaggio agli Inferi, lo incontra, si fa raccontare da lui tutta la storia, e apprende così che, precipitato dalla tolda della sua nave e rimasto in balia dei flutti per tre notti, Palinuro era quasi giunto a nuoto a salvarsi sulla costa d’Italia, quando «della gente crudele col fil ferro» si era gettata su di lui, «dalle umide vesti appesantito», credendolo un buon bottino. Palinuro implora Enea di rendergli onori funebri, poiché il suo corpo giace insepolto sulla spiaggia (Virgilio, Eneide, VI. 347 ss.). Il luogo dove viene tumulato «eterno il nome conserverà di Palinuro» (ibid., 381): v. PALINURO, CAPO. Ai confini tra storia e leggenda era la vicenda della fine di zenone, uno dei più illustri filosofi di quella scuola di Elea che ebbe tra i suoi rappresentanti insigni Senofane di Colofone e Parmenide. Di zenone si diceva che fosse morto pestato in un mortaio per ordine del tiranno della città, Nearco: zenone aveva partecipato a una congiura contro di lui e si narrava che, per non tradirsi durante l’interrogatorio cui era stato sottoposto, si fosse reciso la lingua con un morso, sputandola poi in faccia al tiranno. Il nome «Velia» indicava anche un colle di Roma dove, in un tempio, si conservavano i Penati, gli dei protettori del focolare domestico, che secondo il mito Enea aveva portato con sé quando aveva lasciato Troia in fiamme», (p. 966). zione dei suoi magnifici resti archeologici tra i quali spiccano gli imponenti templi dorici e la celebre Tomba del Tuffatore. Fondata, sembra, da Sibari, deriva il suo nome dal dio del mare, Poseidone, che è effigiato su tutte le monete della città. Oggetto di culto era anche la dea Era, alla quale era dedicato un tempio situato alla foce del vicino fiume Silaris (l’odierno Sele), a circa cinquanta stadi a Nord della città, ricordato da Strabone all’inizio del libro VI e da Plinio (Nat. Hist., III, 70). Questo tempio, che è stato identificato nell’Heraion alla foce del Sele portato alla luce da Paola zancani Montuoro e Umberto zanotti Bianco, era di grande importanza, oltre che per la sua imponenza e per la ricchezza delle sue metope scolpite, anche per la sua storia leggendaria: la tradizione, attestata dallo stesso Strabone, voleva che fosse stato fondato da Giasone, il capo della mitica spedizione degli Argonauti, che lo dedicò a Era Argiva (cfr. ancora Plinio, Nat. Hist., III, 70). Nell’antichità Paestum era celebre per i suoi roseti, «due volte fioriti ogni anno» (Virgilio, Georgiche, IV, 119). I «roseti della mite Paestum» ritornano nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 708), dove la località è menzionata tra quelle oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, città in cui un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, si mutò nuovamente in dio e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO). Nel mare antistante Paestum si trovava una piccola isola chiamata Licosa in onore di una Ninfa omonima che si diceva vi avesse trovato sepoltura (Plinio, Nat. Hist., III, 85; V. LEUCOSIA)», (p. 679). - 110 - LUCA CERCHIAI Recensioni MATTEO D’ACUNTO, MARCO GIGLIO (a cura di), Le rotte di Odisseo. Scritti di archeologia e politica di Bruno d’Agostino, in ‘Annali di Archeologia e Storia Antica. Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico’ (AION ArchStAnt), N. S. 1718, 2010-2011, 377 pp., 183 ill. b. e n. L ’ultimo numero della Rivista ‘Annali di Archeologia e Storia Antica’ pubblicata dal Dipartimento del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico (oggi Dipartimento Asia, Africa, Mediterraneo) dell’Università ‘L’Orientale’ di Napoli è stato dedicato a una raccolta degli scritti di Bruno d’Agostino, curata in modo esemplare dai suoi allievi Matteo D’Acunto e Marco Giglio. E’ superfluo ricordare a lettori esperti di cose archeologiche l’ampiezza delle attività e delle ricerche, come pure l’importanza rivestita da Bruno d’Agostino nel panorama italiano e internazionale degli studi sul mondo antico. Basti dire che Bruno d’Agostino è uno dei protagonisti di una generazione di studiosi che hanno profondamente rinnovato l’archeologia italiana, grazie ad una rigorosa concezione della disciplina che ha abbinato ricerca scientifica e testimonianza politica: tra essi figurano naturalmente Ida Baldassarre e Emanuele Greco, che hanno associato chi scrive nell’Introduzione del volume. La raccolta contiene solo una selezione delle pubblicazioni dell’A., enumerate analiticamente nella bibliografia curata da Matteo D’Acunto: uno dei criteri adottati nella scelta è stato quello di riunire testi non più in stampa o editi in sedi non facilmente accessibili, per renderli più agevolmente fruibili anche da parte di un pubblico più vasto di quello specialistico: per questa ragione, ad es., il lettore non ritroverà i numerosi lavori pubblicati dall’A. nella rivista ‘Annali di Archeologia e storia Antica’ e nella serie correlata dei Quaderni, da lui stesso fondate e a lungo dirette. La raccolta è suddivisa in sei sezioni tematiche, per orientare il lettore attraverso i molteplici itinerari di ricerca esplorati dall’A.: 1) Popoli e civiltà dell’Italia Antica; 2) I Principi e la non-città degli Etruschi; 3) I Greci e l’Occidente; 4) Ideologia funeraria; 5) L’immaginario tra Greci e Etruschi; 6) L’Archeologia come metodo e come politica. Gli studi inclusi nel volume, per un totale di 27 contributi realizzati nell’arco di quasi 40 anni, hanno tagli diversi e coprono un ampio ventaglio di interessi integrati dalla coerenza del metodo: tra tutti, in questa sede appare opportuno ricordare due sintesi di alta divulgazione, quali Gli Etruschi (Sez. 1. 1) e Tecniche dello scavo archeologico: introduzione al volume di Ph. Barker (Sez. 6. 24), che, grazie a una scrittura improntata alla ricerca della chiarezza, sfrondata da ogni indulgenza accademica, traducono efficacemente per tutti un tema storico di amplissima portata culturale come la civiltà etrusca e un argomento tecnico e decisamente poco attraente come il metodo dello scavo archeologico. Questo esercizio di responsabilità nella formazione e nella trasmissione della conoscenza consente di tornare al titolo del volume che evoca il viaggio di Odisseo. - 111 - SALTERNUM L’eroe omerico incarna nella coscienza occidentale l’avventura umana che acquista consistenza nella libertà della scelta, senza altro premio che quello della memoria degli Altri. Alla ricerca di Itaca, Odisseo sperimenta continuamente, e non senza errori, il limite insito nella natura degli uomini e, al tempo stesso, la loro capacità di resistenza che consente a ognuno la possibilità di ritrovare la soluzione del ritorno attraverso l’ausilio della propria ragione. Tra tutte le prove apparentemente insormontabili che l’eroe è costretto a affrontare, la più temibile è il miraggio dell’immortalità con cui è adescato più volte, il rischio di un salto senza limiti in un mare infinito e a se stante, che riesce a stornare non perdendo mai di vista la prospettiva della terra: il suo posto tra gli uomini nella storia concreta in cui gli è toccato di vivere e agire, al di fuori della quale è solo ‘Nessuno’. La vera morte è la diserzione dagli Altri, la rinuncia alla storia concepita come esercizio integrato della conoscenza e dell’azione all’interno del proprio universo sociale. Di qui il titolo Le rotte di Odisseo con cui si è scelto di chiamare la raccolta: se il viaggio per Itaca rappresenta la metafora dell’avventura di ognuno, nell’esempio concreto del suo percorso Bruno d’Agostino ha dimostrato che l’archeologia non è materia separata, sottratta alla responsabilità dall’alto di una torre d’avorio o nella penombra di una biblioteca distante: è invece uno strumento per capire le regole del gioco, per ricostruire e, se serve, denunciare la storia. Per realizzare questo obiettivo l’A. ha continuamente rinnovato le proprie domande, sperimentando vie nuove attraverso il confronto con altre scuole e altre discipline scientifiche: al tempo stesso, la sua attività non si è mai separata dall’impegno civile, dall’idea che l’archeologia, per essere utile, debba porsi al servizio di una comunità democratica. In un paese come il nostro assuefatto alle disillusioni e troppo spesso refrattario come un muro di gomma, questo impegno ha saputo produrre risultati concreti, creando le condizioni per una progettualità che si è poi mirabilmente attuata nel tempo: è il caso, ad es., del progetto di archeologia urbana a Napoli (Sez. 6. 27) che, all’indomani del terremoto, mobilitò le coscienze delle migliori forze culturali cittadine. Quella che allora sembrò una battaglia dal sapore dell’utopia oggi si è realizzata nella dimensione della pianificazione urbanistica, in risultati di straordinaria importanza che riqualificano l’immagine della città e sono sempre più cari ai suoi abitanti. Basti pensare al recupero del teatro romano nel cuore del centro storico e agli scavi della metropolitana che riscoprono la città antica mentre dotano la città moderna di un’infrastruttura essenziale alla sua vivibilità: solo pochi giorni fa si è inaugurata la stazione di Via Toledo e visitandola si percepisce immediatamente il cammino fatto grazie all’impegno civile, alla competenza scientifica e all’intelligenza generosa di chi ha saputo credere nel respiro di un progetto. - 112 - GABRIELLA D’ HENRY MARIA LUISA NAVA, Stele daunie da Trinitapoli, «Daunia Archeologica», «Materiali. 3», Claudio Grenzi Ed., Foggia 2011, 143 pp., 156 ill. b. e n. N el 2011 è uscito, nella collana «Daunia Archeologica» fondata da Marina Mazzei, archeologa prematuramente scomparsa, e redatta a cura dell’editore Claudio Grenzi, un bel catalogo sulle stele daunie di Trinitapoli, la cui autrice, Maria Luisa Nava, è stata recentemente Soprintendente Archeologa a Salerno. La veste editoriale, molto elegante, porta in copertina alcune immagini fotografiche delle stele. A questo catalogo hanno contribuito, con tutta la carica positiva che anima la ‘società civile’ in Italia, i Soci del’Archeoclub di Trinitapoli, i quali hanno recuperato dal terreno dell’antica Salapia moltissimi frammenti scultorei, salvandoli da sicura rovina. Tanto che, come dice la nota riportata sul retro di copertina, il complesso del materiale litico trovato nell’area di Salapia è il più numeroso nell’ambito della Daunia, dopo la collezione di stele conservata nel Museo di Manfredonia. Dopo la prefazione della Nava, vi è un lungo capitolo di Francesco Rossi, giovane collaboratore della studiosa, che illustra con grande attenzione l’insediamento preromano di Salapia. Segue un lungo excursus sulle stele, che la Nava giustamente inquadra in un fenomeno di ‘megalitismo antropomorfo’, il quale interessa diverse regioni del Mediterraneo dal III millennio fino al V secolo a. C. Le stele di Salapia si addensano maggiormente nell’arco del VII e VI secolo a. C. e sono per la maggior parte di produzione locale, anche se alcuni pezzi sembrerebbero provenire da Siponto, le cui officine appaiono strettamente collegate a quelle di Salapia. Le stele si configurano come parallelepipedi allungati, che dovevano essere infissi nel terreno da uno dei due lati corti, a rappresentare la figura umana; sul lato corto superiore sono indicate le spalle, che vengono rappresentate più e meno arrotondate e, in quelle più antiche, appena sollevate rispetto al collo, che negli esemplari più recenti viene di molto sopravanzato. Le braccia, coperte di guanti, vengono raffigurate sia nelle ‘stele con armi’ - così chiamate per la presenza, oltre alla decorazione geometrica, di una spada - che nelle ‘stele con ornamenti’, dove è evidente la preponderanza di una ricca decorazione. A volte sulle stele sono presenti anche dei rilievi che la studiosa chiama di ‘decorazione secondaria’, ad esempio delle cacce, o delle processioni rituali. Altri fenomeni scultorei consistono nelle teste ‘aniconiche’ (prive di immagine), che dovrebbero essere riferibili alle stele, anche se solo in un caso la testa è stata rinvenuta attaccata al corpo, e nel complesso di scudi convessi appoggiati sopra una colonnina, che la studiosa definisce ‘scultura geometrico-astratta’. Dopo alcune tabelle riassuntive ed una ricca bibliografia, ha inizio il Catalogo, fornito di ottime fotografie e seguito da una bibliografia specifica. Mi è sembrata fondamentale l’osservazione della Nava che questi monumenti non vogliono rappresentare una realtà, ma vogliono soltanto denotare un ‘tipo’ (esempio: madre, guerriero) e sono totalmente - 113 - SALTERNUM ideologizzati; anzi, l’evoluzione tipologica di questi monumenti porta ad un processo di astrazione e schematizzazione radicale. Stilisticamente, si può notare che i pezzi più antichi sono decorati da un’incisione superficiale, mentre i pezzi più recenti recano una decorazione quasi ad intaglio. Fig. 1 - (Cat. 020). Parte superiore laterale di stele con ornamenti di tipo IV, lato B (35 x 29.5 x 7.6 cm). Fabbrica di Salapia. A mio parere, si deve ringraziare l’amica Marilì Nava per la complessa ed approfondita pubblicazione di questi singolari monumenti, di cui lei aveva scritto anche precedentemente, tanto che oggi la si può considerare la maggiore esperta; e questo volumetto stimola all’approfondimento della ricerca nel campo della scultura litica di età preromana. Fig. 2 - (Cat. 0121). Parte centro-inferiore di stele con armi di tipo V B, lato A (106x 73 x 10 cm). Fabbrica di Salapia. - 114 - GABRIELLA D’ HENRY CARMINE PELLEGRINO - AMEDEO ROSSI (a cura di), Pontecagnano I,1. Città e campagna nell’agro Picentino (gli scavi dell’autostrada 2001-2006), Edizioni Luì, Chiusi (Siena) 2011, pp. 303, 142 ill., 3 tavv. f.t.; CD-ROM. I l volume Pontecagnano I,1 – città e campagna nell’agro Picentino (gli scavi dell’autostrada 2001-2006), redatto a cura di Carmine Pellegrino ed Amedeo Rossi, può considerarsi un esempio di come la collaborazione di Enti Statali, Istituti di Ricerca ed Imprese possa portare ad esiti estremamente soddisfacenti. Come dice nella prefazione del libro Giuliana Tocco, allora Soprintendente ai Beni Archeologici di Salerno, l’indagine archeologica preliminare alla realizzazione della terza corsia sull’Autostrada A/3 Salerno – Reggio Calabria, nel tratto coincidente con il territorio del comune di Pontecagnano, si rese necessaria a causa delle emergenze antiche che da decenni venivano messe in luce nella zona. E la Soprintendenza, lodevolmente, attivò una convenzione con l’Università di Salerno e con l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, che si suddivisero l’incarico dell’esplorazione: mentre l’Orientale lavorava nel settore nord-occidentale dell’area, l’Università di Salerno rivolgeva la sua ricerca al settore sud-orientale. Dirò subito che, a mio parere, mentre si conosceva già molto sulla necropoli dopo decenni di scavi e di ricerche (diversi volumi sono stati pubblicati sull’argomento), quello che si è potuto rivelare sull’abitato antico è addirittura sconvolgente. Gli archeologi che hanno diretto lo scavo si sono avvalsi, per alcune questioni specifiche, della collaborazione di colleghi: Paola Aurino per la preistoria, Monica Viscione per il sistema difensivo del V e del IV secolo a. C., Teresa Cinquantaquattro per la stanziamento romano di Picentia, Maria D’Andrea per la ceramica a vernice nera di età repubblicana, Stefania Siano per la ceramica di età imperiale. Per il resto, la massa del lavoro è stata suddivisa tra Carmine Pellegrino, che ha parlato del contesto cronologico e delle varie fasi del’abitato antico, ed Amedeo Rossi che si è occupato prevalentemente del paesaggio agrario, dei percorsi stradali e dell’organizzazione dello spazio urbano. L’ultimo capitolo, infine, è dedicato alle metodologie ed analisi integrate, che consistono in: foto-interpretazione aerea (A. Rossi); geoarcheologia (V. Amato); analisi polliniche (E. Russo Ermolli, L. Di Pasquale e G. Di Pasquale); analisi paleo-ambientali (G. Aiello e D. Barra). La suddivisione cronologica dell’abitato di Pontecagnano è stata dagli autori precisata in fasi: la fase I riguarda la preistoria; la fase II si riferisce al IX secolo a. C., fino al terzo quarto dell’VIII; la fase III va dall’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C.: alla fine del VI-inizio V secolo; la fase IV si occupa del V secolo a. C.; la fase V è datata al IV-III secolo a. C.; la fase VI si riferisce al II-I secolo a. C.; la fase VII spazia dal I secolo al V-VI secolo d. C. Illuminante per poter seguire lo scorrere degli avvenimenti relativi all’abitato di Pontecagnano è il capitolo ottavo, intitolato Pontecagnano e l’agro Picentino – dinamiche di occupazione e di sviluppo territoriale, a cura di C. Pellegrino. Dopo una puntualizzazione geografica del territorio, del plateau terrazzato su cui si sviluppa la città etru- - 115 - SALTERNUM sca e l’insediamento romano di Picentia, delle depressioni fluviali che bordavano il plateau, vengono descritte puntualmente le sette fasi di frequentazione del sito, che mi sembra interessante riprendere per sommi capi. La fase I, della preistoria, è caratterizzata da sporadici rinvenimenti, comunque legati alle fonti idriche, sia del Neolitico Recente (facies Serra d’Alto e DianaBellavista) che dell’Eneolitico (facies Gaudo e cultura di Laterza): rinvenimenti, comunque, di origine funeraria, provenienti da qualche nucleo insediativo posto in alto; il Bronzo Recente è presente con resti di capanne, anch’essi legati a corsi d’acqua. Si può dire che, in questo periodo, gli abitati si distribuiscono ampiamente nella piana, privilegiando le pendici, e si dispongono a controllo delle vie di penetrazione, interessando anche le zone costiere, con conseguente inserimento in un sistema di traffici. La fase II è caratterizzata dalla nascita dell’insediamento villanoviano, incentrato, con ogni probabilità, sul plateau centrale, data la disposizione delle necropoli all’intorno di questo plateau, denotando un iniziale progetto di pianificazione. Ma, oltre all’ipotetico stanziamento, ce ne doveva essere un secondo in località Pagliarone, collegato ad un’ulteriore necropoli, che probabilmente si estendeva in un luogo pianeggiante alla confluenza di due fiumi. La fase III, che copre un tempo dall’ultimo quarto dell’VIII secolo alla fine del VI secolo a. C., è particolarmente importante. Essa è caratterizzata da un abbandono dei sepolcreti dell’Età del Ferro e dallo sviluppo di sepolcreti nuovi, più a ridosso della zona dell’abitato, zone rese fruibili da opere di irreggimentazione e controllo delle acque. Una necropoli impiantata su una terrazza inferiore del plateau nella zona di piazza Risorgimento ha un carattere particolare per la presenza di un nucleo gentilizio (si vedano le ‘tombe principesche’ nn. 926 e 928). Alla prima metà del VII secolo risale la più antica documentazione dell’area dell’abitato, con il rinvenimento di resti di capanne, di pozzi e di una fornace, il tutto organizzato attorno ad uno spazio libero, che con ogni probabilità sarà il centro politico della città. Già si può ipotizzare la spartizione dello spazio urbano lungo due strade che forse già esistevano e che attraversano il plateau da Nord-Ovest a Sud-Est (la’ plateia sud’) e da Nord-Est a Sud-Ovest (la ‘strada Q’). Ciò presuppone la presenza di un’autorità politica in grado di imporre una strategia unitaria. Un ulteriore salto di qualità nel processo di urbanizzazione avviene tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a. C.: si può notare una ripartizione funzionale degli spazi, con un settore che viene destinato all’artigianato. Nel versante occidentale vengono fondati, agli inizi del VI secolo a. C., due santuari: uno in località Pastini, in ambiente lacustre, dedicato ad una divinità femminile di carattere ctonio, legato anche alla fertilità ed al cambiamento di status (LUAS?), e l’altro nella cosiddetta area pubblica, dedicato ad Apollo: le dediche a questo dio sono in carattere greco ed in dialetto acheo di Poseidonia, cui si aggiunge, però, un’iscrizione etrusca con il nome MANTH, che si riferisce ad una divinità etrusca assimilata ad Apollo. Questo secondo santuario ha certamente anche una forte valenza politica. La fase IV si svolge in uno spazio di tempo da circa un secolo: il V, quando i limiti dell’abitato vengono ridefiniti a fortificati e gli spazi urbani pianificati mediante strade ortogonali in isolati regolari. La ricostruzione virtuale del perimetro urbano ipotizzato si realizza in una forma quadrangolare, che tiene conto in qualche misura sia dei principi della regolarizzazione delle città magno-greche che del rituale legato all’origine etrusca della città. Comunque, questa ricostruzione prevede, come per la colonie greche (per esempio, la vicina Poseidonia), la presenza di plateiai e di stenopoi. In questa ristrutturazione, si è comunque tenuto conto della preesistenza dei due tracciati ortogonali che probabilmente risalgono addirittura alla Prima Età del Ferro, e della localizzazione dell’area pubblica. Per quanto riguarda il muro di fortificazione, di cui resta soltanto la trincea di fondazione, doveva essere dello spessore di un paio di metri; all’interno di esso, un pozzo contenente una brocca potrebbe rappresentare l’aspetto rituale del rito di fondazione di origine etrusca, come un probabile cippo che potrebbe limitare, all’interno delle mura, la zona abitativa. In conclusione, la ristrutturazione consisterebbe in una vera e propria rifondazione della città, orgogliosa della sua identità etrusca. Tale operazione doveva essere scaturita da cambiamenti di equilibri sociali, cambiamenti che si possono cogliere dall’esame delle necropoli. Nello stesso periodo, anche il territorio suburbano viene risistemato. Nel corso del VI secolo, i nuclei funerari esistenti si vanno esaurendo, e si cominciano a trovare le necro- - 116 - GABRIELLA D’ HENRY poli suddivise in gruppi a carattere familiare in lotti pianificati, con evidenti segni di ostentazione di prestigio, e con una notevole diversificazione delle sepolture. E’ evidente la ricca presenza nei corredi di ceramica figurata attica. In un nucleo particolare, sito al margine meridionale della necropoli di piazza Risorgimento, vi è una forte presenza di iscrizioni etrusche con formule onomastiche varie, che denotano una notevole presenza straniera. La fase V comprende il IV ed il III secolo a. C. Mentre nel V secolo a. C. la vita dell’abitato non era particolarmente percepibile, a parte il particolare dell’aumento delle superfici coperte nell’ambito dei singoli edifici, le informazioni sulla nuova fase di ristrutturazione che si data dalla fine del V secolo sono più evidenti: inizia la fase della cosiddetta ‘sannitizzazione’ dell’insediamento. All’inizio, le sepolture dei defunti armati di lancia e cinturone, connessi certamente con il mondo del mercenariato, si inseriscono nei contesti sepolcrali senza modificarne l’organizzazione; ma poi cominciano a svilupparsi nuclei funerari che non si adeguano all’esistente. Questo per quanto riguarda le necropoli; per quel che riguarda l’abitato, invece, le ristrutturazioni avvengono nel rispetto del precedente assetto urbanistico. Il muro di cinta viene ricostruito, ma non muta la sua posizione, ed anche la ‘fascia pomeriale’ viene rispettata. E’ rispettata la destinazione pubblica dell’area di via Bellini – via Verdi, dove viene realizzato un nuovo grosso edificio, probabilmente una stoà; il santuario di Apollo viene rinnovato nelle sue terrecotte architettoniche, e ricompaiono le dediche ad Apollo in alfabeto greco-acheo di Poseidonia, forse con un’accentuazione del carattere greco piuttosto che quello etrusco del dio. Nel santuario di via Pastini, il culto resta dedicato ad una dea femminile a carattere ctonio, alla quale vengono offerte statuette di dea in trono. Nell’abitato, le case del V secolo vengono demolite e ricostruite, occupando in qualche caso lotti più estesi. Nell’area extraurbana, alcuni sepolcreti vengono sistemati lungo alcuni percorsi stradali, ed in essi l’uso dell’incinerazione, sia primaria che secondaria, è in aumento; uno di questi sepolcreti, piuttosto distante dall’abitato, sembrerebbe riferirsi ad un nucleo rurale: in esso i segni di ostentazione del prestigio sono evidenti, quali l’adozione di tombe a camera o la ricchezza di corredi con la presenza di ceramica figurata di fabbrica pestana. Siamo così giunti alle ultime fasi dell’insediamento etrusco-sannitico. Un nuovo intervento viene realizzato sulla fortificazione, che consiste nel rialzamento dell’aggere e nella ricostruzione del muro di sub-aggere, allineato a quello più antico, conferma le prerogative giuridiche e religiose attribuite alla linea delle fortificazioni. Ma il rilassamento di questo vincolo è rivelato dalla presenza di vitigni nell’area ‘pomeriale’. Negli isolati urbani continua una certa attività edilizia, anche se è evidente una ruralizzazione del sito. Nel santuario di Apollo, un carattere salutare del culto del dio denota l’influenza culturale romana che ormai si diffonde in tutti i centri dell’Italia meridionale. Nella fase VI, già dalla metà del II secolo a. C. inizia un irreversibile processo di destrutturazione dell’insediamento, con la chiusura dei santuari, abbandono delle case, chiusura dei pozzi; siamo ormai nella città di Picentia. Una qualche continuità rimane nell’orientamento degli isolati e delle strade. Una effimera fase di ristrutturazione avviene nel II secolo a. C., con l’inserimento della città nel territorio di Salernum, nel contesto delle riforme agrarie. La via RegioCapuam del 132 a. C. recupera la viabilità esistente, ma all’interno dell’abitato essa diventa decumanum, mentre i cardines sono leggermente ruotati rispetto agli stenopoi; l’abitato si restringe alla fascia lungo il decumanum. In questo contesto c’è un rinnovo di popolazione nell’Agro Picentino. Ormai tutte le iscrizioni sono romane. Picentia fu distrutta dagli Italici durante la Guerra Sociale, e ciò si può vedere dalle tracce di incendio e dalla chiusura dei pozzi. Nella fase VII sembra documentata una parziale ripresa all’inizio dell’Impero, ma ciò che resta della città viene danneggiato sia dal terremoto del 62 d. C. che dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Dopo questi avvenimenti, la campagna si ristruttura con allineamenti diversi da quelli antichi, l’abitato si suddivide in due nuclei, uno lungo il decumano e l’altro alla foce del Picentino; quindi, restano solo le fattorie. Grazie, pertanto, all’archeologia preventiva, all’abilità amministrativa di Enti ed Istituti di Ricerca, ed alla capacità di intuizione e di approfondimento nella ricerca di giovani studiosi, possiamo avere sotto gli occhi un quadro diacronico di un insediamento antico, che ha dimostrato la sua importanza strategica e la sua ricchezza culturale. - 117 - MONICA VISCIONE MATILDE ROMITO, Salerno, ‘Provincia Archeologica’. La politica culturale dell’amministrazione Provinciale dal decennio prebellico al dopoguerra, Edizioni Pandemos, Paestum 2011, 286 pp., ill. b. e n. I l nuovo libro di Matilde Romito si pone l’obiettivo di descrivere la politica culturale dell’Amministrazione Provinciale di Salerno nel lungo arco cronologico che va dal decennio prebellico al dopoguerra, attraverso il racconto del lavoro svolto dal Museo di Salerno fin dalla sua istituzione. L’Autrice ha sapientemente esaminato l’Archivio Storico dei Musei Provinciali del Salernitano per contestualizzare i reperti attraverso la ricostruzione della sequenza storica del loro ingresso nel Museo; ogni capitolo, infatti, fa riferimento all’Archivio, la cui analisi, con il supporto degli archivi grafici e fotografici, ha permesso alla Romito una puntuale ricostruzione delle scoperte e dei recuperi del Museo di Salerno. Il resoconto che deriva da questo puntuale lavoro è un racconto affascinante della nascente archeologia e delle esperienze esaltanti legate alle prime scoperte effettuate nella provincia. Emerge così già dalle prime pagine che il fondamento della politica culturale delle amministrazioni provinciali che si sono succedute è fare del Museo e del suo Archivio un Luogo che in modo esaustivo riuscisse a descrivere e a far apprezzare al grande pubblico, e non solo agli specialisti, la cultura/le culture che hanno determinato il formarsi e lo sviluppo della nostra provincia. Non va dimenticato che questo atteggiamento culturale ha avuto come pro- tagonista proprio la dottoressa Romito, che per lungo tempo è stata alla Direzione dei Musei Provinciali: quattro Musei Archeologici - Salerno, Nocera Inferiore, Oliveto Citra e Padula -, la Pinacoteca Provinciale di Salerno, la Raccolta di Arti Applicate ospitata nella Villa De Ruggiero di Nocera Superiore, il Museo della Ceramica in Raito di Vietri sul Mare, il Centro Studi ‘Raffaele Guariglia’. Il racconto, oltre che affascinante, è dettagliato, ricostruito attraverso una attenta lettura degli atti e dei documenti; incrociando i dati dell’Archivio con quelli dell’Inventario delle acquisizioni, che nel 1931 contava già 2146 reperti, ogni indicazione topografica è stata dall’Autrice focalizzata in relazione all’azione svolta dal Museo e agli scavi eseguiti sull’intero territorio provinciale fino agli anni ‘70 del secolo scorso. Il racconto è anche appassionato quando ricostruisce le emozionanti scoperte fatte a partire dalle indagini svolte a Fratte dal 1927, i cui ritrovamenti eccezionali costituirono il primo nucleo del Museo. Di grande interesse è la rilettura critica dei documenti conservati nell’Archivio del Museo che contestualmente allo ‘scavo dei vecchi scavi’ (come lo chiama l’Autrice) dei materiali conservati e talvolta esposti ha permesso alla Romito di aggiungere nuovi elementi di conoscenza per molti siti. Un esempio, tra le tante ricostruzioni presenti nel volume è la tomba XIII/1929 di Oliveto Citra, per la quale il restauro del corredo nel 1992 consentì un primo riesame scientifico, che ne ha permesso una adeguata edizione. Ancora, l’esame del prezioso taccuino di - 119 - SALTERNUM Venturino Panebianco ha consentito alla Romito la puntuale ricostruzione dei 17 contesti tombali rinvenuti a Palinuro nell’estate del 1939, consentendo di articolare e particolareggiare l’analisi e la definizione del primo nucleo della necropoli arcaica di Palinuro. Il riesame del fascicolo dell’Archivio pertinente a Roscigno ha permesso la ricontestualizzazione di alcune ambre figurate pertinenti ad una sepoltura indagata precedentemente allo scavo della più famosa ‘tomba principesca’ nel 1938; in questo caso la rilettura del fascicolo dell’Archivio storico e dell’inventario dei reperti ha permesso all’Autrice di rettificare le indicazioni apposte accanto ai reperti, specificandone le circostanze e i tempi di acquisizione al Museo di Salerno. Questa revisione contestuale dei dati di archivio ha permesso inoltre il recupero della documentazione relativa a scoperte e scavi di siti non noti alla lettura archeologica: come la necropoli romana di Sicignano degli Alburni, per la quale l’A. offre una dettagliata descrizione ed una puntuale analisi. Dal testo vengono anche nuovi spunti di ricerca riguardo alla organizzazione del territorio compreso tra Salerno e Pontecagnano dopo il III sec. d. C., grazie alla notizia del rinvenimento nel deposito del Museo di ceramica medievale che getta nuova luce sulle dinamiche insediative dopo l’abbandono delle ville marittime di età imperiale lungo la costa tra Salerno e il Picentino. - 120 - FELICE PASTORE GIUSEPPE COLITTI - Il tamburo del diavolo. Miti e culture del mondo dei pastori, (Prefazione di Alessandro Portelli), Donzelli Editore, Roma 2012, 167 pp. I l bel libro di Giuseppe Colitti è scaturito dalla sua passione per ‘immagazzinare’ la storia orale attraverso le testimonianze dei pastori del Vallo di Diano, del Cilento e della Basilicata che avevano vissuto il secolo scorso, con tutte le miserie, le contraddizioni e le trasformazioni che lo hanno contrassegnato. Il primo capitolo - quello forse più legato al titolo, che si riferisce al rumore dei tuoni in aperta campagna - si apre su questo mondo in cui la natura, nel silenzio dei pascoli o nel buio delle notti passate accanto a un fuoco o in una grotta, coinvolge presenze visibili (i lupi) e invisibili (gli spiriti). Nei capitoli successivi, la voce dei protagonisti ricostruisce le asprezze della vita pastorale e mette a nudo le condizioni di lavoro arcaiche e medievali, nella miseria e nella fame che attanaglia le loro vite. Una condizione molto diversa da quella descritta nella letteratura del mondo arcadico. La pastorizia, unica fonte di sopravvivenza in molte aree meridionali, ancora più dura nelle zone collinari dove la transumanza era obbligata dall’asprezza dell’inverno, rappresentava un’economia di sussistenza senza possibilità di miglioramento futuro. La mancanza di istruzione spingeva a diventare pastori fin dalla tenera età, eliminando ogni aspettativa di mobilità sociale. L’ignoranza, poi, rendeva i pastori facile preda di ogni abuso e ingiustizia. Un mondo che nessuno dei protagonisti rimpiange. L’Autore, oltre alla suggestiva descrizione del mondo pastorale, con i suoi risvolti positivi e negativi, ci parla anche dell’attività agricola che l’affianca. Un’attività organizzata in modo rudimentale, che si serve solamente di nude braccia per arare e letame per concimare. Dai racconti dei vecchi pastori scaturiscono forme di solidarietà spontanea (alla morte di una pecora ad opera di un lupo, le altre famiglie si offrivano di comprare parte della carne dell’animale per condividerne la perdita). Un mondo chiuso che inizierà a perdere i propri valori con l’emigrazione, prima transoceanica (Americhe) e poi europea (Svizzera e Germania). E’ l’uscita da una condizione di miseria per entrare in una nuova e diversa condizione, sempre intrisa di miseria e sacrifici, ma che darà inizio alla fase della rottura con il mondo agropastorale. Le rimesse degli emigranti consentiranno alle loro famiglie di vivere una condizione migliore: alcuni avvieranno agli studi i loro figli, altri apriranno piccole aziende agropastorali, altri occuperanno un posto nella Pubblica Amministrazione locale. Il libro di Colitti costituisce un testo prezioso per ricostruire la storia locale attraverso il racconto dei suoi protagonisti, fornendo non solo la base della ricomposizione di un’identità locale dispersa, ma la restituzione e la conservazione di una memoria che altrimenti sarebbe andata perduta. - 121 - FELICE PASTORE Eventi Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d'Henry Salerno, 20 Giugno 2012 A poche settimane dall’ottantesimo compleanno della dott.ssa Gabriella d’Henry (28 maggio), Direttore scientifico della Rivista ‘Salternum’ Semestrale di informazione storica, culturale e archeologica a cura del Gruppo Archeologico Salernitano - il 20 giugno 2012, alle ore 18.30, nell’Aula Magna dell’Istituto scolastico ‘G. Vicinanza’ di Salerno, ci siamo ritrovati in molti, insieme ai figli Anna e Antonio, a fare gli auguri alla festeggiata. Abbiamo voluto organizzare per l’occasione una serata culturale in suo onore, a cui hanno partecipato come relatori i proff.ri Angela Pontrandolfo e Luca Cerchiai dell’Università degli Studi di Salerno, amici cari di Gabriella. Abbiamo pensato di invitare loro, in quanto hanno condiviso con Gabriella i più bei periodi che hanno accompagnato la loro luminosa carriera universitaria, quelli delle campagne di scavo e dei lavori editoriali che hanno condotto insieme. Angela Pontrandolfo, che per prima ha preso la parola, ha ricordato il senso di umanità e di amicizia che contraddistingue Gabriella nei rapporti interpersonali e la grande, reciproca stima che le ha sempre unite. Un aspetto che mi ha molto colpito è stato quando la prof.ssa Pontrandolfo ha messo in correlazione il mito di Europa con Gabriella, con il suo peregrinare attraverso l’Italia fino ad arrivare presso i nostri lidi. Il paragone mi è sembrato molto appropriato: come Europa - la fanciulla rapita da Zeus, re degli dèi, che per averla si era trasformato in toro - attraversa i continenti fino ad arrivare sotto un albero, in quella dolce terra che è l’isola di Creta, e lì consuma il suo amore con il rapitore, così Gabriella, rapita alla sua dolce terra natía, il Friuli - Venezia Giulia, attraversando tutta l’Italia, arriva fino a noi, in Campania, e qui trova il sole, l’amore e la gioia di vivere la bellezza e le meraviglie dei luoghi magno-greci. E, una volta andata in pensione, Gabriella, che ha dedicato una vita allo studio del mito greco, in particolare ai vasi attici a figure rosse e nere dei maggiori ceramografi greci, continua un impegno profondo per far trionfare quella cultura di cui oggi il Gruppo Archeologico Salernitano si avvale a piene mani. Il prof. Luca Cerchiai, invece, ha parlato del suo primo incontro con Gabriella e dell’arricchimento umano e scientifico che ne ha avuto, ‘abbeverandosi’ sempre alla sua immensa fonte culturale. Il suo intervento non a caso si è incentrato su un vaso greco, studiato approfonditamente da Gabriella, che rappresenta il mito di Filottete, un famoso arciere originario della penisola di Magnesia, che possedeva le frecce e l’arco di Ercole, armi micidiali per poter vincere le battaglie più difficili. Fig. 1 - 123 - SALTERNUM Fig. 2 - Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry. La Dott.ssa Gabriella d’Henry e Felice Pastore al termine della serata. Fig. 3 - Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry. Il pubblico in sala. Anche L. Cerchiai ha ringraziato e si è complimentato con l’Associazione per aver organizzato questa serata in onore della dott.ssa Gabriella d’Henry. Il Gruppo Archeologico Salernitano vuole esprimerLe la propria riconoscenza per averne ben guidato lungo sentieri non sempre facili il cammino culturale, fino al raggiungimento di livelli sempre più alti di immagine e di visibilità. A conclusione della serata, l’Associazione ha annunciato l’imminente pubblicazione di un volume di scritti a Lei dedicati - Miti e popoli del Mediterraneo antico. Scritti in onore di Gabriella d’Henry (a cura di Chiara Lambert e Felice Pastore) – per il quale sono stati invitati studiosi affermati che l’hanno conosciuta negli anni giovanili e … giovani studiosi che l’hanno conosciuta negli anni più avanzati, per rendere omaggio, con gratitudine, alla studiosa e all’Amica. - 124 - MARIA LUISA NAVA Museo del Sannio di Benevento. Nuovo allestimento della ‘Sezione Longobarda’ I l complesso di Santa Sofia di Benevento, che comprende anche il chiostro nel quale, come è ben noto, è ospitato il Museo Provinciale del Sannio, è stato iscritto il 25 giugno del 2011 nella World Heritage List dell’Unesco, come sito seriale de ‘I Longobardi in Italia’. Il riconoscimento ufficiale è stato anche l’occasione per la Provincia di Benevento per effettuare un vero e proprio restyling dell’esposizione dedicata ai Longobardi, disposta nelle 5 sale del lato nord-occidentale del chiostro. La raccolta longobarda beneventana è essenzialmente composta da epigrafi che provengono dall’area urbana di Benevento e che sono confluite nel Museo nel corso del tempo, oltre a sculture (capitelli, pulvini e rilievi in marmo e pietra), ed ai reperti provenienti dai ritrovamenti delle necropoli di località Pezza Piana e di località Epitaffio. Si tratta di una raccolta che si è formata soprattutto nei primi decenni del ‘900, a seguito di scoperte fortuite dovute sia ai lavori che hanno interessato il tessuto urbano della città, che vide tra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo una forte espansione edilizia, sia ad attività agricole che nel 1927 misero casualmente in luce il sepolcreto. Le conseguenze delle modalità di acquisizione della collezione longobarda, pertanto, non hanno consentito di conservare precisa memoria delle provenienze dell’apparato scultoreo ed epigrafico ed hanno altresì causato, purtroppo, la perdita delle informazioni riguardanti la composizione dei complessi funerari. L’allestimento della sezione longobarda del Museo del Sannio, approntata inizialmente alla metà del secolo scorso nella loggetta della Rocca dei Rettori1, quindi, si era dovuta basare esclusivamente sulla presentazione dei reperti, senza aver la possibilità di meglio identificarne i contesti specifici di provenienza. Sino al presente anno, poi, il Museo proponeva le sale organizzate secondo criteri espositivi che, pur risalendo al 1999, riflettevano ancora principi museografici di tradizione ottocentesca, ormai superati, che vedevano le collezioni esibite sulla base della tipologia dei reperti. Il nuovo allestimento proposto, pur dovendosi basare ancora su criteri tipologici, stante - come si è sopra accennato - la totale mancanza di notizie ed informazioni sui contesti di appartenenza dei singoli reperti, è stato invece improntato ad una presentazione tematica dei materiali, che tenesse conto della loro originaria funzione e significato nell’ambito della cultura e della società longobarda. Preliminarmente al riallestimento delle sale, tuttavia, si sono resi necessari la pulizia ed il restauro dei reperti2, molti dei quali (due epigrafi di grandi dimensioni – entrambe a nome di un Gaudiosus -, un grande sarcofago con coperchio non pertinente, la fronte di un sarcofago a colonne) in passato erano stati collocati negli ambienti del Museo, chiostro compreso, senza neppure il più elementare e doveroso lavoro di pulizia e di consolidamento. - 125 - SALTERNUM libere – le iscrizioni che, diacronicamente, dal IV al VI sec. d. C., esemplificano questo passaggio, introducendo senza soluzioni di continuità storica il visitatore al mondo della Langobardia Minor. In questa come nelle restanti sezioni riallestite si è inoltre scelto di proporre, accanto alle didascalie in due lingue, anche l’immagine del reperto, al fine di facilitarne il riconoscimento e la lettura, non sempre agevole per chi non abbia dimestichezza con gli oggetti antichi e con le epigrafi in particolare3. La sezione longobarda vera e propria, poi, è contraddistinta anche da scelte cromatiche e visuali, al fine di sottolineare la caratterizzazione specifica degli ambienti ad essa dedicate, distinguendoli da quelli della restante esposizione museale; la forte cromia delle pareti (rosso intenso, alternato a grigio ferro) ha consentito inoltre di far emergere dalle pareti, rendendoli meglio leggibili, i reperti lapidei, in marmo e in calcare, i cui colori prevalenti (dal bianco al grigio chiarissimo) in precedenza si mimetizzavano, confondendosi con la colorazione dell’intonaco di fondo. La prima sala, di modeste dimensioni, si apre con un’introduzione generale sulla presenza dei Longobardi in Italia, illustrata in due grandi pannelli Per ottimizzare questo lavoro di ricomposizione e di ridistribuzione allestitivi, la Direzione Scientifica del Museo ha voluto la collaborazione di esperti del settore: Chiara Lambert, dell’Università di Salerno, e Marcello Rotili, della Seconda Università di Napoli. In particolare, il contributo della Prof.ssa Lambert, per la sua specifica esperienza nel campo dell’epigrafia tardoantica e medievale, è stato finalizzato soprattutto al miglior riconoscimento delle iscrizioni di età longobarda e delle sculture di questo periodo, che nel precedente allestimento risultavano commiste a reperti lapidei di differenti periodi storici e cronologici. Il nuovo allestimento, dunque, occupando i medesimi spazi e le medesime sale del precedente, si apre sulla c.d. ‘Sala dei gladiatori’ con la presentazione dei più significativi documenti epigrafici che segnano il passaggio dalla tarda età romana al primo evo antico, introducendo alle sale longobarde vere e proprie in un continuum espositivo che, avvalendosi anche di supporti didattici multimediali, sottolinea la transizione culturale dalla romanità alla cultura longobarda. Sono state quindi collocate su due pareti – in precedenza lasciate - 126 - MARIA LUISA NAVA che evidenziano la distribuzione geografica dei territori occupati, con particolare attenzione all’Italia Meridionale e al Beneventano. Un video, della durata di tre minuti e con sottofondo musicale4, presenta attraverso immagini fotografiche rielaborate graficamente l’evoluzione dello stanziamento longobardo a Benevento, dal primo insediamento, a ridosso delle mura romane, all’edificazione di chiese e monumenti e agli interventi nel tessuto urbano sino al X secolo. La seconda sala, dedicata all’esposizione delle epigrafi, esibisce i documenti più significativi, sia per i contenuti che per la composizione grafica, non priva di rimandi alla contemporanea ‘scrittura beneventana’; tra questi, un particolare rilievo assume il frammento dell’epitaffio del principe Radelgario, superstite, insieme a due altri frammenti parzialmente combacianti con questo e oggi conservati presso il Museo Diocesano, di una grande lastra marmorea contenente un ben più ampio testo in versi, andata distrutta durante i bombardamenti che colpirono Benevento nel 1943. Oltre alle didascalie, anche in questa sala un breve video fornisce notizie più dettagliate sui reperti esposti. La sala successiva, intitolata ‘I segni del potere’, illustra, attraverso i reperti della necropoli di Pezza Piana, l’abbigliamento del ceto nobiliare longobardo, con le preziose cinture per dama e cavaliere, i gioielli femminili e gli speroni maschili e le armi che costituiscono il corredo del guerriero. Tra queste, spiccano, oltre alle spathae (longsax, kurzsax e scramasax) e le punte di lancia, anche due rare franzische, asce da combattimento in ferro, tipiche dell’armamentario longobardo. L’abbigliamento della dama è poi ulteriormente illustrato da un abito, dono dell’Avv. Serena Bovio, realizzato con tessuto prodotto dai telai dell’antica tradizione di Pontelandolfo, che, nella foggia e nella decorazione, si ispira alla documentazione desunta dai frammenti di tessuto damascato rinvenuti nelle tombe principesche del periodo. La monetazione in oro, elettro ed argento emessa dai duchi e dei principi che regnarono nel Beneventano è ulteriore elemento che testimonia non solo l’importanza della zecca beneventana, ma anche i forti legami culturali dei Longobardi del Sud con l’Impero di Bisanzio, di cui assimilano e rielaborano, facendoli propri, gli stilemi iconografici. Questi concetti, oltre che dai materiali, sono illustrati anche qui da un video appositamente realizzato. Segue poi una sala dedicata alle necropoli, nella quale sono esposti sia i vasi provenienti dalla necropo- li di Pezza Piana che da quella di Contrada Epitaffio, con le croci astili in ferro e le croci in lamina aurea che contrassegnavano le sepolture dei ceti elevati. Una vetrina è poi dedicata alle ‘arti ed ai mestieri’, con strumenti, sempre da corredi tombali, che testimoniano le attività agricole ed artigianali (roncole, cesoie, coltelli in ferro). La penultima sala, intitolata ‘Immagini e parole per l’Aldilà’, poiché monumenti e documenti iscritti sono destinati a rendere visibile e perpetuare il ricordo di - 127 - SALTERNUM personaggi altolocati, presenta ancora testimonianze dalle necropoli: si tratta di un grande sarcofago in marmo adorno di semicolonne a rilievo sui lati lunghi e di una croce su uno di quelli corti, mentre sul coperchio, adattato alla cassa sottostante, sono graffite numerose croci. Nella sala è esposta anche una fronte di sarcofago romano del tipo ‘a colonne’, originariamente a 5 scomparti (III sec. d. C.), rilavorato in epoca imprecisabile. Completano la sala due grandi epigrafi - riferite in via preliminare al X sec. d. C., ma che meriteranno studi ulteriori -, con evidenti segni di reimpiego come soglia di porta. Completano l’ultima sala elementi scultorei altomedievali provenienti da edifici di culto (chiese, battisteri) o ai loro annessi (chiostri): ad una lunetta scolpita con il soggetto paleocristiano dei due pavoni che si abbeverano ad una fonte d’acqua, databile entro il VII- VIII sec. d. C., sono affiancati alcuni capitelli figurati di chiara matrice longobarda, di forma tradizionale o del tipo ‘a stampella’. Le lastre di recinzione presbiteriale, lavorate con figure geometriche o fitomorfe intrecciate, in cui è comunque riconoscibile il motivo della croce, si datano all’VIII-IX sec. d. C.; esse facevano probabilmente parte dell’arredo liturgico della cattedrale altomedievale. Allo stesso periodo vanno assegnati altri capitelli ‘a stampella’ di raffinata fattura, caratterizzati da un linguaggio maturato in ambito bizantino e nelle province orientali dell’antico impero romano, ma rielaborato in forme originali dagli artigiani locali. Anche l’esposizione di queste tre ultime sale è completata dai relativi video, che illustrano i reperti e ne commentano la funzione ed il significato. A complemento della nuova ‘veste’ museale si è provveduto inoltre a stampare una brochure, distribuita gratuitamente all’ingresso del Museo, che accompagna il visitatore nel percorso espositivo5. La sezione longobarda del Museo del Sannio è stata dunque riaperta al pubblico nel mese di aprile del corrente anno e l’inaugurazione del nuovo allestimento è stata preceduta da una promozione che si è avvalsa anche di uno spot pubblicitario, lanciato sui mezzi di comunicazione locali e regionali, oltre che sul sito Facebook che la Direzione Scientifica ha voluto venisse aperto dal Museo, al fine di modernizzarne l’immagine e consentire un rapporto più immediato e diretto con il grande pubblico. Lo spot, della durata di 45 secondi, realizzato dalla AdhocModus e ideato da Paolo Rolli, su una stimolante base musicale faceva scorrere il testo «zottone, Adelperga, Gisulfo, Arechi, Chisa, Radelgario: i Longobardi di Benevento si mettono in mostra al Museo del Sannio. La Provincia di Benevento onora i Signori della Langobardia Minor e li accoglie nel sito riconosciuto Patrimonio Mondiale dall’UNESCO». Tutti i lavori sono stati realizzati dalla Provincia di Benevento che ha usufruito di uno specifico contributo dell’Assessorato al Turismo della Regione Campania ed hanno ottenuto il plauso della Commissione Interministeriale che ha promosso il riconoscimento dei siti Longobardi nella lista dell’UNESCO. - 128 - MARIA LUISA NAVA Note ROTILI M(ario) 1963, Il Museo del Sannio, Roma, p. 44. 2 Tali operazioni sono state eseguite dalla Ditta EU&RO di Giancarlo Napoli. 3 Le problematiche connesse al riallestimento delle sale longobarde e del vestibolo con le iscrizioni tardoantiche sono state anche oggetto di una specifica Tesi di Specializzazione in Beni Archeologici da parte della Dott.ssa 1 Francesca Russo [RUSSO F. 2010/2011 (ined.), Progetto di riallestimento delle sale della ‘Langobardia minor’ del Museo Provinciale del Sannio di Benevento, Tesi di Specializzazione in Beni Archeologici, Univ. degli Studi di Salerno (Relatore: prof.ssa C. Lambert; Correlatore: Dott.ssa M. L. Nava)]. 4 Le scelte cromatiche sono state studiate di concerto con l’Arch. Paolo Rolli (AdhocModus - 129 - di Roma), al quale si deve anche la progettazione e la realizzazione tecnica di tutti i video presenti in mostra, e la Prof.ssa Lambert. 5 Al pari di tutti gli apparati didattici, la brochure è stata realizzata in italiano ed in inglese, con testi redatti da chi scrive in collaborazione con C. Lambert. PASQUALE NATELLA Un ricordo di Vittorio Bracco N on ricordo più dov’ero a fine Maggio di quest’anno quando l’1 o il 2 Giugno appresi della scomparsa di Vittorio Bracco, avvenuta il 12 di quel mese. L’animo dell’amico si fermò per un attimo, e vennero a mente giorni vicini e lontani, sottesi, però, da un tocco, una batosta in fronte, una fermata ai bordi dell’auto quando si scende e non si sa dove andare. Era nato a Polla nel Marzo del 1929 Bracco, da una antica famiglia di Liberali risorgimentali. Entrò immediatamente in lui come càpita a molti cui s’accende Vittorio Bracco improvvisa una fiamma di interessi - la passione per la cultura, il latino in particolare, e nel 1946 presentatosi da privatista al Liceo Tasso di Salerno conseguì la Maturità Classica primo fra tutti. Cominciò a peragrare per il Vallo di Diano e le balze salernitane e a soli 24 anni, nel 1953, pubblicò nelle ‘Notizie Scavi’ del Ministero della Pubblica Istruzione il resoconto di indagini epigrafiche e di monumenti teggianesi inediti. Pensiamo all’età, e al luogo di edizione, due fatti incredibili che avrebbero aperto a lui le porte dell’intera nazione ma Bracco, come molti di noi che giudicano la cultura senza luoghi deputati, non si distolse dagli impegni, e cominciò una carriera scientifica splendida, che lo vide, al pari di altri nostri umanisti, allargare gli interessi intellettuali dall’antichità classica alla medievale, dal luogo natìo alle volte indagato con accenti volutamente microanalitici ai repertori indicizzati di opere antiche o recenti, dalla storia dell’arte alla letteratura. In ciò mi ricorda un altro conterraneo di simil fatta, Pietro Ebner, il quale, dalla numismatica magnogreca di cui fu geniale interprete, trascorse al mondo classico, archeologico, filologico, al Medioevo dando del Cilento un disegno generale, e ‘particulare’, in cinque, sei volumi di migliaia di pagine. Dopo aver frequentato l’Università di Napoli, Vittorio Bracco si specializzò in Archeologia classica all’Università di Roma. Fondato sulla linea dell’avvenimento di prestigio, egli si accorse che un dato eccezionale dell‘intera vita repubblicana romana, in tutta Italia - cioè il passaggio dalla pastorizia patriarcale all’agricoltura e ai trasporti per centri urbani e rurali - era rimasto senza commenti, e studiò il lapis Pollae che di esso era testimone indelebile, elogio epigrafico che stava a due passi da casa! L’iscrizione rendeva conto d’una via, costruita dal console Tito Annio nel 153 a. C., e che dal Bracco fu chiamata Annia, appellativo che tenne divisi gli studiosi, ma che ebbe conferma in un miliario della stessa strada in Calabria, ove il console era espressamente ricordato come il promotore. Dopo aver molte volte affrontato il medesimo argomento, lo studioso partecipò pienamente alle attività dell’Unione Accademica Nazionale, che è un Istituto simile a quello mommseniano germanico del CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum) e che produce fascicoli epigrafici di singole regioni italiane. E’ stato in tale campo che il nome di Bracco ha assunto valenza internazionale, giacché con la raccolta di tutte le iscrizioni - 131 - SALTERNUM romane (comprese le false) di Salerno (1981) e della Valle del Sele e del Tànagro (1974), completate da quelle di Volcei per la Forma Italiae (1978), abbiamo il quadro completo di uomini e donne che vivificarono il tempo della romanità in provincia di Salerno, romanità e latinità che, tramite Vittorio Bracco, arricchiscono il tempo universale della conoscenza. - 132 - FELICE PASTORE Giornata di Studio a Polla nel ricordo di Vittorio Bracco I l Gruppo Archeologico Salernitano, nell’ambito delle Giornate Nazionali di Archeologia Ritrovata, manifestazione organizzata dai Gruppi Archeologici d’Italia che si svolge ogni anno nel secondo fine settimana di Ottobre sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e del Ministero dei Beni Culturali ha voluto dedicare una delle due giornate (sabato 13 ottobre c.a.), alla memoria di Vittorio Bracco, lo studioso scomparso alcuni mesi fa (maggio 2012). La manifestazione si è svolta a Polla, luogo natio del illustre filologo. Nella mattinata un folto pubblico Fig. 1 di appassionati e studiosi si è ritrovato nel borgo San Pietro, davanti al monumento che conserva il Lapis Pollae, una lastra calcarea epigrafata in cui il costruttore della strada Regio-Capuam, il console romano Tito Annio Lusco, parlando in prima persona, si attribuisce la paternità della via e di una serie di opere ed interventi che ha portato a termine allorché era pretore in Sicilia. Per questo la via si chiama anche via Annia e questo lo si deve esclusivamente alla ricerca e allo studio di Vittorio Bracco. Sono stati poi percorsi tutti i luoghi della memoria della cittadina valdianese per soffermarsi infine davanti al Mausoleo di Caio Utiano Rufo Latiniano, quattuorviro per ben due volte a Volcei ed Atina. La visita è stata guidata da Alfonsina Medici, Felice Pastore e Pasquale Natella. Il Battistero di San Giovanni in Fonte tra Padula e Sala Consilina ha concluso la visita dei siti che per anni hanno visto impegnato il professore Vittorio Bracco in pubblicazioni che hanno dato risultati eccezionali per la conoscenza e lo studio di questo monumento. Nel pomeriggio, invece, nella sala adiacente la Chiesa del Santuario di S. Antonio di Polla, tra i bellissimi affreschi seicenteschi del Ragolia e del Pechenedda, si è svolto il Convegno La forza della memoria. Il ruolo di Vittorio Bracco nell’evoluzione della filologia italiana, dedicato al ricordo dello studioso. Dopo l’indirizzo di saluti delle varie Associazioni presenti, chi scrive ha voluto sintetizzare, in qualità di Direttore del Gruppo Archeologico Salernitano, come si era consolidata la collaborazione con Vittorio Bracco, prima durante le ricognizioni archeologiche del Gruppo lungo la via Annia (cfr. sito www.gruppoarcheologicosalernitano.org) poi con la pubblicazione di un suo articolo sulla Rivista ‘Salternum’; declamando a latere alcuni versi di una famosa ode di Orazio (libro III, n. 30), ha poi voluto sottolineare che lo scrivere saggi e poesie conferisce Fig. 2 - Polla (SA), Borgo San Pietro, i partecipanti alla Giornata di Studio davanti al monumento che conserva il Lapis Pollae. - 133 - SALTERNUM agli uomini l’immortalità. Vittorio Bracco è stato uno di questi e per questo sarà ricordato a lungo. Si sono poi susseguiti gli interventi dei vari Relatori, che hanno ricordato le collaborazioni avute con il prof. Bracco. Un’ampia cornice di pubblico, tra cui erano presenti i figli Giovanni e Mario, oltre ad amici, conoscenti, insegnanti, alunni ed ex-alunni del Liceo Classico ‘M. Tullio Cicerone’ di Sala Consilina, dove il professore aveva insegnato per una vita, ha suggellato questa giornata di studio all’insegna della Storia. Fig. 3 - Fig. 2 - Polla (SA), Giornata di Studio in ricordo di Vittorio Bracco. Un momento del dibattito. - 134 - ROSALBA TRUONO IANNONE Appunti di viaggio Petra: biglietto da visita della Giordania E ra l’agosto del 1812 quando in uno dei Paesi più antichi del mondo, la Giordania, un giovane esploratore svizzero, vestito da beduino, in sella ad un cavallo arabo, nel mentre si aggirava per i monti di Edom, finì con l’imboccare un tortuoso e strettissimo canyon, le cui alte pareti di arenaria rosa lasciavano a stento intravedere il cielo, tanto esse sembravano toccarsi in alcuni punti. Fu alla fine di quel misterioso percorso, lungo qualche chilometro, che al giovane si presentò uno spettacolare scenario: un’ampia conca rocciosa, di fronte una parete di arenaria scolpita. E in un vallone, proprio più in là: templi, tombe, scalinate ed altre opere, tutte scavate nella roccia. Fu allora che Johann Ludwig Burckardt per l’emozione si sentì mancare: egli percepiva di aver scoperto qualcosa di strabiliante e, per quanto avesse subdolamente indossato la kefhia e l’abito beduino, dovette ben controllare il suo entusiasmo e la sua commozione per ingannare la gelosia con la quale i beduini, padroni di quel territorio, e i sultani turchi difendevano i tesori d’Oriente. Ma ora aveva ritrovato Petra, la mitica ‘città rosa’ scavata nella roccia dagli antichi Nabatei, oggi biglietto da visita della Giordania turistico - archeologica. Ormai polo di attrazione fin dai racconti di Burckardt nell’Europa romantica dell’Ottocento e fin dalle vedute schizzate da David Robert, Petra induce visitatori di tutto il mondo a partire per questo luogo straordinario, oggi dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Cuore antico degli Arabi, Petra è tornata a vivere da quando re Hussein II di Giordania negli anni ’60 e ’70 fece costruire un moderno villaggio rurale, a Nord della zona archeologica e ordinò il trasloco dei beduini, da secoli veri abitanti di quelle cavità, avviando un serio restauro dei monumenti. Fra tanti siti archeologici pochi possono eguagliare la fama di Petra, di cui l’Al Khazneh è amato simbolo. E’ qui, più che altrove che la storia giordana ha le sue radici. E’ qui che i Nabatei vollero la loro capitale. Essi in epoca preromana diedero vita ad un’originalissima civiltà del deserto, fondata sul nomadismo. Erano loro a gestire i traffici carovanieri, a prendere in consegna lunghe carovane che trasportavano dall’India e dallo Yemen: incenso, zafferano, mirra, cardamomo, pepe, zenzero, cannella, mussolina di cotone e seta. Lungo la via nel deserto, che risaliva la Penisola Arabica fino alla favolosa città di Petra, smistavano le merci verso il Mediterraneo, la Persia e la Mesopotamia. Ma dell’origine dei Nabatei capaci creatori di una grande capitale dai monumenti scavati nella roccia, poco si sa. Certo è che quel popolo di mercanti seminomadi, che formarono un vero e proprio impero, prospero dal IV secolo a. C. al II secolo d. C., aveva raggiunto il suo culmine quando subentrarono i Romani dei quali si erano guadagnati il rispetto e la stima e che, sottomessi a Roma, non si considerarono soggiogati fino a quando Traiano, nel 105, scoprì la rete di canali che riforniva d’acqua Petra e la interruppe per ottenerne la resa. I Nabatei erano riusciti ad arroccarsi intorno alla loro capitale e a mantenere il monopolio delle merci provenenti dal Mar Rosso fin dal 63 a. C. quando Pompeo estese il dominio di Roma sui territori corrispondenti alle attuali Siria e Giordania, abitate in gran parte da Nabatei. A Roma essi si arresero alla morte del loro re: Rabele II. Consegnarono Petra al governatore della Siria sotto Traiano, Cornelio Palma. Non si narra di scontri violenti ma di una resa, frutto probabile di un accordo diplomatico. In realtà i Romani non sarebbero mai stati in grado di prendere con la forza Petra, nonostante la loro superiorità numerica e di mezzi. - 135 - SALTERNUM Il Siq attraverso il quale si accede alla città è una strettissima gola che il Wadi Musa, uno dei torrenti della zona, ha scavato per migliaia di anni; esso ne è l’unico ingresso e l’imbocco alla fessura è praticamente invisibile (fig. 1). Da qui per 1200 m, si dipanano anse e curve a gomito tra pareti di arenaria alte fino a 100 m che costituiscono un passaggio obbligato, dunque un vero suicidio per un esercito come quello romano. Oggi molti edifici testimoniano l’importanza che Roma attribuì a Petra; in realtà questa città narra la storia drammatica di due civiltà, la nabatea e la romana, che si sovrapposero fino a che la più forte soffocò l’altra. L’importanza di Petra decadde quando l’Impero Romano decise di sostituire le carovane con imbarcazioni che potessero attraversare il Mar Rosso. In seguito Bizantini, Arabi e Crociati si impadronirono di essa, ma nessuno volle mai stabilirvisi e l’antica città fu dimenticata fino alla riscoperta di Burckardt del 1812. Ma oggi che il Siq non rappresenta più un ostacolo invalicabile, è senz’altro un percorso di grande suggestione (fig. 2), fiancheggiato da canali artificiali per la raccolta dell’acqua piovana, da cippi e da monumenti che ricordano la devozione dei Nabatei per la divinità Dushara. Sul basolato riecheggia il rumore degli zoccoli dei cavalli che vanno al trotto, per trainare i numerosi calessi con i quali i Beduini conducono i visitatori, estasiati dallo spettacolo naturale (fig. 3). E’ alla fine che si percepisce l’effetto sorpresa: la veduta quasi improvvisa del Khaznech, il cosiddetto Tesoro, perché una leggenda narra che esso custodisce il tesoro di un faraone egizio (fig. 4). Ovviamente ciò non è vero, ma di Al Khazneh tutto è misterioso: la funzione (tempio o mausoleo?), il fondatore, la data. Alcuni studiosi lo attribuiscono al re Aretas III (84-56 a. C.), altri ad Aretas IV (9- 40 D. C.) altri ancora all’imperatore romano Adriano (117-138 d. C.) Esso è celebre per la sua posizione, ma anche per la sua architettura raffinata. Il monumento, interamen- Fig. 1 Fig. 2 - 136 - ROSALBA TRUONO IANNONE te scolpito nell’arenaria, ha una facciata a due piani, larga 28 m e alta 40 e la scansione architettonica è molto elaborata. Il piano inferiore è costituito da un portico a sei colonne con capitelli corinzi; le due coppie laterali sono appoggiate alla parete. Fra l’una e l’altra, su di un basamento, sono scolpite delle statue rappresentanti dei cavalieri in groppa alle loro cavalcature: uno è rivolto ad Ovest e l’altro ad Est. Pare siano i figli adottivi di Zeus e rappresentino la salita dell’anima del defunto al cielo. Le sei colonne reggono un frontone con fregi. Il piano superiore è diviso in tre parti: due quinte laterali scavate nella roccia e la parte centrale di forma rotonda, la tholos, con tetto conico sormontato da un’urna. I due blocchi laterali hanno le medesime decorazioni: due piccole colonne appoggiate alla roccia, tra di esse sono rappresentate delle figure a forma di scorpione, simbolo di divinità nabatee. Ovunque ci sono motivi ornamentali di altissima qualità: capitelli, fregi con ghirlande di foglie e bacche, statue come quelle delle Amazzoni scolpite ai lati della facciata e quella di Isis sulla parte anteriore della tholos; tutte richiamano antichi modelli ellenistici. Come gran parte dei monumenti di Petra, l’edificio aveva una funzione funebre e fu probabilmente scolpito in memoria di Arete III (84-56 a. C.), il cui governo coincise con il periodo di massima prosperità dei Nabatei. Il nome gli venne attribuito nel VII secolo dagli Arabi, convinti che l’urna, posta sopra la tholos, celasse un tesoro. Ed è stata la loro furia iconoclasta a danneggiare la statua della facciata, come, in seguito, la distruzione dell’anfora è dovuta ai Beduini in cerca del favoleggiato tesoro. Dal Khazneh si percorre la Via delle Facciate, costeggiata da una fila di case (tombe) con decorazioni elaborate, probabilmente di origine assira. I Nabatei ebbero gran cura nel costruire le tombe in onore dei propri defunti ed erano soliti abbellirle con statue preziose. Alla fine della via delle Facciate ecco il Teatro, costruito prima dai Nabatei, durante il regno di Aretas IV, poi ampliato e utilizzato dai Romani: interamente Fig. 3 Fig. 4 - 137 - SALTERNUM intagliato nell’arenaria, comprende 33 file e la cavea che può ospitare fino a 3500 spettatori. Dopo il Teatro si vedono le Tombe Reali e, prima fra tutte, di forte impatto per la sua imponente facciata, è la Tomba dell’Urna, scavata su di un alto blocco di roccia, così chiamata per la presenza all’interno di una pietra con bassorilievo, rappresentante il defunto. Qui tutto è ampio ed impressionante: colonne, architravi, arcate a volta e una gran sala, caratteristica non solo per i colori rosa e bianco delle pareti di roccia, ma anche per la precisione con cui sono stati tagliati gli angoli. Un’iscrizione in greco afferma il riutilizzo dell’ampia sala come chiesa da parte dei Bizantini nel 447 d. C. Gli abitanti di Petra chiamavano questo monumento il Tribunale: al–Mahkanah, poiché nei sotterranei delle volte venivano rinchiusi i prigionieri. Vero capolavoro del livello tecnico raggiunto dagli anonimi architetti delle tombe di Petra è la Tomba della Seta. Gli autori raggiunsero risultati straordinari nello sfruttare le venature naturali delle pareti di roccia, ed ottenere effetti cromatici di rara bellezza che, in questo monumento, si rilevano nelle striature della facciata che vanno dal rosa al turchese. Come in tutta l’area monumentale è ben visibile il magistrale lavoro dei costruttori, nobilitato dalla composizione dell’arenaria a tinte calde e sfumate. All’interno le tombe di Petra si presentano come ampie stanze vuote, con grandi nicchie a parete dove si collocavano le salme. A volte sono così spaziose e ordinate che, per secoli, fino ad epoca recente sono state utilizzate dai beduini come abitazioni semistabili. Quando lo svizzero Burckhardt riscoprì la ‘città rosa’, le cavità del Siq esterno erano ancora abitate da pastori della tribù Liyatneh ed alcune tombe erano usate come stalle. Indicativa perciò è l’enorme Tomba Corinzia dalla facciata simile a quella del Khazneh e, non da meno per le sue dimensioni, la Tomba Palazzo, così detta per la sua somiglianza ai palazzi romani. L’ampiezza e l’imponenza di questi edifici funerari lasciano intendere il loro carattere collettivo: probabilmente essi erano destinati ai membri della famiglia reale. Fig. 5 - 138 - ROSALBA TRUONO IANNONE A 300 metri da essi è la Tomba di Sesto Fiorentino, governatore della Provincia d’Arabia nel 127 d. C., così come recita un’iscrizione latina. Su di un grande arco centrale, una figura femminile, forse una Gorgone di chiara influenza ellenistica. Al centro della città sono ancora visibili le antiche tracce di un Ninfeo, situato sotto un grande albero e una monumentale strada pavimentata dai Nabatei, sui cui lati troviamo i resti di alte colonne, segno del carattere commerciale dell’antico centro cittadino. La via colonnata, risalente al I e II sec. d. C., attraversa la città da Ovest ad Est e la sua solida struttura è tipica dell’architettura romana. E’ solo alla fine della strada che si arriva all’Arco di Trionfo (II sec. d. C.). Costruito al tempo delle conquiste di Traiano, esso veniva chiuso di notte con porte di legno. Poco più in là sorge uno dei più importanti monumenti di Petra: il tempio di Qasr al-Bint, con le sue mura ancora in piedi fin dal I sec. a. C.; rivolto a Nord in onore del dio Dushara, caro ai Nabatei, è alto ben 23 metri. Una delle tante testimonianze della storia drammatica di Petra e della sovrapposizione in essa di due grandi civiltà, la nabatea e la romana, è il tempio dei Leoni Alati, dedicato alla dea Allat da Aretas IV, intorno al 27 d. C., poi travolto dalla ristrutturazione romana, che puntava a far spazio per i nuovi edifici intorno al cardo massimo. Ed ora, isolato dal resto della città, inquietante e imponente, perfettamente adattato alla parete che lo incornicia, su di un’altura sorge il monumento più celebre di Petra: Ed-Deir (il Monastero). Sorge lontano e solitario come solo un re sa, e deve essere (fig. 5). E proprio ad un re doveva essere dedicato: qui Rabel II, sovrano nabateo di Petra, dal 71 d. C., contava di essere sepolto. E qui nel silenzio dei monti di Edom, dove solo il dio Dushara aveva diritto di parlare, il suo popolo lo avrebbe venerato in eterno. Perciò aveva fatto scavare questo mausoleo senza eguali: 45 metri di altezza, 50 di larghezza e 9 solo per la tholos. Ma il sogno di pace e di grandezza di Rabel II non si avverò: prima che Dushara lo volesse con sé in eterno, il sovrano del deserto fu battuto dagli invasori romani e il suo regno divenne provincia. Era il 106 d. C.: dell’ultimo re nabateo resta solo un tempio vuoto che guarda il deserto. Per salire da Petra al mausoleo di Ed-Deir occorre quasi un’ora di cammino a piedi, lungo un tortuoso sentiero di montagna, in parte a gradini tagliati nella roccia. Lungo la strada s’incontrano vari sepolcri nabatei scavati nella parete; il più significativo è il Triclinium dei Leoni, chiamato così perché due leoni di pietra, simboli della divinità nabatea, fanno da guardia davanti all’ingresso. Ed-Deir, per quanto fuori città resta il più suggestivo fra i circa 800 monumenti di Petra; non è un caso se insieme ad Al-Khazneh anni orsono fu scelto per far da quinta ad un film della serie ’Indiana Jones’. Visto però dalla cima dello Jebel Harem, il monte più alto della regione, il mausoleo di Rabel II perde la sua imponenza e diventa così un puntino tra i monti deserti di Edom. Ed è allora che si capisce perché lo chiamano Ed-Deir (l’eremo). E’ al calar della notte, nel buio delle tenebre e sotto un manto di stelle, che Petra si concede nella sua ultima e suggestiva immagine: la celebre facciata di AlKhazneh rischiarata dalla luce fioca di mille fiammelle, mentre il monotono canto di antiche nenie beduine interrompe il religioso silenzio degli astanti, stupefatti da un così grande spettacolo! E’ in questa atmosfera magica che si aggirano le ombre degli antichi carovanieri nabatei, e al di sopra di tutti, vittorioso e soddisfatto, è il fantasma di Johann Ludwig Burckardt. In groppa al suo cavallo, ancora in abito beduino, è qui ad attendere i meritati applausi di ringraziamento di tutta l’Umanità. - 139 - Come visitare il Complesso Monumentale di San Pietro a Corte Il Gruppo Archeologico Salernitano, associazione culturale ONLUS per la valorizzazione e tutela dei Beni Culturali e la Confraternita di Santo Stefano della Città di Salerno hanno in affidamento il Monumento, la prima in convenzione con il Ministero dei BB.CC. - Soprintendenza per i B.A.P. e B.S.A.E. di Salerno e Avellino, la seconda in comodato d’uso con la Curia Arcivescovile di Salerno. Il loro compito istituzionale è anche quello di valorizzare il Bene Culturale, rendendolo fruibile al pubblico con aperture settimanali, manifestazioni, mostre tematiche, progetti didattici e visite guidate. Orari di apertura al pubblico con visite guidate gratuite: Gruppo Archeologico Salernitano per l’ipogeo e la Cappella di Sant’Anna Tel/Fax 089.337331 (segreteria) cell.ri 338.1902507 - 320.8164044 www.gruppoarcheologicosalernitano.org e-mail: [email protected] Confraternita di Santo Stefano della Città di Salerno per l’Aula Palatina e la chiesa di S. Pietro a Corte Priore della Confraternita Tel. 089.233762 cell. 333.9643285 SABATO DOMENICA h. 10.00 – 13.00 – 18.00/21.00. h. 10.00 - 13.00. Durante la manifestazione ‘Luci di Artista’, che si svolge a Salerno nel periodo novembre-gennaio anche il venerdì h. 18.00 - 21.00. In altri giorni della settimana le visite guidate vanno rigorosamente concordate su prenotazione ai numeri sopraindicati. SALTERNUM Indice Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 3 di Felice Pastore Longobardi e Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 5 di Pasquale Natella SALTERNUM Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 17 di Gabriella d’Henry Giovan Battista Passeri e l’antichità classica tra ‘etruscheria’ e archeologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 19 di Adriano Caffaro e Giuseppe Falanga I trovatori fanatici: ovvero la passione antiquaria in una commedia di Giovanni E. Bideri . . . . . . . . . . . . . . p. 31 di Maria Rosaria Taglè Paesaggi costieri e dinamiche antropiche: appunti sulla costa di Salerno tra preistoria ed età medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 37 di Amedeo Rossi e Vincenzo Amato La religiosità dei Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 53 di Pietro Crivelli Il barbaro che Roma non sconfisse: il vandalo Genserico in una similitudine del poeta tardoantico Sidonio Apollinare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 67 di Francesco Montone L’affresco dei ‘due Santi’ della Chiesa di Santa Maria de Lama di Salerno: San Nicola e Santo martire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 79 di Mario Moles L’arte della tessitura dei Guane: trama, voglia o passione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 93 di Nidia Yaneth Garcia, Carmen Gentile e Maurizio Palmisano A proposito di un raro reperto chirurgico: il set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 101 di Giuseppe Lauriello - 141 - SALTERNUM SEGNALAzIONI ANNA FERRARI, Dizionario dei luoghi del mito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 109 di Eliana Mugione RECENSIONI MATTEO D’ACUNTO - MARCO GIGLIO (a cura di), Le rotte di Odisseo. Scritti di archeologia e politica di Bruno d’Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 111 di Luca Cerchiai MARIA LUISA NAVA, Stele daunie da Trinitapoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 113 di Gabriella d’Henry CARMINE PELLEGRINO - AMEDEO ROSSI, Pontecagnano I,1. Città a campagna nell’agro Picentino (gli scavi dell’autostrada 2001-2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 115 di Gabriella d’Henry MATILDE ROMITO, Salerno ‘Provincia archeologica’. La politica culturale dell’amministrazione Provinciale dal decennio prebellico al dopoguerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 119 di Monica Viscione GIUSEPPE COLITTI, Il tamburo del diavolo. Miti e culture del mondo dei pastori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 121 di Felice Pastore EVENTI Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 123 di Felice Pastore Museo del Sannio di Benevento. Nuovo allestimento della ‘Sezione Longobarda’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 125 di Maria Luisa Nava Un ricordo di Vittorio Bracco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 131 di Pasquale Natella Giornata di Studio a Polla nel ricordo di Vittorio Bracco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 133 di Felice Pastore APPUNTI DI VIAGGIO Petra: biglietto da visita della Giordania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 135 di Rosalba Truono Iannone - 142 - Associazione Provinciale di Salerno 84123 Salerno – C.so V.Emanuele,75 Tel 089.2583108 – Fax 089.2583165 E-mail: [email protected] Internet: www.cnasalerno.it UNA GRANDE ORGANIZZAZIONE AL SERVIZIO DELLE IMPRESE La CNA, Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, da oltre sessant’anni rappresenta e tutela gli interessi delle imprese artigiane, delle PMI e di tutte le forme del lavoro autonomo. Una realtà che oggi trae forza e peso da circa 670.000 associati in tutta Italia. Finito di stampare da Tipografia Fusco, Salerno nel mese di Novembre 2012