L’ANALISI REALE NEL 19° SECOLO
1. Osservazioni introduttive. Il 19° secolo è stato spesso chiamato l’epoca del
rigore nella matematica. La ricerca del rigore non si limitò a chiarire alcuni concetti
essenziali e a migliorare la dimostrazione di alcuni teoremi fondamentali, ma riguardò
ogni aspetto dell’analisi, fornendole le basi e uno stile che ancora oggi è considerato
soddisfacente e viene insegnato nelle Università. Inoltre, questa tendenza al rigore
portò alla creazione di nuovi ambiti disciplinari, generando in particolare nuovi
concetti, quali: continuità (e convergenza) puntuale e uniforme, compattezza,
completezza, ecc.. Nondimeno, sarebbe sbagliato dedurne che, nel 19° secolo la
maggior parte dei matematici considerasse la ricerca del rigore come il problema più
urgente dell’analisi. La grande maggioranza dei matematici dell’epoca, come avevano
fatto i loro predecessori, continuava a lavorare principalmente su problemi tecnici.
Infatti, furono alcuni sviluppi tecnici della matematica quelli che offrirono una delle
ragioni principali per affrontare con impegno le questioni fondazionali. La teoria delle
serie di Fourier svolse un ruolo particolarmente importante in questo senso, poiché
mise in crisi le vecchie idee sui concetti di funzione, integrale, convergenza, continuità,
ecc., ma anche altri ambiti contribuirono al processo di ricerca del rigore: le equazioni
differenziali, la teoria del potenziale, le equazioni ellittiche. (v. equazioni differenziali
ordinarie, calcolo delle variazioni, calcolo di più variabili).
L’insegnamento costituì un’altra motivazione verso la ricerca del rigore
nell’analisi. Fu la premessa per le riforme di Chauchy e di Weierstrass e per la
costruzione
dei
numeri
reali
di
Dedekind
e
di
Méray.
Esse
emersero
dall’insoddisfacente situazione in cui si venivano a trovare questi matematici quando
dovevano insegnare i fondamenti dell’analisi. Infine, il deciso progresso di
emancipazione della matematica dalla scienza, rafforzò il convincimento che i
fondamenti dell’analisi dovessero essere rivisti.
2. Il lavoro di Cauchy. È possibile dividere il processo di ricerca del rigore
nell’analisi in due periodi: un periodo francese, dominato da Augustin-Louis Cauchy
(1789-1857) e un periodo tedesco, dominato da Karl Weierstrass (1815-1897).
Cominciamo quindi con la Francia e con la figura dominante di Cauchy (v. Belhoste,
1
1991). Cauchy studiò ingegneria a Parigi, alla Ecole Polytechnique e alla Ecole des
Ponts e Chaussées, ma dopo la restaurazione della monarchia, nel 1815, cominciò ad
insegnare analisi alla Ecole Polytechnique. Il suo lavoro sui fondamenti dell’analisi
reale cominciò durante i 15 anni di insegnamento del Cours d’analyse alla Ecole
Polytechnique. Era norma che un corso presso l’Ecole Polytechnique dovesse essere
scritto e pubblicato, cosicché la diffusione delle idee di Cauchy sull’analisi reale
procedette più speditamente del successivo lavoro sull’analisi complessa. Nel 1821
Cauchy pubblicò la prima parte del Cours d’analyse. L’anno successivo alla
pubblicazione, il programma dei corsi fu modificato radicalmente, e Cauchy pubblicò il
Resumé des leçons données a l’Ecole royale polytechnique sur le calcul infinitésimal,
[tome premier] (1823), e finalmente, nel 1829, le Leçons sur le calcul différentiel (v.
Gilain, 1989).
Il successo di Cauchy come insegnante fu limitato. La maggior parte dei suoi
studenti e perfino dei suoi colleghi, chiedevano una matematica più applicabile e una
minore insistenza sui fondamenti. Eppure, è proprio l’insistenza sui fondamenti che ha
reso famoso Cauchy come iniziatore del movimento verso il rigore.
La definizione di Cauchy dei concetti fondamentali dell’analisi sono più
descrittive e meno formali di quelle moderne ma, come è stato fatto osservare da
Grabiner (1981), tutti gli elementi formali sono presenti quando Cauchy comincia ad
utilizzare questi concetti nelle dimostrazioni. Infatti, come hanno fatto notare Grabiner,
1981, Bottazzini, 1990, Dhombres, 1992, e altri, è l’architettura
complessiva
dell’analisi di Cauchy, piuttosto che i singoli elementi, che la rende così diversa da
quella dei suoi predecessori. Diversamente da loro, Cauchy fece uso effettivo dei
nuovi concetti; così, per esempio, la definizione di continuità interviene in modo
preciso in molte dimostrazioni, come quella dell’esistenza dell’integrale e la soluzione
di equazioni funzionali. Nonostante ciò, l’uso che fece delle nuove idee risultò talvolta
impreciso, e certi problemi in alcune delle sue dimostrazioni principali furono risolti
solamente dal lavoro di matematici posteriori, ispirati da ciò che lui aveva cominciato.
Passeremo ora in rassegna i concetti fondamentali di Cauchy, e gli usi, non sempre
completamente soddisfacenti, che ne fece.
Limiti e variabili: Già nella definizione di quantità variabile, Cauchy prese le
distanze da Leonhard Euler (1707-1783). Secondo Cauchy, le variabili assumono valori
diversi, ma non necessariamente tutti i valori, vale a dire, si possono limitare ad un dato
2
intervallo. È interessante osservare che le variabili, secondo Cauchy, possono avere
limiti. Questa è una stranezza per il lettore moderno, abituato all'affermazione
composta f(x) →b per x→a ma non, separatamente, alle affermazioni f(x)→b o x→a.
La differenza tra la concezione di Cauchy e quella moderna però, svanisce quasi
completamente quando si considera il modo in cui Cauchy faceva uso del concetto di
limite. In tal caso entrano in gioco generalmente due variabili, una delle quali è
funzione dell'altra, e il suo concetto viene a coincidere con il nostro. Nonostante alcuni
autori del 18° secolo, per esempio Jean D'Alembert (1717-1783), avessero già stabilito
a fondamento dell'analisi il concetto di limite di grandezze o di variabili, il lavoro di
Cauchy fu molto importante, contribuendo a chiarire le idee dei suoi predecessori,
modificandole in alcuni casi in modo sostanziale. Per esempio, era pratica comune
ribadire che una variabile non potesse superare né uguagliare il suo limite. Cauchy
eliminò tali restrizioni non necessarie.
Quantità infinitamente piccole: Cauchy considerava variabili dotate di limiti,
e questo gli permetteva di affermare
che una variabile con limite zero diventa
“infinitamente piccola”. Questo naturalmente non definisce in modo preciso che cosa
sia una quantità infinitamente piccola (un infinitesimo). Cauchy assumeva
semplicemente che un infinitesimo è una variabile che tende a zero (v. Cauchy, 1821,
p.37). Egli fece uso degli infinitesimi in numerosi passi del Cours d'analyse e in altri
libri di testo (per esempio nella definizione di continuità), e anche nei suoi articoli di
ricerca. Uno dei suoi obiettivi dichiarati era quello di offrire una trattazione rigorosa di
questi oggetti euristici (Cauchy, 1823, Avertissement). Per i lettori posteriori, il
problema fu che questo rendeva ambigua in modo cruciale la sua definizione di
continuità.
Continuità: La nozione di continuità è il concetto più innovativo, e
probabilmente il concetto centrale, del Cours d'analyse di Cauchy. Questa nozione
differisce in modo sostanziale da quella euleriana, allora ampiamente accettata. In
verità, era più vicina a quella proposta da Joseph-Louis Lagrange (1736-1813).
Scriveva Cauchy:
Sia f(x) una funzione della variabile x, e supponiamo che, per ogni valore
di x compreso tra due valori limite fissati, questa funzione ammetta un
unico valore finito. Se in corrispondenza di un valore di x compreso tra
questi limiti si attribuisce alla variabile x un incremento infinitesimo α, la
3
funzione stessa riceverà un incremento pari a f(x+α)-f(x) che dipenderà
sia dalla nuova variabile α che dal valore di x. Ciò posto, la funzione f(x)
sarà, tra i due limiti assegnati alla variabile x, funzione continua di tale
variabile, se per ogni valore di x compreso tra questi limiti, il valore
univocamente
determinato
della
differenza
f(x+α)-f(x)
decresce
indefinitamente con quello di α In altri termini, la funzione f(x) si dirà
continua rispetto a x entro i limiti assegnati se, tra questi limiti, un
incremento infinitesimo del valore produce sempre un analogo
incremento infinitesimo della funzione stessa. [Cauchy, 1821, p. 43].
Se si interpreta “accroisement infiniment petit” come “tende ad un limite”, quest'ultima
frase significa che se x converge ad un valore limite appartenente al dato intervallo,
allora anche f(x) converge.
Le motivazioni di Cauchy per la sua definizione di continuità traevano origine
dall'importanza che questa nozione assumeva nella dimostrazione del teorema
fondamentale del calcolo, che asserisce che differenziazione e integrazione sono
processi inversi: ∫ab f’(x) dx = f(b)-f(a), dove f’ è la derivata della funzione f. Egli
aveva notato, in un lavoro precedente, che questo teorema non vale se la funzione
presenta dei salti. Anche se questo avrebbe potuto condurre Cauchy a definire il
concetto di continuità in un punto, egli non introdusse questo concetto nel Cours
d'analyse. Egli riteneva che una discontinuità potesse apparire in un punto, mentre la
continuità fosse definita su un intervallo. In questo modo Cauchy mantenne alcuni
aspetti dell'idea intuitiva di continuità, caratterizzandola però in modo sufficientemente
preciso da poterne fare un uso effettivo in molte delle sue dimostrazioni successive.
Questa ambiguità fu accentuata dall'uso che egli fece degli infinitesimi. Tuttavia, non è
chiaro se per Cauchy la continuità dovesse essere uniforme su un intervallo, oppure
puntuale. Nella definizione citata in precedenza, sono presenti infatti due definizioni di
continuità, una senza e una con gli infinitesimi. Nel primo caso sembra proprio trattarsi
di continuità puntuale. Nel secondo è possibile ritenere che si tratti di continuità
uniforme (questa distinzione verrà discussa più avanti). Egli utilizzò la continuità
uniforme nella dimostrazione dell'esistenza dell'integrale di una funzione continua, ma
questa ambiguità fece sorgere ulteriori problemi nella presentazione dell'analisi fatta da
Cauchy.
4
Somma di una serie: Le novità nella definizione di Cauchy di somma di una
serie, risiedono nell’uso attento, in molte delle sue dimostrazioni, di una
caratterizzazione formale e quasi completamente simbolica della nozione di
convergenza. In particolare, egli insisteva che una serie divergente non dovesse avere
una somma. Cauchy sapeva molto bene che ciò avrebbe scosso la comunità matematica
(v. Introduzione al Cours d’Analyse, Cauchy, 1821, p. iv). Questa
affermazione
fondamentale obbligava Cauchy a stabilire la convergenza delle serie prima di
calcolarne le somme. A tal fine egli stabilì numerosi criteri di convergenza. Il suo
lavoro manca di rigore solo nel punto in cui si rende necessaria una definizione precisa
di numero reale, ma tralasciando questo problema (v. oltre, paragrafo 6), la trattazione
di Cauchy dei criteri di convergenza è esemplare.
Non si può dire altrettanto della seguente affermazione, che collega il concetto
di convergenza di una serie con quello di continuità di una funzione (Cauchy, 1821, p.
120): una serie convergente di funzioni continue converge ad una funzione continua.
La prima “dimostrazione” di Cauchy procedeva così: si rappresenti la somma della
serie s come s=sn+rn, dove sn è la somma dei primi n termini. Allora, se la variabile x
cresce di una quantità infinitesima, l’incremento in sn deve essere infinitesimo, e
quando n → ∞ i valori di rn devono diventare arbitrariamente piccoli. Quindi, la
somma s è continua. Questa affermazione è falsa secondo la nozione moderna di
continuità, ma se Cauchy si riferiva a serie che convergono uniformemente in un
intorno di x, l’affermazione è vera (v. Giusti, 1984). Questo è in accordo con la seconda
versione proposta da Cauchy, in cui egli affermava che il teorema “non potrà essere
assunto senza restrizionii”, rispondendo, in questo modo, ad alcune critiche al suo
lavoro. La conclusione che possiamo trarne è che la continuità è un concetto così
difficile da aver messo in difficoltà persino il suo ideatore.
Derivata: Cauchy scelse di utilizzare il termine “derivata” e la notazione f’
proposti da Lagrange, ma rifiutò la sua definizione di questa funzione, basata sulle serie
di potenze. Egli fece osservare che la serie di Taylor di una funzione non converge
necessariamente, e anche quando converge, non rappresenta necessariamente la
funzione sviluppata. A titolo di esempio citò la funzione e
− 1
x2
(a cui attribuì valore 0
per x=0). Tutte le sue derivate si annullano per x=0, e quindi la serie di Taylor è
ovunque nulla. Pertanto, la serie è ovunque convergente, ma coincide con la funzione
5
data solo quando x=0 (Cauchy, 1823, pp. 229-230). Per questa ragione Cauchy rinviò
la trattazione della serie di Taylor fino a quando fu in grado di fornire un’espressione
per il resto, cosa che gli fu possibile dopo aver introdotto la nozione di integrale.
Cauchy seguì invece il suo predecessore francese Sylvestre Francois Lacroix (17651843) nel definire la derivata come il limite del rapporto incrementale
(il suo
contributo originale consistette nella riformulazione con gli infinitesimi). Si ispirò a
Lacroix anche per il significato da attribuire al differenziale df(x), sebbene ne desse una
definizione leggermente diversa, come lim
α →0
f ( x + αh) − f ( x)
= df ( x) , dove h è una
α
costante finita, non specificata. Questo permetteva a Cauchy di far uso della
conveniente notazione introdotta da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), pur
trattando i differenziali come quantità finite e non infinitesime.
Integrale: Con la definizione di integrale Cauchy ruppe radicalmente con i suoi
predecessori e seguì una strada aperta dal suo contemporaneo più anziano, Joseph
Fourier (1768-1830), il quale aveva capito che per calcolare i coefficienti di Fourier di
funzioni arbitrarie, non era più possibile assumere che queste fossero derivate di altre
funzioni. Fourier perciò si concentrò sull’integrale definito ∫abf(x) dx (mettere i limiti di
integrazione sopra e sotto il segno di integrale era un’idea di Fourier) insistendo che
questo simbolo indicasse l’area della regione compresa tra la curva e l’asse (Fourier,
1822 § 229). Cauchy si ispirò a Fourier, ma invece di basarsi sulla nozione vaga di
area, introdusse l’integrale definito come il limite di una successione di somme
approssimanti. Questa definizione era molto più precisa e gli permise di dimostrare che
ogni funzione continua ha un integrale, un tour de force che va considerato come uno
dei capolavori dell’Analisi di Cauchy.
Tracce delle argomentazioni di Cauchy si ritrovano in alcuni lavori di Lagrange
(v. Grabiner, 1981, capitolo 6), ed è molto plausibile che Cauchy abbia fondato la sua
teoria su queste fonti. Tuttavia la trattazione di Cauchy è molto più chiara e, cosa ben
più importante, egli modificò l’uso della tecnica del passaggio al limite; da procedura
di approssimazione numerica a definizione. Questo esemplifica ciò che Grabiner ha
enfatizzato, che le origini del rigore di Cauchy nell’analisi non vanno cercate nella
metafisica algebrica formale del 17° secolo, ma nelle procedure numeriche di questo
periodo, che diedero origine ad un’“algebra delle disuguaglianze”. Queste tecniche di
approssimazione antecedenti suggerirono a Cauchy una definizione che gli permise di
6
dimostrare l’esistenza dell’integrale di una classe determinata di funzioni. Sembra che
nessuno avesse sollevato prima questo problema di esistenza, che, in effetti, non
avrebbe potuto essere dimostrata utilizzando la precedente definizione. Queste ricerche
si possono considerare come l’inizio di un nuovo orientamento qualitativo nell’analisi.
Invece di chiedersi come integrare una particolare funzione o come risolvere una
particolare equazione differenziale, Cauchy
cercò di dimostrare
l’esistenza
dell’integrale per una vasta classe di funzioni (o equazioni differenziali). Questo
processo fu portato avanti dalla teoria di Sturm-Liouville, e da Henri Poincaré (18541912) (v. equazioni differenziali).
Equazioni funzionali e teorema del binomio: Per dare un’idea della struttura
fortemente unitaria del Cours d’analyse di Cauchy daremo uno sguardo alla sua
dimostrazione del teorema del binomio (v. Dhombres, 1992, e Bottazzini, 1990,
LXXIV):
(1 + x) µ = 1 +
µ
µ ( µ − 1) 2
x+
x +!
1
2!
che è uno dei pilastri della “analyse algebrique”; l’altro è il teorema fondamentale
dell’algebra (v. Cauchy, 1821, pp. 141-152). Cauchy dimostrò innanzitutto che la serie
è convergente nell’intervallo (-1,1). Per x fissato Cauchy indicava la somma di questa
serie con φ(µ). Il problema consisteva nel dimostrare l’uguaglianza φ(µ)=(1+x)µ.
Cauchy fece uso dei suoi risultati sulla moltiplicazione delle serie per stabilire la
seguente equazione per φιι: φ(µ+µ’)=φ(µ)φ(µ’). Quindi, nel capitolo V del Cours
d’analyse, dimostrò che la sola soluzione continua di questa equazione è φ(µ)=Aµ, con
A costante arbitraria. Ne segue che φ(µ)=φ(1)µ=(1+x)µ, prima quando µ è intero, poi
quando µ è un numero razionale, e infine, essendo φ(1)µ una funzione continua di
µ, l’uguaglianza continua a valere, prima per ogni µ positivo e poi per ogni µ. Il
passaggio dai razionali ai reali era quello decisivo. Qui la definizione di continuità
introdotta da Cauchy si dimostrò essere il concetto operativo cruciale, e di
conseguenza, egli fu il primo a trattare questo punto in maniera soddisfacente. Questo
conclude la dimostrazione di Cauchy, estremamente originale, del teorema del
binomio.
7
3. L’impatto delle serie di Fourier. Fin dall’invenzione dell’arithmetica
infinitorum ad opera di
Isaac Newton (1642-1727), il teorema del binomio ha
continuato a svolgere un ruolo fondamentale nell’analisi, aprendo la strada allo studio
delle funzioni sviluppabili in serie di potenze. Nel frattempo Fourier aveva studiato un
altro metodo, introdotto nel 18° secolo, per sviluppare le funzioni, le serie
trigonometriche. Le proprietà di convergenza di tali serie erano molto meno ovvie di
quelle relative alle serie di potenze, anche se la rappresentazione di una data funzione
era facile, in genere, da trovare. Infatti, poiché
2π
∫ cos(nx) cos(nx)dx = π , ma
0
2π
∫ cos(nx) cos(mx)dx = 0 se m≠n,
iii
0
e
2π
∫ cos(nx) sen(mx)dx = 0 per tutti gli m ed n,
0
sembrava essere ovvio che se l’equazione
f ( x) = ∑n=0 an cos(nx) + ∑n=0 bn sin(nx)
∞
∞
veniva moltiplicata per cos(x) e sen(x)iv, rispettivamente, e il risultato integrato termine
a termine tra 0 e 2π, si otteneva la seguente espressione per i coefficienti della serie:
an =
1
π
2π
∫ f ( x) cos(nx)dx e b
0
n
=
1
π
2π
∫ f ( x) sen(nx)dx
0
Questi coefficienti furono subito chiamati i coefficienti di Fourier. Fourier affermava
che quando le espressioni per an, bn venivano sostituite nella serie, questa convergeva
alla funzione f tra 0 e 2π, anche se la funzione non era periodica.
Naturalmente, dopo Cauchy, tali affermazioni non potevano più essere accettate
incondizionatamente. Avendo a disposizione, non solo una definizione nuova e
flessibile di integrale, ma anche una visione della matematica secondo cui i risultati
potevano essere veri solo entro certe limitazioni, queste affermazioni dovevano essere
dimostrate. È difficile credere che tra i matematici ci fosse qualcuno che, al principio di
questo filone di ricerca, si fosse reso vagamente conto di dove esso avrebbe condotto.
Il primo a raccogliere la sfida fu Pierre Gustave Lejeune Dirichlet (1805-1859),
un matematico tedesco che soggiornò a Parigi dal 1822 al 1825, e ritornò in Germania
con un gusto maturo per la precisione nell’analisi. Egli fu in grado di dimostrare che la
serie di Fourier converge quando la funzione f è continua e ha solo un numero finito di
8
massimi e di minimi tra 0 e 2π. Quando Dirichlet divenne professore ordinario a
Göttingen nel 1855, aveva già trovato un ardente seguace in Bernhard Riemann (18261866). L’anno precedente, Riemann aveva scritto infatti un articolo che estendeva le
idee di Dirichlet alle serie trigonometriche (Riemann 1854). Queste sono le serie della
forma
f ( x) = ∑n=0 an cos(nx) + ∑n=0 bn sin(nx)
∞
∞
dove l’assunto che
an =
1
π
2π
∫ f ( x) cos(nx)dx e b
0
n
=
1
π
2π
∫ f ( x) sen(nx)dx
0
viene lasciato cadere. Una funzione siffatta era necessariamente integrabile? Quali
funzioni erano rappresentabili come serie trigonometriche? Evidentemente, le funzioni
continue con un numero finito di salti verificavano entrambe le richieste. Potevano
esistere funzioni con infiniti salti in un intervallo arbitrario? Riemann scoprì che in
effetti ci potevano essere, ma che alcune di esse erano ancora integrabili e potevano
essere rappresentate da una serie trigonometrica (ma non da una serie di Fourier) Così
facendo egli sostituì la definizione di integrabilità di Cauchy con una definizione più
flessibile, e alcune varianti del concetto di integrale di Riemann che ne scaturì sono
utilizzate ampiamente ancora oggi. Dopo svariate discussioni ulteriori, principalmente
sulla nozione di misurav di un sottoinsieme dell’insieme dei numeri reali, questa
nozione di integrale fu sostituita, all’inizio del 20° secolo, da una nozione dovuta a
Henri Lebesgue (1875-1941). L’integrale di Lebesgue ha numerosi vantaggi tecnici ma
è più difficile da descrivere (v. gli articoli nel volume sul 20° secolo; per una
dettagliato resoconto della transizione, v. Hawkins, 1974).
Le indagini sulle serie di Fourier si ramificarono ulteriormente quando venne
posto e affrontato il problema dell’unicità della rappresentazione di una funzione per
mezzo delle serie di Fourier, da due matematici della piccola città universitaria tedesca
di Halle, Eduard Heine (1821-1881) e Georg Cantor (1845-1918). Ne seguì che una
trattazione di questo problema (ancora oggi non risolto completamente) richiedeva non
solo una definizione rigorosa di numero reale ma anche una teoria raffinata dei
sottoinsiemi dei numeri reali, aprendo così la strada alla teoria di Cantor degli insiemi
transfiniti (v. l’articolo sulla topologia generalevi).
9
4. Il problema della convergenza uniforme. La situazione a cavallo tra il 1840
e il 1850 era che il nuovo stile rigoroso di Cauchy era stato ormai accettato dai migliori
analisti del tempo, ma proprio loro erano coscienti che qualcosa ancora non era a posto
tra i concetti di convergenza e di continuità. Questa difficoltà fu messa in rilievo da
diversi matematici: Ludwig v. Seidel (1821-1896) in Germania, George Gabriel Stokes
(1819-1903) in Gran Bretagna, lo stesso Cauchy, e Weierstrass in Germania. La
matematica è una disciplina tecnica, e le questioni storiche di priorità e di influenza
reciproca sono difficili da dipanare. La più semplice affermazione inconfutabile è che
negli anni 60 del 19° secolo, Weierstrass insegnava analisi a Berlino ad un pubblico in
continua crescita, e che le sue notazione precise e i suoi argomenti rigorosi risolsero il
problema. Da quel momento l’idea di continuità e di convergenza uniforme si
separarono da quelle di continuità e di convergenza ordinaria (puntuale). Inoltre si
comprese che l’uniformità avrebbe garantito ai matematici i teoremi che essi
desideravano mentre la sua assenza avrebbe causato problemi.
Piuttosto che definire questi termini, affrontiamo il problema. Consideriamo la
successione delle funzioni sn(x), n=1,2, …, definite come nella figura seguente.
x < −1 / n
− 1 se

Grafico della funzione s n ( x) =  nx se − 1 / n ≤ x ≤ 1 / n
 1 se
x > 1/ n

Consideriamo le differenze un(x)= sn+1(x)- sn(x). Abbiamo che s1(x)= u1(x),
s2(x)= u1(x)+ u2(x), s3(x)= u1(x)+u2(x)+u3(x), e così via, vale a dire, che le funzioni
sn(x) sono le somme parziali della serie che si ottiene sommando le un(x). Le figure che
10
seguono mostrano il grafico di una funzione un(x) e i grafici delle funzioni sn(x) e
sn+1(x).
Grafico della funzione un(x)= sn+1(x)-sn(x)
Grafico delle funzioni sn(x) e sn+1(x)
La sola candidata per la funzione limite s(x) e per la somma della serie
s1(x)+∑nun(x) è la funzione
s ( x) =
− 1 se

 0 se
 1 se

x<0
x =0.
Cauchy prendeva in
x>0
considerazione la funzione resto rn(x) definita da s(x)=sn(x)+rn(x), che nell’esempio ha
il grafico seguente (si noti che passa attraverso l’origine)
11
Grafico delle funzione rn(x) =s(x)-sn(x)
È chiaro che le funzioni un(x) e le somme parziali sn(x) sono tutte continue, ma
che non è continua la funzione limite s(x). Il grafico della funzione resto chiarisce che
sebbene questa differenza tra le somme parziali e la funzione limite converga a zero per
ogni x, esso presenta due punte spezzate sempre più aguzze attorno all’origine, e quindi
la successione converge in modo non uniforme.
Questa è la sottigliezza che viene colta distinguendo il concetto di convergenza
uniforme da quello di convergenza non uniforme. Non è vero che la differenza tra le
somme parziali e il limite si può rendere più piccola di ogni specificata quantità ε , per
tutti i valori di x, semplicemente specificando un N=N(ε). È vero invece che per ogni x
e per ogni ε si può trovare un N=N(ε,x) tale che n>N implica |rn(x)|<ε, ma questo N
dipende da x. Perciò la convergenza si dice non uniforme; la convergenza per cui
l’indice critico N non dipende da x ma solo da ε si dice uniforme.
Da questa distinzione si potevano trarre molte conseguenze. Innanzitutto che
esistevano oggetti definiti da processi non uniformi che potevano manifestare proprietà
inaspettate. Molte serie trigonometriche erano di questo genere. Su questo tema si
sviluppò un’ampia letteratura, che avrebbe potuto rimanere confinata nell’ambito della
matematica pura se il moto browniano e i processi di diffusione non avessero messo in
luce l’utilità di questo lavoro.
5. Proprietà delle funzioni. Le osservazioni conclusive del paragrafo
precedente appartengono alla storia del 20° secolovii, così sarà sufficiente concludere
con un’ulteriore osservazione. A lungo si era creduto che ogni funzione fosse
12
sostanzialmente differenziabile. Nel corso del 19° secolo tale opinione venne raffinata.
La funzione doveva essere, almeno, continua (una funzione ovunque discontinua fu
esibita da Dirichlet: assume valore 0 per ogni valore razionale di x e valore 1 per ogni
valore irrazionale di x). Se il grafico di una funzione presenta un brusco cambiamento
di direzione in un punto, la funzione non è differenziabile in quel punto (per esempio la
funzione f(x)=x se x≥0 e f(x)=-x se x<0, è differenziabile ovunque eccetto che
nell’origine). Ma a parte tali banalità si credeva che una funzione continua fosse
altrimenti differenziabile, e André Marie Ampère (1775-1836) diede anche una pseudo
dimostrazione di questa affermazione. Talvolta gli scienziati definivano addirittura la
continuità in modo che implicasse quella che noi chiameremmo continua
differenziabilità a tratti (un caso emblematico a riguardo è il fisico matematico James
Clerk Maxwell (1831-1879), v. Maxwell, 1873). In effetti, una volta che le nozioni
fondamentali furono ridefinite secondo l’insegnamento di Cauchy e di Weierstrass, si
scoprì che niente era più lontano dal vero. Nelle sue lezioni di Berlino, Weierstrass
discusse addirittura esempi di funzioni ovunque continue ma ovunque non
differenziabili. Non è sorprendente che tali esempi furono costruiti usando le serie
trigonometriche, e non c’è da meravigliarsi se tali funzioni “mostruose” venivano
guardate con sospetto da quei matematici e da quegli scienziati che continuavano a
vedere l’analisi in modo tradizionale. (v. Volkert, 1986). A partire dalla metà degli anni
settanta del 19° secolo però, la scuola di Weierstrass aveva stabilito, per mezzo di
opportuni esempi, un’intera gerarchia di proprietà delle funzioni reali, delle quali
nessuna implicava la successiva, mentre ognuna implicava la precedente: funzioni
arbitrarie, integrabili, continue, differenziabili, analitiche (le funzione analitiche sono
quelle che possono essere rappresentate da una serie di potenze) (v. du Bois Reymond,
1875).
La discussione che precede può dare solo un’idea del cambiamento della natura
dell’analisi reale nel 19° secolo. I fondamenti della disciplina cambiarono
completamente grazie all’introduzione di definizioni precise, di una notazione adeguata
e di un numero sempre maggiore di dimostrazioni rigorose. In particolare, venne
ampliato il mondo delle funzioni con l’invenzione di nuove classi con nuove proprietà
(per esempio, proprietà intermedie tra la continuità e la differenziabilità). Il giardino
delle funzioni del 18° secolo, alle quali si applicavano tutti i processi dell’analisi
13
(integrazione, differenziazione, formazione di somme infinite), venne sostituito con
una giungla di classi diverse, molte delle quali richiedevano trattazioni molto delicate.
Una conseguenza di ciò fu che la fiducia nei vecchi metodi di lavoro diminuì e
crebbe l’apprezzamento per i nuovi metodi. Questo fu un processo lento, e una parte
importante di esso fu determinata dalla crescente sfiducia attribuita all’intuizione,
specialmente a quella geometrica. Il nodo della questione fu il raggiungimento della
consapevolezza che Cauchy e i suoi immediati seguaci non avevano chiarito in modo
sufficiente la natura dei numeri reali. Dagli anni sessanta del 19° secolo in poi, l’analisi
si era andata caratterizzando come lo studio delle funzioni di variabile reale. Una
crescente chiarezza sulle proprietà delle funzioni non era stata affiancata però da
altrettanta chiarezza su ciò di cui esse erano funzioni. Il tragitto da compiere per
risolvere la difficoltà, e così terminare la creazione dell’analisi reale come disciplina
indipendente dalla geometria (o dalla dinamica), è l’ultimo argomento che
affronteremo.
6. Il chiarimento del concetto di numero reale. Nell’anno 1872, il pubblico
matematico tedesco fu testimone della pubblicazione di almeno quattro articoli in cui
fu proposta una definizione “aritmetica” di numero reale. (Cantor, 1872; Heine, 1872;
Dedekind, 1872; Kossak, 1872). Come abbiamo già detto in precedenza, i primi due di
questi articoli furono scritti da colleghi che agivano in stretta collaborazione e
presentavano più o meno la stessa definizione. Gli altri due proponevano definizioni
diverse e indipendenti. L’opuscolo di Kossak presentava una definizione di numero
reale che egli aveva imparato alle lezioni di Weierstrass. Sia il suo approccio che quello
di Richard Dedekind (1831-1916) erano più vecchi di almeno un decennio. Esisteva
anche una
proposta pubblicata precedentemente, a cura del matematico parigino
Charles Méray (1835-1911), simile a quella di Heine e Cantor (Méray, 1869).
L’articolo di Méray, formulato nella terminologia di Cauchy, non raggiunse però,
apparentemente, gli autori tedeschi.
Tutte queste proposte avevano una evidente caratteristica comune: definivano i
numeri reali a partire da insiemi infiniti di numeri razionali. Nell’approccio di
Dedekind, concepito, secondo le sue stesse parole, nel 1858 durante la preparazione di
un corso di lezioni per studenti di ingegneria al politecnico di Zurigo, un numero reale
era definito come un concetto associato a quelle che egli chiamava “sezioni”, ovvero
14
decomposizioni dell’insieme dei numeri razionali in due sottoinsiemi A1, A2 con la
proprietà che a1<a2 per tutti gli a1 in A1 e per tutti gli a2 in A2. Se né A1, ammette
massimo né A2 ammette minimo, allora, scriveva Dedekind, “creiamo un numero
irrazionale α” associato a questa particolare sezione. A partire dal 1863, Weierstrass
presentava nelle sue lezioni una definizione in cui i numeri reali positivi erano
introdotti attraverso una relazione di equivalenza tra aggregati di numeri razionali
positivi la cui somma fosse convergente. La relazione di equivalenza era tale che la
differenze tra le somme parziali di aggregati equivalenti converge a zero (per i dettagli,
v. Dugac, 1973) L’opuscolo di Kossak diffuse ampiamente questo punto di vista.
Il terzo approccio, che include le definizioni di Méray, Cantor e Heine, era
ancora diverso. Cantor e Heine avevano partecipato entrambi ad alcune delle lezioni di
Weierstrass, cosicché potrebbero aver sviluppato le loro idee sulla base del suo
approccio. In un certo senso, la loro definizione era la più generale. Era basata
sull’espediente tecnico che oggi noi (ma non loro) chiamiamo successioni di Cauchy,
una nozione che continua ad aver senso non solo nel sistema dei numeri razionali ma
anche in molti altri domini. Secondo una prospettiva moderna, la proposta di MérayCantor-Heine appare come un procedimento di “completamento” di uno spazio
metrico. Per la proposta originale, si veda il riquadro seguente.
Sulla base di ognuna di queste definizioni, i teoremi principali sulle funzioni
reali potevano essere (ri)-dimostrati. L’articolo di Heine, per esempio, aveva
l’intenzione esplicita di rimuovere alcuni dubbi che ancora esistevano sulla validità di
affermazioni del tipo che le funzioni continue possono non essere differenziabili (v.
sopra, paragrafo 5). Sia Dedekind che i matematici influenzati da Weierstrass
riconobbero che il lemma cruciale per molte di queste dimostrazioni era che ogni
insieme infinito e limitato di numeri reali ha un punto di accumulazione (o,
alternativamente, che ogni successione limitata e crescente di numeri reali ammette un
limite).
I numeri reali secondo Cantor e Heine (Heine, 1872):
Siano dati “il sistema delle operazioni e il sistema dei segniviii” dei numeri
razionali. Una successione infinita a1, a2, a3, … di numeri razionali si dice “successione
numeroix” “se per ogni numero razionale positivo η, comunque piccolo, esiste un
15
valore n tale che per tutti gli interi positivi ν, |an-an+ν| è minore di η”. Se a1, a2, a3, … e
b1, b2, b3, … sono successioni numero, allora anche a1 ±b1, a2 ±b2, a3 ±b3, … sono
successioni numero. Una successione numero convergente a 0 si dice “successione
elementare”.
Le successioni numero a1, a2, a3, … e b1, b2, b3, … si considerano uguali se e
solo se la successione a1 -b1, a2 -b2, a3 -b3, … è elementare. Ad ogni successione
numero è assegnato un “segno numero” in modo tale che: (i) i segni associati a
successioni numero “uguali” sono uguali; (ii) il segno associato ad ogni successione
costante q, q, q, … con q razionale è q.
Per il nuovo sistema di segni, le operazioni aritmetiche vengono reintrodotte
applicando le corrispondenti operazioni già definite per i numeri razionali ad ogni
termine delle successioni numero associate con i nuovi segni. Si può dimostrare che
queste definizioni sono indipendenti dalle particolari successioni numero scelte.
Analogamente è possibile introdurre una relazione d’ordine.
Avendo a disposizione la definizione di numero reale e questo lemma, la
definizione di continuità secondo la riformulazione di Weierstrass assumeva un senso
tecnico preciso. Negli appunti di Adolf Hurwitz (1859-1919) di una lezione che
Weierstrass tenne nel 1878 si legge “dire che una quantità variabile x diventa
infinitesima assieme ad un’altra quantità y, significa: «data una quantità ε
arbitrariamente piccola, è possibile assegnare una limitazione δ per x tale che, per ogni
valore di x per cui |x|<δ, si ha |y|<ε»”. [Weierstrass, 1988, p.57.] Il fatto importante
non è tanto che questa è la definizione moderna di continuità, ma che essa fu
presentata, come risulta evidente, come una reinterpretazione di quella proposta da
Cauchy. Gli appunti della medesima lezione documentano anche in modo
impressionante l’architettura rigidamente strutturata di teoremi e dimostrazioni che
Weierstrass era ora in grado di presentare, che spaziava dai fondamenti, ai teoremi
cruciali sulle serie di potenze, fino ai delicati teoremi sulle funzioni analitiche
complesse. Nella presentazione, Weierstrass si preoccupò costantemente di evitare ogni
appello all’intuizione, sostituendola utilizzando, oltre agli ingredienti già citati,
l’algebra e la teoria delle serie di potenze.
16
Un’ultima osservazione sul “rigore secondo Weierstrass”. Ci si potrebbe
chiedere per esempio se non si possa parlare con ugual diritto di “rigore secondo
Dedekind”. Dopotutto la sua definizione di numero reale era probabilmente precedente,
anche lui era orientato verso l’aritmetica e l’algebra, e anche il suo stile di elaborazione
di una teoria era bastato sulla combinazione elaborata di passi rigorosi di definizioni e
dimostrazioni. (v. Dugac, 1976). La differenza tra Weierstrass e Dedekin va analizzata
a livello di fenomeno sociale. Mentre Dedekind era un artista della elaborazione teorica
che lavorava in un isolamento scelto liberamente presso istituti politecnici, Weierstrass
attraeva un numero sempre crescente di studenti che poi diffondevano il suo vangelo
attraverso la Germania e addirittura l’Europa. Tra coloro che partecipavano alle sue
lezioni ci furono, in tempi diversi: Hermann Hankel (1839-1873), Cantor, Heine, Paul
du Bois-Reymond (1831-1889), Hurwitz, Johannes Karl Thomae (1840-1921), Sofia
Kovalevskaya (1850-1891), Gösta Mittag Leffler (1846-1927) e molti altri. I primi
trattati di analisi basati sui nuovi approcci (per esempio Dini, 1878; Stolz, 1885-86;
Tannéry, 1886) riflettevano questa situazione. Alla fine, perciò, il matematico berlinese
fu chiamato a buon diritto il re dell’analisi del 19° secolo.
7. Problemi sui fondamenti.
Per apprezzare la novità delle definizioni
aritmetiche dei numeri reali è molto istruttivo un confronto con il lavoro di Hankel
Theorie der complexen Zahlsysteme, pubblicato nel 1867: Hankel, anch’egli studente
di Weierstrass per qualche tempo, distingueva tra una concezione formale e una
concezione concreta dei numeri, basata sull’idea intuitiva di grandezza continua.
Henkel era convinto che la concezione formale (secondo cui bisognava definire solo un
sistema logicamente consistente di segni e operazioni) era il modo migliore per
introdurre i numeri razionali; ma pensava anche che un tale approccio non avrebbe
permesso di trattare l’irriducibile ricchezza dei numeri irrazionali. La ragione più
profonda di questo punto di vista risiedeva nella sua convinzione che le procedure
formali avrebbero permesso alla mente di lavorare solo con domini discreti o al più
numerabili. Qui troviamo un primo accenno alle complicate discussioni semantiche,
ontologiche ed epistemologiche che accompagnarono le nuove basi aritmetiche
dell’analisi reale.
Certamente i nuovi approcci furono pagati a caro prezzo se confrontati con la
tradizione. Parte di questo prezzo consisteva nella necessità di considerare gli insiemi
17
infiniti come oggetti matematici legittimi. Questo, in sé, non era un piccolo passo, e
causò forti reazioni. Uno sguardo alla protesta di Leopold Kronecker (1823 – 1891)
contro la nuova analisi (che causò col tempo una completa rottura tra lui e il suo
collega di Berlino, Weierstass) mostra che egli concepiva l’aritmetizzazione in un
senso molto più ristretto: “Credo che ad un certo punto sarà possibile <aritmetizzare> il
contenuto completo di tutte […] le discipline matematiche [eccetto la geometria e la
meccanica], in altre parole, sarà possibile fondarle sulla nozione di numero, presa nel
senso più ristretto, lasciando così da parte tutte le modifiche e le estensioni di questo
concetto.” La precisazione decisiva fu aggiunta in una nota: “Con questo intendo, in
particolare, l’introduzione delle grandezze irrazionali e continue.” [Kronecker, 1887, p.
338]. Date le definizioni disponibili dei numeri reali, questo implica che Kronecker si
opponeva all’uso dell’infinito che tali definizioni comportavano inevitabilmente.
Inoltre, non era più chiaro quale relazione ci fosse tra la nuova nozione di
numero reale e il continuo geometrico intuitivo. Certamente, sia Dedekind che Cantor
affermavano con chiarezza che la corrispondenza biunivoca tra i punti della retta e i
numeri reali dovesse essere postulata assiomaticamente invece di essere un teorema
dimostrabile (come tale appariva ancora nelle lezioni di Weierstrass).
Ma le cose erano ancora più complicate. In quale senso si poteva dire di
“conoscere”, per esempio, il numero reale associato ad un’“arbitraria” successione di
Cauchy o l’estremo superiore di un “arbitrario” insieme limitato di numeri reali?
Certamente non nel senso in cui si può dire di conoscere un particolare oggetto,
esattamente determinato, del mondo reale. Questo potrebbe essere il caso dei numeri
(1 + 1 / n) n ), o anche da una
irrazionali definiti da leggi particolari (per esempio e := lim
n→∞
costruzione geometrica, dalla quale si potrebbe estrarre una legge (per esempio π ), ma
come cogliere l’“arbitrario” in un’arbitraria successione di Cauchy? Nel corso del
diciannovesimo secolo questo punto rimase oscuro, portando molti matematici a
pensare erroneamente che tutti i numeri reali potessero essere definiti da successioni
governate da leggi matematiche esplicite. Un’acuta critica contemporanea a questa
visione si può trovare nel lavoro sui numeri reali del logico Gottlob Frege (1848 –
1925) (v. Frege, 1903, libro III). Nel ventesimo secolo, questa punto di vista portò alla
formulazione di una teoria interamente nuova, quella dei “numeri costruibili”.
18
Analogamente, non era chiara l’ontologia dei nuovi numeri, che inoltre era
trattata in modo piuttosto differente dai vari autori. Mentre Weierstrass cercò di
rimanere il più fedele possibile al punto di vista tradizionale secondo cui i numeri erano
aggregati di unità di un certo tipo e, come dovette aggiungere, frazioni di queste unità,
Dedekind e Cantor concepivano i loro “reali” come concetti creati dalla mente umana.
(Dedekind insistette su questo punto anche quando Heinrich Weber (1842 – 1913) una
volta gli chiese perché non aveva definito i numeri reali semplicemente come le
sezioni stesse: se gli esseri umani, esseri di genere divino, sono stati in grado di creare
le ferrovie e i telefoni, come si può negare che siano stati capaci di creare oggetti del
pensiero? v. Dedekind, 1932, p. 488 e seg.). Nel lavoro di Heine abbiamo visto
un’altra scelta ancora: i “reali” erano un sistema di “segni” (ma Heine non fece niente
per spiegare cosa potesse essere un sistema di segni non numerabile). Ancora, il logico
Ferge puntò il dito spietatamente, e senza alcun rispetto per l’autorità di matematici
come Weirstrass, contro le numerose incongruenze filosofiche di tutte le proposte
avanzate fino alla conclusione del secolo (v. Frege, 1903, Libro III). Sfortunatamente
anche la sua proposta per una definizione dei numeri reali in termini puramente logici
si rivelò insoddisfacente quando crollò il suo intero sistema logico. Negli ultimi anni,
Ferge ritornò ad una visione fortemente tradizionalista dei fondamenti della
matematica, argomentando che anche il concetto di numero avrebbe dovuto essere
fondato sull’intuizione.
Una soluzione filosoficamente radicale di questo dilemma emerse
gradualmente durante l’ultimo ventennio del diciannovesimo secolo. Essa era legata
alle idee di Hankel e di Heine sui sistemi di segni e di operazioni, ma in seguito si
sviluppò in una forma più raffinata e sostanzialmente diversa. Lo studioso della teoria
delle funzioni Thomae, collega di Ferge a Jena e anche lui studente di Weierstrass, si
proclamò portavoce di questo cosiddetto “primo formalismo”x. Ciò di cui si ha bisogno
in matematica, egli sosteneva, non è un fondamento filosofico particolare dei concetti
di base come “numero intero” o “numero reale”, ma piuttosto la conoscenza delle
regole che governano il loro uso nelle teorie matematiche. Così la migliore
introduzione dei numeri reali dovrebbe essere l’enunciazione di tutte le regole che
governano le proprietà matematiche e le relazioni che si vuole che valgano nel sistema
dei numeri reali (v. Thomae, 1898, §§1 e seg.). Per fissare il “significato” di un numero
reale non era necessario indicare un referente nel mondo reale, ma piuttosto spiegare
19
come questo numero si comporta nei calcoli e nelle dimostrazioni. Restava solo un
piccolo passo per arrivare alla definizione assiomatica dei numeri reali di Hilbert
(Hilbert, 1900). Secondo questo punto di vista, le precedenti definizioni aritmetiche
mostravano solo, “costruendolo”, che un sistema con le proprietà richieste di fatto
“esiste”. Certamente, come Frege puntualmente fece, si potrebbero ripetere le critiche
filosofiche a questo nuovo stadio. Cosa si intendeva veramente con “costruzione” ed
“esistenza”?
Il dibattito sui fondamenti, che iniziò al termine del diciannovesimo secolo,
nonostante molti cambiamenti di direzione , non è mai terminato. Forse, come molti
altri concetti matematici che fanno intervenire la nozione di infinito, il concetto di
“numero reale” non ha un non referente ben definito nel mondo reale. Ancor meno ha
un referente che noi possiamo afferrare con la stessa chiarezza con cui percepiamo una
tazza di caffè davanti a noi. Ma ha ancora un significato nella matematica che
facciamo. Ironicamente, fu proprio abbandonando l’apparente ma illusoria evidenza di
quella parte delle idee sulle quantità continue che erano più intuitive, che divenne
possibile la complicata costruzione dell’analisi moderna.
Nota. Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Jesper Luetzen, che
ringrazio per il prezioso aiuto.
20
NOTE
i
Ne saurait e’tre admis sans restriction
Nell’originale c’è f invece di φ. Credo che sia un errore di battitura
iii
Più avanti vengono utilizzate anche le relazioni
ii
2π
2π
0
0
∫ sen(nx) sen(nx)dx = π , ma ∫ sen(nx) sen(mx)dx = 0
se m≠n
che forse bisognerebbe introdurre.
iv
Secondo me, cos(x) e sen(x) vanno sostituiti con cos(nx) e sen(nx) rispettivamente,.
v
Ho tradotto il termine content con misura. Non sono certo di aver rispettato l’originale, ma è l’unica
traduzione matematicamente sensata che ho trovato.
vi
Bisogna sapere come verrà tradotto “point set topology” nell’articolo cui l’autore si riferisce.
vii
L’originale mi sembra troppo brusco come inizio di paragrafo.
viii
Il termine originale impiegato da Heine è “Zeichen”.
ix
Ho preferito successione numero a successione numerica. Il termine originale impiegato da Heine è
“Zahlenreihe”.
x
Early formalism ???
21
Scarica

1 L`ANALISI REALE NEL 19° SECOLO 1. Osservazioni introduttive