UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA ________________________ ISTITUTO DI STORIA, FILOSOFIA DEL DIRITTO E DIRITTO ECCLESIASTICO CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN TEORIE DEL DIRITTO E DELLA POLITICA CICLO XXIV LA RADICE ANARCHICA DEI DIRITTI UMANI E IL DECLINO DELLO STATO SOCIALE COORDINATORE Chiar.mo Prof. CARLO BORIS MENGHI ANNO 2011 DOTTORANDO Dott. ROBERTO MONGARDINI LA RADICE ANARCHICA DEI DIRITTI UMANI E IL DECLINO DELLO STATO SOCIALE I CAP. – I DIRITTI UMANI SOTTO IL PROFILO STORICO E NORMATIVO 1. Il problema della genesi e gli sviluppi p. 4 2. Storia ed Evoluzione dei diritti umani fino al XXI sec. p. 30 3. La dichiarazione dei D.U. e le normative correlate p. 66 4. O.N.U. Compiti, attività, criticità e contraddizioni p. 86 4.1 Compiti e attività p. 86 4.2 Le criticità p. 96 4.3 Contraddizioni: il caso dei nativi americani p. 106 5. O.N.G.: attività e utilità p. 112 II CAP. - STATO DI DIRITTO E GLOBALIZZAZIONE 1. La fine della concertazione tra Stati dagli anni '90 a dopo l'11 settembre: cosa è cambiato? p. 124 2. Gli Stati alle prese con la globalizzazione p. 142 3. Democrazia, diritti ignorati e violenza nella celebrazione della società delle scelte p. 154 4. Il capitalismo come spazio senza mondo p. 167 5. L'Italia come paese strategico nell'adozione delle politiche globali: terreno di prova dal 1989 ad oggi; p. 176 6. Il concetto di sviluppo e sottosviluppo p. 191 7. I nuovi terreni della battaglia per l'uguaglianza: internet, comunicazione (linguaggio) e tecnologia p. 202 2 III CAP. – ECONOMIA, SVILUPPO, STRATEGIE ENERGETICHE E ALIMENTARI ECOSOSTENIBILI 1. L'economia globale: manifestazione dell'Impero o progresso? p. 216 2. Economia della guerra p. 236 3. Le risorse energetiche e le fonti alternative p. 243 4. Le strategie alimentari e la fame nel mondo p. 255 5. Città multiculturali: comunitarismo, ghettizzazione e diritti culturali p. 265 6. D.U. ed impianti normativi degli Stati: l'Italia e l'immigrazione. Politiche pro e contro i D.U. nell'emergenza umanitaria p. 274 IV CAP. – I DIRITTI UMANI IN PROSPETTIVA FUTURA: DIRITTI SENZA UN DIRITTO? 1. L'ONU finirà come la Società delle Nazioni? Differenze e spunti critici p. 293 2. La necessità di un diverso diritto internazionale ed il mutamento del diritto sociale p. 310 3. Perché i D.U. sono diritti senza un diritto p. 322 4. Economia, uguaglianza e D.U. : il terreno dello scontro già in atto p. 333 5. L'uso strumentale della forza: dall'O.P. alle guerre preventive fino agli interventi ―umanitari‖ p. 342 6. Libertà, Proprietà, Stato: il principio anarchico dei D.U. p. 355 7. La sfida sui D.U.: 2020. Oltre i 3/4 della popolazione mondiale negli agglomerati urbani, come reagiranno gli Stati? Collasso o sviluppo di una nuova socialità originata dai diritti? p. 366 8. Conclusioni p. 378 BIBLIOGRAFIA p. 387 3 LA RADICE ANARCHICA DEI DIRITTI UMANI E IL DECLINO DELLO STATO SOCIALE: Capitolo I – I DIRITTI UMANI SOTTO IL PROFILO STORICO E NORMATIVO 1. Il problema della genesi e gli sviluppi Il 60° anniversario della Convenzione Europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ha di poco seguito quello della Dichiarazione Universale dei D.U. del 1948, fornendo un utile spunto di riflessione in una realtà che, ben lungi da aver trovato l'auspicabile risoluzione alle molte occasioni di conflitto tra esseri umani, si trova invece invischiata, specie dopo i fatti dell'11 settembre 2001, in conflitti disseminati (e dissennati aggiungerei...) e quasi sempre arbitrari, al di fuori di una seppur minima e credibile attività dell'organizzazione internazionale di vigilanza e mediazione, istituita all'indomani della conclusione della II guerra mondiale, cioè: l'ONU. L'organizzazione, di cui verranno nel prosieguo analizzate le caratteristiche specifiche e i punti di criticità, inizia a manifestare la necessità di vedere modificate le proprie attività, i propri compiti, le proprie capacità di intervento oltre ad avvertire la necessità di vedere ripensati, o meglio specificati, alcuni dei principi fondamentali contenuti nella dichiarazione stessa, in particolare per ciò che concerne il ruolo dell'economia e dello sviluppo, aree, queste, centrali nell'odierno dibattito sul rispetto dei principi fondamentali dei diritti umani. Peraltro, se indubbiamente il sistema delle relazioni internazionali è stato modificato, non è possibile fare a meno di notare che, in generale, rispetto alla tematica dei diritti, l'Occidente o meglio la parte industrializzata, si pone nelle condizioni di non poter risolvere le questioni di conflitto assumendo aprioristicamente una posizione fortemente “...etnocentrica nei confronti del <<resto del mondo>>...” per cui “...tale obiettivo rimarrà irraggiungibile”1 Questo tipo di posizione palesa un atteggiamento abbastanza comune, molto simile a quello che, in passato, un autore francese affermava a proposito dei maitres réveurs o i maestri sognatori ( a proposito dell‘Utopia storica che volendola far partire da Marx ed 1 L. Cedroni, Diritti Umani, diritti dei Popoli, ed. Aracne, Roma 2000, p. 5 4 Engels è giunta sino a noi attraverso due maestri del ‗900, Karl Mannheim ed Ernst Bloch…), definizione con cui riduceva la loro intensa produzione e progettualità secolare a un semplice sogno, a uno sterile esercizio fantastico. Tale posizione, rispetto all‘utopia, è tutt‘oggi il concetto corrente, anche tra chi potrebbe essere definito colto: ―Mentre l‟utopia storica è il <<progetto dell‟umanità per la sua liberazione>>; un progetto realissimo, portato avanti da movimenti di popolo; e quindi un processo in atto nella storia, la costruzione di una società di giustizia, di comunione tra gli individui come tra i popoli, di benessere, di pace”.2 Per arrivare a tutto questo, costruendo una società (idealmente) concreta ―l‟unificazione dell‟umanità è un punto forte di questo processo”3 E mentre la Bibbia rappresenta l‘antica ed importante riflessione sul destino dell‘umanità divisa, in una sorta di storia universale del genere umano, che prende i suoi passi da una sola coppia e da tutta una serie di accadimenti che conseguono al peccato provocando divisioni, fratture, disconoscimenti dell‘altro come parte di sé e dove “l‟idea della divisione e dispersione dei popoli come male è profondamente vera perché in essa ogni popolo considera gli altri come diversi e avversi, come nemici; e sviluppa un complesso di superiorità e quindi una volontà di conquista; da cui si genera poi la guerra, uno dei fatti più atroci della storia umana, che tuttavia ne è colma e che a sua volta genera la schiavitù; l‟altro fatto atroce, e genera infine gli imperi, cioè i grandi sistemi di asservimento dei popoli.”4 Sembra, quindi, inevitabile, iniziare a pensare di dover costruire un sistema condiviso ed esportabile di cultura dei diritti umani tra gli uomini “...a partire dalla consapevolezza dell'altro, della sua irriducibile dignità in quanto essere umano, e ciò è realizzabile solo attraverso un quotidiano esercizio di <<apprendimento>>. L'idea che i diritti umani possano essere insegnati e dunque appresi ci spinge ad affrontare questo problema non tanto e non solo da un punto di vista teorico, ma anche e soprattutto da un punto di vista pratico.5 Al giorno d'oggi, parlare di diritti umani è una pratica costante in alcune situazioni che richiamano l'attenzione di un'opinione pubblica usualmente distratta da altro, principalmente attraverso l'uso dei media che, ovviamente, mostrano, specie in questo caso, i limiti e l'inesistenza di una pretesa imparzialità del mezzo di comunicazione che, troppo spesso, si presta a finzioni ed alterazioni significative della realtà, piegandola ad esigenze 2 3 4 5 A. Colombo in Rivista di Studi Utopici, Ed. Carra Lecce 2007, anno II n.4, p.7 Ibidem. Ivi, p. 8 L. Cedroni, op. cit., pp. 5-6. 5 politiche contingenti o di situazione, specie in tema di diritti umani. 6 A puro titolo di esempio, interrogarsi sui diritti umani è indispensabile e legittimo nel caso tristemente noto ―delle carrette del mare‖ dirette nel nostro paese, in condizioni drammatiche, che incontrano formali posizioni di accoglienza rigidamente codificate. In questo caso, parlare di D.U. è obbligatorio se si vogliono evidenziare le situazioni più diverse quali, ad esempio, l'assistenza in mare, il ricovero nei centri (di volta in volta, chiamati nei modi più diversi a seconda dello scopo che l'autorità politica e i media intendono assegnargli di fronte all'opinione pubblica: Centri di Accoglienza7, Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo 8, Centri di Identificazione ed Espulsione9). Possibile e diverso sarebbe stato, invece, il puntualizzare l'attenzione e gli sforzi sulle motivazioni che sottendono a questi esodi e intervenire direttamente sulle cause che li hanno generati, ma la centralità del sistema economico dominante non lo permette. D'altronde, il tema dei D.U. è talmente centrale e fondamentale, come campo di prova, nell'attuale dibattito teorico sulle politiche moderne e contemporanee (come già rilevato anche dalla H. Arendt nel suo testo contro il totalitarismo) che riesce ad andare ben oltre i limiti oggettivi degli Stati contemporanei“...nel senso che queste finiscono col considerare soltanto il cittadino soggetto di diritti. L'idea di cittadinanza come presupposto dei diritti umani (in contrasto con la Carta dell'ONU del 1945 e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948) sembra contraddire, sul piano giuridico, l'universalismo dei diritti. Sul piano politico poi, soprattutto a livello internazionale, il carattere esclusivo della cittadinanza impedisce spesso ogni ulteriore estensione dei diritti umani. Le filosofie dei diritti umani sono per lo più universaliste, in quanto si propongono 6 7 8 9 A questo proposito sui diritti umani: M.Flores, Storia dei Diritti Umani, Ed. Il Mulino, Bologna 2008, p.7: “Ma è anche un terreno di semplificazioni, di luoghi comuni, di banalizzazioni, quando non di veri e propri fraintendimenti e soprattutto di strumentalizzazioni spesso consapevoli che tendono a confondere l'opinione pubblica.” C.D.A. L.563/95 Sono strutture destinate a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L‘accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento. - Fonte Ministero dell‘Interno, Dip.to Immigrazione e Libertà Civili. C.A.R.A. D.P.R. 303/2004 – D.Lgs 29/1/2008 n°25. Sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l‘identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. - Fonte Ministero dell‘Interno, Dipartimento Immigrazione e Libertà Civili. C.I.E. così come ora definiti dalla normativa, così denominati con decreto legge 23 maggio 2008, n, 92, sono gli ex 'Centri di permanenza temporanea ed assistenza': strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione. Previsti dall‘art. 14 del T. U. sull'immigrazione 286/98, come modificato dall‘art. 12 della legge 189/2002, tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell‘ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari. Dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94, il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 a 180 giorni complessivi, il trattamento riservatogli. - Fonte Ministero dell‘Interno, Dipartimento immigrazione e Libertà Civili. 6 di superare le divisioni tradizionali fondate ad esempio sulla razza, sul sesso, il censo e di puntare almeno alla individuazione di diritti comuni, di un diritto dei diritti che possa portare ad un avvicinamento tra i popoli. La peculiarietà del discorso universalista sta nell'attribuire ai diritti dell'uomo non già un'esclusiva matrice giusnaturalista e metafisica, ma una scelta filosofico-morale più generale che coincide nella maggior parte dei casi con l'autonomia dell'individuo, cosicché la giustizia e le norme dipendono da questo principio e ad esso si conformano .E' l'ipotesi sottesa alle teorie liberali dei diritti umani (Rawls, Rorty, Lukes 1993) 10 Vuol dirsi, cioè, che appare perfettamente coerente, e allineato con un certo modo di intendere i D.U., intervenire con attività ―umanitarie‖ su questi soggetti o teorizzarne una disciplina tecnico-giuridica di de-nazionalizzazione; assai meno, invece, interrogarsi, da questo punto di vista, sulle cause che hanno prodotto questa situazione ed escogitare soluzioni di ampio respiro che si interessino, entrando direttamente in gioco come proposta politica alternativa, avendo per definizione teorica i D.U. in posizione super partes (anche se solo formale di fatto). Infatti, non si può dimenticare che anche i diritti umani sono parte del bagaglio di un uomo e, come tali, parte della sua complessità strutturale: “nella società umana, la politica è il principio strutturale generale, perciò neutralizzare qualsiasi contenuto parziale in quanto <<non politico>>, è un gesto politico par excellence.” 11 Questa visione appare, oggi, quanto mai condivisa e condivisibile perché è ormai chiaro che “La storia dei diritti umani è il percorso con cui principi e valori morali si sono trasformati in obiettivi politici e in articoli di legge e istituzioni giuridiche, ma anche in senso comune e opinioni condivise grazie alla diffusione culturale e all‟azione quotidiana di tutti coloro che sentivano l‟urgenza della loro attuazione”12 La definizione di super partes, inoltre, non sembra reggere ad una attenta rilettura del fenomeno, in quanto si assite all'instaurarsi, nel corso di narrazioni sul tema, di equivalenze che, indirettamente, ne suggeriscono l'appartenenza o la migliore pertinenza a questo o quel sistema politico, come nel caso di seguito descritto, tra i più comuni, oltreché volutamente esplicito che ci dice come “ diritti dell'uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell'uomo riconosciuti o protetti non c'è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti. Con altre parole, la democrazia è la società dei cittadini, e i 10 11 12 L. Cedroni, op. cit., pp. 6 -7. S. Zizek, Contro i diritti umani, Ed. Il Saggiatore, Cuneo 2006, p. 51. M. Flores, Storia dei diritti umani, Ed. Il Mulino Bologna2008, p 10. 7 sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più di questo o quello stato, ma del mondo.” 13 La pace senza la guerra come alternativa, in un sistema ―democratico‖ mondiale, senza confini o meglio, senza stati, passando dal diritto interno al diritto nel rapporto tra stati (diritto internazionale e/o comunitario?), fino al ricordo di kantiana memoria che “...termina mettendo in particolare evidenza la teoria kantiana del diritto cosmopolitico, che può essere considerata come la conclusione del discorso sin qui condotto sul tema dei diritti dell'uomo e insieme il punto di partenza per nuove riflessioni.” 14 Per questo, se da una parte si può constatare l'esistenza di un ampio confronto sui diritti umani, dall'altra non si può esimersi dal constatare che molto spesso questo dibattito corra il rischio di “..creare una <<retorica>> che può solo svalutare il significato profondo di una cultura che ambisce a un livello di universalità e di riconoscimento condiviso.” 15 Tale carattere di universalità incontra serie difficoltà nel momento in cui, questa, debba essere affermata e rivendicata al fine di acquisire una veste di cogenza alle rivendicazioni di alcuni soggetti nei confronti del potere, costituitosi in Stato e forma di governo. 16 Di tale difficoltà, cioè della presupposta universalità dei diritti e dei loro fondamenti, ne sono ben consci coloro che si sono occupati o si occupano di diritti umani “Parlare di diritti naturali o fondamentali o inalienabili o inviolabili, è usare formule del linguaggio persuasivo che possono avere una funzione pratica in un documento politico per dare maggior forza alla richiesta, ma non hanno nessun valore teorico, e sono pertanto completamente irrilevanti in una discussione di teoria del diritto. … Proclamare il diritto degli individui in qualsiasi parte del mondo si trovino (i diritti dell'uomo sono di per sé stessi universali) a vivere in un ambiente non inquinato non vuol dire altro che esprimere l'aspirazione ad ottenere una futura legislazione che imponga limiti all'utilizzo di sostanze inquinanti.” 17 Di certo, si può notare come certe caratteristiche, pur se necessarie, assurgono 13 14 15 16 17 N. Bobbio, L'età dei diritti, III edizione, Editore Giulio Einaudi s.p.a., Torino1997, introduzione VII. Ivi, introduzione X. M. Flores, op. cit., p. 7. L. Cedroni , op. cit., p. 7: “ ...alcuni tendenziali sviluppi che il costituzionalismo mondiale potrebbe avere, facendo intravedere come un possibile superamento della cittadinanza esclusiva e una effettiva denazionalizzazione dei diritti umani possa schiudere nuove prospettive di affermazione dei d.u. fruibili non solo da individui-cittadini, ma anche da collettività, popoli e <<genti>>. Non a caso oggi si è tornati a parlare di un <<diritto dei popoli>>[il libro è stato scritto prima del 11 settembre n.d.a.] merito non a soggetti singoli, individui o nazioni, bensì a soggetti plurali, collettivi [ Rawls 1999]. Infine i diritti umani fondamentali dovrebbero essere piuttosto espressione di uno standard minimo vigente in tutte quelle società che definiamo <<decenti>>, in cui le istituzioni non umiliano coloro che dipendono da esse. [Margalit, 1998]. N. Bobbio, op. cit., introduzione XIX – XX. 8 addirittura ad un ruolo centrale, come nel caso già accennato della presupposta condivisione universale dei diritti18 che è tema dominante e leit motiv necessario nell'odierna accezione, dimenticando, forse, che il loro affermarsi nella realtà dipende assai poco da scelte strategiche o concertate, essendo sicuramente il frutto della maturazione temporale di quelle stesse esigenze da parte degli individui che compongono un determinato tessuto sociale, come l'evoluzione storica ha dimostrato19 continuamente nel campo dei D.U., con aggiornamenti continui e diversificati al significato stesso della parola diritti umani (Abolizione dello schiavismo, parità dei sessi, libertà religiosa, trattamento dei detenuti ecc.), a seconda della funzione che il linguaggio utilizzato doveva assolvere 20 . Parlare quindi di genesi non significa voler definire con precisione quando e come può essersi ingenerata negli uomini la consapevolezza di questa realtà dei D.U., anche perché sarebbe discorso vano ed impossibile a dipanarsi nelle maglie della storia, ma più semplicemente fornire elementi concettuali che consentano di avere, in parallelo, una lettura storicamente situabile ed un'altra che cerchi di posizionarla anche nel contesto della teoria del diritto, seguendo coloro che con spirito attento e critico hanno cercato di farlo. Sia Norberto Bobbio che Peces-Barba Martinez, due tra i più grandi filosofi del diritto dei nostri tempi, hanno sostenuto questa versione affrontando di petto la questione dei diritti umani, osservandoli nel contesto in cui nascono e definendoli come “diritti storici.”21 Di sicuro, se si dovesse indicare una data approssimativa per la piena esplosione della tematica dei D.U. (se non addirittura, come pensa qualcuno, per la loro invenzione), questa, andrebbe collocata nel XVIII sec. ed in particolare tra la rivoluzione americana e 18 19 20 21 A. Gambino, in Premessa de L'imperialismo dei diritti umani, Ed. Editori Riuniti, Roma 2001, I edizione : “Infatti, anche se di questi diritti – che secondo la definizione comunemente accettata, spettano in egual misura ad ogni uomo, senza distinzione di nazionalità e cultura, e che appunto per questo motivo meritano di essere chiamati <<universali>> - tutti seguitano a parlare, la loro collocazione sulla scena mondiale appare oggi incerta e confusa. Come dimostra la più semplice delle osservazioni: e cioè che proprio nel loro nome sono state compiute nella primavera del 1999***, una serie di azioni militari, il cui risultato – definito <<collaterale>> , anche se non si sa bene per chi – è stato di privare del più elementare di tali diritti, quello alla conservazione della vita, non meno di cinquecento civili, nel senso di non soldati,senza che a loro potesse essere imputato, in maniera diretta o indiretta, alcun crimine”. )(***il libro è stato stampato tre mesi prima del 11 settembre 2001 a seguito del quale, il concetto di guerra preventiva e guerra al terrorismo propugnato dal presidente Bush e portato avanti dagli Usa e dai suoi alleati, ha coinvolto intere popolazioni civili, in Afghanistan come in Iraq, con gli effetti e le motivazioni che ben conosciamo sotto gli occhi di tutti. Nessun organismo internazionale si è frapposto validamente, neanche l'ONU, la cui importanza è stata fortemente ed ulteriormente ridimensionata, a quella che è una autentica violazione del diritto internazionale comunemente accettato e della dichiarazione dei D.U. ). N. Bobbio, op. cit., introduzione XIII: “...che i diritti dell'uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre”. Al proposito,anche G. Peches Barba Martinez, “Sobre el puesto de la Historia en el concepto de los derecios fundamentales” in Anuario de derechos umanos dell'Università Complutense di Madrid, vol IV, Pp. 219– 258. Ivi, introduzione XX : “ Il linguaggio dei diritti ha indubbiamente una grande funzione pratica, che è quella di dar particolare forza alle rivendicazioni di quei movimenti che richiedono per sé e per gli altri soddisfazioni di nuovi bisogni materiali o morali, ma diventa ingannevole se oscura, occulta la differenza tra il diritto rivendicato e quello riconosciuto e protetto”. M. Flores, op. cit., p. 13: ―… sono diritti storici, nati in precisi contesti e circostanze, in mezzo a rivendicazioni e lotte per realizzarle, effetto al tempo stesso di uno sviluppo del pensiero e della realtà politica e sociale‖. 9 quella francese, quando il discorso sui diritti diviene emergente ed inizia un suo autonomo cammino pubblico e istituzionale, anche per le conseguenze dirette e indirette che le due ―Dichiarazioni‖ porteranno con loro. Ma, non di meno, appare comunque indispensabile segnalare che “I diritti umani sono diventati oggi così onnipresenti che sembrano esigere una storia ugualmente vasta. Le idee dei Greci sull‟individuo, le nozioni di diritto dei Romani, le dottrine cristiane dell‟anima….il rischio è che la storia dei diritti umani diventi la storia della civiltà occidentale e adesso, talvolta, persino la storia del mondo intero. Non hanno forse dato il loro contributo anche l‟antica Babilonia, l‟Induismo,il Buddismo e l‟Islam? Come si spiega l‟improvvisa cristallizzazione delle rivendicazioni dei diritti umani alla fine del XVIII secolo?”22 Per molti, da cui potrebbe in seguito scaturire, arbitrariamente, una visione ―occidentale‖ della proposizione dei diritti umani, è il rifarsi a quella presenza costante nella storia occidentale del diritto naturale in quanto “Infatti, che cosa era, nel fondo, la <<natura>> a cui faceva riferimento il <<diritto naturale>> se non, appunto, quella <<essenza umana>> che gli uomini (anche se non necessariamente <<tutti>> gli uomini) avevano in comune? *** E che cosa era la stessa <<legge non scritta>>, a cui si appella Antigone al momento di dare sepoltura al corpo di Polinica, se non la certezza dell'esistenza di un criterio superiore capace di regolare la vita degli uomini, al di là e perfino contro i comandi e i divieti scritti, imposti loro dagli stati e dai governanti?” 23 Certo è che, indubbiamente, quella consapevolezza di una sostanziale identità e capacità tra gli uomini dovesse portare ad uno stato di uguaglianza primitivo, sotto il profilo morale ed immateriale, 24 non anche sotto il profilo del diritto in cui il giusnaturalismo aveva ampiamente mostrato i suoi limiti nell'impostare una teoria del diritto fondandola sulla natura umana25 . Che il ruolo della legge sia centrale è indubbiamente vero, così come le prescrizioni che essa impone, come nel caso del Codice di Hammurabi del 1750 a.c. che contiene norme 22 23 24 25 L. Hunt, La forza dell‟empatia, Ed. Laterza, Roma-Bari 2010, p. 7. A. Gambino, op. cit., p. 4, ed ancora per *** <<Posto che avere diritti naturali era intrinsecamente legato all'essere un essere umano, vi era una base per la successiva transizione dalla fraseologia dei diritti naturali a quella dei diritti umani>> scrive David Sidorsky, Essays on Human Rights in International Human Rights in Context a cura di Henry J. Steiner e Phil Alston, Oxford, Claredon Press., p. 171. J.J. Rousseau, Origine della diseguaglianza, Ed. Universale Economica Feltrinelli, XII edizione, Milano 2009 pp. 15 e ss. N. Bobbio, op. cit., pp. 6– 7 : ―... Questa illusione fu comune per secoli ai giusnaturalisti, i quali credettero di aver messo certi diritti (ma non erano sempre gli stessi) al riparo di ogni possibile confutazione derivandoli direttamente dalla natura dell'uomo. Ma come fondamento assoluto di diritti irresistibili la natura dell'uomo dimostrò di essere molto fragile. Non è il caso di ripetere le infinite critiche rivolte alla dottrina dei diritti naturali né di svelare ancora una volta la capziosità degli argomenti adoperati per dimostrarne il valore assoluto. …Per fare un esempio: arse per molto tempo fra i giusnaturalisti la disputa quale delle tre soluzioni possibili relative alla successione dei beni – il ritorno alla comunità, la trasmissione familiare di padre in figlio, o la libera disposizione da parte del proprietario - fosse più naturale.. . 10 sul comportamento dei governanti secondo principi di giustizia. Principi che si estendevano anche alla risoluzione delle cause, non più e non solamente, secondo la legge del taglione, ricorrendo anche a forme più economiche e funzionali di indennizzo. I grandi filosofi greci, nelle loro speculazioni di carattere politico, nel definire le varie forme di governo si guardano bene dall‘armonizzare lo stesso con le leggi che costituiscono le basi del convivere sociale, ma, allo stesso tempo, non sottovalutano i valori, la morale e tutto ciò che porti a governare saggiamente (Aristotele, Platone). Strettamente connessi a questi ―valori‖ e forse anticipatrici degli stessi, sono le definizioni di giusto e ingiusto, di bene e male, che, come tali, sono derivati indubbiamente dalle religioni, dalle più antiche religioni monoteistiche che vengono tramandate primariamente non più attraverso la trasmissione orale, ma, invece, con l‘utilizzo di uno o più libri sacri che contengono tutti i precetti e le indicazioni di carattere religioso, a cominciare dalle scritture rituali del Veda, cui sono da aggiungere altri testi sacri dell‘induismo (secondo millennio a.c.). L‘ebraismo sostiene la sacralità della fratellanza degli uomini in Dio, della vita umana come valore, il dovere di essere responsabili dei propri simili. Così via a seguire con il buddismo e il confucianesimo che si distinsero nelle società contemporanee per il superamento delle distinzioni di casta, di libertà di pensiero e parola come, d‘altro canto, per il rispetto dei doveri verso l‘altro. Proprio l‘insegnamento di Confucio ha“…enfatizzato l‟atteggiamento simpatetico di guardare agli altri uomini come se avessero gli stessi desideri e, e quindi gli stessi diritti, che ognuno vorrebbe godere per sé stesso.”26 Non solo, anche i valori dell‘educazione, del benessere sociale, della famiglia, dell‘equa distribuzione della ricchezza, della stabilità, della pace e dell‘armonia costituiscono il fulcro degli insegnamenti orientali, fondando un consistente nucleo di‖diritti‖ ben delineato. Sotto il profilo letterario, l‘Antigone di Sofocle, tragedia del 422 a.C., costituisce, attraverso le successive riletture del testo ad opera dei soggetti più disparati (Hegel, Alfieri, Anouilh, Brecht ecc.), un elemento di rottura tra la legge morale e la legge dello stato. Secondo l‘interpretazione di Zagrebelsky, vista nell‘ottica dei diritti, l‘opera tratta della giustizia della legge, ―cioè della giustizia che contraddice la legge o della legge che contraddice la giustizia”27dove la legge di Creonte è la legge positiva, scritta, mentre quella di Antigone è quella eterna, morale, immutabile perché nel profondo dell‘animo umano si crea un conflitto tra le due. Conflitto che, più tardi, sarà ripreso da S.Paolo e risolto nel “la legge crea legalità ma non giustizia”, sottolineando il carattere di casualità che lega il secondo termine al primo. 26 27 M. Flores, op. cit., p. 16 Ivi, p. 18 11 Lo stesso Ius Gentium è stato visto come ―serbatoio comune da cui attingono i diritti propri delle singole comunità, ma anche come nucleo di norme assai arcaiche, che individuano in alcuni obblighi elementari ciò che molti secoli dopo Seneca definirà efficacemente humanum officium, ossia doveri degli uomini verso gli uomini.28 Peraltro, l‘osservazione di usi comuni, dettati da una ‖vicinanza‖ interna alla comunità di tutti i suoi membri, crea consuetudine a tutto vantaggio della comunità e di tutti gli uomini in quanto tali, attraverso termini come ―commons‖ evidenziato da Illich29 per il medioevo, o come philantropia o humanitas in tempi più antichi (come riconoscimento dell‘appartenente allo stesso gruppo sociale) secondo Bettini in cui “Come la philantropia dei greci, la humanitas romana stabilisce una stretta connessione tra la nozione di uomo da un lato e quello di comportamento mite, equo, comprensivo dall‟altro; si tratta di una connessione piuttosto profonda, che si instaura direttamente nel linguaggio dove espressioni che partono dalla nozione di uomo (philantropia, humanitas,) sono direttamente usate per indicare equità, generosità, mitezza nel comportamento. Si tratta di un passaggio culturale molto rilevante. In pratica, la nozione di uomo viene resa direttamente traducibile in quella di equità, mitezza, per conseguenza, l‟uomo può dirsi veramente tale solo quando applica comportamenti ispirati a principi di mitezza e generosità verso i suoi simili. Sono proprio presupposizioni linguistiche e culturali di questo genere che costituiscono il terreno preparatorio per configurazioni giuridiche come quella, moderna, di diritti umani.”30 E‘ con il cristianesimo, con l‘identificazione del proprio simile come fratello, che, come dice Bobbio, si ha la grande svolta: la concezione dei diritti umani si apre verso il futuro, anche se a dire il vero però, il cristianesimo, è allo stesso tempo fattore di stimolo alla crescita dei diritti e motivo di intralcio agli stessi.31 Sono comunque diritti, fondamentalmente diretti alla comunitas e non agli individui, anche se questi ultimi ne beneficiano nel complesso. Certo tali conclusioni si affinano con il tempo e già nel 1200 ne i ―Livres du tresor‖ di Brunetto Latini appare l‘indicazione di come raggiungere la concordia civile per anteporre agli egoismi particolaristici il bene comune. Non a caso in quest‘epoca, spesso anche nell‘arte, il bene della pace rappresenta il più prezioso e nobile da perseguire, tanto da essere raffigurato come elemento centrale nelle tele. Al contrario, Machiavelli, due secoli più tardi, sottolineerà la necessità della legge per guarire l‘uomo dalle proprie debolezze e dalle manchevolezze del quotidiano. 28 29 30 31 Ibidem. Ivan Illich, Nello specchio del passato, Ed. Boroli, Milano 2005. M. Bettini, Diritti umani e mondo classico, in Flores, Mazzeschi, Groppi, Diritti Umani,Cultura diritti e dignità della persona nell‟epoca della globalizzazione, ED. Utet, Torino 2007 p. 405 M. Flores, Storia dei Diritti Umani, cit., p. 24 dei 12 Guglielmo da Ockham, invece, può essere ritenuto dai più come il vero autentico padre dei diritti naturali. La sua concezione lo porta, infatti, a considerare detti diritti in capo alla persona che non può rinunciarvi anche se può decidere di non utilizzarli.32 Anche il diritto canonico viene in soccorso con il concetto di ius naturale, laddove questa espressione caratterizza una sfera dei diritti fondata sulla legge morale naturale, pensando le persone umane come libere, dotate di ragione, capaci di discernimento morale interdipendenti tra loro. Poi, ―La lotta per la libertà religiosa, che fu il corollario più significativo sul piano storico, del conflitto dottrinario alla base della Riforma e dello scontro tra Lutero e Calvino e la Chiesa di Roma, è stata considerata l‟origine dei diritti naturali e addirittura dei diritti umani. Su questo aspetto convivono le interpretazioni di chi riconduce i diritti dell‟uomo all‟influenza diretta di singoli riformatori e di chi, invece, nega loro ogni affinità col patrimonio spirituale della Riforma. E‟ comunque innegabile il ruolo che le sette protestanti e il calvinismo ebbero, con le loro lotte, nel favorire un clima che sarebbe stato più favorevole alla nascita dei diritti umani”33 La conquista dell‘America rappresenta il momento in cui il cristianesimo, riesce a farsi dominatore della scena, in virtù della scomparsa della cultura araba in Spagna ed anche delle motivazioni sottese alla conquista, che diviene non solo mezzo per portare la parola di Cristo tra i selvaggi, ma, anche, strumento per introdurre il concetto della purezza della razza. Anche questo determinerà la serie di barbarie perpetrate ai danni degli abitanti del nuovo continente. In qualunque modo si veda, il ―buon selvaggio‖ o il‖cane ribelle‖, questi, è sempre rappresentazione dell‘altro e mai del simile e come tale soggetto di identici diritti. Colombo ha portato a termine la scoperta dell‘America, non sicuramente degli americani. 34 Ma se così è stato per lo scopritore, sicuramente l‘attività della Spagna è stata di per sé, invece, un modo come un altro per affermare la propria superiorità, con una pretesa di legittimazione sotto il profilo religioso e giuridico. Proprio quest‘ultimo aspetto, spesso, non veniva neanche portato a conoscenza dei popoli del nuovo continente e provocava le inevitabili, disastrose conseguenze, anche ammesso che potesse avere un senso fare riferimento ad un diritto di nessuna importanza per quei popoli, teso unicamente a legittimare la presenza ―straniera‖ degli europei su quel continente. Di fatto, innegabilmente, ha prevalso unicamente la forza e in molti casi l‘inganno, praticamente sconosciuto tra quei popoli. Molti anni più tardi, da quei primi contatti e da quegli avvenimenti tragici (i massacri operati da spagnoli e portoghesi) con le tribù indigene del centro America, gli 32 33 34 Ivi, p. 29 Ivi, p. 30 T. Todorov, La conquista dell‟America. Il problema dell‟<<altro>>, Ed. Einaudi, Torino 1984, p. 60. 13 stessi Stati Uniti, dopo aver legittimato con l‘uso della forza la loro presenza sul continente, distruggeranno la ―nazione‖ Lakota (l‘unica realtà indiana capace di aggregare contro il comune nemico le altre tribù e responsabile dell‘ultima sconfitta subita dall‘esercito degli Stati Uniti - prima del Vietnam - al Little Big Horn), fornendo prima un modello di assimilazione (e di fatto togliendo indipendenza agli ambiti decisionali di quei popoli) e poi mettendo in atto un vero e proprio ―genocidio culturale‖ a danno delle popolazioni native.35 Tale fatto, comunque, non passò inosservato da parte di alcuni studiosi europei che già dal 1550 avanzarono seri dubbi sulla liceità delle azioni compiute dai conquistatori e sulla legittimità delle azioni di guerra “Il dibattito tra i fautori dell‟uguaglianza e i sostenitori di una differenza inconciliabile tra spagnoli e indiani d‟America si svolge nella prima metà del XVI secolo e trova nel 1550 il suo momento culminante, a Valladolid, nello scontro che contrappone Bartolomé de Las Casas a Ginés de Sepulveda, cui era stato impedito di stampare un opuscolo in cui perorava la liceità e la legittimità della guerra contro gli indiani.”36 Di certo questo episodio fornisce una, seppur minima, comprensione su come, tra le classi colte, i discorsi sulla natura, i presupposti e l‘effettivo essere dei rapporti tra gli esseri umani abbiano sempre riscosso interesse, anche se ancora puramente speculativo e non certo teso al raggiungimento di un‘effettiva parità ed eguaglianza tra gli uomini,37 ma più semplicemente 35 36 37 M. Massignan, I Sioux, il popolo di Cavallo Pazzo, Ed Xenia, Milano 1996, pp. 84-86 : ‖Ritornando alle riserve, esse sono rette da un governo tribale eletto alla maniera dei bianchi (e in molti casi corrotto e al soldo delle multinazionali minerarie) e ricadono sotto la giurisdizione federale, pur avendo una polizia e una corte tribale con poteri limitati. L‟ente che sovrintende ai rapporti tra le riserve e il governo di Washington è il tristemente noto<Bureau of Indian Affairs> o B.I.A. (Ufficio degli Affari Indiani, definito ironicamente Ufficio degli Affari dei Bianchi), vera e propria organizzazione coloniale di controllo sociale. I nativi che risiedono nelle riserve sono approssimativamente la metà della popolazione totale, circa cinquantamila unità tra tutte le riserve Lakota/Dakota tenendo conto anche dei meticci (Thyeska, mezzosangue). Purtroppo questi territori versano in una condizione economica e sociale da terzo o quarto mondo, nel cuore più autentico dell‟America anglosassone e provinciale: emblematico il caso di Pine Ridge, il cui territorio ricade per la gran parte nella contea di Shannon, la seconda più povera di tutti gli Stati Uniti. Le uniche fonti di sostentamento sono rappresentate dai lavori stagionali sottopagati nelle città vicine, dall‟allevamento, dalla piccola agricoltura e dall‟artigianato. Fortissimi sono i problemi dell‟alcolismo (l‟alcool era sconosciuto prima dell‟arrivo dei conquistatori), della disoccupazione (una percentuale del 50% nella sola Pine Ridge, con punte dell‟80%) della droga, dei suicidi fra gli adolescenti. Tutto ciò è causato principalmente dalla forte crisi di identità che investe soprattutto i giovani, spinti in tutti i modi all‟integrazione nella società dominante ma al tempo stesso impossibilitati a trovare un lavoro dignitoso e sottoposti ad un razzismo silenzioso e implacabile. Un altro problema di dimensioni largamente misconosciute dall‟opinione pubblica è inoltre rappresentato dall‟alto numero di detenuti nativi. Si calcola che, una volta fatte le debite proporzioni di popolazione, per ogni bianco incarcerato negli Usa vi sono cinque neri e dieci indiani (il cui numero totale in tutti gli States ammonta circa a 2 milioni). Questo non può che significare ancora una volta quanto gli Stati Uniti e soprattutto alcuni Stati provinciali come il Sud Dakota, l‟Oklahoma e il Texas siano un paese in cui la giustizia subisce una fortissima connotazione razziale, sintomo che il genocidio dei secoli scorsi continua ai nostri giorni con armi più <democratiche> ma altrettanto efficaci.” A questo, si aggiungano le condizioni climatiche particolarmente rigide della zona, con escursioni termiche tra estate e inverno che variano tra un +30 d‘estate a -35 nel periodo invernale. M. Flores, Storia dei Diritti Umani, cit., p. 34. Ivi, p. 34: ―Di fronte ad una commissione composta da teologi e giuristi Las Casas rappresenta l‟accusa ed evidentemente la sua lunga requisitoria – durata cinque giorni – deve essere risultata convincente se il risultato sarà, pur senza un giudizio finale esplicito, la mancata autorizzazione alla pubblicazione del testo di Sepulveda. Quest‟ultimo si richiama alla politica di Aristotele e alla distinzione fra i nati liberi e gli schiavi per 14 ad una disputa di carattere religioso, in questo caso, su una diversa interpretazione della fede e del messaggio cristiano38. Questa discussione riportò l‘attenzione su uno dei grandi temi, che le elite intellettuali avevano a lungo dibattuto sin dall‘antichità: quello della cosiddetta ―guerra giusta‖39 D‘altronde, la convinzione ―laica‖ del teologo di Salamanca lo porterà a ritenere che gli esseri umani fossero frutto di una comunità unica, che il Papa non disponesse di alcun potere temporale e l‘Imperatore non solo non fosse dominus, ma anche che non potesse accampare alcun diritto di scoperta, ciò nonostante Vitoria attribuisce ―… <agli stati il ruolo di soggetti del diritto internazionale> individuando nel <diritto alla libera circolazione delle persone e delle merci> il principio di orientamento dello ius gentium in nome di una <universale parentela> tra gli uomini.40 D‘altro canto, siamo ancora nel 1500 durante queste dispute e solo nel ‗600, invece, la cultura dei diritti subirà un‘accelerazione che, seppure non ancora capace di autonoma affermazione, fornirà le idee, gli spunti e quel substrato culturale che nel corso del ‗700 darà inizio ad una manifestazione piena e coerente. Proprio nel corso del 600, alcune figure chiave delle battaglie dei diritti vengono a dissertare su alcune questioni, quali quelle della libertà dei mari (Hugo Grotius, John Selden e ad inizio 700 Cornelius Bynkershoek). Solo nel 1625, però, Grotius proporrà una lista di diritti che sia applicabile all‘umanità tutta, senza eccezioni nazionali o giuridiche. La volontà di Dio rimane in questo caso separata dai diritti naturali, assumendo un ruolo di compresenza, non concorrente, con i diritti stessi che, a loro volta, danno origine ai diritti di natura civile. La legge diviene parte di quel processo di delega dell‘individuo che non rinuncia alla sua libertà, ma ne depone una parte a favore di una migliore capacità organizzativa e disciplinare della società. 38 39 40 natura, individuando nella gerarchia il carattere naturale che contraddistingue gli uomini e nel dominio del ruolo superiore la fonte del comportamento corretto. Egli ritiene quindi legittimo assoggettare gli inferiori, combattere con ogni mezzo il cannibalismo e il sacrificio umano, promuovere con misure militari la diffusione della religione cristiana tra le popolazioni indigene. E‟ quest‟ultimo in realtà, l‟aspetto più importante della posizione di Sepulveda. Conquistare alla vera fede delle anime ha un valore assoluto, un significato sociale, superiore al destino dei singoli individui, e quindi alla morte di un numero anche grande di <infedeli>. La giustificazione teologica del massacro – che risale a Sant‟Agostino e pervade tutto il medioevo – contrappone ancora una volta (come nel caso dei sacrifici umani degli aztechi) il bene comune della società, in questo caso la società cristiana europea che si sta espandendo nei nuovi territori, al diritto o al valore dei singoli individui.”. Ivi, p.35 : “Las Casas contrappone a Sepulveda un cristianesimo basato su Cristo più che su Aristotele, capace di riassumere l‟istanza egualitaria che lo aveva caratterizzato nei primi secoli e che tanto aveva favorito la sua diffusione in passato. Il suo è un cristianesimo in cui la morte non è giustificata dalla salvezza e in cui risulta, anzi,peccato mortale uccidere qualcuno per salvargli l‟anima. L‟uguaglianza che il cristianesimo ha introdotto nel mondo impedisce a Las Casas di difendere la schiavitù, contro cui si erano del resto espressi gli stessi sovrani di Spagna…”. Di fatto l‘abolizione della schiavitù avvenne in Spagna solo nel 1817. Ibidem:” La guerra come si è visto nelle posizioni di Sepulveda, può essere considerata necessaria e naturale, oppure, come in Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro e per alcuni versi anche in Lutero, in contraddizione con la dottrina cristiana e quindi da evitare in ogni modo. Vitoria (Francisco de Vitoria) è colui che, riconoscendo la complessità del tema, con maggiore ampiezza e profondità cerca di rinnovare la tradizione della <guerra giusta> analizzando i limiti che esistono nello scatenarla e i vincoli posti a chi la combatte”. Ivi, p. 37. 15 Nel 1672, Samuel Pufendorf, suo allievo, definì l‘uomo “come essere eticamente libero e come portatore d‟una dignità che lo accomuna a tutti gli altri uomini”41, in nome della libertà, come condizione primaria nello stato di natura, che lo rende uguale a tutti gli altri uomini. E‘ solo attraverso l‘intreccio tra due teorie che, per certi versi, sembrano contrapporsi (teorie giusnaturalistiche e teorie contrattualistiche) che si arriverà con Locke ad affermare una sostanziale identità tra i popoli e le loro prerogative, laddove i governi vengono ad assolvere alla funzione di protezione e tutela dei diritti dei singoli individui, essendo questa la ragione alla base della contrattualistica istituzione dello stato. Infatti, l‘inadempienza da parte dello stato a far rispettare questo obiettivo, comporta il diritto di resistenza da parte del singolo, in quanto il governo è venuto meno al compito per il quale è stato istituito. “Un simile argomento per i diritti individuali di libertà non era solo rivoluzionario in un epoca di privilegi radicati, ma rimane tale anche in gran parte del mondo di oggi”42 L‘anno della svolta decisiva verso una cultura dei diritti, seppure ancora solo abbozzati ed in maniera non sistemica, è il 1679, quando Locke scrive il suo “Secondo Trattato sul Governo” sullo stato di natura, mentre in Inghilterra viene promulgato l‘Habeas Corpus Act, che determina le garanzie e le tutele concesse in materia penale al singolo individuo, dopo una rivoluzione, quale quella inglese dalla connotazione tipicamente sociale e religiosa, di scontri tra gruppi contrapposti e segnata da una messa in discussione del principio di autorità (quella del Re) a favore del Parlamento, oltreché dalla convinzione relativa all‘uguaglianza degli esseri umani, riconosciuti titolari degli stessi diritti e doveri (politici e civili) Nel 1689 fa seguito il Bill of Right, momento conclusivo della rivoluzione, ma in cui sono contenuti quei principi di base che si sarebbero, in seguito, ritrovati in ogni costituzione o dichiarazione di diritti. Il diritto all‘autodeterminazione trovò un valido appoggio nel poeta John Milton, ma, in generale, queste rivendicazioni dei diritti cominciavano ad imporsi, come discorso, anche tra le classi meno agiate. Le stesse guerre di religione che sconvolsero l‘Europa, portarono con sé il germoglio dei diritti, perché a causa di queste si concepì la libertà di scelta religiosa, evidenziando così la portentosa capacità dei diritti di affermarsi. Nello stesso periodo si diffonde, anche, l‘opera di un noto filosofo, ritenuto il fondatore dello stato moderno: Thomas Hobbes che, con il Leviatano, sostiene, in controtendenza, che il patto tra ogni uomo e gli altri uomini (e il potere) consegua alla necessità di 41 42 Ivi, p.41. Ivi, p. 42 da Lauren, The Evolution of International Human Rights, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 1998 p.15. 16 autoconservazione della specie. In tale ottica, la sottomissione al sovrano appare elemento necessario e, in tal modo, lo stato contrattualistico proposto dai molti, si trasforma in stato assoluto. In questo senso, la diversità con Locke, ad esempio, appare evidente, laddove questi ritenga la “legge naturale vincolante anche dopo la formazione del contratto sociale. La proprietà è per Locke, il riassunto del diritto di natura, essendo in essa compresa la vita e la libertà, oltre naturalmente al patrimonio, ma valendo per gli uomini liberi, essa non è incompatibile con la schiavitù, quando gli schiavi fossero il bottino di una guerra giusta”.43 L'importanza del Bill of Rights è giustamente sottolineato anche nel ―portentoso‖ lavoro di Lynn Hunt44 del quale evidenzia come “ richiamava gli <antichi diritti e le antiche libertà> stabiliti dal diritto inglese e derivanti dalla storia inglese, ma non dichiarava l'uguaglianza, l'universalità o la naturalezza dei diritti...Per contro la Dichiarazione d'Indipendenza asseriva che < tutti gli uomini sono stati creati uguali> ...Non gli uomini francesi, non gli uomini bianchi, non i cattolici, ma gli <uomini> che allora come ora significava non soltanto il genere maschile ma le persone, cioè tutti gli appartenenti alla razza umana. In altre parole tra il 1689 e il 1776 diritti che il più delle volte erano stati considerati come i diritti di una particolare categoria di persone – gli uomini inglesi nati liberi, per esempio – furono trasformati in diritti umani, in diritti naturali universali, che i francesi chiamarono les droits de l'homme, <i diritti dell'uomo>”.45 Non sfugge ad alcuno la portata innovativa, autenticamente rivoluzionaria, di un così profondo modificarsi in sostanza della semantica. Nel corso di un solo secolo, uomini che avevano al proprio servizio anche degli schiavi (Jefferson ad esempio), divennero i più accesi e convinti sostenitori della ―battaglia‖ per i diritti umani, ...senza rinunciare o trovare contraddizione, almeno inizialmente, con il possedere come schiavi degli altri uomini, infatti, “Pur sostenendo che gli africani godevano di diritti umani, Jefferson non traeva alcuna conseguenza per gli schiavi afroamericani in casa propria...”46 Nel lavoro della Hunt si ritrovano le continue, enormi modificazioni che il termine diritti naturali e diritti dell'uomo hanno avuto nel corso della loro evoluzione, fino ad assumere il significato odierno. La Hunt riesce, molto validamente, a collegare il cambiamento semantico intervenuto con un collegamento tra emotività, ragione, politiche rivoluzionarie e sensibilità individuali; specie, incredibilmente, di coloro i quali fanno parte delle classi agiate e culturalmente avanzate. D'altronde, “per poter diventare linguaggio comune e senso condiviso l'uguaglianza fra gli esseri e quindi fra i diritti di cui potevano e dovevano 43 44 45 46 Ivi, p. 44 L. Hunt, La forza dell'empatia, una storia dei diritti dell'uomo, Ed. Laterza, Bari 2010. Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. 17 godere, doveva colpire, osserva la Hunt, non solamente l'intelletto... Sfruttando una quantità di studi sulla letteratura alta e bassa dell'epoca, la storica americana ha individuato una crescente presenza, nei testi in circolazione e maggiormente diffusi, di autonomia ed empatia, due caratteristiche che accomunano i principali protagonisti dei racconti e dei romanzi ma riscontrabili, anche, molto probabilmente, nella vita quotidiana”.47 D'altronde, a parte una prima, ironica volta, nel 1756, l'espressione diritti dell'umanità48 e più compiutamente, l'espressione ―diritti umani‖ risale al 1763, anno in cui Voltaire lo adottò, senza molta fortuna in verità riguardo al termine, nel suo “influentissimo Trattato sulla tolleranza”.49 Quanto incerto, e per certi versi contraddittorio, fosse l'utilizzo del termine ―diritto naturale‖ appare evidente da come, presso la corte di Luigi XIV, il vescovo Bousset l'adoperava per descrivere l'ascesa al cielo del Cristo.50 Ma fu solo con Rousseau e con il suo ―Contratto sociale (1762)” che la terminologia ―diritti dell'uomo‖ acquisì una certa popolarità in Francia e non solo, considerato che proprio da quel lavoro prenderà inizio, in Italia, il lavoro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, testo base dell'illuminismo lombardo ed unico in grado di reggere il confronto con i testi francesi, così importante nella realtà giuridica dell'epoca ed in quella delle epoche successive dove, seppure scritto quale rimedio contro gli arbitri delle forze di polizia, grazie ad una magistratura che assumerà via via connotazioni più moderne ed in parte emancipata dal potere politico, conseguirà come risultato, complementare e successivo, quello di difendere il corpo, e la sua integra sacralità, dagli eccessi di una giustizia troppo spesso incline ad utilizzare la tortura più efferata, quale mezzo per giungere alla confessione dei malcapitati. Certo è che, le riflessioni non possono nascere e crescere laddove non vi sia conoscenza di uno stato di natura di libertà, come lo stesso Rousseau sottolinea in apertura del famoso discorso sull'origine della diseguaglianza, in cui sottolinea che occorre fortuna nella nascita (senza nascondere che tale dizione è stata utilizzata, anche, per conquistare la platea davanti alla quale venne pronunciato il discorso): ” Avendo avuto la fortuna di nascere fra voi, come potrei meditare sulla uguaglianza che la natura ha posto fra gli uomini e sulla diseguaglianza che questi vi hanno istituita senza pensare alla profonda sapienza con la quale l'una e l'altra, felicemente combinate in codesto Stato, concorrono, nel modo più vicino alla legge naturale e più favorevole alla società, al mantenimento dell'ordine 47 48 49 50 M. Flores, op. cit., p. 46. L. Hunt, op. cit., p. 10. Ibidem. Ibidem. 18 pubblico e al benessere dei singoli? Ricercando le regole migliori che il buon senso possa dettare sulla costituzione di un governo, sono stato tanto colpito nel vederle tutte messe in pratica nel vostro, che se anche non fossi mai nato entro le vostre mura, non avrei creduto di poter fare a meno di offrire questo quadro della società umana a quel popolo che più di tutti mi sembra possedere i maggiori benefici e meglio averne evitato gli abusi.”51 Pur se inteso dal Rousseau sotto un profilo meramente concettuale di libertà 52 , nel trattare la tematica del buon selvaggio e dello stato di natura tocca un punto centrale nell'odierno dibattito. Infatti, seppure estraneo al discorso stesso, appare da subito chiaro che ―i‖ diritti non potranno mai essere ―un solo diritto‖, ma un qualcosa di sempre più complesso ed aperto a futuri sviluppi. Nel corso dello stesso, infatti è venuta evidenziandosi la necessità di nuovi diritti oltre quello alla libertà, da sempre punto focale e privilegiato dei D.U. e, indubbiamente, suo punto di origine. Appare interessante, inquadrandoli in un'ottica storica, il succedersi di ―generazioni‖ di nuovi diritti emergenti; fatto, questo, che porta a serie riflessioni sul fondamento ―assoluto e universale‖ dei D.U., in un'ottica di sviluppo delle esigenze, delle rivendicazioni e dei rapporti intercorrenti tra Stato e cittadini nello spazio sociale e politico dove “Alle prime corrispondono i diritti di libertà o a un non fare dello stato, ai secondi, i diritti sociali o a un fare positivo dello stato...Nei diritti di terza e quarta generazione vi possono essere diritti tanto dell'una quanto dell'altra specie....I diritti della terza generazione, come quello a vivere in un ambiente non inquinato, non sarebbero potuti essere neppure immaginati quando vennero proposti quelli della seconda generazione, così come questi, ad esempio il diritto all'istruzione o all'assistenza, non erano neppure concepibili quando furono emanate le prime dichiarazioni settecentesche. Certe richieste nascono soltanto quando nascono certi bisogni....Ma già si affacciano nuove richieste che non saprei chiamare se non diritti della quarta generazione, riguardanti gli effetti sempre più sconvolgenti della ricerca biologica che permetterà manipolazioni del patrimonio genetico di ogni singolo individuo.”53 Ed infatti, quale il senso di possedere la libertà, tutte le libertà di questo mondo, se sprovvisti dei mezzi di sostentamento? Delle possibilità di cure? Di avere uno Stato che ha come fine il bilancio, anziché il benessere dei propri cittadini? Quale l'utilità di un contratto 51 52 53 J.J. Rousseau, op. cit., p. 15. Ibidem - Si ricorda che il discorso tenuto a Ginevra, patria natia del Rousseau tiene conto che : “Ginevra era una repubblica democratica calvinista, cioè governata dal Concistoro dei pastori calvinisti, non però nominati dall'alto come sono i vescovi e i preti cattolici, ma eletti democraticamente dai fedeli”. N. Bobbio, op. cit., introduzione XIV – XV. 19 sociale che comporta sempre più oneri per l'individuo e sempre meno vantaggi? 54 Soprattutto nella considerazione che ciò che ostacola maggiormente, a titolo di esempio, la diffusione di farmaci contro la piaga endemica dell'HIV-AIDS o della malaria o del colera (antiretrovirali ed altri tipi di vaccinazioni elementari), destinati a migliorare la qualità della vita dei soggetti colpiti, sono mere (e sporche) questioni di denaro, come ha dimostrato il fatto che a fronte delle necessità di affrontare la diffusione del virus HIV“... le potenti industrie farmaceutiche degli Stati Uniti si sono opposte alla produzione di versioni generiche a basso costo di farmaci da distribuire nei paesi poveri. I loro rappresentanti argomentano che per poter continuare a sviluppare nuovi prodotti i diritti di proprietà intellettuale (e l'alto prezzo) devono essere protetti. Altri però ammettono che, date le proporzioni della crisi umanitaria, le versioni generiche dovrebbero essere rese disponibili. La distribuzione di antiretrovirali per le vittime HIV/AIDS in Africa sub sahariana è stata ostacolata proprio dalla disputa sulle royalty.”55 Così come per l'essere liberati dai quotidiani affanni della lotta per la sopravvivenza, in cui acqua e cibo divengono elementi di stabilità futura, occorre considerare che“Nel rapporto precedentemente ricordato dell'iniziativa WEHAB delle Nazioni Unite dedicato all'acqua, si ricorda come oggi 1,2 miliardi di persone non hanno accesso all'acqua potabile, 2,4 miliardi di persone non hanno accesso a servizi sanitari adeguati, più di due milioni di bambini (quasi 6 mila al giorno) muoiono ogni anno per malattie connesse alla salute dell'acqua (mancanza di accesso all'acqua potabile, servizi sanitari inadeguati, cattiva igiene)....”56 L'equivalente di due Torri Gemelle (come numero di vittime) al giorno, di soli bambini, vittime che dimentichiamo nella vita di ogni giorno e nelle notizie dei mass-media, destinati a morire per la nostra inazione o meglio per la nostre ―cattive‖ azioni, specie considerando quelle di carattere militare, come se dalla guerra potesse scaturire la pace o un bene per quell'umanità senza nome.57 Quale libertà è, quindi, se non quella di morire senza produrre rumore, come quanto 54 55 56 57 State of the world 2005, Rapporto Annuale del Worldwatch Institute di aa.vv., ed. Ambiente, Milano 2005, p. 73: “L'organizzazione Internazionale del Lavoro [ILO] prevede che in assenza di trattamenti, entro il 2015 circa 74 milioni di lavoratori potrebbero morire di malattie da AIDS, il che equivale alla perdita di un intero paese delle dimensioni del Sud Africa o della Thailandia... “. Ivi, p. 109. Ivi, pp. 19 – 20. Ibidem: “nel 2001 le spese militari mondiali erano di 839 miliardi di dollari, 2.3 miliardi al giorno, 100 milioni l'ora. Si tratta di 137 dollari a testa per ogni abitante del pianeta. – quando ne basterebbero 3 per assicurare una vita dignitosa ad ogni abitante del pianeta n.d.a. - Dopo la caduta del muro di Berlino, le spese militari erano passate da 847 miliardi nel 1992 a 719 nel 1998. Questo acuirsi di tale visione, dovuta soprattutto alla politica dell'amministrazione statunitense del presidente George W. Bush è stata ulteriormente ampliata dal gravissimo attentato terroristico dell'11 settembre del 2001 e ha prodotto una escalation di eventi drammatici...”, 20 appena riportato testimonia con abbondanza di riferimenti? A parte queste brevi considerazioni, che troveranno trattazione nel prosieguo del presente lavoro, occorre indubbiamente considerare come il problema della libertà sia stato, e sia tuttora, determinante nella tematica dei D.U., specie quando questa libertà riceve una sua connotazione specifica. Il problema della libertà dell'uomo in generale, oltre che dai citati bisogni materiali del quotidiano, della libertà dall'alienazione del presente, della libertà nel rapporto tra cittadino e stato, ed oggi, tra persone – cittadini - consumatori ed entità economiche (e ancora, sempre meno, Stato), assurge ad elemento catalizzatore e trainante per l'uomo di oggi e per la speranza, sempre più lontana, di migliorare la vita dell'uomo futuro. Comprendere, quindi, i meccanismi di formazione del potere statale prima ed economico poi hanno rappresentato e rappresentano il terreno di lotta e di scontro futuro dei diritti con la ―rappresentazione‖ del potere, quest'oggi ancora diviso in economico - politico, almeno fino alla soccombenza di uno dei due o ad una diversa interazione tra loro o ad un loro sovvertimento con la riacquisizione consapevole dell'esistenza di un'altra realtà possibile. Certo è che, in quest‘ epoca di transizione tra economia e politica, assai più che nel passato, queste svolgono contemporaneamente funzioni di potere, con loro regole e normazioni del tutto autonome, per di più estese al di fuori dei confini nazionali, comportando continue zone grigie di inapplicabilità e favorendo, ma solo per pochi individuabili soggetti, il sorgere di eccezioni di applicabilità delle norme giuridiche che, per ovvie ragioni, note sin dall‘antichità, comportano pericoli per la libertà stessa“....qualunque sia la costituzione di un governo se vi si trova un uomo solo che non sia sottomesso alla legge tutti gli altri sono necessariamente in sua balia, e se c'è un Capo nazionale e accanto un Capo straniero, in qualunque modo si dividano l'autorità è impossibile che entrambi siano ben obbediti e che lo Stato sia ben governato.....I popoli, una volta abituati ad avere dei padroni, non sono più in grado di farne a meno. Se tentano di scuoterne il giogo, si allontanano ancora di più dalla libertà perché, mettendo al suo posto una licenza sfrenata che le è opposta, le loro rivoluzioni li gettano in preda a dei seduttori che non fanno altro che aumentarne le catene. Lo stesso popolo romano che è il modello di tutti i popoli liberi, quando uscì dalla tirannide dei Tarquini, non era in grado di governarsi. Avvilito dalla schiavitù e dai lavori ignominiosi che essi gli avevano imposto.....” 58 Incredibile come qualcosa scritto più di due secoli fa, si adatti assai bene anche 58 J.J. Rousseau, op. cit., pp. 16-17. 21 all‘odierna situazione, sintomo questo che la battaglia per i diritti non può conoscere soste essendo soggetta continuamente al pericolo di regressione dei traguardi conseguiti, a causa della natura Kirkegardiana dell'uomo continuamente di fronte alla scelta tra il bene e il male (come lo definisce il filosofo con out out). Di fronte a situazioni del genere, solitamente (ed in Italia, in questo tempo, ne abbiamo ben conoscenza di questo modo di essere), si invoca l'arrivo ―dell'uomo forte‖, di colui che ―tutto sistemerà‖, consentendo di fuoriuscire dall'incertezza che, è bene sottolinearlo, non è il caos come spesso si tende a considerare, ma il rassegnare la propria libertà nelle tranquillizzanti mani di chi può blandire l'insicurezza e la precarietà di quest'epoca. Qui, la parola ―caos‖ è stata volutamente utilizzata nella sua accezione originaria di fermento vitale da cui tutto origina e s'ordina. Non fuoriesce, forse, dal caos il sistema solare e quant'altro conosciuto? Perché, allora, questi dovrebbe essere ritenuto dannoso? Per chi è pericoloso il caos, se non per chi detiene saldamente le redini del giogo e non ha alcuna intenzione di abbandonarle? Per questo si parla d'incertezza, in quanto tale situazione permette il precipitare degli eventi e l'instaurazione di ―un‖ ordine (e non di nuovo ordinamento delle cose come sarebbe per il caos) e non ―dell'ordine‖. Al proposito, sulla tematica della conservazione del potere o delle modalità della sua transizione, non appare inutile citare l'attività diplomatica e politica U.S.A portata avanti nei confronti del regime sovietico fino alle soglie del 1988, dopo gli anni che vanno a partire dal 1960, della divisione del mondo in blocchi: l'unica cosa importante veramente è evitare che qualcosa di nuovo accada59 e un nuovo ordine e un nuovo modo di intendere, la società ed il potere, possa svilupparsi tanto che ―In questo modo (che fa riferimento al nome di Helmut Sonnefeld, cioè del più stretto collaboratore di Henry Kissinger nel suo periodo come presidente del security council e Segretario di Stato: 1969 – 1975) si è a lungo indicata l'impostazione degli Stati Uniti contraria ad ogni forma di destabilizzazione del 59 Carlo Levi in L'orologio, Einaudi, Torino 1950, pp. 41- 68-93-94-95 a proposito dell'immediato dopoguerra nel nostro Paese, quando fu nominato all'interno di un ministero osservò quale era la funzione reale che le persone possono assolvere in determinati contesti: ―Capii che la mia scelta a quel posto era dovuta in gran parte a un compromesso tra due opposte fazioni, a me ignote; che non interessava veramente a nessuno che io facessi questa o quella cosa, ma che forse era preferito dai più, per ragioni a me altrettanto ignote, che io non facessi nulla; che tutto sarebbe stato indefinitivamente rimandato, che legami a me incomprensibili legavano gli uomini. Sentii che, ancora una volta ero caduto in uno stagno di interessi e di intrighi di cui mi sarebbe sempre sfuggita la ragione, in un mondo chiuso e impenetrabile....cosa è un ministero? E' un mondo sconosciuto, sotterraneo e infernale. E' la raccolta miracolosa di tutte le miserie, di tutti i vizi, di tutte le bassezze, una coltura di pura miserabilità....dentro il palazzo del Ministero....è come nulla fosse mai avvenuto. Quei muri isolano dal mondo di fuori una casta chiusa di piccoli borghesi degenerati e miserabili, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro piccoli bisogni, alla loro omertà, ai loro intrighi talmente meschini e microscopici da riuscire incomprensibili. Il ministero e una specie di tempio, dove si adorano...la pigrizia, l'avarizia e l'invidia....tutto questo è tenuto insieme da un potente spirito di casta, da un legame stretto come quello della camorra e della mafia...a far nulla, materialmente nulla, neanche a leggere il giornale, per ore ed ore, con gli occhi imbambolati, in una specie di estasi d'ozio, e forse di mistica compenetrazione con la vuota idea dello stato...la loro sola attività e di impedire che qualcosa di nuovo avvenga.‖ 22 controllo sovietico sull'Europa orientale.>> E che tale orientamento non sia stato temporaneo, ma abbia costituito, al contrario, una costante della politica estera americana di quel periodo lo si può ricavare dal fatto che, ancora quasi vent'anni dopo, nel corso di un incontro tra specialisti americani e sovietici (svoltosi in Virginia dal 6 al'8 luglio del 1988), Zbigniew Brzezinski, di fronte alle tensioni crescenti all'interno del sistema comunista, che poco più di un anno dopo dovevano portare al suo crollo, affermava che <<le attuali tendenze presenti in Europa orientale>> (che configurano una classica situazione prerivoluzionaria) sono <<potenzialmente pericolose per la stabilità delle relazioni EstOvest>>, e perentoriamente concludeva <<una esplosione rivoluzionaria non è nell'interesse di nessuno. Una simile esplosione avrebbe un impatto molto negativo anche sui rapporti Est – Ovest in Europa.” 60 Come dire, in pratica, tutto va bene finché si può tenere sotto controllo la gente (in una tale visione delle cose non si può affermare che esistano delle persone, ma solo delle ―masse‖ che vanno controllate ed indirizzate secondo le scelte dei pochi...anche questa, è bene sottolinearlo, è la democrazia di cui si parla!) e non si possano portare avanti politiche diverse da quelle che a tutt'oggi sono state portate avanti e sono vigenti nel mondo conosciuto, nel caso di specie, la esemplare ―democrazia‖ americana e non il ―comunismo‖ sovietico, aggiungerei, senza dimenticare che queste ―politiche‖ delle superpotenze hanno spesso portato alla soglia di uno scontro nucleare, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato per il futuro dell'umanità. Sembra, alla luce della storia, di poter definire la pericolosità come qualcosa che è insita non tanto nel sistema di cui trattasi, ma nella stessa concezione e filosofia del potere che, per definizione, dovrebbe essere inteso come entità auto generata che tende alla permanenza nel contesto in cui opera, al di fuori di qualsivoglia controllo ed a cui devono necessariamente essere posti dei limiti. Da che mondo è mondo, il potere si è auto conservato a discapito dei soggetti che glielo hanno concesso e che, in certi casi, lo hanno addirittura generato, osservando solo una formale differenziazione tra l'una forma od un'altra, ma con una sostanziale identità nella politica attuata, interna ed esterna. 60 61 61 A. Gambino, op. cit., p. 169, ma anche in ―Problems of Communism‖, maggio -agosto 1988. N. Chomsky, Capire il potere, ed. Il Saggiatore s.p.a., Milano 2007, pp. 18 e 19 : ―Mettiamo a confronto, per esempio, due amministrazioni presidenziali degli anni sessanta e degli anni ottanta, l'amministrazione Kennedy e l'amministrazione Reagan. Ebbene, in un certo senso, contrariamente a quello che dicono tutti, avevano molto in comune. Entrambe salirono al potere lanciando false accuse contro quelle che le avevano precedute, alle quali imputavano di essere state troppo deboli ed aver permesso ai russi di superarci; nel caso di Kennedy si denunciò un ―divario missilistico‖ inesistente, e nel caso di Reagan si parlò di una fantomatica ―finestra di vulnerabilità‖. Entrambe le amministrazioni furono contrassegnate da una vigorosa escalation nella corsa al riarmo, che portò a una maggiore dose di violenza nei rapporti internazionali a un aumento degli stanziamenti, 23 Questo, indubbiamente, fa parte dell'arroganza e della prepotenza del potere e di quella maschera della politica odierna, così ben evidente oggi in chi la rappresenta, che non vuole rispondere alle stesse leggi cui il cittadino è sottoposto, ma pretende di negare anche la semplice libertà di opinione ai propri cittadini e sempre più spesso cerca motivazioni (sicurezza, pluralismo, diritto alla difesa) per sopprimere, interrompere, sabotare, controllare infine, i mezzi di espressione e di comunicazione dell'esistenza di una realtà ―altra‖, motivandola spesso con ragioni varie, ma sempre inerenti una pretesa problematica di ―democrazia‖. Quindi il problema della libertà nei confronti del potere, in qualsiasi epoca sia stato posto, dovrebbe essere individuato, salvo ulteriori spinte che possono andare ad aggiungersi, come il punto originario, di partenza (ma non l'unico) della nascita dei diritti umani (Kant). Non mancano esempi storici di liberazione dalle catene della schiavitù, sin dai tempi più antichi: come l'esodo dall'Egitto del popolo ebraico sotto la guida di Mosè; la rivolta del gladiatore Spartaco, unico a mettere veramente in pericolo la supremazia di Roma nella storia e così via, nel corso del tempo. Ma quel che, indubbiamente, conforta più questa ipotesi è la fioritura, disseminata, incontrollata ed incredibile, in ogni popolo, di fatti storici o leggende che tramandano le gesta di un eroe, di un combattente avverso alla tirannia, in ogni tempo ed in ogni luogo e la necessità di creare figure leggendarie in tal senso quando non reali, che potremmo sicuramente definire esemplarmente eroiche, in modo ovvio, rafforza notevolmente queste necessarie ―ipotesi di liberazione‖, così come indirettamente riscontrato, ascoltando altre ―voci provenienti dal passato‖, anche da Jeanne Hersch.62 Il lavoro della filosofa ginevrina appare fondamentale per affrontare il tema della genesi dei diritti umani, non tanto perché coniuga in modo impareggiabile la teoria con la pratica, quanto per la capacità attraverso una serie di “....riflessioni sorprendentemente attuali, idealmente avviate da quella sorta di <<gesto di libertà>> che la filosofa ginevrina, già ascoltata da tutta Europa durante gli anni del suo insegnamento dalla cattedra di Ginevra, compì, rompendo il cerchio magico della filosofia pura e aprendo la 62 con i soldi del contribuente, a favore delle grandi industrie americane attraverso la spesa militare. Entrambe erano fin troppo nazionalistiche, entrambe cercarono di diffondere la paura tra la popolazione mediante una grande isteria militaristica accompagnata da un forte entusiasmo sciovinista. Entrambe avviarono una politica estera estremamente aggressiva in tutto il mondo: Kennedy accrebbe vistosamente il livello della violenza in America Latina; in realtà la piaga della repressione culminata negli anni ottanta sotto Reagan era in gran parte il risultato delle iniziative di Kennedy‖. J. Hersch, autrice, tra l'altro de I diritti umani da un punto di vista filosofico, Ed. Bruno Mondadori, Udine 2008, ha insegnato per 20 anni filosofia all'Università di Ginevra e ha diretto la divisione di filosofia dell'Unesco. Ha dedicato la maggior parte della sua attività filosofica all'elaborazione dei diritti umani, considerando la filosofia l'unica ―scienza‖ in grado di coglierne gli aspetti salienti e di permetterne lo sviluppo a differenza delle altre discipline, come la sociologia, la psicologia, il diritto, in cui la prospettiva dei D.U. resta sempre nascosta o parziale. 24 sua mente all'ascolto delle voci del mondo e della storia, anche e soprattutto delle voci dei <<senza>lingua>>, secondo l'espressione che Cristina Campo prende a prestito da Simone Weil. Perché un paradosso c'è che dovette colpire J. Hersch e suggerirle quel gesto, potremmo chiamarlo il paradosso delle lingue ammutolite – le lingue e le culture di civiltà che furono splendide, ma che la nostra modernità ha ridotto ad arroccarsi in difesa di un passato orgoglioso e sconfitto, quando non al mutismo. Ella chiese ai rappresentanti di tutti i paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, e comunque anteriori al 1948, <<in cui a loro avviso si manifestasse, in qualsiasi modo, un senso per i diritti degli esseri umani>>.”63 Inutile dirlo, ma il voler forzare la tematica dei diritti umani in un senso o nell'altro, benché ancor oggi più di qualche studioso sostenga una visione ―occidentale‖ di questi diritti, non ha alcuna plausibilità storica ed è continuamente smentito dalla storia stessa dei popoli della terra. Il desiderio di libertà appare così presente nella struttura mentale e concettuale di ogni uomo e nell'intimo sentire che, volendo operare un paragone linguistico, potremmo sostenere una sorta di identità con la grammatica generativa di N. Chomsky, nella cui opera le strutture grammaticali sono già presenti all'atto della nascita e solo ―l'esposizione‖ a questa o quella determinata lingua, fa sì che il parlante sia in grado di esprimersi con appropriatezza di termini, nell'idioma locale. 64 A riprova del carattere innato delle strutture grammaticali, il noto linguista effettua dei paragoni a testimonianza degli atti comparativi. Uno, in particolare, sembra idoneo a raggiungere lo scopo. Nel caso di un uomo colpito da ictus ai centri che soprassiedono al linguaggio, lo stesso, nel periodo di rieducazione, dal personale addetto al compito, verrà messo nelle condizioni di riappropriarsi dei termini che compongono quella data lingua e non avrà, parallelamente, necessità di dover considerare nuovamente l'apprendimento della parte grammaticale, in quanto ancora ben presente nella propria struttura mentale.65 63 64 65 J. Hersch, I diritti umani da un punto di vista filosofico, Ed. Bruno Mondadori, Udine 2008, Prefazione di Roberta De Monticelli, pp. 2-3. N. Chomsky, Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Ed. Il Saggiatore, Milano 2005, in particolare, dell'opera, si rimanda a quanto espresso nel Cap. I paragrafo 1 (pp.51-70) e 2 (pp.71-106). N. Chomsky, op. cit., pp. 40 – 41: ―In secondo luogo, quali sono le relazioni tra la facoltà di linguaggio e gli altri sistemi cognitivi che caratterizzano la mente (il cervello)? In particolare, ci si può porre la domanda se qualunque deviazione arbitraria dell'ottimalità presente nella facoltà del linguaggio possa essere attribuita alle condizioni imposte dagli altri sistemi cognitivi. Chomsky affronta questi problemi formulando la domanda:<<Quanto è perfetto il linguaggio?>>. Per parte sua risponde che esso è prossimo alla perfezione, fatto sorprendente per un sistema biologico. Ciò significa che ogni deviazione dalla necessità concettuale che si riscontra a livello di facoltà di linguaggio (vale a dire di linguaggio - I) risulta motivata da condizioni imposte dai sistemi esterni al linguaggio. Chomsky chiama queste condizioni <<condizioni di leggibilità>>, ovvero condizioni imposte dalla necessità che gli altri sistemi cognitivi utilizzino le rappresentazioni fornite dalla facoltà di linguaggio. In particolare, ci si riferisce alla necessità che il sistema articolatorio e percettivo utilizzi le rappresentazioni – PF e che il sistema concettuale utilizzi le rappresentazioni – LF. Su questo sfondo 25 Non è forse la libertà una caratteristica, magari latente o nascosta, ma indubbiamente parte, di ogni uomo esistente sulla faccia della terra? E se il carattere può essere forgiato dall'uso e dalla formazione culturale, può il desiderio di libertà essere soppresso attraverso l'educazione? Sicuramente no. Se il desiderio di libertà, definibile come diritto, fosse solo occidentale, perché questo è presente anche tra le popolazioni e le culture meno conosciute? In questo senso, ovviamente, in ―Le droit d'etre un homme‖, le voci del passato raccolte dalla filosofa ginevrina, giungono fino ai giorni nostri e cercano di dirci qualcosa che, ancora, non siamo riusciti a cogliere nella sua interezza, se non seguendone l'attività “...di una vita che ha attraversato il secolo breve66 e si è chiusa con lui nella primavera del 2000. Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, scrive Jeanne Hersch, nel saggio qui tradotto, arrivavano a Parigi i pensieri attraverso i quali l'uomo si è rivelato a sé stesso, nella sua inviolabile dignità. Tutti i temi che hanno ispirato la Dichiarazione Universale erano lì, espressi in una babele di lingue, morte e vive. Ed erano come delle offerte <<con pietà conservate nei veli di parole d'altri tempi e altri luoghi>>. E' un'immagine, questa, piena d'intelligenza e d'amore.” 67 Ma, allora, se le cose stanno così, potremo parlare dei D.U. come di qualcosa di ovvio. Cioè, al pari di ciò che argutamente è stato colto da Lynn Hunt nel suo lavoro, di una ovvietà che sfocerà nelle prime due dichiarazioni in cui i diritti saranno resi espliciti (Americana e Francese). Le stesse formule adottate nelle dichiarazioni, quindi, risentono di questa ovvietà “Nonostante le differenze di linguaggio, le due dichiarazioni del XVIII secolo si basavano entrambe su una affermazione di ovvietà. Jefferson la rese esplicita quando scrisse: << Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti>>. La dichiarazione francese affermava categoricamente che <<l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi>>. Non molto era cambiato al riguardo nel 1948. Certo, la Dichiarazione delle Nazioni Unite assunse un tono più legalistico: <<considerato che il riconoscimento della dignità inerente 66 67 concettuale, i processi di movimento o <<dislocazione>> che possono essere identificati in base alla diversa posizione occupata da <<Clinton>> in <<hanno eletto Clinton>> e <<Clinton è stato eletto>> appaiono concettualmente non necessari. Ci si può chiedere per quale motivo le lingue naturali facciano uso di meccanismi di questo tipo, che risultano completamente estranei ai linguaggi artificiali della logica e della matematica. Una risposta provvisoria è che le proprietà di dislocazione potrebbero essere motivate dalla necessità di strutturare l'informazione al fine di una comunicazione ottimale. Se questa risposta risultasse la risposta corretta, sembrerebbe dunque che una proprietà della facoltà di linguaggio sia imposta dall'esterno del sistema, da un'altra parte della mente (o del cervello).‖ E. Hobsbawm, Il secolo breve, Ed. BUR 2006, decima edizione. La terminologia utilizzata fa riferimento all‘importante opera dello storico intitolata appunto ―Il secolo breve‖, che considera il 1900 racchiuso e consumato letteralmente nei termini temporali delle due guerre mondiali e attraversato da innumerevoli focolai di conflitto che hanno impedito al secolo scorso di dare agli uomini che l'hanno vissuto, il tempo di vivere pienamente la propria esistenza. J. Hersch, op. cit., Prefazione di Roberta De Monticelli, pp. 3-4. 26 a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo>>. Eppure anche questa era un'affermazione di ovvietà, perché <<considerato>> significa letteralmente <<stante il fatto che>>. In altre parole <<considerato>> è solo un modo legalistico di affermare un fatto accertato, una cosa evidente di per sé.”68 Certo, la storia dell'uomo, come detto precedentemente, sembra costellata di episodi e di richiami ai D.U., per un verso o per l'altro e sebbene non sia possibile non considerare che “ I diritti umani sono diventati oggi così onnipresenti che sembrano esigere una storia altrettanto vasta....Come si spiega allora l'improvvisa cristallizzazione delle rivendicazioni dei diritti umani nel XVIII secolo? 69 Secondo alcuni autorevolissimi autori, quello del fondamento storico- giuridico, benché abbia una sua ragione di essere ricercato nel corso dell‘evoluzione dell'essere umano, appare assai meno decisivo ed importante del pressante problema delle garanzie dei diritti 70 , anche se a sommesso avviso, questa volontà di ritrovarne il fondamento nell'attività posta in essere da 48 nazioni è sicuramente illusoria e ingiustificata, considerando che l'Assemblea Generale si è messa al lavoro per procedere ad una sorta di riconoscimento e di ri-elaborazione delle istanze e delle volontà di pace delle genti tutte ( non volendo confondere i termini della questione utilizzando il termine di volontà popolare, abituati come siamo a identificare lo stesso come l'espressione popolare nazionale all'interno di uno stato), all'indomani dell‘ immensa tragedia che fu la II guerra mondiale, istanze che indubbiamente furono manipolate e oggetto di contrattazione e di accettazione, come testimoniato nel lavoro di Hessel71 . Tale osservazione, rappresentata in questa sede, è sicuramente confortata da quel 68 69 70 71 L. Hunt , La forza dell'empatia, cit., pp. 6 -7. Nella sua prima stesura della Dichiarazione di indipendenza, preparata a metà giugno 1776, Thomas Jefferson scrisse: << Noi riteniamo che le seguenti verità siano sacre e innegabili: che tutti gli uomini sono stati creati uguali e indipendenti, che da questa creazione su basi di eguaglianza derivano dei diritti intrinseci e inalienabili, fra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità>>. In gran parte grazie alle revisioni del suo stesso autore, la frase di Jefferson si sbarazzò presto della sua tortuosità e assunse toni più limpidi e cristallini: <<Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità>>. Con questa unica frase, Jefferson trasformò un tipico documento del XVIII secolo contenente lamentele politiche in una proclamazione duratura dei diritti umani.‖. Ivi, pag. 7. nota a p. 9 del presente lavoro N. Bobbio, op. cit., pp. 18 -19 laddove : ―Ma quando dico che il problema sempre più urgente di fronte al quale ci troviamo non è il problema del fondamento ma quello delle garanzie, voglio dire che consideriamo il problema del fondamento non come inesistente ma come, in un certo senso, risolto, cioè tale che non dobbiamo più preoccuparci della sua soluzione. Si può dire infatti che oggi il problema del fondamento dei diritti dell'uomo ha avuto la sua soluzione nella Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. La dichiarazione universale dei D.U. rappresenta la manifestazione dell'unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto e questa prova è il consenso generale circa la sua validità. S. Hessel, Indignez-vous, ed. Indigéne èditions, dicembre 2010, tradotto da Maurizia Balmelli per Add Editore, Torino 2011 p. 17. 27 manifesto alle genti e alle giovani generazioni, edito dal dicembre 2010 (così poco, ancora, reclamizzato e distribuito nelle librerie, in Italia) che è ―Indignez-vous‖ (―Indignatevi‖) di Stéphane Hessel, uno dei materiali estensori della Dichiarazione Universale dei D.U. che, appunto, si scaglia contro quel modello economico liberista adottato nel mondo, che, di fatto, nega e sopprime le conquiste sociali derivanti dalla Dichiarazione stessa72 Se il problema del fondamento dei diritti fosse superato grazie all'attività posta in essere da un gruppo di nazioni che si accordano, un domani, questi diritti egualmente potrebbero essere negati e scomparire, ma così non è storicamente. E' quantomeno singolare che tale asserzione provenga da chi, mentre felicemente individuava nell'evoluzione dei popoli, il progredire e l'affermarsi dei diritti, non aveva colto il dato essenziale degli stessi (o dello stesso - diritto - secondo l'impostazione kantiana che vede nell‘affermazione della libertà ciò che è il punto d'origine): la loro completa estraneità ad una specifica collocazione politica nell'ottica del potere (sia questo il sistema democratico o quello comunista, per rifarsi ai due sistemi che hanno imperato sui popoli nel corso del XX secolo), essendo gesto politico per eccellenza dell'uomo 73 . Forse, se il problema del fondamento non è poi così importante è perché nell'uomo e nei suoi bisogni, espressi nel presente storico, si concretizzano e si rinviene la vera natura di questi diritti che, seppure sotto forma di una proposta-bisogno-aspirazione di libertà, và a contrapporsi alle strutture di qualsivoglia fonte di potere, quando questo sia oppressivo, ingiusto e da respingere. Come ritroviamo a margine del lavoro politico di S. Zizek che, al proposito dei diritti osserva che “Nati come costruzione ideologica a salvaguardia del privilegio, i diritti umani coprono e legittimano l'imperialismo occidentale, gli interventi militari, la sacralizzazione del mercato, l'ossessione del politically correct. Ma a volte sono sfuggiti al controllo del potere, producendo effetti reali, cambiando il corso della storia. La domanda è: ci si può appellare ai diritti umani per far vacillare i possenti bastioni della disuguaglianza?” 74 La scommessa potrebbe essere il rispondere: sicuramente SI! A fronte, ad esempio, delle parole del premier inglese Cameron (pronunciate nell'agosto 2011) : ―...non ci fermeremo davanti a diritti umani fasulli...!‖ - sulle rivolte scoppiate a Londra, a Manchester, come anche in altre capitali europee con modalità sempre 72 73 74 N. Bobbio, op. cit., vedi anche per l'età dei diritti definiti della seconda generazione, cioè i diritti sociali, che hanno trovato spazio nell'immediato dopo guerra, all'indomani di quella immane tragedia che è stata la seconda guerra mondiale con manifestazioni di particolare crudeltà come l'Olocausto e le sofferenze delle popolazioni civili. S. Zizek , op. cit., p. 51 vedi nota n.8, S. Zizek, op. cit., IV di copertina. 28 diverse, che infiammano e rischiano di ri-armare le nostre strade. Rivolte che, è bene dirlo, anche se in alcuni sporadici ed isolati casi violente, prendono di mira i ―supermercati‖ e non le banche caratterizzandosi per essere manifestamente non-violente. Al contrario, invece, l'arroganza e la prepotenza del potere che vuole autoperpetuarsi, in barba a qualsiasi regola democratica, si manifesta a Londra ( ―pronti a chiudere i social network‖ - Cameron), come a Roma (cariche sugli indignados davanti a Bankitalia), a Parigi, a Madrid, a New York (We are 99% e Occupy Wall Strett), nei paesi arabi ed ovunque le popolazioni cominciano a dimostrare insofferenza verso politiche scellerate e personaggi politici di dubbia integrità che queste politiche perseguono, incuranti delle persone.. Motivazioni e caratteristiche sono le più diverse e sottendono a queste rivolte e ai momenti di lotta che, la popolazione, intraprende nei confronti delle manifestazioni del potere, in modo pacifico o meno. Di fatto, l'attuale situazione economica globale, comporta evidenti scompensi, oltre al formarsi e perpetrarsi di enormi ingiustizie e sopraffazioni come vedremo. In questo stato di cose, assistiamo (quasi impotenti) a che gli stessi Stati firmatari della Dichiarazione contravvengono agli impegni assunti con questa, portando deliberatamente avanti, attraverso le istituzioni, una politica ed un‘ attività normativa di protezione nei confronti di un sistema economico che rappresenta, senza possibilità di dubbio, l'interesse di pochi all'accumulo di ricchezze, contro i più elementari diritti dell'umanità. L‘interrogativo, ancora una volta, sarà se l'uomo, come soggetto portatore di questi diritti, riuscirà a trovare la risposta adeguata al pericolo più grande che la libertà abbia mai incontrato nel corso della storia sino ad oggi. Non possiamo, infatti, dimenticare che, contrariamente a quell‘idea che la spiritualità alla moda riprende dalla psicoanalisi di libertà in qualsiasi situazione reale ci si trovi, anche in costrizione, la libertà si sostanzia essenzialmente di spirito ribelle e non certo di malintesi atteggiamenti stoici. “In prigione la sfida di libertà non passa certo per forza dall‟evasione. Ciò non significa fare l‟apologia di un impegno estetizzante che non creerebbe alcun legame tra la libertà e la lotta. La questione non è mai: sono libero? Il pensiero della determinazione e della lunga durata non ci permette di tenere l‟individuo in questo posto. Nel nostro dispositivo filosofico, nessuno è libero poiché la persona non è un‟istanza abbastanza importante per far sorgere questo interrogativo. Possiamo pensare la questione della libertà non collegandola all‟individuo ma in termini di situazioni che si sviluppano o si immiseriscono. Rimane un unico interrogativo: io sono un fattore di libertà e di emancipazione? Un uomo che si mostra solidale, che è in rapporto di condivisione con il suo compagno di cella, è in un divenire di 29 libertà. Anche chi nasce in una famiglia che ha in mano le leve del potere e tenta di non andare verso le barbarie, è in un divenire di libertà. Un uomo che crea un rapporto di solidarietà è molto più potente di quello che colpisce l‟altro.”75 Libertà come conseguenza dell‘instaurarsi di rapporti di solidarietà, di condivisione, del riconoscere l‘altro come parte integrante del sé, dell‘agire e non della persona: “La questione della libertà non si rivolge mai alla persona. Essere in un divenire di liberazione significa essere in uno sviluppo della potenza. Le persone sono più o meno potenti a seconda del loro impegno nel divenire di emancipazione.”76 2. Storia ed Evoluzione dei diritti umani fino al XXI sec Se da una parte, come illustrato nel paragrafo precedente, risulta difficile ―datare‖ storicamente la nascita, come ― l‘esigenza dei D.U.‖, così strettamente legati all‘essenza stessa dell‘uomo, dall‘altra è innegabile considerare che, a un certo punto del percorso dell‘umanità e più esattamente nella seconda metà del ‗700, queste problematiche divengono centrali nel dibattito speculativo, come nella quotidianità del mondo reale. Seppure si sia proceduto ad una datazione approssimativa, non si può fare a meno di considerare il ―salto di qualità‖ compiuto dalle monarchie europee nel loro strutturarsi in Stato moderno, così come da quel momento è venuto a configurarsi: “Questo rafforzamento dello Stato ebbe origine in concomitanza con due fattori interconnessi: da un lato la fine di un‟ epoca di lotte sanguinose tra fazioni nobiliari; dall‟altro, la rottura della continuità delle maggiori dinastie regnanti in europea. In precedenza, alla base delle monarchie medievali agiva sempre il principio del legame patrizio tra i re e i loro sudditi. Quest‟ultimi erano legati ai sovrani non come individui, ma come corpi sociali autonomi. Istituzioni come gli Stati Generali francesi, il Parlamento inglese o le Cortes castigliane e aragonesi erano parti essenziali delle antiche costituzioni medioevali. I nuovi principi, pur non ponendosi il proposito di eliminarle, tentarono tuttavia di trasformarle in strumenti della propria sovranità determinando nei decenni successivi scontri di portata storica e rivoluzionaria. Crebbe comunque il potere regio in materia fiscale in tutti i grandi Stati e, con una quantità sempre maggiore di funzionari, esattori delle imposte, giudici, burocrati di ogni tipo…..Ma lo Stato non era di fatto l‟unico corpo politico al quale gli uomini sentissero di appartenere. La Chiesa continuava a considerarsi un corpo politico autonomo, 75 76 M.Benasayag, Contro il niente, abc dell‟impegno, Ed. Feltrinelli Milano 2005, pp. 115 -116 Ivi, p. 116 30 originario e perfetto.”77 Certo, il percorso che ha portato alla formazione dello Stato moderno, cioè della Nazione-Stato, non è stato sicuramente indolore. Il processo di accentramento delle funzioni, verificatosi nel seicento, crea scompiglio da una parte, tra le molte possibilità di solidarietà esistenti nella comunità di villaggio, il gruppo di mestiere, la comunità urbana, il ristretto ambito territoriale dei molti sistemi di legge consuetudinaria, e dall‘altra, col progredire dei tratti teorici e pratici dello Stato assoluto moderno, porta alla frattura fondamentale tra monarchia e aristocrazia con la conseguente esplosione di rivolte contadine di varia natura. In quegli stessi anni, infatti, sotto il profilo economico, inizia l‘appropriazione indebita da parte di vari soggetti delle terre, sottratte allo ius comune, attraverso l‘utilizzo delle recinzioni. Questo comporterà, in particolar modo in Inghilterra inizialmente, per le fasce più deboli ed ingenue, la fine della possibilità di sopravvivenza e il trasferimento forzato verso le città dove si vanno organizzando le prime fabbriche:“Il massimo del successo e del vigore dello Stato assoluto del Seicento coincise necessariamente col soffocamento dei diritti tradizionali e delle autonomie della nobiltà. Gli ultimi Stati Generali in Francia prima della rivoluzione si tennero nel 1614, le ultime Cortes prima di Napoleone furono adunate in Castiglia nel 1669; l‟ultimo Landtag bavarese ebbe luogo nel 1669, mentre in Inghilterra si verificò la più lunga interruzione dell‟attività parlamentare nel corso del secolo, dal 1629 alla guerra civile del 1640. In questo modo tutto il XVII secolo fu la scena, in Occidente, di rivolte nobiliari locali contro lo Stato assoluto che spesso si mescolavano a rivolte di mercanti e giuristi che talvolta utilizzavano come arma antimonarchica le sollevazioni delle masse urbane e rurali.”78 Ma, nonostante tali condizioni, oggettivamente riscontrabili, nelle dinamiche della formazione di una coscienza dei diritti dell‘uomo, agli inizi della modernità “un altro evento tracciò un solco fondamentale nei tratti indelebili dell‟epoca moderna:la Riforma Protestante e le conseguenze che essa determinò nell‟ambito religioso. Le proposte di Lutero, di Calvino e quel vasto complesso di progetti riformatori che innovarono le Chiese di tutta Europa colpirono nel profondo principi, dogmi, credenze e liturgie del cattolicesimo. Ma le lotte tra protestanti e cattolici non furono solo una controversia teologica. In Germania ebbero degli aspetti spiccatamente politici: La Riforma fu un momento della rinascita nazionale tedesca. Un movimento di difesa rispetto all‟ingerenza papale da una 77 78 M. Zanantoni, Anarchismo, Editrice Bibliografica, 1996 Milano, pp. 12-13 Ivi, pp. 13-14 31 parte e ai tentativi di centralizzazione imperiale dall‟altra.”79 La lotta religiosa e politica tra Cinquecento e Seicento assunse queste connotazioni non solo in Germania e vide fazioni, classi e poteri diversi scontrarsi per l‘affermazione di nuovi diritti e, in certi casi, anche per la difesa di privilegi di origine reazionaria. Questa situazione magmatica conoscerà il suo punto di arrivo nella grande rivoluzione francese del 1789 che completò una fase di transizione, sia sotto il profilo economico che politico. Infatti, “ in meno di quattro mesi, tra maggio e agosto del 1789, tre rivoluzioni si succedettero e si intrecciarono in Francia. La prima rivoluzione fu quella della borghesia, essa trasferì il principio della sovranità della monarchia alla nazione, aprendo la strada alla legittimità delle radicali trasformazioni delle istituzioni politiche, economiche e sociali. La seconda rivoluzione fu quella popolare dei ceti urbani di molte città della Francia. La terza fu il grande sommovimento delle campagne. Da quel momento di fine settecento, seppure con un intervallo restauratore di circa cinquant‟anni, lo Stato assunse, nelle costituzioni di tanti paesi, i suoi tratti definiti e le nazioni europee completarono le loro unità territoriali.”80 E‘ questo il momento in cui sorgono, in tutta Europa, movimenti di orientamento libertario ed anarchico, traendo linfa vitale dal particolare momento storico di profonde trasformazioni sociali, con il passaggio ad un sistema di produzione capitalistico e la definitiva affermazione dello stato moderno, così come ora noi lo conosciamo. I molteplici spunti teorici del momento, confortano e sostengono questo processo di autoresponsabilizzazione cosciente dell‘individuo all‘indomani del rinascimento. Il processo innescato non conoscerà soste, neanche di fronte alla controriforma, particolarmente cruenta per gli aspetti che assunse. Lo stesso movimento anarchico, nel suo aspetto più libertario ed antiautoritario, poté sfruttare e appoggiarsi su un impianto teorico e storico che ne favorì il processo formativo, essenzialmente attraverso due elementi da evidenziare: “…la secolarizzazione, ossia quel processo irreversibile verso il rifiuto radicale di ogni dipendenza dell‟uomo da Dio e l‟individuazione, cioè il progressivo emergere dell‟autodeterminazione del soggetto.”81 Non dobbiamo dimenticare, infatti, quale aspetto assunse la secolarizzazione, inizialmente, durante la Riforma, quale forma giuridica che legittimasse l‘espropriazione dei beni ecclesiastici a favore dei principi e delle chiese nazionali riformate, per poi conoscere un‘ estensione del senso e dei relativi campi di applicazione in cui utilizzarla, nel corso 79 80 81 Ivi, p.14 Ivi, pp. 14-15 Ivi, p. 15 32 dell‘800. Sotto il profilo storico, il termine assunse quello di fondamento della nascente modernità come “progresso, rivoluzione, liberazione, riunite, se si vuole, entro la dimensione della storia come accumulo progressivo e irreversibile di trasformazioni. La nuova economia di mercato, il commercio aprono la società e fanno entrare in essa le forze modernizzanti: l‟individualismo, la ragione, la sperimentazione, il mutamento. E qui avviene, di pari passo, la secolarizzazione, un ampliamento della sfera laica e profana a spese della sfera del sacro, la demitizzazione della religione. L‟affievolirsi dell‟autorità dei modi di pensare, di sentire e di agire ereditati dalle passate generazioni.”82 Grande importanza assume, sia come elemento culturale che come affermazione nel mondo reale, l‘emergere pieno e consapevole della figura del soggetto-individuo moderno che può, così, porre l‘accento sui propri diritti che conseguono a questo status. Le forze in gioco iniziano ad elaborare teorie sul rapporto tra Stato e individuo, andando anche ad esaminare la formazione, l‘evoluzione e la struttura dello Stato e dei poteri: istituzioni, società civile, Chiesa e individuo diventano oggetti di studio nell‘insieme dei rapporti che tra loro intercorrono. In questo senso, sin dal ‗500, iniziano ad essere messi in discussione i principi dell‘autorità che, per millenni, erano stati imposti ed in cui la Chiesa aveva avuto la sua grande parte. E‘ proprio dalla Chiesa che arrivano i primi scossoni, in quanto “La riforma protestante di Lutero, ma ancor di più di Calvino, di Zwigli e di altri riformatori riconosceva il diritto di agire contro un tiranno o contro sovrani ostili alla <<vera religione>> e sanciva il diritto di ribellione in nome della fede con argomenti forti in grado di mettere in discussione qualsiasi autorità, sia religiosa che politica. Nel protestantesimo crollava ogni distinzione tra una gerarchia investita da Dio e culminante nel pontefice e l‟insieme dei fedeli, la <<vera chiesa>>. Era inevitabilmente un‟investitura alla potenza fondante dell‟individuo essere abilitato a scoprire e tracciare da solo la via della sua salvezza, attraverso la lettura personale del Vecchio e Nuovo Testamento”83. Non solo, sin dall‘inizio della storia si può notare come le dottrine giusnaturalistiche conoscano degli alti e bassi ricorrenti. Così, ai tempi delle grandi rivoluzioni della modernità, che saranno trattate in questo paragrafo, si potrà osservare una vitalità della dottrina ed un farne il centro di riferimento teorico di una riflessione politica e sociale ed ―un potente motore di rinnovamento” della società dell‘epoca. Al contrario,” nei momenti di maggior fulgore giuspositivista”84, come negli ultimi due secoli, il discorso sul diritto naturale si è esaurito nel ritenerlo “obsoleto, defunto, o frutto tristemente ambiguo 82 83 84 Ivi, p. 16 Ivi, p. 17. F. Di Blasio – Paolo Heritier, La vitalità del diritto naturale, Ed Phronesis, 2008 Palemo pag. VII. 33 della superstizione e dell‟ideologia.”85 La dottrina giusnaturalistica riprende vigore nell‘affermazione di uno stato di natura preesistente, in cui i diritti al godimento della vita, delle libertà e il perseguimento della felicità da parte di ogni individuo divengono punti centrali del dibattito. La dottrina contrattualistica della società non può fare a meno di considerare questi ―nuovi‖ aspetti e, nonostante l‘avversione di Hobbes a tale dottrina, che reputa negativamente individualistica ed egoistica, questa incontrerà il favore di altri, da Locke a Rousseau che esaltano gli aspetti positivi cui il contratto deve rifarsi onde “dar vita allo Stato, ciò non elimina però il fatto che quei diritti rimangono incancellabili e così forti da rendere legittima una ribellione popolare contro quello Stato che intende cancellarli.”86 Locke, Spinosa, Rousseau e le stesse dichiarazioni dei diritti, che vedranno la luce dopo la guerra d‘indipendenza degli Stati Uniti d‘America e la rivoluzione francese, altro non faranno se non codificare, affermare, ampliare quei diritti che verranno, appunto, ―dichiarati‖ con voce alta e ferma, fino ad essere quasi urlati di fronte a tutti. Si può, quindi, ampiamente confermare quanto affermato da M. Flores nel suo Storia dei diritti umani87 e sottolineare la loro centralità perché intorno ad essi, da sempre, si svolge una battaglia culturale e una pratica politica (internazionale) che in un modo o nell‘altro condizionano o possono farlo, la vita di ogni abitante del pianeta, per gli sviluppi che possono comportare. Sin dalla loro prima affermazione, questi diritti conoscono una tensione continua tra le premesse necessarie e le proprie aspirazioni universalistiche che, in parte, contraddicono alla modesta capacità di realizzazione di cui godono, immersi come sono tra valori morali, civili e politici e regole codificate (o meglio affermate); “tra principi che si autoproclamano e comportamenti che spesso li contraddicono”… I diritti umani sono, infatti,<< diritti storici>> , non solo perché sono nati in circostanze particolari, si sono evoluti in contesti definiti, sono stati caratterizzati da lotte di grande portata per la libertà e l‟uguaglianza che si sono riproposte nel tempo in maniera diversa e articolata…Una visione universalistica dei diritti si è sempre intrecciata, almeno fino a pochi decenni fa, con una sua lettura particolaristica. …L‟assolutezza dei principi e dei valori che incarnano i diritti umani – utopia, giustizia, libertà, uguaglianza – hanno trovato nella storia i loro limiti reciproci, il loro possibile equilibrio, le ragioni della loro violazione e, quando è stato 85 86 87 Ibidem. M. Zanantoni, op. cit., p. 17 M. Flores, Storia dei diritti umani,cit., p. 10: “La storia dei diritti umani è il percorso con cui principi e valori morali si sono trasformati in obiettivi politici e articoli di legge e istituzioni giuridiche, ma anche in senso comune e opinioni condivise grazie alla diffusione culturale e all‟azione quotidiana di tutti coloro che sentivano l‟urgenza della loro attivazione. 34 possibile, della loro realizzazione.”88 Sono diritti che, essenzialmente, sorgono e divengono necessari in un‘ampia condivisione tra gli uomini, al di sopra di quei fattori di divisione tra cui possono essere annoverati anche la “religione e l‟ideologia. Ogni religione si può dire sia fattore di divisione tra i popoli quando il potere dispotico la fa sua, ne fa la religione di stato, e la impone coercitivamente ai popoli che soggioga.”89 In specie quelle che sono ritenute le grandi religioni profetiche e, come tali, depositarie dell‘unica verità possibile, dell‘unico vero Dio, dell‘unica vera via di salvezza ed il cui annuncio è universale: Buddismo, Cristianesimo, Islamismo. Più si avvicina alla forma stato, più il potere religioso coercitivo si espande, e, seppure l‘uso della guerra, come mezzo per imporre, sia presente solo in alcuni passi del Corano, la storia ci dimostra come si possa arrivare a certi eccessi, allontanandosi dalla strada dei diritti. Eppure, tali diritti sorgono nel tempo, ne subiscono gli umori e le vicissitudini e vedono la loro prima compiuta espressione nel linguaggio con Voltaire (Trattato sulla tolleranza) e Rousseau (Discordo sulla disuguaglianza, Emilio, Contratto sociale) e, per contagio, nelle opere letterarie e nelle commedie entra il linguaggio dei diritti come uso comune: “Gli attori della Comédie Francaise hanno recitato oggi, per la prima volta, Manco (un dramma sugli Incas in Perù), del quale abbiamo già parlato in precedenza. E‟ una delle tragedie composte peggio. Fra le parti vi è quella di un selvaggio che potrebbe essere bellissima: egli recita in versi tutto ciò che abbiamo letto sui re, sulla libertà e sui diritti dell‟uomo disseminato nel Discorso sulla disuguaglianza, nell‟Emilio e nel Contratto sociale”.90 Come osserva la Hunt, ―anche se nel dramma in realtà non viene adoperata la formulazione precisa di <<diritti dell‟uomo>>, ma una frase affine, <<i diritti del nostro essere>>, l‟espressione era chiaramente entrata nell‟uso intellettuale ed era infatti direttamente associata alle opere di Rousseau. Altri scrittori dell‟Illuminismo, come il barone d‟Holbach, Raynal e Mercier, la ripresero poi negli anni settanta e ottanta del „700. Prima del 1789 l‟espressione <<diritti dell‟uomo>> ebbe scarsa diffusione in inglese. Ma la Rivoluzione americana indusse il campione dell‟Illuminismo francese, il marchese di Condorcet a compiere il primo passo nel definire <<i diritti dell‟uomo>>…. Nel suo saggio del 1786, De l‟influence de la révolution d‟Amerique sur l‟Europe, Condorcet collegava espressamente i diritti dell‟uomo alla Rivoluzione Americana….91 In realtà, sin dal XVI sec. il progredire delle istanze individualistiche, unite ad una 88 89 90 91 Ivi, pp. 8 - 9 A. Colombo in Rivista di Studi Utopici, Ed. Carra lecce 2007, anno II n.4, p. 9 Lynn Hunt, La forza dell‟empatia, Ed. Laterza, Roma-Bari 2010, p. 10. L. Hunt, La forza dell‟empatia, cit., p. 11. 35 maggiore considerazione dell‘attività fattiva ed operosa dell‘uomo nella storia, hanno permesso una rivisitazione complessiva e la possibilità per inglesi, francesi e coloni d‘America di entrare a contatto con le prime, incerte espressioni dei diritti che derivavano dallo “spazio sempre maggiore che avevano nella realtà i diritti particolari (gli inglesi nati liberi), ma anche dal riconoscersi nelle esperienze altrui, nel condividere le stesse aspirazioni, preoccupazioni, ansie e desiderio di libertà e di autorealizzazione.”92 In pratica, l‘espressione diritti dell‟uomo e il linguaggio che le è proprio, non designava con precisione i termini della questione od esplicitava un contenuto ben definito. Gli utilizzatori del termine, come lo stesso Rousseau, non fornivano delucidazioni sul significato che il termine indicava. Un gigantesco ―work in progress‖ che attingeva dagli infiniti, molteplici campi in cui si svolgeva l‘esistenza e l‘attività umana. Proprio questo modo di procedere, con molta probabilità, era di così forte evidenza per i contemporanei che, gli stessi, non abbisognavano di alcuna spiegazione o precisazione sul termine in uso, potendo lo stesso abbracciare ogni aspetto dell‘esperienza umana. Le Dichiarazioni, con molta probabilità, rappresentarono un primo elenco di precisazioni sui contenuti di tali diritti (1776 Dichiarazione dei diritti della Virginia di Gorge Mason), senza per questo procedere ad una loro definizione categorica, vero quanto osserva la Hunt che “ i diritti umani sono difficili da definire, perché la loro definizione e addirittura la loro esistenza dipendono tanto dalle emozioni quanto dalla ragione. L‟affermazione dell‟ovvietà si fonda, in ultima istanza, su un richiamo emotivo, è convincente se fa risuonare qualcosa in ogni persona. Inoltre, abbiamo la certezza che un diritto umano sia in discussione quando la sua violazione ci fa inorridire.”93 Il merito della Hunt è quello di aver ―scoperto‖, se così si può dire, l‘ovvietà del principio di condivisione, alla base di ogni diritto dell‘uomo, insito nel riconoscimento dell‘altro come soggetto portatore di identiche situazioni e valenze rispetto all‘Io. Storicamente, questo rappresenta l‘elemento comune, l‘identità sostanziale alla base del riconoscimento del diritto. E‘ una dichiarazione di evidenza, di interesse per gli altri che accomuna, il tracciare un solco nel definire il bene e il male, avvicinare questi concetti all‘individuo e renderli umani e non trascendenti dal divino. Per fare questo occorre che le idee politiche e filosofiche, lo spirito rivoluzionario di ognuno, incontri “questo punto di riferimento emotivo interiore (e comune) perché i diritti umani fossero davvero <<evidenti di per sé>>.94 92 93 94 M. Flores, op. cit,, p. 47 L. Hunt, op. cit., p. 12. Ivi, p. 13 36 Se solo consideriamo concetti come autonomia, uguaglianza, autogoverno che, oggi, diamo per scontati al senso comune, ci si rende conto come per quel momento storico tali espressioni concettuali fossero tutto fuorché acquisite. Basti pensare alle condizioni ancora operanti nel XX secolo, per quanto riguarda le donne, per comprendere come il cammino dei diritti sia iniziato da lontano e sia essenzialmente basato sulla costruzione pratica del senso: “il motivo per escludere automaticamente alcune categorie di persone dall‟esercizio di tali diritti, secondo i fautori dei diritti umani naturali, uguali e universali, stava nella loro inferiorità: non le consideravano in grado di avere una piena autonomia morale”95 In un clima del genere, allora, appare logico ipotizzare il procedere per categorie non assolute ma, parziali, come appunto in questo caso che ha riguardato (riguarda?) il genere femminile, cosa questa confermata dall‘evolversi della situazione in Francia che “nel 1791 il governo rivoluzionario francese concesse pari diritti agli ebrei, nel 1792 furono emancipati anche gli uomini nullatenenti e nel 1794 fu ufficialmente abolita la schiavitù”96, ma nulla fu fatto per le donne. Questo ha permesso di evidenziare uno degli aspetti caratteristici dei D.U.: quello di non poter essere definiti in maniera esauriente e completa, in virtù del loro fondamento emotivo in costante evoluzione rispetto al dichiarare i diritti stessi. I diritti umani, cioè, non si esauriscono nella loro affermazione, ma rimangono oggetto di ulteriore discussione e approfondimento, sia sotto il profilo teorico che pratico, rendendo permanente il loro carattere rivoluzionario per definizione visto che “l‟autonomia e l‟empatia sono pratiche culturali…hanno…una dimensione fisica oltre che emotiva. L‟autonomia individuale è imperniata su una consapevolezza sempre più profonda della separatezza e dell‟inviolabilità del corpo umano…L‟empatia si basa sul riconoscimento che gli altri sentono e pensano come noi…”97 Ciò permette di ritenere come il primo passo nell‘affermazione dei diritti sia stato quello riferito all‘integrità della propria identità corporea, cioè materiale, elemento indispensabile a considerare ―l‘essere‖ umano, in quanto tale. L‘elemento corporeo, dopo secoli di legittimazione dello strumento della tortura, anche da parte della Chiesa con i tribunali dell‘Inquisizione sin dal XII secolo e fino al 180098, pur con le differenze per cui erano sorti ed utilizzati, diviene centrale nel dibattito sui diritti, in Europa come altrove, pur con i limiti sopra accennati in termini di considerazione dell‘essenza dei diritti stessi: “ i 95 96 97 98 Ivi, p. 14 Ibidem. Ivi, p. 15. http://it.wikipedia.org/wiki/Inquisizione 37 diritti umani dipendono sia dal possesso di sé e del proprio corpo, sia dal riconoscimento che tutte le altre persone sono altrettanto padrone di sé stesse. E‟ lo sviluppo incompleto di quest‟ultimo concetto a provocare tutte le disparità di diritti sulle quali riflettiamo sin dall‟inizio della storia”.99 E‘ in seguito a questa riflessione dell‘epoca che ha visto la luce una delle opere fondamentali e più interessanti dell‘Illuminismo italiano, forse l‘unica che può essere ritenuta all‘altezza dei lavori d‘oltralpe, di Voltaire, Rousseau e degli illuministi francesi in generale: il ―Dei delitti e delle pene” del marchese milanese Cesare Beccaria. Il saggio del 1764, seppure breve (ma non per questo meno intenso), andò per la prima volta a toccare il sistema della giustizia e dell‘organizzazione penale che, nell‘Europa del ‗700, rappresenta ancora un forte veicolo di barbarie, di ingiustizie, di repressione, di dolore e degrado della natura umana. Basti pensare alla natura delle prove, poco solide, spesso fondate su accuse ―anonime‖ o testimonianze dubbie e totalmente affidate alla discrezionalità del giudice che, in quell‘epoca, è disponibile a ogni sorta di corruzione o a porsi al servizio degli interessi di casta e/o di classe. Per quei tempi, inoltre, la ―funzione rieducativa della pena‖ non si pone, o meglio, si pone nei termini in cui la punizione inferta ai condannati (colpevoli o meno) è pubblica e cruenta ed “in cui l‟eccesso di violenza dovrebbe magnificare la potenza della giustizia intimorendo e ammonendo gli spettatori a non incorrere nella sua vendetta e nelle sofferenze imposte dalla legge”100 In questo discorso, ovviamente, si riflette un principio che risulta già inserito nella Magna Charta di Giovanni Senzaterra e poi di Enrico III, quello dell‘Habeas Corpus, quale garanzia da arresti arbitrari e dall‘ essere giudicati da un tribunale di pari e in base a leggi certe, principio che trovò la sua esplicitazione solo nel 1679 (Habeas Corpus Act), ma che rimase lettera morta e largamente disatteso in Europa e in Inghilterra, dove tra l‘altro, era nato e codificato. Tale principio, comunque, non risultava essere un fondamento a difesa del corpo e della sua sacralità (come in effetti era ritenuto quello del sovrano), ma un rimedio contro gli arbitrii delle forze di polizia, garantito da una magistratura che andava emancipandosi dal potere politico. Pur laureatosi in legge a Pavia nel 1758, il Beccaria non è sicuramente quello che si può definire un esperto di questioni giuridiche e meno che mai del sistema carcerario, in cui sarà introdotto alla conoscenza da Pietro Verri, altro esponente dell‘illuminismo italiano che aveva il suo ―luogo‖ di ritrovo sulla rivista <<Il Caffè>>. ―E‟ contro i meccanismi del sistema giudiziario e della legge penale del tempo che Beccarla scrive il suo piccolo trattato, contro una realtà fatta di abusi e crudeltà, di arbitri e capricci, 99 100 L. Hunt, op. cit., p. 15. M. Flores, op. cit,,p. 49. 38 di una mancanza di razionalità che lascia attoniti e indispettiti i seguaci dei Lumi.”101 Peraltro, in quegli stessi anni, questa sensibilità, nei confronti dell‘altrui sofferenza, appare quanto mai in fermento e pronta a spargersi come seme gratuito sui prati di ogni nazione. “Nel 1762, lo stesso anno in cui Rousseau introdusse l‟espressione <<diritti dell‟uomo>>, un tribunale di Tolosa, città della Francia meridionale, accusò un protestante francese di 64 anni, JEAN Calas, di avere ucciso il figlio Marc Antoine per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. I giudici condannarono Jean al supplizio della ruota. Prima dell‟esecuzione, Calas fu sottoposto a tortura giudiziale, la cosiddetta <<tortura preliminare>>intesa a indurre i criminali già condannati a denunciare i complici. Con i polsi saldamente legati a una barra dietro la schiena, Calas fu sottoposto a squassamento tramite un sistema di carrucole e manovelle che tirava le braccia verso l‟alto mentre un peso di ferro teneva fermi i piedi. Quando dopo due applicazioni Calas rifiuto di fare i nomi, egli fu legato a un asse e costretto a ingoiare litri d‟acqua con la bocca tenuta aperta da due bacchette. Sollecitato di nuovo a denunciare i complici, sembra abbai risposto: <<Quando non c‟è delitto, non possono esserci complici”.102 La morte non fu né rapida, né indolore e l‘affare Calais fu riproposto, alcuni mesi dopo, con la pubblicazione del Trattato sulla tolleranza in occasione della morte di Jean Calas, di Voltaire, nel quale lo stesso usò la dizione <<diritto umano>>. L‘elaborazione di Voltaire sul tema non si esaurì nel breve spazio del Trattato, ma, al pari di ogni attività concernente i diritti, ieri come oggi, fu l‘inizio di un‘ attività speculativa di sempre maggiore portata e di sempre inattese conseguenze. Il punto di partenza fu, infatti, la considerazione che l‘intolleranza non poteva essere un diritto umano e che era condannabile il fanatismo religioso che aveva alimentato la decisione dei giudici (richiamando il passato di paesi tristemente noti per le loro Sante Inquisizioni), ma si astenne dal condannare la tortura. Solo in seguito e dopo aver continuato ad assumere informazioni complete sul caso103 “Voltaire cominciò a modificare il suo punto di vista, indirizzando la sua attenzione sempre di più sul sistema di giustizia penale, soprattutto sull‟uso della tortura e sulla sua crudeltà. Nei suoi scritti iniziali su Calas, nel 1762-1763, 101 102 103 Ivi, p. 50. L. Hunt, op. cit., p. 51. Il caso Calas consisteva, in realtà, in un atto di pietà messo in azione dal Calas stesso e dai suoi familiari. Ritrovato, infatti, il corpo del proprio figlio appeso, impiccato ad una trave, pensò bene di metterlo a terra e dire che lo stesso era rimasto vittima di omicidio. Tale messinscena serviva a scongiurare il pericolo, come usuale per i morti per suicidio, che il corpo potesse esser fatto oggetto di atti che , oggi, definiremmo come vilipendio e che invece all‘epoca erano concessi ed in uso, come trascinare il corpo del suicida per le strade della città poi appeso per i piedi e infine gettato tra i rifiuti (e non in terra consacrata). Le contraddizioni tra le dichiarazioni rese dai familiari, scatenarono i dubbi dei magistrati e della polizia che credendo di trovarsi di fronte ad un omicidio sì, ma perpetrato in ambito familiare, fecero di tutto per arrivare ad avvalorare questa loro ipotesi con i mezzi a disposizione all‘epoca. 39 Voltaire non adoperò mai il termine <<tortura>>(sostituendolo con un eufemismo legale, <<interrogatorio>>). Denunciò la tortura giudiziale per la prima volta nel 1766 e in seguito collegò di frequente Calas alla tortura. La naturale compassione fa detestare a tutti la crudeltà della tortura giudiziale, insisteva Voltaire, sebbene egli stesso non lo avesse mai detto prima”104. Ciò che, quindi, entra in gioco nel valutare questa realtà, da parte dei diversi autori, è la capacità di instaurare con le vittime un rapporto emotivo, di avvertire le sensazioni, di vivere lo sgomento, insomma di immedesimarsi con i soggetti costretti a subire tali violenze, come il bellissimo libro della Hunt tende ad ogni passo a sottolineare. Ma l‘insieme di questi passaggi, ovviamente, trattandosi di un percorso speculativo, non può (e non lo è infatti…) essere immediato. Lo riassume bene, in questo senso, il lavoro del Beccaria che vede il fine della legge nel garantire libertà e sicurezza al maggior numero di persone, come buona parte dei riformatori del ‗700 riteneva. Il potere doveva essere teso al raggiungimento dell‘interesse comune nella ricerca della pubblica felicità. ‖ La punizione per chi commette crimini, di conseguenza, non può avere il carattere vendicativo, di espiazione violenta e spettacolare che aveva avuto per secoli. La punizione si fonda sulla <<necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari>>, ed è solo il legislatore – non l‟arbitrio del giudice – a poter <<decretare le pene sui delitti>>. Tra delitti e pene vi deve essere una proporzione, da misurare non in base all‟intenzione di chi commette il reato ma rispetto al danno che ne viene alla collettività (<<alla nazione>>). E‟ questa la ragione per cui, secondo Beccaria, i delitti più gravi sono quelli di <<lesa maestà>> (tradimento o rivolta contro lo stato), poi quelli <<contrari alla sicurezza>> e proprietà degli individui, infine quelli che minano la pace sociale e la tranquillità dei cittadini.”105 La pena, quindi, assume un ruolo del tutto preventivo di crimini ulteriori, in cui il carattere violento e deturpante non è centrale così come è dato credere. Il motivo per cui il pubblico avverte il carattere deterrente sarebbe, infatti, il considerare certa e ineluttabile la punizione dopo un crimine, la certezza della pena che assume valenza futura e ammonitrice. La tortura ―<<una crudeltà consacrata dall‟uso nella maggior parte delle nazioni>> non può risolvere il dilemma di fondo della giustizia…”106 riferibile alla certezza del delitto e alla sua inevitabile conseguenza: la sanzione. In questo senso, quindi, muoveranno congiuntamente molti paesi europei “Come per i 104 105 106 L. Hunt, op. cit., p. 55. M. Flores, op. cit., p. 51. Ibidem. 40 diritti umani più in generale, i nuovi atteggiamenti riguardo alla tortura e alla moderazione delle pene trovarono espressione concreta negli anni Sessanta del Settecento, non solo in Francia, ma anche altrove, in Europa e nelle colonie americane. Federico il Grande, amico di Voltaire, aveva abolito la tortura giudiziale nei suoi territori già nel 1754. Altri seguirono il suo esempio nei decenni successivi: la Svezia nel 1772, l‟Austria e la Boemia nel 1776. Nel 1780 la monarchia francese soppresse l‟uso della tortura per costringere l‟imputato a confessare prima della sentenza e nel 1788 abolì provvisoriamente la tortura prima dell‟esecuzione per estorcere al condannato i nomi dei complici.” 107 Il discorso sulla tortura ha una sua rilevanza preponderante in relazione ai diritti e merita un approfondimento (né potrebbe essere diversamente, specie in considerazione del fatto che, nonostante le molteplici dichiarazioni, gli accordi, le convenzioni, a tutt‘oggi lo strumento della tortura di prigionieri politici e non continua ad essere largamente praticato, anche in quelli che sono comunemente citati come paesi civili e democratici e nella stessa Europa. Ma, questo aspetto è con molta probabilità dovuto al lato ―oscuro‖ inscindibilmente legato ad ogni espressione del ―potere‖, sia esso individuale e/o collettivo e tendente alla sua conservazione, quando si trovi ad essere contrastato, combattuto o, più semplicemente, svelato nella sua vera essenza oppressiva.). Dopo un breve periodo di flessione, la tortura era ritornata in auge intorno al sec. XIII, quale conseguenza del ritorno all‘adozione del diritto romano e assai più con la contemporanea introduzione dell‘Inquisizione cattolica. La particolarità di questo ―strumento‖, così largamente utilizzato e connesso al potere, consiste nel rifiuto assoluto dell‘essere umano, cioè nel negare all‘altro la sua umanità, come caratteristica comune a tutti gli individui. Volendo fare un paragone improponibile, si potrebbe dire che neanche la pena di morte è così ―offensiva‖ nei confronti dell‘ integrità della persona. Questi concetti, seppure soggetti ad una lenta elaborazione temporale, dovevano esser ben chiari all‘età dei lumi, anche se ancora necessitavano di una loro elaborazione: “Vi è, in questa <<infame>> ricerca della verità, un retaggio della <<selvaggia>> legislazione del tempo dei giudizi di Dio, come di derivazione religiosa è la convinzione che la tortura purgherebbe dall‟infamia alla stregua della confessione la <<tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l‟infamia dando l‟infamia.>>”108 Tale negazione dell‘essere umano non poteva non essere trasportata dal piano dialettico anche a quello politico e storico, come sempre avviene nell‘affermare qualcosa, la cui conseguenza diretta era ed è di valutare l‘individuo come facente parte di una comunità 107 108 L. Hunt, op. cit., p. 56. M. Flores, op. cit., p. 52. 41 ed a questo proposito “Beccarla rammenta al lettore che gli antichi romani permettevano l‟uso della tortura soltanto sugli schiavi, cui era negata la dignità di persona e di cittadino; e che nell‟Europa del suo tempo è impedita in Inghilterra dal common law ed è stata abolita in Svezia(solo per i reati comuni e non per quelli politici) e da<< uno de‟ più saggi monarchi d‟Europa>>: quel Federico II di Prussica amico e corrispondete dei philosophes, che nel 1740 aveva effettivamente abolito la tortura appena salito al trono a ventotto anni. Quanto alla pena di morte, Beccarla non la considera né legittima né necessaria, né utile né giusta. Egli sostiene che possa essere ritenuta necessaria solo nei due casi eccezionali della salvaguardia della sicurezza nazionale e della difesa da una <<rivoluzione pericolosa>> nel momento in cui <<la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell‟anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi>>.”109 La natura dell‘istituzione statale era ritenuta, come appena illustrato, intangibile da parte delle dinamiche sociali. Lo scoppio della rivoluzione in Francia, evidentemente, oltre a sorprendere, non smentirà il carattere di ―pericolosità‖ insito nel concetto di rivoluzione, come non modificherà il diverso regime di applicazione della pena di morte, ad esempio, ampiamente conservato nei codici militari applicabili in tempo di guerra, di quasi tutti i paesi ―civili‖ anche al giorno d‘oggi. Questo appare confermare quanto detto in precedenza sulla differenza, già originariamente operata e poi ereditata, tra la pena di morte e la tortura come strumento di negazione dell‘essere umano. Seppure entrambe praticate, in determinate occasioni, i codici conservano traccia di un utilizzo legittimo della pena di morte, ma non della tortura, proprio perché questo è strumento inconfessabile ed indicibile della negazione dell‘essere umano. Le pratiche della sofferenza, al cui utilizzo e varietà non si metterà mai fine, contavano, già all‘epoca, dei manuali (Inquisizione) che illustravano nel dettaglio le caratteristiche e gli effetti del loro impiego sul corpo umano, “contro le streghe, per esempio, i più severi magistrati scozzesi utilizzavano la punzecchiatura, la privazione del sonno, la tortura dello <<stivaletto spagnolo>> (frattura delle gambe, in seguito conosciuto anche sotto la forma dello stivaletto malese, schiacciamento e frattura della caviglia e del piede), l‟ustione con ferri roventi e altri metodi. La tortura finalizzata a estorcere il nome dei complici era ammessa dalla legge coloniale del Massachusetts, ma a quanto pare non fu mai applicata. Forme brutali di punizione al momento della condanna erano presenti ovunque in Europa e nelle Americhe. Anche se il Bill of Right britannico del 1869 proibiva espressamente le pene crudeli, i giudici condannavano ancora i criminali al 109 Ibidem. 42 palo della fustigazione, all‟immersione dello sgabello, ai ceppi, alla gogna, alla marchiatura a fuoco e alla morte per trazione e squartamento (smembramento con i cavalli) o, per le donne trazione e squartamento e rogo. Che cosa rendesse <<crudele>> una condanna ovviamente dipendeva dalle aspettative culturali. Il Parlamento proibì la messa al rogo delle donne soltanto nel 1790. In precedenza aveva però enormemente aumentato il numero di reati passibili della pena capitale, che secondo alcune stime triplicò nel XVIII secolo.”110 Quindi, se da una parte il potere era costretto ad abbandonare un forte ―strumento‖ di pressione, dall‘altra, immediatamente, lo recuperava, inasprendo ed aumentando l‘utilizzo della pena di morte ed aggiungendo elementi accessori alla stessa pena (ritenuti all‘epoca particolarmente infamanti), come la consegna ai medici dei cadaveri perché fossero sottoposti alla dissezione anatomica, o la discrezionalità affidata al giudice di far appendere il cadavere del condannato dopo l‘esecuzione in cui “nonostante il crescente disagio provocato da questa esposizione al pubblico ludibrio dei cadaveri degli assassini, la pratica non fu abolita fino al 1834.”111 Infliggere dolore, umiliare un uomo, sono parte essenziale di pratiche degradanti tese alla negazione dell‘essere umano e conservate ufficialmente (ma non ufficiosamente come detto in precedenza, visto che ancora si praticano) fino al prima metà del 1800, considerato che portare cartelli appesi al collo, taglio dell‘orecchio, marchiatura a fuoco, fustigazione erano ancora in uso nel nuovo continente e anche sul vecchio 112. Il Bill of Rights britannico, ad esempio, non era utilizzato per gli schiavi, considerati soggetti senza diritti di natura giuridica (potevano infatti, a seconda dei casi, essere soggetti a varie forme di pena come: essere castrati, taglio delle mano, bruciati lentamente, torturati alla ruota, appesi fino alla morte per inedia) e l‘America, il nuovo continente, esprimeva chiaramente, nelle normative, la possibilità di infliggere queste pene. Non da meno erano i tribunali francesi dove venivano comminate punizioni corporali pubbliche che andavano dalla marchiatura a fuoco, alla fustigazione, al collare di ferro, alla ruota e al rogo.113 Anche la pena di morte, in Francia, poteva contare su una differenziazione del metodo utilizzato per portare alla morte il condannato. Tali metodi venivano differenziati non solo in relazione alla tipologia di reato/infrazione alle leggi del tempo, ma anche in relazione allo status del soggetto colpevole, da qui la “decapitazione per i nobili; l‟impiccagione per i criminali comuni; la trazione o squartamento per i delitti di lesa 110 111 112 113 L. Hunt, op. cit., p. 57. Ibidem. Ivi, pp. 57 – 58. Ivi, p. 58. 43 maestà, ossia contro il sovrano; il rogo per l‟eresia, la stregoneria, l‟incendio doloso, l‟avvelenamento, la bestialità (cioè rapporti sessuali con animali) e la sodomia; il supplizio della ruota per omicidio o rapina sulla pubblica via.114 Indubbiamente, il lavoro del Beccaria contribuì enormemente a focalizzare l‘attenzione su un sistema giudiziario penale, in vigore all‘epoca con poche differenziazioni da paese a paese, estremamente ingiusto e portato alla violazione dell‘essere umano più che alla sua punizione o ad un eventuale compito di prevenzione. Il giovane italiano, infatti, “contestava non solo la tortura e le pene crudeli, ma anche – iniziativa straordinaria per l‟epoca – la pena di morte. Contro il potere assoluto dei sovrani, l‟ortodossia religiosa e i privilegi dei nobili, Beccaria proponeva un modello democratico di giustizia: <<la massima felicità divisa nel maggior numero>>. Di là in poi, praticamente tutti i riformatori, da Filadelfia a Mosca, lo citarono”.115 Qualcosa di assai più profondo sgorgava dal quel semplice libretto, una “più generale battaglia contro l‟arbitrio giudiziario a favore di un diritto concepito a misura d‟uomo, sottratto a una presunta sacralità, fondato sulla semplice ma dirompente constatazione che <<non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l‟uomo cessi di essere persona e diventi cosa>>.”116 Non si deve credere, però, che il collegamento tra le pene crudeli, la tortura e l‘emergere di una nuova cultura dei D.U. sia stato così chiaro ed evidente per gli stessi appartenenti all‘elite culturale del tempo, come il già citato esempio di Voltaire sul caso Calas ha esaurientemente illustrato. L‘avanzata di un nuovo ordine di pensiero si può, però, cogliere nella rapidità con cui un susseguirsi di avvenimenti e di nuove idee iniziano, affermandosi, a permeare il contesto sociale. La scoperta della possibilità di una possibile condivisione emotiva dell‘evento con un proprio simile, contribuì in buona parte a modificare rapidamente la vita sociale. Nel particolare, “ciò che occorreva oltre all‟empatia – in questo caso una vera e propria condizione essenziale per immedesimarsi nelle sofferenze del condannato – era una nuova attenzione per il corpo umano. Il corpo di una persona, un tempo sacro soltanto nell‟ambito di un ordine definito in termini religiosi, nel quale poteva essere profanato e torturato per il bene superiore, diventò sacro di per sé, in un ordine laico fondato sull‟autonomia e sull‟inviolabilità dell‟individuo.”117 La pena del reo, immolato come vittima sacrificale, ristabiliva l‘ordine dello stato e la sua integrità, mentre, l‘ampia pubblicità dell‘evento, offriva la possibilità di evidenziare il 114 115 116 117 Ivi, pp. 58 -59. Ivi, p. 60. M. Flores, op. cit., p. 53. L. Hunt, op. cit., p. 61. 44 carattere di espiazione cui il reo era sottoposto, tanto è vero che spesso il carattere rituale della pena includeva un atto di penitenza formale (l‘amende honorable)118 che obbligava il condannato a morte a recarsi verso il luogo dell‘esecuzione, portando una fiaccola accesa e fermandosi di fronte ad una chiesa per chiedere perdono. Lo stesso Beccaria, che tanto fece al proposito, riteneva necessario che la pena fosse pubblica perché la sofferenza (conseguentemente giusta) era parte della pena che “deve essere la minima delle possibili nelle <date circostanze> e <proporzionata a‟ delitti>”.119 Ciononostante, lo spettacolo pubblico delle esecuzioni e la pratica del dolore cui era soggetto il condannato sviluppava sempre più un senso di vicinanza con il pubblico che assisteva e che si immedesimava, inorridendo, con il condannato. In pratica, la pubblicità della condanna iniziava a sortire l‘effetto contrario alla ragione per la quale veniva eseguita pubblicamente. La riservatezza, come nota la Hunt, si manifestava anche in una sempre maggiore intimità delle funzioni corporee e in un più accentuato ―autocontrollo‖ per il formarsi di un senso del pudore comune. Le persone iniziarono “a usare i fazzoletti, anziché soffiarsi il naso con le dita. Sputare, mangiare dalla stessa scodella e dormire in un letto con un estraneo diventarono pratiche disgustose e quantomeno sgradevoli…. Queste modificazioni dell‟atteggiamento nei confronti del corpo erano indizi superficiali di una trasformazione più profonda. Segnalavano tutte la nascita dell‟individuo autonomo, i cui confini dovevano essere rispettati nelle interazioni sociali. Possesso di sé ed autonomia richiedevano sempre più autodisciplina”120 Questa dose di autocontrollo trovò espressione anche nelle diverse manifestazioni del vivere quotidiano: nei teatri (con il controllo del corpo, utilizzato dal pubblico per esprimere gradimento con il silenzio e disturbo con tutta la varietà di rumori ed atti corporei rivolti agli spettacoli che non gradivano.), negli alberghi (dove andava progressivamente sostituendosi all‘uso del pagliericcio e dei letti in comune, la stanza per il viaggiatore), nelle case (con la spartizione degli ambienti con una loro destinazione d‘uso). La sola Francia, probabilmente, fu la più restia al cambiamento, almeno a detta dei viaggiatori inglesi 121 che si lamentavano di dover dormire con altri nelle locande, anche se in letti diversi. Ma, più in generale, avviene che l‘uomo “sottratto alla filiazione divina, viene inserito all‟interno del mondo naturale, capace di costruire la propria cultura e la propria storia”122, consentendo così di vedere lo stesso uomo come soggetto di diritti e, all‘inverso, 118 119 120 121 122 Ivi, p. 72. Ivi, p. 74. Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. M. Flores, op. cit., p. 54. 45 ponendo fine alla teoria del diritto (e del potere) come discendente direttamente dal ―divino‖ e della prevalenza di questo potere (ragion di stato) sui diritti dei cittadini. Un cammino verso la libertà di coscienza che inizia con la battaglia per la tolleranza religiosa, anzi per la tolleranza in generale123, a cui si accompagna l‘influenza della riflessione di Rousseau sulla volontà generale e sulla sovranità popolare, la “volontà di tutti, somma delle volontà particolari che si vorrebbero unanimi – e questa <<volontà di tutti contiene in germe il progetto totalitario>>, - Rousseau contrappone una volontà generale che <<tiene conto delle differenze> ed è <<da intendersi come uguaglianza davanti alla legge>>.124 La nascita, quindi, dei diritti civili (diritto oggettivo) è un processo di riparazione e di aggiustamento della situazione di disuguaglianza creata dal contratto sociale, attraverso la garanzia dei diritti naturali di libertà e proprietà. In questo senso anche Locke che vede nella volontaria rinuncia degli uomini – uguali nello stato di natura - ad alcune libertà lo scopo di ottenere ―dal governo protezione della loro vita, libertà e proprietà.”125 Quel che non sfugge a nessuna delle posizioni e degli autori citati e alle altre voci, più o meno contemporanee all‘epoca, è che la nuova società genera sicuramente disuguaglianza e, sempre secondo gli stessi autori, la forma di contratto utilizzato dovrebbe servire a temperarne gli effetti attraverso l‘affermazione del diritto oggettivo che, in qualche modo, compenserebbe la ―perdita‖ sul piano dei diritti soggettivi. Non solo, tutto questo apre lo sguardo su uno scenario dei diritti che necessariamente non può e non deve essere limitato ad un solo ordinamento, ad una sola nazione ma, come nel caso del diritto di libertà, occorre che sia considerato nel senso Kantiano di uno “ius cosmopoliticum, in cui chiunque, anche l‟Altro, anche l‟appartenente ad un altro stato e nazione, venga riconosciuto titolare degli stessi diritti […] Il nuovo concetto di <dignità umana> che emerge dall‟illuminismo è quello della libertà personale, dell‟indipendenza e autonomia di ogni persona, non garantita da Dio o dalle religioni ma dalla sua essenza e dall‟accordo tra gli uomini tutti (il contratto sociale).”126 Il linguaggio dei diritti, o meglio, di una cultura fondata sui diritti di libertà e uguaglianza, comportava una radicale trasformazione delle idee e della società, oltre che dei suoi costituenti principali: leggi, istituzioni, strutture. Singolare è l‘evidenza in cui, più viene rilevato il progressivo formarsi della disuguaglianza nella società, più appare necessario e prioritario affermare l‘identità dei diritti ed il loro impianto teorico, con la 123 124 125 126 Al proposito si veda sia L. Hunt, op. cit.pag 80 e ss.; M. Flores,op.cit., pp.54 e ss.; N. Bobbio, op. cit., pp. 89 e ss. M. Flores, op. cit., p. 54. Ivi, p. 56. Ivi, pp. 56-57. 46 conseguenza però, di legittimazione del nuovo ordine. Proprio in tale ottica, si manifesta subito evidente come, alcune questioni, assumano carattere di priorità e tra queste: la schiavitù (prima come tratta e poi come fenomeno complessivo), le questioni razziali e di genere, l‘uguaglianza delle donne127 (nei diritti dell‘uomo)128 che, in quegli stessi anni, iniziano a prendere corpo. ―Il 22 maggio 1787, dodici uomini si riuniscono nella stamperia e libreria di James Phillips, a Clapham, un villaggio a sudest di Londra. Nove sono quaccheri […]”129: saranno loro (Granville Sharp, Thomas Clarkson, William Wilberforce) le figure di maggior spicco nella battaglia antischiavismo che porterà, nel febbraio 1807, all‘abolizione del commercio di schiavi da parte del parlamento inglese. Già nel 1748 Montesquie e nel 1756 Voltaire avevano combattuto contro tale pratica che aveva conosciuto i primi oppositori (padre Guillaume Thomas Raynal) anche nella Chiesa, pur se questa era rimasta ancorata alle spiegazioni dei teologi che ritenevano la tratta degli schiavi, “conforme alla legge naturale e ai testi sacri”.130 E‘ fin dal XVII secolo che i quaccheri, con la Società degli Amici, denunciano il trattamento ricevuto dagli schiavi (tratta e commercio) come immorale, anche se all‘interno dello stesso movimento non manca la presenza di soggetti che sono parzialmente a favore o che addirittura praticano lo schiavismo. Contemporaneamente, in Francia nel 1788 nasce la Societè des amis des noirs, l‘associazione francese contro lo schiavismo. In questo modo, che potremmo definire quasi contemporaneo, si collega la lotta sotto il profilo penale a quella più generale dei diritti umani.131 Particolarmente interessante appare lo svolgersi di questa battaglia sui diritti umani contemporaneamente all‘affermarsi della logica delle conquiste coloniali, del mercantilismo e dell‘espansione dei concetti di utilità economica e del decollo industriale. Sembra quasi che più aumenti la spinta verso pretese istanze di modernizzazione più si avverta il bisogno di porre dei bastioni a difesa del diritto degli uomini a fruire dei beni della terra, ivi compresa la propria vita. In questo ambito rientra la ribellione degli schiavi dell‘isola di Santo Domingo nel 1791, principale colonia francese fin dal 1627. La ribellione violenta e rabbiosa contro ogni simbolo dell‘oppressione, sia esso uomo o cosa, costituisce non solo un problema scoppiato all‘interno della Rivoluzione francese, ma anche una disputa teoretica sui diritti, come dimostrerà lo scritto di Madame de 127 128 129 130 131 Ivi, p. 57. L. Hunt, op. cit., p. 68: “Nel 1775 James Boswell prese nota delle critiche mosse da Samuel Johnson alle ritrattiste: (Johnson) considerava la ritrattistica un‟occupazione impropria per una donna. <La pratica in pubblico di qualsiasi arte, fissare un uomo dritto in volto, è assai sconveniente per una donna.” M. Flores, op. cit., p. 58. Ibidem. L. Hunt, op. cit., p. 82. 47 Style che, nel 1818, in risposta a De Chateaubriand, che sosteneva la non difendibilità della causa dei negri dopo i crimini commessi, affermava: ―Se i negri di Saint Domingue hanno commesso ancora più crimini era perchè erano stati ancora più oppressi. La furia delle rivolte ci da la misura dei vizi delle istituzioni.‖132 La rivolta, destinata a durare ben 12 anni, costituì un evento di portata rivoluzionaria in quanto fu l‘unica rivolta di schiavi che abbia mai avuto successo nella storia. Infatti, gli schiavi si trovarono a fronteggiare prima i bianchi del luogo con i soldati della monarchia francese, poi un tentativo di invasione spagnola a cui seguì una spedizione inglese di circa 70.000 uomini ed alla fine una spedizione francese di quasi uguale entità agli ordini del cognato di Napoleone. La sconfitta di quest‘ultima spedizione portò, nel 1803, alla creazione dello Stato negro che a tutt‘oggi conosciamo con il nome di Haiti Rispetto invece alla tortura, già nel 1788, in Francia, per decreto del Re Luigi XVI, veniva temporaneamente abolita come pratica utilizzata, prima dell‘esecuzione, per estorcere il nome degli eventuali complici nel reato. Ciò anche a seguito dei numerosi pamphlet usciti che evidenziavano non solo gli errori dei magistrati, ma anche e soprattutto il carattere profondamente ingiusto dell‘attività penale che, portata alla luce dal caso Calas, sembrava avesse motivo di essere costantemente sotto osservazione.133 ―Nel corso di questo dibattito sempre più unilaterale, i nuovi significati attribuiti al corpo emersero con maggiore evidenza. Il corpo spezzato di Calas, o persino la gamba in cancrena di Lardoise, il presunto ladro di Duparty, acquistarono nuova dignità […] Le tesi alla base del nuovo modello diventarono esplicite soltanto verso la fine del XVIII secolo. Nel suo breve ma illuminante saggio di 18 pagine, scritto nel 1787, il Dott. Benjamin Rash collegò le manchevolezze della punizione pubblica alla nuova nozione di individuo autonomo ma sensibile. […] A suo parere, la punizione pubblica si rivelava tanto più discutibile per la sua tendenza ad annientare la compassione, <<che governa la benevolenza divina del nostro mondo>>. Erano queste le parole chiave: la compassione – o quella che oggi chiamiamo empatia – forniva i presupposti per la moralità, era la scintilla del divino nella vita umana, <<nel nostro mondo>>‖.134 Nell‘ambito della polemica entrava a tutti gli effetti anche la dimensione del sacro e, più in generale, del divino visto che, anche se Rash poteva essere considerato un buon cristiano, l‘impressione che lui offriva, con il suo lavoro, della persona differiva notevolmente da quella proposta da altri soggetti che non condividevano la necessità di 132 133 134 G. de Stael, Consideration su la revolution francaise, Geneve Slatchine 1997, p. 178, in Euvres post humes L. Hunt, op. cit., pp. 82 – 84. Ivi, p. 84. 48 eliminare la tortura o i sistemi tradizionalmente ritenuti idonei per le punizioni corporali ―Per Muyart il peccato originale spiegava l‟incapacità degli esseri umani di controllare le proprie passioni. E‟ vero che le passioni fornivano la forza tramante per vivere, ma la loro turbolenza intrinseca, la loro indisciplinatezza, dovevano essere tenute sotto controllo dalla ragione, dalle pressioni della comunità, dalla Chiesa e, altrimenti, in caso di reato, dallo Stato. A parere di Muyart le fonti della criminalità (il vizio) erano le passioni, il desiderio e la paura: <<il desiderio di avere cose che non si possiedono e la paura di perdere quelle che si possiedono>> […] Scopo precipuo del diritto penale era quindi prevenire il trionfo del vizio sulla virtù, tenere a freno il male ingenito nell‟uomo era il motto dell‟idea di giustizia di Muyart‖.135 E‘ di fronte a questo insieme di idee, impressioni, proposte, spesso e volentieri contrastanti, che può essere ben compresa la portata della domanda posta da Flores nel suo testo: ―Che cosa è riuscito, in pochi anni, a mobilitare centinaia di migliaia di persone e a spingerle a firmare petizioni senza le quali la battaglia parlamentare non avrebbe nemmeno potuto prendere l‟avvio?‖136 Probabilmente in particolari momenti della storia dell‘umanità, quando questa sia percorsa da un desiderio di mutamento, la condizione essenziale alla base del nuovo è questa capacità aggregativa che si sviluppa autonomamente, spesso anche in contrasto con quelle che possono essere le condizioni reali del momento. Anche se molti fanno risalire alla fine del ‗700, come determinante per il cambiamento, la nascita del materialismo, con l‘adozione di una concezione egualitaria per tutti gli esseri umani, basata sulla constatazione di una stessa struttura fisica e mentale, questa, seppure ha una sua importanza o utilità, non appare decisiva per portare alla conquista di quei diritti che andranno affermandosi tra la fine del Settecento ed i primi dell‘Ottocento. Peraltro va da sé che istanze di rinnovamento, che sostanzialmente avversavano il sistema giudiziario dell‘epoca ed anche la scarsa considerazione della natura umana, provenissero anche da parti ritenute più conservatrici, come la Chiesa. Di fatto, per ciò che concerne la tortura, questa non ebbe fine perché ―i giudici rinunciarono a praticarla o perché gli scrittori del secolo dei Lumi infine vi si opposero. La tortura ebbe fine perché la concezione tradizionale del dolore e della persona andò in frantumi per essere sostituita, pezzo dopo pezzo, da una nuova concezione, nella quale gli individui possedevano il loro corpo, avevano diritto alla propria riservatezza ed all‟inviolabilità fisica e riconoscevano in altre persone le passioni, i sentimenti, e le 135 136 Ivi, p. 85. M. Flores, op. cit., p. 59. 49 simpatie che essi stessi provavano‖.137 E‘alla fine del 1700 che vengono proclamate le due dichiarazioni che lasceranno un segno profondo nella battaglia per i diritti: da una parte la dichiarazione d‘indipendenza degli Stati Uniti d‘America, nel 1786, dall‘altra, in Francia, quella dei diritti dell‘uomo e del cittadino, nel 1789. Appare giusto soffermarsi, come fa la Hunt, in primis, sul concetto di dichiarazione, sulla necessità, cioè, di proclamare i diritti contenuti all‘interno di queste carte. Perché si avverte la necessità di ―urlare‖ l‘affermazione di questa nuova realtà? A cosa serve una dichiarazione? E‘ indubbio che al di là di qualsiasi facile considerazione entrambe le dichiarazioni testé citate contengano delle valutazioni, sotto il profilo umano e politico, della realtà contingente. In particolare, quello che sembra rilevante è che, con l‘affermazione di queste dichiarazioni, si attua tacitamente, ma non pacificamente, un trasferimento di sovranità che, anche se per via indiretta, sottrae al sovrano, o a chi per lui, parte dei poteri per ridistribuirli in nuove componenti della società di cui l‘uomo dell‘Ottocento è portatore. In questo senso è particolarmente significativo il saggio del Paine, Common Sense, del 1776, nel quale aveva criticato aspramente il potere regio britannico in relazione al diritto che gli Stati americani rivendicavano alla loro indipendenza sottolineando, quindi, la necessità che la società civile si emancipasse dal potere politico. ―Con la sua azione e la sua opera Paine rappresentò la continuità tra le due rivoluzioni. Non aveva dubbi che l‟una fosse lo svolgimento dell‟altra e che la Rivoluzione americana avesse aperto le porte alle rivoluzione di Europa: identici erano i principi ispiratori, e il loro fondamento, il diritto naturale; identico il loro sbocco, il governo fondato sul contratto sociale, la repubblica come governo che respinge per sempre la legge dell‟ereditarietà,la democrazia come governo di tutti. Il rapporto tra le due rivoluzioni, ben altrimenti complesso, é stato in questi due secoli continuamente ripreso e dibattuto. I problemi sono due: quale sia stato l‟influsso e se sia stato determinante, della più antica sulla più recente; quale delle due, considerate di per se stesse, sia politicamente o eticamente superiore all‟altra‖138 Rispetto al problema di quale fosse stato l‘influsso della prima sulla seconda, il dibattito, già all‘epoca, fu particolarmente intenso e si prolungò anche nel secolo successivo, quando alcuni autori sostennero che la dichiarazione dei diritti francese in realtà non avesse alcuna originalità rispetto a quella americana. Tale osservazione sollevò vivaci repliche e soprattutto una diversa considerazione e uno studio di quelli che erano stati i Bills of Rights americani. In particolare, fu osservato che nella dichiarazione del 1789 mancava 137 138 L. Hunt, op. cit., p. 87. N. Bobbio, L‟età dei diritti, cit., pp. 95-96 50 completamente una delle mete da raggiungere più importanti, che invece figurava nella dichiarazione americana: quella della felicità. Che cosa fosse poi questa felicità (di tutti e per tutti) era uno dei temi dibattuti all‘epoca dai filosofi, ma, proprio mentre prendeva corpo la figura dello stato di diritto, fu completamente abbandonata l‘idea di questa felicità da conseguire, poiché anch‘essa sarebbe dovuta rientrare tra i compiti dello Stato. In tal senso, Kant formulò l‘idea di Stato liberale come quell‘ entità il cui scopo è permettere una libertà dei suoi cittadini che sia esplicabile in base a una legge universale; sarà poi attraverso l‘esercizio di tale libertà che ognuno potrà cercare di perseguire, a suo modo, la propria felicità. Ancor di più, la dichiarazione francese è nettamente più individualistica di quella americana: l‘idea dell‘individuo isolato, indipendente da tutti gli altri seppure coabitante della stessa realtà, fondamento della società di cui fa parte seppure ristretto nella propria monade, in pratica si discosta notevolmente da quella concezione dell‘uomo come animale politico e, in quanto tale, desideroso di una convivenza sociale fin dalle sue origini. Entrambe le dichiarazioni partono considerando gli uomini nella loro individualità, tant‘è vero che i diritti proclamati all‘interno della Carta non appartengono astrattamente a delle comunità, ma agli individui in quanto tali che, prima ancora di essere considerati al loro ingresso in uno status sociale, vengono individualmente considerati quali possessori di questi diritti. Che poi questi possano anche possedere un‘utilità comune è indubbio, ma tale utilità può anche essere motivo di giustificazione di eventuali distinzioni sociali come ritroviamo nel documento francese, mentre per quanto riguarda le Carte americane queste ―fanno quasi tutte riferimento diretto allo scopo dell‟associazione politica che è quello del common benefit (Virginia), del good of the whole (Maryland), o del common good (Massachussets). I costituenti americani avevano collegato i diritti dell‟individuo con il bene comune della società, i costituenti francesi intendono affermare principalmente ed individualmente i diritti dell‟individuo. Ben diversa sarà l‟idea cui si ispirerà la costituzione giacobina, in cui campeggia l‟art.1, il quale recita: <<Scopo della società è la felicità comune>> e rimette in primo piano ciò che è di tutti rispetto a quello che appartiene ai singoli, il bene del tutto rispetto ai diritti delle parti‖.139 Quanto invece al secondo oggetto di controversia, quale delle due dichiarazioni fosse eticamente e politicamente superiore, il dibattito si prolungò nel tempo,ma, indubbiamente, la considerazione delle obiettive differenze sociali e politiche in cui le due dichiarazioni avevano visto la luce, costituivano, a modesto avviso, l‘elemento principale di 139 Ivi, p. 98. 51 differenziazione. Da una parte, una richiesta definibile come ―primitiva‖ di libertà, in America; dall‘altra, una società già storicamente determinata in cui gli uomini facenti parte della società civile, più che essere animati da aspirazioni totalizzanti di libertà, erano indirizzati ad una richiesta di maggior equità, benessere e prosperità della società in cui vivevano. Appare credibile che, a fronte delle enormi possibilità presentatesi ai coloni americani per rendere la loro vita autonoma dal bisogno, al contrario i cittadini francesi siano in maniera preponderante presi dalla necessità di avere un lavoro certo ed una retribuzione adeguata. Questo potrebbe, in buona parte, contribuire a dirimere la questione. Lo stesso Manzoni, nel saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 e della Rivoluzione italiana del 1869, concludeva che ―la somiglianza che si era voluta vedere tra le due dichiarazioni era soltanto verbale e verbale era la loro enunciazione tanto che, mentre le carte degli americani avevano avuto l‟effetto voluto, della solenne proclamazione dei costituenti dell‟89 si poteva dire soltanto che aveva preceduto <<di poco il tempo in cui il disprezzo e la violazione di ogni diritto arrivarono ad un segno da lasciare in dubbio se nella storia ci si trovi un paragone>>‖.140 Di fatto, qualunque sia la differenza, entrambe sono portatrici di un ideale libertario e di un‘idea di dignità dell‘uomo che fino a quel momento non era stato possibile riscontrare in nessuna forma politica precedente. Da quel momento in poi, e per i due secoli successivi, riecheggeranno parole come queste: ―<<Comincia una nuova era>>, annotava il 28 febbraio Fanny Lewald nel suo diario. << Cosa porterà ai francesi? Nuove battaglie? Delitto e ghigliottina? Una breve epoca di pace ed una nuova tirannia? Non posso crederlo […] La guerra tra i popoli civili è l‟ultimo vestigio del brutale comportamento animale e deve scomparire dalla terra. Io credo nell‟umanità, nel futuro, nella sopravvivenza della Repubblica>>”. 141 Queste parole del 1848 testimoniano l‘influenza che i nuovi principi esercitarono negli anni a venire sulle popolazioni non solo europee. Di fatto, le dichiarazioni che furono adottate nel 1786 e nel 1789, come detto, aprirono prospettive nuove sotto ogni profilo. Quelle che potevano essere delle battaglie dell‘essere umano contro particolari aspetti delle società, come la tortura e lo schiavismo, si sarebbero legate insieme in una sola causa: quella più generale legata all‘affermazione dei diritti umani, la cui rilevanza, probabilmente, fu colta nella sua totalità soltanto dopo l‘adozione delle dichiarazioni stesse. Nel lavoro della Hunt è interessante vedere quanto l‘atto di dichiarazione fosse legato al principio di sovranità: non a caso, l‘autorità, nel momento del passaggio tra i signori feudali ed il Re, trasferì allo stesso un insieme di poteri, fra cui appunto quello di 140 141 Ivi, p. 100. M. Rapport, 1848, l‟anno della rivoluzione, Ed. Laterza, Bari 2011, p. 146. 52 emanare dichiarazioni. Lo stesso Jefferson, nel momento in cui fattivamente iniziò a lavorare alla dichiarazione di indipendenza, sentì la necessità di spiegare il perché proclamarla: ―<<Quando nel corso degli eventi umani si rende necessario a un popolo sciogliere i legami politici che lo hanno unito a un altro e assumere tra le potenze della terra quella posizione separata e uguale a cui gli danno titolo le leggi della natura e del dio della natura, un doveroso rispetto per le opinioni dell‟umanità richiede che esso dichiari le cause che lo spingono a tale separazione>>‖.142 Ma se questo tipo di affermazione preliminare, di fatto, celava l‘aspetto sostanziale cui la dichiarazione rispondeva, cioè quello della costituzione in stato di alcune colonie che rivendicavano, così, la propria sovranità, dall‘altro, per ciò che riguarda quella francese, questi non erano ancora pronti a disconoscere la sovranità del loro Re, anche se ottennero lo stesso risultato omettendo qualsiasi riferimento a lui, nella dichiarazione dei diritti dell‘uomo e del cittadino: ―<<I rappresentanti del popolo francese costituiti in assemblea nazionale, considerando che l‟ignoranza, l‟oblio o il disprezzo dei diritti dell‟uomo, sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri, dell‟uomo>> […] La dichiarazione proponeva tuttavia che d‟ora innanzi tali diritti costituissero il fondamento del governo, anche se non lo erano stati in passato. Pur affermando che i diritti esistevano già ed essi si limitavano a difenderli i deputati crearono qualcosa di completamente nuovo: governi fondati sulla garanzia dei diritti universali‖.143 Per comprendere a pieno la portata di queste dichiarazioni, però, è particolarmente significativo comprendere lo spostamento del piano concettuale che in effetti queste hanno utilizzato. Tale affermazione teorica appare evidente quando entrambe le dichiarazioni, nell‘affermazione dei propri principi, si rivolgono non già ai cittadini, inglesi o francesi, ma rivendicano una sostanziale uguaglianza fra tutti gli uomini, per tutto il genere umano. ―Significava iniziare una lotta a oltranza contro coloro che per difendere il proprio potere e il proprio privilegio, non accettarono una verità auto-evidente.‖144 La visione anticipatrice dei tempi che queste dichiarazioni offrirono è evidente già nell‘affermazione del diritto di resistenza all‘oppressione che, sotto un profilo strettamente logico, ci dice che ―nessun governo può garantire l‟esercizio del diritto di resistenza, che insorge proprio quando il cittadino non riconosce più l‟autorità del governo e il governo a sua volta non ha più alcun obbligo verso di lui. Con una possibile allusione a questo 142 143 144 L. Hunt, op. cit., p. 90. Ivi, p. 91. M. Flores, op. cit., p.63. 53 articolo, Kant dirà che <<affinchè il popolo sia autorizzato alla resistenza, dovrebbe esserci una legge pubblica che lo permettesse>>, ma una tale disposizione sarebbe contraddittoria perché nel momento in cui il sovrano ammette la resistenza contro di sé rinuncia alla propria sovranità e il suddito diventa sovrano al posto suo‖.145 Ad esempio, nella dichiarazione universale del 1948 non compare il già richiamato diritto di resistenza, anche se, a onor del vero, nel preambolo si legge che i diritti dell‘uomo, via via enunciati, debbono essere protetti ―se si vuole evitare che l‟uomo sia costretto, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l‟oppressione. Come dire che la resistenza non è un diritto ma è, in determinate circostanze, una necessità‖.146 Quello che è certo in entrambe le dichiarazioni è che ognuna, nel suo ambito, servì a decretare la fine di un vecchio modo di intendere il potere, ―l‟atto di morte dell‟antico regime, anche se il colpo di grazia sarà dato solo nel preambolo della Costituzione del 1791, laddove seccamente sarà proclamato che << non c‟è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie, né distinzioni di ordine né di regime feudale, non c‟è più per nessuna parte della nazione né per nessun individuo, né privilegio né eccezione al diritto comune di tutti i francesi>>‖.147 Quello che cambia radicalmente è l‘esito conseguente alle due dichiarazioni: mentre quella americana portava con sé il germe della repubblica, quella francese, che alcuni come il Paine immaginavano potesse estendere la propria portata a tutta Europa, in realtà subì un‘involuzione che nel 1794 diviene particolarmente evidente durante l‘attività giacobina. Il Paine in quegli anni pubblicherà The Age of Reason ―troppo coerente con la propria riflessione sui diritti dell‟uomo per poter essere compreso nel momento in cui le lotte di fazione e la salvaguardia o conquista del potere hanno ripreso il sopravvento dopo il successo trionfale della Dichiarazione dei diritti dell‟uomo e del cittadino. Se in Francia il suo nome è già inserito nella lista nera di uno xenofobo come Robespierre e, sulla base della “legge dei sospetti”, viene considerato una vittima certa della prossima repressione giacobina, in Inghilterra Paine viene accusato di aver scritto un attacco alla religione e alla cristianità, anche se il libello ottiene successo e convince migliaia di lettori da entrambe le sponde dell‟Atlantico‖. 148 E‘ bene, comunque, sottolineare che la rivendicazione dei diritti, portata avanti dalle dichiarazioni, comprendeva ancora delle discriminazioni che riguardavano, ad esempio, le differenze connesse tra il professarsi cattolici, ebrei o protestanti (diritti politici, ammissione nell‘esercito, iscrizione nelle università, magistratura). Allo stesso modo, le 145 146 147 148 N. Bobbio, op. cit., pp. 106-107. Ivi, p. 107. Ivi, p. 109. M. Flores, op. cit., p. 77. 54 discriminazioni di genere, invece, riguardavano principalmente gli schiavi, le popolazioni colonizzate, le donne, i servi ed i disoccupati. Ormai, comunque, appare da subito chiaro che l‘affermarsi dei diritti supera anche quelle distinzioni che prima di essi erano tacitamente accettate. Non è un caso, ad esempio, che già nel 1791 e poi nel 1792, ad opera di Marie Gouze e di Mary Wollstonecraft, verranno pubblicati due titoli particolarmente significativi, Declaration des drois de la femme et de la citoyenne e A vendication of the Rights of Woman, tanto più importanti quanto illuminante era il fatto che anche tra i filosofi e i lumi prevaleva l‘idea della donna come vittima di ―emozioni, passioni e superstizioni, il cui comportamento era dettato dall‟istinto quanto quello dell‟uomo lo era dalla ragione‖.149 Lo stesso Rousseau, nell‘Emilio, così descrive la questione femminile: ―Così tutta l‟educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a lui, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in ogni età della vita e questo si deve insegnare loro fin dall‟infanzia […] Il potere della donna è fatto di dolcezza, di accortezza, di compiacenza; i suoi ordini sono carezze, le sue minacce pianti. Ella deve dominare nella casa come un ministro nello stato: facendosi comandare quello che vuole fare. In questo senso è incontestabile che i migliori esempi di armonia familiare si hanno dove è maggiore l‟autorità della donna. Ma quando ella non ascolta la voce del capo della famiglia, quando vuole usurparne i diritti ed esercitare direttamente il comando, gli effetti di tale disordine non sono altro che miseria, scandalo, disonore.‖ 150 Sta di fatto che tra il 1789 e il 1795, con gli eventi che si susseguirono in Francia, tutti i club femminili vennero chiusi e proibiti alla partecipazione con un voto della Convenzione. Le motivazioni, neanche troppo sottese, in realtà furono quelle che le donne potessero ottenere la cittadinanza e i relativi diritti politici, costituendo una minaccia troppo forte per chi in quegli anni stava lottando per arrivare al potere. Le dichiarazioni alla Condorcet ―I diritti degli uomini derivano soltanto dal fatto che sono esseri senzienti, capaci di acquisire idee morali e di ragionare intorno a queste idee. Dal momento che le donne hanno le stesse qualità, anche loro godono necessariamente degli stessi diritti‖ 151 si allontaneranno con il trascorrere del tempo, tant‘è vero che, in Francia, la Convenzione, nel 1795 proibirà alle donne di presenziare alle sedute se non accompagnate da un cittadino di sesso maschile, impedendogli anche di uscire di casa e riunirsi in un numero maggiore di 5152. 149 150 151 152 Ivi, p. 81. J. J. Rousseau, Emilio o dell‟educazione, Editore Armando, Roma 1981, pp. 506, 572. M. Flores, op. cit., p. 85. P. Bourdieu, Il dominio maschile,Ed. Feltrinelli, Milano 2009, p.43, interessante al proposito la definizione di violenza simbolica contenuta nel testo di Bourdieu: “Il dominio maschile trova così‟ riunite tutte le condizioni 55 Se questo era stato possibile in Francia, il lavoro di Mary Wollstonecraft, invece, affrontando in maniera elementare la questione, poneva uno strumento formidabile a disposizione per la diffusione delle pretese delle donne in merito ai propri diritti. L‘osservazione era piuttosto semplice: ―Se i diritti umani sono universali, come hanno sostenuto i propugnatori dei diritti naturali dagli Illuministi fino a Paine, occorre applicarli necessariamente anche alle donne: dal momento che i diritti dell‟umanità sono stati confinati alla linea maschile da Adamo in avanti, […] io credo davvero – continua Mary – che le donne debbano avere propri rappresentanti, invece di essere arbitrariamente governate senza avere nessuna azione diretta che permetta loro di partecipare alle delibere del governo. Le donne, almeno in un senso politico e civile, sono schiave….‖. 153 Alla fine del Settecento, quindi, i diritti delle donne erano considerati essenzialmente ―come la conseguenza logica ed evidente dell‟aver attribuito loro diritti naturali in quanto persone, ma si poteva anche negarli in nome dei diritti reali delle donne (cioè prendersi cura dei figli e del proprio marito) e della differenza tra i sessi‖ .154 Il rifiuto dei diritti politici alle donne appare come limite che verrà a lungo tempo mantenuto (basti pensare che in Italia questo avvenne con la Costituzione repubblicana) nonostante l‘aver accettato i diritti naturali come facenti parte di ogni persona. Le nuove idee non solo saranno feconde all‘interno di una concezione degli stati in continua evoluzione, ma costituiranno anche la base per la primavera dei popoli che si verificherà, per ciò che concerne l‘Europa, con le rivoluzioni del 1848 (a Vienna, Praga, Budapest, Cracovia, Berlino, Parigi, Milano, Napoli, Palermo, Venezia e Roma). Per quanto riguarda l‘America latina, tra il 1819 ed il 1825, si affermarono quali stati nazionali, liberati dall‘oppressione spagnola, la Colombia, il Venezuela, l‘Argentina, il Cile, il Perù, il Messico, il Brasile, la Bolivia e l‘Uruguay. Va comunque sottolineato che, a differenza dell‘Europa in cui i movimenti del ‘48 furono alla fine soffocati, le richieste di indipendenza dei paesi latino-americani non sempre comprendevano, di pari passo con l‘indipendenza, il 153 154 del suo pieno esercizio. La precedenza universalmente riconosciuta agli uomini si afferma nell‟oggettività delle strutture sociali e delle attività produttive e riproduttive, fondate su una divisione sessuale del lavoro di produzione e di riproduzione biologica e sociale che riserva all‟uomo la parte migliore, come pure negli schemi immanenti a tutti gli habitus; formatisi in condizioni analoghe, quindi oggettivamente in accordo tra loro, tali habitus funzionano come matrici delle percezioni, dei pensieri e delle azioni di tutti i membri della società, come trascendentali storici che, in quanto universalmente condivisi, si impongono a ogni agente come trascendenti. Di conseguenza, la rappresentazione androcentrica della riproduzione biologica e della riproduzione sociale viene a essere investita dell‟oggettività di un senso comune, inteso come consenso pratico,dossico, sul senso delle pratiche. E le stesse donne applicano a ogni realtà, e in particolare, ai rapporti di potere in cui esse sono prese, schemi di pensiero che sono il prodotto dell‟incorporazione di questi stessi rapporti di potere e si esprimono nelle opposizioni fondatrici dell‟ordine simbolico. Ne segue che i loro atti di conoscenza sono atti di riconoscimento pratico, di adesione tossica, credenza che non deve pensarsi e affermarsi in quanto tale e che << fa>> in qualche modo la violenza simbolica che essa subisce” M. Flores, op. cit., p. 87. Ivi, p. 89. 56 godimento delle libertà politiche e dei diritti civili per tutti. Le tendenze dittatoriali che hanno accompagnato spesso la storia del Continente furono presenti fin dagli anni delle guerre di indipendenza. Ciò nonostante fu proprio da quegli anni e da quelle rivoluzioni, sconfitte dalla Restaurazione, che Renan poteva dare quella ―che sarebbe rimasta la definizione più classica e conosciuta di nazione: una nazione è un‟anima, un principio spirituale […] il comune possesso di una ricca eredità di ricordi […] il consenso attuale, il desiderio di vivere assieme […] un plebiscito di tutti i giorni‖.155 Assieme a quella prima definizione di nazione vedeva anche la luce un libretto che anticipava i temi della rivoluzione sociale e che avrebbe manifestato la sua influenza nei secoli a venire. E‘ il caso del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Frederich Engels. Contemporaneamente, dall‘altra parte dell‘Atlantico, in quello stesso 1848, vede la luce il documento che segna la nascita del movimento femminista156 con la dichiarazione di Seneca Falls, nello Stato di New York, dove si svolgeva il primo Congresso per i diritti delle donne. Che la battaglia dei diritti da quel momento in poi non abbia più conosciuto soste non è specificato soltanto dagli avvenimenti che caratterizzano l‘Ottocento, ma da un nuovo atteggiamento mentale, da una posizione assunta, nei confronti della realtà e della possibilità di reinterpretarla, in maniera completamente nuova. E‘ il caso della battaglia di Solferino, la cui violenza efferata colpì talmente tanti soggetti, sostanzialmente estranei ad essa, da provocare cambiamenti di portata storica in quello che sarebbe stato il prossimo futuro. Ne è un esempio Jean Henry Dunant che, capitato casualmente nel mezzo della battaglia, e trovatosi di fronte migliaia e migliaia di feriti portati lì e ammucchiati in modo caotico e 155 156 E. Renan, Che cos‟è una nazione? E altri saggi, Editore Donzelli, Roma 2004. Sulla situazione attuale del movimento femminista e sulle sue rivendicazioni vedasi anche P. Bourdieu, Il dominio maschile, cit., pp.134-135: “Ciò equivale a dire che il movimento femminista, se da una parte ha molto contribuito a un ampliamento considerevole dell‟area del politico o del politicizzabile, facendo entrare nella sfera del politicamente discutibile o contestabile oggetti e preoccupazioni trascurati o ignorati dalla tradizione politica in quanto sembravano appartenere alla sfera del privato, dall‟altra non deve lasciarsi indurre a escludere con il pretesto che apparterrebbero alla logica più tradizionale della politica, le lotte relative a istanze che, con la loro azione negativa, e in gran parte invisibile – perché in sintonia con le strutture dell‟inconscio maschile ma anche femminile – concorrono in misura molto forte alla perpetuazione dei rapporti sociali di dominio tra i sessi. Ma questo non porta ad avallare e a sanzionare forme di lotta politica dichiaratamente femministe come la rivendicazione della parità tra uomini e donne nelle istanze politiche. Se hanno il merito di ricordare che l‟universalismo di principio ostentato dal diritto costituzionale non è così universale come vorrebbe far credere – soprattutto in quanto riconosce solo individui astratti e privi di qualità sociali – queste lotte così rispettabili rischiano di accentuare gli effetti di un‟altra forma di universalismo fittizio, favorendo prioritariamente donne uscite dalle stesse regioni dello spazio sociale cui appartengono gli uomini che occupano attualmente le posizioni dominanti. Solo un‟azione politica che consideri realmente tutti gli effetti di dominio che si esercitano attraverso la complicità oggettiva tra le strutture incorporate (sia negli uomini sia nelle donne) e le strutture delle grandi istituzioni in cui si compie e si riproduce non soltanto l‟ordine maschile ma anche tutto l‟ordine sociale (a cominciare dallo stato, strutturato sull‟opposizione fra la sua <<mano destra>>, maschile, e la<< mano sinistra>>, femminile, e proseguendo con la scuola, responsabile della riproduzione effettiva di tutti i principi di visione e di divisione fondamentali, e organizzata anch‟essa intorno a opposizioni omologhe), potrà certo a lungo termine, e avvalendosi delle contraddizioni inerenti ai diversi meccanismi o alle diverse istituzioni in gioco, contribuire alla progressiva decadenza del dominio maschile.” 57 senza assistenza in attesa della morte, con l‘aiuto della popolazione locale trasforma la chiesa del luogo in un ospedale per oltre 500 feriti. L‘esperienza di questa battaglia colpirà talmente il Dunant da renderlo anima e segretario di quello che nel 1875 prenderà il nome di Comitato Internazionale della Croce Rossa che, fin dall‘inizio, penserà a darsi una forma di organizzazione per fornire soccorso ai soldati feriti sotto l‘egida della più assoluta neutralità. Identificare in un soldato ferito un essere umano bisognoso di aiuto e non più un nemico richiede, ovviamente, il consenso degli Stati e dei governi per trasformare il concetto di battaglia stessa. Infaticabilmente lo stesso Dunant diventerà anche ambasciatore e diplomatico pur di convincere le nazioni, grandi e piccole, a partecipare ad una conferenza internazionale e ad accettare e riconoscere l‘attività della Croce Rossa attraverso la firma di un atto quale la Convenzione di Ginevra per il miglioramento delle sorti dei feriti in guerra. ―Nei mesi in cui a Ginevra nasce la Croce Rossa internazionale […] dall‟altra parte dell‟Atlantico è in corso la guerra civile americana, il Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln emette tra gli “Ordini Generali” del 1863, delle “Istruzioni per il governo dell‟esercito degli Stati Uniti sul terreno”. L‟autore, il giurista Francis Lieber – da qui il nome di “Codice Lieber” a queste istruzioni –, riassume in oltre centocinquanta articoli il diritto consuetudinario relativo alla condotta di guerra, in modo da renderla il più possibile coerente ai principi su cui si fonda la nazione americana. Si è sostenuto, enfatizzando forse esageratamente, che il risultato fosse un <codice di guerra ispirato a idee umanitarie>, mentre potrebbe essere più esatto considerare il codice Lieber come <il prodotto finale del movimento del XVIII secolo volto ad umanizzare la guerra attraverso l‟applicazione della ragione>; diversamente dalle idee di Dunant, che< rappresenta(no) un approccio romantico del XIX secolo per limitare la guerra>, un tentativo di andare oltre la ragione <chiamando in causa le emozioni> e cercando <attraverso la descrizione delle sofferenze individuali dopo Solferino di scioccare il pubblico e spingerlo all‟azione umanitaria‖>. 157 Allo stesso modo non va dimenticato che l‘Ottocento è l‘anno in cui si afferma compiutamente la rivoluzione industriale, che impone i suoi ritmi e le sue modalità di sviluppo in quasi tutta Europa. Lo sfruttamento negli opifici, nelle fabbriche, nelle miniere e nelle filande, e la sofferenza, la precarietà e l‘umiliazione, che corrisponde a questo processo, unito all‘ urbanizzazione produrranno anche in questo campo importanti rivendicazioni dei diritti umani. Basti ricordare che in quegli anni la media settimanale di lavoro è di circa 84 ore; bambini di 5 e bambine di 8 anni ―trasportano sacchi di carbone o cuciono nell‟oscurità, donne e uomini sopportano per 15 ore il freddo, l‟umidità le 157 M. Flores, op. cit., pp.112-113. 58 esalazioni nocive, il caldo asfissiante e il rumore assordante di lavorazioni pericolose e senza tutela di alcun tipo.‖158 I romanzi di Dickens o di De Balzac racconteranno ai borghesi quella nuova schiavitù che domina nelle grandi capitali e nelle città industriali europee, provocando l‘esplosione della questione sociale che si protrarrà per decenni e che ancora oggi non ha avuto fine. ―Con minore finezza letteraria ma con la forza solida ed incontrovertibile delle statistiche, degli studi economici e dei rapporti industriali, nello stesso periodo Frederich Engels pubblica “La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845)”, che diventa per un numero crescente di lavoratori lo specchio su cui prendere coscienza della propria condizione e della necessità di cambiarla‖ .159 Così, in quegli anni, la violenza, radicale e inumana, del nuovo sistema economicopolitico appare chiara sin dall‘inizio, come in Inghilterra, che già nel 1819 sperimentò la violenza dello stato a sostegno degli industriali contro le rivendicazioni della gente comune. Il massacro di Peterloo diede alla Shelley l‘occasione per scrivere il poema ―The Masque of Anarchy‖: Uomini di Inghilterra, eredi della Gloria, eroi di una non scritta storia, pupilli di una grande Madre, speranze sue e l‟uno dell‟altro, come Leoni dopo il sonno alzatevi, legioni inconquistabili, scrollate le vostre catene a terra come se fossero rugiada che quando dormivate vi ha bagnato – voi siete molti – e loro pochi.160 Le leggi quali la Reform Act e la Poor Law, anziché rendere più tollerabili condizioni di vita degradate, favoriscono ulteriormente la concorrenza tra gli operai nel mercato del lavoro. Contro tale sistema, nel 1838, vedrà la luce la People‘s Charter che, con l‘affermazione dell‘estensione del suffragio universale ed altre modifiche, chiede di poter entrare a influire sui processi decisionali della società inglese. Le lotte degli operai di quegli anni si caratterizzeranno per essere espressione di un profondo malcontento sociale e di una volontà di riscatto dell‘essere umano di fronte allo strapotere statale ed economico. 158 159 160 Ivi, p. 119. Ibidem. M. Shelley, Opere, Editori Einaudi/Gallimard, Torino – Paris 1995, p. 161. Poesia che evoca, con singolari somiglianze, l‘attualità del movimento di ―Occupy Wall Street‖ con la rivendicazione ―We was the 99%‖ 59 La crescente sindacalizzazione e la creazione di partiti politici sembrano, di fatto, avvalorare il Manifesto di Marx ed Engels come l‘espressione più efficace e lungimirante della produzione teorica dell‘epoca. Il giornalista William Cobert, entrato alla Camera dei Comuni dopo il Reform Act del 1832, accusa ―apertamente il governo di aver derubato gli operai <del diritto di vivere della terra di nostra nascita in cambio del nostro lavoro debitamente e onestamente eseguito; il diritto, caso mai cadessimo in miseria, di aver sollevati a sufficienza i nostri bisogni col prodotto della terra – derivasse la miseria da infermità, decrepitezza, vecchiaia o incapacità di trovare impiego>. E‟ l‟inizio di una nuova lotta, quella per i diritti economico-sociali, che accompagnerà, e a volte si contrapporrà alla battaglia per i diritti civili e politici che aveva preso avvio circa un secolo prima‖.161 Nella seconda metà del XIX secolo, i diritti di seconda generazione occuperanno un posto centrale nella discussione. Le battaglie dei lavoratori si caratterizzeranno per l‘aspetto internazionale che assumono le rivendicazioni portate avanti. Nel 1864 Marx, nel discorso inaugurale dell‘International Working Men‘s Association, afferma che ―<<la miseria delle masse lavoratrici non è diminuita tra il 1848 ed il 1864, e tuttavia questo periodo è senza uguali per lo sviluppo dell‟industria e la crescita dei suoi commerci>>; prosegue ricordando che dopo trent‟anni di lotte la classe operaia inglese è riuscita ad ottenere la legge sulle dieci ore lavorative; e termina ammonendo sulla necessità di una solidarietà internazionale e di un intervento attivo nella politica estera che sia parte integrante della lotta di emancipazione dei lavoratori‖.162 Unita alla battaglia per l‘orario lavorativo da portare a otto ore, a questi diritti di seconda generazione si contrappone la visione marxista sulla Dichiarazione dei diritti dell‘uomo del 1789 che, secondo il filosofo, ―consacrava i diritti del borghese, del nuovo proprietario separato ed isolato dalla maggioranza degli uomini – i proletari – che restavano schiavi sul terreno sociale ed economico malgrado l‟apparente uguaglianza sul versante politico e civile. Questa <<critica marxista non coglieva l‟aspetto essenziale della proclamazione dei diritti: essi erano l‟espressione della richiesta dei limiti allo strapotere dello stato, una richiesta che, se nel momento in cui fu fatta poteva giovare alla classe borghese, conservava un valore universale>>‖.163 Non è un caso, ad esempio, che, storicamente, sin dagli inizi i diversi regimi, avvicendatisi alla guida delle nazioni, abbiano manifestato il loro principio di autorità e la repulsione verso qualsiasi movimento rivoluzionario attraverso la condanna dei principi dell‘‘89 e, più in generale, avversando i 161 162 163 M. Flores, op. cit., p. 123. Ivi, p. 127. Ivi, p. 128. 60 diritti umani nella loro realtà.164 Lo stesso Bobbio al proposito non può fare a meno di notare come ―le dichiarazioni dei diritti erano destinate a rovesciare quest‟immagine. E l‟avrebbero a poco a poco rovesciata. Oggi il concetto stesso di democrazia è inscindibile da quello dei diritti dell‟uomo. Eliminate una concezione individualistica della società. Non riuscirete più a giustificare la democrazia come forma di governo. Quale migliore definizione della democrazia se non quella secondo cui, in essa, gli individui, tutti gli individui, hanno una parte della sovranità?‖.165 In questo senso, pur riconoscendo la battaglia per i diritti portata avanti da Marx, il filosofo italiano preferisce rifarsi alla visione cosmopolita del diritto utilizzata da Kant, che aveva visto nelle manifestazioni di entusiasmo che si accompagnavano alla Rivoluzione francese ―un segno della disposizione morale dell‟umanità, inseriva questo avvenimento straordinario in una storia profetica dell‟umanità, vale a dire in una storia, di cui non si hanno dati certi ma si possono soltanto cogliere segni premonitori.‖166 D‘altronde la fine dell‘Ottocento e i primi anni del Novecento, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, si caratterizzano da una parte per i processi di indipendenza nazionale e di nuova formazione per alcuni Stati, dall‘altra il formarsi stesso delle nazioni crea la necessità di una identificazione, ad esempio con delle vere e proprie mappe linguistiche. Basti pensare che all‘interno di ogni stato nel XIX secolo vi erano consistenti minoranze linguistiche e culturali persino in quegli stati di antica costituzione come la Gran Bretagna e la Francia. E in quest‘ultima solo la metà dei cittadini sapeva il francese. Di pari passo, l‘omogeneità etnica contribuì in quegli anni di fine secolo ad accrescere la preoccupazione riguardo ai fenomeni migratori che coinvolgevano tutto il mondo. ―Pochi si opposero all‟immigrazione prima degli anni Sessanta dell‟Ottocento, ma negli ultimi due decenni del secolo fu sempre più osteggiata dai paesi di accoglienza. L‟Australia tentò di prevenire l‟afflusso di asiatici in modo da poter conservare il proprio carattere inglese e irlandese. Gli Stati Uniti vietarono l‟immigrazione dalla Cina nel 1882 e da tutta l‟Asia nel 1917; poi, nel 1924, fissarono quote per tutti gli altri immigrati, sulla base della composizione etnica dell‟allora popolazione statunitense. Nel 1905 il governo 164 165 166 N. Bobbio, L‟età dei diritti, cit., p. 102.‖ La condanna dei principi dell‟89 è stato uno dei motivi abituali di ogni movimento antirivoluzionario, a cominciare da De Maestre per arrivare all‟Action Francaise. Ma basti citare un brano del principe degli scrittori reazionari, Federico Nietzsche (col quale amoreggia da qualche tempo una nuova sinistra senza bussola) il quale in uno degli ultimi frammenti pubblicati postumi scrisse: <<La nostra ostilità alla revolution non si riferisce alla farsa cruenta, all‟immoralità con cui si svolse; ma alla sua moralità di branco, alle “verità” con cui sempre e ancora continua a operare, alla sua immagine contagiosa di “giustizia e libertà”, con cui si accalappiano tutte le anime mediocri, al rovesciamento dell‟autorità delle classi superiori>> Ivi, p. 115. Ivi, p. 118. 61 britannico approvò una legge sugli stranieri e per prevenire l‟immigrazione di “indesiderabili”, che molti interpretarono riferirsi agli ebrei dell‟Europa orientale. Proprio quando gli operai e i domestici cominciavano ad acquisire pari diritti politici in questi paesi, furono erette barriere per bloccare coloro che non condividevano le stesse origini etniche. In questo nuovo clima protezionistico, il nazionalismo assunse un carattere più xenofobo e razzista […] I politici di destra in Germania, Austria e Francia utilizzavano i quotidiani, i circoli politici e in alcuni casi, nuovi partiti politici per fomentare l‟odio nei confronti degli ebrei quali nemici della vera patria.‖167 A volte, come è evidente, la storia propone elementi diversi pur ripetendosi ciclicamente ed il riferimento ai giorni nostri non è casuale. Se Hitler nei primi del Novecento riuscì a raggiungere in Germania il potere con le sue idee xenofobe e razziste, questo poté avvenire perché la propaganda antisemita già dal 1892 era parte integrante del programma politico della destra tedesca. Karl Lueger divenne sindaco di Vienna nel 1895 con un programma antisemita, diventando poi una figura di riferimento per lo stesso Hitler. Anche la biologia venne chiamata in soccorso di fantasiose spiegazioni sulla differenza etnica che, ovviamente, contrastavano con la concezione di identicità della natura umana alla base dei diritti dell‘uomo. E fu proprio nel marcare queste differenze che si cercò di giustificare la superiorità degli uomini rispetto alle donne, quella dei bianchi sui neri, quella dei cristiani sugli ebrei.168 La fine del XIX secolo si caratterizza non solo per il nazionalismo come movimento di massa, ma anche per il socialismo ed il comunismo che presero forma in quegli anni e volevano garantire non solo pari diritti politici, ma anche l‘eguaglianza economica e sociale per tutte le classi meno abbienti. Anche nella loro attività, seppure indubbiamente richiamassero l‘attenzione su aspetti tralasciati dai promotori dei diritti dell‘uomo, queste organizzazioni finirono con lo sminuire gli stessi diritti come obiettivo da perseguire.169 167 168 169 L. Hunt, op. cit., pp. 150 – 151. Ivi, p. 152. ―In breve, se i diritti dovevano essere meno universali, uguali e naturali, bisognava spiegarne i motivi. Di conseguenza, il XIX secolo fu testimone di una esplosione di spiegazioni biologiche della differenza. Per ironia della sorte, l‟idea stessa di diritti umani incoraggiò suo malgrado forme più violente di sessismo, razzismo, antisemitismo. Infatti, l‟affermazione universale dell‟ uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani provocò una rivendicazione altrettanto globale della differenza naturale, dando vita a una nuova opposizione ai diritti umani, più potente e sinistra persino di quella dei tradizionalisti. Le nuove forme di razzismo, antisemitismo e sessismo offrivano spiegazioni biologiche della differenza naturale degli esseri umani.[…] Secondo queste nuove dottrine biologiche, l‟istruzione o i mutamenti nelle condizioni sociali non avrebbero mai potuto modificare le strutture gerarchiche insite nella natura umana. […] Le femmine venivano ora considerate completamente diverse dal punto di vista biologico: diventarono< l‟altro sesso>.‖ Ivi, pp. 160 – 161.‖Marx era risoluto al riguardo: nella società borghese si poteva ottenere l‟emancipazione politica attraverso l‟uguaglianza giuridica, ma la vera emancipazione dell‟uomo comportava la distruzione della società borghese e delle tutele costituzionali della proprietà privata […] Come il nazionalismo, che nel XIX secolo attraversò due fasi, passando dall‟entusiasmo iniziale per l‟autodeterminazione a posizioni più difensive che proteggessero l‟identità etnica, anche il socialismo si trasformò nel tempo. Inizialmente puntava alla ricostruzione della società con mezzi pacifici e non politici, ma a un certo punto si creò una netta divisione 62 Lo stesso Marx, che aveva trattato i diritti dell‘uomo principalmente nella giovinezza e cioè prima del Manifesto del Partito comunista, nel condannare i fondamenti dei diritti dell‘uomo sottolineava che questi, in quanto tali, non oltrepassavano la realtà dell‘uomo egoistico. La libertà era libertà dell‘uomo in quanto individuo, essere isolato, al di fuori di ogni classe e di qualsiasi comunità, ed in questo interpretava il diritto alla proprietà privata che tutelava e garantiva di poter perseguire i propri interessi senza nessuna considerazione per gli altri membri della società . Anche a proposito della religione vedeva nella garanzia dell‘espletamento della libertà religiosa un nonsenso, dovuto al fatto che, a suo avviso, non era di libertà religiosa che aveva bisogno l‘uomo, ma di emancipazione dalla religione. “Marx detestava in particolare l‟accento politico posto sui diritti dell‟uomo. I diritti politici a suo parere riguardavano soltanto i mezzi, non i fini. L‟<uomo politico> era <astratto, artificiale>, non <vero>. L‟uomo avrebbe potuto recuperare la propria autenticità soltanto riconoscendo che l‟emancipazione umana non si poteva realizzare attraverso la politica; richiedeva una rivoluzione incentrata sulle relazioni sociali e sull‟abolizione della proprietà privata.”170 Non fu un caso che nel 1918, subito dopo la rivoluzione in Russia, i bolscevichi adottarono la dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore sfruttato. All‘interno di questa non figurava alcun diritto politico o giuridico ma, esplicitamente, veniva indicato lo scopo di sopprimere lo sfruttamento dell‘uomo sull‘uomo, di abolire le divisioni di classe, reprimendo gli sfruttatori e istaurando l‘organizzazione socialista della società.171 Nello stesso periodo di fine Ottocento, le grandi nazioni europee si concentrarono nell‘estendere i propri possedimenti, attuando una politica di tipo coloniale che, di per sé stessa, contraddiceva a quei diritti, a quelle costituzioni e a quella elaborazione teorica che erano stati alla base della dichiarazione dei diritti e della Rivoluzione dell‘89. La giustificazione teorica consisteva in qualcosa di molto semplice, e cioè nell‘estensione e nel dovere degli Europei di portare la civiltà in quei paesi ―arretrati‖. Come spesso accade nella storia, le azioni più ignobili si ammantano di motivazioni cortesi ed altruistiche. Le maggiori 170 171 tra chi era favorevole alla politica parlamentare e chi proponeva il rovesciamento violento dei governi. […] Molti di questi protosocialisti diffidavano dei <diritti dell‟uomo>. Secondo Charles Fourier, il principale esponente del socialismo in Francia negli anni Venti e Trenta dell‟Ottocento, le costituzioni e i discorsi sui diritti inalienabili erano un‟impostura,. Che significato potevano avere <i diritti imprescrittibili del cittadino> se l‟uomo indigente <non ha né la libertà di lavorare>, né la facoltà di esigere un impiego? ― Ivi, p. 163. Ibidem: ―Lenin stesso citò Marx quando si pronunciò contro l‟accento posto sui diritti individuali. L‟idea di un uguale diritto, affermò Lenin, è di per sé una violazione dell‟uguaglianza e della giustizia, perché si basa sul <diritto borghese>. I cosiddetti uguali diritti proteggono la proprietà privata e quindi perpetuano lo sfruttamento dei lavoratori. Stalin adottò una nuova Costituzione nel 1936, la quale affermava di assicurare la libertà di parola, di stampa e di religione, ma il suo governo non esitò a eliminare centinai di migliaia di nemici di classe, dissidenti e persino compagni di partito spedendoli nei campi di prigionia o condannandoli all‟esecuzione immediata.‖ 63 nazioni europee, Francia, Inghilterra, Germania, Spagna e la stessa Italia, utilizzarono la loro potenza bellica per compiere, giustificandole, come detto, con nobili propositi, massacri e sofferenze dei popoli che vennero sottomessi per un mero tornaconto nazionale. L‘immane strage che si concretizzò con la prima guerra mondiale, nel secondo decennio del XX secolo, con quattordici milioni di vittime solo sui campi di battaglia, a cui si aggiungono i quasi venti che tra il 1918 ed il 1920 moriranno in tutto il mondo a causa dell‘ influenza ―spagnola‖, costituì motivo di ripensamento per molte delle nazioni che erano scese in guerra. Quando inizia la Conferenza di pace di Parigi, nel 1919, anche se il concetto di diritti umani non fu mai esplicitamente menzionato, le speranze che accompagnavano la Conferenza stessa erano assai elevate e si propendeva per la necessità di costituire un organismo internazionale che fosse, in qualche modo, di garanzia per il mantenimento di una pace stabile e duratura. Proprio queste diverse esigenze, unite alle istanze delle nazioni vincitrici, invece, produrranno da una parte un organismo internazionale quale la Società delle Nazioni che, di fatto, disponeva di limitatissimi se non quasi inesistenti poteri e, dall‘altra, con l‘esosa richiesta di risarcimento per i danni di guerra, costituiranno le basi per l‘avvio di quelle fasi politiche che, alla fine, determineranno lo scoppio della seconda guerra mondiale. Di fatto, la Germania viene riconosciuta quale unica colpevole del conflitto mondiale e costretta alle misure più drastiche e punitive da Clemenceau, Lloyd George e Woodrow Wilson. Come osservava giustamente l‘economista Keynes, ―La politica di ridurre la Germania in uno stato di servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare del benessere un‟intera nazione, dovrebbe essere aborrita e detestabile, anche se fosse possibile attuarla, anche se ci si dovesse arricchire, anche se essa non spargesse il seme della decadenza di tutta la vita civile dell‟ Europa.‖172 In questo ambito, all‘interno della Conferenza di Parigi, si sviluppa anche il dibattito sull‘autodeterminazione dei popoli e sulla questione razziale proprio nel momento in cui il Presidente della Società delle Nazioni è quel Wilson173 ben descritto dal quotidiano giapponese Hasaki: ―Se il Presidente Wilson non fosse capace di abbattere <il muro della discriminazione>, allora vorrà dire che <avrà parlato di pace, giustizia e umanità invano e 172 173 M. Flores, op. cit., p. 172. Ivi, p. 174: ―Nell‟estate dello stesso anno, la reazione al comportamento di Wilson accentua e radicalizza le rivolte razziali che hanno luogo in diversi stati del Nord e del Sud degli Stati Uniti (South Carolina, Texas, Washington D.C., Illinois, Tennessee, Nebraska, Arkansas) e che vedono scontri tra bianchi e neri in un contesto di crisi sociale, disoccupazione, alti prezzi e competizione per il lavoro. La richiesta di uguaglianza da parte dei neri viene considerata troppo radicale e s‟inserisce all‟interno del più generale Red Scare che ha inizio nel 1919‖. 64 avrà mostrato di essere solamente un ipocrita>‖.174 Negli anni della guerra, dopo un iniziale entusiasmo, era subentrato uno stato di stanchezza, di voglia di pace che, in molti dei paesi interessati al conflitto, aveva dato origine ad una nuova conflittualità sociale, conseguente alle dure condizioni di vita che i cittadini erano costretti a vivere. Tutto questo causò, nei diversi paesi, l‘adozione di speciali misure legislative che sospendevano, limitandoli, i diritti conquistati, giustificando con le esigenze dettate dalla guerra e dalla conseguente situazione d‘emergenza la possibilità per l‘esecutivo di adottare provvedimenti diretti e di incidere con poteri assai più ampi che in tempo di pace. La conseguenza di tutto ciò è che si utilizzò tale situazione per giustificare misure restrittive e radicali nei confronti di quelle istanze sociali a cui non si riusciva o non si voleva dare adeguata risposta da parte dei governi. Defence of the Realm Act, Espionage Act, Sedition Act costituiscono solo alcune delle normative adottate nei paesi anglosassoni, America e Gran Bretagna, per imporre la censura e arrestare gli oppositori alla guerra o più semplicemente gli oppositori sindacali. ―La possibilità di condannare chi indebolisse o recasse nocumento al morale del paese impegnato nello sforzo bellico rendeva plausibile un uso arbitrario e immotivato di misure repressive‖.175 E‘ di quegli anni la nascita, ad esempio, della General Intelligence Division che, sotto la guida di Hoover, provvederà alla schedatura in pochi mesi di migliaia di sospetti radicali, andando a costituire quella enorme banca dati che sarà alla base della formazione dell‘ FBI e che consentirà allo stesso di essere uno dei manovratori occulti del potere negli Usa dal 1924 al 1972. Di fatto, per varie ragioni, però , la nascita della Società delle Nazioni, quale strumento per mantenere la pace, procedere al disarmo, dirimere le dispute tra nazioni fu un completo fallimento nonostante le nobili intenzioni che animavano i suoi componenti. La Società si rivelò incapace di poter realmente incidere sulle realtà nazionali, fatto questo dimostrato dall‘ incapacità di arrestare l‘ascesa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Eppure, era riuscita ad ottenere dalla Germania stessa l‘ingresso nella Società delle Nazioni ed in special modo, con il patto Briand-Kellogg del 1928, era riuscita a far dichiarare bandita la guerra come strumento per risolvere i contrasti internazionali. Pertanto, ―la Società delle Nazioni rappresenta, certamente, una generosa illusione che un nuovo conflitto mondiale si possa evitare‖176 Questa impotenza sarà prodromo al nuovo orrore prodotto dalla seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti e con gli aspetti più terribili e cinici dell‘ideologia nazista dei campi di sterminio. 174 175 176 Ivi, p. 173. Ivi, p. 175. Ivi, p. 178. 65 Non si possono dimenticare, inoltre, gli effetti devastanti di una delle tanti ricorrenti crisi (forse la prima) che si verificò nel 1929, a cui i governi di tutto il mondo risposero, ovviamente, con un irrigidimento dei loro poteri contro le rimostranze delle classi meno abbienti. E‘ in questo clima che si prepara la seconda guerra mondiale ed è in questo clima che in molti paesi si invoca la figura dell‘uomo forte, chiamato a sistemare le cose. Di fatto, tutte le istanze che si produssero nell‘arco del 1800, tra cui ad esempio il pacifismo, il diritto al suffragio universale, il diritto delle donne alla partecipazione politica o le battaglie dei lavoratori per una vita più dignitosa, trovarono nel XX secolo opportunità di affermarsi attraverso battaglie civili o di essere del tutto negate, come appunto il caso del pacifismo, considerato che detto secolo fu attraversato da ben due conflitti mondiali e da numerosi focolai di conflitto. Le innumerevoli testimonianze di attività compiute nell‘arco di questo secolo ed in special modo il raggiungimento dell‘effettiva parità tra uomo e donna, dopo secoli di lotte, nei paesi più industrializzati, unite ad eventi aberranti, come l‘esperienza dell‘olocausto o delle armi di distruzione di massa o le nuove forme di sfruttamento dei paesi poveri messi in atto dalle multinazionali, consente di poter affermare che la battaglia dei diritti è solo all‘inizio e, per quanto possa essere dura, rappresenta, per il genere umano, l‘unica forma di salvezza dalla prevaricazione, dallo sfruttamento e, in generale, dal potere in quanto tale. Nella speranza che le parole pronunciate nel 1776 da John Adams siano profetiche a proposito dei diritti: ―E‟ una storia che non avrà mai fine. Arriveranno nuove rivendicazioni. Le donne vorranno votare. I ragazzi tra dodici e ventun‟anni penseranno che i loro diritti non siano sufficientemente tutelati, e ogni uomo senza un quattrino esigerà pari voce di chiunque altro in tutti gli affari dello Stato.‖177 La fine della seconda guerra mondiale porterà, con l‘intento di regolare i conflitti internazionali e, quindi, di prevenire la guerra, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell‘Uomo e alla creazione di un organismo più efficace rispetto alla Società delle Nazioni: l‘Onu. 3. La Dichiarazione dei D. U. e le normative correlate Nel corso dell'anno 2011 abbiamo assistito ad un susseguirsi di eventi estremamente rilevanti in tutto il mondo, la cui portata è significativa di una generale insofferenza alle 177 L. Hunt, op. cit., p. 118. 66 ―dimenticanze‖, sovente accompagnate da corruzione e illegalità, da parte di una classe politica che continua a subordinare la condizione sociale agli interessi economici, dominanti nei paesi industrializzati, da parte delle banche e dei grandi gruppi multinazionali. Le rivolte improvvise, allo stesso modo violente e sostanzialmente giuste, attuate nei paesi arabi e nel nord Africa testimoniano l‘insopprimibilità dei valori fondanti dei diritti umani: quelli della libertà, della dignità e del diritto alla vita. Ciò che caratterizza, infatti, l'improvvisa esplosione di rivendicazioni che ha infiammato gli animi, non è accaduto, come la maggior parte degli osservatori esterni si aspettava, in virtù di una spinta religiosa integralista, ma grazie ad un generale, incontrollabile anelito di libertà, sgorgato dal cuore degli uomini, a dimostrazione che i modi per liberarsi dai legacci possono essere estremamente vari e spaziare tra i due estremi: il ricorso all‘integralismo religioso o la sua negazione. Un anelito insopprimibile, perché rinunciare alla propria libertà significa negare la propria dignità di uomini, come sosteneva già Kant, secondo il quale ogni uomo ha non solo il diritto ma il dovere di ribellarsi quando è in gioco la propria dignità. Quindi la rivolta diventa, in qualche modo, un imperativo etico, morale: ecco ciò che spinge le ribellioni, le lotte attuali. Io sono un uomo e come tale merito rispetto; non mi lascio più calpestare da te perché se non mi ribello sono io stesso a calpestare la mia dignità umana, e quindi a negare il mio essere uomo.178 Però ognuno di noi, ogni giorno, calpesta in qualche modo i diritti umani di qualcun altro: ciascuno di noi tende a trattare l‘altro come un mezzo dimenticando, troppo spesso, che l‘altro è anche un fine in se stesso. E questo fa parte della nostra natura. Certo, c‘è una bella differenza tra chi si limita ad usare un‘altra persona per i propri scopi ed un terrorista, o uno stupratore, o un militare che bombarda deliberatamente civili inermi. E‘ altrettanto vero, però, che tutte queste forme di violazione dei diritti umani affondano le proprie radici proprio lì, nel “nostro quotidiano, minuto e quasi inconsapevole trascurare i dettati kantiani” 179 e traggono linfa vitale dai nostri comportamenti comuni, spesso negativi. Libertà, quindi, come negazione di sistemi statali autoritari, come affermazione del diritto di ogni componente del tessuto sociale di essere posto in condizione paritaria con gli altri, secondo criteri di equità e giustizia, come desiderio di essere partecipi di una comunità e della struttura sociale e statale costruita per l‘utilità degli uomini, e non per subordinarli ad essa, nel qual caso è ovviamente meglio distruggerla. Quello che testimoniano le odierne rivolte, evidentemente altro non è che un mix di 178 179 A. Cassese, I Diritti Umani oggi, Laterza Bari, pp. 57 – 59. Ivi, p. 59. 67 libertà negata, miseria, sfruttamento, repressione, negazione dell'umanità, miscelata con la speranza, con il futuro, con una appena accennata consapevolezza di sé. A questo atteggiamento nuovo fa ancora una volta da contraltare, nel nostro Continente, una visione secolarmente eurocentrica, opportunista, tesa al soddisfacimento delle sole proprie esigenze, di politica interna ed estera, ma non sicuramente all'avvio, all'impulso di nuove società. In passato, il conto per le attività dell‘Europa è sempre stato pagato con estremo ritardo, da altre persone, da altre generazioni. Ma, forse, stavolta potrebbe essere diverso. Perché stavolta un nuovo movimento per la giustizia sociale si sta diffondendo a macchia d‘olio in tutto il mondo: dagli Usa, dove migliaia di americani hanno occupato in modo non violento Wall Street, ad Israele, dove i ragazzi, durante l‘estate, hanno costruito ―città-tenda‖ per protestare contro l‘aumento incontrollato dei prezzi delle abitazioni, fino a Madrid, dove gli indignados hanno infranto il divieto di manifestare durante il periodo pre-elettorale per scendere in piazza a denunciare la corruzione della classe politica e la mal gestione della crisi economica da parte del governo e solo in Italia, e non si capisce il perché, il movimento ha avuto al suo interno, da parte di soggetti esterni, una manifestazione violenta. Tutte queste diverse ―correnti‖ nazionali sono legate tra loro da una determinazione globale: quella di porre fine alla collusione tra politici ed elite finanziarie corrotte, che in molti paesi hanno fornito un‘ulteriore spinta verso la terribile crisi finanziaria che coinvolge tutto il mondo. Ed il movimento di massa, che si è andato formando, intende non solo evitare che il costo della recessione ricada sulle spalle dei più deboli ma, anche, che la nostra esausta democrazia si liberi, finalmente, della corruzione. Eppure, gli strumenti per garantire il rispetto dei D.U. sono, in parte, già a nostra disposizione, a livello normativo e basta solo rifletterci sopra. La prima, fondamentale svolta nella protezione dei diritti umani si verifica nel secondo dopoguerra: il 10 dicembre 1948, l‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, promuovendone il rispetto e l‘osservanza a livello ―universale‖. All‘origine della dichiarazione c‘era la volontà di creare uno strumento che tutelasse gli individui nei confronti dello Stato, in virtù della consapevolezza che i crimini commessi nel corso della seconda guerra mondiale dai nazisti, che vanno dalla persecuzione degli avversari allo sterminio degli ebrei, fossero stati resi possibili dal potere dello Stato di privare i cittadini di ogni diritto.180 Parlarne oggi può apparire banale, eppure solo in quel momento, per la prima volta, gli uomini vengono tutelati in quanto uomini e non più in quanto appartenenti ad una 180 E. Roccella e L. Scaraffia, Contro il Cristianesimo, Piemme, Casalmonferrato 2005, p. 15. 68 determinata comunità statale (seppure con lo status di cittadini, come vedremo nel prosieguo del presente lavoro). Con la Dichiarazione cambia la ratio stessa delle norme a tutela dei diritti umani, che non sono più modellate sulla base degli interessi economico-politici degli Stati181: l'attenzione si sposta sulle persone, o meglio, sui cittadini, vedremo dopo il perché. Malgrado i suoi limiti, quindi, la Dichiarazione ha indubbiamente segnato un primo importantissimo passo verso l‘affermazione dell‘individuo, un punto di non ritorno che ha conquistato, per la prima volta, un proprio spazio in un ambito sino ad allora riservato esclusivamente alla sovranità statale. Nel corso degli anni, poi, i vincoli imposti agli Stati si sono fatti progressivamente più stringenti, grazie all‘adozione di svariate Convenzioni e all‘inserimento di meccanismi di protezione, cui l‘individuo può ricorrere direttamente sia a livello universale che regionale, seppure si avverta la mancanza di una più stringente disciplina sanzionatoria in caso di disapplicazioni. Di contro, il limite principale della Dichiarazione sta proprio nella sua pretesa di universalità: troppo profonde sono le divergenze filosofiche, culturali, religiose tra Oriente ed Occidente. Se da noi prevale il concetto giusnaturalista, in base al quale i diritti sono connaturati all‘essere umano, per gli ―orientali‖ i diritti esistono soltanto perché esiste uno Stato e fintanto che lo Stato stesso li riconosca. E ancora: in Occidente si tende a tutelare maggiormente la libertà individuale nei confronti dello strapotere dello Stato, mentre per i paesi in via di sviluppo e per quelli dell‘ex area socialista sono più importanti i diritti economici, sociali e culturali. E del resto, che senso ha parlare di libertà di manifestazione del proprio pensiero quando si ha fame, si è senza lavoro e casa? Come ci si può battere per la libertà di parola quando non si ha neppure il diritto alla vita, come nell‘Africa subsahariana, dove il tasso di mortalità neonatale è più alto che in tutto il resto del pianeta182, oppure in Cina, dove il governo, per limitare le nascite, ha imposto la politica del figlio unico? Solo assicurando un‘uguaglianza di fatto, grazie alla tutela dei diritti economici e sociali, si potranno creare le basi per godere pienamente dei diritti politici, anche per questo il lavoro ―storico‖ della Hunt è particolarmente importante. Non va, poi, sottovalutata la differenza culturale: per molti Paesi, specie quelli dell'area asiatica o musulmana, l‘assoggettamento al capofamiglia, al leader carismatico e, quindi, allo Stato, è un precetto etico-religioso, mentre altre pratiche, come ad esempio le mutilazioni genitali femminili, da noi occidentali ritenute come barbarie (e sicuramente tali, 181 182 A. Cassese, op. cit., p. 25. cfr. Rapporto ―Livelli e andamenti nella mortalità infantile‖ 2011, presentato dall‘Unicef e dall‘Organizzazione Mondiale della Sanità il 15 settembre 2011, p. 1: nell‘Africa Subsahariana muore 1 neonato ogni 8. 69 in quanti rientrano nelle violazioni del corpo dell'individuo), e per tale motivo vietate, per alcune donne il cui retaggio culturale è assai ristretto nelle possibilità, rappresentano un prezzo equo da pagare per l‘appartenenza ad una comunità.183 Analoghe considerazioni possono essere svolte per quanto concerne l‘apparente contrasto tra la libertà di culto e l‘imposizione del velo femminile. L‘art. 16 della Dichiarazione, poi, nella parte in cui “afferma la libertà per ciascuno di scegliere il proprio coniuge e di fondare una famiglia liberamente, dal momento che la famiglia costituisce “l‟elemento naturale e fondamentale della società e dello Stato”. Si sa che proprio questo articolo è stata la ragione per cui molti Paesi, come l‟Arabia Saudita, non hanno firmato la dichiarazione perché contrari alla libera scelta del coniuge”184. Possiamo, perciò, ravvisare, già nell‘impostazione della dichiarazione, nella ―gerarchia‖ dei diritti, una sorta di imperialismo culturale occidentale, che mal si addice alla ricerca, solo pretesa, dell‘universalità. E, del resto, la Dichiarazione appare in qualche modo ―viziata‖ sin dall‘origine, se solo pensiamo ai Paesi che l‘hanno dettata. Paesi, che, adattando definizioni ―datate‖ storicamente, venivano considerati imperialisti, come gli Stati Uniti, l‘Inghilterra e la Francia, od autoritari, come l‘Unione Sovietica e la Cina, si sono eretti a difensori dell‘indipendenza, della libertà, del diritto all‘autodeterminazione, della lotta al razzismo. Quanto alla sua concreta attuazione, lo stesso giorno in cui è stata adottata, l‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha incaricato la Commissione per i diritti umani, istituita proprio per promuoverne la tutela concreta, di predisporre una convenzione che traducesse i principi espressi nella Dichiarazione in norme giuridiche vincolanti.185. In realtà, a causa del particolare clima politico di quegli anni, il progetto di convenzione, inizialmente redatto dalla Commissione, si è tradotto in due Patti internazionali distinti, uno sui diritti civili e politici ed uno sui diritti sociali, culturali ed economici, entrambi adottati nel 1966. La Dichiarazione non è, infatti, riuscita a risolvere la contraddizione implicita tra le esigenze libertarie e le necessità imposte dalla realtà della volontà generale e della legge, che provoca una tensione tra le due categorie di diritti, l‘una incentrata sull‘individuo e l‘altra sulla società. La ―guerra fredda‖, come elemento caratterizzante i rapporti tra le grandi potenze nel secolo scorso, rende, quindi, i diritti umani essenzialmente uno strumento di propaganda politica, scatenando accuse reciproche tra i due opposti poli: se gli Usa evidenziano 183 184 185 A. Cassese, op. cit., pp. 41-47. E. Roccella e L. Scaraffia, op. cit. , p.18. cfr. A. Saccucci, Profili di tutela dei diritti umani, Cedam, Padova 2002, pp.36-50. 70 l‘assenza di tutela, in Urss, dei diritti civili e politici, da parte sovietica vengono sottolineate le continue violazioni americane di quelli sociali, culturali ed economici. Inoltre, tra il 1954 ed il 1966, a seguito del processo di decolonizzazione, il numero degli Stati che entrano a far parte dell‘Onu è più che raddoppiato, e molti di essi sono disposti a ratificare soltanto uno dei due Patti.186. Peraltro, è opinione condivisa da larga parte della dottrina187 che i diritti civili e politici abbiano carattere precettivo, siano cioè suscettibili di immediata applicazione all‘interno degli ordinamenti statali, mentre quelli economico-sociali sarebbero semplicemente programmatici, in quanto lo Stato non può provvedervi immediatamente, ma deve attivare apposite politiche per la loro attuazione. Questo diverso carattere delle due categorie di diritti sembrerebbe, tra l‘altro, confermato dal fatto che sull‘attuazione del Patto sui diritti civili e politici esercita funzioni di controllo, quasi giurisdizionale, il Comitato per i diritti dell‘uomo, istituito dal Patto stesso188, mentre su quelli economici e sociali, nonostante l'attuale forte necessità di una regolamentazione, è sceso il silenzio più assoluto. Ma lo scopo della Dichiarazione era anche (e soprattutto) quello di garantire la pace, l‘equilibrio e la giustizia nel mondo, all‘indomani di una terribile guerra. Questo intento è stato rafforzato con la costituzione, avvenuta il 5 maggio 1949, del Consiglio d’Europa. Tale organismo, fortemente voluto dai dieci Paesi europei inizialmente firmatari – Regno Unito, Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda, Italia, Norvegia e Svezia –risponde all‘esigenza di creare, a livello europeo, un supporto di cooperazione internazionale che evitasse il ripetersi di nuovi conflitti. L‘art. 3 dello Statuto prevede l‘obbligo, per gli Stati membri, di ―accettare i principi dello Stato di diritto e del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione‖. Gli organi principali del Consiglio, il Comitato dei Ministri e l‘Assemblea consultiva, svolgono una funzione di vigilanza nell‘ambito delle garanzie previste dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà individuali, adottata a Roma il 4 novembre 1950. Attualmente, a seguito delle modifiche introdotte da una serie di Protocolli aggiuntivi siglati a Strasburgo nel 1994, il Consiglio è chiamato a sorvegliare l‘esecuzione delle sentenze emesse dalla Corte Europea, prevista all‘art. 54 della Convenzione. La creazione della Corte costituisce un importante passo avanti nel sistema di garanzie a tutela dei diritti umani a livello europeo; la Corte, nel corso 186 187 188 A. Cassese, op. cit., p.43. Ibidem. Ibidem. 71 degli anni, ha prodotto un'enorme quantità di giurisprudenza, essendo stata chiamata a decidere su moltissime controversie internazionali in materia di lesione dei diritti umani. Un ulteriore Protocollo (il numero 12) è stato aperto alla firma degli Stati membri (firmatari) della Convenzione a Roma, il 4 novembre 2000: esso “stabilisce un divieto generale di discriminazione nel godimento di tutti i diritti previsti dalla legge”189. Ciò nonostante, numerose sono tuttora le discriminazioni in tutto il mondo: basti pensare solamente a quante persone sono perseguitate a causa del loro orientamento sessuale. Attualmente, l‘omosessualità è punita con la pena di morte in molti Paesi islamici (Iran, Arabia Saudita, Afghanistan, Mauritania, Sudan, Pakistan, Emirati Arabi, Yemen e province settentrionali della Nigeria) ed altri venti prevedono pene severe per atti di sodomia. Complessivamente, l‘omosessualità è considerata reato penale in 73 Paesi. Il 9 dicembre 1948, a New York, è stata adottata la Convenzione sul genocidio, che definisce il genocidio un crimine vietato dal diritto internazionale, a prescindere che sia commesso in tempo di guerra o in tempo di pace. Per la prima volta viene formulata, a livello internazionale, una definizione precisa del genocidio e degli atti di genocidio proibiti: per genocidio si intende la distruzione di membri di un gruppo protetto, accompagnata dall'intenzione di distruggerlo, in tutto o in parte. La distruzione può avvenire mediante uccisione, ferimento grave, sottoposizione a condizioni di vita intese a provocarne la distruzione, impedimento di nascite all'interno del gruppo, trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo all'altro. Per gruppo protetto, invece, si intende un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Infine, deve verificarsi il dolo aggravato, ossia l'intenzione di distruggere proprio i membri di quel determinato gruppo. Va rilevato che “la Convenzione non considera genocidio lo sterminio di gruppi politici, né il cosiddetto “genocidio culturale” (ossia la distruzione della cultura di un gruppo umano)”190. A questo proposito, è interessante notare come, all'indomani di questa Convenzione, negli U.S.A. ed in Canada (dove erano note come Canadian Residental School System) nessun provvedimento fu adottato per abolire le ―famigerate‖ Native American Boarding Schools, in cui, stando ai dati forniti successivamente anche dagli stessi Stati interessati, dalla fine del XIX sec. fino agli anni '70 del XX sec., periodo in cui vennero riformate (Indian Self-Determination and Education Assistance Act of 1975), fu attuato non solo un vero e proprio genocidio culturale a danno dei nativi americani, ma anche uno sterminio sistematico, attraverso l'adozione di eccessi nei metodi di correzione (vere e proprie sofferenze inferte ai piccoli nativi), abusi, violenze, umiliazioni, sofferenze fisiche, 189 190 A. Saccucci, op. cit., p. 145. A. Cassese, op. cit., p. 152. 72 psicologiche, morali, culturali.191 Però il vero limite della Convenzione è altrove; il configurare un'ipotesi di genocidio esclusivamente in presenza di ―dolo aggravato‖ offre agli Stati la possibilità di negare di aver commesso certi atti intenzionalmente. In secondo luogo, i meccanismi di garanzia previsti dalla Convenzione sono assolutamente inefficaci, attesa la difficoltà di stabilire sia chi abbia competenza a svolgere il ruolo di accusatore, nei confronti di uno Stato, che resti inerte ed al cui interno sia stato commesso un genocidio, sia chi dovrebbe punire gli autori del crimine stesso. In realtà, il motivo principale di questa eccezionale carenza sanzionatoria è che la maggior parte degli Stati firmatari ha privilegiato (e privilegia) la sovranità nazionale rispetto alle esigenze punitive. Così, se sotto il profilo normativo, con il passare del tempo, si è formata una norma consuetudinaria che vincola al rispetto della Convenzione anche gli Stati che non l'hanno sottoscritta, norma che ha addirittura acquisito rango superiore ad altre norme internazionali, in concreto, prima dell'istituzione dei tribunali penali internazionali, i vari casi di genocidio, che si sono verificati, sono rimasti impuniti. E purtroppo, di casi se ne sono verificati numerosi, quasi tutti nel Terzo Mondo, ma in ogni caso in società composite e conflittuali, in cui problemi economici e politici, legati alla modernizzazione e all'accentramento di poteri, si sovrappongono a tradizionali dissidi tra etnie e gruppi religiosi. L'elenco è davvero lungo: nel 1960 in Congo, dove l'esercito massacrò centinaia di Baluba; nel 1965 e nel 1972 in Burundi, in danno del gruppo Hutu, quantitativamente maggioritario, ma politicamente in minoranza; nel 1971, in Pakistan, il massacro della popolazione dell‘attuale Bangladesh; tra il 1970 ed il 1974, in Paraguay, vennero uccisi migliaia di indiani Achè; dal 1971 al 1978, in Uganda, si consumò il massacro di migliaia di civili e di vari gruppi etnici; tra il 1975 ed il 1978, i Khmer rossi, in Cambogia, sterminarono vari gruppi, tra cui i monaci buddisti, mentre in Iran venne avviato il massacro dei Bahai, un gruppo religioso locale. Nel 1978 fu la volta della Guinea equatoriale; nel 1982 in Libano truppe falangiste cristiane sterminarono i palestinesi; negli 191 Wikipedia, Native American Boarding Schools,: Children were usually immersed in European-American culture through appearance changes with haircuts, were forbidden to speak their native languages, and traditional names were replaced by new European-American names. The experience of the schools was often harsh, especially for the younger children who were separated from their families. In numerous ways, they were encouraged or forced to abandon their Native American identities and cultures. The number of Native American children in the boarding schools reached a peak in the 1970s, with an estimated enrollment of 60,000 in 1973. Especially through investigations of the later twentieth century, there have been many documented cases of sexual, physical and mental abuse occurring at such schools. Since those years, tribal nations have increasingly insisted on community-based schools and have also founded numerous tribally controlled colleges. Community schools have also been supported by the federal government through the BIA and legislation. The largest boarding schools have closed. In some cases, reservations or tribes were too small or poor to support independent schools and still wanted an alternative for their children, especially for high school. By 2007, the number of Native American children in boarding schools had declined to 9,500. 73 anni 1986/87 nello Sri Lanka la maggioranza politica, a sua volta vittima di eccidi, ha commesso violenze ed atti di genocidio nei confronti del gruppo Tamil. 192 Questa impunità, di fatto, ha termine nel 1993, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta lo Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, chiamato a pronunciarsi anche sul genocidio. Per la prima volta, quindi, un tribunale internazionale ha la possibilità di statuire in materia, senza una richiesta precisa da parte di uno Stato, ma su attivazione di un procuratore indipendente. Ed effettivamente, il Tribunale si è potuto pronunciare sul genocidio di musulmani perpetrato nel 1995 a Srebrenica, in Bosnia-Erzegovina. Un ulteriore passo avanti è stato fatto nel 1994, con l'adozione, sempre da parte del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, dello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda193, chiamato a pronunciarsi proprio sull'eccidio commesso nel proprio Paese. Le decisioni, emanate da questi due organi giurisdizionali, sono molto importanti, in quanto hanno finito per consolidare la teoria in base alla quale un gruppo può considerarsi ―protetto‖, anche in assenza di differenziazioni etnico-religiose, qualora la percezione soggettiva di se stesso e dell'altro, come appartenenti a gruppi diversi, porta, nei fatti, a distinguere due gruppi differenti e contrapposti.194 Questo concetto, poi, è stato particolarmente affinato dal Tribunale della ex Jugoslavia in uno dei casi che hanno riguardato il massacro di Srebrenica, stabilendo che si è in presenza di un genocidio anche se le vittime sono tutte appartenenti alla stessa etnia ed alla stessa religione, allorché si riscontri l'intenzione di distruggere un gruppo percepito come tale, uccidendo gli uomini ed allontanando donne e bambini e distruggendo anche i simboli stessi di quel gruppo (ad esempio, le moschee, come simbolo religioso dei musulmani massacrati a Srebrenica).195 192 193 194 195 Ivi, pp. 155 – 163. Wikipedia, Genocidio del Ruanda, : Il genocidio del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete (pangas) e bastoni chiodati) tra 800.000 e 1.000.000 persone. Il genocidio, ufficialmente, viene considerato concluso alla fine dell'Opération Turquoise, una missione umanitaria voluta e intrapresa dai francesi, sotto autorizzazione ONU. Le vittime furono prevalentemente Tutsi, Hutu moderati e tutti coloro che gli estremisti Hutu definivano traditori. La divisione tra Tutsi e Hutu non fu fatta dai colonizzatori belgi, ma esisteva già, nonostante la monarchia belga aumentò le discordie interne: i Tutsi erano una minoranza rispetto agli Hutu, e poi vi era un altro gruppo ancora meno numeroso, che erano Twa. Anticamente si poteva passare da un gruppo ad un altro, ci si poteva sposare tra gruppi diversi: la differenza era prevalentemente di tipo sociale: i Tutsi erano più ricchi degli Hutu e nell'ultimo gradino della scala sociale vi erano i Twa. Ma non era definitivo, chiunque poteva migliorare la propria condizione. I colonizzatori belgi fecero l'errore di considerare questi gruppi come delle divisioni razziali. Così facendo i gruppi si irrigidirono e non fu più possibile cambiare gruppo. I Tutsi divennero i ricchi al potere, gli Hutu i poveri che dovevano subire tutto. Dopo sanguinose rivolte e massacri, gli Hutu, con l'accordo dei belgi, presero il potere e iniziò la lunga persecuzione dei Tutsi. Molti di loro fuggirono nei Paesi limitrofi, soprattutto in Uganda. Nel periodo del genocidio gli Hutu era il gruppo di popolazione maggiore. Erano Hutu anche i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio: Interahamwe e Impuzamugambi. Ivi, pp. 163 – 165. Ivi, p. 166. 74 Infine, nel 2005 la Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Darfur,196 fortemente voluta dagli Stati Uniti per arrestare il genocidio in corso in quella regione del Sudan, ha ripreso il medesimo principio, in quanto i due gruppi avversari, le tribù definite arabe e quelle cosiddette africane, condividevano lingua, razza e religione; l'unica differenza era nell'attività lavorativa svolta: agricoltori gli ―africani‖, allevatori gli ―arabi‖. Resta il fatto che, purtroppo, spesso i genocidi restano impuniti: i paesi industrializzati rimangono inerti nei confronti di quelli in via di sviluppo al cui interno vengono commessi massacri ed eccidi. Così, sovente, gli stermini terminano solo per effetto di un colpo di stato, che spesso porta al potere la fazione avversa, oppure per l'intervento di un Paese vicino, raramente mosso da motivi umanitari, più spesso da meri interessi, rappresentando la guerra uno dei mezzi più usati dagli Stati (anche per quelli firmatari della Dichiarazione dei D.U.) di attivazione dell'economia, per la necessità di ricostruzione delle strutture distrutte. Alcuni anni fa, non senza sgomento dei molti, veniva annunciata la fattibilità di una bomba capace di uccidere gli esseri viventi senza che ciò significasse intaccare le strutture. A distanza di anni, di quella bomba non si sente più parlare e sempre più spesso, per le odierne guerre, si parla di ―vittoria nel massimo danno‖, intendendo, con questo, la possibilità di ricostruzione ad opera dei vincitori. Evidentemente, gli organi giurisdizionali, nonostante siano oggi disponibili a livello internazionale, non bastano; occorrerebbero meccanismi atti a prevenire gli stermini di massa, facenti capo ad Organizzazioni sovranazionali. Questo principio è stato, tra l'altro, evidenziato nello Statuto dell'Unione Africana, adottato nel 2000, che prevede la possibilità di intervento in uno Stato membro, previa delibera dell'Assemblea dell'Unione, in caso di crimini di guerra, genocidi e crimini contro l'umanità.197 Il 14 dicembre 1950 l‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta lo Statuto dell‘ACNUR198 (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), una organizzazione specializzata a carattere permanente pensata per sostituire l‘OIR, provvisoriamente creata nel 1947 per gestire i flussi di rifugiati politici provocati dalla 2° guerra mondiale. Il 25 luglio 1951 viene firmata la Convenzione di Ginevra199 (una della lunga serie di omonime Convenzioni, che regolamentano la protezione della popolazione civile dei Paesi interessati da conflitti armati e delle vittime degli stessi) sullo status dei rifugiati che, 196 197 198 199 http://it.wikipedia.org/wiki/Conflitto_del_Darfur Art. 4, lettera h). http://it.wikipedia.org/wiki/Acnur http://it.wikipedia.org/wiki/Convenzione_di_Ginevra 75 all‘art.1, fissa la definizione di ―rifugiato‖ come colui ―che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. 200 Con questa definizione, però, la Convenzione comprende solo le persone che abbiano acquisito lo status di rifugiati a seguito di avvenimenti antecedenti il 1° gennaio 1951. Tale clausola temporale, in realtà anacronistica alla luce degli eventi che si sono verificati durante gli anni ‘50, ha reso necessaria l‘adozione di un ulteriore Protocollo, siglato a New York il 31 gennaio 1967, in base al quale “la definizione di rifugiato contenuta nell‟art. 1 deve intendersi come estesa a tutti coloro che rivestono tale status senza limiti di tempo e non può essere sottoposta ad alcuna limitazione geografica.”201 Nella riunione straordinaria di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, concernente la ―Creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell'Unione Europea‖, il Consiglio Europeo ha deciso di creare un regime comune in materia di asilo che, basandosi sulla Convenzione di Ginevra del 1951, garantisca che nessuno sia esposto alla persecuzione, in ottemperanza al principio di non refoulement.202 I provvedimenti adottati in tale ambito sono tesi a disciplinare l'accesso alla procedura d'asilo, alle procedure di riconoscimento e di revoca degli status, gli standard dell'accoglienza e l'individuazione dello Stato competente ad esaminare le singole istanze di asilo e a ridurre, di conseguenza, il cd. fenomeno di asylum shopping, cioè lo spostamento dei richiedenti asilo da un paese membro ad un altro, dovuto alla diversità delle norme applicabili nei vari Stati. Particolarmente rilevanti in proposito sono due Direttive, emanate nel 2004 e nel 2005, riguardanti, rispettivamente, la qualifica di ―rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale‖203 e le ―procedure ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato‖204 . 200 201 202 203 204 Art. 1 A (2) della Convenzione di Ginevra, così come ratificata dall'Italia con legge 24.7.1954, .722. A. Saccucci, op. cit., p. 75. Art.19, c.1, T.U. Immigrazione (Dlgs 286/98, come emendato dalla L.189/2002 ―Bossi-Fini‖): ―In nessun caso può disporsi l‟espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione” Direttiva 2004/83/CE recante ―Norme minime sull‟attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta‖. Direttiva 2005/85/CE recante ―Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del 76 Tra le novità più importanti, che le Direttive hanno introdotto, si segnala la definizione di ―protezione sussidiaria‖: un nuovo status giuridico che trova applicazione solo in quei casi in cui i richiedenti asilo non presentino i requisiti per poter ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. Per quanto riguarda, poi, i motivi di persecuzione, a parte la razza e la religione, viene specificato che con nazionalità non ci si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, ma all'appartenenza ad uno specifico gruppo, caratterizzato da una stessa identità culturale, etnica o linguistica, o da comuni origini geografiche o politiche o dalla sua affinità con la popolazione di un altro Stato. Un determinato gruppo sociale è costituito da persone che condividono una caratteristica o una fede fondamentale per l'identità o la coscienza, ovvero quello che possiede una identità distinta nel Paese di origine, perché è percepito come diverso dalla società circostante, ivi compreso un particolare orientamento sessuale205. Inoltre, tra i danni gravi alla persona che determinano il riconoscimento della protezione sussidiaria, oltre alla condanna a morte, vengono indicate la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, nonché la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile, derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Tale previsione estende la portata del concetto di ―danno grave‖ fino ad abbracciare tipologie di persecuzioni e di gravi violazioni dei diritti umani non previste espressamente dalla Convenzione del 1951, ma comunque sancite in altre convenzioni internazionali sui diritti umani, di diritto umanitario e di diritto penale internazionale. Analogamente, viene allargato il novero dei soggetti responsabili della persecuzione o del danno grave, la cui definizione è da sempre molto dibattuta in quanto non prevista espressamente dalla Convenzione. Vengono, quindi, inclusi a fianco degli organi statali anche altri attori il cui ruolo nel corso degli anni è sempre più cresciuto, sovrapponendosi o affiancando in molte realtà nazionali il potere delle autorità statali costituite. Si tratta dei partiti, delle organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio o infine di soggetti non statuali, se i partiti o le organizzazioni appena citate, comprese quelle internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi. La parità tra i sessi, nella partecipazione alla vita politica ed istituzionale nel 205 riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato‖. L‘art. 10 della Direttiva 2004/83/CE testualmente recita: ―In funzione delle circostanze del paese d‟origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell‟orientamento sessuale. L‟interpretazione dell‟espressione orientamento sessuale non può includere atti classificati come penali dal diritto interno degli Stati Membri”. 77 proprio Paese, sancita dagli artt. 2 § 1 e 21 della Dichiarazione universale dei DU, viene riconosciuta a livello giuridico con la Convenzione sui diritti civili e politici delle donne, stipulata a New York il 20 dicembre 1952. La Convenzione, all‘art. 3, : “riconosce il diritto di elettorato attivo e passivo delle donne in condizioni di uguaglianza con gli uomini e senza discriminazioni di sorta, garantendone, inoltre, l‟accesso a tutti i pubblici uffici e le pubbliche funzioni stabilite dalla legislazione nazionale.”206 Nel corso degli anni ‘60 il dibattito internazionale sui diritti delle donne ha evidenziato i limiti degli strumenti a loro tutela e, quindi, l‘esigenza di predisporne di più efficaci. Nel 1967 fu elaborata dalla Commissione D.U. dell‘Onu, ed in seguito adottata dall‘Assemblea Generale, la Dichiarazione sull‘eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. Pur affrontando la problematica in modo ampio, però, la Dichiarazione non imponeva nessun obbligo specifico agli Stati contraenti. Soltanto con l‘approvazione, il 18 dicembre 1979, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne si ottiene una svolta storica nel percorso dei diritti umani delle donne. Nel preambolo si ribadisce che, nonostante i numerosi sforzi delle Nazioni Unite per promuovere i diritti femminili e l‘uguaglianza fra sessi, ―le donne continuano ad essere oggetto di gravi discriminazioni‖. Viene, inoltre, evidenziato che la discriminazione contro le donne viola i principi dell‘eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità umana, ostacola la partecipazione delle donne alla vita politica, sociale, economica e culturale del loro paese in condizioni di parità con gli uomini, intralcia la crescita del benessere della società e della famiglia e rende più difficile un pieno dispiegarsi delle potenzialità delle donne per il bene del proprio paese e dell‘umanità. Ma, oltre a ribadire le garanzie di uguaglianza di fronte alla legge, la Convenzione indica concretamente una serie di misure mirate ad ottenere un‘ uguaglianza sostanziale fra donne e uomini, indipendentemente dalla condizione familiare, in tutti i campi della vita politica, economica, sociale e culturale. In particolare, la Convenzione impegna gli Stati firmatari ad attivarsi per modificare gli schemi di comportamento ed i modelli culturali e si propone di diffondere principi di non discriminazione nella vita pubblica e privata, specie in ambito familiare, anche con specifica considerazione degli stereotipi sessuali legati ai ruoli. Questo aspetto è trattato nell‘art. 5, ―Stereotipi e Pregiudizi Sessuali legati ai ruoli‖, contenuto nella Parte Prima della Convenzione, ove si stabilisce che ―Gli Stati Membri 206 A. Saccucci, op. cit., p. 80. 78 prenderanno tutte le misure adeguate per: (a) modificare i comportamenti sociali e culturali di uomini e donne, al fine di ottenere l‘eliminazione di pregiudizi ed abitudini e di tutti quei comportamenti basati sull‘idea dell‘inferiorità o della superiorità di uno dei due sessi o su ruoli stereotipati per uomini e donne.‖207 Nel portare avanti gli obiettivi della Convenzione, gli Stati sono autorizzati ad adottare misure temporanee, le cd. ―azioni positive‖, da mantenere in vigore fino a che non si sarà ottenuta una piena uguaglianza fra donne e uomini. Ad oggi, i Paesi che hanno ratificato la Convenzione sono oltre il 90% degli Stati membri dell‘Onu; la sua ratifica ―universale‖ resta uno dei tempi in cui sono impegnate le Nazioni Unite ed i raggruppamenti più sensibili ai diritti delle donne, come l‘Unione Europea che, soprattutto negli ultimi anni, ha conseguito numerosi successi in campo legislativo tanto da condurre all‘individuazione di un ―modello europeo‖ di parità. Nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità Economica Europea, c‘è un solo articolo, il 119, di tipo ―sociale‖, che sia vincolante per gli Stati membri, laddove rende obbligatoria la parità di retribuzione fra lavoratori e lavoratrici, a parità di mansioni.208 Il Trattato di Amsterdam (1997)209, all‘art. 3, formalizza più compiutamente questo principio: l‘Unione Europea mira ad eliminare le ineguaglianze nonché a promuovere la parità tra uomini e donne. L‘art. 13, inoltre, introduce la procedura in base alla quale le istituzioni comunitarie possono predisporre i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso. Per la prima volta, quindi, è stata introdotta la possibilità concreta di sanzionare gli Stati membri che non rispettino i diritti fondamentali, la lotta contro le discriminazioni di qualsiasi genere, la parità tra uomini e donne nonché l‘attenzione ai valori e ai problemi della società come il volontariato, lo sport, la televisione pubblica, gli handicap, le chiese e le organizzazioni non confessionali, il rifiuto della pena di morte, addirittura il piccolo risparmio in alcuni paesi. In sostanza, il Trattato contiene un nuovo articolo, dedicato al principio generale di non discriminazione, che fornisce all‘Unione i mezzi per combattere ogni tipo di discriminazione fondata sul sesso, la razza o l‘origine etnica, la religione o le convinzioni personali, eventuali anomalie fisiche, l‘età o la preferenza sessuale. L‘Unione aveva già incentrato i suoi primi tre Programmi di Azione, dal 1981 al 1995, sulla rimozione degli ostacoli che impedivano l‘accesso delle donne alle nuove 207 208 209 Il testo della Convenzione è consultabile all‘indirizzo www.un.org./womenwatch/daw/cedaw/text/econvention.htm. http://europa.eu.int/eur-lex/it/treaties/dat/treaties_it.pdf . Il Trattato, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999, chiude la Conferenza intergovernativa cominciata nel 1996 per la modifica del Trattato di Maastricht del 1992 79 tecnologie, alla ridistribuzione dei compiti familiari, alla partecipazione femminile al mercato del lavoro e al generale miglioramento delle condizioni delle donne nella società. Dopo il Trattato di Amsterdam, essa ha potenziato i suoi sforzi tramite un cambiamento di rotta delle politiche delle pari opportunità, la cui promozione ormai costituisce un obiettivo prioritario trasversale di tutte le politiche comunitarie. E‘ stato, pertanto, dapprima inserito nel Quarto Programma d‘Azione (1996/2000), e successivamente reso operativo nel Quinto, un approccio definito Gender Mainstreaming, inteso come ―un modo per assicurare impegni sostenibili ed integrati per superare le persistenti ineguaglianze tra uomini e donne in tutti gli Stati membri‖210. “Il Gender Mainstreaming parte dalla considerazione che l‟uguaglianza tra uomini e donne può essere raggiunta solo se nei processi decisionali si adotta una nuova prospettiva in cui si tenga conto del genere come fattore.”211 Il Mainstreaming è, quindi, concepito come principio trasversale a tutte le politiche europee – economiche, sociali, etc. - ed a tutti i programmi; in particolare, deve essere presente nell'attuazione dei Fondi Strutturali. La Commissione europea deve, inoltre, elaborare un rapporto annuale di valutazione sull'impatto del Gender Mainstreaming sulle politiche europee. In occasione del Consiglio Europeo di Nizza del 2000, infine, viene proclamata la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Ue in cui, al terzo capitolo, si affermano i principi dell'uguaglianza, del rispetto delle diversità e della parità tra uomo e donna. Più recentemente, la parità dei sessi è stata inclusa fra i valori dell'Unione europea, all'art. I -2 del trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, adottato il 17 ed il 18 giugno 2004. Finora l'azione della Comunità ha riguardato la parità di trattamento nel campo dell'occupazione, del lavoro, della formazione professionale e settori attinenti. La normativa comunitaria in materia, insieme alle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, forma un quadro giuridico vasto, coerente e consolidato che deve essere rispettato sia dai vecchi che dai nuovi Stati membri. Con la Dichiarazione sui diritti del fanciullo, adottata il 20 novembre 1959 a New York, l‘Assemblea generale delle Nazioni Unite ha consacrato la necessità, già avvertita negli artt. 25 e 26 della Dichiarazione universale, di assicurare a bambini ed adolescenti una crescita fisica, psichica e spirituale normale, attraverso una protezione speciale che garantisca loro il diritto all‘educazione e la possibilità di costruirsi un futuro. La traduzione organica, dei principi richiamati nella dichiarazione, in norme giuridicamente vincolanti si è 210 211 Cfr. Comunicazione 748/2002/CE, effettuata dalla Commissione Europea il 29 aprile 2002. UFFT, Guida per la parità tra donna e uomo nei progetti equality-learning, UFFT, Berna 2003, p. 20. 80 poi avuta solo quarant‘anni dopo (il 20 novembre 1989, sempre a New York), con l‘adozione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo. Questa ha introdotto un‘importante innovazione sotto il profilo della tutela giuridica: i fanciulli (termine con il quale si intendono tutti coloro che non hanno ancora compiuto i 18 anni) “non vengono più considerati paternalisticamente quali semplici “soggetti” di tutela nei rapporti giuridici familiari ed extrafamiliari, bensì assurgono per la prima volta a “soggetti” titolari di posizioni giuridiche autonome nei confronti dello Stato, della società e degli stessi genitori”212. Il 25 maggio 2000, inoltre, ancora una volta a New York, sono stati siglati due importanti Protocolli facoltativi alla Convenzione del 1989: il primo riguarda il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati; il secondo la vendita di fanciulli, la prostituzione e la pornografia minorili. Quanto al primo, ancora una volta si assiste ad una ―resistenza‖ all‘applicazione di concrete azioni di tutela dei diritti umani proprio da parte degli Stati che se ne proclamano difensori: la maggiore opposizione al reclutamento dei minori viene, difatti, dagli Usa, dal Regno Unito e dall‘Australia, determinati a mantenere la facoltà di arruolare volontari che avessero compiuto il 16° anno. Così, l‘età minima di reclutamento, inizialmente prevista a 18 anni, scende a 16. Resta, comunque, il divieto assoluto di impiego dei minori di 18 anni nei conflitti e della loro coscrizione.213 Quanto al secondo Protocollo, resosi necessario per contrastare la crescente espansione, a livello internazionale, dei fenomeni di pornografia e prostituzione minorili, soprattutto per quanto riguarda il cd. ―turismo sessuale‖, vengono previste specifiche sanzioni penali per gli Stati che violino i diritti dei minori (ma, nonostante anche la presenza di normative interne ai paesi, di natura penale, il perseguire gli autori di questi delitti rimane sempre difficile, per mancanza di una reale volontà di coordinamento ai fini sanzionatori, se non impossibile). Il 18 ottobre 1961, a Torino, gli Stati europei, firmatari della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà individuali, siglano la Carta sociale europea, con la quale si impegnano a rispettare i diritti economici e sociali enunciati nella Carta stessa. Tali diritti sono stati, successivamente, ampliati, dapprima con il Protocollo addizionale del 5 maggio 1988, e poi con una nuova versione della Carta, firmata il 3 maggio 1996, che tiene conto dei numerosi cambiamenti legislativi intervenuti nel settore lavorativo e delle politiche sociali.214 212 213 214 A. Saccucci, op. cit., pp. 90-91. Ivi, p.94. A. Saccucci, op. cit., pp. 151 ss. 81 Il trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, al quale abbiamo già accennato, oltre ad un riferimento generico ai ―valori dell'Unione‖, inserito nell'art. I-2, contiene un catalogo, nella Parte II, di 54 diritti fondamentali spettanti ad ―ogni persona‖. Tali diritti “non attengono ai rapporti tra gli Stati europei e i propri cittadini (o i cittadini e i residenti di altri membri dell'Unione). Essi vengono conferiti a tutti gli individui che vivono o si trovano in un paese dell'Unione […] Quindi, le norme che pongono quei diritti fondamentali non sostituiscono le Carte costituzionali dei paesi membri […] ma d'ora in poi a quei diritti costituzionali si affiancheranno altri diritti fondamentali, spettanti agli individui sia nei confronti delle istituzioni europee, sia degli organi statali che applicano e attuano normative comunitarie.”215 Sotto il profilo enunciativo, la Costituzione europea è sicuramente più avanzata rispetto alle varie Carte nazionali; se, però, si passa ad esaminare il piano della garanzia, scopriamo che essa gode di minori garanzie giudiziarie. Difatti, mentre i diritti sanciti dalle singole Costituzioni usufruiscono di tutte le garanzie giurisdizionali previste dagli ordinamenti interni dei vari Stati, “i diritti fondamentali proclamati nella Costituzione europea, nella misura in cui possono essere violati da istituzioni dell'Unione, sono assai poco assistiti da efficaci meccanismi di garanzia.”216 Il divieto di infliggere tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, già enunciato sia nella Dichiarazione universale dei D.U. che nella Convenzione europea del 1950, è stato reiterato con apposita Dichiarazione sulla protezione contro tali atti, adottata il 9 dicembre 1975. La Dichiarazione riveste una particolare importanza perché fissa, all‘art. 1, la prima definizione internazionale di tortura, (riprendendola, peraltro, dalla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, della quale abbiamo già parlato217) definendone le caratteristiche: la deliberatezza, la crudeltà, l‘essere commessa dai rappresentanti di un potere pubblico che agiscono in veste ufficiale. Nel dicembre 1984 è stata, poi, approvata la Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L‘art. 1 della Convenzione esclude dalla nozione di tortura le sofferenze inflitte in esecuzione di una sanzione legittima 215 216 217 A. Cassese, op. cit., p. 77. Ivi, p. 85. Cfr. sulla specifica questione in A. Cassese, op. cit., alla p. 181: ―La Corte ha precisato che tortura è qualunque trattamento disumano o degradante che causa intenzionalmente una grave sofferenza fisica o mentale. Essa ha così differenziato la tortura dai trattamenti disumani o degradanti sotto un duplice profilo: anzitutto, la tortura è sempre intenzionale […]. In secondo luogo, il grado di sofferenza risultante dalla tortura è più intenso che nel caso dei trattamenti disumani o degradanti‖. 82 ma, rispetto allo stesso articolo della Dichiarazione, assume una portata maggiore, in quanto non riporta il riferimento alle Regole minime standard per il trattamento dei detenuti come parametro del livello di sofferenza lecitamente causabile218. La tortura di cui parliamo qui è diversa da quella ―classica‖, intesa come mezzo per estorcere confessioni, ormai bandita dai codici di tutti gli Stati. E' una tortura diversa, più sofisticata, più tecnologica; di fatto, se ne fa largo uso quale mezzo di repressione del dissenso politico ed ideologico, tanto che progressivamente ha assunto la forma più disumana di lotta contro gli oppositori politici. Ed è ancor più pericolosa, perché utilizzata in paesi essenzialmente democratici: sono noti a tutti gli atti di tortura inflitti dagli americani ai detenuti di Guantanamo, la base navale statunitense di Cuba scelta dall‘amministrazione Bush come luogo di detenzione per talebani e presunti sostenitori di Al Qaeda, o nella prigione irachena di Abu Ghraib dove “La tortura costituisce l'aspetto più patologico dell'assenza di democrazia. E in effetti nasce là dove mancano, o si sono indebolite, tutte quelle garanzie istituzionali e processuali che della democrazia sono l'espressione indispensabile.”219 Nel suo saggio sullo ―stato di eccezione‖ della democrazia americana dopo gli attentati dell‘11 settembre 2001, Giovanni Borgognone evidenzia220 come gli Usa, nella guerra al terrorismo, pur presentandosi come difensori di tre grandi valori americani, la libertà, la democrazia ed il ―rule of law‖ [governo della legge], siano in realtà riusciti a disattenderli tutti. Nella progettazione della reazione governativa agli attentati, è stato addirittura proposto di prevedere una codificazione di alcune tecniche di tortura da utilizzare su presunti terroristi, oltre 600 dei quali sono stati trattenuti per circa 4 anni nel famigerato ―Campo Delta‖ di Guantanamo. Non era loro permesso di riunirsi per nessuna ragione, né uscire dalla cella se non per essere interrogati o, complessivamente, per mezzora due volte a settimana, per una breve passeggiata ed una doccia, rigorosamente da soli. Per evitare, poi, che i detenuti possano familiarizzare con i propri vicini, vengono spostati continuamente di cella. Altri terroristi, poi, come ad esempio i tre leader di Al Qaeda catturati in Pakistan, Khalid Sheikh Mohammed, Abu Zubay Dah e Ramzi Binal Shibh, sono stati portati ed interrogati in altre sedi, mantenute segrete e con metodi che sicuramente potremo definire contrari ad ogni normativa in materia. In tutti questi casi, gli americani hanno negato ai ―prigionieri di guerra‖ 218 219 220 A. Saccucci, op. cit., pp. 107-112. A. Cassese, op. cit., p. 174. G. Borgognone, ―Lo stato di eccezione della democrazia americana dopo l‟11 settembre‖, in V. Coralluzzo (a cura di), ―Democrazie tra terrorismo e guerra‖, Guerini, Milano 2008, pp. 80 - 85. 83 l‘applicazione delle garanzie contenute nella Convenzione di Ginevra. Il Procuratore generale Alberto Gonzales, noto per i suoi sforzi nel minare l‘applicabilità di tali garanzie ai prigionieri catturati in Afghanistan, è giunto persino ad affermare che ―la legislazione americana contro la tortura non può essere applicata ai pubblici ufficiali americani mentre interrogano detenuti stranieri fuori dei confini statunitensi‖.221 Anche se i metodi di tortura, in quanto legati ai caratteri fisici e psichici dell‘uomo, non possono subire innovazioni radicali, oggi si possono adottare tecniche sconosciute in epoche precedenti. Alcuni sistemi sono mutuati dalla tecnologia avanzata (specialmente in relazione all‘utilizzo dell‘energia elettrica), altri fanno ricorso a sostanze chimiche che inducono, nei soggetti a cui vengono iniettate, forme irresistibili di angoscia. A ciò va aggiunta una migliore conoscenza sia dei meccanismi psicologici sia dei limiti di plasticità della natura umana.222 E difatti, i moderni metodi di tortura sono, per lo più, di tipo psicologico: i detenuti vengono privati a lungo di cibo, di acqua, di sonno, tenuti in piedi, incappucciati, frastornati da suoni e rumori per disorientarli. Secondo Amnesty International, negli anni Ottanta, in Unione Sovietica, il personale medico di taluni ospedali psichiatrici, d'intesa con la polizia segreta, somministrava potenti droghe ai dissidenti politici detenuti, per causare loro dolore e disorientamento. Peraltro, la contrapposizione, tipicamente moderna, tra ideologie che si combattono all'ultimo sangue e parcellizzazione dei compiti, caratteristica dello Stato burocratico, che suddivide anche l'inflizione del dolore psichico o fisico tra molte persone, permette al torturatore di crearsi un facile alibi e di scaricare su altri le proprie responsabilità.223 La Convenzione del 1984 ha numerosi vantaggi: innanzitutto, già la sua adozione rappresenta un enorme successo visto che i governi, che dovrebbero bandire la tortura, nella realtà sono i primi ad avallarla. In secondo luogo, l'averla dettagliatamente definita impedisce agli Stati aguzzini di rigettare le accuse, in quanto potrebbero trincerarsi dietro le ambiguità delle norme. In terzo luogo, la Convenzione non si limita a vietare la tortura, ma proscrive anche azioni inumane che assumono forme meno macroscopiche: i trattamenti crudeli, disumani o degradanti, limitando al massimo il margine di discrezionalità degli Stati. In quarto luogo, essa sancisce un criterio che potremmo definire di universalità della giurisdizione: imponendo ad ogni Stato contraente di punire i torturatori che si trovino nelle sue mani o di estradarli allo Stato che ne faccia richiesta ed abbia titolo a processarli, 221 222 223 Ivi, p.85. D. Fisichella, ―Totalitarismo. Un regime del nostro tempo‖, Carocci, Roma 2002, p. 49. A. Cassese, op. cit., pp.176 - 177. 84 vengono definitivamente superati i vecchi criteri della territorialità o della nazionalità.224 Il limite principale della Convenzione risiede nel fatto che può vincolare esclusivamente gli Stati che l'hanno firmata (e qui, di nuovo, ci scontriamo con l'impossibilità di sanzionare gli Stati che pervicacemente perseguono una politica sistematica di disprezzo dei diritti umani). Inoltre, essa non vieta le sofferenze inflitte come ―sanzione legale‖ a seguito di un processo, a meno che non appaiano talmente gravi da costituire manifestazioni più o meno gravi di tortura (come la lapidazione o la crocefissione, adottate in alcuni paesi islamici). In particolare, non è fatto alcun divieto di pena di morte. Infine, il sistema di controllo sull'osservanza della Convenzione, specifico e penetrante, è stato molto indebolito da una modifica inserita a seguito della richiesta (esplicita ed irrinunciabile) di alcuni paesi, tra cui l'Urss e l'Ucraina. Attualmente, ogni Stato è tenuto esclusivamente a sottoporsi ad un controllo esercitato dal Comitato contro la tortura sulla base dell'invio di rapporti statali periodici; ogni ulteriore tipo di controllo, per essere esercitato, deve essere stato esplicitamente accettato dal singolo Stato contraente all'atto della ratifica. Ben diversa la portata della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, che può, a ragione, essere definita rivoluzionaria, grazie all‘istituzione di un apposito Comitato cui è demandato il compito di effettuare sopralluoghi per verificare le effettive condizioni dei detenuti presso gli Stati contraenti. Infatti, l'aver costituito un corpo di ispettori internazionali, incaricati di accertare preventivamente se i detenuti siano o meno sottoposti a tortura o altri trattamenti degradanti e disumani, costituisce un progresso enorme, perché per la prima volta si attua un controllo preventivo. Il suo limite, d'altro canto, è quello di essere una Convenzione internazionale e di valere, quindi, soltanto nei confronti degli Stati che vi aderiscono. Va però rilevato che il Comitato, operativo dal 1990, ha svolto numerosissime ispezioni, suddivise in due categorie: quelle periodiche, che vengono programmate e durano più a lungo, e quelle ad hoc, brevi e ―mirate‖ soltanto a determinati luoghi di detenzione.225 Visti i risultati positivi conseguiti, il 4 novembre 1993 sono stati siglati due Protocolli aggiuntivi alla Convenzione: il primo prevede la possibilità, per il Comitato, di operare anche in Paesi non ancora inseriti nel Consiglio d‘Europa, ma che ne abbiano fatto richiesta, mentre il secondo introduce norme di maggiore flessibilità per il rinnovo delle 224 225 Ivi, pp. 178 – 179. A. Cassese, op. cit., p. 189. 85 cariche del Comitato stesso.226 4. L'ONU. Compiti, attività, criticità e contraddizioni 4.1 Compiti ed attività La fine della II guerra mondiale porta allo scoperto le atrocità a cui è giunto il genere umano, non solo sui campi di battaglia ma, soprattutto, tra le popolazioni civili. Il progetto hitleriano della Shoah227 (voce biblica che significa ―catastrofe, disastro‖ e che, in realtà, mal si adatta ai fatti di specie, trattandosi invece di un genocidio: cioè un'azione criminale su base razziale, finalizzata alla distruzione di un gruppo etnico, territoriale e religioso.) si va concretizzando attraverso cinque distinte e progressive fasi di arrivo alla ―soluzione finale‖, l'eliminazione della razza ebraica: I. la privazione dei diritti civili dei cittadini di religione ebraica; II. la loro espulsione dai territori della Germania, così come questa era venuta conformandosi in quegli anni; III. la creazione di autentici ghetti circondati da filo spinato, muri e guardie armate nei territori conquistati a est dal Terzo Reich, dove gli ebrei furono costretti a vivere separati dalla società e in precarie condizioni sanitarie ed economiche, in condizioni di autentico isolamento non solo materiale; IV. i massacri delle Einsatzgruppen (squadre di riservisti incaricate di eliminare ogni oppositore del nazismo nei territori conquistati dell‘Ucraina e della Russia) durante le azioni di rastrellamento non solo nei confronti degli ebrei, anche se, effettivamente, questi costituivano l‘ ―obiettivo‖ privilegiato; V. la deportazione nei campi di sterminio in Polonia dove, dopo un‘immediata selezione, gli ebrei venivano o uccisi subito con il gas o inviati nei campi di lavoro e sfruttati fino all‘esaurimento delle forze, per essere poi comunque eliminati o usati come cavie per esperimenti di carattere ―medico‖, specie se in giovane età. Queste tappe possono essere suddivise in due periodi storici: - dal 1933 al 1940, quando il nazismo, che ancora svelava solo alcuni tratti della sua sostanziale estraneità all'uomo in quanto tale, vide la soluzione della questione ebraica nell‘emigrazione; 226 Ivi, pp. 165 – 169. 227 http://it.wikipedia.org/wiki/Shoah 86 - dal 1941 al 1945, durante il periodo di guerra, quando venne attuato lo sterminio sistematico e totale. L'odio nazista trovò modo di esprimersi, con identica crudeltà, anche contro: i tedeschi dissidenti nei confronti del regime politico (dall‘apertura del campo di Dachau, 1933); gli appartenenti all'etnia Rom, comunemente denominati zingari, (discriminati già fin dal 1935 e poi deportati dal 1939); i Testimoni di Geova (perseguitati dal 1933 e poi soggetti ad essere internati dal 1935); i prigionieri di guerra (internati sin dall‘inizio del 1939); i cd. ―partigiani‖, nuclei di resistenza territoriale alle forze di invasione del III Reich (dal momento in cui venivano annessi nuovi territori alla Germania); gli omosessuali (incarcerati e condannati già dal 1934); i portatori di handicap (sterilizzati fin dal 1933; e dal 1939 i primi a essere gassati in apposite ―case di cura‖ o su camion destinati alla gassazione, in base al Programma Eutanasia); una parte del clero che cercò di opporsi al regime (dal 1937, quando papa Pio XI, nell‘Enciclica Mit Brennender Sorge (Divini Redemptoris)228, prese aperta posizione contro la Germania hitleriana). L'immane tragedia dettò, alle nazioni uscite vincenti dalla II guerra mondiale, la necessità di costruire un organismo internazionale funzionale e riconosciuto il più ampiamente possibile che, a differenza della Società delle Nazioni229, nata nel primo dopoguerra, fosse in grado non solo di vigilare sull'evolversi di eventuali situazioni conflittuali tra Stati, ma anche di poter intervenire a garanzia del rispetto di condizioni e diritti ritenuti fondamentali per ogni essere umano. Per fare questo, ovviamente, bisognava lavorare non solo alla caratteristica strutturale, ma, anche, alla definizione di alcuni diritti imprescindibili per ogni essere umano e caratterizzati da almeno una pretesa universalità, come poi dimostreranno in seguito le ulteriori carte e dichiarazioni di specie. Ciononostante, questo non mina l'importanza della costruzione e approvazione di una carta contenente i diritti fondamentali dell'essere umano e di una organizzazione deputata, anche, ma non solo, a difenderli (seppure come vedremo con mezzi assai limitati e largamente inadeguati alla realtà odierna). L'Organizzazione in questione, che più di ogni altra cerca di assicurare la tutela dei diritti umani, è l'ONU230. Istituita con la Carta delle Nazioni Unite, entrata formalmente in vigore il 24 ottobre 1945, andava a sostituire la Società delle Nazioni, nata dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. La ratio della sua istituzione è stabilire alcune regole di comportamento sulle quali si dovrebbe fondare la convivenza internazionale, prime fra tutte 228 229 230 http://it.wikipedia.org/wiki/Divini_Redemptoris http://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_delle_nazioni http://www.un.org/ 87 il divieto dell‘uso della forza, fissata dall‘art. 2, comma 4 della Carta231. Tale divieto è il pilastro fondamentale che regge l‘intero impianto delle Nazioni Unite o, ―più in generale, l‟intero sistema di relazioni internazionali a partire dalla fine della seconda guerra mondiale‖232 e, soprattutto, il sistema di sicurezza collettiva. Difatti, da un lato l‘impegno degli Stati firmatari a non ricorrere alla forza, se non in caso di legittima difesa233, assicura il mantenimento della pace, dall‘altro la Carta assegna esclusivamente ad uno degli organi delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza, la possibilità di invocare l‘utilizzo della forza al di fuori dei casi previsti. In tal modo, si afferma il principio della prevalenza del diritto internazionale sull‘interesse nazionale. Il compito fondamentale della nuova Organizzazione è, invece, la promozione della collaborazione tra i vari Stati in diversi ambiti: dalla cooperazione economica, alla tutela dei diritti umani e dell‘ambiente, all‘autodeterminazione dei popoli. La caratteristica che contraddistingue l‘Onu, da ogni altra organizzazione precedente e successiva, è quella di collegare la sicurezza allo sviluppo e alla cooperazione economica, nella certezza che alla base di scontri e conflitti ci sia sempre un‘ingiustizia sociale ed economica.234 Allo svolgimento dei compiti assegnati all‘Organizzazione sono preposti alcuni organi: l‘Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico e sociale, il Consiglio di amministrazione fiduciaria, la Corte internazionale di giustizia ed il Segretariato generale. L‘Assemblea generale, che è composta dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, ciascuno dei quali con diritto di voto, ha competenza generale, ma poteri limitati. Essa può, infatti, occuparsi di qualsiasi argomento rientri negli scopi sociali, ma nei confronti degli 231 232 233 234 L‘articolo testualmente recita: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.” A. de Guttry e F. Pagani, Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva, Il Mulino, Bologna 2005, p. 33. Sancito dall‘art. 51: “Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Ivan Illich, Nello specchio del passato, Editore Boroli, Milano 2005 p. 22 ―Pace è venuta a significare pax oeconomica. La pax oeconomica è equilibrio fra potenze <economiche> nell'accezione formale del termine.... A partire dalla fondazione delle Nazioni Unite, la pace è stata vista in termini sempre più legati allo sviluppo. In precedenza questo legame sarebbe stato impensabile: la novità di esso è quasi inintellegibile alle persone al di sotto dei 40 anni. Questa curiosa trasformazione è più evidente a coloro che, come me,erano già adulti il 10 gennaio 1949, il giorno in cui il presidente Truman annunciò il <Programma dei quattro punti>. Quel giorno la maggior parte di noi incontrò per la prima volta il termine <sviluppo> nella sua accezione presente. Fino ad allora ce n'eravamo serviti per parlare di specie, di proprietà immobiliari e di mosse nel gioco degli scacchi. Ma da quel momento esso si riferisce anche a popoli, Paesi e strategie economiche. E in meno di una generazione siamo stati sommersi da uno stuolo di teorie dello sviluppo in conflitto tra loro. 88 Stati membri deve limitarsi a pronunciare raccomandazioni, atti, che esprimono moniti o anche condanne, ma senza possibilità di infliggere sanzioni. Nei suoi oltre sessant‘anni di attività, l‘Assemblea ha cercato di accrescere la propria influenza, adottando risoluzioni in sessione speciale d‘emergenza, o in maniera solenne, con la più larga maggioranza possibile, su temi particolarmente scottanti o di grande rilievo politico. Inoltre, ha svolto un ruolo particolarmente incisivo nello sviluppo del diritto internazionale, promuovendo la codificazione di regole certe, indispensabili per diminuire le controversie tra Stati, in settori dove già esiste un corpus normativo articolato oppure in settori ―vergini‖, come nel caso degli spazi oltre la giurisdizione nazionale (quali la luna, i corpi celesti, l‘atmosfera terrestre, il sottosuolo, il mare, etc.), che ha portato all‘affermazione del concetto di ―patrimonio comune dell‘umanità‖. A prescindere dall‘ampiezza dei suoi poteri, va tuttavia rilevato che alcuni temi di particolare rilievo, come l‘immigrazione e la tutela ambientale, oppure la lotta contro la fame, la povertà, l‘Aids, la droga, il terrorismo, sono divenuti oggetto di cooperazione internazionale soltanto a seguito di discussione nell‘ambito dell‘Assemblea generale.235 Inoltre, l‘adozione di numerose risoluzioni di condanna nei confronti di Stati accusati di aver violato i principi democratici ed i diritti umani ha sicuramente contribuito alla diffusione di una cultura basata sul rispetto dello stato di diritto.236 ―Si può quindi affermare che l‟Assemblea rappresenta un foro unico di discussione e di sviluppo della cooperazione internazionale, che nessun altro organo e nessun‟altra organizzazione internazionale possono sostituire‖.237 Il Consiglio di sicurezza238 è composto da 15 membri, cinque dei quali, corrispondenti ai vincitori della seconda guerra mondiale, cioè Stati Uniti, Francia, Regno 235 236 237 238 Non si può fare a meno di notare però che, tali argomenti, rientrano appunto in quella concezione di sviluppo che, ingannevolmente, rientra in gioco ogniqualvolta e nei casi più disparati ce ne sia bisogno per giustificare una qualche misura. Ivan Illich, op.cit., pp. 22-23 : “ Ciascuna di queste incursioni teoriche arrivava in due ondate successive. La prima ci portava i cosiddetti pragmatisti, che mettevano l'accento sullo spirito imprenditoriale; la seconda gli aspiranti politici, che si prefiggevano di sensibilizzare la gente alla nuova ideologia straniera. Entrambi i campi concordavano sull'obiettivo della crescita. Entrambi sostenevano l'incremento della produzione e una maggiore dipendenza dal consumo. E ciascun campo, con la sua setta di esperti, ciascuna assemblea di salvatori,collegava il proprio schema di sviluppo alla pace. La pace concreta, collegata così allo sviluppo, è divenuta un obiettivo di parte. E il perseguimento della pace attraverso lo sviluppo è divenuto l'assioma supremo e indiscutibile. Chiunque si opponga alla crescita economica, non a questo o quel tipo di crescita, ma alla crescita economica in sé, può venire denunciato come nemico della pace. Perfino Gandhi è stato presentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico. E, quel che è peggio, i suoi insegnamenti sono stati pervertiti nelle cosiddette <strategie non violente di sviluppo>. Anche la sua pace è stata collegata alla crescita. Il KHADI è stato trasformato in merce e la non violenza è diventata un arma economica. Il postulato dell'economista, che i valori non meritano di essere protetti se non sono scarsi, ha fatto della pax oeconomica una minaccia per la pace del popolo. Il collegamento di pace e sviluppo ha reso difficile mettere in discussione quest'ultimo.” A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 35 – 41. Ivi, p. 40. http://www.un.org/Docs/sc/ 89 Unito, Cina e Federazione Russa (che, all‘inizio del 1992, ha preso il posto dell‘Unione Sovietica), sono permanenti e possono esercitare il cd. ―diritto di veto‖. Il terzo comma dell‘art. 27 della Carta dispone, difatti, che le decisioni del Consiglio di sicurezza su questioni non procedurali siano adottate con il voto favorevole di nove membri e che non figuri il voto contrario di nessuno dei membri permanenti. L‘attività del Consiglio si esplica ogni qualvolta ci si trovi in presenza di una controversia suscettibile di divenire una minaccia al mantenimento della pace; in questi casi, esso adotta delle risoluzioni non vincolanti, ma che possono anche indicare, agli Stati contendenti, uno specifico strumento o una precisa procedura per risolvere la disputa. Il Consiglio, inoltre, può avviare un‘inchiesta per verificare l‘esatta portata della situazione conflittuale. Il Consiglio deve, poi, attivarsi in caso di una minaccia alla pace o di una violazione della stessa, circostanze per l‘accertamento delle quali esso gode di ampia discrezionalità, oppure in presenza di un atto di aggressione. In questo caso, però, le azioni che vanno interpretate come ―atti di aggressione‖ sono state elencate nel 1974 dall‘Assemblea generale nella risoluzione n. 3314 (XXIX) del 14 dicembre, all‘art. 3, e si riferiscono esclusivamente ad ipotesi di attacco armato239, quindi di carattere squisitamente militare, lasciando da parte ogni ―offensiva‖ di natura economica o politica. 240 239 240 Art. 3 lett. b e g: ―un atto armato è un atto compiuto con l‟uso di armi di qualunque tipo, diretto contro il territorio o altri beni che sono la manifestazione dei segni della sovranità di uno Stato, sia con altre forze non inquadrabili nell‟apparato militare dello Stato, ma che agiscono di fatto in suo nome, come bande o gruppi armati, forze irregolari, mercenari‖ Sul concetto di Pax appare interessante uno spunto tratto da Ivan Illich, op. cit.,pp. 25-26-27 laddove distingue tra pax populi come esperienza pre-rinascimentale e pax oeconomica così come è venuta a determinarsi nei secoli seguenti al Rinascimento: ―Nel XII secolo, pax non significava l'assenza di guerra fra signori feudali. La pax che la Chiesa o l'imperatore volevano garantire non era l'assenza di scontri armati fra cavalieri. Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della terra). Questa pace proteggeva tempi e luoghi specifici. Per quanto sanguinoso fosse il conflitto fra signori, la pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa salvaguardava il granaio d'emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In generale, la <pace della terra> proteggeva i valori d'uso dell'ambiente comune da un'interferenza violenta. Essa assicurava l'acceso all'acqua e al pascolo, ai boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La <pace della terra> era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza, andò perduto con il Rinascimento. Con l'Europa delle Nazioni cominciò ad emergere un mondo del tutto nuovo, che introdusse un nuovo tipo di pace e un nuovo tipo di violenza...Mentre fino ad allora pace aveva significato la protezione di quel livello minimo di sussistenza da cui traevano alimento anche le guerre tra signori feudali, a partire da questo momento la sussistenza stessa diviene oggetto di un'aggressione che si pretendeva <pacifica>. La sfera delle attività di sussistenza fu intaccata dall'espansione dei mercati di merci e servizi....In primo luogo, la pax oeconomica incorpora il postulato secondo cui la gente è divenuta incapace di provvedere a se stessa. Essa autorizza una nuova élite a far dipendere la sopravvivenza della gente dall'accesso all'educazione, alla sanità, alla protezione poliziesca, agli appartamenti e ai supermarket. In modi prima di allora sconosciuti, essa esalta il produttore e degrada il consumatore. La pax oeconomica definisce le attività di sussistenza <improduttive>, i soggetti autonomi <asociali>, e le culture tradizionali <sottosviluppate>. Essa preannuncia violenza nei confronti di tutti i costumi locali non integrabili in un gioco a somma zero. In secondo luogo, la pax oeconomica promuove la violenza contro l'ambiente.... incoraggia la distruzione degli usi civici....In terzo luogo, la nuova pace promuove un nuovo tipo di guerra fra i sessi.....Il monopolio del lavoro salariato comporta aggressione nei confronti di una caratteristica comune a tutte le società orientate alla sussistenza. Esse possono essere tanto diverse tra loro quanto il Giappone, la Francia e le isole Figi;, ma 90 Rispetto alle minacce e alle violazioni, invece, recentemente, il Consiglio ha utilizzato la propria discrezionalità ampliando le fattispecie fino a ricomprendere anche i conflitti interni ad un singolo Stato, gli atti di terrorismo e di genocidio, nonché le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani fondamentali. Questo ampliamento gli ha permesso di prendere posizione nei confronti di tutta una serie di fenomenologie criminali, quali ad esempio i traffici internazionali di armi e stupefacenti, la tratta di esseri umani ed il riciclaggio di denaro sporco e di rendersi promotore della creazione di tribunali internazionali241 per la repressione di tali crimini. Quanto ai suoi poteri concreti in queste circostanze, il Consiglio dispone di tre diversi strumenti, di intensità crescente e progressivamente più intrusivi: le misure provvisorie, le sanzioni e l‘uso della forza. Le misure provvisorie consistono, per lo più, nell‘invito a cessare il fuoco o al ritiro delle truppe, mentre le sanzioni, anche definite ―embargo‖, possono prevedere l‘interruzione parziale o totale dei rapporti economici e dei mezzi di comunicazione e la rottura di ogni relazione diplomatica. Il ricorso alle sanzioni è per lo più avvenuto dopo la fine della guerra fredda, ma di recente la loro efficacia è stata spesso messa in dubbio, vuoi per l‘aver rafforzato la coesione interna del regime contro il quale sono state adottate, vuoi per l‘estrema arretratezza del paese, che può renderlo impermeabile alle costrizioni economiche. Un ulteriore freno all‘utilizzo di sanzioni è costituito dal pericolo di aggravare ulteriormente le condizioni della popolazione civile. A questa problematica il Consiglio ha cercato di porre rimedio ricorrendo alle cd. ―smart sanctions‖, sanzioni mirate ad un determinato obiettivo senza provocare un disastro umanitario, come, ad esempio, il programma ―Oil for Food‖ attivato in Iraq dal 1996 al 2003242. Inoltre, il sistema sanzionatorio è stato rafforzato con la creazione di organismi ad hoc, i ―Comitati delle sanzioni‖, cui è devoluto, di volta in volta, il compito di monitorare ed amministrare la singola sanzione decisa dal Consiglio. Il principale ostacolo, in questo sistema, è comunque il mancato adeguamento degli Stati membri dai quali dipende la concreta attuazione delle misure restrittive, la cui percentuale è molto bassa. Laddove il Consiglio ritenga inadeguate le sanzioni politiche ed economiche, esso ―può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per 241 242 tutte hanno una caratteristica centrale in comune: tutti i compiti rilevanti per la sussistenza vengono assegnati, in maniera specifica rispetto al genere, a uomini o a donne....” Ad esempio, il Tribunale penale per la ex Jugoslavia o quello per il Ruanda (v. par. 3). Il programma prevedeva la vendita, sul mercato internazionale, di un certo quantitativo di petrolio iracheno, il cui ricavato è stato utilizzato per acquistare beni di prima necessità, soprattutto alimenti e medicinali, per la popolazione civile. 91 mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale‖243, con l‘assistenza e la collaborazione degli Stati membri che sono tenuti a mettere a disposizione del Consiglio stesso le forze armate244. Tali disposizioni sono state, in realtà, del tutto disattese, in quanto i membri permanenti del Consiglio non hanno mai ottemperato a tali obblighi, impedendo, di fatto, all‘organo direttivo di avviare operazioni militari. Sono stati, pertanto, ideati meccanismi alternativi, primo fra tutti quello delle operazioni di peacekeeping che, dall‘iniziale utilizzo di forze-cuscinetto tra belligeranti, sono attualmente missioni articolate con compiti sempre più estesi di mediazione, dissuasione, prevenzione e ricostruzione materiale e civica, tutto questo almeno teoricamente. Di fatto, molto spesso, questi meccanismi, hanno nascosto e nascondono, specie dopo l'11 settembre245, arbitrarie azioni di guerra di carattere internazionale, così come anche il meccanismo successivamente elencato, presenta caratteristiche simili. Un altro procedimento, posto in essere per ovviare alla mancata attuazione della Carta, è la speciale autorizzazione, una sorta di delega, ad usare la forza per ristabilire la pace rilasciata dal Consiglio ad una organizzazione regionale o ad una coalizione temporanea di Stati che abbiano un particolare interesse ad intervenire in un certo territorio. Tra questa tipologia di missioni figura ―Alba‖, nella quale il governo italiano, con l'appoggio di altri Paesi, è stato autorizzato ad intervenire in Albania, con l'uso della forza se necessario, per distribuire aiuti umanitari e ristabilire l'ordine pubblico. Infine, il Consiglio di sicurezza può dirigere operazioni coercitive per la risoluzione di controversie e conflitti affidandole alle organizzazioni regionali (art. 53): le due risoluzioni più significative in tale ambito sono state entrambe adottate nei confronti del conflitto nella ex Jugoslavia246 , le cui conseguenze sono fin troppo note. Questo tipo di operazioni247, però, sono raramente utilizzate, presumibilmente per lo scarso gradimento, da parte delle organizzazioni internazionali, a condurle sotto la direzione del Consiglio di sicurezza Onu. L'ECOSOC, Consiglio economico e sociale, composto da 54 membri eletti per tre anni dall'Assemblea generale, è l'organo preposto agli interventi di cooperazione economica, con un ruolo di coordinamento delle varie Agenzie Onu che si occupano di sviluppo e di 243 244 245 246 247 Articolo 42 della Carta delle Nazioni Unite. Così come previsto dagli articoli 43 e successivi della medesima Carta. http://it.wikipedia.org/wiki/Attentati_dell%2711_settembre_2001 Risoluzioni n. 791/1992 e 816/1993, con le quali sono state, rispettivamente, autorizzate la Nato e l'Ue ad intraprendere misure di interdizione navale per assicurare l'effettivo embargo di Belgrado e le forze aeree Nato a far rispettare le no-fly zones in Bosnia-Erzegovina. http://it.wikipedia.org/wiki/Dissoluzione_della_Jugoslavia 92 diritti umani, come l'Unesco248, la Fao249, l'Ilo250, l'Oms251, etc. In concreto, sono queste che incidono pesantemente sull'adozione delle politiche economiche dell'ONU. Per questo motivo, nel corso degli anni, il Consiglio ha finito per assumere un mero ruolo propositivo all'Assemblea generale di argomenti e iniziative avanzate dai vari organi tecnici. In alcuni casi, per l'esame di problematiche di comune interesse, possono partecipare alle riunioni del Consiglio anche rappresentanti delle Ong. Il Consiglio di amministrazione fiduciaria, previsto dall'art.88 dello Statuto, era l'organo cui competeva l'amministrazione dei territori sotto mandato ereditati dalla Società delle Nazioni o di quelli già occupati da Italia e Giappone ma, con la fine del processo di decolonizzazione, sono di fatto cessati i suoi compiti. E' tuttora in corso un dibattito sul suo futuro; secondo alcuni dovrebbe gestire, per conto della collettività internazionale, i beni ritenuti patrimonio comune dell'umanità, oppure amministrare territori controllati dalle forze di pace dell'Onu o comunque sottratte alla sovranità statuale, mentre altri, tra i quali lo stesso Segretario Generale, ne propongono l'abolizione. La Corte internazionale di giustizia ha, invece, due compiti, uno di natura giurisdizionale ed uno di natura consultiva. Per quanto riguarda il primo, la Corte ha competenza a decidere su ogni controversia tra Stati purché questi gliela abbiano sottoposta di comune accordo. La Corte ha emesso sentenze sulle questioni più disparate: dalla ricostruzione esatta dei confini terrestri o marittimi di due o più Stati all'attribuzione della cittadinanza, al diritto di asilo, alla liceità dell'uso della forza nelle relazioni internazionali. Ma la sentenza più nota è sicuramente quella del 1986 con la quale ha condannato gli Stati Uniti per alcune attività illecite condotte nel territorio del Nicaragua (condanne, è bene dirlo, niente affatto stringenti e troppo spesso di molto successive ai fatti, che limitano i loro effetti ad una sorta di ―reprimenda pubblica‖, ma senza un‘effettiva capacità di sortire qualsiasi effetto sanzionatorio.). Da quel momento in poi, la sua importanza e popolarità sono notevolmente aumentate, il che ha avuto positive ripercussioni sulla frequenza del ricorso alla Corte per la soluzione di controversie. La Corte, inoltre, può essere chiamata a fornire pareri giuridici non vincolanti su qualunque questione le venga sottoposta dal Consiglio di sicurezza, dall'Assemblea generale o da uno degli altri organi ed istituti specializzati delle Nazioni Unite, appositamente autorizzati dall'Assemblea. 248 249 250 251 http://it.wikipedia.org/wiki/Unesco http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_delle_Nazioni_Unite_per_l%27Alimentazion %27Agricoltura http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Internazionale_del_Lavoro http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_mondiale_della_sanit%C3%A0 93 Il Segretariato generale252 è l'ufficio attraverso il quale espleta la propria attività il Segretario generale, nominato dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio, con compiti amministrativi ed esecutivi. Oltre a dare concreta attuazione alle decisioni adottate dai vari organi e a provvedere all'organizzazione ed al funzionamento di tutta la struttura, il Segretario generale svolge anche funzioni politiche, alcune in modo autonomo, per lo più in materia di sottoposizione al Consiglio di tutte le potenziali situazioni di minaccia al mantenimento della pace, altre su delega del Consiglio di sicurezza e dell'Assemblea. Và comunque rilevato che la carica di Segretario generale è quella che assicura maggior visibilità e notorietà al titolare; spesso, la forte personalità del Segretario lo ha portato ad intervenire anche al di là o al di fuori del mandato ricevuto dagli organi delle Nazioni Unite, sollevando critiche, specie delle maggiori potenze per l'eccessiva politicizzazione del ruolo. Politicizzazione che, al contrario, appare come un‘opportunità di garantire un ruolo diverso e ben più pregnante all'organizzazione stessa. Recentemente, il Segretario generale ha cercato di ottenere la collaborazione delle organizzazioni regionali interessate per prevenire accuse di questo tipo.253 Nell‘intero sistema Onu, l‘organo più importante sotto l‘aspetto della promozione e della protezione dei diritti umani è, però, attualmente, il Consiglio dei diritti umani, organo sussidiario dell‘Assemblea Generale che lo ha istituito con Risoluzione n. 60/251 del 15 marzo 2006. Il Consiglio sostituisce l‘omonima Commissione, prevista dalla Carta delle Nazioni Unite e nominata dal Consiglio Economico e Sociale nel 1946, sovente accusata, per il suo forte grado di politicizzazione, di applicare standard differenziati, il cd. double standard approach, a seconda delle situazioni e dei Paesi interessati254. Il Consiglio è stato eletto il 9 maggio 2006 e, come previsto dalla risoluzione 60/251, i seggi, complessivamente 47, sono stati attribuiti in base ad un'equa distribuzione geografica: 13 seggi agli Stati africani, 13 seggi agli Stati asiatici; 6 seggi agli Stati dell'Est europeo; 8 seggi agli Stati latino-americani e Caraibi; 7 seggi agli Stati occidentali ed altri Stati255. La medesima risoluzione evidenzia l‘esigenza che i lavori del Consiglio siano improntati a trasparenza, imparzialità, equità, giustizia e pragmatismo, tutti principi che mirano a favorire un dialogo costruttivo con i governi e tendono a risultati concreti, anche 252 253 254 255 http://www.un.org/en/ga/president/66/ A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 34 – 62. Cfr. http://www.giuristidemocratici.it/attachments_management/Zfiles/20090217085241.pdf Paesi africani: Algeria, Gabon, Gibuti, Camerun, Ghana, Mali, Marocco, Mauritius, Nigeria, Senegal, Sudafrica, Tunisia, Zambia. Paesi asiatici: Arabia Saudita, Bahrein, Bangladesh, Cina, Filippine, Giappone, Giordania, India, Indonesia, Malesia, Pakistan, Repubblica di Corea, Sri Lanka. Stati dell‘Europa orientale: Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Azerbaijan, Ucraina e Romania. Paesi latino-americani: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, Guatemala, Messico, Perù, Uruguay. Paesi dell‘Europa centrale ed altri: Canada, Finlandia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Svizzera. Cfr. http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrcouncil/membership.htm. 94 sotto il profilo dell‘interrelazione costante tra i vari esperti incaricati. E‘ stata, pertanto, introdotta una nuova procedura d‘esame della situazione dei diritti umani, denominata Revisione Periodica Universale256. Tale esame ha cadenza quadriennale e si svolge in tre sessioni annuali di un apposito gruppo di lavoro, che prende in considerazione 16 Paesi alla volta, per un totale di 48 Paesi l‘anno. L‘elenco dei Paesi viene redatto sulla base di una serie di parametri volti ad assicurare che i membri del Consiglio vengano esaminati per primi e che in ogni sessione siano presenti Stati di diverse aree geografiche. Il processo di revisione si svolge in due fasi: la prima, nell‘ambito del predetto gruppo di lavoro, nella quale hanno diritto di parola solo gli Stati; la seconda, a livello di sessione plenaria del Consiglio, in cui possono intervenire altri attori, incluse le Organizzazioni non governative. Obiettivo dell‘esame è la valutazione del modo in cui lo Stato rispetta gli obblighi e gli impegni assunti in materia di diritti umani. 257 Il Consiglio, inoltre, ha mantenuto tutto il sistema delle cd. procedure speciali previsto dalla Commissione per i diritti umani. Con il termine ―procedure speciali‖ vengono indicate le persone in vario modo designate come Relatore Speciale, Esperto indipendente, Rappresentante speciale del Segretario Generale, Rappresentante del Segretario Generale oppure membro del Gruppo di Lavoro258, materialmente incaricate di verificare le violazioni dei diritti umani denunciate e di redigere rapporti in proposito. Nei casi in cui tali violazioni comportino il rischio di perdita di vite umane, o comunque del verificarsi di danni di grave natura per le vittime, la procedura speciale può ricorrere all‘appello urgente, per informare le competenti autorità dello Stato il più rapidamente possibile affinché possa intervenire al riguardo. I titolari del mandato devono essere selezionati sulla base della propria competenza ed esperienza, dell‘integrità personale, dell‘indipendenza, imparzialità ed obiettività. La loro caratteristica principale è sicuramente quella dell‘indipendenza, di fondamentale importanza per garantire l‘esatto assolvimento delle proprie funzioni in modo del tutto imparziale. Sempre per garantire lo svolgimento del proprio mandato, le procedure speciali godono di una serie di immunità e privilegi simili a quelli in capo ai diplomatici e ai parlamentari259. 256 257 258 259 Universal Periodic Review, in Onu, A/RES/60/251 ―Human Rigths Council‖, para. 5. ONU/HRC/5/1 del 18 giugno 2007, ―Institution-building of the United Nations Human Rights Council‖ ONU/A/RES/60/251 Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite, adottata dall‘Assemblea Generale il 13 febbraio 1946, articolo VI, punto 22. 95 4.2 Le criticità Si è già evidenziato come la principale criticità della Dichiarazione dei D.U., e di tutte le altre dichiarazioni correlate, risieda proprio nel fatto di essere delle mere dichiarazioni, e, come tali, di essere sottoposte al limite derivante dall'effettivo adeguamento, da parte degli Stati che le sottoscrivono, ai precetti nelle stesse elencati. Se, d'altronde, questo poteva essere punto di ―forza‖ nel momento in cui le dichiarazioni venivano alla luce, come nel caso della Dichiarazione d'Indipendenza Americana 260, il perdurare nello stato di dichiarazione, sul lungo periodo, si è trasformato in debolezza, non facendo presa effettiva sugli ordinamenti dei diversi paesi se non in fase programmatica. Si nota, altresì, che, anche qualora l'adeguamento abbia avuto luogo (con l'immissione di questi principi nella carta costituzionale come in Italia, ad esempio), di fatto permangano vaste zone d'ombra rispetto al dispiegarsi del potere, quale espressione della volontà politica che si avvale della collaborazioni degli organi statuali per l'esplicazione della politica stessa, creando delle vere e proprie casistiche di ―sospensione‖ del diritto interno, come in alcuni casi verificatesi anche in Italia. Si può sicuramente rilevare che, dagli anni Novanta in poi, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda, sono stati compiuti alcuni passi in avanti verso la realizzazione di tutti quei diritti che, fino a quel momento, ci si era limitati a proclamare. Non è un caso, ad esempio, che i D.U. siano stati alla base e siano progrediti in maniera esponenziale proprio in quei Paesi dell'est comunista, sottoposti alla dittatura filosovietica dei propri governi.261 Ne è testimonianza l'istituzione, nel 1993, dell'Alto Commissariato per 260 261 M. Flores, Storia dei diritti umani, Ed. Il Mulino, Bologna 2008, pag. 63-64 E, J. Hobsbawm, Il secolo breve, ed. BUR Milano, x edizione 2006 pag.552 : ―Politicamente l'Europa dell'Est era il tallone d'Achille del sistema sovietico e la Polonia (più, in misura minore, l'Ungheria) era il punto più vulnerabile. Dopo la primavera di Praga divenne chiaro, come abbiamo visto, che i regimi comunisti satelliti avevano perso ogni legittimazione in quasi tutti i paesi dell'area. Questi regimi venivano mantenuti in vita dalla coercizione statale e dalla minaccia dell'intervento sovietico o, nel migliore dei casi, come in Ungheria, offrendo alla cittadinanza condizioni materiali e una relativa libertà, superiori di gran lunga alla media dei paesi dell'Europa dell'Est, ma che la crisi economica non permise di mantenere. Non era però possibile alcuna forma di opposizione politica o pubblica seriamente organizzata. L'unica eccezione era in Polonia, dove questa possibilità venne creata dalla congiunzione di tre fattori. L'opinione pubblica polacca era unita non solo dall'antipatia verso il regime, ma anche da un nazionalismo antirusso (e antiebreo) rafforzato dalla tradizione cattolica: la Chiesa conservava un'organizzazione indipendente estesa su tutto il territorio nazionale; la classe operaia polacca aveva dimostrato la propria forza politica sin dalla metà degli anni '50 con scioperi massicci in varie tornate. Il regime si era rassegnato da tempo a una tacita tolleranza o persino al cedimento – come quando gli scioperi del 1970 costrinsero alle dimissioni il capo del Partito comunista –, almeno finché l‟opposizione restò priva di un‟ organizzazione. Tuttavia lo spazio di manovra del regime si stava restringendo pericolosamente. Dalla metà degli anni '70 il regime dovette affrontare un movimento operaio politicamente organizzato, sostenuto da un gruppo di intellettuali dissidenti, per lo più ex marxisti, di cultura politica assai sofisticata, e da una Chiesa sempre più aggressiva, incoraggiata dall'elezione al pontificato nel 1978 di Karol Wojtyla, il primo papa polacco della storia, che prese il nome di Giovanni Paolo II. Nel 1980 il trionfo del movimento sindacale Solidarnosc, che era a tutti gli effetti un movimento politico di opposizione a livello nazionale dotato dell'arma dello sciopero, dimostrò due cose: che il regime del Partito comunista in Polonia era al limite delle proprie forze; che tuttavia non poteva essere rovesciato dall'agitazione di massa. Nel 1981 la 96 i diritti umani e soprattutto la creazione del Tribunale dell'Aja, del quale si è già parlato nel precedente paragrafo. E‘, tuttavia, altrettanto vero, come detto, che non esiste un efficace sistema sanzionatorio nei confronti di tutti quegli Stati che non si adeguano alle convenzioni o non rispettano, nel concreto, i diritti umani. I poteri dell‘Onu in tale ambito sono molto limitati: gli organi a ciò deputati (l‘Assemblea Generale, compreso il recentissimo organo di cui si è dotata, il Consiglio dei diritti umani, ed il Consiglio Economico e Sociale) possono ―intraprendere studi‖ e fare ―raccomandazioni‖ (ovviamente non vincolanti per gli Stati cui sono dirette), peraltro senza entrare nel merito, ossia adottando deliberazioni che abbiano un carattere ―generale‖ ed ―astratto‖, in quanto incontrano il cosiddetto ―limite del dominio riservato‖, sancito dall‘art.2, par. 7 della Carta.262 Nella prassi, l‘Assemblea Generale ha cercato di erodere progressivamente questo limite, spingendosi oltre lo Statuto, specie nei casi in cui la violazione dei diritti umani era commessa su larga scala, giustificando il proprio intervento in funzione del mantenimento della pace. Certo, anche in questi casi, l‘intervento si è concretizzato in discussioni pubbliche, nell‘adozione di risoluzioni, appelli, raccomandazioni; però questo atteggiamento ha provocato una presa di coscienza da parte degli Stati membri, che si sono trovati a giustificare l‘intervento dell‘Organizzazione anche negli affari interni dei singoli Stati qualora la violazione fosse grave e su larga scala. L‘effetto più importante di questa presa di coscienza è stato l‘affermarsi di alcune norme consuetudinarie, che quindi vincolano tutti gli Stati a prescindere dall‘avvenuta ratifica di apposita Convenzione, tra le quali il divieto di gravi, ripetute e sistematiche violazioni dei diritti umani, di schiavitù, genocidio e discriminazioni razziali, di tortura e di diniego, con la forza, del diritto dei popoli all‘autodeterminazione. E queste norme ―hanno assunto lo status di diritto cogente, nel senso che nessuno Stato potrà concludere un trattato in cui rende legittima la violazione di una di quelle norme, perché si tratta di norme inderogabili” e, quindi, di “rango più elevato di tutte le altre norme ordinarie del diritto internazionale, in quanto esprimono valori fondamentali per la comunità internazionale nel suo insieme‖ 263. Il punto davvero critico è, comunque, rappresentato dal fatto che non sempre le 262 263 Chiesa e lo Stato si accordarono tacitamente per prevenire il pericolo di un intervento armato sovietico (che il Cremlino aveva preso in seria considerazione), attraverso l'insediamento di un regime militare, capeggiato dal comandante delle forze armate, che poteva rivendicare con una certa credibilità sia una legittimazione nazionale sia una legittimazione comunista. L'ordine fu ristabilito con poche difficoltà dalla polizia piuttosto che dall'esercito, a seguito della proclamazione della legge marziale. A. Cassese, op. cit., p. 31. Ivi, p. 49. 97 decisioni adottate dal Consiglio di Sicurezza vengono rispettate dai singoli Stati: ―Non è un caso che durante la fase preparatoria dell‟operazione “Iraq Freedom” siano state avanzate, in più sedi, diplomatiche e non, proposte di convocare una sessione speciale e d‟urgenza dell‟Assemblea generale per adottare una risoluzione che, a fronte dell‟evidente incapacità del Consiglio di Sicurezza di prendere posizione sul tema, esprimesse il punto di vista della maggioranza degli Stati sui profili di legittimità dell‟operazione. Tali proposte non hanno trovato seguito anche a causa della dichiarata opposizione degli Stati coinvolti nella preparazione della guerra contro l‟Iraq‖ 264. In effetti, il caso dell'Iraq è paradigmatico: nemmeno l'accertamento da parte degli ispettori, appositamente inviati dalle Nazioni Unite per verificare l'effettiva assenza di armi di distruzioni di massa, è servito ad evitare un conflitto che era già stato deciso dagli Stati Uniti e dai loro alleati. E questo ci porta al centro del problema, alla criticità maggiore: quello della composizione e del meccanismo decisionale del Consiglio di sicurezza, quello della disuguaglianza tra Stati fondata su equilibri attuali nel 1945, ma ormai completamente obsoleti e la sempre crescente consapevolezza del ―problema‖ USA che, di fatto, si ritiene completamente svincolato (come altre potenze, nel caso siano interessate) dalle decisioni ONU. La rappresentatività del Consiglio è, difatti, piuttosto limitata, sia quantitativamente che politicamente: lo scarto tra il numero degli eletti e i Paesi membri è superiore di 1 a 12, ed i membri permanenti sono rimasti gli stessi, senza alcun allargamento. E nessuno di essi appare disposto a rinunciare al proprio privilegio o al diritto di veto. La Russia e la Cina non sembrano rappresentare gli interessi del Sud del mondo e dei Paesi in via di sviluppo; al contempo, la Cina si oppone fermamente all‘inserimento nel Consiglio di un candidato, l‘India, che grazie al suo impegno nelle operazioni di peacekeeping ed al suo peso economico e demografico sta acquisendo numerosi consensi. Anche il Giappone e la Germania dovrebbero svolgere un ruolo politico ben più importante, ma anch‘esse scontano rivalità regionali. A fronte di questa carenza di rappresentatività, l‘egemonia degli Stati Uniti, resisi protagonisti di una lenta, ma costante erosione del divieto di uso della forza, ha sempre più spesso, negli anni recenti, provocato la crisi dell'intero sistema di sicurezza. Difatti negli Usa si è fatta progressivamente strada una tendenza alla ―legittima difesa preventiva‖, derivata da un famoso discorso del Presidente Bush all'indomani del 11 settembre, in base al quale il ricorso alla forza viene interpretato come un mezzo per fronteggiare le nuove 264 A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., p. 37. 98 minacce (e per fare ―buoni affari‖, come i recenti avvenimenti iracheni hanno dimostrato), prima fra tutte quella costituita dal terrorismo internazionale, a prescindere da un collegamento diretto con attacchi non solo armati, ma anche lesivi degli interessi americani in quanto, “L'immagine del mondo che ha sommerso gli occidentali in questi ultimi dieci o quindici anni è catastrofica. Giorno dopo giorno, i nostri media hanno plasmato l'immagine di un pianeta strutturato dall'odio, devastato dalla violenza, in cui si susseguono a cadenza accelerata massacri di individui e di popoli: genocidio in Ruanda, scontri religiosi in Nigeria o in Costa d'Avorio, lotte di clan in Somalia, guerra civile indescrivibile in Sierra Leone, criminalità e stupri in Sudafrica pur tuttavia liberato dall'apartheid, omicidi di coltivatori bianchi nello Zimbabwe, terrorismo di massa in Algeria. Cambiamo continente: rivoluzione islamica in Iran, benché sedata in questi giorni, conflitto in Cecenia,anarchia in Georgia, guerra tra Armenia e Azerbaigian per il possesso dell'Alto Karabah, rivendicazione di autonomia dei curdi della Turchia o dell'Iraq, guerra civile nel Tagikistan, attentati kashmiri in India, insurrezione tamil nello Sri Lanka, scontri tra induisti e musulmani nel Gujarat, guerriglia musulmana nel sud delle Filippine, islamismo radicale di Aceh nel nord di Sumatra, massacro di cristiani a Timor Est per mano delle forze speciali indonesiane. L'America Latina, con la cattura di ostaggi di sinistra in Colombia e la rivolta del subcomandante Marcos, sembra quasi un continente tranquillo. In tutto ciò è compresa anche quella parte d‟Europa dove la disgregazione della Jugoslavia, con i massacri dei croati, dei bosniaci musulmani, dei serbi e dei kosovari, ha potuto dare l'impressione che la violenza si sarebbe sparsa sul nostro mondo tranquillo, ricco e vecchio come un'onda di alta marea. Sarebbe ingiusto non menzionare la repressione delle manifestazioni studentesche di Piazza Tien'anmen a opera del regime cinese nel 1989. Non dobbiamo neppure dimenticare quell'eccesso dell'irragionevolezza umana che è il conflitto israelo-palestinese. Concludiamo comunque questa lista con il crollo delle torri del World Trade Center, perpetrato in nome di Allah da aspiranti suicidi provenienti da quello che eravamo soliti chiamare il terzo mondo.‖265 Non che in passato non si siano mai verificati interventi unilaterali o al di fuori del diritto internazionale, soprattutto durante il periodo della guerra fredda. Ma il pericolo, oggi, è che viene contestato il principio che il diritto internazionale sia l‘unica fonte di legittimità, che l‘azione di forza possa essere legittimata dall‘interesse nazionale o, peggio ancora, dai ―valori americani‖ della libertà e della democrazia. E questo ha due corollari: il primo, che non sia possibile imporre alcun limite alla condotta internazionale degli Stati Uniti, ed il 265 Emmanuel Todd, “ Dopo l'impero”, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 28 - 29 99 secondo, che l‘influenza che gli americani esercitano all‘interno delle istituzioni internazionali spinga a perseguire interessi quasi esclusivamente statunitensi.266 Di fatto,“Gli Stati Uniti stanno diventando un problema per il mondo. Eravamo abituati a considerarli piuttosto, una soluzione. Garanti della libertà politica e dell'ordine economico per mezzo secolo, appaiono sempre più come un elemento di disturbo sulla scena internazionale alimentando dove possono l'incertezza e i conflitti. Gli Usa esigono che l'intero pianeta riconosca in alcuni stati d'importanza secondaria un <asse del male> da combattere e annientare.”267 Numerosi punti di criticità sono stati già segnalati nel corso della precedente esposizione; ma un punto, ancora non sufficientemente trattato, riguarda alcune problematiche particolarmente spinose, quali, ad esempio, la libertà religiosa ed il diritto delle donne alla ―salute procreativa‖, sulle quali si vanno ad innestare ulteriori problemi connessi all'apparente ―parzialità‖ di alcune scelte operate dall'Onu. Esemplificando: si è parlato, all'inizio del paragrafo 3, dell‘effettiva mancanza di ―universalità‖ della Dichiarazione dei D.U. del 1948 a causa di una visione eccessivamente ―occidentalizzata‖ degli stessi. Tale visione è particolarmente evidente se andiamo ad analizzare l'atteggiamento dell'Onu nei confronti della tutela del diritto delle donne alla salute ed a quella che potremmo definire una ―procreazione consapevole‖. In Occidente, nella seconda metà del Novecento, si è sviluppata una nuova interpretazione della riproduzione, che vede la sessualità separata dal processo riproduttivo e che ritiene la nascita di un bambino un evento positivo solo se condiviso e voluto da entrambi i genitori.268 L'Onu ha fatto del rifiuto di ogni ingerenza da parte dello Stato nei processi procreativi uno dei suoi ―cavalli di battaglia‖; troppo fresco era ancora il ricordo dei crimini commessi dai nazisti e l'adozione di certe politiche rispondeva proprio all'esigenza di evitare che potessero ripetersi. Però, tale atteggiamento, secondo alcuni, si scontra con un'altra esigenza, quella di garantire a tutti gli individui il libero esercizio della propria religione e di potersi attenere a determinati riti, regole e precetti. E' questo il caso della Chiesa cattolica, che ha recentemente accusato l'Onu di parzialità a causa della distribuzione ai rifugiati, da parte di personale dell'ACNUR, di un ―manuale per la salute riproduttiva‖ che presenta, tra l'altro, la sterilizzazione come forma di contraccezione e fornisce istruzioni per procurare ed effettuare aborti. 266 267 268 Ivi, pp. 105 – 120. E. Todd, “ Dopo l'impero”,Il Saggiatore, Milano 2005, p. 9 E. Roccella e L. Scaraffia, op. cit., p. 67. 100 Alla realizzazione della politica di ―salute riproduttiva‖ dell'Onu è preposta un'apposita Agenzia, l'UNFPA, che si propone di diffondere il controllo della nascite e l'uso del profilattico per contrastare il contagio dell'Aids. Ora, è evidente che in questo caso sembri eccessivo parlare di ―parzialità‖: sono fin troppo noti i problemi legati alla sovrappopolazione e alla terribile piaga costituita dalla diffusione del virus Hiv nel continente africano, che sta provocando una complessa interazione ―letale‖ tra salute, economia e speranza nel futuro269. Eppure, c'è chi accusa l'Onu di perseguire a livello mondiale la propria politica di non ingerenza statale nei processi procreativi con protervia ed insistenza, addirittura con una ―esclusività che non è mai stata riservata a interventi “umanitari”, come l'alfabetizzazione, la distribuzione di piccoli finanziamenti per favorire la nascita di una economia locale, la creazione di reti di comunicazione e di trasporti.‖270 L'Onu, quindi, agirebbe tenendo conto solo in alcuni casi di quelle che sono le specifiche esigenze legate ad ogni religione, ad ogni cultura e tradizione. E questo sarebbe particolarmente evidente nelle relazioni del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, preposto alla vigilanza sull'effettivo adeguamento degli Stati firmatari al Patto con cui è stato istituito.271 Ad esempio, nei confronti della Polonia il suo rapporto del 1999 solleva forti preoccupazioni sull'eccessivo richiamo alla religiosità, presente nella Carta costituzionale polacca, che non solo condizionerebbe le scelte procreative delle donne, imponendo restrizioni alle possibilità di aborto legale, ma discriminerebbe le minoranze religiose. E questo non assicurerebbe il pieno rispetto, da parte della Polonia, del Patto in argomento.272 Lo stesso Comitato, però, ha ritenuto che in Egitto, paese dove sicuramente la libertà religiosa è molto meno tutelata che in Polonia, ―alcuni aspetti dei programmi di 269 270 271 272 WorldWatch Institute, State of the World 2005, edizioni Ambiente, Milano 2005, pag. 82: ―Nella maggior parte dei casi, i quattro “fattori di rischio demografico”- l'esubero di giovani, la crisi HIV/AIDS, la rapida urbanizzazione e la ridotta disponibilità di terreni coltivabili e di acqua – non agiscono separatamente. Al contrario interagiscono tra loro e si sommano a variabili non demografiche, come tensioni etniche, strutture di governo apatiche e istituzioni deboli, producendo stress che mettono a dura prova le leadership e la capacità dei paesi di operare in maniera efficace. Se da un lato le possibilità che siano la causa prima del caos politico o della guerra sono remote, dall'altro possono contribuire in modo considerevole alla vulnerabilità dei conflitti. Secondo Population Action International, in 23 dei 36 paesi coinvolti in conflitti civili negli anni 90 erano presenti come minimo due dei quattro seguenti fattori: alto numero di giovani, alto tasso di crescita urbana, carenza di terreni coltivabili, carenza d'acqua dolce. Ibidem. Il Comitato è stato istituito dal Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali adottato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea Generale dell'Onu. La problematica è, peraltro, assai sentita in ogni parte del mondo come dimostra il lavoro del WorldWatch Institute, op.cit., p.83 :” L'unico modo per alleviare la pressione (demografica) sarà affrontare di petto la crescita demografica. Ma proprio nel momento di maggior necessità, il supporto internazionale alla pianificazione familiare continua a diminuire.” A questo si aggiungono scellerate politiche contrarie all'uso degli anticoncezionali , tra cui in particolare il profilattico, utile specie nella prevenzione del virus HIV/AIDS, da parte della chiesa cattolica. 101 regolamento strutturale e delle politiche di liberalizzazione economica introdotte dal Governo, in accordo con le istituzioni finanziarie internazionali, abbiano impedito l'adempimento degli articoli del Patto, in particolare riguardo a gruppi più vulnerabili della società egiziana; e che la persistenza di pratiche e attitudini tradizionali, profondamente radicate nella società egiziana, riguardo donne e bambini, ostacoli la capacità del governo di promuovere i loro diritti economici, sociali e culturali.‖273 In realtà, il diverso atteggiamento assunto dal Comitato corrisponde ad approcci diversi, ―tarati‖ sulle differenze sociali, culturali ed etiche dei vari gruppi religiosi. Esattamente come il diverso atteggiamento elaborato dall'UNFPA: più centrato sull'utilizzo dei contraccettivi nei confronti dei protestanti, più intrusivo verso i musulmani, nei confronti dei quali si opta per una ricerca che evidenzi l'assenza, nel Corano, di specifici divieti al riguardo, più cauto nei confronti dei cattolici, con i quali si cerca di trovare argomenti condivisi 274 . Il che, del resto, corrisponde alle ―istruzioni‖ ricevute dai dirigenti di ―non affrontare di petto le istituzioni “nemiche”, ma cercare di contrattare con loro qualche iniziativa comune […] fare una differenza tra culture, intendendole come etica e come sistema di valori e come “pratiche tradizionali”, perché l'UNFPA non giudica valori e culture, ma ha una posizione critica su alcune pratiche tradizionali, che comprendono un'ampia gamma di azioni, dall'aborto selettivo alla mancanza di controllo della fecondità femminile.‖275 Anche rispetto alle missioni per il mantenimento della pace, cresciute in modo esponenziale nell'ultimo decennio, va evidenziato un punto critico: ormai l'Onu si trova in competizione con numerose altre organizzazioni regionali e sub regionali, di Stati o gruppi di Stati, come ad esempio la Nato, l'Unione Africana, la stessa Unione Europea, disponibili ed interessate, come già detto, ad organizzare interventi di peacekeeping per le più svariate ragioni. In alcuni casi, poi, l'intervento da parte di una di queste organizzazioni appare addirittura più appropriato rispetto a quello dell'Onu, come ad esempio nel caso recente del Darfur, laddove la responsabilità della gestione della crisi è stata affidata all'Unione Africana. In altri casi, invece, l'Onu ha dovuto gestire interventi che nessun‘altra organizzazione o Stato era disposto a realizzare, come nel Repubblica democratica del Congo, o che non riusciva più a controllare: è questo il caso del Burundi, dove ha sostituito l‘Unione Africana nell'operazione avviata nel 2002.276 273 274 275 276 E. Roccella e L. Scaraffia, op. cit., p. 69. Ivi, p. 72. Ibidem. E. Roccella e L. Scaraffia, op. cit., p. 52. 102 4.3 Contraddizioni: il caso dei nativi americani Si è già visto come l‘atteggiamento degli Stati Uniti metta spesso in crisi il sistema di sicurezza su cui si basa l‘impianto delle Nazioni Unite. Del resto, l‘America è il paese dove sembrano più evidenti le contraddizioni tra i valori proclamati nella Costituzione e l‘effettiva tutela dei diritti umani. E' quantomeno singolare, infatti, che proprio il Paese considerato la patria della libertà e della democrazia sia anche quello in cui sono state in vigore leggi razziali fino al 1960 e tuttora permanga in alcuni Stati dell'Unione la pena di morte. Tutto questo, senza riprendere il discorso sulla tortura, trattato nel par. 3, e sull'esportazione ―forzata‖ della democrazia, come in Afghanistan ed in Iraq. Basta esaminare la storia, anche recente, degli Stati Uniti d'America per rendersi conto che questo comportamento non è certo nuovo: esemplificativo al riguardo è il caso dei nativi americani, un eccidio consumato per fini economici ed espansionistici, un massacro motivato dal mero interesse e dall‘incapacità di comprendere una civiltà ricca e varia, soltanto perché profondamente diversa da quelle di stampo europeistico. Le società indiane si basavano su culture orali, cioè culture in cui predomina la tradizione, una conoscenza basata sull‘esperienza, acquisita direttamente dagli altri membri del gruppo e soprattutto dai narratori di storie, che la organizzano, per ricordarla meglio, in forma di cronaca dinamica e movimentata. L‘apprendimento è quindi un processo collettivo, come le azioni che ne risultano. Viceversa, la visione del mondo dei bianchi è visiva anziché orale, statica anziché dinamica, astratta anziché piena di eventi concreti. L‘apprendimento di questa visione tende ad essere un‘attività individuale anziché collettiva.277 Prima dell‘avvento dei ―bianchi‖, gli indiani d'America vivevano in rapporto stretto ed intimo con la natura, dalla quale dipendevano per la propria sopravvivenza. Dal momento che non possedevano le tecnologie occidentali per soggiogarla, avevano nei suoi confronti un atteggiamento di paura, di rispetto e di amore, giungendo persino ad identificarsi in essa e nei suoi prodotti. Ne è un esempio la preghiera che il cacciatore recitava sulla preda uccisa, per giustificare la sua morte ed il bisogno umano che l‘aveva resa necessaria, un magnifico rituale purtroppo destinato a scomparire con la contaminazione ad opera della cultura occidentale. La vita spirituale e religiosa degli indiani ed i complessi rituali che la accompagnavano era molto intensa e li portava a riflettere spesso su se stessi, sul loro 277 Ivi, p. 52. 103 rapporto con gli altri e con la natura. Il loro tradizionale atteggiamento riservato e dignitoso, che strideva tanto violentemente con i modi litigiosi e rissosi dei bianchi, derivava, presumibilmente, da un lungo addestramento iniziato con l'indulgenza di cui i piccoli godevano nei confronti degli adulti. La puericultura indiana scoraggiava, di norma, gli atteggiamenti competitivi, egocentrici e difensivi sia nei bambini che nei genitori e promuoveva, invece, un comportamento di cooperazione, fiducia in se stessi e rassicurazione. Le punizioni fisiche venivano inflitte solo in casi rarissimi, si preferiva raggiungere il medesimo scopo facendo provare ai bambini il peso della vergogna e del ridicolo, attraverso la disapprovazione dell'intera tribù e dei coetanei.278 . Il medesimo meccanismo di controllo sociale operava per gli adulti; il concetto di giustizia punitiva era centrale nelle leggi indiane. Crimini diversi come l‘adulterio, l‘omicidio o il furto venivano puniti in forme differenti nelle diverse culture indiane, ma sempre secondo le usanze e con l‘approvazione della tribù, perché, sostanzialmente, riconoscevano la gravità dell'accaduto nella sua funzione anti-comunitaria e come tale contro essa principalmente. Anche se prima dell'avvento del cristianesimo il concetto di misericordia era sconosciuto, superare i limiti, accettati come convenienti, costituiva a sua volta una violazione del codice di comportamento e implicava ulteriori sanzioni per il trasgressore. 279 Nelle società indiane mancavano quegli aspetti coercitivi del potere così familiari invece nella società europea, e si raggiungevano gli stessi scopi con la persuasione e l‘esempio del capo stesso. Il capo indiano, infatti, che poteva essere scelto in vari modi (in genere, più per effettiva capacità che per motivi ereditari), doveva persuadere, convincere, dare l‘esempio, non potendo contare né sulla perentorietà dei suoi ordini né sulla coercizione incontestata. In pratica, vigeva il principio di autorevolezza su quello di autorità. In assenza di una organizzazione politica globale, le tribù indiane si dividevano in clan formati da individui che si ritenevano discendenti da uno stesso antenato280; tale sistema cementava la comunità e forniva una serie di simboli per regolare il comportamento individuale all‘interno di una popolazione tanto numerosa da rendere impossibile una conoscenza piena o personale di tutti gli altri individui.281. La flessibilità delle strutture politiche indiane risulta evidente nelle varie forme in 278 279 280 281 W. E. Washburn, ―Gli indiani d'America‖, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 30 – 31. Ivi, pp. 34 – 35. Tutte le tribù indiane hanno come loro caratteristica di sostanziale identità, il mito della creazione della terra, il modo in cui venne a formarsi ed infine come iniziò una seconda volta dopo il diluvio, quando gli uomini vennero fuori dalle viscere della terra. A questo proposito: Walter Pedrotti, Leggende e miti dei Pellerossa, Edizioni Demetra, Verona 2000 od anche Pier Giorgio Viberti, Il popolo degli uomini: storie, miti e leggende degli indiani d'America, Edizioni Demetra, Verona 1996. Ivi, pp. 53 – 63. 104 cui l‘organizzazione del villaggio si modificava per far fronte ai diversi compiti, conferendo varie responsabilità ai singoli membri della comunità, in momenti diversi. La caccia, ad esempio, non era compito né di una singola famiglia né di tutto il villaggio, ma di solito toccava ad un agglomerato di famiglie autonome. Un‘altra ―configurazione strutturale‖ prendeva forma in occasione dell‘uccisione o del ferimento di un membro della comunità, un‘altra ancora in caso di guerra. Gli indiani, insomma, avevano strutture politiche che andavano dai semplici gruppi familiari caratteristici dell‘Artico e del‘Occidente desertico, alle articolate confederazioni di tribù dell‘est, fino agli stati autocratici del Messico e dei loro imitatori nelle regioni del golfo del Messico. Queste strutture dovevano affrontare una grande varietà di sfide e minacce, compresa quella dell‘espansionismo europeo, che alterarono l‘organizzazione politica di numerose tribù.282 Le ricerche sugli indiani hanno messo in luce il carattere complesso e funzionale dell‘organizzazione sociale delle tribù, che non avevano bisogno di ricorrere a leggi scritte o agli elaborati espedienti formali della civiltà europea. In alcuni casi, come abbiamo già visto, il semplice mettere in ridicolo il trasgressore da parte dei suoi compagni bastava ad imporre il comportamento dovuto, altre volte erano necessari meccanismi coercitivi più formali, quali la fustigazione, la bastonatura, la pena di morte. Invece, la mancanza di leggi scritte e degli attributi esteriori propri delle istituzioni giuridiche europee è stata interpretata come una carenza, creando nei primi osservatori l‘impressione di avere di fronte selvaggi che non capivano le idee di legge, giustizia ed altri controlli istituzionali. Nelle strutture politiche indiane, così diversificate ed elastiche, i bianchi vedevano soltanto totale anarchia o, nella migliore delle ipotesi, un autoritarismo assoluto. Del tutto incapaci di cogliere gli aspetti profondi di una cultura tanto diversa dalla loro, spinsero il loro pregiudizio a ritenere le donne indiane disprezzate all‘interno della tribù perché incaricate di seminare e badare alle messi. Niente potrebbe essere più lontano dal vero: quest‘ottica non tiene conto delle caratteristiche generali dell‘agricoltura indiana e, più in particolare, dei sistemi di sussistenza e della divisione del lavoro all‘interno delle tribù. Il lavoro agricolo più pesante era quello di disboscare il terreno e questo era compito degli uomini, che gestivano anche un‘altra attività fondamentale per la vita della comunità, la caccia, essenziale per fornire alimenti di base e pellami per il vestiario, ma anche esercizio di importantissime virtù guerriere. Una volta che il terreno era stato disboscato, le donne lo preparavano, lavorandolo con le vanghe di legno, quindi seminavano il raccolto, 282 Ivi, pp. 61 – 63. 105 estirpavano le erbacce e curavano il mais indiano, i fagioli e le zucche. Ad esse competeva il ruolo principale anche nella raccolta delle ghiande, delle noci, dell‘uva e di altre piante commestibili, nonché della legna. Inoltre, un‘attività economica come l‘agricoltura era compatibile con le responsabilità femminili nella cura dei figli e, quindi, le donne con prole potevano svolgerle meglio della caccia e della pesca. In alcune tribù, la posizione sociale delle donne era particolarmente elevata: era questo il caso delle irochesi, che esercitavano il loro potere attraverso il controllo delle risorse economiche della comunità, in quanto i terreni agricoli intorno ai villaggi erano lavorati e controllati dalle donne. Tutte le fonti parlano dell‘efficienza del sistema economico irochese dominato dalle donne. Anche la distribuzione degli alimenti era a discrezione delle donne sposate che potevano fornire, oppure negare, il cibo alle riunioni del Consiglio della tribù o addirittura alle spedizioni di guerra, influenzando così le decisioni di quelle istituzioni. Le donne sposate proponevano i candidati per il consiglio degli anziani, l‘autorità più alta della Lega degli Irochesi, partecipavano anche alla gestione della guerra e alla stipulazione dei trattati, provvedevano alla corretta assegnazione dei compiti e all‘equa divisione dei beni comunitari.283 L‘uomo bianco cambiò completamente l‘ambiente, sia naturale che culturale, in cui viveva l‘indiano, corrompendolo e devastandolo. La tecnologia efficiente e capace di dominare la natura fece diminuire la necessità di adattamento; gli indiani si accorsero presto dell‘utilità delle armi da fuoco, dei coltelli e degli ami da pesca metallici, delle pentole di ferro e di altri strumenti europei. Ma il possesso di armi da fuoco, gli effetti demoralizzanti della presenza dei mercanti, con i loro comportamenti immorali e le loro pratiche commerciali spregiudicate, affrettarono la distruzione delle tribù. Incoraggiando il commercio di schiavi indiani, i mercanti provocarono violente guerre tribali; e concedendo i loro potenti favori soltanto dove venivano ricambiati, riuscirono a mutare, a volte, le strutture sociali e politiche delle comunità indiane, a danno dell‘intera razza. Ma l‘aspetto forse più impressionante del contatto tra indiani e bianchi è la diffusione dell‘alcolismo. Per ogni regime e per ogni epoca possediamo un‘ininterrotta serie di rapporti in cui si esprime la sorpresa dei bianchi di fronte alla passione degli indiani per l‘‖acqua forte‖ e la loro tendenza a ubriacarsi fino all‘inverosimile tanto da provocare a se stessi o agli altri indiani danni assai gravi o addirittura la morte. 284 Anche se alcuni studiosi danno all‘uso degli alcolici tra indiani una funzione di carattere societario, vedendolo cioè come mezzo d‘integrazione sociale più che come reazione a stati di ansia, studi recenti sostengono che 283 284 Ivi, pp. 49 – 50. Ivi, p. 124 106 molto probabilmente certe differenze genetiche tra indiani e bianchi contribuirebbero a spiegare il fenomeno. Secondo tali teorie certi meccanismi metabolici che si erano sviluppati ed erano stati trasmessi geneticamente nell‘ambiente dei nativi, prima del contatto con gli europei, avrebbero costituito un enorme svantaggio per gli indiani quando entrarono in contatto con le abitudini alimentari europee.285 Anche l‘attività commerciale dei bianchi contribuì a creare profonde modificazioni nella vita e nell‘organizzazione sociale degli indiani: la crescente richiesta di pelli di castoro, ad esempio, provocò rapidamente la scomparsa della specie, costringendo gli indiani ad alterare il proprio modo di vita, esattamente come lo sterminio dei bisonti portò alle tribù fame e carestia. Infine, nonostante l‘apparente buona salute delle popolazioni indigene d‘America, nessun elemento introdotto dagli europei fu più devastante delle malattie contro le quali gli indiani non avevano praticamente sviluppato nessuna immunità. Gli effetti delle epidemie portate dall‘uomo bianco, di cui la peggiore era il vaiolo, furono catastrofici e pressoché universali, per di più aggravate dall'uso che i bianchi ne fecero. E' storica la distribuzione di coperte infette dal virus del vaiolo ai nativi, per debellare alcune tribù e decimarne i componenti. L‘impatto di tali epidemie, oltre che sulla popolazione, si fece sentire, indubbiamente, anche sulla cultura delle tribù in generale: non a caso cambia la posizione degli sciamani e la stima verso questi all‘interno delle tribù. 286 Il trasferimento forzato degli indiani nelle riserve, sradicandoli dal loro abituale territorio, con il connesso rifiuto di accettare la loro posizione riguardo i loro diritti sovrani, costituisce uno degli episodi più vergognosi della storia americana. E‘ evidente che le motivazioni principali della politica di trasferimento furono il vantaggio politico, la cecità culturale e l‘esclusivo calcolo economico. L‘idea iniziale di una separazione permanente (o almeno potenziale) tra americani bianchi e pellerossa era stato il concetto-guida nella politica indiana degli Stati Uniti; molti ritenevano che la questione indiana si potesse risolvere ad est, trasferendo gli indiani verso ovest, fuori dalle regioni dove ci si aspettava un afflusso di coloni bianchi287. Ma la crescita incontrollata della migrazione bianca verso ovest e lo sterminio del bisonte, che condizionarono pesantemente la vita degli indiani delle pianure, ben presto demolirono i pregiudizi ereditati dal passato: l‘idea di una ―barriera permanente‖ contro gli indiani fu sostituita dalla convinzione che le tribù andassero concentrate in zone più piccole 285 286 287 Ivi, p. 126. Ivi, pp. 122 – 123. Ivi, pp. 192 – 196. 107 e controllate da vicino dal governo. La politica della separazione tra le razze cedette, quindi, il passo a quella della segregazione degli indiani, e questo incentivò odio ed ostilità tra le due razze. Gli incidenti e gli scontri tra indiani e pionieri provocarono la diminuzione della selvaggina da cui tutti dipendevano. Gli indiani erano pienamente consapevoli della diminuzione o sparizione delle loro risorse di legna, animali ed acqua per colpa degli emigranti, e a volte protestarono formalmente, ma gli emigranti, di solito, non riconobbero alcun diritto indiano su ciò che ritenevano un dono della natura ed il Governo si mostrò restio ad ammettere i danni procurati agli indiani e del tutto incapace di porvi riparo. Il processo di demarcazione dei confini non riuscì mai del tutto; molte tribù rivendicavano la proprietà degli stessi territori di caccia e di pesca e nessun tipo di coercizione riuscì mai a porre fine alle scorrerie dei bianchi in territorio indiano. In poco più di un decennio, quindi, gli Stati Uniti travolsero i confini, territoriali e politici, destinati inizialmente a limitare il loro controllo sugli indiani, ad ovest del Mississippi. In seguito alla vittoriosa guerra con il Messico, all'ingresso del Texas nell'Unione, alle migrazioni di massa attraverso le pianure, le montagne ed i deserti fino al Pacifico, scomparve il concetto stesso di un confine permanente che separasse indiani e bianchi. Nazioni indiane, una volta sovrane, si videro umiliate, ridotte dallo stato di potenze indipendenti, che non riconoscevano alcuna limitazione esterna, a quello di comunità dipendenti, che riconoscevano il diritto ed il potere degli Stati Uniti di porre limiti alla loro libertà. Anche se non furono private dai conquistatori di tutto il potere materiale o di tutti i diritti giuridici, le nazioni indiane persero in pratica buona parte di tale potere e di tali diritti.288 L'epoca della parità tra bianchi ed indiani finì quando i bianchi segnarono i confini di vari territori indiani, li chiamarono riserve e cominciarono a controllare la vita di coloro che le occupavano. Le riserve assunsero spesso l'aspetto di campi di concentramento dove si potevano rinchiudere gli indiani quando le terre da loro occupate passavano sotto il controllo degli immigrati bianchi. Il potere degli amministratori bianchi aumentò fino al punto che l'agente bianco per gli affari indiani, nominato dal governo federale, sostituì, come figura d'autorità, il tradizionale capo indiano cui la tribù si rivolgeva come guida. Alla fine di una serie di trasformazioni, le riserve rappresentarono un radicale mutamento di ruolo sia per i bianchi che per gli indiani. Ai capi indiani fu sottratta l'autorità politica che venne invece assunta dai rappresentanti degli Stati Uniti. Ad un sistema di sussistenza controllato dagli indiani si sostituì la dipendenza dai bianchi. Sempre più spesso le nuove autorità limitarono o proibirono le cerimonie tribali, le leggi tradizionali e le guerre intertribali. Agli indiani 288 Ivi, pp. 199 – 220. 108 adulti venne proibito di svolgere attività di caccia e di guerra, ma ancor più duro fu l'impatto su tutti i gruppi indiani della prassi governativa con cui gli agenti per gli affari indiani si sostituirono progressivamente e completamente agli uomini indiani nelle poche attività ancora rimaste: le decisioni sulle attività di sussistenza, sulle leggi e sull'ordine, sull'educazione. In quel momento, agli indiani non rimase più alcuna speranza. L'intera struttura delle relazioni di parentela attraverso cui si arrivava a decisioni comunitarie unanimi subì un corto circuito. La perdita dell'autonomia tribale generò spesso una ―paralisi della comunità‖.289 La vita, nel territorio ristretto della riserva, produsse cambiamenti radicali nel comportamento. Talvolta tali mutamenti ebbero un carattere di trasformazione, cercarono cioè di mutare le condizioni oggettive in cui gli indiani erano costretti a vivere. Talaltra ebbero un carattere di redenzione, cioè cercarono di cambiare l'indiano per metterlo in grado di adattarsi alle condizioni cui gli era chiesto di vivere. Il problema forse più difficile, per l‘indiano delle riserve, fu l'atteggiamento da tenere di fronte al tentativo dei suoi nuovi padroni bianchi di educarlo ai loro modi di vita. L'indiano non era insensibile all'importanza di acquisire conoscenze, ma l'istruzione, troppo spesso, gli veniva presentata come un sistema di valori sostitutivo dei suoi valori tradizionali oppure come una macchina per distruggerli, e per acquisirla doveva anche sottoporsi alla condizione indispensabile di allontanarsi dalla famiglia e dal luogo natale. In questo processo gli amministratori bianchi arrivarono al punto di tentare di cancellare l'uso delle lingue indiane dentro le aule della scuola (le famigerate Bordering School). Istituendo le riserve, il governo degli Stati Uniti cercò di convertire gli indiani ai sistemi economici ed ai valori dei bianchi. E se non ci riuscì con la carota, si usò il bastone. Alla fine del XIX secolo, decise di non distribuire automaticamente le razioni agli indiani di sana e robusta costituzione e risparmiare così denaro per pagare il salario agli indiani che lavoravano a costruire strade, riserve idriche, etc. Lo scopo di questa nuova politica era insegnare l'indipendenza ed il rispetto di sé e indurre gli indiani alla laboriosità sotto il pungolo del bisogno. Quasi contemporaneamente venne promulgato l'ordine di indurre gli indiani maschi a tagliarsi i capelli e gli indiani di entrambi i sessi a sospendere l'usanza di dipingersi. Se l'ordine non veniva eseguito, gli indiani impiegati dovevano essere licenziati, quelli disoccupati non dovevano ricevere le razioni ed i rifornimenti. Venne anche raccomandata una breve segregazione in guardina e lavoro forzato duro per ―curare‖ gli studenti rientrati dai convitti da ogni inclinazione a disubbidire all'ordine. Furono anche 289 Ivi, pp. 230 – 240. 109 proibite le danze e le feste indiane e fu incoraggiato un abbigliamento da ―cittadini‖ americani al posto dei costumi indiani o delle coperte. Nulla riuscì, però, a trasformare gli indiani in uomini bianchi. La politica governativa delle riserve fallì perché non si limitò ad impedire agli indiani di essere di ostacolo ai bianchi togliendo loro le armi, tenendoli isolati e separati, ma perché cercò di portare a termine un ambizioso esperimento sociale il cui risultato sarebbe stato un bianco indiano ed un pagano cristiano. Il governo degli Stati Uniti non fu né la prima né l‘unica istituzione bloccata da un ostacolo insormontabile, quello della resistenza culturale. La cultura non è mai stata e non è una forza che si può vincere con la sola azione militare, con le leggi del Congresso o con l'istruzione.290 La politica che i suoi sostenitori ritenevano, in tutta onestà, ideata a tutto interesse dell'indiano appare oggi a suo completo discapito. L'ignoranza delle culture indiane, una vuota superiorità morale e l'avidità di terra si combinarono per sospingere nelle riserve un indiano che non possedeva più la base economica o i valori culturali che prima avevano dato significato alla sua vita. 291 Una delle domande ricorrenti è se il costante processo di acculturazione abbia significato, alla fine, la perdita di identità. In effetti, è possibile che i singoli indiani, per non parlare dei gruppi tribali, condividano e mantengano i valori di entrambe le società. Molti indiani hanno mantenuto alcuni valori tradizionali, pur acquisendo quelli ―bianchi‖, ma è innegabile che gli indiani americani abbiano sempre più abbandonato la loro cultura materiale e le attività di sussistenza tradizionali e perfino la loro lingua e le loro cerimonie.292 Non è facile stabilire la misura in cui gli indiani hanno, in generale, mantenuto o perduto le loro tradizioni. L‘indicatore forse più probante di stabilità o di disintegrazione culturale è la capacità di un gruppo di mantenere la lingua nativa. Il numero di lingue indiane è in diminuzione; soltanto otto posseggono un‘ortografia, materiale scritto, un notevole grado di alfabetizzazione ed una grammatica. Le altre hanno poco, o addirittura nessun materiale scritto, e non sono ancora state formalizzate. Tuttavia, le lingue indiane esistenti forniscono una solida base per inculcare la conoscenza del proprio passato agli indiani in età scolare. L‘istruzione impartita nelle lingue indiane permette al bambino di evitare la scelta cui era prima costretto, tra un mondo indiano retrogrado e senza scrittura, ed un mondo bianco alfabetizzato, progressista, ma estraneo. Da quando è stato permesso agli indiani di insegnare nelle scuole (nel 1965, solo l‘1% dei bambini delle scuole elementari 290 291 292 Ivi, pp. 235 – 254. Ivi, p. 272. Ivi, pp. 282 . 283. 110 aveva insegnanti indiani) usando le lingue tradizionali, con materiali scolastici che danno risalto alla storia e alla cultura tradizionali, l‘indiano può sviluppare un senso di orgoglio personale e collettivo, in precedenza trascurato. All‘origine dei fallimenti in questo campo e della conseguente e sempre maggiore apatia degli indiani ci sono alcuni pregiudizi sulla loro inferiorità ed un sistema scolastico che ne ignora i modelli culturali. Gli indiani vedono ancora la scuola come una dura prova, ma anche come un‘occasione da sfruttare, e cresce in modo incoraggiante il numero di quanti sono riusciti a concludere il proprio corso di studi secondari, universitari e, in alcuni casi, anche post-universitari. In tempi recenti, poi, la riserva è diventata una sorta di ―patria‖, una base territoriale permanente e sicura per gli indiani che possono anche cercare la fortuna nel mondo fuori della riserva, ma che sanno di poter sempre tornare a casa. Questo nuovo concetto di riserva si è sviluppato appieno soltanto negli anni ‗60 e ‗70, quando è aumentato il peso ed il numero degli indiani nel Bureau of Indian Affairs (BIA) e si è allontanata la minaccia della politica di ―termination‖. La riserva come ―patria‖ si è potuta sviluppare solo quando, di fronte al problema del rapporto tra crescita demografica e risorse, i membri delle tribù si sono convinti del valore di queste zone di territorio esenti da tasse, gestite dal governo degli Stati Uniti che ha funzioni di amministratore fiduciario a beneficio dei proprietari delle riserve, cioè delle tribù indiane che le abitano. Per quanto l'estensione originale delle terre indiane sia stata drasticamente ridotta, i territori riservati agli indiani americani hanno proporzioni significative, nonostante le spinte storiche a spezzettarli e distruggerli. Gli indiani posseggono ed occupano 50 milioni di acri di terra verso i quali il governo federale ha funzioni di amministratore fiduciario; tre quarti di queste terre sono proprietà delle tribù, mentre il resto è proprietà di singoli indiani. 293 Nella sfera economica, i governi tribali hanno assunto un ruolo sempre più attivo nello sviluppo delle proprie risorse. Spesso le industrie vengono attirate nelle riserve, o nelle vicinanze, dalla speranza di manodopera a basso costo, di materie prime e dalle esenzioni fiscali. Sono così aumentate in modo lento, ma costante, le opportunità economiche per i residenti delle riserve, anche se il loro reddito è ancora un quarto di quello dei bianchi. La ricerca di una nuova identità degli indiani contemporanei è culminata nell'occupazione del villaggio di Wounded Knee, nella riserva di Pine Ridge, nel Dakota del sud. Il 27 febbraio 1973, i Sioux (sempre loro...il popolo degli uomini) hanno inscenato una ribellione verso il governo americano, denunciando le loro misere condizioni di vita, la corruzione, gli abusi, le irregolarità commesse dagli amministratori delle riserve in cui sono stati relegati, i 293 Ivi, pp. 235 – 236. 111 continui attentati ai loro diritti, alla loro cultura, alle loro tradizioni. Circa duecento pellirosse, fra cui donne e bambini, si sono asserragliati, con l‘appoggio dell'AIM, il Movimento degli Indiani d'America, nello stesso luogo dove nel 1980 la cavalleria massacrò i loro avi294. Non è un caso, inoltre, che alcune tribù siano trattate in maniera difforme da altre e in senso nettamente peggiore, perché questo corrisponde alla concezione americana di indiano ―buono o cattivo‖ e i Lakota (sioux) sicuramente sono in quest‘ultima lista. Gli indiani americani hanno dovuto affrontare, una dopo l‘altra, le dure prove di malattie, guerra, fame, trasferimento forzato, spoliazioni e disperazione, ma sono sopravvissuti. Le loro prospettive future esistono soltanto se la nuova società multirazziale americana si dimostrerà davvero aperta per quelli di loro che scelgano di farsi una strada, pur mantenendo i propri valori e tutte quelle usanze tradizionali che intendono rispettare. Dalla tragedia, dai conflitti e dalle crisi dei rapporti passati tra bianchi e indiani deve nascere una nuova unione in cui possano coesistere sia i primi americani che gli americani arrivati in un secondo tempo, senza che né gli uni né gli altri cerchino di distruggersi o di assimilarsi agli altri.295 Seppure, alla luce di quanto già accaduto, tutto questo appaia solo un‘ illusoria speranza, non bisogna demordere. I diritti si affermano nella costanza con cui si ripresentano fino ad affermarsi come condizione riconosciuta in una comunità. Ciò vuol dire che, occorre sinceramente nutrire la fiamma della speranza in questo nuovo patto, tra wasichu e nativi americani, e conviene sinceramente augurarsi che questo avvenga e sia improntato su basi di equità e giustizia, naturalmente l‘augurio è per il destino dell‘uomo bianco e non viceversa, considerato come questo risulti compromesso da un sistema di vita totalmente al di là di ogni logica. 5. ONG: attività e utilità L'Onu, quindi, malgrado tutti i suoi sforzi, non è riuscito a garantire il rispetto dei diritti umani; così, dopo la Seconda guerra mondiale, sono stati costituiti numerosi altri organismi intergovernativi, operanti a livello internazionale, che attirano l'attenzione dei governi e dei 294 295 Nel dicembre 1890 alcuni agenti americani cercarono di proibire ai Sioux l‘esecuzione della ―Danza degli Spettri‖, un rituale previsto dall‘omonimo movimento religioso secondo il quale gli indiani morti sarebbero risuscitati, i bianchi scomparsi in seguito a varie calamità naturali e sarebbe iniziata una vita senza morte, malattie e sofferenze. Gli insuccessi degli agenti indussero le truppe ad un tentativo di arresto di Toro Seduto, a Pine Ridge, che provocò la rivolta indiana, culminata, il 29 dicembre, nel massacro di Wounded Knee. Ivi, pp. 285 – 298. 112 media su determinate questioni oppure contribuiscono ad accertare che gli Stati rispettino concretamente i diritti umani. Questi organismi, che costituiscono una vera e propria ―rete‖ di protezione, svolgono un ruolo fondamentale in materia di tutela, in quanto, come già visto, spesso, in determinate circostanze, l'esistenza di norme internazionali vincolanti non serve ad evitare la lesione o la negazione dei D.U.. Ciò nonostante, neppure l‘azione di tali organismi si è rivelata sufficiente; difatti spesso sono influenzati da fattori politici o diplomatici, o sono dotati di strutture troppo burocratizzate, che non riescono a rispondere con prontezza alle violazioni più gravi. E‘ proprio per far fronte a questa esigenza che sono nate le Organizzazioni Non Governative, cioè quelle organizzazioni che sono ―composte da individui e non da Stati”.296 Il termine ―Ong‖ è stato coniato nel contesto della Carta istitutiva delle Nazioni Unite, all'art. 71, laddove prevede la possibilità che il Consiglio economico e sociale, nello spirito della più ampia cooperazione con tutte le realtà portatrici di interessi comuni, che abbiano gli stessi obiettivi dell‘Onu, si possa avvalere della loro opera consultiva297. Proprio perché richiamate nello Statuto dell'Onu, inizialmente si intendevano per Ong solo le organizzazioni che operavano all'interno delle Nazioni Unite ma, dopo gli anni Ottanta, il termine è divenuto di uso comune ed anzi ―la liberté d'association comporte la liberté, pour l'entité créée, de s'organiser librement afin de réaliser les objectifs qui lui ont été impartis par ses statutes‖.298 Questi organismi, a differenza delle altre organizzazioni internazionali, sono svincolati da condizionamenti politici e diplomatici, hanno tendenza ad autofinanziarsi e spesso non accettano sovvenzioni da parte dei governi. In sintesi, potremmo definirli come enti privati nella struttura, ma pubblici nello scopo. Negli anni Novanta, il fenomeno della loro costituzione ha subito una netta accelerazione, provocando reazioni ostili in alcuni Stati, per il timore di ingerenze in questioni che, fino a quel momento, erano state oggetto della loro esclusiva sovranità. Esiste un ampio dibattito circa l‘importanza del loro ruolo e sulla loro effettiva rappresentatività, con opposte posizioni: da chi le ritiene uno strumento privo di legittimazione democratica a disposizione delle elite internazionali per dialogare di questioni di loro unico interesse, a quanti invece le considerano comunque rappresentative della 296 297 298 A. Cassese, op. cit., p. 138. L‘articolo testualmente recita: “Il Consiglio economico e sociale può prendere opportuni accordi per consultare organizzazioni non governative interessate alle materie che rientrino nella sua competenza. Tali accordi possono esser presi con organizzazioni internazionali e, se del caso, con organizzazioni nazionali previa consultazione con lo Stato membro interessato”. Nicolas Leroux, La condition juridique des organisation non gouvernementales internationales, ED.Bruylant et Yvon Blais, Bruxelles 2010. pag.111 113 volontà popolare se non, addirittura, fondamentali nei processi di democratizzazione.299 Un riconoscimento degno di menzione è stato ricevuto dalle Organizzazioni non governative durante la Conferenza dell‘Onu su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992. Nel corso della Conferenza, infatti, la prima in cui è stata affrontata, a livello internazionale, la questione ambientale, e durante la quale fu introdotto il concetto di ―sviluppo sostenibile‖, oltre 170 Paesi hanno sottoscritto un documento di intenti ed obiettivi programmatici, dal titolo ―Agenda 21‖, nel quale alle Ong viene attribuito un ruolo vitale nella formazione e nell‘implementazione della democrazia partecipativa. Il documento raccomanda, inoltre, la massima collaborazione e comunicazione tra le organizzazioni internazionali e nazionali, i governi locali e le Ong, da promuovere in ogni iniziativa e programma inteso a diffondere le risultanze della Conferenza300. Lo stesso Kofi Annan, all‘epoca Segretario Generale delle Nazioni Unite, menzionò questo riconoscimento in un suo discorso dell‘aprile 1999, evidenziando come, da quel momento in poi, le Ong abbiano giocato un ruolo sempre più rilevante nelle conferenze mondiali su temi vitali quali i diritti umani, la popolazione, la povertà ed i diritti delle donne. Allo stesso tempo, un altro tipo di ―riconoscimento‖, stavolta purtroppo deprecabile, ma comunque indicativo della rilevanza della loro attività, è stato ottenuto da quei rappresentanti delle Ong arrestati, esiliati, torturati ed uccisi ad opera di Governi che si dimostrano intolleranti nei confronti di ogni forma di dissenso. 301 La continua proliferazione di Organizzazioni non governative, che ha caratterizzato gli ultimi due decenni, appare per lo più legata a quello che potremmo definire un deficit democratico ―attivo‖ e ―passivo‖. Un deficit, cioè, che per lo Stato corrisponde all‘incapacità di soddisfare le molteplici esigenze degli svariati gruppi esistenti sul suo territorio e per il cittadino alla difficoltà di riconoscersi (e, quindi, di sentirsi effettivamente rappresentato) nelle istituzioni statali. Sotto questo aspetto, quindi, le Ong danno voce a tutti quegli interessi che, altrimenti, non sarebbero efficientemente tutelati. Quanto alle loro caratteristiche costitutive, possono essere in gran parte desunte dalla risoluzione n.31 del 25 luglio 1996, con la quale il Consiglio economico e sociale ne ha fornito una definizione più elaborata, che ne ampia i confini specificando che ―qualunque organizzazione che non sia stata istituita dallo Stato o per accordo intergovernativo può essere considerata un‟organizzazione non governativa, anche se prevede, al suo interno, 299 300 301 Si vedano, in proposito, le posizioni di Kenneth Anderson, Gerard Clarke, Sangeeta Kamat e Makau Mutua, in ―Ong e Diritti Umani‖, reperibile sul sito: www.jha.ac/articles/a082.htm Reperibile sul sito: www.un.org/esa/dsd/agenda21/ E. Webber, ―Il ruolo delle Ong nei trattati per i diritti dell‟uomo‖, Centro Studi per la Pace, 2006, p. 8, in www.studiperlapace.it 114 membri eletti da autorità governative, a condizione che ciò non pregiudichi la libera espressione dei punti di vista dell'organizzazione‖302 Il Consiglio, inoltre, nella medesima risoluzione, riconosce l'importanza dell‘attività svolta soprattutto dalle Organizzazioni che operano in ambito locale, la cui collaborazione è fondamentale per intervenire nei Paesi in via di sviluppo, dove ogni possibilità d‘azione sarebbe impossibile senza l'appoggio di un ente che funga da ponte tra culture e realtà diverse. Altra caratteristica delle Ong è quella di non avere fini di lucro; anche se non esplicitamente indicata nella risoluzione, il paragrafo 13, comunque, stabilisce che le risorse dell‘organizzazione debbano provenire da contribuzioni private dei soci nazionali o dei singoli membri e che ogni forma contributiva da parte governativa debba essere comunicata al Comitato per le organizzazioni non governative303. Le Ong non devono, poi, violare i principi e gli scopi della Carta istitutiva delle Nazioni Unite, commettendo atti volti a minare le istituzioni statali. Questo è un requisito essenziale per ottenere il cd. status consultivo, ossia l‘accesso alle consultazioni da parte dell‘Onu, ma è evidente che sia anche conditio sine qua non per l‘esercizio di ogni attività da parte dell‘organizzazione. E‘, invece, abbastanza singolare che la Risoluzione non stabilisca se, per ottenere lo status consultivo presso il Consiglio economico e sociale, le Ong debbano avere o meno personalità giuridica. Tale questione è stata oggetto di un ampio dibattito in dottrina ed è stato concluso che esse siano dotate di detta personalità, anche se limitata. Nella fattispecie, si tratterebbe di persone giuridiche sui generis, in quanto, seppur create su iniziativa privata e non statale, sono comunque riconosciute dallo Stato come enti che perseguono fini pubblici. Nel momento in cui, poi, dovessero ottenere il riconoscimento dello status consultivo o di quello partecipativo (v. oltre), acquisterebbero anche una sorta di status giuridico internazionale.304 Nel tentativo di aumentare la propria legittimazione e di rafforzare la propria immagine in ambito internazionale, numerose Ong hanno creato standard comuni di autoregolamentazione ai quali decidono autonomamente di attenersi. E‘ questo il caso del Codice di Condotta per la Croce Rossa e la Mezza Luna Rossa, al quale hanno successivamente aderito svariate organizzazioni attive in ambito umanitario. Il codice garantisce l‘autonomia, l‘effettività e la capacità di influenza nelle situazioni di emergenza che detti enti sono chiamati a gestire305. Particolarmente rilevante è il riconoscimento che le 302 303 304 305 Risoluzione E/RES/1996/31 del 25 luglio 1996, paragrafo 12. Organo permanente del Consiglio economico e sociale, istituito con la Risoluzione n. 3 (II) del 21 giugno 1946. E. Webber, ―Il ruolo delle Ong nei trattati per i diritti dell‟uomo‖, Centro Studi per la Pace, 2006, pp. 53 ss., in www.studiperlapace.it Ivi, p. 115. 115 Ong hanno ricevuto a livello europeo: il Consiglio d‘Europa, con la Risoluzione n. 9 del 19 novembre 2003, ha regolato i propri rapporti non più sotto l‘aspetto consultivo, ma sotto quello partecipativo con le organizzazioni non governative ritenute maggiormente rappresentative in un determinato settore. Rispetto al tipo di interessi rappresentati, le Ong possono operare in ambito ambientale, umanitario, della tutela dei diritti umani, etc. Queste ultime sono quelle che incontrano maggiori difficoltà, poiché spesso manca la tutela giuridica di determinate situazioni oppure tali situazioni, seppur disciplinate, non sono concretamente tutelate in quanto mancano le disposizioni che ne garantiscano l‘attuazione. In questo caso, la pressione esercitata è fondamentale per l‘adozione di nuove norme. Tra le Ong che si occupano di diritti umani esiste la stessa suddivisione tra diritti civili e politici e diritti economici, sociali e culturali. Le prime Ong sono nate in Occidente per la difesa dei diritti civili e politici (i cd. ―diritti di prima generazione‖) e solo recentemente hanno ampliato il proprio raggio di intervento fino ad includere i diritti economici, sociali e culturali (―di seconda‖ e ―terza generazione‖). Le Ong sorte in Africa, invece, fenomeno molto più recente, si concentrano localmente sui diritti di seconda generazione, mentre quelle asiatiche costituiscono un fenomeno ancora diverso. Esse, difatti, cercano di operare sia localmente, a tutela dei diritti civili e politici, che in ambito internazionale, per il riconoscimento dell‘universalità dei diritti306 Nonostante l‘immensa varietà delle Ong che si occupano di diritti umani, c‘è una caratteristica che le accomuna e che fornisce loro la coesione necessaria per farle apparire un unico movimento per la tutela dei D.U.: tutte fanno appello ai medesimi standard internazionali di protezione307. Attualmente, le Ong che si occupano di diritti umani operano in modo diverso. La maggior parte ottimizza le proprie risorse focalizzando l‘attenzione su un singolo problema (la difesa di soggetti vulnerabili o la lotta contro un determinato fenomeno) per ottenere un maggior impatto ed agire con maggior efficacia. Nell‘ultimo decennio, però, molte di esse hanno ampliato il proprio settore di attività. Ad esempio, Amnesty International308, creata per difendere i diritti dei detenuti, ha proceduto ad un allargamento dei propri obiettivi per poter partecipare alla campagna per l‘abolizione delle mine anti-uomo309. Tali ampliamenti derivano da una accresciuta interazione tra Ong ed altri enti internazionali oppure da una 306 307 308 309 Ivi, pp. 280 – 281. Ivi, p. 98. Ente creato nel 1961 su iniziativa di un avvocato, Peter Benenson, volto ad ottenere l‘amnistia di tutti i detenuti politici del mondo. Attualmente si occupa della tutela dei diritti di tutti i detenuti, con particolare riferimento ai trattamenti disumani o degradanti, alla tortura e alla pena di morte. E. Webber, op. cit., p. 125. 116 presa di coscienza delle Ong, che ritengono di dover intervenire anche sulle problematiche sottostanti quella di iniziale interesse per ottenere risultati concreti. Alcune Ong (tra cui Human Rights Watch310) si occupano anche di conflitti armati, sia interni che internazionali, per garantire alle popolazioni interessate, specie ai civili, il rispetto delle norme internazionali di diritto umanitario. In tali casi, gli accertamenti effettuati da queste organizzazioni sono essenziali, in quanto sono le uniche che possano verificare in che misura gli attacchi alle postazioni militari avversarie cerchino effettivamente di risparmiare i civili. Difatti, i rapporti redatti in proposito dai Governi interessati tendono a migliorare le proprie future prestazioni belliche, non certo a stabilire se il numero dei civili morti sia sproporzionato all‘importanza dell‘obiettivo oggetto dell‘attacco. Un altro settore nel quale alcune Ong svolgono un ruolo fondamentale, nel senso che si sostituiscono ai governi o ne integrano l'attività, è quello degli interventi umanitari: Emergency311, Medici senza frontiere312, la Comunità di Sant'Egidio313 forniscono un'assistenza insostituibile alle popolazioni interessate da conflitti armati o colpite da calamità naturali. Generalmente, le organizzazioni che si occupano di sviluppo sono tenute separate da quelle che si occupano di D.U., in quanto il diritto allo sviluppo, a differenza dei diritti civili e politici e dei principi umanitari, non è stato previsto negli strumenti relativi ai diritti umani. Ciò nonostante, le Ong per lo sviluppo denunciano (e cercano di porvi riparo) alcune delle più gravi violazioni di diritti umani da parte dei governi, laddove accertano la loro incapacità di fornire assistenza o di fermare carestie che lasciano intere popolazioni senza mezzi di sussistenza. Il principio ispiratore di tali organizzazioni è che la libertà non sia possibile senza sviluppo, ma, allo stesso tempo, non possa nemmeno esserci sviluppo senza libertà.314 Le Ong esercitano pressioni sui governi o sugli enti intergovernativi perché si occupino con maggior concretezza di alcune problematiche particolari, che, a loro giudizio, necessitano di un intervento deciso. Queste pressioni possono essere attuate direttamente, sul singolo uomo di governo o parlamentare, oppure attraverso interventi mirati nell'ambito delle riunioni di determinati organismi, come ad esempio la Commissione dei diritti umani o l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La loro crescente partecipazione ai processi 310 311 312 313 314 Organizzazione con sede a New York, fondata nel 1978, svolge indagini accurate su tutte le violazioni di D.U. in ogni parte del mondo. Organismo fondato nel 1994 dal medico italiano Gino Strada, che si propone di promuovere una cultura di pace e di solidarietà. Creata in Francia nel 1971 da medici e giornalisti, si propone scopi umanitari e sanitari. Sorta a Roma nel 1968, è un organismo che persegue la solidarietà per le fasce più deboli (poveri, anziani, disabili, etc.) e si occupa spesso anche di emergenze umanitarie. E. Webber, op. cit., p. 133. 117 decisionali in ambito internazionale, quindi, oltre ad influenzare le decisioni prese, consente loro di entrare in contatto con i rappresentanti dei governi e di sfruttare tali contatti sia per esercitare pressioni che per mantenersi costantemente aggiornate sulle strategie adottate. A questa accresciuta importanza delle Ong non è, però, purtroppo corrisposta un‘evoluzione normativa ed esse sono tuttora costrette a sostituirsi agli organismi internazionali315. Le funzioni di maggior rilevanza svolte dalle Organizzazioni non governative sono la capacità di portare una questione all‘attenzione internazionale (la cd. funzione di ―agenda setting‖), di influenzare la formazione di norme di diritto internazionale (cd. ―standard setting‖) e la testimonianza, denuncia, mobilitazione ed educazione ai diritti umani. Le prime due funzioni sono svolte attraverso un‘intensa attività di organizzazione di campagne, forum, congressi, conferenze stampa, etc., mentre per la terza vengono anche predisposte riunioni, sit-in, rappresentazioni teatrali, film, video musicali, successivamente diffusi anche via internet, e, soprattutto, pubblicazioni. Scopo di ogni campagna è, comunque, quello di esercitare pressioni sui responsabili delle violazioni e sui governi o sulle istituzioni che li appoggiano o mantengono con essi rapporti economici, politici o diplomatici. Le Ong raccolgono dati in modo differenziato: tramite una rete di informatori, attraverso altre organizzazioni, oppure con il diretto accertamento delle violazioni in loco grazie ad un team di propri esperti. La metodologia sviluppata prevede l‘utilizzo di videocamere, la raccolta di testimonianze scritte per documentare gli abusi, la standardizzazione dei dati per consentirne l‘inserimento in data base e la successiva analisi statistica. Le risultanze di tale attività di verifica vengono, poi, rese pubbliche tramite rapporti, pubblicati ed ampiamente diffusi, che garantiscono la piena informazione dell‘opinione pubblica e dei governi. E‘, questo, il caso di Amnesty International o di Human Rights Watch, che redigono rapporti particolarmente puntuali ed attendibili sia sulla situazione di un singolo Paese che su precise situazioni oppure su un determinato argomento316. Il merito principale di questo tipo di rapporti è, inoltre, quello di essere neutrali, cioè non condizionati da esigenze politiche o diplomatiche, e di rispondere all‘unica esigenza del rispetto dei diritti umani. Sotto questo profilo, quindi, le Ong si sostituiscono allo Stato e alle Organizzazioni governative nell‘accertamento dei fatti. Alcuni governi mettono in dubbio l‘attendibilità delle informazioni raccolte dalle Ong. Per ovviare a questo problema, molte organizzazioni hanno elaborato una particolare strategia, quella di agire con la massima rapidità, attraverso la cd. ―Rete delle Azioni Urgenti‖. La rete mobilita immediatamente, con l‘inoltro di fax, lettere e e-mail, presidenti, ministri, 315 316 Ivi, pp. 151 – 152. A. Cassese, op. cit., p. 139. 118 istituzioni nazionali ed internazionali317, per prevenire episodi di tortura, esecuzioni capitali o anche soltanto per evitare abusi minori, ma comunque rilevanti.318 Un altro importantissimo ruolo è quello di informazione e denuncia di violazioni dei D.U. agli organi internazionali preposti al controllo, che spesso non dispongono dei mezzi istituzionali per accertare l'effettiva violazione di un trattato o di una convenzione internazionale da parte di uno Stato. Ad esempio, è quanto avviene per il Patto sui diritti civili e politici (v. par. 3), sul cui rispetto il controllo del Comitato dei diritti umani si limita ad esaminare i rapporti periodici (per lo più annuali) predisposti dagli Stati firmatari, che di certo non sono disposti ad autoaccusarsi. Spesso, quindi, i membri del Comitato vengono informati dei vari episodi di violazione da personale delle Ong, sulla base delle cui relazioni possono chiedere precisazioni e spiegazioni ai governi interessati319. Sovente, poi, la loro azione serve da stimolo per le Organizzazioni governative e per gli altri organismi internazionali; in numerosi casi, anche recenti, le loro sollecitazioni hanno comportato l'istituzione, da parte delle Nazioni Unite, di Commissioni d‘inchiesta per la verifica dei fatti denunciati da tali enti nei loro rapporti. Alcune Ong, inoltre, intervengono direttamente presso organi giudiziari internazionali che si occupano della tutela dei D.U., come la Corte europea dei diritti dell'uomo, per presentare, spontaneamente o su invito del tribunale, opinioni e suggerimenti sul caso in questione. L'intervento dell'organizzazione assume una particolare forma giuridica, definita amicus curiae, tipica della tradizione anglo-americana320. Anche se spesso l'amicus curiae non può partecipare al dibattimento, le sue memorie depositate presso il tribunale hanno una notevole importanza. Ne è un esempio la memoria presentata nel 1989 da Amnesty International alla Corte europea dei diritti dell'uomo nel procedimento per l'estradizione di un cittadino tedesco, Söring,321 arrestato in Gran Bretagna, ma accusato di aver ucciso, in Virginia, i genitori della sua ragazza. In questo caso, la Corte ha stabilito che, dal momento che Söring, se estradato, sarebbe stato presumibilmente condannato a morte, ed avrebbe quindi trascorso almeno 6 mesi nel braccio della morte, la Gran Bretagna estradandolo avrebbe commesso una violazione dell'articolo 3 della Convenzione di Ginevra contro la 317 318 319 320 321 Secondo Amnesty International, la rete può contare su oltre 100.000 attivisti in 80 Paesi e genera dai 3.000 ai 5.000 appelli (v. www.amnesty.it/appelli ). V. Azione Urgente 20/10/2011 di Amnesty International, per prevenire la demolizione di una scuola elementare per bambini palestinesi beduini, nella zona di Gerusalemme, che priverebbe di istruzione oltre 80 minori, sul sito www.amnesty.it/azioni-urgenti . A. Cassese, op. cit., p. 140. Secondo il Black‘s Law Dictionary, un amicus curiae è una persona o un‘organizzazione, con un‘opinione o un interesse relativo all‘oggetto del caso, che, senza essere parte della causa, si rivolge alla Corte chiedendo il permesso di presentare un documento nel quale vengono suggerite questioni di fatto e/o di diritto, in modo da consigliare una motivazione basata sulla propria visione (Black‘s Law Dictionary, 6^ edizione, St. Paul 1991, p. 54.). A. Cassese, op. cit., p. 141. 119 tortura ed altri trattamenti degradanti o disumani. Il provvedimento è stato decisamente innovatore, nel senso che la Corte ha ritenuto che gli Stati firmatari della Convenzione debbano astenersi anche da ―violazioni potenziali‖322 , nel senso che il rispetto dell'integrità fisica e mentale delle persone, sancita appunto dall'art. 3, ―sono talmente preminenti da imporre agli Stati contraenti di astenersi da qualunque azione che in qualche modo possa contribuire a rendere possibili violazioni della Convenzione.‖323 Nel 2003, una modifica delle norme di procedura della Corte ha ampliato ulteriormente le possibilità di intervento dell‘amicus curiae che ora è previsto fin dal momento in cui l‘istanza è trasmessa allo Stato convenuto e, quindi, in una fase anteriore del procedimento324. Spesso poi, la Corte fornisce un'interpretazione piuttosto estensiva del concetto di ―vittima‖, in modo da permettere un maggior coinvolgimento delle Ong nella difesa dei diritti umani. Ma i due organi giudiziari che riconoscono alle Ong un ruolo fondamentale nell'ambito dei loro procedimenti sono la Commissione Interamericana e la Commissione Africana per i diritti dell'uomo e dei popoli. Difatti, ammettono veri e propri ricorsi da parte di tali organizzazioni anche se, purtroppo, le decisioni che adottano non sono vincolanti per gli Stati. Non tutti i meccanismi di tutela dei diritti umani, comunque, consentono alle Ong di prendere parte ai propri procedimenti: è questo il caso della Corte Internazionale di Giustizia. La ragione principale di tale chiusura risiede nel fatto che la Corte ha competenza giurisdizionale su ogni questione concernente il diritto internazionale e, quindi, anche su problematiche che possono rivelarsi piuttosto sensibili sotto il profilo politico, visto che gli Stati che riconoscono la giurisdizione della Corte rinunciano ad una fetta importante della loro sovranità e mal tollererebbero ingerenze da parte di organi non statuari.325 Al di là dell'ammissione o meno delle Ong al procedimento giudiziario, va rilevato un fatto estremamente positivo: tutti gli organi giurisdizionali, a prescindere dalle decisioni che hanno adottato in proposito, si sono dovuti confrontare con la sempre maggior presenza delle Ong in ambito internazionale, e questo ha enormemente accresciuto il loro prestigio. Quanto all‘educazione ai diritti umani, la loro azione si basa sul presupposto che non si possano difendere né reclamare diritti che non si conoscono. Viene, quindi, promossa, attraverso corsi appositamente organizzati, la conoscenza non soltanto dei diritti umani, ma anche dei limiti che devono rispettare tutti coloro che si trovano in una determinata posizione di potere (politici, militari, poliziotti, etc.) e coloro che devono vigilare sulla loro 322 E. Webber, op. cit., pp. 184 – 185. 323 324 325 Ibidem. Corte Europea dei diritti umani, Regole di Procedura, art. 44 par. 2, Strasburgo, 1° novembre 2003. E. Webber, op. cit., pp. 288 – 290. 120 applicazione (giudici, avvocati, etc.). Inoltre, molti di questi corsi hanno come target gruppi particolarmente vulnerabili, come ad esempio i bambini di strada, più esposti al pericolo di subire abusi, oppure gli stessi operatori, ai quali viene richiesta una sempre maggiore professionalità.326 Insomma, senza l'indispensabile contributo delle Ong la società internazionale, composta da Stati per lo più tesi a proteggere i propri interessi economici, politici e strategici, ben difficilmente potrebbe avvalersi delle iniziative e delle innovazioni provenienti dalla società civile. La collaborazione tra organizzazioni non governative ed enti internazionali ha, quindi, portato indubbi benefici, grazie alle informazioni approfondite che esse forniscono e che spesso non emergono dalle relazioni degli altri enti; inoltre, grazie alla loro attività, la società civile viene costantemente coinvolta in processi che altrimenti rischierebbero di rimanere isolati. In materia di formazione del diritto internazionale, poi, il contributo delle Ong è davvero fondamentale, soprattutto perché aiuta a non dimenticare che si dovrebbe trattare di un ―diritto delle genti‖, non di un diritto degli Stati. Così, se un tempo soltanto lo Stato sovrano poteva intervenire a livello internazionale, oggi gli individui e le genti, attraverso le Ong, hanno trovato un modo per essere ascoltati. Sarebbe, però, necessario un coinvolgimento maggiore delle Ong nei lavori preparatori dei vari gruppi, commissioni, comitati, come avviene, a livello europeo, per la Corte Europea dei diritti dell‘uomo. E', inoltre, evidente che tali Organizzazioni debbano continuare a basarsi su azioni di volontariato e finanziamenti privati e, pertanto, un loro eventuale potenziamento può derivare esclusivamente da un ulteriore impegno della società civile. Difatti, alla loro proliferazione corrisponde anche una notevole espansione del loro campo di attività. E questo comporta anche un altro corollario: la necessità di una formazione e di un continuo aggiornamento degli operatori delle Ong, che devono essere in grado di rispondere con prontezza e professionalità ad ogni nuova sfida si profili. L'aspetto finanziario è particolarmente delicato: i numerosi successi ottenuti in questi decenni e la loro maggior visibilità, aumentata in modo esponenziale grazie alle nuove tecnologie comunicative, hanno permesso alle Ong di attrarre finanziamenti progressivamente maggiori sia da singoli individui che da parte di Stati o di organismi internazionali. Se da un lato, però, le accresciute capacità economiche hanno consentito loro di approfondire le proprie conoscenze in determinati settori e di partecipare, pertanto, a pieno titolo, ai conseguenti processi decisionali, dall'altro gli investimenti governativi aumentano notevolmente il 326 Ivi, pp. 195 – 197. 121 pericolo di un‘ingerenza nelle loro strategie d‘intervento327. C‘è anche un altro aspetto da non sottovalutare: le Ong che operano nei Paesi dove più gravi sono gli abusi commessi sono anche le più piccole e le meno numerose. Anche se assistiamo, attualmente, alla tendenza, da parte delle Ong del Nord del mondo a raccordarsi con quelle dei Paesi in via di sviluppo e del Terzo Mondo, c‘è sempre il rischio che questi aiuti si traducano in un‘imposizione di modelli occidentali.328 Così, se da più parti viene invocata la necessità di un maggior controllo della struttura e delle attività delle Ong, il che, unitamente al riconoscimento di uno status giuridico, assicurerebbe la piena ―messa a regime‖ di tali organizzazioni in un sistema complesso come quello internazionale, una consistente parte della dottrina ritiene, invece, che a tale evoluzione, in senso strutturale e giuridico, corrisponderebbe una perdita di autonomia e trasparenza. Anzi, molte Ong attive in ambito umanitario si sarebbero già trasformate, sotto il profilo politico, passando da soggetti autonomi, a volte addirittura antagonisti rispetto agli apparati statali, a ―canali utilizzati dai governi per distribuire risorse materiali e intellettuali su scala nazionale e internazionale‖329. Ciò in quanto la possibilità di ottenere finanziamenti per realizzare i propri progetti dipende dal riconoscimento che viene loro accordato dai Governi e dalle maggiori organizzazioni internazionali, come la Banca mondiale o la stessa Onu o l'Unione Europea. Per mantenere la propria autonomia, e contrastare la politica di sfruttamento e dominio messa in opera dalle oligarchie al potere nei rispettivi Paesi, le Ong dovrebbero sciogliersi ed i loro membri divenire operatori di movimenti socio-politici330. Nello specifico, la critica che questa parte della dottrina muove alle Ong è che la loro azione nelle zone di conflitto e nel Terzo Mondo sarebbe volta alla diffusione della cultura occidentale e che i loro interventi, invece di rimuovere le cause del conflitto o della povertà, impedirebbero una presa di coscienza organizzata da parte della popolazione vessata contro i centri di potere (locali, nazionali o internazionali) responsabili delle emergenze umanitarie. Gli aiuti economici, elargiti solo ad alcune persone (che potremmo definire veri e propri ―collaborazionisti‖), invece di incentivare lo sviluppo e di contribuire ad una migliore distribuzione della ricchezza, servirebbero solo a creare una classe privilegiata, incaricata della diffusione dei valori e dei modelli occidentali, e quindi, in sostanza, andrebbero ad alimentare l'instabilità economica ed il rancore sociale. Così l'aiuto umanitario 327 328 329 330 Ivi, p. 105. Ivi, p. 198. J.Hemmett, così come citato in ―Ong in guerra. Appunti per una critica all'umanitario‖, Guerre&Pace,n.116, febbraio2005,su http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/116Lodovisi.html J. Petras e H. Veltmeyer, come citati in ―Ong in guerra. Appunti per una critica all'umanitario‖, op.cit.. 122 maschererebbe una vera e propria politica di controllo.331 Anche Antonio Cassese ritiene che molte Ong siano ―di portata limitata e talune con intenti più o meno nascostamente politici o ideologici”; l'autore, in particolare, mette in guardia da una loro eccessiva proliferazione, “che provoca un frazionamento dell'azione internazionale della società civile e un'attenuazione della sua incidenza sui rapporti interstatuali‖.332 331 Cfr. M. Duffield, citato in ―Ong in guerra. Appunti per una critica all'umanitario‖, op. cit.. 332 A. Cassese, op. cit., p. 142. 123 Capitolo II: STATO DI DIRITTO E GLOBALIZZAZIONE 1. La fine della concertazione tra Stati dagli anni '90 a dopo l'11 settembre: cosa è cambiato? La volontà di ―colonizzare‖, con tecniche ed approcci occidentali, sfruttando l'attività delle Ong, realtà completamente diverse dal punto di vista culturale, sociale ed economico, è stata particolarmente evidente in molti paesi dell'Europa dell'Est, appartenenti all'ex blocco sovietico. In questi contesti, le organizzazioni straniere e locali hanno agito quali ―garanti‖ del processo di democratizzazione, inteso come introduzione di un sistema liberaldemocratico, in funzione antagonista ai governi. I loro interventi hanno semplicemente mitigato l'impatto negativo delle politiche di transizione all'economia di mercato sulle condizioni di vita reale e sulla partecipazione attiva della popolazione alla politica, senza rimuoverne le cause profonde. Ovviamente, qui ci si riferisce ad una precisa volontà di acquisire il controllo dell'economia di interi Paesi, non certo alla cd. ―condizionalità democratica‖, ossia la tendenza dei Paesi democratici a condizionare la concessione di aiuti economici ai Paesi in via di sviluppo, al loro impegno a realizzare riforme politiche che si muovano lungo linee di democratizzazione e di maggior rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo. Così, ad esempio, in Bosnia, a decorrere dal 1995 sono stati impiegati oltre 15 miliardi di dollari in aiuti, cifra che avrebbe potuto incidere notevolmente sul processo di ripristino delle attività economiche, sociali e culturali e sul miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Invece, a parte le opere di ricostruzione della viabilità principale, delle infrastrutture per la produzione di energia e degli edifici più importanti, in discreto stato di avanzamento, le condizioni di vita, specie nelle campagne e nei piccoli centri, permangono precarie, con grave frammentazione sociale, mancanza di prospettive economiche, un tasso di disoccupazione altissimo, una eccessiva dipendenza dagli aiuti esteri. A ciò va aggiunto il rafforzamento delle classi dirigenti ultranazionaliste emerse dalla guerra, proprio le stesse che governavano il paese e l'hanno trascinato nel conflitto, che ricattano la popolazione gestendo lo scambio tra i pochi posti disponibili nel settore pubblico ed il consenso politico, e che hanno quindi tutto il vantaggio che la popolazione resti divisa.333 Anche Noam Chomsky, nel suo testo ―Anarchismo‖, mette in guardia sul fatto che 333 S. Divertito e L. Leone, Il fantasma in Europa. La Bosnia del dopo Dayton tra decadenza e ipotesi di sviluppo, Gabrielli Ed., Verona 2004, pp. 12 – 23. 124 ―nei paesi del Terzo Mondo, la costante preoccupazione delle èlite occidentali è che le organizzazioni popolari possano gettare le basi per una democrazia significativa e per le riforme sociali, mettendo a repentaglio le prerogative dei privilegiati‖334 Esaminando il bilancio dell‘Agenzia americana UsAid, che è uno dei maggiori enti finanziatori di Ong, statunitensi e non, il legame tra obiettivi economici e politici americani ed azione delle organizzazioni non governative appare davvero consistente. 335 In particolare, in sintonia con l'obiettivo del consolidamento e dell'allargamento dell'egemonia statunitense nelle aree di importanza ―vitale‖ per gli interessi del Paese, sotto il profilo strategico, si riscontra una notevole tendenza alla militarizzazione delle attività internazionali di UsAid, con una drastica diminuzione degli aiuti economici cui corrisponde un lieve aumento dei finanziamenti per operazioni militari o paramilitari. Nel rapporto pubblicato nel mese di dicembre 2004 dal Defense Science Board, un organo consultivo del Pentagono, le Ong (in primo luogo statunitensi, ma anche dei Paesi che fanno parte delle coalizioni promosse da Washington) vengono indicate come parte integrante della forza di ―stabilizzazione‖ necessaria per ottenere la trasformazione sociale del Paese occupato, pianificata ed organizzata dai vertici militari.336 Queste considerazioni rafforzano la teoria di tutti coloro che attribuiscono scarsa credibilità agli interventi umanitari, a causa della loro selettività, che ne mina, tra l'altro, l'efficacia. Se, difatti, tali interventi fossero davvero mirati alla difesa universale dei diritti umani, allora la difesa non dovrebbe essere selettiva, né dipendere da calcoli di interesse o di opportunità, bensì attuata dovunque ed ogni qualvolta siano accertate gravi e palesi violazioni di tali diritti. E ancora una volta si è costretti a notare come l'assenza di una autorità internazionale, dotata di un potere coattivo esclusivo, grazie al quale far valere il rispetto universale dei diritti umani fondamentali, faccia sì che, nelle relazioni internazionali, persista la valenza delle gerarchie di potenza tra Stati. Stati che, nel decidere se partecipare o meno ad interventi che, seppur dal forte contenuto umanitario, sono pur sempre militari, hanno a cuore prima di tutto i propri interessi economici. Atteggiamento, questo, che si ripercuote nelle politiche nazionali, sempre più tese allo smantellamento progressivo delle forme di democrazia di base, di partecipazione alla gestione del bene comune, di aggregazione sociale. La democrazia appare, attualmente, gravemente svuotata dei suoi contenuti, sia a livello dei singoli Stati che a livello internazionale. Il che mette in luce due paradossi: 334 335 336 N. Chomsky, ―anarchismo‖, Tropea, Milano 2008, p. 215. Articolo ―Ong in guerra. Appunti per una critica all'umanitario‖, cit. Ibidem. 125 innanzitutto, questo accade proprio nel momento in cui sembrerebbe uscita vincitrice dalla competizione con tutte le alternative, spazzate via da quella che Samuel Huntington ha definito la grande ―terza ondata di democratizzazione‖337, culminata nella caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo e dell'Unione Sovietica. In secondo luogo, alla crisi della democrazia nei Paesi che si definiscono democratici corrisponde un continuo tentativo, proprio da parte di questi Paesi, di ―esportazione della democrazia liberale‖. La crisi della democrazia è profonda ed il problema principale è proprio valutare se effettivamente tutte le società occidentali che si fanno paladine dei valori democratici, primi fra tutti gli Stati Uniti, siano effettivamente depositarie di tali valori. Certo, quelli che vengono chiamati democratici non sono sotto nessun punto di vista dei regimi autoritari di tipo tradizionale, in quanto continuano a poggiare sul pluralismo culturale, politico e sociale, su un sistema di libertà politiche e civili, su ordinamenti costituzionali e su istituzioni rappresentative. Ma è corretto continuare a definirli ―democratici‖? Se analizziamo le caratteristiche della democrazia, la democrazia rappresentativa che, nel suo incontro con il liberismo, ha dato origine ai sistemi liberaldemocratici, e le mettiamo a confronto con quelle degli attuali sistemi, non possiamo non concludere che i presupposti stessi della democrazia liberale hanno subito una profonda alterazione, tanto da apparire rovesciati.338 La democrazia liberale aveva lo scopo da un lato di impedire la concentrazione del potere nelle mani di un‘unica persona o di oligarchie, mediante la creazione di un sistema di controlli che si equilibrassero; dall‘altro, di allargare le basi e le modalità di partecipazione politica all‘interno degli Stati e di tutelare la capacità del popolo di influire sulle decisioni concernenti l‘organizzazione della vita comune. Così, nel sistema liberale a suffragio ristretto il cittadino-elettore era un individuo che possedeva sia un‘istruzione che beni personali, proveniva dal medesimo ambito sociale e politico dei suoi rappresentanti ed era in grado di esercitare un‘influenza politica diretta nel quadro di uno Stato dotato dei poteri decisionali fondamentali. Con l‘avvento del suffragio universale, i grandi partiti organizzati di massa, che in quello che storicamente è stato il primo sistema liberaldemocratico hanno sostituito i raggruppamenti di notabili, si occupavano degli elettori orientandoli, selezionando il ceto politico ed il corpo dei rappresentanti, ma al tempo stesso sollecitandone la partecipazione politica tramite la militanza nelle sezioni e nei congressi di partito, nella competizione tra i partiti stessi e nella propaganda delle ideologie 337 338 S. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 21. M. L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma-Bari 2009, p.6. 126 e dei programmi.339 Invece, nell‘attuale sistema non esiste più la figura del cittadino elettore che, secondo una logica puramente economica, è stata sostituita da quella del consumatore della politica. In questo sistema, i partiti si sono gravemente indeboliti, sia nelle strutture che nella partecipazione, in quanto la militanza al loro interno non è più organizzata, permanente, ma occasionale; il rapporto dei dirigenti con la base ha assunto un carattere sempre più plebiscitario; la discussione politica si è trasferita essenzialmente nei mass media e soprattutto nelle sedi televisive. In questo ―mercato della politica‖ al cittadino non è rimasto altro ruolo che quello di scegliere, al momento del voto, una delle offerte proposte dai partiti, senza che abbia potuto esercitare alcuna influenza sulle proposte stesse, formate e confezionate in un dibattito politico a lui del tutto esterno. I suoi stessi rappresentanti, una volta eletti in parlamento, non hanno la possibilità di esercitare le proprie funzioni con efficacia, perché ormai Stati, governi e parlamenti sono stati ampiamente espropriati dei loro poteri fondamentali, in primo luogo sulle decisioni economiche, dalle oligarchie che ormai guidano l‘economia globalizzata.340 Già da quanto sin qui analizzato, è possibile evidenziare come i primi due elementi del nostro sistema democratico siano in crisi: il cittadino consapevole, partecipe, critico, capace di formarsi razionalmente una propria opinione, sempre più spesso sostituito da un individuo atomizzato, senza alcun senso critico, ed i grandi partiti organizzati con i loro distinti bacini sociali, portatori di determinati interessi e di specifiche ideologie. Ma è venuta meno anche l‘‖economia nazionale‖, al cui posto troneggia un sistema di economia globale, dominata da ristrette oligarchie di finanzieri, investitori e industriali le cui decisioni, oltre che sottrarsi al potere sovrano degli Stati, spesso, vengono loro letteralmente imposte. E la stessa legittimazione un governo la ottiene, ormai, non più dal popolo, ma dalla sua ―quotazione in Borsa‖, vale a dire da quanto sia gradito alla finanza nazionale ed internazionale. Si è già accennato a come, il processo di formazione dell‘opinione pubblica, sia sempre meno espressione dell‘influenza dei partiti politici, degli intellettuali e di quella che veniva chiamata la libera stampa. Grazie all'avvento delle nuove tecnologie informatiche, i colossi dell‘informazione di massa, specie televisiva, che operano a livello internazionale in parallelo, in sintonia o, peggio ancora, in condizioni di compartecipazione societaria con gli oligarchi della finanza e dell‘industria, sempre più spesso ne fanno un prodotto pre-confezionato con le tecniche della pubblicità commerciale.341 339 Ivi, p. 56. 340 Ivi, pp. 57 – 58. 341 Ivi, p. 60. 127 Si attua così quella che Giovanni Sartori definisce ―una politica video-plasmata‖, sottolineando che ―oggi il popolo sovrano “opina” soprattutto in funzione di come la televisione lo induce ad opinare‖, che la televisione ―condiziona pesantemente il processo elettorale, sia nella scelta dei candidati, sia nel loro modo di combattere la contesa elettorale, sia, infine, nel far vincere chi vince‖342, col risultato che la ―video-politica tende a distruggere – dove più, dove meno – il partito organizzativo di massa che in Europa ha dominato le scene per circa un secolo‖343, che ―il mondo ridotto in immagini è disastroso per la paideia di un animale razionale‖ poiché fa ―regredire la democrazia indebolendone il supporto e cioè la pubblica opinione‖344. Anche Noam Chomsky evidenzia come ―un sistema di indottrinamento che funziona a dovere ha” tra i bersagli” “le masse stupide ed ignoranti”. Esse devono rimare così, distratte da semplificazioni eccessive, emotivamente marcate, emarginate e isolate. Ognuno dovrebbe idealmente venire lasciato solo davanti allo schermo televisivo a guardare avvenimenti sportivi, telenovelas o sceneggiati, privo di strutture organizzative che gli permettano di accedere alle risorse per scoprire ciò che pensa e crede di poter fare insieme agli altri, per formulare interessi e preoccupazioni di gruppo, agendo in base a tali programmi‖.345 In tal modo, l‘opinione, da ―pubblica‖, espressione dell‘autonomia della società civile, con un proprio fondamentale ruolo di controllo sull‘esercizio del potere, si è trasformata in una dipendenza intellettuale prodotta, formata e impacchettata dai proprietari pubblici e privati dei mezzi di comunicazione di massa. Il risultato di tutto ciò è che l‘informazione di qualità viene ridotta ad un semplice privilegio di nicchia e che quanti risultano ancora capaci di autonomia critica sono confinati in una sorta di residuale e assai poco influente ―aristocrazia‖ della cultura e della politica.346 ―Le tecniche di manipolazione del consenso sono affinate al massimo grado negli Usa, la società affaristica più avanzata, anche rispetto ai suoi alleati, e che per tanti aspetti si mostra come la più libera del mondo […]. Le stesse preoccupazioni valgono però anche per l‟Europa,” dove vengono acuite “dal fatto che, a differenza di quanto avviene negli Usa, la varietà del capitalismo di stato non ha ancora eliminato i sindacati né ridotto la politica alle fazioni del partito affarista […]. Il problema fondamentale è che quando lo stato perde la capacità di controllare la popolazione con la forza, i settori privilegiati devono trovare 342 343 344 345 346 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 38. Ivi, p. 77. Ivi, p. 110. N. Chomsky, ―Anarchismo‖, cit., p. 227. M. L. Salvadori, op. cit., p. 64. 128 altri metodi per emarginarla e distoglierla dall‟arena politica.‖347 Quanto, poi, alla tradizionale divisione dei poteri – fatta propria dalla democrazia per impedirne una concentrazione autoritaria e per rendere possibile il controllo dell‘uno nei confronti dell‘altro e della società sul potere nel suo insieme – viene eliminata nel momento in cui tanta parte del potere economico si pone al di là di ogni legittimo controllo democratico e si concentra in potentati dotati di immani risorse, con le quali riescono a condizionare i governi e gli Stati. Perciò, il meccanismo della separazione dei poteri, elaborato dalle costituzioni liberaldemocratiche per impedire un eccesso di concentrazione, non è più in condizione di rispecchiare e di incidere con efficacia sulla configurazione attuale e reale dei poteri stessi. Infatti, il potere – non previsto e non raggiungibile dalle costituzioni degli Stati – delle oligarchie finanziarie e industriali che agiscono a livello mondiale ha assunto una natura tale non soltanto da squilibrare, ma persino da sovvertire gli equilibri tra i poteri. Nella società odierna troppi poteri, di primaria importanza per la vita dei cittadini, sono stati sottratti alle istituzioni figlie del voto popolare, troppi poteri, formalmente attribuiti a tali istituzioni, sono sostanzialmente depotenziati e, in casi limite, annullati da altri poteri.348 Gli stessi rappresentanti eletti sarebbero sottoposti ad una sorta di ―indottrinamento‖ che, secondo Noam Chomsky, sarebbe ―leggermente diverso per quelli da cui ci si aspetta che prendano parte al processo decisionale ed eseguano il controllo: i gestori degli affari, dello stato, della cultura e dei settori intellettuali in genere. Essi devono interiorizzare i valori del sistema, condividendo le illusioni necessarie che permettono loro di funzionare a favore dei centri di potere e privilegio.‖ 349 Analizzando la natura del potere, Luciano Canfora ne delinea le caratteristiche: la ―personalità‖, che rende un individuo in particolare in grado di sfruttare l‘occasione propizia, e comunque una sua maggiore capacità e competenza, che vengono riconosciute da un intero gruppo di persone (la cd. ―elite‖) che creano un‘organizzazione in grado di detenere e gestire il potere. Questa, secondo l‘Autore, è la ―sostanza di qualunque potere […], intorno ad essa si può organizzare qualunque <<forma>> più o meno attraente, più o meno suscettibile di consenso‖.350 Quello stesso potere che detiene la Banca Europea sui 27 Stati membri dell‘Unione, ma che non compare, in quanto accuratamente mediato, nascosto. Un potere economico che sostanzialmente controlla quello politico e che tuttavia, con la sua forza mediatica, riesce a coinvolgere emotivamente gli elettori e a convincerli delle proprie 347 348 349 350 N. Chomsky, op. cit., pp. 225 – 226. Ivi, p. 65. N. Chomsky, ―Anarchismo‖, cit., p. 227. L. Canfora, La natura del potere, Laterza, Bari 2011, p. 84. 129 capacità decisionali. Un potere economico che sfrutta un intero apparato politico, giacché questo trova, comunque, terreno elettorale fertile nella infinita frammentazione di ceti sociali intermedi cui garantire il soddisfacimento di interessi puramente settoriali. Ed è quindi proprio questa, secondo Canfora, la vera elite: quella parlamentare, disprezzata, ma tuttora legittimata ad agire dagli elettori, anche se ormai il Parlamento rappresenta sempre di più il luogo in cui vengono ratificate tutte quelle decisioni che sono prese altrove, da altri poteri, da altre forze. Sembrerebbe, insomma, che si sia verificato quanto previsto da Samuel Huntington in via del tutto ipotetica e cioè che ―Può accadere che, per quanto una società scelga democraticamente i suoi capi, questi non siano in grado di esercitare un potere reale, essendo marionette nelle mani di qualche altro gruppo. Se infatti i centri vitali del decisionmaking non vengono selezionati democraticamente, allora il sistema politico non può definirsi democratico‖351. Il processo di sfaldamento della democrazia è, quindi, strettamente legato all'imporsi, su base globale, di un sistema politico che risponde a criteri prettamente economici. E questo è particolarmente visibile nell‘evoluzione dei partiti politici: il partito organizzato di massa, quale sorto e sviluppatosi in Europa, sta scomparendo. Va ovunque imponendosi un modello di partito di tipo americano, incentrato sulle campagne elettorali e sulla figura del leader, che si adatta alla logica ed ai meccanismi di mercato, così da affiancare al mercato economico un omologo mercato politico. In questo mercato ai cittadini resta essenzialmente la funzione, importante, ma assai limitata, di inserirsi nel gioco della domanda e dell‘offerta politica, acquistando o meno prodotti sulla cui composizione non hanno, però, alcun ruolo, perché sono offerti già confezionati da ristrette oligarchie mediante i mezzi di comunicazione di massa. Altro tratto caratteristico del processo in atto è la tendenza, anche in questo caso ―copiata‖ dal modello americano, ad una sempre maggiore personalizzazione dei partiti. Difatti, fino a tempi recenti, erano i partiti, anche se guidati da leader particolarmente carismatici, a dominare la scena pubblica, mentre oggi, in Europa, si tende sempre più spesso ad identificare il partito con la persona che lo ha fondato.352 Questo fenomeno ha acquistato, in Italia, una particolare visibilità con Forza Italia, nato dall‘iniziativa di un‘unica persona e restato sempre dominato dal suo fondatore, Silvio Berlusconi, imprenditore delle costruzioni e dei media. L‘organizzazione del partito non ha alcun peso nelle vicende iniziali di Forza Italia. Tutto si gioca sulla figura del leader e sulla comunicazione da lui veicolata. Forza Italia assume, così, i caratteri di partito carismatico, 351 352 S. Huntington, op. cit., p. 32. M. L. Salvadori, op. cit., p. 64. 130 in quanto si identifica totalmente nel suo leader, unico a legittimare le azioni di partito; verticistico, perché è solo il leader, in assoluta autonomia, a prendere ogni decisione e poi passarla alle strutture locali ed operative; patrimonialista, in quanto le risorse sia economiche che umane su cui si poggia fanno comunque capo al gruppo societario di Berlusconi.353 Un fenomeno che lo stesso Norberto Bobbio ha definito scandaloso, sottolineando come un ―partito personale è una contraddizione in termini, perché il partito, per definizione, è una associazione di individui che stanno insieme per raggiungere uno scopo comune‖354. Ci troviamo, quindi, di fronte ad una crescente ―americanizzazione‖ dei sistemi politici. E' questo, in Europa, il risultato dell'incontro di vari fattori: da un lato, la fine delle forti ideologie novecentesche, dei grandi conflitti sociali organizzati e diretti dai partiti e dai sindacati, dello scontro epocale tra capitalismo e comunismo; dall'altro, l'avvento della rivoluzione informatica, che ha reso possibile la diffusione dei mezzi di informazione di massa; infine, l‘affermarsi di una concezione della competizione politica modellata sulla concorrenza economica. Ma per capire i problemi che questa tendenza implica, specie per le sorti della democrazia, occorre soffermarsi sull‘analisi e la storia del sistema americano. Fu proprio negli Stati Uniti, intorno al 1820, che per la prima volta la democrazia liberale mise in luce come la partecipazione popolare alla vita pubblica subisse un processo di organica manipolazione da parte di ristrette oligarchie. Tra i pensatori ed uomini politici americani che sottolinearono immediatamente i rischi insiti nel sistema democratico, John C. Calhoun, affiancato da altri eminenti statisti e leader politici, denunciò il ―nuovo‖ tipo di partito, interamente controllato dai professionisti della politica, apparentemente democratico, ma sostanzialmente soggetto a quella ―minoranza organizzata‖ che manovrava e strumentalizzava la ―maggioranza disorganizzata‖, perseguiva l‘occupazione del potere, obbedendo alla logica dei propri interessi particolari, e riusciva a farsi eleggere alle cariche pubbliche eccitando gli animi popolari.355 In sintonia con Calhoun si espressero William E. Channing, che parlò di una società diretta dalla ―tirannide di pochi‖, e George W. Curtis, che definì l‘oligarchia di partito il soggetto che ―usurpa la sovranità originaria del popolo‖, ponendo l‘iniziativa interamente nelle mani dei bosses, che sceglievano i candidati per le liste elettorali, condizionavano pesantemente le decisioni governative in materia di spesa pubblica, riuscivano a far ottenere gli appalti migliori ai propri sostenitori ed inquinavano lo 353 354 355 P. Ignazi, ―Partiti politici in Italia‖, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 60 – 63. N. Bobbio, Il dubbio e la ragione, La Stampa, Torino 2004, p. 111. M. L. Salvadori, op. cit., p. 67. 131 spirito del Paese con la diffusione di corruzione e clientelismi.356 Questi politici e pensatori preconizzarono quei meccanismi che, nelle linee di fondo, avrebbero continuato a caratterizzare il regime liberaldemocratico esistente negli Stati Uniti. Meccanismi che, sicuramente, permisero di integrare nelle istituzioni masse progressivamente maggiori di popolazione, comprese quelle derivanti dalle grandi ondate migratorie, dando loro una voce, e di mettere in atto grandi riforme nel paese: ma lo fecero nel quadro di una democrazia orientata e. al tempo stesso, coartata dal sistema delle oligarchie mosse dai loro specifici interessi. Ma vi è anche un‘altra componente altrettanto essenziale del sistema politico americano: il ruolo preminente della plutocrazia. Il costituirsi della plutocrazia in ―potere improprio‖, dotato di enorme influenza a tutti i livelli della società, ha rappresentato e rappresenta una struttura dominante della vita americana.357 Già nel 1814 il democratico John Taylor denunciò il rischio dell‘affermarsi di un potere plutocratico costituito dai grandi capitalisti, che avrebbe potuto dare origine ad un nuovo tipo di feudalesimo economico-politico, inteso a gravare sul governo federale così da favorire i propri interessi ed ottenere privilegi. Egli parlò di gruppi che operavano per conseguire ―il potere di promuovere la ricchezza di una parte della nazione, servendosi delle leggi civili‖. E nel 1823 evidenziò addirittura la possibilità che il governo federale assumesse la difesa della parte di società costituita dagli ―interessi capitalistici‖ nei confronti del resto della popolazione. Nel periodo compreso tra gli ultimi decenni dell‘Ottocento e la seconda guerra mondiale, non soltanto autorevoli intellettuali di varia e persino opposta corrente, ma anche alcuni presidenti furono concordi nel mettere sotto accusa le oligarchie economiche intese a fare del governo il loro ―comitato d‘affari‖.358 Sumner, in particolare, dopo aver definito la plutocrazia la ―forma politica nella quale la ricchezza costituisce la forza reale di controllo‖, affermò che mai la ricchezza aveva assunto ―un potere così preponderante e dotato di una capacità di controllo come quello che ci minaccia‖, che essa corrompeva il processo democratico in quanto ―i moderni plutocrati mediante il danaro si fanno strada nelle elezioni e nelle assemblee legislative, sicuri di poter ottenere poteri in grado di compensarli delle spese sostenute e di raccogliere un largo surplus‖.359 Riprendendo il giudizio di Sumner, Roosevelt considerava ―il peggiore‖ tra tutti ―il governo di una plutocrazia, un mero governo di uomini che ritengono il far denaro come la 356 357 358 359 Ivi, p. 68. Ibidem. Ivi, p. 70. Ivi, p. 71. 132 più alta, anzi la sola davvero alta espressione tra le attività dell‘uomo‖.360 Secondo Wilson, bisognava sbarrare la strada ad una minoranza che aveva dato vita ad ―un invisibile impero‖ sovrapposto alle ―forme della democrazia‖, fermare la ―concentrazione‖ del potere affaristico e monopolistico che minacciava non soltanto la vita materiale ma anche quella spirituale, respingere la ―tirannide‖ messa in atto da ―organizzazioni che non rappresentano il popolo‖.361 I propositi di contrastare con efficacia il potere plutocratico in America formulati da Theodore Roosevelt e da Wilson non trovarono purtroppo realizzazione e questo potere, seppure con fasi alterne, rimase dominante. E raggiunse un primo apice durante gli anni ‘20 del XX secolo, con i governi di Warren G. Harding, di Calvin Coolidge e di Herbert Hoover, che anticiparono quanto sarebbe avvenuto agli inizi del XXI secolo nell‘era di George W. Bush. Per gli oligarchi ed i finanzieri questo periodo rappresentò una vera e propria ―età dell‟oro‖: con il beneplacito dei presidenti che avevano contribuito a far eleggere, poterono dar via libera ai propri programmi senza alcuna interferenza da parte statale, liberalizzando al massimo i mercati e dando il via libera alla deregulation. Poi il sistema produsse la catastrofe dell‘autunno del 1929 che, partita da Wall Street, diffuse miseria e bancarotta in tutto il mondo. Fu il presidente Franklin D. Roosevelt a raccogliere i resti e, contestualmente, a riprendere gli attacchi alla plutocrazia. Egli definì intollerabile un sistema che rendeva―metà della popolazione degli Stati Uniti carne da macello industriale‖ obbedendo agli ―interessi di pochi potenti‖. Ed evidenziò che il nuovo potere finanziario, ―altamente centralizzato‖, costituiva il despota del XX secolo, la cui irresponsabilità e avidità potevano ridurre alla fame ed alla povertà estrema le grandi masse di individui che dipendevano da esso.362 Insomma, la minaccia che la plutocrazia subordinasse a sé il governo ha mostrato pienamente il proprio volto dapprima negli anni ‘20 del Novecento e poi, a coronamento della politiche iniziate da Reagan negli anni ‘80, durante le due amministrazioni di George W. Bush. Con questi presidenti, il potere politico si è messo al servizio delle oligarchie economiche, sostenendo che i loro interessi si identificavano con quelli del popolo, della nazione e dello Stato. In entrambi i casi l‘effetto è stato devastante: il paese ed il mondo intero sono sprofondati nelle tremende crisi economiche del 1929 e del 2008. C'è un ulteriore aspetto del sistema americano che, alla luce di quanto propagandato, appare singolarmente aberrante: l‘accesso alla presidenza è letteralmente 360 361 362 Ivi, p. 72. Ivi, p. 73. Ivi, pp. 73 – 74. 133 sbarrato nella sostanza a chi non disponga in primo luogo del sostegno materiale di grandi forze economiche e del loro consenso politico. E questo proprio nel luogo che tuttora si propone al mondo come un modello di democrazia, in cui l‘ideologia dominante si fonda sull‘idea che nessun altro paese sia in grado di offrire un uguale livello di mobilità sociale e che l‘essenza del ―sogno americano‖ consista in un‘uguaglianza delle opportunità che non ha riscontri altrove. In America si è stabilito un intreccio organico tra capitalismo e democrazia, che ha reso i titolari della ricchezza la fonte sociale primaria dell‘influenza politica, tanto da svolgere un ruolo determinante nella selezione dei rappresentanti nelle istituzioni. Un piccolo gruppo di persone che decide a chi offrire o togliere il proprio appoggio, tracciandone il destino politico, anzi, che in molti casi fornisce direttamente al governo propri esponenti o tutori dei suoi interessi. Da questo intreccio hanno avuto origine le vere e proprie dinastie insediatesi nel cuore del governo: gli Adams, i Roosevelt, i Kennedy, i Bush ed i Clinton.363 Naturalmente, la plutocrazia non ha mai costituito negli Stati Uniti un blocco politicamente unito; si è ripetutamente divisa, in particolar modo nei momenti di crisi sociale ed economica, tra i più o meno conservatori e i più o meno progressisti. Ma ciò che comunque emerge è che il sistema liberaldemocratico americano assegna alle classi ricche un primato di tale portata e peso da collocare in una posizione sociale e politica nettamente subalterna la maggioranza del ―popolo sovrano‖, periodicamente chiamata a mobilitarsi alle elezioni in maniera plebiscitaria a favore o contro i leader politici proposti dall‘establishment e sulla cui selezione essa non ha alcun ruolo propriamente attivo.364 Nel 2002 un altro studioso statunitense, Kevin Phillips, ha sottolineato che capitalismo e democrazia ―devono essere separati‖ e ―non possono essere confusi‖. Invece, il rapporto tra capitalismo e democrazia continua ad essere complesso ed irrisolto, e questo è il motivo fondamentale per cui la democrazia americana oggi è più che mai svuotata di sostanza. L‘impresa capitalistica è per sua natura fondata su una struttura autoritaria e gerarchica, nella quale i vertici possono anche stabilire contrattazioni ed intese con i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali, ma non cedono i poteri decisionali ultimi, che esprimono quei ―diritti di sovranità‖ che affondano in maniera diretta nella proprietà.365 Un segnale estremamente positivo sembrava provenire dall‘elezione a presidente degli Stati Uniti di Barack Hussein Obama, avvenuta nel 2008 e strettamente connessa all‘esplosione della crisi dell‘economia mondiale, partita proprio dagli Stati Uniti. Si è 363 364 365 Ivi, pp. 76 – 78. Ibidem. Ivi, p. 75. 134 difatti trattato di una vera e propria svolta storica: non solo per il fatto che il presidente sia un afro-americano, ma anche perché rappresenta, al tempo stesso, ―l‟uomo nuovo nel senso romano dell‟espressione, non appartenente alle alte sfere della società, per aver interrotto la catena sia delle presidenze “bianche” sia delle grandi dinastie politiche anche all‟interno del suo stesso partito‖366. Alla sua vittoria hanno contribuito, oltre alla crisi economica, altri fattori rilevanti: il discredito personale di Bush, gli effetti della seconda guerra irachena, la percezione progressivamente più netta, da parte della maggioranza del popolo americano, che il presidente uscente, seppur confermato nel 2004, avesse consegnato il Paese nelle mani di oligarchi che avevano saccheggiato la ricchezza nazionale, boicottato le politiche ambientalistiche, fatto diffuso ricorso a corruzione, menzogne, favoritismi nelle pratiche di governo e, soprattutto, si erano resi ripetutamente colpevoli di violazioni delle libertà civili mantenendosi, però, formalmente sotto l‘egida della democrazia.367 Allo stato, però, non sembra che Obama sia riuscito ad attuare le riforme strutturali promesse durante la propria campagna elettorale, a combattere efficacemente il potere delle oligarchie finanziarie ed industriali e la corruzione che esse disseminano, a proprio profitto, lungo il cammino, né a dar nuovo vigore ad una democrazia estenuata e minacciata. Concludendo la nostra analisi, possiamo affermare che al rilancio che i regimi liberaldemocratici hanno vissuto nell‘ultimo trentennio, legato da un lato alla fine del comunismo, dall‘altro al moltiplicarsi di Stati che hanno fatto proprie le istituzioni liberaldemocratiche, non è corrisposta un‘uguale capacità del regime di adattarsi alle nuove esigenze messe in campo dalla globalizzazione, che ha posto in prima fila il potere delle oligarchie industriali e finanziarie internazionali. Sono state, quindi, messe in crisi la sovranità degli Stati, la capacità decisionale dei parlamenti, il ruolo e la capacità d‘influenza dei partiti e dei sindacati nazionali ed accentuata al massimo grado la passività dei cittadinielettori. La democrazia non ha saputo tenere il passo con la corsa del capitalismo alla globalizzazione; così, all‘accresciuto potere dell‘‖azienda globale‖ ha fatto riscontro l‘indebolimento dell‘importanza politica delle organizzazioni sindacali e, quindi, dei lavoratori comuni, l‘impoverimento negli stessi paesi più sviluppati di una parte consistente dei ceti medi, la diffusione del lavoro precario tra i lavoratori dipendenti, il ridursi del welfare state a sistema che, più che il carattere di parte dei diritti universali della cittadinanza, ha assunto ormai quello di elemento residuale di impronta caritativa a favore dei più poveri. Sembrerebbe, quindi, più proprio definire i governi dei sistemi chiamati 366 367 Ivi, p. 93. Ivi, pp. 88 – 89. 135 ―liberaldemocratici‖ ―governi a legittimazione popolare passiva‖.368 Governi nei quali si è cercato di cancellare empatia e solidarietà, responsabilità sociale e comunitaria. Nei quali sempre più spesso ―esiste solo l‟individuo che massimizza il suo profitto, si assoggetta al potere e non pensa agli altri.‖369 Un secolo fa, Frederick Taylor trasformò, ―sostanzialmente, gli operai in robot, al fine di controllarne le emozioni, di toglier loro ogni opzione, riducendoli a macchine.‖ Poi, a partire dagli anni Venti, ci si rese conto che ―era possibile sorvegliare nello stesso modo ogni aspetto della vita umana. Perché non robotizzare la gente per tutta l‟esistenza? E produrre robot significa concentrare l‟attenzione sulle cosiddette cose superficiali della vita. Per esempio, i consumi alla moda, infischiarsene del prossimo, sabotare la collaborazione per creare un ambiente decente, non preoccuparsi di come sarà il mondo per i nostri figli. Questo significa tramutare la gente in consumatori passivi, farla votare ogni due anni convincendola che quella è democrazia. Seguire gli ordini, non riflettere.‖370 Ormai assistiamo quotidianamente, sia in America che in Europa, agli annaspanti tentativi dello Stato, chiamato a soccorrere le banche e le industrie condotte al fallimento dai grandi speculatori, a difesa dei posti di lavoro e a sostegno dei tanti nuovi disoccupati. I sistemi democratici devono reagire con vigore all‘allarme costituito dalla crisi del 2008; essi hanno fallito la loro mission, non sono stati in grado di salvaguardare gli interessi della popolazione, di contenere gli effetti della crisi che, invece, i governi stanno addossando, nell‘intento di salvare banche e industrie, su quei ceti medi e popolari che negli ultimi decenni i magnati della finanza, intenti ad aumentare a dismisura le proprie ricchezze, hanno già gravemente impoverito e privato di diritti sociali fondamentali. E più di ogni altro aspetto, dovrebbe preoccuparci il fatto che sia proprio l‘America a soffrire la crisi più profonda, come dimostrano anche le manifestazioni sempre più numerose da parte dei giovani ―indignados‖ che sfilano per le vie di New York, contestando banche ed alta finanza. Un‘America che, venuto meno il bipolarismo, si trova da sola al comando e che non appare più in grado di mantenere stabile il sistema dei rapporti internazionali, con una ulteriore conseguenza, fino ad ora non evidenziata. Durante la Guerra Fredda, ciascuna delle due superpotenze tendeva ad interpretare ogni vantaggio acquisito dalla controparte come una potenziale minaccia, cosicché all'azione di una conseguiva una reazione dell'altra, e questo assicurava stabilità, anche perché non esisteva alcuna zona del pianeta che non 368 369 370 Ivi, p.86. N. Chomsky, op. cit., p. 295. Ivi, p. 297. 136 rientrasse, almeno teoricamente, nell'interesse dei due blocchi. Oggi, invece, venuta meno l'esigenza della competizione a livello globale, i conflitti e le crisi che non minacciano direttamente gli interessi delle grandi potenze sono completamente ignorati. Semplicemente, non esistono. 371 Dobbiamo essere consapevoli del fatto che i due crolli, quello del Muro di Berlino e quello delle Torri Gemelle, hanno sconvolto la storia degli ultimi vent'anni, catapultandoci in un mondo nuovo, con caratteristiche ambigue e contraddittorie. E che i due eventi siano collegati è un dato di fatto: il crollo dell'Unione Sovietica ha liberato forze scomposte, a lungo compresse, tensioni forti, preesistenti, ma tenute a freno dagli stati socialisti, che rappresentavano non soltanto potenti organismi di controllo, ma anche un riferimento di civiltà e di valori diversi. L'Unione Sovietica aveva invaso e represso l'Afghanistan, lo stesso Afghanistan che gli Usa hanno armato, per mezzo dei talebani, e finanziato, preparando il terreno proprio a quel Bin Laden che poi sono stati costretti a combattere con tanta pervicacia. Perché una volta scomparsa l'Unione Sovietica sono apparsi i nuovi nemici: le divisioni etniche, tribali, le giovani mafie, il terrorismo. E gli Stati Uniti si sono trovati da soli a svolgere il ruolo di ―polizia internazionale‖, il che li ha esposti e sovraesposti a rischi non solo di reazioni violente, come in effetti si è verificato, ma anche di commettere errori e di essere, comunque, colpevoli.372 Un nuovo mondo, quindi, dominato dagli Stati Uniti, sempre più tesi verso uno spregiudicato unilateralismo, un'ostentata indifferenza per le norme internazionali ed una disinvolta svalutazione delle vecchie alleanze e dei contesti multilaterali permanenti a vantaggio di alleanze e coalizioni ad hoc, finalizzate all'esportazione della democrazia.373 Gli Stati Uniti sono ancora la principale economia del pianeta e dispongono delle forze armate tecnologicamente più avanzate, più addestrate e con la maggior capacità di intervento. Basi militari o analoghe strutture di supporto alle forze armate statunitensi sono disseminate in oltre cento Paesi in tutti i continenti. Come se ciò non bastasse, contribuiscono con finanziamenti che si assestano intorno al 25% del bilancio delle organizzazioni internazionali delle quali fanno parte.374 A tutti questi dati concreti, che attribuiscono al Paese quella particolare forza di coercizione, persuasione ed attrazione nota con il termine ―hard power‖, va aggiunto il prestigio di cui gli Stati Uniti godono sotto il profilo culturale e dei valori, dello stile di vita ed anche sotto l'aspetto linguistico, il cd. ―soft power‖, basato appunto sul peso della cultura 371 372 373 374 V. Coralluzzo, I dilemmi delle democrazie tra terrorismo globale e nuove guerre, già cit., pp. 26 – 27. S. Natoli, Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2008, p. 20. V. Coralluzzo, op. cit., p. 8. A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., p. 107. 137 e degli ideali politici del Paese. Gli Usa, ormai, nonostante tutte le loro criticità, rappresentano una forma di vita, un comportamento da imitare, a livello universale. Il modello americano, così accattivante e pervasivo, è entrato in ogni società, mandando in frantumi l'ecosistema tra i popoli. Recentemente, poi, a seguito degli attentati dell'11 settembre e della guerra dichiarata, a livello globale, contro il terrorismo, questa percezione dell'egemonia americana si è ulteriormente rafforzata e l'espressione ―impero americano‖, tradizionalmente usata in senso negativo dai critici della politica estera di Washington, è divenuta un termine neutro per definire l'attuale sistema dei rapporti internazionali.375 In sostanza, gli Stati Uniti contestano il fondamento, la legittimazione di quell'ordinamento giuridico internazionale che essi stessi hanno contribuito a creare, e ricorrono sempre più frequentemente all'azione unilaterale. Settori influenti dell'establishment statunitense tendono difatti a rompere il paradigma che il potere possa essere legittimamente esercitato solo in un contesto multilaterale o, più in generale, nel rispetto dell'ordinamento internazionale. Essi considerano tuttora utili le organizzazioni internazionali e certe alleanze, ma non le ritengono più la cornice all'interno della quale sviluppare la politica estera e di sicurezza. E la contestazione riguarda anche organizzazioni nelle quali gli Usa sono sempre stati tradizionalmente impegnati, come ad esempio la Nato, che, non a caso, sta attraversando un periodo di profonda crisi. E' già stato evidenziato come, già durante la Guerra Fredda, ci siano state tendenze ad interventi unilaterali; ma l'elemento di novità, attualmente, è costituito proprio da questa contestazione del fondamento della legittimità dell'azione, che si baserebbe non più sulla concertazione a livello internazionale, ma sull'interesse nazionale. Questa tesi viene, peraltro, sostenuta da posizioni ideologiche diverse, che vanno dai tradizionalisti della Realpolitik, estremamente scettici sull'efficacia dei metodi multilaterali, ai nazionalisti, che ritengono che l'interesse del Paese debba prevalere su qualsiasi altra considerazione, ai neoconservatori, fautori dell'unicità della potenza americana e del suo carattere salvifico.376 Si tratta di posizioni che rifiutano il concetto stesso di multilateralismo e che ritengono, tra l'altro, che un organo come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sia, tutto sommato, necessario all'Europa, in quanto sostitutivo di un potere che non detiene, ma non certo per gli Usa, per i quali, anzi, in quanto potenza egemone ed onnipotente, potrebbe addirittura costituire una grave limitazione. La contestazione, insomma, riguarda l'intero sistema di governance internazionale, in quanto pone in dubbio la stessa necessità di un diritto internazionale, al posto del quale si 375 376 Ivi, p. 109. Ivi, pp. 110 – 111. 138 reclama l'indipendenza per lo Stato nazione, e in particolare per gli Usa, nei confronti dei quali viene rivendicata l'impossibilità di accettare limiti alla propria condotta, in quanto sarebbero contrari all'interesse nazionale. Oggetto della contestazione sono svariati settori della cooperazione: dal controllo degli armamenti alla giurisdizione internazionale, sia interstatuale che penale, dalle norme per la salvaguardia dell'ambiente a quelle per il trattamento dei prigionieri di guerra, dai diritti del fanciullo alle regole per lo sfruttamento delle risorse marine. Secondo alcuni autori, poi, a questa negazione del multilateralismo si affiancherebbe una tendenza a sfruttare la posizione egemonica per condizionare non solo le politiche adottate dalle istituzioni internazionali, ma, addirittura, lo sviluppo del diritto internazionale, tanto da creare un ―diritto internazionale egemonico‖.377 In base a questa tesi, gli Usa potrebbero ―pilotare‖ le decisioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell'Onu che, formalmente, apparirebbero comunque prese a livello multilaterale. Tali forme di diritto egemonico sarebbero ben più pericolose di qualsiasi intervento unilaterale, in parte perché eviterebbero le reazioni che l'unilateralismo provocherebbe, e in parte perché permetterebbero di condividere responsabilità e colpe. Appare, quindi, evidente che, allo stato attuale, l'ordinamento internazionale si basa su un precario equilibrio tra l'influenza esercitata dagli Stati Uniti ed il sistema multilaterale rappresentato dall'Onu. E' altrettanto evidente che le prospettive future dipendono in gran parte dalle scelte operate da Washington tra agire al di fuori delle istituzioni oppure operare nel rispetto dello Statuto delle Nazioni Unite, tra azione militare e rispetto delle regole sul divieto di uso della forza, tra egemonia sulle istituzioni per mero interesse nazionale oppure leadership a favore di valori ampiamente condivisi. Su tali prospettive, in relazione alle diverse possibilità di scelta, sono state avanzate diverse ipotesi. Secondo la prima di queste teorie, l'egemonia americana si potrebbe evolvere in un vero e proprio dominio imperiale, che porrebbe gli Usa al di sopra di ogni regola, istituzione e legge, che invece continuerebbero a valere nei confronti del resto del pianeta. Ciò comporterebbe un ordinamento internazionale a due livelli: a quello superiore gli Usa, sottoposti unicamente al proprio diritto interno, a quello inferiore tutti gli altri Paesi, sottoposti ad un diritto internazionale simile a quello vigente. In questo caso, gli Usa sarebbero gli unici garanti della sicurezza collettiva e le organizzazioni internazionali e le attuali alleanze militari sarebbero sostituite da coalizioni di volta in volta stabilite da Washington in relazione alla specifica crisi. 377 Alvarez, Asil, Byers, Nolte e Vagts, come citati da A. de Guttry e F. Pagani, p. 112. 139 La seconda ipotesi si fonda, invece, sulla possibilità che l'egemonia statunitense susciti una forte opposizione nella comunità internazionale, che potrebbe reagire ponendo in atto forme di contenimento oppure creando alleanze diversificate. Anzi, secondo alcuni questo sarebbe già avvenuto nel 2002 e nel 2003 durante il confronto, all‘interno dell‘Onu, sull'opportunità o meno di un intervento militare in Iraq, che si sarebbe trasformato in una sorta di referendum sull'uso unilaterale della forza da parte degli Usa. 378 Secondo altri autori, quello stesso confronto sarebbe stato l'inizio di una contrapposizione tra Usa e Nazioni Unite, organizzazione destinata a fungere da contrappeso alla potenza americana. 379 In base a questa ipotesi, quindi, si produrrebbe una frattura tra Stati Uniti e resto del mondo, o quanto meno una parte consistente di esso, e l'Onu, in questo quadro, fungerebbe da strumento di contenimento degli Usa, come all‘epoca la Nato nei confronti dell'ex Unione Sovietica. La terza ipotesi è indubbiamente la più funerea: parte dal presupposto che il tentativo di creare un ordinamento internazionale fondato sul diritto sia fallito e sulla conseguente inutilità di conciliare la politica internazionale, che tornerebbe a basarsi sui rapporti di forza tra Stati e sull'interesse nazionale, con i principi dell'organizzazione internazionale fondata sulla cooperazione, che sarebbe gravemente indebolita. In questo scenario, non è neppure possibile prevedere il proseguimento di una forma di governance collettiva per alcuni settori, come il controllo degli armamenti, il rispetto dell'ambiente, l'integrazione economica. Secondo un'altra interpretazione, l'egemonia americana sarebbe sostanzialmente effimera e destinata ad un ridimensionamento, più o meno imminente, per effetto del sorgere di uno o più poteri o di un'alleanza tra poteri concorrenti. In base a questa teoria, è ammissibile che una grande potenza, in circostanze eccezionali, possa agire unilateralmente al di fuori del quadro giuridico e delle istituzioni. Tale comportamento sarebbe, di fatto, un'eccezione e non implicherebbe la crisi dell'intero sistema. Infine, alcuni autori interpretano gli attuali contrasti tra la potenza egemone e la legalità internazionale come ―tensioni creatrici‖, nel senso che essi porterebbero in ogni caso ad una evoluzione, ad una crescita dell'ordinamento internazionale, dando origine a nuove regole che accompagnerebbero ogni periodo di transizione del sistema. Secondo quest‘ ottica, ad esempio, l'intervento della Nato in Kosovo rappresenterebbe un primo fondamentale passo per la formazione di una prassi consuetudinaria di ingerenza umanitaria al di fuori di una specifica autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni 378 379 Cfr. Weiss 2003, come citato in A. de Guttry e F. Pagani, p. 115. Cfr. Bennis 2004, ibidem. 140 Unite. Questo processo creativo, quindi, potrebbe comportare una modifica degli articoli della Carta Onu che riguardano l'uso della forza e la legittima difesa in modo da assicurare la corrispondenza tra norma internazionale e norma consuetudinaria.380 Qualunque sia la scelta che gli Stati Uniti adotteranno in un prossimo futuro, comunque, una cosa è certa: essi sono destinati a continuare ad esercitare un ruolo preponderante e, pertanto, è fondamentale che il Paese conferisca alla democrazia nuova sostanza, nuovi significati e nuovi contenuti. E‘ imperativo, per la potenza egemone del XXI secolo, dotarsi di strumenti adatti ad un mondo in continua evoluzione, che pone sia a livello nazionale che internazionale problematiche di governance sempre più complesse. Per concludere con le parole di Noam Chomsky possiamo dire che ―Il capitalismo, per quanto rapace, ha creato un complesso sistema industriale e una tecnologia avanzata; ha permesso un notevole allargamento della prassi democratica e promosso certi valori liberali, ma entro limiti che ormai sono divenuti soffocanti e vanno quindi superati. Non è un sistema valido per la metà del Ventesimo secolo. Non è in grado di rispondere ai bisogni umani che si esprimono solo a livello collettivo, e il suo concetto dell‟uomo competitivo […] è un concetto disumano e intollerabile. Uno stato autocratico non rappresenta un‟alternativa accettabile; né il capitalismo di stato militarizzato che si sta formando negli Stati Uniti, né lo stato assistenziale centralizzato e burocratizzato possono essere accettati come fine dell‟esistenza umana. Le istituzioni repressive si giustificano soltanto con l‟arretratezza materiale e culturale. Ma tali istituzioni perpetuano e producono a loro volta arretratezza. La scienza e la tecnologia moderna possono affrancare gli uomini dalla necessità del lavoro parcellizzato fino all‟instupidimento. Possono, in linea di principio, fornire le basi di un ordine sociale razionale fondato sulla libera associazione e sul controllo democratico‖.381 380 381 A. de Guttry e F. Pagani, op.cit., pp. 114 – 117. N. Chomsky, ―Anarchismo‖, cit., pp. 153 – 154. 141 2. Gli stati alle prese con la globalizzazione La globalizzazione viene definita da Ulrich Beck come un processo irreversibile in seguito al quale gli stati nazionali e le loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, identità e reti. La specificità di tale processo consiste “nell‟estensione, densità e stabilità, empiricamente rilevabili, delle reti di relazione reciproche regional-globali e della loro autodefinizione massmediale, così come degli spazi sociali e dei loro flussi d‟immagine”382. Tale concezione appare largamente condivisa, almeno in alcuni dei suoi aspetti, appena citati anche da Held e McGrew.383 Beck distingue la globalizzazione dal globalismo, intendendo con quest‘ultimo il punto di vista secondo cui l‘ideologia mondiale del neoliberismo rimuove o sostituisce l‘azione politica.384 La prospettiva del globalismo liquida una differenza fondamentale della prima modernità, quella tra politica ed economia. Il compito della politica, fissare le condizioni giuridiche e sociali entro cui l‘agire economico diventa possibile e legittimo, è così perduto di vista o viene taciuto385. L‘analisi di Beck, pur fondamentale nel delineare la globalizzazione propria dell‘ultima modernità, tende a eludere il nesso tra politica e diritto, non affrontando il problema della fondazione delle trasformazioni del principio di sovranità. Quella che oggi si configura, infatti, è una rappresentazione della sovranità, sostitutiva della 382 383 384 385 U. Beck, Che cos‟è la globalizzazione, cit.,pp. 25 D. Held – A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Ed. Il Mulino, Bologna 2003, pag 9 - 10: “Il termine globalizzazione[…] si riferisce ad una vera e propria trasformazione nella scala dell‟organizzazione della società umana, che pone in relazione comunità tra loro distanti ed allarga la portata delle relazioni di potere abbracciando le regioni ed i continenti più importanti del mondo […] La consapevolezza delle crescenti interconnessioni mondiali, non solo provoca nuove animosità e conflitti, ma può suscitare politiche reazionarie e generare profondi sentimenti xenofobi. Dato che larghe fasce della popolazione mondiale o non sono direttamente toccate dal processo di globalizzazione, o rimangono largamente escluse dai suoi benefici, questo fenomeno è percepito come causa di profonde divisioni e, quindi, viene vigorosamente contestato. L‟ineguale distribuzione dei benefici della globalizzazione fa si che essa non sia un processo universale e sia ben lontana dall‟essere sperimentata in maniera uniforme in tutto il pianeta. […] in un mondo sempre più interdipendente, ciò che accade fuori dai confini nazionali finisce per avere un impatto anche all‟interno, così come sviluppi che avvengono all‟interno degli stati hanno conseguenze anche all‟esterno.[…] La nozione di globalizzazione è fonte di grandi controversie, non solo fra l‟opinione pubblica, ma anche negli ambienti accademici. In breve, ha avuto inizio la grande discussione sulla globalizzazione. Negli ambienti accademici, nessuna teoria della globalizzazione ha acquisito una posizione di autorità indiscussa. Al contrario, il confronto tra posizioni contrapposte rimane molto acceso”. Contro questo tipo di concezione va il testo di Alain Touraine, Come liberarsi del liberismo, Edizioni Il Saggiatore, Milano 2000, pp 10- 11: ―Queste tre correnti di pensiero, indubbiamente contrapposte ma anche connesse l‟una all‟altra, dominano sempre più il paesaggio sociale, alimentando la convinzione che il cambiamento sociale e politico non sia possibile. Possiamo definire con una sola frase l‟essenza comune a tali tre interpretazioni: contro il dominio economico, l‟unica azione è la rivolta e la rivendicazione delle diversità, e questo porta a una disgregazione sociale che può essere combattuta solo da istituzioni collocate al di sopra delle diversità e delle istanze sociali. Ho scritto questo libro proprio per controbattere le tre affermazioni citate, che a mio modo di vedere sono più complementari che contrapposte. Cercherò qui di sostenere tre idee. - La prima è che la globalizzazione dell‟economia non elimina la nostra capacità di azione politica. - La seconda è che i ceti più svantaggiati non agiscono solo insorgendo contro il predominio, ma anche rivendicando alcuni diritti, in particolare diritti culturali, e imponendo così una concezione innovativa (non soltanto critica) della società. - La terza è che l‟ordine istituzionale è inefficace, o addirittura repressivo, se non è fondato su rivendicazioni di uguaglianza e solidarietà. Si tratta di sostituire alla logica dell‟ordine e del disordine una logica dell‟azione sociale e politica […].‖ U. Beck, Che cos‟è la globalizzazione, pp. 22-25. 142 stessa, che non basa i principi di autorità su principi giuridici. La globalizzazione è, invece, in Beck, ―essenzialmente una politicizzazione ovvero una politica transnazionale ma non un nuovo sistema di giuridizzazione‖386. Poiché Beck ha un concetto essenzialmente politico di sovranità, la crisi del sistema normativo coincide per lui con la crisi del sistema politico387. La sovranità, tuttavia, ―può essere sempre e solo sovranità giuridica legata alla potestà legislativa‖388. Essa si è spostata dal piano del legiferare al piano del gestire: lo Stato è sempre meno il luogo delle decisioni e in Parlamento si vota sempre più sulle modalità di sostegno all‘economia o sui compromessi del lavoro. Nell‘intero mondo occidentale è il mercato che guida il diritto, nell‘assenza di dispositivi e istituzioni di sovranità: allo Stato si è sostituito un finanziario che è politico e un politico che è finanziario389. La nuova forma di sovranità globale che si è venuta affermando con il declino dello Stato-nazione viene definita, da Michael Hardt e Antonio Negri, ―Impero‖390. Esso emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell‘imperialismo, l‘Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e de-territorializzante che, progressivamente, incorpora l‘intero spazio mondiale all‘interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L‘impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali, modulando reti di comando391. Nel momento in cui il mercato globale impone i propri standard a tutto il resto, 386 387 388 389 390 391 L. Vecchioli, Il rischio della sovranità globale, Giappichelli, Torino 2004, in particolare pp.64-65, 77, 88, 98. Al proposito, per ciò che concerne la globalizzazione del diritto, interessante anche il lavoro di Roberto Bin, Lo Stato di diritto, Il Mulino, Bologna 2004, p. 106: ―Lo stato di diritto nasce con un obiettivo circoscritto a un territorio determinato. Nell‟ambito dei confini territoriali in cui lo Stato esercita la sovranità, il potere politico deve esser modellato, circoscritto e condizionato dal diritto; il diritto deve essere prodotto attraverso procedure legali che consentano l‟apporto della rappresentanza dei cittadini; ai cittadini deve essere garantita tutta una serie di diritti fondamentali. Ognuno dei termini indicati, a ben vedere, evoca le coordinate spazio- temporali. Il territorio delimita la sovranità (che è la pretesa di esclusività del potere politico in quell‟ambito); l‟appartenenza territoriale delimita la cittadinanza; i confini delimitano lo spazio entro il quale è garantito il godimento dei diritti; […] Ma gli antichi confini dello stato sovrano ormai sono divelti. La Comunità Europea ha creato uno spazio diverso, estremamente più ampio, in cui i vecchi territori nazionali si sono già in una certa misura dissolti. I flussi migratori dagli slums del mondo verso la città ricca stanno mettendo sotto stress il concetto di cittadinanza nazionale e la delimitazione del diritto di voto (per altro già annacquati nella nozione concorrente di cittadinanza europea e del connesso diritto di voto nel luogo di residenza, anziché nello Stato di appartenenza, riconosciuto a chi la possiede). I principi di liberalizzazione nella circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, sono in buona parte applicati anche al di fuori dei confini dell‟Unione europea, e hanno creato un mondo di relazioni giuridiche tra operatori economici, imprese multinazionali, istituti bancari e agenti finanziari che non è riducibile ai confini nazionali di nessuno Stato: essi stanno formando un corpo di regole e modelli giuridici che non <appartiene> al diritto di alcuno Stato.‖ C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, Giappichelli, Torino, 2003, p. 82. Ivi, pp.117-126. Da notare che sia Hardt che Negri, utilizzano il termine Impero in modo assai diverso dai loro contemporanei come, ad esempio, E.Todd. In loro l'utilizzo del termine, non si riferisce all'attività di una nazione (nel caso specifico di Todd, gli USA), ma ad una complessa rete di attività, diverse, che convergono a portare l'uomo verso minori libertà, minori diritti, maggior isolamento ed importanza nella figura di Stato, snaturato anch‘esso di quei requisiti che hanno costituito negli ultimi decenni l‘essenza stesa del termine.. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001, p. 14. 143 «l‟anarchia» tipica dell‘ambito economico392, peraltro solo apparentemente, si estende anche all‘ambito istituzionale comportando una de-costituzionalizzazione della democrazia e processi di disfacimento della sfera pubblica393. Le categorie fondamentali del mercato hanno prodotto la dominanza, in ogni ambito della vita pubblica (e privata) del modello di azione costituito dallo scambio. Ciò ha, gradualmente, eroso la base comunitaria o popolare sulla quale sono stati costruiti i partiti di massa “concorrendo a trasformarli in arene per la spartizione personale del potere e delle ricchezze, in comitati elettorali e in formazioni di acquisizione del consenso attraverso le tecniche clientelari della distribuzione dei benefici derivanti dall‟uso politico delle risorse pubbliche‖.394 Anche per questa via, la colonizzazione operata dal mercato ha contribuito al disfacimento della sfera pubblica e alla disintegrazione di istituzioni, come i partiti politici, ritenute essenziali per il buon funzionamento della democrazia pluralista.395 392 393 394 395 Roberto Bin, Lo stato di diritto, Il Mulino, Bologna 2004, pp.107 – 108: ―Come agli albori dello Stato moderno i mercanti cercarono di sbarazzarsi di condizioni giuridiche particolari che ognuno di loro aveva ereditato dalla propria appartenenza territoriale, professionale o familiare, fondando un corpo giuridico autonomo, la lex mercatoria, altrettanto appare accadere oggi: si è formato un diritto transnazionale privo di appartenenze territoriali e di <sovrani>, fatto di accordi, prassi, usi commerciali e scelte operate nei grandi contratti internazionali, che poi si propongono come modelli generali per gli altri operatori. L‟ordinamento statale annaspa cercando di inseguire queste realtà che evolvono e mutano con velocità insostenibile. Come possono gli Stati mettere sotto controllo giuridico tutto ciò che è veicolato da internet? Come possono inseguire la ricchezza per assicurare il prelievo fiscale necessario a mantenere un adeguato livello di prestazioni pubbliche? […] La Comunità europea è sollecitata dall‟esterno a ridurre la difformità della sua disciplina giuridica dai modelli giuridici che si impongono sul mercato internazionale, fortemente influenzati, come è ovvio, dai modelli statunitensi. Il superamento delle diversità significa necessariamente l perdita della sovranità. Il diavoletto anarchico che alberga in ognuno di noi può forse essere intimamente felice di apprendere che la sovranità dello Stato è ormai al tramonto. La lunga lotta contro le pretese assolutistiche della sovranità finirebbe con essa. Ma sbaglierebbe le sue valutazioni. Il mercato internazionale, come ogni mercato, non è affatto una struttura anarchica, ma è fatto anch‟esso di regole e istituzioni. Chi è il sovrano che le crea? La risposta è complessa ma per nulla tranquillizzante. Il fatto è che non c‟è un sovrano, nell‟ordine internazionale. […] Quindi il mercato internazionale da chi è regolato? […] Nascono così organizzazioni mondiali complesse e potenti, come la Wto(Organizzazione Mondiale del Commercio), entro cui nidificano numerose organizzazioni settoriali e accanto alle quali operano altri potentati come il Fmi (Fondo Monetario Internazionale), che promuove la cooperazione monetaria internazionale, la stabilità internazionale e il libero scambio, o la Banca mondiale, la più importante istituzione che si occupa dell‟assistenza ai paesi poveri attraverso la realizzazione di programmi di sviluppo sostenibile e graduale‖. Ovviamente, mai come in questo momento possiamo accertare l‘assoluta improponibilità di definizioni ―neutre‖ nei confronti di organizzazioni (Wto, Fmi, Banca mondiale appunto) che promuovono unicamente il profitto di alcuni, a discapito del benessere sociale e delle popolazioni a cui (alcune, teoricamente) dovrebbero realmente dare assistenza e si prestano ad essere i primi e più importanti meccanismi dello sfruttamento e della disuguaglianza.. A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 329, 335. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001, p.15 Carlo Mongardini, Lo spirito del capitalismo contemporaneo, Bulzoni Editore, Roma 2007, pp. 179 – 180: “C‟è dunque nel tardo capitalismo l‟emergere di tendenze che testimoniano la perdita di quello <<spirito>> che ne aveva determinato lo sviluppo e la legittimazione, quello spirito cioè che secondo Max Weber aveva a fondamento un fondo di religiosità e di morale rispetto al quale il successo economico e l‟arricchimento erano solo la testimonianza esteriore dell‟impegno profuso nella costruzione della vita civile e della creatività indirizzata agli altri prima che alla esaltazione di se stessi. Il tardo capitalismo ha rotto i ponti con la morale civile e con la creatività e si isterilisce nell‟economicismo, nella burocrazia e nella costruzione di potenti aggregazioni oligarchiche. Sempre più appare realizzarsi l‟immagine weberiana della <<gabbia d‟acciaio>> che incapsula l‟individuo contemporaneo e della presenza di <<specialisti senza intelligenza e gaudenti senza cuore>> mentre l‟uomo contemporaneo <<si immagina di essere salito ad un grado di umanità non mai prima raggiunto>>. […] Le condizioni del nostro tempo testimoniano lo stato di frammentazione di quella società sulla cui integrazione si fondava lo sviluppo della civiltà capitalistica e perciò il fatto che il capitalismo taglia le proprie radici riducendosi ad un economicismo astratto perché arbitrariamente isolato dalla complessità della vita sociale.‖ 144 Le élite politiche, avendo smarrito il senso della loro funzione sociale, sono divenute un ceto essenzialmente autoreferenziale, immerso in giochi tattici di potere o impegnato a porre sul tavolo questioni che, più che risolvere problemi di grande importanza sociale, hanno lo scopo di mettere in difficoltà l‘avversario politico. Per la professione del politico oggi non è richiesta alcuna qualificazione, neppure intellettuale: di conseguenza il divario fra élite politica e uomini di cultura è divenuto talmente ampio da risultare impossibile anche la possibilità di dialogo. Due ceti – i politici e gli intellettuali – un tempo fondamentali, gli uni a fianco degli altri, per il buon funzionamento della sfera pubblica vivono ora in reciproco isolamento, abdicando, di fatto, al loro ruolo di attivi mediatori sociali. Lo scollamento della sfera pubblica ha, fra le proprie vittime, anche i giornalisti che “hanno smarrito il senso del loro ruolo sociale e si sono trasformati da sacerdoti della verità a sciamani della politica”.396 Gli effetti del processo di globalizzazione hanno affiancato al diritto internazionale nuove tipologie giuridiche a vocazione globale. La tendenza attuale di un diritto a vocazione globale, secondo Maria Rosaria Ferrarese, consiste nell‘invenzione di nuove modalità giuridiche non più strettamente territoriali: il diritto sovranazionale e il diritto transnazionale configurano forme di «diritto sconfinato» che coincidono con la creazione di nuovi spazi per il diritto. Non solo assistiamo alla fuoriuscita del diritto dalla necessaria coincidenza con il territorio, ma anche si può osservare il venir meno della «densità politica» che era tipica del diritto statale: le nuove forme del diritto sono sempre meno riconoscibili come prodotti di una chiara volontà politica democratica e come pure formulazioni di comandi a cui si deve obbedire. 397 396 397 A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., pp. 179-185. A questo proposito, per considerare la complessità della questione che investe il mondo odierno, basta riflettere su quanto scrive M. Benasayag, Contro il niente, abc dell‟impegno, Ed. Feltrinelli, Milano 2005, pp. 95 e ss., a proposito della globalità: “Mi viene sempre obiettata la necessità di un‟azione globale. La risposta è complessa. Non si può toccare la questione della globalità senza affrontare quella della totalità. Impegnarsi consiste nel farla finita con una posizione di aspettativa, immaginaria, spezzare la separazione, superare l‟impotenza. Agire significa essere in rapporto con dei funzionamenti che fanno parte di una totalità. Per esempio, contesto il Fondo monetario internazionale in Argentina poiché, se paghiamo il debito, migliaia di bambini moriranno, migliaia di uomini resteranno senza lavoro… Se parto da questa constatazione e decido di giocare a scacchi tutti i venerdì, è chiaro che mi è sfuggita la totalità della situazione. Nell‟impegno, questo interrogativo è fondamentale: come fare per cogliere la totalità? E‟ possibile sviluppare un enorme movimento di massa basato su compiti e pratiche inadatti. Per secoli si sono fatti salassi alle persone nella convinzione di eliminare i cattivi umori. Paradossalmente, queste pratiche dovevano avere una certa efficacia ma è incontestabile che, da un punto di vista scientifico, non erano appropriate. Non farsi sfuggire la totalità significa entrare in relazione con il reale concreto da cui dipende la situazione. La febbre non è mai dovuta ad un eccesso di sangue. Se pratico un salasso, non colgo il nocciolo del reale da cui dipende la malattia. Per lungo tempo la totalità è stata pensata come l‟insieme degli elementi che la componevano. Al contrario è il processo che organizza e sistema il divenire dell‟insieme. La totalità non è mai un elemento più o meno importante. Capisco 145 Dal diritto come prodotto di una volontà politica che attende obbedienza, legato alla logica della sovranità, si passa a un diritto «per fare cose», per raggiungere obiettivi e scopi, legato alla logica della strumentalità.398 Il diritto sovranazionale, pur mantenendo un rapporto con il territorio e con le problematiche della sovranità, travalica i tradizionali confini statali e si apre a nuove estensioni; al contrario, il diritto transnazionale si presenta come restio a lasciarsi segnare da qualsiasi limite territoriale o legame, configurandosi come una sorta di diritto universale che risponde ad aspirazioni che appartengono a ogni essere umano. Entrambe queste forme tendono a rimettere in discussione la rigida distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e a creare nuove forme di commistione tra essi. Il diritto pubblico appare esposto in misura crescente a moduli privatistici e consensualistici, mentre il diritto privato assume importanti effetti di natura pubblica. L‘esposizione di queste due tipologie giuridiche alla commistione pubblico-privato le pone, quindi, anche come forme di diritto per la governance, per la loro capacità di articolare in forme nuove il rapporto tra queste due tradizionali partizioni del diritto399. Il processo di governance più importante è quello attuato dalla lex mercatoria che, secondo la Ferrarese, costituisce la più estesa e riuscita espressione di diritto transnazionale nel mondo globale400. La lex mercatoria, da un lato, rappresenta il segno più vistoso della capacità che hanno i soggetti privati del mercato di disegnare regole per i propri scambi, dall‘altro diventa una fonte di normazione che travalica le frontiere giuridiche tipiche, ma distintamente un fenomeno quando capisco il suo funzionamento, la sua articolazione e non soltanto la sua struttura fissa. Posso allora agire su di esso perché mi pongo in una zona decentrata ma al suo interno. Stabilisco un rapporto con la totalità concreta quando arrivo ad una conoscenza del processo, del divenire in cui gli elementi del fenomeno si collegano e non attraverso un sapere enciclopedico su di loro. La totalità è allora inglobata dalla mia comprensione del funzionamento…Accanirsi contro il potere centrale significa erigere una falsa globalità, poiché non è nient‟ altro che un elemento in più in questa totalità incompleta. Esiste nei fenomeni sociali una serie di totalità che sono elementi di un insieme sempre incompleto….Questa globalità è soltanto la proiezione immaginaria di un elemento che esiste alla base, per esempio il potere dello stato o il capitalismo. Non esiste alcuna possibilità di passare dal globale concreto al globale astratto. La difficoltà è distinguere il luogo del globale…Non è raggiungibile in altro modo che partendo dal locale...Prima di attaccare la globalità chiediamoci dove esiste……” 398 399 400 M. R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, Laterza, pp. 1822. Ivi, pp. 24-29. Ivi, pp. 38-40. Baldassarre sostiene, invece, che l‘assenza di qualsiasi momento autoritativo fa del mondo globale un universo nel quale le regole non hanno alcuna garanzia di essere osservate: di qui deriva l‘inesistenza e l‘inconcepibilità di un diritto globale. Notevole è poi la differenza esistente tra jus mercatorum e il cosiddetto diritto globale. Le regole create dai mercanti medievali davano luogo a veri e propri usi che originavano norme, statutarie o consuetudinarie, fornite di autorità, al punto che il mercante che non le avesse rispettate veniva condotto dinanzi a un giudice che sedeva nel mercato stesso. Tutto ciò non può essere riprodotto nelle relazioni globali, dove le norme che gli attori globali si danno nascono come regole convenzionali o contrattuali e come tali affidate per il rispetto alle sole volontà delle parti interessate. Cfr. A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., pp. 366-367. 146 anche atipiche, ridisegnando la sostanza degli scambi di mercato401. Gli Stati vengono coinvolti in un processo di integrazione e convergenza normativa che avviene con svariate modalità e secondo dinamiche frammentarie e fortemente evolutive. Prevalentemente sono gli Stati stessi a porre in atto queste strategie di armonizzazione normativa attraverso una fitta rete di accordi internazionali, insieme a soggetti privati, organizzazioni non governative e professionali, soggetti pubblici, settori accademici. Un'altra modalità integrativa si avvale specialmente dello strumento giudiziario e coinvolge giudici e corti internazionali, chiamati a ricomporre conflitti in materia di diritti umani e diritti economici. Tale via conflittuale spinge indirettamente alla convergenza inducendo gli Stati a conformarsi progressivamente a regole di diritto internazionale e a standard sovranazionali402. Come sostiene Roland Robertson, “locale e globale non sono antitetici e incompatibili, ma si richiamano reciprocamente”403. Non è a caso, ad esempio, che sia stato appositamente coniato in questi anni un nuovo termine che costituisce un forte richiamo e una specifica attività di rimando tra i due vocaboli anzidetti, cioè: ―glocale‖. La teoria del globalismo risulta rilevante anche da un punto di vista giuridico: l‘irruzione della tensione globale-locale ha effetti destrutturanti soprattutto in riferimento al diritto europeo e a quel loro garante naturale che era costituito dalla sovranità degli Stati, intesa come istanza esclusivamente abilitata a produrre norme. Due sono i bersagli che vengono principalmente colpiti da tale tensione: il criterio di esclusività territoriale del diritto; l‘idea che gli ordinamenti giuridici rispondano a una ratio strettamente gerarchica. Riguardo al primo la misura transnazionale richiede a sua volta una ricezione di tipo locale, alimentando spesso paradossi di vario genere: proprio in materia di diritti umani, che pure dovrebbe comportare una più forte inclinazione di carattere universalistico, ricorrono maggiormente adattamenti di tipo localistico che reinterpretano a vario modo quel supposto universalismo. Basti pensare alla pena di morte che ancora divide clamorosamente le grammatiche costituzionali dello stesso mondo occidentale. Ed è proprio sulla possibilità di instaurare un minimo comune denominatore in materia di diritti umani che oggi si gioca la partita decisiva per un costituzionalismo universale. Riguardo al secondo, la tensione globale-locale ha comportato un indebolimento della configurazione gerarchica che era tipica degli ordinamenti giuridici tradizionali. Ad es. un‘aggressione alla ratio gerarchica del diritto è implicita in un principio cardine dell‘Unione Europea, come quello di sussidiarietà. 401 402 403 M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000, p. 59 M. R. Ferrarese, Diritto sconfinato, cit., pp. 145-147. Cfr. R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999, p.225. 147 Secondo l‘immagine utilizzata dalla Ferrarese, stiamo passando da un ―diritto ragno‖ a un ―diritto ape‖. Il diritto della tradizione giuridica europea somigliava molto a un ragno, ben radicato nel suo territorio, statico: la sua tela non ammetteva intrusioni da parte di elementi estranei. Il diritto odierno smette, invece, di essere un ragno e assomiglia più a un‘ape instancabile, sempre in movimento, che cerca di nutrirsi di elementi diversi e che vive di contatti numerosi anche con altri mondi404. Comportando un processo di ―istituzionalizzazione‖ del mercato su scala mondiale, la globalizzazione pone notevoli problemi al diritto globale che, basandosi su una legalità incerta e indefinita, appare irriconoscibile in base ai rigidi requisiti formali che delimitavano l‘ambito del giuridico. Sotto l‘assalto della globalizzazione, i rigidi steccati tra pubblico e privato, tra diritto, politica ed economia cadono. Altra questione importante riguarda il fatto che lo Stato non è più l‘unica fonte del diritto: con la globalizzazione siamo, infatti, di fronte a diversi fenomeni di co-titolarità che implicano la partecipazione di altri soggetti, anche privati, alla produzione del diritto. Si può parlare di una complessa impresa di produzione di «intelligenza giuridica», delineata al contempo da vari soggetti pubblici e privati che accompagnano la vita dei mercati. Tali regole giuridiche corrispondono più a un work in progress piuttosto che a un prodotto finito. La complessità giuridica deriva, dunque, da svariati fattori: in primo luogo dall‘accresciuto numero di soggetti produttori di diritto; in secondo luogo, dal carattere privato e invisibile di alcuni soggetti; in terzo luogo, dalla tendenza a una crescente pressione degli interessi sulle regole giuridiche che produce una conseguente variabilità delle stesse; infine da una certa opacità delle regole, che è dovuta all‘interazione tra elementi formali e informali405. Gli attori che operano su scala mondiale accanto allo Stato, a seguito della globalizzazione, sono moltiplicati: ―oggi un‟impresa privata, un fondo pensione, una Ong si collocano sul medesimo piano di intervento e di efficienza puntuale quanto lo Stato, anche se prive di legittimazione sul piano interno (domestico), ma maggiormente accreditate su quello esterno grazie alla rete di contatti da cui si ergono come soggetti, veri e propri depositari di saperi e tecniche funzionali a rendere reali le decisioni”.406 Al contempo, avanza anche tutta una schiera di burocrati globali al servizio delle agenzie di intermediazione multilaterale che spesso scavalcano le rigide linee di decisionalità degli 404 405 406 M. R. Ferrarese, Diritto sconfinato, cit., pp. 168-170. M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, cit., pp. 57-61. Ibidem. 148 organi di governo dei singoli Stati, sottraendo loro parte della politica estera: i diplomatici dell‘Unione Europea, i funzionari dell‘Onu, i burocrati dell‘International Monetary Fund, della Bank of International Settlements, della World Trade Organization e della World Bank. La dinamica dei processi economici, guidati da attività imprenditoriali globali, sfugge, dunque, alla certezza del diritto che resta vincolata a una territorializzazione nazionale. Tali processi, caratterizzati da velocità, senso dell‘opportunità, ricerca del profitto, si mostrano poco inclini a lasciarsi regolamentare, e quindi frenare, dai tempi della giustizia territoriale407. La democrazia è applicabile solo su un territorio, all‘interno di frontiere certe. Carl Schmitt afferma che nel linguaggio mitico la terra viene definita come la madre del diritto; l‘idea del diritto come unità di ordinamento e di determinazione del territorio è giunta sino ai giorni nostri408. Se la sovranità si definisce attraverso la disciplina che lo Stato esercita su uno spazio delimitato da confini, entro i quali esercitare un controllo sulla popolazione, allora i processi di globalizzazione alterano in modo significativo il nucleo relazionale tra tali elementi.409 Per natura, infatti, oggi i mercati sono senza frontiere, capaci di evolversi rapidamente e di svilupparsi fuori da ogni costrizione nazionale, sfruttando il mondo virtuale di internet. La sovranità fiscale, il principio di autorità dello Stato-nazione per eccellenza, sta diventando sempre più fittizia poiché le imprese, come sottolinea Beck, possono produrre in un luogo, pagare le tasse in un altro paese e richiedere in un terzo contributi statali sotto forma di interventi infrastrutturali, senza alcuna richiesta, discussione in parlamento o mutamento legislativo410. Beck, tuttavia, sostiene che lo Stato nazionale, anche se invecchiato, non è messo completamente fuori gioco, poiché risulta necessario per organizzare politicamente il processo della globalizzazione411. Su tale questione, tuttavia, è difficile condividere l‘opinione di Beck. Lo Stato nazionale, infatti, è il luogo della determinazione spaziale della legge che non riesce più a convivere con la velocità delle concatenazioni sociali globali: ―se il diritto con la sua scala e gerarchia di fonti di legittimazione garantisce spazi e tempi determinati di azione sociale e ruoli definiti all‟interno di un progetto identitario, il nuovo contesto globale esula 407 408 409 410 411 S. Vaccaro, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della mondialità, Milano, Mimesis, 2004, pp. 40-46. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Adelphi, Milano 1991, cap. 1. Schmitt intende come nomos l‘atto originario e costitutivo in senso spaziale, ossia l‘atto di legittimità che conferisce senso alla mera legalità della legge. S. Vaccaro, op. cit., p. 39. Cfr. U. Beck, Che cos‟è la globalizzazione, cit., pp. 16-17. Ivi, p.132. 149 da questo progetto unitario spazio-temporale”.412 La deterritorializzazione delle relazioni economiche le sottrae progressivamente alla verifica delle autorità statali, messe fuori gioco nel controllo delle dinamiche sociali e nella conseguente formulazione di imperativi utili all‘orientamento della vita collettiva. L‘assenza di sanzioni certe in campo internazionale facilita l‘innovazione di pratiche globali da parte di attori extra-statali: la globalizzazione economica si fonda su forme giuridiche ad hoc, discrezionali, chiuse e non trasparenti. Si assiste, così, a processi di privatizzazione del diritto imprenditoriale che affida la composizione del dissidio all‘arbitrato, espresso da partner inclusi nella sfera del non-pubblico. La lex mercatoria attuale, nel risolvere le controversie, garantisce, nel contempo, la segretezza: il risultato è un sistema di giustizia in cui vengono a mancare i caratteri di pubblicità, trasparenza, apertura, equità nei criteri universali. Tale composizione privatistica delle controversie incentiva sempre più le imprese a dislocarsi in un altrove non regolato da norme pubbliche. La delocalizzazione dei segmenti produttivi in zone dove vigono condizioni più remunerative rispetto ai costi fissi di impresa è ormai una costante delle politiche neoliberiste, così come la destatalizzazione dei servizi pubblici413. Il liberismo economico produce, dunque, norme finanziarie al di là del potere e del controllo statale. Tali norme che, di fatto, non sono legittimate da alcun processo democratico e si pongono al di sopra delle costituzioni nazionali, sono perlopiù negoziate in segreto. Negli ultimi anni vengono sempre più stipulati accordi commerciali sovranazionali che rendono estremamente difficoltosa l‘emanazione di leggi nazionali per la protezione dei lavoratori, dei diritti umani e dell‘ambiente. Un esempio significativo è rappresentato dall‘Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization). La Wto può imporre le proprie decisioni per mezzo di sanzioni commerciali, emanate da un tribunale arbitrale che lavora a porte chiuse; per convalidare un arbitrato basta l‘approvazione di un solo paese. Ventinove paesi poveri non hanno un rappresentante permanente nella Wto; talvolta non tutti i paesi vengono invitati agli incontri importanti di cui non si tiene nemmeno un verbale. Non è certo raro, poi, che i voti dei paesi in via di sviluppo vengano comprati con promesse di crediti e vincolati a iniziative di liberalizzazione. Con la fondazione della Wto, nel 1995, entrò in vigore anche l‖Accordo generale sul commercio dei servizi‖ che predispone anche la liberalizzazione dei servizi pubblici. Nell‘ambito di tale Accordo, molte regolamentazioni pubbliche nazionali possono essere interpretate come ostacoli al libero commercio e 412 413 L. Vecchioli, op. cit.,p. 96. S. Vaccaro, op. cit., pp. 39-44. 150 contestate. Le misure in questioni vengono allora sottoposte a un test che valuta quanto sono necessarie; se, tra tutte le misure possibili, non risultano «le meno dannose al commercio», la Wto può costringere gli Stati ad annullarle. Esistono altri tipi di accordi che evidenziano la dipendenza delle politiche nazionali da norme finanziarie sovranazionali. L‘‖Accordo multilaterale sugli investimenti‖ (Multilateral Investment Agreement) è stato concepito per rafforzare i diritti degli investitori delle multinazionali nei confronti degli Stati. Sulla base di tale Accordo, se uno Stato decidesse di innalzare i propri standard ambientali e sociali con misure di miglioramento, aumentando, di conseguenza, i costi per gli investitori, tale Stato potrebbe essere citato davanti al tribunale della Wto. L‘‖Accordo sui diritti di proprietà intellettuale‖ attinenti al commercio, entrato in vigore nel 1995, regola diversi strumenti quali i diritti d‘autore, i marchi, i brevetti. Per i paesi in via di sviluppo, una rigorosa protezione di questi strumenti, significa che le nuove tecniche non possono essere imitate a basso costo. Ciò implica, ad es., che i farmaci brevettati costano sino a trenta volte di più dei farmaci generici con cui si potrebbero curare, senza eccessive spese, malattie come l‘aids. Analogamente i brevetti delle multinazionali agrochimiche monopolizzano il mercato agrario: l‘utilizzo di sementi brevettate impedisce ai coltivatori di conservare o ripiantare semi provenienti dal proprio raccolto. Secondo la sottocommissione dell‘ONU per la promozione e la protezione dei diritti umani, tale Accordo sui diritti di proprietà è in conflitto con il diritto alla salute, all‘alimentazione nonché con il diritto di godere del progresso scientifico. A manovrare i processi della Wto sono i rappresentanti delle grandi banche e dei grandi gruppi industriali mondiali. Se non ci fosse nulla da obiettare al fatto che gruppi di interesse cerchino di imporre le loro priorità alla politica, diventa, invece, criticabile la consuetudine per cui gli accordi tra lobby avvengano in sordina e spesso incoraggiati da episodi di corruzione. La politica riesce ad opporsi con grande fatica allo strapotere economico di queste lobby finanziarie, soprattutto quando queste minacciano apertamente la soppressione di posti di lavoro nel caso in cui un governo decida di non agire a loro favore. L‘American Chamber of Commerce (AMCHAM), ad es., ha richiesto al Consiglio dell‘Unione Europea di collaborare maggiormente con gli USA soprattutto nel settore della biotecnologia e dell‘ambiente; tra i suoi membri più influenti l‘AMCHAM annovera CocaCola, Ford, General Motors, Kraft, Nike, Procter & Gamble, ecc. Tutti i più rinomati gruppi farmaceutici appartengono, invece, alla European Federation of Pharmaceutical Industry Associations che si adopera per ottenere dalla politica una diminuzione delle leggi e dei 151 vincoli che tutelano il lancio di nuovi farmaci sul mercato. La liberalizzazione del commercio e la privatizzazione dei pubblici servizi sono, invece, l‘obiettivo fondamentale dell‘European roundtable of industrialist che riunisce, fra gli altri, Nestlè, Shell, Siemens, Unilever, Bayer. Il Consiglio degli Stati Uniti per gli Affari Internazionali (US Council on International Business) ha, invece, sostenuto il rifiuto di Bush al Protocollo di Kyoto e si occupa di far in modo che la libertà di investimento rimanga una priorità nel Wto. La liberalizzazione di tutti i servizi, incluse la sanità e l‘istruzione, è promossa dall‘Unione USA delle Industrie e dei Servizi (US Coalition of Service Industries), ritenuta una delle lobby più influenti al mondo414. E‘ proprio in relazione a queste istanze, del ―più mercato, meno stato‖, che ci si pone la domanda se, in realtà, questo sia un vantaggio effettivo per il mercato delle libertà, così come sempre più spesso si afferma. “La tesi è che per garantire agli individui eguali libertà di agire è necessario garantire loro l‟eguaglianza nel possesso o nel godimento dei beni materiali.…. (uno spazio in cui eseguire l‟azione; eventualmente altri beni), non è possibile garantire a qualcuno la libertà di compiere una qualsiasi azione senza garantirgli la libertà di usare determinati beni, cioè i beni necessari per compiere quell‟azione.”415 E‘ cioè possibile? Ed eventualmente come agire in difesa delle libertà in condizioni di mercato? O meglio ancora, è vero che ponendo limiti alla libertà di mercato pongo limiti alla libertà di agire degli individui? Ovviamente, appare evidente che questo non è vero, proprio sulla base delle due maggiori tendenze nel settore, che vedono da una parte chi sostiene che le libertà individuali crescono quando diminuiscono le limitazioni poste al mercato e dall‘altra, chi tiene distinta la questione delle libertà individuali da quella del modello economico adottato (mercato) dalla società. Appare così, da subito, che il modello economico incide fortemente sull‘attività posta in essere dal genere umano e riflette condizioni reali di vita che non possono non risentire del modello economico adottato, tanto che possiamo identificarci in quanto afferma il Diciotti nel suo testo “La mia conclusione è infatti che ogni libertà negativa dipenda logicamente dall‟organizzazione economica della società e che in una società di mercato non vi sia alcuna libertà negativa che possa essere garantita (non la libertà di circolazione, né quella di manifestazione del pensiero, né un‟altra qualsiasi), a meno che la sfera del mercato sia adeguatamente limitata.”416 Non solo, alla luce delle nuove istanze, non appare, invero, totalmente destituita di 414 415 416 K. Werner, H. Weiss, I crimini delle multinazionali, Newton Compton, Roma 2010, pp. 193-203. E. Diciotti, Il mercato delle libertà, ed. Il Mulino, Bologna 2006, p. 7 Ivi, p. 8 152 fondamento l‘affermazione per cui la distinzione, “…diffusa nella teoria del diritto e nella teoria politica, tra diritti di libertà e diritti sociali […] sia infondata, perché tra questi diritti non vi è alcuna delle differenze che molti hanno creduto di individuare. In particolare, si può notare che la gran parte dei cosiddetti diritti di libertà non è distinguibile dalla gran parte dei cosiddetti diritti sociali sotto il profilo della struttura, poiché tutti questi diritti sono indistintamente diritti di far uso di beni, cioè libertà negative. Lo sono, tranne alcune eccezioni, i diritti di libertà; ad esempio, non potrebbe essere garantito il diritto di circolare liberamente sul territorio nazionale se non vi fossero strade pubbliche, accessibili a tutti. E lo sono, tranne alcune eccezioni, anche i diritti sociali: ad esempio, garantire cure gratuite agli indigenti significa (anche) garantire loro farmaci, letti di ospedale, apparecchiature mediche. Ma più in generale si può asserire che per garantire sia i diritti di libertà sia i diritti sociali (o almeno la gran parte degli uni e degli altri) sono necessari <beni e risorse comuni>, cioè sottratti alla sfera del mercato.”417 Questi sono solo alcuni dei problemi posti dalla globalizzazione, ammesso che sia logico parlarne come di un fenomeno principalmente economico. Non possiamo dimenticare, infatti, che tale processo risulta assai difficile da definire in termini completi ed esaurienti, in quanto investe molteplici aspetti dell‘esistenza umana e del mondo contemporaneo: dalla comunicazione alla cultura, dalle risorse energetiche al clima, dall‘economia all‘ordinamento giuridico. Quello che da una parte ci terrorizza, dall‘altro infonde speranza e cioè che, tutti questi aspetti siano riassumibili e rintracciabili in un solo elemento di questa nostra esistenza: l‘uomo.418 417 418 Ibidem. Non può non essere citato Noam Chomsky nel suo testo Global empire, ed. Datanews, Roma 2005, pp. 17 - 18: ―Globalizzazione è un termine della propaganda e non dovremmo usarlo mai. C‟è un significato tecnico della parola globalizzazione, che vuole dire <<integrazione internazionale>>. Questa può assumere ogni forma. Infatti, se usiamo globalizzazione in questo senso tecnico e neutro di integrazione internazionale, allora i principali fautori della globalizzazione sono stati storicamente i movimenti dei lavoratori e il movimento operaio. Ecco perché ogni organizzazione sindacale è definita <<internazionale>>. Certamente, non sono organizzazioni internazionali, ma è quello che si sono sforzate di essere. Nel corso della storia ci sono stati vari tentativi falliti di sviluppare un‟Internazionale dei lavoratori, ma l‟idea di un‟integrazione internazionale al livello delle persone è l‟ideale della sinistra e dei movimenti dei lavoratori fin dalla loro origine. In modo molto interessante ora, per la prima volta da anni, ci sono germi concreti di quella che potrebbe essere la prima significativa globalizzazione nella storia, cioè il World Social Forum e le sue derivazioni regionali e locali, nonché i vari movimenti locali e regionali che parzialmente si integrano in quella struttura; questa è la reale globalizzazione. Riunisce persone da molti paesi differenti, principalmente dal Sud del mondo, dove si trova la maggior parte dell‟attivismo e della vitalità, ma sempre più anche dal Nord – lavoratori, ecologisti, femministe, movimento pacifista – una vasta gamma di interessi e un‟ampia varietà di persone.[…] Ecco cos‟è la globalizzazione; ma non è denominata globalizzazione perché è a favore delle persone, e le persone sono del tutto irrilevanti e secondarie per il sistema di potere. Ciò che è chiamato globalizzazione è l‟integrazione delle multinazionali e degli interessi degli investitori istituzionali, delle banche… e di pochi Stati come i G3 (Germania, Giappone e Stati Uniti), che fondamentalmente provvedono a tali interessi. Tutto questo è definito globalizzazione; ma si tratta soltanto di propaganda, proprio come è propaganda il termine <<libero scambio>>.” 153 3. Democrazia, diritti ignorati e violenza nella celebrazione della società delle scelte Le scelte individuali avvengono entro una cornice limitata da due serie di vincoli: l‘agenda delle opzioni e il codice di scelta. Mentre la prima presenta la gamma delle alternative realmente offerte, il secondo mostra le regole sulla cui base dovrebbe essere espressa una preferenza piuttosto che un‘altra. Tradizionalmente la legislazione era lo strumento principale per definire l‘agenda delle opzioni, mentre il codice di scelta era guidato dall‘educazione. La politica, tuttavia, sta ridimensionando, se non proprio abbandonando, il proprio ruolo nella definizione dell‘agenda e del codice, ceduti progressivamente e inesorabilmente a forze non politiche. Oggi chi detta l‘agenda e il codice delle scelte è il mercato. Sono le forze finanziarie e commerciali che decidono quali nuovi desideri fabbricare e far comparire, in modo da spingere gli individui a inseguire il loro soddisfacimento (decisamente fittizio ed indotto) per riconoscere a se stessi una vita degna e realizzata. Il codice proposto induce a considerare il mondo come un contenitore di potenziali oggetti di consumo, resi assolutamente desiderabili da pubblicità e mass-media. Nell‘attività di ricerca orientata all‘oggetto, al suo possesso e al suo godimento, l‘individuo è concentrato egocentricamente solo sull‘appagamento che potrà ricevere nel breve periodo, del tutto incurante dei suoi effetti a lungo termine o delle eventuali ripercussioni sugli altri. I piaceri così esperiti sono privati, effimeri, non condivisibili, vissuti nell‘ambito di una comunità in disfacimento, frammentata in singole unità tese alla realizzazione dei propri desideri419. L‘individuo si è così trasformato da cittadino politico in consumatore. Secondo l‘analisi di Bauman l‘homo consumens può scegliere fra opzioni diverse, ma non può fare a meno di scegliere: tutte le cose che compriamo ci richiedono di prendere delle decisioni, benché in realtà non possiamo esercitare alcun controllo ex ante sulle cose fra cui scegliamo. Scelta e libertà nella cultura del consumatore sono sinonimi, nel senso che si può fare a meno di scegliere soltanto nella misura in cui si rinuncia alla propria libertà420. L‘obbligo di scegliere si presenta come libertà di scelta. In questo modo viene superata l‘opposizione tra principio di realtà e principio di piacere: la sottomissione alle dure ingiunzioni della realtà può essere sentita come un esercizio di libertà e un atto di autoaffermazione421. La vita del consumatore non si riduce all‘acquisto e al possesso di qualcosa, ma è contraddistinta dal «continuo movimento». Il consumatore soddisfatto, in 419 420 421 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 78-84. Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Gardolo 2007, pp. 18-19. Ivi,p. 47. 154 questa prospettiva, è una catastrofe, poiché se fosse veramente soddisfatto smetterebbe di cercare, non avrebbe più nulla da desiderare: la completa soddisfazione dei bisogni comporterebbe la stagnazione economica.422 La società dei consumatori aspira alla gratificazione dei desideri più di qualsiasi altro tipo di società del passato, ma tale gratificazione deve rimanere una promessa. L‘homo consumens, dunque, vive non solo nell‘insoddisfazione permanente, ma anche nell‘isolamento. Bauman, infatti, sostiene che la società dei consumatori non è formata da gruppi, ma da sciami in cui ―le società dei consumatori tendono verso la disgregazione dei gruppi a vantaggio della formazione di sciami perché il consumo è un‟attività solitaria (è perfino l‟archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia. Essa non stimola la formazione di legami durevoli, ma solo di legami che durano il tempo dell‟atto di consumo. Questi legami posso mantenere unito lo sciame per la durata del volo (cioè fino al prossimo cambio di obiettivo), ma rimangono del tutto occasionali e superficiali; non hanno alcuna influenza sui movimenti futuri dello sciame e non proiettano alcuna luce sul passato dei suoi componenti”423. Gli uomini sono ciò che comprano o che sono in grado di comprare: il potere d‘acquisto diventa la linea discriminante che separa i consumatori da coloro che sono esclusi ed emarginati dal circuito del consumo e, quindi, dal consesso sociale424. La libertà di scelta si esaurisce e si confonde con la conformità al mercato. Secondo Beck l‘individualizzazione comporta dipendenza dal mercato in tutte le dimensioni della vita sia in termini di consumi di massa, ma anche di opinioni, orientamenti 422 423 424 Ivi, p. 24. Ivi, pp. 48-50. Peraltro, il consumo individuale è visto da Bauman come comune ai partecipanti in grado di avere un potere d‘acquisto, ovviamente in rapporto alla loro capacità effettiva di spesa. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, Salani Editore, Milano 2010, pp. 10-11: “Una nuova classe globale sta così emergendo <<con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e un isola privata ai Caraibi>>. Il paradosso è che i membri di questa classe globale <<cenano in privato, fanno shopping in privato, fruiscono arte in privato, ogni cosa è privata, privata, privata>>. Si stanno creando un ambiente vitale proprio per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay:<<le famiglie ricche non possono iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari>>. Allora quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficenza (protezione dell‟ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo, ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata – facendo trekking in Patagonia o nuotando nell‟acqua trasparente delle loro isole private. Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell‟atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri di avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé. Le priorità maggiori degli << ultrahigh-net-worth individuals>> sono quindi minimizzare i rischi – malattie, esposizione alle minacce di crimine violento e così via […] Nella Cina contemporanea, il nuovo ricco si è costruito delle comunità isolate modellate sull‟immagine idealizzata delle <<tipiche>> città occidentali, vicino Shanghai, ad esempio, esiste una replica <<reale>> di una piccola cittadine inglese, compresa una via principale con pub, una chiesa anglicana, un supermercato Sainsbuty ecc.; l‟intera area è isolata da ciò che la circonda da una cupola invisibile, ma non meno reale. Non esiste più una gerarchia tra gruppi sociali che vivono nella stessa nazione, coloro che risiedono in queste città vivono in un universo per il quale, all‟interno del suo immaginario ideologico, il mondo circostante di <<classe inferiore>> semplicemente non esiste. 155 e stili di vita promossi dai mass-media. I modelli biografici diventano standardizzati, ossia configurabili istituzionalmente: entrata e uscita dal sistema formativo e dal lavoro retribuito, età del pensionamento, ma anche orari scolastici e tempi di lavoro su base giornaliera sono strutturati istituzionalmente. Le biografie diventano, al contempo, auto-riflessive: la biografia prescritta socialmente si trasforma nella biografia che è e continua a essere auto-prodotta. In altri termini, «proprio i fattori mediante i quali si realizza un‘individualizzazione sono quelli che producono anche una standardizzazione». L‘individuo, secondo Beck, dovrebbe imparare a concepire se stesso come una sorta di «ufficio-pianificazione» che agisce in merito alle proprie capacità, ai propri orientamenti, alle proprie relazioni. In questa prospettiva, per evitare possibili condizioni di svantaggio, l‘individuo dovrebbe essere in grado di manipolare individualmente la società come una ―variabile‖ nell‘ambito di un modello dinamico di azione per la vita quotidiana425. Risulta, tuttavia, evidente che in questa prospettiva il singolo è costretto a sopportare il proprio ruolo individuale. L‘individuo viene, da un lato, sottratto ai vincoli tradizionali, ma, dall‘altro lato, subisce le costrizioni del mercato del lavoro e dell‘esistenza da consumatore. Secondo Laura Vecchioli, “l‟equivoco analitico sociologico, ma innanzitutto teoretico-interpretativo di Beck, è che l‟individuo standardizzato e non autonomo è anche contemporaneamente l‟imprenditore di se stesso.”426 L‘individualità coatta, come nota Menghi, va così a coincidere con la non-libertà: “ciò che ci ostiniamo a chiamare singolo, individuo, è un tutto squalificato o indeterminato ed è individualizzato in quanto omologato in massmedialità automatiche di rinvio, mai centro, mai fonte, mai io”. L‘individualizzazione, secondo Menghi, sembra piuttosto equivalere ai «modi di una personalizzazione iscritta negli standards omologati/omologanti». In altri termini, l‘individuo può essere indotto solo a ―scegliere‖ tra gli standards della produzione i microstandards specifici delle personalizzazioni (ad esempio gli optionals nelle auto) ed essere indotto a ritenere che in queste personalizzazioni si espliciti la propria libertà di scelta. Quelle che definiamo scelte, dunque, altro non sono che coazioni all‘individualità rappresentate da criteri economici di produzione a cui necessariamente aderire per poter accedere a nicchie privilegiate di mercato: la scelta, dunque, altro non è che “un residuale irrilevante tra le opzioni del desiderio, tra gli interstizi della velocità.” Il desiderio di consumi si moltiplica, infatti, in una vertiginosa iperdromia, sempre 425 426 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, cap. 5, pp. 185-198. L. Vecchioli, op. cit., p. 148. 156 più illimitato e incontinente, al punto da divenire, nella sua pura rappresentazione neoliberista, desiderio di desiderio427. Nessuno può realmente dissociarsi da tale etero condizionamento, nessuna vita può costituire un‘eccezione: la virtualità del desiderio è portata a livelli sempre più alti, tra le opzioni delle scelte obbligate, sino ad arrivare all‘indebitamento che rappresenta l‘autentico correlato della coazione del desiderio. Con la globalizzazione si colonizzano nuovi lavoratori e nuove anime desideranti laddove, nel sud del mondo, esistono ancora masse di bisogno da integrare nel circuito del desiderio e dell‘indebitamento428. A parere di Baldassarre, il processo di globalizzazione mette in discussione l‘idea dell‘homo democraticus, l‘uomo universale portatore di diritti umani, postulato dalle moderne rivoluzioni borghesi, ma anche l‘idea di civitas, cioè l‘idea della comunità politica volta al bene comune429. L‘uomo democratico è l‘uomo ragionevole di John Locke, l‘uomo della tolleranza, del rispetto dei diritti altrui, aperto al dialogo e al confronto con i suoi simili. L‘uomo democratico è libero-uguale nel senso che mentre è portatore originario della propria libertà individuale, accetta, per converso, significative correzioni a tale libertà a favore di persone socialmente più svantaggiate secondo criteri di giustizia sociale. L‘avvento della globalizzazione ha comportato una specie di scissione dell‘uomo democratico: mentre i geni della libertà individuale sono stati catturati dal livello globale, quelli che informano la solidarietà sono rimasti ancorati al livello statale/locale. La separazione della libertà individuale dai restanti valori della personalità umana contraddice la consolidata idea che la democrazia derivi dalla sintesi dei principi di libertà e di eguaglianza. L‘uomo globale è, dunque, la personificazione della libertà priva di qualsiasi legame sociale. La globalizzazione porta con sé un rovesciamento della radice classica dell‘uomo moderno e della stessa democrazia che è sempre consistita nella superiorità dei valori universali sulla strumentalità della vita. Con la globalizzazione la strumentalità e l‘economia divengono i valori, cioè i parametri di riferimento e di giustificazione rispetto a ogni altro ambito della vita umana. Nel momento in cui entra in una società globale, l‘uomo è costretto a rinunciare ai suoi legami sociali. Come portatore di libertà individuale appartiene a pieno titolo alla società globale, come persona sottoposta ai principi e ai vincoli della solidarietà e della giustizia sociale, egli non oltrepassa il limite comunitario-statale. L‘immagine di uomo delineata dalla globalizzazione è la sublimazione del 427 428 429 C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., pp. 23-27. Ivi, pp. 58-62. A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., p. 329. 157 capitalista, o meglio la proiezione della persona colonizzata dal sistema economico dominante: l‘homo oeconomicus, per cui ogni altro uomo è visto come strumento per l‘acquisizione di maggiori utilità430. Oggi si tende alla privatizzazione dei mezzi per assicurare, tutelare e garantire la libertà individuale la cui limitazione, in qualsiasi forma, è considerata off-limits; libertà che, invece, secondo Bauman, dovrebbe essere più correttamente intesa come prodotto di un impegno collettivo. Occorrerebbe, cioè, recuperare l‘arte di trasformare i problemi privati in questioni pubbliche, nell‘ambito di una agorà che sia, al contempo, spazio pubblico e privato in cui l‘uomo occidentale possa pensare e vivere sofferenze private come problemi comuni e condivisi431. L‘alleanza mercato/democrazia si fonda, dunque, sulla difesa e l‘esaltazione della libertà individuale, a scapito degli altri valori quali la giustizia e la solidarietà. Nessuno, in questo contesto, ha più ragione di rispettare impegni che minerebbero la propria libertà: tutto, quindi, diventa provvisorio, precario, all‘insegna dell‘urgenza e dell‘impazienza. “Per ciò che riguarda il consumo, questo nuovo spirito è quello del cosiddetto <<capitalismo culturale>>: noi compriamo merci essenzialmente non in considerazione della loro utilità o come uno status symbol; le compriamo per fruire dell‟esperienza che esse procurano, le consumiamo per rendere le nostre vite piacevoli e dotate di senso. Questa triade non può fare a meno di evocare la triade lacaniana RSI: il Reale dell‟utilità diretta (cibo buono e sano, la qualità di una macchina ecc.), il Simbolico dello status (compro una certa macchina per segnalare il mio status: la prospettiva di Thorstein Veblen), l‟Immaginario dell‟esperienza piacevole e significativa. Nella distopia di Paul Verhoeven <<Atto Di Forza>>, un‟agenzia offre di innestare nel cervello i ricordi di una vacanza ideale. Non c‟è più nemmeno bisogno di viaggiare veramente in un‟altro luogo, è molto più pratico ed economico ottenere semplicemente i ricordi del viaggio. Un‟altra versione dello stesso principio consisterebbe nel vivere la vacanza desiderata nella realtà virtuale; […]”432 Ciascuno cerca di trarre il massimo il più rapidamente possibile, senza alcuna preoccupazione o senso di lealtà verso le generazioni future: «l‟apologia della libertà individuale fa così della slealtà e dell‟avidità dei valori accettabili, distrugge la stabilità delle occupazioni e del diritto e contrasta l‟altruismo»433. Ognuno è potenzialmente in esubero o sostituibile e, quindi, ognuno, in qualsiasi 430 431 432 433 Ib., pp. 154-159. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit..p. 98-111 S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., pp. 70 - 71 J. Attali, La crisi, e poi?, Fazi, Roma 2009, pp. 109-110. 158 posizione sociale, per quanto elevata e potente possa sembrare, è vulnerabile. Nell‘economia politica dell‘incertezza anche i privilegi sono fragili e il contatto con il presente, indispensabile alla capacità di progettazione del futuro, si rivela un tratto ampiamente assente.434 Povertà e disoccupazione seguono sempre meno gli stereotipi di classe e diventano sempre più difficilmente prevedibili. Anche uno sfratto, una malattia improvvisa, un divorzio costituiscono cause che possono inaspettatamente far precipitare nella voragine della miseria. Nelle forme di esistenza individualizzate gli uomini devono ascrivere a se stessi come destino personale ciò che prima veniva elaborato come destino comune di classe, vale a dire il fallimento individuale, e spesso venirne a capo da soli. Come è possibile la giustizia sociale nell‘era globale? Secondo Beck non esiste per ora risposta, sebbene sia senz‘altro da sottolineare il paradosso della politica sociale nell‘era della globalizzazione: “lo sviluppo economico si sottrae alla politica nazional-statale, mentre i problemi che ne conseguono si raccolgono nelle reti dello Stato nazionale.”435 Occorre, dunque, domandarsi, con le parole di Zizek, ―Che tipo di universo è quello in cui viviamo, che può autocelebrarsi come una società delle scelte ma in cui la sola alternativa possibile a un consenso democratico coatto è un cieco agire? (...) A cosa serve la nostra tanto decantata libertà di scelta quando l‟unica scelta è quella tra il rispetto delle regole e una violenza (auto)distruttiva?”436 Il riferimento è ai tumulti scoppiati nell‘autunno del 2005 nelle banlieu parigine. Secondo Zizek, l‘opposizione al sistema, in mancanza di alternative realistiche, può prendere soltanto la forma di un‘esplosione di violenza senza senso: i dimostranti parigini non avevano alcun progetto o rivendicazione da sostenere, semplicemente cercavano quella visibilità e quel riconoscimento che sentivano sistematicamente negati dallo stato francese. La loro violenza era diretta principalmente contro ciò che era loro: scuole, edifici, automobili e beni acquistati a prezzo di grandi sacrifici da quegli stessi strati di popolazione a cui appartenevano i dimostranti. I tumulti di Parigi, secondo Zizek, vanno di pari passo con gli attacchi terroristici e i suicidi. In entrambi i casi la violenza è ―un‟ammissione implicita di impotenza‖; in entrambi i casi, violenza e reazione alla violenza finiscono in un mortale circolo vizioso in cui ciascuna di esse genera quelle stesse forze che tenta di combattere. L‘unica differenza risiede nel fatto che, mentre la rivolta delle banlieu è un‘esplosione cieca di violenza, gli attacchi terroristici del fondamentalismo islamico sono compiuti in nome di quel significato 434 435 436 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., pp. 172-176. U. Beck, Che cos‟è la globalizzazione, cit., pp. 180-184. S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 80. 159 assoluto che è fornito dalla religione.437 La soggezione subita viene camuffata, dunque, da libera scelta: ―la nostra libertà di scelta funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento.” Quella stessa libertà di scelta che, a parere di Zizek, viene evocata quando si tratta di chiudere gli occhi di fronte all‘oppressione e allo sfruttamento altrui, in nome del rispetto per la cultura dell‘Altro. Ciò significa che dovremmo evocare e accettare anche gli aspetti più perversi di tale libertà: per quanto, ad esempio, ci possa sembrare deplorabile e ripugnante l‘usanza di alcuni popoli di bruciare le loro vedove, in nome della ―libertà di scelta‖, per coerenza, dovremmo rispettare tale usanza438. Gli economisti liberali enfatizzano la libertà di scelta come ingrediente chiave dell‘economia di mercato. Tuttavia, secondo Zizek, l‘ingiunzione a scegliere ci coglie anche se non siamo in possesso delle coordinate cognitive di base necessarie a compiere una scelta razionale: essere costretti a prendere delle decisioni, in una situazione che rimane opaca, è la nostra condizione di base. La situazione standard è quella in cui sono libero di scegliere a condizione che io faccia la scelta giusta, cosicché la sola cosa che mi rimane da fare è compiere il gesto vuoto di far finta di fare liberamente ciò che il sapere degli esperti mi ha imposto; tuttavia, aggiunge Zizek, ―se, invece, la scelta fosse realmente libera e fosse percepita, per questa stessa ragione, come ancora più frustante?”439 Così ci ritroviamo costantemente nella posizione di dover decidere rispetto a questioni che toccheranno in modo fondamentale le nostre vite, ma senza una base di conoscenza adeguata. Le tecnologie cambiano le nostre vite continuamente, tutto è provvisorio, non possiamo più appellarci alle tradizioni del passato, ma, nello stesso tempo, non sappiamo ciò che il futuro ha in serbo per noi. Siamo, dunque, costretti a vivere come se fossimo liberi. Zizek ricorda come già l‘esistenzialismo aveva legato alla libertà radicale l‘angoscia esistenziale, non cogliendo, tuttavia, ciò che il capitalismo ha, invece, compreso anche troppo chiaramente. L‘ideologia egemonica, infatti, non si preoccupa più di reprimere la mancanza di un‘identità fissa, ma, anzi, ―mobilita direttamente questa mancanza per alimentare il processo senza fine della “ri-creazione-di-sé” consumista.”440 Il liberalismo si mostra intollerante quando a individui appartenenti ad altre culture non viene concessa la libertà di scelta, come risulta evidente riguardo a questioni attinenti in specifico le donne, quali la clitoridectomia, la poligamia, l‘incesto, l‘infanticidio, le spose bambine; tranne, poi, ignorare la tremenda pressione che, ad esempio, costringe le donne 437 438 439 440 Ivi, pp. 78-85. Ivi, pp.150-151. S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., pp. 83. Ivi, pp. 82-85. 160 stesse a sottoporsi a interventi di chirurgia plastica, trattamenti cosmetici e iniezioni di botulino per restare giovani e desiderabili sessualmente. Nel ricco Occidente, infatti, la donna è ―libera di scegliere‖ tra un doloroso intervento di chirurgia estetica o la non appartenenza alle categorie estetiche, imposte e omologate massmediaticamente, della bellezza e giovinezza ad oltranza. Il liberalismo porta in sé il dominio maschile: le principali categorie liberali (autonomia, attività pubblica, competizione) sono connotate da una impronta maschile che relega le donne alla sfera privata della solidarietà familiare441. Il dominio maschile finisce col porre le donne in uno stato permanente di insicurezza corporea o, meglio, di alienazione simbolica. Come nota Pierre Bourdieu, «le donne esistono innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri, cioè in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili». La probabilità di vivere il corpo nel disagio o nella vergogna è tanto più forte quanto maggiore è la sproporzione tra «il corpo socialmente richiesto» e l‘immagine del corpo che si rispecchia nelle reazioni altrui. Continuamente sotto lo sguardo degli altri, le donne sono condannate a provare costantemente lo scarto tra il corpo reale, cui sono incatenate, e il corpo ideale cui si sforzano senza sosta di avvicinarsi: ―avendo bisogno dello sguardo altrui per costituirsi, esse sono continuamente orientate nella loro pratica dalla valutazione anticipata del prezzo che la loro apparenza corporea, il loro modo di atteggiare il corpo e di presentarlo, si vedrà riconoscere sul mercato dei beni simbolici.”442 E come un bene, la donna andrà consumata e volentieri si presterà a questo, pur di vedersi riconosciuta. Assai difficilmente sarà in grado di opporsi a questo destino, scegliendo altri criteri per auto-riconoscersi ed essere riconosciuta. Allo stesso modo, l‘uomo, necessiterà del modello di successo e dell‘ostentazione di qualcosa che non è, né potrebbe essere, consumando la sua esistenza alla ricerca di quei simboli che lo renderanno accettato ed accettabile da sé stesso come uomo di successo. Questa disperata ricerca della forma, del realizzarsi continua perché tutto è possibile, sarà sostitutiva dell‘effettiva sostanza e costringerà l‘individuo ad essere sempre pronto, prestante, desiderabile, se non giovane, giovanile fino alle soglie di una vecchiaia ammantata di sola anzianità, eliminando anche il tempo che non sia utile al mercato. Pienamente comprensibile è, dunque, lo straordinario successo contemporaneo della chirurgia estetica che non serve più a rimuovere un difetto, ma, con le esaustive parole di Bauman, «a mantenerci al passo con i cambiamenti degli standard estetici; a preservare il nostro valore di mercato; a scartare ogni immagine ormai priva di fascino o di utilità, per 441 442 S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 147-148. P. Bourdieu, Il dominio maschile, cit., pp. 79-81. 161 rimpiazzarla con una nuova immagine pubblica»443. Decidere di scegliere altro rispetto alle possibili opzioni determinate dal mercato, che dovrebbero esaurire e appagare la nostra apparente libertà di scelta, decidere di rifiutare le regole decretate dalla società delle scelte, significa porsi al di fuori del contesto cosiddetto civile, in una situazione di scontro e di ribellione. Scrivono Hardt e Negri che ―Le forze creative della moltitudine che sostengono l‟Impero sono in grado di costruire autonomamente un contro Impero, un‟organizzazione politica alternativa dei flussi e degli scambi globali. Le lotte volte a contestare e sovvertire l‟Impero, così come quelle tese a costruire una reale alternativa, si svolgeranno sullo stesso terreno imperiale – in realtà, queste nuove lotte hanno già iniziato a emergere. Attraverso queste e altri tipi di lotte, la moltitudine sarà chiamata a inventare nuove forme di democrazia e un nuovo potere costituente che, un giorno, ci condurrà, attraverso l‟Impero, fino al suo superamento.”444 E‘ alla moltitudine che si aprono gli spazi per un‘alternativa all‘Impero. La moltitudine è l‘insieme degli sfruttati e dei sottomessi che si presenta come soggetto politico ed è direttamente, senza mediazione alcuna possibile, contro l‘Impero. Le azioni della moltitudine diventano politiche quando si confrontano direttamente con le operazioni repressive dell‘Impero: ―si tratta di identificare e affrontare le iniziative dell‟Impero impedendo che continuino a ristabilire l‟ordine; si tratta di attraversare e distruggere i limiti e le segmentazioni imposte alla nuova forza lavoro collettiva, si tratta di collegare le esperienze di resistenza e di orchestrarle contro i centri nevralgici del comando imperiale.”445 Gli Autori precisano che non sono ancora chiare le pratiche specifiche e concrete che animeranno tale progetto politico; tuttavia, una prima istanza senz‘altro da avanzare è quella della «cittadinanza globale» che collega il diritto al lavoro e ricompensa il lavoratore che crea il capitale. A fronte di crescenti migrazioni richieste proprio dal capitalismo, è opportuno che tale dato di fatto della produzione sia riconosciuto giuridicamente: ―la moltitudine deve essere in grado di decidere se, quando e dove muoversi”446, contro ogni avversa dinamica globale che preveda restrizioni dei flussi e particolari requisiti normativi per l‘accesso al mondo del lavoro. Tale richiesta rappresenta un‘istanza radicale poiché sfida il dispositivo centrale del controllo imperiale sulla produzione e la vita della moltitudine. 443 444 445 446 Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Gardolo 2007, p. 29. M. Hardt, A. Negri, op. cit., p. 17. Ibidem. Ibidem. 162 Una seconda istanza politica programmatica della moltitudine è un salario sociale (che consenta cioè, una vita non ridotta ai minimi di sopravvivenza) e un reddito garantito per tutti. Esso riguarda anche coloro che non sono occupati, ―poiché è l‟intera moltitudine a produrre e la sua produzione è necessaria al capitale sociale complessivo”447: si tratta, dunque, di un reddito di cittadinanza dovuto a ciascuno in quanto membro della società448. Altra istanza fondamentale riguarda il senso del linguaggio e della comunicazione: tutti gli elementi della corruzione e dello sfruttamento ci vengono imposti dai regimi linguistici449 e comunicativi della produzione: gli Autori sottolineano quindi che ―distruggerli con le parole è altrettanto urgente che distruggerli in pratica.” 450 Quello che già si è, altrove, sostenuto: in pratica, una riconquista del significato e del senso, anche attraverso la riappropriazione formale ed estetica. Zizek sottolinea come spesso si tenda a considerare il linguaggio come strumento di ―mediazione‖ e, quindi, di risoluzione di conflitti, dimenticando come, invece, ad una comunicazione più ampia possa anche corrispondere un tasso più elevato di conflittualità. I valori, i simboli, gli atteggiamenti veicolati attraverso il linguaggio rispondono a codici linguistici diversi, ad esempio nel passaggio tra Oriente ed Occidente. Esiste, nel linguaggio, un ―Significante Dominante‖, che racchiude un intero campo simbolico. E‘ per questo, secondo l‘Autore, che i fumetti danesi con le caricature di Maometto hanno ingenerato una reazione tanto carica di odio: su quelle caricature si è condensato tutto un insieme di frustrazioni e di umiliazioni che non riguardavano l‘ironia nei confronti del Profeta, ma l‘atteggiamento occidentale, imperialista, materialista, edonista, raffrontato all‘Islam e alle sofferenze dei palestinesi.451 Una significativa riflessione sul potere della parola si trova già nei Dialoghi di Platone, laddove il filosofo greco definisce l‘attività politica come un ―dire le cose opportune‖. Un nesso questo, tra parola e potere, successivamente sublimato da Diodoro Siculo, che ritiene la parola uno strumento che ―consente al singolo di prevalere sui molti‖. Nella definizione dello storico, la parte importante è, però, quella implicita, e cioè che la forza della parola deriva dalla tecnica oratoria, rispetto alla quale coloro che hanno un basso livello di alfabetizzazione restano del tutto soggiogati. Tucidide, in seguito, definisce altri elementi importanti, oltre alla parola, per l‘ascesa di un politico: il prestigio sociale, la 447 448 449 450 451 Ibidem. Ivi, pp. 364-373. Cfr. al riguardo Zizek secondo cui esiste una violenza del linguaggio, poco visibile e simbolica, usata per imporre un certo universo di significati: «la violenza verbale non è una distorsione secondaria, ma la risorsa primaria di ogni violenza specificamente umana»: S. Zizek, La violenza invisibile, cit, pp. 62-77. M. Hardt, A. Negri, op. cit. S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 64 – 66. 163 capacità e preparazione intellettuale e, soprattutto, il consenso popolare. Demostene, nel secolo successivo, va oltre, e giunge ad affermare che il consenso del popolo può essere ottenuto facilmente da chi è corrotto, perché costui è sicuramente ricco e, quindi, potente, caratteristiche, queste, che lo rendono ammirato e spingono gli altri ad imitarlo. Persino la corruzione e la volgarità diventano, quindi, in qualche modo, attraenti, accattivanti, come ci ricorda Zizek nel caso di Silvio Berlusconi: ―Ciò su cui scommettono le indecenti volgarità di Berlusconi è, ovviamente, che le persone si identificheranno con lui, dal momento che egli incarna o interpreta l‟immagine mitica dell‟italiano medio: <<Sono uno di voi, un po‟ corrotto, con qualche problema con la legge, sto rompendo con mia moglie perché sono attratto da altre donne…>>‖452 L‘arte oratoria, certo, oggi conta molto meno, sostituita da altri mezzi, ben più potenti: ―ormai la parola pubblica è morta, sostituita da un potentissimo elettrodomestico. Chi lo possiede – per dirla con De Gasperi – <<vince le elezioni>>.‖453 Con questo commento all‘indomani dal suo ritorno dagli Usa, lo statista italiano ha voluto evidenziare come, orientando la pubblicità, con quel suo continuo replicare, fino all‘ossessione, concetti e parole, fosse possibile promuovere modelli e valori, giungendo a plasmare la coscienza popolare. E‘ proprio quello che è successo in Italia, quarant‘anni dopo, quando un potentato mediatico che controllava quasi totalmente la Tv commerciale è riuscito, con un‘abile manipolazione della realtà, utilizzando ad arte fiction e spot pubblicitari, e livellando verso il basso, quindi, la programmazione televisiva, a crearsi un‘ampia base popolare di consensi e a consolidare il proprio potere. E‘ quello che Luciano Canfora definisce una nuova forma di fascismo, una ―nuova spinta all‟<unificazione al ribasso>, che del fascismo fu il tratto dominante‖ e che ha ―in comune col vecchio fascismo […] il <monopolio della parola> (ormai <<parola>> essendo appunto quella monologante televisiva).‖454 Del resto, la manipolazione della realtà non è certo un‘esclusiva degli italiani, anzi, è un‘arte in cui gli americani sono maestri: la spettacolarizzazione delle notizie, l‘invenzione di minacce nei confronti del Paese è ormai propedeutica alla giustificazione delle immani spese belliche che gli Usa affrontano annualmente. Emblematica, al riguardo, l‘invenzione delle armi di distruzione di massa nascoste da Saddam Hussein in un bunker sotterraneo, su cui si è fondata l‘invasione dell‘Iraq, decretata di concerto tra governo e vertici dell‘industria militare statunitense. In questo caso ―ci troviamo di fronte al classico esempio 452 453 454 S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., p. 67. L Canfora, La natura del potere, Laterza, Bari 2010, p. 73. Ivi, p.80. 164 di una minoranza coesa che impone il suo punto di vista a una maggioranza disorganizzata, a dispetto delle procedure e delle garanzie di un sistema democratico.‖455 E per forgiare l‘opinione pubblica, per creare questo grande inganno, questa mistificazione della realtà, non bastano i quotidiani, le riviste, i telegiornali: si ricorre ad Hollywood, ai più grossi nomi dell‘industria cinematografica americana, incaricati di produrre e distribuire film di guerra nei quali, invariabilmente, i soldati americani (ed occidentali in genere) vengono dipinti come ―i buoni‖, che lottano a difesa della libertà e della giustizia contro ―i cattivi‖. Allo stesso modo in cui, nella prima metà del XXI secolo, è stata raccontata l‘epopea americana attraverso il genere western, nel quale, invariabilmente, gli indiani (dei quali è stata ampiamente argomentata, nel par. 4 del Capitolo I, la storia) sono stati stigmatizzati come selvaggi violenti, sanguinari ed aggressivi, meritevoli, quindi, di essere ridotti al silenzio. Come dire che esiste una violenza ―buona‖ ed una ―cattiva‖: la violenza è violenza, e in quanto tale non deve mai essere giustificata, nemmeno nella sua accezione di ―aggressione‖ o di ―lotta‖, che sono comunque aspetti della vita. Perché un eccesso di aggressione, anche nel caso in cui si lotti per la propria indipendenza, porta in ogni caso ad appropriarsi di qualcosa, spinge a desiderare sempre di più potere e proprietà. ―Da principio, gli individui cercano il potere per non essere dominati dagli altri. Ma se non stanno attenti, possono presto trovarsi a oltrepassare il limite oltre il quale cercheranno in realtà di dominare gli altri.‖456 E‘ proprio il linguaggio, secondo Zizek, cioè lo strumento di mediazione per eccellenza, che ―comporta una violenza incondizionata, […] che sospinge il nostro desiderio oltre i giusti limiti, trasformandolo in un <<desiderio che contiene l‟infinito>>, elevandolo a un‟ispirazione che non potrà mai trovare soddisfazione.‖457 Perché attraverso il linguaggio si assegna uno standard, un riferimento, al quale ogni situazione viene forzatamente riportata: ―quando percepiamo qualcosa come un atto di violenza, lo misuriamo in base a un ipotetico standard di ciò che è una <<normale>> situazione non violenta, e la massima forma di violenza è l‟imposizione di questo standard in riferimento al quale alcuni eventi appaiono <<violenti>>.‖458 Ma è, ovviamente, impossibile sbarazzarsi dell‘‖eccesso‖ di desiderio, perché questo è insito nell‘aspirazione umana; ecco quindi che ―desiderare in modo limitato‖, anziché contribuire all‘armonia tra l‘uomo ed il mondo, lo porta a vivere in modo ambiguo, stretto tra un desiderio irresistibile, naturale, del tutto umano, che viene però definito 455 456 457 458 P. Arlacchi, L‟inganno e la paura, Il Saggiatore, Milano 2011, p. 75. S. Zizek, La violenza invisibile, cit., p. 68. Ivi, p. 69. Ibidem. 165 ―immorale‖ , e l‘opportunità di adeguarsi ad un desiderio minore, innaturale, ma indicato come ―giusto‖, rovesciando completamente i concetti di ―bene‖ e ―male‖. In questo senso, secondo Zizek, l‘unica conclusione possibile è che ―il bene propriamente umano, il bene elevato al di sopra del bene naturale, l‟infinito bene spirituale, è in definitiva <<la maschera del male>>.‖ E‘ il linguaggio che maschera la realtà, traducendola in termini simbolici; ―è il linguaggio […] la prima e più grande origine di divisioni; è a causa del linguaggio che noi e i nostri vicini (possiamo) <<vivere in mondi diversi>> anche quando viviamo nella stessa via. Ciò significa che la violenza verbale non è una distorsione secondaria, ma la risorsa primaria di ogni violenza specificamente umana.‖459 Occorre, dunque, domandarsi come possono il senso e il significato essere orientati differentemente e organizzati in dispositivi comunicativi alternativi e coerenti in modo da trasformare l‘azione linguistica in un esercizio di riappropriazione della conoscenza.460 Il ―diritto di riappropriazione”, nel senso attribuito da Hardt e Negri, è di fatto il diritto di riappropriarsi dei mezzi di produzione: ciò significa, nel nuovo contesto globale, possibilità di controllo e libero accesso alla tecnologia, alla conoscenza, all‘informazione, alla comunicazione461. Nell‘era postmoderna colui che meglio esprime la vita della moltitudine è il militante, ―l‟agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l‟Impero”. Il militante non è più colui che agisce per dovere e disciplina e che pretende di dedurre le proprie azioni da un piano ideale. Al contrario è ―qualcuno molto simile ai combattenti comunisti delle rivoluzioni del XX secolo, agli intellettuali perseguitati ed esiliati nel corso delle lotte antifasciste, ai repubblicani della Guerra Civile spagnola e a coloro che parteciparono ai movimenti di resistenza in Europa, a coloro che hanno lottato per la libertà in tutte le guerre anticoloniali e antimperialiste”. La militanza politica rivoluzionaria, secondo Hardt e Negri, oggi deve essere soprattutto un‘attività costituente, una pratica positiva, costruttiva e innovatrice mediante cui “i militanti resistono al comando dell‟impero creativamente.”462 459 460 461 462 Ivi, pp. 70 – 71. Innumerevoli sono gli autori che si occupano di questa riappropriazione del linguaggio e del significato. Tra questi, Ivan Illich, Miguel Benasayag, Naomi Klein, Noam Chomsky, Zigmunt Baumann, Slavoj Zizek, Ulrich Beck e molti altri. Tutti questi Autori, infatti, sottolineano come una delle prime e maggiori sofisticazioni attuate dal sistema contemporaneo sia stata l‘appropriazione e la traslazione di significato di taluni sensi comuni nella gestione dell‘apparato sociale. M. Hardt, A. Negri, op. cit., pp. 373-376. Ib., pp. 380-381. 166 4. Il capitalismo come spazio senza mondo Uno dei principali pericoli del capitalismo, nonostante sia globalizzato, consiste nel fatto che la costellazione ideologica che esso sostiene è ―senza mondo‖. Il capitalismo è il primo ordinamento socioeconomico che toglie totalità al significato 463: non è globale a livello di significato, poiché non esiste una visione del mondo capitalista globale, né una civiltà capitalista propriamente detta. Il capitalismo si può adattare a qualsiasi civiltà, da quella occidentale a quella orientale, non è radicato in una particolare cultura 464. Il capitalismo non appartiene a una civiltà peculiare, a uno specifico mondo culturalesimbolico, ma è il nome di una macchina economica che opera con i valori con cui si trova a contatto, «una matrice neutrale di relazioni sociali», neutrale quanto può esserlo una pistola carica e con il colpo in canna. Esso è, dunque, universale. Ha un reale potere corrosivo che mina ( o meglio, che eli-mina) ogni cultura e tradizione trascinandola nel suo vortice; è una forza negativa universale che media e supera qualunque contenuto particolare sia esso logico, culturale, comunicativo o, comunque, appartenente alla sfera cognitiva dell‘essere umano. La stessa logica rimane valida per la lotta emancipatoria. Nell‘ambito di ogni cultura gli individui soffrono, le donne protestano, e queste proteste e costrizioni di una data cultura vengono formulate dal punto di vista dell‘universalità. L‘effettiva universalità non è l‘intensa sensazione che, al di là di tutte le differenze, le diverse civiltà condividano alcuni valori fondamentali; l‘effettiva universalità si manifesta come esperienza dell‘inadeguatezza verso 463 464 M.Benasayag. Contro il niente, abc dell‟impegno, cit.,, pp.36 - 38 : “ Il capitalismo trionfa poiché non è una dimensione identificabile. Ci sono stati momenti storici in cui la struttura di un ordine si fondava su una persona. Il feudalesimo, per esempio, si reggeva grazie al signorotto. Il capitalismo è frattale. Non ha bisogno di un elemento esteriore, è consustanziale alla vita di ognuno di noi, esiste in ogni situazione. E‟ presente perfino nel progetto di creare una comunità non capitalistica…..La forza del capitalismo è quella di riprodursi a ogni livello. Il suo perno è l‟individuo in serie, ridotto ai suoi rapporti contrattuali con gli altri, che non potrà creare altri legami e cambiare l‟ordine delle cose. Marx aveva visto il pericolo di quest‟uomo astratto che non ha altra esistenza se non quella capitalistica. Se gli uomini concepiscono la loro vita come un insieme di piccoli contratti, con i figli, con il proprio corpo, qualsiasi progetto di emancipazione è reso vano. Smettere di considerarsi un‟individualità è la questione centrale della nostra epoca….La questione non è: come far capire a qualcuno che non è un individuo isolato. Ma piuttosto: come esperire l‟essere collegati?....Invece, in seno a ogni situazione possono esistere esperienze non capitalistiche (pensare, amare, dipingere..) che creano tensioni interne. La lotta contro l‟egemonia non deve essere indirizzata contro una globalità al di sopra delle situazioni ma organizzarsi all‟interno di ciascuna di esse. Chi concepisce la propria esistenza come un divenire crea di fatto delle linee di resistenza al capitalismo. Ovunque esistono luoghi di resistenza al capitalismo, a condizione che non siano stagni, in tal caso si tratta soltanto di individualismo allargato. Le sette, le comunità, i kibbutz sviluppano solidarietà interne che non sono affatto anticapitaliste…..Siamo incapaci di immaginare un mondo non capitalistico. I tentativi in senso contrario ci conducono ineluttabilmente all‟impotenza. ….Dobbiamo resistere a questo pensiero magico: non esiste oggi un postcapitalismo possibile.…. Accettare il fatto di appartenere al capitalismo non è la stessa cosa che essere ebrei nel ghetto di Varsavia - anche se per alcuni esiste davvero il rischio di morte. Il nostro problema, però, si può formulare allo stesso modo: non si tratta più di vincere il capitalismo ma di stabilire quali lotte condurre al suo interno. Non sappiamo che cosa accadrà e se il capitalismo sia un orizzonte superabile ma ciò che sappiamo è che può essere qui e ora un orizzonte non saturo.” S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 83-84; cfr. Id., Dalla tragedia alla farsa, cit., p.37. 167 se stessa di una particolare identità. L‘universalità si realizza, cioè, come un patto di lotte, che unisce gli sfruttati e i sofferenti, contro il nucleo oppressivo che mina ogni civiltà dal suo interno465. Altra caratteristica del capitalismo è la violenza di cui è pervaso e che, tuttavia, non è immediatamente riscontrabile. Zizek definisce violenza sistemica quella originata dal capitalismo, meno visibile e appariscente rispetto ad altre forme, ma dalle conseguenze comunque devastanti perché ―è la danza metafisica del capitale che si autosostiene a condurre lo spettacolo, a fornire la chiave per comprendere gli sviluppi e le catastrofi della vita reale. In essa risiede la fondamentale violenza sistemica del capitalismo, molto più inquietante rispetto a ogni violenza socio-ideologica precapitalistica: questa violenza non si può più attribuire a individui specifici e alle loro intenzioni <malvagie>, ma è puramente <oggettiva>, sistemica, anonima. Qui ci imbattiamo nella distinzione lacaniana tra la realtà e il Reale: la “realtà” è la realtà sociale delle persone reali coinvolte nelle interazioni e nei processi di produzione, mentre il Reale è l‟inesorabile, <astratta> logica spettrale del capitale che determina ciò che accade nella realtà sociale. E‟ possibile sperimentare questo iato in modo palpabile quando si visita una nazione in cui la vita è in una situazione di caos evidente. Davanti ai nostri occhi il degrado dell‟ambiente e l‟infelicità umana si presentano in abbondanza. Eppure, i rapporti economici che leggiamo in seguito ci informano che la situazione economica di quel Paese è <finanziariamente solida>: la realtà non conta, ciò che conta è la situazione del capitale…” 466. Singolare e contraddittorio, già emerso compiutamente in un famoso discorso tenuto presso l‘Università del Kansas sul nuovo totem dello‖ stato di salute di un popolo, di una nazione‖, il PIL, del 18 marzo 1968 ad opera di Robert Kennedy che, tre mesi dopo fu ucciso, alla soglia di una ormai sicura sua elezione a Presidente degli USA.467 465 466 467 S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 158-167. Ivi, pp. 18-19. R. Kennedy, 18/03/1968 : ― Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nel‘ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell‘indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l‘inquinamento dell‘aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l‘intelligenza del nostro dibattere o l‘onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell‘equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita 168 Se dibattiamo dei crimini compiuti dai regimi comunisti, è facile assegnare la responsabilità per tali violenze, poiché abbiamo a che fare con una violenza soggettiva, con attori che hanno compiuto misfatti, con fonti ideologiche a cui far risalire la legittimazione di tali violenze. Ma quando si cerca di parlare dei milioni di morti in conseguenza della globalizzazione capitalista, che Zizek individua, ad esempio, nella tragedia del Messico del sedicesimo secolo fino all‘olocausto del Congo belga un secolo fa, le responsabilità vengono prevalentemente negate: ―Tutto sembra essere successo come risultato di un processo <oggettivo>, che nessuno ha pianificato né eseguito e per il quale non esiste alcun <Manifesto capitalista>.‖468 Attualmente la versione del capitalismo che sta emergendo come egemonica della crisi attuale è quella dell‘eco-capitalismo, «socialmente responsabile», secondo cui la mobilitazione capitalista delle capacità produttive di una società può essere attuata anche per servire obiettivi ideologici, per lottare contro la libertà e per altri nobili fini. In tale prospettiva, i capitalisti non devono essere solo macchine per generare profitti, dal momento che non è più necessario opporre il mercato alla responsabilità sociale. Secondo Zizek, l‘idea di perseguire un capitalismo più «spirituale», lasciando intatto il dispositivo ideologico e i rapporti del capitalismo stesso, rimane sostanzialmente un sogno, dissolto con il crollo finanziario del 2008.469 468 469 veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull‘America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. ― S. Zizek, La violenza invisibile, cit., p. 20. S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., pp. 104-106: ―Ma con la crisi finanziaria, l‟urgenza di agire è stata incondizionata; somme di grandezza inimmaginabile sono state trovate immediatamente (dagli Stati n.d.r.). Salvare le specie in via di estinzione, salvare il pianeta dal riscaldamento globale, salvare i malati di Aids e quelli che stanno morendo per mancanza di fondi per cure costose, salvare i bambini che muoiono di fame…tutto questo può attendere un po‟…L‟appello a <salvare le banche!> invece è un imperativo categorico a cui si deve rispondere con un‟azione immediata. Il panico è stato così assoluto che è stata immediatamente costituita un‟unità transnazionale e imparziale, mentre tutti i risentimenti tra i leader mondiali venivano dimenticati momentaneamente per evitare la catastrofe. Ma ciò che l‟approccio <bi-partisan> così elogiato significava era che persino le procedure democratiche venivano sospese <de facto>: non c‟era tempo per impegnarsi in un dibattito vero e proprio, e coloro che si opponevano al piano al Congresso USA venivano immediatamente messi in riga con la maggioranza. Bush, McCain e Obama si sono messi rapidamente d‟accordo, spiegando ai confusi membri del Congresso che semplicemente non c‟era tempo per la discussione, si era in uno stato di emergenza e le cose dovevano semplicemente essere fatte rapidamente…E non dimentichiamo anche che queste somme di denaro incredibilmente enormi sono state spese non per qualche chiaro problema <reale> o concreto, ma essenzialmente per <restaurare la fiducia> nei mercati, cioè, semplicemente per cambiare le convinzioni della gente! Abbiamo bisogno di altre prove che il Capitale è il Reale delle nostre vite, un Reale i cui imperativi sono molto più assoluti persino delle esigenze più pressanti della nostra realtà sociale e naturale? E‟ stato Joseph Brodsky a fornire una soluzione appropriata alla ricerca del misterioso <quinto elemento>, l‟ingrediente quintessenziale della nostra realtà: <Insieme ad aria, terra, acqua e fuoco, il denaro è la quinta forza naturale con cui un essere umano deve avere più spesso a che fare>.[…] Verso la fine del 2008, un gruppo di ricerca che studiava le tendenze nelle epidemie di tubercolosi in Europa dell‟Est nel corso degli ultimi decenni ha reso pubblici i suoi principali risultati. Avendo analizzato dati provenienti da più di 20 Stati, i ricercatori di Cambridge e Yale hanno stabilito una chiara correlazione tra i prestiti concessi dal FMI a questi Stati e l‟aumento dei casi di tubercolosi. Una volta che i prestiti si fermano, l‟epidemia di tubercolosi diminuisce. La spiegazione di questa correlazione apparentemente misteriosa è semplice: la condizione per ottenere prestiti dal FMI è che lo Stato che li riceve introduca una <disciplina finanziaria>, cioè riduca la spesa pubblica; e la prima vittima delle misure destinate a ristabilire una <salute finanziaria> è la salute stessa, in altri termini, la spesa nei servizi sanitari pubblici. 169 La stessa dinamica del capitalismo è un continuo oltrepassare le frontiere tra investimento legittimo e speculazione selvaggia, perché ―il nucleo dell‟investimento capitalista è una scommessa azzardata che uno schema si rivelerà profittevole, un prendere a prestito dal futuro”. Nel capitalismo «postmoderno» tale potenziale e latente rischio speculativo è innalzato a livelli mai raggiunti in precedenza470, come la storia degli ormai famosi mutui Subprime471 ha dimostrato in maniera lapalissiana.472, ovviamente azzerando di fatto il rischio dei molti istituti di credito di matrice anglosassone in difficoltà (che hanno visto l‘intervento dello Stato, a supporto della loro attività ―predatoria‖ e della loro condotta spregiudicata) e lasciando letteralmente sul lastrico (e senza casa) centinaia di migliaia di onesti lavoratori. Ma la questione del credito non si esaurisce certo qui: in Europa, le garanzie richieste per ottenere credito sono nettamente maggiori e il cd. rischio per gli istituti si riduce notevolmente, tanto da poter dire che il credito viene erogato quando il rischio è quasi a zero; ciononostante gli Stati europei, si sono affrettati a mettere a disposizione delle proprie banche un ―capitale di copertura‖, ovviamente finanziato con fondi pubblici, per coprire eventuali buchi speculativi. Così, da una parte, si sostiene la necessità di liberalizzare e deregolamentare il mercato (più mercato, meno stato….come si sostiene da più parti), dall‘altra si ricorre al finanziamento pubblico a sostegno di attività private, non sorrette da alcuna vera motivazione per essere finanziabili, da parte degli Stati. La politica diviene così succedanea e complementare al mercato finanziario e lo Stato, attraverso i politici che lo rappresentano, diviene un fantoccio di cartapesta nelle mani dei gruppi economici e d‘interesse che determinano scelte strategiche e d‘indirizzo secondo i propri interessi. Non è un caso, né possiamo ritenerlo tale, che sempre più spesso, alla guida delle istituzioni politiche, compaiano personaggi dotati di cospicue e rilevanti fortune economiche che, ovviamente, accrescono nel periodo del loro mandato politico, nonostante la ―latitanza dagli affari‖ del proprietario, ―indaffarato‖ nella cosa pubblica; ma questo è anche un problema di maturità del corpo elettorale nel suo complesso e delle normative messe a protezione di scelte personalistiche e carenti di rappresentanze democratica ed elettorale, che favoriscono il formarsi di certe dinamiche e l‘ascesa al parlamento di soggetti di scarso se non nullo spessore politico ed intellettuale. L‘Italia, ancora una volta, sa dare spettacolo in questo e porsi, di gran lunga, avanti agli altri paesi per la composizione della propria ―classe politica‖ ma, anche, per il tacito 470 471 472 Ivi, pp. 47-51. http://it.Wikipedia.org/wiki/Subprime http://it.Wikipedia.org/wiki/Lapalissiana 170 non rispetto della volontà del corpo elettorale, come la dichiarata inammissibilità del referendum sul “Porcellum” ha ampiamente dimostrato. E‘ in gioco la concezione di democrazia, o meglio, la libertà dei cittadini, del cittadino globale. Bauman aggiunge un altro importante carattere alla definizione del capitalismo imperante nella modernità liquida. Il capitalismo, infatti, si presenta come un sistema «parassitario»: “come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo di tempo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l‟ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza.”473 La forza del capitalismo sta, dunque, secondo Bauman, nell‘ingegnosità con cui scopre specie ospitanti nuove, ogni volta che le specie sfruttate in precedenza diminuiscono o si estinguono. L‘attuale crisi economica, non è, quindi, il segnale della fine del capitalismo, ma solo il segno che, esaurito un pascolo, occorre cercarne un altro e se non si pone un freno a tutto ciò il rischio e fin troppo evidente. L‘introduzione delle carte di credito e il loro utilizzo smodato rappresenta, secondo Bauman, uno dei perversi meccanismi capitalistico-parassitari alla base dell‘attuale tracollo finanziario mondiale. Le banche hanno trasformato il debito contratto con le carte di credito in un‘attività redditizia permanente, o meglio, nella fonte principale dei loro costanti profitti, mostrando, tuttavia, ai loro clienti il volto di una rassicurante e protettiva benevolenza, attraverso una falsificazione costante della realtà del debitore con ―Non potete rifondere il debito? In primo luogo, non è necessario che ci proviate: l‟assenza di debiti non è lo stato ideale... In secondo luogo, non state a preoccuparvene: a differenza dei malvagi creditori di una volta, smaniosi di riavere indietro prontamente i loro soldi secondo scadenze prefissate e non dilazionabili, noi, i creditori moderni e benevoli, non rivogliamo indietro i nostri soldi; anzi, vi offriamo di prenderne in prestito <altri ancora> per ripagare il vecchio debito e restare con qualche soldo (cioè qualche debito) in più per pagarvi nuove gioie. Noi siamo le banche che amano dire <sì>. Le tue banche amiche. Banche <che sorridono>, come dichiarava uno degli slogan pubblicitari più ingegnosi.”474 Le banche creditrici non volevano veramente che i loro debitori restituissero i soldi: per loro il debitore ideale è colui che non ripaga mai interamente il proprio debito. A parere di Bauman, “l‟odierna “stretta creditizia” non è il risultato dell‟insuccesso delle banche. Al contrario, è il frutto pienamente prevedibile, anche se in gran parte non previsto, del loro 473 474 Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, cit., p. 4 Ivi, pp. 9-10. 171 straordinario successo.”475 La razza di eterni debitori è stata messa nelle condizioni di autoperpetuarsi, mediante ulteriori indebitamenti, come unico realistico strumento di salvezza dai debiti già contratti. E lo Stato ha fornito, come d‘abitudine, appoggio per la creazione di nuovi pascoli da sfruttare. E‘, infatti, su iniziativa del presidente Clinton che sono stati introdotti negli Stati Uniti i già citati mutui subprime, garantiti dal governo, per offrire credito a persone prive di mezzi per ripagare il loro debito. Ciò significa, in altri termini, trasformare in debitori settori della popolazione cui, fino a quel momento, lo sfruttamento creditizio non aveva modo di accedere476. La strategia più accreditata per uscire dalla crisi prevede di ricapitalizzare le agenzie di credito finanziario e tornare a rendere i loro debitori meritevoli di credito, consentendo alle banche di tornare a svolgere la loro ―normale‖ attività, proprio quell‘attività che è la principale responsabile della crisi odierna. Nessuno dei presupposti che hanno determinato la crisi sono messi, dunque, in discussione: la formula più credito, e quindi più individui indebitati, resta la chiave della prosperità economica. Per fare ciò, lo Stato determina la inevitabilità del rapporto tra gli istituti di credito e i propri cittadini, costringendo i secondi ad intrattenere rapporti con i primi. E‘ il recente caso Italia, dove, nascoste sotto pretese necessità anti-evasione fiscale, si è ―obbligato‖, per legge, molti cittadini a dover ricorrere agli istituti bancari, anche solo per ritirare la propria esigua pensione, realizzando così quel possedere che significa possedere i mezzi per possedere (da parte delle banche) cui fa riferimento M. Benasayag.477 La fonte primaria di accumulazione capitalistica si è, dunque, trasferita dall‘industria al mercato dei consumi. Bauman sostiene che “nella fase liquida della modernità lo Stato è capitalista nella misura in cui garantisce la disponibilità continua di credito e la capacità continua dei consumatori di ottenerlo”. Per mantenere in vita il 475 476 477 Ivi, pp. 14-15. Ivi, pp. 14-15. M.Benasayag, op. cit., p.56 : “ Tutte le società hanno fatto ricorso a delle unità di misura per regolare gli scambi. Il mercantilismo introduce il denaro come mezzo tra la produzione di una merce e l‟acquisto di un‟altra. Il denaro è una mediazione tra due merci. Nel capitalismo il denaro prende un posto diverso: permette di comprare e vendere delle merci, sta all‟inizio e alla fine di una transazione e diventa predominante. Il neoliberismo consacra il suo trionfo. Preferisce fare a meno della produzione di merci e diventa puramente finanziario. La circolazione è virtuale, la maggior parte del denaro scambiato esiste soltanto all‟interno di un computer. In quest‟epoca che rende virtuale la merce e pone il denaro al centro, il mondo non è nemmeno più una merce. Il capitalismo classico considerava un bosco come un potenziale produttore di merci. Il neoliberismo ci vede soltanto un valore di investimento. Secondo una tragica caricatura della filosofia di Hegel, assistiamo ad una smaterializzazione delle merci e del mondo nel quale possedere significa possedere i mezzi per possedere. Siamo di fronte a una specie di fineregno dove non si sa neanche più di cosa essere proprietari. I sistemi di sicurezza sono la conseguenza logica di questo possesso senza freno. I potenti vivono in fortezze in cui possono conservare i mezzi di possesso, una specie di ghetti per i ricchi. Nell‟epoca della virtualizzazione crescente del possesso soltanto i mezzi di sicurezza adoperati per proteggerlo lo rendono ancora materiale.” 172 capitalismo oggi sono, quindi, necessarie sovvenzioni statali per consentire al capitale di vendere merci e ai consumatori di comprarle; in questa prospettiva, il credito si pone come il «congegno magico» utile ad assolvere questo doppio compito478. Il capitalismo odierno ha, dunque, imposto un modo di vivere che dipende totalmente dal consumo di merci (di cui anche il denaro è parte). Molto significativa è, al riguardo, la riflessione compiuta da Ivan Illich sullo sviluppo economico e sulle sue conseguenze, specie in riferimento all‘epoca in cui è maturata. Secondo Illich, la crescita industriale produce la versione moderna della povertà, poiché è illusorio pensare che necessariamente il progresso debba coincidere con l‘abbondanza. Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l'intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia479. Sul piano soggettivo, tale povertà «è quello stato di opulenza frustrante che s'ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale». Questa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in manièra creativa: le riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato. Questo nuovo tipo d'impotenza, proprio perché vissuta a livello così profondo, difficilmente riesce a trovare espressione, ―L'economista di professione non sa riconoscere quella povertà che i suoi strumenti convenzionali non sono in grado di rilevare. Il nuovo fattore di mutazione dell'impoverimento continua tuttavia a diffondersi. L'incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d'uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere una soddisfazione personale e sociale al di fuori del 478 479 Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, cit., pp. 17-25. Così anche per M.Benasayag. op. cit., p.139: “ La povertà non ha sempre significato miseria, è stata a lungo accompagnata dall‟idea che non era bene attaccarsi troppo ai beni materiali. Era un segno che la vita non si riduceva alla lotta di tutti contro tutti, al possesso, un modo di non farsi ingannare. Al di là della sofferenza del povero e dell‟arroganza del ricco, l‟umanità era sensibile a questo messaggio: non possediamo mai niente, non siamo proprietari delle nostre vite, neppure inquilini, semplicemente occupanti. La decadenza della nostra epoca si misura in questo: malgrado questa storia millenaria, il povero è diventato un semplice fatto sociologico, un dato economico. Possedere qualcosa di raro è una formula magica molto più forte che spogliarsi delle cose. La ricchezza attuale non si limita ai beni che si accumulano, è il possesso di ciò che gli altri non possono avere. Siamo prigionieri di questa stupidità totale: credere di possedere senza renderci conto che siamo posseduti. Qualunque cosa tu possieda, vivrà dopo di te, e tu sarai stato al servizio di ciò che credevi di possedere. La nostra epoca si mostra talmente canaglia che ha fatto della povertà miseria. La dimensione esistenziale è esclusa. Quelli che conoscono delle difficoltà materiali non hanno altri desideri e altre immagini identificatorie che la ricchezza, anche loro desiderano ciò che l‟altro possiede, sono poveri nel loro desiderio. Il povero non è più l‟altro, è il misero. Non rappresenta più un altro possibile e desidera come tutti godere del modello economico mondiale. La pubblicità, per parte sua, si impegna a far credere all‟uomo qualunque che anche lui può possedere una cosa rara. Girare con un‟ automobile modesta è come guidare una Rolls, bere Coca Cola ti fa somigliare a Bill Gates… Bisogna ingannare il povero per farlo restare prigioniero di questo desiderio di rarità, perché non faccia della sua esclusione una forza e costruisca altri modi di vita…. Dobbiamo uscire da questo desiderio alienato che identifica il carattere desiderabile dell‟oggetto alla sua rarità.” 173 mercato”. Questa nuova povertà generatrice d'impotenza non va confusa col divario tra i consumi dei ricchi e dei poveri, che rappresenta la forma tradizionale di indigenza presente in una società industriale. Dove regna questo particolare tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci. Fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio, ma persino per il povero. Ovunque si posi l'ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a consumare: «il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica». L'attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci. Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall'aumento di volume e di varietà delle merci prodotte. E sull'esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l'accesso a tali merci. Al di là di una certa soglia, il moltiplicarsi delle merci induce impotenza, «genera l'incapacità di coltivare cibo, di cantare, di costruire». La fatica e il piacere della condizione umana diventano così un privilegio snobistico riservato a pochi ricchi480. Di pari passo, non può essere dimenticata la crisi della politica, che si manifesta con la crisi dei sistemi rappresentativi. La crisi della democrazia rappresentativa si manifesta in primo luogo a livello ideologico: nel momento stesso in cui il valore principale di ogni azione pubblica diviene l‘economia, perdono valore e significato i legami sociali ed ogni forma di solidarietà; la politica, quale forma di mediazione tra le diverse esigenze individuali, viene automaticamente esclusa. A livello sociale, questo fa sì che le esigenze puramente economiche, non più mediate dalla politica, spingano le masse, attraverso un uso accorto di sollecitazioni emotive, ad uno sviluppo economico continuo. I partiti politici e le istituzioni pubbliche, svuotati di significato e delle loro funzioni, vengono così sostituiti dall‘individuo carismatico che rappresenta la personalizzazione stessa del potere, ed il cui carisma non risiede più nei valori che trasmette, ma nella capacità di produrre emozioni ed effetti tramite i mezzi di comunicazione. L‘ultimo aspetto della crisi democratica è rappresentato da una classe politica scadente, più sensibile ai problemi dell‘economia che ai bisogni effettivi del popolo, che dovrebbe rappresentare, e spesso più attenta al comportamento della fazione avversa che alla vita reale del Paese. Questo comportamento ha, di fatto, scavato un solco sempre più ampio tra i politici ed il popolo. 480 Cfr. I. Illich, Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano 1981 attualmente fuori commercio, in versione scaricabile dal sito di Anarcopedia http://ita.anarchopedia.org/Ivan_Illich 174 La politica oggi si deve confrontare con alcuni fenomeni ―globali‖ che implicano una rivisitazione completa degli stessi elementi costitutivi dello Stato moderno. Difatti, a prescindere dalla crisi della sovranità, numerose problematiche riguardano il suo territorio, sempre più ―poroso‖ per effetto delle varie tipologie di flussi (migratori, finanziari, comunicativi), la sovranità del suo popolo, le cui scelte non rispondono più a logiche politiche ma commerciali, trasformandosi così in un popolo di consumatori, non più di elettori. Infine, l‘ordinamento giuridico e la stessa morale dello Stato perdono certezza e continuità, sembrano rispondere sempre più spesso alle esigenze del momento, adattarsi alla situazione contingente. Questo è forse l‘aspetto più pericoloso, perché potrebbe ricondurre il predominio all‘utilizzo della forza. La disaggregazione dell‘ordine sociale e politico, del resto, è facilmente visibile nello spazio comunitario europeo che, se identificato dal punto di vista economico, fa registrare intolleranze ed incomprensioni politiche, culturali e giuridiche che sono di recente sfociate nel mancato riconoscimento di un trattato costituzionale condiviso. Eppure, ―l‟Europa dell‟opinione pubblica, delle solidarietà, della identità – differenze delle culture può crescere malgrado le insensibilità e le incomprensioni della sua classe politica. A questa Europa devono guardare gli intellettuali che hanno a cuore la costruzione di una vera Europa politica‖481 481 C. Mongardini, Lo spirito del capitalismo contemporaneo, Bulzoni editore, Roma 2007, p. 191. 175 5. L‘Italia come paese strategico nell‘adozione delle politiche globali: terreno di prova dal 1989 ad oggi Già da alcuni anni, si parla ormai sempre più spesso di crisi della politica, intesa nel senso di una crisi dell‘agire politico, di cui si possono rintracciare manifestazioni e spiegazioni differenti, sebbene collegate tra loro. Una delle cause principali della suddetta crisi risiede nella notevole trasformazione che ha interessato quelle che possono essere considerate le dimensioni più importanti dell‘agire politico: la libertà, il rapporto tra sfera pubblica e privata e quello tra teoria e prassi. Per quanto riguarda la libertà, non si può non notare che nella fase attuale, definita come tardo moderna, essa “non riesce a determinare un agire politico soddisfacente perché ci troviamo di fronte a una libertà senza autonomia, a una libertà che è meramente economica e che determina una società non tanto di cittadini, quanto di semplici consumatori”482. É in questo contesto che la libertà cessa di essere “un‟attività storica che crea forme corrispondenti di convivenza umana, cioè di spazio sociale”483. Dal punto di vista, invece, del rapporto che intercorre tra sfera privata e sfera pubblica si nota una graduale invasione di quest‘ultima da parte della prima, al punto che in misura crescente fenomeni ed eventi tipici della vita privata sono fatti oggetto di attenzione. La politica abbandona le grandi ideologie e assume sempre più tratti personalistici, i beni pubblici sono progressivamente fagocitati dall‘individualismo imperante, il welfare State viene smantellato pezzo dopo pezzo, diventa via via più difficile delineare giuridicamente la sfera del ―politico‖.“L‟origine di questo nuovo fenomeno di affermazione della sfera privata su quella pubblica si può cercare sia nella separazione tra potere e politica a causa dell‟implosione dei centri dei poteri economico, militare, culturale, un tempo concentrati nello Stato nazione, sia nelle trasformazioni della morfologia sociale che hanno ridotto il sostegno alle élite consolidate e la fiducia nelle istituzioni politiche. Il problema della crisi dell‟agire politico contemporaneo spoliticizzazione e privatizzazione” 484 diventa, simultaneamente, una questione di . Infine, in merito ai cambiamenti intervenuti nei rapporti tra teoria e prassi, si deve menzionare il fatto che, nel corso del XX secolo, si è sviluppata la tendenza degli intellettuali ad abbandonare il compito di legislatori, guide, pedagoghi dell‘umanità e della civiltà a favore di una posizione molto ―ritirata‖, distaccata. “Nella migliore delle ipotesi gli 482 483 484 F. Giacomantonio, Crisi della politica nel XX secolo: elementi interpretativi, in A. Licinio (a cura di), Krisis, Monografie della Biblioteca husserliana, rivista di fenomenologia vol. I, 2009, pp. 5-6. K. Kosik, Storia e libertà, in Id., Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965, p. 261. F. Giacomantonio, op. cit.., pp. 7-8. 176 intellettuali si pongono ora come semplici interpreti della realtà, poco propensi ad assumersi responsabilità forti in tal senso: possono proporre modelli per una critica dell‟esistente, della società e della politica, ma, molto difficilmente, la costruzione di autentiche possibilità alternative. Né infine si può dimenticare l‟influenza del monito di Karl Popper che aveva colto un‟associazione inquietante tra teorie troppo onnicomprensive (come quelle di Platone, Hegel e Marx) e forme di totalitarismo”485. In tal modo, la prassi politica ha progressivamente perso il suo legame con una teoria solida e articolata: si è prodotta quella che Herbert Marcuse definiva ―chiusura dell‘universo di discorso‖; “il linguaggio, soprattutto quello politico, tende ad esprimere e a promuovere l‟identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita, dell‟essenza con l‟esistenza, della cosa con la sua funzione”486. Colin Crouch descrive questa crisi dell‘agire politico come una sindrome, che starebbe colpendo i regimi rappresentativi contemporanei e che egli definisce ―postdemocrazia‖; una sindrome che trionfa oggi al termine di un declino prodottosi nella seconda metà del XX secolo, dopo che si era toccato l‘apice nell‘affermazione delle politiche di stampo egualitario:“[...]Anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall'integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”487. Questi sarebbero i caratteri salienti della postdemocrazia, in gran parte tratti dall'analisi di quel modello di azienda globale che è oggi l‘“istituzione chiave del mondo postdemocratico”. Essa è contraddistinta da un‘identità ―malleabile‖, che si trasforma frequentemente in virtù di operazioni come acquisizioni, fusioni e ristrutturazioni. Al contempo, la forza-lavoro risulta sempre più frammentata e dispersa, a causa di ―nuove‖ e ―flessibili‖ forme contrattuali. Nonostante ciò, Crouch si contrappone a quanti considerano l'―azienda fantasma‖ un'istituzione debole, un sintomo della dissoluzione del capitale e del superamento della divisione in classi. Al contrario, proprio questa “capacità di decostruzione è” secondo lui “ 485 486 487 Ivi, p. 9. Si veda H. Marcuse, L‟uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, p. 97. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 6. 177 la forma più estrema assunta dal predominio dell'azienda nella società contemporanea.”488 L‘azienda si tramuta così in un vero e proprio modello istituzionale anche per il settore pubblico. Di conseguenza, gli enti pubblici vengono ristrutturati allo scopo di risultare più attraenti agli occhi dei finanziatori privati, “mentre l'esternalizzazione da parte dei governi alle imprese di un ingente ambito delle loro attività si traduce in un rapporto più stretto fra potere economico e organi pubblici e nell'aumento del potere politico delle lobby.”489 Ci troviamo di fronte ad un progressivo “ritorno dei privilegi politici corporativi coperti dagli slogan del mercato e della libera concorrenza.”490 La necessità, avvertita in maniera sempre più pressante da parte dei governi, di ottenere pareri dai dirigenti delle multinazionali e dai grandi imprenditori e il fatto che i partiti politici facciano sempre più affidamento sui loro finanziamenti, fanno sì che si delinei all‘orizzonte la nascita di una nuova classe dominante, a livello sia politico che economico, i cui componenti detengono, dunque, un potere non solo frutto della loro crescente ricchezza, nel contesto di società che diventano via via più diseguali, ma anche di quel ruolo politico privilegiato che da sempre contraddistingue la classe dominante in quanto tale. “Questo è il fattore centrale di crisi della democrazia all'alba del XXI secolo”491. La postdemocrazia tenta di costruire un ‗partito per tutti‘, privo della sua base tradizionale, sempre più asservito agli interessi delle grandi aziende, che ricalchi il loro modello aggressivo, flessibile e volto all‘esclusiva massimizzazione dei dividendi degli azionisti. È pur vero che nessuno ha finora trovato una formula adatta alla rappresentazione degli interessi dei lavoratori subordinati postindustriali. Se “un programma potenzialmente radicale e democratico rimane lettera morta”, si affermano invece in misura crescente partiti nazionalisti, xenofobi o razzisti, che, di fronte alla crisi della politica, riesumano il senso di appartenenza a comunità chiuse, omogenee. Si assiste al superamento del tradizionale modello dei partiti di massa, organizzati in una serie di cerchi concentrici, a favore di una sempre più forte personalizzazione, basata sul legame diretto fra i dirigenti centrali e gli elettori: “Se ci basiamo sulle tendenze recenti, il classico partito del XXI secolo sarà formato da una élite interna che si auto riproduce, lontana dalla sua base nel movimento di massa, ma ben inserita in mezzo a un certo numero di grandi aziende, che in cambio finanzieranno l'appalto di sondaggi d'opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al 488 489 490 491 Ivi, p. 49. L. Baccelli, Recensione al libro di C. Crouch, Postdemocrazia, in ―Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale‖, I (2005), 1. C. Crouch, Postdemocrazia, cit., p. 59. Ivi, p. 60. 178 governo.”492 Ci troviamo di fronte ad un progressivo smantellamento del welfare State, dovuto alla commercializzazione di tutti quei diritti e servizi che erano finora collegati indissolubilmente allo status di cittadini e al pressante tentativo di individuare sempre nuove aree da aprire al mercato ed alla privatizzazione. Questo processo non sarà compiuto “fintanto che la fornitura dell'istruzione, dei servizi sanitari e degli altri servizi tipici del welfare State non saranno subappaltati a estese catene di fornitori privati, così che il governo non sia più responsabile della loro produzione di quanto la Nike lo sia delle scarpe su cui mette il marchio."493 Quest‘analisi si applica perfettamente agli sviluppi in corso in Italia, soprattutto a partire dalla trasformazione del sistema dei partiti, innescata dalla svolta della Bolognina del 12 novembre 1989, che avrebbe portato allo scioglimento del Pci e alla nascita del Pds e del Prc, e, in misura molto più radicale, dal crollo della prima Repubblica, legato allo scandalo di Tangentopoli. Come ha scritto Crouch, analizzando le vicende italiane degli ultimi anni, monopolizzate dalla parabola politica di Silvio Berlusconi, si può notare come “dalle rovine della cosiddetta „prima Repubblica‟ emerse un uomo, Berlusconi, che stava al centro di quella Repubblica con i suoi misteriosi legami finanziari, e che „scese in campo‟ proponendosi come colui che avrebbe dato vita a una nuova, pulita, vita politica italiana. E gran parte degli italiani gli credette. In realtà, ciò che era crollato erano esclusivamente le organizzazioni politiche della prima Repubblica, non le pratiche di Tangentopoli. Berlusconi era sicuramente in grado di creare nuove organizzazioni, con al centro il suo partito-azienda. Ma un partito-azienda non poteva cambiare le dubbie pratiche della prima Repubblica. Queste continuarono, continuano, e continueranno. C'è qui un paradosso profondo: in un certo senso, gli aspri contrasti tra i partiti della prima Repubblica erano una delle cause dei suoi vizi; ma in un altro senso rappresentavano una protezione contro di essi. Il conflitto tra la Chiesa e il comunismo, e le relative identità, era infatti talmente profondo, che gli elettori non guardavano criticamente il comportamento dei loro rappresentanti. Ma la robustezza delle organizzazioni di partito – con la lealtà alla Chiesa, a un'ideologia, agli eroi del passato, ma anche con il bisogno di dare soddisfazione ai militanti dei partiti, motivati principalmente dalla condivisione di ideali – riusciva pure a imporre delle restrizioni al comportamento degli individui e a proteggere la democrazia italiana dagli aspetti più devastanti delle cattive pratiche”494. 492 493 494 Ivi, p. 84. Ivi, p. 116. C. Crouch, Nell‟Italia di Berlusconi, una democrazia parlamentare a rispettabilità limitata, 23 dicembre 2010, 179 Il punto, secondo Crouch, sta proprio nel fatto che con lo scandalo di Mani Pulite e con il crollo dei partiti tradizionali, anche queste forme di controllo sono venute meno, almeno per i principali partiti del vecchio centro, Dc e Psi. Nel frattempo il Pci era stato, a sua volta, travolto da una crisi legata al crollo dell'Unione Sovietica, nonostante la presa di distanza già da tempo avviata dai comunisti italiani nei loro rapporti con quelli sovietici. Gli altri outsiders, come Alleanza Nazionale, non sono stati in grado di “resistere all'abbraccio berlusconiano”. Dissoltasi qualsiasi parvenza di una disciplina di partito che fosse in grado di mantenere il legame tra i politici e la società, tutti i vizi che erano stati propri della prima Repubblica si sono riprodotti senza alcun tipo di restrizione, di modo ché i politici, sempre meno vincolati dal loro mandato elettorale, non hanno fatto che tentare di conquistare e mantenere ogni genere di posizione, poltrona e occasione. “Col suo partito-azienda, Silvio Berlusconi fu – ed è – il 'leader' perfetto per un simile sistema”495. Quella che, secondo Crouch, potrebbe facilmente essere etichettata come “una stravaganza italiana”, considerata per questo dagli osservatori stranieri come innocua e inoffensiva, è, in realtà, l‘esempio di quanto sta accadendo anche in molti altri paesi, la declinazione di una tendenza che ha carattere ben più generale. Infatti, la fine di quelle ideologie, di matrice religiosa o marxista, che sono state alla base delle identità delle organizzazioni politiche del secolo scorso, è una realtà conclamata ormai dappertutto. “Dovunque i partiti si presentano come contenitori vuoti, che usano simboli e retorica del passato nell'illusione che producano legami anche più artificiali con il popolo, ma che assumono come loro compito principale la distribuzione di posti, di favoritismi, e di ogni altro privilegio a personaggi politici staccati dal legame con la società”496. Ciò che si sta perdendo è, dunque, il legame tra le classi politiche e i cittadini elettori, mentre, a suo discapito, si rafforza quello con le grandi aziende, che, grazie alla loro capacità organizzativa, riescono a sfruttare i governi a loro vantaggio. ―Per queste ragioni la crisi generale dei rapporti tra il mondo politico e l'elettorato è una crisi che tocca soprattutto il centro-sinistra. Una politica dominata dalle grandi imprese dà più fastidio alla sinistra che alla destra”497. Senza dubbio il caso italiano mantiene una sua peculiarità: la rapidità dei mutamenti avvenuti all‘inizio degli anni Novanta ha mostrato il vuoto politico e la crisi dei partiti tradizionali in maniera particolarmente repentina e brutale; mentre negli altri paesi 495 496 497 reperibile all‘indirizzo http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=336:leosservazioni-di-colin-crouch-sul-nostro-paese&Itemid=101 Ibidem. Ibidem. Ibidem. 180 democratici i partiti sono protagonisti di un declino molto più graduale e perciò dignitoso. “Certo, anche altrove alle spalle dei primi ministri c'è la grande impresa; ma in Italia la grande impresa si annida nel corpo stesso del primo ministro. Le idiosincrasie del 'leader' italiano sono qualcosa di personale, e non è detto debbano verificarsi in altri paesi. E però molti elementi del caso italiano mostrano ad altri paesi democratici il proprio futuro.”498 Un‘analoga conclusione è presentata anche da Zizek al termine di una riflessione sulla deriva populistica che sta interessando le democrazie occidentali, deriva della quale l‘Italia berlusconiana rappresenta un caso emblematico. Zizek comincia col rintracciare quello che ritiene essere l‘elemento comune tra liberalismo e populismo: si tratta di due sistemi di idee politiche che considerano il modello capitalistico occidentale come l'unico possibile, seppure gli uni “in nome della superiorità della democrazia”, mentre gli altri “in nome dell'unico stile di vita che il popolo si dà”499. Ovviamente esistono profonde differenze: i liberali tentano di imporre, anche con il ricorso alla violenza, i propri valori a chi non li adotta spontaneamente; i populisti mirano, invece, a sopprimere con una sorta di pulizia etnica ―soft‖ le diversità culturali, sociali, di costume. A seconda di come si sviluppa il capitalismo a livello locale, può consolidarsi un regime politico basato sulla democrazia liberale, piuttosto che sul populismo. ―Il populismo è quindi una delle forme politiche del capitalismo globale, ma non è l'unica. Anche se devo dire che il vostro Silvio Berlusconi, spesso giudicato come un guitto o un personaggio da operetta, è invece un leader politico da studiare con attenzione, perché cerca di coniugare democrazia liberale e populismo”500. Zizek considera Berlusconi il precursore di un trend presente in tutti i paesi democratici, poiché la sua attività politica ha come scopo quello di sbilanciare l'equilibrio tra i poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - a tutto vantaggio dell'esecutivo, in modo che quest‘ultimo assimili gli altri due, pur senza cancellare i diritti civili e politici. ―Quest‟apparenza d‟essere <solo un tizio ordinario come tutti voi> non ci deve trarre in inganno: dietro la maschera clownesca si nasconde una padronanza del potere statale che funziona con spietata efficienza. Anche se Berlusconi è un clown senza dignità, faremmo bene a non riderne troppo, perché forse, facendolo, stiamo già giocando al suo gioco. Il suo riso è più simile all‟osceno e folle riso del nemico del supereroe di un film di Batman o Spiderman. Per avere un‟idea della natura del suo governo, bisognerebbe immaginare che sia al potere qualcosa di simile al Joker di Batman. Il problema è che l‟amministrazione tecnocratica combinata con una facciata clownesca non è sufficiente, ha bisogno di 498 499 500 Ibidem. Tratto da Le ragioni ritrovate del pensiero critico, intervista a S. Zizek di B. Vecchi, pubblicata su ―Il Manifesto‖ del 13 aprile 2010. Ibidem. 181 qualcosa di più: la paura. E qui entra in gioco il mostro a due teste creato da Berlusconi, consistente negli immigrati e nei <comunisti> (il nome generico usato da Berlusconi per chiunque lo attacchi, incluso il giornale liberale di centrodestra, The Economist).‖501 Le elezioni non sarebbero altro che un test utile a sondare il gradimento diffuso sull'operato dell'esecutivo. “La forma politica che propone è sì una miscela tra democrazia e populismo, sebbene la sua idea di democrazia sia una democrazia post-costituzionale che fa dell'invenzione del popolo il suo tratto distintivo. Tutto ciò rende l'Italia, più che un paese anomalo, un inquietante laboratorio politico dove viene sviluppata una democrazia postcostituzionale. Da questo punto di vista, in Italia si sta costruendo il futuro dei sistemi politici occidentali...”502. Per post-costituzionale Zizek intende una democrazia che elimina quel sistema di divisione e di equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, incorporato in tutte le costituzioni europee e in quella statunitense. Questo processo può essere definito con l‘espressione post-democrazia. Silvio Berlusconi è, in questo senso, più pericoloso di altri leader della destra europea e statunitense, come, ad esempio, il francese Nicolas Sarkozy, poiché tenta di smantellare il sistema della democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto nel capitalismo. “Non ci troviamo quindi di fronte a un personaggio da operetta, che va a donne e promulga leggi ad personam. C'è anche questo. La tragedia presenta sempre momenti da operetta. C'è però tragedia quando si manifestano conflitti radicali, dove non c'è possibilità né di mediazione né di salvezza. Sarà quindi interessante vedere come evolverà la situazione italiana, che non rappresenta un'anomalia, ma un laboratorio politico il cui esito condizionerà tantissimo il futuro politico dell'Europa. In Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia, Inghilterra ci sono infatti forze politiche populiste che raccolgono sempre più consensi elettorali grazie alle campagne antimigranti che conducono, ma non hanno quella radicalità che presenta la situazione italiana”503. In particolare, lo stesso Zizek ben coglie il punto parlando d‘immigrazione in cui il simile si muta nel Prossimo. Questo consente, in Italia, di ricorrere a particolari accorgimenti che potremmo definire ―tecnici‖, come lo stato di eccezione secondo la teoria di Agamben. Dal 1990 in poi, sul problema migratorio, ad esempio, l‘Italia ha vissuto ciclicamente (a seconda dei governi che si sono avvicendati alla guida della Repubblica) continui stati di emergenza ed attraverso questi si è potuto spesso procedere ad attuare politiche che, anche sulla base della legislazione vigente, sarebbe stato assai difficile poter 501 502 503 S. Zisek, Dalla tragedia alla farsa, cit., p. 67. Tratto da Le ragioni ritrovate del pensiero critico, intervista a S. Zizek di B. Vecchi, cit.. Ibidem. 182 introdurre. ―Nel luglio del 2008 il governo italiano proclamò lo stato di emergenza in tutta Italia per affrontare il problema del Prossimo nella sua forma contemporanea paradigmatica: l‟ingresso illegale di immigrati dal Nordafrica e dall‟Europa dell‟Est. Compiendo un ulteriore passo dimostrativo in questa direzione, all‟inizio di agosto, collocò 4.000 soldati armati a controllare i punti sensibili delle grandi città (stazioni ferroviarie, centri commerciali, etc.). E in questo modo elevò il livello della sicurezza pubblica, adesso ci sono anche dei piani per proteggere le donne dagli stupratori . E‟ importante notare che lo stato di emergenza è stato introdotto senza alcun grosso clamore, la vita va avanti normalmente. Non è questo lo Stato a cui ci stiamo avvicinando nei Paesi sviluppati in tutto il pianeta, in cui questa o quella forma di stato di emergenza (messa in atto contro la minaccia terrorista, contro gli immigrati, e così via), viene accettata semplicemente come una misura necessaria a garantire il corso normale delle cose?‖504 Nonostante ciò, Zizek invita a non lasciarsi sopraffare dal pessimismo: è vero che le società capitaliste attraversano una fase di “guerra civile strisciante”, che il degrado ambientale ha raggiunto dimensioni preoccupanti, che la democrazia “è ridotta a un simulacro”, ma non bisogna darsi per vinti. Infatti, come testimonia la recente crisi economico-finanziaria, “quando tutto sembra perso si aprono spazi per un'azione politica radicale, che io chiamo comunista”505. Il filosofo sloveno ricorda che la crisi economica, richiedendo l‘intervento dello Stato per salvare dalla bancarotta imprese, banche e società finanziarie, ha, di fatto, infranto il tabù della nocività dell'intervento regolativo pubblico. Ciò potrebbe costituire un vantaggio per i socialisti, che vogliono una redistribuzione del reddito e del potere. In altre parole, tutto questo potrebbe aprire la strada a proposte più radicali, riportando in auge “l'idea comunista di trasformare la realtà”. Zizek tiene a sottolineare che il suo “non è un mero esercizio di ottimismo della ragione, bensì la consapevolezza che ci sono forze e rapporti sociali che possono essere liberati dalla camicia di forza del capitalismo‖506. Bisogna, però, necessariamente guardare al capitalismo reale e non solo alle grandi teorie e ideologie; infatti, esiste sicuramente quella che Toni Negri e Michael Hardt definiscono ―forza-lavoro cognitiva‖, ma anche operai che lavorano in fabbrica e individui, come spesso accade ai migranti, costretti a subire forme di sottomissione servile all‘interno del contesto lavorativo. “Per non gettare nella discarica della storia questi „esclusi‟ o „marginali‟, serve cioè una forte immaginazione politica […] quando dico che l'idea 504 505 506 S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., p. 63 Ibidem. Ibidem. 183 comunista è eterna mi riferisco al fatto che è una costante della storia umana la tensione a superare le condizioni di illibertà e sfruttamento”507. Da un punto di vista strettamente economico, Ulrich Beck ha sostenuto, già alla fine degli anni Ottanta, che il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale è stato accompagnato dal parallelo passaggio da un‘economia della sicurezza a quella dell‘insicurezza, il che, detto in altri termini, ha fatto sì che la società della sicurezza sociale si trasformasse in quella dell‘insicurezza sociale. Tutto ciò ha prodotto un mutamento del concetto di ―rischio‖, che, di conseguenza, non sta più ad indicare, come nel passato, un‘insicurezza calcolabile - e dunque prevedibile -, ma, al contrario, si delinea sempre più come un pericolo vero e proprio, cioè come un‘―insicurezza incalcolabile‖508. Per quello che riguarda le tutele sociali, queste ultime si manifestano non solo nella progressiva erosione degli standard di protezione collegati al lavoro, ma soprattutto di quelli collegati alla disoccupazione. Non è infatti difficile rendersi conto che i fenomeni di globalizzazione, flessibilizzazione e precarizzazione dei mercati in atto, così come l‘inasprimento della competitività sia a livello nazionale che internazionale, abbiano prodotto non solo nuovi rischi sociali difficili da misurare, ma anche la conseguente necessità che lo Stato fornisca soluzioni nuove ed incisive alle rinnovate richieste di protezione sociale. Necessità avvertita in maniera pressante anche per ciò che riguarda gli ammortizzatori sociali, che, già da tempo, dovrebbero essere oggetto di un intervento di razionalizzazione ( e non di riduzione) ad ampio raggio. Dalla fine degli anni Novanta in poi, il mercato del lavoro italiano è stato interessato da un forte cambiamento sia legislativo, che strutturale e sociale, la cui origine può essere rintracciata negli eventi dei quali l‘Italia è stata protagonista dal 1993 in poi, ovvero dal momento in cui il nostro paese, in seguito alla recessione economica del 1992 e alla stipula del trattato di Maastricht, ha deciso di tentare di entrare fin da subito a far parte dell‘Unione Economica e Monetaria (UEM). Il che comportava, per prima cosa, l‘obbligo di rispettare i cosiddetti criteri di Maastricht, primo fra tutti quello della riduzione del tasso di inflazione, misura che per l‘Italia risultava particolarmente problematica da attuare. L‘accordo del Luglio 1993 tra sindacati, imprenditori e governo, che ha fissato le regole della contrattazione, - delineando un modello articolato su due livelli: il contratto nazionale e quello integrativo aziendale o territoriale509 - perseguiva esplicitamente 507 508 509 Ibidem. Si vedano U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci editore, Roma 2000 e Id., La società globale del rischio, Asterios editore, Trieste 2001. Per approfondimenti il testo integrale dell‘accordo è consultabile all‘indirizzo http://www.contraddizione.it/protocollo_lug_93.rtf 184 l‘obiettivo della riduzione della spirale inflazionistica, tramite strumenti quali “la moderazione salariale, la politica dei redditi, la crescita degli investimenti innovativi, l‟aumento della produttività”510, che, alla prova dei fatti, non hanno avuto molto successo. Risultato opposto hanno, invece, ottenuto sia la politica di moderazione salariale che la conseguente disinflazione. Infine, come ulteriore innovazione al sistema, è stata introdotta nel mercato del lavoro italiano una maggiore flessibilità, prima tramite il cosiddetto ―pacchetto Treu‖ del 1997 e poi con la cd. ―legge Biagi‖, la n. 30 del 2003, che hanno introdotto radicali novità, sia dal punto di vista delle forme contrattuali che nel mercato del lavoro più in generale. Il pacchetto Treu ha rappresentato “una logica conseguenza del „teorema‟ della flessibilità del lavoro come strada obbligata per lo sviluppo; un „teorema‟ che, pur prodotto dalla cultura economica di destra, convinse tutte le forze moderate del centrosinistra e a cui la sinistra non seppe opporsi. Il ragionamento si fondava sui vantaggi e sui costi dell‟ Unione Monetaria Europea. In sostanza, l‟idea era che il processo di unificazione in atto, mentre per un verso consentiva al Paese di entrare nella grande economia continentale protetta da una stabile moneta unica, per altro verso finiva per eliminare la scialuppa di salvataggio della „svalutazione competitiva‟, cui l‟Italia si era a più riprese aggrappata durante gli anni Ottanta. Insomma, non era più possibile svalutare la nostra moneta per recuperare competitività e dare un po‟ di respiro alle esportazioni. Questa situazione inedita generava alcune conseguenze di rilievo. L‟inflazione diveniva ora un male da combattere, traducendosi immediatamente in una caduta di competitività. Non solo. Considerata l‟impossibilità di svalutare, e assunti acriticamente i vincoli alle politiche fiscali e monetarie, l‟economia italiana restava completamente sguarnita di qualsiasi meccanismo protettivo rispetto alle oscillazioni continue del ciclo economico, e risultava dunque incapace di spingersi oltre sul sentiero dello sviluppo. La flessibilità del mercato del lavoro si rendeva indispensabile: il lavoro doveva divenire la valvola di sfogo dei capricci ciclici dell‟economia. Dunque occorreva flessibilità, in tutte le sue possibili declinazioni (salariale, numerica, funzionale). Ed ecco prima la benedizione del centrosinistra agli accordi del luglio 1993 e poi il “pacchetto Treu”511. In questo senso, sostiene il prof. Realfonzo, il pacchetto Treu ha ―spianato‖ la strada alla legge Biagi, che, in nome dell‘idea propugnata da tutta la destra europea, che l‘UE non possa accettare mercati del lavoro che non siano flessibili, in tutto e per tutto, ha permesso che si potessero introdurre nel sistema italiano forme di sfruttamento prima 510 511 P. Tridico, Flessibilità, sicurezza e ammortizzatori sociali in Italia: necessità di un raccordo, in ―Quaderni di ricerca sull‘artigianato‖, n. 56, III trimestre 2010, p. 67. R. Realfonzo, È il pacchetto Treu che ha spianato la strada, da ―Il Manifesto‖ del 19 marzo 2005. 185 impensabili512 e vergognose. Queste riforme sono state inquadrate nella Strategia Europea dell‘Occupazione del 1997 e nella Strategia di Lisbona del marzo del 2000 che ha stabilito, a livello comunitario, le linee guida della riforma del mercato del lavoro, che aveva come obiettivo quello di rendere l‘Europa, entro il 2010: “[…]diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale‖513. Quanto questo sia vero e salutare, è riscontrabile oggi, alla luce dei fatti: nonostante questo, si continua ad invocare una sempre maggiore deregolamentazione e flessibilizzazione, senza pensare a salari minimi e a fornire stabilità al mercato del lavoro. Come sottolinea Tridico, il tentativo fatto in Europa è quello di cercare di costruire un equilibrio sociale, applicando un modello comunemente denominato di flexicurity, in grado, cioè, di bilanciare sicurezza e flessibilità (Commissione Europea 2007). Dal punto di vista dell‘Italia, il raggiungimento di questo obiettivo non può che comportare una riforma dell‘attuale “sistema complesso e disorganizzato di ammortizzatori sociali”. In sostanza, continua Tridico, “sembra si possa affermare che in Italia, il recepimento del modello flexicurity debba significare l‟incremento di protezione, tutele e diritti sociali per occupati e disoccupati. Questa esigenza è stata messa maggiormente in evidenza dall‟attuale crisi finanziaria che ha portato nei mercati reali una crescita considerevole dei tassi di disoccupazione e quindi una maggiore domanda di protezione del reddito”514. È evidente, infatti, che l‘Italia è afflitta da un vuoto nella legislazione sulla sicurezza sociale, che risulta fortemente obsoleta e inadatta a regolamentare i cambiamenti introdotti nell‘ultimo decennio, sia sul piano contrattuale che su quello strutturale. Sarebbe dunque necessario un adeguamento degli ammortizzatori sociali e delle tutele esistenti alle nuove forme di lavoro e alla crescente flessibilità contrattuale introdotta, allo scopo di combattere il precariato dilagante e le sue conseguenze negative a livello sociale ed economico. Oltre tutto, come già accennato, la suddetta riforma è tanto più necessaria, alla luce del fatto che stiamo attraversando una fase di recessione economica, poiché produrrebbe un doppio effetto positivo: da un lato, tutelando i lavoratori garantirebbe loro un potere di acquisto, e, dall‘altro, sosterrebbe la domanda aggregata, evitandone un 512 513 514 Ibidem. Si veda il testo delle conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000 consultabile all‘indirizzo http://www.europarl.europa.eu/summits/lis1_it.htm P. Tridico, Flessibilità, sicurezza e ammortizzatori sociali in Italia, cit., p. 68. 186 ulteriore tracollo515. Si può concludere, riprendendo la riflessione di Jürgen Habermas, che quel welfare State, che, posto come obiettivo politico prioritario, ha decretato la vittoria elettorale di tutti quei partiti che hanno preso il potere in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ha iniziato a mostrare i propri limiti già negli anni Settanta, a modesto avviso per colpa di una classe politica inetta, corrotta e dipendente da gruppi finanziari e di potere, che ha portato progressivamente a metterne in discussione le importanti conquiste sociali ottenute, nonostante non sia stata, di fatto, elaborata una convincente e chiara alternativa ad esso “La Nuova Oscurità fa parte di una situazione in cui il progetto dello Stato sociale, che continua ad essere nutrito dall‟utopia di una società fondata sul lavoro, sta perdendo la sua capacità di immaginare possibilità future di una vita sociale meno minacciata e migliore”516. Peraltro, se continua ad invocarsi una sempre maggiore flessibilità del lavoro, su cui anche i sindacati finiscono con l‘incartarsi, per procurare una ―maggiore occupazione‖ (è infatti, storicamente, questa la premessa, per cui si è arrivati alla legge 30), nessuno però si è preoccupato di dimostrare questo asserto, stabilendo di quali indicatori si parla o di comparare la maggiore occupazione con le ore lavorate effettivamente, come invece argomenta L. Gallino nel suo testo, evidenziando come “[…]ambedue i numeri sono atti a variare col tempo, pur nel caso che l‟altro rimanga costante. Se gli stessi occupati si mettono a lavorare regolarmente tot ore in più nel periodo successivo, il monte ore lavorate risulterà in aumento, mentre se si diffondono, per dire, i contratti a tempo parziale, o i contratti a tempo determinato di breve durata, è possibile che appaia aumentato il numero degli occupati, pur a fronte d‟un volume totale di ore lavorate, ovvero di unità di lavoro equiparate a tempi pieni, di fatto rimasto stabile.517 Allo stato attuale, nota come sia estremamente difficile provvedere ad una valutazione effettiva della disoccupazione, in base ai criteri osservati, tanto che anche in altre nazioni, come Inghilterra o Francia, nell‘ultimo ventennio si è dovuto, decine di volte, 515 516 517 Ivi, p. 69. J. Habermas, La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, Edizioni lavoro, Roma 1998, p. 23. L. Gallino, Il lavoro non è una merce: contro la flessibilità, Ed. Laterza, Bari 2010.pag. 46 - 47, dove peraltro prosegue: “Questo è precisamente quello che è avvenuto in notevole misura in Olanda, spesso additata come campione di aumento dell‟occupazione grazie alla flessibilità, e in misura di poco minore in Italia, nell‟arco dell‟ultimo decennio. Proprio a causa della diffusione dei suddetti contratti atipici, in ambedue i casi il monte ore nazionale non ha mostrato variazioni di rilievo; nel contempo risulta però cresciuto il numero degli occupati. Se la prima situazione (l‟aumento degli occupati) oppure la seconda (l‟aumento delle ore lavorate o delle unità di lavoro in totale) siano da classificare come un aumento dell‟occupazione, è spesso un indice della posizione politica di chi opta per l‟una o per l‟altra. Durante il secondo governo Berlusconi (2001-2006), ad esempio, l‟aumento del numero degli occupati rilevato dall‟Istat fu enfatizzato dai suoi sostenitori come un esito indubbio delle politiche del lavoro e del maggior grado di flessibilità del lavoro da esso introdotto con la legge 30/2003, ad onta della stabilità del volume di ore effettivamente lavorate.” Per di più, viene riportato il riferimento allo ―scivoloso‖ sistema di campionatura degli occupati, effettuato in Italia dall‘istituto di statistica su un campione di 175.000 intervistati e rapportando le modifiche intervenute nel rapporto tra i vari elementi.. 187 ricorrere alla modifica delle caratteristiche di tali rilevazioni e dei relativi indicatori, per questioni politiche o, come in Francia nel 2007 alla soglia delle presidenziali, addirittura ricorrere alla sospensione per via delle forti divergenze esistenti tra Anpe e Insee (Istat francese) nella valutazione del dato che ―quindi avrebbe potuto turbare – è stato ufficialmente asserito – il regolare svolgimento delle elezioni.”518 In Italia, ad esempio, viene riconosciuto lo status di disoccupazione, secondo il D. L.vo 19/12/2002, n. 297, necessario per la registrazione presso un centro per l‘impiego, solo quando il soggetto sia privo di lavoro e disponibile al lavoro immediato“ha concordato le modalità di ricerca attiva del lavoro con i servizi competenti”.519 Questo meccanismo, appare obiettivamente adatto a creare una prima importante discrepanza del dato reale da quello figurato emerso. Qualche anno fa, l‘Ocse (Organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico), era uno degli organismi più attivi a pungolare l‘Italia a rendere più flessibile il mercato del lavoro. Aveva in mano un suo rapporto del 1996 relativo alle prospettive sull‘occupazione i cui dati, relativi anche a Canada e USA, si riferivano a periodi diversificati tra il 1983 e il 1992, quindi totalmente inappropriati, considerata la velocità del mercato del lavoro. Eppure, l‘Ocse, proprio da tali dati, muoveva per sollecitare la flessibilità ai paesi membri, anche se, con evidenza, non poteva essere verificata l‘affermazione che tra il job turnover netto e la rigidità della legislazione a protezione dell‘impiego, misurata dall‘Epl (indice che sta per Employment Protection Legislation) e vista come il contrario della flessibilità, esista un‘evidente correlazione negativa: ossia maggiore L‘Epl, minore il job turnover netto. Il periodo di riferimento per l‘Italia, si attestava intorno al 1987-92, con un elevato indice di Epl, pari a 4,1 punti, e un job turnover netto pari a 1 (punto percentuale di aumento sul totale dell‘occupazione a base annua). L‘Irlanda aveva un Epl molto più basso (1984-85), pari a 0.9 e avrebbe quindi dovuto avere un job turnover molto più alto. Invece, l‘evidenza dei dati rappresentava una situazione in cui, quel paese, anziché creare, aveva perso posti di lavoro: il 3.9% annuo. Così il Belgio e la Svezia, pur avendo un Epl poco più basso, nello stesso periodo creavano 5 volte di meno di occupati o addirittura li sopprimevano (-0,1%). In Finlandia, la cui flessibilità sul lavoro era la metà rispetto all‘Italia (2,3% contro 4,1%), anziché creare, perdeva nel periodo tra il 1986 e il 1991 ben l‘1,6% annuo.520 L‘Ocse, quindi, raccomandava ai paesi membri una maggiore flessibilità sul lavoro (e questi la 518 519 520 Ivi, p. 49. Ibidem. Ivi, pp. 52-53. 188 recepivano, come l‘Italia) assicurando una crescita dell‘occupazione, mentre i dati di cui disponeva e che pubblicava non solo non confermavano l‘ipotesi ma, addirittura, la contraddicevano. E‘ solo nel 2004, dopo che anche in Italia si è proceduto ad una ristrutturazione (sanguinosa) del mercato del lavoro, con l‘introduzione di una precarietà e di livelli di sfruttamento da paese in via di sviluppo, grazie alla pressione di grandi interessi e alla già citata legge 30/2003 cd. Legge Biagi, che l‘Ocse afferma in “tutta tranquillità – e lo fa di nuovo nella sua maggiore pubblicazione in tema d‟impiego, l‟Employment Outlook – che, a guardar bene, non sembra sussistere alcuna relazione positiva, empiricamente fondata, tra livello di flessibilità e volume totale dell‟occupazione. Riassumendo 15 anni di osservazioni e ricerche sugli effetti dell‟Epl nei paesi Ocse, il rapporto nota anzitutto che nei paesi in cui essa era particolarmente rigida alla fine degli anni Ottanta si sono diffuse riforme consistenti per facilitare il ricorso a forme temporanee di occupazione, mentre sono state lasciate praticamente inalterate le normative relative ai contratti di lavoro normali o permanenti o, per meglio dire, di durata indeterminata. E‟ possibile che a simili riforme, definite più tardi <a due scalini> anche da ricercatori italiani, vada attribuito lo scarso effetto che hanno avuto sui livelli globali di occupazione; ma questo, in assenza di controprove, sembra più che altro un tentativo di giustificare il fallimento della previsione formulata dalla stessa Ocse (ma, anche, da una nuova e ―rampante intellighenzia‖ economicista nelle Università, posta a fianco di modesti personaggi politici, come in Italia), per cui maggiore flessibilità del lavoro uguale maggior occupazione”.521 Di lì a poco, il rapporto Ocse 2004, perviene a delle conclusioni ―sconcertanti‖ e sulle quali ci sarebbe da dire assai più che non in questa sede, soprattutto soffermandosi sul fatto che, in Italia, l‘onda lunga di questo rampantismo pressappochista522, unito ormai a solide basi liberiste, garantite da una stampa, una comunicazione mass-mediatica (ma anche di eccellenza, vedasi università) e una miriade di sedicenti fondazioni e istituzioni culturali, create ad hoc per la diffusione del ―nuovo verbo‖, non solo è passata, ma si è addirittura rafforzata (contratto FIAT e sue conseguenze sul mercato del lavoro) e continua imperterrita la sua opera demolitrice di quel poco che in Italia ancora riusciva a funzionare, come il 521 522 Ivi, pp. 53-54. Ivi, p. 54: ―<<La normativa sulla protezione dell‟impiego adempie al suo proposito dichiarato, che consiste nel proteggere i posti di lavoro esistenti (sic). In verità l‟evidenza [in questo rapporto][…] suggerisce che la Epl tende a limitare la capacità delle imprese di licenziare i lavoratori>>. Al tempo stesso, essa finisce per ridurre le possibilità di reimpiego dei disoccupati, in specie quelli di lunga durata. In conclusione <l‟impatto netto dell‟Epl sulla disoccupazione aggregata è a priori ambiguo, e può essere individuato soltanto dall‟indagine empirica>. Malauguratamente, <i numerosi studi empirici condotti su questo tema portano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità è stata messa in dubbio>. Tradotto: non esiste alcuna evidenza a sostegno dell‟ipotesi che facilitare i licenziamenti accresca l‟occupazione.” 189 mercato del lavoro e le garanzie correlate. Invece di colpire e moderare eventuali eccessi garantisti, che pre-esistevano, si è preferito colpire l‘uso, lo strumento in sé passando, come è stata definita da alcuni ricercatori italiani, ―da una crescita economica senza occupazione” (anni ‘80 e metà ‘90) alla ―creazione di posti di lavoro senza crescita.”523 Tanto che, specie per la situazione italiana, il nesso flessibilità – occupazione comporta“una connotazione peggiorativa: i contratti a termine, che sappiamo essere per lo più brevi, hanno un effetto negativo sulla produttività.”524 Le ragioni di tutto questo sono chiare a qualsiasi esperto di organizzazione aziendale: la preoccupazione del lavoratore è rivolta già alla ricerca di un nuovo contratto che, alla scadenza del preesistente, garantisca continuità; ha poco interesse alla formazione che, peraltro, l‘azienda non è interessata a fornire, considerando lo scarso periodo temporale dell‘apporto lavorativo; in più, lascia il lavoro prima che il suo bagaglio di esperienze consenta un‘ottimizzazione e selezione dei tempi di lavoro per una maggiore produttività. Anche la vicinanza tra lavoratori soggetti a continue rotazioni, con contratti che finiscono ed iniziano, rende inutile lo scambio di esperienze. Si aggiunga la difficoltà di entrare all‘interno delle dinamiche, dei codici linguistici e settoriali dell‘azienda, escludendo eventuali sinergie tra competenze diverse, solitamente alla base della produttività aziendale. Non è incongruo affermare, quindi, che la supposta correlazione tra aumentata flessibilità del lavoro e creazione di nuovi posti di lavoro, o di riduzione del tasso di disoccupazione ―richiamata a ogni piè sospinto da politici, accademici e media, non trova alcun sostegno di qualche robustezza nell‟evidenza disponibile.”525 A questo proposito, ricordare le parole di Massimo D‘Antona prima del governo D‘Alema e della sua prematura scomparsa appare estremamente confortante. Lo stesso, in relazione alle misure sulla flessibilità del lavoro, previste dal protocollo del luglio 1993, così commentò la cosa: “<E‟ un programma che ha il limite evidente di ripercorrere sentieri battuti. L‟idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei posti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente obsoleta. Il mercato del lavoro è ormai in Italia flessibilizzato in misura più che adeguata alle esigenze effettive delle imprese e non vi sono margini ulteriori per creare convenienze alle assunzioni.> Gli avessero mai dato retta, il governo di allora e quelli successivi, molti giovani e meno giovani conoscerebbero oggi migliori condizioni di lavoro e di vita.”526 523 524 525 526 Ibidem. Ivi, p. 55 Ivi, p. 56 Ibidem. 190 6. Il concetto di sviluppo e sottosviluppo Il concetto di sviluppo ha subito nel corso del tempo diversi mutamenti nel significato ed è stato analizzato e discusso da molteplici autori in differenti momenti storici, a partire da differenti approcci culturali. Si tratta, in ogni caso, di un concetto relativo che dipende dal contesto storico e dalla particolare società in cui viene esaminato. Ad esempio, essere considerati poveri oggi non può compararsi con la definizione di povertà tipica del dopoguerra o, addirittura, con quella degli inizi del Novecento. La povertà, oggi, nelle società avanzate, è rappresentata, in gran parte delle infinite sfumature che compongono il termine, dalla carenza di quello che potremmo definire il superfluo, il non strettamente necessario: la scarpa non alla moda, il capo d'abbigliamento non firmato, il non disporre dell'ultima tecnologia cellulare. L'uomo moderno, contrae debiti per acquisire tecnologie che possiedono in sé il germe dell'obsolescenza quasi immediata. La tecnologia non avanza, se non ciclicamente, quello che avanza è l‘obsolescenza del mezzo, ad esempio: telefoni che solamente ampliando la memoria disponibile rendono vetusti quelli di 6 mesi prima, auto e moto che ogni anno conoscono un aggiornamento di versione che, sostanzialmente, non corregge errori ma, ne diversifica la linea nella parte accessoria. Ogni oggetto che viene immesso nel circuito di vendita ha già programmata la sua data di scadenza; esattamente come il replicante co-protagonista di Blade Runner, i nostri oggetti potrebbero dirci: "Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti, andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia....E' tempo di morire!”527 Questo è l'odierno modello di ―sviluppo‖ che, spesso, tendiamo a ritenere benessere. Allo stesso modo, nell‘epoca contemporanea, i cosiddetti paesi in via di sviluppo sono stati considerati poveri per la loro condizione economica e sociale, anche se solo in rapporto al modello ―benessere‖, proposto da quelli che si reputano più sviluppati528. Inoltre, l‘idea di sviluppo risulta essere particolarmente recente essendo legata all‘espansione del sistema capitalistico, prodotto dal processo d‘industrializzazione maturato in Europa a partire dalla fine del Settecento. Tale idea è molto vicina a quella di evoluzione, 527 528 Blade Runner è un film del 1982, diretto da Ridley Scott. È uno dei più celebri film di fantascienza, liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?) di Philp K. Dick, oggi considerato uno dei maggiori scrittori USA della seconda metà del '900 (non solo nell'ambito fantascientifico). Il titolo del film è tratto dal romanzo The Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse In questi casi sarebbe più corretto parlare in termini di ―diseguaglianza‖. 191 ossia alla concezione per cui la società progredisce attraverso una serie di stadi. Il concetto di sottosviluppo, invece, è ancora più recente529 e relativo del precedente, dato che emerse timidamente nel linguaggio e nella letteratura politica americana solo al termine della Seconda Guerra Mondiale ed entrò, poi, nell‘uso comune attraverso le grandi organizzazioni internazionali (quali l‘ONU, l‘UNESCO, la International Bank for Reconstruction and Development etc.), sorte sempre per iniziativa americana. Si riferisce ad una vasta gamma di caratteristiche economiche, demografiche, sociali e politiche che non possono venire attribuite in egual misura a tutti i paesi in oggetto. Con la fine della guerra, nel 1945, le situazioni e i livelli di sviluppo reali non erano mutati granché rispetto al passato, nonostante ciò, si è affermato un nuovo ordine e con esso un nuovo modo di vedere le vecchie realtà, pubblicamente proclamato dal Presidente Truman, il 10 gennaio del 1949, nel famoso ―Point Four Program‖ secondo cui: “Fourth: We must embark on a bold new program for making the benefits of our scientific advances and industrial progress available for the improvement and growth of underdeveloped areas”. Oramai, queste parole sembrano ovvie per il semplice fatto che il programma è divenuto, negli anni, una pratica globalmente diffusa, ma è stato tuttavia un passo rivoluzionario (mai termine, fu utilizzato in senso più improprio) quello di dichiarare l‘aiuto allo sviluppo come compito universale e renderlo, così, un dovere per gli uni e una legittima pretesa per gli altri, posizione questa che, come vedremo, anche altri condividono. Tale progetto è stato poi completato da politici ed economisti secondo il modello del Piano Marshall, che ha prodotto la dipendenza europea dagli Usa, sebbene sia stato presentato, in realtà, come progetto posto a difesa dell‘avanzata comunista. È nata, così, quella che Friedrich Tenbruck ha definito la visione del Mondo Unico, secondo la quale i popoli dovrebbero essere uniti da un equo e comune sviluppo530 che però, in alcune aree del mondo, essendo stato ostacolato, non si è prodotto. In tal modo i paesi, definiti fino ad allora poveri o arretrati, hanno iniziato ad essere chiamati ―sottosviluppati‖ poiché erano rimasti ad un livello di sviluppo inferiore rispetto a quello atteso. Per questa ragione è nata l‘espressione ―sottosviluppo‖, che si riferisce dunque ad una anomalia da correggere al più presto. Al riguardo, secondo Tenbruck“i paesi in via di sviluppo non sono tali per le loro condizioni peculiari; essi sono diventati paesi in via di sviluppo solo con il programma che mirava al superamento delle suddette condizioni. Sotto questo aspetto il concetto si fonda su una visione della crescita unitaria dell‟umanità che concepiva il mondo come comunità 529 530 Ancora nel 1958 l‘Encyclopaedia Britannica non riportava una sola voce al riguardo e lo stesso ritardo caratterizza anche le enciclopedie europee. F. Tenbruck, Sociologia della cultura, Bulzoni Editore, Roma 2002, p. 159. 192 secolare di destino e di sviluppo di tutti i popoli e che, in questo senso, individuava un preciso compito. I paesi in via di sviluppo esistevano non in virtù delle loro condizioni particolari, ma in virtù della domanda di un nuovo ordine del mondo che presupponeva un‟ampia intesa culturale sul compito globale di un equo e comune sviluppo”531. In quest‘ottica il raggiungimento del comune obiettivo poteva verificarsi solo nel caso in cui all‘offerta di aiuto da un parte facesse riscontro la pretesa di tale aiuto dall‘altra. Senza quest‘ultima, ad esempio, il programma di Truman sarebbe rimasto una forma di benevolo paternalismo nei confronti di popoli indifferenti. Analizzando in prospettiva storica, tale idea, poteva nascere solamente all‘interno della religione cristiana, data l‘universalità e il carattere missionario che la contraddistinguono. Secondo il sociologo tedesco, “erano le concezioni cristiane della creazione, dell‟universale paternità divina e della fraternità, assieme alla promessa concepita nel Medio Evo, della redenzione millenaristica, benché provvisoria, nel regno di Dio sulla terra, a fornire il primo e solo terreno fertile sul quale poteva crescere l‟idea dell‟ecumene secolare come compimento terreno del tempo”532. Osservando storicamente la vicenda, invece, già la Rivoluzione francese aveva fornito il concetto chiave del progresso, elevato a teologia secolare533, promesso a tutta l‘umanità, in quanto obiettivo primo della storia. Laddove tale progresso non si fosse realizzato in modo sincronico, i popoli civilizzati avrebbero costituito le avanguardie dell‘umanità, tracciando la scia di uno sviluppo unitario. Il progresso era visto come felicità dell‘uomo ed autodeterminazione dei popoli. Poi, seguendo lo stesso filone, nel XIX secolo sono nate le ideologie politiche del liberalismo e del socialismo, che, seppure con metodi diversi, dovevano condurre ad uno sviluppo comune. Contemporaneamente lo stesso colonialismo europeo può essere letto come strettamente connesso all‘etica cristiana e inteso come missione culturale e civilizzatrice. In realtà, in Europa la fede nel progresso è stata oscurata già al termine della Prima Guerra Mondiale e sfidata da una lunga serie di critici534, a differenza di quanto è avvenuto negli Stati Uniti, che sono rimasti i soli a credere di possedere l‘universale ricetta per il progresso. Inoltre, l‘iniziale ottimismo per il quale si riteneva che il superamento del sottosviluppo fosse a portata di mano si è scontrato con un gran numero di problematiche e incongruenze, tanto che oggi si discute soprattutto dei limiti delle cosiddette ―politiche dello sviluppo‖. Con la fondazione delle Nazioni Unite si è cominciato a pensare che la pace fosse 531 532 533 534 Ivi, p. 160. Ivi, p. 167. Si veda M. Schramm, Natur ohne Sinn, Graz-Wien-Kohln 1985. Basti pensare a Nietzsche, Sorel, Weber, Burckhardt. 193 legata allo sviluppo. Quest‘ultimo, quindi, è divenuto l‘obiettivo principale della politica internazionale. Il collegamento tra questi due concetti nasce dalla convinzione che le differenze di sviluppo siano la causa generale di tutti i mali e vadano per questo combattute. Sviluppo e, dunque, crescita economica si sono così trasformati nell‘“assioma supremo e indiscutibile”535 per il raggiungimento della pace. Quindi, “chiunque si opponga alla crescita economica in sé può venire denunciato come nemico della pace. Perfino Gandhi è stato presentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico. E, quel che è peggio, i suoi insegnamenti sono stati pervertiti nelle cosiddette <strategie non violente di sviluppo>. Anche la sua pace è stata collegata alla crescita”536. Ed è proprio questa connessione, secondo Ivan Illich pericolosa, che ha reso difficile se non impossibile mettere in discussione il concetto di sviluppo. Svilupparsi, sempre seguendo il pensiero di Illich, significa trasformare culture orientate alla sussistenza in un sistema economico formale ed implica sempre la propagazione della dipendenza da merci e servizi percepiti come scarsi: l‘ambiente originario diventa risorsa per la produzione e la circolazione delle merci, ―Lo sviluppo significa perciò inevitabilmente l‟imposizione della pax oeconomica a spese di ogni forma di pace popolare‖537. Durante il medioevo europeo pax non significava l‘assenza di guerra, ma la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza. “Per quanto sanguinoso fosse il conflitto fra signori, la pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa salvaguardava il granaio d‟emergenza, il seme e il periodo del raccolto”538. Poi, con la nascita dello Stato nazione, è emerso un mondo del tutto nuovo e con esso sono nati un nuovo tipo di pace e un nuovo tipo di violenza: in quel momento la sussistenza è divenuta oggetto di un‘aggressione che si pretendeva pacifica, in altre parole è stata attaccata dall‘espansione dei mercati di merci e servizi. La nuova pace, che Illich definisce economica, proteggeva la produzione, scagliandosi contro la cultura popolare e gli usi civici. In base all‘idea secondo cui la gente è divenuta incapace di provvedere a se stessa si autorizza una nuova élite a dettare le regole per la sua stessa sopravvivenza tramite, ad esempio, la regolamentazione all‘accesso all‘educazione, alla sanità etc.. Adesso è il produttore ad essere esaltato al posto del consumatore e le attività di sussistenza sono definite improduttive mentre le culture tradizionali sottosviluppate. 535 536 537 538 I. Illich, Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Red Edizioni, Como 1992, p. 20. Ivi, pp. 20-21. Ivi, p. 22. Ibidem. 194 Si attacca anche l‘ambiente che, considerato una risorsa scarsa, è destinato ad essere sfruttato per produrre merci, fornire servizi o, semplicemente, come spazio riservato alla loro circolazione. “Storicamente, questo è il significato dello sviluppo: cominciando con il racchiudere in un terreno cintato le pecore del signore, per arrivare a recingere strade destinate esclusivamente alla circolazione delle automobili e a restringere l‟accesso agli impieghi desiderabili a coloro che abbiano almeno dodici anni di educazione scolastica. Lo sviluppo ha sempre significato la violenta esclusione di coloro che sopravvivevano mediante i valori d‟uso dell‟ambiente, senza dipendere dal consumo. La pax oeconomica significa guerra agli usi civici, all‟ambiente di uso comune.”539 Infine la nuova pace conduce anche alla guerra fra i sessi: infatti, benché il lavoro industriale sia concepito come neutro, l‘accesso ad esso è asimmetrico in quanto gli uomini svolgono, in genere, mansioni ben retribuite e desiderabili, lasciando alle donne i compiti rimanenti. Si crea così una concorrenza (o guerra) tra individui teoricamente uguali per l‘accesso al lavoro salariato, divenuto scarso. Poi, negli anni Sessanta lo sviluppo si è trasformato in dovere e compito dei ricchi ed è stato descritto come un programma di costruzioni:“lo scopo immediato di questi programmi di ingegneria sociale era quello di installare, in una società che non ne fosse ancora dotata, un complesso equilibrato di strutture: costruire più scuole, più ospedali, più strade, nuove fabbriche, linee elettriche e, nello stesso tempo, creare una popolazione addestrata a far funzionare queste strutture e ad averne bisogno”540. Secondo Illich, questo tipo di sviluppo ha causato la crescita esponenziale delle cosiddette ―esternalità indesiderabili‖ rispetto ai benefici stessi del progresso. Al riguardo, egli cita il caso del carico fiscale di scuole e ospedali che è superiore a quanto la maggior parte delle economie riesca a tollerare. ―Le esternalità rappresentano costi „al di fuori‟ del prezzo pagato dal consumatore per ciò che acquista: costi che ricadranno a un certo punto su di lui, su altri o sulle generazioni future”541. E‘ questa la controproduttività, ossia un nuovo tipo di delusione costante ed intrinseca ad ogni merce acquistata. L'economista e premio Nobel indiano Amartya Kumar Sen sostiene in modo convincente, invece, che lo sviluppo non coincide con un mero aumento del reddito, ma con un aumento della qualità della vita, riprendendo una semantica più ―autentica‖ del termine sviluppo. L'idea dell'autore ha, infatti, convinto diversi studiosi sull'opportunità di rivedere il concetto di sviluppo, facendo breccia anche nelle istituzioni: l'ONU, infatti, ha iniziato a 539 540 541 Ivi, p. 24. Ivi, p. 80. Ivi, p. 81. 195 pubblicare ogni anno il Rapporto sullo sviluppo umano, utilizzando criteri altri che non il solo P.I.L.542 Punto di eccellenza del Rapporto è il tentativo di calcolare un Indice di Sviluppo Umano (ISU) attraverso la quantificazione numerica di alcune delle principali dimensioni che rappresentano l'approccio del sociologo. L'ISU, quindi, con l'adozione di indici differenti, tende a far ―crescere‖ nella scala dei valori, paesi come Cuba, Giamaica e Costarica, e a far scendere i produttori di petrolio del Vicino Oriente. La definizione di sviluppo, da molti ritenuta più completa e che rispecchia i principali risultati del dibattito svoltosi al riguardo negli ultimi decenni, è quella proposta da Nohlen e Nuscheler nel 1992, la quale poggia su cinque elementi fondamentali che sono: 1.1. la crescita economica, intesa non solo come aumento quantitativo, ma come miglioramento effettivo del livello sociale (qualitativo?); 1.2. il lavoro, come risorsa primaria per una popolazione che si voglia autopromuovere e intenda così uscire dallo stato di subalternità; 1.3. l'uguaglianza sociale, poiché non si crede valido e permanente nel tempo alcuno sviluppo sulla base delle sperequazioni sociali; 1.4. la partecipazione, ovvero il coinvolgimento della popolazione nel processo di sviluppo, il che presuppone consenso e comunanza di obiettivi; 1.5. l'indipendenza e l'autodeterminazione dei popoli, sia politica che in relazione all'impiego delle risorse e delle ricchezze locali, elementi sempre più centrali nella vita delle persone e fondamento dei D.U.. Come per il termine sviluppo, anche per quello "sottosviluppo" è difficile giungere ad una definizione univoca. La dizione di sottosviluppo si può considerare adoperata nel dibattito a partire dagli anni Settanta del XX secolo, poiché fino a quel momento i paesi ex colonie, che si erano affrancati erano considerati semplicemente arretrati e considerati "non sviluppati" (undeveloped countries). Il problema dei "paesi non sviluppati" si configurava come problema essenzialmente quantitativo, un problema di mancanza o scarsità di alcuni fattori di produzione (capitali, tecnologie, organizzazioni) e di basso livello di alcuni indicatori economici (singole produzioni, reddito procapite, Pil). Dietro questo approccio, vi era la convinzione per cui tutte le società esistenti dovevano attraversare vari stadi per giungere alla meta finale, cioè la modernità del capitalismo. Mentre la società occidentale era già in questa fase di arrivo, molte altre si trovavano ad altri livelli del percorso e venivano 542 L'idea, portata avanti nel passato da autorevoli politici, considera il PIL solo uno degli elementi di valutazione del benessere di una nazione. Vedi discorso di Bob Kennedy, all'Università del Kansas. 196 identificate quindi come non sviluppate. Secondo la teoria degli stadi concepita da Walt Whitman Rostow543 nel corso degli anni I960, i processi di sviluppo economico e di modernizzazione di una società si verificano in ogni Paese attraverso diversi stadi di sviluppo. Questi stadi partono dalla cd. società tradizionale, cioè una società nella quale la stragrande maggioranza della popolazione opera nel settore primario in un'economia di sussistenza e autoconsumo, basata su rapporti di reciprocità e ridistribuzione. In seguito a questo primo stadio si passa al secondo che è caratterizzato dalla incubazione delle condizioni per il decollo. In tale fase la società è ancora essenzialmente agricola, ma si sviluppa il commercio e comincia l'accumulazione del capitale che consentirà, nel terzo stadio, la crescita massiccia dell'industrializzazione e il decollo (take off) del paese. Al take off segue lo stadio del consolidamento, caratterizzato dalla diversificazione produttiva, dalla riduzione dei livelli complessivi di povertà e da un aumento degli standard di vita. Nell'ultima fase, definita della maturità e caratterizzata dai consumi di massa, l'industrializzazione viene soppiantata dalle attività terziarie in un contesto dominato da un'economia integrata, basata su legami di interdipendenza. Questa teoria, si caratterizza per il passaggio da un stadio all'altro che, generalmente, avviene in modo sostanzialmente lineare. Naturalmente, non tutte le condizioni si verificano con certezza in ogni stadio, ma è comunque vero che, anche se gli stadi e i periodi di transizione tra uno stadio e l'altro variano (in durata) da paese a paese, vi sono presunte regolarità che potrebbero far pensare ad una sequenza lineare e determinata. L'ipotesi più forte per la quale Rostow è stato criticato, è quella di cercare di far coincidere il progresso economico con un sistema di sviluppo lineare per stadi. Tale critica è decisamente appropriata, poiché vi sono paesi che hanno avuto 'false partenze' sulla via del decollo, hanno poi raggiunto un certo grado di sviluppo sulla via della transizione, ma sono poi retrocessi, come è ad esempio successo nel caso della Russia contemporanea (attuale).L'approccio lineare, alla Rostow, ha avuto inizialmente una grande diffusione, ma ha riscosso nel tempo sempre meno consensi, perché considerato eccessivamente eurocentrico. Quando si affermò il pensiero in base al quale l'arretratezza andava intesa come lo stato in cui erano stati ridotti i paesi del Terzo Mondo a seguito dello sfruttamento storicamente compiuto dai paesi colonizzatori, fu rigettata l'idea che i "paesi non sviluppati‖ si trovassero al primo gradino di un processo di sviluppo. La definizione di "paesi non 543 W.W. Rostow, The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge University Press, Cambridge 1960. 197 sviluppati" fu sostituita dalla dizione "paesi sottosviluppati" (underdeveloped countries), intendendo il sottosviluppo come il punto di arrivo di un processo. Secondo le cosiddette teorie della dipendenza, sviluppo e sottosviluppo sono due facce della stessa medaglia: è l'integrazione dei Paesi e delle aree arretrate nel sistema economico internazionale che impedisce il loro sviluppo e anzi acuisce la loro arretratezza. Le economie centrali, indubbiamente, si rafforzano proprio grazie ai meccanismi di scambio tra Paesi ricchi e Paesi poveri. L'autore egiziano Samir Amin, usa distinguere tra capitalismo metropolitano e capitalismo periferico. Con il primo termine si intende la configurazione del capitalismo nei paesi ricchi, mentre con la dizione di capitalismo periferico si indica la tipologia capitalistica propria dei paesi sottosviluppati. Mentre nel capitalismo metropolitano la dinamica tende all'equilibrio tra beni capitali e beni di consumo, nel capitalismo periferico, invece, si producono beni primari destinati all'esportazione e si importano beni di lusso per le elite locali. Il problema sostanziale per i paesi sottosviluppati consiste, secondo l'autore, nella incapacità dei paesi periferici di accumulare capitali sufficienti a consentire la crescita economica, generando così un circolo vizioso che porta ad uno sviluppo ineguale. Negli anni settanta e ottanta del XX secolo si afferma la teoria della "Dependencia" in base alla quale le cause del sottosviluppo non sono endogene, ma dovute al fatto che i paesi più poveri sono parte integrante dell'ordine economico internazionale544. In sostanza, la condizione dei paesi sottosviluppati scaturisce dalla dinamica delle relazioni internazionali realizzatesi nel corso del tempo. Concependo il capitalismo come un sistema mondiale, in esso il sottosviluppo di alcune aree del mondo è funzionale allo sviluppo delle altre. L'economia mondiale è portatrice di un disegno diseguale e pregiudiziale per i paesi non-sviluppati, a cui viene assegnato un ruolo periferico di produzione delle materie prime con basso valore aggiunto, mentre le decisioni fondamentali sono adottate dai paesi centrali, a cui viene assegnata la produzione industriale ad alto valore aggiunto. Il nocciolo centrale della teoria della "dependencia" insiste sul fatto che lo sviluppo e la ricchezza del centro dipenderebbe in modo imprescindibile dallo sfruttamento e dall'arretratezza della periferia. Proprio come nella teoria marxista il potere della classe dominante si basa sullo sfruttamento della classe dominata. Al contempo, Wallerstein545 ha affermato che il sistema-mondo, in quanto tale, coinvolge tutti gli stati i quali rivestono, all'interno del sistema, un ruolo distinto. Di certo, qualunque sia il ruolo che questi rivestono, appare evidente che la distinzione dei ruoli è 544 545 F. H. Cardoso e E. Faletto, Dependencia Y Desarrollo En America Latina, Siglo XXI Editorial, Messico 1998. I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, Roma 2003. 198 funzionale a creare una diversificazione tra gli stessi, a tutto vantaggio dell'uno o dell'altro paese, più forte economicamente. Certo è che il concetto, apparentemente illuminato, di sviluppo resta legato strettamente alla dottrina dei bisogni. Le società, fin dall‘antichità, sono state caratterizzate anche dall‘atteggiamento che hanno adottato nei confronti dello straniero: “i Cinesi, per esempio, non potevano indicare lo straniero senza introdurre una connotazione spregiativa. Per i Greci, lo straniero era l‟ospite proveniente da una vicina polis o il barbaro, che era un po‟ meno di un essere umano a pieno titolo. A Roma i barbari potevano acquisire la cittadinanza, ma assorbirli nella città non fu mai né l‟intenzione né la missione dei Romani. Solo durante la tarda antichità, con la Chiesa Romana d‟Occidente, lo straniero diventò un essere bisognoso, uno di cui farsi carico, da accogliere in casa”546. Questa visione dello straniero come fardello è tipica della mentalità occidentale e della missione universale che l‘Occidente ha compiuto. Dopo il barbaro è venuto il pagano, ossia il non battezzato, che la Chiesa, tramite il battesimo, incorporava nel gregge della cristianità. Con la scoperta dell‘America compare l‘immagine del selvaggio incivile che va a sostituire quella dell‘infedele e, per la prima volta, lo straniero viene descritto in termini economici. Il selvaggio era considerato dagli europei come un essere privo di bisogni e, quindi, come una minaccia per i progetti coloniali di questi ultimi: perciò è stato trasformato prima in indigeno, avente dei bisogni, seppure diversi da quelli dell‘uomo civilizzato e infine nel sottosviluppato, che rappresenta l‘attuale stadio dell‘immagine che l‘occidentale ha dello straniero. Quindi, la decolonizzazione può essere letta in termini di conversione: l‘homo oeconomicus, tipico del mondo occidentale, esiste ora su scala mondiale così come il suo alter ego estremizzato, l‟homo industrialis, i cui bisogni sono tutti definiti in termini di merci. Inoltre lo sviluppo generale produce, nel contempo, l‘apertura, la compenetrazione e la commistione delle culture, soprattutto a seguito della presenza e dell‘utilizzo smodati dei mass media elettronici. “Ciò provoca alla lunga non un “concerto culturale” con scambi arricchimenti e fecondi influssi reciproci, ma invece un confrontarsi che minaccia la sopravvivenza delle singole culture nella loro autonoma individualità e vitalità. Una disincantata considerazione della situazione ci insegna che si deve tenere conto delle più disparate colonizzazioni culturali, dei movimenti di auto-affermazione, delle declassificazioni a subculture ed anche dell‟impoverimento linguistico, della fusione e 546 Ivi, p. 90. 199 perfino della scomparsa delle culture”547. La novità di questa nuova guerra è che avviene senza conquiste, ma con l‘affermazione solo di alcune culture e modelli culturali, che determineranno il corso della storia. A questo punto, può essere importante soffermarsi sul ruolo decisivo che hanno avuto le idee nel programma di sviluppo. La colonizzazione europea ha diffuso nel Sud del mondo i concetti di libertà, uguaglianza, autodeterminazione e progresso, che hanno forgiato le ristrette élite intellettuali dei paesi colonizzati da cui, successivamente, sono stati reclutati i detentori del potere dei territori liberati. È stata proprio questa intesa culturale a rendere possibile la realizzazione della politica dello sviluppo, che ha interessato non solo la sfera economica, ma anche l‘ambito intellettuale. “Il terzo mondo è il teatro non solo della politica dello sviluppo ma anche della lotta delle idee e delle ideologie….. esse hanno educato i popoli alla coscienza del loro destino collettivo, producendo altresì movimenti nazionali e sociali, nativisti e millenaristi. E queste idee si rivoltano ora contro i loro promotori avanzando pretese di uguaglianza e di ridistribuzione”548. Secondo Tenbruck, i paesi in via di sviluppo, concetto peraltro ingannevole in quanto crea continue confusioni ed equivoci, non possono essere definiti solo in base alla mancanza di certi tratti tipici dello sviluppo (come, ad esempio, il basso prodotto nazionale lordo) perché ciò significherebbe che detti paesi siano tali in virtù delle condizioni, obiettivamente rilevabili, in essi vigenti. In realtà, come già accennato, i paesi in via di sviluppo sono nati come parte di un sistema internazionale e come prodotto della politica dello sviluppo. Storicamente, sono sempre esistiti divari tra paesi ricchi e poveri, ma mai si è parlato di paesi in via di sviluppo, che sono, appunto, frutto dell‘età moderna. Una via d‘uscita dal vicolo cieco dello sviluppo inteso nel senso finora descritto è rintracciabile nella riflessione di Serge Latouche, specialista dei rapporti economici e culturali tra Nord e Sud del mondo e ispiratore teorico del movimento per la decrescita, secondo cui la società economica della crescita e del benessere non realizza l‘obiettivo proclamato della modernità, ossia la massima felicità possibile per il numero massimo di individui, ma, al contrario, ossessionata dal profitto, provoca angoscia e a lungo termine povertà549. Al riguardo un‘importante Ong britannica, la New Economics Foundation, ha valutato l‘indice della felicità e per l‘anno 2009 in testa alla classifica c‘era il Costa Rica, seguito dalla Repubblica Dominicana, dalla Giamaica e dal Guatemala, ossia da tutti paesi 547 548 549 F. Tenbruck, Sociologia della cultura, cit., p. 157. W. E. Muhlmann, Chiliasmus und Nativismus, Studien zur Soziologie der Religion, vol. I, Berlin 1961, cit. in F. Tenbruck, Sociologia della cultura, cit., p. 172. Lo stesso pensiero viene presentato nell‘opera di G. Rist e F. Sabelli, Il était une fois le développement, Éditions D‘En Bas, Losanna 1986. 200 che non vivono in una condizione florida dal punto di vista strettamente economico. Gli Usa si trovavano solo al 114esimo posto550. Questo paradosso, secondo Latouche, può essere spiegato ―con il fatto che la società cosiddetta „sviluppata‟ si basa sulla produzione massiccia di decadenza, cioè su una perdita di valore e un degrado generalizzato sia delle merci, che l‟accelerazione dell‟‟usa e getta‟ trasforma in rifiuti, sia degli uomini, esclusi e licenziati dopo l‟uso, dai presidenti e manager ai disoccupati, agli homeless, ai barboni e altri rifiuti umani”551. Secondo Latouche è necessario abbandonare la via della crescita illimitata perché ci troviamo in un pianeta che ha risorse limitate: questo abbandono non significa voler contrapporre uno sviluppo buono ad uno cattivo, ma allontanarsi definitivamente dallo sviluppo stesso, dalle sue ideologie e logiche. Egli teorizza, perciò, la via della decrescita che deve partire dalla consapevolezza che lo sviluppo è un‘invenzione dell‘uomo e che il rapporto tra uomo e natura può essere rimodellato in una dimensione conviviale. Per costruire la società della decrescita è essenziale lo spirito del dono, che è presente in ognuna delle otto ―R‖ che “formano il circolo virtuoso proposto per realizzare l‟utopia concreta della società autonoma”552. Questi otto obiettivi, in grado di avviare una decrescita serena, sono: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, redistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.553 Al riguardo, rivalutare significa sostituire ai valori tipici della società mercantile – egoismo, concorrenza e accumulazione senza limiti – l‘altruismo, il rispetto dell‘ambiente, la reciprocità e la convivialità. Difatti, continua Latouche, ―l‟abbondanza combinata con il „<ciascuno per sé> produce miseria, mentre la condivisione, anche nella frugalità, produce la soddisfazione di tutti, cioè la gioia di vivere. La seconda „R‟, Riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La „vera‟ ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati per l‟appunto sulla reciprocità e la condivisione: il sapere, l‟amore, l‟amicizia….Ridistribuire rinvia all‟etica della condivisione, Ridurre al rifiuto della rapina e dell‟accaparramento, Riutilizzare al rispetto per il dono ricevuto e Riciclare alla necessità di restituire alla natura e a Gaia quello che abbiamo preso in prestito”554. Quindi la decrescita, definita conviviale, indica la sostituzione dello spirito del dono all‘ossessione del profitto e dell‘accumulazione illimitata. La costruzione della società della decrescita implica che si esca dall‘economia e dalla totale sottomissione alle leggi del 550 551 552 553 554 Fonte: www.happyplanetindex.org. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2011, p. 69. Ivi, p. 71. Ibidem. Ibidem. 201 mercato, il che non significa abolire tutte le istituzioni economiche create, ma restituirle alla socialità. Latouche, inoltre, crede che l‘attuale crisi economica possa essere considerata in senso positivo, come una ―buona notizia‖, se servirà ad aprire gli occhi sulla insostenibilità del progresso che il mondo occidentale ha perseguito fino ad ora. Certo, non potrà farlo se, nelle nazioni sottoposte alle maggiori pressioni dalla crisi, verranno messi al governo uomini della Goldman Sachs, per fare dei nomi. A quest‘analisi può essere, infine, ricollegata quella di Stéphane Hessel, secondo cui lo smantellamento dello Stato sociale, il consumismo senza limiti ed il capitalismo sfrenato, cui siamo arrivati oggi, sono da rivedere e correggere al più presto in quanto stanno conducendo via via alla dissoluzione dei valori e delle conquiste raggiunti dalla Resistenza europea, su cui poggiano la gran parte delle democrazie dell‘Europa occidentale 555 e le speranze del futuro dell'umanità. 7. I nuovi terreni della battaglia per l‘uguaglianza: internet, comunicazione (linguaggio) e tecnologia La libertà di manifestazione del pensiero è uno dei diritti fondamentali riconosciuti e tutelati all‘interno degli ordinamenti democratici. L‘articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell‘uomo del 1948 recita: “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”556. La tutela di questo diritto è quanto mai attuale, poiché ci troviamo a vivere nell‘―era dei mass media‖, un‘era fortemente segnata dalla comunicazione di massa e dallo sviluppo di tecnologie sempre più avanzate, in grado di connettere in tempo reale persone distanti migliaia di chilometri, permettendo loro di scambiare informazioni, opinioni, dati. Grazie alla loro rapida diffusione e al successo ottenuto, i media hanno via via conquistato un ruolo centrale all‘interno della società, trasformandosi nella principale agenzia di socializzazione a 555 556 S. Hessel, Indignez-vous, cit. pp. 28-29. Si veda http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Pages/Language.aspx?LangID=itn 202 scapito di ―istituzioni‖ tradizionali quali i partiti politici, la scuola, la chiesa. Si può parlare, a tale proposito, di una vera e propria ―mediatizzazione‖ della società: “i media, soprattutto quelli elettronici, sono un ingrediente essenziale della società postindustriale, più ancora di quanto fosse la sola stampa nella società industriale, che era un mezzo di comunicazione delle élite culturali e imprenditoriali”557. Da anni ormai si parla di società di massa per descrivere la società nella quale viviamo, caratterizzata da una concentrazione di potere in tutti gli ambiti e, all‘interno della quale, i mass media svolgono un ruolo di prim‘ordine per quanto riguarda l‘evoluzione dei rapporti sociali. In questo contesto, anche il potere di influenzare l‘opinione pubblica si concentra, in misura crescente, nelle mani di élite ristrette, il che implica che l‘individuo, sempre più atomizzato e inserito in rapporti sociali formali e astratti, cade più facilmente vittima dell‘influenza dei mass media che, in questo senso, partecipano alla disgregazione del tessuto sociale558. Oggi non si può parlare di media senza parlare di Internet: la sua origine risale ad un network di computer, denominato ARPANET, ―costruito‖ nel 1969 da un‘agenzia del dipartimento della Difesa statunitense, la cui ragion d‘essere risiedeva nel finanziamento della ricerca, soprattutto a livello universitario, volta a favorire il raggiungimento di un primato tecnologico, particolarmente in campo militare, nei confronti dell‘Unione sovietica. Il progetto dei protocolli di ARPANET è stato elaborato principalmente da studenti e laureati, il cui ruolo è stato dunque decisivo. Le loro idee, e il software che hanno sviluppato, li hanno messi in contatto con il variegato mondo della cultura studentesca, che già faceva uso delle bacheche elettroniche e della rete Usenet News. “Questa cultura studentesca ha adottato il computer networking come strumento di libera comunicazione e, nel caso di gran parte delle sue espressioni politiche, come uno strumento di liberazione che, insieme al pc, avrebbe fornito alla gente quella capacità d‟informazione necessaria per emanciparsi tanto dai governi quanto dalle imprese”559. Da allora, il successo di tale nuova tecnologia è stato incredibilmente rapido e profondo, al punto che si può arrivare a dire, come ha fatto Manuel Castells, che, ad oggi “Internet è la trama delle nostre vite. Se la tecnologia dell‟informazione è l‟equivalente odierno dell‟elettricità nell‟era industriale, Internet potrebbe essere paragonata sia alla rete elettrica sia al motore elettrico, grazie alla sua capacità di distribuire la potenza dell‟informazione in tutti i campi dell‟attività umana. Inoltre, così come le nuove tecnologie per produrre e distribuire energia hanno reso possibili le fabbriche e le grandi imprese 557 558 559 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna 2004, p. 46. P. Mancini, R. Marini (a cura di), Le comunicazioni di massa, Carocci, Roma 2006, p. 21. M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 21-35. 203 come fondamento organizzativo della società industriale, Internet è la base tecnologica della forma organizzativa nell‟Età dell‟informazione: è il network. Il network è un insieme di nodi interconnessi. Si tratta di forme molto antiche dell‟attività umana, ma hanno preso una nuova vita nel nostro tempo e sono diventate reti informazionali, alimentate da Internet. I network grazie alla loro intrinseca flessibilità e adattabilità – due elementi cruciali per la sopravvivenza e la prosperità in un ambiente in rapido cambiamento -, presentano vantaggi straordinari come strumenti organizzativi. È per questa ragione che stanno proliferando in tutti i campi dell‟economia e della società, superando nella competizione e nelle prestazioni le imprese organizzate verticalmente e le burocrazie centralizzate”560. Negli ultimi trent‘anni si è avuto uno sviluppo parallelo di tre processi indipendenti che hanno reso possibile la nascita di una struttura sociale inedita, fondata prevalentemente sui network:“i bisogni di flessibilità gestionale e globalizzazione di capitale, produzione e commercio dell‟economia; le domande della società nella quale i valori della libertà individuale e della comunicazione aperta assumevano una primaria importanza; gli straordinari avanzamenti delle prestazioni dei computer nelle telecomunicazioni, resi possibili dalla rivoluzione della microelettronica” 561. Internet ha realizzato, per la prima volta, “la comunicazione di molti a molti, in un tempo scelto, su scala globale. Così come la diffusione della stampa in Occidente ha creato ciò che McLuhan ha definito „Galassia Gutenberg‟, noi siamo entrati oggi in un nuovo mondo della comunicazione: la Galassia Internet”562. È in questo contesto che, da tecnologia ancora poco applicata se non all‘interno di una ristretta comunità formata da scienziati informatici, hacker e movimenti della controcultura giovanile, la Rete si è trasformata nel principale stimolo al passaggio ad una forma di società nuova – la cosiddetta network society – e con essa ad una nuova economia. Si tratta di quello che Jeremy Rifkin ha definito un vero e proprio cambiamento epocale in atto, dovuto al fatto che le istituzioni tradizionali della modernità, tra le quali in primo luogo il mercato, stanno lentamente venendo meno, lasciando il posto ad una ―nuova costellazione di realtà economiche‖ che impongono un ripensamento delle fondamenta stesse dei rapporti tra esseri umani. In particolare, emerge la realtà delle reti, che comporta la sostituzione della proprietà privata, che in epoca moderna è stata di fatto un sinonimo di mercato, con il concetto di accesso. Il che significa che oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, il soggetto che fornisce beni ne mantiene la proprietà, noleggiandoli, affittandoli o concedendoli in uso temporaneo in cambio del pagamento di una somma di denaro, che 560 561 562 Ivi, p. 13 Ivi, p. 14. Ibidem. 204 sia un abbonamento o una tassa di iscrizione. “In un‟economia delle reti, è più facile che sia negoziato l‟accesso a una proprietà fisica o intellettuale, piuttosto che venga scambiata la proprietà stessa. Così, nel processo economico, la proprietà del capitale fisico – un tempo fondamento della civiltà industriale – diventa sempre meno rilevante. […] Nella „new economy‟ sono le idee, i concetti, le immagini – non le cose – i componenti fondanti del valore. Ed è necessario sottolineare che il capitale intellettuale raramente viene scambiato; rimane invece in possesso del fornitore, il quale lo noleggia o ne autorizza un uso limitato da parte di terzi”563. La nostra è l‘epoca delle reti elettroniche, all‘interno delle quali un numero crescente di individui vive una quantità sempre più grande delle proprie esperienze quotidiane; tali reti sono controllate da poche potenti multinazionali dei media, che non solo possiedono i canali tramite i quali si svolgono le comunicazioni interpersonali, ma ne controllano anche parzialmente i contenuti culturali. Si tratta perciò, secondo Rifkin, di un potere che non ha precedenti nella storia umana, poiché è in grado di stabilire le condizioni che nel prossimo futuro regoleranno l‘accesso alle comunicazioni umane. Il che significa che si è formato un monopolio commerciale, che fa sì che la possibilità di accedere alle risorse culturali sia soggetta alle regole dell‘economia e mediata dalle imprese globali, con l‘evidente rischio di un loro depauperamento564. Ciò significa che, in un mondo sempre più avvolto nelle maglie onnicomprensive delle reti digitali di comunicazione, disuguaglianze e nuove forme di emarginazione sociale, anziché ridursi, stanno aumentando a dismisura, a causa del cosiddetto digital divide, cioè del divario insanabile tra chi è connesso, chi ha accesso a Internet e alle nuove tecnologie, e chi no, l‘altra faccia della medaglia rispetto alla promessa di libertà (di informazione, comunicazione…) insita nell‘idea stessa di rete565. Nella sua descrizione di questa nuova epoca, che si è aperta con l‘inizio del XXI secolo, Rifkin si sofferma a lungo sulla connessione tra economia e cultura, descrivendo la trasformazione del sistema capitalistico mondiale nel passaggio dalla fase industriale ad una nuova, prettamente culturale, nel senso che “dopo centinaia di anni dedicati a trasformare le risorse fisiche in beni commerciabili, ci stiamo rapidamente avviando a un‟economia basata sulla trasformazione delle risorse culturali in esperienze personali e divertimento a pagamento”566. Come ha notato Herbert Schiller, “la parola, la danza, il teatro, i rituali, la musica e le arti visive e plastiche sono stati elementi fondamentali, per non dire necessari, dell‟esperienza umana, fin dai tempi più antichi.” Ciò che è cambiato è “lo sforzo 563 564 565 566 J. Rifkin, L‟era dell‟accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano 2001, p. 7. Ivi, pp. 15-17. M. Castells, Galassia Internet, cit., p. 231. J. Rifkin, L‟era dell‟accesso, cit., p. 183. 205 incessante e fruttuoso per separare queste espressioni elementari della creatività umana dai gruppi e dalle comunità che le hanno originate, con lo scopo di venderle a chi può permettersi di pagarle”. 567 Si tratta di quel processo di mercificazione della cultura, sul quale tanto si sono soffermati gli autori della Scuola di Francoforte. In particolare, Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno descritto i prodotti culturali come merci, dal momento che il loro “contenuto artistico ed estetico è soggetto alle regole dello scambio e del profitto. L‟evoluzione del settore della comunicazione di massa nei paesi capitalistici è simile a quella degli altri settori industriali e la concorrenza sul mercato della comunicazione tende a sfociare nella creazione di posizioni dominanti di tipo oligopolistico. La „concentrazione dello spirito‟ non è che un aspetto e una conseguenza della concentrazione del sistema economico”568. È ovvio che, parallelamente ai mutamenti economici in atto, il tema della società e della comunicazione di massa coinvolge in maniera fondamentale anche l‘ambito politico, in primo luogo, poiché l‘avvento e la diffusione dei mass media hanno profondamente inciso sulle trasformazioni del sistema politico; secondariamente, in quanto lo sviluppo delle nuove tecnologie coinvolge necessariamente l‘attività politica nel suo sforzo di regolazione sociale e di ―contemperamento‖ dei diversi interessi, che si trovano a svilupparsi e competere nell‘arena sociale. Per ciò che riguarda il primo punto, basti ricordare che, ad oggi, gli studiosi sono sempre più concordi nel definire lo spazio pubblico contemporaneo come uno spazio ―mediatizzato‖, nel senso che, al suo interno, i media svolgono sempre più il ruolo di “perno della comunicazione ascendente e discendente tra pubblico dei cittadini e sistema della politica”569. In altre parole, “i media forniscono o sono i canali” tra i soggetti politici (ossia le istituzioni, le forze politiche, i leader e i candidati) e i cittadini-elettori, “fungono da ribalta dell‟azione politica, e al tempo stesso sono interlocutori di entrambi gli attori, condizionano la natura dei loro rapporti, obbligano le istituzioni, i partiti, i leader, i cittadini ad adattarsi alle logiche che governano la comunicazione di massa”570. Al di fuori della logica ancora solo televisiva di questa modalità comunicativa non rientra, invece, la comunicazione digitale che non è, come nel caso precedente, limitata da barriere spazio-temporali e non ha necessità di disporre di centri di emissione privilegiati. E‘ un fatto che ―attraverso Internet i fruitori e i produttori dell‟informazione si scambiano continuamente il ruolo di emittente e 567 568 569 570 H. I. Schiller, Culture Inc.: The Corporate Takeover of Public Expression, Oxford University Press, New York 1989, p. 31. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell‟Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 132-133. G. Mazzoleni, La comunicazione politica, cit., p. 19. Ivi, p. 23. 206 di ricevente. Alla verticalità o uni-direzionalità dei media tradizionali (stampa, radio, televisione) si oppone dunque l‟orizzontalità o bi-direzionalità della comunicazione in rete, attraverso la quale gli utenti possono interagire liberamente senza essere soggetti ad alcun controllo governativo o commerciale‖571 laddove ovviamente, come evidenziato in precedenza, questo non sia esercitato. Riguardo al secondo punto, invece, non possiamo dimenticare che la politica ha il compito di gestire la società e quello che ne rappresenta il principale strumento di mutamento: il conflitto. Perciò, dal momento che Internet, in particolare, si è trasformato in un mezzo di comunicazione, informazione e organizzazione sempre più imprescindibile, risulta chiaro che gli attori politici e sociali non possono assolutamente rinunciarvi e, al contrario, lo useranno via via più frequentemente per raggiungere i loro scopi: “il cyberspazio diventa un territorio conteso”572. Seguendo l‘analisi di Castells, che si concentra particolarmente su Internet, vista la sua diffusione capillare e la sua rivoluzionaria capacità di incidere profondamente sulle dinamiche dei rapporti politici, sociali, economici, resta però da domandarsi se la sua natura sia solo quella di un mezzo o se, al contrario, la Rete possa rappresentare uno spazio in cui costruire nuove regole del gioco: dunque uno spazio ―creativo‖, che contribuisca a dare forma alle modalità di azione e agli obiettivi di attori politici e sociali. A proposito del rapporto tra mass media e attori politici, non si può prescindere dalla questione del potere nella comunicazione, che Niklas Luhmann ha definito come “facoltà di influenzare la selezione dei simboli e degli atti”573 all‘interno della complessità del sistema sociale. Da questo punto di vista, il flusso di comunicazione che parte dal sistema politico e raggiunge quello mediatico può essere considerato come manifestazione del potere del primo sul secondo, un potere utilizzato dagli attori politici allo scopo di influenzare e controllare i media, nel tentativo di imporre loro i propri “criteri di selezione e di costruzione della realtà”574. Tale flusso comunicativo può assumere diverse forme: può rientrare nello sforzo di regolamentazione e, quindi, essere inserito all‘interno delle politiche pubbliche che disciplinano l‘attività dei mezzi di comunicazione nella sfera politica (come ad esempio le direttive europee oppure atti istituzionali come, per quanto riguarda l‘Italia, la nomina dei componenti del Consiglio di Amministrazione della RAI); può essere il frutto di rapporti di collaborazione e scambio reciproco tra componenti del sistema politico e news media; infine, può essere utilizzato come un mezzo per condizionare il contenuto e l‘attività 571 572 573 574 R. Levi - Montalcini, I nuovi magellani dell‟er@ digitale, Edizioni Rizzoli, Milano 2006, p. 22. M. Castells, Galassia Internet, cit., p. 134. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979, cap. I. G. Mazzoleni, La comunicazione politica, cit., p. 26. 207 dei media da parte del sistema politico (il cosiddetto news management)575. Proprio quest‘ultimo tentativo di condizionamento è alla base di quello che Noam Chomsky e Edward Herman hanno definito il modello della propaganda576, un modello basato sull‘idea che il ruolo del sistema mediale consista nel comunicare ―messaggi e simboli alla popolazione‖, tramite un‘attività di informazione e intrattenimento, che non esclude una buona dose di manipolazione allo scopo di ―socializzare‖ gli individui, cioè, in altre parole, di trasmettere loro quei valori, quelle credenze e quei modelli di comportamento che, una volta interiorizzati, li rendono parte della società, integrandoli in essa577. Dato che viviamo in un mondo in cui la ricchezza è concentrata in poche mani e, perciò, persistono forti conflitti di classe, per realizzare questo scopo è necessaria una propaganda sistematica. “Nei paesi in cui le leve del potere sono nelle mani di una burocrazia statale, il controllo monopolistico dei mass media, spesso integrato da una censura ufficiale, attesta in modo trasparente che essi servono i fini di un‟élite dominante. Dove invece non esiste una censura formale e i media sono privati, è molto più difficile vedere in essi un sistema di propaganda in azione. Ciò è particolarmente vero quando i media si fanno attivamente concorrenza, attaccano periodicamente mondo produttivo e governo per denunciarne le prevaricazioni e scendono aggressivamente in campo come paladini della libertà di parola e come difensori degli interessi generali della comunità. Meno evidenti sono altri aspetti, che ci si guarda bene dal tematizzare: la natura limitata dell‟attività critica, l‟esistenza di profonde disuguaglianze nella disponibilità delle risorse economiche e il peso di tali disuguaglianze in termini di accesso al sistema privato dei media e di capacità di incidere sulla sua attività 575 576 577 Ibidem. N. Chomsky – E. S. Herman, La fabbrica del consenso, Edizioni Il Saggiatore, Milano 2006. M.Benasayag, Contro il niente, abc dell‟impegno, cit., pp. 41-42, riguardo alla comunicazione precisa alcune importanti osservazioni: “La vita non è comunicante. Le nostre opere emergono dal richiamo che sentiamo dentro di noi. Possono incontrare il richiamo di un altro, accordarsi con lui, potenziarlo. Noi non scriviamo mai per dare chiarimenti o informare, ma per rispondere alla sfida che ci costituisce, per creare una linea su cui accordarsi e costituire un nuovo paesaggio. L‟abbè Pierre nel 1954 disse con molta forza: “sento un richiamo” e si lanciò nell‟azione. Altri si trovano in sintonia con lui poiché sono sensibili alle stesse istanze. L‟ideologia dominante vorrebbe che il richiamo avesse come scopo il risveglio delle coscienze. Il richiamo invece è singolo, può creare degli accordi ma non si comunica. La comunicazione avviene sempre in seconda istanza. La nostra epoca ne ha fatto però un imperativo primario. I media non hanno più per missione di rendere visibili le creazioni che si sviluppano ma sono diventati luoghi dove solo il comunicabile trova posto. Il diktat della comunicazione è un diktat nichilista e reazionario. Le persone fanno le cose pensando subito al modo in cui le comunicheranno. I mezzi di comunicazione si trasformano allora in mezzi coercitivi che ci serializzano. La sola cosa importante è aderire a questo ideale globalizzante, trascurando i contenuti sempre troppo opachi. La base comune che si sviluppa in seno a produzioni e movimenti minoritari crea spesso dei livelli di comunicazione. Al contrario, il pensiero nichilista consiste nel credere che la base comune nasca dalla comunicazione. E‟ sempre solo una dimensione, un corollario secondario. <Essere in comunicazione> non significherà mai <essere in rapporto>. Due individui possono aiutarsi per portare a termine un progetto poiché hanno capito che gli conviene stringere alleanza. Questo non significa che siano in rapporto. I veri rapporti si situano ontologicamente a livello delle fondamenta. Quando la comunicazione diventa un imperativo non crea più una base comune ma distrugge quello che esiste.” 208 e sulla sua gestione”578. In realtà, ad esempio, prendendo l‘Italia come campione del monitoraggio, sarebbe assai facile invalidare, in parte, tale affermazione; anche se la considerazione del regime monopolistico, in questo caso, sarebbe come operato da parte di un soggetto privato e non pubblico. Proprio partendo da queste premesse, a livello teorico Internet dovrebbe, invece, rappresentare, rispetto ai media tradizionali, uno strumento eccezionale atto a favorire la democraticità della società, nel senso di rendere possibile, almeno potenzialmente, la partecipazione politica di tutti i cittadini, l‘accesso ai mezzi di comunicazione (sia nel ruolo di fruitori che di ―elaboratori‖ dei loro contenuti), dunque la possibilità non solo di esprimere le proprie opinioni sui problemi politici e sociali, ma anche di controllare maggiormente i loro rappresentanti, mantenendo così la promessa (in gran parte tradita) insita nel concetto di sovranità popolare e favorendo una maggiore eguaglianza. In realtà, a voler tenere conto dei risultati raggiunti dalle principali analisi in merito, bisogna concludere che il quadro, soprattutto per quanto riguardo i dati sulla partecipazione politica, è piuttosto desolante, se non si considera l‘eccezione dei paesi scandinavi. Questo perché le istituzioni politiche tendono a fare un uso meramente ―informativo‖ della Rete, nel senso che la utilizzano per pubblicizzare i propri programmi e le proprie azioni, senza attivare realmente uno scambio produttivo e reciproco con la controparte, rappresentata dalla società civile579. La promessa di Internet, almeno al momento della sua comparsa, era invece quella di inaugurare una nuova ―epoca di libertà‖580, in quanto, così come la globalizzazione dal punto di vista economico, avrebbe reso possibile un incremento esponenziale dei flussi informativi e comunicativi, a livello mondiale, fuori dal controllo della politica nazionale, poiché capaci di penetrare frontiere non solo geografiche ma anche politiche. La Rete è nata negli Stati Uniti, il che ha fatto sì che essa potesse consolidarsi all‘ombra della tutela della libertà di parola garantita dalla costituzione americana. In altre parole, “ogni restrizione per i server di altri paesi poteva in genere essere bypassata dai server americani”581. Ovviamente le istituzioni nazionali potevano rintracciare i destinatari di alcuni messaggi, mantenendo così la propria capacità di tenerli sotto controllo e quindi anche di 578 579 580 581 N. Chomsky, E. S. Herman, La fabbrica del consenso, cit., p. 16. M. Castells, Galassia Internet, cit., p. 149. Non si può non fare riferimento, in questo caso, a Richard Matthew Stallman, autentico guru, tra i padri dell‘informatizzazione, sempre schierato per la libertà del sistema, anche a caro prezzo (le sue battaglie per la libertà, lo hanno condotto anche in carcere) e contro il proprio interesse, a differenza di altri e più celebrati personaggi di questo ―nuovo mondo‖. http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Stallman o anche il suo sito personale da cui conduce, tuttora, le più importanti battaglie per la libertà di internet dal controllo degli Stati e dei sistemi operativi. Inventore del programma GNU e della Free software foundation http://stallman.org/ M. Castells, Galassia Internet, cit., p. 161. 209 punirli in base alle proprie leggi, come nel caso dei dissidenti cinesi. È pur vero però che questo processo di sorveglianza e punizione era lento al punto da risultare inefficace su larga scala, oltre che incapace di bloccare il flusso di comunicazione via Internet: l‘unica soluzione realmente in grado di permettere un effettivo controllo su tutte le informazioni trasmesse e ricevute passava per la decisione di non connettersi in network. Una decisione che avrebbe però tagliato fuori il paese che l‘avesse presa dalle opportunità di business oltre che dalle informazioni diffuse a livello globale: insomma, si trattava evidentemente di un prezzo davvero troppo alto da pagare per chiunque. “In questo senso”, scrive Castells “Internet ha decisamente indebolito la sovranità nazionale e il controllo statale per via della protezione giuridica degli Stati Uniti”582. Infatti, è risaputo che uno dei valori fondamentali, garantiti e protetti dal primo emendamento della costituzione USA, è proprio la libertà di parola. Ciò non significa però che non siano stati fatti tentativi per attuare un effettivo meccanismo di controllo legale di Internet, già a partire dai tempi dell‘amministrazione Clinton. L‘argomento usato per giustificare tali tentativi è stato quello della protezione dei minori dai reati di pedofilia. Nonostante la popolarità di tale argomento e la sua capacità di suscitare consensi, la Corte federale della Pennsylvania ha dichiarato, nel giugno del 1996, il Communications Decency Act del 1995 incostituzionale, adducendo la seguente motivazione: “così come la forza di Internet è il caos, così la forza della nostra libertà dipende dal caos e dalla cacofonia della parola senza vincoli protetta dal primo emendamento”583. Successivamente, nel giugno del 1997, anche la Corte Suprema ha ribadito tale ―diritto costituzionale al caos‖. Tuttavia un nuovo tentativo è stato fatto, sempre dall‘amministrazione Clinton, tramite il Child Online Protection Act del 1998, nuovamente respinto dalla Corte d‘appello di Philadelphia nel 2000. Da questo momento in poi, è stato chiaro che la censura e la repressione diretta della comunicazione tramite Internet da parte del governo fosse destinata a fallire, ma nuove sfide, in questo senso, sono state poste dalle nuove tecnologie e dai nuovi regolamenti in materia. Infatti si sono via via sviluppati due bisogni complementari: da un lato quello di garantire la sicurezza e l‘identificazione della comunicazione per ottenerne dei profitti; dall‘altro, quello di tutelare i diritti di proprietà intellettuale. La necessità di soddisfare questi bisogni ha portato alla creazione di software in grado di controllare i flussi comunicativi tra computer. Come ha sostenuto David Lyon, i governi di tutto il mondo sono schierati a difesa di queste nuove ―tecnologie di 582 583 Ivi, p. 162. Cit. in P. H. Lewis, Judge temporarily blocks law that bars indecency on the Internet, in ―New York Times‖, 16 febbraio 1996, C1. 210 sorveglianza‖ e, quindi, sono pronti ad adottarle, allo scopo di recuperare, almeno in parte, quel potere che vanno sempre più perdendo584. In effetti, quelle misure restrittive, la cui adozione negli Stati Uniti è naufragata nel corso degli anni Novanta, sono state riproposte con successo all‘indomani degli attacchi terroristici dell‘11 settembre 2001, quando il Congresso americano, nell‘ambito della strategia complessiva della guerra al terrore, inaugurata dall‘amministrazione Bush, ha approvato il Patriot Act (26 ottobre 2001). Si tratta di una legge federale che mira a potenziare gli strumenti investigativi e di controllo e a rafforzare le misure di sicurezza con lo scopo dichiarato di combattere la minaccia terroristica. È chiaro, dunque, che questa legge, riguardando direttamente la sfera della libertà personale, è andata ad incidere profondamente sulla vita quotidiana dei cittadini americani, sollevando una serie di critiche da parte di chi contesta la priorità assoluta accordata al valore della sicurezza nazionale rispetto alla tutela dei diritti fondamentali dell‘individuo. Come ha, argutamente, scritto Giorgio Bocca, “la spaccatura più grave, il grande paradosso, è la pretesa di portare la democrazia a chi non la vuole anche a costo di rinunciare o limitare la nostra. Le limitazioni in corso alla democrazia liberale vengono giustificate dalla minaccia terroristica: la sicurezza viene prima della giustizia, prima dei diritti umani. Militari e poliziotti, negli Stati Uniti e altrove sono autorizzati a perquisire le case dei sospetti, a frugare nei loro archivi, nelle memorie dei computer senza dover provare che sono dei sovversivi, dei terroristi, basta dire che sono pericolosi o utili alle indagini. Provvedimenti eccezionali, temporanei si dice. Ma intanto si creano negli Stati Uniti, il paese guida della democrazia, strutture poliziesche che dureranno, un ministero degli Interni mai esistito prima con centosettantamila funzionari che stanno costruendo una rete di controlli universale, nelle dogane, nelle comunicazioni, persino nelle biblioteche per sapere cosa legge la gente. La necessità di difendere il paese dal terrorismo ha riportato l‟America indietro di cinquanta anni nei diritti civili e umani, ai tempi di Sacco e Vanzetti o del senatore McCarty. Il Patriot act del 26 ottobre del 2001 abolisce l' Habeas corpus e autorizza il governo a definire terrorista una associazione nazionale o straniera a suo insindacabile giudizio”585. Da quanto detto finora, è facile rendersi conto che parlare di mass media e nuove tecnologie dell‘informazione apre, da un punto di vista politico, una serie di rilevanti questioni che riguardano la necessità di garantire da un lato la libertà di espressione e di informazione, dall‘altro quella di tutelare i diritti sia di chi elabora i contenuti di tali media, 584 585 Si veda D. Lyon, La società sorvegliata, Feltrinelli, Milano 2002. G. Bocca, La democrazia fragile della superpotenza, in ―Repubblica‖ del 7 aprile 2003, p. 1. 211 che di chi ne fruisce, senza considerare poi l‘interesse pubblico. Il dibattito relativo alla necessità di regolamentare l‘uso di Internet è quanto mai attuale: basta considerare il fatto che nell‘ultimo anno il ruolo dei social network è stato oggetto di attenzioni politiche e mediatiche divergenti, focalizzate soprattutto sulle potenzialità sviluppate dalla tecnologia quando è messa al servizio di un comune obiettivo politico e sociale. In effetti, se si pensa in particolare agli eventi legati a quella che è stata definita la primavera araba, non si può evitare di constatare che molti hanno incensato i nuovi media per la loro capacità di mettere in connessione le persone, favorendo la costruzione di una mobilitazione politica dal basso, senza passare per i canali istituzionali, quali ad esempio i tradizionali partiti e movimenti politici. Essi sono dunque stati considerati protagonisti di primo piano, in un senso pienamente positivo, delle rivolte scoppiate in Egitto e Tunisia, anche grazie al successo che hanno ottenuto nel distruggere il monopolio sull‘informazione detenuto dai regimi dittatoriali mediorientali, che hanno così perso il predominio sul racconto degli eventi. Al contrario, invece, solo pochi mesi fa, precisamente in agosto, la guerriglia urbana che si è scatenata a Londra e in altre città inglesi ha ribaltato questi giudizi positivi, mettendo in luce un lato potenzialmente ―inquietante‖ e pericoloso dell‘uso di queste tecnologie, per quanto possa esserlo un atto di protesta contro i rappresentanti governativi e le scelte che spesso intraprendono. Per questo “La rivolta è sembrata, al contempo, inevitabile e impensabile. Nel giro di pochi giorni la violenza ha contagiato la capitale di un Paese avanzato facendolo regredire a caos e brutalità. È la più arcana delle rivolte e, insieme, la più moderna. I suoi partecipanti, guidati da Twitter, mettono in scena una replica sinistra della Primavera araba. L‟estate di Tottenham, che vede in piazza persino bambini di sette anni, non è l‟attacco disperato a un regime tirannico, ma a uno Stato democratico. Come è potuto accadere, si chiedono tutti a Londra?”586 Dopo questi gravi episodi di violenza, le autorità hanno valutato la possibilità di eventuali interruzioni d‘ufficio dei social network, da BlackBerry Messenger a Twitter, in occasione di tumulti o sommosse, ricordando che il servizio di messaggeria istantanea BlackBerry è stato uno strumento decisivo, nelle mani dei facinorosi, per coordinare le manifestazioni violente. È stato, infatti, lo stesso premier britannico David Cameron a paventare, nel suo intervento alla Camera dei Comuni dell‘11 agosto, il blocco dei social network in caso di nuovi disordini asserendo che “Tutti coloro che hanno assistito a queste orribili azioni sono rimasti colpiti dal fatto che sono state organizzate attraverso i social 586 M. Riddell, London riots: the underclass lashes out, in ―Daily Telegraph‖, 8 agosto 2011. 212 network”, ha detto Cameron. ”La libera circolazione delle informazioni può essere usata per nobili azioni. Ma anche per azioni malvagie. Stiamo lavorando con la polizia, i servizi d‟intelligence e l‟industria per capire se può essere giusto impedire alle persone di comunicare attraverso questi siti e servizi quando sappiamo che stanno preparando violenze, disordini e atti criminali”. “Sappiamo che se ne è fatto uso”, hanno confermato anonime fonti governative. “La domanda però è se si possa fare qualcosa per bloccare certi servizi, in modo tale da risolvere problemi del genere. Ne stiamo discutendo con i servizi segreti e con l‟industria di settore”, hanno riferito. “Per il momento, comunque, non abbiamo ancora una proposta.”587 Di fronte a questi pericoli, spesso sono proprio i governi dei vari paesi (anche e soprattutto di quelli democratici) a schierarsi, per così dire, contro la libertà, nonostante il fatto che, da un punto di vista storico, sono state le stesse istituzioni democratiche a rappresentare ―il bastione principale contro la tirannia‖. Di conseguenza, ci si potrebbe chiedere come mai non si attribuisca ai governi democratici il compito di regolamentare l‘uso appropriato della Rete? La risposta è che manca il necessario vincolo di fiducia reciproca tra cittadini e governanti, per cui “i governi diffidano dei cittadini perché ne sanno di più. E i cittadini diffidano dei loro governi perché ne sanno abbastanza […] Così se i popoli non si fidano dei loro governi, e i governi non si fidano dei loro popoli, appare logico che l‟emergere di Internet come spazio di libertà simboleggi questa spaccatura, con i difensori della libertà impegnati a preservare le nuove terre delle opportunità e i governi che mobilitano le loro considerevoli risorse per chiudere questa fessura nei loro sistemi di controllo”588. Si tratta di un‘occasione mancata, in quanto Internet potrebbe trasformarsi in uno strumento nelle mani dei cittadini, atto a mantenere un occhio vigile sul proprio governo, anziché essere un mezzo usato dai governi allo scopo di osservare costantemente i cittadini. Potrebbe dunque diventare il perno di una nuova partecipazione politica costruita dal basso, uno strumento di controllo, informazione e finanche di decisione. I cittadini potrebbero accedere ai file del governo, come sarebbe loro diritto. “E i governi, e non le vite private dei cittadini, diventerebbero una casa di vetro, fatta eccezione per alcune fondamentali questioni di sicurezza. Solo in presenza di queste condizioni, cioè di istituzioni politiche trasparenti, i governi potrebbero pretendere legittimamente di porre un controllo limitato su Internet per individuare quei casi di manifestazione del lato 587 588 Si veda http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/11/londra-dopo-le-violenze-il-governo-non-esclude-disospendere-i-social-network/151081/ M. Castells, Galassia Internet, cit., p. 175. 213 perverso che alberga in ognuno di noi. Se i governi non smetteranno di avere timore del proprio popolo, e di conseguenza di Internet, la società ritornerà ancora una volta sulle barricate per difendere la libertà e questo segnerà una stupefacente continuità storica”589. Tutto questo, ovviamente, nel mondo della comunicazione: ma cosa è la comunicazione, se non anche uno dei modi di sviluppo della conoscenza? Forse la comunicazione d‘oggi, così com‘è effettuata, mira a farci capire (e neanche tanto) e limita così la nostra conoscenza590. Per di più, la limitatezza della nostra conoscenza emerge chiaramente quando, al di fuori di ogni logica utilitaristica, ci si trova ad affrontare una visione speculativa della vita, cui necessitano conoscenze vere e disseminate dello scibile umano. E‘come se la tecnica, le conoscenze utili immediatamente, ci avessero resi tutti meno duttili mentalmente alla speculazione, alla fantasia, alla potenza immaginifica del nostro cervello e, conseguentemente, anche più aridi sotto il profilo linguistico che, infatti, diviene sempre più espressione di quel nulla di cui, quotidianamente, facciamo parte. Ci lamentiamo per talune situazioni, ma non siamo in grado di immaginare, di trovare ed utilizzare risposte adeguate che siano fuori dagli schemi, comunque conosciuti ed usuali, che già sappiamo non produrranno nulla di buono, se non la sterile risposta di sempre. Il campo della politica sovrabbonda di queste situazioni, ripetute all‘infinito e sempre espresse come nuove. Un gioco delle parti, possibile solo grazie alla mancanza di conoscenza ed all‘utilizzo di un linguaggio privo di significato reale in cui in un gioco di livelli si perde o si acquista di significato, riprendendo la distinzione fatta da Spinoza e spiegata da Deleuze591 su tre livelli di conoscenza. “ Il primo livello,…è puramente immaginario. I rapporti che abbiamo con gli altri e con noi stessi sono segnati da un‟incomprensione totale. Deleuze cita un esempio che illumina il carattere illusorio di questa vita: se non so nuotare quando l‟onda mi sostiene, dico che è buona. Quando mi rovescia, dico che è cattiva. In questo primo livello tutto ciò che accade si ricollega a me, amo o detesto gli esseri e le cose per gli stessi motivi. Mi situo in una logica dello scontro, dove tutto è possibile finché l‟altro non mi uccide. Questo livello è reale ma da solo non permette nessun tipo di vita sulla Terra. Neppure gli animali limitano a questo la loro esistenza. Il secondo livello è quello della conoscenza attraverso i rapporti e le cause. Ciò che è fondamentale non è capire questi 589 590 591 Ivi, pp. 175-176. M.Benasayag, Contro il niente, abc dell‟impegno, cit., pp. 42 – 43 : “Capiamo sempre più cose…senza mai conoscerle. Conoscerle presuppone di porsi nella lunga durata, di concepire ciò che esiste a partire da un fondo molto antico che non coglieremo mai del tutto. Conoscere significa accettare il non conoscibile. Accumuliamo conoscenze nuove che entrano immediatamente a far parte di una logica utilitarista. La ricerca viene continuamente ricondotta a un insieme di informazioni e conoscenze utilizzabili.” Ivi, p. 43 : “Questi tre livelli di conoscenza non sono livelli di comprensione o di sapere ma livelli di esistenza. Sono intimamente legati all‟esperienza della vita e dell‟impegno.” 214 rapporti ma agire seguendoli, sperimentandoli. Imparo a nuotare, conosco il mio rapporto con l‟acqua, so perché un‟onda mi scaraventa a terra. Gli animali sono in questo livello di esperienza, distribuiscono il loro territorio in funzione di alcuni rapporti, non fanno qualsiasi cosa. Questo livello rende la vita possibile. Il terzo livello di conoscenza si apre sull‟etica, lo sperimentare che siamo nel mutamento, inseriti in un processo che ci supera. Non colgo più in modo isolato il paesaggio, l‟altro, me stesso e perfino il rapporto che ci lega. Comprendo tutto in un‟unità. Il terzo livello è quello della praxis. Nessuno esiste soltanto al secondo o al terzo livello ma molte persone vivono solo al primo. E‟ una questione di quantità. Più si resta al livello dello scontro, meno si esiste. Più si sperimenta la conoscenza di secondo o terzo grado, più si ha accesso a ricchi livelli di esistenza.”592 L‘agire è, quindi, la conseguenza diretta della consapevolezza, della conoscenza: solo questa genera l‘azione necessaria. La visione globale dei mezzi e dei fini593 non è più separata, ma un insieme che dà senso e significato alle nostre lotte, finalmente coscienti. Conoscere la contemporaneità, accettarla e spingere le nostre lotte all‘interno di essa: siamo chiamati ad agire conquistati da una visione unitaria dell‘esistenza che supera il momento utilitaristico, cui tutti siamo soggetti. Questo, ovviamente, comporta il ritorno al senso, alla conoscenza e quindi al linguaggio, sino a quel momento usato in un non-senso costante, linguaggio che arriva a scandire la propria incapacità ad esprimere il mondo circostante ed allontana dalla realtà concreta cui fare riferimento. Trasponendolo sul piano dei livelli di conoscenza, è come se la lingua si arrestasse al primo livello e non fosse in grado di progredire come nota Benasayag :”La nostra lingua non si può ricostruire senza un ritorno alla conoscenza. Per il momento sviluppiamo linguaggi settoriali, tecnici, comunichiamo benissimo ma sempre al primo livello di conoscenza. Per rifondare una lingua, affinché le parole non esprimano soltanto degli accidenti che non hanno tra loro alcun rapporto, la conoscenza di terzo livello è fondamentale. La lingua diventa un sofisma quando si separa dal processo e parla soltanto di cose astratte in una sorta di vuota erudizione.”594 592 593 594 Ibidem. Ivi, p. 44 : “Queste forme di conoscenza sono ancora una volta modi di agire e talvolta di patire. Permettono di mettere in luce l‟impegno di cui stiamo parlando. Lotto per esempio contro gli oligarchi sudamericani che possiedono terre, uccidono indios… Posso oppormi a loro perché sono nato nell‟altro popolo, perché loro hanno tutto e io niente. Il mio impegno ha in tal caso numerose incrinature. Sono indifferente agli altri, ai mezzi, mi batto per quello che possiede il nemico e rimango al suo stesso livello, il primo. Posso pormi al secondo livello, dove ci invita Marx. La lotta di classe non si riduce allo scontro tra quelli che hanno troppo e quelli che non hanno niente. Esiste un problema che ingloba i due campi. Rapporti di produzione strutturano ciò che appare come una lotta. Oriento la mia resistenza in tal senso, per cambiare questo rapporto. Se mi situo al terzo livello, concepisco tutto questo come un processo globale, non credo che il cambiamento dei rapporti metta fine alla lotta. I corpi che si scontrano, i rapporti che li regolano fanno parte del modo di essere di un‟epoca.” Ivi, pp. 44 - 45 215 Capitolo III – ECONOMIA, SVILUPPO, STRATEGIE ENERGETICHE E ALIMENTARI ECOSOSTENIBILI 1. Economia globale: manifestazione dell‘Impero o progresso? Il capitalismo rappresenta“il potere più decisivo della vita moderna”595, un potere cioè che ha fortemente contribuito a forgiare e trasformare le strutture sociali ed economiche della modernità. Per anni le scienze sociali occidentali sono state dominate dalle cosiddette teorie della modernizzazione, fondate sul postulato per il quale il mutamento sociale ed economico è un processo lineare, che produce la trasformazione delle società tradizionali agricole in moderne società industriali, seguendo il percorso tracciato dall‘Occidente. Le teorie dello sviluppo economico sono state imposte nel periodo dell‘egemonia americana e partono dal presupposto che ci sia un‘unica struttura dello sviluppo che tutti i paesi devono assimilare, seppure con tempi e modalità differenti. Attualmente, per comprendere le lotte politiche, tutte le difficoltà che si presentano e lo scontro che già si profila, occorre capire il periodo storico in cui viviamo. Le posizioni in campo, seppure lontane tra loro, impongono delle scelte, rapide e/o ponderate, ma tutte riguardano il nostro futuro. Troviamo, allora, ―...chi ci parla solo di economia. Se fosse giusto questo punto di vista, la vita politica non avrebbe alcun senso e sarebbe urgente consegnare il potere nelle mani del Governatore della Banca centrale. – e da quel che vediamo, ci stiamo riuscendo - Altri, invece, richiamano la nostra attenzione insistendo sulla rapida crescita di una società dell'informazione che si và estendendo al mondo intero e sta trasformando l'insieme delle nostre attività. Non hanno torto quando constatano che stiamo uscendo dalla società industriale e che in realtà dobbiamo chiamare società dell'informazione quella che trent‟aani anni fa chiamavamo società postindustriale.”596 La principale teoria storica dello sviluppo economico è stata elaborata negli anni Sessanta da Walt Rostow,597 seguendo un‘impostazione tipicamente storicistica e positivistica, ed è conosciuta come la teoria degli stadi lineari di sviluppo, in base alla quale la modernizzazione economica consiste in cinque stadi, di durata variabile: la società tradizionale, le precondizioni per il take off, il take off, l‘evoluzione verso la maturità, l‘età dei consumi di massa. La premessa risiede nell‘idea che il modello capitalistico sia valido ed adattabile a qualsiasi contesto sociale e che la crescita economica sia “semplicemente un processo automatico se si assume che la società sia in grado di rispondere attivamente ed 595 596 597 M. Weber, cit. in L. Pellicani, La genesi del capitalismo e le origini della Modernità, Marco Editore, Lugro di Cosenza 2006, p. 3. Alain Tourraine, Come liberarsi dal liberismo, Ed. Il Saggiatore, Milano 2000, p.18. http://it.wikipedia.org/wiki/Walt_Whitman_Rostow 216 efficacemente ai potenziali di crescita disponibili”598. Perciò l‘incapacità o la mancata volontà di avvantaggiarsi dell‘evoluzione tecnologica, a causa della diffusione di una forma di conoscenza prescientifica e rudimentalmente empirica, sarebbero caratteristiche della società tradizionale. Affinché possa attivarsi un processo di crescita economica, significativa e rilevante, è però necessario che si realizzino una serie di trasformazioni preliminari che ne costituiscono, dunque, la precondizione essenziale. Si tratta di cambiamenti che devono riguardare: la sfera dei valori - deve cioè svilupparsi la convinzione che la crescita economica sia non solo possibile, ma anche auspicabile, - le istituzioni economiche – che devono aumentare il volume degli investimenti, - lo sfruttamento delle materie prime, lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e comunicazione, il consolidamento di un‘autorità politica efficiente e centralizzata. A questo punto si compie la fase successiva, che è quella del take off, cioè “l‟intervallo in cui le vecchie remore e resistenze a un deciso sviluppo sono definitivamente superate. Le forze tendenti al progresso economico, che avevano prodotto solo limitate eruzioni e isole di attività moderna, si espandono e giungono a dominare l‟intera società. Lo sviluppo ne diviene condizione normale”599. Inizia così un percorso verso la maturità che comporta un progressivo aumento dell‘efficienza economica e della capacità di adattamento alle continue innovazioni tecnologiche, che prelude all‘avvento dell‘età della produzione e dei consumi di massa. Quest‘ultima si identifica con l‘età contemporanea in cui le comodità e il benessere sono dovuti al consumo generalizzato di beni durevoli e di lusso, alla produzione su larga scala, allo sviluppo del Welfare State e dove le preoccupazioni relative alla sopravvivenza, tipiche delle età precedenti, sono un ricordo del passato600. Tale teoria, costruita prendendo ad esempio la rivoluzione industriale inglese, ha fornito il quadro di analisi a tutte le successive riflessioni sull‘industrializzazione. L‘idea di modernizzazione che si è venuta così delineando, come già accennato, è basata essenzialmente su una concezione evoluzionistica, che valuta in maniera semplicisticamente ottimistica il concetto di sviluppo (come qualcosa di positivo in assoluto) e lo considera come un processo inevitabile e unilineare, che tutte le società, progredendo attraverso una serie di stadi, dovrebbero attivare per colmare il gap che le separa da quelle occidentali.601 598 599 600 601 W. W. Rostow, Politics and the Stages of Growth, cit., p. 194. Id., Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962, p. 38. M. Rush, Politica e società. Introduzione alla sociologia politica, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 233-234. Quanto storicamente e ―linearmente‖ tutto questo sia una falsificazione storica che appare, ciò nonostante, acquisita dal contesto sociale odierno e dalla maggioranza delle persone attraverso un bombardamento 217 Questa concezione dello sviluppo è, secondo l‘analisi di Serge Latouche,602 un prodotto dell‘epoca bipolare e del tentativo degli Stati Uniti di ottenere un‘influenza politica ed economica sugli ex imperi inglesi e francesi, liberandoli dal colonialismo per impadronirsi dei loro mercati ed impedire che cadino nell‘orbita sovietica. A tale scopo la parola d‘ordine utilizzata era, appunto, sviluppo. Questo è stato il primo grande passo nell‘impresa di ―economicizzazione‖ del mondo, di riduzione della sua diversità ad una sola variabile ossia la ricchezza prodotta da ciascun paese, in base alla quale si definisce il grado di sviluppo o di sottosviluppo. “Lo sviluppo come concetto etnocentrico ed etnocida, si è imposto con la seduzione, combinata con la violenza della colonizzazione e dell‟imperialismo, attraverso un vero e proprio «stupro dell‟immaginario» (secondo la bella espressione di Aminata Traoré)”603. Come ha scritto anche Jean Baudrillard, “una delle contraddizioni della crescita è che produce al tempo stesso beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo”; il risultato è una “pauperizzazione psicologica”, cioè una condizione di insoddisfazione permanente che “definisce la società della crescita come il contrario di una società dell‟abbondanza”604. L‘essenza della società di massa, secondo Latouche, risiede nell‘idea di crescita senza limiti, basata sul ―totalitarismo produttivista‖ e sul sistema consumistico, i cui tre pilastri sono “la pubblicità, che crea instancabilmente il desiderio di consumare, il credito, che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ha denaro (grazie al sovraindebitamento), e l‟obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda […]Se fosse vero che la crescita produce meccanicamente il benessere, oggi tutti noi vivremmo in un paradiso. E invece quello che ci aspetta è l‟inferno, perché questa crescita vertiginosa si basa essenzialmente sul prelievo dalle fonti energetiche fossili e le risorse non rinnovabili, sui rifiuti e l‟inquinamento: è in sostanza una crescita di distruzione del nostro ecosistema”605. A questo proposito, ad ulteriore riprova di quanto appena detto, appare interessante sottolineare l'evoluzione della definizione di rifiuto e del termine entropia, così come 602 603 604 605 mediatico senza precedenti nella storia, emerge chiaramente anche in un testo ―orientato‖ come quello di Mike Davis, Cronache dall'Impero, Ed. Manifestolibri Roma 2004, che contiene utili spunti di critica e di rappresentazione oggettiva della realtà attuale. http://www.riflessioni.it/ecoriflessioni/manifesto_doposviluppo.htm, contiene un interessante ―pezzo‖ intitolato il ―Manifesto del dopo sviluppo ―. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 49-50. J. Baudrillard, La société de consommation, Denoël, Paris 1970, pp. 83-87. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, cit., pp. 42-43. 218 brillantemente viene proposta da Ivan Illich in questo testo.606 Ci troviamo oggi di fronte ad una profonda trasformazione del sistema capitalistico, in gran parte attribuibile al processo di globalizzazione in atto, che rappresenta da un lato una ―formula ideologica‖, dall‘altro la ricerca di una maggiore astrattezza, anonimità e mobilità del denaro, fondamento di nuove e più ampie forme di organizzazione economica e di società di mercato. A livello internazionale risalta il ruolo delle grandi istituzioni finanziarie, quali la Banca mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che sempre più spesso assolvono a funzioni prettamente politiche607. “Il capitalismo nella sua evoluzione realizza non solo l‟autonomia della logica economica…ma anche, quanto meno tendenzialmente, il primato dell‟economia sulla politica, la religione, la morale ecc.”608. Il contesto attuale, all‘interno del quale trova il proprio sviluppo il processo di globalizzazione, possiede una serie di caratteristiche: anzitutto il dominio del capitale finanziario, che prevale su quello industriale; il passaggio dal regime borghese, legato alla sfera dello Stato-nazione, ad un regime di massa che fa sempre più riferimento alla dimensione sovranazionale; il sorgere di ―costellazioni di potere sociale‖; la diffusione universale di una mentalità economicista in cui “la proletarizzazione delle nuove generazioni, che avviene non in termini di povertà ma di «crescente dipendenza» provocata da precarietà e crescente indebitamento”609. A dominare oggi è il paradigma economico e politico del neoliberismo, che ha avuto origine nel mondo anglo-americano, essendo riconducibile alle politiche economiche adottate a partire dagli anni Ottanta dal presidente americano Ronald Reagan e dal primo ministro britannico Margaret Thatcher. Si tratta di quel complesso di politiche e processi per mezzo dei quali un insieme piuttosto ristretto di interessi privati mira ad esercitare un controllo, il più possibile diffuso, sulla vita sociale nel tentativo di massimizzare i propri profitti. Dunque ci troviamo di fronte ad una serie di principi in parte nuovi e in parte legati al pensiero liberale classico e, in modo particolare, alle analisi dell‘economista scozzese Adam Smith. Il fulcro di tale paradigma risiede nell‘idea della centralità del mercato e in una serie di ―ricette‖ ad essa collegate: la liberalizzazione del commercio e della finanza, la libertà del mercato nel determinare i prezzi, l‘eliminazione dell‘inflazione a favore della ―stabilità macroeconomica‖, la privatizzazione. Di conseguenza, l‘intervento dello Stato in ambito economico deve essere ridotto al minimo, il che significa che il governo deve ―farsi 606 607 608 609 Ivan Illich, Nello specchio del passato, cit., pp.71-82 C. Mongardini, La società del nuovo capitalismo. Un profilo sociologico, Bulzoni Editore, Roma 2007, p. 16. L. Pellicani, La genesi del capitalismo e le origini della Modernità, cit., p. 8. C. Mongardini, La società del nuovo capitalismo, cit., p. 17. 219 da parte‖610. Con la caduta del muro di Berlino e la conseguente dissoluzione dell‘Unione sovietica, gli Stati Uniti, campioni del neoliberismo, si sono trovati a dominare in modo pressoché totale la scena politica ed economica globale. Tale egemonia è stata garantita, secondo Noam Chomsky, dall‘esistenza e dalla sistematica applicazione di due differenti versioni della dottrina del libero mercato: la prima è quella ufficiale ―imposta agli indifesi‖, la seconda è, invece, quella che lo studioso americano definisce ―la dottrina del libero mercato realmente esistente‖, che si è consolidata a partire dal Seicento. Chomsky sostiene che in realtà la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi abbiano ottenuto la loro posizione di predominio economico imponendo, anche con la forza, agli altri paesi i principi liberistici, ma applicandoli selettivamente e con molte riserve all‘interno del proprio sistema. Una prova lampante sarebbe, ad esempio, l‘utilizzo del proprio potere per permettere che altre aree del mondo, quali l‘America latina e l‘Asia del sud, mettessero sì in moto un processo di crescita e di sviluppo, ma in un senso complementare e non competitivo rispetto agli interessi statunitensi. Un altro esempio riguarda i sussidi pubblici: poiché la base del paradigma liberista, come già ricordato, risiede nell‘idea che lo Stato debba essere totalmente escluso dalla sfera economica, i sussidi pubblici dovrebbero essere banditi. In realtà, già dall‘immediato secondo dopoguerra, i leader economici americani iniziarono a sostenere la necessità dell‘intervento pubblico per scongiurare una nuova depressione, asserendo che il settore industriale avanzato non avrebbe potuto prosperare all‘interno di un sistema liberistico puro611. Su questa base, gli anni Novanta sono stati unanimemente interpretati come l‘epoca americana, caratterizzata dall‘universale diffusione dell‘American Way of Life, cioè del modello economico, politico e culturale della superpotenza uscita vincitrice dal confronto bipolare. A questo proposito, Thomas Friedman scriveva sul New York Times che “la vittoria della Guerra fredda è stata la vittoria di alcuni principi politici ed economici: soprattutto democrazia e libero mercato”, che rappresentano “la promessa del futuro, un futuro di cui l‟America è insieme il guardiano e il modello”612. Sulla stessa scia, Touraine ha sottolineato che, dopo il 1989, in tutto il mondo non si parlava che di globalizzazione economica, nuove tecnologie, società civile e indebolimento delle norme in tutti i campi, dunque di liberazione degli individui. Si stava affermando un 610 611 612 N. Chomsky, Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale?, Edizioni Il Saggiatore, Milano 2010, pp. 23-24. Ivi, pp. 45-48. Si veda New York Times, 2 giugno 1992. 220 nuovo modello di modernizzazione basato sulla libera impresa e sul ruolo centrale del mercato nella distribuzione delle risorse613, Infatti,“Nell‟ultimo ventennio del Novecento allo Stato interventista si è sostituito quasi ovunque (e quasi completamente) uno Stato orientato innanzitutto ad attirare gli investimenti stranieri e a facilitare le esportazioni nazionali, e nel contempo sono subentrate imprese che si fondono sempre di più in gruppi transnazionali e si associano a reti finanziarie, le quali basandosi su nuove tecnologie informatiche, traggono grandi profitti dalla circolazione di informazioni in tempo reale. Queste rapide trasformazioni sono la conseguenza diretta di un‟internazionalizzazione della produzione e degli scambi che sarebbe sfociata nella «globalizzazione» dell‟economia. […]il mondo occidentale ha conquistato un vantaggio considerevole in quasi tutti i settori della vita industriale ed economica e gli Stati Uniti si sono trovati ad occupare una posizione di progressivo, netto dominio. Ne è derivata un‟interpretazione economica della storia che ha assegnato un‟importanza sempre crescente ai fattori economici e tecnologici del cambiamento sociale.[…]Il mondo sembra ormai dominato da un‟estensione quasi illimitata del modello americano”614. Da questo momento in poi dunque, il dibattito politico è stato dominato dal tema della globalizzazione, che ha gradualmente assunto una connotazione sempre più ideologica, basata sulla convinzione che il tentativo di regolamentare l‘economia sia non solo destinato al fallimento, ma anche non auspicabile, in quanto le attività economiche non sono più compresse all‘interno dei confini dei singoli Stati, ma acquistano una dimensione sempre più globale e, dunque, nessuna autorità riuscirebbe a far rispettare regole e limiti ad un livello così ampio, tanto che, “L‟idea stessa di globalizzazione implicava la volontà di costruire un capitalismo estremo, libero da ingerenze esterne e in grado di esercitare il proprio potere su tutta la società. Un capitalismo senza limiti: un‟ideologia che ha suscitato entusiasmo e sollevato contestazioni […] le sole istituzioni di potere mondiale, le banche e soprattutto il Fondo monetario internazionale o l‟Organizzazione mondiale del commercio, si applicano ad imporre non tanto obiettivi sociali e politici agli attori economici, quanto una logica economica agli Stati”615. Un punto di vista interessante riguardo alle conseguenze della globalizzazione616 sulla sovranità degli Stati e, dunque, sull‘assetto di potere che si sta consolidando a livello 613 614 615 616 Fenomeno questo che, unitamente alle ricorrenti crisi finanziarie che necessitano dell'intervento statale per evitare il collasso totale dell'economia, trovano riscontro nell'attuale crisi partita dal 2008 che ha trascinato la sua onda lunga in tutti i paesi che hanno adottato il ―sistema di vita americano.‖ A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Edizioni Il Saggiatore, pp. 32-33. Ivi, p. 34. U. Beck, Che cosa è la globalizzazione, Ed. Carocci, Roma 2001. 221 globale è fornito dall‘analisi di Antonio Negri e Michael Hardt, secondo la quale la dissoluzione dell‘Unione Sovietica ha rappresentato il crollo degli argini posti al mercato mondiale capitalistico e ciò ha comportato la liberazione e lo sviluppo inarrestabile delle forze della globalizzazione, tanto in campo economico che culturale. I flussi transfrontalieri di beni, persone, energia, tecnologie, investimenti, informazioni che ne rappresentano, probabilmente, l‘aspetto più facilmente individuabile (poiché visibile) hanno minato la sovranità degli Stati e contribuito alla nascita di un nuovo ordine a livello globale (quanto mai minaccioso per il nostro futuro e le nostre libertà) in cui, ―di fatto, l‟Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo”617. Dunque l‘idea di base è che il processo di globalizzazione in atto determini un declino del concetto moderno di sovranità, legato al tradizionale Stato nazione, proprio perché quest‘ultimo si dimostra sempre meno capace di gestire e controllare i flussi che attraversano le sue frontiere e di imporre la propria autorità sull‘economia. Tutto ciò, però, non comporta una crisi della sovranità tout court: infatti, la tesi di fondo sostenuta da Hard e Negri è proprio che all‘alba del XXI secolo ci troviamo di fronte all‘emergere di una nuova forma di sovranità “composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un‟unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo Impero” 618. A differenza dell‘imperialismo, questo nuovo apparato di potere non stabilisce confini e frontiere fisse, ma si presenta piuttosto come ―decentralizzato e deterritorializzante‖, incorporando in uno spazio aperto e in espansione via via l‘intero globo.619 Oltre tutto è anche in atto una trasformazione dei processi produttivi, sempre meno legati al lavoro industriale in fabbrica e sempre più basati, invece, sulla priorità accordata ai settori della comunicazione, della cooperazione e dell‘affettività. “Nella post- modernizzazione dell‟economia globale, la creazione della ricchezza tende sempre più risolutamente verso ciò che definiamo produzione biopolitica – la produzione della vita 617 618 619 M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001, p. 13. Ivi, pag. 14. Alain Tourraine, nel suo testo Come liberarsi dal liberismo, Ed. Il Saggiatore, Milano 2000, così interpreta e vede la soluzione, in maniera sinergica tra dominati e dominanti: ―Poiché la globalizzazione è l'ideologia delle forze dominanti, di chiunque vagheggi sistemi di comunicazione sempre più competitivi che distruggano sul proprio percorso ogni soggettività, garanzia sociale, memoria collettiva e progetto individuale, è dai dominanti e dal loro appoggio che dobbiamo aspettarci la salvezza. L'idea che solo lo schiavo, e non il signore, sia in grado di comprendere, e quindi di trasformare, il loro rapporto reciproco è ancora vera oggi quanto lo era all'epoca di Hegel.” Questa visione, è anche sostenuta per altri versi da L. Hunt, op.cit., che vede, nel rapporto empatico venutosi a determinare tra dominanti (borghesia e aristocrazia) e dominati (popolo francese), il fenomeno che nel '700 porterà all'esplosione dei diritti umani in pieno clima illuminista. Esplosione non verificatesi in precedenza proprio per l'assenza di queste pre-condizioni, prodromiche ad una condivisione delle esperienze. 222 sociale stessa – in cui l‟elemento economico, quello politico e quello culturale si sovrappongono sistematicamente e si investono reciprocamente”620 Nella loro analisi, Hardt e Negri riconoscono la posizione privilegiata occupata, a livello internazionale, dagli Stati Uniti, ma non identificano l‘Impero con il sistema di potere statunitense,621 seppure esso è in buona misura il frutto di un‘idea imperiale che, sul modello dell‘antichità, si è sviluppata ed è maturata tramite la storia della costituzione americana tanto che “Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell‟Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all‟intero pianeta, o che dirige l‟intero mondo «civilizzato». […] In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine dalla conquista, ma piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristallizza l‟ordine attuale delle cose per l‟eternità. […]In altri termini, l‟Impero non rappresenta il suo potere come storicamente transitorio bensì come un regime che non possiede limiti temporali e che, in tal senso, si trova al di fuori della storia o alla sua fine. In terzo luogo, il potere dell‟Impero agisce su tutti i livelli dell‟ordine sociale, penetrando nelle sue profondità. […]Non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare direttamente la natura umana. […]L‟Impero costituisce la forma paradigmatica del biopotere”622. A queste trasformazioni nell‘ambito politico e sociale corrispondono nuove forme di dominio economico, che convivono nell'Impero. Oggi, infatti, si può parlare di una dipendenza sempre più forte dal sistema mondiale anche da parte dei paesi economicamente predominanti perché, “le interazioni del mercato mondiale hanno provocato una disarticolazione generalizzata di tutte le economie. Qualsiasi tentativo di isolarsi e di separarsi dal mercato mondiale non può che tradursi in un tipo di dominio ancora più brutale da parte del sistema mondiale, e cioè in una riduzione all‟impotenza e alla povertà”623. Eric Hobsbawm definisce il comportamento attuale degli Usa un ―imperialismo dei diritti umani‖, che ha la capacità di attrarre Paesi che, non essendo in grado di opporsi al predominio americano, si convincono che il loro progetto riuscirà ad eliminare ingiustizie e disuguaglianze sociali e, pertanto, scelgono di appoggiarlo. Ma, come tutti gli Imperi, anche quello americano è destinato a scomparire: ricordando la caduta degli imperi coloniali e non 620 621 622 623 M. Hardt, A. Negri, op. cit., p.15 Come altri autori, più evidentemente fanno. Vedi al proposito Mike Davis, op.cit., od anche Emmanuel Todd, “Dopo l'impero”, Ed. Il Saggiatore, Milano 2005. M. Hardt, A. Negri, op. cit., p. 16. E. Todd, “Dopo l'impero”, Ed. Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 266-267. 223 coloniali che ha caratterizzato tutto il XX secolo, l‘Autore prevede la fine della pax americana.624 Luciano Canfora, partendo dagli stessi presupposti, giunge a conclusioni diverse: egli ritiene che gli Stati Uniti, praticamente invulnerabili sotto il profilo territoriale, militare e del controllo delle materie prime, rappresentino un caso unico di Impero, che non può essere messo in crisi da nessun tipo di attacco esterno. La crisi dell‘Impero potrebbe essere, piuttosto, generata da ―una crisi di fiducia nei propri valori da parte di chi sta al vertice […]. Quando si spegnerà il <fondamentalismo occidentalista> che oggi domina la parte più forte e aggressiva dell‟Occidente si ricomincerà a comprendere che le differenti parti del pianeta potranno convivere solo se sarà loro consentito di vivere <iuxta propria principia>‖.625 La promessa tradita, insita nell‘idea occidentale di progresso, era la prosperità economica, il miglioramento del tenore di vita dei singoli individui, eliminando, anche attraverso le politiche messe in atto dal Welfare State, la povertà e la miseria, caratteristiche dell‘epoca dell‘industrializzazione. In realtà, se guardiamo oggi anche ai paesi più ricchi, è facile rendersi conto che il bilancio degli ultimi decenni, soprattutto in termini di disuguaglianze economiche e sociali è fortemente negativo, tanto da giustificare un certo grado di pessimismo riguardo alla situazione attuale e alle previsioni per il prossimo futuro. Touraine riflette sullo smantellamento in atto del Welfare, ricordando che“le conquiste del movimento operaio e la forza del sindacalismo avevano permesso allo Statoprovvidenza di creare, nei paesi industrializzati, notevoli sistemi di protezione sociale; ma essi perdono oggi la loro forza e devono scendere a compromessi per salvaguardare un livello accettabile di copertura sanitaria, il pagamento delle pensioni, l‟assistenza alle persone non autonome e la possibilità di accedere a terapie mediche e a esami più costosi.”626. Come ha scritto Wolfgang Reinhard, nonostante le competenze ancora onnicomprensive dello Stato sociale democratico, che gli permettono di mantenere un‘apparente forza, esso è in realtà divenuto debole per ciò che riguarda i suoi reali spazi di manovra. Ci troviamo di fronte allo smantellamento di quel sistema, che è stato costruito in Europa all‘indomani della Seconda guerra mondiale, grazie al fondamentale contributo delle forze della Resistenza, il cui programma, ci ricorda Stéphane Hessel, prevedeva “un progetto completo di Sécurité sociale, volto ad assicurare mezzi di sostentamento a tutti i cittadini, qualora fossero inabili a procurarseli con il lavoro; una pensione che consenta ai 624 625 626 E. J. Hobsbawm, Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007, pp. 60 – 62. L. Canfora, La natura del potere, cit., pp. 94 – 95. A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, cit., p. 25. 224 lavoratori anziani di avere una vecchiaia dignitosa. Le fonti di energia, l'elettricità e il gas, le miniere di carbone, le grandi banche vengono statalizzate. […] il ritorno alla nazione dei grandi mezzi di produzione monopolizzati – frutto del lavoro collettivo –, delle fonti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie d‟assicurazione e delle grandi banche; l'insediamento di una vera e propria democrazia economica e sociale, che comporti l'evizione dei grandi gruppi di potere economico e finanziario dal controllo dell'economia”627. Oggi, al contrario, in una situazione in cui l‘indebitamento pubblico cresce a dismisura, spesso per ragioni che, come in Italia, è più facile ricondurre all'alto grado di corruzione esistente nel paese, che non a spese necessarie al mantenimento e all'incremento del Welfare state perché “lo scarso spazio di manovra ridicolizza la pretesa autonomia dell‟esecutivo e la sovranità del legislativo sul bilancio”628. Lo Stato ha perso, a favore dei global players dell‘economia, la sovranità sul mercato, ―divinità del nostro tempo‖, un mercato all‘interno del quale a dominare non sono le regole della libera concorrenza, ma le grandi imprese internazionali. “In questa situazione, lo Stato sociale nella sua forma tradizionale è finito e può essere sostituito solo da un livello minimo di sistema previdenziale abbinato a rendimenti individuali coperti da capitale.”629 Richiamandosi a quei principi elaborati dalla Resistenza, cui si faceva precedentemente riferimento, Hessel afferma che “l'interesse generale deve prevalere sull'interesse particolare, l'equa distribuzione delle ricchezze prodotte dal mondo del lavoro deve prevalere sul potere del denaro. La Resistenza <propone un'organizzazione razionale dell'economia che garantisca la subordinazione degli interessi particolari all'interesse generale e sia affrancata dalla dittatura professionale fondata sull'esempio degli Stati fascisti>.”630 Oggi le lotte volte a difendere il Welfare non sono più intraprese dai più poveri, bensì da quelle categorie sociali che hanno qualche possibilità di riuscire a fare pressione sullo Stato: cioè le classi medie minacciate, che, in questo, si sostituiscono ai più poveri e deboli, destinati, dal canto loro, a scomparire nell‘oscurità, sprofondando nella marginalità o nell‘illegalità. Le illusioni di quanti continuavano a credere al mito della prosperità economica illimitata si sono infrante di fronte alla crisi finanziaria che si è abbattuta sull‘economia 627 628 629 630 S. Hessel, Indignez-vous, cit., pp. 6-7. W. Reinhard, Storia dello Stato moderno, Il Mulino, Bologna 2010, p. 111. Ibidem. S. Hessel, Indignez-vous, cit., p. 7. 225 globale, a partire dalla crisi dei mutui subprime scoppiata negli Stati Uniti nel 2007, che ha fatto sì che il capitalismo mostrasse quella che, secondo Zygmunt Bauman, è la sua vera faccia: cioè la sua natura parassitaria e la sua formidabile capacità non tanto di risolvere i problemi, quanto piuttosto di crearne nuovi631. La vera forza del capitalismo risiede, secondo Bauman, nella sua incredibile capacità di scovare nuove ―specie ospitanti‖, ogni volta che quelle già sfruttate siano ormai diventate inservibili o addirittura si siano estinte, e di adattarsi a tali nuove condizioni. Alla luce di quella fine che potremmo considerare solo come ―l‘esaurimento di un altro pascolo‖. Ciò che accadrà nell‘immediato futuro non può che essere letto come l‘avvio di una nuova ricerca di ―terre vergini‖ da sfruttare, anche grazie al non trascurabile aiuto dello Stato capitalistico, tramite nuove imposizioni fiscali che graveranno sui cittadini. Se si segue questa interpretazione, ovviamente non si può evitare di porsi un interrogativo sul futuro: in altre parole, se è vero che il capitalismo non fa che spostarsi, di sfruttamento in sfruttamento, alla eterna ricerca di ―nuovi pascoli‖, non resta che chiedersi quando questi nuovi pascoli si esauriranno. “ Non saranno quasi certamente i mercati, dominati come sono dalla «mentalità del cacciatore» liquido-moderno che ha preso il posto dei due approcci precedenti - quello premoderno del guardacaccia e quello solido-moderno del giardiniere – a porre questa domanda, loro che vivono passando da una battuta di caccia fortunata all‟altra, fintanto che riescono a scovare un‟altra occasione per rimandare il momento della verità, non importa se per breve tempo e non importa a quale costo”632. Una prova di questa ―strategia‖ la si ricava analizzando l‘attuale stretta creditizia, che, nell‘analisi di Bauman, non è affatto il prodotto del fallimento del sistema bancario, al contrario essa è il frutto del suo successo. Successo nel rendere il maggior numero possibile di cittadini debitori, ―terre vergini‖ da sfruttare con il massimo profitto. Si è creata in questo modo una ―razza di debitori eterna‖, in grado di autoperpetuarsi, grazie al fatto che per risanare i debiti contratti l‘unica possibilità è quella di contrarne di nuovi, per cui “Accedere a questa condizione recentemente è diventato facile come mai prima d‟ora nella storia dell‟umanità; sfuggire a questa condizione non è mai stato tanto difficile. Chiunque poteva essere trasformato in debitore, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere indotti a chiedere soldi in prestito, sono già stati allettati e spinti a indebitarsi. Come in tutte le precedenti mutazioni del capitalismo, anche stavolta lo Stato ha dato una mano a creare i nuovi pascoli da sfruttare…. trasformare in debitori settori della popolazione cui, fino a quel momento, lo sfruttamento creditizio non aveva modo di accedere. […]la scomparsa di 631 632 Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Edizioni Laterza, Bari 2011, p.4 Ivi, p. 7. 226 persone non indebitate rappresenta un disastro per l‟industria del credito. […] Di nuovo il capitalismo è arrivato pericolosamente vicino a un suicidio non voluto, riuscendo a esaurire le scorte di nuove terre vergini da sfruttare.”633 In altre parole, si è verificata una transizione da quella che Bauman definisce la società ―solida‖ dei produttori a quella ―liquida‖ dei consumatori, il che ha comportato la necessità che lo Stato elargisse sovvenzioni, affinché potesse essere assicurata la sopravvivenza del sistema capitalistico “Il credito era il congegno magico per assolvere (si sperava) a questo doppio compito: e ora possiamo dire che nella fase liquida della modernità lo Stato è «capitalista» nella misura in cui garantisce la disponibilità continua di credito e la capacità continua dei consumatori di ottenerlo”634. Il problema è che, di fronte alla crisi economico-finanziaria attuale, i detentori del potere politico ed economico a livello globale non hanno intenzione di mettere in discussione quei principi e quelle strategie che l‘hanno prodotta: si rivela, dunque, vera la teoria di Paul Krugman per il quale “le cattive idee hanno successo perché sono funzionali agli interessi dei gruppi di potere”635. Perciò la ricetta che continua ad essere prescritta per raggiungere un certo livello di prosperità economica è l‘aumento del credito: ovviamente, come già notato, il rovescio della medaglia è il ritorno ad un progressivo, crescente indebitamento dei singoli individui. Bauman utilizza la metafora del tossicodipendente, sottolineando il fatto che ―vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe‖ e che la soluzione proposta allo shock prodotto dalla crisi e dalla momentanea sospensione della possibilità di indebitarsi è il ripristino della fornitura di credito, il che, ovviamente, non significa affatto cercare di risolvere il problema alla radice, che pure sarebbe l‘unica reale soluzione, senz‘altro non immediata, ma adeguata alla necessità di ―sopravvivere ai tormenti intensi della disassuefazione.‖636. Attraverso una serie di mutamenti, siamo giunti oggi ad una forma di ―capitalismo estremo‖, secondo la definizione fornitane da Touraine, una forma che, di fatto, provoca, da una parte, “la separazione completa dell‟economia e delle altre istituzioni, in particolare sociali e politiche, che non possono più controllarla”, dall‘altra, “la frammentazione di ciò che veniva chiamata società”637. In questo quadro, la scienza e la tecnologia rivestono un posto centrale e decisivo all‘interno delle odierne società. Hanno assunto all‘interno del contesto sociale, 633 634 635 636 637 Ivi, pp. 14-16. Ivi, p. 25. P. Krugman, cit. in N. Chomsky, Sulla nostra pelle, cit., p. 32. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, cit., pp. 20-21. A. Touraine, Un Nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d‟aujourd‟hui, Fayard, Paris 2005, p. 335. 227 essenzialmente, la funzione di ―feticcio‖ utilizzabile sotto vari aspetti, siano essi politici, sociali, giuridici e culturali. Gli esempi nel campo non mancano ed anzi, mostrano la loro sovrabbondanza: dalla sovraesposizione mediatica dei politici (possibile solo con l‘uso e la disponibilità dei mezzi di comunicazione mass-mediatici); al condizionamento sociale nell‘utilizzo dei nuovi mezzi informatici per accedere e utilizzare (a volte) i servizi della P.A.; all‘adeguamento alle normative a sostegno di settori tecnologici o alla loro regolazione per l‘utilizzo, con il porre degli standard e/o imporre l‘uso anche indiretto di mezzi di vigilanza e controllo sull‘individuo in cui possiamo far rientrare anche l‘obbligo dell‘utilizzo delle strutture bancarie (ma di cui, non dimentichiamo, la ragione essenzialmente speculativa e di appoggio, come nel caso italiano, ad un sistema finanziario e bancario, quantomeno molto discutibile, celato sotto pretese necessità antievasione fiscale o di antiriciclaggio completamente inesistenti); alle metodologie tecnologiche utilizzate nell‘insegnamento ed anche, suggerirei, nella fase ―certificativa‖ della cultura impartita non più soggetta a sistemi di approvazione e verifica collettiva (è il caso, ad esempio, della comparazione tra ―l‘errata corrige‖ nell‘editoria monografica e la modifica di un contenuto disponibile sulla rete, come ha ben argomentato Raffaele Simone638). Se, ora, è stata appena fatto cenno al lato oscuro della scienza e della tecnologia, occorre però anche considerare l‘aspetto positivo che queste possono assumere nell‘approccio alla situazione attuale, oltre quello che hanno già manifestato lungo il percorso. “La moderna scienza di sperimentazione, scienza galileiana, e la tecnologia che ne è parte, e l‟industria che l‟applica alla produzione, costituiscono un importante fattore dell‟utopia storica, cioè del progetto- processo e quindi della costruzione di una società giusta e fraterna, di cui l‟unificazione e pacificazione dell‟umanità sono un momento forte. Perché la scienza-tecnologia opera per modelli universali, indefinitamente riproducibili per identità, quindi universalmente espansibili, capaci di rispondere all‟universale bisogno umano.”639 E‘ indubbio, infatti, che esista una tecnologia ―utile‖ ed una ―necessaria‖, intendendo con quest‘ultimo termine definire quella che rende un servizio reale all‘uomo e non solo quella che gli torna utile per taluni scopi, anche superflui, e che implica possibilità o caratteristiche negative insite in sé e/o nella relativa adozione della tecnologia del sistema stesso.640 638 639 640 R. Simone, La terza fase, Ed. Laterza, Roma 2006. L‘autore, in realtà, si spinge ben al di là di quanto sopra detto, arrivando a toccare il nodo centrale della formazione culturale moderna: ―Come la trasformazione della strumentazione tecnica modifica il nostro modo di pensare? Quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo cambiamento?‖ Rivelando, quindi, veri e propri buchi nel nostro sistema di conoscenza di cui, spesso, non ci rendiamo conto. A. Colombo, Rivista di Studi Utopici, cit., p. 26. A questo proposito, è ferma convinzione che non tutte le invenzioni migliorino la vita dell‘essere umano. 228 “Perciò l‟industria si diffonde universalmente e induce oggetti e comportamenti d‟uso in cui l‟intera umanità si ritrova; in questo elementare fattore di unità, come gli elettrodomestici, l‟automobile, l‟aereo; o la bicicletta. Un fattore tuttavia debole perché l‟oggetto e lo strumento possono essere usati anche contro l‟unità; le armi anzitutto. Che costituisce inoltre, per molti popoli, il primo fattore di modernizzazione, quello appunto scientifico-tecnologico e industriale; che però è modesto e insufficiente rispetto al fattore etico politico, il quale può mantenere i popoli in una essenziale arretratezza. E lo si vede nello sceicco che possiede la ferrari ma pratica la poligamia e la legge del taglione; nei ricchissimi sceiccati che proibiscono alla donna la professione. Un passo ulteriore è compiuto dalle tecnologie di trasporto, di comunicazione, d‟informazione…. Questa L‘esempio potrebbe essere quello dei robot, in grado di eseguire sotto la guida umana, delicatissimi interventi chirurgici, altrimenti impensabili e per questo indispensabili come espressione del reale progresso e l‘adozione, ad esempio, dei telefoni cellulari o, pochi anni fa, dell‘eternit. Tecnologie queste che comportano aspetti negativi nel calcolo di costi-benefici. Ancora sopportabile, ad oggi, per i cellulari, non più invece per l‘utilizzo dell‘amianto, le cui problematiche sono ancora presenti ( e direi pressanti) ai giorni nostri. Interessante al proposito il saggio di Ivan Illich, tradotto come L‟Elogio della bicicletta. Ed. BollatiBoringhieri, Torino 2006, che, a sommesso avviso, ben illustra l‘aspetto contraddittorio del progresso o quello, almeno ritenuto tale. Passando dal cuscinetto a sfere, come l‘invenzione della seconda metà dell‘Ottocento grazie alla quale tanto l‘automobile quanto la bicicletta diventano, in contemporanea, possibili mezzi di locomozione veloce per l‘essere umano. Si potrebbe pensare allora alla bicicletta, anche se falsamente, come a un mezzo arretrato e preindustriale. In quel momento, si apre un bivio di portata storica: da una parte la strada che conduce a una maggiore libertà nell‘equità, dall‘altra l‘illusione di una maggiore velocità che sul lungo periodo l‘autore prevede come progressivamente paralizzante. Rispettivamente: il mondo della bicicletta e quello dell‘automobile. Il libro, nonostante i cambiamenti socioeconomici e culturali e i decenni trascorsi è estremamente attuale, tanto più che Illich aveva previsto con arguzia dove la società dell‘automobile ci avrebbe portato. La sua analisi scientifica è lucida, spietata, nulla concede al sentimentalismo. I motivi che ci devono portare a cambiare direzione sono razionali e oggettivi e hanno una loro forza e valenza indubbiamente affascinante. Illich analizza come, la nostra, è una società energivora, che pretende overdose continue di energia, fino al soffocarne. Il problema è individuare quale sia la soglia energetica oltre la quale si arriverebbe al collasso. L‘autore avverte, però, che si tratta essenzialmente di un compito politico, di quella che lui definisce una ―controricerca‖. Il punto di inizio è la distinzione che passa tra trasporto e transito: dove, il primo ha a che fare con il valore di scambio e con il monopolio che il capitale ne vuole fare, mentre il secondo è prodotto dal lavoro ed è un valore d‘uso. Il trasporto, che tende a marginalizzare, fino a distruggerlo, il transito diviene, strada facendo, per gli individui un fattore alienante: “il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. L‟alienazione arriva a tal punto che “incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli (si pensi a quanto oggi ciò sia vero anche sul fronte della comunicazione: l‟invio di messaggi digitali è la nuova frontiera dell‟alienazione dei corpi…)”.Illich si permette una lettura in termini ―di classe‖ del fenomeno della deformazione spaziotemporale del movimento: dove l‘identificazione con il mezzo è sinonimo della qualità e della velocità possibile nell‘utilizzo del mezzo. Valuta anche l‘aspetto, tutt‘altro che secondario ai nostri tempi, della progressiva ostruzione del traffico da parte del trasporto (saturazione fisica e ambientale, espropriazione del tempo in nome della velocità e sua condanna a lenta ciclicità di ritorno) e, connessa a ciò, la determinazione della velocità-limite entro la quale il trasporto potrebbe favorire il transito: Illich non esclude che entro quel limite vi potrebbe essere un importante fattore di ausiliarietà (l‘ipotesi è quella di una velocità di punta di 40 km/orari che non è differente dal limite imposto in ogni città dove trascorriamo il 95% del nostro tempo di vita!!!). L‘autore, si sofferma analiticamente, ―individuando tre modelli di mobilità nell‘odierno scenario globale: società sottoattrezzate, che cioè non garantiscono il diritto all‘automobilità dei cittadini nemmeno alla velocità della bicicletta; società sovraindustrializzate dove vige il dominio dell‘industria del trasporto; ma tertium datur: “c‟è posto per il mondo dell‟efficacia post-industriale [...] per un mondo di maturità tecnologica”, che cioè vada verso la duplice liberazione dall‟opulenza e dalla carenza, che sposti l‟asse dal trasporto al transito, dal monopolio alla libertà, che operi una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Ma ciò, di nuovo, non è oggetto di deduzione, quanto piuttosto di decisione politica: la rotta da prendere non è segnata sulle carte! Particolare interessante, a modesto avviso (che è anche un sintomo dell‘oscurità dei nostri tempi attuali), è la traduzione del titolo del libro (traduzione che deve corrispondere a una possibile sollecitazione all‘acquisto da parte del potenziale lettore). Il testo, che in lingua originale è intitolato Energie, vitesse et justice sociale, diviene Elogio della bicicletta, dove evidentemente la semantica e la stessa semiotica originale subiscono una trasformazione totale ed inconoscibile a posteriori, se non nel contenuto del testo. 229 compresenza, questa possibilità di co-gioire e co-soffrire, può unire ulteriormente i popoli; supposto che i grandi problemi che li dividono siano affrontati con saggezza e volontà buona.641 Questa osservazione, incidentalmente, sembra offrire spazio anche ad una considerazione che, specie in questo momento storico, appare non meno importante e serve a sfatare un mito perseguito ad ogni costo e solamente illusorio, cioè che l‘economia non è progresso. O meglio, che non sempre questo termine, usato spesso come possibile panacea di tutti i mali della società contemporanea, comporta un reale progresso e livelli di benessere adeguati alle promesse, per la popolazione che ne deve subire gli effetti. Ciononostante, è logico ritenere (e sperare fortemente) che i processi di unificazione in atto, siano una direttrice verso il futuro che “costituisce una garanzia per il futuro, una base per la speranza per l‟umanità. Ipotesi come quella di Huntington, del conflitto di civiltà, ignorano questo cammino e questa linea di tendenza, ignorano l‟utopia storica e il suo percorso. Mancano perciò di una reale base storica”642 La domanda è: sarà realmente così? 2. Economia della guerra La diffusione globale, dagli anni Sessanta sino ad oggi, delle politiche liberiste della Scuola di Chicago ha usualmente comportato, e comporta, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione dei salari. Ciò che, tuttavia, appare meno esplicito è quanto Naomi Klein ha dettagliatamente evidenziato in Shock economy643: l‘applicazione delle politiche liberiste è stata sempre effettuata senza il consenso popolare, approfittando di uno shock causato da un evento contingente, provocato appositamente per questo scopo oppure generato da cause esterne. L‘imposizione di una economia di mercato risulta, infatti, molto più facile se la strada che conduce ad essa è lastricata da qualche sorta di trauma che costringe le persone a spogliarsi delle vecchie abitudini e ad accettare il nuovo ordine644. In questa prospettiva, il consenso, massmediaticamente imposto dall‘emergenza, mette opportunamente tra parentesi i valori collettivi e sociali in vista dell‘inevitabile reazione. 641 642 643 644 A. Colombo, Rivista di StudiUtopici, cit., p. 27. Ibidem. Cfr. N. Klein, Shock Economy, cit. S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., secondo cui anche una catastrofe ecologica potrebbe rinvigorire il capitalismo aprendo nuovi e impensabili spazi di investimento, pp. 28- 29. 230 Nel luglio del 2008 il governo italiano ha introdotto, senza grossi clamori, lo stato d‘emergenza per affrontare l‘ingresso illegale di immigrati. In tutti i paesi sviluppati, ormai, lo stato di emergenza (per fronteggiare, di volta in volta, immigrati, minacce terroristiche, disastri naturali, economici, ecc.) viene accettato come una misura necessaria a garantire il corso ―normale‖ delle cose. La stabilizzazione dell‘emergenza è una politica che giustifica le crisi economiche e soprattutto la guerra, istituzionalmente rappresentata come «emergenza delle emergenze»645. La migliore definizione della dottrina dello shock, come precedentemente rilevato, è stata fornita da Milton Friedman,”646, così come le già citate azioni che hanno portato in GB alla privatizzazione di British Telecom, British Gas, British Airways, dell‘autorità aeroportuale e delle acciaierie e alle vendite delle azioni della British Petroleum da parte del governo britannico647. Dal momento in cui si accetta che il profitto praticato su larga scala crei il massimo beneficio possibile per qualsiasi società, praticamente qualunque atto di arricchimento personale può essere giustificato come un contributo al «grande calderone creativo del capitalismo» che genera ricchezza, anche se solo per se stessi. Le riforme economiche in Russia sono responsabili della riduzione in povertà di 72 milioni di persone in soli otto anni; nel 1996 il 25% dei russi, vivevano in una povertà descritta come disperata, nel 2006 il governo ha ammesso la presenza di 715.000 bambini senzatetto648. Analogamente, in Sudafrica, negli anni di transizione tra il 1990 e il 1994, l‘African National Congress649 adottò politiche economiche che fecero impennare sia la diseguaglianza che il crimine determinando una profonda scissione: dal punto di vista politico ci sono elezioni, libertà civili e governo della maggioranza; economicamente, invece, è una delle società più ineguali al mondo. Si tratta del lato oscuro della tesi secondo cui democrazia, capitalismo radicale e progresso sono inestricabilmente fusi l‘uno con l‘altro650. La globalizzazione della strategia dello shock è avvenuta anche grazie all‘appoggio delle istituzioni economiche internazionali. La Banca Mondiale ha, infatti, inventato e diffuso il concetto di ―aggiustamento strutturale‖, processo finanziario di cui i paesi in crisi hanno bisogno per salvarsi. Gli aiuti finanziari sono inscindibilmente uniti all‘imposizione di misure di privatizzazione e di liberalizzazione, misure che, tuttavia, tutti sanno, non 645 646 647 648 649 650 Cfr. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., p. 44; S. Zizek, Dalla tragedia alla farsa, cit., p. 63. M. Friedman, Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, Chicago 1982, p. IX. N. Klein, op. cit., pp. 157-161. Ivi, pp. 269-272. http://www.anc.org.za/ N. Klein, op. cit., p. 228. 231 serviranno a porre fine alla crisi, situazione che l‘Italia attualmente vive, all‘ombra di una inettitudine politica tri-partizan connivente con la figura dell‘uomo industriale, dell‘uomo di successo (al minimo, afflitto sovente da stridenti conflitti d‘interesse) e per questo incapace di proporsi come un‘alternativa reale e credibile a questo stato di cose. In realtà, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, «praticamente il dipartimento del Tesoro americano», realizzano, in questo modo, un‘abile operazione di marketing consistente nello sfruttare il caos di una crisi per spacciare la privatizzazione come parte integrante del salvataggio di uno stato651: le crisi diventano, dunque, ―zone franche della democrazia: momenti in cui le regole normali del consenso vengono sospese”652, e proprio in questi mesi, in Italia e più in generale nell‘intera Unione Europa, possiamo constatare come questo sia vero. Riguardo al Fondo Monetario Internazionale, occorre qui sottolineare il suo ruolo di «esattore della finanza internazionale» soprattutto in relazione al debito del Terzo Mondo. Esso si configura come un sistema di potere ( e di indebitamento), regolato dal Fmi, che funziona attraverso l‘imposizione del debito sulle popolazioni povere del Sud del mondo e la sua successiva estensione ai contribuenti del Nord del mondo. Le banche che concedono i prestiti non si assumeranno alcun rischio, poiché il Fondo fa in modo che investitori e prestatori non abbiano alcun problema653. E‘ per far fronte a questo stato di cose che, emerge la necessità di rifarsi ad un concetto reale di diritti dell‘uomo, dove i diritti sono dimenticati, passati sotto silenzio o comunque allontanati dal reale. ―La dichiarazione dei diritti dell‟uomo è una sintesi della Cahiers de dolèances. Questo testo si inseriva bene nell‟azione concreta e tendeva a creare una giurisprudenza rispetto ai casi enunciati. Al contrario dell‟idealismo circostante, gli uomini del 1789 sono partiti da casi concreti, da cose presenti ma non rappresentate, hanno cercato il modo di adattare la legalità alla legittimità dell‟esistenza. L‟impegno dovrebbe somigliare a questo: distinguere in quale divenire siamo già impegnati e cercare il modo di svilupparlo. Nessuno di questi uomini si è messo a cercare un‟unica essenza umana cui corrisponderebbero dei diritti.”654 Anche per questo, affermare oggi un impegno per l‘affermazione dei diritti umani, è quanto mai strettamente legato al reale, al concreto, al caso di specie, più che all‘ideale universale (ma profondamente diverso) della situazione precipitata in cui si vive. 651 652 653 654 Ib., pp. 189-191; cfr. N. Chomsky, Guerra e propaganda, Datanews, Roma 2007, p. 127. N. Klein, op. cit., p. 162. N. Chomsky, Global empire, pp. 14-16. Conclude in queste pagine Chomsky: «Perciò il debito del Terzo Mondo forse non esiste; o se c‟è, è solo marginale». M.Benasayag. Contro il niente, abc dell‟impegno, cit., p.63. 232 “ Nel 1789 il movimento di cui facevano parte incarnava un universale concreto, che parte dal reale e, solo in seguito, diventa universale. Quando invece si cerca di conservarlo senza legami con l‟esperienza concreta, è soltanto una fissità ideologica. La critica di Marx a Hegel rimane fondata, il soggetto dei diritti dell‟uomo diventa allora pura astrazione. L‟ideologia attuale dei diritti dell‟uomo è come uno specchio rovesciato della dichiarazione da cui pure sostiene di derivare. Vorrebbe che si accettasse subito, in un‟astrazione totale, che ci si schieri a favore o contro di lei senza nessun rapporto con la realtà. In nome di questa ideologia il nostro presidente può arrivare a sostenere che la Cina ha un‟altra concezione dei diritti dell‟uomo, alcuni dittatori possono affermare di essere favorevoli a difenderli ma considerano il loro paese non ancora maturo. Tutto avviene a livello astratto.…Rompe con il principio della rivoluzione di cui si proclama erede: non si occupa più delle lotte concrete ma sostiene di aver trovato la vera essenza dell‟uomo e i diritti corrispondenti. Il gesto di determinare una volta per tutte l‟essenza dell‟uomo, al di là delle esistenze multiple, è profondamente reazionario. I diritti dell‟uomo sono in origine dei principi di giurisprudenza, delle affermazioni, delle creazioni cristallizzate dalla Dichiarazione. Al contrario, la Lega dei diritti dell‟uomo e Amnesty International s‟impegnano in azioni molto concrete. Tutti questi ideologi da salotto invece non fanno altro che proporre dei modelli poco esigenti di fronte alla realtà. La stessa tensione percorre i diritti dell‟uomo e la giustizia separa la giurisprudenza feconda e inventiva dagli ideali inevitabilmente reazionari e spesso colpevoli.”655 Le conseguenze più vistose dell‘applicazione globalizzata della dottrina liberista della shock economy riguardano, tuttavia, l‘‖economia della guerra‖. La guerra, in quanto strumento repressivo e intervento umanitario, diventa, infatti, parte rilevante di tale strategia nel momento in cui costituisce un‘attività di lucro. La guerra in Iraq 656 rappresenta uno degli esempi più significativi: l‘invasione, l‘occupazione e la ricostruzione di questo paese diventarono un nuovo mercato, interamente privatizzato. L‘ex segretario di stato americano George Shultz guidò il Comitato per la liberazione dell‘Iraq, un gruppo di pressione formato nel 2002, su richiesta di Bush, per convincere l‘opinione pubblica della necessità di una guerra. Quello che però l‘opinione pubblica non sapeva è che Schultz era membro del consiglio di amministrazione della Bechtel, società che raccolse 2,3 miliardi di dollari per ricostruire l‘Iraq. Nel 2006 James Baker fu nominato co-presidente dell‘Iraq Study Group, il comitato di consulenza incaricato di risolvere la questione del debito iracheno promessa da Bush. 655 656 Ivi, pp. 63-64. http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_d'Iraq 233 In realtà, secondo la Klein, Baker agì esattamente in senso opposto al suo incarico ufficiale, tutelando, piuttosto, i suoi interessi privati. Nel documento intitolato ―Proposta di assistenza al governo del Kuwait nella protezione e nel recupero dei crediti verso l‟Iraq” il Carlyle Group, società che vende sistemi di comunicazione per la difesa e ha in appalto l‘addestramento della polizia in Iraq, si offriva di usare i propri contatti politici per recuperare 27 miliardi di dollari di debiti non pagati dall‘Iraq; in cambio il governo kuwaitiano avrebbe dovuto investire un miliardo di dollari nel gruppo. Guarda caso Baker ha una fruttuosa partecipazione azionaria nel Carlyle Group di cui non si è mai liberato per risolvere il conflitto d‘interessi. In pratica, il Kuwait, dunque, si sarebbe trovato a dover pagare all‘azienda di Baker per ricevere protezione da lui. Il giorno successivo ad un articolo di denuncia, pubblicato dalla Klein, la Carlyle si ritirò dall‘offerta e alcuni mesi dopo Baker vendette le azioni in suo possesso. Altro personaggio e storie simili: Richard Perle presiedeva, invece, il Defense Policy Board (Commissione per le politiche della difesa) che, sotto la sua guida, si trasformò da tranquillo comitato di consulenza a una commissione che caldeggiava l‘attacco preventivo in Iraq. Due mesi dopo gli attacchi, Perle lanciò la sua società, la Trireme Partners, che avrebbe investito in aziende che sviluppavano prodotti e servizi legati alla sicurezza nazionale e alla difesa. La Bearing Point, un ramo della Kpgm, ricevette 240 milioni di dollari per costruire un sistema guidato del mercato; la Creative Associates, società di consulenza per l‘educazione, ottenne appalti per progettare il nuovo curriculum di studi post-Saddam e per stampare i nuovi libri di testo657. L‘obiettivo fondamentale di una guerra non è più, dunque, vincere il nemico, ma procurare il massimo danno possibile in modo da poter avviare una totale, e redditizia, ricostruzione dei servizi essenziali da affidare ad appalti privati658. Un‘evoluzione di tale strategia si è sviluppata a partire dallo shock epocale dell‘11 settembre 2011 in cui si cominciò a delineare l‘utilizzo di una struttura del tutto nuova per la Guerra al Terrore, definita poi come ―capitalismo dei disastri‖. Le funzioni di sicurezza e sorveglianza antiterrorismo furono esternalizzate e affidate al settore privato perché le esercitasse a scopo di lucro. La prigione di Guantanamo 657 658 N. Klein, op. cit., pp. 362-368, 395-397. In proposito cfr. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., p. 91: ―Il neoliberismo finanziario, dispositivo tattico dell‘integralismo capitalista, alterna edificazioni e desertificazioni per poi pianificare l‘annientamento del deserto stesso (progettazione della guerra) e la ricostruzione post-bellica (progettazione della pace). E‘ noto come le imprese di ricostruzione post-bellica siano contigue alla macchina da guerra, predisposte per una reindustrializzazione a basso costo e a basse tecnologie, già obsolete nei centri altamente finanziarizzati. Così si reinventa il lavoro sulla morte del lavoro‖. 234 fu costruita dalla società Halliburton, mentre la Boeing è «l‘agente di viaggio della Cia»; gli interrogatori ai prigionieri vengono eseguiti da persone non stipendiate dalla Cia o dall‘esercito, ma da appaltatori privati e da operatori privati di intelligence. Se questi vogliono continuare a ottenere contratti devono strappare, in ogni modo, ai prigionieri informazioni suscettibili di azioni legali. E‘ evidente che ciò si presta facilmente ad abusi e a violazioni dei diritti umani659. Nell‘ambito della Guerra al Terrore, lo smantellamento delle frontiere, simbolo e promessa della globalizzazione, è stato rimpiazzato dall‘industria della sorveglianza delle frontiere. Le frontiere divengono, quindi, il simbolo del modo di procedere della globalizzazione: libertà per le merci, ma non per gli uomini.. Il mondo senza confini, in cui il potere dell‘informazione rovescia regimi autoritari, è stato sostituito da cellulari e da internet usati, sempre più spesso dai governi, come mezzi di sorveglianza di massa. Ad esempio, Yahoo collabora con la Cina per localizzare i dissidenti; l‘AT&T aiuta l‘Agenzia USA per la sicurezza nazionale a intercettare le telefonate dei propri clienti senza l‘emissione di un mandato660; Facebook ha già concesso, alla polizia italiana, le chiavi di accesso ai vari profili dei soggetti che ne fanno parte. La Guerra al Terrore non richiede esitazioni o opinioni divergenti: ogni posizione di critica alla strategia statunitense equivale al fiancheggiamento del terrorismo. In Occidente, ad esempio, non è concesso ammettere apertamente che il petrolio sia stata la vera causa dell‘invasione dell‘Iraq. A parere di Chomsky, ―in Europa la libertà di parola e quella di stampa sono a stento tutelate, di fatto non vengono quasi comprese»; e «se il leader dichiara che la sua missione è portare la democrazia nel mondo noi dobbiamo concedergli il nostro plauso e la nostra lode per la sua magnanimità”661. Anche per fare tutto questo, riprendendo Chomsky, appare significativo che gli attuali governi e le società “usino la propaganda per soffocare il nostro istinto naturale verso la libertà e per mettere al suo posto la mancanza di speranza e l‟apatia. Nel suo libro Hegemony or Survival: America‟s Quest for Global Dominance, Chomsky scrive che <distruggere la speranza è un progetto estremamente importante> del governo americano”662, ma non solo. Gli strumenti essenziali della celebrata democrazia delle scelte, alla base di ogni legittimazione pretesa dai governi e dai politici che li rappresentano, si basano sulle elezioni come esercizio concreto di quella libertà. Eppure, mai come ora, assistiamo ad intere folle, in balia dei media, che oscillano nella scelta elettiva, tra gli 659 660 661 662 N. Klein, pp. 340-351; C. Bonini, Guantanamo. Usa, viaggio nella prigione del terrore, Torino 2004, pp. 13-20. N. Klein, op. cit., pp. 340-351. N. Chomsky, Guerra e propaganda, cit., pp. 77-78, 87. N. Chomsky, Global empire, cit., p.78. 235 estremi politici di aggregazioni basate su un nulla di fondo, assai preoccupante. E qui ed ora che,”le elezioni sono diventate <eventi secondari> nel panorama politico e il mito che le questioni siano troppo complesse per essere comprese dall‟opinione pubblica allontana la maggior parte delle persone dalla partecipazione.”663 Beck fa notare, a proposito della Guerra al Terrore, come, paradossalmente, ciò che ha esposto gli Stati Uniti a essere una facile vittima del terrorismo sono stati proprio i principi del neoliberismo, basati sulla trinità composta da deregulation, liberalizzazione e privatizzazione. Emblematica, in proposito, è stata proprio la privatizzazione della sicurezza di volo degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono pubblicamente emerse in tutta la loro gravità dopo l‘11 settembre. Negli Stati Uniti la sicurezza di volo è stata affidata a personale part-time molto flessibile, il cui stipendio, pari a sei dollari l‘ora, è addirittura inferiore a quello degli addetti al fast-food. Queste posizioni di controllo, strategiche per la sicurezza civile interna, sono state occupate da persone con una ―formazione‖ di poche ore e che in media esercitano questa funzione di garanti di una sicurezza ―fast-food‖ per non più di sei mesi. ―In questo senso, le terribili immagini di New York contengono un messaggio che non è stato ancora decodificato: il neoliberismo può anche portare alla morte di uno stato o di un paese.‖664 Eppure, questo stato di guerra, come situazione ―quasi permanente‖ del convivere umano, dovrebbe aver mostrato già a sufficienza la sua pericolosità, specie dopo gli orrendi crimini di cui si è macchiata parte dell‘umanità in conseguenza del II conflitto mondiale. E‘ all‘epoca che vanno fatti risalire i tentativi di ―salvare l‟umanità dalla maledizione della guerra”665. Mai, come alla fine del II dopoguerra, nel 1945, con la conseguente divisione in blocchi del mondo, gli uomini si sono resi conto di quanto sia probabile giungere ad una catastrofe che metta la parola fine all‘esperienza umana sul pianeta. Questo nonostante, a partire da quel momento, ci sia stato un consenso molto vasto dei rappresentanti dei popoli su alcuni principi, ritenuti fondamentali per la pacifica convivenza e per il mantenimento della pace (contenuti nella dichiarazione dei D.U.), onde evitare la distruzione totale (concetto questo che, seppur conosciuto da tutti, risulta completamente assente ed inespresso nella carta),666 dovuta all‘utilizzo del nucleare. Tali principi, ripresi nel dicembre del 2004, sono stati confermati in relazione all‘utilizzo della forza, di cui ci si può servire solo su autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle N.U. o sulla base dell‘art. 51, che accoglie il principio di autodifesa rispetto 663 664 665 666 Ivi p.79. U. Beck, Un mondo a rischio, cit., pp. 30-31. N. Chomsky, Stati falliti, Ed. Il Saggiatore, Milano 2011, p. 96. Ibidem. 236 ad una minaccia improvvisa: “L‟articolo 51 viene di solito interpretato in modo abbastanza ampio da consentire l‟uso della forza quando la <necessità di autotutela> è <istantanea, schiacciante e non lascia scelta quanto ai mezzi né tempo per deliberare>, per citare l‟espressione classica di Daniel Webster. In qualsiasi altro caso il ricorso alla forza è un crimine di guerra, anzi <il supremo crimine internazionale>, per usare le parole del Tribunale di Norimberga. […] Il Vertice mondiale dell‟Onu del settembre 2005 ha affermato nuovamente che <le disposizioni in materia contenute sulla Carta sono sufficienti per affrontare tutte le possibili minacce alla sicurezza internazionale>.”667 Se da una parte, tutto questo, lascia ben sperare sull‘impegno delle Nazioni Unite, come insieme di Stati sovrani; dall‘altra, non si può non restare sgomenti a fronte di queste ―nuove‖ capacità di intervento che alcuni Stati (in primis, gli Stati Uniti che, da sempre, hanno sostenuto nella teoria la supremazia Onu in materia di decisioni sulla pace internazionale) si sono arrogati, ammantando le loro azioni di parole contenenti nobili scopi che, in realtà, coprivano, mistificandola, una realtà di interessi e di volontà di supremazia. D‘altronde, non poteva essere diversamente, visto che il già citato vertice non aveva introdotto alcuna novità al proposito, non concedendo alcun “nuovo <diritto d‟intervento> a singoli stati o alleanze regionali, né per ragioni umanitarie né per altri presunti motivi”668, in virtù dell‘ovvietà delle conseguenze.669 Tale constatazione, scaturisce dal principio di universalità che, però, (amara constatazione) non è accettato proprio dagli Stati più potenti. Ciò comporta, in un‘analisi previsionale, il rischio reale di conflitti ed eventi catastrofici, dagli esiti imprevedibili. In teoria, nulla è cambiato, ma, nella pratica, queste indicazioni, (concertazioni, raccomandazioni, o come dir si voglia) sono state ignorate, se non esplicitamente respinte. Come ricorda Chomsky, è dai tempi dell‘amministrazione Clinton e dalla caduta del muro che, anche da parte progressista, si è cominciato ad inneggiare alla sua politica estera, innestando ―un‟aura di sacralità” tra un presente teso a mettere fine alle guerre e alle sofferenze e un passato conflittuale ai massimi livelli. L‘idealistico ―mondo nuovo” era rappresentato da uno Stato i cui “principi e valori”, “l‟altruismo” e il “fervore morale” erano le premesse per porsi “alla guida degli <stati illuminati>”.670 Chi avrebbe potuto opporsi o dire di no, a questa sorta di papà buono degli Stati, 667 668 669 670 Ivi, p. 97 Ibidem. Ibidem:”Il rapporto del dicembre 2004 proseguiva dicendo che <a coloro che non approvano[le nostre conclusioni sull‟art.51] possiamo solo rispondere che, in un mondo pieno di potenziali minacce, il pericolo per l‟ordine globale e per la norma di non intervento sulla quale continua a basarsi è semplicemente troppo grande perché si possa ammettere la legalità di un‟azione preventiva unilaterale, in contrasto con un‟azione collettiva autorizzata. Permetterlo a uno stato significherebbe permetterlo a tutti>.” Ivi, p. 98. 237 che si offriva di mantenere lo status quo e porre fine alle occasioni di contesa anche con l‘uso della forza? Proprio a seguito di questa campagna massmediatica e delle élite intellettuali, fu coniata l‘espressione “illegale ma legittimo”, indicando il bombardamento NATO della Serbia, nel 1999. La dichiarazione sull‘art. 51 appare, quindi, estremamente pertinente, specie nella considerazione di ciò che, successivamente, si è dimostrata la dottrina Bush “dell‟autodifesa preventiva”, emersa a seguito dei fatti del settembre 2001. Questa dottrina, che alcuni addebitano come formulazione a Condoleezza Rice, si riferisce al “diritto degli Stati Uniti di attaccare un paese che < pensano> potrebbe attaccarli per primo” e tale espressione fa il paio con la considerazione, più volte espressa dalla Rice, che la “giurisdizione dei tribunali internazionali si sia dimostrata <inappropriata per gli Stati Uniti>, e che in generale gli Stati Uniti non siano soggetti <alle leggi e alle norme internazionali>.”671 Si è così partiti dall‘Afghanistan per poi arrivare all‘Iraq che, se qualcuno l‘avesse dimenticato, è divenuto oggetto delle smanie di potere Usa, spalleggiati anche da alcune nazioni europee, compresa l‘Italia, con un falso rapporto sulle armi di distruzione di massa appositamente costruito dai servizi di intelligence di Usa e Gb per giustificare l‘invasione, come molte inchieste giornalistiche e della stessa magistratura americana hanno ampiamente dimostrato con certezza. La realtà di questa guerra, invece, è dovuta a motivi molto più inconfessabili (almeno inizialmente, visto che ora se ne parla con piena consapevolezza da parte di tutti, ma non vi è stato nessun atto di condanna o di sanzione nei confronti dei Paesi che vi hanno partecipato.) e più semplicemente per le ingenti risorse petrolifere possedute dall‘Iraq. “I profitti che ne derivano devono fondamentalmente andare nelle tasche giuste, cioè innanzitutto le multinazionali americane dell‟energia e, in seconda battuta, quelle britanniche. Controllare queste risorse pone gli Stati Uniti in una posizione molto più forte, ancor più potente di oggi, per esercitare la sua influenza sul mondo.”672 Quanto sia vero tutto questo è ormai di comune dominio ed è asserito anche da eminenti voci (Zbigniew Brzezinski) negli Stati Uniti: controllare e poter sfruttare questa risorsa a fini economici (e non a fini energetici!!) interessa. Quello che, sicuramente, non si attendevano è la resistenza che hanno incontrato e che, tuttora, il paese subisce. Che l‘Iraq fosse il paese più debole, era cosa nota e questo è bastato a dare l‘imput ulteriore alla sua conquista da parte delle forze internazionali coalizzate, la cui ―combinazione di arroganza, ignoranza ed incompetenza” è stata tale da riuscire nel compito di costruire “un‟opposizione 671 672 Ivi, p. 99. N. Chomsky, Global empire, cit., pp.125-126. 238 che si sta diffondendo”673. Il fatto di trattare l‘Iraq come una colonia, nel senso classico del termine, aprendo totalmente l‘economia alla gestione straniera, ha sollevato gli animi, non con le bombe (o meglio non ci si riferisce a quello), ma con il semplice rifiuto di accettare le richieste delle “autorità di occupazione”. Tali erano, infatti, le forze militari lì concentrate, ―belligeranti, occupanti‖. Purtroppo, in questi casi, la definizione di “crimini di guerra” e di “crimini contro l‟umanità” non aiuta nell‘inquadrare le attività compiute da queste nazioni. Telford Taylor ha spiegato questa relazione a proposito del Tribunale di Norinberga, specificando che poteva essere attribuito al nemico, sconfitto, un crimine, nel solo caso in cui l‘attività esaminata non fosse stata condotta, anche, dalle forze vittoriose nel conflitto, altrimenti questo avrebbe palesato l‘ingiustizia della condanna, screditando le leggi. Ma la definizione operativa di crimine, nonostante tutto, “scredita tali leggi. Alcuni dei tribunali successivi sono delegittimati dallo stesso difetto morale: quello del Tribunale per la Jugoslavia è un esempio già discusso, accanto ad altri casi molto più gravi di autoesenzione di Washington dal diritto internazionale e dal fondamentale principio di universalità.”674 Lo stesso Osama Bin Laden e i talebani, due mesi prima dell‘11 settembre, avevano ricevuto notizia di possibili attacchi americani contro di loro quindi, per assurdo, anche quello contro il WTC poteva essere un attacco preventivo, un ―chi colpisce chi‖ da cui si elimina la domanda più ovvia: ―perché?‖ 675 Già dal 2000 la politica americana, tramite il segretario Rice, si spingeva sulla china di una ―potestà interpretativa‖ del diritto internazionale a senso unico, in cui gli Stati Uniti non avevano bisogno di conformarsi a “illusorie norme di comportamento internazionale” oppure di “aderire a ogni convenzione e accordo internazionale che a chiunque venga in mente di proporre”. Più semplicemente, in pratica, tranne gli Usa e i loro alleati, tutti gli altri Stati devono rispettare quelle norme, attenendosi all‘interpretazione degli Stati Uniti, a pena di gravi conseguenze. Per Clinton, gli Stati Uniti hanno pieno diritto a fare ricorso ―<all‟uso unilaterale della forza 673 674 675 Ivi, p.129. N. Chomsky, Stati falliti, cit., p. 100. Lo stesso Chomsky così prosegue: “Pensate soltanto a quello che succederebbe se i privilegiati e i potenti fossero disposti a prendere in considerazione per un attimo il principio di universalità. Se gli Stati Uniti hanno il diritto all‟<autodifesa preventiva> contro il terrorismo, o contro chiunque ritengano che possa attaccarli per primo, a maggior ragione Cuba, Nicaragua e una miriade di altri stati avrebbero da tempo il diritto di compiere azioni terroristiche all‟interno degli Stati Uniti a causa del loro coinvolgimento in gravissimi attacchi terroristici contro di loro, spesso incontrovertibili. Di sicuro anche l‟Iran avrebbe il diritto di farlo di fronte alle minacce che vengono formulate apertamente. Tali conclusioni sono ovviamente assurde, e non vengono sostenute da nessuno.”. Ivi, p. 102: “Le leggi nazionali e internazionali non sono sistemi di assiomi formali. Lasciano spazio all‟interpretazione, ma il loro significato generale e le loro implicazioni sono piuttosto chiari. Come osservano Howard Friel e Richard Falk, <il diritto internazionale fornisce criteri chiari e autorevoli per quanto concerne l‟uso della forza e il ricorso alla guerra, che dovrebbero essere rispettati da tutti gli stati>, e se <in circostanze eccezionali> è consentita una deroga, <lo stato che richiede tale eccezione deve dimostrarne in modo convincente la necessità>. Questo dovrebbe essere un concetto scontato in qualsiasi società civile.” 239 militare[…]per assicurarsi la libertà di accesso a mercati chiave, forniture energetiche e risorse strategiche>676 Come appena evidenziato, anche secondo quanto sostenuto da Chomsky, la dottrina Clinton, per la Sicurezza nazionale, era molto più ampia di quella di Bush dopo l‘11 settembre, che provocò innumerevoli reazioni, suscitando timori e preoccupazioni in ambito internazionale. Tutto questo rivela che, ammantata di progresso o no, la posizione egemonica degli Stati Uniti costituisce un serio pericolo per la pace e il dialogo tra i popoli. Quella che una volta era additata come la più affermata democrazia del mondo, la patria delle libertà, cede il passo ad una nazione costruita sul non-consenso popolare, in mano a banche e multinazionali che esercitano il controllo sulle politiche statunitensi, nazionali e internazionali, plasmandole ai loro interessi e di cui, senza scomodare la teoria del complotto, fanno indubbiamente parte organizzazioni come la Trilateral e il gruppo Bilderberg. E molto spesso, sempre più spesso, per avere il controllo di questi interessi, sono costretti a fare ricorso all‘uso della forza militare sotto forma di tecnologia. E‘, infatti, questa l‘arma degli Usa. Sempre più tecnologia, sempre meno combattenti, o meglio sempre meno combattenti e uomini della sicurezza che però, rispondono a sollecitazioni economiche, come il recente caso Iraq ha ampiamente dimostrato. La posizione americana, riguardo l‘uso della forza, trova espressione non solamente a livello politico, ma anche, molto intelligentemente, a livello accademico. Quest‘ultimo, infatti, come molto spesso accade nel mondo, fornisce o comunque tenta di fornire sostegni teorici a dottrine di carattere estremamente pratico. E‘ questo il caso dello storico John Luis Gaddis dell‘Università di Yale, che motiva storicamente l‘uso della forza, rintracciandone illustri precedenti nella dottrina della guerra preventiva dell‘Amministrazione Bush. La sua opera, seppure accolta in maniera interrogativa dagli ambienti accademici, ha trovato subito sostegno presso la Casa Bianca dove è stato invitato ad illustrarla.677 Il vero problema, per dirlo con le parole dell‘ex ambasciatore americano all‘Onu, fino al 2006, John Bolton, è che” <le Nazioni Unite non esistono. Esiste una comunità internazionale che di tanto in tanto può essere guidata dall‟unica vera potenza rimasta al mondo – cioè gli Stati Uniti – quando è nel nostro interesse farlo e quando riusciamo a convincere gli altri ad assecondarci>.”678 Se da una parte non sta bene dichiararlo così apertamente, il fatto stesso di averlo fatto, la dice lunga sul potere di reazione dell‘organismo del palazzo di vetro, al cui interno si scatenano confronti dagli esiti assai 676 677 678 Ivi, p. 103. Ivi, p. 108. Ivi, p. 104 240 incerti.679 La giustizia internazionale si riduce, così, a sterile esercizio formale, se basta l‘appoggio di alcune nazioni (forti) per sospendere l‘esercizio dei diritti di un popolo (Beirut, Timor Est, Nicaragua, Bosnia, Kosovo, sono solo alcuni interventi Usa nel mondo dal 1980 in poi che, hanno evidenziato la ―particolarissima concezione Usa del diritto internazionale‖) e, così, il principio di autodeterminazione dei popoli, ritenuto fondamentale nella Dichiarazione del 1948, viene svilito e dimenticato nel suo contenuto. Per quarant‘anni del secolo scorso, nel periodo della guerra fredda, lo spettro della guerra atomica era stato più volte evocato per impaurire le popolazioni e costringerle ad accettare situazioni poco gradite. Tutto ciò si ripete ora, scatenando le reazioni dell‘opinione pubblica, paventando un attacco nucleare per mano di un gruppo terroristico al fine di poter giustificare la guerra al terrorismo. La somiglianza con il periodo richiamato è evidente anche sotto il profilo dei conflitti atipici che, come nella guerra fredda, rientrano nella sfera delle grandi potenze, ma non certamente in quella di un normale gruppo terroristico. Vi è bisogno, quindi, di esaltare particolarmente l‘attività del gruppo al fine di renderlo plausibile e ―corposo‖ come minaccia. Ciò nonostante non possiamo non osservare che l‘incidenza degli attentati terroristici in generale, rispetto agli anni della guerra fredda, è notevolmente minore ed anche ―a dispetto dell‟opinione comune, dall‟11 settembre in poi l‟attività terroristica ha sì registrato un incremento, ma non in Occidente, bensì nel mondo musulmano. Eppure, grazie alla retorica della paura e agli scenari da incubo costantemente paventati dai politici, gli occidentali si sentono più in pericolo oggi che in passato. La strumentalizzazione della politica della paura determina sempre grandi cambiamenti istituzionali, e in questo senso è possibile tracciare un altro parallelo con la Guerra fredda.‖680 Anche nel 1947, infatti, in occasione dell‘immediato dopoguerra, nel confronto con l‘altra grande potenza vincitrice del conflitto mondiale, gli Usa adottano una politica che ristruttura la sicurezza nazionale per fronteggiare il pericolo comunista, esattamente come ora è stato fatto per fronteggiare il ―pericolo‖ terroristico. Ovviamente, questo comporta maggiori spese per il contribuente ed anche minori libertà per il cittadino, ma il tutto è ben sopportato nell‘intenzione di proteggersi dai ―fantasmi fabbricati dai politici di turno‖681. In Occidente il terrorismo è divenuto un elemento facente parte della vita quotidiana, attraverso la politica della paura, e anche per questo la guerra, che pure mette a 679 680 681 Per la posizione Usa - Iran in sede al Consiglio N.U. per la questione delle armi nucleari e di Israele si veda anche: http://italian.irib.ir/notizie/politica/item/79773-onu/npt-ahmadinejad-ha-vinto-il-duello-con-la-clinton http://italian.irib.ir/notizie/politica/item/79771-usa-john-bolton-obama-al-contrario-di-bush-ha-paura-di-unisraele-atomico - http://www.ilfoglio.it/soloqui/4336 L. Napoleoni, R. J. Bee, I numeri del terrore, Edizioni Il Saggiatore, Milano 2011, p. 11. Ivi, p. 12. 241 rischio la vita di tutti, è stata accolta come inevitabile di fronte a quello che doveva essere la semplice punizione di un crimine. ―Dopo l‟11 settembre, l‟ideologia dello scontro tra civiltà, alla base della retorica neoconservatrice, fa rivivere lo spettro dell‟odio razziale dell‟Olocausto. Il nemico è ora islamico, ma il fine rimane il genocidio su base religiosa ed etnica. Politici come Bush, Blair, Berlusconi hanno permesso che l‟azione di un gruppo di fanatici assumesse le connotazioni di un conflitto planetario giocato su temi di superiorità razziali e religiose. Il mantra è questo: ci odiano perché siamo diversi. Gli attentati futuri, ci viene detto, non avranno come bersaglio lo stato, ma i suoi cittadini. In quest‟ottica è la diversità e non più la politica la motivazione di fondo, il motore del terrorismo islamico.‖682 D‘altronde come possiamo non ricordare i famosi arsenali con le armi di distruzione di massa, o i pericoli derivanti dall‘antrace, o i discorsi di Bush in cui si richiamavano le crociate? Eppure, a ben vedere, oltre a risultare nel tempo inconsistenti come minacce, anche dal punto di vista storico non possiamo non notare come proprio l‘evocazione delle crociate sia in realtà un lapsus freudiano, anche in quel caso infatti gli aggressori erano gli eserciti cristiani e non quelli arabi. Per evocare in maniera consistente tale paura si avvalgono dei mass media che, ad esempio, nel corso delle operazioni di guerra vedono in azione solamente i giornalisti ―enbedded”, la cui libertà intellettuale è fortemente compromessa, oppure gli ―esperti di terrorismo dell‟ultima ora”che manipolano i dati per accreditare sempre maggiore forza alle organizzazioni armate. ―Statistiche e notizie false assecondano il bisogno mediatico di dare in pasto ai lettori storie spaventose.‖683 Nonostante siano passati già dieci anni, è ancora duro cercare di smascherare, evidenziandoli, quelli che ormai sono luoghi comuni, perché l‘industria dell‘antiterrorismo deve continuare a nutrire le sue innumerevoli diramazioni attraverso una dosata politica della paura. Non per niente i ―fatti‖ sono insabbiati, o incerti, o da verificare e le fonti che li forniscono sempre rigorosamente anonime. ―Ma la strategia di combattere la <psicosi allarmistica> con numeri e cifre ci permette di dimostrare quanto la minaccia del terrorismo sia stata ingigantita e quanto questo raccapricciante fenomeno non sia poi così pericoloso come vogliono farci credere. In realtà gli occidentali non sono mai stati così al sicuro, è questo il messaggio confortante della matematica della paura.‖ 684 A ben vedere, però, in questi anni, contrariamente a tutto quello che ancora si afferma, vi sono stati importanti passi avanti per la costruzione di una strategia della pace tra le diverse nazioni, fatta eccezione proprio per le grandi potenze. Basti pensare che in America Latina, 682 683 684 Ivi, p. 15. Ivi, p. 17. Ibidem. 242 zona notoriamente turbolenta per i diversi regimi che si succedono alla guida di quelle nazioni, nel maggio 2008, dopo ben 200 anni di incubazione, i dodici Paesi latino-americani hanno firmato a Brasilia il Trattato istitutivo dell‘Unasur, ―il Parlamento dell‟America del Sud modellato sull‟esempio di quello europeo, e rivolto alla creazione di una unione delle nazioni sudamericane con una sua moneta, un suo passaporto, un suo inno e una sua bandiera. L‟Unione avrà un mercato comune, la libera circolazione delle persone e una politica di difesa comune. Il Trattato ha anche istituito una banca regionale per lo sviluppo, la Banca del Sud con una dotazione di capitale iniziale di 7 miliardi di dollari fornita in gran parte da Brasile e Venezuela.‖685 Ovviamente, i media internazionali hanno completamente ignorato la portata storica di questo evento. Il successo di Obama, che ha portato avanti grandi temi, come la proibizione degli esperimenti e degli armamenti nucleari, il disarmo dei missili intercontinentali ed anche il tentativo di dialogo comunque avviato, indipendentemente dai risultati ottenuti, con Iran e Russia, rende più concreta la speranza che le forze che propendono per una distensione internazionale possano operare in un contesto più favorevole negli anni a venire. Questo, anche se le crisi economico-finanziarie che hanno investito gli Usa, ed attualmente l‘Europa, fanno ritenere con molta probabilità l‘azione di forti gruppi di interesse, mobilitati per il controllo economico-politico degli Stati e, conseguentemente, con una propensione ad una politica della guerra per la risoluzione delle controversie. 3. Le risorse energetiche e le fonti alternative Sembra strano, in un lavoro sui D.U., dedicare un intero paragrafo alle risorse energetiche, ma ciò appare quanto mai necessario, se si pensa alle battaglie combattute ogni giorno, e in ogni parte del mondo, da parte di ignoti attivisti o da organizzazioni no profit per la salvaguardia del sistema ambientale del pianeta terra dagli interessi delle multinazionali, della malavita o da disonesti industriali, nonché da semplici ignoranti. Quelle persone stanno combattendo una battaglia planetaria per ognuno di noi: per il nostro diritto ad avere un mondo vivibile, anche se questo sembra non interessare a nessuno, vista la fine che fanno i protocolli sull‘ambiente, disattesi proprio dalle nazioni che maggiormente influiscono su tale condizione. 685 P. Arlacchi, L‟inganno e la paura, Edizioni Il Saggiatore, Milano 2011, p. 39. 243 Prendiamo, ad esempio, l‘ultima battaglia sull‘ambiente, condotta in Italia, che ha avuto come tema il ritorno all‘energia nucleare come fonte energetica, dove schiere di giornalisti ed anche scienziati di fama si sono pronunciati favorevolmente, spinti dalla riattualizzazione del tema ad opera dei gruppi di interessi nascosti dietro la costruzione delle nuove centrali: business, questo, di svariati miliardi di euro. Oltre alla volontà della maggior parte degli italiani (che hanno avuto il coraggio di sottrarsi allo ―schieramento ideologico‖ venutosi a determinare sul tema), se non ci fosse stato quell‘immane disastro verificatosi a Fukushima686, un manipolo di politici di, quantomeno, scarsa qualità e di faccendieri avrebbero riaperto anche in Italia la via alle centrali nucleari, con gli immaginabili effetti che possiamo vedere già allo stato attuale con lo sfascio completo perpetrato ai danni del nostro sistema ambientale ed idrogeologico nel corso degli anni. Parlare di ambiente, quindi, altro non è che parlare del nostro ―diritto alla vita‖ ed è bene essere chiari su questo. Un mondo irrespirabile e invivibile, è un mondo senza vita. Un mondo dove le falde acquifere sono avvelenate da sostanze tossiche è un mondo senza futuro, così come un mondo dove alcuni uomini sono costretti alla sofferenza per gli interessi di altri è un mondo a cui è doveroso opporsi con tutte le proprie forze. Per questo, a fianco del problema dell‘inquinamento ambientale, sono apparse una serie di problematiche conflittuali sulle energie alternative e sulla produzione di energia. Nell‘esaminare quest‘aspetto, volutamente, sarà tralasciato l‘esame di quelle che attualmente sono le forme di energia utilizzate, con tutti i problemi conseguenti che ognuno di noi conosce, per vedere, invece, le alternative conosciute, quelle sperate e quelle ancora solo a livello di speranza. Negli ultimi anni, una delle tematiche più dibattute a livello internazionale è stata la scarsità dei combustibili fossili687, - soprattutto del petrolio, da cui dipendiamo in maniera pressoché totale - causata da uno sfruttamento forsennato e capillare, protrattosi per decenni, di tali fonti di energia. A puro titolo di esempio, basterà ricordare come, già negli anni ‘70, ci fossero le giornate dell‘austerity688 che, simili alle domeniche e ai giovedì ―verdi‖ di molti anni dopo, segnalavano probabili carenze energetiche, allora legate alla guerra del Kippur689, così come oggi al progressivo esaurimento delle fonti energetiche. Il conseguente passaggio ad un‘economia energicamente sostenibile non può più essere eluso o procrastinato e la ricerca di energie alternative diventa, via via, sempre più impellente. Difatti, stando alle stime annuali dell‘Agenzia internazionale per l‘energia 686 687 688 689 http://it.wikipedia.org/wiki/Fukushima Per combustibili fossili sono comunemente intesi: il petrolio, il gas naturale ed il carbone. http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=43 http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_del_Kippur 244 (Iea)690, i pozzi petroliferi del Mare del Nord si esauriscono quotidianamente così come Cantarell691, ubicato in Messico, al largo della penisola dello Yucatàn, il secondo giacimento più grande del mondo, dopo quello di Ghawar,692 in Arabia Saudita. Certe dinamiche geopolitiche, con scenari altamente conflittuali, sono da rivedersi nell‘ottica dello sfruttamento delle risorse petrolifere, vedasi il conflitto del Darfur693 e il sempre attuale conflitto in Iraq694. Quest‘ultimo, iniziato ufficialmente per contrastare il proliferare di armi di distruzione di massa, si è rivelato, invece, un modo estremamente sbrigativo per appropriarsi dei ricchissimi giacimenti petroliferi di quel Paese, da parte degli USA e di svariate nazioni europee anche interessate alla ricostruzione, tra cui l‘Italia, in barba a qualsiasi principio di autodeterminazione dei popoli, sottoscritto da queste stesse nazioni. Già alla fine degli anni Sessanta M. King Hubbert695, un importante geologo petrolifero, ha formulato la teoria del peak oil696, secondo la quale la produzione americana di petrolio sarebbe giunta al suo massimo storico nei primi anni Settanta per poi iniziare un inevitabile declino. Ciò non significa ipotizzare la fine dell‘oro nero statunitense, ma prevedere un ristagno del livello massimo di produzione raggiungibile per un periodo di tempo più o meno lungo per poi arrivare ad un suo crollo definitivo, di fronte ad una domanda in costante aumento. Tutto ciò è puntualmente avvenuto, anche se con un errore di un paio di anni, per quanto riguarda gli Usa e quindi, ora, si discute se la medesima previsione sia applicabile anche al resto del mondo. In realtà, la produzione americana di greggio non si è esaurita, ma è cessata, lasciando agli USA una consistente ―riserva strategica‖ per quando i ―rimanenti‖ giacimenti conosciuti saranno esauriti e sempre che non sia stata portata a compimento la scoperta di fonti energetiche in grado di produrre ―energia e potenza‖ per poter sostenere i moderni apparati di cui la civiltà occidentale trabocca (quale sia ad esempio l‘impatto della cessazione dell‘energia elettrica è ravvisabile nei black-out prodotti in America dalle calamità naturali ed in Europa per il fall out delle ―dorsali‖ di energia tra Francia, Svizzera, Austria. Italia il 27 settembre 2003 alle ore 03,30). Secondo Jeremy Rifkin697, economista americano e presidente della Foundation Economic Trends di Washington, attento ed intelligente osservatore delle tendenze socio-economiche mondiali contemporanee, a fronte delle problematiche prettamente economiche oltre che 690 691 692 693 694 695 696 697 http://it.wikipedia.org/wiki/IEA http://it.wikipedia.org/wiki/Cantarell http://it.wikipedia.org/wiki/Ghawar http://it.wikipedia.org/wiki/Darfur http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_d'Iraq http://it.wikipedia.org/wiki/M._King_Hubbert M. Ricci, Atlante ragionato delle fonti di energia rinnovabile e non con mappe, descrizioni e riflessioni,Edizioni GEM srl, Bologna 2010, p. 19. http://it.wikipedia.org/wiki/Jeremy_Rifkin 245 delle instabilità politiche che il futuro esaurimento del petrolio porterà, la soluzione potrà essere trovata nell‘elemento più semplice e diffuso nell‘universo: l‘idrogeno. Nel saggio Economia all‟idrogeno, Rifkin riconosce, ponendosi sulla scia di numerosi altri studiosi del passato698, l‘importanza dell‘energia come base dell‘esistenza umana: “Se l‟energia è l‟alfa e l‟omega dell‟esistenza, la potenza si può definire come <il flusso d‟energia utile>. La vita richiede energia e potenza sufficienti a mantenere il ritmo del flusso. La lotta per la sopravvivenza, dunque, sia fra le diverse specie sia al loro interno, è in realtà una competizione per accaparrarsi l‟energia utile e garantirsene il continuo fluire attraverso il sistema vivente699”. All‘inizio, nell‘evoluzione della cultura, l‘uomo utilizzava il suo stesso corpo per produrre potenza e per assicurarsi ciò di cui aveva bisogno per la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia. Quando viveva da cacciatore e raccoglitore sfruttava, invece, l‘energia immagazzinata nelle piante e negli animali, trasformatosi in pastore-agricoltore quella dell‘ambiente. Le grandi civiltà antiche dell‘Egitto e della Mesopotamia si sono sviluppate proprio in corrispondenza dell‘avvento della coltivazione dei cereali, definiti dall‘autore ―il grande motore della civiltà”700, che ha permesso di intraprendere i primi imponenti progetti di opere pubbliche, come i sistemi idraulici per irrigare i campi. Lo stesso Impero Romano aveva come unica fonte di energia disponibile l‘agricoltura ed è stata proprio la diminuzione della fertilità delle sue terre e la riduzione dei raccolti a causarne il crollo, che “giunse nel momento in cui l‟agricoltura non riuscì più a fornire l‟energia sufficiente per mantenere le infrastrutture dello Stato e il benessere dei suoi cittadini.701” All‘inizio del dominio romano l‘Italia era totalmente ricoperta da foreste, alla fine dello stesso quasi completamente disboscata: il legname era stato venduto e le terre convertite al pascolo o all‘agricoltura. Durante il periodo medievale, invece, l‘Europa utilizzava come fonte primaria di energia il legname che, all‘epoca, sembrava essere una riserva inesauribile. La popolazione cresceva in maniera esponenziale a seguito dell‘aumento della produzione alimentare, sfruttando le risorse esistenti molto più rapidamente rispetto al tempo necessario alla natura per ricostituirle. Così, la diffusa deforestazione ha condotto ad una conseguente crisi energetica. La scarsità di legname, così come per i Romani quella di terreni fertili, costituiva un problema analogo a quello della carenza di petrolio nella società contemporanea, ossia del combustibile fossile che è stato il protagonista delle società industriali. 698 699 700 701 Si vedano i riferimenti al chimico inglese Frederick Soddy, all‘antropologo Leslie White, a Howard Odum, a George Grant MacCurdy J. Rifkin, Economia all‟idrogeno. La creazione del Worldwide Energy Web e la redistribuzione del potere sulla terra, Oscar Mondadori, Milano 2002, p. 45. Ivi, p. 46. Ivi, p. 72. 246 Nel Settecento, in Inghilterra, il carbone aveva sostituito la legna come fonte primaria di energia per poi, a metà Ottocento, raggiungere l‘Europa intera. L‘estrazione del carbone non è mai stata un‘attività semplice: i giacimenti più prossimi alla superficie, e quindi più facilmente accessibili, sono stati esauriti in fretta per cui si è cominciato a scavare in profondità, nelle viscere della terra. Inoltre il carbone è un materiale molto più pesante e ingombrante del legno, non facile da trasportare su strade sterrate. La risposta al problema del trasporto è stata, quindi, la locomotiva a vapore, una delle prime macchine dell‘era dei combustibili fossili. Alla luce di questo breve excursus è possibile osservare quanto ―la <necessità> si rivela essere la più probabile <madre di tutte le invenzioni>. E, come dimostra il passaggio dalla legna al carbone, il cambio di regime energetico è spesso considerato, nelle sue prime fasi, un onere e un fastidio. Questo perché l‟uomo cerca sempre di sfruttare per prima la fonte di energia più facile da utilizzare. Finché i nostri antenati cacciatori-raccoglitori hanno avuto a disposizione energia in abbondanza sotto forma di frutti e animali selvatici, non hanno avvertito la necessità di adottare il più duro stile di vita agricolo. Analogamente, le foreste erano una fonte di energia molto più facile da sfruttare, trasformare e utilizzare che non il carbone”702. Il carbone è, di certo, una fonte più accessibile e facile da sfruttare del petrolio e con il passaggio dall‘utilizzo esclusivo del primo allo sfruttamento dell‘oro nero, tipico del mondo contemporaneo, si è passati necessariamente a tecnologie, modelli economici e sociali più complessi dei precedenti. Anzitutto è necessario ricordare che la distribuzione mondiale del petrolio è fortemente diseguale. Gli USA sono divenuti la principale potenza industriale del XX secolo grazie alla ricchezza di giacimenti petroliferi703 presenti sul territorio nazionale. Fondamentale importanza ha poi avuto l‘invenzione dell‘automobile nel rendere indispensabile il petrolio per la vita economica e sociale del Novecento e la sua produzione ha generato l‘incredibile crescita statunitense tra il 1900 ed il 1930 e, successivamente, dopo il 1945, quella dell‘Europa e dell‘Asia. Dunque, questi avvenimenti vanno tutti ricollegati all‘importanza raggiunta all‘epoca dal petrolio. Al riguardo, infatti, lo statista britannico Ernest Bevin osservava che “il regno dei cieli potrà anche fondarsi sulla giustizia, ma quelli terreni si fondano sul petrolio”704. Il petrolio presenta una natura assai complessa sia per le difficoltà legate alla sua estrazione e raffinazione e per il costo elevato del suo trasporto, che per la molteplicità di usi differenti che se ne possono fare e, come già accennato, per la sua diseguale distribuzione 702 703 704 Ivi, p. 83. Allo stesso modo, la Gran Bretagna raggiunse, durante l‘età industriale, l‘apice del suo sviluppo grazie agli immensi giacimenti di carbone presenti nel suo sottosuolo. E. Bevin, The dramatic story of oil‟s influence on the world, Oregon Focus, 1993 pp. 10-11. 247 sulla terra. Ne esistono vari tipi al punto che è possibile affermare che non esiste un greggio uguale all‘altro: ogni pozzo produce uno specifico tipo di petrolio. Esso può, infatti, essere, ad esempio, leggero (light) o pesante (heavy) in base alla sua densità e dolce (sweet) o amaro (sour) a seconda della quantità di zolfo contenuta. Un greggio light and sweet è, di certo, più pregiato e, quindi, costoso di uno amaro e pesante. Alla luce di ciò è più semplice comprendere perché “l‟infrastruttura energetica del petrolio è di gran lunga la più complessa griglia energetica che sia mai stata creata… Il petrolio fin dall‟inizio ha richiesto una struttura di comando e di controllo altamente gerarchizzata per il finanziamento dell‟esplorazione e della produzione e per il coordinamento del flusso a valle, verso gli utenti finali.”705 Ciò significa che l‘era del petrolio ha portato con sé un‘infrastruttura energetica fortemente centralizzata, che ha conseguentemente prodotto la cristallizzazione di quell‘economica, favorendo i pochi rispetto ai molti. Non a caso quando si parla delle compagnie petrolifere si sente discutere delle ―7 sorelle‖, le compagnie che detengono il controllo del 90% dell‘estrazione, raffinazione e commercializzazione del petrolio sul pianeta ed il cui fatturato non è sicuramente paragonabile, in alto, al bilancio di uno qualsiasi dei Paesi che lo acquistano. L‘atteso esaurimento di questa fonte richiede una svolta epocale per l‘intera umanità che determinerà il futuro non solo da un punto di vista economico e geopolitico, ma anche da quello sociale ed ecologico. L‘accesso e la richiesta continua di energia da parte di nuovi, potenti attori sul panorama internazionale quali l‘India e la Cina, concorrono ad una revisione dei calcoli di consumo, tenendo conto anche dell‘aumentato fabbisogno non solo attuale, ma futuro. Elemento da non sottovalutare nel riconsiderare le risorse mondiali disponibili, sottoposte a quest‘enorme, improvvisa accelerazione. Va considerato, poi , il fatto non trascurabile che la maggior parte delle riserve si trovano in Medio Oriente per cui è ipotizzabile un acuirsi delle tensioni tra mondo islamico e mondo occidentale per l‘accesso a fonti convenienti di approvvigionamento petrolifero, come appunto illustrato in precedenza. Messi con le spalle al muro, gli Stati Uniti e gli altri paesi industrializzati potrebbero far ricorso a materiali più sporchi ed inquinanti, quali il carbone o le sabbie bituminose706, accentuando così il surriscaldamento del pianeta ed infliggendo un colpo mortale al già vacillante ecosistema terrestre o, come la storia sembra suggerirci, ricorrere a guerre, ammantate di giustizia e sicurezza, per impadronirsene, come ha dimostrato la recente, lunga, sanguinosa guerra combattuta in Iraq. Eppure, la conquista 705 706 J. Rifkin, Economia all‟idrogeno, cit., p. 98. Si tratta del prodotto della combinazione di argilla, sabbia, acqua e bitume e da esse si estrae una sostanza simile al petrolio. 248 della luna avvenuta il 20 luglio del 1969, dovrebbe aver reso evidente quello che una comunità, sorretta ciecamente da un‘incrollabile fiducia nelle possibilità della scienza, deve comprendere: questo pianeta è l‘unico che possiamo abitare, da oggi e per molto secoli ancora, non abbiamo alternative.707 Secondo Rifkin l‘unica via d‘uscita possibile da questo drammatico scenario sta nella creazione di un nuovo regime energetico fondato sull‘idrogeno, che rivoluzionerà le nostre attuali istituzioni politiche e di mercato, proprio come fecero il carbone ed il petrolio all‘inizio del processo di industrializzazione. L‘idrogeno è il più abbondante elemento chimico dell‘universo, dato che costituisce il 75% della sua massa e il 90% delle sue molecole e il “Riuscire a sfruttarlo efficacemente come fonte di energia potrebbe significare per l‟umanità una sorgente energetica virtualmente illimitata, quella sorta di elisir che per secoli alchimisti e chimici hanno cercato inutilmente… Sulla terra, l‟idrogeno è ubiquo: si trova nell‟acqua, nei combustibili fossili e in tutte le creature viventi… E‟ la forma più leggera e immateriale di energia, e la più efficiente nella combustione.”708 Ma esso raramente si trova in natura in forma pura, come accade per il carbone, il petrolio o il gas naturale: infatti, come appena accennato, è presente soprattutto nell‘acqua, nei combustibili fossili e in tutti gli organismi viventi, da cui deve venire estratto per essere utilizzato come fonte di energia, “Esso è un veicolo di energia, una forma secondaria che deve essere prodotta, come l‟elettricità”709. È stato sfruttato per la prima volta, tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, come carburante dall‘aviazione tedesca710 e, nei decenni successivi, anche dall‘Inghilterra come carburante sperimentale per automobili, locomotive, autocarri, sommergibili e siluri. Oggi, invece, viene utilizzato, principalmente, nella produzione di fertilizzanti, nell‘idrogenazione di oli organici commestibili ricavati dalla soia, dal pesce, dalle arachidi o dal mais, nella conversione di olio in margarina e nei generatori di freddo711. Conosciamo diversi modi per produrlo: attualmente circa la metà dell‘idrogeno è estratto dal gas naturale attraverso un processo chiamato steam reforming, che libera atomi di idrogeno e produce anidride carbonica. Si tratta del metodo economicamente più vantaggioso. Esiste, poi, l‘elettrolisi, nota da oltre un secolo, che non ricorre agli idrocarburi, ma utilizza l‘elettricità per scindere le molecole d‘acqua in atomi di idrogeno ed ossigeno “due elettrodi, uno positivo e uno negativo, vengono immersi in acqua resa più conduttiva dall‟aggiunta di un elettrolito; il 707 708 709 710 711 http://it.wikipedia.org/wiki/Luna J. Rifkin, Economia all‟idrogeno, cit., pp. 214 - 217. Ivi, p. 217. I tecnici tedeschi lo utilizzavano come carburante ausiliario per gli Zeppelin, ossia i dirigibili impiegati il trasporto passeggeri attraverso l‘Atlantico. J. Rifkin, Economia all‟idrogeno, cit., p. 219. per 249 passaggio dell‟elettricità – a corrente continua – richiama gli atomi di idrogeno verso l‟elettrodo a carica negativa (catodo) e gli atomi di ossigeno verso l‟elettrodo a carica positiva (anodo).”712 L‘elettrolisi non è molto diffusa a causa dell‘elevato costo dell‘elettricità (per la cui produzione risulta interessato il metano713, ma solo nella fase iniziale e non come si vuol far credere continuamente, in quanto lo stesso andrebbe a sostituire progressivamente le fonti di energia che alimentano anche le centrali), che è di tre o quattro volte superiore rispetto a quello del metano, impiegato per lo steam reforming, almeno attualmente. Al riguardo, recentemente, si sta prendendo in considerazione un nuovo modo di distribuire l‘elettricità, detto ―generazione distribuita‖ – o DG – volto a risolvere la questione dei costi e a spianare la strada ad una nuova era energetica. “L‟espressione designa, in genere, piccoli impianti di produzione di energia elettrica, isolati o interconnessi, collocati presso l‟utente finale (fabbriche, grandi centri commerciali, uffici pubblici, quartieri, residenze private) o nelle immediate vicinanze”714, che si sostituiscono alle grandi infrastrutture centralizzate ed ai monopoli pubblici, tipici del periodo contemporaneo, che si trovano di fronte a nuove sfide e problematiche che non sono in grado di risolvere adeguatamente. “La generazione distribuita, in quanto mirata a coprire segmenti specifici di utenza e di bisogni, è più efficiente e meno costosa, come strumento per fornire energia addizionale, di una fonte di energia centralizzata… Generare elettricità presso l‟utente finale, o nelle sue immediate vicinanze, riduce anche la quantità di energia utilizzata, dal momento che tra il 5 e l‟8% dell‟energia trasportata a lunga distanza si disperde lungo le linee di trasmissione”715. In questo modo l‘utente si trasforma, da mero consumatore, in produttore dell‘energia che usa, il cui flusso passa dal basso verso l‘alto, non essendo più centralizzato e governato dalle grandi multinazionali del petrolio o dell‘elettricità: in questo senso, l‘era dell‘idrogeno creerà (o meglio potrebbe creare con il suo affermarsi…) le condizioni per una massiccia redistribuzione del potere e gli individui potranno essere realmente indipendenti. Inoltre, quando milioni di utenti finali connetteranno le loro celle a combustibile, alimentate ad idrogeno, in reti energetiche locali, regionali e nazionali, utilizzando le stesse tecnologie intelligenti e gli stessi principi di progettazione che hanno reso possibile Internet, creando così il cosiddetto Worldwide Energy Web, si affermerà un nuovo uso dell‘energia paritario e 712 713 714 715 Ivi, p. 225. M. Ricci, Atlante ragionato delle fonti di energia rinnovabile e non, cit., p. 65 J. Rifkin, Economia all‟idrogeno, cit., p. 236. Ivi, p. 242. 250 decentralizzato. Le persone potranno, in tal modo, condividere e scambiare energia tra loro da pari e sfuggire, una volta per tutte, alla morsa delle gigantesche società elettriche. La rete energetica mondiale dell‘idrogeno (HEW, Hydrogen Energy Web) sarà, secondo Rifkin, la prossima grande rivoluzione economica, tecnologica e sociale della storia: si innesterà sullo sviluppo della rete globale di comunicazione, avviata negli anni Novanta, e, come questa, stimolerà la nascita di una nuova cultura della partecipazione (che, come internet, subirà gli stessi attacchi alla libertà di espressione allora…). L‘autosufficienza energetica ed economica garantirà la sicurezza materiale di cui gli individui hanno bisogno per mantenere un senso di coesione sociale e per preservare la propria ricchezza culturale. Nello stesso tempo, l‘integrazione del singolo nelle più vaste reti globali della comunicazione e dell‘energia potrà liberare gli individui dalla xenofobia e dall‘etnocentrismo che, tradizionalmente, si accompagnano ad un‘esistenza geograficamente isolata. L‘idrogeno può essere, quindi, un formidabile strumento non solo per porre fine alla dipendenza dal petrolio, con tutte le conseguenze geopolitiche ed ecologiche che questo comporta, ma per istituire il primo regime energetico veramente democratico nella storia dell‘umanità e liberare l‘economia da questi sovraccarichi concentrati nelle mani di pochi. Non possiamo però, non considerare che anche l‘idrogeno, allo stato attuale della ricerca, abbia problematiche concrete e non certo di facile soluzione, specie se si continuerà ad ignorare questa possibile way of life. Oltre al già citato problema che se “L‟energia ricavata dall‟idrogeno ha il merito di non inquinare, perché scarica solo acqua e neanche un grammo di anidride carbonica. Ma se per avere l‟idrogeno, deve usare un combustibile fossile come il metano, che inquina e produce effetto serra, l‟impresa non ha senso.”716. Indubbiamente sussiste anche quello dell‘inadeguatezza dei mezzi utilizzati per conservare e accumulare l‘energia prodotta , iniziando dalla pila a combustile per il cui catalizzatore occorre circa un etto di platino, il cui costo, fatte salve le oscillazioni di mercato, oscilla allo stato attuale tra i 3-4000 dollari usa,717 cui si aggiunge l‘ancora grande dispendio di energia tra la produzione e il consumo diretto (la percentuale di energia utilizzabile oscilla tra il 25% e il 45% di quella prodotta che, però in un certo senso pareggia i conti con i carburanti fossili).718 Il che giustificherebbe ad esempio, in un confronto con l‘elettricità che, un auto elettrica possedendo 100 KW ora potrebbe percorre fino a 120 km contro gli appena 40 dell‘auto a idrogeno.719 Certo, come detto in precedenza però, questo modo di conteggiare non tiene conto 716 717 718 719 M. Ricci, Atlante ragionato delle fonti di energia rinnovabile e non, cit., p. 65. Ivi, p. 67. Ivi, p. 69. Ivi, p. 70. 251 di due fattori importanti e cioè che l‘impatto idrogeno è a costo zero per la terra, pertanto l‘osservazione di Ulf Bossel che dichiara come ―L‟economia all‟idrogeno è un gigantesco spreco di energia”720 vale meno della metà, se si considerano i benefici per l‘intero pianeta, compresa la stessa razza umana. L‘altra osservazione è che lo studio dei materiali utilizzabili e della ricerca sono molto più avanti per l‘elettricità che non per la produzione d‘idrogeno, dal cui fenomeno non sono aliene le considerazioni espresse da Rifkin sulla capacità dell‘idrogeno di rendersi ―democratico‖. Per ora, limitiamoci a constatare, allo stato attuale, la difficoltà inusuale per la diffusione di una nuova forma energetica che potremmo definire autenticamente rivoluzionaria ed illimitata per i secoli a venire. Volendola testare sulle auto, infatti, risulta assai difficile farlo per la carenza di pompe, ad esempio la Shell ne conta appena 6 in tutto il mondo.721 Il fascino dell‟idrogeno, indubbiamente, consiste nella convinzione che il nuovo combustile possa ricalcare, sostituendolo, il ruolo che ha avuto il petrolio, per di più non dovendo rispondere ai requisiti di limitatezza oggettiva che questo possiede pur avendo la stessa duttilità d‘uso. Ma perche questo sia possibile, dovrà essere prontamente disponibile, come detto in precedenza. Che in fondo siano stati commissionati degli studi che indicano in 55 miliardi di dollari, il costo del passaggio all‘idrogeno per una quantità di autovetture comprese tra i 2 e i 10 milioni di esemplari, appare una seria possibilità che a fronte di questa spesa si inizi la capillarizzazione e lo studio settoriale dell‘idrogeno.722 Ovviamente, dietro questo, si giocano interessi economici inaccessibili che potrebbero portare, come più volte ripetuto, a nuove guerre per il suo controllo. Allo stesso modo, seppure con una certa cautela che andrebbe sempre osservata nell‘utilizzo dei termini, è cresciuto il consumo nell‘uso del gas naturale che, è bene sottolinearlo, come la benzina ―verde‖ non è che non inquini, semplicemente produce meno impurità rispetto alla sua progenitrice dotata di maggiori ottani ed anche rispetto ad altri combustibili fossili come il carbone723. Comunque, il gas naturale (metano) che serve a riscaldare le case e a far girare le centrali elettriche, arriva in gran parte dalla Russia, almeno in Europa, attraverso Ucraina, Austria e Slovacchia, con il gasdotto ―Fratellanza‖724. Allo stato attuale, del fabbisogno mondiale, il consumo degli Usa si attesta attorno al 23% mentre l‘Europa, si attesta al 20%,725 cifre enormi se confrontate con il resto del pianeta, ma che diventano risibili se consideriamo che il gas liquefatto, ad oggi, copre solo il 7% del 720 721 722 723 724 725 Ivi, p. 69. Ivi, p. 67. Ivi, p. 67-68 Ivi, p. 27. Ivi, p. 25. Ivi, p. 29. 252 fabbisogno mondiale726. Indubbiamente, a parte i problemi di geopolitica che si pongono non appena le soglie dell‘inverno divengono più rigide, con l‘acuirsi delle tensioni tra la Russia (nel cui sottosuolo si trova il gas) e l‘Ucraina (sul cui suolo passano i gasdotti)727, il gas meriterebbe una maggiore diffusione a tutto vantaggio di una migliore ―ossigenazione‖ del pianeta per quanto possibile, ma anche questo combustibile, secondo recenti calcoli, trattandosi di risorsa ―finita‖ (esauribile quindi) allo stato attuale ha solo altri 60 anni di vita e i consumi, anche in questo campo, sono in continuo aumento.728 Stesso discorso dicasi per il carbone cui si deve gran parte dell‘elettricità prodotta in tutto il mondo (fino a 5 miliardi di tonnellate l‘anno)729, nonostante la sproporzione esistente tra le unità di energia consumate e quelle prodotte, anche rispetto ad altre fonti di energia730. Per di più, a fronte di una crescita nel suo consumo definibile eccezionale, specie dal 2000, anno in cui si è registrato l‘aumentato fabbisogno cinese, e ad una costruzione di centrali elettriche a carbone aumentato in ogni parte del mondo, non vi è stato alcun sviluppo delle riserve di carbone e la maggior parte dei paesi Europei ed Usa sono al massimo delle proprie capacità e immediatamente vicini al punto di collasso in cui inizia a decrescere la produzione, rendendo oltremodo problematico il futuro sviluppo del settore come previsto dall‘Energy Watch Group731. Sono attualmente allo studio sistemi di recupero e ri-produzione di forme d‘energia (CCS – procedimento di cattura e sequestro dall‘anidride carbonica) a cui si oppongono ancora i costi degli impianti (costi ovviamente non ecologici, ma finanziari) per la gassificazione. “Costruire un impianto di gassificazione del carbone costa di più di una centrale tradizionale, l‟impianto deve essere più grande e ha una resa energetica inferiore, cioè consuma un terzo in più di carbone, per produrre la stessa energia.732 Anche in questo caso, comunque, se la riproduzione potrebbe rendersi indispensabile per avere energia in futuro, occorre tenere presente il pericolo insito nel processo produttivo, che prevede l‘immissione nel sottosuolo di grandi quantità di CO2, cioè ― il rischio centrale è che l‟anidride carbonica, spedita nel sottosuolo, ritorni in superficie”733 tutta insieme. Ancora una volta, appare l‘evidente antieconomicità, sia in termini ecologici che di denaro da impiegare, dei sistemi alternativi ora allo studio e rivolti 726 727 728 729 730 731 732 733 Ivi, p. 31. Ivi, pp. 26-30. Ivi, pp. 32-33. Ivi, p. 35. Ivi, p.36: “Per 100 unità di energia contenute nel carbone immesso nell‟impianto, se ne ottengono 35, assai meno delle 55 di una centrale a gas a ciclo combinato”. Ivi, pp. 38-40. Ivi, p. 43. Ivi.,p. 46. 253 verso un pronto utilizzo. In particolare, allo stato attuale, appare predominante il tentativo di produrre energia attraverso il riciclo ed il riuso dell‘enorme mole dei materiali di scarto che la società attuale produce. Da sottolineare come, anche per questa fonte, non si tratti di energia pulita, tutt‘altro, ma di un mero ciclo di trasformazione degli elementi interessati. Altri sistemi, dall‘eolico, al geotermico, fino alle centrali termosolari734, così come la costruzione di reti intelligenti di energia735, ad altri sistemi non meno interessanti come le biomasse736, soffrono essenzialmente per due ordini di motivi riconducibili a: 1) La convinzione che le rinnovabili, poiché sono intermittenti, possano essere utilizzate solo per il peak load, cioè assolvere al compito di far fronte ai picchi di domanda di energia, anche se al momento del bisogno non è detto che siano effettivamente disponibili; 2) Il problema degli investimenti nel campo delle energie rinnovabili ed alternative dove, alla quasi inesistente attività di finanziamento dei settori pubblici degli Stati, si accompagnano quelli estremamente limitati del settore privato.737 Una grande compagnia come la Shell Oil, dal 2004, ha speso (meglio definire come investito) solamente 1,7 miliardi di dollari per le energie alternative e ben 87 miliardi di dollari per ricerche di petrolio e gas. L‘errore di prospettiva appare evidente, il dibattito sulle forme di energie si concentra sulla pretesa economicità della sovrastruttura necessaria al loro funzionamento e non anche ai costi accessori, in cui dovrebbero essere inclusi quelli dei danni ambientali, spesso insanabili, e quelli dei danni all‘essere umano, con il moltiplicarsi delle patologie maligne, attribuibili all‘utilizzo delle medesime energie e relative tecnologie. Un discorso serio sulle alternative energetiche, non può esimersi dal considerare la necessità di un impatto zero sull‘ambiente e sull‘uomo, oltre a considerare l‘aspetto di risorsa illimitata. Valutare l‘energia sotto l‘aspetto dei costi immediati e non su quelli reali e derivabili (malattie, ambiente degradato ecc.), compromette seriamente il diritto dell‘essere umano alla vita e come tale deve essere combattuto contemporaneamente alla sua affermazione come diritto dell‘umanità. 734 735 736 737 Ivi.,p.138: “Una serie di centrali termo-solari a concentrazione (più efficienti, oggi del fotovoltaico) produrrebbe energia che una serie di elettrodotti a corrente diretta convoglierebbe verso i mercati europei. Desertec sostiene che questo progetto potrebbe fornire all‟Europa, nel 2050, il 17% del suo fabbisogno di elettricità.” Ivi, p. 136. Ivi, pp. 131-141. Ivi, pp. 134-135. 254 4. Le strategie alimentari e la fame nel mondo La prima affermazione del principio secondo cui ogni essere umano nasce con il diritto intrinseco all‘alimentazione viene attribuita ad un famoso discorso pronunciato nel 1941 dall‘allora Presidente degli Stati Uniti d‘America, Franklin Delano Roosevelt. Si trattava del cosiddetto ―discorso sulle quattro libertà‖, ossia la libertà di parola, la libertà di culto, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura, pronunciato il 7 gennaio del 1941 dinnanzi al Congresso americano. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti paesi hanno abbracciato tale principio e, così, queste quattro libertà sono state incluse nella Dichiarazione universale dei diritti dell‘uomo, adottata nel 1948 in una delle prime iniziative dell‘Assemblea generale delle nuove Nazioni Unite. L‘articolo 25 della Dichiarazione riguarda specificamente il diritto all‘alimentazione e recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita adeguato a garantire la salute e il benessere per sé e la propria famiglia, con particolare riguardo all‘alimentazione…». La Dichiarazione è stata accolta e considerata come il primo passo nella formulazione di una futura "carta internazionale dei diritti dell'uomo", il cui valore fosse sia giuridico che morale. Nel 1976 - a tre decenni di distanza dall'impegno assunto dall‘Organizzazione delle Nazioni Unite in questa vasta impresa - la "carta internazionale dei diritti dell'uomo" è diventata una realtà, grazie all'entrata in vigore di tre importantissimi strumenti: il Patto Internazionale sui diritti civili e politici ed il relativo protocollo facoltativo ed il Patto sui diritti economici, sociali e culturali. Il diritto all‘alimentazione è incluso nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali adottato dall‘Assemblea generale dell‘ONU nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976. Ad oggi, sono 156 i paesi che lo hanno ratificato. Al riguardo, l‘articolo 11 afferma: “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un‟alimentazione, un vestiario ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parti prenderanno misure idonee ad assicurare l‟attuazione di questo diritto, e riconoscono a tal fine l‟importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso. Gli Stati parti del presente Patto, riconoscendo il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure, e fra queste anche programmi concreti, che siano necessarie: 255 per migliorare i metodi di produzione, di conservazione e di distribuzione delle derrate alimentari mediante la piena applicazione delle conoscenze tecniche e scientifiche disponibili, la diffusione di nozioni relative ai principi della nutrizione, e lo sviluppo o la riforma dei regimi agrari, in modo da conseguire l‟accrescimento e l‟utilizzazione più efficaci delle risorse naturali; per assicurare un‟equa distribuzione delle risorse alimentari mondiali in relazione ai bisogni, tenendo conto dei problemi tanto dei Paesi importatori quanto dei Paesi esportatori di derrate alimentari.”738 Una volta ratificato, il Patto è legalmente vincolante per lo Stato ratificante; il governo deve quindi prendere misure adeguate per la sua progressiva realizzazione, adottando e applicando apposite leggi. Nel tempo, con l‘applicazione di tali normative e la giurisprudenza dei tribunali, chiamati a risolvere le controversie in materia, questo diritto dovrebbe gradualmente rafforzarsi e consolidarsi all‘interno dei sistemi giuridici nazionali. Una definizione più elaborata ne è stata fornita, poi, nel 1999 dal Commento generale 12 del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali dell‘ONU, incaricato di supervisionare l‘attuazione del Patto. Il Commento precisa che il diritto ad un‘alimentazione adeguata viene realizzato “quando ogni uomo, donna e bambino, da solo o in comunità con altri, dispone in qualsiasi momento dell‟accesso fisico ed economico ad un‟alimentazione adeguata o ai mezzi per procurarsela.”739 I governi devono, perciò, creare le condizioni per attuare questo diritto, adottando politiche e provvedimenti che consentano alle persone di coltivare o acquistare cibo a sufficienza. Sul piano internazionale, il diritto all‘alimentazione è salito alla ribalta nel 2004 con l‘adozione unanime da parte del Consiglio della FAO740 delle Voluntary Guidelines on the Progressive Realization of the Right to Adequate Food in the Context of National Food Security, conosciute informalmente come ―Linee guida sul diritto all‘alimentazione‖. Queste linee guida forniscono un aiuto concreto ai governi per adempiere ai loro obblighi e colmano il divario fra il riconoscimento legale e l‘effettiva realizzazione del diritto, offrendo un corpus coerente di raccomandazioni strategiche a governi, società civile e altri partners. Le 19 linee guida riguardano la politica di sviluppo economico, le questioni legali ed istituzionali, la politica agricola e quella alimentare, la nutrizione, la sicurezza alimentare e la tutela dei consumatori, l‘opera di educazione e sensibilizzazione, le reti sociali di sicurezza, le situazioni di emergenza e la cooperazione internazionale. Esse costituiscono un valido supporto ad una politica nazionale integrata per la sicurezza alimentare. 738 739 740 Testo disponibile sul sito www.admin.ch. Testo disponibile sul sito www.fao.org. http://it.wikipedia.org/wiki/Fao 256 L‘organo che la Comunità Internazionale ha creato per contrastare il problema della fame nel mondo è la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l‘Alimentazione e per l‘Agricoltura)741, agenzia specializzata dell‘ONU che, secondo il proprio mandato, lavora al servizio dei 191 paesi membri per “elevare il livello di nutrizione, aumentare la produttività agricola, migliorare la vita delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita dell‟economia mondiale.”742 Dalla prima conferenza, convocata a Québec City il 16 ottobre del 1945, la Fao si è posta come obiettivo principale quello di sconfiggere la condizione di fame cronica che affligge milioni di persone nel mondo lavorando, inizialmente, alla raccolta, all‘analisi e alla diffusione di tutte le informazioni relative al tema della nutrizione e dell‘agricoltura per poi cambiare strategia, negli anni Settanta, con il nuovo Direttore Generale Addeke Hendrik Boerma; da allora, si è deciso di adottare una concezione qualitativa anziché quantitativa della problematica, ossia di spostare l‘attenzione più sullo sviluppo tecnologico della produzione delle derrate alimentari che sull‘incremento delle stesse, come invece era stato fatto fino a quel momento. Difatti, è stato dimostrato che la pura e semplice crescita della produzione alimentare non garantisce l‘eliminazione della fame; è dato ormai per certo che le risorse della Terra, considerate globalmente, sono in grado di nutrire tutti i suoi abitanti ed il cibo disponibile pro capite è, addirittura, aumentato del 60% dal 1960 e del 18% negli ultimi anni743; il problema risiede, quindi, nella distribuzione e dipende dal complesso funzionamento della struttura di base dell‘economia e della società. Nonostante questa consapevolezza il numero delle persone sottonutrite, dal 2000 ad oggi, ha continuato ad aumentare costantemente, anche se in modo molto più lento che nei decenni precedenti. Notevoli passi avanti erano stati fatti tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, soprattutto grazie agli investimenti agricoli che seguirono la grande crisi alimentare mondiale dei primi anni Settanta; poi tra il 1995 ed il 1997 e tra il 2004 ed il 2006, con il calo sostanziale degli aiuti pubblici allo sviluppo – ODA – destinati al settore primario, il numero dei sottonutriti è aumentato in tutte le regioni, risparmiando solo l‘area dell‘America Latina e dei Caraibi. Quest‘ultima, però, è stata investita dall‘attuale crisi economica che ha cancellato rapidamente tutti i progressi fatti in precedenza. Alla luce di tutto ciò, è possibile notare che l‘aumento del numero delle persone che soffrono la fame si verifica sia durante i periodi in cui i prezzi dei prodotti alimentari si mantengono bassi e c‘è prosperità economica sia contemporaneamente alla salita dei prezzi e alle recessioni e ciò è causato dall‘estrema 741 742 743 Fu fondata il 16 ottobre del 1945 in Canada e dal 1951 ha sede a Roma. Fonte disponibile sul sito www.onuitalia.it. Dati disponibili sul sito www.csvpadova.org. 257 debolezza del sistema mondiale di governance della sicurezza alimentare, che andrebbe urgentemente riformato. La crisi attuale è peculiare rispetto al passato per il fatto che, oggi, i paesi in via di sviluppo sono molto più integrati nel sistema economico mondiale sia dal punto di vista finanziario che commerciale, rispetto a venti anni fa. Quindi sono molto più vulnerabili alle fluttuazioni dei mercati internazionali744. Ancora oggi più di 800 milioni di persone, ossia circa il 13% della popolazione mondiale, hanno scarso accesso al cibo necessario per sopravvivere; questo significa che l‘obiettivo postosi dalla Fao, cioè di arrivare a 400 milioni di persone sottoalimentate entro il 2015, è decisamente impossibile da realizzare, nonostante, come dimostra il Rapporto SOFA (The State of Food and Agriculture) del 2000, gli ultimi anni del XX secolo siano stati positivi per quanto riguarda l‘alimentazione e l‘agricoltura a livello mondiale. Con la prima conferenza del millennio la Fao ha voluto sottolineare quanto fosse importante l‘aumento dei rendimenti derivanti dai beni di prima necessità, come quello dei redditi da lavoro autonomo, per garantire una maggiore sicurezza alimentare, che combatterebbe i mezzi inadeguati e il‘insufficiente potere di acquisto dei contadini delle zone più povere del mondo745. Si è messa in evidenza l‘importanza di aumentare gli investimenti pubblici produttivi, facendo attenzione a distinguerli da quelli che avrebbero compromesso l‘organizzazione economica del paese interessato, e di migliorare non tanto la produttività agricola, ma di lavorare per affrontare ed eliminare tutti quei fattori istituzionali, politici ed economici che tendono ad escludere gli individui dai processi di sviluppo di una determinata area ed, infine, di aiutare gli agricoltori fornendo loro servizi di credito. La fame va considerata come una piaga che interessa gli ambiti più disparati della storia di un paese: innanzitutto ha un forte impatto sul prodotto interno lordo delle zone che colpisce. Analizzando, al riguardo, gli studi del professor Jean-Louis Arcand dell‘Università di Montreal si evince che l‘eliminazione o la riduzione significativa della denutrizione in un paese porta direttamente ad un aumento del PIL e dell‘offerta energetica giornaliera, calcolata in chilocalorie, per persona746 oltre che della produttività del lavoro. Producendo effetti devastanti sulla salute delle persone, la fame ha conseguenze sul loro livello di istruzione: è infatti provato che la denutrizione aumenti la suscettibilità a malattie e, nei bambini, la capacità di concentrazione. 744 745 746 Food and Agriculture Organization of the United Nations, The State of Food Insecurity in the World 2009 – Economic crises, impacts and lessons learned. Roma 2009. Le aree maggiormente interessate dalla problematica in esame sono: l‘Africa centro-meridionale, l‘Afghanistan, il Tagikistan, la Cambogia e la Mongolia. In questi paesi più del 35% della popolazione soffre la fame. Food and Agriculture Organization of the United Nations, The State of Food and Agriculture 2000, Roma 2000. 258 Nel 2001 la stima era di circa 740 milioni di persone al mondo che soffrivano di disturbi legati alla carenza di iodio tra cui ritardo mentale, ritardo nello sviluppo motorio e arresto della crescita e 2 miliardi di persone anemiche747. Per queste ragioni la Fao ha sempre sollecitato l‘adozione di misure rivolte al superamento della malnutrizione materna ed infantile, che dovrebbero essere accompagnate da crescenti investimenti nel settore dell‘istruzione e della sanità. Secondo l‘Organizzazione la diffusione di nuove malattie, anche molto invasive, è aumentata drasticamente negli ultimi due decenni a causa della rapida liberalizzazione dei commerci e della mancanza di accordi di cooperazione regionale tra i paesi transfrontalieri. Prima di aprire i mercati agricoli nazionali alla concorrenza internazionale, specialmente quella proveniente da competitori che godono di sovvenzioni, è necessario, quindi, che siano realizzate infrastrutture ed istituzioni commerciali di sostegno, che proteggano i settori più vulnerabili dagli shock derivanti dalla transizione verso l‘apertura dei mercati e che sostengano la formazione del capitale umano. E‘ certo che i benefici di una liberalizzazione del commercio vanno ben al di là del loro impatto immediato sui produttori e sui consumatori, poiché le riforme ad essa legate contribuiscono in modo significativo alla crescita economica complessiva e all‘aumento dei salari dei lavoratori non qualificati dei paesi in via di sviluppo (considerazione questa, alquanto opinabile e discutibile). La liberalizzazione del commercio potrebbe, dunque, essere il fattore accelerante del cambiamento e potrebbe migliorare le condizioni di vita dei poveri, contribuendo ad aumentare il loro reddito, a far sì che conducano un‘esistenza più sana e più produttiva e ad allungare le loro aspettative di vita. Una delle tematiche più controverse e dibattute in seno alla Fao riguarda, poi, la questione relativa alla relazione esistente tra gli aiuti alimentari e la sicurezza alimentare, cui è stato dedicato il rapporto SOFA del 2006. Esso analizza la fondatezza delle preoccupazioni, talora espresse dagli esperti, secondo cui l‘assistenza alimentare possa destabilizzare i mercati locali, disincentivare la produzione e il commercio, indebolire l‘agricoltura e, ancora, dirottare le importazioni alimentari, discriminando gli altri esportatori. Alla luce di queste considerazioni, la Fao ha ritenuto necessario rivedere la politica degli aiuti, anzitutto ponendo fine alla pratica corrente di ―vincolarli a specifiche condizioni‖: si è difatti riscontrato che tale meccanismo fa sì che, ogni anno, circa un terzo del budget destinato a detti aiuti a livello mondiale – circa 600 milioni di dollari – venga 747 Dati disponibili in Food and Agriculture Organization of the United Nations, The State of Food and Agriculture 2001, Roma 2001. 259 speso negli stessi paesi donatori senza mai di fatto raggiungere i beneficiari. Al posto degli aiuti in natura, che risultano essere ancora oggi l‘unica soluzione utile a far fronte alle crisi umanitarie o, in alcuni casi, alla fame cronica, bisogna cominciare ad utilizzare i trasferimenti di denaro ed i buoni pasto, che possono, effettivamente, produrre una serie di effetti positivi, quali: stimolare la produzione locale e rafforzare i sistemi alimentari delle comunità di destinazione, migliorare e controllare i sistemi di informazione, valutare in maniera più attenta le necessità e, quando ve ne siano le condizioni, acquistare direttamente gli alimenti a livello locale o regionale per stimolare lo sviluppo agricolo di molti paesi a basso reddito, evitando di mettere a repentaglio le capacità di recupero dei sistemi alimentari locali nel caso in cui gli aiuti arrivino in un momento sbagliato o siano diretti alle persone sbagliate748. Un ultimo dato, importante per l‘analisi condotta, è legato alla volatilità cui sono stati soggetti i prezzi alimentari nell‘ultimo anno, destinati a rimanere sostenuti, e forse ad aumentare, a seguito della grave crisi economica del 2006-2008. In questo quadro i più a rischio sono i piccoli paesi che dipendono dalle importazioni, specialmente in Africa. Per fronteggiare gli effetti di questa inflazione, la Fao ha richiesto ai governi degli Stati membri di garantire un contesto normativo trasparente e sicuro, che promuova gli investimenti privati lungo tutta la catena alimentare, specialmente nella fase del dopo raccolto e della trasformazione, e che incrementi la produttività agricola, riduca gli sprechi di cibo nei paesi sviluppati, tramite campagne di informazione e politiche adeguate, ed avvii una gestione più sostenibile delle risorse naturali, delle foreste e del patrimonio ittico. Occorrono, per concludere, delle reti di protezione sociale mirate ad alleviare l‘insicurezza alimentare nel breve periodo, che devono essere programmate in anticipo e d‘intesa con le popolazioni più vulnerabili749. Nonostante sia noto e sperimentato da anni che la crescita economica possa essere positivamente influenzata da una migliore alimentazione e dallo sviluppo dell‘agricoltura, dato che una sana alimentazione ha un forte impatto, come già accennato, sulla produttività del lavoro, sulla salute, sull‘istruzione e, quindi, da ultimo, sulla crescita economica globale, e, nonostante si sappia abbastanza circa i modi da utilizzare per porre fine alla piaga della fame nel mondo, come, oltre a quanto già proposto, creare mercati stabili per i piccoli produttori e dare alle famiglie rurali libero accesso alla terra e alle altre risorse produttive, ogni anno i vertici mondiali si aprono con frasi di rammarico per non aver raggiunto gli obiettivi prefissati e si chiudono lasciando dietro di sé un cumulo di 748 749 Food and Agriculture Organization of the United Nations, The State of Food and Agriculture 2006, Roma 2006. Food and Agriculture Organization of the United Nations, The State of Food and Agriculture 2011, Roma 2011. 260 problemi irrisolti, incertezze e rischi. A questo punto si potrebbe azzardare la conclusione che la fame nel mondo permanga per una chiara volontà politica e, anzi, che la sua cronicità sia diretta conseguenza della necessità di mantenere in vita l‘organo istituito unicamente per debellarla, ma ciò non sarebbe vero. Ciò che drammaticamente manca, e la Fao non è in grado di mettere in atto, è una politica globale sul problema della malnutrizione, dove gli Stati dovrebbero attuare realmente ciò che hanno firmato con il citato accordo, ma che non fanno, limitandosi a meri ―aiuti‖ umanitari. Da che mondo è mondo, la carità produce solo un miglioramento momentaneo. Resta l‘amara osservazione dell‘impotenza, da cui i popoli sono afflitti, derivante dalla gestione economica e politica:“Viviamo in un mondo dove si produce più cibo di quanto se ne sia mai prodotto, ma dove la fame non è mai stata così diffusa.” Si apre con questa affermazione di Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all‘alimentazione, una delle edizioni più importanti del rapporto State of the World 2011 del Worldwatch Institute, considerato il più autorevole osservatorio sui trend ambientali del nostro pianeta. L‘Istituto ha come obiettivo quello di favorire l‘evoluzione verso una società sostenibile ed in grado di soddisfare i bisogni umani, senza minacciare la sopravvivenza dell‘ambiente naturale circostante, e, per la prima volta, ha dedicato interamente la sua pubblicazione annuale al tema dell‘alimentazione e della produzione agroalimentare. Anzitutto l‘attenzione è rivolta ai fallimenti dell‘attuale sistema di aiuti allo sviluppo, i quali hanno raggiunto, quest‘anno, il minimo storico del 4% contro il 16% del 1980; per aumentare la produzione di cibo su vasta scala si è sviluppata un‘agricoltura intensiva, meccanizzata e fortemente inquinante, che compromette la fertilità dei suoli, la disponibilità delle risorse idriche, la diversità delle colture da cui dipendiamo e, complessivamente, è responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra, cause prime dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale e del consumo del 70% dell‘acqua utilizzata dall‘intero genere umano. Altro scandalo denunciato, che dovrebbe bastare per far dubitare della bontà dell‘attuale sistema, è che ben il 40% del cibo prodotto a livello mondiale viene sprecato prima ancora di essere consumato. Di fronte ad uno scenario simile il Worldwatch Institute presenta delle soluzioni che, a tutte le latitudini, potrebbero essere sperimentate e applicate per incrementare la resa delle colture, svincolarsi dai combustibili fossili, migliorando la lavorazione e lo stoccaggio dei cibi e tutelando l‘ambiente e le comunità locali. Così, mentre l‘edizione del 2010 esprimeva la necessità di superare il consumismo ed i modelli culturali dominanti per evitare il collasso della civiltà umana, quella di quest‘anno suggerisce la svolta verso un‘agricoltura 261 sostenibile, ossia l‘abbandono del modello di una produzione agricola interamente destinata al mercato per raggiungere, invece, l‘obiettivo dell‘autoproduzione, ossia fare in modo che le comunità locali siano in grado di produrre, quanto più possibile, il cibo di cui hanno bisogno750. Secondo l‘Istituto è assolutamente necessario per la sopravvivenza del pianeta ridurre il livello dei consumi attuali. A tale riguardo la Terra sembra divisa in due. Da una parte, troviamo la società dei consumi, che comprende poco meno di due miliardi di abitanti che consumano ogni giorno un‘enorme quantità di risorse, intaccando le riserve energetiche mondiali, i bacini acquiferi, le riserve ittiche degli oceani, e che creano, al tempo stesso, generazioni con tassi sempre maggiori di obesi e di depressi. Dall‘altra parte, ci sono circa tre miliardi di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, gravate da fame, precarietà abitativa e malattie. E‘ importante ricordare che la maggior parte dei beni prodotti sono superflui e, soprattutto, nocivi per il pianeta. Basti pensare che nel paese più consumistico di tutti, gli Usa — che rappresentano appena il 4,5 della popolazione mondiale, ma il 25% delle emissioni di biossido di carbonio — ci sono più automobili che individui con la patente. Per risolvere tali incongruenze la ricetta esiste ed è già stata sperimentata in paesi come il Giappone, la Norvegia o la Danimarca dove, secondo il rapporto, il tenore di vita è tra i più alti del pianeta, grazie soprattutto alla politica verde adottata dai loro governi: ciò significa consumi collettivi, sviluppo delle economie basate sulla reciprocità, riutilizzo, allungamento della vita media di un prodotto, riparazioni, forte disincentivo alla mobilità motorizzata e incentivo all‘uso della bicicletta come mezzo di trasporto metropolitano, ma anche politiche fiscali che penalizzino i prodotti che viaggiano da una parte all‘altra del pianeta, ecotasse e un nuovo modello di impresa più vincolato alle sue responsabilità sociali e ambientali751. 5. Città multiculturali: comunitarismo, ghettizzazione e diritti culturali L‘epoca contemporanea è innegabilmente caratterizzata da migrazioni di dimensioni sempre più massicce. Il fenomeno migratorio non rappresenta certo, in sé e per sé, una novità storica, ma a partire dal secondo dopoguerra ha senz‘altro assunto connotati diversi rispetto ai periodi precedenti. In primo luogo, per ciò che riguarda la sua ―direzione‖: infatti, mentre fino a quel momento l‘asse privilegiato era quello che conduceva dal centro 750 751 Worldwatch Institute, State of the world 2011. Nutrire il pianeta,Edizioni Ambiente, Milano 2011. Worldwatch Institute, State of the world 2004. Consumi, Edizioni Ambiente, Milano 2004. 262 del sistema internazionale, cioè il continente europeo, verso la periferia, costituita principalmente dai vari possedimenti coloniali, dalla fine degli anni Quaranta del Novecento in poi, abbiamo assistito ad una vera e propria inversione di tendenza. Oggi, al contrario di quanto accadeva in passato, i paesi occidentali, ricchi e avanzati, sono diventati meta di una immigrazione sempre più massiccia. Tale cambiamento, in un certo senso epocale, trova una delle sue principali ragioni d‘essere nell‘eterogeneità dell‘andamento dei trend demografici che rappresenta sicuramente una delle grandi differenze che separano l‘Occidente da quelli che vengono definiti paesi in via di sviluppo. D‘altro canto, parlando di aumento dei flussi, non si può trascurare il ruolo giocato dalla globalizzazione che, accrescendo enormemente i contatti sia reali che virtuali fra individui e gruppi, ne stimola la conoscenza reciproca e dunque la consapevolezza dei diversi gradi di sviluppo e benessere, spingendo, così, milioni di individui a spostarsi nel tentativo di trovare migliori condizioni di vita. Il fatto, inoltre, di entrare in contatto con la cultura occidentale, tramite i mezzi di comunicazione di massa e i prodotti di consumo, ormai diffusi a livello globale, può condurre ad una sorta di ―socializzazione anticipata‖ che riduce la distanza culturale fra paese di origine e di accoglienza, così da rendere meno traumatico e più allettante lo spostamento. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l‘enorme sviluppo dei mezzi di trasporto che riducono i costi e i rischi associati a viaggi anche molto lunghi, oltre che dei trasferimenti finanziari, che hanno reso estremamente più semplice dirigere le rimesse monetarie degli immigrati verso le loro comunità e famiglie di provenienza.752 Il fenomeno preso in esame, evidentemente molto complesso e ricco di sfaccettature, solleva, nel mondo accademico e politico, un dibattito acceso su questioni quanto mai pressanti, legate ai temi dell‘identità, della cittadinanza, dell‘incontro e della convivenza di culture differenti. In un‘epoca come la nostra, caratterizzata da quella che viene definita la crisi dello Stato nazione, le migrazioni sono tra le principali responsabili del venir meno proprio dell‘elemento nazionale, inteso nel senso di quella comunanza di storia, cultura, etnia, lingua, territorio che costituisce, per i cittadini, il contenuto della loro identità collettiva. Ne è una prova la diffusione, a livello globale, delle cosiddette diaspore etniche che rappresentano una delle più importanti dinamiche di attori non-statali che intervengono nella politica mondiale, contribuendo al cambiamento della natura dei conflitti 752 U. Melotti, Politica e migrazioni, in P. FANTOZZI, A. MONTANARI, Politica e mondo globale. L‟internazionalizzazione della vita politica e sociale, Carocci, Roma, 2008, pp. 103-105. 263 internazionali ed, eventualmente, complicando il problema della sicurezza e del terrorismo globale753. Queste comunità, che rappresentano veri e propri networks sociali, uniscono persone lontane nello spazio, ma accomunate dall‘appartenenza etnica e religiosa, delineandosi, dunque, come una espressione chiave della transnazionalità delle culture e delle religioni: spesso, infatti, si configurano come vere e proprie enclaves straniere entro i confini di un determinato Stato. A tale proposito, paradigmatico è l‘esempio degli Stati Uniti d‘America, dove non a caso, a partire dalla fine della Guerra fredda, molti dibattiti accademici si sono focalizzati sul tentativo di far luce sugli scopi e sulla direzione che la politica estera del paese assume e sulle forze che li determinano. Da una serie di studi è emerso un ruolo influente dei diversi gruppi etnici nel definire quello che è, a seconda delle situazioni, l‘interesse nazionale che, a sua volta, determina la presa di posizione del governo sulle più disparate questioni di carattere internazionale. Differenti opinioni sono state espresse relativamente al contesto americano: alcuni studiosi come Arthur Schlesinger Jr. o Samuel Huntington hanno descritto le cosiddette lobbies etniche come degli attori estremamente influenti e, dunque, potenzialmente dannosi tanto per la politica estera statunitense, quanto per l‘interesse nazionale. Al contrario altri, come Michael Clough e Yossi Shain, considerano l‘influenza di tali gruppi moderata e, comunque, benefica, in quanto promotrice degli interessi americani all‘estero754. Da quanto detto finora, emerge chiaramente che le città nelle quali viviamo stanno scoprendo sempre più il proprio carattere multiculturale che non può certo essere ignorato. Il necessario processo di ricostruzione della cittadinanza dovrà, infatti, permettere la convivenza pacifica tra gruppi culturalmente ed etnicamente eterogenei. Nel corso della storia, la cittadinanza e i diritti che ne derivano hanno subito una evoluzione, essendo stati definiti in base al rapporto con lo spazio, inteso in senso politico, sociale e geografico, cui si riferivano: rispettivamente, la polis, lo Stato, il mondo. Ciascuno di questi spazi ha proprie caratteristiche: 1) la polis può essere considerata come la radice stessa della cittadinanza, in quanto solo chi vi nasce è cittadino; 2) lo Stato moderno, invece, ha tratto la propria origine da un contratto fra individui, basato sul riconoscimento del diritto di ognuno e sul necessario rispetto del diritto altrui: anche la cittadinanza avrà, dunque, in tale contesto, un‘origine contrattualistica; 3) il mondo è alla base del diritto di cittadinanza 753 754 P. Berger, The Desecularization of the World, a Global Overview, in ID. (a cura di), The Desecularization of the World. Resurgent Religion and World Politics, Wm. B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids 1999, p. 14. H. S. Gregg, Divided They Conquer: The Success of Armenian Ethnic Lobbies in the United States, paper presented in the annual meeting of the American Political Science Association, Boston, August 28 2002, p. IV. 264 che si rifà all‘idea di cosmopolitismo, la quale mentre era considerata una mera utopia fino a pochi anni fa, oggi appare come un concreto obiettivo da raggiungere, dati i processi di ―mondializzazione‖ in atto755. Questi ultimi hanno prodotto una crescente consapevolezza del fatto che tutti viviamo in un “villaggio globale”756, sempre più privo di frontiere di qualunque tipo: conseguentemente, ciò rimette in discussione l‘essenza stessa dello Stato, inteso come organizzazione politica che esercita la propria sovranità su un territorio chiaramente delimitato. Come ha scritto Jeremy Rifkin: “lo spostamento dall‟ambito geografico al cyberspazio, dal capitalismo industriale a quello culturale, dalla proprietà all‟accesso, è destinato a provocare un radicale ripensamento del contratto sociale. […] l‟accesso sta diventando un potente strumento concettuale per riformulare una visione del mondo e dell‟economia, ed è destinato a diventare la metafora più efficace della nuova era”757. Di fronte a questa situazione di fatto, sorge la necessità di discutere e ripensare la nozione di multiculturalismo, fondata sull‘idea liberale di tolleranza e sulla centralità accordata al diritto all‘autoaffermazione di ciascuna comunità, in base alla propria specifica identità, che Zygmunt Bauman definisce come l‘«ideologia della fine dell‘ideologia». Il suo successo sarebbe il frutto di due trasformazioni legate al carattere ―liquido‖ e deregolamentato della società moderna come il “disimpegno quale nuova strategia di potere e dominio» e l‟«eccesso quale odierna forma di sostituzione della regolamentazione normativa”758. Il sociologo polacco vede nel multiculturalismo una forza conservatrice, poiché “il suo effetto è una ridefinizione delle ineguaglianze, qualcosa che difficilmente susciterebbe l‟approvazione pubblica, come „differenze culturali‟, da rispettare e coltivare”759. Per comprendere appieno i termini della questione, è necessario specificare il contenuto e la portata della nozione di multiculturalismo e distinguere questo concetto da quello di pluralismo. Seguendo la riflessione di Giovanni Sartori, è indubitabile che la buona società sia una società aperta, dunque pluralistica, laddove, bisogna ricordarlo, quella di pluralismo è un‘idea già insita nel concetto di tolleranza, così come si è sviluppato dopo le guerre di religione del XVI secolo “si capisce che tolleranza e pluralismo sono concetti diversi; ma è anche facile capire che sono intrinsecamente connessi. In questo senso: che il pluralismo presuppone tolleranza, e quindi che un pluralismo intollerante è un falso pluralismo. La 755 756 757 758 759 A. Tosolini, Identità, diversità, pluralità. La città in prospettiva multiculturale, in K. F. Allam, M. Martiniello, A. Tosolini, La città multiculturale: identità, diversità, pluralità, Emi, Bologna 2004, pp. 17-19. M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, McGraw Hill, New York, 1964. J. Rifkin, L‟era dell‟accesso, Mondadori, Milano 2000, p. 20. Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 121. Ivi, p. 105. 265 differenza è che la tolleranza rispetta i valori altrui, mentre il pluralismo afferma un valore proprio. Perché il pluralismo afferma che la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l‟individuo e anche la sua città politica”760. Riguardo al multiculturalismo, è necessaria una distinzione preliminare: se in esso si vede semplicemente uno stato di fatto che descrive la convivenza di più culture all‘interno di uno stesso spazio sociale e geografico, allora tale concetto non urta in alcun modo con una visione pluralistica dello stesso. Nel caso in cui, invece, esso sia considerato come un valore da affermare ed, eventualmente, imporre, ciò lo pone inevitabilmente in contrasto con il pluralismo. Infatti, scrive Sartori, non necessariamente all‘aumento del multiculturalismo corrisponde un parallelo aumento del pluralismo. La distinzione fondamentale che si può tracciare tra i due concetti sta nel modo di porsi di fronte alle differenze. Il pluralismo, infatti, tende ad accettare la situazione di fatto, nel senso che incorpora una società come tale, sia nel caso di relativa omogeneità che di eterogeneità da un punto di vista culturale, etnico, linguistico, religioso ecc., senza tentare di uniformare la prima o ―pluralizzare‖ la seconda, ma cercando solo di favorire “quel tanto di assimilazione che è necessario per creare integrazione”. Il multiculturalismo, invece, almeno nella sua seconda versione, sottintende che la diversità sia, di per sé, sempre una cosa buona e, perciò, che vada moltiplicata; in questa accezione, tale concetto si rivela una negazione del pluralismo, in quanto favorisce l‘intolleranza, nega il riconoscimento reciproco e fa prevalere la separazione sull‘integrazione761. All‘interno delle società occidentali, come già accennato precedentemente, il problema della convivenza multiculturale è piuttosto recente e ha messo in crisi l‘autocomprensione in termini di omogeneità culturale ed etnica, fulcro del concetto moderno di Stato nazione. La scoperta di questa eterogeneità ha prodotto spesso reazioni negative, volte alla chiusura della propria comunità, allo scopo di difenderla e preservarne l‘identità. Come ha scritto Bauman, “la vicinanza di „razze estranee‟” può risvegliare, e spesso risveglia, “negli elementi locali un forte istinto di identificazione, e le strategie che fanno seguito a tali istinti puntano tutte alla separazione e ghettizzazione degli „elementi estranei‟, il che genera a sua volta un impulso all‟autoisolamento e all‟autochiusura del gruppo coattamente ghettizzato.”762 Ne deriva, scrive ancora Bauman, una nozione di comunità che corrisponde ad “identicità, e „identicità‟ significa esclusione dell‟altro, soprattutto di un altro che si ostina 760 761 762 G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Bur, Milano 2007, p. 19. Ivi, pp. 56, 58. Z. Bauman, Voglia di comunità, cit., p. 101. 266 ad essere diverso […] Nella figura dell‟estraneo (non semplicemente del „non familiare‟ ma dell‟alieno, del „fuori-posto‟) le paure dell‟incertezza, radicate nella totalità dell‟esperienza di vita, trovano la tanto agognata e attesa incarnazione. […] Data l‟intensità delle paure, se non esistessero estranei bisognerebbe inventarli. E, di fatto, vengono inventati, o piuttosto costruiti, quotidianamente […] le ansie frammentarie e fluttuanti assumono un nucleo solido.”763 Si può affermare, come sostiene Alain Touraine, che il termine ―comunitarismo‖ descrive situazioni diverse fra loro: in generale, comunitarista è uno Stato che riconosce al proprio interno il peso, non solo politico, dei vari ―pilastri‖ culturali che compongono la società. In una seconda accezione, si definisce come tale un movimento che vuole imporre il proprio monopolio sulla gestione delle relazioni reciproche tra i membri della comunità, definita in senso etnico o culturale, e di quelle fra la comunità e, rispettivamente, lo Stato e le istituzioni internazionali. A parere di Touraine, “questa concezione dell‟organizzazione sociale può arrivare fino all‟identificazione completa degli individui con una certa comunità etnica, nazionale o religiosa. Identificazione che definisce tutti gli aspetti del loro modo di vita e perfino la definizione dei loro diritti. Se un governo accettasse che sulle carte di identità nazionali alcune donne portino un velo islamico o un chador, questo significherebbe, per lo Stato, avere relazioni non con cittadini, ma con membri di una comunità. Questa situazione estrema sarebbe il segno di un indebolimento generale e della sparizione pressoché completa dello Stato nazionale”. Tra questi due tipi di comunitarismo, l‘uno limitato e l‘altro estremo, ne esiste un terzo che può essere definito come ―ripiegamento comunitario‖: tale espressione indica un atteggiamento di rifiuto della maggioranza o di una parte cospicua della popolazione nei confronti degli appartenenti ad alcune comunità minoritarie. La loro reazione è spesso quella di «situarsi al di fuori della scala sociale […] e di contrapporre agli avversari una definizione qualitativa di se stessi»764. Di fronte a questo tipo di manifestazioni di chiusura e rigetto dell‘altro, governi, opinione pubblica e studiosi si interrogano e dibattono, nel tentativo di trovare delle forme positive di convivenza e integrazione. Storicamente, tale dibattito è stato condizionato dalla polarizzazione di concezioni contrapposte: l‘assimilazionismo contro il pluralismo, l‘universalismo contro il particolarismo, l‘individualismo contro il differenzialismo. Ne sono derivati, almeno nel 763 764 Ivi, p. 112. A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, cit., pp. 228229. 267 contesto europeo, tre modelli di politica migratoria: l‘assimilazionismo ―repubblicano‖ francese, il pluralismo ineguale britannico e la ―precarizzazione istituzionalizzata‖ tedesca. Il primo si basa sull‘idea rivoluzionaria di eguaglianza, per la quale tutti gli individui hanno i medesimi diritti e doveri e sono, dunque, uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla loro etnia, confessione religiosa e dalle loro pratiche culturali. La loro eventuale diversità sotto questi aspetti attiene esclusivamente all‘ambito privato della loro esistenza765. In un contesto caratterizzato da una presunta omogeneità nazionale e da un forte Stato accentrato, l‘integrazione ha sempre presupposto un‘assimilazione culturale e linguistica: gli immigrati dovrebbero sostanzialmente abbandonare la propria identità per diventare ―buoni francesi‖766. Il secondo modello rivela una concezione della società come «giustapposizione di comunità etniche e culturali in competizione, se non in conflitto, per il controllo dello Stato. […] Le identità locali prevarrebbero sull‟identità nazionale e ogni comunità rispetterebbe in primo luogo i suoi valori particolari, rivendicando al contempo il maggior numero possibile di diritti per gli individui che la compongono. La diversità culturale e identitaria invaderebbe lo spazio pubblico»767. In altre parole, l‘idea di fondo è che gli immigrati, indipendentemente dal loro paese d‘origine, non potrebbero mai diventare dei ―buoni britannici‖. Poiché l‘immigrazione, in questo contesto, è stata principalmente il frutto di crisi di varia natura, scoppiate nei paesi del Commonwealth, essa ha spesso assunto la fisionomia di un fenomeno non individuale ma di massa, il che ha portato al trasferimento di intere comunità di immigrati sul suolo britannico768. Infine, il terzo modello è legato al tentativo dello Stato di controllare strettamente il livello di integrazione delle minoranze. In Germania, almeno fino agli anni Settanta, l‘immigrazione ha risposto ad un bisogno di manodopera in determinati settori economici e industriali, che, senza molte difficoltà, hanno assorbito i lavoratori stranieri, ma la loro assimilazione culturale non veniva considerata necessaria, dal momento che si supponeva fossero ―ospiti‖, residenti a tempo determinato, che prima o poi avrebbero fatto ritorno nel loro paese d‘origine769. Diverso, invece, è il caso americano, in quanto qui l‘immigrazione ha rappresentato, a differenza che nel Vecchio continente, il motore principale della costruzione di una identità nazionale nuova ed indipendente, contribuendo in maniera determinante a 765 766 767 768 769 M. Martiniello, Le società multietniche, cit., p. 49. U. Melotti, Politica e migrazioni, cit., p. 107. M. Martiniello, op .cit., p. 49. U. Melotti, op. cit., p. 109. M. Martiniello, op. cit., p. 54. 268 plasmare la natura stessa della società, il che ha reso possibile l‘ascesa degli USA da avamposto europeo d‘oltreoceano a potenza mondiale, soprattutto in termini di crescita economica. Per questa ragione si può addirittura arrivare a dire che è stata l‘immigrazione a ―creare‖ gli Stati Uniti d‘America770. Infatti, l‘entità dei flussi migratori è stata tale da rendere necessaria l‘elaborazione di modelli di relazione e di strategie retoriche ad hoc, soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo quando, con l‘inizio di un‘ondata migratoria differente dalle precedenti, poiché non più proveniente da paesi di cultura anglosassone e germanico-scandinava, ma bensì dai paesi dell‘Europa orientale e meridionale di religione non protestante, si è diffuso un modello assimilazionista basato sull‘invito alla cosiddetta ―Anglo-conformity‖, (cioè conformità alla tradizione anglo-sassone)771. Questa prima reazione all‘arrivo di cospicui gruppi di immigrati caratterizzati da un diverso background culturale e religioso ha lasciato il posto, all‘inizio del Novecento, a quella che probabilmente rappresenta la più conosciuta fra le ―teorie assimilazioniste‖: il melting pot. L‘idea che ne è alla base è che la società americana sia un crogiuolo, in grado di fondere le peculiarità nazionali degli individui in un carattere che le trascende, in un'entità unica, propriamente americana. In altre parole, ci troveremmo di fronte alla nascita di un autentico homo novus, che, in quanto tale, non si rifà a modelli culturali preesistenti (il riferimento è ovviamente al modello anglosassone) ma si afferma come esponente di una società che trae da ogni tipo umano alcune caratteristiche per fonderle in qualcosa di nuovo.772 La differenza principale rispetto al modello assimilazionista europeo, e in particolare francese, risiede nel riconoscimento dell‘importanza delle diverse culture di partenza, al punto che, negli Stati Uniti, si poteva, ad esempio, essere italo-americani, mantenere cioè l‘orgoglio e una qualche traccia dell‘essenza della propria cultura originaria pur acquisendo la cittadinanza, dunque pur sposando l‘American way of life773. Successivamente, a partire dagli anni Settanta, di fronte a quello che veniva percepito come “il fallimento, o l‟insufficienza dell‟orizzonte ideologico e dell‟orientamento politico dell‟assimilazione a un modello unitario e dominante, rappresentato attraverso l‟immagine del melting pot”, si è delineato il modello multiculturale che, all‘immagine del “paiolo all‟interno del quale i diversi ingredienti si fondono”, ha sostituito quella dell‘“insalatiera, 770 771 772 773 H. Diner, Immigration and U.S. History, 13 febbraio 2008, pubblicato sul sito http://www.america.gov Si veda G. Campani, I saperi dell‟interculturalità. Storia, epistemologia e pratiche educative tra Stati Uniti, Canada ed Europa, Liguori, Napoli 2002. Dalla voce melting pot presente nel Dizionario di storia moderna e contemporanea, consultabile online all‘indirizzo http://www.pbmstoria.it R. De Angelis, Che cos‟è il multiculturalismo?, 26 novembre 2008, pubblicato sul sito http://www.resetdoc.org 269 la „salad bowl‟, dove invece ogni componente rimane distinguibile, arrecando il proprio inconfondibile contributo alla riuscita finale”774. Ovviamente, tutto il dibattito relativo a questi modelli, assolutamente ―occidentalocentrici‖, dimostra come il tema dell‘immigrazione sia al centro dell‘attenzione mediatica nei paesi occidentali775, poiché, come affermato precedentemente, essi rappresentano ad oggi il principale punto d‘arrivo dei flussi provenienti dai cosiddetti paesi in via di sviluppo e ciò chiaramente solleva una serie di questioni molto rilevanti, relative soprattutto alla nozione di cittadinanza, alla necessità di garantire una serie di servizi sociali e di sviluppare una forma di convivenza pacifica, quindi alle possibilità di integrazione dei migranti all‘interno delle società d‘accoglienza. Spesso la politica riduce tali questioni alla mera tutela della sicurezza nazionale, facendo dell‘immigrazione un problema di ordine pubblico. In realtà, si tratta di un fenomeno estremamente complesso, che chiama in causa anche il concetto di sviluppo e riapre il dibattito tra chi sostiene l‘opportunità per i Pvs (Paesi in Via di sviluppo) di adottare il modello occidentale, basato sull‘economia di mercato e sul consolidamento di istituzioni democratiche, e chi, al contrario, propone che essi seguano una propria via alternativa. L‘idea di base è comunque che, per contenere i flussi migratori, sia necessario promuovere lo sviluppo nei paesi d‘origine. Tale idea è soggetta a delle critiche, da parte di chi la ritiene il frutto di una visione troppo semplicistica del problema, una visione che non tiene conto dei molteplici fattori in gioco e che si rivela statica ed incentrata esclusivamente sulla nozione di aiuto come moltiplicazione dei progetti da realizzare nei Pvs. In realtà, “lo sviluppo è un processo dinamico. È un dato di fatto che la vecchia Europa avrà bisogno di fare appello a numerosi migranti per mantenere il suo equilibrio demografico (si veda in proposito il rapporto dell‟ONU sulle migrazioni internazionali e sullo sviluppo pubblicato nel 2006) […] Vista dal Sud, l‟immigrazione è comunque un fattore di sviluppo. Ad esempio si stima che tra il 5 e il 10% del Pil senegalese provenga da rimesse monetarie provenienti dalla diaspora.776 Dunque, si tratta di un importante errore d‟interpretazione vedere nel solo aiuto ufficiale allo sviluppo il mezzo per contenere l‟immigrazione. D‟altronde non è neanche del tutto certo che lo 774 775 776 F. Pompeo, Il mondo è poco. Un tragitto antropologico nell‟interculturalità, Meltemi editore, Roma, 2007, p. 103. E‘ di questi giorni la notizia che anche la Russia procederà ad una limitazione e selezione degli ingressi sul proprio territorio, in considerazione della forte migrazione di cui è oggetto il paese. migrazione sostanzialmente proveniente da zone limitrofe ex URSS, ma non solo. Pur dicendosi contrario ad uno stato a prevalenza monoetnica, Putin rafforza le misure – anche penali - e prevede l‘esame di lingua e cultura russa per limitare gli ingressi. http://notizie.it.msn.com/topnews/russiaputinda-2013-esame-per-immigrati Per il significato del termine vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Diaspora 270 sviluppo rappresenti un freno all‟immigrazione, come testimonia, ad esempio, il numero di francesi residenti all‟estero che non è mai stato così elevato.”777 Tuttavia, al di là delle divergenze tra teorie e modelli così diversi e in contrasto tra loro, dai quali, spesso, “le pratiche sociali, politiche e amministrative locali si distanziano”, si può rilevare, nota Marco Martiniello, “una certa convergenza fra le dinamiche politiche e sociali in atto in tutti i paesi europei”, e, più in generale, occidentali, i quali si trovano a dover affrontare problemi del tutto simili “che rappresentano altrettante sfide da raccogliere”778. Il pericolo principale, insito nell‘accezione più estrema di multiculturalismo e conseguente alla negazione del diritto all‘assimilazione, è quello dell‘atomizzazione sociale, cioè della ristrutturazione dello spazio pubblico in una serie di comunità chiuse e conflittuali o, quantomeno, ostili e incapaci di comunicare in maniera costruttiva: in altre parole, il rischio della formazione di ghetti. Loïc Wacquant ha descritto il ghetto come un luogo che combina limitazione spaziale e chiusura sociale: si tratta, dunque, di un fenomeno al contempo geografico e sociale, che comporta non solo una distanza fisica ma anche morale, implicando la netta separazione di una comunità, omogenea da un punto di vista etnicorazziale, che si trova al suo interno, dal resto della popolazione che vive all‘esterno di tale spazio779. Secondo Bauman “è la situazione del “senza alternative”, la condizione del “vietato uscire”, che caratterizza l‟abitante del ghetto, che fa sentire la “sicurezza dell‟uguaglianza” come una gabbia di ferro: stretta, opprimente, inevadibile. Tale mancanza di scelta in un mondo pieno di persone libere di scegliere è una condizione ancor più insopportabile del grigiore e dello squallore di una residenza non liberamente scelta”780. Dal momento che l‘isolamento comunitario si nutre della paura dell‘altro, i suoi fautori finiscono per temerne la scomparsa e, quindi, tendono a mantenere alta la percezione di pericolo e di minaccia nella maggioranza dei cittadini. Di conseguenza, Bauman sottolinea il valore della sicurezza, in quanto “condizione necessaria del dialogo tra culture. Senza di essa, ci sono poche possibilità che le comunità si aprano reciprocamente e avviino un dialogo che possa arricchire tutte loro e migliorare l‟umanità in virtù della loro aggregazione. Se c‟è sicurezza il futuro dell‟umanità appare radioso”781. 777 778 779 780 781 C. Boutillier, Immigration et développement: des relations diffuses, distendues et encombrées de préjugés, pubblicato il 2 novembre 2007 sul sito http://www.eurosduvillage.eu/_Clement-Boutillier_.html?lang=fr M. Martiniello, op. cit., p. 59. L. Wacquant, A Black City Within the White: Revisiting America‟s Dark Ghetto, in ―Black Renaissance‖, 2, 1998, p. 142. Z. Bauman, Voglia di comunità, cit., p. 115. Ivi, pp. 137-138. 271 Secondo Jürgen Habermas, per sfuggire al pericolo del multiculturalismo ―estremo‖, che si configura come un nuovo comunitarismo, si potrebbe ―rispolverare‖ il concetto di semplice tolleranza, nato, come è stato precedentemente ricordato, nel contesto delle guerre di religione in Europa, facendone la base per ripensare ad una nozione di multiculturalismo che non si riduca ad una mera giustapposizione di ghetti 782. Qui si inserisce il discorso sui diritti culturali. Touraine ha scritto che il comunitarismo si contrappone all‘idea di cittadinanza, come esercizio di diritti politici all‘interno di un paese democratico, in quanto minaccia le libertà individuali. Tuttavia, «sarebbe sbagliato credere che la difesa della cittadinanza contro le comunità risolva il problema delle minoranze. Per questa ragione, al fine di evitare simili malintesi, credo sia più giusto parlare di “diritti culturali”, in modo da costringere le democrazie a riflettere su se stesse e a trasformarsi al fine di riconoscere questi diritti, così come in precedenza si sono trasformate, pur con aspri conflitti, al fine di riconoscere i diritti sociali di tutti i cittadini. I diritti culturali sono infatti positivamente legati ai diritti politici, e di conseguenza alla cittadinanza, contraddetta dal comunitarismo»783. La soluzione proposta da Touraine è, dunque, quella di difendere una concezione, il più possibile aperta, di cittadinanza, che riconosca il pluralismo culturale e religioso, cercando di combinare l‘accettazione dei principi di portata universale, che sono alla base della modernità (il pensiero razionale e i diritti dell‘individuo), con l‘idea che non si possa identificare un percorso univoco e unilineare di modernizzazione: «la comunicazione interculturale è il dialogo tra individui e collettività che dispongono, al contempo, degli stessi principi e di esperienze storiche differenti per rapportarsi gli uni agli altri» 784. Ma, questa unità di ―principi‖ appare assai difficile a realizzarsi, considerate le evidenti diversità culturali, sociali, politiche e religiose di cui ogni comunità è portatrice, oggi come nel passato; né tantomeno sembra possibile richiamarsi ad una presumibile uguaglianza nel diritto, ben sapendo che: “il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell'applicazione di una eguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato [...]: un operaio è sposato e l'altro no; uno ha più figli 782 783 784 Estratto della conferenza ―De la tolérance religieuse aux droits culturels‖, Sorbonne, Paris, 5 dicembre 2002. www.rationalites-contemporaines.paris4.sorbonne.fr/IMG/.../Justine_Martin.rtf A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale, cit., p. 192. Ivi, p. 238. 272 dell'altro, [...] uno è più ricco dell'altro, e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale”785. Non a caso, queste ―aspirazioni‖, del tutto occidentali, a considerare come ―universali‖ certi principi, sono continuamente smentite nei fatti, come d'altronde il ripensamento (fortunatamente, non sui principi espressi, ma sull‘affermazione della loro validità universale come fondamento) sul ―diritto dei diritti‖ sembra affermare chiaramente. D‘altra parte, la teoria kantiana del diritto cosmopolitico, “può essere considerata come la conclusione del discorso sin qui condotto sul tema dei diritti dell'uomo e insieme il punto di partenza per nuove riflessioni”786, specie in materia di multiculturalismo come momento dialettico costruttivo. Appare, dunque, evidente, prima ancora di guardare al prossimo futuro, la necessità di costruirlo giorno dopo giorno attraverso il ricorso al ―diritto dei diritti‖, come processo di riconoscimento dell'altro, e all'instaurarsi di un rapporto empatico tra gli individui appena ―mediato‖ dal diritto generale ed in linea con criteri generali e particolari di equità e giustizia che, nel mondo odierno, appaiono sempre più soppiantati da diktat di pretestuoso carattere economico ed appoggiati da un generale regresso, nei paesi occidentali, della capacità di comprendere e valutare appieno la sfida del futuro, per l‘adozione di mere politiche elettorali o contingenti. Quindi, se è vero che i diritti umani sono frutto di un processo di apprendimento, come in effetti è, allora l'unica funzione del diritto sarà quella di dover fornire dei criteri di carattere generale. L'uomo in sé, come individuo pensante ed agente, nell'incontro con l'altro e nella sfida dell'affermarsi di una cultura della non-violenza787, forniranno la strada da intraprendere; se avremo il coraggio di seguirla e la capacità di comprendere come costruirla insieme, superando la barriera più grande (costruita anche grazie all‘evocazione continua dei mass media): quella della paura dell‘altro. 785 786 787 K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, 1990. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit.; cfr. I. KANT, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2006. S. Hessel, Indignez-vous, cit., p. 24: “Sono persuaso che il futuro appartiene alla non – violenza, alla conciliazione delle diverse culture. E' questa la via che l'umanità dovrà seguire per superare la sua prossima tappa‖. 273 6. D. U. ed impianti normativi degli Stati: l'Italia e l'immigrazione. Politiche pro e contro i D.U. nell'emergenza umanitaria Nel precedente capitolo è già stato evidenziato come, affinché le proclamazioni dei diritti umani abbiano un‘applicazione concreta, sia necessaria una progressiva specificazione nel contesto politico locale, che assicuri la loro effettiva tutela e garantisca la possibilità di sanzionare chiunque si renda colpevole di una loro violazione. Spesso, invece, gli Stati non adeguano la propria normativa alle nuove esigenze che sorgono nel territorio o lo fanno in modo parziale. Il divario tra le norme e la loro applicazione è più evidente nel campo dei diritti sociali, perché le norme che li regolano non indicano scadenze tassative e, nel caso poi si tratti di norme internazionali, non producono nemmeno effetti, fintanto che non vengono ratificate dai singoli Stati. Anche in questo caso, però, è stato già sottolineato come, anche nei confronti degli Stati meno virtuosi, in assenza di un sistema ―serio‖ di sanzioni, ci si limiti ad avvertimenti, consigli, raccomandazioni o tutt‘al più, come succede nell‘Unione europea, all‘apertura di una procedura di effrazione. Proprio nel caso dell‘Unione europea, peraltro, il mancato adeguamento degli Stati membri alle decisioni adottate dagli organi comunitari è particolarmente pericoloso, perché può provocare discriminazioni e disparità di trattamento per individui che si trovino nelle stesse condizioni, ma in territori diversi. Emblematico, al riguardo, è il diverso atteggiamento tenuto dai vari Stati nei confronti di uno dei fenomeni su cui il processo di globalizzazione dell‘economia, che ha scavato un solco sempre più ampio fra gli Stati più ricchi e quelli più poveri, ha impresso una netta accelerazione: l‘immigrazione. Nonostante i grandi flussi migratori abbiano ormai mutato la loro natura, e siano non più occasionali, ma praticamente endemici, manca una politica comune che affronti razionalmente il problema. A differenza di quanto avveniva in passato, sempre più spesso gli emigranti non sono più lavoratori che si spostano temporaneamente in un Paese che offre maggiori prospettive di lavoro, ma l‘emigrazione rappresenta un progetto di vita diverso da parte di interi nuclei familiari, di intere comunità straniere. E‘, quindi, evidente che occorre affrontare la problematica dell‘immigrazione in una prospettiva a lungo termine, con politiche adeguate. Per dirla con le parole di Umberto Eco, ―il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell‟Europa, e vi entra anche se l‟Europa non è d‟accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so 274 specificare la data) l‟Europa sarà un continente multirazziale, o se preferite, “colorato”. Se vi piace sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso.‖788 Di fronte al cambiamento epocale che il mondo sta vivendo, perciò, l‘unica possibile strada da percorrere è quella di riservare una maggiore attenzione alla realtà da affrontare, una più profonda riflessione sui bisogni e sulle aspirazioni delle minoranze culturali prodotte dai flussi migratori, sulla loro crescente richiesta di essere trattate come comunità con una propria struttura ed una propria identità, pur se nel rispetto della normativa del Paese che le accoglie. Il nostro Paese costituisce un caso particolare, nel panorama europeo; il ritardo con cui ha affrontato certi problemi e le modalità con cui lo ha fatto sono legati al contesto storico-sociale. Per lungo tempo, infatti, l‘Italia non si è confrontata con tematiche di carattere etico legate alle differenze sociali e ciò è certamente dovuto a fattori storici come la fallita esperienza coloniale, la mancanza di retaggi di schiavitù interna, l'aver vissuto a lungo l'emigrazione anziché l'immigrazione; tutto ciò ha comportato la scarsa attitudine a ―governare‖ l'insorgenza di differenze più o meno manifeste fra gruppi sociali. Il problema principale è che l‘intero ceto politico italiano ha faticato a rendersi conto delle trasformazioni sociali derivanti dal successo economico e dai mutamenti nel comportamento riproduttivo generati dall‘aumento del reddito che, dopo i Paesi del Nord Europa, investivano l‘Italia. Infatti, dalla seconda metà degli anni Novanta, nonostante la crescita economica del Paese si fosse ormai pesantemente ridimensionata, il flusso migratorio ha continuato ad intensificarsi. Si è trattato dei primi effetti concreti del crollo della natalità; l‘invecchiamento accelerato della popolazione ed il calo del numero di persone in età lavorativa ha ridotto la disoccupazione ed accresciuto la domanda di lavoro dall‘estero. Fin dagli anni ‘70, del resto, si era diffusa una tendenza, tra gli italiani, al rifiuto di alcuni lavori che, progressivamente, sono divenuti di esclusiva pertinenza degli stranieri: in agricoltura, in alcune attività industriali più pesanti, e successivamente nel settore edilizio, nella ristorazione, negli alberghi, nelle pulizie e nei trasporti. Il crescente numero di anziani e l‘aumento della partecipazione femminile al lavoro, poi, non compensata dall‘aumento dell‘assistenza domiciliare pubblica, ha ―gonfiato‖ a dismisura la domanda di lavoro domestico, con una continua richiesta di colf e badanti. La politica ha lasciato che, per decenni, l‘amministrazione gestisse questo 788 U. Eco, Cinque scritti morali, Bompiani, Milano 1997, p.99. 275 fenomeno, ormai endemico, con strumenti inadeguati e strategie inefficaci, mentre i sindacati ed un variegato mondo di associazioni cercavano (e tuttora cercano) di supplire alle carenze dello Stato, sollecitando Governo e Parlamento ad intervenire, ma al tempo stesso creando sul territorio una ―rete‖ del privato sociale in grado di offrire servizi ed assistenza. C‘è da dire che, in realtà, anche quando questo intervento c‘è stato, l‘immigrazione ha continuato ad essere considerata prevalentemente un fattore ―a rischio‖, un‘emergenza, non una risorsa. Le istituzioni italiane hanno a lungo interpretato ed affrontato il problema della convivenza interetnica e delle relazioni interculturali esclusivamente come un problema di ordine pubblico. Tant'è che fino al 1986, anno in cui è stata adottata la prima legge sull‘immigrazione, l‘unico testo normativo di riferimento, ad esclusione di alcune circolari ministeriali, era costituito dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931. Purtroppo, però, anche le norme successive, specie la cd. ―Bossi – Fini‖789, più che influire sul sociale, hanno privilegiato l‘aspetto di regolamentazione degli ingressi e di lotta alla clandestinità, con la programmazione dei flussi, la stipula di accordi internazionali per la riammissione dei clandestini e per l‘ingresso di lavoratori legali con quote ―riservate‖ ai cittadini provenienti dai Paesi stranieri più collaborativi. Le politiche di controllo della clandestinità sono state caratterizzate da ripetuti indurimenti, non solo per l‘ingresso al Governo della Lega Nord, che ha fatto di tale problematica uno dei suoi ―cavalli di battaglia‖, ma anche come conseguenza di una tendenza già diffusa a livello europeo e dettata all‘Italia dall‘adesione agli accordi di Schengen. Ormai, perfino nelle aree territoriali socialmente ed economicamente più solide del Paese, non solo in termini di sviluppo economico e di livelli di reddito, ma anche di radicamento sociale della democrazia e di ricca articolazione associativa della società civile, si stanno rendendo evidenti i limiti di una politica dell'accoglienza basata su un modello alloggio – lavoro - assistenza. E' sicuramente vero che i bisogni più urgenti degli immigrati sono quelli di un'abitazione decente, un'occupazione che non si risolva nello sfruttamento, la possibilità concreta di accesso ai servizi. Tuttavia, un tale approccio è ormai insufficiente: ai conflitti determinati dalla crisi del welfare si sovrappongono e si intrecciano, in un viluppo inestricabile, quelli che nascono sul terreno dell'interazione culturale, dove si sviluppa la dialettica integrazione-separazione, identità-omologazione e dove differenti codici normativi 789 Legge n. 189 del 30 luglio 2002 ―Modifica alla normativa in materia di immigrazione e asilo‖. 276 e stili di comportamento si confrontano, si affrontano e, spesso, si scontrano790. La forte politicizzazione della ―questione immigrazione‖ ha spinto le politiche di integrazione sempre più in fondo all‘agenda, confinandole spesso nei mille rivoli di progetti innovativi che non sono mai riusciti a diventare servizi ordinari a regime per mancanza di finanziamenti. Il considerare l'immigrazione un unico ed indistinto problema, per lo più da ―contenere‖, è stato un ulteriore incentivo alle stereotipizzazioni, alla nascita di pregiudizi etnici, enfatizzati dall'interazione tra le diverse identità, i diversi sistemi di valori, le diverse percezioni di appartenenza, spesso sfociati in atteggiamenti di rifiuto o di ostilità. Si rischia in tal modo di entrare in una sorta di loop dal quale poi sarà difficile uscire; difatti, la sensazione che i diversi stili di vita, posti a stretto contatto, siano incompatibili, genera la necessità di salvaguardare le diversità, preservando la ricchezza di tutte le culture. Così, paradossalmente, assegnando alla ―diversità‖ un valore assoluto da cautelare, si possono determinare, nel concreto, nuove forme di segregazione, fondate sull'irriducibilità e sull'incomunicabilità delle appartenenze culturali.791 In un interessante studio sulle problematiche della multiculturalità, nel quale vengono poste a confronto le diverse posizioni assunte in proposito dai filosofi Charles Taylor e Jurgen Habermas, quest‘ultimo riflette sulle scelte che uno Stato democratico deve compiere nei confronti degli immigrati.792 Habermas parte dal presupposto che il principale problema, per le società contemporanee, sia che l‘afflusso degli immigrati modifica la composizione sociale della popolazione anche sotto l‘aspetto etico-culturale. Ma l‘aspetto etico va tenuto accuratamente separato da quello culturale. Secondo l‘autore, infatti, una collettività politica ha pieno diritto a conservare integra la propria forma di vita politico-culturale, perché la sua identità è legata ai principi costituzionali ancorati nella cultura politica, e non agli orientamenti etici di una particolare forma di vita culturale prevalente nel Paese. L‘identità della comunità, così intesa, va quindi difesa anche nei confronti dell‘immigrazione. Perciò, l‘unico modo per salvaguardarla, in uno stato democratico di diritto, è quello di pretendere dagli immigrati un‘integrazione esclusivamente a livello politico, cioè una disponibilità ad assimilare la cultura politica della nuova patria, senza rinunciare alle proprie tradizioni. Dove, invece, secondo Habermas, lo Stato dovrebbe garantire una maggiore etica è nell‘adozione di politiche migratorie, che devono rispondere a principi morali più incisivi. 790 791 792 Rapporto CEIS su Mediazione e Mediatori in Italia, Ed. Anicia, Roma 2004, pp. 22 – 23. Ivi, p. 24. J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 91 – 103. 277 Nelle società europee, in calo demografico e comunque costrette, per motivi economici, ad importare forza lavoro, le possibilità di accoglienza non sono certo esaurite. Fondare moralmente una politica d‘ingresso di tipo liberale significa non solo aprire la società agli stranieri, controllandone gli ingressi a misura delle capacità a disposizione, ma anche non limitare le quote ai bisogni economici del paese di accoglienza, cioè ad una forza lavoro comunque bene accetta, ma stabilirle invece secondo criteri che risultino accettabili dal punto di vista di tutti gli interessati. Invece, come già sottolineato, l‘attuale normativa italiana793 è improntata a criteri ben diversi; i vari interventi legislativi che si sono susseguiti a partire dal 1990 rispecchiano fedelmente gli opposti atteggiamenti dei due blocchi politici contrapposti e, pertanto, oscillano tra l‘accoglienza ed il rifiuto. Il primo intervento, la Legge 39/1990 (cd. ―legge Martelli‖), pur se dedicata ai rifugiati ed ai profughi, costituisce un tentativo, seppur tardivo, di regolamentare l‘afflusso esponenziale dei migranti attraverso una programmazione statale dei flussi di ingresso, sulla base delle necessità produttive ed occupazionali del Paese. Si delinea così, fin dall‘inizio, quella che diverrà una costante della normativa italiana: gestire l‘immigrazione esclusivamente dal punto di vista economico. Ciò nonostante, la legge ha anche mosso i primi passi per l‘integrazione e la partecipazione degli stranieri alla vita pubblica. Il rapido evolversi del fenomeno ha tuttavia evidenziato, nel giro di pochi anni, l‘inadeguatezza del testo, inducendo all‘emanazione di una normativa più esaustiva, la legge 40/1998 (cosiddetta ―Turco-Napolitano‖), confluita successivamente nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell‘immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero (dl 286/1998). È questo l‘assetto su cui l‘intervento legislativo più recente, la legge 189/2002 (― Bossi-Fini‖), è andato a incidere, in senso vessatorio e punitivo. Nonostante la Bossi-Fini costituisca formalmente solo una modifica al Testo unico, che riprendeva l‘impianto della Turco-Napolitano, essa vi introduce significative modifiche, da un lato rendendo più difficoltoso l‘ingresso ed il soggiorno regolare dello straniero e agevolandone l‘allontanamento, dall‘altro riformando in senso restrittivo la disciplina dell‘asilo. Il meccanismo fondamentale di controllo dell‘immigrazione rimane la politica dei flussi, quantificata annualmente dal governo mediante un decreto (cd. ―decreto flussi‖) che fissa il numero di stranieri che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Chiaro l‘intento, peraltro ereditato dalla normativa precedente, di controllare il fenomeno attraverso la limitazione numerica degli ingressi imposta dall‘autorità. 793 Testo Unico sull‘Immigrazione (Legge 286/1998) e successive modificazioni ed integrazioni. 278 Ma la Bossi – Fini fa un ulteriore passo, introducendo il cd. ―sistema delle quote‖: la legge, difatti, prevede restrizioni all‘ingresso in Italia di cittadini appartenenti a Paesi che non collaborino adeguatamente col governo nel contrasto all‘immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini soggetti a provvedimenti di rimpatrio. Allo stesso modo, attribuisce quote ―privilegiate‖ agli Stati che abbiano stipulato accordi bilaterali, volti alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione. Si produce, in questo modo, una disuguaglianza sostanziale tra gli stranieri, basata esclusivamente sulla loro cittadinanza, peraltro anche inutile, in concreto, dal momento che, in assenza di sanzioni effettive nei confronti dei Paesi meno collaborativi, il sistema è destinato a fallire. Inoltre, tale strumento si è rivelato anche inadeguato a garantire l‘esatta corrispondenza tra la domanda e l‘offerta: nel 2010, a fronte di 98.080 quote previste, sono complessivamente pervenute al Ministero dell‘Interno 424.858 domande di rilascio del nulla osta al lavoro. Ma i nulla osta effettivamente rilasciati sono stati circa 43.000, sulla base dei quali sono stati sottoscritti soltanto poco più di 12.000 contratti di soggiorno.794 La norma, come la precedente legislazione, subordina l‘ingresso dello straniero al rilascio di apposito visto da parte dell‘ufficio diplomatico italiano presso il paese di origine ma, a differenza della Turco – Napolitano, precisa che un eventuale diniego non va motivato, rendendo, di fatto, inappellabile il provvedimento di rifiuto. Il carattere repressivo della legge, inoltre, si evince dall‘introduzione dell‘obbligo, per lo straniero che chiede il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, di sottoporsi a rilievi foto-dattiloscopici, procedura comunemente riservata ai delinquenti colti in flagranza di reato e non prevista né per i cittadini italiani né per i comunitari. Come le leggi precedenti, la Bossi – Fini prevede, quale procedura di ingresso, la chiamata nominativa del lavoratore da parte di un datore di lavoro; il rilascio del permesso di soggiorno è subordinato all‘ottenimento di un contratto di soggiorno, col quale il datore di lavoro si impegna a garantirgli un alloggio ed il pagamento delle spese di viaggio per il rientro nel Paese di provenienza. Questa è, ovviamente, una mistificazione: il legislatore presuppone che il datore di lavoro assuma il lavoratore straniero senza neanche conoscerlo, dal momento che dovrebbe trovarsi nel Paese di origine, non avendo ancora ottenuto il permesso di soggiorno. La pratica dimostra che nella maggior parte dei casi il datore di lavoro assume l‘immigrato, magari clandestino o in possesso di un visto turistico, in modo informale, per poi formalizzare l‘assunzione in un momento successivo, dopo l‘emanazione del ―decreto flussi‖ attraverso la chiamata nominativa, facendo ―apparire‖ lo straniero in 794 Dati Ministero dell‘Interno (aggiornati al 3 novembre 2011). 279 Italia al momento opportuno. Così, paradossalmente, la norma inserita per contrastare l‘immigrazione clandestina alimenta, di fatto, il mercato della forza lavoro non tutelata e a basso costo, dal momento che solo nella clandestinità un lavoratore straniero può procacciarsi un impiego e, di conseguenza, la legalità. La Bossi-Fini, mediante la modifica dell‘art 23 T.U., ha peggiorato ulteriormente la situazione, abolendo il meccanismo più realistico per gestire l‘ingresso dei lavoratori stranieri introdotto dalla Turco- Napolitano, che prevedeva la possibilità, per il cittadino italiano o lo straniero regolarmente soggiornante che intendessero farsi garanti dell‘ingresso di uno straniero per consentirgli l‘inserimento nel mercato del lavoro, di presentare apposita richiesta nominativa alla Questura della provincia di residenza. Il richiedente doveva dimostrare di poter assicurare allo straniero alloggio, sostentamento e assistenza sanitaria per tutta la durata del soggiorno; allo straniero era data possibilità, previa iscrizione alle liste di collocamento, di ottenere un permesso di soggiorno annuale a fini di inserimento nel mercato del lavoro. Ma il vero capolavoro della Bossi-Fini è in materia di lotta all‘immigrazione clandestina: oltre all‘aumento delle pene detentive e pecuniarie, connesse al favoreggiamento dell‘immigrazione non regolare, la riforma della procedura di espulsione ribalta completamente il precedente impianto normativo, che gestiva le procedure di rimpatrio in forma amministrativa, attribuendo carattere residuale all‘esecuzione forzata del provvedimento. Con la Bossi – Fini, invece, l‘espulsione coatta diventa il meccanismo principale e l‘applicazione della sola intimazione viene resa residuale ed il limite temporale del divieto di rientro innalzato da cinque a dieci anni. Infine, a fronte di una modifica in senso punitivo di tutta la materia concernente la responsabilità giuridica dello straniero, la legge incide ben poco sul versante dell‘integrazione: dedica, difatti, solo cinque dei 38 articoli che la compongono alla regolamentazione dell‘istituto del ricongiungimento familiare ed alla programmazione di attività volte all‘integrazione dello straniero, apportando modifiche contenute e trascurabili. Un‘ulteriore modifica al sistema delle espulsioni è stata apportata nel 2011, con il d.l. 89/11, convertito nella legge 129/11, formalmente il decreto con cui è stata recepita la Direttiva 2008/115/CE del 16.12.2008 sul rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolari. In realtà, manca un reale ed effettivo adeguamento degli istituti italiani ai canoni imposti dalla Direttiva, tanto che, nel corso del 2011, il Giudice di Pace di Firenze ha annullato un decreto prefettizio di espulsione emesso in base alle nuove norme, ritenendolo non conforme alla disciplina comunitaria. Si tratta, quindi, di un raro caso di disapplicazione della 280 normativa italiana in favore di quella comunitaria. Del resto, la riforma era una forzatura, in quanto ribaltava l‘ordine di applicazione delle misure previste a livello europeo, disattendendo completamente lo spirito della Direttiva, che impone agli Stati di adottare un provvedimento di rimpatrio volontario ogni qualvolta sia possibile, preferendolo alle misure coercitive, più lesive dei diritti dello straniero. Nella nuova formulazione del decreto di espulsione, invece, l'ordine e' inverso: si esclude il rimpatrio volontario poiché ci sono le condizioni per l'accompagnamento immediato. Una simile formulazione sembrerebbe osteggiare la direttiva, nel tentativo di mantenere il pregresso sistema delle espulsioni senza incorrere nella violazione delle norme europee. Lo stesso spirito della Circolare n. 400/b/2010 del Ministero dell'Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza, emessa il 17 dicembre 2010 dal Capo della Polizia Manganelli nel periodo di diretta efficacia della direttiva – quando ancora l'Italia non aveva provveduto al suo recepimento – in cui vengono fornite agli operatori una serie di indicazioni che sembrerebbero proprio adatte per aggirare le preclusioni comunitarie. Le conseguenze sono rilevanti: in primo luogo, la mancata concessione di un termine che consenta allo straniero di rimpatriare di propria volontàimplica (per mezzo di altra norma ben poco conforme alla Direttiva) che l‘espulsione viene automaticamente corredata di un divieto di fare reingresso in Italia per 5 anni, pena la reclusione da 1 a 4 anni. Anche qui la differenza con la direttiva è eloquente: secondo la direttiva il divieto di reingresso va da 0 a 5 anni, per il legislatore italiano da 3 a 5; le prefetture dispongono quasi sempre il divieto di reingresso per il periodo massimo, di 5 anni. In secondo luogo, l'esclusione del rimpatrio volontario comporta il trattenimento dello straniero in un Centro per l‘Identificazione e l‘Espulsione (CIE) 795 ogni qualvolta non sia possibile eseguire immediatamente l‘accompagnamento coattivo, ad esempio per mancanza dei documenti per l‘espatrio o di un mezzo di trasporto col quale accompagnare lo straniero in aeroporto. Si consideri che sia la mancanza dei documenti atti al rimpatrio che quella del mezzo di trasporto costituiscono, generalmente, la norma in Italia. Altra circostanza disciplinata dalla Direttiva europea come ‖situazione d‘emergenza‖, ma che in Italia costituisce ormai la regola e non l'eccezione, è la mancanza di disponibilità di posti nei CIE. Ed è questa circostanza che porta all‘ordine di lasciare il territorio, intimato dal Prefetto in applicazione dell‘art. 14, comma 5-bis del Testo Unico, il quale recita: “Allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione […] il 795 Tali Centri, previsti dal Decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008, hanno sostituito i Centri di permanenza temporanea ed assistenza, nei quali vengono alloggiati gli stranieri in attesa di essere rimpatriati. 281 questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 7 giorni”. La soluzione individuata dal legislatore italiano per gestire la cronica emergenza è l'ordine di lasciare il territorio entro sette giorni, cioè esattamente quanto accadeva prima della riforma. Chi riceve un decreto di espulsione come quello in esame ha, quindi, una settimana di tempo per lasciare il Paese, procurandosi quanto serve al rimpatrio. Un‘impresa praticamente impossibile per uno straniero che, in quanto irregolare, non può lavorare. In realtà, è prevista l‘attuazione, da parte del Ministero dell‘Interno, di ‖programmi di rimpatrio assistito‖ che dovrebbero garantire allo straniero il ritorno in patria in condizioni più umane e dignitose, ma i tempi per accedervi sono piuttosto lunghi. La nuova normativa sulle espulsioni, quindi, in realtà non aggiunge nulla di nuovo alla precedente procedura. Un altro aspetto particolarmente rigido dell‘attuale normativa sull‘immigrazione, previsto dal contratto di soggiorno, è la regola in base alla quale, se un immigrato perde il lavoro, ha a disposizione solo sei mesi di tempo per trovarne un altro796; allo scadere di questo termine, anche se regolarmente soggiornante in Italia da anni, deve aver ottenuto un altro impiego, altrimenti deve lasciare il Paese. Una regola che non fa altro che alimentare tensioni ed agevolare lo sfruttamento, oltre che la concorrenza sleale, perché diventa facilmente un‘arma di ricatto per abbassare il costo del lavoro degli immigrati che, pur di trovare un impiego entro 6 mesi, sono disposti ad accettare condizioni inique. E difatti sono proprio loro i più penalizzati dalla crisi economica: il tasso di disoccupazione straniero è passato dall‘8,5% del 2008 all‘11,6% del 2010; gli immigrati hanno livelli di povertà più elevati: il 37,9% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà contro il 12,1% delle famiglie italiane, e le loro retribuzioni sono inferiori di 300 euro rispetto ai lavoratori italiani797. Incide, anche, negativamente la mancata ratifica della direttiva n. 2009/52CE del 18 giugno 2009, con la quale il Parlamento europeo ha previsto la possibilità, per i lavoratori ―in nero‖, di denunciare i propri datori di lavoro ottenendo un permesso di soggiorno umanitario per trovare un'occupazione. Da ultimo, la situazione è stata ancor più complicata dall‘emanazione del DPR 179 del 14 settembre 2011, che entrerà in vigore dal mese di marzo 2012, e che, nell‘ambito dell‘Accordo di integrazione798, introduce il cd. ―permesso di soggiorno a punti‖. Lo 796 797 798 Al proposito, vale la pena di ricordare che l‘art. 22 del Testo Unico sull‘immigrazione prevede, in caso di perdita del posto di lavoro di un immigrato, la concessione di un permesso per attesa occupazione ―non inferiore a sei mesi‖. Basterebbe, dunque, una semplice circolare per chiarire alle Questure che i sei mesi sono una base, e non un tetto, alla durata del permesso stesso. Dati tratti dal Rapporto annuale sull‘economia dell‘Immigrazione 2011 edito dalla Fondazione Leone Moressa, su http://www.pianetanews.com/. L‘accordo è previsto dall‘articolo 4 bis del 'Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina 282 straniero di età superiore ai 16 anni, che farà ingresso per la prima volta in Italia e presenterà istanza di rilascio di un permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, dovrà concludere con lo Stato italiano un vero e proprio contratto, col quale si impegna a raggiungere entro 2 anni un determinato livello di integrazione sociale e culturale, valutato e misurato in un sistema a punti o crediti. La ―soglia di adempimento‖, che deve necessariamente raggiungersi per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, e‘ fissata in 30 crediti, per ottenere i quali lo straniero dovrà dimostrare di aver conseguito il livello A2 della conoscenza della lingua italiana parlata e il livello di sufficienza della conoscenza della cultura civica e della vita civile in Italia. In caso di mancato raggiungimento dei 30 crediti, a seconda del numero dei crediti acquisiti, l‘accordo potrà essere prorogato per un anno oppure, se il numero finale dei crediti è 0 o non abbia superato il test di verifica, lo straniero verrà immediatamente espulso, a meno che non si trovi in condizioni di inespellibilità. L‘Accordo prevede, inoltre, decurtazione dei punti in caso di reato e sottoposizione a misure di sicurezza personali, pur se applicate in via non definitiva, prefigurando, così, un grave profilo di illegittimità costituzionale, anche perché l‘elenco dei reati e delle misure di sicurezza personali contenuti nell‘allegato C non distingue fra reati ostativi o meno al rinnovo del permesso di soggiorno secondo le previsioni del Testo Unico. E questo equivale a trasformare in ostativi, rispetto alla permanenza sul territorio dello Stato, reati che non sono previsti come tali dalla legge. Alcune misure volte a migliorare la situazione, anche in considerazione della particolare gravità della congiuntura economica, sono, attualmente, allo studio del Governo: tra queste, il raddoppio della durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione (da 6 mesi ad un anno) e, soprattutto, un nuovo sistema per adeguare la domanda all‘offerta di lavoro etnico, visto il fallimento dei decreti flussi. Occorrerebbe, però, rivedere completamente il sistema delle quote, prevedendone magari di maggiori a favore di quei Paesi dove è maggiore l‘emergenza, anche perché la mancata previsione di un decreto che garantisca la possibilità di ingresso regolare per lavoro subordinato potrebbe ingenerare un aumento degli irregolari e favorire la crescita del lavoro sommerso. Lascia, invece, perplessi la mancata modifica, su base proporzionale al reddito familiare del richiedente, della tassa per il rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno, il cui aumento, introdotto con le norme del cd. ―pacchetto sicurezza‖ del 2009, e in vigore dal 1° febbraio 2012, si prefigura particolarmente oneroso: 80 euro in più, rispetto agli attuali 60 circa, per un permesso annuale, 100 per uno biennale e addirittura 200 per i lungo dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero ' (Dlgs 286/1998). 283 soggiornanti. Tale perplessità è tanto maggiore in quanto, con direttiva n. 2011/98/Ue, adottata il 13 dicembre 2011, il Parlamento europeo ha stabilito una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro. La direttiva, da ratificare entro il 2013, comporta semplificazioni delle procedure e, soprattutto, l‘eliminazione del contratto di soggiorno e del contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno. Anche in questo caso, quindi, sembrerebbe che l‘Italia stia remando contro corrente. Altro motivo di perplessità e preoccupazione è rappresentato dal mancato recepimento (da attuare necessariamente entro il 17 aprile 2012799) della direttiva europea n. 2009/50/CE del 25 maggio 2009 sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati. Anche sotto il profilo della cittadinanza le cose lasciano molto a desiderare. La normativa riguardante la materia è tuttora disciplinata dalla Legge n. 91 del 5 febbraio 1992, con la quale si è, all‘epoca, cercato di fornire una concreta risposta alle pressanti istanze provenienti dalle Comunità di italiani residenti in Paesi esteri di vecchia emigrazione (soprattutto Argentina e Brasile) che, in particolare nel corso degli anni ‗80, hanno visto nel rientro in Italia una via d‘uscita alle degradate e precarie condizioni economiche, sociali e politiche di quegli Stati. Essa contiene, pertanto, disposizioni che riflettono il favorevole atteggiamento nei confronti dei connazionali, per il riacquisto della naturalità italiana in favore dell‘ex cittadino o per l‘acquisto da parte dello straniero discendente da italiani per nascita mediante naturalizzazione. Di contro, ha recepito solo marginalmente il fenomeno, che già si andava delineando all‘atto della sua promulgazione, dell‘immigrazione dall‘estero di consistenti flussi di stranieri senza alcun precedente legame con l‘Italia. Pertanto, tale normativa, specialmente se raffrontata a quelle degli altri Stati della Comunità Europea, per taluni aspetti non appare in grado di recepire pienamente la nuova domanda di integrazione derivante dall‘imponente fenomeno dell‘immigrazione; rimane, infatti, saldamente ancorata alla piena ed incondizionata trasmissibilità della cittadinanza per il principio dello ius sanguinis, prevedendo solo marginalmente l‘acquisto del nostro status civitatis secondo il principio dello ius soli. 799 Come previsto dall‘art. 21 della Legge comunitaria 2010 (Legge 15 dicembre 2011, n. 217). 284 E del resto, nel 1992 gli stranieri residenti registrati erano solo 537.062800; la legge, quindi, risentiva di quello che all‘epoca era un impatto minimo delle migrazioni sulla nostra società. Oggi in Italia vivono quasi cinque milioni di cittadini stranieri, pari a circa l‘8% della popolazione complessiva, che producono quasi l‘11% del PIL. E in futuro, in virtù del gap demografico, la tendenza non è destinata a mutare rotta801: il calo demografico tra il 2010 ed il 2020 sarà di almeno altri 1,7 milioni di cittadini, il che porterebbe il rapporto stranieri – italiani (attualmente di 1 a 11) ad 1 contro 8.802 Secondo il Fondo sulle Popolazioni Mondiali delle Nazioni Unite, tra oggi ed il 2050, l‘Europa perderà altri 103 milioni di abitanti, di cui forse 8 milioni di italiani. Infatti attualmente l‘Italia registra la 3° età mediana più alta del mondo, dopo Giappone e Germania, (43 anni, contro i 15 del Niger o i 16,7 dell‘Afghanistan). 803 Non c‘è dubbio che il futuro demografico e di sviluppo del nostro Paese dipenderà in gran parte dai flussi migratori e dai nuovi nati stranieri in Italia. Difatti, nel 2010 sono nati in Italia circa 78 mila bambini stranieri, il 13,9% del totale. Quanto ai minori, secondo le previsioni, sono destinati ad un aumento percentuale notevolmente superiore al trend complessivo migratorio: se nel 2010 erano quasi un milione, di cui oltre 650 mila nati in Italia, nel 2020 supereranno il milione e mezzo804. E‘ del tutto evidente, quindi, che con una presenza di stranieri residenti di dieci volte superiore al 1992, la società italiana è ormai molto cambiata: ne è mutata la composizione ed anche la qualità della società civile è assai lontana da quella che vent‘anni fa venne chiamata a sottoscrivere il contratto sociale. Da qui la necessità e l‘urgenza di riscrivere le regole di civile convivenza, basandosi su nuovi parametri e valori di riferimento condivisi. Difatti, non è certo pensabile proporre ai nuovi arrivati un mero modello di assimilazione che offra un sistema di regole e valori unicamente italiani. Riscrivere il contratto sociale implica utilizzare l‘apporto di tutti gli attori interessati. Non che siano mancate le iniziative di legge: solo durante la XVI Legislatura le proposte di iniziativa parlamentare in materia di cittadinanza sono state ben 48. Tra le più recenti, la cd. ―Sarubbi – Granata‖ (Fli), limitata alla ―corsia privilegiata‖ per diventare cittadini italiani a chi nasce sul territorio nazionale, e quella presentata il 23 novembre 2011 dal Sen. Ignazio Marino del Pd, che prevede la modifica della Legge n. 91/1992 in materia 800 801 802 803 804 www.stranieriinitalia.it /archivio/dati stranieri/1992 XVII Rapporto sulla migrazione a cura della Fondazione ISMU, Milano 2011: il tasso di fecondità è, attualmente, pari a 2,4 figli per le donne straniere, contro l‘1,3 delle italiane. Ibidem. UNFPA, People and Possibilities in a World of 7 Billion, Rapporto annuale del Fondo Onu sulle Popolazioni Mondiali, pubblicato il 31 ottobre 2011 in http://www.lescienze.it/news/2011/10/29/news/sette_miliardi_di_esseri_umani-597677/ XVII Rapporto sulla migrazione a cura della Fondazione ISMU. 285 di introduzione dello ius soli805. A questo proposito, occorre però sottolineare che in Italia lo ius soli c‘è già, in quanto i nati in Italia ottengono la cittadinanza, attraverso una procedura semplificata, al compimento del 18esimo anno di età, anche qualora i loro genitori siano tuttora stranieri. Il problema semmai è un altro, e cioè che questa via di accesso alla cittadinanza tramite ius soli è la più severa tra quelle adottate dalle grandi democrazie europee. In altri Paesi l‘acquisizione della cittadinanza può avvenire immediatamente alla nascita, anche se con diverse condizioni richieste: ad esempio, in Spagna la legislazione più recente ha introdotto la possibilità di cittadinanza per i bambini figli di stranieri con almeno un anno di residenza; due recenti riforme, varate in Grecia e in Portogallo, prevedono una residenza del genitore di almeno 5 anni, mentre la legislazione tedesca ne pretende 8. Peraltro, nella gran parte degli Stati europei, i nati sul territorio del Paese di immigrazione, che abbiano accumulato un certo numero di anni di residenza o completato un ciclo scolastico, godono di un accesso privilegiato alla cittadinanza, cioè possono averla prima della maggiore età. Questa corsia privilegiata per i minori riguarda quasi ovunque anche i bambini non nati nel paese di immigrazione, ma che ci sono arrivati da piccoli, purché vi abbiano studiato o vi siano vissuti per un certo periodo. C‘è, poi, un altro aspetto che va sottolineato. Oggi forse la maggioranza di chi richiede la cittadinanza lo fa per sfuggire all‘ordalia del rinnovo del permesso di soggiorno, non perché sia convinto di voler diventare italiano. Schiacciato dall‘oppressione burocratica del permesso a breve termine, specie in questo momento di crisi economica che rende particolarmente difficile mantenere un impiego, e teso a sfuggire dalle trappole e dalle farraginosità della Bossi – Fini, lo straniero opta per la via più semplice. Bisognerebbe, quindi, creare le condizioni perché la richiesta di cittadinanza italiana sia fatta per convinzione, non per pura necessità, magari rendendo più fluida e più semplice la fruizione del permesso di soggiorno di lungo periodo, che concede agli immigrati regolari da più di cinque anni una parità di diritti quasi sostanziale con gli italiani. La cittadinanza, poi, dovrebbe arrivare in tempi certi di residenza e con un percorso meno ad ostacoli, a condizione che lo straniero si sia radicato nel nostro Paese e vi voglia far parte abbracciandone valori e regole. Invece, sinora, l‘unica modifica effettiva alla legge del 1992 si è concretizzata in un ulteriore irrigidimento: il contrasto delle unioni di comodo tramite l‘innalzamento da 6 mesi 805 La proposta, in particolare, prevede l‘introduzione del cd. ―ius soli secco‖, nel senso che permette ai bambini stranieri nati in Italia di acquisire immediatamente la cittadinanza italiana. http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Ddlpres&leg=16&id=620286 286 a 2 anni del tempo di residenza dopo il matrimonio richiesto per trasmettere la cittadinanza ai coniugi stranieri806. Per non parlare, poi, dell‘introduzione di ulteriori requisiti per l‘accesso alle naturalizzazioni, recentemente prevista dall‘Accordo di integrazione, laddove subordina non solo la concessione della carta di soggiorno permanente ma, come si è visto, lo stesso rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno alla conoscenza linguistica e all‘accettazione della carta dei valori civici condivisi. Certo, questi requisiti non sono errati in sé, ma di sicuro hanno squilibrato ulteriormente la nostra normativa sulla cittadinanza che già era, e resta, tra le più severe d‘Europa. È mancato, finora, il necessario riequilibrio sul versante dell‘apertura. Il primo importante tentativo serio di riformare la cittadinanza in senso più liberale fu fatto nel 1999 da Livia Turco, all‘epoca Ministro degli Affari Sociali. Da allora sono state presentate altre proposte simili, di iniziativa sia governativa che parlamentare. Quelle più sensate e che sono giunte più vicine all‘approvazione riproducono i modelli europei anche rispetto al trattamento dei minori e, spesso, sono state affiancate dalla richiesta dell‘estensione del diritto di voto locale anche agli immigrati non comunitari. Bisogna ricordare al proposito che, con Dlgs. n. 197 del 12 aprile 1996, attuativo della Direttiva europea 94/80 CE, il diritto di voto comunale è stato esteso ai cittadini comunitari, mentre la Convenzione di Strasburgo del 5 febbraio 1992, sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 8 marzo 1994, n. 203, limitatamente ai capitoli A e B, escludendo, quindi, il capitolo C che riguarda proprio il diritto di voto.807 Al proposito, va evidenziata un‘altra sostanziale differenza tra la nostra legislazione e quella di altri membri dell‘Ue: in Italia, il diritto di elettorato amministrativo è ancorato al concetto di cittadinanza, mentre in molti paesi europei (come Belgio, Danimarca, Olanda, Spagna, Svezia) l‘accesso al voto amministrativo di chi non è cittadino, ma residente è una realtà. In questo modo si genera una situazione di grave ingiustizia e discriminazione nei confronti di minoranze straniere sempre più rilevanti, stabilmente insediate nel territorio, ma impossibilitate a far sentire la propria voce e farsi interpreti delle proprie esigenze. Nei 806 807 Il disegno di legge n. 733, recante ―Disposizioni in materia di sicurezza pubblica‖, cd. ―pacchetto sicurezza‖, interviene, tra l‘altro, sulla Legge n.91/1992, per limitare il fenomeno dei matrimoni ―di comodo‖, stabilendo, all‘art.3, l‘elevazione da 6 mesi a 2 anni del periodo legale di residenza in Italia, dopo il matrimonio, necessario per l‘acquisto della cittadinanza italiana da parte del coniuge straniero. Tale termine viene ridotto della metà (un anno, quindi) in presenza di figli nati dai coniugi. Nel caso, invece, in cui il coniuge straniero risieda all‘estero, la durata minima del matrimonio resta immutata in assenza di prole (3 anni) e viene dimezzata (18 mesi) in caso di matrimonio con prole. http://nessunluogoèlontano/nuovosito/index/Convenzionedistrasburgo/pdf 287 confronti di queste persone, inoltre, si pone il problema dell‘applicazione del principio che è alla base della democrazia in Europa, ossia il principio per cui non si può negare la partecipazione alle decisioni pubbliche a chi contribuisce continuativamente al finanziamento dello Stato attraverso il prelievo fiscale. Esistono due proposte di legge di iniziativa popolare, che riguardano una la cittadinanza nel suo insieme e l‘altra il voto locale, lanciate con la campagna «L‘Italia sono anch‘io», promossa da numerose organizzazioni della società civile808. Quella in materia di cittadinanza richiede, per attribuirla alla nascita, il requisito di un solo anno di soggiorno legale in Italia da parte di uno dei genitori. Si tratta di un requisito piuttosto ―leggero‖: si colloca infatti ben al di sotto della media europea che, come detto, si aggira intorno ai cinque anni. E‘, pertanto, una scelta rischiosa, perché può trasformare in cittadini anche i figli di quegli immigrati che non danno garanzie di volersi stabilire nel nostro paese; meglio sarebbe far dipendere questa opportunità dalla condizione di titolare di carta di soggiorno di almeno un genitore. Insomma, un compromesso tra proposte forse troppo generose e chiusure certo troppo severe, e soprattutto estranee al contesto giuridico europeo, rappresenterebbe una soluzione equa ed equilibrata del problema. Per quanto riguarda il diritto di voto amministrativo, i proponenti hanno ―evitato di collegarlo al permesso di lungo soggiorno CE809 (che ha sostituito la “carta di soggiorno”), in quanto tale titolo comporta l‟accertamento di una determinata capacità economica e, quindi, si sarebbe corso il rischio di reintrodurre, per una via traversa, limitazioni del diritto di elettorato per censo, in violazione del principio costituzionale del suffragio universale.‖810 In particolare, la proposta prevede, all‘art. 6, l‘esecuzione e la ratifica del capitolo C della citata Convenzione di Strasburgo e, pertanto, la possibilità, per chi risiede da un lustro nel nostro Paese, di votare i propri amministratori pubblici locali. E questo costituisce sicuramente un traguardo importante, perché se anche gli stranieri avessero diritto di voto i partiti politici, tutti i partiti politici, mostrerebbero maggior 808 809 810 http://www.litaliasonoanchio.it/fileadmin/materiali_italiaanchio/pdf/prop_diritto_di_voto__relazione_introduttiva_.pdf L‘articolo 9 del T.U. immigrazione (d.lgs. 286 del 1998), che disciplinava in passato la carta di soggiorno, è stato modificato, a seguito del recepimento da parte dell‘Italia della direttiva europea n. 109 del 2003 (mediante il d.lgs. n. 3 del 2007), che ha introdotto il Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, e prevede che “lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, per sé e per i familiari di cui all'articolo 29, comma 1.” http://www.litaliasonoanchio.it/fileadmin/materiali_italiaanchio/pdf/prop_diritto_di_voto__relazione_introduttiva_.pdf 288 rispetto e maggiore attenzione ai loro interessi. Tra i 27 Stati Membri dell‘Unione europea, l‘Italia è anche l‘unico paese a non possedere ancora una legge organica sull‘asilo che dia pienezza al dettato dell‘art.10, comma 3, della nostra Costituzione811. Le ultime due disposizioni in proposito sono stati due decreti legislativi di attuazione di due Direttive CE, riguardanti, rispettivamente, la qualifica di ―rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale‖812 (cd. ―Decreto Qualifiche‖, n.251/2007) e le ―procedure ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato‖813 (cd. ―Decreto Procedure‖, n.25/20). Anche se la riforma si presenta, complessivamente, migliorativa della materia e garantista nel riconoscimento di nuovi e più puntuali diritti per i richiedenti asilo, i rifugiati, i protetti sussidiari e per i ricorrenti, i Decreti non trattano alcuni aspetti sostanziali, questioni che potrebbero trovare una disciplina esaustiva solo all‘interno di una legge organica sull‘asilo o comunque di una legge quadro che faccia ordine tra le molteplici disposizioni, ormai presenti nel nostro ordinamento, i cui ambiti di applicazione spesso si sovrappongono, in mancanza dell‘esplicita abrogazione di norme preesistenti, ingenerando confusione e disorganicità nel sistema. In particolare: - l‘articolo 10, c.3 della Costituzione non viene in alcun modo richiamato dai due decreti legislativi, e resta, quindi, salva per il richiedente asilo la facoltà di presentare al Tribunale civile istanza per il riconoscimento dell‘asilo costituzionale, che prevede una protezione più ampia, sulla base delle libertà democratiche garantite dalla nostra Carta costituzionale; - in materia di integrazione, ben poco viene disposto dal Decreto Qualifiche, salvo una generica menzione delle esigenze relative all‘integrazione dei titolari della protezione internazionale e in particolare dei rifugiati; - in materia di minori, si riscontra tuttora una notevole mancanza di omogeneità negli interventi a seconda dell‘autorità che viene in contatto con il minore, specie se non accompagnato. Peraltro, l‘ammissione al territorio e alla procedura d‘asilo è tuttora la fase più delicata, in quanto il minore può trovarsi solo di fronte al potere discrezionale dell‘autorità; 811 812 813 ―Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l‟effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d‟asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge‖. Direttiva 2004/83/CE recante ―Norme minime sull‟attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta‖. Direttiva 2005/85/CE recante ―Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato‖. 289 - nessuna menzione è fatta per le ―considerazioni di genere‖ (essere donne, essere omosessuali,814 etc.) che possono valere nella valutazione della riconducibilità di una persecuzione ad uno dei 5 motivi di riconoscimento dello status di rifugiato, come invece prevede la Direttiva Europea sulle ―Qualifiche‖. La necessità di una riforma adeguata è particolarmente sentita in questo particolare momento storico, in quanto, a causa dei recenti eventi nel Maghreb, soprattutto in Tunisia ed in Libia, le domande di asilo presentate, nel primo semestre 2011, da immigrati in fuga sono raddoppiate: 10.860 le richieste presentate in Italia, con un incremento del 102% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.815 Va, tuttavia, segnalato che tale sostanzioso aumento deriva anche dal sostanziale decremento che le domande di asilo avevano subito nell‘ultimo triennio, grazie alla ratifica del "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione" con la Libia, approvato dal Parlamento nel febbraio 2009, che ha portato all'intensificazione del controllo alle frontiere al fine di contrastare l'immigrazione irregolare, con una significativa diminuzione degli arrivi via mare e, conseguentemente, delle istanze di protezione internazionale816. L'aumento cospicuo di sbarchi e di domande di protezione, comunque, ―hanno avuto significative ricadute sull'apparato dell'accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, determinando una diversificazione degli interventi e una stratificazione dei sistemi di accoglienza‖,817 dovuta anche al decreto della Presidenza del Consiglio del 12 febbraio 2011 che ha dichiarato lo stato di emergenza nel territorio nazionale in relazione all'eccezionale afflusso 814 815 816 817 818 di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa.818 La mancata previsione, nel decreto di recepimento della Direttiva, delle persecuzioni legate al genere quale motivo di riconoscimento dello status di rifugiato, preoccupa particolarmente in quanto, nella maggior parte degli Stati Europei, almeno un terzo dei richiedenti asilo è costituito da donne. Per quanto riguarda il riconoscimento dello status di rifugiato a persone perseguitate a causa del loro orientamento sessuale, in Italia è ancora poca la giurisprudenza in proposito. In particolare, la Corte di Cassazione, con sentenza n.16417/2007, ha sancito l‘inespellibilità di migranti omosessuali privi di permesso di soggiorno che, tornando nel Paese d‘origine, correrebbero seri rischi per la propria incolumità. Un ulteriore passo avanti è stato fatto con il riconoscimento, da parte della Commissione Territoriale di Foggia, dello status di rifugiato ad un cittadino albanese di 21 anni che aveva ricevuto forti minacce nel suo Paese a causa della sua omosessualità. La decisione, adottata nel maggio 2007, costituisce un importante precedente ed appare in linea con l‘art.10 della citata Direttiva CE, ―Motivi di persecuzione‖, che recita: ―In funzione delle circostanze del paese d‟origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell‟orientamento sessuale. L‟interpretazione dell‟espressione orientamento sessuale non può includere atti classificati come penali dal diritto interno degli Stati Membri”. Rapporto 2010-2011 SPRAR - Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati, a cura di Fondazione ANCI Ricerche, p. 20. Ivi, p. 21 : ―Se nel 2008 si trattava di oltre 31mila persone, nel 2009 le domande si sono quasi dimezzate (17.603 ovvero -42,3% rispetto al 2008) fino a ridursi notevolmente nel 2010, quando i rifugiati in Italia erano poco più di 56mila. Se tre anni fa, tra i 44 Paesi industrializzati, l'Italia era il quinto paese destinatario dei richiedenti asilo nel 2010 è divenuto 14esimo‖. Ibidem. Con DPCM del 6 ottobre 2011, il Governo ha prorogato lo stato di emergenza umanitaria in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa (fino al 31 dicembre 2012) ed ha prorogato altresì di ulteriori sei mesi la durata dei permessi di soggiorno per motivi umanitari ex art. 20 d.lgs. 286/98, legati a questo stato di emergenza e rilasciati in base al DPCM del 5 aprile 2011. 290 Proprio rispetto ai paesi africani, c‘è un ultimo aspetto da sottolineare: i discorsi politici dominanti e le campagne mediatiche ignorano, volutamente, il fatto che la migrazione africana, verso il Maghreb e verso l‘Europa, è alimentata da una strutturale domanda di lavoro etnico (irregolare) a basso costo. Ciò che rimane in gran parte inespresso dietro i discorsi sulla "lotta alla migrazione illegale" è che né gli Stati europei, né quelli africani hanno un interesse genuino a fermare la migrazione, in quanto le economie sia dei Paesi di partenza, di transito che di arrivo sono diventate sempre più dipendenti, rispettivamente, dal lavoro migrante e dalle rimesse. Inoltre, anche se alcuni Stati Membri UE hanno firmato accordi di riammissione con un crescente numero di paesi africani, le espulsioni sono notoriamente difficili e costose da applicarsi. I governi dei paesi sub-sahariani, in particolare, sono spesso riluttanti a riammettere un gran numero di immigrati irregolari. Molti migranti distruggono i propri documenti per evitare l'espulsione, mentre i richiedenti asilo, minori, e le donne incinte hanno diritto ad ottenere il permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. A causa di queste difficoltà pratiche, molti migranti arrestati sono presto rimessi in libertà con un ordine di espulsione formale. Questo ordine è generalmente ignorato, dopo di che gli irregolari tendono a spostarsi in altri paesi dell'UE o a finire nell‘enorme bacino dell‘economia sommersa, in Spagna e Italia, dove trovano posti di lavoro nell‘agricoltura, nelle costruzioni e nei servizi. La maggior parte dei migranti è arrivata clandestinamente oppure si è trattenuta irregolarmente, anche per l‘effetto della durezza progressiva delle normative. Le politiche di questo tipo sembrano inevitabilmente intrappolate in un circolo vizioso, secondo il quale politiche più restrittive portano ad un aumento dell‘immigrazione illegale, la quale a sua volta richiama misure ancora più draconiane. Ma è la discrepanza tra politiche migratorie restrittive e la reale domanda di manodopera a basso costo di migranti a spiegare perché il pugno di ferro sull‘immigrazione abbia fallito il proposito di fermare i flussi irregolari in arrivo. Leggi dure hanno invece aumentato i rischi e i costi della migrazione, con maggior sfruttamento e maggiore sofferenza dei migranti coinvolti. C‘è un modo per uscire da questo vicolo cieco: e cioè quello di rafforzare le politiche di immigrazione legale, contrapponendole, come alternativa praticabile, alla clandestinità. Finché i canali di immigrazione legale non saranno resi funzionali a soddisfare la domanda reale di lavoro regolare, e finché continueranno ad esistere e prosperare le grandi economie sommerse, nel Nord Africa come in Europa, è probabile che una parte sostanziale di queste migrazioni rimarranno irregolari. 291 Ma l‘immigrazione non è soltanto un problema di inserimento nel mercato del lavoro; è un progetto di vita, una prospettiva per il futuro, che va curata, seguita, accompagnata nel suo percorso perché si integri e diventi una risorsa. E‘ quindi evidente che se le società europee non riscopriranno i valori della solidarietà, e dei diritti, e non conferiranno loro un‘efficacia normativa, non si potrà mai avere una reale integrazione di lavoratori immigrati che parlano un‘altra lingua, hanno un diverso colore della pelle ed appartengono ad un‘altra religione. In Italia, in particolare, operano persone e gruppi che svolgono un‘azione importante a sostegno degli immigrati, tanto più preziosa in quanto spesso è l‘unica effettivamente posta in essere, sulla base di una motivazione (religiosa, politica o morale) centrata sulla solidarietà. Ma per evitare che l‘impegno morale si esaurisca in uno slancio solidaristico limitato ed immediato, bisogna impegnarsi nella definizione di una ―nuova‖ etica che risponda, sia in termini di valori suggeriti che di comportamenti proposti, al dato nuovo di una società planetaria caratterizzata dalle interdipendenze. Ciò comporta un grande investimento in termini intellettuali, morali, culturali. Si deve far sì che la cultura di un mondo interdipendente si approfondisca e diventi un patrimonio condiviso, una sorta di ―buon senso comune‖ che definisca e qualifichi il rapporto cognitivo che i singoli ed i gruppi stabiliscono con la propria esperienza e la propria realtà. Questa è l‘esigenza attuale che il sistema formativo è chiamato a soddisfare: mettere i cittadini in condizione di vivere in coerenza con i tempi e con una realtà di cui non è possibile prendere atto senza una formazione ed una cultura che lo consentano. E‘ anche evidente che tale formazione deve riguardare, in primo luogo, gli autoctoni, perché è da loro, in quanto datori di lavoro, padroni di casa, vicini, operatori dei servizi sociali, che gli immigrati apprendono valori e comportamenti. E senza un‘adeguata formazione, si rischia che questa forma di ―educazione‖ naturale operi in senso diametralmente opposto agli obiettivi che una società multiculturale dovrebbe perseguire. 292 IV CAP. – I DIRITTI UMANI IN PROSPETTIVA FUTURA: DIRITTI SENZA UN DIRITTO? 1. L‘ONU finirà come la Società per le Nazioni? Differenze e spunti critici Come è già stato sottolineato in precedenza, la Carta istitutiva delle Nazioni Unite conferiva alle due superpotenze all‘epoca esistenti un ―estesissimo potere di regolazione coercitiva dei rapporti internazionali, senza prevedere alcuno strumento per la risoluzione di eventuali conflitti che potessero insorgere tra di loro‖.819 In realtà, però, nel primo ventennio dalla nascita dell‘Onu i contrasti tra i due blocchi sono stati frequenti ed entrambi hanno fatto sovente ricorso al diritto all‘autodifesa individuale e collettiva sancito dall‘art. 51, paralizzando, di fatto, quella governance internazionale che era, invece, alla base dello spirito delle Nazioni Unite: ―è accaduto in più occasioni che le due superpotenze abbiano violato i principi sanciti con la Carta senza mai essere sanzionabili, insieme ai loro alleati, grazie all‟uso sistematico del diritto di veto; che abbiano intrapreso conflitti lunghi e sanguinosi; che siano intervenuti militarmente e abbiano sostenuto in molti modi una delle parti in conflitto, senza subire quasi alcuna conseguenza. Le alleanze militari dei rispettivi blocchi, la Nato e il Patto di Varsavia, agivano sul piano internazionale esautorando l‟Onu e paralizzando di fatto l‟attività e i poteri del Consiglio di Sicurezza. L‟Onu rimaneva così impotente fra i due blocchi; essa non poteva governare la <guerra fredda>‖.820 Dal momento che qualsiasi crisi tendeva, quindi, ad essere considerata parte della perenne competizione tra i due blocchi, le Nazioni Unite sono risultate del tutto incapaci di mediare e di trovare un accordo che soddisfacesse le esigenze di entrambi. Si è andata, pertanto, via via affermando, nella regolamentazione dei conflitti e della pace, una logica perversa, non più ispirata al raggiungimento di un accordo, ma piuttosto ad un equilibrio tra armamenti, soprattutto nucleari. Sempre più spesso, quindi, l‘Onu, i cui organi erano impossibilitati a prendere decisioni di rilievo, è stata paragonata alla Società delle Nazioni e si è iniziata a far strada l‘idea che dovesse seguire lo stesso destino. Difatti, anche se rispetto alla prima ―versione‖ la nuova Organizzazione ha sicuramente rappresentato un ―salto di qualità‖, con il riconoscimento dei diritti umani821, è altrettanto vero che alle dichiarazioni di 819 820 821 D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 2002, p. 29. L. Tundo Ferente, Il cosmopolitismo: un‟idea morale per la politica, in Rivista di Studi Utopici, n. 4 novembre 2007, Carra Editrice, Lecce, p. 49. Ivi, p. 48: ―Come spiega Francesco Viola, i diritti umani <<nascono come tali solo quando cominciano ad essere riconosciuti in senso giuridico>>‖ 293 principio, seppur radicali nella formulazione, deve seguire un‘applicazione concreta, una progressiva specificazione nel contesto politico locale. Altrimenti, si corre il rischio che rimangano lettera morta. A partire dal 1960, a seguito del progressivo sfaldamento degli imperi coloniali con la formazione di nuovi Stati indipendenti, nuove realtà entrano a far parte dell‘Assemblea Generale. Questo, se da un lato determina un ampliamento della rappresentatività internazionale dell‘organismo consultivo, dall‘altro introduce nuove turbolenze e squilibri tra i due blocchi. E, come abbiamo già evidenziato, l‘Onu non ha avuto alcuna possibilità di svolgere un ruolo risolutivo in caso di conflitto e si è dovuta accontentare di un profilo basso, l‘unico consentito dalla due superpotenze, nonostante i momenti critici siano stati numerosi, specie negli anni ‘60 e ‗70: basti pensare alla crisi di Cuba ed alle continue tensioni che hanno infiammato il Medio Oriente, ―Ma è forse a partire da questa fase che diventa possibile consolidare l‟immagine di imparzialità, guadagnata con l‟ampliamento della platea degli aderenti, e di neutralità. Diventa possibile organizzare missioni di pace che non prevedevano l‟uso della forza, o inviare contingenti militari con funzioni non eclatanti, parziali, passive, di semplice <osservatorio>, o per seguire i processi di applicazione di una tregua o di un accordo stabilito altrove‖.822 Di fatto, le missioni che videro impegnata l‘Onu in questi anni le hanno permesso di svolgere un ruolo fondamentale sotto il profilo della garanzia della stabilità degli accordi stipulati tra le parti, riconoscendole, infine, quella funzione mediatrice che ne caratterizza la natura. In seguito, l‘implosione del sistema sovietico, la fine della guerra fredda e della contrapposizione tra i due blocchi, ha innescato una brusca inversione di rotta, con una tendenza a rallentare la corsa agli armamenti e le spese militari. Anche se questa nuova situazione ha, in realtà, comportato l‘esplosione di nuovi conflitti a livello regionale, per motivi prevalentemente etnici e religiosi, apparentemente frustrando ogni speranza di ―pace universale‖, nello specifico ―il ruolo e le attività dell‟Onu sono notevolmente aumentati, si è diversificato il tipo di intervento e gli obiettivi; sono caduti, anzi sono stati capovolti, presupposti come la non ingerenza, e il consenso della parti; l‟idea di <imposizione della pace> si è fatta strada fino a scalzare quella di <mantenimento della pace>. Nel 1991 […] gli Stati Uniti, insieme ad altri ventisette paesi, lanciano l‟operazione <<Desert Storm>>, che dispiegando armamenti tecnologicamente molto avanzati si conclude in quarantadue giorni, respinge l‟invasione [irachena] del Kuwait e si ferma alle porte di Bagdad. La rapidità, l‟efficacia, il basso numero di perdite umane della Guerra del Golfo migliorano 822 Ivi, p. 50. 294 l‟immagine e la reputazione dell‟Onu‖. 823 Certo, non tutti gli interventi hanno conseguito risultati positivi: nella ex Jugoslavia il conflitto è proseguito, nonostante i caschi blu, per altri quattro anni, durante i quali persino gli operatori umanitari sono rimasti vittime di agguati. Il termine delle ostilità sarà, infine, decretato dagli aerei della Nato e questo contribuirà a sottolineare, una volta di più, la debolezza e la scarsa efficacia dell‘Organizzazione. Dopo due nuovi fallimenti, già evidenziati, uno in Somalia e l‘altro in Ruanda, l‘attacco unilaterale portato dagli Stati Uniti al regime dittatoriale di Saddam Hussein nel 2003, con la conseguente sanguinosa guerra civile tuttora in corso, ha gravemente minato la fiducia e la credibilità dell‘Onu, tanto che ―Nel frattempo sono emersi altri problemi, interni all‟Organizzazione: anzitutto corruzione e costi molto alti di gestione, che sommati ai deludenti risultati complessivi sono venuti ad appannarne l‟immagine e hanno sollevato un coro che ne invoca una riforma incisiva. Un coro che si leva da un pubblico attento in ogni paese e tende a trovare momenti unificanti, anche avvalendosi dell‟avanzata tecnologia delle comunicazioni. […] Il dibattito che ne è sorto […] ha rilanciato l‟interesse per la pace attraverso le intese e gli accordi in sede Onu, piuttosto che attraverso le buone intenzioni dei potenti, troppo spesso commiste coi loro interessi‖.824 Il dibattito sulla riforma dell‘Organizzazione delle Nazioni Unite, che è in corso da decenni all‘interno dell‘organizzazione stessa, pertanto, assume oggi un significato diverso alla luce del nuovo aspetto del mondo, che fin qui abbiamo cercato di delineare. Si tratta di un dibattito che, quindi, non si limita più alla questione della gestione della sicurezza, ma si mescola con la necessità, più generale, di una riorganizzazione della comunità internazionale dopo la fine della guerra fredda e gli attentati dell‘11 settembre. Oltre ai mutamenti già sottolineati (il sistema internazionale ormai unipolare, la progressiva erosione sia del divieto d‘uso della forza che della sovranità popolare, l‘incidenza da un lato dei gruppi terroristici e dall‘altro delle organizzazioni non governative), non si può non tenere in debito conto la circostanza che il numero degli Stati membri è aumentato dagli originari 51 agli attuali 192 e che, allo stesso tempo, numerose competenze delle Nazioni Unite coincidono, ormai, con quelle di altri organismi internazionali sorti a livello locale e che si occupano a vario titolo di problematiche relative ai diritti umani, allo sviluppo, alla sicurezza ed altro. A tali e tanti cambiamenti corrisponde un‘organizzazione che, invece, è rimasta praticamente immutata dalla fine della Seconda guerra mondiale, a parte poche, modeste 823 824 Ivi, p. 51. Ibidem. 295 modifiche alla composizione quantitativa di alcuni organi. Finora, tutti i tentativi di attuare riforme più incisive sono falliti, da un lato perché le procedure di emendamento e revisione della Carta delle Nazioni Unite sono piuttosto complesse, dall‘altro perché gli interessi in gioco sono davvero molteplici e contrastanti ed è quindi particolarmente difficile trovare una soluzione di compromesso. Quanto al primo aspetto del problema, la Carta prevede due distinte procedure di modifica, una per gli emendamenti825 e una per la revisione826; sulla base della prassi consolidata dall‘Organizzazione, l‘emendamento è una modifica minore, che riguarda una sola norma o comunque un numero esiguo di norme, mentre la revisione rappresenta una modifica più sostanziale che può anche incidere sui principi e sull‘intera struttura delle Nazioni Unite.827 L'emendamento deve essere adottato dall'Assemblea Generale a maggioranza relativa e poi ratificato almeno dai due terzi degli Stati membri, ma è comunque fatta salva la possibilità, per i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, di non ratificare le modifiche ritenute non accettabili. La procedura prevista dall'art.109 è, invece, più complessa: è necessaria, in primo luogo, una Conferenza generale di revisione, la cui convocazione può essere richiesta dall'Assemblea Generale, a maggioranza relativa, e da almeno nove membri del Consiglio di Sicurezza. Nel corso della Conferenza, ogni modifica deve essere approvata dalla maggioranza relativa dei partecipanti, tenendo presente che ogni Stato membro dispone di un voto. Infine, perché entri in vigore la modifica deve essere ratificata da almeno due terzi dei membri delle Nazioni Unite, compresi i membri permanenti. In entrambi i casi, quindi, questi ultimi possono esercitare il proprio potere di veto. C'è però una differenza sostanziale tra le due procedure: gli emendamenti entrano in vigore 825 826 827 Art.108: ―Gli emendamenti al presente Statuto entreranno in vigore per tutti i Membri delle Nazioni Unite quando saranno stati adottati dalla maggioranza dei due terzi dei Membri dell‘Assemblea Generale e ratificati, in conformità alle rispettive norme costituzionali, da due terzi dei Membri delle Nazioni Unite, ivi compresi tutti i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza‖. Art. 109: ―1. Una Conferenza Generale dei Membri delle Nazioni Unite per la revisione del presente Statuto potrà essere tenuta alla data e nel luogo da stabilirsi con un voto a maggioranza dei due terzi dei Membri dell‘Assemblea Generale e con un voto di nove Membri qualsiasi del Consiglio di Sicurezza. Ogni Membro delle Nazioni Unite disporrà di un voto alla Conferenza. 2. Qualunque modificazione del presente Statuto proposta alla Conferenza dalla maggioranza dei due terzi entrerà in vigore quando sarà stata ratificata, in conformità alle rispettive norme costituzionali, dai due terzi dei Membri delle Nazioni Unite, ivi compresi tutti i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. 3. Se tale Conferenza non sarà tenuta prima della decima sessione annuale dell‘Assemblea Generale susseguente all‘entrata in vigore del presente Statuto, la proposta di convocare tale Conferenza dovrà essere iscritta all‘ordine del giorno di quella sessione dell‘Assemblea Generale, e la Conferenza sarà tenuta se così sarà stato deciso con un voto a maggioranza dei due terzi dei Membri dell‘Assemblea Generale e con un voto di sette Membri qualsiasi del Consiglio di Sicurezza‖. A. de Guttry e F. Pagani, Le Nazioni Unite, cit., p. 69. 296 nei confronti di tutti gli Stati, le revisioni valgono solo per gli Stati che le hanno ratificate.828 Le procedure di modifica della Carta sono, comunque, abbastanza complesse, in quanto si tratta di una convenzione di tipo ―rigido‖; basti pensare che, in tutta la storia dell'Organizzazione, non è mai stata portata a termine una sua revisione. Sono stati, invece, apportati alcuni emendamenti, che hanno riguardato l'allargamento del Consiglio di Sicurezza e del Consiglio Economico Sociale, nel tentativo di adeguare la loro composizione alla nuova situazione internazionale, conseguente soprattutto la decolonizzazione. Inoltre, è stato già accennato come nel corso degli anni siano stati adottati alcuni accorgimenti per cercare di adeguare uno strumento ormai obsoleto alle nuove esigenze della comunità internazionale: la modifica dei regolamenti interni, l'interpretazione estensiva delle norme statutarie, la formazione di norme internazionali di tipo consuetudinario che hanno permesso di modificare gli obblighi convenzionali. Ciò nonostante, non sono mai stati oggetto di modifica i meccanismi decisionali veri e propri dell'Organizzazione e, a seguito degli attentati dell'11 settembre, sono state avanzate numerose proposte di costituire un nuovo organismo, in grado di offrire maggiori garanzie alla pace ed alla sicurezza internazionale, in aggiunta o in sostituzione delle Nazioni Unite. Ovviamente, un organismo ulteriore dovrebbe, comunque, agire in modo coordinato con l'Onu, in materia di sicurezza, perché la sua azione non potrebbe mai legittimamente contrastare con il sistema di sicurezza collettiva creato dalla Carta.829 Quanto, poi, alla seconda ipotesi, appare davvero poco credibile che i cinque membri permanenti possano avvallare la creazione di una organizzazione diversa nella quale ben difficilmente essi potrebbero godere del privilegio di un diritto di veto.830 Ed è proprio il diritto di veto che rappresenta il nodo dell'intero dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite: se infatti già nei primi anni di vita dell'Organizzazione diversi Paesi contrari al veto hanno invocato con forza una Conferenza di revisione che lo eliminasse, oggi un sistema che si basa ancora sugli equilibri del dopoguerra appare del tutto anacronistico. Gli obiettivi che la riforma del sistema delle Nazioni Unite persegue sono molteplici, ma comunque volti ad un suo riammodernamento globale: un reale miglioramento dell‘efficacia, l'aumento della rappresentatività, la velocizzazione e la democratizzazione delle decisioni, la modernizzazione dei principi e delle procedure secondo la nuova situazione internazionale. 828 829 830 Ivi, p. 70. Sulla base di quanto previsto dall'art. 103, gli obblighi derivanti dalla Carta prevalgono su qualsiasi altro obbligo assunto in conformità ad altri trattati stipulati dagli Stati membri. A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 77 – 78. 297 In concreto, quindi, dovrebbero essere modificate la composizione del Consiglio di sicurezza, il suo meccanismo decisionale, gli strumenti a sua disposizione ed i principi sui quali si fonda l'intero sistema di sicurezza collettiva. Per ciò che riguarda il Consiglio di Sicurezza, è evidente che la sua scarsa rappresentatività dipenda, da un lato, dalla sua limitata composizione numerica rispetto alla quantità dei Paesi attualmente membri dell'Onu e, dall'altro, dal diverso ―peso‖ politico dei suoi membri permanenti. Nel corso degli anni sono state avanzate numerose proposte di modifica, le principali delle quali hanno riguardato: l'assegnazione di un seggio permanente a Germania, Giappone, ed a tre Paesi in via di sviluppo provenienti ciascuno da un continente (Asia, Africa ed America Latina); la creazione della categoria dei ―membri semipermanenti‖, che consisterebbe nell'alternarsi, in otto/dieci seggi, degli Stati maggiormente influenti a livello regionale, e che già ora vengono ammessi più spesso di altri tra i membri non permanenti; l'allargamento dei membri non permanenti; la previsione di un seggio permanente ad organismi regionali; l'introduzione di criteri più incisivi per l'elezione a membro non permanente. Due di queste proposte, quella relativa all'aumento dei membri permanenti e quella concernente la creazione della categoria dei membri semipermanenti, hanno sollevato la questione dell'eventuale estensione del diritto di veto. Un diritto, questo, che nonostante di recente sia stato utilizzato ben di rado, non per questo ha perso la sua importanza, anzi. Difatti, sempre più spesso i cinque Paesi che ne usufruiscono minacciano di usarlo per influenzare le decisioni del Consiglio di Sicurezza, determinando così il diffondersi di una pratica di ricatto che, di fatto, limita, condiziona e, a volte, paralizza la sua attività.831 Sotto l'aspetto dell'equità, appare evidente che il diritto di veto viola il principio dell'uguale sovranità degli Stati e proprio per tale motivo è stato contestato, fin dall'inizio, da molti Paesi membri. Il movimento dei non allineati, poi, ha addirittura reso la sua riforma l'elemento centrale della propria campagna per il processo di democratizzazione dell'Onu. Alcuni Paesi, invece, tra i quali, ovviamente, i membri permanenti,continuano a sostenere la necessità di una diversificazione di poteri e di responsabilità, in una questione delicata come quella della sicurezza collettiva, a favore di Paesi che siano riconosciuti, o comunque percepiti, come quelli maggiormente rappresentativi degli interessi della comunità internazionale.832 Tra le proposte volte a democratizzare le decisioni del Consiglio di Sicurezza troviamo, quindi, sia l'abolizione del diritto di veto che una sua limitazione. L'ipotesi più 831 832 Ivi, p. 130. Ivi, pp. 131. 298 radicale, fatta propria da molti Paesi in via di sviluppo, prevede, nella sua affermazione più realistica, un periodo transitorio o, in alternativa, la fissazione di una data a decorrere dalla quale non sia più possibile esercitarlo.833 Le proposte che ne auspicano una limitazione vanno, invece, dall‘autolimitazione volontaria, da parte dei membri permanenti, all'emanazione di un emendamento formale che ne preveda l'utilizzo esclusivamente nell'ambito dell'adozione di misure coercitive. In tal modo, il veto sarebbe esercitato soltanto quando è in gioco l'interesse vitale di uno Stato, secondo una procedura già in uso nella Comunità Europea.834 Un'altra proposta, avanzata dalla Colombia, prevede la necessità di un veto multiplo, ossia che ci siano almeno 2 Paesi ad esercitare il veto affinché questo abbia efficacia.835 Strettamente connessa a questa, un'altra proposta consiste nella possibilità, da parte dell'Assemblea Generale, con una maggioranza speciale, di annullare il veto, proprio come previsto da alcuni ordinamenti statali che assegnano, in casi particolari, al potere legislativo la possibilità di annullare le decisioni dell'esecutivo. Le richieste di limitazione del diritto di veto, comunque, non attengono soltanto ai Paesi in via di sviluppo, ma anche a molti Paesi occidentali che non fanno parte dei membri permanenti, come il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda e l'Italia stessa. Il nostro Paese, in particolare, si è spesso espresso per una limitazione volontaria del veto che progressivamente si tradurrebbe in una sua caduta in disuso.836 Quanto alla possibilità di estendere il diritto di veto ai futuri membri permanenti, conseguente ad un allargamento del Consiglio, l'attuale tendenza è quella di separare i due aspetti della riforma, in quanto aumentare il numero dei Paesi con diritto di veto potrebbe significare rendere estremamente complicata l'adozione di una qualsiasi decisione da parte del Consiglio stesso, soprattutto in caso di crisi regionali nelle quali i nuovi membri potrebbero avere forti interessi in gioco.837 D‘altro canto, prevedere dei membri permanenti senza diritto di veto accanto agli attuali cinque, che invece ne dispongono, significherebbe attribuire ai nuovi membri un‘importanza decisamente minore. Rispetto, invece, all‘aggiornamento degli strumenti a disposizione del Consiglio di sicurezza, abbiamo già rilevato, nel paragrafo 4, come esso abbia interpretato in modo estensivo i propri poteri per superare le difficoltà connesse alla concreta impossibilità di 833 834 835 836 837 Ad esempio, il Cile, nel 1998, ha proposto la data del 2030 (cfr: www.filosofiadeldiritto.jus.unibs.it/filosofia del diritto...Didattico //...diritto.../ 1.%20J.%20Bettinelli,%20Riforma%20Consiglio%20di%20Sicurezza%20On A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 131 – 132. Cfr. www.filosofiadeldiritto.jus.unibs.it/...filosofiadeldiritto..Didattico// ...diritto.../ 1.%20J.%20 Bettinelli, %20 Riforma%20Consiglio%20di%20Sicurezza%20O A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., p.132. Ibidem. 299 disporre delle forze armate dei Paesi membri nelle azioni volte al mantenimento della pace e della sicurezza collettiva838. In questo caso, quindi, la prassi consolidata dal Consiglio ha permesso di oltrepassare la necessità di una riforma formale della Carta. Andrebbero, comunque, migliorati alcuni aspetti del sistema, con particolare riferimento alle procedure per le sanzioni e alle modalità di funzionamento delle operazioni di peacekeeping. Tra le iniziative volte ad ottimizzare il regime delle sanzioni, è stato proposto di creare la figura di un ―coordinatore‖, di standardizzare le procedure da parte dei Comitati creati ad hoc dal Consiglio per ciascun regime sanzionatorio, nonché di istituire un registro obbligatorio per i commercianti e gli intermediari di armi ed altro materiale militare.839 Anche in questo caso, però, si potrebbero introdurre modifiche senza intaccare la Carta istitutiva dell‘Onu. Quanto alle operazioni di peacekeeping, è stato già sottolineato come si tratti di interventi non previsti dallo Statuto dell‘Onu, ma che nel corso degli anni sono state utilizzate sempre più di frequente; infatti, nei suoi oltre sessant'anni di vita, il settore ―peacekeeping‖ delle Nazioni Unite si è significativamente trasformato in uno strumento di risposta alle crisi internazionali. Gli operatori Onu hanno dovuto espletare la propria attività in tutto il mondo per prevenire l'insorgere di conflitti, per gestire e contenere la violenza, e per supportare adeguatamente le istituzioni nazionali nella costruzione e nella protezione dei processi di pace conseguenti ai conflitti. Il dibattito sulle operazioni di pace, pertanto, non riguarda una loro eventuale standardizzazione, che risulterebbe impossibile e comunque ne limiterebbe le possibilità di adeguamento a situazioni in continua evoluzione, ma un loro miglioramento sotto il profilo dell'efficacia. 840 Nel 2000 L'Onu ha, quindi, dato avvio ad un'ampia analisi dell'esperienza maturata in tale ambito, che ha comportato l'introduzione di alcune modifiche volte a rafforzare la capacità di gestire e sostenere le operazioni sul campo. In particolare, si è proceduto ad un notevole incremento dei ―caschi blu‖ impiegati nelle località più remote e, spesso, anche nelle situazioni meno stabili. Il mantenimento della pace implica, ormai, dover affrontare nuove sfide, legate da un lato alla gestione di missioni sempre più costose e più complesse, dall'altro all'attuazione di strategie transitorie nelle operazioni in cui si è raggiunta la stabilità, dall'altro ancora alla necessità di dotare le comunità di strumenti quanto più possibile idonei a garantire pace e 838 839 840 Così come previsto dagli artt. 43 e successivi della Carta. A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., p. 135. Cfr. ―La riforma delle operazioni di peacekeeping‖ su http://www.un.org/en/peacekeeping/operations/reform.shtml 300 stabilità nel lungo periodo. In tale ottica, nel marzo 2000 il Segretario Generale ha incaricato la Commissione Peacekeeping di valutare le criticità del sistema all'epoca esistente e di formulare proposte di riforma precise e soprattutto realistiche. I risultati dei lavori della Commissione sono stati raccolti in una relazione, nota come ―Rapporto Brahimi‖, dal nome del presidente della Commissione stessa, Lakhden Brahimi, che ha elencato le priorità della riforma: un rinnovato impegno politico da parte degli Stati membri, una significativa modifica istituzionale, un altrettanto significativo incremento del supporto finanziario.841 La Commissione ha, difatti, evidenziato come, per essere efficaci, le operazioni di peacekeeping debbano essere adeguatamente equipaggiate, dotate di risorse umane e finanziarie valide, e soprattutto operare sulla base di un mandato chiaro, credibile ed affidabile. Il Rapporto ha suscitato reazioni diverse, soprattutto da parte dei Paesi in via di sviluppo, preoccupati che un'estensione dei poteri dell'Onu fosse il presupposto per un'ulteriore erosione della loro sovranità. Ciò nonostante, numerose modifiche consigliate dal Rapporto sono state adottate e l'Onu ha continuato a muoversi lungo tale direttiva, attraverso l'elaborazione di ulteriori documenti, i più recenti dei quali, il cd. ―Nuovo Orizzonte‖ ed il primo Rapporto allo stesso correlato, esaminano attentamente le politiche e le strategie con le quali un operatore di pace dell'Onu si deve confrontare oggi e nel prossimo futuro. L'obiettivo dell'iniziativa è incentivare la creazione di un maggior consenso sulla futura gestione delle operazioni di peacekeeping di interesse delle Nazioni Unite, rafforzando i legami tra i diversi partners del sistema nell'ottica del raggiungimento di alcuni obiettivi comuni a breve, medio e lungo termine. Oggi più che mai, difatti, le sfide al mantenimento della pace sono talmente ardue e complesse da richiedere una strategia condivisa da tutti gli attori della comunità internazionale che operano in tale ambito. ―Nuovo Orizzonte‖, quindi, rafforza il dialogo tra partners per creare un'Agenda politica di peacekeeping che rifletta le prospettive e gli interessi di tutti gli attori in campo. Sulla base dei pregressi tentativi di riforma del sistema, il documento evidenzia la necessità, per ottenere il successo, di migliorare gli strumenti di peacekeeping e di identificare le problematiche irrisolte o insorte di recente che richiedono l'attenzione dei partners. Il documento indica quattro ambiti prioritari di riforma842, strettamente collegati l‘uno 841 842 Cfr. ―Report of the Panel on United Nations Peace Operations‖ su http://www.un.org/peace/reports/peace_operations Cfr: http://www.un.org/en/peacekeeping/documents/newhorizon.pdf 301 con l‘altro: 1) sviluppo delle politiche. Sotto questo aspetto, il rapporto chiarisce i ruoli critici e le responsabilità degli operatori Onu sul campo, specie per quanto attiene l'attività di assistenza in certe zone, ivi compresa la protezione dei civili, la concreta e vigorosa risposta alle minacce, la costruzione del processo di pace. Quest‘ultimo ambito ha difatti sovente fatto registrare una scarsa capacità delle missioni Onu di rafforzare le istituzioni politiche e sociali, per la prevenzione dei conflitti o per la ricostruzione a seguito di un conflitto. L‘attività delle Nazioni Unite, che spazia dall‘assistenza alla democratizzazione, al rafforzamento delle istituzioni politiche, allo sviluppo delle capacità di governante, è stata finora sporadica, scoordinata e carente di risorse; 2) sviluppo della capacità. Viene qui evidenziata la necessità di colmare i vuoti di capacità delle missioni di peacekeeping in modo lungimirante e sostenibile, nonché di assicurare che gli operatori siano preparati, equipaggiati ed in grado di garantire prestazioni all'altezza di una ragionevole aspettativa. Questo, ovviamente, da un lato dipende dall‘effettiva volontà dei Paesi membri di fornire truppe ed equipaggiamenti e, dall‘altro, dalla disponibilità di risorse finanziarie utili non soltanto alla gestione delle operazioni sul campo, ma anche alla formazione e all‘aggiornamento degli operatori; 3) strategia di supporto globale sul campo. Occorre ottimizzare il servizio offerto attraverso l'adozione di accordi locali che siano davvero efficaci e forniscano un effettivo supporto, in modo tale da migliorare l'affidabilità della missione e l'amministrazione delle risorse; 4) organizzazione e controllo. Occorre, infine, incentivare le consultazioni tra i vari attori del sistema di peacekeeping per garantire un effettivo miglioramento dell'organizzazione, gestione, coordinamento e controllo delle missioni di pace. L'ambito del coordinamento, in particolare, lascia ancora piuttosto a desiderare, in quanto continuano a registrarsi duplicazioni di competenze tra diversi uffici dell'Onu, malgrado la riforma che, a seguito del Rapporto Brahimi, ha riguardato due Dipartimenti del Segretariato Generale, quello per le operazioni di peacekeeping e quello per gli affari politici. Un altro aspetto particolarmente critico, sempre relativo al coordinamento e controllo, riguarda l'effettivo comportamento sul campo degli operatori, che sovente fa purtroppo registrare casi di abuso, sfruttamento e corruzione che non possono essere tollerati.843 Un‘ulteriore, auspicabile modifica degli strumenti a disposizione del Consiglio di Sicurezza riguarda le sue relazioni con le organizzazioni regionali che, attualmente, occupano un posto di rilievo nel sistema di sicurezza collettiva. Anche in questo caso, come 843 A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., p. 137. 302 più in generale nell‘intero settore del peacekeeping, non è possibile effettuare una standardizzazione in base alla quale stabilire ex ante quali operazioni possano essere condotte dalle Nazioni Unite e quali dalle organizzazioni regionali. Tuttavia, l‘esperienza sul campo ha, di fatto, evidenziato una tendenza di queste ultime a rivestire ruoli di enforcement, mentre l‘Onu continua a gestire le tradizionali attività di peacekeeping e di supporto alla ricostruzione civile e materiale. Nonostante ci siano alcune problematicità, legate all‘efficacia del controllo che il Consiglio di Sicurezza può esercitare sulle operazioni gestite dalle organizzazioni regionali, non sarebbe necessaria una revisione della Carta per apportare queste modifiche, anche grazie all‘interpretazione estensiva che il Consiglio stesso ha utilizzato in proposito. Ne è un esempio la cooperazione esistente con l‘Unione Europea, che nel 2003 si è dichiarata pronta a gestire operazioni di pace, nella formazione congiunta del personale e nella conduzione di operazioni sul campo844. Numerose proposte hanno, inoltre, riguardato un ulteriore allargamento dei compiti del Consiglio per permettergli di fronteggiare le nuove minacce internazionali, quali il terrorismo e la proliferazione di armi di distruzione di massa. Di fatto, però, il Consiglio ha già adottato, nel 2001, nell‘ambito della lotta al terrorismo, alcune misure particolarmente innovative con le quali, attraverso un processo senza precedenti, ha imposto agli Stati membri una serie di obblighi in materia di legislazione penale, finanziaria e di polizia, finalizzati a contrastare i finanziamenti a favore delle organizzazioni terroristiche. Inoltre, per assicurare il rispetto della relativa risoluzione (n. 1373/2001), ha istituito un apposito Comitato antiterrorismo, al quale tutti gli Stati membri devono far pervenire rapporti periodici sulle iniziative adottate.845 Tuttavia, non c‘è accordo su tale ipotesi di allargamento; anzi, proprio in relazione alle misure adottate per il contrasto al terrorismo, alcuni hanno rilevato problemi di compatibilità con i diritti umani, in quanto si tratterebbe di norme repressive sotto il profilo penale adottate al di fuori dei tradizionali meccanismi di controllo e garanzia nazionali.846 Più che consentire al Consiglio l‘esercizio di ulteriori poteri, quindi, sorgerebbe la necessità di limitare quelli di cui già dispone. Per quanto riguarda, infine, la modifica dei principi fondamentali del sistema di sicurezza collettiva, ci si riferisce, ovviamente, alle norme che vietano l‘uso della forza anche nei casi di legittima difesa. Come è già stato delineato nei precedenti paragrafi 4 e 6, è stata proposta una riformulazione dell‘art. 51 della Carta delle Nazioni Unite che preveda la possibilità di utilizzo della forza anche nei casi di legittima 844 845 846 Ivi, pp. 138 – 139. Ivi, p. 141. Ivi, p. 142. 303 difesa preventiva. Tali proposte sono state, finora, sempre respinte.847 E‘, comunque, evidente che, a prescindere dagli obiettivi che la riforma si prefigge di raggiungere, senza il consenso dei Paesi membri ben difficilmente si potrà arrivare ad una ipotesi di modifica condivisa. Gli interessi in gioco sono diversi e variano a seconda della posizione che ogni Paese riveste all‘interno dell‘Organizzazione; in sintesi, dobbiamo distinguere tra membri permanenti, altri grandi Paesi industrializzati, Paesi in via di sviluppo, Paesi non allineati848. Gli interessi dei membri permanenti ruotano, ovviamente, intorno alla necessità di conservare la propria posizione di privilegio, ma con alcune sfumature: più conservatori Russia e Cina, più disponibili al cambiamento Francia e Regno Unito, attualmente meno interessati gli americani, che spingono per una maggior libertà nell‘uso della forza o, in alternativa, per la sostituzione dell‘Onu con alleanze ad hoc o altre istituzioni che non siano in grado di contrastare la sovranità americana. Tra i grandi Paesi industrializzati, il Giappone e la Germania, da tempo indicati come i naturali candidati all‘allargamento, rivendicano l‘uguaglianza tra tutti i membri permanenti, ma la loro candidatura è osteggiata nel primo caso dalla Cina, nel secondo dagli altri due Paesi europei già presenti nel gruppo dei cinque nonché dall‘Italia. Il nostro Paese, unitamente al Canada, all‘Australia ed alla Spagna, ha avanzato la proposta di seggi permanenti a rotazione, rinnovabili ogni 4 anni. Nonostante il notevole peso politico ed economico ormai raggiunto dai grandi Paesi in via di sviluppo, primi fra tutti il Brasile e l‘India, le numerose rivalità regionali, presenti in entrambe le aree di pertinenza, limitano notevolmente le loro possibilità di ottenere un seggio permanente, rispetto al quale hanno anche manifestato la disponibilità a porre in essere forme di autolimitazione del diritto di veto. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, comunque, rientra nel cd. ―movimento dei non allineati‖, le cui richieste fondamentali riguardano un maggior ruolo, specie di controllo sulle attività del Consiglio, dell‘Assemblea Generale, all‘interno della quale essi godono di una larga maggioranza, ed un‘equa ripartizione di seggi sulla base della distribuzione geografica, con l‘allargamento del Consiglio di Sicurezza di almeno 11 membri. Qualora non fosse possibile procedere rapidamente ad una riforma in tal senso, essi rivendicano perlomeno un allargamento dei membri non permanenti.849 In conclusione, molti sono i fattori che, fino ad oggi, hanno reso impossibile apportare modifiche sostanziali all‘Organizzazione delle Nazioni Unite. Tuttavia, numerosi segnali 847 848 849 Ivi, p. 143. Ivi, p. 144. Ivi, pp. 144 – 150. 304 comparsi più di recente sembrerebbero indicare un buon esito della tanto agognata riforma. Alcuni dei fattori a cui ci si riferisce sono di natura squisitamente geopolitica, altri sono conseguenti al protrarsi del dibattito sulla riforma stessa. Sotto il primo profilo, la posizione egemonica assunta dagli Stati Uniti potrebbe indurre i maggiori Paesi industrializzati a nutrire un sostanzioso interesse per una rivitalizzazione dell‘Onu in chiave di ―contenimento‖ della superpotenza americana. Inoltre, la sfida costituita dal terrorismo globale e dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa hanno, di fatto, provocato una coesione senza precedenti a livello mondiale. Basti pensare, infatti, che la lotta al terrorismo è stata oggetto, nel settembre 2005, di un summit mondiale al quale hanno partecipato tutti i leader degli Stati facenti parti delle Nazioni Unite; gli impegni assunti dai governi in tale circostanza sono successivamente confluiti nel Piano di Azione della Strategia per il contrasto globale al terrorismo, adottato nel settembre 2006. Per la prima volta, gli Stati membri hanno elaborato una strategia comune per la lotta e la prevenzione di un fenomeno criminoso universalmente riconosciuto inaccettabile in ogni sua forma e manifestazione. Il Piano, che promuove un ruolo più incisivo delle Nazioni Unite, prevede quattro aree di intervento in tema di prevenzione ed evidenzia un approccio multilaterale basato sul mutuo accordo di tutte le entità coinvolte. Tale approccio è il perno dell‘intera Strategia, in quanto si basa sul coordinamento degli interventi intrapresi da ogni singolo Stato, attraverso l‘adozione di misure che ne rafforzino l‘efficacia. Le quattro aree tematiche riguardano l‘analisi delle condizioni che maggiormente favoriscono la diffusione del terrorismo, le misure concrete di prevenzione e contrasto del terrorismo, il rafforzamento della capacità degli Stati nel prevenire e combattere il terrorismo, con il coinvolgimento anche del settore privato, ed infine la promozione del rispetto dei diritti umani e lo stato di diritto nella lotta al terrorismo850. Non vanno, inoltre, sottovalutati quegli aspetti legati al protrarsi del dibattito sulla riforma che comunque incidono sull‘esito del procedimento: innanzitutto, si è progressivamente fatta strada una nuova ottica, che vede la riforma come un processo, attraverso il quale introdurre un meccanismo di revisione periodica della Carta, il che avrebbe l‘effetto di sdrammatizzare ogni cambiamento di ruolo degli Stati membri nell‘ambito del Consiglio di Sicurezza. E questo, con ogni probabilità, permetterebbe di superare gli ostacoli finora incontrati dalle varie ipotesi di modifica. A ciò si aggiunge, poi, un mutato atteggiamento da parte dell‘opinione pubblica e dei mass 850 cfr http://www.un.org/terrorism/ 305 media, che sembrano aver riscoperto l‘Onu, specie a seguito dello tzunami del dicembre 2004, nel cui contesto l‘Organizzazione è stata percepita come l‘unica in grado di coordinare i diversi interventi umanitari. Ovviamente, a questa riscoperta corrisponde una spinta verso l‘aggiornamento della struttura e la democratizzazione del sistema decisionale.851 Un vento di cambiamento, quindi, che sembrerebbe sospingere sempre più verso una effettiva modernizzazione delle Nazioni Unite. Ma perché la riforma si possa concretizzare, debbono anche verificarsi alcune condizioni, prima fra tutte il permanere dell‘interesse statunitense per il multilateralismo nei rapporti internazionali. L‘argomento, come abbiamo già sottolineato nel precedente paragrafo, è tuttora oggetto di un ampio dibattito politico negli Stati Uniti. Un‘ipotesi di cambiamento dovrebbe, inoltre, essere resa ―appetibile‖ a tutti gli attori coinvolti nel processo. Sarebbe, pertanto, opportuno prevedere delle compensazioni nei confronti degli Stati che rimarrebbero esclusi da una rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza, come ad esempio facilitazioni economiche o fiscali per i Paesi in via di sviluppo e, per gli altri, una maggior disponibilità per il soddisfacimento dei loro interessi in settori diversi dell‘Onu852. Per snellire le procedure di modifica, probabilmente sarebbe anche auspicabile utilizzare una nuova metodologia nei negoziati, superando l‘impasse del dibattito intergovernativo ed assegnando al Segretario Generale la possibilità di predisporre un pacchetto complessivo di norme da sottoporre, poi, all‘approvazione degli Stati membri. Si tratta di un sistema già collaudato e che ha anche dato risultati molto positivi, come si è visto in occasione della lotta contro il terrorismo.853 Se queste condizioni dovessero avverarsi, la riforma diverrebbe un fatto concreto; ovviamente, le modifiche dovrebbero essere sostanziali ed anche piuttosto rapide. Per tale motivo, sarebbe opportuno provvedere per prima cosa ad una riforma del sistema di sicurezza collettiva. Difatti, anche se, alla luce della tremenda crisi esplosa nel 2008, una modifica del sistema di cooperazione e di sicurezza economica sarebbe più che auspicabile, il tema economico dispone già di ampi spazi e luoghi di dibattito e concertazione e, vista la molteplicità ed il peso degli interessi in gioco, si rischierebbe di cadere nuovamente in una situazione di blocco. Quanto alle modalità di adozione, si potrebbe ricorrere ad una procedura di emendamento ex art. 108 della Carta. E‘ imperativo, difatti, procedere ad un allargamento dei Paesi membri perché il Consiglio di Sicurezza possa recuperare la propria rappresentatività: a tale scopo, bisognerebbe passare dagli attuali 15 almeno a 25. Andrebbe, 851 852 853 A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 184 – 186. Ivi, p. 187. Cfr. http://daccess-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N09/479/65/PDF/ N0947965 .pdf? Open Element 306 poi, creata la categoria dei membri semi-permanenti, con un numero limitato di seggi da assegnare ai Paesi più rappresentativi, o quantomeno percepiti tali, nelle diverse aree geografiche, magari rinviando, per il momento, il dibattito sul diritto di veto ad una ulteriore riforma. Nel nuovo Consiglio allargato, si potrebbe prevedere una nuova maggioranza, situata tra i 15 ed i 16 voti, senza il voto contrario dei membri permanenti. E, ovviamente, è necessario che tutti i Paesi membri assumano l‘impegno ad una revisione periodica, che non superi in nessun caso i 15 anni854. Infine, accanto all‘introduzione di ulteriori miglioramenti nel funzionamento del Consiglio e dell‘Assemblea, anche senza una variazione della Carta, è assolutamente necessario procedere alla modifica dei principi che regolano l‘uso della forza nelle relazioni internazionali. Appare, ormai, una prassi consolidata, da parte del Consiglio, adottare un‘interpretazione estensiva di tali norme per permettere attività di peace-enforcing e, soprattutto, per far fronte alle emergenze umanitarie, prevedendo forme di collaborazione con i Paesi membri per la gestione condivisa delle operazioni.855 Anche se una riforma di questo genere riguarderebbe solo la sicurezza collettiva, si tratterebbe comunque di un risultato rilevante, vista l‘attuale tendenza all‘unilateralismo in ambito internazionale e, soprattutto, essa fornirebbe un segnale forte della rinnovata fiducia, da parte della comunità internazionale, nelle garanzie fornite da un sistema di sicurezza condiviso. Una modernizzazione del sistema così concepita potrebbe rappresentare un primo step di una riforma complessiva dell‘Organizzazione. E‘, difatti, evidente che, per affrontare concretamente le nuove sfide a livello mondiale ci sarebbe bisogno di una modifica ben più sostanziale, che elimini del tutto il diritto di veto, che preveda la formazione e la conservazione di una forza di pace permanente e multilaterale, la sola legittimata ad intervenire, la possibilità di adottare sanzioni che concretamente colpiscano tutti coloro che violano gli accordi e le convenzioni internazionali e, soprattutto, una rivisitazione del ruolo del Segretario Generale. E‘ proprio qui, a nostro avviso, la chiave di volta dell‘intera riforma: una modifica che rivaluti la figura del Segretario Generale, assegnandogli una funzione centrale di mediazione. Una funzione che gli permetta di entrare nel merito di tutte le problematiche internazionali in materia di sicurezza, di sviluppo, di diritti umani, adottando politiche di contrasto effettivo e reale alla povertà, alla fame, alla guerra. Una centralità che dovrebbe assegnare a lui, e non agli attuali detentori del diritto di veto, la possibilità di agire quale ago della bilancia per 854 855 A. de Guttry e F. Pagani, op. cit., pp. 189 – 190. Ibidem. 307 orientare il voto dell‘intera Assemblea. Non dovrebbe mai essere dimenticato che la creazione dell‘Onu ha rappresentato l‘esperimento politico più ambizioso di tutto il ‗900: con la sua istituzione è stata data vita ad un progetto che ha sì comportato enormi difficoltà pratiche, ma ha anche costituito un valore morale altrettanto grande. E‘ importante non sprecarlo, cercando invece di far tesoro della sua esperienza e dei suoi errori. Provando a tracciare un bilancio della loro attività, ad oltre sessant‘anni dalla costituzione, va sicuramente notato che numerose sono state le situazioni in cui le Nazioni Unite non hanno centrato il proprio obiettivo. Ci si riferisce, in particolare, ai genocidi consumati in Ruanda, nel 1994, ed a Srebrenica nel 1995, ed a tutte quelle occasioni in cui hanno fatto registrare un assoluto silenzio, come ad esempio nel caso degli scontri in Cecenia ed in tutti i momenti di tensione che hanno riguardato il conflitto israelopalestinese. Purtroppo, in questi ultimi casi, l‘atteggiamento dei membri permanenti, condizionandone l‘attività, ha reso impossibile l‘adozione, da parte del Consiglio di Sicurezza, di qualsiasi iniziativa. Poi il mondo è cambiato e dieci anni fa gli attentati dell‘11 settembre hanno catapultato il mondo intero in una realtà diversa, più dura, più complessa, che in qualche modo ha visto saltar via tutti i riferimenti; da più parti è stato ipotizzato che l‘Onu fosse ormai superata, una struttura inutile ed obsoleta, destinata a seguire la stessa sorte della Società delle Nazioni. La decisione, praticamente unilaterale, degli Stati Uniti di affrontare la guerra in Iraq ha in seguito rafforzato questa percezione. Ed invece, paradossalmente, sono stati proprio gli sviluppi di quel conflitto a riportare in vita il dibattito sulla riforma e sulla necessità che la comunità internazionale tornasse ad utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalle Nazioni Unite. Perché proprio la capacità degli Stati Uniti di imporre la propria volontà ha in qualche modo spaventato gli altri Stati, risvegliandone la coscienza. E questo ha comportato un totale cambiamento di prospettiva per le Nazioni Unite: non più un organismo inutile, ma una struttura da riammodernare, anzi, probabilmente l‘unica struttura utilizzabile per fronteggiare lo strapotere statunitense. Un organismo che, nonostante i suoi limiti, ha anche conseguito risultati importanti, come l‘universalizzazione dei diritti umani, a lungo considerati materia di esclusivo dominio statale, la decolonizzazione, la cooperazione internazionale nei settori dell‘ambiente, dello sviluppo economico, della lotta alla povertà e, da ultimo, della lotta al terrorismo e alla proliferazione nucleare. 308 Un organismo, peraltro, il cui meccanismo decisionale fa tuttora registrare un‘aspra competizione tra gli Stati interessati ad ottenere almeno un seggio semi-permanente, la cui acquisizione viene ritenuta indicativa della particolare levatura di un Paese nel contesto internazionale. E‘ questa, probabilmente, la miglior riprova dell‘importanza tuttora attribuita alle Nazioni Unite dall‘intera comunità mondiale856. Un organismo, quindi, il cui ruolo appare, allo stato, abbastanza consolidato, con un destino ben diverso da quello patito dalla Società delle Nazioni. Numerose sono, difatti, le differenze tra le due organizzazioni, primo fra tutti l‘atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti: nel 1920, dopo esserne stati i promotori, si rifiutarono di entrare a far parte della Società delle Nazioni, minando alla radice la credibilità di tale struttura. Nel caso delle Nazioni Unite, invece, si tratta di un tentativo di delegittimazione, indotto dalla volontà di adottare decisioni strategiche, a livello internazionale, in modo unilaterale; ma, a differenza da quanto accaduto in passato, allorquando la Società si lasciò confinare nel ruolo di spettatore passivo, oggi gli altri Stati non sono disposti a farsi da parte, anzi, sembrano sempre più interessati ad utilizzare l‘Onu in chiave anti-americana, proprio come inizialmente gli Stati Uniti la utilizzarono in chiave anti-sovietica. Altro elemento fondamentale che differenzia le due organizzazioni, inoltre, è il contesto internazionale in cui si sono trovate ad operare: basato su un Trattato profondamente ingiusto, quello di Versailles, che ha in qualche modo compromesso fin dall‘inizio la vita della Società delle Nazioni, nel primo caso, segnato dalla comparsa del terrorismo che ha, invece, sortito l‘effetto di ―compattare‖ la comunità internazionale intorno all‘Organizzazione delle Nazioni Unite, nel secondo. Non vanno, inoltre, sottovalutate l‘assenza di qualsiasi forma di indipendenza, nell‘organizzazione di azioni militari, dagli Stati membri, tenacemente arroccati sulle proprie posizioni e poco disponibili sia a fornire supporto militare che a cedere, seppur parzialmente ed in cambio della sicurezza collettiva, porzioni anche minime della propria sovranità, che hanno caratterizzato la Società delle Nazioni. A questo si contrappone, come si è già avuto modo di evidenziare nel corso del paragrafo, un‘interpretazione via via più estensiva dei propri poteri, nell‘organizzazione delle missioni di pace, da parte del Consiglio di Sicurezza dell‘Onu, ed una progressiva erosione della sovranità statuale, ulteriormente incentivata dalla globalizzazione. Infine, la Società delle Nazioni, anche a causa dell‘assenza degli Stati Uniti, aveva un carattere fortemente ―eurocentrico‖, che ne rendeva l‘azione al di fuori del contesto europeo 856 Ivi, p. 144. 309 poco incisiva e, soprattutto, poco credibile857. I risultati recentemente raggiunti dalle Nazioni Unite sia nel contesto delle missioni di peacekeeping che nella lotta al terrorismo sembrerebbero, invece, indicare la rilevanza del loro ruolo, nonostante tutti i limiti e le criticità che sono state sottolineate. 2. La necessità di un diverso diritto internazionale e il mutamento del diritto sociale Il riconoscimento dei diritti umani ha introdotto una serie di criteri nuovi nell‘ambito del diritto internazionale, quali, ad es., lo jus cogens, il divieto di aggressione, il principio di reciprocità. L‘espressione jus cogens significa diritto imperativo e inderogabile ed è utilizzata nell‘ordinamento internazionale per distinguere certe norme consuetudinarie che non sono suscettibili di deroga, né da parte di accordi, che risulterebbero nulli se in contrasto con una norma cogente, né da parte di consuetudini ―ordinarie‖, che andrebbero disapplicate se in contrasto con tali norme imperative. L‘esistenza di questa particolare categoria di norme, negata fermamente da alcuni studiosi, è invece ammessa dalla maggioranza della dottrina e dalla prassi, sia internazionale che interna. L‘art. 53 della Convenzione di Vienna del 1969 segna il momento ufficiale in cui lo jus cogens entra nel diritto internazionale: ―E‟ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini della presente Convenzione è norma imperativa del diritto internazionale generale una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da una successiva norma del diritto internazionale avente lo stesso carattere‖. L‘articolo 64, a sua volta, stabilisce che “in caso di sopravvenienza di una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che sia in conflitto con tale norma diviene nullo e si estingue.” Secondo Conforti il fondamento giuridico dello jus cogens risiede nell‘articolo 103 della Carta dell‘ONU, dove stabilisce che ―in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con la presente Carta e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dalla presente 857 Ivi, pp. 20 – 22. 310 Carta.‖ La norma desunta dall‘articolo 103 diventa il fondamento giuridico delle norme cogenti che, secondo Conforti, vanno individuate in specifico nei principi fondamentali della Carta858: il divieto della minaccia o dell‘uso della forza; il principio del rispetto della dignità umana; il principio di autodeterminazione dei popoli; il divieto di comportamenti che possano compromettere irrimediabilmente l‘economia di altri Paesi. Ma, in che modo si fanno valere le violazioni di tali principi? Per Conforti, gli unici effetti devono ricondursi al sistema di sicurezza collettiva che abilita il Consiglio di sicurezza ONU a obbligare gli Stati all‘adozione di contromisure nei confronti di altri Stati che abbiano minacciato o violato la pace e la sicurezza internazionale o compiuto atti di aggressione. In altre parole, il Consiglio di sicurezza dell‘ONU può adottare decisioni vincolanti che obbligano gli Stati ad applicare misure sanzionatorie non implicanti l‘uso della forza, come le misure commerciali di interruzione totale o parziale degli scambi859. Il diritto internazionale, pur avendo recepito i principi dello jus cogens, non si è dimostrato, tuttavia, in grado di farli rispettare. I diritti umani sono continuamente minacciati da quegli stessi Stati sovrani che ne rivendicano, al contrario, la tutela come cardine della loro azione internazionale. I popoli che si autodefiniscono più civili sarebbero giustificati ad intervenire per correggere quelli ritenuti più barbari, giustificando così missioni di conquista sulla base di pretese arbitrarie860. Al riguardo, John Rawls sostiene che il principio di non-intervento, da lui ritenuto uno degli otto principi su cui fondare il diritto internazionale, può venir meno nel caso degli Stati fuorilegge e di gravi violazioni dei diritti umani861. Rawls definisce il «diritto dei popoli» una particolare concezione politica del giusto e della giustizia valida per i principi e le norme del diritto e della pratica internazionali862. Poiché Rawls ritiene che le società bene-ordinate siano essenzialmente quelle liberali e democratiche, il diritto dei popoli delineato dal filosofo americano, tuttavia, presuppone rapporti di forza sbilanciati a favore delle democrazie liberali occidentali. A parere di Baccelli, Rawls introduce un elemento regressivo almeno rispetto alla Carta delle Nazioni Unite: egli ―non solo legittima pienamente la <guerra umanitaria> e le ingerenze nella sovranità di altri paesi. Ma, ciò che appare più rilevante, la nozione di <Stati fuorilegge>, che evocano sinistramente i rogue states, rischia di giustificare anche le guerre preventive e le operazioni di <liberazione> manu militari dei popoli sottoposti a 858 859 860 861 862 Secondo altri Autori invece, fra i quali Antonio Cassese, per la concreta individuazioni delle norme cogenti occorre riferirsi alla opinio juris degli Stati, manifestata in seno ad organi internazionali, poiché tali norme non possono essere dedotte dall‘art. 53: A. Cassese, Diritto internazionale,vol.1, Il Mulino, Bologna 2003, p. 237. Cfr. B. Conforti, Scritti di diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2003, vol. I, pp. 165-172. Cfr. L. Baccelli, Diritti dei popoli. Universalismo e differenze culturali, Laterza, Bari 2009. J. Rawls, II diritto dei popoli, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 48. Ib., p. 3. 311 regimi oppressivi.‖863 La tutela dei diritti umani diventa così il principale criterio discriminante per connotare come decente un popolo e un regime politico. Di conseguenza, la guerra contro gli Stati fuorilegge, allo scopo di tutelare i diritti umani, diventa una guerra giusta864. Rawls, insieme ad altri esponenti del pensiero progressista americano come Walzer e Ignatieff, ripropone una visione universalistica dei diritti umani che, secondo Baccelli, ha uno dei suoi fondamentali antesignani in Francisco de Vitoria. Nel contesto del dibattito sulla conquista dell‘America, il teologo spagnolo dà, infatti, un fondamentale contributo alla definizione del paradigma dei diritti umani, attribuendo i diritti (soggettivi) naturali dello jus gentium a tutti gli esseri umani. La guerra di conquista delle Indie occidentali viene considerata giusta “in quanto finalizzata alla difesa dei diritti universali: dei diritti di comunicazione e predicazione del Vangelo degli Spagnoli, così come dei diritti degli stessi indigeni, violati dai loro governanti tirannici con le pratiche antropofaghe e i sacrifici umani.”865 Baccelli sostiene che la posizione di Vitoria è inquietantemente post-moderna: ―nel modello di Vitoria esistono diritti umani assoluti e universali, ma manca un potere superiore a quello degli Stati sovrani: il <mondo> assume una soggettività giuridica solo attraverso l‟opera del principe giusto, che diventa una sorta di suo tutore e siede come giudice al di sopra delle comunità politiche. La teoria della guerra giusta rimanda alla difesa dei diritti umani e al modello del processo, mentre l‟universalità dei diritti è compatibile con l‟attribuzione di un‟inferiorità culturale a determinati popoli.‖866 Occorre ricordare che gli Stati Uniti, l‘Italia e, più in generale, le riunioni dei vari G8, G10, G20, cioè i consessi internazionali dove si decide il futuro senza tener conto dei popoli, hanno violato in diverse occasioni quei diritti umani che si impegnano pubblicamente a difendere. Ricordiamo solo alcuni esempi in proposito: le torture e gli abusi compiuti nel 2004 da soldati statunitensi ai danni dei prigionieri iracheni delle carceri di Abu Ghraib867; le irregolarità di detenzione e i maltrattamenti riguardanti i prigionieri di Guantanamo; i respingimenti italiani dei barconi di clandestini, lasciati spesso morire in mare o criminalizzati a priori, senza verificare se stiano fuggendo da persecuzioni; la situazione in cui si trovano in Italia molti lavoratori immigrati costretti ad accettare 863 864 865 866 867 L. Baccelli, op. cit., p.62. Ib. Ivi., p. VIII. Ivi., p. 63. Molto duro il giudizio di Zizek sulla vicenda di Abu Ghraib secondo cui non è stato semplicemente un caso di arroganza americana nei confronti di abitanti del Terzo Mondo: sottoposti a sevizie umilianti, i prigionieri iracheni venivano “iniziati alla cultura americana”. Veniva loro dato un assaggio del suo osceno lato nascosto che rappresenta il supplemento necessario ai valori pubblici di dignità personale, di democrazia e libertà. Si tratta, secondo Zizek, della diretta rivelazione dei valori americani, “nel cuore stesso del godimento osceno che sostiene il modo di vivere americano”: S. Zizek, La violenza invisibile, cit., pp. 176-177. 312 maltrattamenti, salari bassi, orari eccessivi e situazioni di lavoro schiavistico. Le riunioni del G20, d‘altro canto, sembrano concentrate solo su questioni economiche-finanziarie, dimostrandosi, invece, sorde quando si tratta di prendere decisioni comuni in tema di diritti umani. Il Rapporto 2009 di Amnesty International ha paradossalmente evidenziato come una sostanziosa percentuale di violazioni di diritti umani avvenga proprio nell‘ambito dei paesi del G20: il 78% delle esecuzioni della pena di morte, il 79% delle torture e dei maltrattamenti, il 47% del totale dei processi iniqui ha avuto luogo in paesi aderenti al G20.868 Riguardo ai prigionieri di Guantanamo, si può condividere l‘osservazione di Zizek secondo cui essi sono un esempio della riduzione degli esseri umani a nuda vita, a homo sacer, il cosiddetto essere sacro, oggetto delle competenze specialistiche di chi se ne occupa, ma privo di qualsiasi diritto.869 Gli abusi di Guantanamo trovano la loro legittimazione, come detto in altra parte del lavoro, nel Patriot Act, firmato da Bush il 26 ottobre 2011. Il procuratore generale John Ashcroft fece approvare dal Congresso il Patriot Act dichiarando che coloro che vi si fossero opposti avrebbero appoggiato il nemico. La violazione della privacy, l‘accresciuta possibilità di compiere intercettazione telefoniche o monitorare la posta elettronica venne considerato ben poca cosa di fronte alla minaccia del terrorismo: un piccolo prezzo per proteggersi da conseguenze mille volte più devastanti. Nella realtà, il Patriot Act apre la strada a seri abusi di potere. I prigionieri di Guantanamo, accusati di terrorismo, sono stati indotti a dichiararsi colpevoli per timore di essere sottratti alle normali procedure giudiziarie, di essere detenuti per lunghi periodi in attesa di processi o giudicati da tribunali militari segreti. Gli Stati Uniti hanno, in questo caso, imprigionato e deportato stranieri e immigrati senza ricorrere alle vie legali, rifiutando poi loro l‘applicazione della Convenzione di Ginevra.870 Come poi sottolinea Beck, “La Nato è intervenuta in Afganistan, sebbene non si sia trattato né di un attacco dall‟esterno né dell‟aggressione di uno stato sovrano nei confronti di un altro stato sovrano. La strage dell‟11 settembre non può nemmeno essere considerata una seconda Pearl Harbor, perché non ha colpito l‟apparato militare americano, ma civili innocenti”.871 Molti ormai identificano negli Stati Uniti l‘autorità suprema che domina la globalizzazione e il nuovo ordine mondiale.872 I loro sostenitori li esaltano come leader 868 869 870 871 872 http://www.amnesty.it/Rapporto-Annuale-2009.html Cfr. S. Zizek. La violenza invisibile, cit., p. 47; Id., Dalla tragedia alla farsa, cit., p. 64. Cfr. anche G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005. Cfr. G. Soros, La bolla della supremazia americana. Gli abusi dell‟American Power, Casale Monferrato, 2004, pp. 46-50. U. Beck, Un mondo a rischio, Einaudi, Torino 2003, p.3. Secondo Hardt e Negri l‘imperialismo è finito e nessuna nazione, nemmeno gli Stati Uniti, potrà rappresentare 313 mondiale e unica superpotenza; gli avversari li denunciano come gli oppressori imperialisti. Di fatto, il sistema americano si avvale principalmente di sistemi di carattere coercitivo, abituato com‘è a sfruttare il fondamentalismo capitalista che ha sempre avuto bisogno di momenti di crisi e di disastri per imporsi873. La dottrina dell‘emergenza, unita alla paura che solitamente ingenera questo tipo di situazioni, costituisce le premesse per un abbassamento del livello di democrazia, per una restrizione ampia delle libertà, anche quando queste sono costituzionalmente garantite, ed allo stesso tempo fornisce la possibilità di una violazione continua e sistematica dei diritti umani, non solamente a livello nazionale ma, anche e soprattutto, a livello internazionale874. La teoria della Scuola di Chicago, che dagli anni ‘50 ha conquistato territori in tutto il mondo, non era mai stata pienamente attuata proprio negli Stati Uniti dove era sorta. Se con il governo Reagan già però si era tentato di importare tali tipi di principi, con il governo Bush tali regole divennero pienamente operanti. Se già nel ‘95 alla sua elezione lo staff del Presidente cercò di attuare un programma di liberalizzazioni e di ulteriore contrazione della spesa sociale, ma non vi riuscì per mancanza di una crisi emergente, l‘11 settembre diede immediata possibilità di procedere a quanto fino a quel momento ci si era solo augurati. D‘altronde la presenza all‘interno dello staff del Presidente di elementi legati a gruppi di interesse (Goldman Sachs) o intimi amici dello stesso Friedman, come Donald Runsfield, fecero sì che il governo Bush si trovasse già 873 874 il centro di un progetto imperialista. Ciò non toglie che gli Stati Uniti occupino una posizione indubbiamente privilegiata nell‘ambito dell‘Impero, derivante dai fondamenti propriamente imperiali della sua costituzione, formale e materiale: i padri fondatori degli Stati Uniti credevano di aver creato un nuovo Impero sull‘altra sponda dell‘Atlantico, con le frontiere aperte e in continua espansione. Cfr. M. Hardt, A. Negri, op. cit., pp. 1516. N. Klein, Shock Economy, cit., p. 16: “… mi sono resa conto che l‟idea di sfruttare crisi e disastri era stata fin dall‟inizio il modus operandi del movimento promosso da Milton Friedman‖. Ivi, pp. 16 – 17: ―Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso. Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani della nostra epoca, usualmente considerate semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l‟intento deliberato di terrorizzare l‟opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l‟introduzione di <riforme> radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la <sparizione> di trentamila persone – molte delle quali attivisti di sinistra – a opera della junta fu un passo essenziale per l‟imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di Piazza Tienanmen e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell‟opposizione: fu questo a spianare la strada per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese. La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in un democrazia occidentale. L‟attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell‟ex Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l‟unica causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare il terreno alla shockterapia economica. Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni ‟Ottanta, fu una crisi di indebitamento a obbligare i Paesi alla scelta tra <privatizzazione o morte>, per usare le parole di un funzionario del FMI […] Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario, come Friedman aveva ben compreso, l‟atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi dagli elettori per consegnare il Paese ad economisti <tecnocrati>.‖ 314 pronto a sfruttare favorevolmente l‘occasione capitata. Il momento tanto atteso era finalmente giunto e, dietro la paura provocata da quegli avvenimenti, si innestò un giro di affari che diede impulso all‘economia dei grandi gruppi finanziari ed imprenditoriali.875 Una singolare dimostrazione di questa teoria dello shock nello sfruttare eventi disastrosi a fini finanziari, in Italia, si è avuta con la divulgazione delle intercettazioni telefoniche intercorse durante la notte del terremoto dell‘Aquila tra alcuni funzionari della Protezione civile che consentono, assai meglio di tante formulazioni teoriche, di comprendere le perverse dinamiche che sono alla base di tali strategie economiche. La politica dell‘interventismo e della guerra preventiva statunitense ha la sua base dottrinale nel famoso discorso in quattro punti che il presidente Truman pronunciò il 12 marzo 1947, di fronte al Congresso Americano876. Il discorso, che prendeva le mosse dal ritiro delle truppe militari inglesi dalla Grecia durante la guerra civile che, all'indomani del conflitto mondiale, insanguinò il paese ellenico, si poneva il fine di dettare le linee fondamentali di una politica americana funzionale al contenimento del comunismo e dell'espansionismo sovietico. Nel discorso si afferma che devono essere aiutate le nazioni amanti della libertà contro i pericoli di aggressione; inoltre, i vantaggi del progresso scientifico e industriale devono essere resi disponibili per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate poiché una maggiore produzione è la chiave per la prosperità e la pace.877 La sola democrazia, nelle parole di Truman, è in grado di fornire la forza vitalizzante a muovere i popoli del mondo in un‘azione trionfante, non solo contro i loro oppressori umani, ma anche contro la fame, la miseria e la disperazione. Il presidente Truman affermò che gli Stati Uniti non potevano restare indifferenti di fronte ad ogni caso in cui l'indipendenza e la sovranità territoriale dei popoli e degli Stati venisse messa in discussione, essendo tali situazioni un pericolo per l'equilibrio pacifico mondiale e quindi per gli stessi Stati Uniti. Gli Stati Uniti si sarebbero, dunque, sentiti del tutto legittimati ad intervenire, laddove vi fosse pericolo per la libertà delle nazioni, mediante aiuti ai popoli che volevano resistere a tentativi di sovversione o a reiterate azioni violente. Su queste basi Truman chiese al Congresso di autorizzare lo stanziamento di 400 milioni di dollari a favore di Turchia e Grecia, che correvano il rischio di diventare satelliti moscoviti.878 Oggi la strategia interventista americana viene motivata dalla difesa dei diritti 875 876 877 878 Ivi, p. 19. Cfr. D. D. Eisenhower, Public Papers of the Presidents of the United States, U. S. Government Printing Office, Washington, 1958, Harry S. Truman, 1947, p. 147. Al proposito, si ricorda quanto colto con lungimiranza da Ivan Illich, nel suo testo Nello specchio del passato, per ciò che riguarda i concetti di pace, economia e soprattutto sviluppo, collegato a questo famoso discorso. Cfr. G. Giordano, La politica estera degli Stati Uniti. Da Truman a Bush (1945-1992), Franco Angeli, Milano 1999, pp. 32-34. 315 umani, cadendo così in pesantissime contraddizioni.879 La concezione dei diritti umani, a causa della sua impostazione, si presenta come lo strumento più adatto a dare legittimazione ad ogni progetto di intervento che possa richiamarsi a una delle innumerevoli sopraffazioni che ogni giorno caratterizzano la vita del nostro pianeta. Iniziative di tale natura avrebbero bisogno di spiegare i motivi per cui si prende in considerazione una determinata situazione di violazione dei diritti umani, piuttosto che un‘altra: tale necessità di spiegazione etica e giuridica, tuttavia, non sfiora lontanamente una superpotenza come gli Stati Uniti. Le stragi compiute nel Guatemala per quasi un decennio, soprattutto ai danni della popolazioni di discendenza maya, hanno portato a più di 42.000 vittime accertate, anche se in complesso si parla di oltre 200.000 morti; tra questi, 23.000 sono il frutto di un‘esecuzione sommaria. Nel corso di tali massacri è stata sistematicamente usata anche la tortura. Gli Stati Uniti, che appoggiavano una strategia antisovietica in America Latina, contribuirono al rafforzamento dei servizi segreti del Guatemala e all‘addestramento di corpi speciali anti-insurrezione, fatto, quest‘ultimo, che ha influito significativamente sulla violazione dei diritti umani durante gli scontri. Come spiegare che le stragi in Guatemala non abbiano provocato alcun intervento esterno, mentre quelle, minori per dimensioni, dei Balcani del 1998-1999 abbiano scatenato tre mesi di bombardamenti? Secondo Antonio Gambino ―chi vuole regolarsi in questo modo – e cioè un giorno punire, un altro ignorare, ed un altro ancora aiutare ad uccidere, come nel caso degli Stati Uniti in Guatemala – può ovviamente farlo. Ma dovrebbe avere l‟accortezza di non prendere come riferimento i diritti umani, e richiamarsi, invece, alla tradizionale indipendenza della politica estera”.880 Molto illuminante, in proposito, è la posizione di Baldassarre secondo cui “in quanto valori culturali, i diritti umani possono divenire elementi caratteristici di una determinata civiltà soltanto a seguito dell‟evoluzione secolare 879 880 N. Klein, Shock Economy, cit., p. 21: ―Ed è questa la differenza del dopo-11 settembre: prima, le guerre e i disastri offrivano opportunità a un settore ristretto dell‟economia- per esempio i costruttori di jet da combattimento, o le aziende che ricostruivano i ponti bombardati. Il fine economico primario delle guerre, tuttavia, era quello di offrire un mezzo per aprire nuovi mercati che erano stati isolati e generare boom del dopoguerra. Oggi invece, le risposte alle guerre e ai disastri sono così completamente privatizzate che sono esse stesse il nuovo mercato. Non c‟è bisogno di aspettare la fine della guerra per il boom: il mezzo è il messaggio. Un vantaggio decisivo di questo approccio postmoderno è che, in termini commerciali, non può fallire. <L‟Iraq è stato meglio del previsto>: con queste parole un analista finanziario ha definito un trimestre particolarmente positivo per l‟industria energetica Halliburton. Era l‟ottobre 2006, il mese più violento dell‟anno fino ad allora, con 3.709 civili iracheni morti. Eppure pochi azionisti restarono impassibili di fronte a una guerra che aveva generato venti miliardi di dollari in ricavi per questa sola azienda. Fra il commercio d‟armi, i soldati privati, la ricostruzione for-profit e l‟industria della sicurezza nazionale, il risultato emerso dall‟impronta data dall‟amministrazione Bush alla shockterapy post-11 settembre è una nuova economia pienamente articolata. E‟ stata costruita nell‟era Bush, ma ora esiste in maniera del tutto autonoma da una particolare amministrazione e resterà ben salda finché non verrà identificata, isolata e sfidata l‟ideologia suprematista del business che ne costituisce la premessa. E‟ dominata dalle aziende americane ma è globale […]‖ Cfr. A. Gambino, L‟imperialismo dei diritti umani. Caos o giustizia nella società globale, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 128-135. 316 dei costumi collettivi e dei modi di concepire la vita associata. In altre parole, pensare di trasferire da una civiltà all‟altra la cultura dell‟individualismo e dei diritti umani attraverso la forzosa accettazione dei valori occidentali da parte delle società non–occidentali significa non conoscere affatto il modo in cui le culture si trasmettono e diventano parti integranti delle singole civiltà.”881 Scopo dei diritti umani è creare, mediante l‘individuazione di diritti comuni a tutti gli uomini, un ―Diritto dei Diritti‖ che avvicini i popoli della terra e che sia fruibile non dal singolo, ma dalla collettività. In questa prospettiva, il diritto delle genti, o dei popoli, non si riduce a una teoria del diritto di conquista, né alla giustificazione della ―giusta guerra‖ ma rappresenta una strategia giuridica adattiva a quella rivoluzione dello spazio che è la globalizzazione. In tema di violazione dei diritti umani, tuttavia, il consensus omnium gentium presente nella Dichiarazione, come principio generale, non basta per essere rispettato. Alcune di tali violazioni sono legate ad aspetti culturali non trattabili della società umana. Ciò, tuttavia, non deve rappresentare un alibi né per impedire di individuare i responsabili delle violazioni o degli ―atti di omissione‖, né per ostacolare il rispetto dei diritti umani, legittimando l'uso della violenza. La violazione dei diritti umani costituisce un esempio-limite dell'inadeguatezza del diritto internazionale che esclude intere categorie di persone dalla tutela di tali diritti. Il regime internazionale ha tradizionalmente dato un posto secondario alla materia dei diritti umani: soggetto agli imperativi delle grandi potenze, infatti, continua a riservare un ruolo più importante a considerazioni di carattere commerciale e finanziario. Scrive Maria Rosaria Ferrarese che «lo sforzo non è dunque solo quello di fissare per tutti gli umani garanzie universalistiche, indipendentemente dall‟appartenenza a questo o a quello stato, come tradizionalmente facevano le dichiarazioni dei diritti, ma di stabilire dei punti di giurisdizione internazionale che rendano concrete le garanzie, o almeno, possibile qualche forma di sanzione per la loro violazione»882. Si pone, dunque, il rilevante problema della fondazione di un diverso diritto internazionale che, nell‘ambito di una decisa tutela generale dei diritti umani, rappresenti anche un fermo strumento di regolazione agli eccessi del mercato globale e, per tale motivo, dovrà trovare il modo di darsi degli strumenti giuridici sopranazionali che tendano a regolamentare e poi ad escludere, dal processo di formazione del diritto, elementi spuri, quali l‘economia, che attualmente tendono a sostituirsi ad esso. 881 882 A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., p. 336. M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, cit., pp. 155-157. 317 Carlo Menghi definisce la globalizzazione come il risultato di un processo pervasivo di deterritorializzazione contrapposto alla territorialità o identità statale. In altri termini, la globalizzazione è una politica, o meglio una ―concatenazione micropolitica antistatale‖ che tende a riterritorializzarsi nella capitalizzazione finanziaria e nel potere nuovo delle società civili. Il mercato guida, ormai, il diritto, nell‘assenza di istituzioni o dispositivi di sovranità: il principio finanziario del neoliberismo statunitense rappresenta il globale in quanto globalizzante.883 Le leggi di mercato rappresentano deliberazioni di una minoranza ricca e globalizzata, prive del consenso della maggioranza povera e localizzata: si tratta della individualizzazione o particolarizzazione del desiderio della minoranza sulla generalità dei bisogni della maggioranza.884 Mentre classicamente l‘attività giuridica era strumento dei poteri istituzionali, nell‘ultima modernità si assiste esattamente al fenomeno opposto. Nello stato postnazionale siamo di fronte a un‘evasione della legge, a una latitanza crescente del diritto. Nella sfera sociale, mentre la parte economicamente più forte accondiscende e, anzi, rilancia tale evasione, la parte più debole richiede, invece, giuridicità: ―nasce così dal basso tutta una richiesta di leggi per garantire i bisogni sociali essenziali, come il diritto al lavoro, all‟assistenza, allo studio. I nuovi poteri post statali (burocratico-istituzionali e socialimprenditoriali) cercano di evadere questo esercizio di giuridicità: la forma ultima e inedita della sovranità è essenzialmente anomica‖.885 Ma non sono certo i diritti sociali ciò che i mercati richiedono, o meglio, bramano. Secondo Bauman, se oggi lo stato sociale si vede tagliare i fondi, va in pezzi, o addirittura viene deliberatamente smantellato, è perché le fonti di profitto del capitalismo si sono spostate dallo sfruttamento della manodopera operaia allo sfruttamento dei consumatori. Per risultare utili secondo la concezioni capitalistica, i poveri devono aver bisogno non dei servizi offerti dallo stato sociale, ma del denaro che consente loro di rispondere alle seduzioni dei mercati.886 L‘ultima modernità mostra, con sempre maggiore chiarezza, la crisi della sovranità politica: “la politica è responsabile quando è irresponsabile il diritto, quando la legge perde l‟oggetto economico (il lavoro, il mercato) della garanzia giuridica e quando perde di vista i soggetti differenziati della scena sociale (produttori e fruitori).‖887 Occorre amaramente 883 884 885 886 887 C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., pp. 12-15. Ivi, p. 49. Ivi, pp.76-93. Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 27-28. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., p. 128. 318 constatare che il capitalismo neoliberista ha abituato le coscienze alla perdita della giuridicità. Si configura una rappresentazione della sovranità, sostitutiva della stessa, che non fonda i principi di autorità su principi giuridici. Il potere dell‘economia si è, dunque, come si è visto in precedenza, affermato grazie alla crisi della politica ideologica e del diritto statale, con la conseguente crisi del principio di legittimità e del consenso. Asservito all‘economia, complice di interessi particolari della società civile, il diritto ha progressivamente perso la sua autonomia, la sua medialità. La privatizzazione del diritto, separato dalle costituenti materiali e formali, lo caratterizza, quindi, come universale nella sua dedicazione, ma non generale nel suo interesse. Esso si muove per standards giuridici che corrispondono a interessi economici specifici. Il giudice come nuovo normatore promuove e riconosce lo standard economico come regola di giudizio; egli è parte nel sociale degli interessi privati e mediatore delle opportunità corporative su cui fissa standards di legalità sociale. Si vengono così a determinare, nelle forme della negoziazione, transazione, arbitrato, permanenti deroghe alla giustizia ordinaria che creano regole di condotta economica oltrepassanti la regola di giudizio.888 Secondo Menghi, la fonte economica da cui provengono le regolamentazioni temporanee di emergenza è il rischio, inteso come co-principio del benessere. Legato alla velocità e alla quantità di attività massimizzate a fine di profitto, il rischio è, infatti, coesteso alle concatenazione sociali e tollerato in vista del conseguimento del massimo interesse. L‘attuale endemicità del rischio889, nell‘ambito dello stato post previdenziale, è prodotta dalle assicurazioni private. Il passaggio dal diritto civile al diritto sociale è segnato dalla comparsa dell‘assicurazione sociale obbligatoria, nuovo modello giusnaturale del debito universale e inestinguibile, fondato sulla irresponsabilizzazione individuale. In tale prospettiva, il diritto funziona come procedura biopolitica di intervento sul corpo sociale del rischio. Dal diritto sociale dell‘incidente, che è anche dovere come debito sociale al rischio, procede l‘ultima degiuridicizzazione in nome del Valore Profitto. Alla base del diritto sociale si trova, dunque, il contratto di solidarietà che diventa valore extragiuridico, economico-politico. Uno dei principi operanti diventa quello della praticabilità tollerabile: per il diritto sociale nessun precetto è in sé valido e efficace, ma ciò dipende dalla praticabilità della sanzione e dalla tollerabilità del dispositivo in un dato 888 889 Cfr. C. Menghi, Logica del diritto sociale, Giappichelli, Torino 2006, pp. 51-66. A proposito del rischio come soggetto presente ed imperante nell'odierna società si veda : U.Beck, La società del rischio, cit. 319 momento. L‘ultimo diritto sociale è quello che Ewald chiama ―mutualità della tolleranza‖: la tolleranza diviene, in questa prospettiva, una pratica governamentale di destrutturazione giuridica890. All‘interesse generale, rappresentato dalla maggioranza macropolitica, si è sostituito l‘interesse particolare gestito da minoranze economiche; l‘impoverimento progressivo dei molti si è accompagnato all‘arricchimento costante dei pochi. La crescente razionalizzazione della sfera del lavoro ha comportato e comporta la drammatica perdita di posti e licenziamenti. I mercati perseguono l‘efficacia economica, non l‘equità sociale o il godimento di diritti individuali per tutti. Beck rileva come «il capitalismo perde e fa perdere il lavoro», infrangendo l‘alleanza storica tra economia di mercato, stato sociale e democrazia891. Riguardo al diritto al lavoro, il mercato, nel sostituirsi allo Stato, ha modellato nuove forme di sovranità e di asservimenti, disegnando una mappa che prevede forme di part-time, volontariato, interinale, parasubordinato, precariato, così come esternalizzazioni e franchising. Al rischio del non-lavoro si aggiunge il lavoro a rischio: «i rischi solo in apparenza sono eventualità o emergenze, in realtà sono certezze e abitudini della struttura post giuridica». Ciò che, dunque, emerge non è un nuovo diritto del lavoro, ma un‘anomia del lavoro, testimoniata dalla crescita incontrollata di forme contrattuali.892 La precarietà del lavoro dissolve i fondamenti dello Stato sociale e la flessibilità coincide con il dissolvimento progressivo del sistema di garanzie per cui i rischi passano dalla macroeconomia statuale agli individui. La degiuridicizzazione del lavoro, secondo Beck, individua la formazione di quattro gruppi: i global players, detentori del capitale globale; i precari ad alta specializzazione; i lavoratori squalificati, sostituibili da macchine o da lavoratori a basso costo di altri paesi; i localizzati nella povertà, non più globalmente indispensabili.893 Beck disegna dieci possibili scenari relativi alla degiuridicizzazione del lavoro. Il primo scenario, che genera nuove disuguaglianze e conflitti sociali, riguarda la trasformazione della società industriale nel capitale-sapere detenuto dalle élite di programmazione. Il secondo scenario riguarda il capitalismo senza lavoro, tecnicamente avanzato, che crea disoccupazione di massa. 890 891 892 893 C. Menghi, Logica del diritto sociale, Giappichelli, Torino 2006, pp. 193 e ss. U. Beck, Che cos‟è la globalizzazione, cit., p. 21. Al riguardo, Francis Fukuyama aveva, al contrario, sostenuto che la deregolamentazione dei mercati nella sfera economica, combinata con la liberaldemocrazia nella sfera politica, rappresenta il punto d‘arrivo dell‘evoluzione ideologica dell‘umanità, la forma ultima di governo umano: cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l‟ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, pp. 92, 125-141. U. Beck, Il lavoro nell‟epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino 2000, pp. 152-153. 320 Il terzo scenario rappresenta il mercato mondiale come miracolo del lavoro post liberista che, tuttavia, non costituisce una risposta alla disoccupazione, in assenza di una regolamentazione del mercato del lavoro. Il quarto scenario evidenzia come alla mobilità dei flussi di capitale organizzati globalmente non corrisponde la mobilità del movimento operaio orientato globalmente. Al quinto scenario appartiene il lavoro sostenibile secondo il principio dell‘economia ecologica in vista di un soddisfacimento dei bisogni fondamentali compatibile con la conservazione dell‘ambiente. Il sesto scenario è quello dell‘apartheid globale o del globalismo anomico che denuncia la contrapposizione tra chi partecipa all‘economia globale e chi ne è escluso o minacciato. Il settimo scenario riguarda quelle trasformazioni del lavoro, dall‘outsourcing al franchising, che rappresentano nuove insidie di emarginazione per gli individui ―imprenditori di se stessi‖. L‘ottavo scenario evidenzia il pericolo di disgregazione della società come risultante della combinazione tra individualizzazioni delle singole situazioni lavorative e individualizzazioni delle singole situazioni esistenziali. Il nono scenario ipotizza un‘estensione a tutta la società del modello lavorativo femminile, flessibile, plurale, svolto in ambiti sociali separati, tra lavoro salariato e lavoro di impegno civile. Il decimo scenario, infine, è quello della società del tempo libero, in equilibrio instabile tra desideri emancipati dai bisogni e nuovi bisogni che non permettono ozio.894 Come ben rileva Laura Vecchioli nel suo lavoro, la caratteristica comune di questi scenari delineati da Beck, è «l‘assenza di un programma giuridico di ricostruzione attraverso un diritto sociale civile del lavoro, che sia il connotato per uscire dalla impasse del globalismo come nuova dittatura».895 Il grande vuoto di legittimità che si viene a creare, secondo l‘ipotesi interpretativa di Menghi, può venire colmato soltanto con la fondazione di «un diritto comune pubblico in quanto sociale civile, flessibile o di sintesi tra differenze compatibili»; tale diritto, «fondato sul consenso della reale base micro o sub politica, è garanzia della struttura del lavoro e dell‘autodeterminazione dei consumi»896. Il diritto sociale civile muove dalla necessità di giuridicizzare le proprie costituenti materiali, consenso e interesse. Esso deve recuperare la funzione di mediazione reale tra il 894 895 896 Ivi, pp. 72-91; per una analisi degli studi di Beck sulla seconda modernità, cfr. L. Vecchioli, Il rischio della sovranità globale, cit., pp. 189-191. L. Vecchioli, op. cit., p. 191. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., p. 14. 321 particolare interesse del diritto privato e il pubblico interesse della globalità post statuale. Solo in quanto pubblico e privato, il diritto può realizzare la contraddizione compatibile o propriamente dialettica, oltre la rappresentazione del diritto pubblico nazionale e le rappresentazioni private dell‘interesse.897 Fondamentale è l‘internazionalizzazione del diritto del lavoro come diritto sociale civile. Solo così, secondo Menghi, può fondare la sua effettiva transnazionalità in questo ordine di sovranità, in coerenza con l‘oltreterritorialità dei rischi.898 La segregazione delle persone diventa la realtà della globalizzazione economica. Questo nuovo razzismo del mondo sviluppato non è più né di matrice naturalista, né culturale, ma è semplicemente un egoismo economico senza vergogna. La separazione è tra coloro che fanno parte della sfera di una, anche relativa, prosperità economica e quelli che ne sono esclusi899. Ormai il termine globalizzazione non si intende più nella sua accezione neutrale di ―integrazione internazionale‖, ma nel suo significato di ―integrazione economica internazionale‖, basata sulla priorità data non ai diritti delle persone, ma ai diritti degli investitori, delle banche, delle istituzioni finanziarie900. 3. Perché i D.U. sono diritti senza un diritto La nostra è un‘epoca caratterizzata dall‘aumento esponenziale della violenza, risultato di quello che Eric Hobsbawm ha definito un ―processo di barbarizzazione‖ consolidatosi all‘indomani della Prima guerra mondiale, le cui manifestazioni risultano particolarmente impressionanti in quei paesi in cui esistono istituzioni politiche liberali e una netta separazione tra violenza e non-violenza901. A questo riguardo, è interessante esaminare la riflessione di Slavoj Zizek, che distingue la violenza soggettiva da quella oggettiva, sottolineando che le due forme non possono essere osservate dal medesimo ―punto di osservazione‖: infatti, mentre la prima si percepisce se paragonata ad una situazione di assoluta nonviolenza, la seconda, invece, “è invisibile perché sta alla base dello stesso sfondo neutro rispetto al quale percepiamo qualcosa come soggettivamente violento […] per quanto invisibile, è necessario tenerne conto se si vuole trovare una 897 898 899 900 901 C. Menghi, Logica del diritto sociale, cit., pp. 21-30. C. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, cit., p. 93. S. Zizek, La violenza invisibile, cit., p. 106. N. Chomsky, Global empire, op.cit. E. J. Hobsbawm, La fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007, p. 77. 322 spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni <irrazionali> di violenza.”902 Zizek riporta l‘esempio delle crisi umanitarie, sempre più spesso sotto i riflettori mediatici, sottolineando che bisognerebbe considerare che tale visibilità è il prodotto di una ―lotta complessa‖, all‘interno della quale le ―considerazioni propriamente umanitarie‖ vengono dopo quelle di carattere politico-ideologico, culturale ed economico. Tale riflessione risulta evidente se ci soffermiamo a pensare al diverso spazio che i media dedicano alle varie situazioni di violazione dei diritti umani o alle violenze subite dagli individui in contesti identificati e classificati come crisi o emergenze umanitarie: “per i media, la morte di un bambino palestinese nella striscia di Gaza, per non parlare di quella di un israeliano o di un americano, vale mille volte più della morte di un anonimo congolese. Abbiamo bisogno di altre prove del fatto che il senso di emergenza umanitaria è mediato, anzi sovradeterminato, da evidenti considerazioni politiche?”903 L‘analisi di Zizek mira a focalizzare l‘attenzione sulla violenza oggettiva, che è quella insita in ogni sistema politico e che si identifica non solo con la violenza fisica diretta e visibile, ma anche con quella rappresentata da quelle ―sottili forme di coercizione‖ che sono inevitabilmente alla base dei rapporti di sovra e sott‘ordinazione e di sfruttamento. É questa la violenza sottaciuta, dalla quale si cerca di distogliere lo sguardo dei cittadini, ―distraendoli‖ con la minaccia rappresentata da soggetti e categorie visibili, additati come potenzialmente pericolosi oppure con l‘indignazione che si produce di fronte alle immagini e ai racconti relativi all‘ultima emergenza umanitaria. In tal modo si impedisce non solo che il cittadino medio prenda coscienza della violenza oggettiva con la quale si trova a contatto quotidianamente, ma anche che sviluppi una riflessione sulla ―complessa interazione‖ esistente tra le tre modalità della violenza: oggettiva, soggettiva, simbolica. “Ecco qual è dunque la lezione: dobbiamo resistere al fascino della violenza soggettiva, inscenata da attori sociali, individui malvagi, apparati repressivi organizzati, folle fanatiche: la violenza soggettiva è soltanto la più visibile delle tre.” 904 Ma ovviamente questo è tutt‘altro che un compito facile da assolvere, poiché ogni giorno ci troviamo letteralmente sommersi da notizie riguardanti omicidi, stupri, attentati terroristici, stragi, torture, atti che calpestano completamente la dignità e i diritti dei singoli individui e che ci spingono a dubitare dell‘effettivo valore e dell‘efficacia di tutti quegli strumenti giuridici che dovrebbero tutelarli, a livello internazionale. A questo proposito, non si può non fermarsi a riflettere sul fatto che tali diritti 902 903 904 S. Zizek, La violenza invisibile, cit., p.8. Ivi, p. 9. Ivi, p. 17. 323 avanzano la pretesa di unificare il mondo, ponendosi come principi universalmente validi che dovrebbero essere rispettati e propugnati da tutti i governi e le istituzioni politiche, in quanto indicano tanto i ―valori‖ che i ―disvalori‖ che dovrebbero funzionare da criteri discriminanti nell‘azione degli Stati905. Il punto è, però, che, se da un lato è vero che i diritti dell‘uomo sono il frutto di una lunga evoluzione storica, che trae il suo fondamento nei codici babilonesi e nelle speculazioni filosofiche degli stoici nell‘antica Grecia, dall‘altro, come ha scritto Norberto Bobbio, che essi ―siano una delle più grandi invenzioni della nostra civiltà è qualcosa di difficilmente contestabile. Se la parola „invenzione‟ apparisse troppo forte, potremmo dire „innovazione‟. Uso qui la parola „innovazione‟ pensando a ciò che diceva Hegel quando sosteneva che il detto biblico „nulla di nuovo sotto il sole‟ non vale per il sole dello spirito, perché il corso di questo non è mai ripetizione, bensì è la mutevole manifestazione che lo spirito dà di sé in forme sempre differenti, ed è quindi essenzialmente un continuo progredire. E' vero che l'idea dell'universalità della natura umana è antica, anche se irrompe nella storia dell'Occidente soltanto col Cristianesimo. Ma la trasformazione di questa idea filosofica dell'universalità della natura umana in istituzione politica (e in questo senso si può parlare anche di invenzione), vale a dire in un modo diverso, e in un certo senso rivoluzionario, di regolare i rapporti tra governanti e governati, avviene soltanto nell'età moderna, attraverso il giusnaturalismo, e trova la sua prima espressione politicamente rilevante nelle „dichiarazioni dei diritti‟ della fine del Settecento.”906 Al di là delle questioni linguistiche, che riguardano la possibilità di parlare di invenzione piuttosto che di innovazione, ciò che conta è che tali concetti non siano più solo esposti all‘interno di un testo di carattere filosofico - come, ad esempio, il secondo dei Due trattati sul governo di Locke - bensì in un documento prettamente politico come la Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776, nel quale si riconosce che tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e titolari di alcuni diritti innati, che, in quanto tali, non possono essere violati entrando nello stato di società, né tramite convenzioni private. È stato questo il decisivo punto di svolta, a partire dal quale è nata quella che Bobbio definisce “una nuova, e intendo letteralmente senza precedenti, forma di reggimento politico”. Quest‘ultima non è meramente identificabile con quel governo delle leggi che, in netta contrapposizione con quello degli uomini, era già lodato da Aristotele e trovava espressione nella massima lex facit regem, non rex facit legem. In questa nuova forma di 905 906 A. Cassese, I diritti dell‟uomo nel mondo contemporaneo, Rizzoli, Milano 2007, p. 77. Tratto da un‘intervista a N. Bobbio consultabile all‘indirizzo http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=529#1 324 regime politico, il governo è rappresentato dall‘insieme degli uomini e delle leggi: ―ovvero gli uomini che fanno le leggi e le leggi che trovano un limite per esse invalicabile nei diritti preesistenti degli individui. Si tratta, insomma, dello Stato liberale moderno, che si dispiega senza soluzione di continuità e per interno sviluppo nello Stato democratico.”907 Tutto ciò ci aiuta a capire come, di fatto, la storia dei diritti umani sia strettamente legata alle lotte e alle conquiste raggiunte all‘interno delle società occidentali, il che implica però che, come ci ricorda David Rieff, “se i diritti giuridici possono fare molto per proteggere e migliorare la condizione degli immigrati o dei membri di minoranze razziali in Occidente, è poco probabile che riescano ad aiutare le vittime di un genocidio. […] Persino in molti dei paesi, specialmente in Africa, che hanno fatto tutto quello che l‟opinione pubblica neoliberale ha chiesto loro di fare, come aprire alla libertà di stampa e allo stato di diritto, lo spettro dell‟AIDS promette di bloccare lo sviluppo sul nascere. Vorrei tanto poter credere alla visione dei vari Michael Ignatieff 908 o di organizzazioni come Human Rights Watch, ma non vedo proprio come sia possibile sostenere che nell‟Africa subsahariana e nella maggior parte dei paesi musulmani non ci sia motivo per sentirsi disillusi. Mi sembra invece che troppo spesso la base del loro ottimismo non stia tanto nel miglioramento delle condizioni di vita della gente, quanto nel miglioramento delle norme giuridiche dei diritti umani»909. Parlando della tutela e del consolidamento a livello internazionale dei diritti dell‘uomo, il riferimento più ovvio è all‘organizzazione delle Nazioni Unite, in particolar modo alle sue attività nell‘ambito sia della risoluzione pacifica dei conflitti che del cosiddetto peacekeeping. Ad uno sguardo attento, infatti, non possono sfuggire i legami esistenti tra il dispiegamento delle operazioni di peacekeeping e la tutela dei diritti fondamentali. Tali legami non si esauriscono nella mera considerazione che la promozione e la tutela dei diritti fondamentali si rivelano, in ultima analisi, funzionali al perseguimento di condizioni di pace e stabilità a livello internazionale e nel fatto che queste operazioni sono normalmente attuate in situazioni di conflitto, generate (e a loro volta generanti) da violazioni dei diritti umani. In realtà, la flessibilità, che è una caratteristica tipica delle suddette operazioni, le ha rese, nel corso del tempo, uno strumento particolarmente significativo per la protezione dei diritti umani. Al contempo, si è manifestata, in maniera sempre più pressante, la necessità che, nella conduzione delle operazioni, le forze 907 908 909 Ibidem. Uomo politico canadese e attivista per i diritti umani. D. Rieff, Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario, Carocci editore, Roma 2005, p. 22. 325 di peacekeeping rispettassero – esse stesse – i diritti delle popolazioni coinvolte. Dunque, non è certo casuale l‘entità dell‘interesse manifestato per la questione dei diritti fondamentali all‘interno delle trattazioni dottrinarie più recenti sul tema delle operazioni di peacekeeping, che ha trasformato un trend, ormai consolidato, che consisteva nello sforzo, fatto dalla maggior parte degli studiosi, di classificare le varie tipologie di operazioni di competenza dell‘ONU.910 ―Il sistema di sicurezza collettivo previsto dalla Carta delle Nazioni Unite ha storicamente sempre implicato una difficile opera di armonizzazione delle libertà individuali con l‟ordine mondiale. Fin dai primordi infatti, tale sistema era tenuto a conciliare efficacia e ideali liberali, dovendo, da un lato, far leva su un adeguato potere politico e militare, dall‟altro, presentarsi come il prodotto di una sorta di „costituente internazionale‟, depositaria dell‟<only power that can persuade without coercing – the power of recognized fairness, wisdom, and truth>.911 A tal fine, il sistema in parola avrebbe dovuto riconoscere e promuovere i diritti dell‟uomo. Ciò anche in forza della necessità di far coincidere i principi e i valori sostenuti dalle autorità internazionali con l‟effettivo rafforzamento degli stessi mediante la loro quotidiana applicazione. Questo apparente dilemma tra sicurezza e libertà ha però spinto talvolta gli Stati e le organizzazioni internazionali a cercare di derogare alla puntuale applicazione dei diritti umani, invocando clausole di eccezionalità. In altre occasioni sono avvenute vere e proprie violazioni ai danni di singoli individui. Richieste di deroghe e violazioni sostanziali sono state parimenti avanzate nel corso di operazioni di supporto alla pace (Peace Support Operations – PSOs) e le stesse sono state altresì generalmente giustificate sulla base della „situazione di emergenza‟ riscontrata sul terreno.”912 Oltre a ciò, un problema non trascurabile, quando si parla di missioni di pace, è quello di trovare un equilibrio tra i poteri dell‘ONU e la sovranità degli Stati nazionali, in quanto spesso l‘intervento armato viene percepito come un‘ingerenza indebita e unilaterale in questioni interne, oltre che come una forma più o meno velata di neocolonialismo o comunque come un tentativo di imporre i propri valori e le proprie istituzioni politiche a paesi considerati arretrati sulla via dello sviluppo. Secondo molti autori inglesi e statunitensi, infatti, un attacco militare contro uno Stato, le cui autorità politiche abbiano compiuto gravi violazioni dei diritti umani, rappresenterebbe senz'altro, salvo rare eccezioni, il trionfo dei valori universali della comunità internazionale e non, al contrario, l‘interesse particolare del suddetto Stato 910 911 912 F. Casolari, Le operazioni di peacekeeping tra protezione e rispetto dei diritti dell‟uomo, in ―Storicamente‖, 4 (2008), http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/casolari.htm. W. E. Rappard, Human Rights in Mandated Territories, in ―Annals of the American Academy of Political and Social Science‖, vol. 243 (Essential Human Rights), 1946, pp. 122-123. M. Tondini, I diritti umani nei conflitti armati e nelle operazioni di pace: l‟equilibrio del diritto tra uso della forza e dovere di protezione, in ―Diritto pubblico comparato ed europeo‖, n° 3 (2006), p. 1179. 326 impegnato nell'azione bellica. Danilo Zolo riconosce che molti condividono quanto sostenuto dal giurista statunitense Michael Glennon, cioè che in un caso simile – come quello della guerra della Nato per la questione del Kosovo nel 1999 - l'uso della forza non sarebbe, in realtà, nient‘altro che uno strumento per realizzare il “grande ideale della giustizia”913, lasciando da parte il formalismo di chi si rifiuta categoricamente di mettere in discussione i canoni ―mummificati‖ del diritto internazionale, opponendosi all'uso della forza quando non formalmente legittimato e autorizzato dalle istituzioni internazionali: “Se la forza delle armi viene usata per fare giustizia, „il diritto seguirà‟, legittimando il fatto compiuto in forme codificate o per via consuetudinaria. Il rispetto della sovranità degli Stati, come ha sostenuto fra gli altri Michael Ignatieff, è problema del tutto secondario rispetto al dovere di tutelare i diritti dell'uomo facendone valere l'universalità anche con l'uso della forza. All'universalità dei diritti umani non può che corrispondere l'universalità degli interventi armati necessari per tutelarli.”914 In realtà, scrive ancora Zolo, riprendendo l‘analisi di Thomas Franck, non si può non essere diffidenti nei confronti di “un‟apologia indiscriminata dell‟uso della forza per finalità umanitarie”915, il che significa sostenere la necessità di distinguere tra interventi umanitari ―genuini‖ e opportunistici. Necessità che appare tanto più fondata se si considera, come fa notare Rieff, che “non si può certo dire che „il diritto di ingerenza funzioni in entrambi i sensi‟[…]Non è neppure immaginabile che gli Stati Uniti o la Francia lascino entrare nei loro paesi delle squadre mediche provenienti da questo o qualunque altro paese africano perché una di queste squadre vi ha riscontrato esigenze di tipo umanitario. E non è neppure immaginabile che l‟Occidente ammetta di doversi assoggettare anch‟esso alle nuove norme che regolano l‟intervento militare a scopo umanitario, sulla base di considerazioni inerenti alla difesa dei diritti umani.”916 Rieff riporta poi l‘esempio delle missioni di pace in Bosnia e Ruanda, che si sono rivelate un completo fallimento, il che è risultato evidente a qualunque attento osservatore tanto all‘interno che all‘esterno del sistema delle Nazioni Unite, e indipendentemente dal fatto che fosse un loro sostenitore o un loro detrattore. In quel contesto, va sicuramente riconosciuto il merito dell‘allora Segretario generale Kofi Annan di aver proposto a Lakdar Brahimi, ex ministro degli Esteri algerino e uno dei più brillanti diplomatici della sua generazione, di studiare delle ipotesi di riforma del sistema delle missioni di pace, stilando 913 914 915 916 M. J. Glennon, The New Interventionism, in ―Foreign Affairs‖, 78 (1999), 3, p. 7. D. Zolo, L‟intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale, in ―Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale‖, III (2007), 1, consultabile all‘indirizzo http://www.juragentium.unifi.it/topics/wlgo/it/kosovo.htm Ibidem. Cit. in D. Rieff, Un giaciglio per la notte, cit., p. 240. 327 un rapporto conclusivo. “Il rapporto era serio, accurato e, agli occhi di chiunque sapesse qualcosa dell‟argomento, essenzialmente improntato al buon senso. Acclamato sin dai primi tempi della sua diffusione, il rapporto Brahimi diede origine a tutta una serie di summit operativi nel mondo, in forza dei quali si disse che le Nazioni Unite e le maggiori potenze del mondo avrebbero finalmente preso in seria considerazione il problema delle missioni di pace. Ma, in privato, i funzionari ONU ammettevano che non c‟era assolutamente alcuna possibilità che simili riforme venissero concesse, per la semplice ragione che queste avrebbero implicato la delega, da parte delle grandi potenze, di un eccessivo potere alle Nazioni Unite e questo era – ed è – assolutamente inimmaginabile, almeno entro un ragionevole margine di tempo.”917 Al di là di questa non trascurabile questione, secondo Rieff il problema di fondo è che, al contrario di quanto sostengono (o fanno finta di credere) gli attivisti per i diritti umani, i funzionari delle Nazioni Unite e gli operatori umanitari, non esiste una visione comune sulle questioni più rilevanti di carattere internazionale. Ciò nonostante la retorica diffusa sia negli ambienti diplomatici che nell‘ambito del sistema ONU e, soprattutto, in seno all‘Assemblea generale si serve continuamente del riferimento alla ‗comunità internazionale‘. A dimostrazione di ciò, è sufficiente esaminare le risoluzioni dell‘AG, che, nella maggior parte dei casi, ricorrono a frasi come ‗la comunità internazionale condanna‘ questo o ‗la comunità internazionale saluta favorevolmente‘ quell‘altro. Un altro chiaro esempio di questa tendenza lo si rintraccia nelle raccomandazioni contenute nel rapporto intitolato ‗Sulla prevenzione di conflitti armati‘, stilato dalla Commissione Carnagie nel 1997, che può essere considerato come l‘espressione ufficiale delle idee dell‘establishment occidentale sul tema della gestione e prevenzione dei conflitti. Tali raccomandazioni sono infatti piene di frasi come ‗la comunità internazionale deve sostenere il principio della gestione responsabile del potere‘ e ‗la comunità internazionale deve moltiplicare gli sforzi per insegnare alle persone, ovunque esse si trovino, che la prevenzione dei conflitti armati è insieme necessaria e possibile‘. Ovviamente, nota Rieff, nessuno si sognerebbe di dissentire, “ma quale persona dotata di raziocinio prenderebbe d‟altronde sul serio l‟idea che esista veramente un soggetto come la comunità internazionale? Dove sono quei valori condivisi che unirebbero gli Stati Uniti e la Cina, la Danimarca e l‟Indonesia, il Giappone e l‟Angola e che farebbero di un simile discorso qualcosa di più che un mero esercizio di retorica autocelebrativa? Certo, esiste un ordine internazionale, dominato dagli Stati Uniti, ed esistono istituzioni 917 Ivi, pp. 25-26. 328 internazionali come le Nazioni Unite, l‟Organizzazione mondiale per il commercio e la Banca mondiale. Ma la realtà è che la comunità internazionale rappresenta un mito nonché una maniera per mascherare la gravità della situazione attuale occultando il futuro sotto le bende infette della pietà. Questo dovrebbe essere chiaro a chiunque consideri il problema dell‟uso della forza.”918 Il punto, continua Rieff nella sua riflessione, è che tanto le grandi organizzazioni internazionali - prima di tutto e principalmente le Nazioni Unite – quanto le norme giuridiche contenute nei trattati internazionali “non sono espressione della comunità, bensì del potere.”919 Ma la mera esistenza delle suddette istituzioni non implica necessariamente che ci sia anche la condivisione di una medesima visione etica. Questo è il motivo fondamentale per il quale, almeno se si esclude la possibilità che vengano istituiti effettivi strumenti che ne garantiscano l‘efficacia, non sembra molto probabile che tali istituzioni saranno molto solide in futuro. Ciò, ovviamente, non significa che seri sforzi non vadano intrapresi in questa direzione, né tanto meno che l‘occasionale successo registrato da tali istituzioni nell‘assolvere ai loro compiti - come è avvenuto, ad esempio, nel caso del processo a Slobodan Milošević dinnanzi al Tribunale penale internazionale, istituito espressamente all‘Aia per i crimini nell‘ex Jugoslavia -, non debba essere auspicabile e salutato, dunque, con favore. “Ma non ci sarà alcuna „giuridicizzazione‟ del mondo, per la semplice ragione che non esiste una comunità internazionale in grado di appoggiare una simile trasformazione.”920 Rieff è molto critico sia nei confronti delle modalità di conduzione delle operazioni umanitarie da parte delle Nazioni Unite, quanto nei confronti delle organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani, colpevoli di diffondere e difendere con ogni mezzo, anche ignorando o omettendo una qualunque cattiva notizia che possa smentire le loro convinzioni, un ingiustificato ottimismo circa l‘avanzare a passi da gigante di quella che viene definita la ―rivoluzione della partecipazione etica‖. L‘idea di fondo è che la progressiva, crescente propagazione di questa cultura dei diritti umani e il suo successivo radicamento rappresenteranno una soluzione ai tanti orrori che quotidianamente hanno luogo nel mondo. Rieff si chiede se tale ottimismo sia effettivamente l‘unica posizione morale legittima, poiché “la verità è che chi non è ancora disilluso non è ancora stato informato della gravità 918 919 920 Ivi, pp. 16-17. Ivi, p. 17. Ivi, p. 18. 329 della situazione.”921 Se da un lato è vero che ogni nuova norma a tutela dei diritti dell‘uomo che entra in vigore rappresenta un seppur piccolo passo in avanti verso la creazione di un sistema giuridico effettivo ed efficace e, dunque, verso la speranza che si arrivi ad una protezione sempre più tangibile e concreta dei singoli individui, dall‘altro niente, di fatto, ci garantisce che questa storia a lieto fine sia in realtà verosimile, “In termini più crudi, non solo non dovremmo avere la coscienza a posto, ma la soluzione e, cosa ben più grave, la fiducia di attivisti per i diritti umani come Ignatieff e come i funzionari delle Nazioni Unite […], proprio perché fondate su una falsa premessa, danno false speranze alla gente che ha un disperato bisogno di soccorso. […] I funzionari delle Nazioni Unite si compiacciono di annunciare ufficialmente il numero di vite che, in tutto il mondo, sono state salvate grazie ai loro sforzi umanitari. E hanno ragione a farlo, ma la loro presenza ha avuto anche dei costi umani, suscitando in persone che avrebbero potuto fuggire e porsi in salvo la falsa speranza che sarebbero state protette.”922 Un‘altra questione particolarmente rilevante che non può essere trascurata è quella della collaborazione sempre più stretta fra operatori umanitari e governi o ricchi enti finanziatori, una collaborazione sicuramente motivata dai costi crescenti degli aiuti e dalle enormi difficoltà che si presentano dal punto di vista logistico e che possono essere superate, nel momento in cui ciò sia davvero urgente e necessario, solo potendo disporre di ingenti somme di denaro, ma che, al contempo, produce una ―politicizzazione‖ degli interventi, sempre più collegati agli interessi delle principali leve del potere politico ed economico a livello internazionale. Ovviamente il problema è che, mentre un pugno di agenzie umanitarie, quelle più grandi e meglio organizzate, possono disporre ogni anno di budget di milioni di dollari, la maggior parte di esse, essendo meno conosciute e avendo dimensioni più piccole e, di conseguenza, una limitata capacità d‘azione, diventano via via più dipendenti dai finanziamenti esterni e dagli interessi degli enti che li erogano, il principale dei quali è l‘Ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione europea (ECHO). È evidente, come abbiamo già precedentemente accennato, che lo stesso discorso vale anche per le missioni umanitarie o di mantenimento della pace, motivate sempre anche da considerazioni di interesse da parte delle grandi potenze. È senz‘altro un‘ovvietà, ma vale la pena ricordarlo in questo contesto, che, nonostante il ―bombardamento mediatico‖ che subiamo quotidianamente, della maggior parte delle tragedie e degli orrori che avvengono 921 922 Ivi, p. 20. Ivi, p. 21. 330 nel mondo non riceviamo alcuna notizia: “ Per ogni Ruanda di cui si parla, esistono dozzine di altre indicibili catastrofi che non attireranno mai l‟attenzione dei cronisti e, anche quando ciò avviene, è solo per una o due volte nell‟arco di un anno. Da un punto di vista politico, questo significa che non ci saranno pressioni da parte dell‟opinione pubblica occidentale perché si faccia qualcosa. Diciamolo pure chiaramente: si possono appoggiare o meno gli interventi umanitari, si può optare per un intervento umanitario che sia nettamente separato dal potere statale o, più realisticamente, che interagisca con esso, ma la realtà è che soltanto l‟Occidente è abbastanza ricco e potente da intervenire in una lontanissima catastrofe umanitaria in maniera risolutiva. Il che non significa, ancora una volta, che i pochi interventi umanitari messi in atto – in Somalia tra il 1992 e il 1993, nei Balcani tra il 1991 e il 1999, in Ruanda all‟indomani del genocidio del 1994 e a Timor est nel 1999 – siano stati totalmente disinteressati. Non è così che agiscono le grandi potenze e immaginare il contrario significa confondere il sogno con la realtà.”923 A questo proposito, Rieff ricorda il caso della missione delle Nazioni Unite in Somalia, durata dal 1992 al 1995, di cui le istituzioni politiche americane davano una visione fortemente idealizzata, al punto che l‘allora presidente Bill Clinton arrivò a dire che gli Stati Uniti ―erano venuti in Somalia per salvare degli innocenti intrappolati in una casa in fiamme”, tralasciando, ovviamente, di affrontare lo scomodo discorso su quali siano costi e mezzi accettabili per portare a compimento una simile onorevole impresa. Tale visione estremamente buonista e semplificativa funzionava solo a patto che non vi fossero state perdite, tanto è vero che lo stesso Clinton fu costretto a giustificarsi, sostenendo dapprima di non essere stato debitamente informato dell‘operazione per catturare Aidid (il più potente signore della guerra somalo) e decidendo poi, all‘indomani della catastrofe, di trattare con quest‘ultimo il ritiro delle forze statunitensi. “Gli Americani si erano nutriti di una bella favola e, quando la dura realtà fece capolino, era scontato che vi sarebbero state pressioni sia politiche che da parte dell‟opinione pubblica per allontanare il prima possibile i soldati da quell‟imprevisto pericolo. […] Ma nonostante i tanti interventi militari a scopo umanitario in Bosnia, nel Kosovo e a Timor Est, i medesimi imbarazzi continuano immancabilmente a verificarsi. Solo quando l‟umanitarismo diventa un tutt‟uno con l‟interesse nazionale, così come è stato per la maggioranza degli americani con la guerra in Afghanistan, è probabile che vi sia una certa tolleranza in caso di perdite. È proprio per questa ragione che la fiducia degli operatori umanitari nel potere delle immagini e nella fantasia utopistica di un villaggio 923 Ivi, p. 43. 331 globale di etica partecipazione è un‟immane trappola.”924 Per concludere, di fronte alle questioni sollevate emergono, come è evidente da quanto detto finora, alcune contraddizioni alle quali è difficile sottrarsi: anzitutto la retorica della tutela dei diritti umani, della giusta punizione delle loro violazioni e della necessità di esportare i principi democratici e i modelli eurocentrici925, di cui i paesi occidentali si riempiono la bocca, nasconde troppo spesso il tentativo di difendere e sviluppare ben meno nobili interessi economici e politici; inoltre, il fatto che si continui a proclamare da più parti l‘ovvietà del legame tra pace e diritti umani, nel senso che l‘obiettivo della loro effettiva tutela e garanzia possa essere raggiunto solo all‘interno di un contesto pacifico, stride profondamente con i mezzi utilizzati a tale scopo, che, il più delle volte, implicano il ricorso alle armi e dunque alla violenza. L‘ipocrisia di fondo emerge con estrema chiarezza dagli interrogativi sollevati da Zizek che solleva la domanda: “Che tipo di universo è quello in cui viviamo, che può autocelebrarsi come una società delle scelte ma in cui la sola alternativa possibile a un consenso democratico coatto è un cieco agire? Il triste fatto che l‟opposizione al sistema non possa svilupparsi in un‟alternativa realistica, o almeno in un progetto utopistico sensato, ma possa prendere soltanto la forma di un‟esplosione di violenza senza senso, illustra in modo allarmante la situazione in cui ci troviamo. A cosa serve la nostra tanto decantata libertà di scelta quando l‟unica scelta è quella tra il rispetto delle regole e una violenza (auto) distruttiva?”926 924 925 926 Ivi, pp. 41-42. Anche per N. Bobbio, L‟età dei diritti, cit., pp. 37 – 38, sembra fondamentale ricorrere a più ampie prospettive che, però allo stato attuale, non sembrano comportarsi come auspicato dal filosofo: “Eppure si potrà parlare a ragion veduta di tutela internazionale dei diritti dell‟uomo solo quando una giurisdizione internazionale riuscirà a imporsi e a sovrapporsi alle giurisdizioni nazionali, e si attuerà il passaggio dalla garanzia <dentro> lo stato – che contrassegna ancora prevalentemente la fase attuale – alla garanzia <contro> lo stato. Si ricordi che la lotta per l‟affermazione dei diritti dell‟uomo all‟interno di singoli stati fu accompagnata dalla instaurazione dei regimi rappresentativi, cioè dalla dissoluzione degli stati a potere concentrato….è probabile che la lotta per l‟affermazione dei diritti dell‟uomo anche contro lo stato presupponga un mutamento…circa la concezione del potere esterno dello stato nei confronti degli altri stati e un aumento del carattere rappresentativo degli organismi internazionali.” S. Zizek, La violenza invisibile, cit., p. 80. 332 4. Economia, uguaglianza e D.U.: il terreno dello scontro già in atto La civiltà occidentale moderna può essere definita la ―civiltà del capitalismo‖, poiché esso ha caratterizzato ben due secoli della nostra storia, evolvendosi, nella sua ultima fase, in una forma estrema che segna “la separazione completa dell‟economia dalle altre istituzioni, in particolare sociali e politiche, che non possono più controllarla.”927 Nel suo sviluppo, dal Settecento ad oggi, il capitalismo ha attraversato almeno tre fasi tutte contrassegnate da una particolare relazione con gli spazi fisici, simbolici e sociali. Una prima tappa è costituita dall‘epoca che Sombart definisce del ―capitalismo eroico‖, durante la quale l‘iniziativa economica e commerciale conobbe un notevole sviluppo e incremento, la società civile si rese autonoma tramite la creazione di nuovi spazi sociali e maggiori garanzie di libertà, la borghesia divenne la classe dominante e nuovi fermenti politici, alimentati dall‘esempio della costituzione americana, cominciarono a farsi strada in Europa per poi condurre lentamente all‘idea di nazione, a quella di Stato e, infine, al concetto di democrazia rappresentativa.“Per Sombart è l‟uomo nuovo, l‟uomo del Rinascimento che, di fronte ai nuovi orizzonti, ai nuovi spazi geografici e sociali sviluppa quello <spirito acquisitivo> che sarà poi definito teoricamente da Adam Smith. Il capitalismo moderno ha per Sombart non solo un significato economico. Esso possiede uno spirito e un‟anima. Esso si traduce in una mentalità e in una nuova concezione antropologica della vita … Col tempo tuttavia questo tenderà ad oggettivarsi nella struttura e nell‟anonimità irresponsabile dell‟impresa”928 La seconda tappa si ha alla fine del XIX secolo ed è quella del ―capitalismo industriale‖, che si è procurato nuovi spazi di espansione, tramite una decisa politica imperialista e colonialista e che ha segnato il declino dell‘aristocrazia borghese, ormai incapace di controllare tali fenomeni, lasciando, così, spazio allo sviluppo e all‘affermazione della società di massa. Arriviamo così ai nostri giorni, l‘epoca del cosiddetto ―capitalismo finanziario‖, caratterizzato dal predominio assoluto della logica economica, da un gigantesco processo di mercificazione che investe tutto e tutti, proclamando la supremazia dell‘interesse economico su ogni altra cosa; una forma di capitalismo fondata sulla moltiplicazione dei fenomeni di massa, sulla globalizzazione e sul conseguente superamento di confini e frontiere, oltre che sull‘egemonia culturale occidentale. Questo nuovo capitalismo si è sviluppato verso la fine degli anni Sessanta, una volta completata la ricostruzione post-bellica e, poi, con la crisi energetica degli anni Settanta; esso ha iniziato a 927 928 A. Touraine, Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d‟aujourd‟ hui, cit., p. 335. C. Mongardini, La società del nuovo capitalismo. Un profilo sociologico, Bulzoni editore, Roma 2007, p. 19. 333 percepire i confini dello Stato nazionale come limitanti e ha perciò cominciato ad espandersi a livello globale, non solo dal punto di vista industriale. Ora, infatti, anche il denaro ha perso la sua fisicità e si è trasformato in denaro elettronico, che è in grado di spostarsi in tempo reale e su scala globale. Con la sua finanziarizzazione, il capitalismo ha acquisito un‘influenza sempre maggiore nei confronti della politica e ha così reso i regimi democratici solo formali, dato che “l‟economia non conosce la democrazia e una delle funzioni della politica nella modernità è stata quella di creare degli argini sociali all‟espansione degli interessi di parte.”929 A livello antropologico il capitalismo finanziario ha portato al limite estremo lo ―spirito acquisitivo‖, scindendo l‘individuo in due anime contrapposte: da una parte la personalità egoista ed edonista dell‘homo oeconomicus, dall‘altra l‘identità individuale, racchiusa nella cultura del presente e attratta dalla partecipazione, solo aleatoria e superficiale, ai fenomeni di massa. Parallelamente alla concentrazione del capitale, alla razionalizzazione della vita collettiva e allo sfrenato progresso tecnologico si assiste ad una crescente limitazione delle libertà individuali, che avviene comunque nell‘ambito della legalità, sfruttando le paure diffuse in questi ultimi anni e accrescendo la forza di poteri che manifestano tendenze sempre più totalitarie. Quindi, mentre nelle due epoche precedenti, il capitalismo ha creato nuove condizioni di libertà e giustizia, tramite la costituzione della democrazia rappresentativa, oggigiorno l‘economicismo ha fatto sì che la politica perdesse la sua autonomia, e con essa tutto il suo senso e le sue funzioni principali, essendo totalmente soggiogata al solo principio dello sviluppo economico; essa si è allontanata da quelli che sono i reali problemi della vita sociale, si è ―mediatizzata‖ e personalizzata, abbandonandosi alla volubilità dei suoi capi “spesso privi di carisma perché provenienti dalla burocrazia di partito, che hanno più contatto con i propri gregari che con le reali necessità del paese che intendono governare, vivono in un recinto politico che non ha più autonomia e non ha occhi per guardare ciò che si muove al di là della contingenza del presente.”930 A partire dalla Rivoluzione francese, il compito della politica non è stato più quello, tipico dell‘ancien régime, di bilanciare il potere del sovrano per mezzo dell‘equilibrio di poteri ipotizzato da Montesquieu, ma, invece, quello di costruire dalla molteplicità dei governati una volontà politica unitaria, tramite un patto di dominio che assicurasse prestigio e privilegi alla classe politica, che doveva, però, perseguire il bene comune e la protezione di tutti i cittadini, a loro volta chiamati alla sottomissione. 929 930 Ivi, pp. 26-27. Ivi, p. 30. 334 Negli ultimi decenni il tardo capitalismo ha creato le premesse per l‘erosione dei sistemi democratici, alterando quelli che sono sempre stati considerati gli elementi costitutivi degli Stati nazionali. Per prima cosa, i confini sono divenuti permeabili ai flussi migratori, monetari e alle influenze culturali più disparate attraverso la comunicazione globale; il popolo vive solo nella cultura del presente, non ha più il senso della continuità storica e la percezione del futuro. Infine anche gli stessi ordinamenti giuridici e i dettati costituzionali, che ne costituiscono le fondamenta, sono costantemente soggetti a modifiche esterne e di parte. Tutte queste trasformazioni sono in gran parte imputabili al capitalismo finanziario, che, come già precedentemente accennato, aveva bisogno per il suo sviluppo di superare i confini degli Stati e delle singole culture e di creare organismi sovranazionali i quali, controllando l‘economia, riuscissero a conquistare un‘influenza determinante anche sulla politica mondiale (il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, la Banca Mondiale). Si è giunti, così, all‘“affermarsi di una società centrifuga” sempre più caratterizzata da processi quali: “la prevalenza degli interessi, la persistenza dei fenomeni oligarchici, i processi spazialmente limitati di democratizzazione, la permanenza di un potere invisibile e la mancata educazione della cittadinanza.”931 Un‘ulteriore conseguenza nefasta della terza fase del capitalismo è la cosiddetta proletarizzazione delle nuove generazioni, intesa come una crescente dipendenza dai fenomeni di massa e dalla condizione di precarietà psicologica e sociale cui sono sottoposte, dal momento in cui anche il lavoro è divenuto precario. “L‟ideologia dominante spaccia l‟insicurezza causata dallo smantellamento dello stato sociale come un‟opportunità per nuove libertà. Se la flessibilizzazione del lavoro significa che devi cambiare lavoro ogni anno, perché non considerarla una liberazione dalle catene di una occupazione fissa, come una possibilità di reinventare te stesso e realizzare il potenziale nascosto della tua personalità? Se si verifica un taglio all‟assistenza sanitaria e delle pensioni che comporta la necessità di una copertura integrativa, perché non considerarla un‟opportunità in più di scegliere: una migliore qualità della vita adesso, o la sicurezza a lungo termine? Se questo ragionamento ti spaventa, gli ideologi della <seconda modernità> concluderanno che desideri <sfuggire alla libertà>, che sei attaccato in modo immaturo a vecchie forme di stabilità.”932 Molti studiosi, negli anni, si sono concentrati sulla disamina della fine del capitalismo: tra gli altri, ad esempio, Weber, secondo cui esso non può essere eterno perché “condannato a perire nella gabbia della crescente burocratizzazione oppure ad essere 931 932 Ivi, p. 77. S.Zizek, Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 24-25. 335 banalizzato come in America, dove lo si considera come un gioco”,933 o, ancora, Schumpeter, che riflette sul fatto che la ―distruttività creatrice‖ del capitalismo, ossia la sua costante capacità di distruggersi e ricrearsi in forme nuove, non durerà per sempre perché, una volta oggettivato e astratto dall‘individuo, il suo spirito imprenditoriale lascerà il posto al solo ―spirito acquisitivo‖, ossia al mero economicismo. La crisi attuale deriva proprio da tali radicalizzazioni e, al riguardo, Hessel scrive che “il pensiero produttivistico promosso dall'Occidente ha trascinato il mondo in una crisi per uscire dalla quale è necessario rompere radicalmente con la vertigine del <sempre di più>, sia in ambito finanziario sia in quello delle scienze e della tecnica. E' ormai tempo che etica, giustizia ed equilibrio duraturo diventino preoccupazioni prioritarie. Perché i rischi cui siamo esposti sono gravissimi, e potrebbero mettere fine all'avventura umana su un pianeta che diventerebbe inabitabile.”934 Tali considerazioni risultano oggi così attuali da spingere a ripensare del tutto le basi della società, che vanno ricostruite su concetti distanti da quelli di economicismo e di profitto. In un quadro tanto nero quanto quello fino ad ora descritto, si inserisce un‘altra questione, che ha assunto via via una rilevanza sempre maggiore nel corso dell‘età contemporanea: lo sviluppo e la tutela internazionale dei diritti umani nell‘era della globalizzazione. Una questione quanto mai al centro di riflessioni e dibattiti, in quanto le attuali dinamiche sociali, politiche ed economiche di carattere globale hanno comportato, come già sottolineato, una graduale e sempre più totale inadeguatezza delle istituzioni tradizionali, sia a livello nazionale che sovranazionale, oltre che la drastica riduzione della sfera del potere e della capacità di intervento dello Stato-nazione, con la conseguente ascesa di potenti attori non statuali, come le istituzioni finanziarie e le multinazionali, che, però, sono ancora svincolati dalle norme del diritto umanitario. A questo punto bisogna chiedersi se abbia senso oggi parlare di comunità internazionale e quale ruolo, sia essa che i singoli Stati, possono avere nella difesa dei diritti umani, che dovrebbero, di certo, rivestire un ruolo centrale per la ricostruzione dell‘attuale sistema. Partendo dalla definizione di ―decennio della globalizzazione‖935, attribuita agli anni Novanta, risulta, certamente, di primaria importanza ripensare l‘intero sistema dei diritti umani, proprio in virtù dello sviluppo del processo di globalizzazione e in funzione del rapido susseguirsi di tutti gli avvenimenti, ad esso connessi, che, in pochi decenni, hanno 933 934 935 M. Weber, L‟etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965, pp. 305-306. S. Hessel, Indignez-vous, cit., pp. 27 – 28. S. Yusuf, The changing development landscape, in Financial Development, dicembre 1999, 36/4, p. 15. 336 radicalmente cambiato il mondo. Tale sistema, concepito più di mezzo secolo fa, risulta sempre più inadeguato, anzitutto perché, coerentemente con il periodo storico nel corso del quale si è consolidato, è stato fondato su basi puramente statocentriche, che, oggi, vacillano sotto il peso della globalizzazione dell‘economia e del neoliberismo dominante. Lo Stato è ormai ridotto ad essere un”< guardiano notturno> della legge e dell‟ordine. Il resto lasciato sempre di più alle operazioni di un mercato globale presupposto libero, in realtà fortemente dominato da diecimila multinazionali e da potenti istituzioni finanziarie internazionali … In questo modello, caratterizzato dalla <deregulation> del potere di attori privati mossi dalla logica dell‟efficienza economica e della massimizzazione del profitto, favorevole alla privatizzazione anche dei servizi pubblici più essenziali, in cui le esigenze connesse al rispetto dei diritti sono sistematicamente messe in secondo piano, … i deboli del mondo, coloro che non hanno potere contrattuale e potere di acquisto, sono destinati ad essere spazzati via.”936 Secondo Alston è necessario oggi più che mai ristrutturare il diritto internazionale, in particolare estendendo la portata del principio di responsabilità, senza cui il significato stesso del sistema di diritto sarebbe pressoché nullo, non solo agli Stati, ma anche a quegli attori non statuali, come le multinazionali o le istituzioni finanziarie internazionali, cui precedentemente si accennava, che attualmente sono ancora svincolati da tali norme. Bisogna far sì che la società civile in generale si trasformi da mera appendice marginale in una parte integrante del sistema complessivo. Oggi il valore dominante è considerato il rispetto del libero mercato e anche i diritti umani cominciano ad essere valutati dal punto di vista della loro compatibilità con lo stesso “Nel mondo della globalizzazione, per sostenere una reazione energica contro la discriminazione di genere o altre forme di discriminazione, contro la soppressione dei sindacati o contro la mancanza di cure mediche o di servizi educativi, non basta più dimostrare che questi comportamenti sono contrari agli standard sui diritti umani, ma si deve anche aggiungere la dimostrazione che essi ledono gli imperativi dell‟efficienza economica e il funzionamento del libero mercato.”937 Inoltre gli stessi mezzi di cui si è servita la globalizzazione per espandersi a dismisura, quali la riduzione al minimo delle funzioni dei governi, le privatizzazioni, il libero mercato, la deregulation, hanno acquisito lo status di veri e propri valori all‘interno delle società contemporanee. Secondo l‘autore, è evidente che questo mondo globalizzato presenta una serie di caratteristiche incompatibili con il regime dei diritti umani, che, a sua volta, non sembra 936 937 P. Alston, A. Cassese, Ripensare i diritti umani nel XXI secolo,Ega editore, Torino 2003, pp. 6-7. Ivi, p. 24. 337 adattarsi ai cambiamenti dovuti alla globalizzazione stessa. Difatti quest‘ultima “si basa su flessibilità, adattabilità, policentrismo, informalità, rapidità; esige risposte su misura e innovative all‟altezza della velocità con cui cambiano gli scenari …”al contrario, “il sistema dei diritti umani … lo si può caratterizzare come solido, basato su principi, non facilmente manipolabile, votato alla correttezza delle procedure e attento a non oltrepassare i limiti oltre i quali non è autorizzato ad andare.”938 A questo punto sarebbe necessario chiedersi se possa ancora essere considerato valido, al giorno d‘oggi, un regime come quello dei diritti umani, basato sull‘idea di stabilire norme e di imporre forme di controllo e responsabilità. Come può e potrà essere fatto rispettare? Alston risponde a tale quesito ipotizzando la necessità di elaborare ―un indicatore che misuri il grado in cui i governi rispettano gli obblighi di rendicontazione sul piano internazionale delle loro politiche in materia di diritti umani.”939 Bisognerà, inoltre, prendere in seria considerazione gli attori non statuali, come ad esempio le organizzazioni non governative e le imprese multinazionali, considerate le nuove principali forze del sistema internazionale, e lavorare per l‘integrazione delle stesse in una concezione più ampia della comunità internazionale, affinché anch‘esse siano sottoposte alle norme del diritto umanitario. Un‘altra interessante analisi sul tema trattato è quella di Antonio Cassese, secondo cui una delle principali problematiche relative all‘attuale sistema di protezione internazionale dei diritti umani è legata alla sua eccessiva estensione: le istituzioni internazionali, difatti, vorrebbero promuovere tutti i diritti umani, sia quelli civili che politici, economici, sociali o culturali, considerati universali e indivisibili. A ciò si devono aggiungere la lentezza, l‘inefficacia e la complessità dei meccanismi di monitoraggio esistenti, oltre alla previsione pessimistica relativa ad un aumento esponenziale delle tensioni in ambito economico, politico e ideologico, causate dal divario e dalla crescente polarizzazione tra paesi ricchi e poveri, dal peggioramento delle condizioni climatiche e dal costante incremento nella vendita di armi. Di fronte ad un tale scenario, caratterizzato dall‘aumento esponenziale della violenza, che, secondo Eric Hobsbawm fa parte di un più generale ―processo di barbarizzazione‖ diffusosi a partire dalla prima guerra mondiale,940 si dovrebbe rafforzare il sistema di controllo e di attuazione dei diritti umani, concentrandosi, principalmente, su un ristretto numero di diritti essenziali e su pochi meccanismi di supervisione o garanzia di attuazione degli stessi. In questo insieme Cassese include diritti 938 939 940 Ivi, pp. 30-31. Ivi, p. 35. E. Hobsbawm, La fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007, p. 77. 338 di importanza vitale per i paesi in via di sviluppo come il diritto all‘alimentazione, il diritto al lavoro e il diritto ad un ambiente sano. Le istituzioni internazionali, invece, dovrebbero concentrarsi più sul rispetto di diritti civili e politici quali il diritto alla vita, il diritto dell‘individuo a non essere oggetto di arresto o detenzione arbitraria, a non essere sottoposto a torture o a trattamenti o punizioni crudeli, inumani, o degradanti e a non subire discriminazioni né nel proprio né in qualsiasi altro paese. Per quanto riguarda le garanzie di applicazione, bisognerebbe porre in atto la cosiddetta strategia di enforcing, che può essere perseguita seguendo due linee di azione: in primo luogo, diffondendo il ricorso alla giurisdizione penale delle corti nazionali relativamente ai crimini internazionali, secondo il principio di universalità, in base al quale ogni Stato ha il potere di processare le persone accusate di crimini internazionali indipendentemente dal luogo di commissione del delitto (criterio di territorialità), dalla nazionalità dell‘autore del fatto (criterio di nazionalità attiva) o da quella della vittima (criterio di nazionalità passiva); in secondo luogo, ricorrendo, in via eccezionale, all‘uso della forza per porre fine alle atrocità più estese. Al riguardo, la Carta delle Nazioni Unite in nessun punto autorizza gli Stati a utilizzare individualmente la forza contro altri Stati al fine di garantire la pace e la sicurezza internazionale; solo il Consiglio di Sicurezza può autorizzare in via eccezionale l‘uso della forza. Esso dovrebbe, però, “rispondere in modo più pronto alle flagranti e sistematiche violazioni dei diritti umani”941 e essere messo in condizione di poter attivare, in tali circostanze, “una specie di <Forza di reazione rapida>, da istituire e da mettere a disposizione del Consiglio stesso.”942 Ma se quest‘ultimo si rivela incapace di intervenire prontamente, ad esempio a causa del veto posto da uno dei suoi membri permanenti, Cassese suggerisce in alternativa il ricorso all‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite, necessario per risolvere tempestivamente la problematica o, ancora, l‘autorizzazione, legittimata a seguito di decisioni collettive prese dalle istituzioni internazionali, all‘uso della forza. A sostegno di questa tesi si adducono vari precedenti di interventi fatti a scopo umanitario, o presentati come tali, e avvenuti senza il consenso dell‘ONU, tra i quali: l‘intervento del Vietnam in Cambogia, quello dell‘ECOWAS (Economic Community of Western African States) nel 1990 in Liberia, l‘intervento nel 1991 nell‘Iraq del Nord da parte di truppe statunitensi, francesi e inglesi, giustificato ufficialmente come strumento necessario a proteggere le popolazioni curde dalla politica di repressione di Saddam Hussein e, ancora, i bombardamenti della NATO contro la Iugoslavia. 941 942 P. Alston, A. Cassese, Ripensare i diritti umani nel XXI secolo, cit., p. 106. Ibidem. 339 Una cosa emerge chiaramente da quest‘analisi, ossia il fatto che l‘attuazione dei diritti umani richiede necessariamente l‘esercizio di un potere. Ma all‘interno di tale potere è possibile far rientrare anche tutte quelle operazioni militari che comportano esse stesse la violazione dei diritti che sono chiamate a proteggere? “Qualcuno è forse disposto ad avanzare seriamente la tesi per cui interventi militari come quelli della NATO contro la Iugoslavia o della coalizione USA-Gran Bretagna (perché di questa in effetti si è trattato) contro l‟Iraq, non comportano nessuna violazione di diritti?Ma già le politiche di sanzioni – comprese quelle decise in varie occasioni dal Consiglio di Sicurezza (da quelle contro la Repubblica Sudafricana al tempo dell‟ apartheid ufficiale, a quelle contro l‟Iraq) – hanno avuto effetti devastanti sui diritti di milioni di persone.”943 Difatti, come più volte rilevato dai rapporti del Comitato ONU sui diritti economici, sociali e culturali, le sanzioni determinano spesso interruzioni nella distribuzione di cibo, prodotti farmaceutici e sanitari, compromettono la qualità dell‘alimentazione e l‘accesso all‘acqua potabile, abbattono il diritto al lavoro e colpiscono gravemente il funzionamento dei servizi sanitari di base e dell‘istruzione944. Se questi sono gli effetti delle sole politiche di sanzioni, è facile immaginare quanto possano essere devastanti i massicci interventi armati sui diritti umani delle popolazioni dei paesi coinvolti. Un ulteriore problema che è necessario affrontare, sempre riguardo il sistema dei diritti umani, è rappresentato dall‘espansione dell‘egemonia, anche militare, degli Stati Uniti nel mondo; la politica di questo paese, da più di sessant‘anni, viene ufficialmente presentata e giustificata come ispirata alla promozione dei diritti umani. Già nel 1941 il presidente Roosevelt, rivolgendosi al Congresso, auspicava e proponeva la creazione di una nuova società mondiale fondata sul rispetto, da parte di tutti gli Stati, di alcuni diritti considerati fondamentali: la libertà di parola e di pensiero, quella di culto e la libertà dalla fame e dalla paura. Immancabilmente, ogni volta che sono intervenuti militarmente sulla scena internazionale (come in Somalia, Bosnia, Kossovo o Iraq) gli Usa hanno fatto riferimento alla protezione dei diritti umani, anche se, poi, in realtà, i fatti non hanno corrisposto alle intenzioni. E‘ noto infatti, al riguardo, che gli Usa sono i maggiori esportatori di armi del mondo e che si sono rifiutati di ratificare vari Patti e Convenzioni, volti a dare maggiore concretezza al sistema del diritto umanitario: non hanno ratificato, ad esempio, il Patto ONU sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, la Convenzione sull‘eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna del 1979, né quella sui diritti dell‘infanzia del 1989 (unico paese al mondo insieme alla Somalia). Inoltre, pur avendo ratificato il Patto ONU sui 943 944 Ivi, p. 17. Cit. in P. Alston, Diritti umani e globalizzazione, EGA, Torino 2002, p. 13. 340 diritti civili e politici, hanno formulato importanti riserve relative sia all‘articolo 6(5) che proibisce la pena di morte per reati commessi da persone che abbiano meno di diciotto anni di età, stabilendo che “<nella legislazione presente e futura> degli Usa la pena capitale può essere comminata anche a persone per reati commessi quando erano minori”945, che, ancora, all‘articolo 7 che proibisce punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sottolineando che gli Stati Uniti sono vincolati da tale articolo “soltanto nella misura in cui <punizione o trattamento crudele, inumano o degradante> significa punizione crudele o inusuale come proibita dalla costituzione americana”946. Una simile riserva riguarda l‘accettazione della Convenzione contro la tortura del 1984; manca, infine, la ratifica del trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Alla luce di quanto detto, risulta evidente che gli attori del sistema internazionale dei diritti umani dovrebbero battersi per impedire che l‘egemonia militare americana prevalga a livello globale, così come la suddetta concezione riduttiva dei diritti stessi, e affinché nessuno smetta mai di indignarsi di fronte a tali violazioni. “Finché si chiederà ai governanti responsabili di tali violazioni di dare conto dei loro misfatti e finché altri governi saranno pronti a reagire anche con la forza all‟oppressione e all‟ingiustizia, si può sperare di porre un argine alle barbarie.”947 E‘ evidente che presentare una crisi come umanitaria, ovvero rileggere un conflitto politico-militare in termini umanitari, è sempre frutto di una scelta eminentemente politica. Al riguardo Slavoj Zizek scrive che“Da questo punto di vista specifico possiamo riconsiderare, più in generale, la politica apparentemente depoliticizzata dei diritti umani come l‟ideologia dell‟interventismo militare al servizio di precisi scopi economico-politici […] Tale umanitarismo si presenta come qualcosa di antipolitico, una semplice difesa degli innocenti e dei deboli contro il potere, una difesa dell‟individuo contro le macchine immense e potenzialmente dispotiche della cultura, dello stato, della guerra, dei conflitti etnici, del tribalismo, del patriarcato, e di altri movimenti o istanze di potere collettivo che si oppongono agli individui.”948 In conclusione, è opportuno chiedersi qual è la politica che i soggetti che intervengono in nome dei diritti umani vogliono attuare e quale tipo di giustizia propongono. Ad esempio è ovvio che la cacciata di Saddam Hussein da parte degli Usa, legittimata dall‘obiettivo di porre fine alla sofferenza del popolo iracheno, era ispirata soltanto da meri interessi politico-economici e dalla precisa volontà di esportare anche in 945 946 947 948 P. Alston, A. Cassese, Ripensare i diritti umani nel XXI secolo,cit., p. 13. Ibidem. Ivi, p. 109. S. Zizek, Contro i diritti umani, cit., p. 56. 341 Iraq il capitalismo liberal-democratico, padre dell‘economicismo occidentale, presentandolo come la culla all‘interno della quale si sarebbe potuta sviluppare la libertà irachena. In realtà tale politica definita ―umanitaria‖ e ―orientata ad alleviare le sofferenze‖ dei popoli del mondo “equivale a un implicito divieto di elaborare un progetto collettivo concreto di trasformazione sociopolitica.”949 5. L‘uso strumentale della forza: dall‘O.P., alle guerre preventive fino agli interventi ―umanitari‖ Una delle caratteristiche dominanti all‘interno delle società moderne è la percezione della soglia di criminalità da parte della popolazione. Come è noto, la percezione si distanzia, in alcuni casi di molto, da quello che è il tasso reale di criminalità. Cioè, il numero dei crimini commessi non è molto spesso in diretta relazione con gli effetti che provoca all‘interno dell‘opinione pubblica e, più in generale, tra le persone. Un omicidio efferato, ad esempio, per le modalità con cui è stato commesso, è sicuramente percepito ed amplificato all‘interno delle coscienze della pubblica opinione, alzando così il livello di pericolosità avvertito, che non gli innumerevoli casi di omicidi colposi derivanti da violazioni del codice della strada. Pertanto, molto spesso, siamo abituati a considerare i livelli di criminalità non in relazione all‘effettività e alla consistenza dei fenomeni, ma semplicemente alla diffusione conoscitiva nei confronti dell‘opinione pubblica. Parlare dell‘11 settembre significa essenzialmente parlare di terrorismo; eppure, a ben vedere, tutta la situazione non è stata trattata o considerata come tale. Negli anni ‘70, l‘Italia, così come altri Paesi (Inghilterra, Spagna), ha conosciuto episodi terroristici di ben più vasta durata e portata (Nar, Br, Eta, Ira); eppure, i mezzi con cui sono stati vittoriosamente contrastati riguardavano una normale attività di polizia e non certo un‘attività di carattere militare come è stato in questo caso. Che in generale la nostra epoca sia un‘epoca più violenta è fuor di dubbio, ma non per questo necessariamente significa fare ricorso a forme eccezionali di contrasto o adottare normative di emergenza. Parlare di episodi criminali significa non parlare solamente di terrorismo, ma anche, ad esempio, di fenomeni spontanei all‘interno dei nostri agglomerati urbani (si pensi al teppismo calcistico che ciclicamente si presenta nonostante l‘adozione ad hoc di misure cosiddette ―eccezionali‖). In parte, potremmo attribuire questa crescita della violenza anche alla maggiore disponibilità ed accessibilità di armamenti e di strumenti atti ad offendere. E‘ un 949 Ivi, p.57. 342 dato statistico che i ragazzi oggigiorno circolino con in tasca oggetti atti ad offendere, pure se le motivazioni per cui vengono detenuti corrispondono ad una necessità di difesa. ―Ma, naturalmente, il disordine pubblico, anche nella forma estrema del terrorismo, non dipende dalla disponibilità di equipaggiamenti costosi o ad alta tecnologia, come ha dimostrato lo stesso 11 settembre 2001. I dirottatori degli aerei che hanno abbattuto le Torri Gemelle erano armati soltanto di taglierini. […] Così, pur senza dimenticare che il mondo d‟oggi è pieno di cose che uccidono e mutilano più di quanto non lo sia mai stato, dobbiamo tener presente che questo è solo un elemento del problema.‖ 950 Le dimensioni del fenomeno dell‘ordine pubblico dal 1970 in poi sono indubbiamente in crescita e questo ha provocato un aumento dell‘organico delle forze di polizia951 in tutti i Paesi – stranamente, solo in Italia, a fronte di un sempre più ventilato ―pericolo criminale‖ di volta in volta visto negli immigrati, nella mafia, nella criminalità diffusa, le forze di polizia sono in calo ed è previsto che abbiano una riduzione del 30% dell‘organico entro il 2015. Ciò non significa che l‘attenzione prestata al settore dell‘ordine pubblico sia minore ed anzi è facile constatare come proprio la specializzazione dei materiali e degli uomini addetti al controllo delle folle sia particolarmente oggetto di interesse della politica e dei tecnici del settore. A parte l‘adozione di misure di difesa passive (utilizzo di corazze, parabraccia, paragambe, etc.) vi è anche un‘incentivazione dei mezzi di dissuasione che, sulla base di quelli utilizzati in Europa, possiamo sostanzialmente dividere in quattro sistemi: lacrimogeni, pistole con proiettili di gomma, cannoni ad acqua e dispositivi di stordimento (teser). L‘utilizzo di questi sistemi trova un accoglimento diversificato a seconda dei Paesi che debbono utilizzarli; in Italia, ad esempio, a parte i lacrimogeni, è da poco subentrato nuovamente l‘utilizzo del cannone ad acqua, mentre negli altri paesi ne è previsto l‘uso congiuntamente o in maniera diversificata. Perfino il bobby inglese, così noto e fiero del fatto di andare in giro disarmato, ha dovuto ricredersi e fare i conti con la realtà. Hobsbawm fornisce un‘interessante spiegazione sul perché ci siano stati questi sviluppi: da una parte accredita il sistema di un progressivo imbarbarimento della realtà 950 951 E. J. Hobsbawm, La fine dello Stato, Edizioni Rizzoli, Milano 2007, p. 98. Ivi, p. 99. "Dal ‟71 ad oggi, le dimensioni delle forze di polizia in Gran Bretagna sono cresciute del 35 per cento; e, alla fine del secolo, per ogni diecimila cittadini c‟erano trentaquattro agenti di polizia, contro i 24,4 di trent‟anni prima (un aumento di più del 40 per cento). E questi dati non tengono conto