Colf d’Italia
150 ANNI DI LAVORO DOMESTICO
PER RACCONTARE L’ITALIA CHE CURA
ATTI DEL CONVEGNO
18 novembre 2011 | Palazzo Rospigliosi, Roma
INIZIATIVA PROMOSSA DA
ATTI DEL CONVEGNO A CURA DI
Acli Colf
RELATORI
Sandra Benoni, Fabrizio Benvignati, Pina Brustolin, Maria Grazia
Giammarinaro, Valentina Iachim, Raffaella Maioni, Andrea Olivero,
Sergio Pasquinelli, Flavia Piperno, Raffaella Sarti, Clorinda Turri
NELL’AMBITO DELLE
CELEBRAZIONI PER IL
150° ANNIVERSARIO
DELL’UNITÀ D’ ITALIA
MODERATORI
Vittoria Boni, Michele Consiglio
PER LE IMMAGINI SI RINGRAZIANO
Archivio Storico delle Acli;
Museo Etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale
Dolomiti Bellunesi;
Museo dell’Educazione del Dipartimento di Scienze dell’Educazione
dell’Università degli Studi di Padova;
Giuseppe Aliprandi
SPETTACOLO GOLDBERG 150
IN COLLABORAZIONE CON
Tommaso Luison - violino | Alessandro Savio - viola
Vittorio Piombo - violoncello
Regia: Lorenzo Capalbo, Guido Turus
UN RINGRAZIAMENTO PER LA COLLABORAZIONE A
Marco Calvetto, Anna Cristofaro, Eva Gruppioni, Giorgia Guarino,
Pino Gulia, Teresa Mereu, Lidia Obando, Daniela Perco,
Federica Suardi, Patrizia Zamperlin
ACLI COLF ADERISCE ALLA
CAMPAGNA COMINGTO2011
Si ringraziano in modo particolare per la sentita partecipazione e
l’importante sostegno il Direttivo Nazionale Acli Colf, le sedi provinciali
Acli Colf e tutti coloro che a vario titolo s’impegnano insieme al nostro
movimento per dare dignità al lavoro di ogni persona.
COORDINAMENTO EDITORIALE
Edi Da Ros, Giorgia Guarino, Raffaella Maioni
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
ACLI COLF
via Marcora 18/20 - 00156 Roma
tel. 06/5840643 - fax 06/5840340
[email protected] - www.acli.it
http://aclicolfonline.blogspot.com
COPERTINA REALIZZATA DA
Aesse Comunicazione s.r.l.
PROGETTO GRAFICO
Elena La Placa
“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca,
mi ha dimostrato come ogni cosa
sia illuminata dalla luce del passato”
Jonathan Safran Foer
I NDIC E
Premessa
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Tutto questo fa pensare al nostro cammino d’oggi
di Clorinda Turri e Sandra Benoni
L’Italia che si prende cura
di Raffaella Maioni
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Lavoro domestico e di cura: storia e prospettive attuali
di Vittoria Boni
Serva, Colf, “Badante”: per una storia delle lavoratrici domestiche dall’Unità ad oggi
di Raffaella Sarti
Diritti e dignità nel lavoro domestico a partire dall’impegno delle Acli Colf
di Pina Brustolin
Bisogni di assistenza e prospettive possibili per costruire il welfare della cura in Italia
di Sergio Pasquinelli
Partire, lavorare, vivere
di Valentina Iachim
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La dimensione transnazionale della cura
di Michele Consiglio
Collaboratrici e assistenti familiari: chi sono e come si collocano nel panorama transnazionale
di Flavia Piperno
Sfruttamento invisibile di un lavoro non protetto
di Maria Grazia Giammarinaro
La Convenzione internazionale sui lavoratori domestici per la promozione di un lavoro dignitoso
di Fabrizio Benvignati
Promuovere la dignità del lavoro domestico e di cura
di Andrea Olivero
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Allegato 1. Convenzione sul lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici 2011
Allegato 2. Balie da latte di Daniela Perco
Allegato 3. Le immagini
Allegato 4. Spettacolo GOLDBERG 150 presentazione di Tommaso Luison
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Biografie Relatori
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Chi sono le Acli Colf
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Un percorso condiviso: Mondo Colf 2008-2012
di Marco Calvetto
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
P REMESSA
Le Acli Colf, quale movimento delle ACLI, si occupano da sessant’anni di lavoro domestico e di cura e fondano il
proprio impegno civile e sociale sulla tutela di questa particolare categoria di lavoratrici e lavoratori.
Il lavoro domestico e di cura nel contesto italiano ha forti implicazioni socio-economiche e pertanto merita una maggiore analisi al fine di capire i possibili sviluppi delle politiche socio-assistenziali, legati in particolare all’assistenza alla
persona, e dare dignità ed ascolto ad una categoria di lavoratrici e lavoratori spesso invisibili e poco tutelati.
Negli ultimi decenni i bisogni di cura delle famiglie sono aumentati in modo esponenziale ed il welfare italiano ha faticato nell’approntare risposte adeguate e strutturate in grado di costruire una Italia inclusiva capace di prendersi cura
di famiglie, anziani, bambini, senza riversare su di loro le carenze di un sistema che spesso li lascia soli ad affrontare
la normalità problematica della vita quotidiana.
Allo stesso tempo, la coscienza della fragilità si nasconde dietro i volti di chi è impegnato nel lavoro di collaborazione
ed assistenza familiare composto per la maggior parte da donne immigrate che, anelli deboli della cosiddetta catena
della cura, sommano alla loro difficile condizione di straniere anche la precarietà economica e sociale che è pure delle
colleghe italiane.
Nel tentativo di prenderci cura di queste fragilità e dare nuovo vigore ai diritti sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, come Acli Colf celebriamo i 150 anni dell’Unità d’Italia consegnando al nostro Paese un pensiero sulla cura,
dando voce a chi non ne ha.
Ricordando la centralità dei diritti civili che la Costituzione italiana garantisce, e tenendo presente come la nostra
storia sia stata segnata da battaglie per la conquista di tali diritti e da momenti in cui la società civile si è animata
con lo scopo di costruire un Paese non solo fatto di buone azioni, ma dalla volontà di tradurre le azioni nei principi
di giustizia ed equità sociale, abbiamo avuto l’onore di invitare a partecipare alla nostra riflessione il Presidente della
Repubblica On. Giorgio Napolitano.
Il Presidente Napolitano, che ha in numerose occasioni sottolineato l’importanza del lavoro domestico e di cura
all’interno del sistema di welfare, del ruolo del lavoro femminile, della necessità di accoglienza, tutela e integrazione
dei cittadini di origine straniera, ha voluto inviare un suo messaggio di apprezzamento all’iniziativa delle Acli Colf,
confermando la centralità dei temi trattati.
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
T UTTO QUESTO FA PENSARE AL NOSTRO CAMMINO D’OGGI
di Clorinda Turri, Segreteria Acli Colf e già Responsabile Nazionale
e Sandra Benoni, Volontaria Cestim Verona
Il Convegno si apre con una Riflessione dal Libro di Rut
LINDA: Rut è un libro biblico, di ispirazione sapienziale. E’ la storia di due donne povere, vedove, migranti, di famiglie
spezzate. Il racconto inizia col dramma della carestia, della migrazione, della morte; si dipana poi in un crescendo di
speranza. Le due donne, Rut e Noemi, aiutandosi a vicenda, scoprono nuove ed inedite prospettive di vita, di futuro per
sé, per la loro famiglia, per il loro popolo. Un messaggio importante per la nostra associazione, che è ora abitata, prevalentemente, da donne straniere che hanno lasciato le loro famiglie, la loro terra, per venire qui in Italia a curare i nostri
anziani, i malati, le nostre case.
SANDRA: Sono Rut, la moabita. Ho conosciuto Noemi quando, al braccio di mio marito, suo figlio, sono entrata per la prima volta in casa sua. “Sii benedetta, figlia mia!”. Così mi aveva accolta Noemi, con uno sguardo
di tenerezza e un tentativo di sorriso che lasciava trasparire sincerità e saggezza, ma anche una lunga vita di
sofferenza. Noemi infatti, in seguito a una carestia, da Betlemme di Giudea era emigrata con il marito e due
figli nella nostra terra di Moab, allora fertile e ricca di pascoli. Poi Noemi era rimasta vedova.
Dieci anni sono passati; dieci anni trascorsi nella casa di Noemi, dove ho imparato a conoscerla e ad amarla
come una madre. Lei, sempre così disponibile verso gli altri, saggia nelle decisioni da prendere, generosa verso
tutti, ma in modo particolare verso i poveri, gli orfani, gli stranieri... “Anch’io sono straniera nella vostra terra
– diceva – e voi mi avete accolta”.
Un po’ alla volta ho imparato a conoscere le tradizioni degli ebrei: la loro lingua, i loro usi, i loro costumi. Mi
piace ascoltare le loro preghiere e i loro canti all’unico Dio, un Dio che protegge i poveri, gli stranieri, un Dio
che ha stretto un’alleanza col suo popolo.
LINDA: Come avveniva nel tempo biblico, così avviene oggi: milioni di donne provenienti da tanti paesi del mondo,
emigrano verso i paesi più ricchi per cercare pane e futuro per sé e per le loro famiglie.
SANDRA: Dieci anni in cui ho sperato con tutta me stessa di diventare madre di figli che purtroppo non sono
mai venuti. Un dolore segreto, reso insopportabile poi dalla straziante perdita del mio amato marito. Allora
Noemi è diventata per me colei che consola, invece di essere consolata: “Piangi, figlia mia, piangi tutto il tuo
dolore”- mi aveva sussurrato fra i capelli, stringendomi teneramente a sé, alla morte del mio sposo. Anche
Orpa, mia cognata, è rimasta vedova poco dopo; vedova e senza figli anche lei. Tre vedove senza discendenza:
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
che ne sarebbe stato di noi? E questa casa troppo vuota, troppo silenziosa, troppo piena di ricordi dolorosi...
È sera inoltrata: sul tavolo i pochi pezzi di pane rimasti sono la nostra misera cena, e Noemi, guardandosi
intorno, nella casa desolata, trova il coraggio di parlarci: “Tornate dalle vostre famiglie, figlie mie, tornate da
vostra madre: là troverete modo di rifarvi una vita. Io non vi posso aiutare, sono vecchia e sola, nulla posso
fare per voi. Io tornerò a Betlemme, tornerò a morire nella terra dei miei padri. Il mio Dio ha guidato i miei
passi da Betlemme a Moab nei giorni della carestia; ora guiderà i miei passi sulla via del ritorno. Ho sentito
dire che ora lì c’è pane. Ascoltatemi, figlie mie, domani mattina lasceremo questa casa”. A nulla erano serviti
quella sera i nostri no: “No, non ti abbandoneremo, Noemi. Verremo con te presso il tuo popolo”. Così avevamo risposto noi nuore al discorso di Noemi, anche se lei scuoteva la testa in segno di diniego. Le accorate
parole di Noemi, quella notte, mi avevano tenuta sveglia a lungo.
Come posso lasciarti, mia dolce Noemi? Con te ho condiviso una parte importante della mia vita: giorni
felici e giorni tristi, gioie e amarezze… Sei stata per me madre, amica, sorella. Ora che sei vecchia e sola non
ti abbandono di certo. Questo Dio della promessa nel quale tu credi, che mette alla prova con immensi dolori
le sue creature, ti avrebbe abbandonata? Come arriverai da sola nella terra dei tuoi padri? Cosa troverai al tuo
ritorno? Chi si prenderà cura di te? Di che cosa vivrai? E il futuro, per te, Noemi, sarà davvero solo la morte?
No, non posso lasciarti sola, non posso abbandonarti: ormai sono diventata parte della tua vita.
“Dove tu andrai, andrò anch’io; dove passerai la notte, la trascorrerò con te; il tuo popolo sarà il mio popolo e
il tuo Dio diventerà il mio Dio. Dove tu morirai, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Sì, solo la morte ci separerà”- così dirò domani mattina a Noemi!
Il mattino ci trova indaffarate e silenziose. Noemi per prima esce di casa e si avvia lungo la strada che ci porterà ad altri destini; noi due nuore la seguiamo rispettando il suo silenzio. La tristezza ci accompagna.
Lungo la strada assolata e deserta Noemi ci ripete il suo accorato invito: “Tornate da vostra madre!”. Mentre
tutte e tre stiamo piangendo, Orpa ha deciso e torna da sua madre. Noemi fa ancora un ultimo tentativo per
convincermi a lasciarla, ma io le ripeto con forza: “Non insistere più con me perché ti abbandoni e torni indietro!”.
A passo svelto camminiamo pensierose alla volta di Betlemme.
LINDA: Durante il percorso migratorio le due donne scoprono che vivere il dono della solidarietà, dell’amicizia, della
fedeltà le porta a sostenersi a vicenda dentro le asperità del cammino e ad intravedere nuove ed insperate prospettive di
vita. Valori, questi, che le Acli Colf assumono come stile di vita e anche noi cominciamo a scoprire che la salvezza sta già
dentro le relazioni umane che sappiamo costruire e che accompagnano la vita di ciascuno.
SANDRA: Man mano che ci avviciniamo, osserviamo i campi d’orzo che brillano al sole, già pronti per la mietitura. Più avanti i mietitori sono già al lavoro e i covoni, gonfi di spighe mature, al tramonto saranno portati
sull’aia. Tutto questo ci dà un senso di speranza ed è per noi di buon auspicio.
Il nostro arrivo a Betlemme è un avvenimento davvero commovente. La notizia passa di bocca in bocca, di
casa in casa... Ed ecco le amiche di un tempo farsi sulla soglia ad accogliere Noemi con parole di benvenuto,
abbracci e lacrime di gioia. Piangi, dolce Noemi, piangi nel caloroso abbraccio delle amiche ritrovate!
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Quanto ti deve essere costato abbandonare questi affetti e migrare in Moab! Quanto ti è costata la perdita del
marito e dei figli, senza farla pesare alle persone care che ti erano vicine!
LINDA: Ora si manifesta la forza di donne che riescono a riprogettare la loro vita. L’alleanza e le strategie messe in atto
da Noemi e da Rut danno luogo ad un circuito virtuoso che rigenera solidarietà diffusa, crea nuove e vere relazioni
umane e nuove fonti di diritto. Forza di donne che l’associazione mette in campo per generare cambiamenti profondi.
SANDRA: Non moriremo di fame: domani, al sorgere del sole, andrò a spigolare l’orzo. È così che ho conosciuto Booz, il padrone del campo dove per caso sono andata a spigolare. Quando ha saputo che ero la
nuora moabita di Noemi è stato molto gentile e premuroso con me: “Ho saputo quello che hai fatto per tua
suocera dopo la morte di tuo marito. Hai lasciato tuo padre, tua madre, la tua patria, per venire in mezzo ad
un popolo che ti era sconosciuto. Ti ricompensi il Signore per quanto hai fatto. Il Signore, Dio d’Israele, nel
quale hai avuto fiducia, ti dia una ricompensa altrettanto generosa”. E veramente generoso è stato con me il
Dio d’Israele!
Ora sono la moglie di Booz e dalla soglia di casa osservo la scena: Noemi seduta all’ombra del vecchio ulivo,
che tiene fra le braccia il piccolo Obed, il figlio della speranza.
Sii benedetta, dolce Noemi: la fede nel tuo Dio, ora anche il mio Dio, ha realizzato l’impossibile. Questo bambino sarà la benedizione per la nostra casa e i nostri discendenti.
LINDA: Il racconto che abbiamo ascoltato ci aiuta a guardare al futuro con speranza e fiducia. Ci sollecita affinché ci
prendiamo cura delle persone in modo generoso, gratuito e disinteressato, come ha saputo fare Rut.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
L ’ I TALIA CHE SI PRENDE CURA
di Raffaella Maioni,
Responsabile Nazionale Acli Colf
Le Acli Colf hanno fortemente voluto questo momento - Colf d’Italia. 150 anni di lavoro domestico per raccontare
l’Italia che cura - e si sono impegnate a realizzarlo per due ragioni.
Innanzitutto per dare il giusto valore e un rinnovato riconoscimento alla realtà del lavoro domestico e di cura. Nonostante infatti sia un settore di importanza strategica per la nostra società nel suo complesso, rimane oggi poco
valorizzato sia a livello sociale, sia a livello politico, con provvedimenti che non incidono in modo adeguato sui
bisogni del nostro tempo, sulle esigenze delle nostre famiglie e sul riconoscimento pieno dei diritti di tale categoria
di lavoratrici e lavoratori.
Ma le Acli Colf hanno promosso questa iniziativa, perfino con un po’ di caparbietà, anche per una seconda ragione.
La nostra associazione ha voluto unirsi ai festeggiamenti per i 150 dell’Unità d’Italia. Questo per ricordare – già dal
titolo del Convegno – il contributo silenzioso di quelle donne e di quegli uomini che, nonostante la loro condizione
umile, hanno partecipato alla costruzione della nazione. Siamo infatti convinti che per la costruzione dell’Unità del
nostro Paese sia stato importante e determinante l’impegno partito da vari mondi che, sebbene divisi o paralleli, come
potevano essere quello dei padroni e quello delle serve, sono stati unificati dalla passione verso l’unità e dalla consapevolezza dell’importanza di lavorare per una cittadinanza unica, quale compimento del bene comune. E questo bene
comune, oggi troppo spesso minacciato, va riconfermato, perché le conquiste civili del passato, che vengono date per
acquisite, si ravvivino nella nostra memoria, soprattutto quando sono generazioni altre, come quelle dei migranti, a
rivendicare per se quegli stessi diritti.
In questa occasione vogliamo dunque rinnovare il nostro impegno per dare visibilità ad un mondo che è ancora
troppo poco conosciuto, sottraendolo ad una logica di rapporti di tipo familistico, individualistico, e promuovere i
diritti di cittadinanza anche per questa categoria di lavoratrici e lavoratori, diritti che la società attuale ci impone di
ripensare in modo allargato, inclusivo, nei confronti di donne e uomini di provenienze diverse, che contribuiscono,
comunque, al divenire dei nostri Paesi.
Il nostro impegno è animato dalla ricerca di un processo che conduca allo sviluppo di un sentimento di unità e di
partecipazione capace di includere e integrare tutti, anche chi, come nel caso di molte colf e assistenti familiari, ha
provenienze diverse.
In tal senso abbiamo pensato a questo nostro convegno, favorendo un confronto in un’ottica non solo nazionale, ma
con uno sguardo che apra i nostri orizzonti oltre i confini territoriali; un confronto che ci possa aiutare a costruire
prospettive e opportunità di cammini comuni.
Come introduzione ai lavori, abbiamo voluto proporre la narrazione di una storia tratta da un passato lontano, la sto-
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
ria biblica di Rut, per evocare valori ed insegnamenti ancor oggi fondanti. Il brano scelto tocca diversi temi: le migrazioni, il rapporto tra uomo e donna, le forme della schiavitù e dello sfruttamento. Ed è un brano che fa emergere con
forza valori quali il rispetto dell’altro, la fratellanza, il coraggio di reagire alle avversità, la solidarietà come unica via
per costruire futuro, la fiducia nel divenire: valori senza tempo, universali, non riconducibili ad un’unica tradizione e
cultura, e per ciò stesso sempre attuali.
È proprio ispirandosi anche a questi temi e valori che le Acli Colf promuovono il riconoscimento pieno dei diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici impiegati in questo settore, avversano ogni forma di sfruttamento, raccontano le fragilità
silenti che si nascondono tra le pareti domestiche affinché si riconosca ogni cittadino persona e ogni persona cittadino, accogliendo e ricomponendo diversità.
Questo significa anche proseguire nella diffusione di una cultura della legalità che, nel settore specifico domestico, si
concretizza attraverso l’emersione dal lavoro nero, l’affermazione piena di diritti come la malattia e la maternità, e il
riconoscimento sociale della categoria.
È pur vero che per raggiungere tali obiettivi è necessaria la partecipazione di tutti, affinché si adempiano quei passaggi per dare non solo dignità ai lavoratori, ma per rimuovere gli ostacoli che limitano molti nell’accesso alla libertà,
all’uguaglianza e alla partecipazione.
Far cominciare la nostra riflessione dal passato ha per noi un valore anche simbolico, in quanto ci fa pensare al nostro
vissuto di associazione.
Dobbiamo infatti risalire la rapida del tempo per nutrire il presente dello spirito e delle fatiche del passato. Noi –
come persone e come associazione – siamo il frutto di quello spirito e di quelle fatiche e, se non ricordiamo questo,
diventeremo, in termini non tanto economici quanto umani, troppo poveri. La nostra storia appassionata diventa per
noi oggi linfa vitale e ci sostiene nelle nostre battaglie attuali per la promozione di una categoria di lavoratrici e di
lavoratori ancora poco tutelata.
Essa diviene, al tempo stesso, punto di partenza ineludibile, su cui soffermarsi per sviluppare nuove riflessioni che
tengano conto della complessità delle geografie della società attuale in cui viviamo.
La lotta allo sfruttamento, l’affermazione dei diritti, il riconoscimento sociale: sono obiettivi per noi fondamentali,
che hanno trovato finalmente un proprio riconoscimento normativo nella Convenzione internazionale sulle lavoratrici e lavoratori domestici, adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel giugno 2011 a Ginevra.
La Convenzione è importante perché riconosce il contributo significativo dei lavoratori domestici all’economia mondiale, e perché segna su scala globale un concreto passo in avanti nel riconoscimento pieno dei diritti per questa
categoria di lavoratori.
Nel testo introduttivo, la nuova Convenzione stabilisce che “il lavoro domestico continua ad essere sottovalutato e
invisibile e che tale lavoro viene svolto principalmente da donne e ragazze, di cui molte sono migranti o appartengono
alle comunità svantaggiate e sono particolarmente esposte alla discriminazione legata alle condizioni di impiego e di
lavoro e alle altre violazioni dei diritti umani”.
In merito a ciò, la scrittrice camerunense Werewere Liking recita queste parole: “Penso a quella miriade di donne
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
laboriose che fanno girare instancabilmente la ruota del divenire (…), nell’oblio delle loro storie dolorose e infelici”1.
Mi riferisco a questo passo perché parlare di lavoro domestico significa purtroppo raccontare, anche nell’Italia di
oggi, storie di marginalizzazione, di lontananze, di negazione di diritti, storie troppo spesso declinate al femminile,
che però fanno girare la “ruota del divenire” e costruiscono il nostro futuro.
Ci sembra dunque doveroso chiedere che, proprio partendo dall’Italia, la Convenzione venga ratificata nel più breve
tempo possibile.
Per tali ragioni continuiamo a rilanciare la riflessione su temi per noi importanti, strategici, con la speranza che siano
di spunto per la costruzione di nuove prospettive per l’affermazione dei diritti e della dignità di questi lavoratori.
Le Acli Colf nell’organizzare il convegno “Colf d’Italia”, partendo da una riflessione sulla storia del lavoro domestico,
così come si è evoluto durante la costruzione della nazione, hanno voluto sviluppare il loro ragionamento, incrociando temi come quello delle migrazioni interne ed internazionali, per arrivare ad approfondire le questioni attuali
relative al welfare nazionale e transnazionale.
Tutto ciò, senza mai dimenticare il contributo che la società civile, e i movimenti al suo interno, ha dato per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e la promozione di una maggiore eguaglianza sociale.
Un sentito augurio, infine, affinché il nostro lavoro, portato avanti da tutte quelle donne delle Acli Colf che si sono
avvicendate dalla costituzione dell’Associazione ad oggi, e che con grande merito hanno saputo tenerla unita e salda nei valori che la ispirano, possa contribuire alla costruzione di un’Italia impegnata per la cura del suo divenire,
un’Italia che si prende cura.
1 Liking W., La memoria amputata, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2006
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
L AVORO DOMESTICO E DI CURA: STORIA E PROSPETTIVE ATTUALI
di Vittoria Boni,
Responsabile Dipartimento Welfare ACLI
L’importanza strategica del lavoro di cura nella vita quotidiana delle persone e delle famiglie è sotto gli occhi di tutti.
Quello della cura è un impegno per lo più agito dalle donne fin dai tempi più lontani: erano infatti le mamme, le
nonne e le zie i soggetti a cui si affidavano i lavori di gestione ed assistenza all’interno delle mura domestiche.
Erano le donne di fatica, le tate, le balie e le serve ieri; sono le assistenti familiari, le colf e le badanti oggi.
Si trattava di signore e signorine che dai vari paesi, valli e borghi d’Italia andavano a servizio nelle case delle famiglie
benestanti di città; sono le donne spesso migranti oltre che italiane che ritroviamo oggi nelle nostre case e famiglie,
ad accudire i nostri bambini e a prendersi cura di questo terzo d’Italia con i capelli bianchi.
Un lavoro, quello dell’assistenza, spesso nascosto, silente, ma che sempre più costituisce un pilastro fondamentale del
nostro sistema di welfare, senza il quale molti bisogni rimarrebbero inevasi.
Sono infatti le famiglie popolari, quelle che vivono nella normalità problematica la difficile conciliazione tra tempo di
lavoro e accudimento dei bambini e dei genitori anziani, e sono le famiglie composte da anziani soli e spesso non in
buona salute, quelle che domandano aiuto, cura e vicinanza.
Per tutti, complessivamente, è necessario un sostegno che va oltre il semplice servizio e il mero prestazionismo, e
che domanda invece una prossimità esigente fatta di rapporti buoni e di professionalità sempre più complesse, volte
a sostenere le persone, specie se anziane, dove la vecchiaia pare consegnata ad un tempo dopo la vita e non ad un
tempo della vita.
Accudire e curare la vita, che è ben più del badare, significa dunque dar corpo a quel rapporto di solidarietà, di mutualità che deve unire generazioni e famiglie nella consapevolezza che, se manca questo legame, non possono esserci
né benessere personale né coesione sociale.
Ecco perché il lavoro di cura sempre più si inserisce in quella visione promozionale e di sviluppo che da sempre le
ACLI sostengono; un welfare che metta al centro la persona, ogni persona portatrice di risorse e bisogni, nella sua
dignità e nel suo protagonismo, unitamente alla corresponsabilità di istituzioni pubbliche e di associazioni del privato
sociale che operano nell’ambito dei servizi di cura.
Senza dimenticare che in questo “mercato della cura” due sono le fragilità che si incontrano: quella delle famiglie che
hanno bisogno di orientamento, di affidabilità, di disponibilità, e quella delle collaboratrici familiari che chiedono
pari dignità e valorizzazione del loro lavoro anche da un punto di vista legislativo, senza dimenticare che alcuni passi
in questa direzione sono stati fatti.
Certo la situazione di crisi che stiamo vivendo, dove il welfare da settore sotto finanziato è addirittura divenuto
l’ambito da cui ulteriormente sottrarre risorse, non ci fa ben sperare. Ma proprio a partire da queste difficoltà va im-
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
plementato il nostro sforzo di analisi, di capacità e di proposta, riattingendo dalla storia di questo paese e dalla storia
delle ACLI e delle Acli Colf, quei valori e orientamenti che hanno consentito l’acquisizione faticosa di molti diritti
di cittadinanza, da riadeguare certo nei mutati contesti, senza però derogare da criteri di equità e di giustizia sociale.
Il recente decreto legislativo sulla riforma fiscale ed assistenziale, posto all’ordine del giorno del dibattito politico di
questi mesi, si propone di riqualificare e integrare le prestazioni socio assistenziali in favore dei soggetti autenticamente bisognosi. Posta in questo modo la questione ci preoccupa e ci interroga.
Infatti, quando le ACLI parlano di disuguaglianza, si riferiscono non solo alle differenze ormai insostenibili dei redditi, ma anche alla disparità che nasce nell’erosione delle reti sociali che danno un senso alla vita delle persone e che
non consentono una pari opportunità nella soluzione dei bisogni.
Qui le ACLI individuano i soggetti autenticamente bisognosi per i quali i diritti sociali e i beni relazionali rischiano
di diventare variabili dipendenti dal mercato.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
S ERVA, COLF, “BADANTE”: PER UNA STORIA DELLE LAVORATRICI
DOMESTICHE DALL’UNITÀ AD OGGI
di Raffaella Sarti,
Ricercatrice presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”
1. Risorgimento domestico
«Non ci sono domestici in casa di Garibaldi; tutti si servono e si aiutano reciprocamente. Io non ho notato come domestico che il cuoco», scriveva il dottor Timoteo Riboli da Caprera, dove si era recato per visitare l’eroe dei due mondi, il 27 gennaio 1861 – dunque poco prima della Proclamazione dell’Unità d’Italia, il 17 marzo di quello stesso 18611.
«Una delle nostre credenze religiose-politiche è l’abolizione della domesticità:
cioè la riabilitazione della classe così detta de’ servitori», aveva sostenuto, molti
anni prima, Giuseppe Mazzini, (1835). A suo avviso si trattava di una delle classi
che «l’organizzazione attuale della società priva dei diritti [sic] umani». Questo
la rendeva «necessariamente» «ostile alla classe dei padroni». Anche in questo
campo erano pertanto indispensabili trasformazioni profonde: «La domesticità,
come si intende e si pratica oggigiorno, deve sparire, deve diventare una prestazioni d’ufficii con retribuzione, un contratto su basi eguali, come tutti gli altri
contratti: non deve avere con sé alcuna traccia di avvilimento»2.
Se i progetti e le speranze risorgimentali toccavano anche la ‘classe’ dei domestici, ai tempi dell’Unità d’Italia essa era tutt’altro che scomparsa: il primo censimento nazionale (1861) classificò nella categoria definita, appunto, «domesticità», ben 473.574 persone, pari al 3,4% della popolazione che, con termine allora
non ancora in uso, possiamo indicare come attiva. Erano donne per i due terzi
(66%); uomini per un terzo (34%).
Fig. 1. Giuseppe Garibaldi e la sua terza moglie, Francesca Armosino, giunta a Caprera nel 1866 come balia dei
suoi nipoti.
1 La lettera di Riboli è trascritta in F. Mornand, Garibaldi, Premiato Stabilimento Nazionale di Giuseppe Grimaldo, Venezia, 1867
(ed. or. Faure, Paris, 1866), pp. 142-151 (p. 149). Se da un lato le testimonianze sono concordi nel descrivere Caprera come una
sorta di repubblica democratica, dall’altro bisogna precisare che vi furono delle donne di servizio: quando nel 1856 Garibaldi
trasferì i suoi figli sull’isola, essi erano accompagnati da una domestica, Battistina Ravello, dalla quale qualche anno dopo egli
avrebbe anche avuto una figlia, Anita. All’epoca della visita di Riboli, Battistina aveva già lasciato l’isola e non vi era ancora giunta
Francesca Armosino, la balia dei nipoti di Garibaldi che sarebbe diventata la terza moglie dell’eroe dei due mondi.
2 G. Mazzini, Lettera alla madre a Genova da Grenchen (Svizzera) del 17 novembre 1835, in Id., Opere, a cura di L. Salvatorelli, vol.
I, Lettere, Rizzoli, Milano, 1939, pp. 153-155 (p. 154).
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150 anni di lavoro domestico
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Fig. 2. Percentuale di lavoratori domestici sul totale degli attivi, Italia 1861-2001.
Fonti:
Note:
Elaborazioni dell’Autrice sui censimenti della popolazione, 1861-2001.
Sulla mutevole classificazione dei lavoratori domestici nei censimenti e sulle scelte operate per costruire la fig. 1 cfr. R. Sarti, Da
serva a operaia? Trasformazioni di lungo periodo del servizio domestico in Europa, in «Polis. Ricerche e studi su società e politica
in Italia», XIX, 2005, n. 1, pp. 91-120, appendice disponibile su www.mulino.it/rivisteweb/index.php e su www.uniurb.it/sarti. Il
censimento del 1991 fornisce dati a un livello di aggregazione tale che risulta impossibile individuare gli addetti ai servizi domestici; tanto per il 1991 quanto per il 2001 sono disponibili solo i dati relativi ai «Servizi domestici presso famiglie e convivenze»,
qui utilizzati per costruire una serie confrontabile relativa al periodo 1951- 2001. Nel censimento del 1951 la categoria si chiama
«Servizi generici» ma coincide con quella dei «Servizi domestici presso famiglie e convivenze» dei censimenti successivi (cfr. Tabella
di ragguaglio del 1961).
All’epoca gran parte dei lavoratori gode di ben pochi diritti, nonostante da più parti si cerchi di ‘nobilitare il lavoro’:
«il lavoro è sacro ed è sorgente della ricchezza d’Italia», proclama Mazzini3. E i domestici, coinvolti in una relazione
profondamente asimmetrica con quello che ancora è il padrone piuttosto che il datore di lavoro, sono particolarmente
disprezzati.
Nel suo dizionario dei sinonimi, Niccolò Tommaseo sostiene che il termine «servo» ha un senso «spiacevolissimo».
Meglio usare altri termini, meno offensivi e dispregiativi: «servente», «servitore», «domestico». Pare, tuttavia che la
voce servo «fosse più in uso anticamente, e si vada smettendo»4, aggiunge, quasi con sollievo. Non si tratta evidentemente di meri giochi di parole.
Senza dubbio, non manca qualche fermento. Ad esempio, dal testo del primo codice civile dell’Italia unita (1865)
traspare la preoccupazione del legislatore di fugare il rischio di relazioni (para)-schiavili in cui domestico sia asservito
in tutto e/o per sempre al padrone: ecco allora che la locazione delle opere non può che essere «a tempo, o per una determinata impresa» (art. 1628). Si cerca inoltre di eliminare i residui di subordinazione personale. Significativamente
il codice italiano, che pure per tanti aspetti si ispira al codice civile francese, non ne riprende l’art. 1781, che esprime
3 G. Mazzini, I doveri dell’uomo (1860), Torino, Morgari, s. d., p. 42.
4 N. Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Milano, Reina, Tipi Bernardoni, 1851-52 (II ed. milanese), 2
voll., vol. II, n. 3123, p. 867.
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e sancisce una sorta di inferiorità morale del domestico rispetto al padrone stabilendo che, in caso di disaccordo sul
salario concordato e il suo pagamento, si creda senz’altro al padrone5.
La stigmatizzazione dei domestici, tuttavia, non può dirsi superata: la democrazia, sostiene ad esempio lo storico e
parlamentare Ercole Ricotti, «a me non piace come istituzione politica, benché io di cuore sia democratico, né abbia
mai permesso alla minima persona di starmi a cappello basso in strada, né in piedi quando io fossi seduto, eccettoché
fosse un mio servo»6. I sentimenti di uguaglianza che vanno diffondendosi spesso non toccano, ancora, i domestici.
Fig. 3. La servitù di Villa Verdi a Sant’Agata presso
Busseto.
2. La ‘crisi di fine secolo’
La sconfitta di Adua, le dimissioni del primo ministro Crispi, la fine della Sinistra Storica, il generale Bava Beccaris che
spara sulla folla a Milano, i tentativi reazionari del generale Pelloux, l’attentato dell’anarchico Gaetano Bresci a re Umberto: ecco ciò che l’espressione ‘crisi di fine secolo’ evoca nella mente degli italiani con qualche conoscenza storica. È
a un’altra crisi o, se si vuole, ad un altro aspetto della crisi, che qui faccio riferimento. Un crisi che comincia a delinearsi
verso la fine dell’Ottocento e si prolunga, in realtà, anche nel periodo successivo, almeno fino alla prima guerra mondiale.
«Quando due signore del ceto medio discorrono insieme, nove volte su dieci dedicano il loro cicaleccio alle serve»,
sostiene Riccardo Bachi nella conferenza torinese del 17 aprile del 1900, dedicata a La serva nella evoluzione sociale.
E che cosa dicono delle loro domestiche, le signore? Ne «enumerano i difetti insopportabili, ne riportano la fenomenale imperizia», osservano «che le ‘serve oneste e fidate’ diventano ognor più rare e che è ‘beato chi può farne senza’»,
spiega Bachi. E aggiunge che tali lamentele sono le stesse in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Olanda…7.
5 R. Sarti, Quali diritti per ‘la donna’? Servizio domestico e identità di genere dalla Rivoluzione francese a oggi, Bologna, S.I.P., 2000,
disponibile online (http://www.uniurb.it/scipol/drs_quali_diritti_per_la_donna.pdf); R. Sarti, Lavoro domestico e di cura: quali
diritti?, in Ead. (a cura di), Lavoro domestico e di cura: quali diritti?, Roma, Ediesse, pp. 17-131 (pp. 27-35).
6 A. Manno, Ricordi di Ercole Ricotti, Torino-Napoli, Roux e Favale, 1886, p. 160.
7 R. Bachi, “La serva nella evoluzione sociale”, Conferenza tenuta a Torino presso la «Società di Coltura» il 17 aprile 1900, Torino,
G. Sacerdote, 1900, pp. 24-25.
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Pur con sfumature diverse, ovunque si sente parlare della crescente difficoltà di trovare domestici, e di trovarne anche
solo minimamente preparati. Espressioni come servant problem, servant shortage, servant question, great question,
crise de la domesticité, «crisi delle domestiche», Dienstbotenfrage, Hausflucht rimbalzano dai salotti eleganti ai tavolini
dei caffè, dalle pagine dei giornali a quelle delle riviste, dagli agili opuscoli ai tomi voluminosi, dal vecchio teatro al
neonato cinema, costituendo il vocabolario di un dibattito tanto intenso quanto preoccupato8.
«La fabbrica, ecco il nemico delle padrone di casa, il mostro che ingoia le ragazze prima d’ora destinate al servizio
domestico e le trattiene fino all’età da marito», scrive Alessandro Schiavi9. L’industrializzazione appare in effetti a
molti la causa principale della crisi. Se il lavoro di fabbrica attira le ragazze non è comunque perché sia meno faticoso
o meglio pagato del sevizio domestico. Anzi, secondo Schiavi spesso è più intenso e retribuito peggio. Allora perché?
«Un operaio o una sartina, finita la loro giornata di lavoro, sono liberi, sono padroni di sé», spiega Alessandro Levi10,
sollevando un punto su cui molti concordano. Le domestiche (e i domestici) invece devono essere a disposizione dei
padroni ventiquattro ore al giorno.
«È inutile osservare come la trasformazione della vita casalinga apporti una rivoluzione nel servizio domestico: esso
non sarà più (...) domestico», sosteneva ancora Bachi nella citata conferenza. Il servizio domestico, «verrà sostituito
da un servizio di indole collettiva, non più degradante; cangerà le serve in operaie»11. «La vera serva è morta o sta per
morire», gli avrebbe fatto eco qualche anno dopo la nota scrittrice Ada Negri dall’autorevole tribuna del «Corriere
della sera»12. In molti, allora, concordavano sul fatto che fossero ormai prossime trasformazioni dell’organizzazione
sociale che avrebbe coinvolto anche la sfera domestica, anche se poi le idee su quello che sarebbe successo, o avrebbe
dovuto succedere, spesso divergevano.
Si parlava di diffusione dei pasti a domicilio, di cucine collettive, di innovazioni tecniche: riscaldamento centrale,
illuminazione elettrica, conduttore per l’acqua calda, lavanderie centralizzate, macchine per pulire, ascensori, aspirapolvere e mille altre diavolerie da lasciare a bocca aperta avrebbero portato una rivoluzione della vita domestica
che avrebbe implicato la scomparsa sia delle serve (di cui peraltro già allora la maggioranza faceva tranquillamente
a meno) sia delle padrone13. All’esposizione universale di Bruxelles del 1910 l’avvocato ed editore Charles Didier
propose un électro-bungalow dove tutto, dal lavaggio dei piatti all’inceratura dei pavimenti, veniva fatto meccanica8 F. Reggiani, Un problema tecnico e un problema morale: la crisi delle domestiche a Milano (1890-1914), in Donna lombarda 18601945, a cura di A. Gigli Marchetti e N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 149-179; R. Sarti, Da serva a operaia? Trasformazioni di lungo periodo del servizio domestico in Europa, in «Polis. Ricerche e studi su società e politica in Italia», XIX, 2005, 1,
pp. 91-120 (pp. 92-99, disponibile su www.mulino.it/rivisteweb/index.php e su www.uniurb.it/sarti).
9 A. Schiavi, La serva, in «Il Secolo XX», settembre 1907, pp. 707- 726 (p. 711).
10 A. Levi, Il «completo». A proposito della crisi dei domestici, in «Critica sociale», 1908, n. 1, pp. 10-13; n. 2, pp. 26-28; n. 3, pp.
42-45 (p. 11), cors. nel testo.
11 R. Bachi, La serva cit., p. 40.
12 A. Negri, Ufficio di collocamento per donne di servizio, in «Corriere della Sera», 16 maggio 1907.
13 Si veda in questo senso il vero e proprio bestseller del socialdemocratico tedesco A. Bebel, Die Frau und der Sozialismus (1879),
1910, cap. 27, sezz. 3 e 4 (il testo fu tradotto ed ebbe varie edizioni anche in italiano).
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mente14. Citando una commedia di Cratete (senza dubbio Le bestie) che metteva in scena un mondo in cui ogni cosa
si faceva da sola e nessuno aveva servitù, Bachi sosteneva che tale sogno plurimillenario, un tempo deriso, andava
«cangiandosi in realtà», e annunciava come «imminente il giorno in cui, presso di sé nessuno avrà servo o fantesca».
Ben presto «operaie indipendenti… saranno chiamate, ad eseguire determinati lavori entro le case e nelle istituzioni
cooperative, senza cessare per questo di convivere colle proprie famiglie, senza che per esse sia, come oggi, distrutta
quell’istituzione famiglia di cui pure le padrone si atteggiano a così gelose conservatrici»15.
Certo non tutti condividevano l’idea che trasformazioni tanto radicali fossero all’orizzonte, per quanto nessuno dubitasse che il servizio domestico tradizionale fosse in crisi. Molti reagivano a tale crisi cercando di restaurare un (presunto) idilliaco rapporto paternalistico tra ‘padroni’ e ‘servi’. E tanti, anche persone animate da convinzioni diverse
circa il futuro, erano accomunati dallo sforzo di migliorare la formazione professionale dei domestici per garantire
loro maggior dignità e ai datori di lavoro un personale più affidabile ed efficiente. Si sperava, in tal modo, di arrestare
la ‘fuga’ di potenziali domestici e (soprattutto) domestiche verso altre occupazioni, che garantivano non tanto migliori salari, quanto, piuttosto, maggiori diritti.
Questa fuga si concretizzava in cifre: tra 1881 e 1901, stando ai dati dei censimenti, i domestici erano crollati da
614mila a 482mila, con un calo dal 4,1 al 3% degli attivi (Fig. 2). Va sottolineato che nel frattempo erano intervenuti
profondi cambiamenti nella mentalità e nell’organizzazione del lavoro che avevano portato a modificare le categorie
censuarie e a non classificare più tra le persone di servizio alcuni dei lavoratori un tempo inclusi tra di essi (in particolare maestri di casa, segretari, contabili ecc.). Ma la riduzione degli addetti emergeva con chiarezza anche facendo
la tara di questi cambiamenti delle modalità di classificazione: escludendo – per il 1881 – i gruppi di lavoratori poi
classificati altrove, risultava infatti una riduzione da 564mila a 482mila unità.
Se una parte dell’opinione pubblica considerava con palpitante preoccupazione questa fuga, altri la salutavano come
legittima aspirazione, da parte delle classi popolari, a impieghi che garantissero maggior dignità e rispetto. Il «microbo della redenzione del quarto stato» contagiava anche i domestici16. Da Berlino a San Pietroburgo, da Londra
a Parigi, tra Otto e Novecento si moltiplicavano le associazioni e i sindacati di domestici, così come le proteste e gli
scioperi volti a migliorare le condizioni di questa «classe», «sempre trascurata se non disprezzata»17. Alcuni scioperi
e proteste si verificarono anche in Italia18.
Il Novecento si apriva insomma con attese e richieste di profondo rinnovamento del lavoro nella sfera domestica.
3. La disillusione
Ben presto le attese della belle époque vanno deluse. Dopo il forte declino di fine Ottocento, e nonostante il fermento
di inizio secolo, la contrazione del personale di servizio si arresta, forse a causa della crisi che si avvia nel 1907. Gli
14 Valérie Piette, Domestiques et servantes. Des vies sous condition. Essai sur le travail domestique en Belgique au 19e siècle, Bruxelles, Académie Royale de Belgique, 2000, p. 390.
15 Bachi, La serva cit., pp. 44-45.
16 Levi, Il «completo» cit., pp. 12 e 27.
17 L’Unione, Il Foglio nostro... che è poi il Foglio vostro, in «L’Unione del Personale di Servizio», a. I, n. 1, 1° giugno 1907.
18 R. Sarti, Da serva a operaia? cit., pp.99-100; R. Sarti, La costruzione dell’identità di genere nei lavoratori domestici, in R. Catanzaro, A. Colombo (a cura di), Badanti & Co. Il lavoro domestico straniero in Italia, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 57-83 (pp. 60-63).
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addetti sono 482mila nel 1901, 483mila nel 1911, pari rispettivamente al 3 e al 2,9% degli attivi (Fig. 2). Certo la
Grande guerra rimette in moto la tendenza alla riduzione. L’industria bellica assorbe anche molte donne di servizio:
«vengono in gran numero le sarte da uomo (...); le sarte da donna (...); indi le cucitrici, le ricamatrici, e in gran copia
le cuoche, le domestiche», scrive nel 1917 Rosa Massara de Capitani, parlando dell’«iscrizione delle donne nel lavoro
delle munizioni»19. Al censimento del 1921 le domestiche risulteranno il 7,2% delle attive, contro il 7,6% del 1911 (e
del 1901, Fig. 4): sul totale degli attivi, i lavoratori domestici, maschi e femmine, si ridurranno al 2,4% (contro il 3%
circa del periodo prebellico). Ma il primo dopoguerra non è testimone delle radicali trasformazioni che all’inizio del
secolo parevano ormai prossime. Semmai è vero il contrario.
Il personale domestico, infatti, non viene cancellato neppure dalla Rivoluzione d’Ottobre, anche se in Urss viene introdotta una nuova legislazione volta a migliorarne le condizioni di lavoro e dal 1923-24 viene lanciato un ambizioso
progetto che mira a trasformare i servitori domestici (domashniaia prisluga) in lavoratori domestici (domashniaia
rabotnitsa): è un’operazione, non solo nominalistica, che mira a rendere meno ‘arretrata’ la condizione delle donne
che vanno a servizio. Certo le 460.000 domestiche rilevate nel 1926 sono poca cosa rispetto al milione e più degli anni
precedenti alla rivoluzione, ma le donne di servizio sono in aumento e nel 1929 toccano le 527.00020. Il caso russo
non è isolato: dalla Norvegia all’Inghilterra, dalla Spagna all’Italia, dalla Francia al Belgio e negli Stati Uniti, negli
anni Venti e Trenta si assiste a un’inversione della tendenza al calo o al ristagno registrata nei primi due decenni del
secolo21. In Italia nel 1936 l’incidenza delle persone di servizio sul totale degli attivi (3,2%) è addirittura più alta che
nel 1901 (3,0%).
Letta alla luce della depressione economica e della disoccupazione, che avrebbero costretto molte persone a cercare
lavoro nel servizio domestico, l’espansione del settore non può in realtà essere isolata dalle politiche messe in atto
dai vari governi per fronteggiare la crisi. E se in Italia, a differenza di quello che avviene in altre nazioni, non ci sono
(per quanto ho potuto verificare) provvedimenti specifici volti a trasformare i disoccupati in domestici o a favorire
in altri modi la crescita del settore, le complessive politiche fasciste sono senza dubbio rilevanti quando si cerchi di
capire come mai il numero delle persone di servizio ricominci ad aumentare. In questo senso, la scelta di scaricare
gran parte dei costi della crisi sul mondo rurale costringe le famiglie contadine, private dei tradizionali sbocchi migratori all’estero, a elaborare nuove strategie di sopravvivenza: ecco allora eserciti di donne che lasciano le campagne
per andare a far le serve in città. Tra il 1921 e il 1936, le domestiche, se si usa per il 1936 una categoria comparabile a
quella del 1921, balzano da 380.614 a 570.083. Ma oltre ai numeri delle statistiche lo confermano le voci di tante protagoniste e testimoni di questo esodo, significativamente mai incluso nelle pur inefficaci leggi contro l’urbanesimo: «i
mariti non trovavano lavoro, e perciò bisognava darsi da fare», racconterà ad esempio, circa cinquant’anni dopo, una
donna bellunese che allora era andata a far la balia22.
19 R. Massara de Capitani, L’Ufficio per l’iscrizione delle donne nel lavoro delle munizioni, in «Assistenza Civile», 1° gennaio 1917,
cit. in B. Curli, Italiane al lavoro 1914-1920, Venezia, Marsilio, 1998, p. 65.
20 Sarti, Da serva a operaia? cit.
21 Ibid.
22 D. Perco, Balie da latte. Una forma peculiare di emigrazione temporanea, Comunità montana feltrina, Feltre, Centro per la documentazione della cultura popolare, quaderno n. 4, 1984, p. 21.
22
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Fig. 4. Percentuale di donne tra i lavoratori domestici; percentuale di lavoratrici domestiche tra le attive; percentuale di donne nella categoria «servizi domestici presso famiglie e convivenze» e percentuale di addette ai «servizi domestici presso famiglie e convivenze» tra le attive
in condizione professionale
Fonti: Elaborazioni dell’Autrice sui censimenti della popolazione, 1861-2001.
Non a caso, allora, tra il 1921 e il 1931, l’incidenza delle serve sul totale delle donne attive balza dal 7,2% all’11,4%. Tra
gli uomini attivi, invece, la percentuale dei domestici non smette di declinare: 0,5% nel 1921, 0,3 nel 1931, 0,2% nel
1936. Come mai in un’epoca di alta disoccupazione il servizio domestico costituisce un’opportunità solo per le donne?
Per rispondere bisogna tener presenti altre scelte del regime fascista: l’enfasi sulla «sposa e madre esemplare» e sulla
destinazione casalinga delle donne (pur contraddetta, in parte, dalla mobilitazione di massa che coinvolgeva le italiane in una nuova presenza pubblica); il sostegno alla maternità in vista di una crescita demografica funzionale alla
politica di potenza del regime stesso; l’enorme sforzo per espellere le donne dal mercato del lavoro, specie dai posti
più qualificati. Il fatto che le donne balzino dall’85% degli addetti al personale domestico del 1921 al 95% del 1936
appare insomma coerente con la complessiva politica fascista relativa ai rapporti di genere. «L’essenza totalitaria del
Regime Corporativo esig[a] che... anche l’umile ma necessario lavoro domestico abbia la sua disciplina speciale»,
sostengono autorevoli giuristi23, e non manca chi richiama l’opportunità «dell’inquadramento sindacale del personale
23 P. Addeo, Verso il contratto collettivo di lavoro domestico, estratto da «L’eco forense», 1935, pp. 3-7
23
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Fig. 5. Una balia del
bellunese a Roma negli
anni Trenta
domestico, che vive fuori dell’ordinamento corporativo». Ma che l’eventuale inquadramento
non implichi alcuna «limitazione della libertà nelle faccende domestiche» e non crei «difficoltà e grattacapi» è un’idea che non incontra ampi consensi, nonostante la politica ben poco
antipadronale delle organizzazioni del regime24.
Negli anni venti e trenta la vita associativa del personale domestico e il controllo su di esso si
realizzano in effetti, più che nell’ambito delle istituzioni e organizzazioni di massa fasciste, nel
mondo cattolico, secondo una tradizione ormai radicata. I cattolici, infatti, sviluppano tutta
una serie di iniziative al tempo stesso di protezione e sorveglianza nell’ambito delle attività
portate avanti, oltre che da uno stuolo di parroci e sacerdoti, dalla Protezione della giovane,
dall’Azione cattolica, dall’Opera del ritrovo per le domestiche e da mille altre organizzazioni
più circoscritte25.
I cattolici si sforzano anzitutto di ridurre l’esercito di ragazze che si allontanano dalla famiglia per andare a servizio in
città. Sulla «Rivista del clero italiano» si denuncia, infatti, che «spesso non il reale bisogno sospinge a lasciare il focolare paterno; ma alla grande città attrae l’ansia d’una vita nuova, più brillante, più comoda»26. Non manca comunque
la consapevolezza che molte ragazze partono, spinte dalla miseria, per aiutare le proprie famiglie, tanto che in alcune
zone a forte emigrazione i cattolici negli anni trenta accettano ormai l’esodo delle ragazze senza troppe riserve. Anzi,
si arriva a sottolineare il valore di apostolato e di vera e propria missione religiosa che il servizio domestico può assumere: «Se da un lato la professione di domestica include molti pericoli, dall’altro essa offre occasioni innumerevoli di
bene», scrive Adriano Bernareggi, vescovo coadiutore di Bergamo, nel 1935. Le domestiche, infatti, «possono portare
Cristo ed il suo spirito in ambienti, dai quali Cristo è stato messo alla porta»27. Si cerca insomma di dare un senso
religioso ai sacrifici che le ragazze fanno per aiutare le famiglie, procurandosi al tempo stesso delle alleate nella lotta
contro la secolarizzazione e di attuare un immane sforzo di conservazione sociale volto ad arginare i possibili effetti
«eversivi» dell’enorme flusso migratorio femminile.
«Mi ricordo che ci siamo fermate durante il viaggio alla stazione di Bologna e lì ci aspettava la “Protezione della
giovane”», raccontava qualche anno fa Carolina, una ex-domestica trentina che era andata a servizio a Roma nel
1931. E un’altra trentina, Margherita, nata nel 1910, ricordava che una volta, durante il periodo passato a servizio, era andata a ballare. «“Di te Margherita non me l’aspettavo!”» – avrebbe reagito il datore di lavoro – «Quante
me ne ha dette! Mai più sono andata: o alla “Protezione della giovane” o in chiesa o con loro [cioè con la famiglia
datoriale]»28. I giudizi sulla trasformazione delle ragazze che andavano a servizio erano unanimi e corali. «Le figliu24 R. Nenci, Dell’educazione e disciplina sindacale degli addetti al servizio domestico, in R. Nenci, Saggi ed esperienze di sindacalismo
fascista e corporativo, Firenze, Cya, 1938, pp. 14-20.
25 R. Sarti, «Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura». Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia: uno
sguardo di lungo periodo, in «Polis. Ricerche e studi su società e politica in Italia», XVIII, 2004, n. 1, pp. 17-46.
26 A.M.R., Il problema delle domestiche, in «Rivista del clero italiano», 1938, p. 564, citato in C. Aita, Chiesa e società nella «Rivista
del clero italiano» (1920-1940), tesi di laurea, Università di Firenze 1999-2000, p. 265 (www.claudioaita.it/tesi_capitolo6.htm).
Ringrazio l’autore per le indicazioni fornitemi.
27 G. Belloli, Il famulato cristiano, Bergamo, Società Editrice S. Alessandro, 1935, p. 9.
28 Aa.Vv., «Per vito e per vestito» (sulle condizioni di vita e di lavoro delle donne di servizio trentine), Corsi serali per lavoratori,
1980-81, dattiloscritto inedito (un ringraziamento a Diego Leoni per averne permessa la consultazione).
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150 anni di lavoro domestico
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ole vanno alla città in numero sempre più impressionante a servire i ricchi e ne ritornano... oh come ne ritornano!
È meglio non dirlo», aveva denunciato già nel 1913 il foglio cattolico di un comune appenninico il cui il comitato
locale per la Protezione della giovane si riproponeva, tra l’altro, di arginare le novità portate dalle domestiche nei
paesi d’origine29. Nei decenni successivi, e fino agli anni sessanta, di giudizi simili se ne sarebbero sentiti a iosa.
Per quel che possiamo valutare alla luce di alcune testimonianze di donne che sono state a servizio tra gli anni venti e
sessanta, anche le dirette interessate concordano sul fatto che l’esperienza migratoria cambiasse profondamente chi la
affrontava. «Chi l’aveva mai visto il telefono», scrive ad esempio Bruna, domestica a Firenze dal 1938, nelle sue bellissime memorie manoscritte30. Di solito le donne coinvolte danno un giudizio ben diverso31 dalle accennate condanne,
pur sottolineando spesso la lacerazione della partenza, la nostalgia, le difficoltà di adattamento legate alla migrazione,
l’ambiguità talvolta dolorosa che le circondava quando tornavano nei paesi d’origine, dove esercitavano un fascino
sottile ma spesso facevano anche scandalo, ed erano pertanto oggetto di diffidenza e stigmatizzazione: «Quando tornavi su, non ci tornavi certo com’eri andata giù: anche nel vestire eri diversa e nelle idee soprattutto»32. Ancora negli
anni sessanta, in alcune zone del Trentino la diversità di queste migranti che quando tornavano in paese «portavano
su le novità» induce molte ragazze a seguirne l’esempio: andare a servizio «era anche una fuga, per uscire da quell’ambiente così chiuso»33, «una scelta di libertà». Non a caso la possibilità di conoscere ambienti nuovi e di imparare è
giudicata positivamente in modo corale, e non manca il confronto con chi non si è mosso, donne ma anche uomini,
nei paesi a emigrazione femminile: «ho imparato a stare colle persone, a stare in società, perché il mondo l’ho girato...
mentre i maschi se ne stavano quassù a fare i contadini»34. La trasformazione, nelle parole di molte, è permanente: «la
differenza con quelle che sono rimaste c’è anche oggi», dice Margherita, entrata a servizio nel 1924.
«Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura»35. Una lezione sulle vie tortuose che può seguire la ricerca
di maggiore autonomia e libertà nei contesti caratterizzati da profondi squilibri e asimmetrie, queste parole di donne
partite a far le serve per non essere più serve.
4. La ‘grande’ storia
Anche se il servizio domestico non fu, in Italia, oggetto di provvedimenti diretti volti ad espanderlo (come invece avvenne altrove, e in particolare nella Germania nazista, che cercò di farne un ingranaggio importante nella sua politica
di potenza36), esso venne comunque fortemente influenzato dalle scelte operate dal regime fascista.
29 «La Voce» (organo della sottodirezione diocesana della montagna reggiana), 7 giugno 1913, citato in D. Notari, Donne da
bosco e da riviera. Un secolo di immigrazione femminile dall’alto Appennino reggiano (1860-1960), s.l., Parco del Gigante, 1998, p.
137, ma anche p. 141.
30 B. Salvatici, Memorie, testo ms risalente al 2005, p. 79. Si ringrazia B. Salvatici per il permesso di citare il testo.
31 Oltre a quanto cit. nelle note successive cfr. U. Lüfter, M. Verdorfer, A. Wallnöfer, «A quegli anni non vorrei affatto rinunciare».
Domestiche sudtirolesi nelle città italiane 1920-1960, in «Polis. Ricerche e studi su società e politica in Italia», XXI, 2007, n. 2, pp.
215-224.
32 Fortunata, Valle di Gresta, 60 anni al momento dell’intervista, in Aa.Vv. «Per vito e per vestito» cit. (le pagine non sono numerate).
33 Ibid., Alma T., 35 anni, di Trambileno.
34 Ibid., Carolina, 65 anni, Valle di Gresta.
35 Ibid., Margherita, 71 anni, Valle di Gresta. Vedi anche Perco, D. (a cura di), Balie da latte. Una forma peculiare di emigrazione
temporanea, Feltre, Comunità Montana Feltrina, 1984, p. 40.
36 R. Sarti, Da serva a operaia?
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150 anni di lavoro domestico
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Diverso è il caso della politica razziale: in questo caso, nel nostro paese, come in Germania, esso fu coinvolto in modo
diretto. Se in Germania le leggi per la protezione del sangue tedesco (1935) vietarono alle famiglie ebraiche di impiegare come domestiche donne tedesche di meno di quarantacinque anni per scongiurare il rischio di rapporti sessuali
e di mescolamento tra le ‘razze’, le leggi razziali italiane del 1938 proibirono agli ebrei di avere al proprio servizio
«cittadini italiani di razza ariana»37: «ci costrinsero a licenziare le domestiche», ricorderanno amaramente in seguito
parecchi ebrei sopravvissuti all’orrore di quegli anni38.
La ‘grande’ storia investiva in pieno la (solo apparentemente) ‘piccola’ storia delle persone di servizio: i nazisti moltiplicavano le leggi volte ad accrescere il numero delle domestiche al fine di permettere alle madri tedesche di mettere
al mondo l’esercito di figli necessario ad alimentare l’esercito, quello vero, del Terzo Reich (arrivando a richiamare in
patria tutte le ragazze tedesche a servizio all’estero, pena la perdita della cittadinanza). Gli svizzeri rinunciavano alle
(numerose) domestiche germaniche che lavoravano nelle loro case per paura che propagassero idee naziste, in particolare tra bambini e adolescenti. Come tutti gli abitanti di lingua tedesca dell’Alto-Adige, le sudtirolesi a servizio nelle
città italiane (numerose, in particolare dopo che l’avvicinamento tra Italia e Germania aveva reso il tedesco di moda),
in occasione delle ‘opzioni’ del 1939, furono costrette a scegliere se rimanere in Italia perdendo la loro identità tedesca o trasferirsi in Germania, perdendo la loro cittadinanza italiana: e tra quelle che decisero di andarsene, parecchie
sperimentarono il (duro) servizio domestico obbligatorio previsto per le ragazze nel Terzo Reich. Moltissimi ebrei
austriaci e tedeschi in fuga dai nazisti trovarono rifugio in Inghilterra grazie a permessi di ingresso come domestici.
Almeno 100.000 donne dei paesi occupati dai nazisti furono costrette a lavorare in Germania come serve39.
5. Lex dura lex
– Non voglio più esser schiava, aveva detto la Natalina – voglio la libertà!
– Stupida che sei! – le diceva mia madre. – Figurati se io ti tengo schiava! Sei più libera di me!
– Son Schiava! son schiava! – diceva la Natalina, col suo tono concitato e minaccioso, scuotendo la scopa; e mia madre
allora usciva di casa, dicendo:
– Esco perché non ti posso vedere! Sei proprio diventata antipatica!
Natalina aveva servito in casa del professor Giuseppe Levi e di sua moglie Lidia Tanzi per lunghi anni. Ma «subito
dopo la guerra» – racconta Natalia Ginzburg –, se ne andò, animata da un insopprimibile desiderio di libertà40.
Durante gli anni della guerra qualcosa aveva timidamente cominciato a cambiare. Nel 1942, il nuovo codice civile italiano aveva dedicato sette articoli al rapporto di lavoro domestico (artt. 2240-2246), che introducevano le ferie retribuite e, seppur in casi circoscritti, l’indennità di fine rapporto. Questi sette articoli non cambiavano in realtà in modo
37 Art. 12 del r.d.l. n. 1728 del 1938, convertito nella legge n. 38 del 1939.
38 E. Colonna, Milena e i suoi fratelli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 61.
39 Lüfter, Verdorfer, Wallnöfer, «A quegli anni non vorrei affatto rinunciare», cit.; R. Sarti, The Globalisation of Domestic Service An Historical Perspective, in Helma Lutz (a cura di), Migration and Domestic Work: A European Perspective on a Global Theme,
Aldershot, Ashgate, 2008, pp. 77-98.
40 N. Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1963, p. 171. «Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente», chiarisce la Ginzburg (p. V).
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significativo la precedente deregulation del settore. Rappresentavano però una primo passo verso il superamento di
quella visione secondo la quale «un rapporto svolgentesi di regola nell’ambito delle pareti domestiche, e che dev’essere
tutto pervaso da sensi di benevolenza dovuti dal datore di lavoro alle persone addette al proprio servizio, meglio viene
regolato fra i privati»41. D’altronde i domestici – ormai rappresentati quasi solo da donne – facevano a pagamento
compiti svolti da mogli e madri gratuitamente: questa pericolosa vicinanza con il lavoro di cura prestato per amore o
per dovere faceva sì che – agli occhi di molti – il lavoro domestico salariato non apparisse un ‘vero’ lavoro.
Queste convinzioni avevano portato ad escludere i domestici dal godimento di gran parte dei provvedimenti di tutela
dei lavoratori42. Essi, infatti, non erano stati compresi tra i beneficiari delle leggi sul lavoro dei fanciulli e delle donne
e sulla tutela della maternità43; sulla limitazione dell’orario ad un massimo di otto ore giornaliere e quarantotto, poi
quaranta, settimanali44; sui contratti collettivi45; sull’assoggettamento delle competenze, in caso di controversie, alle
sezioni del lavoro istituite presso le preture e i tribunali46; sulla tutela in caso di disoccupazione involontaria47. Gli
unici provvedimenti di cui avevano beneficiato erano stati la legge del 1923 sull’assicurazione obbligatoria contro
l’invalidità e la vecchiaia, estesa, nel 1927, alla tubercolosi48.
Che dire dei legislatori della neonata Repubblica italiana? Danno soddisfazione al desiderio di libertà di Natalina, e di
tante altre come lei? In effetti essi invertono la tendenza all’esclusione, ma continuano a ritenere il lavoro domestico
un’occupazione con peculiarità tali da rendere impossibile l’estensione ai lavoratori domestici di molti diritti garantiti
ad altre categorie (una discriminazione che sopravvive anche oggi, seppur resa meno visibile dalla proliferazione dei
lavori atipici che garantiscono pochissimi diritti). Così, nel 1950 essi si vedono riconosciuto l’assegno di maternità49,
nel 1952 l’assicurazione malattia50, nel 1953 la tredicesima51. E nel 1958 – dopo un lungo iter parlamentare – arriva la
prima (e finora unica) legge organica sul lavoro domestico, la 339 del 2.4.195852.
Questa legge regola il collocamento e l’avviamento al lavoro, l’assunzione, il periodo di prova, i diritti e i doveri del
lavoratore e del datore di lavoro, il riposo settimanale, l’orario di lavoro e il riposo, i giorni festivi, le ferie, il congedo
matrimoniale, il preavviso, l’indennità di anzianità, l’indennità in caso di morte e la tredicesima. Istituisce inoltre la
commissione centrale per la disciplina del lavoro domestico e le commissioni provinciali per il personale domestico.
Al contempo, tuttavia, esclude i domestici dal godimento di molti diritti riconosciuti ad altre categorie: regola non il
41 L. De Litala, Il contratto di servizio domestico e il contratto di portierato, Roma, U.s.i.l.a., 1933, p. 5.
42 Più ampiamente Sarti, Lavoro domestico e di cura cit.
43 L. 11.2.1886, n. 3657; l. 19.6.1902, n. 242; l. 7.7.1907, n. 416 e r.d. 10.11.1907, n. 818; l. 17.7.1910, n. 520; r.d. 13.3.1923, n. 748 e l.
17.4.1925, n. 437; r.d.l. 13.11.1924, n. 1825; r.d.l. 13.5.1929, n. 850; l. 26.4.1934, n. 653; r.d.l. 22.3.1934, n. 654 e l. 5.8.1934, n. 1347.
44 R.d.l. 15.3.1923, n. 692, art. 1, comma 2 e l. 17.4.1925, n. 473; r.d.l. 29.5.1937, n. 1768, art. 3, lettera ‘a’ e l. 13.1.1938, n. 203.
45 R. d. 1.7.1926, n. 1130, art. 52.
46 D. 26.2.1928, n. 471, art. 1. Le controversie relative ai contratti di lavoro domestico non erano state incluse, d’altronde, tra quelle
devolute ai collegi dei probiviri con la l. 15.6.1893, n. 295.
47 R.d.l. 4.10.1935, n. 1827, art. 40, 4.
48 Art. 1, comma n. 2, del d. 30.12.1923, n. 3184; d. 27.10.1927, n. 2055 e r.d.l. 4.10.1935, n. 1827, art. 37, convertito con modificazioni nella l. 6.4.1936, n. 1155.
49 Legge n. 860 del 26.8.1950.
50 Legge n. 35 dell’8.1.1952.
51 Legge n. 940 del 27.12.1953.
52 Su questa legge si veda la giornata di studio Lavoro domestico: quali diritti? Una riflessione a cinquant’anni dalla legge 2 aprile
1958, n. 339 «Per la tutela del lavoro domestico», Palazzo Albani, Urbino, 26 settembre 2008 (www.uniurb.it.scipol.lavorodomestico26set08.pdf) e il volume curato da R. Sarti, Lavoro domestico e di cura: quali diritti? cit.
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tempo massimo di lavoro ma il tempo minimo di riposo, fissato in otto ore consecutive di notte e in un «conveniente»
riposo durante il giorno. Non fa obbligo ai datori di lavoro di ricorrere agli uffici di collocamento, in deroga al principio costituzionale (poi modificato) del collocamento come funzione pubblica esercitata da organi statali.
Non modifica quanto stabilito dall’art. 2068 del codice civile, che esclude i domestici dalla contrattazione collettiva. E
non prevede neppure il divieto di licenziamento durante la gravidanza e il primo anno di vita del bambino.
Ciononostante molti protestano: «Le sembra giusto che [le cameriere] debbano ottenere la libera uscita tutte le domeniche, oltre che tutte le feste infrasettimanali?» scrive un infuriato lettore al direttore di «Epoca» – che allora era Enzo
Biagi – enumerando poi altri (a suo avviso ingiustissimi) diritti che le domestiche conquistano con la nuova legge53.
Fig. 6. Le domestiche, lettere Al Direttore, in «Epoca», n. 398, 18 maggio 1958, a. IX
6. Gli ultimi dei Mohicani?
Molti, in effetti, temono che le cameriere alzino troppo la cresta, o che finiscano ‘tra le braccia’ dei comunisti. È, questa, una preoccupazione molto sentita dai cattolici, che – proprio per sottrarre le ragazze a servizio ad una possibile
influenza comunista – fin dal 1946 danno vita ai Gruppi Acli Domestiche ed affinano il progetto, già elaborato negli
anni precedenti, di trasformarle in missionarie della parola di Cristo nelle famiglie borghesi, sempre più inclini alla
laicità e all’ateismo. D’altronde, se da un lato i cattolici sostengono vari interventi legislativi a favore delle domestiche, dall’altro rimandano alla vita ultraterrena il vero riscatto dalla condizione servile: significativamente nel 1955,
dunque in un periodo di profonde trasformazioni, Pio XII proclama Santa Zita di Lucca – serva medievale da secoli
proposta alle domestiche come modello – patrona universale delle lavoratrici della casa. In questa «povera serva»
destinata a divenire, in eterno, «eccelsa signora» esse troveranno un esempio «di cristiana umiltà, di obbedienza, di
correttezza nei costumi, di adempimento del dovere e di pazienza»54.
«Fra qualche anno il personaggio ‘donna di servizio’ uscirà da queste scene», rispondeva Enzo Biagi agli infuriati
lettori che gli scrivevano denunciando gli orrori introdotti dalla legge n. 339 del 1958, incitandoli ad avere pazienza e
53 Le domestiche, lettere Al Direttore, lettera firmata da Gioviale Saporitia, Milano, in «Epoca», n. 398, 18 maggio 1958, a. IX.
54 Le citazioni in italiano sono tratte dalla traduzione del breve di Pio XII (vedilo in «Acta Apostolicae Sedis», 1956, 48, s. II, pp.
259-260) riportata in G. Casali, Santa Zita patrona delle collaboratrici familiari, Lucca, “Regnum Christi”, 1965, pp. 7-8.
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Per raccontare l’Italia che cura
a trattare con comprensione «gli ultimi dei Mohicani»55. Si riaffacciava prepotente l’idea che le domestiche avessero le
ore contate. A uno sguardo superficiale i numeri non parevano però indicare alcuna tendenza verso una loro prossima scomparsa. Nel 1951, le domestiche rappresentavano il 7,4% delle attive: una percentuale certo lontana dai picchi
raggiunti durante il fascismo, ma vicina a quelle del primo ventennio del secolo (7,6% nel 1901 e nel 1911; 7,2% nel
1921). E tali sarebbero rimaste nel 1961 (7,3%).
In realtà questi dati celavano trasformazioni profonde. La forma più tradizionale di servizio domestico, quello coresidente, era in forte declino. In base ai censimenti, i domestici che abitavano con i datori di lavoro erano il 74% nel
1951, solo il 41% nel 196156. La ‘donna delle pulizie’, spesso impiegata da più famiglie, tendeva a sostituire la domestica coresidente isolata nella casa padronale. Naturalmente, le donne di servizio che non abitavano con i datori di
lavoro erano esistite anche nelle società del passato. La loro crescente diffusione, tuttavia, implicava un’evoluzione
verso rapporti di lavoro almeno in parte più moderni.
La modernizzazione di questa figura professionale così come le ambiguità che continuano a circondarne la condizione si incarnano, nel 1964, nel nuovo nome che i Gruppi Acli Domestiche elaborano per definirla: ‘collaboratrice
familiare’. In forma abbreviata, ‘colf ’. La domestica si rinnova, ma è promossa a collaboratrice più che a lavoratrice.
Si enfatizza, inoltre, il fatto che il suo ambito di attività è il terreno scivoloso della famiglia, dove è fin troppo facile
sdrucciolare verso ambigue associazioni con la figura della mamma sempre pronta al sacrificio. Il termine colf, comunque, ha un notevole successo, e si impone nel linguaggio quotidiano. E i GAD si trasformano in Acli Colf.
Di lì a poco, peraltro, una sentenza della Corte costituzionale apre la strada alla costruzione di una più precisa identità collettiva dei lavoratori domestici: come, appunto, lavoratori (o lavoratrici). Nel 1969, infatti, la Corte dichiara
illegittimo l’art. 2068 de codice civile, aprendo la strada al primo contratto collettivo (1974). Nel frattempo però i
lavoratori del settore (maschi e femmine) si sono drasticamente ridotti: 378mila nel 1951, solo 220mila nel 1971 (nel
1936 erano 583mila).
L’idea che la modernizzazione coincida con la scomparsa del personale domestico, più che con il miglioramento
delle sue condizioni di lavoro, pare supportata da questi dati. «Le donne di servizio oggi non esistono più» e i giovani
«pensano che non sia giusto aver[ne]», scrive Natalia Ginzburg57. Leggi innovative che migliorano la condizione delle
domestiche ma accrescono i costi per i datori di lavoro (tanto che rapidamente aumenterà l’evasione), la diffusione
su larga scala, nel dopoguerra, degli elettrodomestici, che alleggeriscono il peso delle faccende casalinghe, l’aumento
dell’obbligo scolastico che tiene le ragazze più a lungo sui banchi di scuola, il diffondersi di idee più egualitarie e –
sopratutto – la possibilità, per le potenziali colf, di trovare impieghi alternativi sono tutti fattori che concorrono a
ridurre il numero delle persone di servizio.
Nonostante la diffusione di idee egualitarie, ben il 70% delle intervistate nell’ambito di un’indagine condotta nel 1975
dalle Acli Colf riteneva che la società avesse delle lavoratrici domestiche una considerazione negativa; molte lamen55 Le domestiche, lettere Al Direttore, risposta del Direttore (Enzo Biagi) in «Epoca», n. 398, 18 maggio 1958, a. IX.
56 A. Colombo, Il mito del lavoro domestico: struttura e cambiamenti in Italia (1970-2003), in «Polis. Ricerche e studi su società e
politica in Italia», XIX, 2005, n. 3, pp. 435-466. La categoria del censimento sulla quale è fatto (ed è possibile fare) questo calcolo è
quella dei «Servizi domestici presso famiglie e convivenze», non quella dei soli domestici presso famiglie.
57 N. Ginzburg, I lavori di casa (24 agosto 1969), in Mai devi domandarmi (Garzanti, Milano, 1970), in Opere, Milano, Arnoldo
Mondadori, 1998 (1987), vol. II, p. 68.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Fig. 7. Percentuale di lavoratori domestici coresidenti
Fonte: Censimenti della popolazione (elaborazioni di A. Colombo, Il mito del
lavoro domestico: struttura e cambiamenti in Italia (1970-2003), «Polis», XIX,
2005, n. 3, pp. 435-464).
tavano il ruolo servile in cui erano costrette:
«sono trattata come schiava», disse una di
loro. Chiedevano pertanto di «avere la stessa
dignità e considerazione che hanno gli altri
lavoratori: più rispetto per le ‘colf ’, non essere
considerate inferiori, non essere guardate con
sospetto, non essere chiamate ‘la donna’»58. La
scarsa considerazione sociale senza dubbio
favoriva la fuga, per chi poteva permettersela,
verso altre occupazioni.
Probabilmente, tuttavia, i dati dei censimenti,
appena citati, sovrastimano la riduzione delle
lavoratrici domestiche: è probabile che le coresidenti, dotate, tutto sommato, di un profilo
occupazionale preciso, siano in parte sostituite da donne che vanno a far pulizie per poche
ore, in nero, e senza neanche percepirsi come
lavoratrici.
Ma non è solo per questo che la lunga storia
del servizio domestico non giunge davvero al
capolinea.
7. Colf e (‘badanti’) d’Italia...straniere
Fin dagli anni Settanta osservatori attenti notano che donne dalla pelle scura o dagli occhi a mandorla cominciano
silenziosamente a lavorare nelle case italiane: sono eritree, somale, capoverdiane, filippine. Lavoro amaro, si intitola
quello che è, probabilmente, il primo libro loro dedicato59. Difficile fornire dati precisi sul loro numero, che sfugge
alle statistiche forse ancor più di quello delle ex-operaie, delle cassintegrate, delle pensionate che fanno le donne
delle pulizie in nero. Guardando la punta dell’iceberg rappresentata dalle lavoratrici (e dai lavoratori) domestiche/ci
iscritti all’Inps, scopriamo che gli stranieri sono il 5,6% nel periodo 1972-82, il 16,5% nel 1991, più del 50% in 1996,
addirittura l’82% circa nel 2009 e 2010. Nel loro complesso, i lavoratori domestici iscritti all’Inps crescono, ma in
modo tutt’altro che lineare, dai 216mila del 1991 agli oltre 943mile del 2009 (872mile nel 2010).
Aumento delle donne con un’attività extra-domestica, scarsa redistribuzione dei compiti di cura tra uomini e donne,
invecchiamento della popolazione, insufficienza del welfare: sono tante le agioni del ‘revival’ del lavoro domestico e
di cura di cui, tante volte, si era annunciata l’ormai prossima fine.
L’arrivo del personale domestico straniero implica rotture di trend di lungo periodo. Almeno a partire dalla cosiddetta «crisi delle domestiche» di fine ’800-inizio ’900 (e con la sola eccezione degli Anni Trenta), la crescente indisponibilità delle ragazze ‘del popolo’ a fare le serve era stata la causa principale, seppur non unica, della contrazione
58 O. Turrini, Casalinghe di riserva. Lavoratrici domestiche e famiglia borghese, Coines, Roma, 1977, pp. 91 e 70.
59 E. Crippa, Lavoro amaro. Le estere in Italia, Roma, Api-Colf, 1979.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
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Fig. 8. Lavoratori domestici (italiani e stranieri) iscritti all’INPS
Fonte: Inps databank.
del settore. Grazie al crescente afflusso di immigrati, l’offerta di lavoro domestico è tornata abbondante: i dati precisi
scarseggiano ma senza dubbio il numero degli addetti negli ultimi decenni è molto aumentato, come in parte testimoniano i dati Inps, che riguardano però solo chi lavora in regola e sono pertanto fortemente influenzati, oltre che da
altri fattori, dalle politiche di regolarizzazione degli immigrati e di emersione del lavoro ‘nero’. Anche la figura della
persona di servizio coresidente, che pareva davvero destinata a scomparire, torna ad essere relativamente comune.
Altra rottura è stata rappresentata dal fatto che – mentre per secoli si è registrata una
tendenza alla proletarizzazione del personale di servizio – una quota rilevante dei domestici immigrati è oggi costituita da persone che, nel paese d’origine, appartengono al
ceto medio. Con l’arrivo degli stranieri, inoltre, aumenta in modo significativo il numero
degli uomini che lavorano nel settore, che pure resta largamente femminile. Insomma,
trend talvolta plurisecolari negli ultimi anni si sono arrestati o invertiti.
Negli anni Settanta, le Acli Colf, legate da «nodi di fedeltà» «al movimento operaio»,
avevano cercato di trasformare il lavoro domestico salariato in un servizio di sostegno
e assistenza non ristretto alle sole classi abbienti, e integrato nel welfare nazionale. L’auspicata trasformazione da «lavoratrice domestica a operatrice sociale» non era di fatto
riuscita, almeno su larga scala60. Ironia della sorte, tuttavia, a ‘tappare i buchi’ del welfare
nazionale si sarebbe di lì a poco ricominciato a far ampio ricorso al lavoro domestico
salariato, in particolare – ma non solo – per assicurare assistenza al numero crescente di
Fig. 9. Manifesto della Provinanziani bisognosi di aiuto. Tanto che si impone una figura professionale in parte nuova,
cia di Parma (2004).
60 O. Turrini, Casalinghe di riserva. Lavoratrici domestiche e famiglia borghese, Roma, Coines, 1977, pp. 5-8, 99-105.
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Colf d’Italia
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Per raccontare l’Italia che cura
che con un termine piuttosto svalorizzante (e per questo rifiutato dalla parte più illuminata dell’opinione pubblica)
viene definita ‘badante’. «Prima è morto il marito e io ho curato la signora e [...] ho fatto guarire queste piaghe», dice
Zira, una donna di origine georgiana che fa, appunto, la ‘badante’61. Sono molte, in effetti, le piaghe dei nostri anziani
e del nostro sistema di welfare curate, oggi, da donne (e uomini) come lei.
8. Due parole per concludere (o meglio: per aprire la discussione)
Un autore francofono immaginava, nel 1907, che la domestica fosse prossima alla scomparsa, e che qualche intellettuale del futuro ne avrebbe addirittura messo in dubbio l’esistenza62. Sono passati oltre cento anni, e siamo ancora qui
a discutere proprio di lavoratrici e lavoratori domestici.
Una distanza enorme separa le attese di modernizzazione e palingenesi sociale che animavano molti dei nostri antenati all’inizio del Novecento dalle paure e inquietudini del presente, che non di rado coinvolgono, guarda caso,
proprio i servizi, pubblici e privati: la preoccupazione per il calo demografico non rimanda forse anche alla scarsità
di nidi e asili, che rende difficile mettere al mondo più bambini e costringe (chi se lo può permettere) a far ricorso
a babysitter? L’allarmante iniquità, nel nostro paese, della condizione di uomini e donne non troverebbe soluzione
anche grazie alla re-distribuzione dei carichi domestici, che invece molte coppie affidano almeno in parte ad una colf
(talvolta anche ad un colf) per evitare discussioni e tensioni, oltre che per altri motivi? Le ansie suscitate dalle difficoltà, individuali e collettive, di far fronte all’invecchiamento della popolazione non sono forse parzialmente placate
dalla possibilità di far ricorso a ‘badanti’? Ci arrabattiamo con soluzioni private e domestiche, e questo contrasta con
le attese, diffuse un secolo fa, di collettivizzazione ed esternalizzazione delle attività di servizio e di cura.
Forse non ignorare la ‘lezione’ della storia e riallacciare (senza anacronismi) i fili di tante lontane riflessioni può dare
un contributo alla soluzione dei problemi che ci attanagliano. Festeggiando il compleanno della Signora Italia, che
gli acciacchi dei suoi 150 anni li mostra tutti e senza le sue ‘badanti’ (straniere) avrebbe serie difficoltà, è però forse
opportuno ricordare che oggi, ancor più che in passato, fermarsi ai confini nazionali ha poco senso, e solo una riflessione che cerchi di ragionare in un’ottica di costruzione di un welfare trans-nazionale e di co-sviluppo può, forse,
aiutarci a costruire un futuro meno grigio di quello che, in certi momenti pare prospettarsi.
Festeggiando questo compleanno d’altra parte, pare anche opportuno sollecitare la Signora Italia a intervenire con
decisione, con le sue istituzioni pubbliche, locali e nazionali, nel settore del lavoro domestico e di cura, a non abbandonare le singole famiglie nel pantano di un welfare ‘fai-da-te’ che esalta le differenze tra chi ha risorse (monetarie,
relazionali ecc.) e chi non ne ha: Signora Italia, riprenda in mano la situazione e si dia da fare per favorire lo sviluppo
di un welfare pubblico che contribuisca a ridurre le tante ingiustizie e iniquità che ci affliggono!
Immagini:
Fig. 1: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3d/Garib_francesca_armosino.jpg
Fig. 3: http://www.immac.it/SezBusseto/Immagini/Bussetani/Servitu.jpg
Fig. 5: Per gentile concessione del Museo etnografico della Provincia di Belluno (si ringrazia la direttrice, Dott. Daniela Perco per la cortese disponibilità)
Fig. 9: Sono grata a Gabriele Annoni e Gianfranca Mazzolenis (Assessorato Sanità e Servizi Sociali, Coordinamento Politiche Sociali della Provincia di Parma) per avermi inviato una versione elettronica del manifesto, permettendomi di usarla.
61 Int. n. 448 nell’ambito del progetto di ricerca Cofin «Nazionalità, genere e classe nel nuovo lavoro domestico. Cambiamenti
nella famiglia italiana ed evoluzione dei sistemi migratori», coordinata da R. Catanzaro e che ha coinvolto le università di Trento,
Bologna, Milano Statale, Milano Bicocca e Bari. Il nome dell’intervistata è stato modificato.
62 Gringoire, Hier et demain, in «Le soir», 1° febbraio 1907, cit. in Piette, Domestiques et servantes cit., p. 391 (trad. mia).
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Colf d’Italia
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D IRITTI E DIGNITÀ NEL LAVORO DOMESTICO
A PARTIRE DALL’IMPEGNO DELLE ACLI COLF
di Pina Brustolin,
Direttivo Acli Colf e già Responsabile Nazionale
In oltre sessant’anni di attività delle Acli Colf, è indubbio che le lavoratrici domestiche e familiari hanno conquistato
un volto e una dignità del tutto nuovi rispetto agli esordi della categoria.
Negli anni ‘40 -‘50 molte lavoratrici erano analfabete o poco scolarizzate, le condizioni di lavoro erano durissime,
imponendo turni di lavoro che si estendevano dalle cinque del mattino fino a mezzanotte, in un contesto in cui
padroneggiava l’arbitrio della famiglia, allora borghese, che disponeva con benevolenza e discrezione dei possibili
benefici da concedere.
In questo contesto le ACLI, dapprima attraverso il lavoro della Commissione femminile e poi con l’organizzazione dei
GAD – Gruppi Acli Domestiche – si proposero di sanare le ingiustizie subite dalla categoria, tutelando le moltissime
donne che svolgevano un lavoro extra-domestico e di salvaguardare l’istituto famigliare.
L’impegno delle dirigenti acliste fu costante: ci si ritrovava la domenica presso la parrocchia o un istituto religioso, ove
si svolgevano numerose attività ricreative, religiose e varie iniziative di formazione sociale e professionale, con l’obiettivo di promuovere un’opera di educazione e di elevazione religiosa, morale, culturale e sociale che potesse avviare le
lavoratrici a conoscere i propri interessi e le proprie aspirazioni, perché era forte la convinzione “che un’opera di base
e di apostolato veramente fruttuosa può essere svolta da chi vive la stessa vita di lavoro”1. Chi, meglio della lavoratrice
stessa, può farsi promotrice della propria professionalità, dignità e valore?
Accanto all’opera di promozione personale e professionale, le dirigenti ACLI si fecero costanti e instancabili promotrici delle riforme necessarie alla categoria per superare la discriminazione e il servilismo. Chiedevano di estendere
anche ai lavoratori domestici tutte le norme previdenziali che già tutelavano gli altri lavoratori, abrogando le esclusioni che discriminavano le lavoratrici domestiche; si proponevano di disciplinare l’orario di lavoro, il diritto alle ferie,
il tempo per il culto, i riposi settimanali, sollecitando l’estensione alla categoria dell’apprendistato, degli assegni familiari, dell’assicurazione contro gli infortuni. La notevole pressione attivista di questo periodo si concretizzò con l’approvazione di alcune normative fondamentali per la tutela della dignità del lavoro domestico: la legge n. 35 del 19522,
che estendeva alle domestiche l’assicurazione obbligatoria contro le malattie; la legge 940 del 1953 che riconobbe il
diritto alla tredicesima; infine la legge 339 del 1958 “per la tutela del rapporto di lavoro domestico” che rappresenta
una importante pietra miliare nel riconoscimento della categoria.
In quel periodo le Acli Colf, quindi, lavorarono molto per l’applicazione delle leggi che con fatica erano state ottenute.
In un contesto dominato dall’arbitrio della famiglia borghese, i primi nuclei Acli Colf si attivarono a livello provinciale per diffondere, in seno alle famiglie, il costume del contratto individuale di lavoro, quale strumento di progresso,
promozione e tutela, e fu organizzato il servizio di collocamento, come altro importante strumento di “educazione”
delle famiglie al rispetto delle leggi e delle norme di contrattazione.
1 “La categoria deve assumere le sue massime responsabilità”, relazione di Clara Storchi al Congresso Gad 1955
2 Oggi abolita e sostituita dal dpr 1403/71
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A questo punto occorreva lavorare per un cambiamento culturale della società, della famiglia e delle lavoratrici stesse
nei confronti del lavoro domestico: nella quarta Assemblea Nazionale del 1964, si dibatté dunque il tema “Il lavoro
domestico: collaborazione con la famiglia”, nel corso della quale nacque il termine ‘collaboratrice familiare’, abbreviato poi in colf, termine ormai di uso comune, a sottolineare come le rivoluzioni debbano iniziare anche dall’uso
quotidiano del linguaggio. Si rendeva necessario dunque:
• far uscire dal ‘chiuso’ e dall’isolamento le lavoratrici e farle partecipare alla vita sociale;
• parificare il lavoro domestico alle altre professioni;
• migliorare le leggi che tutelavano questo lavoro;
• creare una nuova figura professionale libera da complessi, tecnicamente e spiritualmente preparata.
Venne così fondata una Scuola Nazionale (Cevo 1957-1963) per la preparazione morale e professionale della categoria e si promosse la creazione dell’Albo Professionale, che, in attesa del riconoscimento pubblico, venne attivato dalle
ACLI a livello provinciale, e per iscriversi al quale era necessario partecipare ai corsi professionali con lezioni teoriche
e pratiche che duravano da ottobre a giugno, superare gli esami provinciali e infine l’esame presso la Commissione
Nazionale a Fai della Paganella (TN) per l’iscrizione definitiva. Centinaia di lavoratrici sono passate a Fai per gli esami
in quegli anni.
Si lavorava inoltre per organizzare la parte datoriale, senza la quale non sarebbe stata possibile alcuna sperimentazione di contrattazione collettiva.
Tale fondamentale passaggio venne reso possibile dalla dichiarazione, nel 1969, di incostituzionalità, da sempre denunciata e rivendicata dalle Acli Colf3, della norma del Codice Civile4 che vietava la contrattazione collettiva nell’ambito domestico.
Così nel 1973 fu finalmente possibile la stipula del primo contratto collettivo nazionale. Ma tale conquista, se da un
lato rafforzò enormemente il percorso di tutela e promozione della categoria, fece prendere coscienza che una tutela
meramente sindacale della categoria non era sufficiente: occorreva orientarla verso nuove prospettive di lavoro, onde
assicurarle un riscatto vero dall’emarginazione sociale.
Con l’Assemblea Nazionale del 1973 dal tema “Le collaboratrici famigliari nella società e nel movimento operaio”, si
puntava ad individuare un nuovo ruolo sociale della lavoratrice che non fosse rivolto solo alla famiglia benestante,
ma che la configurasse in funzione di un servizio pubblico, in diretta connessione con gli enti pubblici, per rispondere
alle esigenze sociali alle quali finora non era stata data risposta, tra cui l’aiuto alla famiglia popolare e l’assistenza agli
anziani e agli ammalati.
A seguito degli approfondimenti culturali, delle esperienze che si realizzavano nelle province e dei dibattiti che si
svolgevano nelle assemblee congressuali negli anni ‘70 e ‘80, sono state realizzate iniziative importanti come le Cooperative di lavoro associato, organizzate in più di 20 province, finalizzate all’assistenza domiciliare.
Nel passaggio dal passato, in cui la parola dominante era “serva”, poi divenuta “domestica”, al presente delle collabo3 La richiesta di abolizione era stata assunta come rivendicazione prioritaria nel Congresso nazionale del 1967
4 Art. 2068 c.c.
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ratrici ed assistenti familiari, dobbiamo avere
la certezza che le lavoratrici hanno indubbiamente conquistato, con non poca fatica, diritti
contrattuali che erano scontati per alcune categorie, ma non per chi si dedicava al lavoro
di cura.
Nonostante ciò, purtroppo, lo scenario attuale
non è privo di “questioni irrisolte” che da decenni mantengono e – addirittura – incentivano lo
stato di precarietà e illegalità che caratterizza il
lavoro domestico5, di fatto discriminando le lavoratrici del settore. Il successo delle assistenti
familiari, che svolgono un servizio lontano dal
mero “prestazionismo” caratterizzato da una
forte “prossimità” alle esigenze della famiglia,
impone oggi di agire con maggior forza che in
Archivio Storico delle ACLI
passato, onde mantenere alta e vigile la centralità delle lavoratrici, perché su di esse non si scarichi interamente il peso delle sempre maggiori difficoltà delle famiglie, ma siano anch’esse protagoniste attive, e non solo remissive, del nuovo sistema di cura che andrà delineandosi.
In questo contesto si pone la necessità di effettuare una riflessione più generale riguardante il profilo giuridico del
lavoro domestico.
Molte delle incongruenze normative che si registrano nel settore derivano dalla considerazione di alterità di cui gode
questo tipo di rapporto di lavoro: il rapporto di lavoro domestico è “altro” rispetto agli ordinari rapporti di lavoro, è
diverso, non è “un vero e proprio rapporto di lavoro”. Convinzioni, queste, che giustificano meccanismi distorti come
l’ancoraggio della contribuzione alle fasce di retribuzione convenzionale e che non trovano riscontro in nessun altra
categoria, disciplina speciale come la sottrazione alla normativa di tutela della stabilità del rapporto di lavoro, la mancata fruizione dell’indennità di malattia, la tutela affievolita in caso di maternità, nonché una contribuzione ridotta
cui corrisponde una uguale riduzione di diritti.
Occorre creare le condizioni affinché anche questo sia un lavoro “normale” e quindi appetibile.
Diviene prioritario, inoltre, spezzare il circolo dell’illegalità diffusa in questo settore. Educare alla legalità diviene un
imperativo importante, cui si può tendere attraverso l’utilizzo di meccanismi di persuasione, innanzitutto rendendo
non più “conveniente” l’evasione e l’elusione. Attraverso non solo l’erogazione di contributi economici, ma soprattutto
attraverso l’attuazione di programmi di tutoring familiare, di certificazione delle competenze, di accompagnamento,
le istituzioni locali possono realizzare tanto in questa direzione, rendendo il ricorso alle operatrici della cura, “privato” ed elusivo delle famiglie, meno conveniente da un punto di vista di qualità dei servizi ricevuti.
Per queste ragioni le Acli Colf proseguono nell’affermazione dei diritti per le lavoratrici e i lavoratori domestici, si
5 Direttivo nazionale Acli Colf, “Famiglia e colf tra solitudini e reti”, Roma 2006
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battono per la tutela di questa categoria e perché essa abbia un pieno riconoscimento anche dal punto di vista sociale.
Indubbiamente le Acli Colf sono convinte che ci sia ancora molto da fare in tema di cura e che tanto più ci si prende
cura di chi cura, tanto più si può curare bene.
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Per raccontare l’Italia che cura
B ISOGNI DI ASSISTENZA E PROSPETTIVE POSSIBILI
PER COSTRUIRE IL WELFARE DELLA CURA IN ITALIA
di Sergio Pasquinelli,
IRS - Istituto per la Ricerca Sociale di Milano
Il mio intervento si concentra su quella ampia, probabilmente maggioritaria parte del lavoro domestico che riguarda
soprattutto il lavoro di cura. Mi riferisco quindi alle assistenti familiari, alle badanti, per usare questo brutto termine.
Molti dei punti toccati nella mia relazione fanno riferimento a un sito che dirigo dal 2005, www.qualificare.info, al
quale collaborano attivamente anche Raffaella Maioni, Raffaella Sarti, Flavia Piperno. Ma farò riferimento anche a
una serie di lavori di ricerca che da anni portiamo avanti sulla tematica del lavoro domestico, e ad alcuni progetti di
accompagnamento delle amministrazioni locali in questo campo di interventi.
Il mio contributo è diviso in due parti, una prima parte di ricognizione molto sintetica e selettiva sullo stato dell’arte
in questo campo di interventi e di attività, e una seconda parte sulle prospettive, su cosa può essere fatto in termini di
politiche nazionali e locali sul lavoro privato di cura.
La prima parte è composta, per così dire, di vari sketch molto sintetici e selettivi, per fare un po’ il quadro della realtà
che ci circonda.
Quante sono le assistenti familiari in Italia? In realtà nessuno lo sa. Analizzando i dati proiettati su quante di loro
sono iscritte all’Inps, rileviamo che sono circa 900.000. Ma quante lavoratrici domestiche non sono iscritte all’Inps?
Probabilmente almeno il doppio, anche se è difficile stabilirlo. Raccogliendo una serie di indicazioni da testimonianze
in vari contesti regionali, ma anche alla luce di valutazioni fatte da altri istituti, e non solo dall’Irs, stimiamo che la
presenza di badanti in Italia si attesti intorno alle 850/900 mila unità. La crisi che attanaglia le famiglie italiane da tre
anni a questa parte non ne ha ridotto il numero. Ha piuttosto ridotto certi segmenti del lavoro di cura, ma è difficile
sostenere che il loro numero complessivo sia diminuito.
Rispetto a cinque o sei anni fa è invece probabilmente diminuita la dinamicità dei flussi migratori che interessano
questo settore.
Anche la linea di demarcazione tra la figura di colf e quella di badante, se esiste, si fa sempre più sottile: ci sono molte
assistenti familiari, cioè, che fanno anche il lavoro di colf, ma allo stesso tempo le colf che svolgono attività inerenti
il lavoro di cura sono sempre più numerose. Noi rileviamo una distinzione che è sempre più difficile da cogliere, da
capire, da leggere.
Chi sono le assistenti familiari? Sottolineo da anni come si tratti di una popolazione molto segmentata, il che vuol
dire che ci sono categorie o appartenenze che caratterizzano questa popolazione in modi diversi, e che a seconda dei
segmenti ci troviamo di fronte a differenti interessi e prospettive, anche lavorative. L’età media delle assistenti familiari
è di 42 anni, ma le nuove ondate migratorie ci dicono che questa media si sta abbassando. Per quanto riguarda la
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150 anni di lavoro domestico
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provenienza, il 10% circa delle lavoratrici domestiche è costituito da italiane, il 90% da donne, soprattutto immigrate,
nella maggior parte dei casi dall’Est Europa, e principalmente dalla Romania, ma anche dal Sud America.
I progetti migratori che queste donne portano con se sono molto diversi tra loro. Sappiamo, ad esempio, che le immigrate sudamericane pensano maggiormente ad insediarsi stabilmente in Italia, mentre chi proviene dall’Est Europa è
meno propenso a questo tipo di soluzione, per lo meno a parole. Ma tra parole e fatti c’è molta distanza, e anche chi
vuole tornare nel paese di origine fatica a farlo, e continua a procrastinare tale decisione.
Quella dei lavoratori domestici è una popolazione segmentata, per tipo di lavoro svolto, tra lavoro coresidente e lavoro a ore. Quest’ultima modalità, tuttavia, è l’obbiettivo sempre più chiaro e definito di una quota crescente di assistenti
familiari.
Reportage fotografico ‘La cura’ di G. Aliprandi
Il lavoro a ore è un lavoro che consente una vita autonoma, possibilità di ricongiungimento familiare, e inoltre, se ben
organizzato, produce guadagni sostanzialmente analoghi a quelli del lavoro coresidente.
Il livello di irregolarità dovuto al lavoro nero e sommerso, in questo settore è molto marcato. È possibile sostenere che
la sanatoria del 2009 abbia ormai esaurito totalmente gli effetti benefici; la situazione è tornata a livelli precedenti il
2009, con un sommerso che riguarda almeno il 70% delle persone coinvolte.
Difficilmente in più di 3 casi su 10 si ha un rapporto di lavoro regolamentato da contratto, e soprattutto da un contratto in cui le ore indicate corrispondano effettivamente a quelle lavorate.
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Per raccontare l’Italia che cura
Perché il mercato sommerso? Su questa dimensione vorrei fare un breve approfondimento. Certamente ci sono delle
convenienze economiche da entrambe le parti, sia per quanto riguarda i datori di lavoro che i lavoratori e le lavoratrici, a stare nel sommerso, ma ci sono anche alcuni ulteriori elementi. Non si tratta solamente di una questione
economica, poiché l’assenza di contratto viene anche percepita come un modo per avere le mani libere, soprattutto
da parte delle famiglie, un’assenza che dà origine a un contesto di mancanza di obblighi, di diritti e di doveri. È anche
questo ad incentivare il mercato sommerso.
Sappiamo inoltre come le agevolazioni fiscali siano irrilevanti per far emergere il lavoro di cura: le diverse iniziative
che prevedevano contributi alle famiglie sottoforma di assegni di cura si sono rivelate, ormai è il caso di dirlo, fallimentari. Continuo a venire a conoscenza di situazioni in cui assegni di cura rivolti alle famiglie, ma vincolati all’assunzione di un assistente familiare, si rivelano effettivamente inefficaci, perché si preferisce rimanere nel sommerso.
Cosa fare di fronte a una realtà di questo tipo? Stare a guardare, limitare i danni, tamponare? Dare sostegni economici alle situazioni più fragili e marginali? È chiaro che non è questa la soluzione ottimale, anche se effettivamente,
analizzando le misure intraprese dallo stato nazionale nei confronti di questo mercato privato del lavoro di cura, non
è difficile sostenere che si sia andati in questa direzione.
Qual è l’alternativa? L’alternativa è cercare di sostenere, di far emergere, di qualificare il lavoro di cura, collaborando
con coloro che sono disponibili a farlo, perché naturalmente non tutte le lavoratrici o i datori di lavoro sono interessati a un sistema più qualificato, più sostenuto. È inoltre necessario collegare il sistema del lavoro di cura con quello
dei servizi.
A mio parere è questa, da anni, la sfida che si presenta a coloro che intervengono in questo settore. È una sfida difficile,
lo sappiamo, ma è certamente un obbiettivo da perseguire attraverso strumentazioni adeguate, nazionali e territoriali.
Vorrei aprire la seconda parte del mio intervento, che riguarderà soprattutto il “che fare?”, e cioè quali azioni concretamente intraprendere. Mi riferisco principalmente alla dimensione nazionale, perché a livello territoriale le forme di
intervento sono plasmate anche in base al contesto specifico. La lista potrebbe in effetti essere più lunga, ma indicherò
solamente due punti che ritengo essere il nucleo centrale della questione.
Il primo punto riguarda le agevolazioni fiscali, che dovrebbero essere degne di questo nome, prevedendo una fiscalizzazione parziale degli oneri contributivi. Le famiglie, cioè, non possono più essere penalizzate nell’assunzione di
collaboratori domestici, e occorre che ciò sia tematizzato. Fino a quando il 90% gli oneri fiscali sarà a carico delle
famiglie, è chiaro che l’emersione diventa un obbiettivo veramente difficile e impervio.
La seconda questione su cui mi soffermo concerne l’indennità di accompagnamento. Essa è, in Italia, una delle misure, se non la misura principale, di sostegno alla non autosufficienza. Un milione e mezzo di anziani si avvale dell’indennità di accompagnamento, per un costo complessivo, nel 2011, di 13 miliari di euro. Noi, come Irs e come redazione della rivista “Prospettive sociali e sanitarie”, abbiamo presentato, all’interno di un convegno tenutosi alla fine di
settembre1, una serie di riforme e di proposte di welfare, tra cui quella di trasformare l’indennità d’accompagnamento
in una dote di cura. Una misura di questo tipo è indirizzata al superamento dei limiti indicati da tutti gli osservatori
1 «Disegnamo il welfare di domani. Una proposta di riforma dell’assistenza attuale e fattibile» (http://pss.irsonline.it/)
a cura di E. Ranci Ortigosa con contributi di: P. Bosi, C. Castegnaro, D. Cicoletti, U. De Ambrogio, C. Dessi, M. C. Guerra,
F. Longo, D. Mesini, V. Onida, S. Pasquinelli, S. Sabatinelli, M. Samek Lodovici, S. Stea, A. Zanardi
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per quanto riguarda l’indennità di accompagnamento. Occorrerebbe, cioè, graduare la cifra prevista in base al livello
di non autosufficienza della persona a cui è indirizzata, e fare in modo che l’importo di indennità non sia più a fondo
perduto e senza controlli sul suo utilizzo, com’è oggi, ma canalizzato sui servizi. Canalizzato, quindi, su un sistema di
assistenti familiari qualificate. Occorre, in altre parole, convogliare queste risorse, che sono veramente ingenti, verso
l’obbiettivo e verso la funzione per cui dovrebbero essere spese.
Abbiamo ipotizzato una dote di cura che può essere corrisposta senza alcuna forma di rendicontazione, quindi a
fondo perduto, ma per cifre limitate. Essa potrebbe invece riguardare cifre più ingenti, ma solo se utilizzata come un
voucher, cioè limitata all’acquisto di servizi, tra i quali può rientrare il pagamento di assistenti familiari qualificate.
Una dote di cura che non sia più amministrata centralmente dall’Inps, ma la cui gestione venga gradualmente affidata alle regioni, dal momento che solo le regioni possono creare collegamento con il sistema territoriale dei servizi.
Quest’ultimo deve necessariamente avere voce in capitolo, poiché la misura non sarebbe più solamente una misura
cash, ma anche una misura carry, collegata cioè all’acquisto di servizi, di prestazioni, di interventi. Tale riforma sarebbe, tra l’altro, una riforma a costo zero. Sarebbe anzi possibile avere un risparmio rispetto ai 13 miliardi di euro
attualmente spesi, che dovrebbero essere in ogni caso totalmente rinvestiti sulla rete di servizi territoriali, una rete che
andrebbe a supportare l’applicazione sul campo delle misure previste dal sistema della dote di cura.
Io ritengo, dunque, che sia gli interventi fiscali che l’intervento sull’indennità di accompagnamento siano due priorità. Quest’ultimo è inoltre oggetto della delega assistenziale come materia di intervento. Desidererei ricordare, tra
l’altro, che le cifre stanziate per indennità di accompagnamento non hanno subito riduzioni in seguito ai tagli alla
spesa pubblica effettuati nell’ultimo periodo.
Vorrei ora soffermarmi sugli interventi più ricorrenti a livello locale, su cui stanno agendo diverse regioni, comuni,
contesti territoriali.
Innanzitutto, una misura che ritengo fondamentale è quella di favorire l’incontro tra domanda e offerta, coinvolgendo
centri per l’impiego e servizi sociali di base. Segnalo poi la formazione delle assistenti familiari che, ci si è resi conto,
occorre modulare, rendere leggera, appetibile, sostenibile per le famiglie e per le collaboratrici domestiche, affinché
risulti realmente efficace. Occorre inoltre prevedere e intraprendere azioni di tutoraggio sul campo, di accreditamento delle competenze e di erogazione di assegni di cura dedicati.
Da anni sostengo che ognuna di queste misure, se intrapresa in modo isolato, porta scarsi o nulli risultati. La sfida è
collegare tra di loro queste azioni, dalla distribuzione di assegni di cura, alla formazione, alla realizzazione dei cosiddetti “sportelli badanti”, che creano matching, incontro tra domanda e offerta. Questi provvedimenti, se attuati isolatamente, producono effetti abbastanza sfittici, poco rilevanti: per sconfiggere il mercato sommerso, che è un mercato
fatto di isolamento e solitudini, è necessario creare una filiera. Il valore aggiunto dell’ente pubblico del terzo settore
dovrebbe essere quello di offrire diversi servizi collegati tra loro, in modo che il mercato nero non possa penetrare.
In conclusione, vorrei sottolineare come la sfida che oggi si pone sia proprio questa, e cioè il cosiddetto modello one
stop shop, che le famiglie richiedono. Evitare, cioè, che le famiglie debbano recarsi in molti luoghi diversi per trovare
le soluzioni ai proprio problemi, ma possano invece ottenere risposte ai loro bisogni in uno spazio unico. Ecco che
dunque la filiera deve rappresentare, raffigurarsi, concentrarsi, concretizzarsi in luoghi che diventano luoghi di sintesi, che siano essi sportelli o servizi di altro tipo. Luoghi dove proporre certamente intermediazione tra domanda e
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offerta, ma anche informazione, assistenza contrattuale, sostegni e monitoraggio sul campo. Sappiamo infatti quanto
siano importanti l’intermediazione e il matching, ma occorre anche sostenere la famiglia nei momenti successivi. La
famiglia non richiede soltanto la perfetta assistente familiare, così come l’assistente familiare non chiede solo la famiglia giusta. Occorre intraprendere, e poi continuare nel tempo, un lavoro di assistenza e di sostegno che sia anche
successivo al momento dell’assunzione della lavoratrice domestica. Avere una sponda e degli appoggi, avere qualcuno
a cui riferirsi, può essere molto importante per le famiglie. Anche da questo punto di vista, inoltre, il mercato nero
è totalmente sguarnito: qualora si presenti una difficoltà, esso lascia le persone coinvolte completamente sole, senza
offrire soluzioni. È necessario, quindi, avvalorare il ruolo di agenzie accreditate nell’intermediazione tra domanda e
offerta.
Viene rivolto molto interesse all’intermediazione, non solo per quanto riguarda l’assistenza contrattuale, ma anche da
parte degli attori coinvolti per quello che concerne una serie di bisogni, di domande, di aspettative che possono essere
valorizzati e su cui può essere intrapreso un intervento apprezzabile e apprezzato in prospettiva.
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P ARTIRE, LAVORARE, VIVERE
di Valentina Iachim1,
Ingegnere, badante e madre a distanza
“Sono Valentina, sono sposata, ho il marito e due figli che vivono in Moldavia.
Sono laureata in ingegneria agricola e in pedagogia. Anche il marito è laureato. Durante il periodo comunista insegnavamo nelle scuole di Stato professionali, poi abbiamo lavorato come ingegneri nelle aziende di costruzione di trattori.
Fino alla fine degli anni ’80 nel paese non c’era libertà, però potevamo vivere una vita dignitosa.
Dopo gli anni ’90 la situazione è cambiata molto in peggio. Ci siamo trovati con stipendi che non ci consentivano nemmeno di sfamare i figli, non avevamo il denaro nemmeno per comperare il latte. Con il marito abbiamo deciso che uno
dei due doveva partire. Sembrava che il marito potesse emigrare in Germania e invece è toccato a me di dover lasciare la
famiglia in cerca di opportunità di lavoro.
Su pagamento di 1000 dollari, agenzie locali promettevano che ci avrebbero trovato lavoro in Grecia. Ho lasciato il marito con i figli che avevano 5 anni. Sono partita con un volo diretto ad Atene. Qui sono stata rimandata indietro perché
i documenti che l’agenzia mi aveva fornito non erano validi.
Dopo aver appreso che le autorità greche ci avrebbero riportati nel nostro paese, mi sono sentita male e sono stata ricoverata in ospedale, ma dopo alcuni giorni di degenza mi hanno rimessa sull’aereo di ritorno.
Il ritorno a casa a mani vuote, senza più una lira, mi ha fatto cadere in depressione. Sono stata molto male. Non avevamo
di che vivere. Abbiamo cercato di organizzarci un lavoro in forma autonoma, ma non guadagnavamo niente, anzi ci
siamo indebitati.
Tornava la necessità di ripartire.
L’agenzia propose di portarci in Italia. Per poter partire ho chiesto un prestito di 500 euro. Con questa somma, dopo un
viaggio di tre giorni, sono arrivata a Napoli. Era il 1998.
Qui ho alloggiato in un appartamento, dormivo per terra, mi hanno sequestrato il passaporto che ho riavuto dopo sei
mesi pagando 250 dollari.
Mi facevano lavorare saltuariamente e quello che guadagnavo lo dovevo versare all’organizzazione malavitosa che gestiva questo traffico di esseri umani.
Sono rimasta a Napoli circa tre anni, durante i quali non ho potuto aiutare la mia famiglia.
Sono venuta a lavorare a Verona perché una amica mi ha trovato una famiglia. Con la sanatoria del 2002 mi hanno regolarizzata e così ho potuto tornare, finalmente a casa.
Erano 5 anni che non vedevo la mia famiglia, i figli erano cresciuti molto, né io né loro ci riconoscevamo. Il marito ha
dovuto presentarci: questa è la mamma, questo è…, questo è…
1 Valentina Iachim è volontaria e collabora con le Acli Colf di Verona
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
In quel momento ho vissuto un profondo smarrimento, ma poi ci siamo abbracciati e stretti, e abbiamo pianto a lungo.
Ora con il lavoro di badante la mia famiglia, anche se faticosamente, può vivere. I figli, che ora hanno 18 anni, possono
studiare, mio marito li accudisce e gestisce la casa. Una casa piccola che abbiamo iniziato a costruire tanti anni fa e che
il marito sta finendo un po’ alla volta.
Quest’ anno andrò a trovarli, sono due anni che non ci vediamo.
Per me è una grande sofferenza lavorare lontano da casa. Tutte noi donne migranti dobbiamo rinunciare agli affetti,
all’amore del marito e dei figli, alla loro comprensione, al loro conforto. È un grande sacrificio che faccio, che facciamo,
per dare ai nostri figli un futuro migliore.
(Verona, ottobre 2011)
Reportage fotografico ‘La cura’ di G. Aliprandi
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L A DIMENSIONE TRANSNAZIONALE DELLA CURA
di Michele Consiglio,
Vice Presidente Nazionale ACLI
La dimensione del lavoro domestico e di cura costituisce oggi una realtà lavorativa che, più di altre, ha reso diffusamente
visibile il suo carattere transnazionale.
Le testimonianze di lavoratrici e lavoratori domestici migranti ci raccontano quanto i processi migratori abbiano da
tempo fatto assumere al lavoro domestico e di cura una dimensione internazionale e transnazionale.
Nella situazione attuale, alla maggior parte di noi la dimensione transnazionale evoca lo scenario di crisi che attanaglia
il mondo, oppure fa pensare agli aspetti della finanza, dell’economia, del lavoro, o ancora a grandi temi, come quello
della pace. Ci rendiamo conto che è presente anche una “dimensione transnazionale” della cura che – lungi dal costituire
consapevolezza diffusa – è per molti di noi esperienza comune e quotidiana, anche se non interrogata e interrogante.
Questa dimensione della cura viene abbracciata dal processo di globalizzazione in atto, evidenziando come tra gli Stati ci
siano rapporti non sempre ugualitari, e come invece vengano a crearsi dei privilegi. Nel nostro Paese in particolare, queste dinamiche internazionali si legano a quelli che possiamo definire i grandi flussi migratori che hanno accompagnato
e accompagnano la storia del mondo.
Voglio partire evidenziando come oggi le migrazioni che riguardano il nostro Paese siano legate in molta parte al lavoro
di cura: sono davvero tante le lavoratrici che, con definizione “ingrata”, vengono definite badanti – termine a cui le ACLI
hanno da sempre preferito quello di assistente domiciliare o familiare – e che si fanno carico di un lavoro prima appannaggio, in una fase non troppo remota della storia italiana, delle donne italiane provenienti dal Sud o dalle campagne.
La nostra, come ACLI, è un’esperienza che ci ha portato ad essere presenti in tutti i Paesi verso i quali si è diretta l’emigrazione
italiana del secondo dopoguerra. E, a questo proposito, vale la pena ricordare che l’esperienza migratoria nel nostro Paese
ha le dimensioni di una vera e propria diaspora, che conta circa 60 milioni di persone di origine italiana in tutto il mondo.
A partire non sono stati solo uomini, ma intere famiglie, donne che hanno fatto da balia in giro per il mondo, a Londra
piuttosto che a New York, in Francia piuttosto che in Belgio, accompagnando i mariti che andavano a lavorare in miniera, nelle fabbriche, nei cantieri, nelle fazendas...
A distanza di 50 anni, il nostro si è trasformato in un Paese di immigrazione, meta di migranti in cerca – come lo siamo stati noi – di migliori condizioni di vita e di lavoro. Sottolineo di vita e di lavoro, perché questo binomio introduce
un aspetto fondamentale: la questione migratoria non riguarda solo il mercato del lavoro (“abbiamo chiesto braccia
e sono arrivati uomini”, ricordate?), né solo i Paesi di diretta destinazione. Non si può espungere il tema del welfare e
delle politiche sociali, né continuare a considerarlo nella sola dimensione nazionale, nelle forme regolative come nelle
opportunità. E non si può nemmeno più pensare che la capacità di accoglienza e sostegno ai migranti sia problema dei
Paesi di confine, come se la globalizzazione fosse ammessa sempre quando conta i soldi e mai quando conta le persone.
I flussi che si dirigono nel nostro Paese ci interrogano profondamente. Infatti, negli ultimi anni, la migrazione è prevalentemente femminile, in controtendenza con quanto avveniva anche solo un decennio fa, quando era il capo famiglia
maschio che andava all’estero e poi richiamava la famiglia.
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Tante donne, venendo in Italia, lasciano nel loro Paese legami, famiglie, genitori, figli, mariti. Questo distacco pone un
problema di politiche sociali, di welfare e di cura nel Paese di origine delle immigrate; queste donne vengono da noi per
colmare un vuoto che il nostro sistema socio-assistenzale non è in grado di sanare, creando parallelamente un vuoto nei loro Paesi, nelle loro famiglie, nei loro figli - difficilmente compensabile. Per la maggior parte, la situazione da cui
queste donne provengono non è infatti tale da far pensare che la loro presenza possa essere surrogata a livello pubblico.
Alla carenza di politiche sociali nazionali e transnazionali su questo versante, si connette anche la grande questione dei
ricongiungimenti familiari, che comporta non solo difficoltà nell’integrazione, ma anche nella progettazione dei percorsi di vita. La possibilità di poter stare con la propria famiglia è resa problematica (o nulla) non solo nel Paese che si è
lasciato, ma anche in quello dove si lavora, e con ciò viene interdetta la possibilità stessa di una vita “normale”, creando
per aggiunta quel circolo vizioso fatto di stereotipi per cui agli immigrati vengono imputati comportamenti a-nomali. Al
contrario, tutti sappiamo che sono proprio la stabilità, la prossimità degli affetti, la responsabilità che i legami familiari
richiedono a costituire il più potente fattore di integrazione e coesione sociale.
In ultimo, vorrei nominare, anche se solo superficialmente, alcuni gravi fenomeni collegati alle migrazioni femminili e
al loro odioso sfruttamento: mi riferisco al fenomeno della tratta, del traffico che sfrutta le situazioni di irregolarità, del
lavoro nero, ma anche alla necessità che tutti i Paesi ratifichino la Convenzione internazionale sui lavoratori domestici.
C’è un equivoco che sopravvive da tanto tempo, secondo il quale il lavoro domestico è un lavoro “semplice”. Come ACLI,
grazie al lavoro delle Acli Colf, sappiamo che non solo non è così, ma che attorno a questo lavoro semplice si addensano
grandi e complesse questioni, e che il benessere delle lavoratrici e dei lavoratori familiari è la cartina di tornasole della
qualità e del benessere di un Paese.
Come ACLI, la nostra attenzione a questo lavoro ha sempre voluto evidenziare le molteplici contraddizioni cui esso dà
origine, insieme ai tanti bisogni a cui risponde, evitando di ridurre la complessità e la particolarità dei soggetti coinvolti,
proprio per questo suo stare indissolubilmente a metà, tra vita e lavoro, per questo suo abitare il quotidiano e frequentare
soggetti spesso dipendenti. La domanda di cura cresce, ed è una domanda di qualità. La risposta deve avere la stessa
misura.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
C OLLABORATRICI E ASSISTENTI FAMILIARI:
CHI SONO E COME SI COLLOCANO NEL PANORAMA TRANSNAZIONALE
di Flavia Piperno,
Ricercatrice presso il CeSPI – Centro Studi di Politica Internazionale
Per raccontare chi sono le nostre assistenti familiari, come si collocano nel panorama transnazionale e cosa accade ai confini del nostro welfare, servirebbe molto tempo, e probabilmente molto tempo non sarebbe sufficiente.
Nello spazio che ho a disposizione ho quindi deciso di raccontare alcune scene, alcuni frammenti, della vita di tre famiglie transnazionali. Naturalmente questi frammenti descrivono una piccola parte della realtà, ma a mio parere più di
tante parole rendono il senso di come può cambiare la vita di una famiglia e le relazioni che in essa si giocano, quando
questa famiglia si trova all’interno di un sistema globale e si intreccia, attraverso le migrazioni legate alla cura, alla storia
delle nostre famiglie. Le scene sono riprese dal documentario the ‘Town of badante women’ girato in Bulgaria nel 2009
da Stephan Komandarev1.
Si tratta di frammenti molto densi di significato, in cui quasi sempre c’è un testo espresso a parole e un sottotesto,
ugualmente forte, ma implicito.
La prima scena, ‘Il viaggio’, ci presenta la fatica del ritorno: il ritorno di una delle tanti madri che lasciano la famiglia
per venire a lavorare in Italia non è una scena gioiosa, ma piuttosto un lungo viaggio in macchina, silenzioso e carico
di tensione.
La difficoltà nel riconoscere le persone più care e nel sentirsi riconosciute dopo un lungo periodo di assenza è forse
l’esperienza più dura che accompagna il ritorno. Nel frammento ‘Non riconoscimento’ il riferimento esplicito è al cane,
ma il senso – come si può immaginare - è assai più vasto. Molte mamme con cui ho parlato descrivono il trauma del
vedere i figli improvvisamente cresciuti, nel sentire la propria autorevolezza ridotta, l’equilibrio degli affetti spostato. A volte il peso della partenza, implicito in ogni nuovo ritorno, rende difficile godere di quei momenti di amore
ritrovato. In alcuni casi la fatica di affrontare tutto questo diventa, al pari dell’assenza dei documenti, un problema
insormontabile che porta alla scelta di limitare il numero di ritorni e a continuare una vita sospesa in cui non ci si
sente a casa né qui né lì. Il dolore dei figli che restano è un altro elemento descritto molto bene in questa prima scena.
In molti paesi a forte flusso migratorio verso l’Italia, la questione dei cosiddetti bambini left behind, ovvero i bambini
e i ragazzi che vengono “lasciati indietro”, ha assunto una rilevanza sociale e mediatica straordinaria, tanto che sono
stati coniati nuovi nomi e nuove definizioni. In Ucraina questi ragazzi vengono chiamati con l’appellativo “orfani
1 Per maggiori informazioni sul video contattare [email protected] o [email protected]
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Reportage fotografico ‘La cura’ di G. Aliprandi
bianchi”, mentre in Romania si parla di “abbandono di fatto”. Sono termini senz’altro sbagliati, perché la maggior
parte delle madri continuano a svolgere un ruolo di supervisione e cura da lontano, ma rivelano forse la rabbia che
si registra in molti contesti di emigrazione per un’asimmetria di opportunità così evidente. Come hanno messo in
rilevo alcune ricercatrici, è come se l’apice dell’amore si risolvesse nella scelta della distanza: per amare mio figlio e
assicurargli una vita dignitosa devo separarmi da lui, e non più per un breve periodo, come accadeva con la nostra
migrazione interna, bensì per moltissimi anni. Alcune ricercatrici a questo proposito hanno parlato dell’amore come
un nuovo oro, una risorsa che, al pari di altre risorse, viene sottratta da un luogo per essere goduta in un altro.
È forse questa una delle immagini più drammatiche dei costi sociali che il nostro welfare produce sui contesti di origine e diventa ancora più fosca se pensiamo ai costi economici, oltre che sociali. Nel 2007, quando facevo ricerca di
campo in Romania, rimasi stupita nel vedere che, mentre una dirigente del Ministero del Lavoro in Italia calcolava un
potenziale risparmio di 6 miliardi di euro per il nostro Stato in mancate prestazioni assistenziali, grazie alla presenza
delle lavoratrici straniere, uno dei comuni più poveri della Moldavia rumena denunciava che quasi il 20% dei minori
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
cosiddetti left behind registrati ufficialmente ricorrevano a prestazioni di assistenza pubblica, drenando così le già
magre risorse locali. Il dato locale del resto è più o meno in linea con quello nazionale in Romania.
Altre due scene tratte dal documentario, ‘Specchio 01’ e ‘Specchio 02’, sono altrettanto dense di significati e descrivono
l’incredibile gioco di specchi che si viene a creare tra la cura che le donne migranti offrono nel paese di destinazione
e la cura che non possono offrire nel paese di origine.
Nel documentario, la donna intervistata nega categoricamente che le due famiglie possano essere messe sullo stesso
piano, ma poi parla dei bambini italiani come figli propri, allevati secondo il proprio stile educativo, salvo poi specificare che invece i propri figli sono allevati dai familiari che restano, nello specifico dal padre. È una situazione che
mi è capitato spesso di sentire. Ho parlato ad esempio con donne cadute in depressione dopo la morte dell’anziano
che assistevano, perché rivivevano la perdita di un ruolo di centralità nel sistema di cura familiare, e con altre che
rifiutavano di fare le babysitter perché non sopportavano l’idea di crescere un bambino quando non potevano stare
con il proprio. In alcuni casi questo gioco di specchi può intervenire a favore delle nostre famiglie, in altri può essere
pericoloso perché si instaurano investimenti emotivi che non sono più quelli di un “lavoro normale” e possono avere
un impatto negativo sull’equilibrio affettivo nella propria stessa famiglia di origine.
Nel video c’è una terza situazione, descritta nella scena ‘Nonni’, che racconta benissimo il ruolo che assumono i nonni,
appunto, non solo nella cura ma nella decisione sul ricongiungimento. I tutor lontani diventano spesso l’ago della
bilancia all’interno del ritrovato equilibrio familiare transnazionale e il loro ruolo è importantissimo nell’influenzare
la relazione tra genitori e figli e il vissuto del ricongiungimento.
Questi frammenti di vita sono parte di un affresco che ci spinge a riflettere su come può svolgersi la vita in una famiglia divisa dai confini geografici. Da una parte ci rendiamo conto che il welfare, come tante altre risorse, è parte
di un gioco di potere, tra famiglie e tra stati: c’è chi vince e chi perde, chi acquista l’amore e chi se lo vede sottratto.
Ma dall’altra siamo anche spinti a chiederci se davvero un welfare fai da te che, come abbiamo visto nel filmato, sotto
alcuni aspetti erode la coesione sociale, non abbia alla fine dei costi indiretti per tutti. Le domande che potremmo
farci sono molte e di varia natura.
Ci potremmo ad esempio chiedere:
• che tipo di cura nasce, qui in Italia, da chi vive in una situazione di sofferenza e svalorizzazione?
• qual è il peso sul nostro stesso sistema di welfare dei cosiddetti stranded migrants, ovvero dei migranti (e con loro
le tantissime donne impiegate nella cura) che si trovano arenati, con poche prospettive di integrazione qui, ma anche
impossibilitati a tornare nel paese di origine perché non si riconoscono più nel sistema familiare e sociale e non hanno competenze da spendere?
• quanto il problema dei left behind si risolve nella questione della generazione 1.5? In altre parole, quanto pesa il tipo
di relazione a distanza che si instaura tra i giovani e le loro madri e il ruolo svolto dai tutor nel percorso di inserimento
sociale, scolastico e lavorativo dei giovani che si ricongiungono?
• è possibile scaricare i costi sociali del nostro welfare sui paesi di origine senza aggravare una situazione di instabilità
ai nostri confini? Con quale forza un paese come l’Italia può chiedere il rimpatrio degli irregolari da un paese e contemporaneamente drenare risorse di cura senza immaginare alcun tipo di compensazione?
• è possibile promuovere una turnazione regolata sul posto di lavoro – che renderebbe assai più sostenibile al-
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
cuni segmenti del lavoro di cura come quello in coresidenza – senza adottare una prospettiva transnazionale?
• è sostenibile occultare l’altra faccia del nostro welfare che affonda le proprie radici nei contesti di emigrazione?
Si tratta di domande essenziali che devono aiutarci a riflettere sul modo in cui la globalizzazione, di cui le lavoratrici
di cura sono icona, debba essere compresa e narrata dalla politica. Se è vero che il welfare può essere inteso come una
coperta troppo corta è anche vero che questa è solo una delle chiavi di lettura. In un contesto di interdipendenza, costi
e vantaggi sociali sono spesso condivisi, e la strategia più efficace è quella di un’alleanza tra paesi di origine e di arrivo,
del gioco di squadra tra politiche e servizi a livello transnazionale.
Esistono progetti che vanno in questa direzione. L’ONG Soleterre di Milano ha creato una rete di consultori che assistono la famiglia ai due poli del processo migratorio, rendendo così possibile una migliore comunicazione familiare
nella distanza e forme di ricongiungimento più consapevole.
Il Consorzio Gino Mattarelli ha costituito una rete di cooperative sociali gemelle ai due poli del processo migratorio
che facilitano circolarità e qualificazione delle assistenti familiari già in entrata.
La cooperativa sociale Anziani e non solo, e con essa anche altre cooperative, ha definito e creato un sistema di riconoscimento e validazione dell’esperienza professionale, che viene adottato da paesi di origine e di arrivo, e in tutti i
paesi che assumono questo sistema le assistenti familiari possono vedersi accreditata la propria esperienza (anche in
termini di crediti formativi) e utilizzarla per una carriera professionale.
Sono piccoli esempi pilota, ma ci ricordano che può esistere un “cosmopolitismo reale” (Beck 2004), un’alleanza tra
paesi che metta a frutto le risorse esistenti “qua e là” e risulti vantaggiosa per tutti.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
S FRUTTAMENTO INVISIBILE DI UN LAVORO NON PROTETTO
di Maria Grazia Giammarinaro,
Rappresentante Speciale e Coordinatore per la lotta alla tratta di esseri umani dell’OSCE
Vorrei iniziare con una premessa: io preferisco parlare di traffico di esseri umani piuttosto che di tratta. Il termine tratta
è molto datato ed è soprattutto legato al fenomeno della tratta per fini di sfruttamento sessuale, quella che veniva definita
“tratta delle bianche”. Fu quindi riadoperato negli anni ‘90, quando si cominciò a lavorare sul fenomeno della tratta, riadattando questo vecchio termine alla nuova realtà che appariva comunque come tratta per fini di sfruttamento sessuale.
Occorre oggi confrontarsi con il fatto che il traffico di esseri umani, ed ecco perché preferisco chiamarlo traffico, è un
fenomeno veramente multiforme, che ha in se moltissime e variegate componenti, non più soltanto legate allo sfruttamento sessuale.
In particolare, il traffico per fini di sfruttamento lavorativo è segnalato da tutte le fonti più autorevoli come un fenomeno
in grandissima crescita; inoltre, un ampio settore del traffico di esseri umani riguarda minori, di cui ci si serve per svariati fini illeciti, che vanno dallo sfruttamento sessuale, allo sfruttamento lavorativo, allo sfruttamento dell’accattonaggio,
e purtroppo, noi riteniamo, anche allo sfruttamento per il traffico di organi. Abbiamo quindi complessi e multiformi
fenomeni, che, tutti insieme, contribuiscono e definire la realtà del traffico di esseri umani.
Sono molto orgogliosa del fatto che il mio ufficio abbia promosso la prima conferenza e curato la relativa pubblicazione,
sul fenomeno di domestic servitude. Si tratta cioè del traffico per fini di sfruttamento domestico che è stato per la prima
volta analizzato e studiato, mentre solitamente rappresentava solo una voce all’interno di un elenco di vari tipi di traffico
di esseri umani.
Per la prima volta si è deciso di puntare i riflettori su questa realtà e ricordo che la rappresentante di un’associazione, che
a Berlino aiuta le vittime di servitù domestica, mi disse: “Era da anni che aspettavamo questo”. Che aspettavamo, cioè,
che un’organizzazione internazionale, al di là del mondo delle ong e delle associazioni della società civile, affrontasse
seriamente questo tema.
Perché è importante che l’Osce l’abbia affrontato seriamente? L’Osce è una grande organizzazione internazionale che
comprende 56 Stati. Nel gergo dell’Osce si usa l’espressione “Da Vancouver a Vladivostok”, perché l’organizzazione comprende dal Canada agli Stati Uniti, dall’Europa ai Balcani all’aera dell’ex Unione Sovietica, incluse quindi le Repubbliche dell’Asia Centrale, che non sono neanche paesi membri del Consiglio d’Europa: un’aera geopolitica molto vasta ed
estremamente importante per il traffico degli esseri umani, poiché comprende paesi di destinazione e paesi di origine. Il
nostro compito è proprio quello di collaborare con gli stati per sostenerli nel mettere in atto politiche efficaci di contrasto del traffico, ma anche di aiutarli a cooperare meglio tra di loro: sappiamo infatti quanto la cooperazione tra paesi di
destinazione e paesi di origine dei traffici sia cruciale in questo campo.
L’Osce è inoltre un’organizzazione che connette strettamente il tema della sicurezza con il tema dei diritti umani. Comprendendo 56 Stati, molto diversi tra di loro, ha il compito di costruire ponti e di indicare una direzione che è quella
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
della democrazia e del rispetto pieno dei diritti umani. Questa è forse una delle ragioni per le quali il principio della
tutela dei diritti umani è stato sempre, fin dall’inizio, l’approccio basilare nella lotta alla tratta: i diritti e gli interessi delle
persone trafficate, che sono oggetto di questa gravissima forma di sfruttamento, devono avere il primo posto nelle politiche anti-tratta e anti-traffico, anche se ben sappiamo che, quando le politiche anti-traffico si intrecciano con quelle di
immigrazione, la coerenza di tali asserzioni spesso viene meno. Porre la tutela dei diritti umani come questione basilare
nella lotta al traffico di esseri umani ci ha consentito di mantenere una certa bussola in un mare molto tempestoso, in cui
il desiderio di lottare contro il traffico deve scontrarsi con una realtà in cui la distanza tra le dichiarazioni di principio e
la quotidianità della politiche di prevenzione e di contrasto è talvolta molto grande.
Nel preparare la conferenza sulla servitù domestica, alcune associazioni di lavoratrici domestiche ci manifestarono delle
perplessità. Ci chiesero di fare attenzione che questo riflettore, molto importante e legittimo, sulle forme gravi di abuso
all’interno del lavoro domestico, non desse però la sensazione che a identificarsi con un’area di sfruttamento irregolare
o addirittura criminale fosse il lavoro domestico in quanto tale, come realtà economica, cioè, di grandissima rilevanza
per i paesi di destinazione e anche per i paesi di origine. Noi abbiamo fatto tesoro di questa indicazione. Quando io
parlo di servitù domestica tendo sempre a precisare che stiamo parlando di una parte marginale della realtà del lavoro
domestico.
Pur rimanendo, nella maggioranza dei paesi, un lavoro sottoprotetto e sottoregolato, e quindi soggetto a forme di trattamento non equo dei lavoratori e delle lavoratrici, è però un settore professionale in cui, nella maggior parte dei casi,
le persone che lavorano riescono a attuare il loro progetto migratorio. Pur nella sofferenza e nei distacchi, nelle storie
di affetti spezzati che il progetto migratorio porta con se, i lavoratori domestici riescono a realizzare i loro propositi, a
mandare i soldi a casa, ad allevare i figli, a farli studiare, a soddisfare le necessità che li hanno spinti a partire. Il lavoro
domestico costituisce una grande, importantissima realtà economica, seppur poco riconosciuta. Basti pensare a cosa
rappresentano le rimesse per lo sviluppo economico di molti dei paesi di origine.
Quindi quando parliamo di servitù domestica, e generalmente quando parliamo di traffico per fini di sfruttamento
lavorativo, che cosa vogliamo esattamente identificare? Mi riferisco a episodi reali, anche se non sono moltissimi quelli
effettivamente investigati. Molti di essi si verificano negli Stati Uniti e ritengo non a caso: probabilmente l’eredità storica
della schiavitù fa si che ci sia una particolare attenzione ai fenomeni di super sfruttamento all’interno delle abitazioni e
delle famiglie. Sono stati riscontrati casi in cui il lavoratore o la lavoratrice vengono sottoposti a condizioni di vita e di
lavoro degradanti, spesso privati non solo del cibo necessario, ma anche della possibilità di fruire in modo regolare dei
cicli di sonno e di veglia, costretti, per diverse ragioni, a lavorare per lunghe ore la notte senza adeguate compensazioni
durante il giorno, sempre a disposizione dei datori di lavoro. Quest’ultimo in effetti è un punto dolente di tutto il settore del lavoro domestico, anche se nei casi di servitù domestica assume dei contorni spietati. Spesso il lavoratore viene
privato del salario che viene corrisposto in kind, cioè in natura - vitto e alloggio - e di fatto non riceve nessuna ulteriore
remunerazione in denaro.
I datori di lavoro, che non stento a definire criminali in casi di questo genere, traggono vantaggio da una situazione di
isolamento e di dipendenza multipla della persona. Sono stati riscontrati dei meccanismi di assoggettamento basati su
violenza psicologica che non sono molto dissimili da quelli che si osservano, per esempio, nei casi di violenza domestica,
in cui la persona viene convinta che non esista altra alternativa se non quella di sottomettersi a un certo tipo di abuso.
Situazioni di questo tipo comportano conseguenze gravissime sulla vita, sulla salute, sull’equilibrio psichico delle per-
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
sone che vi vengono sottoposte, spesso per anni e anni. Si è verificato di frequente che le persone trafficate presentino
comportamenti suicidari o mostrino sintomi di post traumatic stress disorder, gli stessi sintomi che vengono riscontrati
addirittura nelle vittime di tortura.
Quando parliamo di servitù domestica parliamo di un fenomeno che ha questo tipo di gravità, con conseguenze che
spesso durano per tutta la vita.
Riferendoci a fenomeni di tal genere, abbiamo due versanti sui quali dobbiamo far convergere la nostra analisi: l’identificazione di queste vittime e la repressione di un fenomeno che è a tutti gli effetti un fenomeno criminale, da un lato, ma
soprattutto, dall’altro lato, la prevenzione del fenomeno stesso. Occorre quindi chiedersi quali sono i fattori che possono
determinare un humus favorevole per il verificarsi di questo tipo di abusi.
Tali fattori sono quelli che ancora oggi ci fanno identificare il lavoro domestico come un lavoro sottoprotetto, poco regolato, in cui il tasso di illegalità è molto alto perché, laddove esiste una regolamentazione, seppure insufficiente, questa
regolamentazione ha un alto indice di non implementazione e di non applicazione.
Noi cerchiamo pertanto di promuovere una migliore regolamentazione del lavoro domestico, e cioè obbligatorietà della
presenza di un contratto scritto, che nonostante sembri un elemento basilare, è ancora ben lungi dall’essere effettiva nella
maggioranza dei paesi dell’Osce. Promuoviamo inoltre un disciplinamento dell’orario di lavoro, delle vacanze pagate,
del salario, che dovrebbe prevedere il pagamento in natura soltanto in minima parte, del congedo per malattia, dell’assicurazione contro gli infortuni. Sappiamo che anche in Italia alcuni di questi elementi sono tuttora problematici e io
personalmente porto avanti un lavoro di advocacy, di persuasione, per la ratifica della recente convenzione dell’OIL sul
lavoro domestico, che contiene della norme importantissime, anche se si tratta ancora di norme non pienamente sufficienti, rispetto alle quali bisogna cercare di migliorare.
Un secondo aspetto importante della prevenzione è quello relativo alle agenzie di reclutamento.
Le agenzie di reclutamento, che possono operare indistintamente nel paese di origine o nel paese di destinazione, sono
spesso la copertura del segmento criminale, ed è in questa direzione che bisogna andare a indagare. La forza lavoro, in
molti casi trasportata da un paese all’altro, viene utilizzata, con mezzi criminali, per poter ottenere da essa prestazioni
non retribuite, o retribuite a livelli di sussistenza, in modo scostante e irregolare. Tale fenomeno, inoltre, sta diventando
una componente strutturale di certi settori del mercato del lavoro: pensiamo per esempio a quello che accade in agricoltura in varie aree della nostra regione del mondo. Pensiamo alla racconta dei pomodori in Europa meridionale, della
frutta nell’Europa centrale, dei frutti di bosco nell’Europa del nord e nel Regno Unito. Lavori pesanti, poco regolati,
settori in cui risulta difficile effettuare controlli. È questa la tipologia dello sfruttamento lavorativo.
Un’ulteriore questione importante per la prevenzione è l’autorganizzazione. Sostenersi a vicenda è la prima forma di
prevenzione ed è necessario soprattutto per spezzare l’isolamento sociale, la situazione di solitudine nella quale si trova
una persona assoggettata in un modo che definirei paraschiavistico.
Per quanto riguarda la valutazione dell’impatto delle politiche migratorie, ritengo che uno dei fattori di vulnerabilità, facilmente sfruttabile ai fini di istaurare una condizione paraschiavistica, sia proprio la condizione di irregolarità: è questo
un tema essenziale da affrontare in termini di prevenzione.
Un altro elemento di vulnerabilità, in molti paesi, è il fatto che il lavoratore o la lavoratrice domestica, specialmente coloro che lavorano per diplomatici, e su questo mi soffermerò più avanti, non possono cambiare datore di lavoro, fattore
che naturalmente li pone alla loro totale mercé. È una clausola che noi stiamo tentando di modificare, spiegando per
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150 anni di lavoro domestico
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l’appunto che, se si vuole prevenire il fenomeno di supersfruttamento, occorre dare al lavoratore la possibilità di cambiare, qualora si venga a trovare in una situazione di abuso.
Se parliamo di consapevolezza del pubblico, di quello che viene definito awareness raising, occorre sapere che, nella
maggior parte dei casi investigati, gli episodi di servitù domestica sono stati scoperti grazie all’intervento di una persona
qualunque. Una persona, magari incontrata al supermercato o per la strada, a cui la lavoratrice o il lavoratore si appellano nella disperazione, non sapendo cosa fare o a chi rivolgersi; o ancora una persona che per prima si rende conto di
come la lavoratrice o il lavoratore appaiano sempre più magri, emaciati, tristi, incontrandoli quotidianamente, ad esempio quando accompagnano i bambini a scuola. Questo per sottolineare quanto un pubblico solerte e informato possa
fare per identificare un caso di supersfruttamento di lavoro domestico.
Vorrei fare una considerazione a proposito della parola “badante” che, ho notato con terrore, noi stiamo esportando.
Mi è capitato, durante alcuni convegni, di sentire la definizione “the badanti”, nonostante esista un termine inglese, care
giver, che sarebbe molto meglio utilizzare al posto di quello italiano.
Ho accennato in precedenza al lavoro domestico presso i diplomatici: a questo proposito stiamo portando avanti alcune
iniziative, sulla scorta di buone pratiche già adottate nei paesi che ospitano comunità diplomatiche molto numerose,
come il Belgio, l’Austria, la Svizzera, dove sono presenti le grandi organizzazioni internazionali. Tali pratiche consistono
nell’avere un colloquio personale su base regolare con i lavoratori e alcune autorità del ministero degli esteri, per dare
al lavoratore o alla lavoratrice la possibilità di denunciare, al riparo da qualsiasi ritorsione, situazioni di sfruttamento. A
questo si aggiunge naturalmente la firma di un contratto scritto, la prova degli avvenuti pagamenti, eccetera.
Concludo dicendo che, oltre al problema della regolamentazione del rapporto lavorativo, io credo siano fondamentali
la valorizzazione e il riconoscimento culturale del lavoro di cura come un lavoro che richiede formazione e implica
professionalità.
Qual è la situazione in Italia? Nel nostro paese non esistono casi investigati di servitù domestica. Io continuo a credere,
anche se forse sarò ingenua da questo punto di vista, che in Italia il fenomeno della servitù domestica sia marginale. Non
ritengo che il fatto che non ci siano forme investigate dipenda da una diffusa tolleranza o acquiescenza rispetto a queste
tematiche, che fa si che tutto passi inosservato. Penso piuttosto che si tratti di fenomeni effettivamente marginali, ma ritengo altresì che occorra essere molto vigili, perché le condizioni per l’abuso sicuramente esistono anche qui, seppure in
misura minore rispetto ad altri paesi. Nel nostro paese è presente, in ogni caso, una tradizione sindacale e legislativa che
in altri paesi è totalmente assente: una legge come quella del 19581 sul lavoro domestico in altri paesi non esiste affatto.
Abbiamo verificato, a livello internazionale, che i casi peggiori di servitù domestica accadono nelle situazioni di impunità garantita, come l’immunità diplomatica; ma anche all’interno di famiglie impoverite che non vogliono rinunciare
a certi aspetti del loro tradizionale tenore di vita. In tali famiglie si tende a scaricare sul lavoratore domestico la proprio
incapacità finanziaria e probabilmente anche l’intero carico di frustrazione e di odio che la condizione di impoverimento
comporta. I presupposti, quindi, per il verificarsi di casi di servitù domestica possono essere riscontrabili anche in Italia.
Affermo ciò per sottolineare che non si debba cadere nell’errore di vedere tutto in negativo, ma anche che occorra sempre
essere vigilanti nel tentativo di evitare che si verifichi il peggio.
1 Legge 2 aprile 1958, n. 339 “Per la tutela del rapporto di lavoro domestico”
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
L A C ONVENZIONE INTERNAZIONALE SUI LAVORATORI DOMESTICI
PER LA PROMOZIONE DI UN LAVORO DIGNITOSO
di Fabrizio Benvignati,
Vice Presidente Delegato Patronato Acli
Il nostro sistema normativo in materia di diritto del lavoro, volendo fare una metafora, è paragonabile ad un secchio
che è stato bucato perché si sosteneva che l’acqua al suo interno fosse ferma da troppo tempo, anche se poi, di nuova
acqua, non ne è stata aggiunta.
Riferendomi alla specifica situazione italiana rispetto ad una possibile ratifica della Convenzione internazionale sulle
lavoratrici e lavoratori domestici del 2011, direi che sarebbe indubbiamente opportuna che ciò venga fatto, in modo
da introdurre una nuova forma di tutela normativa e di porre una barriera forte, robusta, una barriera a cui fare
riferimento, per lo meno orientativamente, rispetto alla promozione dei diritti per questa categoria di lavoratori.
Chiaramente il tema della Convenzione sarebbe una materia più affine al diritto comparato, nel senso che il metodo
per valutare convenzioni di questo tipo consiste nel prendere due contesti normativi abbastanza polari tra loro, uno
che possiamo definire modesto – la Mauritania, per esempio - e uno molto elevato - diciamo la Svezia - e guardare
come sono organizzati rispetto al contenuto che norma la convenzione in esame, che chiaramente si pone in un punto
intermedio rispetto ai due estremi. Si comprende così, facendo un esame anche quantitativo dei contesti normativi,
quanti sono sotto questa linea e quanti invece sono sopra. La bontà della convenzione si valuta dunque sul quanto essa
sia concretamente ‘raggiungibile’, applicabile per i paesi che la ratificheranno.
La Convenzione sul lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici, adottata dall’ILO a Ginevra il 16 giugno
scorso rappresenta inoltre una novità importante per il diritto internazionale sia per il metodo utilizzato per arrivare
alla sua adozione, sia per la materia trattata.
Al di là e prima dei contenuti specifici della convenzione, infatti, non si può non rilevare come il sistema normativo
dell’ILO per la prima volta si applichi all’economia informale, e che nel processo di definizione della convenzione abbiano contribuito in maniera determinante le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, ma anche della società
civile. Il coinvolgimento di organizzazioni della società civile rappresenta infatti una novità rilevante, nonché il punto
di forza di questa Convenzione, perchè ha permesso di giungere ad una più chiara e concreta analisi della situazione
del lavoro domestico nelle diverse realtà internazionali.
Non si può infatti dimenticare che il lavoro domestico, nella maggior parte dei Paesi del mondo, è ancora considerato
come un non-lavoro, schiacciato da una tradizione e da una cultura che considerano l’attività prestata a favore della
famiglia come non produttiva e di conseguenza non assimilabile ad altre tipologie di lavoro. Tale ambito professionale
è inoltre caratterizzato da un’invisibilità dei lavoratori, invisibilità fisica, perché spesso il lavoro domestico è ancora
un lavoro recluso, e sociale, perché non rappresentato. Un lavoro che coinvolge, secondo alcune stime, 100 milioni
di lavoratori nel mondo, svolto prevalentemente da donne che emigrano dal loro paese per spostarsi nelle metro-
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poli o nei Paesi industrializzati, vivendo condizioni di semi - schiavitù a fronte di un semplice pagamento in natura.
L’invisibilità del lavoro domestico è una delle ragioni per cui a milioni di persone, in prevalenza donne, si nega la dignità di lavoratori e di persone, mancanza di dignità che si traduce nell’assenza di una qualunque minima tutela.
La convenzione dell’ILO riconosce finalmente il lavoro oscuro di questi milioni di persone, e si assume un impegno
concreto per trasformarlo progressivamente in una professione dignitosa.
Reportage fotografico ‘La cura’ di G. Aliprandi
Un fattore preoccupante, legato a questo settore di impiego, che ha interessato anche il nostro paese 40 o 50 anni fa,
quindi in un passato recente, è molto spesso la “compassione penosa” con la quale ci si pone rispetto a questo tipo di relazione di lavoro, di sfruttamento. Si può capire, attraverso eccessi di questo tipo, e attraverso tali forme di penosa compassione, come sia bassa o poca la considerazione; un fenomeno che credo in Italia stia quasi del tutto scomparendo.
Il definire la lavoratrice “come una figlia, come una di famiglia” crea in qualche modo una sorta di autoconvincimento,
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
quasi che il datore di lavoro si consideri una specie di benefattore nei confronti del lavoratore che assume. Ciò comporta il fatto che il collaboratore o la collaboratrice domestica debbano sempre ritenersi a disposizione, esattamente come
un membro della famiglia, senza quindi avere i limiti che, da questo punto di vista, comporta l’essere un lavoratore
dipendente.
Lavoro oscuro, dunque, lavoro affondato nell’informalità, lavoro ancora non pienamente riconosciuto. Un lavoro con
particolarità e caratteristiche precise, certo, ma comunque un lavoro.
Nella nostra società un lavoro deve necessariamente essere accompagnato da diritti. Molto spesso, nell’ambito del
lavoro domestico e di cura, anche solo la presenza di un contratto scritto si rivela una chimera. Un lavoro che nella non riconoscibilità presenta un problema in più, perché quasi mai attinge a tutti quei meccanismi di welfare e
di previdenza lavorativa che sono naturali per altre figure professionali. E ciò ne fa due volte un lavoro sfavorito.
Un altro punto debole di questo settore è l’instabilità del posto di lavoro. È implicito che sia un lavoro che non ha una
stabilità, ma, proprio per questa caratteristica, se non ha attorno un sistema di sostegno da parte dell’amministrazione
pubblica è ulteriormente sfavorito. Nell’analisi del lavoro domestico, quindi, occorre osservare come esso si pone rispetto a tutto ciò che riguarda il supporto dello stato, le politiche attive e passive di sostegno economico nei confronti
di un lavoro che ha delle sue debolezze implicite e che, in mancanza di meccanismi di tutela, è sfavorito in partenza.
Tutto ciò ovviamente non è l’oggetto principale della Convenzione, poiché essa si pone un altro tipo di obbiettivo. Credo che il lavoro domestico possa essere, da questo punto di vista, magari non un benchmark, ma un buon indicatore sul
quale giocare una strategia di coesione sociale. Sembra che anche in Italia ultimamente si abbia la tendenza a sostenere
che ci sono soggetti ipergarantiti, per i quali ora si predispone un percorso di riduzione delle garanzie, visto il contesto
in cui si trova il paese in questo momento. È indubbio, altresì, che ci siano dei soggetti da sempre assolutamente non
garantiti. Si potrebbe, quindi, impostare un percorso di coesione sociale eliminando qualche garanzia ma, contemporaneamente, e dal momento che ci troviamo all’interno di una democrazia compiuta, estendere alcune di queste
garanzie ai soggetti meno tutelati. In fondo la coesione, come fenomeno fisico, è proprio questo. Operare, quindi, sui
due livelli contemporaneamente, non tanto sul piano delle risorse quanto piuttosto su quello dei diritti. Abbiamo un
nuovo governo, esso potrebbe adottare un orientamento diverso in questa direzione.
Se vogliamo analizzare appieno questa Convenzione all’interno di una qualche prospettiva, dunque, occorre anche
analizzarla all’interno dei mondi che rappresentiamo. Io rappresento le ACLI, e in particolare un servizio specifico
dell’associazione, e cioè il servizio di Patronato. Un servizio, da sempre vicino a questo mondo, che ha fatto dell’orientamento e del supporto ai lavoratori domestici, oltre che del sostegno dal punto di vista tecnico, una sua bandiera. Il
Patronato Acli è sempre stato vicino al mondo del lavoro domestico, ne ha sempre coltivato la specializzazione, una
competenza che travalicava un intervento generico e universale come quello dei patronati.
All’interno della nostra attività, questo settore professionale è rappresentato in percentuale di gran lunga superiore
rispetto ad altre categorie produttive, perché riconosce nell’approccio, che il mio Patronato in particolare ha avuto su
questo tema, una voglia di andare oltre, di cogliere il fenomeno in quanto tale, anche legandolo a quello dell’immigrazione. Il Patronato Acli è, ad esempio, presente in Moldavia, ed è presente in autofinanziamento, nel senso che, lo
affermo molto chiaramente, nessuno ci ha chiesto di andare e nessuno ci paga per essere lì. Lo abbiamo fatto perché
avevamo assistito a un certo tipo di fenomeno, e, ritenendoci parte del welfare italiano, reputavamo di doverci fare
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
carico di un settore del welfare che in Moldavia non era presente. Certo, abbiamo fatto ciò con le sole forze a nostra
disposizione, ma abbiamo deciso di esserci, e anche di riflettere rispetto a tutti i fenomeni, come quello delle famiglie
spezzate, che in diversi modi al lavoro domestico immigrato sono connessi. Siamo molto orgogliosi della nostra attività, molto orgogliosi di queste presenze, in Moldavia come anche in Albania e in Marocco. Portiamo avanti questa
attività perché riteniamo che le diverse componenti del welfare non si possano trattare ciascuna separatamente, che il
nostro paese debba in qualche modo farsi carico anche della situazione nei paesi di origine.
Io credo quindi che ci sia grande spazio per essere protagonisti di politiche di questo tipo, all’interno delle quali, come
ACLI, portiamo avanti il nostro orientamento e la nostra cultura nel mondo del lavoro domestico.
A tutto ciò abbiamo coniugato il tema dell’intermediazione. Quali sono i fenomeni che nel sommerso dell’intermediazione si possono nascondere? Io credo che sia giusto che l’ente di patronato faccia intermediazione, perché esso è
vigilato dal Ministero del Lavoro. La prima cosa che gli ispettori valutano è la correttezza. Ad esempio, per quanto
riguarda i criteri di selezione, quali sono quelli per la selezioni dei lavoratori domestici? Come si cura l’offerta rispetto
alla domanda, Come si selezionano particolari requisiti?
In merito alla correttezza, portiamo invece ad esempio la gestione delle paghe, e come vi sia una prassi dell’avere ne
prospetto paga una parte della retribuzione e un’altra parte non dichiarata. Oppure in casi i cui si sia vittima di un
infortunio e si preferisca nasconderlo. E potremmo citare altri casi di questo genere.
C’è un grande interesse, secondo noi, che riguarda soggetti ‘trasparenti’ che vogliono entrare in questo settore professionale. Credo che si debba studiare proprio per pensare a come giocano i meccanismi di welfare e inoltre evidenziare
tutta la responsabilità per il fatto che si tratta di migranti.
Se si analizzano la retribuzione, la precarietà, il sommerso è possibile capire quale sarà il futuro di questi lavoratori e
anche quale tipo di vantaggi abbiano i nostri istituti previdenziali. Ritengo che sia un mondo nel quale è politicamente
giusto esserci, per un sistema come quello delle ACLI, e che le Acli Colf ne siano la punta di diamante. Credo, allo
stesso tempo, che sia un sistema che debba anche coinvolgere la nostra presenza in altri paesi, perché siamo portatori
di dinamiche diverse e la nostra competenza è cercare, per tutte le compenetrazioni che si verificano rispetto a questo
fenomeno, di rappresentare la nostra politica, non solo in Italia ma anche all’estero.
Collegandomi al tema dell’Unità d’Italia, mi piace pensare che all’interno del nostro Risorgimento si sia verificato un
cambiamento che ha interessato anche il lavoro di cura. Sono tanti gli episodi della storia in cui le donne del popolo,
quelle che molto spesso lavoravano nelle case, sono state le prime patriote.
Il Risorgimento italiano ha visto una forte partecipazione delle classi lavoratrici, delle donne del popolo. Queste balie,
queste lavandaie, queste donne che molto spesso prestavano servizio, queste giovani che rincorrevano un sogno di
libertà, sono parte della storia non scritta del nostro Risorgimento. A Roma, dentro Porta San Pancrazio, si trova un
bellissimo museo, dove sono ricordati i nomi di molte di queste donne e gli episodi che le hanno viste morire sulle
barricate.
Non si trattava di donne della nobiltà o della borghesia, ma di donne che facevano proprio questo tipo di lavoro, il
lavoro domestico.
Quindi, forzando un po’ la storia, vorrei rivolgere ai lavoratori e alle lavoratrici domestiche l’invito ad aiutarci, anche
attraverso il lavoro di cura, a costruire una nuova Italia.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
P ROMUOVERE LA DIGNITÀ DEL LAVORO DOMESTICO E DI CURA
di Andrea Olivero,
Presidente Nazionale ACLI
Un ringraziamento alle Acli Colf e a tutti i lavoratori e le lavoratrici domestiche, per aver voluto festeggiare insieme i
150 anni del nostro paese ricordando il vostro e il nostro impegno per il bene dell’Italia.
Dico questo con particolare commozione, perché “grazie” alle colf lo dicono in pochi; ma anche perché, tra le lavoratrici domestiche vi sono tante donne straniere che devono ricevere un doppio ringraziamento. Esse infatti contribuiscono al bene del nostro paese, alla sua storia, al suo sviluppo, senza neanche essere figlie di questa terra, anche se noi
vorremmo che quanto meno fossero accolte, se lo desiderano, a fare parte della nostra cittadinanza. Ma oggi neanche
questo, in molti casi, è loro concesso.
La mia prima riflessione, come dice anche il verso di una canzone, è che “la storia siamo noi”1. La storia siamo noi che
in qualche modo ci sentiamo corresponsabili, che percorriamo la nostra esperienza di vita all’interno di un progetto
collettivo, di una comunità. Questa storia è fatta certamente di grandi personaggi che agiscono all’interno delle istituzioni e della politica, che cambiano l’economia, che decidono talvolta le sorti degli stati in guerra. Anche questa è la
storia dei 150 anni di una nazione. Ma la storia è fatta di tante, tantissime persone che, talvolta in modi meno evidenti,
si sono messe al servizio le une delle altre, determinando la dimensione del vivere bene, del costruire comunità, del
creare quel legame tra i cittadini che è la base del sentirsi una nazione, un paese coeso.
Vi sono alcune parole che vengono spesso utilizzate quando si parla di colf e che credo siano da porre in evidenza,
perché di grande importanza per il futuro della nostra Italia.
Innanzitutto la parola cura, lavoro di cura, quello che svolgono tante donne all’interno delle famiglie italiane. Ma la
cura è elemento cruciale anche per quanto riguarda l’ambito pubblico. L’avere cura gli uni degli altri è un elemento
determinante e decisivo della qualità del vivere comune.
Ritengo che la prima riflessione che dobbiamo fare insieme riguardi la necessità che questa cura sia elemento condiviso, un aspetto intorno al quale la responsabilità non viene scaricata su altri, ma deve essere assunta collegialmente.
Nell’ambito di una trasformazione del modello di welfare, in questi ultimi anni è andata affermandosi l’idea che le
famiglie potessero organizzarsi autonomamente; che si sviluppasse, cioè, quel cosiddetto “welfare fai dai te”, definito
anche welfare familiare, quasi a volergli conferire una connotazione più umanizzante. Un modello di welfare che non
è sussidiario, ma anzi non si fa carico delle responsabilità, lasciando che le persone, le famiglie, trovino le soluzioni
ai propri problemi. Noi abbiamo invece il dovere di sostenere che la cura, la cura delle persone, la cura delle famiglie,
debba essere assunta come priorità collettiva, intorno alla quale chiamare tutti i soggetti a raccolta, nessuno escluso.
Occorre innanzitutto impegno da parte della famiglia, che non può attendere soluzioni dall’esterno, ma deve farsi
1 De Gregori Francesco, La storia, 1985
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
carico, in molti casi in maniera attiva, di trovare una parte di risposte; occorre poi senz’altro un’assunzione di responsabilità collettiva da parte delle istituzioni, della politica, degli enti pubblici, dei soggetti che debbono vigilare affinché vi siano risorse sufficienti perché le persone possano vivere in maniera dignitosa e usufruire di servizi ritenuti
necessari; occorre infine, non dimentichiamocene, che anche i lavoratori e le lavoratrici si assumano questa stessa
responsabilità collettiva.
Nel corso degli anni le Acli Colf hanno lottato anche in questa direzione, per far si che tutti si sentissero corresponsabili e che la qualificazione e la professionalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche spingesse a considerare il lavoro di cura come un lavoro estremamente dignitoso, capace di portare qualità all’interno dell’intero sistema
di welfare italiano.
Occorre perciò operare affinché nessuno dei tre attori (famiglie, lavoratori domestici, istituzioni) agisca da solo e si
senta solo.
Le istituzioni, come detto in precedenza, per lungo tempo hanno agito delegando alle famiglie la ricerca di soluzioni
inerenti alle necessità di cura e collaborazione domestica. Ma credo anche che famiglia e lavoratori abbiano agito gli
uni contro gli altri, senza adottare una logica coordinata, in cui a prevalere sono stati i più forti, cioè coloro che pagano, i datori di lavoro. Sappiamo come nella storia le donne che svolgevano il lavoro di cura siano state marginalizzate e
sfruttate, e ciò purtroppo continua ad essere vero ancora oggi. Dunque la prima questione che io credo sia necessario
fare emergere è quella di andare ad assumerci un impegno collettivo affinché si realizzi il welfare del futuro.
Un secondo elemento su cui vorrei riflettere riguarda il tema dell’immigrazione. Oggi il tema dell’immigrazione e
quello del lavoro di cura sono spesso intrecciati, poiché i protagonisti di questo settore del mondo del lavoro sono
prevalentemente stranieri, e in particolare donne immigrate. Credo che occorra tenere presente come, all’interno
di questa realtà, si giochi una delle questioni centrali per il futuro del paese. Se non sapremo rispettare i lavoratori
stranieri, se non sapremo costruire dei processi di accoglienza e di integrazione, non riusciremo a mettere a punto un
sistema di legalità e di garanzie, necessario per far si che vi sia dignità all’interno del lavoro domestico.
Troppe volte la storia viene dimenticata. Ma sappiamo perfettamente quanta sofferenza, quante problematiche, anche
estremamente concrete, emergano da una situazione di immigrazione non regolamentata, senza una proficua corrispondenza tra domanda e offerta. Esperienze e percorsi migratori che portano le persone a essere strappate dai loro
affetti e dalle loro famiglie per andare in un luogo altro senza avere certezze o garanzie. La storia del lavoro di cura è
stata una storia da sempre connessa con il tema della migrazione, migrazione anche interna, nel nostro Paese, dalla
campagna alla città, da una regione ad un’altra.
Credo che dovremmo guardare a queste esperienze di migrazione per comprendere quanto sia necessario dare dignità, riconoscimento e diritti ai migranti, affinché si possano poi costruire i presupposti per una vita dignitosa e di
comunità. Laddove non ci sono diritti, laddove non c’è legalità, si verifica la possibilità, e quasi sempre la realtà, dello
sfruttamento. In questo settore, e in questa direzione, occorre dunque compiere delle scelte radicalmente diverse da
quelle che sono state prese negli anni passati.
Il lavoro immigrato nel nostro paese è guardato di frequente con preoccupazione; la parola “straniero” è una parola
che spesso fa nascere ansia. Ma non per quanto riguarda le lavoratrici domestiche: tendenzialmente le donne migranti sono percepite come elemento di sicurezza, di garanzia per il futuro. Tuttavia anche in questo settore si è preferito
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
mantenere un ampio spazio di sfruttamento che garantisse la possibilità di sviluppo di quel welfare fatto in casa di cui
ho parlato in precedenza, che è un welfare non accettabile e non dignitoso.
Infine, un’ultima breve riflessione. La storia del mondo del lavoro è anche una storia di lotte. Nel nostro Paese progressivamente quasi tutte le categorie di lavoratori, dopo periodi di sfruttamento, sono riuscite a ottenere diritti
pieni, riconosciuti a livello nazionale e internazionale. La storia delle serve, delle colf, delle badanti rappresenta una
drammatica eccezione nel panorama delle conquiste del mondo del lavoro. Prima escluse perché donne, oggi perché
immigrate. È una realtà che ci induce a riflettere su quanto ci sia ancora da fare, quanto ci sia ancora da lottare e
quanto sia necessario innanzitutto cambiare la mentalità e il modo di considerare questo lavoro, per arrivare poi ad
un giusto ed equo trattamento anche sul piano legislativo.
Come ACLI ci siamo da sempre assunti l’impegno di organizzare e tutelare questi lavoratori e queste lavoratrici. E anche noi chiediamo al nostro Paese di andare a far propria la Convenzione internazionale, per quanto gli effetti pratici
possano essere limitati. Affinché si verifichi prima di tutto il cambiamento culturale di cui questa categoria di lavoratori e lavoratrici ha bisogno per una piena legittimazione e un pieno riconoscimento del lavoro domestico e di cura.
In conclusione vorrei sottolineare che noi, come associazione nel suo insieme, considereremo sempre il lavoro domestico come il settore più rilevante della nostra attività nel mondo del lavoro, perché settore per il quale purtroppo non
si è ancora riusciti a raggiungere le conquiste necessarie.
Noi, come organizzazione di lavoratori, considereremo aperta una ferita fino a che non riusciremo ad ottenere quelle
tutele che riteniamo assolutamente indispensabili affinché anche il lavoro delle colf e delle assistenti familiari sia fino
in fondo un lavoro dignitoso. Molti lo svolgono con straordinaria dignità, molti hanno avuto la capacità e l’intelligenza di andare a mostrare questa dignità anche all’esterno.
Ma occorre ancora lottare insieme affinché questa dignità venga riconosciuta pubblicamente, per noi lavoratori, ma
anche per tutto il Paese, perché un Paese può arrivare a compiere 150 anni e continuare a crescere, solo nella misura
in cui riesce a dare a tutti i cittadini la possibilità di esprimersi nella libertà e nella democrazia, e di trovare fino in
fondo i modi per rappresentare la propria dignità.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Allegato 1
C ONVENZIONE SUL LAVORO DIGNITOSO PER LE LAVORATRICI
E I LAVORATORI DOMESTICI 2011
Convenzione 189 dell’OIL1
La Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
Convocata a Ginevra dal Consiglio di amministrazione dell’Ufficio Internazionale del Lavoro ed ivi riunitasi il 1° giugno 2011 per la sua centesima sessione;
Consapevole dell’impegno assunto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro di promuovere il lavoro dignitoso
per tutti attraverso il raggiungimento degli obiettivi della Dichiarazione dell’ILO relativa ai principi e diritti fondamentali nel lavoro e della Dichiarazione dell’ILO sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta;
Riconoscendo il contributo significativo dei lavoratori domestici all’economia mondiale, anche tramite l’aumento delle
opportunità di occupazione rimunerata per le lavoratrici ed i lavoratori con responsabilità familiari, lo sviluppo dei
servizi alla persona a favore degli anziani, dei bambini e dei disabili nonché attraverso consistenti trasferimenti di reddito sia all’interno di un singolo paese che tra paesi diversi;
Considerando che il lavoro domestico continua ad essere sottovalutato e invisibile e che tale lavoro viene svolto principalmente da donne e ragazze, di cui molte sono migranti o appartengono alle comunità svantaggiate e sono particolarmente esposte alla discriminazione legata alle condizioni di impiego e di lavoro e alle altre violazioni dei diritti umani;
Considerando inoltre che, nei paesi in via di sviluppo dove le opportunità di lavoro formale storicamente sono rare, i
lavoratori domestici rappresentano una percentuale significativa della popolazione attiva di tale paesi, rimanendo tra
le categorie più marginalizzate;
Ricordando che, salvo disposizioni contrarie, le convenzioni e raccomandazioni internazionali del lavoro si applicano
a tutti i lavoratori, ivi compresi i lavoratori domestici;
Notando che la Convenzione (n. 97) sui lavoratori migranti (riveduta) del 1949, la Convenzione (n. 143) sui lavoratori
migranti (disposizioni complementari) del 1975, la Convenzione (n. 156) sui lavoratori con responsabilità familiari del
1981, la Convenzione (n. 181) sulle agenzie private per l’impiego del 1997, la Raccomandazione (n. 198) sulla relazione
di lavoro del 2006, sono particolarmente rilevanti per i lavoratori domestici, così come il Quadro multilaterale dell’ILO
1 Traduzione italiana non ufficiale a cura dell’Ufficio ILO di Roma http://www.ilo.org/rome/risorse-informative/per-la-stampa/
comunicati-stampa/WCMS_157921/lang--it/index.htm
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Colf d’Italia
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Per raccontare l’Italia che cura
sulle migrazioni per lavoro: Principi e linee guida non vincolanti per un approccio alle migrazioni per lavoro basato
sui diritti (2006);
Riconoscendo che le condizioni particolari nelle quali viene svolto il lavoro domestico rendono auspicabile di completare le norme di portata generale con norme specifiche per i lavoratori domestici in modo da permettere loro di
godere pienamente dei loro diritti;
Ricordando altri strumenti internazionali rilevanti quali la Dichiarazione universale dei diritti umani, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, la
Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, la Convenzione delle Nazioni Unite contro
la criminalità transnazionale organizzata, e in particolare il suo Protocollo addizionale volto a prevenire, reprimere e
punire la tratta delle persone, in particolare delle donne e dei bambini, nonché il suo Protocollo contro la tratta illecita di migranti per terra, aria e mare, la Convenzione relativa ai diritti del bambino e la Convenzione internazionale
sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie;
Avendo deciso di adottare diverse proposte relative al lavoro dignitoso per i lavoratori domestici, questione che costituisce il quarto punto all’ordine del giorno della sessione;
Avendo deciso che tali proposte avranno forma di convenzione internazionale,
adotta, oggi sedici giugno duemilaundici, la seguente convenzione che verrà denominata Convenzione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici del 2011.
Articolo 1
Ai fini della presente Convenzione:
a) l’espressione “lavoro domestico” significa il lavoro svolto in o per una o più famiglie;
b) l’espressione “lavoratore domestico” significa ogni persona che svolge un lavoro domestico nel quadro di una relazione di lavoro;
c) una persona che svolga un lavoro domestico in maniera occasionale o sporadica, senza farne la propria professione, non è da considerarsi lavoratore domestico.
Articolo 2
1. La convenzione si applica a tutti i lavoratori domestici.
2. Un Membro che ratifichi la presente Convenzione può, previa consultazione con le organizzazioni dei datori di
lavoro e dei lavoratori più rappresentative e, ove esistano, con le organizzazioni rappresentative dei lavoratori domestici e con quelle dei datori di lavoro domestico, escludere totalmente o parzialmente dal suo campo di applicazione:
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
a) alcune categorie di lavoratori che beneficiano, ad altro titolo, di una protezione almeno equivalente;
b) alcune categorie limitate di lavoratori relativamente ai quali si pongono problemi particolari di significativa importanza.
3. Ogni Membro che si avvalga della possibilità offerta al paragrafo precedente deve, nel suo primo rapporto sull’applicazione della convenzione in virtù dell’articolo 22 della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, indicare tutte le categorie particolari di lavoratori escluse, precisando le ragioni di tale esclusione e, nei rapporti successivi,
specificare tutte le misure che avrà adottato per estendere l’applicazione della convenzione ai lavoratori in questione.
Articolo 3
1. Ogni Membro deve adottare misure volte a assicurare in modo efficace la promozione e la protezione dei diritti
umani di tutti i lavoratori domestici come previsto dalla presente Convenzione.
2. Ogni Membro deve adottare, nei confronti dei lavoratori domestici, le misure previste dalla presente Convenzione
per rispettare, promuovere e realizzare i principi e i diritti fondamentali nel lavoro, in particolare:
a) la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto di contrattazione collettiva;
b) l’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio;
c) l’effettiva abolizione del lavoro minorile;
d) l’eliminazione della discriminazione in materia di impiego e di professione.
3. Ogniqualvolta adottino misure volte ad assicurare che i lavoratori domestici e i datori di lavoro domestico godano
della libertà sindacale e del riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva, i Membri devono proteggere il diritto dei lavoratori domestici e dei datori di lavoro domestico a costituire le proprie organizzazioni, federazioni e confederazioni e, a patto di rispettarne gli statuti, di aderire alle organizzazioni, federazioni e confederazioni
di loro scelta.
Articolo 4
1. Ogni Membro deve fissare una età minima per i lavoratori domestici, compatibilmente con le disposizioni della
convenzione (n. 138) sull’età minima del 1973, e della convenzione (n. 182) sulle forme peggiori di lavoro minorile
del 1999. L’età minima non deve essere inferiore a quella prevista dalla legislazione nazionale applicabile all’insieme
dei lavoratori.
2. Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che il lavoro svolto da lavoratori domestici di età inferiore
ai 18 anni e superiore all’età minima di accesso al lavoro non li privi della scolarità obbligatoria o comprometta le loro
possibilità di proseguire gli studi o di seguire una formazione professionale.
Articolo 5
Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che i lavoratori domestici beneficino di una effettiva protezione contro ogni forma di abuso, di molestia e di violenza.
Articolo 6
Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che i lavoratori domestici, così come l’insieme dei lavoratori,
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
godano di condizioni di occupazione eque nonché di condizioni di lavoro dignitose e, ove i lavoratori siano alloggiati
presso le famiglie, di condizioni di vita dignitose che rispettino la loro vita privata.
Articolo 7
Ogni Membro deve adottare misure volte a assicurare che i lavoratori domestici siano informati delle loro condizioni di
occupazione in maniera appropriata, verificabile e facilmente comprensibile, preferibilmente, ove possibile, per mezzo
di un contratto scritto in conformità alla legislazione nazionale o alle convenzioni collettive, in particolare per quanto
riguarda:
a) il nome e l’indirizzo del datore di lavoro domestico;
b) l’indirizzo del o dei luoghi di lavoro abituali;
c) la data di inizio del rapporto di lavoro e, se il contratto è a tempo determinato, la durata;
d) il tipo di lavoro da svolgere;
e) la remunerazione, il suo modo di calcolo e la periodicità dei pagamenti;
f) l’orario normale di lavoro;
g) il congedo annuale pagato e i periodi di riposo quotidiano e settimanale;
h) il vitto e l’alloggio, se del caso;
i) il periodo di prova, se del caso;
j) le condizioni di rimpatrio, se del caso;
k) le condizioni relative alla cessazione della relazione di lavoro, ivi compreso ogni preavviso da rispettare da parte del
datore di lavoro o del lavoratore.
Articolo 8
1. La legislazione nazionale deve prevedere che i lavoratori domestici migranti reclutati in un paese per svolgere un
lavoro domestico in un altro paese debbano ricevere per iscritto una offerta di lavoro o un contratto di lavoro valido nel
paese nel quale il lavoro verrà svolto, e che espliciti le condizioni di occupazione di cui all’articolo 7, prima di varcare le
frontiere nazionali per svolgere il lavoro domestico al quale si applica l’offerta o il contratto.
2. Il paragrafo precedente non si applica ai lavoratori che godono della libertà di circolazione per accedere ad un posto
di lavoro in virtù di accordi bilaterali, regionali o multilaterali o nel quadro di zone di integrazione economica regionale.
3. I Membri devono adottare misure per cooperare fra di loro in modo da assicurare l’applicazione effettiva delle disposizioni della presente Convenzione ai lavoratori domestici migranti.
4. Ogni Membro deve, attraverso la legislazione o altre misure, determinare le condizioni in virtù delle quali i lavoratori
domestici migranti hanno diritto al rimpatrio dopo la scadenza o la rescissione del contratto di lavoro per il quale sono
stati reclutati.
Articolo 9
Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che i lavoratori domestici:
a) siano liberi di raggiungere un accordo con il loro datore di lavoro o potenziale datore di lavoro sull’essere alloggiato o
meno presso la famiglia;
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Colf d’Italia
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Per raccontare l’Italia che cura
b) che sono alloggiati presso la famiglia non siano obbligati a rimanere presso la famiglia o insieme a membri della
famiglia durante i periodi di riposo quotidiano o settimanale o di congedo annuale;
c) abbiano il diritto di rimanere in possesso dei propri documenti di viaggio e d’identità.
Articolo 10
1. Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare l’uguaglianza di trattamento tra i lavoratori domestici e
l’insieme dei lavoratori per quanto riguarda l’orario normale di lavoro, il compenso delle ore di lavoro straordinario, i
periodi di riposo quotidiano e settimanale e i congedi annuali pagati, in conformità alla legislazione nazionale o alle
convenzioni collettive, tenuto conto delle particolari caratteristiche del lavoro domestico.
2. Il riposo settimanale deve essere di almeno 24 ore consecutive.
3. I periodi durante i quali i lavoratori domestici non possono disporre liberamente del loro tempo e rimangono reperibili per eventuali bisogni della famiglia devono essere considerati come tempo di lavoro nella misura determinata
dalla legislazione nazionale, dalle convenzioni collettive o da ogni altro mezzo compatibile con la prassi nazionale.
Articolo 11
Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che i lavoratori domestici beneficino del sistema di salario minimo, ove tale sistema esista, e che la remunerazione venga fissata senza discriminazione fondata sul sesso.
Articolo 12
1. I lavoratori domestici devono essere pagati direttamente in contanti, ad intervalli regolari e almeno una volta al
mese. Salvo disposizioni della legislazione nazionale o delle convenzioni collettive sul modo di pagamento, il pagamento può essere effettuato tramite bonifico bancario, assegno bancario o postale, ordine di pagamento o altro mezzo
legale di pagamento monetario, con l’assenso dei lavoratori in questione.
2. La legislazione nazionale, le convenzioni collettive o le sentenze arbitrali possono prevedere il pagamento di una
percentuale limitata della remunerazione dei lavoratori domestici sotto forma di pagamenti in natura che non siano
meno favorevoli di quelli generalmente applicabili alle altre categorie di lavoratori, a condizioni che vengano adottate
misure volte ad assicurare che tali pagamenti in natura vengano accettati dal lavoratore, riguardino l’uso e l’interesse
personale del lavoratore, e che il valore monetario a loro attribuito sia giusto e ragionevole.
Articolo 13
1. Ogni lavoratore domestico ha diritto ad un ambiente di lavoro sicuro e salubre. Ogni Membro deve adottare, in
conformità alla legislazione e alla prassi nazionale, tenendo debito conto delle caratteristiche particolari del lavoro
domestico, delle misure effettive per garantire la sicurezza e la salute sul lavoro dei lavoratori domestici.
2. Le misure di cui al paragrafo precedente possono essere applicate progressivamente in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative e, ove esistano, con le organizzazioni rappresentative dei
lavoratori domestici e con quelle dei datori di lavoro domestico.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Articolo 14
1. Ogni Membro deve adottare misure appropriate, in conformità alla legislazione nazionale e tenendo debito conto
delle caratteristiche particolari del lavoro domestico, per assicurare che i lavoratori domestici godano di condizioni
non meno favorevoli di quelle applicabili all’insieme dei lavoratori in materia di sicurezza sociale, ivi compreso per
quanto riguarda la maternità.
2. Le misure di cui al paragrafo precedente possono essere applicate progressivamente in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative e, ove esistano, con le organizzazioni rappresentative dei
lavoratori domestici e con quelle dei datori di lavoro domestico.
Articolo 15
1. Al fine di assicurare che i lavoratori domestici, ivi compresi i lavoratori domestici migranti, reclutati o collocati tramite agenzie private per l’impiego, vengano effettivamente protetti contro pratiche abusive, ogni Membro deve:
a) determinare le condizioni di esercizio delle attività delle agenzie private per l’impiego quando reclutano o collocano
lavoratori domestici, in conformità alla legislazione nazionale;
b) assicurare che esistano meccanismi e procedure appropriate ai fini di istruire le denunce ed esaminare i presunti
abusi e pratiche fraudolente relative alle attività delle agenzie private per l’impiego in relazione con lavoratori domestici;
c) adottare tutte le misure necessarie ed appropriate, nei limiti della giurisdizione e, se del caso, in collaborazione con
altri Membri, per assicurare che i lavoratori domestici reclutati o collocati sul proprio territorio tramite agenzie private
per l’impiego beneficino di una adeguata protezione, e per impedire che vengano commessi abusi nei loro confronti.
Tali misure devono includere leggi o regolamenti che specifichino gli obblighi rispettivi dell’agenzia per l’impiego privata e della famiglia nei confronti del lavoratore domestico e che prevedano delle sanzioni, ivi compresa l’interdizione
delle agenzie private per l’impiego che si rendessero colpevoli di abusi o pratiche fraudolente;
d) considerare di siglare, ogniqualvolta i lavoratori domestici vengano reclutati in un paese per lavorare in un altro, accordi bilaterali, regionali o multilaterali volti a prevenire gli abusi e le pratiche fraudolente in materia di reclutamento,
collocamento ed impiego;
e) adottare misure volte ad assicurare che gli onorari fatturati dalle agenzie private per l’impiego non vengano dedotti
dalla remunerazione dei lavoratori domestici.
2. Per dare effetto ad ognuna delle disposizioni del presente articolo, ogni Membro deve consultare le organizzazioni
dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative e, ove esistano, le organizzazioni rappresentative dei lavoratori
domestici e quelle rappresentative dei datori di lavoro domestico.
Articolo 16
Ogni Membro deve adottare misure volte ad assicurare che, in conformità alla legislazione e alla prassi nazionale, tutti
i lavoratori domestici, personalmente o tramite un rappresentante, abbiano accesso effettivo ai tribunali e ad altri meccanismi di risoluzione delle vertenze, a delle condizioni che non siano meno favorevoli di quelle previste per l’insieme
dei lavoratori.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Articolo 17
1. Ogni Membro deve stabilire meccanismi di denuncia e mezzi accessibili ed efficaci per assicurare il rispetto della
legislazione nazionale sulla protezione dei lavoratori domestici;
2. Ogni Membro deve stabilire e attuare misure ispettive, attuative e sanzionatorie, tenendo debito conto delle caratteristiche particolari del lavoro domestico, in conformità alla legislazione nazionale.
3. Per quanto compatibile con la legislazione nazionale, queste misure devono prevedere le condizioni in presenza delle
quali può essere autorizzato l’accesso al domicilio familiare, tenendo debito conto del rispetto della vita privata.
Articolo 18
Ogni Membro deve attuare le disposizioni della presente Convenzione, in consultazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative, attraverso la legislazione nonché tramite contratti collettivi o misure
supplementari conformi alla prassi nazionale, adattando o estendendo le misure esistenti ai lavoratori domestici, o
elaborando misure specifiche rivolte a loro, se del caso.
Articolo 19
La presente Convenzione non pregiudica disposizioni più favorevoli applicabili ai lavoratori domestici in virtù di altre
convenzioni internazionali del lavoro.
Articolo 20
Le ratifiche formali della presente Convenzione saranno comunicate al Direttore Generale dell’Ufficio Internazionale
del Lavoro e da esso registrate.
Articolo 21
1. La presente Convenzione sarà vincolante per i soli Membri dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro la cui
ratifica sarà stata registrata dal Direttore Generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro.
2. Essa entrerà in vigore dodici mesi dopo che le ratifiche di due Membri saranno state registrate dal Direttore Generale.
3. In seguito, questa convenzione entrerà in vigore per ciascun Membro dodici mesi dopo la data di registrazione della
ratifica.
Articolo 22
1. Ogni Membro che ha ratificato la presente Convenzione può denunciarla allo scadere di un periodo di dieci anni
dopo la data di entrata in vigore iniziale della Convenzione, mediante un atto comunicato al Direttore Generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro e da quest’ultimo registrato.
2. Ogni Membro che ha ratificato la presente Convenzione e che, nel termine di un anno dopo lo scadere del periodo
di dieci anni di cui al paragrafo precedente, non si avvale della facoltà di denuncia prevista dal presente articolo sarà
vincolato per un nuovo periodo di dieci anni ed in seguito potrà denunciare la presente Convenzione allo scadere di
ciascun periodo di dieci anni alle condizioni previste nel presente articolo.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Articolo 23
1. Il Direttore Generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro notificherà a tutti i Membri dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro la registrazione di tutte le ratifiche e di tutti gli atti di denuncia comunicati dai membri dell’Organizzazione.
2. Nel notificare ai Membri dell’Organizzazione la registrazione della seconda ratifica che gli sarà stata comunicata, il
Direttore Generale richiamerà l’attenzione dei Membri dell’Organizzazione sulla data in cui la presente Convenzion
entrerà in vigore.
Articolo 24
Il Direttore Generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro comunicherà al Segretario Generale delle Nazioni Unite, ai
fini della registrazione in conformità all’articolo 102 dello Statuto delle Nazioni Unite, informazioni complete riguardo
a tutte le ratifiche ed a tutti gli atti di denuncia registrati in conformità agli articoli precedenti.
Articolo 25
Ogniqualvolta lo riterrà necessario, il Consiglio di amministrazione dell’Ufficio Internazionale del Lavoro presenterà
alla Conferenza generale un rapporto sull’applicazione della presente Convenzione e considererà se sia il caso di iscrivere all’ordine del giorno della Conferenza la questione della sua revisione totale o parziale.
Articolo 26
1. Qualora la Conferenza adotti una nuova convenzione recante revisione totale o parziale della presente Convenzione,
ed a meno che la nuova convenzione non disponga diversamente :
a) la ratifica ad opera di un Membro della nuova convenzione riveduta comporterebbe di diritto, malgrado l’articolo
22 di cui sopra, un’immediata denuncia della presente Convenzione, a condizione che la nuova convenzione riveduta
sia entrata in vigore ;
b) a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova convenzione riveduta, la presente Convenzione cesserebbe di
essere aperta alla ratifica dei Membri.
2. La presente Convenzione rimarrà in ogni caso in vigore nella sua forma e tenore per i Membri che l’abbiano ratificata
e che non ratificheranno la convenzione riveduta.
Articolo 27
Il testo francese e il testo inglese della presente Convenzione faranno ugualmente fede.
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Allegato 2
B ALIE DA LATTE
di Daniela Perco1
Nei primi decenni del secolo XIX era ancora molto diffuso il ricorso alle balie da latte, che spesso provenivano da zone
montane. Nel Veneto particolarmente note erano le balie feltrine e bellunesi, giovani madri che, in cambio di adeguati
compensi, offrivano il proprio latte sostanzioso ai neonati dell’aristocrazia e della borghesia italiane.
A partire dai primi anni ‘80 il Museo etnografico della provincia di Belluno ha condotto ricerche sistematiche sulle balie
da latte, soprattutto attraverso le fonti orali, considerata la scarsità della
documentazione su questa peculiare forma di emigrazione femminile
negli archivi pubblici. Le testimonianze raccolte, assieme alle fotografie, agli abiti, alle lettere e ad altri cimeli, hanno consentito l’allestimento, all’interno del Museo, di una specifica sezione dedicata alle nutrici.
Le donne aristocratiche e borghesi preferivano delegare a contadine e
montanare l’atto “animale” dell’allattamento, per non rovinarsi il corpo
e per non interrompere la loro vita sociale e mondana.
Le partenze delle balie, spesso subite, erano strettamente legate ai cicli
riproduttivi, all’abbondanza e alla bontà del latte.
Quando il fenomeno cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti
sul finire dell’Ottocento, suscitava le ire degli ambienti clericali, che nella stampa locale esprimevano a gran voce la loro riprovazione contro
“la baliomania” delle contadine, ritenuta un attentato alla moralità e
veicolo di pericolosi cambiamenti di mentalità.
Le giovani nutrici, che dovevano avere alcuni requisiti fondamentali
(aspetto sano, latte copioso e nutriente, condotta morale irreprensibile),
lasciavano il proprio bambino di pochi mesi ai parenti o ai conoscenti,
consapevoli che il cambiamento di alimentazione del lattante poteva
essere all’origine di malattie gastrointestinali, gravi e talvolta mortali.
Quando questo accadeva, i parenti non lo comunicavano alla donna
lontana, per paura che lo shock emotivo potesse provocarle la perdita
del latte, vanificando così ogni aspettativa economica della famiglia.
Flora de Cian di Bolago Sedico mentre allatta.
Durante l’anno dell’allattamento, la balia, ben riconoscibile grazie ad
Museo Etonografico di Seravella.
1 Daniela Perco, antropologa, si occupa di letteratura di tradizione orale, di emigrazione e di museologia. Dal 1997 dirige il Museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi (Seravella di Cesiomaggiore, Belluno).
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Il Giornalino della Domenica, 12 dicembre 1920.
Museo dell’Educazione, Padova
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una sorta di divisa, in cui predominava il bianco, pur riverita e
abbondantemente nutrita, era spesso costretta ad una sorta di
libertà vigilata: non poteva rivedere il marito, riabbracciare i
propri figli, né avvicinarsi agli uomini nelle frequenti passeggiate col bambino. In una situazione del genere, il legame che
si veniva ad instaurare con il figlio di latte era molto forte, e si
consolidava ulteriormente quando la donna rimaneva ancora
in servizio, come balia asciutta, dopo l’anno di allattamento.
Il contatto con situazioni sociali e culturali così diverse fu indubbiamente un potente veicolo di trasformazione ideologica
e comportamentale, che veniva a scardinare il ruolo tradizionalmente assegnato alla donna nella famiglia contadina. Al
rientro in paese, il problema maggiore era quello di ricucire
i legami affettivi, allentati dalla lontananza, specie con i figli
piccoli che non riconoscevano più la propria madre.
Il ricorso alle balie da latte raggiunse il suo acme nel periodo
fascista, quando la chiusura delle frontiere limitò l’emigrazione maschile, gettando molte famiglie in uno stato di prostrazione e miseria. In quegli anni il fenomeno del baliatico non
riguardava più solamente le grandi famiglie aristocratiche e
l’alta borghesia, ma anche la borghesia media.
La diffusione del latte in polvere e le trasformazioni sociali
contribuirono ad accelerare la fine di questa drammatica emigrazione intorno agli anni cinquanta del Novecento.
Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Allegato 3
L E IMMAGINI
Le immagini dei presenti atti ed utilizzate durante il convegno sono state messe a disposizione da:
Museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi
Direttrice dott.ssa Daniela Perco
Il museo è frutto di un lungo cammino iniziato nel 1979 da una proposta di Daniela
Perco, direttrice del Museo. Oggi il ruolo di ente affidatario della gestione è stato assunto
dalla Provincia di Belluno che promuove questa significativa operazione culturale. Il
museo è stato inaugurato nel 1997, con l’apertura al pubblico della parte funzionale e
dello spazio per esposizioni temporanee.
Il Museo ha lo scopo di raccogliere, conservare e valorizzare il patrimonio di oggetti,
documenti, immagini, scritture che hanno accompagnato la vita quotidiana della popolazione rurale bellunese dalla fine del secolo XIX ai giorni nostri.
Una parte interessante del museo è dedicato alla migrazione femminile, in particolare
delle balie che sino alla fine della II Guerra Mondiale offrivano il loro latte prezioso ai neonati dell’aristocrazia e
dell’alta borghesia italiana, in cambio di adeguato compenso. Migrazione che fa riflettere sulla nostra migrazione
interna dal punto di vista economico e socio-culturale, ma anche su alcune forme
di immigrazione femminile contemporanea.
Sito web: www.provincia.belluno.it - e..mail: [email protected]
Museo dell’Educazione del Dipartimento di Scienze dell’Educazione
dell’ Università degli Studi di Padova
Responsabile scientifica prof. Patrizia Zamperlin
Il Museo dell’Educazione dell’Università degli Studi di Padova venne istituito dal
Dipartimento di Scienze dell’Educazione nel 1993. L’idea iniziale era stata quella
di tutelare il ricco patrimonio che le scuole di ogni ordine e grado non vogliono o
non possono più conservare.
Questo impegno è andato poi ampliandosi fino ad aprirsi ai materiali provenienti
da tutte quelle istituzioni (famiglia, chiesa, associazioni) e legati a tutti quei momenti (gioco, tempo libero, sport) che concorrono alla formazione dell’individuo
nell’arco di tempo che va dalla nascita all’ingresso nella vita adulta.
Museo, quindi, non della scuola ma, appunto, dell’educazione per sottolineare
Il Giornalino della Domenica,
31 ottobre 1920.
Museo dell’Educazione, Padova
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
l’impegno a documentare non solo vita e funzionamento di una istituzione ma complessità e ricchezza di un percorso, quello dell’educazione.
Dal momento della sua costituzione ad oggi il Museo ha continuamente incrementato il proprio patrimonio attraverso acquisizioni dalle scuole o da altre istituzioni educative, ma anche grazie a donazioni da parte di privati. I materiali
raccolti vanno dagli arredi scolastici ai sussidi didattici, dai quaderni ai giocattoli, dalle fotografie agli abiti, dai libri
di testo a quelli di narrativa.
Si tratta di un materiale eterogeneo, ma coerentemente selezionato per offrire, innanzitutto agli studiosi, la possibilità
di attingere ad una documentazione un tempo ritenuta minore, ma in grado di diventare invece strumento vivo di
conoscenza del passato. Il Museo collabora con le istituzioni del territorio, in particolare con le scuole di ogni ordine
e grado per le quali organizza visite guidate e laboratori didattici.
Sito web: www.museo.educazione.unipd.it - e.mail: [email protected]
Archivio storico delle Acli
L’Archivio storico delle Acli costituisce un importante
patrimonio culturale per la storia del movimento cattolico, della Chiesa e del mondo del lavoro.
Sono presenti documenti ordinati e catalogati dal 1945
ai primi anni ‘70, un catalogo informatico con 60.000 tra
libri, numeri unici, stampati e dattiloscritti e la raccolta
completa dei periodici delle Acli dal ‘45 ad oggi.
Circa 15.000 foto di storia sociale e di vita delle Acli contribuiscono ad arricchire il patrimonio.
L’archivio storico promuove attività di ricerca e di studio
ed elabora materiali tematici e multimediali.
Sito web: www.acli.it
Maria Fortunato - Congresso Nazionale Gruppo Acli Domestiche, Genova 1964.
Giuseppe Aliprandi
Fotografo, videomaker ed esperto di comunicazione sul web, è appassionato di reportage sociale. Ha lavorato con molte organizzazioni offrendo il suo talento e le sue capacità per creare progetti di comunicazione attraverso le immagini.
Tra i temi trattati il carcere, l’immigrazione e l’agricoltura biologica. Le immagini utilizzate nel testo sono tratte dal
reportage ‘La cura’ che, attraverso un percorso fotografico, racconta la quotidianità di Alberto, Franco ed Elena, tre
anziani di Roma che vivono con i loro assistenti familiari Augusto (peruviano), Daniela (rumena) e Natalja (ucraina).
Sito web: www.giuseppealiprandi.it
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Allegato 4
S PETTACOLO GOLDBERG 150
Presentazione di Tommaso Luison
Goldberg 150 è un progetto musicale e fotografico nato all’interno di Coming to 2011, campagna del Movi (Movimento di Volontariato Italiano) per l’anno Europeo del Volontariato e il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, che ha
trovato la favorevole adesione di molte associazioni di volontariato, di promozione sociale e movimenti per la promozione dei diritti, tra cui le Acli Colf.
LE VARIAZIONI GOLDBERG di Johann Sebastian Bach, eseguite dal vivo, accompagnano la proiezione di immagini che descrivono sotto diversi punti di vista il ruolo della società civile nella costruzione della Nazione.
La rappresentazione di alcuni eventi drammatici della storia d’Italia apre una riflessione sul tema dell’Unità, conseguita attraverso l’azione di donne e uomini che hanno saputo condividere ideali ed esprimere solidarietà in momenti
difficili: la guerra e la Resistenza, l’alluvione di Firenze, il terremoto del Friuli, gli anni del terrorismo, la strage di
Bologna, i crimini di mafia. Si è voluto evidenziare il ruolo della scuola pubblica e dell’istruzione all’inizio del Novecento, la costituzione della Repubblica e l’importanza delle manifestazioni che hanno contribuito ad allargare i diritti
civili. La crescita e l’unità della Nazione sono descritte in una prospettiva europea; la sequenza finale è dedicata agli
italiani che portano solidarietà oltre i confini nazionali, cittadini che trasmettono i valori conquistati in 150 anni di
storia.
LA MUSICA DI BACH non solo accompagna le immagini, ma ne determina il ritmo narrativo e la struttura formale.
Il percorso per immagini è organizzato in dieci gruppi tematici, così come le trenta variazioni procedono ad un ritmo
di tre per volta, con un canone a chiusura di ogni sezione. L’aria iniziale, che precede la prima variazione e costituisce
il tema della composizione, viene ripetuta alla fine dell’intero ciclo. La forma del tema con variazioni è sembrata la
più adatta a rappresentare il rapporto tra unità e molteplicità: ciascuna delle trenta variazioni infatti è un quadro a sé
stante, ma acquista significato solo in relazione alle altre e al tema.
Le Goldberg, originariamente scritte per clavicembalo, vengono proposte nell’elaborazione per trio d’archi curata da
Bruno Giuranna e sono eseguite da Tommaso Luison (violino), Alessandro Savio (viola) e Vittorio Piombo (violoncello). La difficoltà e il fascino di questa versione per tre strumenti risiede nella ricerca della massima unità d’intenti
dei tre esecutori, che devono saper ricomporre il pensiero musicale originariamente affidato a un unico interprete.
Per ottenere la massima qualità ed omogeneità sonora il restauro e la messa a punto dei singoli strumenti è stata curata dal M° Liutaio Giovanni Lazzaro a Padova, appositamente per il progetto Goldberg 150.
LE IMMAGINI attraverso le quali ripercorriamo i nostri 150 anni di storia comune provengono da: Fondazione
Cariplo (Milano); Galleria d’Arte Moderna (Genova); Museo del Risorgimento (Milano); Museo dell’Educazione
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova; Museo Nazionale del Risorgimento Italiano (Torino); Istituto Matteucci (Viareggio); Museo della ‘Ndragheta (Reggio Calabria); Centro Studi Ettore Luccini (Padova);
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980; Istituto Storico della
Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo (Cuneo); CUAMM Medici con l’Africa – Progetto
Sanitario, (©Enrico Bossan); Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Le sezioni relative all’alluvione di
Firenze sono di Red Giorgetti e Alvaro Lepri; quelle del terremoto del Friuli di Maurizio Montefiori.
PROGRAMMA CONCERTO
18 NOVEMBRE 2011
Aria - Goldberg 150
1 - Il Risorgimento
Variazione 1
Variazione 2
Variazione 3 – Canone all’Unisono
7 - Le libertà civili – La strage di Bologna 1980
Variazione 19
Variazione 20
Variazione 21 – Canone alla Settima
2 - La scuola pubblica
Variazione 4
Variazione 5
Variazione 6 – Canone alla Seconda
8 – La risposta della società civile al terrorismo
Variazione 22
Variazione 23
Variazione 24 – Canone all’Ottava
3 – Il terremoto del Friuli 1976
Variazione 7
Variazione 8
Variazione 9 – Canone alla Terza
9 – Contro le mafie
Variazione 25
Variazione 26
Variazione 27 – Canone alla Nona
4 – L’alluvione di Firenze 1966 e gli Angeli del
fango
Variazione 10 – Fughetta
Variazione 11
Variazione 12 – Canone alla Quarta
10 – L’Italia nel mondo – Progetto sanitario in
Africa
Variazione 28
Variazione 29
Variazione 30 – Quolibet
5 – La Resistenza e la Liberazione
Variazione 13
Variazione 14
Variazione 15 – Canone alla Quinta
Aria - Conclusione
6 – L’Italia è una Repubblica
Variazione 16 – Ouverture
Variazione 17
Variazione 18 – Canone alla Sesta
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
B IOGRAFIE RELATORI
ALESSANDRA (SANDRA) BENONI è un’insegnante elementare in pensione. Ha frequentato il triennio di Teologia
per laici presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “S. Pietro Martire” della Diocesi di Verona. Iscritta al Mlal
(Movimento Laici America Latina) e a Pax Christi, collabora come volontaria presso il Cestim (Centro Studi Immigrazione) per l’insegnamento della Lingua Italiana agli alunni stranieri nelle scuole e per la loro integrazione nella
realtà veronese. Impegnata nell’educazione alla pace e alla mondialità, ha promosso, insieme a Pax Christi di Verona,
corsi di educazione alla pace per insegnanti e per alunni (classi di ogni ordine e grado).
FABRIZIO BENVIGNATI è laureato in legge con specializzazione in diritto previdenziale e abilitato alla professione
di avvocato. Inizia a collaborare con il servizio legale della Sede Nazionale delle Acli, dove si specializza in ambito
I.N.A.I.L. Tra i fondatori della rivista “Il Punto” del Patronato ACLI, durante la seconda parte degli anni ’90 coopera
con la struttura centrale per la redazione del progetto di legge in materia di riforma degli Enti di patronato. Negli
stessi anni il Patronato ACLI costituisce presso la Sede Nazionale il servizio “Attività Innovative” di cui Benvignati
assume l’incarico di primo capo servizio. Nel 2004 viene nominato membro della Presidenza Nazionale del Patronato
ACLI. Responsabile della segreteria del Presidente Nazionale delle ACLI, coordina il XXIII Congresso Nazionale del
movimento. Dal 29 maggio 2008 è Vice Presidente Nazionale Delegato del Patronato ACLI.
VITTORIA BONI, laureata in Scienze della Formazione presso l’Università Cattolica di Milano, si è occupata di
problematiche educative, collaborando con la stessa facoltà di Scienze della Formazione, sia come coordinatrice dei
processi formativi dell’extra scolastico, sia come cultore della materia in Pedagogia del lavoro. E’ attualmente direttore
responsabile di ‘Skill’, rivista di formazione e lavoro di Enaip Lombardia. Ha iniziato il suo percorso associativo in
Gioventù aclista di Bergamo; è stata poi segretaria regionale e presidente delle Acli e dell’Enaip Lombardia dal 2000
al 2006. Dal 2006 è consigliere di Presidenza nazionale con delega al welfare e dal 2009 anche al Servizio Civile. Nel
2008 è stata nominata dal ministero del Lavoro componente del CoGe Lombardia (Comitato di Gestione del Fondo
Speciale per il Volontariato), di cui attualmente riveste la carica di vice presidente.
PINA BRUSTOLIN è nata nel 1943 ad Arsiè, piccolo comune della provincia di Belluno. Nel 1956 si reca a Bologna
a lavorare come domestica presso una famiglia conosciuta dai genitori. A Bologna negli anni ‘60 conosce le Acli e
l’azione importante che tale associazione, unica in quegli anni, svolgeva a favore della promozione sociale della categoria delle lavoratrici domestiche. Dopo 10 anni di lavoro nella stessa famiglia, riesce, a fatica, a staccarsi da essa,
e decide di dedicare il proprio impegno alla promozione sociale delle collaboratrici familiari nelle Acli. All’interno
dell’associazione ha ricoperto diversi incarichi a livello provinciale, regionale e nazionale. È stata responsabile nazionale delle Acli Colf in due diversi momenti. Oggi è membro del Direttivo Nazionale dell’associazione e Responsabile
Provinciale delle Acli Colf di Udine.
MICHELE CONSIGLIO, sposato con due figli, è vicepresidente nazionale delle Acli e responsabile del dipartimento
Rete mondiale aclista. Già componente della presidenza nazionale, è stato per due mandati vicepresidente delegato
del Patronato e responsabile dell’area Emigrazione e immigrazione. Ha fatto parte della Consulta per i problemi degli
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Colf d’Italia
150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
stranieri immigrati ed è membro del Consiglio generale degli italiani all’estero. Nato nel 1954, ha iniziato nel 1972
il suo percorso nelle Acli in un circolo di quartiere di Torino. Obiettore di coscienza nel 1976, è stato segretario dei
Giovani delle Acli a livello provinciale e componente del direttivo nazionale. Dal 1989 al 2000 presidente delle Acli di
Torino, è stato funzionario dell’agenzia regionale di Protezione ambientale fino al 2009.
MARIA GRAZIA GIAMMARINARO è stata giudice presso il Tribunale di Roma fino al 1991, e in seguito giudice per
le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale dal 2001 al 2006. Dal 1996 ha ricoperto la carica di Capo dell’Ufficio Legislativo e Consulente del Ministero per le Pari Opportunità. Dal 2006 al 2009 ha fatto parte a Bruxelles della
Direzione Generale per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza della Commissione Europea, dove era responsabile delle
attività di lotta al traffico e allo sfruttamento sessuale dei bambini; all’interno della stessa Commissione, si è dedicata
inoltre agli aspetti penali dell’immigrazione clandestina all’interno del lavoro di lotta alla criminalità organizzata.
Nello stesso periodo ha coordinato il Gruppo di Esperti sulla Tratta di Esseri Umani della Commissione Europea. Dal
gennaio 2010 è Rappresentante Speciale e Coordinatore per la Lotta al Traffico di Esseri Umani dell’Osce.
RAFFAELLA MAIONI è laureata in Scienze Politiche con indirizzo internazionale e ha svolto un Master in Studi
Interculturali. Dopo aver collaborato con l’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles, dal 2002 ha seguito un progetto di
ricerca in Brasile, promosso dalle Università di Padova e di Salvador di Bahia (Brasile), sul volontariato e i progetti
per la tutela dei bambini di strada, pubblicando l’articolo “Un pasto al giorno”, (contenuto nel volume in Ad occhi
aperti, Esedra Ed. Padova 2002). Sempre in Brasile ha curato le interviste con gli agricoltori della Valle dello Jequitinhonha (Minas Gerais) per un progetto sulla tutela della biodiversità promosso dal Cospe e dal Cevi. Dal 2003 ha
lavorato presso l’Ufficio Immigrazione del Patronato Acli di Padova e dal 2006 è stata responsabile provinciale delle
Acli Colf. Dal 2008 al 2009 in Albania è responsabile per le Acli dei progetti di cooperazione e sviluppo. Dal 2009 è
Responsabile Nazionale delle Acli Colf.
ANDREA OLIVERO è laureato in Lettere Classiche presso l’Università di Torino. Nel 1992 è tra i promotori dell’Istituto Pace, Sviluppo e Innovazione ACLI di Cuneo e nel 1994 promuove la nascita della Comunità Emmaus di Boves.
È stato Presidente provinciale delle ACLI di Cuneo dal 1997 al 2004, anno in cui viene eletto Vice Presidente Nazionale ACLI con delega al welfare e alle politiche sociali. La competenza maturata in questi anni riguarda in particolare
i temi della solidarietà sociale, la tutela dei diritti, la riforma del welfare, l’educazione, la cooperazione internazionale.
Da dicembre 2008 è Portavoce Unico del Forum del Terzo Settore. Nel 2006 viene eletto Presidente Nazionale ACLI.
SERGIO PASQUINELLI è direttore di ricerca all’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS) di Milano, dove svolge attività
di consulenza, ricerca e formazione nel campo delle politiche sociali e nella progettazione e valutazione dei servizi.
Dal 2005 al 2010 è stato docente di Politiche sociali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È responsabile scientifico
del Rapporto annuale sulle adozioni internazionali di CEA (Coordinamento degli Enti Autorizzati). Ha fondato e
dirige il sito www.qualificare.info sul lavoro privato di cura e le assistenti familiari, ed è vicedirettore della rivista
“Prospettive Sociali e Sanitarie”.
FLAVIA PIPERNO è laureata in Filosofia, ha svolto un master in analisi e gestione di progetti di sviluppo e un semestre di specializzazione all’estero presso la Sussex University nel Regno Unito. Dal 2002 è ricercatrice sulle migra-
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
zioni internazionali presso il CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale) dove dal 2005 coordina l’area di ricerca sul welfare transnazionale. Ha svolto ricerca empirica in alcuni paesi di origine dei flussi migratori verso l’Italia,
in particolare nell’Europa dell’Est. Svolge attività di consulenza e formazione presso organismi internazionali,
Amministrazioni locali, ONG e cooperative sociali e coordina gruppi di riflessione multidisciplinari sulle tematiche
legate al rapporto tra migrazione, welfare e sviluppo. E’ autrice di numerosi articoli e curatrice, assieme a Mara
Tognetti Bordogna, del volume “Welfare transnazionale. La frontiera esterna delle politiche sociali” di prossima
pubblicazione con Ediesse.
RAFFAELLA SARTI insegna Storia moderna all’Università di Urbino. Si occupa di storia delle donne e dell’identità di genere, di storia della famiglia e del nubilato/celibato, di storia dei consumi e della cultura materiale, di
storia dei graffiti, di storia della schiavitù nel Mediterraneo e, soprattutto, di storia del lavoro domestico. Ha promosso il cosiddetto Servant Project (The socioeconomic role of domestic service as a factor of European identity)
finanziato dalla Commissione europea. Ha organizzato la giornata di studio Lavoro domestico: quali diritti? Una
riflessione a cinquant’anni dalla legge 2 aprile 1958, n. 339 “Per la tutela del lavoro domestico” (2008). Con E.
De Marchi ha realizzato la ricerca Assistenza pubblica e privata. Un’analisi del ruolo degli enti locali, presentata
alla XVII Assemblea Nazionale delle Acli Colf e da queste finanziata (2009). Tra le sue pubblicazioni (elencate su
www.uniurb.it/sarti/) si segnalano, in italiano, sul lavoro domestico, Servizio domestico, migrazioni e identità di
genere in Italia dall’Ottocento a oggi, a cura di J. Andall e R. Sarti, fascicolo di “Polis. Ricerche e studi su società
e politica in Italia” (2004) e Lavoro domestico e di cura: quali diritti?, a cura di R. Sarti, Roma, Ediesse, 2010.
CLORINDA TURRI, nata nel 1948 in provincia di Trento, a quindici anni si reca a lavorare come domestica prima
a Milano e successivamente a Verona. Alla fine degli anni Sessanta entra nell’associazione delle Acli Colf e, dopo
aver partecipato ad uno specifico corso di formazione professionale, consegue l’iscrizione all’Albo professionale
delle collaboratrici familiari e ricopre ruoli di dirigente provinciale di tale associazione. dal 1976 al 1982 è segretaria nazionale Acli Colf. Durante questo periodo collabora alla realizzazione del libro Le casalinghe di riserva, Coines, Roma 1977, di cui scrive la prefazione. Attualmente fa parte della Segreteria Nazionale delle Acli Colf. Tra i
suoi interventi relativi alle lavoratrici domestiche e all’impegno delle Acli Colf si segnala il saggio “L’esperienza
delle Acli Colf ” in AAVV Donne in frontiera. Le colf nella transizione, a cura di C. Alemani e M. G. Fasoli, Editrice Cens, Milano 1994, e il contributo “Le Acli Colf e l’evoluzione dei diritti delle lavoratrici domestiche” in AAVV Lavoro domestico e di cura: quali diritti?, a cura di R. Sarti, Ediesse, Roma 2010.
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150 anni di lavoro domestico
Per raccontare l’Italia che cura
C HI SONO LE A CLI C OLF
Nate nel 1945, le Acli Colf sono l’associazione che, all’interno del sistema ACLI, si occupa della difesa, della tutela e
della promozione sociale e professionale delle collaboratrici e dei collaboratori domestici e familiari.
L’associazione si propone principalmente di promuovere la piena tutela dei diritti e il riconoscimento sociale per tale categoria, e di contrastare qualsiasi forma di sfruttamento in questo settore del mondo del lavoro. Per le Acli Colf è importante
che il lavoro domestico e di cura venga valorizzato e adeguatamente riconosciuto e tutelato attraverso la rete di servizi
territoriali, affinché possa uscire dalla dimensione privata per divenire un lavoro sociale e sostenuto a livello pubblico. Per questo motivo le Acli Colf sono impegnate a sviluppare un dibattito sul tema del lavoro domestico e di cura che
interessi tutti i soggetti coinvolti, dalle famiglie alle associazioni, dal privato sociale alla rete dei servizi territoriali. Un
settore, dunque, che non rimanga confinato tra le pareti domestiche, nella solitudine di lavoratori o di famiglie costrette a gestire da sole una normalità problematica. Un lavoro con importanti risvolti, che si intreccia oggi con temi
di attualità dello scenario italiano, come le politiche di welfare e le grandi sfide poste dal fenomeno della migrazione
femminile legata a questo specifico settore del mondo del lavoro.
Un dato significativo è, inoltre, la notevole presenza di donne immigrate tra le lavoratrici domestiche, e dunque all’interno dell’associazione, che ci ha aperto alle diversità culturali e religiose. Siamo un piccolo universo multiculturale,
dove l’attenzione e la promozione della persona, a prescindere dalle appartenenze, ci fa sperimentare inedite forme di
condivisione, di confronto, di reciproco rispetto.
Le Acli Colf come casa della mondialità dove l’associazione si prende cura di chi cura.
Prendersi cura significa mantenere alto il livello di attenzione su quei soggetti deboli che sono, da un lato, le lavoratrici
e i lavoratori domestici e, dall’altro, gli anziani soli, le persone diversamente abili, le famiglie, che necessitano di cure
e assistenza.
Per l’associazione, dunque, da tempo l’impegno maggiormente rilevante consiste nel considerare insieme i due soggetti deboli che si relazionano e le fragilità che si incontrano nel luogo domestico, un luogo che dovrebbe raccontare
cura ed unione e che invece, molto spesso, ci parla di solitudini e difficoltà quotidiane.
A fronte di queste premesse, l’impegno delle Acli Colf si concretizza in diverse direzioni.
Da un lato, anche in concerto con le istituzioni, gli enti territoriali e le associazioni della società civile, viene affrontata
una riflessione su quali siano le prospettive per la costruzione del welfare del futuro, affinché si realizzi un sistema più
inclusivo, capace di tutelare e promuovere i diritti di tutti.
È inoltre necessario attuare un’opera di educazione alla legalità contro l’evasione contributiva e per l’emersione del
lavoro nero e grigio, e di promozione di azioni volte alla tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, affinché si giunga al
riconoscimento pieno di diritti ancora non tutelati o pienamente garantiti (indennità di maternità, di malattia ecc.) e
ad una revisione complessiva della legislazione in tale materia.
In sinergia con il sistema ACLI, e in stretta collaborazione con il Patronato, la nostra mission associativa è volta ad
informare sui diritti e doveri della categoria, incentivando la formazione nel settore domestico e dell’assistenza familiare, ponendosi dove possibile in relazione alla rete dei servizi presenti sul territorio, per la promozione di una
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figura professionale che offra prestazioni di qualità, garantendo in questo modo non solo il diritto delle lavoratrici e
dei lavoratori a migliorare il proprio bagaglio di conoscenze, ma anche quello degli assistiti a ricevere cure adeguate.
In questa fase storica, nel nostro Paese, è necessario dare risposte adeguate ai bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori
domestici e a quelli delle famiglie, perché si tratta di curare soggetti nelle cui storie si specchiano e si ritrovano vissuti
e fragilità che riguardano l’assetto complessivo della società in cui viviamo.
Convegno Colf d’Italia - 18 novembre 2011
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U N PERCORSO CONDIVISO: M ONDO C OLF 2008-2012
di Marco Calvetto
Capo area Nuovi servizi di tutela, Patronato Acli
ORIGINI E FINALITÀ DEL PROGETTO
Mondo Colf, nel sistema ACLI, è oggi sinonimo dell’attività di informazione ed assistenza per le famiglie e per i lavoratori domestici per la corretta gestione del rapporto di lavoro domestico.
Il progetto nasce nel 2006 su impulso del Patronato Acli e delle Acli Colf, con l’obiettivo di offrire ad entrambi i soggetti
coinvolti nel rapporto di lavoro domestico tutte le informazioni e l’adeguato accompagnamento per l’avvio e l’esatta conduzione del rapporto di lavoro, assumendo ad oggi dimensioni tali da farne una delle principali attività del Patronato stesso.
Tale attività, volta a garantire e tutelare gli aspetti contrattuali legati a tale rapporto di lavoro, non ha mai tradito le
ragioni fondative che hanno portato ad occuparci di questo settore di impiego. L’attività nell’ambito del lavoro domestico è un settore d’intervento tradizionalmente appannaggio dei patronati fin dal 1958, quando la legge sul lavoro
domestico attribuì a tali enti la possibilità di svolgere attività di collocamento nel settore. A partire dalla seconda metà
degli anni ’90 il lavoro di cura si è profondamente trasformato, divenendo uno dei crocevia dello sviluppo del Paese e
di nuovi possibili modelli di welfare, perché proprio lì si incontrano le nuove povertà della nostra società.
A fronte delle molteplici complessità del settore si decise di chiamare lo sportello colf del Patronato Mondo Colf, proprio per l’ambizione di tener insieme aspetti diversi fra loro, ma intrinsecamente interconnessi, come i bisogni delle
famiglie, il lavoro immigrato, le politiche sociali e le politiche di sviluppo, integrando la dimensione del servizio con
quella politico e associativo, senza alimentare divisioni e possibili conflitti.
Tenere insieme le esigenze e lo sguardo dei datori di lavoro e dei lavoratori, considerando le diverse povertà che si
incontrano, è stata la strategia adottata per cercare di ridurre la vertenzialità, molto alta in questo settore. Aumentare
la conoscenza e la consapevolezza dei diritti e dei doveri delle diverse parti è stata la premessa indispensabile per
garantire il rispetto di quanto previsto dai contratti e dalla legge, che, seppur talvolta limitata, rimane la prima forma
di tutela per i lavoratori.
Oltre questa specifica finalità di servizio, il progetto ha come ulteriore obiettivo la promozione di percorsi formativi
ed aggregativi con le colf, tesi a valorizzare il lavoro delle collaboratrici familiari, sia riconoscendo la giusta dignità al
lavoro svolto, sia professionalizzando sempre più chi si accosta al delicato e importantissimo lavoro di cura, in stretta
sinergia e collaborazione con le Acli Colf.
LE ATTIVITÀ PER COSTRUIRE LEGALITÀ NEL LAVORO DOMESTICO
Il progetto Mondo Colf ha avviato la propria attività cercando di fornire una serie di strumenti organizzativi e gestionali per garantire standard qualitativi uniformi. Per questa ragione, dal 2008 è stato adottato un unico software per la
gestione delle buste paga e si è condiviso il database con il gestionale pratiche del Patronato. Oltre al gestionale e alla
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definizione della modulistica comune, dal 2008 al 2011 si sono realizzati 15 incontri di formazione sul contratto di
lavoro domestico, che hanno visto coinvolti 80 operatori.
Tale sforzo ha avuto come immediato risultato il fatto che, nel 2012, siano 80 le province che hanno attivato lo sportello colf, e soprattutto che le pratiche siano passate dalle 10.000 del primo anno di attività alle 80.000 del 2011.
Tabella n. 1. L’attività
Al fine di sostenere le provincie più piccole nell’avvio dell’attività, fra il 2009 e il 2011 la Sede Centrale del Patronato
ha sostenuto 20 province nell’individuazione, assunzione e formazione di altrettanti operatori specificatamente dedicati a questa attività.
Una rapida analisi alle pratiche realizzate evidenzia come esse si attestino ormai in circa 25.000 gestioni di rapporti di
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lavoro annui con una media di 18.000 buste paghe elaborate ogni mese. Un numero notevole, che rappresenta tra il
20% e il 30% dei rapporti di lavoro regolari denunciati all’INPS, tra quelli relativi a lavoratori a tempo pieno.
Tabella n. 2. La presenza e le pratiche
Questa tabella illustra lo sviluppo della presenza dello sportello fra il
2008 e il 2011.
PER I LAVORATORI
Così come si è sviluppata in maniera considerevole l’attività a favore della corretta gestione del rapporto di lavoro, ha
assunto un grande dinamismo la tutela svolta a favore dei lavoratori.
Al riguardo, può essere importante segnalare le pratiche relative la tutela in materia di malattia, ferie, permessi e per
l’emersione del lavoro nero.
L’attività svolta in questi anni è sempre stata orientata al tentativo di far rispettare quanto previsto dalla legge e dai con-
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tratti, tenendo come riferimento la tutela del lavoratore e il criterio della maggior tutela. Indicatori di verifica positivi
di questo orientamento e di questo stile sono la crescita dell’attività nei contesti economici e sociali più deboli, dove il
lavoro nero è la regola assoluta, e la pressoché scomparsa di contestazioni a rapporti di lavoro gestiti dai nostri uffici.
Come per il Progetto Lavoro, il valore aggiunto di questo servizio non risiede tanto e solo nelle competenze degli
operatori e nell’efficienza gestionale del servizio, quanto nella capacità di sostenere e sostanziare tali caratteristiche
ineludibili con una riflessione politica e associativa qualificata.
In tal senso, la pubblicazione della guida al contratto di lavoro domestico, la partecipazione costante alle iniziative
delle Acli Colf e la promozione continua dello sviluppo associativo dei lavoratori si inseriscono appieno in questa
finalità.
L’INTERMEDIAZIONE DI MANODOPERA
Se la crescita esponenziale del progetto Mondo Colf rappresenta la bontà di un’intuizione e la risposta concreta a decine di migliaia di persone, l’avvio dell’attività di intermediazione non può che essere il completamento di una filiera
di servizi da sempre anelata.
La diminuzione progressiva degli investimenti a favore della non autosufficienza, l’inefficacia di politiche conciliative e l’insufficienza dei servizi pubblici per l’infanzia sono altrettante cause della crescita esponenziale del ricorso al
lavoro di cura a carattere privato. Un lavoro, come detto, che si nasconde nell’intimità delle case dove si amplificano
le solitudini e le fragilità, e dove maggiori sarebbero quindi le necessità di competenze e sostegno. Invece, una delle
prime e più grandi difficoltà che si trova a dover fronteggiare una famiglia, sta proprio nella possibilità di individuare
una persona in grado di rispondere in maniera appropriata ai propri bisogni.
Se, infatti, i servizi per l’impiego risultano inadeguati per il mercato del lavoro teso alla produzione, sono assolutamente inesistenti nel tentativo di favorire un incontro domanda offerta di lavoro nel settore del lavoro di cura. In tal
senso la necessità di un soggetto terzo capace di costruire fiducia, trasparenza ed equità in questo settore è assolutamente indispensabile. Un soggetto capace di intercettare e leggere i bisogni delle famiglie, accertare e formare le
competenze dei lavoratori, favorire l’incontro corretto fra le parti.
Su queste basi nel 2011 le ACLI hanno avviato un percorso di riflessione che ha portato ad individuare nel Patronato
Acli il soggetto più idoneo a svolgere questo delicatissimo ruolo, anche in considerazione del fatto che nel solo 2011 il
patronato ha assistito circa 30.000 famiglie nell’instaurazione e nella cessazione del rapporto di lavoro.
Tabella n. 3. L’attività di incontro domanda e offerta di lavoro
A partire dal novembre 2011, data in cui il Ministero del Lavoro ha concesso l’autorizzazione, il Patronato ha avviato
la strutturazione di questo nuovo servizio di incontro domanda e offerta di lavoro, rivolto nello specifico alle famiglie
e ai lavoratori domestici, in 28 province italiane.
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A seguito di questa autorizzazione è iniziato un percorso formativo dedicato agli operatori ad oggi coinvolti in questa
attività e si è attivata una piattaforma di formazione a distanza sul tema.
LE PROSPETTIVE
La crescita esponenziale dell’attività a favore delle famiglie nella corretta gestione dei rapporti di lavoro domestico è
indubbiamente un fattore positivo sotto molteplici punti di vista, non ultimo quello di aver dato la possibilità al patronato di sviluppare un’attività, ottenendo buoni risultati che possono proseguire nel tempo solo se vi sarà un serio
impegno attraverso una reale implementazione organizzativa e un più diffuso pensiero associativo, che alimentano e
costituiscono l’anima stessa di Mondo Colf.
Per questa ragione è in atto un processo di cambiamento organizzativo che porterà, nel giro di pochi mesi, all’adozione di strumenti gestionali quali l’invio massivo delle buste paga, la realizzazione di un portale per gli utenti, e il
miglioramento del gestionale buste paga che dovrà ridurre del 20% il tempo-lavoro oggi impiegato per la gestione e
l’invio delle buste paga, offrendo la possibilità di dedicarsi maggiormente alla consulenza, all’ampliamento dell’attività
e alla gestione delle relazioni con le famiglie e i lavoratori.
A fianco di questo processo organizzativo proseguirà la formazione d’aula sul contratto e sulla previdenza dei lavoratori domestici e si avvierà un portarle per la formazione a distanza di tutti gli operatori.
Il processo che dovrebbe garantire maggior efficienza all’attività gestionale sarà sostenuto e accompagnato dalla collaborazione con le Acli Colf, attraverso cui definire processi più precisi di proposta associativa, elaborazione culturale sulla realtà del lavoro domestico e l’avvio di nuovi servizi che, con l’intermediazione, dovranno qualificare
l’esperienza di Mondo Colf rispetto alla mera attività di gestione delle buste paghe. Fra queste si possono menzionare
l’introduzione di percorsi di formazione certificata per i lavoratori domestici, la realizzazione di percorsi di tutoraggio
familiare e di progetti di sostenibilità familiare con i lavoratori immigrati.
Il lavoro di cura è senza alcun dubbio un settore economico che crescerà nei prossimi anni e aver attivato un servizio
valido e diffuso è un vantaggio competitivo notevole nel breve periodo, ma nel lungo periodo solo chi saprà unire alla
competenza una riflessione ampia che consideri la dignità del lavoro, la formazione continua, il tutoraggio familiare,
la promozione di politiche di welfare innovative e politiche di sviluppo sostenibile a livello ambientale e sociale potrà
essere un protagonista e non un, seppur utile, passacarte.
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Acli Colf – Segreteria Organizzativa c/o Sede Nazionale ACLI
Via G. Marcora 18/20 – 00153 Roma
Tel. 06 5840643 Fax 06 5840340
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