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INTRODUZIONE
La politica del XX secolo è determinata da una serie di fattori che l’hanno caratterizzata:
- l’irrompere delle masse nella società;
- l’espandersi dell’economia capitalistica;
- l’affermazione dei partiti ideologici e dei totalitarismi che, successivamente, sono stati
sconfitti;
- le costrizioni della tecnica;
- il dilagare del conflitto e l’affermarsi della democrazia.
Inoltre, nel corso del novecento, la politica è uscita dalle istituzioni, le ha sfidate e le ha
modificate con processi i cui esiti hanno messo in luce sia la potenza che i limiti e le
contraddizioni del progetto politico moderno.
Il novecento è stato riconosciuto sia come secolo breve che come secolo lungo.
Hobsbawm ha affermato che esso è un secolo breve, il quale ha inizio nel 1914 e si
conclude – in una prima tappa- nel 1945; in una seconda tappa nel 1989. Per Maier,
invece, il 1900 è un secolo lungo in quanto è iniziato nel 1870 (anno in cui l’Europa si è
avviata verso la modernizzazione) e si è concluso negli anni ‘70/’80 del 1900. Accanto a
queste partizioni ci sono altre periodizzazioni:
- quella che va dal 1870 al 1914, la quale coincide con il periodo in cui c’è stato il
superamento intellettuale delle coordinate della modernità politica;
- quella che va dal 1914 al 1922 che comprende una miscela tardo-moderna di tecnica,
violenza, ideologia e nichilismo i quali si sono manifestati in guerre e rivoluzioni;
- il primo dopoguerra, durante il quale si è affermato un potere tecnico, carismatico e
invasivo sfociato nei totalitarismi e nelle risposte democratiche alla crisi economica
mondiale del 1929;
- il secondo dopoguerra, caratterizzato da una pace apparente perché – in quegli annidominava la guerra fredda, le guerre di liberazione coloniale e le ribellioni del 1968. Inoltre
in questa fase del 1900 la società è stata regolata e governata da poteri che si sono
legittimati solo per il loro successo economico;
- gli anni ’80, durante i quali c’è stata una forte accelerazione delle dinamiche
dell’economia di mercato;
- e, infine, ci sono gli anni 1989-1991 in cui c’è stato il crollo del comunismo e la
divulgazione del capitalismo che – da un lato- ha prodotto omogeneità, dall’altro
contraddizioni e conflitti i quali da locali sono divenuti globali.
Le masse sono il prodotto dei processi economici sviluppati dopo il 1870, i quali hanno
potenziato la produzione industriale attraverso il coinvolgimento dell’intera società. da ciò
si evince che nel 1900 la politica si è indirizzata verso l’allargamento della cittadinanza e
l’organizzazione della comunità, cercando di realizzare la democrazia dentro o oltre lo
Stato. Tale obiettivo si è realizzato al di fuori della politica liberale ed elitaria del 1800 ed è
stato reso possibile dall’elaborazione di ideologie (come quella socialista e comunista,
quella fascista e nazionalsocialista) le quali – anche se con intenti opposti- hanno cercato
di dre identità e potenza alle masse. Inoltre le ideologie hanno costituito l’anima dei partiti
di massi e hanno fornito a questi l’energia per rompere la rigidezza e le limitazioni dello
Stato liberale e per attuare processi di riforma che sono andati verso i totalitarismo o verso
lo stato sociale.
La tecnica, ossia l’artificialità del mondo e della vita umana, durante il XX secolo è stata
sottoposta al controllo della ragione e si è dimostrata come l’orizzonte nel quale si è svolta
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la vita associata. Essa - infatti- ha condizionato e determinato gli sviluppi della politica
grazie alle sue logiche, alla sua potenza e alle sue contraddizioni, tra le quali una molto
importante è quella che mette in evidenza che la tecnica da elemento di emancipazione
dell’umanità, si è affermata come elemento di dominio.
Il conflitto politico del 1900 è stato generato dal fatto che tutti gli avvenimenti i quali hanno
costruito la trama di questo secolo hanno generato fronti polemici, plurimi e mobili sui quali
si sono confrontati e scontrati attori storici e pensatori della politica. Ad esempio, intorno
all’industrializzazione prima, e all’inclusione delle masse poi, si è coaugulata una delle
fratture più importanti della storia: quella tra il capitalismo e il comunismo; quella tra la
democrazia liberale e democrazia socialista.
Le ideologie hanno avuto la potenza di trasformare in conflitto politico le contraddizioni
economiche -da un lato- e – dall’altro- hanno fatto della politica del Novecento in vero
campo di battaglia la cui sfida principale è stata quella di individuare modelli di cittadinanza
universale per far entrare le masse nella vita politica democratica. L’inclusione delle masse
nella democrazia non è avvenuta in modo lineare, ma ha comportato una serie di
contraddizioni ed esclusioni che si sono manifestate in conflitti e in una mobilitazione
permanente. Le democrazie liberali hanno dato un’interpretazione pluralistica della
democrazia, intendendola come un sistema politico che se ben governato consente il
libero fiorire della singolarità e delle collettività. Nella prima fase del secolo la
socializzazione della politica è avvenuta attraverso la costruzione politico-partitica della
nazione e della classe, le quali sono riuscite ad affermarsi nel corso del primo conflitto
mondiale intrecciando conflitti interni ed esterni. Infine ci sono stati i totalitarismi che hanno
rappresentato la continuazione della guerra fin dentro la pace e hanno risposto alle sfide
del secolo organizzando forme politiche democratiche capaci di realizzare la mobilitazione
ideologica e polemica di tutto l’uomo e di tuta la società proponendosi non un obiettivo
pluralistico ma fortemente monistico (ossia singolo).
Nel corso del XX secolo i fronti di conflittualità ideologica e politica sono cambiati:
dall’antifascismo (che ha dominato tutto il periodo della seconda guerra mondiale) si è
passati all’anticomunismo; dopo la caduta del comunismo si è affermato l’antitotalitarismo
e l’anti-terrorismo che ha posto le società democratiche dell’Occidente contro dei nemici
nuovi e molto forti. Ulteriori fronti di conflittualità sono stati prodotti dall’espandersi globale
delle forme occidentali di socializzazione e produzione, che ha risvegliato i popoli del
Terzo mondo i quali hanno cominciato a ribellarsi. Il quadro della complessità e delle
contraddizioni è stato ulteriormente complicato dalle insorgenze che si sono verificate
nell’Occidente democratico (durante il ’68) e dalla globalizzazione che ha segnato la fine
della guerra fredda. La tecnica ha, poi, generato fronti intellettuali di conflitto in quanto da
un lato ci sono coloro i quali sostenevano che essa fosse un problema; dall’altro ci sono
quelli che la ritenevano una soluzione dei diversi problemi esistenti. Altri ancora hanno
sostenuto che non bisogna criticare la tecnica ma l’economia. Infine la democrazia, prima
di realizzarsi come democrazia sociale, si è manifestata in diverse forme anche
contrastanti con la sua natura, quali: la democrazia totalitaria, la democrazia popolare,
etnica, ecc che nel loro insieme testimoniano che questa forma di governo è stata la
protagonista di tutte le questioni del secolo.
Le dinamiche della politica del 1900 spiegano perché il pensiero politico di questo secolo
è stato esposto a tensioni molto gravi le quali non hanno permesso a nessuno dei concetti
e delle forme politiche della tradizione di resistere alle sfide di questo tempo. Per questo
motivo lo Stato ha assunto diverse forme giuridiche; la rappresentanza del popolo ha
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cessato di avere il suo snodo centrale nel parlamento, passando nell’esecutivo; il soggetto
individuale si è trasformato da Io trascendentale a Io diverso e – infine- in Io dominato e
massificato dal conformismo; le soggettività politiche del 1900 – ossia la nazione e la
classe- hanno perso la loro capacità propulsiva e la loro consistenza lasciando il posto a
nuove soggettività completamente diverse: la donna, i giovani e i migranti. Alla centralità
del soggetto si è sostituita quella del corpo e della vita. La società, che non può essere
pensata né come separata dallo stato e dalla politica né come terreno d’azione delle
istituzioni, è stata definita come origine di nuove questioni e conflitti la cui soluzione
esigeva una nuova energia politica: i partiti, e una nuova legittimità: quella conferita alle
grandi ideologie di massa. Tuttavia, nel corso degli anni ’80, la progettualità dei partiti è
stata sfidata dalla pretesa che l’economia di mercato doveva essere l’orizzonte di
legittimazione della politica, la quale doveva limitare la propria azione e renderne possibile
l’autoregolazione. In questo modo i partiti sono stati impoveriti e la politica è stata
riproposta come la dimensione in cui si rendono manifesti i poteri globali, le contraddizioni
e le esigenze generate dall’insufficienza del mercato a determinare e regolare una libera
vita umana. Da ciò si evince che il Novecento è stato dominato dalle crisi che hanno
attraversato gli spazi tradizionali della politica, sia in senso geografico che istituzionale;
crisi che nascevano dal manifestarsi di contraddizioni interne al progetto moderno il quale
vuole che la politica sia il prodotto della ragione umana.
Il primo obiettivo del pensiero politico del 1900 è quello di individuare il razionalismo
moderno; a questo si è affiancato l’impresa di ricostruzione ideologica della politica “oltre
lo Stato”, la ricostruzione democratica della statualità e- infine- le destrutturazioni, che si
presentano come il superamento (anche intellettuale) di un quadro politico che è stato
modificato dagli eventi del 1989 e del 2001.
dall’analisi di quanto detto si deduce che il 1900 è un secolo ricco di contraddizioni. Una
prima contraddizione coincide con il fatto che questo secolo è stato caratterizzato da una
serie di richieste di emancipazione da un lato,e - dall’altro- da trend di accrescimento e
approfondimento del dominio. In secondo luogo il XX secolo è stato un periodo di crisi e di
estrema violenza, ma nello stesso tempo è stato un secolo in grado di associare questi
eventi negativi all’elaborazione delle teorie dei diritti dell’uomo, civili, politici, sociali,
culturali sia dei singoli che dei gruppi e di forme della pace.
Da un punto di vista spaziale, l’Europa conosce – nel 1900- la più piena centralità
nell’elaborazione teorica e nell’intensità dei fenomeni politici; ma – al tempo stesso- è
attraversata da una serie di contraddizioni che la portano ad essere l’oggetto della politica
altrui e a dover riconoscere la marginalità della propria esistenza. Da un punto di vista
politico, le contraddizioni si manifestano anche nella democrazia, la quale è sfidata nella
sua vocazione universalistica e nel suo autoleggittimarsi come estendibile all’intera
umanità, dal rifiuto e dalle critiche di chi la vede come una manifestazione della cultura
occidentale. In questo modo, le alternative che sono state elaborate nel corso del XX
secolo rispetto la democrazia sono state sconfitte, ma la vigenza di categorie e delle
istituzioni della modernità non implica che la loro efficacia non sia in bilico e che molti
problemi (colti dalle critiche intellettuali) siano stati risolti. Essi – infatti- sono stati
trasformati ma restano ancora insoluti. Come questi problemi, anche la lotta che
intellettuale intorno alla modernità – che è divampata x tutta la durata del secolo- si
ripresenta oggi sotto una forma mutata, diversa. Infatti, gli sforzi del pensiero politico
stanno andando in diverse direzioni: da un lato protendono verso la riaffermazione delle
logiche esplicite del Medioevo; da un altro si indirizzano verso una critica radicale della
ragione moderna e – infine- si orientano a salvare dalla modernità alcune indicazioni e
orientamenti umanistici, liberandoli dalle logiche di dominio che li pervadono e adattandoli
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ad un nuovo mondo con nuove problematiche da affrontare. L’obiettivo di questa terza
posizione è quello di pensare a delle soggettività né subalterne né totalizzanti; a delle
istituzioni non dominanti; a delle identità non escludenti; a delle tecniche non manipolative;
a dei conflitti non distruttivi; ad una politica che sia più lineare e priva di contraddizioni.
Infine bisogna sottolineare che la contraddizione più grande del XX secolo è quella di aver
ospitato una grande stagione di pensiero politico e politica pratica- da un lato-; e dall’altro
di averproceduto con una destituzione di senso della politica e con una declassazione di
essa a fenomeno di accompagnamento di altre logiche e linguaggi (come l’economia, la
tecnica, ecc.).
CAPITOLO I
LA CRISI DELL’ORDINE POLITICO MODERNO
Con la rivoluzione del 1848 la coscienza europea ha conosciuto una crisi che è stata colta non solo
dai rivoluzionari e dai controrivoluzionari, ma anche da un grande filosofo : Kierkegaard, il quale
sosteneva che l’ingresso delle masse nella politica segnava la fine dell’omogeneità della società
borghese. Inoltre il filosofo danese ha affermato che con dopo gli avvenimenti del 1848 sarebbe
stato impossibile promuovere l’uguaglianza tra uomo e uomo, in un contesto liberale, e che la
borghesia non era stata all’altezza del compito storico-politico che si era assunta: ossia quello di
civilizzare il genere umano. Tuttavia questa sfiducia nelle istituzioni politiche e nella cultura
razionalistica è stata superata con il positivismo e la socialdemocrazia, i quali sono stati colpiti
dalla crisi intellettuale e politica che ha colpito l’Europa dal 1880 al 1945. Verso la fine del XIX
secolo e l’inizio del XX la borghesia è andata incontro a gravi difficoltà dipendenti, soprattutto, dalle
modifiche dell’assetto sociali: infatti la politica liberale viene sfidata dalla democrazia di massa – da
un lato- e dalle profonde contraddizioni di classe – dall’altro. Da un punto di vista concettuale, la
crisi della politica liberale si è riverberata su tutte le categorie politiche moderne, e in particolare su
quella del soggetto, su quella di razionalità e su quella di progresso. Dopo la crisi del liberalismo si
è dato inizio ad una serie di tentativi di rifondazione della politica: infatti vediamo che c’è stata – in
politica- l’irruzione delle masse organizzate in partiti, la quale ha segnato la fine del nesso
ottocentesco tra Stato e individuo; poi sono entrati in scena nuovi attori della politica i quali non
sono più contenibili all’interno delle istituzioni e che agiscono in base alle ideologie proponendosi
di dare sostanza alla’astrattezza della politica moderna. Le ideologie, anche se sono diverse tra
loro, si propongono tutte di affrontare la crisi del rapporto tra il soggetto e lo Stato; in più esse sono
importanti perché servono a motivare, mobilitare e orientare politicamente le masse, rendendole
protagoniste della politica o vittime (come nel caso dei totalitarismi). I totalitarismi sono stati i
protagonisti politici della prima metà del Novecento, i quali sono riusciti a diffondere solo
distruzione e oppressione. Pertanto possiamo dire che l’inizio del XX secolo ha conosciuto la
pianificazione e il dominio totalitario da un lato e – dall’altro- ossia in contesti meno violenti, il
depotenziamento del conflitto ideologico (divenuto competizione elettorale tra elitè); l’estensione
dei compiti amministrativi dello Stato e la fine dell’egemonia del legislativo e il prevalere
dell’esecutivo.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo si è sviluppata una crisi che ha innervato diversi
settori. In questo periodo, infatti, l’uomo non aveva più fiducia né nelle sue capacità di gestire il
mondo, né nella capacità della storia di spiegare il corso degli eventi. L’idea di civiltà e di cultura
non sembra più capace di dare un senso al mondo e all’agire dell’uomo. Le strutture sociali,
politiche ed economiche che determinano la vita dell’individuo rivelano la loro artificialità, il loro
essere maschere che nascondono la tragicità della vita. Questa crisi investe, poi, anche la filosofia
politica la quale si è ritrovata a dover fronteggiare la crisi delle istituzioni borghesi e in particolare
quella dello Stato e della sovranità rappresentativa realizzata nel parlamento, che è stata
sottoposta a forti tensioni dai processi di democratizzazione che hanno portato sulla scena , prima
sociale e poi politica, dei nuovi soggetti; le masse proletarie. Alla luce di ciò si deduce che il
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progetto universalista dello Stato moderno più che fondarsi su valori universali di libertà e
uguaglianza, si è basato sulla violenza e sulla forza. Per questo motivo, in questo secolo, è stato
individuato il concetto di nichilismo da alcuni pensatori.
NIETZSCHE
Nietzsche è stato il primo pensatore a considerare il nichilismo come la chiave interpretativa del
moderno. In Nietzsche il termine nichilismo assume il senso letterale di “volontà del nulla” in
quanto esso indica quella condizione di mancanza di senso nata con la perdita della forza da parte
delle risposte ai problemi della vita reale. Tale perdita dei valori, delle certezze può essere
inquadrato in un processo storico che ha segnato tutta la storia del pensiero europeo e che ha
spinto l’uomo a voler fuggire dalla realtà concreta.
Nietzsche ha sempre interpretato lo spirito greco prendendo in considerazione due concetti
opposti: lo spirito dionisiaco, ossia quello delle passioni; e lo spirito apollineo, e cioè quello della
ragione; e – in riferimento a ciò- sosteneva che fin quando spirito apollineo e spirito dionisiaco
hanno vissuto in perfetta armonia la civiltà greca fu vitale (anche se non serena). In seguito, con la
nascita della filosofia di Euripide, di Socrate e di Platone lo spirito apollineo ha sopraffatto quello
dionisiaco, nel senso che la filosofia ha imposto i propri valori razionali su quello che è la vera
essenza della vita: le emozioni, la creatività, l’orrore. Quindi la filosofia è, per Nietzsche, un gesto
difensivo che – mediante l’invenzione teorica di un mondo ideale e trascendente- ha opposto
strutture e variabili stabili al caos della vita. Ma , nello stesso tempo, essa è ha dato inizio alla
decadenza dei valori che il filosofo trova realizzata nella sua contemporaneità affermando che il
nichilismo è quel processo il quale ha messo in luce che i valori assoluti sui quali si sono formate
molte coscienze umane non sono altro che finzioni e invenzioni.
Il nichilismo di Nietzsche attraversa anche 3 settori importanti: la metafisica (che coincide con la
verità), Dio (che coincide con l’oggettività e la salvezza) e lo Stato, i quali sono tutti privi di valore.
METAFISICA: per Nietzsche la metafisica non è altro che una costruzione dell’uomo che, essendo
incapace di vivere in una realtà così caotica e dolorosa, si è costruito delle illusioni per poter
andare avanti. Infatti il filosofo parlerà di un mondo vero che è finito per diventare una favola.
RELIGIONE: anche la religione -per Nietzsche- non è altro che un’espressione di paura davanti
alla tragica conflittualità dell’essere e della vita. E, in particolar modo, il cristianesimo si presenta
come una “religione del risentimento” dei deboli nei confronti dei più forti in quanto i primi- essendo
incapaci di affrontare i secondi- li hanno sottomessi moralmente e psicologicamente dando vita ad
una tavola di valori esattamente opposti a quelli vitali. In questo modo vediamo che Nietzsche ha
accettato la metafora hegeliana del servo-padrone, ma l’ha capovolta completamente opponendo
all’idea del mondo alto che nasce dal mondo dei deboli, il concetto della “morte di Dio” ossia della
perdita di tutti i valori.
STATO: oltre alla metafisica e alla religione, anche la politica è nulla per Nietzsche. Infatti lo Stato,
il suo ordine e i suoi valori nascono dalla violenza; una violenza ipocrita in quanto ha il bisogno di
nascondersi dietro il diritto e valori alti.
Il nichilismo di Nietzsche viene definito nichilismo incompleto in quanto esso è dominato da un
“bisogno di verità” che si traduce nella nascita di nuove verità ideali capaci di sostituire i valori
tradizionali. In ambito politico queste nuove verità sono : il nazionalismo, lo sciovinismo, il
socialismo, l’anarchismo e la democrazia. La democrazia è, per il filosofo, sinonimo di mediocrità,
di conformismo di massa e di spirito di risentimento. Questa forma di governo viene riconosciuta
come la forma tipica di una civiltà “degli zeri sommati” in quanto ognuno è uno zero che ha uguali
diritti; in più la democrazia è espressione del conformismo perché l’uomo non riconosce più la sua
forza e si affida completamente allo Stato. Inoltre per Nietzsche la democrazia liberale borghese è
uguale al socialismo perché entrambe si fanno portavoce dell’uguaglianza tra i cittadini; ma come
queste due forme di governo, il filosofo è convinto che tutte quelle della sua epoca possono essere
considerate simili in quanto tutte sono sottomesse alla forza conformistica della democrazia.
Dall’analisi di ciò si deduce che il nichilismo incompleto rappresenta l’emergere della crisi finale
della ragione occidentale, crisi che è stata vissuta in due modi: 1) come disperazione e decadenza
da chi ha subito il fallimento delle logiche razionalistiche; 2) come potenza da chi ha detto si alla
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vita. Quest’ultima forma di nichilismo viene definita “nichilismo estremo” perché non vengono
distrutti solo i valori tradizionali, ma anche il luogo che questi occupavano, ossia il mondo della
trascendenza. Il nichilismo si distingue – ulteriormente- in nichilismo passivo e nichilismo attivo. Il
primo è sinonimo di declino e regresso dello spirito in quanto si limita a descrivere il declino dei
valori. Il secondo rappresenta il segnale della crescita della potenza dello spirito la quale si
manifesta nel fatto di velocizzare la distruzione dei valori tradizionali per poter preparare la strada a
qualcosa di nuovo. In questa forma di nichilismo, che Nietzsche considera propria, comincia a farsi
strada il concetto di “volontà di potenza” anche perché esso implica una parte distruttiva e una
costruttiva.
L’ETERNO RITORNO
La forma più estrema del nichilismo è il nulla eterno (ossia la mancanza di senso perenne).
Nietzsche parla di nulla eterno in quanto uno dei concetti fondamentali del suo pensiero filosofico è
quello dell’eterno ritorno il quale cerca di fornire una sistemazione e una radicalizzazione del
nichilismo attraverso il recupero di una concezione arcaica del tempo ciclico. L’idea dell’eterno
ritorno mette in evidenza che nella vita tutto è destinato a ripetersi, ponendosi – in questo modocontro la tesi cristiana che prevede l’esistenza di un inizio: la creazione, e una fine: la redenzione.
Inoltre, per Nietzsche, l’eterno ritorno segna il passaggio dall’uomo che dice di no alla vita all’uomo
che dice di si e che riscatta la finitezza umana da ogni costruzione trascendente per vivere la realtà
in modo affermativo.
IL SUPERUOMO E LA VOLONTA’ DI POTENZA
Colui che riesce a dire di si alla vita accettando la dimensione tragica di essa, colui che riesce a far
propria la prospettiva dell’eterno ritorno, colui che riesce a reggere la morte di Dio e lo smarrimento
delle certezze assolute non è l’uomo normale, ma il “superuomo” e – più esattamente- l’oltreuomo
la cui immagine oscilla tra quella della bella individualità e quella dell’avventuriero. Il superuomo
non è un uomo che ha potenziato le facoltà dell’uomo normale, ma è un nuovo uomo il quale ha
superato gli atteggiamenti, le credenze e i valori dell’individuo tradizionale e ha rivendicato la
natura terrestre e corporea della vita. Tuttavia questa liberazione dall’autorità umana e divina non
riguarda tutti gli uomini , ma solo una ristretta elitè di soggetti che – in quanto razza dominatrice- ha
bisogno della schiavitù. Questo atteggiamento antiegualitario e antidemocratico di Nietzsche vuole
mettere in evidenza che il vero uomo è colui che è in grado di distinguersi dalla massa e con il
concetto di superuomo il filosofo non vuole far altro che criticare gli ideali politici del suo tempo,
tutti sottomesi ai diritti di uguaglianza e alla democrazia.
Un altro grande tema del pensiero nietzschiano è quello della volontà di potenza, che egli definisce
come l’intima essenza dell’essere. La volontà di potenza coincide con la volontà redentrice,
capace di conciliarsi con il tempo e di liberarsi dal peso del passato. Inoltre essa è una forza
espansiva e votata all’autoaffermazione e si identifica sia con il modo di essere del superuomo che
con l’essenza dell’eterno ritorno.
La figura di Nietzsche è stata associata , per molti anni, alla cultura nazifascista in quanto egli
aveva parlato di una razza di nuovi dominatori che si sarebbe servita dell’Europa democratica per
poter gestire le sorti della terra e per poter plasmare l’uomo stesso attraverso delle leggi
abbastanza dure. In effetti questo atteggiamento antiegualitario e antidemocratico lo si può
estrapolare anche dall’atto teorico e pratico di oltrepassare se stessi.
Nietzsche ha cominciato ad affermarsi come un pensatore solo dopo la seconda guerra mondiale e
ad esso sono state attribuite diverse interpretazioni: c’è chi lo ha riconosciuto come pensatore
terminale in cui la modernità si dissolve; chi lo ha considerato l’emblema della volontà di potenza
della cultura occidentale e chi come il profeta di un’umanità liberata. Tuttavia Nietzsche ha offerto
un’analisi impolitica della politica, nel senso che egli rifiutava il valore stesso della politica e ha
proposto una soluzione apolitica piuttosto che di destra alla crisi politica. Tuttavia Nietzsche è
molto importante da un punto di vista del pensiero filosofico-politico novecentesco perché la sua
filosofia contiene gran parte della filosofia politica del XX secolo.
TONNIES
Il nichilismo e il comunismo, temi fondamentali del pensiero politico della seconda metà dell’800,
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sono presenti anche nella riflessione intellettuale di coloro che diedero vita alla stagione della
sociologia classica, la quale prendeva come punti di riferimento proprio Marx e Nietzsche.
Tonnies è un grande sociologo che si è formato – da un punto di vista intellettuale- sotto l’influenza
di questi due autori. Egli, innanzitutto, criticò la borghesia colta guielmina in quanto incapace di
fare i conti con le logiche dell’uguaglianza e con l’individuo. Fu proprio l’uguaglianza il terreno nel
quale Tonnies incontrò Hobbes, un autore che in seguito ha studiato in modo più approfondito e
con il quale si è confrontato. Tale confronto è stato molto importante perché è bene partire proprio
da esso per comprendere la politica di fondo della sociologia di Tonnies. Secondo quest’autore
all’interno della società moderna c’erano degli squilibri di dominio ed è per questo che bisognava
porre le condizioni che favorissero l’espansione dellìhobbsiano “dominio della ragione” il cui esito
ultimo è la democrazia.
la fama di Tonnies è legata alla sua opera “Comunità e società” all’interno della quale egli mette in
contrapposizione due forme di rapporto sociale: quello della comunità, in cui le volontà umane
sono unite, e quello della società, dove i protagonisti sono separati. Da ciò si evince che la
comunità è caratterizzata da un’unità reale e organica, mentre la società da una formazione ideale
e meccanica. Inoltre molti hanno interpretato quest’opera di Tonnies come l’espressione della
nostalgia per la comunità come forma di convivenza del passato. Invece l’obiettivo del sociologo,
attraverso questa opera, era quello di dar vita a delle società fondate su una volontà generale, la
quale non è altro che il frutto delle volontà individuali. Questa diretta coincidenza tra volontà
individuale e collettiva mette in evidenza: da un lato, l’esistenza di una forma di relazione sociale le
cui tracce sono individuabili in ambiti ristretti (la famiglia, il vicinato); dall’altro lato una riflessione
critica sui limiti dell’individualismo moderno.
Un concetto centrale nel pensiero di Tonnies è quello del diritto naturale, il quale rappresenta lo
standard razionale a cui devono essere condotte le forme di relazione non azionali che
sopravvivono come residui della tradizione ma che all’interno della società hanno riprodotto uno
stato di natura che lo Stato avrebbe dovuto cancellare. La modernità, secondo il sociologo, si
presenta come tensione al futuro che fa del progresso e della rivoluzione le sue più rilevanti
determinazioni concettuali. Inoltre la modernità è l’epoca della razionalizzazione e la sociologia è la
scienza che consente di comprendere il governo. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, Tonnies
ha sviluppato la concezione progettuale della sociologia recuperando – dal pensiero di Hobbes- la
categoria di rappresentanza attraverso la quale lo Stato diventa capace di rappresentare i
movimenti della società e di gestire le tensioni generate dalla questione sociale.
WEBER
Max Weber ha maturato la sua personalità scientifica e politica a stretto contatto con i temi e i
protagonisti del liberalismo nazionale tedesco. Dopo i suoi studi universitari egli ha puntato su
un’analisi storico-sociale del diritto, soffermandosi su temi politici e culturali che ha esposto nelle
sue prime due opere. Questi temi sono: il capitalismo, che rappresenterà il fulcro di tutto il suo
pensiero; la questione agraria e il conflitto tra città e campagna. Weber viene riconosciuto – più
comunemente- come un grande sociologo ed egli si è aperto verso la sociologia dopo
un’esperienza concreta: un’inchiesta svolta sulle condizioni dei lavoratori agricoli nelle terre della
Prussia. Da questa esperienza egli ha scoperto il capitalismo che, secondo il sociologo, si presentò
come una potenza sovversiva e nichilistica in quanto ha segnato il tramonto di un intero universo di
valori che sono stati sostituiti dalla mediazione oggettiva e astratta del salario monetario. Inoltre –
per Weber- il capitalismo è una potenza oggettiva destinata a dominare sia il presente che il futuro
con modalità ai cui condizionamenti non ci si può sottrarre. In più il sociologo tedesco si è
interrogato anche sul soggetto, ossia sull’uomo che sta all’origine del capitalismo, in quanto è
proprio partendo dallo studio e dalla comprensione degli orientamenti dei singoli, che si può
interpretare il mondo sociale e , di conseguenza, giungere alla costruzione del tipo ideale.
Nella sua opera di sociologia delle religioni Weber ha esposto che specifiche motivazioni ideali
hanno ben definito la costellazione in cui si è formato il capitalismo. La dottrina della
predestinazione, promulgata dal protestantesimo, ha spinto i credenti a trovare delle conferme
della propria elezione; conferme alle quali sono giunti dirigendosi verso un disciplinamento dei
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propri impulsi mediante il lavoro, ponendo- cos- le basi di una condotta di vita metodica e
razionale, nonché funzionale all’affermarsi del tipo d’uomo capitalistico. Secondo Weber, alle
origini del capitalismo c’era una forma specifica di soggettività: quella della moderna borghesia, la
quale era capace di dare un senso – attraverso il proprio autodisciplinarsi- alla vita terrena in cui
l’uomo non può trovare la salvezza mediante le opere. Infatti il grande passo avanti che è stato
fatto dal protestantesimo (rispetto al cattolicesimo) è quello di aver spostato il baricentro dell’agire
del credente dall’oggettività delle opere e dei sacramenti alla soggettività della coscienza. In
seguito, questo schema interpretativo delle origini del capitalismo è stato inserito in un processo di
razionalizzazione e disincanto del mondo che ha caratterizzato la storia dell’Occidente; disincanto
del mondo che è stato inaugurato dal gesto con cui la religione giudaico-cristiana ha collocato la
profezia della salvezza in una dimensione ultraterrena e oltremondana, liberando – in questo modola vita mondana dall’animismo magico e affidandola alla ragione. Tuttavia questo processo di
razionalizzazione ha alla base una logica che lo ha spinto a ritorcersi contro quelle motivazioni le
quali sono state la causa della sua genesi. Ciò significa che la borghesia presente all’origine del
capitalismo viene nullificata da quest’ultimo il quale si è cristallizzato in una serie di rapporti sociali
coattivi e imposto con la sua oggettività sui soggetti. In questo modo il soggetto moderno ha ceduto
il posto ad una nuova oggettività, ossia al suo stesso lavoro che è diventato qualcosa di estraneo
ad esso. Dall’analisi di ciò si deduce che il pensiero di Weber è dominato – in gran parte- dalla
preoccupazione relativa al destino della borghesia (la quale rappresenta l’emblema dell’uomo della
modernità) e dal timore che i valori classici dell’illuminismo e del liberalismo si mostrino
inconsistenti di fronte alle tendenze tecniche dominanti nel presente, le quali stringono l’impresa
capitalistica e lo Stato nella burocratizzazione universale. Due figure della soggettività moderna
che sono state marginalizzate – secondo Weber- da questo numero crescente di strutture
burocratiche che funzionano come delle macchine sono: l’imprenditore e l’uomo politico; ad essi si
aggiunge anche l’intellettuale, il quale nella realtà moderna è stata messa alla prova la sua
capacità di tenere sotto controllo il senso complessivo del suo sapere.
IL PENSIERO POLITICO
Il valore politico in cui Weber ha creduto sin dall’inizio della sua attività e per molto tempo è stato
quello dello Stato nazionale; mentre i principali problemi sui quali si è soffermato nel 1895 sono
stati: quello della composizione sociale della nazione tedesca e quello dell’unificazione della
Germania. Per quanto riguarda il primo punto, decisiva è stata l’analisi della trasformazione degli
junker avvenuta dopo l’avvento del capitalismo. Infatti questa nuova forma di economia ( e di
conseguenza vita politico-sociale) ha messo in crisi il ruolo degli junker (proprietari terrieri)e ha
aperto il problema di un rinnovamento della classe dirigente la quale doveva avere il compito di
spingere la Germania verso il capitalismo in modo che il secondo Reich potesse ambire alla
conquista di una potenza politica mondiale. Da ciò si deduce che c’era bisogno di un’educazione
politica mediante la quale la borghesia sarebbe uscita dalla sua condizione di minorità e si sarebbe
candidata per assumere la guida del paese. Per quanto riguarda il secondo punto è importante
sottolineare che la lotta per il mantenimento e l’esaltazione della propria nazionalità spingeva
sempre di più l’unificazione della Germania. Per realizzare ciò Webr, inizialmente, cercò appoggio
nel proletariato e nei membri del partito della socialdemocrazia; ma – in seguito- si rese conto che
per giungere all’unificazione del paese bisognava procedere con la democratizzazione interna del
paese.
Un momento decisivo per il pensiero politico di Weber è stata la prima guerra mondiale. Infatti,
dopo questo conflitto la democratizzazione – così come la burocratizzazione- sono apparsi come
due avvenimenti politici inevitabili ed è per questo che il problema sul quale si è concentrato Weber
era quello di individuare le forme costituzionali in cui si sarebbe realizzato il governo. Weber si è
proposto di superare lo Stato autoritario e il suo modo di gestire il potere proponendo l’attuazione
di una riforma costituzionale che sancisse la dipendenza del governo dal Parlamento e che
eliminasse l’impossibilità che il cancelliere sia il membro del Parlamento. Pertanto la centralità
politica del Parlamento non sta nel fatto che esso produce a rappresentanza politica, piuttosto nel
fatto che esso costituisce l’arena in cui i capi-partito si confrontano per ottenere la leadership e in
cui imparano a gestire il governo burocratico.
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L’analisi di Weber verte su una debolezza della Germania imperiale: ossia la sua incapacità di fare
politica (intesa come azione rischiosa) e la tendenza a sostituirla conta razionalità tecnicoburocratica la quale ha solo capacità organizzative. Tuttavia Weber ha sottolineato che questo non
è un problema della Germania, ma è il destino di tutta la modernità. Un’altra caratteristica della
politica – per Weber- è quella di essere lotta, conflitto tra diverse posizioni ideali, il che è- da un
lato- manifestazione del destino nichilistico della politica moderna; dall’altro l’unico elemento dal
quale può derivare l’energia e la vitalità di una forma politica. In uno dei suoi saggi confluiti
nell’opera “Economia e società” Weber ha affermato che esistono tre tipi di poteri legittimi:
- il potere tradizionale, il quale poggia la propria legittimità sulla convinzione che chi lo esercita
derivi questo potere dalle tradizioni classiche;
- il potere razionale, la cui legittimità deriva dalla credenza nella legalità di ordinamenti e
procedure;
- il potere carismatico, la cui legittimità consiste nel riconoscimento del carattere straordinario di un
capo. Il potere razionale è quello proprio dello Stato moderno che, a causa sei suoi caratteri
impersonali, tende verso la tecnicizzazione e la burocratizzazione le quali aumentano le procedure.
Per contrastare questa tendenza è necessario che l’insieme dei valori e il loro conflitto possano
dispiegarsi mediante la tecnica e la burocrazia.
Lo Stato moderno è – per Weber- strutturato da elementi razionali, ma nello stesso tempo la sua
prima realizzazione storica risale al periodo medioevale in cui le città medioevali hanno usurpato il
potere del principe e si sono imposte come un gruppo politico illegittimo e rivoluzionario. Il
sociologo punta molto su quest’ultimo aspetto in quanto egli è convinto che la politica trae la sua
forza e la sua energia proprio dalla rivoluzione. Tuttavia Weber traduce in senso carismatico
l’elemento rivoluzionario della politica e per questo ha proposto una democrazia parlamentare in
cui il presidente della repubblica realizzi una democrazia dei capi. Infine bisogna dire che il tipo di
dirigente al quale si rivolge Weber negli ultimi anni della sua attività è quello capace di coniugare
passione e sobrietà, etica della convinzione e etica della responsabilità.
CAPITOLO 3
IL MARXISMO
Una delle principali ideologie del XX secolo è quella del marxismo, anche se per questa corrente di
pensiero con il termine “ideologia” si intende la falsa coscienza dell’oggettività economica e politica
nonché le idee imposte dalla classe dirigente, la quale è incapace di intendere le reali connessioni
e le contraddizioni del sistema sociale; elementi – questi – che vengono presi in considerazione
dalla scienza del proletariato. All’inizio del XX secolo si è assistito ad una profonda trasformazione
del quadro teorico del marxismo in quanto gli esponenti di questo pensiero non hanno più visto la
rivoluzione come un avvenimento necessario per la collocazione al potere del proletariato, bensì
come un’azione politica volontaria e non affidata ad automatismi storico-dialettici.
LUXEMBURG
Rosa Luxemburg ha opposto al riformismo e al revisionismo il primato della coscienza di classe del
proletariato e della sua azione politica. Per la Luxemburg le contraddizioni del capitalismo sono
inevitabili e solo il movimento operaio ha la possibilità di trasformarle in crisi che giungeranno ad
una soluzione. Inoltre questa marxista – avvicinandosi al pensiero di Lenin - sostiene che la nuova
fase dello sviluppo del capitalismo (ossia l’imperialismo) invece di attenuare il carattere
contraddittorio di questa forma di governo, lo accentua richiedendo l’intervento attivo del
proletariato. Nonostante tutto la Luxemburg non può essere comparata a Lenin in quanto se ne
allontana in riferimento alla questione dell’organizzazione proletaria. Infine la Luxemburg
concepisce la lotta politica secondo il punto di vista della totalità, il quale mette in evidenza che è
importante mantenere uniti i momenti della tattica, della strategia, della lotta politica e dell’obiettivo
finale; ed essa fa leva sulla capacità spontanea delle masse di essere protagoniste attive della
rivoluzione.
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SOREL
George Sorel è un altro protagonista del marxismo, il quale si è proposto di combattere e superare
la corruzione e la decadenza della società moderna facendo appello al sindacato (e non ai partiti) e
puntando sull’azione diretta degli operai (e non sulla mediazione politica).
Nell’ambito della condanna al sistema democratico e parlamentare Sorel fa rientrare anche: 1) la
filosofia che ne è alla base; 2) i meccanismi e i procedimenti;3) la tattica impiegata dalle
organizzazioni proletarie le quali cercano di avvalersi dello sciopero politico solo per trasferire il
potere da un gruppo politico all’altro senza permettere allo Stato di perdere la sua forza.
Per Sorel le contraddizioni presenti nella società borghese e rilevate dal marxismo possono essere
superate solo spezzandole, e non attraverso la dialettica. Per questo motivo egli promuove la
moralità della violenza – opposta alla brutalità dello Stato- la quale si esprime nel mito dello
sciopero. Sorel parla di mito perché quest’ultimo è il prodotto di una volontà di credere che articola
le energie inconsce degli uomini e risveglia i desideri di riscatto sociale. Inoltre egli è convinto che
durante l’esperienza in fabbrica gli operai acquisiscono sentimenti di solidarietà e disciplina politica
che – in seguito- si trasformano nella violenza dello sciopero generale , il quale rappresenta un atto
rivoluzionario che mira a dar vita ad una società libera da forme istituzionali. Per Sorel il soggetto
politico che deve agire mediante lo sciopero è il sindacato ( e non il partito) in quanto lo sciopero
non deve mirare verso un’idea politica specifica e – in più- no deve adeguarsi alle leggi della
società. Esso, infatti, è una catastrofe che concentra ed esaurisce in sé tutta l’energia del
proletariato e che spinge la borghesia ad aprirsi allo scontro, promuovendo l’avvento di una società
dei produttori che si amministrano da sé. Le idee di Sorel hanno avuto un grande consenso nel
corso del XX secolo, tant’è vero che molti intellettuali sono stati influenzati proprio da queste.
LENIN
Nell’ottobre del 1917 scoppiò la rivoluzione marxista in Russia la quale era un paese ancora molto
arretrato sotto diversi punti di vista (politicamente, economicamente, culturalmente). Pertanto tale
avvenimento non è stato altro che una smentita del progressismo gradualista di impronta
socialdemocratica. Il maggior rappresentante di questo progressismo era il partito menscevico, per
il quale il socialismo si sarebbe dovuto affermare in un paese economicamente e socialmente
maturo. La Russia, che era un paese ancora arretrato, doveva svilupparsi proprio in questo senso
attraverso la rivoluzione che – però- per i bolscevichi non era altro che l’occasione per puntare ad
una dittatura del proletariato e dei contadini attraverso l’immediata presa di potere da parte di
queste classi.
Lenin è stato il leader di questa rivoluzione e il suo pensiero politico – considerato da lui una
versione ortodossa del marxismo- è, in realtà, una forzatura attivistica della politica sia per il modo
di intendere il proletariato, sia per il modo di concepire la relazione tra rivoluzione democraticoborghese e rivoluzione socialista. Per Lenin la politica proletaria aveva il compito di sostituire
quella istituzionalizzata e statalizzata mediante la diretta partecipazione delle masse
all’organizzazione democratica dello Stato. Ciò è stato possibile attraverso l’istituzione dei soviet,
ossia di consigli che non hanno una rappresentanza politica (come il Parlamento) ma che
esprimono l’immediatezza del potere operaio. Tuttavia per valorizzare questa immediatezza è
necessario passare per un momento di mediazione politica, e cioè attraverso la macchina del
partito il quale rappresenta un’avanguardia centralizzata che orienta e dà forma al movimento della
classe operaia. Partendo dal presupposto che la coscienza socialista è importata nella lotta di
classe dal proletariato e non è un qualcosa che nasce spontaneamente, Lenin ha affermato che il
compito della classe operaia è quello di elaborare una coscienza tradeunionistica , chiarendo che
essi non hanno nessun ruolo nell’elaborazione della teoria rivoluzionaria socialista ma partecipano
a questo sistema come teorici del socialismo. Quindi il compito fondamentale del partito è quello di
lottare contro lo spontaneismo, ossia con le forme di rivendicazionismo sindacale.
Nel “Manifesto” di Marx ed Engel i comunisti avevano una funzione complementare a quella del
proletariato e non sostitutiva; con Lenin il partito assume il ruolo di motore essenziale della
rivoluzione in quanto egli è convinto che le masse devono essere educate e politicamente guidate
per affrontare una rivoluzione. Da ciò derivano due cose importanti: 1) l’insistenza della creazione
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di un partito separato dalle masse; 2) in secondo luogo la sovrapposizione tra il partito e la classe
operaia, concepita come materiale da plasmare e dirigere. La stessa concezione attivistica è
possibile trovarla anche nella prospettiva di rivoluzione e democrazia di Lenin. In un suo opuscolo
egli ha sottolineato che la borghesia russa non era in grado né di promuovere né di dirigere un
processo rivoluzionario ed è per questo che le trasformazioni economiche e politiche del paese
dovevano essere guidate e promosse da un’alleanza tra proletari e contadini. Da ciò si evince che –
da un lato- la rivoluzione borghese doveva essere guidata dal proletariato e – dall’altro- che la
repubblica democratica avrebbe dovuto assumere il profilo di una dittatura degli operai e dei
contadini. Questo passaggio al marxismo sovietico (avvenuto con Lenin) non dipende solo dalle
specificità della Russia, ma anche dall’idea diffusa da Marx che la repubblica democratica è
l’ultima forma politica della società borghese. La libertà, aveva affermato il teorico del comunismo,
si sarebbe realizzata in un governo che avrebbe superato la democrazia borghese ponendosi, non
come organo sovrapposto alla società, piuttosto come organo ad essa sottoposto. Ritornando a
Lenin, esso puntava molto sui soviet i quali divennero l’autentica espressione della democrazia
rivoluzionaria e proletaria e – in più- in coincidenza con la loro nascita furono messi in diretto
collegamento con l’esperienza comunarda in modo che essi non potessero essere considerati
sono delle organizzazioni di lotta, ma un principio di forma politica da opporre alla democrazia di
tipo parlamentare. La Comune di Parigi del 1870 è stata considerata come una anticipazione
dell’esperienza di vita autonoma delle masse e di partecipazione all’organizzazione democratica
che rappresenta la condizione necessaria per edificare lo Stato proletario.
Con la nascita dello Stato sovietico (il quale è uno Stato transitorio) cominciarono a comparire i
primi problemi che hanno spinto Lenin ad indicare con il termine “noi” non più i lavoratori nel loro
insieme, ma il partito comunista e i suoi organi dirigenti i quali governano in nome del proletariato
senza – però- offrirgli un’offerta alternativa. Partendo da questo punto Lenin nel 1920 si rese conto
che era impossibile creare una dittatura democratica e una democrazia diretta,pertanto con
l’abrogazione delle vecchie forme democratiche è stata eliminata anche la democrazia all’interno
dei Soviet e dello stesso Partito comunista del governo, il quale era retto dal principio del
centralismo democratico. Per quanto riguarda il centralismo democratico possiamo dire che il
momento centralistico si esprimeva nell’attività direttiva del centro verso la base; il momento
democratico scaturiva dalle discussioni della base e dalle deliberazioni da parte della maggioranza
presente al congresso.
Infine Lenin- in una sua opera- ha fatto un’analisi anche dell’imperialismo e a tal proposito ha
affermato che esso può essere inteso come lo stadio monopolistico del capitalismo e che si
caratterizza in base a 5 elementi:
- la concentrazione della produzione e del capitale;
- la fusione del capitale bancario con quello industriale; la formazione del capitale finanziario;
- il ruolo svolto dall’esportazione dei capitali;
- il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti;
- la spartizione del mondo in zone di dominio coloniale da parte delle maggiori potenze
capitalistiche.
CAPITOLO IV
I NAZIONALISMI EUROPEI
L’ideologia che ha conteso al marxismo il primato politico è stato il nazionalismo, un’ideologia che
mirava all’esaltazione del ruolo della nazione e che ha assunto diversi significati nel corso del
tempo:
- nel corso della rivoluzione francese questo concetto combaciava con l’ideale di libertà;
- tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 ha assunto delle caratteristiche di reazione. Infatti la
dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare ha generato, in quel
periodo, una serie di reazioni irrazionalistiche, antiborghesi, antiparlamentari e antiliberali il cui
contenuto principale era la nazione. Il nazionalismo si è diffuso in tutta Europa, ma si è avvertito
particolarmente in Italia, Germania e Francia. Nei primi 2 paesi (Italia e Germania) esso è nato
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come reazione alla debolezza della società civile, alla fragilità delle istituzioni e alle contraddizioni
che percorrevano il corpo sociale. In Francia il nazionalismo è stato il veicolo dell’opposizione
controrivoluzionaria agli ideali diffusi con la rivoluzione francese. Il nazionalismo è sorto come
ideologia rivoluzionaria nel corso della rivoluzione francese, radicandosi in correnti di pensiero che
collegavano il concetto di nazione con quello di umanità. In seguito (ossia verso la fine dell’800)
questi due concetti sono stati dissociati e ciò ha comportato una trasformazione del concetto di
nazionalismo che da teoria potenzialmente progressiva è diventata un’ideologia reazionaria la
quale: 1) nega gli ideali egualitari e cosmopoliti; 2) nega l’idea di uguaglianza e la capacità
dell’individuo di agire con razionalità e in termini universalistici; 3) esalta le disuguaglianze di
origine storico-tradizionale; 4) considera l’uomo come un essere dominato dalle passioni e, quindi,
bisognoso di autorità e gerarchia. L’autorità deve essere assegnata alle istituzioni che possono
usare la forza per governare i soggetti.
Inoltre ,per i nazionalisti, la verità, intesa come adeguazione alla realtà storica, non è altro che una
finzione. La verità – infatti- è il prodotto dell’azione politica, che diventa mito, ossia un costrutto che
non dipende da un atto astratto dell’intelletto ma da un’apprensione immediata e intuitiva degli
interessi di una nazione o di un popolo, e che nel momento in cui trova la sua rappresentazione
concreta in un comando politico è capace di promuovere gli effetti desiderati a prescindere dai
formalismi delle norme giuridiche e dai compromessi della mediazione politica.
Il nazionalismo ha acquistato un ruolo politico durante la seconda rivoluzione industriale e nel
periodo in cui è stato posto il problema dell’integrazione delle masse, le quali precedentemente
non potevano partecipare alla vita politica. In questo periodo- invece- è stato chiesto alle masse di
contribuire alla realizzazione di un buon destino per la nazione in quanto solo in questo modo c’era
la possibilità di neutralizzare sia i conflitti sociali che la dialettica democratica. Il nazionalismo, poi,
è diventato una sorta di religione secolarizzata, ossia uno strumento per trasmettere l’idea di
nazione e per realizzare l’integrazione e l’unità del popolo andando aldilà delle divisioni di classe.
L’occasione storica per attuare questo progetto è stata la prima guerra mondiale, la quale ha
portato alla realizzazione della nazionalizzazione delle masse ed è stata il primo grande passo
verso la crisi della moderna forma-Stato.
NAZIONALISMO TEDESCO
Il nazionalismo tedesco esalta molto il concetto di popolo ( che sostituisce quello di nazione) in
quanto attraverso di esso si cercava di realizzare un’identità tedesca più forte e stabile rispetto a
quella offerta dalla forme politiche deboli e invecchiate e, in particolar modo, dalla repubblica
parlamentare. Quest’identità doveva essere- per i tedeschi- naturale e storica, ed è per questo che
essi l’hanno ricercata nelle origini germaniche e nella cultura greca classica, nonché nel mondo
barbarico germanico e nel medioevo. Il nazionalismo tedesco esalta il concetto di popolo, il quale
deve essere un tutt’uno con quello di nazione, in quanto nella nozione popolo-nazione si esprime
sia un radicamento, sia un destino, sia un diritto di sangue e cultura (ossia il valore originario del
popolo tedesco), sia un dovere ( e cioè quello di realizzare l’unità del popolo tedesco,
decontaminandolo da tutte le commissioni alle quali è stato costretto nel corso della storia e
liberandolo dalla cultura occidentale). Per “cultura occidentale” i tedeschi intendevano la cultura
della Francia e dell’Inghilterra (molto potenti da tutti i punti di vista), che la Germania si propose di
superare proprio attraverso il suo spirito nazionale e popolare, espressione della sua vitalità
naturale e non di un artificio razionalistico.
Nel corso del XX secolo il nazionalismo tedesco ha assunto – sempre di più- il carattere di
un’ideologia antisocialista e antiborghese, oltre che irrazionalistica e decadentistica nei confronti
delle contraddizioni che attraversavano la società e la politica moderne. Esso aveva una profonda
avversione contro il socialismo in quanto quest’ultimo voleva porsi come una terza via alternativa al
capitalismo e al comunismo, ma – in realtà- non sarà altro che un movimento il quale ha rafforzato
le classi più alte della borghesia e spinto sempre più in basso quelle più umili. Inoltre il
nazionalismo è finito per essere anche antimoderno, il che contrastava con la sua volontà di
potenza; in realtà esso voleva trovare il modo di essere moderno nella pratica e antimoderno nello
spirito. La soluzione migliore a tutto questo sembrò essere il razzismo, tra i quali quello anti-semità
è statp il più forte perché è stato un razzismo generale, e cioè finalizzato ad eliminare tutti coloro
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che potevano contaminare la nazione (quindi non solo gli ebrei, i quali avevano la colpa di aver
contaminato la cultura occidentale con le ideologie moderne). Tuttavia è importante sottolineare
che il nazionalismo ha avuto una così grande diffusione nelle coscienze tedesche in quanto esso
non è stato appoggiato solo da autori minori, ma dalla maggior parte della cultura media
universitaria e da grandi personaggi.
SPENGLER
In Spengler il nazionalismo è stato uno strumento di critica all’intera civiltà moderna. Il punto di
partenza del pensiero di Spengler è che la civiltà può essere paragonata ad un organismo vivente,
ed è per questo che egli – nella sua opera maggiore- parla della cultura come di un organismo
fornito di un proprio ciclo vitale. Per Spengler la cultura è l’unità fondamentale dello sviluppo
storico in quanto essa nasce, cresce e giunge alla morte seguendo sempre le medesime fasi. Ogni
cultura nasce a partire dall’umanità primitiva: il presupposto e il segno di questo sorgere è la
nascita della città, in cui si compie lo sviluppo dello spirito e in cui si costruiscono i popoli, ossia
comunità di razza e di lingua che – acquisendo coscienza della propria unità- si organizzano in
nazioni. Da ciò si evince che popoli e nazioni costituiscono il presupposto dell’organizzazione
politica di ogni cultura, anche se il fondamento di questa si trova nella “razza” la quale può essere
compresa solo per mezzo di un’intuizione immediata. Durante la fase di crescita della cultura viene
realizzato un complesso di possibilità biologicamente dato in cui si esprime il ciclo vitale da cui
essa è determinata e che stabilisce una volta e per sempre la sua fisionomia. Nel momento in cui
tale eredità biologica si esaurisce la cultura è destinata a spegnersi. Per Spengler, il percorso
conclusivo di una cultura può essere indicato con il termine civiltà, la quale indica degli Stati più
estesi e più artificiali di cui sia capace una specie superiore di uomini. Il mondo della civiltà è il
mondo della decadenza e della razionalità utilitaria, ossia di quell’irrigidimento intellettuale che
corrisponde allo spirito dell’esattezza. In poche parole il mondo della civiltà è il mondo della
scienza e delle forme consolidate della organizzazione tecnico-scientifica del mondo sociale. Nella
sua opera più importante Spengler ha individuato otto culture, tra le quali c’è quella occidentale
che egli ha analizzato. In riferimento alla cultura occidentale egli ha affermato che in età classica
essa è stata caratterizzata dallo spirito apollineo; in età moderna dallo spirito faustiano, orientato
alla forza e alla sottomissione della natura. La modernità è caratterizzata dal rovesciamento di tutti
i valori e il socialismo-secondo Spengle- rappresenta l’espressione di questa crisi etico-religiosa la
quale deriva dal rovesciamento del rapporto politica ed economia: infatti la politica non dirige più
l’economia, ma è subordinata ad essa. Il regime che rifletteva tale situazione era la democrazia
che rappresenta l’ultima fase del processo evolutivo della civiltà e che implica il ritorno allo stato
primitivo dominato da masse informi e improduttive.
Per quanto riguarda il pensiero politico di Spengler è importante sottolineare che esso va contro
una serie di elementi, quali: il liberalismo, il regime parlamentare, il predominio dei partiti,
l’organizzazione capitalistica del lavoro e la tecnica la quale viene intesa come lo sviluppo parallelo
della burocratizzazione, industrializzazione e dell’imperialismo , il quale fa si che le funzioni della
politica vendano assorbite da una potenza che diviene sempre più esterna all’uomo. In questo
senso il progresso viene inteso come decadenza. Alla luce di tutto ciò Spengler afferma – da un
lato- di restaurare l’autorità dello Stato e le strutture morali e politiche pre-moderne; dall’altro –
guardando la situazione degli Stati in tutto il mondo- ha ritenuto di poter scorgere la decadenza in
atto della civiltà occidentale.
Il pensiero politico di Spengler non fu accolto completamente, ma nonostante tutto, egli fu un punto
di riferimento nella “rivoluzione conservatrice”, ossia del pensiero di dx nella Germania della
Repubblica di Weimar. Inoltre egli non aderì mai al nazismo.
NAZIONALISMO FRANCESE
Il nazionalismo francese è nato per ostacolare i valori diffusisi con la rivoluzione francese. Tuttavia
esso non va contro quanto di “nazionale” si esprimeva nella rivoluzione, ma contro il suo
universalismo. In più tale esasperazione della nazionalità deriva anche dall’ansia di rivincita che la
Francia provava contro la Germania, che la sconfisse nella guerra del 1870. Come in Germania
anche in questa seconda nazione europea il nazionalismo sfociò nel razzismo antisemitico. I
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principali esponenti del nazionalismo francese sono stati: Maurice Barrès e Charles Murras.
MAURICE BARRE’S
Maurice Barrès prese atto della direzione politica verso la quale protendeva la Francia nel corso
della seconda rivoluzione industriale e, per questo, ha teorizzato l’opportunità di una convergenza
d’interessi tra capitale e lavoro: ciò significa che la lotta di classe e la competizione tra i partiti
politici devono essere sostituiti dalla solidarietà nazionale, in modo da difendere gli interessi
supremi del paese. La concretezza di Barrès la si trova anche nella sua idea di Francia, la quale
viene concepita come una molteplicità di forme di vita e tradizioni autonome che confluiscono
nell’ambito della nazione. Da un punto di vista politico, Barrès ha proposto il federalismo
democratico e repubblicano contro lo statalismo in quanto – da un lato- voleva dare al popolo la
possibilità di autogovernarsi direttamente, senza la mediazione di organi rappresentativi; dall’altro,
voleva tutelare tutte le particolarità concrete che sono state ignorate dal razionalismo centralista.
Sul piano economico-sociale Barrès ha proposto una sorta di socialismo corporativo, nazionale,
protezionistico e basato sulla proprietà collettiva, la quale è stata molto importante perché ha
riportato i lavoratori verso la solidarietà nazionale per effetto della loro trasformazione da salariati a
soci dell’impresa produttiva.
CHARLES MURRAS
Un altro grande esponente del nazionalismo francese è stato Charles Murras, il quale è stato
leader e teorico del movimento di estrema destra francese: “action francaise” mediante il quale si
proponeva di andare contro la rivoluzione (intesa come evento che ha provocato uno scostamento
dai valori della tradizione) e di ripristinare la monarchia nel popolo francese perché era convinto
che la decadenza dell’uomo è stata determinata dalla caduta di questa forma di governo. La
monarchia – per Murras- doveva essere tradizionale, antiparlamentare, ereditaria e decentralizzata;
ed essa – secondo l’autore- svolgeva una funzione unitaria in quanto assicurava i valori della
nazione intesa come continuità della tradizione, stabilità delle gerarchie naturali e mantenimento
del corporativismo sociale.
Il nazionalismo di Murras è stato definito nazionalismo positivista perché si basa sulla scienza e
sulla storia che egli ha proposto come le ipotesi di una politica naturale fondata sulla nazione
(intesa come continuità biologica e storica) e sulla monarchia (intesa come l’unica istituzione che
garantisce il decentramento).
Dal punto di vista intellettuale, Murras considerava Rousseau la “causa formale” della rivoluzione
in quanto l’individualismo – di cui egli è stato promotore- implica l’incapacità di riconoscere
l’oggettività nella politica. Infine Murras ha dato molta importanza anche al cattolicesimo perché
era convinto che non esiste una politica ordinata se non ci sono la religione e la Chiesa con la loro
autorità. Tuttavia egli si definiva “cattolico-ateo” in quanto si limitava a valorizzare, nel
cattolicesimo, gli aspetti ordinativi e gerarchici.
NAZIONALISMO ITALIANO
Il nazionalismo, infine, si diffuse anche in Italia. In questo periodo il nostro paese era molto
arretrato sia da un punto di vista economico che da un punto di vista sociale e gli obiettivi che ci si
proponeva di raggiungere attraverso il nazionalismo erano diversi:
- completare il processo di unificazione;
- dare avvio ad una politica di espansione coloniale, la quale era molto utile per l’espansione del
paese e per risolvere i problemi dell’emigrazione e del Mezzogiorno.
I principali interpreti del nazionalismo italiano sono stati: Alfredo Oriani, Alfredo Rocco, Enrico
Corradini e Gabriele D’Annunzio, il quale è diventato il vate della nuova Italia.
ALFREDO ORIANI
Alfredo Oriani nella sua interpretazione relativa al nazionalismo è andato a ritroso in quanto ha
studiato gli eventi del Risorgimento per denunciare la decadenza della vita politica italiana negli
anni successivi all’unificazione e per suggerire una forma di rinascita morale affidata ad una
aristocrazia spirituale.
ERNESTO CORRADINI
Ernesto Corradini è un teorico del nazionalismo italiano che ha elaborato una teoria molto
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particolare in quanto improntata su una sorta di lotta darwiniana. Egli – infatti- ha affermato che
esistono nazioni povere o proletarie e nazioni ricche le quali entrano in lotta, così come le classi
sociali. Infatti il nazionalismo non è altro che il trasferimento della lotta di classe alla lotta tra le
nazioni, la quale giustifica – anche- l’espansione coloniale di un paese. L’Italia – secondo Corradiniè una nazione proletaria, nel senso che le spetta il compito di guadagnarsi il proprio spazio vitale e
di sviluppare quella missione di civiltà che è radicata nella sua storia. Pertanto il nazionalismo
italiano deve partire proprio dalla concezione che il nostro paese è una nazione proletaria e questo
concetto unito a quello di socialismo nazionale, costituiscono gli assi portanti della concezione
politica di Corradini. Il socialismo nazionale è ciò che deve essere il nazionalismo, ed è per questo
che è fondamentale assimilare le forme politiche della moderna lotta di massa per poi trapiantarle
nel mondo produttivo della borghesia imprenditoriale, la quale costituisce l’elemento trainante della
rinascita nazionale. In più – secondo Corradini- la missione di civiltà cui l’Italia è destinata, implica
la formazione delle classi produttive contro quelle parassitarie e un’educazione degli italiani
finalizzata alla formazione di una morale improntata sull’idealismo guerriero. Infine Corradini è
stato fautore di uno Stato forte, capace di organizzare politicamente e moralmente i cittadini; uno
Stato organico e imperialista guidato dalle aristocrazie, le quali rappresentavano quelle
maggiormente consapevoli agli interessi del Paese.
ALFREDO ROCCO
Alfredo Rocco è stato un esponente del nazionalismo italiano che, in seguito, è diventato il più
significativo legislatore del fascismo. Egli si ispirava alle concezioni del diritto tedesco in quanto
metteva in luce l’importanza del ruolo fondante dell’autorità dello stato, andando contro qualsiasi
forma di liberaldemocrazia e di parlamentarismo. Per Rocco la libertà del cittadino non deriva da
una naturale propensione dell’individuo, ma spetta allo Stato il compito di decidere quale libertà
concedere ai propri cittadini. Questo profondo statalismo di Rocco lo si può individuare anche nella
relazione sul disegno di legge relativo alle attribuzioni del capo del governo, in cui sono state
anticipare le linee guida delle leggi fascistissime. Per Rocco lo Stato doveva essere forte ed egli è
stata una figura importante perché ha dato vita al corporativismo, ossia a varie organizzazioni
formate da lavoratori e datori di lavoro appartenenti allo stesso rango produttivo, i quali hanno il
compito di svolgere un’attività di collaborazione con lo Stato e di affermare una solidarietà
nazionale. Il corporativismo proposto da Rocco era simile al corporativismo cattolico,ma
presentava delle finalità diverse: esso – infatti- trasferiva l’idea della collaborazione delle classi in
un prgetto di sviluppo industriale e di una politica di potenza e, oltre ad essere inquadrato,
autoritario e disciplinato dallo Stato, era anche monistico. Infine bisogna dire che il corporativismo
nazionalista è stato ereditato dal fascismo, il quale lo presentava come alternativo al capitalismo e
al socialismo.
GABRIELE D’ANNUNZIO
D’annunzio divenne, ben presto, il leader della corrente nazionalista e approfittò della situazione
difficile che si era creata in Italia dopo la prima guerra mondiale per raggiungere i suoi obiettivi.
Tale situazione era dominata da un lato dall’occupazione dell’industria; dall’altro dall’idea diffusa
nelle coscienze di una vittoria mutilata. In questo contesto D’annunzio fu considerato il vate della
nuova Italia ed esso rappresentò una figura molto temuta da Mussolini in quanto poteva oscurarlo;
per evitare ciò il duce portò il letterato dalla sua parte dandogli un titolo nobiliare.
CAPITOLO 5
LIBERALISMO E PENSIERO DEMOCRATICO
Il pensiero politico cattolico si presenta – da un lato- come una proposta ideologica, ossia come una
dottrina d’azione e di intervento nell’ambito della politica; dall’altro come una critica alla modernità.
Nel XIX secolo l’atteggiamento della Chiesa nell’ambito socio-politico ha impedito per lungo tempo
ogni possibilità di creare un accordo con le correnti razionalistiche che dominavano la modernità.
L’esempio più emblematico di tale atteggiamento è stata l’enciclica “ Quanta cura” nella quale è
stata riassunta l’essenza del razionalismo moderno (dal punto di vista della Chiesa) ed è stata
messa in evidenza la tendenza ad opporre alle ideologie e alle istituzioni moderne la visione di un
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cattolicesimo autosufficiente, dotato di un proprio sistema dottrinale (fondato sui principi filosofici
della scolastica) e basato su una struttura gerarchica che vedeva al vertice il papa e la sua
infallibilità. Questo atteggiamento della Chiesa è stato definito “intransigente” e coincide con il
pontificato di Leone XIII, il quale ha emanato un’altra enciclica molto importante: l’enciclica “Rerum
novarum” che è dominata dal pensiero tomista, ossia da quel pensiero che prendeva le distanze
dagli aspetti più ostili della cultura controrivoluzionaria della Restaurazione e che mirava a
recuperare la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere, in modo da poter permettere alla
Chiesa di distanziarsi dal legittimismo e accostarsi in maniera non più ostile nei confronti della
democrazia, anche se essa ha continuato a mantenere una visione gerarchica della realtà, la quale
viene intesa come un ordine creato e governato da Dio.
Il nucleo centrale dell’enciclica “rerum novarum” è quello che si riferisce alla questione sociale in
quanto all’interno di una prospettiva che sottolinea la necessaria cooperazione tra Chiesa, Stato,
datori di lavoro e lavoratori, tale enciclica insiste sulla necessità di creare un connubio tra il diritto
alla proprietà privata (riconosciuto alla Chiesa) e le ragioni della solidarietà sociale (che impongono
un intervento a favore degli strati sociali più poveri). Alla luce di ciò la Rerum Novarum ha posto le
basi per un aggiornamento della predilezione cattolica nei confronti delle comunità intermedie tra
Stato e cittadino: infatti c’è stato – in questo periodo- il riconoscimento dell’associazionismo operaio
e l’impegno della Chiesa a suo sostegno, i quali hanno segnato una svolta ricca di implicazioni
nello sviluppo storico dei paesi dove la presenza cattolica è stata molto forte; e – da un punto di
vista teorico- l’inizio della sussidiarietà secondo la quale lo Stato – solo in caso di necessità- può
sostituire la propria iniziativa alla responsabilità personale e all’azione delle comunità intermedie.
L’ITALIA
Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo molti pensatori cattolici hanno preso spunto
dall’insegnamento di Leone XIII, soffermandosi – principalmente- sulla questione relativa alla
solidarietà sociale se pur restando ancorati alla visione di un ordine razionale e naturale di cui la
Chiesa è sempre stata custode inflessibile. Un pensatore importante è stato Giuseppe Toniolo, il
quale è stato influenzato da Rosmini, Minghetti, dalla scuola dell’economia tedesca e dal tomismo
di Lovanio. Alla base del suo pensiero c’era l’idea che l’economia fosse sottomessa ad una serie
di elementi di natura spirituale, religiosa e morale e la sua tendenza a sottolineare come la Chiesa
e la religione abbiano avuto una grossa influenza sullo sviluppo della storia ha dimostrato come
Toniolo si ispirava alla tradizione neoguelfa. Inoltre, il suo interesse per le società intermedie e per
le corporazioni medioevali si è inserito in una prospettiva che affidava al cattolicesimo sociale il
compito di ripristinare una visione organicistica e corporativa della società, il cui bene comune
doveva portare ad un graduale progresso dei ceti inferiori.
Tra i maggiori esponenti del cattolicesimo politico, che ha proposto un progetto di restaurazione di
un nuovo ordine cattolico, ricordiamo Romolo Murri, il quale si ispirava al pensiero tradizionale
della Chiesa, ossia che la realtà si basava su di un ordine gerarchico. Tuttavia il pensiero di Murri
presentarono una serie di elementi innovativi: 1) la prospettiva di un’alleanza tra Chiesa e
proletariato; 2) l’accettazione del metodo liberale della competizione tra i partiti; proponendosi
come obiettivo quello di trasformare lo Stato liberale e realizzare un nuovo guelfismo sociale.
Seguendo tale prospettiva Murri ha abbandonato l’orizzonte tomista entro il quale ha collocato il
suo progetto di rinnovamento inizialmente e ha cominciato a riconoscere lo Stato come una forma
di mediazione del conflitto sociale. In questo contesto, la democrazia- anche se continuava a
presentarsi come la forma politica che garantisce la partecipazione del popolo nella vita socialecominciò ad apparire come il risultato di un incremento graduale della coscienza individuale verso
nuove forme di responsabilità sociale. A tale concezione si ispirò la “lega democratica nazionale” ,
un gruppo di giovani democratici cristiani che – guidati da Murri- si opponevano all’orientamento
clerico-moderato (proposto dalla Chiesa). Questa esperienza è stata importante perché ha
permesso di creare un contatto tra la tradizione democratica cristiana e quella cattolico-liberale di
cui Luigi Sturzo è stato il maggior esponente. Murri – invece- è stato considerato uno dei principali
esponenti del modernismo, il che non può essere accettato per vero perché il pensiero di questo
esponente del cattolicesimo politico e quello di tale corrente presentavano punti estremamente
divergenti.
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Il modernismo è stata una corrente di pensiero (nata agli inizi del 1900) che si proponeva si
riavvicinare la cultura ecclesiastica ufficiale agli sviluppi del pensiero moderno, liberando la Chiesa
dalle sue visioni sia della cultura che della politica ormai superate; rimpiazzando il tomismo con la
filosofia moderna e sostituire l’apologetica (dottrina che si propone di dimostrare le verità di una
religione) con il metodo dell’immanenza quale via per giungere alla conoscenza del trascendente.
La manifestazione più significativa del modernismo la troviamo nelle opere di Ernesto Buonaiuti, il
quale ha proposto un rinnovamento orientato in senso terreno e mondano. L’interpretazione
escatologica (dove per escatologia si intende quella dottrina filosofica che si propone di studiare il
destino ultimo dell’uomo) del messaggio cristiano ha portato Buonaiuti ad accostare l’annuncio
evangelico della liberazione terrena alle speranze presentatesi con il socialismo moderno,
riprendendo l’originario escatologismo cristiano in funzione di un socialismo cristiano il quale si
proponeva di affermare l’identità tra sentimento religioso e speranze di rinnovamento sociale.
Lo sforzo di conciliare la Chiesa con l’evoluzione della politica moderna è stato fatto anche dal
liberalcattolicesimo di Luigi Sturzo, che era un sacerdote, un padre del popolarismo ed esponente
di rilievo del pensiero liberale cattolico il quale mirava a sganciare il laicato dalla tutela della
gerarchia sia sul piano politico che sul piano sociale. Sturzo rimase estraneo ai movimenti della
Democrazia cristiana, ma riteneva che il movimento politico dei cattolici doveva avvenire negli
istituti democratici per poter difendere l’autonomia della personalità individuale, la libertà
dell’iniziativa privata, la priorità dell’individuo rispetto alle istituzioni e la sua libertà di coscienza. A
partire dal 1920 il pensiero cattolico si è ritrovato a doversi confrontare con le ideologie
nazionalistiche e un altro fattore che ha messo in luce una serie di problemi politico-sociali è stata
la crisi del 1929 alla quale Pio IX ha fatto riferimento in una sua enciclica.
LA FRANCIA
La cultura cattolica francese era talmente ricca che invece di esprimere l’esigenza di trovare un
compromesso con la modernità, ha espresso una critica radicale e progressiva nei suoi confronti.
Per questo la cultura cattolica francese è stata quella più sensibile alla denuncia del capitalismo e
della ricchezza e ai limiti della democrazia liberale. Inoltre la sua espressione più significativa è
stata il personalismo sociale o comunitario, nel quale è emersa una tendenza polemica simile a
quella di Leon Bloy che vedeva nel borghese, nella sua ipocrisia e nel suo egoismo, l’anticristo.
Il personalismo è un movimento nato in Francia nel 1930 intorno alla rivista “Espirit” e sotto la
guida di Mounier. Esso si proponeva di affermare il valore assoluto della persone contro
l’oppressione delle strutture e di unire l’istanza individualistica con quella comunitaria, ossia di
fondere il pensiero di Marx e di Kierkegaard. L’esigenza di superare lo spiritualismo e il
materialismo si è tradotto – sul piano politico- in una concezione che mirava a superare sia i limiti
dell’individualismo, sia quelli del collettivismo. Nell’articolo programmatico della rivista “Espirit”,
Mounier ha messo in evidenza che il nuovo Rinascimento doveva avere al centro la persona e non
l’individuo, in quanto il rapporto tra persona e persona non è un rapporto utilitaristico come quello
tra individuo e individuo. Inoltre la persona non è un’astrazione biologica, psicologica ed
economica (come l’individuo) bensì un’attività vissuta di auto creazione che coglie e conosce se
stessa nel proprio atto. Da questo antiliberalismo di Mounier deriva anche il suo pensiero
antimarxista e la sua concezione secondo la quale alla base del rinnovamento sociale ci doveva
essere la valorizzazione della persona, intesa come apertura agli altri e a Dio.
Nella prospettiva di Mounier la vita politica poteva essere riscattata mediante uno slancio profetico,
il quale metteva in evidenza la forza della fede. Inoltre, per conservare l’interiorità è necessario
uscire dalla propria dimensione egocentrica in quanto la persona è un “dentro” che ha bisogno del
“fuori”, ossia ha bisogno dell’altro senza il quale non potrebbe definirsi effettivamente persona. Al
capitalismo e al liberalismo Mounier ha – invece- opposto una serie di rivendicazioni di natura
sociale e politica: sul piano sociale il personalismo propugnava il riconoscimento dei diritti
dell’uomo e della donna, la socializzazione priva della statalizzazione di quei settori produttivi che
si sono sempre alienati da un punto di vista economico- sociale; il primato del lavoro sul capitale; il
primato del servizio sociale sul profitto e quello della responsabilità personale nei confronti delle
strutture anonime e impersonali. Sul piano politico Mounier ha proposto una “teoria personalista
del potere” la quale puntava sul diritto inteso come strumento di garanzia istituzionale contro il
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totalitarismo del potere non limitato. A tal proposito è stata necessaria una limitazione del potere
condizionante dello Stato; l’istituzione di un potere centrale equilibrato dal potere delle autonomie
locali; l’indipendenza del potere giudiziario; la possibilità data ai cittadini di ricorrere alle vie legali
per contrastare una decisione dello Stato e la limitazione dei poteri della polizia. Da ciò si evince
che per il filosofo la vera sovranità non era quella popolare, ma la sovranità del diritto in quanto
organizzazione razionale dell’ordine giuridico.
Nel secondo dopoguerra Mounier modificò il suo orientamento perché pare che cominciò a
sostenere l’idea dell’azione profetica come alternativa all’azione politica. Egli sosteneva che la
cristianità borghese e feudale non solo era morta, ma – in più- non poteva essere considerata un
principio dotato di valore normativo e, di conseguenza, ad essa non spettava nessun ruolo
direttamente politico. Tuttavia ciò non ha impedito che la sua missione, rivolta ad un mondo
ultraterreno, non potesse realizzarsi in modo indiretto anche sul piano mondano, dato che per
Mourier non esistevano 2 storie separate (la storia sacra e la storia profana) , ma una sola storia:
quella dell’umanità in marcia verso il regno di Dio.
MARITAIN
La volontà di istituire una nuova cristianità fondata sulla centralità della persona collocata in
diverse strutture sociali e capace di superare la democrazia anarchica del liberalismo cattolico,
rappresenta il perno fondamentale del pensiero di un altro esponente del cattolicesimo: Maritain.
Egli ha opposto ai mali e alle deviazioni dell’epoca moderna la filosofia tomista in vista
dell’umanesimo integrale, che è stato un altro nodo cruciale del suo pensiero. Per Maritain il
problema dell’umanesimo è molto importante per un cristiano in quanto attraverso tale questione
egli è capace di delineare il suo atteggiamento nei confronti del mondo, della cultura e dei propri
valori. Inoltre tale esponente del cattolicesimo ha affrontato tale problema prendendo in
considerazione la distinzione fatta tra individuo e persona: con il termine individuo si indica un
principio materiale ed empirico; con il termine persona si fa riferimento alle dimensioni più alte e
profonde dell’essere. In seguito, Maritai si è avvalso di questa distinzione anche per ricostruire la
storia del mondo moderno, che egli ha inteso come una storia di progressiva spinta verso
l’individualizzazione e l’alienazione della persona al quale ha opposto il suo umanesimo integrale,
ossia un umanesimo che non mette al centro solo l’uomo, bensì il rapporto tra l’uomo e il divino.
Solo seguendo questa direzione si sarebbe evitata la tragedia dell’umanesimo, che si è
manifestata nel nazismo.
Anche se il personalismo tomista presenta delle analogie con quello comunitario di Mounier, alla
base di queste due concezioni ci sono delle differenze che ci permettono di distinguerle l’una
dall’altra. La prima differenza sta nell’idea di individuo: per Maritain l’individuo ha un proprio statuto
di legittimità anche se egli condanna l’attribuzione di dignità personale conferita all’individuo stesso
in quanto essa implica il sacrificio e la subordinazione della persona; Per Mourier l’individuo non è
altro che la dissoluzione della persona nella materia. Da ciò si evince che la dottrina tomista di
Maritain riconosceva alla vita politica uno spazio di piena legittimità in quanto il rapporto tra
ispirazione cristiana e regime democratico implicqa l’esigenza di distinguere il piano temporale da
quello spirituale e – quindi- di riconoscere alla politica una dimensione di piena laicità. Un’altra
differenza che c’è tra Maritain e Mourier è che per il primo l’azione profetica non è sostitutiva a
quella politica, ma rappresenta una dimensione organica e strutturale di questa in quanto la politica
può essere costituita da forme di razionalizzazione che mirano al successo immediato e prive di
sentimento sacrale, ma – nello stesso tempo- anche da forme di razionalizzazione che sono
compatibili con la razionalità trascendente della morale.
LIBERALISMO E PLURALISMO
Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo la questione relativa alla trasformazione del
liberalismo in democrazia era meno centrale rispetto alla seconda metà del XX secolo. Tuttavia –
in questo periodo- ci sono state diverse correnti ideali che hanno accettato le tesi di chi sosteneva
la completa perdita della cultura liberale e l’estraneità di principio della nuova democrazia.
IL PENSIERO INGLESE
Sulla scena politica e intellettuale inglese il liberalismo è stato impegnato in un’opera di
trasformazione fino alla fine del XIX secolo. E, in questo senso, molti hanno tentato di organizzare
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una democrazia industriale, nonché di garantire la democrazia politica mediante il pluralismo.
Il pluralismo è stata una dottrina che proponeva un modello di società costituito da piccoli gruppi o
centri di potere non necessariamente in pieno accordo tra loro. La differenza che c’è stata tra il
pluralismo e le altre correnti di pensiero antistataliste è che esso non ha opposto l’individuo allo
Stato-tutto in quanto sosteneva che l’individualismo e lo statalismo fossero complementari perché
entrambe consideravano irrilevanti tutte le aggregazioni sociali basate su legami volontari.
Pertanto il pluralismo ha sostituito al dualismo Stato-individuo una relazione triadica, in cui
all’individuo e allo Sato si sono affiancate le strutture che rappresentavano dei settori omogenei
all’interno della società, sia da un punto di economico che da uno culturale. Le fonti storiche del
pluralismo sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) la teoria degli ordini intermedi di Montesquieu
(utile per distinguere il governo monarchico da quello dispotico o repubblicano); 2) la dottrina dei
“corpi sociali” di Grieke, dove per corpi sociali si intendevano quelle comunità intermedie tra lo
Stato e l’individuo modellati su corporazioni medioevali; 3) le pagine di Tocqueville sulla vita
associativa presente nella democrazia americana;4) gli scritti di Proudhon, che opponeva alla
società organizzata dallo Stato una molteplicità di associazioni umane volontarie alle quali veniva
affidato il compito di promuovere l’emancipazione umana. Come le fonti, anche e varianti moderne
del pluralismo sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) il pluralismo cristiano-sociale, per il quale le
varie aggregazioni sociali erano disposte secondo un ordine gerarchico che attribuiva ad ognuna
un ruolo e un’importanza in base alla funzione svolta; 2) il pluralismo democratico, che poneva tutti
i centri di potere su uno stesso piano per contribuire a ridimensionare l’autorità dello Stato, ad
assicurare il consenso e limitare i conflitti.
L’esponente più importante del pluralismo socialista-democratico è stato Laski, il quale ha
affrontato il tema della sovranità per criticare il principio monistico dello Stato moderno. Secondo
questo autore, l’accentramento statalista e la disciplina delle funzioni amministrative e sociali
verificatesi durante la 1° guerra mondiale non potevano essere considerati come l’avvio ad un
processo che si proponeva di trovare delle risposte ai bisogni della vita associata, ma come il
risultato di un’estrema esaltazione della sovranità, destinata a fallire nei confronti della sfida
rappresentata dalle plurali appartenenze degli individui. A tal proposito è importante sottolineare
che le appartenenze di gruppo possono risultare più radicate dell’appartenenza statale in quanto lo
Stato non è altro che una delle diverse unità collettive in cui gli individui esprimono il loro impulso
associativo. Di conseguenza lo Stato non deve avere la pretesa di assumere il profilo di una sfera
politica in sé conclusa e – in più – il suo compito non doveva essere quello di imporre unità alla
società, ma quello di articolare i diversi interessi che si manifestavano nei corpi collettivi a
formazione volontaria. Ciò ha dimostrato che le appartenenze a dei gruppi potevano dimostrarsi
più forti nei confronti dell’appartenenza allo stato. Secondo Laski alla destrutturazione della
statualità e al pluralismo della realtà politica doveva accompagnarsi una costituzione federale la
quale doveva superare il monismo giuridico dello stato e puntare sull’istituzione di una struttura
coordinata e non più gerarchica. Questo decentramento, più che territoriale, doveva essere un
decentramento funzionale in quanto il ruolo politico affidato allo Stato non poteva incorporare la
funzione economica, la quale doveva essere affidata ad associazioni capaci di mettere in luce le
esigenze dei lavoratori. La pluralità delle forme di rappresentanza ha rappresentato la necessaria
adeguazione alle molteplici esigenze della convivenza (sia da un punto di vista politico, che da un
punto di vista amministrativo). Questa prospettiva di Laski presentava delle analogie con quella del
movimento inglese delle “industrial guildes” il quale rivendicava alle gilde (che erano nuclei di
produttori) i compito di creare le condizioni per l’istituzione di un assemblea legislativa a
rappresentanza funzionale che doveva affiancare il Parlamento. Mentre la Fabian Society vedeva
nella gestione statale dell’economia una condizione necessaria per avviare un processo di riforma
sociale, il Guild Movement opponeva l’autogestione industriale, capace di rendere i lavoratori
partecipi della vita industriale.
La prospettiva secondo la quale bisognava ridimensionare i margini di intervento dello Stato e
assegnare al governo un ruolo complementare alle associazioni, è stato abbandonato da Laski
nella seconda fase del suo pensiero durante la quale egli ha dato un ruolo importante al riformismo
statale. A tal proposito, egli cominciò a sostenere che i gruppi volontari erano assoggettati al
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controllo dello stato e che la conciliazione tra l’uno e i molti, tra l’interesse pubblico e quello privato,
non discendeva da nessuna armonia prestabilita ma dall’impiego di tecniche specifiche di
mediazione politica.
Nella terza fase del suo pensiero Laski cominciò a pensare che lo Stato e l’individuo si
configuravano come due poli oppositivi della dialettica politica: mentre lo Stato assumeva il profilo
della necessità e della coercizione, l’individuo si radicava nel regno della libertà, ossia in quel
regno che Laski considerava negativamente perché privo di freni e capace di spingere l’individuo a
scegliere la propria via senza subire nessuna influenza.
Nel momento in cui Laski si è reso conto che la trasformazione della comunità dipendeva da una
serie di avvenimenti di natura economica piuttosto che politica, si avvicinò al marxismo in quanto
solo l’esperienza del comunismo appariva in grado di rimpiazzare i “rapporti di cassa” tra gli uomini
mediante dei rapporti di solidarietà e di integrazione.
Un altro personaggio che – come Laski – ha avuto un orientamento politico liberale e, in seguito, si è
avvicinato al marxismo è stato Callingwood, il quale ha subito l’influenza della filosofia di Croce.
Dal filosofo napoletano egli ha appreso: 1) il principio secondo il quale lo sviluppo spirituale
dell’individuo può essere paragonato ad un processo di progressiva emancipazione sia dalle
passioni interne che dalle costrizioni esterne; 2) l’identificazione di libertà e coscienza.
Quest’ultimo aspetto lo ha portato a concepire il liberalismo come un metodo politico basato sulla
soluzione dialettica dei problemi, in linea con la libertà di coscienza verso la quale tende la
coscienza umana. Infine, il confronto con l fascismo, ha portato Collingwood a difendere un ideale
di civiltà intesa come un’associazione volontaria di individui, la quale nasce dalla libertà individuale
e si propone come obiettivo la riduzione della forza nell’ambito delle relazioni sociali e politiche.
IL PENSIERO STATUNITENSE
Il pensiero liberale e democratico degli Stati Uniti ha conosciuto uno sviluppo diverso rispetto a
quello dei paesi europei in quanto esso non si è ritrovato a doversi confrontare con la crisi politica
che ha attraversato per lungo tempo il nostro continente. Tuttavia le istituzioni liberali e
democratiche della politica statunitense vivevano uno sviluppo abbastanza tumultuoso, ma
nonostante ciò hanno sempre conservato la loro efficienza e la loro capacità di affrontare le sfide.
In questo contesto, in cui è nato il New Deal (e cioè un nuovo rapporto tra economia e politica)
John Dewey ha fatto una lunga riflessione – orientata verso la democrazia - sul liberalismo.
Dewey è stato accomunato al liberalismo inglese del secondo Ottocento perché come questo
movimento si proponeva di superare il liberalismo tradizionale, ma ciò che lo distingue e lo rende
unico è la critica che ha mosso nei confronti della società capitalistica, della quale ha denunciato le
distorsioni causate dal controllo di una ristretta minoranza sui mezzi di produzione. Per Dewey le
coercizioni (ossia le pressioni) alla libertà non provenivano dalla sfera pubblica, ma dal conflitto tra
le forze produttive e i rapporti di produzione e la richiesta di libertà individuale - promossa dai
liberali – poteva realizzarsi solo mediante il riordinamento pianificato dell’economia. Inoltre, per
Dewey, il liberalismo poteva superare la propria crisi rinunciando ai postulati liberisti e conferendo
all’autorità pubblica il compito di regolare tutte le fasi del ciclo economico all’interno di un quadro di
sviluppo pianificato a fini sociali. Di conseguenza, la dottrina che limitava le funzioni dello Stato a
compiti di polizia, è stata superata con una politica di interventi pubblici il cui obiettivo era quello di
correggere le condizioni di non libertà all’interno dei rapporti sociali. Pertanto la libertà individuale
era destinata ad essere perduta in assenza di una socializzazione delle forze produttive. Su
quest’ultimo aspetto il pensiero di Dewey è stato caratterizzato da una serie di oscillazioni in
quanto – in un primo momento- sembrava che l’organizzazione pianificata dell’economia doveva
essere affidata ad una pianificazione democratica che, però, è stata promossa mediante dei mezzi
capitalistici i quali hanno mantenuto intatta la proprietà privata dai mezzi di produzione. In un
secondo momento Dewey è sembrato orientato verso una politica che mirava a socializzare le
forze di produzione disponibili, così come accadeva nella Russia sovietica.
Dewey, tuttavia, riteneva che l’elemento propulsivo del progresso sociale doveva essere
individuato nel metodo scientifico( ossia nella tecnica di osservazione dei fatti, costruzione delle
ipotesi e verifiche delle conseguenze attraverso la sperimentazione attiva) il quale non era riuscito
a realizzarsi sino a quel momento a causa del ritardo culturale che persisteva all’interno della
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prassi politica. Infatti, solo in un ordine razionalmente organizzato i vantaggi resi possibili dalla
comprensione scientifica della natura potevano essere considerati degli elementi positivi per
l’uomo, anche se l’applicazione del metodo scientifico per la soluzione dei problemi sociali era
ostacolata dalle differenze di opinione su ciò che fosse benefico o dannoso da un punto di vista
sociale. Tuttavia esisteva, per Dewey, un fine indiscutibile: la crescita, concepita come la
realizzazione graduale delle potenzialità umane per effetto dell’interazione tra impulso e abitudine.
Da un punto di vista politico Dewey si è fatto promotore della concezione pluralistica della società,
giudicata come quella ideale per raggiungere il fine dell’uomo: la crescita. Per Dewey il pluralismo
si configurava come un antidoto contro ogni forma totalitaria di assorbimento delle associazioni
primarie nelle associazioni secondarie, o – più precisamente- di assorbimento di tutti i valori sociali
nell’ambito politico. Anche se il pluralismo si presentava come uno dei nuclei fondamentali del suo
pensiero, Dewey affermava che il compito dello Stato era quello di fare l’arbitro o il “direttore
d’orghestra” e di individuare cosa – di positivo- esso poteva dare per incrementare le condizioni
favorevoli al processo di crescita. E poiché le condizioni di vita di gran parte della cittadinanza
potevano ostacolare il processo di crescita, un altro compito dell’autorità politica era quello di
intervenire anche negli affari di famiglia, del clan e del quartiere. Infine, per evitare che questa
forma politca sfociasse nel totalitarismo, Dewey ha messo bene in chiaro che il criterio di legittimità
con il quale bisognava valutare l’intervento dello stato doveva essere il “bene pubblico”, il quale
doveva essere inteso come il principio direttivo e il criterio di riferimento dell’attività di governo.
IL PENSIERO ITALIANO
In questi anni, il pensiero liberalista italiano non ha degli esponenti di rilievo (mettendo da parte
Croce) in quanto esso – e in particolar modo quella parte che non scivolo nel nazionalismo e
nell’autoritarismo- fu condizionato dalla necessità di resistere e opporsi a Crispi prima, al
nazionalismo in seguito e al fascismo infine. Guglielmo Ferrero è stato un liberaldemocratico che
ha combattuto contro Crispi e contro Mussolini e che ha maturato un pensiero secondo il quale
l’assenza di misura che ha caratterizzato l’uomo e la società ha proiettato sulla condizione umana
l’ombra della paura: paura della natura; paura degli altri; paura del futuro. Sulla base di questa
prospettiva Ferrero ha delineato una vita sociale come una condizione simile allo stato di natura
proposto da Hobbes; ma – nello stesso tempo- ha sottolineato che è proprio dal disordine e dalla
paura che è nata la civiltà, concepita come costruzione razionale di un ordine capace di ripristinare
la pace e la sicurezza. Pertanto la civiltà e le sue forme sono state considerate – in base a tale
prospettiva- come l’esito dello sforzo di annullare la paura o di ridurre al minimo l’incertezza che
travagliava la vita degli uomini. Lo strumento di questo sforzo è stato il potere, che può essere
concepito come una funzione obbligatoria finalizzata a promuovere strategie rivolte a ridurre la
paura ai livelli più bassi e a controllare il timore reciproco che ciascuno prova nei confronti dei
propri simili. Tuttavia il potere è caratterizzato da un paradosso: esso – per adempiere il proprio
compito- è costretto ad avvalersi di mezzi coattivi (ossia costrittivi), affidandosi alla paura la cui
rimozione è il fine della politica. La risposta a questo paradosso è stata individuata – da Ferreronella convergenza tra potere e società, la quale permetteva di ridurre la paura reciprova tra i
governanti e i governati. Infatti, secondo Ferrero, la stabilità dell’ordine sociale non era stabilito
solo dalla coercizione, ma era necessario il consenso il quale si realizza nel momento in cui una
serie di credenze e valori condivisi sono in grado di operare come principi normativi. Ferrero, poi,
ha affermato che solo la legittimità (la quale proviene dal basso e non dall’alto) è in grado di
liberare il potere dalla paura: infatti laddove il potere era legittimo, la sovranità assumeva il
carattere di un contratto tra le autorità e i soggetti il quale si configurava come l’esito di una
convergenza tra l’unità politica nel potere sovrano e i valori, i costumi e gli interessi più diffusi. Per
questo motivo Ferraro da molta importanza ai principi di legittimità, i quali si sono alterati da un’età
all’altra perché – ad un certo punto- i principi vigenti non erano più in grado di rispondere alle
esigenze sociali e, per questo, era necessario sostituirli con altri capaci di adempiere questo
compito. Nel periodo di transizione, ossia nel momento in cui il vecchio principio non era stato
ancora sostituito da quello nuovo, si generava una situazione di illegittimità nella quale ricompariva
la paura del potere, e in particolare di quello rivoluzionario. Pertanto Ferrero ha distinto, nell’ambito
della rivoluzione francese, due logiche: la logica della distruzione della legittimità invecchiata e la
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logica dell’edificazione di una nuova legittimità.
Per Ferrero la democrazia corrispondeva ai valori della rivoluzione culturale affermatasi con la
modernità, ed essa poteva essere considerata legittima solo se il potere riconosceva alle
minoranze sia il diritto ad opporsi, che il diritto a poter diventare maggioranza mediante
l’osservazione delle libertà politiche sancite dalle carte costituzionali. Infine, Ferrero, nonostante
fosse un antifascista è giunto a criticare anche il marxismo perché esso – con la sua concezione di
democrazia- trasformava la società in uno spazio conflittuale entro il quale il partito della
rivoluzione e quello della conservazione finiscono per affrontarsi in base alla logica distruttiva della
paura reciproca.
IL LIBERALISMO DEMOCRATICO E IL LIBERALSOCIALISMO
In Italia una riflessione molto importante è stata quella di Gobetti (esponente del liberalismo
democratico) e di Rosselli (esponente del liberalsocialismo) i quali sono stati segnati dalla
preoccupazione di resistere al fascismo e dall’intenzione di rivedere la tradizione liberale a partire
dai probemi generati dalla questione operaia e dal socialismo. Gobetti si proponeva di creare una
classe politica consapevole della necessità della partecipazione dei ceti popolari nell’ambito
politico; Rosselli ha cercato di attuare una nuova sintesi tra liberalismo, socialismo e democrazia
intesa come condizione e presupposto per la costruzione di uno stato autenticamente democratico.
Tuttavia, entrambe si proponevano di rilegittimare il liberalismo ed entrambe si sono trovati ad
affrontare la risposta fascista che i ceti politici tradizionali hanno dato alla crisi politica e sociale del
primo dopoguerra. Inoltre questi due esponenti del liberalismo italiano sono entrati in aperto
conflitto con il fascismo perché in esso vedevano realizzata la conferma della debolezza civile della
borghesia italiana.
Gobetti è stato un personaggio di spicco perché ha elaborato il concetto di “rivoluzione liberale” il
quale – da un lato- si ispirava al liberalismo di Salvemini; dall’altro assimilava criticamente
l’approccio alla democrazia di massa teorizzato da Gramsci. In questo senso, per Gobetti,la
rivoluzione liberali si sarebbe dovuta affidare alla capacità di iniziativa della classe operaia, la
quale non doveva essere guidata da un partito socialista ma da un elitè intellettuale ispirata agli
ideali del liberalismo. Come abbiamo detto Gobetti andò contro il fascismo anche perché vedeva in
esso una serie di aspetti illiberali; in più, questa avversione nei confronti del nuovo regime lo ha
portato ad approfondire una serie di studi sull’unità d’Italia; studi che lo hanno condotto a
considerare il Risorgimento come una rivoluzione fallita perché caratterizzata dall’assenza delle
classi popolari.
Secondo Rosselli, la cui riflessione è stata influenzata dall’esperienza fascista, il socialismo si
sarebbe ripreso dalla sconfitta subita da parte del fascismo solo se si liberava dall’eredità marxista
per poi pori lungo una linea di continuità con la tradizione liberale. Inoltre, per Rosselli, il
protagonista della rinascita della civiltà liberale doveva essere la classe operaia, la quale doveva
essere il personaggio principale anche nella “rivoluzione della libertà” destinata a tradursi, dal
punto di vista istituzionale, in uno stato democratico basato su una pluralità di organizzazioni; e –
da un punto di vista economico- in uno stato a economia mista o a due settori, e cioè in cui imprese
private coesistono con settori nazionalizzati.
Un altro personaggio italiano importante, esponente del libersocialismo è stato Calogero il quale si
è distinto da Rosselli perché egli procedette in direzione di una revisione del liberalismo, e in
particolare della crociana “religione della libertà”. Egli considerava la libertà al singolare come
presupposto per raggiungere le libertà al plurale, le quali si sostanziavano nei diritti civili e sociali
che andavano garantiti a tutti i cittadini. Pertanto il liberalsocialismo comportava sia la democrazia
politica, sia la democrazia economica; il che coincideva con il tentativo di conciliare giustizia e
libertà andando contro la teoria di Croce il quale subordinava la giustizia alla libertà.
POLITICA ED ECONOMIA
Durante le due guerre mondiali il pensiero democratico ha offerto una serie di risposte sia teoriche
che pratiche e le seconde sono state molto importanti perché riguardavano la modificazione del
rapporto moderno tra politica ed economia
Uno dei postulati principali della pratica politica dei paesi industrializzati dell’800 è stata la
distinzione tra Stato liberale, società ed economia. Tuttavia questa situazione ha cominciato a
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modificarsi ( a partire dagli anni ’80 del XIX secolo ) a causa di una serie di fattori di natura sia
sociale che economica. Da un punto di vista politico-sociale, l’ampliamento del suffragio e la
rinascita dei partiti di massa hanno trasformato i processi di decisione politica e promosso
l’affermazione di una legislazione sociale. In questo contesto, poi, nacque lo Stato interventista il
quale si assunse una serie di responsabilità dirette nel finanziamento e nell’amministrazione di
programmi di assicurazione sociale. Da un punto di vista economico lo Stato ha assunto un ruolo
diretto nell’economia, aggiungendo funzioni economiche al suo apparato politico-rappresentativo le
quali erano orientate alla valorizzazione dei diversi settori di capitale. Durante la prima guerra
mondiale questa tendenza è stata accentuata notevolmente perché tutto il mondo della produzione
si mobilitò proponendosi degli scopi bellici; ma dopo questo grande conflitto la situazione non è
tornata più come prima a causa della nascita del bolscevismo, del nazismo e del fascismo.
Una svolta decisiva – da un punto di vista economico- si è avuto con la crisi economica del 1929
che si è abbattuta su tutti i paesi industrializzati. La dimensione gigantesca di questa ondata
regressiva ha imposto un intervento più massiccio dello Stato, ed è per questo che si è cominciato
a pensare alla pianificazione dello Stato sull’economia.
Mentre nel fascismo e nel nazismo l’intervento dello Stato in materia economica assunse l’aspetto
del corporativismo fascista e della debole pianificazione nazista, in Russia la situazione fu diversa.
Infatti, nonostante fu istituita una nuova politica economica (la NEP), nel 1928 venne lanciata la
politica dei “piani quinquennali”, dove per piano quinquennale si intendeva uno strumento di
governo dell’economia destinato a dimostrare la superiorità del socialismo nei confronti del
capitalismo. Tuttavia la funzione dei piani è stata – sin dall’inizio- di natura politica più che
economica in quanto essi erano finalizzati ad una gestione di tipo militare della vita produttiva
piuttosto che ad una distribuzione più equilibrata delle risorse.
Mentre nel marxismo teorico della scuola di Francoforte ci si è soffermati a promuovere il dibattito
sul capitalismo di Stato e sul suo rapporto con il capitalismo classico, nella socialdemocrazia
eurpea si è affermata la tendenza ad immaginare un riassetto popolare della sfera politica nei suoi
rapporti con la società, mediante un controllo pianificato dello Stato sulle nuove forme di
un’economia capitalistica, ormai simili a quelle di un’economia socialista. Il planismo europeo –
ossia l’insieme delle correnti socialdemocratiche favorevoli alla pianificazione- ha rinunciato a
qualsiasi forma rivoluzionaria, alla quale ha sostituito sia una accentuazione della dimensione
nazionale dei problemi sia una definizione delle tappe intermedie e della loro forma economica e
istituzionale. I principali esponenti del planismo sono stati: Rathenau; Hilferding che ha analizzato il
capitalismo organizzato come uno stadio preliminare del socialismo in virtù dei principi di
pianificazione e organizzazione scientifica che lo informano; e – infine Hendrik de Man. Infine
bisogna dire che il planismo socialdemocratico condivideva con il partito comunista l’orientamento
che si proponeva di porre la questione della pianificazione economica come soluzione alla
contraddizione strutturale tra forze produttive e rapporti di produzione; mentre aveva pochissimi
punti in comune con le soluzioni corporative fasciste.
IL NEW DEAL
Agli inizi del 1900 sia le democrazie europee che gli Stati Uniti si ritrovarono a gestire la crisi
dell’economia e ad inventare nuove forme di passaggio alla politica economica, ossia nuovi
interventi dello Stato nell’ambito economico.
In questo contesto di crisi molto importante è stato in New Deal, un programma di riforme sociali ed
economiche proposte dal presidente Roosvelt, il quale si proponeva di trasformare il rapporto tra
economia e politica. Il presupposto dal quale partiva il New Deal era quello che bisognava
correggere il vecchio automatismo di mercato attribuendo allo Stato dei compiti inediti, ma
nonostante la constatazione del fallimento del sistema del lassez faire (ossia di un sistema che
proponeva la libertà di commercio) Roosvelt voleva apportare delle modifiche nell’ambito
economico conservando il regime dell’impresa privata. L’idea che dominava il New Deal era quella
che il rilancio dell’economia fosse stato possibile non tanto sostenendo i prezzi per incrementare i
profitti, ma eliminando la disoccupazione all’interno della società e spingendo i cittadini a
riacquistare le merci e i prodotti delle proprie industrie e dei propri campi. Per questo motivo fu
attuato un piano di interventi sociali destinato a favorire la ripresa delle attività produttive (gestite
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principalmente dallo Stato) e a dare inizio ad una sorta di circolo virtuoso.
Il principale sostenitore del New Deal è stato un economista inglese: Keynes, il quale in firerimento
al funzionamento del capitalismo ha formulato un’interpretazione alternativa e che ha superato
quella classica, la quale – secondo questo economista- aveva avuto come conseguenza le politiche
liberiste del laissez faire.
CAPITOLO 6
I TOTALITARISMI
Una delle più importanti manifestazioni del tentativo di riorganizzare il rapporto tra individuo e
Stato, nonché tra economia e politica, è stata data dai totalitarismi i quali si sono serviti
dell’ideologia per raggiungere i loro obiettivi. Nel periodo che va dalla prima alla seconda guerra
mondiale, in Europa sono stati fatti una serie di esperimenti politici che sono stati definiti “totalitari”
in quanto proponevano la politica come una dimensione “totale”, e cioè capace: 1) di penetrare
tutta la società annullando la sua separazione tradizionale in diversi ambiti; 2) di coinvolgere tutto
l’individuo senza accettare le logiche della rappresentanza politica moderna fondate sulla
distinzione tra uomo e cittadino, fra pubblico e privato. Il termine “totalitario” cominciò a circolare
già a partire dagli anni ’20 tra gli oppositori del fascismo; e fu utilizzato per la prima volta da
Giovanni Amendola in senso negativo. Dopo un po’ fu lo stesso Mussolini a far proprio questo
termine, utilizzandolo in senso positivo, ossia per indicare la volontà del regime di portare tutta la
società all’interno dello Stato. Tuttavia il fascismo, più che totalitario, si presentò come autoritario
ed è per questo che oggi si tende a definire come totalitarismi veri e propri il nazismo e il
comunismo che (a differenza del fascismo) non amavano usare questo termine perché il primo
preferiva connotare la propria politica e il proprio regime in senso razziale e popolare; il secondo si
proponeva come rivoluzionario, sovietico e socialista.
A partire dagli anni ’50 è stata compiuta una riflessione teorica su che tipo di politica potesse
essere definita totalitarismo o meno. Importante è stata l’interpretazione di Hannah Arendt la quale
diede al termine “totalitarismo” una risonanza filosofica, una profondità storica e valenza polemica
in quanto l’equiparazione di nazismo e comunismo è stata rifiutata a lungo dalla sinistra. Al giorno
d’oggi sono state stabilite delle caratteristiche precise che permettono di definire una forma di
governo totalitaria; esse sono: a) un’ideologia totalizzante che, rifiutandosi di riconoscere
l’oggettività della realtà, ne proclama l’assoluta trasformabilità; b) la presenza di un partito unico
che si sostituisce allo Stato e si proclama come centro del potere e detentore del monopolio della
violenza; c) la presenza di un capo carismatico che stabilisce un rapporto diretto con le masse; d)
l’uso non legale della politica e l’uso terroristico del potere dello Stato e del partito contro la
società; e) il controllo pieno da parte del potere politico su comunicazione ed economia.
Dall’interpretazione storico-politca è emerso che le questioni principali – per quanto riguarda le
dinamiche totalitarie – sono tre: 1) la comparabilità tra loro di fascismo, comunismo e nazismo; 2) la
continuità o la discontinuità dei totalitarismo rispetto allo Stato borghese-liberale; 3)
l’interpretazione del loro conflitto in termini di guerra civile.
Per quanto riguarda l’origine e il significato politico del totalitarismo è importante sottolineare che
esso – in primis- può essere considerato una risposta alla crisi dello Stato e del soggetto, generata
dalla incapacità dello Stato liberale ottocentesco di contenere nelle proprie forme e nelle proprie
istituzioni immensi potenziali umani, tecnologici ed economici-industriali; di conseguenza, se
l’ingresso di una società di massa all’interno della scena politica è stata la caratteristica del XX
secolo, il totalitarismo ha fornito una risposta a questa novità sociologica mediante una strategia di
annullamento dei limiti e dei confini tra Stato, società e individuo, nonché tra politica, etica ed
economia proponendosi di realizzare la promessa di un modo radicalmente nuovo. Inoltre il
totalitarismo è stato anche:
- uno sforzo mobilitante e conflittuale per la realizzazione di un’ideologia specifica;
- una forma di vendetta contro le passate oppressioni e sconfitte;
- ol cambio delle classi dirigenti e – quindi- la fine della società borghese e l’inizio di dell’epoca della
tecnica e dell’economia ipertrofica, rispetto alle quali la politica si presentava, attraverso i partiti
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totalitari, come un’istanza ancora più forte perché capace di servirsi di tecnica ed economia
distruttivi in vista di una rigenerazione futura. Tuttavia va sottolineato che l’ingresso delle masse
sulla scena politica e il ruolo crescente della tecniche non sono stati di per sé totalitari ma, in realtà,
le masse sono state le prime vittime dell’inganno e della violenza dei totalitarismi e la tecnica non
ha espresso una diretta intenzionalità terroristica. Inoltre è importante distinguere i valori ultimi
verso i quali protendevano i totalitarismi, ossia fare una distinzione tra l’emancipazione socialista
(propria del comunismo) e il dominio germanico sul mondo (proprio del nazismo) in quanto queste
due forme di totalitarismo si sono affrontate in una lotta mortale durante la seconda guerra
mondiale. Nonostante tutto sono caratterizzati da una serie di tratti distintivi che li accomunano.
Il regime totalitario poteva essere indicato come l’opposto dello Stato (ed è per questo che non è
corretto parlare di Stato totalitario) in quanto la politica formale e istituzionalizzata era negata dalla
tensione del totalitarismo verso il Bene o il Valore ultimo; la stabilità dello Stato era contraddetta
dalla mobilitazione permanente che il totalitarismo portava con sé; lo spazio politico dello Stato –
che conteneva diversi spazi- è stato ridotto ad un unico spazio totale. In più, i regimi totalitari hanno
perso completamente il senso della differenza tra guerra e polizia; tra esterno ed interno:
all’esterno essi hanno condotto delle campagne di polizia (e non guerre) contro dei criminali da
sterminare. Esempio di ciò è stata l’azione nazista durante la seconda guerra mondiale. All’interno
i regimi totalitari hanno condotto delle vere e proprie guerre contro i diversi nemici che albergavano
nella società. questi nemici sono stati: il nemico reale, il quale coincideva con l’oppositore
dichiarato al regime; il nemico potenziale, che rappresentava colui che sarebbe potuto diventare un
oppositore del regime a causa della sua appartenenza ad un preciso gruppo sociale; il nemico
“oggettivo” il quale veniva individuato di volta in volta a seconda delle esigenze del momento; e –
infine- il nemico biologico, come sono stati gli ebrei per i nazisti.
IL FASCISMO
Il fascismo e il nazismo sono nati in Europa nel momento in cui la dissoluzione della politica dello
Stato liberale e costituzionale ha dato origine ad una serie di tendenze ostili nei confronti della
tradizione; ma – in realtà- la loro incubatrice è stata la prima guerra mondiale e le dinamiche
estreme che essa ha comportato. Infatti sia il nazismo che il fascismo non derivarono le proprie
motivazioni da organiche premesse dottrinali, ma entrarono in gioco proponendosi di evitare di
vincolarsi all’interno di programmi ideologici circostanziati. Il fascismo nacque da un bisogno
d’azione e fu azione in quanto esso si fondava sul principio che in politica l’azione è più creatrice
del pensiero; in più esso si è sempre dimostrato come un’ideologia un po’ contraddittoria perché
incorporava in sé diversi aspetti contrastanti. Tuttavia è stato il nazionalismo italiano a fornire al
fascismo gran parte del suo corpus dottrinale (almeno in origine), ma la differenza tra nazionalismo
e fascismo è stata che il primo fu un fenomeno esclusivamente borghese o aristocratico; i secondo
è esistito grazie alla mobilitazione delle masse in quanto esso è entrato a far parte di
quell’orizzonte politico che si proponeva di fare i conti con le masse. Per questo motivo il fascismo –
oltre che un’opposizione- incontrò anche un largo consenso, almeno dal 1929 al 1938, o
comunque sino alla fine della seconda guerra mondiale.
Anche se il fascismo ha coltivato la retorica dei valori tradizionali della nazione, esso non è stato un
movimento tradizionalista: infatti non si richiamava né alla Chiesa né alla monarchia (le quali erano
le istituzioni principali dell’ordine conservatore) ma ha tentato di sostituirle basandosi su principi
completamente innovativi. Tali principi sono stati: 1) una leadership fondata sul culto carismatico
del capo, nel senso che tutti i cittadini dovevano identificarsi nel Duce; 2) il monopolio della
rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa organizzato gerarchicamente; 3) il
tentativo di incorporare l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali all’interno di
strutture di controllo dello Stato o del partito. In un primo momento, il fascismo (così come il
nazismo) si è presentato come un movimento rivoluzionario della controrivoluzione in quanto
incorporava – all’interno dei Programmi dei fasci di combattimento del 1919 – una serie di richieste
democratiche che interessavano diversi settori: dal punto di vista politico il Programma chiedeva il
suffragio universale, la rappresentanza proporzionale, il diritto di voto e l’eleggibilità per la donna,
ecc.; da un punto di vista sociale si puntò verso il miglioramento delle condizioni di lavoro degli
operai e verso la loro partecipazione nella vita dell’impresa; da un punto di vista finanziario ci fu
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l’introduzione di un’imposta fortemente progressiva sul capitale, la revisione dei contratti di
forniture di guerra, il sequestro della max parte dei profitti di guerra.
La formulazione ideologica del fascismo presentava – dunque- delle tendenze rivoluzionarie;
carattere questo che è rimasto vivo per tutti gli anni in cui è vissuto tale regime e che lo ha fatto
presentare sempre come caratterizzato da un’ambivalenza ideologica generata dal fatto che
all’interno di esso è sempre rimasta attiva quella parte che ha continuato a sognare la rivoluzione.
Solo nel momento in cui il fascismo è salito al potere ha provveduto a dotarsi di un complesso
dottrinale in grado di fondare la propria legittimazione politica e storica su di un compiuto sistema
ideologico. La dottrina del fascismo presentava delle differenze rispetto a ciò che era stato messo
in evidenza nei Programmi dei fasci di combattimento del 1919; una novità rilevante è stata
l’esplicito abbandono del principio di uguaglianza e di maggioranza. Poi – ancora- all’individualismo
e alla lotta di classe socialista sono stati opposti, più che la nazione, l’autorità dello Stato la cui
forma istituzionale (democratica o monarchica) non era rilevante. Da ciò si evince che con il
fascismo l’idea di nazione è stata subordinata da quella di Stato in quanto secondo l’ideologia di
questo regime non è la nazione che genera lo Stato, ma è lo Stato – inteso come espressione di
una volontà etica universale- che crea la nazione conferendo volontà e vita morale ad un popolo
diventato consapevole della propria missione universale. In questo contesto è risultato importante
sostituire la lotta di classe e la lotta tra i partiti con l’integrazione totalitaria delle masse nella vita
politica e affidare allo Stato il compito di proiettare all’esterno la compattezza nazionale del Paese
nel conflitto contro le potenze plutocratiche.
Il fascismo si è avvalso del partito unico e della corporazione per realizzare la fusione tra il popolo
e lo Stato e da un punto di vista economico è stato un organismo fondato sul solidarismo
corporativo.
LA corporazione serviva ad attuare – sotto il controllo dell’esecutivo- la disciplina integrale,
organica e unitaria delle forze produttive in funzione della potenza politica e degli interessi dello
Stato. Da un punto di vista politico, il modello corporativo intendeva porsi come un modello
opposto a quello rappresentativo democratico, in quanto esso si prefigurava come una democrazia
organica, anticonflittuale e interclassista in cui l’individuo contava come espressione di interessi
precisi ed organizzati. Anche se il corporativismo fascista riprendeva alcuni punti del modello di
Sorel e dei modelli corporativi elaborati dal pensiero cristiano-sociale del XIX secolo, esso si è
differenziato da quello tradizionale perché non era societario e pluralista, ma monistico e statalista
in quanto di proponeva di realizzare l’unità economica nei suoi diversi elementi e subordinarli
all’autoritarismo dirigista. Tuttavia il corporativismo non fu interamente realizzato nella pratica.
Nel fascismo un ruolo molto importante era quello del partito, anche se questo era subordinato allo
Stato e basato sul culto del capo carismatico. Al partito venivano conferite due funzioni diverse: da
un lato, quella di assicurare allo Stato il consenso volontario del popolo; dall’altro, quella di
selezionare gli elementi migliori della “schiatta” italiana, alla quale spettava il compito di trasferire
nel mondo la civiltà della romanità imperiale. Quest’idea di nazione dispensatrice di civiltà non
poteva essere separata da quella della “superiorità” della razza, che ha assunto un ruolo
importante più nel nazismo che nel fascismo.
IL NAZISMO
Il nazismo (così come il fascismo) non è nato da un pensiero specifico, ma da un insieme di idee e
principi derivanti da forme diverse. Anche se l nazionalismo e il fascismo vengono presentati come
due forme di nazionalismo, presentano delle differenze importanti: il nazionalismo era una forma
totalitaria e non solo autoritaria; il nazionalismo ha fatto un maggior uso terroristico del potere
politico ed è stato caratterizzato da un’ideologia mobilitante; il nazionalismo ha riversato il delirio di
onnipotenza nella formazione di un uomo nuovo; il nazionalismo presentava un rapporto diverso –
rispetto al fascismo- tra partito e Stato. Sino al 1929 il nazionalsocialismo rappresentava una forza
minoritaria all’interno della società tedesca anche se esso riprendeva gli umori di coloro che
desideravano una rivincita nei confronti della sconfitta contro la Francia e nei riguardi delle
condizioni imposte alla Germania con la pace di Versailles. Tuttavia con l’avvento della crisi
economica del 1929, che ebbe delle ripercussioni in tutti i settori, il partito nazionalsocialismo (di
cui la parola nazismo è l’abbreviazione) è riuscito ad ottenere la maggioranza nelle elezioni
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politiche. Molti storici hanno considerato il regime nazista come un sistema caotico, non
omogeneo e caratterizzato dal conflitto tra diversi centri di potere, tenuti uniti solo dalla volontà di
Hitler. Tuttavia, il nazismo presenta dei caratteri particolari come l’importanza data al partito. Infatti
– a differenza del fascismo- in questo caso il partito sta al di sopra dello Stato e ad esso è stata
attribuita una diretta responsabilità politica e una funzione “sovra legale” e onnipervasiva. Di
conseguenza, il partito si presentava come l’unica istanza di legittimità - oltre a quella del popolo e
del Capo- e come l’unico soggetto politico capace di realizzare l’organizzazione della società e la
mobilitazione del popolo. Per questo motivo lo Stato nazista è stato uno Stato-partito. Il
totalitarismo nazista si è configurato come un regime di perenne mobilitazione distruttiva della
società da parte di un potere politico che operava secondo logiche di esclusione e mediante delle
modalità di non tutela proponendosi come obiettivo la costruzione dell’uomo nuovo. In questo
modo, il nazismo ha provocato una censura nei confronti sia dello Stato di diritto, che nei riguardi
dello Stato inteso come comunità etica di destino e non solo come associazione di produttori.
Dall’analisi di ciò si evince che per il nazismo lo Stato non era altro che uno strumento il cui fine era
la conservazione della razza. A tal proposito molto particolare è la riflessione di un politologo e
giurista tedesco: Ernest Fraenkel, il quale ha parlato di “doppio Stato”, ossia della compresenza di
uno Stato normativo, necessari per garantire la presenza di un’economia capitalistica; e di uno
Stato direzionale il quale doveva eliminare tutti i nemici del Reich.
Il popolo veniva inteso – dal nazismo- come razza e come comunità popolare. Tuttavia è sul
concetto di razza che il regime tedesco si è soffermato maggiormente in quanto il suo misticismo
irrazionalistico della razza superiore è stato influenzato o – meglio- ha avuto origine da una serie di
teorie razziste nate tra la l’800 e il ‘900 in Europa. Già verso la metà del 1800 un francese,
Gobineau, sosteneva che la razza fosse il fondamento della civiltà, la quale era destinata a
tramontare se la razza andava incontro alla degenerazione, ossia se la purezza del suo sangue si
mescolava con il sangue di altre razze. La razza biana (che derivava dagli ariani) rappresentava
l’unica matrice creativa fra tutte le civiltà, ma la sua decadenza impediva l’istituzione di un progetto
politico capace di discriminare le razze inferiori. L’affermazione di un razzismo “attivo” è avvenuta
nel momento in cui queste idee di Gobineau sono state prese in considerazione e diffuse dapprima
da Wgner (un grande musicista tedesco) e – in secondo luogo- da Chamberlain il quale ha dato un
contributo decisivo alla popolarizzazione del mito ariano mediante l’identificazione della razza
superiore con quella tedesca. Il massimo testo espositivo del razzismo nazista è stata l’opera di
Alfred Rosenberg: “il mito del XX secolo” nella quale ogni creazione dell’uomo e – addirittura- la
verità è stata ricondotta alla razza. Il mito del XX secolo consisteva nella creazione di un nuovo
uomo, ossia nel risveglio della razza nordica la quale aveva il compito di produrre il proprio eroe e
organizzarsi come comunità di uomini superiori pronti a realizzare il proprio mito organico e
gerarchico all’interno dello Stato del popolo-nazione. Il nemico più terribile da combattere era la
razza ebraica, la quale mirava ad impadronirsi del mondo e di distruggere la razza superiore
mediante la diffusione dell’egualitarismo democratico, sociale o cristiano.
Le contraddizioni del partito nazionalsocialista sono state messe in evidenza nei 25 punti del
programma del Partito dei lavoratori tedeschi, al quale aderì anche Hitler nel momento in cui si
trasformò in Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. I 25 punti erano una mescolanza di
parole d’ordine nazionaliste, razziste, autoritarie e populiste che hanno spinto il popolo ad
accettare e appoggiare i principi di questo nuovo regime. Nel momento in cui Hitler salì al potere
scelse per il proprio movimento la denominazione “partito nazionalsocialista dei lavoratori
tedeschi”, adottò la bandiera rossa e istituì il primo maggio come festività per i lavoratori. Nel 1936,
con l’annuncio del “piano quadriennale” , l’influenza dello Stato e del partito nazionalsocialista è
aumentato radicalmente sull’economia, tant’è vero che essa è stata limitata da una serie di
imposizioni e interventi della dirigneza politica, ma non al punto di poter definire il sistema
economico tedesco come un’economia pianificata dallo stato, infatti, nella Germania nazista lo
Stato controllava l’economia nel quadro di uno sviluppo concentrato tra lo Stato stesso e l’industria
privata, aggregata in corporazioni.
La fonte principale dell’ideologia nazista è stato il Main Kampf di Hitler, ossia il libro nel quale sono
stati scritti tutti quei principi che – in seguito- sono stati attuati durante il regime nazista. Lo Stato –
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per Hitler- doveva essere Stato di popolo in polemica contro lo Stato totale; e questa idea di stato –
così come quella di popolo e di partito- si è collocata in una Weltashauung, ossia in una visione del
mondo, basata sulla legge del più forte. In questo senso la storia veniva concepita caratterizzata
da una lotta continua tra razze pure e razze inferiori. In aggiunta a ciò si è affermato che il compito
del nazismo era quello di dar vita d una rinascita razziale della Germania in modo da assicurare al
popolo tedesco lo spazio vitale in cui realizzare l’impero razziale germanico il quale prevedeva da un lato- l’eliminazione della razza ebrea; dall’altro la sottomissione dell’elemento non tedesco, e
soprattutto slavo.
Il principio di funzionamento di questo sistema politico è stato il Fuhrerprinzip il quale metteva in
evidenza che ogni livello e ogni istanza doveva essere gestito da un uomo solo, sa un capo che
non doveva prendere in considerazione i pareri e le volontà dei sottoposti, piuttosto prendersi tutte
le responsabilità delle proprie azioni e tener conto di una capo di livello superiore (come – per
esempio- Dio). Il Fuhrer concentrò in sé tutti i poteri e quando, il 2 agosto 1934, morì l’ultimo
rappresentante del potere legale Hitler unì alla sua potenza anche le cariche di presidente e di
cancelliere. Il Fuhrerprinzip è stato talmente potente da invadere la società e lo Stato tedeschi in
tutte le loro articolazioni e da confermarsi come unica istanza unificante degli innumerevoli
elementi che costituivano il pluralismo del potere nazista. Infine il Fuhrerprinzip – che andava
contro la forma moderna dello Stato e la sua legalità- ha istituito una personalizzazione del
comando che mancava da molti anni in Europa.
Il tema dell’antisemitismo è bene analizzarlo a parte a causa del suo grande rilievo nell’ideologia e
nella pratica della politica razzista. Esso – infatti- non è stato uno strumento del nazismo, ma la sua
vera essenza in quanto Hitler ha utilizzato l’antisemitismo per accaparrarsi l’appoggio dei ceti
superiori, del proletariato e della piccola borghesia, uscita molto provata dalla crisi del 1929.
Inoltre, l’antisemitismo rappresentava una personale ossessione di Hitler che egli ha trasformato in
un vero e proprio sterminio della razza ebraica, la quale veniva vista come l’unica vera minaccia
per gli ariani perché essa mirava a dominare tutto il mondo diffondendo ideologie universalistiche
che indebolivano la razza superiore. In linea con questi principi Hitler ha realizzato una politica
antisemita molto dura e spietata che, infine, con i suoi risultati ha messo in evidenza cosa c’era di
implicito nel razzismo: l’idea che l’umanità non sia unita; che non poteva esistere nessuna forma di
comunicazione razionale capace di coinvolgere tutti gli uomini , nessuna storia e destinazione
spirituali della presenza dell’uomo nel mondo; ma solo una distruzione cieca, automatica e
naturale; espressione – tutto ciò- di un nichilismo completo. Infine, il punto d’arrivo di questa
filosofia nazista è stato la distruzione.
IL COMUNISMO SOVIETICO
La Russia è stata la culla del comunismo, nonché degli sviluppi totalitari di esso. Il carattere
totalitario di questa forma di governo è stato avviato dal pensiero e dall’opera di Lenin, ma – in
seguito- si è consolidato con il governo di Stalin, il quale stravolse le istituzioni e gli strumenti creati
da Lenin in quanto si proponeva di creare una politica dispotica all’interno e una politica estera di
potenza. Il sistema staliniano non si è sviluppato con molta facilità in quanto ha trovato un aspra
opposizione in due figure: Nicolaj Ivanovic Bucharin e Lev Davidovic Trockij. Bucharin era stato
uno dei protagonisti della nascita e dei primi sviluppi dello stato sovietico, ma aveva maturato il suo
pensiero andando oltre le contingenze politiche. Egli riteneva che il rapporto sempre più stretto tra
politica ed economia (il che rappresentava un carattere del capitalismo) poteva rappresentare un
fattore duraturo di stabilizzazione economica e – alla luce della nuova struttura del capitalismo di
Stato- era convinto che era necessario revisionare il rapporto tra struttura e sovrastruttura in
quanto gli apparati regolativi dello Stato divennero parte integrante della struttura. Accanto a
questa critica nei confronti del capitalismo occidentale, Bucharin, fece un’analisi sull’esperienza
sovietica e si propose di opporre alla logica autoritaria di industrializzazione forzata l’idea di un
socialismo basato su un rapporto di interdipendenza tra razionalizzazione produttiva e crescita del
mercato interno. Quest’ultima caratteristica del pensiero di Bucharin lo ha posto come uno dei
principali ispiratori della Nep (ossia della nuova politica economica), la quale prevedeva la parziale
liberalizzazione del mercato e lo sviluppo della piccola industria e del commercio privato.
Un oppositore della Nep è stato – invece- Trockij, il quale sosteneva che il mondo agricolo non era
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altro che un oggetto di sfruttamento ai fini dell’industria. Egli – dopo essere stato sconfitto da Stalin
nel 1925- ha elaborato una critica nei confronti della politica di Stalin; critica che faceva leva su due
punti: 1) in primo luogo Trockij riteneva che le trasformazioni strutturali ed economiche attuate dal
potere sovietico durante il governo di Lenin rimasero intatte nel momento della ascesa di Stalin, il
quale non aveva fatto altro che imporre una forte autorità sia sulle sovrastrutture che sul dominio
politico andando contro – in questo modo- alle esigenze dell’ordine politico e istituzionale socialista.
2) In secondo luogo, egli si propose di contrastare questa forma di totalitarismo attuata da Stalin (il
quale si proponeva di creare il “socialismo in un solo paese”) mediante una rivoluzione
permanente, ossia una rivoluzione guidata dal proletariato. Esiliato dall’Urss, egli fondò a Parigi la
IV Internazionale la quale entrava in contrasto con la III internazionale stalinista, e – infine- morì a
città del Messico assassinato per ordine di Stalin.
CAPITOLO 7
GRAMSCI
In Italia, la rinascita del pensiero dialettico si manifestò anche nel marxismo e, in particolare, nel
pensiero del suo maggior esponente: Antonio Gramsci, il quale fu influenzato sia dalla filosofia di
Croce che da quella di Labriola. Gramsci intendeva il marxismo come una concezione dialettica
della storia umana la quale sosteneva che c’era la possibilità di dar vita ad un ordine nuovo
mediante la capacità di agire dell’uomo, attraverso cui egli trasforma le situazioni e i rapporti di
forza. Se il rapporto tra libertà e necessità si spezzava,il socialismo correva il rischio di rimanere
prigioniero di quella falsa alternativa di ribellismo e passività che indicava una situazione di
immaturità storico-politica sia della classe operaia che delle sue espressioni organizzative.
Per Gramsci (come anche per molti pensatori del suo tempo) la rivoluzione d’Ottobre ha segnato
una svolta radicale in quanto essa ha messo in luce la capacità del proletariato di dirigere il
processo produttivo anche senza il capitalismo. Per questo motivo egli assegnò ai “Consigli operai
di fabbrica” (ossia ai soviet) la direzione della società, in quanto essi rappresentavano – da un latogli organi della classe operaia nella sua totalità; dall’altro modelli organizzativi in grado di
rispondere alle esigenze produttive e di delineare un nuovo ordine politico. Tuttavia, con il
fallimento dell’occupazione delle fabbriche e l’avvento del fascismo all’idea di dar vita ad un nuovo
ordinamento è subentrata la consapevolezza che la rivoluzione doveva essere un processo lungo
e duraturo.
Un’opera molto importante di Gramsci è stata “Quaderni del carcere” in cui egli ha messo in
evidenza la sua riflessione sulle differenze tra Occidente e Oriente; tra paesi dalla società civile
debole e arretrata (come la Russia) e paesi (come l’Italia) con una società civile complessa e
articolata. Inoltre egli ha sottolineato che la rivoluzione d’Ottobre doveva essere interpretata come
l’ultimo episodio della guerra di movimento tra il comunismo e la società borghese, la quale si è
riuscita ad affermare in Russia a causa del carattere troppo debole della società civile; che in
Europa – invece- si è rafforzata, complicata e differenziata e – in più- ha circondato la cittadella dello
Stato politico con un sistema di trincee, caserme e bastioni. Per questo motivo, in Europa la
rivoluzione doveva essere più articolata e bisognava rinunciare all’illusione che sarebbe stato
possibile abbattere il nemico mediante uno scontro frontale. Gramsci – inoltre- ha rimesso in luce
l’importanza del Partito Comunista, all’interno del quale trovarono forma ed espressione
l’autonomia di classe del proletariato e l’inconciliabilità teorica del pensiero proletario con qualsiasi
altra visione del mondo. Come sul piano dell’azione politica Gramsci avanzò l’idea della necessità
di un organismo collettivo, ossia del Partito Comunista in quanto era l’unico organo politico in
grado di risolvere il problema relativo al passaggio dalla vecchia società a quella nuova; sul piano
produttivo egli oppose al capitalismo una razionalizzazione del lavoro basata sull’organizzazione
del “lavoratore collettivo” capace di gestire l’industria anche senza il capitalismo, nella prospettiva
dell’autonomia morale e intellettuale del lavoratore.
un’idea molto particolare di Gramsci è quella relativa al fascismo. Egli considerava questo regime
come l’esito di una politica disegnata dai vertici della borghesia industriale, la quale si è avvalsa dei
ceti medi (e in particolare di quelli rurali) per opporsi alla lotta di classe socialista – prima- e
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comunista – dopo. Inoltre l’esistenza del fascismo ha reso improbabile – in Italia – l’evolversi di una
guerra di movimento tra la borghesia e i proletari, ed è per questo che Gramsci preferì parlare di
guerra di posizione. Tutto ciò portò l’esponente del marxismo italiano a rivedere il concetto di
società civile: egli intendeva, per società civile, l’insieme complesso delle relazioni ideologicoculturali della vita spirituale e intellettuale che avevano un ruolo decisivo all’interno di uno Stato;
mentre per il marxismo l’elemento fondamentale in uno Stato era la struttura, ossia l’insieme delle
relazioni materiali nella produzione. A sostegno della propria tesi Gramsci affermava che il potere
di una classe non si esercitava unicamente con la forza, ma anche mediante l’egemonia, ossia con
la capacità di dirigere le altre classi verso la propria ideologia che – per il filosofo del marxismorappresentava uno strumento autonomi di influenza intellettuale. Alla luce di ciò bisognava
sottolineare che sull’esercizio della propria egemonia su tutta la società civile doveva puntare il
proletariato il quale era organizzato nel partito comunista che rappresentava la totalità degli
interessi dei lavoratori e la guida delle decisioni collettive e individuali utili per tutta la società.
Prendendo in considerazione quest’esigenza – espressa da Gramsci – di creare una visione del
mondo valida per tutto, è possibile dedurre che egli dava molta importanza alla questione relativa
agli “intellettuali organici” che aderivano intenzionalmente agli ideali di una classe in modo da
favorire la loro diffusione in tutta la società civile.
L’incapacità egemonica della borghesia italiana (ossia l’incapacità di diffondere la propria
ideologia) oltre che generare il fascismo, secondo Gramsci si era già manifestata nella questione
meridionale la quale aveva messo bene in evidenza che le classi dirigenti del nord non erano state
capaci di condurre fino in fondo la lotta al feudalesimo e al latifondismo perché avevano lasciato da
parte le terre del sud. E’ proprio per questo motivo che Gramsci si fece sostenitore del proletariato
industriale comunista che egli riteneva come l’unica forza politica in grado di unificare il paese sotto
tutti i punti di vista e di risolvere i problemi generatisi con la questione meridionale. Infine, in
ragione dei questa capacità direttiva e unificatrice del Partito Comunista, Gramsci lo ha
riconosciuto come il “moderno principe” capace di creare un nuovo Stato.
LA FRANCIA
In Francia la Hegel renaissance (ossia la riscoperta del pensiero ideale) è stata determinata da un
gruppo di intellettuali che, a partire dagli annni ’30, introdussero in questo paese la filosofia di
Hegel e – in particolare- la fenomenologia dello Spirito, fornendone una lettura in senso umanistico
in quanto furono influenzati anche dall’esistenzialismo e dalla riscoperta dei testi umanistici del
primo Marx. La Hegel renaissance non fu solo un fenomeno accademico in quanto gli intellettuali
che hanno diffuso in Francia la filosofia Hegeliana furono anche coloro che rivalutarono Hegel
come il portatore del problema relativo al soggetto- concreto il quale, con la sua finitezza, si
poneva in rapporto con lo Stato moderno e con la storia universale. Uno di questi intellettuali è
stato Alexandre Kojèeve che nelle sue lezioni ha interpretato la fenomenologia di Hegel come
un’antropologia storica che ha descritto l’uomo nel suo divenire; ed è per questo che egli
sosteneva che lo Spirito di Hegel coincideva con l’Uomo, concetto storico connotato da una
finitezza radicale e mediante il quale è possibile spiegare anche gli altri concetti hegeliani. Koièeve
si è –poi- soffermato su 2 figure dell’Autocoscienza della Fenomenologia: la lotta tra servo e
padrone e la morte. Prendendo in considerazione la lotta servo-padrone K. ha affermato che prima
e fuori dall’interazione sociale non c’è soggettività; di conseguenza l’uomo è sempre il prodotto
della lotta e del lavoro e anche l’ordine politico nasce come spazio fondato – in origine- sulla lotta.
Questo impianto categoriale servì a K. Per spiegare anche l’evoluzione del diritto il quale era
costituito dal conflitto dialettico tra giustizia di eguaglianza (che reggeva le società aristocratiche) e
la giustizia di equivalenza ( propria della società borghese). Oltre alla metafora servo-padrone, la
dialettica hegeliana era costituita anche dal nesso morte (o guerra) e libertà, il quale metteva in
evidenza che l’uomo può dirsi tale, ossia sostanza concreta, nel momento in cui rischia la propria
vita nella lotta per il riconoscimento, poiché la morte dell’uomo è autonoma e volontaria e – per
questo motivo- generatrice di libertà. Per K. il mondo sociale coincideva con il mondo della storia il
cui movimento dialettico poteva essere concepito come un circolo destinato a ripetersi solo una
volta: la storia – infatti- è soppressione della storia, e cioè cammino verso la fine della storia, verso
la conformità tra realtà e discorso. La storia del mondo occidentale (per K.) si era conclusa nel
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1789 grazie alla rivoluzione, la quale aveva generato la trasformazione del mondo dei borghesi in
un mondo cittadino, destinato ad essere superato dal pensiero hegeliano. Mentre per Hegel lo
Spirito del mondo si era manifestato in Napoleone; per K. Si era manifestato in Stalin e nella prima
fase del suo pensiero egli era convinto che proprio grazie alla rivoluzione russa che si era compiuta
la storia e c’era stata la manifestazione dell’Assoluto, ossia il cittadino-saggio dello Stato
Universale omogeneo in cui vigeva la giustizia dell’equità (sintesi della giustizia di eguaglianza e di
equivalenza).
LA GERMANIA
In Germania la rinascita della dialettica ha avuto degli effetti importanti all’interno del pensiero
marxista, il quale si è liberato dalle influenze positivistiche della II e III internazionale e si è aperto
nei confronti delle istanze di concretezza storica. L’importanza che il pensiero dialettico ha avuto
per il marxismo è stata rivendicata da Gyorgy Lukacs, che ha elaborato un pensiero i cui punti
chiave erano i concetti di: totalità concreta, identità di soggetto-oggetto nella prassi sociale;
coscienza di classe e di reificazione(ossia quel processo secondo cui nell’economia capitalistica
l’uomo e il suo lavoro venivano ridotti al valore della merce che producevano). Secondo Lukacs, il
metodo dialettico era quello più adeguato per comprendere la totalità sociale e solo dal punto di
vista del proletariato la società diveniva visibile come un Intero, ossia come un sistema dialettico
delle relazioni che nascevano dalla produzione economico. Al contrario, la borghesia – con la sua
falsa coscienza- studiava la società come un’insieme di fenomeni isolati, ripresi in settori
conoscitivi parziali privi di qualsiasi rapporto con il tutto di cui fanno parte. Invece è proprio il Tutto
che rende comprensibile le parti ed è proprio per questo motivo che Lukacs sosteneva il
proletariato in quanto esso rappresentava l’unica classe sociale in grado di effettuare una corretta
analisi della storia e della società. inoltre la conoscenza non contraddittoria della realtà era
accessibile solo al proletariato perché la coscienza borghese – essendo limitata e andando
incontro alla sua scomparsa- non poteva essere altro che tragica e contraddittoria. Infatti il
pensiero irrazionalistico della cultura europea dell’800 e del ‘900 è stato una reazione disperata del
mondo borghese alle proprie contraddizioni e alla lotta di classe. Al contrario, il proletariato aveva
la possibilità di conoscere la totalità sociale (ossia il mondo capitalistico nel suo vero
funzionamento) perché esso era la sua manifestazione: pertanto riconoscendo se stesso come
classe, il proletariato conosceva anche la totalità sociale e viceversa. In questo modo coscienza di
classe e conoscenza oggettiva del processo storico giunsero ad identificarsi e ciò fu molto
importante perché nel momento in cui il proletariato giungeva alla piena conoscenza del
capitalismo, aveva la possibilità di superarlo attraverso il socialismo e di abolirlo nella libertà finale
della società senza classe. In questa prospettiva di Lukacs, il marxismo rappresentava una teoria
della totalità sociale. La quale trovava nel partito (inteso come coscienza di classe del proletariato)
il soggetto rivoluzionario rappresentante gli interessi dell’intero proletariato e il futuro dell’umanità.
Il pensiero di Lukacs trovò molti punti in comune con quello di Krosch, il quale difese il concetto di
totalità concreta nell’ambito della polemica in cui si accusavano pensatori come lui e Lukacs di
aver ridotto il marxismo ad un criterio epistemologico di un sapere specializzato, che spingeva le
singole coscienze ad essere indipendenti e ad allontanarsi dalla prassi rivoluzionaria.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
La scuola di Francoforte è nata nei primi anni di vita della Repubblica di Weimar. La prima
generazione di questa scuola – di cui facevano parte sociologi, economisti, filosofi, storici e
psicologi- si impegnò in una revisione del marxismo che si proponeva di interpretare la
trasformazione del capitalismo (il quale passò dalla sua fase liberale alla sua fase democratica) e
dello Stato (che da Stato borghese divenne Stato totalitario). Molto importante nella prospettiva
teorica e pratica della scuola di Francoforte è stato il dibattito relativo al rapporto tra politica ed
economia. Intorno a tale questione nacquero due filoni distinti: da un lato c’erano coloro come Max
Pollock e Max Horkheimer i quali sostenevano che c’erano delle differenze tra il capitalismo di
Stato e le classiche condizioni economiche del capitalismo liberale concorrenziale; dall’altro
c’erano coloro come Franz Neumann ed Herbert Marcuse i quali sostenevano che tra capitalismo
di Stato e capitalismo classico non c’era nessuna differenza particolare e che il fascismo non era
stato altro che il sistema di comando borghese portato all’esasperazione.
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Uno dei principali filosofi della scuola di Francoforte è stato Herbert Marcuse il quale aveva tentato
di riattivare il marxismo da un punto di vista teorico, ripristinandone la specifica valenza
rivoluzionaria. A tal proposito egli ha sottolineato l’importanza della filosofia nella ricerca della
concretezza, in quanto la filosofia veniva concepita come scienza pratica capace di incidere
direttamente sull’angustia dell’esistenza umana. Solo in questo modo- ossia riprendendo il
pensiero di Hegel, interpretato come espressione di una lotta materiale contro l’irrazionalità del
mondo, mediante la filosofia di Heidegger e la lettura del giovane Marx – il marxismo poteva
riaffermarsi come teoria e prassi dell’azione rivoluzionaria. Contro tale razionalità concreta poteva
porsi solo l’irrazionalismo terminale della borghesia dalla quale è nato il nuovo Stato autoritario.
Infatti – secondo Marcuse- il liberalismo e l’autoritarismo non erano due movimenti alternativi, ma
corrispondevano a due diverse fasi dello sviluppo capitalistico. Inoltre – secondo il filosofo- il mondo
borghese non produceva più forme politiche nuove, ma solo decadenza di quelle vecchie e anche il
passaggio da un’economia liberistica ad un’economia di piano autoritaria è stata interpretata come
una omogeneità tra vecchi e nuovi capitalismo. In accordo a questo suo pensiero Marcuse
sosteneva l’inesistenza dello Stato autoritario e riconosceva il carattere borghese del fascismo, ma
– in seguito ad una profonda analisi del nazismo- si è allontanato da questa sua posizione iniziale
ed ha cominciato a cogliere le novità del regime totalitario tedesco.
anche un altro filosofo: Franz Neumann ha compiuto una riflessione sul regime nazista che ha
descritto come uno Stato attraversato dal disordine e dal conflitto. Egli partiva dalla tesi che il
totalitarismo non era una forma di governo nuovo, ma solo l’espressione di una serie di interessi
economici borghesi i quali erano talmente contraddittori che potevano essere tenuti insieme solo
mediante una politica violenta e il mito, e non più dal diritto e dalla ragione. Per Pollock e
Horkeimer il capitalismo di stato esisteva ed esso coincideva proprio con lo Stato autoritario. A
sostegno di questa sua tesi Horkeimer sostenne che la fine della libera concorrenza segnò
l’affermazione di una totalità di dominio in cui non era possibile distinguere più degli ambiti di
dominio. Per questo motivo il totalitarismo era – per lui – una forma politica nuova e la Germania
nazista, nonché l’Urss non erano altro che due manifestazioni equivalenti della forma estrema di
dominio nella quale ha preso corpo la tradizione occidentale dell’oppressione. In Horkeimer e in
molti esponenti della scuola di Francoforte il concetto di dominio implicava che l’alienazione
dell’uomo non era dovuta solo allo sfruttamento capitalistico, ma anche alla convergenza tra
principio di organizzazione e principio di produzione. La politica, quindi, attraverso l’incorporazione
autoritaria delle masse nelle strutture economiche e politiche ha assunto un carattere violento e
autoritario in quanto solo mediante questo tipo di atteggiamento era possibile garantire la
sopravvivenza di un sistema socioeconomico. L’esistenza di forme politiche diverse non ebbe
come conseguenza la produzione di diverse qualità di dominio: il potere politico esercitato dal
principio di organizzazione economica, infatti, faceva si che sia ad Est (dove vigeva il socialismo)
che ad Ovest (dove c’era il capitalismo) si produceva la chiusura di qualsiasi spazio
emancipatorio. Durante la seconda guerra mondiale gli esponenti della scuola di Francoforte
cominciarono ad affiancare al nazismo e al capitalismo una nuova forma politica ed economica,
nella quale il dominio non si manifestava attraverso forme violente e autoritarie ma mediante la
mercificazione, ossia manipolazione psicologica e culturale di ogni ambito sia soggettivo che
sociale.
Nel 1944 Horkheimer e Adorno unificarono tutta la storia intellettuale, sociale , economica e politica
dell’Occidente in una critica radicale all’illuminismo, nel quale H. (già fino alla sua opera giovanile)
non ha visto un progresso della ragione verso il suo dispiegamento, ma la continua lotta tra il
momento ideale della libertà con quello pragmatico dell’interesse, nonché l’inevitabile
compromissione della ragione moderna con il potere di classe della nascente borghesia. Nella sua
opera più matura H. radicalizzò il suo pensiero affermando che la ragione è potere ed essa – da un
lato- poteva essere esaltata perché portava con sé una serie di promesse di liberazione; dall’altro
poteva essere criticata per la sua origine e per la sua struttura che l’hanno portata a risultati
opposti alla libertà, ossia alla schiavitù. Inoltre Horkheimer e Adorno si sono opposti alla narrazione
che la ragione illuministica faceva di sé: lotta contro il mito alla cui conclusione si affermava il
soggetto emancipato. Questa antitesi tra il mito e l’illuminismo rappresentava – secondo questi
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autori- una forma di complicità segreta utile per dominare la natura e superare la paura che l’uomo
aveva nei suoi confronti. Inoltre il mito era – per loro- una forma di superamento della magia,la
quale era ancora troppo mimetica rispetto alla natura ed esso poteva essere definito illuministico
perché si impegnava ad eliminare la paura dell’uomo nei confronti della natura; ed era teoria
perché gli dei di cui si avvaleva per dare unità e forma astratta alla natura anticipavano gli
universali del logos, della ragione. Da ciò è possibile dedurre che è stato col mito (trasformatosi in
seguito in logos) che ha avuto inizio il processo di razionalizzazione del mondo per opera del
Soggetto che, mediante la ragione, si proponeva di dominare l’oggetto, riducendolo – in questo
modo- ad un concetto che poteva essere afferrato nella mente.
L’illuminismo è stato – però- un momento storico contraddittorio perché mentre da un lato si
proponeva di abbandonare il mito, dall’altro non si è liberato dalla mitologia, e cioè dalla paura nei
confronti della natura, e – in più- ha riproposto le originarie potenze minacciose della costituzione
naturale. Inoltre la alla razionalizzazione della natura senza imporre tale razionalizzazione alla
propria natura, ai propri impulsi, desideri e passioni. La repressione delle passioni naturali e
l’autodisciplina del soggetto è stata espressa in due figure: quella di Odisseo e quella di Sade.
Odisseo era un borghese che ha fondato la propria identità facendosi legare all’albero della nave
er non seguire il canto delle Sirene, il quale coincideva con le potenze irrazionali della natura che
egli temeva e desiderava nello stesso tempo in quanto non voleva perdersi l’esperienza di
congiunzione tra soggetto e natura. Sade ha messo in luce il lato oscuro dell’illuminismo perché
egli vedeva la natura come una dimensione infernale in cui il male e la violenza si manifestavano
come eventi naturali. Questo giustificava – in qualche modo- anche il loro sviluppo nella società e
metteva in evidenza che l’illuminismo si fondava solo su pulsioni deviate che rappresentavano,
ormai, il destino dell’individuo. Dall’analisi di ciò si è dedotto che il soggetto razionale non trova –
nella propria ragione- la libertà, ma la propria soppressione.
Il dominio si manifesta, quindi, in una totalità filosofica, psicologica, politica ed economica che di
per sé rappresenta il falso in quanto non è altro che l’indice della violenza mediante la quale è stata
costruita la storia, le istituzioni e le forme culturali. Pertanto, secondo i francofortesi, la filosofia e il
potere politico non sono gli unici fattori strutturali che spiegano la nascita e lo sviluppo del dominio,
ma in quest’ambito rientra anche la psicologia. Gli autori di questa scuola fanno riferimento – in
particolar modo- alla psicoanalisi freudiana la quale metteva in evidenza che la nascita della
società e della civiltà esige la repressione e la sublimazione degli istinti primari di piacere ai quali
vengono sostituiti i totem dell’autorità, che vengono introiettati dall’individuo come principio di
subordinazione e come principio di prestazione ( e cioè l’identificazione del soggetto con il proprio
lavoro). Tuttavia i francofortesi non condividevano la tesi di Freud perché essi puntavano alla
costituzione di una società libera dalla repressione individuale e collettiva. Infatti, in molte loro
opere essi hanno analizzato spesso il concetto di autorità, indicandolo come quell’elemento utile
per definire la persistenza del dominio anche in assenza di una coercizione fisica. In aggiunta a ciò
hanno affermato che era attraverso la mediazione della famiglia che la società trasmetteva i tratti
della personalità autoritaria che spingeva i cittadini ad obbedire al comando del Capo o ai
pregiudizi che i tiranni utilizzavano per esercitare il potere.
Questi autori della scuola di Francoforte sono stati riconosciuti come dei personaggi importanti
perché essi hanno congiunto la ripresa di una parte della filosofia di Hegel con la psicoanalisi e il
marxismo, al fine di dar vita ad una teoria critica capace di affrontare il dominio e di superarlo
mediante la promozione della libertà. Tuttavia riuscire ad ottenere tale libertà era alquanto difficile
perché non bastava criticare l’economia capitalistica o il totalitarismo, ma era necessario: 1)
criticare la stessa ragione occidentale senza cadere nell’irrazionalismo o nel cattivo romanticismo
sentimentale; 2) smascherare la volontà della ragione di affermare la propria potenza; 3) lasciarla
esprimere le differenze e contrastare la sua tensione verso la produzione dell’unità. In quest’opera
l’atteggiamento dei filosofi della Scuola di Francoforte fu diverso: Horkheimer prese una via mistica
(simile a quella di Schopenhauer); Marcuse tentò – fino alla fine- di perseguire la libertà per l’uomo
e per il proletariato; Adorno continuò a fare filosofia contro la filosofia, ossa continuò a pensare in
senso dialettico senza mai conciliarsi con la realtà di cui si proponeva di mettere in luce le
contraddizioni. Quest’ultimo proseguì per questa strada perché era convinto che fare filosofia era
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possibile soprattutto grazie all’arte, la quale manteneva viva l’immaginazione.
BENJAMIN
Un altro personaggio tedesco che ha appoggiato lo sviluppo del pensiero dialettico è stato
Benjamin, il quale ha dei punti in comune con i francofortesi. Ciò che lo ha avvicinato a quest’ultimi
è stato; il respingimento nei confronti del formalismo razionalistico e la rinuncia alla fiducia nel
progresso storico. Ciò che lo ha differenziato dagli autori della scuola di Francoforte è stato il fatto
che mentre essi erano fedeli alla filosofia come mediazione razionale, Benjamin insistette sulla
immediatezza della redenzione.
In uno dei suoi saggi più importanti: “Per la critica della violenza” Benjamin ha messo in evidenza
che la violenza poteva essere equiparata al diritto dello Stato e ad essa poteva essere
contrapposto la Giustizia. Egli vedeva nel diritto la culla della violenza strutturale, la quale era
nascosta nelle istituzioni che non erano il frutto di una mediazione razionale perché esse hanno
avuto origine proprio dalla violenza che – in più- hanno incorporato. Pertanto, la violenza –
presentandosi come diritto- aveva il potere di attribuire dei ruoli ai vincitori e ai vinti, nonché di
circoscrivere lo spazio politico secondo la propria logica di potere. Da ciò si evince che mentre per
il liberalismo la violenza rappresentava un male necessario per l’affermazione del diritto, il quale
poteva essere considerato il suo contrario; per Benjamin la violenza non era altro che il diritto
stesso e – in linea con questo suo pensiero- egli era convinto che lo sciopero generale proletario
(promosso da Sorel) non era altro che un mezzo attraverso il quale eliminare un èlite di dominatori
e ripristinarne una nuova. di conseguenza, una vera critica alla violenza poteva essere soddisfatta
solo attraverso la distruzione del diritto esistente e il rovescio di ogni struttura di dominio, in modo
tale da provocare una rottura del continuum della storia, la quale si strutturava proprio dalla
violenza.
Benjamin sosteneva – poi- che la liberazione della società non passava attraverso la dialettica, ma
assumeva i tratti messianici (ossia relativi ad un messia, mirati alla salvezza) della violenza
rivoluzionaria, la quale rappresentava il firlesso della Giustizia divina nella sfera umana.
Quando Benjamni si accostò al comunismo, continuò a conservare l’utopia di una rivoluzione
anarchica in grado di distruggere il presente e istituzionalizzare una politica teologicamente
fondata e capace di far saltare il continuum della storia e di opporsi al decisionismo che stava
all’origine della politica stessa.
A tal proposito, lo scritto più importante è stato “Tesi sul concetto di storia” in cui egli ha fornito una
nuova visione del materialismo storico. Secondo tale visione esso si poneva come obiettivo quello
di riscattare il passato piuttosto che il futuro e di destrutturare la tradizione dei vincitori per far
emergere la tradizione dei vinti. In questo periodo Benjamin si allontanò da Hegel su di una
questione relativa al Giudizio: infatti per il primo filosofo erano gli uomini a giudicare la storia; per il
secondo era la storia a giudicare gli uomini.
L’ultima filosofia di Benjamin è stata segnata da una particolare concezione del tempo, in quanto
egli non metteva in luce la continuità, bensì la discontinuità in modo da rivoluzionare – oltre che il
modo di produzione e quello di filosofare- l’intero corso della storia. Egli era convinto che la
speranza messianica (ossia di un radicale rivolgimento politico e sociale) non doveva essere
concepita come un’utopia destinata a realizzarsi alla fine dei tempi, bensì come il presente (tempoora) perché in esso si rende visibile il processo frammentario e non continuo della storia e – di
conseguenza – tale utopia poteva coincidere con una di queste linee (improvvisa e inaspettata) di
sutura della storia.
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