GIORNO DELLA MEMORIA 2015
CARLO DE NITTI
LA “RESISTENZA TRA I RETICOLATI”:
STORIE DI INTERNATI MILITARI
(1943 – 1945)
1
INDICE
Indice
2
Giorno della memoria 2015
3
Eserghi
5
Introduzione
6
Discorso Presidente Ciampi per i caduti di Cefalonia
8
La Resistenza ‘allargata’
10
Gli Internati Militari Italiani
13
Profili di Internati Militari Italiani
19
Uomini in guerra: i testimoni hanno raccontato …
27
Ricordi di lontane sofferenze
29
Rifugiarsi nel silenzio
45
Perle di umanità
47
Una storia di “ordinario” eroismo
53
Meditando …
59
Bibliografia/Sitigrafia
63
2
GIORNO DELLA MEMORIA 2015
ALLA MEMORIA DEI PROTAGONISTI,
CONSAPEVOLI E NON, DI QUESTE PAGINE :
MATTEO FANTASIA (1916 – 1994)
ANNA MARIA FANTASIA MONTRONE (1944 - 2012)
GIUSEPPE RINALDI (1916 - 2010)
A Chi ama insegnare il cammino umano nel tempo:
ricostruire il passato per costruire il futuro.
Il “Corriere di Puglia e Lucania” – per iniziativa del suo Direttore, il dott. Antonio
Peragine - offre ai suoi lettori questo Speciale “Giorno della Memoria”, intitolato LA
“RESISTENZA TRA I RETICOLATI”: GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI (1943 –
1945) affinché si possa dare sempre più e sempre meglio corso al dettato normativo della
Legge 211/2000, che istituisce la ricorrenza:
<<Art. 1 - La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei
cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del
popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che
hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita
hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2 - In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati
cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in
modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e
ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro
dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in
Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.>>
Questo Speciale tematizza, tra i molti argomenti possibili, l’internamento militare
come “resistenza tra i reticolati”, presentando due storie che si potrebbe definire “esemplari”:
quelle di Matteo Fantasia e di Giuseppe Rinaldi, protagonisti prima e testimoni diretti poi di
avvenimenti epocali che hanno sconvolto il mondo: è nostro dovere - come cittadini e come
educatori del XXI secolo – tramandarne la memoria alle giovani generazioni.
§
§
§
Il testo qui edito rielabora materiali che sono stati parzialmente già pubblicati: di
questi si forniscono le referenze.
1. L’uso delle biblioteche nella didattica delle materie letterarie nella scuola media, in
Master di II livello in Formazione del docente documentalista scolastico – Lavori
3
2.
3.
4.
5.
conclusivi dei corsisti, a cura di Antonio d’Itollo, Mola di Bari 2004, Liceo Scientifico
“E. Majorana”, pp. 325-339;
Meditando… “Educazione & Scuola”, XV, genn. 2010, 989;
La storia dei popoli attraverso le storie degli uomini. L’odissea di un internato
militare: Matteo Fantasia (1916 – 1994), umanista e politico, “Educazione & Scuola”,
XVII, genn. 2012, 1013, pp. 14;
Ricordi di lontane sofferenze. La testimonianza inedita di un internato militare.
Giuseppe Rinaldi (1916 - 2010), “Educazione & Scuola”, XVI, genn. 2011, 1001, pp.
17
La resistenza disarmata. La storia dei popoli attraverso le storie degli uomini.
L’odissea di un internato militare, ” I Quaderni della Sturzo n° 25”, 2013, pp. 175 –
198.
Il disegno in copertina Ad una culla lontana è stato realizzato nel 2003 da Francesco
Piro, all’epoca, mio alunno, oggi studente universitario.
4
ESERGHI
Nella folla l’individuo dà il peggio di sé. Per questo, forse, i popoli che più sanno annullare la propria personalità
in una disciplina ferrea e sentita, atta a fare di un popolo una massa compatta, sono portati irrimediabilmente alla
guerra e all’odio di razza.
GIOVANNI GUARESCHI1
Il Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un mondo di resistenti, che prese su di sé la
dignità e l’onore di un Paese, che aveva assistito al crollo di ogni autorità militare e civile, e lottò in condizioni
che non è esagerato definire eroiche [...] Una resistenza disarmata ma non inerme e inefficace, significativa
soprattutto come affermazione di valori morali che sono sempre da difendere anche quando tutto il resto è
perduto.
VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA2
Cosa perverte l’uso dell’intelligenza? Quale organo gli oppone resistenza?
FRANCO MARCOALDI3
1
GIOVANNI GUARESCHI, Diario clandestino (1943-1945), Milano 1991, Rizzoli, p. 55.
VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA, Fra sterminio e sfruttamento. Militari italiani e prigionieri di guerra
nella Germania nazista (1939-1945), a cura di NICOLA LABANCA, Firenze 1992, Le lettere, p.350.
3
FRANCO MARCOALDI, Benjaminowo: Padre e Figlio. Poemetto teatrale a due voci, Milano 2004,
Bompiani. p. 31.
2
5
INTRODUZIONE
“Storia, irrora il mio cuore, dove circola solo la cronaca.”
FRANCO MARCOALDI 1
“Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per guidarci, soltanto il senso
dell'onore, l'amor di Patria, maturato nelle grandi gesta del Risorgimento [...] Agli stessi
sentimenti si ispirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di
internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare mentre le forze della Resistenza
prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città.”
Così il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel discorso, tenuto il 01
marzo 2001, a Cefalonia, in occasione della commemorazione dei caduti della Divisione
“Acqui”, rievocava i sentimenti che pervasero i militari italiani di tutti i gradi - e sé tra loro dopo la firma dell’armistizio con gli angloamericani e l’immediata, prevedibile reazione
dell’ex alleato germanico.
Con quelle parole, il Presidente collegava in modo organico l’esercito italiano, i
militari internati ed i partigiani quali interfacce diverse di un unico grande processo storico: la
lotta del popolo italiano per la liberazione contro il nazifascismo e contro l’esercito germanico
che occupava il nostro Paese.
In quelle parole - tratte da un discorso così storicamente pregnante e così
teoreticamente motivante che è stato posto all’inizio di queste pagine a mò di Prologo - si può
leggere una nuova, diversa visione della partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale,
solo recentemente scoperta dalla storiografia contemporaneistica: gli oltre seicentomila
internati militari italiani - su cui per oltre un cinquantennio è stato steso un pesante velo di
dimenticanza, se non di disprezzo, da parte dei politici e degli storici2 - hanno partecipato a
pieno titolo alla lotta di liberazione italiana (ed europea) dal nazifascismo nei venti mesi che
vanno dall’Armistizio alla Liberazione.
“Conoscere e far conoscere questa esperienza significa di per se stesso aprire una
pagina per molti versi ancora bianca della storia della nostra ricostruzione dopo il fascismo.
Un’altra pagina recuperata tardivamente, ma finalmente, vogliamo sperare, consegnata alla
memoria delle nuove generazioni”3.
Proprio in quest’ottica, di trasmissione critica del passato come fonte di riflessione
consapevole sul presente per la progettazione del futuro - ottica che ha da essere educativa,
prima ancora che storiografica - si collocano queste pagine: il momento di abbrivo del
presente lavoro di approfondimento, è stato invenuto in una breve ricognizione delle forme di
resistenza non organizzate politicamente dai partiti antifascisti sviluppatesi soprattutto a Bari
ed in Puglia durante il fascismo, dopo la caduta di Mussolini ed ancor più dopo la firma
dell'armistizio con gli angloamericani e la successiva cobelligeranza.
1
FRANCO MARCOALDI, Op. cit., p. 65.
Non è un caso che il monumentale studio sugli internati dello storico tedesco GERHARD SCHREIBER, I
militari italiani italiani internati nel Terzo Reich 1943 - 1945, pubblicato a Roma dall’Ufficio Storico dello Stato
Maggiore dell’Esercito, rechi l’illuminante sottotitolo “traditi, disprezzati, dimenticati”.
3
ENZO COLLOTTI, Introduzione a ALESSANDRO NATTA, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in
Germania, Torino 1997, Einaudi, p. XXI.
2
6
In seguito, si è soffermata l'attenzione sulla resistenza “disarmata”, come l’ha
chiamata Vittorio Emanuele Giuntella, contestualmente testimone e storico dell’internamento,
messa in atto dagli internati militari italiani nei campi di internamento dell'Europa nazificata,
sulle loro condizioni morali e materiali di vita e sul significato del loro gesto di rifiuto della
collaborazione.
A dire quanto l’esperienza dell’internamento sia stata comune ad un’intera
generazione, sono stati delineati significativi profili biografici di alcuni internati, che, dopo la
fine della guerra, sarebbero diventati eminenti personalità della vita politica e della cultura
italiane (V.E. Giuntella, G. Guareschi, G. Lazzati, A. Natta, E. Paci). E’ parso giusto limitare
la ‘galleria’ dei personaggi, che pure avrebbe potuto essere molto più ampia, tanto per non
appesantire il testo con notizie spesso già note a chi legge, quanto perchè i loro ‘percorsi’
sono sembrati assolutamente paradigmatici di una pluralità di posizioni politico-culturali e di
ruoli sociali.
La seconda parte è dedicata invece alle testimonianze dirette di protagonisti delle
vicende dei campi di internamento. In particolare, spazio e rilievo si è inteso dare alla
testimonianza diretta - corredata da documenti unici ed inediti - che chi scrive ha raccolto
dalle significative parole di un ex ufficiale dell'esercito italiano che fu catturato dopo l'8
settembre a Zara, Giuseppe Rinaldi, genitore di una collega nell’insegnamento di chi scrive. A
lei si deve il testo Rifugiarsi nel silenzio è presente in questo Speciale.
Così, si è potuto, in questo modo, confrontare i suoi antichi, ma ben vividi e fermi
nella memoria remota, ricordi di guerra e di prigionia con la testimonianza resa da Matteo
Fantasia, del quale, sotto il titolo "Perle di umanità", sono stati raccolti alcuni tra i brani più
significativi tra i tanti del suo volume I racconti della prigionia, Bari 1987, Levante, pp. 233 e la scelta è stata davvero improba!
Partendo dalle informazioni tratte dal volume si è cercato di ricostruire le tappe della
prigionia di Matteo Fantasia e la sua rievocazione dopo cinquanta anni dagli avvenimenti del
momento topico del rifiuto di collaborare con i nazifascisti, nonché sulla sua poliedrica
personalità di educatore, di uomo politico, di pubblico amministratore, di organizzatore di
cultura, di storico del Risorgimento, quale Presidente del Comitato di Bari dell’Istituto per la
Storia del Risorgimento Italiano.
7
DISCORSO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI
ALLA COMMEMORAZIONE DEI CADUTI ITALIANI DELLA “DIVISIONE ACQUI"
A CEFALONIA (tenuto il 01 marzo 2001)
Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero
fede al giuramento.
Questa - Signor Presidente della Repubblica Ellenica - è l'essenza della vicenda di
Cefalonia nel settembre del 1943. Noi ricordiamo oggi la tragedia e la gloria della Divisione
"Acqui". Il cuore è gonfio di pena per la sorte di quelli che ci furono compagni della
giovinezza; di orgoglio per la loro condotta. La loro scelta consapevole fu il primo atto della
Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo.
La Sua presenza, Signor Presidente, è per me, per tutti noi Italiani, motivo di
gratitudine. E' anche motivo di riflessione. Rappresentiamo due popoli uniti nella grande
impresa di costruire un'Europa di pace, una nuova patria comune di nazioni sorelle, che si
sono lasciate alle spalle secoli di barbari conflitti. La storia, con le sue tragedie, ci ha
ammaestrato. Molti sentimenti si affiancano, nel nostro animo, al dolore per i tanti morti di
Cefalonia: morti in combattimento, o trucidati, in violazione di tutte le leggi della guerra e
dell'umanità. L'inaudito eccidio di massa, di cui furono vittime migliaia di soldati italiani,
denota quanto profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dall'ideologia nazista. Non
dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia,
vittima di una guerra di aggressione.
A voi, ufficiali, sottufficiali e soldati della “Acqui" qui presenti, sopravvissuti al
tragico destino della vostra Divisione, mi rivolgo con animo fraterno. Noi, che portavamo
allora la divisa, che avevamo giurato, e volevamo mantenere fede al nostro giuramento, ci
trovammo d'improvviso allo sbaraglio, privi di ordini. La memoria di quei giorni è ancora ben
viva in noi.
Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per guidarci, soltanto il senso dell'onore,
l'amor di Patria, maturato nelle grandi gesta del Risorgimento. Voi, alla fine del lungo
travaglio causato dal colpevole abbandono, foste posti, il 14 settembre 1943, dal vostro
comandante, Generale Gandin, di fronte a tre alternative: combattere al fianco dei tedeschi;
cedere loro le armi; tenere le armi e combattere. Schierati di fronte ai vostri comandanti di
reparto, vi fu chiesto, in circostanze del tutto eccezionali, in cui mai un'unità militare
dovrebbe trovarsi, di pronunciarvi. Con un orgoglioso passo avanti faceste la vostra scelta,
"unanime, concorde, plebiscitaria": "combattere, piuttosto di subire l'onta della cessione delle
armi". Decideste così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era
morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse
l'Italia. Combatteste con coraggio, senza ricevere alcun aiuto, al di fuori di quello offerto dalla
Resistenza greca. Poi andaste incontro a una sorte tragica, senza precedenti nella pur
sanguinosa storia delle guerre europee. Si leggono, con orrore, i resoconti degli eccidi; con
commozione, le testimonianze univoche sulla dignità, sulla compostezza, sulla fierezza di
coloro che erano in procinto di essere giustiziati. Dove trovarono tanto coraggio ragazzi
ventenni, soldati sottufficiali, ufficiali di complemento e di carriera? La fedeltà ai valori
nazionali e risorgimentali diede compattezza alla scelta di combattere. L'onore, i valori di una
grande tradizione di civiltà, la forza di una Fede antica e viva, generarono l'eroismo di fronte
al plotone d'esecuzione. Coloro che si salvarono, coloro che dovettero la vita ai coraggiosi
aiuti degli abitanti dell'isola di Cefalonia, coloro che poi combatterono al fianco della
Resistenza greca, non hanno dimenticato, non dimenticheranno. Questa terra, bagnata dal
sangue di tanti loro compagni, è anche la loro terra. Divenne chiaro in noi, in quell'estate del
1943, che il conflitto non era più fra Stati, ma fra princìpi, fra valori. Un filo ideale, un uguale
sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell'Egeo, in
Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si ispirarono le centinaia di migliaia di
8
militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare
mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città. Ai
giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia fra le nazioni europee, eventi
come quelli che commemoriamo sembrano appartenere a un passato remoto, difficilmente
comprensibile. Possa rimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri che diedero la
vita perché rinascesse l'Italia, perché nascesse un'Europa di libertà e di pace. Ai giovani
italiani, ai giovani greci e di tutte le nazioni sorelle dell'Unione Europea, dico: non
dimenticate.
Caro Presidente della Repubblica Ellenica, Le sono grato per avermi accolto nella Sua
terra, e per aver voluto vivere con me questa giornata di memorie, di pietà, nell'isola di
Cefalonia, ricordando insieme i Caduti greci e italiani. Oggi i nostri popoli condividono, con
convinzione e con determinazione, la missione di fare dell'Europa un'area di stabilità, di
progresso, di pace. La nuova Europa, un tempo origine di sanguinose guerre, ha già dato a tre
generazioni dei suoi figli pace e benessere. Propone l'esempio della sua concordia a tutti i
popoli. Uomini della Divisione "Acqui": l'Italia è orgogliosa della pagina che voi avete scritto,
fra le più gloriose della nostra millenaria storia.
Soldati, Sottufficiali e Ufficiali delle Forze Armate Italiane: onore ai Caduti di
Cefalonia; onore a tutti coloro che tennero alta la dignità della Patria. Il loro ricordo vi ispiri
coraggio e fermezza, nell'affrontare i compiti che la Patria oggi vi affida, per missioni non più
di guerra, ma di pace. Viva le Forze Armate d'Italia e di Grecia. Viva la Grecia. Viva l'Italia.
Viva l'Unione Europea.
9
LA RESISTENZA ‘ALLARGATA’
“Chi è l’amico e chi il nemico? Chi comanda e chi ubbidisce? Distruggere le armi, sì, le armi, in cambio del
ritorno in patria - borboglia un generale di brigata: afasia testamentaria di un’Italia che svanisce.”
FRANCO MARCOALDI1
La Resistenza al nazifascismo non fu soltanto quella che nell'Italia centro settentrionale vide protagonisti i 'partigiani', impegnati a combattere attivamente manu
militari contro gli occupanti tedeschi a nord della 'linea gotica': come un'interpretazione
storiografica molto diffusa ha insegnato e tanta filmografia ha mostrato e divulgato (a
cominciare dal classicissimo "Tutti a casa" con Alberto Sordi).
La Resistenza fu un fenomeno molto più ampio, che coinvolse a pieno titolo anche la
Puglia ed il Mezzogiorno d'Italia, il Regno del sud, dove l'oligarchia della corte sabauda - alla
maniera del principe Tancredi Falconeri nel "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
- voleva che 'tutto cambiasse affinché non cambiasse nulla', perpetuando, con il governo
presieduto dal Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, un regime monarchico-autoritario: una
continuazione del fascismo senza la figura di Benito Mussolini, insomma.
Al fine di ‘salvare il salvabile’ delle proprie posizioni di potere, quello di creare un
governo autoritario senza il Duce, ormai screditato ed ingombrante, era stato anche
l’intendimento presente anche tra i gerarchi del regime membri del Gran Consiglio del
Fascismo che nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943 avevano votato l'ordine del giorno
firmato da Dino Grandi.
Il monarca le accolse - anzi, non aspettava altro che di potere scindere le proprie
responsabilità politiche da quelle del fascismo, con il quale era stato connivente fin dal
momento della sua ascesa, favorita dalla nequizia regia - ed affidò la guida del governo al
maresciallo Pietro Badoglio, al fine di fare rispettare la cosiddetta 'legalità statutaria'. In
quest'ottica, il governo Badoglio adottò tre decreti, che mettevano fuori legge il Partito
Nazionale Fascista (P.N.F.), eliminavano il Gran Consiglio del Fascismo e la Camera dei
Fasci e delle Corporazioni - organi non previsti dallo Statuto Albertino, ma creati da
Mussolini - e promettevano libere elezioni entro quattro mesi dalla fine della guerra.
A partire dalla caduta del fascismo, nei quarantacinque giorni fino all'8 settembre, ed
ancor più dopo con la firma a Cassibile dell'armistizio e la conseguente reazione germanica,
nacque 'dalle cose', in ogni parte d’Italia, una vasta resistenza di popolo che trovò al suo
interno le energie politiche e morali per autoorganizzarsi contro la guerra, contro
l'occupazione tedesca, contro il governo Badoglio: tutto questo prima ancora di farsi lotta
armata organizzata sulle montagne alpine ed appenniniche nell'Italia centrosettentrionale
contro l’invasore nazifascista.
Quella resistenza ‘allargata’ - come l’ha chiamata il Presidente Ciampi - si configurava
come la 'legittima difesa' di un popolo, che, nel 'vuoto' politico in cui si trovava sospeso,
recuperò le ragioni del proprio ‘contratto sociale’ in quei legami tradizionali di solidarietà
umana, che accomunano nelle difficoltà e che fanno aiutare genti diverse (ebrei, giovani
renitenti alla leva di Salò, partigiani, soldati sbandati, antifascisti). "Si avverte la solidarietà di
1
FRANCO MARCOALDI, Op. cit., p. 10.
10
chi è legato alla stessa sorte con l'intesa di resistere insieme. Se sono crollati lo stato e le
istituzioni con tutti i loro miti retorici, questa identità, che è antica ed arcaica, resiste": così
annotava, a caldo, Giovanni de Gennaro nel suo diario, il 20 settembre 1943, riflettendo sulle
vicende che gli accadevano intorno in quei fatidici giorni, attraversando a piedi la Capitanata,
mentre tornava nella sua Molfetta da Roma, dove si trovava per motivi di studio1.
L'opposizione diffusa, ma via via sempre più politicamente consapevole, anche tra la
gente comune allo stato delle cose presenti - la resistenza, appunto, cosa se no? - anche nel
Mezzogiorno, nella nostra Puglia, aveva le sue profonde radici culturali in quella tradizione
antifascista ben presente e radicata di matrice crociana, salveminiana e cattolica che faceva
data ben anteriormente rispetto alle vicende belliche.
E’ appena il caso, in questa sede, di rammemorare, nella Puglia degli anni ‘20-’40, la
presenza della poliedrica e carismatica figura di umanista, di educatore, di laico, di
organizzatore politico-culturale e di antifascista di Tommaso Fiore (1884-1973); la nascita e
la fervida attività del gruppo dei giovani discepoli baresi ‘liberal-socialisti’ di Benedetto
Croce ed il ruolo svolto, partendo da Bari, in tutta Italia, durante il corso del ventennio
fascista dalla casa editrice “Giuseppe Laterza & figli”2.
Parimenti non è questa la sede per diffondersi in modo ampio sulla resistenza di
matrice cattolica, animata nelle cose dal Magistero Pontificio, dalla presenza pastorale dei
Vescovi e dall’azione militante di solidarietà e di sostegno3 del clero alla popolazione civile.
Quell'humus animò quella resistenza ‘disarmata’, ma che pure produsse numerosi ed
eroici fatti d'arme: a cominciare dallo scontro cruento avvenuto a Bari, il 28 luglio 1943, in
via Niccolò dell'Arca, appena tre giorni dopo la caduta del fascismo, che lasciò sul selciato
tante giovani vite di pacifici manifestanti4.
Come non ricordare la resistenza opposta dall’esercito italiano e dalla popolazione
civile in Puglia alle distruzioni germaniche; come non ricordare la difesa del porto di Bari,
comandata dal Generale Nicola Bellomo, o l’eroica resistenza che si sviluppò nella città di
Barletta, dove il comandante del presidio militare cittadino, Colonnello Francesco Grasso, con
i suoi uomini difese strenuamente la città, che le truppe tedesche, comandate dal
Feldmaresciallo Albert Kesserling, volevano trasformare in un caposaldo contro gli
angloamericani sbarcati a Taranto. Solo dopo parecchi giorni, il Colonnello Grasso,
asserragliato nel castello, accettò di arrendersi; fu catturato e deportato. Alla fine dell’eroica
battaglia, tra gli italiani ci furono 71 caduti, 37 militari e 34 civili, compresi donne e bambini,
uccisi per rappresaglia5.
1
GIOVANNI DE GENNARO, Settembre 1943. Diario di viaggio in una patria perduta e ritrovata, Molfetta
2001, Edizioni Mezzina, p. 87.
2
La bibliografia cui riferirsi intorno all’antifascismo pugliese ed alle sue matrici culturali potrebbe essere
fluviale; in questa sede, ci si limita a ricordare i volumi di GIOVANNI DE GENNARO, La città di Salvemini.
La classe dirigente a Molfetta dall’unità ai primi del Novecento, Molfetta 2000, Edizioni Mezzina, pp. 253 ed e
Tommaso Fiore e Molfetta Un saggio inedito del 1964 e 12 lettere fino al 1971, Molfetta 2004, Edizioni
Mezzina, pp. 155, nonché quello di QUINTINO BASSO, 1943-1944 Il nuovo Risorgimento parte dal Sud, Bari
1996, Adriatica Editrice, pp. 212.
3
Cfr. QUINTINO BASSO, Op. cit., pp.106-115.
4
Per un approfondimento su quei drammatici avvenimenti, si veda MARIO DILIO, Puglia antifascista, Bari
1976, Adda, in particolare, le pagine 177-208 sulla strage del 28 luglio 1943 e 251-260 sulla resistenza popolare
nella città di Bari.
5
A causa di quegli eventi, qui solo molto sommariamente rammemorati, il 25 aprile 2004, presso il Palazzo del
Quirinale, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito alla città di Barletta la Medaglia
d’oro al Valor Militare. Su quei giorni a Barletta, si può vedere il volume scritto proprio dalla figlia del
11
Come non ricordare la costante e fattiva presenza pastorale dell’Arcivescovo di Bari
dell’epoca, Mons. Marcello Mimmi, che mai lasciò la città, dopo essere stato costretto dagli
avvenimenti bellici ad abbandonare l’episcopio danneggiato, e che, subito dopo il 25 luglio,
attraversò di persona in lungo ed in largo l’Archidiocesi, per essere vicino al popolo ed al
clero1. Ed il vero e proprio atto di eroismo dell’Arcivescovo di Trani, Mons. Petronelli? E la
presenza di Mons. Fortunato Maria Farina, Vescovo di Foggia e Troia?
In quella resistenza, per tanto tempo ignorata e misconosciuta da tutta la storiografia quella dell’esercito italiano, della gente comune, dei civili, del clero e dei militari internati nacque e si forgiò in nuce l'Italia del dopoguerra, la 'nuova Italia', di cui custodire
gelosamente la memoria personale e storica: quella medesima che si incontrò, con la guerra
ancora in corso, per la prima volta, proprio a Bari, nel Teatro “Niccolò Piccinni”, il 28 e 29
gennaio 1944, nel primo Congresso del C.L.N. dell'Europa liberata dal nazifascismo, in cui si
riunirono i rappresentanti dei partiti antifascisti2. In quella circostanza, risuonò, per la prima
volta, dopo circa venti anni, la parola ‘libertà’, pronunciata da chi, di essa, aveva fatto una
‘religione’ nell’ambito del suo pensiero filosofico: Benedetto Croce, che quel Congresso
inaugurò con una sua memorabile allocuzione3, iniziata con un’inequivocabile apologia della
politica quale dimensione essenziale della vita sociale degli uomini, negata a tutti gli italiani
per i precedenti venti anni dalla dittatura fascista: “Senza politica, nessun proposito, per
nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione”.
La politica e l’impegno militante in essa, intesi tanto come spazio per il libero
confronto delle idee e delle ipotesi quanto come momento di verifica di esse alla prova della
‘durezza dei fatti’ e di capacità di incidere sulla realtà, erano la ‘palestra’ in cui doveva e
voleva cimentarsi quella nuova Italia che, fin dai campi di internamento e deportazione,
veniva assumendo su di sé il compito morale e civile di ricostruire il Paese e ponendosi quale
futura ‘classe dirigente’ - come scriverà il 16 aprile 1945, nell'O.d.G. della liberazione, il
Tenente Colonnello Pietro Testa nel campo di Witzendorf, il più grande di tutta la Germania
in cui furono detenuti militari italiani - nel ricordo e nel rispetto dei morti, ma fiera di se
stessa e del proprio eroico coraggio per aver saputo resistere con le armi del coraggio, della
fierezza e della dignità contro tutto e tutti.
A partire dalla caduta del fascismo e dall'armistizio fino alla liberazione, durante quei
venti mesi, il popolo italiano, attraverso tutte le forme di Resistenza che ebbe le forze e le
energie di attivare, riconquistò quella coscienza democratica comune che consentì ad una
nazione distrutta dalla guerra, - tragico epilogo di un ventennio di autoritarismo politico, di
chiusura culturale, di colonialismo e di retorica militarista - di avviarsi consapevolmente nel
lungo e difficile cammino di ricostruzione morale e materiale del proprio Paese da parte delle
sue forze culturali e politiche costrette per un ventennio alla clandestinità.
Colonnello Grasso, che tanta parte ha avuto nel conferimento di quella medaglia: MARIA GRASSO
TARANTINO - GIUSEPPE TARANTINO, L’armistizio a Barletta, Milano 2004, Rotas.
1
Si vedano, al riguardo, le Notificazioni del 3 agosto 1943 e del 9 settembre 1943, riportate per intero da
Quintino Basso nel suo volume alle pagine 157-158.
2
Si veda, sull’argomento, MARIO SPAGNOLETTI, Togliatti e il CLN del Sud, Roma 1996, Sapere 2000.
3
Altresì, sulle difficoltà dell’idealismo crociano quale filosofia capace di interpretare le veloci trasformazioni del
mondo culturale, politico, sociale ed economico del XX secolo, la bibliografia di riferimento potrebbe essere
sterminata ed esula, di sicuro, dai confini del presente lavoro. In questa sede, piace rivelarli, quei limiti, come
apparvero nei giorni seguenti l’armistizio, con le brevi parole di un giovane studente universitario di filosofia:
cfr. GIOVANNI DE GENNARO, Settembre 1943. Diario di viaggio in una patria perduta e ritrovata, cit., p. 93.
12
GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI
“Prigionia è freddo e fame, al limite della tolleranza. Non si può descrivere la fame. La vera fame, quella che
uccide, è una patologia medica [...]
Il tempo scorre lento, non ha dimensioni: settimane, mesi, anni in un assopimento doloroso [...]
In uno stato di prostrazione collettiva emerge il carattere di ciascuno:
la fame rende sospettosi, cattivi, ladri.“
CLAUDIO TAGLIASACCHI1
Discutere delle sorti dei militari italiani che furono lasciati senza ordini,
completamente allo sbando dal Re, dal Governo Badoglio, dalle altissime gerarchie militari al
momento della diffusione della notizia della firma dell’armistizio con gli angloamericani
significa seguire e cercare di dipanare molti ed intricati fili delle diverse situazioni createsi in
tutti i teatri delle operazioni belliche in cui fosse impegnato l’esercito italiano.
E’ un compito arduo e complesso che travalica i limiti e gli intendimenti di questo
lavoro: il precipuo scopo delle pagine che seguono è quello di lumeggiare in particolare la
situazione in cui furono tenuti dall’ex alleato germanico, catturati, spesso con la frode disarmo in cambio di rimpatrio - deportati nei campi di concentramento del Terzo Reich e lì
internati con sofferenze inenarrabili di ogni tipo, attraverso alcune storie di vita esemplari.
Com’è noto, quei militari - soldati, graduati, sottufficiali ed ufficiali - non erano
considerati dai Tedeschi come ‘prigionieri’, ma come ‘internati militari’ che, in quanto tali,
non erano titolari dei diritti contemplati dalla Convenzione di Ginevra del 1929 e non erano
neppure protetti dal Comité Internazionale de la Croix Rouge. La distinzione giuridica tra le
due definizioni2 riveniva dal rivendicare la neonata Repubblica di Salò quei militari come suoi
cittadini, come tali, tenuti a collaborare con la Germania. Nel contempo, quegli stessi uomini che, nella stragrande maggioranza, non collaborarono né come militari né come lavoratori
coatti civili (dopo il 20 agosto 1944) - venivano bollati come ‘traditori’ e ‘badogliani’ e fatti
oggetto delle peggiori nefandezze, inferiori, forse, solo a quelle che furono perpetrate contro
gli ebrei ed i prigionieri russi. E’ ovvio che, in quelle condizioni assolutamente anomale - che,
oggi, chi non le ha vissute in corpore vili, probabilmente, non riesce neppure ad immaginarle
a pieno e che possono essere conosciute soltanto attraverso testimonianze orali o scritte - oltre
sessantamila internati militari italiani siano deceduti durante la guerra.
I campi di concentramento destinati ai militari erano alle dipendenze del Comando
Supremo della Wehrmacht ed erano di diversi tipi:
a) gli Stalag, abbreviazione di Stammlager, riservato a sottufficiali, graduati e soldati;
b) gli Oflag, abbreviazione di Offizierslager, destinato ad accogliere tutti gli ufficiali, da
quelli inferiori a generali e ammiragli;
c) i Dulag, abbreviazione di Durchgangslager, campo di transito;
d) gli Straflag, abbreviazione di Straflager, campo di punizione.
I campi di prigionia della Wehrmacht erano solitamente sorvegliati da reggimenti, battaglioni
e compagnie di Landesschützen (unità costituite al momento della mobilitazione nel 1939 con
1
CLAUDIO TAGLIASACCHI, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi di Hitler, Venezia
1999, Marsilio, pp. 43-44 passim.
2
“Degna di miglior causa”, la definirà cinquant’anni dopo uno di quegli internati: cfr. MATTEO FANTASIA,
La ribellione di Biala Podlaska: 6 gennaio 1944, “Risorgimento e Mezzogiorno”, II, 1990, n° 2, pp. 106.
13
le classi più anziane) o reparti ausiliari addetti a questo specifico compito con personale
tedesco o anche straniero.
I militari italiani furono rinchiusi in 284 campi d’internamento, tutti molto differenti
l’uno dall’altro sia per strutture ricettive che per trattamento. I campi erano situati nelle
diciassette Regioni militari (Wehrkreis) in cui erano suddivisi i territori controllati dal Reich.
La maggioranza dei circa 28.000 ufficiali, invece, fu destinata a dodici Oflag situati in Polonia
che erano stati precedentemente giudicati non agibili dalla Croce Rossa Internazionale, ma
riaperti appositamente per accogliere gli ufficiali italiani.
A più di cinquanta anni di distanza da quegli avvenimenti della seconda guerra
mondiale, gli storici hanno cominciato a squarciare il velo che ha avvolto per tutto questo
tempo le vicende di quegli italiani che, dopo l’otto settembre, furono internati nei lager
nazisti. Nel 1990, fu pubblicata in Germania la già citata monumentale monografia di Gerhard
Schreiber, Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbereich 1943–1945.
Verraten - Verachtet - Vergessen, tradotto e pubblicato in Italia nel 1992, in un’edizione
ampliata, dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 1. Gerhard Schreiber è un
ufficiale della Marina tedesca, esperto di storia militare italiana: L’importanza della sua opera
è data dallo studio contestuale dei documenti inediti provenienti dall’Archivio Centrale
Federale di Coblenza, dall’Archivio Militare di Friburgo, dall’Archivio Politico degli Affari
Esteri di Bonn e da altri archivi tedeschi, e di quelli conservati nell’Archivio Centrale dello
Stato di Roma, nell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri di Roma, nell’Archivio
Storico dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito nonché nell’archivio privato di
Renzo De Felice. La sua ricostruzione storiografica risulta, quindi, dettagliatissima, facendo
riferimento a fonti tedesche sconosciute fino a quel momento in Italia.
Per molti anni, sulle 'scomode' vicende degli internati militari italiani (come lo sono
quelle dei prigionieri di tutte le guerre) la storiografia contemporaneistica non ha indagato: è
stata fatta calare su di loro una sorta di damnatio memoriae2. Le uniche ricostruzioni di quelle
vicende sono state quelle prodotte dalla memorialistica dei protagonisti, che, ovviamente, non
erano storici di professione, eccetto Vittorio Emanuele Giuntella che lo sarebbe diventato,
quindi, con tutti i limiti del caso.
La ricostruzione storiografica prevalente del periodo ha privilegiato la resistenza
armata, quella condotta dai partigiani sulle montagne, politicamente inquadrati sulla quale le
testimonianze di alcuni internati - ad esempio, Claudio Tagliasacchi - nutrono forti dubbi di
genuinità.
"Il mondo fuori stava crollando e con esso i valori morali e sociali: una evoluzione
rapida che travolgeva e modificava tutto senza però coinvolgerci. Forse fu la vera causa per
cui al nostro rientro saremmo stati volutamente ignorati. Nell'Italia del dopoguerra nascevano
i nuovi eroi del comodo esilio all'estero che, giunti al potere, dovevano creare una diversa
scala di valori che giustificasse il vertice che avevano occupato [...] In questo quadro gli
internati militari erano scomodi, forse pericolosi [...] scomparvero. Al loro ritorno erano
stanchi, avviliti, sorpresi e disorientati da questa nuova socialità [...] erano tuttavia convinti
che la nuova giustizia, per la quale avevano sofferto ed erano morti in numero ben superiore
ai 'partigiani', avrebbe spontaneamente richiesto la loro partecipazione attiva alla ricostruzione
1
Vedasi infra bibliografia.
Probabilmente, fa parte di essa anche la scarsissima disponibilità di testi sull’internamento riscontrata dal
sottoscritto nelle biblioteche pubbliche ed universitarie... almeno a Bari.
2
14
della nazione. Ne avevano le referenze ma non lottarono. Erano ancora degli illusi. Nessuno
parlò di loro, furono degli emarginati"1.
In questo brano, che si è cercato di sunteggiare in modo appropriato, l'autore
testimonia, probabilmente i sentimenti di molti suoi commilitoni, gli stessi che nutriva
Vittorio Emanuele Giuntella, come ne racconta Luigi Cajani, citando i suoi incontri con
Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, e con Ferruccio Parri 2,
leader del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e primo Presidente del Consiglio dei
Ministri dopo la Liberazione.
Giuntella riconosceva in questo rifiuto di valorizzare il "no" degli internati militari
anche da parte delle gerarchie militari una volontà di generica 'pacificazione', nell'ambito
delle Forze Armate medesime, rispetto a coloro i quali avevano aderito alla Repubblica
Sociale Italiana.
In un Paese da ricostruire mancava la volontà di ascoltare e di comprendere scelte che
apparivano incomprensibili, nonostante, a Roma, l’Alto Commissario per i prigionieri di
guerra, in una nota diretta alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel febbraio 1945, avesse
dichiarato che i militari italiani che non avevano aderito al governo neofascista di Salò e che
avevano rifiutato di lavorare per i tedeschi soffrendo volontariamente per questo, avevano
contribuito alla causa dell’Italia e degli Alleati.
E’ impossibile che i responsabili del Governo del sud e i vertici militari, su cui
pesavano le responsabilità della scellerata gestione dell’8 settembre, ignorassero la scelta
degli internati, più verosimilmente però la scarsa attenzione ed il nullo intervento a loro tutela
era un coerente prolungamento della passata indifferenza.
L’opinione pubblica guardava, se non con sospetto, con estrema indifferenza agli ex
internati, considerati spesso degli opportunisti che non avevano compiuto il proprio dovere di
soldati e di cittadini. Si temeva che gli internati potessero essere stati indottrinati dai nazisti o
dai russi, quando, la massima parte degli internati che rimpatriava era fondamentalmente
antifascista e democratica ma non politicamente organizzata.
Anche i vertici militari manifestarono, a modo loro, interessamento per gli ex internati.
Al loro rientro gli ex internati dovettero subire le commissioni d’inchiesta dei distretti militari,
ansiose di appurare le circostanze della cattura, ma molto poco interessate al lunghissimo
periodo dell’internamento. Tutti i militari dovevano rispondere a domande su un apposito
modulo e rilasciare una dichiarazione sul contegno avuto durante l’internamento, con l’elenco
dei trasferimenti nei vari campi, l’eventuale accettazione delle proposte nazifasciste di
arruolamento o di avviamento al lavoro obbligatorio3.
A coloro che avevano riportato lesioni e invalidità permanenti a causa
dell’internamento fu richiesta la documentazione attestante che le menomazioni subite fossero
state effettivamente contratte durante la prigionia. Per gli ex internati, disgregati come gruppi
solidali al loro rientro in Italia, la necessità di difendersi da gravi sospetti, senza che venissero
in alcun modo riconosciute né la durezza dell’internamento né la coraggiosa scelta di resistere
alle lusinghe nazifasciste, assieme all’indifferenza spesso manifestata dagli stessi familiari
sulle traversie passate, fece maturare rapidamente un atteggiamento di dignitoso e amaro
1
CLAUDIO TAGLIASACCHI, Op. cit., pp. 82-83, passim
Cfr. LUIGI CAJANI, Vittorio Emanuele Giuntella da testimone a storico dell’internamento, in
www.uniroma3.it.
3
Si veda più avanti la relazione che Giuseppe Rinaldi consegnò al Distretto militare di Foggia subito dopo il
rimpatrio.
2
15
silenzio, che portò a rimuovere l’esperienza dell’internamento per decenni, se non per tutta la
vita.
Gli internati videro la propria storia d’internamento confusa e la prigionia di guerra
scoloriva: con il Paese che desiderava lasciarsi il passato bellico alle spalle. Così gli ex
internati dovettero prendere atto della subordinazione della loro vicenda sia nell’immaginario
collettivo sia a livello istituzionale, rispetto alla lotta partigiana. E’ importante osservare che i
partigiani riconosciuti in base ad apposite leggi dello Stato furono equiparati alle forze
armate. Così, per i giovani soggetti alla leva nell’immediato dopoguerra, quella appartenenza
fu riconosciuta quale servizio militare già prestato e posti in congedo.
Oggi, affrontare le questioni riguardanti le vicende dei militari italiani dopo l’otto
settembre 1943 significa andare alle origini di quella nuova idea di Italia e di Patria, che
venne a maturare nelle coscienze di molti, e di quella rinnovata coscienza nazionale che
nacque nei venti mesi che intercorsero tra l’Armistizio e la Liberazione.
Come non rammemorare, in questo contesto, il valore della testimonianza diretta e
dell’esempio rappresentati dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi - anch’egli,
all’epoca, giovane ufficiale dell’esercito italiano - nel Discorso tenuto a Cefalonia il primo
marzo 2001 per commemorare i caduti della Divisione “Acqui”1?
Proprio quel discorso presidenziale, a parere di chi scrive, mette il punto su di un
risultato teoretico acquisito dalla storiografia dell’internamento: la dimensione
antinazifascista, a pieno titolo, dell’impari lotta sostenuta da coloro i quali caddero nelle mani
del nemico germanico dopo l’8 settembre, allorquando gli opposero con le sole armi della
fierezza, del coraggio e della dignità il rifiuto di collaborare in qualsivoglia modo e forma,
quali che fossero le loro motivazioni interiori o il grado di cosiddetta consapevolezza politica.
“[...] i militari italiani rinchiusi nei campi di prigionia nazionalsocialisti, nel rifiutare ogni
forma di collaborazione con la Repubblica sociale e con il ‘Terzo Reich’ - decisione che
significava rinuncia a trattamenti privilegiati per continuare a subire quanto di peggio
potessero offrire i Lager - attuarono in pratica anche loro, sia pure senza l’uso delle armi, una
forma di resistenza [...] Da parte tedesca il rifiuto opposto ad una qualsiasi forma di
collaborazione fu percepito per quello che in effetti era, ossia resistenza nei confronti dei
sistemi fascista e nazionalsocialista e rifiuto della guerra di aggressione”2.
Peraltro, anche tra coloro i quali che, per tante e differenti ragioni, aderirono alle
richieste - o cedettero alle pressioni ed ai ricatti - ben pochi combatterono al fianco delle
truppe del Reich, come attestano molti documenti di archivio3. “Bisogna rendere giustizia a
questi dimenticati protagonisti della lotta antifascista e antitedesca con un'adeguata
rievocazione della loro esistenza. Dalla narrazione di quella scelta emergono numerosi episodi
1
Lo si può leggere nella sua interezza all’inizio del presente lavoro.
GERHARD SCHREIBER, Op. cit., pp. 16-17.
Nell’ambito della guerra di aggressione condotta dall’Italia fascista, non vanno dimenticati quei militari italiani
che, loro malgrado, combatterono sul fronte balcanico, sul fronte francese ed in Africa e che furono prigionieri.
Tra gli scritti memorialistici di nostri conterranei intorno alla loro esperienza bellica, si può leggere quello di
DOMENICO CALVI, Sul sentiero sbagliato (memorie di guerra e di prigionia), Firenze 1979, La nuova Italia,
“Quaderni di Politica e Mezzogiorno”, pp. 159. Egli, all’epoca docente di filosofia coratino, combattè in Grecia e
visse circa sei anni da prigioniero, dei greci prima e degli inglesi poi (in India), prima di poter tornare in Italia
nella primavera del 1946.
3
Si veda, a tal riguardo, il contributo di VITO GRISETA, Una fonte per lo studio dei militari italiani internati
nella seconda guerra mondiale. L’Archivio ANPI di Bari, “Risorgimento e Mezzogiorno”, XI, 2000, nn° 19-20,
pp. 179-196. Molti militari aderirono alle ‘richieste’ dei Tedeschi proprio per poter giungere così in Italia ed
aggregarsi alle formazioni partigiane.
2
16
di commovente solitudine, di patriottismo, di eroismo individuale e collettivo, che stanno a
dimostrare la saldezza morale e spirituale dei soldati italiani pure in situazioni tanto
deprimenti e difficili”1.
A cominciare dalle condizioni materiali di vita, che erano, di sicuro, estremamente
miserevoli, come attestano tutte le testimonianze dei reduci ed anche i documenti dell’esercito
germanico2, sebbene non paragonabili a quelle patite dagli ebrei e dai deportati politici. “Nei
Lager si trovavano dei contadini italiani simili a scheletri, che dovevano lavorare 14 ore al
giorno e come bestie da soma nelle fabbriche o in altre aziende dell’industria degli armamenti
tedesca. Vi soffrivano persone edematose per mancanza di sufficiente nutrizione, che si
trascinavano seminude lasciando scoperte le loro orrende tumefazioni. E anche se riuscivano a
sopravvivere, i danni subiti dalla loro salute erano ormai irreparabili. Persino tra i giovani
internati dilagava la tubercolosi. Spesso i campi di concentramento erano luoghi dove i
tedeschi facevano vivere i loro ex compagni d’armi in condizioni così disumane, da
costringerli a cercare tra i rifiuti bucce di patate tanto per mettere qualcosa sotto i denti. Si
trattava in genere di luoghi dove regnavano sofferenze, lacrime e disperazione”3.
In quei lager, però, soprattutto tra gli ufficiali, cominciò ad assumere consapevolezza e
maturità la 'nuova Italia', l'Italia che sarebbe stata, l'Italia democratica, l'Italia che voleva dare
un taglio netto con il passato monarchico (molti ufficiali nutrivano sentimenti repubblicani e
propendevano per quella forma istituzionale) e fascista: l’unica esperienza politica
quest’ultima vissuta, per fatto anagrafico, dalla stragrande maggioranza di loro.
Scrisse V. E. Giuntella: "L'amara esperienza dei frutti del fascismo fatta sulla propria
pelle li porta a respingerlo come esperienza storica irrevocabilmente chiusa con il disastro e la
vergogna. Se all'inizio non vi è nella massa degli internati una chiara consapevolezza politica
[...] vi è però una coscienza comune che una generale risposta negativa al fascismo e al
nazismo ha il significato politico di una rottura netta con il passato"4.
Quell’enorme massa di uomini, che cerca, nelle forme e nei limiti in cui può, di
sopravvivere in condizioni disumane, avvia al proprio interno - consapevolmente fin
dall’inizio per alcuni, chiarificandosi progressivamente alla coscienza in itinere per altri - un
processo di autoformazione politica e culturale senza precedenti che consente ai protagonisti
di passare da un generico sentimento antigermanico (peraltro, molto diffuso anche tra i
sottufficiali e tra i soldati) ad un sempre più consapevole antinazifascismo.
Per utilizzare ancora una volta le illuminanti parole di Vittorio Emanuele Giuntella al
fine di chiarire il concetto, si riporta per intero il brano che è collocato in esergo al presente
lavoro: “Il Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un mondo di
resistenti, che prese su di sé la dignità e l'onore di un Paese, che aveva assistito al crollo di
ogni autorità militare e civile, e lottò in condizioni, che non è esagerato dire eroiche. Fu la
presa di coscienza di un gruppo di italiani, che nella maggior parte aveva avuto come sola
esperienza politica quella del fascismo, ma che aveva valutato direttamente e sulla propria
pelle i disastri della guerra fascista, che l'imbelle retorica dei suoi gerarchi non poteva più
nascondere. Nel Lager avvenne un fatto anomalo. Proprio lì, in un mondo dove era preclusa
ogni volontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli italiani per la prima volta di esprimere
1
LILLO MUNAFO'. Da Biala Podlaska agli altri lager tedeschi, "Risorgimento e Mezzogiorno", IV, 1993, n°
8, p. 129.
2
Sulle condizioni materiali di vita nei Lager, cfr. GERHARD SCHREIBER, Op. cit., pp. 604-646.
3
GERHARD SCHREIBER, Op. cit., p. 604.
4
VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA, Il nazismo e i lager, Brescia 1978, Studium, p. 112.
17
individualmente una adesione, o un rifiuto, e si pronunciarono in massa per il rifiuto. Nella
storia degli italiani è uno dei rarissimi casi di una decisione collettiva presa con piena
consapevolezza del rischio di morte, che comportava. Una resistenza disarmata, ma non
inerme e inefficace, significativa soprattutto come affermazione di valori morali, che sono
sempre da difendere, anche quando tutto il resto è perduto1.
L’antifascismo si sviluppa, naturalmente, in posizioni politiche diversificate al proprio
interno, come, del resto, stavano via via emergendo nel Paese, tra i partiti, che assunsero
direttamente responsabilità ministeriali a partire dal secondo governo Badoglio: “La nostra
battaglia era dunque stata un episodio di una più vasta lotta in cui s’erano visti impegnati il
nostro e tutti gli altri Paesi d’Europa; era stata un episodio della guerra nazionale e insieme
della lotta politica per l’affermazione dei principi di democrazia, di libertà, di giustizia. Il filo
tenace che ci univa ai combattenti della libertà, ai partigiani italiani [...] consisteva proprio nel
fatto che noi avevamo resistito nei campi, rifiutando di uscirne anche con il compromesso più
facile [...] avevamo combattuto per i medesimi valori [...] Tra i reticolati tedeschi eravamo
diventati uomini liberi [...]”2.
Liberi, in primis, di quella libertà interiore che è precondizione imprescindibile a che
possa essere esercitato qualunque diritto di cittadinanza, quindi, di partecipazione democratica
autentica.
1
2
VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA, si vedano gli eserghi.
ALESSANDRO NATTA, Op. cit., pp.133-134 passim
18
PROFILI DI INTERNATI MILITARI ITALIANI
21 novembre [1945]
Sono tre mesi e mezzo ormai dal mio ritorno. Sempre più sento che la vita non può riprendermi, non deve
riprendermi. In quei due anni di ascesi di fronte all'assoluto e alla morte ho toccato una regione che si è radicata
in me, in ciò che di me è più vero, più lontano dall'abitudine. Ora devo difenderla. Conservarla e nutrirla. Ma è
molto più difficile qui - vivere tra cose che si muovono e conservare in sé la libertà, l’indipendenza, ciò che mi fa
libero dalla storia. Vivere nell’immanenza portando in sé il senso della trascendenza. Amare, forse, la vita
portando in sé un amore più alto e una tristezza più profonda delle vicende tristi del mondo.
ENZO PACI1
I trucioli del mio pagliericcio sono diventati polvere, e in essa navigano le mie ossa.
E mi sento come un naufrago.
GIOVANNI GUARESCHI2
La furia devastatrice dell'esercito germanico imprigionò e deportò centinaia di migliaia
di militari, ufficiali, sottufficiali, graduati e truppa in tutte le parti d'Europa: in Polonia, nei
Balcani, in Grecia, in Francia... Al momento dell’armistizio dell'8 settembre, ma le forze
armate germaniche ci si stavano preparando ‘scientificamente’ - con il piano “Achse” - dal
momento della caduta del regime fascista. Hitler ‘prevedeva’ che l’Italia postfascista si
sarebbe voluta sganciare con ogni mezzo dall’alleanza esiziale con la Germania nazista a cui
Mussolini l’aveva condotta.
Pertanto, le truppe tedesche erano in allerta per cogliere qualsiasi movimento che
potesse figurarsi come un ‘tradimento’ dell’alleanza. La storia delle relazioni tra gli eserciti
era stata caratterizzata da un tradizionale sentimento antigermanico dei soldati italiani, trattati
davvero in modo impari rispetto ai tedeschi: più che di alleanza, il rapporto tra i due eserciti
appare unilaterale, di dominio e subordinazione3.
Cosicché, appena diffusa la notizia dell’Armistizio con gli Angloamericani, scattò,
ipso facto, la caccia agli ex alleati italiani, ovunque si trovassero: migliaia di militari furono
deportati nei lager tedeschi, scrivendo una pagina importantissima, nonostante sia stata a
lungo misconosciuta, della resistenza italiana al nazifascismo in tutte le sue forme.
Attraverso una ricerca, si è cercato di ritrovare alcuni tra gli altri ufficiali internati,
perché, in quelle condizioni, le vicende belliche avevano ridotto molti giovani intellettuali
che, a guerra finita, sarebbero diventati protagonisti della cultura e della politica italiane e non
solo. Molti altri esempi si sarebbero potuti addurre, ma le figure qui evocate per la loro
diversità appaiono paradigmatiche dell’assoluta pluralità di posizioni politiche e culturali tra
gli internati: lo storico dell’età moderna Vittorio Emanuele Giuntella, la figura più carismatica
per lo sviluppo degli studi storiografici sull’internamento, il giornalista-scrittore Giovanni
Guareschi, lo storico del Cristianesimo Giuseppe Lazzati, futuro Magnifico Rettore
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il futuro leader comunista Alessandro Natta, il
filosofo Enzo Paci e la lista si potrebbe certamente allungare con altri nomi ‘eccellenti’.
1
Il passo riportato è tratto dai Diari del filosofo, conservati nell’Archivio Paci, ed è stato edito sul fascicolo
monografico di “Aut aut”, nuova serie, luglio - ottobre 1986, nn° 214-215, p. 76, dedicato interamente a Paci,
nel decennale della sua prematura scomparsa.
2
GIOVANNI GUARESCHI, Op. cit., p. 173.
3
Cfr. ALESSANDRO NATTA, Op. cit., pp. 7-17.
19
a) Vittorio Emanuele Giuntella
Non è possibile non incominciare questa galleria dallo storico Vittorio Emanuele
Giuntella (1913-1996), tenente degli alpini di stanza a Santa Lucia, vicino Gorizia,
allorquando, con tutto il suo reparto, fu disarmato e catturato dai Tedeschi nella notte tra l'8 ed
il 9 settembre con il 'solito' inganno del rimpatrio.
A Vittorio Emanuele Giuntella, si deve quello che per moltissimi anni è stato, l’unico
approccio storiografico scientifico alla storia dell’internamento militare, non fondato cioè solo
sulla pur lodevolissima memorialistica di tanti protagonisti, che hanno narrato le vicende di
cui sono stati protagonisti e vittime, ma un approccio complessivo basato su materiale
documentario di prima mano. Infatti, egli è stato il primo storico che ha messo in luce
l'importanza in funzione antinazifascista della 'resistenza disarmata' dei militari italiani
attraverso il duplice rifiuto di aderire alla R.S.I. che di lavorare da civili per il Terzo Reich.
E’ evidente la partecipazione emotiva e la passione civile di V. E. Giuntella riguardo
le vicende storiche degli I.M.I., avendole egli, prima che studiate in qualità di storico, vissute
da testimone.
“Nel lager, anzi nei lager, itinerario nella sofferenza d'Europa, Vittorio Emanuele
conobbe oppressi di ogni nazionalità, dentro e fuori del recinto di filo spinato, eppure
portatori di valori e di aspirazioni universali, pur nella differenza di cultura, di lingua, di
appartenenza religiosa. Ce n'era a sufficienza per lui al fine di provocarlo a rivedere tutta
l'impostazione culturale dominante ed in primo luogo a divenire fortemente critico verso ogni
eccesso o concentrazione di autorità. Vittorio Emanuele non poté che confermarsi nella sua
propensione repubblicana, intrisa di orgoglio popolare romano, quello che in tutte le età
mosse tribuni e ribelli a difendere il diritto di tutti contro quello di ristrette oligarchie.
Condividendo sofferenze, umiliazioni e speranze dei suoi compagni, gli internati militari,
approfondì non solo la sua propensione ecumenica ma sentì la necessità di confrontare la
storia delle nazioni con il rispetto delle fedi, religiose e non. La vita, la sua e quella degli altri,
si intrecciava così con le sue radici culturali, costituendo il terreno fecondo della sua scelta
definitiva: la ricerca storica come ricerca di umanità e per l'umanità”1.
L’esperienza concentrazionaria fa maturare a Giuntella anche la vocazione più
profonda della sua vita quella della ricerca storica, quale momento di approfondimento delle
istituzioni giuridico-politiche presenti. Non è un caso che, dopo la seconda guerra mondiale,
egli decida - da giurista e funzionario del Senato - di dedicarsi agli studi storici ed, in
particolare, sotto la guida del prof. Carlo Ghisalberti, a quelli di storia risorgimentale, ovvero
a quel periodo in cui nascono gli stati moderni, così come li abbiamo conosciuti anche nel
ventesimo secolo.
Nacquero così, da un lato, le sue ricerche sulle società dell’età moderna, consegnate a
tanti illuminanti lavori, dall’altro l’attività di fondatore dell’ANEI, dei Convegni dedicati allo
studio storico dell’internamento militare ed i suoi lavori come Il nazismo e i lager.
b) Giovanni Guareschi
Sempre a Sandbostel visse la sua prigionia anche il giornalista e scrittore Giovanni
Guareschi (1908-1968), “emiliano della Bassa”, come si autodefiniva.
1
ALBERTO MONTICONE, La vocazione dello storico, in www.uniroma3.it.
20
Dal 1936, Giovanni Guareschi lavorò al “Bertoldo” come capo redattore.
Alla data dell’8 settembre, Guareschi era sottotenente di artiglieria in Alessandria, fu
catturato e di lì, come per tanti altri, iniziò il suo calvario della prigionia nel Terzo Reich.
A guerra finita, nel 1945, Giovanni Guareschi fondò e diresse con il giornalista
Giovanni Mosca (1908-1983) il settimanale satirico - umoristico, "Il Candido", ispirato ad una
linea politico - ideologica di destra. Dal 1950 al 1957, Guareschi lo diresse da solo e, nel
1961, ne cessò la pubblicazione.
Nel 1949, pubblicò il Diario clandestino (1943-1945) in cui, dopo avere difeso le
pagine che lo contenevano contro i carcerieri teutonici, raccolse il materiale pensato e scritto
durante gli anni di internamento, allorquando aveva, insieme ad altri internati (tra cui il
maestro fisarmonicista Arturo Coppola), dato vita ad un giornale parlato e recitato piccole
pièces teatrali scritte da lui. “Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci
dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la
chiesa, il teatro, i concerti, le mostre d’arte, lo sport, l’artigianato, le assemblee regionali, i
servizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commercio,
l’industria.”1
Il suo nome è stato reso celebre in tutto il mondo - ed i suoi libri molto tradotti - dai
racconti umoristici della serie "Mondo piccolo", scritti a partire dai primi anni ‘50, ambientati
in un paese della Bassa Padana, “tra il fiume e l’Appennino” ed incentrati sui quotidiani
scontri politico-ideologici paesani tra l’irruento parroco, don Camillo, ed il sanguigno sindaco
comunista Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, che qualcuno ha definito l’incarnazione di un
‘togliattismo dalle scarpe grosse’.
Questi due personaggi, protagonisti dei racconti, sono stati trasposti per il cinema con
l'interpretazione magistrale di due grandi attori scomparsi da tempo, quali Fernandel e Gino
Cervi, in una serie di quattro film: “Don Camillo”, “Don Camillo e l’onorevole Peppone”, “Il
compagno don Camillo”, “Don Camillo monsignore... ma non troppo”.
Negli anni ‘70, nel clima politico del ’compromesso storico’ e della contestazione
giovanile post-sessantottina, la tematica fu ripresa in un altro film interpretato da Gastone
Moschin (nei panni di don Camillo) e da Lionel Staeder (nel ruolo di Peppone) intitolato
“Don Camillo e i giovani d’oggi”.
Sempre controcorrente ed anticonformista, Giovanni Guareschi nei primi anni ‘50 subì
più di un processo: i più famosi quelli contro Einaudi e De Gasperi. Quest’ultimo gli costò
un’ingiusta detenzione, visto il carteggio che intercorse con il Presidente del Consiglio
stesso2.
Il nome di Giovanni Guareschi viene ricordato anche da Matteo Fantasia nel suo
volume di memorie non soltanto per la "Favola di Natale"3, ma, soprattutto, per la circostanza
che li accomunava, di avere saputo della nascita delle figlie Carlotta ed Anna Maria quando
erano già internati. Altresì, abitando la famiglia di Guareschi a nord della linea gotica, nel
piacentino, egli aveva potuto ricevere ben prima la notizia del lieto evento e comunicare più
agevolmente con la famiglia. “Mi ricorderò anche la sera del 31 dicembre 1943: mi arrivò la
prima cartolina. E nella prima riga c’erano cinque straordinarie parole <Tredici novembre
nata signorina Carlotta>. Mi ricorderò la notte del 30 dicembre ‘43. Nella baracca più alta del
1
GIOVANNI GUARESCHI, Op. cit., p. XV.
Si può vedere il materiale documentario di quei processi sul sito web www.giovanniguareschi.com.
3
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 117-124.
2
21
campo turchestano, in mezzo alle centomila vecchie parole accatastate sul tavolo dell’ufficio
postale, ce n’era una nuova: Carlotta”1.
c) Giuseppe Lazzati
Giuseppe Lazzati (1909-1986) visse ed operò a Milano in tutta la sua vita. La sua
adolescenza, funestata dal precoce decesso del padre cinquantenne, nel 1926, la spese
nell’Associazione “Santo Stanislao”: come Presidente della medesima ebbe il suo primo
incontro con Sua Eminenza Ildefonso Schuster, Cardinale Arcivescovo di Milano, fino al
1954, quando il suo posto sarà occupato da Mons. Giovanni Battista Montini. Con entrambi i
presuli, Lazzati ebbe un rapporto lungo e fecondo, fatto di reciproca
Nel 1931, si laureò in Lettere presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed iniziò
la sua carriera universitaria di assistente come storico del Cristianesimo.
Dal 1934 fino alla deportazione, fu Presidente Diocesano della Gioventù dell’Azione
Cattolica: sono gli anni in cui rivela le sue capacità di leader religioso ed educativo,
approfondendo due tematiche cruciali del suo pensiero: il ruolo del laicato nella Chiesa e nel
mondo ed il valore cristiano della realtà
Nel 1938, maturò la scelta della ‘consacrazione laicale’ e fondò il sodalizio “Milites
Christi Regis”, dopo la rottura con padre Agostino Gemelli. Bozza della costituzione del
sodalizio è presentata al Cardinale Schuster che non fa mancare la sua paterna benedizione di
approvazione. Per sé e per i sodali, Lazzati voleva una consacrazione reale che comportasse
l'osservanza integrale dei tre consigli evangelici, ma che fossero e rimanessero laici che
traessero la propria forza di evangelizzazione dal sacramento del battesimo e non svolgessero
vita di comunità. Questa valorizzazione del ruolo dei laici nell’evangelizzazione oggi può
apparire ovvio, allora era qualcosa di assolutamente innovativo.
A dare una svolta brusca e decisa a quest'ordine di cose intervennero gli avvenimenti
della drammatica estate del 1943: Lazzati era ufficiale degli Alpini quando, con l’armistizio,
fu catturato dai Tedeschi a Merano, in Alto Adige. Durante l’internamento, che patì in
parecchi campi (Stablak, Deblin - Irena e Sandbostel), si prodigò perché gli ufficiali italiani,
con i quali si trovava, non cedessero ai ricatti dell’esercito nazifascista, promuovendo
un’intensa attività di riflessione etico-politica e religiosa e, più in generale, culturale: egli
animava incessantemente da par suo gruppi di lettura del Vangelo, di riflessione spirituale e di
preghiera
Nell’immediato dopoguerra, fu Consigliere Comunale di Milano e Deputato
all’Assemblea Costituente per la Democrazia Cristiana. Il 18 aprile 1948, fu eletto alla
Camera dei Deputati: dopo la prima legislatura repubblicana, abbandonò la politica attiva,
preferendo attendere ai suoi studi storici e dedicarsi all’impegno religioso.
Fu esponente di primissimo piano del cattolicesimo democratico con un nutrito gruppo
di altri studiosi cattolici quali: Giuseppe Dossetti (1913-1996), Amintore Fanfani (19081999), Giorgio La Pira (1904-1977), animati ed accomunati da un’idea altissima della
politica, intesa come ‘servizio’, come impegno etico orientato al bene comune e come
prosecuzione, sul terreno della politica, dell’impegno religioso al servizio degli altri, dei più
poveri, dei più umili. Ognuno degli studiosi or ora menzionati ha avuto, ed è stato, una storia
a sé: alcuni hanno abbandonato la politica attiva per l’impegno esclusivamente religioso,
1
GIOVANNI GUARESCHI, Op. cit., pp. 171-172.
22
come Dossetti, altri ne hanno percorso tutte le tappe come Fanfani e Moro, la cui esperienza
politica fu brutalmente troncata, nel 1978.
Nel 1952, il sodalizio da lui fondato divene un Istituto secolare, che ricevette - come
altri analoghi - uno status giuridico ben definito dai Padri Conciliari nel Concilio Ecumenico
Vaticano II, affinché fosse riconosciuta la loro originalità e specificità, non come un’altra
forma di vita consacrata e con un documento pontificio di Papa Paolo VI. Dal 1969, l’Istituto
secolare fondato da Giuseppe Lazzati prese il nome di “Cristo Re”.
Nel 1968, il prof. Lazzati, dopo essere stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia
nel triennio 1965-1968, fu eletto Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
di cui aveva percorso tutti i gradi della docenza: Rettorato che fu da lui tenuto per cinque
trienni fino al 1983.
Nel 1991, è iniziata la procedura istruttoria, presso la Santa Sede, del processo di
canonizzazione del prof. Giuseppe Lazzati, avviata da Sua Eminenza Carlo Maria Martini,
Cardinale Arcivescovo di Milano dell’epoca.
d) Alessandro Natta
Alessandro Natta (1918-2001), giovane e brillante ‘normalista’, fu compagno di studi,
di due anni maggiore, del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Già antifascista
militante, dopo aver conseguito la laurea in lettere - dove aveva avuto Maestri quali Guido
Calogero, Delio Cantimori, Luigi Russo - combattè a Rodi, nel Dodecaneso, dove venne
imprigionato e trascorse la sua prigionia in tre campi: Kustrin, Sandbostel e Wietzendorf.
Dopo la fine della guerra, si dedicò totalmente alla vita politica, venendo eletto al
Parlamento, nelle elezioni del 1948, nelle liste del Partito Comunista Italiano.
Percorse tutto il cursus honorum nel PCI fino ai massimi livelli - deputato per dieci
legislature (1948/1991), capogruppo alla Camera (1972/1979), membro della direzione e della
segreteria, direttore delle riviste “Rinascita” e “Critica marxista” - che culminò nell’elezione a
segretario generale (1984), dopo l’improvviso e prematuro decesso di Enrico Berlinguer
(Padova, 11 giugno 1984), del quale era stato uno stretto collaboratore, condividendone tutte
le scelte politiche: dal compromesso storico (1973), alla politica di solidarietà nazionale
(1976/79) - durante la quale accaddero il drammatico rapimento di Aldo Moro (16 marzo
1978) e la sua tragica fine (9 maggio 1978) - fino alla battaglia contro il governo Craxi sulla
‘scala mobile’.
Nel 1988, si dimise dalla carica di segretario generale e fu eletto presidente del partito
(1988/1991): al momento dello scioglimento (1991) del partito politico in cui aveva militato
per oltre un cinquantennio in un’altra formazione politica, il Partito Democratico della
Sinistra, Alessandro Natta, non potendone condividere le ragioni, prese la decisone di porre
termine alla sua esperienza politica, ritirandosi a vita privata nella sua Liguria.
Scrive in un significativo passaggio della Premessa al suo volume L’altra resistenza
per spiegare, forse, il suo ritiro dalla militanza politica attiva, rinunciando al ruolo di ‘padre
nobile’ della neonata formazione politica: “Che sia finita un’epoca lo penso anch’io [...] Non
mi colloco nella coorte, pur numerosa, dei catastrofisti, e nemmeno in quella dei pentiti di
avere progettato delle società migliori [...] può essere illusorio credere che per aprire
prospettive nuove e migliori sia sufficiente rimuovere ed esorcizzare il passato, chiudere i
capitoli più controversi, aspri e sanguinosi della nostra storia con qualche manipolazione o
23
revisione, con qualche taglio di radici, che pareggi i conti, che giustifichi e assolva tutto e
tutti”1.
In occasione del decennale della Liberazione, Alessandro Natta aveva scritto L’altra
resistenza, con una finalità eminentemente politica, che egli stesso, dopo quarant’anni,
rammemora: “Per contrastare i rischi che la resistenza venisse offesa e tradita e che si
producessero rotture e involuzioni nel tessuto democratico del nostro Paese, a me parve che
potesse essere utile anche una riflessione storico-politica sulla deportazione in Germania,
dopo l’8 settembre, e sulla resistenza nei campi di concentramento dei soldati e degli ufficiali
italiani”2.
Quel testo, offerto agli Editori Riuniti (la casa editrice notoriamente legata al P.C.I. ed
alla sua politica, culturale e non), all’epoca, non fu pubblicato perché non rientrava nei piani
editoriali dei medesimi, spiega l’Autore quarant’anni dopo, al momento della pubblicazione
del suo libro, nel 1997, per i tipi della Einaudi: una ‘pietosa bugia’ per nascondere il non
gradimento politico del testo da parte dei vertici del suo partito (leggi Togliatti), difendendone
la memoria?
Nel volume, Natta affronta in un’ottica tutt’affatto diversa, rispetto alla tradizione
storiografica più vicina alla sua parte politica3, l’esperienza della Resistenza al nazifascismo,
così come egli l’ha vissuta: da internato militare, appunto. Egli mette in luce soprattutto
quegli aspetti di carattere culturale e politico che consentirono ad un’ingente massa di ufficiali
e non solo di resistere alle pressioni ed alle vessazioni di ogni genere cui fu sottoposta:
“Restare uomini era in quella situazione un problema essenziale e per continuare a essere
uomini valeva non già trattenere il fiato, non sprecare energie, non far lavorare nè muscoli nè
cervello quanto invece l’impegnarsi in qualche cosa, appassionarsi in qualche interesse,
magari un gioco, uno spettacolo, lo studio, la discussione e la ricerca sui perché della
prigionia e sul futuro nostro e del nostro Paese. Per resistere bisognava restare uomini e per
essere uomini occorreva rendersi conto dei motivi della nostra resistenza“4.
e) Enzo Paci
Anche il filosofo Enzo Paci (1911-1976), combattè sul fronte balcanico e fu nei lager
di Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf, distinguendosi in essi per l’attività svolta tra gli
internati in favore della resistenza antinazifascista. Nel 1947, Paci pubblicò il volume
Esistenza ed immagine (Milano 1947, Tarantola), una raccolta di saggi su poeti e scrittori
(Eliot, Mann, Proust, Rilke, Valery), - il primo scritto dopo il rimpatrio - che recava, in
apertura, questa dedica: “Agli amici delle ‘sere’ di Beniaminowo”.
Durante la prigionia, Enzo Paci ebbe modo di incontrare e conoscere il filosofo
francese Paul Ricoeur, il quale, durante la prigionia (era un ‘normale’ prigioniero francese di
1
ALESSANDRO NATTA, Op. cit., pp. XXXI – XXXII passim.
ALESSANDRO NATTA, Op. cit., p. XXIII.
3
Le vicende degli internati militari in Germania sono state per decenni espunte dai testi di storia contemporanea:
in questa sede, non è possibile una discussione ragionata sull’argomento, ma, citando un paio di esempi per tutti,
si possono vedere il testo di GIULIANO PROCACCI, Storia degli italiani, Roma - Bari 1983, Laterza,
“Biblioteca Universale Laterza”, pp. 580 ed il volume di GIAMPIERO CAROCCI, Storia d’Italia dall’unità ad
oggi, Milano 1989, Feltrinelli, “Universale economica”, pp. 430. Il capitolo trentaquattresimo del libro di
Carocci, che ha per titolo “La Resistenza” (pp. 313-324), tace in modo assoluto sull’argomento, sebbene l’autore
medesimo sia stato un ufficiale dell’esercito italiano deportato in Germania.
4
ALESSANDRO NATTA, Op. cit., p. 55.
2
24
guerra) nei lager nazisti, riusciva ad avere la forza di tradurre dal tedesco Ideen I di Edmund
Husserl: traduzione che avrebbe pubblicato, nel 1948, presso l’editore Gallimard1.
Enzo Paci, che era stato allievo di Antonio Banfi, e che poi gli sarebbe successo sulla
cattedra di Filosofia Teoretica dell’Università degli studi di Milano (1957), fu uno dei più
originali filosofi italiani del '900: partito da una personale forma di 'esistenzialismo positivo'
(diversa, per esempio, da quella di colui il quale sarebbe diventato il massimo esponente
dell’esistenzialismo italiano, Nicola Abbagnano) tra la fine degli anni ‘30 e l'inizio degli anni
'40 in polemica con lo storicismo idealistico crociano2, fu tra i principali artefici della
riscoperta di Edmund Husserl, del testo Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die
transzendentale Phanomenologie e della fenomenologia, che, negli anni '60, tentò di accostare
al marxismo 'aperto'. Nel 1951, fondò la Rivista "Aut Aut" - il cui titolo è assolutamente
evocativo della prospettiva filosofica del suo fondatore3 - la animò costantemente con i suoi
lavori e la diresse per venticinque anni, fino alla sua prematura scomparsa. “La categoria che
domina la nuova cultura è quella della possibilità [...] la nuova filosofia non offre totali
garanzie, non offre la sicurezza di un ordine necessario: non vuole rinchiudere in sé l’infinito.
Al filosofo rivelatore dell’Assoluto si sostituisce la più modesta ma più concreta figura del
filosofo che vive da uomo tra gli uomini e cerca con essi di superare gli ostacoli, di persistere
nella via della civiltà, di affrontare e vincere i pericoli del comune destino”4.
Tra le sue opere principali ricordiamo: Il significato del Parmenide nella filosofia di
Platone (1938), Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di Giambattista Vico (1949),
Esistenzialismo e storicismo (1950), Il nulla e il problema dell'uomo (1950), Tempo e
relazione (1954), Dall'esistenzialismo al relazionismo (1957), Tempo e verità nella
fenomenologia di Husserl (1961), Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1963),
Relazioni e significati I, II e III (1965-66), Idee per un'enciclopedia fenomenologica (1973),
Fenomenologia e dialettica (1974).
L’esperienza del Lager nazista non fu indifferente, da un punto di vista dell’evoluzione
del pensiero filosofico, per Paci: durante la prigionia (per ciò che potè) e subito dopo la
guerra, i ‘semi’ delle riflessioni giovanili paciane maturarono e l’accostamento alla filosofia
di Giambattista Vico ed alla sua idea di natura non fu casuale rispetto all’esperienza
concentrazionaria. Leggendone e meditandone l’Autobiografia (1728), per Paci, Vico divenne
un pensatore ‘contemporaneo’, un punto di riferimento nella contemporaneità ed egli vide
l’opera del filosofo partenopeo come un esempio di lotta eroica dell’uomo e della civiltà
contro la ricorrente barbarie: fu questa l’idea su cui Paci riflettè durante la prigionia, come
attestano i suoi diari del periodo5. Non a caso, dopo il rientro in Italia, Paci rielaborò ed
approfondì quelle riflessioni, maturando il ’suo’ Vico, un Vico, per così dire,
‘protoesistenzialista’, che pubblicò nel 1949, nel volume Ingens sylva. Saggio sulla filosofia
di GB Vico, uno tra gli studi più belli e geniali della sua pur vasta produzione bibliografica.
1
Il titolo completo dell’opera husserliana del 1913 è Ideen fur eine reine Phanomenologie und eine
phanomenologische Philosophie. I volumi di Ideen II e III saranno editi postumi nel 1952.
2
Per una panoramica completa sulla formazione del giovane Paci e le fonti del suo pensiero, si possono molto
utilmente leggere il volume di AMEDEO VIGORELLI, L'esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia
intellettuale (1929-1950), Milano 1988, Franco Angeli, pp. 260, nonché il saggio di BRUNO MAIORCA, La
filosofia dell’esistenza in Enzo Paci, “Paradigmi”, VI, 1988, 18, pp. 535-551.
3
Si vedano, a tale riguardo, GIUSEPPE SEMERARI, La figura e l'opera di Enzo Paci, “Rivista critica di storia
della filosofia”, genn.- marzo 1977, 1, pp. 79-94 ed Il relazionismo di Enzo Paci e il dibattito degli ultimi anni
Trenta, in IDEM, Novecento filosofico italiano. Situazioni e problemi, Napoli 1988, Guida, pp.231-268.
4
“Aut aut”, I, genn - febbr. 1951, 1, p. 5.
5
Cfr. AMEDEO VIGORELLI, Op. cit., pp. 215-232.
25
“L’humanitas è dunque la morte della mera e caotica esistenzialità naturale per la nascita di
un ordine universale , sociale e morale [...] proprio perché é concreta ed é un farsi della storia,
è implicita la possibilità del non fare, del fare male, è implicita la possibilità di non realizzare
l’humanitas [...] Il negativo è dunque elemento costitutivo dell’uomo [...] E’ la forza che
rinasce nel seno della ragione, la violenza nel seno della legge, è la lotta politica, la guerra [...]
la quale non è solo il ricorso alla nuova barbarie, ma è già implicita nella lotta tra coloro che
si sono uniti in luoghi fissi e si sono creati il loro tempo storico contro il divagamento ferino
degli altri”1.
1
ENZO PACI, Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di G.B. Vico, Milano 1949, Mondadori, pp. 198-207 passim.
26
UOMINI IN GUERRA:
I TESTIMONI HANNO RACCONTATO …
“In fin dei conti tutto gira intorno a quella minuscola parola che mai ho saputo veramente pronunciare: un no
chiaro sicuro forte. L’unico grimaldello che al sì alla vita apre le porte.”
FRANCO MARCOALDI1
In questa parte del lavoro, sono collocate in parallelo, una accanto all’altra, le storie di
due ufficiali dell’esercito italiano - Giuseppe Rinaldi e Matteo Fantasia, due Sottotenenti di
complemento - che, dopo l’8 settembre, furono catturati in luoghi e circostanze diversi tra loro
e che vissero entrambi l’esperienza dei campi di internamento nazisti in qualità di internati
militari, sostando, peraltro, un certo periodo nello stesso lager, a Sandbostel, ma senza
conoscersi di persona.
Occuparsi delle loro storie di uomini in guerra non è fare della storia locale pugliese,
ma illuminare di luce particolare, attraverso delle storie di vita, un processo storico che ha
coinvolto decine, centinaia di migliaia di uomini che, nello stesso tornio di tempo, hanno
patito la loro medesima sorte, nonostante si tratti di due uomini diversi tra loro, per ambiente
familiare, formazione culturale, vita professionale, ma accomunati dalle vicende della storia
(l’internamento) e dalle scelte individuali (il ‘no’ alla collaborazione a qualsiasi titolo con i
nazifascisti).
Tanto Giuseppe Rinaldi quanto Matteo Fantasia, come tutti i giovani della loro
generazione, per fatto anagrafico, erano stati educati dal fascismo al culto retorico dell’idea di
Patria, al punto che entrambi avevano pensato di servirla in armi arruolandosi come volontari,
sebbene, poi, nessuno dei due lo abbia fatto e siano chiamati ad indossare la divisa come
coscritti, dopo il conseguimento del diploma di laurea.
Entrambi trovarono la forza, il coraggio morale di dire di no ai ricatti, alle pressioni,
alle vessazioni dei tedeschi, facendo unicamente appello alla loro forza morale ed al proprio
senso del dovere, potendo, per la prima volta nella loro vita, a compiere una scelta politica:
quella possibilità che il regime fascista aveva sottratto loro per tutta la giovinezza. Il loro “no”
è il loro primo atto politico, pronunciato contro chi li aveva posti in quella situazione: è un
momento forte di autocoscienza personale, sociale e politica, pur nella diversità delle
posizioni in cui si sarebbero riconosciuti o che avrebbero espresso in futuro, a cominciare
dalla prima occasione in cui avrebbero potuto esprimere il prorio pensiero con il voto: tant’è
che mentre Fantasia nutriva sentimenti repubblicani, Rinaldi era tendenzialmente monarchico,
come mi ha dichiarato alla domanda su come avesse votato al referendum istituzionale.
Al ritorno dall’esperienza bellica e concentrazionaria, ad entrambi si acclarò l’idea che
il loro ruolo nella società non poteva essere più quello che avevano vaticinato per sé prima
della guerra: per Giuseppe Rinaldi, nel lavoro nell’azienda di famiglia intrapreso al ritorno in
patria, piuttosto che l’esercizio della professione forense; per Matteo Fantasia, nell’impegno
politico-culturale - il binomio è in lui assolutamente inscindibile - che lo avrebbe
caratterizzato per tutta la sua esistenza.
1
FRANCO MARCOALDI, Op. cit., p. 39.
27
Per entrambi - ma anche questo è valso per molti loro coetanei - la guerra ha fatto, in
un certo senso, da drammatico spartiacque tra la giovinezza e l’età adulta; tra lo studentato e
l’ingresso nel mondo del lavoro, sebbene entrambi avessero già avuto esperienze lavorative
negli anni 1940/41; tra il celibato e la vita matrimoniale: Fantasia si era già sposato tre mesi
prima del trasferimento oltremare ed aveva avuto una bambina (che avrebbe conosciuto
soltanto dopo il rimpatrio), Rinaldi lo avrebbe fatto subito dopo la guerra.
E’ estremamente commovente pensare al loro ritorno a casa, all’abbraccio con le
rispettive famiglie - genitori, moglie, fidanzata, sorelle, fratelli -, ma soprattutto al primo
incontro padre/figlia: le parole mancano, sopraffatte dai sentimenti, dalle emozioni e dalle
lacrime.
28
RICORDI DI LONTANE SOFFERENZE
“Ascolto la tua storia perché è il senso della mia che sto cercando.”
FRANCO MARCOALDI1
A sessant’anni di distanza dalle vicende dell’internamento in Germania, com’è
naturale, sono poche le persone che abbiano vissuto direttamente questa esperienza e che
possano raccontarla oralmente e documentarla, affinché essa possa essere tramandata alle
giovani generazioni, con episodi di vita vissuta dai protagonisti.
E’ stata una fortuna avere avuto potuto ricevere la testimonianza orale del dott.
Giuseppe Rinaldi intorno alla sua esperienza bellica di ufficiale dell’Esercito italiano prima e
di internato militare poi.
Oggi, il dottor Rinaldi è un arzillo ed intellettualmente vivacissimo signore di
ottantotto anni, che mi ha con piacere messo a parte non soltanto dei suoi ricordi - anzi, mi è
parso non attendesse altro -, ma anche dei molti documenti in suo possesso e mi ha
socializzato, in questo modo, passaggi importanti di un’esperienza di vita straordinaria di una
generazione.
Corre l’obbligo di spiegare l’origine di questa testimonianza: il dottor Rinaldi - padre
della professoressa Maria Cristina, mia collega nell’insegnamento - ha avuto modo di
prendere visione dell’opuscolo su Matteo Fantasia ed, affettuosamente invitato dalla figlia a
partecipare la sua storia (anche a fini didattici), ha deciso di rendere a chi scrive la sua
testimonianza, riportata nelle pagine seguenti.
Giuseppe Rinaldi è nato a Cerignola (FG) il 23 luglio 1916 ha compiuto i suoi studi
medio-superiori presso il Liceo Ginnasio privato “G. Pavoncelli” di Cerignola, quindi, ha
conseguito la maturità classica da privatista presso il Regio Liceo Ginnasio “G. Lanza” di
Foggia nell’a.s. 1934/1935: “la mia classe fu gemellata con quella del Prof. Marinaccio, il
grande chirurgo”. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza a Bari ed ha conseguito la laurea il
7 novembre 1939 - circa un’ora dopo Aldo Moro, rammemora.
Dopo il ritorno dalla guerra, “ho quindi svolto l’attività di imprenditore, quale
dirigente nell’azienda industriale vinicola di famiglia per venticinque anni; in seguito, ho
intrapreso la carriera di imprenditore agricolo, fondando un’industria agricola molto estesa di
circa duecento ettari tra uliveti, vigneti e seminativi”.
Nel giugno 1947, ha sposato la signorina Bice Paolillo, con cui ha avuto quattro figli:
per alcuni anni - dopo il collocamento in quiescenza – è vissuto con la signora “da pensionato
di lusso a Bari”, nel quartiere murattiano2.
Nella primavera del 2010, il dott. Giuseppe Rinaldi è riuscito a resistere solo per poche
settimane all’assenza della sua amatissima moglie e l’ha raggiunta.
a) Gli anni della giovinezza
Cominciamo dall’inizio. Prima che dell’esperienza bellica, mi racconta dei suoi studi
universitari?
1
2
FRANCO MARCOALDI, Op. cit., p. 9.
Le parole precedenti poste tra virgolette sono del dottor Rinaldi medesimo.
29
Durante gli anni universitari, ho fatto il pendolare: la facoltà di Legge di Bari aveva
cinquecento/ seicento iscritti: niente a che vedere con i numeri di oggi, naturalmente.
Conseguii la laurea, avendo come relatore il prof. Raffaele Resta con una tesi su “Il ricorso
straordinario al Re nel Diritto Amministrativo” [ne mostra una copia].
Con Aldo Moro stemmo quattro anni insieme negli anni universitari, lui era già un
pezzo grosso della F.U.C.I.: io mi laureai un’ora dopo di lui. Dopo la laurea, mi iscrissi al
corso di Scienze politiche ed anche all’ordine degli avvocati, ma la guerra mi impedì di
proseguire.
b) L’arruolamento e la vita militare
Come ha iniziato la sua esperienza bellica? E’ partito volontario?
Il 10 giugno 1940, io sfilai sul corso di Cerignola insieme con gli altri giovani,
gridando Guerra! Guerra ai plutocrati! W la guerra! Vinceremo! Vinceremo! Erano le parole
infiammabili che avevamo sentito. Eravamo tutti ‘fascisti universitari’, iscritti ai famosi
G.U.F..
A distanza di tempo, ho riflettuto: io ero uno di quelli che voleva la guerra e l’ho
pagata fisicamente, moralmente, caratterialmente e familiarmente. Ecco, ho visto che cos’è il
lavaggio dei cervelli delle masse, con quanta facilità si finisce in un senso o nell’altro,
deragliando completamente da ragioni che sopravvivono ai tempi.
Durante la vita universitaria, ebbi la strana idea - io, unico figlio maschio, in quel
momento, con mia madre sola [il padre era deceduto nel 1936] - di fare domanda di
volontario ed andai a Salerno per il corso per allievi ufficiali.
Al Ministero della Guerra, allora lavorava Alfonso Buonassisi (il padre di Enzo, il
famoso gastronomo), che era un mio cugino. Mia madre gli mandò una lettera ‘da madre’: è
scomparso il cuore mio e tutto il resto. Quello si commosse e mandò un telegramma da parte
del Ministero per cui dovevo tornare a casa.
Il volontariato finì sul nascere e fu una fortuna perché, destinato com’ero
all’A.R.M.I.R., se avessi anticipato non sarei sopravvissuto: la mia divisione, la Sforzesca, fu
decimata, di diecimila persone ne tornarono trecento ed in Russia si trovò alla ritirata descritta
in Centomila gavette di ghiaccio.
Dal 1940 al 1942, stetti a casa e lavorai nell’azienda di famiglia, perché un mio
cugino, che era destinato ad esserne il manager, morì in Albania al primo giorno di guerra a
quota 731 a Monastir.
Ebbi la chiamata normale ed incominciai la gavetta da soldato semplice perché allora
si faceva così: appena arrivati, ci furono rasati i capelli a zero. Il gabinetto era in campo aperto
su assi di legno; per dormire sui pavimenti senza paglia e senza niente per quattro mesi,
sempre sotto la tenda, poi a Salerno al corso allievi ufficiali per sei mesi ed, infine, fummo
nominati sottotenenti di complemento ed inviati a Biella, alla Divisione Sforzesca.
Arrivati a Biella, eravamo trenta ufficiali: quindici dovevano partire immediatamente
per la Russia e quindici dovevano rimanere nel distretto. Come indicarli? Dissero facciamo a
sorte; il Comando non vuole assumersi la responsabilità. Io non fui estratto: dei quindici non è
tornato nessuno.
30
Il ‘gioco’ della guerra è casuale, aleatorio, però viene la tremendissima domanda:
destino o no? Libero arbitrio o no? Chi mi ha salvato? Il destino? Il caso? La Madonna di
Pompei? Mia madre? Ricordo la frase famosissima di Tertulliano: credo quia absurdum, devo
credere perché è assurdo credere. Credo in una cosa in cui non si può credere, se no la parola
credo perché la uso? La vita umana è sempre legata a fattori casuali ed imponderabili.
Rimasi a Biella per un breve periodo, e già là feci l’Aiutante Maggiore: cominciai là e
poi fui dirottato a Zara.
c) L’arresto
Dove si trovava l’8 settembre alla notizia dell’armistizio e cosa Le accadde?
L’8 settembre, io mi trovavo a Obbrovazzo, a trenta chilometri da Zara, come Aiutante
Maggiore del Battaglione ed avevo avuto una triste esperienza della resistenza, perché nel
tratto di strada tra Obbrovazzo ed Ervenico, una cittadina litoranea della Dalmazia, c’erano
stati attacchi da parte di resistenti, che allora erano chiamati patrioti. Io vidi partire sorridendo
dodici colleghi che furono bruciati vivi da un attacco dalla montagna. Bruciarono il camion e
furono completamente bloccati. Ebbi l’ingrato compito di riconoscere le salme.
Il mio comandante di battaglione era un sardo, il cap. Orrù, di una ferocia militaresca
davanti al quale noi tremavamo, che, prima ancora che arrivasse la telefonata del ‘si salvi chi
può’, scomparve. Io, sottotenente di complemento, mi ritrovai a prendere decisioni tremende.
Cosa fare? La telefonata che ebbi da Zara fu questa: veda in quale posto migliore
portare la truppa, distrugga tutto ciò che può essere utilizzato. La prima cosa furono i
cannocchiali dei mortai, che erano di valore inestimabile: erano decisivi, le macchine da
scrivere, gli otturatori dei fucili, i nastri delle mitragliatrici buttammo tutto.
Nelle more della decisione, cosa fare? Andiamo a Zara, la capitale: non sapevamo che
c’erano i Tedeschi. Lungo la strada, di notte, durante la marcia che facemmo, fummo fermati
da pattuglie croate, slave, gli ustascia, i quali usarono con noi il criterio della decimazione, nel
senso che ogni dieci persone dovevamo dare un fucile e la nostra pistola d’ordinanza.
Questa ritirata avvenne interamente a piedi, non ricordo quanto tempo impiegammo,
ma, quando arrivammo a Zara, trovammo i Tedeschi, i quali ci invitarono ad entrare in un
campo di concentramento, in cui stemmo per una ventina di giorni e ci posero cinque
alternative, specie agli ufficiali. Voi avete da scegliere: o venite con noi nelle SS, vi
inquadreremo, vi istruiremo ed a tutti gli effetti sarete partecipi del trattamento teutonico. La
seconda scelta è quella di rimanere in zona in funzione antiguerriglia che certamente si
scatenerà da parte degli sbandati degli ustascia. Terza cosa potete scegliere se far parte della
nostra Milizia alleata della Repubblica di Salò. Quarta cosa potete tornare in borghese, però
avrete lo status di persone da controllare e da rendervi utili alla comunità locale, sempre nel
senso della difesa degli interessi tedeschi. In ultimo, il campo di concentramento.
d) La scelta di non collaborare
Come maturò la scelta di non collaborare con l’esercito germanico?
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Io mi trovai nella stranissima situazione che trecento, quattrocento soldati miei
sottoposti mi vennero a dire lei deve decidere per noi. Sì, ‘na parola. Lei in questo momento
fa da padre. Padre? Quale padre? Sto peggio di voi, perché io sono responsabile. Dissi:
sentite, io ragiono da uomo della strada: qui non c’entra il senso militare ma l’istinto di
sopravvivenza. Io vi dico semplicemente questo: quando l’uomo appartiene ad una massa si
difende meglio, perché è il numero che lo corazza. Se vi isolate, vi condannate a chissà quali
incertezze. Perché possiate stare in una massa, vi devo dire la verità, l’unica cosa che appare
possibile è quella di andare in prigionia. Alla fine, tutti i miei subalterni scelsero la via della
prigionia, ma non ci siamo più rivisti: i soldati furono avviati in massa al lavoro.
Furono gli ufficiali ad essere molto più proclivi allo sbandamento, ma non i soldati.
Abbiamo avuto questo fenomeno sociale che è importantissimo, cioè, io ho visto molto più
facile l’allettamento da parte degli intellettuali che non da parte della truppa. Strano a dirsi,
quasi quasi era il soldato che imponeva il modus vivendi agli ufficiali che tendevano a
sbandare.
Avevo un mio parente con me, stavamo insieme in campo di concentramento. Visto il
Natale [1943] piagnucoloso, a gennaio aderì e, dopo una ventina di giorni, mi mandò una
lettera dalla Germania. Caro Peppino, hai fatto male a non aderire. Qui brioches la mattina,
sigarette quante ne vogliamo. Il cosiddetto addestramento è una bubbola, noi praticamente
siamo in attesa di rientrare in Italia. Dopo di che, praticamente, non ci siamo più scritti.
Dopo sei/sette mesi, quando ripresero le comunicazioni - io stetti circa dieci mesi
senza avere notizie da casa - mi arrivò una lettera da mia madre. Mi è venuto a trovare Cesare
Mastroserio, poco è mancato che non lo soffocassi, però mi sono fermata perché ho pensato
che era meglio se soffocavo te. Perché non hai aderito? Aveva visto che una persona di
famiglia, con il trucco dell’addestramento, era tornato a casa. Era riuscito il trucco perché era
scappato ed era andato a Roma dalla sorella, dove era vissuto tre mesi in una soffitta.
Il quadro della prigionia non era ancora chiaro: noi prigionieri in senso tecnico non eravamo,
tant’è che coniarono l’espressione Internati Militari Italiani. Credevamo che i Tedeschi ci
sottraessero alla possibilità operativa ma non infierissero su di noi, perché eravamo stati per
tanti anni alleati. In realtà, fu ricattatoria e vendicativa, perché i Tedeschi ci chiamarono
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‘badogliani’: cioè avete scelto la prigionia e non avete voluto aderire perché avete fatto vostro
il monito di Badoglio.
I Tedeschi tentarono di convincervi ad aderire alla R.S.I. o a lavorare in qualunque modo per
il Terzo Reich?
Non dico quando venivano gli imbonitori, i generali di Graziani, della setta Graziani, a
dirci: se venite con noi, vi daremo la birra. Sembrava il mercato degli schiavi. Noi subivamo il
lavaggio del cervello: anche Fantasia lo dice. Dire no a queste blandizie era molto difficile.
Facevano leva soprattutto sulla fame, non su considerazioni politiche o morali. La nostra
fortuna fu che eravamo separati dalla truppa - i campi erano per ufficiali - ma questo non è
necessariamente un elemento consacrante perché ho visto generali - che, nella prima fase
della nostra esperienza militare, rappresentavano il Padreterno in divisa - frugare
nell'immondizia per ricavare le bucce di patate, senza decoro e dignità alcuni. Tutto questo
con il vilipendio degli Inglesi e degli Americani, che erano nostri compagni di condominio nel
campo di concentramento, divisi da noi, però con la possibilità di interloquire attraverso i
reticolati. Rimanevano stupefatti quando vedevano la greca di un generale fare cose simili.
e) La prigionia
Dopo l’arresto dove fu deportato?
Dopo l’arresto, da Zara, con i famosi carri piombati, fummo portati a Benjaminowo
con un viaggio di quindici giorni. Venivamo amministrati in questo modo: verso le dieci e
mezza/undici, il treno si fermava in un posto qualsiasi per i bisogni corporali ed avveniva una
distribuzione rapida di pane raffermo e poco altro, praticamente la sopravvivenza.
Devo ricordare un episodio alla rovescia: in uno di questi spostamenti, incrociammo
donne ebree che uscivano da Auschwitz, luogo che noi non conoscevamo, nessuno sapeva.
Fecero scendere queste donne ebree a fare i bisogni contemporaneamente a noi. Vedemmo
tutte queste donne con la ‘patacca’ bruciata sopra e ci chiedevamo che cos’è e non riuscivamo
ad intenderci. Capimmo che erano considerate a livello animalesco, abbandonate alla vista di
noi tutti. Riprendemmo la nostra strada.
Una nota positiva per gli internati, invece, fu l’atteggiamento del popolo polacco.
Quello che facevano i polacchi per noi era incredibile: quando passavamo nei trasferimenti
cercavano di lanciarci il pane, i rosari. Quando eravamo in prigionia alle cinque del
pomeriggio si mettevano tutti in ginocchio a dire il Rosario, tutti. Senso di solidarietà infinita
verso di noi: poi ho capito Giovanni Paolo II. Come se la storia avesse creato una ‘muraglia
cinese’ a difesa dei valori tradizionali, perché in ogni periodo della storia li hanno occupati ed
allora questo popolo, che sapeva di fare il giro di valzer della storia, faceva leva sui valori
propri. Per cui vedevamo queste scene meravigliose: entrare in una baracca polacca, noi pieni
di livore, li vedevamo sereni, tranquilli, con il Rosario, con il Vangelo.
Quindi siamo arrivati a Benjaminowo; le mie sono state le tappe delle persone
destinate a sopravvivere: c’era il giro mortale e il giro dei condannati, ma che , in linea di
massima sarebbero sopravvissuti.
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A Benjaminowo stemmo tutti fino ad aprile, ero arrivato prima di Natale, dopo di che
fummo portati a Wietzendorf. Il trasporto nei carri bestiame avveniva così anche per quindici
giorni. Immagina, i bisogni corporali, i bisogni alimentari: che dramma!
Fa un pò pena vedere che, in un momento di stress intellettivo ed umorale, si parlava
in modo esclusivo di cibo. Io ebbi qualche pacco perché mia sorella maggiore, che stava a
Como ed era moglie di un colonnello dei carabinieri, riuscì a farmi avere dei pacchi tramite
una famiglia svizzera, la signora Bernasconi. Vedevamo quelli che scialavano, i nordici. Su
questo potrei dire qualcosa a Bossi, in quella circostanza i preferiti dalla sorte erano loro, i
padani. E noi guardavamo e non potevamo avere niente dal Sud.
Interessante è vedere che cosa si poteva mettere nei pacchi e che cosa no [si veda
l’<avviso> tra i documenti]. Una miriade di cose, la proibita più di tutte era la cartina delle
sigarette. Temevano che su quella fossero annotati messaggi. Quando arrivavano le sigarette
venivano tagliate una per una e sbriciolate, così da ricavarne il tabacco. Erano proibite anche
la carta in genere, gli abiti civili e tutto quanto potesse fare pensare a tentativi di fuga. La
pasta dentifricia è aggiunta a mano perchè ce lo comunicò a voce il comandante italiano del
campo.
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Alla maniera dell’abate Faria del Conte di Montecristo: “Assistenza ricevuta in
prigionia [legge da un foglietto scritto con grafia minuta, allegato nel paragrafo documenti]:
zucchero kg 2,170; marmellata kg 1,730; riso kg 10,980; galletta kg 7,700; latte kg 1.058;
formaggini kg 0,360; sigarette n° 66 1/2; tonno (dal Nunzio Apostolico) gr 20”.
Le prime cose andavano via erano le fedi nuziali [il dottor Rinaldi era celibe] oggetto
di scambio che assicuravano mangiare per più giorni.
Non mancavano anche le violenze fisiche quando ci trasferivamo, di notte. Io,
purtroppo, non avevo più scarpe e mi dettero degli zoccoli olandesi di legno che dovevo
mettere con le pezze da piede. Fare una marcia con gli zoccoli olandesi era una tortura perché
dovevi trascinare e sollevare i piedi. Se cadevi, la sentinella tedesca - che controllava duemila
persone - con il calcio del fucile, ti ‘dava la ricarica’.
Quando fummo catturati a Zara, noi andammo tremila persone con due SS, uno alla
testa del treno ed uno in coda. Erano talmente sicuri che non ce ne potevamo scappare perché
eravamo conficcati in carri bestiame, con il fischietto scendevamo e rientravamo, anche
quando attraversammo l’Austria ed era molto improbabile il tentativo di fuga. Come il pastore
che affida la sicurezza del gregge al cane da guardia.
f) Gli incontri
Enzo Paci - un imprescindibile punto di riferimento per chi ha la mia formazione1 - dedicò il
primo volume che scrisse dopo l’esperienza concentrazionaria, ‘Esistenza e immagine’
(Milano 1947, Tarantola), “Agli amici delle ‘sere’ di Benjaminowo”. L’ha conosciuto? C’era
anche Lei con lui?
Ah, sì? Enzo Paci era una figura tenebrosa, si vedeva che era un filosofo: era
esistenzialista. Per noi era un po' una novità: dopo capimmo Kierkegaard, Sartre e tutto il
resto. Allora ci sembrava una persona che avesse una filosofia autonoma, in realtà era un
filone importantissimo. Le sue conferenze erano su argomenti di natura filosofica: la dignità
dell’uomo, la vita umana. Le conferenze di Paci erano nel suo campo di studi, ma portate ad
un livello divulgativo, accessibile a tutti. Queste attività culturali ci davano un’anima.
Le attività ricreative e culturali in genere non duravano molto, anche perché i Tedeschi
sospettavano. Nelle conferenze e nel teatrino, c’era sempre un interprete che veniva a
controllare che non facessimo propaganda sotterranea per evasioni; inoltre, c’erano quelli che
andavano a riferire, come quelli dell’Alto Adige che erano bilingui, quindi in grado di capire e
di riferire. Era una finzione d’arte, in cui ognuno metteva lo zampino per poter essere piccante
nei confronti della prigionia.
Per dire la fame, il cannibalismo anche culturale: io compilai questa lista di libri che
avrei dovuto leggere una volta liberato ... erano i libri che circolavano nel campo e di cui io
annotavo che, quando esco, mi abbevererò di cultura per compensare questo tempo, divisi
anche per discipline: letteratura, storia, politica, filosofia, scritto su carta di fortuna, rubata, di
1
In questo momento, con una brevissima annotazione autobiografica, mi è particolarmente gradito rammemorare
con ammirazione e nostalgia infinite la figura di Giuseppe Semerari (1922-1996) - che di Paci fu amico e sodale
– ed il Suo indimenticabile Magistero universitario.
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riuso [sul retro del testo manoscritto, testo dattiloscritto in tedesco]. Nemmeno uno! Era un
modo per tenersi in vita, per evadere intellettualmente dalla prigionia.
E Giovanni Guareschi, che è stato negli stessi campi?
Io avevo una matricola con pochi numeri di differenza da Guareschi: il mio era 6461,
lui aveva il 6480 [Guareschi aveva il numero 6865 - NdC] o qualcosa del genere.
Al contrario di Paci, Guareschi invece indulgeva al sorriso. A Benjaminowo, noi
stemmo nella baracca numero 31: c’era Guareschi, c’era Arturo Coppola, un fisarmonicista di
fama internazionale, c’era Novelli, il pittore caricaturista, c’era Gianrico Tedeschi, che poi
divenne un attore famoso, che imitava perfettamente Hitler ed i Tedeschi non capivano perché
noi ridevamo. Mi sono trovai inserito, per puro caso, in una cerchia di persone illuminate, in
cui ognuno ‘recitava il suo credo’: da questa simbiosi si creò il teatrino.
Guareschi preparava le scene che doveva recitare e diceva a noi: qua non si sfugge,
questi finiranno con il trovarle. Mi è venuta un’idea: tutti i quaderni che aveva scritto li mise
come si entrava, sul tavolo dell’ingresso. E disse se vuoi nascondere qualcosa la devi mettere
sotto gli occhi di tutti: tre ore stettero, ma i libri rimasero lì. Incredibile: il fiuto tedesco con i
cani. Aveva capito - genialità! - che quelli pensavano chissà dove fossero, invece erano vicino
alla gavetta, vicino al bicchiere.
Certo, moltissimi tra noi sono morti: Paci sono quasi trent’anni, anche di più per
Guareschi; Gianrico Tedeschi tira ancora, ho letto di recente un’intervista sull’internamento.
Parecchie delle vicende narrate nei ‘Racconti della prigionia’ Lei le ha vissute ‘dal vivo’?
Eh, sì! Per esempio, quello che è un episodio consacrato dalla letteratura storica:
quello del tenente Romero. La sentinella lo fucilò all’istante per aver toccato con un
asciugamano il reticolato: una cosa indegna. Noi ci ammutinammo, rifiutammo il cibo, ecc.. I
Tedeschi non si preoccuparono affatto, chiusero ermeticamente il campo. Per darci una
lezione, presero il carro bestiame colmo di immondizia e sopra misero il cadavere per
trascinarlo sotto i nostri occhi fuori dal campo: arrivarono addirittura al vilipendio del
cadavere.
Quando uno ha visto queste cose, non sa più il concetto di umanità dove arrivi. Quello
che mi fa senso anche adesso, all’età che ho, è vedere come la storia sia parabolica, a
montagne russe: noi ad un determinato momento dobbiamo odiare la maledetta Inghilterra,
poi il governo tedesco diventa cugino siamese del nostro capo. Dobbiamo dire ai Tedeschi che
con il Patto d’acciaio siamo uniti per la vita e per la morte; i Tedeschi ricambiano male le
cortesie fatte da noi, però a distanza di tempo, dopo quello che abbiamo fatto, basta che uno si
inginocchi tutto torna come prima, abbracciamoci, volemose bene. Come si conciliano nella
corteccia della storia il mutare con il tempo dei sentimenti nazionalistici, di comunità umana
con le scene che abbiamo visto noi?
Arrivò il D-Day, il giorno dello sbarco in Normandia, ma noi non sapevamo niente.
Ogni mattina stavamo all’aperto per l’appello, che durava un’ora, due ore sempre in piedi,
fino a che contavano perché dovevano riscontrare che c’era il numero esatto. Se non che,
quella mattina quando uscimmo nel campo - durante la notte era piovuto - vedemmo
tantissime barchette di carta, centinaia di barchette fatte a mano. I Tedeschi, vedendo che noi
ci abbracciavamo, ci facevano stare ancora di più in piedi.
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La fame che arrivava al punto che, se avevamo una riserva di zucchero, durante la
notte, ce la mettevamo sotto le ascelle perché temevamo che di notte topi bipedi potessero
farla fuori.
A questo proposito, un episodio che fa conoscere la natura umana. Avevo nel mio
campo un concittadino, medico - che, come tale, era stato destinato all'assistenza - di una
religiosità... si inginocchiava continuamente a terra. Il rosario in mano, un uomo
completamente dedito all'aldilà più che all’aldiqua. Per fare il pranzo di Natale da due mesi
prima prendevamo dieci grammi di zucchero e li mettevamo da parte, il giorno dopo,
toglievamo quello e ne mettevamo altri venti e così locupletando arrivammo ad una buona
quantità. Questo cristianissimo individuo, quando andammo alla Messa di Natale che era
celebrata alle otto di sera da don Pasa, nonostante il bene che gli procurava la Comunione
fosse sublime, appena arrivò in camerata e si trovò depredato di tutte le economie, proruppe
con irriferibili bestemmie contro la divinità.
Il fattore fame, che noi abbiamo provato nella sua intensità integrale, porta l'uomo al
livello non sapiens. Vedevamo cose inimmaginabili: aver paura del vicino, aver paura di
parlare per il timore che qualcuno di noi andasse a riferire e lì scomparivano persone senza
che si sapesse il perché.
Quello che eravamo capaci di mangiare nel campo anche tra persone di elevata civiltà,
tra le quali c’ero anch’io: i Tedeschi buttavano le bucce delle patate, noi con le lamette
ricavavamo quello che era ricavabile per farne una cosiddetta purea.
Ma la cosa peggiore era un’altra: la pagnotta di pane era introdotta furtivamente nel
campo dai polacchi che facevano servizio di pulizia notturna. Immergevano il pane nei carri
botte puteolenti ed il pane veniva incrostato di questa materia fisiologica. Noi disinfettavamo
con il fuoco e dividevamo, dando ai polacchi una maglia..., pur di avere il pane (brot). Non
disdegnavamo di sapere che veniva da un mezzo di trasporto orribile: i libri di Guareschi
fanno storia nel raccontare la nostra vita quotidiana.
Arrivava la sbobba, che doveva essere in quantità millimetricamente uguali a tutte le
squadre di venti persone. Per evitare che ci fossero intrallazzi, si nominava ogni giorno un
fiduciario che, senza guardare in faccia nessuno, intingeva il mestolo nel bidone enorme e
diceva “a chi questo?” Lui non sapeva, nel momento in cui prendeva il mestolo, chi era il
destinatario. Così ci assicuravamo che non ci fossero privilegi nella spartizione: Guareschi,
che era spiritoso, coniò la parola “achiquestiere”, un personaggio importantissimo, per una
funzione svolta a turno.
Venivamo sottoposti a perquisizioni minuziose: improvvisamente entravano nella
baracca e la sconvolgevano tutta, per trovare la radio, per trovare scritti segreti, per trovare
cose clandestine. A volte spiombavano le tavelle di legno del pavimento per vedere se sotto
c’era qualcosa.
La fame produsse una conseguenza biologica: con i meridionali, tracagnotti, corvini, il
batterio della tubercolosi non attecchiva; con il tipo normanno, nordico, longilineo, alto - la
“razza” - la tubercolosi fece vittime.
Il Colonnello Pietro Testa era il Comandante del Campo di Wietzendorf: era venerato
da noi - era medaglia d’oro - perché si faceva valere. Anche Giuseppe Brignole, che comandò
la difesa ad oltranza del porto di Genova, quando fu bombardato dagli Inglesi, era molto
stimato e rispettato.
Don Francesco Pasa era un sacerdote di origine veneta, aveva allora una sessantina
d’anni - sembrava fisicamente come don Abbondio - era il nostro parroco: simpaticissimo,
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tutte le mattine passava e ci faceva sapere le notizie. Era bellissimo: certe volte faceva il
mimo, delle scene da film, ci voleva Fellini. Sono figure rimaste nel reticolo della memoria.
Poi, siccome - l’ingegno umano - riuscivamo a tenere la radio, ricavata dalla stagnola dei
cioccolatini. Chi aveva avuto l’abilità di conservarla fece la radio tenevamo radio fante che ci
avvertiva dei bollettini di guerra e don Pasa era uno di quelli che portava zitto zitto le notizie.
Però qualcuno dei creatori della radio - erano tre o quattro, non di più - furono pescati per
colpa di una delazione. C’era la paura maledetta da parte di chi dava notizie perché sapeva
che, mentre faceva un bene, però rischiava.
La cosa più strana in materia di bombardamenti in piena mattinata, l’ho vista a
Wietzendorf una stranezza per noi incomprensibile, il campo veniva ricoperto di lunghissime
striscioline di carta stagnola, a migliaia per interdire i radar e gli strumenti di rilevazione degli
aerei. Questi bombardamenti noi li vedevamo a portata di occhio e di orecchio: così a
Wietzendorf e così a Dresda, la Firenze della Germania. Io ero a Dresda quando ci fu il
bombardamento ferocissimo per quarantotto ore con tremila fortezze volanti. Una cosa
indescrivibile, notte e giorno con le bombe al fosforo che illuminavano tutto: Dresda fu
distrutta completamente Io fui mitragliato in mezzo al campo, mentre stavo rientrando dalla
fontana con la gavetta, dopo che avevo preso l’acqua. Io mi vidi circondato, mi misi a terra in
posizione di attesa, non vedevo niente. Mi andò bene.
g) La liberazione
Quando e da chi fu liberato il campo dove si trovava?
A fine aprile del ‘45, il mio campo, a Muhlberg, sul fiume Elba, vicino Dresda, fu
liberato dall’Armata Rossa. Con i Russi sono stato quattro o cinque mesi ed ho visto le cose
più straordinarie.
Prima cosa, la bicicletta. I Russi arrivarono da noi a Dresda con un battaglione formato
da sole donne. Queste, invaghite dalla bicicletta, che ignoravano, le cadute dalla bicicletta: le
dovevi vedere...
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Seconda cosa: la libertà che davano a noi di distruggere. I Russi dissero a noi uscite fuori,
toccate, prendete e noi invademmo gli uffici: per questo ho potuto avere la mia scheda
personale, che i Tedeschi meno che mai avrebbero pensato di restituirci, dove c’erano anche
le loro annotazioni. I Tedeschi erano scappati via: erano rimaste solo due sentinelle,’tedesche’
nell’animo, che, obbedendo alla consegna, non scapparono come tutti gli altri. I Russi li
fecero a pezzettini, ovviamente, e nelle case trovammo provviste a non finire.
Per due anni ci era mancata la carne e, quindi, c’era nell’organismo una bulimia.
Trovammo un maiale ancora vivo, eravamo in quindici persone, si poteva mangiare la cane di
maiale; alla fine, il maiale morì: malauguratamente, nella distribuzione delle carni, bruciate su
di un rogo improvvisato, andammo a prendere grassi che non avevamo avuto da molto tempo.
Il risultato fu un’enterocolite collettiva perché tutti avevano abusato.
Era tale il desiderio di verde, di fresco, di verdura, che masticavamo, senza mangiarli, i
gambi dei garofani.
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h) Il rientro a casa
Quando arrivò a casa, a Cerignola? Con quali mezzi?
Rientrammo: Pescantina [VR] fu la base del rientro, affamati, stanchi, sporchi, con lo
zaino addosso, vi danno un premio in denaro di centomila lire, anche per poter viaggiare, che
doveva essere compensativo di due anni di stipendi non avuti. Naturalmente rimanemmo
rinsecchiti per una cifra così squalificata, comunque, con un carro quasi bestiame da Verona
arrivai alla stazione di Cerignola alle 4,30 del mattino. Non c’erano mezzi di comunicazione,
con lo zaino addosso mi avvio e faccio a piedi tutto il percorso.
Ignoravo che mia madre era stata già da molto tempo esiliata fuori di casa perchè
requisita, allora pensai per strada: se mi presento a mamma, va a succedere che ha una
sincope, allora vado da mia sorella, che attutirà l’impatto del mio rientro. Non avevo avuto
modo di comunicarlo, arrivavo a sorpresa. I vestiti? La divisa era durata due anni, quindi, puoi
immaginarsi in che stato era.
Alle sei del mattino giungo a piedi a Cerignola e mi dirigo a casa di mia sorella: era il
nove, dieci settembre, alle sei del mattino, non c’era anima viva in giro. Mentre mi avvicino a
casa di mia sorella, vedo una persona sul balcone: mia madre. Una persona torna dopo tre
anni di guerra, due di prigionia a casa e che di tutta la città in quel momento incontra la madre
che stava al balcone e che mi riconobbe immediatamente - “Peppììììì”: la regia della vita
sembra fatta quasi in modo da creare l’assurdo.
Dopo la guerra, si è iscritto ad associazioni di reduci oppure ha frequentato qualcuno degli
altri ufficiali internati?
Sì, ma l’iscrizione all’associazione dei reduci di guerra durò poco, perché tra i vertici
si erano infiltrati anche chi aveva aderito alla R.S.I.
Per molti anni, invece, sono stato iscritto all’U.N.U.C.I., l’associazione degli ufficiali
in congedo. Non ho rivisto nè frequentato nessuno degli altri internati, nemmeno dei
concittadini, perché finita la solidarietà che in quel momento c’era, ognuno prese la sua
strada. Era un capitolo che veniva esorcizzato e non era un fatto da ricordare.
Poi ebbi la croce di guerra, ma stavo per rifiutarla, per la dizione “per internamento in
Germania”. Questa motivazione non è un merito: era una coazione in cui noi eravamo delle
comparse non dei protagonisti. Non ebbero il coraggio di dire “per non avere aderito”: Croce
di guerra per aver mantenuto inalterata la fede al giuramento o qualcosa di simile, che
valorizzasse il nostro gesto di rifiuto.
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i) Documenti
E’ trascritta qui di seguito la relazione dattiloscritta (di cui ha gelosamente conservato
la seconda copia) in cui il S. Ten. Ftr. Compl. Rinaldi Giuseppe, appena rimpatriato, espose al
Distretto Militare di Foggia - che gliela aveva richiesta - le tappe delle sue vicende personali
dall’8 settembre fino al ritorno a Cerignola.
AL DISTRETTO MILITARE DI FOGGIA
in
SAN SEVERO
Il sottoscritto, S. Ten. Ftr. Compl. RINALDI GIUSEPPE, del fu Giovanni, classe 1916,
distretto di Foggia, residente in Cerignola, ex internato di guerra in Germania, rimpatriato
l’11/9/1945, espone in relazione alla sua prigionia quanto segue:
1°) alla data dell’8/9/1943 egli prestava servizio in Obbrovazzo (Zara), presso il III Btg. Fuc.
(comandato interinalmente dal Cap. S.P.E. Orrù Annico) del 292° Regg. Fant (Divisione
Zara) - P.M. 141;
2°) il 9 sett. il detto reparto riceveva ordine dal Comandante di regg. (Col. SPE Lucchetti
Augusto) di abbandonare i presidi fino allora tenuti e prendere posizione in una località
intermedia tra Obbrovazzo e Zara (Carino) con il compito di costituire un caposaldo di
battaglione per arrestare le forze tedesche avanzanti su Zara;
3°) per la mancanza assoluta di mezzi di trasporto non fu possibile effettuare nella stessa
giornata il dislocamento dei vari reparti dai preside molto distanti fra loro;
4°) il 10 sett., mentre si stava per iniziare il trasferimento, giungeva l’ordine telefonico del
Comandi di regg. di ripiegare immediatamente su Zara per via ordinaria, distruggendo tutto
ciò che non fosse possibile asportare;
5°) effettuato il ripiegamento si giungeva a Zara l’11 sett., ma nel frattempo la città era stata
già occupata da forze tedesche, che provvedevano all’immediato disarmo dei reparti affluenti;
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6°) i reparti disarmati furono in un primo tempo accantonati in una caserma della città; poi,
per ordine del Comando della Piazza Militare, detti reparti vennero riarmati e trasferiti sulla
cinta difensiva di zara, della quale fu fatto occupare un tratto fortificato con l’ordine di aprire
il fuoco in caso di attacco proveniente dall’esterno della cinta; tale sistemazione precaria durò
dal 14 al 25 sett. senza perturbazioni;
7°) il 25 sett. il Comando tedesco d’occupazione, tramite Comandante della Divisione Zara
(Generale Div. Viale), faceva obbligo ad ogni militare italiano di definire il suo atteggiamento
scegliendo una delle seguenti posizioni:
a) incorporazione nelle SS tedesche; b) incorporazione nella Milizia fascista; c)
incorporazione nei costituendi battaglioni lavoratori alle dipendenze dell’Autorità militare
tedesca; d) incorporazione nei costituendi reparti per la difesa di Zara dagli attacchi di
partigiani slavi con compiti locali; e) internamento in campo di concentramento;
8°) a seguito di tale disposizione lo scrivente, non intendendo collaborare in nessuna forma
con le forze tedesche, sceglieva l’internamento ed il 28 sett. iniziava da Zara il trasferimento
per il campo di concentramento.
Durante la prigionia, trascorsa fino al giorno della liberazione (avvenuta il 23/4/1945 nello
Stalag IV B di Muhlberg da parte dell’Armata Rossa) interamente in campo di
concentramento, non avendo mai (né volontariamente né obbligatoriamente) il sottoscritto
lavorato per l’organizzazione tedesca, egli ha subito i seguenti spostamenti:
dal 28/9/1943 all’8/10/1943: viaggio di trasferimento da Zara a Wietzendorf;
dal 9/10/1943 al 21/10/1943: campo di Wietzendorf (in fase di smistamento);
dal 22/10/1943 al 27/10/1943: campo X B di Sandbostel (in fase di smistamento);
dal 2/11/1943 al 30/3/1944: stalag 333 (poi Oflag 73) di Beniaminowo (Varsavia);
dal 2/4/1944 al 1/2/1945: stalag X B di Sandbostel;
dal 2/2/1945 al 21/2/1945: Oflag 83 di Wietzendorf;
dal 24/2/1945 al 21/5/1945: stalag IV B di Muhlberg;
dal 23/5/1945 al 2/9/1945: nel Campo raccolta militari alleati di Spremberg (Brandeburgo)
dal2/9/1945 all’11/9/1945: viaggio di trasferimento da Spremberg in Italia per il rimpatrio.
Con osservanza.
Cerignola, ottobre 1945
S. Ten. Rinaldi Giuseppe [firma autografa]
l) Poesie
Il dottor Rinaldi mi ha reso disponibili alcuni fogli con poesie ‘collettive’, che
trascrivo qui di seguito, che circolavano tra gli internati. Purtroppo, non è possibile risalire al
momento ed al luogo della composizione. I componimenti sono tre: “Le ricordanze”, “Er
Rosario” e “La sbobba”.
E’ particolarmente suggestivo pensare al titolo, mutuato da Giacomo Leopardi, della
poesia ‘Le ricordanze’. La dimensione del ricordo del tempo passato, immaginata attraverso
la vista della gavetta, rende ancora più consapevoli di un presente che sarà superato, a patto di
resistergli con tutte le proprie forze.
La poesia sulla recita del SS. Rosario dice il ruolo fondamentale della dimensione
religiosa della vita - quale forma particolare di quella spirituale in generale - per resistere alle
contingenze presenti ed alle vessazioni patite in prigionia. Non è un caso che i nazisti non
vedessero di buon occhio le aggregazioni di internati miranti alla preghiera comune ed alla
lettura in gruppi del Vangelo
Il vocabolo ‘sbobba’, di derivazione centrosettentrionale, sta a dire il ‘cibo’ che veniva
distribuito agli internati.
42
ner triste corpo de la prigionia
senz’er conforto de ‘n amico amato
E l’emozione della prima posta...
‘n ondata de profonda commozione
che dava a ciascheduno l’impressione
d’avella avuta lui quella risposta,
o quano ripensanno a la famija
o ar viso amato de’ ‘na pupa cara
saliva muta quella stilla amara
che ci abbruciava l’occhi fra le cija.
Silenzi lunghi che ne la serata
ce daveno la pace de ‘n momento,
bisogno dè restà ‘n raccoglimento
ner recità er Rosario ‘n camerata.
Ma ar monno tutto passa e se svanisce
lungo la via che l’omo inghignatore
strascina ‘nsin’a quanno se ne more
sapenno che co’ lui tutto finisce!
Così quella gavetta che ci ha visti
pe’ tante volte fa’ la faccia scura
ner rimestalla e dì: tutt’acqua pura!
e avrà anche lei tanti momenti tristi
abbandonata come cosa morta
ner cimitero der robbavecchiaro.
Però ‘st’oggetto ce sarà più caro
nun tanto pe’ ricordi de ‘na vorta
ma speciarmente pe’ la sua virtù
de facce da scongiuro ne la vita
perché quela tragedia ch’è finita..
.... morammazà... nun ritorni più!
Le ricordanze
Fra tante cianfrusaglie accatastate
su la soffitta, drento a ‘na cassetta
ritroveremo ‘n giorno ‘na gavetta
co’ sopra cinque cifre ricarcate.
La guarderemo, allora, con affetto
‘sta vecchia amica della prigionia,
per quel bagajo de malinconia
che c’arisveglierà da dentr’ar petto.
Quanti ricordi ce verranno ‘n mente
de tutto quer periodo lontano
ner risentilla, fredda, fra le mano.
Ritorneranno in modo arilucente
ricordi di compagni, di giornate
vissute ner tormento de emozioni,
de pene, de fantastiche illusioni,
de tante discussioni appassionate.
E penseremo... ner carro bestiame
sotto la scorta de quei brutti musi
pe’ quanti giorni semo stati chiusi
mezzi morti dar freddo e dalla fame?
Cose ch’a dille nun ce so’ parole,
guardate dietro ‘n anferriata stretta
paludi e nebbia, terra maledetta
sperduta sott’ar cielo senza sole!
Ritorna tutto come ‘na visione
momenti tristi, pallide alegrie
spezzate pe’ scordà la nostalgia
che nella notte incupivano er vagone.
Er campo chiuso ner reticolato,
l’affollamento de le camerate
la scocciatura de fa’ du’ adunate
da fasse ner cortile impantanato.
E la cucina, lurida baracca
che stava al centro de li desideri
de chi s’arruffianava ai cucinieri
p’avè du mestolate de bujacca,
li giochi, li commerci da strozzini
pe’ fa’ er mercato nero, le serate
passate per sparticce le patate,
er zale, er pane, er burro ‘n pezzettini.
Dentr’ar cervello passa ‘n dissorvenza
er bagno, le bilance, l’ignezione,
er modo infame di perquisizione
studiate pe’ arrecacce ‘n insolenza.
Er maresciallo che co’ l’occhi storti
sgammava bieco ner contà all’appello
come si fusse stato ‘n colonnello.
Ricorderemo tutti i nostri morti
strappati ad uno ad uno ne rimpianto
da spegnere a la vita e volà via
Er Rosario
La sera c’è nell’aria quarche cosa
che ce distacca da ‘sta prigionia
è ‘n vorto de ‘na mamma, e ‘na sposa
che c’empie ‘r core de malinconia.
Chi studia, o legge, o fa qualche lavoro
ogni tanto stacca l’occhi e resta fiso,
ritorna cor pensiero accanto a loro
sentennose vicino ar paradiso.
Poi s’arza ‘na preghiera, ‘sto ristoro
ce fa scordà le pene der carvario
dar core nasce e se trasforma ‘n coro
ner bisbiglio devoto der rosario.
Ave Maria...piena d’ogni grazia
T’offriamo ogni dolore che ce strazia!
‘Na pace segue fino ‘a’n fonno ar core
ch’è barsamo de vita e de salute,
ogni male cessa, cessa ogni rancore
pe’ tante cose che se so’ perdute!
43
E quelli puro che non sanno crede
rimangheno coll’anima sospesa
de fronte a ‘sto spettacolo de fede
che slenne come ‘na fiarata accesa.
“ Nella notte che scegne, i nostri cari
proteggi, o Madre de bontà infinita.
Veja su le città, sui casolari
fa che ogni guerra ar monno sia finita.
Madonna santa che ogni core ammalia
facce la grazia... sarvece l’Italia”
La sbobba
Da quanno semo drento a ‘sta fortezza
se semo mantenuti co’ la sbobba
‘na pappa ch’a rifalla è ‘na sciocchezza
ce vole poco tempo e poca roba.
Pe’ falla, se volete la ricetta
pijate pe’ ogni capo sta razione:
Tre quarti d’acqua, poi ‘na cinichetta
de sugna quann’abbasta pe’ campione,
mezza carota e ‘n pizzico de sale.
Direte che c’è poco da scialare
ma ‘n piatto come questo è l’ideale
pe’ quelli che non ponno masticare.
Poi c’è er vantaggio della digestione
che, puro si ne fai na gran magnata
durante la nottata, ‘mprecessione
se ne va tutta co’ ‘na gran... pisciata!
44
Rifugiarsi nel silenzio
Rifugiarsi nel silenzio. Questa la scelta che mio padre, Giuseppe Rinaldi, internato militare
nella Germania nazista, ha fatto dopo il ritorno alla vita civile: il lavoro, non più quello sognato e
per cui aveva studiato, la sua nuova famiglia, la vita quotidiana. Tutta l'esperienza precedente,
prima la guerra, poi lo sbandamento dell'8 settembre e la cattura da parte dei tedeschi ex-alleati, la
deportazione e l'internamento in un campo di prigionia, la liberazione e il travagliato viaggio di
ritorno a casa, seguiti da disillusione disincanto, tutto questo sembrava inghiottito per sempre in un
grande "buco nero".
Solo nell'ultima parte della sua vita, quando gli anni ti rendono più fragile, qualche spiraglio
si è aperto. Ricordo in particolare un pomeriggio quando, desiderosa di parlare con lui (e di lui), gli
rivolsi una domanda: "Come ti sentivi, papà, quando sei tornato dalla prigionia?". Prima delle
parole, il suo sguardo e la sua espressione mi fecero mancare il respiro; il suo viso si era trasformato
in una maschera. Appena qualche secondo dopo arrivò la sua risposta, come in un soffio: "Come mi
sentivo? Ero morto... morto dentro, ero un morto che cammina".
Non ho replicato, l'ho soltanto fissato intensamente, occhi negli occhi. Intuivo che dentro di
lui l'esperienza terribile e tragica della prigionia lo aveva segnato profondamente ed era ancora
rappresa in un grumo interiore dolorosissimo.
Fino a quel momento, mi aveva suggerito talvolta di leggere qualche libro, mi aveva parlato
dell'attore Gianrico Tedeschi che era stato nello stesso suo campo, ma così, in modo
apparentemente casuale. Io per conto mio cercavo di sapere, scavavo nei libri dove si parlava quasi
sempre solo della Resistenza partigiana, quella con la maiuscola! Non trovavo quasi nulla invece
sulla vicenda di questi militari, che non si erano comportati "all'italiana"... Perchè, mi chiedevo, non
si parla anche della dignità di questi soldati e ufficiali, cresciuti alla scuola e alla propaganda
fasciste, che ebbero il coraggio (altrimenti, come si chiama?) di non piegare la testa di fronte alle
lusinghe dei tedeschi e allo spettro dell'internamento in un campo di prigionia, se non avessero
collaborato? E perché, mi chiedevo, nemmeno mio padre vuole parlarmene?
Quel giorno la mia domanda inaspettata però sembrò svegliarlo da un lungo "sonno".
Lentamente, pomeriggio dopo pomeriggio, bastava un pretesto per riprendere quel filo interrotto:
mio padre incominciò a raccontare qualcosa, a tirar fuori qualche testimonianza, anzi no, all'inizio
un piccolo "reperto": una bustina di stoffa militare cucita da lui per conservare delle carte. Poi prese
da un cassetto alcune carte che incominciò ad illustrarmi: frammenti che io cercavo pazientemente
di ricomporre come si fa con i pezzi di un puzzle complicato.
Un giorno però mio padre fu intervistato da Carlo De Nitti, un mio collega di lavoro
appassionato di storia, che seppe metterlo subito a suo agio, ponendogli le domande con il tono
giusto e con grande discrezione e rispetto. Accendemmo il registratore e mio padre, fino ad allora
quasi reticente, iniziò a rispondere ad ogni domanda raccontando con piacere la sua vita. Parlava e
parlava, come se finalmente fosse giunto il momento per farlo.
Io lo ascoltavo ammirata e in silenzio, sopraffatta dall'emozione, e forse non dimenticherò
più quel pomeriggio: seduti intorno al tavolo del soggiorno, la microstoria della prigionia di mio
padre scorreva davanti a noi, mentre io pensavo contemporaneamente a quella grande massa di
persone che come lui (e con lui) aveva vissuto quell’esperienza spaventosa. Come lui molti erano
per fortuna sopravvissuti, ma per tante, troppe persone quello è stato un viaggio senza ritorno.
45
La grande storia, lo ricordo sempre mentre a scuola dialogo con i ragazzi e le ragazze che mi
ascoltano, è quella vissuta da tante persone, la grande storia mette insieme tante microstorie capaci
di dare un senso alla nostra vita di ieri e di oggi, tante storie da non dimenticare, perchè il futuro
delle giovani generazioni va costruito su fondamenta solide e sicure.
Maria Cristina Rinaldi
46
PERLE DI UMANITA’:
Brani da “I Racconti della prigionia” di Matteo Fantasia
(1987)
Gli otto brani riprodotti nelle pagine che seguono sono stati ripresi dal volume di memorie
cui Matteo Fantasia, ha consegnato la sua esperienza bellica e concentrazionaria, I racconti della
prigionia, già più volte citato. La riproposizione di questi passaggi consente al lettore che già li
conosce di rileggere l’esperienza di Fantasia in parallelo con quella di Rinaldi, rilevando episodi,
situazioni e dinamiche comportamentali analoghi, a quello che non li conosce di avvicinarsi ad
un’esperienza di vita extra-ordinaria.
Calligramma della poesia posta in esergo a I racconti della prigionia
a) Il crollo delle illusioni giovanili
Solo a distanza di tempo, ho potuto misurare l'abisso in cui mi sentii precipitato in quelle
ore, difficile a capirsi da chiunque, tranne da chi si fosse venuto a trovare nel mio stato d'animo.
Ingenuità? Candore? Piuttosto la conseguenza di un lavaggio di cervello subito durante l'intero arco
della giovinezza per opera della propaganda fascista.
Per tutto il decennio dal 1930 al 1940 e oltre, nella scuola e fuori della scuola, sui libri e sui
giornali, nei contatti con la società, l'esaltazione del concetto di Patria riscattata dalle miserie di
secoli e di lotte interne di fazioni di popolo, ricondotta alla tradizione civile della gente italica e
tradotta dalla volontà del Duce in forza militare, aveva avuto il potere di farmi credere che, alla fine,
fascismo o no, l'Italia non poteva cadere tanto in basso. In tanti anni di osanna, di alalà, non un
suono di senso opposto, non un accenno di critica a mettere noi ragazzi e giovani sull'avviso, a
metterci in guardia dal precipizio, sull'orlo del quale il Paese veniva portato. Ingigantiti erano dalla
propaganda fascista gli aspetti apparentemente positivi, laddove ridicolizzati o cancellati quelli
47
negativi: l'ordine ristabilito, la violenza delle piazze bandita, le prime forme di prevenzione e di
assicurazioni sul lavoro, l'impresa etiopica e quella spagnola e quella albanese. Gli oppositori ridotti
o in esilio o al confino o al silenzio; gli ammiratori di ogni parte del mondo a Roma a rendere
omaggio a Palazzo Venezia, il Duce grande mediatore a Monaco nel 1938, maestro del Führer,
considerato come il genio che o impedirà il conflitto o alla vittoria farà sentire il peso degli otto
milioni di baionette. E i fatti sembravano dare ragione alle trombe della propaganda fascista, che
non avevano taciuto mai, neppure quando la serie di rovesci invertì la marcia delle divisioni naziste,
riponendo l'ultima speranza nelle armi segrete.
Di tanto in tanto qualche dubbio si era insinuato ed aveva incrinato il dogma del Duce che
ha sempre ragione; ora il voltafaccia con l'Austria, ora il fallimento di Monaco, ora il disperato
appello di Pio XI, quando a Roma le croci uncinate avevano preso il posto della croce di Cristo, ora
il martirio della Polonia dopo il Patto Ribbentrop - Molotov e infine la resa del Duca d'Aosta in
Etiopia, l'estromissione dall'Africa, l'invasione della Sicilia e della Calabria. La caduta del fascismo
e l'arresto di Mussolini avrebbero dovuto almeno aprire gli occhi al più cieco degli italiani: e invece
no, continuai a "credere e ad obbedire", a credere nella resurrezione e ad obbedire alla Patria, anche
senza fascismo e senza Mussolini. Per questo il 26 luglio partii per la Grecia, aspettando il momento
della resurrezione, credendo ancora nell'Italia. Poi la sera dell'8 settembre venne la notizia
dell'armistizio, della resa senza condizioni nelle mani degli angloamericani, contro la volontà della
Germania: l'Italia della grandezza, l'Italia dell'Impero, l'Italia davanti alla quale i cinque continenti
si sarebbero piegati era ignominiosamente finita e i paesi dei cinque continenti ora ne calpestavano
il suolo.
Fu allora che mi cadde la benda dagli occhi, fu allora che il cervello riprese a funzionare, fu
allora che mi accorsi di aver bruciato la giovinezza sull’altare di fatui ideali e di aver rincorso vuoti
fantasmi; e fu allora che mi accasciai moralmente distrutto e piansi lacrime di amaro sconforto.54
b) La nostra resistenza
Tra i reticolati, noi internati non sapevamo nulla o quasi nulla della Resistenza in Italia, che
venne fuori rigogliosa e intrepida dopo l'8 settembre. Qualche notizia cogliemmo nei lager
attraverso le radio clandestine e i giornaletti, come "La voce della patria" o "Il Camerata", che
presero a girare come mezzo di propaganda dei fascisti. La Resistenza Italiana, come luminoso fatto
storico, l'abbiamo appresa dopo, dalle Quattro Giornate di Napoli, alle Fosse Ardeatine, ai fatti di
Sant'Anna di Mezzagra, alle stragi di Marzabotto e via di seguito. A questa, che fu la Resistenza
attiva del Paese al nazifascismo della Repubblica Sociale sorta dopo l'8 settembre, fu aggiunto poi il
capitolo della nostra resistenza, quella passiva. Ma, in chi visse questo capitolo oscuro, il senso
della resistenza nacque dalle cose, dai fatti stessi, così, naturalmente senza nessuna aureola di
eroismo. Significò la nostra resistenza, sin dal primo giorno da quando, consumato l'inganno del
rientro in Italia, fummo buttati nel campo di Meppen e cominciammo a sperimentare la pressione o
l'aggressione fisica e morale dei tedeschi, che ci posero l'alternativa di scegliere tra l'arruolamento
nella Wermacht o il trasferimento in Polonia, significò opporsi con la volontà ed anche con il cuore
alla violenza, che con ogni mezzo si volle esercitare su di noi, soprattutto con la fame, ma anche
con il ritenerci e giudicarci traditori insieme con il Re e con Badoglio, fedifraghi verso la vera
Patria, quella che i Tedeschi tenevano sotto il tallone, e vili come quelli che non intendevano
riprendere le armi e combattere. C'era anche, almeno per quelli del Nord, cioè dell'Italia governata
dai fascisti ed occupata dai tedeschi, la velata minaccia di rappresaglia alle famiglie, mentre per noi
del Sud c'era la separazione netta, la non comunicabilità.55 [...]
Alla fine, anche la nostra resistenza ebbe termine e ci ritrovammo smagriti all'incredibile,
ma vittoriosi contro i tedeschi, contro i fascisti, contro l'inclemenza del clima, contro la fame, che
veramente intendere non può chi non la prova, contro il senso di abbandono e di solitudine. Eppure
54
55
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 25-27.
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 67-68.
48
ci si voglia credere, alla fine, dopo il grazie a Dio, dopo esserci compiaciuti con noi stessi per la
scelta di campo e la determinazione, un pensiero di gratitudine verrebbe voglia di rivolgere ai nostri
cattivi e impietosi carceri; chi avrebbe potuto impedire che ai tanti milioni di vittime aggiungessero
anche le poche decine di migliaia di internati militari italiani che osarono sfidarli con la loro
resistenza passiva? Non lo fecero e questo vada sul piatto della bilancia delle cose non cattive a
lenire il grave peso di quelle infauste, che la storia ha bollato con eterni caratteri di infamia.56
c) Lettera alla figlia appena nata
"27 maggio 1944 Sandbostel
M. Stammlager X B
Bambina mia, figlioletta adorata, so che tu non potrai leggere queste righe, ma che importa?
Le leggerai più tardi e sentirai ugualmente allora quanto prepotente sia ora in me il bisogno di
vederti e di parlarti, quanto irresistibile il desiderio di stringerti al cuore e baciarti teneramente pur
attraverso tanta distanza. Ho ricevuto qualche ora fa la lettera della tua mamma, la prima dopo nove
mesi di silenzio, di ansia febbrile; e nella lettera mi parla di te, come dell'oggetto unico e più caro
del nostro amore; e di te mi dice che sei un angelo di bellezza, un amore di bimba, conforto e
sollievo dei suoi tristi giorni! E io so, comprendo con quanta tenerezza ti stringe al cuore e vedo
come amorosamente curva sulla tua culla vegli i tuoi placidi sonni e sento il fremito dei baci che
stampa sulle tue rosse guancette! A me, figliola cara, sono negate queste che sono le prime e le più
belle ebbrezze della paternità, a me è negato di sorridere ai tuoi innocenti sorrisi, palpitare ai tuoi
sguardi che cercano con ansia i volti che più gelosamente ti veglieranno e amorosamente ti
guideranno nella vita. Ed è la nostalgia di queste gioie, che mi sono ingiustamente negate da una
sorte crudele, che mi fa prendere la penna in mano per parlarti. Ecco, in disparte dagli altri,
immagino di prenderti sulle ginocchia, ti fisso negli occhietti, che dicono tante cose a chi le intende,
e ti racconto. Ti racconto che quando sei venuta al mondo, io ero in uno squallido paese, freddo,
senza sole, fra gli stenti del corpo e le sofferenze dell'anima. Anche allora pensavo a te ed il
pensiero di te era il solo calore che lambisse il mio corpo: poi seppi che tu eri al mondo e d'allora ti
sogno e sospiro il momento in cui ti stringerò al cuore. Ma vorrei vederti prima e perciò prego la tua
mammina di mandarmi un tuo ritratto. Ora il Signore benedica i tuoi giorni e faccia sì che tu cresca
quale desidera il mio cuore. Con la mamma ti bacia tuo babbo".57
d) La favola di Natale
Tutte le ricorrenze venivano ricordate nel Lager, quelle di carattere generale e quelle
personali. E venivano ricordate in cento modi, nei diari e nelle lettere, con incontri di concittadini e
di amici e anche di baracca o di più vasto respiro, quelli d’associazione d’arma nelle ricorrenze
delle feste del corpo, in quelle patriottiche e nazionali [...]
Un'attrazione particolare esercitavano sulla maggior parte degli internati le ricorrenze
religiose, perché legate più di tutte le altre ai ricordi della famiglia, dagli onomastici e compleanni
alle solennità della Pasqua e del Natale, del Natale soprattutto che toccava la memoria e il cuore e
produceva empiti di nostalgia senza fine.
[...] mentre nel campo in diversi modi si festeggiava la fausta ricorrenza, io mi raggomitolai
nel mio cantuccio e costruii e vissi la mia personale favola di Natale, sulla scia di quella di
Guareschi.
56
57
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 71-72.
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 79-80.
49
Immaginai la mia bambina che non potendo muovere i primi passi chiedesse di poter volare
verso il suo papà e, inascoltata della Mamma, triste e sfiduciata anche lei, pregasse la Nonna, per
farsi accompagnare. Dove? non lo sapevano e ... allora l'Angelo Custode si offrì a far da guida da
sostegno. Cosi andarono, andarono senza sapere, tra le luci di Natale, evitando la guerra in Italia e
Germania, finché videro da lontano un soldato armato di fucile sulla torretta a far da guardia. Lo
pregarono di farli passare: invano, quello impugnò il fucile. Si allontanarono, girarono a torno al
campo e io li vedevo e facevo segno per essere visto. Invano ... Poi mi mossi, andai incontro,
m'avvicinai al reticolato. Li vidi, vidi la bambina piccola, aveva le alucce come l'Angelo, vidi la
mamma curva coi capelli tutti bianchi: sorrisi loro e mi sorrisero. Poi uno scoppio, il soldato dalla
torretta aveva sparato. Il sogno era finito ed anche la notte di Natale: ma io mi sentii sollevato e
fiducioso. Li avevo visti, dovevo tornare a vederli: promessa di Gesù Bambino.58
e) Il ruolo della fede
[...] chi tra gli internati fu in grado di opporre al progressivo deperimento fisico una
resistenza spirituale sempre più nutrita ed efficace, si trovò in condizione di resistere meglio; e tale
resistenza attinse al ricordo degli affetti familiari, della mamma, invocata quasi quotidianamente,
dei figli, della moglie; al sentimento dell’onore e della patria lontana e perduta; al conforto recato
dai libri e dalla cultura, comunque e da chiunque fornita; attinse in forma più tangibile all'amicizia
che, nella miseria, stringe e lega più che i vincoli di sangue. Ma, oltre tutto e contro tutto, fu la fede
religiosa, il credere fermamente che Qualcuno, al di là delle vicende terrene e umane, lo sguardo
volgeva a noi abbandonati e lontani dal consorzio civile degli uomini, il credere almeno che, se non
qui su questa terra, una giustizia migliore ci era riservata; tutto questo ci dava la forza morale di
soffrire sperando. Chi nega oggi, dopo 30-40 anni, questa realtà, nascosta allora nei cuori, ma
espressa chiaramente nei moti di ogni essere, non è sincero con se stesso, indulge ingenerosamente
a quel rispetto umano che coglie chi della sua fede non è buon testimone.59
dal Diario alla notizia della nascita della figlia:
“Quanta luce e quanta gioia mi inondano il cuore: mi è sembrato di tornare a vivere al
semplice contatto epistolare con la vita. Come esprimere l'onda dei sentimenti? Ho pianto calde
lacrime e subito mi sono prostrato con la mente ai piedi della Vergine a dirle tutta la mia gratitudine
e la mia fiducia nel suo aiuto” (17 maggio 1944)60.
f) Un libro per amico
[...] si comprese subito che alle deprimenti condizioni materiali di vita e alle continue
vessazioni morali per le opzioni sia militari sia di lavoro coatto, si poteva resistere solo facendo
appello alle energie spirituali e culturali di ciascuno degli ufficiali, alla fede religiosa, all’amore
verso la patria e alla dignità di uomini.
Di qui nacquero e si svilupparono le organizzazioni individuali e di gruppo per dare
alimento e conforto allo spirito. [...]
Rimasi però fedele all’amico libro, dal principio alla fine senza interruzione; costituì il mio
rifugio, il mio conforto e sollievo, finché potetti e credetti mi nutrii di letture. Furono i libri gli unici
oggetti che mi procurai con piacere cedendo qualche sigaretta o indumento, perché a differenza di
qualche chilo di pane che mi lasciava più affamato di prima, il libro mi assecondava e mi
soddisfaceva. Lessi tutto quello che mi capitò tra le mani o potetti prelevare dalla modesta
58
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 119-124 passim.
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 139-140.
60
MATTEO FANTASIA, Op. cit., p. 144.
59
50
biblioteca del campo; tutto, dai classici alla narrativa di ogni paese, dalla filosofia alla poesia, dalle
opere latine a quelle storiche, dal teatro alla Bibbia, dagli autori più famosi ai più oscuri [...] Una
gran mescolanza, quindi, senza un principio, senza una direttiva. Cosa mi colpiva e sottolineavo?
Una cosa soprattutto, forse puerile, ma significativa: i riferimenti alla condizione presente, gli
accostamenti personali e ciò che poteva aver valore di vaticinio o di augurio per l’avvenire
prossimo [...]
In ogni libro, in ogni pagina trovavo sempre qualcosa di me, della mia vita passata, di quella
che doveva o non doveva venire. E tutto ciò a cosa serviva? A riempire la mia esistenza ormai
svuotata di tutto. Certo è che mai come in quei mesi ho letto con tanto interesse, con tanto
sentimento.61
g) Siamo liberi!
" Comando campo italiano
Ordine del giorno della liberazione
Wietzendorf, 16.4.1945
Ufficiali, sottufficiali, soldati italiani
del Campo 83 di Wietzendorf
Siamo liberi!
Le sofferenze di 19 mesi di un internamento peggiore di mille prigionie sono finite.
Abbiamo resistito nel nome del Re e della Patria.
Siamo degni di ricostruire.
Ufficiali, sottufficiali e soldati italiani, ricordiamo i Morti, morti di stenti, ma fieri nelle
facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una fede inchiodata alta come una bandiera.
Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere.
W il Re, l'Italia, le Nazioni Alleate
T. Col. Testa Pietro "62
h) Il ritorno alla vita familiare
Da Brunswich al Brennero, attraverso la Germania e l'Austria nell'ultimo tratto, corrono
circa 1000 chilometri; ma zigzagando ne dovemmo percorrere il doppio e forse più , impiegando da
tre a quattro giorni, comprese le lunghe fermate e i lunghi giri per evitare le linee rotte e i ponti
abbattuti [...] infine, nella notte tra il 21 e il 22, scendendo da Innsbruck, fummo al Brennero. Un
grido di gioia soffocato dalla emozione: Italia, Italia! Ci abbracciammo.
Pochi chilometri ancora e all'alba fummo a Bolzano. L'altoparlante annunziò l'arrivo della
tradotta degli ufficiali che non avevano collaborato e ci diede il benvenuto. Un servizio di assistenza
ci offrì qualcosa di caldo [...] Poi, sul tardi, la tradotta si mosse verso Verona, al campo di raccolta
di Pescantina.
Qualche giorno, uno o due, ci fermammo per il disbrigo di pratiche amministrative e
igienico-sanitarie, poi tutti liberi per raggiungere le proprie famiglie.
61
62
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 151-158 passim.
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 185.
51
Il 25 agosto presi un treno che mi portò ad Ancona-Falconara e la mattina di domenica 26 un
altro treno per Foggia. Non era un treno, era un convoglio di carri scoperti, carichi di residuati di
guerra [...] Salimmo lo stesso e sotto il sole di agosto, scendemmo lungo la costa adriatica.
E da Bari l'ultimo treno verso Conversano [...] Con gli occhi lucidi e il cuore gonfio eccomi
alla mia stazioncina [...] Sono quasi irriconoscibile: a capo scoperto, il volto sporco di nero fumo, la
divisa lacera, mi è rimasta la giacca, i pantaloni sono civili (per fortuna li avevo vinti in una lotteria
nel campo dopo la liberazione), le scarpe rotte, sporche [...] La notizia dell'arrivo mi ha preceduto:
sono tutti lì sulla porta ad abbracciarmi. Salgo e dopo qualche minuto mi portano la bambina, Anna
Maria: mi guarda, le ripetono "è babbo, è babbo". Sembra incredula, guarda il ritratto che le
avevano indicato nei giorni, nei mesi precedenti.
Confronta, non crede e si raccoglie in seno alla madre, alzando di tanto in tanto gli occhi e
spiando. Solo dopo un po’, quando mi sono tolto di dosso il sudiciume del viaggio, accetta di venire
tra le mie braccia. Così finisce, poi si volta pagina, la vita continua63.
63
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 209-211.
52
UNA STORIA DI “ORDINARIO” EROISMO
a) L’odissea di un deportato
Quante rape giornaliere occorrono a un uomo per campare?
FRANCO MARCOALDI64
Attraverso la lettura del volume I racconti della prigionia di Matteo Fantasia si è avuto
modo di avvicinarci all'esperienza del lager compiuta da tanti militari italiani che, alla data dell'8
settembre 1943, giorno in cui venne reso noto l'armistizio con gli angloamericani da parte del
governo italiano, catturati dai Tedeschi, spesso con l’inganno, non cedettero alle loro pressioni e
misero in atto contro di essi una resistenza passiva, non piegandosi a collaborare in nessun modo
con il Terzo Reich.
Furono circa seicentomila gli internati militari italiani, non protetti dalla Croce Rossa
Internazionale e, quindi, completamente alla mercé di chiunque. Non furono tanti, a Biala Podlaska,
nel freddo di quell’inverno polacco 1943/44, coloro che compirono la scelta di resistere, come
abbiamo compreso dalla lettura del libro, ma a loro - ed alla loro memoria - deve andare il nostro
grato pensiero nel ricordo della dignità del loro gesto. Scrive A. Natta: ”[...] l’internato militare era
nel giudizio dei Tedeschi, ancor prima dell’esistenza della repubblica di Salò, una figura nuova, una
via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico, e nei suoi confronti si stabilì una
misura intermedia fra il trattamento riservato ai primi e quello di cui furono vittime i secondi”65.
Bollati dai nazifascisti come "badogliani", sinonimo di "traditori" (del fascismo e del Duce,
dell'alleanza con la Germania e del Führer), gli internati militari italiani dettero anche ai loro
carcerieri una lezione di coraggio e dignità morale che ne fa rifulgere l'esempio anche a sessant'anni
di distanza.
Dalla lettura dei "Racconti", è possibile trarre alcune informazioni sul narratore e
protagonista, Matteo Fantasia: egli si era laureato in lettere due giorni dopo l'entrata in guerra
dell'Italia (10 giugno 1940) ed, al momento dell’arruolamento, insegnava lettere antiche presso il
Liceo classico del suo paese natale, Conversano.
Quando fu arruolato, partì per il corso allievi ufficiali il 1 luglio 1941 e prese servizio come
sottotenente del 366° Raggruppamento Autieri nel luglio '42 a Napoli e Caserta ed il 26 luglio 1943
venne trasferito in territorio d'oltremare a Dafni, vicino Atene, dove era Aiutante Maggiore del
Comandante quando fu catturato dalle truppe naziste.
Nel corso della sua drammatica esperienza di internato militare, Matteo Fantasia fu detenuto
in quattro campi di concentramento: da Atene fu deportato a Meppen vicino al confine tedescoolandese, poi dall'ottobre 1943 al marzo 1944 fu rinchiuso a Biala Podlaska al confine tra Polonia e
Russia; ancora dal 30/3/44 al 10/1/45 visse a Sandbostel nel nord della Germania, tra Brema ed
Amburgo ed infine a si trovò a Wietzendorf, una cittadina vicino Hannover fino al 22 aprile 1945,
quando il campo fu liberato dalle truppe angloamericane. Lungo fu anche il suo periodo di attesa
per il viaggio di ritorno in Italia: egli poté riabbracciare la sua famiglia soltanto domenica 26 agosto
1945.
Durante la sua prigionia, Matteo Fantasia mai acconsentì né alle richieste di adesione al
costituendo esercito della Repubblica Sociale Italiana prima nè ai ricatti, alle minacce ed alle
illusorie promesse con cui i Tedeschi cercarono di carpirne il consenso al lavoro coatto in favore del
Reich dopo. Nel campo di Biala Podlaska, dove si trovava, ben pochi fecero questa scelta (145
64
65
FRANCO MARCOALDI, Op. cit., p. 70.
ALESSANDRO NATTA, Op. cit., p. 6.
53
ufficiali su 2455)66, ma fu quello un caso unico: in generale, la stragrande maggioranza degli
ufficiali italiani internati rifiutò la collaborazione con il fascismo di Salò e con i nazisti67.
Tra i tanti racconti letti, si rimane molto colpiti e fatti pensosi quello intitolato "Paternità tra
i reticolati"68 e tutti i pensieri per la moglie Grazia e per la figlia Anna Maria (la "protagonista
inconsapevole dei ‘Racconti’, come si legge nella dedica del libro), alla cui nascita è stato lontano e
che non ha conosciuto se non al ritorno in Italia, a guerra finita.
La scena all'immatricolazione al campo di concentramento dell'internato Fantasia, che, non
avendo notizie recenti da casa, non sa se la moglie (sposata il 28 aprile 1943, poco prima degli
avvenimenti epocali che sconvolsero l'Italia in quell'anno) ha partorito oppure no - e, quindi, se ha
figli o no - è quasi pirandellianamente 'umoristica'69 nella sua drammaticità.
Davvero molto toccante al punto da commuovere è la lettera che scrive alla sua creatura, non
appena ha ricevuto la notizia del lieto evento per via epistolare dall'amata consorte il 17 maggio
1944.
Di tono meno drammatico, invece, è parso il racconto "Una vittoria del Bari" 70, nel quale un
successo sportivo della squadra di calcio della nostra città (la promozione in serie A nel 1985) fa
ricordare allo scrittore un torneo di calcio tra squadre di internati di diversa provenienza geografica
nel Lager X di Sandbostel.
Il ricordo della vittoria di 'quel' Bari è reso attraverso una narrazione vivida che ha coinvolto
anche noi lettori, facendoci rivivere una delle pochissime vicende amene vissute da Matteo Fantasia
in due anni d'inferno. "Dimenticammo in quei momenti i nostri mali e ci abbandonammo alla più
sfrenata gioia, fatta di canti e danze e di qualche bicchiere di birra o di tiglio, quanto offriva il
magazzino viveri tedesco"71.
Per comprendere lo spirito degli internati e le fonti delle loro energie spirituali per potere
resistere alle pressioni ed alle vessazioni, sono davvero molto paradigmatici i racconti “Il ruolo
della fede” e “L’attività artistico-culturale e l’amico-libro”72. Soltanto cercando di interessarsi di
qualcosa, di rimanere vivi (e non solo biologicamente viventi) che gli internati avevano la
possibilità di resistere alle pressioni ed alle vessazioni che su di loro furono compiute dai nazisti.
Proprio l’intendere la propria resistenza ai nazisti come un obbligo morale, prima ancora che
come una scelta politica consapevole, fa risaltare ancor di più il coraggio, la dignità e la fierezza di
chi l’ha compiuta. Non è un caso che, tra le tante letture (o riletture) compiute durante il periodo
della prigionia, nonostante le anormali condizioni di vita, in quelle ore buie per la propria esistenza
(e per l’intera umanità), Matteo Fantasia rammemori, come particolarmente intense e decisive per la
propria personalità, quelle di due grandi classici della filosofia morale: la meditazione del De
officiis di Marco Tullio Cicerone e delle Confessiones di Sant’Agostino.
b) Cinquant’anni dopo La ribellione di Biala Podlaska: 6 Gennaio 1944
Matteo Fantasia rammemora “il gran rifiuto”, di cui con pochissimi altri coraggiosi fu
protagonista nel rigido inverno polacco 1943/44 a Biala Podlaska, in un articolo scritto per
“Risorgimento e Mezzogiorno”. Alla sua riproposizione seguono i versi di un sonetto caudato
scritto per un incontro del 1993 dei superstiti sopravvissuti di quei centoquarantacinque eroi.
“Biala Podlaska è una cittadina polacca quasi al confine con la Russia, dove nel lontano
autunno del 1943, dopo l'8 settembre, la Germania di Hitler raccolse circa 3000 ufficiali italiani,
66
Per questa ragione i nazisti ribattezzarono quel campo "campo Graziani": si veda, a tale proposito, il racconto Campo
Graziani a Biala Podlaska in MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 49-58.
67
Cfr. LUIGI CAJANI, Op. cit..
68
Cfr. MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 73-82.
69
Se è lecito, per quella situazione, utilizzare quell’aggettivo...
70
Cfr. MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 105-116.
71
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 115.
72
MATTEO FANTASIA, Op. cit., pp. 137-148 e 149-158.
54
superiori e inferiori, dai Balcani e dalla Grecia, dalle isole Egee e anche dal territorio italiano non
ancora liberato. Non erano prigionieri, ma IMI, internati militari italiani, con una distinzione
giuridica degna di miglior causa, in quanto considerati da Hitler, d'accordo con Mussolini, cittadini
della neonata Repubblica di Salò. I tremila ufficiali italiani non erano raccolti nella cittadina, ma
pigiati in un campo, un lager, da poco svuotato di altri prigionieri di altre nazionalità, perché
ritenuto dalla CRI non idoneo alle forme di vita più sopportabili. Ma noi italiani non eravamo
soggetti all'assistenza della Croce Rossa, appunto perché internati. Si trattava di baracche, dove il
freddo penetrava da ogni fessura e il freddo era amaro in quell'inverno 1943-44.
La neve aveva cominciato a cadere sin dalla metà di ottobre; le divise erano ormai stracci
addosso a noi e le razioni di rape e carote con qualche patata lessa e una fetta (100 g) di pane nero
erano scarse e immangiabili. Come Biala Podlaska vi erano attorno, più verso l'interno della
Polonia, lager più o meno simili: Deblin, Beniaminowo; Lublin e Scholow, poco più lontano c'era
Auschwitz e più lontano ancora; Mathausen in Austria e Belsen nella stessa Germania.
Tra la fine dell'anno e i primi di gennaio cominciarono a farci visita i connazionali fascisti,
legati a Mussolini e a Graziani, che in Germania stava ricostituendo l'esercito di Mussolini da
affiancare a quello di Hitler, che si stava battendo disperatamente contro gli eserciti alleati lontano
dalle frontiere tedesche.
In quelle settimane, tra Natale 1943, Capodanno ed Epifania, fummo martellati dalla
propaganda nazifascista, fatta di promesse, di umiliazioni, di minacce, di insulti, condita di fame e
di freddo terribile; il dilemma era duro: o arrendersi alle minacce, tradendo il giuramento, e passare
nelle file della Wermacht o del ricostituendo esercito del Maresciallo Graziani, ovvero perire
lentamente o rapidamente di fame e di freddo. La lotta fu furibonda ed impari, con accanimento
specie da parte dei fascisti che non davano respiro.
Alla fine Epifania del 1944 la massa ondeggiò paurosamente e cedette: la fila allo sportello
delle adesioni si allungò sempre più mentre stava per scoccare l'ultima ora graziosamente concessa
ai ritardatari pentiti e si giunse alla fine. Risultato: tutti, tranne 145, immediatamente separati e
relegati in due sole baracche, la 'Pesaro' e la 'Torino', e bollati con i nomi di ribelli e badogliani, folli
e suicidi, traditori della Patria e via di seguito. Il campo Lager 366 B prese il nome di Campo
Graziani. Dal giorno dopo ai fedelissimi del Duce venne distribuita la razione del soldato tedesco al
fronte e ai badogliani ridotta a metà la già striminzita brodaglia di carote”73.
Amici miei, nati dalla ventura
A Biala d’esser stati come fratelli
Alla teutonica rabbia sempre ribelli
In terra inospitale, amara e dura.
Lontani dalle mamme e dalle spose,
Dai figli appena nati o appen concetti,
Dai patrii lidi, dagli amati tetti
In ore per il mondo tenebrose.
Fidando solo in Dio tornammo in sede;
Or siamo onusti d’anni, ma l’alma fiera
D’aver serbato al giuramento fede.
Per dire a voce alta a chi non c’era:
Vittoria arride ognor se non si cede
Al mal, alla viltà; se la bandiera
Alta e intatta non si tien come la fede.
73
Testo tratto da MATTEO FANTASIA, La ribellione di Biala Podlaska: 6 gennaio 1944, "Risorgimento e
Mezzogiorno", II, 1990, 2, pp. 106-107.
55
Vogliamoci ancora ben sì come allora.
Siamo italiani, esempi d’amor, di fede
Ai figli nostri, a chi la patria onora.
I ribelli di Biala 74
c) Biografia
Matteo Fantasia nacque a Conversano il 23 luglio 1916, compì i primi studi nella scuola
elementare e nella scuola di avviamento professionale, dalla quale il suo docente di lettere, il prof.
Domenico Ramunni (al quale, nel 1994, dedicò il suo libro sulla Pinacoteca del Castello di
Conversano), lo preparò privatamente perché potesse accedere al Liceo. Frequentò il Liceo Classico
"Domenico Morea" di Conversano e conseguì la maturità nell'a.s. 1936/37.
Si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli studi di Napoli, dove
conseguì brillantemente la laurea in lettere il 12 giugno 1940. Nel frattempo, era diventato il primo
Presidente della neonata F.U.C.I. conversanese fondata nel 1937 da Mons. Luigi Gallo.
Iniziò la carriera di docente di lettere antiche presso il Liceo Classico "D. Morea" di
Conversano.
Nel 1941 fu arruolato come sottotenente nell'esercito e fu a Napoli, dove riuscì a continuare
i suoi studi, conseguendo, il 4 novembre 1942, la seconda laurea in filosofia.
Dopo il 25 luglio 1943, combattè sul fronte greco e fu a Dafni quale Aiutante Maggiore,
allorquando venne catturato con l’Armistizio ed affrontò il calvario della prigionia, che patì per
quasi due anni, attraverso le tappe che si sono viste.
Con il ritorno a casa, riprese l'attività didattica e partecipò alla fondazione della Democrazia
Cristiana a Conversano, quale iscritto all'Azione Cattolica. Il 17 marzo 1946, si svolse la prima
tornata elettorale amministrativa del dopoguerra e la D.C. venne sconfitta a Conversano: fu tra gli
artefici del rinnovamento della vecchia classe dirigente del partito dei cattolici e venne nominato
Commissario straordinario della sezione. Il 20 aprile 1946 fu eletto Segretario della sezione di
Conversano della D.C.: carica che mantenne fino al 1952 (eccetto il periodo in cui sostenne,
vincendolo, il primo concorso a cattedre bandito nell’Italia del dopoguerra).
Con le elezioni del 25 maggio 1952, venne eletto contestualmente al Consiglio Comunale di
Conversano e, per la prima volta, al Consiglio Provinciale di Bari e divenne Capogruppo del suo
partito in Consiglio. Nella successiva tornata elettorale, nel 1956, rieletto, diventò Vice Presidente
ed Assessore alla Pubblica Istruzione, e diede una forte spinta a numerose istituzioni provinciali,
segnatamente di tipo culturale, tra cui la fondazione a Rutigliano dell’Istituto “Messeni Localzo”
per l’educazione dei non vedenti (prima ospitati a Molfetta, presso l’Istituto “Apicella”) e la
riorganizzazione dell' Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.
Dal 1955, intanto, aveva lasciato la cattedra al Liceo Classico di Conversano per diventare
Preside: nel 1961, giunse all'Istituto Magistrale "San Benedetto" di Conversano, che guidò fino al
1972, quando lasciò la scuola per poter meglio assolvere ai tanti e gravosi impegni politico amministrativi. Nel 1958, fu secondo dei non eletti alle elezioni per la Camera dei Deputati.
Il 2 febbraio 1958, riuscì a creare in Conversano, anche impegnandosi economicamente in
prima persona, la Cassa Rurale ed Artigiana, che antevide come volano dell’economia cittadina,
fondata sull’attività agricola e sul piccolo artigianato.
74
Testo tratto da Ricordo di Biala Podlaska, “Risorgimento e Mezzogiorno”, IV, 1993, 7, p. 120.
56
Nel 1962, fu rieletto in Consiglio Provinciale e diventò Presidente della prima giunta di
centrosinistra. Tenne la carica di Presidente della Giunta provinciale fino al 1970, quando si dimise
per candidarsi alle prime elezioni regionali che si siano svolte in Italia. Inoltre, dal settembre 1963
al maggio 1965, fu Presidente dell'Unione Regionale delle Province Pugliesi.
Nel 1967, fu insignito dalla Medaglia d'oro per meriti culturali dal Ministero della Pubblica
Istruzione (diploma di prima classe ai benemeriti della scuola, della Cultura e dell'arte) e dell'
Onorificenza di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana.
Eletto in Consiglio regionale il 7 giugno 1970, partecipò alla stesura dello Statuto della
Regione quale Presidente del gruppo consiliare della Democrazia Cristiana. Nel 1973, divenne
Presidente della commissione Bilancio.
Al Consiglio regionale venne rieletto il 16 giugno 1975 e fu nominato Assessore alla Sanità,
carica che conservò fino al 30 giugno 1977, allorquando si dimise, amareggiato da accuse ingiuste,
rivelatesi assolutamente infondate, che gli erano state rivolte. Continuò ad offrire il suo contributo
all’istituzione regionale quale Presidente delle Commissioni Bilancio e Cultura.
Colpito profondamente dal rapimento e dall'assassinio di Aldo Moro (16 marzo - 9 maggio
1978), maturò la decisione di abbandonare la politica attiva per dedicarsi a tempo pieno agli
amatissimi studi storici.
D'altronde, all'attività politico-amministrativa Matteo Fantasia aveva affiancato da sempre
l'attività culturale. Il 28 giugno 1973, a Conversano, fondò l'Associazione "Luigi Sturzo", che guidò
fino al decesso. Nel 1979, diventò Presidente del Comitato di Bari dell'Istituto per la Storia del
Risorgimento Italiano, succedendo al Prof. Michele Viterbo e dando notevole impulso alle attività
culturali.
Nel suo periodo di presidenza, organizzò una serie di otto Convegni Regionali su "La Puglia
durante il Risorgimento", curandone la puntuale pubblicazione degli Atti, fondò, nel 1990, la
Rassegna di studi storici "Risorgimento e Mezzogiorno" e preparò tutto per il LVII Congresso
Nazionale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Verso l’Unità (1849-1861) - che si
tenne puntualmente a Bari dal 26 al 29 ottobre 1994, a cui purtroppo non riuscì a presenziare per
l’inezia di dieci giorni.
Venne a mancare il 15 ottobre 1994.
d) Principali Pubblicazioni
 Alcide De Gasperi Presidente della ricostruzione, Noci 1954;
 Relazioni alle Società Economica di Terra di Bari (a cura di Matteo Fantasia), Bari 1959;
 Gaetano Salvemini Consigliere Provinciale di Terra di Bari (a cura di Matteo Fantasia),
Molfetta 1960;
 In memoria di S.S. Giovanni XXIII, Molfetta 1963;
 La provincia di Bari, Molfetta 1964;
 La Resistenza come affermazione di valori umani, Molfetta 1965;
 Massimo D'Azeglio, pittore, scrittore e statista nel Risorgimento Italiano, Molfetta 1967;
 Israele. Un lembo d'Italia e d'Europa nel Medio Oriente, Molfetta 1967;
 Giuseppe Maria Mucedola vescovo e patriota e la Diocesi di Conversano nell'età del
Risorgimento, Fasano 1979;
 Appunti per una storia del movimento politico dei cattolici a Conversano (1943-1980),
Conversano 1982;
57
 Relazioni alle Società Economica di Terra di Bari (a cura di Matteo Fantasia), vol. II, Molfetta
1983;
 Felice Garibaldi a Bari e l’Intendente Ajossa, in Garibaldi e la Puglia ;
 Garibaldi e la Puglia (a cura di Matteo Fantasia), Bari 1985;
 Giuseppe Massari, Conversano s.d. [1985];
 Conversano e Nardò. Le storie parallele dalle origini al gemellaggio, Taviano 1985;
 Aldo Moro nei miei ricordi, Conversano 1985;
 I Promessi Sposi a teatro, Fasano 1985;
 I Papi pugliesi, Fasano 1987
 I racconti della prigionia, Bari 1987
 Vita pugliese, Bari 1991
 La Pinacoteca del Castello di Conversano, Conversano 1994
58
MEDITANDO …
Com’è noto, è quella del 27 gennaio una data simbolo: quella dell’abbattimento, nel 1945,
dei cancelli del lager di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa per ricordare la Shoah
(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli
italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte, nonchè coloro che, anche in campi
e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio ed, a rischio della propria vita, hanno
salvato altre vite e protetto i perseguitati (i ‘Giusti’).
E’ questo l’intendimento che muove la legge 211 del 20/07/2000 che prescrive
l’organizzazione di iniziative, di riflessione su quanto è accaduto al popolo ebraico ed ai deportati
militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria
di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, affinchè simili eventi non
possano mai più accadere. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri
popoli e categorie oppressi – zingari, testimoni di Geova, omosessuali - ma contro tutta l’umanità,
segnando una sorta di punto di non ritorno nella pur millenaria storia degli uomini.
Nell'immediato dopoguerra, l’11.12.1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite
riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione 96 come "una negazione del diritto alla vita di
gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte"
ed il 9.12.1948, adottò la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
L’uomo europeo contemporaneo, civilizzato, con il suo grande bagaglio di conoscenze, nel
cuore del continente più civile e avanzato, era caduto in un baratro: aveva utilizzato il suo sapere –
ed in particolare quello scientifico e tecnologico - per scopi criminali, distorcendone i fini rivolti al
bene comune ed al progresso dell’umanità, tramutando le conquiste della tecnoscienza in strumenti
per sottomettere, annichilire e distruggere ogni forma di opposizione ad un disegno di delirante
onnipotenza ed addirittura intere popolazioni, primi fra tutti gli ebrei d’Europa, di cui non era
riconosciuta neppure la condizione umana.
Fu l’esperienza dei lager nazisti un trauma per tutta la civiltà umana: da questo l’Europa e il
mondo intero si “risvegliarono” estremamente scossi e si domandarono come era stato possibile che
la Shoah fosse avvenuta. E, soprattutto, quali comportamenti ed azioni sarebbe stato giusto ed utile
mettere in atto per scongiurare che accadesse di nuovo. Dalla consapevolezza dei crimini di cui il
nazismo si era macchiato nacque, nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
promulgata dalle Nazioni Unite allo scopo di riconoscere a livello internazionale i diritti inalienabili
di tutti gli uomini in ogni nazione.
La consapevolezza dell’unicità, della radicalità e dell’irripetibilità di Auschwitz fu tra gli
elementi fondamentali per la ricostruzione morale dell’Europa e dell’idea, identitaria prima ancora
che giuridica e politica, di Europa unita.
Era indispensabile stabilire con esattezza ciò che l’Europa non sarebbe stata: non è un caso
se alle radici dell’impostazione ideale dell’attuale Unione Europea c’è il rispetto per la dignità
umana ed il rigetto di quanto accaduto, anche ben prima della guerra, a causa di idee razziste e
liberticide. Auschwitz è la negazione dei principi ispiratori dell’Europa che conosciamo oggi.
L’istituzione, ormai decennale, del Giorno della memoria serve proprio a conseguire
l’obiettivo di evitare che la nescienza delle origini della cittadinanza europea da parte dei più
giovani porti seco un impoverimento delle radici culturali del nostro vivere civile insieme nel terzo
millennio dell’era cristiana. Gli episodi di razzismo, di antisemitismo e di xenofobia che, spesso,
59
vediamo attraverso la televisione e gli altri mezzi di comunicazione o leggiamo sui giornali altro
non sono che forme di manifestazione di quell’oblio della memoria storica di un Paese come
l’Italia, ma anche e soprattutto di un continente come l’Europa. Superare la tentazione dell’oblio –
come la chiamava quasi venti anni fa un grande sociologo – significa evitare “l’amnistia sommaria
collettiva attraverso l’amnesia di massa”.
Il Giorno della Memoria è un’occasione fondamentale, per far riflettere tanti ragazzi e
giovani tramite attività di approfondimento e di ricerca. Da dieci anni la scuola e l’intera società
italiana si interrogano intorno a cosa significa una riflessione su “ciò che è stato” che non sia
svuotata dei suoi significati più profondi, riducendosi a semplice celebrazione rituale. Al di là delle
giuste, necessarie parole sulla Shoah e sulla memoria della guerra civile italiana, occorre cercare di
perpetuare il senso più profondo di questo giorno simbolico. Molti sono stati in questi anni gli studi,
le riflessioni, le pubblicazioni di intellettuali che hanno tentato di definire costantemente il senso
della Memoria.
Il capitolo della nostra storia che riguarda tutta la seconda guerra mondiale – con tutti i suoi
antecedenti negli anni ’30 ed i suoi risvolti spesso poco conosciuti - non può essere uno tra i tanti
da studiare: solo pochi testimoni sono rimasti a raccontarci la loro terribile esperienza. Si tratta di
una memoria viva, di persone che hanno patito sofferenze inenarrabili e, proprio perciò, indelebile
nelle menti di chi ascolta o vede testimonianze e documenti. E’ innegabile che la tecnologia debba
avere un ruolo determinante nella conservazione di queste importanti testimonianze di storie di
ordinario eroismo.
Non si può ipotizzare che le vicende storiche che hanno dato origine alla necessità che fosse
creato il Giorno della Memoria siano cristallizzate nei libri, come un evento importante ma lontano
nel tempo si corre seriamente il rischio di rendere alieni il significato e la ragione vera per cui il
Giorno della Memoria è stato istituito dalla legge.
L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada mai più, in nessun luogo e in nessun
tempo. E’ di enorme importanza che le nuove generazioni facciano proprio questo insegnamento nel
modo più vivo e partecipato possibile, stimolando le domande, i “perché” ed il dialogo,
indispensabili alla comprensione di quei tragici eventi. Sebbene non possiamo essere certi che, in
luoghi del mondo ‘altri’ rispetto all’Europa ed al cosiddetto primo mondo, altri genocidi non siano
(stati) perpetrati, anzi…
Favorendo e praticando riflessioni collettive con il più largo coinvolgimento dei giovani in
modo particolare, renderemo il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo
più autentico, necessita di un pensiero non statico e nozionistico, ma dinamico, in grado di fornire
alle generazioni future gli strumenti culturali per riflettere su cosa una minoranza è stata in grado di
fare, perché non accada mai più.
Per evitare che l’amnesia di massa (al limite dell’universalità) la memoria di ciò che è stato è
un dovere di tutti: per ricordare anche la generazione dei nostri padri che ha servito la Patria in
armi.
E’ proprio nella logica di una corretta rivalutazione della loro odissea e del loro
comportamento patriottico che è opportuno rammemorare anche le drammatiche vicende che
vissero gli internati militari italiani nei campi di concentramento di cui il Reich riempì l’Europa.
Essi sono (stati) tra noi, spesso il loro eroismo è stato misconosciuto, molte volte il loro sacrificio è
stato ignorato.
Quei militari - soldati, graduati, sottufficiali ed ufficiali - non erano considerati dai Tedeschi
come ‘prigionieri’, ma con distinzione giuridica degna di miglior causa, come ‘internati militari’:
60
essi, in quanto tali, non erano titolari dei diritti contemplati dalla Convenzione di Ginevra del 1929
e non erano neppure protetti dalla Croce Rossa. La distinzione giuridica tra le due definizioni
riveniva dal rivendicare la neonata Repubblica di Salò quei militari come suoi cittadini, come tali,
tenuti a collaborare con la Germania. Nel contempo, quegli stessi uomini - che, nella stragrande
maggioranza, non collaborarono né come militari né come lavoratori coatti civili - venivano bollati
come ‘traditori’ e ‘badogliani’ e fatti oggetto delle peggiori nefandezze, inferiori, forse, solo a
quelle che furono perpetrate contro gli ebrei ed i prigionieri russi.
Nella seconda metà degli anni ’90, più di cinquanta anni dopo quegli avvenimenti della
seconda guerra mondiale, gli storici hanno cominciato a squarciare il velo che ha avvolto per tutto
questo tempo le vicende di quegli italiani che, dopo l’otto settembre, furono internati nei lager
nazisti.
Per molti anni, sulle 'scomode' vicende degli internati militari italiani (come lo sono quelle
dei prigionieri di tutte le guerre) la storiografia contemporaneistica non ha indagato: è stata fatta
calare su di loro una sorta di damnatio memoriae. Le uniche ricostruzioni di quelle vicende sono
state quelle prodotte dalla memorialistica dei protagonisti, che, ovviamente, non erano storici di
professione, quindi, con tutti i limiti del caso.
L’opinione pubblica guardava, se non con sospetto, certo con estrema indifferenza agli ex
internati, considerati spesso ingiustamente degli opportunisti che non avevano compiuto il proprio
dovere di soldati e di cittadini. Si temeva che essi potessero essere stati indottrinati dai nazisti o dai
russi, ma la massima parte degli internati che rimpatriava era fondamentalmente democratica
sebbene non politicamente organizzata nei rinati partiti.
Gli internati videro la propria storia d’internamento confusa e la loro prigionia di guerra
scolorire con il Paese che desiderava lasciarsi il passato bellico alle spalle, così dovettero prendere
atto della subordinazione della loro vicenda sia nell’immaginario collettivo sia a livello
istituzionale, rispetto alla lotta partigiana.
Oggi, a quasi settanta anni di distanza, affrontare le questioni riguardanti le vicende dei
militari italiani dopo l’otto settembre significa andare alle origini di quella nuova idea di Italia e di
Patria, che venne a maturare nelle coscienze di molti e di quella rinnovata coscienza nazionale che
nacque nei venti mesi che intercorsero tra l’Armistizio e la Liberazione.
Come non rammemorare, in questo contesto, il valore della testimonianza diretta dell’allora
Presidente della Repubblica Ciampi nel discorso di Cefalonia il 01/03/2001 per commemorare i
caduti della Divisione “Acqui”?
Quel discorso mette il punto su un risultato acquisito dalla storiografia dell’internamento: la
dimensione antinazifascista, a pieno titolo, dell’impari lotta sostenuta da coloro i quali caddero nelle
mani del nemico germanico dopo l’8 settembre, allorquando gli opposero con le sole armi della
fierezza, del coraggio e della dignità il rifiuto di collaborare in qualsivoglia modo e forma, quali che
fossero le loro motivazioni interiori o il grado di cosiddetta consapevolezza politica.
Scrisse Vittorio Emanuele Giuntella, storico dell’età moderna ed internato egli stesso: “Il
Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un mondo di resistenti, che prese su
di sé la dignità e l'onore di un Paese, che aveva assistito al crollo di ogni autorità militare e civile, e
lottò in condizioni, che non è esagerato dire eroiche [...] Nel Lager avvenne un fatto anomalo.
Proprio lì, in un mondo dove era preclusa ogni volontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli
italiani per la prima volta di esprimere individualmente una adesione, o un rifiuto, e si
pronunciarono in massa per il rifiuto […] Una resistenza disarmata, ma non inerme e inefficace,
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significativa soprattutto come affermazione di valori morali, che sono sempre da difendere, anche
quando tutto il resto è perduto”.
Esercitando la scelta di non collaborare con i propri carcerieri, nei lager nazisti, quegli
internati militari erano diventati uomini liberi: liberi, in primis, di quella libertà interiore che è
precondizione imprescindibile a che possa essere esercitato qualunque diritto di cittadinanza e,
quindi, di partecipazione democratica autentica.
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BIBLIOGRAFIA/ SITOGRAFIA
Questa bibliografia si limita a rendere conto di alcuni testi con maggiore attinenza con
l’argomento trattato e la metodologia utilizzata.
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