CIVILTÁ DELLO STRETTO
QUADERNI BAGNARESI
Anno II – nr. 6 (Settembre - Novembre 2012)
TITO PUNTILLO
OMAGGIO A “L’OBIETTIVO”
Periodico bimestrale pubblicato dal Gruppo Cristiano di Impegno Sociale
sotto gli auspici dell’indimenticabile Abate mons. Cassone
La Bagnarota e il Matriarcato
note, integrazioni e appunti sulla figura della donna di Bagnara
Bagnara 1967: il varo serale delle palamitare prevedeva
la sfilata lungo la riva del paese prima di virare verso il
largo
(cartolina spedita dal cav. Vincenzo Cristina nel 1967)
Vincenzo Cristina operò con dedizione a favore della lotta
all’analfabetismo, voluta dall’Associazione Nazionale per gli Interessi
del Mezzogiorno d’Italia, coordinata da Benedetto Croce e Giustino
Fortunato. Si menziona il Nostro nella pregevole pubblicazione Il
nostro lavoro nel Mezzogiorno (tip. Mattei, Catania 1922, pg. 20) per
aver condotto la scuola serale elementare di Porelli, unitamente
all’emerito Giuseppe Cesario per quella di Pellegrina.
ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE EDIZIONI
BAGNARA CALABRA
Settembre – Dicembre 2012
LA FORZA DALL'AMORE
LA FEDELTA' PER SEMPRE
T.P.
QUADERNI BAGNARESI
Redazione: Tito Puntillo, Piazza Rivoli, 7- 10139 Torino
[email protected] – 338.75.87.681
Periodico dell’Archivio Storico Fotografico Bagnarese destinato ai Soci.
Vi è l’obbligo di citare la fonte, nel caso di utilizzo del materiale documentario.
Gli eventuali contributi si possono inviare per file a uno dei due indirizzi indicati.
---ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE
Sito internet: Bagnaracalabra.biz
Corrispondenza: [email protected]
Direttore: Gianni Saffioti
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Io nacqui a debellar tre mali estremi:
tirannide, sofismi, ipocrisia;
ond’or m’accorgo che con questa armonia
Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi.
Questi principî son veri e sopremi
della scoverta gran filosofia,
rimedio contra la trina bugia,
sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi.
Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,
tutti a qué tre gran mali sottostanno,
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d’ignoranza, radice e fomento hanno.
1
Dunque a diveller l’ignoranza io vengo.
TOMMASO CAMPANELLA, Delle radici dé gran mali nel mondo,
in: T.C., Poesie filosofiche di Settimontano Squilla, cavate dà suò
libri detti “La Cantica”, con l’esposizione, La Letteratura Italiana,
Storia e Testi, vol. 33, R.Ricciardi ed., Milano-Napoli 1956, pag. 793.
LA CULTURA E LA CONOSCENZA STORICA TONIFICANO LA NOSTRA COSCIENZA
INDIRIZZANDOLA VERSO SENTIMENTI DI PARTECIPAZIONE E DUNQUE CI INDICANO
LA CORRETTA VIA DA PERCORRERE PER IL MIGLIORAMENTO DELLA NOSTRA
CONDIZIONE SOCIALE.
NON È CASUALE CHE SOLO I TIRANNI, LE PERSONE MEDIOCRI E I DELINQUENTI,
NE SIANO I PIÚ ACCANITI NEMICI.
TP
1 - La Tirannide, la Sofistica e l’Ipocrisia sono la contraffazione delle tre Primalità metafisiche di Potenza, Sapienza e Amore, e partoriscono tutto il
male nel mondo. Ogni peccatore, in quanto pecca, è ignorante. (T.C., ivi, p. 793)
Temi (Themis) era la Dea della Giustizia nell’antica Grecia, con un seguitissimo Oracolo in Atene.
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INDICE DEGLI ARGOMENTI:
1)
La Bagnarota: falsità e verità sulla figura della donna di Bagnara.
1.1 - una protesta rimasta inascoltata
1.2 - la Bagnarota: non fu Matriarcato. Introduzione e commento ad un articolo
pubblicato trent’anni fa sul periodico del nostro abate mons. Cassone
l’Obiettivo, gestito dal gruppo cristiano di impegno sociale di Bagnara
1.2.1) se il Matriarcato sia esistito
1.2.2) Bagnara e la questione del Matriarcato
a.- premessa
b.- Bagnara nel secolo XVIII: problemi di comportamento
economico e Matriarcato
c.- Bagnara nella congiuntura calabrese del secolo XVIII:
Matriarcato o sussitenza?
d.- Bagnara e la crisi della classe dirigente:
Bagnarota, lavoro “comunitario” e “conquiste” di territorio
e.- il 1783 e il declino bagnarese verso l’Altopiano
f.- la ricostruzione: la fine dell’azienda contadina familiare e declino
conseguente della figura della Bagnarota responsabile in proprio
nel commercio di II° livello
g.- la Bagnarota fra guerra civile, invasione francese e restaurazione.
i massacri di Bagnara
h.- la Bagnarota del Novecento. l’oblio elevato a mito
i.- la Bagnarota del dopoguerra. la ricchezza economica del legno
- nota: il pesce spada
pg. 7
pg. 7
pg. 29
pg. 35
pg. 37
pg. 39
2)
Donne meridionali in armi – amore e morte al Sud
Michelina De Cesare
Arcangela Cotugno e Elisabetta Blasucci
Francesca La Gamba
Maria Oliverio
appendice bibliografica
pg. 40
pg. 41
pg. 42
pg. 43
pg. 45
pg. 46
3)
la Bagnarota di Mimì Berté
pg. 48
4)
Bagnarote in battaglia. la Bagnarota nell’epopea di Lepanto: Anastasia Mandile
pg. 52
5)
grandissime Bagnarote d’elezione: Ada Fonzi
pg. 61
pg. 10
pg. 10
pg. 19
pg. 19
pg. 20
pg. 22
pg. 24
pg. 26
pg. 27
6)
rappresentazioni in negativo della donna: la Pietra del Diavolo
pg. 62
7)
le donne e la memoria. un contributo unico di solidarietà femminile
pg. 67
8)
l’Obiettivo: Donne di Bagnara
pg. 68
9)
il viaggio Il paradiso delle donne. Calabria lungo gli itinerari della Magna Grecia.
per ritrovare paesaggi e atmosfere. e la storia delle mitiche signore di Locri Epizefiri
pg. 74
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Proprietà letteraria riservata.
Non copiare testi e figure senza l’autorizzazione
dell’Autore.
I rimandi bibliografici fanno riferimento esclusivamente
a testi e documenti presenti nella mia biblioteca o che ho
avuto modo di consultare in strutture pubbliche e presso
privati..
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1.- LA BAGNAROTA: falsità e verità sulla figura della Donna di Bagnara.
1.1 - UNA PROTESTA RIMASTA INASCOLTATA
Molto successo ebbe a Bagnara la “ricerca” di una certa Mirella Violi sulla Bagnarota, ricerca osannata sulla
stampa locale, applaudita all’Università La Sapienza di Roma e laudata perfino da Donna Camilla di Borbone
delle Due Sicilie, Duchessa di Calabria (amica-conoscente della cennata autrice?).
L’Amministrazione Comunale dedicò all’evento due
pubblicazioni: la prima edita nel marzo 2002 e la seconda un
poco arricchita, nel marzo 2006.
In entrambe, il Municipio si mostrò orgoglioso per aver
auspicata, finanziata ed editata l’iniziativa.
Ne venni a conoscenza nel 2007, per la segnalazione di
un cortese amico che mi procurò le pubblicazioni, e mi
protestò il dubbio che si trattasse di una copiatura.
Lessi questo duplice “studio” e dopo un attimo di collera, mi
ritrovai a cullare un senso di soddisfazione per il bel lavoro
del quale fui autore insieme a Enzo Barilà, copiato nelle parti
migliori e pubblicato da altri, e questo perché premiato e
apprezzato.
Decisi di protestare presso la “ricercatrice”, non per
accusare l’intrusione nel mio lavoro, ma per fare notare
La Bagnarota edizione 2002
quanto sia nociva l’estrapolazione di pezzi dal contesto
entro il quale l’autore primario li colloca al fine di una
corretta rappresentazione dell’oggetto del suo studio.
La Bagnarota che si rappresentò a Roma,
celebrata nelle pubblicazioni cennate, è una deviazione
rispetto alla realtà entro la quale questa figura si
colloca.
Una visione completa si può trovare nel saggio gratuito
pubblicato in ASFB e intitolato La Bagnarota, e il
completamento a questo saggio, è contenuto proprio
nella nota di contestazione inviata a M. Violi e per
conoscenza, a Daniela De Blasio (all’epoca apprezzata
rappresentante provinciale per le Pari Opportunità),
all’Assessore Spoleti e al Sindaco di Bagnara.
Al solo fine, ripeto, di un corretto inquadramento
della figura della Bagnarota nella realtà locale e
regionale calabrese (l’appropriazione delle notizie storiche la considero acqua passata), ritengo utile riprodurre
quella nota inviata alle cennate personalità.
In essa la Bagnarota è rappresentata come figura eminente del lavoro materiale, e da qui ricondotta alla generale
rivalorizzazione del lavoro della donna calabrese, secondo concetti che ritengo corretti.
La Bagnarota edizione 2006
In tal senso, il volume curato da Daniela De Blasio, con la collaborazione di Rosanna Carullo, Eliana Rugolo,
Tiziana Romeo, Ignazia Crocé e Renata Melissari: Donne che portano pesi (Città del Sole ed., Reggio C. 2004),
resta esemplare ancora oggi.
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La nota inviata a Mirella Violi, fu indirizzata al Comune di Bagnara, affinché la inoltrasse all’interessata, non essendo
io a conoscenza del suo recapito.
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1.1)
LA BAGNAROTA: NON FU MATRIARCATO.
INTRODUZIONE E COMMENTO AD UN ARTICOLO PUBBLICATO TRENT’ANNI FA SUL PERIODICO
DEL NOSTRO ABATE MONS. CASSONE L’OBIETTIVO, GESTITO DAL GRUPPO CRISTIANO DI
IMPEGNO SOCIALE DI BAGNARA.
Nel 1985 L’Obiettivo ospitò un mio intervento sul problema del Matriarcato a Bagnara, all’epoca concetto sposato
2
dalla gran parte dell’opinione pubblica nazionale.
Secondo questa teoria, a Bagnara erano le donne ad occuparsi del lavoro e della famiglia, mentre gli uomini giocavano
un ruolo marginale, comunque estremamente secondario, dedicandosi per lo più a fatiche domestiche.
Ciò in base a una teoria che asserisco essere priva di significato antropologico.
1.2.1) Se il Matriarcato sia esistito
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Lo studio fondamentale sul Matriarcato resta la ricerca di Johann J. Bachofen secondo il quale il Matriarcato è
esistito in tempi lontanissimi, anche se molti storici e antropologi che seguono la scrupolosa metodologia della ricerca
scientifica, sostengano il contrario.
Sostengo anch’io che, a parte la mitizzazione in epoca arcaica, il Matriarcato non esistette, se non nel conscio e
nell’inconscio maschile, in quanto elemento veicolante della struttura sociale e della visione del mondo, che è maschile.
Come tale, il Matriarcato è l’elemento che porta con sé il significato della vita e della morte insieme, poiché la donna è la
terra ed è dunque una forza materiale, mentre l’uomo è depositario della forza spirituale, universale.
La terra è la forza materiale e da essa scaturisce imperiosa, la legge del sangue che conduce dallo splendore della
nascita alla tragedia della morte, in modo inesorabile e incontrovertibile, ma anche irrinunciabile!
Ecco perché, nel conscio e inconscio dell’uomo, il Matriarcato esistette ma sotto forma di paura della donna, elemento
disarmonico, elemento che eleva a religione la forza materiale della terra, come proiezione presente dell’epoca violenta
4
così come fu alle origini.
Insomma: il Matriarcato è, ancora oggi, timore diffuso del ritorno del “potere femminile” in una società matriarcale che ha
come fondamento lo “stato di barbarie” che si contrappone allo stato di cultura e civiltà, così come definito nella Grecia
Classica.
Se si volesse delineare una cronologia del fenomeno matriarcale, si potrebbe fare riferimento allo stesso Bachofen
ma, a mio avviso, con una attenta storicizzazione su quanto sopra definito:
a)
b)
c)
Momento della promiscuità assoluta: durante il quale uomini e donne vissero in piena libertà sessuale, stando in
comunità domestiche (ampie costruzioni per i membri del villaggio di ambo i sessi). In quelle situazioni, era difficile
determinare con certezza la paternità dei nascituri, per cui la discendenza si stabiliva facendo riferimento alla madre
(“matrilinearità”).
Momento della promiscuità relativa: durante il quale l’uomo, grazie alla sua superiorità fisica, tenne sottomesse le
donne in una società che prevedeva più mogli per un solo uomo;
Momento monogamico: a mezzo di motivazioni fortemente religiose, la donna “conquista” il matrimonio
monogamico, col che la sua influenza nella famiglia e nella comunità del villaggio, aumentò. Infatti in questo periodo
prevalsero nel quotidiano, i principi naturali legati alla terra e alla sua armonia materiale. La donna è madre e quindi
tutti gli esseri umani sono fratelli e come tali, eguali fra loro nell’uso delle risorse naturali.
2 - Scriveva Mario La Cava intorno al 1949:
Andate sul versante tirrenico e in prossimità di Reggio, considerate Bagnara con il tipo singolare delle sue donne mascoline che
lavorano al posto degli uomini e come uomini: la rusticità gagliarda degli antichi romani è in loro. Certamente una grande
differenza fisica sta alla base della straordinaria varietà psicologica dei caratteri individuali …
(MARIO LA CAVA, I misteri della Calabria, Casa Editrice Meridionale, Reggio C. 1952, riediz. Qualecultura, Vibo V. 2003, pg. 72).
La Cava nacque a Bovalino (11 settembre 1908 - ivi 16 novembre 1988). Grande intellettuale, giornalista, saggista e romanziere, rimase fedele alla
sua terra d’origine offrendo della Calabria saggi di grande umanità e sensibilità.
3 - JOHANN J. BACHOFEN, Il Matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 vol., Einaudi ed.,
Torino 1988, ma anche J.J.BACHOFEN, Le madri e la virilità olimpica, Garzanti ed., Milano 1949 e J.J.BACHOFEN, Introduzione al diritto
materno, Editori Riuniti, Roma 1983. Per un inquadramento generale dell’opera di Bachofen, si veda: EVA CANTARELLA, Introduzione a “Il
potere femminile”, storia e teoria, di J.J.Bachofen, Il Saggiatore ed., Milano 1977.
Si ebbero diverse variazioni e interpretazioni sul Matriarcato. Uno dei primi studi antropologici sulle società primitive, si deve a Asher Wright; ebbe
come oggetto il comportamento dei Seneca, con la conformazione del villaggio verso una unica, grande unità abitativa (le case lunghe) e
l’organizzazione del villaggio affidata alla matriarca e alle donne ad essa collegate. (A.WRIGHT, Studio sugli Indiani Seneca, Houghton Library,
Università di Harward, vol. 247); la responsabilità della conduzione del villaggio, conferiva alla popolazione femminile delle Nazioni Indiane del
Nord-America, una condizione di privilegio e rispetto. Su questi temi è importante la serie di studi di Judith Brown sulle popolazioni irochesi (cfr.:
JUDTH BROWN, To Have and to Hit: Anthropological Perspectives on Wife-Beating; con i contributi di Dorothy Counts and Jacquelyn Campbell,
Università dell’Illinois ed.1999; inoltre: Women among Women: Anthropological Perspectives on Female Age Hierarchies, con i contributi di
Jeanette Dickerson-Putman, Università dell’Illinois ed.1998). Anche presso le comunità Hopi venne riscontrato un ruolo forte del Matriarcato e Uwe
Wesel ha potuto osservare come il legame fra moglie e marito passi in subordine rispetto a quello tra madre e figli e fra fratelli e sorelle (UWE
WESEL, Il mito del Matriarcato, Il Saggiatore ed., Milano 1985). Sulla “debolezza” dell’uomo in una società matriarcale primitiva, e i legami fra
figli e madri, cfr: ALICE SCHLEGEL, Adolescence. An Anthropological Inquiry, (con Herbert Barry III), The Free Press, New York 1991. Secondo
Mumford, nelle società neolitiche il ruolo della donna fu di potere pressoché assoluto, e così fino all’evoluzione verso una società organizzata e
l’inizio di modi di produzione pianificati (LEWIS MUMFORD, La città nella storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963).
Per l’aspetto specifico calabrese, cfr.: J. BERARD, La Magna Grecia, Einaudi ed., Torino 1963. Un’ampia bibliografia sul problema del Matriarcato
è in EVA CANTARELLA, Matriarcato, Enciclopedia delle Scienze Sociali, 1996, ad vocem.
4 - Una eccellente esposizione di questi concetti è in IDA MAGLI, Matriarcato e potere delle donne, Feltrinelli ed., Milano 1982. Si possono infine
trovare ottimi spunti di approfondimento nell’intervento di FRANCO GIANOLA, Matriarcato, che incubo!, ora in storiain.net.
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d)
Momento patriarcale: nel divenire sociale, cadenzato dallo sviluppo dell’agricoltura, quindi delle manifatture, il
commercio, le scoperte scientifiche e di nuovi continenti, il ruolo dell’uomo, in quanto depositario di valori superiori
(forma e spirito invece di natura e materia), condusse a un superamento del Matriarcato (nella rappresentazione
prima cennata, e cioè potere “domestico” della donna) a favore della moderna concezione dello Stato, che dello
5
spirito umano è la sintesi.
Il ridimensionamento ideologico-spirituale del ruolo della donna nella Società, fino a giungere ad assegnarle, di fatto,
funzioni marginali nel divenire dal presente al futuro del «destino» dell’essere umano, fu prima teorizzato e poi definito e
codificato dalle caste religiose, che operarono a supporto del potere politico e sociale in tipi di Società che, ripeto,
andavano progressivamente evolvendosi dallo strato primitivo-naturale-pastorale, a Società agricole, manifatturiere,
industriali.
Oltre all’eclatante episodio della Donazione di Costantino, gli esempi in tal senso sono talmente numerosi e
frequenti in tutte le Civiltà vicine e lontane, che sarebbe impossibile riassumerle in anche abbondanti apparati di note e
commenti.
Le Caste sacerdotali si composero (e in massima parte ancora si compongono) di uomini. Esse stettero accanto al
monarca, il feudatario europeo, lo sceriffo arabo, il maharaja, lo zar, il sultano, il tenno, il sakem, l’imperatore, il khan, il
faraone ecc., supportando colle loro interpretazioni, orazioni, premonizioni, sacrifici propiziatori agli Dei, le azioni
governative attuate dal potere.
Notevole anche la presenza di sacerdotesse, ma il loro fu sempre un ruolo “conservativo”: custodi del «fuoco sacro»,
delle dimore del Dio o della Dea in templi di maestosa fattura, delle consacrazioni di agnelli sacrificali, ecc. e si tese a
circoscriverle in aree claustrali, spesso nello status di vergini, perché legate alla divinità Terra, una Matrona a sedere,
venerata.
vestita d’habito pieno di varie
È dunque a mio avviso storicamente determinato che il Matriarcato non esistette, herbe e fiori, con la destra
ancorché l’intera umanità naturale, ebbe nella donna la custode del focolare, l’anima mano tenghi un globo, in capo
domestica del villaggio e delle comunità in genere, la cura e difesa delle greggi e dei una ghirlanda di fronde, fiori e
pascoli, la genitrice dei figli da allevare. Insomma: la tutrice del processo naturale frutti, e dei medesimi ne sarà
pieno un corno di dovizia, il
dell’Umanità, dalla nascita alla morte: la Grande Madre Terra
quale tiene con la destra mano,
Gli uomini “cacciatori” o “guerrieri”, accettarono questo ruolo femminile, ma e a canto vi sarà un Leone, e
6
conservarono quello strategico-politico-sociale, come prima esposto.
altri animali terrestri.
L’involuzione del concetto di Donna dunque, fece riferimento soprattutto alle interpretazioni religiose che
accompagnarono la trasformazione delle Società da pastorali-naturali ad agricole e successive. Queste interpretazioni
variarono da territorio in territorio, secondo il variare delle fedi religiose nel mondo, tutte assolute e ognuna detentrice
della unica e vera verità. In esse, la figura della donna appare quasi ovunque subordinata, se non sottomessa a quella
dell’uomo.
… che la solitaria tua fronte
onde balzò l'unica nata
Pallade Atena dagli occhi
chiari vergine prode
artefice meditabonda
patrona dei vertici forti
nemica del cieco tumulto
lucida regolatrice
del combattimento ordinato
che reca al sicuro trionfo!
GABRIELE D’ANNUNZIO, Laudi del cielo, del mare,
della terra e degli eroi, a cura di Gianni Oliva, Newton
Compton ed., Roma 1995, ora in Libelliber.it, ed. Febr.
2010, pg. 78
Si potrebbe illustrare qualche esempio, ma solo in estrema sintesi, data
la complessità e articolazione dell’argomento.
Per esempio:
per San Paolo l’uomo è stato creato dal Soffio Divino e quindi è una
creatura spirituale, mentre la donna è una derivazione materiale dell’uomo,
una sua costola modificata e dunque, così come la Chiesa si sottomette a
Cristo, “così le donne siano sottomesse in ogni cosa al marito”.
Sant’Ambrogio, accusò la donna di aver innescato il peccato
originale e dunque “deve accettare il dominio del maschio” proprio perché “lo
ha originariamente indotto al peccato”.
San Giovanni Crisostomo asserì che la donna è la più nociva fra le
belve, concetto rimarcato da Sant’Agostino: la donna è una bestia che indica
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la via per ogni malvagità.
Dal concetto del Peccato Originale in avanti, potremmo continuare e giungeremmo fino alla contemporaneità, con la
donna alla quale continuano ad esser negate funzioni spirituali, riservate ai religiosi maschi.
5 - Così anche in E. Cantarella, op. cit., p. 10
6 CESARE RIPA, Iconologia overo Descrittione d'Imagini delle Virtù, Vite, Affetti, Passioni humane, Corpi celesti, Mondo e sue parti. Opera di
C.R. Perugino, Cavaliere de' Santi Mauritio et Lazaro. Fatica necessaria ad Oratori, Predicatori, Poeti, Formatori d'Emblemi et d'Imprese,
Scultori, Pittori, Dissegnatori, Rappresentatori, Architetti et Divisatori d'Apparati; Per figurare con i suoi proprii simboli tutto quello che può cadere
in pensiero humano. Di novo in quest'ultima Editione corretta diligentemente et accresciuta di sessanta e più figure poste a' luoghi loro: Aggiontevi
copiosissime Tavole per sollevamento del Lettore. Dedicata all'Illustrissimo Signore il Signor Roberto Obici. In Padova per Pietro Paolo Tozzi.
M.DC.XI.
7 - Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.(Nuovo Testamento: Epistolario. SAN PAOLO, Lettera egli Efesini, 21; Le mogli siano
sottomesse ai mariti, come al Signore (ivi 22); Il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, (ivi 23); Come la Chiesa
sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette in tutto ai loro mariti (ivi 24); Le mogli siano sottomesse ai mariti, come si conviene nel
Signore. (ivi, Lettera ai Colossei, 18); Voi, mariti, amate le vostre mogli, e non siate duri con loro (ivi 19); L’uomo [in Chiesa] non deve coprirsi il
capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio, la donna invece è gloria dell'uomo (ivi, Lettera ai Corinzi 11,7)
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Nel Deismo di Pitagora, il concetto negativo del femminile fu ancora più
preciso: “il Principio Buono è l’uomo perché egli ha creato l’ordine e la luce, mentre il
principio cattivo è la donna, che ha creato il caos e le tenebre”. Anche nei Miti Greci
troviamo Oreste che chiese aiuto interpretativo ad Apollo contro l’attacco delle Erinni,
che lo accusavano dell’assassinio della madre Clitennestra, ancorché i due fossero
legati da vincoli di sangue, in modo tale che ella lo portò sempre “sotto il suo cuore”.
E l’oracolo di Delfo rispose per conto di Apollo: la madre non è la genitrice di quel che
si dice figlio suo, bensì solo depositaria tutelare del seme appena piantato e destinato
a germogliare. Genitore è colui che la cavalca. 8
La Venere di Willendorf risale
a oltre 23.000 anni fa
Dunque la donna-madre fu considerata estranea al concepimento “attivo”,
essendo invece l’elemento veicolante che conduceva al concetto di fecondità e, come
tale, garante naturale del proseguimento della vita. Dunque: la madre come depositaria
del processo naturale della rigenerazione umana.
Concetti come si nota, che transitano
 da quelli incentrati sulla matrilinearità, che è l’essenza della natura e come tale, videro la donna ricondotta
concettualmente a divinità naturale, riconosciuta e venerata presso tutte le società arcaiche, ove la si
rappresentò con forme anatomiche floride e abbondanti, a significare la prosperità della vita
 a quelli di donna relegata in subordine al ruolo maschile nella Società.
Come dunque intendere il Matriarcato?
Sempre in estrema sintesi, proporrei questa definizione:
nelle antiche Civiltà natural-pastorali e fino a tutto il periodo classico, venne
riconosciuta e venerata la figura della Dea Madre, o Grande Madre.
La Dea Madre è Gea (o Era), Astarte degli Accadi, Cibele, Kalì degli Indiani, Iside degli
Egizi; Inanna dei Sumeri, Ishtar dei Semiti, Anath dei Cananei, Kwan-yi dei Cinesi,
Coatlicue degli Aztechi, Kannon dei Giapponesi, Nerthus dei Teutoni, a seconda
dunque, delle ere storiche e delle latitudini.
La donna è una componente, anche importante, della struttura sociale, con potere
decisionale nella conduzione domestica del villaggio, ma non riconducibile al potere
decisionale sulla politica strategico-sociale del villaggio, che restava di pertinenza
maschile, attraverso il Consiglio degli Anziani e la Casta Sacerdotale. Ad asseverare
questa asserzione, interviene l’aspetto reale. In quei villaggi che per motivi di guerra o
caccia stagionale, vedevano gli uomini assentarsi per periodi anche superiori all’anno,
le donne, rimaste da sole, prendevano abitudini alimentari, igienici e sociali tali da
causare un cattivo odore, talvolta nauseabondo, proveniente dal loro corpo.
Tutto cessava quando gli uomini rientravano nel villaggio e le abitudini di “promisquità”
tornavano a prevalere. Nel mito, un fenomeno del genere venne attribuito alle
Amazzoni, dal corpo fetido tranne in quelle fasi in cui gli uomini venivano ammessi nei
villaggi per gli accoppiamenti necessari per la riproduzione delle guerriere.
Era dunque la promisquità la condizione “naturale” di una corretta esistenza di uomini e donne.
La dea Ascera
Ancora in estrema sintesi, si può delineare uno standard di vita matriarcale così definibile:
a)
b)
c)
d)
e)
f)
La Comunità forma un villaggio costituito da famiglie, ognuna delle quali vive in una capanna, baracca, tenda
ecc.
Al centro del villaggio si trova la casa comune, in genere un edificio religioso.
Gli uomini del villaggio, per lo più guerrieri e cacciatori, si dedicano alla caccia all’interno di foreste o lungo le
pianure, o alla pesca lungo le rive di fiumi, marine e lagune. Per poter divenire guerriero e cacciatore,
l’adolescente maschio doveva sottoporsi a rituali prove di forza, coraggio e resistenza al dolore, cioè doveva
dimostrare di aver conseguito la virilità.
Attraverso la caccia e la pesca, i guerrieri procuravano al villaggio quanto necessario per nutrirsi, vestirsi, oltre
a utensili vari.
Il mantenimento in ordine del villaggio, l’amministrazione, conservazione e preparazione delle derrate, la
lavorazione del latte, l’allevamento di animali da cortile e pascolo, la cura della prole, erano di competenza della
donna, che integrava l’attività maschile con la coltura degli orti e giardini per l’approvvigionamento di prodotti
agricoli.
La gestione domestica del villaggio, dava luogo inevitabilmente a una struttura di governo domestico, col
riconoscimento di una matriarca e di una struttura di supporto.
8 - Cfr.: ESCHILO, Agamennone – Coefore – Eumenidi, a cura di Dario Del Corno, v. 778, Mondadori ed., Milano 2005.
L'uccisione di un uomo non consanguineo, anche se marito dell'assassina, è espiabile e perciò non riguarda le Erinni, il cui
ufficio è solo di punire i delitti tra consanguinei, e il matricidio, secondo il diritto matriarcale, è il più grave ed inespiabile dei
delitti. Apollo si presenta come difensore di Oreste. Atena fa votare gli Areopagiti, scabini del tribunale di Atene; i voti di
condanna eguagliano quelli di assoluzione; allora Atena, come presidentessa, vota a favore di Oreste e lo proscioglie. Il diritto
patriarcale ha riportato la vittoria sul diritto matriarcale
vedi in dettaglio: FRIEDIRCH ENGEL, L’origine della Famiglia, della Proprietà e dello Stato, prefazione alla quarta edizione (Londra
18.VI.1891), Editori Riuniti, Roma 2005).
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Se volessimo immaginare una semplice scena che riassuma quanto fin qui esposto, potremmo pensare a un gruppo
di cacciatori che rientra nel villaggio portando una preda. La depositano al centro del cortile e si fanno da parte
sedendosi al limite del cortile per fumare, bere e dialogare,
mentre la matrona con le altre donne, procede alle operazioni di
trattamento della preda, organizza la cucina, prepara il pranzo,
mette in ordine e chiude la giornata. In questi frangenti, è lei ad
amministrare il villaggio e gli uomini non intervengono, anzi
obbediscono, mostrando rispetto, alle istruzioni che da lei
provengono: quando e dove si mangia, quando e dove si può
andare a sedersi in circolo, quando la capanna è pronta per
andare a riposare e perfino cosa serve da andare a prendere nel
magazzino, nella dispensa ecc., se i fanciulli e le altre donne
fossero tutti impegnati.
In quel caso gli uomini sottostanno e ubbidiscono.
Questo non significa che gli uomini sottostanno alle
donne.
Gli uomini partecipano al Consiglio di Guerra, eleggono i
componenti, tutti uomini, della casta sacerdotale, stabiliscono le
strategie del villaggio (spostamenti di sito, matrimoni con
componenti di altri villaggi, alleanze, campagne di caccia, nuove
costruzioni, ecc.), dettano le leggi e i regolamenti, difendono la
comunità da attacchi di avversari e nemici. Insomma: gli uomini
cedono “volentieri” il comando del villaggio alle donne per quanto
attiene la gestione domestica, ma subentrano di forza quando si
tratta di fare prevalere l’indirizzo politico-economico-sociale del
villaggio; conservano insomma, il comando effettivo e
sostanziale.
Un comando che per moltissimo tempo ha attinto dalla
interpretazione simbolica su tutto quanto avveniva intorno a loro:
tuoni, lampi, piogge, terremoti, ecclissi, carestie, epidemie, gelo
e clima torrido, venivano percepiti come fenomeni della natura
che si ribella, che si ritiene offesa o propizia a seconda dei casi.
Bisognava dunque assolutamente evitare che la Natura,
dominata dagli Dei, mostrasse la sua ira per qualche torto subìto
o un rituale non appropriato.
I sacerdoti proprio per questo, assunsero un ruolo primario nel
9
governo delle popolazioni.
Per i nostri antenati dunque
Le cose e le attività erano sacre, cioè intoccabili nei loro caratteri
fissi, perché erano esistite e si erano compiute in tempi
primordiali e sacra era anche la persona addetta ad esse. I
simbolismi della Terra Madre, dei fenomeni naturali e fisiologici,
dei cicli riproduttivi animali e vegetali e degli stessi uomini, erano
per loro «ierofanie» solo in quanto parti di una realtà più antica e
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preesistente a loro
La dea Astarte
Tavoletta fenicia ora al Louvre, Parigi
Astarte deriva dl greco Ashart, la dea fenicia della
fecondità e nella sostanza, reinterpretazione di Ishtar la
dea babilonese della prosperità.
Da Astarte, Grande Madre fenicia e cananea, dipendeva la
fertilità di Sidone, Tiro e Biblo. Il suo culto si estese anche
nel Mediterraneo fino a Tharros in Sardegna, ed Erice in
Sicilia (Venere Ericina). Nel culto dell’Antico Egitto
Astarte venne identificata con la dea Iside, a partire dalla
XVIII Dinastia.. Ma l’evoluzione più rimarchevole si ebbe
durante la Grecia Classica, quando Astarte divenne in tutto
e per tutto la dea Afrodite, la romana Venere, dea
dell’amore, con Cipro centro principale del culto
Suoi simboli erano il leone, il cavallo, la sfinge e la
colomba. Nella rappresentazione primaria, Astarte appare
come figura femminile armonicamente disegnata con
forme abbondanti. Poggia su due Leoni, a significare la
forza della natura dominante ed è affiancata da due
civette, il rapace depositario della saggia conoscenza che
non teme l’oscurità della quale, anzi, è sovrano.
Dunque società e religione si condizionavano a vicenda e
facevano riferimento sempre alla natura depositaria della fertilità
che si ripete di stagione in stagione ed alla quale tutto appartiene
poiché da essa tutto si genera e tutto si distrugge, secondo la
costante della nascita e della morte.
Questa visone si applicava in toto al mondo vegetale, animale e all’essere umano. Per gli esseri umani, era la donna
depositaria della capacità di dare alla luce nuove creature, nutrirle dal proprio seno e ripetersi in questo mistero, tracciato
dal rito del sangue mestruale, periodico come periodico è il ciclo della natura.
Ecco dunque che la figura della Donna s’accomunava a quella della Terra Madre e tutto confluiva nella Grande Madre,
Dea Terra e Dea Natura, Gaia Greca e Tellus Italica, Tellus Romana e Dea Strenua ovvero, in sintesi, la
COSTANTE TELLURICA
della vita terrena.
9- Cfr.: UBERTO PESTALOZZA, Religione mediterranea, a cura di M. Untersteiner e M. Marconi, Bocca ed., Torino 1951;
GIOVANNI PATRONI, Studi di mitologia mediterranea ed omerica, Hoepli, Milano 1951
10 - MIRCEA ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri ed., Torino 1973.
Sulle opere dello studioso di origine rumena, esiste una vastissima bibliografia alla quale si rimanda.
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La «Donna e la Terra» diviene dunque la «Donna è la Terra» nella sua espressione maggiore. E l’uomo
rispetterà questa convinzione all’interno del villaggio ove il Matriarcato deve a tal punto intendersi come complesso di
11
azioni di governo domestico che s’incaricano di mantenere viva l’idea essenziale della vita naturale.
Se poi le comunità del villaggio conducevano una vita di totale promiscuità fra uomo e donna, e tale da rendere
pressoché impossibile l’identificazione della paternità per il nascituro, l’organizzazione domestica orientata sulla
matrilinearità era accettata e, anzi, voluta. La matrilinearità anzi, si caratterizzerà anche in società più evolute quando il
concetto di Grande Madre passò da un simbolismo essenzialmente naturale alla rappresentazione universale del
“mistero” femminile e dunque le donne fecero riferimento alla Dea Madre, che le proteggeva donando loro la capacità di
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concepire, formare e gestire la prole, in un rapporto direttissimo Madre-Figlio che, di fatto, escludeva il genitore.
Mi accingo a cantare alla Terra, / Madre universale dalle solide fondamenta,
vecchia venerabile, / che nutre quanto si trova sulla superficie di essa.
Da te procede la fecondità e la fertilità, / o Sovrana!,
e da te proviene dare e togliere la vita / agli uomini mortali.
Beato colui al quale tu, benevola, / rendi onori;
questi ha tutto in abbondanza... / dea augusta, generosa divinità!
Salve, Madre degli Dei, sposa del Cielo stellato
Concedimi una vita felice come premio al mio canto!
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D'ora in poi mi ricorderò di te nei rimanenti canti
11- Cfr.: J.J. BACHOFEN, Le madri e la virilità olimpica, a cura di Julius Evola, Bocca ed., Torino 1955; EMILIO SERENI, Comunità rurali
nell’Italia antica, Edizioni Rinascita, Roma 1955. Quest’ultimo testo è di notevole interesse per comprendere l’evoluzione delle comunità rurali
dell’Italia Meridionale fino alle epoche moderne e contemporanee.
12 - La Grande Madre più venerata fu Demetra (Ge-Metra = Terra Madre), la Madre “incorruttibile” e “infaticabile” (SOFOCLE, Edipo re, a cura di
Dario Del Corno, Mondadori ed., 2006), nonché capace di accudire a tutte le cerature della Terra, del Cielo e del Mare e Madre anche di tutti gli Dei
dell’Olimpo (Omero, soprattutto nell’Iliade, V-898; XIV, 201 e 261; e nell’Odissea, IX, 106 sgg.); anche per questo si trova frequentemente
l’espressione “madre degli Uomini e degli Dei” (PINDARO, Pitica III – per Ierone di Siracusa in Pitiche, a cura di F. Ferrari, Rizzoli ed., Milano
2008) o anche: “Tutto ricade nella Terra e da essa tutto procede” (CICERONE, De natura deorum, 2, 26), donde la supplica che si rivolgeva alla
Dea durante le cerimonie nei templi a lei dedicati: .
Sacra dea Terra, madre della natura, che continui a generare e rigenerare tutto...
Dacci il cibo necessario per vivere con fedeltà (costanza) perpetua così che, quando l'anima s'invola, possiamo rifugiarci nel tuo
seno.
Tutto quanto elargisci ricade dentro di te, così che a ragione tu (Terra) sei chiamata Grande Madre degli dèi... Tu sei la Madre
degli uomini e degli dèi, senza di te niente nasce, niente giunge a maturazione.
Tu sei Grande, tu, dea regina delle divinità. Dea, ti adoro e invoco la tua divinità!
(Precatio Terrae Matris — «Supplica alla Madre Terra» — in Anthologia latina a cura di FRANCIS J. THACKERAY, 1, 27, vv.
1-2, 12-15, 17-20 Edit. Bùcheler-Riese-Lommatzsch, Lipsia 1894).
E’ fondamentale la lettura di: WALTER F. OTTO, Gli dei della Grecia. L’immagine del divino riflessa dallo spirito greco, La Nuova Italia ed.,
Firenze 1944.
All’inizio fu pur sempre una figura femminile che diede origine a tutte le cose.
Nel mito pelasgico della creazione troviamo:
… All’inizio Eurinome, Dea di Tutte le Cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora
il mare dal cielo e intrecciò, sola, una danza sulle onde. Sempre danzando, si diresse verso Sud e il vento che turbinava alle sue
spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l’opera della creazione. Si voltò all’improvviso,
afferrò codesto Vento del Nord e lo soffregò tra le mani: ed ecco apparire il gran Serpente Ofione.
Eurinome danzava per scaldarsi, danzava con ritmo sempre più selvaggio finché Ofione, acceso dal desiderio, avvolse nelle sue
spire le membra della Dea e a lei si accoppiò. Ora il Vento del Nord, detto anche Borea, è un vento fecondatore.
Spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio, concepiscono puledri senza l’aiuto di uno stallone. E così anche Eurinome
rimase incinta…e da questa unione nacquero tutte le cose.
(ROBERT GRAVES, I Miti Greci. Dei ed Eroi in Omero, vol. I, Longanesi, Milano 1963, pg. 21). La fecondazione delle cavalle
per merito di Borea, è in PLINIO, Storia Naturale, IV, 35, ma anche in OMERO, Iliade, XX, 223. La donna dunque domina
l’uomo e ha come compagno-simbolo “il Serpente “Demiurgo”, e questa sarà la costante rappresentazione della Dea “prima di
tutte le cose”.
Nel mito omerico-orfico della creazione troviamo:
… Certuni dicono che tutti gli Dei e tutte le creature viventi nacquero dal fiume Oceano che scorre intorno al mondo, e che Teti
fu la madre di tutti i suoi figli.
Gli Orfici dicono invece che la Notte dalle ali nere, una Dea che s’impose perfino al rispetto di Giove, fu amata dal Vento e
depose un uovo d’argento nel grembo dell’Oscurità; e che Eros nacque da quell’uovo e mise in moto l’Universo…
(R.GRAVES, cit., pg. 24; si noti che Oceano ha una perfetta somiglianza simbolica col Serpente).
Nel mito olimpico della creazione troviamo:
… All’inizio di tutte le cose, la Madre Terra emerse dal Caos e generò nel sonno suo figlio Urano. Dall’alto delle montagne Urano
guardò la Dea con occhio amoroso e versò piogge feconde nelle sue pieghe segrete, ed essa generò erba, alberi e fiori, unitamente
alle belve e agli uccelli… (R:GRAVES, cit., pg. 25).
La Chiesa ha ripetutamente screditato la Mitologia, per dare risalto alla Genesi e al ruolo decisivo dell’Uomo-Adamo, creato prima della Donna, che
dell’Uomo è un “derivato” formatasi da una sua costola e quindi sottomessa a lui.
Con queste doti divine dunque, la Grande Madre è l’essenza stessa di tutto ciò che esiste nella vastità del cielo e su tutta la terra, che l’uomo percorre
dalla nascita alla morte. Questo perché, dopo aver generato l’Umanità, ella la nutre e, alla fine, tutta l’accoglie fra i suoi seni rispettando un ciclo
vitale che è immutabile (ESCHILO, Sette contro Tebe, a cura di Franco Ferrari, Rizzoli ed., Milano 2006).
13 OMERO, Ode alla Madre Terra - vv. 1-3, 6-9, 17b-20
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Appendice bibliografica
Scrivono Simon Price e Peter Thonemann che, soprattutto ad iniziare dal IV sec. d.C., i mutamenti religiosi devono inquadrarsi
all’interno delle grandi differenze fra la Religione greco-romana da una parte, e il Cristianesimo dall’altra. Quella greco-romana non
si basava su “testi sacri” o templi comunitari, d’altro canto aveva divinità maschili e femminili con sacerdoti e sacerdotesse; la
cristiana ebbe in principio martiri di ambo i sessi, ma dal IV secolo in avanti ormai c’erano solo preti e vescovi maschi, e questo
mutamento nell’autorità sessuale la rendeva una Religione del Libro, come l’Ebraismo:
•
SIMON PRICE – PETER THONEMANN, In principio fu Troia. L’Europa nel mondo antico, Laterza ed., Bari 2012, da
pg. 327).
In questo senso, la Matrilinearità è un concetto negato dal Cattolicesimo, poiché Maria non fu fecondata, rimase Vergine & Madre
nel contempo per sola opera divina. Non vi è dunque nesso fra la gravidanza divina di Maria e quelle terrene delle donne.
Tuttavia, la matrilinearità fu applicata ed accettata “ab antiquo”, ancor prima che i Fenici navigassero lungo le rotte del Mediterraneo
occidentale:
• CESARE CANTÚ, Schiarimenti e note alla Storia Universale, vol. I, pg. 265 - libro LXXXII, G. Pomba ed., Torino 1838,
testo di fortissimo spessore al quale abbinare:
•
G. CONTENAU, La Civilisation Phénicienne, Payot ed., Parigi 1949).
Se così intesa, la figura femminile idealizzata, mitizzata fino a farla confluire nel concetto di Dea Madre e quindi Terra Madre,
rappresenta davvero la Grande Dea che ebbe come suo simbolo, come ho annotato, il Serpente adottato poi anche da Esculapio.
Esculapio era figlio del Dio Apollo ed era venerato soprattutto a Epidauro. La sua storia è significativa per quanto qui stiamo
analizzando: Apollo vide un giorno la bella ninfa Coronide mentre faceva il bagno in un lago. Se ne innamorò perdutamente e
Coronide si offrì al Dio con passione. Quando Apollo dovette lasciare Coronide per rientrare in olimpo, incaricò un corvo a vegliare
sulla ninfa, rimasta in stato interessante dopo l’amore col Dio.
Coronide, temendo di restare sola con un figlio da accudire, decise di accettare i sentimenti di Ischys. Il corvo si accorse di
quell’idillio solo quando li vide assieme, e subito volò da Apollo per allertarlo del tradimento. Apollo decise allora di punire il corvo
reo di non aver impedito che il corteggiatore s’avvicinasse alla ninfa, e gli cambiò da bianche a nere le penne.
Venuta a conoscenza dell’episodio di Ischys, Artemide (Diana per i Romani), sorella di Apollo, uccise Coronide. Apollo salvò il
nascituro e decise di dare al piccolo il nome di Esculapio, poi divenuto il Dio della medicina e rappresentato con un bastone attorno
al quale stava avvinto un serpente.
Apollo dunque è il Dio olimpio della luce solare e il dominatore del Cielo, e secondo Franciosi è in opposizione alle divinità ctoniche
della Terra:
•
MICHELE FRANCIONI, Dalla prima Italia alla Magna Grecia. Testimonianze antiche e moderne, Brenner ed., Cosenza
1990 – da pg. 30;
a mio avviso Apollo è in realtà il complemento agli elementi della Terra fino al raggiungimento della perfetta armonia fra Natura e
Spirito: Apollo fratello di Artemide. E questo proprio in virtù di quella differenziazione fra Religione classica e Religione del Libro.
Si possono trovare spunti d’interesse sullo sviluppo dei concetti attorno alla Grande Madre in:
•
MARIO BACCIEGA, Dio Padre o Dea Madre? Libreria editr. Fiorentina, Firenze 1976;
•
SILVIO ACCAME, La formazione della Civiltà mediterranea, La Scuola ed., Brescia 1966.
La Calabria ebbe un ruolo primario nello sviluppo del culto della Dea Madre. Per alcuni studiosi “Italia” (che fu l’antica
denominazione della Calabria), significava in lingua jonica “Terra dei viletti” e per altri “Terra del re Italo”, definito “saggio
legislatore e reggitor di genti”:
•
ANTIOCO DA SIRACUSA, Dion. Halic., I-35;
inoltre cfr.:
•
CRISTINA CUSCUNÀ, I frammenti di Antioco da Siracusa, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003;
•
GIUSEPPE GALASSO, L’Italia come problema storiografico, UTET ed., Torino 1979;
•
F.W. WALBACK, The Historian of Greek Sicily, “Kokalos” 14-15 (1968-69), 476-498;
•
ANALDO MOMIGLIANNO, Sesto contributo alla Storia degli studi classici e del mondo antico, t. I, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma, 1960; G. MADDOLI, Mégale Hellàs: genesi di un concetto e realtà storico-politiche;“Mégale Hellàs,
nome e immagini, Atti del XXI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Guida ed., Napoli 1982.
La Calabria col nome “Italia” era nota ai naviganti per essere la “Grande Madre delle selve montane e dei cicli vitali” e questo
proprio per essere la “terra dei vitelli” e della natura rigogliosa. Il culto di una antichissima Dea-Madre era testimoniato dalla
presenza di un imponente Santuario sul Promontorio Lacinio:
•
GUGLIELMO GENOVESE, I Santuari rurali nella Magna Grecia, “L’Erma” di Breetschneider ed., Roma 1999,
soprattutto da pg. 145;
•
PAOLA ZANCANI MONTUORO, Sibari, Posidonia e lo Heraion, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, XIX
(1950), 65-84;
•
PAOLA ZANCANI MONTUORO – UMBERTO ZANOTTI BIANCO, Heraion alla foce del fiume Sele, vol. I-IV, Istituto
Poligrafico dello Stato, Roma 1951
Frequente la definizione di Italia nomen sacrum in quanto generatrice di comunità montane, pastorali ed agricole:
•
FR. ALTHEIM, Epochen der römischen Geschichte, Klostermann ed., Francoforte 1934;
•
EMILIO SERENI, Comunità rurali nell’Italia Antica, “L'Erma” di Bretschneider ed., Roma 1955
Altre indicazioni si possono reperire in:
- UBERTO PESTALOZZA, Religione mediterranea; vecchi e nuovi studi ordinati, a cura di Mario Untersteiner e Momolina
Marconi, Bocca ed., Milano 1952.
Pestalozza tornò sugli argomenti trattati nel 1952 con un nuovo contributo:
UBERTO PESTALOZZA, Nuovi saggi di religione mediterranea; con un’appendice di alcuni altri saggi, Sansoni ed., Firenze 1964
nel quale si trovano anche aggiornamenti al suo noto:
UBERTO PESTAALOZZA, Eterno Femminismo mediterraneo, Neri Pozza ed., Milano 1954.
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Inoltre:
L. BRENABÓ BREA, La Sicilia prima dei Greci, Il Saggiatore, Milano, 1958;
V. CHITI - R. LEONARDO - A. BIN, Mediterraneo. L’Europa alla riscoperta del suo cuore meridionale, Vallecchi Eed., Firenze,
1996,
S. MARCONI, Reti mediterranee. Le censurate matrici afro-mediorientali della nostra civiltà, Gamberetti ed., Roma, 2003
oltre al sempre indispensabile
DIODORO SICULO, Biblioteca storica. Libri I-VIII, Rusconi ed., Rimini, 1998 e Libri IX-XIII, Rusconi ed., Rimini, 1992 .
Negli usi e nelle tradizioni calabresi, sono frequenti i richiami alla donna, il suo ruolo nella società patriarcale, la condizione di
mamma, il legame coi figli, la sua funzione civile. Si veda per esempio:
CORRADIO ALVARO, Calabria, con una prefazione di Libero Bigiaretti
e il saggio di:
DOMENICO SCAROGLIO, Una profonda civiltà umana. Linee di un cataclisma, Qualecultura ed., Vibo V. 1990;
ROBIN LANE FOX, Eroi viaggiatori. I Greci e i loro miti nell’età di Omero, Einaudi ed., Torino 2010;
MICHELE FRANCIOSI, Dalla prima Italia alla Magna Grecia. Testimonianze antiche e moderne, Brenner ed., Cosenza 1990;
DOMENICO MINUTO, Tradizione. Opinioni sul costume calabrese, Città del Sole ed., Cosenza 2011;
W. BURKERT, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 1984
U. FABIETTI, Elementi di antropologia culturale, Mondadori ed., Milano 2004.
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J. SCHMIDT, Mitologia greca e romana, Roma 1989;
G. GIANNELLI, Culti e Miti della Magna Grecia, Firenze 1963
RUSSO A. 2006, Nereo, Scilla e le Sirene. Miti e viaggi per mare oltre l’Oceano, in AA.VV., Coralli segreti. Immagini e miti dal
mare in Oriente e in Occidente, Potenza 2006;
ALPHONSE DUPRONT, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi, Linguaggi e immagini, Bollati Boringhieri, Torino 1993
I Greci in Occidente. Santuari della Magna Grecia in Calabria, a cura di E. Lattanzi, M.T.Iannelli, S. Luppino, C. Sabbione, R.
Spadea, Catalogo della Mostra, Electa ed., Napoli 1996.
La città delle immagini. Religione e società nella Grecia antica, a cura di A. Pontrandolfo, Panini ed., Modena 1986.
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(Collection du Centre Jean Bérard, 15).
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Kaleidon ed., Reggio C. 2006
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EDWARD GIBBON, Declino e caduta dell’Impero Romano, Mondadori, Milano 1986
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Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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La Dea Artemide o “Diana Efesina” dalle "molte mammelle",
sorella gemella di Apollo e protettrice delle partorienti e della fertilità
Si venerava a Efeso in un maestoso tempio, una delle Sette Meraviglie del Mondo antico.
Dea santa Terra, genitrice delle cose della natura, che tutto generi e rigeneri nel giorno, che sola
proteggi le viscere delle genti, divina arbitra di cieli e mari e di tutte le cose, per la quale la
natura si acquieta e il sonno accoglie, ed anche la luce ricomincia e la notte fugge: tu le ombre
dell'Orco ricopri e la Discordia immensa e i venti e le piovose tempeste trattieni, e quando vuoi, le
lasci andare e inciti il gorgo e la fuga del Sole e le bufere scateni e lo stesso, quando desideri, ci
concedi un giorno sorridente.
Tu gli alimenti della vita doni in perpetua fiducia, e quando l'anima si allontana, in te ci
rifugiamo: perciò, qualsiasi cosa doni, in te tutto ritorna.
Con ragione ti chiamiamo Grande Madre degli Dei, perché in pietà vincesti i numi divini.
E tu veramente sei la genitrice degli Dei e delle genti.
Senza la quale niente può maturare né nascere.
Tu sei Grande, e tu sei la regina degli dèi, oh divina.
Te, dea, io adoro, e il tuo nume io invoco, e indulgente garantiscimi ciò che ti richiedo; e affido
grato a te, Dea, meritata fiducia.
Esaudiscimi, ti prego, e favorisci i miei propositi; ciò che io ti chiedo, Dea, tu voglia
garantirmelo.
Le erbe, qualunque genera la maestà tua, per causa salutare affida a tutte le genti: questo, ora, mi
permetta la tua medicina.
Venga la medicina con le tue virtù: qualunque cosa ci faccia, che abbia un buon evento, e lo
stesso a chiunque la darò, e lo stesso a chiunque da me la accetterà, mantienili sani. Infine ora,
Dea, questo mi garantisca la tua maestà, ciò che io, supplice, ti richiedo…
(cfr.: ANTIPARTO DI SIDONE, Epigrammi, in The Greeck Anthology, vol. III – The “Epigrammi”
Cyzicene” – Harvard University Press, 1916, IX.58 sgg.; scrissero sulle Sette Meraviglie anche Strabone
ed Erodoto, oltre a Diodoro di Sicilia).
Le Sette Meraviglie furono:
1.
La Grande Piramide di Giza o Piramide di Cheope, all’epoca ancora rivestita del suo
intonaco bianco splendente, con la chiave di volta, in alto, dorata e le costruzioni laterali che
conducevano al porto;
2.
I Giardini Pensili di Babilonia (ma la meraviglia, in questo caso, fu il grandioso sistema che
consentì di fare giungere fin sulle altissime mura della Città, l’acqua del fondo valle);
3.
Il Mausoleo di Alicarnasso, vero inno all’amore eterno. Fu distrutto dai Crociati perché
utilizzato come cava di pietra da costruzioni fortificate!
4.
Il Faro di Alessandria, i cui resti parziali sono ancora oggi sui fondali esterni del porto;
5.
La statua di Giove a Olimpia, Ritenuto da tutti il capolavoro assoluta dell’arte scultorea;
6.
Il Tempio di Artemide a Efeso, che era immenso e tuttavia architettonicamente armonico;
7.
Il Colosso di Rodi, fuso in bronzo e con l’interno cavo. Fu distrutto da un terremoto
potentissimo e se ne sono perse le tracce.
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1.2.2) Bagnara e la questione del Matriarcato
…da queste parti l’uomo fa sì che la donna si renda conto
subito che il suo posto è un gradino al disotto di lui. In tutte
le allegre tavolate cui ho assistito non c’erano donne. Il loro
compito è di occuparsi delle faccende domestiche. Solo
rarissimamente vengono utilizzate nei lavori sui campi.
Quando una donna torna a casa col marito, ella lo segue
carica come una bestia da soma, mentre lui se ne viene
trotterellando, tutto impettito sul suo asino..
J.H.BARTELS, Lettere dalla Calabria e dalla Sicilia,
Gottinga 1787 (ora Lettere sulla Calabria, a cura di Teodoro
Scamardi, Rubbettino ed., Soveria M. 2007)
a.- Premessa
Se dunque il Matriarcato antico si configurò nelle realtà locali come specifiche responsabilità assegnate alla
donna e da ella gestite in forma autonoma, e non come potere di governo sociale-politico, sarà mai possibile che esso
abbia trovato spazio d’azione nell’era moderna?
Ho annotato che lo sviluppo sociale ed economico ha accentuato la differenza di sesso e accetto anch’io la definizione
dell’uomo che nel suo inconscio, teme la donna: l’uomo che «ha una paura atavica della donna» e, sempre come
inconscio, si comporta di conseguenza.
Che questa asserzione sia asseverata, lo dimostrano le azioni che vengono oggi attuate per promuovere la parità di
sesso.
L’uomo non accetta il concetto di eguaglianza morale-sessuale con la donna perché i fattori di dominio domestico e
sociale, devono a lui fare riferimento.
La donna dunque, è costretta nel continuo a “rivendicare” non tanto l’eguaglianza di sesso, quanto addirittura il
riconoscimento del diritto a essere presente nelle organizzazioni che regolano la vita sociale.
La “legge” che «impone» che quote rosa, è da questo punto di vista si una vittoria della donna, ma una triste vittoria
perché la valorizzazione della donna è imposta da una legge e non generata dalla intima convinzione, dalla
consapevolezza dell’uomo di essere moralmente uguale alla donna.
Il «femminismo» con le sue diramazioni, non è dunque un movimento di emancipazione/liberazione, quanto una
denuncia della donna verso la condizione di sottomessa o di emarginata, condizione che perdura oltre e malgrado le
leggi di parità.
In questo senso, mi colloco fra coloro che si dichiarano contrari – in linea di principio - alle quote rosa, provvedimento
14
che intendo come misura protettiva, che colloca inevitabilmente chi ne beneficia, in una condizione di debolezza.
L’emancipazione della donna non deve passare per imposizione di una legge, deve autogenerarsi nella Società
attraverso un processo di rinnovamento del concetto di umanità. Ma esso non può essere imposto per legge, perché
comunque sia, non verrebbe sentito e partecipato dall’uomo, deve essere invece convintamente sentito e, come tale,
scomparire fra le cose ovvie e naturali! E come quasi sempre, quest’opera di rinnovamento non può iniziare che nelle
scuole della prima infanzia.
Perché? Perché l’introduzione del divorzio, la decriminalizzazione dell’aborto, il nuovo Codice di Famiglia, la
cancellazione dell’omicidio classificabile come “motivo d’onore”, la ricollocazione della violenza sessuale nell’elenco dei
delitti contro la persona, «adeguano» gli status ai tempi, ma la resistenza nella difesa della “cultura arcaica della virilità”
sta oggi rimontando, così come la conquista maschile della donna intesa come trofeo. Una buona parte di questa
anomalia, è mantenuta viva dai mezzi di comunicazione di massa che “distinguono” (trattano diversamente) fatti che
hanno protagonisti gli uomini, da quelli che vedono protagoniste le donne. Fateci caso!
Questa sottolineatura allarga il concetto di vera “emancipazione della donna” fino a farlo confluire in quello più ampio di
emancipazione della Terra, la “religiosità ecologica” nel senso più ampio possibile:
“Le donne devono rendersi conto che per loro non ci può essere liberazione né ci può essere soluzione alla crisi ecologica
all’interno di una società il cui modello fondamentale di relazioni è quello del dominio. Esse devono unire le rivendicazioni del
movimento femminile con quelle del movimento ambientalista per proporre una radicale riorganizzazione delle relazioni
socioeconomiche fondamentali e rivedere i valori della moderna società industriale…”
(RADFORD R RUETHER, Symbolic and Social Connections of the Oppression of Women and the Domination of Nature, in C.J. ADAMS,
Ecofeminism and the Sacred, Continuum, New York 1993). 15
Dunque riappare, oggi, la visione della Donna quale simbolo della Terra-Madre, protettiva e generatrice di vita? Riappare
all’interno del vasto problema ecologico-conservativo che interessa il nostro pianeta? Ebbene: (Confessioni religiose
permettendo) riappare per adesso in modo periferico, fino al momento in cui diverrà, con certezza quasi assoluta, il suo
16
elemento principale.
14 - Cfr.: ISABELLA TONDO, Quote rosa e cultura. Intervista a Eva Cantarella sulle donne all’Università, Meno di Zero, Rivista dell’Università in
Movimento (13/IX/2012);
si veda anche: EVA CANTARELLA, Le donne e la città. Per una storia della condizione femminile, New Press ed., Como 1985;
E.CANTARELLA-GIULIO GUIDORIZZI, Agorà, Einaudi ed., Torino 2007 e Polis. Società e Storia, Einaudi ed., Torino 2010.
15 - Ho estrapolato il concetto da: BRUNA BIANCHI, Ecofemminismo: il pensiero, i dibattiti, le prospettive. Ora in: “D.E.P. – Deportate, esuli,
profughe”. Rivista telematica di Studi sulla memoria femminile (a cura di Annalisa Zabonati), Università Cà Foscari, Venezia Luglio 2012, pg. II.
16 - RADFORD R RUETHER, Gaia e Dio: una teologia femminista per la guarigione della terra, Queriniana ed., Brescia 1995, da p. 204.
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b.- Bagnara nel sec. XVII: Problemi di comportamento economico e Matriarcato
All’interno di questo scenario complessivo (ripeto) forzatamente sintetizzato, quale dunque il concetto di
Matriarcato a Bagnara?
A mio avviso si deve applicare alla realtà dal XVII al XIX secolo di Bagnara, la definizione di Engels sul ruolo della donna
nella Società: la divisione del lavoro fra uomo e donna fu un dato assodato e frequentemente la mole del lavoro
femminile fu superiore a quella che l’uomo s’addossò. Ma questa divisione del lavoro non fu condizionata dalla posizione
della donna nella Società. L’uomo conservò una posizione “virile”, prevalente e tuttavia la considerazione che egli riservò
17
alla donna, fu sentitissima, certamente ben più profonda che quella che la Civiltà Moderna le riserva.
Ed è appunto con questa asserzione iniziale che si deve introdurre il tema del Matriarcato a Bagnara.
Il prodotto delle rasole bagnaresi durante tutto il secolo XVI e XVII fu abbondante. Il lavoro attuato da generazioni di
contadini, aveva creato un imponente apparato di rasole lungo i versanti della Costera e perfino sui burroni a picco verso
l’abisso.
I trasporti utilizzarono la salita delle rasole verso l’altopiano del Sant’Elia e la collina di Ceramida, oppure la discesa
verso il mare per il carico sulle paranze da trasporto. Vi fu anche un tracciato orizzontale a metà costa che finiva al
Malopasso.
I collegamenti logistici, come noto, furono in mano alla Bagnarote e in questa maniera il prodotto poté essere
concentrato in Paese nella stessa mattinata.
Si trattò di un raccolto abbondantissimo e variegato: finocchi, insalata, pomodori, zucchine, fichi d’india, uva, fichi, altri
ortaggi (basilicò e prezzemolo) e frutta di ogni tipo.
Nelle mezze stagioni, carciofi, zibibbo, carote (e fustunaci), costine e “erba ‘i macera”, broccoli, ecc.
Vi era poi l’attività legata al baco da seta (commerciato prevalentemente in contrabbando) e la pesca soprattutto
stagionale: tonni, alalunghe, costardelle e pesce-spada.
Il problema che incentivò i fattori di produzione, fu il collocamento del prodotto, considerando l’isolamento naturale del
Paese colla conseguente difficoltà a raggiungere i mercati di sbocco dell’Altopiano e della Piana.
La produzione fu a Bagnara, a costi molto alti. Coltivare le rasole fu mestiere:
•
•
•
Difficoltoso – per via della non agevole posizione dei terrazzamenti
Specialistico – occorse una notevole esperienza e maestria per mettere a coltura i terrazzamenti
Disaggregato – i collegamenti fra i luoghi di produzione (le rasole) e i centri di raccolta in Paese, furono difficilissimi e
praticamente solo possibili col trasporto “a sangue”, non potendosi utilizzare carriaggi.
Un costo di produzione altissimo, non consentì di collocare il prodotto sul Mercato a prezzi competitivi rispetto a eguale
offerta proveniente dalla Piana o dall’Altopiano, con strade meglio percorribili, sistemi di messa a dimora semplificati e
disponibilità di mano d’opera.
L’offerta di prodotti del sistema bagnarese, superò peraltro, quella nei paesi viciniori, perché la coltura dell’Altopiano era
dedicata all’ulivo e ai cereali e quella della Piana, oltre l’ulivo, si incentrò sugli agrumi con veri e propri boschi (labirinti).
Tre dunque i problemi che occorse superare per innescare la commercializzazione del sovrappiù bagnarese:
•
•
•
Azzerare la distanza con le difficoltà geografiche insite;
Agire “in tempo reale” sul Mercato di sbocco: cioè la qualità del prodotto doveva risultare “fresca” come quella della
concorrenza;
Offrire il prodotto a prezzi competitivi.
Le leve potevano attuarsi se:
•
•
•
La distanza fosse stata coperta a “costo zero”;
Si fosse utilizzata una logistica “diretta”, dal produttore al consumatore, senza intermediari
Il prodotto provenisse dalla stessa fonte: cioè lo stesso produttore fosse il venditore. Ciò significava che “una famiglia” si
dovesse interessare in toto della produzione e della commercializzazione della merce.
Furono circostanze riscontrabili un po’ ovunque il Calabria nell’attività della piccola proprietà. Ma il caso di Bagnara
fu particolare proprio per il problema dell’«azzeramento» logistico che consentisse di eliminare l’handicap del mancato
«tempo reale».
Queste circostanze innescarono un fenomeno che potrà considerarsi unico in Calabria e anticipazione di quanto
avverrà altrove solo dalla metà dell’Ottocento in avanti:
•
la divisione del lavoro …
•
… all’interno di una unità produttiva …
•
… strutturata per centri di responsabilità.
Fu da queste circostanze che nacque la figura della BAGNAROTA, erede di una tradizione di donne gagliarde, rotte al
sacrificio, insensibili al dolore fisico, votate al lavoro quasi in modo maniacale, inattaccabili fisicamente e
caratterialmente.
Questa Bagnarota che nella sostanza nacque dopo Lepanto, operò all’interno di un’azienda complessa.
L’attività di produzione sulle rasole non conosceva soste stagionali, fra le azioni di dissodamento, seminagione, potatura,
irrigazione, raccolta e conservazione. Vi era poi il mantenimento delle rasole: consolidamento, riparazione,
manutenzione ordinaria, ristrutturazione (nuovi pali e paloni, nuovi gradini ecc.).
17 - F.ENGELS, L’origine …, prefazione …cit.
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Lo stesso avvenne per l’attività marinara: stazionamento sul mare, manutenzione delle barche, ordinaria e straordinaria,
manutenzione delle reti e delle fiocine, trasporto del legname.
Non si potè dunque pensare a un abbinamento delle attività di produzione e commercializzazione.
Nacque allora una vera e propria “azienda” familiare, orientata non sul profitto tout-court, quanto sulla soddisfazione della
domanda.
Come dire che il profitto derivava non dalla massimizzazione dei guadagni, per esempio attuando una politica di prezzi
ribassata, ma dal consenso della domanda.
Il profitto dunque fu “una conseguenza” del buon lavoro svolto, garantito dalla qualità del prodotto offerto.
I contadini e i pescatori di Bagnara si gettarono anima e corpo per conseguire il primo risultato: un prodotto di qualità,
ricavato da un ambiente geografico difficile da governare ma genuino.
Restava il problema della logistica e della commercializzazione. Un’attività che le Bagnarote già sviluppavano fin dalle
origini della Bagnara. Solo che, adesso, fu l’intera responsabilità di questa gestione che ricadde sulle loro spalle.
In chiave moderna, diremmo che:
-
-
-
si crea un’azienda familiare
 coesa ed omogenea
 che ha come obiettivo la produzione e la distribuzione del prodotto;
l’azienda si costituisce con un, diciamo, consiglio di amministrazione
 formato da marito e moglie
 che studiano le strategie e determinano le azioni produttive e commerciali da attuare;
l’azienda opera per centri di responsabilità:
 il marito è responsabile della produzione (e noi abbiamo annotato con quali difficoltà!);
 la Bagnarota è responsabile del trasporto e della commercializzazione.
Vi prego di notare la particolarità perché è davvero importante: la Bagnarota operò su una SUA produzione, cioè un
prodotto che proveniva dall’attività SUA E DELLA SUA FAMIGLIA.
Questa fu la vera particolarità che distinse la Bagnarota dalle altre donne calabresi. Stessa fatica, stesso spirito votato al
lavoro, stesso carattere volitivo, ma differente la “mission”:
•
•
la Bagnarota operò su beni che provenivano dalla sua sfera produttiva
le altre Donne di Calabria, prevalentemente trasportarono o lavorarono per conto altrui.
Dunque un’attività economica a “ciclo continuo chiuso” che consentì alla Bagnarota di conservare una preminenza
commerciale inalterata nel tempo, garantendo forniture anche durante terremoti e calamità.
L’azienda familiare operò in questi frangenti in modo continuo e non è dunque paradossale affermare che la natalità a
Bagnara aumentò proprio mentre la fase congiunturale raggiunse il massimo della crisi. I figli furono “cercati” per il
bisogno di braccia che consentissero il mantenimento dei cicli produttivi e la sostituzione dei figli maggiori in età
matrimoniale o in partenza sotto una leva militare o dei genitori anziani, con nuove forze da esperenziare.
La Bagnarota insomma, cavalcò la crisi a dimostrazione che è vero che in Calabria mancò il nesso:
attività di produzione  attività di trasformazione
Quest’ultima componente ove si riscontrò, fu comunque insignificante e determinò il perpetuarsi della crisi economica
calabrese nel tempo.
La nomea che si fecero queste Bagnarote imprenditrici, fu generalizzata in tutta la Calabria meridionale:
i Bagnarote si cangiaru a San Petru chi patati. 18
È allora errato identificare nel XVII secolo, come una Matriarca che governò in modo virile
(cioè in sostituzione del maschio) i destini della sua famiglia, una Bagnarota che invece si
divise il lavoro familiare col marito sopperendo in tale maniera alla penalizzante situazione
geografica della Città.
18 - Bibliografia e approfondimenti in: TITO PUNTILLO-ENZO BARILA’, Civiltà dello Stretto, cit., da pg. 99.
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c.- Bagnara nella congiuntura calabrese all’inizio del sec. XVIII: Matriarcato o sussistenza?
Verso la fine del XVII secolo, anche la Bagnarota fu fermata dalla furia della natura e dalla malvagità della gente.
La Bagnarota risentì dunque della grave e lunga fase congiunturale dovuta ai cordoni sanitari anti epidemici e alla
diminuzione della domanda proveniente dall’Altopiano. Vi si associò proporzionalmente la diminuzione del raccolto, per
via della carestia che imperversò sul Canale.
Maria Carbone, moglie di Padron Placido Foti e Natuzza Foti, loro figlia legittima e naturale, moglie di Antonio Romano di
Giovanni, tutti della Città di Bagnara (…) espongono all’Ill.ma qualmente trovandosi P.n Placido Foti e Antonio Romano loro
Mariti respectivé depressi da molti debiti, per li quali si trovano da molto tempo carcerati, et in conseguenza essi, poveri supp.ti
con molti altri figli in grandissima miseria, per cause che vien proibito a detti loro mariti di poter travagliare e sostenere come
facevano in passato le s.te s.ti e le loro povere famiglie (…) vendono una casa dotale con la sua pergola sita in Bagnara contrada
San Tommaso, stimata per ducati 130 a mastro Santo Barbara per Ducati 123 e un carlino (…)
3 settembre, 1710
Albina Zuco della Città di Bagnara, moglie di Giacomo Palumbo supplicando espone di havere et possedere come vera porzione
di propria dote un punteggio di terra in contrada Pellegrina, stimato per ducati 11 e perché per raggion della sua notoria povertà
havendo il marito in età decrepita, vivono di elemosina e si vedono morir di fame (…)
3 settembre 1710
Nuzza Rocco vedova di Mercurio Zuco della Città di Bagnara, supplicando espone di havere tenere et possedere un pezzo di
terra inculta, sita in contrada Pellegrina stimata per il prezzo di ducati 12 e mezzo, e perché non percependo nessuno guadagno et
inutile a sovvenire alla sua notoria povertà campando di elemosina, cò suoi molti figli poveri che si vedono morir di fame in
questi calamitosi tempi, desidera vendere (…)
3 settembre 1710
Sara Savoja della Città di Bagnara supplicando dichiara di havere tenere e possidere un punteggio di terreno inculto (…) stimato
per il prezzo di ducati 8, volendo vendere et alienare per sua estrema necessità, vedendosi mori di fame in questi tempi calamitosi
cò suo marito e sua famiglia essendo notoria la sua povertà (…)
3 settembre 1710
Agostina Barbaro, moglie di Giacomo de Rosa, possiede una terza porzione di casa solarata consistente in mezzo catojo e metà
del mezzo solaro sita e posta in detta Città di Bagnara in contrada Caravilla, con il censo perpetuo di annui carlini quattro e grana
quattro; per causa del fondo di debiti alla Corte ducale di detta Città ed anche col peso di censo di annui carlini otto e grana tre e
un terzo per capitale di docati 25 dovuti al Venerabile Convento di San Domenico, vende con il consenso, l’assenso e il
beneplacito del marito Giacomo, al Signor Vincenzo Sciplino per ducati 62 e mezzo. La casa viene stimata da mastro Giuseppe
Veneziano e mastro Nicola Lombardo (…)
24 febbraio 1721
(…) Agostina Calabrò della Città di Bagnara, toglie il debito di docati dieci che aveva contratto suo marito con la Cappella e
Congregazione del SS. Crocifisso (…)
22 gennaio, 1720. 19
Notate: Bagnarote in primo piano che cercarono di superare la terribile crisi cedendo alla fine, ciò che possedevano di
più perezioso e quasi sempre unico bene, pur di sostenere la famiglia. E i compratori furono di alto livello, tutti della
classe emergente, in caccia di terreni e case.
Ma fu una crisi che alla fini si riuscì a gerstire.
Messina, è vero, era in preda a lotte fra consorterie per il controllo della Città, con sommosse che durarono fino al 1721
e infine la Città fu attaccata dagli spagnoli e severamente punita.
Queste circostanze frenarono il tasso di crescita macroeconomico dell’entroterra e del Marchesato, e interessarono solo
marginalmente i paesi anseatici del Canale, a cominciare da Monteleone e fino alla Fossa di San Giovanni.
Usufruendo delle aperture contenute nella politica economica del Viceregno e poi dei ministri illuministi di Don Carlos, il
Canale si mantenne fuori dal centro della crisi politica e gestì quella economica con sacrifici e coraggio. L’attività dei
mercanti genovesi e fiorentini in questo senso, aumentò e aiutò il recupero dell’Area.
Scilla continuò a detenere il quasi monopolio sui commerci fra il Jonio e l’Adriatico settentrionale. I felucari scillesi, ai
quali s’affiancarono felucari bagnaroti ancorché in misura minore, trasportavano lungo le rotte fra Gallipoli, Ancona,
Venezia e Trieste, con puntate frequenti fra le isole dalmate.
La Fossa di San Giovanni produceva radica di qualità, e nel circondario, si dissodavano per la sistemazione a “giardino”,
molti campi prima abbandonati.
A Bagnara l’economia subì un’accelerazione straordinaria. La crisi di Messina e le difficoltà dell’Altopiano a
diversificare la produzione agricola, fecero aumentare la domanda di derrate fresche e di alimenti conservati, oltre ai
manufatti dell’artigianato.
La Bagnarota dunque, come fattore indispensabile per lo scambio di secondo livello (i rapporti con i piccoli proprietari, i
negozianti, i mastri di bottega e la vendita porta a porta). L’attività non contrastava col grande commercio dei Mercanti
per cui la Bagnarota poté operare liberamente sui traffici con l’Altopiano e Messina. Il trasporto su Messina avvenne con
“speronare”, barche a sei remi e due vele di supporto e in molti casi furono le stesse Bagnarote a governare le
speronare, costeggiando verso Scilla e da qui, secondo il flusso delle correnti del Canale, sul Faro o direttamente sul
Porto siciliano.
19 - Per il rimando bibliografico, cfr.: TITO PUNTILLO-ENZO BARILA’, Civiltà …, cit., pg. 172.
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A questa intensa attività, s’aggiunse lo sviluppo di quelle intorno alla lavorazione del legno e segnatamente la
cantieristica, l’esportazione di semilavorati e l’attrezzatura di supporto per la manutenzione e il governo delle rasole,
garantita dal lavoro maschile.
La Bagnarota di questo periodo dunque, fu sempre più un elemento portante dell’attività economica della Cittadina e
questa attività divenne talmente febbrile che tutti i comportamenti cominciano a tendere verso un processo di
razionalizzazione, guidato dal lavoro maschile: presto e bene.
(…)Die decima Septima Mensis Januarii, Septime Indictionis, Millesimo Septigentesimo Quadragesimo Quarto (17.1.1744), in Civitate
balneariae, Regnantes.
Nella nostra presenza personalmente costituti Padron Antonio Polejo con alcuni suoi marinari di detta Città, agente e interveniente alle cose
infrascritte per sé e suoi Eredi e Successori, dall’una parte, e Padron Fabrizio Cardone dell’anzidetta Città, agente parimente ed interveniente alle
cose infrascritte per sé e suoi Eredi e Successori dall’altra parte.
Asseriscono esse parti verter tra di loro alcune differenze per raggion di conto, che il suddetto Cardone deve dare a P.n Antonio Polejo e suoi
marinari, ed avendono considerato che il dedurre le scambievoli prestazioni alla Corte potrebbe loro cagionarvi dispendj ed interessi oltre li
rancori che dagli liti sogliono nascere, fidati perciò della fede, prudenza ed integrità dei Dottori Sig. Don Francesco Sciplini e Sig. Don Vincenzo
Maria Parisio, questi hanno eletti sincome per il presente atto eliggono per loro Arbitri, Arbitratori ed amichevoli compositori, colla facoltà di
conoscere de jure e de facto le di loro differenze e quelle determinare, venendo, abulando in qualsivoglia maniera loro piacesse, etiam sine figura
judicis summariae, et de plano, sola facti naturali inspecta.
E promettono alla loro determinazione stare ed acquietarsi senza potersi da quella riclamare proporre rimedio di nullità etiam col loro giuramento
(…) 20
Come si nota, l’influenza “determinate” sulle cose della Città, restò sempre in mano maschile,.
20 - L’atto notarile del 1744 è del Notaio Vincenzo Sofio e precede di poco la nota controversia fra Clero e Domenicani a Bagnara. Per tutto,
compresa l’ampia bibliografia, vedi T.PUNTILLO-E.BARILA’, Civiltà…, cit., pg. 164 sgg.
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d.- Bagnara e la crisi della Classe Dirigente: Bagnarota, lavoro «comunitario» e “conquiste” di territorio.
La lunga congiuntura, che fu gestita in modo eccellente dal piccolo commercio (o di “secondolivello”), rese
invece a Bagnara precarie le grandi attività commerciali e questa circostanza stava provocando l’acuirsi delle rivalità fra
consorterie, con danni sulla produttività e il governo delle colture messe a dimora.
Soprattutto l’attività della seta a Bagnara cominciò a soffrire di questo inizio di disorganizzazione, di mancata
collaborazione fra produttori. I bachi vennero riposti in stanze anguste, alcune ne erano stracolmi e, non bastando,
occuparono parte delle abitazioni private. La mancata aereazione fece poi esalare un odore nauseabondo al quale i
Bagnaroti si dovettero abituare ben. Il “Secondo Strato” sociale di Bagnara invece, continuò a sostenere l’economia di
base: la filiera diretta produttore-consumatore, attraverso il lavoro dei contadini da una parte e la responsabile attività
commerciale delle Bagnarote.
La domanda di derrate alimentari fresche provenienti dall’orto e dal giardino, unitamente a pesce fresco, uva e agrumi, fu
sempre sostenuta e l’Altopiano fu ancora più ricettivo di prima. Infatti le campagne si stavano sistemando ormai quasi
tutte a ulivo, e così avveniva anche sulla Piana, soprattutto attorno a Gioja, ove peraltro si piantarono ulivi ma poi, non
curati, crebbero allo stato naturale, creando da lì a poco dei veri e propri boschi, dei quali ancora oggi v’è traccia.
Dunque il raccolto di vigne, giardini e rasole, fu richiesto nel circondario e anche a
CICIRINELLA
Messina, dopo che la Città riprese il cammino di ottimizzazione delle attività lavorative.
Cicirinella aviva nu cani
Dunque la Bagnarota della seconda metà del Settecento si organizzò attuando un
Azzannava ‘i Cristiani
lavoro
“pianificato” per recuperare efficienza nella logistica e smaltire così il prodotto
Muzzicava i fimmini belli
presto e bene. La produttività insomma, raggiunse livelli eccellenti.
Era u cani i Cicirinella
Il trasporto avveniva a mezzo di larghe ceste portate in equilibrio sul capo. Le
Bagnarote più robuste portavano anche un ampio lenzuolo di arbascio entro il quale si
metteva la minutaglia (limoni, mandarini, zinzuli, luppino, ecc.) che poi si legava a mò di
sacco da portare a braccio o a mò di bisacciera.
Le Bagnarote in genere raggiungevano la Livara ove si formavano le squadre. Le più giovani si avviavano veloci
raggiungendo in sequenza i diversi punti di riferimento lungo la strada sterrata che conduceva all’Altopiano della Corona
ed era seguita dal grosso della carovana, formata dalle Matriarche con i carichi più pesanti e di valore. Alla retroguardia
stavano Bagnarote con carichi più leggeri. I gruppi si distanziavano “alla voce” in modo da soccorrersi a vicenda in caso
di aggressioni. Ma lungo la storia dal Seicento all’Ottocento, non si conobbero casi di attacco alle Bagnarote da parte di
briganti che, pure, stavano ai passi e nel Grande Bosco di Solano. Si consideri che i viaggiatori che attraversarono quel
tratto della Bassa Calabria, si dotarono a Palmi di scorta armata e di un pilota, per evitare l’assalto dei briganti. 21
Raggiunto l’Altopiano dopo Pellegrina, la carovana si divideva secondo le mete: Palmi, Sinopoli Sant’Eufemia e
Aspromonte Centrale, Solano e Aspromonte Meridionale.
I trasporti erano in genere così distribuiti:
ADA FONZI, il fratello del littorio,
Bollati Boringhieri, Torino 1990, pg. 20.
-
Colonna d’avanguardia: giovani Bagnarote molto veloci. Frutta e verdura fresca, legumi, ortaggi.
Colonna centrale: possenti Matriarche. Pesce fresco e conservato. Frutta e Verdura fresca, legumi, prodotti artigianali,
minutaglie.
Colonna di retroguardia: Bagnarote anziane. Frutta e Verdura fresca, ortaggi.
Le Bagnarote erano armate. Sotto le saje ondulate portavano la fondina che ospitava un lunghissimo coltello affilato e si
sostenevano nell’incedere con un bastone lungo quanto la loro altezza, bastone che sapevano adoperare con incredibile
maestria.
Erano le Matriarche le più temibili perché operavano la difesa a quadrato entro il quale stavano le altre (le giovani e le
anziane) pronte alla successiva difesa. Il quadrato di difesa era dunque un pullulare di roteanti bastoni e luccicanti
coltellacci, mentre da esso proveniva un unico, spaventoso urlo di guerra e rabbia, fra il digrignare di denti e sguardi di
inaudita ferocia.
C’era praticamente nessuno in grado di batterle.
Ma quando raggiungevano i mercati di sbocco e trattavano davanti all’uscio
delle abitazioni la vendita del prodotto, divenivano disponibili e gentili,
conservando, a detta di testimoni nel tempo, austerità e un cipiglio che le
altre donne calabresi non possedevano; era il retaggio della Bagnarota
dello “splendido isolamento”.
Una differenziazione va evidenziata.
Le Bagnarote “della Montagna” di questo periodo operavano “in
cooperativa”, nel senso che il trasporto spesso era “comunitario” e si
provvedeva successivamente a ripartire le competenze.
Fu così anche per le Bagnarote “della Marina”, cioè quelle che seguivano i
percorsi della riviera verso Scilla ove si concentravano le merci da
traghettare e infine le Bagnarote che si organizzavano in equipaggi per
governare le speronare che salpando da Bagnara, prendevano da lì la rotta
Modello di Speronara
per Messina.
Una osservazione: il commercio di primo livello mai si pose il problema dell’espansione verso l’interno, per
ragioni logistiche (mancanza di strade rotabili) e di business. In effetti la capacità di acquisto degli operatori
dell’Altopiano, non fu considerata bastante. Il tutto ad esclusione della seta, che ebbe a Seminara ancora il suo punto di
raccordo per le destinazioni continentali.
21- TITO PUNTILLO, Donne di Bagnara, L’Obiettivo, a.IX (1985) nr. 64.
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Chi ebbe capacità e opportunità per emergere, non potè che seguire i canali già aperti e consentiti dai
collegamenti con Reggio e Messina o con i trasporti mercantili delle rotte con Napoli, Genova, Marsiglia.
Si perpetuò infine, l’isolamento fra le comunità della Bassa Calabria. Non vi fu sintonia fra le comunità; ognuna viveva
per proprio conto, senza cercare di amalgamare gli interessi comuni, unire gli sforzi, darsi maggior capacità produttiva e
aumentare i valori di scambio.
Sulla marina, Bagnara, Monteleone, Scilla, Palmi, migliorarono le condizioni e dunque i livelli di lavoro e reddito. Su
queste località si espresse una nuova classe di mercanti attorno ai quali si coagulò lo svilupo di un commercio
specializzato, quasi “di nicchia”, facendo funzionare, per effetto riflesso, le strutture comuni.
Ma questa positiva lievitazione dell’economia locale, sembrò arrestarsi quando la mancanza di potenziamento e
miglioramento dei fattori di produzione nei mercati calabresi e la mancata ricerca di nuovi mercati di sbocco, iniziò a
saturare il macro-rapporto domanda-offerta.
Per Bagnara allora, l’espansione verso l’interno tornò ad essere l’unica opportunità positiva.
Ecco perché l’attività delle Bagnarote continuò febbrile, garantendo che la produzione di qualità portata avanti dai
contadini, giungesse ai consumatori dell’Altopiano, di Reggio, Messina e la riviera fino a oltre Tropea, trasformando i loro
bisogni secondari in bisogni primari e come tali, assolutamente necessari.
Peggiorarono però, come già notato, i rapporti sociali fra gli abitanti di Bagnara, per effetto della incipiente
saturazione delle capacità economiche espresse dalle singole componenti del commercio di primo livello e l’avanzare di
artieri, padron di barca, piccoli proprietari-produttori, per i quali s’aprirono nuovi spazi di opportunità al seguito delle
attività produttive gestite dal commercio di secondo livello.
La Bagnarota consolidò ancora le posizioni già favorevoli, presenti nella dinamica commerciale del Canale, protetta da
una forza desunta dell’indipendenza assoluta della propria sfera di attività. La Bagnarota del Settecento erede delle
grandi Bagnarote dell’epoca del Priorato e anche prima, commercializzava adesso ciò che la famiglia produceva, in un
ambiente strutturato come una piccola azienda divisa in Reparti o meglio in Centri di Responsabilità:
-
la Produzione, la Manutenzione (gestiti dal marito e ai figli maschi),
il Trasporto e la Commercializzazione (gestiti dalla Bagnarota),
nell’ambito, ripeto, di un’unica unità produttiva. E per rafforzare le posizioni e rendere efficace il già efficiente sistema
logistico-commerciale, si consorziava con l’obbiettivo di diversificare l’offerta e quindi la presenza anche nella lontana
periferia delle zone d’influenza.
Una donna manager dunque in pieno Settecento e nel cuore della Bassa Calabria.
Un fulgore che raggiunse il massimo all’inizio degli Anni Ottanta del Secolo.
Ma ancora una volta la rappresentazione di questo tipo di Bagnarota è ben lontano, lo avrete notato, dal
concetto di Matriarcato inteso come potere dominante che tra l’altro, proprio in questa fase storica, vide gli esponenti
delle Congreghe, gli Eletti col Sindaco in testa, il Duca e il suo corteggio, i Magnifici, gli emergenti, in prima linea nella
22
gestione delle sorti della Città e i rapporti, i difficili rapporti, con i centri vicini e Reggio.
22 - Su questi aspetti cfr.: T.PUNTILLO-E.BARILÀ, Civiltà dello Stretto …, cit., passim.
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e).- Il 1783 e il declino del commercio bagnarese verso l’Altopiano
Dal 5 febbraio 1783, il Grande Terremoto cominciò a cancellare la realtà magica del Canale, le sue espressioni
e manifestazioni.
Il tessuto sociale ed economico entro il quale la Bagnarota si muoveva certa e sicura, fu annientato, in molte particolarità
per sempre.
Morirono quasi tutti i mastri e i lavoranti che operavano nelle piccole botteghe del quartiere e le poche donne,
quasi tutte anziane, che stavano nelle abitazioni.
Notevole la percentuale di decessi anche fra i contadini, soprattutto i rasolari, sepolti dalle imponenti frane di Cocuzzo,
Malarosa, Sirena e la lunga Costiera fin sotto Palmi.
La ricostruzione iniziò fra notevoli difficoltà.
Le frane delle abitazioni crollate l’una sopra l’altra fra strettissime viuzze a Purello, resero impossibile raggiungere le
migliaia di morti
Si salvarono solo le Bagnarote che stavano in giro a commerciare e quelle che si trovavano in campagna, ai Piani della
Corona.
I danni alla struttura agricola furono rilevanti, aggravati dal disseccamento di molti corsi d’acqua.
Dopo tre anni da quell’evento, le condizioni della Cittadina continuavano ad essere infelici. Il 16 Ottobre 1786 il “dottor
fisico” Don Saro Messina-Spina convocò un Parlamento Generale nel quale espose al popolo bagnarese superstite, le
«condizioni infelici» dell’Università e portò a conoscenza di tutti come egli, appoggiato dai “magnifici” e dai
“galantuomini” di Bagnara, era ricorso invano presso il Maresciallo di Campo Principe Francesco Pignatelli, Vicario
Generale del Re per le Calabrie, onde ottenere il ripristino della Gabella del Guadagno e che s’era a mala pena riusciti
ad ottenere un piccolo prestito dalla Cassa Sacra e l’imposizione di una Gabella del Minuto per sopperire ai pesi forzosi
23
dell’Università da esigersi nella immissione e né soli passi.
Purtroppo la situazione non migliorò com’era nelle previsioni, perché l’intero sistema agricolo bagnarese era
praticamente franato e i rasolari riuscivano a rimettere a dimora poche colture, anche per la mancanza d’acqua, perché
la rete idrica praticamente non esisteva più.
Un’economia paralizzata dunque, e la circostanza coinvolse anche i grandi mercanti e possidenti, perché i flussi
provenienti dall’Altopiano erano drasticamente diminuiti.
Quello che si stava verificando, fu l’irrigidimento nel comportamento delle persone.
Si andavano rarefacendo le manifestazioni di giubilo, le feste laiche, perfino i giochi dei fanciulli sulle strade. Il
comportamento stava divenendo asciutto, essenziale, privo di particolari non necessari e soprattutto la dedizione al
lavoro stava divenendo maniacale avendo per effetto riflesso, la venerazione del nucleo familiare, ove lo spirito e il
corpo, la sera, potevano ritemprarsi, ma solo perché il giorno successivo, il lavoro potesse riprendere con maggior lena.
La Bagnarota sperimentò in questo durissimo periodo della storia bagnarese e in generale della Bassa
Calabria, quanto potesse essere duro rimettere in sesto le rasole per reiniziare a coltivare e raccogliere, per poi
interagire con un ambiente paralizzato, incapace di riprendere con tenore sostenuto, il processo del miglioramento
sociale ed economico del Canale.
Nell’ambito del sottosviluppo che si generò dall’Altopiano alle coste dello Stretto, la Bagnarota si trovò improvvisamente
in una condizione di subalternità, quasi a dire che dovette dipendere dalle circostanze economiche per continuare a
24
gestire le rasole.
La Bagnarota di fine-secolo dunque, lottò per difendere, insieme a tutta la sua famiglia, la rasola e il proprio circuito
commerciale, ma dovette spostare l’asse verso lo Stretto, anche perché i processi che s’avviarono per la ricostruzione,
furono più marcati e veloci proprio lungo il Canale.
23 - Questa normativa entrò in vigore nel 1787, in concomitanza con la riscossione del prestito ottenuto dalla Cassa Sacra.
La bibliografia è in: T.PUNTILLO-E.BARILA’, Civiltà…, cit., pg. 199.
24 - Il prof. Rosario Villari estende questi concetti al mancato collegamento fra lavoro contadino e sviluppo complessivo delle capacità produttive
dell’intera società. Il mancato sviluppo di quest’ultima, induce il lavoro contadino in un stato di vischiosità, che quindi si atrofizza nel
tradizionalismo. La vanga sarà dunque sempre l’oggetto primario del lavoro sui campi, e perdurerà l’assenza di attrezzi agricoli moderni. Nessuna
tecnologia perché nessuna innovazione strutturale avveniva nell’intera società.
(ENZO CREA, Immagini di persone in Calabria, con una Introudione di Rosario Villari, Edizioni dell’Elefante, Verona 1982, pg. 14/15)l
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f).- La ricostruzione: la fine dell’azienda contadina familiare e declino conseguente della figura della Bagnarota
responsabile in proprio del commercio di secondo livello
Ci vollero più di dieci anni prima che una parvenza di ripresa economica e un riassestato sistema di sentieri,
consentisse alla Bagnarota di riprendere l’attività commerciale. Ma non fu più come prima del Grande Terremoto.
La ricostruzione fece aumentare la domanda di lavoro specializzato (carpentieri, muratori, vetrai ecc.) e la dedicazione al
riassetto delle campagne e delle rasole richiese fatiche enormi alle famiglie di contadini. Ma alla fine sul litorale si
cominciò a tornare alla normalizzazione delle attività.
Non così nell’entroterra ove la furia del Grande Terremoto s’era formata. Le economie locali si focalizzarono sulle grandi
estensioni di ulivo e una residua attività legata alla seta. Palmi stava recuperando una buona identità e la ricostruzione
era stata ben pianificata e veloce. Ma altrove, fra gli sparsi centri dai Piani della Corona ad Aspromonte, le condizioni
erano ancora terribili, soprattutto quelle dei rapporti sociali.
La Bagnarota che con suo marito e la sua famiglia riuscì a ripianificare la propria condizione domestica e
rimettere in sesto le rasole, non poté che rivolgersi con più frequenza sul Canale, Reggio e la strada sterrata
dell’Affacciata che conduceva a Palmi e, da qui, Gioja e Rosarno.
Ma ci furono gruppi di Bagnarote, anche consistenti purtroppo, che avendo perso la famiglia e i beni, adesso
cominciavano a “prestarsi” per commerciare e trasportare beni altrui. La Bagnarota stava dunque perdendo la
configurazione mitica di essere libero e capace di collocare beni prodotti nella sua “azienda” e iniziava a divenire un altro
soggetto, una donna forte, abituata ai lunghi trasporti di pesanti carichi, avvezza a superare difficoltà logistiche
impossibili per gli altri, a risolvere immediatamente problemi di qualsiasi tipo, legati al trasporto, al clima mutante
all’improvviso, alle sorprese possibili lungo la via quali animali selvatici e briganti, ora “vendeva” la propria capacità
lavorativa a un acquirente e per questi, iniziava a lavorare.
Il fenomeno principale che si nota in questo periodo è dunque così sintetizzabile:
•
Le Bagnarote che possedevano ancora una famiglia e l’attività di un campo, una vigna, una bottega, non
avevano più la possibilità di gestire anche la commercializzazione del loro prodotto, impegnate com’erano
nell’opera di ricostruzione o perché avevano avuta la famiglia dimezzata dal disastro o anche perché gli uomini,
i figli, erano impegnati per loro stessi e per gli altri contadini.
•
Al mattino presto, prima delle cinque, queste Bagnarote portavano la merce ai punti di raccolta. Qui le
Bagnarote disponibili attendevano con le ceste ove la sera prima avevano già deposto le merci ricevute dai
commercianti e dagli artigiani. Acquistavano questa merce o contrattavano con le cedenti il valore che
avrebbero ricevuto dopo la vendita del prodotto nei luoghi di destinazione.
•
Formato il carico, intorno alle cinque (ma qualche carovana s’incamminava già poco prima delle quattro) le
Bagnarote affrontavano l’erta dell’Affacciata verso Palmi, o il litorale verso Scilla.
•
Fra le otto e le dieci di mattina, la merce era già proposta per la vendita da Rosarno a Reggio a Messina. Alle
cinque del pomeriggio, le carovane rientravano ma adesso con le ceste stracariche di merce domandata dalla
Cittadina o da quelle vicine, alle quali sarebbe stata venduta la mattina seguente.
•
Dunque la Bagnarota di fine Settecento, comprava la merce da una fonte economica e la rivendeva a un
altro soggetto economico dal quale spesso acquistava per rivendere altrove. S’erano per converso ridotte
in modo sensibile, le Bagnarote “autonome”.
E’ questa figura di Bagnarota dedicata alla compravendita, che si conosce e si celebra anora oggi.
A maggior ragione e per quanto esposto, certamente questa figura non può ricondursi a quella di una Matriarca
dai poteri di governo illimitati!
Potremmo definire il post-terremoto come “il circuito della ricostruzione” al quale la Bagnarota partecipò in modo
sostanziale dopo essersi riconvertita da operatore commerciale autonomo a commerciante-viaggiatrice dedita alle
operazioni di scambio.
Furono tempi di grandi sacrifici per la Bagnarota.
Il clima sociale divenne teso, si viveva in mezzo alle macerie e ai morti che ogni tanto s’intravvedevano sotto qualche
zolla dissodata e lungo viottoli pericolosi; la fame aleggiò ovunque. E poi le epidemie di tifo, l’invasione della malaria
dovuta alle acque stagnanti e la psiche della gente talmente sconvolta da bloccare le funzioni vitali, compresa la
capacità di procreare.
Cari lettori: nasce così, dopo il 1783, lo rimarco ancora, la Bagnarota così come oggi la immaginiamo e la
interpretiamo, dunque con forti limitazioni.
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La Bagnarota “Moderna” non si limitò a carriare un carico di ceste o viaggiare “con le saje dondolanti” per
andare a vendere in cima al mondo, la Bagnarota Moderna, erede di quella che abbiamo visto in gioventù e celebriamo
ai nostri giorni, fu una femmina che aveva perso l’autonomia lavorativa riconvertendosi a un lavoro squisitamente
commerciale, basato sull’acquisto di un bene e la sua vendita altrove ove però si acquistava un altro bene e si vendeva
ancora altrove e così via e più avanti si giunse alla figura della Bagnarota che vendeva la propria forza-lavoro per poter
contribuire al sostentamento dell’economia familiare.
Fu la fine di un mito, un grande mito che ebbe come riferimento direttamente il Gran Conte Ruggero il Normanno, lo
“splendido isolamento” delle Bagnarote Normanne e la naturale evoluzione: la Bagnarota dell’Era Medievale e della
prima Età Moderna: la Matriarca alta, bella, dallo sguardo fiero e i modi mascolini ereditati dall’Età Militare della
Balnearia, custode dei principi etici del lavoro come gratificazione della vita familiare e compartecipe insieme al suo
maschio, della gestione imprenditoriale della propria “azienda”.
La natura e il ritardo terribile nello sviluppo della società civile in Calabria, ridimensionarono la figura della Bagnarota
riducendola a lavoratrice spesso occasionale e comunque disponibile a lavorare ma oramai non più solo per il proprio
“business”.
Filastrocca dei bambini
di Bagnara
Cala cala cicaleja
Ca ti ‘mbogghiu ‘nta pareja.
A pareja esti china r’ogghiu,
cala cala ca ti ‘mbogghiu
(TOTO’ VIZZARI, Modi di dire con detti proverbiali, motti, filastrocche del
dialetto bagnarese, a cura dell’Associaz. Culturale Capo Marturano, Ediz.
Ofdficina Grafica, Villa S.G. 2006, pg. 23)
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g).- La Bagnarota fra guerra civile, invasione francese e restaurazione. I massacri di Bagnara.
Questo è dunque lo scenario ove operò, dopo il Grande Terremoto del 1783, la Bagnarota.
I massacri e le violenze non cessarono ed anzi ebbero recrudescenze continuative durante la Repubblica Partenopea
del 1799 e ancora durante il periodo francese col regno di gioacchino Murat.
Circostanze che videro coinvolte anche molte Bagnarote.
Usciti i Francesi da Bagnara dopo la battaglia di Maida, per correre in aiuto del Generale Reynier, Bagnara rimase in
mano ai briganti filoborbonici, nel vuoto temporale prima dell’arrivo degli Inglesi da Messina.
Il Brigante Fica calò dunque in Paese pretendendo che tutti i “Galantuomini” si radunassero sulla Piazza del Mercato
(ora Piazza G.Denaro), e seppe che in casa Spina, forse la famiglia più odiata dai Briganti bagnaroti, vi era della gente.
Donna Maria Giuseppina Spina era una Bagnarota colta, bellissima e dai modi garbati. Si era sposata con Don Peppino
Versace Spina ed era in effetti in casa con la sua famiglia mentre il marito s’era rifugiato a Messina per sfuggire a una
certissima esecuzione sommaria.
Pensava ella che stando ritirata in casa propria, nulla le potesse accadere e quindi, per non creare disagio alla sua
famiglia, preferì non seguire i Francesi nel ripiegamento su Monteleone.
I Briganti circondarono l’abitazione e quindi la incendiarono senza curarsi se fosse abitata o deserta.
La donna e i bambini saltarono da una finestrella che dava sul cortile e fuggirono aggrappati l’un l’altro e a testa bassa e
quella corsa li pose in salvo mentre la casa era avvolta dal fumo acre dell’incendio.
La povera donna era incinta e quell’esperienza la provò per sempre. Dalle alture dei Cappuccini a Messina, Don
Peppino Versace osservava col cannocchiale il fumo della sua abitazione piangendo di disperazione. La famiglia si
rifugiò in casa di amici fidati e quindi fu portata a Palmi in salvo.
Fica era il soprannome di Francesco Zagari, un rozzo Bagnaroto che aveva stretto alleanza con la banda Farao di
Pellegrina, la banda Malovento di Solano e le bande Fazio e Ronca operanti sull’Altopiano.
Avevano tutti a Bagnara il supporto di Peppino Sofio, detto “il Diavolello”.
Fica fu in grado di armare una banda terribile composta (non sono stato in grado, per il momento, di associare i nomi ai
soprannomi): oltre ai Farao, i Grillo, Carminuzzo, Ticaffo, Colarino, Ciancianoso, Corazzo, Iona, Micidaro, Bannello,
Ciccione, Manale, Forgarello, Occhiuzzi, Castagnella, Maisi, Bascio, Labruzzi, Pisciallaro, Branca, Totto, Tatà e alcuni
membri della famiglia Zoccali.
La banda attaccò le abitazioni ove risiedevano le famiglie di coloro che avevano seguito i Francesi a
Monteleone.
Il Notaio Don Carlo La Piana fu scoperto in casa Saffioti ove si era rifugiato.
Fu trascinato per le gambe sulla strada ove gli vennero cavati gli occhi e quindi fatto a pezzi con accette da macellaio. Il
figlio Peppe venne battutto su tutte le ossa e gettato in una fetida galera ove morì poco dopo d’asfissia.
Quindi diedero la caccia e trovarono il giurista Don Giannino Messina. Lo pugnalarono all’altezza dell’intestino per fargli
versare le viscere nel mentre lo trascinavano lungo la via e in mezzo alla strada lo finirono a calci.
Toccò poi a Don Mimmo Messina e Don Peppino Caruso al quale tagliarono col rasoio la mascella inferiore da un
orecchio all’altro, così che morisse lentamente fra infiniti strazi.
Non anticipo oltre i terribili episodi del massacro di Bagnara, che, per i pochissimi che la conoscono, si interpreta come
una vergogna imperdonabile, ripeto, ancora oggi, man mano che i fatti si svelano, per tutti i contendenti: francesi, inglesi
e briganti medesimi.
Cito solo il ruolo che ebbero alcune Bagnarote in quei frangenti.
I cadaveri delle persone trucidate dai Briganti, si stavano caricando
su dei trasporti con destinazione il cimitero, quando una torma di
DONNE DI CALABRIA
Bagnarote, fedeli alleate dei Briganti, raggiunse quegli uomini feroci
L’usata e pomposa frase emancipazione della donna e, minacciando e bestemmiando in modo osceno, impedirono quella
non può ragionevolmente significare se non che sepoltura, si impossessarono dei cadaveri e li condussero al Pinno,
emanciparla dalla miseria e dall’ignoranza; le due da dove li precipitarono nel vuoto affinché fossero pasto per i cani.
fonti perenni e quasi uniche di ogni suo più grave Comandava questa torma scatenata, una certa Catuzza Gentilomo,
sconforto.
conosciuta come “La Catinota”, che peraltro aveva la famiglia
verrà rintracciata,
(CESARE TROMBETTA, La Calabria di Cesare rifugiata a Messina. Al ritorno dei Francesi,
25
Lombroso, tip. Del Giornale del Sud, Catanzaro 1898, pg. arrestata e giustiziata sulla pubblica piazza.
Non ritengo necessario continuare un racconto che sarà
109)
esposto in ogni suo feroce dettaglio in un mio studio dedicato alle
dure fasi del Brigantaggio a Bagnara.
I fatti terribili durarono fino a tutto il 1815 ma poi proseguirono in lotte fra famiglie.
Bagnara soffrì ancora per molto tempo i riflessi di quella carneficina.
A questo stato terrificante della società bagnarese, si aggiunse l’ira della natura che nel 1816 si scatenò con un uragano
di quattro giorni alla fine dei quali, i torrenti strariparono e fu un disastro per la già dimessa economia Bagnarota.
Dopo la Restaurazione si tentò di riorganizzare la dissestata Cittadina anseatica, la cui unica colpa fu esser stata patria
di liberali “giacobini” ma anche di difensori fedeli della Monarchia Borbonica, ed entrambi gli schieramenti proposero
elementi militanti che si distinsero in battaglia, nell’organizzazione delle Armate, nella politica locale.
E anche le Bagnarote parteciparono all’uno o all’altro gruppo, vittime e attrici, di volta in volta, dei fatti, del massacro di
Bagnara.
Vionenze e precarietà che durarono fin oltre il passaggio di Garibaldi da Bagnara.
Altro che Matriarcato!
25 - Il materiale documentario è conservato a Torino, archivio privato
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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La Bagnarota riattivò un suo circuito verso l’interno e verso Palmi, Gioja e Rosarno, verso la fine del XVIII
secolo; ma adesso non erano più le carovane che si spostavano in base a una perfetta organizzazione militare, ma
“gruppi” che col tempo si stabilizzarono in un’organizzazione di “routine”: sempre lo stesso percorso e la medesima
quantità e mix di prodotto da offrire, alle stesse persone o negozi finali.
D’Agostino nel 1922 descrisse le comitive di Bagnarote con entusiasmo, paragonandole a una organizzazione militare; si
trattò di una replica estremamente ridotta rispetto a come le Bagnarote organizzarono le loro spedizioni fino a tutto il
Settecento.
Le Bagnarote che si spostavano verso Reggio e Messina, gestirono occasioni allargate, oltre ai circuiti “normalizzati”.
Esercitarono anche il contrabbando, sulla scia delle loro antenate, specializzate nel traffico della seta, col trasporto dei
bozzoli pronti alla schiusa, in mezzo alle mammelle e sotto le ampie gonne ondulate. Il contrabbando fu al minuto e si
riferì a tutte le merci sottoposte al controllo del Regio Fisco sulle transazioni al mercato degli scambi.
Oggi diremmo che si evitvò di pagare l’IVA.
La Bagnarota proprietaria di qualche rasola, non ebbe più, come evidenziato, una “azienda” capace di garantire prodotto
da offrire in buona quantità e ampio mix e quindi coprire le spese del campo o della rasola oltre al sostentamento della
famiglia.
Le Bagnarote rimaste senza famiglia e senza proprietà, perché distrutte dal Grande Terremoto o perché ridotte in
povertà a causa delle guerre e devastazioni, si ritrovarono ai punti di raccolta, ma offrendosi per il solo trasporto.
Compravano “tutto” o s’incaricavano di vendere il prodotto altrui percependo una percentuale sul guadagno.
Fu facile confondere questa donna divenuta solitaria perché vedovata a vent’anni per cause naturali, di guerra, di
epidemie, di emigrazione, con una donna padrona della situazione avendo il marito un ruolo assolutamente defilato.
Una Cittadina dunque, ove si esercitò il Matriarcato in modo assoluto?
Non fu così, la nomea prese piede velocemente sull’errore iniziale e si moltiplicò nel tempo e nello spazio.
La conseguenza fu che una Donna rimasta priva di tutto e che comunque fu in grado di resistere e addirittura rinascere,
venne indicata come l’unica capace di lavorare nella sua famiglia, dimenticando che la sua famiglia, nella maggior parte
dei casi, in pratica non esisteva più.
Nel tempo l’interpretazione non si corresse e a lungo andare, anche quando le famiglie si ricostituirono sulla seconda e
terza generazione unitaria, la presenza sul territorio di quella Bagnarota ancora bella, alta, dallo sguardo fiero e la voce
sonante, venne interpretata come elemento dominante del Matriarcato bagnaroto, anche se il marito stava sulle rasole o
a mare a buttare sangue per recuperare proprio quel poco che la moglie, la Bagnarota, avrebbe poi proposto per la
vendita inssieme all’altra merce di scambio.
Questa è la Bagnarota dell’Ottocento.
Nove anni prima di Lear, un altro inglese, pittore illustre anch’egli, aveva viaggiato a piedi lungo la Calabria,
raggiungendo Bagnara il 6 maggio 1838.
Ci interessa perché John Arthur Strutt ritrasse una Bagnarota, affascinato dal suo costume che poi descrisse nelle sue
note a margine.
Leggiamo dunque come Strutt vide la Bagnarota, nove anni prima di Lear e a poco più di trent’anni dopo la strage anglofrancese.
26
Si tenga conto che questa è la prima descrizione del costume della Bagnarota che si conosca:
26 - Arthur John STRUTT, A pedestrian tour in Calabria & Sicily, T.C.Newby ed., Londra 1842, traduz. In italiano: Calabria e Sicilia 1840,
avventure di un Inglese nel Mezzogiorno borbonico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1970, pg. 207.
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Discendemmo a zig-zag verso Bagnara, dove sostammo brevemente, tentati dall’aspetto di alcuni fichi verdi fatti
maturare prima del tempo con segni precisi incisi con la punta di una spina.
Ne avemmo nove per tre tornesi, una moneta del valore di un farthing. Ma anche ci
fermammo per ritrarre una donna il cui costume ci sembrò molto pittoresco.
Ella indossava una giacca larga su di un giubbetto azzurro allacciato davanti, un
grembiule verde corto e una sottana bianca; i piedi erano nudi; i capelli intrecciati con
nastri azzurri, erano attorcigliati intorno alla testa, sulla quale portava invece di tenerlo in
mano, un piccolo vaso di perfetta forma classica.
La naturale dignità del suo incesso assicurava la stabilità del contenuto del vaso.
Viaggio del maggio 1838.
Una fascia temporale dunque, entro la quale, in trent’anni, la Bagnarota ci appare ormai
in uno standard lavorativo assestato, così come poc’anzi abbiamo provato a delineare.
Come possiamo provare a “immaginare” visivamente il costume della
Bagnarota di Sir John Strutt?
Nel 1829 due grandi stampatori napoletani, Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi,
pubblicarono a Napoli un album litografico (uno dei primi, splendidi esperimenti
dell’epoca in Italia), che conteneva il risultato di un viaggio lungo il Regno di Napoli, per
la formazione di una vista d’insieme di vedute, costumi e usi. 27
Il costume della Bagnarota, nel 1820, data della riproduzione in loco, è quello qui di
seguito riprodotto.
Probabilmente le differenze fra Cuciniello & Bianchi (1820) e Strutt (1838), derivano
dalla circostanza che nel 1820 Cuciniello & Bianchi ritrassero la Bagnarota in abito da
festa e Strutt la disegnò così come le apparve sulla via. Se ne può esser certi perché
durante le giornate lavorative, la Bagnarota camminava scalza e così fu sempre.
Come si nota, il costume della Bagnarota nel 1820 subì,
fino alla descrizione di Strutt del 1838, solo qualche
tratto evolutivo: nel 1820 la giacca è sempre larga
sopra un giubbetto rosso sempre allacciato davanti. Il LA BAGNAROTA NEL 1894
grembiule appare sempre verde ma più lungo e la sottana non è bianca ma rossa come
il giubetto; ai piedi la Bagnarota del 1820 porta un paio di scarpette nere; i capelli sono
sempre intrecciati forse con nastri azzurri, e comunque sempre attorcigliati intorno alla
testa, sulla quale non porta il vaso ma una corona che scende poi come velo lungo i
fianchi.
Probabilmente fa riferimento proprio all’opera dei due valenti litografi napoletani, la
collezione di immagini che Gustavo Valente diede alle stampe nel 1993, affidando a
Antonio Cicala la confezione di quelle immagini.
Mutano talvolta i colori, ma il rosso prevale, anche se la
giacca è quasi sempre nera.
Eppure Valente non fa menzione delle litografie di
Cuciniello & Bianchi anche se, rapportando la stampa
con quella dei due litografi napoletani, la somiglianza è
notevole. 28
La Bagnarota
di Gustavo Valente
Come cambia il costume della Bagnarota nel tempo?
La prima documentazione che, a mia conoscenza, abbiamo disponibile, è una fotografia
del 1894 ove per la prima volta venne inquadrata, seppur in secondo piano, una
Bagnarota fra le macerie di una casa distrutta dal Terremoto del 1894.
La fotografia è conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.
Ho riprodotto la fotografia qui di seguito per esteso, ricavandola dalla prestigiosa Storia
d’Italia della UTET, e da essa ho ritagliato l’angolo ove appare la nostra Bagnarota.
Ecco dunque la nostra prima Bagnarota fotografata dal vero, ed è una Bagnarota del
1894.
E’ sorprendente la somiglianza del costume con quello del 1820, cioè di più di
settant’anni prima.
Non c’è la giacca, che è però un capo da festa, ma un corpetto sicuramente cucito a
mano perché aderisce perfettamente al busto della Bagnarota.
La gonna è lunga e rilasciata, con leggere ondulazioni e sulla stessa gonna, il grembiule
lungo come quello della stampa del 1820.
La Bagnarota nel 1820
Stamperia di Cuciniello & Bianchi
Napoli 1825
27 - D.CUCINIELLO-L.BIANCHI, Viaggio pittorico nel Regno delle Due Sicilie, dedicato a Sua Maestà il Re Francesco Primo, Codimel ed.,
Napoli 1829, ristampato a Napoli nel 1978 in 3 vol. presso Comedil ed.
28 Costumi di Calabria, immagini e luoghi, a cura di Gustavo Valente, disegni di Antonio Cicala, Laruffa ed., Raggio C. 1993 su una precedente
edizione dello stesso editore del 1985.
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Sul capo un ampio fazzoletto nero, e questa del fazzoletto è la vera variante rispetto al 1820.
Questo costume “per menare” non mutò superando anche il Grande Terremoto del 1908 e fu solo all’esordio degli Anni
Cinquanta nel Novecento, che compariranno le “saie” a piccole pieghe e con la lunghezza accorciata fino al ginocchio in
molti casi.
Il corpetto della Bagnarota del 1894, fu sostituito da un corpettino attraversato da un elastico appena sotto i seni, il
fazzoletto piegato dietro la nuca.
Ometto la pubblicazione di questi ultimi costumi perché a tal punto essi sono patrimonio di tutti perché presenti in
numerose pubblicazioni, anche disponibili su questo sito.
Manca invece, del costume moderno della Bagnarota, quello della festa.
I miei ricordi di gioventù, cioè di più di cinquant’anni fa, me lo fanno ricordare appena.
Durante la festa della Marinella e quella dell’Assunta, le Bagnarote della Marinella e della Bajetta venivano in
Centro per assistere alle processioni e indossavano delle stupende saje di seta ricamata, dai colori variegati e un
corpettino in genere di organzino ricamato, sul quale erano applicate pietre naturali scintillanti e numerosi nastrini
argentati.
Il fazzoletto era di seta purissima, ampio, bello da morire e cingeva il capo di queste donne incantevoli.
Ci sarà ancora in qualche armadio della Marinella o della Bajetta, un costume del genere?
Che gioia immensa per chi ha già una certa età e che esperienza unica per i bambini e i ragazzi di Bagnara sarebbe
mostrarlo nel suo splendore.
La gente capirebbe all’improvviso chi fu veramente la Bagnarota!
Nel senso di un soggetto economico e sociale capace di percepire il gusto del bello, di mostrare che anche la Bagnarota
e il suo grande Paese, furono una volta prosperosi e ricchi di civiltà, quella che si desumeva dal lavoro nella famiglia.
CANTO DELL’EMIGRANTE
CALABRESE
Romani partu, piacendu a Ddiu
E cull’amici mei m’arracumannu;
si partu ku duluri u sacc’iu,
u sannu l’occhi mei ki chiantu fannu,
ahi quand’arrivu ò ristinu meu,
intr’a na littira ù cori ti mandu,
ma ù ritornu nun ò sacciu quando.
Partu ka su custrittu ri partiri.
E ò cuntrariu nò pozzu fari,
ì chianti, ì lamenti e ì suspiri
nò mi fammi di tia licenziari
se ti veni à nova rà mé morti,
bella, fammi tu ì funerali.
Assettiti ndò scaluni ra porta
Ghiangimi suttuvuci e nò grirari
(CESARE TROMBETTA, La Calabria di Cesare Lombroso, tip.
Del Giornale del Sud, Catanzaro 1898, pg. 82)
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Solano di Bagnara dopo il terremoto del 1894
fotografata da Pietro Rebuschini il 16.11 1894
Leggiamo cosa scrisse Pietro Rebuschini di quei tragici giorni a Bagnara (P.REBUSCHINI, In Calabria. Impressioni ed istantanee,
Tip. Cooperativa Comense, Como 1895, da pg. 60):
L’alba del 29 (agosto)ci trovò in completo assetto di marcia perché quel giorno si doveva compiere una lunga escursione
nell’altipiano per visitare località che ci erano state indicate come delle più danneggiate e delle meno soccorse perché fuori mano.
Infatti, per arrivare al ciglio dell’altipiano dovemmo inerpicarci (…) attraversammo fitte boscaglie di castagno e verdeggianti
praterie ci portarono al paesello di Melia (…) giunti al paesello, composto tutto di miseri tuguri, non trovammo che una rovina: gli
abitanti, circa 600 tutti poverissimi, nella mancanza di ogni soccorso, vivevano a circa un mese riparati in orribili capanne di
frasche e terra, come tane di lupi (…)
Scendemmo pio a Solano inferiore, frazione del comune di Bagnara costruita, come un nido di aquile, sull’orlo di una profonda
valle (…) potei prendere la veduta della piccola borgata che appariva in qualche punto come un mucchio di rovine: quivi si ebbero
anche parecchie vittime, nella sola chiesa per la caduta della volta del coro, si ebbero sei morti e tredici feriti. Trovammo ospitalità
in un crollante casino del deputato Patamia dove erano stati ricoverati tutti i santi della chiesa (…) seppi che pressoché tutto quel
villaggio e le terre circostanti erano di proprietà di due latifondisti di Bagnara, ed avendo chiesto che cosa avessero fatto i detti
signori a sollievo di tanta sciagura mi si disse che uno aveva permesso ai suoi contadini il taglio della legna nelle foreste padronali
e che l’altro, milionario e commendatore, non aveva fatto nemmeno questo tenue sacrificio e non aveva mandato un solo centesimo
(…)Più avanti trovammo la strada carrozzabile che attraversando l’altipiano unisce Bagnara a santa Eufemia d’Aspromonte (…)
incontrammo i ridenti villaggi di Ceramida e Pellegrina situati sovra clivi ricchi di vigneti e cedri, aranci e ulivi (…) arrivammo a
Bagnara che il sole tramontava.
Anche a Bagnara le consuete rovine e miserie: la città (così vuol essere chiamata) di oltre diecimila anime, completamente inabitata
e tutta la popolazione accampata nei rifugi costruiti lungo la grande strada e sulla spiaggia: specialmente alla marina trovammo
numerosi baraccamenti pieni di fumo e di gente che in quell’ora vespertina attendeva alla modesta cena; spiccavano però tra di essi
per più solida e ampia costruzione la baracca del municipio e della pretura e, qua e là, qualche vecchia paranzella tirata in secco e
convertita in abitazione. Lo dovemmo alla cortesia del capitano Michele Venci che ci ospitò nella sua baracca, se in quella sera ne
fu dato di riparare, con inattesa dovizia, alle esigenze dello stomaco (…)A tarda notte, passeggiando in stazione nell’attesa del
treno, osservai su di un binario morto una lunga fila di carri-merci rigurgitanti di gente: vi stavano riparate le famiglie degli
impiegati ed addetti alla stazione e qualche povera famiglia bagnarese rimasta senza tetto e senza baracca: in taluna di quelle
rotanti abitazioni si sentivano pianti di bambini assonnati o la voce impietosa del capo di casa che ordinava ai figli di andare a letto,
in altre si conversava e rideva lietamente ed in una di queste al suono monotono di una fisarmonica, sfiatata, si ballava la tarantella.
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BAGNARA: TERREMOTO DEL 1894
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h.- La Bagnarota del Novecento. L’oblio elevato a mito.
Credo che il lettore abbia a questo punto una visione attendibile del personaggio “Bagnarota” lungo il corso
della storia di Bagnara e dei suoi dintorni, e abbia potuto cogliere come ella lentamente sia stata soggetta a un
ridimensionamento del ruolo e della personalità.
La vera Bagnarota, quella elitaria che ben avrebbe potuto esser presa a simbolo del riscatto femminile in Calabria, operò
pur con diverse sfumature, fino alla metà del Settecento; il Grane Terremoto, come commentato, minò il territorio ove la
Bagnarota operava e la costrinse a introdurre nella sua attività di libera lavoratrice, delle “mediazioni”, soprattutto per
quelle rimaste senza famiglia, vedove o senza più campagna.
E abbiamo annotato come quest’ultima condizione abbia fatto sorgere l’equivoco del Matriarcato a Bagnara.
Abbiamo anche preso nota di quanto fu lunga la fase di destabilizzazione economica creata dalla Guerra Civile nel 1799,
con i suoi drammi immensi proprio a Bagnara, e che i vollero ancora molti anni prima che la Bagnarota riprendesse una
normale attività economica.
Alla fine dell’Ottocento, la situazione tornò a mostrare segni di miglioramento.
Le campagne litoranee furono interessate da una riconversione delle colture, con incremento della vite e degli agrumi
mentre si accentuò la dedicazione a ulivo sulla fascia settentrionale della Piana e su praticamente tutto l’Altopiano.
La Bagnarota s’inserì nel nuovo scenario perché le monocolture della Piana e dell’Altopiano, resero di nuovo necessarie
le derrate agricole delle rasole e dei giardini.
Intanto però l’economia agraria calabrese iniziò ad essere assassinata in due momenti esatti:
a)
b)
La politica economica del Governo di Roma, influenzata in modo determinante dagli industriali del Nord e
dall’atteggiamento “operaista” dei Sindacati. Il contadiname meridionale fu lasciato allo sbando dai Deputati e
Senatori del Sud, consenzienti verso la politica economica di Roma in cambio della “tranquillità” delle loro
gestioni nei Collegi Elettorali del Sud; questa circostanza provocò la progressiva caduta della competitività del
prodotto agricolo meridionale, non supportato dagli investimenti della sua pavida “Classe Dirigente” e dai
supporti finanziari, assenti nella già cennata Politica Economica del Governo;
L’impreparazione cronica dei proprietari terrieri, ignoranti “nobilucci” dediti a una vita di istinti quotidiani,
incapaci di osservare al di là del proprio naso, e soprattutto, traditori del ruolo che si vantavano di possedere,
quello di Classe Borghese in cima alle Amministrazioni Comunali, nei Priorati delle Congreghe, nella cariche
c.d. “benefiche”, nei Circoli privati, e soprattutto di grandi proprietari di terre e case; tanta terra. Appena un
contadino trovava difficoltà a sopravvivere, l’avvocaticchio di turno era pronto a colpire come una iena, in modo
inesorabile. E conquistata la terra, vi schiavizzava una famigliola di miserabili agricoltori, contentandosi di una
parte del raccolto, poiché non una lira veniva investita nel miglioramento dei campi.
In questo duplice scenario da Regione Coloniale sudamericana, dal 1863 dilagò la “Pebrina”, un’epidemia che
distrusse i gelsi in modo inesorabile e la mosca olearia attaccò i boschi di ulivo
DONNE DI CALABRIA
della Piana. La conseguenza fu il crollo del mercato della seta e dell’olio Maliditta chija donna
calabresi nel giro di pochi anni, l’immiserimento di molti piccoli agricoltori, Ki si pigghia ù pecuraru
detentori di un’arte millenaria di tiratura e preparazione dei fili e una Nà sira rormi ‘ntò lettu
conseguente, massiccia ondata di emigrazione. Molti di questi mastri d’arte, Vinti novi ò pagghiaru
trovarono lavoro nelle filande di Como e Biella, innescando la floridità e la Faci ù jornu ù marvizzu
ricchezza di quegli Imprenditori, e moltissimi nelle lanerie del Sud America, molte E a notti ‘n pagliarizzu
anche le famiglie che si trasferirono in Liguria, una Regione che seppe Ku na petra pè capizzu
approfittare della valente esperienza di questa gente nel trattamento dell’oliva. E ì peri ò cinnirazzu.
Da qui tra l’altro nacque quella generazione di meridionali che seppero Maliditta chija donna
impiantare piantagioni soprattutto di garofani, vanto di una Regione prima al Ki si pigghia ù pecuraru
mondo nella floricultura.
Nà sira rormi ‘ntò lettu
Fra il 1875 e la fine del Secolo, la crisi agraria del Canale subì Vinti novi ò pagghiaru
un’accelerazione spaventosa.
Acqua, nivi e ventulizzu
Nel 1875 la “Gonema” attaccò arance, mandarini, bergamotti e limoni sugli alberi, Pecuraru ntò pagghiaru
facendoli ammuffire inesorabilmente.
Ku na petra pè capizzu
Nel 1881 la “Gommosi”, che i nostri amati Padri chiamarono “’a Nira”, attaccò le E ì peri ò cinnirazzu.
piante dalle radici, facendole indebolire e poi morire una ad una.
(CESARE TROMBETTA, La Calabria
Fra il 1880 e il 1890 la prima filossera e la peronospora uccisero la vite del di Cesare Lombroso, tip. Del Giornale
29
Canale.
del Sud, Catanzaro 1898, pg. 180)
L’elenco serve solo a fare comprendere cosa sia significata la gestione agraria
nel Canale, affidata a persone che non ebbero cognizione dei moderni mezzi di prevenzione e cura delle campagne.
Poche le voci che si elevarono a difesa del Sud.
A parte i grandi Meridionalisti, lasciati da soli, fu nel 1880 il Segretario Generale della Camera di Commercio di Reggio,
don Carmelo Carbone Grio, a lanciare l’allarme per il progressivo immiserimento della Calabria Meridionale chiedendo
un intervento dello Stato con sgravi fiscali e più attenzione alla politica sociale, soprattutto scuole e istituti di ricerca.
L’emigrazione di fine secolo aumentò ancora, in modo impressionante.
Interi Paesi si svuotarono, molte attività artigianali iniziarono a estinguersi, le comunità tornarono a isolarsi l’una con
l’altra e alla fine tutto si ridimensionò, scese di livello.
29 - GAETANINA SICARI RUFFO, Donne ed eventi tra fine Ottocento e primo Novecento, in: Le donne e la memoria, un contributo unico di
solidarietà femminile, a cura di Daniela De Blasio, con prefazione di Rita Levi Montalcini, Luca di Montezemolo, Agazio Loiero, Pietro Fuda e
Daniela De Blasio, Città del Sole ed., Raggio C. 2006, pg. 75 (L’economia calabrese tra Otto e Novecento; il lavoro femminile nelle industrie e
nell’artigianato).
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Notevolissimo fu lo sforzo dei contadini del Canale per recuperare. Con coraggio, vennero ripiantate le viti, rinvigoriti gli
agrumeti, riallaciati i rapporti con l’Estero, approfittando della rinascita del porto di Reggio. Messina non era più l’unico
polo attraverso il quale passare per collocare il prodotto. Reggio cercò di assumere la guida della sua Provincia e ci
stava riuscendo.
A Bagnara la crisi agraria colpì in modo impressionante, salvando praticamente solo i boschi di castagno e faggio.
La Bagnarota perse la capacità commerciale e, a cavallo del secolo, aumentò la propria presenza sui campi e sulle
rasole accanto alla famiglia. Molte anche a Bagnara peraltro, le famiglie che scelsero la via atlantica lasciando il Paese.
La crisi di fine secolo che colpì duramente anche la piccola attività agricola, mise in ginocchio le Bagnarote “dei giardini”
che scesero di numero in modo vistoso.
Restavano quelle “della Marina”, che si incaricavano del collocamento del pescato e questa attività continuò senza
eccessivi traumi.
Ecco perché agli inizi del 1900, si incominciò a vedere prevalentemente la Bagnarota “del pesce” rispetto a
quella “dei giardini” e perché, conservandosi ancora in giro la nomèa del Matriarcato, il “mito” sarà riferito alla Bagnarota
“che vandija il pesce all’alba nei paesi dell’Altopiano”.
La realtà, abbiamo notato, fu diversa.
Ci fu la possibilità per una ripresa in grande stile nel primo decennio del XX secolo e molto si dovette alla
ferrovia che nel 1885 aveva raggiunto Bagnara.
Il miglioramento delle comunicazioni significò in molti casi la ripresa economica di attività che si credevano ormai in stato
asfittico.
L’olivicoltura riprese quasi da zero e recuperò una parte dell’handicap; notevole il reimpianto delle coltivazioni in
agrumeti, mentre il gelso, travolto dalla concorrenza orientale e francese, crollò definitivamente.
I giardini di arance, mandarini e limoni si diffusero velocemente lungo tutto il Canale e adesso anche la parte meridionale
della Piana, era un fitto bosco di agrumeti.
Ciò spinse la Bagnarota a riprendere il suo “giro” e in effetti si tornò a
28 dicembre 1908
una logistica in grado di coprire la domanda di prodotti freschi, …
domanda proveniente dalle comunità sempre più dedite alla Ridea la Luna sulle nostre case
monocoltura e all’attività estensiva, come nel caso dei campi a Ieri; non guarda oggi né cerca e muove
frumento.
Cheta pel Ciel, né un tetto erto rimase
Le Bagnarote “dei giardini” erano adesso molto di meno, la prevalenza E son ruine e cimiteri, dove
era di Bagnarote “del pesce”, ma le aspettative erano più che Ridea la Luna sulle nostre case!
promettenti.
contessa Vittoria Aganoor Pompilj
Il treno e le autocorriere, divennero la loro forza.
Perugia, 8 dicembre 1909
Il Grande Terremoto del 1908 tranciò nuovamente di netto (MICHELE CALAUTI, Ricordi di un dissepolto.
La tragedia familiare di un poeta nel Terremoto
tutto il sistema economico e sociale del Canale.
Molte realtà, e Bagnara fu una di queste, furono di nuovo radicalmente di Reggio e Messina, a cura di Enzo Romeo,
Rubbettino ed., Soveria M.2007, pg. 40
azzerate.
Il lettore ha a disposizione adesso un’ampia documentazione, ospitata in questo sito, per valutare cosa poté significare
quella catastrofe, per Cittadine come Bagnara.
Anche dopo il Grande Terremoto del 1908, la ripresa fu lenta e difficile. I ritardi del Governo centrale furono
impressionanti e solo grazie alla solidarietà e all’aiuto concreto delle comunità italiane e internazionali, si riuscì a ricucire
la ferita gestendo poi il quinquennio della Grande Guerra alla quale le Comunità del Canale diedero un enorme
contributo umano.
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i.- La Bagnarota del dopo guerra. La ricchezza economica del legno.
Alla fine di questa fase di forte sacrificio e di traumi, la Bagnarota era di nuovo cambiata.
Adesso le vie scelte per i suoi commerci passavano per la stazione ferroviaria e i traghetti di Villa San Giovanni.
Dopo la Grande Guerra l’emigrazione riprese impetuosa da Aspromonte a Reggio e questa circostanza abbassò
sensibilmente la domanda proveniente dall’Altopiano, adesso raggiungibile con le corriere che collegavano tutti i paesi
DONNE DI CALABRIA
Straordinaria fotografia dell’inizio degli Anni
Cinquanta: la ragazza è nelle segherie ISA di
Villa S. Giovanni
(Foto di Cinzia Basile, ora in: Le Donne che portano pesi,
cit., pg. 44)
Le Donne di Calabria:
la superiore dignità di esseri meravigliose,
capaci di generare un Popolo che,
sparso per il mondo,
onora il lavoro
contribuendo in modo determinante
al progresso civile della Società.
Tito Puntillo
dell’interno con Palmi e Gioja.
Cambiò la mentalità perché i rapporti commerciali si erano incentivati e le comunicazioni viaggiavano veloci lungo i fili
del telegrafo e del telefono.
Intorno agli agrumeti e agli uliveti, si concentrò l’economia del Canale e Bagnara seppe riemergere come stella di prima
grandezza, soprattutto per la diversificazione dalle altre realtà locali: il legno.
L’attività del legname esplose a seguito della domanda internazionale di contenitori da spedizione, sulla scia del
potenziamento delle comunicazioni ferroviarie che consentirono anche ai prodotti deperibili, di raggiungere mercati
lontani con i treni e gli aerei.
La Bagnarota si inserì in questo nuovo circuito e si diversificò in tre direttrici principali:
•
•
La via commerciale verso l’interno e i Paesi della Costa. Ereditata dalle Bagnarote dell’Ottocento, questa via
era adesso gestita da piccole comitive che continuavano a raggiungere Palmi, Sinopoli, Aspromonte, Gioja
ecc., per collocare prodotto fresco “dei giardini”. Si trattò di raccolto proveniente dalle rasole ripristinate, in parte
coltivate da anziani contadini e dalle loro famiglie, poi affidate alle Bagnarote per la vendita. Una vendita che
adesso faceva i conti con la concorrenza perché quasi tutti i centri aspromontani oltre naturalmente a quelli
litoranei, erano raggiungibili dai trasporti su scala provinciale per la grande distribuzione di prodotto conservato,
prevalentemente scatolame, che si prestava a sostituirsi a quello fresco. Il processo iniziato in modo marcato
dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, subì un iter impetuoso e alla fine divenne inarrestabile. La
presenza della Bagnarota continuò fino alla metà degli Anni Sessanta ma poi si concluse rapidamente perché
assolutamente non più competitiva.
Il trasporto di legname. La Bagnarota “della Ricostruzione” prese il posto di prima donna rispetto a quella “dei
giardini”. Il crollo della domanda di prodotti ortofrutticoli ridimensionò l’economia delle rasole riducendola a
produzione bastante per i fabbisogni del Circondario. Fabbisogni che aumentarono al seguito dell’incremento
del lavoro attorno alla trasformazione del legno: segherie, laboratori familiari e attività boschiva. Un’economia
che travolse letteralmente l’identità di Bagnara, trascinando nelle segherie e nei castaniti, giovani che
lasciavano i giardini e le rasole con la speranza di un guadagno migliore. Intere famiglie si trasformarono in
coffari, chiudendosi nelle stanze oscure per turni di lavoro a cottimo anche di dodici ore e in una situazione del
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•
genere, la Bagnarota non poté che rinunciare alla gestione commerciale di un prodotto ormai poco vendibile e
vendere invece la propria forza-lavoro alle segherie e alle agenzie di trasporto. E così alle carovane che
s’addentravano verso l’interno con grossi carichi di prodotto locale, si sostituirono le carovane di Bagnarote che
trasportavano circhi, tavole, doghe dai castaniti alle segherie, dalle segherie alla spiaggia e dalla spiaggia sulle
passerelle dei piroscafi. La Bagnarota adesso, lavorava in cambio di una mercede; non più una lavoratrice
libera, in grado di gestire il proprio tempo sfruttando al meglio le opportunità che le si offrivano. Ora tutto era
cambiato: doveva correre perché era il cottimo che le poteva garantire la sopravvivenza.
La Bagnarota “del pesce” aveva invece conservato la propria fisionomia settecentesca di lavoratrice che gestiva
un ciclo che iniziava dal bagnasciuga del mare e terminava sulle strade della Cittadina e sui mercati di Messina,
Reggio, Palmi e l’interno aspromontano. La vigoria e la determinazione era la stessa, in genere i marinai delle
barche erano i mariti o i fratelli di queste Bagnarote e dunque il ciclo continuava ad essere quello di sempre. Le
Bagnarote che raggiungevano Messina esercitavano il contrabbando di ritorno, e anche in questo caso
ereditando un’antichissima tradizione Bagnarota.
Ma com’è facile intuire, tutto ruotò attorno all’attività principale del legno e dei suoi derivati e s’è messa in evidenza la
debolezza di questa economia, poggiante praticamente su niente: nessuna attività di ricerca e sviluppo, nessun
investimento in innovazione tecnologica, nessun potenziamento delle strutture di supporto e soprattutto aumento
dell’isolamento fra le diverse comunità limitrofe, circostanza che non consentì lo sviluppo di un’economia complementare
in grado di governare il cambiamento.
Non così al Nord, ove i centri industriali si specializzarono ognuno sviluppando “componenti” utili alle produzioni
innovative e i trasporti veloci collegarono i diversi poli industriali in modo sempre più efficiente e veloce.
Così la plastica travolse Bagnara, come evidenziato negli altri studi pubblicati anche su questo sito.
Si trattò del “Miracolo Economico” che mentre condannava Bagnara nella sua totalità, svuotò radicalmente le
comunità del Canale.
L’emigrazione sud americana, statunitense, canadese, nord europea e australiana, adesso si spostò sulla Pianura
Padana e avvenne in modo massiccio: treni giornalieri stracarichi portarono al Nord intere famiglie e si cancellarono così
professionalità secolari sul Canale.
La Bagnarota che attorno all’economia del legno sembrò essere una stella di prima grandezza, uscì definitivamente di
scena quando dalla scena locale uscì Bagnara, collassata su sé stessa.
Le ultime generazioni non ricordano la Bagnarota delle saje dondolanti, delle ceste trasportate sulla testa, del pesce
vandiato per le strade di Bagnara, Palmi, Reggio, Messina perché il processo di degrado fu talmente rapido che perfino
la memoria storica ne rimase compromessa.
In cinquant’anni, dal 1908 al 1958, la Bagnarota “classica” mutò da soggetto economico indipendente a salariata
occasionale. Divenne cioé veloce la trasformazione della Bagnarota Settecentesca in quella Ottocentesca; adesso in
poco meno di cinquant’anni, il processo era di nuovo accelerato, divenendo ancora più veloce.
Dagli Anni Cinquanta agli Anni Settanta, il processo accelerò vieppiù e nel giro di una decina d’anni Bagnara
collassò su sé stessa facendo scomparire la Bagnarota.
In simili circostanze, fu facile identificare la Bagnarota come una meteora straordinaria decifrandola come presente e
attiva nel novecento e adesso evocata e trasformata in mito.
Ma non fu così nella realtà.
Bagnara e la Bagnarota: si racconta su questo connubio, una storia lunga secoli e secoli, attraverso i quali emerge la
dedizione al lavoro di un Popolo capace di stare a contatto con una natura bellissima ma infida affrontando sfide
grandiose, e sempre uscendo da esse vittorioso e predisposto al futuro in modo positivo.
Abbiamo poi appuntato in questo studio e negli altri pubblicati, quali furono gli errori e le mancanze; quali le circostanze
interne a Bagnara e che attorno ad essa, decretarono la fine della Bagnarota.
E alla fine del nostro percorso, possiamo parlare della Bagnarota circondandola con una frase di lode estesa a tutte le
Donne di Calabria:
“le Donne di Calabria
si riassumono in una sintesi concettuale
nella Bagnarota,
perché alle Bagnarote
mancarono la forza e la fortuna
non l’onore”.
Tito Puntillo
La Bagnarota: non fu Matriarcato ed oggi rappresenta, si, un mito, ma nel senso di cosa sia significato il lavoro a
Bagnara, lavoro che oggi non c’è.
La Bagnarota è il simbolo insieme della floridezza e della resistenza attiva alle forze della natura per far vincere il lavoro,
e battere, sempre, le avversità sociali.
Si tratta di requisiti che oggi, a Bagnara, sono scomparsi e ciò fa ricomprendere Bagnara nell’insieme della situazione di
sottomissione e dipendenza che oggi deprime la Calabria, una volta patria di Dei ed Eroi ascesi all’immortalità.
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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IL PESCE SPADA
Come ogni anno, il primo sabato dopo Pasqua era dedicato al sorteggio dei posti di avvistamento per la pesca del pesce
spada.
Anche questo non accade più perché ormai questo meraviglioso purosangue degli abissi non è più una delle
caratteristiche della gastronomia della Costa Viola, ma è diventato una delle tante componenti della cucina italica.
Ora lo si pesca in centinaia di esemplari sbarrandogli la strada, che segue il perimetro del Mediterraneo, con le reti dette
derivanti, lunghe anche cinque chilometri, che stanno uccidendo con lui tartarughe, delfini, balene e tanti altri poveri
pesci non commestibili. Per la verità, già prima i delfini e gli squali (palombo e verdesca) venivano decapitati e spediti
sui mercati del nord dove finivano a cotolette per gli studenti, i carcerati e gli ammalati.
Il pesce spada invece veniva pescato solo nella baia fra Villa S.Giovanni e Palmi e lungo la costa di Messina;
praticamente all’imbocco dello Stretto. Là cioè dove concorrono alcune condizioni naturali: la profondità del mare che
raggiunge i 500 metri, la corrente che viene su dallo Stretto – proveniente dal Golfo di Taranto – e porta enormi
quantità di plancton che costituiscono il cibo di quel pesce azzurro del quale si nutre il pesce-spada (…)
Arriva perciò all’inizio della primavera tondo grosso e pronto alla riproduzione. Il che gli conferisce una carne morbida
rosea e profumata (…)
Nel periodo degli amori – da Maggio a Luglio – il pesce spada nuota prevalentemente in superficie (…) Prima che la
tecnologia sconvolgesse la natura, i pescatori avevano un solo motore, i loro muscoli, e per la pesca del nostro spada,
veniva usata una barca specialissima, sottile, tutta dipinta di nero all’esterno e verde all’interno, lunga non più di tre
metri (…)
A ogni barca veniva assegnato, per sorteggio, un tratto di mare che sulla costa aveva l’avvistatore (…) che fra urla a noi
incomprensibili e i segnali dati con uno straccio bianco legato a un pezzo di canna, riusciva a portare l’ontre vicinissimo
al pesce (…)
Il sorteggio aveva luogo a Bagnara, centro fisico della zona di pesca e patria dei veri marinai, quelli capaci di andare per
mare con ogni tempo. Tanto che a Palmi, a Gioia come Scilla e Villa, i pescatori, quelli cioè che rifornivano di pesce il
mercato, erano conosciuti come “i Bagnaroti”(…)
FELICE BADOLATI, Profumo di Antico, fatterelli e racconti della Palmi che fu, Klipper Ed.,
Cosenza 2005. Pgg. 54-61
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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2.-
La Conquista
« Che per costringere il Mezzogiorno all’assetto unitario fosse legittimo l’uso della forza, fu
posizione assunta dagli uomini di governo in Italia sin da Cavour.
Questi infatti, ribadiva come compito indiscutibile quello di imporre l’Unità alla parte più
corrotta, più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubiezza: la forza morale e
se questa non basta, la fisica »
LUIGI N. LOMBARDI SATRIANI – MARIANO MELIGRANA, Diritto egemone e diritto popolare. La
Calabria negli studi di demologia giuridica, Qualecultura ed., Vibo V. 1975, pg. 13.
La citazione è tratta da: Il carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Zanichelli ed., Bologna 1929, pg. 29
Il canto per la libertà perduta
« … pure v’ha una poesia, la quale più forte, più elevata sgorga dal cuore di chi canta. Amore,
fede, stoicismo, religione, pianto, riso, stringonsi in istrano connubbio e l’un l’altro si sostituiscoono.
Parlo dé canti del condannato, tanto popolari in Sicilia, Calabria, Napoli, Corsica, quanto scarsi in
Roscana, Lombardia, Venezia, e altrove. Quello è vero tipo di poesia, che fa impallidire i poeti da
gabinetto e quanti stimano di poter salire soltanto per istudio e per arte le vette d’Elicona, le quali
unicamente per genio è dato di guadagnare. In essi, la piena degli affetti irrompe, e come lava del
nostro vulvano, si riversa impetuosa e non s’arresta, ma seppellisce e gorgoglia. L’elemento
costitutivo di questo genere di canti è il sentimento della libertà perduta … »
GIUSEPPE PITRÉ, Studio critico sui canti popolari, “Canti popolari siciliani” – I – p. 67, Clausen ed.,
Palermo 1891
Canto del Brigante di Solano
Cu rici ko carciri esti rovina
Non sapi ko carciri esti na scola!
Si trasi armatu j ferru e catina
Si nesci homu j parola
FRANCESCO SPOLETI, La canzone del Popolo,
in: Un anno in provincia, tip. Pierro e Verardi,
Napoli 1900, pg. 53
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2.- Donne meridionali fra amore e morte
MICHELINA DE CESARE
Michelina era una giovane contadina che osservava con sdegno le manovre delle colonne mobili piemontesi che davano
la caccia ai Briganti. Gli invasori penetrando nei villaggi, violavano le case, assembravano sulle piazze tutti i maschi,
ragazzi compresi, minacciavano e spesso saccheggiavano viveri e corredi dei poveri abitanti. Passò fra le campagne di
Caspoli ove ella abitava, il brigante Francesco Guerra e fu grandissimo amore a prima vista.
A fianco di Don Ciccio, Michelina divenne donna di coraggio e azione e la sua storia passò di bocca in bocca: la
bellissima e impavida Lina divenne esperta del territorio e della tattica della guerriglia, tanto da riuscire a prevenire gli
attacchi dei bersaglieri piemontesi.
Il 30 agosto 1868 la banda Guerra fu massacrata.
Michelina non fu presa perché in ricognizione ma saputo del massacro, cedette al dolore e in preda alla pazzia, fu
facilmente catturata dai piemontesi. Venne torturata e violentata dai “liberatori” fino a quando, a causa delle atroci
sevizie subite, morì in una orrenda cella.
I piemontesi la denudarono e collocarono il cadavere sulla piazza del paese quale monito verso chi avresse ancora
osato proteggere i Briganti..
L’effetto fra le popolazioni meridionali fu la lievitazione di un odio profondo verso i piemontesi e i loro fiancheggiatori,
quasi tutti appartenenti alla imbelle borghesia meridionale.
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ARCANGELA COTUGNO & ELISABETTA BLASUCCI
Arcangela era nota con l’appellativo di “Dolinda” era una donna energica e bellissima.
Il fratello seguì speranzoso Garibaldi, distinguendosi per valore durante la battaglia del Volturno. La discesa dei
Piemontesi significò per la famiglia di Arcangela e per quella del marito Rocco Chirichigno (noto come «Coppolone»),
la negazione a due pezzetti di campagna promessi da Garibaldi in cambio dell’arruolamento.
Il tradimento alla parola d’onore data con fiducia, provocò in Coppolone la voglia di vendetta contro quei massacratori
venuti da sopra. Si dette alla macchia nei dintorni di Montescaglioso.
Pressato dai bersaglieri, resistette il 23 agosto 1863 alla cavalleria del maggiore Mennuni nei dintorni di Irsina e
combatté ancora con determinazione fino a quando, nel febbraio 1865, venne gravemente ferito dai piemontesi fra le
campagne di Ginosa. Morì di stenti e setticemia per l’approssimata cura sanitaria che gli offrirono gli invasori.
Dolinda trovò allora accoglienza da Elisabetta Blasucci, nota come «A’ Pignatara», moglie del brigante Gianni
Libertone.
Combatterono come uomini, mantenendosi con aiuti di abitanti dei villaggi e depredando capi di bestiame e sacchi di
grano fra le masserie del Matese.
Alla fine, stanche e deluse, e con Dolinda ammalatasi gravemente, furono sorprese e catturate.
La foto qui sopra venne scattata dopo la cattura quale “documento” allegato al processo, e la condanna fu di vent’anni
di carcere. Dolinda appare nella foto stanca ma con lineamenti orgogliosi, sguardo fiero e dritto, certezza nel giusto A
stento sono così celati i segni della sofferenza. Morì in carcere dopo tre anni dalla condanna e quindi la seguì nella
stessa sorte Elisabetta Blasucci.
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FRANCESCA LA GAMBA
Francesca apparteneva a una famiglia di contadini di Palmi, ov’era nata nel 1768. A quindici anni, come d’uso in tuutta
l’area, la giovane fu mandata a lavorare in una delle tante filande che erano attive attorno al mercato della seta di
Seminara. Si sposò poi con un compaesano, Saverio Saffioti e si formò così una famiglia, una volta che nacquero
Carmine e Domenico.
Saverio si ammalò poco dopo la nascita del secondo figlio e uscì
di vita a ridosso del 1799, quando in Calabria iniziarono i
fermenti antirivoluzionari che preannunciavano la venuta del
Cardinale don Fabrizio Ruffo-Bagnara alla guida della Armata
della Santa Fede e contro i Giacobini della Repubblica
Partenopea, appoggiati dai Francesi.
Rimasta vedova, Francesca resse la famiglia a forza del proprio
lavoro e proprio per tale motivo, ebbe modo di conoscere don
Totò Gramuglia, un giovane di Bagnara che all’epoca
commerciava proprio fra Palmi e Seminara.
Si sposarono e Francesca fece felice il marito con la nascita di
una bambina.
Francesca, non appena ne aveva la possibilità, seguiva il marito
fra Bagnara, Palmi e Seminara e fu proprio durante uno di questi
spostamenti che fu notata da uno degli ufficiali francesi che dal
1806 avevano iniziato a presidiare l’Altopiano e la costa, dopo
l’instaurazione a Napoli della Monarchia di Gioacchino Murat
(1808).
Nel tempo le avances del francese si fecero insistenti ma
Francesca non cedette e, anzi, si ribellò a quel corteggio che
riteneva odioso e insultante.
La vendetta del francese fu tremenda.
Don Totò venne arrestato con l’accusa di illecito traffico d’armi
a favore degli insorgenti calabresi che erano attivissimi fra il
grande bosco di Solano e la Piana e non davano tregua alle
guarnigioni d’Oltralpe.
Di fronte alla continuata resistenza della donna, vennero arrestati anche i figli di Francesca, processati in modo
sommario e fucilati per sospetto brigantaggio. Don Totò non resistette al dolore e morì in carcere di crepacuore.
Francesca allora, abbandonò tutto e si diede alla macchia trovando asilo fra i boschi di castagno, ove presto divenne
leader di una piccola banda di briganti.
Da allora fu vista con uno schioppo armato sempre in spalla e sempre alla testa del manipolo che assaltava gli
avamposti francesi e i convogli che facevano la spola fra la Piana e il Piale, ove Re Gioacchino aveva stabilito il suo
quartier generale per l’attacco a Messina e l’invasione della Sicilia.
Contro di lei venne spedita una colonna mobile. Il danno per l’attacco a quei convogli e la destabilizzazione della zona
che scaturiva dalle sue gesta, stava divenendo veramente preoccupante.
Una colonna mobile riuscì alla fine a intercettare la banda ai Piani della Corona, mentre stava per trasferirsi dentro il
grande Bosco di Solano. Favoriti dal terrenno pianeggiante, i bersaglieri riuscirono a circondare la banda che però tenne
duro riuscendo a mantenere a distanza gli assalitori fino a quando altri banditi abitatori del Bosco, avvertiti da pastori
che assistettero alla scena, scesero per dar man forte agli amici circondati. La situazione si ribaltò velocemente e i
bersaglieri furono battuti. I briganti fecero molti prigionieri e fra costoro, Francesca individuò l’ufficiale che per così
tanto tempo l’aveva perseguitata causando alla fine, la morte dei suoi cari.
Mentre i suoi compagni sostenevano l’ufficiale, già ferito, per le braccia, Francesca si armò di un lungo coltello e iniziò
a squartarlo vivo, con calma, seguendo la tecnica dei macellai alla prese con un grosso vitello.
La banda di Francesca continuò a dominare la scena lungo la direttrice Solano – Seminara – Palmi, usufruendo degli
ospitali valloni dell’Aspromonte boscoso, impenetrabile.
30
Quando il Principe Luigi d’Assia-Philippsthal, peraltro appassionato collezionista di reperti antichi,
già valoroso
difensore della fortezza di Gaeta sul finifre del 1806, nel Maggio 1807 sbarcò a Reggio per muovere contro i Francesi e
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rimettere sul trono Ferdinando di Borbone, quasi tutte le bande che operavano nel reggino, sull’Aspromonte e l’Altopiano
e sulla Piana, accorsero a Reggio per mettersi al servizio del Principe. Francesca venne accolta nel Quartier Generale
dell’esercito borbonico con molta affabilità e l’aiuto offerto dalle bande, venne accolto con favore. Intanto navi borboniche
sbarcavano alle porte di Crotone le bande di Antonio Santoro e Nicola Gargiulo. Esse avevano l’ordine di prendere il
porto, occupare la città e organizzare un contingente che muovesse verso Catanzaro coll’intento di prendere i Francesi
alle spalle. Vennero immediatamente bloccati dai Francesi e successivamente neutralizzati.
Il 26 maggio 1807 il Principe mosse da Rosarno, ove s’era fermato per consolidare la logistica e attendere le ultime
masse di irregolari, verso nord. A Mileto la colonna militare, adesso forte di 3.500 soldati regi e una moltitudine di
irregolari, si fermò perché il Principe era indeciso su come impostare l’avanzata successiva verso il polo strategico di
Monteleone, ove i francesi del generale Reynier avevano concentrato oltre 5.000 uomini.
Il colonnello Vito Nunziante che faceva parte del suo Stato Maggiore, sollecitò il Principe a non arrestare la marcia e
guadagnare posizioni di teatro favofrevoli, essendo i dintorni di Mileto con le sue dolci colline, una comoda zona per unj
contrattacco nemico.
Ma il Principe non volle dare ascolto ai consigli di prudenza e incitamento nel contempo, e diede ordine di fermare
l’avanzata e pensò anche di inviare un parlamentario a Monteleone per sollecitare i Francesi ad abbandonare la città per
evitare un forte sacco e vittime anche fra i civili. Il parlamentario venne ovviamente respinto.
Il 28 maggio, quando ormai la mattinata era trascorsa, i Volteggiatori e i Fucilieri francesi iniziarono l’offensiva con una
fucileria che dall’alto delle colline di Nao e Pizzinni, fece vittime e seminò lo scompiglio fra i Borbonici.
Quest’ultimi pensarono allora di ritirarsi nell’abitato di Mileto per poi sovrapporlo fra loro e i Francesi all’inseguimento.
Vennero raggiunto dentro l’abitato e lo scontro si trasformò in assalti alla baionetta, agguati, saccheggi.
Vittoriosi fra le vie di Mileto, i Francesi uscirono di corsa dal paese lanciandosi all’inseguimento fra le campagne che
stavano fra Mileto e Roasarno. Non diedero tempo ai Borbonici di riorganizzarsi e formare una linea difensiva sicché il
Principe dovette abbandonare anche Rosarno e poi Gioia, lasciando per la via, armamenti, cannoni, bagaglio e
provviste. Reynier ordinò al generale Camus di formare una retroguardia con il suo 52° Reggimento e recuperare il
recuperabile oltre a fermare i numerosi sbandati che vagavano per la campagna. Racconta il Generale Guglielmo Pepe
che aveva combattuto contro i Sanfedisti del Cardinale Ruffo nel 1799 e adesso faceva parte del Comando Francese,
che i prigionieri a un certo punto furono una moltitudine e che lui stesso s’accorse che un piccolo assembramento di
francesi osservava un ferito disteso fra le zolle. S’avvicinò accorgendosi che si trattava di una donna in abiti militari e che
delirava ripetendo il nome del marito mentre stringeva saldamente al petto uno schioppo.
Il Principe pensò di deviare su Seminara ove contava di poter recuperare il vantaggio della perfetta conoscebnza del
territorio da parte dei combattenti irregolari. Raggiunto dalle truppe francesi, il Principe lanciò di di esse la cavalleria
convinto di poter sbaragliare lo schieramento di Reynier. I Francesi erano però dei valenti soldati di mestiere, con ottima
esperienza acquisita sui campi di battaglia. Si ricompattarono immediatamente formando diversi quadrati difesi da
baionette e lance. Contro di essi piombò la cavalleria borbonica che si scompaginò e di fronte alla susseguente,
micidiale fucileria proveniente dai quadrati, ripiegò precipitosamente travolgendo i Cacciatori e i soldati di linea
biorbonici. Il contingente del Principe dovette così scendere precipitosamente verso Reggio, inseguito dalla cavalelria di
Reynier. Mentre i guerriglieri a massa in qualche modo frenavano l’incedere francese, i Borbonici raggiunsero Reggio
ove, aiutati dalle cannonate del naviglio britannico in rada, riuscìrono a reimbarcarsi per la Sicilia.
Alle bande a massa, altro non rimase che recuperare dai corpi dei caduti quanto necessario e possibile e quindi ridarsi
31
alla macchia.
Le relazioni borboniche riferirono di una inaudita ferocia delle bande a massa. Ma i Briganti, governati certamente dagli
istinti, presero a schioppettate con rabbia i fuggitivi e poi, passando loro accanto, li spogliarono di ogni cosa.
Il 9 giugno il Monitore Napolitano attaccò il Principe Phillipsthal accusandolo di essersi servito di bande organizzate a
massa e governate dall’indisciplina e la violenza. E così si ribaltò una verità più che assodata: la rabbia dei Briganti per il
tradimento e la fuga dei Borbonici, vebbe fatta passare per ribalderia votata all’assassinio e la predazione.
I percorsi che la banda di Francesca utilizzava per spostarsi fra Solano e Palmi, vennero presto individuati dagli
esploratori francesi e la minaccia di un attacco in forze dei volteggiatori nel Bosco di Solano, costrinse Francesca a
riparare in Sicilia. Appena in tempo perché durante il trasferimento sulla marina per l’imbarco, venne intercettata e per
farsi strada, dovette combattere rimanendo anche ferita.
Nella Piazza di Messina, Francesca ricevette le cure e quindi fu incasermata. A lei fu affidato il compito di istruttrice nelle
tattiche di guerriglia e combattimento ravvicinato.
A questa attività si dedicò a lungo e con entusiasmo fino a quando decise di restituirsi alla vita civile, dopo la Seconda
Restaurazione borbonica.
30- Nel castello di Fulda del principe d’Assia si conservano ancora numerosi reperti risalenti al periodo magno-greco di Medma. Il Principe,
conosciuto anche come esagerato bevitore di buon vito, era cugino della Regina Maria Carolina.
31 - Monitore napolitano, 9 giugno 1807. Cfr.: VITO CAPIALBI Memorie per servire alla storia della Santa Chiesa Militese, tip. di Porcelli, Napoli
1835, ristampato con le Appendici e gli Aggiornamenti e in’Introduzione di Vincenzo F. Luzzi, Opera Pia S.Francesco di Paola ed., Polistena 1980;
DOMENICO TACCONE GALLUCCI, Monografia della città e diocesi di Mileto, Società Tipografica, Mocdena 1882 e, con notte e aggiunte
dell’Autore, id., Modena 1902 ristampa anastatica a cura di Forni ed., Bologna 1984; F. PTITTO, La battaglia di Mileto, Archivio Storico della
Calabria (ASC), a. 1912; F.PITITTO, Racimolature storiche. La Badia della Trinità in Mileto, ASC., a. 1914; CARMINE NACCARI, Cenni storici
intorno alla Città di Mileto, Stab. Tip. "Il Progresso", Laureana di Borrello 1931; FRANCESCO PITITTO, La battaglia di Mileto: 28 maggio
1807, p.121, Tip. A. Signoretta, Mileto, 1917 (Estratto da: Archivio Storico della Calabria, a. IV - 1916)
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MARIA OLIVERIO
Maria nacque a Casole Bruzio il 30 agosto 1841. Come frequentemente accadeva in Calabria a quei tempi, il
mantenimento di una figlia femmina comportava aggiuntività di sacrifici per una povera famiglia di contadini, ancorché
quasi sempre esse si applicassero ai servizi della casa e sui campi, con una forza, costanza e dedizione che i figli
maschi talvolta non riuscivano ad eguagliare. Dunque a 17 anni Maria fu destinata sposa, a Pietro Monaco e si
trasferisce in casa del marito, a Spezzano. Pietro Monaco era stato un valoroso garibaldino e aveva seguito il Generale
fino a Capua, partecipando poi a quell’assedio e distinguendosi per valore. Gli toccò comunque la sorte di quasi tutti gli
altri volontari e venne dunque smobilitato e rispedito a casa. Una condizione che provocò una profonda amarezza a
Pietro. Le nuove leggi savoiarde impattarono su una Presila già in condizioni economiche vicine alla sussistenza e
diversi contadini provarono a ribellarsi contro il mancato rispetto dei patti che prevedevano la distribuzione ai contadini
delle terre demaniali della pre-Sila, provocando la dura reazione dei
Carabinieri e dei Bersaglieri piemontesi. Pietro Monaco, come tanti,
avrebbe poi dovuto presentarsi al comando militare per essere
reinquadrato nell’Esercito o deportato nel Forte di Exilles. Fu uno di
quelli che alla sottomissione preferì la macchia fra i boschi della Sila
cosentina, ove trovò asilo fra i Briganti, formando poi una propria
banda e battezzato dal popolino “Brutta Cira”. La forza di questa
banda aumentò progressivamente così come progressivamente,
aumentavano le azioni destabilizzanti dei Briganti Bonaro, Borjes,
Piluso (meglio noto come “Tabbacchera”). I latitanti erano sempre
sfuggiti agli agguati e agli inseguimenti, acquisendo così la fama di
imprendibili. Fu così che i militari decisero di colpire i latitanti alle
spalle, mettendo in atto una infame azione di rappresaglia. Nel
marzo 1862 il maggiore Piero Fumel fece irruzione con la truppa in
casa di Pietro Monaco, a Spezzano, arrestando Maria con aleatorie
accuse di collaborazionismo. Nel contempo un’altra squadra
arrestava la solrella di Maria, Teresa. Maria fu rinchiusa nelle
segrete del vecchio convento di San Domenico a Celico, e la notizia
dell’arresto fu diffusa rapidamente in modo che giungesse a Pietro.
In tal modo le autorità speravano che Pietro, pur di salvare la
moglie, accettasse di indicare i rifugi dei Briganti silani uccidendo lui
stesso i più pericolosi. Dopo due mesi di cella, Maria fu liberata
proprio mentre i più pericolosi Briganti silani venivano individuati e
uccisi. Teresa era già uscita di prigione e aveva frequentato Pietro
con una certa assiduità. Maria venne a conoscenza di una profonda
relazione fra la sorella e il marito e, armatasi di scure, affrontò la
Maria Oliverio, ferita, viene fotografata dopo la
sorella. Davanti ai tre figli piccoli della sorella, la uccise con 48
cattura e prima della deportazione al Forte di
accettate. Dopo il delitto, fuggì precipitosamente raggiungendo la
Fenestrelle, fra le Alpi piemontesi.
banda del marito. Da quel momento Maria, soprannominata
“Ciccilla” partecipò a quasi tutte le scorrerie della banda Monaco. Il 18 giugno 1863 Ciccilla prese parte al sequestro di
don Achille Mazzei, che faceva parte dell’entourage del Governatore della Calabria, don Donato Morelli, e del sindaco
don Totò Parisio, componente della prestigiosa Famiglia Parisio, avvenuto nei pressi di Rogliano. Venne chiesto un
riscatto di di 20.000 ducati, pagati dalle famiglie dei due notabili. Il 31 agosto 1863, Ciccilla partecipò al sequestro di
nove notabili di Acri. Si trattava di personalità eminenti del Regno, quali i parenti di Gio:Batta Falcone, il patriota che fece
parte dei volontari della Spedizione di Sapri, il Maggiore Raffaele Falcone, Ferdinando Spezzano (che oppose resistenza
e fu ucciso sul posto), Angelo Feraudo, Domenico Zanfini, Carlo Baffi, don Francesco e don Saverio Benvenuto e Mons.
Filippo Maria De Simone, Vescovo di Tropea.
Questo sequestro fece aumentare a dismisura il prestigio della Banda Monaco, e di conseguenza il timore nelle autorità
che il tasso di approvazione del nuovo Regno scendesse di livello e in modo preoccupante.
Ma già il 1 settembre 1863, il Generale Giuseppe Sirtori (ex Capo di Stato Maggiore di Garibaldi durante la spedizione
dei Mille) prese il comando dei contingenti impegnati nelle azioni anti-brigantaggio in Calabria.
L’unico modo per battere la Banda Monaco, parve essere fomentare la discordia all’interno della Banda e a questo puntò
il controspionaggio sapientemente guidato dal Generale Sirtori. Il 23 dicembre 1863, Pietro e Ciccilla parteciparono al
cenone di Natale organizzato nel rifugio nei pressi di Pedace. Dopo il cenone e i festeggiamenti, Pietro e Ciccilla si
ritirarono in un essiccatoio per castagne e presero sonno. Nella notte irruppero nella capanna, il suo vice Salvatore De
Marco, detto “Marchetta”, Salvatore Celestino, “Jurillu” e Vincenzo Marrazzo, “Diavolo. Pietro Monaco fu freddato
all’istante con una pallottola che gli trapassò il cuore e, uscendo dalla schiena, ferì Ciccilla al braccio.
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Ciccilla balzò in piedi armandosi di moschetto e pistole, mentre i traditori fuggivano rendendo vano l’inseguimento della
donna, intenzionata a vendicare l’uccisione del marito. Resasi conto che i fuggitivi erano armai imprendibili, tornò sui
suoi passi e decapitò il cadavere del marito per evitare che esso divenisse oggetto di oltraggio da parte dei Piemontesi.
Bruciò la testa ai piedi di un castagno e quindi si dileguò riparando fra le foreste silane, assistita dal fratello Raffaele,
Antonio Monaco e al resto della banda. La latitanza di Ciccilla si protrasse per oltre un mese, riuscendo sempre ad
evitare il contatto coi Piemontesi, decisi a catturarla ad ogni costo. La ferita, medicata in modo approssimato, doleva
sempre più, provocandole febbri e spossatezza. Alla fine fu individuata in una grotta a strapiombo sul Neto nei pressi di
Caccuri. Si accese un violento scontro e le schioppettate della Banda di Ciccilla, centrarono a morte due bersaglieri e
uno scherano del Barone Barracco. Alla fine i Briganti furono sopraffatti. Antonio Monaco fu fucilato sul posto e quindi
decapitato. Ucciso sul posto anche Pasquale Gagliardi. Ludovico Russo riuscì a mettersi in salvo così come Saro
Mangone e Gino Romanelli, “Cacciafrittule”, che però furono successivamente bloccati dagli scherani del Barone
Drammis in una grotta vicino a Santa Severina e uccisi per asfissia, dopo che la grotta ove reistevano, venne affumicata.
infine alla banda di Sijnardi/De Luca di Pietrafitta e Pedace).
Ciccilla dunque, venne catturata e rinviata a processo con 32 capi d’accusa: praticamente tutto il repertorio presente nel
Codice Penale.Il processo si tenne a Catanzaro nel febbraio 1864. Il Tribunale di Guerra la condannò a morte.
Per intercessione del Generale Sirtori e di don nicola Parisio, giudice della Corte d’Appello, Vittorio Emanuele concesse
che la pena fosse tramutata in ergastolo con lavori forzati a vita.
Ciccilla fu tradotta nella fortezza di Fenestrelle, il baluardo che protegge l’ingresso in pianura dalla parte della Val
32
Chisone, ove visse ancora per circa quindi anni prima di morire. Non si conosce il luogo della sua sepoltura.
32 - Sul Brigantaggio esiste una copiosa produzione storica dalla quale estrapolerei le seguenti indicazioni:
-
GIORDANO BRUNO GUERRI, Il bosco nel cuore. Lotte e amori delle Brigantesse che difesero il Sud, Mondadori, Milano 2011
CARLO GUARNA-LOGOTETA, Storia di Reggio Calabria dal 1797 al 1860, in continuazione della Storia di D.Spanò-Bolani, con note e
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-
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MICHELE ROCCISANO – BRUNO CONGIUSTI, Fellà, il bosco che parla. Contadini, briganti, santi e Vagabondi in un bosco di Calabria,
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ISABELLA LOSCHIAVO PRETE, Il Brigantaggio nella Prima Calabria Ultra all’indomani dell’Unità, Città del Sole ed., Reggio C. 2010;
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Laporta, Capone ed., Lecce 2001;
VINCENZO LABANCA, Un Brigante chiamato Libero. La straordinaria vicenfa storica di Crocco, Borjès e Ninco-Nanco incastonata in un
meraviglioso romando dai risvolti inediti, Zaccara ed., Lagonegro 2004;
D. SCARFOGLIO – S. DE LUNA, Le donne col fucile. Brigantesse dell’Italia post-unitaria, Cues ed-, Napoli 2007;
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Per una buona documentazione, consiglio in particolare:
GAETANINA SICARI RUFFO, Le donne e la memoria, Su un progetto editoriale di Daniera De Blasio, Città del Sole ed., Reggio C. 2006
e della stessa Autrice,
Il voto alle donne, con una nota introduttiva di Antonio Canfora, Mondeditori, Roma 2009
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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3.- La
Bagnarota di Mimì Berté
Nel novembre 2007, Don Peppino Berté scrisse una commovente lettera a Mimmo Gallo, studioso e collezionista di
praticamente tutta la produzione artistica di Mimì Berté.
Il Professore si congratulava per l’ottimo lavoro di Mimmo Gallo, un lavoro toccante:
“Toccante perché, da calabrese, hai saputo cogliere e trasmettere i vari e complessi aspetti della natura della “Mia
Bagnarota” (…) un inno a Mia Martini grandissima artista interprete e alla nostra terra di Calabria, ricca di geni e di
valori universali.
Mimì fu una figlia del popolo meridionale. E spiego il perché. Mimì crebbe “in pace” a Bagnara in un ambiente
straordinario. Bagnara era ancora un tutt’uno colla natura e si poteva avvertire il dolcissimo cambio delle stagioni
attraverso la variazione dei profumi dell’aria.
E così in autunno, a sera, l’odore gradevole della legna che le bajettote bruciavano davanti alle loro case, per preparare i
bracieri della sera, si confondeva con quello delle castagne valori, nelle aule delle Scuole Elementari, ove maestre
amorevoli, sensibili e competenti, badavano a quei bambini felici. E poi in primavera, quando le rasole venivano invase
da un rigoglioso fiorire e i colori staccavano meravigliose sfumature su per l’erta della collina che conduceva ai Cipressi,
poiché sempre a Bagnara si visse nella continuità con chi non c’era più.
Si stava felici a scuola perché poi s’andava per le vie, lungo la spiaggia, sulle piazzette, sempre a giocare in tanti e ci si
sentiva padroni, possessori di quel Paese tutto raccolto intorno al proprio lavoro collettivo.
Si era felici perché le mamme davano ai figli la sensazione di “protezione”, di “certezza”.
Le Bagnarote erano la componente aggiuntiva ideale di quei bambini del 1950.
Ogni tanto, nella foga della corsa, fra schiamazzi e stridolii, capitavano in mezzo a qualcuna di loro, intenta al trasporto
delle coffe, e le Bagnarote se ne lamentavano ma senza alcuna convinzione, un po’ come il possente leone, infastidito
dalla cucciolata e che, pure, non intende minimente contrastare.
Mimì era felice.
Lo testimoniano in tantissimi a cominciare da Mimmo Villari che ne fu compagno di giochi e poi d’arte.
Quando dovette lasciare Bagnara, lei come in tantissimi, Mimì soffrì il distacco in modo impressionante, proprio perché
Bagnara era in lei, un rapporto affettuoso che la rendeva un tutt’uno con Paese, inteso come cittadina viva, vera, reale.
Per tale motivo Mimì tornava a Bagnara costantemente e sempre quando il suo morale crollava.
Si rifugiava da sua zia Sarina che se la
vedeva
comparire
davanti
l’uscio
d’improvviso: “Zia! Cosa mi prepari di
buono da mangiare?” era il saluto gaio e
poi, dopo l’abbraccio liberatore, via di
corsa sulla spiaggia con gli amici, mobilitati
in blocco.
Dopo la disperazione degli Anni Ottanta,
Mimì vinse la battaglia contro tutti facendo
prevalere il suo grande senso dell’arte e
furono, quelli successivi, anni di trionfo.
Ma a Mimì mancò tutto il resto affettivo e
alla fine si sentiva sicura solo quando si
rifugiava fra le braccia del padre e Don
Peppino accoglieva quell’angelo con una
tenerezza infinita.
Questa lunga introduzione non può servire
a tracciare il profilo di questa eccezionale
figura, così poliedrica e intensa e tuttavia
mi auguro possa condurre bene a spiegare
Mimì a Bagnara nel 1985
cosa sia stata la Bagnarota per Mimì.
Tratto da DOMENICO GALLO, Mia Martini: “io sono la Calabria”, Laruffa ed., Reggio C. 2007, pg. 73
Mimmo Gallo dedica a questo argomento
l’intero Capitolo 3 del suo libro e lo intesta così: “La Bagnarota della canzone”.
Introduce poi il tema richiamando la definizione di Bagnarota così come la scrisse Gianni Saffioti in ASFB. Le Bagnarote
“sopperiscono” alla mancanza di agevoli vie di comunicazione, di fatto fungendo da “vettori”, senza le quali la Città non si
sarebbe potuta sviluppare. E così s’andò avanti fino a quando “la tecnologia, il progresso, le macchine in genere hanno
sostituito il lavoro degli uomini e delle donne, specie quello pesante” sicché il commercio, che praticamente era in mano
alle Bagnarote, mutò i propri processi e il lavoro della Bagnarota, motore dello sviluppo di un’intera Città, non ebbe più
spazio d’azione.
Resta il folklore (è sempre Mimmo Gallo che cita Saffioti), costituito da intrecci culturali “che nel corso dei secoli si sono
sempre più complicati man mano che il potere ed il dominio sul popolo e sulla nostra terra cambiava colore e
nazionalità”.
V’è da dire che in realtà non è scomparsa l’attività della Bagnarota nell’ambito dell’attività economica a Bagnara, ma,
come abbiamo notato e messo in evidenza, a Bagnara è scomparso TUTTO il lavoro, sicché il mito della Bagnarota, che
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è celebrato in modo festaiolo, è in realtà l’asseverazione di un declino generale di tutto un popolo, abbandonato a sé
stesso in tutti i sensi, come energicamente ho rimarcato.
Ma continuiamo.
E dunque anche qui emerge la particolarità: il lavoro della Bagnarota si sviluppa entro un quadro economico
disarmonico, per cui l’azione lavorativa è soprattutto
caratterizzata dalla fatica “in sovrappiù” che bisogna fornire per
Veni sonnu di la muntagnella
(ninna-nanna di Mia Martini)
sopperire all’handicap determinato dalle condizioni geografiche
e climatiche. Bagnara è l’emblema di questa condizione
Ohi veni sönnu di la muntagnella
d’inferiorità che in genere caratterizza tutta la Calabria e noi
Lu lupu si mangiau la picurella
abbiamo di questo vasto scenario un simbolo: Roghudi, il
Oh mammà, ohi la ninna vò ffa.
villaggio a picco sopra il panorama lunare dell’Amendolea.
Ohi veni sonnu di la landa mia
Roghudi: selvaggiamente bello nella sua crudele simbologia: il
Lu meu figghiolu muta mi vorria
lavoro del contadino calabrese pervaso dal grande dolore che
Oh mammà, ohi la ninna vò ffa,
produce il fatto di vivere, di esistere e che comunque s’annulla
ohi la ninna vò ffa.
nella terra.
Sempre e comunque la terra per nascervi, viverci e morire.
DOMENICO GALLO, Mia Martini, io sono la Calabria,
Laruffa ed., Reggio Cal., 2007, pg.147.
Tuttavia questa lotta per vivere, attuata attraverso il “lavoro in
sovrappiù” che vi necessita, restituisce a chi lo esercita un carattere forte, una possanza in grado di affrontare il tutto
senza paura poiché la morte stessa non è che una componente del grande disegno, più volte ormai cennato fra le
pagine precedenti, che sta alla base motivazionale della Bagnarota.
E’ dunque naturale che alla domanda:
-
“Come sei riuscita a far valere i tuoi impulsi e le tue tendenze artistiche?” (pg. 89),
Mimì, venuta fuori dal tunnel degli Anni Ottanta, rispondesse candidamente:
-
“Come al solito, da donna volitiva e anche abbastanza autoritaria, perché sono di Bagnara Calabra - li le donne hanno
inventato il commercio – io volevo fare esattamente quello che avevo in testa di fare”
concludendo poi, a una controbattuta dell’intervistatore, con un’espressione che, per un meridionale cosciente di amare
la propria Regione, cioè non per il semplice fatto di esservi nato, ma per “sentirvisi” parte, è il massimo!
-
“Ti senti a tuo agio con la musica napoletana?
-
“Si, è vero. D’altra parte Bagnara, dove sono nata, non dista poi così tanto da Napoli e poi per me che sono calabrese,
Napoli è la mia città ideale, perché è la Capitale del Sud, del Mediterraneo, della mia terra, delle mie tradizioni, della mia
cultura, delle mie radici”.
E per Mimì le radici bagnarote erano tutto, diceva che erano “la mia sola sicurezza” cioè “l’unica cosa certa della mia
vita”.
Io ricordo questa intervista perché la vidi in televisione.
Mimì era vestita da Bagnarota in mezzo a filari di vite sulle rasole. Praticamente era inquadrata a mezzo busto essendo
la restante figura immersa nella vegetazione. E così inquadrata, Mimì rispose alla domanda:
-
“se non avessi fatto la cantante, cosa ti sarebbe piaciuto fare?”
-
“la Bagnarota!”
E quindi l’annotazione: perché le Bagnarote lavorano molto e in pratica sono il motore economico della Città.
La Bagnarota di Mimì non è un simbolo languido, ma un metro di riferimento concreto e reale, una matrice alla quale
tendere in continuazione perché totalizzante delle aspirazioni umane.
In tutte le manifestazioni ove compariva, Mimì esaltava l’ascendente bagnaroto.
E questo è verissimo, al di là di qualsiasi enfasi o retorica.
Le inquadrature di primo piano mettevano in evidenza l’aggressività con la quale Mimì affrontava il brano, il soma
contratto che sapeva di selvaggio quasi a dire: io ti affronto a viso aperto e accetto la sfida; tu non mi fai paura, per poi
sciogliersi nella dolcezza quando la musica faceva emergere il “bello” e il “dolce” perché in quell’atmosfera fiduciosa, alla
fine, era naturale arrendersi.
Mimì si spazientiva ogni volta che le chiedevano s’era “di origine” calabrese e rispondeva secca, sempre: attenzione!
“io sono calabrese perché mia madre è di Bagnara, mio padre di Villa e io sono Bagnarota, insomma: io sono la
Calabria”.
E poi: “chiedo scusa a tutti gli altri calabresi, ma io SENTO la Calabria”.
Ma alla fine, chiede l’intervistatore ancora tramortito dal concetto di Napoli Capitale:
-
“cosa ti lega alla tua terra?”
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-
“la mia terra … è la terra dalla quale sono spuntata fuori e cosa lega un albero alla terra? Le sue radici, il suo
nutrimento, il suo ossigeno, la sua acqua, la sua aria, la sua musica, i suoi odori”.
Ma la grandezza di Mimì sta nel finale nella descrizione dei calabresi:
anche se per molti appaiamo testardi e duri, noi calabresi “abbiamo una grande dignità, una grande voglia di
lavorare, di vivere”.
E lo stesso biografo, nel commentare queste straordinarie considerazioni di Mimì, non può fare a meno di «aderire»,
trascinato dall’entusiasmo, dal sussulto d’orgoglio.
Io vorrei, perdonatemi, rimarcare il concetto di Bagnarota per Mimì Berté:
la Bagnarota NON E’ un mito, un emblema da ricordare più o meno languidamente, come s’usa fra i Padroni della Storia
e della Cultura bagnarese, manifestazioni comprese.
La Bagnarota di Mimì è un esempio da imitare il più possibile, da prendere a metro di riferimento SEMPRE nella vita di
tutti i giorni, attenzione! nei pensieri, nel modo di pensare e nelle azioni.
Questa E’ la Bagnarota di Mimì Berté!
Mimì è dunque una Calabrese di Bagnara, quasi a definire non una particolarità, ma una collegialità: poiché comune è il
destino della popolazione della Santa Terra di Calabria, comune il dolore che promana dalla fatica da spendere per
lavorare, comune la strada da percorrere, tutta in salita.
E il particolare della Bagnarota sta nel generale calabrese come appello alla volontà, all’intelligenza, alla fede, poiché
queste caratteristiche non sono astratte nei Calabresi, sono il retaggio dei nostri popoli antichi, sono la forza, il coraggio
e l’amore che fu di tutti i nostri antenati: spirito di sacrificio e altruismo, il tutto dentro il “brodo primitivo” dell’amore per la
terra.
La Bagnarota, insomma.
CANTO PER COMUNICARE COL CIELO E QUALCHE VOLTA SENTO DI RIUSCIRCI
Mia Martini
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ESSERE BAGNAROTE NEL 1726
DOTE DI ROSA MELLINO
PER IL SUO MATRIMONIO CON ANTONINO ZAGARI
davanti al Notaro Carmelo Sofio (Archivio di Stato di Reggio: Notai, anno 1726)
(…) personalmente costituti (Antonino Zagari e Rosa Mellino coi rispettivi genitori – parla il padre di Rosa e il Notaio registra)…
… in PIù li promette una paviglione bianco ornato di pizzilli, di più li promette quattro para di lenzoli, uno con li merletti e l’altro
con li guarnizioni, e latri dui simplici, di più li promette un letto di seta impagliata e un altro di seta torchino e un altro pe minare (=
per tutti i giorni);
di più li promette dui saj di seta e altri tre per minare, di più li promette un gippone di oro e altre due uno per li festi e un altro per li
lavoranti;
di più li promette cinque para di coscina, di più li promette toccargli cinque buoni (?), di più li promette cinque conserti boni e
quattro di mina (= tutti i giorni);
di più li promette due canni (era una misura per il peso) di stuiabuchi (=fazzoletti); di più li promette tovagli cinque di facci, di più li
promette una fiannanca di granatini;
di più li promette tre anelli due torchini e una fede, di più li promette dodeci fila di coralli e una campanella di argento;
di più li promette una caldara e una padella, di più li promette un tripodi con tre piedi (= per il braciere);
di più li promette quattro huomini di vigna;
di più li promette due casci e tre seggi, di più li promette quattro cammisci e tre faddali per essere la verità.
Idem in denari contanti (…) docati cinque più una vigna sito e posto in detta Città nella contrada Cacipullo, limito colla vigna
Docale, limito colla vigna del magnifico Savoja col patto del censo perpetuo d’annui grana dodeci e mezzo alla Docal Corte;
di più (…) mezza casa in contrada San Nicola col patto del censo perpetuo d’annui carlini quattro e cavalli cinque al magnifico
Simone Sciplino (…) 33
Filastrocca popolare
di Bagnara
Gianni papirigianni,
jetta pirita e faci castagni.
I castagni su valori;
jetta pirita e fa figghioli.
(TOTO’ VIZZARI, Modi di dire con detti proverbiali, motti,
filastrocche del dialetto bagnarese, a cura dell’Associaz. Culturale
Capo Marturano, Ediz. Ofdficina Grafica, Villa S.G. 2006, pg. 38)
33 - Come si nota, la terra lungo il corso dei secoli, resta il bene principale e si tramanda di generazione in generazione, sempre uguale, anche se,
come in questo caso, la si gestisce a censo perpetuo, e la casa è di proprietà di un altro e si paga un affitto. Ma la penuria di terre e case era talmente
tanta, che stava come bene prezioso nella dote anche se non di proprietà. L’epoca di redazione di questo documento è tarda rispetto al periodo storico
qui considerato, e proprio questo mette in luce la forte continuità delle procedure sociali a Bagnara, immutabili nel tempo, come i tre anellini che
passano da madre a figlia e tutte le altre povere cose, così preziose per la gente dell’epoca!
Gli Atti notarili del Seicento e del Settecento, costituiscono una formidabile fonte per lo studio del dialetto primario. Il Notaro riportava in genere un
discorso del testante e gli sfuggiva spesso una parola in dialetto, soprattutto quando non riusciva o faceva in tempo a trovare un controvocabolo
italiano. Soprattutto usava il dialetto quando era necessario “abbreviare” la spiegazione di un fatto, che in italiano avrebbe chiesto ad esempio cinque
parole, con un solo vocabolo dialettale. Esempio: “come se si volesse asserire” = “Squasu”; “Magari io potessi avere (quella cosa), ne sarei
soddisfatto al massimo” = (quella cosa) “malatu era”; “Ha pronunciato un discorso che nulla aveva a che fare con quanto si aveva in mente di
ottenere” = “Chi nic-nac?” e via così per un’infinità di espressioni. Sarebbe interessante e costruttivo se qualche giovane si interessasse al recupero
del dialetto arcaico attraverso lo studio scientifico dei documenti antichi e all’uso semplificativo che se ne faceva nell’ansa della Bagnara).
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4.- BAGNAROTE IN BATTAGLIA
La Bagnarota nell’epopea di Lepanto: Anastasia Mandile.
Sulla spiaggia di Bagnara, agli scali di Scilla, la Catona e la Fossa, era tutto un fermento perché si sapeva dai trasporti
che scendevano lungo le rotte dell’Elba, che il Papa stava trattando una grande azione crociata contro il Turco.
Nel 1571 il Papa riuscì ad accordare le potenze europee intorno all’intervento. Molto di questo successo fu dovuto alla
Serenissima che offrì ingenti mezzi finanziari oltre a una potenza di fuoco notevolissima. Era ancora bruciante per i
Veneziani la sconfitta di Cipro del 1570 e il danno economico che rifletté questa sconfitta, si stava ulteriormente
moltiplicando. Ma anche la Spagna cercava il riscatto per la sconfitta di Gerba, e infatti Filippo II non aveva ancora perso
le speranze di dirottare le forze dell’Alleanza su Tunisi. Comunque queste due circostanze, riuscirono a fare superare le
diffidenze e i sospetti che circolavano fra le corti europee, montanti dopo la battaglia della Prevesa, ove furono numerosi
i “defilamenti” dopo accordi sottobanco coi Turchi in cambio di concessioni marittime.
Alla fine la Lega Santa si costituì. La formazione militare fu così composta:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Il Papa
La Spagna
34
La Repubblica di Venezia con tutte le Città dell’entroterra
Il Granducato di Toscana con i Nobili Cavalieri di Santo Stefano
Il Duca di Savoia
Il Sovrano Militare Ordine di Malta, difensore della Sacra Religione
Lucca
Mantova
Ferrara
Urbino
L’Armata era forte di:
•
•
371 vascelli da guerra
76.000 uomini
L’Infante di Spagna aveva ricevuto a Napoli lo Stendardo della Santa Lega e quindi l’investitura ufficiale a supremo
comandante dell’Alleanza. Quando Don Giovanni d’Austria giunse a Messina al comando della Galee della Murcia e
della Catalogna, erano già giunti gli ultimi Grandi: Alessandro Farnese, Francesco Maria della Rovere, il Marchese di
Carrara, Ottavio e Sigismondo Gonzaga, Don Francesco di Savoia, il Capitano Ascanio della Cornia, Andrea Provana
Conte di Leinì, Gil d’Andrate, Giannandrea Doria, Don Alvaro de Bazan Marchese di Santa Cruz, mons. Giulio Maria
Odescalchi, Nunzio Pontificio poi eletto Padre Spirituale della Flotta, Bartolomeo e Nicola Donato, Don Giovanni De
Cardona, il Marchese di Santacroce, il principe di Castelvetrano, Michele Cervantes, Maturino d’Aux Lescut “Cavalier
Romegosso”, Don Michele Bonelli fratello del Cardinale Alessandrino e nipote del Papa, Tommaso dé Medici, Pandolfo
Strozzi, il dottor Caraffa Duca di Mondragone, Metello Caracciolo, il Duca di Sermoneta, Alessandro Negrone, il
colonnello Pirro Malvezzi, Bartolomeo Sereno, Ruggiero Oddi, Livio Parisani Perugino, Paolo Bernadetti, Ippolito
Teubaldini da Osimo, Flaminio Zambeccani da Bologna, Monsignor Segni Nobile di Carignano, il Conte Sforza di
Santafiora, il Principe d’Ascoli, Michele Moncado, Lopez de Figueroa, Diego Enriquez, Il Duca di Serra, Otorio de
35
Caravasal, il Marchese di Villafranca, il Conte di Caserta. Si tenne consiglio di guerra a Messina, sotto la sua direzione
nella qualità di comandante supremo della flotta alleata. Suo luogotenente generale fu nominato Marc’Antonio Colonna,
generale della flotta pontificia.
Come si nota, l’adesione fu massiccia e diversificata.
Ma l’adesione più convinta venne dallo Stretto di Messina e non poteva essere altrimenti, visti gli episodi fin qui narrati.
Sebastiano Veniero si ancorò davanti a Tropea e trattò con Stefano Soriano l’armamento e il comando di tre Galee con
equipaggio calabrese e 200 fanti, anche loro calabresi. Trattò anche una provvista di vino e ricevette a bordo Gaspare
Toraldo Barone di Badolato che gli offrì circa 2000 fanti calabresi, ottenendo il comando della Galea veneziana
34 - Importante l’apporto di Brescia, Zanano e Noboli, per partecipare alla spedizione su Cipro, con un Reggimento di mille uomini al comando di
Giancarlo Ducco, con i Capitani Camillo Brunelli, Ortensio Palazzi, Ludovico Ugoni e Mario Provaglio. Duecento militi furono mobilitati dai
Porcellaga e armati a Brescia. La Valtrompia offrì armi ed equipaggiamento. Le fucine di Gardone riuscirono a fabbricare 300 archibugi al giorno.
500 bresciani morirono di malattia in attesa di poter sbarcare a Cipro o Candia, un centinaio rientrò a Brescia e il resto partecipò a Lepanto. Il costo
finanziario per Brescia fu stimato in oltre 20.000 ducati. Dopo Famagosta, a Brescia fu chiesto un nuovo contributo e s’imbarcarono 338 “galeotti”,
cioè rematori retribuiti, al comando di Gio:Antonio Cavalli e Orazio Fisogni (ERNESTO PINTOSSI, da Zanano e da Noboli nell’Armata che
combatté a Lepanto, www.rete5.it/comunesarezzo). Le Galee con Comandanti veneziani alla fine furono ben 110di cui:
•
38 Galee sottili con equipaggio proveniente da Venezia “libere”;
•
16 Galee veneziane “forzate”;
•
30 Galee di Creta;
•
7 Galee delle Isole Jonie;
•
8 Galee di Dalmazia;
•
5 Galee dalla terraferma;
•
6 Galeazze con equipaggio proveniente da Venezia “libere”
(SAKYA PEGORARO, La Battaglia di Lepanto. Poesia – Geografia, Horizon, a. 2001 – 12 giugno 2001; cfr.: [email protected])
35 - Sotto il Conte di Caserta, combatteranno numerosi calabresi: Scipione Folliero (contatore), Alfonso Scaglione, Gio:Agostino Folliero, Alicandro
De Martuccio, Ottavio Mancuso, Achille De Gaudio, Geronimo Galluccio, Scalabrino Tarsia, Camillo Benincasa, Cesare De Abenante.
(G.VALENTE, cit., pg. 199)
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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“Pasqualiga” sulla quale imbarcò il contingente calabrese. Salirono a bordo della flotta di Veniero e di Onorato Gaetani,
anch’egli a riposo davanti a Tropea, Leonardo e Cesare Galluppi, Francesco Portogallo, Andrea Frezza, Ferdinando
36
Barone con altri due membri della sua famiglia, tre Fazzari, Giuseppe Carrozza.
Il 17 Luglio Marc’Antonio Colonna, proveniente da Belvedere, ancorò innanzi a Tropea per avere notizie e qui seppe che
150 navi turche avevano eseguito l’acquata in Puglia e pareva stessero poggiando verso la bassa Calabria. Una staffetta
partì verso Monteleone per avere conferme da Gerolama Colonna, sorella di Marc’Antonio e moglie di Camillo Pignatelli,
Duca di Monteleone. Intanto una fregata messinese approdava a Tropea rettificando la notizia. Si trattava di galee di
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Sbarcato sulle anse del Canale calabrese, Marc’Antonio
Venezia che intanto avevano doppiato Capo dell’Armi.
Colonna passò di paese in paese accolto con tripudio: Scilla, Bagnara, Palmi e fino a Gioja e Tropea. Arruolò più di mille
marinai dello Stretto, esperti conoscitori delle correnti e dei venti e vogatori inesauribili. Il Barone Gaspare Toraldo
rispose all’appello che gli giunse direttamente da Don Giovanni e mandò messaggeri ovunque nei paesi dell’interno,
riuscendo a formare una leva di volontari che alla fine superò duemila militi.
Una terza leva fu organizzata e conseguita con successo da Pietro Ramirez e il suo contingente di Calabresi s’imbarcò
sulle Galee di Sicilia. Si coprirà di gloria a Lepanto.
Molta attenzione fu posta nel reperimento delle “specializzazioni” marinare: Scipione Cavallo da Amantea, marito di Livia
figlia di Don Giovanni Ruffo-Bagnara, riarmò la Luna di Napoli ad Amantea, imbarcando trenta marinai esperti di crociera
a lungo raggio. Si schiererà nel Corno destro, sotto la direzione di Giovanni Rubbi. Vincenzo Marullo Conte di
Condojanni armò due galee e fu fatto Generale della Squadra dei Venturieri; Gianpaolo Francoperta Signore di
Pentedattilo e Principe di Cosoleto, nobile reggino e zio materno di Donna Francesca Pescara Diano, imbarcò sessanta
suoi fanti su diverse galee dell’Alleanza; Don Vincenzo Passacolò “Il Monaco” da Seminara, armò due galee alla Marina
di Palmi imbarcando mastri d’ascia, carradori, carpentieri e valenti vogatori, tutti provenienti dall’Altopiano e dalle Marine
di Palmi, Bagnara e Scilla e di una, la “Ventura” prese il comando. Don Cola D’Oddo armò due Galee con fanti bastanti;
una galea armò il Corsaro di Caulonia Filippo Castelvetro; due Galee Don Gaspare Parisio, consorte di Donna
Francesca Pescara Diano, e una Don Matteo Parisio; una galea famosa, la “Santa Maria della Consolazione” venne
armata dalle grandi Famiglie Geria, Ferrante, Bosurgi e Galimi e fu affidata a una ciurma di bagnaroti e abilissimi
38
mannesi di Solano. La risposta dell’Altopiano all’appello non si fermò qui: Capitan Miglio da Melicuccà fu eletto per
acclamazione capitano di un’altra galea formata da Bagnaroti. In mezzo a tutta la gente calabrese del Canale e
dell’Altopiano, stava il fior fiore dell’Aristocrazia e della marineria calabrese: Ferrante Faletti da Terranova, il Conte di
Briatico Gian Ferrante Bisbal, il Nobile cosentino Prospero Parisio, Giangiacomo Comperatore da Terranova, Bernardino
Coco da Terranova, Stefano Soriano, tre fratelli della Famiglia Fazzari, Francesco Portogallo da Tropea, Cecco Pisani
della Marina di Belvedere, Don Bernardo Ruffo, Cavaliere di Malta, figlio di Don Carlo I° Duca di Bagnara, il Duca di
Seminara e il Principe di Scalea. Don Camillo Comercio da Francica, il Capitano Don Marcello Manuardi da Rogliano.
Dai possedimenti del Principe di Sanseverino giunsero comitive soprattutto di albanesi, decisi a vendicarsi delle scorrerie
turchesche nell’area cosentina. Molti i catanzaresi, sulla scia del Capitano Don Francesco De Riso, che s’imbarcò sotto
le bandiere della Santa Sede; alfiere vessillifero, combatterà con valore a fianco del Colonna perdendo un braccio ma
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continuando a mantenere la posizione. Verrà soprannominato per questo “Capitano Destro”.
Una fregata salpò per la Terra d’Otranto. Il contingente calabrese doveva completarsi con apporti della marineria
pugliese e questi furono gli ordini con i quali salpò il colonnello Tiberio Brancaccio.
Il 20 luglio la grande Galea da guerra di Marc’Antonio Colonna entrava nel porto di Messina salutata dalle artiglierie del
forte.
La flotta cristiana, si ormeggiò lungo le anse calabresi del Canale, a Reggio e nelle rade fra Messina e Giardini, mentre
la Reale di Don Giovanni si pose in mezzo alla rada del porto messinese insieme alle Capitale degli Stati Partecipanti.
Spettacolare l’arrivo dei veneziani. Quando la Squadra di Venezia levò l’ancora da Capo dell’Armi, ove s’era fermata per
manutenzione, Marc’Antonio Colonna uscì da Messina con la Squadra di Sua Santità incrociando le veneziane al largo
di Reggio. Le due Squadre si salutarono con tiri d’artiglieria e quindi entrarono trionfalmente in Messina.
La logistica della Flotta Cristiana si mise in movimento e il sistema d’approvvigionamento raggiunse ogni angolo della
bassa Costa Calabrese, attivando un canale che rimase movimentato a lungo. Prospero Colonna, Sebastiano Veniero e
molti Capitani erano alla ricerca di biscotto, vino e vettovagliamento di lunga durata.
Le carovane salivano e scendevano dall’Altopiano in continuazione, da Reggio verso Aspromonte, da Scilla alla Melia,
da Bagnara verso Sinopoli, Seminara e Oppido. Le barche da pesca stavano sempre a mare e il traghettamento da
40
Bagnara (così come dalle altre anse) verso Messina era continuo.
La collaborazione era convinta, anzi un clima di entusiasmo accompagnava il lavoro convinto di maestranze, contadini e
pescatori e soprattutto le Bagnarote, stavano in testa a quest’ondata di collaborazionismo che attraversava l’area dello
Stretto.
36 - GIUSEPPE CHIAPPARO, I Tropeani a Lepanto, TropeaMagazine.it
37 - GUSTAVO VALENTE, Calabria, Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria, cit., pg. 186.
38 - La maggior parte delle galee che navigarono verso Lepanto, erano armate con un cannone centrale da 60 libbre, due da sedici e una quindicina di
cannoncini situate a poppa e prua. Il pezzo da 60 libbre sparava un proietto da ben 175 millimetri con gittata di 640 metri ad alzo zero e di tre
chilometri ad alzo 15 gradi. La loro efficacia nelle acque con poco vento del Mediterraneo, era micidiale perché, spinte a remi, manovravano
velocemente rispetto ai velieri. (GEOFFREY PARKER, La rivoluzione militare (The military revolution. Military innovation and the rise of the
West), Il Giornale, Biblioteca Storica (Cambridge University Press), Milano 2008, pg. 160). Con questo vantaggio di manovra, l’artiglieria innovativa
che equipaggiava le galee, risultò vincente quasi sempre contro i galeoni a vela, anche se quest’ultimi avevano un armamento più numeroso.
(M.MORIN, La Battaglia di Lepanto: il determinante apporto dell’artiglieria veneziana, Diana Armi, IX, I (Genn.1975), ppg. 54-61).
39 - LUIGI CONFORTI, I Napoletani a Lepanto, C.E. Artistico-Letteraria 1886 (XXIV), Napoli 1886, pg. 51; cfr.: G.VALENTE, Calabria, cit., pg.
197.
40 - PAOLO GUALTIERI, Glorioso trionfo, over Leggendario di SS.Martiri di Calabria, tip. Nucci, Napoli 1630, II, pg. 374.
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Non c’era tempo per fermarsi e riposarsi: uova, pane, verdure, derivati del maiale, tonnina, frutta delle rasole, veniva
preparata, raccolta, confezionata e trasportata alla marina o direttamente a Scilla. E poi le Bagnarote s’aggregavano ai
convogli militari che risalivano la costiera e fungevano da supporto per la raccolta e il trasporto a mare dei prodotti della
montagna.
Due erano gli obiettivi: rifornire la flotta per le necessità quotidiane e costituire l’intero vettovagliamento per il periodo di
navigazione.
Così come la bassa Calabria, anche la Sicilia Orientale fu mobilitata ma la fama delle Bagnarote viaggiò di tolda in tolda.
Le relazioni che riceveva il Marchese di Santa Cruz erano tutte concordi: si trattava di donne abituate a sopportare ogni
privazione, avevano uno spirito di sacrificio elevato, quasi mistico, la loro fedeltà verso la Patria, Dio e la famiglia era
assoluta e sapevano “stare” in mezzo agli uomini come se così fossero abituate da sempre, come se fosse un retaggio.
Queste doti costituivano il fondamento della loro attività: assistenza e trasporto logistico, preparazione di vivande in
ambienti difficili e precari, cura dei feriti, riparazioni di biancheria e di componenti di carpenteria, soprattutto manufatti in
legno, sapienza nella conservazione di cibi e bevande, conoscenza del mare e della navigazione. Come le Bagnarote,
anche le Sciglitane che s’aggregavano a quella compagine dal carattere infernale, militaresco.
Queste donne erano l’ideale per completare la composizione della retroguardia che era stata affidata al Marchese, un
misto di componenti logistiche, assistenza medica, vettovagliamento e un vasto schieramento di truppe d’assalto
soprattutto siciliane, calabresi, napoletane.
Il Conte di Briatico si recò alla spiaggia di Bagnara e da qui nell’abitazione di Don Marcantonio Mandile e Donna Antonia
Angiola Cesareo, nobildonna di antica stirpe originaria di Tropea e Nicotera.
Spiegò il disegno del Marchese di Santa Cruz
chiedendo il consenso di Don Marcantonio per
l’imbarco della figlia, Donna Anastasia, una
Bagnarota dal timbro elitario molto sviluppato,
un carattere di ferro e soprattutto tanto
coraggio.
La
Bagnarota
accettò
immediatamente e nel giro di qualche giorno,
formò una squadra di 18 Bagnarote “della
montagna”,
cioè
le
popolane
che
s’incaricavano del collegamento commerciale
giornaliero coi paesi dell’Altopiano, e 7
Sciglitane “della marina”. Una ciurma
specializzata e specialissima che a bordo di
una paranza da loro stesse governata, si
aggregò alla squadra del Santa Cruz, fuori dal
Porto di Messina, fra gli altri trasporti e dietro
le truppe d’assalto della Riserva dell’Armata.
Prima di salpare, Don Giovanni si recò al Monastero di San Martino ove dimorava il frate calabrese Giovanni Mazza, con
fama e venerazione di Santo e dal sant’uomo prese la Comunione.
Quindi una solenne cerimonia in Duomo, a Messina, officiata da Padre Lattanzio da Cropani, dell’Ordine dei Minori
Conventuali di San Francesco, alla presenza di tutto lo Stato Maggiore alleato.
Tutte le testimonianze e le cronache dell’epoca concordano nel descrivere la partenza della Flotta Cristiana dalle sponde
del Canale.
Uno spettacolo che lasciava intontiti e provocava copiose lacrime di commozione.
La Reale di Don Giovanni, con le insegne di Capitana Ammiraglia ed un padiglione ove spiccavano gli stemmi reali,
stava in mezzo al Canale, fiancheggiata dalle Capitane degli Stati alleati e, ai lati, da costa a costa, tutte le galee da
guerra con stendardi e gonfaloni degli Stati di appartenenza, bandiere delle Città e stemmi araldici di nobili famiglie, oltre
a vele colorate, gonfiate dal vento del Canale. Seguivano le 6 galeazze che navigavano a vela e a remi, imponenti,
maestose e piene di frenetica attività sui ponti immensi.
Le galeazze che navigavano affiancate e trainate da paranze di scorta, erano navi che fino a quel momento la gente del
Canale aveva mai viste. Dotate di tre alberi, un castello a prua e uno a poppa, aveva due ponti con 46 banchi di
rematori. Si vedevano dalla costa i poderosi cannoni di grosso calibro, per l’esattezza 36, oltre a numerosi cannoni di
medio e piccolo calibro e faceva impressione vedere, per la prima volta, le bocche da fuoco montate ai fianchi delle navi,
minacciose, e non più solo a poppa e prua. Quindi le navi che imbarcavano gli Ordini Religiosi: Domenicani,
Francescani, Benedettini, Minimi, Zoccolanti, Preti secolari, tutte con le insegne degli Ordini alte sui pennoni e le grandi
Croci a prua. Da queste navi si levavano canti gregoriani mentre si celebravano in continuazione riti religiosi.
Quindi la Riserva militare del Marchese di Santa Cruz e infine le grandi navi del trasporto logistico e vettovagliamento,
circondate dalle paranze per il trasporto leggero e il collegamento fra le navi della Flotta.
Dalle due sponde dello Stretto, da Palmi, Bagnara, Scilla, la Fossa di San Giovanni, la Catona e Reggio, oltreché
Messina e tutti i villaggi della costa siciliana dello Stretto, un unico tripudio di gente che sventolava bandiere, panni
colorati fra grandi falò beneauguranti, mentre le campane di tutte le chiese del Canale suonavano a distesa.
La notizia che una potente Armata Cristiana aveva doppiato il Capo Spartivento, raggiunse veloce i Dardanelli.
Caracossa che era riuscito a sbarcare nei pressi di Messina di notte, spiò a lungo l’Armata all’ancora, non accorgendosi
però del contingente di Barbarigo, per cui contò circa 150 navi. Era necessario fermarne l’avanzata prima che si
presentasse davanti alle coste della Grecia, portando minaccia alla stessa Costantinopoli.
Mehmet Alì Pascià, il conquistatore di Famagosta e autore della tortura di Marcantonio Bragadin (venne spellato vivo e
la pelle poi gonfiata come un otre e portata in giro per il campo turco) aveva da tempo radunato le forze di tutti i Signori
del Mare delle coste nord africane e in poco tempo riuscì a formare lo schieramento per andare all’incontro del nemico.
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Gli esploratori di Cecco Pisani non persero tempo a trovare l’Armata Turca in navigazione. Studiando con attenzione il
gioco delle correnti e la direzione del vento, trovarono l’Armata dove avevano calcolato che fosse e l’informazione giunse
veloce agli strateghi della Reale.
L’avvistamento avvenne poco al largo delle Curzolari e la numerosità delle due Armate, richiese oltre mezza giornata di
manovre prima che i due front-line fossero operativi.
La titubanza su cosa fare aleggiava nella formazione alleata fino a quando Cecco Pisani non riuscì a stare appartato con
Colonna e lo dettagliò sulla consistenza del nemico; era molto più numeroso di quanto aveva riferito all’Infante. E esortò
Colonna a muoversi: “Ora o mai più”.
L’Armata Cristiana, grazie alle informazioni di Cecco Pisani, si presentò nella formazione correttamente sgranata e, dopo
l’agevole riposizione in front-line, iniziò lentamente ad avanzare.
Lo schieramento al completo occupava più di tre miglia di mare. All’avanguardia, a mezzo miglio dal “front line” alleato e
distaccate l’una dall’altra in modo da presentarsi davanti a tutto lo schieramento, le sei galeazze di Francesco Duodo.
Al centro di 61 galee che erano poi lo schieramento principale dell’Armata, stava la Reale di Spagna che imbarcava
l’Infante Don Giovanni d’Austria.
Ai fianchi stavano in protezione e supporto al comando, la Grifona del Papa con i Cavalieri di Santo Stefano al comando
41
di Marcantonio Colonna, la Duchessa di Savoja con Provana, la Capitana di Venezia con Sebastiano Venier e la
Capitana di Genova con Ettore Spinola e Alessandro Farnese. Gian Andrea Doria ebbe la responsabilità dell’ala destra
con 53 galee e 53 stavano all’ala sinistra con Agostino Barbarigo.
Dietro lo schieramento, Don Alvaro De Bazan Marchese di Santa Cruz, aveva disposto le sue 35 navi da battaglia
nascoste a ridosso dello schieramento centrale.
La formazione ottomana si schierò a mezzaluna con al centro la Sultana di Mehmet Alì; alla destra si schierò il Viceré
d’Egitto Mehmet Scirocco e alla destra il Bey d’Algeri Ulugh Alì (Occhialì). Dalla formazione a mezzaluna dell’Armata
Turca, 67 galee e 27 galeotte, al comando di Occhialì, iniziarono a virare verso il largo coll’evidente obiettivo di aggirare
lo schieramento alleato e prendere la Reale alle spalle. La manovra fu capita immediatamente e l’informazione venne
passata al gruppo di Doria che scostò leggermente dallo schieramento, pronto a virare per andare all’incontro di
Occhialì.
Si procedette così per più di un’ora, con Alì Pascià che mostrava sicurezza spolpando tranquillamente una aletta di pollo
sulla tolda della Sultana, incurante dello schieramento alleato che intanto iniziava la lenta manovra per assumere lo
41 - Nello schieramento papale s’inquadrarono le 12 galee da guerra toscane senza le insegne di Cosimo dé Medici. Infatti a causa della tensione fra
Firenze e Filippo II°, la Toscana aderì alla Lega Santa ma l’Armata figurò come noleggiata dal Papa. Per tale motivo inoltre, i Cavalieri di Santo
Stefano non innalzarono le insegne dell’Ordine, figurando come alle dirette dipendenze di Sua Santità (CESARE CIANO, I primi Medici e il mare,
Pacini ed., Pisa 1980, pg. 61).
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schieramento da battaglia. Le galere alleate si stavano serrando per chiudere tutti i varchi e quindi operare con fuoco
frontale d’artiglieria compatto.
Dietro, le navi delle Congregazioni si erano messe in coda della Riserva, che stava distanziata dallo schieramento da
battaglia. Il Marchese di Santa Cruz aveva infatti l’ordine di rendere difficile la valutazione sulla numerosità e la capacità
di fuoco della Riserva e quindi la forza da battaglia s’era confusa in mezzo alle grandi navi da trasporto e le copiose
paranze che intanto andavano e venivano dallo schieramento da battaglia, portando munizioni, trasferendo soldati da
una nave all’altra, a seconda di come si posizionava il nemico, e ordini dalle Capitane alle galere da guerra.
Era una frenesia unica quella che caratterizzava lo schieramento alleato, mentre l’Armata Turca avanzava sicura e
veloce.
Don Giovanni e Marc’Antonio Colonna presero posto su due barchette e percorsero tutto lo schieramento ricordando ai
combattenti che si era lì per compiere una missione divina e che il Crocifisso era il
Comandante di quella potente armata destinata alla certissima vittoria.
I cappellani di Mons. Odescalchi iniziarono a confessare i soldati e ad assolverli dai
peccati, mentre improvvisamente il mare si calmava e il vento poggiava a favore delle
vele cristiane.
Quando le due flotte furono a vista, l’avanzata dell’Armata Cristiana rallentò, facendosi
distanziare ancora di più dalle sei galeazze che presero posizione, avanzando a remi, a
circa 500 metri davanti allo schieramento alleato, sgranate in modo tale da “coprire” tutto
lo schieramento: ala sinistra, centro, ala destra.
Alì Pascià continuava intanto a consumare tranquillamente la colazione mentre, pare, i
suoi ammiragli se la ridevano osservando quelle goffe imbarcazioni davanti allo
schieramento nemico. Forse erano state posizionate in quella maniera per ostacolare
l’arrembaggio turco. Sarebbero state superate di slancio perché si vedeva chiaramente
che avevano grandi difficoltà di manovra. Intanto a bordo delle galeazze ferveva l’attività
di preparazione. I Duedo osservavano con sguardo feroce l’avanzata turchesca, sguardi
di aperta sfida e di odio immenso. La vendetta per le stragi compiute in seno alla loro
famiglia, era pronta per essere assaporata in pieno.
Sebastiano Venier
Capitano General da mar della
Poco prima di mezzogiorno le due flotte vennero a tiro d’artiglieria.
Marina da Guerra della
Dalla Sultana di Alì Pascià si sparò un colpo d’avvertimento al quale si replicò da parte
Serenissima.
delle Capitane Cristiane.
(dipinto dal Tintoretto)
Il Pascià allora, fece salire sul pennone della Sultana il grande gonfalone di seta con Tratto da: Wikipedia – Battaglia di
Lepanto
ricamato 88 volte 88 il nome di Allah. L’Armata era pronta alla battaglia.
Fu allora che dalla Reale di Don Giovanni si sparò una bordata a salve mentre saliva sul pennone il grandissimo
stendardo ricevuto a Napoli, dipinto da Girolamo Siciolante da Sermoneta, a fiamma rossa bordata d’oro, sul quale
campeggiava la scena sacra “Gesù Crocefisso tra S.Pietro e S.Paolo ” e la scritta “In hoc Signo vinces” proseguendo
poi per otto metri in campo azzurro.
Contemporaneamente si ammainarono le bandiere e i gonfaloni delle forze alleate. Solo i lunghissimi striscioni colorati
42
che servivano per individuare l’appartenenza allo schieramento, restarono alti sui pennoni.
Il gesto simbolico fu emozionante: non le singole Nazioni erano lì a combattere, ma una grande Armata, la Nazione di
Cristo, una, cattolica, indivisibile. L’Europa non era lì per difendere le ragioni di Venezia e la sua supremazia su Cipro,
ma per fermare, davanti a Cipro, l’aggressione ottomana al Sepolcro di Cristo in Gerusalemme.
L’emozione colse tutti: si sentì una grande ovazione dopo che il monaco Anselmo da Pietramolara, levandosi dritto sulla
prora della galera che l’ospitava, alzando in alto una grande croce nera, gridò verso i Turchi: “vittoria!”, grido che passò
da nave a nave.
In quel momento, sulla prua di ogni galea fu piantata una Croce di legno nera mentre dalla nave-appoggio di Mons.
Odescalchi, veniva impartita una solenne benedizione con l’assoluzione papale da tutti i peccati per i partecipanti
cristiani alla battaglia.
Alì Pascià ordinò allora, furibondo, l’attacco generale e le galere turche forzarono la voga e presero velocità. Pensarono
di attaccare e prendere subito quello che sembrava un grosso convoglio mercantile carico di vettovaglie e dunque
puntarono decisi incontro alle Galeazze e così s’infilarono sulla loro linea di fuoco.
A questo punto dai bordi delle galeazze iniziò un violento fuoco d’artiglieria. Una cosa mai vista fino allora! Sia per la
potenza di fuoco e sia per l’origine di quel tiro, perché per la prima volta in un combattimento navale, proveniva dai bordi
di una nave e non più solo da poppa e prua. Centinaia di cannoni di medio e grande calibro squarciarono fiancate,
divelsero alberi e velature, scombinarono controlli per la navigazione.
Cosa incredibile che da sei sola galeazza, ne fusse uscito un tanto esterminio, non essendosi per avanti
esperimentate in pugna navale. 43
Le galere turche sbandarono e si resero conto di non potere fermarsi in mezzo a quella micidiale sorgente di morte.
Frustarono ancor più gli schiavi cristiani addetti alla voga e superarono così la linea di fuoco delle galeazze
presentandosi davanti all’Armata Cristiana. Ma il loro schieramento era ormai scombinato.
L’attacco delle galeazze aveva fatto perdere ai Turchi la compattezza e quindi l’efficacia dell’incursione fu quasi
44
dimezzata.
42 - Con le strisce gialle: Squadra del Corno sinistro (Barbarigo). Con le strisce azzurre: Squadra Centrale (Don Giovanni). Con le strisce Verdi:
Squadra del Corno destro (Doria). Con le strisce bianche: Squadra di riserva (Santa Cruz).
43 - G.PARKER, La Rivoluzione militare…, cit., pg. 162.
44 - La galeazza era lunga circa cinquanta metri (le galee erano lunghe 40 metri) e larga 9. Era armata con 8 cannoni di grosso calibro a poppa e prua
e almeno sette cannoni di medio calibro, anti-uomo, su ogni fiancata. Imbarcava inoltre un contingente di archibugieri di almeno duecento uomini
oltre a reparti di fanteria leggera. Un’arma micidiale in tutti i sensi.
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Con grande esperienza marinara, gli ammiragli turchi si riposero comunque in assetto da battaglia e affrontarono lo
schieramento alleato che s’era predisposto al contrattacco. Un nutrito sbarramento di fucileria rinforzato dall’artiglieria,
andò all’incontro dell’arrembaggio turco. Lo schieramento s’era di nuovo scomposto ma adesso la battaglia si iniziava a
combattere per singoli episodi.
Il primo arrembaggio investì Agostino Barbarigo, che ebbe sempre al fianco la galea di Camillo da Correggio, e riuscì,
nonostante la precisa attività di fucileria degli archibugieri.
Anche la galea di Marino Cantarini si trovò chiusa fra sette galere turche. L’arrembaggio fu fermato con valore e costò la
vita al grande Capitano. Fu Paolo Orsini a prenderne immediatamente il comando ridando slancio ai Cristiani mentre al
suo fianco s’immolavano i Capitani Barone da Gubbio e Gioiano da Vicenza.
Era ormai questione di minuti e la battaglia di Orsini sarebbe stata persa. All’improvviso però, la galea di Vincenzo
Quirini riuscì ad arrembare in mezzo alla confusione generale e a sfondare lo schieramento turco.
I Turchi erano sgomenti per tanta resistenza e iniziarono a retrocedere mentre un enorme frate con barba fluente,
roteando una grande scimitarra, saltava dalla galea di Quirini su quella di Orsini e, con ghigno feroce, trascinava i suoi
all’attacco.
I Turchi rientrarono sulle galere e fecero per mettersi a difesa quando gli schiavi cristiani, rotte le catene, s lanciarono su
di loro facendone strage di spada.
Le galee di Orsini e Quirini a tal punto, virarono di bordo e si affiancarono alla galea di Giovanni Contarini, quindi
s’avvicinarono a quella di Agostino Barbarigo, che stava sostenendo un impari duello con numerose galere Turche.
Barbarigo era stato colpito a un occhio e aveva trasferito il comando a Narni. L’assalto delle due galee amiche consentì
a Narni di liberarsi dall’assedio, contrattaccare e vincere, anche se, durante il vittorioso arrembaggio finale, Quirini perse
la vita.
Scirocco, che comandava quell’assalto turco alla galea di Barbarigo, tentò allora la fuga portandosi, pare a nuoto, sugli
scogli rivieraschi, inseguito da Orsini che lo raggiunse e lo giustiziò sul posto.
Intanto Narni catturava il Capitano turco Caur-Alì sottraendogli la cassa della flotta.
Il Nobile Gaspare Parisio vinse la sua battaglia contro una galera turca catturandone lo stendardo ma ne uscì
orrendamente sfregiato da scimitarra. Stessa sorte per Francoperta che, malgrado le orrende mutilazioni, non
abbandonò la tolda della sua galea.
Queste e altre eroiche prove della flotta alleata, consentirono a Don Giovanni di continuare a cercare la Sultana di Alì. La
trovò defilata dietro una scorta di galere; al tentativo di accostamento della Reale, rispose con nutrito fuoco di fila. Invano
Marc’Antonio Colonna cercò di affiancare la Reale per raddoppiarne la forza d’urto. Il Contrammiraglio turco PetrevPascià ne intuì il piano e gli si mise contro. Colonna decise di attaccarlo prima che la galera terminasse di porsi in
posizione offensiva e attaccare di punta, e la controffensiva riuscì costringendo Petrev-Pascià alla fuga su un caicco di
scorta.
Colonna poté così sostenere l’attacco di Don Giovanni e il contatto colla Sultana avvenne fra una miriade di spari e urla.
I Giannizzeri balzarono sulla Reale sciabolando freneticamente, atteggiamento che non scompose i 400 Archibugieri
Sardi e Spagnoli della Guardia Reale. Di fronte all’indecisione dei Giannizzeri, sorpresi dalla precisione di quel fuoco di
fila, la Guardia Reale passò al contrattacco. Riuscirono a scavalcare la fiancata della Reale ma si trovarono di fronte una
marea di corsari che erano giunti di rinforzo su navi leggere. Ci fu un momento di sbandamento fra le fila cristiane
mentre i Giannizzeri, sostenuti da forze fresche, riguadagnavano il ponte della Reale.
Sebastiano Venier s’accorse del pericolo e puntò immediatamente sulla Reale per sostenerne la difesa, ma venne
speronato da una galera turca di supporto alla Sultana e sarebbe stato sopraffatto se non fosse giunto il soccorso delle
Galee di Cattarino Malipiero e Zuane Loredan, entrambi morti in battaglia per sostenere il Capitano e consentirgli la
vittoria.
Mentre attorno alla Reale infuriava la battaglia, la Grifona del Papa e la Capitana di Venezia viravano in continuazione di
360°, nel tentativo di trovare spazio di manovra. La galea di Francesco della Rovere, Duca di Urbino, cercò in tutti i modi
di agevolare questa manovra, governata da Francesco di Savoja Duca di Racconigi. Appoggiato da numerosi membri
della famiglia Canal, il Duca di Racconigi accettò battaglia rimanendo ucciso. Anziché ordinare la ritirata, il Conte Andrea
Provana da Leynì che prese il comando della galea, restò nella pugna a fianco della Grifona ove intanto Bartolomeo
Sereni, Onorato Caetani e Alessandro Negroni si opponevano eroicamente alla sovrabbondante forza turca.
Vi fu un momento nel quale le condizioni di teatro consentirono alla Grifona di svincolarsi, circostanza della quale la forte
galea papale subito approfittò tirandosi dietro Provana. La Capitana del pirata Caracossa si trovò, isolata, sulla loro rotta
e venne immediatamente attaccata e presa. Caracossa fu ucciso durante l’assalto finale.
Si levò dalla Grifona un grido di gioia nel momento in cui la galera ammainava le insegne turchesche e al loro posto,
veniva inalberato lo striscione azzurro del corno alleato. Un grido prolungato perché dalla Grifona si scorgeva ciò che
intanto avveniva poco distante: Ruggero Oddi da Perugia che catturava la ex Capitana del Papa perduta a Gerba.
La tutela attorno alla Sultana a quel punto, s’indebolì. Fallito l’attacco primario a bordo della Reale, la Sultana s’era
svincolata pur rimanendo da presso, in attesa di ricevere rinforzi per l’attacco finale. Ma le circostanze attorno al centro
del teatro bellico, stavano volgendo a favore dei Cristiani e la Sultana era chiaramente in difficoltà. I primi ad
approfittarne furono la Galea di Genova, seguita di fianco dalla galea di Bergamo ove ritto sulla prua, Antonio Colleoni
continuava a puntare la grande spada verso la Sultana.
La galea di Genova abbordò con grande maestrìa e il contingente sardo si precipitò a bordo della Sultana chiudendo in
un angolo, senza speranza, l’Ammiraglio turco.
Fu il momento tanto atteso: Colonna fece alzare sul pennone il segnale dell’attacco generale.
La riserva militare di Don Alvaro di Bazan Marchese di santa Cruz, avanzò velocemente gettandosi nella mischia come
una furia: ondate di calabresi, siciliani, napoletani si avventarono sui ponti delle galere,trascinandosi dietro gli altri
contingenti di riserva. Le Galee di Sicilia si portarono subito vicino alla Reale e il contrattacco finale riuscì a sopraffare la
valorosa resistenza turca. In questa azione fu ferito gravemente al naso il Bagnaroto Vincenzo Cesareo che su una
Galea siciliana aveva trovato posto insieme a un suo servo di Solano, abilissimo fiocinatore da pesce-spada. Durante
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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l’assalto finale, Cesareo venne chiuso da cinque scimitarre e sarebbe stato sopraffatto se il servo solanoto non fosse
intervenuto alle spalle sciabolando freneticamente e liberando così Cesareo dall’angolo mortale. Un altro Bagnaroto,
Cardonio Pizzarello, che combatté inquadrato nell’equipaggio di Capitan Milio da Melicuccà, ebbe il viso squarciato da
45
scimitarra durante il contrattacco finale dell’Armata Centrale.
Le scorte della Sultana furono quindi sopraffatte già dopo il primo assalto proprio mentre i Sardi conquistavano l’albero
maestro della Sultana. Si stava profilando una grande vittoria!
Fu in quei frangenti che avvenne un episodio singolare quanto significativo.
Le paranze si erano date da fare durante tutto il corso della battaglia, allineando le galee sugli ordini che partivano dalle
Capitane e le stesse Capitane con la Reale di Don Giovanni.
Nella fase centrale, si preoccuparono di evacuare i feriti consegnando provviste e munizionamento o provvedendo a
46
riparazioni d’emergenza. Quando il Marchese di Santa Cruz si gettò nella battaglia con tutte le forze disponibili, le
paranze si defilarono per agevolare l’attacco generale e così alcune di loro capitarono in mezzo alla scorta della Sultana,
composta da caicchi colmi di vettovagliamento vario e trasporti sui quali avevano trovato posto membri della Corte
Ottomana e dignitari dell’Impero Turco.
Su una di queste navi, una “saiettia” chiamata “Fusta del Profeta”, stavano affacciate per assistere alla battaglia le
favorite dei Capitani turchi, damigelle suonatrici e vari cortigiani.
In quel momento passò di fianco, navigando lentamente perché carica di agrumi per la truppa, la paranza di Bagnara
con a bordo le 18 Bagnarote e le 7 Sciglitane. Molte di loro riconobbero fra le favorite, alcune calabresi che sulla Costa si
ritenevano schiave ai turchi e che invece adesso apparivano vestite di veli preziosi e con addosso luccicanti gioielli. Era
chiaro che avevano rinnegato la fede cristiana e si erano concesse ai Capitani turchi.
Non era un caso isolato quello delle “favorite” ex schiave cristiane. A parte il già narrato episodio di Flavia Caetani, era
ancora recente il ratto a opera di Barbarossa, di Margherita Marsili, detta “Rossellana” per via dei capelli rossicci, poi
divenuta prediletta di Solimano il Magnifico e suo figlio il successore del Gran Turco col nome di Selim II°, o di Cecilia
47
Basso, la bellissima veneziana sposa proprio di Selim II°, matrimonio dal quale nascerà il futuro Murad III°.
La presenza delle favorite turche fu fatta notare immediatamente ad Anastasia Mandile che quella paranza governava e
la Bagnarota non ci pensò due volte. L’abbordaggio fu perfetto e la paranza si trovò a fianco della saiettia turchesca.
Irripetibili imprecazioni furono rivolte alle favorite che risposero indispettite, facendo leva sulla scorta di Eunuchi e della
Guardia dei Giannizzeri della Galera.
A quella risposta, le Bagnarote e le Sciglitane risposero con lanci di oggetti di piccolo e medio calibro e quindi iniziarono
48
un nutrito bombardamento di arance e cedri.
La furia montò inarrestabile e Anastasia abbordò definitivamente. Le Bagnarote e le Sciglitane si scagliarono contro le
“traditrici”, seguendo l’abbordaggio che intanto operava la Galea di Don Matteo Parisio. Per qualcuna l’assalto fu fatale e
per la maggior parte si trattò di nervate, sfregi e pestaggi e l’umiliazione del taglio dei capelli.
In quell’attacco, Anastasia subì la lacerazione del naso e del mento ma rimase fino alla conclusione della particolare
battaglia combattuta a margine di quella principale.
Fra le damigelle suonatrici ve n’era una, bellissima, che disse di chiamarsi Miriam. La danzatrice rivelò a Parisio e
Anastasia la presenza sulla “saiettia” di un barracano e di una bandiera verde, custodita con cura maniacale, quasi fosse
una reliquia. Le schiave furono liberate e la “saiettia” cambiò nome in Santa Maria del Piliero. Dopo di che Anastasia si
diresse a fianco della galea di Capitan Milio e prelevò i feriti, fra i quali Cardonio Pizzarello.
Il giovane notò la bella Miriam che era rimasta accanto ad Anastasia e decise di porla sotto la propria protezione
chiedendole di assisterlo nella sua condizione di ferito. Anastasia Mandile si mostrò consenziente e così Miriam si pose
a fianco del Crociato bagnaroto, mentre la paranza riguadagnava le retrovie per ricoverare i feriti e rifare i rifornimenti.
Da tutto lo schieramento poi, si osservò all’improvviso che dalla Sultana di Alì scendeva lo stendardo della Mezzaluna e
immediatamente dopo veniva innalzato il grande stendardo azzurro con in pieno campo la Santa Croce di Cristo.
Un fremito di gioia e orgoglio percorse l’intero schieramento cristiano ma solo Andrea Doria non credette alla vittoria
definitiva. La sua esperienza lo consigliò di non abbassare la guardia ed ebbe ragione. Nella confusione generale
succeduta alla resa di Alì, Occhialì manovrò velocemente allargandosi di molto dallo schieramento originario. Avrebbe
continuato così ancora per quasi cinque miglia dopo di che avrebbe certamente virato buttandosi di fianco sulla reale di
Don Giovanni con tutte le forze dell’Ala Destra turca. Una situazione di pericolo estremo che fu valutata da Doria appena
in tempo. La formazione cristiana lasciò immediatamente la formazione di battaglia e si defilò per impedire la crociera al
convoglio di Occhialì e offrire battaglia. Circostanza che ovviamente Occhialì non accettò. Ma intanto fu costretto a virare
stretto, perdendo l’iniziativa dell’attacco in pieno fianco. Sfruttando la maggior velocità delle galere, riuscì a far penetrare
nello schieramento cristiano solo quindici galere da battaglia, mentre il resto della sua flotta era bloccato dalle navi di
Andrea Doria.
Immediatamente la Fiorenza con i Cavalieri di Santo Stefano e la San Giovanni, della flotta papale, insieme alla San
Michele Arcangelo Capitana dei Nobili Cavalieri di Malta “difensori della Sacra Religione” al comando della quale stava
45 - Lo stesso Capitano perdette le gambe nella battaglia per cui i discendenti furono cognominati “Gambacorta” (G.VALENTE, cit., pg. 201).
46 - Si tenga conto che una Galea in assetto da battaglia, era governata da non meno di 150 rematori (le galeazze ne avevano 250!) e portava non
meno di 250 fanti. Pertanto una galea in assetto da battaglia, vista da lontano, mostrava una sequenza di teste continua da poppa a prua. Difficile fare
con comodità i bisogni fisiologici, e per tale motivo per esempio, la presenza di una galea si poteva accertare anche di notte, se il vento era
favorevole, perché trasportava la puzza di escrementi anche a un paio di chilometri. Ma era proprio la logistica il punto forte che rendeva la galea
vincente. Senza l’appoggio logistico, la galea non avrebbe potuto navigare autonomamente per più di due giornate, poiché i rifornimenti che
trasportava, non sarebbero stati sufficienti per tutti né vi sarebbe stato spazio libero per imbarcarne altri. Ecco dunque il prezioso supporto delle
paranze di collegamento fra i galeoni mercantili che fungevano da magazzino, e il “front-line” di combattimento o, nella trasferta, di schieramento.
47 - ARRIGO PETACCO, La Croce e la Mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l’Islam, Mondadori, Milano 2005, pg.
30.
48 - Anche gli ultimi Giannizzeri si difesero lanciando arance e cedri, circondati dalla fanteria spagnola vincitrice che, per beffa, raccoglieva quegli
agrumi e li rilanciava verso gli assediati. (G. PARKER, La Rivoluzione militare, cit., pg. 163).
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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adesso Frà Pietro Giustiniani, Priore di Messina e Generale della Religione, seguiti dalla seconda Capitana dei Cavalieri
di Malta con Frà Rinaldo Naro, si lanciarono verso il nemico, intanto inseguito da undici galee veneziane del Doria.
Fu una vera immolazione.
La Fiorenza subì l’attacco più forte e i Cavalieri di Santo Stefano furono trucidati. Si salvò Tommaso dé Medici con soli
15 Cavalieri mentre l’equipaggio, per sostenerne la ritirata, si offriva alle scimitarre. L’equipaggio della San Giovanni
venne sterminato, i 36 Cavalieri e l’equipaggio della San Michele strangolati, ferito sette volte Frà Giustiniani, ferito tre
volte Frà Naro, decimati i contingenti veneziani nel frattempo accorsi, eroico con la spada in mano il Conte di Briatico
Don Gianferrante Bisbal.
Intanto Doria manovrando con virate continue, piombava alle spalle dell’attacco turco e, col supporto di Don Giovanni De
Cardona, affrontò e batté tutto lo schieramento di Occhialì. Il rinnegato calabrese alla fine non accettò battaglia e si
diede alla fuga. E consentì anche ai Cristiani di sopraffare Alì, catturato dalle truppe d’assalto spagnole. La
raccomandazione dell’Infante era stata di catturarlo vivo, ma troppo forte fu il desiderio di vendetta dei Cristiani che
avevano ancora a mente la descrizione degli eccidi di Famagosta. Il Pascià fu incordato, e quindi gli furono cavati tutti i
denti. Venne quindi deposto sopra un catafalco e decapitato. La sua testa fu posta sopra un’altissima picca e innalzata a
prua della Sultana. Di fronte a quella visione spettrale, le truppe del Sultano abbassarono le armi.
Lentamente, la battaglia si disperdeva in sempre più isolati duelli fino a che le ultime galere turche si defilarono e presero
la rotta per Costantinopoli.
Dei tremila calabresi presenti a Lepanto, circa seicento perirono combattendo e di questi eroi sconosciuti, il simbolo
perenne, ancora oggi ricordato e ammirato, resta l’esploratore calabrese Mastro Cecco Pisani da Belvedere, guerriero
49
senza paura e “del mare amico gentile”.
Nell’Isola di Corfù, riposano per sempre le spoglie degli eroi di Lepanto.
I Nobili cattolici prima sepolti nella Chiesa della Santissima Annunziata, ora sono nel Cimitero Cattolico dell’Isola.
I Nobili ortodossi riposano nella Chiesa “dei Vechi” di San Nicola e i non nobili nella bellissima chiesetta “dei Martiri”.
La bandiera della Sultana si trova adesso nella Chiesa dei Cavalieri dell’Ordine Sacro Militare Marittimo di Santo Stefano
50
Papa e Martire, Ordine voluto da Cosimo I° dé Medici Granduca di Toscana.
Lo Stendardo della flotta turca, fu affidato da Don Giovanni al Vescovo di Gaeta, don Pietro Lunello ed è ora presso il
locale Centro Storico Culturale.
Il grande Crocifisso in legno, innalzato a prua della Reale un momento prima dello scontro, è ancora oggi venerato con
51
intensa religiosità presso la Cattedrale di Barcellona.
San Pio V stabilì che il 7 Ottobre fosse ricordato da tutta la Cristianità come il giorno consacrato a Maria Santissima delle
Vittorie. Gregorio XIII trasferì quindi la festa alla prima domenica di Ottobre sotto il titolo di Maria Santissima del Rosario.
Nei nostri cuori di Calabresi, resta immutabile il ricordo di Mastro Cecco Pisani, fulgido esempio di cosa sia lo spirito di
sacrificio, l’abnegazione e la dedizione al lavoro e alla patria, di un Calabrese lasciato libero di vivere e lavorare.
Il ritorno a Bagnara e Scilla di Anastasia e delle sue guerriere fu trionfale. I trofei che, con l’aiuto di Miriam, Don Matteo
Parisio aveva recuperato, furono esposti in Duomo a Reggio insieme alla bandiera azzurra dei Parisio. Qualche tempo
dopo, la nobile Famiglia decise di restituire le prede ai Turchi e la stessa Miriam, convertitasi nel contempo al
Cristianesimo, s’incaricò della riconsegna alla Sublime Porta.
Anastasia passò quindi a Tropea unitamente al dott. Vincenzo Cesareo e le loro ferite di Lepanto vennero curate dei
grandi Vianeo. Cesareo ebbe rifatto il mento e alcuni lembi di pelle furono prelevati dalla gamba del suo servo solanoto,
il micidiale fiocinatore di pesce-spada che a Lepanto gli aveva salvato la vita sfollando il nugolo di turchi che aveva
circondato e oramai sopraffatto il suo padrone sulla Galea di Sicilia ov’erano imbarcati.
Anastasia fu sottoposta a una sofisticata operazione di rinoplastica e ne uscì perfettamente restaurata.
49 - Come già ricordato nelle pagine precedenti, l’episodio di Anastasia Mandile fu pubblicato per la prima volta nel volume TITO PUNTILLO –
ENZO BARILA’, Civiltà dello Stretto, cit., ripreso pressoché integralmente nel cennato pamphlet di Mirella Violi ma con errori da giudicarsi
fondamentali. La ricerca che avevamo condotto, ci fece risalire a un saggio di: G.PARISIO MARZANO, Elenco II delle università del Regno di
Napoli che figurarono col titolo di Città, e numero di fuochi di ognuna di esse, saggio erudito pubblicato nella Rivista del Collegio Araldico, a.
XXXIV (1936), pg. 307, che citava la battaglia delle arance. Data la straordinarietà dell’evento, cercammo conferma del fatto e in parte la
rinvenimmo in: G.PARKER, La Rivoluzione militare…, cit., nell’edizione della Cambridge University Press. e nel lavoro di GUSTAVO VALENTE,
Calabria…, cit., pg. 220. Recentemente sono apparsi in Internet diversi contributi che si richiamano a questo episodio. Per esempio:
“TropeaMagazine” ha messo in Rete un saggio di GIUSEPPE PARISIO, Baroni e Feudatari nel napoletano, Rivista Araldica, 1939, che noi
consultammo all’epoca della nostra ricerca e che nella sostanza richiama il Saggio del 1936. La notizia è ripresa anche da SIMONA NEGRELLI, I
fabbricanti di nasi,Il Quotidiano della Calabria, 26/8/2007, recensita in Tropeanews da Salvatore Libertino. “La Stanga del Portatore”, che è un
periodico bimestrale d’informazione edito dalla Benemerita Associazione Portatori della Vara della Madonna della Consolazione
(www.portatoridellavara.it), nel numero 1 del 2005 (anno II - genn.-febbr. 2005), ospita l’articolo di NATALE CUTRUPI, Origini del culto della
Madonna della Consolazione all’Eremo, che cita la Battaglia e l’episodio di Anastasia Mandile.
Una bellissima descrizione della battaglia di Lepanto è in: G.VALENTE, Calabria, Calabresi e Turcheschi…, cit., pg. 151 sgg.; D.M.VALENSISE,
Il Vescovo di Nicastro poi Papa Innocenzo IX e la Lega contro il Turco, Nicastro 1898, pg. 165-168; p.F.RUSSO, La Calabria a Lepanto, Historica,
a. XXVI (1973), nr,1; P.MOLMENTI, Sebastiano Veniero e la Battaglia di Lepanto, Fi. 1819; D.MARTIRE, Calabria Sacra e Profana, Cs. 1876,
passim; C.D’ALESSANDRO, Cecco Pisano, l’eroe di Lepanto nacque a Belvedere Marittimo, Giornale d’Italia, 10, V, 1933; C.MINICUCCI, I
Calabresi a Lepanto. Cecco Pisani da Belvedere, Cronaca di Calabria, 21,2,1932; F.NOCITO, Il famoso pilota calabrese vero vincitore della
Battaglia di Lepanto, Giornale d’Italia, 17,10,1909; G.A.QUARTI, La guerra contro il Turco in Cipro e a Lepanto, (1570-1571), Venezia 1935;
G.VALENTE, Calabresi del Cinquecento, il Barone di Badolato Gasparro Toraldo, Il Popolo di Roma, 20,9,1935; C.BOGLIETTI, Don Giovanni
d’Austria a Lepanto, Nuova Antologia, Ottobre 1887; P.FEDELE, Il vessillo di Lepanto, Arch.Stor.Prov.Napl., a.XXXIV, 1909, fsc. III; A.DE
LORENZO, Le Calabrie e la giornata di Lepanto, Un secondo manipolo… cit., passim; D. LOTH, Filippo II, Milano 1959.
50 - UBALDINO MORI UBALDINI, La marina del Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale ed.,
Roma 1971.
51 - MARCO TANGHERONI, La battaglia di Lepanto, un episodio glorioso nella storia della Cristianità, “Cristianità”, nr. 80, dicembre 1991.
Quaderni Bagnaresi – Omaggio a “L’Obiettivo” – a. II°, nr. 6 (Sett.-Dic. 2012)
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Si recò a Tropea anche Cardonio Pizzarello, anch’egli col naso maciullato durante la Battaglia. L’operazione risultò
complicata e Miriam, che accompagnò il Nobile Bagnaroto, offrì lembi di pelle della gamba e delle spalle per il
rifacimento del naso di Pizzarello.
I due s’innamorarono profondamente ma fu un amore contrastato: Miriam comprese che la differenza dei natali non
avrebbe mai potuto far concretizzare quest’amore e decise di ritirarsi monacandosi, come “Suor Maria”, nel Convento di
52
Seminara.
RITUALE DELLA CACCIATA
DEL MALOCCHIO
Si mette l’acqua in una bacinella, si versano tre
gocce d’olio e si muove la bacinella sopra il capo
della persona adocchiata che si è fatta sedere su una
sedia, al centro di una stanza. Mentre la bacinella
ruota, la donna capace di estrarre il malocchio,
recita tre Gloria, un pater, il Credo e quindi recita la
formula:
Nesci occhiu smalirittu
Pemmi trasi Gesù Cristu
Pe lu nomi ri Gesù
Nesci malocchiu e non tornari kiù.
E pé la Santa Notti ì Natali
Mu squagghi comu l’onda ru mari
Occhiu, malocchiu, malinconia:
nesci malocchiu ra vita mia
e pé a Santa Notti j Natali
mu squagghi comu l’unda ru mari!
LE DONNE DI BAGNARA 53
Matriarche con chiome corvinegonne lunghe e larghe color
rosa
o celeste stemperato,
pare che dicano al comandante
tutte insieme con l’indice puntato:
“su questo mare vira
da questa parte,
falla corta e veloce
non scocciare”
BARTOLO CATTAFI, L’aria secca del fuoco, Mondadori, Milano 1972,
ora in:
Poesie alla Calabria, a cura di Dante Maffia, Periferia ed., Cosenza 1986,
pg. 126.
DOMENICO CARUSO, Storia e Folklore calabrese,
digilander.libero.it/brutium/folklore
52 - G.PARISIO MARZANO, Elenco II delle università del Regno di Napoli che figurarono col titolo di Città e numero dé fuochi in ognuna di esse,
Rivista del Collegio Araldico, a. XXXIV (1936), pg. 307; GIUSEPPE PARISIO DEL CARDINALE, Cronache della Vecchia Calabria: I Reggini a
Lepanto, Brutium, a. XXVII, 1948, nn. 11-12, pg. 13. Cfr. le perplessità di GUSTAVO VALENTE, Calabria …, cit., pg. 221.
53 - Bartolo Cattafi: Barcellona Pozzo di Gotto 1922 – Milano 1979. Poeta amatissimo soprattutto dai giovani, quando scoprono la soave musicalità
dei suoi versi provenienti dal fondo dell’anima e immediatamente percepibili dalla sensibilità dal lettore.
Un’ampia bibliografia su Lepanto è in: TITO PUNTILLO, La Bagnarota. La donna di Bagnara ricondotta dal mito alla realtà, A.S.F.B. ed., Bagnara
C. 2008, da pg. 62. Disponibile sul Web: Bagnaracalabra.biz
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5.- GRANDISSIME BAGNAROTE D’ELEZIONE
ADA FONZI
ADA FONZI
Scienziata di fama internazionale nasce a Roma nel 1927 e si laurea in Lettere nel 1948. Docente di Psicologia dell’Età Evolutiva a Torino e Firenze è
Vice-Presidente del Centro Internazionale per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Promosociali e Antisociali. Autrice di oltre 200
pubblicazioni scientifiche, alcune delle quali fondamenti della Psicologia Moderna, come Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola
dal Piemonte alla Sicilia (Giunti-Firenze), Il gioco crudele e Le parole sommerse (idem), Gli uomini muoiono, le donne invecchiano, manuale di
Psicologia di vasto respiro. E’ responsabile di numerosi progetti per il supporto sociale - umanitario alle popolazioni colpite da eventi traumatici, per
conto del MURS, la NATO e la Comunità Europea e su questi temi, collabora con diverse fondazioni universitarie degli Stati Uniti. Il 9 settembre
2005 ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Torino per la sua attività di ricerca che ha dato un contributo decisivo alla comprensione
dei processi che mediano, lungo l’età evolutiva, lo sviluppo delle relazioni sociali positive con i coetanei. La Professoressa Fonzi, che ha vissuto la
prima parte della sua infanzia nel nostro Paese, ama Bagnara e vi giunge, praticamente da sempre, in Agosto, felice di confondersi fra la gente
semplice del nostro Paese. Durante le sue passeggiate mattutine, ama osservare le Bagnarote che vendono frutta e verdura all’ombra delle palazzine
INA Casa della via Marina, affascinata dai modi coi quali porgono gli argomenti di vendita, il dialetto fluente e la “forte professionalità” che
caratterizza la loro attività.
Ada Fonzi, cugina di Franz e Jose Saffioti (le due mamme erano sorelle), è una grandissima Bagnarota “acquisita”, alla quale il nostro Paese
dovrebbe conferire con riconoscenza la Cittadinanza Onoraria.
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6.- RAPPRESENTAZIONI IN NEGATIVO DELLA DONNA
LA PIETRA DEL DIAVOLO
La possibile egemonia del Matriarcato, un Matriarcato «dominante», ha sempre, in ogni tempo, preoccupato gli ambienti
confessionali, aspetto già evidenziato nelle pagine precedenti. Per tale motivo l’immagine positiva, del serpente, venne ribaltata
nell’assoluto negativo: dall’idea del bene all’idea del male.
Il serpente era associato alla terra e la rappresentava nella sua forma dinamica. E la terra era la Grande Madre dispensatrice di
ogni bene nella vita e regolatrice del suo ritmo, dalla nascita alla morte nella ripetitività di questo essere cosa o essere da essa
generati.
La rappresentazione divina era dunque, come s’è annotato, una figura femminile florida e feconda, spesso con in mano il serpente,
dominante sulla sapienza, rappresentata dalla civetta, e sull’energia, rapperesentata dal leone.
La trasposizione terrena della Grande Madre, era dunque la Donna nel suo essere in grado di generare, allevare, custodire,
perpetuare. La Donna e il Serpente quali simboli terreni del Granmde Amore, che è l’essenza della Madre Tellurica, la Grande
Madre Terra.
Nel tempo e col prevalere del potere confessionale, questa simbologia venne stravolta: il Serpente divenne il simbolo del Male che
con la sua perfidia, riuscì a “dominare” la Donna ed ella, così dominata, insidiò l’Uomo trascinandolo nel peccato
La Donna dunque, rappresenta il Male, che è da “dominare” in ogni caso, sempre e comunque.
Se si vuole avere una chiara idea di questa rappresentazione in negativo, si legga con attenzione la novella che narra del mito di
Sant’Elia tentato dal diavolo; il ruolo in negativo della figura femminile, emerge qui nella più totale nitidezza.
T
utto avvenne durante un pomeriggio d’Estate dell’anno 900, quando il giorno stava per lasciare spazio e tempo
all’imbrunire. Era stata una giornata di tiepida primavera, talmente bella da consentire a Elia di trovare con più
facilità il raccoglimento attraverso il quale usava riconciliarsi con Dio.
Il Padre se ne stava accovacciato, in preghiera, di fronte all’incredibile panorama dello Stretto, che quasi si riusciva ad
abbracciare dall’alto del Monte Aulinas, in cima al quale, egli aveva costruito un piccolo Monastero che portava lo stesso
nome: Aulinas.
Dal fondo del sentiero, tracciato in mezzo a una pineta secolare, si avvicinava a passi lenti un viandante che portava
sulle spalle curvate per il peso, un enorme sacco. Il volto era scuro e gli occhi mai smettevano di fissare il Padre, e anzi,
man mano che s’avvicinava a questi, essi brillavano con maggiore intensità, evidenziandosi nettamente sul volto scuro e
severo.
Il Padre non fece un gesto, non spostò un solo muscolo del suo magrissimo corpo se non che ogni tanto, come da
tempo accadeva, qualche fremito dovuto ai lunghi digiuni penitenziali, pervadeva le sue gambe e le sue spalle, coperte
da una ruvida pelle di capra, dono dei contadini della zona.
Con la fronte appoggiata al lungo bastone di tipo episcopale, il Padre sentì la presenza del viandante ormai alle sue
spalle, ove questi si fermò.
Fece un passo per portarsi a fianco del Padre e con voce insinuante, cominciò a narrargli delle meraviglie viste durante il
viaggio da Messina fin sull’Altopiano delle Saline ove seppe della sua presenza eremitica da poveri contadini provenienti
da Seminara.
Cupole d’oro, bella gente gaudiosa, donne procaci e disposte al piacere, facilità nei godimenti e soprattutto, facili
guadagni.
Tanto oro, narrò il viandante al Padre, che addirittura ne rinvenne una Al venire della Dea ...
... un vitreo vel si stende
notevole quantità in un casolare abbandonato della costa.
Non voleva forse il Padre dividerlo con lui, visto che ne portava in tra le italiche prode e le sicane
Ve', Ve', sul crespo mar quante parvenze!
abbondanza nel sacco?
Così dicendo, il viandante aprì il sacco di fronte al Padre che appena Templi, castella, archi, palagi e alfine
tutta in alto ondeggiar vedesi Zancle.
guardò il metallo luccicante ai raggi dell’ultimo sole.
Con un ghigno sottile, male interpretando la passività del Padre, il Guarda ognun le confuse aëree tinte
viandante prese dal sacco una manciata di monete d’oro e le porse e i prati e il lido, che la spuma inalba,
con la mano tesa al religioso. Il Padre Elia ebbe uno scatto: si erse ed invece d'un legno e d'un sol pesce
sulla schiena e col bastone colpì la mano del viandante in modo ben cento pesci, e cento legni ammira.
energico. Le monete d’oro cominciarono a rotolare giù per la DIEGO VITRIOLI, Opere Scelte, tip. Ceruso, Reggio C. 1893
scarpata, man mano trasformandosi in “Pietre Nere”.
Il viandante allora scattò un passo indietro e si gettò nel vuoto rantolando ferocemente mentre dalle spalle si formavano
due enormi ali di pipistrello e sulla fronte, spuntavano due corna appuntite e lunghe. Ringhiò verso il Padre Elia, ma il
Profeta non si scompose. Rimase fermo con lo sguardo fisso verso il demone che si torceva in aria rantolando e
ringhiando mentre le ali sbattevano con sordo rumore.
Quindi il demone si dileguò scomparendo in mezzo alla pineta, ormai avvolta dall’oscurità serale, mentre il tesoro si
polverizzava e disperdeva col favore della brezza della sera e le “Pietre Nere” terminavano la loro corsa sulla spiaggetta
sottostante..
Il giorno dopo egli si ripresentò al Padre. Elia era solito uscire di buon mattino dalla sua grotta per l’abituale
colazione a base di radici, bacche, cardi per poi ristorarsi presso una vicina sorgente d’acqua. Gli si mise al fianco e gli
additò una tavola riccamente imbandita d’ogni bene. Il Padre ignorò sia il tentatore che la tavola imbandita e andò ad
accovacciarsi là ove adesso sorgono tre Croci che guardano imperiose Palmi e la Piana.
Rimase nel cilicio per tutto il giorno, immobile, assorto nella meditazione.
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Ma il demone non s’arrese. Voleva a tutti i costi conquistare quel sito perché luogo divenuto epicentro di un’area di forte
santità, talmente forte da attirare le popolazioni locali che in effetti conducevano una vita serena, pregna di una
confortante spiritualità dovuta all’osservanza della Legge di Dio.
Ma per ottenere questo risultato, per fondare sulle falde di quel Monte un ricettacolo del Male, era necessario abbattere
l’incorruttibilità del Profeta del Monte Aulinas, il Padre Elia vicino al Signore.
Propose allora un patto al Profeta: “la mia tentazione sarà forte! Se vincerò, mi cederai il Monte; se vincerai, scaglierai il
tuo bastone ed io mi allontanerò fino a dove il tuo bastone riuscirà a giungere” e sogghignava, poiché – pensava – anche
se non vincessi egli non riuscirebbe a scagliare il suo bastone più lontano di qualche metro, vecchio e debole com’è!
Quindi e in ogni caso, il Monte sarà mio!
Passò qualche giorno e quindi si ripresentò per tentare la corruzione.
Questa volta assunse le sembianze di una procace fanciulla, dai lunghi capelli chiari sciolti sulle spalle nude, il corpo
fasciato da una tunica semitrasparente e dal quale si diffondeva per l’aria un soave profumo ambrato. La fanciulla prese
a invocare misericordia per la triste condizione, abbandonata dal marito in mezzo a una strada. Lamentandosi, s’accostò
progressivamente e in modo accattivante, al Padre fino a sfiorarlo con i suoi capelli ondulati. Fu a quel punto che il
Padre intravvide in quegli occhi maliziosi, la tentazione diabolica. Elia balzò il piedi e la schiaffeggiò. La fanciulla ebbe un
sussulto, si rivoltò su se stessa più volte urlando di dolore e quindi, balzando in piedi, riassunse la forma diabolica. Col
braccio teso armato del solo bastone episcopale e passo fermo, Elia spinse gradatamente, con una potente energia che
sortiva dal bastone, il demone verso il precipizio e su una roccia che ne costituiva il limitare, si svolse l’ultimo, accanito
contrasto.
Il demone ringhiava furioso sbattendo le enormi ali unghiate verso il Padre, mentre questi, fermo nello sguardo e forte
sulle gambe magrissime, resisteva con forza erculea alle spinte poderose del demone che così, intendeva sopraffarlo
gettandolo a terra e facendolo arrendere.
La lotta procedette furiosa per quasi un’ora. Lentamente però, il Padre continuava a spingere, centimetro dopo
centimetro, il demone furibondo verso il limitare del precipizio.
Alla fine, la figura diabolica si trovò ormai senza più terreno ove piantarsi per continuare la lotta. Ormai andava
inesorabilmente verso il vuoto.
Il demone alzò la testa in alto ringhiando feroce mentre tentava di allontanare il bastone vescovile dal suo volto e
spiegava le ali sollevando un turbinio di polvere che faceva sbattere i rami degli alberi.
Si rese conto che il Padre, con quel bastone protetto dal Divino Amore, era invincibile.
Fermo sull’ultima pietra prima del baratro, si accese di fuoco infernale che iniziando dal capo cornuto, pervase tutto il
corpo fino a raggiungere i piedi caprini e scaricare infine le fiamme roventi sulla pietra ove stava eretto.
Nel momento in cui il demone avvolto nel fuoco, si girò per osservare il baratro, il Padre prese il bastone
episcopale e lo scagliò verso l’orizzonte. Il bastone disegnò un grandissimo arco che andò a curvarsi verso il cratere di
Stromboli.
A quel punto il demone, rabbioso di dolore, fu trascinato via dalla roccia e, rotolando su sé stesso, seguì il bastone
miracoloso precipitando quindi dentro il Vulcano fiammeggiante.
Il Padre Elia, sorretto dal discepolo Daniele, nel frattempo accorso al ritorno dal suo giro fra i fedeli del circondario, si
voltò lentamente e, stremato, si ricondusse all’interno del piccolo Monastero di Aulinas ove si poté ristorare con la
preghiera, tessendo le lodi al Signore.
Da quel momento, lo Stromboli mai cessò di agitarsi e ancora oggi le sue eruzioni sono continue.
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Di quell’ultimo, biblico duello, restano ancora oggi le tracce lasciate dal demone sulla pietra: le due zampe e la coda
54
roventi.
Oh anima, ora che ben sai la via,
rifalla a piedi scalzi la salita
sul rude monte della poesia;
e te accolga pel resto della vita,
tra il cielo e mar, benigno Sant’Elia,
55
nell’alta solitudine infinita!
54 Le narrazioni più conosciute sono quelle di.
-
LEONIDA REPACI, Racconti calabresi, Rubbettino ed., Soveria M. 2001;
DOMENICO MINUTO (a cura di), Profili di Santi nella Calabria bizantina, G. Pontari edit., Reggio Calabria, 2002;
G.MINASI, Le Chiese di Calabria, tip. Lanciano & Pinto, Napoli 1896;
ANTONIO MINASI, La leggenda del diavolo, Turismo Giovanile, Ottobre 1959;
DOMENICO CARUSO, La Pietra del Diavolo; il Monte Sant’Elia di Palmi, Centro Studi San Martino, San Martino di Reggio, 2000;
NINO CALARCO, Un tempo…sullo Stretto; l’origine di Stromboli, Maridelsud.com;
GIUSEPPE CASALINUOVO, Sant’Elia, Nosside, Giugno 1929;
DOMENICO ANTONIO CARDONE, Canti e racconti del Sant’Elia, Antonio Lalli Edit., Poggibonsi, 1976, sul quale cfr.: anche:
SEZIONE BIBLIOGRAFICA DELLA SOCIETA’ FILOSOFICA CALABRESE (a cura di), Seguito della bibibliografia critica di
Domenico Antonio Cardone (1962-1980), Tipografia MIT, Cosenza, 1980;
ALBERTO CALOGERO, La pietra del diavolo, Paralleo 38 ed., Reggio C. 1975;
55 GIUSEPPE CASALIVUONO, La lampada del poeta, Soc.Tip.Editrice Nazionale, Torino 1907. Nel 1930 l’opera di questo grande Poeta
calabrese, nonché avvocato e Presidente del Circolo di Cultura di Catanzaro, fu recensita da U.Bosco per la prestigiosa rivista “Leonardo”:
U.BOSCO, La Lampada del poeta, in Leonardo, 1930, p. 667
Nel 2003 il Comune di Palmi fece apporre un’iscrizione a fianco della Pietra del Diavolo:
Questa roccia simboleggia l’eterna lotta fra il bene e il male. Da secoli una leggenda popolare narra che in questo luogo il
Diavolo tentò invano di distogliere S.Elia (Enna 823-Salonicco 903 dalla sua missione di edificare su questo monte un monastero.
Secondo tale leggenda, le impronte del Diavolo lasciate sulla roccia e ancora visibili, testimoniano lo scontro qui avvenuto tra il
Santo e il demone. Al diavolo sconfitto non restò che, secondo i patti, rifugiarsi nel Vulcano di Stromboli dove il Santo riuscì a
lanciare il suo bastone).
Ulteriori informazioni si possono rinvenire in:
FRANCESCO PERRI, Come nacque lo Stromboli, Leggende Calabresi, Società Editrice Unitas, Milano 1929;
ANTONIO DE SALVO, Da Palmi e dal suo Sant’Elia, Edizione Pro-Loco, Palmi, 1992;
DOMENICO FERRARO, Palmi. Immagini, cronaca, storia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1982;
ORESTE KESSEL PACE, S. Elia Juniore, Kaleidon edit. Reggio Calabria, 2012;
VINCENZO MIGLIORINI, Il Sant’Elia, tip. Zappone, Palmi 1931;
ANTONIO DE SALVO, Ricerche e studi storici intorno a Palmi, Seminara e Gioia Tauro, tip. G. Lopresti, Palmi 1899 (ora in ristampa
anastatica per Barbaro ed., Oppido M., s.i.d.);
LEONIDA REPACI, Calabria grande e amara, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002;
SOCIETA’ FILOSOFICA CALABRESE, Atti Dal 1948 al 1979, Stab. Tip. Editoriale C. Biondi, Cosenza, 1980;
KAZIMIERA ALBERTI, L’anima della Calabria, Rubbettino, Soveria M., 2007;
FRANCESCO TOMATIS, Filosofia della montagna, Bompiani ed.,Milano 2005;
VITO TETI, Il senso dei luoghi, Donzelli ed., Roma, 2004;
FRANCESCO BEVILACQUA, Genius Loci, Rubbettino, Soveria M., 2010; Il Filosofo e la Città, Quaderno dell’Associazione Casa per
la Pace “D. A. Cardone”, Palmi, luglio 2004
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«Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore» (Rocco Scotellaro)
(ENZO CREA, Immagini di persone in Calabria, Edizioni dell’Elefante, Verona 1982, tav.XLIV)
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DONNE DI CALABRIA
Frammenti d’un unico modo di essere.
Viluppi opachi di nere stoffe misteriose
muti telamoni di antichi silenzi
statue ciarliere che ornavano porte socchiuse
ora non siete più.
Ora vi ritrovate farfalle leggere e curiose
Frammenti d’un unico modo di non essere più
Donne di Calabria.
Felice Badolati
(da: Profumo d’antico. Fatterelli e racconti della Palmi che fu,
Klipper ediz., Cosenza 2005, pg. 27)
DONNE DI CALABRIA
Maliditta chija donna
Ki si pigghia ù pecuraru
Nà sira rormi ‘ntò lettu
Vinti novi ò pagghiaru
Faci ù jornu ù marvizzu
E a notti ‘n pagliarizzu
Ku na petra pè capizzu
E ì peri ò cinnirazzu.
Maliditta chija donna
Ki si pigghia ù pecuraru
Nà sira rormi ‘ntò lettu
Vinti novi ò pagghiaru
Acqua, nivi e ventulizzu
Pecuraru ntò pagghiaru
Ku na petra pè capizzu
E ì peri ò cinnirazzu.
(CESARE TROMBETTA, La
Calabria di Cesare Lombroso, tip.
Del Giornale del Sud, Catanzaro
1898, pg. 180)
28 dicembre 1908
…
Ridea la Luna sulle nostre case
Ieri; non guarda oggi né cerca e muove
Cheta pel Ciel, né un tetto erto rimase
E son ruine e cimiteri, dove
Ridea la Luna sulle nostre case!
contessa Vittoria Aganoor Pompilj - Perugia, 8 dicembre
1909 (MICHELE CALAUTI, Ricordi di un dissepolto
La tragedia familiare di un poeta nel Terremoto di
Reggio e Messina, a cura di Enzo Romeo, Rubbettino
ed., Soveria M.2007, pg. 40
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7.- Le donne e la memoria,
un contributo unico di solidarietà femminile
CLELIA PELLICANO, Donne e Industrie nella Provincia di Reggio Calabria, Nuova Antologia, gennaio 1907,
ora in:: Le donne e la memoria, un contributo unico di solidarietà femminile, a cura di Daniela De Blasio e Gaetanina Sicari Ruffo con prefazione di
Rota Levi Montalcini, Luca di Montezemolo, Agazio Loiero, Pietro Fuda e Daniela De Blasio,
Città del Sole ed., Raggio C. 2006, pg. 132.
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Pag. 68
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Pag. 69
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Pag. 70
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DONNE DI CALABRIA A POLSI.
Una dignità matriarcale, antica e fiera,
domina privazioni e sofferenze di oggi
CALABRIA DI DOMANI.
Quale futuro?
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CANZONE POPOLARE
DELLE GENTI DEL CANALE
Non si faci festi a Sambateddhu
Si non sona u masrhu Cardiddhu!
‘ntinnamu stu tambureddhu!...
‘Mpari Peppi,’ mpari Peppi
Vi pigghiu à misura ri li scarpi
‘Mpari Natu ‘mpari Natu
Viriti ka rumpiti lu mattunatu
E ballati, ballati, ballati
Fimmini schetti e maritati
Ka si non ballati bonu
Non vi canti e non vi sonu
E si non ballati pulito
‘nci lu ricu a lui vostru zitu
FRANCESCO CHIRICO, Mitico Aspromonte,
tradizioni popolari nel Reggino, Laruffa ed.,
Reggio C. 1998, pg. 26
Filastrocca dei bambini
di Bagnara
Gaineja zoppa zoppa,
Quanti pinni teni ‘ncoppa?
E ‘ndi teni vintiquattru:
una, dui tri e quattru
(TOTO’ VIZZARI, Modi di dire con detti proverbiali, motti, filastrocche del dialetto bagnarese,
a cura dell’Associaz. Culturale Capo Marturano, Ediz. Ofdficina Grafica, Villa S.G. 2006, pg. 38)
Pili ‘i cannameiu 56
(tradizione popolare bagnarese)
Pili russi ju a la fera
Mi si ccatta i pumarora:
ìa vilanza non calava;
Pilirussi s’arraggiava
LA VECCHIA BAGNAROTA 57
La vecchia Bagnarota
a nero corre …
e corre, corre
con bilancia e gerla
i tre pesci elogiando
odor di mare!...
Poco fa disciolto
ha sopra un fiore
d’accorato suo canto
immenso lutto
Pierino Ocello
56 TOTO’ VIZZARI, Modi di dire, con detti proverbiali, motti, filastrocche del dialetto bagnarese, Edizioni Officina Grafica, s.i.d., pg. 62. Sulla
caratteristica del Calabrese del Canale dai capelli rossi, ho già riportato altre caratterizzazioni nello studio sul Terremoto del 1783 ospitato in questo
sito.
57 prof. PIERO OCELLO, La vecchia Bagnarota, pubblicata in “L’Obiettivo”, Periodico mensile del Gruppo Cristiano di Impegno Sociale di
Bagnara, a. III, nr. 11, Novembre 1979.
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Il viaggio
Il paradiso delle donne
Calabria Lungo gli itinerari della Magna Graecia. Per ritrovare paesaggi e atmosfere.
E la storia delle mitiche Signore di Locri Epizefiri...
di Valerio Massimo Manfredi
Pubblicato on line da La Repubblica,
OTTOBRE 1996, SOMMARIO NR. 20
M. ROSSI / L. Ronchi
Si avvicinavano guardinghi spingendo le navi con lento remeggio mentre il navarca da prua scrutava l'entroterra
boscoso che poteva celare qualunque insidia. Gli uomini si preparavano a sbarcare, lasciavano i remi per impugnare le
lance e gli scudi e scendevano a terra appena la nave toccava il fondo con la chiglia. Era quasi sempre l'ora che
precede l'alba, la più favorevole, la più silenziosa. Li guidava un vaticinio dell'oracolo di Delfi, la promessa di una nuova
patria, più generosa di quella di origine. Si trinceravano sulla spiaggia nel punto in cui speravano di edificare la nuova
città e ponevano su un rozzo altare di pietre ammucchiate il fuoco sacro attinto all'acropoli della città natale. Così
nacquero le magnifiche città greche del Sud d'Italia: Cuma, Taranto, Metaponto, Napoli, Sibari, Locri e tante altre, ancora
oggi vive e vitali. Ma, fra tante, Locri è forse la più particolare. Unica, forse, a non essere stata fondata da un gruppo di
giovani maschi scapoli, l'unica a recare un'inconfondibile impronta matriarcale. Fu fondata nel 679 a.C. da coloni della
Locride greca a ridosso del promontorio Zefirio sulla costa orientale della Calabria.
Oggi parlare di Locride evoca soprattutto tristi fatti di sangue, ma in tempi lontani quella terra era una
meraviglia: monti coperti di pini loricati e di querce facevano da cornice alle fertili pianure costiere, affacciate su mari
incontaminati e pescosi. All'interno abitavano le bellicose tribù dei Bruzi, ma la costa era da tempo costellata di approdi
frequentati, fin dall'età micenea, da un notevole traffico commerciale. I locresi vi giunsero, come tutti gli altri greci che in
quegli anni lasciavano la patria di origine, spinti dalla fame di terra coltivabile, ma la leggenda connette la fondazione
della loro città ad una storia curiosa e affascinante. I coloni sarebbero stati i figli nati dalle donne locresi che si erano
unite ai loro schiavi mentre i mariti erano lontano a combattere una guerra interminabile. Di fatto l'aristocrazia locrese era
fatta di cento famiglie tutte di linea femminile e tutte discendenti dalle "matriarche" che avevano preso gli schiavi nel loro
letto. Già nell'antichità vi era chi dubitava che in tempi così lontani i greci possedessero schiavi, ma è un'obiezione che
non regge: è vero che non c'era ancora lo schiavo-merce, ma esisteva una sorta di servitù della gleba come quella degli
iloti di Sparta, di Tessaglia e di Creta e dei killyrioi di Siracusa.
È strano che una comunità si vantasse di discendere da una stirpe di illegittimi. Anche perché nell'antichità lo
schiavo era considerato poco più di un animale domestico. Eppure i segni di una società matriarcale, almeno nelle
origini, sono numerosi a Locri. Ogni anno, per esempio, la città inviava a Ilio due vergini perché servissero nel tempio di
Atena Iliaca, in espiazione dello stupro che Aiace Oileo, eroe locrese, aveva consumato sulla principessa Cassandra la
notte dell'eccidio di Troia. Inoltre la divinità più venerata a Locri era Persefone: al suo santuario si riferiscono forse le
meravigliose tavolette di terracotta dipinta (i famosi pinakes) che venivano dedicati come ex-voto dalle fanciulle e dalle
giovani spose che avevano chiesto una grazia alla dea bella e terribile, sposa del Signore dell'Aldilà. Come spiegare
allora questa curiosa leggenda?
C'è chi ritiene che i costumi matriarcali esistessero già nella madrepatria e fossero stati quindi trasmessi con la
fondazione della colonia. Altri pensano che i coloni avessero assorbito queste tradizioni dai siculi, che abitavano il
territorio da lungo tempo. C'è, forse, un'altra spiegazione che può conciliare la tradizione mitica con una possibile verità.
Le comunità della Grecia arcaica avevano una vita molto precaria, sia per la forte incidenza della mortalità infantile, sia
per le guerre endemiche che falcidiavano la popolazione dei maschi adulti e più vigorosi. È quindi possibile che le
vedove di guerrieri caduti in battaglia si unissero a maschi di rango inferiore per perpetuare la loro stirpe, trasmettendo ai
figli il proprio nome, di gran lunga più illustre di quello del nuovo consorte.
La vita della città era regolata da norme molto rigide che venivano attribuite al legislatore Zaleuco, autore del
più antico codice di leggi d'Europa. Queste norme facevano sì che i patrimoni delle cento famiglie matriarcali
rimanessero intatti, proibivano il commercio consentendo solo transizioni dirette da produttore a consumatore,
impedivano l'estendersi dei patrimoni degli uni a scapito di quelli degli altri. Una simile impostazione egualitaria sembra
confermata dalla grandissima omogeneità dei corredi funebri. Fu in un contesto sociale di questo genere che fiorì la
poetessa Nosside, l'altra grande gloria locrese, la cui fama non fu inferiore nell'antichità a quella di Saffo. Anche la
politica della città fu controcorrente: quando Crotone guidò una coalizione di tutte le città achee della costa ionica contro
Siri, Locri si schierò al fianco della città aggredita senza peraltro riuscire a impedirne la distruzione ed esponendosi anzi
a una durissima punizione. I crotoniati erano potentissimi e assai temibili. La loro società era organizzata in circoli
semisegreti di ispirazione pitagorica, che condizionavano la vita pubblica in tutti i suoi aspetti e, forse in virtù delle loro
conoscenze mediche e scientifiche, avevano dato vita a generazioni di atleti invincibili e di guerrieri formidabili.
Spaventati dall'imminenza dello scontro, i locresi chiesero aiuto agli spartani che però non osarono deliberare un
intervento diretto e si trassero d'imbarazzo con l'offerta di un aiuto del tutto simbolico: avrebbero combattuto a fianco dei
locresi gli eroi protettori di Sparta, i Dioscuri Castore e Polluce e le loro immagini furono imbarcate sulla nave locrese
che ritornava in patria.
Fu probabilmente la forza della disperazione quella che animò la "città delle donne" contro la possente Crotone
che allineava in battaglia centotrentamila guerrieri. La superiorità era praticamente di uno a dieci, eppure i locresi, un
giorno d'estate del 540 a.C., si schierarono coraggiosamente lungo il fiume Sagra per sbarrare il passo al nemico
sperando nell'aiuto degli dei e lasciando vuoto un posto in prima linea perché vi combattesse il loro eroe nazionale Aiace
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Oileo. Contro ogni previsione, riuscirono a sbaragliare i nemici e la cosa apparve talmente incredibile che fu subito
attribuita ad eventi soprannaturali. Vi fu chi disse di aver visto due giovani coperti da mantelli scarlatti correre al galoppo
mietendo con spade folgoranti i guerrieri di Crotone e poi svanire nel nulla. Qualcuno giurò di aver visto, dietro uno
scudo insanguinato, balenare nell'ombra gli occhi rapaci di Aiace Oileo.
Il duce crotoniate, colpito dalla lancia invisibile dell'eroe, aveva riportato una ferita inguaribile che solo la ruggine
della lancia di Achille, custodita in una remota isola del Mar Nero, avrebbe potuto rimarginare. Locri innalzò un tempio
meraviglioso ai Dioscuri a perenne memoria della vittoria della Sagra e continuò per secoli a inviare le sue più belle
fanciulle al tempio di Atena in Ilio ogni anno. Nella sequenza di guerre sanguinose e di scontri durissimi, che pure
caratterizzò le vicende delle città greche d'Occidente, la storia delle Signore di Locri e del loro omaggio di espiazione per
un antico stupro, suona ancora oggi per noi, che abbiamo assistito più di recente agli orrori della guerra balcanica, come
un gesto poetico di pietà, come un atto d'amore in un coro di grida di guerra.
“Santa Barbara affaccia, affaccia
ka ci passanu tri galeri,
dui j acqua e una j ventu,
Santa Barbara fa bonu tempu”.
Giovanni Sole, La pesca e il mare nella Calabria tradizionale,
“Daedalus”, Luglio Dicembre 1991/Gennaio Giugno 1992;
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La Bagnarota e il Matriarcato - Archivio Storico Fotografico Bagnarese