ipse dixit
Passioni di carta
Quando la
pubblicità
era un
avvolgente
mondo di
carta
L’appuntamento
dedicato alla voce dei
grandi comunicatori
per questo numero
dà spazio a Pasquale
Barbella, storica
voce della pubblicità
italiana, che ci
racconta quanto
la carta è stata
importante e ha
influenzato nel corso
degli anni il suo lavoro.
Nel 1967, quando misi piede per la prima volta in un’agenzia di pubblicità per restarci, poi, fino
alla perdita dei capelli e della pazienza, cominciai a familiarizzare – prima ancora che con i colleghi
– con le riviste sparpagliate sui tavoli. Archive non esisteva ancora. C’erano invece Esquire,
Playboy, McCall’s, Life, Twen, Interview (dal 1969) e l’immancabile Advertising Age. In sublime
discordanza, spiccavano anche gli opuscoli rossi con le massime di Mao e Che Guevara. Alcuni
colleghi frequentavano già le cellule carbonare di estrema sinistra: erano partite le prove tecniche
del Sessantotto. Tra le mie canzoni preferite ne imbarcai subito una nuova: Funeral de um lavrador
di Chico Buarque. Ammessi al desk creativo erano anche L’Espresso formato lenzuolo, pagato di
tasca propria; e Panorama, esatto contrario ideologico di quello attuale. Più tardi, nel 1970 e nel
1977, arrivarono i fogli satirici come Re Nudo e Il Male. Le americane, così come la tedesca Twen, ci
elettrizzavano per motivi estetici e professionali. McCall’s era un mensile femminile di remota origine
(fondato a fine Ottocento) e ci faceva sbavare per la qualità fotografica delle ricette alimentari. In
assenza di Photoshop e alchimie digitali, le foto dovevano risultare impeccabili di per sé; i ritocchi
erano ridotti al minimo, e potevano essere tentati solo da specialisti di diabolico talento. Quanto agli
autoveicoli, era stato necessario costruire studi ad hoc, di forma sferoidale, per domare l’anarchia dei
riflessi nei vetri e sulla carrozzeria. Negli anni Settanta non si poteva fare a meno di consultare Stern;
non solo per dare un’occhiata alle ultime campagne made in Germany (di gran moda in quegli anni),
ma anche per ammirare le due pagine d’apertura dei servizi, congegnate con mirabile senso dello
spazio e dell’impatto. L’agenzia STZ, con la quale ebbi il privilegio di collaborare, preferiva ispirarsi
al giornalismo anziché alla réclame, attitudine che rendeva quasi biologica la nostra complicità.
L’ambiente pubblicitario dei miei primi passi era un avvolgente mondo di carta. La nostra scuola stava
nei sensori del polpastrello; quello con cui sfogliavamo, avidi di colpi di scena, le ultime novità in
fatto di headline, layout, immagini, design. Lavoravamo per i media e i media erano le nostre muse.
Le riviste svolgevano un compito analogo a quello che oggi svolge la rete, il medium super media di
questi anni. Tra il fruscìo della carta stampata e il clic del mouse c’è stato un intervallo zigzagante e
vago, forse di minor soggezione generazionale al fascino dei magazine. Un po’ di carta pregiata ha
ricominciato a circolare con Wallpaper (ma siamo già nel 1996), se si eccettuano brevi amori per The
Face, i-D e affini. Non ricordo particolari accensioni per Rolling Stone, almeno in Italia. Il baricentro
delle passioni sembrò spostarsi dalla carta alla tv. Se mi volto a guardare indietro, mi rimane
l’impressione che i creativi amassero alcuni media al punto da lasciarsene volentieri influenzare;
ma che il loro flirt con l’art direction editoriale si sia, nel frattempo, alquanto affievolito. Un po’ per
l’irruzione di tecnologie tutt’altro che cartacee; un po’ perché i magazine hanno perso buona parte
dell’aura che li circondava, fatta di innovazione, di ricerca, di stile. Non che non ci siano, ancora
oggi, riviste ben fatte e ricche di contenuti (basti pensare ai classici dell’architettura e del design, per
esempio); ma non sono più influential come una volta. La mia generazione era segnata dagli inchiostri
di stampa. Se il tuo annuncio finiva sulle testate che idolatravi, ti sentivi un dio. Ero ancora un junior
quando ebbi la fortuna di veder brillare su Life il mio primo esercizio transnazionale. Custodisco
gelosamente quel numero, peraltro storico: estate 1969, primo uomo sulla luna in copertina. Anch’io
atterrai sulla luna. Il mio annuncio Cinzano does è chic (art direction di Michel Burton, foto di Serge
Libiszewski), anche se datato e difforme – per stile e linguaggio – dai miei lavori successivi; ma che
importa? Ero su Life, e tanto basta. Questo tipo di orgoglio è ancora attuale? Non so; non credo.
Temo che il tempo di carburare le proprie emozioni sfogliando una rivista sia scaduto. Sì: c’è Wired,
molti di noi lo leggono, e anche Internazionale. Potrei sbagliarmi, chissà. Ma il progressivo distacco
della cultura pubblicitaria dalla cellulosa sembra indicare la fine – almeno per il copywriter – di
una lunga fase dell’advertising cominciata, non a caso, nelle redazioni dei giornali. A partire dallo
storico annuncio per l’acqua minerale di Forges su La Gazette di Théophraste Renaudot, benedetto
dall’endorsement di sua maestà Luigi XIII in persona: anno 1631.
Pasquale Barbella
22 maggio 2012
Scrittore, pubblicista,
docente di
comunicazione.
Pasquale Barbella
nel 1990 è stato tra
i fondatori di BGS,
confluita tredici anni
dopo in agenzie del
gruppo Publicis. Ha vinto
premi a Cannes e in
diversi festival italiani e
internazionali. Ha diretto
famose campagne
italiane (Lacoste,
Infostrada, Champion,
Wind) e internazionali
(Swatch), ha rivestito
ruoli internazionali nel
gruppo D’Arcy. È stato
due volte Presidente
dell’Art Directors Club
Italiano ed è entrato
nella Hall of Fame nel
1999. Ha pubblicato
articoli e studi sulla
comunicazione, racconti,
un romanzo e, nel 2008,
un libro di memorie
intitolato “Confessioni
di una macchina per
scrivere”.
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Ipse Dixit 4 - Passioni di carta | Pasquale Barbella