Guido Cifoletti
LINEAMENTI DI STORIA DELLA LINGUISTICA
Se mi si permette, vorrei fare una premessa: personalmente non credo alla
neutralità scientifica. Posso essere neutrale se assisto ad una partita di baseball, di cui
non conosco le regole e che in realtà non m’interessa per nulla: ma se nelle materie di cui
mi occupo ho acquisito una competenza tale da sedere dall’altra parte della cattedra (di
fronte agli studenti), vuol dire che questo studio mi appassiona, e perciò avrò certamente
le mie preferenze, avrò fatto sicuramente le mie scelte: e sarebbe ipocrita nascondere tutto
questo. Peggio ancora, sarebbe controproducente: tra i miei compiti c’è anche quello di
trasmettervi (se possibile) la mia passione per la materia che insegno, e come potrei farlo
se esponessi tutto in modo neutro e impersonale? Anziché essere neutrale (che secondo
me è impossibile), posso e desidero essere onesto, cioè non intendo occultare i dati che
vadano contro le mie convinzioni; inoltre, dichiaro fin dal principio che non ho per nulla
la pretesa che i miei allievi seguano le mi scelte. Se uno studente, magari in sede d’esame,
mi raccontasse di abbracciare opinioni diametralmente opposte alle mie, per me sarebbe
un fatto positivo: vorrebbe dire che non si è limitato ad imparare a memoria ciò che
insegno, ma ci ha pensato sopra. Ed ancora: sarò grato allo studente che mi segnalerà
degli errori. È evidente che non posso sempre controllare tutto ciò che scrivono le mie
fonti, per lo più mi dovrò fidare di quanto hanno scritto gli altri, ma a volte questa fiducia
è mal riposta: oppure può capitarmi di mettere qualche sbaglio per disattenzione, come mi
è successo ad esempio nel disegnare degli schemi.
Ed ora, è mia intenzione introdurre allo studio della linguistica facendo la storia di
questa scienza. Non è per nulla un passo scontato: se in alcune discipline come ad
esempio la filosofia un procedimento del genere risponde ad una prassi ormai secolare, in
altri campi di ricerca nessuno si sognerebbe di farlo: valga per tutti l’esempio della storia
della scienza, che non s’insegna nelle facoltà scientifiche, bensì è materia filosofica. In
alcuni campi della ricerca scientifica si dà per scontato che l’apparire di un nuovo metodo
renda superati i metodi precedenti, e questo genera in alcuni una mentalità relativista che
porta ad affermazioni del tipo “la verità non esiste, esistono modelli interpretativi che
durano finché valgono, poi si cambiano”, ma nulla di questo genere risponde
all’esperienza del linguista. Nella nostra disciplina i diversi metodi elaborati
successivamente per indagare su quel campo d’attività umana che è la lingua non si
eliminano affatto, ma si sommano: dunque i metodi scoperti nel passato non sono per
nulla superati, e vale la pena di studiarli ancora. Naturalmente anche i linguisti del
passato sbagliavano, come tutti gli altri uomini, ed oggi siamo in grado di riconoscere
molte loro ingenuità: ma si può dire che nel complesso sono esatti i fatti da loro osservati,
come pure la maggior parte delle conclusioni a cui arrivarono, ed anche i metodi da loro
elaborati meritano di essere conosciuti. Dunque, siccome il primo campo della linguistica
che si sviluppò fu la linguistica storico-comparativa (soprattutto quella relativa alle
lingue indoeuropee) comincerò a parlare proprio di questa, che di solito è materia di
studio di un’altra disciplina, la glottologia. Ma in realtà un confine preciso tra la
linguistica generale e la glottologia non esiste: s’intende che la prima si deve occupare
maggiormente degli aspetti teorici, però anche la seconda ha delle basi teoriche ed
un’esperienza pratica di cui il linguista deve essere al corrente; e d’altra parte il
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glottologo deve pure avere conoscenza dei nuovi metodi di ricerca della linguistica, per
applicarli appena può anche all’evoluzione delle lingue che è il suo abituale campo
d’indagine. Va detto che, se si fa una storia della linguistica col fine di introdurre alla
materia stessa, si rischia sempre di cadere in una storia di tipo “agiografico”: tutti gli
errori, i passi falsi, le illusioni dei linguisti del passato, in questa prospettiva sono privi
d’interesse, e quindi vengono tralasciati, perché ciò che importa maggiormente è indicare
i punti fermi, i risultati che ancor oggi sono validi: in una certa misura tale deformazione
è inevitabile, e spero che sia accettata anche dai lettori.
È generalmente ammesso che la linguistica nacque all’inizio del XIX secolo: più
precisamente la si fa iniziare nel 1816, con la pubblicazione del primo volumetto di
grammatica comparata indoeuropea; solo a partire da quell’epoca si formò una scuola, si
costituì cioè un gruppo di studiosi che dedicò tutta la vita a studiare le lingue
sistematicamente, con metodi verificabili e sempre più raffinati: ed il progresso fu tale
che già pochi decenni dopo si poteva guardare con sufficienza ai precursori, ai pochi che
si erano occupati di linguistica nel secolo XVIII, quando questa scienza non possedeva
ancora dei metodi sicuri e perciò produceva delle etimologie ad orecchio nelle quali,
secondo un giudizio di Voltaire spesso ricordato, “les voyelles ne font rien et les
consonnes font peu de chose”. In realtà nel Settecento si posero le basi di quello che
sarebbe stato il sorprendente sviluppo dei decenni successivi: maturò in effetti un clima
culturale che va spiegato. Soprattutto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo si era
risvegliato un vivo interesse per le civiltà esotiche, per le loro tradizioni e di conseguenza
anche per le loro lingue; e al tempo stesso cominciavano a svegliarsi i principali
nazionalismi europei. L’interesse per le tradizioni extraeuropee coincideva in parte con la
ricerca di una saggezza estranea alla tradizione cristiana: a quel tempo si pensava che le
iscrizioni geroglifiche nascondessero un grande sapere, la Massoneria assunse fra i propri
simboli qualche segno egiziano: qualche decennio dopo, quando Champollion decifrò
effettivamente la scrittura geroglifica, fu una delusione il rendersi conto che quei testi non
racchiudevano affatto la grande scienza che ci si aspettava. Ben altrimenti proficuo fu
invece l’impatto con la civiltà dell’India antica. Nel XVIII secolo assunse sempre
maggiore importanza in India la colonizzazione europea: prima i Portoghesi vi avevano
impiantato alcune basi, poi li seguirono Inglesi e Francesi: la Compagnia delle Indie
(inglese) a quel tempo non aveva un potere politico riconosciuto come tale,
nominalmente regnavano sempre i sovrani della dinastia Moghul; ma poco alla volta la
loro autorità si svuotava, e cresceva quella degli Europei. Alcuni di questi colonizzatori
(nonché i missionari) riuscirono ad addentrarsi nella cultura locale, e così la poterono
comunicare in Europa. La principale lingua letteraria del mondo indù era il sànscrito: ma
sappiamo che non è una lingua originaria dell’India. In un’epoca imprecisata (gli Indiani
non furono mai interessati alla storiografia, e perciò la loro storia ci è nota in modo
lacunoso), forse un migliaio e passa di anni prima di Cristo, l'India fu invasa da tribù
provenienti dalla zona iranica, che a quel tempo comprendeva anche i territori dell'attuale
Turkestan (oggi solo uno degli Stati del Turkestan ex-sovietico, il Tagikistan, ha come
lingua ufficiale un dialetto persiano; ma un tempo le lingue di questo tipo avevano una
diffusione molto più ampia, come vedremo). A quanto sembra questi invasori prima si
stanziarono nella valle dell'Indo, poi in quella del Gange, e successivamente si diffusero
per la penisola indiana: le lingue degli antichi abitatori dell'India si mantengono tuttora,
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soprattutto nelle regioni più meridionali (c’è il tamil, usato da una minoranza dello Stato
di Sri Lanka, ma anche sulle coste sudorientali della penisola indiana; e poi il telugu, il
canarese o kannad¢a, il malaya¤l¢am) ed appartengono al gruppo dravidico insieme col
bra¤hu¤i¤, lingua minoritaria del Beluchistan; nelle regioni centro-orientali dell'India
sopravvivono alcune minoranze che parlano lingue di ceppo diverso (le lingue mun¢d¢a,
connesse da alcuni col Khmer della Cambogia), e che forse risalgono ad uno
stanziamento ancora più antico. Fin dalla più remota antichità, questi invasori di ceppo
iranico (in senso lato: sarebbe meglio dire indoario, perché è giusto precisare che i dialetti
iranici, pur essendo strettamente imparentati, fin dalle prime attestazioni presentano
alcuni caratteri diversi dalle lingue antiche dell’India) svilupparono un'estesissima
letteratura orale: i più antichi poemi, i Veda (ed in particolare la sezione più antica, il Rgveda o Rigveda, composto di un migliaio di inni) furono tramandati a memoria con
estrema precisione perché avevano (ed hanno) valore liturgico, e la loro recitazione esatta
era considerata condizione indispensabile per la riuscita di qualsiasi cerimonia o
sacrificio. A questo proposito si può far rilevare quanta importanza e quanta estensione
possa avere l'uso della memoria nei contesti sociali in cui non esiste la scrittura; e non è
certo il solo caso. Comunque, anche quando la scrittura fu introdotta in India e questi
poemi furono messi per iscritto (non sappiamo con precisione a che epoca), la tradizione
orale continuò parallelamente a quella scritta, un po' come avviene ancor oggi nei Paesi
islamici per la recitazione del Corano. Oggi il sanscrito è la lingua letteraria a cui si
rifanno tutti gli indù, anche quelli di origine dravidica o mun¢d¢a; i Veda ne costituiscono
la fase più antica, e probabilmente si fondano su dialetti diversi (più occidentali) rispetto
a quelli che stanno alla base del sanscrito classico, lingua codificata forse nel IV secolo
a.C. dal grammatico Pa¤nin¢i in un'opera di esemplare esattezza e concisione: il libro
consta di 8 capitoli (perciò il nome as¢t¢adhyayi, da as¢t¢au “otto”), e descrive tutta la lingua
in circa 4000 regole, espresse però con una tale brevità che in un'edizione a stampa tutta
l'opera occupa circa 35 pagine: è la più breve ed esauriente grammatica del mondo (ma
non è la più chiara: per questo i grammatici indiani di età successiva ebbero il loro da fare
a chiosarla e interpretarla). A questo punto non posso fare a meno di rimarcare una
circostanza eccezionale, che favorì grandemente i linguisti del primo Ottocento: mentre
oggi chi affronta una lingua esotica si trova quasi sempre in gravi difficoltà per la
mancanza di una tradizione scritta indigena nonché di una standardizzazione1, i primi
studiosi di quella che divenne poi la scienza del linguaggio si trovarono fra le mani non
solo una lingua letteraria già codificata da un uso millenario, ma addirittura la
grammatica elaborata dagli indigeni con una raffinatezza superiore a quella della
tradizione classica che fino allora si perpetuava nelle scuole europee; ed infatti nei
decenni successivi i metodi dei grammatici indiani furono applicati con successo anche al
greco ed al latino. Tornando al sanscrito conviene dire che questa lingua, oltre ad averci
tramandato le grammatiche a cui si è accennato, ci è attestata da una vastissima
letteratura, molto più estesa di quella che possono vantare le principali lingue europee:
basti dire che il principale poema epico dell'India antica, il Maha¤bha¤rata, consta di oltre
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Come vedremo in seguito, questi elementi facilitano enormemente l'indagine linguistica: si veda G.R.
CARDONA, Dall'oralità alla scrittura: la formazione delle lingue standard, in A. QUATTORDIO
MORESCHINI, La formazione delle lingue letterarie, "Atti del Convegno della Società Italiana di
Glottologia", Siena 16-18 aprile 1984, pp. 71-80.
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centomila versi. Per avere un termine di paragone ricorderò che l'Iliade in greco ha 15693
versi, l'Odissea 12007; e inoltre il verso del Maha@bha@rata, lo çloka, è lungo circa come
due versi omerici (cioè contiene 32 sillabe, mentre l'esametro omerico può andare dalle
12 alle 17 sillabe); facendo un paragone con l'italiano si può dire che la Divina
Commedia contiene cento canti di circa 140 endecasillabi ciascuno, in altre parole occupa
all'incirca un ventesimo del Maha@bha@rata. L'altro grande poema dell'India, il Ra¤ma¤yana,
contiene circa ventimila çloka; in sanscrito furono scritti anche i Pura¤n¢a, grandi opere
didattiche, delle quali si sono conservate 18 per un totale di 400.000 versi; esistono anche
grandi opere filosofiche come le Upanis¢ad, risalenti addirittura al periodo vedico, e poi in
sanscrito classico le opere della filosofia yoga, ed oltre a ciò possediamo drammi, poesia
lirica, romanzi, ecc. ecc. Per oltre duemila anni il sanscrito fu usato soltanto come lingua
scritta e letteraria, perché dev'essere uscito dall'uso parlato già qualche secolo prima di
Cristo; in questo periodo in India si parlavano i pràcriti (prakr9ta bha¤sa o lingua naturale,
a differenza della sam¢skr9ta bha¤sa o lingua perfetta). Per la verità si chiamano pracriti
tutti i dialetti dell’India antica, ed in questo senso si può dire che alcuni influssi pracriti
(cioè dialettali) si trovano già nel vedico: di certo accanto al sanscrito vissero altri dialetti
dello stesso ceppo, che però non assunsero mai dignità letteraria; ma i pracriti assunsero
maggiore importanza quando la lingua scritta si allontanò da quella parlata. Un pracrito ci
è testimoniato già dalle iscrizioni del re Açoka (III sec. a.C.), altri furono usati
(parcamente) in letteratura: il canone buddista è scritto in pa¤li@ (perché l’autore si voleva
avvicinare alla lingua del popolo), il canone jaina in ardhama¤gadhi¤; in alcuni drammi
antichi il re parla sanscrito, mentre i personaggi di bassa condizione parlano un pracrito
(che poi divenne incomprensibile, e fu necessario aggiungergli una traduzione in
sanscrito; del resto una traduzione sanscrita esiste anche per il canone buddista).
Successivamente dai pracriti si svilupparono le lingue dell'India moderna: hindi, benga¤li¤,
mara¤t¢hi¤, gujarati, panjabi, sindhi ecc. Il sanscrito, nel lunghissimo periodo in cui continuò
ad essere usato come lingua letteraria pur essendo ormai del tutto svincolato dall'uso
quotidiano, diede luogo ad uno stile difficile e lambiccato detto ka¤vya, tipico di
grandissima parte della poesia indiana e che procura non poche difficoltà ai sanscritisti.
Ora è meglio tagliar corto su questi argomenti perché non è certo mio compito disegnare
qui un profilo storico della letteratura indiana: quel che m'importa è di far capire che si
tratta di una tradizione ricchissima, molto antica e spesso estremamente affascinante
(anche se naturalmente non mancano le opere mortalmente noiose). Alcuni Europei si
accostarono già nel XVI secolo a questa cultura, la prima grammatica sanscrita scritta da
un europeo (il missionario tedesco Heinrich Roth, morto nel 1668) è del secolo
successivo, ma rimase manoscritta; solo alla fine del XVIII secolo il mondo scientifico
europeo poté avere delle nozioni precise su questo argomento. Nel 1785 l'inglese C.
Wilkins pubblicò una traduzione della Bhagavadgi@ta@ (il canto del beato) che è una
sezione del Maha@bha@rata dal libro VI, in cui due degli eroi, Kr9s¢n¢a e Arjuna, prima di
prendere le armi contro il nemico si mettono a discutere, ed il primo esorta il secondo a
non esitare a combattere contro i cugini che, dopo avergli inflitto tanti torti, gli avevano
sottratto il regno: il corpo dell'uomo è mortale e caduco, ma lo spirito è eterno ed
immutabile (va detto che il Maha@bha@rata, pur avendo una trama complicatissima, dedica
ben poco spazio agli avvenimenti e molto di più alle riflessioni ed alle considerazioni
filosofiche e morali: si pensi che su un totale di 18 libri ben due, il 12 e il 13, sono
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dedicati quasi interamente agli ammaestramenti dati dal guerriero Bhi@s¢ma in punto di
morte). Nel 1790 il carmelitano austriaco Paolino di San Bartolomeo (il suo vero
cognome era Wesdin) pubblicò a Roma la prima grammatica sanscrita nota in Occidente;
nel 1805 Colebrooke pubblicò a Calcutta A Grammar of the Sanscrit Language che era la
prima grammatica europea fondata su Pa¤nin¢i (la precedente si fondava piuttosto su
grammatiche scritte in malaya@l¢am). In quegli stessi anni a Londra e anche a Parigi
affluivano molti manoscritti indiani (non si dimentichi che anche i Francesi erano
impegnati nella colonizzazione dell'India, sia pure con meno successo) e perciò si
crearono le condizioni per studiare la lingua sui testi originali.
In quello stesso periodo il mondo scientifico europeo venne a conoscenza di
un'altra lingua antica, affine al sanscrito: il cosiddetto avestico (che allora era chiamato
per lo più zendo, con un nome che oggi sembra inesatto, e probabilmente in origine
designava piuttosto il commento). Si tratta di un dialetto (o meglio di alcuni dialetti,
distinti geograficamente e cronologicamente) del persiano antico: è la lingua dell'Avesta,
il libro sacro della religione mazdeista o zoroastriana. Zarathustra diffuse la sua dottrina
agli albori della storia persiana, alla fine del VII secolo ed agli inizi del VI; ma poi gran
parte del testo sembra essere opera di discepoli della tribù dei Magi, di epoca posteriore
ed in un altro dialetto (nordoccidentale, mentre il dialetto di Zarathustra sembra essere
stato orientale). Anche questo libro dapprima fu trasmesso oralmente e solo dopo molto
tempo (forse addirittura un millennio) fu messo per iscritto, e pare che ce ne sia pervenuta
solo una parte: la sua tradizione sembra molto più discontinua ed incerta che per i Veda.
Comunque le parti più antiche, le gâthâ (inni), risalenti allo stesso Zarathustra, sono
composte in una lingua notevolmente vicina al vedico (anche se spesso è poco
comprensibile): secondo il glottologo G. Devoto, Le origini indoeuropee, p. 366, "i versi
delle gathas dell'Avesta possono essere trasposti in versi vedici senza che si possa parlare
di vera traduzione. Nello Yašt 10,1.6 dell'Avesta, si legge: t´m amavant´m yazat´m
su@r´m, da@mo@hu s´višt´m, Miθr´m yaza@i zaoθra@byo@ 'questo forte potente angelo, alle
creature beneficentissimo, Mithra, vogliamo onorare con libazioni'. In forma vedica
sarebbe: tam amavantam yajatam su@ram, dha@masu savis¢t¢ham, Mitram yajai hotra@bhyas."
Dopo che la Persia fu conquistata dagli Arabi, portatori d'una nuova religione, i seguaci
della religione nazionale dovettero nascondersi: alcuni rimasero in Persia, altri
emigrarono in India dove formarono la comunità dei Parsi, abbastanza numerosi
soprattutto nel Gujarat; nel XVIII secolo il francese A.H. Anquetil Duperron poté
conoscere in India i dotti parsi, fu iniziato da loro all'interpretazione tradizionale di quel
libro e ne diede notizia nel 1775 pubblicando a Parigi una traduzione in 5 volumi: ZendAvesta, Ouvrage de Zoroastre, ...
Prima di allora erano note altre lingue indoeuropee antiche: il greco ed il latino,
per tradizione ininterrotta; e poi il gotico. Si tratta della lingua degli Ostrogoti e dei
Visigoti: nel IV sec. il vescovo Ulfila, che stava nella Mesia (sul basso Danubio,
nell'attuale Bulgaria orientale) tradusse quasi tutta la Bibbia per i Goti stanziati là come
foederati dell'Impero romano. Era l'epoca delle migrazioni dei popoli, perciò il gotico era
praticamente la stessa lingua per quei Goti del basso Danubio, per quelli stanziati
nell'attuale Ucraina, e più tardi anche per gli Ostrogoti d'Italia e i Visigoti di Spagna (o
almeno, quel che sappiamo è che queste popolazioni accettarono il gotico di Ulfila come
lingua scritta). I manoscritti che tramandano il gotico furono composti quasi tutti in Italia,
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anche se oggi stanno in biblioteche diverse: c'è il famoso Codex Argenteus di Upsala, che
fu scoperto nella regione renana nel 1515, poi ci sono 5 codici alla Biblioteca Ambrosiana
di Milano e frammenti in biblioteche tedesche. Complessivamente oggi leggiamo in
gotico i tre quarti del Nuovo Testamento ed alcune parti del libro di Neemia; inoltre
abbiamo parte d'un commento al Vangelo di Giovanni e qualche frammento sparso, tra
cui un paio di contratti scritti a Ravenna verso il 551. Dunque la lingua gotica ci è
conservata in modo alquanto lacunoso, ma è stata molto importante per gli studi di
linguistica perché nel gruppo delle lingue germaniche è quella attestata più anticamente,
prima che sopravvenissero i cambiamenti che in seguito differenziarono fortemente tra
loro le lingue germaniche (complicandole oltremodo); perciò il gotico, che pure
rappresenta un ramo estinto della famiglia germanica (nessuna lingua moderna è derivata
da esso) è particolarmente vicino a quel che si suppone essere stato il germanico comune,
e dunque ha grande interesse per la comparazione indoeuropea. La conoscenza del gotico
nei secc. XVII e XVIII non fu certo molto diffusa, ma risvegliò comunque un certo
interesse, soprattutto fra studiosi tedeschi.
Altre lingue di tradizione letteraria (ma non indoeuropee) erano conosciute da
tempo: così l'ebraico, l'arabo, ed anche il copto, lingua parlata in Egitto, che era l'ultima
propaggine dell'antica lingua dei Faraoni. Questa lingua, prima codificata nella scrittura
geroglifica (che in parte è ideografica, in parte consonantica), si sviluppò con l'andare dei
secoli e dei millenni nel demotico, usato in età tolemaica, che differisce dal geroglifico
sia come scrittura sia dal punto di vista più strettamente linguistico. Il copto rappresenta
un'ulteriore evoluzione del demotico: a partire dal II-III sec, d.C. il popolo egiziano
cominciò a scrivere la sua lingua in caratteri greci, visto che ormai nel Paese il greco era
la lingua della cultura e dell'amministrazione; vi aggiunse però 7 caratteri dal demotico,
per suoni consonantici non adeguatamente rappresentati dall'alfabeto greco. Dal IV sec. in
poi si sviluppò una letteratura copta d'ispirazione cristiana (senza però che si formasse un
unico standard letterario, per cui si parla oggi di copto Bohairico o settentrionale, di
Alessandria, e copto Saidico o del sud, di Luxor); e ancora oggi il copto è usato come
lingua liturgica dai Cristiani dell'Egitto, benché non lo si parli più da secoli.
Alcune lingue semitiche dell'Oriente cristiano, come l'aramaico (specialmente il
dialetto letterario di Edessa, chiamato siriaco) e l'etiopico antico o ge'ez, erano conosciute
in Europa, anche se in ambiti molto ristretti.
Altre lingue antiche, pure di origine indoeuropea, nei primi decenni dell'Ottocento
furono trascurate dai linguisti: così l'armeno, attestato a partire dal V sec. d.C., che però è
una lingua molto evoluta fin dai primi documenti, e fino al 1876 fu considerato un
dialetto persiano; invece l'antico irlandese, anch'esso molto evoluto e complicato,
all'inizio fu ritenuto lingua non indoeuropea..
Tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX era sorto un grande interesse verso
il mondo "esotico": faceva parte della sensibilità del primo Romanticismo quest'apertura
soprattutto verso le religioni e le filosofie esotiche. Mentre gli Illuministi discettavano di
religione, ma poi in pratica conoscevano solo il Cristianesimo, i primi romantici
cercarono di apprendere il più possibile delle religioni orientali, spesso per contrapporle
alla religione cattolica; ma questa cultura si diffuse, al punto che anche un cattolico e
alfiere della Restaurazione come de Maistre dissertò di un testo indiano, i detti di Manu; e
Friedrich Schlegel (1772-1829) nel 1806 pubblicò un libro di successo, Über die Sprache
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und Weisheit der Indier, in cui fra l'altro affermava la parentela di latino, greco,
germanico, persiano e antico indiano, sulla base di confronti precisi. Non va taciuta la
componente nazionalistica: già nel Settecento era stata lanciata la teoria scitica, che aveva
avuto successo esclusivamente tra i dotti del Nord Europa. Gli Sciti erano una
popolazione iranica che abitava anticamente nell'attuale Russia meridionale, in parte
dell'attuale Ucraina, e nei vasti bassopiani attorno al Mar Caspio, in zone che nei primi
secoli del Medioevo furono invase dai Turchi o si slavizzarono. L'ultima popolazione di
origine scitica che oggi rimanga sono gli Osseti del Caucaso, che parlano ancora una
lingua iranica, diversissima dal persiano moderno (si noti che in osseto don significa
“fiume”, dunque furono quelle popolazioni a dare un nome ai fiumi della Russia
meridionale). Secondo questa teoria scitica (che poi fu abbandonata ben presto) l'origine
comune del latino, del greco, del celtico, delle lingue germaniche sarebbe da cercare fra
questi Sciti: da essi sarebbero derivati quasi tutti i popoli dell'Europa. Questa teoria non
incontrò nessun favore tra i dotti italiani, che vedevano scalfito il primato del latino a
favore di qualche lingua più settentrionale che, secondo le idee di allora (divergenti fra i
vari studiosi) avrebbe mantenuto più incontaminata l'eredità scitica. Schlegel di fatto
formulò una versione riveduta e corretta della teoria scitica perché secondo lui il sanscrito
sarebbe la madre di tutte le lingue europee: ma in questo modo, secondo le concezioni di
allora, egli poneva in pratica come antenati degli Europei quegli stessi Indiani che
avevano composto i Veda, le Upanis¢ad e le altre opere religiose e filosofiche tanto
apprezzate in quel periodo. Va rilevato che per tutta la prima parte del secolo XIX, e
specialmente agli inizi, la glottologia fu una scienza quasi interamente tedesca: poi a poco
a poco si trovano dei linguisti d'altra origine, che per lo più si erano però formati in
Germania o in ambienti di cultura tedesca; si può dire che la supremazia tedesca in questo
campo sia durata per tutto il secolo. Perciò, sia pure a rischio di fare un'approssimazione
eccessiva, penso non sia azzardato dire che in fondo questi studiosi erano animati anche
dal desiderio di ricostruire le proprie origini nazionali, di dare al proprio popolo un
passato antico e glorioso. Lo si può vedere meglio considerando la scarsa risonanza che
ebbe la comparazione tra le lingue ugrofinniche: in realtà la linguistica comparata era
stata inventata già qualche anno prima del 1816 da parte di Ungheresi: i dotti Sainovics
János (un astronomo gesuita ungherese, che soggiornò in Lapponia per vedere certi
fenomeni celesti) e Gyarmathi Sámuel, rispettivamente nel 1771 e 1799, avevano già
pubblicato delle grammatiche comparate delle lingue ugrofinniche. È sorprendente
soprattutto la vastità di conoscenze del secondo autore: mentre il primo aveva comparato
l'ungherese solo col lappone e col finnico, l'altro vi aggiunse l'estone (molto vicino al
finnico), le lingue ugrofinniche del Volga come mordvino e ceremisso, e perfino le lingue
della Siberia occidentale, parlate nella zona del fiume Ob, come vogulo e ostiaco; e
scoperse che proprio queste ultime, le più distanti, presentano le maggiori affinità con
l'ungherese. Ma questi studi non ebbero grande diffusione e grande successo perché
trattavano di lingue che nell'ottica di allora avevano poco interesse.
Per questi motivi, è diventato ormai tradizionale far risalire l'inizio della
linguistica storica (e praticamente l'inizio della linguistica tout court) al 1816, anno in cui
a Francoforte sul Meno uscì il volume di Franz Bopp Über das Conjugationssystem der
Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen
und germanischen Sprachen (il sistema di coniugazione del sanscrito comparato con
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quello del greco, latino, persiano e germanico). Questo Bopp (1791-1867) si era dedicato
allo studio delle lingue orientali (ebraico, arabo, persiano) e per questo nel 1812 si recò a
Parigi dove c'erano maggiori possibilità di studiarle. Frequentò i corsi di arabo di S. de
Sacy, di persiano di A. de Chézy e studiò il sanscrito praticamente da solo, con l'aiuto
della grammatica di Colebrooke, sui manoscritti che erano stati portati dall'India a Parigi.
In soli 4 anni divenne un vero esperto di questa lingua difficilissima, e così nel 1816
pubblicò alcune traduzioni dal Maha@bha@rata e dal Ra@ma@yana, insieme con
quell'opuscolo sul sistema della coniugazione. E' interessante notare che in questo modo
egli trovò subito la strada giusta per affrontare il problema: non si attardò nella ricerca
etimologica, per la quale ancora non era stato elaborato un metodo, e che potrebbe dare
risultati ingannevoli: infatti le parole possono essere copiate da una lingua all'altra (in
questo caso i linguisti parlano di prestiti), ad esempio la parola per "televisione" oggi è
diffusa con suoni simili in moltissime lingue del mondo; ed anche nell'antichità si
potevano verificare casi del genere, di parole che si diffondevano in lingue appartenenti a
famiglie diverse. La parola per "toro" è nota in quasi tutte le lingue indoeuropee
dell'Europa ed in tutte le lingue semitiche: in latino è taurus, in greco tau'ro" tauros, in
osco taurom, in umbro turuf, toru "tauros" (per chi non lo sapesse, si precisa che l'osco
era la lingua dei Sanniti, dei Sabini e della maggior parte degli antichi abitanti dell'Italia
centro-meridionale, ed era strettamente collegato all'antico umbro), in gallico tarvos, in
medio irlandese tarb, in antico slavo turu* "uro", in lituano tauras "bisonte", in antico
prussiano (lingua baltica oggi estinta, affine al lituano) tauris "id.", in antico islandese
þiorr, in olandese dialettale deur, in antico alto tedesco stior con l'aggiunta di s- iniziale;
questa parola non ha corrispondenti nelle lingue indoeuropee fuori dell'Europa, ma in
compenso la si ritrova in tutte le lingue semitiche: in accadico è suru, in arabo θawr, in
ebraico šôr, in siriaco taura@, in etiopico (ge'ez) sor, in ugaritico θr (la scrittura indica solo
le consonanti, il lettore deve immaginarsi le vocali: forse si pronunciava qualcosa come
[θo:r] o [θaur]), in antico sudarabico epigrafico θwr (anche qui, le vocali non si
scrivevano); in complesso si può ricostruire per il semitico una forma originaria *θawru
(si mette l'asterisco davanti a tutte le forme non attestate), mentre per le lingue
dell'Europa è più difficile ricostruire una forma unica; si è convinti che si tratta di una
parola non indoeuropea, diffusa relativamente tardi, dopo lo spezzarsi dell’unità
indoeuropea. Un geniale studioso danese di cui ci occuperemo fra poco, Rasmus Rask,
diceva in quegli stessi anni che si debbono confrontare non parole come questa, che
possono essere imitate da una lingua all'altra, ma parole che fanno parte del lessico
fondamentale della lingua, come i nomi di parentela, i nomi dei numeri, ecc.;
sostanzialmente aveva ragione (specie per quanto riguarda le lingue indoeuropee), però
oggi sappiamo che anche il lessico della parentela può essere (almeno in parte)
influenzato da altre lingue: senza andare a cercare in lingue esotiche, vediamo che l'ingl.
uncle, aunt, grandfather, grandmother derivano in modo diretto o indiretto dal francese
medioevale; quanto ai nomi dei numeri, anch'essi possono passare da una lingua all'altra:
in swahili dopo i primi numeri di origine bantu si hanno numerali arabi. Invece le
desinenze verbali, soprattutto quando c'è una ricca flessione come nelle lingue
indoeuropee antiche, non si copiano da altre lingue ma si ereditano2: così per esempio
2
Pare che esista nel mondo un solo controesempio, l'aleuto dell'isola di Mednyj che avrebbe appiccicato ai
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abbiamo il rumeno che contiene moltissime parole slave, ma se si guarda alla
coniugazione si trova quel che segue (le vocali toniche sono sottolineate, la a* si pronuncia
centralizzata, la t7 si pronuncia come una zeta sorda dell'italiano):
(verbi a termina "terminare", a intra "entrare")
eu termin
eu intru
tu termini
tu intri
el, ea termina*
el, ea intra*
noi terminam
noi intram
voi terminat7i
voi intrat7i
ei, ele termina*
ei, ele intra*
Dunque il rumeno si riconosce immediatamente come appartenente alla stessa famiglia
linguistica dell'italiano, e diversissimo invece dal serbocroato o dal polacco.
Vediamo ora le coniugazioni con cui ebbe a che fare il Bopp: inserisco anche l'antico
slavo, che solo in un secondo tempo egli prese in considerazione.
sanscrito
greco
latino
gotico
slavo
sing. bhara@mi "io porto" fevrw phéro
fero
baira
bero7
bharasi
fevrei" phéreis
fers
bairis
bereši
bharati
fevrei phérei
fert
bairiþ
beretu*
duale bhara@vas
bairos
bereve#
bharathas
fevreton phéreton
bairats
bereta
bharatas
fevreton phéreton
berete
plur. bhara@mas
fevromen phéromen ferimus
bairam
beremu*
bharatha
fevrete phérete
fertis
bairiþ
berete
bharanti
fevrousi phérousi
ferunt
bairand
bero7tu*
(dor. phéronti)
Il verbo preso in considerazione corrisponde in tutte le lingue, ed ha ovunque il
significato approssimativo di "portare": in latino è verbo irregolare, atematico, ma per un
confronto non approfondito lo si può usare lo stesso. Quanto alla pronuncia, quella che si
indicherà sarà in molti casi approssimativa e congetturale, trattandosi di lingue morte:
comunque in sanscrito le consonanti seguite da h si pronunciano realmente come aspirate
(cioè come b+h, t+h, g+h, ecc.); in greco, nel periodo più antico doveva esserci una
pronuncia analoga (cioè [ph], [th], [kh]); ou del greco si pronuncia convenzionalmente
[u], ma anticamente doveva essere una [o] lunga e chiusa; in gotico, ai probabilmente si
pronunciava [e] lunga, þ era una spirante simile al th dell'ingl. thin; in antico slavo, le
vocali col gancio sotto vanno pronunciate nasali, la e con la pipetta doveva essere lunga, i*
ed u* dovevano essere due vocali brevissime che ben presto scomparvero.
Siccome le lingue indoeuropee antiche possedevano un ricco sistema di casi, il confronto
della morfologia può essere portato avanti anche riguardo alla declinazione: si prenda ad
esempio la radice *ped- "piede" (in greco compare come pod-, per il fenomeno che i
linguisti chiamano alternanza apofonica):
verbi aleuti le desinenze del russo: cfr. S.G. THOMASON, T. KAUFMAN, Language Contact, Creolization,
and Genetic Linguistics, Univ. of California Press 1988, pp. 233-238; ma anche questo è contestato
9
Sing.
Nom.
Acc.
Genit.
Dat.
Locat.
Plur. Nom.
Genit.
Dat.
Locat.
sanscrito
pa@t
pa@dam
padas
pade
padi
padas
pada@m
padbhyas
patsu
greco
pouv" poús (da *pods)
povda poda
podov" podós
Dativo podiv podí
povde" pódes
podw'n podôn
latino
pes (da *peds)
pedem
pedis
pedi
Ablat. pede
pedes
pedum
pedibus
Dativo posiv po(s)sí
Va detto che il sanscrito mantiene alcuni casi, come lo strumentale ed il locativo, che il
latino ed il greco hanno perso, ma le desinenze di questi casi a volte si sono mantenute
anche in queste lingue, con valore diverso: così abbiamo visto che spesso il dativo greco
continua un antico locativo. Già da questi piccoli esempi si può capire che mentre la
somiglianza di queste forme è abbastanza evidente, il confronto preciso dell'una con
l'altra e la spiegazione delle differenze che intercorrono richiede un notevole impegno:
proprio a questo lavoro Bopp dedicò tutta la vita. Dai grammatici indiani egli aveva
imparato ad analizzare le diverse forme grammaticali in radice-tema-desinenza, ed in
questo modo scopriva altre coincidenze: ad esempio, se si analizzano due verbi latini di
diversa coniugazione in radice e desinenza soltanto, si vede che le desinenze differiscono,
pur somigliandosi: a laud-o, laud-as laud-at si contrappone hab-eo, hab-es, hab-et;
riconoscendo invece la presenza di una vocale tematica (come facevano i grammatici
indiani), si può scomporre laud-o, laud-a-s, laud-a-t che ha le stesse desinenze di hab-eo, hab-e-s, hab-e-t, e quel che cambia è solo la vocale tematica. Sostantivi come lupus,
rex (da *reg-s), navis e manus hanno al nominativo la stessa desinenza in -s, e quel che fa
la differenza è ancora la vocale tematica: in lupus è -o- (forme del tipo lupos nom. sing.
sono attestate in latino arcaico), in rex manca, in navis è -i-, in manus è -u-; perciò in
latino si parla oggi rispettivamente di temi in -o, in consonante, in -i, in -u. Proprio perché
il sanscrito è tanto conservatore nella morfologia nominale, esso permette di spiegare
molte particolarità del greco e del latino che prima erano indicate semplicemente come
"eccezioni": così ad esempio esso conosce, come si è visto, un caso locativo che esce in i, che spiega automaticamente alcune parole isolate: lat. domi "a casa", ruri "in
campagna", Romae (arcaico Romai) "a Roma"; in greco c'è oi[koi oíkoi "a casa" distinto
per l'accento dal nominativo plurale oi\koi oîkoi "case". Il sanscrito è molto conservatore
anche nel consonantismo, invece ha innovato il vocalismo (le antiche e ed o sono
confluite in a), ma questo Bopp non lo sapeva, e fino all'ultimo quarto dell'Ottocento non
lo si seppe: così tutti i linguisti s’immaginavano una lingua madre indoeuropea
vicinissima al sanscrito.
Negli stessi anni in cui Bopp cominciava i suoi studi un giovane linguista danese,
Rasmus Rask (1787-1832) scriveva una dissertazione intitolata Undersögelse om det
gamle Nordiske eller Islandske Sprogs Oprindelse (ricerche sull'origine della lingua
antico-nordica o islandese), che era già pronta nel 1814, ma fu pubblicata solo nel 1818:
in essa erano poste le basi della comparazione linguistica, si riconoscevano per la prima
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volta le leggi fonetiche ed anzi si individuavano perfino le regole di corrispondenza tra le
consonanti delle lingue germaniche e quelle della altre lingue indoeuropee; va notato che
a quel tempo l'autore non conosceva il sanscrito e nondimeno giungeva a identificare
chiaramente la famiglia linguistica indoeuropea, sulla base di raffronti etimologici precisi
e metodologicamente esatti. Ma essendo scritta in danese quest'opera ebbe scarsa
diffusione: invece fu molto più grande la risonanza che ebbe, subito dopo. la Deutsche
Grammatik di Jakob Grimm, uscita in prima edizione nel 1819. Questo studioso (n. 1785,
m. 1863) si era occupato a più riprese dell'antica poesia germanica, nel 1812 insieme col
fratello Wilhelm aveva cominciato a pubblicare le Kinder- und Hausmärchen (le famose
fiabe: il secondo volume uscì nel 1815, il terzo nel 1822), e più tardi diede alle stampe
quello che è considerato ancor oggi il più completo lessico della lingua tedesca
(Deutsches Wörterbuch, pubblicato a Lipsia dal 1852 in poi): come si vede i suoi interessi
spaziavano su tutto quanto riguardasse le radici del popolo tedesco, e certamente lo si può
considerare il più grande studioso di antichità germaniche della sua epoca. La sua
Grammatica tedesca in realtà è una grammatica comparata delle lingue germaniche, uscì
in diverse edizioni tra il 1819 e il 1837, e vi si trova esposta in modo chiaro la famosa
"rotazione consonantica" delle lingue germaniche, regolata da quelle che si chiamarono
poi "leggi di Grimm" [in realtà sappiamo che le aveva enunciate prima Rask, ma il nome
è rimasto]. Ci si può soffermare di più su questo argomento, visto che fu la prima legge
fonetica importante ad essere scoperta, ed ebbe un enorme impatto sulla linguistica
dell'Ottocento.
Secondo la prima di queste leggi, le consonanti occlusive sorde (che nelle lingue
indoeuropee dell’Europa occidentale ci risulta che fossero *p, *t, *k, ed infine *kw scritta
anche *qu) diventano in germanico delle spiranti, rispettivamente f, þ, h, hw. Esempi:
sanscr. pitar- "padre" (al nom. pitá, negli altri casi c'è una radice pitar- o pitr-), lat. pater,
gr. pathvr patér, gotico fadar [si vedrà poi per quale motivo all'interno c'è -d- quando ci
aspetteremmo -þ-]; sanscr. paçu "bestiame", lat. pecus -oris "bestiame" (soprattutto le
pecore: però il derivato pecunia indica gli averi), got. faihu "denaro, averi" (ma il ted.
Vieh, della stessa radice, significa ancor oggi "animale, bestia"); sanscr. trayas "tre", gr.
trei'" treis lat. tres, got. *þreis (è attestato il neutro þrija, corrispondente al lat. tria); lat.
tego "copro", tegula, toga, ant. nordico þak "tetto" (in gotico, lingua che conosciamo solo
parzialmente, questa parola non è attestata; il ted. medioev. dah e il ted. mod. Dach
risentono della seconda rotazione consonantica, uno sviluppo tipico del tedesco
centromeridionale); lat. centum (pron. /kentum/), gr. he-katón, sanscr. çatám, got. hund;
lat. cor, cordis, gr. kardiva kardía, got. hairto; lat. caput, got. haubiþ; sanscr. kas, kim
(pronomi interrogativi), gr. tís, tí, lat. quis, quid, got. hwa "perché", hwan "quando"; lat. que, sanscr. ca, gr. te te, got. -h in nih = lat. neque "né" [va detto che la q si conserva solo
in latino, in sanscrito diventa k; in greco diventa t davanti a vocale palatale, e p nella
maggioranza dei casi].
Le consonanti aspirate del sanscrito e del greco (che in latino ed in altre lingue
indoeuropee sembrano essere state piuttosto delle spiranti) diventano occlusive sonore
nelle lingue germaniche (ma si hanno fondati motivi di pensare che in gotico ed altre
lingue germaniche antiche fossero in realtà delle spiranti sonore): in altre parole, si ha bh
dh h (gh) in sanscrito, ph th kh in greco, a cui risponde il latino con f all'iniziale per *bh e
*dh, ma all'interno di parola b o d; per *gh spesso in latino si trova h; nelle lingue
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germaniche questi suoni diventano b, d, g; per l'indoeuropeo si ricostruisce anche un
fonema *ghw che in germanico diventa gw e poi w. Riassumendo, quello che (con
infinite riserve e dubbi) si ricostruisce come *bh, *dh, *gh, *ghw diventa in germanico b,
d, g, w. Esempi: scr. bhra@tar- “fratello” (Nominat. bhra@ta@, negli altri casi si trova bhra@taro bhratr-), gr. fravthr phrater "membro d'una fratria", lat. frater, got. broþar; scr.
bhara@mi "io porto", lat. fero, gr. fevrw phero, got. baira; gli esempi con *dh sono
complicati dalla cosiddetta legge di Grassmann, per cui in sanscrito e greco quando ci
sono due aspirate nella stessa parola una delle due (di solito la prima) si deaspira: scr.
duhitr- (Nom. duhita) "figlia", gr. qugavthr thygáter, got. dauhtar (la forma base
dev'essere stata *dhughter- o qualcosa di simile); da una radice *dheigh-, cfr. scr. dheks¢i
"tu ungi", degdhi "egli unge" (in sanscrito la radice dev'essere stata in un primo momento
*dhegh- e le desinenze di 2a e 3a persona rispettivamente -si e -ti; da *dhegh-si, per le
note leggi di assimilazione consonantica del sanscrito, si arriva a dheks¢i; da *dhegh-ti
invece si avrà prima *degh-ti, poi per la legge di Bartholomae degdhi: secondo questa
legge, quando all'inizio di un gruppo di occlusive c'è una sonora aspirata, le consonanti si
sonorizzano e l'aspirazione passa in fondo: un esempio famoso si ha dalla radice budh"illuminare", che al partic. pass. combinandosi col suffisso -ta fa buddha); sempre da
questa radice *dheigh-, in gr. si ha tei'co" teikhos "muro", in lat. figulus "pentolaio",
fingo "impasto, formo", in osco feíhúss "i muri (Acc.)", in got. deigan "impastare"; per la
*gh, vediamo il gr. covrto" khortos "luogo cintato, corte", lat. hortus, got. gards "casa,
cortile"; per *ghw si ha scr. gharmás, gr. qermov" thermós, lat. formus "caldo", a cui
corrisponde in got. warmjan "scaldare", in ant. nordico varmr, ant. alto tedesco e ant.
sassone warm "caldo".
Le antiche consonanti occlusive sonore dell'indoeuropeo nel germanico comune
diventano sorde: dunque *b, *d, *g, *gw diventeranno p, t, k, kw. In realtà la *b è
rarissima e dubbia nelle parole comuni a tutte le lingue indoeuropee, per le quali si possa
ragionevolmente supporre un antecedente nella lingua madre: in got. ci sono diverse
parole con p, ma nessuna sembra appartenere al patrimonio ereditario della lingua.
Quanto a d, si possono citare i seguenti esempi: scr. daça “dieci”, gr. devka déka, lat.
decem, got. taihun; gr. deik-ny-mi "io mostro", lat. dico, got. ga-teihan "annunciare". Per
la *g possono valere i seguenti esempi: scr. janati "egli sa", part. pass. jñatas, gr.
gignwvskw gi-gno-sko "conosco" (radice *gno@- con raddoppiamento ed ampliamento in –
sk-), lat. nosco (da *gnosco, che appare nel composto co-gnosco), got. kunnan "sapere";
scr. josati "egli gusta, ama", gr. geuvw geúo "gustare" (da *geuso), lat. gus-tus, got. kiusan
"provare" (che in lingue germaniche. successive ha acquisito il valore di "scegliere,
eleggere"). Quanto alla labiovelare *gw, si può citare scr. gurus "grave; maestro, guru",
gr. baruv" barýs "pesante", lat. gravis, got. kaurus; scr. jigati "egli va" (radice
raddoppiata), gr. baivnw baíno "io cammino" (da *banio<*gwan-io), lat. venio (da
*gwenio), got. qiman "venire"3.
E' opportuno qui che io faccia una precisazione: le forme indoeuropee ricostruite che
3
Per un'esposizione più completa della seconda rotazione consonantica si può vedere R. GUSMANI,
Elementi di fonetica storica delle lingue indoeuropee, ed. Peloritana, Messina 1971, pp. 98-105. Una
precisazione per gli studenti: ho ritenuto necessario esporre ed illustrare queste leggi per far capire il
genere di problemi che trattavano i linguisti dell'Ottocento, ma non penso sia necessario, nell'economia del
presente corso, impararle minuziosamente con tutti gli esempi.].
12
presento non sono quelle che immaginavano i linguisti del primo Ottocento, ma quelle
dei linguisti che al nostro tempo non accettano la teoria delle laringali (un'ipotesi
sull'indoeuropeo che tuttora è controversa); come ho già avvisato prima, non credo che
sia opportuno presentarvi, accanto alle intuizioni giuste, tutte le ingenuità dei linguisti di
allora, che erano troppo affascinati dal sanscrito e lo vedevano, se non come la lingua
madre di tutto il gruppo, certo come vicinissimo ad essa. Anche il nome di "rotazione
consonantica" è dovuto ad un'inesattezza dei linguisti dell'Ottocento: educati alla
terminologia dei grammatici greci, essi non parlavano di occlusive sorde, ma di "tenui";
le occlusive sonore erano "medie"; poi c'era le terza serie, le "aspirate", che per loro non
erano ben distinte dalle spiranti. Per intenderci, una spirante è ad esempio la f; un'aspirata
simile come luogo di articolazione è il suono ph, ad esempio nell'ingl. pipe. Spirante
dentale sorda è il suono dell'inglese thin; l'aspirata dentale si sente bene nella pronuncia
tedesca della parola Tier. Storicamente una simile terminologia si spiega con le
condizioni della lingua greca antica: gli antichi grammatici distinguevano tra le tenui p, t,
k, le aspirate ph, th, kh, e le medie (che cioè non erano né aspirate né tenui) b, d, g. Ma
poi in età ellenistica le aspirate e le medie si spirantizzarono, arrivando a pronunce del
tipo [f], [θ], [x] (quelle che prima erano aspirate) e [v], [D], [g] (quelle che erano dette le
medie). Nella tradizione umanistica dell’Europa occidentale le aspirate del greco antico
furono recepite alla bizantina, come spiranti sorde (in modo più o meno coerente, e
sempre con forti influssi delle abitudini fonetiche di chi studiava questa lingua); invece le
“medie” furono recepite come occlusive sonore, alla maniera antica. Questa tradizione
culturale influenzò la linguistica delle origini e d’altra parte i linguisti di quel tempo sono
da comprendere, erano dei pionieri che avevano studiato (spesso da autodidatti o quasi)
sanscrito, avestico, gotico, lituano e chissà quante altre lingue, e forse proprio per questo
non avevano ancora avuto il tempo di creare una terminologia adeguata; però oggi anche
gli studenti di Linguistica o di Glottologia sono tenuti a distinguere fra aspirate e spiranti.
Dunque i mutamenti fonetici del germanico erano visti come una rotazione:
Tenui Aspirate
Medie
Si tratta di un cambiamento fonetico imponente, che coinvolge la maggior parte delle
consonanti e modifica profondamente l'aspetto delle parole: già dai pochi esempi citati si
trovano connessioni insospettate, come quella tra il ted. kommen, ingl. to come e l'it.
venire; o quella tra l'it. gusto e l'ingl. to choose. Per decenni queste leggi ebbero
un'importanza fondamentale nella ricerca linguistica, e non solo perché permettevano
finalmente di fare delle etimologie non più semplicemente ad orecchio, ma con un
metodo affidabile: non si deve dimenticare che esse riguardavano proprio le lingue
germaniche, che in ultima analisi erano quelle che più importavano ai linguisti di allora.
Questa componente nazionalistica non va intesa in senso negativo4: gli studiosi tedeschi
4
Anzi, sul nesso che la politica, molto più che la linguistica, volle fare tra lingua e razza, si veda l’ottimo
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dell'Ottocento cercarono, è vero, le origini e le tradizioni della propria nazione (attività,
fra l’altro, per nulla riprovevole, ma anzi meritoria), ma oltre a ciò erano uomini di
grande cultura, e grandi umanisti. Vorrei che si comprendesse in che senso dico che erano
uomini di cultura: negli ultimi decenni si è formata un’idea di cultura che è in qualche
modo limitativa; so che dire così è esagerato e non rende giustizia a molti, ma mi sembra
che in molte enunciazioni degli ultimi tempi la cultura faccia quasi la figura di una specie
di trastullo intellettuale: e certamente non era così per questi studiosi tedeschi, che non
erano soltanto degli eruditi ma cercavano la verità, ed avevano presente il precetto
socratico “conosci te stesso”; perciò per uomini del genere la cultura era una finestra che
li apriva alla conoscenza di se stessi e degli altri, ed infatti anche la loro curiosità
intellettuale era amplissima. Sempre nel corso del XIX secolo altri studiosi tedeschi,
praticamente dello stesso ambiente degli iniziatori dell’indoeuropeistica, si lanciarono a
ricercare con la stessa foga le radici e le origini di altre nazioni: ad esempio il fondatore
della filologia romanza è un altro tedesco, Friedrich Christian Diez (1794-1876); altri
linguisti contribuirono a dare delle radici ad un popolo che altrimenti forse le avrebbe
perdute, i Lituani; e gli slavisti tedeschi andarono perfino contro l'interesse della
Germania, perché contribuirono alla rinascita della cultura ceca, e così finirono,
consapevolmente o no, con l'alimentare un nazionalismo che ben presto si sarebbe rivolto
contro di loro. Ho appena nominato la Lituania: i linguisti del XIX secolo si interessarono
molto a questo piccolo Paese perché scoprirono che la sua lingua presenta singolarissimi
tratti di arcaicità: pur essendo attestata solo in età moderna, conserva molti tratti
indoeuropei (ci sono otto casi, manca solo l'ablativo; l'accento è libero e con due diverse
intonazioni, come in greco antico; sono mantenute le quantità vocaliche; il lessico è
particolarmente conservativo; i mutamenti fonetici sono relativamente scarsi, molto meno
che nelle lingue slave). Nell'Ottocento alcune popolazioni lituane vivevano nel territorio
dell'Impero tedesco, in Prussia orientale: perciò era particolarmente agevole per i linguisti
studiare questi dialetti. Il linguista più notevole della seconda generazione, August
Schleicher (1821-1868) pubblicò nel 1856-7 un Handbuch der litauischen Sprache che
ebbe grande importanza non solo per la glottologia: infatti il maggiore letterato lituano, e
padre della lingua lituana moderna, Jonas Jablonskis (1861-1930) nacque in territorio
russo, ma vicinissimo al confine tedesco, e perciò parlava praticamente lo stesso dialetto
codificato da Schleicher, quindi si fondò sulla sua grammatica per emendare la lingua
lituana, elevando a lingua letteraria proprio quel dialetto. Va precisato che, trattandosi di
una lingua senza tradizione letteraria ma affine al greco ed al latino, gli studiosi non
incontrarono grosse difficoltà ad analizzarla: il punto su cui la grammatica di Schleicher
fu manchevole riguarda i toni, cioè la distinzione di diversi toni nella sillaba accentata,
che non è facile da individuare per chi non vi è abituato.
Ma cerchiamo di rispettare la cronologia: lasciamo per un momento Schleicher e
torniamo ai primi decenni dell'Ottocento: in quel periodo alcuni studiosi riuscirono a
decifrare la scrittura geroglifica egizia (come pure la demotica) ed anche il cuneiforme
persiano (più tardi, anche la scrittura cuneiforme assiro-babilonese). Forse sapete che fu il
articolo di A. MORPURGO DAVIES, Razza e razzismo: continuità ed equivoci nella linguistica
dell’Ottocento, in P. COTTICELLI KURRAS, G. GRAFFI, Lingue, ethnos e popolazioni: evidenze linguistiche,
biologiche e culturali, “Atti del XXXII Convegno della Società Italiana di Glottologia”, ed. Il Calamo,
Roma 2009, pp. 55-82.
14
francese Jean François Champollion a interpretare i geroglifici egizi, nel 1822; il
cuneiforme persiano antico fu decifrato una prima volta da Georg Friedrich Grotefend
(1775-1853) nel 1802, ma lo scopritore non poté portare avanti le sue ricerche e non le
pubblicizzò a sufficienza, così che si dovette attendere alcuni decenni, finché l'ufficiale
inglese Henry Rawlinson (1810-1895) si mise a studiare le grandi iscrizioni di Dario I a
Behistun (o Bisutun). In questo modo si conobbe una nuova lingua indoeuropea, detta
l'antico persiano: rispetto all'avestico si tratta di un altro dialetto, quello della Perside,
oggi Fars, la regione dove si trovava Persepoli (oggi la città più importante di quella zona
è Shiraz), nel sudovest; da questa lingua deriva il persiano moderno. Però le iscrizioni di
Dario I erano tradotte anche in altre due lingue, l'elamico (lingua del Khuzistan, oggi
estinta, non appartenente a nessun gruppo linguistico conosciuto) e l'assiro-babilonese
(che si fa rientrare nell'accadico, cioè nel ramo orientale delle lingue semitiche). La
decifrazione di quest'ultima lingua fu particolarmente faticosa perché la maggior parte dei
segni è polifonica: per spiegare cosa significhi dirò che anche l'inglese oggi ha un buon
grado di polifonia nel suo sistema ortografico: in questa lingua u a volte si legge /u/, a
volte /ju/, a volte /ø/; in assiro-babilonese la cosa era più complicata perché i segni
potevano avere diversi valori fonetici, ma potevano anche avere valori ideografici, e
potevano essere usati per scrivere parole sumeriche intercalate in un testo accadico come
ideogrammi; ancora oggi lo studio delle lingue semitiche di Mesopotamia richiede una
solida preparazione specialistica, e difficilmente si concilia con altri tipi di ricerca.
Torniamo ora a Bopp: nel 1821 egli ottenne a Berlino una cattedra di grammatica
comparata, e passò tutta la sua vita in questo tipo di ricerche. A partire dal 1833 pubblicò
a fascicoli una grammatica comparata che inizialmente prendeva in considerazione
sanscrito, avestico, greco, latino, lituano, gotico e tedesco, poi egli riconobbe il carattere
indoeuropeo di lingue come l'antico slavo, l'antico prussiano, l'albanese; questa
grammatica fu completata nel 1852, ma subito dopo egli lavorò ad una seconda edizione
riveduta, che uscì tra il 1857 ed il 1861; preparò anche la terza edizione, uscita postuma
nel 1867. Dunque per un cinquantennio egli continuò a lavorare su questo argomento,
dimostrando che con lo studio sistematico delle lingue, ed in particolare della grammatica
comparativa, si poteva fare una nuova scienza; per la prima volta nella storia creò una
scuola di studiosi professionali del linguaggio, e soprattutto per questo lo si può
considerare il fondatore della linguistica. Alla sua morte era attiva una seconda
generazione di linguisti, che continuò validamente la sua opera. Vediamo ora quali sono
le lingue indoeuropee oggi conosciute: abbiamo menzionato il sanscrito (e le lingue
neoindiane), poi vengono le lingue iraniche, che nella fase più antica erano strettamente
affini alle parlate dell'India: un tempo esse avevano un'estensione territoriale molto
maggiore di oggi, ma anche ora non si riducono affatto al territorio dell'Iran. Oltre al
persiano moderno vero e proprio, lingua ufficiale dell'Iran, e che deriva dal persiano
antico delle iscrizioni cuneiformi, esiste il tagico (parlato oltre che in Tagikistan anche in
altre repubbliche dell’Asia centrale) che è una variante di persiano, come pure il
cosiddetto dari dell’Afghanistan; altre lingue iraniche (ma più distanti) sono il curdo
(usato soprattutto in zone di confine tra Iran, Turchia, Iraq), il baluchi (nella zona di
confine tra Iran, Afghanistan e Pakistan), il pashto o pashtun (lingua ufficiale degli
Afghani, ma diffuso anche in Pakistan), l'osseto del Caucaso, e molti altri dialetti isolati;
delle lingue iraniche antiche conosciamo l'avestico e l'antico persiano epigrafico
15
(entrambe note in modo non completo a causa della scarsità di testi), poi nel Medioevo ci
è tramandato il sogdiano (che fa parte dell’iranico orientale) ed altri dialetti, attestati
attraverso manoscritti dei Manichei o dei Buddhisti stabiliti nell'attuale Turkestan cinese
o Sinkiang. Nel tardo Ottocento ci si accorse che l'armeno non è un dialetto iranico, ma
una lingua indoeuropea a sè: le prime attestazioni risalgono al V sec. d.C., con la
cristianizzazione di quel popolo e la prima traduzione della Bibbia. Sono poi indoeuropee
le lingue slave (russo, bielorusso, ucraino, polacco, ceco, slovacco, sloveno, bulgaro,
croato, serbo ecc.): il più antico documento che possediamo è la traduzione della Bibbia
di Cirillo e Metodio, del IX secolo d.C., in un dialetto bulgaro-macedone che però a quel
tempo non doveva essere molto diverso da tutte le altre parlate slave. Le lingue baltiche
indoeuropee oggi sono il lituano ed il lettone (l'estone invece è simile al finnico); fino al
XVII secolo si parlava anche il prussiano, e ne rimane qualche documento, in opuscoli di
argomento religioso scritti al tempo della Riforma protestante. Sono indoeuropee anche le
lingue germaniche, divise in un gruppo orientale (estinto) rappresentato soprattutto dal
gotico (ma sembra che parlassero dialetti affini anche Vandali, Eruli, Burgundi; una tribù
di Goti si mantenne in Crimea almeno fino al XVI secolo), un gruppo occidentale che nel
Medioevo comprendeva l'antico altotedesco (da cui deriva il tedesco moderno), l'antico
sassone, il medio olandese, l'anglosassone, il frisone, nonché il basso tedesco o
Plattdeutsch (rimasto sempre un dialetto anche se in alcuni secoli ebbe un ruolo
notevolissimo); ed infine il gruppo nordico comprendente tutte le lingue scandinave,
naturalmente eccetto il finnico ed il lappone. Un tempo erano diffusissime in Europa le
lingue celtiche, che oggi sono tutte più o meno moribonde: in primo luogo l'irlandese
gaelico, che ha una vasta letteratura ed oggi in Irlanda è insegnato a scuola, ma come
lingua parlata ha un uso limitatissimo; il gaelico scozzese, confinato alle zone estreme
della Scozia; il gallese, usato nel Galles da una minoranza sempre più ristretta; ed il
bretone, in netto declino (queste ultime due lingue fanno parte del gruppo britannico nel
celtico, contrapposto al gruppo gaelico). Sul gallico antico (anch’esso celtico) abbiamo
scarse testimonianze. Queste lingue sono molto complicate (specialmente l'irlandese) e
molto evolute rispetto alle altre lingue indoeuropee, per cui Bopp all'inizio non ritenne di
doverle classificare in questa famiglia linguistica; solo dopo che nel 1853 uscì la
Grammatica celtica di Johann Kaspar Zeuss si riconobbe appieno la loro giusta
collocazione. Nell'Europa meridionale, è indoeuropeo il greco, lingua ben conosciuta e di
cui si può seguire l'evoluzione per più di tre millenni, ora che sappiamo leggere i
documenti di miceneo. Nell'Italia antica erano lingue indoeuropee il latino, l'osco-umbro,
il venetico, il messapico, probabilmente anche il ligure ed il siculo; non era indoeuropeo
invece l'etrusco. Inoltre, a partire dal 1915 si è cominciato a conoscere un altro gruppo di
lingue indoeuropee antiche in Anatolia: l'ittito, il luvio, il licio, il lidio; invece il frigio,
pure esso parlato in Anatolia nell'età classica, era anch'esso di origine indoeuropea, ma
importato da popolazioni venute dalla Tracia. Si noti che l’ittito è la lingua indoeuropea
più anticamente attestata, quella di cui possediamo i più antichi documenti scritti: ma per
la ricostruzione si usa relativamente poco, sia perché la scrittura cuneiforme usata nei
testi è talmente complessa ed imprecisa da fornirci solo un’idea molto approssimativa
della lingua sottostante, sia perché la lingua stessa doveva essere notevolmente evoluta.
Delle antiche parlate della penisola Balcanica, oltre al greco, sopravvive soltanto
l'albanese che, pur molto evoluto e modificato profondamente da influssi di altre lingue,
16
nel suo nucleo risale ad una lingua indoeuropea non altrimenti conosciuta. Infine bisogna
menzionare una lingua scoperta con grande sorpresa all'inizio del Novecento, in
manoscritti medioevali buddhisti provenienti dal Turkestan orientale: si tratta del tocario
(ma non si è sicuri che il popolo che la parlava fossero proprio i Tocarii, attestati da fonti
classiche ed orientali), che è diviso in due dialetti, chiamati A e B, e non mostra
particolari affinità con le lingue indoiraniche, che pure sono geograficamente le più
vicine.
Come si vede, alcune di queste lingue sono ben attestate, hanno una solida letteratura;
altre invece sono pochissimo conosciute, perché i testi che ce le tramandano sono troppo
scarsi, o troppo brevi, o ripetitivi. In una situazione del genere sono tutte le lingue
del'Italia antica eccetto il latino, le lingue anatoliche (le quali, pur essendo attestate in
epoca molto antica, appaiono evolute), il traco-frigio, il gallico, ecc.
Riprendendo la storia della linguistica dovrò menzionare Wilhelm von Humboldt
(1767-1835). Si tratta di un uomo politico importante nel regno di Prussia all'epoca
napoleonica e nella Restaurazione: come ministro, fu proprio lui a fondare l'Università di
Berlino, e vi chiamò ad insegnare Bopp. Si occupò di teoria del linguaggio in vari scritti,
e fra l’altro si avvalse ampiamente di descrizioni di lingue esotiche lasciate da missionari
(soprattutto gesuiti), ma l'opera che rappresenta meglio il suo pensiero (specie
nell'introduzione) sembra Über die Kawisprache auf der Insel Jawa, pubblicata postuma
dal 1836 al 1840. Questa lingua kawi è in realtà l'antica lingua letteraria dell'isola di
Giava, usata fra il X e il XVI secolo; poi, col prevalere dell'Islàm, i seguaci degli antichi
culti si rifugiarono a Bali dove continuarono le loro tradizioni. Questa letteratura
giavanese è fortemente influenzata dal sanscrito: lo stesso nome kawi è parola sanscrita
(nella traslitterazione ordinaria kavi) e significa "poeta", e kâvya significa "arte poetica"
(ma per noi è quello stile artificioso tipico della poesia sanscrita tarda). Il kawi è una
lingua colma di prestiti sanscriti, e la letteratura in questa lingua è quasi interamente di
derivazione indiana: ma curiosamente si è molto radicata nel Paese, al punto che gli eroi
del Maha@bha@rata come Arjuna furono ben presto creduti degli antichissimi re di Giava; e
poi l'epica indiana non fu semplicemente tradotta, ad esempio il Ra@ma@@yana in kawi
riprende una versione abbreviata in sanscrito (kâvya) del poema indiano, ma lo rifà
completamente. Questo rifacimento, e questo appropriarsi dei poemi indiani, sono forse
più evidenti nell'altro grande poema kawi, il Bharata Yuddha, che contiene la battaglia
finale del Maha@bha@rata. In questo poema esistono lunghe (e per noi abbastanza noiose)
descrizioni della natura che sembra partecipare all'azione nonché ai turbamenti degli eroi;
ma la natura qui descritta è tipicamente giavanese, non certo indiana, le piante e gli
uccelli sono quelli familiari a Giava. Tornando a Humboldt, possiamo dire che egli non si
limitò al kawi, ma abbozzò una grammatica comparativa delle lingue maleo-polinesiache,
che aveva in parte conosciuto nei suoi viaggi (una famiglia grandissima, con enorme
estensione territoriale: ne fanno parte, oltre alle lingue dell'Indonesia ed al malese, le
lingue delle Filippine, della Melanesia Micronesia e Polinesia, qualche lingua minoritaria
del Vietnam, il Maori della Nuova Zelanda, alcune lingue della Nuova Guinea nella parte
più orientale, ed infine il malgascio, lingua nazionale del Madagascar: in parte queste
lingue si diffusero per emigrazioni, in parte furono adottate da popolazioni allogene);
però, come del resto era logico, egli non partì da lingue puramente orali, ma dalla lingua
di quel gruppo che aveva la più solida tradizione letteraria. Si può dire che quest’uomo
17
s’interessò di linguistica da diversi punti di vista: la linguistica descrittiva (oltre alla
grammatica del kawi ne pubblicò una del basco, lingua che aveva studiato sul campo); fu
il primo, si può dire, a trattare con competenza di linguistica teorica; parimenti iniziò gli
studi sulla tipologia linguistica; ma si occupò anche di linguistica storico-comparativa, sia
con la sua ricostruzione della famiglia maleo-polinesiaca, sia con alcuni contributi teorici
alla ricerca in campo indoeuropeo. Leggendo il manuale della Morpurgo5, nel capitolo
dedicato a questo autore si trovano esposte molte delle sue idee (notissima e molto citata
l’idea che la lingua non è un ergon, ma una enérgeia; in altre parole non è un tutto in sé
compiuto e concluso ma un’attività creativa, capace di rinnovarsi continuamente), che
spesso si sono rivelate geniali e precorritrici, sostenute com'erano da una cultura
eccezionalmente vasta e profonda, e concepite da un ingegno non comune. Ma va pure
detto che non ebbe un grande seguito perché a quel tempo i risultati della ricerca
linguistica non offrivano sufficiente materiale per proseguire sulla strada di
considerazioni generali e di costruzioni teoriche: in pratica tutto quello che si poteva
teorizzare in quegli anni fu già lucidamente esposto da lui, e per continuare la sua opera
occorreva il lavoro di altre generazioni.
Passiamo quindi alla seconda generazione di linguisti: nel campo indoeuropeo, il
personaggio forse più rappresentativo è il già citato August Schleicher (1821-1868).
Aveva studiato linguistica e filosofia a Bonn, e si era imbevuto di idee hegeliane; coltivò
come seconda passione la botanica (qualcuno disse che la linguistica per lui era la moglie
legittima, e la botanica l'amante), e aderì alle teorie di Darwin. La sua opera principale è il
Compendium der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen, Weimar
1861; è suo merito l'aver dato risalto alla fonetica, ed aver trattato di "suoni" anziché di
"lettere" (cioè non diceva più, come i primi comparatisti, che alla lettera c- del latino
corrisponde la lettera h- nelle lingue germaniche: diceva giustamente che il mutamento
avvenne tra suoni); è suo anche il primo coerente tentativo di ricostruzione della lingua
madre indoeuropea. Già Bopp aveva ipotizzato che doveva essere esistita una lingua
madre da cui derivarono tutte le lingue indoeuropee storicamente conosciute; ma
Schleicher si spinse oltre, tentò di ricostruire le parole indoeuropee, e scrisse perfino una
favoletta in quello che per lui era l'indoeuropeo. Si può vedere l'inizio di questa favoletta,
così come la scrisse lui:
Avis akvasas ka
avis, jasmin varna na a ast, dadarka akvams, tam, vagham garum vaghantam, tam,
bharam magham, tam, manum aku bharantam.
trad.: (una) pecora, sulla quale lana non era, vide cavalli, quello (un) carro pesante
tirando, quello (un) peso grande, quello (un) uomo velocemente portando.
Oggi le singole parole si ricostruirebbero diversamente: si è scoperto che è una legge
fonetica del sanscrito, e non la situazione originaria, la riduzione di e ed o ad a; inoltre si
è scoperto che le consonanti velari dovevano essere tripartite, dovevano cioè esistere delle
velari pure, delle palatali (trascritte k$, g$, k$h, g$h), e delle labiovelari, cioè suoni del tipo
qu-: queste ultime si trascrivono qu o kw o anche qw, kw (la sorda), gw, gu8, gw (la sonora),
5
Anna MORPURGO DAVIES, La linguistica dell’Ottocento, ed. Il Mulino, Bologna 1996.
18
e infine gwh, gu8h o gwh (la sonora aspirata). Perciò nel 1939 un altro indoeuropeista,
Hermann Hirt, provò a riscrivere la favoletta nel modo seguente:
ou8is ek$u8oses-que
ou8is, jesmin u8l9na ne est, dedork$e ek$u8ons, tom, u8og$hom gW´rum u8eg$hontm9, tom, bhorom
megam, tom, gh´monm§9 ok$u bherontm.9
Vediamo le singole parole: "pecora" in sanscr. è avis, in gr. oi'j" ois (da *owis: la -winterna è sparita senza lasciar traccia, come spesso accade in greco), in lat. ovis, in lit.
avìs. Quanto alla parola per "cavallo", in scr. è açvas (dunque all’interno c’è una
*k$ palatale + w), gr. i[ppoß (hippos), lat. equus, a. irl. ech, gall. epo-, got. aihwa-: la
desin. di Nom plur. doveva essere in -es, ma forse in temi in -o come questo contraevano
os-es in -o@s, e quindi forse è da ricostruire *ek$wo@s. Quanto alla congiunzione -que, la si
ritrova tale e quale in lat., in scr. è diventata ca per note leggi fonetiche: in questa lingua
la qu- diventa k-, poi davanti ad -e la k- si palatalizza, poi la -e cambia in -a (*kwe > *ke
> *ce > ca, pronunciato come it. cia); il gr. ha te, perché in questa lingua una *qudavanti a vocale palatale (e, i) diventa t-. Quanto al pronome jasmin o iesmin, è
ricostruito sulla base del scr. yasmin, locativo del pron. ya-: ma sulla base del gr. hJv (nom.)
si potrebbe anche ricostruire *iei. La parola per "lana" in scr. è urna, in gr. lhnovß lenós
(dor. lanovß lanós), lat. lana, got. wulla: si può ricostruire un *u8l9@na, se si ammette che
nell'indoeuropeo esistessero sonanti lunghe, oppure in caso contrario *u8´l´na.
Dubito che valga la pena di continuare a discutere tutte le singole parole del testo,
tanto più che in seguito, più per gioco che per convinzione, altri linguisti provarono a
riscrivere la stessa favoletta, secondo le loro teorie. Ma non ci si fa illusioni sulla
possibilità di queste ricostruzioni, tanto più che in questo lavoro si rischia sempre di
proiettare su un unico piano fatti linguistici che in realtà si sono verificati in epoche
successive; la distanza fra le lingue indoeuropee attestate e la lingua madre è troppo
grande perché si possa capire con sufficiente chiarezza come funzionava questa lingua,
mentre invece si può parlare con molto più sicurezza di germanico comune, o di slavo
comune, perché conosciamo lingue molto vicine a quella fase. Comunque oggi usiamo
scrivere le parole di indoeuropeo ricostruito con un asterisco, come formulette comode
per evitare di citare tutte le forme realmente attestate nelle lingue storiche.
Di Schleicher è rimasto famoso un opuscolo, una lettera intitolata La teoria
darwiniana e la linguistica (1863), in cui afferma che, come le specie animali o vegetali,
anche le lingue hanno una vita, sorgono, crescono e poi invecchiano e muoiono (va detto
che a quel tempo era convinzione comune che le lingue indoeuropee nel periodo della
loro formazione non si fossero evolute con le stesse modalità osservate nelle lingue
storiche: questa scuola di pensiero si dice antiunitaria); anche alle lingue secondo lui si
possono applicare i concetti di "famiglia", anzi per la famiglia indoeuropea egli disegnò
un vero e proprio albero genealogico, oggi non più accettabile:
19
b a l t ic o s l a v o
c e l t ic o it a l ic o g r e c o a l b a n e s e ir a n ic o in d ia n o
g e r m a n ic o l it u s l a v o
n o rd e u ro p e o
it a l o c e l t ic o
gre c o
a r io
a r io g r e c o it a l o c e l t ic o
in d o e u r o p e o
Oggi non si crede più a questo albero genealogico per vari motivi: in molti casi si ha
l'impressione che ci siano state delle migrazioni, per cui alcuni popoli indoeuropei che ora
si trovano vicini possono non esserlo stati in un passato remoto; d'altra parte è certo che le
lingue indoeuropee nelle loro sedi storiche si influenzarono reciprocamente: il caso più
tipico riguarda le antiche lingue italiche le quali probabilmente (a differenza di quanto
pensava Schleicher) in origine non formavano per nulla un gruppo all'interno
dell'indoeuropeo, ma poi trovandosi vicine cominciarono ad imitarsi reciprocamente, ed
infine risentirono tutte dell'influsso latino; sono poi noti gli antichi influssi iranici sullo
slavo. Mi si permetta una digressione: abbiamo visto come i linguisti della prima
generazione dipendevano dal clima romantico, e similmente i linguisti della seconda metà
dell’Ottocento risentirono del clima positivistico. La pubblicazione dell’opera di Darwin
On the Origin of Species (1859) ebbe un impatto enorme sulla cultura di quel tempo: fra
l’altro, le conseguenze travalicarono di gran lunga il campo della biologia, a cui invece
era opportuno che la ricerca si limitasse. Spiegandomi, dirò che per evoluzione si possono
intendere almeno tre cose diverse: a) un processo, comprendente mutazioni genetiche
casuali e selezione naturale, che era ed è una forza trainante nello sviluppo della vita sulla
terra; b) un processo, comprendente mutazioni genetiche casuali e selezione naturale, che
fornisce la spiegazione esauriente dello sviluppo della vita sulla terra, dai più semplici
organismi viventi fino agli esseri umani; c) un processo, comprendente mutazioni
genetiche casuali e selezione naturale, che fornisce la spiegazione esauriente
dell’esistenza e della natura di tutti gli esseri viventi, compresi gli esseri umani. Nella
formulazione a), l’evoluzione “darwiniana” oggi può essere accettata da tutti; nella
formulazione b) è già più discussa, perché (a quanto sembra) numerosi fatti non
quadrano; nella formulazione c) essa travalica certamente la biologia e addirittura
abbandona il campo scientifico, invadendo il terreno della filosofia (e per soprappiù,
Schleicher fece sì che il metodo darwiniano invadesse anche il campo della linguistica).
Ma purtroppo nella seconda metà dell’Ottocento la versione più corrente e diffusa
dell’idea evoluzionista era quella che faceva dell’uomo un puro prodotto biologico: se ne
videro le conseguenze nel secolo che seguì, coi terribili massacri che le guerre e le
ideologie provocarono.
Comunque, in pochi anni dopo la morte di Schleicher il panorama delle cognizioni
20
riguardanti le lingue indoeuropee cambiò radicalmente. Ho già menzionato la legge di
Grassmann: questo studioso la espose nel 1863, in un articolo sulla "Zeitschrift für
vergleichende Sprachforschung", come spiegazione di alcuni fatti del germanico che non
si inquadravano nelle leggi di Grimm: infatti se si trovano parole come sanscr. bandhas
"legame", bandhus "parente", il collegamento con il gr. penqerov" (pentherós) "suocero",
e il got. bindan "legare" sembra impossibile: invece, sapendo che in greco e sanscrito,
ogni volta che in una parola si trovavano due aspirate, la prima si deaspirava, si può
agevolmente ricostruire alla base di tutti questi vocaboli una radice *bhendh-, in cui tutti
rientrano perfettamente (per le leggi di Grimm, le cosiddette medie aspirate in gotico
diventano medie). Una scoperta importantissima fu resa nota nel 1870, ad opera del
goriziano Graziadio Isaia Ascoli: egli notò come in alcune parole un suono k rimanga
inalterato in sanscr. e nelle lingue europee (ad es. sanscr. náktis "notte", gr. nuvkt- (nykt-),
lat. noct-, got. nahts con rotazione consonantica; sanscr. kravi- "carne cruda", gr.
krev(Ï)a" kré(w)as, lat. carn-), in altri si trovi ç in sanscr., altre sibilanti in iranico e
baltoslavo, k nelle lingue europee (es. sanscr. çatam "cento", avest. sat´m, gr. eJkatovn hekatón, lat. centum, lit. šimtas; sanscr. daça "dieci", avest. dasa-, arm. tasn, gr. devka déka,
lat. decem, a. irl. deich, got. taihun, lit. dešim-t, a. slavo dese-ti), ed in altri al contrario si
abbia k (o c) in sanscrito, ma qu- in lat., p- o t- in gr., hw- in got.: ad es. sanscr. catvaras
"quattro", arm. cork', gr. tevssare" téssares (omerico pivsure" písyres, beotico
pevttare" péttares), lat. quattuor, umbro petur, lit. keturì, a. slavo cetyre (la forma che si
ricostruisce è *quetwores). Perciò egli arrivò ad ipotizzare tre diverse serie di velari
indoeuropee: le velari pure, continuate in tutte le lingue; le palatali, continuate in
sanscrito, iranico, armeno, slavo, baltico, ma confuse con le precedenti nelle lingue
dell'Europa nordoccidentale e in greco e latino-italico; e le labiovelari (suoni di tipo qu-),
che in sanscr., iran., baltoslavo si confondono con le velari pure, ma restano distinte in
lat., gr. (dove diventano dentali avanti i, e; velari in vicinanza di u; labiali negli altri casi;
ma i dialetti eolici hanno labiali anche davanti a vocale palatale), in celtico (pur con
differenze tra gaelico e britannico), in oscoumbro e germanico. Siccome quasi tutte le
lingue distinguono solo due delle serie (hanno cioè o velari + labiovelari o palatali +
velari, con le velari che si confondono con la serie andata persa), si parlò di lingue
kentum (dal lat. centum) e lingue satem (dalla corrispondente forma avestica sat´m =
100). Alcune tracce di tutte e tre le serie sono conservate in armeno e albanese, ma
entrambe le lingue sono molto evolute e servono poco per la ricostruzione; altre tracce
(ma più sporadiche) di tutte e tre le serie si ritrovano in sanscrito e greco; le lingue
anatoliche sembrano appartenere al gruppo centum, però presentano qualche forma
satem; il tocario fa parte del gruppo centum, con qualche reminiscenza delle vecchie
palatali.
Nel 1873 fu dimostrato che, anche se il sanscrito confonde molto spesso (e più ancora
nella fase vedica) le consonanti r, l mantenendo solo r, in realtà questa non è la situazione
originaria, ma un'innovazione indoiranica, e la lingua madre doveva possedere un fonema
/l/ perfettamente distinto da /r/.
Nel 1876, Hermann Osthoff postulò l'esistenza nell'indoeuropeo primitivo di liquide
sonanti, come in sanscrito. In questa lingua la r e la l possono aver funzione di apice
sillabico, possono cioè fungere da vocali (secondo il padre della fonologia Trubeckoj
queste non sarebbero mai delle vere vocali, ma secondo i grammatici indiani era il
21
contrario, e per semplicità possiamo seguire questi ultimi): nella scrittura indiana
esistevano anzi due segni particolari per r9 ed l9 vocali, distinte da r ed l consonanti;
esisteva anche una r9 lunga, e secondo i grammatici indiani perfino una l9 lunga. Osthoff,
basandosi su equazioni del tipo:
sanscr. pitr9s¢u = gr. patrási, sanscr. matr9s¢u = gr. matrasi,
pensò che nel primitivo indoeuropeo dovessero esistere suoni di questo tipo, conservatisi
in sanscrito e passati in greco a ra e la (in certe condizioni anche ar, al), in lat. a or, ol, in
celt. a ri, li, in german. a ur, ul, in baltico a ir, il, in slavo a ri, li. Esempi: sanscr. mr9ti"morte", lat. mort-, lit. mirtis, a. slavo si*-mri*t, a. alto ted. mord "uccisione"; sanscr. mr9du"molle", gr. !amalduvnw amaldýno "ammollisco, indebolisco", lat. mollis, lit. mildus.
Nel 1877 furono rese note alcune scoperte fondamentali in campo indoeuropeo: prima
fra tutte la legge di Verner. Il danese Karl Adolph Verner si chiedeva come mai, in due
parole gotiche simili da molti punti di vista come fadar "padre" e broþar "fratello", ci
fosse stata un'evoluzione discorde: infatti, alla prima corrisponde il lat. pater (e parole
analoghe nelle altre lingue), alla seconda il lat. frater: perché dunque una -t- interna
dev'essersi evoluta in -þ- (regolarmente, secondo le leggi di Grimm) nel secondo caso, e
invece in -d- nel primo? Avendo in mano la grammatica di Bopp in cui le parole sanscrite
sono scritte con l'accento (tipico della fase vedica), notò come la prima sia pitá, la
seconda bhra@!ta@; in greco, che pure conserva in parte l'antico accento indoeuropeo, si ha
rispettivamente pathvr patér e fravthr phráter "membro d'una fratrìa". Si domandò se la
diversa evoluzione fosse dovuta alla diversa posizione dell'accento: da altri casi trovò
conferma, e così arrivò a formulare la sua legge: in germanico, le occlusive sorde
dell'indoeuropeo evolvono regolarmente a spiranti sorde solo all'inizio di parola o quando
l'accento indoeuropeo cadeva sulla vocale immediatamente precedente; ma all'interno, in
posizione intervocalica, se l'accento cadeva sulla vocale seguente, mutano ancora
diventando spiranti sonore (indicate nelle scrittura gotica semplicemente come delle
sonore b, d, g). Così si vide che tutta una serie di fenomeni, che prima sembravano fare
eccezione elle leggi di Grimm, in realtà cadevano sotto un'altra legge più minuziosa.
Nell'anno 1877, Karl Brugmann postulò l'esistenza in indoeuropeo, accanto alle
liquide sonanti, di nasali sonanti, cioè di m9 e n9 in funzione di apice sillabico (ovvero in
funzione vocalica). L'evoluzione sarebbe verso a in greco e sanscr., verso em, en in lat.,
verso im, in nel celtico e baltico, verso um, un in germanico, verso e¶ in slavo. Così,
postulando un indoeur. *dek$m9 "dieci", si ha sanscr. daça, gr. devka déka, lat decem, got.
taihun ecc.; il prefisso privativo, che in gr. e sanscr. è a-, in lat. in-, nelle lingue german.
un-, si trova così che risale ad un antico *n9-; per es. sanscr. a-mr9tas "immortale", gr.
a[mbroto" á-mbrotos, lat. im-mortalis, o sanscr. a-jña¤tas "ignoto", gr. a[gnwto" á-gnotos,
lat. ignotus (da *in-gnotus: sembra che in latino il gruppo gn- si pronunciasse Nn-), a. irl.
in-gnat, got. un-kunþs. In questo modo si spiega anche la desinenza -a dell'accusativo nei
temi in consonante del greco: desinenza normale di quel caso è -m, come in lat. lupu-m,
sanscr. vr9ka-m, gr. luvkon lyko-n (in greco la -m finale non può stare e quindi
normalmente cambia in -n); per i temi in consonante, il lat. ha ad es. leon-em, mentre il
gr. ha levonta léonta: se si presuppone anche qui una –m9 sonante, si avrà *léont-m9 >
léont-a (la parola in questione non ha origine indoeuropea, ma la desinenza può
ugualmente essere assunta ad esempio).
Ancora nel 1877, H. Hübschmann postulò l'esistenza del cosiddetto šva (o š´wa)
22
indogermanicum, vocale indistinta che gli studiosi scrivono di solito ´: in alcune parole,
ad una -i dell'indoiranico corrisponde per lo più -a nelle lingue dell'Europa: così il più
volte citato sanscr. pitar- "padre" trova corrispondenti nel gr. pathvr pater, lat. pater,
ecc.; al sanscr. sthitás "posto" (part. pass.) corrisponde gr. statov" statós, lat. status, ecc.
Tra il 1878 e il 1880 fu scoperta la legge di Collitz e Schmidt: si vide cioè che in
sanscrito (a somiglianza dell'italiano) le velari palatalizzano davanti a -e, -i: così la parola
corrispondente al lat. quid è cid, da *kid (non dimentichiamo che il sanscrito è lingua
satem, dunque la qu- passa a k-). Ma anche dove l'antica -e non c'è più, perché passata ad
-a, la palatalizzazione rimane: così alla congiunzione lat. -que "e" corrisponde ca,
attraverso una trafila *que > *ke > *ce > ca, come si è visto prima.
Si vide anche che in sanscrito doveva essere esistito un antico o, perché in alcuni casi
in cui ha valore morfologico non cambia in a, ma in a@. Così in lat. esiste una radice menche in origine doveva avere il valore di "pensare": mens, mentis "mente", memini (forma
raddoppiata) "ricordo", ed il verbo causativo moneo (con vocale –o-) "faccio pensare",
quindi "ammonisco". In sanscr. doveva esistere una simile apofonia, si conosce manas
"animo", manyase "tu pensi", e al causativo ma@nayati "egli fa pensare" (legge di
Brugmann). Dunque l'indoeuropeo doveva conoscere e ed o, che anzi si opponevano
morfologicamente col procedimento dell'apofonia, come in gr. leivpw - levloipa léipo lé-loipa "lascio - ho lasciato"6.
[Cerchiamo ora di spiegare che cosa sono la metafonia e l’apofonia. Metafonia o
metafonesi è in linea di principio uno sviluppo puramente fonetico, l’influsso di una
vocale su un’altra non immediatamente vicina: ad esempio in alcuni dialetti veneti, come
il padovano rustico, esiste una metafonia di chiusura, per cui una –i finale chiude la
vocale della sillaba precedente: si ha allora bon “buono”, plur. buni; sposo, plur. spusi;
tempo, plur. timpi; ninsóeo “lenzuolo”, plur. ninsúi, ecc. Ma fin qui la metafonia non ha
risvolti grammaticali, perché la desinenza di plurale è conservata. Diverso è il caso dei
dialetti emiliani e romagnoli, che hanno perso la –i finale e perciò distinguono il
singolare dal plurale con la sola metafonia: fiaur “fiore”, pl. fiur (da *fior, *fiuri). Nei
dialetti dell’Italia centro-meridionale si ha un’altra metafonia di chiusura, determinata
anche da –u finale: in questi dialetti si distingue infatti tra –o ed –u finali del latino (tipo
lat. canto “io canto” e cantus “il canto” che nell’Italia centromeridionale danno
rispettivamente canto e cantu, mentre l’italiano ha canto per entrambi). Ma in molti di
questi dialetti tutte le vocali finali sono passate oggi a -´; perciò il napoletano oggi
distingue tra russ´ ”rosso”(da rossu>russu) e ross´ ”rossa”(da rossa), cioè la metafonia
serve a distinguere il maschile dal femminile. Quindi nel napoletano odierno si hanno
nuove formazione del tipo nfus´ ”bagnato” (regolare, da infu¤sus) che al femminile fa
nfos´ in cui la –o- non è giustificata da alcuna ragione etimologica (dal latino infu¤sa si
dovrebbe avere ancora *nfus´). Dunque in un caso del genere la metafonia è uscita dai
suoi argini per diventare apofonia: l’alternanza della vocale interna ha acquistato valore
morfologico, esattamente come nel verbo delle lingue germaniche, dove si ha ingl. to
find, found, found o ted. finden, fand, gefunden. In queste lingue il procedimento
dell’apofonia si è applicato anche a verbi che etimologicamente non dovrebbero averla,
6
Per una trattazione più approfondita di queste leggi fonetiche si veda R. GUSMANI, Elementi di fonetica
storica delle lingue indoeuropee, cit., pp. 69-70, 106-109, 114-135.
23
come ted. schreiben, schrieb, geschrieben dal lat. scribere o ingl. to catch, caught, caught
che attraverso il franco-normanno risale in ultima analisi al lat. captiare.]
Con tutte queste scoperte susseguitesi in pochi anni, il panorama delle conoscenze in
campo indoeuropeo cambiò profondamente: si è visto come la favoletta scritta da
Schleicher (uscita nel 1868) sia profondamente diversa nell'aspetto delle parole da quella
di Hirt pubblicata (postuma) nel 1939, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano: è naturale
che la scienza progredisca in un lasso di tempo così lungo. Un po’ più sorprendente è
invece il constatare che praticamente tutte le leggi fonetiche che fanno la differenza tra le
due siano state scoperte prima del 1880, e quindi in teoria già in quell’anno qualcuno
avrebbe potuto riscriverla molto simile a quella di Hirt7; non solo, ma negli anni
successivi si verificò una battuta d'arresto, sembrava che ormai tutto quel che si poteva
dire di plausibile su questi argomenti fosse già stato detto. Comunque, negli anni
"ruggenti" per così dire, tra il 1875 e il 1880, soprattutto all'università di Lipsia si
sviluppò il movimento dei giovani studiosi detti Junggrammatiker, in italiano
neogrammatici. Capiscuola erano i già citati Brugmann e Osthoff, principale teorico fu il
germanista Hermann Paul: il principio che essi affermarono con la massima forza fu
l'ineccepibilità delle leggi fonetiche: "ogni mutamento fonetico, in quanto procede
meccanicamente, si compie secondo leggi senza eccezioni, cioè la direzione del
movimento fonetico è sempre la stessa in tutti i componenti di una comunità linguistica, a
meno che non subentri una divisione dialettale, e tutte le parole sulle quali il suono
sottoposto al movimento fonetico appare in uguali condizioni sono, senza eccezioni,
soggette al mutamento"8. Unica possibilità di deroga che i neogrammatici ammettevano
alle leggi fonetiche era l’analogia: essa in effetti agisce all’interno di paradigmi,
mantenendone l’unità anche contro la persistenza delle leggi suesposte. Un esempio
evidente si ha nel passaggio dall’italiano al latino: è legge fonetica che la e* breve latina in
sillaba aperta e accentata diventa ie, e nelle stesse condizioni la o* breve diventa uo. Così
dal lat. de*cem si ha dieci, da ho*mo si ha uomo. Allo stesso modo, da no*vus deriva nuovo,
dal verbo me*to si ha in italiano mieto. Ma in italiano abbiamo anche nuovissimo, o alla
seconda persona plurale mietete, che sono forme analogiche: in questi casi (siccome si
aggiungono dei suffissi, e l’accento si sposta) si dovrebbe avere secondo le leggi
fonetiche novissimo (che in realtà esiste in toscano, ed esisteva nell’italiano antico, ma
oggi non si usa più) e *metete, ma si preferisce regolarizzare secondo i normali paradigmi
della lingua. In buona parte questa dichiarazione dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche
era un atto di fede: a quel tempo, dopo che nel volgere di pochi anni si erano scoperte
tante nuove leggi che rendevano il panorama della ricostruzione indoeuropea di gran
lunga più razionale che in precedenza, era ragionevole sperare che anche le residue
oscurità sarebbero state presto dissipate. Così non fu, e ad esempio in una lingua come il
latino le leggi fonetiche, quando si riesce a formularle, ammettono sempre una quantità di
eccezioni che non si riesce a spiegare. Si può aggiungere che queste prese di posizione
suscitarono fra i contemporanei accese polemiche, su cui oggi si può anche sorvolare; è
certo però che i neogrammatici portarono al massimo grado di raffinatezza il metodo
della linguistica storico-comparativa, tanto che dopo di loro le novità di maggior rilievo
7
Va detto che lo stesso Hirt era un neogrammatico, ed anzi negli ultimi anni della sua vita, quando scrisse
la revisione di quella favoletta, era ormai un sopravvissuto.
8
Cfr. C. Tagliavini, Glottologia, p. 175.
24
in campo indoeuropeo derivarono più dalla scoperta di nuove lingue appartenenti a questa
famiglia (ittito, tocario, ecc.) che dalla ricerca di nuove leggi fonetiche: non che dopo il
1880 non si siano più trovate leggi fonetiche, anzi alcune risalgono ad anni recenti, ma
nessuna di queste ha l'impatto di quelle del periodo neogrammatico. Il filone di ricerca
inaugurato da Bopp, la comparazione indoeuropea, anche se non era del tutto esaurito
(non lo è neppure oggi) cominciava a dar segni di stanchezza: nel frattempo però si era
formato uno stuolo di linguisti, e questa scienza aveva assunto grande prestigio: nelle sue
memorie, il grande linguista Trubeckoj scrisse di aver deciso di dedicarsi allo studio della
linguistica perché “prima di tutto ero giunto alla convinzione che la linguistica sia l’unico
ramo dell’antropologia che ha un metodo veramente scientifico, e che gli altri rami di
questa scienza (folklore, storia delle religioni, storia della cultura) possono passare da uno
stadio di sviluppo ‘alchimistico’ ad uno più elevato solo quando, in quanto a metodo, si
indirizzeranno sul modello della linguistica.” Come si vede, era ben operante il
complesso d’inferiorità degli umanisti di fronte alle cosiddette scienze esatte, e la
linguistica dava invece l’impressione di avvicinarsi molto a quelle discipline: anche
l’insistere dei neogrammatici sulle leggi fonetiche si capisce come lo sforzo di rendere
sempre più esatta questa scienza. A mio avviso questi complessi d’inferiorità sono
ingiustificati: nella mia esperienza di linguista, piuttosto che delle leggi ineccepibili
(come le volevano i neogrammatici) ho trovato delle tendenze, perché la lingua è sempre
un prodotto umano, e l’uomo è dotato di libero arbitrio, e perciò può scegliere se seguire
l’onda od opporvisi. Se considerassimo scientifico solo ciò che è sottoposto a leggi
ineccepibili, tutte le discipline che si occupano dell’uomo (inclusa la medicina)
dovrebbero essere escluse dal novero delle scienze!
Comunque, l’affievolirsi
dell’interesse verso la ricerca in campo indoeuropeo provocò un ripensamento di tutta la
materia, nel quale in Europa si segnalò soprattutto il ginevrino Ferdinand de Saussure.
Brevi note aggiuntive a Saussure
A p. 20 dell’edizione francese si comincia dicendo qual è la materia della linguistica; il
capitolo seguente (p. 23) comincia chiedendosi qual è l'oggetto della linguistica. Che
differenza fa Saussure tra materia ed oggetto? proverò a fare un paragone. Immaginiamo
che un gruppo di persone si trovi per la prima volta di fronte ad un prato, e che tutti
comincino a guardarlo. Il prato è la materia sottoposta alla loro attenzione, ma non tutti
vedono le stesse cose. Se qualcuno di loro s’intende di botanica saprà riconoscere molte
specie che gli altri non distinguono, forse troverà alcune specie rare o particolari forme di
adattamento; se qualcuno è entomologo guarderà soprattutto gli insetti che popolano quel
prato; se qualcuno fa incetta di erbe alimentari o medicinali cercherà solo quelle; se
qualcuno ha la passione per i fiori vedrà innanzitutto quelli; chi non ha questi interessi o
queste competenze potrà cercare nel prato soltanto un angolo per sdraiarsi a suo agio.
Questi sono gli oggetti della ricerca: in altre parole, per conoscere l'oggetto d’una ricerca
bisogna sapere che cosa si vuol cercare, ed in questo senso si dice che è il punto di vista
che crea l’oggetto. Non credo invece che il Saussure sia così idealista da pensare che un
oggetto materiale esista solo in virtù del punto di vista dell’osservatore.
A p. 26 si accenna in modo ancora imperfetto al concetto di doppia articolazione del
linguaggio, che sarà poi divulgato da un continuatore di Saussure, André Martinet (nei
25
suoi Elementi di linguistica generale, alle prime pagine). Secondo questo linguista il
linguaggio umano ha la particolarità che ogni enunciato si può suddividere in unità
minime di significato (come dice anche Saussure) e poi in unità minime di suono, cioè in
fonemi (ed invece qui egli parla di sillabe). Per usare le parole dello stesso Martinet, § 1.8
dei suoi Elementi di linguistica generale, “se io soffro di dolori alla testa posso
manifestare questo fatto con delle grida; queste […] possono essere anche più o meno
volute e destinate a far conoscere le mie sofferenze a chi mi è vicino. Ma ciò non basta
ancora perché si abbia una comunicazione linguistica; ogni grido è inanalizzabile e
corrisponde all’insieme, inanalizzato, della sensazione dolorosa. La situazione è invece
completamente diversa se pronuncio la frase ho mal di testa: qui nessuna delle unità
successive ho, mal, di, testa corrisponde a qualcosa che il mio dolore ha di specifico, anzi
ognuna di esse può trovarsi in contesti diversi per comunicare fatti d’esperienza diversi”.
Teoricamente è immaginabile un sistema di comunicazione che utilizzi un enorme
numero di grida un analizzabili per comunicare le più diverse situazioni e necessità: ma
probabilmente sarebbe antieconomico, la nostra mente farebbe fatica ad immagazzinare
tutti questi segni diversi, e comunque le nostre capacità espressive sarebbero limitate.
Invece combinando alcune migliaia di unità come testa, ho, di, ecc. si riesce a comunicare
di più e meglio che con milioni di grida inarticolate diverse. Questa è la prima
articolazione del linguaggio: ma ognuna di queste unità è a sua volta scomponibile in
altre unità di carattere fonico: il suono iniziale di testa è ad esempio lo stesso che
compare all’iniziale di tenda, tamburo, ecc.; è questa la seconda articolazione. Per
Martinet gli elementi di prima articolazione sono i monemi (che non corrispondono alle
parole: ad esempio in andiamo ce ne sono due, la radice and- e la desinenza –iamo), che
nella linguistica americana sono detti invece morfemi; le unità di seconda articolazione
sono i fonemi. Il linguaggio umano in quanto tale possiede sempre questa doppia
articolazione, vale a dire è scomponibile in unità minime di significato e poi in unità
minime di suono; ma la doppia articolazione non comprende tutto il linguaggio, lo stesso
Martinet osserva che esistono alcuni tratti soprasegmentali, che cioè non si prestano ad
essere scomposti nello stesso modo: in italiano esiste ad esempio l’accento e
l’intonazione di frase (si pensi alle frasi interrogative, che necessitano di un’intonazione
particolare).
Alle pp. 23-32 Saussure distingue, tra l’insieme dei fenomeni linguistici, il linguaggio, la
lingua e la parole. Per linguaggio s’intende la capacità di parlare propria di tutti gli esseri
umani: perciò si parla ancora oggi di universali del linguaggio, ovvero di leggi valide per
tutte le lingue del mondo. Col termine lingua (in francese langue) egli designa una
qualsiasi lingua storica; invece la parole è la manifestazione concreta della lingua.
Secondo il traduttore di Saussure, Tullio De Mauro, questo termine parole è intraducibile,
perché in italiano parola significa quasi sempre un solo vocabolo, eccetto in usi antichi o
in locuzioni fisse come la parola di Dio, il dono della parola, dare o prendere la parola,
ecc. Per parole Saussure intende la realizzazione pratica, materiale della lingua: dunque
se la lingua è un codice, indispensabile perché si realizzi la facoltà di linguaggio propria
di ogni uomo, la parole è il messaggio, è attuazione e messa in opera di quel codice.
Detto in altro modo: la lingua in senso saussuriano (ma anche nel nostro parlare corrente)
è qualcosa d’immateriale, non percepibile coi sensi: tutti i discorsi che facciamo o
sentiamo sono atti di parole, cioè dei messaggi in lingua italiana, ma nessuno di essi
costituisce la lingua italiana, e nemmeno la somma di tutti questi discorsi ci dà la lingua
26
italiana. Dunque il Saussure pone come oggetto principale della linguistica la lingua,
intesa nel senso di cui sopra: il linguista, pur avendo sotto gli occhi soltanto la parole, nel
suo studio deve mirare alla lingua.
Alle pp. 97-103: va osservato che i curatori del Cours furono molto fedeli nel riportare le
parole ed i concetti di questo linguista svizzero, ma non rispettarono affatto la
disposizione degli argomenti: perciò in questo capitolo prima si afferma che la lingua non
è una nomenclatura, ma poi (p. 100) ci si limita a dire che è arbitrario il legame tra
significante e significato, e si trascura il fatto che è arbitrario anche il legame tra il
concetto (o significato) e la realtà esterna, extralinguistica. Se fosse arbitrario solo il
legame tra significante e significato, ma i significati fossero naturali (cioè non arbitrari),
si tornerebbe alla concezione delle lingue come nomenclature, e certamente non era
questo il pensiero di Saussure. Perciò, per completare quanto è scritto a p. 100, si può dire
che non solo non esiste un rapporto interiore tra l'idea di "sorella" e la sequenza <soeur>
[sör] che la rappresenta in francese; ma anche il significato di questa parola è arbitrario,
ed infatti le due parole in francese ed italiano non corrispondono perfettamente: nella
nostra lingua esiste il termine suora che ricopre alcuni significati (sia pur marginali) di
soeur. Ma c'è di più: in altre lingue del mondo i concetti relativi ai termini di parentela
sono suddivisi diversamente che nelle lingue principali dell’Europa. In turco un solo
termine, kardeß, sta per “fratello” e “sorella”; in cinese per la stessa area semantica
esistono quattro parole, perché xiõng significa “fratello maggiore”, dì “fratello minore”, zi
“sorella maggiore”, mèi “sorella minore”; nel malese di Singapore i termini si riducono a
tre, abang “fratello maggiore”, kakak “sorella maggiore”, e adik “fratello/sorella
minore”9; nel Tok Pisin, pidgin della Nuova Guinea a base inglese, esistono le parole
brata e susa, evidentemente derivate dall'ingl. brother e sister, che però, per influsso
delle lingue indigene, hanno profondamente modificato il valore originario: brata
significa "fratello (o sorella) dello stesso sesso", mentre susa si usa per "fratello (o
sorella) di sesso opposto". Dunque una stessa realtà come quella dei rapporti di parentela
(che si ritrova in qualsiasi comunità umana) può essere analizzata, in culture diverse, con
concetti diversi e non sovrapponibili. [Sulla base di osservazioni di questo genere, negli
anni Venti del Novecento i linguisti americani Whorf e Sapir elaborarono l’ipotesi
secondo cui la percezione del mondo che noi possediamo sarebbe influenzata (o
addirittura determinata) dalla nostra lingua nativa.]
P. 114 ss., sincronia e diacronia: durante il XIX secolo la linguistica era stata quasi
interamente assorbita dalla diacronia, cioè aveva studiato quasi soltanto le evoluzioni
delle lingue nel tempo, e lo stesso Saussure si era impegnato in questa direzione. Ma in
questo modo si era andati alla ricerca di mutamenti fonetici molto particolari,
spezzettando così la ricerca e perdendo di vista l’insieme. In queste lezioni Saussure
afferma con forza la priorità della sincronia negli studi linguistici: solo attraverso la
sincronia si riesce a percepire nella sua realtà quel sistema che è la lingua.
BLOOMFIELD
9
V. ORIOLES, Lingua e visione del mondo, “Notiziario dell’Università degli Studi di Udine” 1995, n. 4,
pp. 34-43
27
Leonard Bloomfield (1887-1949) ebbe un enorme successo oltreoceano, tanto da
diventare il massimo caposcuola della linguistica americana nella prima metà del XX
secolo, e per decenni in America fu considerato il più grande linguista di tutti i tempi: al
contrario in Europa non raccolse consensi, e di solito nelle storie della linguistica scritte
da autori europei, quando non è omesso del tutto, è alquanto maltrattato10; ma penso che
oggi, deposti gli entusiasmi e le animosità, sia opportuno cercare di capire i motivi del
suo successo, comprendere che cosa apprezzassero in lui i contemporanei, passando oltre
alla repulsione che ispirano anche a noi alcune sue affermazioni e certe sue crudezze. Fu
allievo dei neogrammatici, e la sua opera capitale è il manuale intitolato Language,
pubblicato una prima volta a New York nel 1933, e poi a Londra nel 1935 (con qualche
modifica); lo si può leggere anche in traduzione italiana, Il Linguaggio, ed. Il Saggiatore,
Milano 1974. Già nella prefazione alla prima edizione egli enuncia alcuni suoi princìpi
fondamentali: "Questo libro è una versione rivista del mio Introduction to the Study of
Language, apparso nel 1914 ... La nuova versione è assai più estesa della prima, perché
nel frattempo la scienza del linguaggio è progredita e anche perché sia gli studiosi che il
pubblico colto attribuiscono ora un maggior valore alla comprensione del linguaggio
umano". Alcune righe più sotto, uno dei punti chiave: "nel 1914 ho basato questa fase
dell'esposizione sul sistema psicologico di Wilhelm Wundt, allora largamente accettato.
Ma da allora ci sono stati molti cambiamenti nella psicologia e, comunque, abbiamo
imparato quel che uno dei nostri maestri sospettava già trent'anni or sono, e cioè che è
possibile intraprendere lo studio del linguaggio senza far riferimento ad alcuna teoria
psicologica; così facendo garantiamo i nostri risultati e li rendiamo più significativi per i
ricercatori di discipline affini. In questo libro ho cercato di evitare una simile dipendenza:
solo a fini di chiarimento ho indicato, qua e là, come differiscano nella loro
interpretazione le due principali correnti psicologiche attuali. I mentalisti vorrebbero
integrare i fatti linguistici dandone una versione in termini mentali, versione che varia a
seconda delle varie scuole di psicologia mentalistica. I meccanicisti esigono che i fatti
vengano presentati senza minimamente presupporre alcuno di questi fattori ausiliari. Ho
cercato di soddisfare questa esigenza non soltanto perché credo che il meccanicismo sia la
forma necessaria per il discorso scientifico, ma anche perché un'esposizione che si regga
da sola è più solida e può essere esaminata più facilmente di un'altra che qui e là è
puntellata da un'altra e mutevole teoria." Qui si fa allusione ad una teoria psicologica di
Wundt (che probabilmente pochi di noi conosceranno) ed anche ad altre teorie
concorrenti: cerchiamo di capire a cosa vuole arrivare il nostro autore. Lo psicologo
Wundt (1832-1920) insegnò a Lipsia dal 1875 in poi, dunque fu collega di Brugmann e
Osthoff, e nelle sue idee sentì l'influenza del clima culturale neogrammatico-positivista in
cui operava; a loro volta i neogrammatici si avvalsero delle sue teorie ogniqualvolta
dovettero spiegare con la psicologia alcuni fatti di linguaggio. Ma che bisogno c'è di
citare una teoria psicologica (e di intervenire in una polemica tra scuole psicologiche) già
10
Si veda ad esempio quanto scrive G.C. LEPSCHY, La linguistica del Novecento, Bologna 1992, p. 76:
“Oggi queste posizioni sono generalmente screditate e non risulta ben chiaro come sia stato possibile che,
per quasi tre decenni, i linguisti abbiano seriamente pensato di dire qualcosa di interessante sul linguaggio,
e sui fenomeni psicologici ad esso inestricabilmente pertinenti, in base a una impostazione quale sarebbe
difficile immaginare più incongrua e disadatta all’oggetto studiato.”
28
nella prefazione ad un manuale di linguistica? Anche nelle prime pagine del Cours di
Saussure (p. 21 e p. 30 del testo francese) si era presentato il problema di come separare
la linguistica dalla psicologia: ma il grande linguista ginevrino l'aveva risolto con la sua
distinzione di langue e parole, in cui la psicologia influenzerà soltanto le esecuzioni
individuali, cioè i singoli atti di parole, ma non quel codice che è la lingua; perciò il
linguista, operando sulla lingua, si affranca da ogni sudditanza verso gli psicologi. Una
soluzione del genere non poteva essere accettata da Bloomfield, perché quest'ultimo
aveva una mentalità fortemente materialista, e quindi gli poneva grosse difficoltà
ammettere l'esistenza di un'entità non percepibile coi sensi quale è la lingua.
Soffermiamoci su questo argomento: ciò che percepiamo coi sensi è sempre la parole,
non la lingua: noi percepiamo (e produciamo) continuamente un grande numero di atti di
parole in lingua italiana, ma la lingua italiana non è racchiusa in nessuno di questi atti, e
nemmeno nella loro somma, perché se la lingua è un codice, la somma di infiniti
messaggi non equivarrà mai al codice. Dunque noi non vediamo né sentiamo la lingua
italiana, eppure essa esiste certamente, altrimenti non riusciremmo a capirci! Ma per un
materialista convinto è difficile accettare tutto ciò: di conseguenza, Bloomfield cercò di
costruire una linguistica fondandosi solo su ciò che è percepibile, cioè (in termini
saussuriani) sulla parole. Aggiungo però che nella prefazione il nostro autore si
contraddice, perché prima dichiara di non volersi appoggiare a nessuna teoria psicologica,
ma poi appoggia la psicologia meccanicista: in realtà era un seguace del behaviourismo o
comportamentismo, una corrente che voleva creare una psicologia oggettiva escludendo
ogni ricorso all'introspezione, e fondandosi solo sul comportamento esterno, analizzato in
termini di stimolo e risposta. Non è certo un caso isolato: in tutti i casi che conosco, chi
proclama di voler fare una scienza neutra, in realtà (consapevole o no) ci vuole
ammannire la sua visione del mondo spacciandola per scientifica. Comunque vediamo in
che modo procede il nostro Autore: a p. 27 dell'edizione italiana egli comincia a proporre
un esempio di avvenimento linguistico nei termini che seguono. "Immaginiamo che Jack
e Jill [due nomi qualunque] stiano camminando lungo un sentiero. Jill ha fame, vede una
mela su un albero, produce un rumore con la laringe, la bocca e le labbra. Jack salta lo
steccato, si arrampica sull'albero, coglie la mela, la porta e gliela mette in mano. Jill
mangia la mela." Poi Bloomfield fa di questo evento un'analisi che si può riassumere così:
Jill sente uno stimolo, ha fame, le onde luminose della mela colpiscono i suoi occhi,
desidera avere la mela: questo è lo stimolo S. Lo stimolo provoca una reazione: da sola
Jill potrebbe forse cogliere la mela, ammesso che ne sia capace, e questo costituirebbe la
reazione R (reazione concreta); tutti gli animali sono soggetti a stimoli e reazioni di
questo tipo, ma se non sanno procurarsi il cibo restano affamati. Jill invece ha un'altra
risorsa: chiedere la mela a Jack, e questa è detta da Bloomfield "reazione linguistica
sostitutiva", r. Per chi ascolta, questo non è uno stimolo concreto S (come sarebbe il
desiderare la mela), ma uno stimolo sostitutivo s, che può produrre una reazione non
linguistica R (andare a prendere la mela). Perciò, anziché la reazione non linguistica S -----> R, si ha la reazione mediata dal linguaggio S ------> r ...... s ------> R. Così il
linguaggio consente ad una persona di produrre una reazione R quando è un'altra persona
a ricevere lo stimolo S. La divisione del lavoro, e con essa tutto il funzionamento della
società umana, si deve quindi al linguaggio. Fin qui il nostro Autore: e francamente
questo esempio ci lascia insoddisfatti, perché se il linguaggio fosse tutto qui, dovremmo
29
dire che molte specie animali sanno parlare, visto che per una comunicazione così
elementare basta molto meno di quel che è il linguaggio umano. Anche un bambino di un
anno è capace di indicare una mela e far capire che la vuole: eppure deve ancora imparare
a parlare! Si ha la netta impressione che questo Autore svaluti di proposito l'uomo, non
voglia riconoscere ad esempio la peculiarità del linguaggio umano di essere doppiamente
articolato: alle pp. 32-33 scrive: "il linguaggio umano differisce dagli atti segnici degli
animali, anche se questi usano la voce, per la sua grande differenziazione. I cani, per
esempio, producono solo due o tre tipi di rumori - e cioè abbaiano, ringhiano, e
guaiscono: un cane può indurre un altro ad agire servendosi soltanto di questi pochi
segnali differenti. I pappagalli possono produrre un gran numero di suoni diversi, ma
apparentemente non rispondono in modo diverso ai diversi suoni. L'uomo, invece,
produce molti tipi di rumori vocali sfruttando appieno la loro varietà: sottoposto a
determinati stimoli egli produce determinati suoni vocali, ed i suoi compagni, udendo
questi suoni, reagiscono in modo appropriato. Per farla breve, nel linguaggio umano,
suoni diversi hanno significati differenti." Anche nel gatto e nel cane suoni differenti
hanno significati differenti, ma la loro diversità rispetto al linguaggio umano non è solo
quantitativa (una minore varietà di suoni), è di organizzazione generale, perché questi
suoni non sono scomponibili in unità minime di significato (quali sono le parole, o più
precisamente i morfemi, che in italiano non sono solo i vocaboli con un significato
lessicale, ma anche le desinenze) e unità minime di suono (i fonemi). Ma il punto
culminante della meccanicizzazione bloomfieldiana dell'uomo si trova alle pp. 38-39:
l'Autore, sempre interessato ad una spiegazione psicologica del linguaggio, afferma che
non si riesce a prevedere gli atti linguistici: anche nell'episodio di Jack e Jill non si può
predire se Jill parlerà, né quali parole dirà. Perciò, "questa immensa variabilità ha dato
luogo a due teorie sul comportamento umano, compreso il linguaggio. La teoria
mentalistica, che è di gran lunga la più antica e ancora prevale sia nella concezione
corrente che tra gli scienziati, suppone che la variabilità del comportamento umano sia
dovuta all'interferenza di un fattore non fisico, uno spirito, o volontà, o mente [...] che è
presente in ogni essere umano. Questo spirito, secondo la concezione mentalistica, è
completamente differente dalle cose materiali e, di conseguenza, è soggetto a un diverso
tipo di causalità, o forse, non lo è affatto. Il fatto che Jill parli, e quali parole usi, dipende
allora da qualche atto della sua mente o volontà, e siccome questa mente o volontà non
segue i tipi di successione del mondo materiale (sequenze di cause e effetti), noi non
siamo in grado di predire le sue azioni. La teoria materialistica (o, meglio,
meccanicistica) suppone che la variabilità del comportamento umano, compreso il
linguaggio, sia dovuta solo al fatto che il corpo umano è un sistema estremamente
complesso. Le azioni umane, secondo la concezione materialistica, fanno parte di
sequenze causali esattamente simili a quelle che osserviamo, per esempio, nella fisica e
nella chimica. Il corpo umano, tuttavia, è una struttura così complessa che persino un
mutamento relativamente semplice, come per esempio l'urto sulla retina di onde luminose
provenienti da una mela rossa, può avviare catene di conseguenze molto complicate, e
una differenza molto piccola nello stato del corpo può tradursi in una grande differenza
nella risposta alle onde luminose. Saremmo in grado di predire le azioni di una persona
(per esempio, se un certo stimolo la farà parlare, e, in caso affermativo, le parole esatte
che pronuncerà) solo se conoscessimo l'esatta costituzione del suo corpo in quel
30
momento, o, il che è lo stesso, se conoscessimo esattamente la costituzione del suo
organismo in qualche stadio precedente - per esempio alla nascita o prima - e se avessimo
una registrazione di tutti i cambiamenti avvenuti in seguito in esso, compresi tutti gli
stimoli che lo hanno colpito." In queste pagine Bloomfield ha travalicato di gran lunga i
confini della linguistica: d'altra parte egli non fornisce dimostrazione di queste sue idee, e
perciò quel che afferma si può definire un postulato, o un atto di fede (fede materialista,
s’intende); ed è singolare che proprio lui, che si professa spavaldamente uomo di scienza
e sembra disprezzare tutto ciò che non rientra nelle dimostrazioni scientifiche, sia poi
tanto indulgente con se stesso da porre alla base della sua teoria un atto di fede. A
distanza di tanti decenni da quando questa pagina fu scritta, appaiono fin troppo evidenti i
limiti d’una simile impostazione. La teoria che egli enuncia potrebbe essere trattata con
ironia: fra l'altro, in essa si nega il libero arbitrio, ed a questo proposito saremmo
invogliati a mettere in atto il cosiddetto “esperimento di Koestler”: se qualcuno sostiene
che non esiste il libero arbitrio, e che perciò non esiste responsabilità nelle azioni umane,
provate a dargli un bel calcio negli stinchi: dalla sua reazione si capirà che anch’egli, pur
negandolo, crede nel libero arbitrio (infatti se non esistesse il libero arbitrio non avrebbe
senso prendersela con chi ci dà un calcio negli stinchi, sarebbe come arrabbiarsi con una
tegola che cade); dunque tutti gli uomini, anche quelli che si dichiarano materialisti o
deterministi, si comportano come se credessero nel libero arbitrio, e quindi nella volontà
umana, nella responsabilità, in altre parole nell’anima. Lo stesso “esperimento” si
potrebbe volgere in positivo: tutti noi cerchiamo l’affetto di altre persone, ma facendo
questo presupponiamo l’esistenza del libero arbitrio: non avrebbe alcun senso cercare
l’affetto di meccanismi determinati da leggi di causa ed effetto, come potrebbe essere un
frigorifero o un computer. Potrei aggiungere che in tutte le società umane, dagli
Eschimesi ai Baluba, e in tutte le epoche a noi conosciute, il comportamento umano ha
sempre presupposto questo dato, la libertà umana, che non si riesce a dimostrare
filosoficamente ma fa parte del sentire comune; è mai possibile che tutti gli altri uomini
sbaglino, ed abbiano ragione questi pochi materialisti (o altri che come loro hanno la
tendenza ad elucubrare teorie), che poi non dimostrano nulla neppure loro, e per di più
non sono coerenti con se stessi? Già, perché ad essere maligni si potrebbe osservare che
di solito sono proprio i materialisti quelli che più di tutti amano il potere: ma se non
ammettono neppure una volontà e una personalità dell’uomo, come fanno ad ammettere
che esista il potere, entità ancor meno materiale, che non si percepisce coi sensi e spesso è
molto difficile da localizzare anche col ragionamento? Credo però che anziché dilungarsi
a confutare affermazioni che esulano dalla linguistica e di cui Bloomfield non fornisce la
dimostrazione sia meglio cercar di capire a cosa gli serva porre questi postulati. Da
quanto scrive a p. 44 sembra che secondo lui sia possibile predire almeno statisticamente
i comportamenti umani, e quindi anche il linguaggio: "se ne valesse la pena e risultasse
possibile registrare tutte le espressioni foniche di una grande comunità, saremmo senza
dubbio in grado di predire quante volte un dato enunciato come Buon giorno o Ti amo o
Quanto costano le arance oggi? verrebbe pronunciato entro un numero fisso di giorni".
Anche qui siamo ben lungi dall'essere soddisfatti, perché non ci sembra che si possa
esagerare la portata della predicibilità statistica delle azioni umane: in fondo l'uomo,
proprio perché intelligente, è capace di reagire in modo nuovo e inatteso, ma appropriato,
a situazioni nuove in cui si venga a trovare, e queste situazioni nuove sono innumerevoli;
31
e poi un mondo in cui tutto il comportamento umano fosse strettamente prevedibile
sarebbe un mondo agghiacciante, da suicidio, ed invece è proprio questa imprevedibilità
che dà gusto alla vita. In realtà è opportuno soffermarsi su queste idee materialistiche di
Bloomfield non tanto per approvarle o confutarle, ma soprattutto perché poi esse hanno
grande importanza per capire il suo metodo. Va detto che queste premesse ideologiche
(oltretutto, di un’ideologia che a quel tempo era “alla moda” e largamente condivisa: non
a caso negli stessi anni in Europa fiorivano le ideologie totalitarie) occupano ben poco
spazio nell'economia di questo libro: superate quelle poche pagine iniziali, il volume si
rivela un eccellente manuale di tutta la linguistica degli Anni Trenta, spazia in tutti i
campi, dalla ricostruzione indoeuropea alla geografia linguistica (cioè la compilazione di
atlanti linguistici e problemi connessi), dalla dialettologia olandese alla sociolinguistica;
porta esempi da un grandissimo numero di lingue, molte delle quali allora erano ben poco
accessibili: tagalog (lingua principale delle Filippine), giavanese, molte lingue amerindie,
ed anche i pidgin ed i creoli; tratta ampiamente e con buon metodo della fonologia
(precede di alcuni anni i Fondamenti di fonologia di Trubeckoj e quindi, al paragone, è
meno raffinato, ma pur sempre rispettabile), ed alla sintassi dedica molto più spazio di
qualsiasi linguista europeo suo contemporaneo. Diciamo ora del suo metodo: va premesso
che la preoccupazione fondamentale dei linguisti americani del suo tempo era di fissare
per iscritto le lingue amerindie prima che scomparissero: ed era un compito urgente ed
altamente meritorio, perché già alla fine dell’Ottocento molte di esse erano minacciate di
estinzione, molte si sono spente nel XX secolo, moltissime hanno oggi un numero di
parlanti estremamente scarso. Ma affrontare queste lingue "esotiche" offre difficoltà
enormi, di cui tuttora anche i linguisti che non si sono cimentati in questo campo stentano
a rendersi conto: nulla di simile alle difficoltà che s’incontrano con lavori su dialetti
europei, o anche su lingue di stampo prettamente indoeuropeo come il lituano; era dunque
necessario escogitare qualcosa di nuovo. Bloomfield cercava di descrivere una lingua
partendo da dati esclusivamente esterni, usando il metodo della commutazione. Si può
citare un esempio (tratto per la verità da un suo allievo, Zellig S. Harris): secondo lui, uno
straniero che impara l'inglese può all'inizio non distinguere tra le vocali di man e men, le
potrebbe interpretare come due varianti libere d'uno stesso fonema, però si accorgerà
dello sbaglio inserendo la prima variante in parole come ten o pen, e vedrà che non
figurano negli stessi contesti (questi studiosi non dicono “non hanno lo stesso significato”
perché preferiscono evitare di ricorrere al significato, entità che non si presta ad una
classificazione rigida: lo stesso Bloomfield a p. 106 scrive con rammarico: "finché
l'analisi del significato rimarrà fuori delle possibilità della scienza, l'analisi e la
registrazione delle lingue resteranno un'arte o un frutto d'abilità pratica"). Come esempio
di analisi grammaticale si può citare il seguente, ricavato ancora da Harris: in una frase
inglese come he is a gentlemanly fellow "egli è un tipo signorile", il segmento
gentlemanly è in primo luogo determinato come appartenente alla classe A (cioè degli
aggettivi) perché è sostituibile con fine, con narrow minded, ma non con largely o con
well. Poi, tra le segmentazioni possibili di gentlemanly, quella in gentle + manly è
respinta, anche se in inglese esistono sia gentle che manly, ed è invece accettata quella in
gentleman + ly, unicamente in base al tipo di accentazione. Vedendo questi esempi, ad un
linguista di scuola europea pare che si rendano troppo complicate le cose semplici: quale
straniero si metterà a provare le presunte varianti di man e men in parole come ten? e
32
d'altra parte, proprio perché si sa che gentlemanly è aggettivo, è scontato in partenza che
può essere sostituito da fine e non da well. Quanto alla segmentazione di gentlemanly,
sappiamo da un pezzo che esiste in inglese questo suffisso -ly, che è presente nella
coscienza dei parlanti, al punto che con esso si possono creare parole nuove. Ma per un
bloomfieldiano non si può parlare di coscienza dei parlanti, anzi nemmeno di coscienza
tout court: il linguista non potrà che esaminare le manifestazioni esterne del linguaggio
(la parole di Saussure) e da queste trarre tutte le conclusioni. Dunque i linguisti di questa
scuola cercavano di raccogliere un corpus di testi della lingua che studiavano, che fosse
quanto più ampio possibile, e solo da questo cercavano di ricavare ogni notizia, sempre
coi metodi commutativi che ho sommariamente indicato. Va detto che con le lingue
esotiche non è un metodo disprezzabile (ed in effetti, questo metodo distributivocommutazionale era stato concepito soprattutto per queste lingue): prima, spesso i
linguisti cercavano di imparare la lingua che volevano descrivere, e poi ne scrivevano la
grammatica in base a quel che avevano imparato. Ma in questo modo essi finivano
inconsciamente per cercare (e quindi trovare) in quella lingua le strutture grammaticali a
cui erano abituati; e viceversa le strutture esistenti nella lingua indigena, ma inattese
perché sconosciute alle lingue europee, finivano con lo sfuggire alla ricerca. Quando si
affrontano lingue esotiche, di solito si trova che i parlanti non hanno un'idea della
correttezza grammaticale quale potremmo avere noi: spesso la lingua esotica che si studia
non è standardizzata, il più delle volte ha scarso prestigio anche agli occhi degli indigeni;
perciò questi ultimi tendono ad approvare entusiasticamente qualsiasi tentativo dello
straniero che cerca di parlare come loro, e il risultato è che poi questo non sarà
incoraggiato a correggersi ed a migliorare le sue conoscenze della lingua. Un buon
esempio che si può fare riguardo alle difficoltà che incontra il linguista nell'affrontare
lingue esotiche, e nel trovare quindi strutture completamente inattese e insospettabili, è
fornito dal somalo. In questa lingua esistono degli indicatori di fuoco, cioè particelle che
indicano se il fuoco della frase sta nel sintagma nominale o nel sintagma verbale. Il fuoco
della frase per i linguisti è l'informazione nuova che si fornisce pronunciando una certa
frase: in italiano lo si può esprimere (facoltativamente) con l'ordine delle parole: così ad
esempio non è esattamente lo stesso dire: "Giuseppe è arrivato" oppure "è arrivato
Giuseppe"; la prima frase andrà meglio se stiamo proprio parlando di lui, magari lo
stiamo aspettando, e la nuova informazione sta nel fatto che è arrivato. Se invece ad
esempio stiamo aspettando numerosi ospiti, e qualcuno ha suonato al campanello, la
nuova informazione sarà proprio dire "è arrivato Giuseppe" (non Carlo, non Maria). In
somalo queste, che per noi sono sfumature di significato, sono espresse da particelle
apposite, obbligatorie. Non sono grammaticali per i somali frasi come *wiilkii moos
cunay, lett. "ragazzo-il banana ha-mangiato", oppure *wiilkii yimid, lett. "ragazzo-il èvenuto": è necessario aggiungere gli indicatori di fuoco, che sono baa o ayaa se il fuoco
sta nel sintagma nominale, waa se il fuoco sta nel sintagma verbale. Perciò, dopo una
domanda come waa yimid? "chi è venuto?" si risponderà wiilkii baa yimid “è venuto il
ragazzo”, lett. “ragazzo-il FUOCO è-venuto”; se invece prima ci si è chiesti: wiilkii
muxuu sameeyay? "il-ragazzo che-cosa ha-fatto?", la risposta sarà wiilkii moos waa
cunay, "il ragazzo ha mangiato una banana", lett. “ragazzo-il banana FUOCO hamangiato”. A complicare le cose si aggiunga che in somalo questi indicatori di fuoco
normalmente si contraggono con le parole vicine: baa e ayaa si fondono con la parola che
33
precede, riducendosi ad -aa (ma si contraggono anche coi pronomi suffissi, perdendo
stavolta la vocale); invece waa si unisce solo ai pronomi, ad esempio col pronome di
terza persona diventa wuu11. Non c'è da stupirsi se i primi studiosi di somalo hanno
faticato molto prima di poter spiegare queste funzioni grammaticali; tanto più che
generalmente i somali sono molto tolleranti con lo straniero che parla la loro lingua, ad
essi sembra già un miracolo che qualcuno conosca i vocaboli essenziali, e non gli fanno
rilevare gli errori fonetici o sintattici. Dunque in casi di questo genere è vero che non ci si
può affidare alla coscienza dei parlanti perché in realtà il parlante (quello che scrive la
grammatica) è un linguista, che in qualche modo sa esprimersi in una lingua esotica ma
non ne ha una conoscenza nativa e quindi ciò che egli riesce a descrivere in base alle sue
intuizioni è spesso poco attendibile: è molto più prudente fondarsi sui dati oggettivi che si
trovano raccogliendo un corpus esteso. Raccolto questo corpus, si farà tabula rasa di tutti
i nostri presupposti e di tutti i nostri schemi grammaticali, e si affronteranno i testi con un
metodo che sia il più oggettivo possibile. Bisogna precisare che pubblicare dei testi in una
lingua esotica pressoché sconosciuta è opera altamente meritoria (come si è detto), ma
estremamente faticosa e ben poco gratificante; è storicamente comprensibile che, per
spingere i colleghi ad un lavoro simile, Bloomfield abbia dovuto sostenere che solo
questa è l’opera valida per un linguista. Certamente poi l’osservare una lingua in azione
può riservare delle sorprese anche ai parlanti nativi: ricordo lo stupore con cui un mio
collega, romano di nascita e dialettofono, mi raccontò di aver scoperto, tramite delle
registrazioni, che in romanesco oltre al pronome dimostrativo sto, esiste un pronome so
(che probabilmente non è solo una variante dell’altro, ma deriva dal lat. ipse, mentre
l’altro è da iste); anche la coscienza linguistica del parlante nativo non è perfetta, già
Saussure aveva osservato che la lingua nella sua interezza esiste soltanto nella massa.
D’altra parte dubito che il metodo commutazionale sia applicabile integralmente ed in
esclusiva: dalla mia esperienza risulta che un qualunque testo registrato su nastro in una
lingua esotica, se non è immediatamente trascritto e tradotto letteralmente parola per
parola con l'aiuto di informatori nativi, non è utilizzabile; solo dopo aver compiuto questo
lavoro sul campo, si potranno cominciare le altre analisi (commutazionali o d'altro
genere), in modo da ricavare norme grammaticali; ed anche così il lavoro che si svolge a
tavolino non è per nulla facile. Quel che escludo è che si possa trattare una lingua esotica
moderna come se fosse l'ittito o l'ugaritico, lingue scritte dell'antichità di cui possediamo
un discreto corpus in iscrizioni o in tavolette: la lingua scritta è per sua natura più
standardizzata, e quindi più abbordabile per il linguista, rispetto alla lingua parlata,
soprattutto se quest’ultima è parlata da popoli esotici in cui la cultura orale è ancora viva.
Per decenni, tra quanti facevano indagini linguistiche sul campo vi fu contrasto fra gli
studiosi di scuola europea che partivano con un questionario (cioè facevano tradurre agli
informatori parole o frasi stabilite in anticipo) e studiosi americani che si preoccupavano
di raccogliere testi. Certo sono segnalati dei casi di società in cui il questionario è
inapplicabile12; quando si vuole studiare invece un dialetto di cui è facile avere una buona
11
Cfr. A. PUGLIELLI, Sintassi della lingua somala, "Studi Somali" 2, Roma 1981, pp. 5 ss.
P. MÜHLHÄUSLER, nel suo volume Pidgin & Creole Linguistics, Oxford 1986, a p. 41 descrive così il
fallimento d'una sua inchiesta coi questionari: "when I first set out to undertake linguistic fieldwork on
Tok Pisin of Papua New Guinea, I had carefully prepared a questionnaire designed to test speaker's
intuitions about a number of constructions. These questionnaires ended up as a fire over which a billy of
12
34
competenza (ad esempio un dialetto italiano) il questionario può essere più d’impaccio
che di aiuto; in generale si può comunque dire che è ragionevole cercar di usare entrambi
i sistemi, raccogliere cioè dei testi liberi e insieme domandare come si traducono
determinate parole o frasi; con informatori addestrati è possibile fare di più, ad esempio
chiedere se è ben costruita o no una certa frase, se sono possibili determinate variazioni;
ma anche in questi casi il confronto col materiale raccolto in testi liberi è consigliabile.
CHOMSKY
Quel che si dirà di Noam Chomsky in queste pagine non sarà certo sufficiente ad esporre
in maniera sintetica il suo pensiero, né a far capire il suo metodo, né a dare
un’indicazione delle principali sue tematiche: il fatto è che questo linguista, ritenuto il più
grande fra i viventi, ha elaborato una teoria estremamente complessa, che è in evoluzione
continua e perciò non è affatto conclusa. Per dare un’idea approssimativa del suo pensiero
dovrei dedicargli l’intero corso, e forse non basterebbe: alcuni colleghi lo fanno, ma
personalmente non mi pare che sia il caso, perché resto dell’opinione che
metodologicamente sia meglio usare molta osservazione e poco ragionamento piuttosto
che il contrario; e questo Autore, pur acutissimo, pare privilegiare invece proprio
l’introspezione, la ricerca sulla lingua che si conosce meglio. Ma d’altra parte non posso
negare il grande influsso di questo Autore sulla linguistica d’oggi, né l’acutezza di
moltissime sue osservazioni; perciò, non potendolo trascurare, cercherò di sfiorare appena
le sue principali tematiche del passato, e se qualcuno vorrà approfondire potrò indicare
una bibliografia13.
Questo linguista era allievo di Zelig S. Harris, uno dei più fedeli allievi di Bloomfield, e
la sua formazione fu tutta bloomfieldiana, ma ben presto insorse contro i limiti della sua
scuola, in aperta polemica. Notò infatti che con quel metodo non era possibile generare
frasi, si poteva solo analizzare frasi costruite da altri; ma invece il parlante è
perfettamente in grado di costruire nuove frasi. Contrariamente a quanto pensava
Bloomfield, Chomsky osserva che il parlante di una lingua è perfettamente in grado di
dire se una frase è ben formata o mal formata, anche se non l’ha mai sentita prima:
secondo lui, è probabile che il parlante inglese nella sua vita normale non si sia mai
imbattuto in frasi come:
a) look at the cross-eyed elephant
b) look at the cross-eyed kindness
c) look at the cross-eyed from
tea was made. I had come to realize that asking questions about decontextualized isolated sentences was
no more regarded as a meaningful activity by my informants than asking random speakers in a Western
speech community what colour skunks prefer. The main difference is that Western people feel obliged to
answer even such questions, whereas most Papua New Guineans do not, unless they belong to a culture
where question-answering is socially mandatory, in which case they tend to provide those answers they
expect the researcher to want to hear."
13
Ad esempio A. RADFORD, La sintassi trasformazionale: introduzione alla teoria standard estesa di
Chomsky, ed. Il Mulino, Bologna 1983.
35
eppure, chiunque è in grado di percepire che la prima frase è ben formata14, la seconda è
molto strana, la terza è inconcepibile. D’altra parte negli anni Cinquanta, quando
Chomsky cominciò a lavorare, prendevano consistenza le critiche alla teoria
dell’apprendimento di Bloomfield: secondo quest’ultimo il bambino impara a parlare solo
imitando, e continua a ripetere parole e frasi già sentite: ma la psicologa Berko fece un
esperimento che provava il contrario. Su un pezzo di carta disegnò un animale
immaginario, e disse ad un bambino che era un wug; poi ne disegnò altri due dello stesso
tipo, chiese al bambino che cosa fossero, e questo rispose che erano wugs; fu capace cioè
di formare il plurale di quella parola, anche se certamente non l’aveva mai sentito,
semplicemente perché conosceva il paradigma dog-dogs, log-logs (ceppo-ceppi), ecc.
Oggi a noi tutto ciò sembra fin troppo evidente, ma a quel tempo non era per nulla
scontato; fu un’innovazione il fatto che Chomsky dicesse che il parlare è un’attività
principalmente creativa. Il fine di questo autore non è solo il creare e sviluppare una
teoria del linguaggio, ma anche una teoria dell’acquisizione linguistica: egli rovescia il
rapporto di sudditanza che Bloomfield vedeva nei confronti della psicologia, ed afferma
precisamente: “Vi sono numerose questioni che potrebbero indurre una persona ad
intraprendere uno studio del linguaggio. Personalmente io sono affascinato soprattutto
dalla possibilità di apprendere, attraverso lo studio del linguaggio, qualcosa che sveli
proprietà intrinseche della mente umana”; a questo punto, la linguistica mira addirittura
ad aiutare la psicologia nei suoi compiti specifici. Si noti poi che egli parla in modo
esplicito di mente, che per Bloomfield era tabù; anzi egli si dichiara mentalista, e se ne
vanta (Bloomfield parlava dei mentalisti ma a quel tempo probabilmente nessuno si
definiva così, era solo un’etichetta che i comportamentisti mettevano su chi non la
pensava come loro). Per lui, la grammatica di una lingua è il modello della competenza
linguistica del parlante nativo di quella lingua: il parlante nativo sa che le frasi vanno
composte in un certo modo, che vanno pronunciate in un certo modo; ma poi in qualche
circostanza potrà sbagliare, potrà avere difetti di pronuncia, ovvero incorrere in qualche
lapsus, oppure formare frasi troppo contorte a causa dell’accavallarsi dei pensieri, ecc.:
questi si chiamano errori di esecuzione. Non è detto che una frase sia ben formata solo
perché è stata effettivamente pronunciata: ne fanno prova, se mai ce ne fosse bisogno,
delle raccolte apposite di strafalcioni e castronerie, o programmi televisivi che ripetono
tutti i lapsus apparsi in televisione. Dunque per Chomsky il parlante nativo ha una
competenza grammaticale che permette di capire se una frase è ben formata; ed una
competenza pragmatica che permette di interpretare correttamente le frasi che vengono
pronunciate. Ad esempio, una frase tipo “oggi è stato un disastro” è certo corretta
grammaticalmente, ma va interpretata in un certo modo se chi la pronuncia è un tifoso di
ritorno dalla partita, in altro modo se è uno studente che ha sostenuto un esame; potrebbe
anche presentare difficoltà d’interpretazione se fosse pronunciata al di fuori di contesti
che ne permettano un’interpretazione pragmatica, ad esempio se la pronunciasse uno che
si sveglia la mattina. Ma il suo contributo alla pragmatica è scarso, quello che gli
interessa è soprattutto la competenza grammaticale. Esiste dunque una competenza
sintattica che fa riconoscere come ben formate, al parlante inglese, frasi come:
I gave back the car to him
14
Così è secondo Chomsky: in realtà gli elefanti non hanno la visione binocolare, perciò secondo i nostri
parametri sarebbero tutti strabici.
36
I gave the car back to him
I gave him back the car
I gave him the car back
che significano tutte “io gli ho restituito l’auto”. Invece non sono grammaticali frasi
come:
*I gave the car to him back
*I gave back him the car
Sorge ora il problema di capire in che senso una frase può essere mal formata. La cattiva
formazione può essere di tipo sintattico, per esempio in:
*John very Mary passionately loves
dove chiaramente l’ordine delle parole non funziona; ma le cose vanno meno lisce con le
frasi in cui la cattiva formazione è di tipo semantico: spesso una di queste frasi può essere
non mal formata, ma solo pragmaticamente strana. Per Chomsky è pragmaticamente
strana una frase che urta in qualche modo le nostre convinzioni, pur essendo ben formata:
ad esempio il sintagma un geranio onesto può farci qualche difficoltà nella vita reale,
dove riteniamo che i fiori non abbiano virtù morali, ma potrebbe essere perfettamente
appropriata in un contesto fiabesco. Così pure in inglese, dove esiste un pronome who per
esseri umani distinto da which per esseri irragionevoli, frasi come the tree who we saw o
the man which we saw dovrebbero essere mal formate: ma è possibile trovare dei contesti
(fiabeschi, fantascientifici) in cui inserirle (ma naturalmente sarebbero mal formate se
qualcuno le usasse in contesto normale). A questo punto però diventa difficile isolare
delle frasi che sicuramente sono mal formate dal punto di vista semantico: quelle che egli
riporta, come
*I killed John, but he didn’t die
*All my friends are linguists, but I have no friends
non convincono troppo: in realtà sembra che i linguisti le reputino mal formate perché
vìolano il principio di non contraddizione. Ma di frasi che vìolano la logica se ne trovano,
non solo pronunciate ma addirittura scritte. Che dire dell’affermazione di Nietzsche
secondo cui la verità non esiste? Si tratta di un’affermazione che si mangia la coda: se la
verità non esistesse, nessuna affermazione potrebbe essere vera, dunque non sarà vero
neppure che la verità non esiste. E che dire di Bertolt Brecht, che scriveva al figlio che il
vero senso della vita è l’imbroglio? Non sono sicuro che l’abbia veramente scritto, perché
l’ho letto in una citazione di seconda mano e non sono andato a controllare; quel che
m’interessa è far notare la contraddittorietà di una simile affermazione: si tratta di
un’aporia che già gli antichi avevano individuato, il cosiddetto paradosso del cretese, che
si può esporre così: un cretese va dicendo che tutti i cretesi sono bugiardi. Domanda: è
bugiardo anche lui? se lo è, allora non è vero quello che dice; ma se non è bugiardo,
ugualmente ciò che dice non può essere vero, perché c’è almeno un cretese che non è
bugiardo. Analogamente, ci si può chiedere: quando Brecht dichiarava che il senso della
vita è l’imbroglio, stava imbrogliando? se imbrogliava, certo non è vera la sua
affermazione; se invece (come è più probabile) era sincero nel dare al figlio questi
precetti di (pretesa) saggezza, allora con ciò stesso dimostrava che anche per lui esisteva
qualche altro senso della vita oltre all’imbroglio. Questa piccola rassegna di frasi celebri
ed illogiche si può concludere col “non è vero ma ci credo” che Benedetto Croce sembra
dicesse a proposito della iettatura; si potrà dire che queste frasi non vanno molto
37
d’accordo con la logica formale; si potrà anche non essere d’accordo con le opinioni di
questi signori (personalmente penso ad esempio che non solo la verità esista, ma che
l’uomo ne abbia assoluto bisogno, e che molti finiscano in cura dallo psicanalista proprio
perché vivono in ambienti dove la verità è continuamente bistrattata), ma il solo fatto che
si possa discutere di queste affermazioni ci fa capire che esse comunicano in qualche
modo dei significati. Anche la frase di Chomsky “io uccisi John, ma egli non morì”,
potrebbe avere un senso, se inserita in un determinato contesto: ad esempio nei
videogiochi spesso i protagonisti godono di diverse vite (del resto, in particolari contesti è
lecito anche giocare con la lingua: nota la frase di Tolkien, The Lord of the Rings, primo
capitolo: “I don’t know half of you half as well as I should like; and I like less than half of
you half as well as you deserve”). Riprendendo l’argomento, si può dire che per Chomsky
il bambino interiorizza tutta una serie di regole per la formazione delle frasi (sintassi),
altre regole per l’interpretazione delle frasi (semantica), e infine delle regole per la
pronuncia delle frasi (fonologia): il linguaggio è governato da regole. Quindi
l’apprendimento di una lingua comprende l’apprendimento di regole sintattiche,
semantiche e fonologiche: le stesse che il parlante nativo ha interiorizzato. L’insieme
delle frasi che si possono produrre è infinito, anche se si impara a produrle in un tempo
finito, sulla base dell’osservazione di un numero finito di enunciati; e d’altra parte è
infinita anche la lunghezza potenziale delle frasi che si possono produrre. Non esiste un
limite superiore alla lunghezza delle frasi di una lingua: ciascuna frase può essere
allungata a piacere, come in:
John is a handsome man
John is a dark, handsome man
John is a tall, dark, handsome man
John is a sensitive, dark, handsome man
John is an intelligent, sensitive, dark, handsome man, ecc.
o ancora:
Debbie Harry is very attractive
Debbie Harry is very, very attractive
Debbie Harry is very, very, very attractive, ecc.
o ancora:
I chased the dog
I chased the dog that chased the cat
I chased the dog that chased the cat that chased the rat
I chased the dog that chased the cat that chased the rat that chased the mouse,
ecc.
Secondo Chomsky una grammatica è adeguata al livello più alto (cioè esplicativamente
adeguata) se riesce a prevedere correttamente quali frasi sono o non sono ben formate in
una lingua, descrive correttamente la loro struttura, e inoltre fa questo nei termini di un
insieme altamente ristretto di princìpi ottimalmente semplici, universali, e massimamente
generali, i quali rappresentino dei princìpi naturali di calcolo mentale psicologicamente
plausibili, e siano apprendibili dal bambino in un periodo di tempo limitato, sulla base di
dati limitati.
38
DISPENSE DI FONETICA
(Liberamente derivate da quelle del prof. Orioles)
La fonetica è la scienza che studia e classifica i suoni del linguaggio articolato,
analizzati "in quanto entità fisiche" (Mioni 1984). La fonetica si distingue in
• fonetica articolatoria, che concerne le modalità di produzione dei suoni;
• fonetica acustica, che prende in esame le modalità di trasmissione fisica del suono;
• fonetica uditiva, che studia la percezione e la decodificazione da parte del parlante;
• fonetica sperimentale o strumentale, dedicata ad un esame approfondito dei processi
fisiologici che entrano in gioco all'atto della produzione delle unità foniche, verificata
attraverso sofisticate strumentazioni.
Possiamo poi distinguere due specializzazioni della fonetica:
• fonetica descrittiva, che implica lo studio dell'assetto fonico di una determinata lingua,
in un determinato momento storico, e cioè in una dimensione sincronica;
• fonetica storica, che implica l'analisi dei mutamenti fonetici nel tempo, in una
dimensione diacronica.
Dalla fonetica va tenuta distinta la fonologia, finalizzata a studiare i suoni come unità
funzionali e distintive, capaci di cioè di differenziare e opporre tra loro le unità
significative (di prima articolazione) del linguaggio.
Le unità di analisi della fonetica prendono il nome di suoni o foni; le unità di riferimento
della fonologia si chiamano fonemi.
L'APPARATO FONATORIO - IL MECCANISMO DELLA FONAZIONE
II processo di fonazione ha alla base il meccanismo fisiologico dell'espirazione: un flusso
d'aria egressivo proveniente dai polmoni (la cosiddetta corrente espiratoria) viene
sospinto verso l'alto attraverso trachea e laringe. A quest'altezza, in corrispondenza del
cosiddetto 'pomo d'Adamo', l'aria incontra la glottide e le corde vocali, due lamine
membranose retrattili che, rilassate durante la respirazione, possono contrarsi ed
avvicinarsi producendo vibrazioni.
Nel successivo percorso verso l'esterno l'aria attraversa la faringe, che funge da cassa di
risonanza (ma all’occorrenza si può anche restringere, producendo delle consonanti), e
giunge nella bocca (cavità orale) per poi fuoriuscire; esiste anche, nel caso dei suoni
nasali, un passaggio alternativo attraverso il naso (cavità nasale). L'accesso all'una o
all'altra cavità è determinato dalla posizione del velo palatino (detto anche palato molle o
velo pendulo): se il velo è sollevato, resta chiuso il passaggio tra faringe e cavità nasale e
il flusso dell'aria viene incanalato attraverso la cavità orale; se invece il velo è abbassato
l'aria può liberamente defluire sia attraverso la cavità nasale sia attraverso la cavità orale.
Quando il flusso della corrente espiratoria fuoriesce liberamente verso l'esterno (e si
hanno però vibrazioni della laringe) si producono le vocali; se invece l'aria incontra una
qualsiasi forma di ostruzione o di restringimento del canale fonatorio, attraverso la
particolare configurazione che volta per volta assumono gli organi articolatori, vengono
prodotte le consonanti.
ORGANI FONATORI
Gli organi che intervengono a condizionare la produzione dei suoni, ossia gli organi
fonatori, sono:
39
• le labbra, che producono foni labiali o labiodentali;
• la lingua (distinta a sua volta in apice, lamina, dorso e radice), che concorre a
determinare la gran parte dei suoni;
• le corde vocali, che producono i foni glottidali;
• la faringe, in suoni estranei alle lingue europee.
TIPOLOGIA DEI SUONI: VOCALI E CONSONANTI
Le unità toniche possono essere distinte in due grandi classi, le vocali e le consonanti. Le
prime sono caratterizzate dal fatto di essere prodotte da un flusso d'aria che fuoriesce
senza incontrare ostacoli ed inoltre dal fatto di essere sonore, ossia di essere
accompagnate dalla vibrazione delle corde vocali (vocali bisbigliate, pronunciate cioè
senza la voce, esistono come varianti libere o combinatorie in diverse lingue, ma non
risulta che possano diventare fonemi autonomi). I fonemi consonantici si differenziano
rispetto alle vocali per il fatto che la corrente espiratoria, nel fuoriuscire, incontra in ogni
caso un ostacolo, il cui superamento determina la caratteristica articolatoria e l'effetto
acustico proprio di ciascuna consonante; come ci indica il vocabolo stesso che li designa
(lat. consonans, calco del greco symphonos), le consonanti devono la loro denominazione
al fatto di appoggiarsi ad una vocale e di risuonare con essa.
VOCALISMO
Le vocali possono essere classificate secondo cinque principali parametri, quattro
qualitativi e uno quantitativo.
1. PARAMETRI QUALITATIVI
1a. Le vocali possono essere differenziate innanzitutto a seconda del luogo di
articolazione (è il punto più o meno avanzato della cavità orale verso il quale si dirige il
dorso della lingua). In rapporto a tale caratteristica le vocali si distingueranno in:
• anteriori o palatali (chiare): il dorso della lingua si orienta verso la parte anteriore del
palato;
• centrali: il dorso della lingua si orienta verso la regione mediana;
• posteriori o velari (scure): il dorso della lingua si orienta verso la regione posteriore.
1b Un secondo paramentro classificatorio è la posizione della lingua: a seconda che la
lingua si protenda verso l’alto o stia appiattita in basso il suono delle vocali differisce,
perché è diverso il grado di apertura (ossia l'ampiezza dell'angolo diaframmatico o
intermascellare) nel senso che più alta è la posizione della lingua nella cavità orale, più
chiusa è la vocale. "La linguistica recente preferisce privilegiare la classificazione delle
vocali in termini di altezza della lingua, in quanto l'apertura sembra essere un tratto tutt'al
più subordinato all'altezza" (Mioni 1993, p. 121, n. 18). In funzione di tale criterio le
vocali possono essere dunque classificate in:
• alte (chiuse)
• medioalte (semichiuse)
• mediobasse (semiaperte)
• basse (aperte)
1c. A seconda del coinvolgimento o meno delle labbra, il cui intervento comporta un
tipico arrotondamento, le vocali possono essere infine essere classificate come
• arrotondate (ovvero labializzate, o anche procheile)
40
• non arrotondate (aprocheile)
In alcune lingue tale caratteristica è fonologicamente rilevante o distintiva, in quanto
garantisce la distinzione tra serie vocaliche del medesimo grado di apertura (o altezza): è
questo il caso del russo, dove la posizione della lingua è determinata dal contesto (perché
si distinguono in questa lingua consonanti palatalizzate, in cui la lingua si sposta in
avanti, e non palatalizzate, in cui la lingua sta indietro; dunque la posizione della lingua è
determinata dalle consonanti vicine) e le vocali si distinguono solo per la posizione delle
labbra. Diversa (ma analoga) la situazione del francese e del tedesco, che oppongono
anteriori non arrotondate (tipo /i/, /e/) alle corrispondenti anteriori arrotondate (tipo /y/,
/ø/). In italiano e spagnolo invece, il coinvolgimento delle labbra pare fonologicamente
ridondante in quanto le vocali anteriori sono sempre non arrotondate e le posteriori sono
sempre arrotondate.
1d. Le vocali si distinguono inoltre in orali e nasali; nell'articolare le prime la corrente
espiratoria non incontra ostruzione; la realizzazione delle vocali nasali è invece
condizionata da una ostruzione esercitata dal velo palatino, per effetto della quale l’aria si
incanala nelle cavità nasali. Tra le lingue che dispongono di un sottoinsieme di vocali
nasali distinte dalle corrispondenti orali ricordiamo il francese; la nasalizzazione di una
vocale si indica con un particolare segno diacritico, la tilde, sovrapposta alla
corrispondente vocale orale: ad es. /A)/.
2. PARAMETRO QUANTITATIVO
La dimensione quantitativa riguarda la distinzione di durata vocalica, che oppone vocali
lunghe e vocali brevi. E' noto in particolare che il latino possedeva un sistema simmetrico
di dieci vocali, cinque con un valore lungo e cinque con il corrispondente breve:
eioua
e¤ i¤ o¤ u¤ a¤
La distinzione era così importante che si potevano formare coppie minime opposte solo
da tale tratto:
"venne"
venit
"viene"
ve¤nit
populus "popolo"
po¤pulus "pioppo"
rosa "la rosa" (nominativo)
rosa¤ (ablativo)
palus
"palude"
pa¤lus
"palo"
Ulteriori lingue che fanno valere tale distinzione sono il finnico (ad es. tuli "fuoco" si
oppone a tuuli "vento") e l'estone, che presenta tre gradi di lunghezza: breve, lungo e
lunghissimo. Anche in friulano giocano un certo ruolo le opposizioni di durata (che
tuttavia, come spesso accade, interagiscono con opposizioni di timbro, perché le vocali
brevi tendono ad essere più aperte):
lat “latte”
lât “andato”
pas “passo”
pâs “pace”
nas “nasce”
nâs “naso”
pes “per le”
pês “peso”
mil “mille”
mîl “miele”
tos “tosse”
tôs “tue”
brut “brutto”
brût “nuora” e “brodo”
In altre lingue, come ad esempio l'italiano e lo spagnolo, la lunghezza vocalica non ha
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rilevanza fonologica; in francese, almeno in alcuni parlanti, si distingue /e/ da /e:/; si
vedrà più avanti la complessa situazione dell’inglese.
CONSONANTISMO
La chiusura o comunque la costrizione che contrassegna la produzione di suoni
consonantici si attua con diverse modalità e in corrispondenza di diversi punti
dell'apparato fonatorio. Sotto questo aspetto classificheremo pertanto le consonanti in
funzione del modo e del luogo di articolazione: il modo di articolazione si riferisce al
tipo di ostruzione che viene opposto al passaggio dell'aria; il luogo di articolazione, o
punto articolatorio, indica il punto in cui gli organi dell'apparato fonatorio entrano in
contatto totale o parziale tra loro.
Inoltre le consonanti, almeno nelle lingue più studiate, presentano un terzo ulteriore
elemento di differenziazione:
• si definiscono sorde se vengono realizzate senza produrre vibrazioni delle corde vocali
(es. p, t, k);
• si definiscono sonore se la loro realizzazione è associata alla vibrazione delle corde
vocali (es. b, d, g).
Altre lingue distinguono invece consonanti aspirate e non aspirate, forti e leni (ovvero
tese e rilassate), glottalizzate e non glottalizzate, ecc.
Ciascuna unità fonica verrà definita in rapporto alla peculiare combinazione delle tre
caratteristiche di modo, di luogo e di sonorità. Diremo ad esempio volta per volta che una
/p/ costituisce una occlusiva bilabiale sorda; che una /z/ simboleggia una fricativa dentale
sonora ecc.
MODI DI ARTICOLAZIONE
occlusive (plosive, ostruenti)
Le occlusive devono il loro nome al fatto che si articolano producendo una chiusura
completa del canale fonatorio in modo tale che il flusso espiratorio incontri un
improvviso e brusco ostacolo cui fa seguito una altrettanto brusca riapertura. L'occlusione
può avvenire in diversi punti dell'apparato fonatorio.
fricative (spiranti, costrittive)
Le fricative "sono prodotte con un restringimento del canale orale tale da causare una
compressione dell'aria contro le pareti" (Mioni, Elementi di fonetica, p. 51); tale
compressione provoca un tipico rumore di sfregamento dell'aria, che ne giustifica la
denominazione. Sono dette anche costrittive per la costrizione cui va soggetta la la
corrente espiratoria all'atto del suo passaggio attraverso il canale fonatorio. Un tipo
particolare di fricative sono le sibilanti (/s/, /z/, /S/, /b/) che differiscono dalle altre per la
forma assunta dalla lingua.
approssimanti (ingl. approximant)
Si definiscono approssimanti i suoni simili ai fricativi, nella realizzazione dei quali la
frizione è però meno avvertibile. Sono approssimanti i fonemi prevocalici /j/ e /w/, tipici
delle voci italiane ieri (approssimante palatale) e uovo (approssimante velare o
labiovelare), e /5/ proprio del francese nuit (approssimante labiopalatale). Le si può
chiamare anche semiconsonanti; in ogni caso questa tipologia di suoni non va confusa
con le cosiddette semivocali con cui dobbiamo intendere i suoni che ricorrono come
secondo elemento di dittongo discendente, come ad es. in it. faida e causa. Fricative e
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approssimanti sono sottoinsiemi della classe delle continue.
affricate
Le affricate sono una modalità articolatoria composita, che risulta dalla combinazione di
una componente iniziale di tipo occlusivo e di una finale di tipo fricativo omorganica
(ossia dello stesso o affine luogo di articolazione); da qui la duplice notazione cui si fa
ricorso per simboleggiarle: ad esempio /pf/, /v/, /w/. Nonostante si tratti di fonemi unitari
a se stanti e non di sequenze biconsonantiche di occlusiva + fricativa, l'IPA non ha finora
ritenuto di assegnare a tali suoni una serie autonoma ma si limita a riportarli nella tabella
degli Altri simboli, sottolineandone la fusione mediante un segno di legamento.
nasali
A rigore si devono considerare le nasali come una sottospecie di occlusive, in quanto la
loro realizzazione comporta un ostacolo completo alla fuoriuscita dell'aria. Le consonanti
nasali si producono abbassando meccanicamente il velo palatino e lasciando così defluire
la corrente espiratoria attraverso la cavità nasale; ciò ne determina la peculiare risonanza.
Le nasali si distinguono a seconda del luogo di articolazione in labiali, dentali (alveolari),
palatali e velari; sono comunque tutte sonore.
laterali
Le consonanti laterali devono il loro nome al fatto che il flusso d'aria, bloccato nella parte
centrale della cavità orale, passa ai lati della lingua. Il punto articolatorio delle laterali
può oscillare da dentale (in italiano e francese) ad alveolare (inglese), da palatale (ad es.
italiano gli) fino a velare (allofonico in inglese; fonologicamente rilevante ad esempio in
slovacco e croato). Di solito sono sonore: il gallese conosce una laterale sorda (una
fricativa in cui l’aria passa da un solo lato della lingua), scritta ll.
vibranti (ingl. trills)
II modo di articolazione delle vibranti è rappresentato essenzialmente dalla /r/ tipica
dell'italiano. Ma poiché i suoni trascritti come r presentano differenze anche vistose da
una lingua all'altra è bene premettere un riepilogo sui principali tipi fonici. L'articolazione
di una <r> può variare per modo e per luogo di articolazione. Secondo il modo si
distinguono vibranti, fricative, approssimanti; secondo il punto articolatorio abbiamo
realizzazioni apicoalveolari, postalveolari, uvulari.
1. vibranti
A seconda se la vibrazione sia unica o ripetuta, i suoni vibranti si distinguono in:
• monovibranti o flaps (come in sp. toro, pero, caro)
• plurivibranti (come in sp. perro, carro e come in it.)
le plurivibranti a loro volta possono essere:
alveolari [r]: è la realizzazione normale della r italiana: l'articolazione si ottiene infatti
facendo vibrare la punta della lingua all'altezza degli alveoli.
uvulari [R] : si tratta della variante della r che si realizza in posizione iniziale sia in
tedesco (ad es. Reich, rot) che in francese (ad es. quella di rose; è denominata r
grasseyé): in questo caso l'organo che genera le vibrazione non è l'apice della lingua ma
l'ugola.
2. fricative: è fricativa uvulare la realizzazione normale della r francese: si tratta della
cosiddetta r parigina. Rispetto alla corrispondente vibrante, l'articolazione si differenzia
perché, anziché comportare un contatto, implica un restringimento.
3. approssimanti: è approssimante postalveolare la realizzazione normale della r inglese
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LUOGHI DI ARTICOLAZIONE
I principali luoghi di articolazione delle consonanti sono i seguenti nove:
1. bilabiali
Comportano un contatto tra labbro inferiore e labbro superiore (es. it. /p/ e /b/)
2. labiodentali
Sono tali le consonanti articolate con il concorso del labbro inferiore e dei denti incisivi
superiori. Ne sono un tipico esempio le fricative /f/ e /v/; esiste anche una nasale
labiodentale /A/ realizzata ad es. in it. invio (qui comunque non è fonema indipendente
ma variante combinatoria).
A partire dai successivi luoghi di articolazione iniziano le consonanti apicali, pronunziate
cioè con la punta (apice) della lingua; ma in alcuni casi è più esatto parlare di predorsali,
consonanti cioè pronunciate con la parte anteriore del dorso della lingua. Distingueremo:
3. dentali, interdentali, alveolari e postalveolari
Questa regione articolatoria è molto densa di unità foniche, appartenenti a vari modi di
articolazione (occlusive, fricative, affricate, nasali, laterali, vibranti). Anche se i vari
sottotipi sono trattati come un insieme unitario nella tabella IPA, vale comunque la pena
richiamare alcune importanti differenziazioni.
dentali
A determinare l'ostacolo totale o parziale interviene l'apice della lingua che si accosta alla
parte mediana degli incisivi superiori. Sono tali la t, la d e la n dell'italiano. In altre lingue
(francese, tedesco) si preferisce chiamarle apicali perché sono realizzate con la punta
(apice) della lingua.
interdentali
Consonanti articolate con l'apice della lingua che oltrepassa il bordo dei denti: costituisce
ad esempio una fricativa interdentale la pronuncia del th inglese di thing (sorda) o they
(sonoro); la fricativa interdentale sorda è posseduta anche dallo spagnolo, che la nota con
c in cinco, e con z in zapato, juzgar.
alveolari
Le consonanti alveolari sono realizzate in corrispondenza degli alveoli dei denti superiori.
Sono ad esempio alveolari le occlusive t e d dell'inglese, la cui articolazione è
sensibilmente più arretrata rispetto ai corrispondenti suoni dell'italiano.
postalveolari ( palatoalveolari)
L'articolazione delle postalveolari, denominate in base a precedenti classificazioni
palatoalveolari, è realizzata in una regione intermedia tra gli alveoli degli incisivi
superiori e il palato duro. Sono prodotte come postalveolari ad esempio la fricativa di it.
sciame e le corrispondenti affricate di cena e giovane; è tale anche la realizzazione
dell'approssimante inglese /®/.
4. retroflesse
Si tratta di fonemi articolati rovesciando all'indietro la punta della lingua in modo tale che
la superficie inferiore di tale organo venga a toccare o a sfiorare la volta del palato duro e
gli alveoli: è retroflessa la peculiare pronunzia di siciliano beddu "bello" e di analoghi
suoni del sardo e delle lingue dell’India. Tradizionalmente vengono anche denominate
cacuminali.
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5. palatali
Si chiamano palatali le consonanti articolate all'altezza del palato "duro". Si tratta di un
punto di articolazione molto ampio e poco definito; per quanto riguarda le occlusive, ad
esempio, "data l'ampiezza del contatto è difficile che si abbia un'occlusione completa",
Possono avere una articolazione palatale:
• le occlusive: sono tali i suoni friulani tradizionalmente scritti con cj e gj;
• le fricative: ad es. /ç/ (cui corrisponde la grafia ch del ted. Milch, ich);
• le affricate: ad es.la /w/ di it. cena e la /t/ di giro, rispettivamente sorda e sonora; ma
per molti è meglio classificarle come postalveolari;
• le nasali: /B/ come in it. legno
• le laterali: /^/ come in it. paglia
6. velari
Questo punto articolatorio comprende esecuzioni foniche effettuate col dorso della lingua
nella zona del palato "molle" o velo palatino (da qui il nome di velari: ma altri linguisti le
dicono dorsali). Oltre alle occlusive /k/ e /g/ si annoverano tra le velari le fricative
rispettivamente sorda /x/, propria del tedesco (Nacht), dello spagnolo (trabajo) e del
neogreco, e sonora /3/ propria del nederlandese e della realizzazione intervocalica della g
spagnola (fuego).
7. uvulari
L'articolazione di questi fonemi si esegue spostando la parte posteriore della lingua verso
l'estremità del velo palatino o ugola (in latino uvula; da qui la denominazione). Le uvulari
possono essere:
• occlusive, simboleggiate con /q/ e /G/, articolate molto più indietro rispetto alle velari
/k/ e /g/: il tipo sordo è presente nelle lingue semitiche e ricorre ad es. nella grafia q dei
nomi arabi come Iraq, Qatar, al-Qaida; la /G/ è presente in persiano;
• fricative;
• vibranti:
(per le fricative e vibranti uvulari si veda il commento in sede di analisi dei vari tipi di r)
8. faringali
Le fricative faringali sono "prodotte con la radice della lingua spostata all'indietro verso la
parete della faringe" (Mioni 2001, p. 60). Possono essere sorda /©/ e sonora /e/; ambedue i
suoni sono presenti nelle lingue semitiche ed al profano danno l’impressione che ci sia di
mezzo una a: così l’ebr. mašî© è stato reso con Messia (e del resto anche i Massoreti,
quando vocalizzarono il testo ebraico della Bibbia, in parole del genere scrissero una a
non fonologica, “furtiva”, tipo mašîay). In arabo la faringale sonora sta in alcuni nomi ben
conosciuti: per es. all’inizio della parola /eira:q/ “Iraq”, o in mezzo alla parola /alqa:eida/
“al Qaida”.
9. glottidali
La glottide non è un vero e proprio organo, ma è lo spazio laringeo compreso fra le corde
vocali. Tra i suoni glottidali si possono avere:
• l'occlusiva sorda /d/, realizzata mediante una brusca apertura della glottide. Questo
suono in molte lingue precede la vocale iniziale di parola: ad es. ricorre in tedesco
all'inizio di ogni parola cominciante per vocale (es. ein Apfel). In alcune lingue esistono
consonanti glottalizzate, che sono solitamente delle occlusive (p,t,k) seguite da questo
suono di occlusione glottale.
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• la fricativa /h/, che è quella di ingl. have, ted. haben ed anche della pronunzia fiorentina
di poco [poho]. Esiste una variante sonora /6/, presente in ceco e slovacco.
RAPPORTO TRA GRAFIA E PRONUNCIA
La scrittura può presentare una maggiore o minore aderenza alla realtà sonora: per quanto
ne sappiamo, nessuna lingua è perfettamente rappresentata dalla scrittura che usa
comunemente; ma in alcuni casi la distanza tra la realtà fonica e la rappresentazione
grafica è molto grande, e la causa principale è la conservatività dell'ortografia, che in
molti casi è rimasta ferma mentre la lingua si evolveva. In base a ciò possiamo dividere le
lingue in due categorie: quelle che usano una scrittura (prevalentemente) fonetica, e
quelle che ne usano una (prevalentemente) storica. Il caso, puramente ideale, di una
perfetta aderenza tra evoluzione della lingua e scrittura, si potrebbe paragonare a uno
specchio, che ogni giorno riflette la faccia sempre mutante di chi ci si guarda, mentre una
totale storicità si paragonerebbe meglio a una fotografia, che rimane immutabile e sempre
identica mentre il soggetto cambia cogli anni.
Sistemi di trascrizione
Per ovviare agli inconvenienti delle ortografie ufficiali che comportano
incongruenze e discordanze sia all'interno di una stessa lingua sia tra lingua e lingua, gli
studiosi fanno ricorso alla grafìa fonetica. La grafìa fonetica è un sistema di trascrizione
che ha lo scopo di fissare graficamente i fonemi in modo univoco, in maniera tale cioè
che ad ogni unità fonica corrisponda uno specifico simbolo.
La grafìa fonetica può essere analfabetica, "se costituita da simboli che si
discostano dalla comune norma della trascrizione alfabetica" (cfr. ad es. il Visibile Speech
di M. Bell e poi di Potter-Kopp-Green) ovvero alfabetica, "costituita cioè da una serie di
simboli che complessivamente formano un alfabeto convenzionale" (Gentile 1966).
I principali sistemi di 'grafìa fonetica alfabetica', o alfabeti fonetici, sono il sistema
di Böhmer, i criteri fatti valere da Graziadio Isaia Ascoli nell’Archivio Glottologico
Italiano, perfezionati da Carlo Battisti nella Fonetica generale (Milano 1938); ha goduto
poi di una certa fortuna nella scuola italiana il sistema di trascrizione proposto da
Clemente Merlo e adottato dall’Italia dialettale (di questo periodico si vedano i voll. 1,
1925, p. 3 ss.; 3, 1927, pp. I-IV), al quale si rifa ad es. Heilmann 1955 (cfr. p. 12 ss. con
tabella); ricordiamo ancora la trascrizione adottata da K. Jaberg e J. Jud nell'AIS (ovvero
Atlante [linguistico] Italo-Svizzero); la cosiddetta scrittura laletica ideata da J.
Forchhammer. Ma su tutti si è imposto il sistema codificato dalla International Phonetic
Association ovvero l’International Phonetic Alphabet (noto con l’abbreviazione IPA).
L'Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA)
II sistema messo a punto dall'Associazione Fonetica Internazionale, elaborato
originariamente nel 1888, è stato assoggettato a successive revisioni, l'ultima delle quali
di un certo peso è intervenuta nel 1996 con alcuni ulteriori ritocchi operati nel 1999. Per
ulteriori dati sull'IPA può rivelarsi utile la consultazione del Handbook of thè
International Phonetic Association: A guide to the use of the International Phonetic
Alphabet, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. Forniamo ora, qui di seguito,
una serie di prime indicazioni su siti intemet utili per acquisire familiarità con i prioncipi
e con la simbolistica dell'IPA.
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International Phonetic Association: http://www.arts.gla.ac.uk/IPA/ipa.html
pagine principali:
a) simboli IPA: http://www.arts.gla.ac.uk/IPA/ipachart.html (Tabella dei simboli IPA);
b) materiali sonori: http://www.phon.ucl.ac.uk/home/wells/cassette.htm (è possibile
ordinare l'audiocassetta o il CD dei suoni IPA);
c) link alla pagina da cui scaricare i file audio relativi alle lingue illustrate nell’Handbook
of the IPA: http://web.uvic.ca/ling/resources/ipa/handbook.htm
Convenzioni che regolano la trascrizione
Bisogna distinguere fra:
• trascrizione stretta (ingl. narrow transcription) o trascrizione fonetica: indica i foni, le
realizzazioni fisiche dei suoni, dando conto di tutte le varianti, anche marginali, a cui è
soggetta una determinata unità fonica a seconda dei contesti in cui si trova calata. Le
trascrizioni fonetiche si racchiudono tra parentesi quadre.
• trascrizione larga (ingl. broad transcription) o trascrizione fonologica (o fonematica);
indica i fonemi, le classi astratte omettendo di segnalare le specificità delle singole
produzioni. Le trascrizioni fonologiche si racchiudono tra barre oblique.
Proponiamo una serie di esempi:
1. it. anche; lingua
trascrizione fonetica: ['aCke]; [’liCgwa] trascrizione fonologica /'anke/; /'lingwa/. Nelle
due parole qui riportate la natura velare della nasale è segnalata solo in sede di
trascrizione fonetica; per contro la trascrizione fonologica non ne rende conto, in quanto
si tratta di una realizzazione automatica predicibile dal contesto, che non entra in
opposizione con altra unità fonica.
2. it. tavolo
trascrizione fonetica: ['ta:volo]
trascrizione fonologica: /'tavolo/. Per quanto riguarda la differenza tra le due trascrizioni
di tavolo, si osservi che la trascrizione fonetica rende conto della lunghezza vocalica, che
è invece omessa in sede di trascrizione fonematica in quanto ridondante ai fini fonologici.
• Notazione della lunghezza vocalica
Per rappresentare la durata vocalica in sede di trascrizione fonologica, l'IPA non adotta
alcun accorgimento per le vocali brevi mentre prevede di far seguire alla corrispondente
vocale lunga il simbolo [:]. Esistono poi delle convenzioni che vengono tradizionalmente
fatte valere per specifiche lingue: ad esempio abbiamo osservato che per il latino si
impiegano un semicerchio e un trattino sovrapposto rispettivamente per la breve e per la
lunga; per il friulano la vocale lunga (sempre tonica) viene notata con un accento
circonflesso.
• Notazione dell'accento L'accento va segnalato con un trattino verticale posto prima della
sillaba tonica.
SISTEMA FONOLOGICO ITALIANO
Si dice che, a differenza di altre lingue di cultura (si pensi alla received
pronunciation dell'inglese o alla norma del francese di Parigi), l'italiano non ha una
pronuncia che possa essere indicata come standard; a nostro avviso ciò è vero solo in
parte, perché nella realtà tutte le principali lingue del mondo ammettono notevoli
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fluttuazioni di pronuncia, come si vedrà. Anche in italiano, non è per nulla scontato
l'inventario dei fonemi: il punto di vista più diffuso (cfr. ad es. Lepschy 1964, p. 53) è
quello che identifica nella lingua italiana 30 fonemi, ripartiti in 21 consonanti, 2
approssimanti o semiconsonanti e 7 vocali; ma secondo altri studiosi (fra cui il
sottoscritto) le semiconsonanti /j/ e /w/ non sarebbero veri fonemi, bensì varianti delle
vocali /i/ ed /u/, con un'occorrenza legata a regole complesse; qui saranno comunque
elencate tra i fonemi.
SISTEMA CONSONANTICO ITALIANO: tabella riepilogativa
bilabiali
labiodentali dentali alveolari postalveolari palatali velari
occlusive p b
fricative
sibilanti
td
kg
fv
affricate
sz
S (b)
v s
wt
n
B
laterali
1
^
vibranti
r
nasali
m
CONSONANTISMO ITALIANO
occlusive
bilabiali: /p/ sorda pane, capo /b/ sonora bello, bambino
dentali: /t/ sorda tana, lato /d/ sonora dare, modo
velari: /k/ sorda cane, caldo, chi /ki/; /g/ sonora gallo, lago, ghiro /giro/
fricative
labiodentali: /f/ sorda filo; /v/ sonora vela
dentali: tradizionalmente le fricative dentali del tipo di quelle dell’italiano vengono
denominate sibilanti; c’è la /s/ sorda sole, stato; /z/ sonora rosa /roza/, uso /uzo/, sbarrare
[zbarrare], smontare [zmontare]. La varietà toscana è in realtà l'unica che opponga
funzionalmente /s/ a /z/, ma solo in posizione intervocalica. Esempi di coppie minime:
fuso [fu:so] "arnese per filare", opposto a fuso [fu:zo] part. pass. di fondere; chiese
['kjε:se] pass. rem. di chiedere opposto a chiese ['kjε:ze] pl. di chiesa. Sulla base di tali
opposizioni del toscano, alcuni studiosi fanno valere la distinzione fonematica tra /s/ e /z/
per tutto l'italiano; a rigore, dato il basso rendimento funzionale dell'opposizione e la sua
estraneità alle altre varietà di italiano, dovremmo postulare l’esistenza di due varianti in
distribuzione complementare.
palatali (propriamente sono postalveolari) /S/ sorda: scena /Sεna/, sciocco /S$ kko/
Si noti, per quanto riguarda la corrispondenza tra grafia e pronunzia, che il fonema è
trascritto con il digramma sc davanti a e/i (oltre a scena, si pensi a scivolare); è trascritto
con il trigramma sci davanti alle altre vocali (è appunto il caso sopra ricordato di sciocco
in cui la i è 'muta', ossia assorbita dalla consonante che la precede).
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Si osservi ancora che in posizione intervocalica la fricativa palatale nella pronuncia
toscana è sempre doppia: coscienza [ko'SSεnva]; lasciare [la'SSare].
La corrispondente fricativa sonora /b/ si incontra in italiano solo nei prestiti dal francese
(come ad es. garage) e nella realizzazione toscana della g intervocalica (come ad es. in
cugino).
affricate
L'italiano conosce quattro affricate fonologicamente distintive:
dentali: /v/ sorda: zio /vio/; forza /f$rva/; /dz/ sonora: pranzo /pranso/, zero /sεro/,
zanzara /sansara/. Tra vocali sia la sorda /ts/ che la sonora /dz/ nella pronuncia toscana
sono realizzate sempre come lunghe; in trascrizione tale allungamento viene notato
ripetendo solo il primo simbolo del digramma: es. vizio /vitvjo/; stazione /statvjone/;
azoto /ads$to/. In altre varietà d’italiano invece si pronunciano semplici o geminate a
seconda della consuetudine grafica: in queste varietà si può opporre spazzi (/spatvi/, da
spazzare) a spazi (/spavi/) pl. di spazio; gazza (/gadsa/) specie di uccello, a Gaza
(/gasa/) città palestinese. In molte varietà d’italiano la distinzione tra /v/ e /s/ si
neutralizza all’inizio di parola, dove compare sempre la sonora: zio, zona si dicono /sio/,
/s$na/ mentre il toscano distingue tra /vio/ e /s$na/. Sono rare le coppie minime capaci di
opporre /ts/ : /dz/. Ecco comunque un esempio: razza /'ratva/ " stirpe" : razza /'radsa/
"tipo di pesce".
• palatali (propriamente sono postalveolari): /w/ sorda cena /wena/, falce /falwe/; /t/
sonora gente /tεnte/, giro /tiro/. Occorre ricordare che, davanti ad a, o, u, la sequenze
grafiche ci, gi hanno valore monofonematico (equivalgono cioè ad un unico fonema); in
altri termini la i costituisce un mero accorgimento grafico per segnalare il valore palatale
di c, g. Esempi: ciao /wao/, giacca /takka/, bacio /bawo/, gioco /t$ko/
nasali (tutte sonore):
/m/ bilabiale in mano, ama; /n/ dentale (ma per la precisione è alveolare) in neve, cane;
/B/ palatale in gnomo. Lo standard italiano prevede che nel corpo di parola tra vocali la
/B/ sia realizzata sempre come doppia: legna ['leBBa]; regno ['reBBo]; sogno ['soBBo],
bagniamo /baBBamo/. Si osservi che nei verbi uscenti in gn (es. bagn-are e sogn-are),
esiste qualche incertezza circa la grafìa da far valere davanti alle desinenze -iamo, iate /jamo/, /-jate/ (quelle di am-iamo, e di am-iate II pers. pl. del cong. pres.) in cui la nasale
palatale viene a trovarsi davanti a /j/. La norma tradizionale prescriveva la grafìa con i
(bagniamo, sogniate) in ossequio al principio morfologico anche se nella pronuncia la i
viene assorbita. La nasale velare in italiano non è fonema autonomo, ma si può realizzare
come allofono: anche [aCke]
laterali
/l/ alveolare: lana. Canepari 1979, p. 50 osserva che le realizzazioni 'normali' di /n/ ed /l//
sono alveolari, tranne che in casi come tanto, alto dove si realizzano come dentali per
assimilazione al luogo di articolazione della consonante che segue.
/^/ palatale: gli /^i/. Nel corpo di parola tra vocali è realizzata sempre come doppia: figlio
/fi^^o/, maglia /ma^^a/, famiglia /fami^^a/
vibrante
/r/ alveolare: rana. Pur non essendo così forte come quello spagnolo (come in perro
"cane"), il suono si caratterizza per la rapida vibrazione della punta della lingua.
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APPROSSIMANTI (o semiconsonanti)
/j/: iodio /j$dio/, piede /pjεde/.
/w/: uovo /w$vo/; buono /bw$no/; quadro /kwadro/; eseguire /eze'gwire/
Come si accennava in premessa, non è pacifico lo statuto di unità fonematiche per tali
entità foniche. In effetti il rendimento funzionale delle opposizioni che differenziano da
una parte /j/ o /w/ e dall'altra i corrispondenti fonemi vocalici /i/ o /u/ è piuttosto basso in
quanto sono poche e isolate le coppie minime che si possono costruire a partire da essi:
ricordiamo per la distinzione /j/ : /i/ alleviamo come forma verbale di allevare, con i
semiconsonantica, opposto all'omografo alleviamo riferito ad alleviare, spianti da
spiantare e spianti, participio di spiare; per l'opposizione tra /w/ e /u/ qui vs. cui, la quale
vs. lacuale. Per simili casi chi scrive sostiene che in realtà ciò che differenzia queste
parole è il taglio sillabico: ovvero la differenza vera di pronuncia è tra [spjan-ti] (2
sillabe) e [spi-an-ti] (3 sillabe), o tra [la-kwa-le] (3 sillabe) e [la-ku-a-le] (4 sillabe).
VOCALISMO ITALIANO
II vocalismo italiano risulta abbastanza semplice e ben equilibrato. Abbiamo infatti a che
fare con due serie simmetriche composte da tre vocali anteriori che si oppongono a tre
posteriori (e arrotondate) dello stesso grado di apertura; a queste due serie si aggiunge una
vocale /a/ di massima apertura e minima altezza che ha anche la prerogativa di essere
l'unico fonema vocalico a non coincidere con la posizione delle vocali cardinali.
SISTEMA VOCALICO ITALIANO: tabella riepilogativa
i
u
e
o
ε
$
a
vocali della serie anteriore (non arrotondate)
/i/ alta, chiusa: fini
/e/ medio-alta, semichiusa: sete
/ε/ medio-bassa, semiaperta: bello
vocali della serie posteriore (arrotondate)
/u/ alta, chiusa: fuga
/o/ medio-alta, semichiusa: sotto
/$/ medio-bassa, semiaperta: uomo /w$mo/, notte /n$tte/.
Al di fuori di queste serie sta la /a/ vocale bassa, di massima apertura: lana.
Come si può rilevare, la presenza di due timbri vocalici per e e per o genera discordanza
tra numero di unità vocaliche dell'inventario fonologico (7) e numero dei grafemi (5). Si
ricorre pertanto all'accorgimento grafico di distinguere le vocali aperte mediante accento
grave (è, ò) e le corrispondenti chiuse mediante l'accento acuto (é, ó).
• coppie minime che in toscano oppongono i due timbri vocalici:
pèsca (frutto del pesco) : pésca (attività di pescare); vènti (pl. di "vento") : vénti
(numero); accètta (verbo) : accétta (“ascia”); lègge (verbo) : légge (nome); affètto (sost.)
: affétto (dal v. affettare); mènte (dal verbo mentire) : ménte (sost.); mènto (sempre da
50
mentire) : ménto (sost.); tèma (argomento) : téma (cong. di temere); èsse (la lettera) :
ésse (plur. di essa); bòtte (le percosse) : bótte (recipiente per il vino); còlto (part. pass. di
cogliere) : cólto "istruito"; còrso (della Corsica) : córso (da correre); fòro (di città
romane) : fóro (buco); fòsse (plur. di fossa) : fósse (impf. cong. di essere); mòzzo
“mutilo” : mózzo “ragazzo di nave”; pòrci "maiali" : pórci (dal verbo porre); pòse (plur.
di posa) : póse (pass. rem. di porre); scòrsi (pass. rem. di scorgere) : scórsi (passati);
sòrta (varietà) : sórta (part. pass. di sorgere); vòlto (part. pass. di volgere) : vólto "viso"
• neutralizzazioni
Dobbiamo ricordare che tale opposizione vige propriamente nel solo vocalismo tonico,
mentre diversa è la configurazione del vocalismo atono; in sillaba non accentata, infatti,
si ha una realizzazione media: si parla tecnicamente di neutralizzazione.
• varianti regionali
La maggior parte delle aree regionali dispongono di un vocalismo tonico diversamente
strutturato rispetto alla standard a base toscana. In molte regioni meridionali (ed inoltre
anche a Gorizia e Trieste) il sistema è pentavocalico, comprende cioè solo cinque timbri
annullando la distinzione tra vocali semichiuse e vocali semiaperte.
SISTEMA FONOLOGICO INGLESE
II sistema fonologico inglese comprende:
21 fonemi consonantici;
3 approssimanti (o semiconsonanti);
12 fonemi vocalici.
SISTEMA CONSONANTICO INGLESE
bilabiali labiod interdentali alveolari postalveolari
velari glottidali
.
occlusive
pb
td
kg
fricative
fv
h
θδ
sibilanti
sz
Sb
affricate
wt
nasali
m
n
C
laterali
l
[;]
vibranti
[N] »
[;] e [N] non entrano nel conteggio dei fonemi, in quanto varianti rispettivamente di /l/ e
dell'approssimante postalveolare /»/. I fonemi consonantici restano dunque 21.
CONSONANTISMO INGLESE
occlusive
L'inglese conta sei fonemi occlusivi:
bilabiali: /p/ sorda forte pen /pen/; point; /b/ sonora lene bad /bæd/, back /bæk/.
alveolari: /t/ sorda forte tea /ti:/, tight, little; /d/ sonora lene did /dId/, old, day
Si noti che /t/ e /d/ hanno un'articolazione alveolare e non dentale come in italiano.
velari: /k/ sorda (forte) cat /kaet/; call; /g/ sonora (lene) give /gIv/, go; il suono è prodotto
dal contatto del dorso della lingua con il palato molle (o velo).
In posizione iniziale e finale di parola /p/ /t/ /k/ presentano una aspirazione (non
51
fonematica, ma ridondante): tea [t’i:]; cup [k’Up’]. Tale aspirazione non interviene
qualora preceda una s (dunque nelle combinazioni sp, st, sk), per cui si avrà steel [sti:l]
"acciaio". L'aspirazione è presente, per quanto meno forte, anche all'interno di parola se la
consonante è iniziale di sillaba tonica es. important. "Questo fenomeno è talmente
automatico che la maggior parte dei parlanti d'inglese non si rende assolutamente conto
che la loro lingua possiede delle consonanti aspirate, che invece in altre lingue, p. e.
alcune lingue indiane, costituiscono fonemi separati. L'uso delle occlusive aspirate da
quella particolare qualità a queste consonanti che il parlante italiano avverte; in effetti,
quando vengono usate in italiano costituiscono uno degli elementi comunemente chiamati
"accento inglese"".
fricative
labiodentali: /f/ sorda (forte) fall /f$:l/; fan, life; /v/ sonora (lene) voice /v$Is/; view.
interdentali /θ/ sorda (forte) thing /θIC/, think, thin; /ð/ sonora (lene) this /ðIs/; father;
then.
alveolari: /s/ sorda so /s´U/, sister, sink, peace, use (sost.); /z/ sonora zoo /zu:/; quiz, zero,
studies, use (verbo). /s/ e /z/ sono confrontabili con i corrispondenti fonemi italiani; ma si
noti:
- che la /z/ inglese può ricorrere anche ad iniziale di parola in prestiti quali zone;
- che la /s/ rimane tale, a differenza dell'italiano, anche davanti a /m/ /n/ /l/: es. smile
[smaIl].
postalveolari: /S/ sorda (forte) shoe /Su:/; ship, wash; optional, station, /b/ sonora (lene)
vision /vibn/; casual, pleasure
glottidali: /h/ sorda (forte) hat /hæt/; have, home, house; è anche il suono iniziale di who e
whose. Questo fonema deve la propria denominazione alla glottide (lo spazio posto tra le
corde vocali nella laringe); è definito anche glottale o laringale.
affricate
postalveolari /w/ sorda forte) chain "catena” /weIn/; church, child, nature; /t/ sonora lene
jam /tæm/, cage "gabbia" /keIt/, jet, judge
nasali (tutte sonore)
/m/ bilabiale man "uomo" /mæn/; must
/n/ alveolare no /n´U/. Si noti che in inglese il punto di articolazione, a differenza
dell'italiano dove è dentale, è alveolare.
/C/ velare sing /sIC/; king "re"; long "lungo" Mentre per l'inglese la nasale velare è
fonema, in quanto capace di opporre coppie minime quali thing "cosa" /EIC/ : thin
"sottile" /EIn/, in italiano la nasale velare costituisce solo una variante combinatoria.
laterali (sonore)
/l/ alveolare leg /leg/; light. In inglese dal punto di vista fonologico esiste una sola
laterale, che comunque conosce un allofono velare [;], la cosiddetta 'dark' l, realizzata in
posizione anteconsonantica (es. help) e in finale di parola (es. hill).
approssimanti
/»/ approssimante postalveolare sonora: si tratta della realizzazione più comune della r
nell'inglese britannico, caratterizzata da basso livello di frizione e da una lieve
retroflessione della lingua: red, rain. Si conoscono le seguenti varianti:
• monovibrante [N], che ricorre tra vocali e dopo consonante interdentale: sì tratta di un
52
"voiced alveolar tap" (battito) ovvero di un "alveolar semi-trill": very, sorry; three.
In posizione anteconsonantica e in finale assoluta la r è muta (almeno nella RP): horse
/h$:s/, farm /fa:m/, ever /ev´/. La r dell'ingl. d'America è invece una approssimante
"nettamente retroflessa" (Mioni).
/j/ approssimante palatale sonora yes "sì" /jes/
/w/ approssimante (labio)velare sonora west /west/.
VOCALISMO INGLESE
La maggior parte degli studiosi concordano nell'assegnare all'inglese 12 fonemi vocalici,
che formano un sistema lievemente dissimetrico caratterizzato da 4 vocali della serie
anteriore, 5 della serie posteriore e 3 centrali. Le vocali inglesi sono anche in parte
sensibili alla distinzione di lunghezza vocalica ed al tratto teso/rilassato.
• vocali della serie anteriore, non arrotondate
/i:/ chiusa, lunga, tesa sea "mare" /si:/; deep, leave, free, seat, key, beat
/I/ meno alta e più centralizzata della precedente, breve, rilassata rich "ricco" /rIw/; bridge,
sick, kit, bit. Coppie minime che oppongono questi due fonemi: reach : rich; sheep : ship;
seat : sit
/e/ articolata in una posizione intermedia tra semichiusa e semiaperta (meno chiusa di /e/
italiano) ten "dieci" /ten/; step, edge, neck.
/æ/ realizzata tra semiaperta e aperta cat "gatto" /kæt/; bad, fat, back, badge, happy
Coppie minime che oppongono queste due unità foniche: men : man; bed : bad si noti
inoltre che i due fonemi non hanno esatto equivalente nella serie posteriore.
• vocali della serie posteriore (le prime 4 sono arrotondate)
/u:/ chiusa (alta), lunga, tesa fool "stupido" /fu:l/; too "troppo" /tu:/; shoot, view.
/U / meno alta e più centralizzata della precedente, breve, rilassata full “pieno" /fUl/, put
/pUt/;
/$:/ articolata in una posizione intermedia tra semichiusa e semiaperta, lunga saw /s$:/;
war "guerra" /w$:/; door, law, call, talk, lord, short.
/$/ semiaperta, breve not /n$t/; body, copy, spot, lot, dog, cough, cross, song, long, sorry.
/A:/ tra le posteriori è la più aperta (e bassa) ed è anche l'unica che non prevede
protrusione delle labbra; è piuttosto allungata e tesa father /'fA:ð´/; ask /A:sk/ (in
pronuncia britannica); car, large, start, calm, half.
• vocali centrali
/´:/ medio-bassa, lunga, tesa; sempre tonica bird /b´:d/; girl /g´:l/, word /w´:d/, learn,
work, nurse.
/´/ punto articolatorio vicino a quello della precedente, ma rilassata: inoltre sì realizza
solo in sillaba non accentata about /´'baUt/; among, color, better, holiday.
/\/ più bassa delle precedenti, si ottiene alzando il tratto mediano-centrale della lingua e
aprendo le labbra in posizione neutra in maniera da allontanare le mascelle; è la
corrispondente non arrotondata di /$/: cut "tagliare" /k\t/; love /l\v/; cup, but, just, rugby.
Per l’inglese, come anche per il tedesco, si eviterà di trattare dei dittonghi, perché la
discussione sul loro valore monofonematico o polifonematico ci porterebbe troppo
lontano ed appesantirebbe eccessivamente la trattazione.
Cenni di fonetica contrastiva anglo-italiana
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Per quanto riguarda il consonantismo le occlusive sono sei in ambedue i sistemi
fonologici, ma t/d variano come luogo di articolazione (dentali in italiano, alveolari in
inglese); le fricative sono in numero maggiore in inglese, con la difficoltà posta dalle
interdentali che non trovano riscontro in italiano; particolare attenzione per gli italofoni
va posta poi nella realizzazione della r, articolata in inglese come approssimante
postalveolare. Il vocalismo inglese si caratterizza per complessità e rispondenza a
parametri in larga misura divergenti dalle abitudini articolatorie italiane; ad esempio fa
valere, sia pure non sistematicamente, l'opposizione di durata; inoltre sfrutta uno spazio
articolatorio ignoto all'italiano cioè quello delle vocali centrali.
SISTEMA FONOLOGICO TEDESCO
Come l’Italia, anche la Germania non ha una tradizione plurisecolare di Stato unitario e
perciò non ha avuto un modello unitario di lingua: come lingua scritta si adottò quella
della Bibbia di Martin Lutero (che era un compromesso fra diversi dialetti), e per la
pronuncia si assunse a modello la pronuncia degli attori di teatro (Bühnenaussprache,
pronuncia della scena), che pure era un compromesso fra varie pronunce regionali.
Premesso questo, si può affermare che il sistema fonologico tedesco comprenda 20
fonemi consonantici, 1 approssimante (o semiconsonante), e 15 fonemi vocalici.
SISTEMA CONSONANTICO TEDESCO
bilabial labiod. dentali
postalveolari palatali velari uvular glottidali
occlusive p b
td
kg
fricative
[ç]
[x]
h
fv
sibilanti
sz
S
affricate
nasali
laterali
vibranti
pffi
m
v
n
1
[w]
C
R
Le fricative [ç] e [x] sono in distribuzione complementare e dunque, fonologicamente,
formano una sola unità. I fonemi consonantici restano dunque 20.
CONSONANTISMO TEDESCO
Si noti anzitutto che in tedesco la geminazione consonantica non è fonologicamente
rilevante: si scrivono cioè consonanti doppie, e spesso anche le si pronuncia, ma in questi
casi ciò che conta è la brevità della vocale che precede.
occlusive
Le consonanti occlusive del tedesco sono sei, analoghe a quelle italiane: ma va tenuto
presente che, a differenza dell’italiano, qui il tratto distintivo non è la sonorità (o
l’assenza di sonorità), bensì l’energia articolatoria: si parla dunque di consonanti forti e di
leni. Le occlusive forti (sorde) ad iniziale di parola hanno come caratteristica non
distintiva l'aspirazione.
bilabiali /p/ forte sorda Paar [pha:r], kaputt lene sonora Bahn, loben
alveolari /t/ forte sorda Tod "morte" [tho:t], Tasse /d/ lene sonora das, dünn “sottile”,
54
Mode
velari (o dorsali) /k/ forte sorda Kohl, Acker /g/ lene sonora gelb "giallo"; morgen
"mattino"
Sotto il profilo del luogo di articolazione il tedesco sembrerebbe disporre di un settimo
fonema occlusivo, realizzato come glottidale (o glottale o laringale) ed il cui simbolo è
/d/. Si tratta del cosiddetto colpo di glottide (per realizzarlo "le corde vocali bloccano il
passaggio dell'aria nella glottide"), che tuttavia, più che fonema, costituisce un segnale
demarcativo. Il colpo di glottide si realizza automaticamente:
• davanti ad ogni vocale iniziale di parola
guten Abend [guten dabent]; er ist alt [der dist daltJ
• davanti ad ogni vocale iniziale di morfema be-achten, er-arbeiten
Il colpo di glottide è in grado di opporre coppie quali vereisen /ferdaizen/ "gelare" :
verreisen /feraizen/ "mettersi in viaggio".
fricative
labiodentali: /f/ sorda Volk "popolo"; vier "quattro" /fi:r/, führen “guidare”
/v/ sonora Wagen "vettura"; weiss “bianco”
(sibilanti) alveolari
/s/ sorda was, das, ist; lassen
/z/sonora lesen. Ad iniziale di parola, davanti a vocale, è automatica la realizzazione della
s come sonora (almeno nella pronuncia standard: non è così nelle pronunce regionali):
Sonne "sole" [z$nne]; See "mare, lago" [ze:] Diciamo pertanto che l'opposizione /s/ : /z/ è
neutralizzata in principio di parola a vantaggio della sonora.
postalveolari: /S/ schön "bello"; mischen "mescolare"; waschen "lavare"; Schade. Davanti
a consonante, all’inizio di parola o di morfema, la s si realizza automaticamente come
postalveolare /S/, ad es. stehen “stare”, bestellen “ordinare” si dicono /Ste:n/, /beStεlen/,
ma ist “è”, Kunst “arte” sono /ist/, /kunst/ (qui si vede come la Bühnenaussprache scelga
il compromesso: in realtà nei dialetti meridionali la tendenza è verso una pronuncia
sempre postalveolare di s anteconsonantica, tipo /iSt/, /kunSt/, mentre al Nord si tende ad
una pronuncia sempre alveolare, tipo /ste:n/, /bestεlen/; si noti che la stessa tendenza si ha
davanti a tutte le consonanti: così in tedesco si presentano le varianti Schnee /Sne:/
“neve” ma Sneewittchen “Biancaneve” (evidentemente questa fiaba è di regioni
settentrionali).
E' estraneo al sistema nativo tedesco il corrispettivo fonema sonoro /b/, presente solo in
alcuni francesismi (garage ecc.)
[x] velare sorda ~ [ç] palatale sorda
Le due unità foniche figurano in distribuzione complementare: la prima, il cosiddetto
ach-Laut, occorre dopo vocale non palatale; la seconda, il cosiddetto ich-Laut, prima e
dopo vocali anteriori e dopo /r/, /1/,/n/. Esse, pertanto, non possono essere conteggiate
come due fonemi distinti, ma come allofoni (cioè varianti) di uno stesso fonema: /x/ in
Achtung "attenzione"; Nacht "notte"; /ç/ in ich "io"; Milch "latte"'; durch "attraverso".
glottidale /h/ sorda haben "avere"; Hand "mano"
affricate
Sono due le affricate del tedesco alle quali si possa riconoscere statuto fonematico.
/pffi/ labiodentale: il primo elemento è labiale il secondo implica la fricativa dentale: è
prodotta accostando il labbro inferiore ai denti superiori. Pferd "cavallo"; Pfaffe
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/v/ dentale sorda zehn "dieci”; Katze “gatto”.
A prima vista il tedesco sembrerebbe conoscere anche le affricate palatoalveolari: si tratta
della sorda [w], realizzata in parole quali Gletscher "ghiacciaio", peitschen “frustare”, e
dell'omologa sonora [t], che compare in un numero limitato di prestiti. Tuttavia, secondo
la maggior parte delle analisi, sono da considerarsi più che fonemi unitari, nessi
bifonematici.
nasali
/m/ bilabiale mehr, Lampe
/n/ alveolare Nacht, kann
/C/ velare lang "lungo" /laC/; krank "malato”.
E' dubbio se la nasale velare costituisca fonema autonomo; per alcuni studiosi si tratta di
una semplice variante, realizzata davanti a occlusiva, della nasale alveolare.
laterali (sonore)
/l/ alveolare: lachen "ridere", Kohl “cavolo”.
uvulari
[R] Il fonema notato graficamente come r è soggetto in tedesco a variazione libera: può
realizzarsi in particolare:
• come vibrante uvulare [R] ad iniziale di parola:
reden "leggere"; Rat “consiglio”, rot “rosso”. In alcune varietà di tedesco questo tipo di
vibrante si usa in tutte le posizioni;
• come fricativa uvulare [γ], ad esempio dopo vocale breve;
• come r vocalizzato [A], dopo un apice sillabico: der, wir, dir, nur, Wurm, warten
• come vibrante apicale [r] ; era tipica della Bühnenaussprache degli anni Trenta e
Quaranta, ma oggi tale pronunzia appartiene solo ad alcuni dialetti. La realizzazione
come fricativa uvulare è storicamente modellata sulla pronunzia parigina vigente al
principio del XVIII secolo.
coppie minime che implicano l'opposizione forte : lene
p : b Pein “pena” : Bein “gamba”
t : d Tank “serbatoio” : Dank “grazie”
k : g Kunst “arte” : Gunst “favore”
f : v fand “trovò” : Wand “parete”
s : z reißen “strappare” : reisen “viaggiare
altre coppie minime: f : pf fand “trovò : Pfand “pegno”, t : ts Tank “serbatoio” : Zank
“lite”, z : S Sohn “figlio” : schon “già”, m : n mein “mio” : nein “no”, n : C sinnen
“meditare” : singen “cantare”.
APPROSSIMANTI
Il tedesco conosce una sola approssimante articolata come palatale /j/ Jahr "anno" /jA:R/
VOCALISMO TEDESCO
Il sistema vocalico tedesco comprende 15 fonemi vocalici così distribuiti: 5 vocali della
serie anteriore, 4 vocali anteriori arrotondate, 4 vocali della serie posteriore, 2 vocali
mediane. Secondo alcune descrizioni (Albano Leoni - Morlicchio 1988, p. 43; Handbuch
IPA) possiederebbe statuto fonologico anche la vocale centralizzata che si realizza solo in
sillaba non accentata, per es. nel prefìsso be- di be-lichten “esporre alla luce” o nella
terminazione -e di Beute “bottino”).
Durata vocalica e grado di apertura
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Fra i suddetti quindici fonemi vocalici operano sette opposizioni di quantità associate ad
un'opposizione di grado di apertura che funziona come tratto ridondante.
Soltanto due delle vocali brevi, e cioè /a/ ed /ε/, hanno un corrispondente allungato del
medesimo timbro (cfr. le coppie Bahn "via": Bann "bando"; schälen “sbucciare” :
schellen “suonare il campanello”); le altre vocali si oppongono sia dal punto di vista della
durata che del timbro, ossia del grado di apertura. Si hanno nel complesso 7 vocali brevi;
8 vocali lunghe.
Notazione grafica
La presenza di fonemi vocalici brevi è segnalata nella grafia per mezzo del
raddoppiamento della consonante che segue; i fonemi vocalici lunghi vengono notati con
più artifici grafici: con un h (ad es. Bahn), con un digramma vocalico (ad esempio ie di
Wiese ecc.), mediante il ricorso ad una consonante scempia intervocalica.
Ecco le cinque vocali della serie anteriore (palatali)
/i:/ è la vocale anteriore più chiusa; è realizzata come lunga: Miete [mi:te] "affìtto"; bieten
"offrire"; lieben "amare"
/I/ più breve, della precedente, più bassa e centralizzata: Mitte "metà"; bitten "chiedere";
Kind "bambino"
/e:/ zehn "dieci"
/ε/ Bett "letto"
/ε:/ ähnlich "simile"; Gewähr “garanzia”. Si tratta di un fonema vocalico ormai di
impiego marginale. Esso funziona ad esempio nelle coppie minime: schälen “sbucciare” :
schellen “suonare (campanello)”; zählen “contare” : zahlen “pagare”. Dato il suo carattere
isolato e straordinario (è l’unica vocale aperta lunga), tale fonema è maggiormente
esposto alla defonologizzazione, e manca in molte varietà di tedesco, che lo realizzano
come [e:].
vocali anteriori arrotondate
/y/ chiusa, lunga Hüte "cappelli"; lügen "mentire"; über
/Y / più aperta della precedente, breve Hütte "capanna"; fünf "cinque"; lüften "ventilare"
/ø:/ semichiusa, lunga lösen "risolvere, sciogliere"; Höhle "caverna";
/F/ semiaperta, breve können "potere"; Hölle "inferno"; möchte
vocali della serie posteriore (sono anche arrotondate)
/u:/ è la vocale posteriore più chiusa; è realizzata come lunga Mus "passato, puré"; Ruhm
"fama"
/U/ meno chiusa e un po' più accentrata rispetto alla precedente, breve Mutter, und,
drucken
/o:/ semichiusa, lunga, tesa Ofen "forno"; Brot "pane"
/$/ semiaperta, breve, rilassata offen "aperto"; voll "pieno"; sollen "dovere"
vocali aperte:
/A:/ lunga e posteriore Staat "stato" /StA:t/; Bahn "strada" /bA:n/; bezahlen "pagare"
/a/ breve e anteriore Stadt "città" /Stat/; Bann "scomunica" /ban/; fallen "cadere", lassen
"lasciare", Mann "uomo"
Cenni di fonetica contrastiva tedesco-italiana
A differenza del vocalismo, segnato da una sua forte specificità e da una vistosa ricchezza
di unità toniche, il consonantismo tedesco presenta una maggiore prossimità rispetto a
quello italiano. Occorre tuttavia far notare che
57
• il tratto di tensione, che oppone consonanti tese e rilassate, è distintivo nel
consonantismo tedesco, mentre è ridondante in quello italiano, dove invece opera in
maniera distintiva la correlazione di sonorità, che non è funzionale invece nel tedesco
(Muljacic 1977);
• la distinzione sorda : sonora tende in tedesco ad essere neutralizzata in posizione finale,
ciò che provoca alternanze del tipo Tag [tak] “giorno” : Tages [tages] “del giorno”; si
tratta del fenomeno denominato Auslautsverhartung, applicato anche ai prestiti (Philippe
1974, p. 67).
Altre particolarità del consonantismo: /p/ /t/ /k/ sono realizzate come aspirate davanti a
vocale tonica e in finale assoluta, ma l'aspirazione non possiede valore distintivo; /s/ non
si realizza mai in posizione iniziale, almeno nella pronuncia più corretta.
SISTEMA FONOLOGICO FRANCESE
II sistema fonologico francese comprende:
17 fonemi consonantici;
3 approssimanti (o semiconsonanti);
16 fonemi vocalici (di cui 12 vocali orali e 4 vocali nasali).
SISTEMA CONSONANTICO FRANCESE
bilabiali labiod. dentali
alveolari
postalveol. velari uvulari
(palatali)
occlusive p b
td
kg
fricative
sibilanti
nasali
laterali
vibranti
fv
Sb
sz
m
n
1
B
R
CONSONANTISMO FRANCESE
occlusive
Il francese conta sei fonemi occlusivi:
bilabiali
/p/ sorda père "padre"; pain; /b/ sonora bras, robe, bain
dentali (o apicali): /t/ sorda table, vitesse, bibliothèque; /d/sonora dans, doigt, endroit
La realizzazione francese della t e della d è più arretrata che nelle corrispondenti
consonanti italiane, articolate come dentali.
velari (o dorsali): /k/ sorda coup "colpo" /ku/; quatre, kilomètre; /g/sonora goût "gusto"
/gu/; gare, grand
fricative
Il francese conta sette fonemi fricativi:
labiodentali: /f/ sorda fruit, neuf; /v/ sonora vous, rève, vin
alveolari: /s/ sorda douce "dolce (f.)" /dus/; salle, tasse, garçon, nation; /z/sonora douze
"dodici" /duz/; maison "casa"; rose, zéro
58
postalveolari: /S/ sorda chaise “sedia” /Sε:z/; cheval, tache; /b/ sonora je, jour, jaune,
page. Queste fricative alveolari e postalveolari sono tradizionalmente definite sibilanti.
Diversamente da quanto accade in italiano, la presenza della palatoalveolare sonora rende
equilibrata e completa la serie fricativa concorrendo a formare la correlazione sordasonora.
uvulare /R/ Ferma restando la localizzazione uvulare, la r francese conosce più varianti:
- la fricativa uvulare [R], che occorre ad inizio di parola e dopo consonante roi "re"
[Rwa], livre "libro" [livR];
- l'approssimante uvulare [γ], la cui articolazione comporta un minore avvicinamento del
dorso della lingua all'ugola rispetto al corrispondente suono fricativo (Canepari 1979, p.
68); si realizza dopo vocale e in finale di parola parler "parlare" /paγle/, lire "leggere";
- la vibrante uvulare (conosciuta come "r grasseyé"), realizzata "con l'ugola che batte
contro la radice della lingua". Viene trascritta mediante [R].
La r del francese è in ogni caso molto diversa dalla vibrante apico-dentale italiana
(definita "r roulé"), che si può trovare solo come variante regionale, propria del sud della
Francia. In passato, invece, era proprio la vibrante la norma di realizzazione.
nasali (tutte sonore) Sono tre i fonemi consonantici nasali del francese:
/m/ bilabiale main "mano"; pomme “mela”.
/n/ alveolare neuf "nuovo”; nous "noi"; dictionnaire "dizionario"
Negli esempi sopra riportati la nasalizzazione viene bloccata e la n mantiene il suo valore
alveolare in quanto segue una vocale. Quando sia preceduta da vocale della stessa sillaba,
la consonante /n/ ne provoca la nasalizzazione, perdendo il suo valore consonantico per
diventare una componente della vocale nasale: pendant /pA)dA)/, international
/E)teRnasjonal/, onde /$)d/, Verdun /verdF)/.
/B/ palatale agneau /aBo/ "agnello"; montagne, bagne
Non ha rilevanza fonologica la nasale velare [C] in quanto avvertita come fonema
straniero (è realizzata in anglicismi come parking, camping, caravaning).
laterali
II francese conosce un solo fonema laterale:
/l/ alveolare aller "andare"; escalier, sol, mille
APPROSSIMANTI
II sistema fonologico francese comprende tre unità foniche, poste alla frontiera tra
vocalismo e consonantismo, tradizionalmente denominate 'semiconsonanti'. Aderendo
tuttavia alla terminologia dell'API preferiamo classificarle come approssimanti.
/j/ approssimante palatale cahier "quaderno" /kaje/; pied "piede"; yeux, fìllette, soleil,
paille
/5/ approssimante labiopalatale, sempre davanti a i: huit "otto"; nuit "notte"; huile
Si classifica questa unità fonica come labiopalatale in quanto l’articolazione coinvolge
labbra e palato duro.
/w/ approssimante (labio)velare oui /wi/ "sì"; roi /Rwa/ “re”
schema riepilogativo delle approssimanti francesi
palatale
labiopalatale velare
approssimanti j
w
5
59
VOCALISMO FRANCESE
II francese conosce in tutto sedici vocali toniche di cui dodici orali e quattro nasali.
vocali orali
3 vocali collocate nella serie anteriore, non arrotondate /i/ chiusa il, livre, lit, ami; /e/
semichiusa blé, cahier, nez, pied, parler, sévérité; /ε/ semiaperta mère "madre", lait,
première; alcuni distinguono /+/ breve di faite “fatta” da /+:/ lunga di fête “festa”.
3 vocali anteriori arrotondate
/y/ tu, mur, lune (apertura corrispondente alla /i/); /ø/ feu "fuoco"; deux, ceux (corrisponde
alla /e/); /F / fleur "fiore"; jeune "giovane"; heure (corrisponde alla /ε/).
3 vocali nella serie posteriore (labializzate) /u/ chiusa vous, nous, loup; /o/ semichiusa
rose /roz/; eau "acqua" /o/; beau "bello"; tableau; /$/ semiaperta homme /$m/; port, lors
2 tipi di a, l'una anteriore /a/ e l'altra posteriore (ma non labializzata) /A/: [anteriore]
arbre, table; [posteriore] bas, pas, âme "anima".
l'opposizione tra le due a si è quasi perduta in francese; essa opera in un numero limitato
di coppie minime tra cui le seguenti: patte "zampa" : pâte "pasta"; tache “macchia” :
tâche “compito”; matin “mattino” : mâtin “mastino” ecc.
1 vocale centrale di timbro instabile [la cosiddetta e muette] /´/ le, je, fenètre
vocali nasali
La caratteristica del vocalismo francese è appunto la presenza di vocali nasali, dotate di
valore fonematico (si tratta cioè di fonemi a tutti gli effetti): la presenza o l'assenza di
risonanza nasale è il tratto su cui si fonda la distinzione nell'ambito di molte coppie
minime, tra cui le seguenti :
fait "il fatto" : fin "fino";
beau "bello" : bon "buono"
Le vocali nasali del francese standard sono in numero di quattro.
/A)/ langue "lingua" /lA)g/; lampe /lA)p/; grand "grande"; blanc "bianco"; dans
/E)/ pain "pane", vin "vino" /vE)/; jardin /baRdE)/; plein "pieno"; bien, main
/$)/ monde /m$)d/; rond "rotondo"; blond; nombre "numero"; bon, on
/F)/ un "uno"; brun "bruno"; lundi "lunedì"; parfum "profumo" Grazie a un accorgimento
mnemonico, i quattro tipi vocalici possono essere concentrati nella frase un grand pain
rond [F) gRA) pE) R$)]. Nell'uso corrente, tuttavia, si coglie la tendenza a far convergere in
una stessa pronunzia le vocali /ε)/ di pain e /F)/ di un, per cui l'inventario delle vocali
nasali tende a ridursi a tre unità.
Altri fenomeni tipici del francese sono l'accentuazione finale della parola e la cosiddetta
liaison.
Cenni di analisi contrastiva con l'italiano
Se accostiamo il sistema fonologico francese al sistema italiano o a quello spagnolo,
siamo immediatamente colpiti dalla straordinaria varietà delle vocali francesi: a fronte dei
sette fonemi vocalici dell'italiano e dei soli cinque dello spagnolo, il francese possiede
ben sedici diversi fonemi vocalici (Perini 1971, pp. 231-241).
Del francese mancano all'italiano:
• le tre vocali anteriori arrotondate /y/ di vu, /F/ di fleur, /ø/ di deux;
• le quattro vocali nasali;
• la cosiddetta e muta o instabile.
60
Inoltre il francese, almeno nel parlare dei più anziani, presenta due opposizioni vocaliche
di durata: cfr. belle : bêle, "bella" e "bela" e tache : tâche "macchia" e "compito".
Nell'ambito delle approssimanti è esclusiva del francese la labiopalatale /5/
Tra le differenze nel consonantismo segnaliamo la presenza in francese della fricativa
palatale sonora /b/, assente dallo standard italiano, e viceversa la presenza solo in italiano
della laterale palatale /^/ e delle affricate. Altre differenze si traducono in sostituzioni di
foni (ad es. r è uvulare in francese invece che apicale), ossia in modifiche nelle modalità
articolatorie piuttosto che in differenze di inventario.
SISTEMA FONOLOGICO SPAGNOLO
II sistema fonologico spagnolo comprende:
18 fonemi consonantici;
2 approssimanti (o semiconsonanti);
5 fonemi vocalici.
SISTEMA CONSONANTICO SPAGNOLO
bilabiali labiod dentali interdentali
palatali
occlusive p [b]
t [d]
fricative [z]
f
θ [δ]
sibilanti
s
affricate
nasali
laterali
vibranti
m
n
1
N r
velari
k [g]
x [γ]
w
B
^
Le tre coppie di foni formate rispettivamente da [b] : [z]; [d] : [δ]; [g] : [γ] sono in
distribuzione complementare e dunque, fonologicamente, contano ciascuna per una sola
unità. Pertanto i fonemi consonantici dello spagnolo sono 18.
CONSONANTISMO SPAGNOLO
occlusive
Lo spagnolo conosce solo tre “vere” occlusive: si tratta delle sorde, mentre le
corrispondenti sonore sono talmente deboli da stare a metà tra occlusive e fricative.
Inizieremo dunque a passare in rassegna le sorde.
/p/ bilabiale capa “mantello”
/t/ dentale tiempo
/k/ velare cosa
Le occlusive sonore [b], [d], [g] mantengono il loro modo di articolazione limitatamente
alla posizione forte (ossia ad inizio di frase; dopo consonante nasale o liquida), mentre in
posizione intervocalica (anche nel contesto di frase, se cioè precede una parola che
termina in vocale) sono realizzate mediante le fricative del corrispondente luogo di
articolazione, rispettivamente [z], [δ], [γ]. Si hanno dunque, per ciascun caso, due
allofoni, uno occlusivo e l'altro fricativo, in distribuzione complementare:
bilabiale [b] [z]: le due varianti possono essere rappresentate ora da b ora da v, ma i due
grafemi non sono specializzati a indicare uno dei due allofoni; in altre parole una b della
scrittura può indifferentemente indicare sia [b] che [z] [b] banco, bueno, vino, vista,
61
invasión, un vaso [um baso]; [z] saber, caballo; avion, Sevilla
alveolare [d] [δ]: l'alternanza osserva le consuete regole di distribuzione; la variante
occlusiva ricorre ad iniziale e dopo nasale o liquida; nelle altre posizioni si realizza la
fricativa. La grafia è invece costantemente d. [d] dar, decir, mundo, buen dia /bwen dia/;
[δ] venido, cada
velare [g] [γ] La grafia è sempre g. [g] gusto, gato, guerra [γ] lago, fuego
fricative
Le fricative dello spagnolo aventi pertinenza fonologica sono quattro, tutte sorde: /f/ /θ/
/x/ /s/; le corrispondenti sonore delle prima tre, come abbiamo già visto, non hanno
statuto fonologico, ma sono allofoni intervocalici delle corrispondenti occlusive.
/f/ labiodentale fiesta
/θ/ interdentale, ortograficamente rappresentato da c + e, i (es. hacer, ciento) oppure da z
(es. caza "selvaggina"; pozo)
/s/ alveolare paso, coser "cucire"; conosce una variante sonora [z] in vicinanza di
consonante sonora: mismo [mizmo]; rasgo “tratto”
/x/ velare, scritto come j (es. hijo "figlio" /ixo/) oppure g + e, i (es. gente, coger)
affricate
/w/ palatale sorda, ortograficamente rappresentata da ch: mucho, ocho, techo
nasali
Lo spagnolo conosce tre fonemi nasali (tutti sonori):
/m/ bilabiale alma "anima"
/n/ alveolare: lino, lana, leccion. Esiste una variante velare condizionata dall'occorrenza
di una consonante velare che segua: es. cinco [θiCko]
/B/ palatale, ortograficamente rappresentata da ñ: sueño /sweBo/ "sogno"; niño, pequeño.
A differenza del corrispondente fonema italiano, che implica una articolazione rafforzata
(cft. ad es. in bagno /baBBo/), è realizzata come semplice.
laterali
Lo spagnolo conosce due fonemi laterali (ambedue sonori): /l/ alveolare lana, lado, abril;
/^/ palatale, ortograficamente rappresentata da ll: caballo [kaza^o] "cavallo"; calle
/ka^e/"via". A differenza del corrispondente fonema italiano non è mai geminata. La
distinzione fonematica della /^/ palatale rispetto alla /l/ alveolare è garantita da coppie
minime quali loro “pappagallo” / lloro “pianto”; talar “disboscare” / tallar “intagliare”.
La /^/ proviene da quattro diversi possibili antefatti latini: PL- (llano ), CL- (llave ), FL(llama ) e da -LL- (castillo).
vibranti (sonore)
Allo spagnolo si possono attribuire due tipi di vibrante, fonologicamente distinti,
ambedue realizzati come alveolari:
/N/ monovibrante, ortograficamente rappresentato da r; ne esiste una variante fricativa in
posizione intervocalica o finale di parola
/r/ plurivibrante ortograficamente rappresentato da rr. Esempi di coppie minime che
oppongono i due tipi di vibrante:
pero "però" : perro "cane"; coro “coro” : corro “gruppo, crocchio”.
APPROSSIMANTI (semiconsonsonanti)
Lo spagnolo conosce due approssimanti (semiconsonanti), una palatale e l’altra velare:
62
y tiene /tjene/, mayo, hierba
/w/ cuatro /kwatro/, huevo “uovo”
VOCALISMO SPAGNOLO
II sistema fonologico dello spagnolo annovera, in sillaba tonica, cinque fonemi vocalici
distribuiti in tre gradi di apertura (rispetto ai sette dell'italiano ordinati in quattro gradi di
apertura):
vocali anteriori
/i/ ir, niño
/e/ enero “gennaio”, cabeza
vocali posteriori
/u/ nunca
/o/ rosa; non opera o comunque non ha rilevanza distintiva l'opposizione di timbro fra /ε/
/$/aperte e le corrispondenti chiuse /e/, /o/ tipica dell'italiano a base toscana.
vocale centrale
/a/ verdad
Cenni di fonetica contrastiva rispetto all'italiano
Non esistono in spagnolo, o perlomeno non hanno autonomia fonologica, la fricativa
labiodentale sonora /v/, le fricative palatali, l'affricata palatale sonora /t/; più povero
anche il sistema vocalico, che comprende solo cinque unità foniche. Per contro
rappresentano un problema per l’apprendente italiano la fricativa interdentale /θ/ e la
velare /x/, la duplicità dei fonemi vibranti oltre ai rilevanti fatti di allofonia che
interessano le occlusive sonore.
SISTEMA FONOLOGICO ARABO CLASSICO
Va detto che fino a qualche decennio fa l’arabo classico era usato quasi esclusivamente
come lingua scritta: nel parlato lo si sentiva solo in discorsi solenni, nelle prediche, oltre
che nella recitazione del Corano e nel discorso di religione o di letteratura. Ora però si va
diffondendo sempre più in quanto è diventato anche la lingua dei telegiornali, oltre che
per i contatti sempre più frequenti tra Arabi di diversi Paesi. La pronuncia dell’arabo
classico differisce a seconda delle varianti locali: qui si indicheranno alcune delle
pronunce più prestigiose.
Si può dire che l’arabo classico conosca 6 vocali e 28 consonanti. Per questa lingua non è
possibile fare la distinzione tra consonati e approssimanti, perché il sistema fa una
distinzione netta tra vocali e consonanti: ogni parola deve iniziare con una consonante, ed
una sola; non sono ammesse più di due consonanti di seguito (o anche una consonante
geminata), sempre all’interno o in fine di parola; non sono ammessi gruppi vocalici; le
vocali lunghe sono calcolate quasi sempre come se fossero una vocale + un coefficiente
consonantico, e perciò possono essere seguite da una sola consonante (fa eccezione la /a:/
che ammette dopo di sé una consonante doppia).
SISTEMA CONSONANTICO ARABO
postalveol. velari uvul. faringali glottidali
bilabiali labiod dentali e
interdentali (palatali)
Occlusiv
e
b
t d te de
/
k [g] q
d
63
Fricative
sibilanti
Nasali
Laterali
Vibranti
f
szs
m
e
xγ
E δ δe
ye
h
S [b]
n
1
r
occlusive
si noti che l’arabo possiede /b/ ma non /p/, ed anche /f/ ma non /v/: per quanto strana, la
stessa situazione si ritrova in molte lingue semitiche ed africane. Le occlusive dell’arabo
sono dunque:
bilabiale /b/: bi’r “pozzo”, ’ab “padre”, šubbâk “finestra”
dentali: sorda /t/, sonora /d/: taraka “lasciò”, kuttâb “scuola coranica”, tuffây ”mele”;
darb “strada”, dîn “religione”, šadîd “forte”
palatale: solo la cosiddetta “lettera jîm“, che per la verità ha pronunce differenti a seconda
dei Paesi. Etimologicamente deriva da una /g/ (velare) semitica, e questa è ancora la
pronuncia prevalente in Egitto, in Oman, a Aden; i grammatici medioevali
raccomandavano una pronuncia di occlusiva palatale /// che è tuttora diffusa nell’Egitto
meridionale, in Sudan, in molte tribù beduine; c’è poi una pronuncia come affricata /t/,
corrente in Iraq e Algeria, e raccomandata in alcune scuole; oggi la più diffusa pare essere
la pronuncia come sibilante alveolare /b/, corrente nelle città della regione siropalestinese, in Tunisia, Marocco ecc. Qui si indica come se fosse “norma” la pronuncia
palatale raccomandata dai grammatici, perché storicamente spiega gli sviluppi successivi.
Si traslittera come j e compare ad esempio in jamal “cammello”, ’ajmal “più bello”, tâj
“corona”, majd “gloria”, jayš “asinello”
velare: /k/ kalb “cane”, kitâb “libro”, fakkara “pensò”. La velare sonora [g] è presente
praticamente ovunque, anche se non ha una precisa codificazione nella scrittura: in Egitto
corrisponde alla jîm, nei dialetti beduini corrisponde a q, altrove la si conosce come
prestito da altri dialetti o da lingue europee.
uvulare: /q/ qalb “cuore”, baqara “mucca”, baqqâr “pastore di bovini”. Nei dialetti
beduini si pronuncia come velare sonora [g]; in molti dialetti cittadini è passata ad
occlusione glottale /d/.
glottidale: /d/ (traslitterata ’) ’axaδa “egli prese”, ya’xuδu “egli prende”, sa’ala
“domandò”, wafâ’ “compimento d’una promessa”. È lettera debole e tende ad essere
tralasciata, soprattutto in finale di parola o di sillaba; è l’unica consonante che non si
presenta mai geminata.
fricative
labiodentale /f/ faras “cavalla”, fikr “pensiero”, xafîf “leggero”.
interdentali, sorda /E/ Eaelab “volpe”; Eaqîl “pesante”, bayE “ricerca”; sonora /δ/ δi’b
“lupo, sciacallo”, δahiba “egli andò”, hâδa “questo”
velari, sorda /x/ xamr “vino, alcool”, xarîf “autunno”, faxr “vanto”, ’ax “fratello”; sonora
/γ/ γarîb “strano, straniero”, γarb “Occidente”, γâlib “vincitore”
faringali, sorda /y/ yimâr “asino”, yasan “bello”, ’aysan “più bello”, rûy “spirito”;
sonora /e/ eâmil “lavoratore”, einab “uva”, sâea “ora”
64
laringale sorda: /h/ huwa “egli”, fahm “intelletto”, faqîh “esperto della legge coranica”
sibilanti /s/, /z/: sirr “segreto”, fassala “confezionò su misura”, nâs “gente”, zanj “negro”,
xazzân “serbatoio”, mumtâz “ottimo”; queste sibilanti si contrappongono praticamente in
ogni posizione, ad esempio in yusn “bellezza” rispetto a yuzn “funerale”; di sibilante
postalveolare l’arabo classico conosceva un tempo solo /S/, in šams “sole”, šariba “egli
bevve”, šimâl “sinistra”; oggi in molte pronunce regionali (ma sarebbe meglio dire
nazionali) esiste anche la corrispondente sonora, cioè una [b] come resa normale di jîm,
ed anche negli altri Paesi questo fonema si è acclimatato per rendere parole straniere e di
altri dialetti arabi.
nasali: l’arabo distingue solo due fonemi: /m/, mâl “ricchezza”, maktab “ufficio” lawm
“rimprovero”, fam “bocca”, ’umm “madre”; ed /n/, nâs “gente”, lawn “colore”, eunq
“collo”.
laterale: solo /l/, lisân “lingua”, lâzim “necessario”, jabal “monte”.
vibrante: solo /r/, di articolazione simile a quella dell’italiano: rajul “uomo”, ra’s “testa”,
bi’r “pozzo”.
approssimanti: la labiovelare /w/ in ward “rosa”, ’awwal “primo”, walad “bambino”,
’awlâd “bambini”; e la palatale /j/ (traslitterata comunemente y): yawm “giorno”, ’ayyâm
“giorni”, šayyâl “facchino”
Resta da parlare ora delle enfatiche. In arabo esistono alcune consonanti dette enfatiche,
caratterizzate da una simultanea costrizione faringale: così la /X/ (ovvero /te/, /t¢/) differisce
dalla /t/ semplice, ad esempio in t¢în “fango” rispetto a tîn “fichi”. Le enfatiche dell’arabo
classico sono le seguenti:
/te/, enfatica della /t/: t¢araqa “egli batté”, t¢âlib “che domanda (la scienza); studente” [da
cui, con plurale persiano e non arabo, t¢âlibân, gli studenti che presero il potere in
Afghanistan], waqt¢ "tempo";
/δe/ enfatica della /δ/, (traslitterata normalmente z¢), in z¢ufr “unghia”, yafaz¢a “conservò,
conobbe a memoria”, z¢uhr “mezzogiorno”;
/se/ enfatica della /s/, in s¢abr “pazienza”, yis¢ân “cavallo”, eas¢r “epoca”, nas¢r “vittoria”;
ed infine esiste la d¢âd, consonante che gli antichi grammatici descrivevano come
difficilissima per gli stranieri, perché a quel tempo doveva essere un’enfatica interdentale
sonora lateralizzata: ma oggi un suono simile si è perso (eccetto forse in due villaggi
sauditi15), e le pronunce correnti sono due: 1) come /de/,enfatica della /d/; 2) uguale alla
/δe/. Si usa in parole come d¢arb “colpo”, ’ard¢ terra”, fad¢d¢a “argento”.
VOCALISMO ARABO
Le vocali arabe sono tre brevi, /i/ /a/ /u/, e tre lunghe, /i:/, /a:/, /u:/. Le lunghe (come pure i
dittonghi /ay/ ed /aw/ possono stare solo in sillaba aperta, o in sillaba finale chiusa da una
sola consonante; fa eccezione la /a:/ che può essere seguita da consonante geminata, come
in šâbb “giovane (sost.)”. In prossimità di consonanti enfatiche le vocali si modificano: i
ed u (brevi o lunghe) assumono una pronuncia centralizzata (più aperta), mentre a si
velarizza; al contrario, se non è vicina a consonanti enfatiche, la a tende a palatalizzarsi;
15
Cfr. l’articolo di Munira Al-Azraqi, Ad¢-d¢ d in Southwest Saudi Arabia as Described by Old
Grammarians, in S. Procházka, V. Ritt-Benmimoun, Between the Atlantic and Indian Oceans. Studies on
Cintemporary Arabic Dialects, Wien 2008, pp. 43-50.
65
si pronuncia centrale praticamente solo dopo q.
Cenni di fonetica contrastiva rispetto all’italiano
Il timbro delle vocali brevi in arabo può non essere importante, mentre è importante la
distinzione fra lunghe e brevi; inoltre esistono diversi fonemi consonantici che non hanno
alcun corrispondente in italiano, come le interdentali (presenti però in altre lingue
europee), l’uvulare, le faringali, le glottidali nonché le enfatiche.
Si consiglia di studiare a fondo, tra i sistemi fonologici esposti in queste
pagine, quelli di due lingue a scelta
STANDARDIZZAZIONE
In passato, quando facevo ricerche sul campo e mi occupavo di begia (lingua
cuscitica parlata fra il Nilo ed il Mar Rosso), più volte mi fu rivolta dagli abitanti del
luogo (o addirittura dagli stessi informatori) la seguente obiezione: “questa non è una vera
lingua, perché non ha una scrittura.” A queste parole i linguisti, di solito, rispondono
sorridendo che una scrittura per il begia (o per altre lingue del genere) si può inventare
subito16, e che del resto, su circa seimila lingue che si calcola esistano al mondo, solo per
un migliaio si è inventata una scrittura, perché tutte le altre hanno un numero troppo
scarso di parlanti, e non vale la pena di impiegarle in libri a stampa. Eppure, qualcosa mi
dice che quell’obiezione che mi è stata fatta è una vera vox populi, e come tale non
sbaglia. Vediamo in che senso si potrebbe affermare questo.
Cerchiamo innanzitutto di capire cos’è la scrittura, che è stata singolarmente
misconosciuta anche da grandi e grandissimi linguisti. A p. 45 del Cours de linguistique
générale di Saussure si legge: “Langue et écriture sont deux systèmes de signes distincts;
l’unique raison d’être du second est de representer le premier; l’objet linguistique n’est
pas défini par la combinaison du mot écrit et du mot parlé; ce dernier constitue à lui seul
cet objet. Mais le mot écrit se mêle si intimement au mot parlé dont il est l’image, qu’il
finit par usurper le rôle principal ; on en vient à donner autant et plus d’importance à la
representation du signe vocal qu’à ce signe lui-même. C’est comme si l’on croyait que,
pour connaître quelqu’un, il vaut mieux regarder sa photographie que son visage.”17. E
Leonard Bloomfield, alla fine del § 17.1 del suo Language, scriveva: “[la scrittura] è per
il linguista, se si eccettuano alcuni particolari secondari, semplicemente un espediente
esterno, come l’uso del fonografo, grazie al quale possono essere conservati alla nostra
osservazione alcuni tratti del discorso del passato”. Non trovo condivisibile neppure
l’affermazione di Giorgio Raimondo Cardona, che nel suo volume Antropologia della
scrittura, Torino 1981, pp. 21-23 scriveva: “Quel che sorprende nel consultare le
16
Ed in effetti, nel frattempo una scrittura per il begia è stata inventata: si veda K. & Ch. WEDEKIND,
Abuzeinab MUSA, A Learner’s Grammar of Beja (East Sudan), Köln 2007.
17
Se si prendesse alla lettera l’affermazione di Saussure che l’unica ragion d’essere della scrittura è
rappresentare il parlato, si arriverebbe a risultati assurdi: come si può pensare che ad esempio
l’Enciclopedia Treccani sia la trasposizione di un discorso parlato? Con ogni evidenza, in questo come in
molti altri casi, si tratta di un testo (o piuttosto di un insieme di testi) concepito e progettato per la
scrittura, inimmaginabile senza di essa. Ed ora pensiamo anche al computer: come sarebbe possibile
utilizzarlo senza la scrittura? E di certo, l’uso della scrittura che si fa in informatica non ricalca il parlato.
66
numerosissime opere occidentali sulla scrittura è la presenza, più o meno evidente, di una
tenace idea di fondo: che i vari sistemi si ordinino filogeneticamente lungo un percorso di
crescente perfezionamento […]. Di questo percorso evolutivo già conosciamo l’ultima
tappa, la scrittura alfabetica. Tutti gli altri sistemi si collocano, a maggiore o minore
distanza, ad un qualche punto della scala; e per molti sistemi si può essere in dubbio se
rappresentino una tappa quanto si vuole arretrata della evoluzione, o se non siano invece
forme non omogenee alla scrittura, bensì di altro genere, pittoriche, espressive, ecc. […].
In una prospettiva antropologica e semiologia – verrebbe da dire laica – posto che
l’ambito della scrittura sia la produzione e l’uso di sistemi grafici con fini (anche)
comunicativi, non ha senso parlare di forme meno o più evolute in quanto ogni società
esprimerà quei tipi di scrittura che le saranno congeniali o ne adotterà di esterni, per
effetto di pressioni e spinte acculturativi, e in questo caso li integrerà negli altri suoi
sistemi simbolici; ma potrà non esprimerne o non adottarne nessuno, e non per questo
cadere nell’anarchia e nel disordine.” Personalmente obietto che se tutto ciò fosse vero,
non saprei come spiegare l’affermazione che un giorno sentii fare da un ingegnere cinese:
“Voi europei siete fortunati, perché imparate a leggere in un tempo ragionevole; da noi
per riuscire a leggere il giornale bisogna arrivare all’università!” Su questo argomento
avevo già scritto un articolo nel 199218 in cui affermavo che in realtà la pittografia, la
scrittura ideografica, la scrittura consonantica e l’alfabeto si possono porre
oggettivamente su una scala, che non sarà di maggiore o minore evoluzione19, ma di
maggiore o minore appoggio a quell’altro codice che è la lingua: la pittografia ne
prescinde in modo pressoché totale, la scrittura ideografica dovrà seguire per lo meno la
sintassi d’una lingua reale (a parte il fatto che tutte le scritture ideografiche fanno largo
uso di segni fonici20), la scrittura consonantica indica almeno l’ossatura delle parole, e
l’alfabeto, in linea di principio, si fonda su qualcosa di molto simile alla doppia
articolazione del linguaggio. In altre parole, con la pittografia si forniscono messaggi
immediati e che si possono intendere anche senza conoscere la lingua di chi li ha scritti (e
questo fa sì che la si possa utilizzare per le segnalazioni stradali, o in molti altri ambiti
della nostra vita, come per esempio le etichette di manutenzione sui vestiti; ma questo è
un settore in progresso, si veda quanto si sono sviluppati nel computer i caratteri
Wingdings); gli ideogrammi possono servire anche a noi per alcuni concetti semplici
(come osservava lo stesso Cardona, TV rispetto a televisione è praticamente un
ideogramma) o anche per gli SMS; la scrittura consonantica, oltre ad essere stata
inventata dai Fenici, è stata impiegata più di recente nella stenografia (ma in entrambi i
casi, per leggere un testo bisogna sapere quello che c’è scritto; ed infatti le antiche
iscrizioni fenicie non si capiscono mai a fondo, e d’altra parte l’attuale scrittura araba e
quella ebraica, che pur derivano da quella fenicia, non sono puramente consonantiche);
con l’alfabeto si indicano i fonemi di una lingua reale (anche se non conosco nessuna
scrittura ufficiale che riproduca perfettamente tutti i fonemi d’una lingua), e con la
18
G. CIFOLETTI, Sulla “gerarchia” dei sistemi di scrittura, “Incontri Linguistici” 15 (1992), pp. 131-134.
Va però ribadito che storicamente è vero che l’alfabeto è stato una conquista, arrivata dopo molti
tentativi: ed anzi, come giustamente osservato nel volume di Abderrazzak BANNOUR L’écriture en
Méditerranée (Édisud, Aix-en-Provence 2004), di solito i progressi si facevano quando era un nuovo
popolo ad adattare la scrittura alla sua lingua.
20
Un po’ come in inglese oggi si può scrivere 2 per to, U per you, 4 per for, ecc.
19
67
divisione delle parole non si dividono certamente tutte le unità minime di significato, ma
si introduce ugualmente un’articolazione utile per esprimere una qualunque idea. Perciò
la scrittura alfabetica non ricalca pedissequamente la doppia articolazione del linguaggio,
ma in qualche modo la imita; e dunque, appoggiandosi fortemente ad una lingua, riesce
ad assumerne quasi tutte le capacità semiologiche21.
Dunque la scrittura non serve a registrare una lingua, come pare supporre Bloomfield, ma
serve a formare dei messaggi appoggiandosi su una lingua: i segni pittografici, che non si
appoggiano su nessuna lingua, nel linguaggio corrente non ricevono il nome di scrittura.
Detto così, pare dunque che la scrittura sia un sistema autonomo, che si appoggia
sulla lingua, ma procede con mezzi propri e per strade autonome: e ciò sarà anche in parte
vero, ma l’esperienza ci mostra che nella vita reale una lingua e la sua scrittura sono
inestricabilmente intrecciate. Spesso è stato notato il grande influsso della scrittura sulla
lingua, ed il più delle volte per deplorarlo: ma noi Italiani dovremmo invece pensare che
proprio grazie alla scrittura abbiamo avuto una lingua nazionale, ed infatti non a caso nel
Cinquecento si impose il modello di lingua propugnato da Pietro Bembo, che imitava gli
scrittori fiorentini del Trecento: l’imitazione di un vernacolo sarebbe stata troppo
difficile, in un tempo che non disponeva dei mezzi di comunicazione di oggi. Si dice che
una conseguenza di questa storia sia il fatto che, nella lingua italiana, le caratteristiche
non segnate nella scrittura, come la differenza tra e ed o aperte o chiuse, non sono state
trasmesse correttamente, ed oggi in questo campo c’è una grande confusione; si sono
introdotte delle distinzioni che nel fiorentino non esistevano, come la differenza tra le z
semplici e geminate (ad es. tra spazi plur. di spazio e spazzi da spazzare); ma almeno
disponiamo di una lingua comprensibile dalle Alpi al Lilibeo, nonostante la grande
diversità che pur esiste nei dialetti. Però bisogna notare che la stessa situazione si ritrova
un po’ dappertutto, a volte in lingue che non sono state sostenute da uno Stato unitario,
ma anche in Paesi che possiedono una tradizione plurisecolare di unità, ed hanno sempre
avuto un modello unico di lingua anche nel parlato: in arabo, dove normalmente non si
scrivono le vocali brevi né la geminazione delle consonanti, alcune parole si leggono in
modo diverso da un Paese all’altro22; ma anche per l’inglese sappiamo che convivono
diverse pronunce tra le due sponde dell’Atlantico, ed entrambe praticamente accettate23;
sulle diverse pronunce che ha il francese, e che sono coperte dalla grafia ufficiale, fece
degli studi magistrali già il Martinet24; situazioni del genere rendono difficile qualsiasi
riforma ortografica, perché si finirebbe sempre col metter “fuorilegge” delle pronunce fin
qui tollerate.
Lo stesso Saussure si faceva beffe di quanti sostenevano che un uomo politico avesse
“salvato la lingua francese” perché in realtà ne aveva salvato l’ortografia25; abbiamo tutta
21
Nella scala precedente non ho contato la scrittura sillabica perché da questo punto di vista non si tratta
di un insieme omogeneo: in questa categoria, da un lato c’è la lineare B del miceneo che riproduce questa
lingua in modo molto imperfetto e lacunoso, ed all’estremo opposto abbiamo la devanagari del sanscrito,
che è estremamente accurata.
22
Per esempio la feluca, piccola imbarcazione tipica, si dice in Egitto filûka e in Sudan fallûka; il vassoio
al Cairo si può dire s¢iniyya ma anche s¢aniyya, la Palestina si dice filist¢în, filast¢în o falast¢în.
23
Per esempio la parola clerk è pronunciata [klA:k] in Inghilterra, [kl´:k] negli Stati Uniti.
24
Si veda soprattutto André MARTINET, La prononciation du français contemporain (sottotitolo:
Témoignages recueillis en 1941 dans un camp d’officiers prisonniers), 2a ed., Genève 1971.
25
Cours, p. 46: “Gaston Deschamps ne disait-il pas de Berthelot qu’il avait préservé le français de la ruine
68
una tradizione linguistica che ci predica queste cose, e che di conseguenza svaluta la
scrittura. Ma siamo sicuri che questi padri della nostra scienza abbiano sempre ragione? E
se l’avessero, perché mai, nei processi di standardizzazione a cui abbiamo assistito nel
corso del XX secolo, ci si è sempre preoccupati per prima cosa di mettere per iscritto la
lingua che si voleva valorizzare? E che cosa è mai questa standardizzazione che si attua
mettendo per iscritto quella che fino ad allora è stata una lingua orale? Giorgio Raimondo
Cardona ha provato a porsi questa domanda, in un intervento breve ma denso di
osservazioni26. Riassumendo, egli sosteneva che il percorso dell’oralità non è simmetrico
a quello della scrittura: “basta, per rendersene conto, leggere ad alta voce un testo scritto,
che tale rimane, o trascrivere dal nastro un testo orale, che – anch’esso – tale rimane.
Eppure la situazione [nostra, di una società che conosce la scrittura da millenni] comporta
già necessariamente un lungo allineamento reciproco dell’oralità sulla scrittura: […]
potremmo dire oggi che quando parliamo sappiamo usare al meglio la modalità orale?
Certo che no, se solo ci confrontiamo con una vera situazione I [di oralità senza scrittura],
laddove ancora ci sia dato vederne; le capacità di esecuzione di un maestro della parola in
una situazione del tutto orale non possono che lasciarci sconcertati; si pensi alle
performances dei poeti somali o maliani o dei guaritori cuna, che sono in grado di
padroneggiare migliaia di versi, per un lasso di varie ore di esecuzione, con il solo aiuto
della memoria e della competenza tecnica”. In una situazione di pura oralità, la lingua
“presenta numerosi livelli di discorso, quotidiano-colloquiale, metaforico-solenne,
magico-operativo. […] La lingua non scritta può essere formalizzatissima, a n livelli, può
essere al suo interno poetica, oratoria; può contenere arcaismi, può essere ricordata
verbatim, può insomma avere tutte le caratteristiche che si attribuiscono alla sola lingua
scritta”. Sempre il Cardona pare opporsi all’idea che la paratassi sia più adatta al discorso
orale, e l’ipotassi a quello scritto: questa è una situazione frequente nelle lingue
dell’Europa, ma altrove (a quanto mi risulta) sembra che siano le lingue con ordine SOV
(soggetto-oggetto-verbo) ad avere una certa tendenza all’ipotassi. Egli nota poi come,
quando si fissa una lingua per iscritto, le caratteristiche non tramandate dalla scrittura
tendano a perdere di valore, in qualche caso fino alla sparizione: è noto che il somalo
distingueva due diversi toni nella sillaba accentata, che però non vengono distinti nella
grafia ufficiale, e perciò le giovani generazioni tendono a dimenticarli: mi è stato detto ad
esempio che la parola walaal con un certo tono significhi “fratello”, con l’altro “sorella”,
ma le generazioni più giovani oramai li distinguono solo mediante l’articolo: walaalka “il
fratello”, walaasha “la sorella”. Il somalo scritto non fa neppure uso di ideofoni, che pure
(almeno in teoria) sarebbe possibile scrivere: lo stesso Cardona ne cita due esempi, bise
diigaa isa soo daayay, shalalalalalax “ma il sangue (diig-ga baa) schizzò fuori, splasc!”,
oppure markaasuu cagaa wax ka deyay, babbabbabbabba “allora lui scappò via veloce,
fiuuuum!”27. Il fatto è, come nota giustamente lo stesso Cardona, che l’ideofono “in
genere usa anche il tono, la qualità della voce (falsetto, basso ecc.), fonemi specifici e
parce qu’il s’était opposé à le réforme orthographique?”
26
G.R. CARDONA, dall’oralità alla scrittura: la formazione delle lingue standard, in A. MORESCHINI
QUATTORDIO, La formazione delle lingue letterarie, “Atti del Convegno della Società Italiana di
Glottologia”, Siena 16-18 aprile 1984, pp. 71-80.
27
Per leggere queste righe in somalo si fanno le seguenti precisazioni: le vocali ripetute sono lunghe, la
lettera c indica la fricativa faringale sonora, la x la fricativa faringale sorda.
69
perfino correlati mimico-facciali o gestuali, ma soprattutto è la voce interiore di chi scrive
che è monocorde”. Dalla mia personale esperienza, in Somalia ma soprattutto coi Begia,
posso aggiungere questo: un conto è la situazione di una lingua orale quali sono i nostri
dialetti, che possono non avere una solida tradizione scritta, ma certamente convivono da
millenni con una lingua “ufficiale” che monopolizza i livelli più “alti” (e che prima è
stata il latino, da un certo momento in poi l’italiano), un conto è invece la situazione di
una lingua orale che non abbia questo “tetto”, e che quindi debba essere usata anche ai
livelli “alti”, in un contesto quindi in cui l’analfabetismo sia pressoché generale, ma si
senta ugualmente l’esigenza di trasmettere la cultura tradizionale. Quando ci si trova in
queste condizioni, la memoria può prendere uno sviluppo insospettato: tra i Somali si
racconta di “recitatori” che dopo aver ascoltato una sola volta una poesia lunga anche un
centinaio di versi, erano capaci di ripeterla. Ma un’altra particolarità che ho notato è che
la stessa grammaticalità delle lingue ne risente: quando una lingua non si impara a scuola,
generalmente ammette al suo interno delle fluttuazioni sorprendenti. Un effetto lo si può
scorgere nelle grammatiche (scritte da Europei) di molte lingue africane (o di
lingue”esotiche” in generale): con i principi esposti nella grammatica, si riesce a formare
ed a spiegare brevi testi, frasi staccate; ma quando si affrontano dei lunghi racconti, si
vede che spesso tutte queste regole vanno in confusione; e così si arriva al paradosso che
le regole grammaticali esposte da un linguista si contraddicono confrontandole coi testi
che lo stesso linguista (onestamente) riporta. Concordo quindi perfettamente con l’ipotesi
avanzata dallo stesso Cardona: “che il passaggio alla lingua scritta preveda
necessariamente non una pidginizzazione ma una riduzione ad un sistema grammaticale
‘vero’, cioè del tipo che noi siamo abituati ad attribuire alle lingue; le quali invece, nella
loro forma orale e naturale hanno un tipo di grammaticalità ben diversa, certo assai
lontana da quella che noi possiamo oggi ravvisare in lingue standardizzate.” Ed ancora:
“Vediamo dunque ancora una volta come il passaggio alla forma scritta, riducendo le
convenzioni discorsive, renda inutili e quindi atrofizzi parti importanti della competenza
comunicativa e della stessa capacità ideativi. È evidente che la lingua scritta nella lunga
distanza creerà delle nuove strategia, e diventerà uno strumento conoscitivo
insostituibile”: ed infatti egli stesso aveva in precedenza indicato alcuni tipi di testo (la
lettera, il contratto) che si possono concepire soltanto con la scrittura; non solo, ma aveva
citato un testo dal De bello civili di Cesare (I,21) di una complessità tale da ritenere che
difficilmente lo si potrebbe immaginare nell’oralità.
Dunque fissando una lingua con la scrittura, non ci si limita a registrare qualcosa
che già esiste (come forse pensava Bloomfield), ma si interviene sulla lingua stessa,
facendole assumere nuove potenzialità e dimenticandone altre; e però questo non è tutto,
perché va aggiunto che la lingua ha sempre (almeno allo stato latente) delle valenze
identitarie, che di solito finiscono con l’essere esaltate da un’operazione del genere.
Anche in questo caso, non c’è nulla di obbligatorio: un’identità nazionale può benissimo
sussistere nonostante la diversità linguistica, ad esempio sappiamo che gli Svizzeri non
dispongono di una lingua comune (esiste lo schwyzertüütsch o svizzero-tedesco, ma in
realtà si tratta di dialetti diversi, spesso poco comprensibili fra loro, e che comunque non
s’imparano a scuola, perché chi nasce nella Svizzera francese o italiana normalmente
studia il tedesco standard, non un dialetto svizzero) eppure si sentono uniti; al contrario
una diversità etnica può mantenersi nonostante l’identità di lingua (ad esempio sappiamo
70
che gli Irlandesi non vogliono a nessun patto essere confusi con gli Inglesi).
Ciononostante, nella maggioranza dei casi la nascita di una lingua è legata alla nascita di
un popolo e viceversa. In molti casi nel corso del XX secolo si sono standardizzate delle
nuove lingue, per popoli dell’Africa che avevano acquistato l’indipendenza: così è
avvenuto per il somalo, dove si è preso come standard il dialetto delle tribù di pastori
(perché questi ultimi avevano una tradizione di poesia e di eloquenza, che le tribù di
agricoltori non possedevano). Anche in altri casi, i linguisti hanno fissato nelle loro
grammatiche (e quindi standardizzato) dei dialetti che avevano già un prestigio, e che
potevano di conseguenza essere accettati da tutto il popolo; ma anche qui non mancano
dei controesempi, perché sappiamo che in alcuni casi dei missionari nel XIX secolo
fissarono per iscritto il primo dialetto di cui avevano preso conoscenza, ed unicamente
grazie al prestigio della scrittura e dei libri a stampa questo divenne poi la norma (ma a
quel tempo non si andava per il sottile!). Anche in un passato più lontano vi furono delle
standardizzazioni, non ad opera di linguisti: e questo fatto è interessante, perché ci
consente di dire che anche le principali lingue letterarie hanno una data di nascita. Ad
esempio, per quanto riguarda l’italiano, non è vero che esso sia derivato a poco a poco dal
latino, con sviluppi talmente lenti e graduali che non si riesce, neppure con
l’approssimazione del secolo, a fissare quando il latino abbia smesso di esistere e quando
sia nato l’italiano28; se si guarda attentamente la storia, essa ci appare alquanto diversa.
Dal latino non derivò l’italiano, ma una miriade di dialetti, talmente differenziati che è
stato affermato a buon diritto che in nessun altro Paese d’Europa esiste una simile varietà
dialettale: eccetto il toscano e pochi altri dialetti vicini, la maggior parte è più distante
dalla lingua letteraria di quanto non sia lo spagnolo, e questa situazione probabilmente è
antica di molti secoli, forse addirittura di un millennio. Se si fossero applicati all’Italia i
criteri utilizzati nel XX secolo per standardizzare le lingue dell’Africa, sarebbe stato
possibile distinguere almeno una dozzina di lingue: ma sappiamo che non andò così. Per
nostra fortuna ci è pervenuto il trattato di Dante Alighieri De vulgari eloquentia,
composto (sembra) fra il 1304 e il 1307: dalla sua lettura noi possiamo capire che gli
Italiani di quel tempo, pur essendo divisi politicamente, pur essendo separati da dialetti
che già allora dovevano avere una scarsa comprensione reciproca, avevano coscienza di
essere un unico popolo ed aspiravano ad avere un’unica lingua. Pochi anni dopo, quando
lo stesso Dante ebbe composto la Divina Commedia, gli Italiani non ebbero più dubbi sul
modello di lingua comune a cui rifarsi: anche se riconosco che vi furono più cause
concomitanti, come l’alto prestigio di Firenze, ed il fatto che il toscano fosse un dialetto
piuttosto conservativo, quindi vicino al latino che aveva già il massimo prestigio.
Analogamente, sappiamo che il tedesco moderno nacque con la Bibbia di Lutero; anche
qui la nascita della lingua coincise con un risveglio nazionale. In alcune circostanze della
28
All’inizio di un’opera di grande diffusione e che suscitò grande scalpore (Roots of Language, Ann Arbor
1981), il creolista Derek BICKERTON sosteneva che solo i creoli hanno una data di nascita, a differenza
delle lingue “normali”: “Modern Italian, for example, would be found to fade back into a maze of dialects
derivating from Latin, which developed out of Indo-European, which sprang, presumably, from some
antecedent language now wholly inaccessible to us; and at no point in the continuous transmission of
language could we name a date and say, ‘Here Latin ended,’ or ‘Here Italian began’. But there is one class
of languages for which we can point, with reasonable accuracy, to the year of birth: we can say that before
1530, there was no São Tomense; before 1650, no Sranan; before 1690, no Haitian Creole; and before
1880, no Hawaiian Creole. And yet two or three decades after those dates, those languages existed.”
71
storia si è visto che un popolo ha preso coscienza di essere tale, e si è messo alla ricerca
di una lingua: negli anni Novanta del XX secolo lo abbiamo visto per i Croati, che appena
raggiunta l’indipendenza hanno voluto crearsi una propria lingua, differenziandosi dai
Serbi. Personalmente ho sentito molti colleghi esprimersi con scetticismo o riprovazione
nei confronti di questa loro scelta: certamente si è trattato di una decisione politica, nel
merito della quale non voglio entrare; mi interessa soltanto far notare che fatti del genere
si sono verificati più volte nella storia. Anche il latino, come noi lo conosciamo, ebbe una
standardizzazione all’epoca di Cicerone, in buona parte ad opera di Cicerone stesso: se
guardiamo le iscrizioni anteriori a quest’epoca troviamo una sconcertante oscillazione tra
diverse forme, come se esistessero vari modi paralleli di esprimersi in latino (troviamo ad
esempio nominativi plurali della seconda declinazione in –e anziché –i, nominativi plurali
della prima in –as, frequenti scambi i-u tipo nominus per nominis, come pure le varianti
dedrot e dedro per dederunt): invece dai documenti successivi a quest’epoca si capisce
che ormai esisteva uno standard, coincidente col latino che poi per millenni fu insegnato a
scuola29. Quanto al greco, sappiamo che la prima standardizzazione fu costituita dalla
lingua di Omero; successivamente si impose l’attico, a causa del grande successo della
letteratura ateniese del V secolo30. Credo che in questo modo si cominci a capire come
mai all’inizio della storia di molte lingue ci sia un grande poema: quando c’è un popolo
alla ricerca d’una propria lingua, facilmente qualcuno compone un’opera di grande
impegno, che venga assunta come simbolo dell’unità nazionale e funga da coagulante ed
insieme da esempio prestigioso per tutti i parlanti e per quanti si possano identificare
etnicamente. Conosco però un controesempio, una standardizzazione che, a quanto mi
dicono, fu imposta dall’alto, senza che il popolo la richiedesse, e che ciononostante è
riuscita: nel 1945, per negare che in Yugoslavia esistesse una minoranza bulgara,
inventarono la lingua macedone. Il bulgaro è ben differente dal serbo, pur appartenendo
alla stessa famiglia linguistica: possiede un articolo posposto (mentre il serbo non ha
articoli), ed ha perso le declinazioni: i dirigenti yugoslavi inventarono questa nuova
nazionalità, standardizzando quelli che fino ad allora erano considerati dialetti bulgari
occidentali, ed imposero questa lingua a scuola, con la conseguenza che oggi i Macedoni
si considerano un popolo a parte. Si può però aggiungere che questa manovra politica
(forse inconsapevolmente) seguiva lo spirito del tempo, perché il XX secolo ha visto in
Europa l’emergere di piccole etnie, piccole nazionalità che fino ad allora non si
percepivano come tali: esemplare è il caso di Malta. Fino all’Ottocento quest’isola era
considerata parte integrante dell’Italia, anche se i suoi abitanti parlavano uno strano
dialetto che certamente non era italiano (si tratta infatti di un dialetto arabo); ma a quel
tempo non si concepivano le piccole nazionalità, si capiva che non era possibile costruire
una cultura su misura per una nazione tanto piccola, e d’altra parte i Maltesi, essendo
cattolici, non si potevano identificare nella cultura araba; dunque la cultura di cui si
sentivano partecipi era quella italiana. Gli Inglesi si impossessarono di Malta al tempo
29
Come tutte le regole, anche quelle della lingua latina furono spesso trasgredite dagli stessi parlanti; ma
un conto è non seguire una norma pur sapendo che c’è, ed un altro conto è non conoscere nessuna regola.
30
Un’interessante testimonianza del prestigio che andava assumendo il dialetto di Atene ci è trasmessa da
Plutarco, Vite parallele, Nicia, 29: diversi Ateniesi, finiti schiavi dei Siracusani dopo il disastro della
spedizione in Sicilia, riacquistarono la libertà perché sapevano recitare i versi di Euripide, per il quale a
Siracusa tutti andavano pazzi.
72
delle guerre napoleoniche, nel 1800, e ben presto trovarono che l’italianità dell’isola era
di ostacolo al loro governo: ma per tutto il XIX secolo non presero serie misure contro
l’uso della lingua italiana, fino agli anni ’30 del XX secolo quando, col pretesto delle
mire espansionistiche del fascismo, imposero come lingue ufficiali il maltese e l’inglese,
incontrando però delle forti resistenze nella popolazione. Ma dopo la seconda guerra
mondiale queste opposizioni cessarono del tutto, ed oggi la nazionalità maltese è un fatto
pacifico e incontestato31.
In conclusione, penso si possa dire che la standardizzazione interviene di solito
(non sempre, come abbiamo visto) quando un popolo si percepisce come tale, quando
cioè gli uomini che ne fanno parte provano un senso di appartenenza, e vogliono
cementarlo con una lingua comune che li distingua da tutti gli altri (mi dicono che in
questi anni si sta cercando di fare qualcosa di simile in Marocco, con un processo di
standardizzazione dell’arabo marocchino, la cui distanza dall’arabo classico è ormai al
punto di rottura). In tutto questo interviene di solito anche la scrittura, essenziale per
conferire dignità alla nuova lingua: non solo, ma con l’introduzione della scrittura
(magari supportata da un insegnamento scolastico) la lingua acquista una regolarità ed
una grammaticalità prima sconosciute: in altre parole, diventa una lingua “vera”,
corrispondente cioè all’idea di lingua che noi abbiamo normalmente (ed in questo senso
posso dar ragione alla vox populi di cui sopra). D’altra parte è giusto riaffermare che per
il linguista, da un certo punto di vista, non esiste nessuna differenza tra lingua e dialetto, e
neppure tra lingua orale e scritta: ad esempio, nell’ambito di ricerche sugli universali del
linguaggio, è altrettanto legittimo prendere esempi ed argomenti dal più appartato dei
dialetti come dalla maggiore delle lingue di comunicazione; ma è pure giusto prender
coscienza del fatto che lingue orali e lingue scritte non vivono la stessa vita, spesso non
funzionano allo stesso modo, e possono avere anche delle differenze grammaticali oltre
che sociali.
PIDGINS E CREOLI
Cominciamo con qualche esempio di pidgin: partirò da quello che per me (e forse per i
lettori italiani) è il più facile, la lingua franca barbaresca. Pochi sanno che nei cosiddetti
Stati Barbareschi (cioè nelle reggenze di Algeri, Tunisi, Tripoli, dal XVI secolo al 1830)
si usava un pidgin a base italiana: non era certo la lingua indigena, ma in pratica lo
conoscevano tutti, almeno nelle città. All’inizio del XVI secolo la monarchia spagnola
aveva cercato di impadronirsi di quelle regioni, stabilendo dei presidi a Orano, Bugia
(Bijâya), Tripoli, conquistando Mahdia e (per qualche tempo) anche Jerba, ed esercitando
una specie di protettorato sui traballanti emirati di Tlemcen e Tunisi. Ma la reazione
islamica cominciò ben presto, con il dominio di avventurieri turchi (pirati) prima ad
Algeri (dal 1516), poi a Tripoli (dal 1551), infine a Tunisi (conquistata nel 1574). Queste
tre città divennero dei covi di pirati, che riconoscevano però l’autorità dal sultano di
31
Se finora ho insistito sul fatto che la standardizzazione di una lingua e l’introduzione di una scrittura
generalmente possono servire a potenziare un’identità nazionale, devo però precisare che non se ne può in
alcun modo dedurre che allora le lingue puramente orali e non standardizzate abbiano ipso facto una
minore valenza identitaria: il problema è più complesso e andrebbe approfondito, anzi valutato caso per
caso.
73
Costantinopoli; altri pirati musulmani (ma indipendenti) dominavano anche a Rabat,
ovvero Salè. In queste città si usava l’arabo (soprattutto arabo dialettale) come lingua più
diffusa; il turco era usato dalla classe dominante; ma siccome risiedevano là anche molti
Europei, sia liberi sia schiavi (perché chi era catturato dai pirati veniva trattenuto come
schiavo), con loro si usava la lingua franca. Il principale documento che ne possediamo è
un piccolo manuale, stampato a Marsiglia nel 1830 per i soldati francesi che andavano a
conquistare Algeri: riporto qui alcune pagine di dialoghi, che sono in francese e tradotti in
lingua franca, scritta con grafia francesizzante.
.
N° 7
De l'Heure et du Temps.
Quelle heure est-il?
qué ora star?
Quelle heure croyez-vous qu'il soit?
qué ora ti pensar star?
Je pense qu'il n'est pas trois heures.
mi pensar non star tré ora.
Il est bientôt quatre heures.
poco poco star qouatr'ora.
Il n'est pas tard.
non star tardi.
Voyez quelle heure il est à votre
mirar qué ora star al orlogio di ti.
montre.
Elle ne va pas bien.
non andar bonou.
Elle avance, elle retarde.
andar avanti, andar indiétro
Quel temps fait-il?
Comé star il tempo?
Il fait beau temps.
il tempo starbello.
Il fait mauvais temps.
il tempo star cativo.
Il fait chaud.
fazir caldo.
Il fait froid.
fazir frédo.
Il fait du vent.
fazir vento.
Il pleut.
cascar agoua.
Il fait une chaleur étouffante.
fazir caldo mouchou.
N°8
Pour demander ce qu’il y a de nouveau
Que dit-on de nouveau?
qué nouova?
Je n'ai rien entendu.
mi non sentito nada.
Que dit-on dans la ville?
qué hablar in chità?
On dit que nous avons la guerre.
genti hablar tenir gouerra.
La guerre, avec quelle nation?
Gouerra, con qué natzion?
Avec les Français.
con Francis.
Que peuvent faire les Français
qué poudir counchar il Françis
contre Alger?
contra di Algieri?
Par mer rien, mais par terre ils sont
per maré nada, ma per terra il Francis star
redoutables.
mouchou forti.
Si les Français débarquent Alger
sé il Francis sbarkar, Algiéri star perso.
est perdu.
star perso.
Je pense que les Algériens ne
mi pensar l'Algérino non
se batront pas.
combatir.
Le Pacha sera donc obligé de
dounqué bisogno il Bacha
demander la paix.
quérir paché.
Oui, s'il ne veut périr.
si, sé non quérir morir.
S'il veut la paix les Turcs feront
sé quérir paché l'Yoldach fazir
tapage.
gribouila.
Pour quoi ne fait-on pas la paix?
perqué non counchar paché
Parce que le Pacha est entêté.
perqué il Bacha tenir fantétzia.
74
Con la conquista di Algeri da parte dei Francesi nel 1830, questa lingua perse la sua
ragion d’essere: alcuni continuarono a parlare questa lingua (che i coloni francesi
ribattezzarono sabir) ancora per una cinquantina d’anni, e poi si spense del tutto32.
Vediamo ora il Pidgin English della Cina, usato in quel Paese per i contatti tra
popolazioni locali ed Europei, soprattutto nella seconda metà del XIX secolo, ed ancora
nel XX secolo fino alla seconda guerra mondiale. Il testo qui riportato è tratto dal volume
di Robert A. Hall, jr, Pidgin and Creole Languages, Cornell University Press, Ithaca and
London 1966, pp. 152-3 (fu il primo manuale di creolistica). Si tratta di un dialogo tra
una dama europea ed un sarto.
MISTRESS: tél´r, máj hæv kæci w´npisi plέnti hæns´m sílka. máj wOnci jú méki w´n nájs ivniŋdrέs. “Tailor, I have a very fine [piece of] silk. I want you to make a nice evening dress.”
TAILOR: mísi hæv gát buk? “Has missy a [fashion] book?”
MISTRESS: máj no hæv kæci buk. pémi sí jú buk. “I haven’t brought a book. Let me see your
book.”
TAILOR: máj buk blOŋ tú ól´. ”My book is too old.”
MISTRESS: máski, jú pémi lúk-sí. “Never mind, let me see it”.
TAILOR: máj sævi mísi no wOnci ðisfæš´n. s´pós mísi kæn kæci buk, máj kæn méki. s´pós mísi
nó kæn kæci buk, máj nó kæn dú. mísi kæn k´m tumOlo? “I know missy doesn’t want this kind
[of dress]. If missy can get a book, I can make it. If missy can’t get a book, I can’t. Can missy
come tomorrow?”
MISTRESS: tumOlo máj nó kæn k´m. máj lívi sílka ðíssaid, s´pós máj k´m tumOr´ nέks dé.
“Tomorrow I can’t come. I’ll leave the silk the silk here, and possibly I’ll come day after
tomorrow.”
TAILOR: Orajt, mísi, tumOr´ nέks dé kæn dú. máj méki vέri pOpa fO jú. ”Very well, missy, day
after tomorrow is all right. I’ll make it just right for you.”
MISTRESS: jú méki w´npis ivniŋ-drέs fOr máj, háwm´c jú wOnci? “If you make an evening-dress
for me, how much do you want?”
TAILOR: spós blOŋ dænsiŋ-drέs, máj wOnci twέlv dOl´r. “If it is a dancing-dress, I want twelve
dollars”.
Si noterà una particolarità: siccome in cinese non è possibile collegare immediatamente i
numerali col nome, ma è necessario aggiungere dei numerativi (una specie di
classificatori), anche nel Pidgin English esistevano due numerativi: i nomi di persona
andavano preceduti da fellow, ed i nomi di cosa da piece, almeno nel pidgin ottocentesco:
col XX secolo prevalse piece.
Passiamo ora al Tok Pisin. Nella seconda metà del XIX secolo, nelle piantagioni del
Queensland (Australia) assoldarono dei lavoratori dalla Nuova Guinea e dalle isole
melanesiane ed anche polinesiane; come lingua di scambio si dev’essere usato una specie
di Pidgin English cinese, visto che i numerali sono sempre accompagnati da fellow. Più
tardi questi lavoratori, una volta tornati nei loro Paesi, ebbero la possibilità di comunicare
tutti fra di loro con questa nuova lingua che avevano imparato: la Nuova Guinea è uno dei
Paesi al mondo dove si trova la maggiore varietà di lingue in uno spazio relativamente
ristretto, e fino ad allora non esisteva nessun mezzo di comunicazione fra le tribù: con la
diffusione di questo pidgin finalmente le tribù poterono comunicare: è stato notato che la
32
Si veda il volume di G. CIFOLETTI, La lingua franca barbaresca2, Roma 2011.
75
diffusione del Tok Pisin procedette di pari passo con la cristianizzazione33, e ciò non è
casuale, perché con la nuova mentalità indotta dalla nuova religione questi uomini non si
concepirono più soltanto come appartenenti a piccole tribù in guerra fra loro, ma si fece
strada l’idea che tutti potevano costituire un popolo, un nuovo popolo (situazioni simili si
verificarono nelle Isole Salomone, dove si usa ora praticamente lo stesso pidgin, ma
scritto in modo più vicino all’inglese, ed a Vanuatu, dove il pidgin si chiama Bislama, dal
vecchio nome di Beach-La-Mar). In Nuova Guinea questa lingua ha assunto i connotati di
lingua nazionale, e coscientemente si è cercato di allontanarla dall’inglese: oggi è lingua
ufficiale della repubblica di Papua-Nuova Guinea. Per quanto riguarda la descrizione di
questa lingua, premetto che (purtroppo) chi scrive non ne ha alcuna esperienza diretta, e
perciò potrebbero esserci delle inesattezze. Comunque, secondo la descrizione che ne
fornisce Robert A. Hall (soprattutto nel volume Les langues dans le monde ancien et
moderne, Afrique Subsaharienne, Pidgin set créoles, Ed. du CNRS, Paris 1981, pp. 649656), in questa lingua la pronuncia è fluttuante, perché nel sistema più semplice, ovvero
basiletto (nei pidgins e creoli il livello più rozzo, che spesso coincide col più distante
dalla lingua che ha fatto da modello, si chiama basiletto: il livello più vicino alla lingua di
prestigio si chiama acroletto) si hanno solo 5 vocali, i e a o u, ma altri parlanti hanno un
sistema più vicino all’inglese, con vocali tese e rilassate, e ed o aperte o chiuse, una
vocale /æ/ ed una /´/. Analogamente per le consonanti, alcuni parlanti distinguono tra /p/
ed /f/, mentre altri pronunciano solo /p/; alcuni pronunciano /v/, che per altri si confonde
con /b/; la /s/ in alcuni parlanti tiene il luogo di tutte le sibilanti ed affricate dell’inglese,
mentre altri distinguono una /S/, una /w/, una /t/. Inoltre alcuni tendono a pronunciare, al
posto delle occlusive sonore /b/ /d/ /g/, delle prenasalizzate /mb/, /nd/, /ŋg/; i gruppi
consonantici fanno difficoltà ad alcuni parlanti. Perciò dal verbo ingl. to change si hanno
delle varianti che vanno da [wεntIm] a [senisim] (il suff. –im indica che è un verbo
transitivo). L’accento va di regola sulla prima sillaba. Il verbo si declina premettendo i
pronomi personali, che sono: mi “io”, yu “tu”, em “egli, ella”, yumi “noi inclusivo”,
ovvero “tu ed io”, mipela “noi esclusivo”, cioè “io ed altre persone escluso l’ascoltatore”,
yupela “voi”, ol, em ol “essi”; i pronomi mipela, yupela hanno le varianti mifela, yufela,
perché il suff. –fela deriva dal numerativo fellow che si usava nel Pidgin English cinese.
Lo stesso suffisso si attacca a molti aggettivi e pronomi, nonché ai numerali, come
dispela “questo”, sampela “qualche”, tripela “tre”, gudpela “buono”, naispela “bello”,
bikpela “grande”; esistono però aggettivi (non monosillabici) che non lo prendono, come
liklik “piccolo”; invece si ha il contrasto fra plenti “molto” e plentifela “molti”. L’ordine
normale è Aggettivo-Nome, come in naispela meri “bella donna”, liklik buk “piccolo
libro”; ma ci sono molte eccezioni, come botol bruk “bottiglia rotta”, tok giaman
“discorso falso”, tok tru “discorso vero”, ples nogut “luogo brutto”, ecc. I termini di
parentela sono i seguenti: papa “padre”, mama “madre”, tumbuna “nonno, nipote”,
kandare “zio e zia materni”, smolpapa “zio paterno”, smolmama “zia materna”, brata
“fratello (o sorella) dello stesso sesso”, sisa “fratello (o sorella) di sesso opposto”. Il suff.
–im si attacca al verbo transitivo: mi ridim buk “io leggo un libro”, mi rid “io leggo”, mi
ridim “io lo leggo”. Però il verbo kaikai “mangiare” prende –im solo quando è usato col
33
Cfr. Timo LOTHMANN, God i tok long yumi long Tok Pisin. Eine Betrachtung der Bibelübersetzung in
Tok Pisin vor dem Hintergrund der sprachlichen Identität eines Papuia-Neuguinea zwischen Tradition
und Moderne, Peter Lang, Frankfurt 2006.
76
significato di “mordere”, altrimenti ne fa a meno: famosa la frase (riportata da Hall nel
suo volume Pidgin and Creole Languages) ol i save kaikai man “essi mangiano uomini
(sono cannibali)” (fino al XX secolo il cannibalismo è stato diffuso in Nuova Guinea).
Questo suffisso, attaccato a varie parole, le trasforma in verbi transitivi: raus “fuori”,
rausim “espellere”, orait “bene”, oraitim “riparare” (ma va aggiunto che raus e orait
possono significare anche “star fuori” e “star bene”: non esiste una chiara distinzione tra
aggettivo e avverbio da una parte, verbo stativo dall’altra). Il verbo alla terza persona è
preceduto da i. Sono molto usati i verbi seriali, per esempio il verbo pinis o finis “finire”:
painim “cercare”, painim pinis “trovare”; boilim “bollire”, boilim pinis “sterilizzare”;
bagarapim “danneggiare”, bagarapim pinis “distruggere”; promis “promettere”, promis
pinis “mantenere la promessa”; rere “preparare”, rere pinis “essere pronto”; inoltre pinis
aggiunto al verbo può indicare un’azione anteriore, come in tevel meri harim pinis “lo
spirito donna aveva ascoltato”. Si noti la differenza di tempi e aspetti verbali tra em i go
maket “egli va al mercato”, em i wok long go long maket “sta andando al mercato”, em i
go long maket pinis “è appena andato (o andata) al mercato”, em i bin go long maket “è
andato al mercato”, em bai go long maket “andrà al mercato”. Il verbo save “sapere” può
indicare l’azione abituale (come nella frase citata prima ol i save kaikai man); il prefisso
bai indica il futuro. Sono molto usati i composti: kamman “nuovo arrivato”, blakboi
“lavoratore indigeno”, blakman “indigeno”, waitman “Occidentale (anche quando si tratta
di un negro)”, bikples “terraferma, continente”, biknem “fama”. Le preposizioni sono
essenzialmente due, bilong “di” e long “a” (ma il significato è molto più ampio: si dice
per es. long solwara “sul mare”, go long bush “andare nel deserto”.
Breve racconto: long taim bifo, ol wonem, wanpela ailan, draipela pik i save stap ia na
em i save kaikai ol man. Nau, ol kisim kenu, ol stretim ol samting bilong ol, na i go
painim nupela ailan. Na wanpela meri, pik, pik ia wonem, bin kaikai man bilong en bifo,
na em wonem, i gat bel. “Once upon a time, uh, an island, a huge pig used to live (there)
and it used to eat the people. Then, they took canoes, they fixed up all their stuff, and
went to look for a new island. And a woman, the pig, uh, had eaten her husband before,
and she, uh, was pregnant.”34
Dunque i pidgins sono una tipologia di lingue: da una lingua di prestigio si
assume come modello una forma ridotta, perché non si può o non si vuole imitarla in toto.
Sono note molte varietà di pidgin: oggi ha una notevole importanza il Wescos (West
Coast) usato nel Camerun; a Juba (Sudan meridionale) si usa il cosiddetto arabo di Juba,
che è una varietà pidginizzata di arabo sudanese; all’inizio del XX secolo in Norvegia si
usava il Russenorsk, per i contatti tra pescatori russi e popolazione locale (ed in questo
caso, cosa abbastanza rara, sembra che l’incontro sia avvenuto a metà strada, nel senso
che le parole russe e quelle norvegesi sono abbastanza bilanciate in questa lingua, mentre
di solito per i pidgin ed i creoli l’apporto lessicale proviene in grande maggioranza da una
sola lingua, detta lessificatrice)35; si conoscono anche dei pidgin estremamente variabili
da un parlante all’altro, e con capacità espressive ridotte. Una volta si diceva che quando
il pidgin si nativizza, diventa cioè la prima lingua di una comunità, diventa creolo: oggi si
34
Cfr. Robert A. HALL, jr, Le Pidgin English mélanésien, nel volume Les langues dans le monde ancient et
moderne (sous la direction de J: Perrot), éd. CNRS, Paris 1981, pp. 649-656.
35
Per il russenorsk, la fonte principale è il vecchio articolo di Olaf BROCH, Russenorsk, “Archiv für
slavische Philologie” 41 (1927), pp. 209-262.
77
mette in dubbio anche questo, e se ne discuterà. Comunque i creoli sono abbastanza
numerosi: famoso è il creolo haitiano a base francese: com’è noto, questo Stato è
indipendente dal 1804, e la popolazione è composta quasi interamente da discendenti di
schiavi, che formano la comunità creolofona forse più importante; altri creoli francesi si
parlano in isole dell’Oceano Indiano come le Seychelles, Mauritius, Réunion; esiste
anche un creolo francese (usato soprattutto da negri) della Louisiana e diversi creoli nelle
Antille francesi. Nelle Antille olandesi (Curaçao, Aruba, Bonaire) si usa invece il
papiamentu, creolo a base ispano-portoghese. Un creolo a base portoghese si usa nelle
isole del Capo Verde, ed antichi creoli portoghesi sono segnalati in Malesia, a Macao, a
Goa (India); un creolo a base inglese è lo Sranan del Surinam (Guyana ex-olandese), un
altro si usa in Giamaica, altri in altre isole delle Antille. È noto anche un creolo a base
araba: si tratta del nubi, usato da una tribù formatasi recentemente. Nella seconda metà
del XIX secolo l’Egitto aveva conquistato il Sudan, ma il Sudan meridionale era una terra
quasi inesplorata, ed in pratica era terreno di caccia per gli schiavisti che razziavano
uomini per venderli schiavi in Egitto e nei Paesi dell’impero ottomano. Per le loro razzie,
gli schiavisti si servivano di una truppa indigena: erano uomini delle tribù del sud, ma
convertiti all’Islàm e che parlavano un pidgin arabo (probabilmente molto simile
all’odierno arabo di Juba). Poi vi fu una ribellione nel Sudan settentrionale, i seguaci del
Mahdi nel 1887 conquistarono Khartum togliendola al governo egiziano, e così la truppa
degli schiavisti restò tagliata fuori dalle comunicazioni con l’Egitto. Allora essi, insieme
con le loro famiglie, chiesero asilo nelle colonie inglesi di Uganda e Kenya, e là i loro
discendenti continuano a vivere, usando come propria lingua un creolo arabo36.
Di tutti questi creoli, fornisco solo un esempio di quello haitiano, da Hall (1966), p. 155:
si tratta della favola liõ ak burik, “Il leone e l’asino”. lõ-tã liõ te-pè burik, paske li te-wè
burik te-pi-gro nèg pase li. nu ju liõ di: “burik, mõ šè, ãn-ale fè yu ti-promnad.” yo pati,
yo rive bò yu dlo. liõ fè yu sèl bõ, li traverse dlo-a. burik ki pa-vle rõt devã liõ šèše fè
mẽm bagay ke li. li tõbe nã-dlo, kurã kõmãse trene li, dlo kõmãse ãtre nã-zorey li. li õki
wè sa kuri ale wete li, o-lie-burik remèsi-l, li di-l hõ-sa: “mõ-šè, pĩga u jam fè mwẽ kõ-sa
ãkò, u wè m-ap-peše pwasõ epi u vin kõtrarie-m.” Traduzione: molto tempo [fa], il leone
aveva paura dell’asino, perché l’asino era uomo più grande di lui. Un giorno il leone
disse: “asino, mio caro, andiamo a fare una passeggiata”. Essi partirono, essi arrivarono
dove c’era una corrente. Il leone fece un salto, e traversò l’acqua. L’asino che non voleva
perder la faccia davanti al leone cercò di fare lo stesso. Cadde nell’acqua, la corrente
cominciò a trascinarlo, l’acqua cominciò a entrargli nelle orecchie. Il leone che lo vedeva,
corse per andare ad aiutarlo, e l’asino anziché ringraziarlo gli disse così: “mio caro, non
farmi un’altra volta così, hai visto che stavo pescando e poi sei venuto a impedirmelo.”
Il fatto che si trovi una quantità di lingue, distanti fra loro geograficamente e come
storia, ma accomunate dal fatto di rappresentare la semplificazione di altre lingue, ha dato
luogo a una serie di ipotesi e teorie. La prima in ordine di tempo fu la teoria
monogenetica: è tuttora interessante leggere l’appassionato articolo di Keith WHINNOM,
The Origin of the European-based Creoles and Pidgins, in “Orbis 14,2 (1965), pp. 509527. Egli partiva affermando, a proposito del creolo haitiano, che non è vero che sia nato
“de l’effort réciproque des colons et des esclaves africains pour entrer en rapport les uns
36
Cfr. Berndt HEINE, The Nubi Language of Kibera – An Arabic Creole, D. Reimer Verlag, Berlin 1982;
Xavier LUFFIN, Un créole arabe: le kinubi de Mombasa, éd. Lincom Europa, München 2005.
78
avec les autres”, perché in realtà i Francesi non sono in grado di capire questa lingua: al
contrario, il creolo haitiano è reciprocamente comprensibile (secondo lui) con gli altri
creoli francesi, quello della Louisiana, di Martinique, della Guyana francese, di Mauritius
e Réunion: dunque secondo lui ci dovrebbe essere un’origine comune. Egli stesso
aggiunse di essere arrivato, tramite lo studio di alcuni creoli delle Filippine, ad un
risultato sorprendente: questi creoli hanno un lessico quasi totalmente spagnolo, ma le
parole grammaticali sono le stesse che si ritrovano nei pidgin e creoli portoghesi, ed
hanno origine portoghese (cioè in passato il lessico di questi creoli era derivato dal
portoghese); d’altra parte l’origine delle comunità che parlano questi creoli delle Filippine
è ben nota: si tratta di gruppi di Cristiani partiti da isole dell’attuale Indonesia nel secolo
XVII. Durante la loro espansione coloniale nel XVI secolo, i Portoghesi in un primo
tempo si erano serviti d’interpreti, ma ben presto questo compito fu monopolizzato da
Cristiani di origine indiana (in India esistevano, già prima dell’arrivo dei Portoghesi,
alcune piccole comunità cristiane), che parlavano un pidgin portoghese (sopravvissuto
come creolo a Goa, in Malesia, a Macao, ecc.). Questi gruppi di Cristiani asiatici, che
seguivano i Portoghesi, quando l’Indonesia fu conquistata dall’Olanda si rifugiarono nelle
Filippine, ed in seguito a ciò modificarono il loro creolo: il lessico divenne quasi
totalmente spagnolo, da portoghese che era, però le strutture rimasero le stesse. D’altra
parte è testimoniato che un pidgin portoghese si usava, sempre all’inizio del XVI secolo,
sulle coste dell’Africa: dunque (secondo la sua ipotesi) i negrieri avrebbero usato questa
lingua per comunicare con gli schiavi che trasportavano nel Nuovo Continente. Poi, nelle
piantagioni, sarebbe prevalso il lessico della lingua dei padroni: ma anche in questo caso,
mantenendo le strutture originarie del creolo. Secondo lui, la semplificazione operata dai
creoli è la migliore che si sia mai escogitata: l’esperanto e le altre lingue artificiali sono
più complicate dei creoli. Dunque, sempre secondo lui, basta aver “inventato” il creolo
una volta sola, come per l’alfabeto: una volta che si sa come funziona l’alfabeto, se ne
possono creare tanti altri a piacimento, e lo stesso si può fare col creolo, una volta che se
ne conosca il meccanismo: sostituendo le parole (rilessificazione) con quelle di un’altra
lingua, si creeranno dei creoli inglesi, francesi, spagnoli ecc., ma le strutture si
conservano, e spesso anche le parole grammaticali. Uno dei casi più probanti per questa
tesi è il Saramaccano: si tratta del creolo di una comunità di schiavi che fuggì e si rifugiò
nelle foreste della Guyana olandese: i loro discendenti parlano questo creolo, dal lessico
prevalentemente inglese come lo Sranan degli schiavi rimasti nelle piantagioni, ma con
una forte componente portoghese; si pensava quindi che si fosse separato in un’epoca in
cui il processo di rilessificazione era in atto.
Questa tesi fu combattuta da molti studiosi: si obiettò che non è vero che i creoli
francesi siano reciprocamente intelligibili (alcuni fra loro lo sono, ma altri no), ed anche
che è ben difficile pensare che una lingua possa mantenere così bene le proprie
caratteristiche grammaticali quando cambia il lessico; e poi che non è vero che i creoli
siano sempre così semplici, anzi in molti casi succede come con le lingue esotiche e non
standardizzate: i testi in creolo riportati da qualche linguista spesso smentiscono le teorie
grammaticali che lo stesso linguista ha cercato faticosamente di mettere insieme. Ma
l’obiezione più forte venne con Derek Bickerton, autore dell’ipotesi del bioprogramma37.
37
Esposta soprattutto nel suo volume Roots of Language, Ann Arbor 1981.
79
Negli anni ’70 del XX secolo egli si trovò a studiare la situazione linguistica delle
Hawaii, in cui erano avvenute migrazioni all’inizio del secolo, ed in cui si era sviluppato
un pidgin ed un creolo: ma le differenze tra i due erano sorprendentemente grandi. Il
pidgin hawaiano era una lingua singolarmente difettosa, quello che si diceva un pidgin
ineffabile, ovvero un pre-pidgin (in inglese lo si può chiamare anche jargon), cioè una
lingua con la quale non si riesce ad esprimere qualunque concetto, ma che consente solo
discorsi limitati: ed inoltre era molto variabile a seconda di chi lo parlava. I parlanti erano
degli immigrati, di origine giapponese, filippina, cinese, coreana, portoricana, portoghese
(ma pare che questi ultimi, più che dal Portogallo, provenissero dalle isole del Capo
Verde): e le strutture delle lingue d’origine si riflettevano nel pidgin. Posso citare alcune
frasi, pronunciate da immigrati giapponesi: as kerosin, plænteishan, wan mans, fo gælan
giv “la piantagione ci dava quattro galloni di kerosene al mese”; sam pat dei dono
andastæn, æswai dei go kweschin tu mi, no, sambadi-stei-tawking-taim “alcune parti essi
non capiscono, così chiedono a me, quando qualcuno sta parlando [giapponese]” (detto da
una madre a proposito dei suoi figli). Queste sono frasi a struttura prevalente SOV
(soggetto-oggetto-verbo), mentre le frasi composte dagli immigrati filippini hanno
soprattutto una struttura VSO (ad esempio hi kam gro da pæmili “the family was
beginning to grow up”, oppure hi hælp da medisin “the medicine helps”: come si vede,
anche la fonetica è variabile); oltre a risentire pesantemente delle lingue d’origine degli
immigrati, questo pidgin aveva capacità espressive molto ridotte, nel senso che era
difficile esprimere con esso dei pensieri appena appena complessi, come si può vedere
dagli esempi sopra riportati e da altri che seguiranno. Invece il creolo parlato dai figli
degli immigrati era uniforme (da come lo si parlava era impossibile decidere quale fosse
l’origine del locutore), e funzionava come una vera lingua, era cioè in grado di esprimere
qualsiasi pensiero. Ma quel che stupisce di più è che, benché il lessico sia quasi
totalmente inglese, la sintassi non somiglia a quella inglese né a quelle delle lingue
d’origine degli immigrati: somiglia invece a quella dei creoli, parlati a migliaia di
chilometri di distanza, e che gli immigrati non conoscevano. Qualche esempio di frasi in
pidgin e poi in creolo: now days, ah, house, ah, inside, washi clothes machine get, no?
Before time, ah, no more, see? And then pipe no more, water pipe no more, che in creolo
si traduce: those days bin get (there were) no more washing machine, no more pipe water
like get (there is) inside house nowadays, ah? O anche: good, this one. Kaukau (food) any
kind this one Pilipin island no good. No more money, che in creolo diventa: Hawaii more
better than Philippines, over here get (there is) plenty kaukau (food), over there no can,
bra (brother), you no more money for buy kaukau, ‘a’swhy (that’s why). Il creolo
hawaiano ha una sintassi ben diversa da quella inglese, come si vede anche dagli esempi
che seguono: how you expect for make pau you house? “how do you expect to finish your
house?” o anche bin get one wahine she get three daughter “there was a woman who had
three daughters”. Da queste osservazioni, Bickerton derivò la sua teoria: siccome il creolo
fu “inventato” dai figli degli immigrati, i quali usavano una lingua estremamente
variabile, senza una sintassi uniforme ed accettata, e partendo da questa, senza che
nessuno li guidasse, arrivarono a formare un creolo simile in tutto agli altri creoli sparsi
per il mondo, evidentemente le strutture del creolo sono innate per la mente umana: tutti i
bambini cercano di parlare creolo, ma di solito l’ambiente circostante li corregge: invece
in un ambiente dove la lingua d’uso è praticamente senza regole, essi possono esplicare
80
liberamente le loro tendenze. Perciò, secondo la sua teoria, il creolo è la struttura
linguistica innata nella mente umana, in un certo senso la lingua originaria degli uomini
(almeno per quanto riguarda la sintassi). Egli indicò pure quali sono le strutture che si
ritrovano in tutti i creoli: anzitutto il sistema verbale di Tempo-Modo-Aspetto (TMA). Va
detto che non esiste una morfologia verbale, il verbo si coniuga solo analiticamente,
premettendo dei pronomi; la forma più semplice del verbo (quella non marcata) indica di
solito il passato se si tratta di un verbo d’azione, ed il presente se si tratta d’un verbo
stativo; poi esiste un prefisso temporale di Anteriorità, che premesso ad un verbo
d’azione indica il trapassato, mentre con un verbo stativo indica il passato; il prefisso
modale si usa per esprimere l’Irrealtà, ovvero qualcosa che al momento non c’è, quindi il
futuro o il congiuntivo; i verbi d’azione fanno uso anche d’un prefisso aspettuale, che
indica l’azione continuata (ed in italiano si traduce di solito col presente). Secondo
l’esempio che faceva lo stesso Bickerton, si può produrre il seguente schema, coi verbi
per camminare (azione) e amare (stato):
hawaiano
haitiano
sranan
traduzione italiana
he walk
he bin walk
he go walk
he stay walk
li maché
li tè maché
l’av(a) maché
l’ap maché
a waka
a ben waka
a sa waka
a e waka
egli camminò
egli aveva camminato
camminerà, cammini
cammina (camminava)
he love
he bin love
he go love
li rémé
li té rémé
l’av(a) rémé
a lobi
a ben lobi
a sa lobi
egli ama
egli amò
egli amerà, ami
Una struttura dello stesso genere si trova anche in un creolo lontanissimo
geograficamente e culturalmente come il Nubi, dove si ha: áána já “io venni”, lett. “io
venire” (per la verità potrebbe anche riferirsi al presente, ma come sottolinea B. Heine,
autore della prima grammatica di questa lingua38 “usually it refers to past, sometimes
even to completed, actions”). Esiste poi una particella káan che forma il trapassato: úo
káan já “he had come”, una particella bi per il futuro, tipo úo bi rúa saaba “he will go
tomorrow”, ed una particella aspettuale gí, come in áána má gí já “I am not coming”.
Non c’è corrispondenza perfetta, perché questa lingua conosce anche una particella kalás
per il perfetto, che indica cioè l’azione appena compiuta: úo kalás ákulu lúguma “egli ha
(appena) mangiato polenta”.
Un’altra caratteristica dei creoli è la coincidenza tra il verbo che significa “avere” e quello
che indica l’esistenza: come esempio Bickerton cita la frase c’è una donna che ha una
figlia tradotta in creolo hawaiano, guyanese, haitiano, nonché in papiamentu (creolo delle
Antille Olandesi, Curaçao Aruba e Bonaire, a base ispano-portoghese):
get wan wahini shi get wan data
dem get wan uman we get gyal-pikni
38
B. HEINE, The Nubi Language of Kibera-An Arabic Creole, Berlin 1982, p. 38.
81
gê yoû fam ki gê you pitit-fi
tin un muhe cu tin un yiu-muhe
Un’altra caratteristica è la distinzione di tre gradi di determinazione: a) con l’articolo
definito, come nell’hawaiano I stay go da store for buy da shirt “vado al negozio a
comprare la camicia (se questa è nota anche all’ascoltatore)”; b) con l’articolo di
specificità, tipo I stay go da store for buy one shirt “vado al negozio a comprare una
camicia (già nota al parlante, non all’ascoltatore)”; c) senza articolo, tipo I stay go da
store for buy shirt “vado al negozio a comprare camicia (una o tante, senza precisare il
numero)”. Ancora un’altra caratteristica è la distinzione fra l’intenzione realizzata e non
realizzata: se in creolo hawaiano si dice John bin go Honolulu go see Mary “J. andò a
Honolulu per vedere M.” s’intende che poi l’abbia vista, non è possibile aggiungere una
frase correttiva del tipo “ma non la trovò”: se invece non sappiamo se l’abbia vista,
dobbiamo dire John bin go Honolulu for see Mary39.
La teoria di Bickerton, ovvero del bioprogramma, fu molto discussa: molti
studiosi preferirono attenersi alla vecchia idea del sostrato, ovvero che i creoli fossero
lingue miste, col lessico di una lingua (di solito europea) di prestigio, e la sintassi di
lingue (di solito africane) di sostrato; anche se esprimendola in questo modo l’idea è poco
verosimile (le lingue africane hanno di solito delle sintassi ben diverse da quelle dei
creoli), questi studi servirono a mostrare la grande importanza che può avere il sostrato:
ad esempio, si è visto che quando tutte le lingue di sostrato concordano su una
caratteristica marcata, è molto facile che la si ritrovi nella lingua di contatto. Da tempo si
sapeva che il Chinook, pidgin stabile fondato su dialetti amerindiani del Pacifico
settentrionale, aveva un sistema consonantico fortemente marcato, con una serie di
labiovelarizzate dorsali e labiovelarizzate uvulari, ed una marca di glottalizzazione che si
applicava a quasi tutte le occlusive sorde: perciò si avevano dei fonemi insoliti in lingue
di questo tipo, come /kw’/ e /qw’/ (evidentemente perché simili fonemi erano largamente
diffusi nelle lingue di quella zona). Negli anni Ottanta si sono discussi altri casi, come i
creoli a base portoghese del Golfo di Guinea, che hanno come sostrato lingue affini, dei
gruppi Kwa e Bantu occidentale (entrambi della famiglia Niger-Congo): in questi creoli si
trovano realizzazioni implosive di /b/ e /d/, ideofoni, palatalizzazioni e depalatalizzazioni
condizionate da leggi tipiche di dialetti Kikongo, costruzioni negative con una particella
preposta al verbo ed un’altra alla fine della frase, ecc.40. Sulla base di queste osservazioni
arriva la conclusione di Thomason e Kaufman: “the bioprogram, if any – or, at least,
universal structural tendencies based on markedness – will be important only where the
structures of the substrate languages do not coincide substancially. Where the substrate
language structures do coincide typologically, the shifting speakers will tend to retain
them, unless pressure from a readily available target language pushes in another
direction.41”
Trovo invece poco condivisibile la seguente tesi, di alcuni creolisti soprattutto di
39
Piccola osservazione: purtroppo Bickerton non usa una grafia costante nel trascrivere il creolo
hawaiano, e noi dobbiamo adeguarci alle sue incoerenze grafiche.
40
Si veda S.G. THOMASON and T. KAUFMAN, Language Contact, Creolization, and Genetic Linguistics,
University of California 1988, pp. 157-8.
41
THOMASON and KAUFMAN, op. cit., p. 165.
82
scuola francese: siccome alcuni creoli a base francese (in particolare quello di Réunion)
differiscono notevolmente dalle caratteristiche dei creoli fin qui descritte, e non per
questo si avvicinano maggiormente al francese, essi evitano il problema di definire che
cosa sia un creolo, e ne danno una definizione puramente storica: significativo quanto
scrive Mufwene42: “je m’accorde en grande partie avec Chaudenson [che in realtà era più
prudente nelle sue formulazioni] en considérant les vernaculaires créoles comme des
variétés langagières qui se distinguent des autres variétés de langues modernes
notamment par leur ‘unité de temps’ (la période coloniale européenne du XVIIe au XIXe
siècles) et leur ‘unité de lieu’ (des colonies de peuplement insulaires ou côtières sous les
tropiques, ayant comme industrie principale des plantations de canne à sucre, de café et
de riz).” Secondo lui, “s’il n’y a pas de combinaisons de traits structuraux qui définissent
un créole et s’il n’y a par conséquent pas non plus de processus de restructuration
spécifique(s) au développement des créoles, il n’y a donc pas de critères linguistiques non
sociohistoriques pour identifier comme ‘créoles’ des variétés langagières particulières.”
Trovo metodologicamente aberrante che per definire una tipologia di lingue, peggio
ancora una branca della linguistica, si ricorra a criteri che non sono linguistici, ma storici
(o socio-storici, come dice lui): con gli stessi criteri, potremmo per esempio fare una
“linguistica islamica” comprendente tutte le lingue dei popoli islamizzati, come arabo,
persiano, urdu, turco, Bahasa Indonesia, somalo, berbero, curdo, begia, ecc.: è probabile
che vi si trovino numerose somiglianze nel lessico, ma nessuna nella sintassi, cioè tutto il
contrario della situazione che si riscontra nei creoli. Oppure, sempre con questi criteri
socio-storici, si potrebbe fare una linguistica anti-islamica, comprendendovi tutte le
lingue di popoli che si sono distinti per una lotta continua ed accanita contro l’Islàm: gli
Armeni, i Georgiani, i Copti d’Etiopia, i popoli del Rajasthan, ecc.: ma è probabile che
non vi si trovi alcun tratto comune. Perché invece si continua a parlare di lingue creole?
Evidentemente perché queste lingue si somigliano, dunque una tipologia creola esiste,
anche se siamo in difficoltà quando si tratta di definirla; ma forse dovremmo abituarci a
ragionare in termini di tendenze, piuttosto che di leggi inderogabili.
Vorrei ora partecipare alla discussione con un contributo personale. Riprendo la
questione dall’inizio, cioè dalla prima lingua di cui ho trattato, la lingua franca: se
rileggiamo i testi vediamo che era una lingua divertente, anzi ci può sembrare addirittura
un po’ comica; non sbagliamo, perché in effetti fu usata più volte da commediografi
europei a scopo di comicità: è notissimo l’intermezzo in lingua franca nel Bourgeois
Gentilhomme di Molière, e sappiamo che la si ritrova in molte commedie di Goldoni
(L’impresario delle Smirne, La Birba, I pettegolezzi delle donne, Le donne de casa sòa,
Lucrezia romana a Costantinopoli, La Fiera di Sinigaglia, la famiglia dell’antiquario)
nonché in numerose altre commedie italiane, francesi e spagnole. Giustamente è stato
osservato che i pidgin ed i creoli, ben lungi dal nascere obbligatoriamente in ogni
situazione di contatto linguistico, costituiscono un’eccezione: occorre anzitutto superare
la sensazione di ridicolo che si produce parlando in quel modo “ridotto”. Nel caso della
lingua franca, sappiamo per quale motivo la si superò: ci è preziosa la testimonianza del
dott. Frank, medico francese che soggiornò a Tunisi all’epoca di Napoleone, quando in
quella città regnava il bey H¢ammûda. A proposito di questo personaggio, egli scrive
42
Salikoko S. MUFWENE, Créoles, évolution sociale, évolution linguistique, éd. Harmattan, Paris 2005, pp.
54-5.
83
testualmente: “il parle, lit et écrit facilement l’arabe et le turc; la langue franque, c’est-àdire cet italien ou provençal corrompu qu’on parle dans le Levant, lui est également
familière; il avait même voulu essayer d’apprendre à lire et écrire l’italien pur-toscan;
mais les chefs de la religion l’ont détourné de cette étude, qu’ils prétendaient être indigne
d’un prince musulman.43” Dunque la lingua franca non era nata solo per lo scambio, ma
aveva anche la funzione di evitare ai musulmani di parlare una lingua di cristiani; e
siccome nei porti di pirati barbareschi come Algeri, Tunisi, Tripoli risiedevano anche
degli Europei trattenuti là in schiavitù, questa lingua divenne bilaterale ed ebbe un uso
quotidiano, insomma divenne stabile. Un altro pidgin nato da motivi simili, al fine cioè di
evitare di parlare la lingua dello straniero, sembra essere il Pidgin English della Cina:
secondo Hall, “the English regarded the language of the ‘heathen Chinese’ as beyond any
possibility of learning, and began to pidginize their own language for the benefit of the
Chinese. The latter held the English, like all ‘foreign devils’, in extremely low esteem,
and would not stoop to learning the foreigners’ language in its full form. They were
willing, though, to learn what they perfectly well knew to be an ‘imperfect’ variety of
English or of some other western tongue, and considered that this was abasing themselves
less than learning ‘real’ English. In other words, the English wanted to hold the Chinese
at arm’s length, and the Chinese wanted to do likewise to the English; Pidgin served the
purpose admirably for both sides.”44. In generale, parlare una lingua implica sempre
(anche in piccola misura) una qualche sorta d’identificazione col popolo a cui appartiene,
e col sistema di valori e la cultura che tutto ciò rappresenta: ma se c’è un rifiuto
sentimentale riguardo a tutto ciò, imparare quella lingua diventerà difficilissimo, quasi
impossibile. Ne abbiamo una chiara testimonianza nell’Europa del XX secolo: quando il
nostro continente era diviso in due, da una parte l’Ovest e dall’altra il mondo comunista,
ad Est in tutte le scuole si era costretti a imparare il russo: ma spesso questo studio era
inutile, moltissimi non arrivavano mai a padroneggiare quella lingua (specie nei Paesi
come la Romania, dove la lingua locale è di ceppo diverso). È azzardato supporre che in
situazioni di schiavismo si producesse la stessa difficoltà ad apprendere correttamente la
lingua dei padroni? Anche qui, come nel caso della lingua franca e del Pidgin English, si
ha a che fare con questioni di identità: apprendere interamente una certa lingua non è
possibile, perché ci sarebbe una menomazione della propria identità, che non si può
confondere con quella di chi parla la lingua in questione. Ma nel caso dei creoli si ha un
problema identitario in più: non si deve solo evitare di identificarsi coi padroni, bensì
occorre considerare che esiste un nuovo popolo, che si identifica come tale, e che vuole
quindi dotarsi di qualcosa che lo distingua: una nuova lingua, creata imitando non già i
padroni, ma qualche modello che normalmente si definirebbe substandard. Dal punto di
vista linguistico, la schiavitù è connessa con la creolizzazione solo perché determina la
formazione di uomini sradicati, che possono riconoscere un destino comune con altri
uomini che si trovano nella stessa situazione: ma d’altra parte esiste spesso in loro
l’esigenza di differenziarsi anche linguisticamente dal mondo circostante, e così si spiega
l’adozione di modelli linguistici del tutto diversi da quelli usati nella normale
trasmissione delle lingue. Il fatto poi che i creoli siano spesso ubicati nelle isole si spiega
pure con un fatto identitario: chi sta in un’isola ha il proprio orizzonte chiaramente
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44
CIFOLETTI, op. cit., p. 233.
Robert A. HALL, jr, Pidgin and Creole Languages, London 1966, p. 8.
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delimitato, e mentre in una regione del continente, o a maggior ragione in una grande
città, la presenza di mezzo milione d’uomini sradicati può non bastare a far nascere una
nuova identità, in una piccola isola potrebbero essere sufficienti cinquecento anime.
Inoltre, mentre sul continente si trovano le regioni di confine, dove gli abitanti spesso
provano un doppio senso di appartenenza, nell’isola tutto ciò non esiste. La nascita di un
creolo è dunque un fatto identitario, come la standardizzazione di una nuova lingua: in
entrambi i casi si osserva l’azione di un nuovo popolo che vuole affermare in questo
modo la propria identità. La differenza sta nel fatto che con le normali standardizzazioni
non si fa altro che assumere come modello una varietà linguistica già esistente (magari
assumendola non in toto, mescolandola o modificandola), mentre con la creolizzazione si
inventa qualcosa che si differenzia subito da tutti gli altri standard linguistici riconosciuti
prima. Anche quando l’evoluzione linguistica va nel senso di una struttura analitica, è
facile distinguerla dalla creolizzazione: sappiamo che il latino possedeva una perifrasi
con de + ablativo, che poteva (sporadicamente) affiancarsi al genitivo; inoltre, per
erosione fonetica (ovvero per la caduta di –m finale) l’ablativo a partire circa dal I secolo
d.C. era praticamente uguale all’accusativo. Nei testi di epoca tarda questa costruzione
diviene sempre più frequente, finché poi nelle lingue romanze sostituisce del tutto il
genitivo: ma è un processo lunghissimo, della durata di molti secoli, come pure quello
(parallelo) per cui la costruzione ad + accusativo sostituì il dativo: solo al termine ci si
accorse che la lingua parlata stava diventando troppo diversa da quella scritta, e si pensò a
nuove lingue nazionali. Invece la creolizzazione si realizza in un tempo breve,
probabilmente nello spazio d’una generazione: e se questa evoluzione è così rapida è
perché si ha la volontà di creare una nuova lingua, mentre il normale evolversi delle
lingue avviene in modo pressoché inconscio e preterintenzionale.
Letture indicate
(da preparare per l’esame)
Dall'edizione francese di Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, éd.
Payot, Paris, leggere le pp. 13-35; 97-103; 114-119; 163-166; l’ottima traduzione italiana
di Tullio De Mauro riporta a lato di pagina i numeri corrispondenti all'impaginazione
dell'originale francese, ed occorre seguire quelli, anziché l’impaginazione normale.
Notizie biografiche su Saussure si possono ricavare dalle pp. 319-358 (ma non è
necessario studiarle approfonditamente).
Nikolaj S. Trubeckoj, Fondamenti di fonologia, ed. Einaudi, Torino, pp. 5-21;
definizione di fonema pp. 44-47; pp. 56-78; 88-100.
Joseph H. Greenberg, Universali del linguaggio con particolare riferimento alle
gerarchie dei tratti, ed. La Nuova Italia, pp. 7-60.
Joseph H. Greenberg, Alcuni universali della grammatica con particolare riferimento
all'ordine degli elementi significativi, nel volume curato da P. Ramat La tipologia
linguistica, pp. 115-154; si studino soprattutto le pagg. iniziali (115-118) e poi gli
universali 1-7, 13-19, 22, 24, 26-37.
Bernard Comrie, Universali del linguaggio e tipologia linguistica, ed. Il Mulino, pp. 7789.
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Avvertenza al lettore
Scorrendo il testo ho notato diversi fastidiosi errori di battitura, che a volte posso far
risalire al computer (che quando trova una parola non compresa nel suo vocabolario
come per esempio inanalizzabile, tende a scomporla facendone due paroline, in
analizzabile, che però non hanno senso), ma di cui a volte non so trovare l’origine (giuro
che, scrivendo a mano, non metterei mai un’ con apostrofo davanti ad un maschile, ma
nei testi digitati al computer mi è successo). Ripeto perciò quanto già affermato
all’inizio: sarò grato allo studente che mi segnalerà questi ed altri svarioni.
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