In memoria di Amedeo
che amava parlare in seuese
© Domus de Janas
Mancarìas
La Parlata di Seui
Paolo Pillonca
ISBN 88 88569 37 5
Prima edizione Luglio 2006
Realizzazione editoriale
Domus de Janas
Via Monte Bianco 54
09047 – Su Planu – Selargius
Tel. 070 5435098 Fax. 070 5434105
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Foto di copertina
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Archivio Sergio Bonifanti
Archivio Famiglia Melis
Realizzazione grafica:
Supporti Visivi
Stampa e allestimento
Grafiche Ghiani – Monastir (CA)
LINGUA VIVA, LINGUA POETICA
Il lessico delle popolazioni avvezze da secoli a lavorare all’aria aperta
presenta caratteristiche inconfondibili che gli derivano soprattutto dall’osservazione attenta della natura e dei suoi fenomeni: il tempo nelle
varie stagioni dell’anno, gli animali selvatici della terra e dell’aria, quelli
allevati per latte, carne e miele, gli alberi spontanei e le piante coltivate,
gli arbusti, le erbe, la vita degli uomini nel lavoro, nei momenti spensierati della festa e nelle ore buie della tristezza. È un lessico di grande rigore nella definizione degli oggetti ma anche ricchissimo di similitudini,
metafore, espressioni idiomatiche di grande interesse e notevole fascino.
Lingua viva, lingua poetica.
Ci siamo avviati alla ricerca di questo patrimonio inestimabile, nella
convinzione profonda che la conoscenza della lingua sia un’operazione
indispensabile alla presa di coscienza di ciascuno, del suo essere e dei
valori di riferimento che ne guidano il percorso terreno come hanno guidato l’esistenza degli antenati comunitari. Un’idea del genere vale soprattutto per le parole che meglio raccontano la vita della comunità nel suo
andare attraverso il tempo: queste parole etniche hanno uno spazio molto
più ampio rispetto a quelle di meno intenso sentire: abba, àbbila, armidda, bentu, beranu, canali, casu, celu, cuaddu, erriu, festa, fogu, funtana,
giustìssia, ierru, ìligi, luna, mina, murva, pani, sinnu, terra, etc.
Ci rendiamo perfettamente conto che il repertorio lessicale presente
in Mancarìas è lungi dall’essere esaustivo. Si tratta di oltre settemilasettecento parole - e abbiamo evitato di dare conto degli italianismi di più
recente assunzione - ma siamo certi che ce ne sono sfuggite moltissime
altre. Perciò, ringraziando di cuore chi ha contribuito alla ricerca, invitiamo la comunità seuese intera a collaborare all’aggiornamento del
repertorio: senza l’aiuto di tutti sarà molto difficile il completamento
dell’opera.
La lingua non è solamente un elenco di parole. Ma per conoscere
meglio noi stessi è indispensabile sapere come si esprimevano i nostri
progenitori lontani e come, sul loro esempio, si sono espressi e si esprimono i nostri contemporanei. La lingua è lo specchio delle nostre esistenze, dei nostri valori e disvalori, delle nostre speranze e delle nostre
disillusioni. È la nostra vita, di ieri, di oggi e di domani.
Paolo Pillonca
MANCARÌAS
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PAOLO PILLONCA
Tabula Gratulatoria
Il repertorio di Mancarìas è anche frutto delle conversazioni tenute negli
anni con cittadini seuesi di arti e mestieri diversi, maschi e femmine, sugli
argomenti più svariati della vita comunitaria. Mi è gradito ricordare, fra
coloro che non ci sono più, i nomi di Peppino Anedda, Angelina e Assunta
Aresu, Benito e Demetrio Ballicu, Peppino Boi, Enea Carboni, Raimondo
Carta ‘Arremundicu’, Raimondo Carta ‘Mundicheddu’, Giuannicu
Congera, Benigno Deplano, Efisio Deplano ‘Zero’, Cristina Desogus,
Francesco Dessì il centenario e suo figlio Peppino, Giovanni Gaviano
‘Suchedda’, Efisio Meloni, Enea Moi, Giovanni Moi ‘Colla’ e Orazio Moi
‘Buchineddu’, Peppino e Salvatore Muggironi, Antonio, Paolo, Peppino e
Pietro Mura, Giovanna, Giovanni e Maria Pes.
Tra i viventi ringrazio in particolare Antonio e Gianna Anedda, Ignazio
Aresu, Mercede, Salvatore e Teresina Cannas, Vitalia Carboni, Angelo
Caredda, Ines Caredda, Antonio Carta, Francesco Cocco, Antonio e
Umberto Congera, Efisio Desogus ‘Montangia’, Giampaolo Desogus, Gianni
Dessì, Maria Levanti, Mariano Lobina, Mariangela Loi, Ignazio Marci e
gli altri ragazzi del Museo, Piero Meloni, Luigi Moi ‘Colla’, Maria Moi
vedova Gaviano, Amelia e Luisa Murgia, Marcella Pilia, Efisio Sabeddu e
Totore Usai.
A tutti quelli di casa mia esprimo sincera gratitudine per l’aiuto costante e la grande pazienza.
Mancarìas. La parlata di Seui
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NOTA ALL’EDIZIONE
Nel compilare questo repertorio lessicale abbiamo tenuto presenti
soprattutto le giovani generazioni e il castigo inflitto loro, sulla spinta di
un globalismo senza discernimento, da molte famiglie: la privazione
della lingua materna. Si tratta di una fascia di popolazione che rischia di
veder svanire lo straordinario patrimonio ereditato dagli antenati a causa
di una falsa convinzione di parte dei loro genitori, secondo cui conoscere la lingua parlata nella propria terra per millenni sia, come minimo,
una perdita di tempo.
Abbiamo, dunque, dato molto spazio agli esempi, sia nelle frasi di
senso reale e di uso comune sia nelle espressioni immaginifiche: similitudini, metafore, locuzioni avverbiali, proverbi.
Dove abbiamo potuto, abbiamo fornito anche indicazioni di fonetica sintattica soprattutto per ciò che si riferisce a certi nessi consonantici.
Ma abbiamo guardato più al grafema che al fonema e non ci siamo
avventurati nel campo minato delle etimologie: un campo da sempre
teatro di dispute accese, con torme di contendenti spesso in netto disaccordo fra loro.
Abbiamo segnalato con la dieresi l’esatta scansione delle parole, per
rendere meglio la differenza tra lingua sarda e lingua italiana nella divisione in sillabe, in prosa come in poesia.
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PAOLO PILLONCA
PRINCIPALI ABBREVIAZIONI
agg. - aggettivo
art. det. - articolo determinativo
art. indet. - articolo indeterminativo
avv. - avverbio
compl. - complemento
cong. - congiunzione
dev. - deverbale
dim. - dimostrativo
est. - estensione
escl. - esclamazione
fig. - figurato
ind. - indefinito
inf. - infinito
intrans. - intransitivo
ir. - ironico
it. - italiano
loc. avv. - locuzione avverbiale
met. - metafora, metaforico
n. pr. di pers. - nome proprio di persona
part. pass. - participio passato
poss. - possessivo
pr. - pronome
pr. pers. - pronome personale
prep. - preposizione
prep. impr. - preposizione impropria
pres. ind. - presente indicativo
pron. - pronuncia
rif. - riferimento, riferito
s. f. - sostantivo femminile
s. m. - sostantivo maschile
trans. - transitivo
v. - verbo
Mancarìas. La parlata di Seui
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A
A, preposizione. A. Introduce
vari complementi. Contrariamente
a quanto avviene in italiano accompagna sia il compl. di termine
sia il compl. oggetto: apu mandau
una lìtera a Franciscu (ho inviato
una lettera a Francesco), apu ’idu a
Cristolu (ho visto Cristoforo). Si
unisce a diversi altri complementi.
Moto a luogo (mai quello di stato
in luogo, sempre annunciato dalla
prep. in, senza eccezioni): andu a su
monti (vado in campagna), soi in
domu (sono a casa). Tempo determinato: a is tres de merì (alla tre del
pomeriggio). Vantaggio o svantaggio: su decotu ’e armidda giuat a is
(pr. ir) gangas (il decotto di timo
giova alla gola), su fumu nocit a is
prumonis (il fumo nuoce ai polmoni). Pena: fut istétïu cundennau a ses
annus de presoni, ma nd’at fatu tres
feti (era stato condannato a sei anni
di carcere ma ne ha scontato soltanto tre). Mezzo o strumento: s’at
untu is crapitas a ogliu seu (si è
ingrassato le scarpe con il sego).
Apre centinaia di locuzioni avverbiali. Ne forniamo svariati esempi,
senza tuttavia pretendere di darne
un elenco completo anche perché
la lingua viva, giorno per giorno,
ne registra sempre di efficacemente
nuove.
A abbovadura, in stato confusionale permanente: cussu assùcunu
dd’at fatu a a. (quello spavento
l’ha come frastornato). Vedi abbovai. A abbumbadura, con segni di
gonfiore. Pïeru s’est fatu a a. (Piero
è diventato così grasso da sembrare gonfio). Vedi abbumbài(si). A
acallelladura, in prostrazione:
candu tirat bentu basciu mi pigat a
a. (quando soffia il vento del sud
cado in prostrazione). Vedi acallellài(si) e callella. A acrichiddadura,
con una serie di brividi: chi
m’acaglienturu mi fait a a. (se ho la
febbre mi vengono i brividi). Vedi
acaglienturài(si) e acrichiddài(si).
A acrobïadura, in unione a mo’ di
alleanza. Ginu s’est fatu a a. cun
Mariu (Gino si è alleato con
Mario). Vedi acrobïài(si). A acronnotadura, in stato di insensibilità:
Lüisu s’est fatu a a. (Luigi è caduto
in uno stato di insensibilità). Vedi
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acronnotàisi e acronnotu. A addramäinadura, con sintomi di svenimento: at torrau a biri su chi dd’iat
bocìu su cüaddu e dd’est pigau a a.
(ha rivisto l’uccisore del suo cavallo e stava per avere uno svenimento). Vedi addramainàisi. A afinigadura, in via di assottigliarsi, in
dimagrimento: Billoi s’est fatu a a.
(Salvatore è dimagrito a vista
d’occhio). Vedi afinigai(si). A
afortïadura, con segni di rafforzamento: mi parit ca cussa mëigina
mi facat coment’e a a. (ho
l’impressione che quel farmaco mi
restituisca le forze). Vedi afortïai(si). A afracadura, come segnato dalla fiamma del fuoco: cussa
abbardenti s’est fata a a. (quell’acquavite si è inacidita per eccesso di
fiamma). Vedi afracài(si). A
agrungiadura, con effetto di acidità di stomaco: segundu su tempus
sa tratalia ’e angioni mi pigat a a.
(a seconda della stagione le interiora di agnello mi provocano acidità di stomaco). A allatïadura, a
temperatura tiepida (lett. di latte):
comenti nde dd’as tirada ’e su spidu,
sa petza s’est fata a a. (appena l’hai
tolta dallo spiedo, la carne si è
intiepidita). Vedi allatïài(si). A
allupadura, con sintomi di soffocamento: chi fait calori meda mi
pigat a a. (se fa molto caldo mi
PAOLO PILLONCA
manca il respiro). Vedi allupai(si).
A amachïadura, alla follia: Ginu
cussa picioca dda ’oliat a a. e at fatu
’e totu finas a cantu nc’est arrennéscïu (Gino desiderava quella ragazza alla follia e ha fatto di tutto per
riuscirci). Usata anche un’altra
variante: a s’amachiada. Vedi amachiai(si). A amurvonadura, come
in un inselvatichimento (lett. alla
maniera dei mufloni): certa oi e
certa crasi, Pìlimu s’est fatu a a. e
imoi non saludat prus a nemus (litiga oggi, litiga domani, Priamo si è
inselvatichito ed ora non saluta
più nessuno). Vedi amurvonàisi. A
apuntorgiadura, con imbastitura:
sa camisa si dd’at cumposta a a. (la
camicia gliel’ha imbastita in piena
regola). Vedi apuntorgiai. A arestadura, sulla via dell’inselvatichimento: sa tanca ’e Linu est fendusì
a a. (il terreno di Lino si va inselvatichendo). A assachitadura, a
scossoni: cussu cüaddu tenit unu
passu legiu, dònnia ’orta chi ddu
setzu mi fait a a. (quel cavallo ha
un brutto passo, tutte le volte che
lo monto mi scuote). Vedi assachitai. A atontïadura, in stato di scarsa percezione: a dis ddi pigat a a.
(ci sono giorni in cui avverte sintomi di deconcentrazione). Vedi
atontïai(si). A atzopïadura, come
se ci fosse una zoppia: cun cussu
Mancarìas. La parlata di Seui
dolori a sa croga mi pigat a a. (quel
dolore all’anca mi fa camminare
come se fossi zoppo). Vedi atzopïai(si). A avilidura, in uno stato
di prostrazione: Pìlimu si fait a a.
(Priamo si riduce in uno stato
costante di depressione). Vedi aviliri(si). A balla sola, con una sola
pallottola: su sirboni dd’at isparau
a b. s. (ha sparato il cinghiale a
palla). Gergale dei cacciatori. Per
est. entra nel gergo della politica a
definire la scelta di una sola preferenza: apu votau a b. s. (ho assegnato soltanto una preferenza). A
ballu, a ballo: Lüisu at postu una
cantzoni a b. (Luigi ha scritto una
canzone a ballo). La loc. si può
sviluppare poi variamente nei dettagli: a b. lestru (a ballo svelto), a
b. sérïu (a ballo composto), a ballu
’e schina (a ballo di schiena, ossia
di portamento eretto), a ballu ’e
tres (a ballo a tre), etc. Vedi baddai. A bangius (pr. bangiur) de
’inu, con impacchi di vino, in una
sorta di maledizione: ancu ti torrint a b. de ’i. (che ti facciano rinvenire con impacchi di vino). Vedi
abbangiai. A bàntidu, a vanto:
totus ddu portant a b. (tutti lo elogiano). Vedi bantai/’antai. A baratu, a basso prezzo: cussa mobbìlïa
dd’apu pigada a b. (quei mobili li
ho presi a basso prezzo). A befa, a
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mo’ di beffa, nettamente, senza
confronto e con umiliazione dell’avversario: dd’at fatu a b. (l’ha
ridicolizzato). Vedi befai. A bellu,
lentamente: andendu a b. ses seguru ca erribbas (procedendo con
lentezza sei sicuro di arrivare).
Pian piano, con loc. reiterata: a b.
a b. at otentu su chi ’oliat (pian
piano ha avuto quanto voleva). A
bentu, con il vento: fragat a b.
(puzza da lontano), est pudéscïu a
b. (il suo lezzo arriva con il vento).
A bentu ’eretu, con il vento a
favore (in senso met. e reale): fut
andendu a b. ’e. ma de fatu est istétïu malafortunau (inizialmente
andava bene, ma in seguito è stato
sfortunato). A bentu ’e soli, con
lo scirocco: ti crastu a bentu ’e soli
(ti eviro in tempo di scirocco),
minaccia metaforica ma comunque significativa. A bia a bia, a
turno, una volta per uno: non ti
’oglias feti tui in festa, de imoi in
susu feus a b. a b. (non pretendere
di essere sempre tu a far festa,
d’ora in poi faremo una volta per
uno). A bïagis (pr. biagir) d’óbïa,
a ruota continua: Lüisu ndi fait
betiri sa linna a b. d’ó. (Luigi fa
trasportare la legna a ruota continua, tanto da far incrociare senza
sosta i vari trasportatori). Vedi
adobïai, atobïai e obïai. A bogadu-
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ra, ad estrazione: is crabus ddus
sanaus totus a b. (i caproni li
castreremo tutti ad estrazione,
ossia con l’asportazione dei testicoli). Vedi bogai/’ogai. A bogi
balandera, a voce alta, senza
remore: ddu narat a b. b. (lo dice
senza peli sulla lingua). A bogi
bascia, a bassa voce: cuss’ómini
füeddat sempir a b. b. e de su chi
narat non si nde ddi cumprendit
bell’e nudda (quell’uomo parla
sempre a bassa voce e non si capisce quasi nulla di ciò che dice).
Esiste, è ovvio, anche la loc. opposta: a bogi arta (a voce alta). A
bogis, a urla: po dónnïa caduméntzïa si pesat a b. (per ogni sciocchezza si mette ad urlare). Per
queste ultime tre locuzioni vedi
aboginai. A boladura, mediante
lancio: sa linna mi nce dd’at fata a
b. (la legna me l’ha data lanciandomela da lontano). A bólidu, in
un attimo, al volo, subito: ddu
facu a b. (lo faccio subito). Vedi
bolai. A bonu, da bravo: su pipìu
fait a b. (il bambino si comporta
bene). Naturalmente esiste la loc.
di significato contrario: a malu. A
bonu coru, di buon cuore, volentieri: ddu facu a b. c. (lo faccio
volentieri). A bonu mannu, magari: a b. m. chi mi lamànt a trabbagliai! (magari mi chiamassero a
PAOLO PILLONCA
lavorare!). A bortas, talvolta: a b.
ddu fait, a b. nou (talvolta lo fa,
altre volte no), a b. non ponit
menti (qualche volta non ubbidisce). A bratzetu, a braccetto: non
bessu ’ónnïa dì a b. cun tui (non
esco tutti i giorni a braccetto con
te). A brìnchidus, a salti: su lépuri
andat a b. (la lepre procede a salti).
Vedi brincai. A brodu, a brodo, a
beffe, con netta superiorità: chi
dd’atòbïat, Linu ddu fait a b. (se lo
incontra, Lino lo surclasserà). A
bruncu, direttamente dalla bottiglia o dal barilotto (lett. con il
muso): su ’inu mi pragit a ddu
bufai ’e sa cubedda a b. (il vino mi
piace berlo direttamente dal barilotto). Vedi abruncai. A bruncu
furrïau, storcendo il muso: no
dd’apu fatu nudda ma est a b. f.
(non gli ho fatto niente ma mi
storce il muso). Vedi furrïai. A
buciconis, a cazzotti: a Efisïu non
bolit a ddi nai nudda ca si movit a
b. contras a chini e chi siat (non
bisogna contraddire Efisio perché
si scaglia a cazzotti contro chiunque). A buconi prenu/a buconi
mannu: con la bocca piena, a
grandi bocconi: Linu est unu scortesu, chistïonat a b. p. (Lino è un
maleducato, parla avendo la bocca
piena), non papis a b. m. che-i su
cani, papa coment’e is cristïanus
Mancarìas. La parlata di Seui
(non mangiare a bocca piena
come un cane, mangia come i cristiani). A buddiu, mediante bollitura: custa petza mi dda cou a b.
(questa carne me la lesserò). Vedi
buddiri. A bufadura, liscio, senza
aggiunte (detto del latte o del cappuccino che si beve senza bagnarci dei biscotti o altro): deu su lati ’e
craba nce ddu calu a b. (il latte di
capra lo mando giù liscio). Vedi
bufai. A busciaca ’rbùida, a tasche
vuote: ndi ’enit sempir a b. ’r. (arriva sempre a tasche vuote). Vedi
irbüidai. A cada sa metadi, metà
ciascuno: eus cassau unu sirboni e
dd’eur dividìu a c. sa m. (abbiamo
cacciato un cinghiale e ce lo siamo
diviso a metà ciascuno). A cadena,
a catena: Linu est furïosu, bolit acapïau a c. (Lino è fuori di sé,
andrebbe legato con una catena).
Vedi incadenai. A cadunu, uno
per ciascuno: feus a c. (facciamo
uno per ciascuno). A caglientura,
con la febbre: soi a c. (sono con la
febbre), ddi bastat unu ’entigeddu
’e nudda e ddi pigat inderetura a c.
(gli è sufficiente un venticello da
niente e subito gli viene la febbre).
Vedi acaglienturai(si). A caladura,
in via di decadenza: Pìlimu est fendusì a c. (Priamo si avvia al declino). Vedi calai. A calamadura, in
via di appassimento: sa mela s’est
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fata a c. (le mele sembrano appassite). Vedi calamàisi. A calori ’e
fogu, al tepore del fuoco: mi setzu
a c. ’e f. (mi siedo accanto al camino). A caminus faddius, per strade sbagliate: cun Lüisu fustis
cichendunosì a c. f. (io e Luigi ci
cercavamo a vicenda ma su strade
sbagliate), detto di quando due si
cercano ma percorrono strade
diverse. Vedi caminai e faddiri. A
cantzonadura, a presa in giro: a
Ginu ddu pigant a c. (Gino viene
continuamente deriso). Vedi cantzonai. A cantzonedda, a cantilena,
noiosamente: ddu narat a c. (lo
ripete fino alla noia). A caragolu,
in una morsa da fabbro: dd’at
istrintu a c. (l’ha stresso in una
morsa ferrea). A carighedda, con
voce nasale: fait erriri ca chistïonat
a c. (fa ridere perché parla con
voce nasale). Vedi càriga. A carrùmbulus, a capitomboli: at irliscinau e nc’est calau a c. in su caminu (è scivolato ed è precipitato a
capitomboli lungo la strada). Vedi
carrumbulai. A caru, a caro prezzo: custa mi dda pagas a c. (questa
me la paghi a caro prezzo), in
senso reale e/o fig. Il contr. di a
baratu. A càschidus, a sbadigli: su
pipìu fut a c. longus, tandu nce
dd’apu crocau (il bambino sbadigliava a lungo, allora l’ho messo a
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letto). Vedi cascai. A càstïu, sotto
controllo: ddu portant a c. is carabbineris (i carabinieri lo tengono
sotto controllo). Vedi castïai. A
cherpu, a dispetto (lett. per farlo
crepare): si ddu facu a c. (glielo
faccio a dispetto). Vedi cherpai. A
chïetu, in stato di calma: Linu non
s’abarrat mai a c. (Lino non resta
mai tranquillo). Vedi achïetàisi. A
chistïoni, a colloquio: fustis de di
ora a c. (eravamo da tempo a colloquio). Vedi chistïonai. A cöidu,
presto: cras andaus, ma depeus
mòviri a c. (domani andremo, ma
dobbiamo partire presto). Vedi
cöidai. A cöidura, a mo’ di cottura: sa ciligìa dd’at fatu a c. (la brina
l’ha come bruciato). Vedi còiri. A
colletu, per il collo: dd’at pigau a
c. e dd’at iscutu una surra (l’ha
preso per il collo e gli ha dato una
sussa). A comodidadi, con comodo: pressi no ndi tengiu, mi dd’apu
a fàiri a c. (non ho fretta, lo farò
con comodo). A cómpuru, mediante acquisto: cussa ’omu dd’at
pigada a c. (quella casa l’ha acquistata). Vedi comporai. A corpu, di
colpo, improvvisamente: pariat ca
’oliat abarrai ma una dì totu a c. at
determinau de si nd’andai (sembrava volesse restare ma un giorno
tutto d’un tratto ha deciso di
andarsene). A corpus, a colpi, con
PAOLO PILLONCA
percosse: dd’at pigau a c. de scova
(l’ha preso a colpi di scopa). A
corti, a più miti consigli (lett. alla
mandra): pariat unu abbetïosu ma
de fatu giai est torrau a c. (sembrava un testardo, ma poi è tornato a
più miti consigli). L’immagine
nasce dalla osservazione degli animali che spesso non tornano alla
mandra per la mungitura ma poi
finiscono con il ritornarvi spontaneamente. Vedi incortigliai. A
coru, a cuore: si dda pigat a c. e nci
patit (se la prende a cuore e ne soffre). A coru fridu, a cuore freddo,
con un brutto presentimento:
Teresa ndi fut a c. f. (Teresa sentiva
che non sarebbe andata bene). A
crabistu, con la cavezza: a su cüaddu no dd’iat postu mancu frenu,
ddu portàt a c. (al cavallo non
aveva nemmeno messo la briglia,
lo conduceva tenendolo per la
cavezza). Ma l’uso di questa loc. a
Seui è particolare: riguarda soprattutto la sfera della met. e si riferisce a persone testarde e poco intelligenti: no andat mancu a c. (non
va nemmeno se gli metti una
cavezza). Nei casi più difficili,
secondo il giudizio popolare, è
necessario ricorrere ad una trazione duplice: Antoni ’olit portau a
dòpïu c. (Antonio andrebbe tirato
con due cavezze). Ma in certe
Mancarìas. La parlata di Seui
situazioni non c’è nulla da fare: no
andat mancu a dòpïu c. (non va
nemmeno se gli metti due cavezze). A cracaporcedda, come maialetti nell’àrula: non mi pragit a
abarrai in custu logu strintu, anìa
seus totus a c. (non mi piace restare in questo luogo angusto, dove
stiamo tutti come maialetti nell’àrula). Vedi cracai. A crai, a chiave:
sa pobidda ddi serrat totu a c. (la
moglie gli chiude tutto a chiave).
Vedi cràiri. A crisadura, con una
sensazione di ribrezzo: a su figau
cru’ ddi facu a c. (quando vedo del
fegato crudo provo come una sensazione di ribrezzo). Vedi crisai. A
crobecu, come coperchio: cussa su
sposu si ddu ponit a c. (quella lì il
fidanzato lo usa come un coperchio), ossia come schermo ad altre
relazioni segrete. Vedi crobecai. A
cróculu, a gorgoglìo: s’abba de
cussa funtana ndi ’essit a c. (l’acqua
di quella fontana esce gorgogliando). Vedi crocolai. A cropus, a
colpi: dd’at pigau a c. (l’ha preso a
colpi). A cüaddeddu, a cavalluccio
(come quando si sistema un bambino sulle spalle di un adulto con
le gambe pendenti in avanti, ai lati
del collo di chi lo trasporta): su
pipìu si ’olit sempir a c. (il bambino ama stare a cavalluccio). A
cüaddu a cavallo: po sètziri a c. non
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depis tìmiri ca su cüaddu si
nd’acatat e timit cussu puru (per
montare a cavallo non devi aver
paura perché il cavallo se ne accorge e si spaventa a sua volta). A
cüaddu ’nfrenau, con il cavallo
imbrigliato, ossia in pompa
magna: Boricu est sempir a c. ’n.
(Salvatore è come se montasse
sempre un cavallo imbrigliato),
espressione idiomatica, a scherno
di chi si dà arie. Vedi infrenai. A
cùcuru, a misura piena: m’at
donau unu mou ’e trigu a c. (mi ha
dato uno starello di grano a misura colma). La loc. indica anche il
trasporto di pesi sulla testa: sa
linna ’e allùiri nde dd’apu ’etìa a c.
(la legna per avviare il fuoco l’ho
trasportata sulla testa). Vedi acucurai. A cucuruscaglius, a capriole: Cristolu fut gioghendu a c. cun is
cumpangeddus de scola (Cristoforo
giocava a fare le capriole con i suoi
compagnetti di scuola). A culu
abertu/obertu, entusiasticamente,
con il culo aperto: candu est erribbau cussu càdumu totus furint a c.
o. ma defatu giai ddus at iscaddaus
(quando è arrivato quel deficiente
erano tutti entusiasti ma subito
dopo lui li ha scottati). La loc. ha
sempre una venatura di scherno.
Vedi obèrriri/abèrriri. A cul’’i ogu,
con la coda dell’occhio: dd’apu’idu
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a c. ’i o (l’ho visto con la coda dell’occhio). A culu in campu, con il
culo nudo: dd’apu ’idu eu a c. ’n c.
(l’ho visto io senza mutande). A
culu in segus, in retromarcia (lett.
con il culo all’indietro): est torrau
a c.’n s. (è tornato in retromarcia).
A cumonargiu, come socio di
ovile: dd’apu tentu ses annus a c.
(l’ho avuto per sei anni come
socio di ovile). A cumoni, in sòccida: portu is crabas de Lüisu a c.
(bado alle capre di Luigi in soccida). A cumpangiu, come compagno di lavoro: seus a c. cun Antoni
(con Antonio siamo compagni di
lavoro). Vedi acumpangiai. A de
dì, di giorno: is sirbonis non bessint
a d. d. (di giorno i cinghiali non si
fanno vedere). A de nanti, davanti: fut a d. n. miu e non m’at bidu
(era davanti a me e non mi ha
visto). A de noti, di notte: a d. n.
’essit sa stria (di notte esce il barbagianni). A deretu, bene, a regola
d’arte: no ndi fait manc’una a d.
(non ne fa neppure una buona). A
dinari, con soldi in palio: giogant
a cartas a d. (giocano a carte per
soldi). A disfida, in competizione:
Franciscu e Linu funt a d. (Francesco e Lino sono in competizione).
Vedi disfidai. A disigliu, con desiderio: fui a d. de ti torrai a biri (ero
desideroso di rivederti), ddu tenia
PAOLO PILLONCA
a d. (lo desideravo). Vedi disigliai.
A disisperu, disperatamente:
candu ddu-i pensu mi pigat a d.
(quando ci penso mi dispero).
Vedi disisperai/ disisperàisi. A disparti, separatamente: Ada bivit
paris cun su pobiddu ma coginant a
d. (Ada vive insieme con il marito
ma cucinano separatamente). A
dispùta, in competizione: Linu est
sempir a d. cun Antoni (Lino è in
competizione con Antonio). A
donnïora, a tutte le ore, di continuo: est a d. chescendusì (si lamenta di continuo), Ninu bufat a d.
(Luigi beve troppo). A dràbbulu,
a peso morto: mi nce dd’at iscutu a
d. (me lo ha lanciato a peso
morto).
Vedi
drabbulai/addrabbulai. A duritu, piuttosto tardi: candu apu móvïu fut giai
a d. (quando sono partito era già
piuttosto tardi). A duru, fuori
tempo: candu seus erribbaus fut a
d. (quando siamo arrivati era
tardi), po annestai est a d. (per gli
innesti siamo fuori tempo). Vedi
addurai. A errisu, a riso, a scherno: a Umbertu ddu pigant a e.
(Umberto non viene mai preso sul
serio). Vedi erriri. A facis (pr.
facir) de proi, a confronto diretto:
ti ’ogu a f. de p. ( ti sottopongo al
confronto diretto). A feli, con
attacco di rabbia: candu ddu-i
Mancarìas. La parlata di Seui
pensu mi pigat a f. (quando ci
penso mi viene la rabbia). A fichidura, ficcandosi in mezzo senza
invito: Antoni si nci fait a f.
(Antonio si intromette senza invito).Vedi fichìri(si). A fidu, a credito: chini non podit pagai inderetura cómporat a f. (chi non può
pagare all’istante acquista a credito). Vedi comporai. A filu ’eretu,
secondo logica (lett. a filo dritto):
est raridadi chi Pìlimu andit a f. ’e.
(è raro che Priamo segua una logica). La loc. si usa spesso in senso
antifrastico: giai seus a f. ’e. (andiamo proprio bene). A fini, finemente: de custu ndi chistïonaus a f.
(questo lo approfondiremo).
Reiterata, la loc. (a f. a f.) vale: con
estrema finezza. Vedi afinigai. A
fissadura, in una sorta di fissazione o manìa: a Gisepu ddi pigat a f.
(Giuseppe è in uno stato maniacale). Vedi fissàisi. A fitas, a fette: at
pigau su ’estiri ’e sa coïa e dd’at
segau a f. (ha preso il suo abito da
sposa e l’ha tagliato a fette). Vedi
afitai. A fogu anintru, con il
fuoco in bocca (l’abitudine di
fumare nottetempo il sigaro con il
fuoco in bocca era uno stratagemma attribuito ai soldati sardi della
prima guerra mondiale per non
segnalare la propria presenza ai
nemici attraverso la luce del fuoco
19
esterno, più tardi divenne
un’abitudine anche diurna):
Dàrïu fumat su zigarru a f. a.
(Dario fuma il sigaro rovesciato).
A fogu fatu, con il fuoco acceso:
candu si nd’est pesau Antoni su
babbu fut giai a f. f. (quando
Antonio si è alzato dal letto il
padre aveva già acceso il fuoco). A
fogu fridu, con un fuoco semispento: seis a f. f. (avete il fuoco
semispento). Vedi sfridai. A fogu
irmortu/studau, con il fuoco
spento: no abarru mancu in beranu a f. ’r./s. (neppure in primavera
rimango con il fuoco spento).
Vedi irmòrriri e istudai. A foras,
fuori: fut fendu su càdumu e nce
dd’apu ’ogau a f. (stava facendo il
cretino e l’ho cacciato fuori). A
forti, con forza, a voce alta: ddu
possu nai a f. (posso dirlo a voce
alta), poderaddu a f. (tienilo stretto). Vedi afortïai. A fràndigu,
attraverso lusinghe: totu a f. est
arrennèscïa a otènniri totu su chi
’oliat (a forza di lusinghe è riuscita
ad ottenere tutto ciò che voleva).
Vedi frandigai. A frenu strintu, a
briglia stretta: sa pobidda ddu
poderat a f. s. ma candu ddu fidat
pagu pagu cussu si fuit (la moglie lo
tiene a briglia stretta ma appena lo
lascia libero lui se la svigna). Vedi
strìngiri/istrìngiri. A fridu, a fred-
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do, a posteriori: no arrennesciu a
iscùdiri a nemus a f. (a freddo non
riesco a picchiare nessuno). Vedi
sfridai. A frigadura, a massaggio:
sa mëigina mi dda depu fàiri a f. in
is cambas (il farmaco me lo devo
spalmare e massaggiare sulle
gambe). Vedi frigai. A friscura,
quando farà più fresco: a f. andaus
a betiri s’abba (sul far della sera
andremo a portare l’acqua). Vedi
friscurai. A frori, in pessime condizioni: giai ses a f. (sei proprio
ben messo), espressione antifrastica. Vedi froriri/infroriri. A frorigius, con ornamenti: at fatu unu
bàtili ’e cüaddu a f. (ha confezionato un sottosella da cavallo con
ornamenti). Vedi frorigiai. A füeddus, a parole: nd’eus tratau a f. e su
füeddu balit finas e de prus de su
scritu (ne abbiamo trattato a parole e la parola vale anche più della
scrittura). Vedi füeddai. A füidura,
come se fuggisse: est sempir impressìu, fait is cosas a f. (va sempre di
fretta, fa le cose come se stesse fuggendo). Vedi füiri. A fulïadura, in
tanta abbondanza di q.sa da poterne perfino buttar via: de trigu ndi
tenit a f. (di grano ne possiede
tanto da poterne buttare via). Vedi
fulïai. A fundu, vicino, a poca
distanza: Antoni at bidu un’arèi ’e
murvas: ddas portàt a f. (Antonio
PAOLO PILLONCA
ha visto un branco di mufle: le
aveva a poca distanza). A fundu a
susu, sottosopra: dd’at furrïau sa
’omu a f. a s. (gli ha messo la casa
sottosopra). Talvolta la loc. è ellittica della prep. iniziale. A funi,
alla fune: su molenti ddu portu a f.
(l’asino lo tengo alla fune), cussu
no andat mancu a f. (quello non va
nemmeno se lo tiri con la fune).
Vedi afunai. A funi curtza/a funi
longa, a fune corta/ a fune lunga:
su cüaddu curridori ’olit tentu sempir a f. c. (il cavallo da corsa va
sempre tenuto a fune corta), su ’oi
’omau ddu podis poderai a f. l. puru
(il bue domato lo puoi tenere
anche a fune lunga). A fura, di
nascosto, furtivamente: ddu est
andau a f. (ci è andato di nascosto). Vedi furai. A furadura, come
se si trattasse di un furto: mi nde
dd’at lïau a furadura (me l’ha
preso e non me l’ha restituito). A
fura prana, con un furto senza uso
di armi: is crabas si nde ddas at lïadas a f. p. (le capre gliele ha portate via senza usare le armi). A furrïotus, a giri disordinati: Ninu est
andendu a f. e non si cumprendit e
ita iat a bòlliri. (Nino vaga disordinatamente e non si capisce che
cosa voglia). Vedi furrïotai. A fùrrïu, tutt’intorno: no ddu iat nemus
a f. (tutt’intorno non c’era nessu-
Mancarìas. La parlata di Seui
no). Vedi furrïai. A ganamala, con
nausea: candu ddu biu mi pigat a
g. (quando lo vedo mi viene la
nausea). Agòa/(a coa), più tardi,
alla fine, indietro (nella pronuncia
si è persa la divisione originaria a
coa): custu ddu bïeus a. (questo lo
vedremo dopo), non t’abarris a.
(non restare indietro). A giogu,
alla leggera, come fosse un gioco:
piciocheddu, non ti pighis a g. sa
scola (ragazzino, non prendere la
scuola alla leggera). Vedi giogai. A
grai, faticosamente: a fàiri cussu
dd’at a bènniri a g. (riuscire in
quell’impresa gli costerà fatica), est
sulendu a g. (respira a fatica). Vedi
ingraïai. A gropas, in groppa: setzidì a g. (monta in groppa). A
gùrulus, a urla: candu chelegunu
ddu scronnat si pesat a g. (quando
qualcuno lo contrasta si mette a
urlare). Vedi gurulai/’urulai. A
illargu, lontano: cichendu perdimentu nc’est infertu a i. meda (cercando il suo bestiame rubato è
arrivato molto lontano). Vedi
illargai. A illùinus, a capogiri: a
bortas, candu abarru prus de una dì
chene papai, mi pigat a i. (talvolta,
quando rimango a digiuno per più
di un giorno, ho i capogiri). Vedi
illüinai. A imburdugu, in maniera
grossolana: fait totu a i. (esegue
tutto grossolanamente). Vedi
21
imburdugai. A impari, insieme: su
trabbagliu ddu feus a i. (il lavoro lo
faremo insieme). A imperradura,
a cavalcioni: s’est postu in su muru
a i. (si è messo a cavalcioni sul
muro). Vedi imperrai. A impestadura, in forma epidemica: sa droga
s’est ispandèssïa a i. (la droga si è
diffusa epidemicamente). Vedi
impestai. A incadumadura, in una
sindrome depressiva, da persona
rimbambita: Linu s’est fatu a i.
(Linu sta vivendo una sorta di
rimbambimento). Vedi incadumàisi. A incirdinadura, ad irrigidimento: su frïus at fatu a i. su
lentzoru spartu (il freddo ha come
irrigidito il lenzuolo steso). A
inciupidura, ad assorbimento: fut
de di ora chene próiri e-i s’abba chi
at betau sa terra nce dd’at fata totu
a i. (da tempo non pioveva e la
pioggia caduta è stata assorbita
tutta dalla terra). Vedi inciupiri. A
indebbilitadura, come un indebolimento: su calori ’e s’istadi mi pigat
a i. (il caldo estivo mi debilita). A
infrusadura, con intromissione
sgradita: nd’at paricius chi si nci
faint a i. in dónnïa logu (c’è molta
gente che si infila dovunque senza
invito). Vedi infrusai(si) A ingìrïu,
tutt’intorno: ddu iat canis a i. (tutt’intorno c’erano dei cani). Vedi
ingirïai. A ingringhillitadura, ad
22
attrazione forte: su giogu ’e sa
murra mi pigat a i. (il gioco della
morra mi attrae molto). Vedi
ingringhillitai. A ingurtidura, ad
inghiottimento senza masticazione: papendu, Antoni nci fait totu a
i. (mangiando, Antonio inghiotte
tutto senza masticare). A innanti,
prima: a i. pensa e de fatu füedda
(prima pensa e poi parla). A intzérrïus, a urla: candu at bidu cussu
cani s’est pesau a i. (quando ha
visto quel cane ha reagito a urla).
Vedi intzerrïai. A intzùnfïus, con
singhiozzi sordi: Lina prangìat a i.
(Lina piangeva con singhiozzi
sordi). Vedi intzunfïai. A ira, a
dirotto: est pröendu a i. (piove a
dirotto). A is (pr. ir) becesas, in
tarda età: si nd’est iscidau a i. b. (si
è svegliato in tarda età). A irbentugliadura, con sventolìo: in
s’istadi sa camisa si dda ponit a i.
(d’estate la camicia la usa come
sventolatore).Vedi irbentugliai. A
irdassadura, quasi senza più filo
(detto delle lame di coltelli,
pugnali, cesoie, roncole, etc.):
cudda càvana s’est fata a i. (quella
roncola ha perso il filo della sua
lama). Vedi irdassai. A irderrigadura, all’altezza dei reni: Sarbadori
at iscutu una perda a Linu e dd’at
fertu a i. (Salvatore ha lanciato
una pietra a Lino colpendolo nella
PAOLO PILLONCA
zona renale). Più spesso, con dolore in quella sede: chi marru meda
mi pigat a i. (quando zappo a
lungo sento dolore ai reni). Vedi
irderrigai. A irmesadura, a quota
dimezzata: est unu malu pagadori,
dónnïa ’orta chi ddi fais unu prétzïu ti ddu ’rmenguat a i. (è uno che
non ama pagare, ogni volta che gli
fai un prezzo te lo riduce fino a
dimezzarlo). Vedi irmengüai e
irmesai. A irmurradura, dritto sul
muso: dd’at iscutu unu corpu a i.
(gli ha dato un colpo dritto sul
muso). Vedi irmurrai e murru. A
iscarescidura, in oblio: de mei ti
ndi ses fatu a i. (mi hai messo nel
dimenticatoio). Vedi scarèsciri/
iscarèsciri/ schèsciri. A ischina
’ereta, con la schiena dritta:
Franciscu fut a i.’e (Francesco era
un uomo dalla schiena dritta). A
iscimingiadura, con capogiri: fatu
fatu mi pigat a i. (ogni tanto mi
viene la labirintite). Vedi iscimingiai. A isciorbeddadura: con un
colpo in fronte, quasi si volesse
scervellare il rivale: dd’at iscutu
una perda a i. (gli ha lanciato una
pietra sulla fronte).Vedi sciorbeddai/isciorbeddai. A iscràmïus, con
voce lamentosa e leggermente gridata: totu in-d-una su pipìu s’est
pesau a i. (all’improvviso il bambino si è messo a gridare con voce
Mancarìas. La parlata di Seui
lamentosa).
Vedi
scramïai/iscramïai. A iscjrebinadura,
fuori cottura: calandedda cussa
petza a buddìu ca si fait a i. (togli
quella pentola dal fuoco altrimenti si scuoce). Vedi scjrebinai/iscjrebinai. A iscroca, a scrocco: in bidda nci ndi tenïaus unu chi
andàt a i. (in paese ce n’era uno
che andava a scrocco). Vedi scrocai/iscrocai. A iscurìu, al buio, con
l’oscurità: Gisepu ’essit prus a iscurìu chi no a lugi (Giuseppe esce
più spesso al buio che alla luce). A
iscusi, segretamente, di nascosto:
bandus no ndi ’etat, Franciscu: fait
totu a i. e fait beni (Francesco non
dà bandi pubblici, agisce di nascosto e fa bene). A iscutas, ad intervalli, nei ritagli di tempo: ddu facu
totu a i. (lo faccio nei ritagli di
tempo). Spesso la loc. si reitera: a
i. a i. Vedi scùdiri/iscùdiri. A isfregiu, a sfregio: su babbu si dd’at
fattu a i. (il padre gliel’ha fatto a
sfregio). Vedi sfregiai/isfregiai. A
ispàinu, in ordine sparso: lassat
totu a i. (lascia tutto in ordine
sparso).Vedi ispäinai. A ispantu, a
meraviglia: ddu portant a i. (su di
lui si narrano meraviglie). Vedi
spantai/ispantai. A isparessidura,
per improvvisa sparizione: Linu
s’est fatu a i. (Lino è come scomparso).Vedi isparèssiri. A ispàssïu,
23
a spasso, in ozio: est sempir a i. (è
sempre in ozio).Vedi spassïai/ispassïai. A ispeddiu, da
impazzire (lett. da non star più
nella pelle): est una cosa chi mi
pigat a i. (è una cosa che desidero
all’impazzata). Vedi ispeddïai e
peddi. A isperdìssïu, con spese
senza controllo: sa ’omu non bolit
ghiada a i. (la casa non deve essere
governata con spese folli). Vedi
sperdissïai/isperdissïai. A ispissuleddus, a pizzicotti: a su pipìu ddi
pragit a basai a i. (al bambino
piace baciare a pizzicotti). Vedi
spissulai/ispissulai. A ispremidura,
mediante spremitura: su limoni mi
ddu facu a i. (dal limone mi faccio
spremute). Vedi sprémiri/isprémiri.
A is ses e mesu, alle sei e mezza.
Vedi a mesudì. A isterrimenta,
come strame: dd’apu postu fenu a i.
e s’ebba igui ddu istat beni meda (le
ho messo del fieno come strame e
lì la cavalla starà molto bene).
Vedi stèrriri/istèrriri. A istógumu
arvolotau, con lo stomaco in subbuglio: po mori ’e àiri bufau abbardenti ageda soi abarrau una dì
intrea a i. a. (per aver bevuto
acquavite acida sono rimasto un
giorno intero con lo stomaco in
disordine). Frequenti anche altre
due locuzioni: a istògumu prenu (a
stomaco pieno) e a istògumu
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’rbùidu (a stomaco vuoto). A
istóntunus, barcollando: fut
imbriagu e andàt a i. (era ubriaco
e barcollava). Vedi stontonai/istontonai. A istragu, a fatica:
a fàiri totu custu in-d-una dì m’at a
bènniri a i.(fare tutto questo in
una sola giornata mi costerà fatica), dd’apu fatu, ma a i. (l’ho fatto,
ma a fatica). Vedi stragai/istragai.
A istrancanadura, con uno strappo violento: sa porta dd’at oberta a
i. (ha aperto la porta con uno
strappo deciso). Vedi strancanai/istrancanai. A istrossa, con
subitanea violenza: est pröendu a i.
(sta diluviando). Vedi strossai/istrossai. A istrùmbulu, con il
pungolo: fais che-i cuddu chi giogàt
sa sposa a i. (fai come quello che
utilizzava il pungolo per giocare
con la fidanzata).Vedi strumbulai/istrumbulai. A istrumpas, nella
lotta sarda tradizionale (istrumpa è
un gioco in cui si combatte fra
due e la vittoria va a chi riesce ad
atterrare il rivale afferrandolo con
le braccia e dandogli sgambetti):
dd’at bintu a i. (l’ha battuto nella
lotta sarda). Vedi strumpai/istrumpai. A istruncadura, per
la via più corta: nci soi calau a i.
(ho fatto la discesa attraverso una
scorciatoia). Ma la loc. ha anche
una vena sottile di negatività,
PAOLO PILLONCA
come di azione mal eseguita. Vedi
struncai/istruncai. A istrupïadura,
a sangue: dd’at iscutu a i. (l’ha picchiato a sangue) Vedi strupïai/istrupïai. A istùrrudus
sighius, a starnuti continui: m’est
pigau a i. s. e non podia arrennèsciri a fàiri nudda (mi è venuto un
attacco di starnuti continui e non
riuscivo a fare nulla). Vedi sturrudai/isturrudai. A làcana, al confine: fustis a l. de su ’e Gàiru (ci trovavamo al confine con il territorio
di Gairo). La loc. si utilizza anche
in senso fig. A l. ’e su prantu, de su
disisperu (al limite del pianto,
della disperazione). Vedi illacanai.
A ladus (pr. ladur) de frutu, con
partecipazione alla resa: apu pàscïu
is crabas de Antoni a l. de f. (ho
tenuto al pascolo le capre di
Antonio in compartecipazione
alla resa). Si tratta di un’altra
forma di accordo pastorale, rispetto a su cumoni: il proprietario
aveva diritto a una parte ridotta
della produzione del gregge in
latte, lana e carne ma conservava
per intero la proprietà del bestiame. Vedi illadarai. A lampalugi,
attraverso bagliori: dd’apu ’idu a l.
(l’ho visto come in un bagliore).
Vedi lampai e lùgiri. A lampus e
tronus, con lampi e tuoni: totu ’nd-una s’àiri s’est annüilada e at
Mancarìas. La parlata di Seui
cumentzau a l. e t., defatu at pròpïu
meda, oras e oras (all’improvviso il
cielo si è fatto nuvoloso ed è iniziata una serie di tuoni e fulmini,
poi è piovuto molto, ore ed ore).
Vedi lampai e tronai. A läuneddas,
con il solo accompagnamento di
läuneddas: at sonau unu ballu a l.
(ha eseguito un ballo con le launeddas). A lestru, in fretta: is cosas
fatas a l. arresurtant mali fatas (le
cose fatte in fretta risultano fatte
male). Vedi, sotto, a sa lestra. A
lìmpïu, di netto: cun s’arrasoïa si
nd’at segau unu ’idu a l. (con il coltello a serramanico si è tagliato di
netto un dito). Vedi illimpïai. A
loba, a coppia, con parto gemellare: ocannu in beranu paricias crabas funt angiadas a l. (quest’anno
in primavera molte capre hanno
avuto parti gemellari). Vedi lobai.
A lugi, alla luce del sole: sa cosa
’olit fata a l., po ’essìri ’eni (per
risultare al meglio, una cosa va
fatta nelle ore di luce). A lugi fata,
ad alba compiuta: sa cantzoni ’e
Benignu ’e Tarichi narat ca
un’ómini bîat prus a iscurìu che a l.
f. (la canzone di Benigno Deplano
dice che un uomo vedeva meglio
di notte che ad alba compiuta). A
lugi irmorta, a luce spenta: si
nd’est pesau a l. i. e ddus at at fatus
a tìmiri (si è alzato dal letto a luce
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spenta e li ha fatti spaventare).
Ovviamente, si utilizza spesso
anche la loc. a lugi alluta (con la
luce accesa).Vedi allùiri e irmòrriri. A lugori, a lume di luna: no
iscìu chi po cassai a sirboni andit
meglius a l. (non so se la caccia al
cinghiale riesca meglio al chiarore
lunare). A lùmburus, a rotoli: su
pipìu est a l. in su fenu (il bambino
si rotola sul fieno). Vedi lumburai/illumburai. A luna noa, con la
luna nuova: custu ’olit fatu a l. n.
(questo va fatto con la luna
nuova). È intuitivo che esista
anche la loc. a luna ’ecia (a luna
vecchia). A luna prena, con la
luna piena: a l. p. non si depit segai
linna e nimancu ’oddiri erbas (a
luna piena non si può tagliare
legna e neppure raccogliere erbe).
A magliadura, come a colpi di
maglio: dd’at iscutu a m. (l’ha picchiato come se avesse avuto in
mano un maglio). Vedi magliai. A
malagana, di malavoglia: dd’iat
cumentzau a m., cussu trabbagliu, e
immoi no ddu discinit prusu
(l’aveva iniziato di malavoglia,
quel lavoro, e adesso non riesce
più a concluderlo). A malu, da
persona cattiva: su pipìu est fendu a
m. (il bambino si comporta male).
A malu ’etu, per il verso sbagliato:
non dda pighis a m. ’e. (non pren-
26
derla male). A malus (pron.
malur) màssïus, malvolentieri,
masticando amaro (vedi màssïu):
ddu fait totu a m. m. (fa tutto malvolentieri). Vedi massïai. A mancu
mali, con danni limitati: s’annada
dda creia finas e peus, imoi possu
nai ca arresurtat a m. m. (l’annata
la prevedevo anche peggiore, ora
posso dire che limiterò i danni). A
manuda, con le mani: Arremundu
fut bonu a ténniri sa trota a m.
(Raimondo riusciva a pescare le
trote con le mani). A manu in
muru, tentoni: fut mesu tzurpu,
andàt a m. in m. (era semicieco,
camminava tastando il muro con
le mani). A manu lìmpïa, con le
mani pulite: chini ’olit abarrat
sempir a m. l. (chi vuole rimane
sempre con le mani pulite). A
manu pigada, mano nella mano:
fut passillendu in su stradoni cun su
pipiu a m. p. (passeggiava per la
strada con il bimbo per mano).
Vedi pigai. A manus artzadas, con
le mani in alto: Eraldo fut a m. a.
ma dd’ant isparau äici etotu
(Eraldo aveva le mani in alto ma
gli hanno sparato contro ugualmente). Vedi artzai/artzïai. A
manus fridas, con le mani fredde:
finas e in s’istadi Lina est a m. f.
(anche d’estate Lina ha le mani
fredde). A manus in buciaca, con
PAOLO PILLONCA
le mani in tasca: est sempir a m. i.
b., si bit ca tenit pagu cosa ’e fàiri (è
sempre con le mani in tasca, evidentemente ha poche cose da
fare). A manus prenas, a piene
mani: de cerésïa si nd’at boddìu a
m. p. (ha raccolto ciliegie a piene
mani). Vedi préniri. A manus
’rbùidas, a mani vuote: nd’est torrau a m. ’r. (è ritornato a mani
vuote). Vedi irbüidai. A manus
scapas, a mani libere: no mi pragit
a intrai in domus aglienas a m. s.
(non mi piace entrare nelle case
degli altri senza portare nulla in
dono). Vedi scapai/iscapai. A
manus strintas, con le mani strette: Gisepu est a m. s. (Giuseppe è
un avarone). Vedi strìngiri/istrìngiri. A maroglia, per forza:
dd’at dépiu fàiri a m. (l’ha dovuto
fare suo malgrado). A martinica, a
mercato nero: s’est erricau bendendu su casu a m. (si è arricchito vendendo il formaggio a mercato
nero). A medas annus, a molti
anni,
esclamazione
rituale
d’augurio nei compleanni, con le
varianti a cent’annus (a cent’anni)
e a atrus annus (pron. annur)
meglius (ad altri anni ancora
meglio). A mengianeddu, di
primo mattino: a m. si trabbagliat
meglius (di primo mattino si lavora meglio). A mengianu, di matti-
Mancarìas. La parlata di Seui
na: a m. depu fàiri atra cosa (di
mattina devo fare altro). A menti,
a memoria: Linu scit a menti totu
is targas de ’idda (Lino conosce a
memoria tutti i numeri di targa
delle auto del paese). A menti frisca, a mente fresca: a lìgiri e iscriri
meglius a si ddu-i pònniri a m. f. (è
meglio mettersi a leggere e scrivere a mente fresca). A merì, di sera:
a m. in s’istadi no arrennesciu a
fàiri nudda (nei pomeriggi estivi
non riesco a far nulla). A mericeddu, sul far della sera: a m. si ndi
podit chistïonai (se ne può parlare
sul tardi). A mesapari, metà per
uno, a mezzadria: sa ’ingia dda
trabbagliu a m. (la vigna la lavoro
a mezzadria). A mesa stérrïa, con
la tavola imbandita: Lina est sempir a m. s. (Lina ha sempre la tavola imbandita), per dire della generosità nell’offrire il cibo. Vedi stèrriri/istèrriri. A messadura, come se
si mietesse: ania passat cussu fait
totu a m. (dovunque passi, quello
lì falcia tutto alla cieca). Vedi messai. A mesu càrriga, a mezzo carico, in senso reale e traslato: su
trenu est a m. c. (il treno è semicarico), apu ’idu a Linu, fut a m. c.
(ho visto Lino, era mezzo brillo).
Vedi carrigai. A mesudì (a mezzogiorno): a m. scapu (a mezzogiorno sospendo il lavoro). Questa
27
loc. avv. ha anche spazio nel gergo
dell’eros, per indicare uno stato di
erezione continua: cuddu piciocu
est sempir a m. (quel ragazzo soffre
di priapismo). La condizione contraria si esprime attraverso un’altra
metafora oraria: a is ses e mesu, alle
sei e mezza, ossia con il ”coso”
perpetuamente fiacco e rivolto
all’ingiù. A mesu ’éntiri, a stomaco semivuoto: candu fui piticu deu
cun is fradis (pron. fradir) mius
fustis sempir a m.’è. (quando ero
piccolo io e i miei fratelli avevamo
sempre lo stomaco semivuoto). A
mesu tèmpera, a tempra media,
sui due versanti del reale e dell’immaginario: su ferru est a m. t. (il
ferro è semitemprato), oi Fulanu
mi parit a m. t. (oggi Fulano mi
sembra brillo). Vedi temperai. A
mindighingiu, in misura ridottissima: còmporat totu a m. (compra
tutto in misura minima). Vedi
mìndigu. A mirada trota, di traverso (lett. con lo sguardo storto,
torvo): cuddu càdumu si càstïat
sempir a m. t. (quello scimunito
guarda sempre tutti di traverso).
Vedi mirai. A morrungius, a forza
di proteste: est a donnïora a m.
(protesta di continuo). Vedi morrungiai. A mulloni, sottosopra: at
lassau is camisas a m. (ha lasciato le
camicie una sopra l’altra). Vedi
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amullonai. A muntoni, in disordine, a mucchio: tenit is pannus totu
a m. (ha tutti i panni ammucchiati). Vedi amuntonai. A nàdidu, a
nuoto: a beciu mannu, candu
biviat in Casteddu, Demétrïu si
faiat a n. su tretu de Su Pöetu a Sa
sedda ’e su dïàulu (da vecchio,
quando viveva a Cagliari,
Demetrio andava a nuoto dal
Poetto alla Sella del diavolo). Vedi
nadai. A nomi-nomi, penzoloni,
per est. in ordine sparso: ponedda
in su logu sû sa cosa, no dda lessis a
n.-n. (rimetti ogni cosa al suo
posto, non lasciarle di qua e di là).
A nómini, per fama: ddu portant a
n. (è diventato famoso). Vedi
nomenai e nomenada. A nómini
atentu, con nome e cognome,
senza possibilità di equivoco: dd’at
cicau a n. a. (l’ha citato con nome
e cognome). A noti intrea, per
tutta la notte: abarru scidu a n. i.
(rimango sveglio per tutta la
notte). A nû mortu, a nodo fisso
(lett. morto): dd’at fatu un’acàpïu
a n. m. (lo ha legato a nodo fisso).
Vedi mòrriri. A nuis, a nuvole in
gruppi numerosi: cussus ndi ’enint
sempir a. n. (quelli arrivano sempre in comitiva). Vedi annüilàisi.
A ogu, a occhio: Istévini fut bonu a
intzertai a o. su pesu ’e unu pegus de
’uli (Stefano era capace di indovi-
PAOLO PILLONCA
nare a occhio il peso di un capo
vaccino). A ogu miu, secondo il
mio modo di vedere: non tenia
metru e dd’apu medìu a o. m. (non
avevo metro e l’ho misurato
secondo il mio occhio). A ogus
(pr. ogur) lepi-lepi, ad occhi semichiusi: crocanci su pipìu ca est a o.
l.-l. (metti a letto il bambino, ha
gli occhi semichiusi). A ogus
obertus, a occhi aperti: cun cussu
depis éssiri sempir a o. o. (con quello devi stare sempre a occhi aperti). Vedi obèrriri/ abèrriri. A ogus
serraus, a occhi chiusi: cussu dd’ia
a pòdiri fàiri a o. s. puru (quello lo
potrei fare anche a occhi chiusi).
Vedi serrai. A òpera bista, con il
conforto della prova: su ’inari ti
ddu ’ongiu a ò. b. (ti darò i soldi
quando mi fornirai la prova di ciò
che dici). A ora giusta, al momento giusto: si dd’apu a nai a o. g.
(glielo dirò al momento giusto). A
origa, a orecchio: Efis non connosciat sa mùsica, sonàt a o. ma nemus
at mai sonau is läuneddas comenti
ddas sonàt cussu (Efisio non conosceva la musica, suonava a orecchio, ma nessuno ha mai suonato
le launeddas come lui). A origa
parada, molto attentamente, con
l’orecchio vigile: dd’apu ascurtau a
o. p. (l’ho ascoltato con grande
attenzione). A orrogadura, in
Mancarìas. La parlata di Seui
modo caotico: Antoni fait totu a o.
(Antonio fa tutto senza discernimento). Vedi orrogai. A orrosàrïu,
a mo’ di rosario: narat sempir is
pròpïus cosas, a o. (dice sempre le
stesse cose, a cantilena). Vedi orrosarïai. A orrostu, arrosto: cöeus
cudd’orrogu’e petza a o. (cuoceremo arrosto quel pezzo di carne).
Vedi cöiri e orrostiri. A pagu a
pagu, a poco a poco: feddu a p. a
p. (fallo per gradi). A pala, in
braccio: pigaddu a p. su pipìu, ca
est fadïau (prendilo in braccio, il
bambino, perché è stanco). A pala
’e ciociòi, a spalle (detto dei bambini che gli adulti maschi prendono a spalle sorreggendoli per le
gambe e facendo stringere le braccia del bambino intorno al collo di
chi lo trasporta): su pipìu si ’olit
pigau a p.’e c. (il bambino gradisce
essere trasportato a spalle). A
palas, alle spalle: chistionat feti a
p., non tenit su brontu ’e nai is cosas
in càrigas (parla soltanto alle spalle, non ha il coraggio di dire le
cose in faccia). A palas (pron.
palar) de camisa, con la sola camicia: non bessas a p. de c. ca est fendu
frius (non uscire di casa in camicia
perché fa freddo). A pampas, carponi: ancora su pipiu andat a p. (il
bambino procede ancora carponi).
A papadura, a mo’ di mangiata,
29
come se volesse mangiarlo/a: nce
dd’at fatu a p. (lo ha trattato come
se avesse voluto mangiarlo). Vedi
papai. A parti, da parte, per conto
proprio: s’iat postu a p. unu bellu
pagu ’e ’inari po si comporai sa
’omu (aveva messo da parte un bel
po’di soldi per comprarsi la casa).
A parte, eccetto: is oras in prus mi
ddas pagant a parti (le ore in eccedenza me le pagano a parte). A
parti mala, al rovescio, detto di
chi si infila male un paio di calze o
una maglietta: s’at postu sa maglia
a p. m. (si è messo la maglia dalla
parte sbagliata). A passìu, senza
meta: tenit is pegus a p. (lascia
vagare il bestiame a piacimento).
A passu, a passo d’uomo: a bortas
cumbenit a andai a p. (talvolta
conviene andare a passo d’uomo).
A passu mesurau, a passo lento:
andat a p. m. che-i su ’oi ’omau (va
a passo lento, come il bue domato). Vedi mesurai e mediri. A passus crispus, a passi svelti: fut arrïolau po su bestïàmini e andàt a p. c.
(era preoccupato per il bestiame e
andava a passi svelti). Vedi incrispai. A passu lestru, a passo svelto,
di fretta, ad andatura sostenuta:
d’apu ’idu custu mengianu movendu a su monti a p. l. (l’ho visto stamattina mentre andava di fretta
verso la campagna). A passu tor-
30
rau, a passo di ballo: su tenori at
cantau una cantzoni a p. t. (il coro
a tenore ha eseguito un canto a
passo di ballo che ritorna). Vedi
torrai nei suoi vari significati. A
pei, a piedi: de Anulù a bidda mi
dd’apu fata a p. (da Anulù fio al
paese ho camminato a piedi). A
peis iscurtzus, a piedi scalzi: su
pipìu si ’olit a p. i. mancai facat
frius (il bambino preferisce andare
scalzo anche quando fa freddo).
Vedi scurtzai/iscurtzai. A perdas
pesadas, anche sotto le pietre
(dappertutto): fui cichendudì totu
su mengianu a p. p. (ti ho cercato
per una mattinata intera dappertutto). Vedi pesai. A perdigonis, a
pallettoni: po sirboni su fosili dd’ia
carrigau a p. (per la caccia al cinghiale avevo caricato il fucile a
pallettoni). Vedi aperdigonai. A
peréula, in ordine sparso: is crabas
funt a p. (le capre sono lasciate a sé
stesse). A pesu biu, a peso vivo
(espr. gergale di pastori e macellai
che contrattano la carne sul peso
vivo dei capi oggetto della trattativa): at bófïu comporai is porceddus
a p. b. (ha voluto comprare i maialetti a peso vivo).Vedi pesai. A
pesu mortu, a peso morto: est
orrutu a p. m. coment’e una perda
(è caduto a peso morto, come una
pietra). A petza neta, di sola car-
PAOLO PILLONCA
ne, ossia senza pelle né viscere:
cussu mascu ’e murva at pesau bintises chilus a p. n. (quel muflone ha
pesato ventisei chili di sola carne).
A pigada po culu, a presa per il
culo: Antoni at chistïonau a p. p. c.
(Antonio ha parlato ironicamente). Vedi pigai. A pigliu, alla luce,
in superficie: nde dd’at bogau a p.
Lüisu (Luigi l’ha riportato alla
luce). Vedi apigliai. A piglius, a
strati: ddu pongiu totu a p. (lo
sistemo tutto a strati). A pilu, a
pelo, senza sella: Ubaldu s’imperrat
su cuaddu a p. e ddu fait cùrriri a
funi feti (Ubaldo inforca il cavallo
a pelo e lo fa correre tenendolo
solo per la fune). A pilus curtzus,
con i capelli corti: fui ’e di ora
chene biri a Ninu: imoi est a p. c.
(da tempo non vedevo Nino, ora
ha i capelli corti). Vedi incurtzai.
Esistono, ovviamente, anche le
locuzioni a pilus longus (con i
capelli lunghi) e a pilus segaus (con
i capelli tagliati di fresco).Vedi
incurtzai. A pinneddu, in presenza e attesa costante: est sempir igui
a p. (è sempre lì in attesa). A pinnigu, a poca distanza in stato di
immobilità: Su cüaddu? Tanti giai
est a pinnigu (Il cavallo? Chissà
dove sarà mai, lett. non è qui
pronto per essere preso, pinnigau).
La loc. avv. si usa quasi esclusiva-
Mancarìas. La parlata di Seui
mente in senso antifrastico. Vedi
pinnigai. A pisciadura, a mo’ di
pisciata: at abbau s’ortu a p. (ha
innaffiato l’orto come se stesse
facendo pipì, ossia alla meno peggio).Vedi pisciai. A pisi/a pisi a
pisi, a stento, in extremis (la loc. è
più spesso reiterata che semplice):
Maria non tratat mancu cun in sorrestas, a p. su saludu (Maria non ha
relazioni nemmeno con le cugine,
a stento si scambiano il saluto), a
p. a p. nc’est arrennéscïu a ndi torrai sanu (è riuscito a salvarsi a
stento). A pissu, addosso, sopra:
nde dd’est andau a p. (gli è andato
addosso), ndi ’enit totu a p. miu
(ricade tutto su di me). A postissu, in modo posticcio: est una
prenda de a p. (è un gioiello
posticcio). A prageri, a piacere: o
ddu fais a p. o no ddu fais po nudda
(o lo fai a tuo piacere o non lo fai
proprio). A prandidura, a sazietà:
de presutu mi nd’apu papau a p.
(prosciutto ne ho mangiato a
sazietà). Vedi pràndiri. A prangius
prangionis, da un festino all’altro:
est sempir a p. p. (va di festino in
festino). A prima, in discordia:
funt a p. (sono in discordia). Vedi
aprimai/ aprimàisi. Questo primo
stadio comporta l’esclusione del
saluto. Quando il dissidio è grave
si precisa: funt a p. ’e morti (tra di
31
loro c’è inimicizia mortale). A
primu noti, nelle prime ore della
notte: a p. n. no apu ’ormìu nudda
(nelle prime ore della notte non
ho chiuso occhio). A prumu, a
piombo, a posto: chi non cöidas,
cussu ti ponit a p. (se non ti sbrighi, quello lì ti sistema per le
feste). A pùinis prenus, a piene
mani: non cretas chi ti ndi ongiat a
p. p. (non credere che te ne dia a
piene mani). Vedi préniri. A punnigosus, a pugni: s’est cravau a p.
(ha litigato facendo a pugni). A
puntas, con dolori acuti: candu
papu cugùmini mi pigat a p.
(quando mangio cetrioli mi vengono le coliche). Vedi pùngiri. A
purdïadura, come se fosse marcito: chi ddu lassas in foras cussu
limoni si fait a p. (se lo lasci all’aperto quei limoni marciranno).
Vedi purdïàisi. A pusti, dopo, in
seguito: cras a p. prangiu ’esseus a
su monti (domani dopo pranzo
andremo in campagna). A pusti
mortu cominigau, dopo morto,
comunicato, nel senso di
un’azione inutile, come dare la
comunione a un morto. Vedi mórriri e cominigai. La loc. si usa per
rimarcare l’inutilità assoluta di un
determinato intervento. A rasu, a
raso: pani e casu e binu a r. (pane a
formaggio e vino a raso). Vedi
32
arrasai. A s’antiga, all’antica: in
bidda costumaus fàiri a s’a. (in
paese siamo avvezzi ad agire
secondo
tradizione).
A
s’andechibbeni, in via-vai: Linu
bivit sempir a s’a. (Lino vive in
continuo via-vai). A s’andetorra,
tra rientri e ripartenze: de candu
est abarrau solu, Franciscu est a s’a.
de Germania a bidda (da quando è
rimasto solo, Francesco va e viene
dalla Germania al paese). A sa
bona, alla buona: eus arrangiau
totu a sa b. (abbiamo sistemato
tutto alla buona). A sa crabitina,
come si fa con i capretti (modo di
dire gergale di pastori e macellai
che contrattano la carne pesando
gli animali senza scuoiarli, come
con i capretti): is angionis ddus apu
’éndïus a s. c. (gli agnelli li ho venduti senza averli scuoiati). A sa
faci, dal viso, dall’aspetto: a sa f.
parit malàidu (dal colorito sembra
malato). A sa fidada, inaspettatamente: nde ddi soi andau a sa f. e
m’at tìmïu (gli sono andato vicino
inaspettatamente e lui ha avuto
paura di me). Vedi fidai/ fidàisi. A
sa (i)mbessi, alla rovescia: Linu
fait sempir is cosas a sa ’m. (Lino fa
sempre le cose alla rovescia). A säinadura, mediante scuotimento: sa
pira nde dd’at boddia a s. (ha raccolto le pere scuotendo l’albero).
PAOLO PILLONCA
A sa lestra, alla svelta: Franciscu oi
in corti si dd’at pigada a sa lestra, si
bit ca teniat pressi, pariat unu
lampu (oggi Francesco nella mandra l’ha presa alla svelta, evidentemente aveva fretta, sembrava un
fulmine). Vedi, sopra, a lestru. A
sa mata, alla latitanza: timendu a
dd’acapiai, Lüisu s’est (pr. er) donau
a s. m. (per paura di essere arrestato, Luigi si è dato alla latitanza). A
sa mirada, dallo sguardo: est (pr.
er) nodìu a sa m. (è riconoscibile
dallo sguardo). Vedi mirai. A sangradura, a mo’ di salasso: meglius a
no ddu-i ténniri e ita biri cun cussu
ca ti fait a s. (meglio non avere a
che fare con quel tizio perché ti
salassa). Vedi sangrai. A sa parti,
prego, favorisci (risposta rituale
all’ospite che entrando in una casa
e trovando tutti a tavola augura
buon appetito). A sàrtidus, a saltelli: est sempir a s. (cammina sempre a saltelli). Vedi sartai. A sa
schiscionera, in umido con l’uso
di padelle e/o tegami (denominazione comune ai piatti di carne,
pesce e patate preparati con olio e
acqua): apu cotu unu lépuri a s. s.
(ho cucinato una lepre in umido).
A sa sighia, senza soluzione di
continuità: fut proendu a s. s. (pioveva ininterrottamente). Vedi
sighiri. A séberu, a scelta: is crabas
Mancarìas. La parlata di Seui
mi ddas at bèndïas totu a s. (le
capre me le ha vendute tutte a mia
scelta). Vedi seberai. A sibbïadura,
con forza (detto di una chiusura di
porte o altro): deu sa cascia dda
serru a s. in donnia (io la cassa la
richiudo sempre ermeticamente).
Veddi sibbïai. A sighidura, in
seguito: a innanti est erribbau
Franciscu, Antoni at fatu a s.
(prima è arrivato Francesco,
Antonio è arrivato in seguito).
Vedi sighiri. A solu, da solo: soi
dépïu andai a s. a cicai is crabas chi
mi mancànt (son dovuto andare
da solo a cercare le capre che mi
mancavano). Vedi assolàisi. A
sucadura, mediante sollecitazione
verbale (detto del bestiame manso
e della selvaggina): suca su molenti
(sollecita l’asino), is sirbonis ddus
eus fatus a s. (i cinghiali abbiamo
cercato di scovarli sollecitandoli a
urla). Vedi sucai. A su fragu: dall’odore: dd’apu connotu a s. f. (l’ho
riconosciuto dall’odore), detto
della carne macellata, dei fiori,
etc. Scherzosamente anche delle
persone. Vedi fragai. A suladura,
mediante soffiata ripetuta: su caféu
ddu sfridu a s. (il caffè lo raffreddo
soffiandovi ripetutamente). A su
mancu, almeno: non nau totu, ma
’onamindi a su mancu sa metadi
(non dico tutto, ma dammene
33
almeno la metà). A su noti, nottetempo: margiani ’essit sempir a s.
n. (la volpe esce sempre di notte).
A surbidura, per aspirazione: su
cafeu nce ddu fait a s. (il caffe lo
beve per aspirazione). Vedi surbiri.
A surcu, al posto giusto (lett. al
solco): bai ca giai ti facu torrai a s.
(stai tranquillo, ti farò tornare al
tuo posto). Vedi assurcai, surcai. A
s’ùrtim’ora, all’ultimo momento,
in extremis: no iscìu e poita no mi
’onas tempus e mi naras is cosas sempir a s’u. o. (non so perché non mi
dài tempo e mi dici le cose sempre
in extremis). A su sonu, dal rumore: dd’apu connotu a s. s. (l’ho riconosciuto dal rumore). Vedi sonai.
A susu, nella parte superiore: nci
soi dépïu ’essìri a s. ca in coili ’e
ïerru non faiat prus a ddu abarrai a
su calori (sono dovuto salire perché nell’ovile invernale non si
poteva più stare per il caldo). A
suta/asuta, di sotto, nella parte
inferiore, giù: Antoni fut in pissu,
Lüisu binti o trinta metrus a s.
(Antonio era nella parte superiore,
Luigi venti o trenta metri più giù).
A tachedda, a credito, facendo
segnare il debito su un libretto
con un segno che somiglia a
un’incisione (vedi tachedda):
Fulanu còmporat a t. (Fulano
acquista a credito). Vedi tacheddai.
34
A tempus, a tempo debito: sa tundimenta no est a dìs stóbbilis, dónnïa annu ’olit fata a t. (la tosatura
non ha date fisse, ogni anno deve
essere fatta a tempo debito, ossia
secondo l’andamento della stagione). A tempus e a logu, a tempo e
luogo: dónnia cosa ’olit fata a t. e a
l. (ogni cosa va fatta a tempo e
luogo). A tempus pérdïu, a tempo
perso: is crogaglius de corru ’e
mascu ’e murva e is crocorigas si
faint a t. p. (i cucchiai di corno di
muflone e i contenitori di zucca si
fanno a tempo perso). Vedi pérdiri, crocoriga e crogagliu. A tempus
scaréscïu, fuori tempo massimo
(lett. a tempo dimenticato): a t. s.
si torrant a cöiai is fïudas puru (
quando il tempo giusto è passato
anche le vedono possono rimaritarsi). Vedi scarèsciri. A tenori, a
tenore (canto millenario a quattro
voci, un solista e tre coristi, senza
alcuno strumento): cuddu piciocu
cantat beni a t. (quel ragazzo canta
bene a tenore). Sulla base di,
secondo quanto: a t. de su chi mi
narat dd’arrespundu (sulla base di
quanto mi dirà gli risponderò). A
timidura, con soggezione simile a
paura: a su dotori ddi facu a t. (il
medico mi incute una sorta di
paura). Vedi tìmiri. A tira, a traino, per trascinamento: dd’at pigau
PAOLO PILLONCA
a t. po binti metrus (l’ha trascinato
per venti metri). La loc. si reitera
spesso: a tira-tira. Vedi tirai. A
titifrius, con brividi di freddo: eriseru m’est pigau a t. e non cumprendu poita (ieri ho avuto un attacco
di brividi di freddo e non capisco
perché). A totorgius, con trabochetti: Antoni est sempir a t.
(Antonio si rifugia sempre nei trabocchetti). Vedi totorgiai. A totu
bufai, bevendo senza sosta:
Arremundu fut bufendu a t. b.
(Raimondo beveva di continuo).
A totu fua, correndo all’impazzata: dd’apu ’idu currendu a t. f. (l’ho
visto fuggire all’impazzata). Vedi
fuiri. A totu ’ormiri, in un sonno
totale: notesta passada apu ’ormìu a
t. ’o. (la notte scorsa ho dormito
senza svegliarmi una sola volta). A
totu pigai, comprando senza
misura: ddu bis ch’est pighendu a t.
p. (lo vedi che compra a tutto
spiano). A trabbagliu, a fatica: a
bìnciri su tempus malu de ocannu
t’at a bénniri a t. (superare il
tempo sfavorevole di quest’anno ti
costerà fatica), dd’apu fatu a t.
(l’ho fatto a fatica). A träitorìa, a
tradimento: dd’at bocìu a t. (l’ha
ucciso a tradimento). Vedi träìgiri.
A trassa, a trappola, a tranello:
non mi pragint is chi faint totu a t.
(non mi piacciono quelli che
Mancarìas. La parlata di Seui
ricorrono sempre alla frode). Vedi
trassai. A trémula, con un tremito:
comenti dda biu mi pigat a t.
(appena la vedo mi viene un tremito). Vedi trémiri. A tresinadura,
a grattugia: soi orrutu a pesu mortu
e s’orrutorgia m’at fatu una coscia a
t. (sono caduto e il colpo mi ha
provocato larghe escoriazioni a
una coscia). Vedi tresinai. A tretu,
a tiro: lassa chi mi ’engiat a tretu e
as a biri (lascia che mi càpiti a tiro
e vedrai). A tretus, a tratti: in
padenti a t. si bit chelegunu landi
(nel bosco a tratti si vede qualche
ghianda). A trëuladura/A tréulu,
in modo disordinato: Lüisu fait
dónnïa cosa a t. (Luigi fa tutto disordinatamente). Vedi trëulai. A
trevessu, senza meta, per vie traverse: est andendu a t. (vaga senza
meta). Vedi trevessai. A tripaciocu,
in disputa continua, ma con riavvicinamenti. Detto di gente che
non lega e di persone divise da
lunga rivalità: Linu est sempir a t.
cun sa pobidda (Lino e la moglie
sono in perpetuo contrasto ma si
riappacificano spesso). Vedi aciocai e atripai. A trincheteddu ’e
cani, a passettini veloci, come i
cani: andaiat a t.’e cani (andava a
passetti svelti come un cane). A
trotu, maldestramente, senza
ordine: Pìlimu costumat trabba-
35
gliai a t. (Priamo è solito lavorare
maldestramente). A trubu, con
turbolenza: s’abba fut calendu a t.
(l’acqua scendeva impetuosamente). A trumas, a gruppi: ndi ’enint
sempir a t. (arrivano sempre a
gruppi), detto di ospiti inattesi e
importuni. A trunculimba, con
parole spezzate: mancai non
s’imbrïaghit, Gisepu füeddat sempir
a t. (anche se non si ubriaca,
Giuseppe parla sempre a spezzoni,
lett. come se avesse la lingua
tagliata a metà). Vedi truncai. A
tundidura, come una tosatura, a
zero: is pilus mi nde ddus apu
segaus a t. (mi sono fatto tagliare i
capelli a zero) Vedi tùndiri e tundimenta. A tupadura, a tappo:
cussa perda dd’apu posta a t. (quella pietra l’ho messa a tappo). Vedi
tupai. A turradura, mediante
tostatura, come se fosse tostato:
ocannu su trigu non balit, su calori
dd’at fatu a t. (quest’anno il grano
è di scarsa qualità, il caldo l’ha rinsecchito tanto da farlo sembrare
tostato). Vedi turrai. A unda, a
onda: ndi funt erribbaus a u. (sono
sopraggiunti come un’onda). A
unu a unu, uno per volta: ddus at
bòfïus chistionai a u. a u. (li ha
voluti sentire uno per uno). Non
ci sarebbe nemmeno bisogno di
dire che esistono e sono molto
36
usate anche le locuzioni a dus a
dus (a due a due), a tres a tres (a tre
a tre), etc. A urdi, come un otre: a
piciocu Linu fut langiu, imoi s’est
fatu a u. (da ragazzo Lino era
magro, ora sembra un otre). A
urrendidura, con eccessiva magrezza: a-i cussu crabu dd’est pigau a
u. (quel caprone è molto dimagrito). Vedi urréndiri/urréndirisi. A
ùrtimu, alla fine: a innanti at nau
unu muntoni ’e sciollórïus, ma a ù.
s’est abbonau a pagai is ispesas
(prima ha detto un mucchio di
sciocchezze, ma alla fine ha accettato di pagare le spese). A usus e
costumus, secondo tradizione: in
bidda feus a u. e c. (nel paese ci si
regola secondo tradizione). A zeru,
alla miseria: dd’at torrau a z. (l’ha
ridotto in miseria). A zinzonadura/a zinzoni, come su un’altalena:
in sa cadira si moviat a z. (sulla
sedia si muoveva come su
un’altalena). Talvolta anche con
met. erotica. Vedi zinzonai. A
zonzu, a spasso: certus mancai ddus
cichis a trabbagliai no ddu andant:
ddis pragit de prus a abarrai a z.
(certuni, anche se tu li chiami per
lavorare, non ci vanno: preferiscono rimanere a spasso). A zùmïu,
con un sibilo: sa purdedda dd’at
sucada a z. (ha incitato la puledra
con un sibilo). Vedi zumïai.
PAOLO PILLONCA
Abambïadura, s. f. Perdita di
sapore.
Abambïai, v. Rendere insipido.
Vedi bambu.
Abambïau/ada, Reso/a insipido/a.
Abarrai, v. Restare, rimanere.
Non boliat a. ma defatu giai nos at
postu menti (non voleva restare ma
poi ci ha dato retta). Fermarsi. Abarra firmu igui (férmati lì). Lasciarsi prendere. Cuss’ebba non
m’abarrat (quella cavalla non si
lascia prendere da me). Avanzare,
nel senso di salvarsi da eventi negativi. Dinari nd’at pérdïu ma giai nde
dd’at abarrau puru (ha perduto del
denaro, ma qualcosa gli è avanzato).
Adeguarsi. Bennardu abarrat a su
chi ddi fait sa pobidda (Bernardo si
adegua a ciò che decide la moglie).
Nella forma rifl. vale: star fermo,
senza fare alcuno sforzo. Abarradì a
chïetu (resta calmo).
Abarrau/ada, agg. Rimasto/a.
Soi a. po cumpragèntzïa (sono
rimasto per un atto di cortesia), est
a. agoa (è rimasto indietro).
Abba, s. f. Acqua. Una delle ricchezze fondamentali della comunità di Seui e una delle sue caratteristiche imprescindibili, oltre che
unanimemente invidiate nella
zona e non solo, per la grande
abbondanza di questo bene che ha
Mancarìas. La parlata di Seui
permesso - fra l’altro - al Comune,
fin dai primordi del servizio pubblico, di gestire la risorsa acqua
potabile in piena autonomia e a
basso costo per gli utenti. L’acqua
piovana determina in buona parte
il buono e il cattivo andamento
delle annate agropastorali, quella
delle fonti supplisce alle necessità
nelle stagioni siccitose. Bene vitale,
dunque, e perciò stesso legato a un
universo di saperi materiali e
immateriali di profonda suggestione e di enorme valenza antropologica. L’acqua è utilizzata in parecchi rituali di medicina empirica e
nelle terapie magico-sacrali.
Quella benedetta della liturgia cristiana si chiama abbasanta. Ma si
può dire che per la comunità seuese, soprattutto per chi lavora in
campagna, l’acqua sia sempre da
considerare sacra, quella piovana
innanzi tutto: Seui non ha campagne irrigate artificialmente. Il s. dà
luogo a vari composti: abbanì
(nevischio, lett. acqua mista a
neve), abbameli (bibita di acqua e
miele), abbardenti (acquavite),
abbanasu (goccioline al naso, lett.
acqua di naso, segno di raffreddore), abbasantera (acquasantiera).
Frequente nei traslati: est una crobetura ’e duas abbas (è un tetto a
due acque, doppiogiochista), po
37
torrai insegus de s’a. arta meglius de
sa bascia (meglio indietreggiare
dall’acqua bassa che da quella alta),
non donat manc’a. a cani (non dà
nemmeno acqua ai cani), per dire
di una persona avarissima. Nei
rituali magici in occasione di lunghe siccità occorreva ”slegare”
l’acqua ”legata” da qualche fattucchiera. Si tentava allora di riottenere il beneficio dell’acqua piovana
con rituali appositi non sempre
riferiti all’ortodossia cristiana della
preghiera ad petendam pluviam ma
spesso basati sull’utilizzo dei formulari immutabili delle parole
degli abrebus, i verba prohibita tramandati dal popolo. Vedi acapïai e
scapïai. Nella parlata delle giovani
generazioni convive parzialmente
con la forma più prettamente
meridionale acüa.
Abbabbalucadura, s. f. Stordimento, perdita di percezione.
Abbabbalucai(si), v. Rendere/rendersi stupido, perdere padronanza di sé. Feti su castïai una piccioca dd’abbabbalucat (solo il guardare una ragazza lo stordisce).
Abbabbalucau/ada, agg. Stordito/a, scimunito/a.
Abbabbuciàisi, v. Ridursi in
pantofole, restringersi alla dimensione domestica, isolarsi dalle
antiche amicizie. Linu at cöidau a
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s’a. (Lino è diventato un pantofolaio precoce). Vedi babbucia.
Abbabbuciamentu, s. m. Ritiro a
vita privata, riduzione in pantofole.
Abbabbuciau/ada, agg. Impantofolato/a, chiuso/a in casa.
Abbadorgiu, s. m. Abbeveratoio,
innaffiatoio. Anche in senso fig. ad
indicare un luogo ricco di risorse.
Abbadura, s. f. Abbeverata, innaffiamento.
Abbai, v. Innaffiare. Cras abbu
s’ortu (domani innaffierò l’orto).
Abbeverare il bestiame. Is crabas
soi abbendudeddas duas (pr. duar)
bortas sa dì (abbevero le capre due
volte al giorno). Riempire
d’acqua, in senso fig. Linu portat
su ciorbeddu abbau (Lino ha il cervello pieno d’acqua). Nelle giovani generazioni convive con acüai.
Abbameli, s. f. Bibita di miele
sciolto in acqua.
Abbanasu, s. f. Irritazione delle
mucose nasali, inizio di raffreddore.
Abbandonai, v. Abbandonare,
lasciare, dismettere. Sarbadori
nc’est arrennéscïu a a. su vìtzïu ’e
fumai (Salvatore è riuscito a lasciare il vizio del fumo).
Abbandonau/ada, agg. Abbandonato/a, trascurato/a, dismesso/a. In sa Piramela ddu at cheleguna ’ingia a. (a Sa Piramela c’è
PAOLO PILLONCA
qualche vigna dismessa).
Abbangiadura, s. f. Infradiciamento, in rif. soprattutto ai bambini.
Abbangiai(si), v. Bagnarsi, con
campo semantico ristretto e riferito, per lo più, ai bambini che si
bagnano giocando con l’acqua. Al
riflessivo vale: infradiciarsi. Candu
allachitat, su pipìu s’abbangiat de
conca finas a peis (quando gioca
con l’acqua, il bambino si bagna
dalla testa fino ai piedi).
Abbangiau/ada, agg. Bagnato/a,
infradiciato/a.
Abbanì, s. f. Nevischio. Est (pron.
er) betendu a. (cade del nevischio).
Abbardenti/acüardenti, s. f.
Acquavite. S’intende soprattutto
da vinacce (a Seui è stata sempre
ed è ancora rara la distillazione da
vino).
Abbasanta, s. f. Acqua benedetta.
Abbasantera, s. f. Acquasantiera.
Abbasciada, s. f. Abbassamento,
discesa.
Abbasciai, v. Abbassare. Abbascia
sa crista (abbassa la cresta). Il contrario è artzai/ artzïai. Nella forma
rifl. vale: umiliarsi, accettare condizioni.
Abbasciamentu, s. m. Diminuzione, abbassamento.
Abbasciau/ada, agg. Abbassato/a. Giüanni s’est abbasciau a
Mancarìas. La parlata di Seui
domandai perdonu a su peus (pron.
peur) de sa ’idda (Giovanni si è
ridotto a chiedere perdono all’elemento peggiore del paese).
Abbastai, v. Arrivare a. Cussa
pira nc’est in artu, no ddu abbastu
(quella pera è troppo in alto, non
ci arrivo). Essere sufficiente,
riuscire. Antoni no abbastat a totu
(Antonio non riesce a fare tutto).
Abbatimentu, s. m. Depressione, scoraggiamento.
Abbàtiri(si), v. Deprimere, deprimersi, scoraggiarsi, perdere fiducia
in sé stessi. Su calori dd’abbatit (il
caldo lo deprime), Antoni s’abbatit
po una cosigedda ’e nudda (Antonio
si deprime per un’inezia).
Abbàtïu/a, agg. Depresso/a, abbattuto/a. M’est partu a. (mi è
sembrato depresso).
Abbau/ada, agg. Bagnato/a,
pieno/a d’acqua, irrigato/a, innaffiato/a, abbeverato/a. Is angionis
ddus apu abbaus custu mengianu
(gli agnelli li ho abbeverati stamattina). Vedi abbai.
Abbebberruciàisi, v. Rivoltarsi
contro. Candu su babbu ddi narat
una cosa Ada si dd’abbebberruciat
che pìbera (quando il padre le dice
qualcosa Ada gli si rivolta contro
come una vipera).
Abbebberruciau/ada, agg. Ribellato/a con forza, rivoltato/a.
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Abbecada, s. f. Inizio.
Abbecai, v. Iniziare. Dd’abbecat
a cropus (inizia a colpirlo).
Abbecau/ada, agg. Iniziato/a
Abbellimentu, s. m. Abbellimento, migliorìa.
Abbelliri, v. Ornare, abbellire. Si
riferisce a cose, mai a persone.
Dónnïa tanti Maria si ponit a a. sa
’omu (ogni tanto Maria decide di
abbellire la sua casa).Vedi imbelliri, rif. a persone.
Abbelliu/a, agg. Abbellito/a,
migliorato/a, ornato/a.
Abbétïa, s. f. Insistenza nel
sostenere le proprie ragioni, anche
a torto. Testardaggine. Ndi portat
de a., Emìliu (ne ha di testardaggine, Emilio).
Abbetïai, v. Insistere nell’opporsi alle argomentazioni altrui, intestardirsi troppo nel replicare.
Cando si dd’arrefaciu abbètïat ca
non dd’at fatu (quando glielo rinfaccio insiste nel negare di averlo
commesso).
Abbetïau/ada, agg. Insistito/a,
replicato/a.
Abbetïosu/a, agg. Prepotente,
testardo/a, cocciuto/a.
Àbbila, s. f. Aquila reale (aquila
chrysaetos). La regina degli uccelli
predatori, per secoli e tuttora
temuta, da chi alleva bestiame
minuto. Per difendersene i pastori
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ricorrevano - e talvolta ricorrono
ancora, nonostante le smentite perfino agli scongiuri. Acapïai s’a.
(legare l’aquila), rendendola imbelle e dunque inoffensiva con la forza
delle parole proibite, è stata storicamente una delle preoccupazioni
forti degli allevatori della montagna nella stagione delle nascite di
agnelli e capretti. Per riuscire nell’intento, oltre che nelle fucilate, ci
si rifugiava nei rimedi magici delle
donne abrebadoras e talvolta anche
di qualche sacerdote. Una di queste
formule dice: Abbìla abbìla/ a peis
tira-tira/ a peis ti pongiu a moddi/ e
ti facas de foddi/ de foddi ’e orcïada:/
bai in ora mala. La si doveva recitare all’alba con i piedi immersi nella
corrente di un fiume e non si doveva più rubare bestiame, pena la
perdita di efficacia della formula
rituale. Simbolo di rapidità nel
calarsi, è utilizzata nelle similitudini e nelle metafore: si ’etat che à. (si
lancia come un’aquila). Lestru?
Un’à. (Veloce? Un’aquila).
Abbilastu, s. m. Aquilotto. In
senso fig. giovane ladro veloce nel
rubare.
Àbbili, agg. Intelligente, abile.
Un’ómini à. è l’opposto di
un’ómini càdumu (lento, poco
intuitivo, deficiente).
Abbilidadi, s. f. Intelligenza,
PAOLO PILLONCA
abilità, intuito. Il contrario di
cadumèntzïa (vedi). Si bit sa bella
a. (si vede che intuisce al volo le
cose da fare).
Abbilitosu/a, agg. Dotato/a di
abilità, ma non proprio pienamente àbbili.
Abbis-abbis, loc. avv. Né cotta
né cruda, intrisa di liquido,
acquosa. Costantemente reiterata,
indica soprattutto lo stato mediano di cottura di un arrosto di
carne bovina.
Abbisongiai, v. Avere necessità.
Vedi bisongiai e derivati.
Abbisongiu, s. m. Necessità,
bisogno, stato di precarietà. Vedi
bisongiu.
Abbitüai, v. Abituare.
Abbitüau/ada, agg. Abituato/a.
Abbitùdini, s. f. Abitudine, consuetudine.
Abbonai, v. Ammettere, riconoscere, accettare. Custu ti
dd’abbonu, ma non mi chistïonis de
atras cosas (questo te lo ammetto,
ma non parlarmi di altre cose), de
totu su chi ddi naras non ti
nd’abbonat nudda (di tutto ciò che
gli dici non ti accetta nulla).
Abbonamentu, s. m. Accettazione, ammissione.
Abbonamentu, s. m. Contratto
non scritto tra medici e pazienti,
in uso fino all’avvento dell’assi-
Mancarìas. La parlata di Seui
stenza sanitaria gratuita, per il
pagamento in natura (grano, formaggio, carne, etc.) delle prestazioni.
Abbonau/ada, agg. Ammesso/a,
accettato/a, riconosciuto/a.
Abbovadura, s. f. Inganno. Ma
indica anche lo stato d’animo di
chi rimane vittima dell’inganno,
uno stato confusionale. Usato in
loc. avv. Antoni est fatu a a. (Antonio è come frastornato).
Abbovai, v. Ingannare scioccamente, frastornare. Non m’abbovas
(non mi inganni). Esiste anche la
variante imbovai. Vedi bovu.
Abbovau/ada, agg. Ingannato/a,
frastornato/a, rincitrullito/a, poco
attento/a, facile da raggirare. Esiste
anche la variante imbovau/ada.
Abbramiri, v. Desiderare fortemente, bramare. Desueto.
Abbramìu/a, agg. Bramoso/a.
Abbrandadura, s. f. Lenimento,
diminuzione.
Abbrandai, v. Lenire, diminuire,
attenuare, calmarsi. Detto dei
dolori fisici e di quelli spirituali.
Custa mëigina m’abbrandat su dolori ’e conca (questo farmaco mi lenisce il mal di testa), ddu at dolori chi
no abbrandat mai (esistono dolori
che non si possono mai lenire). Lo
si usa anche per indicare fenomeni
atmosferici: su ’entu at abbrandau
41
(il vento è diminuito), as a biri ca
comenti fùrrïat sa luna su frius
abbrandat (vedrai che, come gira la
luna, il freddo si attenuerà).
Abbrandau/ada, agg. Lenito/a,
calmato/a, diminuito/a.
Abbrovendadura, s. f. Alimentazione del bestiame grosso.
Abbrovendai, v. Dar da mangiare al bestiame grosso (buoi e cavalli) in stalla. Is cüaddus bolint
abbrovendaus a vena puru (i cavalli debbono essere nutriti anche
con l’avena).Vedi brovenda.
Abbrovendau/ada, agg. Accudito/a, ben nutrito. Detto del bestiame ben tenuto.
Abbrugiadura, s. f. Ustione,
bruciatura.
Abbrugiai, v. Bruciare, incendiare, dare fuoco. Riferito a qualunque cosa, oltre che alle persone. Molto usato al part. pass.
(abbrugiau/ada) come imprecazione tanto reiterata da aver ormai
attenuato di molto il senso originario: a. sias (che tu possa bruciare), oppure semplicemente a.
Abbrugiau/ada, agg. Bruciato/a,
percorso/a dal fuoco.
Abbrugiori, s. m. Bruciore. Anche in senso fig.
Abbubbullucadura, s. f. Formazione di pustole.
Abbubbullucai, v. Riempire di
42
pustole. Est totu abbubbullucau (è
pieno di pustole). Vedi bubbulluca.
Abbubbullucau/ada, agg. Pieno/a di pustole.
Abbumbadura, s. f. Pinguedine
di origine sospetta, gonfiore permanente al limite della patologia.
Usato anche in loc. avv.
Abbumbàisi, v. Diventare pingue, di una pinguedine fatta di gonfiore patologico. Mi paris abbumbendudì (mi sembri troppo gonfio).
Abbumbau/ada, agg. Eccessivamente gonfio.
Abbundai, v. Abbondare. Presente in un prov.: aradu no afundat, trigu no abbundat (l’aratro
non affonda, il grano non abbonda). Desueto.
Abbundanti/bundanti, agg. Copioso/a, abbondante.
Abbundàntzïa, s. f. Abbondanza, benessere.
Abbungiadura, s. f. Ammaccatura, edema. Rif. a oggetti metallici ma anche a parti del corpo
umano.
Abbungiai, v. Ammaccare. T’at
abbungiau sa moto (ti ha ammaccato la moto). Tumefare. M’apu
abbungiau sa conca (ho un bitorzolo in testa). Il dev. è bungiu.
Abbungiau/ada, agg. Ammaccato/a, pieno/a di bitorzoli.
Abburricai(si), v. Diventare si-
PAOLO PILLONCA
mile all’asino. Candu abbètïat
meda s’abburricat (quando si intestardisce troppo somiglia all’asino). Vedi burricu.
Abburricamentu, s. m. Somiglianza con l’asino, testardaggine
eccessiva.
Abburricau/ada, agg. Reso/a
simile all’asino. Est totu a. (ragiona
proprio da asino). Vedi amolentau.
Abburtzadura, s. f. Controllo
del polso.
Abburtzai, v. Tastare il polso.
Gergale della medicina.Vedi burtzu. Comenti dd’at aburtzau, su
dotori at cumpréndïu ca Antoni
non teniat nudda (appena gli ha
tastato il polso, il medico ha capito che Antonio non aveva nulla).
Abbusai, v. Abusare. Ma è un
superstrato. Abbusu è il dev. ma
per l’it. abusare il verbo più consono della parlata di Seui è profitàisi.
Abbusau/ada, agg. Abusato/a.
Abbuscadura, s. f. Abbrostitura
del maiale.
Abbuscai, v. Abbrostire il maiale, utilizzando il fuoco tradizionale o la fiamma del gas per eliminare la copertura di setole e peli.
Cicu sa linna po a. su procu (cerco
la legna per abbrostire il maiale).
Abbuscau/ada, agg. Abbrostito/a.
Abbusu, s. m. Abuso, sopraffa-
Mancarìas. La parlata di Seui
zione, sopruso.
Abelïai, v. Far impazzire, scombussolare, portare al limite della
sopportazione. Linu m’abèlïat sa
conca (Lino mi sconvolge la testa).
Il rifl. è abelïàisi (impazzire).
Abelïau/ada, agg. Pazzo/a, fuori
di sé.
Abélïu, s. m. Fissazione, chiodo
fisso, mania. Est de di ora cun cuss’a.
(da tempo ha quel chiodo fisso).
Abenadura, s. f. Riempimento
delle falde acquifere.
Abenai, v. Il riempirsi delle falde
acquifere fino a far sgorgare copiosamente anche le fontane languenti. Cun totu cuss’abba is funtanas torrant a a. (con tutte quelle
piogge le fontane torneranno a
dare acqua abbondante).
Abenassai, v. Impaludare, formare acquitrini. Vedi benassu/’enassu.
Abenassau/ada, agg. Impaludato/a, acquitrinoso/a, fangoso/a.
Abenau/ada, agg. Riempito/a
d’acqua. Detto delle fontane.
Abentadura, s. f. Inebetimento,
stupore.
Abentai(si), v. Stupire/stupirsi,
inebetire/inebetirsi.
Abentamentu, s. m. Avventatezza, istupidimento.
Abentau/ada, agg. Inebetito/a,
sbalordito/a, sconsiderato/a.
Aberidura/oberidura, s. f. Aper-
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tura. Vedi oberidura.
Aberimentu/oberimentu, s. m.
Creazione di apertura, in senso
reale e fig. Vedi oberimentu.
Abèrriri, v. Aprire. Vedi obèrriri.
Abertu/a, agg. Aperto/a. Vedi
obertu.
Abertura, s. f. Apertura, ingresso. Vedi obertura.
Aberu, avv. Davvero, veramente. Un sinonimo, sempre avverbiale, è de veras.
Abèsciri, v. Alimentare. Abesci su
fogu (alimenta il fuoco). Desueto.
Abi, s. f. Ape. Una delle maggiori ricchezze potenziali e reali della
comunità per la grande abbondanza di erbe, fiori, arbusti e alberi
adatti alla produzione del miele nel
territorio di Seui, dal timo serpillo
ai corbezzoli e ai castagni. In senso
fig. donna vivace, grintosa e aggressiva. Est che a. (è come un’ape).
Abïargiu, s. m. Apicoltore.
Abimäista, s. f. Ape regina. In
senso fig. donna leader, grintosa e
intraprendente.
Abinai, v. Impregnare di vino
(binu). Si dice di un contenitore
ligneo, ma non solo, che sia stato
usato esclusivamente per il vino.
Ironicamente si può anche riferire
alle persone che amano bere vino e
ne restano come impregnate a
tempo indeterminato.
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Abinamentu, s. m. Sentore di
vino.
Abinau/ada, agg. Impregnato/a,
che ha sentore di vino. Detto,
come per il verbo, dei contenitori:
cussa cubedda est a. (quel barilotto
ha sentore di vino). Ma in senso ir.
si usa anche rif. alle persone che
amano bere in eccesso. Ninu est a.
(Nino ha sentore di vino).
Abïoi, s. m. Calabrone. Registrato anche come soprannome.
Abistu/a, agg. Perspicace, sveglio/a, pronto/a di riflessi, intuitivo/a.
Abogau, s. m. Avvocato, difensore. Anche in senso ir. e/o antifrastico. Bell’a. t’as cicau (bell’avvocato ti sei scelto).
Aboginai, v. Gridare, urlare.
Mancai abóginis, deu non ti timu
(anche se urli, io non ho paura di
te), apu dépïu a. ca non boliat pónniri menti (ho dovuto urlare perché non voleva ubbidire), m’at
aboginau (ha gridato contro di
me). Vedi bogi.
Aboginau/ada, agg. Gridato/a.
Abrabïada, s. f. Taglio di barba.
Abrabïadura, s. f. Sbarbamento.
Abrabïai(si), v. Sbarbare, sbarbarsi. S’abrabïat dónnïa dì (si
taglia la barba tutti i giorni), mi soi
abrabïau custu mengianu (mi sono
sbarbato stamattina). Ma il dev.
PAOLO PILLONCA
non fa registrare fenomeni fonetici particolari. Il part. pass. è abrabïau.Vedi arba.
Abrabïau/ada, agg. Sbarbato/a.
Abrebadora, s. f. Donna pratica
nel recitare scongiuri, con le parole cristallizzate e immutabili nel
tempo delle formule magico-religiose. L’immutabilità del formulario è comunemente ritenuta una
condizione essenziale al buon
esito della preghiera, anche quando chi la recita non la comprende
più appieno, come diceva Quintiliano del Carmen Saliare, le cui
parole erano vix sacerdotibus suis
satis intellecta, a stento comprese
dai sacerdoti stessi che le pronunciavano. Abrebadoras coment’e
Maria in bidda no nci nd’apu connotu mai (non ho mai conosciuto
in paese donne che sapessero fare
gli scongiuri come Maria).
Abrebai, v. Pronunciare scongiuri, indirizzandoli - in sua presenza, ma non sempre e non
necessariamente - a un malato da
curare con le parole oppure recitandoli secondo il rituale previsto
per altri scopi, come ad es. quello
di guarire a distanza un animale
colpito da determinate infezioni.
Chi t’abrebat tzia Maria ti nde ddu
leat su ferimentu ’i ogu (se la zia
Maria recita scongiuri per te, ti
Mancarìas. La parlata di Seui
toglierà il malocchio).
Abrebau/ada, agg. Curato/a con
le parole rituali degli scongiuri.
Abrebu, s. m. Scongiuro. Il verbum prohibitum dei riti magicoreligiosi.
Abrebulïai, v. Parlare a bassa
voce e confusamente come quando si pronunciano gli scongiuri. E
ita totu ses abrebulïendu? (che vai
mormorando?).
Abrebulïau/ada, agg. Sussurrato/a confusamente.
Abrebùlïu, s. m. Mormorio, frase
sconnessa. Est sempir a abrebùlïus e
caduméntzïas (mormora sempre
frasi sconnesse e sciocchezze).
Abruncadura, s. f. Risposta a
muso duro, replica secca, contestazione ferma.
Abruncai, v. Rispondere a muso
(bruncu/’runcu) duro, replicare
secco, contestare con fermezza.
Dd’abruncat comenti ddi menescit
(lo incalza come merita), bolit a
dd’a., aici dd’acabbat (bisogna rispondergli con durezza, così la
smette).
Abruncau/ada, agg. Contestato/a, affrontato/a con energia.
Abuddadura, s. f. Sollevamento.
Abuddai, v. Sollevare, portare più
in alto. Abudda su pèi (solleva il
piede). Anche nel rifl. Abuddadindi
(sollévati). Non ti nd’abuddis po
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lómpiri a s’artària (non sollevarti
per raggiungere l’altezza richiesta).
Abuddau/ada, agg. Sollevato/a.
Acabbadora, s. f. Donna che,
secondo una tradizione orale radicata, praticava una sorta di eutanasia ante litteram dando ai malati cronici una morte lieve.
Acabbadura, s. f. Fase finale di
un lavoro.
Acabbai, v. Smettere. Acabbadda
(smettila). Terminare. No iscìu e
candu ap’a pòdiri a. cussu trabbagliu (non so quando potrò terminare quel lavoro). Concludere.
Custa chistïoni no acabbat (questa
faccenda non si conclude). Finire
un moribondo, dargli il colpo di
grazia. Dd’at acabbau (gli ha dato
il colpo di grazia).
Acabbamentu, s. m. Accordo
finale, conclusione positiva. A
s’acabbamentu ’e sa coïa de
Franciscu ddu-i fut su tziu carrali
(alla conclusione del fidanzamento di Francesco era presente il fratello del padre, lett. lo zio di
carne).
Acabbau/ada, agg. Finito/a,
concluso/a. Apu cumentzau a is
tres e a is ùndigi su trabbagliu non
fut a. (ho iniziato alle tre e alle
undici il lavoro non era finito).
Giustiziato/a.
Acabbu, s. m. Fine, conclusione,
46
termine. A s’a. nd’eus a chistïonai
(ne riparleremo alla fine). Vedi
acabbamentu.
Acabidai, v. Raccogliere. Custu
est totu su chi nd’apu póssïu a.
(questo è tutto ciò che ne ho
potuto raccogliere). Anche in
senso fig. (riuscire a capire). Mi
narat unu muntoni ’e cosas ma nde
dd’acàbidu pagu e nudda (mi dice
un mucchio di cose ma riesco a
capirne poco e niente).
Acabidau/ada, agg. Raccolto/a.
Acacia, s. f. Robinia (robinia
hispida). Come in numerosi altri
luoghi, anche a Seui prendono il
nome di acacia varie specie del
genere robinia, compresa quella
che per lunghissimi anni ha fatto
bella mostra di sé in molti esemplari nella Piazza Rinaldo Loi, chiamata prassa ’e is acacias ancora oggi
che le robinie non ci sono più.
Acaglienturada, s. f. Crisi di
febbre.
Acaglienturài(si), v. Avere la
febbre. Soi totu acaglienturendumì
(mi sta venendo la febbre). Vedi
caglientura.
Acaglienturau/ada, agg. Febbricitante. Est tres cidas a. (da tre settimane ha la febbre).
Acallelladura, s. f. Prostrazione,
sfinimento. Dà luogo alla loc. avv.
a a.
PAOLO PILLONCA
Acallellài(si), v. Prostrarsi per
pigrizia, calura o stanchezza. Il s.
dev. è callella. Quasi sempre con
sottile senso dispregiativo. Chene
ddu ’òlliri ddu at dis, in s’istadi, chi
unu s’acallellat de veras (senza
volerlo ci sono giorni, d’estate, in
cui ci si prostra veramente).
Acallellamentu, s. m. Prostrazione, sfinimento. Sin. di accallelladura.
Acallellau/ada, agg. Prostrato/a.
Acanciadura, s. f. Chiusura con
gancio.
Acanciai, v. Chiudere con un
gancio. L’altro dev. - acanciamentu
- è usato nel senso di spilorceria,
avarizia. Vedi canciu.
Acanciamentu, s. m. Avarizia,
taccagneria, spilorceria. Uno dei
vizi più odiosi agli occhi del sentire comunitario, oggetto di riso e
scherno anche in qualche canzone
popolare paesana. Praticamente
desueto nel suo significato letterale.
Acanciau/ada, agg. Avaro/a, spilorcio/a, taccagno/a, tirchio/a.
Acanta, avv. Vicino, sul punto
di. In senso reale e fig. A. ’e ’omu
(vicino a casa), fui a. ’e ddu scùdiri (stavo per picchiarlo). Se reiterata, la voce assume toni di minaccia: la’ ca seus a.-a. (attento, sto per
perdere la pazienza).
Mancarìas. La parlata di Seui
Acantzai, v. Esaudire. Mancai e
mi dd’acantzit, Deus, custa pregadoria (vorrei che Dio mi esaudisse
questa preghiera).
Acantzau/ada, agg. Esaudito/a.
Acantzu, s. m. Ascolto, esaudimento, soddisfazione.
Acapassàisi, v. Rendersi conto,
capacitarsi, comprendere appieno.
De totu su chi est sussedendu in su
monti no arrennesciu a mi nd’a.
(non riesco a rendermi conto di
quanto sta succedendo in campagna).
Acapassamentu, s. m. Capacitazione, comprensione razionale.
Acapassau/ada, agg. Compreso/a, capito/a a fondo.
Acapassu, s. m. Comprensione,
razionalizzazione, capacitazione.
Acapïadura, s. f. Legamento,
costrizione.
Acapïai, v. Legare con lacci,
funi, catene, etc. Acàpïa su cüaddu
(lega il cavallo). Arrestare. A
Cristolu dd’ant acapïau una pariga
’e ’ortas (Cristoforo è stato arrestato un paio di volte). Ma anche
legare fuori dalla materialità di
uno strumento, in senso fig. nel
gergo magico-religioso: a. s’àbbila
(legare magicamente l’aquila, con
is abrebus), a. s’abba (legare
l’acqua) per dispetto o per maleficio puro e semplice. In direzione
47
contraria, ma sempre in questa
sfera, occorreva anche slegare
l’acqua piovana, ossia liberare le
nuvole, nelle lunghe siccità, con
altri rituali specifici e funzionali a
ndi scapïai s’abba acapïada (a slegare l’acqua legata da sortilegi).
Vedi scapïai.
Acapïau/ada, agg. Legato/a,
arrestato/a. Anche in senso met.
Acàpïu, s. m. Legaccio, laccio,
legame, vincolo, costrizione. Ponidì
is acàpïus a is crapitas (metti i lacci
alle scarpe). Ma il s. indica soprattutto, un sentimento d’amore, una
parola data, un giuramento: un
legame ritenuto ancora più vincolante di tutte le possibili costrizioni
materiali. Est un’a. chi non transit (è
un legame ineliminabile).
Acarigadori, s. m. Nullafacente,
che sta sempre con il naso per aria
a guardare gli altri.
Acarigai, v. Stare come inebetito, con il naso per aria. Attendere
a lungo. Fui totu s’ora acarighendu
(sono rimasto a lungo con il naso
per aria). Vedi càriga.
Acarruciai, v. Trasportare pesi su
un carretto. Seu totu su merì acarrucendu perda (è tutta la sera che
trasporto pietre su un carretto).
Vedi carruciu.
Acarruciamentu, s. m. Trasporto mediante carretto.
48
Acarruciau/ada, agg. Trasportato/a su carretto.
Achichïadori, s. m. Balbuziente,
balbettante.
Achichïadura, s. f. Balbuzie.
Achichïai, v. Balbettare, chiaramente onomatopeico. De cantu
achìchïat mi pigat a dd’aggiudai a
ndi ’ogai is füeddus (balbetta tanto
che mi viene voglia di aiutarlo a
tirar fuori le parole), non ses
un’achichïadori, ma chi imoi achìchïas bolit nai ca ses nendu fàulas
(non sei un balbuziente, ma se
adesso balbetti significa che stai
dicendo bugie).
Achichïamentu, s. m. Balbettio.
Achichïau/ada, agg. Balbettato/a.
Achïetadura, s. f. Calmata, rilassamento.
Achïetàisi, v. Darsi una calmata,
rasserenarsi, star calmi. A primu
magliat fogu ma a pagu a pagu
s’achïetat (sulle prime sprizza
fuoco, ma poi a poco a poco si
calma). Usata la loc. a chïetu.
Achïetau/ada, agg. Chetato, rasserenato/a.
Aciapai, v. Trovare, acchiappare.
Soi cichendudeddu ma no arrennesciu a dd’a. (lo sto cercando ma
non riesco a trovarlo).
Aciapau/ada, agg. Trovato/a.
Acinnai, v. Far cenno.
PAOLO PILLONCA
Acinnïadura, s. f. Movimento
che consente di cullare i bimbi.
Acinnïai, v. Cullare. Acìnnïa su
pipiu (culla il bambino).
Acinnïau/ada, agg. Cullato/a.
Acinnicai, v. Scuotere.
Acinnicau/ada, agg. Scosso/a.
Acinnicu, s. m. Scuotimento.
Raro.
Acìnnïu, s. m. Dondolìo di culla.
Acinnu, s.m. Cenno.
Aciocai(si), v. Raccogliere, radunare,
riunire,
riavvicinare/riavvicinarsi. Si usa in riferimento a cose (aciocu unu pagu ’e
linna, raccolgo un po’ di legna),
ad animali (aciocat is crabas, riunisce le capre) e anche a persone
(seus aciochendu genti po
nd’irmòrriri su fogu (cerchiamo di
raccogliere gente per spegnere
l’incendio). Vedi la loc. a tripaciocu.
Aciocau/ada, agg. Raccolto/a.
Aciocu, s. m. Riunione, raccolta
di gente.
Aciota, s. f. Frusta di crine di
cavallo usata come strumento punitivo familiare. Se la frusta è di pelle
bovina viene chiamata zirónïa.
Aciotai, v. Colpire con s’aciota
e/o s’aciotu. In senso fig. malmenare.
Aciotau/ada, agg. Lett. colpito/a
con il mazzafrusto. Impreca-zione
Mancarìas. La parlata di Seui
rivolta a chi pretende troppo ed
avanza richieste smodate: a. sias
(che tu possa essere frustato) o,
più semplicemente, aciotau.
Aciotu, s. m. Mazzafrusto, specie di frusta con manico corto e
una o più corde di pelle con all’estremità palle di metallo.
Acirradura, s. f. Afferramento,
presa stretta.
Acirrai, v. Afferrare, tenere ben
stretto. Acirraddu a petorras, aici
non ti podit füiri (afferralo al
petto, così non potrà scapparti).
Acirrau/ada, agg. Afferrato/a.
Acisorgiu, s. m. Maiale di un
anno o poco meno, pronto per
essere macellato. In log. ’ochisorzu
(lett. destinato ad essere ucciso).
Singolare risulta la vocale iniziale
del s. (a anziché o), dal momento
che anche nella sub-variante barbaricina meridionale della lingua
sarda il verbo è bociri/’ociri.
Aciuciuddài(si), v. Provare freddo intenso, tanto da tremarne.
M’aciuciuddu po su frius (tremo
per il freddo).
Aciuciuddamentu, s. m. Sensazione di freddo intenso accompagnata da brividi e/o tremore.
Aciuciuddau/ada, agg. Tremebondo/a, tremante.
Aciùngiri, v. Aggiungere, sommare. In senso reale, nella mate-
49
rialità di una qualsiasi elencazione,
e in senso traslato in riferimento a
entità astratte come la parola, ma
non solo. Chi non ti bastat su chi
t’apu nau ti nd’aciungiu (se non ti
basta ciò che ti ho detto te ne
aggiungo), in iscola m’at iscutu sa
mäista e candu soi erribbau a domu
babbu mi nd’at aciuntu (a scuola la
maestra mi ha picchiato e quando
sono arrivato a casa mio padre mi
ha aggiunto un’altra sussa). Vedi
stóddiri.
Aciunta, s. f. Aggiunta. In
campo semantico ristretto, e senza
ulteriori specificazioni o attributi,
la voce indica il sovrappiù offerto
in omaggio dai macellai a chi fa
acquisti consistenti di carne.
Aciuntu/a, agg. Aggiunto/a,
aumentato/a.
Aciuvadura, s. f. Caduta verticale, sprofondata, sommersione.
Aciuvai, v. Sprofondare, cadere
in verticale. Dona crobba non siat
chi nc’aciuvis in s’errìu (stai attento
a non sprofondare nel fiume).
Aciuvau/ada, agg. Sprofondato/a, sommerso/a.
Acodiri, v. Accorrere, sopraggiungere. Antoni fut in perìgulu,
s’est pesau a agitórïus e tandu est
acodìa sa ’idda (Antonio era in
pericolo, ha gridato aiuto ed allora tutto il paese è accorso), a su
50
spàssïu funt acodius totus (al divertimento sono accorsi tutti).
Acodìu/a, agg. Accorso/a, sopraggiunto/a.
Acoghïadura, s. f. Affatturazione, colpo di magìa.
Acoghïai, v. Colpire con sortilegi, affatturare. Gergale magicoreligioso riferito all’azione di fattucchiere (cogas). A domu sua no
ddu andu, at a ténniri de m’a. (a
casa sua non vado, ho paura che
mi faccia qualche fattura). Vedi
coga.
Acoghïau/ada, agg. Affatturato/a, colpito/a da sortilegio.
Acollada, s. f. Intervento deciso,
spinta, scossa. Ddi ’onaus una
bona a. e non si ndi chistïonat prus
(gli diamo una bella scossa e non
se ne parla più). Molto usato
anche il dim. acolladedda, in tono
scherzoso e sovente con metafora
erotica.
Acollai, v. Iniziare, mettere
mano.
Acollau/ada, agg. Iniziato/a.
Aconcada, s. f. Rischio, azzardo.
Aconcadassu, s. m. Persona che
tende al rischio.
Aconcadori, s. m. Impavido,
amante del rischio.
Aconcai, v. Azzardare, rischiare,
mettersi in sfida con sé stessi.
Benit unu pagu mali ma dd’aconcu
PAOLO PILLONCA
su própïu (è difficile ma ci tento lo
stesso). Con significato diverso è
presente nell’espressione a. a bogis
(rimproverare con urla).
Aconcau, s. m. Persona impavida. Màrïu fut un’a. a piticu puru
(fin da piccolo Mario era un
impavido).
Aconciadori/a, s. e agg. Riparatore/riparatrice.
Aconciai, v. Riparare, aggiustare. Preponderante il senso reale. In
quello metaforico è tuttora assai
usata la definizione di aconciacaddargius (riparatore di calderini),
riferita - con venatura ironica - a
chi si presta ad appianare contrasti.
Aconciau/ada, agg. Riparato/a,
rimesso/a posto.
Aconciu, s. m. Riparazione,
rimedio. No dd’est arrennéscïu s’a.
(la riparazione non gli è riuscita).
Aconciu/a, agg. Ben messo/a,
ben sistemato/a. Sempre antifrasticamente. Giai ses a. (sei proprio
sistemato per le feste).
Aconcolai, v. Riparare q.no da
pioggia, neve, grandine, etc. Lett.
riparare la testa (conca). Nella
forma rifl. aconcolài(si).
Aconcolau/ada, agg. Riparato/a
dalle insidie delle precipitazioni
atmosferiche.
Acónculu, s. m. Riparo esterno
Mancarìas. La parlata di Seui
dagli eventi atmosferici. Impiegato anche oltre il suo senso reale.
Acordai, v. Ingaggiare, affidare un
lavoro, prendere a servizio, temporaneamente o a tempo indeterminato. Nel rifl. andare sotto padrone,
mettersi al servizio di q.no per un
certo periodo di tempo. Antoni
s’acordat cun Franciscu po tres annus
(Antonio si metterà alle dipendenze
di Francesco per tre anni).
Acordau/ada, agg. Ingaggiato/a,
preso/a servizio, assunto/a. Di
norma l’assunzione era a termine e
la scadenza rinnovabile.
Acórdïu, s. m. Accordo. Cun
Franciscu seus de a. (con Francesco
siamo d’accordo).
Acorrai, v. Radunare il bestiame
rinchiudendolo in un recinto.
Imoi acorru is crabas (adesso metto
le capre nel recinto). In senso fig.
mettere alle strette. As a biri, chi
mi torrat a tratai de cudda chistïoni
mi dd’acorru ’eni ’eni (vedrai, se mi
tratterà ancora una volta di quella
faccenda, lo metterò ben bene alle
strette).
Acorrau/ada, agg. Rinchiuso/a,
messo/a alle strette.
Acorru, s. m. Recinto, chiusura
In senso lato: situazione di difficoltà. Fui in-d-un’a. malu e mi ndi
seu dépïu ’essìri (ero in una difficoltà grave e ne sono dovuto usci-
51
re).
Acossa, s. f. Zeppa. Met. aiuto,
sostegno, raccomandazione. Est
una bona a. (è un buon aiuto).
Acossai, v. Mettere le zeppe.
Proteggere, difendere, aiutare, raccomandare. Linu tenit genti chi
dd’acossat (Lino ha gente che lo
protegge).
Acossau/ada, agg. Sostenuto/a
con zeppe, aiutato/a, protetto/a,
raccomandato/a.
Acostïada, s. f. Capatina, avvicinamento. Mi ddu-i facu un’a. (ci
farò una capatina). Anche al dim.
acostïadedda.
Acostïài(si), v. Accostare. A su
letigeddu dd’acóstïu una cadira
mentecòi su pipìu nd’orruat (avvicinerò una sedia al lettino, per
paura che il bambino cada). Nel
rifl. vale: accostarsi, avvicinarsi.
Acostïadindi (avvicìnati).
Acostïau/ada, agg. Avvicinato/a.
Acracangiada, s. f. Pestatura.
Lett. colpo di calcagno.
Acracangiai, v. Calpestare con il
calcagno. Po su chi at fatu ’oliat a
dd’a. (per ciò che ha fatto meriterebbe di essere calpestato). Vedi
cracangiu.
Acracangiau/ada, agg. Calpestato/a.
Acrarimentu, s. m. Ufficializzazione, manifestazione palese, pub-
52
blicizzazione.
Acrariri, v. Rendere pubblico,
ufficializzare. Detto soprattutto
dei fidanzamenti (a. sa coïa).
Acrarìu/a, agg. Ufficializzato/a.
Acrichiddada, s. f. Brivido.
Acrichiddadura, s. f. Attacco di
brividi. Usata la loc. a a. (con brividi).
Acrichiddai, v. Provare brividi di
freddo, far venire la pelle d’oca.
M’acrichiddat totu sa personi (mi fa
venire brividi di freddo in tutto il
corpo).
Acrichiddau/ada, agg. In preda
ai brividi.
Acrobïadura, s. f. Accoppiamento, unione, alleanza. Usato soprattutto in loc. avv.
Acrobïai, v. Unire insieme. Azione
esterna che accoppia due entità o
persone nell’idea che se ne possa
trarre un insieme omogeneo. Iaus a
bòlliri sciri e chini ddus at acrobïaus
(vorremmo sapere chi li ha messi
insieme). Vedi scrobïai/ iscrobïai.
Acrobïamentu, s. m. Accoppiamento. Unione.
Acrobïau/ada, agg. Unito/a insieme.
Acrogogliadura, s. f. Rinsecchimento. Usato in loc. avv.
Acrogogliài(si), v. Restringersi,
come di flora rinsecchita. Appassire.
PAOLO PILLONCA
Acrocogliau/ada, Rinsecchito/a.
Acrogogliu, s. m. L’effetto dell’appassimento.
Acronnotadura, s. f. Menefreghismo. Ma soltanto in una particolare loc. avv. (s’est fatu a a.,
ormai si comporta in maniera
insensibile). In tutti gli altri casi il
dev. più usato -da acronnotàisi- è
acronnotu.
Acronnotài(si), v. Diventare insensibile, fatalista, menefreghista
senza vergogna e pudore. S’acronnotat (diventa insensibile).
Acronnotau/ada, agg. Menefreghista, privo/a di vergogna.
Acronnotu, s. m. Stato d’animo
permanente che determina una
condizione di totale indifferenza
alla critica sociale: menefreghismo,
insensibilità, faccia tosta. Chi se ne
fa invadere è un acronnotau. Figura
in un sonetto sarcastico di Benigno Deplano, composto nei primi
anni Settanta: Madame Sùmini a
dépidi e su sposu / chi tenint
s’imperu ’e s’acronnotu/ depint a
iscarada ma cun totu/ funti sempir
in festa, scialu e gosu.
Acucada, s. f. Iniziativa improvvisa e ardita. Totori at fatu un’a.
(Salvatore ha preso un’iniziativa
coraggiosa).
Acucai, v. Saltare in mente,
osare. Segundu comenti dd’acucat
Mancarìas. La parlata di Seui
cussu ddu fait aberu (secondo
come gli salta in testa, quello lo fa
per davvero).
Acucau/ada, agg. Venuto/a in
mente.
Acucurai, v. Riempire fino al
colmo. Detto soprattutto delle
misurazioni dei cereali. Viva la
loc. a cùcuru.
Acucuramentu, s. m. Riempimento fino al colmo.
Acucurau/ada, agg. Riempito/a
al massimo.
Acumïadura, s. f. Rassegnazione, sottomissione.
Acumïàisi, v. Rassegnarsi, sottomettersi a fare q.sa controvoglia
per evitare guai peggiori. Mi
nd’acùmïu ’e ddu andai (mi rassegno ad andarci). Umiliarsi pro
bono pacis.
Acumïamentu, s. m. Sin. di acumïadura e acumïu.
Acumïau/ada, agg. Rassegnato/a.
Acùmïu, s. m. Rassegnazione,
sottomissione.
Acumpangiai, v. Accompagnare. Vivo nell’augurio Deus
t’acumpangit (Dio ti faccia compagnia).
Acumpangiamentu, s. m. Accompagnamento, compagnia. Oggi
definisce anche l’indennità omonima accordata a chi ha in famiglia
un anziano non autosufficiente.
53
Acumpangiau/ada, agg. Accompagnato/a.
Acunnàisi, v. Condurre vita ritirata, delegando il potere alla
moglie, senza mai farsi parte attiva
in alcunché. Di un marito eccessivamente rassegnato a non contare
nulla che lascia campo libero alla
moglie si suole dire: s’est acunnau.
Vedi cunnu.
Acurtzadura, s. f. Rimboccamento di maniche.
Acurtzàisi, v. Rimboccarsi le
maniche. Acurtzadì, teneus cosa
meda ’e fàiri (devi rimboccarti le
maniche, abbiamo molte cose da
fare).
Acurtzau/ada, agg. Con le maniche rimboccate.
Acusa, s. f. Dichiarazione di possesso. Gergale del gioco delle carte:
riguarda, in certi giochi come il
tresette, la dichiarazione preliminare di ciascun giocatore sulle
carte di valore che ha in mano.
Acusai, v. Avere sintomi, lamentare sofferenza. Acusat unu dolori a
una pala (si lamenta di un dolore
ad una spalla). Nel senso dell’ital.
”accusare” praticamente non si
usa: si preferisce imputai, il cui
sost. dev. è imputu, imputazione
vera e propria ma anche accusa
generica. Acusai, nella parlata seuese, è anche confinato nel gergo dei
54
giocatori di carte che dichiarano di
volta in volta i pezzi migliori delle
varie fasi di ciascuna partita. E ita
acusas? (che cosa dichiari?). Frequente l’impiego met. del v., a
indicare una mancanza di doti. Est
unu chi no acusat nudda (è uno che
non ha nulla da dichiarare).
Acutzai, v. Rendere acuto, affilare, arrotare. Acutzadda cuss’arrasöia (affila la lama di quel coltello). Aizzare contro. Una ’orta m’at
acutzau su cani, (una volta mi ha
aizzato contro il suo cane).
Acutzau/ada, agg. Affilato/a,
arrotato/a, aizzato/a.
Addéi, avv. Avanti, lontano, in
là. Presente in un toponimo, Parendaddéi, sopra il centro abitato.
Addengai, v. Coccolare, viziare,
vezzeggiare. Il dev. è denghi, l’agg.
dengosu/a.
Addengamentu, s. m. Vezzeggiamento.
Addengau/ada, agg. Viziato/a,
coccolato/a. Detto soprattutto dei
bambini.
Addïai, v. Stabilire i giorni e i
turni dell’acqua per irrigare gli
orti. Funt acanta ’e a. s’abba (fra
un po’ di tempo fisseranno i turni
dell’acqua).
Addïamentu, s. m. Turnazione.
Addïau/ada, agg. Messo/a, sottoposto/a a turnazione quotidiana.
PAOLO PILLONCA
Addobbadura, s. f. Percussione,
colpo.
Addobbai(si), v. Percuotere, colpire. Dd’at addobbau una grandu
carda (gli ha dato una sonora batosta). Utilizzare q. sa in quantità
eccessiva, sovraccaricare. Candu si
pigat su cafeu dd’addobbat tres cocerinus de tzùcuru (quando prende il
caffè gli carica tre cucchiaini di
zucchero). Al rifl. ha altri significati ancora. Pestarsi. Fut in moto,
nc’est iscutu in-d-unu muru e s’est
totu addobbau (era in moto, è finito su un muro e ne è uscito malconcio). Ingozzarsi. Segundu comenti dd’agatas si nd’addobbat de
cosa, cussu (secondo come lo trovi,
quello lì si ingozza per bene).
Addobbau/ada, agg. Percosso/a,
colpito/a, pestato/a.
Addotorai, v. Ordinare, organizzare da leader, prescrivere alla
maniera dei medici, comandare,
governare, intromettersi dispoticamente. Maria cicat de a. in dónnïa cosa (Maria cerca di governare
ogni faccenda), in cussa chistïoni
no addotoras nudda (in quell’affare
non decidi nulla).
Addotorau/ada, agg. Deciso/a
dispoticamente. Con marcata
venatura ironica.
Addrabbulai, v. Vedi drabbulai e
derivati.
Mancarìas. La parlata di Seui
Addramäinadura, s. f. Svenimento, effetto del venir meno,
sintomo di perdita di conoscenza.
Usata la loc. a a.
Addramäinàisi, v. Svenire, perdere i sensi. S’addramàinat fatufatu e po ddu fàiri torrai tocat a ddu
frigai meda (sviene di frequente e
per farlo rinvenire occorre massaggiarlo a lungo).
Addramäinamentu, s. m. Svenimento, lipotimia.
Addramäinau/ada, agg. Svenuto/a.
Addurai, v. Ritardare, far tardi.
No adduris, non far tardi. Da
segnalare la locuzione avverbiale a
duru, di largo uso: candu seu torrau fut a d. (quando sono tornato
era tardi).
Adïosu, s. m. Arrivederci, addio.
Adiu, s. m. Arrivederci, ciao,
addio. Anche nella reiterazione
adiu adiu, abbreviato in adiadiu.
Adobïai, v. Incontrare.Vedi atobïai e obïai.
Adobïau/ada, agg. Incontrato/a.
Vedi atobïau/ada.
Adóbïu, s. m. Incontro. Vedi
Atóbïu.
Adorai, v. Adorare. Ma in sardo
lo si usa anche nel senso dell’it.
venerare, ossia rif. impropriamente anche ai santi e agli uomini,
oltre che a Dio. Sposa mia adorada
55
(mia sposa venerata).
Adorau/ada, agg. Adorato/a,
venerato/a.
Adoru, s. m. Adorazione, nel
senso proprio della devozione al
Santissimo Sacramento esposto
davanti all’altare maggiore. Desueto.
Afàbbica, s. f. Basilico (ocymum
basilicum). Di vario utilizzo,
soprattutto in cucina e nella preparazione di liquori.
Afacioladura, s. f. Mascheramento.
Afaciolài(si), v. Mascherarsi il
volto. Il s. dev. è faciola.
Afaciolau/ada, agg. Mascherato/a, travisato/a.
Afanceddài(si), v. Legarsi stabilmente in coppia al di fuori del
matrimonio, essere amanti. S’est
afanceddau (si è preso un’amante).
Il dev. è fanceddu/a.
Afantanai, v. Sbirciare, guardare
di nascosto. Usato nel gergo dei
giocatori di carte per indicare
un’apertura di ”finestra” (vantana/fantana) sulle carte di un avversario.
Afastïai, v. Appesantire. Il rifl.
afastïàisi significa fare indigestione. Un bel sonetto di Benigno
Deplano pubblicato alla fine degli
anni Settanta da Funtanïossu, il
periodico del Liceo scientifico
56
Bìssiri di Seui, e dedicato a un
pastore amante della buona tavola,
ha per titolo Spichigeddu afastïau.
Afastïau/ada, agg. Appesantito/a
dal cibo eccessivo.
Afàstïu, s. m. Indigestione, pesantezza di stomaco dovuta a un
eccesso alimentare.
Afaterïai, v. Fare confusamente,
anche per gioco. Disfare. Vivissimo nell’espr. fait e afatérïat (fa e
disfa).
Afaterïau/ada, agg. Eseguito/a
confusamente.
Afenadori, s. m. Datore di fieno,
che governa le bestie dal punto di
vista alimentare.
Afenai, v. Nutrire con fieno.
Afena is ebbas (dài il fieno alle
cavalle).
Afenau/ada, agg. Nutrito/a con
fieno. Ma tanto l’agg. quanto il v.
definiscono anche un eccesso nell’uso del fieno che può provocare
inconvenienti.
Aferrai, v. Afferrare, stringere
forte, come in una morsa ferrea.
Dd’aferrat a gangas po ddi fàiri
nàrriri sa beridadi (lo stringe alla
gola per fargli dire la verità).
Aferrau/ada, agg. Stretto/a con
forza, afferrato/a.
Aferritai, v. Tagliare con le forbici, spesso per vendetta o per
dispetto. Vedi ferritu.
PAOLO PILLONCA
Aferritau/ada, agg. Tagliato/a
con le forbici.
Afertorgiu, s. m. Provenenienza
casuale. Gergale dei pastori. Custu
est unu pegus de a. (questo è un
animale arrivato qui casualmente).
Rif. all’uomo, la definizione p. de
a. vale: persona di recente conoscenza di cui non ci si può fidare
completamente. Vedi infèrriri.
Non figura nella parlata attuale di
Seui il verbo ipotetico afèrriri, che
sarebbe quello più proprio.
Afëurradura, s. f. Ferulosi.
Afëurrai, v. Far ammalare di
ferulosi. Su pastori malu aféurrat is
brebeis (il pastore incapace fa
ammalare di ferulosi le sue pecore). Usato anche nel rifl. (afëurràisi): prendere la ferulosi. Is murvas
non s’aféurrant (le mufle sono
immuni dalla ferulosi).
Afëurrau/ada, agg. Malato/a di
ferulosi.
Afigliau/ada, agg. Con figli.
Afilai, v. Mettersi sulla strada
giusta. Eligiu fut mesu conchita,
ma de imoi in susu as a biri ca afilat (Eligio era una testa allegra, ma
vedrai che d’ora in avanti si metterà sulla buona strada). Vedi filada.
Afilau/ada, agg. Rimesso/a sulla
buona strada.
Afina, n. pr. di persona. Serafina.
Più frequente al dim. Afinedda.
Mancarìas. La parlata di Seui
Afineddu/a, n. pr. di persona.
Serafino/a.
Afinigadura, s. f. Affinamento,
assottigliamento, dimagrimento.
Usata la loc. avv.
Afinigai, v. Assottigliare, affinare,
dimagrire. In senso reale e fig. Depu
a. su spidu (devo assottigliare lo
spiedo), cussu piciocu est arrennéscïu
a a. is pensamentus (quel ragazzo è
riuscito ad affinare i suoi pensieri).
Afinigau/ada, agg. Affinato/a,
dimagrito/a.
Afitadura, s. Affettatura.
Afitai, v. Tagliare a fette. Afita
cussu pani (taglia a fette quel
pane). Vedi fita.
Afitau/ada, agg. Affettato/a,
tagliato/a a fette.
Afitïanadura, s. f. Abitudine di
lunga data, quasi una seconda
natura.
Afitïanàisi, v. Diventare frequentatore abituale di un luogo.
Vedi fitïanu.
Afitïanau/ada, agg. Avvezzo/a a
un determinato ambiente.
Afitzïai, v. Viziare. Donendudeddi ’ónnïa cuntentu acabbat ca
dd’afìtzïas, cussu pipìu (se gliele dài
tutte vinte finirai con il viziare
quel bambino). Vedi vitzïu.
Afitzïau/ada, agg. Viziato/a.
Detto soprattutto dei bambini, ma
anche degli adulti. Est a. pérdïu (è
57
viziato completamente). Per gli
animali indocili l’agg. è vitzïosu/a.
Afortïadura, s. f. Rafforzamento, fortificazione. Usata la loc. a a.
Afortïai, v. Fortificare, vivificare. Su dolori afòrtïat (il dolore fortifica).
Afortïau/ada, agg. Fortificato/a.
Afortunau/ada, agg. Fortunato/a.
Afracadura, s. f. Bruciacchiamento, segno di fiamma negli
utensili della cucina e negli alimenti. Usato in loc. avv.
Afracai, v. Avvicinare qualcosa
alla fiamma del fuoco tanto da
lasciarne traccia nel sapore degli
alimenti. Stesïancedda ’e su fogu,
cussa cassalora, ca podis a. sa bagna
(sposta quella padella dal fuoco
perché puoi rovinare il sapore
della salsa). Cussa abbardenti est
afracada (quell’acquavite ha sapore di fiamma). Vedi fraca.
Afracau/ada, agg. Dal sentore di
fiamma.
Aframïadura, s. f. Avvolgimento
di fiamme.
Aframïai, v. Bruciacchiare superficialmente. Su fogu no at fatu
dannu meda, at feti aframïau chelegunu matoni ’e tùvara (l’incendio
non ha fatto danni gravi, ha solo
bruciacchiato qualche macchione
di erica).
Aframïau/ada, agg. Bruciacchia-
58
to/a.
Afrantzesadura, s. f. Contagio
di sifilide.
Afrantzesai(si), v. Contagiare la
sifilide, ammalarsi di sifilide, il
cosiddetto mal francese. Una bagassa dd’at afrantzesau (una prostituta gli ha contagiato la sifilide).
Arremundicu s’est afrantzesau (Raimondo ha preso la sifilide).
Afrantzesau/ada, agg. Sifilitico/a.
Afrïoddai, v. Darsi alla vanità,
comportarsi con leggerezza. In disuso, al contrario del dev. afrïoddu.
Afrïodderi/a, agg. Narcisista,
superficiale, vanaglorioso. Maria
est un’a. (Maria è una narcisista).
Afrïoddu, s. m. Vanità, leggerezza, narcisismo. Dev. di afrïoddai,
ma il v. è piuttosto desueto. Est
un’a. (è una cosa inutile).
Afronciladura, s. f. Sistemazione
del musale all’asino.
Afroncilai, v. Mettere il musale
all’asino.
Afroncilau/ada, agg. Munito/a
di musale o cappio.
Afrongiadura, s. f. Alimentazione d’emergenza del bestiame
con fronde di alberi sempreverdi
nelle tempeste di neve.
Afrongiai, v. Alimentare il
bestiame con fronde (frongia) di
alberi sempreverdi, durante le
PAOLO PILLONCA
nevicate. Vedi assidai.
Afrongiau/ada, agg. Alimentato/a con fronde di alberi e/o arbusti.
Afrucargiadura, s. f. Messa a
punto di un forcone.
Afrucargiai, v. Mettere un forcone. Vedi frucargia.
Afrucargiau/ada, agg. Picchiato/a con un forcone.
Afumentai, v. Eseguire i suffumigi.
Afumentau/ada, agg. Trattato/a
con suffumigi.
Afumentu, s. m. Suffumigio.
Afumïadura, s. f. Affumicamento.
Afumïai, v. Affumicare. Vedi
fumu.
Afumïau/ada, agg. Affumicato/a.
Afunadura, s. f. Legamento con
funi.
Afunai(si), v. Legare con funi.
Nel rifl. è usato anche per indicare gli incidenti ad animali legati e
incustoditi che muoiono soffocati
nel tentativo di liberarsi. Vedi
funi.
Afunau/ada, agg. Legato/a con
funi.
Afutidura, s. f. Trascuratezza,
negligenza.
Afutiri(si), v. Far poco conto,
trascurare, fregarsene. No mi
nd’afutit nudda (non me ne frega
Mancarìas. La parlata di Seui
niente).
Agangai, v. Strozzare, strangolare. Fut aganghendudeddu (stava
per strozzarlo).
Agangamentu, s. m. Strangolamento.
Agangau/ada, agg. Strozzato/a.
Agatai, v. Trovare. Chini cicat
agatat (chi cerca trova). Rinvenire.
Deu su cardulinu dd’agatu chene
ddu cicai (io i funghi li trovo senza
neppure cercarli). La forma rifl.
agatàisi ha il significato di esistere,
essere in vita. Ancora s’agatat Linu?
(Lino è ancora vivo?), de cussu péssïu non si nd’agatat prusu (di quelle pesche non ne esistono più).
Agatau/ada, agg. Trovato/a.
Agedadura, s. f. Inacidimento.
Agedai(si), v. Inacidire, inacidirsi. Chi ddu lassas in su caglienti
cussu ’inu s’agedat (se lo lasci in un
posto caldo quel vino si inacidirà).
Lievitare. Su pani est agedu (il pane
ha lievitato).
Agedau/ada, agg. Inacidito/a.
Agedu, s. m. Aceto. Dd’apu sciacuau a a. (l’ho lavato con aceto).
Usato anche come agg. Apu fatu
casu a. (ho preparato del formaggio acido).
Agedu/a, agg. Acido/a, inutilizzabile. Abbardenti a. (acquavite
acida, da buttare).
Agiannitai, v. Abbaiare fitto dei
59
cani da caccia che scovano una
preda. S’intendiant agiannitendu is
canis (si sentivano i cani abbaiare
velocemente). In questa forma il v.
è usato prevalementemente dalle
persone di una certa età, i giovani
hanno creato e usano la variante
agannitai. Gergale dei cacciatori.
Agiannitu, s. m. Abbaiare insistito di cani da caccia. Per le giovani generazioni il s. assume la
forma di agannitu.
Àgina, s. f. Uva.
Àgina ’e margiani, s. f. Tamaro
o uva taminia (Tamus comunis),
pianta erbacea, come spiega il professor Giulio Paulis nella sua pregevole opera I nomi popolari delle
piante in Sardegna (Roma, 1992),
”che si attorciglia, sempre da sinistra verso destra, al fusto di altre
piante”. Lett. uva per volpi.
Agiobbai(si), v. Maltrattare, estenuare, ridurre a mal partito. Fut
acanta’e m’a. (stava per farmi penare). Chi sighis äici giai t’agiobbas (se
continui così ti ridurrai male per
davvero).
Agiobbau/ada, agg. Mal ridotto/a, estenuato/a.
Agitorïai, v. Invocare aiuto con
alte grida.
Agitórïu, s. m. Aiuto. Solo come
invocazione di soccorso, non come
definizione di concetto (agiudu).
60
S’est pesau a agitórïus (ha levato
grida di aiuto). Di norma con
l’aggiunta dell’imp. pres. del v. acòdiri: a. acodèi (aiuto, accorrete).
Agiudai, v. Aiutare. Si riferisce
alla sfera materiale e a quella dello
spirito. In cöili non tengiu a nemus
po m’a. (nell’ovile non ho nessuno
che mi aiuti), in cussu dolori is
amigus dd’ant agiudau meda (in
quel dolore gli amici l’hanno aiutato molto).
Agiudau/ada, agg. Aiutato/a.
Agiudu, s. m. Aiuto, materiale e
morale. Si chiama agiudu-càmbïu
l’aiuto reciproco nel lavoro, una
mutualità comunitaria di prestazione lavorativa che esclude il
ricorso al denaro.
Agiumai/ogiumai, avv. Quasi,
sul punto di. Ginu s’est inténdïu
mali meda, a. si fut mortu (Gino si
è sentito malissimo, poco è mancato che morisse).
Agliàuna, s. f. Latta. Per est. indica anche il recipiente della stessa
materia, come contenitore di
liquidi differenti: latte, olio, siero,
acqua. Un’a. de ogliu ermanu (una
lattina d’olio d’oliva). Agliàuna ’e
mùgliri indica il secchio utilizzato
negli ovili per la mungitura del
latte.
Aglienu/a, agg. Altrui, appartenente ad altri. Non lassat pegus a.
PAOLO PILLONCA
in perunu logu (non rispetta il
bestiame altrui da nessuna parte),
in domu a. non podis fàiri su meri
(in casa d’altri non puoi fare il
padrone).
Agliu, s. m. Aglio (allium). Una
delle piante erbacee di maggiore
virtù salutare e di più estesa utilizzazione nella cucina e nella medicina del popolo. Viva la loc. agliu po
cibudda (aglio per cipolla) quando
si vuole rimarcare una confusione.
Agliugliadura, s. f. Rinsecchimento.
Agliugliài(si), v. Rinsecchirsi per
mancanza d’acqua. Sa cibudda
s’agliugliat (le cipolle si rinsecchiscono).
Agliugliau/ada, agg. Rinsecchito/a.
Agopeddàisi, v. Ingobbirsi. Giulïu ’ónnïa dì chi passat s’agopeddat
sempiri ’e prusu (ogni giorno che
passa Giulio si ingobbisce sempre
di più). Desueto.
Agopeddau/ada, agg. Ingobbito/a.
Agradessimentu, s. m. Gradimento, accoglienza favorevole.
Agradèssiri, v. Gradire, accogliere con favore. Unu füeddu ’eni nau
s’agradessit (una parola ben detta si
gradisce), candu Linu est andau a
abbisitai is parentis dd’ant agradéssïu meda (quando Lino è andato a
Mancarìas. La parlata di Seui
trovare i parenti è stato molto gradito).
Agradéssïu/a, agg. Gradito/a,
ben accolto/a.
Agragaladura, s. f. Afflosciamento.
Agragalai (si), v. Afflosciare/afflosciarsi.
Agragalau/ada, agg. Afflosciato/a. Scrive Demetrio Ballicu, il
grande medico storico della
comunità di Seui, nato nel 1892:
”E ora - miserere mei, Domine quando osservo mortificato i miei
muscoli bicipiti brachiali assottigliati, ridotti ai minimi termini
come volume, di una consistenza
pari a quella della stoppa, flosci
(mi piace il termine sardo corrispondente, agragalau), mi vien
quasi da piangere” (Ricordi una
fanciullezza e di un’adolescenza lontane…, Cagliari, 1984).
Agrumadura, s. f. Cernita, vaglio della semola.
Agrumai, v. Cernere, passare al
vaglio, separare manualmente. Lo
si usa più spesso in riferimento alla
semola per l’operazione che si compie nel toglierne la crusca, ma il
verbo indica la pulitura di cereali e
legumi in genere, ad esempio del
grano in chicchi e delle lenticchie,
con la cernita che ne consegue.
Agrumau/ada, agg. Separato/a,
61
distinto/a, passato/a al vaglio.
Agrumïada, s. f. Ruminata.
Agrumïadura, s. f. Ruminìo.
Agrumïai, v. Ruminare.
Agrumïau/ada, agg. Ruminato/a.
Agrungiadura, s. f. Nausea da acidità di stomaco. Usata la loc. a a.
Agrungiai, v. Provocare acidità
di stomaco. Riferito ai cibi che la
inducono. Su lardu m’agrungiat (il
lardo mi provoca acidità di stomaco).
Agrungiau/ada, agg. Colpito/a
da acidità gastrica.
Agu, s. f. Ago (diversamente dall’it., in sardo il s. è di genere f.).
Viene poi definito in rif. all’uso.
L’ago per i materassi è agu po corciai.
Agüalai, v. Essere alla pari, poter
competere. Cussu si creit meda, no
dd’agüalat nemus (quello è un gran
presuntuoso, quasi che nessuno
possa stargli alla pari). Un uso particolare di questo v. si riferisce ai
legami di comparatico tra due
famiglie, quando c’è la volontà e il
piacere di perfezionarli. Nella pratica significa mettere due coniugi
sullo stesso piano nei confronti di
un nucleo familiare precedentemente entrato in questo rapporto
con uno solo dei due. In questi
casi si dice: ant agüalau su Santu
62
Giüanni (hanno messo alla pari i
rapporti di comparatico), perché
al coniuge che mancava viene
riconosciuta pari dignità e considerazione rispetto all’altro che già
ne godeva. Il caso più frequente è
che al nuovo compare venga dato
da cresimare il primo figlioccio, in
genere di battesimo, o un fratello
o sorella dello stesso.
Agüalau/ada, agg. Messo/a alla
pari.
Agüantai, v. Resistere, conservare, rispettare, tenere forte. Agüantat
sa prima (conserva l’inimicizia),
agüantat su fueddu (rispetta la parola data), agüanta (resisti).
Agüantau/ada, agg. Tenuto/a
forte, sopportato/a.
Agüantu, s. m. Resistenza, fisica
e morale. Non tenit a. (non ha
resistenza), un difetto ritenuto
grave in una società in cui la virtù
della resistenza psicofisica era una
delle doti più necessarie, richieste
ed apprezzate.
Agunneddadura, s. f. Sottomissione di un uomo alla propria
donna, dominio della gonna (gunnedda).
Agunneddai(si), v. Sottomettere, assoggettare il maschio al
dominio femminile. Sa bellesa
nd’agunneddat paricius (la bellezza
ne assoggetta parecchi) Anche nel
PAOLO PILLONCA
rifl. Ginu est agunneddendusì
(Gino va sottomettendosi a sua
moglie). Il part. pass. agunneddau
vale: completamente sottomesso.
Agutonadura, s. f. Abbottonamento.
Agutonai, v. Abbottonare. Riferito prevalentemente a pantaloni,
giacche e cappotti. Vedi gutoni/’utoni.
Agutonau/ada, agg. Abbottonato/a.
Ah, escl. di meraviglia e/o di
domanda. Può significare che
l’interlocutore ha capito oppure
che chiede la ripetizione dell’ultima frase o parola.
Äici/gäici/göici, avv. Così. Si
fait a. (si fa così). Nelle espressioni augurali, nei giuramenti e nelle
imprecazioni. Comenti soi nendudì
sa beridadi, ä. fortuna ti ’ongiat
Deus (come io ti dico il vero, così
Dio ti conceda fortuna). Ä. beni è
un’espressione ellittica, genericamente rivolta a tutti, e può valere
tanto per chi parla quanto per chi
ascolta: come è vero ciò che ti ho
detto, così possa venire del bene a
tutti noi.
Àidu, s. m. Apertura di passaggio di un muro o di una siepe.
Gergale di contadini e pastori.
Äiò, escl. Orsù, suvvia, coraggio.
Äiràisi, v. Cedere all’ira, arrab-
Mancarìas. La parlata di Seui
biarsi.
Äirau/ada, agg. Irato/a, arrabbiato/a.
Àiri, v. Avere. Come ausiliare
accompagna v. trans. e intrans.
come quelli indicanti eventi atmosferici: at pròpïu, at nïau, at grandilau (è piovuto, è nevicato, è grandinato), al contrario di quanto avviene in it. È utilizzato anche come
voce verbale autonoma, nel significato di essere presente. In padenti
ocannu no ddu at landi (quest’anno
in foresta non ci sono ghiande).
Àiri, s. f. Aria, clima, temperatura. Una delle più grandi ricchezze
immateriali del territorio per
l’ottima qualità dell’aria, immune
da quelle forme di inquinamento
che di solito rendono difficile la
vita negli agglomerati industriali.
Il microclima del territorio di Seui
dispensa i periodi più gradevoli in
primavera e in autunno. L’estate
mitiga la sua furia nelle ultime settimane di agosto. Passau mesäustu
infriscant is àiris (nella seconda
metà di agosto le temperature si
abbassano): è una frase che si sente
di continuo. Talvolta i rigori dell’inverno si concentrano nei mesi
di dicembre e gennaio e i primi
tepori di primavera si annunciano
a febbraio, con la fioritura dei
mandorli. Non sono rari i ritorni
63
delle temperature invernali in primavera inoltrata. Arbili, torrat
procu a süili (aprile, il maiale ritorna al suo ricovero) è un proverbio
di resistenza tenace. Neppure le
nevicate sono infrequenti, in questo mese. Da maggio a metà giugno, può dirsi scongiurato il pericolo di ritorni di maltempo, esclusi i temporali di breve durata, non
rari neppure nella stagione estiva.
Àiri, s. f. Boria, presunzione,
superbia Si ndi ’onat de àiris Lüisu
(se ne dà di arie Luigi).
Äirosu/a, agg. Borioso/a, contegnoso/a, presuntuoso/a.
Äiscadura, s. f. Imboccamento.
Äiscai, v. Imboccare. Imoi su
pipìu est amannïendu e no dd’äiscu
prusu (adesso il mio bambino sta
crescendo e non lo imbocco più).
Äiscau/ada, agg. Imboccato/a.
Äiscu/giscu, s. m. Fiscella, cascino. Utensile di uso comune negli
ovili. Gergale del mondo pastorale. Vedi giscu.
Ala, s. f. Ala, degli uccelli e degli
aerei. Cuss’àbbila portat un’a. truncada (quella aquila ha un’ala spezzata).
Ala, s. f. Parte marginale di un
gregge al pascolo. Mi crocu in s’a. ’e
su tagliu (mi sdraio lateralmente al
gregge). Gergale del mondo degli
ovili.
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Ala, s. f. Ala, giocatore di fascia
nel gioco del calcio. Gergale introdotto in tempi recenti nell’uso
degli appassionati di questo sport.
Ala, s. f. Favore, preferenza. A-i
custu pipiu totus ddi faint a. (a
questo bambino tutti dànno la
preferenza).
Alabadori, s. e agg. Lodatore,
elogiatore, adulatore.
Alabadura, s. f. Venerazione.
Alabai, v. Venerare. Detto dei
santi. Rif. a profani assume il
senso di adulare.
Alabamentu, s. m. Venerazione.
Alabantzeri, s. e agg. Adulatore.
Desueto.
Alabàntzïa, s. f. Venerazione.
Alabau/ada, agg. Venerato/a.
Alargiu, s. m. Striscia di legname della parte esterna dei tronchi
d’albero. Gergale, di boscaioli e
falegnami. In senso fig. persona
scarsamente valorosa e dunque
poco considerata.
Alavìa, s. f. Riferimento indiretto e aspro ma stilisticamente sottile, tutto giocato sull’allegoria.
Dd’at betau un’a. (gli ha lanciato
una battuta di avvertimento).
Alavïai, v. Parlare indirettamente,
sulle generali, ma in modo che un
interlocutore acuto possa capire
che ci si sta riferendo a lui e si regoli di conseguenza. Ad es., in un dis-
PAOLO PILLONCA
corso sui furti, avendo come interlocutore un ladro di cavalli, anziché
accusare direttamente, dire: nci
nd’at de genti afitzïada a cüaddus
aglienus (quanta gente ha preso il
vizio di rubare cavalli altrui).
Alavïau/ada, agg. Destinatario/a
di battute sotto metafora.
Alè, escl. esortativa. Coraggio,
dài, forza, orsù. A., andaus (forza,
andiamo).
Alegùmini, s. m. Legume.
Alïentu, s. m. Respiro, ma più
in senso traslato che reale. Dd’at
torrau a. (gli ha dato tregua).
Àliga, s. f. Immondezza. In senso
fig. persona spregevole: est un’à.(è
una persona squallida). Molto
usata l’espr. imoi giai ti nd’est andada s’à. mala ’e s’ogu (ora ti è sparita
la sporcizia dall’occhio), quando si
vuol far ricordare a q.no di essersi
tolto di mezzo una persona sgradita. Frequente, in risposta a interlocutori testardi, l’espr. cravadinci in
s’a. (vai a ficcarti nell’immondezza).
Aligadura, s. f. Infezione purulenta in ferita su bestiame rude.
Aligàisi, v. Infettarsi di ferite
purulente. Gergale degli ovili.
Indica l’azione dei vermi sulle ferite del bestiame rude di grossa
taglia (cavalli, buoi e maiali).
Cussa mardi s’àligat fatu-fatu
(quella scrofa ogni tanto si infet-
Mancarìas. La parlata di Seui
ta). Contro questa evenienza,
anche per la difficoltà di catturare
le bestie malate, si usava uno scongiuro chiamato su ’e scùdiri (lett.
quello che serve a far cadere i
vermi dalla ferita). Vedi scùdiri.
Aligau/ada, agg. Infettato/a.
Detto del bestiame.
Aligargiu, s. m. Lett. cercatore di
immondezza. In senso fig. miserabile, capace di azioni squallide.
Alighingiu, s. m. Cosa di poco
conto, talmente insignificante da
poter essere buttata nell’immondezza. Nel gergo dei macellai è un
eufemismo per definire i testicoli
di maiali e vitelli.
Aligusta, s. f. Aragosta.
Àlinu, s. m. Ontano (alnus glutinosa). Cresce spontaneo nei luoghi
umidi. Il legno è facile da lavorare.
Nella seconda guerra mondiale scrive Demetrio Ballicu - ”sorse a
Seui uno zoccolificio ad iniziativa
di Carmelo Piga che di zoccoli
riforniva i Comuni del mandamento e altri centri più lontani”
(Miscellanea, cit., pag. 89).
Allachitai, v. Giocare con
l’acqua come in un piccolo contenitore apposito (lachitu). Su pipiu
est allachitendu (il bambino sta
giocando con l’acqua).
Alladïadura, s. f. Allargamento.
Alladïai, v. Allargare, far diven-
65
tare largo: Vedi ladu/a.
Alladïau/ada, agg. Allargato/a.
Allài, s. m. Ospite inatteso, importuno e sgradito. Seccatore. Tenia
sa ’omu prena ’e allàis (avevo la casa
piena di seccatori).
Allanadura, s. f. Copertura di
muffa, ammuffimento.
Allanai(si), v. Coprire/coprirsi
di muffa (lana). Ammuffire.
Allanau/ada, agg. Coperto/a di
muffa.
Allatïadura, s. f. Intiepidimen-to,
risultato che si ottiene riscaldando
un liquido potabile fino a fargli raggiungere all’incirca la temperatura
del latte appena munto. In senso
fig. la loc. avv. a a. dice anche di
una diminutio rispetto ad una reale
o ipotetica condizione iniziale.
Allatïai, v. Intiepidire, portare
alla temperatura del latte appena
munto. S’intendit mali? A maroglia, si nci papat a Gesu Cristu allatïau (Si sente male? Per forza, arriva al limite di mangiarsi Gesù
Cristo intiepidito).
Allatïau/ada, agg. Intiepidito/a.
Alleitu, s. m. Prosecuzione, discendenza. Detto anche dei neonati.
Allentoradura, s. f. Spruzzata di
rugiada. In senso ir. indica l’inizio
della sbronza. Usato in loc. avv.
Allentorai(si), v. Bagnare di
66
rugiada (vedi lentori, desueto come
s.). Ammorbidire. Nell’uso di oggi
si privilegia il senso fig. per: indebolire, piegare, etc. Soprattutto al
rifl. per indicare l’effetto del vino.
S’allentorat fatu-fatu (si inebria
spesso). Il dev. è poco usato, sostituito da orrosu.
Allentorau/ada, agg. Brillo/a.
Fut mesu a. (era lievemente sbronzo/a).
Allichididura, s. f. Messa a punto
nell’abbigliamento personale.
Allichidiri, v. Vestire bene, agghindare come per festa. Dd’allichidit sa pobidda (è la moglie che
lo agghinda a dovere). Anche nel
rifl. allichidìrisi.
Allichidìu/a, agg. Ben vestito/a,
elegante.
Allicu, n. pr. di pers. ad ampio
spettro di utilizzo, ma rif. soprattutto al nome di Raimondo. Usato anche il dim. Allicheddu.
Allidigorada, s. f. Chiazza di
lividi.
Allidigorai, v. Illividire, procurare
un livido. Il dev. è lidigori. Tuttora
ben vivi, v. e s. S’orrutorgia m’at allidigorau una pala (la caduta mi ha
illividito una spalla). Usato anche al
rifl. Candu orruit s’allidigorat totu
(quando cade si riempie di lividi).
Allidigoramentu, s. m. Illividimento.
PAOLO PILLONCA
Allidigorau/ada, agg. Illividito/a, pieno/a di lividi.
Allïongiadura, s. m. Legamento
di un sacco.
Allïongiai, v. Legare un contenitore di tela o di juta. Desueto.
Allïongiu, s. m. Legaccio. Molto
usata come ammonimento l’espr.
met. lassai sacu e a. (perdere il
sacco e il suo legaccio) nel senso di
rimetterci tutto.
Allisada, s. f. Lisciata, in senso
reale e fig.
Allisai, v. Allisciare, render liscio. In senso fig. adulare. Candu
’olit cheleguna cosa cumentzat a a.
(quando vuole qualcosa inizia a
fare l’adulatore).
Allisamentu, s. m. Adulazione.
Allisau/ada, agg. Reso/a liscio/a,
adulato/a.
Allistrimentu, s. m. Preparazione, sistemazione.
Allistriri, v. Preparare a dovere.
Rif. alle azioni che comportano la
macellazione di un capo di bestiame e la sua sistemazione a regola
d’arte. Lüisu su pegus dd’allistrit
beni (Luigi prepara bene la carne
macellata).
Allistrìu/a, agg. Preparato/a a
puntino.
Allïuradura, s. f. Raddrizzamento.
Allïurai, v. Raddrizzare. In senso
Mancarìas. La parlata di Seui
reale e fig.
Allïurau/ada, agg. Raddrizzato/a,
corretto/a, modificato/a, sistemato/a. Vedi lïuru/a.
Allochïadura, s. f. Stordimento,
choc.
Allochïai, v. Stordire, frastornare, scioccare. Dd’allóchïas, cussu
pipìu (lo stordirai, quel bambino).
Vedi locu.
Allochïau/ada, agg. Stordito/a,
scioccato/a.
Alloddäinadura, s. f. Riduzione
allo stato di pettegolezzo continuo.
Alloddäinai(si), v. Rendere simile a una donna logorroica e sboccata (loddàina). La forma rifl. del v.
indica una condizione di pigrizia
mista a chiacchiericci. Cussa candu
’enit s’alloddàinat e non fait fini ’e si
nd’andai (quella lì quando viene a
casa mia si dà alle ciarle e non si decide ad andarsene). Vedi loddàina.
Alloddäinau/ada, agg. In preda
alle chiacchiere senza costrutto,
noioso/a, pigro/a.
Allonghïadori, s. e agg. Temporeggiatore.
Allonghïadura, s. f. Allungamento.
Allonghïai, v. Allungare. In senso
fig. come invito rivolto ai logorroici: no allonghis su brodu (non allungare il brodo, non farla lunga).
Allonghïau/ada, agg. Allunga-
67
to/a.
Allorigai, v. Inanellare. Anche
rif. ai capelli. Is pilus si dd’allórigant
po natura (i capelli gli si inanellano
naturalmente). Vedi lóriga.
Allorigau/ada, agg. Inanellato/a,
circolare.
Allüadori, s. m. Pescatore di frodo che ricorre all’euforbia per avvelenare l’acqua dei fiumi. Nella canzone Eus agatai scritta da Benigno
Deplano nell’immediato secondo
dopoguerra c’è una strofe dedicata
ai pescatori fluviali di Seui (Eus
agatai/ totu is piscadoris,/ is allüadoris/ de ónnïa piscinedda...).
Allüadura, s. f. Avvelenamento
con l’euforbia.
Allüai, v. Avvelenare con
l’euforbia. Gergale dei pescatori di
frodo che usavano quell’erba nei
tratti stagnanti del corso dei
fiumi. Vedi lua.
Allüau/ada, agg. Riempito/a di
euforbia, intossicato/a, avvelenato/a. Nd’at papau, cussu, de trota
allüada (ne ha mangiato di trote
avvelenate, quello lì).
Allùiri, v. Accendere. Detto del
fuoco e della luce elettrica ma non
solo. Anche in senso fig.: t’alluit is
càrigas (ti accenderà le narici, ti
picchierà), est unu allutu (è un tipo
focoso).
Alluminu, s.m. Fiammifero.
68
Allumada, s. f. Accensione, sparo, fiammata. Quasi sempre in rif.
al fucile. Dd’apu scutu un’a. ’e fogu
(gli ho sparato una fucilata).
Allumai, v. Accendere. Confinato nel gergo dei cacciatori. Dd’at
allumau fogu (gli ha sparato una
fucilata).
Allumau/ada, agg. Acceso/a.
Allupadura, s. f. Soffocamento.
Mi pigat a a. (provo un senso di
soffocamento).
Allupai, v. Soffocare. Anche nel
rifl. allupàisi.
Allupamentu, s. m. Sin. di allupadura.
Allupau/ada, agg. Soffocato/a.
Allutu,/a, agg. Acceso. In senso
reale e traslato per dire di persona
focosa. Da allùiri.
Amachïadura, s. f. Follia, vaneggiamento. Viva la loc. avv. a a.
(alla follia).
Amachïai, v. Far impazzire. Cussa
picioca dd’at amachïau (quella ragazza l’ha fatto impazzire). Frastornare. No m’amachis sa conca (non
mi far girare la testa).
Amachïau/ada, agg. Impazzito/a.
Amàchïu, s. m. Bellezza struggente, fascino, follia, incantesimo,
suggestione. Custu ’eranu est un’a.
(questa primavera è un incantesimo).
Amaciadura, s. f. Macchia. Vedi
PAOLO PILLONCA
macia.
Amaciai, v. Macchiare. Il dev. è
macia. No m’amacis sa tïaglia (non
macchiarmi la tovaglia). Anche in
senso fig. Cussa morti dd’amaciat
su coru (quell’assassinio gli macchia il cuore).
Amaciau/ada, agg. Macchiato/a.
Amacitadura, s. f. Riduzione
alla condizione di gatto, ristretto
alla domesticità.
Amacitai, v. Ridurre nella condizione di un gatto, rinchiudere in
casa. Vedi macitu.
Amacitau/ada, agg. Reso/a simile a un gatto, sempre davanti al
focolare.
Amadurai, v. Ingrandire. Soprattutto nell’espressione a. is ogus
(sgranare gli occhi). Nel significato di far crescere, anche esageratemente, il v. usato è amannïai, che
definisce anche la crescita dei frutti sugli alberi ma non la loro
maturazione vera e propria, che si
indica con il verbo cóiri.
Amadurau/ada, agg. Ingrandito/a, cresciuto/a.
Amaläidàisi, v. Ammalarsi. Chi
insighis a papai meda t’amalàidas
(se continuerai a mangiare molto
ti ammalerai).
Amaläidau/ada, agg. Ammalato/a. Vedi malàidu.
Amamadura, s. f. Allattamento
Mancarìas. La parlata di Seui
dei capretti lattonzoli, dal giorno
della nascita fino allo svezzamento. È operazione mattutina quotidiana che dura a lungo e rappresenta l’impegno più gravoso dell’intera stagione del capraro.
Amamai, v. Togliere i capretti lattonzoli dall’apposito recinto (eìli) e
darli alle capre per la poppata quotidiana: a ciascuna il suo, le madri
non accettano capretti altrui. L’operazione richiede tempo lungo e
occhio esperto, abile e vigile: ogu ’e
crabargiu (occhio di capraro), per
l’appunto. Vedi nodu.
Amamau/ada, agg. Allattato/a.
Amandronai(si), v. Rendere pigro. Dd’amandronat su babbu (è il
padre che lo rende pigro). Rifl. impigrirsi. S’est amandronau (è diventato pigro). Vedi imprëissai e mandroni.
Amandronamentu, s. m. Impigrimento, pigrizia.
Amandronau/ada, agg. Impigrito/a.
Amanganai, v. Segnare, distinguere con un colore. Durante una
vaccinazione o altra terapia, si
segnano di volta in volta i capi di
bestiame con una vernice colorante
(màngana) sulla groppa, per non
ripetere su qualche animale
un’operazione già eseguita. Vedi
màngana.
69
Amanganau/ada, agg. Segnato/a
con vernice.
Amannïadura, s. f. Ingrandimento.
Amannïai, v. Ingrandire, far crescere. Nella materialità e nell’astrattezza: contendu is cosas ddas amànnïat in donnìa (quando racconta le
cose le ingrandisce ogni volta).
Amannïau/ada, agg. Cresciuto/a, ingrandito/a.
Amarigosai, v. Rendere amaro,
amareggiare. In senso reale e fig.
Unu pagu ’e feli amarigosat meda
meli (basta un po’ di fiele per rendere amaro molto miele). Vedi
marigosu.
Amarigosau/ada, agg. Reso/a
amaro/a, amareggiato/a.
Amarturai(si), v. Diventare
paralitico. Vedi màrturu.
Amarturau/ada, agg. Paralizzato/a.
Amascai, v. Iniziare a. Chi amascat a nïai, adïosu (se inizia a nevicare, addio).
Amasedadura, s. f. Docilità,
mansuetudine.
Amasedai, v. Ammansire, rendere docile e mansueto (vedi masedu). Rif. alle persone e agli animali. Dd’at a a. su tempus (il tempo lo
ammansirà).
Amasedau/ada, agg. Ammansito/a. Bis comenti s’est a. (vedi
70
come si è fatto docile).
Ameddai, v. Favorire la socializzazione di bestiame proveniente da
due branchi diversi. Più in generale, addomesticare, rendere meno
selvatico un branco. In rif. all’uomo vale: inserirsi, adattarsi a un
gruppo. Cussu no ameddat (quel
tizio non si inserisce, è un asociale).
Ameddau/ada, agg. Reso/a docile.
Amedïai, v. Diventare matto.
Detto soprattutto delle pecore
quando si ammalano e perdono la
percezione.
Amedïau/ada, agg. Impazzito/a.
Rif. alle pecore matte, ma anche ai
mufloni. Ocannu passau ddu iat
unu mascu ’e murva a. a peréula in
su caminu ’e su Tónneri. (l’anno
scorso un muflone impazzito
vagava sulla strada del Tónneri).
Amelessadori, s. m. Persona
facile alle minacce.
Amelessai, v. Minacciare. Dd’amelessat in su prùbbicu (lo minaccia pubblicamente).
Amelessau/ada, agg. Minacciato/a.
Amelessu, s. m. Minaccia verbale. Acabbamidda cun is amelessus
(smettila con le minacce).
Amesturai, v. Mischiare. Cussu
amesturat totu, agliu e cibudda
(mischia tutto, aglio e cipolla).
PAOLO PILLONCA
Amesturau/ada, agg. Mischiato/a, confuso/a.
Amesturu, s. m. Miscuglio, confusione. Est totu un’a. (è tutto un
caos). In senso dispregiativo, quasi
come imbestussu.
Amincadura, s. f. Rincitrullimento.
Amincai(si), v. Rincitrullire.
Rendere simile a un pene (minca).
Rincoglionirsi.
Amincau/ada, agg. Rincitrullito/a, scimunito/a, sbalordito/a,
inerte.
Aminculu, escl. volg. Vaffanculo.
Amindai, v. Abituare il bestiame
al pascolo in una zona poco estesa
(vedi minda). In senso lato, si può
riferire anche all’uomo, con il
significato di: inserire, adattare.
Amindau/ada, agg. Ben inserito/a, assuefatto/a.
Amischinadura, s. f. Umiliazione, perdita di dignità.
Amischinàisi, v. Umiliarsi, abbassarsi, perdere dignità, accettare
le condizioni altrui senza protestare. Po cumbenièntzïa Cristolu
s’amischinat (Cristoforo si umilia
per convenienza).
Amischinau/ada, agg. Umiliato/a.
Amoddïadura, s. f. Ammorbidimento.
Amoddïai, v. Ammorbidire, ren-
Mancarìas. La parlata di Seui
dere più malleabile, diventare
morbido. In senso reale e fig. Custa
fa’ no ammòddïat (queste fave
rimangono dure anche se le metti
a mollo), bai ca giai amóddïas
(vedrai che diventerai morbido).
Amoddïau/ada, agg. Ammorbidito/a.
Amolentadura, s. f. Riduzione a
uno stato di abulia totale, simile a
quella dell’ asino (molenti).
Amolentai(si), v. Somigliare
all’asino, sul versante della rassegnazione e della mancanza di iniziativa. Vedi aburricai(si).
Amolentau/ada, agg. Simile
all’asino. Vedi abburricau.
Amonai, v. Confezionare in
casa. Su presutu ’olit scìpïu a. (il
prosciutto occorre saperlo confezionare).
Amonamentu, s. m. Confezionamento, preparazione domestica.
In sa maràndula contat meda s’a.
(nel guanciale del suino conta molto il confezionamento).
Amonau/ada, agg. Confezionato/a in casa.
Amorai, v. Flirtare, amoreggiare,
corteggiare.
Amorau/ada, agg. Corteggiato/a.
Amori, s. m. Affetto. Per rendere
il senso della parola it. amore, nella
parlata di Seui il vocabolo è
stima/istima, anche se in questi
71
ultimi decenni la differenza tra i
due sostantivi si è attenuata.
Amorosu/a, agg. Affettuoso/a,
delicato/a, gentile.
Amostai, v. Far vedere, mostrare, indicare. D’apu ’idu, mi
dd’amostat fatu fatu (l’ho visto,
ogni tanto me lo mostra).
Amostau/ada, agg. Mostrato/a,
fatto/a vedere. No ddu connoscìa,
mi dd’at a. Linu (non lo conoscevo, me l’ha fatto vedere Lino).
Amostu, s. m. Mostra, visione.
Su cüaddu ddu tenit feti po a. (il
cavallo ce l’ha solo per mostrarlo).
Ampru/a, agg. Grosso/a. Soprattutto nell’espr. mannu e a.
(grande e grosso).
Ampudda, s. f. Bottiglia. Desueto, sostituito da butiglia. Rimane
vivo nell’espr. tapu ’e ampudda
(pron. tapu ’e ’mpudda), per indicare una persona marcatamente bassa
di statura.
Ampuladura, s. f. Sollevamento.
Ampulai, v. Sollevare di peso.
Nce dd’àmpulu a sa mata (lo sollevo sull’albero). Anche nella forma
rifl. Ampuladindi (sollévati).
Ampulau/ada, agg. Sollevato/a
di peso.
Amucitadura, s. f. Costrizione
al silenzio.
Amucitai, v. Zittire, costringere
al silenzio. Sa pobidda no ddu las-
72
sat chistïonai, dd’amucitat in donnìa (La moglie non lo lascia parlare, lo zittisce tutte le volte).
Amucitau/ada, agg. Zittito/a,
messo/a a tacere.
Amullonadura, s. f. Disordine
nella sistemazione della roba.
Amullonai, v. Mettere sottosopra, raggomitolare. Vedi mulloni.
Amullonau/ada, agg. Messo/a
sottosopra. Tenit totu s’orrobba a.
(ha tutta la roba sottosopra).
Amuntonadura, s. f. Ammucchiamento caotico.
Amuntonai, v. Ammucchiare.
In senso reale e fig. Nd’amuntonat
de cosas, cuddu (ne ammucchia di
cose, quello lì). Vedi muntoni.
Amuntonau/ada, agg. Ammucchiato/a.
Amurradura, s. f. Perdita di un
punto nel gioco della morra.
Gergale. Vedi murra.
Amurrai, v. Nel giogo della
morra indica la perdita di un
punto per distrazione o lentezza di
riflessi. Gergale.
Amurrau/ada, agg. Perso/a per
errore nella morra, punto perduto.
Amurvonadura, s. f. Inselvatichimento, isolamento, selvatichezza e diffidenza simili al comportamento dei mufloni. Ginu s’est fatu a
a. (Gino si è come inselvatichito).
Amurvonàisi, v. Inselvatichirsi
PAOLO PILLONCA
come i mufloni, isolarsi, incupirsi.
Chi ddu scronnas, su pipìu
s’amurvonat (se non lo accontenti,
il bambino si incupisce).
Amurvonau/ada, agg. Isolato/a,
inselvatichito/a, diffidente.
Amutadori, s. m. Essere fantastico, una sorta di folletto, che
opprimerebbe chi dorme con un
gravame indefinibile nei dettagli e
tuttavia quasi fisico.
Amutadura, s. f. Senso di oppressione che impaurisce i dormienti e li desta dal sonno. La credenza popolare lo attribuisce a un
intervento dei trapassati sui vivi
nelle ore notturne.
Amutai, v. Opprimere nel sonno,
quasi con gravame fisico. La sgravedole sensazione è attribuita
popolarmente alle anime dei morti
che interverrebbero sui vivi con
richieste mai espresse chiaramente
e dunque lasciate alla libera interpretazione di chi subisce
s’amutadura o amutamentu. Per far
cessare questi fenomeni, gli interessati si rivolgevano alle donne abrebadoras del paese e, nei casi più
ostinati, alle preghiere del sacerdote.
Amutamentu, s. m. Vedi amutadura.
Amutau/ada, agg. Oppresso/a
nel sonno.
Mancarìas. La parlata di Seui
Anadi, s. f. Anitra.
Anca, s. f. Gamba. Ma in questa
accezione il s. è desueto, sostituito
dal più comune camba. Sopravvive però al pl. nell’espr. segamentu ’e ancas, rottura di scatole.
Ancu, cong. Che. Si usa esclusivamente per introdurre una
imprecazione o una maledizione.
A. ti calit unu lampu (che un fulmine ti colpisca), a. ti pighit su
mali caducu (che ti venga
l’epilessia), a. mai ti bias (che mai
più ti riveda).
Ancùa, s. f. Anca. S’ossu de s’a. è
l’osso dell’anca.
Andada, s. f. Andata. A s’a. totu
’eni, su malu nd’est (pr. er) benìu a a
sa torrada ca fut totu in bessida
(all’andata tutto bene, il brutto è
venuto al rientro perché era una
salita continua). Usato in una maledizione ellittica del pred. verb.:
s’a. ’e su fumu (la partenza del fumo, ossia senza ritorno).
Andai, v. Andare, partire. Si
nd’andat (parte). L’imperativo
presente alla prima sing. è bai.
Irreg. come in it.
Àndala, s. f. Sentiero. Indica quei
camminamenti nel bosco segnati
dal passaggio ripetuto del bestiame.
Est un’à. ’e crabas (è un sentiero di
capre). Il s. ha un utilizzo copioso
anche sul piano traslato. Est pighen-
73
du un’à. mala (sta imboccando una
cattiva strada). Frequente anche il
dim. andaledda, riferito più che
altro ai percorsi della selvaggina:
mufloni, cinghiali, volpi, lepri e
conigli. In padenti ddu at paricias
andaleddas (nel bosco ci sono
parecchi sentierini).
Andamentu, s. m. Andamento,
comportamento.
Andarina, s. f. e agg. Amante
delle uscite, girovaga, poco seria.
Riferito soprattutto alle ragazze
indocili.
Andau/ada, agg. Andato/a, partito/a, trascorso/a.
Andechibbeni, s. m. Via-vai. In
domu sua ddu at un’a. sighìu (in
casa sua c’è un via-vai ininterrotto).
Andetorra (anda e torra), s. f.
Traffico continuo di partenze e
rientri, spola fra un luogo e l’altro.
Ginu at bìvïu paricius annus in
Germania e imoi est sempir a s’a.
(Giovanni ha vissuto per parecchi
anni in Germania e ora va e viene
di continuo).
Àndïa, s. f. Portantina, sedia
gestatoria. In senso fig. - preceduto dalla prep. in e dal verbo pónniri - vale: tenere in grande considerazione e trattare con ogni riverenza possibile. Nce ddu ponïant in
àndïas totus ma candu d’ant isperi-
74
mentau nde dd’ant iscutu a terra (lo
trattavano tutti come un papa in
sedia gestatoria ma dopo averlo
conosciuto bene l’hanno scaraventato per terra).
Andria, n. pr. di pers. Andrea.
Oggi questo nome lo si impone
all’italiana ma la toponomastica
documenta in modo indelebile un
sito detto Sa perda ’e Andrïotu (la
pietra di Andreuccio) nel Tacu
della parte alta del salto comunale.
Aneddai, v. Inanellare, dotare di
anello. Per est. regalare gioielli alla
propria donna.
Aneddau/ada, agg. Inanellato/a.
Aneddu, s. m. Anello. Esiste anche la variante oneddu, forma popolaresca pressoché desueta, e il
dim. aneddigeddu per gli anelli
delle bambine.
Angiadina, s. f. Nascita di agnelli e capretti, stagione delle nascite.
Gergale degli ovili.
Angiai, v. Partorire. Oggi riferito soprattutto agli animali:
un’ebba angiada (una cavalla con il
puledrino). Talvolta nel senso di
replicare, nelle imprecazioni: mali
caducu angiau, (malcaduco ripetuto), come dire: le sventure non
vengono mai da sole.
Àngilu, s. m. Angelo.
Àngilu, n. pr. di pers. Angelo.
Molto più freq. al dim. (Angi-
PAOLO PILLONCA
leddu).
Angioneddu, s. m. Agnellino. In
senso fig. persona ricondotta a più
miti consigli. Is prepotentis, candu
ddus abruncas, timint e parint
angioneddus (i prepotenti, se li affronti a muso duro, si spaventano
e sembrano agnellini).
Angioni, s. m. Agnello. Si usa
anche per definire il cucciolo della
mufla, ma sempre con la specificazione: a. ’e murva.
Angüidda, s. f. Anguilla, soprattutto quella di fiume di cui la
comunità ha larga esperienza, ma
anche quella di mare e di stagno.
Definisce, inoltre, nel gergo degli
allevatori e dei macellai, il filetto
del maiale. Usato anche il dim.
angüiddedda, sia in rif. a
un’anguilla di piccole dimensioni
sia al filetto di un maiale giovane.
Anìa/aunìa, avv. Dove. Con
verbi di stato e di moto a luogo. A.
ses, a. ses movendu? (dove sei, dove
sei diretto?).
Ànima, s. f. Persona defunta.
Dongiu una missa a is ànimas (farò
celebrare una messa in suffragio
dei defunti). Ma talvolta il s. vale
l’it. coscienza, come nell’espr.
ànima mia lìbbera (senza colpa per
la mia coscienza), quando si riferisce una diceria di particolare rilevanza e gravità e non ci si vuole
Mancarìas. La parlata di Seui
compromettere.
Animeta, s. f. Bottone di camicia. Presente nei soprannomi.
Animosu/a, agg. Coraggioso/a.
Ànimu; s. m. Animo, coraggio,
tempra, grinta, resistenza di fronte
alle difficoltà della vita. Vedi indanimai.
Anintru, avv. Dentro, all’interno.
Annada, s. f. Annata. Rif. soprattutto all’andamento del ciclo
pastorale, che divide le annate in
bonas e malas (scarse e abbondanti)
a seconda della quantità di pioggia
e neve e la rigidità delle temperature stagionali. In un territorio come
quello di Seui, che ha i pascoli
migliori sopra gli ottocento metri
di altitudine, è inutile che piova ad
inizio autunno se poi sopraggiungono anzitempo temperature troppo rigide da non consentire la crescita dell’erba autunnale.
Annapadura, s. f. Velame, copertura con un velo (soprattuttodi
nebbia o di vapore).
Annapai, v. Coprire con un velo
di nebbia o vapore.Velare. Cussu
birdi s’annapat (quel vetro è velato). Vedi napa.
Annapau/ada, agg. Velato/a. Si
dice delle superfici lisce, vitree e/o
metalliche, ma si può usare anche
nelle metafore in rif. all’uomo. Mi
75
paris mesu a. (mi sembri un po’
annebbiato).
Annarbai(si), v. Ricoprire/ ricoprirsi di muffa. Vedi narba.
Annarbau/ada, agg. Ricoperto/a
di muffa.
Annebidai(si), v. Annebbiare.
Su logu est annebidendusì (la nebbia sta avvolgendo la zona). Anche
in senso met. Est una conca chi
s’annébidat po nudda (è una testa
che si annebbia per un nonnulla).
Il dev. è nébida (nebbia).
Annebidamentu, s. m. Annebbiamento.
Annebidau/ada, agg. Annebbiato/a.
Annennerïai, v. Vezzeggiare con
parole e canti. Candu su molenti
non bolit bufai dd’annennérïu
(quando l’asino non vuole bere lo
vezzeggio).
Annennerïau/ada, agg. Vezzeggiato/a.
Annennérïu, s. m. Vezzeggiamento di parole, rivolto ai bambini e anche agli animali domestici,
asini e cavalli soprattutto, quando
si mostrano indocili ai comandi.
Annestai, v. Innestare. Sostituisce, anche se non del tutto, il più
arcaico infèrriri.
Annestau/ada, agg. Innestato/a.
Annestu, s. m. Innesto. Operazione delicata che presuppone non
76
soltanto manualità sperimentata
ma anche una particolare inclinazione naturale: il pollice verde,
come si suole dire oggi. L’esecuzione di un innesto deve rispettare
le fasi lunari e il ciclo vitale delle
piante. Vedi infertura.
Annica, n. pr. di pers. Anna.
Annïeddigai, v. Annerire. Anche
in senso trasl. per indicare percosse.
T’annïéddigu is càrigas (ti annerisco
le narici). Vedi nïeddigori e nïeddu.
Annïeddigau/ada, agg. Annerito/a.
Anninnìa, s. f. Ninna-nanna. Il
canto della culla in versi settenari,
diffusissimo a Seui fino a non
molti anni fa, splendidamente
gestito dalle mamme e dalle altre
donne di creatività poetica naturale del parentado.
Anninnïai, v. Cantare la ninnananna al bambino nella culla. Si
dice a. sa ’ogi per indicare la cura
delle curve melodiche.
Anninnïau/ada, agg. Cullato/a
al canto della ninna-nanna.
Annirgai, v. Nitrire. Anche in
senso fig., rif. alle persone che ridono in maniera strana o scomposta.
Candu si ponit a erriri parit annirghendu (quando ride sembra che
nitrisca), acabbadda de a. (smettila
di nitrire).
Annìrghidu, s. m. Nitrito.
PAOLO PILLONCA
Annomingiai, v. Soprannominare. Arte coltivata con grande
cura, anche per la necessità di mettere ordine tra le tante omonimie
del paese. Sarbadori annomingiat a
totus ma non bolit a dd’a. (Salvatore
affibbia soprannomi a tutti ma non
vuole essere soprannominato).
Annomingiau/ada, agg. Soprannominato/a.
Annomingiu, s. m. Soprannome.
A Seui, come in quasi tutti i paesi
dell’interno, ne esiste una lunga e
articolatissima serie che documenta
la fantasia di chi li crea. Per un
verso i soprannomi sono una necessità, per un altro rispondono alla
vena burlesca della comunità. Sarebbe di grande interesse effettuare
una ricerca specifica in questo
ambito singolare. Chi chelegunu
ddi narat s’a., a Sarbadori nde ddi
parit mali (se qualcuno si rivolge a
lui con il soprannome, Salvatore si
offende).
Annovai, v. Salutare una persona che non si vedeva da tempo e
intrattenersi con lei a scambiarsi
notizie (vedi novas). Nella forma
rifl. vale: darsi reciprocamente
notizie e aggiornarle, rispetto alla
volta precedente.
Annu, s. m. Anno, segmento di
tempo di dodici mesi.
Annüadorgiu, s. m. Punto esat-
Mancarìas. La parlata di Seui
to in cui cade un nodo o uno
snodo, sia nelle stoffe sia nelle
giunture del corpo umano e animale. Vedi nu’.
Annüai, v. Annodare, fare un
nodo.
Annüau/ada, agg. Annodato/a,
ben stretto/a.
Annugiai, v. Rattristare, rendere
triste.
Annugiau/ada, agg. Rattristato/a, malinconico/a.
Annugiu, s. m. Tristezza, malinconia.
Annüilamentu, s. m. Rannuvolamento.
Annüilài(si), v. Rannuvolare,
rannuvolarsi. Candu s’annùilat no
est in donnìa chi proit (quando il
cielo si rannuvola non è sempre
che piove).
Annüilau/ada, agg. Nuvoloso/a,
rannuvolato/a. Oi su celu est totu
a. (oggi il cielo è completamente
nuvoloso).
Anò?, avv. No? Lo si usa soltanto nelle proposizioni interrogative. Benis, a.? (vieni o non vieni?).
Somiglia molto al latino an non.
Anta ’e corti, s. f. Tronco secco
di ampia ramificazione utilizzato
nelle mandrie degli ovili come
appenditoio.
Antoni, n. pr. di pers. Antonio.
Il dim è Antoneddu.
77
Antonicu, n. pr. di pers.
Antonio. Il dim. è Antonicheddu.
Antrecoru, s. m. Anticuore.
Attacco cardiaco. Usato anche,
più genericamente, per definire
un dolore localizzato nella cassa
toracica.
Antzangioni, s. m. Aglio selvatico. Cresce spontaneo e copioso
nella parte alta del territorio seuese,
comunale e demaniale, in particolare nella zona di Anulù e dintorni.
Antzïadorgiu, s. m. Appenditoio
utilizzato esclusivamente per la
frutta fresca (pere, mele, uva) che
si appende nelle cantine e si conserva per l’inverno.
Apalïamentu, s. m. Lavoro con
la pala.
Apalïai, v. Trattare con la pala,
battere. Vedi pàlïa.
Apalïau/ada, agg. Battuto con la
pala. Frequente l’espr. corrudu e a.
(cornuto e picchiato).
Apariciai, v. Preparare, confezionare, apparecchiare. Oi seus in dus
feti e duncas no apariciu nemancu
sa mesa (oggi siamo soltanto in
due e dunque non apparecchio
nemmeno la tavola).
Apariciau/ada, agg. Apparecchiato/a.
Apariciu, s. m. Preparativo.
Maria est in-d-un’apariciu mannu
ca oi dd’erribant figlius e neboded-
78
dus (Maria è affaccendata in un
grande preparativo perché oggi
arriveranno i figli e i nipotini).
Aparïèntzïa, s. f. Apparenza, finzione, vista. Ddu narat po un’a. (lo
dice per finta), a s’a. giai parit una
personi ’ona (a prima vista sembra
una brava persona).
Apàrriri, v. Apparire. Il v. indica
in particolare le apparizioni più o
meno miracolose di cui spesso si
narra in certi ambienti.
Apartai(si), v. Mettere da parte.
Imoi apartu mantas e lentzorur de
lana (ora metterò da parte coperte
e lenzuola di lana), apartaus is chistïonis (mettiamo da parte le divergenze), a Giüanni dd’ant apartau
(Giovanni è stato messo da parte).
Isolarsi, farsi da parte, appartarsi.
Po non donai unu disprageri a fradi
miu m’apartu (per non dare un
dispiacere a mio fratello mi metto
da parte).
Apartamentu, s. m. Appartamento. Di superstrato.
Apartau/ada, agg. Messo/a da
parte, isolato/a.
Apartu/a, agg. Apparso/a. A
Lina dd’est aparta una pantuma (a
Lina è apparsa una figura fantasmatica). Da apàrriri.
Apedalai, v. Pedalare. In senso
fig. andar via, correre, fuggire.
Apedala (vattene). Vedi pedali.
PAOLO PILLONCA
Aperdigonai, v. Colpire con pallettoni. In cassa Armandu at aperdigonau su cani (in una battuta di
caccia Armando ha colpito il cane
con una fucilata a pallettoni).
Aperdigonau/ada, agg. Colpito/a
da pallettoni.
Apetigai, v. Calpestare. Anche
in senso fig.: trattar male, opprimere.
Apetigau/ada, agg. Calpestato/a.
In senso reale e non.
Apetotu, avv. Dappertutto,
dovunque.
Apicadorgiu, s. m. Attrezzatura
adatta per appendere provviste:
salsicce, prosciutti, frutta secca.
Spesso era una pertica sospesa tra
due prese, su un muro o sotto la
volta di una stanza.
Apicai, v. Appendere. Detto di
cose e animali macellati. Nel rifl.
vale arrampicarsi. Si nc’est apicau a
s’ùlimu che nudda (è salito sull’olmo come se niente fosse).
Apicamanteddu, s. m. Appenditoio per vestiti e soprabiti in
genere, non solo per il mantello.
Vedi manteddu.
Apicau/ada, agg. Appeso/a.
Apicigai, v. Attaccare, incollare.
Spesso con venatura d’ironia. Sin.
di picigai. Nel rifl. indica anche
l’attaccarsi alle persone tipico
degli importuni. Comenti mi bit si
Mancarìas. La parlata di Seui
nd’apicìgat e non mi scapat (come
mi vede si attacca a me e non mi
libera).
Apicigau/ada, agg. Attaccato/a,
stretto/a.
Apicorrobba, s. m. Appenditoio
multiuso (apica orrobba, appendiroba).
Apigliai, v. Venire alla superficie, emergere, riemergere. Sa beridadi nd’apigliat in donnìa (la verità viene sempre a galla).
Apigliau/ada, agg. Venuto/a alla
superficie, emerso/a.
Apilardai, v. Far seccare al sole
alcuni tipi di frutta (fichi, pere,
pesche, prugne, fichidindia) ma
anche i pomodori. Vedi pilarda.
Apilardau/ada, agg. Rinsecchito/a. Nel linguaggio traslato è
spesso riferito anche a persone.
Lina s’est totu a. (Nina si è rinsecchita completamente).
Apilurtzàisi, v. Sentire la pelle
d’oca, avere i brividi. M’apilurtzat
feti a s’arregodu (il solo ricordo mi
fa venire la pelle d’oca). Candu
ddu biu m’apilurtzu (quando lo
vedo mi vengono i brividi).
Apilurtzau/ada, agg. Con la
pelle d’oca, in preda ai brividi.
Àpïu, s. m. Sedano (apium graveolens).
Apiri, cong. Se. Càstia apiri est
proendu (controlla se sta piovendo).
79
Apocu, cong. avv. lett. intraducibile, ma che corrisponde all’incirca all’italiano ”non posso dire
di (che) non”, ”eccome”. Si trarra
di municipalismo esclusivo della
parlata di Seui. Ddu scit sorri tua?
A. ddu scit! (Tua sorella lo sa? Lo
sa, eccome!). Bolis bufai? A. apu
bufau! (Vuoi bere? Non posso dire
di non aver bevuto!).
Apoddigadura, s. f. Serie di
impronte digitali, anche lasciate
involontariamente come avviene
ai bambini.
Apoddigai, v. Toccare con le dita
(vedi póddigi, desueto). Ha una
venatura di ironia e insieme di disprezzo, come di azione sconveniente. Palpare, palpeggiare.
Apoddigamentu, s. m. Palpeggiamento.
Apoddigau/ada, agg. Palpato/a,
palpeggiato/a. A-i cusssa d’ant
apoddigada in paricius ( quella lì
l’hanno palpeggiata in molti).
Apoddighingiu, s. m. Palpeggiamento.
Apoddincionàisi, v. Rannicchiarsi, accosciarsi.
Apoddincionau/ada, agg. Rannicchiato/a, accosciato/a.
Apogliai, v. Stare in pace, smettere di agitarsi. No apogliat nudda
(non ha un attimo di pausa).
Anche nel rifl. Apogliadì pagu pagu
80
(stai un po’ calmo), chi ddi pigat su
sonnu giai s’apogliat (se gli verrà il
sonno starà tranquillo).
Apogliau/ada, agg. Rimesso/a
posto, tranquillizzato/a.
Apogliu, s. m. Pace, riposo. Non
tenit a. (non ha pace). Usato spesso avverbialmente: abarra a. (stai
in riposo).
Apónniri, v. Tener conto, considerare, replicare. Non si ddu-i mancu aponit (non replica neppure), come di cosa che non lo riguardi.
Apontzïadura, s. f. Messa in
posa.
Apontzïai, v. Assumere atteggiamento e linguaggio e sussiegosi. Si
totu apontzïat (è tutto sussiegoso).
Usato anche nella forma rifl. Non
t’apontzis (non atteggiarti).
Apontzïamentu, s. m. Contegno
affettato.
Apontzïau/ada, agg. Affettato/a,
contegnoso/a, sussiegoso/a. Lina
est sempir a. (Lina è sempre sussiegosa).
Aposentai(si), v. Piazzarsi, sistemarsi, anche a dispetto di altri. Si
nd’aposentat in domu e non fait fini
’e si nd’andai (si piazza a casa mia
e non si decide ad andarsene).
Aposentau/ada, s. m. Sistemato/a in un luogo anche senza invito.
Aposentu, s. m. Stanza, locale
PAOLO PILLONCA
della casa. Tenit una ’omu manna,
cun degi o ùndigi a. (ha una casa
enorme, con dieci o undici stanze).
Apostu/a, agg. Contrapposto/a,
replicato/a. Part. pass. di apónniri.
Aprapidai, v. Toccare con le
mani in assenza di luce, affidandosi esclusivamente al tatto. Non ha
alcuna venatura di disprezzo,
riflette una necessità.
Aprapidau/ada, agg. Toccato/a
con mano.
Apràpidu, s. m. Tatto, operazione necessitata - dalla mancanza di
illuminazione o dall’esigenza di
non farsi scoprire, ad esempio - di
affidarsi alle mani per rendersi
conto della situazione.
Aprapuddai, v. Palpare, palpeggiare. Con senso lievemente ironico. E ita totu ses aprapuddendu?
(che vai palpeggiando?). Vedi
apoddigai.
Aprapuddamentu, s. m. Palpeggiamento.
Aprapuddau/ada, agg. Palpeggiato/a.
Apressibbimentu, s. m. Sveltimento, accelerazione.
Apressibbiri, v. Affrettare, per
necessità o scelta. Vedi pressi (fretta).
Apressibbìu/a, agg. Affrettato/a.
Apretai, v. Incalzare, aggravare
una situazione già di per sé semi-
Mancarìas. La parlata di Seui
compromessa. Nos apretat su tempus (il tempo ci incalza). Sveltire
con rischio di compromettere
l’azione. A. sa petza (avvicinare
troppo al fuoco la carne che si sta
arrostendo). Si usa spesso in rif. a
un malato in fase terminale: est
apretau (è molto grave).
Apretau/ada, agg. Costretto/a
dalla necessità, malato/a grave.
Apretu, s. m. Stato di necessità,
condizione di emergenza. S’a. ponit
su ’eciu a cùrriri (l’emergenza fa
correre anche le persone anziane):
lo sostiene un prov.
Aprigu, s. m. Luogo riparato. Sa
’ingia est in-d-un’a. (la vigna è in un
punto riparato). Usato anche come
agg. Pissenti tenit unu coili a.
(Vincenzo ha un ovile ben riparato). Come agg. si usa esclusivamente al maschile.
Aprimài(si), v. Entrare in discordia. S’aprimat mesu ’idda (entra
in discordia con mezzo paese).
Vedi prima.
Aprimau/ada, agg. Offeso/a.
S’est a. po nudda (si è offeso senza
motivo).
Aprobbai, v. Verificare, sottoporre a controllo. Dd’apu aprobbau (l’ho verificato). Il v. assume
talvolta anche il senso di verifica
volpina, effettuata con sotterfugi
tipici dello spionaggio. E ita mi
81
’olis, a? (mi stai forse
controllando?).
Aprobbau/ada, agg. Verificato/a,
accertato/a, sottoposto/a a controllo.
Aprobbu, s. m. Verifica, conferma.
Apröigliai, v. Sopraggiungere,
talora anche inaspettatamente. As
a biri ca Antoni puru nd’apröigliat
a cantu seus nosu (vedrai che anche
Antonio ci raggiungerà).
Apröigliau/ada, agg. Sopraggiunto/a.
Aprossimativa, s. f. Approssimazione. Chene bisongiu ’e ddu
andai a fini a fini, feus un’a. (senza
scendere nei dettagli, facciamo un
calcolo approssimato).
Aprumunitadura, s. f. Contrazione di polmonite.
Aprumonitài(si), v. Ammalarsi
di polmonite o di altri disturbi
polmonari.
Su
frius
dd’aprumonitat inderetura (il freddo gli provoca disturbi immediati
ai polmoni).
Aprumonitau/ada, agg. Malato
di polmonite o altri disturbi polmonari.
Aprussïerai, v. Riempire di polvere di carbone. Francesismo
entrato nella parlata di Seui nei
primi decenni del secolo scorso in
seguito alla massiccia ondata
82
migratoria di minatori seuesi in
Francia. Vedi prussïera.
Aprussïerau/ada, agg. Silicotico/a
(lett. pieno/a di polvere di carbone).
Apubada, s. f. Percezione veloce
ma non sicura.
Apubai, v. Scorgere confusamente, intravedere. Come di visione
fantasmatica (vedi puba). Dd’apu
apubau ’e tesu (l’ho intravisto da
lontano).
Apubau/ada, agg. Intravisto/a.
Apunciadura, s. f. Messa a punto di chiodi.
Apunciai, v. Fissare chiodi, chiodare qualunque materiale: legno,
sughero, cuoio, ferro, ferula. Vedi
puncia.
Apunciau/ada, agg. Chiodato/a.
Apundadura, s. f. Sistemazione
di un peso in più.
Apundai, v. Mettere un peso
(pondus). Oi depu a. is presutus
(oggi debbo mettere i pesi sopra i
prosciutti). Essere pesante. Chi
ddu-i ponis patata apundat (se ci
metti le patate, il peso aumenta).
Apundau/ada, agg. Caricato/a
di un peso.
Apuntorài(si), v. Colpire ed
essere colpito da dolori improvvisi
e acuti al torace. Su frius de custu
mengianu est apuntorendumì (il
freddo di stamattina mi sta facendo venire dolori forti). Lüisu fatu
PAOLO PILLONCA
fatu s’apuntorat (Luigi ogni tanto
viene colpito da dolori).
Apuntoramentu, s. m. Attacco
improvviso con sintomatolgia marcata di dolore alla cassa toracica.
Apuntorau/ada, agg. Pieno/a di
dolori acuti. In senso lato, malato/a. Vedi puntori.
Apuntorgiadura, s. f. Imbastitura. Sin. di apuntorgiu. Ne nasce
anche una loc. avv.
Apuntorgiai, v. Imbastire. Voce
gergale dei sarti, usata anche in
senso met. per lo più sul versante
dell’ironia.
Apuntorgiau/ada, agg. Imbastito/a.
Apuntorgiu, s. m. Imbastitura.
Sin di apuntorgiadura.
Apurdonai(si), v. Riunirsi, sistemarsi a grappolo. Usato con venatura ironica. Sa genti a bortas
s’apurdonat (la gente talvolta si raccoglie come gli acini dei grappoli
d’uva).
Apurdonau/ada, agg. Raggruppato/a strettamente, come un
acino in un grappolo.
Apùrriri, v. Porgere. Apurrimindi
cudda seguri (porgimi quella
scure). Offrire senza far scomodare
il destinatario, recapitare.
Apurtu/a, agg. Recapitato/a. Mi
nde dd’at a. a peis (me l’ha recapitato a domicilio, lett. ai miei piedi).
Mancarìas. La parlata di Seui
Aràdulu, s. m. Aratro. Di legno
e di ferro.
Aradura, s. f. Aratura. Esiste
anche la variante arongiu.
Arai, v. Arare. Anche per indicare le tracce del passaggio dei cinghiali alla ricerca di cibo nel terreno. In s’ortu miu is sirbonis ddu
arant ’ónnïa chissi (nel mio orto i
cinghiali arano tutte le notti).
Arangiu, s. m. Arancio e arancia,
pianta e frutto. Su pranu de su
Sarrabus est totu a a. (la pianura del
Sarrabus è tutta coltivata ad aranci), bonu cuss’a. (buona quella arancia). Viva l’antifrasi bonu arangiu e
meglius su cumpangiu, per indicare
una coppia male assortita.
Arau/ada, agg. Arato/a.
Arba/barba/braba, s. f. Barba.
Mi facu s’a. (mi taglio la barba).
Ma il verbo da cui il s. deriva
suona abrabïai.
Arbada, s. f. Vomero.
Arbili, s. m. Aprile. Per ammonire sull’incostanza del bel tempo in
questo mese sono state tramandate
diverse espressioni proverbiali tuttora vive nella lingua quotidiana:
a., torrat procu a süili (aprile, il
maiale ritorna al suo ricovero), con
le varianti cani a cöili (il cane all’ovile) e gatu a fogili (il gatto al focolare) e a. at mortu sa mamma a
frius (aprile ha fatto morire sua
83
madre di freddo). In effetti, sui
monti di Seui, non sono rare le
nevicate d’aprile.
Arbitïai, v. Intuire. Indica quel
tipo di intuizione che deriva da
sensibilità d’animo oltre che dalla
capacità di decodificare al volo
anche i messaggi subliminali.
Mancai no ddi neri nudda, Maria
arbìtïat (anche se non le dico una
parola, Maria intuisce al volo).
Arbitïau/ada, agg. Intuìto/a.
Arbitïosu/a, agg. Intuitivo/a,
capace di afferrare in un baleno
intenzioni e desideri altrui e di
rispondere adeguatamente a
seconda delle necessità.
Arbìtïu, s. m. Intuizione raffinata. Dote rara, per cui s’a. viene tenuto in grandissima considerazione
nel giudizio della comunità. Una
delle valutazioni più amare sulle
persone che si vorrebbero destinare
a compiti migliori o promuovere di
livello nelle gerarchie comunitarie
non scritte è proprio questo: bonu ’e
totu s’atru ma non tenit a. (buono
per tutto il resto ma non ha intuizione).
Arbu/a, agg. Bianco/a. Desueto
come agg. autonomo, sopravvive
in parecchi composti: faciarbu
(dalla testa bianca, rif. agli animali), linnarbu (pioppo, lett. dal
tronco bianco), pëarbu (dalla
84
zampa bianca, rif. agli animali),
perdarba (pietra bianca), spinarba
(spina bianca) e in qualche toponimo: Montarbu, Perdas arbas, Su
Linnarbu, etc.
Arcada, s. f. Arcata.
Arcai, v. Arcuare, fare ad arco.
Arcau/ada, agg. Arcuato/a.
Arcannissu, s. m. Impianto di
canne per la prima stagionatura del
formaggio nelle cantine. Sospeso in
aria con una fune su due travi per
evitare i topi.
Arcau/ada, agg. Arcuato, arcuata.
Arcu, s. m. Arco. Definisce le
sommità dei monti che hanno la
forma d’arco. Nella toponomastica figura varie volte, ad iniziare dal
toponimo più noto, Arcüerì.
Àrculu, s. m. Alcool. Ci si riferisce, per lo più, a quello denaturato delle farmacie.
Ardasai, n. pr. di luogo. Il toponimo indica sia il punto più alto
della vallata che si affaccia sul
Flumendosa - il fiume che segna il
confine tra i territori comunali di
Seui e di Arzana - sia il nuraghe
che la sovrasta.
Arega ’e meli, s. f. Cera d’api.
Arèi, s. f. Gregge poco numeroso. Il s. si usa anche fuori dal gergo
degli ovili quando si vuole indicare un gruppo irrilevante di persone (un’a. ’e genti).
PAOLO PILLONCA
Arëigedda, s. f. Piccola parte di
un gregge. Con lieve senso ironico, talvolta. Meda ndi tenit de crabas, cussu? Un’a. (Ha molte capre,
quello lì? Pochissime).
Arena, s. f. Sabbia. Presente in
un top. al dim. per indicarne la
finezza, S’arenedda bïanca, nella
parte alta del territorio comunale,
tra la lecceta di Paùli e il nuraghe
di Ardasai.
Arenada, s. f. Melograno (Punica
granatum) e melagrana, albero e
frutto. Ma per indicare l’albero,
nel caso specifico, si premette una
mata de ( un albero di).
Arestadura, s. f. Inselvatichimento, di animali e di luoghi.
Usata la loc. avv. a a.
Arestài(si), v. Inselvatichirsi. Di
animali e terreni ma anche, più di
rado, dell’uomo. Cudda craba fut
arestendusì (quella capra stava per
inselvatichirsi), su logu est totu arestau (il terreno si è completamene
inselvatichito), Antoni fatu fatu
s’arestat (ogni tanto Antonio si
inselvatichisce).
Arestau/ada, agg. Inselvatichito/a. Di luoghi e uomini.
Aresti, agg. Selvatico, indomito,
ribelle. Si dice di alberi non innestati (cerésia a., ciliegio selvatico), di
animali non domati (su purdeddu
est a., il puledro è indomito) o co-
Mancarìas. La parlata di Seui
munque poco mansueti (cuss’’erbei
est a., quella pecora è ribelle) ma
anche, più che altro in senso ir. dell’uomo e della donna. Est una picioca a. (è una ragazza poco arrendevole).
Aréu, s. m. Parentado, discendenza, razza. Ddu tenit de a. (gli
deriva dagli antenati). Vedi arrampili e arratza.
’Argaglia/gragaglia, s. f. Capra
giovane.
Anche
al
dim.
’argagliedda/gragagliedda.
Argüai, inter. Guai. Si usa nelle
esclamazioni di ammonimento e/o
di minaccia. A. ’e tui (guai a te).
Argüena/orgüena, s. f. Trachea.
In senso fig. voce potente. Portat
una bona a. (ha una voce stentorea).
Àrinu, s. m. Càrpino nero (ostrya carpinifolia). Specie forestale
importata ma molto presente nel
Tònneri. Non ama il caldo e nelle
zone più fredde prende il sopravvento anche sul leccio.
Arma, s. f. Arma. Indica le armi
da fuoco (fucile e pistola in particolare) e anche l’Arma dei carabinieri. Dd’at arrestau s’A. (lo hanno
arrestato i carabinieri), si ddu est
posta s’A. (sono intervenuti i carabinieri).
Armadori, s. m. Armatore.
Gergale del lavoro in miniera.
85
Armadura, s. f. Armatura, allestimento, preparazione.
Armai, v. Armare, allestire, preparare. Chiusa la miniera di antracite, l’uso più frequente del v.
riguarda la macellazione del bestiame domestico: a. unu pegus significa: preparare un animale in modo
da poterlo appendere per intero a
petza neta (senza più interiora né
ventrame) alla vista degli estranei.
Armau/ada, agg. Armato/a.
Cussu piciocu fut a. (quel ragazzo
aveva un’arma), sa craba est a. (la
capra è già stata preparata).
Armidda, s. f. Timo serpillo
(thymus serpyllum). Erba profumata quant’altre mai, cresce spontaneamente oltre gli ottocento metri
di altitudine in molti siti del territorio di Seui, dove più dove meno,
in cespugli bassi, spesso su superfici molto vaste. Comunemente utilizzata da secoli e per molti usi dai
pastori (soprattutto contro la zoppia del bestiame, per la stagionatura del formaggio e la cicatrizzazione di ferite), oggi la si usa sempre
più spesso in decotti e infusi contro i disturbi respiratori e come
disinfettante, cicatrizzante e lozione dopobarba, una volta fatta
macerare per una quindicina di
giorni in alcol puro. Annota
Demetrio Ballicu, medico a Seui
86
per quarant’anni, dal 1922 al
1962, in Miscellanea (Cagliari,
1972, pag. 83): ”L’infuso si usa
come colluttorio nella stomatite
aftosa”, mentre il timolo ”è indicato nella cura dell’elmintiasi”, la
verminosi intestinale. La raccolta
delle parti aeree (quelle legnose
non si utilizzano) si effettua quando l’arbusto è in fioritura, purché
non sia periodo di luna piena. Il
plenilunio - ammoniscono i grandi erboristi, Maurice Messegué in
testa, e sa bene la popolazione
locale - toglie la virtù a tutte le erbe
medicamentose. Ma al di là degli
impieghi materiali, il timo rappresenta un rimando poetico di notevole suggestione, nell’immaginario
della comunità, e un simbolo sublime di appartenenza. Nei ricordi
degli emigrati seuesi da tempo lontano, su nuscu ’e s’a. (il profumo del
timo) è un’espressione fortemente
evocativa dei fremiti di nostalgia.
Armiddargiu, s. m. Terreno in
cui abbonda il timo serpillo.
Armugoddu, s. m. Tracolla con
banda anteriore supplementare.
Frequente la loc. avv. a a. (a tracolla).
Arongiu, s. m. Aratura. Il s.
indica le operazioni che si riferiscono al tempo autunnale in cui
tornano in azione gli aratri, oggi
PAOLO PILLONCA
non più a trazione animale.
Arrabïai(si), v. Provare ira, infuriarsi. M’at fatu a. (mi ha fatto
infuriare), s’arràbïat po dónnïa
cadumèntzïa (si infuria per ogni
sciocchezza).
Arrabïau/ada, agg. Iracondo/a,
rabbioso/a, furente.
Arrabïosu, s. m. Malleolo. La
definizione per esteso è s’ossu ’e s’a.
Arràbïu, s. m. Rabbia, ira. Molto usato come escl. ad ampio spettro e nelle imprecazioni. .
Arrafïeli/a, n. pr. di pers.
Raffaele, Raffaela, Raffaella.
Arràïu, s. m. Fulmine. Usato
come esclamazione d’ira e sdegno
e nell’imprecazione a. ddi calit
(che gli scenda un fulmine).
Arramineta, s. f. Attrezzo in ferro
con manico di legno, utilizzato per
togliere la corteccia agli alberi.
Arràmini, s. m. Rame. Gli oggetti domestici in rame sono definiti s’a. ’e cogina (il rame della cucina). Questa espr. si utilizza
anche in senso met. in rif. alla bellezza delle donne di una casa. Non
cichis s’a. ’e c. (lascia stare le donne
di casa).
Arrampanadura, s. f. Percezione
visiva immediata.
Arrampanai, v. Scorgere, vedere
in un baleno. Con una venatura di
rabbia, però. No arràmpanas?
Mancarìas. La parlata di Seui
(Possibile che tu non veda?).
Arrampanau/ada, agg. Scorto/a,
visto/a.
Arrampili, s. m. Origine, genesi,
razza, parentado, stirpe. Vedi areu
e arratza.
Arrana, s. f. Rana, ranocchio.
Per est. rospo.
Arrancidai(si), v. Inacidire,
divenire rancido. Custu lardu
s’arràncidat (questo lardo inacidirà).
Arrancidau/ada, agg. Inacidito/a.
Arràncidu/a, agg. Rancido/a.
Arranda, s. f. Randa, margine,
pizzo.
Arrandai, v. Mettere il pizzo a
centrini, camicie, lenzuola, tovaglie.
Per estensione, abbellire con ornamenti.
Arrandau/ada, agg. Ornato/a di
pizzo.
Arrangiai(si), v. Riparare. Seus arrangendu in domu (a casa stiamo facendo lavori di restauro). Nella forma rifl. vale trovare un accordo: giai
s’ant a a. (troveranno un accordo).
Arrangiamentu, s. m. Accordo,
transazione.
Arrangiau/ada, agg. Riparato/a.
Arrangiolu, s. m. Ragno. Dónnïa
corrunconi est prenu ’e arrangiolus
(ogni angolo è pieno di ragni). Ma
per indicare la ragnatela il s. non
87
viene usato e gli si preferisce arrangiu. Vedi lanarrangiu. Figura nei
soprannomi.
Arrangiu, s. m. Riparazione. In
domu ddu-i ’olit chelegunu a. (in
casa serve qualche riparazione).
Arrasadura,s. f. Misurazione a
raso.
Arrasai, v. Rimettere a raso.
Gergale degli agricoltori, rif. alla
misurazione dei cereali nei contenitori tarati.
Arrasau/ada, agg. Rimesso/a,
sistemato/a a raso.
Arrascotadura, s. f. Degenerazione non voluta del latte per
coagulo.
Arrascotàisi, v. Lasciar andare a
male il latte, per coagulo non
voluto, in modo da renderlo inutilizzabile. In questo caso il latte si
definisce arrascotau.
Arrascotu, s. m. Ricotta.
Arrasigadura, s . f. Raschiatura,
graffiatura.
Arrasigai, v. Raschiare, limare.
In senso fig. per definire una contesa verbale. Ant arrasigau (hanno
discusso fino al limite del diverbio). Nel gergo dei pastori vale:
rubacchiare. Figura come soprannome all’imperativo pres.
Arrasigau/ada, agg. Raschiato/a,
limato/a.
Arrasoïa, s. f. Coltello a serra-
88
manico, da secoli in uso nel
mondo dell’ovile. Secondo una
felice espressione di Bachisio
Bandinu, è una sorta di prolungamento della mano del pastore.
Quello tradizionale ha il manico
di corno di montone (se di muflone il livello di qualità sale al massimo) e la lama di acciaio ossidabile. Deve essere fatto a mano in
tutte le fasi di lavorazione. Per
crearne uno di media dimensione
occorrono complessivamente circa
sei ore di lavoro. I fabbri di Seui
ebbero per lungo tempo grande
fama anche come autori di coltelli
a serramanico. Oggi la tradizione
resiste ma i coltellinai sono pochi,
anche se di ottimo livello.
Arrasta, s. f. Traccia, orma di uomo e/o animale, segno. In una canzone in ottava rima di Giuseppe
Moi noto Matrallinu (1910-1943)
troviamo la seguente chiusa di strofe: Sa fémina ’olit punta a s’arrasta/
ca sa prus bella est sa prus ’rgüasta (la
donna deve essere punta sull’orma
del piede perché la più bella è la più
dissoluta), con riferimento ad un
antico rituale magico secondo cui
per far del male a distanza a una
persona occorreva infilzarne
un’orma impressa sul terreno. Vedi
irdarrastai.
Arratu, s. m. Periodo di tempo.
PAOLO PILLONCA
Ginu in Germania ddu at trabbagliau unu bonu a. (Gino ha lavorato per un lungo periodo in Germania).
Arratza, s. f. Razza, origine, parentado, genesi, stirpe. Vedi areu e
arrampili.
Arratzai, v. Migliorare la razza,
far incrociare il proprio bestiame
per ottenere capi sempre migliori. Efisïu s’orrobba sua dd’at arratzada ’e di ora meda (Efisio il suo
bestiame l’ha migliorato da molto
tempo).
Arratzau/ada,agg. Incrociato/a.
Arrebbambiri(si), v. Rimbambire, perdere il senno. No est a totus
chi su tempus arrebbambit (non
tutti perdono il senno con il passare del tempo). Ddu tenint ’e aréu,
cöidant a s’a. (è nella loro natura,
rimbambiscono anzitempo).
Arrebbambìu/a, agg. Rimbambito/a.
Arrebbassu, s. m. Cianfrusaglia,
oggetto di poco valore. Fulianci
totu, m’as prenu sa ’omu de a. (butta
via tutto, mi hai riempito la casa di
cianfrusaglie).
Arrebbecai, v. Contraddire, insistere anche a torto.
Arrebbecamentu, s. m. Opposizione testarda, contraddittorio
spesso senza logica.
Arrebbecu/a, agg. Persona pre-
Mancarìas. La parlata di Seui
potente che vorrebbe avere sempre
ragione.
Arrebbellai(si), v. Ribellarsi.
Arrebbellia, s. f. Ribellione.
Arrecamai, v. Ricamare. Anche
ricamai (vedi).
Arrecamau/ada, agg. Ricamato/a.
Arrecamu, s. m. Ricamo.
Arrechèdiri, v. Desiderare, avere
necessità. Candu erribat s’istadi
s’abbardenti non m’arrechedit prus
(quando arriva l’estate non sento
più desiderio di acquavite), cun sa
castangia a orrostu arrechedit su ’inu
(con le castagne arrosto si desidera
il vino).
Arrechédïu/a, agg. Desiderato/a.
Arreciai, v. Mettere grate.
Arreciau, s. m. Grata, inferriata.
Arreciau/ada, agg. Sistemato/a a
grate.
Arrecracamentu, s. m. Pressione
ripetuta.
Arrecracai, v. Pressare. Presente
nei soprannomi al part. pass. m.
(arrecracau).
Arrecrëidura, s. f. Presa di possesso, per lo più illegittima.
Arrecrèiri(si), v. Impossessarsi,
godere di. Lassamiddu, cussu marteddu, ca giai no mi nd’arrecreu (prestami quel martello, non me ne impossesserò).
Arrecrétïu/a, agg. Impossessa-
89
to/a.
Arrecumanda, s. f. Raccomandazione, invito pressante, esortazione cordiale.
Arrecumandada, s. f. Raccomandata, una delle forme di invio
della corrispondenza postale.
Arrecumandai, v. Raccomandare. M’arrecumandu, movidindi
(mi raccomando, sbrigati).
Arrecumandau/ada, agg. Raccomandato/a.
Arrecumandìtzïa, s. f. Consiglio,
invito, regalo.
Arrecumpentza, s. f. Ricompensa, gratitudine, riconoscimento.
Arrecumpentzai, v. Ricompensare, esser grato.
Arrecumpentzau/ada, agg. Ricompensato/a.
Arreddopïadura, s. f. Raddoppio, raddoppiamento.
Arreddopïai, v. Raddoppiare,
duplicare.
Arreddopïau/ada, agg. Raddoppiato/a.
Arredùsiri, v. Ridurre, riportare a un livello inferiore. Bis comenti dd’arredusit su bufongiu (vedi a che punto lo riduce il vizio del
bere).
Arredùsïu/a, agg. Ridotto/a. Sa
prussïera dd’at a. mali (la polvere
di carbone l’ha ridotto male).
Arrega, s. f. Razione. Usato per
90
lo più in senso ir. e spregiativo.
Arregai, v. Razionare, alimentare opportunamente. Ddus arregat
beni (li nutre bene). Desueto.
Arregalai, v. Regalare.
Arregalau/ada, agg. Regalato/a,
donato/a, offerto/a.
Arregalu, s. m. Regalo, dono,
strenna.
Arregau/ada, agg. Alimentato/a,
nutrito/a, razionato/a.
Arregiola, s. f. Mattonella.
Arregiolai, v. Pavimentare in
mattonelle.
Arregiolau, s. m. Stanza pavimentata con mattonelle.
Arregiolau/ada, agg. Pavimentato/a con mattonelle.
Arregionai, v. Ragionare. Convive con il superstrato ragionai.
Arregioni, s. f. Ragione. S’a. a
chini dda tenit (la ragione a chi ce
l’ha).
Arregodai, v. Ricordare, avere a
mente. Usato anche nella forma rifl.
Arregodau/ada, agg. Ricordato/a.
Arregodu, s. m. Ricordo.
Arrególliri, v. Raccogliere, cogliere.
Arregorta, s. f. Raccolta.
Arregortu/a, agg. Raccolto/a.
Arregulada, s. f. Regolamento,
norma, regola.
Arregulai, v. Regolare.
PAOLO PILLONCA
Arregulau/ada, agg. Regolato/a.
Arrëigadura, s. f. Sistemazione
delle pertiche negli orti.
Arrëigai, v. Mettere le pertiche
(arreigas) ai fagioli e alle piantine
deboli o giovani. Apu arrëigau
s’ortu (ho messo le pertiche nell’orto).
Arreìga, s. f. Pertica che serve di
sostegno stabile ad alcune coltivazioni, ad es. il fagiolo, e di protezione temporanea agli alberelli
appena piantati.
Arreìgini, s. f. Radice. In senso
reale e fig. S’ìligi portat arreìginis
(pron. arreìginir) mannas (il leccio
ha radici estese), lassa is cambus, càstia s’a. (con curarti dei rami, guarda
la radice).
Arréiri, v. Reggere, tenere per sé.
Sa càvana ti dda lassu ma non ti
dd’arreas (la roncola te la presto
ma non appropriartene), arrëididdu (tienitelo). Il part. pass. è arrésïu/a (tenuto/a, lasciato per sé): sa
càvana non fut sa sua ma si dd’at a.
(la roncola non era sua ma se l’è
tenuta).
Arrellogeri, s. m. Orologiaio.
Arrellogiu, s. m. Orologio. Vedi
irdarrellogiai.
Arremài(si), v. Ridurre, mettersi
da parte, ridursi all’immobilità.
Arremaddu cussu trasti (metti da
una parte quell’arnese). Est arre-
Mancarìas. La parlata di Seui
mendusì (è pressoché immobilizzato).
Arremau/ada, agg. Ridotto/a
all’immobilità. Maria est a. ’e di
ora (Maria è da tempo immobilizzata).
Arremoddai, v. Diventare molle,
farsi morbido. Detto soprattutto
del pane.
Arremoddamentu, s. m. Rammollimento, ammorbidimento.
Arremoddau/ada, agg. Rammollito/a, ammorbidito/a.
Arremonai, v. Citare, ricordare
q.no in assenza dell’interessato.
No mi dd’arremonis (non citarmelo), no dd’arremonat prus nemus
(non lo ricorda più nessuno).
Arremonamentu, s. m. Citazione.
Arremonau/ada, agg. Ricordato/a, citato/a. Eus arremonau is
sordaus mortus in sa gherra manna
(abbiamo ricordato i soldati morti
nella grande guerra).
Arremundicu, n. pr. di pers.
Raimondo. Si usa anche al dim.
Arremundicheddu.
Arremundu, n. pr. di persona.
Raimondo. Esistono altri due
diminutivi: Mundeddu e Mundicheddu.
Arrenatu, n. pr. di pers. Renato.
Arrenfriscai, v. Rinfrescare.
Arrenfriscau/ada, agg. Rinfre-
91
scato/a.
Arrenfriscu, s. m. Rinfresco.
Arrennèsciri, v. Riuscire. Dennantis podia aguantai tres o cüatru
dis chene papai, imoi no nci arrennesciu prusu (in passato potevo
resistere tre o quattro giorni senza
mangiare, ora non ci riesco più).
Arrennéscïu/a, agg. Riuscito/a.
Arrenovadura, s. f. Rinnovo.
Arrennovai, v. Rinnovare.
Arrennovau/ada, agg. Rinnovato/a. Dolori a. peus de su passau (il
dolore rinnovato è peggiore del
primo).
Arrennuntzïai, v. Rinunciare.
Arrennuntzïau/ada, agg. Rinunciato/a.
Arrepicai, v. Suonare ripetutamente le campane della chiesa. In
senso fig. e ir. vale: insistere, fare il
petulante, etc. Un’ora ses arrepichendu (smetti di fare il petulante).
Arrepicau/ada, agg. Insistito/a.
Arrepicu, s. m. Suono insistente
e insistito di campane.
Arrepitinnatu, s. m. Pipistrello.
Arrepìtiri, v. Ripetere, reiterare,
ribadire. Chi ddi ’onas unu cumandu non ti ddu fait inderetura ma
’olit a si dd’a. (se gli dài un ordine
non te lo esegue subito ma bisogna ribadirglielo). Presente nei soprannomi all’imperativo pres.
(arrepiti).
92
Arrèpitïu/a, agg. Ripetuto/a,
reiterato/a.
Arrésciri, v. Incastrare. Andare
di traverso. Bloccare. Anche nella
forma rifl. S’arrescit füeddendu (si
blocca nel parlare).
Arréscïu/a, agg. Incastrato/a,
bloccato/a.
Arrescìu, s. m. Impiglio, incastro, ritardo, impedimento, imprevisto, sosta. Si bit ca at agatau
a. (evidentemente è incappato in
un imprevisto). Da non confondere con il part. pass. di arrésciri,
che ha diverso accento.
Arresfrïàisi, v. Raffreddarsi,
prendere il raffreddore.
Arresfrïau/ada, agg. Raffreddato/a.
Arresfriu, s. m. Raffreddore.
Chi ne viene colpito è arresfrïau.
Arrésïu/a, agg. Tenuto/a per sé,
appropriato/a. Part. pass. di arrèiri.
Arrespetai, v. Rispettare, avere
riguardo.
Arrespetau/ada, agg. Rispettato/a.
Arrespetu, s. m. Rispetto, riverenza.
Arressega, s. f. Risega, Restringimento della muratura di una
casa, in pianta o in sezione. In su
muru ’e cogina in domu ddu at
un’a. (nel muro della cucina di
casa c’è un restringimento). Ma il
PAOLO PILLONCA
s. definisce anche lo spazio lasciato tra due muri di confine adiacenti, nelle abitazioni di due proprietari diversi.
Arresurtai, v. Risultare, derivare,
conseguire.
Arresurtau, s. m. Risultato, esito, conclusione, conseguimento.
Eus a biri s’a. chi n’as a bogai (vedremo quale risultato otterrai).
Arresurtau/ada, agg. Concluso/a, risultato/a, conseguito/a.
Arresuscitai, v. Resuscitare, risorgere. Di uno che sparisce senza dire
nulla a nessuno e poi ricompare
come d’incanto si dice: mortu e a.
(morto e resuscitato).
Arresuscitau/ada, agg. Resuscitato/a.
Arretai, v. Entrare in erezione,
eccitarsi. Cussa picioca no ddu fait
a. (quella ragazza non lo eccita).
Arretera, s.f. Trappola per topi.
Arretu/a, agg. Eccitato/a. Nel
linguaggio figurato, al di là del
senso erotico, indica eccitazione
in generale, quella tipica di chi
tende ad ottenere qualcosa e non
riesce a nasconderlo. Ndi fut benìu
totu a. (era arrivato tutto eccitato).
Arretùmini, s. m. Eccitazione,
erezione, priapismo.
Arretzeta, s. f. Ricetta. Del
medico, in primis, ma anche del
cuoco o della creatrice di dolciumi.
Mancarìas. La parlata di Seui
Arretzetai, v. Ricettare, prescrivere, ordinare con una ricetta. Mi
dd’arretzetat su dotori (me lo prescrive il medico).
Arretzetau/ada, agg. Prescritto/a,
ordinato/a, stabilito/a. Lo si usa
anche in senso ir. e antifrastico.
Arrevedu/arrëivedu, s. m. Utero.
Vedi fedu.
Arrevesa, s.f. Vendetta, restituzione di colpo, rivincita. Ddi torru
s’a. (gli restituisco il colpo), eus
pérdïu sa primu partida, imoi ’oleus
s’a. (abbiamo perduto la prima
partita, ora vogliamo la rivincita).
Arrevesciu/a, agg. Testardo/a.
Che fa le cose al contrario.
Arrevudai, v. Rifiutare, respingere. Prov.: su mari no arrevudat
abba (il mare non respinge
l’acqua). Piuttosto desueto.
Arrevudau/ada, agg. Rifiutato/a.
Arrevudu, s. m. Rifiuto, scarto,
immondezza.
Arrïali, s. m. Reale, antica moneta d’argento. Nella parlata seuese
attuale indica una ipotetica moneta di scarso valore. Non tenit
mancu tres a. (è uno spiantato, lett.
non ha nemmeno tre reali, per
definire uno che non possiede
nulla), cussu non balit tres a. (quel
tizio non vale nulla).
Arribbimentu, s. m. Stitichezza.
Arribbìrisi, v. Soffrire di stiti-
93
chezza.
Arribbìu/a, agg. Stitico/a. In
senso fig. vale: spilorcio, taccagno,
avaro.
Arridai, v. Tostare, irrigidire,
disseccare con una fonte di calore,
naturale o artificiale che sia. Sa
linna s’àrridat (la legna si dissecca), imoi àrridu su pani (adesso
metto a tostare il pane).
Arridau/ada, agg. Tostato/a,
irrigidito/a, disseccato/a.
Arridelu, s. m. Fillirea (phillyrea
angustifolia), specie molto presente nel territorio, pascolo d’elezione
per le capre e i mufloni.
Àrridu/a, agg. Rigido/a, croccante. Cussu civargeddu mi parit à.
(quella focaccia mi sembra croccante). In senso fig. altero, borioso, indisponente, intrattabile, scostante, superbo, suscettibile.
Arrïolai(si), v. Far entrare in
ansia, essere in ansia. Cöida a contonïai, giai ddu scis ca chi adduras
in domu tua s’arrïolant (rientra
presto a casa, sai bene che se fai
tardi i tuoi entrano in ansia).
Arrïolau/ada, agg. Ansioso,
preoccupato.
Arrïolu, s. m. Preoccupazione,
pensiero fisso, ansia.
Artana, s. f. Trappola per cani.
Nella parlata di Seui ha ora un
campo semantico confinato nel
94
gergo: lo si usa come imprecazionemaledizione, sempre nei confronti
dei cani, così come si usa fogali
(malattia dei suini) quando si vuole
indicare con disappunto, e in un
certo senso maledire, il maiale.
Artari, s. m. Altare.
Artàrïa, s. f. Altezza. Non tenit
s’a. e no ddu pigant (non raggiunge
l’altezza minima prescritta e non
lo assumeranno). Altitudine. Su
nuragi de Ardasai est a prus de milli
metrus de a. (il nuraghe di Ardasai
si trova ad oltre mille metri di altitudine), dónnïa mata ’olit s’a. sua
(ogni pianta ha una sua altitudine
preferita).
Arti, s. f. Arte, mestiere. De totus
is artis, in bidda nci nd’at pagus:
mäistus de linna, ferreris, mäistus
de muru, mäistus de pannu, sabbateris (di tutti i mestieri, nel nostro
paese ci sono pochi rappresentanti: falegnami, fabbri, muratori,
sarti, calzolai).
Artista, s. m. Artigiano, artista.
Artiteddu/a, agg. Piuttosto
alto/a. Cussa picioca est a. (quella
ragazza è piuttosto alta).
Artu/a, agg. Alto/a. Riferito alla
statura umana e all’altitudine di
colline e montagne.
Arturu, n. pr. di persona. Arturo.
Artzïada, s. f. Salita, erta.
Artzïai/artzai, v. Salire. Nc’est
PAOLO PILLONCA
artzïau a punta ’e campalini (lett. è
salito fino alla vetta del campanile,
ha preteso troppo). Sopraelevare.
At artzïau sa ’omu de una soleta (ha
sopraelevato la sua casa di un
piano).
Artzïau/ada, agg. Salito/a, fatto/a
salire.
Arvolotai, v. Turbare, sconvolgere, nauseare. M’arvolotat (mi sconvolge).
Arvolotau/ada, agg. Turbato/a,
sconvolto/a.
Arvolotu, s. m. Confusione, disordine, sconquasso, subbuglio,
turbamento. Linu at pesau un’a.
mannu (Lino ha causato un grande subbuglio).
Asciolu, s. m. Piccola ascia.
Ascurtai/ iscurtai/ scurtai, v.
Ascoltare. Il v. assume anche il
senso ulteriore di dare ascolto,
mettere in pratica i consigli ricevuti, attuare i suggerimenti etc.
Narasiddu tui, ca t’ascurtat (diglielo tu, dal momento che ti ascolta),
chini no ascurtat non podit arrespùndiri a su chi ddi narant (chi
non ascolta non può rispondere a
ciò che gli si dice). La capacità
d’ascolto è condizione basilare per
meritare la considerazione del
paese. Antoni cumprendit de prusu
ca ascurtat a totus (Antonio capisce
di più perché ascolta tutti).
Mancarìas. La parlata di Seui
Ascurtau/ada, agg. Ascoltato/a.
Asonïada, s. f. Rientro a casa.
Asonïai, v. Rientrare a casa.
Candu fait festa Antoni asónïat a
chissi (quando fa festa Antonio
rientra a notte fonda).
Asonïau/ada, agg. Rientrato/a a
casa.
Aspu/a, agg. Acerbo/a, asprigno/a. Cuss’arangiu est a., quell’arancia è asprigna.
Assa, s. f. Filo tagliente di lama.
Vedi irdassai, rompere il filo di
un’arma e/o di un oggetto da
taglio. In senso fig. vale: grinta,
sfavillio nevrile, prepotenza. Ndi
portat de a. cussu (ne ha di grinta,
quello). Vedi assudu.
Assachitadura, s. f. Scuotimento,
scossone, sobbalzo. Usato anche in
loc. avv.
Assachitai, v. Scuotere, come si
fa con i sacchi quando li si deve
riempire del tutto. Sobbalzare.
M’assachitat totu (mi fa sobbalzare
a lungo).
Assachitau/ada, agg. Scosso/a.
Assargia, s. f. Argia. Una particolare specie di formica la cui
puntura provoca dolori tanto forti
che un tempo si curavano con una
complessa articolazione di rimedi
a base di balli e canti, diversi a
seconda del tipo di argia causa del
grave disturbo. Sui rituali dell’ar-
95
gia in Sardegna, nei primi anni
Sessanta, ha promosso e iniziato
una ricerca il celebre etnologo
Ernesto De Martino. Anche Seui
fu esplorato a lungo dagli allievi
del grande professore: molti furono i casi riscontrati e confortati
dalle testimonianze dei protagonisti e vittime della brutta avventura. Dopo la morte repentina dello
studioso una sua ex-assistente ha
riordinato le schede e pubblicato il
lavoro. A suo nome.
Assargiai, v. Fortificare, far diventare d’acciaio (assargiu). Usato
prevalentemente in senso fig. Custu
patimentu m’assargiat (questa sofferenza mi fortifica).
Assargiau/ada, agg. Fortificato/a,
reso/a resistente.
Assargiu, s. m. Acciaio. Anche
met. per indicare grande resistenza.
Assaubbadura, s. f. Infradiciamento.
Assaubbai, v. Impregnare
d’acqua, infradiciare. Dona crobba, chi ddu lassas äici cussu cardulinu s’assaùbbat totu (fai attenzione,
se li lasci così quei funghi diventano tutti fradici).
Assaubbau/ada, agg. Fradicio/a
d’acqua.
Asseai(si), v. Aver sapore di sego
(seu). Ma il verbo si usa quasi escl.
96
in relazione a un cibo lasciato raffreddare che, per questo, cambia
sapore diventando immangiabile.
Cussa patata s’asseat (quelle patate
diventeranno acide).
Asseamentu, s. m. Inacidimento.
Asseau/ada, agg. Inacidito/a,
con sapore di sego.
Asselïai, v. Aggiustare, riparare.
Imoi assélïu sa prentza (ora aggiusterò il torchio). Il riflessivo asselïàisi vale: calmarsi, darsi una
regolata. Asselïadì (càlmati).
Asselïau, ada, agg. Riparato/a
(detto di cose), tranquillizato/a
(detto di persone).
Assélïu, s. m. Riparazione. Ma
più spesso, in senso fig.: tranquillità, calma. Immoi su logu est in a.
(adesso la zona è tranquilla).
Assenegai, v. Respirare affannosamente.
Assenegau/ada, agg. Dal respiro
affannoso.
Assenegu, s. m. Respiro pesante,
affanno.
Assentadura, s. f. Appunto scritto.
Assentai, v. Mettere in ordine,
segnare per iscritto. Nel gergo
commerciale, il v. indicava
l’iscrizione nel registro dei creditori di un negozio, che pagavano
dopo un certo periodo di tempo.
Assentamiddu (ségnamelo).
PAOLO PILLONCA
Assentau/ada, agg. Ordinato/a,
registrato/a.
Assentu, s. f. Messa in ordine,
sistemazione, appunto. Dev. di
assentai, poco usato.
Assetïai, v. Correggere, modificare in meglio, sistemare a dovere.
Assetïau/ada, agg. Corretto/a,
sistemato/a meglio.
Assétïu, s. m. Sistemazione adeguata, tranquillità. Immoi s’est
postu in a. (ora si è tranquillizzato). Dev. di assetïai.
Assidadura, s. f. Fornitura di
fronde verdi al bestiame da latte in
difficoltà.
Assidai, v. Dare fronde di alberi
sempreverdi (sida) al bestiame
brado durante le nevicate. Vedi
afrongiai.
Assidau/ada, agg. Alimentato/a
con verzura. Crabas e bacas ddas
apu assidadas custu mengianu
(capre e vacche le ho nutrite di
fronde stamattina).
Assissadura, s. f. Attizzamento.
Assissai, v. Attizzare. Assissa su
fogu (attizza il fuoco). Sollevare.
Assissadindi is cartzonis (sollévati i
pantaloni).
Assissau/ada, agg. Attizzato/a,
sollevato/a.
Assistèntzïa, s. f. Aiuto, assistenza, solidarietà.
Assìstiri, v. Aiutare, assistere
Mancarìas. La parlata di Seui
materialmente e/o spiritualmente.
Assìstïu/a, agg. Aiutato/a, assistito/a. Ma esiste anche la forma
con l’accento spostato sulla penultima sillaba (assistìu/a).
Assistu, s. m. Aiuto, assistenza
da parte di entità ultraterrene:
Dio, la Madonna e/o i Santi. Il s.
- desueto nel linguaggio della quotidianità - sopravvive nelle preghiere rituali delle abrebadoras che
chiedono l’assistenza della sfera
soprannaturale.
Assogadura, s. f. Cattura del bestiame mediante funi.
Assogai, v. Catturare con una
fune. In rif. agli animali, bovini
soprattutto, ma anche, nel rito
carnevalesco della sfilata di mamuthones e issocadores di Mamoiada,
ai visitatori affunati per gioco
dagli issocadores del paese barbaricino. Vedi soga.
Assogau/ada, agg. Catturato/a,
preso/a con una fune scagliata da
lontano.
Assogi, s. m. Uccello notturno
che fa sentire il suo canto nelle
notti d’estate.
Assoladura, s. f. Isolamento
spontaneo, del bestiame e dell’uomo.
Assolài(si), v. Isolarsi dal gruppo, stare in solitudine. Cudda
craba fatu fatu s’assolat (ogni tanto
97
quella capra si isola dal branco).
Assolau/ada, agg. Isolato/a, solitario/a. Detto degli animali ma
anche delle persone. Linu s’est a.
(Lino si è isolato).
Assolïadura, s. f. Esposizione al
sole.
Assolïai, v. Esporre al sole, prendere il sole.
Assolïau/ada, agg. Esposto/a ai
raggi del sole.
Assopïadura, s. f. Azzoppatura,
zoppìa. Per incidente, colposo o
doloso che sia. Gioghendu a bocia
nd’apu ’oddiu un’a. (giocando a
pallone ho rimediato una zoppìa).
Assopïai, v. Zoppicare. Dd’apu
’idu assopïendu (l’ho visto zoppicare). Azzoppare. Linu fatu-fatu
assópïat su cüaddu (Lino ogni
tanto azzoppa il cavallo). Rif. a
persone e animali. Vivo nell’uso il
prov. chini andat cun su sopu assópïat (chi va con lo zoppo zoppica).
Vedi sopìmini (zoppìa). Di questo
v. esiste la variante atzopïai, di
superstrato.
Assopïau/ada, agg. Azzoppato/a.
Sartendu una cresuri mi soi a. (mi
sono azzoppato nel saltare una
siepe).
Assuconai, v. Spaventare. Non
mi facas a. (non farmi spaventare),
non m’assùcunis (non spaventarmi). Anche nella forma rifl. assu-
98
conàisi.
Assuconau/ada, agg. Spaventato/a, turbato/a, sotto choc.
Assùcunu, s. m. Spavento. A
piticu nd’at boddìu un’a. e no nd’est
curau (da piccolo ha preso uno
spavento e non si è più ripreso).
Assudu/a, agg. Grintoso/a, prepotente. Vedi assa.
Assüergiai, v. Rendere resistente
come la quercia da sughero (vedi
süergiu). Desueto ma ancora presente nel lessico dei pastori e delle
persone anziane. Indica quello
stato di grazia, fisica e psichica,
che regala all’uomo una sorta di
imperturbabilità non solo di fronte alle difficoltà materiali ma
anche davanti agli eventi più inattesi e dolorosi dell’esistenza.
Assüergiau/ada, agg. Temprato/a, resistente.
Assüergiu, s. m. Tempra di
mente e di cuore, resistenza e
imperturbabilità di fronte alla res
incerta del tempo e degli uomini.
Assüermada, s. f. Calmata, tranquillizzazione.
Assüermadura, s. f. Stato di
calma, tranquillità.
Assüermài(si), v. Calmare. Non
s’agatat cosa chi dd’assüermit (non
cè nulla che lo calmi), nci nd’at
bòfïu po dd’a. (ce n’è voluto per
calmarlo). Nella forma rifl. vale:
PAOLO PILLONCA
darsi una calmata, tranquillizzarsi.
Imoi assüermadì (ora datti una calmata).
Assüermau/ada, agg. Tranquillizzato/a, calmato/a, assestato/a.
Assüermu, s. m. Quiete, calma.
Feti su sonnu ddu ponit in a. (soltanto il sonno ha il potere di calmarlo).
Assurcadura, s. f. Predisposizione dei solchi.
Assurcai, v. Solcare, fare dei solchi. Vedi surcu.
Assurcau/ada, agg. Solcato/a.
Assustrai, v. Spaventare, atterrire, scioccare. No assustris su pipìu
(non spaventare il bambino). Al
rifl. vale: spaventarsi, atterrirsi,
entrare in stato di choc. A nai ca at
tìmïu est pagu, s’est assustrau (dire
che ha avuto paura è poco, è rimasto scioccato).
Assustrau/ada, agg. Spaventato/a, atterrito/a, scioccato/a.
Assustru, s. m. Spavento, terrore, choc. Un tempo, se qualcuno
rimaneva scioccato da un evento
grave, si ricorreva anche ad apposite preghiere recitate dal sacerdote,
dette is vangélïus (nella pronuncia
isciangélïus), o alle formule rituali
di abrebadoras particolarmente
esperte in questo tipo di scongiuri.
Si trattava di méiga (medicina), se
il rituale prevedeva l’uso di acqua,
Mancarìas. La parlata di Seui
carbone o altro, di semplici abrebus se la terapia magico-religiosa
era soltanto verbale. Lüisa a Linu
dd’at nau is abrebus po s’a. (Luisa
per Lino ha fatto gli scongiuri contro lo spavento).
Astiladura, s. f. Sofferenza in
fase acuta.
Astilai, v. Far provare dolori
acuti.
Astilau/ada, agg. Nevrastenico/a,
psicolabile. Antoni est un’a. (Antonio è uno psicolabile). In preda a
dolori forti. Eriseru fui totu sa dì a.
(ieri avevo dolori per tutto il giorno).
Astili, s. m. Dolore acuto, cefalea compresa. In senso fig. idea
fissa, manìa, frenesia, nevrastenia.
Àstula, s. f. Scheggia, frammento. Vivo il prov. truncu ’etat à.
(ogni tronco produce schegge).
Astuladura, s. f. Riduzione in
schegge.
Astulai, v. Ridurre in schegge,
frammentare. Detto del legname
da opera. Gergale dei falegnami.
Astulau/ada, agg. Ridotto/a in
schegge. Pres. in un’imprecazionemaledizione: a. sias (che tu possa
essere ridotto in schegge).
Asuladura, s. f. Colorazione di
blu, illividimento.
Asulai, v. Colorare di blu, illividire.
99
Asulau/ada, agg. Illividito/a,
diventato/a bluastro/a.
Asulu/a, agg. Blu, bluastro/a,
livido/a.
Asuta/ a suta, avv. Sotto. A. ’e
süercu (sotto l’ascella). Vedi suta e
negli esempi sulle locuzioni avverbiali alla lettera A.
Atacadura, s. f. Nascondimento.
Oggi significa anche perseveranza
nel dare noia al prossimo e viene
usato talvolta nel significato di
attacco di un supporto a un arnese.
Atacai(si), v. Nascondere. Su
’inari dd’atacat in dónnïa corrunconi de ’omu sua (i soldi li nasconde
in tutti gli angoli di casa sua),
andat ataca-ataca (cammina tentando costantemente di nascondersi). poita t’atacas? (perché ti
nascondi?). Più raramente nel
senso dell’it. attaccare. Nel rifl.
vale anche: appiccicarsi, attaccarsi,
importunare, non mollare la presa.
Cussu, chi non donas crobba,
s’atacat e non ti scapat prusu (quello se non stai attento, ti si appiccica e non ti molla più).
Atacau/ada, agg. Nascosto/a.
Ataciadura, s. f. Sistemazione
dei chiodi nelle scarpe.
Ataciai, v. Mettere dei chiodi,
soprattutto alla suola delle scarpe.
Vedi tacia.
Ataciau/ada, agg. Chiodato/a.
100
Atacu, s. m. Attacco. Il momento acuto di una patologia. Nd’at
benìu un’a. a su coro (gli è venuto
un attacco di cuore). Ma il s. si usa
anche nel gergo del gioco del calcio, per indicare il settore avanzato dello schieramento della squadra.
Atalaminadura, s. f. Concimazione con il letame.
Atalaminai, v. Concimare con il
letame, pratica tuttora molto diffusa, nonostante i tempi mutati,
perché il letame proveniente da
allevamenti allo stato brado è sempre ritenuto il migliore fra tutti i
concimi possibili. Maria s’ortu
dd’atalàminat dónnïa annu (Maria
concima l’orto tutti gli anni con il
letame). Vedi talàmini.
Atalaminau/ada, agg. Concimato/a con il letame.
Atäuleddadura, s. f. Protezione
di un arto fratturato o lussato - ma
anche di altro - mediante stecche
di legno.
Atäuleddai, v. Proteggere con
stecche di legno (täuleddas) una
frattura o lussazione, come si faceva prima del ricorso all’ingessatura
e come si fa ancora in via provvisoria nei casi di emergenza.
Riparare da guai peggiori qualche
oggetto. Vedi tàula.
Atäuleddau/ada, agg. Protetto/a
PAOLO PILLONCA
con stecche di legno.
Atenïai(si), v. Adattare, adattarsi, adeguarsi, capire e rispettare le
esigenze altrui. È uno dei verbi
che si è soliti definire pregnanti,
proprio per la varia articolazione
di significati che racchiude in sé.
Gisepu cumprendit totu e candu serbit s’aténïat a acantzai chelegunu
disigliu aglienu puru (Giuseppe
capisce tutto e quando occorre si
adatta a soddisfare anche qualche
desiderio altrui).
Atenïau/ada, agg. Adattato/a,
largamente disponibile a capire.
Aténïu, s. m. Adattamento alle
esigenze esterne.
Aterradura, s. f. Atterramento.
Aterrai, v. Atterrare, far cadere a
terra, ridurre definitivamente in
soggezione ma anche umiliare al
termine di un diverbio.
Aterramentu, s. m. Atterramento, assoggettamento totale, umiliazione grave.
Aterrau/ada, agg. Sconfitto/a
definitivamente.
Atesu, avv. Lontano. Su cöili
nc’est a. (l’ovile è lontano).
Atéu, escl. Oddio! Esclamazione-interiezione tipica di Seui
(altrove esiste la variante oddéu!),
tuttora tanto viva nell’uso (e nell’abuso) da aver perso la forza originaria, ridotta ormai all’irrilevan-
Mancarìas. La parlata di Seui
za talora fastidiosa di un mero
intercalare. In certi rioni del paese,
il ricorso a questa parola è più
notevole che in altri.
Atidiladura, s. f. Disposizione
circolare, come di un cercine.
Atidilai, v. Disporre a mo’ di
cercine (tidili). C’è anche il rifl.
atidilàisi (disporsi come un cercine). Candu si crocat Lüisa s’atidilat
(quando si mette a letto Luisa
sembra un cercine), atidilau chi si
siat, cumentzat a sorruschïai (una
volta sistemato a mo’ di cercine,
inizia a russare).
Atidilau/ada, agg. Disposto/a a
cercine.
Atilla, s. f. Pretesto, scusa, osservazione critica. Pïeru agatat a. a
dónnïa cosa (Piero trova sempre da
ridire su tutto).
Atillai, v. Cercare scuse, avere
da ridire.
Atitadora, s. f. Poetessa orale
capace di improvvisare canti funebri. A differenza delle prefiche
prezzolate, is atitadoras di Seui
improvvisavano spontaneamente
per ore alla presenza del morto e
dei parenti e non ricevevano alcun
compenso materiale. Tutto si giocava sull’onore reso al defunto, sul
prestigio che ne poteva derivare
alle donne in possesso di questa
grande virtù creativa e sulla futura
101
benevolenza dei congiunti della
persona commemorata nei confronti delle atitadoras.
Atitai, v. Improvvisare un canto
funebre. Come indica la parola
stessa, il significato recondito di
questo verbo chiama in causa il s.
tita (mammella). Dunque la làude
funebre era come un allattamento
simbolico, post mortem, quasi un
viatico oltre la porta buia: il morto
che ritorna bambino indifeso ed
ha bisogno dei capezzoli materni.
Atitau/ada, agg. Onorato/a con
il canto funebre.
Atìtidu/atitu, s. m. Canto funebre. In versi settenari, appare strutturalmente uguale ai canti della
culla. Anche a Seui questi due
canti estremi e apparentemente
opposti tra loro possono essere
considerati le fonti primarie dell’intero patrimonio di poesia orale
della comunità. Le donne che li
gestivano erano capaci di improvvisare anche su altri moduli, primo
fra tutti su mutetu: sia quello in
settenari, sia quello in ottonari con
accompagnamento di organetto o
di fisarmonica. Vedi tita.
Atitiglionai, v. Sostare al freddo
intenso, provare brividi. Giai ddu
atitiglionas igui (ti raffredderai
sicuramente stando là).
Atitiglionamentu, s. m. Rabbri-
102
vidimento.
Atitiglionau/ada, agg. Rabbrividito/a.
Atobïai, v. Incontrare, per lo più
casualmente, ma non sempre: può
trattarsi anche di incontro voluto.
Oi m’est atobïau Franciscu, fui ’e di
ora chene ddu biri e tandu mi soi
traténnïu a chistïoni (oggi ho
incontrato Francesco, da tempo
non lo vedevo e mi sono intrattenuto a parlare con lui). Ne esistono due varianti: adobïai e obïai.
Atobïau/ada, agg. Incontrato/a.
Atóbïu, s. m. Incontro. Eus
postu un’a. (abbiamo fissato un
appuntamento).
Atocai, v. Schernire, deridere
pubblicamente.
Atocau/ada, agg. Deriso/a,
schernito/a.
Atocu, s. m. Scherno, derisione
pubblica. Dd’at postu s’a. (lo ha
apostrofato in pubblico, l’ha
schernito).
Atongili, s. m. Tempo, stagione
autunnale.
Atongiu, s. m. Autunno. Per la
comunità è una delle stagioni
migliori dell’anno, permanendo di
norma un clima mite ed essendo
questo il tempo della vendemmia,
della raccolta di castagne e nocciole e - fino a non molti decenni fa della semina comunitaria.
PAOLO PILLONCA
Atontïadura, s. f. Deconcentrazione, perdita di percezione, rimbambimento. Usato anche in loc.
avv.
Atontïai, v. Rincitrullire, rincoglionire. A-i cussu piciocheddu
dd’atòntïat su babbu a corpus (quel
ragazzino è rincitrullito dal padre
a furia di percosse) Anche nella
forma rifl. S’est atontïau (si è rincoglionito).
Atontïamentu, s. m. Sin. di
atontïadura.
Atontïau/ada, agg. Rincitrullito/a.
Atravadura, s. f. Sistemazione
delle pastoie di ferro alle zampe
degli animali.
Atravai, v. Mettere le pastoie.
Atrava is cüaddus (impastoia i
cavalli). Vedi trava.
Atravau/ada, agg. Impastoiato/a.
Atrebussai, v. Mettere sottosopra. Lett. lavorare con il tridente
(trebussu). L’uso più frequente è
però quello metaforico. E ita totu
ses atrebussendu? (che cosa vai pasticciando?).
Atrebussau/ada, agg. Messo/a
sottosopra.
Atremenai, v. Segnare i confini,
stabilire i termini. In senso fig.
ammonire secondo regole e limiti
(tréminis) precisi. Sa mama
dd’atrémenat beni (la madre
Mancarìas. La parlata di Seui
l’ammonisce severamente). Vedi
stremenai.
Atremenau/ada, agg. Ammonito/a severamente.
Atremuligiai, v. Far tremare, spaventare. Trattare con severità. Non
m’atremuligis (non spaventarmi).
Atremuligiau/ada, agg. Spaventato/a, atterrito/a, tremebondo/a.
Atrinnitadura, s. f. Ingioiellamento.
Atrinnitai(si), v. Ingioiellare,
agghindare. Esiste anche la variante trinnitai.
Atrinnitau/ada, agg. Ingioiellato/a. Molto usato anche trinnitau.
Atripai, v. Percuotere. Completamente scomparso dall’uso corrente, vive soltanto nella loc. a tripaciocu (vedi).
Atrivimentu, s. m. Azzardo.
Atrivìrisi, v. Azzardarsi, buttarsi
nella mischia, provare a fare anche
cose che non si conoscono. Medas
s’atrivint a fàiri totu (c’è molta
gente che si butta a fare tutto).
Atrivìu/a, agg. Azzardato/a.
Atrocïai, v. Storcere, distorcere.
Atrocïamenutu, s. m. Deformazione, stortura.
Atrocïau/ada, agg. Distorto/a,
storto/a.
Atru/a, agg. Altro/a. S’a. dì fui in
Casteddu (qualche giorno fa ero a
Cagliari). Si usa anche come pro-
103
nome. Non bogliu sciri a. nudda
(non voglio saper nient’altro).
Atrudimentu, s. m. Stordimento, spavento.
Atrudiri, v. Stordire, spaventare.
Dd’ant atrudìu ’e piticu (l’hanno
spaventato da quando era bambino), chi intzighis a ddi fàiri äici
cussu piciocheddu s’atrudit in pagu
tempus (se continui a trattarlo così
quel ragazzino si stordirà in poco
tempo).
Atrudìu/a, agg. Stordito/a, spaventato/a.
Atüada, s. f. Aiuto finalizzato a
sistemare un carico sulle spalle o
sulla testa di q.no.
Atüai, v. Aiutare q.na/o a sistemarsi un carico sulla testa o sulle
spalle. Atüamindi (aiùtami a mettermi il carico), nde dd’apu atüada
(l’ho aiutata a sistemarsi il carico).
Atüau/ada, agg. Aiutato/a sistemarsi il carico sulla testa o sulle
spalle.
Atùfidu, s. m. Brutto odore che
giunge improvviso alle narici
quando - ad es. - si entra in un
locale chiuso da tempo.
Atumbada, s. f. Cozzo.
Atumbai, v. Cozzare, lottare a
colpi di corna come caproni,
montoni, mufloni e tori nella stagione degli amori. Dd’at fatu che
unu mascu ’e a. (l’ha ridotto come
104
un montone reduce da un combattimento). Is (pron. ir) mascus
(pron. mascur) de murva in portamenta funt atumbendu giai ’e sa
cida (pron. gida) passada (i mufloni in amore stanno cozzando già
dalla settimana scorsa).
Atumbau/ada, agg. Cozzato/a.
Atundai, v. Far diventare tondo,
arrotondare. Rif. agli oggetti, a persone e animali. Linu fut unu fustigu
ma imoi est atundendusì (Lino era
un fuscello ma ora si sta arrotondando), cun custu ’eranu bellu as a
biri ca cussu purdeddu s’atundat
(con questa bella primavera vedrai
come ingrasserà quel puledro).
Atundau/ada, agg. Arrotondato/a.
Atzoddàisi, v. Ubriacarsi senza
limiti. In senso dispr. Fatu fatu
s’atzoddat beni-’eni (si sbronza
spesso alla grande).
Atzoddau/ada, agg. Completamente ubriaco/a.
Atzopïadura, s. f. Azzoppatura,
zoppìa Vedi assopïadura.
Atzopïai, v. Zoppicare, azzoppare. Vedi assopïai.
Atzopïau/ada, agg. Azzoppato/a.Vedi assopïau/ada.
Äumbradura, Ombreggiatura.
Äumbrai, v. Dare ombra, ombreggiare. Anche in senso fig. per
indicare protezione.
PAOLO PILLONCA
Äumbrau/ada, agg. Ombreggiato/a.
Äuniri, v. Unire, riunire.
Äunìu/a, agg. Unito/a, riunito/a.
Àurra, s. f. Recinto in pietra
coperto di frasche, per le scrofe che
allattano i loro maialetti, àrula.
Che mardi in à. (come una scrofa
nell’àrula), similitudine gergale -di
solito ironica- per indicare una
condizione di comodità.
Äurrai, v. Sistemare nell’àrula.
Gisepu depit a. is (pr. ir) mardis
(Giuseppe deve sistemare le scrofe
nell’àrula). In senso fig. per dire
ricoverare, ospitare a dovere, etc.
Äurrau/ada, agg. Sistemato/a
nell’àrula. C. s. per i traslati.
Äurtingiu, s. m. Epidemia di aborti, frequente soprattutto tra le
capre.
Äurtìrisi, v. Abortire. Detto
anche delle donne, ma sempre
meno, e soprattutto degli animali.
Tengiu is crabas äurtendusì (le mie
capre stanno abortendo).
Äurtìu/a, agg. Abortito/a.
Äustinu, n. pr. di pers. Agostino.
Äustu, s. m. Agosto. Ancora viva un’imprecazione di malaugurio: su frius de A. (il freddo di agosto), ritenuto mortale.
Avelenai, v. Avvelenare.
Avelenamentu, s. m. Avvelenamento.
Mancarìas. La parlata di Seui
Avelenau/ada, agg. Avvelenato/a.
Avemaria, s. f. Ave Maria: una
delle preghiere principali della religione cattolica per la madre del
Messia.
Averai, v. Ammettere una circostanza, confessare un reato. Chi si
ddu pregontu ’eu, fortzis dd’averat
(se glielo chiedo io, forse lo
ammette). Cun sa giustissïa Linu no
averat mai nudda (con gli inquirenti Lino non ammette mai nulla).
Averau/ada, agg. Ammesso/a,
rivelato/a, confessato/a.
Avïadura, s. f. Salita, avviamento.
Avïai, v. Salire. Avïanci in sa
scala (sali per la scala). Introdurre,
avviare. Su babbu dd’at avïau ’eni
in is iscolas (il padre l’ha avviato
bene negli studi).
Avïau/ada, agg. Salito/a, avviato/a.
Avilidura, s. f. Stato permanente
di umiliazione e avvilimento. La
loc. a a. vale: in una condizione
stabile di prostrazione.
Avilimentu, s. m. Umiliazione,
prostrazione, depressione, avvilimento. Il s. è di quelli pregnanti.
Aviliri, v. Umiliare, avvilire pubblicamente. Dònnïa ’orta chi sa
podibba oberit buca su pobiddu
dd’avilit (ogni volta che la moglie
apre bocca il marito la umilia).
Avilìu/a, agg. Umiliato/a, avvili-
105
to/a. Da s. vale: emarginato, depresso. Ginu est a. de unu bonu
pagu ’e tempus (da un bel po’ di
tempo Gino è un emarginato).
Azerai, v. Azzerare, ridurre allo
stremo, distruggere. Una pobidda
sperdissïada azerat sa ’omu (una
moglie spendacciona riduce allo
stremo una casa).
Azeramentu, s. m. Azzeramento, riduzione allo stremo, eliminazione.
Azerau/ada, agg. Azzerato/a,
distrutto/a.
106
PAOLO PILLONCA
B
Babbai, s. m. Padre. Al vocativo,
in genere, quando un figlio/a si
rivolgeva al proprio genitore, ma
anche quando gli stessi figli, assente il padre, parlavano di lui. Oggi è
usato dalle persone anziane quando ricordano il padre morto. I giovani usano babbu. Oppure, affettuosamente, su ’eciu (il vecchio).
Babbaïola, s. f. Coccinella.
Babballoci, s. m. Insetto. Definizione tipica di quando si ignora il
nome dei singoli componenti della
specie. Nel modo di dire cunfroma
a su stampu su b. (a seconda del
buco, l’insetto) per indicare la giusta proporzione tra la causa e
l’effetto di una certa azione, il male
e il rimedio. Una filastrocca per
bambini suona così: Babballoci,
babballoci/ su chi’enit a su noti/, su
chi ’enit a de dì/, babballoci füidì
(insetto, insetto che vieni di notte,
che vieni di giorno, insetto scappa
via).
Babbeu, s. m. Babbeo, cretino.
Babbu, s. m. Babbo, genitore,
padre. Indica la genitura materiale
ma definisce anche le paternità
spirituali.
Babbucia, s. f. Pantofola. Usato
anche il dim. babbucedda.
Babbüinu, s. m. Babbuino. In
senso fig. persona brutta.
Babbumannu, s. m. Grande padre, grande spirito. Si riferisce primariamente a Dio ma si utilizza
anche in rif. a figure di grande rilievo in campi particolari. Giüan-ni
Lilliu est su b. mannu de is nuragis
(Giovanni Lilliu è il grande pa-dre
della civiltà nuragica).
Babbunostu, s. m. Padre Nostro,
la preghiera per eccellenza della
Chiesa cattolica.
Baca/’aca, s. f. Vacca. Il termine è
riferito all’animale adulto. La bestia
giovane è detta magliora. Usato
anche il dim. bachigedda, per indicare le bovine di razza rustica.
Bacagliari, s. m. Baccalà. In senso ir. indica un uomo di scarso
scintillìo mentale.
Bacanu, s. m. Strepito, baccano,
disordine, frastuono. In is festas
costumat pesat b. (nelle feste è solito produrre baccano). Presente nei
soprannomi, curiosamente, al f.
Mancarìas. La parlata di Seui
(Sa bacana).
Bacaredda, s. f. Bacca non commestibile, usata come sostanza tintoria, prodotta dalla roverella, un
tempo utilizzata in un gioco infantile (a bacareddas, appunto). Non
seus (pron. seur) mancu gioghendu a
b. (non stiamo giocando con le
bacche di roverella).
Bacargiu, s. m. Vaccaro, allevatore di vacche e bovini in genere.
Bachis, n. pr. di pers. Bachisio.
Pres. nei patronimici.
Bacili/’acili, s. m. Recinto circolare in pietra per i bovini, di altezza superiore a quelli riservati agli
ovini e caprini. Non essendo i
bovini della montagna destinati
alla produzione di latte, is bacilis
servono per radunare vacche e
vitelli nel periodo delle vaccinazioni e, un tempo, delle marchiature. Il territorio comunale di Seui
è ricco di questi manufatti in pietra, soprattutto nella parte più
montuosa.
Bacu, s. m. Vallone, fossato profondo. Presente nei toponimi.
Baculeddu, s. m. Bastoncino,
bastone elegante. Dim. di bàculu.
Bàculu,
s.
m.
Bastone
d’appoggio e da passeggio.
Baddadori, s. m. Ballerino,
amante del ballo. Non soi unu
’addadori (non sono un appassio-
107
nato del ballo).
Baddai/’addai, v. Ballare. Seus
abarraus finas a duru ’addendu
(abbiamo ballato fino a tardi). Anche in senso fig. e/o antifrastico.
Ddu-i ’addas igui (ballerai a lungo,
di là), cussu ti fait b. aberu (quello
ti farà soffrire per davvero), fais
totu tui, baddas e sonas (fai tutto
tu, balli e suoni).
Baddau/ada, agg. Ballato/a.
Bafoni, s. m. Provvisto di baffi.
Bafu, s. m. Baffo. Vedi mustatzu.
Bafudu/a, agg. Baffuto/a. Quasi
sin. di bafoni. Vedi mustatzudu.
Bagadïedda, s. f. Ragazzina adolescente (lett. che sta per diventare
maritabile).
Bagadìa/’agadìa, s. f. Nubile,
maritabile.
Bagadìu/’agadìu, s. m. Celibe.
Come il corrispondente f. funge
anche da aggettivo. De òminis bagadius in bidda si nd’agatat unu tagliu
mannu (nel paese c’è un gruppo
numeroso di uomini celibi).
Bagadìu/’agadiu, s. m. L’insieme
delle femmine del gregge che ancora non hanno partorito. In custu
tempus portu su ’a. (in questo periodo conduco al pascolo le agnelle).
Sempre preceduto dall’art. det. su.
Nome collettivo. Vedi mardïedu.
Bagamundu, s. m. Vagabondo,
nullafacente. Ha anche il senso di
108
imbroglione.
Baganti, agg. Vacante, vuoto,
instabile, precario. La loc. avv. in
b. vale: in equilibrio instabile, in
sospensione nel vuoto.
Bagasciota, s. f. Puttanella.
Bagassa, s. f. Puttana.
Bagassedda, s. f. Puttana giovane.
Bagasseri, s. f. Puttaniere, donnaiolo. Vedi feminargiu.
Bagassona, s. f. Grande puttana.
Bagassùmini, s. m. Puttanume,
scostumatezza, troiaio. Igui est totu
unu b. (lì è tutto un troiaio).
Bagianu/a, agg. Sempliciotto/a,
credulone, deficiente, cretino/a.
Desueto nella lingua della quotidianità, sopravvive nei soprannomi al m. s.
Bagna, s. f. Salsa di pomodoro.
Bagnera, s. f. Bagnarola, contenitore largo in latta o plastica.
Bagnolu, s. m. Contenitore ligneo per la preparazione della
calce. Voce gergale dei muratori.
Balandrau, s. m. Balaustra, ringhiera interna in legno o ferro.
Balconi, s. m. Davanzale, balcone.
Balenti, agg. Abile, valente. Ma
anche, come acquisizione di
superstrato: prepotente, violento,
incline a delinquere.
Balentìa, s. f. Abilità, valenza,
validità, valore. Ma oggi anche azio-
PAOLO PILLONCA
ne di prepotenza fuori dalla legge.
Balïai/’alïai, v. Tollerare, sopportare, resistere. Non bàlïat nudda,
est unu stancitau (non sopporta
nulla, è una persona inaffidabile).
Balïau/ada, agg. Sopportato/a,
tollerato/a.
Bàliri, v. Valere, contare. Franciscu a sa sola balit po tresi (Francesco da solo vale per tre).
Bàlïu/a, agg. Valso/a.
Balla, s. f. Pallottola. Rif. soprattutto alle munizioni per il fucile.
Sparai a b. sola vale: utilizzare una
cartuccia a palla.
Balla, s. f. Balla di foraggio, fieno
e paglia, anche erba medica o altro.
Balla, escl.- inter. Accidenti!
Balloni, s.m. Balla di foraggio di
dimensioni superiori alla media.
Ballu, s. m. Ballo. Il s. indica genericamente l’atto del ballare
senza distinguerne la varietà, una
serie pressoché innumerevole viste
anche le differenti definizioni
dello stesso ballo tra paese e paese.
In senso fig. situazione in cui ci si
deve mettere d’impegno per uscirne a testa alta. Imoi ca seus in su b.
tocat a baddai (ora che siamo nel
ballo bisogna ballare). Vedi baddai.
Balossìmini, s. m. Cretinaggine,
deficienza, insipienza.
Balossu/a, s. e agg. Cretino/a,
Mancarìas. La parlata di Seui
deficiente. Vedi bambassu, biobba,
càdumu, codina, codobba, conciofa,
prupu.
Bambassu/a, agg. Piuttosto insipido/a. Sia riferito ai cibi, sia alle
persone nel senso di cretino, deficiente, insulso, etc.
Bambïori, s. m. Carenza di sapore. In senso fig. scempiaggine, stupidità.
Bambu/’ambu/a, agg. Insipido/a.
Vedi bambassu.
Banca, s. f. Istituto di credito,
banca.
Banchïeri, s. m. Bancario, impiegato di banca.
Bandela, s. f. Bandiera, làbaro.
Anche in senso fig. per indicare
punti di riferimento di alto livello.
Bandicheddu, s. m. Sgabellino.
Bandicu, s. m. Sgabello in legno. Esiste anche la variante banghitu/banghiteddu. La forma principale, invece, fa registrare una
delle tante metatesi della parlata di
Seui.
Bandou, s. m. Bidone in alluminio per il trasporto del latte.
Bandu, s. m. Bando, avviso
pubblico annunziato dal banditore in tutti i rioni del paese. Per
estensione, diffusione sconsiderata
di notizie riservate. At betau su b.
(ha dato la notizia a tutti).
Banduladori, s. m. Banditore.
109
Come figura reale, è scomparsa da
qualche tempo. Il paese - fino agli
anni Settanta - ne ha avuto addirittura due contemporaneamente.
Bandulai, v. Dare il bando. Per
est. diffondere notizie anche riservate e per di più senza verifica
alcuna. Non poderat nudda, bàndulat totu (non mantiene alcun segreto, rivela tutto).
Bandulau/ada, agg. Bandito/a,
diffuso/a tramite bando.
Banghitu, s. m. Sgabello. Vedi
bandicu.
Bangiu, s. m. Bagno, impacco.
Nell’imprec. ancu ti torrint a bangius (pron. bangiur) de ’inu (che
possano farti rinvenire con impacchi di vino). Vedi abbangiai.
Bantai/’antai, v. Vantare, tenere
in grande considerazione.
Bantau/ada, agg. Vantato/a, elogiato/a.
Bàntidu/’àntidu, s. m. Vanto,
elogio, vanteria. Dev. di bantai.
Barandiglia/brandiglia, s. f.
Balaustrata.
Baratu/a, agg. A buon prezzo,
poco costoso. Il contr. di caru/a.
Lo si dice in tono ir. in rif. alla
carne rubata: sa petza b. per antonomasia.
Barbïeri/brabïeri, s. m. Barbiere.
Barca, s. f. Barca, imbarcazione.
Bardella, s. f. Sella rustica da
110
soma, usata per i cavalli nella miniera di antracite di Fundu ’e Corongiu. Presente nei soprannomi.
Bardili, n. pr. di pers. Bardilio.
Bardùnfula, s.f. Trottola. In
senso fig. per indicare una persona
in moto perpetuo ma per lo più
senza costrutto: est una b. (è una
trottola).
Bargiu/’argiu/a, agg. Multicolore, policromo, pezzato. Nei mantelli di alcuni animali la prima
distinzione è tra b. nïeddu (macchie nere su fondo bianco) e b.
orrùbïu (macchie rosse su fondo
bianco).
Baroni, s. m. Barone. Pres. nei
soprannomi.
Barra, s. f. Mascella, mandibola.
Mi ’olit una barra (mi fa male una
mascella)
Barra, s. f. Prepotenza, superbia,
alterigia, boria. Ndi portat de barra,
cussu (ne ha di boria, quello).
Barra, s. f. Coperta d’orbace o
altro tessuto, utilizzata per coprire
il pane durante la lavorazione e
dopo la cottura.
Barraca, s. f. Capanna.
Barracellu, s. m. Barracello.
Barrachedda, s. f. Piccola capanna.
Barrachinu, s. m. Gavetta.
Barracocu/a, agg. Varietà di ciliegia.
PAOLO PILLONCA
Barraconi, s.m. Capannone.
Barri, s. m. Bar, rivendita di
bevande.
Barrili, s. m. Barile.
Barroseddu/a, agg.Tendente alla
prepotenza.
Barrosìa, s. f. Prepotenza. Esiste,
ma è desueta, la variante barrosìmini.
Barrosu/a, agg. Prepotente, altero/a. Pres. nei soprannomi, al m.
Vedi barra.
Bartza, s. f. Vascone per la calce.
Bartzolu, s. m. Culla.
Bàrziga, s. f. Scherzo, facezia,
celia. Pres. nei soprannomi.
Barzigai, v. Scherzare, celiare.
Desueto.
Basadori/’asadori, s. m. Baciatore, facile a scambiare baci. Custu
no est unu pipìu ’asadori (questo
bambino non bacia facilmente).
Basai/’asai, v. Baciare.
Basau/ada, agg. Baciato/a.
Basca, s. f. Caldo intenso, afa.
Di acquisizione recente, il s. di
sostrato è fogori.
Bascesa, s. f. Bassezza, umiliazione, vergogna.
Bascaràmini, s. m. Immondezza.
Basciotu/a, agg. Bassotto/a,
piuttosto basso/a. Usato anche il
dim. bascioteddu. Vedi burrasciu.
Basciu, s. m. Cantina, seminterrato, sottoscala.
Mancarìas. La parlata di Seui
Basciu/a, agg. Basso/a.
Basciura, s. f. Luogo poco elevato.
Bascu, s. m. Copricapo di panno
blu senza visiera.
Baseta, s. f. Basetta.
Basideddu/’asideddu, s. m. Bacino, bacetto. Soprattutto in rif. ai
bambini.
Bàsidu/’àsidu, s. m. Bacio.
Basili/’Asili, n. pr. di pers. Basilio. Usato anche il dim. Basileddu.
Bassa, s. f. Cesso. Nell’espr. volg.
cravadinci/fichidinci in sa b. (vai a
ficcarti nel cesso).
Bassinaglia, s. f. Sporcizia degna
di un orinale (bassinu). In senso
lato: luridume.
Bassineri, s. m. Persona lurida,
spregevole, roba da orinale.
Bassinu, s. m. Orinale, pitale,
vaso da notte.
Bastai, v. Bastare, essere sufficiente.
Bastanti, agg. Sufficiente.
Bastardu/a, s. e agg. Bastardo/a.
Nel significato di figlio spurio il
s.-agg. che lo definisce è burdu.
Bastasciu, s. m. Facchino, uomo
di fatica.
Bastus, s. m. Bastoni. Gergale
del gioco delle carte. Vedi orus,
cupas e spadas.
Bataglia, s. f. Confusione, disordine, eccesso verbale. Pres. nei
111
soprannomi.
Batagliai, agg. Disputare, far
confusione, eccedere nel sostenere
le proprie ragioni.
Batïai, v. Battezzare. Il v. indica
l’atto e l’effetto del battesimo. Si
usa in senso ir. anche per indicare
l’annacquamento del vino.
Batïari/’atïari, s. m. Battesimo.
Batïau/ada, agg. Battezzato/a.
Bàtidu, s. m. Pulsazione, battito. Dd’intendia su b. ’e su coru (gli
sentivo il battito del cuore).
Baticogliai, v. Faticare duramente. Dónnïa dì soi baticogliendu
po nudda (mi ritrovo a faticare
tutti i giorni per nulla).
Baticollu, s. m. Entità voluminosa. Necessita di una specificazione,
per gli uomini come per gli animali: unu b. ’e piciocu (un ragazzo
enorme), unu b. ’e sirboni (un cinghiale di grandi dimensioni).
Bàtili, s. m. Sottosella. In senso
fig. persona malfatata. No ddi pongiu menti, mancai torri a b. ’e
cüaddu (non gli darò retta, anche
a costo di fare la fine di un sottosella da cavallo).
Bàtïu/ ’àtïu, s. m. Battesimo. Il
s. si usa soltanto nella definizione
su pardinu/sa pardina ’e ’àtiu (il
padrino/la madrina di battesimo).
Vedi batïari.
Batorina, s. f. Quartina, strofe
112
di quattro versi.
Bau/ ’au, s. m. Avvallamento,
guado. Pres. nei toponimi: Bau ’e
teglia, Bau ’e is corrutus, Bau ’e
Lucheddu, etc.
Bäullu, s. m. Bara, cassa da
morto. Vedi imbaullai.
Bäulada, s. f. Bava.
Bäuladura, s. f. Imbrattamento
con bava, bavatura.
Bäulai/imbäulai, v. Imbrattare
di bava.
Bäulosu/a, agg. Bavoso/a. In
senso lato, logorroico. Figura nei
soprannomi.
Becesa/ ’ecesa, s. f. Vecchiaia.
Becigeddu/’ecigeddu/a, s. e agg.
Vecchietto/a.
Becioni/’ecioni, s. m. Vecchione, vegliardo.
Beciu/’eciu, s. m. e agg.
Vecchio, vetusto. Per indicare
un’età veneranda si usano le
espressioni b. mannu (molto vecchio e b. perdali (vecchio come le
pietre).
Bedussa/’edussa, s. f. Pecora già
tosata due volte, animale di tre
anni.
Befai, v. Ridurre a malpartito,
maltrattare a parole ma anche
danneggiare fisicamente. Dd’at
totu befau in petorras (gli ha provocato contusioni sul petto). Nel
rifl. significa danneggiarsi fisica-
PAOLO PILLONCA
mente ma anche prendersi gioco
di q.no. Nd’est orrutu ’e cüaddu e
s’est totu befau (è caduto da cavallo
e ha riportato contusioni in varie
parti del corpo), candu ndi chistïonat si ndi befat (quando ne parla lo
fa con tono da presa in giro).
Befa, s. f. Beffa, danno, presa in
giro. Ddu tengiu po b. (lo considero come una presa in giro). Usata
anche la loc. a b. (a beffa, nel
senso di un’umiliazione palese o di
una sconfitta clamorosa e umiliante). Gioghendu a sa murra ddu
facu a b. (al gioco della morra lo
surclasso).
Befau/ada, agg. Beffato/a, umiliato/a, contuso/a.
Befïanu, s. m. Incline alla burla,
amante degli scherzi.
Belai, v. Belare.
Bélidu, s.m. Belato.
Bell’e, avv. Quasi, pressoché. Su
trabbagliu mi parit bell’e fatu (il
lavoro mi sembra quasi fatto), su
fogu nde dd’iaus bell’e irmortu
(l’incendio l’avevamo quasi spento), de su chi at nau s’abogau no
nd’apu cumpréndïu bell’e nudda (di
ciò che ha detto l’avvocato non ne
ho capito quasi nulla). Bell’e irmortu figura anche nei soprannomi.
Bellesa, s. f. Bellezza, venustà.
Dote molto apprezzata nelle cose
e nelle persone, soprattutto nelle
Mancarìas. La parlata di Seui
donne, a patto che le si unisca una
buona dose di saggezza. Per il
sapere proverbiale dei nostri antenati, da sola non era sufficiente,
come ricorda anche un detto antico: b. non fait domu (la bellezza
non fa la casa).
Belletu, s. m. Trucco, cosmetico.
Belligeddu/a, agg. Bellino/a.
Spesso in senso ir.
Bellu/a, agg. Bello/a. Se rif. agli
animali, generalmente vale: pingue, grasso. Antoni portat bellus
angionis (Antonio ha agnelli grassi). Ma quando è riferito al cavallo
ne definisce sola la bellezza, non la
pinguedine.
Bellu (a), avv. Piano, adagio,
etc. Nella loc. avv. a b., distingue
sottilmente il suo senso di utilizzo.
Lentamente: bai a b. ca mi ’olit
unu pèi (vai piano perché sento
dolore ad un piede). Con gradualità: cussu trabbagliu ’olit fatu a b.
(quel lavoro va fatto gradualmente). Senza troppa forza: po irdorrüai, sa càvana dda depis umperai a
b. (quando tagli i rovi, la roncola
la devi usare senza troppa forza).
In sa vida nci ’olit passïentzia: as a
biri ca a b. a b. nci podis arrennèsciri (nella vita ci vuole pazienza:
vedrai che pian piano ci potrai
riuscire).
Bellu-bellu, s. m. Gentilezza
113
affettata, finzione di buon trattamento. Cussu ti fait su b.-b- in faci
e a palas ti tragagliat (quello lì si
mostra gentile con te quando siete
uno di fronte all’altro e poi ti critica alle spalle).
Benassortau/ada, agg. Fortunato/a. Vedi bonasorti.
Benassu/ ’enassu, s. m. Acquitrino, luogo umido. Vedi abenassai.
Béndida, s. f. Vendita.
Bendidori/ ’endidori, s. m.
Venditore.
Bèndiri/ ’èndiri, v. Vendere.
Definisce tutte le operazioni di
vendita, a qualunque genere di
mercanzia ci si riferisca. De su chi
at connotu non bendit nudda (non
vende nulla di ciò che ha ricevuto
in eredità). Al rifl. vale: tradire,
mutare opinione o schieramento
politico per interesse. Si ’endit po
una pariga ’e crapitas (si vende per
un paio di scarpe), detto di chi
non ha alcuna dignità.
Béndïu/a, agg. Venduto/a, ceduto/a.
Beneditzïoni, s. f. Benedizione,
approvazione.
Beneducau/ada, agg. Ben educato/a.
Benëìgiri, v. Benedire.
Benëitu/a, agg. Benedetto/a,
fortunato/a.
Beni, s. m. Patrimonio, bene.
114
Iat cumentzau coment’e serbidoreddu e in pagus annus s’at fatu unu b.
mannu (aveva iniziato come servetto e in pochi anni ha accumulato un grande patrimonio).
Beni, avv. Bene, adeguatamente,
a regola d’arte. Eligiu addurat ma
su trabbagliu ti ddu fait b. (Eligio è
lento ma il lavoro te lo esegue
bene).
Benidori, s. m. Discendente,
persona che deve ancora nascere.
Lett. venturo.
Benïenti, agg. Imminente, prossimo. Rif. al tempo futuro in generale e/o a un evento annunciato.
Benïófiu/a, agg. Benvoluto/a.
Benichistïonau/ada, agg. Facondo/a, lepido/a, dalla parola
ornata, piacevole da ascoltare.
Detto di chi governa bene le parole. Si bit inderetura ca Umbertu est
un’ómini b. (si vede subito che
Umberto è una persona dal parlare squisito).
Benïenìu/a (beni ’enìu/a), agg.
Benvenuto/a. Espressione augurale di rito che saluta l’arrivo di una
persona conosciuta e stimata.
Benifüeddau/ada, agg. Sin. di
benichistïonau.
Beniu/a, agg. Venuto/a.
Bennardu/a, n. pr. di pers. Bernardo/a.
Bénniri/’énniri, v. Venire, so-
PAOLO PILLONCA
praggiungere, accadere. Al part.
pass. l’intensità di suono della consonante intervocalica n si dimezza
e da sdrucciola la parola diventa
piana (benìu/a), a differenza di
quanto avviene in alcune parlate di
paesi limitrofi come Àrzana e
Gàiro (bénnïu/a).
Bentina/’entina, s. f. Aspetto,
colorito. Est de ’e. legia (ha un
brutto aspetto) a dda portas a b.
(che brutto aspetto hai).
Bentigeddu/’entigeddu, s. m.
Venticello, brezza.
Bentosu/’entosu/a, agg. Ventoso/a, esposto/a al vento. Nci fustis
in-d-una punta ’e. (eravamo su
una cima ventosa).
Bentu/’entu, s. m. Vento. Il s. di
per sé dà solo un’indicazione generica di forte movimento d’aria, ma
agricoltori e pastori ne distinguono dettagliatamente tipologia e
durata presunta e ne prevedono
con buona approssimazione gli
effetti, regolandosi opportunamente nell’eseguire determinate
azioni: b. basciu, b. estu, ’e soli, b. ’e
susu, b.’e tramuntana, b. mäimuru,
etc. Conoscere i venti e saperli leggere è una delle qualità che si
richiedevano al pastore di una
volta, con l’interpretazione dei
segni dati dal comportamento del
bestiame. Dunque il pastore,
Mancarìas. La parlata di Seui
soprattutto nella montagna, deve
diventare amico del vento se vuole
essere tranquillo. Il s. vivifica alcune locuzioni avverbiali: a bentu, a
bentu ’eretu e altre (v. negli esempi
alla prep. A). Presente tra i soprannomi paesani nella versione italiana.
Bentulai/’entulai, v. Spulare,
affidare al vento. Nel lessico degli
agricoltori di una volta indicava
l’operazione dell’aia in cui si sollevava il grano con la pala. Usato
anche nel senso di scagliare lontano, proprio come può fare il
vento. Nce ddu ’éntulat atesu (lo
getta via lontano).
Beranu/’eranu, s. m. Primavera.
È la stagione di maggior lavoro
per i pastori. Quella della mungitura (il latte costituisce ancora
oggi a Seui l’entrata maggiore,
nonostante la crisi degli ultimi
anni, nei pur magri bilanci aziendali) rappresenta l’occupazione
più gravosa e senza alcun giorno
di pausa, dall’inizio di gennaio alla
fine di giugno. Ovviamente il
periodo più faticoso va da aprile a
maggio, data l’abbondanza di erba
fresca e la conseguente maggior
produzione di latte. Nel lessico dei
pastori la divisione dell’anno in
stagioni non corrisponde esattamente a quella teorica della
115
meteorologia, soprattutto in certe
annate in cui sulle montagne della
Barbagia meridionale si vede
ricomparire la neve anche ad aprile inoltrato. Nell’immaginario collettivo del pastoralismo la primavera è comunque la stagione ideale. Il s. è molto utilizzato in senso
traslato in similitudini e metafore
anche del parlare quotidiano: est
unu ’e. (è una primavera, per dire
di un tempo favorevole), mi pargiu in b. (mi sembra di essere in
primavera), fut prenu, pariat unu
’oi in b. (era grasso, sembrava un
bue in primavera).
Beridadi, s. f. Verità. Una tra le
qualità più apprezzate nel pianeta
del noi-pastori. La verità non teme
smentite e alla fine prevale: sa b.
ndi ’essit sempir a pigliu (la verità
viene sempre a galla). È questa una
convinzione profonda del mondo
pastorale. Naramì sa b. ca sa fàula
non tenit agüantu (dimmi la verità
perché la bugia non ha resistenza).
Beridadosu/a, agg. Veritiero/a.
Contr. di fäulargiu.
Berretu, s. m. Copricapo, berretto.
Berri/’erri, s. m. Verro, maiale
maschio non castrato destinato
alla riproduzione. Soi cichendu
unu ’e. (cerco un verro). Presente
nei soprannomi, preceduto dal-
116
l’art. det.: su ’erri.
Berrita, s. f. Copricapo del costume tradizionale. In orbace nero,
ma anche in panno dello stesso
colore, ha una lunghezza variabile
dai 40 ai 50 cm.
Berritedda, s. f. Piccolo copricapo tradizionale.Dim. di berrita.
Bértula, s. f. Bisaccia. Viva
l’espr. metaforica cussu ndi tenit de
pistocu in b. (quello ha una buona
provvista di sfoglie di pane nella
bisaccia), per dire di persona dotata di risorse, materiali e non.
Bertuläiu, s. m. Ladro di bisacce. Per est. miserabile.
Beru/’eru/a, agg. Vero/a.
Bessida/’essida, s. f. Uscita. Fut
in-d-unu padenti cracu e no agatàt
b. peruna (era in un bosco fitto e
non trovava alcuna via d’uscita).
Salita. Est un’àndala totu in b. (è
un sentiero tutto in salita). Motto,
battuta spiritosa: Ninu fait bessidas
curïosas (Nino fa battute divertenti).
Bessiri/’essiri, v. Uscire, salire,
debordare. In domu est Antoni?
Nou, nc’er bessiu (Antonio è in
casa? No, è uscito). Bessenci a cöili
e betimindi una càvana (sali all’ovile e portami una roncola). Nci ’essit
de su trémini ’e su bonu sentidu
(esce dai confini del buon senso).
Bessiu/a, agg. Uscito/a.
PAOLO PILLONCA
Besti ’e peddi, s. f. Mastruca.
Béstïa, s. f. Animale, bestia. In
senso fig.: persona spregevole.
Bestimenta, s. f. Vestiario, veste,
vestito.
Bestïolu, s. m. Somarello. Vedi
bistratzu, burricu, cocineddu e
molenti.
Bestiri/’estiri, v. Vestire, indossare. Ddu ’estit sa pobidda, chi fut
de cussu ’essiat stratagliau (lo veste
la moglie, dipendesse da lui uscirebbe in disordine).
Bestiri/’estiri, s. m. Vestito,
abito.
Bestiu/’estiu/a, agg. Vestito/a.
Bestonada, s. f. Colpo di bastone. Per est. sussa, batosta.
Bestoni, s. m. Bastone. Usato
anche il dim. bestoneddu.
Betai/’etai, v. Buttare via, gettare. Betanceddu a s’àliga (buttalo
nell’immondezza). Versare. Betamidda una tassa ’e birra (versami
un bicchiere di birra). Rinfacciare.
Chi ddi fidas cheleguna cosa, candu
ddu-i degit ti dda ’etat in faci (se gli
confidi qualcosa, al momento
opportuno te la rinfaccia). Annunciare pubblicamente, quando il
compl. ogg. è il bando pubblico.
Su sìndigu ’etat su bandu (il sindaco dà l’annuncio con un bando).
Istituire, mettere a ruolo (in rif.
alla tassazione). Su Cumunu at
Mancarìas. La parlata di Seui
betau una pagamenta noa (il
Comune ha istituito una nuova
tassa). Nel rifl. gettarsi, lanciarsi:
betau in sa spérruma (lanciato nel
precipizio). L’espressione betai su
’ermi definisce il fenomeno della
degenerazione di particolari alimenti - carni, soprattutto, ma
anche funghi e altro - quando si
lasciano a contatto dell’aria e
diventano pasto dei vermi.
Betada/’etada, s. f. Discesa. Ma
anche b. ’e manu, aiuto.
Betau/ada, agg. Gettato/a via,
versato/a, etc. Vedi betai nei vari
significati.
Betiri/’etiri, v. Portare (con il
compl. di moto da luogo). Custas
crabas nde ddas at betias Antoni de
su sartu ’e Bäunei (queste capre le
ha portate Antonio dal territorio
di Baunei). Ricondurre, riportare.
Un’antica maledizione-vaticinio di
morte violenta recita: ancu ti ndi
’etant in coma ’e moddissi (che ti
riportino a casa su frasche di lentischio). Riferire. M’iat a pràgiri a
isciri e chini ti ndi ’etit custas cadumèntzïas (mi piacerebbe sapere chi
ti riferisce queste scempiaggini).
Di uno che rivela ogni segreto a
entrambe le parti eventualmente
in causa si dice spregiativamente:
est unu porta e beti, abbr. in portebeti (è uno che non sa tenere un
117
segreto, lett. che ascolta e riferisce).
Betiu/a, agg. Portato/a, condotto/a.
Betu/a, s. m. e f. Cerbiatto/a,
cervo/a giovane.
Bia, prep. impropria. Nei verbi
di moto indica una direzione.
Andaus bia susu (andiamo verso la
parte alta). Indica anche
un’approssimazione di tempo e/o
di luogo. Ap’a erribbai bia mesudì
(arriverò verso mezzogiorno), fui
bia Arcuerì (mi trovavo nei dintorni di Arcuerì).
Bia/’ia, s. f. Volta. Dd’apu lamau
tres (pron. trer) bias ma s’est (pron.
s’er) betau a surdu (l’ho chiamato
per tre volte ma ha fatto il sordo).
A b. a b. (una volta per uno). Vedi
borta/’orta.
Bïagi/’ïagi, s. m. Carico, peso,
tragitto, trasporto, percorso con
carico. Totu in-d-unu ’ï. no nce dda
facu (con un solo carico non ce la
farò). Usata la loc. avv. a bïagis
(pron. biagir) d’òbïa (a ruota continua).
Bïassu/a, agg. Piuttosto in
forma, assai vivace. Giai mi paris b.
(mi sembri in forma). Usato anche
il dim. bïasseddu/a. Vedi biu.
Bibbigorra, s. f. Chiodo fisso,
fissazione, mania.
Bibbirollais, s. m. Ninnoli, cianfrusaglie, vanità, oggetti inutili. Si
118
usa sempre al pl.
Bicai, v. Beccare. Usato anche
nel senso di mangiare. Ancora
molto frequente l’espr. met. piglioni chi non bicat at bicau (un eccello che non becca ha già beccato).
Bicallinna, s. m. Picchio. Pres.
nei soprannomi.
Bicu, s. m. Becco. Indica anche la
beccata. Viva l’espr. ir. che dà voce
a una sorta di previsione positiva, a
patto che non entri in ballo - chissà perché - la beccata di un corvo:
chi si campat de b. ’e crobu (se si
salva dalla beccata di un corvo).
Bidassoni/’idassoni, s. m. Vidazzone, parte del territorio
comunale annualmente riservato
agli agricoltori e dunque vietato
per un anno al pascolo.
Bidda/’idda, s. f. Paese, villaggio. Indica sia l’insieme di case,
strade e piazze che dànno corpo
all’agglomerato urbano sia la
comunità paesana – sa ’idda - in
senso complessivo. Senza specificazioni ulteriori, indica il paese
natale o di residenza di chi parla.
Andaus a b. (torniamo in paese).
Biddargiu/’iddargiu, s. m.
Uomo che lavora nel centro abitato. Vedi montargiu.
Biddigedda/’iddigedda, s. f.
Paesino, villaggio.
Bìddigu/’ìddigu, s. m. Ombe-
PAOLO PILLONCA
lico. Ironicamente: pancia. Arratza
’e ’ì. t’as cuncordau (hai proprio una
bella pancia). Vedi imbiddigai(si).
Biddùnculu, s. m. Paesano,
rustico, villano.
Bidu/’idu, s. m. Dito. Rif. alle
dita di mani e piedi. Dal punto di
vista fonetico, questo s. è un
municipalismo singolare. La consonante iniziale, anziché una dentale come in altri centri della zona,
è una labiale. Al sing. su ’idu, al pl.
is (pr. ir) bidus. Non esiste a Seui
la forma didu, comune alle parlate
dei paesi confinanti.
Bidu/a, agg. Visto/a. Part. pass.
di biri (vedere).
Biga, s. f. Trave in ginepro, leccio o castagno che sostiene una
tettoia di canne o altro materiale.
Biginau/’iginau, s. m. Rione,
vicinato, contrada.
Biginu/’iginu, s. m. Vicino di
casa, abitante del rione.
Bigliadori/’igliadori, s. m.
Custode, sorvegliante. Nel gergo
dei vignaioli che, fino a pochi
decenni fa, nel periodo immediatamente precedente la vendemmia, zona per zona, assumevano
temporaneamente un custode che
vigilasse sulle vigne.
Bigliai/’igliai, v. Vegliare, custodire, vigilare. Su meri fut mortu e-i
su cani dd’at bigliau totu sa dì e sa
Mancarìas. La parlata di Seui
dì ’nfatu finas a s’ora ’e su ’nterru (il
padrone era morto e il cane l’ha
vegliato tutto il giorno e il giorno
seguente fino all’ora del funerale).
Bigliau/ada, agg. Vegliato/a custodito/a, vigilato/a.
Bigotu/a, agg. Bigotto/a, persona che affetta devozione e frequenta quotidianamente la chiesa.
Vedi cresïàstigu/a.
Bigotùmini, s. m. Bigottume.
Billetaïu, s. m. Bigliettaio, fattorino.
Billetu, s. m. Biglietto, messaggio
scritto. Una punta ’e b. è un messaggio scritto. Banconota. Tenit sa
buciaca prena ’e billetonis (ha la
tasca piena di banconote di grosso
taglio).
Binàrïu, s. m. Binario, le parallele ferree su cui deve passare il
treno.
Binassa/’inassa, s. f. Vinacce,
nome coll. S’abbardenti ’e ’i. no est
che-i cussa ’e binu (l’acquavite da
vinacce non è come di quella da
vino).
Bincidori, s. m. Vincitore.
Bìnciri, v. Vincere, superare,
sconfiggere. Gioghendu a sa murra
no ddu bincit nemus (nel gioco
della morra nessuno lo supera). Il
part. pass. è bintu.
Bingia/’ingia, s. f. Vigna.
Bingiateri/’ingiateri, s. m.
119
Vignaiolo.
Binigeddu, s. m. Vino di poco
pregio. Ma spesso il s. assume il
senso di una sorta di diminutivo
affettuoso.
Binnenna, s. f. Vendemmia.
Binnennai, v. Vendemmiare.
Binnennau/ada, agg. Vendemmiato/a.
Binti, agg. num. card. Venti.
Binticüatru, agg. num. card.
Ventiquattro. Viene usato spesso
in un’espr. tipica che indica
l’indisponibilità altrui a qualsiasi
tipo di dialogo: s’est postu ’e b. (non
accetta il dialogo).
Bintidùs, agg. num. card. Ventidue.
Bintigincu, agg. num. card.
Venticinque.
Bintinoi, agg. num. card. Ventinove.
Bintisès, agg. num. card. Ventisei.
Bintiseti, agg. num. card. Ventisette.
Bintitrès, agg. num. card. Ventitré.
Bintotu, agg. num. card. Ventotto.
Bintu/a, agg. Vinto/a, sconfitto/a. Part. pass. di bìnciri.
Bintunu, agg. num. card. Ventuno.
Binu/’inu, s. m. Vino. La vinifi-
120
cazione è un altro dei saperi comunitari seuesi: nella seconda metà
dell’Ottocento i vini di Seui meritarono importanti riconoscimenti
nazionali (Roma 1880, Milano
1881, Palermo 1886) e internazionali (Anversa 1885, Bordeuax,
1886). Oggi, purtroppo, questo
sapere è in gran parte negletto. In
alcune espressioni idiomatiche, il
s. definisce anche gli effetti dell’eccesso nel bere: candu si coit Antoni
tenit b. malu (quando si ubriaca
Antonio diventa cattivo), chi bufat
cheleguna tassa in prus, Arremundu
tenit b. ’onu (se beve qualche bicchiere in più, Raimondo ha la
sbronza allegra). Frequente il prov.
binu ’onu fin’a fegi (il vino di qualità dura fino alla feccia). Vedi abinai.
Bïobba, s. m. Deficiente, dissennato. Vedi balossu, bambassu, bobbodda, càdumu, codina, codobba,
conciofa, prupu.
Bïocia, s. f. Sbevazzamento. In
senso ir. ddi pragit sa b. (ama bere
fuori misura).
Birdangiu/a, agg. Verdastro/a.
Birdàrramini, s. m. Verderame.
Birdi/’irdi, agg. Verde.
Birdi, s. m. Vetro.
Bìrdïa/’ìrdïa, s. f. Matrigna.
Bìrdïu/ìrdïu, s. m. Patrigno.
Birdura, s. f. Verdura.
PAOLO PILLONCA
Birdureri, s. m. Verduraio.
Biri, v. Vedere. Nel senso proprio
dell’azione esercitata attraverso gli
occhi. Il part. pass. è bidu/a. Cun
custa nébida non biu nudda (con
questa nebbia non vedo niente).
L’espr. biri ’e lìtara vale: saper leggere (lett. vedere le lettere, ossia
distinguerle). Di conseguenza, chi
è analfabeta non bit de lìtara (non
distingue fra le lettere). Il v. si usa
anche nel significato improprio di:
considerare, valutare. Immoi bïeus
(adesso vedremo), no ddu biu ’eni
(non mi sembra giusto).
Bisadura, s. f. Vagheggiamento.
Bisai, v. Sognare, vedere in
sogno, vagheggiare.
Bisassu/’isassu, s. m. Arbusto
spinoso dal profumo assai intenso.
Le capre non lo mangiano, il che
fa supporre sia tossico. Perciò i
caprari avveduti lo utilizzano per
guarnire i recinti dei capretti, in
modo da avere poi i cagli puliti.
Bisau/ada, agg. Sognato/a.
Bisïoni, s. f. Sogno, visione.
Bisongiai, v. Necessitare, essere
necessario. Bisongiat a si móviri
(occorre muoversi). Mancai e fessit
a ténniri totu su chi nos si bisongiat
(magari avessimo tutto ciò di cui
sentiamo la necessità).Vedi abbisongiai.
Bisongiau/ada, agg. Necessita-
Mancarìas. La parlata di Seui
to/a.
Bisongiu/abbisongiu, s. m.
Necessità, bisogno, difficoltà. Fui
in a. mannu e Antoni m’at sarvau
(ero in grande difficoltà e Antonio
mi ha salvato).
Bisu/’isu, s. m. Sogno.
Bistratzu, s. m. Somaro. Ora
desueto, ma ancora in uso negli
anni Ottanta, come dice Demetro
Ballicu in Brevi saggi di indole
varia (Cagliari, 1977) alla voce
agragalau, in una nota a pag.14.
Bisura/’isura, s. f. Vista, osservazione, visione, aspetto. Tenit una
’i. legia (ha un brutto aspetto).
Biu/bia, agg. Vivo. Bai e pregontasiddu, giai est (pron. er) b. e sanu
(vai e chiedilo a lui: è vivo e sano)
Bìviri, v. Vivere, risiedere, abitare. Franciscu bivit sa vida sua bona
parti in su monti (Francesco vive
gran parte della sua vita in campagna), sa murva bivit una cüindigina ’e annus (la mufla vive una
quindicina di anni). Abitare. Bivit
cun su fradi (abita con il fratello).
Bìvïu/a, agg. Vissuto/a.
Bìvïu, s. m. Bivio, biforcazione
di strada.
Bobbodda, s. m. Cretino, stupido. Vedi balossu, bambassu, biobba, càdumu, codina, codobba, conciofa prupu. Municipalismo.
Bobboi, s. m. Insetto, generica-
121
mente, quando non si conosce con
esattezza di quale specie si tratti.
Bocia, s. f. Palla. Non solo quella da gioco. Il s. indica qualunque
cosa abbia forma tondeggiante.
M’at bessìu una b. in petorras (mi si
è formata una palla sul petto).
Indica anche il pallone del gioco
del calcio. Cussu piciocheddu parit
nàscïu po giogai a b. (quel ragazzo
sembra nato per giocare al calcio).
Pres. nei soprannomi.
Bociada, s. f. Bocciata. Gergale
del gioco del biliardo.
Bociadura, s. f. Bocciatura, risultato scolastico negativo, rifiuto.
Bociai, v. Bocciare. Gergale del
gioco del biliardo.
Bociau/ada, agg. Bocciato/a.
Bocidori/’ocidori, s. m. Assassino. Cussa morti dd’ant imputada
a Franciscu ma su ’o. fut unu strangiu (quell’omicidio venne attribuito a Francesco ma l’assassino era
un forestiero).
Bocifigu, s. m. Uccisore di fichi.
Voce scherzosa, presente nei soprannomi.
Bocigedda, s. f. Pallina, piccola
palla.
Bociri/’ociri, v. Uccidere, macellare. Po Santu Cristolu ap’a b.
unu mascu sanau (per San Cristoforo ammazzerò un ariete castrato), dd’at bocìu su ’inu (l’ha ucciso
122
il vino). Assassinare, portare alla
tomba. Usato nelle maledizioni.
Sa giustìssïa ddu ’ociat (che la giustizia lo ammazzi).
Bocìu/a, agg. Ucciso/a.
Boddiri/’oddiri, v. Prendere, raccogliere. Nd’apu ’oddiu sa castangia
(ho raccolto le castagne). Subire,
sopportare, incassare. Candu si
ponit a certai cun chelegunu, Pìlimu
ndi ’oddit cardas de portai a nòmini
(quando litiga con q.no, Priamo
prende delle susse memorabili).
Talvolta il v. diventa ellittico dell’oggetto, tanto è palese il senso del
discorso: Non ti cravis ca ndi ’oddis
(evita le risse perché rischi di prendere colpi). Per est. il v. indica
anche la capacità di capire la
sostanza di un discorso e di saperne riferire sensatamente. Ia a bòlliri sciri e ita nd’at boddiu Armandu
de totu su chi at nau su préidi (vorrei sapere cosa ha capito Armando
di tutto ciò che ha detto il sacerdote).
Boddiu/a, agg. Preso/a, raccolto/a, etc.
Bofetada, s. f. Allusione, battuta
ironica sotto metafora.
Bofetai, v. Alludere metaforicamente.
Bófïu/a, agg. Voluto/a. Irreg. da
bólliri. Non depit incurpai a nemus,
dd’at b. cussu (non deve incolpare
PAOLO PILLONCA
nessuno, l’ha voluto lui).
Bogada ’e prana, s. f. Segno
identificativo di proprietà di bestiame, difficile da tradurre alla lettera
se non con una banalizzazione
(traccia di pialla). Consiste in un
taglio diritto di una parte dell’orecchio. È un segno prediletto dei
contraffattori per la facilità con cui
si può risegnare un capo distinto
inizialmente con il pissu càvanu.
Bogadura/’ogadura, s. f. Estrazione. Ma anche slogatura, lussazione. M’apo ’ogau unu pèi (mi
sono lussato un piede). Usata la
loc. avv. a b.
Bogai/’ogai, v. Cacciar via. Teniat
unu sposu ma nci dd’at bogau (aveva
un fidanzato ma l’ha cacciato via).
Estrarre. Mi nd’apu ’ogau unu chesciali (mi sono fatto estrarre un
molare). Rinunciare a seguire una
persona o un affare. Mi seu orroscïu
e ddu ’ogu ’e càbudu (mi sono stufato e non lo seguo più). Scegliere,
trovare, proporre. Bogamindi
un’atru chi scipat fàiri su casu
comenti ddu fait Pïeru (tròvamene
un altro che sappia fare il formaggio come Piero). Ufficializzare un
evento. B. sa cöia in craru (rendere
pubblico
il
fidanzamento).
Presentare per la prima volta al
paese. Sa purdedda dd’at bogada po
Santu Cristolu (la puledra l’ha pre-
Mancarìas. La parlata di Seui
sentata alla festa di San Cristoforo). Germogliare. Sa mata at
bogau (la pianta presenta i primi
germogli). Dissotterare. Nd’apu
’ogau sa patata (ho raccolto le patate). Attribuire, incolpare a torto
q.no di q.sa. Si dd’at bogau su cumpangiu ma cussu no ndi tenit curpa
(gliel’ha attribuito il suo compagno
ma lui non ne ha colpa). Far emergere, riportare alla luce. Pariat una
cosa scarèscïa, ma chelegunu nde
dd’at bogada a pigliu (sembrava una
cosa dimenticata ma qualcuno l’ha
riportata a galla). Slogarsi, subire
una lussazione. M’apu ’ogau unu pèi
(mi sono slogato un piede), portu
una pala ’ogada (ho una spalla lussata).
Bogi/’ogi, s. f. Voce. Indica le
caratteristiche vocali di ciascuno
ma definisce anche una diceria. Est
bessìa sa ’o. ca sa cöia de Franciscu no
est arrennèscïa (si è diffusa la voce
che il matrimonio di Francesco
non sia riuscito). Il s. alimenta una
serie di locuzioni e modi di dire: a
bogis, a b. bascia, a b. balandera,
etc. Vedi nello spazio riservato alle
locuzioni avverbiali, alla lettera A e
alla voce aboginai.
Boi/’oi, s. m. Bue. Indica il bovino adulto, di più di tre anni di età.
Per estensione il s. si usa anche in
senso ironico per rappresentare
123
con una similitudine efficace un
uomo di corporatura massiccia.
Boïabbessa, s. f. Caos, confusione. Francesismo (bouille baisse,
una zuppa di pesce tipica della
cucina d’Oltralpe) entrato nella
parlata di Seui in seguito all’imponente fenomeno migratorio di
minatori seuesi verso la Francia
nei primi quattro decenni del
secolo scorso. Vedi botada, brichetu, muntzù, sortiri, turnichetu.
Böimarinu/’öimarinu, s. m.
Foca monaca. Pres. nei soprannomi preceduto dall’art. det. su.
Boïnai, v. Condurre buoi domati. Desueto.
Boïnargiu, s. m. Bovaro, conduttore di buoi.
Boladori/a, agg. Amante del
volo.
Boladura, s. f. Lancio al volo.
Nella loc. avv. a b.
Bolai/’olai, v. Volare. In senso
reale e fig. Sa mala nomenada ’olat
(la cattiva fama vola). Essere veloce. Bolat, Linu, cun sa moto (Lino
in moto è velocissimo).
Bolàticu/a, agg. Incostante,
inaffidabile.
Bolau/ada, agg. Volato/a.
Bólidu/’ólidu, s. m. Volo. La
loc. avv. a b. vale: in un battibaleno. Dd’apu fatu a b. (l’ho fatto in
un attimo).
124
Bòliri/’oliri, v. Dolere, aver
male. Mi ’olit sa conca (ho mal di
capo), mi ’olit in dónnïa logu (ho
dolori in tutto il corpo). M’est
(pron. er) bófïu (mi ha fatto provare dolore). Il part. pass. è identico
a quello di bòlliri (volere): bófiu.
Frequente l’impiego traslato.
Bólliri/’ólliri, v. Volere. In sardo
i verba voluntatis si coniugano in
modo differente rispetto all’italiano, ossia con la prep. a seguita dal
verbo all’inf. presente. Non bogliu
a fàiri custu (non voglio che tu
faccia questo), babbu non at bófïu
a bessiri (mio padre non ha voluto
che io uscissi di casa). Anche
impers. nel senso di: è necessario,
occorre. Bolit a cöidai ca su tempus
est isconcendusì (occorre sbrigarsi
perché il tempo si sta guastando),
bolit a si citiri (bisogna star zitti).
Bomba, s. f. Polpetta. Usato
quasi escl. al pl. Mi parit ca oi facu
bombas (forse oggi preparerò le
polpette).
Bomba, s. f. Bomba, ordigno
esplosivo.
Bombardai, v. Bombardare, insistere oltre misura nelle richieste.
Bombarderi/bumbarderi, s. m.
Persona insopportabile per logorrea perenne. Vedi bumbarda.
Bonasorti, s. f. Fortuna, buona
sorte. Vedi benassortau.
PAOLO PILLONCA
Bonesa, s. f. Bontà d’animo.
Bonidadi, s. f. Inclinazione naturale alla bontà e alla solidarietà.
Bonu/’onu/a, agg. Buono/a,
bravo/a. Anna est una fémina ’o.
(Anna è una brava donna). Saporito/a. Fut b., cussa pruna (erano
saporite, quelle susine). Abile, capace. Antoni no est (pr. er) b. a fàïri
nudda (Antonio è totalmente incapace). Con la prep. a viene usato
avverbialmente in alcuni modi di
dire: a b., a b. mannu, etc. Vedi
l’elenco delle locuzioni con la prep.
A.
Bonucoru, s. f. Magnanimità,
generosità, oblatività, disponibilità ad aiutare chi soffre e, più in
generale, chiunque abbia bisogno
di solidarietà. Vedi malucoru.
Boricu, n. pr. di pers. Salvatore.
Molto usato anche il dim. Boricheddu.
Borta/’orta, Volta. Sin. di
bia/’ia. Frequente la loc. a bortas
(talvolta). Giro. At fatu ’o. fartza
(ha fatto un falso giro).
Bortulai, v. Rivolgere, rivoltare.
Bosatrus, pr. pers. Voi, voialtri.
Bostu/’ostu/a, agg. poss. Vostro/a.
Bosu, pr. pers. Voi. Si usa fra
persone legate dal vincolo del
comparatico.
Bota, s. f. Guancia. Pres. nei
Mancarìas. La parlata di Seui
soprannomi. Vedi trempa.
Botada, s. f. Battuta di spirito.
Uno dei vari francesismi (boutade)
entrati nella parlata paesana nei
primi quattro decenni del secolo
scorso, in conseguenza della massiccia emigrazione di minatori di Seui
in Francia. Vedi boïabbessa, brichetu, muntzù, sortiri, turnichetu.
Botinu/butinu, s. m. Scarpa
fabbricata industrialmente. Vedi
sabbata e cosingiu.
Botoludu/a, agg. Paffuto/a,
dalle guance grosse. Vedi bota.
Botoni/a, agg. Dalle grandi
guance. Sin. di botoludu.
Botu, s. m. Barattolo. In senso
fig. persona grossolana. Vedi stugiu.
Bovali, s. m. Bovale, vitigno.
Bóvida, s. f. Soffitta, volta.
Bovu, s. e agg. Sciocco, scimunito. Vedi abbovai.
Brabudu/a, s. e agg. Barbuto/a.
Braga/’raga, s. f. Gonnellino di
panno nero del costume maschile
tradizionale.
Bragas/’ragas, s. f. Ghette, pezzo
del costume tradizionale maschile.
Brageri, s. m. Braciere.
Bragia, s. f. Brace.
Branda, s. f. Branda, lettino.
Brassu/’rassu, s. m. Braccio. Al
sing. davanti agli articoli si usa sempre la seconda forma: su ’r., unu ’r.
125
Al pl. sempre la prima: m’est tocau a
mòviri is (pron. ir) brassus (sono
stato costretto a muovere le braccia), su pipìu fut prangendu e tandu
mi dd’apu pigau in brassus (il bambino piangeva e allora l’ho preso fra
le mie braccia).
Bratzetu, s. m. Braccetto. Nella
loc. a b.
Bravu/a, agg. Bravo/a, buono/a
d’animo.
Brebegargiu/’erbegargiu, s. m.
Pastore di pecore. In bocca ai
caprari il s. suona lievemente ironico - e viceversa - per la perpetua
rivalità tra i due conduttori, vista
la differenza delle due specie.
Brebèi/’erbèi, s. f. Pecora.
Anche qui vale la distinzione di
forme tra sing. e pl. S’’e., un’’e. (la
pecora, una pecora), is (pron. ir)
brebeis. A seconda della posizione
nella frase, tuttavia, la prima
forma viene usata anche al sing.:
no istertzat interi craba cun b. (non
distingue fra capra e pecora).
Breca, s. f. Punto profondo dei
laghetti di fiume.
Brechïoni, s. m. Spuntone, ramo spezzato che sporge dal tronco.
Bregungia/’ergungia, s. f. Vergogna, timidezza.
Bregungiai(si)/’ergungiai(si), v.
Vergognarsi, provare timidezza,
126
essere riservati.
Bregungiosu/a, agg. Timido/a.
Bremi/’ermi, s. m. Verme. Anche in senso fig.: est unu ’ermi (è
un verme). Molto usata l’espr. met.
b. ’e corru (mania, idea fissa). Vedi
ingermigau.
Brenti/’èntiri, s. f. Ventre, nel
gergo dei pastori lo stomaco degli
animali. Per gli uomini, con venatura di disprezzo, è viva l’espr. b. ’e
bértula, che lett. significa stomaco
di bisaccia ed è riferita ai golosi.
Prangi po s’èntiri (lett. piangi per il
ventre) è un epiteto di disprezzo
per chi dipende troppo dal cibo.
Brentoni/a, s. m. Goloso/a,
smodato/a nel mangiare. Vedi
imbrentonai.
Bresca, s. f. Favo dell’arnia.
Brevïàrïu, s. m. Breviario. Viva
l’espr. tocau ’e b. (lett. colpito dal
breviario), che definisce satiricamente uno stato di depressione di
natura da determinare come se
fosse dovuta a una magìa fatta da
un sacerdote con il breviario.
Brìbbiddi, s. m. Spuntone di
roccia. In senso fig. capriccio. Ti
nde ddu ’ogu eu su b. (te lo tolgo io
il capriccio).
Brichetu, s. m. Accendino.
Francesismo (da briquet) entrato
nella parlata di Seui dopo la massiccia emigrazione di minatori in
PAOLO PILLONCA
Francia, alla fine della prima guerra mondiale e durante il fascismo.
Brigaderi, s. m. Brigadiere.
Brincai, v. Saltare. Rispetto a
sartai, indica un movimento di
maggiore impegno ed estensione.
Desueta la loc. brinca-brinca.
Brincau/ada, agg. Saltato/a.
Brìnchidu, s. m. Salto.
Brinchitai, v. Saltellare.
Brinchitu, s. m. Saltello. Usato
anche il doppio dim. brinchiteddu.
Brïosu/a, agg. Vivace.
Briu, s. m. Vivacità, nevrilità,
brio.
Brodu, s. m. Brodo. Presente nei
soprannomi.
Brómbulu, s. m. Persona maldestra. Usato anche il dim. brombolassu.
Brontu, s. m. Prontezza e forza
di replica a viso aperto. Ndi tenit
de b. Linu (Lino è bravissimo nel
replicare faccia a faccia).
Brontudu/a, agg. Grintoso/a,
pronto/a nelle repliche.
Brossa, s. f. Pozzanghera piena
d’immondezza.
Brovenda, s. f. Mangime per il
bestiame da lavoro. In senso figurato, le esigenze umane materiali
legate al mangiare. Pres. nei soprannomi. Vedi abbrovendai.
Brulla, s.f. Scherzo, burla.
Brullai, v. Scherzare, celiare,
Mancarìas. La parlata di Seui
prendersi gioco di q.no o q.sa.
Brullanu, s. m. Burlone, amante
degli scherzi.
Bruncu/’runcu, s. m. Muso, labbra. Nell’espr. bufai a b. vale: bere
direttamente dalla bottiglia e/o
dal barilotto. In senso fig. a b. furrïau (a muso storto), per indicare
un risentimento.
Brùnzïa, s. f. Olla, pentola di
metallo.
Brunzu, s. m. Bronzo.
Brutu/a, agg. Sporco/a, lurido/a. Il contr. è lìmpïu/a.
Brutura, s. f. Sporcizia. Vedi
caddotzìmini e cardangiu.
Bruvura, s. f. Polvere da sparo.
Usato nelle espr. che manifestano
ira e/o sdegno. Ti ’ongiu b. (ti darò
polvere da sparo, ossia non ti darò
nulla).
Bruvureri, s. m. Addetto agli
esplosivi.
Bubbulluca, s. f. Pustola. Portat
sa carena prena ’e bubbullucas (ha
il corpo pieno di pustole). Vedi
abbubbullucai.
Buca/’uca, s. f. Bocca, imboccatura, imbocco. Pres. nel top. Sa
’uca ’e su ’oi (alla lettera: la bocca
del bue) nella parte alta del territorio comunale, a monte della
chiesetta campestre di San Cristoforo. Nei soprannomi figura un
buca ’i erbei (bocca di pecora).
127
Bucaciu/a, s. m. Sboccato/a, colabrodo, incapace di custodire un
segreto. Uno dei peggiori giudizi
che si ritrovino nella società pastorale: est unu b. (è un colabrodo).
Buca ’e bumbarda, s. m. e f.
Persona logorroica, che parla a raffica (lett. bocca di mitraglia).
Buca ’e sonagliu, s. m. e f. Persona che parla ininterrottamente,
logorroico/a. Lett. bocca di campanaccio.
Bucali, s. m. Boccale.
Bucamanna, s. m. Individuo
eccessivamente ciarliero anche su
argomenti riservati. La molteplicità delle scelte in materia di definizione dell’uso smodato della parola indica quanto la logorrea fosse
considerata un disvalore e quale
considerazione fosse riservata invece alla parsimonia nel parlare.
Bucameli/’ucameli, s. f. Donnola.
Bucanti, agg. Piacevole al palato, detto del vino.
Buchinu, s. m. Bocchino.
Gergale dei fumatori. Presente nei
soprannomi nel dim. buchineddu.
Buciaca/busciaca, s. f. Tasca (di
pantaloni, giacche, giubbotti e
camicie).
Buciachedda, s. f. Taschino, piccola tasca.
Buciconi, s. m. Pugno, cazzotto.
128
Buconeddu, s. m. Spuntino.
Pigaus unu ’uconeddu (facciamo
uno spuntino).
Buconi/’uconi, s. m. Boccone,
cibo. Indica genericamente e con
lieve senso ironico la materialità
del mangiare. Su ’u. est de su cani
(il boccone è del cane), po su ’u. si
’endit (si vende per il cibo).
Buconetu, s. m. Bocconcino avvelenato, per volpi o cani randagi.
Bucu, s. m. Buco. Ma prevale
ancora il s. del sostrato: stampu/
istampu.
Budda/’udda, s. f. Pancia. Ma
anche, volg., vagina.
Buddidassu/a, agg. Più che tiepido/a, quasi caldo/a. Detto anche di
un febbricitante: su pipìu parit b. (il
bambino sembra piuttosto caldo).
Buddidura/’uddidura, s. f. Bollitura.
Buddiri/’uddiri, v. Bollire, portare ad ebollizione.
Buddìu/’uddìu/a, agg. Bollito/a, lesso/a. Petza a b. (carne lessa)
Ma l’agg. si usa anche nel senso di:
caldo/a. Cussa minestra est (pr. er)
b. (quella minestra è calda).
Buddoni/a, sost. e agg. Pancione/a. Anche in senso fig. Pres. nei
soprannomi al f.
Buddudu/a, agg. Panciuto/a.
Pres. nei soprannomi.
Bufada, s. f. Bevuta. Tenia sidi e
PAOLO PILLONCA
m’apu fatu una bella b. ’e abba
(avevo sete e mi son fatto una
bella bevuta d’acqua)
Bufadori, s. m. Bevitore (sott. di
bevande alcoliche).
Bufadura, s. f. Sorseggio. Nella
loc. avv. a b., riferita al latte, si
indica che lo si vuol bere senza
aggiunte di pane, biscotti, fette di
torta o altro.
Bufai, v. Bere. In rif. a qualunque tipo di liquido potabile. Apu
bufau: abba, binu, lati, abbardenti,
licori (ho bevuto: acqua, vino,
latte, acquavite, liquore). Ma
quando il compl. ogg. non viene
indicato esplicitamente, è sottinteso che si tratti di alcolici.
Bufau/ada, s. e agg. Bevuto/a.
Come s. vale: ubriaco.
Bufongiu, s. m. Bevanda, vizio
di bere alcolici. Dd’at orrovinau su
b. (l’ha rovinato il vizio del bere).
Bugiarda, s. f. Bocciarda, martellone usato nella lavorazione delle
pietre. Si tratta di francesismo
(boucharde) entrato nel lessico di
Seui, con altri sostantivi (boïabbessa, botada, brichetu, muntzù, sortiri,
turnichetu) ad opera dei minatori
seuesi emigrati in Francia nei primi
decenni del Novecento.
Buginu, s. m. Carnefice, boia.
Nell’imprec. Su b. chi t’irdorighit (il
boia che ti tagli le orecchie). In
Mancarìas. La parlata di Seui
senso fig. vale: violento, strafottente, delinquente.
Bugoni, s. m. Spia, traditore
degli amici, roba da basso inferno.
Nel gergo dei pastori, chi indicava
il bestiame da rubare agli abigeatari venuti da lontano.
Bullai, v. Bollare. Mi depu fàiri
b. sa patenti (mi devo far bollare la
patente). Usato anche nel significato di bocciare a scuola. Fatu fatu
ddu bullant (spesso lo bocciano).
Bullau/ada, agg. Bollato/a, bocciato/a.
Bulleta, s. f. Bolletta (del telefono, dell’acqua, etc.).
Bulletinu, s. m. Bollettino, la
bolletta anagrafica del bestiame,
ora abolita.
Bulletu, s. m. Fungo parassita
dell’erica (cardulinu de b.).
Bullu, s. m. Bollo, timbro.
Bumbarda, s. f. Bombardamento. In senso traslato e fortemente
dispregiativo, buca ’e b. (sboccato,
logorroico). Vedi bombarderi.
Bungiu, s. m. Ammaccatura, ecchimosi. Vedi abbungiai.
Burdellai, v. Fare chiasso, disputare rumorosamente.
Burdellosu/a, agg. Chiassoso,
amante del caos.
Burdellu, s. m. Chiasso, confusione, caos.
Burdiscu, s. m. Bambino illegit-
129
timo. Usato come una sorta di
diminutivo affettuoso di burdu.
Burdu, s. m. e agg. Figlio illegittimo. Come agg. è rif. soprattutto
ai frutti rachitici e mezzo abortiti:
trigu b. (grano rachitico).
Burina, s. f. Appetito. Si usa
scherzosamente nell’espressione ti
batit sa b. (ti sollecita l’appetito).
Burrasciu, s.m. Persona di statura molto bassa. Presente nei soprannomi.
Burricu, s. m. Asino. Vedi bestiolu, molenti e cocineddu.
Burrumbaglia, s. f. Segatura. In
senso fig. scarto, affare o persona
di poco conto.
Burrutzonis (in), s. m. Fregola.
La loc. avv. in b. si usa per definire
la fase acuta dell’innamoramento.
Burtzu, s. m. Polso, parte iniziale del braccio. Vedi abburtzai.
Busa, s. f. Ferro da calza e da
maglieria in genere.
Buscai, v. Trovare dopo
un’attenta ricerca, anche furtivamente. Can-du ’essit, cussu cheleguna cosa dda buscat in donnìa (quando esce, quello lì qualcosa la trova
sempre). Trovare qualcosa di sgradito. Oi dda buscas (oggi troverai pane
per i tuoi denti). Figura anche tra i
soprannomi nella forma dell’imperativo presente (Busca).
Buscau/ada, agg. Trovato/a.
130
Bùsciulu, s. m. Bossolo, portaaghi, contenitore minuto. Pres.
nei soprannomi.
Bussa/’ussa, s. f. Borsa, valigetta. Sia quella degli scolari sia quella delle signore.
Bussai, v. Bussare. Gergale del
gioco delle carte, per segnalare al
compagno di avere pezzi buoni in
quel determinato segno. In senso
fig. b. a orus vale: avanzare richieste insistenti di denaro.
Butàriga, s. f. Uova secche di
muggine e per est. anche di tonno.
In senso fig. al pl. vale: coglioni,
palle. Ses acanta ’e mi segai is (pr.
ir) butàrigas (sei sul punto di rompermi le palle).
Butega, s. f. Negozio, bottega.
Anche fucina artigiana. Teniat una
b.’e binu (aveva una bettola), fut
unu mäistu ’e linna e teniat sa b. in
cabissa ’e idda (era un falegname
ed aveva la bottega nella parte alta
del paese).
Butegheri, s. m. Commerciante,
bottegaio.
Butiglia, s. f. Bottiglia. Al dim.
cambia genere: butiglieddu. In disuso ampudda.
Butiglioni, s. m. Bottiglione.
Butiru, s. m. Burro.
Butoni, s. m. Testicolo. Si usa
quasi escl. al pl.
Butu, s. m. Mozzo della ruota
PAOLO PILLONCA
del carro a buoi.
Buzurru/a, s. e agg. Rozzo, persona di modi rudi e scortesi.
Mancarìas. La parlata di Seui
131
C
Ca, cong. Che. At nau ca tui
dd’as oféndïu (ha detto che tu l’hai
offeso). Perché, dichiarativo. Cun
tui no andu ca adduras a torrai (con
te non vado perché rientri tardi).
Cabesusu, s. m. Capo di sopra
(cabu ’e susu), parte settentrionale
della Sardegna.
Cabesusesu/a, agg. Originario/a,
abitante del nord Sardegna.
Cabissa, s. f. Sommità, parte alta. Deu nci fui in c. e su sirboni mi
ndi ’eniat a manu macosa (io ero
sulla sommità e il cinghiale veniva
verso di me sulla sinistra). Il rione
che sovrasta Seui si chiama proprio C. ’e ’idda.
Cabonera, s. f. Stia, pollaio.
Caboni, s. m. Gallo. Presente nei
soprannomi.
Cabonischeddu, s. m. Galletto
minuscolo.
Caboniscu, s. m. Galletto. Spesso
in senso fig. per dire di un giovane
eccessivamente intraprendente.
Usato anche al doppio dim. cabonischeddu.
Cabu, s. m. Capo. Nell’espr. C.
’e susu (capo di sopra).
Cabudanni, s. m. Settembre.
Càbudu, s. m. Estremità, parte
iniziale o finale di una fune, bandolo di matassa. No ndi ’ogat c.
(non trova il bandolo), dd’at bogau
’e c. (lo ha abbandonato a sé stesso).
Cacheddu, s. m. Fungo parassita del cisto (cardulinu ’e murdegu)
di dimensioni ridotte. In senso fig.
persona di poco valore. Può fungere anche da agg.
Caciadura, s. f. Vomito. In senso
lato, azione vergognosa o risposta
inadeguata, fatto stomachevole.
Caciai, v. Vomitare, rimettere.
Caciau/ada, agg. Vomitato/a.
Cada, pr. ind. Ogni, ciascuno. A
cadunu (a ciascuno) e a c. sa metadi (metà per ciascuno) sono due
locuzioni molto usate. Nel lessico
della quotidianità è sostituito da
dónnïa/’ónnïa.
Cadassa, s. f. Forfora. Presente
nei soprannomi.
Caddaïoni, s. m. Lana ovina
sporca. Gergale dell’ovile. In senso
fig. personaggio schifoso nel fisico
e nello spirito.
132
Caddargiola, s. f. Calderino di
dimensioni ridotte.
Caddargiu, s. m. Calderino.
Contenitore in rame e stagno
usato negli ovili per preparare la
cagliata del latte.
Caddotzu/a, agg. Sporco/a, sudicio/a. Vedi cardangiosu.
Caddotzìmini, s. m. Sporcizia,
sudiciume. Vedi incaddotzai.
Cadinu, s. m. Cesto di canna, di
varie dimensioni e di forma cilindrica, molto usato nelle operazioni di vendemmia e altri impieghi
campestri e domestici.
Cadena, s. f. Catena. Il s. definisce l’oggetto materiale e il legame
met. disagevole in cui ci si può
venire a trovare. Su cani est acapïau
a c. (il cane è incatenato), t’as postu
sa c. a manu tua etotu, imoi poderadidda (ti sei messo la catena con le
tue stesse mani, ora tiénitela stretta). In senso met. vale: persona
poco raccomandabile, degna di
essere incatenata, roba da galera.
Cadenita, s. f. Catenina.
Cadira, s.f. Sedia. In senso ir.
poltrona, posizione privilegiata.
Ancora molto viva la metafora giai
ndi calas de cussa c. (scenderai da
quella sedia), nel caso in cui si
voglia esprimere un diniego
davanti a una richiesta eccessiva.
Vedi bandicu/ banghitu e sedduciu.
PAOLO PILLONCA
Cadiredda, s. f. Seggiolino, piccola sedia.
Cadironi, s. m. Poltrona, seggiolone. grande sedia.
Caduméntzïa, s. f. Stoltezza,
scempiaggine, inettitudine. Sa c.
chi portas in càrigas (la stoltezza
che ti è propria, lett. che hai nelle
narici). Vedi càrigas. Il contrario di
abbilidadi. Vedi incadumadura e
incadumai.
Cadumidadi, s. f. Sin. di caduméntzïa ma molto meno frequente forse anche perché di creazione
più recente.
Càdumu/a, agg. Stolto/a, inetto/a, stupido/a, imbelle, senza
idee né prontezza. Ita ddi cicas? Est
unu c. (cosa pretendi da lui? È uno
stolto). Vedi balossu, bambassu,
biobba, codina, codobba, conciofa,
prupu.
Cadunu, avv. Per ciascuno. Feus
a c. (facciamo uno per ciascuno).
Cafadura, s. f. Presa ferma e
decisa.
Cafai, v. Afferare con decisione.
Cafaddu a su pèi ’e segus, äici su
procu t’abarrat (afferralo a una
zampa posteriore, così il maiale
non ti scapperà).
Cafau/ada, agg. Afferrato/a,
preso/a con forza.
Cafëargiu/a, agg. Amante del
caffè.
Mancarìas. La parlata di Seui
Cafëeddu, s. m. Piccolo caffè,
caffè ristretto.. Toca ca nos si
bufaus unu c. (dài che ci prendiamo un minicaffè).
Cafetera, s. f. Caffettiera. Nel
gergo dei ferrovieri, indicava scherzosamente la piccola locomotiva a
vapore della Winterthur delle linee
ferroviarie a scartamento ridotto
sulla Cagliari-Arbatax che avevano
a Seui un importante nodo commerciale soprattutto per l’antracite
della miniera di Fundu ’e corongiu.
Figura nei soprannomi.
Cafeu, s. m. Caffè.
Cagada, s. f. Cacata. Più spesso
nel senso traslato di: lavoro malfatto, castroneria, errore madornale.
Cagadorgia, s. f. Cesso, latrina.
Cagadura, s. f. Escremento. Azione sconveniente, sproposito,
calunnia, etc. Pöita no dd’acabbas
cun custas cagaduras? (perché non
la smetti con questi spropositi?).
Cagai, v. Defecare, cacare. Usato
molto spesso per mandare a quel
paese i seccatori: bai a c. (pron.
bacagai), vai al cesso. Il v. dà luogo
ad alcuni composti passati poi nel
numero copioso dei soprannomi,
come cagamitraglia, cagaprenu e
cagaspagu.
Cagalloni, s. m. Stronzo. In
senso fig. persona paurosa. Est unu
c. (è un pàvido).
133
Cagaredda, s. f. Diarrea. Vedi
scagareddai.
Cagau/ada, agg. Cacato/a, sporco/a, stronzo/a, miserabile.
Caghetu, s. m. Damerino, signorotto. Pres. nei soprannomi.
Caghineri, s. m. Omosessuale attivo.
Caghinu, s. m. Omosessuale passivo.
Cagliadeddu, s. m. Latte cagliato, di pecora o capra, da consumare in giornata o nel giro di pochissimi giorni.
Cagliadura, s. f. Solidificazione.
Cagliai, v. Solidificare, cagliare:
l’azione di rendere solido il latte
dopo aver versato la dose di caglio
adeguata ad ottenere il formaggio.
Si usa anche in rif. alla neve, quando non è di breve durata e si stratifica sui tetti, sulle strade, sugli alberi e sulle campagne, facendo prevedere una lunga nevicata. Eriseru a
merì at niau ma no nd’at cagliau
(ieri sera è nevicato ma la neve si è
sciolta).
Cagliau/ada, agg. Solidificato/a,
rappreso/a.
Caglientadura, s. f. Riscaldamento.
Caglientai(si), v. Riscaldare. Mi
caglientu su lati (mi riscaldo il
latte). In senso fig. dare una sussa.
Dd’apu caglientau una bota (gli ho
134
riscaldato una guancia), ti caglientu is costas (ti riscaldo le costole).
Riscaldarsi. Acostadì a su fogu ca ti
caglientas (avvicìnati al fuoco, così
ti riscalderai).
Caglientau/ada, agg. Riscaldato/a, picchiato/a.
Caglienti, agg. Caldo/a. In senso
fig. è riferito alla donna vogliosa di
darsi.
Caglientura, s. f. Febbre. In senso fig. fregola. Vedi acaglienturau.
Cagliu, s. m. Caglio, abomaso di
capretto. Bonu, cuddu c. (buono,
quel caglio).
Cagliu, s. m. Capriola. Su pipìu
at fatu unu c. ma non s’est mancu
scarrafïau (il bambino ha fatto una
capriola ma non si è neppure graffiato).
Cagliu, s. m. Callo. M’at bessìu
unu c. in sa pranta ’e su pèi (mi è
spuntato un callo nella pianta del
piede).
Cäiddu, s. m. Arnia. Lüisu tenit
una corantina ’e cäiddus (Luigi ha
una quarantina di arnie). In senso
fig. bambino rumoroso e molesto,
marmocchio. Non fait a ddu ténniri, cuddu c. (non lo si può tenere, quel marmocchio).
Calada, s. f. Discesa. Quando è
ripida, la si definisce c. mala (brutta discesa). In senso fig. il s. indica un’attenuazione di difficoltà.
PAOLO PILLONCA
Caladedda, s. f. Discesa breve
e/o lieve.
Caladura, s. f. Indebolimento,
disfacimento. Cussu péssïu est fendusì a c. (quelle pesche si vanno
disfacendo).
Calai, v. Scendere. Calandi ’e
cussa mata (scendi da quell’albero).
Deperire. Ninu nd’est calau (Nino
è deperito) Nella forma rifl. vale
afflosciarsi, assopirsi. Su cardulinu
est calendusì (i funghi si vanno
afflosciando), Ninu s’est calau in
sonnu (Nino si è assopito).
Calamadura, s. f. Appassimento, decadimento. Cussa pira s’est
fata a c. (quelle pere sembrano appassite).
Calamài(si), v. Appassire, perdere consistenza, infiacchire, restringersi. Sa làtïa est totu calamada (la
lattuga è completamente appassita). Talvolta si usa anche in rif.
all’uomo, seppure in tono scherzoso.
Calamau/ada, agg. Appassito/a,
infiacchito/a.
Calasciu, s. m. Cassetto. Figura
nei soprannomi, nel senso di ladro
di soldi.
Calau/ada, agg. Sceso/a, deperito/a, afflosciato/a.
Calàvrigu , s. m. Biancospino
(crataegus oxyacantha).
Calidadi, s. f. Qualità, qualifica.
Mancarìas. La parlata di Seui
Calleddu, s. m. Cucciolo di cane.
In senso traslato, persona di poco
valore.
Callella, s. f. Sfinimento, prostrazione, senso perdurante di
impotenza. Pres. nei soprannomi.
Callelleddu, s. m. Cagnolino.
Nella parlata di Seui i doppi diminutivi sono frequenti. Talvolta si
arriva anche ai tripli (vedi piticheddeddeddu).
Calluceddu, s. m. Cucciolo di
cane.
Calluciu, s. m. Cagnolino.
Variante di calleddu.
Calónigu, s. m. Canonico, sacerdote che si fregia di questo titolo.
Desueto nella lingua viva, si conserva in un toponimo, Calonigassolu,
nella vallata tra il centro abitato e
Su ponti mannu. Demetrio Ballicu,
valoroso medico storico di Seui e
apprezzato cultore delle memorie
comunitarie, in una delle sue pubblicazioni riporta il toponimo alla
sua forma originaria: calónigu a solu
(il canonico da solo, tutto del canonico) e ne spiega la genesi come
un’indicazione di proprietà terriera.
Calori, s. m. Caldo. Alta temperatura. La fonte di calore sottintesa è quasi sempre il sole ma il s.
definisce anche il tepore del fuoco.
Mi setzu a c. ’e fogu (mi siedo al
caldo del camino).
135
Camba, s. f. Gamba, la parte
inferiore dell’arto, dal piede al
ginocchio. Vedi scambai e scambau.
Cambali, s. m. Gambale.
Cambedda, s. f. Osso della
zampa di bestiame minuto.
Càmbïa, s. f. Biancheria o veste
di ricambio. Nce dd’apu portau sa
c. a cöili (gli ho portato la biancheria all’ovile).
Cambïai, v. Cambiare, sostituire.
Cambïamentu, s. m. Mutazione, mutamento.
Cambïau/ada, agg. Cambiato/a,
sostituito/a.
Càmbïu, s. m. Cambio. Dd’at
donau su c. (gli ha dato il cambio,
l’ha sostituito).
Camboni, s. m. Osso della
zampa di bestiame grosso. In
senso fig. e nel gergo degli sportivi: schiappa, atleta di scarso valore. Pres. nei soprannomi.
Cambu, s. m. Ramo. In rif. ad
ogni specie di alberi e arbusti,
anche della ferula (unu c. ’e feurra).
Caminai, v. Camminare, sbrigarsi.
Camineddu, s. m. Stradina.
Caminera, s. f. Passaggio disagevole tra i dirupi. Usato anche il
dim. camineredda.
Caminu, s. m. Strada, percorso.
Il dim., frequente, è camineddu.
Camisa, s. f. Camicia. Quella
136
moderna e quella del costume tradizionale, che è di foggia diversa:
oltre ad essere sempre bianca, di
norma è chiusa, dunque senza
bottoni, e non ha un colletto vero
e proprio.
Campalini, s. m. Campanile.
Nella parlata di Seui - come in
molte altre parlate della Sardegna
- le metatesi sono frequenti.
Canali, s. m. Vallone, canale.
Presente nella toponomastica a
indicare varie località della montagna seuese. Il toponimo più noto senza alcuna aggiunta di compl. di
denominazione - riguarda una zona
boscosa della parte alta del territorio comunale al confine con la foresta demaniale di Montarbu, dove
sopravvive maestoso un leccio di
dimensioni straordinarie, S’ìligi ’e
Canali, il leccio per antonomasia,
pianta di oltre sette secoli di vita
che nell’immediato secondo dopoguerra fu difesa strenuamente e salvata dalla guardia campestre
Peppineddu Craboni (all’anagrafe
Giuseppe Carboni), che si oppose
ai disegni di una ditta appaltatrice
dei lavori di deforestazione di quel
tratto di bosco che ne avrebbe voluto utilizzare la legna. Il suo nome è
ora perpetuato nel buon ricordo
comunitario per la nobile azione
compiuta e ormai indissolubilmen-
PAOLO PILLONCA
te legato a quel luogo e a quell’albero. Secondo l’analisi di un’équipe
di botanici, S’ìligi ’e Canali era già
una pianta ben avviata nel 1250,
quindici anni prima che Dante
Alighieri vedesse la luce.
Canargiu, s. m. Battitore. Lett.
conduttore di cani. Voce gergale
dei cacciatori.
Càncara, s. f. Piattola. In senso
fig. persona noiosa che attacca
facilmente bottone.
Cancaradura, s. f. Rattrappimento, formicolio.
Cancarai, v. Aggranchire, pestare, ghiacciare, rattrappire, informicolire. Acabbadda o ti càncaru is
(pr. ir) manisceddas (smettila o ti
pesto le manine), detto dalle madri
ai bimbi che frugano dovunque in
continuazione. Ma nell’imprecazione che suona sa manu cancarada, rivolta a chi distribuisce percosse, il v. ha un significato differente: quello del malaugurio della
mano rattrappita per sempre.
Cancarau/ada, agg. Rattrappito/a, aggranchito/a, informicolito/a.
Cancarroi, s. m. Bastone che
nella parte finale ha una sorta di
uncino, utile per abbassare i rami
degli alberi o per spostare i rovi
nei decespugliamenti.
Canciu/ganciu, s. m. Gancio.
Mancarìas. La parlata di Seui
Candela, s. f. Candela di cera
per l’utilizzo rituale nelle funzioni
religiose o in momenti di emergenza domestica. La definizione
candela ’e carburu, nel gergo dei
minatori di Fundu ’e corongiu, indicava la lampada ad acetilene.
Candela, s. f. Lista bianca nella
testa di cavalli sauri, bai o neri.
Tenia una bell’ebba mùrtina candelada (avevo una bella cavalla saura
listata).
Candelai, v. Listare di bianco.
Rif. principalmente ai cavalli.
Gergale.
Candelassu, s. m. Ramaglia di
arbusti percorsi da incendio.
Legna che prende fuoco facilmente, quasi come una candela.
Presente nei soprannomi.
Candelau/ada, agg. Listato/a,
detto dei cavalli.
Cani, s. m. Cane. Indica anche
il cane del fucile. In senso fig.
l’impiego è vario: c. mannu (persona importante), c. ’e stregiu
(ladruncolo, miserabile), c. ’e cassa
(cane da caccia, nel senso di investigatore astuto che smaschera chi
cerca di nascondersi).
Canisteddu, s. m. Canestro.
Canna, s. f. Canna domestica
(arundo donax).
Cannaïoni, s. m. Caprinella
(agriopyrum repens), erba infestan-
137
te. Terra mala, totu c. (terra sterile,
tutta caprinella).
Cannarotza, s. f. Esofago, gola.
Pres. nei soprannomi.
Cannedda, s. f. Tibia. Vedi scanneddai.
Cannisoni, s. m. Canna selvatica (arundo phragmites), canna alta,
di palude. Figura nei soprannomi.
Cannonada, s. f. Cannonata,
calcio potente al pallone dalla
lunga distanza.
Cannonai, v. Cannonare, calciare forte e da lontano il pallone.
Gergale del gioco del calcio.
Cannonau, s. m. Vitigno sardo
tipico, che per primo ha ottenuto
dallo Stato - con la cantina sociale
di Jerzu - il marchio D.O.C. nei
primi anni Settanta.
Cannonau/ada, agg. Colpito/a
da cannonata, bersagliato/a dal
cannone.
Cannoni, s. m. Cannone. Persona che eccelle in qualcosa. Desueto, sopravvive nei soprannomi.
Cannuga, s. f. Conocchia.
Cantada, s. f. Canto, sfida poetica improvvisata.
Cantadori, s. m. Poeta improvvisatore.
Cantai, v. Cantare. L’azione deve
essere effettuata sempre a tempo e
luogo, secondo il monito proverbiale: chini cantat in mesa e in letu o
138
est macu o est fertu (chi canta a tavola e a letto o è matto o è sciocco).
Cantau/ada, agg. Cantato/a.
Cantellu, s. m. Stazza di un animale. ’Erbèi ’e c. (pecora di buona
stazza).
Cantidadi, s. f. Quantità.
Càntidu, s. m. Canto.
Cantu, agg. indecl. e avv.
Quanto/a. Ma c. genti ddu at igui
in basciu (ma quanta gente c’è laggiù). Pron. ind. Binu giai ndi tengiu, e c. ndi ’olis? (vino ne ho,
quanto ne vuoi?). Funge anche da
avv. Innoi s’at a biri e c. balis (qui
si vedra quanto vali).
Cantzonadura, s. f. Canzonatura, presa in giro. Viva nella loc.
a c.
Cantzonai, v. Fare oggetto di
canzoni satiriche e/o moralistiche,
mettere alla berlina. È questa
un’usanza frequente nel passato
remoto e recente di Seui e non è
neppure del tutto scomparsa,
quando si tratta di fatti rilevanti
per la comunità.
Cantzonau/ada, agg. Messo/a
alla berlina, canzonato/a.
Cantzonedda, s. f. Piccola canzone, filastrocca. Ddu narat a c. (lo
ripete come fosse una filastrocca).
Cantzoni, s. f. Canzone. Si dava
questo nome ai canti d’autore,
locale e non, che commentavano
PAOLO PILLONCA
particolari fatti di cronaca, dai
delitti agli amori.
Canudu/a, agg. Canuto/a. Vedi
incanudai.
Capassu/a, agg. Abile, capace,
esperto/a. Vedi acapassàisi.
Capitali, s. m. Capitale.
Capitai, v. Capitare, succedere,
avvenire.
Capitau/ada, agg. Capitato/a.
Vedi sussèdiri.
Capitanu, s. m. Capitano.
Capuladori, s. m. Tagliere in
legno di castagno adibito soprattutto a sminuzzare alimenti.
Capuladura, s. f. Sminuzzamento, tagliuzzamento.
Capulai, v. Sminuzzare. Rif.
soprattutto al lardo.
Capulau/ada, agg. Sminuzzato/a, tagliuzzato/a.
Carabbineri, s. m. Carabiniere.
Nelle statistiche sulla criminalità,
Seui figura da sempre brillantemente agli ultimi posti della classifica dei reati. Rarissimi i fatti di
sangue, molti dei quali preterintenzionali o addirittura casuali. Dunque la presenza dei carabinieri tranne rare eccezioni - non è mai
stata di disturbo per la popolazione, semmai una garanzia di pacifica convivenza. I marescialli dell’Arma si può dire abbiano agito, nella
stragrande maggioranza dei casi,
Mancarìas. La parlata di Seui
come dei giudici di pace ante litteram. Molti di loro, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, si collocano
nella memoria orale della comunità come figure virtuose. Le eccezioni confermano la regola, come di
solito avviene nel mondo.
Caragolu, s. m. Morsa da fabbro.
Caràtiri, s. m. Carattere, indole.
Vedi scaratirau/ada.
Carcina, s. f. Calce. Era anche
una produzione locale, fino a
mezzo secolo fa, vista la copiosa
presenza di pietre calcaree in vasti
terreni comunali. Sono ancora
visibili numerose rovine delle fornaci. Vedi incarcinai.
Carcinai, v. Dar calci, scalciare.
In tono scherzoso può anche riferirsi all’uomo.
Carcinau/ada, agg. Scalciato/a.
Càrcini, s. m. Calcio, generalmente di animale. Unu c. ’e cüaddu (un calcio di cavallo).
Carda, s. f. Sussa, batosta. Ti
scudu una c. (ti affibbio una sussa).
Per estensione, lo si usa anche nel
senso di scorpacciata: m’apu ’onau
una c. ’e cerésïa (mi son fatto una
scorpacciata di ciliegie), nd’at boddìu una c. ’e füeddus (ha preso una
batosta di parole).
Cardadura, s. f. Cardatura.
Cardai, v. Cardare. Nel traslato,
quando dalla lana si passa alle per-
139
sone, il v. assume il significato di
picchiare, percuotere, dare una
sussa.
Cardamponi, s. m. Tendine. Per
est. indica la parte superiore della
zampa di ovini e caprini. In alcune feste si era è si è soliti offrire un
pezzo di carne arrosto a tutti i
fedeli. Questo rito si chiama,
umilmente, su cardamponi, anche
se l’offerta non era e non è limitata ai pezzi di scarto.
Cardancili, s. m. Tendine d’Achille, garretto, calcagno. Usato
anche in riferimento alle bestie ma
impiegato spesso in senso ir. per le
persone: chi si sciacüàt is cardancilis dda fäiat santamenti (se si lavasse i calcagni la indovinerebbe).
Cardangiosu/a, agg. Sporco/a,
sudicio/a, poco amante della pulizia. Vedi caddotzu.
Cardangiu, s. m. Sporcizia, sudiciume. Vedi brutura e caddotzìmini.
Cardassu, s. m. Sporcizia arretrata, grossa. Vedi incardassai e
scardassai.
Cardau/ada, agg. Cardato/a,
picchiato/a.
Cardeddadura, s. f. Agitazione
motoria, movimento irregolare. In
senso lato: stizza manifestata platealmente.
Cardeddai, v. Dimenarsi, agitarsi, saltare irregolarmente, stizzirsi
140
visibilmente, etc. S’est totu s’ora
cardeddendu (ti agiti di continuo).
Cardeddau/ada, agg. Dimenato/a, agitato/a.
Cardedu, s. m. Luogo pieno di
cardi selvatici.
Cardiga, s. f. Graticola.
Cardu, s. m. Cardo. In senso fig.
stoltezza.
Cardulinu, s. m. Fungo. Termine
generico. Per indicare le varie specie è necessario precisare ulteriormente: c. de petza, de murdegu (di
ferula, di cisto, etc).
Cardulinu ’e murdegu, s. m.
Boletus sardous, fungo che vive in
simbiosi con le radici del cisto.
Carena, s. f. Corpo. Mi ’olit in
totu sa c. (ho dolori in tutto il
corpo). Corporatura, fisico. Est
un’òmini de bona c. (è un uomo di
buona corporatura).
Carésima, s. f. Quaresima.
Cargileta, s. f. Lucertola.
Càriga, s. f. Narice. Raro usato al
sing. Lo si impiega sovente in senso
ironico. Sa conciofa chi portas in
càrigas (lett. i carciofi che hai sulle
narici, cioè la stoltezza che ti grava
addosso). Vedi acarigai e scarigai.
Carighedda, s. f. Piccola narice.
Usato nell’espr. füeddai a c. (parlare con voce nasale).
Carminedda, n. pr. di persona.
Carmen. Nome assegnato frequen-
PAOLO PILLONCA
temente alle donne in onore della
Madonna del Carmelo, festeggiata
a Seui dall’inizio degli anni Venti.
Curiosamente, nell’anagrafe comunale questi nomi femminili sono
registrati, tutti o quasi, nella forma
maschile Carmine. È rarissimo che
il nome venga assegnato a maschi.
Finora è successo una sola volta.
Carolina, s. f. Piccola locomotiva. Era chiamata con questa sorta
di nomignolo la più minuscola fra
tutte le macchine delle ferrovie
complementari sarde che avevano
in gestione la linea di Seui (Breda,
Koppel, Mallet, Reggiana, Winterthur). A sole quattro ruote, mai
impiegata per tragitti lunghi, serviva da supporto nelle stazioni e
nei punti più difficoltosi del tratto
Seui-Lanusei.
Carra, s. f. Unità di misura, corrispondente a mezzo starello.
Carra-carra, s. m. Scarafaggio,
scarabeo. Pres. nei soprannomi.
Carrabbusu, s. m. Scarafaggio.
Carrabbuzada, s. f. Azione aggressiva e repentina.
Carrabbuzai, v. Afferrare di
colpo e scaraventare a terra. Rif.
prevalentemente alle persone ma
anche agli animali indocili.
Carrabbuzau/ada, agg. Afferrato/a repentinamente e buttato/a a
terra.
Mancarìas. La parlata di Seui
Carrada, s. f. Botte. Figura nei
soprannomi.
Carradedda, s. f. Piccola botte.
Rif. alle persone, indica una figura
umana piccola e grassa.
Carragiai, v. Ricoprire di terra,
anche per indicare l’azione violenta e improvvisa delle frane. Vedi
scarragiai.
Carragiau/ada, agg. Ricoperto/a
di terra, nascosto/a.
Carragiu, s. m. Copertura di
terra. Ma il sost. è utilizzato
soprattutto nel senso di: confusione, caos, disordine.
Carrali, s. e agg. Legato da parentela diretta. Su c. (il fratello), sa
c. (la sorella), su fradili c. (il cugino con lo stesso cognome), su tziu
c. (lo zio fratello del padre).
Carrarmau, s. m. Carro armato.
Il s. è stato introdotto nel lessico
paesano dai reduci dei due conflitti mondiali, soprattutto il primo,
che sono costati alla comunità un
prezzo enormemente alto anche
rispetto alla media della Sardegna.
Il paese l’ha poi elaborato anche in
chiave ironica, nel linguaggio immaginifico di similitudini e metafore. Est coment’e a bociri unu pùligi cun-d-unu c. (sarebbe come
ammazzare una pulce con un
carro armato) per indicare reazioni sproporzionate. Linu est unu c.
141
(Lino è un carro armato), se si
tratta di descrivere in modo incisivo una persona prepotente e dai
modi bruschi. Vedi gherra.
Carretoneri, s. m. Carrettiere,
carrettoniere.
Carretoni, s. m. Carrettone.
Figura nei soprannomi.
Carri, s. f. Carne. Ma il campo
semantico di questa parola è particolare. Indica carne viva, umana,
di parti delicate o intime, quando
è usata al plurale. M’apu agutonau
sa camisa ca non bogliu a mi biri is
carris (mi sono abbottonata la
camicia perché non voglio che mi
vedano il seno). Al sing. accompagnata da un agg. indica carne animale morta. C. sciàpida è la carne
molliccia della gola e del petto di
agnelli, maialetti, capretti, etc. Ma
la carne di animali uccisi in genere è definita da petza.
Carroni, s. m. Tallone. Figura
nei soprannomi. Vedi cracangiu.
Carru, s. m. Carro. Indica soprattutto il carro a buoi, costruito
artigianalmente da un falegname
specialista.
Carruciu, s. m. Carretto.
Carrulanti, s. m. Carrolante.
Carrumbulada, s. f. Rotolìo
lungo.
Carrumbulai, v. Rotolare. Detto
di pietre che si muovono in pen-
142
dio come di bimbi che cadono in
corsa.
Carrumbulau/ada, agg. Rotolato/a.
Carrùmbulu, s. m. Rotolìo.
Viva la loc. avv. con il s. al pl. (a
carrùmbulus).
Carta, s. f. Carta da gioco. Il s.
indica anche il cerotto di grande
dimensione che si applica, contro le
mialgìe. M’apu dépïu pònniri una c.
(mi son dovuto applicare un cerotto). Nel senso dell’it. carta è usato
solo nelle definizioni burocratiche
di carta bullada (carta bollata) e
carta ’e identidadi (carta d’identità),
evidenti calchi dalla lingua egemone. In tutti gli altri casi la parola
usata è paperi.
Cartoni, s. m. Cartone. Figura
nei soprannomi.
Cartza, s. f. Ghetta, parte del
costume maschile tradizionale che
somiglia a una sorta di gambale.
Usato quasi escl. al pl.
Cartzadura, s. Fornitura di scarpe, calzatura. Era uno dei diritti dei
servi pastori.
Cartzai, v. Calzare, fornire di
scarpe.
Cartzau/ada, agg. Calzato/a, fornito di scarpe. Il contr. di scurtzu/a.
Caru/a, agg. Caro/a, amato/a,
diletto/a. C. che-i sa pipia ’e s’ogu
(caro come la pupilla).
PAOLO PILLONCA
Caru/a, agg. Costoso/a. C. che
fogu (carissimo, lett. caro come il
fuoco). Contr. di baratu/a.
Casaïu, s. m. Casaro.
Cascai, v. Sbadigliare. Cascat po
fàmini (sbadiglia per fame). Socchiudere. Cascamì sa vantana (socchiudimi la finestra), quasi che
l’infisso socchiuso somigliasse ad
una bocca aperta per sbadigliare.
Cascasina, s. f. Rifiuto, escremento.
Cascavellu, s. m. Capriccio,
estro, capacità di motteggio. Pres.
nei soprannomi.
Càschidu, s. m. Sbadiglio. Lüisu
est a càschidus, depit tènniri sonnu
(Luigi sbadiglia di continuo, forse
ha sonno).
Cascia, s. f. Cassa.
Cascioni, s. m. Grande cassa,
cassone, baule.
Cascita, s. f. Cassetta. Molto
usato anche il dim. cascitedda.
Casellanti, s. m. Cantoniere di
ferrovia.
Casoteri, s. m. Cantoniere titolare di casa lungo la linea ferroviaria. Il cantoniere stradale è chiamato contoneri.
Casotu, s. m. Casa cantoniera
della ferrovia. Quella stradale è
detta contonera.
Cassa, s. f. Caccia. La caccia
grossa - cinghiali, mufloni, cervi,
Mancarìas. La parlata di Seui
dàini - è chiamata cassa manna
(grande caccia), quella minuta conigli, lepri, beccacce, pernici,
tordi, etc. - cassigedda (piccola caccia). In senso met. il s. vale: bottino, preda, risultato di una battuta
di polizia. Oi sa giustìssïa fait c.
(oggi le forze dell’ordine arresteranno q.no).
Cassadori, s. m. Cacciatore.
Cassai, v. Cacciare, esercitare
l’attività venatoria legalmente e
non. In pag’ora eus cassau dus sirbonis (in poco tempo abbiamo
cacciato due cinghiali). Di recente, per influsso della parlata cagliaritana tramite le migliaia di seuesi
emigrati nel capolugo che conservano l’abitudine al rientro nel
paese d’origine, ha assunto
l’ulteriore senso di: sorprendere,
cogliere in flagranza di reato.
Dd’at cassau sa giustìssïa cun-d-unu
cüaddu furau (l’hanno sorpreso le
forze dell’ordine con un cavallo
rubato).
Cassalora, s. f. Tegame, casseruola. Da notare, anche qui, la
presenza della metatesi, che differenzia il s. dalla forma che normalmente assume anche nelle
sub-varianti zonali: cassarola. Curiosamente, però, quest’ultima
forma ritorna nei soprannomi.
Cassau/ada, agg. Cacciato/a,
143
sorpreso/a in flagrante.
Casta, s. f. Razza, radice, progenie, genìa, appartenenza. Vedi scastai.
Castangeddu, s. m. Castagna di
piccolo taglio. È anche nome collettivo. Custu mengianu apu ’oddìu
feti c. (stamane ho raccolto soltanto castagne piccole). Il sapere popolare le indica come le più saporite.
Castangia, s. f. Castagno (castanea sativa) e castagna, albero e frutto. Introdotto a fine Ottocento
nelle Barbagie di Belvì e Seulo e nel
Mandrolisai come coltivazione
semirazionale, il castagno occupa
ora una superficie assai vasta della
proprietà privata di Seui, oltre a
comparire sempre di più nei terreni acquisiti di recente dall’Ente
regionale delle foreste.
Castanginu/a, agg. Castano/a.
Detto del colore dei capelli, di un
abito, un mobile o altro.
Casteddaïu/a, s. e agg. Cagliaritano/a.
Casteddu, s. m. Castello.
Casteddu, n. pr. di l. Cagliari.
Castïada, s. f. Sguardo, modo di
guardare. Tenit una c. mesu legia
(ha uno sguardo piuttosto brutto),
a sa c. non mi pragit (non mi piace
il suo sguardo).
Castïai, v. Guardare, osservare
144
bene. Dd’apu ’ida ma no dd’apu
castïada (l’ho vista ma non l’ho
osservata). Accudire, badare: a
tziu Sarbadori ddu castïant a cida a
cida is parentis de strintu (lo zio
Salvatore è accudito a turni settimanali dai parenti stretti).
Castïau/ada, agg. Guardato/a.
Càstïu, s. m. Controllo attento e
continuato. Ddu portu a c. (lo tengo
sotto controllo). Dev. di castiai.
Casu, s. m. Formaggio. Indica la
varietà di prodotti che si ottengono dopo aver cagliato il latte. Il
formaggio di pecora e capra veniva
confezionato a sa sarda, senza
riscaldare nel calderino il latte
munto. In seguito si è passati al
semicotto e al romano. Oggi, dall’inizio di gennaio alla fine di giugno e talvolta ai primi di luglio,
gran parte dei pastori di Seui conferisce il latte al caseificio. Ma per
la provvista familiare la maggioranza degli allevatori preferisce
ancora il confezionamento di tipo
antico, tra l’inverno e la primavera.
Finita la stagione del conferimento
del latte, i pastori si dedicano a su
casu de fita, prodotto estivo tipico,
che consiste nel togliere subito
dalla cagliata il formaggio, tagliarlo a fette (a fitas, da cui il nome),
lasciarlo asciugare e poi salarlo
oppure - ma non è un’usanza tipi-
PAOLO PILLONCA
ca del paese, quest’ultima - metterlo in salamoia. Il prodotto così
ottenuto si utilizza per il condimento di vari tipi di minestrone.
Questa lavorazione può interrompersi prima della salagione: allora il
formaggio è destinato al consumo
immediato e si chiama casu agedu
(formaggio acìdulo). Un altro tipo
di produzione estiva è su casu in
filigi. (pron. casunfìligi): si mette il
latte cagliato su uno strato di
rametti freschi di felce, lo si avvolge in un panno, lo si stringe bene e
lo si appende per qualche ora, per
favorire la fuoruscita del siero. A
quel punto lo si può già consumare. In frigo, su casunfiligi dura
qualche giorno. Vedi fìligi. Altra
specialità è su casumartzu (formaggio marcio), produzione involontaria di qualche forma che da solida diventa cremosa e talvolta si
infesta di un particolare tipo di
verme. Vietato in commercio, è
una leccornia d’élite.
Catarata, s. m. Cataratta, malattia degli occhi.
Catódigi, agg. num. card. Quattordici.
Catramu, s. m. Catrame. Vedi
incatramai.
Catzabùbbulu, s. m. Persona
che crede di essere chissà chi, presuntuoso, tronfio.
Mancarìas. La parlata di Seui
Catzotu, s. m. Pugno, cazzotto.
Catzu, s. m. Pene, cazzo.
Caulada, s. f. Stufato di cavoli.
Ma l’uso più frequente del s.
riguarda il senso fig. Est una c. (è
una cavolata, una sciocchezza).
Càuli, s. m. Cavolo. Negli orti
del paese i due tipi di cavolo più
coltivati sono su c. ’e frori (il cavolfiore) e su c. ocupau (il cavolo cappuccio). Il s. viene impiegato in
varie espr. semischerzose: non
cumprendit unu c. (non capisce
nulla), est una conca ’e c. (è una
testa di cavolo), etc.
Càvana, s. f. Roncola. Un neologismo gergale del gioco del calcio è l’espressione pèi ’e càvana
(lett. piede di roncola), detto di
chi dimostra una mira imprecisa
nei tiri in porta e/o nei passaggi.
Un tempo indicava anche la guancia, che ha forma vagamente simile alla roncola: ne resta traccia nel
s. scavanada (schiaffio sulla guancia). Usato anche al dim. cavanedda/cavaneddu.
Cavanaciu, s. m. Piccola roncola dal manico corto.
Càvuru, s. m. Gambero. Già
presente nei soprannomi. Di un
pastore che aveva il nomignolo di
Su càvuru le narrazioni orali dicono sia morto - in un tempo indefinito - a causa di una nevicata
145
fuori stagione, ai primi di maggio.
Cedda, s. f. Piccolo gruppo di
animali.
Celu, s. m. Cielo, il firmamento
e il Paradiso cristiano. Su c. totu
’erbeis abba fin’a peis (il cielo a
cumuli, acqua in abbondanza), in
su c. siat (Dio l’abbia in gloria),
quando si parla di un morto. Al
cielo, carico di stelle o velato di
nubi, hanno guardato con speranza spesso delusa pastori e contadini del paese. E non sempre le stelle rappresentavano un buon segno,
soprattutto d’inverno, per la maggiore possibilità di gelate. Nella
parlata di Seui sostantivi e aggettivi in corso di frase che iniziano con
la lettera c seguita dalle vocali e ed
i, tranne che le vocali suddette non
siano seguite da altra vocale, come
in ciaciarra (chiacchiera), e altre
rare eccezioni, si pronunciano con
il suono della g dolce: su celu
diventa su gelu, sa cena si trasforma
in sa gena, sa cibudda in sa gibudda. Le notti delle feste principali
dell’inverno, come le vigilie di
Natale e Capodanno sono, ciascuna per definizione, noti ’e cena
(pron. noti ’e gena). Davanti alla
prep. semplice a e alla cong. e,
invece, conservano il suono normale: andaus a cenai (andiamo a
cena), soi a pani e cibudda (mi
146
nutro soltanto di pane e cipolle).
Cena, s. f. Cena, pasto serale.
Cenadorgiu, s. m. Pasto seralenotturno del bestiame. Gergale
dell’ovile, desueto.
Cenai, v. Cenare.
Cenarba, s. f. Venerdì.
Centu, agg. num. card. Cento.
Centupiglionis, s. m. Òmaso
delle bestie.
Cera, s. f. Cera. Per la pronuncia
in corso di frase di questo s. e degli
altri che iniziano in ce, vedi celu.
Cerbu, s. m. Cervo (cervus corsicanus). La femmina si chiama
mardina, il cerbiatto betu. Nei
nessi rb (arbu, cerbu, narba, narbedda, narbonai, narboni, perdarba, etc), la seconda cons. è lenita.
Cerésïa, s. f. Ciliegio (Prunus
cerasus), albero e frutto. Ricco il
lessico che distingue le varietà
delle ciliegie: barracocu, cordofali,
limoni, etc.
Cerésïa aresti, s. f. Ciliegio selvatico (Prunus avium, degli uccelli, perché il frutto, di norma, non
viene raccolto dall’uomo). Dà
ciliegine minute e asprigne di
grandi virtù medicamentose.
Certai, v. Litigare, bisticciare.
Meglius a no ddu-i füeddai, cun
cussu, ca t’obbrigat a c. (meglio non
parlare affatto, con quello, perché
ti costringe a litigare).
PAOLO PILLONCA
Cértidu, s. m. Litigio, bisticcio.
Che, cong. Come, simile a. Est
che tui etotu (è proprio come te).
La loc. che pari vale: sullo stesso
piano. Po sa morti seus totu c. p.
(per la morte siamo tutti sullo
stesso piano). Introduce una lunga
serie di similitudini primarie tuttora vive nell’uso quotidiano. Ne
diamo qualche esempio: che lardu
in sali (come il lardo nel sale),
iscuriu che in buca (buio come
all’interno di una bocca chiusa),
che pudda in pértïa (come una gallina su una pertica), che turra in
culurgioni (come il mestolo nei
ravioli di patate), che caboni in
mesu is puddas (come gallo fra le
galline), che margiani in mesu
ebbas (come volpe fra le cavalle),
inchieta che pìbera (irata come una
vipera), nieddu che pigi (nero
come la pece) sparau che sirboni
(sparato come un cinghiale), fridu
che nì (freddo come la neve), buddiu che fogu (caldo come il fuoco),
grogu che cera (pallido come la
cera), lestru che lampu (veloce
come il lampo), grai che tronu
(pesante come un tuono), in mesu
che-i su mércuris (in mezzo come il
mercoledì), che cüaddu in beranu
(come un cavallo in primavera),
che gatu in frïargiu (come un gatto
a febbraio), legiu che cani (brutto
Mancarìas. La parlata di Seui
come un cane), birdi che narba
(verde come la muffa), tostau che
piroi (duro come il perastro).
Chelegunu/a, pr. e agg. ind.
Qualcuno/a.
Chene, avv. Senza. Chene farta
(senza errore). Esiste anche la variante chentza, di influsso italiano.
Cherpai, v. Crepare, scoppiare,
arrabbiarsi oltre misura. Est
inchïetu meda, parit ca ndi cherpat
(è in preda all’ira, come se dovesse
scoppiare).
Cherpau/ada, agg. Crepato/a.
Lo si usa soprattutto come imprecazione-maledizione rivolta a chi
grida troppo. C. sias (che tu possa
crepare).
Cherpu, s. m. Rabbia, ira. Viva
la loc. a c. (a dispetto).
Chescia, s. f. Lamentazione,
protesta. Dd’apu inténdiu ’eu, fut
cun cussa chescia (l’ho sentito io,
avanzava proprio quella protesta).
Chesciàisi, v. Lamentarsi, protestare. Sorri tua si chesciat ca in
domu no ndi ’ogas unu füeddu (tua
sorella si lamenta perché in casa
fai scena muta).
Chesciali/casciali, s. m. Molare.
Soi a dolori ’e chescialis (ho mal di
molari), mi nd’apu tirau un c. (mi
sono fatto estrarre un molare).
Chesciau/a, agg. Lamentato/a.
Chesciosu/a, agg. Lamentoso/a,
147
che ha motivo di lamentarsi.
Chi, cong. e pron. rel. sogg. e
compl. Se. Chi ’enis a domu ti cumbidu (se vieni a casa mia ti invito
qualcosa). Che. Unu chi non bit de
lìtera est coment’e chi non biat
nudda (un analfabeta è come se
non vedesse niente, simile ad un
cieco), is cosas chi fais no ddas contis a nemus (non raccontare a nessuno le cose che fai).
Chididura, s. f. Presa in cura,
presa di possesso, raccolta.
Chidiri, v. Aver cura. Est abarrau
solu e nemus ddu chidit (è rimasto
solo e nessuno si cura di lui). Raccogliere. Si dd’est isperrumau su
cüaddu e no dd’at mancu chidiu (il
cavallo gli è caduto in un dirupo,
ma lui non lo ha neppure raccolto).
Chidiu/a, agg. Raccolto/a. Se
rif. alle persone vale: ben trattato/a, accudito/a.
Chïetu/a, agg. Calmo/a, tranquillo/a. Vedi il v. achïetàisi e la
loc. a c.
Chilighiti, s. m. Solletico. Vedi
crisa-crisa.
Chini, pr. rel. e dimostrativo
Chi. Chini cicat agatat (chi cerca
trova).
Chirïella, s. f. Chiacchiera, litania, discorso fumoso. Si usa escl.
al plurale nel modo di dire in contus e chirïellas (fra racconti e chiac-
148
chiere). Corruzione dal Kyrie eleison delle funzioni religiose? Esiste
la variante crïella.
Chìriga, s. f. Chierica, tonsura
del prete.
Chissi, s. m. Il tempo che precede l’alba, appena si esce dal cuore
della notte. Sull’orologio si starebbe tra le tre e le quattro del mattino. Mi nd’est benìu a c. (è venuto
a casa mia prima dell’aurora).
Chistïonai, v. Parlare, dialogare.
Non chistïonat cun nemus (non
parla con nessuno).
Chistïonau/ada, agg. Parlato/a,
interloquito/a.
Chistïoni, s. f. Colloquio, dialogo. Antoni fut a c. cun Linu (Antonio era a colloquio con Lino).
Divergenza, dissidio, questione.
Ninu est istétïu a cumpangiu cun
Antoni po bint’annus chene c. peruna mai (Nino è stato compagno di
lavoro di Antonio per vent’anni
senza mai alcuna divergenza).
Ciaciarra, s.f. Chiacchiera.
Ciaciarrai, v. Chiacchierare, parlottare, pettegolare.
Ciaciarroni, s. e agg. Chiacchierone, logorroico.
Ciafu, s.m Schiaffo. Esiste anche
il dim. ciafigeddu (schiaffetto).
Cibudda, s f. Cipolla (allium
cepa). Viva l’espressione conca ’e c.
(lett. testa di cipolla), riferita a
PAOLO PILLONCA
persona di scarse qualità intellettive. Pres. nei soprannomi. Per la
pronuncia in corso di frase vedi
cena.
Cibuddu, s. m. Cipollone, sempre seguito dall’agg. mascu.
Cica, s. f. Ricerca. Il s. non indica solo il concetto astratto, definisce il gruppo di uomini impegnati nelle operazioni di ricerca, di
persone scomparse o di bestiame
rubato o smarrito. Dev. di cicai.
Cica, s. f. Cicca, mozzicone di
sigaretta. Figura nei soprannomi
nella forma normale e anche al
dim. cichigedda.
Cicai, v. Cercare, ricercare. Prov.
chini cicat agatat (chi cerca trova).
Cìcara, s. f. Tazza.
Cicaredda, s. f. Tazzina.
Cicaroni, s. m. Tazza tonda
grande, scodella, in terracotta o in
metallo.
Cicìa, s. f. Copricapo rustico.
Desueto.
Cida, s. f. Settimana. Questi i
nomi dei singoli giorni: lunis,
martis, mercuris, gióbia, cenarba,
sàbudu, domìnigu. Sono tutti
maschili, eccetto gióbia e cenarba.
Cigireddu, s. m. Piccolo cece.
Pres. nei soprannomi.
Cìgiri, s. m. Cece.
Cigirïanu, s. m. Granoturco.
Ciligìa, s. f. Brina.
Mancarìas. La parlata di Seui
Ciligïada, s. f. Brinata.
Ciligïai, v. Gelare, ricoprire di
brina. Notesta ciligìat (stanotte
cadrà la brina).
Ciligïau/ada, agg. Gelato/a, ricoperto/a di brina. Su logu fut totu c.
(la campagna era tutta bianca di
brina).
Cilivradura, s. f. Setacciamento.
Cilivrai, v. Stacciare, crivellare.
Cilivrau/ada, agg. Stacciato/a,
crivellato/a.
Cilivru, s. m. Staccio, crivello.
Cincu, agg. num. card. Cinque.
Cingimentu, s. m. Atto ed effetto
del vestire, stile di abbigliamento.
Cìngiri, v. Vestire. Depu c. su
pipìu (debbo vestire il bambino).
Anche nel rifl. No est sémpiri chi si
cingit beni (non è sempre che si
veste bene).
Cinisu, s. m. Cenere. Vedi incinisai e scinisai.
Cintu, s. m. Cinghia dei pantaloni.
Cintu/a, agg. Vestito/a, abbigliato/a. Comenti s’est c. pariat unu
procu inseddau (per come si è
vestito sembrava un maiale con la
sella). Part. pass. di cìngiri.
Ciociòi, s. m. Maiale. Appellativo
scherzoso, utilizzato soprattutto
nell’espr. a pala ’e c. (a cavalcioni
sul collo), rivolto ai bambini.
Ciociu/ciociòu, s. m. Appellativo
149
onomatopeico e scherzoso del
maiale. Figura nei soprannomi
nella prima forma, preceduto dall’art. det. su.
Ciocu, s. m. Radice dell’erica e
del corbezzolo, che si estraeva per
ricavarne abbozzi di pipe oltre che
legna da ardere.
Ciorbeddera, s. f. Capacità di
intendere, intelligenza. Usato per
lo più in senso ir.
Ciorbeddu, s. m. Cervello.
Circadura, s. f. Cerchiatura.
Circai, v. Fare cerchi.
Circau/ada, agg. Cerchiato/a.
Circinadura, s. f. Accorciamento, taglio, riduzione.
Circinai, v. Accorciare, ridurre,
tagliare. Nel gergo degli apicoltori, l’operazione di smielamento
delle arnie, c. is cäiddus.
Circu, s. m. Cerchio per botti.
Indica anche il cerchio in ferro
tondo utilizzato in un gioco infantile.
Circufoglia, s. m. Arcobaleno.
Cìrdinu/ a, agg. Rigido/ a.
Usato più che altro in senso reale,
di rado in espressioni metaforiche.
Vedi incirdinai(si).
Citiri(si), v. Tacere, star zitto.
Comenti ddi nau su chi ddi menescit
si citit inderetura (appena gli dico
ciò che merita tace immediatamente). Tuttora molto vivo nell’uso
150
l’ordine perentorio citidì (stai zitto).
Citìu/ a, agg. Zitto/ a. Usato
anche come intimazione, con
ellissi del predicato. Citìu tui (tu
zitto).
Civargeddu, s. m. Piccola focaccia. Alimento tipico di Seui e dell’intera zona, con qualche variante
locale, è su c. prenu, una focaccia
ripiena di un purea di patate condito con olio d’oliva o strutto, formaggio pecorino o caprino (da
qualche tempo a questa parte
anche formaggio dolce), cipolle e
zucchine. Si confeziona di frequente anche su c. de cibudda (una
focaccia piatta a base di cipolle).
Civargioni, s. m. Focaccia fuori
misura. In Seddori su pani ddu
fäint a civargionis mannus (a
Sanluri confezionano il pane in
focacce enormi).
Civargiu, s. m. Focaccia di
semola e farina bianca.
Coa, s. f. Coda, parte terminale.
Prov. sa c. est mala a iscorgiai (la
coda è difficile da scuoiare), per
dire che la parte conclusiva di
quasi tutte le opere è la più difficile. Conclusione.
Cobedina, s. f. Tinozza.
Cocerinu, s.m. Cucchiaino.
Presente nei soprannomi.
Coceroni, s. m. Mestolo a forma
di grosso cucchiaio.
PAOLO PILLONCA
Cocineddu, s. m. Uno dei nomi
dell’asino. Ironico. Vedi bistratzu,
burricu, molenti, peghiteddu e
pegus de mola.
Cociola, s. m. Cotenna, pelle
del maiale. Presente nei soprannomi.
Cociolu, s. m. Guscio, buccia.
Si può riferire, dunque, tanto alla
noce e alla nocciola quanto all’arancia e al limone.
Cóciula, s. f. Arsella. Anche
come nome collettivo.
Cocöedda, s. f. Piccolo pane a
pasta dura. Dim. di cocòi.
Cocòi, s. f. Pane bianco a pasta
dura.
Coddada, s. f. Atto sessuale,
coito, scopata.
Coddadori/a, s. m. Scopatore/scopatrice, amante delle avventure erotiche.
Coddai, v. Avere rapporti sessuali. In senso fig. ingannare,
imbrogliare, raggirare. Ddi ’oliat
bèndiri crabas malas ma no dd’at
coddau (gli voleva vendere delle
capre di cattiva razza ma non è
riuscito a fregarlo).
Coddaprangendu, s. m. Piangi e
fotti. Si dice di chi è sempre triste
anche quando non ne avrebbe
alcun motivo. Presente nei soprannomi.
Coddongiu, s. m. Coito, atto
Mancarìas. La parlata di Seui
sessuale.
Coddoni/a, agg. Amante del
coito.
Coddu, s. m. Òmero. Tuttora
usata l’espr. de pala in c. (lett. dalla
spalla all’òmero), per indicare un
palleggiamento reiterato di responsabilità.
Codina, s. m. Ciocco, radice
dell’erica e del corbezzolo. Nel linguaggio quotidiano dà indicazione generica, per quella specifica
occorre precisare: c. ’e tùvara è la
radice dell’erica, c. ’e lïoni quella
del corbezzolo. Sradicare l’erica e
il corbezzolo veniva considerato
un lavoro estremamente gravoso.
Ne rimane traccia in un’espr. divenuta proverbiale: quando si minimizza sulla difficoltà di un qualsiasi lavoro solitamente si dice:
non ses mancu ’oghendu c. (mica
stai a cavar ciocchi) In senso fig.
vale duro di comprendonio. Est
una c. (non capisce nulla). In questa ultima accezione, vedi balossu,
bambassu, biobba, càdumu, codobba, conciofa, prupu.
Codobba, s. m. Incapace, cretino, di scarso intuito, etc.
Códula, s. f. Pietra piatta di piccole dimensioni, facile da scagliare
contro q.no o q.sa.
Cöeta, s. f. Sottocoda, parte finale della sella e del basto di cavalli,
151
asini e muli.
Cofa, s. f. Cesta di canne. In
senso fig. fortuna sfacciata. Vedi
scofau.
Cofu, s. m. Cavità, fossa, fosso.
Su veterinàrïu at fatu fàiri unu c.
mannu po interrai is procus impestaus (il veterinario ha fatto scavare una gran fossa per seppellire i
maiali colpiti dalla peste).
Cofudu/ ada, agg. Cavo/a, concavo/a. Anche rif. ai piatti di cucina. Apu postu unu pratu c. (ho
messo in tavola un piatto concavo). Vedi praneri.
Coga, s. f. Fattucchiera.
Coghera, s. f. Ubriacatura,
sbronza. Si nd’at boddìu una bella
c. (si è preso una bella sbronza).
Cogina, s. f. Cucina.
Coginadorgiu, s. m. Luogo in
cui si cucina. Figura nei toponimi.
Coginai, v. Cucinare.
Coginau, s. m. Pasto per maiali
a base di patate e crusca.
Coginedda, s. f. Cucinino.
Coglioni, s. m. Testicolo. Ses
pighendumì a is coglionis (mi stai
rompendo le scatole). In senso fig.
uomo di scarso valore, persona cretina.
Cogliudu, s. m. Non castrato,
ancora con i testicoli. Si dice degli
animali maschi interi e degli uomini coraggiosi.
152
Cogliunadori, s. m. Imbroglione.
Cogliunadura, s. f. Imbroglio,
inganno, trappola.
Cogliunai, v. Ingannare, imbrogliare. A Ninu no ddu cogliunant
(Nino non si fa ingannare).
Cogliunau/ada, agg. Ingannato/a.
Cogorista, s. f. Cresta del gallo.
Metaforicamente: vanità, pompa.
Coi-coi, s. m. Rospo di palude
di dimensioni minuscole.
Cóïa, s. f. Matrimonio. Ma anche, per una sorta di est. augurale,
fidanzamento. Linu at bogau sa c. in
craru (Lino ha ufficializzato il
fidanzamento).
Coïadori/a, agg. Pronubo/a. Si
dice anche di qualche Santo, come
San Valentino che nel paese confinante di Sàdali ha il principale
centro di culto della Sardegna.
Sant’Elena imperatrice, la madre
di Co-stantino Magno, al contrario, ha fama di essere scoïadora,
ossia di far finire le relazioni amorose.
Coïai, v. Sposare, dare o unire in
matrimonio. Ddus coïat su préidi
(li sposerà il prete). Anche al rifl.
coïaisi (sposarsi).
Coïau/ada, agg. Sposato/a.
Cöidai/cöitai, v. Far presto, sbrigarsi. La loc. avv. a coìdu/coìtu
significa: per tempo, sul presto.
PAOLO PILLONCA
Candu est benìu fut a c. meda
(quand’è venuto era molto presto). Meno usata la variante cöitai.
Vedi discöidai.
Cöidau/ada, agg. Fatto in fretta.
Part. pass. di cöidai.
Cóidu, s. m. Fretta. Non ti
pighint is prosporis de su c. (non
farti venire le smanie della fretta).
Cöidura, s. f. Cottura. Nella loc.
a c.
Cöigliai, v. Avanzare. Candu
tenit gana ’e papai est raridadi chi
nde ddi cöiglit (quando ha fame è
raro che gli avanzi qualcosa)
Cöigliau/ada, agg. Avanzato/a,
residuale.
Cöili, s. m. Ovile.
Cóiri, v. Cuocere, cucinare. Oi
cou fâ (oggi cucino delle fave), cussa
petza no est cota (quella carne non è
cotta). Ma il verbo si usa anche nel
senso di maturare, riferito ai frutti
vegetali. Ocannu sa pira addurat a
c. (quest’anno le pere tarderanno a
maturare). In senso ir. lo si impiega
nel significato di ubriacare/ubriacarsi. Dona crobba, cussu
’inu ti cöidat a c. (stai attento, quel
vino ti ubriacherà presto), Antoni
binu no nd’aguantat, ndi bufat duas
o tres tassas e si cöit (Antonio non
regge il vino, ne beve due o tre bicchieri e si ubriaca).
Cöitai, v. Fare in fretta. Vedi cöi-
Mancarìas. La parlata di Seui
dai.
Colostru, s. m. Colostro, latte
denso, il primo che si produce
subito dopo il parto.
Colovru, s. m. Biscia, serpe.
Columbu, s. m. Colombo.
Coma, s. f. Fogliame degli alberi e degli arbusti. Vedi scomai.
Cominigai, v. Dare la comunione. Nel rifl. vale: fare la comunione, accostarsi al sacramento dell’eucarestia. S’est cunfessau e cominigau (si è confessato e ha fatto la
comunione). Vivissima la loc. a
pusti mortu cominigau (comunicato post mortem) per evidenziare la
perfetta inutilità di un’azione
eccessivamente tardiva.
Cominigau/ada, agg. Comunicato/a, rif. a persona che abbia
fatto la comunione.
Comporadori, s. m. Acquirente,
compratore.
Comporai, v. Acquistare, comprare.
Comporau/ada, agg. Acquistato/a.
Cómpuru, s. m. Acquisto.
Cómudu, s. m. Cesso, latrina.
Di acquisizione recente dalla parlata cagliaritana, per il solito effetto degli scambi ininterrotti con la
numerosa colonia di lavoratori
seuesi nel capoluogo sardo.
Conca, s. f. Testa. Le teste, per
153
fortuna, non sono tutte uguali e la
parlata di Seui distingue. C. ’e
molenti (testa d’asino) è lo studente
incapace, c. ’e càuli (testa di cavolo)
la persona balorda, c. nóbbili (testa
nobile) la persona distinta - ma di
norma la definizione viene usata in
senso antifrastico -, c. cota (testa
ubriaca) l’alcolista, c. ’e lutoni (testa
di ottone) la donna che ha i capelli
del colore di quel metallo, c.’e
mustu (testa di mosto) il beone. Il s.
torna spesso nei soprannomi, con
una specificazione: c. ’e angioni
(testa d’agnello), c.’e bulloni (testa
di bullone), c.’e cascioni (testa di
cassone), c. ’e procu (testa di maiale), c.’e vicàrïu (testa di parroco).
Conca, s. f. Sommità, zona alta di
un territorio. Presente nella toponomastica con Sa c. ’e su casteddu,
che indica una cima posta di fronte
al nuraghe di Ardasai e anche i
ruderi della torretta di supporto alla
torre maggiore.
Conca ’e maju, s. f. Libellula.
Conca ’e prentza, s. f. Madrevite.
Definisce anche l’attrezzo usato dai
fabbri per praticare le filettature a
vite.
Concali, s. m. Cretino.
Concheddu, s. m. Prepuzio. In
senso fig. deficiente.
Conchita, s. f. Testa allegra, persona non troppo affidabile.
154
Conciofa, s. f. Carciofo. In senso
fig. stupido. Ndi portat de c. in
càrigas, cuddu (lett.: ne ha di carciofi sul muso, quello). Veda balossu, bambassu, biobba, càdumu,
codina, prupu.
Conconi, s. m. Testone.
Conigliu (aresti), s. m. Coniglio
selvatico (lepus cuniculus).
Contai, v. Raccontare, narrare.
Lisa scit c. is contus antigus (Lisa è
brava a narrare le storie antiche).
Contare, enumerare. Dónnïa mengianu Franciscu contat is brebeis.
(Francesco conta le pecore tutte le
mattine). Considerare, stimare.
Antoni fut unu piciocu contau
(Antonio era un ragazzo stimato).
Contau/ada, agg. Raccontato/a,
contato/a, stimato/a, tenuto/a in
considerazione.
Contonera, s. f. Casa cantoniera, di strada e/o di ferrovia.
Presente nei soprannomi.
Contoneri, s. m. Cantoniere di
strada. Quello della ferrovia si
chiama preferibilmente casellanti e
casoteri.
Contonïada, s. f. Rientro a casa,
rincasata.
Contonïai, v. Rincasare, rientrare a casa. Sarbadori costumat c. a
duru (Salvatore è solito rincasare
sul tardi).
Contonïau/ada, agg. Rientra-
PAOLO PILLONCA
to/a a casa, rincasato/a.
Contramazina, s. f. Rimedio a un
sortilegio, antidoto a una fattura.
Contras, avv. Contro, in senso
contrario. Linu dda tenit c. de tui
(Lino ce l’ha con te, ti rema contro).
Contu, s. m. Racconto, storiella.
M’at nau unu bellu c. (mi ha raccontato una bella storia). Conteggio, conto. Depeus fàiri is contus
(dobbiamo fare i conti). Stima,
considerazione. In bidda cussu
piciocu est postu in c. (nel paese quel
ragazzo è ben considerato), no est
postu in perunu c. (non gode di
alcuna stima), no ndi facas c. (non
farci caso, non considerarlo).
Copïadura, s. f. Copiatura, imitazione, plagio.
Copïai, v. Copiare, plagiare,
imitare.
Copïau/ada, agg. Copiato/a,
imitato/a, plagiato/a.
Copïeddu, s. m. Maialetto allevato in casa.
Copïoni, s. m. Amante delle
copiature e dei plagi.
Cópïu, s. m. Maiale di casa.
Vezzegg. con cui le massaie chiamavano su procu mannalissu, con
vocativo talvolta reiterato e aggiunta del compl. di specificazione: c. ’e
sa meri (maialetto della padrona).
Cora, s. f. Solco acquaio, gora.
Mancarìas. La parlata di Seui
Frequente il dim. corigedda.
Coranta, agg. num. card. Quaranta.
Corcia, s. f. Trapunta.
Corciai, v. Trapuntare. Per questa operazione le donne di Seui
adoperavano aghi di particolare
robustezza, detti agus de c.
Corciau/ada, agg. Trapuntato/a.
Corda, s. f. Piatto tipico dell’ovile: arrosto di interiora di capra,
pecora o agnellone, tenute dalle
budella intrecciate dell’animale.
Cordïolu, s. m. Legaccio, lacciolo. Vedi incordïolai.
Cordofali, agg. Particolare tipo
di ciliegia.
Cordogu, s. m. Orbo, cieco ad
un occhio.
Cordonera, s. f. Laccio da scarpa.
Cordoni, s. m. Cordone, cordone ombelicale.
Coreta, s. f. Cunetta.
Coretoni, s. m. Canale di guardia.
Corgiu, s. m. Cuoio. Ma più
spesso viene utilizzato nel significato di buccia.
Coromeddu, s. m. Fior fiore.
Detto del cespo di lattughe come
di un pezzo prelibato di carne. In
senso lato, la parte migliore di
qualunque cosa.
Corona, s. f. Roccia posta in
cima a un rialzo del terreno, a mo’
155
di corona. Figura nei soprannomi.
Coronai, v. Coronare. In senso
ironico: giai ti ses coronau (ti sei
proprio messo una bella corona).
Coronamentu, s. m. Incoronazione.
Coronateddu, n. pr. di pers.
Coronato.
Coronau/ada, agg. Coronato/a,
munito/a di corona.
Corpetu, s. m. Gilè del costume
tradizionale maschile. Di panno
nero, è chiuso sul davanti da cinque bottoni. Sul retro è di tela ed
ha una martingala.
Corpiri, v. Affliggere, contagiare, colpire. Ddu corpit dónnïa temporadedda (basta un po’ di maltempo per farlo ammalare).
Corpìu/a, agg. Colpito/a, malato/a sofferente. Non soltanto nella
congiuntura, anche permanentemente come negli handicap.
Corpu/cropu, s. m. Colpo, battuta. Al pl. vale: sussa, bastonata.
Dd’at donau una carda ’e cropus
(gli ha dato una bella sussa), no
abetîs ca ndi ’oddis corpus (non
insistere, prenderai una sussa).
Corpus, s. m. Corpo, interno
della persona. Non ti soi anintru ’e
c. po cumprèndiri e ita pensas aberu
(non sono dentro di te per capire
cosa pensi davvero). Vedi carena.
Corramenta, s. f. Coppia di
156
corna. Bella c. portat, custu crabu
(ha un bel paio di corna, questo
caprone). In senso ir. le corna
metaforiche di chi viene tradito
dalla sua donna.
Corrìa, s. f. Correggia. Molto
usato il prov. in peddi agliena c.
lada (nella pelle altrui si fanno
corregge larghe). Corria de porta
indica la bandella. Vedi incorrïai.
Corrïassu/a, agg. Coriaceo/a,
resistente.
Corridórïu, s. m. Balcone.
Corrinada, s. f. Ragliata, serie di
ragli. Su molenti s’at fatu una bella
c. (il somaro ha emesso una lunga
serie di ragli).
Corrinai, v. Ragliare. Est coment’e chi intenda unu molenti corrinendu (è come se sentissi un asino
ragliare).
Corrinu, s. m. Raglio.
Corrongiai(si), v. Raggrinzire,
rinsecchire. Chi dda lassas ’n foras
sa pira si corrongiat (se le lasci fuori
le pere si rinsecchiscono).
Corrongiau/ada, agg. Rinsecchito/a, pieno/a di rughe.
Corrongiu/a, agg. Raggrinzito/a, increspato/a. Dalla canzone
Eus agatai di Benigno Deplano:
Eus agatai/ bagadias corrongias/
préidis e mongias/ sacristas e paras/
nendu missas caras/ po bius e po
mortus (troveremo/ zitelle raggrin-
PAOLO PILLONCA
zite/ preti e suore/ sacristi e frati/
impegnati in messe a caro prezzo/
per vivi e per morti). Ma come
agg. è più usato corrongiau/ada.
Corru, s. m. Corno. Indica le
corna di buoi, capre e mufloni (le
pecore ormai sono tutte mùdulas,
senza corna, montoni compresi).
Accompagna la definizione di
alcuni oggetti artigianali che si
ricavano dalle corna propiamente
dette e da altri materiali a forma di
corno: unu c. ’e binu (un corno di
vino) definisce la quantità di vino
contenuta in un bicchiere ricavato
da un corno di bue, unu c. ’e crocoriga (un corno di zucca) lo stesso contenuto: unica differenza, il
materiale del contenitore.
Corru ’e mari, s. f. Conchiglia.
Corrudu/a, agg. Cornuto/a.
Detto in rif. agli animali ma anche
alle persone. Ancora vivissima nell’uso l’espr. c. e apaliau (cornuto e
bastonato con una pala).
Corrunconai, v. Girare per gli
angoli, vagare per il paese senza
una meta precisa.
Corrunconi, a. m. Angolo.
Corrutai, v. Osservare il lutto
stretto. Vedi scorrutai.
Corrutu, s. m. Lutto stretto.
Maria est in c. po su pobiddu
(Maria è in lutto stretto per la
morte del marito). Per le donne su
Mancarìas. La parlata di Seui
corrutu - perpetuo per il marito,
temporaneo per gli altri parenti
stretti, soprattutto fratelli, sorelle,
cognati e nipoti - prevedeva una
serie di divieti di partecipazione ad
eventi pubblici e un’altra serie di
prescrizioni relative all’abbigliamento. Oggi quelle regole si sono
attenuate di molto e tendono a
scomparire: prevale la tendenza a
lasciare a ciascuna donna la libertà
di scelta. Presente nella toponomastica con Bau de is corrutus, quasi
che quel luogo fosse un vallone in
cui ci si dava appuntamento per
cerimonie comunitarie commemorative di defunti. Secondo una
leggenda, invece, il nome deriverebbe dal fatto che in quella vallata si sarebbero uditi per lungo
tempo dei lamenti funebri, forse in
ricordo di qualche strage.
Corti, s. f. Recinto per la mungitura di capre e pecore. Metaforicamente: giai torrat a c. (tornerà a
più miti consigli, verrà a Canossa).
Coru, s. m. Cuore. Su questo s. si
costruiscono molte locuzioni: si
dd’at pigada a c. (se l’è presa a
cuore) e si dd’at posta a c. (stesso
significato), de bonu c. (generoso),
de c. (cordialmente, con sincerità),
de c. moddi (di cuore tenero), de c.
tostau (di cuore duro) e simili.
Spesso, soprattutto nei canti della
157
culla e della bara, diventa sinonimo
di amore. Frequente l’appellativo c.
miu stimau (cuore mio diletto).
Coscia, s. f. Coscia. Pres. nei
soprannomi.
Coscioni, s. m. Maiale. Francesismo (da cochon) che ha dato
luogo a un soprannome, una delle
assunzioni dal francese nella parlata seuese, date le lunghe migrazioni verso la Francia.
Coscioni/a, agg. Dalle cosce
grosse.
Cosidura, s. f. Cucitura.
Cosingiu, s. m. Lavoro di cucito.
Maria est apricada in su c. (Maria si
impegna nel lavoro di cucito).
Cosingiu, s. m. Scarpa artigianale, cucita a mano. L’uso riguarda prevalentemente il pl. cosingius.
Cosiri, v. Cucire. Definisce
l’azione principale dei sarti ma
anche quella del medico chirurgo
che sutura una ferita. Dd’at a c. su
dotori (il medico gli applicherà dei
punti di sutura).
Cosìu/a, agg. Cucito/a.
Cossetu, s. m. Reggiseno a balconcini, senza bretelle.
Cóssïu, s. m. Contenitore di terracotta per la preparazione della
lisciva e per l’igiene personale.
Cossu, s. m. Busto del costume
tradizionale femminile. Di broccato, è guarnito con fiori gialli e
158
dorati.
Costa, s. m. Costone, terreno in
pendenza. Est (pr. er) bessìu unu
fogu e at abbrugiau totu cussa c. (è
scoppiato un incendio ed ha bruciato l’intero costone). Ma anche
costola, umana e animale. Usata
l’espr. irosa donasiddu, giai non ti
’essit de costas (dàglielo, non esce
dalle tue costole). Frequente nei
toponimi del territorio, una volta
anche al dim. (Costigedda), alla
periferia del paese in direzione di
Sàdali.
Costumai, v. Essere solito, avere
l’abitudine di seguire usanze e tradizioni. Deu facu comenti si costumat (io agisco secondo l’usanza).
Costùmini, s. m. Costume,
l’insieme dei pezzi di un vestiario
tradizionale. In quello di Seui i
pezzi principali del costume femminile sono: su mantu (il copricapo) fatto di panno rosso bordato di
raso azzurro e tenuto insieme nella
chiusura da su giunchigliu, (una
catena di metallo non pregiato ma
che può essere d’oro nei costumi
delle donne benestanti), sa camisa
(la camicia di tela bianca), su cossu
(il busto di broccato), su giponi (la
giacchetta di raso a fiori violacei, sa
’unnedda (la gonna di raso nero a
fiori viola alla stessa maniera della
giacchetta con l’aggiunta di orrob-
PAOLO PILLONCA
binus, perline non preziose), su
deventali (il grembiule di pizzo
nero). Il costume maschile, come
negli altri paesi, è di fattura semplice, quasi elementare: sa berrita (il
copricapo di orbace o panno nero),
su cropetu (il gilè di panno nero), sa
raga (il gonnellino di orbace nero),
is bragas (i calzoni di tela bianca), is
cartzas (le ghette di orbace nero).
Costumu, s. m. Consuetudine,
usanza, tradizione. L’impiego del
s. avviene quasi soltanto al pl. A
usus e costumus fut äici (secondo la
tradizione era così). Vedi usu.
Còtu, s. m. Barattolo, contenitore in genere. Pesaminceddi ’e sa
nanti cussu c. (toglimi di mezzo
quel barattolo). Al pl. (cotus), sempre a proposito di contenitori,
indica genericamente oggetti inservibili. Tenit sa ’omu totu prena ’e
cotus (ha la casa zeppa di vecchi
oggetti inservibili).
Cótu/a, agg. Cotto/a, rif. ai cibi.
Part. pass. di còiri. Sa petza est c.
(la carne è cotta). Maturo/a, rif. ai
frutti vegetali. Cuss’àgina no est c.
mancu pagu (quell’una non è
affatto matura). Ubriaco/a. Antoni
fut c. a fegi (Antonio era completamente ubriaco).
Craba, s. f. Capra. Met. donna
libera e indocile.
Crabïeledda, n. pr. di pers. Ga-
Mancarìas. La parlata di Seui
briellina.
Crabïeli, n. pr. di pers. Gabriele.
Crabïolu, s. m. Capriolo. Presente in un toponimo, Is Crabïolas,
nella parte bassa del territorio comunale.
Crabïoni, s. m. Frutto del caprifico, il fico selvatico detto figu cràbina.
Crabistu, s. m. Cavezza. No andat mancu a c. (non va neppure se
gli metti la cavezza), detto di persona poco intelligente o testarda.
Crabitu, s. m. Capretto. Quando ha pochi giorni di vita si chiama crabiteddu.
Crabonaïa, s. f. Carbonaia.
Crabonaïu, s. m. Carbonaio.
Craboni, s. m. Carbone. A Seui
indicava soprattutto l’antracite del
giacimento di Fundu ’e corongiu,
ma definiva e definisce anche il
carbone vegetale.
Crabu, s. m. Caprone. In senso
fig. vale: ostinato, ribelle, selvatico, poco incline al ragionamento.
Crabuciu, s. m. Caprone giovane. Usato anche il dim. crabuceddu.
Crabufigu, s. m. Fico selvatico
(caprificus), caprifico. Vedi figu
cràbina.
Cracadori, s. m. Pigiatore.
Desueto nel linguaggio della quotidianità, sopravvive nei sopran-
159
nomi.
Cracadura, s. f. Pigiatura, pressatura.
Cracai, v. Calcare, piegare, pigiare. Di recente, è entrato nel
gergo dell’istruzione nel senso di
bocciare, respingere, espellere.
Cracangiu, s. m. Calcagno. Ma
è molto più usato carroni.
Cracaporcedda (a). Affollamento eccessivo in ambiente angusto,
come maialetti nell’àrula. Usato
soprattutto in loc. avv. In cussu logu
fustis a c. ( in quel posto eravamo
pigiati come maialetti nell’arula).
Cracau/ada, agg. Calcato, bocciato, respinto.
Cracu/a, agg. Fitto/a. Cussa
costa tùndïa unu tempus fut unu
padenti c. (quel costone spoglio un
tempo era un bosco fitto).
Crâdu/ada, agg. Chiuso/a a
chiave. Part. pass. di cràiri.
Crai, s. f. Chiave. A catódigi
annus boliat a ddi ’onai is crais de
’omu (a quattordici anni voleva
che gli dessi le chiavi di casa). In
senso reale e fig. Viva l’espr. volgare sa c. ’e s’ebba (lett. la chiave della
cavalla, eufemismo per minca ’e
cüaddu), usata quando si vuole
rispondere negativamente a una
richiesta eccessiva. Ti ’ongiu sa c. ’e
s’ebba (non ti darò nulla).
Crai de muru, s. f. Tirante, chia-
160
ve da muro.
Cràiri, v. Chiudere a chiave. Il
part. pass. è crâdu, irr. S’’enna
dd’apu crâda (la porta l’ho chiusa
a chiave).
Cramella, n. pr. di persona.
Carmela. Testimoniato fino alla
prima metà del secolo scorso il
dim. Cramelledda.
Craminadura, s. f. Carminatura.
Craminai, v. Carminare. Gergale delle tessitrici.
Craminau/ada, agg. Carminato/a.
Cramu, n. pr. di luogo. Carmelo
(detto del monte biblico del profesta Elia e della festa che gli si
riferisce). Sempre accompagnato
dall’art det. m. sing. su.
Crancu, s. m. Cancro, detto
anche su mali mandïadori (la
malattia che mangia).
Crannaca, s. f. Collana. Nella
parlata di Seui la voce mostra una
venatura lievemente spregiativa e
viene utilizzata anche in riferimento agli animali, soprattutto ai
buoi nelle processioni.
Crapita, s. f. Scarpa. Viva l’espr.
agatai sa c. giusta a su pèi (trovare
la scarpa adatta al proprio piede).
Crasi, avv. Domani.
Crastadura, s. f. Castrazione.
Crastai, v. Castrare. Ma per indi-
PAOLO PILLONCA
care la castrazione di alcuni animali
il verbo gergale di maggiore utilizzo
nella parlata di Seui è sanai.
Crastau/ada, agg. Castrato/a.
Crastu, s.m. Pietra.
Crastulai, v. Pettegolare. Neologismo di provenienza cagliaritana.
Cràstulu, s. m. Pettegolezzo.
Cràstulu/a, agg. Pettegolo/a,
maldicente. Dina est una c. (Dina
è una pettegola).
Cravai(si), v. Inserire, conficcare: cravanceddi una puncia (mettici un chiodo). Nella forma riflessiva vale: azzuffarsi/picchiarsi, mettersi in mezzo, inserirsi: Antoni
s’est cravau cun Linu (Antonio e
Lino si sono azzuffati), cravadinci
in sa bassa (fìccati nel cesso).
Cravongiu, s. m. Rissa. In sa festa
ddu at sussédïu unu c. mannu (nella
festa si è scatenata una grande rissa).
Crëidori, s. m. Credulone, facile a prestar fede a q.no e/o q.sa.
Crëidura, s. f. Credulità, fiducia
eccessiva nelle parole del prossimo
Crèiri, v. Credere, prestar fede.
Chi non biu non creu (se non vedo
non credo). Anche al rifl. nel
senso di avere un’eccessiva austostima. Maria si crëit meda (Maria è
molto presuntuosa).
Crescina, s. f. Crescenza, aumento del numero dei capi di bestiame
in un gregge. Gergale degli ovili.
Mancarìas. La parlata di Seui
Crèsciri, v. Crescere.
Créscïu/ crèscïa, agg. Cresciuto/a.
Crésïa, s. f. Chiesa. La parrocchiale si chiama c. manna (chiesa
grande).
Cresïedda, s. f. Tempietto campestre.
Cresïàstigu/a, agg. Fedele devoto. Con venatura ironica. Vedi
bigotu/a.
Cresurai, v. Chiudere con siepi.
Cresurau/ada, agg. Chiuso/a
mediante siepi.
Cresuri, s. f. Siepe di confine.
Crétïu/a, agg. Creduto/a. Part.
pass. di crèiri. Usato più di frequente nel senso di: presuntuoso/a, superbo/a. Sarbadori est unu
c. (Salvatore è un presuntuoso).
Crïadori, s. m. e agg. Creativo,
creatore.
Crïadura, s. f. Creatura, infante,
neonato, bimbo.
Crïai, v. Creare, far nascere
qualcosa dal nulla.
Crïai, v. Fare l’uovo. Detto di
volatili e uccelli in genere. Pudda
crïadora è la gallina ovaiola.
Crïau, s. m. Creato, universo.
Crïau/ada, agg. Creato/a.
Crïàntzïa, s. f. Educazione, compitezza, riservatezza. Po ddu nai in
c. (per dirlo in modo educato).
Crica, s. f. Saliscendi, attrezzo in
161
ferro utilizzato per la chiusura di
infissi, formato da un’asta che
scorre in un nasello a gancio. Vedi
cricai e scricai.
Crica, s. f. Gruppo di amici,
cricca.
Cricadura, s. f. Chiusura di
porta con il solo saliscendi. Vedi
scricadura.
Cricai, v. Chiudere una porta
senza usare chiavi, utilizzando soltanto il saliscendi.
Cricau/ada, agg. Chiuso/a con il
saliscendi.
Crïella, s. f. Chiacchiera. Vedi
chirïella.
Crïolina, s. f. Creolina, soluzione chimica dal caratteristico odore
quasi di catrame ancora molto
usata come disinfettante negli
ovili.
Crisa-crisa, s. m. Solletico. Vedi
chilighiti.
Crisadura, s. f. Sensazione di
ribrezzo.
Crisai(si), v. Provare ribrezzo.
Linu crisat a su casu martzu (Lino
prova ribrezzo davanti al formaggio con i vermi). Se si vuole indicare una persona nauseabonda o
un luogo sporco si suole dire: fait a
ddi c. (fa ribrezzo). Se ellittico del
compl. il v. significa: soffrire il solletico. No mi tochis is costas ca crisu
(non toccarmi le costole perché
162
soffro il solletico). Al rifl., se riferito al bestiame, vale: sussultare.
S’ebba s’est crisada (la cavalla ha
sussultato).
Crisósigu/a, agg. m. e f. Schizzinoso/a, che prova ribrezzo
davanti a un alimento o una situazione in qualche maniera poco
gradevole dal punto di vista fisico
o morale. Il suffisso ósigu indica
questo tipo di tendenza. Vedi primósigu.
Crispu/a, agg. Fitto/a, svelto/a,
veloce: unu padenti c. (un bosco
fitto), a passus crispus (a passi svelti).
Cristolu, n. pr. di pers. Cristoforo.
Cristu incravau, s. m. Crocefisso.
Cristus, n. pr. di pers. Gesù
Cristo, Dio. Frequente la similitudine innocenti che C. (innocente
come Gesù Cristo).
Crisu, s. m. Residuo di potatura
e/o decespugliamento. In senso
fig. vale: spazzatura e, se rif. all’uomo, persona squallida. Antoni est
unu c. (Antonio fa schifo)
Crobba, s. f. Attenzione, cura,
controllo, percezione. Dona c. (stai
attento), a su tagliu ddi ’onat c.
Antoni (del gregge si occupa
Antonio). Di un malato che perde
percezione si dice non donat mancu
prus c. (non riesce più nemmeno a
PAOLO PILLONCA
concentrarsi).
Crobecadura, s. f. Coperchiamento.
Crobecai, v. Coperchiare. Vedi
scrobecai.
Crobecu, s. m. Coperchio.
Anche in senso fig. nello stesso
significato di crobetori.
Crobedda, s. f. Piccola corbula.
Crobetàntzïa, s. f. Metafora,
allegoria. Po ddu nai in c. (per
dirlo velatamente).
Crobetori, s. m. Coperchio di
pentola: su diàulu fait is pingiadas
ma no is crobetoris (il diavolo fa le
pentole ma non i coperchi). In
senso fig. paravento, schermo: a su
pobiddu ddu tenit po c. (usa il
marito come paravento).
Crobetura, s. f. Tettoia. Per il
senso lato vedi abba.
Crobi, s. f. Corbula.
Crobu, s. m. Corvo. Molto
usato il prov. c. cun c. non si ndi
’ogat s’ogu (il corvo non cava
l’occhio al suo simile). Frequente
l’imprecazione scherzosa rivolta ai
bambini, con l’uso del diminutivo: ancu ti pighint is crobigeddus
(che ti prendano i piccoli corvi).
Presente nei soprannomi, proprio
al diminutivo, e nella toponomastica.
Crocadorgiu, s. m. Luogo dove
si sdraiano gli animali per riposa-
Mancarìas. La parlata di Seui
re. Ma si usa anche in riferimento
alle persone nel senso di giaciglio,
letto, dormitorio. Cussa forada est
su c. de is murvas (in quella spianata le mufle riposano).
Crocai(si), v. Coricare, stendere.
Fut gherrendu e Antoni dd’at crocau (lottava e Antonio l’ha steso).
Crocadì in su póddini (lett. sdràiati sulla crusca, vai a quel paese).
Nella forma rifl. mettersi a letto.
Si nci crocat (si mette a letto).
Crocamentu, s. m. Pernottamento, alloggio d’albergo.
Crocau/ada, agg. Sdraiato/a,
supino/a.
Crocoladori, agg. Gorgogliante.
Presente nella stessa forma come
toponimo, ad indicare una vallata
del territorio comunale a poca
distanza dall’abitato di Seui.
Crocolai, v. Gorgogliare. Detto
dell’acqua delle fontane.
Crocoriga, s. f. Zucca. Indica la
specie vegetale e il suo frutto. Il s.
è frequente nel linguaggio della
quotidianità nell’espressione torrai
c. per definire una richiesta di
matrimonio andata a monte perché respinta dalla candidata sposa
o dalla sua famiglia. È anche sinonimo di bocciatura a scuola. Nd’at
boddìu una grandu c. (ha preso
una gran bocciatura). Il s. definisce anche le zucche che, lasciate
163
seccare e poi lavorate abilmente, si
trasformano in contenitori utilizzabili per conservare il vino.
Crocorigheddu, s. m. Zucchina.
Pres. nei soprannomi. Da notare il
cambio di genere del dim. rispetto
al s. principale, fenomeno frequente. Vedi castangeddu rispetto a
castangia.
Cróculu, s. m. Gorgoglio, scroscio. Perpetuato nel top. Sa funtana ’e su c., nella parte alta del territorio comunale, ricca di rosmarini,
ginepri e lecci, tra S’’èmida e Sa
’uca ’e su ’oi, quasi al confine con la
foresta di Montarbu. Vedi crocolai.
Croga, s. f. Anca. Ironicamente,
indica la pinguedine di quella
zona corporea, con estensione a
fianchi e natiche. Ndi portat de
crogas (ha un bel paio di fianchi).
Crogagliu, s. m. Cucchiaiomestolo in corno di montone o
muflone, di dimensioni superiori
alla media dei cucchiai e inferiori
a quella dei mestoli. Di uso comune negli ovili fino a pochi anni fa,
oggi in molte abitazioni del paese
è divenuto una sorta di complemento d’arredo, soprattutto quando a creare l’oggetto è un artigiano
di buone mani. Uno straordinario
creatore di crogaglius è stato ed è
Umberto Congera noto Animeta
(classe 1920). Presente nei sopran-
164
nomi.
Cropu, s. m. Colpo. Vedi corpu.
Crosidadi, s. f. Curiosità.
Crosidadosu/a, agg. Curioso/a,
ficcanaso.
Crû/crua, agg. Crudo/a, soprattutto riferito al regno vegetale, dunque nel senso di acerbo, immaturo.
Ma anche riferito all’alimentazione.
Sa mela est c. (le mele sono acerbe),
cussa petza est c. (quella carne è
cruda). L’espr. c. perdali vale: crudo
come la pietra. In senso met.
incompiuto, scarso. Est una conca c.
(è un cervello poco sviluppato).
Crüangiu/a, agg. Mezzo crudo/a,
immaturo/a. Detto dei cibi e dei
frutti.
Cruculeu, s. m. Passero sardo.
Presente nei soprannomi.
Cüaddeddu, s. m. Cavallino.
Detto di puledrini o anche di
cavalli adulti di piccola taglia.
Cüaddu, s. m. Cavallo. Parola
evocativa e di intensa suggestione
per i rimandi di ricordi profondi e
di fantasie cui si presta, com’è naturale che sia in una comunità rimasta per secoli a base economica
quasi unicamente pastorale. Il s.
indica il soggetto che abbia superato i tre anni. Prima di quel tempo,
l’animale è ancora purdeddu, puledro. Frequente nel linguaggio
metaforico: de cussu c. giai ndi calas
PAOLO PILLONCA
(ti farò scendere da quel cavallo,
quel tuo desiderio non potrà realizzarsi); no est c. chi setzu (non è un
cavallo che posso montare, non
affronto un rischio del genere),
chini setzit c. aglienu ndi calat candu
non bolit (chi monta su un cavallo
altrui è costretto a scendere quando
non vorrebbe). Capriccio, bizza. Est
fendu is cüaddus (fa le bizze, detto di
un bimbo).Usato assai spesso nei
proverbi: su c. in beranu cogliunat su
comporadori (il cavallo in primavera
inganna l’acquirente, nel senso che
la primavera gli conferisce l’aspetto
migliore dell’anno), su c. frïau a sa
sedda si saddit (il cavallo piagato
sussulta nel vedere la sella), su c.
piticu parit sèmpiri purdeddu (il
cavallo di taglia minuta sembra
sempre un puledro), a c. curridori
funi curtza (il cavallo da corsa deve
essere tenuto a fune corta), c. e
pobidda pigadiddus in bidda (cavallo e moglie prendili nel tuo paese).
Tuttora molto usata la loc. a c.
infrenau (con il cavallo bardato), a
scherno dei presuntuosi. Presente
nei toponimi (Calendecüaddu).
Cüaddu, s. m. Ettolitro. Il riferimento al cavallo si spiega con il
fatto che un tempo le bisacce larghe adibite al trasporto del vino
potevano contenere un otre da
cinquanta litri per ciascuna delle
Mancarìas. La parlata di Seui
due tasche. Vedi foddi.
Cüaddudu/a, agg. Bizzoso/a
come un cavallo, ostinato/a, prepotente.
Cüaddu ’e ’ingia, s. m. Mantide
religiosa (lett. cavallo di vigna).
Cüadernu, s. m. Quaderno.
Cüadorgiu, s. m. Nascondiglio.
Cüadori, s. m.Nasconditore.
Cüadrai, v. Quadrare, andare a
genio. Candu ddi naras sa beridadi
no ddi cüadrat (quando gli dici la
verità non gli va a genio).
Cüadrau,s. m. Quadrato.
Cüadrau/ada, agg. Quadrato/a.
Cüadru, s. m. Quadro, dipinto.
Cüadura, s. f. Nascondimento.
Cüai, v. Celare, non svelare, coprire, proteggere. Cussu fait faddotadas mannas ma sa pobidda ddu
cüat (quel tizio fa sbagli grossolani
ma la moglie lo copre). Non si usa
nel senso dell’it. nascondere, che a
Seui è reso con atacai.
Cüartu, s. m. Quarto. Misura di
capacità.
Cüartu/a, agg. Agg. num. card.
Quarto/a.
Cüàturu, agg. num. card. indeclinabile. Quattro.
Cüau/ada, agg. Nascosto/a.
Cuba, s. f. Botte.
Cubedda, s. f. Barilotto, piccola
botte. Artigiani abili preparano
questi arnesi a regola d’arte, so-
165
prattutto in legno di ginepro.
Cuberai, v. Trovare.
Cuboni, s. m. Botte grande.
Cucai, v. Sorprendere, cogliere
con le mani nel sacco.
Cucau/ada, agg. Sorpreso/a,
colto/a in flagrante.
Cuchedda, s. f. Crocchia.
Cucu, s. m. Cuculo.
Cucumeu, s.m. Civetta.
Cucureddu, s. m. Rialzo del terreno, cocuzzolo.
Cùcuru, s. m. Sommità, testa.
La loc. a.c. indica il superamento
del livello raso nel riempire i contenitori di cereali, anche macinati,
e di qualunque altro alimento non
liquido. Definisce anche il trasporto di pesi sulla testa da parte
delle donne. Su landi nde ddu
’etïaus a c. (le ghiande le trasportavamo sulla testa). Pres. nei toponimi, il più noto dei quali è Cùcurus
de pardu, tra Gersadili e Paùli.
Cucuruscagliu, s. m. Capriola.
Usata la loc. a cucuruscaglius per
definire il gioco delle capriole.
Cuddu/ a, agg. e pr. dim. Quello/a.
Cüestori, s. m. Questore.
Cüesturinu, s. m. Poliziotto.
Cugliera, s.f. Cucchiaio.
Cugudda, s. f. Riccio del castagno che contiene il frutto.
Cuguddai, v. Coprire. Anche in
166
senso met.Vedi scuguddai.
Cuguddu, s. m. Copricapo annesso al cappotto.
Cugùmini, s. m. Cetriolo.
Cugutzulloni, s. m. Albero
immaginario che dà il nome a un
gioco-indovinello di gruppo (sa
mata de su c.) che si faceva e talvolta si fa ancora nei vari rioni del
paese durante i fuochi di gennaio.
Cùidu, s. m. Gomito. Nde ddi
’onas unu c. e si ndi leat unu ’rassu
(gli dài un gomito e si prende il
braccio intero).
Cüìndigi, agg. num. card.
Quindici.
Culoni/a, agg. Dal culo grande.
Per est. fortunato/a.
Culu, s. m. Ano, culo. Per est.
genitali femminili. Una donna
vogliosa è chiamata c. caglienti
(culo caldo). In senso fig. fortuna,
buona sorte. Piticu su c. (che fortuna). La loc. a c. de ogu - nell’effettiva pronuncia dei parlanti, a
cul’’i ogu - vale l’it. con la coda dell’occhio, l’espr. pónniri a c. ingrassare eccessivamente.
Culurgioni, s. m. Raviolo di patate tipico della cucina della Barbagia
meridionale. La ricetta tradizionale
dei culurgionis - suscettibile di lievi
elaborazioni e varianti, a seconda
dei gusti e della creatività di chi li
prepara - prevede questi tre ingre-
PAOLO PILLONCA
dienti basilari: patate, strutto, formaggio fresco salato. Ma allo strutto si è ormai quasi totalmente sostituito l’olio d’oliva. Presente nei
soprannomi.
Cumandai, v. Ordinare, comandare. All’imp. pres. (cumandit,
spesso abbreviato in cumà) era la
risposta obbligata dei giovani alla
chiamata degli anziani.
Cumandamentu, s. m. Comandamento, precetto cristiano.
Cumandanti, s. m. Comandante.
Cumandau/ada, agg. Richiesto/a,
comandato/a, ordinato/a. Chini at
cumandau sa birra si dda pagat (chi
ha ordinato la birra se la pagherà).
Cumandu, s. m. Ordine, richiesta, faccenda. Depu fàiri unu c.
(debbo sbrigare una faccenda).
Cumbata, s. f. Lotta, sforzo
quotidiano, preoccupazione concreta. Soi sempir in c. (mi ritrovo
sempre indaffarato).
Cumbàtiri, v. Combattere, darsi
da fare, essere sempre in azione.
Cumbàtïu/a, agg. Combattuto/a, disputato/a.
Cumbenïenti, s. m. Necessario.
At fatu prus de su c. (ha fatto più
del necessario).
Cumbenièntzïa, s. f. Convenienza.
Cumbènniri, v. Convenire, esse-
Mancarìas. La parlata di Seui
re conveniente.
Cumbénnïu/a, agg. Convenuto/a.
Cumbidai, v. Invitare a bere e/o
a mangiare. Ti cumbidu? (gradisci
qualcosa?).
Cumbidau/ada, agg. Invitato/a.
Cumbìdu, s.m. Invito, al bar o
in casa. A differenza di altre subvarianti zonali, che registrano la
forma sdrucciola cùmbidu, nella
parlata di Seui il s. ha l’accento
sulla penultima sillaba.
Cumbinai, v. Combinare, capitare.
Cumbinatzïoni, s. f. Combinazione, casualità.
Cumentzai, v. Iniziare, muovere
per primo l’azione. At cumentzau
Linu (è stato Lino ad iniziare). Esiste anche la variante incumentzai.
Cumentzau/ada, agg. Iniziato/a,
avviato/a.
Cumentzu, s. m. Inizio, origine.
A su c. no mi ndi soi acatau (all’inizio non me ne sono accorto).
Cumessïoni, s. f. Commissione.
Affare da sbrigare. In senso ir.
indica l’apparato genitale maschile
esterno. Acanciadì sa bragheta ca si
bit sa c. (chiudi la braghetta perché altrimenti ti si vedrà tutto).
Cumìtiri, v. Commettere.
Cumìtïu/a, agg. Commesso/a.
167
Chi depiat pagai totu su chi at c.
non dd’iat a bastai su tempus de
Noè (se dovesse pagare tutto ciò
che ha commesso non gli basterebbero gli anni di Noè).
Cumonargiu, s. m. Conduttore
di bestiame altrui secondo il contratto di sòccida.
Cumoni, s. m. Contratto di sòccida (a c.). L’accordo di base era
strutturato così: nelle terre comunali il proprietario metteva a disposizione il bestiame (in quelle
private anche il pascolo), il pastore ne garantiva la cura, le spese si
dividevano a metà. Al pastore era
garantita anche la metà della resa
e, allo scadere del contratto (che
in origine durava sei anni, ma già
alla fine degli anni Cinquanta del
Novecento era stato ridotto a tre),
aveva diritto di prendersi la metà
del gregge o del branco.
Cumòu, s. m. Comò, canterano.
Cumpadessimentu, s. m. Compassione, compatimento, perdono.
Cumpadèssiri, v. Compatire,
perdonare, aver pietà. Giüanni
’olit cumpadéssïu ca cumprendit pagu (Giovanni va compatito perché
capisce poco).
Cumpadéssïu/a, agg. Compatito/a, perdonato/a.
Cumpangiu, s. m. Compagno,
168
amico. Frequente l’espressione
antifrastica bonu arangiu e meglius
su c. (buono l’uno e meglio l’altro).
Cumpàrriri, v. Apparire, dimostrare. Tenit norant’annus ma no
ddus cumparit (ha novant’anni ma
non li dimostra).
Cumparta, s. f. Comparsa,
apparizione, breve visita. A sa festa
ddu apu fatu una c. (ho fatto un
salto alla festa).
Cumpartu/a, agg. Comparso/a,
presente.
Cumpatiri, v. Compatire, scusare, giustificare. Ti cumpatu ca no as
connotu modu (ti scuso perché non
hai avuto una buona educazione).
Cumpatìu/a, agg. Scusato/a,
giustificato/a.
Cumpetenti, agg. Competente,
esperto/a.
Cumpetèntzïa, s. f. Competenza.
Cumpònniri, v. Comporre, adeguare, abbigliare a dovere, abbellire.
Cumportai(si), v. Comportare/comportarsi.
Cumportamentu, s. m. Comportamento, condotta.
Cumpostu/a, agg. Composto/a,
adeguato/a.
Cumpostura, s. f. Compostezza,
adeguatezza, abbellimento.
Cumpragèntzïa, s. f. Compiacenza, compiacimento, gentilezza,
PAOLO PILLONCA
cordialità.
Cumpràgiri, v. Compiacere, essere gentili. Ddus at cumpràgïus
cun bellu modu (li ha compiaciuti
con maniere gentili). Si usa anche
nel rifl. compiacersi. Si ndi cumpragit cussu etotu (se ne compiace
egli stesso).
Cumpràgïu/a, agg. Compiaciuto/a.
Cumprèndiri, v. Capire, comprendere. Cumprendit pagu e
nudda (capisce poco e nulla).
Cumpréndïu/a, agg. Capito/a.
Cumprimentu, s. m. Adempimento regolare di un dovere,
conclusione.
Cumpriri, v. Fare le cose per
bene, concludere un lavoro iniziato. Lüisa cumprit beni ’ónnia cosa
(Luisa esegue bene tutto).
Cumprìu/a, agg. Educato/a,
gentile, compìto/a. Giai ses c.
(come sei gentile).
Cumprobbai, v. Verificare attraverso il confronto. Apu cumprobbau
is prétzïus (ho verificato i prezzi).
Cumprobbau/ada, agg. Verificato/a.
Cumprobbu, s. m. Verifica,
controllo serio per stabilire una
verità effettiva.
Cumpudai, v. Frugare, controllare, perquisire.
Cumpudau/ada, agg. Perqui-
Mancarìas. La parlata di Seui
sito/a, controllato/a.
Cùmpudu, s. m. Controllo, perquisizione.
Cumunali, agg. Comunale.
Cumunu, s. m. Municipio, sede
del Comune, uffici comunali.
Cumunu/a, agg. Di scarsa qualità. Custa est orrobba c. (quella è
stoffa scadente). Modesto/a nelle
pretese, soprattutto nell’alimentazione. Est c., papat de totu (nel
mangiare non pretende nulla,
quello che gli dài accetta). Il contr.
di vitzïosu/a e di afitzïau/ada.
Cun, prep. Con. Introduce numerosi complementi Compagnia:
est andau a sa festa cun Severinu (è
andato alla festa con Severino).
Mezzo o strumento: nd’apu segau
cussa mata cun-d-una seguri (ho
tagliato quell’albero con una
scure). Modo: chistïonat cun delicadesa (parla delicatamente). Paragone: no mi ddu podis pònniri cun
Linu (non puoi mettermelo a confronto con Lino). Unione: papu
casu agedu cun cibudda (mangio
formaggio acido con cipolle). Introduce anche varie locuzioni
avverbiali. Cun bellu modu, con
buone maniere: Franciscu fait totu
cun b. m. (Francesco fa tutto con
buone maniere). Cun manu lèbïa,
con mano leggera: su dentista trabbagliat cun m. l. (il dentista lavora
169
con mano lieve). Cun passièntzïa,
pazientemente, con pazienza: sa
vida mi dda pigu cun p. po non mi
disisperai (affronto la vita con
pazienza per non farmi vincere
dalla disperazione). Cun prageri,
con piacere: ddu andu cun p. meda
(ci vado con molto piacere). Cun
totu, benché, nonostante che: cun
t. ca nemus dda cumprendit, Teresa
sighit a fàiri beni (nonostante nessuno la capisca, Teresa continua a
fare del bene). Cun totu su coru,
con tutto il cuore: candu dd’eus
pedìu una caridadi nos-i-dd’at fata
cun t. s. c. (quando gli abbiamo
chiesto un favore ce l’ha fatto con
tutto il cuore).
Cuncetu, s. m., Idea, concetto.
De comenti at füeddau mi nd’apu
formau unu c. legiu (da come ha
parlato me ne son fatto un cattivo
concetto).
Cuncordai, v. Preparare, allestire, unire insieme. In senso ironico
nelle espressioni giai ti ses cuncordau in bia (ti sei conciato per le
feste) e giai ses cuncordu (sei proprio ben messo), quest’ultima riferita in particolare agli ubriachi.
Cuncordamentu, s. m. Preparazione, allestimento.
Cuncordau/ada, agg. Preparato/a. Ironicamente, l’agg. è usato
nel gergo dell’eros nel senso di:
170
eccitato, pronto a fare l’amore.
Cuncordu/a, agg. Sistemato/a a
dovere. Per lo più in senso antifrastico.
Cuncu, s. m. Appellativo affettuoso e di rispetto con cui la popolazione di Seui si rivolgeva ai
vegliardi della comunità, gli ultraottuagenari. La notizia è in uno
scritto di Demetrio Ballicu (Brevi
saggi di indole varia, cit., pag. 12,
nota): ”In paese fanciulli, adolescenti e giovani chiamavano l’uomo
adulto e quello vecchio col nome
anagrafico preceduto da un appellativo fisso che per il primo era tziu e
cuncu per il secondo”. Per il corrispondente femm. vedi ddeddai.
Cundenna, s. f. Condanna.
Cundennai, v. Condannare, assegnare una pena. Dd’ant a c. a
paricius annus de galera (lo condanneranno a diversi ani di carcere). Non ti cundennis s’ànima po
una caduméntzïa (non condannarti l’anima per una sciocchezza).
Cundennau/ada, agg. Condannato. Sia dalla giustizia terrena sia
da quella divina.
Cundetzïoni, s. f. Condizione,
stato (anche economico).
Cundimentu, s. m. Condimento.
Cundiri, v. Condire, In senso
fig. sistemare per le feste, maltrattare.
PAOLO PILLONCA
Cundìu/a, agg. Condito/a.
Cunduta, s. f. Condotta, comportamento. Dd’ant iscapau innanti ’e su tempus po bona c. (l’hanno
liberato anzitempo grazie alla sua
buona condotta).
Cunfàiri, v. Giovare, far bene.
Custa mëigina non mi cunfait
(questo farmaco non mi fa bene),
in Casteddu est s’àiri chi non mi
cunfait (a Cagliari è l’aria che non
mi giova).
Cunfessai, v. Confessare, fare la
confessione al sacerdote, accostarsi al sacramento della penitenza.
Nel senso più comune dell’it. confessare, vedi scovïai e averai.
Cunfidéntzïa, s. f. Confidenza.
Cunfinai, v. Confinare.
Cunfinau/ada, agg. Confinato/a.
Cunfinu, s. m. Confino di polizia.
Cunfirmai, v. Cresimare.
Cunfirmatzïoni, s. f. Cresima.
Cunfirmau/ada, agg. Cresimato/a.
Cunfitadura, s. f. Confettatura.
Cunfitai, v. Confettare. Il v.
definisce in genere le operazioni di
conservazione di alcuni alimenti:
olive, funghi, peperoni, sott’olio e
aceto, ciliegie sotto spirito, etc.
Cunfitau/ada, agg. Confettato/a.
Cunfitura, s. f. Confettura.
Cunfortai, v. Confortare, conso-
Mancarìas. La parlata di Seui
lare.
Cunfortau/ada, agg. Confortato/a, consolato/a.
Cunfortu, s. m. Conforto, consolazione.
Cunfrarìa, s. f. Confraternita
religiosa intitolata di norma a un
santo, ma anche a Dio e alla
Madonna. Questa istituzione è
ancora presente nella parrocchia
di Seui.
Cunfraru, s. m. Confratello,
membro di una confraternita religiosa.
Cunfroma, prep. impr. e avv.
Conformemente, secondo, in rapporto a. T’arrespundu c. a su chi
mi naras (secondo quello che mi
dici ti rispondo), c. a su santu sa
festa (in rapporto al santo la festa).
Cunfùndiri(si), v. Confondere.
Non mi cunfundis (non riuscirai a
confondermi). Usato anche al rifl.
Linu s’est cunfùndïu e no nc’est
arrennéscïu (Lino si è confuso e
non ci è riuscito).
Cunfùndïu/a, agg. Confuso/a.
Cunfusïoni, s. f. Caos, confusione, diverbio.
Cunfusïonosu/a, agg. Amante
delle beghe, litigioso/a.
Cungiadura, s. f. Chiusura.
Cungiai, v. Chiudere. Desueto,
oggi prevale serrai.
Cungiali, s. m. Boccale in latta
171
di media dimensione, usato per
bere acqua o vino. Usato anche il
dim. cungialeddu.
Cungiau, s. m. Appezzamento
di terreno chiuso. Se il terreno è
piccolo si chiama cungiadeddu.
Cungiau/ada, agg. Chiuso/a.
Cunnu, s. m. Vagina, fica. Frequenti le espressioni volgari su c.
chi ti nd’at bogau (la vagina che ti
ha fatto nascere) e su c. chi t’at coddau (la fica che ti ha concepito).
Di una donna formosa e/o sensuale si dice bellu c. (bella fica), di una
donna stupida c. tontu (fica cretina), di una ragazza poco brillante
c. mortu (fica spenta). Vedi acunnai(si), detto di chi dipende troppo dalla propria donna e se ne fa
comandare in tutto e per tutto.
Cunsentimentu, s. m. Consenso, permesso.
Cunsentiri, v. Permettere, acconsentire.
Cunsentìu/a, agg. Concesso/a,
permesso/a.
Cuntentai, v. Accontentare,
soddisfare nelle richieste.
Cuntentau/ada, agg. Accontentato/a.
Cuntentesa, s. f. Contentezza,
gioia, piacere.
Cuntentu, s. m. Soddisfazione,
soddisfacimento di richieste. Ddi
’onat dónnia c. (gli dà tutte le sod-
172
disfazioni, lo accontenta in tutto).
Cunvìnciri, v. Convincere.
Cunvintu/a, agg. Convinto/a.
Cupa, s. f. Braciere in rame.
Cupas, s. m. Cuori. Gergale del
gioco delle carte. Indica uno dei
quattro semi del gioco stesso. Gli
altri sono bastus, orus e spadas/ispadas.
Cura, s. f. Terapia, rimedio, cura.
Ada fut malàida e nemus dd’agatàt
sa c. (Ada era malata e nessuno
riusciva a trovarle la cura adatta).
Curai, v. Guarire. S’est amaläidau ma est curendu (si è ammalato
ma sta guarendo). Non è usato nel
senso dell’it. curare.
Curau/ada, agg. Guarito/a,
ristabilito/a.
Curïosidadi, s. f. Stranezza,
curiosità, divertimento. Vedi crosidadi.
Curïosu/a, agg. Divertente.
Curpa, s. f. Colpa, causa. Po c.
tua (per tua colpa), no est c. ’e
nemus (non è colpa di nessuno).
Vedi incurpai.
Currespùndiri, v. Rispondere,
dare risposte. Candu si ddu nau non
mi currespundit nudda (quando
glielo dico non mi risponde nulla).
Currespustu/a, agg. Risposto/a.
Curridori, s. e agg. Veloce, adatto alla corsa. Detto in particolare
dei cavalli. Che unu cüaddu c.
PAOLO PILLONCA
(come un cavallo da corsa).
Currimenta, s. f. Stagione degli
amori animali.
Cùrriri, v. Correre, rincorrere.
Indica il movimento umano veloce (a piedi, a cavallo, o con mezzi
meccanici) e quello degli animali.
Nel gergo dei pastori segnala,
insieme con il verbo portai, il
periodo della monta. Ant incumentzau a c. is brebeis (è iniziata la
monta delle pecore). In rif. alle
persone indica il corteggiamento
femminile. Cussa dd’at c. (quella lì
l’ha rincorso senza tregua).
Curtu/a, agg. Corso/a.
Curtza, s. f. Corsa.
Curtzu, s. m. Scarica diarroica.
Usato quasi escl. al pl.: fut a curtzus (aveva scariche di diarrea).
Curtzu/a, agg. Corto/a. Vedi
incurtzai.
Curva, s. f. Svolta, curva. Di
superstrato.
Curvai, v. Svoltare, curvare.
Cuscïéntzïa, s. f. Coscienza, saggezza, solidarietà.
Cussorgia, s. f. Zona omogenea
di pascolo sufficiente a contenere
un certo numero di greggi e branchi.
Cussorgiali, s. m. Vicino di
pascolo. Cussorgialis sono detti i
pastori che hanno gli ovili a poca
distanza gli uni dagli altri. Per la
Mancarìas. La parlata di Seui
legge non scritta della montagna,
che nella sostanza è simile all’àgrafos nomos di Antigone, i cussorgialis
sono tenuti ad un comportamento
regolato da diritti-doveri reciproci
e paritari: l’uguaglianza, l’aiuto nel
lavoro e negli eventi sfavorevoli
dell’esistenza, il rispetto assoluto
del bestiame della cussorgia. Rubare
ad un vicino di pascolo è considerata una delle ignominie peggiori e
degrada l’autore del furto al rango
di cani ’e stregiu.
Cussu/a, pr. e agg. dim. Quello/a.
Custringimentu, s. m. Costrizione.
Custrìngiri, v. Costringere, mettere alle strette.
Custrintu/a, agg. Costretto/a.
Custu/a, pron. e agg. dim.
Questo/a.
173
174
PAOLO PILLONCA
D
Dadu, s. m. Dado. Il s. indica
sia il dado metallico sia quello alimentare.
Dama, s. f. Gran signora.
Prevalentemente in senso ir.
Dama, s. f. Gioco con due contendenti che muovono le pedine
su una scacchiera.
Dannargiu, s. m. Distruttore.
Danneficai, v. Danneggiare,
provocare danni.
Danneficau/ada, agg. Danneggiato/a.
Danneficu, s. m. Danneggiamento.
Dannu, s. m. Danno. Ma vale
anche: sciagura, disgrazia, incidente grave.
Dàrïu, n. pr. di pers. Dario.
Quasi sempre al dim. Darïeddu.
Data, s. f. Data, indicazione di
giorno, mese e anno.
Datzïau/ada, agg. Sottoposto/a
a dazio.
Datzïeri, s. m. Daziere, agente
daziario. Figura scomparsa dopo
la riforma tributaria, presente a
Seui fino alla seconda metà del
secolo scorso.
Datzïu, s. m. Dazio. Frequente
l’uso traslato: ti facu pagai su d. (te
la farò pagare).
Dàvala-dàvala, loc. avv. Con
passo malfermo e ondeggiante.
Ddeddai, s. f. Appellativo di
rispetto e distinzione, attribuito
fino agli inizi del secolo scorso alle
donne ultraottuagenarie del paese.
Ne riferisce il medico storico di
Seui, Demetrio Ballicu, in Brevi
saggi di indole varia (cit., pag. 12,
testo e nota a pie’ di pagina). Per il
corrisp. maschile, vedi cuncu.
Ddeddu/a, s. e agg. Carissimo/a, piccolino/a. Appellativo affettuoso riservato ai bambini e agli
innamorati. Usato anche al dim.
ddeddeddu/a.
Ddu/a, pron compl. Lo, la. No
ddu facu (non lo faccio), si dda bit
legia (se la vedrà brutta). Il pl. e
ddus/ddas (li/le). Ddus apu connotus (li ho riconosciuti), ddas portu
a càstïu (le sto controllando attentamente).
De/di/’e/’i, prep. Di, da. Spesso
con aferesi: soprattutto ’e ma anche
’i (davanti a vocale: ferimentu ’i ogu,
Mancarìas. La parlata di Seui
de prupa e di ossu). Introduce
numerosi complementi. Specificazione: su fradi ’e Linu (il fratello di
Lino). Argomento: eus chistïonau ’e
cassa (abbiamo parlato di caccia).
Partitivo: de totu cussa petza mi
nd’at donau feti un’orrogu (di tutta
quella carne me ne ha dato soltanto
un pezzo). Denominazione: sa ’idda
’e Sëui (il paese di Seui). Origine e
provenienza: fut de Gàiru e nd’est
benìu ’e Casteddu (era di Gairo ed è
arrivato qui da Cagliari). Paragone:
est meda meglius de tui (è molto
migliore di te). In più d’una loc.
avv. Debbadas/’ebbadas (de badas), gratis, inutilmente, invano,
casualmente: si dd’at donau ’e. (gliel’ha dato gratis), dd’at mortu su
cüaddu, no est d. (gli ha ucciso il
cavallo, non è un caso), si dd’apu
nau ’e. (gliel’ho detto invano).
Usata anche la variante indebbadas.
De bell’e nou, daccapo: apu dépïu
torrai a fàiri totu ’e bell’e nou (ho
dovuto rifar tutto daccapo). De
canta (de acanta), da vicino: de c.
dd’apu póssïu biri meglius (da vicino
l’ho potuto vedere meglio). Vedi de
fundu. De coru, di cuore: ti ddu
nau ’e c. (te lo dico di cuore).
Inoltre, l’espr. si sviluppa su due
fronti contrapposti: de bonu c. (di
cuore tenero), per indicare persone
sensibili e solidali) e de c. malu (di
175
cuore duro) per definire individui
di indole opposta. De di ora, da
molto tempo: fut de di o. in cussu
manigiu (era da tempo in quella
macchinazione). De fatu (pr. devatu), dopo, in seguito: cussu ddu
bïeus de f. (di quello parleremo
dopo). De foras, da fuori, dall’esterno: si bit de f. puru (si vede
anche dall’esterno). De fundu, da
vicino, dappresso: dd’apu castïau ’e
f. (l’ho ossservato da vicino). De
mancu, di meno, a meno: no ndi
facas (pr. facar) de m. (non farne a
meno), meglius (pron. megliur) de
prus che de m. (meglio di più che di
meno). De manu, di turno (gergale
del gioco delle carte): non soi ’e
manu (non tocca a me giocare). De
manu grai, di mano pesante: su
barbïeri fut de m. g. (il barbiere era
di mano pesante). De meda, da
molto, di molto: non fut de m. (non
era passato molto tempo), apu faddìu e de m. puru (ho sbagliato e
anche di molto). De mesu, di
mezzo: nce dd’apu ’ogau ’e m. (l’ho
tolto di mezzo) Dennantis (de
innantis), un tempo: d. fut aici (un
tempo era così). De pagu, da poco
tempo: s’olia dd’apu mëigada ’e p.
(gli ulivi li ho medicati poco tempo
fa). De pala in coddu (pron. de pala
’n coddu), a scaricabarile: si ddu portant de p. in c. (si scaricano le
176
responsabilità a vicenda). De pressi,
affrettatamente: sa cosa fata ’e p. no
mi pragit meda (le cose affrettate
non mi piacciono molto). De
prusu, di più: no eus cuncordau in su
prétzïu ca ndi ’oliat de p. (non
abbiamo trovato l’accordo sul prezzo perché lui pretendeva più soldi).
De strémpïu, sgarbatamente: cussu
càdumu chistïonat de s. (quel cretino
parla sgarbatamente). De sucunas,
di colpo e senza annunciarsi: chi ti
ndi ’engiu ’e s. tui mi timis (se ti
compaio davanti all’improvviso tu
ti spaventi). De susu, da sopra: de s.
si bit prus craru (da sopra si vede
meglio). De tesu, da lontano: dd’a
castïau ’e t. (l’ha guardato da lontano). De tressu, di traverso: si costumat pònniri ’e t. (è solito mettersi di
traverso). De ùbbitu, improvvisamente (riferito ad eventi irrimediabili): est mortu ’e ù. (è morto all’improvviso). De veras, veramente, sul
serio: no est una brulla, ti dd’at nau
’e v. (non è uno scherzo, te l’ha
detto sul serio). Sin. di aberu.
Debbilesa, s. f. Debolezza. Anche in senso fig.
Débbili, agg. Debole. Usato
anche il dim. debileddu.
Debbilitadura, s. f. Indebolimento. Vedi indebbilitadura.
Debbilitai, v. Indebolire. Vedi
indebbilitai.
PAOLO PILLONCA
Debbilitau/ada, agg. Indebolito/a. Vedi indebbilitau/ada.
Decìdiri, v. Decidere, stabilire.
Decìdïu/a, agg. Deciso/a, stabilito/a.
Defetu, s. m. Difetto, deficienza, mancanza.
Degennoi, agg. num. card.
Diciannove. Anche dijannoi.
Degesseti, agg. num. card.
Diciassette.
Degi, agg. num. card. Dieci.
Degïotu, agg. num. card.
Diciotto.
Dègiri, v. Convenire, adattarsi,
star bene. Custu ’estiri non ti degit
(questo vestito non ti sta bene), a
Maria ddi degit totu (a Maria sta
bene tutto), a chistïonai meda non
ddi degit (parlare troppo non gli si
addice).
Dégïu/a, agg. Adatto/a, confacente.
Degogliai, v. Danneggiare, sconvolgere, devastare. Ddu degogliat
totu (lo danneggia completamente).
Degogliu, s. m. Sconvolgimento, danneggiamento, devastazione. Come il verbo da cui deriva, si
riferisce a danni di ordine materiale. Su d. non riguarda la sfera
dello spirito, neppure in senso
metaforico.
Dellecüenti, s. m. Canaglia, delinquente, malfattore.
Mancarìas. La parlata di Seui
Demai, v. Ridurre a malpartito
mediante percosse o altri maltrattamenti. Si usa anche in rif. a uno
stato fisico precario causato da
una malattia.
Demanïali, agg. Demaniale, di
proprietà pubblica.
Demànïu, s. m. Demanio. Nel
linguaggio quotidiano indica
l’intera estensione della foresta
demaniale di Montarbu.
Demau/ada, agg. Malridotto/a.
Demogràticu/a, agg. Democristiano/a.
Demogratzìa, s. f. Democrazia.
Era sottinteso che ci si riferisse ai
democristiani.
Dénghi, s. m. Vizio, capriccio.
Ti ddus facu passai ’eu is (pr. ir)
denghis (te li faccio passare io i
capricci). Vedi addengai.
Dengosu/a, agg.Viziato/ a, coccolone/a.
Dennùntzïa, s. f. Denuncia.
Dennuntzïai, v. Denunciare.
Dennuntzïau/ada, agg. Denunciato/a.
Dentadura, s. f. Dentatura.
Denti/’enti, s. f. Dente. Contr.
all’it., in sardo è di gen. f. De is
(pron. ir) dentis mias bona parti
tenint abbisongiu ’e cura (gran parte
dei miei denti ha bisogno di cura).
Dentoni, s. e agg. Dai grandi
denti.
177
Dépidi, s. m. Debito. Singolare
l’uscita in i, vero e proprio municipalismo: gli altri centri della
zona hanno tutti dépidu. Chi ha
dei debiti è un indepidau. Vedi
indepidai.
Depidori, s. m. Debitore.
Dèpiri, v. Essere in debito. No
ddi depu nudda (non gli devo
niente). Usato come v. servile. At a
d. fàiri trabbagliu meda (dovrà fare
molto lavoro).
Dépïu/a, agg. Dovuto/a.
Depósitu, s. m. Deposito. Senza
ulteriori specificazioni è implicito
che indichi il deposito dell’acquedotto.
Deretu, s. m. Diritto. No ndi
tenis d. (non ne hai diritto). Funge
anche da agg. nel significato di dritto/a, rettilineo/a. Pigadì sa filada
’ereta (prendi la direzione dritta).
Deretu, avv. Sùbito, senza indugi né deviazioni. Bai ’eretu (vai
dritto senza indugi).
Descridura, s. f. Descrizione.
Descriri, v. Descrivere.
Descritu/a, agg. Descritto/a.
Destinai, v. Destinare, affidare,
dedicare.
Destinau/ada, agg. Fatato/a,
destinato.
Destinu/distinu, s. m. Sorte,
destino. Nella seconda forma figura nei soprannomi.
178
Detènniri(si),
v.
Bloccare/bloccarsi. Il v. definisce
gli stati di parziale immobilità di
una persona in seguito a mialgie,
dolori articolari, strappi, etc.
Detentu/a, agg. Bloccato/a.
Determinai, v. Decidere, determinare, stabilire. Non si scit e chini
ddu determinat (non si sa chi lo
decide).
Determinau/ada, agg. Deciso/a,
stabilito/a.
Determìnu, s. m. Decisione,
determinazione.
Deu/’eu, pr. pers. Io.
Deus, n. pr. Dio. Vivo in diverse invocazioni e negli auguri. Po
mori ’e Deus siat (sia tutto per
l’amore di Dio), po Deus (per
Dio), Deus ti ddu paghit (Dio ti
ricompensi), bai cun Deus (vai con
Dio).
Devatu/’evatu (de fatu), avv.
Dopo, in seguito. Custu dd’eus a
biri ’e. (questo lo vedremo dopo).
Deventali, s. m. Grembiule.
Quello del costume tradizionale f.
è di pizzo nero.
Dì, s. f. Giorno. Sempre di
genere f. Una dì, cheleguna dì,
bella dì (un giorno, qualche giorno, bella giornata), no istertzat sa
dì cun su noti (non distingue il
giorno dalla notte), detto di uno
che non capisce nulla. L’avv. intedì
PAOLO PILLONCA
vale: a giorni alterni.
Diàulu, s. m. Diavolo. Vedi
tiàulu.
Dibbatimentu, s. m. Processo,
dibattimento.
Diculadura, s. f. Infermità permanente.
Diculai,
v.
Procurare
un’infermità permanente. Il part.
pass. sostantivato diculau/ada indica una persona sciancata o zoppa,
dalla nascita o in seguito a grave
infortunio.
Diculau/ada, agg. Handicappato/a.
Dijanoi, agg. num. card. Diciannove. Variante di degennoi.
Dimigiana, s. f. Damigiana. Il s.
definisce il contenitore in vetro
rivestito di vimini o di materiale
plastico destinato a conservare
vino ma anche - quando è di
dimensioni ridotte - olio.
Dimónïu, s. f. Demonio. In
senso lato, persona temibile per
audacia o nevrilità.
Dinareddu, s. m. Monetine, soldini. Dim. usato anche quando si
vuole minimizzare la quantità di
denaro posseduta. Tenia cosa ’e
’inareddu (avevo un po’ di denaro).
Dinari/’inari, s. f. Denaro.
Dindu, s. m. Tacchino.
Dinnanteriseru, avv. Avantieri.
Nella conversazione quotidiana,
Mancarìas. La parlata di Seui
quando poco prima si è usata la
parola eriseru (ieri), la si abbrevia
in dinnanti. At niau meda, eriseru
e dinnanti (è nevicato molto, ieri e
avantieri).
Dinnanti, avv. Vedi dinnanteriseru.
Dïonisi, n. pr. di pers. Dionigi.
Disäogai(si), v. Svagare/svagarsi.
Disäogau/ada, agg. Divertito/a,
svagato/a.
Disäogu, s. m. Svago, ricreazione, pausa di relax.
Disatinu, s. m. Azione malfatta,
monelleria. Cussu piciocheddu fait
d. a donnïora (quel ragazzino combina continuamente sciocchezze).
Discansai(si), v. Riposare, ricreare/ricrearsi.
Discansau/ada, agg. Riposato/a.
Discansosu/a, agg. Ricreativo/a,
riposante.
Discansu, s. m. Ricreazione,
intervallo tra una fatica e l’altra.
Discinimentu, s. m. Conclusione.
Disciniri/disfiniri, v. Concludere.
Discinìu/a, agg. Concluso/a.
Discöidai, v. Trascurare, agire
lentamente. Contr. di cöidai/cöitai.
Discöidau/ada, agg. Trascurato/a, disattento/a, negligente.
Discóidu, s. m. Trascuratezza,
lentezza eccessiva, disattenzione.
179
Disconnoscimentu, s. m. Misconoscimento, ingratitudine.
Disconnòsciri, v. Misconoscere,
ignorare.
Disconnotu/a, agg. Ignorato/a,
misconosciuto/a, sconosciuto/a.
Disconsolai(si), v. Sconfortare,
sconfortarsi, andare in depressione.
Disconsolau/ada, agg. Sconfortato/a, sconsolato/a, depresso/a.
Disconsolu, s. m. Sconforto,
depressione.
Discreteddu/a, agg. Quasi sufficiente.
Discretu/a, agg. Sufficiente, passabile.
Dìsculu/a, s. e agg. Dìscolo,
monello.
Disfamïai/disciamïai, v. Calunniare, levare la buona fama. Soprattutto in rif. a donne falsamente
accusate di rapporti amorosi illeciti.
Disfamïau/ada, agg. Diffamato/a, calunniato/a.
Disfàmïu/disciàmïu, s. m. Diffamazione, calunnia.
Disfida, s. f. Sfida, agone, competizione, gara. Viva la loc. a d. (in
competizione).
Disfidai, v. Sfidare, competere,
gareggiare.
Disfidau/ada, agg. Sfidato/a.
Disigliai, v. Desiderare, volere
fortemente persone e/o cose. Soi
180
disigliendu castangia a orrostu (sto
desiderando castagne arrosto).
Disigliau/ada, agg. Desiderato/a.
Disigliosu/a, agg. Desideroso/a.
Disigliu, s. m. Desiderio. Freq.
la loc. a d., a significare un evento
atteso. Fui a d. de ti biri (ero desideroso di vederti). Voglia, macchia sulla pelle. Dd’at bessiu unu d.
in petorras (glì è comparsa una
voglia sul petto).
Disisperài(si), v. Disperare, far
disperare, disperarsi. Sa pobidda
ddu disisperat (la moglie lo fa
disperare).
Disisperau/ada, agg. Disperato/a.
Disisperu, s. m. Disperazione.
Candu ddu pensu mi pigat a d.
(quando ci penso mi viene la disperazione).
Disonestadi, s. f. Disonestà,
corruzione.
Disonestu/a, agg. Disonesto/a,
corrotto/a.
Disonorai, v. Disonorare, levare
l’onore.
Disonorau/ada, agg. Disonorato/a.
Disonori, s. m. Disonore.
Disparidadi, s. f. Disparità, trattamento diseguale.
Disparti (a), avv. Separatamente, a parte.
Disprageri, s. m. Dispiacere,
sofferenza, dolore.
PAOLO PILLONCA
Dispràgiri, v. Causare dispiacere, dare dolore.
Dispràgïu/a, agg. Dispiaciuto/a,
addolorato/a.
Dispùta, s. f. Contesa, competizione.
Dividiri, v. Dividere, discutere,
spartire. Non tengiu nudda ’e d.
cun tui (non ho nulla da discutere
con te).
Dividìu/a, agg. Diviso/a.
Divinu, s. m. Indovino.
Divisïoni, s. f. Divisione, ripartizione, spartizione.
Doa, s. f. Doga. Ciascuna delle
parti lignee che compongono una
botte. In senso fig. è rif. alle persone nelle espressioni dd’at provau
is (pr. ir) doas (lo ha messo a dura
prova) e ti segu is (pr. ir) d. (ti
rompo qualche osso).
Dogi, agg. num. card. Dodici.
Dóllaru, s. m. Dollaro. Usato in
senso ir. e spesso antifrastico. Ndi
tenit de dóllarus Armandu (Armando sì che è ricco). Pres. nei
soprannomi.
Dolori, s. m. Dolore, sofferenza,
pena. Viva l’espr. consolatoria, che
diventa talvolta ironica, cunfroma
a su d. sa passïéntzïa (la pazienza
della sopportazione è in rapporto
al dolore).
Dolorosu/a, agg. Doloroso/a.
Dolu, s. m. Reumatismo. Portu
Mancarìas. La parlata di Seui
is (pr. ir) dolus.(soffro di reumatismi). D. fridu.(lett. dolore freddo)
equivale a: mialgia, risentimento
muscolare.
Domadura, s. f. Doma, domatura.
Domai/’omai, v. Domare, addomesticare. In-d-una pariga ’e mesis
Giüanni podit d. sa purdedda (in un
paio di mesi Giovanni potrà domare la puledra). Utilizzato anche in
senso fig. Su tempus domat a totus
(il tempo riduce tutti a più miti
consigli).
Domanda, s. f. Richiesta di
matrimonio. Domanda.
Domandai, v. Chiedere in sposa.
Chiedere per sapere.
Domandau/ada, agg. Chiesto/a,
richiesto/a.
Domau/ada, agg. Domato/a,
ridotto/a a malpartito.
Dominai, v. Spadroneggiare,
dominare.
Dominàrïu, s. m. Grosso caseggiato.
Domìnigu/’omìnigu, s. m. Domenica. Di gen. m., a differenza
dell’it. e di qualche altra variante
della lingua sarda. Nella parlata di
Seui solo due sono i nomi dei giorni della settimana femminili: giòbïa
e cenarba (giovedì e venerdì).
Domìnïu, s. m. Dominio.
Domu/’omu, s. f. Casa di abita-
181
zione. In senso lato, talvolta indica
la famiglia. Ninu at fatu ’o. ’ona
(Nino si è fatto una bella famiglia).
Usato anche il dim. domigedda.
Donadori, s. e agg. Generoso,
che dà (donat) volentieri di ciò che
ha, dividendolo con gli altri. Cussu
pipìu non parit d. (quel bambino
non sembra generoso).
Donai/’onai, v. Dare, offrire,
regalare. Dd’at donau totu (gli ha
dato tutto). Intuire, capire al volo,
avvertire. A-i custas cosas Antoni
non ci ’onat (queste cose Antonio
non le intuisce).
Dónnïa/’ónnïa, agg. Ogni, ciascuno, qualunque, qualsiasi. Custu
mi parit unu ’estiri de ’ó. dì (questo
mi sembra un abito di tutti i giorni). La loc. avv. a d. ora (molto
spesso, lett. a qualunque ora) nella
pronuncia si abbrevia in a donnïora.
Donnìa (in), avv. Sempre, ogni
volta. Nella loc. in d. per indicare
una frequenza estremamente puntuale di determinate azioni. In d.
chi ’enit m’indonat is pipìus (tutte
le volte che viene fa dei regali ai
miei bambini).
Donnïassantu, s. m. Novembre,
Ognissanti.
Donosu/a, agg. Talentuoso/a,
geniale, incline a qualcosa.
Donu, s. m. Talento, dono natu-
182
rale. Tenit su d. ’e cantai (ha talento per cantare). Regalo rituale e/o
d’obbligo. Bellus is (pron. ir)
donus (i regali erano belli).
Dòpïu/a, agg. Grosso/a, tracagnotto/a. Più raramente doppio/a.
Dotrina, s. f. Catechismo. Chi
no imparas sa d., su préidi at nau ca
non ti cöiat (il prete ha detto che se
non impari il catechismo non ti
farà sposare). In senso lato, con
lieve ironia: educazione, comportamento, buone maniere. Ti dda
’mparu eu sa d. (te la insegno io
l’educazione).
Drabbuladura/addrabbuladura,
s. f. Caduta improvvisa e movimento repentino. Sin. di dràbbulu.
Drabbulai/addrabbulai(si), v.
Muovere q.sa e/o muoversi in
modo rude e scomposto. Far cadere. Anche al rifl. Una canzoncina
scherzosa in voga fino a qualche
decennio fa, che rifaceva verosimilmente il verso a qualche allocco del paese, attaccava così: candu
fui sposu ’eu totu is (pr. ir) montis
s’addrabulànta (quando io ero
fidanzato tutte le montagne ballavano scompostamente).
Dràbbulu, s. m. Caduta repentina, a peso morto. Particolarmente
vivo nella loc. a d.
Dràllara, s. f. Pietruzza tondeggiante Al pl. (dràllaras) indica un
PAOLO PILLONCA
gioco infantile con utilizzo di
minuscole pietre tondeggianti.
Drìnghili, escl. Ecco qui. Frequente l’espr. e nosu d., quasi intraducibile alla lettera se non con una
perifrasi del tipo: ti intestardisci
ancora su questo punto, sembra
una fissazione, adesso basta, etc.
Drinnidura, s. f. Tintinnio, tintinnamento.
Drinniri, v. Tintinnare. Anche
in senso met.
Drinnìu/a, agg. Tintinnato/a,
fatto/a vibrare.
Dromiri/’ormiri, v. Dormire.
Apu ’ormiu pagu e nudda (ho dormito poco e nulla). Al rifl vale:
addormentarsi. Non ti ’ormas (non
addormentarti).
Dromiu/a, agg. Addormentato/a.
Düamila, agg. num. card. Duemila.
Düasfacis/düasciacis, s. m. Voltagabbana, inaffidabile. Lett. due
facce.
Duda, s. f. Dubbio.
Dudai, v. Dubitare.
Dudosu/a, agg. Dubbioso/a,
incredulo/a.
Düellu, s. m. Disputa, litigio. In
domu ’e Fulanu ddu at dónnïa dì d.
(in casa di Fulano si litiga tutti i
giorni).
Dugentus, agg. num. card.
Duecento.
Mancarìas. La parlata di Seui
Duncas, cong. Dunque, pertanto.
Dura, s. f. Durata, resistenza.
Durai, v. Vivere a lungo, essere
longevo. As a biri cantu nci durat,
cussu (vedrai quanto vivrà a lungo,
quello).
Durau/durada, agg. Vissuto/a
fino a tarda età, sopravvissuto/a.
Tzia Lüigina nc’est (pr. er) durada
a centu e tres annus (la “zia”
Luigina è vissuta fino a 103 anni).
Durci, s. e agg. Dolce. Come s.
indica i dolciumi. Custu d. si faìat
po Pasca (questo dolce si preparava
per la Pasqua), ir durcis de s’ïerru
tenint unu sabori prus pragìbbili (i
dolci invernali hanno un sapore
più piacevole). Come agg. definisce la dolcezza di un alimento,
liquido e/o solido.
Durciura, s. f. Dolcezza. Anche
in senso fig.
Duru (a), avv. Tardi. Nella loc.
avv. a d. Per l’it. duro/a l’agg. della
parlata seuese è tostau/ada.
Duruduru, s. m. Filastrocca a
ballo.
Dus, agg. num. card. Due. Tra i
numerali, insieme con unu, ha la
forma femminile autonoma. Unu
cüaddu, una purdedda, dus crabus,
duas crabas (un cavallo, una puledre, due caproni, due capre),
mentre tutti gli altri hanno la stes-
183
sa forma sia per il maschile sia per
il femminile. Inoltre, dus ha una
sorta di plurale-duale esclusivo e
neutro se si accompagna con parole come piglia (strato) nell’espr. a
dua piglia (a doppio strato). Vedi
piglia.
Duzina, s. f. Dozzina. Ma spesso definisce una compagnia e il
modo di stare insieme. No intrat
mai in d. (non sa stare in compagnia).
184
PAOLO PILLONCA
E
Ebba, s. f. Cavalla. In genere
definisce un soggetto di età superiore ai tre anni che abbia già partorito almeno un puledro. In senso
fig. indica la donna disponibile ai
rapporti amorosi, di facili costumi.
Est un’e. (è una sgualdrina). L’espr.
volgare sa crai ’e s’e. (lett. la chiave
della cavalla) definisce l’organo
sessuale del cavallo nei casi in cui si
voglia dare una risposta negativa
ad una richiesta ritenuta spropositata. Frequente anche il dim. ebbigedda.
’Eca/geca, s. f. Entrata, porticina.
Echipagiadura, s. f. Fornitura
sufficiente.
Echipagiai/achipagiai, v. Fornire
del necessario.
Echipagiau/ada, agg. Ben fornito/a, equipaggiato/a.
Ecu, avv. Ecco. Raddoppiato
(ecu-ecu), figura nei soprannomi.
Eda, s. f. Bietola (beta vulgaris).
Edadi, s. f. Età. S’edadi fait
gradu (l’età costituisce di per sé
una superiorità sui più giovani).
Edénticu/a, agg. Identico/a,
uguale, preciso/a, somigliantissi-
mo/a. Figlia tua est e. a tui (tua
figlia è uguale a te).
Educadori/a, s. e agg. Educatore/educatrice.
Educai, v. Educare, allevare con
regole precise un bambino.
Educatzïoni, s. f. Educazione.
Efitai, v. Affittare. Dare e prendere in affitto.
Efitu, s. m. Affitto, pigione.
Ei/ eia, avv. Sì.
Eìli, s. m. Recinto per i capretti
lattanti, che non seguono mai la
madre al pascolo per non contaminare il latte del caglio.
Elétricu, s. m. Elettricità, energia elettrica. Dd’est pigau s’e. (ha
ricevuto una scarica di elettricità).
Ellu, cong. Dunque, ebbene.
’Émida/gémida, s. f. Lamentazione, gemito. Praticamente scomparso nella parlata di tutti i giorni,
il s. sopravvive in un toponimo
(S’’émida) nei pressi di Sa funtana
’e su cróculu.
Emigrai, v. Emigrare, abbandonare la propria terra.
Emigratzïoni, s. f. Emigrazione.
Questa parola ha segnato e segna
Mancarìas. La parlata di Seui
ancora di sé da decenni la condizione dei lavoratori precari del
paese, costretti a partire in massa
verso la penisola e - fino a qualche
lustro fa - le miniere di Francia,
Germania, Belgio e Inghilterra.
Emigrau, s. m. Emigrato.
’Enna/genna, s. f. Porta.
Erba, s. f. Erba (la pronuncia
della seconda consonante è lenita,
come in tutti i digrammi rb).
Erba de Santa Maria, s. f. Elicriso (helichrysum italicum), altra
essenza di sentore identitario, presente un po’ dovunque nella parte
alta del territorio comunale, spesso
a fianco del timo serpillo (armidda) e di altre erbe medicamentose.
Erba saboni, s. f. Saponaria
(saponaria officinalis o vulgaris).
Già Ippocrate credeva che avesse il
potere di ”richiamare le mestruazioni” (D. Ballicu, Miscellanea, cit.,
pag. 83).
’Erbegargiu/brebegargiu, s. m.
Pastore di pecore. Vedi brebegargiu.
’Erbèi/brebèi, s. f. Pecora. Vedi
brebèi.
Eremigu, s. m. Diavolo. Il
nemico per eccellenza.
Eriseru, avv. Ieri. Definisce
l’intera giornata, senza distinzione. Per distinguere occorre precisare: e. a mengianu (ieri mattina),
e. a merì (ieri sera).
185
Errïargiu, s. m. Coltivazione
che prende l’acqua da un fiume,
orto nei pressi di un fiume. Vedi
errìu.
Erricai(si), v. Arricchire, arricchirsi. Sa martinica nd’erricat paricius in dónnïa tempus (il mercato
nero ne arricchisce parecchi in ogni
tempo).
Erricau/ada, agg. Arricchito/a.
Errichesa, s. f. Ricchezza.
Erricu, s. m. Ricco, benestante.
Usato anche come agg. Cussa est
una famìlïa errica (quella è una
famiglia benestante).
Erriga, s. f. Riga, linea dritta.
Indica anche la riga in certe pettinature. In senso fig. conoscenza,
furbizia, intelligenza. Cussu ndi
scit duas errigas (quello lì ne sa due
righe, ossia: è persona esperta e
furba).
Errigali , s. m. Zona renale. Definisce quella parte negli animali.
Avere s’e. crobetu (la zona del rene
coperta di grasso) è uno dei primi
segni di pinguedine e, nei capi
allevati allo stato brado, indicatore
di probabile buon sapore della
carne.
Errigau/ada, agg. Rigato/a.
Errìgini, s. f. Zecca.
Errigu, s. m. Rene. Per est. forza,
nevrilità, potenza di slancio. Ndi
portat di errigus (ne ha di forza).
186
Errili, s. m. Punto d’incontro
delle acque piovane che formano
un piccolo canale
Errina, s. f. Trivella.
Erriri, v. Ridere. Bai ca de mei
non si nd’at a e. nemus (stai tranquillo, di me non riderà nessuno).
Il part. pass. è errìsïu/a.
Erriscioni, s.m. Riccio, porcospino. In senso fig. indica un individuo dal carattere difficile.
Errissolu, s. m. Fiumiciattolo,
ruscello.
Errisu, s. m. Riso, risata. Frequente il dim. errisigeddu, in genere con una venatura di scherno e/o
di disprezzo.
Érrïu/a, agg. Privato/a del cucciolo. L’agg. è riferito al bestiame
da latte, domestico e selvatico.
Unu pegus é. (una bestia senza più
cucciolo). La privazione può avvenire ad opera del pastore o di un
animale predatore. Cussa craba est
è. (quella capra non ha più il
capretto), candu ddu at margianis
a ingìriu as a biri paricias murvas
érrïas (se ci sono volpi nei paraggi
vedrai parecchie mufle senza più
cuccioli). Vedi irderrïai.
Errìu, s. m. Fiume. Indica i corsi
d’acqua perenni. Nella parlata di
Seui definisce tutti quelli non stagionali, eccetto il Flumendosa,
detto frùmini per antonomasia.
PAOLO PILLONCA
Questo nella materialità del dire.
Va da sé che il patrimonio di
memorie costituito dai fiumi
anche per i paesi di montagna
corre su sentieri differenti e narra
di albe gioiose e tramonti drammatici, di vittime e di eroi, di nebbie e luminosità incomparabili, di
notti d’estate e albe di ghiaccio. È
una delle parti più nascoste della
storia del paese, con i suoi pescatori di frodo e quelli autorizzati, i
pastori del territorio comunale al
confine con Arzana nella parte
alta e con Ulassai in quella inferiore. Inoltre c’è da dire che il diofiume costituisce un riferimento
poetico di creatività inesausta.
Chini, cussu candu chistïonat? Che
un’e., mai sa pròpïa abba (Chi,
quello lì quando parla? Come un
fiume, mai la stessa acqua).Vedi
errissolu, frùmini e tàcinu.
Ertessu, s. m. Vitalba (clematis
vitalba).
Essa, s. f. Esse, ma non tanto per
indicare la consonante s quanto la
sua linea curva, soprattutto in rif.
agli ubriachi. Arremundu andat a
essas (Raimondo cammina disegnando delle s).
’Etai/betai, v. Vedi betai.
Etotu, avv. Stesso. Ddu facu ’eu
etotu (lo faccio io stesso). Ugualmente. Chene paga peruna, ma
Mancarìas. La parlata di Seui
dd’at fatu e. (senza alcuna ricompensa, ma l’ha fatto ugualmente).
Spesso in compagnia di un altro
avv. (äìci, così). No m’at invitau
ma ddu andu ä. e. (non mi invitato ma io ci andrò ugualmente).
Evigedda, n. pr. di pers. Eva.
187
188
PAOLO PILLONCA
F
Fâ, s. f. Fava. Anche nome collettivo: mi ndi depu ’oddiri sa f.
(debbo raccogliere le fave).
Fàbbrica, s. f. Fabbrica, industria.
Fabbricai, v. Costruire.
Fabbricau/ada, agg. Costruito/a.
Fàbbricu, s. m. Costruzione,
edificio.
Faci, s. f. Faccia, viso. In senso fig.
sfrontatezza. T’imbìdïu sa f. (invidio la tua sfrontatezza). F. ’e sola
(lett. faccia di suola) è chi riesce a
non farsi coinvolgere dalle contestazioni e insiste nel dire il falso.
Faciarbu/a, agg. Dalla faccia
chiara. Rif. al bestiame.
Faciargiu/a, agg. Faccia di bronzo, inaffidabile, falso/a.
Facìli, s.m. Maschera a visiera
che si applicava all’asino al lavoro
nei giri attorno alla macina del
mulino domestico, per evitare che
avesse giramenti di testa. Caminat
a conca incrubada che unu molenti
a f. (cammina a testa bassa come
un asino con la maschera).
Faci-mannu, s. m. Persona sfacciata.
Faciola, s. f. Maschera del viso.
Sost. dev. di afaciolai.
Faciudu/a, agg. Insolente, sfacciato/a.
Faddidura, s. f. Sbaglio.
Faddina, s. f. Errore, sbaglio.
Faddiri, v. Sbagliare, fallire. A
bortas ddi ’essit finas e sirbonis
mannus e si ddus faddit in donnìa
(spesso gli passano davanti anche
cinghiali grossi e lui li sbaglia ogni
volta).
Faddìu/a, agg. Sbagliato/a.
Faddotada, s. f. Errore grossolano, cantonata, papera. Ndi fait de
faddotadas, cuddu (ne prende di
cantonate, quello).
Faddotai, v. Commettere errori
grossolani. Desueto come v.,
sopravvive molto bene nel dev. di
cui sopra.
Fadïadura, s. f. Affaticamento.
Fadïai(si), v. Stancare/stancarsi.
Fadïau/ada, agg. Stanco/a, prostrato/a.
Fàdïu, s. m. Stanchezza, prostrazione.
Fäidori, s. m. Uomo d’azione,
operoso, diligente.
Mancarìas. La parlata di Seui
Fäina, s. f. Azione impegnativa,
domestica e non. Isfäinau è uno
che non ha nulla da fare e non ne
cerca neppure.
Fäincioni, s. m. Favino, usato
soprattutto per l’alimentazione del
bestiame.
Fäineri/a, s. e agg. Amante del
lavoro, laborioso/a.
Fàiri, v. Fare, agire, operare. Mi
parit de àiri fatu totu ma dónnïa
’orta cheleguna cosa t’abarrat de f.
(mi sembra di aver fatto tutto ma
ogni volta qualcosa ti rimane
comunque da fare), candu si ddu-i
ponit Franciscu is cosas ddas fait beni
(quando ci si mette, Francesco le
cose le fa bene). Combinare. Giai
nd’at fatu, Antoni, candu fut piciocu: chi fut a ddu pagai imoi no iscìu
e comenti iat a f. (ne ha combinato
davvero, Antonio, quando era giovane: dovesse pagarlo adesso, non
so proprio come farebbe). Anche
nella parlata di Seui, questo verbo
ricorre a vari modi di dire, soprattutto quando si parla di azioni concrete. F. a bonu, a malu (comportarsi bene, male) f. a isposu (fidanzarsi), f. ’e mancu (fare a meno), f.
’e totu (fare di tutto), f. ’e babbu (far
da padre), etc. Vivere, con una
forma impropria di accusativo dell’oggetto interno: at fatu una vida
sacrificada (ha vissuto una vita di
189
sacrifici). Al rifl. il verbo vale: ritenersi, considerarsi, autostimarsi. Si
fait ca scit e no iscit nudda (presume
di sapere e non sa nulla). Viva
l’espr. unu soi, seti mi fatzu (sono
uno e mi ritengo sette), con la particolarità del verbo fatzu usato alla
cagliaritana, anziché nella forma
seuese facu, come se ci si stesse
prendendo gioco degli abitanti del
capoluogo.
Fallimentu, s. m. Fallimento.
Falliri, v. Fallire, dichiarare fallimento.
Fallìu/a, agg. Fallito/a.
Famigosu/a, agg. Affamato/a,
morto di fame.
Famìlïa, s. f. Famiglia.
Familïari, s. m. Familiare, parente.
Fàmini, s. m. Fame. Cando fui
gióvunu in bidda nci fut su f. a
segari a gorteddu (quand’ero ragazzo nel mio paese c’era la fame da
tagliare con il coltello). F. finas a
còiri no est f. malu (fame che dura
fino alla cottura del cibo non è
una fame temibile): lo dice un
prov. ancora in auge.
Fanceddu/a, s. e agg. Amante.
Definisce una situazione illegale.
Oggi è piuttosto desueto. Sa fancedda indica la concubina.
Fanfarronai, v. Millantare credito.
190
Fanfarronada, s. f. Millanteria,
gradassata.
Fanfarronau/ada, agg. Millantato/a.
Fanfarroni, s. m. Fanfarone, gradasso, millantatore, smargiasso.
Fanfarronia, s. f. Smargiassata.
Fantana/vantana, s. f. Finestra.
Fànuga, s. f. Copriletto.
Farci, s. f. Falce, l’attrezzo più
importante della mietitura di una
volta. Farci po messai è la falce messoria del grano. Presente nella toponomastica nel composto. Gisafarci.
Farcinu/a, agg. A forma di falce.
Fardassai, v. Rendere liscia una
parete interna. Gerg. dei muratori.
Fardassu, s. m. Frettazzo, attrezzo ligneo con manico utilizzato
dai muratori per rendere lisce le
pareti dei muri interni delle abitazioni.
Fardugu/a, s. m. Inetto, incapace
di far bene una qualsivoglia cosa.
Est unu f. (è un inetto). Vedi managu/a.
Fari-fari, s. m. Cenere calda. Sa
patata est prus bona chi dda cois in
su f.-f. (le patate sono più saporite
se cotte arrosto nella cenere calda).
Farigheddu, s. m. Nevischio.
Presente nei soprannomi.
Farinaglia, s. f. Insieme di briciole. Nome collettivo. In senso
fig. indica persone di poco valore.
PAOLO PILLONCA
Farra, s. f. Farina. Anche met.
No est f. ’e fàiri óstïas (non è farina
per ostie).
Farramenta, s. f. Ferramenta.
Oggi indica, più alla larga,
l’insieme degli attrezzi dei fabbri,
ma anche dei muratori e degli
operai in genere. Attrezzatura. In
senso fig. e con venatura negativa:
armamentario. Pinnigadindi sa f.
(pòrtati via l’attrezzatura).
Farranca, s. f. Artiglio. Per analogia maliziosa, mano. Desueto, a
parte l’espr. chi mi intras in farrancas (se cadi nelle mie mani). I
macarronis sciarrancaus/ sfarrancaus
sono gli gnocchi di patate rigati a
mano sulle pieghe interne o sul
retro dei cestini di asfodelo. Vedi
sciarrancai/sfarrancai.
Farrutzosu/a, agg. Farinoso/a. Si
dice soprattutto di certe mele e
pere poco succose.
Farta, s. f. Mancanza il cui effetto determina uno stato grave di
necessità sostanziale. Mi fait f.
(mi causa uno stato di necessità,
ne ho grande bisogno). La loc.
chene f. (senza indugio, con urgenza) indica l’obbligatorietà di
un’azione.
Fartai, v. Mancare. De passai
igui non fartat (non mancherà di
passare di là), nel senso di una previsione scontata.
Mancarìas. La parlata di Seui
Fartzu/a, agg. Falso/a. Le similitudini più comunemente usate
per questo aggettivo sono principalmente due: f. che Giudas (falso
come Giuda) e f. che dinari malu
(falso come moneta scaduta). Vedi
faciargiu/a.
Fasolu, s. m. Fagiolo. Usato soprattutto come collettivo. Annada
’ona de f., ocannu (questa è una
buona annata, per i fagioli).
Fasolufâ, s. m. Fagiolo di dimensioni superiori alla media,
vicine a quelle della fava. Lett. il s.
significa, infatti, fagiolo-fava.
Fassa, s. f. Carbonchio, pustola
maligna. Malattia grave, un
tempo mortale. Per un esauriente
quadro sintomatologico e terapeutico, oltre che storico per i casi
registrati a Seui, si può vedere la
nota di Demetrio Ballicu in
Miscellanea (cit., pp.139-142).
Fastigiai, v. Amoreggiare, flirtare. Antoni e Maria funt incumentzendu a f. (Antonio e Maria iniziano ad amoreggiare).
Fastigiu, s. m. Amoreggiamento, flirt.
Fatu, s. m. Fatto, evento.
Fatu/a, agg. Fatto/a, compiuto/a. Part. pass. di fàiri.
Faturai, v. Comprare cavalli.
Faturanti, s. m. Compratore di
cavalli.
191
Fàula, s. f. Bugia, menzogna.
Pres. nei soprannomi con una definizione singolare, carru ’e fàulas
(lett. carro di bugie).
Fäulargiu/ a, agg. Bugiardo/a.
Favoréssiri, v. Favorire, prediligere.
Favoréssïu/a, agg. Favorito/a.
Favori, s. m. Predilezione, favore. Usato prev. in loc avv.
Fedali, agg. Coetaneo/a.
Feddissa, s. f. Cenere con residuo di brace.
Fedu, s. m. Feto. Detto in senso
compassionevole di un ragazzo
che si crede adulto. Est unu f., no
ndi ’essit de f. (è un infante, non
esce dalla condizione infantile).
Fegi, s. f. Feccia. Prov. usatissimo: binu ’onu fin’a f. (il vino
buono rimane tale fino alla feccia).
Fegliudu/fogliudu, s. m. Velluto.
Feli, s. m. Fiele, bile, rabbia.
Tirasindeddu su f. a-i cussu figau
(togli la bile a quel fegato). Rabbia.
Mi ponit f. (mi fa venire la rabbia).
Fémina, s. f. Donna, femmina.
Riferito anche agli animali. Nel
linguaggio comune seuese, in
bocca ad un uomo sposato, l’espr.
sa f. - senza ulteriore specificazione
- corrisponde all’it. ”mia moglie”.
Feminargiu, s. m. Donnaiolo,
puttaniere. Vedi bagasseri.
192
Feminedda, s. f. Donnetta,
donna anziana. Ma definisce anche
l’uomo effeminato: Pìlimu est una
f. (Priamo è una femminuccia).
Femineri, s. m. Donnaiolo. Meno usato di feminargiu.
Feminista, s. e agg. Femminista.
Fenosu/a, agg. Ricco/a di fieno.
Fenu, s. m. Fieno.
Fenugheddu aresti, s. m. Finocchio selvatico.
Fenugu, s. m. Finocchio (phoeniculum sativum). Indica l’ortaggio
coltivato. In senso ir. omosessuale.
Fera, s. f. Selvaggina. Pegus de f.
indica l’animale selvatico in generale.
Ferenai, v. Provocare rabbia e/o
rancore. Mi ferenat (mi riempie di
rancore).
Ferenau/ada, agg. Rancoroso/a.
Ferenu, s. m. Rabbia, rancore.
Ferimentu, s. m. Colpo, ferita.
Su f. ’i ogu è il colpo del malocchio. Per liberarsene senza conseguenze occorreva ricorrere alle
parole proibite. Vedi abrebu.
Ferradura, s. f. Ferratura,
l’operazione del mettere i ferri agli
zoccoli di animali, in rif. a cavalli,
asini e buoi.
Ferrai, v. Ferrare, mettere i ferri
a buoi, cavalli e asini. Ma il v.
significa anche: munire il bestiame di sonagli.
PAOLO PILLONCA
Ferramenta, s. f. L’insieme dell’attrezzatura ferrea di un artigiano. In senso lato, per lo più ironico, indica genericamente il complesso di attrezzi di q.no, quel che
si suole indicare con la dicitura
armi e bagagli. Pinnigadindi sa f.
(porta via tutto, armi e bagagli).
Ferrau/ferrada, agg. Ferrato/a,
dotato/a di sonagli.
Ferreri, s. m. Fabbro ferraio. In
domu’e su f. schidonis (pron. schidonir) de linna (in casa del fabbro
si usano spiedi di legno) è un prov.
in auge.
Fèrriri, v. Colpire, ma non necessariamente ferire. Dd’at iscutu e
dd’at fertu a unu ’rassu (l’ha picchiato e l’ha colpito a un braccio).
Il deverbale ferimentu introduce la
definizione del malocchio. L’aggettivo fertu senza ulteriori specificazioni indica un individuo non
del tutto normale dal punto di
vista psichico. Per indicare il ferimento ci deve essere qualche dettaglio in più. Se lo si riferisce alle
piante indica genericamente una
malattia senza rimedio efficace:
cussa mata est ferta (quell’albero è
malato).
Ferritu, s. m. Arnese da taglio
del sarto e del calzolaio. Al plurale
is ferritus indica le forbici di misura standard. Le forbicine si chia-
Mancarìas. La parlata di Seui
mano con il dim. di ferriteddus.
Vedi aferritai.
Ferru, s. m. Ferro. La genericità
della definizione si articola poi a
seconda della destinazione d’uso.
Nel gergo dei pastori, ad es., su f.
indica collettivamente i sonagli e i
campanacci del bestiame, is ferrus
de tùndiri sono le cesoie da tosatura. Nel gergo degli agricoltori, is
ferrus de pudai definiscono le cesoie
da potatura. Al diminutivo, ferrigeddu, indica l’attizzatoio. Al pl. (is
ferrus) si usa per definire le manette delle forze dell’ordine. Sa giustìssïa dd’at postu is f. (le forse dell’ordine gli hanno messo le manette).
Fertu/a, agg. Ferito/a, handicappato/a, malandato/a. Vedi fèrriri.
Festa, s. f. Festa. Trascurando per
un momento il Natale e la Pasqua,
il s. indica innanzi tutto i giorni
segnati dal calendario religioso
paesano antico ma che nel tempo
si è rinnovato notevolmente. Le
feste seuesi più note sono, nell’ordine scandito dalla cadenza di ciascuna: Santu Cristolu (San Cristoforo, festa campestre: si celebra nel
santuario plurisecolare omonimo
sotto la foresta di Tacu, a circa mille
metri di altitudine, la prima domenica di giugno), Santa Lugia (Santa
Lucia, festa campestre: la si tiene in
un santuario anch’esso plurisecola-
193
re che sorge nel mezzo di una fertile vallata posta quasi di fronte al
paese la prima domenica di luglio),
Nostra Segnora ’e su Carmu/Cramu
(la Madonna del Carmelo, festa
campestre, nell’omonimo santuario costruito ad Arcüerì, oltre novecento metri di altitudine, tra il
1919 e il 1920, il 16 e 17 luglio,
date spostate di recente al fine-settimana più vicino a quelle canoniche), S’Assunta (la Vergina Assunta), di paese, a Ferragosto, Santa
Maria Madalena (Santa Maria
Maddalena, festa urbana, terza
domenica di luglio), Santu Serbestianu (San Sebastiano, festa
campestre, riportata in auge dopo
un periodo buio da un folto gruppo di giovani volontari: la si celebra
nell’omonimo santuario restaurato
gratis dagli stessi ragazzi nella zona
omonima, a poca distanza dalla
miniera di Fundu ’e corongiu,
l’ultima domenica d’agosto). Si
celebrano poi altre feste religiose
senza contorno di manifestazioni
civili, come quella del patrono
Sant’Or-rocu
(San
Rocco),
Sant’Àrbara (Santa Barbara), etc.
Festai, v. Festeggiare, far festa.
Indica i festeggiamenti del calendario religioso e civile comunitario ma anche i festini ordinari
relativi a diplomi, lauree, fidanza-
194
menti, matrimoni, pensionamenti, etc.
Festaïolu/a, agg. Festaiolo,
amante delle feste.
Festau/ada, agg. Festeggiato/a.
Feti, avv. Solamente, soltanto,
appena. Tenia noranta ’erbeis e mi
nd’at abarrau f. trinta (avevo
novanta pecore e me ne sono
rimaste appena trenta).
Féurra, s. f. Ferula (ferula communis). Cuaddu ’e f. (arbusto di
ferula): l’immagine del cavallo
nasce dal fatto che dai gambi della
ferula i bambini di un tempo si
costruivano i loro cavallini immaginari. L’erbacea perenne delle
ombrellifere ha sempre costituito e
ancora rappresenta un serio pericolo per il bestiame di quasi tutto
il territorio di Seui - segnatamente
pecore e cavalli - che in certe stagioni dell’anno, come durante le
prime piogge d’autunno, possono
ammalarsi di ferulosi e anche
morirne. Vedi afëurràisi e afëurrau.
Fëurrargiu, s. m. Terreno invaso
dalle ferule.
Fïantza, s. f. Avallo, fideiussione, garanzia.
Fichetu, s. m. Impiccione, ficcanaso, invadente. Usato anche
come agg. Vedi fichìu.
Fichidura, s. f. Intromissione,
ingresso più o meno abusivo. Vivo
PAOLO PILLONCA
nella loc. avv. a f. (forzatamente,
senza invito).
Fichiri, v. Conficcare, intromettere, far penetrare. Nce dd’at fichìu
s’arrasòïa in brenti (gli ha conficcato il coltello nella pancia). Anche
nella forma rifl.: si nc’est fichìu in
mesu (si è messo in mezzo).
Fichìu/a, s. e agg. Ficcanaso, chi
non sa farsi i fatti propri. Lina est
una f. (Lina è una ficcanaso). Vedi
fichetu.
Fidai(si), v. Affidare. A Linu
dd’ia a f. ’ónnïa cosa (a Lino affiderei qualunque cosa). Confidarsi.
Franciscu cun mei si fidat (Francesco con me si confida) Anche al
rifl. fidàisi (fidarsi).
Fidau/ada, agg. Fidato/a, di
fiducia.
Fidi, s. f. Fede nella trascendenza. Non tenit f. (non crede in Dio).
Confidenza, fiducia. No ddi tengiu
f. (non ho fiducia in lui).
Fidu, s. m. Credito, fido, garanzia. Nella loc. a f. vale: a credito.
Figau, s. m. Fegato. In senso fig.
coraggio. Nci ’olit f. (ci vuole coraggio).
Figliau/ada, s. e agg. Con figli.
Genitore/genitrice. Vedi afigliau/
ada.
Figliora, s. f. Figlioccia, di battesimo e/o di cresima.
Figlioru, s. m. Figlioccio, c. s.
Mancarìas. La parlata di Seui
Figliu/a, s. m. e f. Figlio/a.
Figliu ’e ànima, s.m. Figlio
adottivo.
Figu, s. m. Fico (ficus carica), albero e frutto.
Figu cràbina, s. f. Caprifico
(caprificus), fico selvatico (lett.
fico caprino, adatto alle capre).
Vedi crabufigu e crabïoni.
Figumorisca, s. f. Ficodindia,
albero e frutto. Rarissimo nel territorio di Seui, per le temperature
che non ne consentono fioritura e
maturazione, esclusa la parte più
bassa del salto comunale.
Figumoru, s. m. Variante e sin.
di figumorisca.
Filada, s. f. Direzione che il pastore dà al bestiame quando lo riavvia
al pascolo dopo la mungitura o il
meriggiare. A is crabas ddis apu
’onau sa filada ’e Päùli (ho avviato le
capre al pascolo nella direzione di
Pauli). In senso fig. comportamento, strada, piega. Gisepu est pighendu una f. legia (Giuseppe sta prendendo una brutta strada).
Filadura, s. f. Filatura.
Filai, v. Filare. Rif. alla lana, al
cotone, etc.
Filau, s. m. Rete da pesca fluviale e lacustre.
Filau/ada, agg. Filato/a.
Filerìa, s. f. Selvaggina di terra e
di aria. Collettivo. Depu castïai sa
195
’ingia ca soi timendu po sa f. (debbo
controllare la vigna, ho paura della
selvaggina). Gergale venatorio dei
vignaiuoli.
Fìligi, s. m. Felce. Nell’uso degli
ovili di Seui rimane una particolare
confezione di formaggio: su casu in
f., prodotto estivo di preparazione
veloce e di ottimo sapore. L’operazione, subito dopo la cagliata del
latte, prevede che il formaggio
appena fatto venga raccolto e
avvolto nelle felci, quindi legato
strettamente in un panno, appeso e
lasciato riposare per qualche ora
prima dell’assaggio, una volta che
ha perso il siero. Vedi soru.
Filigiargiu, s. m. Terreno ricco
di felci, particolarmente adatto registra l’esperienza contadina alla coltivazione delle patate.
Filincu, s. m. Strofinaccio.
Filomena, n. pr. di pers. Filomena. Un tempo molto usato nel
paese come nome di battesimo.
Filongiana, s. f. Filatrice. Desueto.
Filu, s. m. Filo.
Filuferru, s. m. Fil di ferro.
Sotto metafora: acquavite.
Filuferru spinosu, s. m. Fil di
ferro provvisto di punte simili a
spine.
Filugghelmu, s. m. Lenza da
pesca fluviale.
196
Filumena, s. f. Usignolo.
Finantza, s. f. Finanza. Indica
anche il corpo delle Guardie specifiche.
Finantzïeri, s. m. Finanziere,
agente della Finanza.
Finas, avv. e cong. Fino. Finas a
candu ap’a tènniri poderi ap’a abarrai in su monti (finché avrò forze
rimarrò in campagna). Può assumere valore di cong. Anche. Andu
finas e deu (andrò anch’io).
Findeu, s. m. Spaghetto tradizionale finissimo e fatto in casa. In
senso ir. viene rif. a chi a tavola
non si bea di queste finezze: Nd’at
a bòlliri dus de f. (ne vorrà due, di
spaghetti, vale a dire: non si
accontenterà di piccole porzioni).
Fineri/a, agg. Longilineo/a.
Finesa, s. f. Finezza, raffinatezza,
intelligenza.
Fini, agg. Fine, sottile. Unu
cambu fini (un ramo sottile).
Quando si vuole indicare una sottigliezza marcata si reitera l’agg.:
fini-fini. Astuto, intelligente, perspicace. Est unu ’e menti f. (è uno
di mente fine).
Finiri, v. Finire, terminare, concludere. Ap’a f. custu trabbagliu in
pagu tempus (finirò questo lavoro
in poco tempo).
Finiu/a, agg. Finito/a, terminato/a, concluso/a, provetto/a. Indi-
PAOLO PILLONCA
ca anche il buon risultato di una
conclusione, soprattutto quando
si parla di arti e mestieri. Imoi
Efisïu est unu mäistu ’e linna f.
(ormai Efisio è un provetto falegname). L’espr. mortu a f., ancora
frequente nell’uso quotidiano,
significa: morto per consunzione,
consumato come una candela.
Fìsicu, s. m. Fisico, corporatura.
Di superstrato. Meno usato di
carena.
Fissadura, s. f. Fissazione. Usato
anche in loc. avv.
Fissai, v. Fissare, guardare a
lungo negli occhi un’altra persona
o indugiare con lo sguardo su
qualsiasi cosa desti interesse. Al
rifl. indica una mania: fatu-fatu si
fissat ca nemus ddi ’olit beni (ogni
tanto si autoconvince che nessuno
gli vuol bene).
Fissatzïoni, s. f. Paranoia, monomania.
Fissau/ada, agg. Esaurito/a,
monomaniaco/a.
Fitïanu/a, agg. Frequente, comune. Usato come s. per definire i
frequentatori abituali di un luogo.
Fitzïosu/a, agg. Vizioso/a. Vedi
vitzïosu.
Fìtzïu, s. m. Vizio, difetto. Vedi
vìtzïu.
Foddi, s. m. Mantice della forgia. Ma anche ciascuno dei due
Mancarìas. La parlata di Seui
tasconi laterali della bisaccia. Apu
postu sa bértula a su cüaddu e
dd’apu carrigau tres angionis pe’ f.
(ho sellato il cavallo e ho caricato
tre agnelli per ogni sacca).
Foddini, s. m. Fuliggine.
Foddinosu/a, agg. Pieno/a di
fuliggine. Vedi infoddinau.
Foddoni, s. m. Grosso mantice.
Desueto nell’uso di ogni giorno,
sopravvive ancora come soprannome riferito a una persona corpulenta e dal passo malfermo.
Fogali, s. m. Malattia dei maiali.
Lo si usa anche come impr. nei
confronti dei suini, come artana
per i cani.
Foghista, s. m. Fuochista. Gergale dei ferrovieri indicante l’aiuto
macchinista. Ma anche, ironicamente: piromane, incendiario.
Fogi, s. f. Pozzanghera, rimasuglio di acqua piovana.
Fogili, s. m. Focolare. In senso
ir. casa. Non movit de su f. (non
esce di casa).
Fogina, s. f. Fucina. In senso
lato, luogo caldo, letto, riparo di
animali selvatici come cinghiali e
mufloni. Vedi scioginai/sfoginai.
Foglia, s. f. Foglia. Indica anche,
genericamente e in funzione di
collettivo, l’unità del fogliame di
qualsiasi pianta, erba e arbusto,
oltre che degli ortaggi foliati.
197
Fogliu, s. m. Foglio.
Fogori, s. m. Afa, caldo intenso,
tanto da dare una sensazione di
fuoco (fogu).
Fogoroni, s. m. Fuoco rituale
notturno di metà gennaio, strutturato di grossi tronchi, in onore
di Sant’Antonio e San Sebastiano
(is fogoronis). Ma si usa anche solo
per indicare un fuoco di dimensioni superiori alla norma.
Fogu, s. m. Fuoco. Definisce il
fuoco domestico, innanzi tutto. No
dd’ia connotu mai a dèpiri allùiri su
f. in su mesi ’e mäiu (non mi era mai
capitato di dover accendere il fuoco
nel mese di maggio). Indica anche
quello impiegato in certe operazioni dell’ovile come il riscaldamento
del latte per la confezione del formaggio e della ricotta, oltre ad indicare l’accensione del fuoco per alcuni interventi agricoli come la debbiatura (vedi narbonai) e la bruciatura delle stoppie. Il rapporto con il
fuoco è ritenuto estremamente delicato. Infine indica il fuoco degli
incendi. Talvolta, anzi, questo s.
diviene un vero e proprio sinonimo
di incendio. At bessìu unu f. mannu
(è scoppiato un vasto incendio). Il
grande Demetrio Ballicu in uno dei
suoi lavori (Tentativo sperimentale
per impedire l’acescenza del vino,
Cagliari, 1981, pag. 8) cita un
198
modo di dire diffuso a Seui: cosa
passada in fogu a dda papai est unu
giogu (non c’è pericolo nel mangiare un cibo passato nel fuoco). Usato
nelle imprecazioni ellittiche prive di
destinatario (f.) e in quelle a indirizzo specifico: su f. nce ddu papit (che
il fuoco lo divori).
Folacasu, s. m. Farfalla. Desueto. Usato al dim. come epiteto dei
bambini di pochi mesi: folacaseddu (farfallina).
Folài(si), v. Diventare secco.
Detto dei vegetali e, in un traslato,
della donna.
Folau/ada, agg. Rinsecchito/a.
Forada, s. f. Spazio privo di
alberi in mezzo a un bosco o di
lato a un luogo alberato. Quando
è piccolo si usa il dim. foradedda.
Foras, avv. Fuori, eccetto, all’infuori. Viva la loc. a foras.
Forasdenosu, s. m. Diavolo
(lett. l’entità fuori di noi). Si ddu
est postu in mesu su f. (ci si è messo
di mezzo il demonio).
Forgia, s. f. Fucina.
Forra, s. f. Fodera.
Forrai, v. Foderare, mettere una
fodera.
Forrau/ada, agg. Foderato/a.
Forredda, s. f. Focolare. Usato
anche in senso ir.
Forreddu, s. m. Fornello. Soprattutto al pl. in senso ir. Abar-
PAOLO PILLONCA
radì in is forreddus (férmati accanto ai fornelli).
Forrogai, v. Frugare. E ita ses forroghendu? (che vai frugando?).
Forrogheri/a, s. e agg. Frugone.
Detto soprattutto dei bambini. Est
unu f. (è uno che ama frugare).
Forrogu, s. m. L’atto e l’effetto
del frugare. In senso fig. indica
una situazione di disordine.
Forru, s. m. Forno. Indica sia il
forno per il pane sia la fornace per
la calce. Ma per quest’ultimo
occorre precisare: unu f. ’e carcina
(un forno di calce). Vedi carcina.
Fortuna/furtuna, avv. Fortuna,
buona sorte. Frequente nei giuramenti: äici sa f. ’olìa (così vorrei la
fortuna), poi sempre più ellittica:
äici bona f. (così la buona fortuna)
e aici f. (così la fortuna).Vedi afortunau e malafortunau.
Fortzadura, s. f. Forzatura.
Fortzai, v. Forzare, insistere.
Fortzaparis, escl. Insieme si è
forti.
Fortzau/ada, agg. Forzato/a,
eceessivo/a.
Fosilada, s. f. Fucilata.
Fosiladura, s. f. Fucilazione.
Fosilai, v. Fucilare.
Fosilau/ada, agg. Giustiziato/a
mediante fucilazione, fucilato/a.
Fosili, s. m. Fucile. Se è piccolo
si chiama fosileddu.
Mancarìas. La parlata di Seui
Fraca, s. f. Fiamma, quasi sinonimo di pampa. La differenza sta nel
fatto che f. indica la fiamma già
stabilizzata e non nel suo primo
manifestarsi.Vedi afracai.
Frachesa, s. f. Fiacchezza, infiacchimento, vampata di calore. La si
usa soprattutto al plurale (is frachesas) per definire le vampate di
cui soffrono le donne in menopausa.
Fradi, s. m. Fratello.
Fradili, s. m. Cugino primo.
Vedi sorresta.
Fragai, v. Emanare odore, puzzare. Fragat a bentu, la puzza arriva
lontano (con il vento). In senso
fig. cercare donne. Lo si utilizza
anche per indicare un evento
sospetto: custa chistïoni fragat (questa faccenda puzza).
Fragellai(si),
v.
Abbigliare/abbigliarsi con cattivo
gusto.
Fragellau/ada, agg. Vestito/a in
maniera eccessivamente stonata.
Fragellu,
s.
m.
Capo
d’abbigliamento o ninnolo di cattivo gusto. Si ponit dònnia f. (si
mette addosso qualunque porcheria).
Fragosu/a, agg. Odoroso, ma
anche puzzolente. In senso met.
puttaniere. Pres. nei soprannomi.
Fragu, s. m. Odore. Se si vuole
199
precisare di che tipo, occorre puntualizzare: f. malu è la puzza, f.
’onu o f. bellu il profumo. Vedi
nuscu.
Framuladura, s. f. Immobilizzazione, paralisi.
Framulai, v. Far restare immobile. Framuladì igui (stai fermo lì).
Framulau/ada, agg. Semiparalizzato/a. Ma l’agg. indica comunque una situazione momentanea o
passeggera.
Franciscu, n. pr. di persona.
Francesco. Testimoniate anche le
varianti Francischinu e Francischeddu.
Francu/a, n. pr. di pers. Franco/a.
Francu, s.m. Franco (moneta).
La denominazione è rimasta anche
con l’avvento della lira. In tutta la
Sardegna per indicare la lira si
usava questo s. Unu f., milli francus
(una lira, mille lire). La mezza lira
si chiamava petza (vedi), le cinque
lire scudu.
Francu, avv. Eccetto, ad eccezione di. F. su ’atiari (ad eccezione del
battesimo), f. su Santüanni (eccetto il legame di comparatico).
Talvolta in tono scherzoso: f.
s’ossu, est totu petza (eccetto l’osso,
è tutto carne), per rimarcare che
non esiste nessuno senza difetti.
Frandigai, v. Lusingare, blandire.
200
Frandigau/ada, agg. Blandito/a,
lusingato/a, adulato/a.
Fràndigu, s. m. Lusinga, blandizie, adulazione. Viva l’espr. a fràndigus (mediante blandizie).
Franella, s. f. Maglietta a contatto della pelle, flanella.
Frasca, s. f. Frasca, frascame,
Frascu, s. m. Fiasco.
Frassu, s. m. Frassino (fraxinus
excelsior).
Frastimai, v. Imprecare, bestemmiare, maledire. Frastimat a totus
(maledice tutti).
Frastimau/ada, agg. Maledetto/a.
Frastimu, s. m. Imprecazione,
bestemmia.
Frenada, s. f. Frenata, rallentamento.
Frenadori, s. m. Frenatore. Gergale dei ferrovieri. Quella del frenatore, nei convogli trainati dalle
locomotive a vapore, era una figura prevista in ogni carrozza e vagone, in assenza di un sistema automatico di frenatura.
Frenai, v. Frenare, rallentare.
Anche in senso fig.
Frenau/ada, agg. Frenato/a.
Frénïa, s. f. Desiderio istintivo,
sentire naturale, inclinazione, passione, estro. Viva nell’uso la loc.
avv. de f. Chi no ddi ’enit de f. non
fait mancu speru ’e Deus (se non lo
PAOLO PILLONCA
sente istintivamente non fa nulla
di nulla).
Frenu, s. m. Briglia del cavallo.
Indica anche il freno delle auto,
bici e moto. Vedi infrenai (imbrigliare, mettere la briglia al cavallo).
Più in generale, limitazione. Chene
f. perunu (senza alcun limite).
Frïadura, s. f. Guidalesco.
Frïai, v. Provocare un guidalesco, una piaga superficiale. Vivo il
prov. su cüaddu frïau a sa sedda si
saddit (il cavallo piagato sussulta
nel vedere la sella).
Frïargiu, s. m. Febbraio.
Frïau/ada, agg. Piagato/a da guidalesco. In senso fig. scottato.
Fridangiu/a, agg. Piuttosto freddo/a.
Fridassu/a, agg. Freddino/a.
Detto delle persone poco espansive.
Fridu/a, agg. Freddo/a. Est fendu
tempus f. (è una stagione fredda).
La sim. più ricorrente è f. che nì
(freddo come la neve). Viva la loc.
a f. (a freddo). Vedi sfridai.
Fridùmini, s. m. Freddezza.
Fridura, s. f. Raffreddamento. Est
unu dolu ’e f. (è un dolore da raffreddamento). Ha anche il senso
dell’it. freddura. Acabbadda cun
custas friduras (smettila con queste
freddure).
Fridurosu/a, agg. Freddoloso/a,
Mancarìas. La parlata di Seui
poco o punto resistente alle basse
temperature.
Frigadura, s. m. Massaggio. Sa
pumada mi dd’apu fata a f. in petorras (la pomata me la sono spalmata
sul petto). Fregatura, imbroglio.
Frigai, v. Fregare, sfregare, massaggiare.
Frigamentu, s. m. Sfregamento,
massaggio.
Frigatzïoni, s. f. Massaggio con
impiego di medicamenti (pomate,
unguenti, etc).
Frigau/ada, agg. Massaggiato/a,
imbrogliato/a.
Frigidùmini, s. m. Tempo freddo.
Frimada, s. f. Fermata: sosta
obbligatoria o facoltativa di treni,
bus e auto, pausa liberamente decisa da chi compie un determinato
itinerario. In sa processïoni de sa
festa ’e Su Cramu eus dépïu fàiri
duas o tres frimadas (nella processione della festa del Carmelo abbiamo dovuto fare due o tre soste).
Frimai, v. Fermare, interrompere, impedire, bloccare.
Frimau/ada, agg. Fermato/a.
Frimesa, s. f. Stabilità, fermezza,
affidabilità. Nci ’olit f. (ci vuole
affidabilità).
Frimu/a, agg. Fermo/a, stabile,
affidabile.
Frincadura, s. f. Dedizione,
meticolosità.
201
Frincàisi, v. Dedicarsi a q.sa con
il massimo dell’impegno. Si ddu-i
frincat (ci si impegna a fondo).
Frincadiddoi (impégnatici).
Frincau/ada, agg. Dédito/a.
Friri, v. Friggere. In senso reale.
Mi frïu dus ous e mi nci crocu (mi
friggo due uova e me ne vado a
letto). In senso fig. nell’espr. bai a
ti fàiri f. (vai a farti friggere).
Frischetu, s. m. Frescolino. Est
fendu f. (il tempo si sta mettendo
al fresco). Usato il doppio dim.
frischeteddu.
Frisciura, s. f. Coratella, frattaglia. Definisce le interiora degli
animali e comprende il cuore, i
polmoni, il fegato e la milza,
escludendo le parti intestinali che
vengono comprese in un altro
nome collettivo: sa stentina. Vedi
sfrisciurai/ isfrisciurai.
Friscu/a. agg. Fresco/a.
Friscura, s. f. Frescura, tempo
fresco. Freq. la loc. a f. per indicare, nella stagione calda, un’ora di
maggior refrigerio. Vedi infriscai.
Friscurai, v. Prendere il fresco.
Indica l’abitudine di stare di notte
all’aperto, nei vari rioni, in piccoli
gruppi fra una chiacchiera e l’altra.
Fritïadura, s. f. Cattiva lievitazione. Viva la loc. avv. a fritïadura.
Fritïai, v. Lievitare male, tanto
da rendere il pane più duro e
202
amaro, dunque meno saporito.
Fritïau/ada, agg. Mal lievitato/a.
Fritu/a, agg. Fritto/a. Part. pass.
di friri.
Fritura, s. f. Frittura, cottura
nell’olio d’oliva bollente..
Frius, s. m. Freddo.
Frochigiadura, s. f. Abbellimento con fiocchi.
Frochigiai, v. Abbellire, ornare
con fiocchi.
Frochigiau/ada, agg. Infiocchettato/a.
Frocu, s. m. Fiocco.
Froddoga, s. f. Pasticcio. A dd’as
fata a f. (che pasticcio hai combinato).
Froma, s. f. Forma. Detto del formaggio di pecora o capra da destinare alla stagionatura (casu ’e f.), per
distinguerlo da altre tipologie (casu
’e fita, formaggio a fette da mettere
in salamoia, destinato al condimento dei minestroni) e casu
agedu, il formaggio a fette da mangiare nel giro di uno o due giorni,
ossia di utilizzo quasi immediato).
Fromentu, s. m. Lievito.
Fromiga, s. f. Formica. Può fungere da collettivo: sa f. (le formiche). Met. indica una persona
laboriosa e costante.
Fromigargiu, s. m. Formicaio.
In senso fig. indica un raggrupparsi eccessivo di folla.
PAOLO PILLONCA
Fromighedda, s. f. Schiera di
formichine. Nome collettivo
Froncili, s. m. Musale, cappio
per asini. Si lega alla testa dell’animale in maniera da favorire agganci vari per il trasporto di oggetti.
Di uno poco avveduto si suole
dire: no andat mancu a dópïu f.
(non va nemmeno se lo trascini a
doppio cappio). Vedi afroncilai.
Frongia, s. f. Fogliame e fronde,
il rivestimento verde degli alberi.
Vedi afrongiai.
Frori, s. m. Fiore. In senso lato
indica una persona di bell’aspetto.
Ancora molto usate sia la similitudine bellu che f. (bello come un
fiore, utilizzata però anche in
senso antifrastico per indicare un
persona brutta) sia la loc. chiaramente antifrastica giai ses a f. (sei
proprio mal messo).
Frorigiai, v. Adornare con fiori e
altri ornamenti.
Frorigiau/ada, agg. Adornato/a
con fiori o altri addobbi supplementari.
Frorigiu, s. m. Ornamento supplementare. Detto anche di certe
particolari abilità dei suonatori di
läuneddas, organetto e fisarmonica.
Froriri, v. Ornare. Ma non l’it.
fiorire, che nella parlata di Seui è
invece infroriri, sempre. Cussu
Mancarìas. La parlata di Seui
pipìu ti frorit s’areu (quel bambino
ti abbellisce il parentado).
Frorìu/a, agg. A fiori, variamente ornato/a oppure colorato/a.
Fruca, s. f. Forca. Raro. Vedi
furca.
Frucargia, s. f. Forcone a doppia
punta. Vedi afrucargiai.
Fruchita, s.f. Forchetta.
Fruconi, s. m. Forcone. Viva nell’uso una singolare imprecazione
che si dà in risposta a un interlocutore che abbia fatto una pausa dopo
aver pronunciato una parola con
desinenza in -oni. Per applicarle la
rima efficace si dice ellitticamente:
s’abba santa a f. (l’acqua benedetta
con il forcone, sott. ti spruzzino).
Frùmini, s. m. Fiume. Di norma
indica il Flumendosa, il più rilevante della zona, che divide il territorio di Seui da quello di Arzana
a nord-est. Per gli altri corsi
d’acqua il s. che li indica è errìu .
Vedi anche errissolu e tàcinu.
Frundidura, s. f. Sfondamento.
Frùndiri, v. Sfondare. Nc’eus
frùndïu s’’enna (abbiamo sfondato
la porta).
Frùndïu/a, agg. Sfondato/a.
Frungiri, v. Aggrinzire, corrugare, divenire rugoso.
Frungìu/a, agg. Rugoso/a, increspato/a.
Frùnzïa, s. f. Fionda.
203
Frusca, s. f. Foruncolo. Frequente il dim. fruschigedda.
Frùscina, s. f. Fiocina.
Frutu, s. m. Frutto. Non solo
dell’albero, ma anche del bestiame
da latte. Su f. di un gregge è la produzione annua in latte, agnelli o
capretti da macello e capi adulti di
scarto, senza più contare la lana che
ormai da diversi decenni non ha
mercato. Una delle forme di contratto più praticate in una sòccida
di allevatori era, appunto, quella
detta a ladus de f. Vedi sfrutüai.
Frutüai, v. Dare frutto.
Frutüau/ada, agg. Reso/a, fruttato/a.
Fua, s. f. Fuga. La loc. a totu f.
vale: correndo all’impazzata. Dev.
di füiri.
Fucia, escl. Che schifo. Spesso
reiterata, per dare più forza
all’espr. (fucia-fucia).
Füeddai, v. Parlare, iniziare il
discorso. Ginu at füeddau ’eni
(Gino ha parlato bene). Vedi chistïonai, che però indica il parlare
dialogico.
Füeddàrïu, s. m. Dizionario,
glossario, vocabolario. Lett. elenco
di parole (füeddus).
Füeddau/ada, agg. Parlato/a.
Uno che governa la parola è benifüeddau, uno che non la domina e
trascende nel parlare malifüeddau.
204
Füeddu, s. m. Parola. Molto
usato la loc. a füeddus (a parole),
vivi il prov. a füeddus locus origas
surdas (davanti a parole senza senso
le orecchie sono sorde) e l’espr. in
pagus füeddus (in poche parole).
Füeteddu, s. m. Frustino.
Füetu, s. m. Frusta. Utensile
campagnolo, per cavalli, vacche,
maiali e bestiame più minuto.
Füidura, s. f. Fuga. Vivo nella
loc. avv. a f. (di fretta, come se si
fuggisse).
Füìri(si), v. Fuggire, dileguarsi.
Chi bit arvolotu si fuit inderetura
(se vede disordine scappa subito).
Sfuggire. Candu fui certendu su
pipìu mi nc’est füiu unu ciafu
(mentre rimproveravo il bambino
mi è sfuggito uno schiaffo). Dimenticare. Tenia idea ’e ndi chistïonai cun tui e candu t’apo ’idu
m’est füiu su chi ti depia nai (avevo
intenzione di parlarne con te ma
quando ti ho visto mi è sfuggito
ciò che ti avrei dovuto dire).
Füis-füis, loc. avv. Di fretta,
frettolosamente.
Füìu/a, agg. Fuggito/a. Part.
pass. di fuiri.
Fulïadura, s. f. Eliminazione,
rimasuglio da buttare via. La loc.
avv. a f. vale: copiosamente, in
tanta abbondanza da poter eliminare il superfluo.
PAOLO PILLONCA
Fulïai, v. Buttar via. Fulïanceddu
cussu marroni (butta via quella
zappa). In senso materiale e fig. Il
v. si utilizza anche nel significato
di colare, avere delle perdite di
liquido da qualche parte in seguito a malattia. Mi fulïat un’origa
(ho un orecchio che mi cola).
Fulïau/ada, agg. Buttato/a, gettato/a via.
Fumada, s. f. Fumata.
Fumadori, s. m. Fumatore.
Fumai, v. Fumare. Rif. al vizio
del fumo, di sigaretta e/o di sigaro.
Per l’emissione di altro tipo di
fumo il v. usato è fumïai.
Fumaïolu, s. m. Canna fumaria.
Fumïada, s. f. Fumata.
Fumïai, v. Emettere fumo.
Fumu, s. m. Fumo. Anche in
senso met. Non si nd’at bidu nin f.
nin fragu (non se ne è saputo più
nulla, lett. di lui non si è più visto
fumo né sentito odore alcuno).
Vivo il prov. anìa at fumu at fogu
(dove c’è fumo c’è fuoco), per dire
che soltanto di rado i sospetti
risultano infondati. Nel gergo
delle maledizioni ce n’è una particolarmente intensa: s’andada ’e su
f. (che tu possa fare la partenza del
fumo, ossia senza tornare mai
più).
Fundadori, s. m. Fondatore.
Fundai, v. Porre le basi, fondare,
Mancarìas. La parlata di Seui
stabilizzare. Di uno che si è costituito una posizione economica
solida si dice: est fundau (ha una
ricchezza consistente).
Fundamentu, s. m. Base, fondamento, consistenza, sostanza.
Fundórïu, s. m. Fondamento
sostanzioso e sostanziale. No est
ómini ’e f. (non è un uomo di
valore). Desueto.
Fundu, s. m. Cespo. Unu f. ’e
làtïa (un cespo di lattughe).
Fundu, s. m. Valle, avvallamento. In su f. ’e Tónneri (nella valle
del Tónneri). Fondo. Su fundu ’e
sa carrada ’olit cambïau (il fondo
della botte è da sostituire). Radice,
origine. Candu s’inchïetat ndi segat
sa mata ’e fundu (quando si adira
taglia l’albero alla radice). Se preceduto dalla prep. a, dà luogo alla
loc. avv. a f. (a poca distanza, vicino).
Fungudu/a, agg. Profondo/a.
Funi, s. f. Fune, corda. Vedi afunai. Il s. dà vita a diverse locuzioni avverbiali. Vedi la voce relativa
alla prep. A.
Funtana, s. f. Fonte, sorgente,
fontana. Indica sia le numerose
fonti del paese sia quelle - davvero
difficili da elencare tutte - del territorio comunale, di Monti ’e susu
e di Monti ’e ’ossu. Il nome delle
sorgenti del centro abitato e din-
205
torni è quasi sempre preceduto
dalla parola funtana (in un solo
caso dal dim. funtanedda) e seguito da un compl. di den. F. ’e Nugi,
F. ’e Foras, F. ’e Cocu, in due uscite
a breve distanza l’una dall’altra,
F.’e Coli-Coli, F.’e Scascia, F.’i Ossu,
F.’e Màrgini, Funtanedda ’e Crèsia,
Arcèli, Funtalanus, Sparciloi,
Calonigassolu. Particolarmente apprezzate la sorgente di Coli Coli
nel centro abitato e quelle di Bau
’e Lucheddu e Scirinulu nel territorio comunale. La parola f. ha una
grande forza evocativa, per le
occasioni di vita e di lavoro che
richiama al cuore di ciascuno: per
questo ha avuto e continua ad
avere un vasto impiego nel linguaggio figurato, come avviene in
tutte le lingue del mondo, soprattutto in quello delle làudi sacre e
della poesia d’amore.
Fura, s. f. Furto. La loc. a f. vale:
di nascosto, furtivamente.
Furadura, s. f. Ruberìa. Si usa
nella loc. avv. a f. (come se si trattasse di un furto).
Furai, v. Rubare, appropriarsi di
cose altrui, bestiame, denaro o
altro. Ma mentre il furto di bestiame è regolato da una serie di
norme non scritte, gli altri tipi di
furto sono considerati sempre e
comunque riprovevoli. Bregungia
206
est a f. (rubare è una vergogna).
L’abigeato, invece, a certe condizioni rigidamente contemplate nel
codice orale della campagna, non è
ritenuto un furto vero e proprio
perché - come aveva acutamente
rilevato negli Anni Sessanta il
grande penalista nuorese Gonario
Pinna - è insieme un recupero di
perdite subite e un risarcimento
anticipato di perdite temute. Ma le
norme che lo regolamentano sono
severe. La prima regola è quella di
non rubare mai ad un compaesano
o vicino di pascolo. Unu non
s’imbrutat in domu sua (uno non si
sporca nella propria casa), si diceva
e si dice. Altre norme sono: superare sempre i confini del territorio
del proprio Comune (sartai sa
làcana), non toccare il bestiame di
un allevatore povero e non esagerare comunque nella quantità di capi
prelevati. Esistono, poi, i furti di
bestiame compiuti per reazione a
un cattivo comportamento altrui,
anche del proprio paese, e qui praticamente non ci sono regole precise, se non quelle del buon senso,
a meno che non si sia scossi dal
livello del rancore accumulato. In
tutti i casi, comunque, la regola
non scritta raccomanda di non
usare armi, di operare, come si
dice nella parlata paesana e non
PAOLO PILLONCA
solo, a fura prana (lett. con un
furto tranquillo).
Furau/ada, agg. Rubato/a.
Furca, s. f. Forca. Si usa in alcune imprecazioni: a palas de sa f.
(lett. dietro la forca), bai in sa f.
(vai sulla forca).
Furcidda, s. f. Forcella, forcolo.
Furciddai, v. Mettere forcelle.
Furciddau/ada, agg. Con diverse forcelle. Detto di fronde e rami
di albero che hanno diverse doppie diramazioni.
Furcidura, s. f. Covata.
Furciri, v. Covare. Detto della
gallina e degli altri uccelli. In
senso ir. indica uno stato di
immobilità dovuto a pigrizia o a
mancanza di iniziativa.
Furcìu/a, agg. Covato/a.
Furdighigliu, s. m. Segone intelaiato. Gergale dei falegnami.
Furitu, s. m. Furetto. Molto
usato in passato per scovare i conigli selvatici.
Furoni, s. m. Ladro. Vedi furai.
Furrïada, s. f. Curva a gomito.
Furrïadorgiu, s. m. Piccolo
agglomerato di case, luogo solitario e sperduto. Est unu f. (lett.
luogo da cui tornare indietro).
Furrïadura, s. f. Cambio improvviso.
Furrïai, v. Girare, cambiare,
retrocedere. Sa dì at furrïau totu
Mancarìas. La parlata di Seui
in-d-una, de soli a nì (la giornata è
cambiata di colpo, dal sole alla
neve). Fut andendu a su monti e at
torrau a f. (era diretto all’ovile ed è
tornato indietro). Dar di volta.
Paris furrïau ’e ciorbeddu (sembri
impazzito, lett. girato di testa).
Furrïau/ada, agg. Girato/a,
cambiato/a.
Furrïotai, v. Fare giri tortuosi.
Furrïotau/ada, agg. Rigirato/a
confusamente.
Furrïotu, s. m. Giravolta, andatura tortuosa. Ginu est sempir a
furrïotus (Gino fa sempre giri strani).
Furrïotu, s. m. Botticella.
Fùrrïu, s. m. Giro, ritorno. Dev.
di furrïai. Molto usata la loc. a f.
(tutt’intorno).
Furuncu/a, agg. Cleptomane,
dedito/a al furto continuato. Vedi
fura e furai.
Fustanu, s. m. Fustagno.
Fusteri, s. m. Legnaiolo, taglialegna.
Fustèi/fusteti, s. m. e f. Lei, voi.
Epiteto di rispetto tuttora in uso,
anche se più raro che in passato.
Fusti, s. m. Bacchetta, verga,
bastone.
Fustiga, s. f. Rametto sottile utilizzato in quantità per avviare il
fuoco del caminetto. Usato anche
come collettivo nel senso di minu-
207
taglia. Alluit su fogu a f. (accende il
fuoco con la minutaglia).
Fustigu, s. m. Fuscello, rametto
piuttosto lungo, utile per rovistare
in mezzo all’erba alta alla ricerca
di funghi o di oggetti smarriti.
Fustinaga, s. f. Insieme di
fuscelli.
Fusu, s. m. Fuso. Tuttora viva la
filastrocca-indovinello infantile
che dice: orrodedda conca ’e fusu,/
su ’e ’ossu o su ’e susu? (rotellina
testa di fuso,/ quello di sotto o
quello di sopra?)
Fusu ’e prentza, s. m. Vite di
torchio.
208
PAOLO PILLONCA
G
Gabbelleri, s. m. Daziere, esattore. Desueto.
Gabbellotu, s. m. Tabaccaio,
venditore di generi di monopolio.
Figura nella canzone Eus agatai di
Benigno Deplano in rif. a due
donne che gestivano altrettanti
tabacchini nel paese a metà degli
anni Quaranta: Speranza Cosseddu
e Amalia Aresu.
Gabbina, s. f. Cabina.
Gàddara, s. f. Galla di roverella o
bacca di agrifoglio e ginepro usata a
mo’ di pallina per un gioco infantile chiamato a gàddaras e a gaddareddas, a seconda della galla utilizzata. Vedi bacaredda. Ma il s. indica anche altre formazioni, in particolare un secondo tipo di galla irregolare vagamente simile a un gallo
- chiamata anche caboni e molto
ben descritta da Demetrio Ballicu
in Miscellanea (cit., pagg. 88-89).
Gaddaredda, s. f. Gallozza di
roverella o bacca di agrifoglio e
ginepro, di volume ridotto rispetto alla gàddara.
Gaddini/’addini, s. m. Pazzia,
follia. Ti nde ddu ’ogu eu su ’a. ’e
conca (te la tolgo io la follia dalla
testa).
Gaddinosu/’addinosu/a, agg.
Pazzo/a, folle. Detto soprattutto
delle pecore matte, ma anche delle
persone. Est unu ’a. (è un folle).
Gäici, avv. Così. Vedi äici.
Gala, s. f. Pompa, vanità, narcisismo.
Galantómini, s. m. Galantuomo.
Galera, s. f. Carcere, galera.
Galïotu, s. m. Galeotto.
Galoseddu/a, agg. Piuttosto
vanitoso/a.
Galosu/a, agg. Vanitoso/a. Vedi
gala. Pres. nei soprannomi, al m.
Gamu, s. m. Camo, morso.
Asticella di legno che si sistema
trasversalmente in bocca ai capretti legandola da ambo i lati alle
corna per iniziare a svezzarli.
Gergale dei caprari.
Gana, s. f. Voglia, desiderio. Con
un ampio ventaglio di utilizzo.
Tengiu g. ’e ’addai, andai a cüaddu,
cantai, cùrriri, dromiri, papai (ho
voglia di ballare, cavalcare, cantare,
correre, dormire, mangiare).
Mancarìas. La parlata di Seui
Ganamala, s. f. Nausea. Su fragu
’e su puddargiu mi pigat a g. (il
puzzo del pollaio mi fa venire la
nausea).
Ganciu, s. m. Gancio. Vedi canciu.
Ganga, s. f. Gola. Usato quasi
escl. al plurale (gangas).
Gangrena, s. f. Cancrena.
Garagi, s. m. Garage.
Garantiri, v. Garantire, dare
garanzie.
Garantiu/a, agg. Garantito/a,
assicurato/a.
Garza, s. f. Garza, fasciatura. A
su strupìu mi ddi pongiu una g.
(metto una fasciatura alla ferita)
Gasu, s. m. Gas.
Gatamarrudda, s. m. Gatta in
calore. Esiste anche al maschile,
gatumurruddu.
Gatóu, s. m. Gateâu, dolce di
mandorle.
Gatu/’atu, s. m. Gatto. Vedi
macitu.
Gatu aresti, s. m. Gatto selvatico (felis sylvestris).
Gäurru, s. m. Arpione. In senso
fig. mascalzone, nullafacente che
vive di espedienti.
Gava, s. f. Cava.
Gazosa, s. f. Gassosa.
Gazoseri, s. m. Produttore di
gassose.
Gazoseria, s. f. Industria che
209
produce gassose, attività che nel
paese risale a oltre mezzo secolo fa.
Gea, s. f. Pianura incassata. Desueto. Pres nel top. Sa g. ’e su fossu,
nella foresta di Montarbu, sopra
Sa Muragessa, tra Margiani Pubusa
e il Tónneri.
Geca/’eca, s. f. Ingresso, entrata.
Geladina/’eladina, s. f. Gelatina.
Nella parlata di Seui indica la preparazione dei piedini di agnelli,
capretti e porcetti messi a bollire a
lungo fino a farli scuocere. Una
volta ridotti quasi in poltiglia, si
eliminano le parti ossee e si condisce il tutto con noci sminuzzate e
pepe. Una volta era il piatto tipico
delle feste di Capodanno e
dell’Epifania, oggi lo si prepara
senza calendarizzarlo, ma si tratta
pur sempre di un piatto invernale.
Gelai, v. Provare gelosia. Desueto.
Gelau, s. m. Gelato.
Gelosia, s. f. Invidia, gelosia.
Gelosu/a, agg. Invidioso/a, geloso/a.
Gemellu/a, s. e agg. Gemello/a.
Genïosu/a, agg. Simpatico/a,
affascinante, carismatico/a.
Génïu, s. m. Simpatia naturale,
carisma, fascino. Non tenit g. (non
ha carisma).
Genna/’enna, s. f. Porta. Desueto nel parlare quotidiano ma
210
intangibile nei toponimi: G. ’e
mori, G. ’e màndara, G. ’e solagi,
G. ’e susèi, G. Ìsili, G. lìmpia, etc.
Gennargiu, s. m. Gennaio.
Génneru/’énneru, s. m. Genero.
Genti, s. f. Gente, folla. Ddu iat
g. meda (c’era molta gente), sa g.
fait sa festa (la g. fa la festa), in
apparente contradd. con un prov.
diffusissimo: pagu g., bona festa
(poca gente, buona festa). Voce
popolare. Ddu narat sa g. (lo dice
la voce popolare). Razza, stirpe,
parentado, famiglia. Lüisu fut de g.
’ona (Luigi era di buona famiglia).
Gentigedda, s. f. Gente di poco
conto, parentado scadente.
Gentiglia/’entiglia, s. f. Lenticchia. Anche collettivo.
Gentimala, s. f. Gentaglia.
Genughera, s. f. Ginocchiera.
Genugu/’enugu, s. m. Ginocchio.
Gerda/’erda, s. f. Residuo carnoso del lardo di maiale già utilizzato per ottenerne lo strutto, con
cui si prepara una focaccia detta
pani ’i ’erda.
Germanitu/’ermanitu, s. m.
Cugino di terzo grado.
Germanu/’ermanu, s. m. Cugino di secondo grado.
Germendadi, s. f. Compagnia,
confraternita, cricca. Anche in
senso ir.
PAOLO PILLONCA
Gespargiu/’espargiu, s. m. Nido
di vespe, vespaio.
Gespi/’espi, s. m. Vespa.In
senso fig. è detto di persona insopportabile. Äici imparas a isciustigai
is (pron. ir) gespis (così impari a
infastidire le vespe).
Getu/’etu, s. m. Modo di fare,
maniera. A su ’e. paris ingiogassau
(dal tuo modo di fare sembri desideroso di giocare).
Gevi, agg. Tenero/a. Indeclinabile, conserva la stessa forma
anche al f.
Ghenga, s. f. Compagnia di
amici amanti del divertimento o
delle birichinate. Bella g. seis (siete
proprio una bella comitiva), in
senso antifrastico.
Gherra, s. f. Guerra, evento bellico, conflitto tra Stati. Lotta quotidiana. Seus sempir in g. cun su
tempus (siamo sempre in lotta
contro il tempo).
Gherradori, s. m. Combattente.
Funge anche da agg. per indicare
persona ostinata e difficile da sottomettere, che non si arrende ai
soprusi e alle ingiustizie.
Gherrai, v. Combattere. Nel linguaggio quotidiano, indica soprattutto la diuturna lotta per una vita
dignitosa. Anche nelle formule di
saluto, alla domanda iniziale di
rito (coment’istas?, come stai?) si
Mancarìas. La parlata di Seui
risponde frequentemente con il
gerundio di questo verbo: gherrendu.
Gherrau/ada, agg. Combattuto/a.
Gherrïeri, s. m. Guerriero, combattente, lottatore.
Ghetau, s. m. Grossa catena in
argento.
Ghia, s. f. Guida. Nel gergo dei
pastori, su mascu ’e g. è l’ariete
capobranco, quello che guida il
gregge al pascolo.
Ghïadori, s. m. Conduttore,
guida. Quasi sinonimo di ghïa.
Ghïai, v. Guidare, fare da battistrada. Anche in riferimento a una
guida spirituale.
Ghilisoni, s. m. Bacca di corbezzolo, corbezzola. Vedi lïoni.
Ghìndulu, s. m. Arcolaio.
Gergale delle tessitrici.
Ghisciu, s. m. Gesso. Vedi inghisciu e inghisciau.
Giai, avv. Sì, già. Se reiterato
(giai-giai) vale: quasi quasi, lì per lì.
Giana/jana, s. f. Fata, maga
(buona, in genere). Personaggio
favoloso dei racconti popolari per
bambini. La domus de janas (lett.
casa delle fate) in realtà è un tipo di
monumento sepolcrale preistorico.
Giancheta, s. f. Giacca.
Giarra, s. f. Ghiaia.
Giarretu, s. m. Zerro.
211
Giassu, s. m. Posto, sito, punto
di una località, varco difficoltoso.
Giganti, s. m. Gigante. Pres. nei
soprannomi.
Gióbïa, s. f. Giovedì. Si usa di
freq. nell’espr. giai funti duas
(pron. duar) gióbïas (ne è trascorso di tempo), quasi che il fluire
degli anni venisse misurato solo
sui giovedì, e nella variante no at
éssiri po custas (pron. custar) gióbïas (non sarà in tempi brevi).
Giogadorgiu, s. m. Luogo in cui
si gioca. Presente nel top. Su g. de
’r murvas (il terreno di gioco delle
mufle), nella foresta di Montarbu.
Giogadori, s. m. Giocatore.
Definizione generica che si applica a qualunque tipo di gioco: calcio, carte, morra, etc.
Giogai, v. Giocare. No est ora ’e
g. (non è ora di giocare). Capitare,
al di là delle intenzioni di chi ci si
ritrova: giai mi giogas in ungas (mi
capiterai a tiro). Al rifl. significa
anche: uccidere. Si ddu giogat su
mali chi portat (lo ucciderà la
malattia di cui soffre). Come segai,
anche questo v. riacquista quella
che forse era la sua forma più antica (giogari) dell’infinito pres. nell’espr. giogari a cartas.
Giogau/ada, agg. Giocato/a. Sa
partida dd’apu g. äici äici ma meritïaus de bìnciri (la partita l’ho gio-
212
cata così così, ma meritavamo di
vincere).
Gioghitai, v. Giocherellare.
Gioghitu, s. m. Giochetto, divertimento leggero.
Giogu, s. m. Gioco, divertimento. Indicazione generica. Per quelle specifiche occorre aggiungere i
particolari. Viva la loc. pigai a
giogu (prenderla alla leggera).
Giogulanu/a, s. e agg. Amante
del gioco, giocoso/a. Vedi ingiogassau.
Giorronada/giornada, s. f. Giornata lavorativa retribuita. Est andendu a g. (lavoro a giornate).
Giossu, avv. Giù. Andaus a g.
(andiamo giù). In fonetica sintattica, a seconda della vocale che lo
precede, perde la cons. iniziale e la
vocale successiva. Fui in Monti ’i
’ossu (ero sul monte della parte
bassa del territorio), andu bi’ ’iossu
(vado verso giù).
Gioventudi, s. f. Giovinezza,
gioventù.
Gióvunu, s. m. Giovane, ragazzo. Meno usato di piciocu. Freq. il
dim. giovuneddu.
Giponi, s. m. Giacchetta del
costume femminile tradizionale.
Di raso nero, decorato a fiori viola.
Girabbarchinu, s. m. Trapano.
Girai, v. Girare, vagare. Indica
anche il mutare improvviso e inat-
PAOLO PILLONCA
teso di un modo di pensare e/o di
un atteggiamento concreto. Fut de
acòrdïu cun mei e defatu at girau
totu in-d-una (era d’accordo con
me, poi ha cambiato idea all’improvviso).
Giramentu, s. m. Giramento,
giro. G. ’e conca è il capogiro.
Giramundu, s. m. Vagabondo.
Giranteri, s. m. Ambulante,
vagabondo. Desueto.
Girau/ada, agg. Girato/a, rivoltato/a, mutato/a in peggio.
Gironi, n. pr. di pers. Girolamo.
Questo n. non figura nell’anagrafe
comunale ma è registrato in un
toponimo (Santu Gironi), al confine con il territorio di Ussassai,
paese che in quella zona possiede
un santuario campestre dedicato a
questo illustre scrittore della tarda
latinità e padre della Chiesa.
Girou, s. m. Girò, vitigno locale.
Giru, s. m. Giro, escursione.
Giscu/aiscu, s. m. Fiscella, recipiente di legno, alluminio o plastica per il formaggio fresco che deve
ancora essere liberato dal siero.
Gisepu, n. pr. di pers. Giuseppe.
Molto usati i diminutivi Pepinu e
Pepineddu.
Giû, s. m. Coppia di buoi da aggiogare al carro. Prov.: pobidda e
giûs in logus tûs (moglie e buoi nei
luoghi tuoi).
Mancarìas. La parlata di Seui
Giua, s. f. Criniera.
Giüai, v. Giovare, aiutare, far
bene. S’armidda mi giuat po su
tussi (il timo serpillo mi giova contro la tosse), cuddu trabbaglieddu
ddi giuat (quel lavoretto lo aiuta).
Giüali, s. m. Giogo, l’attrezzo
ligneo che tiene insieme i buoi da
traino. Indica anche il solco dell’orto e/o della vigna.
Giüali, s. m. Filare della vigna.
Giüalis, s. m. Segno identificativo del bestiame da allevamento. Il
nome deriva dal fatto che si tratta
di un segno curvo come una mezzaluna su un orecchio dell’animale da marchiare: somiglia al giogo
dei buoi (giüali) nei punti in cui si
attacca alle corna degli animali da
traino.
Giüanni, n. pr. di persona. Giovanni.
Giüannicu, n. pr. di persona.
Variante di Giuanni. Il dim. è
Giüannicheddu.
Giubba, s. f. Giacca, giubba.
Giubbilai, v. Mandare in pensione.
Giubbilau/ada, agg. Pensionato/a.
Giudas, s. m. Giuda. Usato
come nome comune ad indicare i
traditori.
Giudeu, s. m. Giudeo. Usato
soprattutto al pl. Indica i perso-
213
naggi che nella sacra rappresentazione del Venerdì Santo (Su
Scravamentu, la deposizione del
Cristo dalla croce) interpretano il
ruolo dei giudei. Pres. nei soprannomi come compl. di spec. preceduto dal s. conca.
Giugi, s. m. Giudice.
Giumpadori, s. m. Saltatore.
Giumpai, v. Saltare, guadare.
Ninu giumpat s’errìu che nudda
(Nino guada il fiume come se
niente fosse). Frequentemente in
senso fig.
Giumpau/ada, agg. Saltato/a,
guadato/a.
Giunchigliu, s. m. Catenina utilizzata per unire i bordi di un
copricapo femminile o di un mantello del costume tradizionale.
Giuncu, s. m. Giunco.
Giungidura, s. f. Accoppiamento.
Giùngiri, v. Aggiogare, accoppiare. Comenti giungit su giû
Antoni est unu spantu a ddu biri
(come aggioga i buoi Antonio è
una meraviglia a vedersi).
Giunta/’unta, s. f. Manciata.
Giuntigedda/’untigedda, s. f.
Manciatina.
Giuntu/a, agg. Aggiogato/a,
accoppiato/a.
Giura, s. f. Giuramento, verifica
interna alla comunità che vuole
214
sincerarsi di un buon comportamento. Dd’at postu a g. (l’ha sottoposto a giuramento).
Giurai, v. Giurare. Il giuramento
poteva anche essere ritualizzato in
modo complesso tanto da costringere chi ci si sottoponeva a riflettere bene prima di giurare il falso. Le
narrazioni popolari sulla fine degli
spergiuri facevano il resto. Il rifiuto di sottoporsi alle formule più
complesse del giuramento non era
ritenuto, di per sé, ammissione
implicita di colpevolezza.
Giuramentu, s. m. Giuramento,
quello che si presta davanti al giudice dello Stato.
Giurau/ada, agg. Giurato/a.
Giustìssïa, s. f. Giustizia, tutto
l’apparato poliziesco e giudiziario
dello Stato, dai carabinieri alla
polizia, dalla guardia di finanza
alla magistratura (ma per i carabinieri esiste nella parlata di Seui
uno spazio autonomo, quasi confidenziale, che li colloca in una
posizione differenziata rispetto
agli altri, forse per quella annosa
condivisione di continuità quotidiana che gli uomini dell’Arma
hanno vissuto con la popolazione
in anni difficili). Vedi Arma. Ancora molto usate le imprecazioni
sa g. ti curgiat (la giustizia ti persegua), sa g. ti pregonit (la g. ti ban-
PAOLO PILLONCA
disca), sa g. t’isparit (la g. ti spari
addosso) e sa g. ti ’ociat (la g. ti
ammazzi).
Giustissïeri, s. m. Giustiziere,
persona prepotente e vendicativa.
Giustu, s. m. Giusto, misura di
giustizia. Tuttora vivissima nell’uso l’espr. su g. po totus (il giusto per
tutti).
Giustu/a, agg. Esatto/a, giusto/a.
Gobba, a. f. Gobba.
Gobbetu/a, agg. Gobbetto/a.
Nella lingua quotidiana l’agg. non
è utilizzato ma figura nei nomignoli al maschile.
Gobbigeddu/a, agg. Piuttosto
curvo/a.
Gobbosu/a, agg. Gibboso, a
forma di dosso. Detto di persone e
cose.
Gobbu/a, agg. Gobbo/a, curvo/a.
Gociu, s. m. Làude sacra. Usato
quasi escl. al pl. - gocius - per indicare i canti sacri in versi ottonari
per le celebrazioni di Dio, della
Madonna, dei Santi. Nell’archivio parrocchiale di Seui esiste una
serie di gocius sui Santi venerati
nel paese, anche quelli attualmente meno festeggiati.
Godangiai, v. Guadagnare.
Godangiu, s. m. Guadagno.
Godimentu, s. m. Godimento,
gioia.
Mancarìas. La parlata di Seui
Godiri, v. Godere. S’est amaläidau candu fut in su meglius de g. (si
è ammalato proprio quando era
nel tempo migliore per gustare le
gioie dell’esistenza). Al rifl. vale:
assaporare, godersi, etc. Non s’est
godìu ’e nudda (non ha goduto di
nulla). Nel gergo dell’eros significa raggiungere l’orgasmo.
Godìu/a, agg. Goduto/a.
Göici, avv. Così. Vedi äici.
Golopu, s. m. Vitigno locale.
Gomari, s. f. Comare.
Gomiri, v. Mangiare smodatamente, divorare. Ndi gomit de cosa,
cussu (ne mangia di roba, quello),
non si scit ania si nci ponit totu su
chi gomit (non so dove mette tutto
ciò che divora). Spagnolismo.
Gopari, s. m. Compare. Il comparatico a Seui si divide in due
specie: de froris (legame che si istituiva in occasione di alcune feste
di primavera, senza bambini da
battezzare o da cresimare) e de
Santu Giüanni (che comporta,
invece, un rapporto più serio e
meglio regolato, oltre che consacrato da uno dei due Sacramenti).
Gorteddu/’orteddu, s.m. Coltello da cucina.
Gorteddeddu, s. m. Coltellino.
Molto usato l’aforisma g. manighedda (a un piccolo coltello corrisponde un manico di dimensio-
215
ni ridotte). Fuori metafora, ogni
causa ha un effetto corrispondente o, se volete, Dio li fa e Dio li
accoppia.
Gosai, v. Godere, gioire, provare
piacere.
Gosau/ada, agg. Goduto/a.
Gosu, s. m. Gioia, piacere, allegria.
Gradonamentu, s. m. Costruzione dei gradoni, gradonatura.
Gradonai, v. Fare i gradoni, gradonare.
Gradonau/ada, agg. Munito/a
di gradoni.
Gradoni, s. m. Gradone. Gergale
del mondo agrario e forestale.
Gradu, s. m. Grado, prestigio.
Chi ddu fais puru, giai no nci perdis su g. (se anche lo facessi, non ci
perderesti il prestigio).
Gragaglia/’argaglia, s. f. Capra
giovane. Vedi ’argaglia.
Grai, agg. Pesante. Custu pacu
mi parit g. (questo pacco mi sembra pesante). Per est. duro, difficile da sopportare. Cussu disprageri
fut g. meda (quel dolore era molto
duro da sopportare). Vedi ingraïai.
Gräiteddu/a, agg. Pesantuccio/a.
Grandilada, s. f. Grandinata.
Grandilai, v. Grandinare. Come
gli altri verbi indicanti fenomeni
atmosferici vuole l’ausiliare avere.
At grandilau (è grandinato).
216
Gràndili/Gràndini, s. m. Grandine.
Grandu, agg. indecl. utilizzato
soltanto al sing. Notevole, grande.
Uguale sia per il m. sia per il f. At
fatu una g. niada (è sopraggiunta
una gran nevicata), at bessìu unu g.
fogu (è scoppiato un vasto incendio), est una g. fèmina (è una gran
donna).
Granitu, s. m. Granito.
Granu, s. m. Grano del rosario.
Grassu, s. m. Grasso. Rif.
soprattutto al grasso per mezzi
meccanici.
Grassu/a, agg. Grasso/a.
Grassura, s. f. Grassezza, pinguedine. Vedi ingrassai.
Gratzïa, s. f. Armonia di portamento, delicatezza, grazia.
Gratzïa, n. pr. di pers. Grazia.
Presente il dim. Gratzïedda.
Gratzïanu, n. pr. di pers.
Graziano.
Gratzïosu/a, agg. Delicato/a.
Gravellu, s. m. Garofano. Pres.
nei soprannomi.
Grifoni, s. m. Rubinetto. Del
lavandino e della botte.
Grilloni, s. m. Pastoia in ferro.
Vedi trava.
Grillu, s. m. Grillo. Presente nei
soprannomi.
Grimimentu, s. m. Faticaccia,
lavoro continuato.
PAOLO PILLONCA
Grìmiri, v. Lavorare sodo e il
più delle volte senza pause. Seu a
totu dì grimendu (oggi ho lavorato
sodo per tutto il giorno).
Grìmïu/a, agg. Faticato/a.
Grivillosu/a, agg. Schizzinoso/a.
Groddi, s. m. Uno dei nomi della
volpe. Gergale del mondo pastorale e venatorio. Vedi margiani.
Grofali, s. m. Ganghero, arpione in ferro che sostiene e rende
girevoli porte, finestre, etc.
Grogassu/a, agg. Giallastro/a.
Grogu/a, agg. Giallo/ a. La similitudine più comune nel linguaggio
della quotidianità è g. che cera (giallo come la cera). Vedi ingroghiri.
Grollitzu, s. m. Volpe. Gergale
dei pastori.
Gropa, s. f. Groppa. Ma al sing.
non viene mai usato, si usa soltanto al pl. nella loc. a gropas (in
groppa).
Gropera, s. f. Groppa.
Gròrïa, s. f. Gloria, in senso religioso. A ddu connòsciri in sa Santa
G. (speriamo di riconoscerlo in
Paradiso), formula rituale di condoglianze.
Grorïàisi, v. Gloriarsi.
Grorïosu/a, agg. Glorioso/a.
Detto dei Santi e dei Beati riconosciuti dalla Chiesa.
Grugi/’rugi, s. f. Croce, sofferenza, impegno perpetuo. Anche
Mancarìas. La parlata di Seui
in senso fig.: a dda portas a g. (ti
sei assunto proprio un bell’impegno).
Grussàrïa, s. f. Grossezza.
Grussu/a, agg. Grosso/a. Presente nei soprannomi.
Gruta/’ruta, s. f. Grotta, cavità.
Güanti, s. m. Guanto. Gisepu
’olit a ddu tratai in g. ( Giuseppe
vuole essere trattato con i guanti).
Güardabboscu, s. m. Agente
della Forestale, guardiaboschi.
Güardïa, s. f. Agente, custode,
guardia. Quando è usato senza
specificazioni ulteriori vale: guardia municipale. Nelle invocazioni
religiose si usa in rif. all’angelo
custode (s’àngilu ’e sa güardïa).
Güastai, v. Rovinare, guastare.
Vedi irgüastai.
Güefu, s. m. Dolce di mandorle.
Güetu, s. m. Razzo usato di solito nelle feste per annunciare
l’inizio di un rito o di uno spettacolo.
Güida, s. f. Guida, di auto e
camion.
Güidai, v. Guidare. Solo riferito
alla guida di auto e camion. Per
tutte le altre guide il v. utilizzato è
ghïai. Vedi anche ghia.
Gunnedda/’unnedda, s. f. Gonna. Anche quella del costume tradizionale, di raso nero a fiori viola.
In senso ir. donna.. Vedi agunned-
217
dadura e agunneddai.
Gurulai/’urulai, v. Urlare.
Gùrulu, s. m. Urlo. Viva la loc.
a gùrulus.
Guta, s. f. Colpo apoplettico.
Gutoni/’utoni, s. m. Bottone.
Quello dei cappotti, pantaloni,
giacche, etc. Quello delle camicie,
invece, si chiama animeta. Vedi
agutonai.
Gusarïosu/a, agg. Saggio/a, sapiente.
Gusàrïu, s. m. Saggezza.
Gustu, s. m. Gusto, piacere.
Guturada/’uturada, s. f. Collare
per i campanacci del bestiame. Vedi
gùturu.
Guturinu/’uturinu, s. m. Strettoia, viottolo. Lett. piccola gola
Gùturu/’ùturu, s. m. Gola. Custu frius m’at pigau a g. (questo
freddo mi ha preso alla gola).
Guvernadori, s. m. Governatore.
Guvernai, v. Governare, comandare.
Guvernu, s. m. Governo.
218
PAOLO PILLONCA
I
’Iagi/bïagi, s. m. Tragitto, peso,
percorso, carico. Vedi bïagi.
Idas (mesi ’e), s. m. Dicembre.
Vedi mesi.
Idea/bidea, s. f. Ideale, scopo, idea, intenzione. Preced. da cons.,
sopr. nel parlare veloce, il s. assume
un b eufonica. Tenit bideas (pron.
bidear) legias (ha cattive intenzioni),
tengiu s’i. de mi nd’andai (ho intenzione di andar via), ddu tenit in b.
(ce l’ha in mente), non podis pretèndiri chi totus tengiant is (pron. ir)
bideas tuas (non puoi pretendere
che tutti abbiano le tue stesse idee).
Idëàtigu/a, agg. Strampalato/a,
strano/a.
’Ìddigu/bìddigu, a. m. Ombelico. Vedi bìddigu.
Ïerrada, s. f. Stagione invernale,
invernata.
Ïerradorgiu, s. m. Luogo in cui
si sverna, pascolo invernale.
Ïerrai, v. Svernare. In su Sessantases iàus ïerrau in Santu ’Idu (nel
Sessantasei avevamo svernato a San
Vito), ocannu ïerraus in Lacarda
(quest’anno sverneremo a Lacarda).
Vedi tràmuda.
Ïerrau/ada, agg. Svernato/a.
Ïerru, s. m. Inverno. È la stagione più dura dell’anno per i fenomeni atmosferici che la caratterizzano, specie la neve e il gelo,
soprattutto quest’ultimo che brucia
i pascoli e impedisce la successiva
crescita dell’erba. Un’i. legiu impóberat su pastori (un brutto inverno
impoverisce il pastore): era vero ieri
ed è vero anche oggi, per fortuna in
misura minore. Fin dagli inizi del
secolo scorso, i pastori di Seui effettuavano - secondo le annate - la
transumanza verso il Sarrabus, la
Trexenta, la Marmilla e il
Campidano di Cagliari. Dagli anni
Ottanta in poi gli ovili della montagna sono stati migliorati e/o
costruiti con qualche concessione
in più alla comodità dei recinti del
bestiame e della dimora degli allevatori. Il s. è anche presente fra i
soprannomi, accompagnato da un
art. det. (S’ïerru).
Igliari, s. m. Pancetta. La parte
della bestia macellata - capra
soprattutto, ma anche pecora, più
raramente vitello - che le donne di
Mancarìas. La parlata di Seui
Seui amano farcire in svariati
modi, con l’utilizzo di erbe aromatiche. Cras ap’a fàiri un’igliari
prenu (domani cucinerò una pancetta farcita).
Ignàtzïu, n. pr. di pers. Ignazio.
Ilàrïu, n. pr. di pers. Ilario.
Ìligi, s. f. Leccio (quercus ilex),
sicuramente l’albero di alto fusto
più presente nel territorio di Seui.
Pianta regina, in tutti i sensi, per gli
incommensurabili doni di cui è
stata per secoli e continua ad essere
portatrice: per la legna da ardere
che ha fornito e fornisce alla popolazione, per le centinaia di tonnellate di ghiande che produce tutti gli
autunni, per l’impagabile ristoro
dell’ombra che regala nelle giornate
calde, per la bellezza che aggiunge a
luoghi già di per sé fascinosi. Nella
parlata seuese, il bosco per eccellenza è la foresta di lecci: su padenti per
antonomasia, senza specificazione
alcuna, è proprio la lecceta. Il salto
comunale e demaniale di Seui
squaderna lecci di tutte le dimensioni, dal novellame che ogni anno
spunta dovunque al celebratissimo
leccio colossale di Canali, considerato un vero e proprio monumento
vegetale (per la storia di questa
pianta plurisecolare vedi alla voce
Canali), per non dire di altri alberi
che svettano solenni, in tutti i punti
219
cardinali del territorio seuese. Il leccio è una delle anime più profonde
della comunità paesana, il paese e
l’albero costuiscono due entità
inseparabili: s’ìligi è uno dei simboli primari della resistenza del villaggio e della sua lunga storia dolceamara. Quando è piccolo, il leccio si
chiama iligedda. Presente nei toponimi per un sito tra Sa Funtana ’e
su cròculu e Sa ’Uca ’e su ’oi, detto
Ìligis longas.
Ìligi süergia, s. f. Leccio-sughera. Si tratta di un ibrido, presente
nel territorio di Seui in pochi
esemplari: la pianta ha le fronde
del leccio e il tronco da quercia da
sughero.
Illacanai, v. Togliere i confini,
rendere sconfinato un territorio,
un pensiero, un sogno. Vedi làcana e lacanai.
Illacanau/ada, agg. Sconfinato/a, senza confine. Vedi làcana e
lacanai.
Illadaradura, s. f. Divisione in
due di un animale, lungo la colonna vertebrale.
Illadarai, v. Dividere in due, in
lungo, un animale macellato.
Illàdara cussu crabitu (dividi in
due quel capretto). Vedi ladus.
Illadarau/ada, v. Diviso/a in due.
Illargai, v. Allargare.
Illargau/ada, agg. Allargato/a.
220
Illargu(a), avv. Lontano. Nella
loc. a i. per indicare una lontananza generica. Cussu logu est a i.
meda de innoi (quel posto è molto
lontano da qui).
Illascadura, s. f. Afflosciamento.
Illascai(si), v. Afflosciare, afflosciarsi. Vedi lascu.
Illascau/ada, agg. Afflosciato/a.
Illebïai, v. Alleggerire, alleviare,
lenire, rendere più sopportabile
un peso o un dolore, non solo in
senso fisico. Cussa mëigina
m’illébïat is puntas a brenti (quel
farmaco mi allevia i dolori addominali). Anche in senso fig.
S’agiudu ’e is amigus m’illebïàt is
pensamentus (l’aiuto degli amici
mi alleggeriva le preoccupazioni).
Illebïau/ada, agg. Alleviato/a.
Illébïu, s. m. Alleggerimento,
lenimento, diminuzione di intensità soprattutto in rif. a situazioni
di sofferenza fisica.
Illegiai, v. Imbruttire. S’arba
longa t’illegiat (la barba lunga ti
imbruttisce)
Illegiau/illegiada, agg. Imbruttito/a. Maria s’est illegiada (Maria
si è imbruttita).
Illimbai, v. Tagliare la lingua,
impedire la parola a q.no.
Illimbau/ada, agg. Linguacciuto/a. Che non tiene a freno la lingua. Lett. senza lingua, nel senso
PAOLO PILLONCA
che non è capace di governarla.
Fémina i. prus (pr. prur) de tui no
ndi connosciu (non conosco una
donna più linguacciuta di te).
Illimpïai, v. Pulire, rendere limpido. Ancora viva la metafora erotica i. sa vista, nel senso di compiere un atto sessuale ben riuscito
e tale da rendere, in un certo
senso, più limpido lo sguardo del
protagonista. Il contr. è imbrutai.
Illimpïau/ada, agg. Ripulito/a.
Illiscinai/irliscinai, v. Scivolare.
Vedi irliscinai e derivati.
Illugerrai, v. Abbagliare. In rif.
all’effetto dei raggi del sole, di una
fiamma o delle luci di
un’automobile. Non mi pragit a
güidai in is oras de scuriu ca a bortas
sa lugi de is farus m’illugerrat (non
mi piace guidare nelle ore di buio
perché talvolta la luce dei fari mi
abbaglia).
Illugerrau/ada, agg. Abbagliato/a.
Illüinai, v. Far provare vertigini,
far venire i capogiri. Su fàmini illùinat (la fame fa venire il capogiro).
Illüinau/ada, agg. In preda a
capogiri.
Illùinu, s. m. Capogiro, vertigine. Soi a illùinus (ho dei capogiri).
Illùdiri, v. Illudere.
Illùdïu/a, agg. Illuso/a.
Illusïoni, s. f. Illusione, fantasti-
Mancarìas. La parlata di Seui
cheria.
Imaginai, v. Immaginare, pensare. Imaginadì una niada manna
che-i sa ’e ocannu passau (prova a
pensare a una grande nevicata
come quella dell’anno scorso).
Imaginau/ada, agg. Immaginato/a, pensato/a, creduto/a.
Imaginatzïoni, s. f. Immaginazione, fantasia.
Imaginedda, s. f. Immagine sacra, santino. Per una sorta di
estensione dissacrante, oggi si
chiamano imagineddas anche i
foglietti volanti delle campagne
elettorali.
Imàgini, s. f. Immagine, fotografia.
Imbarài(si), v. Appoggiarsi.
S’imbarat a su muru totu sa dì, si
bit ca sa gana de trabbagliai est
pagu (rimane appoggiato al muro
per tutto il giorno, si vede che la
voglia di lavorare è poca). Oziare.
Imbarau/ada, agg. Appoggiato/a. Per est. ozioso/a.
Imbarcai(si), v. Imbarcare, imbarcarsi. Nel rifl. ha anche un
significato gergale: si riferisce ai
giochi di carte in cui ciascun giocatore può far entrare nel proprio
mazzo un certo numero di pezzi
che si trovano in quel momento sul
tavolo, scartati in altre giocate.
Imoi m’imbarcu eu, cun custa arëi-
221
gedda ’e cartas (adesso m’imbarco io
con questo piccolo gregge di carte).
Imbaschiri(si), v. Accaldare,
sentir caldo. Mi parit ca oi imbaschit prus di eriseru (ho
l’impressione che oggi farà più
caldo di ieri). Vedi basca.
Imbaschìu/a, agg. Accaldato/a.
Mi paris i. (mi sembri accaldato).
Anche in senso fig.
Imbastardimentu, s. m. Corruzione, imbastardimento, involuzione.
Imbastardiri(si), v. Imbastardire, corrompere. Ant imbastardìu
s’arratza de is sirbonis sardus
(hanno imbastardito la razza dei
cinghiali sardi). Imbastardirsi. Su
modu de erriciri su strangiu s’est
imbastardìu (lo stile di accogliere
un ospite si è imbastardito).
Imbastardìu/a, agg. Imbastardito, corrotto, involuto.
Imbatiladura, s. f. Sistemazione
del sottosella sul cavallo.
Imbatilai, v. Mettere il sottosella
al cavallo. Vedi bàtili.
Imbatilau/ada, agg. Fornito di
sottosella. Di norma riferito agli
equini, lo si utilizza talvolta anche
per l’uomo, in senso ir. Ses totu
beni i. (sei tutto ben guarnito).
Imbàtiri, v. Arrivare, finire in un
luogo più lontano del previsto.
Cichendu crabas de cómpuru nos est
222
capitau de nc’i. atesu meda (cercando capre da compare ci è capitato
di finire molto lontano).
Imbàtïu/a, agg. Finito/a in un
luogo più lontano del previsto.
Imbäulladura, s. f. Sistemazione
del cadavere nella bara.
Imbäullai, v. Mettere nella bara.
Imbäullamentu, s. m. Sistemazione del cadavere nella bara. Sin.
imbäulladura.
Imbäullau/ada, agg. Messo/a
nella bara.
Imbeciai, v. Invecchiare. A i. est
una bonasorti (invecchiare è una
fortuna).
Imbeciamentu, s. m. Invecchiamento.
Imbeciau/ada, agg. Invecchiato/a.
Imbelletadura, s. f. Imbellettamento.
Imbelletai, v. Imbellettare.
Imbelletau/ada, agg. Imbellettato/a.
Imbellimentu, s. m. Miglioramento dell’aspetto esteriore.
Imbelliri, v. Farsi più bello,
migliorare il proprio aspetto esteriore. Lo si riferisce solo a persone,
mai a cose. Apu ’idu a Maria e
m’est partu ca s’est imbellìa (ho
visto Maria, e mi è sembrata più
bella). Vedi abbelliri, rif. a cose.
Imbellìu/a, agg. Migliorato/a
PAOLO PILLONCA
sotto il profilo della bellezza.
Imbertuladura, s. f. Sistemazione del contenuto di una bisaccia.
Imbertulai, v. Mettere nella
bisaccia. Vedi bértula.
Imbertulau/ada, agg. Messo/a
nella bisaccia.
Imbessi (a sa), avv. Al contrario,
alla rovescia. Nella loc. a sa ’mbessi.
Imbestimentu, s. m. Miscuglio,
confusione.
Imbestiri, v. Mischiare. Apu imbestiu su ’inu ’e Asortu cun su ’e Fundu
’e corongiu (ho mischiato il vino di
A. a quello di F.) Spesso in senso
ironico-dispregiativo. Est unu chi
imbestit (è uno che mischia tutto).
Imbestìu/a, agg. Mischiato/a.
Imbestussu, s. m. Miscuglio
caotico e mal eseguito. Bellu i. as
cuncordau (bel miscuglio hai preparato).
Imbïau/ada, agg. Beato/a. Usato
come esclamazione, ellittica del
soggetto e non. I, i. cuddu piciocu,
i. ’e tui (beato, beato quel ragazzo,
beato te).
Imbidai, v. Fornire il necessario
- in denaro o altro - per
un’emergenza o un periodo
medio-lungo, anche forzando il
ricevente ad accettare l’aiuto. Giai
dd’as imbidada (le hai fornito un
bell’aiuto).
Imbidau/ada, agg. Aiutato/a,
Mancarìas. La parlata di Seui
rimesso/a in sesto.
Imbiddigai(si), v. Diventare
panciuto (con venatura ironica).
Alla lettera: farsi un grande ombelico. Vedi bìddigu (ombelico).
Imbiddigamentu, s. m. Obesità,
aumento della circonferenza dello
stomaco.
Imbiddigau/ada, agg. Panciuto/a.
Imbìdïa, s. f. Invidia, gelosia.
Imbidïai, v. Invidiare.
Imbidïau/ada, agg. Invidiato/a.
Imbidïosu/a, agg. Invidioso/a.
Imbirdigai(si), v. Colorare di
verde. Su logu est cumentzendusì a i.
(la campagna inizia a colorarsi di
verde). Nel rifl. definisce anche il
mutamento di colore del viso di un
malato. S’est imbirdigau (è diventato verde).
Imbirdigamentu, s. m. Colorazione verde, più patologica che
naturale.
Imbirdigau/ada, agg. Rinverdito/a, colorato/a di verde.
Imbissai, v. Avvezzare, abituare,
viziare. Chi s’imbissat a su casu
agedu dd’as a ténniri ónnïa dì in
mesu is peis (se si avvezza al formaggio acido lo avrai ogni giorno
tra i piedi). Prov. Cani imbissau a
craba ndi tenit finas a sa morti (il
cane avvezzo alla carne di capra ne
avrà fino alla morte).
223
Imbissau/ada, agg. Viziato/a,
avvezzo/a.
Imbissu, s. m. Vizio, cattiva abitudine.
Imboddïai, v. Coprire, avvolgere. Chi niat m’apu a i. (se nevica
mi coprirò). In senso fig. vale:
coprire, nascondere. Ant imboddïau totu po sarvai chelegunu cani
mannu (hanno coperto tutto per
salvare qualche personaggio importante).
Imboddïàmini, s. m. Copertura, coperta. S’est crocau in foras
chene i. perunu (ha dormito fuori
casa senza alcuna coperta).
Imboddïau/ada, agg. Ben
coperto/a, nascosto/a.
Imbóddïu, s. m. Fagotto, copertura.
Imbonadura, s. f. Miglioramento d’aspetto, recupero di floridezza.
Imbonài(si), v. Riacquistare e
far riacquistare peso e floridezza.
Su papai ’eni dd’at imbonau (il
mangiar bene lo ha fatto ridiventare florido), Linu fut istasìu ma
giai est imbonendusì (Lino era
deperito ma si sta rimettendo in
peso). In senso fig. vale: arricchirsi, migliorare la propria posizione.
Imbonau/ada, agg. Rimesso/a
in carne.
Imboscai (si), v. Nascondere, to-
224
gliere dalla vista di q.no. Anche al
rifl. Imboschendu is fosilis si fut faddiu (nascondendo i fucili si era
sbagliato).
Imboscamentu, s. m. Isolamento, presa di distanza.
Imboscau/ada, agg. Nascosto/a,
imboscato/a.
Imbovadura, s. f. Inganno, presa
in giro, raggiro, tranello.
Imbovai, v. Ingannare. Vedi
abbovai e bovu/a.
Imbovamentu, s. m. Presa in
giro, inganno, raggiro, tranello.
Imbovau/ada, agg. Ingannato/a.
Vedi abbovau/ada.
Imbrachinadori, s. m. Imbianchino.
Imbrachinadura, s. f. Imbiancatura.
Imbrachinai, v. Intonacare. Desueto. Vedi scovitai.
Imbrachinau/ada, agg. Intonacato/a.
Imbrassada, s. f. Bracciata, quantità di materiale che si può tenere
fra le braccia. Un’i. ’e linna (una
bracciata di legna).
Imbrassai, v. Abbracciare. Comenti dd’at bidu dd’at imbrassau
(appena l’ha visto l’ha abbracciato).
Imbrassau/ada, agg. Abbracciato/a.
Imbrassu, s. m. Abbraccio.
PAOLO PILLONCA
Imbrechiladura, s. f. Incastro
fortuito fra pietre di dirupi, incidente di cui rimangono vittime gli
animali selvatici, mufle e mufloni
in primo luogo.
Imbrechilai(si), v. Incastrare tra
le pietre nei dirupi. Sopratt. al rifl.
Nd’apu ’idu ’e murvas chi
s’imbréchilant in is spérrumas (ne
ho visto di mufle incastrate nei
dirupi).
Imbrechilau/ada, agg. Incastrato/a, bloccato/a in una pietraia.
Imbregungimentu, s. m. Sensazione di vergogna.
Imbregungiri(si), v. Vergognare.
Mi fait i. (mi fa vergognare). Nella
forma rifl. vale: vergognarsi, provare
vergogna. Dd’at fatu e no si
nd’imbregungit (l’ha fatto e non se
ne vergogna). Nella lingua di tutti i
giorni, tuttavia, si ricorre a una perifrasi: ma non ti ndi parit bregungia?
(ma non ti vergogni?).Vedi bregungia.
Imbregungìu/a, agg. Intimidito/a. Vedi bregungiosu.
Imbrentonadura, s. f. Scorpacciata.
Imbrentonai(si), v. Riempire la
pancia. Anche nel rifl. S’est
imbrentonau (si è riempito la pancia). Vedi brenti e brentoni.
Imbrentonau/ada, agg. Satollo/a.
Imbrïagai, v. Ubriacare. Ddu
Mancarìas. La parlata di Seui
cumbidat a bufai e a tassa-tassa ddu
’mbrïagat (lo invita a bere e, un
bicchiere dopo l’altro, lo ubriaca).
Anche nella forma rifl. Cuddu
s’imbrïagat meda (quel tizio si
ubriaca spesso). Anche in senso
fig. Dd’at imbrïagau a füeddus (l’ha
ubriacato di parole).
Imbrïaghera, s. f. Ubriacatura,
sbornia, sbronza.
Imbrïagoni/a, s. e agg. Ubriacone, alcolista.
Imbrïagu/a, s. e agg. Ubriaco/a.
Imbrunconada, s. f. Inciampo.
Imbrunconai, v. Inciampare.
Anche in senso fig.
Imbrunconau/ada, agg. Inciampato/a.
Imbrùncunu, s. m. Inciampo.
In senso met. errore, infortunio.
Imbrutadura, s. f. Produzione di
sporcizia.
Imbrutai, v. Sporcare. Sa scala
dd’ia sciacüada custu mengianu ma
mi ddu ant imbrutau inderetura
(avevo lavato la scala stamattina ma
me l’hanno sporcata subito dopo).
Prov.: pipìus e puddas imbrutant su
logu (i bambini e le galline sporcano dovunque). In senso fig. abbassarsi a qualcosa di disdicevole. No
m’imbrutu cun tui (non mi sporco
con te). Vedi brutu.
Imbrutau/ada, agg. Sporcato/a.
Imbucada, s. f. Entrata, ingresso.
225
Imbucadorgiu, s. m. Entrata.
No ddu at i. perunu (non c’è alcuna entrata).
Imbucadura, s. f. Morso della
briglia. Vedi buca/’uca. Vale anche:
entrata, ingresso, quasi sin. di
imbucada e imbucadorgiu.
Imbucai, v. Entrare in un luogo,
chiuso o aperto. Nc’imbucat in dónnïa logu (riesce ad entrare dovunque), nc’est imbucau in crèsïa, nc’est
imbucau in padenti (è entrato in
chiesa, è entrato nel bosco).
Imbucau/ada, agg. Entrato/a.
Imbudu, s. m. Misura di capacità corrispondente a due litri e
mezzo, un sedicesimo dello starello. Vedi mou.
Imburdugada, s. f. Azione grossolana.
Imburdugai, v. Far maldestramente le cose, come se intervenisse nell’azione un q.sa di spurio
(burdu, lett. figlio illegittimo).
Imbastardire.
Imburdugheri/a, s. e agg. Persona maldestra, incapace di fare le
cose a regola d’arte. Il s. può essere usato anche come agg. e dunque esteso al genere femminile.
Imburdugu, s. m. Azione maldestra e grossolana. Il s. è usato spesso
nella loc. avv. a i. (grossolanamente). Proprio in loc. conclusiva figura in una poesia di Benigno De-
226
plano, pubblicata nel 1979 dal
giornale del liceo scientifico Funtanïossu e dedicata alla centenaria di
allora, tzia Manüela de Papasucu.
Imbuscinadura, s. f. Gioco infantile che consiste nel voltolarsi
per terra.
Imbuscinàisi, v. Voltolarsi per
terra e nella polvere. Su molenti
s’est imbuscinau in su prùini,
(l’asino si è voltolato nella polvere).
Imbuscinau/ada, agg. Voltolato/a, sdraiato/a ripetutamente per
terra. Oltre che degli animali, si
dice anche dei bambini.
Imbussadura, s. f. Protezione
mediante coperture adeguate a proteggere dal freddo o semplicemente
dall’aria e dalla polvere. Imbussaddu
cussu pani (avvolgi quel pane).
Imbussai(si), v. Coprire/coprirsi,
proteggersi con tessuti adatti per
non prendere freddo. Imbussadì
(còpriti).
Imbussau/ada, agg. Coperto/a,
protetto/a.
Imbustu, s. m. Busto.
Imbutidura, s. f. Scorpacciata,
pasto abbondante.
Imbutiri, v. Imbottire, in questo
senso il v. è poco usato. Più frequente l’uso nell’accezione: nutrire copiosamente, dar da mangiare
in modo eccessivo. Non timas ca sa
PAOLO PILLONCA
nonna giai dd’at a i. (stai tranquillo, la nonna lo farà mangiar bene).
Imbutìu/a, agg. Imbottito/a,
ipernutrito/a.
Imoi, avv. Ora, adesso. Reiterato
vale: poco fa. Si nd’est andau i. i.
(è appena andato via).
Impachetadura, s. f. Impacchettamento.
Impachetai, v. Impacchettare.
Impachetau/ada, agg. Impacchettato/a.
Impacu, s. m. Impacco, cataplasma.
Impaghimentu, s. m. Diminuzione, calo.
Impaghiri, v. Diminuire, scarseggiare. Su lati est impaghendu dì
po dì (di giorno in giorno il latte
diminuisce).Vedi pagu (poco).
Impaghìu/a, agg. Diminuito/a.
Impanadura, s. f. Avvolgimento
nell’uovo sbattuto e di seguito nel
pane grattugiato di una fetta di
carne, melanzana, zucchina, etc.
Impanai, v. Avvolgere un alimento nell’uovo sbattuto e nel pane
grattugiato per una cottura diversa
dal solito. Ma il v. indica anche
l’azione di mettere del pane nel
latte per la colazione mattutina o
nel brodo di carne o in altri liquidi.
Impanau/ada, agg. Avvolto/a
nelll’uovo sbattuto e nel pane
grattugiato. L’agg. si può riferire
Mancarìas. La parlata di Seui
anche al latte e al brodo in cui si
sia messo del pane.
Imparadori, s. m. Maestro, insegnante, ma anche alunno, discepolo.
Imparai, v. Apprendere. Dd’at
imparau in iscola (l’ha appreso a
scuola). Ma nella lingua sarda questo v. ha anche il significato opposto: insegnare. Totu custu füeddus
mi ddus ’mparat tzia Arrafïela
(tutte queste parole me le insegna
la zia Raffaella).
Imparau/ada, agg. Appreso/a.
Imparisadura, s. f. Appianamento, in senso reale e fig.
Imparisai, v. Appianare, rendere
pianeggiante. Nel traslato: eliminare le differenze, anche di opinioni: Marïeddu imparisat totu
(Mario appiana tutto).
Imparisau/ada, agg. Appianato/a.
Imparu, s. m. Apprendimento,
insegnamento.
Impastai, v. Impastare.
Impastau/ada, agg. Impastato/a.
Impastu, s. m. Impasto.
Imperdau, s. m. Selciato. Vedi
perda.
Imperradura, s. f. L’atto di
imperrai. Viva la loc. a i. (a mo’ di
posa del cavalcare).
Imperrai, v. Accavalciare, mettersi a cavalcioni, montare una
cavalcatura. Imperrat su cüaddu
227
(monta a cavallo). Si dice anche
del sole e della luna quando sono
sul punto di sparire alla vista di chi
li osserva dietro una vetta montana. Vedi perra.
Imperrau/ada, agg. Salito/a,
messo/a cavalcioni.
Impestadura, s. f. Contagio diffuso, epidemia. La loc. a i. vale: in
forma epidemica.
Impestai, v. Contagiare, appestare, infettare.
Impestau/ada, agg. Infetto, contagiato/a. In rif. soprattutto ad
infezioni veneree.
Impibirai, v. Condire con il pepe,
spargere il pepe. In rif. so-prattutto
ad una fase della confezione domestica dei prosciutti. Vedi pìbiri.
Impibiramentu, s. f. Condimento con il pepe.
Impibirau/ada, agg. Condito/a
con il pepe.
Impicai, v. Impiccare.
Impicau/ada, agg. Impiccato/a.
Impicu, s. m. Impiccagione.
Forca.
Impigiadura, s. f. Impeciatura.
Gergale dei calzolai. Vedi pigi.
Impigiai, v. Impeciare, mettere
la pece.
Impigiau/ada, Impeciato/a, cosparso/a di pece.
Impigliadura, s. f. Copertura
completa, fino alla sommersione.
228
Impigliai, v. Coprire completamente, sommergere. Vedi pigliu.
Impigliau/ada, agg. Sommerso/a.
Impinniri, v. Mettere le piume.
Detto degli uccelli. Unu storitu
mancu i.’eni (un falchetto neppure
ben impiumato). In rif. alle persone, il v. indica il formarsi della
pelurie puberale. Vedi pinnìa.
Impinnìu/a, agg. Piumato/a. In
senso lato equivale a: danaroso,
benestante.
Impipïai, v. Ritornare bambino.
Giüanni parit impipïendusì (è
come se Giovanni stia ritornando
bambino). Vedi pipìu.
Impipïau/ada, agg. Tornato/a
bambino/a.
Impiticadura, s. f. Rimpicciolimento, ridimensionamento.
Impiticai, v. Rimpicciolire. Anche nel rifl. Mi paris impitichendudì (mi sembra che tu ti stia rimpicciolendo).
Impiticau/ada, agg. Rimpicciolito/a.
Imposta, s. f. Messaggio, ambasciata. Dd’apu lassau una i. (gli ho
lasciato un messaggio).
Impostai, v. Imbucare, inviare
per posta.
Impostau/ada, v. Imbucato/a,
spedito/a, inviato/a per posta.
Imprëissai(si), v. Impigrire.
Impigrirsi, diventare pigri. Vedi
PAOLO PILLONCA
amandronai e prëìssa.
Imprëissau/ada, agg. Impigrito/a. Vedi amandronau/ada.
Imprenimentu, s. m. Diffusioni
di voci false e calunniose.
Imprèniri, v. Convincere qualcuno a schierarsi contro una terza
persona con falsità e calunnie.
Imprenu/a, agg. Convinto/a da
un calunniatore, istigato/a contro
qualcuno.
Impresonadura, s. f. Arresto,
messa in galera.
Impresonai, v. Arrestare, imprigionare, incarcerare. Vedi presoni.
Impresonau/ada, agg. Imprigionato/a.
Impressimentu, s. m. Velocizzazione.
Impressiri, v. Mettere fretta.
Non ti lessis i. (non ti far mettere
fretta). Anche nel rifl. A s’i. non
cumbenit (non conviene mettersi
fretta). Vedi pressi.
Impressìu/a, agg. Affrettato/a,
frettoloso/a, in preda alla fretta,
frenetico/a. Antoni mi parit mesu i.
(Antonio mi sembra piuttosto frenetico).
Imprestai, v. Prestare, dare in
prestito. Is (dîs) imprestadas sono gli
ultimi due giorni di gennaio, ritenuti comunemente i più freddi dell’anno: secondo un racconto popolare, il mese di febbraio avrebbe
Mancarìas. La parlata di Seui
dato due giorni a gennaio raccomandandogli però di tenersi nella
media delle temperature precedenti: ti ndi ’ongiu duas ma fai ’e is tuas
(te ne darò due ma fai delle tue).
Imprestau/ada, agg. Dato/a in
prestito.
Impréstidu, s. m. Prestito.
Imprïastai, v. Impiastrare. Provat
a i. in cheleguna arti ma no ndi
giuat a nudda (prova a cimentarsi
in qualche mestiere ma non serve a
niente).
Imprïastau/ada, agg. Impiastrato/a, malfatto/a.
Imprïasteri, s. m. Impiastrone.
Imprïastu, s. m. Impiastro. Rif.
all’uomo vale: persona di scarso
valore. Lo si usa anche nel senso di
cataplasma.
Impringiadura, s. f. Gravidanza.
Impringiai, v. Ingravidare, rimanere gravida. Detto del bestiame
ma anche delle donne. No arrennescit a i. sa pobidda (non riesce a
ingravidare la moglie).
Imprïoddai, v. Sporcare malamente e in modo diffuso. In senso
fig: agire senza competenza.
Imprïoddat de totu ma non tenit
manu ’ona (cerca di fare un po’ di
tutto ma non ha una buona
mano).
Imprïoddau/ada, agg. Insozzato/a.
229
Imprïodderi, s. e agg. Pasticcione, incapace.
Imprïoddu, s. m. Azione male
eseguita.
Impromìntiri, v. Promettere,
assicurare. Chi non mantiene le
promesse viene bollato con
l’epiteto di improminti e non dona
(prometti e non mantenere).
Impromintu/a, agg. Promesso/a.
Impromintza, s. f. Promessa,
voto. Apu fatu una i. (ho fatto un
voto).
Improsai, v. Illudere, adulare,
raggirare. A mei no m’improsas
(non mi freghi).
Improsau/ada, agg. Illuso/a,
raggirato/a.
Improseri, Imbonitore, adulatore. Chi cerca di guadagnarsi la
fiducia altrui con belle parole e
complimenti eccessivi.
Imprüinadura, s. f. Impolveramento.
Imprüinai, v. Impolverare, ammantare di polvere. Vedi prùini.
Imprüinau/ada, agg. Impolverato/a, polveroso/a.
Imprupìri(si), v. Rimpolpare,
rimettersi in carne, riacquistare
floridezza. Cudda mardi est imprupendusì (quella scrofa sta ridiventando florida).
Imprupìu/a, agg. Rimesso/a in
carne, rimpolpato/a.
230
Imputai, v. Accusare. Riferito
soprattutto a vicende giudiziarie,
ma anche ad accuse non ufficializzate davanti alla giustizia dello
Stato.
Imputau/ada, agg. Imputato/a.
Imputu, s. m. Capo d’accusa in
un procedimento penale.
In, prep. In. Con vari complementi. Stato in luogo: in domu, in
bidda, in su sartu (in casa, in
paese, in campagna). Moto per
luogo: apu caminau in padenti totu
sa dì (ho camminato in foresta per
tutto il giorno), ma mai, diversamente dall’italiano, nel moto a
luogo, preceduto costantemente
dalla prep. a. Andu a su monti
(vado in campagna), torru a bidda
(torno al paese). Materia: custa
conca apu meledau ’e nde dda ’ogai
in linna tostada (questa testa ho
pensato di scolpirla in legno
duro). Mezzo o strumento: andu
in trenu (vado in treno). Tempo
determinato: in beranu (in primavera) e continuato: in duas o tres
dis possu acabbai su trabbagliu (in
due o tre giorni posso concludere
il lavoro). Introduce diverse locuzioni avverbiali. In àndïas, su una
portantina (ossia con trattamento
di estremo riguardo): Antoni iat a
bòlliri a nce ddu pònniri in a.
(Antonio vorrebbe essere portato
PAOLO PILLONCA
su una sedia gestatoria, ossia trattato come un papa). In baganti, in
bilico, in equilibrio instabile: cussa
biga est in b. (quella trave è in bilico). In bonora, in ora fortunata:
bai in b. (vai e che la fortuna ti
accompagni). In burrutzonis, in
fregola: imoi Linu est in b. e ddi fut
tempus puru chi s’essit móvïu (adesso Lino è in fregola ed era anche
tempo che si decidesse). In colori
’e brenti ’e mongia, in colore di
addome di monaca: Ginu fut in c.
’e b. ’e m. (Gino aveva il colorito
del ventre di una monaca), ossia il
pallore che viene dalla mancanza
di sole tipico di chi non si espone
mai al chiarore solare. In contus e
chirïellas, in storielle e litanie,
ossia in chiacchiere senza costrutto: non ti perdas in c. e c. (non perdere tempo in chiacchiere). In
debbadas, invano: parit chi ti ddu
neri in d. (sembra che te lo dica
invano). In denanti, davanti: mi
dd’apu ’idu in d. de ùbbitu (me lo
sono visto davanti all’improvviso).
In donnìa, ogni volta, tutte le
volte: in donnìa chi ddu certu nde
ddi parit mali (tutte le volte che lo
sgrido si offende). In-d-unu
patrefìlïu, in un attimo (lett. nel
tempo di un Patris et Filii, nelle
benedizioni): at allistrìu s’angioni
in-d-unu p. (ha preparato l’agnello
Mancarìas. La parlata di Seui
in un battibaleno). In manus (pr.
manur) bonas, in buone mani:
cun Franciscu su cüaddu giai est in
m. b. (con Francesco il cavallo è in
buone mani). In manus (pr.
manur) de Deus, nelle mani di
Dio: sa maladia est (pr. er) legia,
imoi seus in m. de D. (la malattia è
di quelle brutte, adesso siamo
nelle mani di Dio). In pïota, in
forma, in stato di grazia: mancai
’eciu Franciscu est ancora in p.
(nonostante l’età avanzata, Francesco è ancora in forma). In pressi, in fretta: depu fàiri in p. (debbo
fare in fretta). In prusu, in sovrappiù, senza alcuna importanza: tui
nci ses in prusu (tu sei in sovrappiù, non conti nulla). In punta ’e
pèi, in punta di piedi: si movit in
p. ’e p. chene fàiri sonu (si muove
in punta di piedi senza far rumore). In totu, in tutto: dd’apu ’idu
una pariga ’e ’ortas in t. (l’ho visto
un paio di volte in tutto). In
troga, mediante un raggiro: si nde
dd’at boddiu in t. (gliel’ha preso
con un imbroglio).
Inarfabbetu, s. m. Analfabeta,
illetterato, indotto.
Incaboniscadura, s. f. Ringalluzzimento.
Incaboniscai(si), v. Ringalluzzire, fare il galletto. Vedi caboniscu.
Incaboniscau/ada, agg. Ringal-
231
luzzito/a, eccitato/a.
Incaddotzadura, s. f. Atto ed
effetto dello sporcare.
Incaddotzai, v. Sporcare, rendere
sporco per poca cura. Vedi caddotzu.
Incaddotzau/ada, agg. Sporcato/a, lordato/a.
Incadenadura, s. f. Incatenamento.
Incadenai, v. Incatenare, legare
con catene. Anche in senso met.
Vedi cadena.
Incadenau/ada, agg. Incatenato/a.
Incadessimentu, s. m. Incarico.
Incadéssiri, v. Incaricare. Dd’apu
incadéssïu, ma no at fatu nudda (gli
ho affidato un incarico, ma non ha
fatto niente).
Incadéssïu/incadèssïa, agg. Incaricato/a.
Incadumadura, s. f. Declino psichico, depressione momentanea.
Cuss’ómini s’est fatu a i. (quell’uomo sta perdendo colpi).
Incadumai, v. Diventare stupido. C’è anche la forma rifl. Su presoni incàdumat (la galera rincitrullisce) cussu piciocu s’est incadumau
(quel ragazzo si è rimbecillito),
s’incàdumat dì po dì (declina di
giorno in giorno). Vedi càdumu.
Incadumau/ada, agg. Rimbecillito/a.
Incaminai, v. Avviare, incammi-
232
nare, iniziare a fare q.sa. Soi incaminendu su prangiu (sto avviando
il pranzo).
Incaminamentu, s. m. Avvio,
inizio.
Incaminau/ada, agg. Incamminato/a, avviato/a.
Incanadura, s. f. Messa in funzione, preparazione dei cani del
fucile.
Incanai, v. Azionare i cani del
fucile. Voce gergale dei cacciatori.
Incanudai, v. Diventare canuto,
ingrigire. Su tempus m’incanudat
(il tempo mi colora di bianco i
capelli).
Incanudamentu, s. m. Incanutimento, l’ingrigire progressivo e
inesorabile delle chiome umane.
Incanudau/ada, agg. Incanutito/a, invecchiato/a.
Incarcinadura, s. f. Pulizia con
la calce.
Incarcinai, v. Dare una mano di
calce ai muri di una casa, rinfrescare il colore degli interni delle
abitazioni anche se non più con la
calce. Vedi carcina.
Incarcinau/ada, agg. Tinto/a di
calce.
Incardassai, v. Sporcare. Ma il v.
oggi è usato soprattutto in senso
metaforico ad indicare il ritrovarsi
in situazioni difficili dal punto di
vista materiale. Candu at iscïudau
PAOLO PILLONCA
Lina fut incardassada mali aberu
(quando ha perso il marito, Lina
era in grosse difficoltà economiche). Vedi cardassu e scardassai.
Incariri, v. Rincarare, aumentare
di prezzo. Cun s’euro funt incarendu totu (con l’euro tutti i prezzi
stanno aumentando).
Incarimentu, s. m. Rincaro.
Incariu/a, agg. Rincarato/a,
aumentato/a di prezzo.
Incasciadura, s. f. Chiusura in
cassa, incassatura.
Incasciai, v. Chiudere in una
cassa.
Incasciau/ada, agg. Chiuso/a in
una cassa, incassato/a.
Incatramadura, s. f. Incatramazione, sistemazione del catrame su
una superficie da impermeabilizzare.
Incatramai, v. Incatramare,
spargere catrame su una superficie
esterna
per
facilitarne
l’impermeabilizzazione.
Vedi
catramu.
Incatramau/ada, agg. Incatramato/a.
Incerai, v. Mettere la cera.
Incerau/ada,
s.
e
agg.
Incerato/a. Al m. indica il mantello rustico impermeabile dei pastori per proteggersi dalle piogge.
Come agg. f. indica la tovaglia
plastificata e la tela impermeabi-
Mancarìas. La parlata di Seui
lizzata che si stende a contatto con
i materassini delle culle dei bimbi
lattanti.
Inchïetài(si), v. Adirarsi. S’inchïetat po nudda (si adira per futili motivi).
Inchïetau/ada, Adirato/a.
Inchïetosu/a, agg. Iracondo/a,
facile all’ira.
Inchïetu, s. m. Ira, rabbia, dispiacere. Mi nd’at donau ’e i. oi
Lüisu (oggi Luigi mi ha provocato
molta rabbia).
Inchïetu/a, agg. Arrabbiato/a.
Inciascai, v. Scherzare abilmente
e divertirsi in maniera brillante
con battute riuscite.
Inciascau/ada, agg. Divertito/a.
Inciascheri, s. m. Persona scherzosa, amante del divertimento e
delle uscite geniali.
Inciascu, s. m. Scherzo divertente, con botte e risposte acute.
Incillìrisi, v. Incupirsi, corrucciarsi, corrugare la fronte (lett. le
sopracciglia).
Incillìu/a, agg. Corrucciato/a,
incupito/a.
Incimiri, v. Germogliare.
Incimiu/ada, agg. Germogliato/a. Vedi cima/gima.
Incingïadura, s. f. Inaugurazione.
Incingïai, v. Inaugurare, indossare per la prima volta un abito.
Custu ’estiri ddu depu i. po Pasca
233
(questo vestito lo indosserò per la
prima volta a Pasqua).
Incingïau/ada, agg. Indossato/a
per la prima volta.
Incinisadura, s. f. Velo, strato di
cenere.
Incinisai, v. Ricoprire, sporcare
di cenere. Mai nel senso di incenerire. Vedi cinisu e scinisai.
Incinisau/ada, agg. Sporco di
cenere. Per l’agg. italiano incenerito si ricorre ad una perifrasi: torrau a cinisu (ridotto in cenere).
Incirdinadura, s. f. Irrigidimento.
Incirdinai v. Irrigidire. Sa ciligìa
incìrdinat is pannus spartus (la brina
irrigidisce la biancheria stesa ad
asciugare). Irrigidirsi. Coment’est
orrutu, su pipiu s’est incirdinau
(subito dopo la caduta, il bambino
si è irrigidito). Vedi cìrdinu.
Incirdinau/ada, agg. Irrigidito/a.
Detto delle cose e delle persone,
anche in senso fig.
Inciupidura, s. f. Assorbimento
di liquidi. Viva la loc. a i.
Inciupiri, v. Assorbire. At própïu
meda ma sa terra s’abba nce dda
’nciupit totu (è piovuto molto ma
la terra assorbe tutta l’acqua).
Inciupìu/a, agg. Assorbito/a.
Incódina, s. f. Incudine.
Incogotidura, s. f. Rossore forte
dovuto a collera improvvisa o sforzo gravoso.
234
Incogotiri(si), v. Diventare rosso
per un attacco d’ira e/o di febbre
ma anche in seguito ad uno sforzo
violento.
Candu
s’inchïetat
s’incogotit totu (quando si arrabbia
diventa tutto rosso).
Incogotìu/a, agg. Rosso/a in
seguito a un attacco di febbre, un
sussulto d’ira o uno sforzo.
Incolladura, s. f. Incollatura.
Incollai, v. Incollare, attaccare
con la colla.
Incollau/ada, agg. Incollato/a.
Incordïoladura, s. f. Legamento
con lacci. Vedi cordïolu.
Incordïolai, v. Legare con lacci.
Incordïolau/ada, agg. Legato
con lacci.
Incorradura, s. f. Incornata.
Incorrai, v. Incornare.
Incorrau/ada, agg. Incornato/a.
Incorrïadura, s. f. Legamento
con corregge di cuoio. Vedi corrìa.
Incorrïai, v. Legare con corregge
di cuoio.
Incorrïau/ada, agg. Legato/a
con corregge di cuoio.
Incortigliadura, s. f. Accerchiamento.
Incortigliai, v. Circondare, accerchiare, far entrare nella mandria. In
rif. al bestiame, ma più spesso in
senso traslato, per dire di una difficoltà immateriale. Füeddendu, a
Antoni no ddu ’ncortigliat nemus
PAOLO PILLONCA
(nel parlare nessuno riesce a mettere in difficoltà Antonio).
Incortigliau/ada, agg. Messo/a
alle strette, accerchiato/a.
Incrabistadura, s. f. Sistemazione della cavezza.
Incrabistai, v. Mettere la cavezza. Vedi crabistu. Il contr. di iscrabistai.
Incrabistau/ada, agg. Incavezzato/a.
Incrabonadura, s. f. L’atto e
l’effetto del coprire e/o dello sporcare con il carbone. Velo, strato di
carbone.
Incrabonai, v. Coprire con carbone, sporcare con il carbone.
Incrabonau/ada, agg. Sporco di
carbone.
Incracadura, s. f. Pressatura,
pressione.
Incracai, v. Calcare, premere,
pressare.
Incracau/ada, agg. Pressato/a,
premuto/a.
Incräitadura, s. f. Chiusura
mediante chiavistello.
Incräitai, v. Chiudere con un
chiavistello.
Incräitu, s. m. Chiavistello.
Incrarada, s. f. Breve comparsa.
Chi seis in Arcüeri mi parit ca mi
ddu-i facu una i. (se siete ad Arcuerì, quasi quasi ci faccio un salto).
Incraradedda, s. f. Comparsa-
Mancarìas. La parlata di Seui
lampo.
Incraràisi, v. Affacciarsi. Incraradì
in sa vantana (affàcciati alla finestra), su soli s’incrarat in is (pron. ir)
nuis (il sole si affaccia tra le nuvole).
Fare una capatina da qualche parte.
No iscìu chi mi ddu apu a pódiri i.
(non so se mi ci potrò avvicinare).
Incrarau/ada, agg. Affacciato/a.
Incravai, v. Inchiodare, fissare
con chiodi.
Incravamentu, s. m. Inchiodatura. Ma il s. è usato soprattutto
nel significato di crocifissione. Il
suo
contrario,
iscravamentu/scravamentu, indica la deposizione del Cristo dalla croce e il
rito del Venerdì Santo che la
rievoca con una apposita sacra
rappresentazione, da oltre trent’anni tornata in auge anche nella
parrocchia di Santa Maria
Maddalena dopo una breve parentesi di oblio negli anni Sessanta e
attualmente sempre più seguita
anche da visitatori esterni.
Incravau/ada, agg. Crocifisso/a.
Incremèntzïa, s. f. Disturbo,
fastidio, evento inatteso e doloroso.
Incresïadura, s. f. Rientro in
chiesa delle puerpere dopo il battesimo del neonato. Vedi crésïa.
Incresïàisi, v. Rientrare in chiesa.
Il v. indica l’atto di tornare alla frequenza delle funzioni religiose da
235
parte delle puerpere che, per antica
consuetudine, erano tenute a compierlo appena trascorsi quaranta
giorni dal battesimo del neonato.
Anna Maria s’incresïat oi (Anna
Maria rientrerà oggi in chiesa). Vedi pana.
Incresïada, agg. Rientrata in
chiesa. Si utilizza solo al f.
Incresurai, v. Chiudere un terreno con una siepe. Vedi cresuri.
Incresurau/ada, agg. Chiuso/a a
siepe.
Incrìbida, s. f. Movimento crescente di persone vocianti.
Incribidai, v. Far salire di tono
una protesta, velocizzare e dar
forza a un’azione.
Incribidau/ada, agg. Aumentato/a di tono e di volume.
Incrispadura, s. f. Aumento di
ritmo, irruvidimento.
Incrispai, v. Velocizzare. Incrispa
is passus (affretta l’andatura). Far
diventare meno liscia una superficie.
Incrispau/ada, agg. Aumentato/a di ritmo, irruvidito/a.
Incróiri, v. Importare, interessare. Il verbo è intrans. A mei no
m’incröit (non me ne importa).
L’argomento oggetto dell’interesse
deve essere prec. dalla prep. de o
da una perifrasi. De tui no mi
nd’incröit nudda (di te non
236
m’importa nulla).
Incröìu/a, agg. Interessato/a,
importato/a.
Incrüadura, s. f. Esacerbazione,
recrudescenza.
Incrüai, v. Incrudire, esacerbare.
In senso met. peggiorare. Sa maladia si dd’est incrüada (la sua malattia ha avuto una recrudescenza).
Incrüau/ada, agg. Esacerbato/a.
Incrubadura, s. f. Curvatura,
china.
Incrubai, v. Chinare, curvare.
Anche in senso fig. e nella forma
rifl. Chini s’incrubat amostat su
culu (chi si china fa vedere il culo).
Incrubau/ada, agg. Chinato/a,
curvato/a.
Incumentzai, v. Incominciare,
iniziare. Vedi cumentzai.
Incumentzau/ada, agg. Iniziato/a. Vedi cumentzai.
Incumentzu, s. m. Inizio. Vedi
cumentzu.
Incungia, s. f. Raccolto. Anche
in senso fig.
Incungiai, v. Raccogliere. At incungiau centu mous (pron. mour) de
trigu (ha raccolto cento starelli di
grano). Rinchiudersi, chiudersi.
Est bivendu incungiau (vive chiuso
in casa).
Incungiau/ada, agg. Raccolto/a,
rinchiuso/a.
Incungiamentu, s. m. Isolamen-
PAOLO PILLONCA
to, volontario o coatto.
Incungiau/ada, agg. Raccolto/a,
rinchiuso/a in casa.
Incurtzadura, s. f. Abbreviazione, accorciamento.
Incurtzai, v. Accorciare, abbreviare. Su pantaloni fut longu e mi
dd’apu fatu i. (i pantaloni erano
lunghi e me li sono fatti accorciare), incurtza su caminu (prendi
una strada più breve). Per dare un
taglio a un dialogo fastidioso si
ricorre all’espr. segai in curtzu
(tagliare netto).
Incurtzau/ada, agg. Accorciato/a.
Indanimadura, s. f. Incoraggiamento.
Indanimai, v. Incoraggiare, esortare. Chi no m’indànimat fradi miu
e chini ’olis chi ddu facat (se non mi
incoraggia mio fratello, chi vuoi
che lo faccia).
Indanimau/ada, agg. Incoraggiato, esortato/a.
Indebbilitadura, s. f. Indebolimento. Usata la loc. avv. a i.
Indebbilitai, v. Indebolire, rendere fiacco. Sa caglientura
m’indebbilitat (la febbre mi fiacca). Vedi debbilitai e debbilesa.
Indebbilitau/ada, agg. Fiaccato/a, indebolito/a. Sa maladia
dd’at i. meda (la malattia l’ha
molto indebolito). Vedi debbilitau/ada.
Mancarìas. La parlata di Seui
Indeghinò, avv. Altrimenti, in
caso contrario.
Indepidàisi, v. Indebitarsi. Indepidendusì est arrennéscïu a fàiri a
erricu (ricorrendo ai prestiti è
riuscito a diventare ricco). Nel giudizio comunitario è una situazione
estrema da cui occorre uscire al più
presto. Vedi dépidi.
Indepidamentu, s. m. Indebitamento.
Indepidau/ada, agg. Indebitato/a, carico/a di debiti.
Inderetura, avv. Immediatamente, subito. Candu ddu lamu ndi ’enit
i. (quando lo chiamo viene subito).
Indicai, v. Insegnare, dare indicazioni, ammonire. Vedi inditai.
Indicau/ada, agg. Indicato/a,
ammonito/a, avvertito/a.
Indìcu, s. m. Indicazione, insegnamento, avvertenza, monito. Su
babbu ddi ’onat bonus indicus (il
padre gli fornisce buone indicazioni). Segnale visibile. Innoi no
nci biu i. perunu (qui non vedo
alcun segnale). Dev. di indicai.
Indignu/a, agg. Antipatico/a,
insopportabile, intrattabile.
Indimonïau/ada, s. e agg. Indemoniato/a, persona posseduta dal
demonio.
Indipendèntzïa, s. f. Indipendenza, autonomia.
Inditadura, s. f. Indicazione,
237
suggerimento.
Inditai, v. Indirizzare, suggerire,
consigliare. Inditaddu ’eni, non
siat chi si ddu-i perdat (consìglialo
bene, in modo che non ci si perda)
Inditau/ada, agg. Indirizzato/a,
instradato/a, consigliato/a.
Indìvïa, s. f. Indivia, verdura.
Indonai, v. Fare i doni di rito,
nei casi previsti dalla tradizione:
battesimi, cresime, fidanzamenti
ma non solo. Dd’at indonada (le
ha fatto i regali dovuti), dónnïa
’orta chi ’enit a domu indonat sempir is pipius (tutte le volte che viene
a casa mia fa regali ai bambini).
Indonamentu, s. f. Donazione,
regalo.
Indonau/ada, agg. Destinatario/a di regali.
Indoradura, s. f. Doratura, fregio dorato.
Indorai, v. Rendere dorato. Nel
lessico alimentare, pani indorau è
il pane affettato, bagnato nel latte,
successivamente immerso nell’uovo sbattuto e quindi fritto. Una
volta terminata la frittura, il pane
assume una tinta dorata.
Indorau/ada, agg. Dorato/a.
Indromiscadura, s. f. Assopimento, dormiveglia.
Indromiscai(si), v. Assopire,
assopirsi, essere in dormiveglia.
Una tassigedda ’e binu ddu
238
’ndromiscat (un sorso di vino lo
assopisce).
Indromiscau/ada, agg. Assopito/a, in dormiveglia. Mi paris
mesu i. (mi sembri come in dormiveglia).
Indùgliri, v. Piegare, curvare,
abbassare. A i. sa schina no ddi pragit meda (non ama molto curvare
la schiena). Anche nella forma rifl.
nel senso fig. di: sottomettersi,
umiliarsi. Ddi ’enit a maroglia a s’i.
(è costretto, suo malgrado, a piegarsi). Frequente l’utilizzo sul
piano traslato.
Induglïu/a, agg. Chino/a, piegato/a, sottomesso/a.
Indurcïai, v. Addolcire, rendere
dolce. In senso reale e fig.
Indurcïau/ada, agg. Addolcito/a.
Indurtu/a, agg. Chino/a. Sin. di
induglïu/a.
Indùstrïa, s. f. Industria.
Industrïali, agg. Industriale.
Infatu, avv. Dopo. Tempus i.
(qualche tempo dopo). Dietro.
M’at postu i. (mi ha seguito, mi è
venuto dietro).
Infertura, s. f. Innesto. Vedi
annestu, di superstrato.
Infèrriri, v. Innestare. Candu
infergiu una mata càstiu sèmpiri sa
luna (quando innesto un albero
tengo sempre conto della fase
lunare). Toccare un luogo lontano
PAOLO PILLONCA
dopo qualche peripezia. Cichendu
is brebeis chi nde dd’iant furau
nc’est infertu in su sartu ’e Talana
(cercando le pecore che gli erano
state rubate è finito nel territorio
di Talana).
Inferru, s. m. Inferno. Per est.
situazione grave, difficoltà estrema.
Infertu/a, agg. Innestato/a, pervenuto/a.
Infiladura, s. f. Introduzione del
filo nella cruna dell’ago. In senso
fig. la creatività di ciascun parlante lo impiega come meglio ritiene
opportuno ed efficace.
Infilai, v. Infilare. Indica sia
l’azione di introdurre il filo nella
cruna dell’ago sia, per est., ogni
altra azione - lecita o illecita - che
preveda una intromissione di persone o cose.
Infilau/ada, agg. Infilato/a.
Infinis, avv. Infine, in conclusione.
Infoddinadura, s. f. Sporcizia,
tinta proveniente da fuliggine.
Infoddinai, v. Tingere di fuliggine. Vedi foddini.
Infoddinau/ada, agg. Macchiato/a di fuliggine.
Infogai, v. Infiammare, spingere, aizzare.
Infogau/ada, agg. Infiammato/a, ardente.
Inforrada, s. f. Infornata.
Mancarìas. La parlata di Seui
Inforrai, v. Infornare, mettere
nel forno.
Inforrau/ada, v. Infornato/a,
messo/a al forno.
Infrenadura, s. f. Imbrigliamento, reale e metaforico.
Infrenai, v. Imbrigliare, mettere
la briglia al cavallo.
Infrenau/ada, agg. Munito/a di
briglia, imbrigliato/a. Viva la loc.
avv. a cüaddu i. (vedi alla lettera A).
Infriscada, s. f. Rinfrescata.
Infriscai, v. Rinfrescare. Detto
delle bevande. Apu postu su ’inu a
i., ho messo il vino a rinfrescare).
Ma anche del tempo. Passau
mesäustu infriscant is àiris (dopo la
metà di agosto il tempo si mette al
fresco).
Infriscau/ada, agg. Rinfrescato/a.
Infrissa, s. f. Piega, sgualcitura.
Poneddu ’eni indeghinò su ’estiri
s’infrissat (mettilo bene, altrimenti
l’abito si sgualcisce). Anche nel
senso di ruga. Portat sa faci prena ’e
infrissas (ha il viso pieno di rughe).
Infrissai, v. Sgualcire, provocare
pieghe o rughe. Su ’estiri ti dd’as
totu infrissau (hai completamente
sgualcito il tuo abito). Rif. al naso
vale storcere. Infrissat is càrigas
(storce il naso).
Infrissau/ada, agg. Pieno/a di
rughe. Rif. agli abiti: sgualcito/a.
Infrochitadura, s. f. Infiocchet-
239
tamento.
Infrochitai, v. Infiocchettare,
mettere i fiocchi.
Infrochitau/ada, agg. Infiocchettato/a.
Infromigadura, s. f. Formicolio.
Infromigai(si), v. Provocare e/o
provare formicolii in varie parti del
corpo, specie mani e piedi. A bortas mi s’infròmigant is peis (talvolta
sento un formicolio ai piedi).
Infromigau/ada, agg. Informicolito/a. Portu una manu i. (ho dei
formicolii ad una mano).
Infrorèntzïa, s. f. Influenza.
Infroridura, s. f. Fioritura.
Infroriri, v. Fiorire. Detto delle
piante e degli arbusti. S’armidda
infrorit a primus de làmpadas (il
timo fiorisce all’inizio di giugno).
In tono scherzoso, vale anche:
essere sul punto di prendere
l’influenza. Mi parit ca tui puru ses
infrorendu (mi sembra che anche
tu stia per prendere l’influenza).
Infrorìu/a, agg. Fiorito/a.
Infrusadura, s. f. Intromissione
veloce, anche a dispetto altrui.
Pìlimu si nci fait a i. (Priamo è
veloce nell’intromettersi).
Infrusai(si), v. Intromettere rapidamente. Nce dd’at infrusau
inderetura (lo ha subito messo in
mezzo). Anche nella forma rifl.
Chi bit cravongiu si nc’infrusat (se
240
vede una rissa vi si intromette).
Infrusau/ada, agg. Intromesso/a.
Infùndiri(si),
v.
Bagnare/bagnarsi. Infundi su pani
(bagna il pane), piga su paracu chi
nou t’infundis (prendi il parapioggia altrimenti ti bagnerai).
Infurcai, v. Inforcare. Vedi furca.
Infurcau/ada, agg. Inforcato/a.
Infustu/a, agg. Bagnato/a. Part.
pass. di infùndiri. Linu fut infustu
cola-cola (Lino era fradicio di pioggia).
Infustura, s. f. Bagno d’acqua
piovana. Nd’at boddìu una grandu
i. (si è preso un bel bagno).
Ingamadura, s. f. Sistemazione
di una musolina di legno in bocca
ai capretti per iniziare a svezzarli.
Ingamai, v. Mettere un’asticella
lignea trasversalmente in bocca ai
capretti legandola da ambo i lati
alle corna per farli desistere dal
poppare. È il primo passo verso lo
svezzamento del bestiame destinato alla riproduzione.
Ingamau/ada, agg. Sistemato/a
con l’asticella lignea in bocca.
Sempre rif. ai capretti da svezzare.
Ingäungiada, s. f. Messa a punto
e utilizzo del companatico.
Ingäungiai, v. Aggiungere il
companatico al pane. No iscìu e
comenti ddu i. (non so quale companatico scegliere). In senso fig.
PAOLO PILLONCA
avere il superfluo.
Ingäungiau/ada, agg. Accompagnato/a da companatico.
Ingäungiu, s. m. Companatico.
Teniaus un’orrogu ’e pani e una fita
’e lardu po i. (avevamo un pezzo di
pane e una fetta di lardo come
companatico).
Ingenugài(si), v. Inginocchiarsi.
Esiste, ma meno usata, la variante
ingegunàisi, con metatesi tra terzultima e penultima sillaba. Vedi
genugu.
Ingenugau/ada, agg. Inginocchiato/a.
Ingermigài(si), v. Riempirsi di
vermi. Chi no dda càstïas sa castangia s’ingèrmigat (se non te ne prenderai cura, le castagne si riempiranno di vermi). Vedi bremi/’ermi.
Ingermigau/ada, agg. Pieno/a di
vermi.
Ingestu, s. m. Smorfia, gestaccio. Ddi fait dònnïa i. (gli fa
gestacci di tutti i tipi).
Inghisciadura, s. f. Ingessatura.
Inghisciai, v. Ingessare. Indica
l’intervento ortopedico. Vedi ghisciu (gesso).
Inghisciau/ada, agg. Ingessato/a.
Inghisciu, s. m. Ingessatura. Sin.
di inghisciadura.
Ingiogassài(si), v. Aver molta
voglia di giocare. Candu
s’ingiogassat no ddu poderat nemus
Mancarìas. La parlata di Seui
(quando gli viene voglia di giocare
non lo frena nessuno). Vedi giogu.
Ingiogassau/ada, agg. Voglioso/a
di giocare. De cantu est i. parit unu
pipìu (giocare gli piace così tanto
che sembra un bambino).
Ingirïada, s. f. Aggiramento.
Ingirïai, v. Circondare, fare il
giro. In senso fig. tentare di raggirare il prossimo. Fut ingirïendudeddu ma cuddu dd’at cumpréndïu
(tentava di raggirarlo, ma l’altro
l’ha capito).
Ingirïau/ada, agg. Circondato/a.
Ingirïotai, v. Girare attorno a
q.no o q.sa.
Ingìrïu, s. m. Aggiramento, giro
intorno. Usata la loc. avv. a i.
Ingólliri, v. Portare con sé.
S’ingollit su fosili (si porta appresso
il fucile). Il part. pass. è ingortu.
Ingordigiosu/a, agg. Ingordo/a,
vorace.
Ingortu/a, agg. Portato/a con sé.
Ingraïada, s. f. Appesantimento.
Ingraïai, v. Aggravare, appesantire. Is annus m’ingràïant sa carena (gli
anni mi appesantiscono il corpo).
Ingraïau/ada, agg. Appesantito/a.
Ingrassadura, s. f. Ingrassaggio.
Ingrassai, v. Ingrassare. Rif. alle
persone che acquistano peso e
volume e agli arnesi che hanno
necessità di ingrassaggio e/o lubri-
241
ficazione.
Ingrassau/ada, agg. Ingrassato/a.
Ingringhillitadura, s. f. Attrazione forte. Viva la loc. a i.
Ingringhillitai, v. Attirare fortemente, attrarre in modo speciale,
stimolare, spingere a q.sa. M’ingringhillitat a provai una murra
(mi sento stimolato a provare una
partita di morra).
Ingringhillitau/ada, agg. Attratto/a fortemente.
Ingroghimentu, s. m. Ingiallimento.
Ingroghiri, v. Ingiallire. Sa
castangia ingroghit in s’atongiu (il
castagno ingiallisce in autunno).
Vedi grogu.
Ingroghiu/a, agg. Ingiallito/a.
Ingrugiadura, s. f. Incrocio.
Ingrugiai, v. Incrociare.
Ingrugiau/ada, agg. Incrociato/a.
Ingrussada, s. f. Ingrossamento.
Ingrussai(si), v. Ingrossare. S’errìu
est ingrussendu (il fiume diventa
grosso). Al rifl. vale arricchirsi, in
denaro e beni immobili: Gisepu in
custus annus est ingrussendusì a
ispantu (Giuseppe in questi anni si
sta arricchendo in modo straordinario).
Ingrussau/ada, agg. Ingrossato/a.
Inguddidadura, s. f. Riscaldamento.
242
Inguddidai, v. Riscaldare, far
riscaldare al e/o sul fuoco.
Inguddidamiddu cussu lati (riscaldami quel latte).
Inguddidau/ada, agg. Riscaldato/a.
Ingurdadura, s, f. Perdita del
filo della lama.
Ingurdai, v. Far perdere il filo
alla lama di un coltello. Cust’arrasòia s’ingurdat (questo coltello ha
una lama senza più filo).
Ingurdu/a, agg. Senza filo di taglio. Cussa seguri est i. (quella scure
ha perso il filo, non taglia più).
Ingurtidura, s. f. Inghiottimento.
Ingùrtiri, v. Inghiottire. No nci
possu i. nudda (non riesco ad
inghiottire nulla). Met. nel senso
di credere a tutto: m’at contau una
fàula ma no nce dd’apu ingùrtïa
(mi ha raccontato una bugia ma
non l’ho inghiottita).
Ingùrtïu/a, agg. Inghiottito/a.
Innadïada, s. f. Sculacciata. Ti
tzacu duas innadïadas (ti rifilo due
sculaccioni). Vedi nàdia.
Innadïai, v. Dare sculaccioni.
Ìnnidu/a, agg. Intatto/a. Usato
per il terreno non ancora frequentato dal bestiame: su logu est ì. (il terreno non è stato ancora pascolato).
In senso ir. e antifrastico, riferito
alla donna, vale vergine, illibata.
Insabonadura, s. f. Insaponatura.
PAOLO PILLONCA
Insabonai, v. Insaponare.
Insabonau/ada, agg. Insaponato/a.
Insacai, v. Insaccare, mettere in
un sacco.
Insacau/ada, agg. Insaccato/a.
Insangüentadura, s. f. Insanguinamento. Vedi sànguni.
Insangüentai(si), v. Insanguinare, macchiare/macchiarsi di
sangue. Candu ’ocis un’angioni
t’insangüentas (quando macelli un
agnello ti macchi di sangue).
Insangüentau/ada, agg. Insanguinato/a, sporco/a, macchiato/a
di sangue.
Inseddadura, s. f. Sellatura.
Inseddai, v. Sellare. Insedda su
cüaddu (metti la sella al cavallo).
In senso fig. vale: ingannare il
prossimo. A mei no m’inseddas
(non mi freghi).
Inseddau/ada, agg. Sellato/a.
Met. frodato/a, imbrogliato/a.
Inserradura, s. f. Reclusione.
Inserrai, v. Rinchiudere. Cudda
craba aresti d’apu inserrada in-dun’acorru (quella capra indocile
l’ho rinchiusa in un recinto).
Nella forma rifl. vale: rinchiudersi
in casa. Vedi serrai.
Inserrau/ada, agg. Rinchiuso/a.
Inserru, s. m. Prigionia, isolamento anche domestico.
Insidadura, s. f. Assunzione di
Mancarìas. La parlata di Seui
pessimo odore e sapore. Detto
degli animali maschi in amore.
Insidai(si)/intzidai(si), v. Avere
pessimo odore e sapore. Detto della
pelle e della carne degli animali
maschi durante la stagione degli
amori. Su sirboni fut in portamenta
candu Fulanu dd’at bocìu ma de sa
petza no at fatu a ndi papai ca fut
insidada (il cinghiale era in amore
quando Fulano l’ha ucciso ma non
ne abbiamo potuto mangiare perché la carne era puzzolente).
Insidau/ada, agg. Puzzolente,
maleodorante.
Insoru, agg. poss. Loro, indecl.
Sempre posposto al s. cui si riferisce. Custas funt is terras i. (queste
sono le loro terre).
Intedì, avv. A giorni alterni.
Intéri, prep. Tra, fra, nel frattempo. Candu sirboni at incrarau
su runcu in su matoni ’e tùvara,
interi su dd’àiri ’idu e sa fosilada no
at passau mancu dus segundus
(quando il cinghiale ha mostrato il
grugno in un arbusto di erica, tra
l’averlo visto e la fucilata non sono
trascorsi neppure due secondi).
Interrai, v. Dare sepoltura, seppellire. Tappa inevitabile nel cammino terreno di chi viene al
mondo. Tuttora vivissima nell’uso
l’espr. candu morgiu mi nc’interrant
(quando morirò mi seppelliranno).
243
Interrau/ada, agg. Sepolto/a.
Interrogai, v. Interrogare, rispondere all’interrogatorio. Uno
dei casi in cui lo stesso verbo ha il
duplice significato di compiere
un’azione e di subirla. Dopo
l’avvento della scuola dell’obbligo,
il v. ha assunto anche il significato
più prettamente italiano del gergo
scolastico.
Interrogau/ada, agg. Interrogato/a, sottoposto/a ad interrogatorio.
Interrogatzïoni, s. f. Interrogazione a scuola.
Interrogu, s. m. Interrogatorio
davanti al magistrato.
Interru/’nterru, s. m. Funerale,
seppellimento. Una delle peggiori
maledizioni della parlata di Seui è
questa: ancu ti paghit su ’nterru su
Cumunu (che il Comune ti paghi le
spese del funerale). Dev. di interrai.
Intessidura, s. f. Intessitura. In
senso fig. trama, raggiro.
Intéssiri, v. Intessere.
Intéssïu/a, agg. Intessuto/a.
Intessonnus, avv. In dormiveglia. Fui i. e candu mi nd’ant iscidau apu tìmïu (ero in dormiveglia
e quando mi hanno svegliato ho
avuto paura).
Intingidura, s. f. Cambiamento
di colore di un vestito o di una
capigliatura.
244
Intìngiri, v. Tinteggiare, cambiare colore a un capo di abbigliamento o ai capelli. Maria s’at
intintu is pilus (Maria si è tinta i
capelli). Vedi tìngiri.
Intinnìri(si), v. Essere di salute
cagionevole, al confine di una
patologia. Desueto.
Intinnìu/a, s. e agg. Malaticcio/a,
sul punto di ammalarsi seriamente.
Mi parit ca ses mesu i. (mi sembra
che tu stia per ammalarti).
Intintu/a, agg. Tinteggiato/a.
Da intìngiri.
Intrada, s. f. Ingresso, entrata
(di una casa, di una scuola, etc).
Entrata, incasso, risorsa economica. Nel gergo dei pastori, il s. indica ciò che il gregge produce in una
giornata.
Intradura, s. f. Entratura, potere
di conoscenza e di ascolto. Ndi tenit
de intraduras, cussu (ne ha di conoscenze, quello). Acquisizione. Unu
parenti de i. (un parente acquisito).
Intrai, v. Entrare, introdursi in
una casa. Non bolia mancu i. ma
Linu m’at obbrigau (non volevo
neppure entrare, ma Lino mi ha
costretto). Iniziare un discorso che
abbia poteri di persuasione.
Franciscu no iscit i. (Francesco non
riesce a trovare un buon esordio).
Intrau/ada, agg. Entrato/a.
Intregai, v. Affidare. Dd’intregu
PAOLO PILLONCA
is crabas (gli affiderò le capre).
Quando si tratta di affidamento
sospetto o addirittura demoniaco,
allora il verbo diventa ellittico del
compl. di termine. S’est intregau
(ha venduto l’anima al diavolo).
Intregau/ada, agg. Affidato/a.
Intregu, s. m. Affidamento.
Intremesidura, s. f. Intromissione.
Intremésiri, v. Introdurre, intromettere. Al rifl. vale: intromettersi. Linu s’intremesit in donnia
(Lino si intromette sempre).
Intremésïu/a, agg. Intromesso.
Intreu/a, agg. Intero/a, integro/a.
Intristadura, s. f. Rattristamento.
Intristai, v. Rattristare. Su tempus malu m’intristat (il maltempo
mi rattrista). Anche nella forma
rifl. S’intristat po nudda (si rattrista
per un nonnulla).
Intristau/ada, agg. Rattristato/a,
intristito/a.
Intruladura, s. f. Intorbidimento.
Intrulài(si), v. Intorbidire. Cica
’e no i. s’abba (cerca di non intorbidire l’acqua). Custu ’inu est
intrulendusì (questo vino sta
diventando torbido). In senso fig.,
nella forma rifl. e in rif. alle persone, vale: irarsi, perdere la calma,
etc. Candu s’intrulat est legiu
Mancarìas. La parlata di Seui
(quando si adira è da temere).
Vedi trulu.
Intrulau/ada, agg. Intorbidito/a.
Intzalada, s. f. Insalata.
Intzerrïai/tzerrïai, v. Chiamare a
voce alta, richiamare. Molto meno
usato di lamai. È assunzione
recente, frutto degli scambi dovuti
alla migrazione a Cagliari, iniziata
nei primi anni del secolo scorso.
Intzerrïau/ada, agg. Chiamato/a.
Intzérrïu/tzérrïu, s. m. Grido,
urlo. S’est pesau a i. (si è messo a
gridare).
Intzertai, v. Indovinare. Non
contat a si ndi pesai a cöìdu, bisongiat a i. s’ora (non conta levarsi
presto, occorre indovinare l’ora).
Intzertau/ada, v. Indovinato/a.
Intzidai(si), v. Vedi insidai(si) e
derivati.
Intzuddai, v. Far entrare la setola
(tzudda, vedi) nella cruna dell’ago o
inserirla a dovere nella punta dello
spago del calzolaio. In senso fig.,
per lo più ir. e satirico: colpire nel
segno,
procurarsi.
Franciscu
s’intzuddat cogheras de spantu (Francesco si procura sbronze terribili).
Intzuddau/ada, agg. Procurato/a,
colpito/a nel segno.
Intzugliai, v. Aizzare, scatenare
contro. Dd’intzugliu is canis (gli
aizzo i cani contro).
Intzugliamentu, s. m. Provoca-
245
zione.
Intzugliau/ada, agg. Aizzato/a.
Intzunfïai, v. Piangere tentando
di soffocare i singhiozzi.
Intzùnfïu, s. m. Singhiozzo
sordo. Maria fut prangendu a intzùnfïus (Maria piangeva singhiozzando sordamente).
Intzurdadura, s. f. Assordamento.
Intzurdai, v. Assordare. Custus
sonus m’intzurdant (questi rumori
mi assordano).
Intzurdau/ada, agg. Reso/a
sordo/a.
Intzurpadura, s. f. Accecamento.
Intzurpai, v. Accecare, rendere
cieco.
Intzurpau/ada, agg. Reso/a cieco/a.
Ira, s. f. Scoppio improvviso di
una precipitazione, aggravamento
delle condizioni atmosferiche.
Nd’at benìu a corpu un’ira ’e abba
(all’improvviso si è scatenato un
temporale). Mai usato nel senso
che ha nella lingua italiana.
Irbagliai, v. Sbagliare, cadere in
errore. Apu irbagliau totu (ho sbagliato tutto), est raridadi chi non
s’irbaglit (è raro che non si sbagli).
Irbagliau/ada, agg. Sbagliato/a,
errato/a.
Irbagliu, s. m. Errore, sbaglio.
Irbentïadura, s. f. Perdita di
246
profumo e sostanza.
Irbentïai, v. Perdere profumo e
sostanza. Tupaddu cussu fiascu, ca
su ’inu s’irbéntïat (tappa quel fiasco,
altrimenti il vino perde sostanza).
In senso fig. perdere acume, accortezza, prontezza di riflessi. Est totu
irbentïau (è completamente sventato). Smaltire la sbornia, tornare
padrone di sé. Imoi est imbriagu ma
giai at a i. (adesso è ubriaco, ma la
smaltirà).
Irbentïau/ada, agg. Sventato/a.
Irbentugliadura, s. f. Sventolìo.
Irbentugliai, v. Sventolare. Est
irbentugliendu una bandela (sventola una bandiera). Prendere
vento. Oi in su monti fortzis ddu
irbentuglias (oggi in montagna
forse prenderai un po’ di vento).
Irbentugliau/ada, agg. Sventolato.
Irbertulada, s. f. Caduta repentina e violenta, come di oggetto
che cada da una bisaccia.
Irbertuladura, s. f. Estrazione
dalla bisaccia, cacciata, espuslsione.
Irbertulai, v. Estrarre dalla
bisaccia. In senso fig. gettar via.
Nce ddu ’rbértulu atesu (lo butto
via lontano).
Irbertulau/ada, agg. Gettato/a
via.
Irbïancadura, s. f. Tintura di
bianco.
PAOLO PILLONCA
Irbïancai, v. Sbiancare, rendere
più bianco.
Irbïancamentu, s. m. Sbiancamento.
Irbïancau/ada, agg. Sbiancato/a.
Irbirru, s. m. Martora.
Irbregungiadura, s. f. Svergognamento.
Irbregungiri, v. Svergognare.
Dd’at irbregungìu in su prùbbicu
(l’ha svergognato pubblicamente)
Irbregungìu/a, agg. Spudorato/a, svergognato/a senza più
remore. Vedi bregungia.
Irbuddadura, s. f. Riduzione in
bolletta, ritorno a zero, sconfitta
su tutta la linea.
Irbuddai, v. Ridurre in bolletta
nei giochi che comportano puntate in denaro. Lett. lasciare senza
pancia (budda, vedi). Nde dd’at
irbuddau (l’ha lasciato in bolletta).
Irbuddau/ada, agg. Lasciato/a
senza un soldo.
Irbüidadura, s. f. Svuotamento.
Sin. di irbuïdamentu.
Irbüidai, v. Vuotare, svuotare.
Irbùïda cussa cubedda (vuota quel
barilotto), dd’at irbuïdau sa ’omu
(gli ha vuotato la casa).
Irbuidamentu, s. m. Svuotamento. Sin. di irbuïdadura.
Irbuïdau/ada, agg. Svuotato/a.
Irbùïdu/a, agg. Vuoto/a.
Irdarrastadori, s. m. Cercatore di
Mancarìas. La parlata di Seui
tracce. Era una vera e propria arte,
articolatasi nei secoli per difendersi
dagli abigeatari. Vi eccellevano gli
abitanti di Ussàssai, ai quali i pastori seuesi derubati spesso si rivolgevano. Di loro si diceva che riuscissero a trovar tracce di passaggio di
bestiame anche sulle pietre.
Irdarrastadura, s. f. Ricerca di
tracce di selvaggina e/o di bestiame rubato.
Irdarrastai, v. Cercare tracce
(arrastas) di selvaggina e/o bestiame
rubato, una delle prime operazioni
per neutralizzare un furto di bestiame. Inderetura at mòvïu sa cica,
irdarrastendu furint in paricius
(immediatamente è iniziata la ricerca, erano in molti a cercar tracce).
Irdarrastau/ada, agg. Rintracciato/a.
Irdarrellogiàisi, v. Andare fuori
di testa (lett. non avere più orologio mentale).
Irdarrellogiamentu, s. m. Uscita
di senno, temporanea o defintiva.
Irdarrellogiau/ada, agg. Incosciente, imprevedibile. Lett. senza
orologio (mentale).
Irdassadura, s. f. Rottura del filo
di una lama. Viva la loc. a i.
Irdassai, v. Rompere il filo di
una lama (assa): un coltello, una
roncola, una scure, etc. Custus ferrus de pudai funt irdassendusì (que-
247
ste cesoie per la tosatura stanno
perdendo il filo).
Irdassau/ada, agg. Senza più
filo. Detto di lame, coltelli e oggetti da taglio.
Irderrïadura, s. f. Privazione del
cucciolo (rif. alle femmine di selvatici e domestici) da parte dell’uomo e dei predatori selvatici
della terra (volpi) e dell’aria (aquila reale, falco). Usata la loc. a i.
Irderrïai, v. Togliere agnelli,
capretti e porcetti alle madri. Una
craba irderrïada (una capra privata
del suo capretto). Ma si usa anche
nei confronti dell’azione degli animali predatori che possono togliere il cucciolo alla mufla. Cussa
murva dd’at irderrïada s’àbbila
(l’aquila reale ha tolto il mufloncino a quella mufla).
Irderrïau/ada, agg. Privato/a del
cucciolo. In cussu tagliu ’e crabas
m’est partu de àiri ’idu unu pegus i.
(in quel branco di capre mi è sembrato di aver visto un animale privato del suo cucciolo). Vedi érrïu/a.
Irderrigadura, s. f. Lesione alla
zona renale (lett. asportazione dei
reni), dolore in quella sede. Usata
la loc. a i.
Irderrigai, v. Togliere forza alla
zona renale, prostrare, abbattere
(lett. asportare i reni). Su ’e segai
linna m’irderrigat (il taglio della
248
legna mi prostra).
Irderrigau/ada, agg. Privo/a di
colpi di reni, per est. senza forze.
Soi totu i. (mi sento completamente privo di forze).
Irdogadura, s. f. Accecamento
mediante cavatura degli occhi.
Irdogai, v. Cavare gli occhi, accecare. Una bomba dd’at irdogau (una
bomba gli ha cavato gli occhi). In
senso fig. rovinare. Certus erricus
irdogant sa genti (certi ricchi rovinano il prossimo).
Irdogau/ada, agg. Privo/a degli
occhi.
Irdorigadura, s. f. Taglio di orecchie.
Irdorigai, v. Tagliare le orecchie.
Nelle imprecazioni: su buginu e/o
sa giustissïa chi ti irdorighit (il boia
e/o la giustizia che ti tagli le orecchie). Vedi origa.
Irdorigau/ada, agg. Senza orecchie.
Irdorrobbai, v. Svaligiare, saccheggiare una casa, un’auto, etc.
Lett. portar via tutta la roba.Vedi
orrobba.
Irdorrobbatórïu, s. m. Saccheggio.
Irdorrobbau/ada, agg. Svaligiato/a.
Irdorrobberi, s. m. Saccheggiatore.
Irdorrocadura, s. f. Demolizione.
PAOLO PILLONCA
Irdorrocai, v. Demolire, danneggiare gravemente.
Irdorrocau/ada, agg. Demolito/a,
sfasciato/a.
Irdorrocu, s. m. Danneggiamento grave, sfascio. Anche in
senso met. At fatu unu ’rdorrocu
(ha provocato uno sfascio).
Irdorrüamentu, s. m. Taglio dei
rovi.
Irdorrüai, v. Liberare dai rovi un
terreno. Fui totu su mengianu
irdorrüendu (per tutta la mattina
ho tagliato rovi). Anche in senso
fig. per dire del sollievo di una
liberazione da impicci gravi.
Irdorrüau/ada, agg. Liberato/a
dai rovi.
Irganàisi,
v.
Perdere
l’entusiasmo e la voglia di fare.
Vedi gana.
Irganamentu, s. m. Perdita di
entusiasmo e di voglia di fare. Svogliatezza.
Irganau/ada, agg. Senza più
entusiasmo né voglia di fare, svogliato/a.
Irgannadorgiu, s. m. Scannatoio.
Irgannadura, s. f. Sistema di
macellazione che prevede di scannare il bestiame.
Irgannai, v. Scannare. Rif. agli agnelli e capretti ma anche all’uomo.
Dd’at irgannau coment’e un’angioni
(l’ha scannato come un agnello).
Mancarìas. La parlata di Seui
Irgannau/ada, agg. Scannato/a.
Irgüastai, v. Mettere fuori uso,
guastare.
Irgüastau/ada, agg. Messo/a
fuori uso, guastato/a.
Irgüastu, s. m. Guasto, messa
fuori uso, panna. Lüisu at fatu i.
cun su tratori (Luigi ha avuto un
guasto con il trattore).
Irgüastu/a, s. e agg. Rovinato/a,
handicappato/a dalla nascita.
Viene usato anche per indicare un
superdotato sessualmente: est i.
Irgùbbïa, s. f. Sgorbia, attrezzo
degli intagliatori su legno. Gergale
dei falegnami.
Irgubbïadura, s. f. Lavoro con la
sgorbia.
Irgubbïai, v. Lavorare di sgorbia.
Irgubbïau/ada, agg. Trattato/a
con la sgorbia.
Irliscinada/illiscinada, s. f. Scivolata
Irliscinadura/illiscinadura, s. f.
Scivolamento. Quasi sin. di irlìscinu.
Irliscinai/ illiscinai, v. Scivolare.
Irliscinau/ada, agg. Scivolato/a.
Irliscinosu/a, agg. Scivoloso/a.
Irlìscinu/illìscinu, s. m. Scivolata. Dónnïa tanti ferit unu i. (ogni
tanto incappa in una scivolata).
Sin. di irliscinada.
Irmamadura, s. f. Liberazione
della vite dai succhioni.
249
Irmamai, v. Togliere i succhioni
alla vite in modo da lasciare a ciascun ceppo solo la quantità giusta
dei grappoli da portare a maturazione senza sacrificare la piantina. Soi
irmamendu sa ’ingia (sto procedendo a liberare i ceppi dai succhioni).
Irmamau/irmamada, agg. Liberato/a dai succhioni.
Irmengüadura, s. f. Diminuzione, riduzione, calo.
Irmengüai, v. Diminuire, ridurre, calare. Soi meledendu de i. is
crabas (sto pensando di ridurre le
capre).
Irmengüau/ada, agg. Diminuito/a, ridotto/a.
Irmerdada, s. f. Smerdata, riduzione a più miti consigli.
Irmerdai, v. Smerdare. In senso
fig. sbugiardare, svergognare.
Irmerdau/ada, agg. Sbugiardato/a, svergognato/a.
Irmesadura, s. f. Riduzione a
metà, dimezzamento. Candu ddi
naras unu prétzïu fait a i. (quando
gli proponi un prezzo te lo dimezza).
Irmesai, v. Dimezzare, ridurre a
metà. Dd’at nau ca dd’irmesat sa
paga (gli ha detto che gli dimezzerà il salario).
Irmesau/ada, agg. Dimezzato/a.
Irmïoddadura, s. f. Smidollamento.
250
Irmïoddai, v. Togliere il midollo. Met. rendere impotente.
Irmïoddau/ada, agg. Smidollato/a. Funge anche da s. In senso
fig. persona senza carattere, che si
rassegna alle decisioni altrui senza
ribellarsi.
Irmoladorgiu, s. m. Luogo scosceso e pericoloso (lett. in cui si
rischia di rompersi l’osso del collo,
sa mola ’e su sugu).
Irmolai(si),
v.
Rompere/rompersi l’osso del
collo. Più in generale, procurarsi
fratture multiple.
Irmolau/ada, agg. Con il collo
fratturato, politraumatizzato/a.
Irmorimentu, s. m. Spegnimento.
Irmòrriri, v. Spegnere. Rif. al
fuoco e alla luce elettrica: cussu
fogu mi parit ch’est irmorendusindi
(mi sembra che quel fuoco stia per
spegnersi), irmorindedda cussa
lampadina (spegni quella lampadina). Vedi studai.
Irmortu/a, agg. Spento/a. Detto
del fuoco e delle lampade.
Irmurdegai, v. Liberare il terreno dal cisto.
Irmurdegamentu, s. m. Bonifica
del
terreno
attraverso
l’eliminazione del cisto.
Irmurdegau/ada, agg. Libero/a
dal cisto.
PAOLO PILLONCA
Irmurrada, s. f. Percossa diretta
in bocca, lett. sul muso (murru).
In senso fig. vale: risposta dura.
Irmurradura, s. f. L’effetto del
colpo sul muso. M’at iscutu e su
ciafu m’est fertu a i. (mi ha colpito
e il suo schiaffo mi è arrivato sul
muso).
Irmurrai, v. Colpire sul muso.
In senso fig. replicare duramente.
Irmurrau/ada, agg. Colpito/a sul
muso, contestato/a duramente.
Irmurzai, v. Far colazione. Chini
cenat a binu irmurzat a abba (chi
beve molto vino a cena farà colazione con l’acqua).
Irmurzau/ada, agg. Rifocillato/a
con la colazione.
Irmurzu, s. m. Colazione, spuntino.
Irmuscïadura, s. f. Pronunzia
lieve, per sussurri.
Irmuscïai, v. Sussurrare, fiatare,
parlare debolmente. Candu si
dd’apu nau no at mancu irmuscïau
(quando gliel’ho detto non ha
nemmeno fiatato).
Irmùscïu, s. m. Sussurro, accenno di risposta.
Irvïadura, s. f. Svitamento.
Irvïai, v. Svitare. Contr. di viai,
vitare, fissare una vite.
Irvïau/ada, agg. Svitato/a. Anche in senso fig.
Irvirtudai, v. Levare la virtù, to-
Mancarìas. La parlata di Seui
gliere i poteri. Sa luna prena
irvirtudat dónnïa frori (il plenilunio toglie i poteri a tutti i fiori),
se-condo un antico convincimento popolare oggi confermato da
ri-cerche specifiche nel campo
delle erbe medicamentose che
non debbono essere mai raccolte
durante il plenilunio, pena la
totale inefficacia. Ma il v. può
essere riferito anche all’uomo,
soprattutto per ciò che attiene
alla virilità. Unu préidi dd’iat fatu
una maìa e finas a candu non si
nde dd’at isconciada Giüanni fut
irvirtudau e non fut arrennéscïu a
tocai sa pobidda (un prete gli
aveva preparato una ”fattura” e
fino a quando non si decise a disfargliela Giovanni rimase impotente e non riuscì ad avere rapporti con la moglie).
Irvirtudamentu, s. m. Privazione di virtù e/o potere.
Irvirtudau/ada, agg. Privo/a di
virtù in seguito ad eventi contrari,
impotente.
Isca, s. f. Terreno umido. Presente nella toponomastica.
Iscadenai, v. Scatenare. Vedi scadenai e derivati.
Iscambadura, s. f. Debolezza di
gambe.
Iscambai/scambai, v. Tagliare,
indebolire le gambe. Vedi scambai
251
e derivati.
Iscapai/scapai, v. Liberare, sospendere. Trasudare.Vedi scapai e
derivati.
Iscarada, s. f. Quantità sproporzionata. A i. (a dismisura). Benigno
Deplano usa questa espressione in
una poesia citata. Vedi acronnotu.
Ischina/schina, s. f. Schiena,
portamento. Viva la loc. a i. ’ereta.
(con la schiena dritta, ossia con
grande dignità). Vedi schina.
Isci, escl. Stai fermo. Invito rivolto al bestiame domato e/o aggiogato.
Isciaborïadura, s. f. Perdita di
sapore.
Isciaborïai(si), v. Togliere, perdere il sapore. Chi ddi ’etas abba
meda s’isciabórïat (se gli metti
molta acqua perde il sapore).
Isciaborïau/ada, agg. Privo/a di
sapore.
Iscorrutai (si), v. Levare, levarsi
il lutto. Vedi corrutu.
Iscorrutamentu, s. m. Liberazione dal lutto, conclusione del
periodo di lutto e cambiamento di
colore nell’abbigliamento.
Iscorrutau/ada, agg. Senza più
lutto.
Iscrabistadura, s. f. Eliminazione della cavezza.
Iscrabistai, v. Togliere la cavezza.
Vedi crabistu.
252
Iscrabistau/ada, agg. Senza cavezza. In senso fig. vale: senza
freni, scatenato, sregolato, libertino, dissoluto. Est fendu una vida
iscrabistada (conduce una vita sregolata).
Iscramïai, v. Gridare debolmente e in tono lamentevole.
Iscramïau/ada, agg. Gridato/a,
lamentato/a.
Iscràmïu, s. m. Grido piagnucoloso. Rif. a bambini e piccoli animali, domestici e selvatici.
Iscriri/scriri, v. Scrivere. Per il v.
e i suoi derivati vedi scriri.
Iscrófïu/a, agg. Trovato/a, casualmente o dopo ricerca. Part.
pass. di iscròiri.
Iscröidura, s. f. Rinvenimento
casuale o voluto.
Iscròiri, v. Trovare in maniera
difficoltosa o casuale.
Iscùdiri/scùdiri, v. Picchiare,
scuotere far cadere. Per la fraseologia vedi scùdiri.
Iscusa, s. f. Scusa, pretesto.
Iscusai/scusai, v. Perdonare, giustificare, scusare.
Iscusi (a), avv. Nascostamente,
di nascosto. Sempre preceduto
dalla prep. a. Ginu fait totu a i.
(Gino fa tutto di nascosto).
Iscuta/scuta, s. f. Colpo, percossa. Vedi scuta.
Iscuta/scuta, s. f. Breve interval-
PAOLO PILLONCA
lo di tempo. Vedi scuta.
Iscutu/a, agg. Picchiato/a, scosso/a. Part pass. di iscùdiri/scùdiri.
Isfäinadura, s. f. Negligenza,
pigrizia, disoccupazione.
Isfäinàisi, v. Darsi alla negligenza e alla disoccupazione volontaria. Vedi fäina.
Isfäinau/ada, agg. Inoperoso/a,
disoccupato/a.
Isfïudadura, s. f. Entrata in vedovanza.
Isfïudai/iscïudai, v. Diventare
vedovo/a, entrare in vedovanza.
Isfïudau/ada, agg. Diventato/a
vedovo/a.
Isfrisciuradura, s. f. Sventramento, ferita nella zona pettoraleaddominale.
Isfrisciurai, v. Sventrare, togliere
le interiora. Vedi frisciura e.
Isfrisciurau/ada, agg. Sventrato/a.
Ispagliadura, s. f. Spagliatura.
Vanterìa.
Ispagliai/spagliai, v. Spagliare,
liberare il grano dalla paglia. In
senso fig. gloriarsi, vantarsi, essere
troppo loquace. Candu cumentzat
a i. giai est cosa ’e ddu sustènniri
(quando inizia a vantarsi diventa
insopportabile). Vedi paglieri.
Ispagliau/ada, agg. Spagliato/a,
senza più paglia.
Isparessidura, s. f. Scomparsa,
Mancarìas. La parlata di Seui
sparizione.
Isparèssiri, v. Scomparire, sparire. Vedi sparéssiri.
Isparéssïu/a, agg. Sparito/a. Vedi sparéssïu.
Ispassïai, v. Giocare. Ma quando ha per compl. ogg. il s. pl.
castangias (gli alberi di castagno)
indica le ultime operazioni di raccolta, quelle che iniziano ai primi
di novembre e sono libere per
chiunque, finito il periodo riservato ai proprietari dei castagneti.
Ispassïài(si),
v.
Divertire/divertirsi. Vedi spassïai(si).
Ispassïosu/a, agg. Divertente.
Vedi spassïosu.
Ispàssïu, s.m. Divertimento.
Vedi spàssïu.
Ispeddïai, v. Desiderare ardentemente. Viva la loc. a ispeddìu (vedi
gli esempi alla voce A).
Ispeddïau/ada, agg. Desiderato/a
ardentemente.
Ispeddìu, s. m. Desiderio ardente, da non stare nella pelle. Vedi
peddi.
Isperdissïai, v. Dilapidare, sperperare, disperdere un bene. Vedi
sperdissïai.
Isperdissïau/ada, agg. Prodigo/a,
dalle mani bucate. Vedi sperdissïau.
Isperdìssïu, s. m. Prodigalità eccessiva, sperpero. Viva la loc. avv.
253
a i. (attraverso lo sperpero). Vedi
sperdìssïu.
Isperradura/sperradura, s. f. Divisione a metà.
Isperrai/sperrai, v. Dividere a
metà. Mi tocat a ddu s. (lo dovrò
dividere in due).
Isperrau/ada, agg. Spaccato/a,
diviso/a metà. Vedi Perra.
Isprugadura/sprugadura, s. f.
Sbucciatura.
Isprugai/sprugai, v. Sbucciare.
In senso fig. risolvere q.sa. Per la
fraseologia vedi sprugai.
Isprugau/sprugau/ada,
agg.
Sbucciato/a. Risolto/a. Vedi sprugau.
Issoradura, s. f. Eliminazione
del siero dal formaggio.
Issorai, v. Togliere il siero al formaggio durante le ultime fasi della
lavorazione della forma. Vedi soru.
Issorau/ada, agg. Liberato/a dal
siero.
Issu/a, pron. pers. Lei. Anche il
voi di una volta. Issu e ita ndi
narat? (lei cosa ne dice?).
Istadi, s. f. Estate. Il tempo di
minor lavoro dei pastori: in pratica, va dalla tosatura all’imminenza
delle prime nascite di agnelli e
capretti. È la stagione in cui i contatti si fanno più frequenti e si
socializza meglio negli incontri
conviviali campestri. È anche il
254
tempo delle feste religiose e civili e
dei ritorni in montagna degli emigrati all’estero e dei seuesi che
vivono e lavorano a Cagliari.
Istadu, s. m. Stato, condizione.
Antoni est a istadu legiu (Antonio è
in condizioni pessime). Quando è
privo di attributo, il s. indica una
situazione negativa. Ad es., se una
donna verifica il mancato riassetto
di un ambiente di solito dice: a
nc’est a i. in cust’aposentu (in quali
condizioni è questa stanza).
Istafa/stafa, s. f. Staffa.
Istentai/stentai, v. Ritardare,
arrivare in ritardo. Vedi stentai.
Istentau/istentada, agg. Ritardato/a.
Istentosu/a, agg. Lungo da compiere. Est unu trabbagliu i. (è un
lavoro lungo).
Istentu/stentu, s. m. Ritardo.
Vedi stentu. Presente fra i soprannomi.
Isterrimenta/sterrimenta, s. f.
Stesura. Rif. ai prologhi di poesia
e di canto.
Isterrimentu/sterrimentu, s. m.
Preparazione di un giaciglio.
Istérriri/stérriri, v. Stendere.
Preparare un giaciglio o un letto
sistemando la base di appoggio.
Vedi stèrriri.
Istérrïu/a, agg. Steso/a.
Istertzai/stertzai, v. Sterzare,
PAOLO PILLONCA
cambiare direzione al veicolo in
marcia. Gigi pighendu sa curva
istertzat totu a corpu (Gigi nell’affrontare una curva sterza di colpo).
In questa accezione il v. è di uso
relativamente recente, ma lo si
impiegava e lo si impiega di più nel
significato di: distinguere, discernere, valutare. Linu no istertzat una
craba de un’’erbei (Lino non distingue una capra da una pecora).
Istertzau/ada, agg. Distinto/a,
separato/a.
Istertzu, s. m. Sterzo, sterzata.
Istëuladura/stëuladura, s. f.
Stegolatura. Vedi stëuladura.
Istëulai/stëulai, v. Togliere le
tegole. Vedi stëulai.
Istëulau/ada, agg. Dissennato.
Vedi stëulau.
Istiddïadura, s. f. Gocciolamento. Indica anche il completamento
dell’arrosto allo spiedo quando si
fanno cadere sulla carne gocciole
roventi di lardo fuso.
Istiddïai/stiddïai, v. Gocciolare.
Rif. ai rubinetti difettosi che
lasciano gocciolare acqua. Spruzzare gocce su alimenti, come l’olio
sul pane carasau etc.
Istiddiau/ada, agg. Gocciolato/a.
Si usa soprattutto per indicare la
carne sottoposta a istiddïadura.
Istiddìu/stiddìu, s. n. Goccia.
Vedi stiddìu.
Mancarìas. La parlata di Seui
Istrina/strina, s. f. Regalo, dono.
Istrinai/strinai, v. Regalare. Vedi
strinai.
Istrossa/strossa, s. f. Strozzatura,
pioggia torrenziale. Vedi strossa.
Istrumbuladura, s. f. Pungolatura.
Istrumbulai, v. Pungolare. Vedi
strumbulai.
Istrumbulau/ada, agg. Pungolato/a.
Istrùmbulu, s. m. Pungolo. Vedi
strùmbulu.
Istrumpa, s. f. Antica lotta sarda
fra due contendenti per volta
regolata da norme precise. Ci si
afferra alla cintola e vince chi
atterra l’avversario. Vedi strumpa.
Istrumpadura, s. f. Atterramento.
Istrumpai, v. Atterrare, gettare a
terra, travolgere. Vedi strumpai.
Istruncadura, s. f. Scorciatoia.
Po cöidai apu fatu a i. (per fare più
in fretta ho preso una scorciatoia).
Vedi struncadura.
Istruncai, v. Tagliare, tagliar
corto, scegliere la strada più breve.
Vedi struncai.
Istruncau/ada, agg. Ridotto/a,
abbreviato/a.
Istudai/studai, v. Spegnere. Attualmente meno usato di irmòrriri. Vedi studai.
Istudau/ada, agg. Spento/a. Anche in senso fig. di persona senza
255
più entuasiasmi. Vedi studau.
Isvirtudai, v. Togliere i poteri,
privare della virtù. Vedi irvirtudai.
256
PAOLO PILLONCA
L
Labai, v. Guardare, vedere. Lo si
usa quasi escl. nelle avvertenze.
Labaddu (eccolo). L’esortativo
laba (guarda) è spesso oggetto di
apocope (la’). Nelle esortazioni: la’
ca orruis (guarda che cadi), la’ ca
funt erribbendu, (guarda che stanno per arrivare), etc.
Làcana, s. f. Confine. Generalmente indica il limite tra un territorio comunale e un altro. Si usa
anche in senso met. per dire del
limite naturale che ciascuna azione ha in sé dalla norma non scritta del codice comportamentale e
da quella del buon senso.
Lacanai, v. Segnare il confine tra
terroritori appartenenti a Comuni
diversi. Su sartu ’e Seui làcanat cun
Ulassa in s’errìu (il fiume segna il
confine tra il territorio di Seui e
quello di Ulàssai).
Lacananti, s. m. Confinante.
Indica un cittadino di un paese
limitrofo o un vicino di pascolo.
Lachitu, s. m. Contenitore di
piccole dimensioni, in pietra o
legno. Funge da mangiatoia e
abbeveratoio. Vedi allachitai.
Lacu, s. m. Vasca in pietra o
cemento per raccogliere l’acqua da
destinare agli orti. Lacu ’e mola
definisce invece il cassone ligneo
della vecchia macina asinaria.
Ladàrïa, s. f. Larghezza. Vedi
longàrïa.
Ladu/a, agg. Largo/a. Tuttora
molto usato il prov. in peddi agliena corria l. (la pelle altrui si taglia a
corregge larghe). Frequente anche
l’espr. cantu longu l. (lungo e largo
alla stessa maniera), sia per indicare persona molto bassa e grassa sia
per dire di una caduta improvvisa
e scomposta.
Ladus, s. m. Lato di un animale
macellato. Voce gergale dei pastori. Vedi illadarai.
Ladus de frutu, s. m. Accordo di
compartecipazione alla resa. Una
delle forme più frequenti di contratto pastorale fra i proprietari di
bestiame e i conduttori. Vedi la
loc. a l. d. f. nelle esemplificazioni
sotto la lettera A.
Läinosu/a, agg. Deperito/a,
smagrito/a, in rif. ad uomini e animali. Nella parlata di Seui, diver-
Mancarìas. La parlata di Seui
samente da altre di paesi vicini,
l’agg. non assume mai il senso di
sporco, schifoso etc. Né esiste il s.
läina, come sin. di escremento.
Lamada, s. f. Chiamata, avviso.
Lamai, v. Chiamare. A voce o
per telefono. Fui lamendudì (ti
stavo chiamando), ti lamu custu
merì (ti chiamo stasera).
Lamau/lamada, agg. Chiamato/a, avvisato/a.
Làmbriga, s. f. Lacrima.
Lambrigai, v. Lacrimare, piangere.
Lambrigamentu, s. m. Lacrimazione.
Lambrigau/ada, agg. Lacrimato/a, pianto/a, rimpianto/a.
Lambrigosu/a, agg. Lacrimoso/a.
Lamenta, s. f. Lamentazione,
lamento, protesta.
Lamentai, v. Protestare, lamentare. Ma in questa accezione, soprattutto nella forma rifl. è tuttora
largamente preferito chesciàisi.
Lamentau/ada, agg. Lamentato/a.
Làmpadas, s. m. Giugno.
Lampai, v. Lampeggiare, scatenarsi dei fulmini. Può essere accompagnato, a seconda dei casi, da
entrambi gli ausiliari. Est lampendu
totu su mengianu (è da stamattina
che si vedono fulmini), at lampau
meda (sono caduti molti fulmini).
257
Lampalugi, s. m. Primo bagliore
mattutino, chiaroscuro, balenìo,
lampeggio. L’espr. biri a l. indica
una visione limitata e come offuscata dalla scarsezza della luce.
Esiste anche la variante int’e lampu
e lugi nel medesimo significato.
Lampamentu, s. m. Lampeggio.
Lampau/ada, agg. Lampeggiato/a.
Lampu, s. m. Lampo, fulmine.
S’àiri est prena ’e lampus (l’aria è
piena di fulmini). Usato come
esclamazione e imprecazione (l.
ddi calit, sia fulminato).
Lana, s. f. Lana. Delle pecore,
soprattutto. Ma come dev. di allanai, vale muffa. Nel gergo dell’eros, la peluria del pube femminile.
Lana becia (lana vecchia) è
l’epiteto di chi non sottilizza sull’età delle donne da conquistare.
Questa espr. figura nei soprannomi.
Lanarrangiu, s. f. Ragnatela.
Lett. lana di ragno. Vedi arrangiolu e arrangiu.
Landi, s. m. Ghianda. Usato anche come collettivo. Ddu at meda
l. ocannu in padenti (quest’anno la
foresta è particolarmente ricca di
ghiande).
Langiu/ a, agg. Magro/a. Per est.
lo si riferisce anche a magrezze
metaforiche sulla inconsistenza di
258
certi modi di argomentare. Cussa
’essida fut langia (quell’uscita era
magra).
Làntïa, s. f. Lampada, lanterna
funeraria.
Lantïoni, s. m. Lampione. Lett.
grande lanterna. Figura nei soprannomi.
Lantzada, s. f. Fascia larga in
cotone con cui fino ad una trentina di anni fa si avvolgeva il dorso
dei neonati.
Lantzoru/ lentzoru, s. m. Lenzuolo.
Larderi, s. m. Striscia cospicua
di lardo che si separa dalla carne
nei giorni successivi all’uccisione
dei maiali per essere salata, conservata e consumata nei mesi seguenti fino alla provvista dell’inverno
appresso.
Lardu, s. m. Lardo. Indica
soprattutto il lardo del maiale che
dopo la salagione rappresentava
una delle risorse della cucina rustica di una volta. Ancora molto
usata l’immagine che l. in sali
(come il lardo tra il sale). Per est. e
in senso ir. si può riferire anche
all’uomo. Ndi portas de l. (ne hai
di lardo, sei molto ingrassato).
Largàrïa, s. f. Larghezza.
Largu/a, agg. Largo/a, vasto/a.
Lascu/a, agg. Afflosciato/a,
largo/a, sfilacciato/a.
PAOLO PILLONCA
Lassai, v. Lasciare, trascurare,
abbandonare. Ddu lassu ’e sèi (lo
lascio perdere), non lassu a nemus
(non abbandono nessuno). Prestare. Mi ddu lassas su cüaddu? (me lo
presti il tuo cavallo?). Vendere
trattando sul prezzo. Mi dd’at lassau a baratu (me lo ha venduto a
prezzo scontato).
Lassau/ada, agg. Lasciato/a,
abbandonato/a. Viva l’espressione
fatu e l. per dire di uno che non ha
migliorato affatto.
Lassu, s. m. Lacciolo, trappola
per piccoli animali.
Làstima, s. f. Commiserazione,
pietà, compassione. Est una l. a
ddu biri (il vederlo fa compassione). Molto usato in due esclamazioni di segno opposto: l. (che
peccato) e ita l. (ben gli sta),
quando si parla di una punizione
meritata.
Làstimai, v. Commiserare, aver
pietà. Ddu làstimat sa ’idda intrea
(lo commisera il paese intero).
Lastimau/ada, agg. Commiserato/a.
Lastimosu/a, agg. Compassionevole, di animo sensibile.
Lati, s. m. Latte. Della mamma
che allatta il bambino e degli animali che si mungono (capre, pecore
e vacche). Ma anche il liquido lattiginoso come il succo dell’euforbia
Mancarìas. La parlata di Seui
(lati ’e lua). Vedi allatai e lua.
Làtïa, s. f. Lattuga.
Latranga, s. f. Sottocoda, parte
della sella, ora praticamente negletta e messa fuori uso. In senso
fig. persona noiosa.
Latrangosu/a, s. e agg. Attaccabottoni.
Läudai, v. Lodare, riconoscere
meriti.
Läudatzïoni, s. f. Làude.
Läudau/ada, agg. Lodato/a riconosciuto/a meritevole.
Läuéru, s. m. Alloro (laurus
nobilis). L’albero poetico per eccellenza ha un uso più prosaico nella
vita comunitaria: le sue foglie si
utilizzano per tisane e decotti, oltre
che per aromatizzare salse e zuppe.
Läuneddas, s. f. Antichissimo
strumento musicale a tre canne tumbu, mancosa e mancosedda -,
patrimonio millenario venuto a
noi come per un prodigio dalle
nebbie della preistoria.
Làvara, s. f. Labbro. Al plurale is
lavras, con caduta della a interconsonantica.
Lavaredda, s. f. Piccolo labbro.
Lea, s. f. Grumo. Di sangue, in
genere (una l. ’e sànguni).
Lëai/lïai, v. Prendere. Vedi lïai.
Lebïesa, s. f. Leggerezza.
Lébïu/a, agg. Leggero/a, agile.
Vedi illebïai.
259
Legiori, s. m. Bruttezza.
Legiu/a, agg. Brutto/a, detto di
persone e animali. Quasi un luogo
comune, ormai, la similitudine l.
che cani (brutto come un cane), l.
che-i s’annada mala (brutto come
la cattiva annata). Vedi illegiai.
Lèi, s. f. Legge. Chi est l. depit
éssiri l. po totus (se è legge deve
essere legge valida per tutti). Pres.
nella toponomastica per la collina
e il nuraghe omonimi nella parte
inferiore delle terre comunali.
Lénïa, s. f. Linea ferroviaria. Peri
l., lungo la ferrovia.
Lentina, s. f. Avvisaglia di pioggia a gocce di solito piccole e sempre rade, spruzzo di acqua piovana. Usato il dim. lentinedda (pioggerellina).
Lentinada, s. f. Pioggerella,
spruzzata d’acqua. At fatu una l.
ma at sentzau inderetura (è venuto
giù un inizio di pioggia ma ha
subito smesso).
Lentinai, v. Iniziare a piovere.
Est lentinendu, inizia a piovere.
Lentinau/ada, Spruzzato/a.
Lentinedda, s. f. Primissimo
annuncio di pioggia, a gocce rade.
Lentori, s. m. Rugiada. Desueto.
Vedi allentorai.
Lentu/a, agg. Lento/a, poco sveglio.
Lentza, s. f. Lenza. Sia quella del
260
pescatore sia quella del muratore.
Lenu/a, agg. Lieve, lento, leggero. Cand’est erribbau a domu sua,
Linu fut a brenti l. (quando è arrivato a casa sua, Lino aveva lo stomaco leggero).
Lepa, s. f. Coltello a serramanico costruito a regola d’arte.
Lèpi-lèpi, loc. avv. Sul punto di
chiudersi per il sonno. Si tratta di
loc. scherzosa in rif. precipuo agli
occhi di un bambino o di un dormiglione.
Lepuciu, s. m. Coltello a serramanico di piccola dimensione e di
scarsa qualità. Se è piccolissimo si
chiama lepuceddu. Pres. nei soprannomi.
Lepureddu, s. m. Leprotto.
Lepurinu/a, agg. Dal colore
della lepre, simile alla lepre.
Lépuri, s. m. Lepre (lepus mediterraneus). Pres. in un toponimo,
Su Pranu de is lépuris (il pianoro
delle lepri), appena sotto il nuraghe di Ardasai, a circa mille metri
di quota.
Lepuritanu, s. m. Ciclamino.
Lestresa, s. f. Sveltezza.
Lestru/a, agg. Svelto/a, veloce.
La loc. avv. a l. significa: presto,
velocemente.
Létïa, s. f. Catafalco. Una delle
maledizioni più terribili che si
registrino nella parlata di Seui si
PAOLO PILLONCA
riferisce proprio a questo s. Ancu ti
pèdanta su ’estiri ’e sa l. (per te
chiedano alla carità del paese il
vestito per il catafalco).
Letu, s. m. Letto.
Levadora, s. f. Levatrice, detta
anche mäista ’e partu.
Levanti, s. m. Levante, oriente.
Lïai/lëai, v. Prendere, esigere. Po
unu trabaglieddu ’e mes’ora ndi leat
binti éurus (per un lavoretto di
mezz’ora prende venti euro).
Rubare. Is porceddus nde ddus at
lïaus cuddu strangiu de s’atra ’orta
(i maialetti li ha rubati quel forestiero dell’altra volta).
Libba, s. f. Libbra, antica misura di peso corrispondente a 400
grammi, l’equivalente di dodici
once. Vedi untza.
Libbertadi, s. f. Libertà.
Libbertadura, s. f. Liberazione,
riordino.
Libbertai/illibbertai, v. Liberare, vuotare, riordinare. Imoi illibbertaus sa cogina (ora riordiniamo
la cucina).
Libbertau/ada, agg. Liberato/a,
vuotato/a, riodinato/a, ripulito/a.
Usata anche la variante libbertu/illibbertu.
Libbureddu, s. m. Opuscolo,
piccolo libro, librino.
Libburetu, s. m. Libretto, il
quaderno nero su cui i negozianti
Mancarìas. La parlata di Seui
segnavano il debito di chi acquistava a credito e sistemava tutto
alla fine di ogni mese o anche con
altre scadenze.
Lìbburu, s. m. Libro.
Liceu, s. m. Liceo.
Licori, s. m. Liquore. Il s. si usa
anche quando si vuole elogiare un
vino buono per davvero: est unu l.
(è un liquore).
Lidigori, s. m. Livido. Soi orrutu
e m’apu fatu unu l. mannu (sono
caduto e mi sono procurato un
grosso livido).Vedi allidigorai.
Ligérïu/a, leggero/a. Rif. al vino
e alle bevande poco alcoliche.
Lìgiri, v. Leggere. Il part. pass. è
lìgïu.
Lilla, s.f. Pene. Termine met.
giocoso. Pres. nei soprannomi.
Esiste la variante lillìa. Vedi anche
pica.
Lillu, s. m. Giglio. Usato in
senso antifrastico quando si vuole
indicare una persona poco bella
e/o corretta. Giai ses unu l. bellu
(sei proprio un bel giglio).
Lima, s. f. Lima.
Limadura, s. f. Limatura.
Limai, v. Limare.
Limau/ada, agg. Limato/a. Pres.
nei soprannomi al maschile.
Limba, s. f. Lingua. Sia l’organo
della bocca di uomini e animali,
sia il complesso di parole e suoni
261
che costituiscono il patrimonio
genetico di un popolo e ne esprimono lo spirito profondo nei suoi
principali valori di riferimento del
lavoro, della resistenza agli imprevisti della vita, della giustizia, della
solidarietà, della lealtà, dell’onore
e della parola virtuosa. In senso
fig. questo s. viene usato a definire chi si sa difendere molto bene a
parole: bella l. portas (hai proprio
una bella lingua) e chi dice pane al
pane: arratza ’e l (che razza di lingua). Uno che non governa la
comunicazione e si fa trascinare
dalla furia verbale del momento è
definito illimbau, lett. senza lingua.
Limbassa, s. f. Batacchio osseo
di un campanaccio.
Limbassu, s. m. Acetosella
(Rumex acetosella), pianta erbacea
somigliante al trifoglio, di sapore
acido, della famiglia delle oxalidacee: se ne estrae il sale di acetosella, impiegato in tintoria e come
smacchiatore di ruggine e inchiostro.
Limbicadura, s. f. Distillazione.
Limbicai, v. Distillare (acquavite dalle vinacce).
Limbicheri, s. m. Distillatore,
amante di alambicchi e, dunque,
di acquavite. Per est. beone, alcolista.
262
Limbicu, s. m. Alambicco.
Limbudu/a, agg. Linguacciuto/a. Poco usato.
Liminargiu, s. m. Limitare dell’uscio di casa.
Limoni, s. m. Limone. In senso
fig. seno di donna. Desueta la metafora andaus a sa festa de is limonis (andiamo a pomiciare), molto
in voga fino a pochi decenni orsono.
Limpïadura, s. f. Ripulimento,
pulizia. Vedi illimpïadura.
Limpïai/illimpïai, v. Ripulire.
Vedi illimpïai e illimpïau/ada.
Limpïori, s. m. Pulizia.
Lìmpïu/a, agg. Pulito/a. In senso
reale e metaforico, ad indicare una
persona onesta e di buona condotta (l. che-i s’oru, netto come l’oro, e
anche l. che isprigu, pulito come
uno specchio). Vedi illimpïai. Il
contr. è brutu/a.
Limùsina, s. f. Elemosina.
Limusinai, v. Elemosinare, chiedere insistentemente.
Limusinau/ada, agg. Elemosinato/a.
Lindirera, s.m. Pettine dai denti
fitti, un tempo adibito all’asportazione dei lendini.
Lìndiri, s. m. Lendine, uovo di
pidocchio.
Lingidura, s. f. Leccamento.
Lìngiri, v. Leccare. Part. pass.
PAOLO PILLONCA
lintu. Espr. idiom. lintu e pintu,
identico e preciso, lett. leccato e
dipinto. In senso fig. adulare.
Lintu/a, agg. Leccato/a.
Linna, s. f. Legna da ardere. In
particolare: erica, corbezzolo, leccio, roverella.
Linnàmini, s. m. Legname da
opera: castagno, noce, ciliegio selvatico, roverella.
Linnàrbu, s. m. Pioppo (populus
alba), lett. legno bianco. Registrato
anche come toponimo: Su L., nel
cuore della foresta demaniale di
Montarbu.
Linnargiu, s. m. Legnaia, localedeposito di legna da ardere. Ha
dimensioni varie, a seconda della
disponibilità dei proprietari, ma la
sistemazione dei diversi tipi di
legna segue criteri precisi ed ha
una disposizione molto ordinata:
gli inverni sono lunghi, in un
paese a 820 metri di altitudine, e
richiedono saperi precisi di utilizzo del legnatico. Per avviare il
fuoco tornano utili i rami di erica
e corbezzolo e la ramaglia di piante d’alto fusto, castagno compreso.
Ma per garantire un riscaldamento funzionale sono indispensabili i
tronchi di leccio e di roverella, talvolta con aggiunta di ciocchi di
corbezzolo e di erica.
Linnosu/a, agg. Legnoso/a.
Mancarìas. La parlata di Seui
Linu, s. m. Linu.
Lïonagi, s. m. Oleandro (nerium
oleander).
Lïonargiu, s. m. Bosco di corbezzoli.
Lïoni, s. m. Corbezzolo (arbutus
unedo). Il s. indica soltanto la pianta (per il frutto vedi ghilisoni).
Liporra, s. f. Cicoria selvatica
(chondrilla juncea), interamente
commestibile, radici comprese.
Lisca, s. f. Lisca di pesce.
Liscinai/illiscinai, v. Scivolare.
Lissa, s. f. Muggine.
Lissìa, s. f. Lisciva, bucato.
Lisu/a, agg. Stinto/a, semiconsumato/a. Detto dei capi di vestiario vecchi e consunti. Vedi allisai.
Lìtara, s. f. Lettera dell’alfabeto.
Scrittura. Non bit de l. (è analfabeta). Lettera. De candu si nd’est
andau no m’at iscritu manc’una l.
(da quando è partito non mi ha
scritto nemmeno una lettera).
Litarau/ada, s. e agg. Letterato/a.
Litaredda, s. f. Letterina.
Lïuru/a, agg. Dritto/a. Vedi allïurai.
Loba, s. f. Coppia. Cudda craba
at angiau a l. (quella capra ha partorito una coppia di capretti).
Lobai, v. Accoppiare. Ma in
questo significato il v. è ormai
desueto. Mantiene solo il senso di
controllare una gallina per verifi-
263
care se sta per fare l’uovo.
Lobu, s. m. Archetto, trappola
per uccelli. Così lo descrive Demetrio Ballicu in Miscellanea (cit.,
pag. 121) parlando di caccia al
merlo: ”L’archetto consiste in un
ramoscello verde e quindi flessibile che si pianta nel terreno e si
curva ad arco tenuto teso da un
cordoncino fatto con crini di
cavallo, il quale termina con un
cappio; in connessione col legaccio si colloca a terra un fuscello
recante l’esca (in genere si tratta di
olive di cui il pennuto si rivela
particolarmente vorace)”.
Lobu, s. m. Ciascuno dei segmenti in cui si divide una salsiccia
(l. ’e sartissu).
Lochìmini, s. m. Dissennatezza.
Sin. di locura.
Locu/a, agg. Dissennato/a,
matto/a, folle. Desueto nel linguaggio della quotidianità, vive
nell’espr. a füeddus locus origas surdas (le orecchie sono sorde davanti alle parole dissennate). Vedi
allochïai.
Locura, s. f. Follia, dissennatezza.
Loddàina, s. f. Donna di basso
rango che gira per le case e si perde
in chiacchiere. Vedi alloddäinàisi e
derivati.
Logu, s. f. Luogo. No andu a
264
perunu l. (non vado da nessuna
parte). Spazio. No ddu at prus logu
(non c’è più spazio).
Lolla, s. f. Loggia, loggiato.
Lompéu/a, agg. Maturo/a. Rif.
escl. ai frutti commestibili degli
alberi.
Lómpiri, v. Arrivare, raggiungere.
Lómpïu/a, agg. Arrivato/a, giunto/a.
Longàrïa, s. f. Lunghezza.
Longu, s. m. Parte finale dell’intestino di bovini e suini (longus),
che si cucina alla brace.
Longu/a, agg. Lungo/a.
Longufresu, s. m. Tasso (taxus
bacata). Specie forestale ritenuta
una sorta di fossile vegetale e forse
perciò chiamata volgarmente albero della morte. Oggi, invece, dopo
la recente scoperta di una molecola anticancro contenuta nella corteccia dell’albero, quel nome
infausto si è mutato in definizione
beneaugurante. Nel territorio di
Seui è presente in vari siti, da
Ardasai alla foresta di Montarbu.
Loradura, s. f. Assottigliamento
mediante coltello.
Lorai, v. Assottigliare con un
coltello adeguato. Detto soprattutto dei bastoni lignei e di tutti
gli oggetti artigianali della stessa
materia che debbono essere resi
PAOLO PILLONCA
più sottili. In senso fig. e scherzoso, se rif. alle persone, indica la
necessità di renderle più sottili. Iat
a bòlliri a ddu l. (sarebbe necessario renderlo più sottile).
Loramentu, s. m. Sin. di loradura.
Lorau/ada, agg. Assottigliato/a
con un coltello.
Lori, s. m. Cereale in genere
(grano, orzo, etc.).
Lóriga, s. f. Attrezzo metallico
circolare. Sia quel piccolo cerchio
in ferro che si attaccava ai muri
esterni delle case e serviva per
legarvi i cavalli, sia gli orecchini in
metallo pregiato (lórigas). Ma non
si usa mai per indicare l’anello
vero e proprio.
Loru, s. m. Correggia di pelle
bovina utilizzata per legare al
giogo le corna dei buoi da traino.
Lua, s. f. Euforbia (euphorbia). Il
liquido biancastro dei rametti di
questo arbusto si chiama lati ’e lua
(latte di euforbia). Vedi lati e
allüai. In senso fig. male, peste,
sventura, veleno.
Luchetu, s. m. Lucchetto.
Luchitu, s. m. Luce di zolfo.
Gergale dei minatori. Presente nei
soprannomi.
Ludargiu, s. m. Luogo pieno di
fango.
Ludu, s. m. Fango. In senso fig.
Mancarìas. La parlata di Seui
vale: scandalo, situazione riprovevole. Nc’est orrutu in su l. (è caduto nel fango).
Lüegu, avv. Sùbito, immediatamente. Lüegu ’enit (arriva subito).
Lugenti, agg. Luminoso/a,
splendente, lucente.
Lugi, s. f. Luce, quella naturale e
quella prodotta dall’uomo. Nel
linguaggio delle metafore e delle
similitudini poetiche, il s. rappresenta una splendida bandiera di
rimandi sentimentali.
Lugìa, n. pr. di pers. Lucia. La
santa che porta questo nome è
venerata da secoli a Seui e la sua
festa si celebra tutti gli anni la
prima domenica di luglio in un
santuario campestre nella località
omonima.
Lùgiri, v. Risplendere. Sa virtudi
lugit che-i s’oru (la virtù risplende
come l’oro). Il v. viene utilizzato
anche in un particolare senso fig.
per dire dei riflessi positivi o negativi nelle azioni di ciascuno.
Franciscu est erricu ma no nde ddi
lugit (Francesco è ricco ma non
per questo brilla), sa bellesa chi
prusu ddi lugit est sa chi portat
anintru (la bellezza che più gli
riluce è quella interiore). A chi
ostenta i propri averi si suole replicare: po ti ndi l. puru (sarà, ma
non se ne vede lo scintillio).
265
Lùgïu/a, Brillato/a, illuminato/a.
Lugori, s. m. Luce lunare. La
luce preferita dai cacciatori di
frodo, oltre che dagli innamorati.
Pres. nei soprannomi.
Lüisu, n. proprio. Luigi. Con la
variante Lüisicu.
Lumbu, s. m. Lombo.
Lumburai, v. Rotolare.
Lùmburu, s. m. Rotolo. Definisce anche il rotolarsi giocoso dei
bambini. Su pipìu est andendu a
lùmburus in terra (il bambino si
rotola per terra). Gomitolo. Unu l.
’e lana (un gomitolo di lana).
Luna, s. f. Luna. Definisce il
satellite della terra e tutto ciò che
gli si lega negli usi comunitari.
Non seus in l. giusta po ’ociri procus
(non siamo nella luna giusta per
ammazzare maiali), po ndi ’oddiri
s’armidda e po segai sa linna tocat a
castïai sa l. (per raccogliere il timo
e tagliare la legna occorre guardare la luna), argüai a chini scupat in
l. prena (guai a chi svina durante la
luna piena). Molti i modi di dire
legati alla luna. Nàscïu in l. ’ona
(nato in buona luna) è chi viene
favorito dalla fortuna nelle ore
cruciali della sua esistenza. Al contrario, nàscïu in l. mala è chi non
gode delle carezze della buona
sorte. Dromiri in s’albergu ’e sa l. è
un’espr. colorita del mondo pasto-
266
rale che definisce con un eufemismo le notti trascorse all’addiaccio
nelle solitudini dei quattordicimila ettari di territorio comunale.
Lunàdiga, agg. Femmina sterile
(detto di pecore, capre, vacche e
scrofe, talora anche delle donne).
Lunis, s. m. Lunedì, il giorno
della luna.
Lùpïa, s. f. Cisti del cuoio capelluto.
Lupinu, s. m. Pastore tedesco.
Talvolta si precisa: cani l. (lett.
cane lupo).
Lurdagu, s. m. Luogo sporco.
Lurtzina, s. f. Pozzanghera.
Lussai, v. Orinare, pisciare.
Desueto.
Lussau/ada, agg. Pisciato/a.
Lussu, s. f. Pipì. Desueto. In uso
fino agli Anni Settanta. Oggi si
usa pisci.
Lutu, s. m. Lutto.
PAOLO PILLONCA
Mancarìas. La parlata di Seui
267
M
Ma, cong. avversativa. Ma, però.
Macànica, s. f. Freno del carro a
buoi.
Macarronada, s. f. Maccheronata.
Macarroni, s. m. Maccherone.
Usato quasi escl. al pl. con la specificazione del tipo che si prepara
e/o si utilizza. In senso fig. allocco,
scimunito.
Maceddai, v. Multare per omessa custodia del bestiame, per
pascolo abusivo e/o per danneggiamento da parte del gregge
incustodito.
Maceddau/ada, agg. Multato/a.
Maceddu, s. m. Contravvenzione in materia di abigeato.
Macellai, v. Macellare.
Macellu, s. m. Macelleria.
Machillotu/a, s. e agg. Pazzerello/a.
Machìmini, s. m. Follia, azzardo, pazzia. Mi parit unu m. (mi
sembra una follia).
Màchina, s. f. Automobile.
Machinista, s. m. Macchinista.
Indica principalmente il conduttore di locomotive a vapore.
Machïori, s. m. Rischio grosso
tanto da essere considerato una follia. Quasi sinonimo di machìmini.
Macia, s. f. Macchia. In senso
reale e fig. Cussa camisa portat una
m. manna (quella camicia ha una
grossa macchia), sa traitorìa est
una m. chi non si podit samunai (il
tradimento è una macchia che
non si può lavare). Vedi amaciai e
derivati.
Macioni, s. m. Ghiozzo. Pres. nei
soprannomi.
Maciteddu, s. m. Gattino.
Macitu, s. m. Gatto. Vedi amacitai e derivati.
Macosu/a, agg. Sinistro/a. Manu
m. (mano sinistra). Diversamente
da altri centri della zona, che
hanno prevalentemente mancosu.
Macu/a, s. e agg. Matto/a,
pazzo/a. M. lìmpïu vale: pazzo
furioso. Nel gergo del gioco delle
carte, Su M. per eccellenza è il
Matto dei tarocchi.
Maddalena, n. pr. di pers. Maddalena. Come santa, Maria Maddalena è la titolare della chiesa
parrocchiale.
268
Maduru/a, agg. Grande. Con
una leggera venatura d’ironia.
Pres. nei soprannomi.
Màfulu, s. m. Tappo superiore
della botte, generalmente in sughero.
Magangia, s, f. Sputo.
Magasinu, s. m. Cantina. Vedi
mangasinu.
Magiori, agg. Primo, maggiore.
Obreri m. è il presidente dei comitati delle feste religiose paesane.
Magistradura, s. f. Magistratura.
Magistrau, s. m. Magistrato.
Maglia, s. f. Maglia.
Magliadura, s. f. Colpo di
maglio. Usato in una loc. avv. (a
m.) per indicare percosse violente.
Magliai, v. Colpire con il
maglio, picchiare. Ddu magliat (lo
picchia per bene). In senso fig.
vale: sprizzare, emanare. Magliat
fogu (sprizza fuoco). Vedi magliu.
Magliau/ada, agg. Picchiato/a,
sconfitto/a, maltrattato/a.
Magligedda, s. f. Maglietta.
Maglioni, s. f. Maglione, pullover.
Maglioreddu, s. m. Vitello. Dim.
di maglioru. Pres. nei soprannomi.
Maglioreddus, s. m. Gnocchetti
della tradizione sarda. Il nome
viene dalla forma particolare, a
suo modo stilizzata, di vitelli in
miniatura.
PAOLO PILLONCA
Maglioru/a, s. m. e f. Vitellone,
manzo/a. Pres. nei soprannomi,
come il dim.
Magliu, s. m. Maglio, martello
ligneo e/o ferreo a due teste.
Attrezzo del falegname e del fabbro.
Mai, avv. Mai. Spesso iterato:
mai mai (giammai) e/o rafforzato:
mai prus (mai più).
Maìa, s. f. Rimedio magico.
Fattura.
Maïargia, s. f. Fattucchiera, strega.
Màida, s. f. Contenitore ligneo
di media dimensione per trasportare a spalle o sulla testa le pietre
di vigne e orti da ammassare poi
in un punto stabilito durante i
lavori di spietramento.
Mäimoni, s. m. Maschera spaventevole. Per est. persona di pessimo aspetto. Parit unu m. (sembra una maschera orrenda).
Mäimuru, s. m. Mulinello. Detto del vento che produce mulinelli d’aria.
Maïolu, s. m. Tramoggia, cassone del mulino che immette il
grano nella macina.
Mäirana, s. f. Maggiorana.
Mäista, s. f. Maestra elementare.
Molto usato anche il dim. mäistedda (maestrina), con lieve venatura scherzosa.
Mancarìas. La parlata di Seui
Mäista ’e partu, s. f. Ostetrica.
Mäistrali, s. m. Maestrale.
Mäistu, s. m. Maestro. Di qualunque arte o professione, che
però va specificata, altrimenti si
rimane sul generico di un magistero indefinito. Con una eccezione:
il fabbro è definito ferreri e non m.
’e ferru, come in altri paesi limitrofi.
Mäistu ’e linna, s. m. Falegname.
Mäistu ’e muru, s. m. Muratore.
Mäistu ’e pannu, s. m. Sarto.
Mäistu/a ’e scola, s. m. e f.
Insegnante elementare, maestro/a.
Mäiu, s. m. Maggio.
Malacarìu/a, agg. Malsano/a.
Pres. nei soprannomi.
Maladìa, s. f. Malattia. Si usa per
definire le patologie vere e proprie,
esclusi dunque i mali leggeri.
Maladitu/a, agg. Maledetto/a.
Convive con maläigïu.
Malafortunau/ada, agg. Malfatato/a, senza fortuna. Mischinu,
cuddu, m. de candu est (pron. er)
nàscïu (poveretto, quello, sfortunato fin dalla nascita).
Malagràtzïa, s. f. Malagrazia,
sgarbatezza.
Maläidongiu/a, s. e agg. Malaticcio/a.
Malàidu/a. s. e agg. Malato/a.
Vedi amaläidàisi.
269
Maläìgiri, v. Maledire.
Maläigïu, agg. Maledetto/a.
Con tutti gli altri tempi del v.
(dd’at maläigïu, lo ha maledetto)
ma non nelle esclamazioni, nelle
quali si usa sempre maladitu/a.
Malandau/ada, agg. Malandato/a, male in arnese.
Malapiga, s. f. Beccaccia.
Malasorti, s. f. Sfortuna, cattivo
destino.
Malassortau/ada, agg. Malfatato/a, sfortunato/a. Vedi malafortunau.
Malavida, s. f. Malavita.
Maleducau/ada, agg. Maleducato/a.
Malesa, s. f. Cattiveria, malizia,
malvagità, cattiva intenzione.
Custu dd’at fatu chene m. peruna
(questo l’ha fatto senza alcuna cattiva intenzione). Contr. di bonesa.
Mali, s. m. Malattia. Il termine è
generico. Quando si vuole precisare, si ricorre alla nomenclatura specifica: su m. caducu è l’epilessia, su
m. mandïadori il cancro, su m. ’e ’s
perdas la calcolosi renale, su m. ’e su
costau la pleurite, su m. frantzesu la
sifilide, etc. Spesso per il cancro,
come se lo si volesse esorcizzare, si
ricorre a una perifrasi: cuddu m.
legiu (quella brutta malattia).
Cunfroma a su m. sa mëigina (a
seconda della malattia il farmaco),
270
sa cadumèntzïa est unu m. chi non
curat (la scempiaggine è una malattia inguaribile). Male, cattiveria,
malvagità. A fàiri m. non cumbenit
(non conviene fare del male).
Mali, avv. Male. At giogau m.
meda (ha giocato pessimamente).
L’espr. torràisi m. vale: dimagrire.
Malibbìu/a, agg. Malvivo/a, sofferente. Si dice di chi è stato sul
punto di morire per ferite o malattie e si trova in uno stato fisico
precario.
Malidadi, s. f. Dolo, inclinazione al male. No ddu at m. (non c’è
dolo), ddu fait chene m. peruna (lo
fa in perfetta buona fede).
Malïestìu/a, s. e agg. Malvestito/a.
Malifüeddau/ada, s. e agg.
Sboccato/a, sconcio/a, dalla parola oscena. Vedi füeddai e füeddu.
Malimbissau/ada, s. e agg. Malabituato/a, viziato/a.
Malincómïu, s. m. Manicomio.
Malingidadi, s. f. Cattiveria,
malignità.
Malingiu/a, agg. Maligno/, astuto/a.
Malïòfiu/a, s. e agg. Malvoluto/a, malvisto/a, antipatico/a.
Malipigau/ada, s. e agg. Malconcio/a, malpreso/a.
Malipostu/a, s. e agg. Malmesso/a.
PAOLO PILLONCA
Malisanu/a, s. e agg. Malato/a
cronico/a, disabile.
Malitentu/a, s. e agg. Maltenuto/a.
Malitorrau/ada, s. e agg. Malridotto/a.
Malitratau/ada, s. e agg. Maltrattato.
Malitrogiau/ada, s. e agg. Malcombinato/a.
Malocu/a, agg. Piuttosto cattivo/a. Pres. nei soprannomi, al
maschile.
Maltesas, s. f. Brucellosi, altrimenti detta febbre maltese o melitense. Nella parlata seuese il s. si
usa al plurale, con l’ellissi del s.
vero e proprio, dal momento che la
denominazione - di per sé un agg.
- nello specifico assume funzione
sostantivale. Per molti decenni la
patologia ebbe a Seui carattere
quasi endemico, date le frequenti
epidemie dovute alla presenza di
migliaia di capi caprini. Vedi
Demetrio Ballicu (Miscellanea, cit.,
pag. 135 e sgg.).
Malu/a, agg. Cattivo/a. Rif. a
persone indica cattiveria d’animo
e/o di condotta. Rif. ad animali e
cose ha vari significati. Est
un’ómini legiu de ’isura e m. de
atzïonis (è un uomo brutto di
aspetto e cattivo nelle sue azioni),
cussa genti est totu m. po natura
Mancarìas. La parlata di Seui
(quella gente è tutta di indole cattiva), po ’igliai is crabas custu est
unu cani m. (per custodire le capre
questo cane è inadatto), ocannu
s’àgina parit m. (quest’anno l’uva
sembra di scarsa qualità), cussa
petza tenit fragu m. (quella carne
ha un brutto odore).
Malucoru, s. m. Avarizia, insensibilità alle necessità altrui.
Mama, s. f. Madre, mamma,
genitrice. Ma questa parola-chiave
di tutte le lingue del mondo ha un
campo semantico molto vasto
anche nel patrimonio lessicale seuese, come in tutte le società umane
legate alla vita all’aria aperta che
mostrano ampi squarci di matrilinearità. Indica anche le femmine
degli altri animali. Custu mascu
parit bonu po is (pron. ir) mamas
(questo ariete sembra buono per le
fattrici). Sa m. de su cafeu è ciò che
rimane del caffè macinato dopo
l’ebollizione dell’acqua.
Mamai, s. f. Madre. Veniva usato
anche come vocativo dai figli che si
rivolgevano alla propria genitrice.
Desueto.
Mamaterra, s. f. Lombrico.
Mamòrïa, s. f. Ricordo. Usato
nell’espressione sa bonamamòrïa,
riferita ai morti che acquistano,
tutti, la dignità di essere ben ricordati, senza eccezione, per il fatto
271
stesso di non essere più tra i vivi.
Mamulada, s. f. Mascherata. In
senso fig. situazione ingarbugliata,
caos, confusione. Est una m. (è
tutto un casino).
Managu/a, agg. Privo/a di manualità. Detto dell’individuo
incapace di usare le mani in maniera passabile, sia pure per faccende di minimo impegno. Vedi
fardugu/a.
Mancai, v. Mancare. Anche nel
senso di avere qualche deficit: su
chi ddi mancat est prus de su chi
tenit (ciò che gli manca è più di
quello che ha). Sbagliare. Apu
mancau (ho sbagliato).
Mancai, Cong. Sebbene, anche
se, nonostante che, magari. M.
prangias non ndi ’scabbullis nudda
(anche se piangi non otterrai
nulla). Frequente l’espr. m. e fessit
(magari fosse così).
Mancàntzïa, s. f. Errore, sbaglio,
inadempienza.
Mancarìas, cong. e avv. Semmai,
nulla in confronto. Ma la traduzione letterale rende solo in parte la
forza di questa parola, che rappresenta un unicum nelle parlate della
zona e non solo. Supponiamo un
breve dialogo. A: Bella Rita. B: M.
Lüisa! (A. Rita è bella. B. Nulla in
confronto a Luisa!).
Mancosa, s. f. Seconda canna
272
delle läuneddas.
Mancosedda, s. f. Terza canna
delle läuneddas.
Mancosu/a, agg. Sinistro/a, mancino/a. Anna scrit a manu m. (Anna
è mancina). Depis andai a manu m.
(devi andare sulla tua sinistra). Ma
prevale la forma macosu.
Mandada, s. f. Offerta di carne a
vicini di casa e amici per l’uccisione
del maiale domestico (su procu
mannalissu). A seconda degli obblighi della famiglia offerente nei confronti del destinatario dell’omaggio, sa m. poteva essere più o meno
copiosa e consistente. Nel primo
caso si trattava di m. manna, nel
secondo di mandadedda.
Mandai, v. Inviare, mandare. Ti
ddu nau eu etotu in càrigas, non ti
ddu mandu a nai (te lo dico io
stesso in faccia, non te lo mando a
dire), dd’apu mandau una lìtara
(gli ho spedito una lettera). Chini
’olit andit, chini non bolit mandit
(chi vuole vada di persona, chi
non vuole mandi), suggerisce un
prov. per dire che le cose importanti vanno trattate, senza intermediari, dal diretto interessato.
Mandau/ada, agg. Inviato/a,
mandato/a.
Mandïola, s. f. Coccinella.
Tuttora ricordata una filastrocca:
Mandiola, mandiola/ bai a Casteddu
PAOLO PILLONCA
e bola/ e betimì un’aneddu, etc.
Mandronassu/a, s. e agg. Tendente alla pigrizia.
Mandroni/a, s. e agg. Pigro/a,
fannullone/a. Vedi ammandronàisi
e prëissosu/a.
Mandronìa, s. f. Pigrizia, svogliatezza, negligenza. Vedi prëìssa.
Manera, s. f. Modo, maniera.
Manerosu/a, agg. Di buone
maniere, attivo, abile.
Màngana, s. f. Vernice colorata
di tinta variabile (preferiti il rosso
e il verde), messa sulla lana delle
pecore durante le vaccinazioni o
altre terapie generiche e/o specifiche, per segnalare l’operazione
avvenuta e dunque evitare che il
pastore si confonda e la ripeta.
Vedi amanganai.
Mangasinu, s. m. Cantina.
Usata anche la variante magasinu,
senza distinzione.
Mangoni, s. m. Airone. Pres. nei
soprannomi.
Màniga, s. f. Manico.
Manigiai, v. Trattare, manipolare, preparare. Lett. lavorare con le
mani. Depu m. s’ortu (devo preparare l’orto). Per est. indica anche i
maneggi poco chiari.
Manigiau/ada, agg. Trattato,
maneggiato/a, lavorato/a.
Manigiu, s. m. Trattamento,
lavoro. Ma anche, più raramente,
Mancarìas. La parlata di Seui
nel senso di imbroglio, trama. E
ita totu manigius ses fendu? (quali
trame vai ordendo?).
Mannalissa/u, agg. Animale
allevato in casa o comunque in
ambito semidomestico. In particolare, ci si riferisce alla capra (sa
craba m.) e al maiale (su procu m.).
Mannalissargiu, s. m. Conduttore di capre mannalissas. Fino a
pochi decenni fa a Seui e in molti
altri paesi di montagna era vivo
l’uso di ricoverare nel centro abitato - dall’imbrunire allo spuntare
del nuovo giorno - il branco comunitario di capre, che veniva condotto al pascolo all’alba e riportato in
paese alle prime ombre della sera
da un pastore che riceveva da ciascun proprietario una ricompensa
mensile. Questa usanza rimase viva
a Seui fino ai primi anni Settanta.
Il s. viene anche usato in senso ir. se
ci si vuole riferire a un pastore che
tiene le sue pecore a poca distanza
dal paese e non affronta le difficoltà e i rischi della pastorizia vera e
propria, con lunghe permanenze in
ovili e pascoli lontani dal centro
abitato.
Mannàrïa, s. f. Grandezza,
dimensione, estensione.
Manniteddu/a, agg. Grandicello/a.
Mannitu/a, agg. Grandetto/a.
273
Mannoci, agg. Piuttosto grande.
Indeclinabile, sempre uguale a sé
stesso, nel m. come nel f.
Mannoi, s. m. Nonno. Ma in
questa accezione il s. è desueto. Lo
si usa quando si vuole invitare un
bambino a non fare i capricci perché ormai deve essere considerato e
grandicello: acabbadda, m. (smettila, nonnino).
Mannu/a, agg. Grande. Quando
è reiterato ha valore di sup. ass.
Mannugu, s. m. Mannello,
covone. Viva nell’uso popolare
l’espr. met. segai su m. in manus
(interrompere
bruscamente
un’azione altrui, sconvolgere i
piani).
Manobbru, s. m. Manovale,
aiuto muratore.
Manovali, s. m. Operaio non
qualificato.
Manta, s. f. Coperta.
Manteddu, s. m. Mantello. In
senso ir. soprabito di foggia inelegante.
Mantelafu, s. m. Materasso.
Mantenimentu, s. m. Vitto.
Mantènniri, v. Mantenere, sostentare. Ninu est unu mandroni
spaciau, ddu mantenit sa pobidda
(Nino è un poltrone totale, lo
mantiene la moglie).
Mantésïu/a, agg. Mantenuto/a.
Mantu, s. m. Copricapo di pan-
274
no rosso del costume tradizionale
femminile.
Mantzavida, escl. di imprecazione e maledizione. Vai in malora!
Originariamente sarebbe mai in sa
vida (lett. mai nella vita), dunque
è una corruzione. Si usa negli
alterchi, quando ci si trova di
fronte a un diniego ostinato, ad
es. del figlio alla madre. No ndi
’olis? Mantzavida (Non ne vuoi?
Vai in malora).
Manu, s. f. Mano. La destra
viene detta m. ’ona, la sinistra m.
macosa, soprattutto quando si indica la direzione da prendere. Abilità
manuale. Portat una bella m. (ha
una bella mano). Segmento di partita nel gioco delle carte. Facu custa
m. e ti lassu is cartas ca non possu
abarrai prusu (gioco questa mano e
ti lascio le carte perché non posso
più restare). Il s. dà luogo a qualche
loc. avv. Vedi le voci relative alle
prep. A, De, In, Cun.
Manuda (a), s. f. Mano nuda.
Preceduto dalla prep. a diventa
una loc. avv. con il significato di:
con le sole mani, senza altro
mezzo che le mani. Arremundu
piscat sa trota a m. (Raimondo
pesca le trote con le mani).
Manüela, n. pr. di pers.
Emanuela. Usato anche il dim.
Manüeledda.
PAOLO PILLONCA
Manüeli, n. pr. di pers. Emanuele.
Maràndula, s. f. Guanciale dei
suini. In senso ir. e rif. all’uomo:
guancia grassa, pinguedine. Bella
m. t’as cuncordau (sei ingrassato
molto).
Marcadura, s. f. Marchiatura del
bestiame.
Marcai, v. Marchiare, effettuare
la marchiatura del bestiame applicando i marchi comunali e padronali. Is angionis ddus eus marcaus
eriseru, is purdeddus cras a mengianu (gli agnelli li abbiamo marchiati ieri, i puledri li marchieremo
domattina). Segnalare, annunciare
un evento. Su pegus marcat su tempus malu (il bestiame segnala
l’arrivo del maltempo). Vivo il
modo di dire impersonale marcat
mali (è un brutto segno).
Marcau/ada, agg. Marchiato.
Marcheta, s. f. Versamento contributivo. At trabbagliau a piciocheddu in miniera ma non tenit
marchetas betadas (da ragazzino ha
lavorato in miniera ma non gli
sono state versate le marchette). In
senso dispregiativo, con palese
allusione di carattere morale, il s.
vale: marchetta, prostituzione.
Nd’at fatu ’e marchetas, cussa (ne
ha fatto di marchette, quella lì).
Mardi, s. f. Scrofa. Il termine è
Mancarìas. La parlata di Seui
usato anche in un’espressione
figurata particolare, tra l’ironico e
lo sdegnato: tenit un’errisu ’e m.
angiada, ride come una scrofa che
ha partorito (e dunque difende
preventivamente i suoi cuccioli
con grugniti sordi a bocca spalancata che somigliano a una sorta di
risata minacciosa).
Mardïedu, s. m. L’insieme delle
femmine non primipare del gregge.
Nome coll. Vedi bagadìu/’agadìu.
Mardi ’e sirba, s. f. Cinghialessa
(scrofa di selva). Espressione gergale di pastori e cacciatori. Vedi
sirba.
Mardina, s. f. Femmina del
cervo. Gergale.
Margiani, s. m. Volpe (Vulpes
Ichnusae). I pastori si difendevano
da questi predatori temutissimi
anche ricorrendo alle formule
magiche di ”legamento”. Vedi
àbbila, acapïai e scapïai. La simulazione di morte, finzione in cui si
rifugia questo selvatico elevato a
simbolo di astuzia, nella parlata di
Seui viene definita su mortu m.
(lett. la morta volpe) e si può riferire anche alle persone che fingono di dormire. Vedi groddi.
Margianinu/a, agg. Volpino/a,
nel senso di astuto/a. Con venatura di disprezzo.
Mari, s. m. Mare. Viva l’espr. no
275
agatat manc’abba in mari (non
riesce nemmeno a trovare acqua in
mare). In senso fig. vale: una grande quantità. Ddu iat unu m. ’e
genti (c’era una folla enorme).
Màriga, s. f. Brocca. Indica sia il
contenitore in terracotta - di varia
dimensione e misura - utilizzato
per l’acqua, sia quello metallico di
capacità fissa (12,50 litri) che si
usa per il vino. Ma in quest’ultimo
caso si specifica: màriga po binu.
Marigori, s. m. Amarezza, amaritudine. Anche in senso traslato.
M’at abarrau unu m. mannu (mi è
rimasta una grande amarezza).
Marigosu/a, agg. Amaro/a.
Ovviamente, anche in senso fig.
Marineri, s. m. Marinaio.
Marisciallu, s. m. Maresciallo.
Màrmuri, s. m. Marmo.
Marmurinu/a, agg. Marmoreo/a.
Marradori, s. m. Zappatore.
Marradura, s. f. Zappatura.
Marrai, v. Zappare. Molto utilizzato anche met. per indicare
un’impresa difficile: igui ddu-i
marras (lì te la dovrai sudare, non
ti sarà facile).
Marranu, s. m. Marrano. Esclamazione di sfida, spesso accompagnata da tirri.
Marrau/ada, agg. Zappato/a.
Marrongiu, s. m. Zappatura.
Marroni, s. m. Zappa. Se è pic-
276
cola si chiama marroneddu (zappetta).
Marteddada, s. f. Martellata.
Marteddadura, s. f. Martellamento.
Marteddai, v. Martellare. Gergale dei fabbri. In senso fig. un
insistere ostinato.
Marteddau/ada, agg. Martellato/a.
Marteddu, s. m. Martello.
Ustao anche il dim. marteddeddu.
Martinica, s. f. Contrabbando,
mercato nero.
Martinicheri, s. m. Contrabbandiere. Figura in una strofe
della canzone satirica in senari
doppi Eus agatai, scritta nell’immediato secondo dopoguerra da
Benigno Deplano: Eus agatai/ is
ferrovïeris,/ is martinicheris/ de professïoni./ In istatzïoni/ non cöigliat
cascia:/ tziu Pala Bascia/ nudda ndi
scit nai.
Martis, s. m. Martedì.
Màrturu/a, s. e agg. Paralitico/a.
Costretto/a all’immobilità da
malattia o trauma.
Martzali, agg. Marzolino/a. Vivo
il modo di dire Pasca m. annada
mortali (Pasqua di marzo, annata
di decessi).
Martzu, s. m. Marzo.
Maschitu, s. m. Ariete giovane.
Cussu m. ddu lassu po arratzai
PAOLO PILLONCA
(quel piccolo ariete lo destinerò
alla riproduzione). Mufloncino di
età non superiore ai tre anni. In-dun’arèi ’e murvas ddu iat unu bellu
m. (in un branco di mufle c’era un
bell’ariete giovane). Vedi mascu.
Masconi, s. m. Maschione, ragazzone. Il s. è usato in senso giocoso nei confronti dei giovanotti
di belle speranze. Beni a innoi, m.
(vieni qui, giovanotto).
Mascu, s. m. Maschio. Riferito a
uomini e animali. Nel gergo degli
ovili - in assenza di ulteriore specificazione - indica il montone.
L’ariete capobranco si chiama m. ’e
ghia perché sta in testa al gregge e
lo guida al pascolo. Il muflone è
definito m. ’e murva, il caprone
semplicemente crabu. Il dim.
maschitu si applica all’ariete giovane e al mufloncino fino ai tre
anni.
Mascu ’e murva, s. m. Muflone.
Vedi murva.
Masedu/a, agg. Mansueto/a,
docile. Lo si usa soprattutto in
riferimento agli animali, ma in
senso ir. lo si riferisce anche agli
uomini. Vedi amasedai.
Masonada, s. f. Tavolata pantagruelica.
Masoni, s. m. Piccolo gregge.
Figura nella toponomastica (M.
Moru, nella foresta di Montarbu, e
Mancarìas. La parlata di Seui
M. ’e Antoni, quasi al confine con
il territorio di Seulo).
Massa, s. f. Pancia, trippa, ripieno. Sa m. de is culurgionis (il ripieno dei ravioli di patate). In senso
fig. bene materiale.
Massaïa, s. f. Padrona di casa,
massaia.
Massaïu, s. m. Contadino.
Massàmini, s. m. Ventrame,
interiora. In senso fig. beni materiali, ma con chiara venatura dispregiativa. Ndi tenit de m. (ne ha
di roba).
Massarìa, s. f. Agricoltura. Desueto.
Massïai, v. Masticare. In senso
fig. faticare, penare, soffrire. Ddu
at dépïu m. (ci ha dovuto faticare).
Massidda, s. f. Mascella. Desueto.
Màssïu, s. m. Boccone (lett.
masticazione). Usato quasi escl. al
pl. Frequente nell’espr. sarcastica a
malus màssïus (controvoglia, masticando amaro), in rif. a chi è costretto ad ingoiare un rospo particolarmente difficile.
Massu, s. m. Masso, mucchio.
Massudu/a, agg. Panciuto/a.
Detto soprattutto delle focacce
con troppa mollica.
Mata, s. f. Pianta, albero. Genericamente, salve ulteriori specificazioni: una m. de ìligi, de nugi,
277
de castangia, de orroli, de süergiu
(una pianta di leccio, noce, castagno, roverella, quercia da sughero).
Matafalua, s. f. Anice (pimpinella anisum), piantina e seme.
Matedu, s. m. Vegetazione.
Luogo alberato. Vedi mata.
Matèrïa, s. f. Pus.
Matoni, s. m. Cespuglio, intrico, macchione. Definizione generica, salve eventuali precisazioni:
m. ’e orrù (cespuglio, intrico di
rovi), m. ’e tùvara (cespuglio di
erica), etc. Presente nei soprannomi.
Matoni, s. m. Mattone. Superstrato it.
Matraca, s. f. Raganella.
Matrìcula, s. f. Matricola.
Matriculai, v. Matricolare, apporre il numero di matricola.
Matriculau/ada, agg. Matricolato/a.
Matròddiga, s. f. Donnone
imponente e poco agile.
Matrona, s. f. Matriarca, donna
che impone la propria volontà.
Matucheddu/a, agg. Grandicello/a.
Matucu/a, agg. Assai grande.
Mäugia, s. f. Bamboccio grossolano di pezza. In senso fig. donna
malvestita e poco curata.
Màulai, v. Miagolare.
278
Màulu, s. m. Miagolio.
Mäurreddu/a, agg. Sulcitano/a.
Mazina, s. f. Stregoneria, sortilegio, fattura.
Mazinera, s. f. Strega, fattucchiera.
Mécuda, s. f. Menta (mentha longifolia). Municipalismo. Antonio
Sanna, compianto Maestro di linguistica dell’Università di Cagliari,
si incantava davanti a questo s. che
non aveva mai sentito altrove.
Meda, avv. Molto. Mi fait erriri
m. (mi fa ridere molto), no nci ’olit
m. (non ci vuole molto).
Medassa, s. f. Matassa.
Medïanu, s. m. Mediano. In
tempi recenti è entrato nella parlata seuese come gergale del gioco
del calcio, per indicare quei giocatori che si muovono prevalentemente nella zona centrale del
campo di gioco.
Medïanu/a, agg. Mediocre, di
medio rilievo.
Mediglioni, s. m. Miscuglio,
travaso. Ir.
Mediri, v. Misurare. Vedi mesurai.
Meditu, avv. Non poco, assai.
Una sorta di diminutivo di meda,
se si potesse fare il dim. degli avv.
Meda fut su landi? M. (erano
molte le ghiande? Abbastanza).
Medìu/a, agg. Misurato/a. An-
PAOLO PILLONCA
che in senso met.
Médïu/a, agg. Matto/a. Riferito
agli animali, specie alle pecore
(mascu m. montone impazzito),
talvolta usato scherzosamente
anche nei confronti delle persone:
paris unu m. (sembri un pazzo).
Vedi amedïai.
Meglius, avv. Meglio.
Mèiga, s. f. Cura, rimedio.
Quando si usa questo s. ci si riferisce soprattutto alle cure parallele
alla medicina ufficiale, sia quelle a
base di erbe sia quelle fondate
sulla forza delle parole magiche.
Mëigadori/a, s. e agg. Persona
pratica nel curare determinate
malattie con rimedi popolari,
fuori dalla medicina ufficiale.
Mëigadura, s. f. Medicazione.
Mëigai, v. Medicare. Riferito
soprattutto alla medicina popolare.
Mëigina, s. f. Medicina, terapia,
farmaco.
Méigu, s. m. Medico. Desueto,
nella parlata di oggi (che ha quasi
esclusivamente dotori), ma reso
immortale dalla toponomastica
che dà questo nome a una sorgente montana della zona di Tacu,
chiamata Sa funtana ’e su m. Si
narra che in tempi remoti vi sia
stato assassinato un medico.
Mela, s. f. Melo (pyrus malus),
albero e frutto.
Mancarìas. La parlata di Seui
Melatidongia, s. f. Mela cotogna (pyrus cydonia).
Melai, v. Dolcificare con il miele.
Usanza sempre viva a Seui, dove
sono ancora attivi e numerosi gli
apicoltori. Su cafeu prefergiu a mi
ddu m. (il caffè preferisco dolcificarlo con il miele).
Melau/ada, agg. Dolcificato/a
con il miele.
Meledai, v. Pensare, riflettere,
meditare. Pressoché ignoto ai giovani ma ancora vivo nel lessico
degli anziani, soprattutto dei
pastori.
Meledu, s. m. Pensiero, riflessione, meditazione, preoccupazione.
Seu in su m. de ïerrai in Santu ’Idu
(sto meditando di svernare a San
Vito).
Meli, s. m. Miele. Una produzione di altissima qualità, quella
realizzata a Seui per la ricchezza
della materia prima con cui alimentare le api. Finora l’apicoltura
è stata ed è praticata senza una
struttura neppure minimamente
adeguata alle possibilità di sviluppo del settore: un bene più potenziale che reale, ma sulla trasformazione dei beni in risorse si potrebbe anche giocare una parte cospicua del futuro economico del
paese. Il s. non indica solo il dono
delle api, ma, in senso più ampio,
279
definisce tutto ciò che dà dolcezza. Frequente il prov. chini manigiat m. si ndi lingit is (pron. ir)
bidus (chi maneggia il miele se ne
lecca le dita).
Mélinu/a, agg. Color miele.
Bachis tenit una purdedda m.
(Bachisio ha una puledra dal mantello color miele). Usato anche il
dim. melineddu/a.
Melongiu/a, agg. Fresco/a e
molliccio/a, come il miele. Casu
m. è il formaggio che ha appena
iniziato la stagionatura.
Meloni, s. m. Melone.
Méndula, s. f. Mandorlo e anche mandorla, albero e frutto.
Mendulau, s. m. Mandorleto.
Menésciri, v. Meritare. No ddi
menescìat (non se lo meritava), in
senso contrario ma anche in senso
favorevole.
Menéscïu/a, agg. Meritato/a.
Mengianeddu, s. m. Primo mattino.
Mengianu, s. m. Mattina, mattino. Definisce il segmento di
tempo che va dall’alba al mezzogiorno. Se ne indicano le fasi con
le espressioni: a mengianeddu (allo
spuntare del sole), a primu m. (di
primo mattino), a mesu m. (a
metà mattina).
Mentecòi, avv. Non sia che.
Movidindi, m. nd’erribbit una
280
niada (sbrìgati, non sia che
sopraggiunga una nevicata).
Mentris, s. m. Intervallo, segmento di tempo. Bai ca deu in su
m. mi facu cheleguna atra cosa (vai,
io nel frattempo mi sbrigherò
qualche altra faccenda).
Mércuris, s. m. Mercoledì.
Transidì, ses in mesu che-i su m.
(spòstati, sei in mezzo come il
mercoledì).
Merda, s. f. Escremento, merda,
sterco.
Merdosu/a, agg. Schifoso/a,
persona da evitare. Vedi irmerdai.
Mèri, s. m. Padrone. Su meri
mannu (lett. il grande padrone) è
il patriarca della famiglia, la persona più anziana ma anche la più
riverita per il prestigio di cui gode.
Lo si usa talvolta anche scherzosamente. Non bolit su m. (il padrone
non vuole).
Merì, s. m. Sera. Indica le ore
che vanno dal mezzogiorno alle
prime ombre del crepuscolo. In
una specificazione ulteriore, la
parte finale di questo arco di
tempo si chiama mericeddu.
Merïagu, s. m. Riparo ombroso,
in genere una copertura di frasche,
per far riposare il bestiame nei
pomeriggi più caldi di fine primavera, estate ed inizio autunno.
Merïai, v. Riposarsi all’ombra
PAOLO PILLONCA
durante il pomeriggio, meriggiare.
Nel gergo degli ovili, la pausa del
gregge sotto un riparo ombroso
nei mesi caldi. Igui is brebeis ddu-i
mérïant meglius de atrus tretus (lì le
pecore meriggiano meglio che in
altri spazi).
Mericeddu, s. m. Segmento di
tempo tra il pomeriggio e la sera,
d’estate quando l’intensità dei
raggi del sole diminuisce mitigando la calura, d’inverno quando il
freddo si fa più intenso.
Meritai, v. Meritare. Su votu chi
dd’at donau su mäistu Linu non si
ddu meritàt po nudda (Lino non
meritava affatto il voto che il maestro gli ha assegnato).
Meritau/ada, agg. Meritato/a.
Merìtu, s. m. Merito.
Mermu, s. m. Parte del corpo.
Mi ’olit dónnïa mermu (mi fanno
male tutte le parti del corpo).
Merruleri, s. m. Ghiacciolo.
Un’ïerru malu, feti merruleris (un
pessimo inverno, soltanto ghiaccioli).
Mesa, s. f. Tavolo, tavola. Spesso
con specificazioni riferite alla
destinazione d’uso. Il tavolo generalmente in legno di castagno
- che si utilizza per impastare la
farina e lavorare la pasta fino alla
panificazione vera e propria si
chiama sa m. ’e fàiri pani (il tavo-
Mancarìas. La parlata di Seui
lo del pane), il deschetto del calzolaio è detto m. ’e sabbateri. Quando è piccola si chiama mesigedda.
Una filastrocca recita: Teresa,
Teresa/, ponimì sa m./ ponimì su
pratu/ Teresa conca ’e ’atu (Teresa,
Teresa, apparecchiami la tavola,
apparecchiami il piatto, Teresa
testa di gatto).
Mesapari, avv. Metà per uno
(mesu a pari), mezzadria. Antica
forma di contratto agrario che
prevedeva, all’incirca, che il
padrone mettesse la terra, il contadino la lavorasse e poi i due dividessero il frutto in parti uguali.
Usatissima la loc. avv. a m. (a mezzadria).
Mesi, s. m. Mese. Nella parlata
di Seui la divisione dell’anno in
dodici mesi è la seguente: Gennargiu, Friargiu, Martzu, Arbili,
Maiu, Làmpadas, Mes’’e orgiolas,
Austu, Cabudanni, Mesi ’e talàmini, Donniassantu, Mes’’e idas.
Mesi, s. m. Mestruo, mestruazioni. Portat su m. (ha le mestruazioni).
Mesi ’e idas, s. m. Dicembre.
Lett. mese delle idi.
Mesi ’e orgiolas, s. m. Luglio.
Lett. mese delle aie.
Mesi ’e talàmini, s. m. Ottobre.
Lett. mese del letame.
Mesigedda, s. f. Piccolo tavolo.
281
Vedi mesa.
Mes’ora, s. f. Mezz’ora.
Messadori, s. m. Mietitore.
Messadura, s. f. Mietitura. Sin.
di messongiu e messera. Continua a
brillare nella loc. a m. (a mo’ di
mietitura), che indica l’asporto di
q.sa senza distinguere il grano dal
loglio.
Messai, v. Mietere. Non solo nel
suo significato primario e quasi
gergale del mondo agricolo, ma
anche in senso lato di raccogliere,
tagliare, portarsi via. Fut passendu
in su stradoni e un’äutocarru nde
dd’at messau (passava per la strada
e un camion l’ha falciato). Un
proverbio: chini non podit m. ispigat (chi non può mietere spigola).
Messau/ada, agg. Mietuto/a.
Messera, s. f. Mietitura. Desueto.
Messongiu, s. m. Mietitura.
L’operazione del mietere e tutto
ciò che comporta. Vedi messadura.
Mesu, s. m. Metà. Donamindi
su m. (dàmmene la metà). Non ti
ndi creu mancu su m. (di quello
che dici non credo nemmeno la
metà). Vive le espressioni a m.
tèmpera (a tempra media) e a m.
càrriga (a mezzo carico), in senso
reale e fig., questa ultima soprattutto: apu ’idu a Ginu, fut a m. c.
(ho visto Gino, era a mezza carica,
282
cioè semiubriaco), a m. ’èntiri (a
pancia semivuota).
Mesudì, s. m. Mezzogiorno. La
loc. a m. ha anche un impiego
traslato nel gergo dell’eros e indica
uno stato continuo di erezione.
Fulanu est sempir a m. (Fulano soffre di priapismo). La patologia
contraria si esprime con un’altra
metafora ispirata all’orario: a is ses
e mesu. Vedi gli esempi relativi
sotto la prep. A.
Mesura, s. f. Misura, moderazione. Cussu in sa vida sua at furau
chene m. peruna (quello lì nella sua
vita ha rubato senza alcuna moderazione). Di recente ha inizato a
definire anche il gesto dell’ombrello. Ninu at fatu sa m. a
Franciscu (Nino ha fatto il gesto
dell’ombrello a Francesco). Figura
nei soprannomi.
Mesurai, v. Misurare. Anche in
senso met. Comenti mesuras t’ant a
m. (come misuri verrai misurato):
è un prov. sempre in auge. Vedi
mediri.
Metadi, s. f. Metà. Sin. di mesu.
Méurra, s. f. Merlo (turdus
merula).
Migia, s. f. Calza.
Mina, s. f. Miniera. Sostituisce
ancora spesso il più recente miniera. Il s. ha segnato per decenni la
storia del paese, fra il benessere ini-
PAOLO PILLONCA
ziale e la drammatica crisi della
metà del secolo scorso, con la dismissione dei pozzi. Nella memoria
comunitaria rimane l’ombra incancellabile delle tragedie che si sono
consumate nelle profondità del giacimento di antracite di Fundu ’e
corongiu. Negli archivi del distretto
minerario di Iglesias sono registrati
infortuni e incidenti mortali avvenuti nella miniera di Seui dal 1929
al 1957, anno di chiusura dei
pozzi. Dieci i minatori morti sul
lavoro in quell’arco temporale di
28 anni: nell’ordine, Giuseppe
Deiana, Giuseppe Aresu, Luigi
Meloni, Raimondo Lai, Francesco
Aresu, Giovanni Cannas, Roberto
Aresu, Salvatore Aresu, Salvatore
Moi, Giuseppe Ballicu. Gli infortuni gravi registrati in quello stesso
periodo - per gli anni anteriori al
1929 non si hanno documenti furono ben 127. Scrive Demetrio
Ballicu in Miscellanea (cit., pp. 5556): “I miei sacrifici di medico
condotto dei tempi che furono
rappresentano ben piccola cosa se
paragonati a quelli subiti da altri
lavoratori. Mi riferisco ai minatori
e in particolare ai minatori seuesi.
Parecchi di loro, che formano non
un gruppo sparuto ma una nutrita
falange, si trascinano, miseri resti
umani, tristi, con passo malsicuro e
Mancarìas. La parlata di Seui
titubante sotto il peso non degli
anni ma degli acciacchi e delle sofferenze causate dalla funesta silicosi, mentre il mio cuore pulsa con
regolarità fisiologica e i miei polmoni respirano a pieno regime.
Non voglio, non posso dimenticare queste vittime del lavoro. Li
terrò sempre presenti nella memoria insieme con altri minatori i
quali, in condizioni di completa
efficienza fisica, perirono sfracellati, schiacciati dalle frane nella
‘miniera Corongiu’. In un periodo
gli infortuni nelle gallerie di quella
miniera si susseguirono con ritmo
pauroso tanto impressionante che i
familiari di una delle vittime, nel
parossismo della costernazione,
fecero scolpire sulla lapide del loro
congiunto una scritta che incute
orrore e induce a meditare: l’ha
ucciso la miniera assassina”.
Mina, s. f. Mina. Indica il confezionamento e l’esplosione dell’ordigno.
Minadori, s. m. Minatore.
Minai, v. Minare, sistemare le
mine. Gergale dei minatori e dei
soldati.
Minau/ada, agg. Minato/a.
Minca, s. f. Pene, organo sessuale maschile di uomini e animali.
Frequenti la risposta sprezzante e
l’esclamazione di meraviglia di
283
quando non si vuole accondiscendere ad una richiesta eccessiva: m.
’e molenti (l’organo sessuale dell’asino) e, quando la si vuole celare
sotto il velo di una metafora, neppure troppo nascosta: sa crai ’e
s’ebba (lett. la chiave della cavalla).
Un uomo senza grinta si definisce
m. morta (pene in riposo).
Esistono alcune varianti ironicoscherzose: lilla, lillìa, minnanna,
pica.
Minda, s. f. Piccola zona, ristretta, di pascolo. Vedi amindai.
Mindigai, v. Chiedere la carità,
elemosinare, essere petulante.
Mindigau/ada, agg. Mendicato/a.
Mìndighingiu, s. m. Mendicità,
carità pubblica, questua. Quasi
desueto nella lingua quotidiana,
vive però brillantemente nella loc.
avv. a m. (im misura minima).
Mìndigu, s. m. Mendicante,
mendico. In senso fig. miserabile.
Desueto.
Minerali, s. m. Minerale.
Minïera, s. f. Miniera. Vedi
mina.
Minnanna, s. f. Pene. Termine
scherzoso che indica l’organo sessuale maschile.
Mintidura, s. f. Infilamento.
Mìntiri, v. Infilare, sistemare.
Detto soprattutto della carne che
284
si cuoce allo spiedo. Lüisu po m.
petza in su spidu ’olit sa parti sua
(Luigi ha pochi rivali nell’infilare
la carne nello spiedo).
Mintu/a, agg. Infilato/a, sistemato/a.
Mïoddu, s. m. Midollo. Vedi
irmïoddau.
Mira, s. f. Mira, capacità di
mirare. Gisepu fut de m., raridadi a
si faddiri a sirboni (Giuseppe aveva
una buona mira, raramente sbagliava il cinghiale). Anche nel
senso di brama, desiderio Antoni
fut in m. ’e sïenda (Antonio mirava all’eredità).
Mirada, s. f. Sguardo. Ti bastit
cun sa m. (ti sia sufficiente il mio
sguardo).
Mirai, v. Guardare, osservare,
fare attenzione. Il v. è molto usato
all’imperativo pres. abbreviato
(mi’, apocope di mira) nelle avvertenze, anche le più banali: mi’ a
Lina (guarda, c’è Lina), mi’ ca
orruis (attento che cadi), mi’ ca no
est äici (guarda che non è così),
etc. Mirare, prendere la mira (gergale dei cacciatori). Armandu tenit
su vitzïu de isparai a sa tzurpa
chene mancu m. (Armando ha il
vizio di sparare alla cieca, senza
neppure prendere la mira)
Missa, s. f. Messa, il rito cattolico che rinnova il sacrificio del
PAOLO PILLONCA
Cristo sul Golgota. È detta Missa
bascia se è senza canti, Missa cantada se è accompagnata da musiche e suoni, Missa ’e mortu se è
celebrata in suffragio di un defunto, Missa a tres préidis se è concelebrata da tre sacerdoti, Missa ’e
mesunoti a cavallo tra il 24 e il 25
dicembre per la Natività del
Messia. L’espressione missa bascia
è usata anche ironicamente per
dire di una protesta rancorosa e
quasi soffocata, pronunciata sottovoce. Est nendu sa m. b. (sta protestando a voce bassa).
Missali, s. m. Messale.
Missoni, s. m. Messa di suffragio per tutti i defunti senza distinzione, rituale nella ricorrenza
novembrina. Pres. nei soprannomi. Era un Missoni il ferroviere
Dessì che nella festa del Carmelo
del 1919 in territorio di Elini
venne ucciso da una coltellata
mentre interveniva per separare
due contendenti. Dall’anno successivo i maggiorenti di Seui decisero di festeggiare in autonomia la
Madonna del Carmelo edificando
una chiesetta sulla montagna di
Arcüerì.
Missu, s. m. Messaggero. Proverbio: chini mandat malu missu
est (pr. er) meglius chi ddu andit
issu (chi manda un cattivo messag-
Mancarìas. La parlata di Seui
gero farebbe meglio ad andare di
persona).
Miu/a, agg. e pron. poss. Miola.
Sempre posposto al s. cui si riferisce. Su cüaddu miu (il mio cavallo).
Moddi, agg. Molle, morbido/a,
tenero/a. Cussa petza mi parit m.
(quella carne mi sembra tenera).
In senso lato, convalescente. Fui
duas cidas in su spidali e m’intendu
is cambas (pr. cambar) moddis (ero
due settimane in ospedale e mi
sento le gambe molli), Antoni fut
de coru m. (Antonio era tenero di
cuore). Vedi amoddïai.
Moddìmini, s. m. Morbidezza,
mollezza.
Moddissi, s. m. Lentischio
(pistacia lentiscus). Il nome deriva
forse dal fatto che il legno di lentischio non è duro. De su m. in
atrus tempus faïaus s’ogliu stìncini
(dal lentischio in altri tempi
estraevamo l’olio).
Moddissosu, s. m. Focaccia
medio-grande, con molta mollica
e dunque piuttosto morbido
(moddi).
Moddori, s. m. Mollezza. Indica
il passaggio da temperature molto
basse che dànno brina e ghiaccio a
valori più accettabili che li escludono e non irrigidiscono il terreno, anzi lo rendono più molle
(moddi). Su tempus at furrïau a m.
285
(il tempo è volto al morbido).
Moddossu/a, agg. Flaccido/a.
Riferito a persona di costituzione
robusta ma con pochi muscoli.
Moglieddeu, avv. Invece, al contrario. M’iat nau ch’ei, m. no at
fatu nudda (mi aveva detto di sì,
invece non ha fatto nulla).
Municipalismo.
Mola, s. f. Macina. L’asino un
tempo addetto alla bisogna era
definito pegus de mola.
Molentargiu, s. m. Asinaio,
conduttore di asini.
Molenti, s. m. Asino, somaro.
Utilizzato per secoli come mezzo
di trasporto da e per gli orti della
parte bassa del paese e qualche
volta anche per i carichi di ghiande dai boschi della montagna per
l’alimentazione del maiale domestico da ingrasso, oggi sopravvive
in un numero limitatissimo di
capi. Quando non lo si vuole
nominare direttamente, nelle conversazioni di rispetto, si è soliti
usare una perifrasi: cuddu peghiteddu (quel piccolo animale). Vedi
bistratzu, burricu, cocineddu,
molingianu e pegus de mola.
Molessugu (mola ’e sugu), s. f.
Osso del collo. Fut acanta ’e si
segai sa m. ’e su s. (stava per rompersi l’osso del collo). In senso fig.
uomo poco intelligente. Est unu
286
m. (è un cretino, macina del collo
- mola ’e sugu -, una delle parti
meno ambite della carne arrosto).
In questa accezione il s. cambia
genere: da f. diventa m.
Molidura, s. f. Macinazione.
Molinargiu, s. m. Mugnaio.
Molingianu, s. m. Asino. Più
raffinato rispetto a burricu, molenti e pegus de mola, ma meno usato.
Lo si usa quando si vuole mostrare rispetto verso l’interlocutore.
Molinu, s. m. Mulino.
Molidura, s. f. Macinazione.
Móliri, v. Macinare. In senso
fig. mangiare senza interruzione.
Ndi molit de cosa candu si ddu-i
ponit, cuddu (ne ha macina cibo,
quando ci si mette, quello là).
Moliscedda, s. f. Macinino.
Mòlïu/a, agg. Macinato/a.
Mongia, s. f. Monaca, suora.
Freq. l’espressione popolare che
indica la chiarità stinta del pallore
annoso con la definizione in colori
’e brenti ’e m. (color ventre di
monaca).
Mónica, s. f. Monica, vitigno
locale.
Montargiu, s. m. Uomo di campagna, pastore. Vedi biddargiu.
Monti, s. m. Campagna. Nella
parlata di Seui indica il territorio
comune destinato al pascolo, a
prescindere dall’orografia. Depu
PAOLO PILLONCA
andai a su m. (devo andare in
campagna), fut corant’annus in su
m. (ha fatto il pastore per quarant’anni). Chi lavora nella pastorizia
è detto montargiu, chi agisce in
paese biddargiu. Monte, montagna. In cussu monti aresti ddu apu
fatu prus de bint’annus (in quella
montagna selvatica ho trascorso
più di vent’anni). Pietra grossa.
Dd’at iscutu unu m. (gli ha lanciato una pietra enorme).
Mori, s. f. Amore. Po m. ’e Deus
siat (sia per l’amore di Dio).
Colpa. Est sussédïu po m. tua (è
successo per colpa tua).
Móriga, s. f. Bastone a punte
plurime per rimestare il latte nel
calderino durante la fase del
caglio.
Morigada, s. f. Pascolo notturno. Nel gergo dei pastori indica lo
spostamento del gregge o del
branco nel cuore della notte, per
sollecitare le bestie al pascolo e
favorire una maggior resa di latte
nella mungitura mattutina.
Pissenti fut unu pastori chi si
’ormiat pagu: mancai fessit fendu
tempus malu is brebeis suas bessiant
sempir a m. (Vincenzo era un
pastore che dormiva poco: anche
nelle notti di maltempo le sue
pecore uscivano sempre al pascolo
notturno).
Mancarìas. La parlata di Seui
Morigai, v. Rimestare, rimescolare. Il verbo indica anche
l’operazione del pastore che rimesta il latte cagliato nel calderino
prima di mettere mano alla raccolta del formaggio nelle apposite
formelle con cui si dà inizio alla
caseificazione vera e propria. È
usato anche in senso met. e indica
l’azione torbida di chi vuol mettere scompiglio o seminare discordie. Viva l’espr. a su móriga-móriga (in continuo rimestìo).
Morigau/ada, agg. Rimestato/a,
rimescolato/a.
Mórriri, v. Morire, terminare
l’esistenza. Prov. Chini tenit santu
in corti non morit de mala morti
(chi ha un santo protettore non
muore di cattiva morte). In sardo
spesso il v. diventa transitivo quando assume il senso di assassinare,
ammazzare, uccidere. Pìlimu at
mortu su procu (Priamo ha ucciso il
maiale), non si scit e chini at mortu
a Fulanu (non si sa chi abbia assassinato Fulano). Pres. nel nomignolo malamórriri (duro a morire).
Morrungiadori, s. e agg. Contestatore perpetuo, mormoratore.
Morrungiai, v. Protestare per un
diritto negato, vero o presunto,
spesso anche a torto. Nella valutazione comunitaria, è un’azione
delicata che deve essere mantenu-
287
ta entro limiti precisi, anche di
buon gusto e di rispetto del prossimo. L’eccesso nelle proteste,
come tutti gli eccessi, è sempre
valutato negativamente dal giudizio popolare.
Morrungiau/ada, agg. Contestato/a.
Morrungiolu, s. m. Orzaiolo.
Morrungiu, s. m. Protesta. Est
sempir a morrungius (si lamenta di
continuo).
Morti, s. f. Morte, quella naturale e quella violenta. Antoni fut istétïu cundennau po una m. (Antonio
era stato condannato per un omicidio). La vita si può concludere
bene e in questo caso si parla di m.
’ona (buona morte), in caso contrario di m. mala o m. legia (brutta
morte) Pres. nei soprannomi in un
nomignolo di tono spiritoso: sa
morti imbrïaga (la morte ubriaca).
Mortorgiu, s. m. Luogo in cui si
muore e/o si uccide. Rif. in particolare agli animali vittime di
malattie o uccisi per vendetta. Un
aforisma: a su m. acodint is crobus
(dove sono carogne accorrono i
corvi).
Mortori, s. m. Assassino. Desueto.
Mortu/a, s. e agg. Morto/a, defunto/a.
Mossïai, v. Mordere. Detto an-
288
che degli uomini, non solo dei
cani e di altri animali.
Mossïau/ada, agg. Morso/a,
morsicato/a.
Móssïu, s. m. Morso. S’est cravau a móssïus (ha lottato a furia di
morsi).
Mossu, s. f. Quantità, parte
abbondante di una eredità. Dd’est
calau unu bonu m. (gli è toccata
una parte buona).
Mou, s. m. Starello. Misura di
capacità: riempita di grano, ne
contiene quaranta chili.
Movi-movi, loc. avv. In bilico,
malfermo, instabile.
Movimentu, s. m. Movimento,
mossa, moto.
Móviri, v. Partire. Depu m. a
Casteddu (devo partire per
Cagliari). Spostare. Lassaddu igui,
no ddu movas (lascialo lì, non spostarlo). Sollecitare il gregge al
pascolo. Fut andau a m. is crabas
(era andato a spostare le capre
verso il pascolo). Nella forma rifl.
indica l’azione repentina di chi va
fuori di testa oppure è in preda
all’ira. Si movit che unu macu (reagisce come un pazzo). Definisce
anche la decisione tardiva di uno
scapolo impenitente che prende
moglie. Giai fut ora ’e si m. (era
ora che si decidesse).
Movitìa, s. f. Movimento.
PAOLO PILLONCA
Móvïu/a, agg. Mosso/a. M. ’e
conca vale: impazzito.
Mucadoreddu, s. m. Fazzolettino da tasca.
Mucadori, s. m. Fazzoletto che
funge da copricapo, foulard.
Mucosu/a, agg. Moccioso/a.
Detto sarcasticamente a un giovane che si ritiene adulto. Citidì, m.
(stai zitto, moccioso).
Mucu, s. m. Moccio.
Muda, s. f. Cambiamento di
pelame. Detto soprattutto dei
mufloni in primavera, quando
perdono il pelo invernale.
Mudai, v. Cambiare pelame. Ma
il v. si usa anche per indicare il
cambio d’abito delle persone.
Mudau/ada, agg. Vestito/a di
nuovo.
Mudu/a, agg. Muto/a.
Mùdulu/ a, agg. Privo/ a di
corna. Gisepu tenit is crabas bell’e
totu mùdulas (le capre di Giuseppe
sono quasi tutte senza corna).
Muglieri, s. f. Moglie. Desueto,
sostituito sempre più freq. da
pobidda.
Muglidura, s. f. Mungitura.
Mùgliri, v. Mungere. Il part.
pass. è muglïua/a.
Mùina, s. f. Fischio, sibilo.
Müinai, v. Fischiare, rumoreggiare.
Müinau/ada, agg. Fischiato/a,
Mancarìas. La parlata di Seui
sibilato/a.
Mulloni, s. m. Mucchio. Dev. di
amullonai (ammucchiare). Ma
nella parlata seuese assume un
senso ristretto e riferito quasi
esclusivamente a materie non rigide, come il bucato. Non mi pongias s’orrobba totu a unu m. (non
mettermi la roba sottosopra).
Mundadura, s. f. Ramazzata.
Mundai, v. Scopare, ramazzare.
Talvolta acquisisce anche il senso
di distruggere. Chi ndi ’enit su
pibissiu ndi mundat totu (se arrivano le cavallette distruggono
tutto). Vedi scovai.
Mundau/ada, agg. Scopato/a,
pulito/a.
Mundeddu, n. pr. di persona.
Raimondino.
Mundia, s. f. Immondezza, rifiuto. Desueto nell’uso quotidiano, il s. sopravvive in un proverbio
(genti bia fait mundìa, la gente
viva produce immondezza) e in
questa mini filastrocca: Cala, cala,
mundìa/ a domu ’e Maria,/ a domu
’e Lorentza/ ca ddu at pani e petza,/
pani, petza e dinari:/a nde dd’ant a
donari/ a sa pipia mia./ Cala, cala,
mundia. (scendi, scendi, immondezza/ a casa di Maria/, a casa di
Lorenza:/ lì c’è pane e carne,/
pane, carne e denaro/: ah, quanto
ne daranno/ alla mia bambina./
289
Scendi, scendi, immondezza).
Mundicheddu, n. pr. di persona. Raimondino, variante di
Mundeddu.
Mundicu, n. pr. di persona.
Raimondo. Vedi Arremundicu.
Mundu, s. m. Mondo. Su casu
sardu ddu connoscint in totu su m.
(il formaggio sardo è conosciuto
in tutto il mondo). Gente. Ddu
narat su m. (lo dice la gente). In
questo caso forse si tratta di uno
dei francesismi (tout le monde)
entrati nella parlata di Seui, come
si è già detto per altri vocaboli.
Vedi boia-bessa, brichetu, sortiri,
turnichetu.
Munduruglia, s. f. Rimasuglio
di cibo all’interno di un contenitore di liquidi.
Muneda/moneda, s. f. Moneta,
denaro.
Muntonargiu, s. m. Immondezzaio.
Muntoni, s. m. Mucchio, grande quantità. Anche per indicare
entità astratte, ma più di rado.
Vedi amuntonai.
Muntza, s. m. Scorpacciata.
Sempre con venatura di disprezzo
o di ironia per chi vi si dedica con
eccessiva frequenza.
Muntzigasurda, s. m. Persona
taciturna che preferisce agire, non
necessariamente e non sempre a
290
fin di bene.
Muntzù, s. m. Signore (dal francese monsieur). Veniva chiamato
così, al suo ritorno da Lione, un
minatore di Seui che si dava arie
signorili.
Mura, s. f. Mora. Di rovo
(murorrùa) e di gelso (muragessa).
Muradori, s. m. Muratore.
Muradura, s. f. Muratura.
Muragessa, s. f. Gelso. Indica
l’albero e il frutto. Il s. vive nella
toponomastica: indica la grotta
più grande e importante del sistema carsico presente nel territorio
di Seui, nel cuore del Tònneri.
Nel 2004, all’interno della grande
cavità, è stato scoperto un insetto
fino ad allora sconosciuto in
Sardegna, sia in superficie sia nel
sottosuolo.
Murai, v. Murare.
Murau/ada, agg. Murato/a.
Murcioni, s. m. Tizzone. Anche
in senso traslato: est unu m. (è un
individuo spento).
Murdegargiu, s. m. Terreno
ricoperto di cisto che in autunno e
talvolta, ma più raramente, anche
in primavera dà il fungo parassita
di questo arbusto (cardulinu ’e
murdegu).
Murdegu, s. m. Cisto (cistus).
Usato anche il dim. (murdegheddu): indica l’arbusto giovane e
PAOLO PILLONCA
quello di dimensioni ridotte.
Muredda, s. f. Muricciolo.
Murga, s.f. Morchia. Residuo
della lavorazione del formaggio,
ma anche fondiglio dell’olio
d’oliva.
Murgia, s. f. Salamoia.
Murgüèu, s. m. Santolina, erba
profumata (Santolina Insularis).
Murorrùa, s. f. Mora di rovo.
Murra, s. f. Morra.
Murru, s. m. Muso.
Murru/a, agg. Bianco/ a. Si usa in
riferimento al mantello degli animali, cavalli soprattutto. Un’ebba
m. (una cavalla bianca).
Murrudu/a, agg. Dal muso
(murru) pronunciato.
Murta, s. f. Mirto (myrtus communis), albero e frutto. Indica
anche il liquore ottenuto dalla
bacche.
Murtargiu, s. m. Mirteto.
Murtedu, s. m. Sin. di murtargiu.
Mùrtinu/a, agg. Sàuro/a. Riferito al mantello del cavallo e talvolta, scherzosamente, anche al
colore dei capelli umani. Molto
usato il dim. murtineddu/a.
Muru, s. m. Muro. Nel gergo
dei muratori si distingue tutta una
serie di tecniche e di materiali di
utilizzo.
Murva, s. f. Mufla. Solo la fem-
Mancarìas. La parlata di Seui
mina. Il muflone (ovis musimon) è
indicato con l’ausilio di un compl.
di specificazione: mascu ’e m., così
come
il
cucciolo:
angioni/angioneddu ’e m. Il nome del
maschio vive di vita autonoma soltanto nell’espressione figurata est
unu murvoni (è un tipo scontroso),
nel v. amurvonai, e nel s. amurvonadura. Quando si indica il branco
lo si caratterizza al femminile,
un’arèi ’e murvas. Presente in due
toponimi del territorio di Seui, Sa
scala de is (pr. ir) murvas (la scala
delle mufle), e Su giogadorgiu de is
murvas (il prato dei giochi delle
mufle), entrambi all’interno del
perimetro demaniale di Montarbu.
Sa murva è sicuramente l’animale
di maggiore rimando identitario:
non è un caso che nello stemma del
Comune di Seui campeggi la
splendida immagine di un muflone
adulto, vero e proprio animale simbolo di un paese a suo modo resistente.
Murvinu/a, agg. Del colore
della mufla. Detto del mantello di
capre che somiglia a quello castano - più chiaro o più scuro a
seconda delle stagioni - dei mufloni e delle mufle .
Murvonassu/a, agg. Diffidente,
scontroso/a, taciturno/a.
Murvoni, s. m. e agg. Muflone,
291
scontroso.
Musca, s. f. Mosca. Al fastidioso
insetto si ispira un’escl. ancora
molto usata: musca ddi pìssïat (alla
lettera: la mosca gli dà una sensazione di bruciore). La metafora
vale: non sarà mai e rappresenta
una previsione negativa ironica su
una qualche azione disdicevole.
Diffusissima, inoltre, una strofetta
popolare cantata dalle nubili: Su
cani ’e su dotori/ ddi nanta BuscaBusca:/ no ddu ’ogliu pastori/ ca ddi
currit sa musca (il cane del medico
si chiama Busca-Busca: non lo
voglio pastore/ perché è bersaglio
delle mosche).
Muscadellu/muscadeddu, s. m.
Moscatello, vitigno e vino.
Musca de (’i) ’etai, s. f. Estro
ovino (lett. mosca che lancia).
Con le sue larve, lanciate fulmineamente negli occhi o nella gola
del pastore malcapitato, provoca
una malattia rara e di breve durata, la zoonosi, fastidiosissima
infiammazione delle mucose colpite che di norma si risolve in
pochi giorni. Ne parla diffusamente il medico storico di Seui
Demetrio Ballicu in Miscellanea
(cit., pag. 145).
Muscau, s. m. Moscato, vino
molto dolce, da dessert.
Muschetu, s. m. Moschetto.
292
Definisce il famigerato ’91 della
prima guerra mondiale, in dotazione anche ai ragazzi di Seui che
partirono numerosi e tornarono
in pochi.
Muschitu, s. m. Moscerino.
Musconi, s. m. Moscone. Detto
anche delle persone importune.
No dd’acabbat mai, custu santu
musconi (ma non la smette mai,
questo santo moscone).
Musculadura, s. f. Impianto di
muscoli, muscolatura.
Musculosu/a, agg. Muscoloso/a.
Mùsculu, s. m. Muscolo.
Museu, s. m. Museo. Nella parlata di Seui indica primariamente
il museo della civiltà agropastorale
e mineraria del paese, costituito
nei primi anni Ottanta per iniziativa di un gruppo di giovani e successivamente arricchito dalla pinacoteca e dal carcere spagnolo. Il
materiale è ora raccolto in vari
locali del Comune tra cui due di
nuova acquisizione: la casa natale
dello scrittore Filiberto Farci sulla
via principale e un’abitazione tipica nella parte bassa del paese.
Musicanti, s. m. Strumentista,
componente di una banda musicale. Vengono definiti così gli
strumentisti della banda paesana
Gioacchino Rossini, nata ottanta
anni fa e ancora attiva. Oggi è for-
PAOLO PILLONCA
mata prevalentemente da giovani,
maschi e femmine.
Musicai, v. Fare musica.
Mustaïoni, s. m. Spaventapasseri. In senso fig. persona
d’aspetto trasandato.
Mustatzu, s. m. Baffo.
Mustatzudu/a, agg. Baffuto/a.
Mustosa, s. f. Seno femminile
prorompente. Il s. veniva usato in
tono scherzoso fino a qualche
decennio fa. Ora è desueto.
Mustu, s. m. Mosto. Quello che
si ottiene dalla prima spremitura
delle vinacce si chiama m. ’e prentza (mosto del torchio). Talvolta lo
si usa in tono scherzoso per indicare il vino vero e proprio. Ddi
pragit su m. (gli piace il vino, è un
beone).
Mutetu, s. m. Strofe di poesia
destinata al canto. A Seui la tradizione riguarda più che altro i versi
settenari dei canti della culla
(anninnìas) e della bara (atìtidus),
oltre i mutetus a trallallera e gli
andimironnai , in modo particolare gli ottonari cantati con accompagnamento di fisarmonica, organetto o armonica a bocca. Nei
mutetus la parte più creativa era
sempre svolta dalle donne .
Mutiladura, s. f. Mutilazione.
Mutilai, v. Mutilare.
Mutilau/ada, agg. Mutilato/a.
Mancarìas. La parlata di Seui
293
N
Nadadori, s. m. Nuotatore. Definisce anche un insetto che nuota
nelle paludi e nelle acque stagnanti
in genere.
Nadai, v. Nuotare.
Nàdïa, s. f. Natica. Chi no
dd’acabbas ti caglientu is (pr. ir)
nàdïas (se non la smetti ti riscaldo
le natiche), detto ai bambini. In
senso fig. può valere: ragazza, giovinetta. Bella n. (bella fanciulla).
Nàdidu, s. m. Nuoto.
Nai, v. Dire. Non tengiu nudda ’e
nai (non ho nulla da dire). Vedi
nàrriri. Molto usata nel lessico
quotidiano l’espr. unu nau unu
fatu (detto fatto).
Nai, s. f. Ramo.
Naìbbulu, s. m. Diceria, aneddoto.
Nanca, v. Dicono, dicevano.
Formazione impersonale di nàrriri/nai. Crasi di nant ca (dicono
che). N. non fus in bidda (dicevano che tu non fossi in paese).
Nannai, s. f. Nonna. Voce desueta.
Nannau, s. m. Nonno. Desueto
nel suo senso più proprio, oggi lo si
impiega con una venatura ironica,
come rimprovero ai bambini cresciuti che continuano a comportarsi da poppanti: imoi torraus a sùiri,
n. (adesso torniamo a succhiare,
nonnino).
Nanu, s. m. Nano.
Napa, s. f. Panna. Cussu lati est
totu n. (quel latte è tutto panna,
ossia troppo grasso). Velo. Portas
n. in is ogus (hai gli occhi velati).
Diaframma di grasso delle interiora degli animali. Su figau ’e procu a
orrostu ’olit imboddïau cun sa n. (il
fegato di maiale va arrostito avvolto nel suo diaframma). Per est.
velame in genere.
Narba, s. f. Muffa. Rif. soprattutto a quella che si insedia su formaggio, prosciutto e uva ma
anche sui muri. Vedi annarbai.
Narbedda, s. f. Malva (malva silvestris). Piantina medicamentosa
utilizzata per secoli e tuttora in
uso contro i dolori addominali dei
bambini.
Narbonai, v. Debbiare, preparare la terra per l’aratura.
Narbonau/ada, agg. Debbiato/a.
294
Narboni, s. m. Debbiatura.
Nàrriri, v. Dire. Molto utilizzato
all’infinito sostantivato (unu n.),
nel senso precipuo di voce di
popolo ma che spesso assume
anche il significato di diceria, pettegolezzo, calunnia. Quasi un
sinonimo di naìbbulu.
Nartussu, s. m. Nasturzio
(nasturtium officinale), crescione.
Nascïoni, s. f. Nascita, natura,
origine. Ddu tenit de n. (ce l’ha
per natura).
Nàsciri, v. Nascere. Detto di
uomini e animali. Dd’at nàscïu
unu pipìu (gli è nato un bambino),
is angionis mius cumentzant a n. a
mesu ’Onnïassantu (i miei agnelli
inizieranno a nascere a metà Novembre).
Nàscïu/a, agg. Nato/a.
Nasu, s. m. Naso.
Nasudu/a, s. e agg. Nasone/a.
Natura, s. f. Apparato genitale
femminile di animali e genere
umano. Cudda craba portàt sa n.
ingermigada (quella capra era
piena di vermi nell’apparato genitale). Dono naturale, dote innata.
S’orrùndula cantat po n. (la rondine ha il dono naturale del canto).
Naturali, s. m. Indole, carattere.
Cuss’ebba est (pr. er) de bonu naturali (quella cavalla è di buona
indole).
PAOLO PILLONCA
Nau/ada, agg. Detto/a. Part.
pass. di nàrriri/nai.
Nébida, s. f. Nebbia. Vedi annebidai.
Nemancu/nimancu, avv. Neppure, nemmeno.
Nemus, pron. ind. Nessuno. De
su mali ’e is semus non si nd’erriat n.
(nessuno rida delle malattie che
dànno piaghe), mònito proverbiale.
Nénniri, s. m. Grano lasciato
germogliare al buio e poi portato
in chiesa a Pasqua. In senso fig.
persona estremamente delicata.
Pres. nei soprannomi.
Néscïa, s. f. Piega del ginocchio.
Viva l’espressione ses pighendumì a
is (pron. ir) néscïas (stai mettendo
a dura prova la mia pazienza).
Néspula, s. f. Nespolo (Nespulus
germanica) e nespola, albero e
frutto. Segundu su tempus si papat
sa n. (secondo l’andamento stagionale si mangiano le nespole), detto
molto diffuso.
Nì, s. m. Neve. È un’altra delle
parole-chiave della comunità. L’abitudine alla neve ha sviluppato nel
corso dei millenni tutta una serie di
competenze, comportamenti e
saperi - materiali e non - che costituiscono un eccezionale patrimonio del sommerso paesano, a partire dal confronto di ciascuno con sé
stesso, con le proprie possibilità
Mancarìas. La parlata di Seui
fisiche e i limiti nell’ambito della
dinamica del passo e della corsa. La
neve ha dato e dà anche la consapevolezza dell’inutilità del contrapporsi al tempo del cielo e alle sue
manifestazioni più forti. Nella parlata di Seui, il s. è di genere maschile, come nelle parlate logudoresi: su
nì, dunque, non sa nì, come in
quelle campidanesi vere e proprie.
Sa ciligìa ’olit tìmïa meda ’e prus de
su n. (il ghiaccio è di gran lunga più
temibile della neve).
Nïada, s. f. Nevicata. Nd’ap’àiri
’idu ’e nïadas (ne avrò visto, di
nevicate), su pegus aresti marcat sa
n. meglius de su pegus masedu (la selvaggina segnala l’arrivo di una
nevicata meglio del bestiame domestico). Nel patrimonio dei ricordi collettivi molte le nevicate rimaste indelebili. Quella che a memoria d’uomo viene ancora citata più
delle altre è sicuramente la nevicata
del febbraio 1956 (un mese ininterrotto di neve alta), non a caso
definita sa n. manna.
Nïai, v. Nevicare. Con l’ausiliare
avere. At nïau meda (è nevicato
molto), in Tònneri at costumau n.
a fini ’e Arbili puru (nel Tònneri si
sono registrate nevicate anche a
fine Aprile). Apu mòvïu nïau e
nïendu (sono partito che già era
nevicato e continuava a nevicare).
295
Nichileddu/a, agg. Sparuto/a,
esile, eccessivamente magro/a. Vedi
nìchili.
Nìchili, s. m. Nickel. Il s. definisce l’insieme delle monete metalliche che ci si può ritrovare in tasca
o nel portamonete. Ndi portas n.
in buciaca? (hai delle monetine in
tasca?). Ma il singolare neologismo
assume la funzione di agg. quando
definisce una magrezza. Virgilïu
mi parit tropu n. (Virgilio mi sembra troppo esile).
Nïeddacarta, s. f. Vitigno locale
che dà un’uva nera molto adatta
alla vinificazione.
Nïeddigori, s. m. Nerume.
Nïeddu/a, agg. Nero/a. Figura
nei soprannomi.
Nïeddutzu/a, agg. Nerastro/a.
Ni/nin, neg. Né né. Ni artu nin
basciu (né alto né basso), Nin deu
nin tui (né io né tu), nin bellu nin
legiu (né bello né brutto), non portat nin pissu ni ala (non ha né
altezza né robustezza). Se ne deduce che davanti a vocale si utilizza
la forma ni, davanti a consonante
è sempre usata l’uscita nin.
Niu, s. m. Nido. Indica il rifugio
di tutti i volatili. Figura nei toponimi (Niu ’e crobu, nella parte alta
del territorio comunale, sotto il
nuraghe di Ardasai).
No/non, neg. Non. No andu, non
296
bengiu (non vado, non vengo). La
forma no davanti a vocale, non
davanti a consonante.
Nócidu/a, agg. Deboluccio/a,
indifeso/a, inerme. Epiteto ir. e
affettuoso, utilizzato quasi sempre
al vocativo (beni a innoi, su n.,
vieni qui, picccolino) e rif. pressoché costantemente ai bambini.
Municipalismo in disuso ma vivo
fino a pochi decenni fa.
Nóciri, v. Nuocere, danneggiare, fare del male. Cussus naìbbulus
ti nocint aberu (quelle dicerie ti
danneggiano sicuramente).
Nócïu/a, agg. Nuociuto/a.
Nodìu/a, agg. Riconoscibile,
chiaro/a, distinto/a, inconfondibile. L’agg. è spesso rif. al sost. dì
(giorno). Una dì n. (un giorno
distinto), sia che il calendario lo
segnali come importante sia che si
tratti di un giorno particolarmente significativo nella vicenda personale di un individuo.
Nodu, s. m. Potere di percezione, capacità di distinguere i singoli capi di un gregge. Cristolu fut
unu ’e is pastoris prus (pr. prur) de
n. (Cristoforo era uno dei pastori
più capaci di distinguere il bestiame). Viene considerata una qualità imprescindibile del pastore, in
primo luogo del capraro, che deve
saper distinguere singolarmente i
PAOLO PILLONCA
suoi capretti (e rispettive madri) se
vuole effettuare in tempi compatibili l’operazione quotidiana di
allattamento. Vedi amamai.
Nöeddu/a, agg. Novello/a, inesperto/a.
Nòi, agg. num. card. Nove.
Nell’indicazione dell’orario, mentre gli altri numeri non hanno
bisogno di ulteriori specificazioni,
per il nove si aggiunge il sost. oras.
Si dice: sa una, is (pron. ir) duas, is
tres, is cuatru, is cincu, is ses, is seti,
is otu ma non ir noi. Si deve dire:
ir noi oras.
Nomenada, s. f. Fama, riconoscibilità. Pitanu fut de mala n. (Sebastiano aveva una pessima fama).
Nomenai, v. Citare, dar fama.
Nòmini, s. m. Nome, fama.
L’espr. portau a n. indica una persona di gran fama, di norma in un
ambito specifico. Po sa cassa fut portau a n. (per la caccia era famoso).
Noranta, agg. num. card. Novanta.
Noratu, n. pr. di pers. Onorato.
Pres. anche nel dim. Norateddu.
Nossi, avv. di neg. Nossignore.
Nostu/a, agg. e pr. poss. Nostro/a. Sempre posposto al s. cui si
riferisce. S’ebba nosta (la nostra cavalla), su cani nostu (il nostro cane).
Nosu/nos, pr. pers. sogg. e
compl. Noi. Ddu andaus nosu (ci
Mancarìas. La parlata di Seui
andremo noi). Se il pron. diventa
compl., come particella pronominale, la forma è nos. Nos at donau
stragu (ci ha fatto faticare).
Notali, s. m. Pasta corta in genere. Eus papau notalis (abbiamo
mangiato pasta corta).
Notesta, avv. Stanotte.
Noti, s. f. Notte. Fut una n. legia
(era una brutta notte). Ma nelle
locuzioni avv. a su n. e a primu
noti il s. diventa m. come nel log.
Nòu, avv. di neg. No. Apu nau
ca nou (ho detto di no).
Nóu/a, agg. Nuovo/a.
Nova, s. f. Notizia. D’uso negli
scambi di saluti. E ita novas tenis?
Naraus (pron. naraur) bonas ca si
cöidant a agatai (Che notizie hai?
Diciamo buone perché si fa più in
fretta a trovarle).Vedi annovai.
Novidadi, s. m. Novità.
Nû, s. m. Nodo. Ne esistono di
vari tipi, anche difficili da sciogliere come su n. mortu. Vedi annüai.
Nudda, s. m. e pron ind. Nulla.
De su pagu si campat, de su n. si
morit (dal poco si campa, dal nulla
si muore), con una variante: meglius
pagu che n. (meglio poco che niente). No dd’at torrau n. (non gli ha
risposto nulla). Pres. nelle imprecazioni: ancu torris a n. (che tu possa
andare in rovina).
Nugedda, s. m. Nocciolo (cory-
297
lus avellana), albero e frutto. Il
nome ha sostituito nell’uso dei
parlanti l’antico oddana, registrato
da Max Leopold Wagner proprio
a Seui e ricondotto dal Maestro
tedesco nel DES al latino avellana.
Nugi, s. f. Noce (juglans regia).
Il s. indica l’albero e il frutto. Pres.
nei toponimi (Errìu ’e nugi).
Nui, s. f. Nuvola. Vedi annüilai.
Nüoresu/a, s. e agg. Nuorese.
Nura, s. f. Nuora. Sorga cun
nura, briga segura (suocera e
nuora, litigio certo).Vedi sorga.
Nuragi, s. m. Nuraghe. Nella
parlata di Seui, su n. per eccellenza è quello di Ardasai. Per gli altri
occorre aggiungere il compl. di
denominazione. Su n. ’e Cercessa,
de s’’Enna ’e s’òmini, de Sa Conca ’e
su casteddu, de Sa Lèi, etc.
Nuscadura, s. f. L’atto e l’effetto
dell’odorare.
Nuscai, v. Sentire i profumi,
profumare. Màrïu nuscat che pegus
de fera (Mario sente gli odori
come un animale selvatico).
Nuschera, s. f. Portaprofumi.
Nuscosu/a, agg. Profumato/a.
S’erba ’e Santa Maria est (pron. er)
de is prus nuscosas de totu su sartu
(l’elicriso è una delle erbe più profumate dell’intero salto comunale).
Nuscu, s. m. Profumo, fragranza.
298
PAOLO PILLONCA
O
Obbidiri, v. Obbedire.
Obbilai, v. Fissare con chiodi di
legno.
Obbilu, s. m. Chiodo di legno,
usato per sgabelli e altri utensili in
sughero.
Obbreri, s. m. Membro dei comitati per feste. Il priore è obbreri
magiori.
Obbrigai, v. Obbligare, costringere. Chi ddu ’olis fàiri feddu, ma
non t’obbrìgat nemus (se lo vuoi
fare fallo, ma nessuno ti costringe).
Obbrigau/ada, agg. Costretto/a,
obbligato/a.
Obbrìgu, s. m. Obbligo, costrizione.
Obèrriri, v. Aprire. Rif. a porte,
finestre, cancelli e a tutti i tipi di
ingresso materiale. Ma non solo.
Oberi is ogus (apri gli occhi). Il v. ha
un largo impiego met. Dd’at obertu
unu caminu (gli ha aperto una strada). Molto usato rispetto al comune abèrriri di altri paesi della zona.
Obertu/a, agg. Aperto/a. Presente anche la variante abertu/a.
Obertura, s. f. Apertura. L’uso
del s. è limitato al senso reale.
Obïada, s. f. Incontro.
Obïai, v. Incontrare, andare
incontro. Vedi adobïai/ atobïai.
Obïau/ada, agg. Incontrato/a.
Ocannu, s. m. Quest’anno.
Ocasïoni, s. f. Occasione, opportunità.
Oddana, s. f. Nocciolo/a, albero e
frutto. Termine ormai desueto ma
registrato dal Wagner a Seui e ancora vivo fino ai primi anni Settanta.
Vedi nugedda. Presente nei soprannomi.
Oghïada, s. f. Occhiata, sguardo
Oghïai, v. Tener d’occhio.
Oghïau/ada, agg. Tenuto/a
d’occhio, controllato/a.
Ogliastu, s. m. Olivastro (oleaster). Figura in qualche toponimo,
come Erriu O.
Ogliosu/a, agg. Oleoso, sporco.
Pres. nei soprannomi, al f.
Ogliu, s. m. Olio. Nome generico riferito principalmente all’olio
d’oliva. Ma per le nomenclature
specifiche occorre precisare: o. seu
(sego), o. ’e procu (strutto), o. stìncini (olio di bacche di lentischio),
o. ’e sèminis (olio di semi). Anche
Mancarìas. La parlata di Seui
per l’olio d’oliva, tuttavia, di
norma si specifica: o. ermanu.
Ogu, s. m. Occhio. Definisce
l’organo della vista e dà luogo a
più di una loc. avv. A o., no ddu
possu nai, ant éssiri centu metrus (a
occhio, non lo posso dire, saranno
cento metri). Ma indica anche
altri tipi di occhio, come quello
del gergo degli innestatori che
chiamano o. la gemma.
Oi, avv. Oggi.
Oindì, avv. Oggigiorno.
Oiomomìa, escl. Ahimé! Di
meraviglia mista a dispetto.
Olàsticu, s. m. Elastico.
Olìa, s. f. Ulivo (olea europaea) e
oliva, albero e frutto. In is ïerrus
prus fridus paricias olias si costumant sicai (negli inverni più freddi succede che molti ulivi si secchino).
Olïargiu, s. m. Uliveto.
Olïedda, s. f. Piccolo ulivo, ma
anche oliva di dimensioni ridotte.
Olöidura, s. f. Premura, interessamento, cura.
Olöìri, v. Curare con premura,
interessarsi attentamente di persone, animali e cose. Càstïa comenti
olöit beni s’ortu Lüisa (guarda
come Luisa cura bene l’orto), apu
olöìu is crabas (ho governato le
capre), no as a pòdiri nai ca Maria
no iscit o. su nebodeddu. (non
299
potrai dire che Maria non sa
curarsi del nipotino).
Olöìu/a, agg. Ben curato/a.
Oneddu, s. m. Anello. Forma
municipale desueta. Vedi aneddu.
Opinu, s. m. Pino (pinus pinaster), albero estraneo al territorio,
imposto in qualche zona degradata
- comunale e demaniale - ”prima
dalla pigrizia mentale e dall’incuria
di alcuni dirigenti del Corpo forestale dello Stato e della Regione
poi” (il drastico giudizio è di uno
stimato botanico, Pasquale Palma,
per anni direttore della Stazione
sperimentale del sughero di
Tempio) e finalmente abbandonato negli ultimi lustri.
Ora, s. f. Ora. E it’ora siat no ddu
sciu, fortzis sa una mancu cüartu
(che ore siano non so, forse l’una
meno un quarto). Momento. Non
seus a ora, imoi (non è questo il
momento giusto). Tempo. Dónnïa
cosa a s’ora sua (ogni cosa a suo
tempo).
Orarìa, s. f. Oggetti d’oro.
Nome collettivo.
Oràrïu, s. m. Orario, tempo
esatto.
Orba, s. f. Fortuna, casualità.
Orbaci, s. m. Orbace, tessuto
grezzo di lana sarda.
Orbada, s. f. Vomere.
Orbescidorgiu, s. m. Alba.
300
Orbèsciri, v. Albeggiare. Est orbescendu (albeggia). Pres. nei soprannomi al part. pass. (Orbéscïu) e al
suo diminutivo (Orbescïeddu).
Orbéscïu/a, agg. Albeggiato/a.
Anche in senso fig.
Orbetu, s. m. Passo cauto del
cacciatore di frodo solitario e
senza l’ausilio dei cani. Viva l’espr.
reiterata a s’o. a s’o. (molto cautamente). Gergale della caccia.
Orboni/a, s. e agg. Fortunato/a.
Orboredu, s. m. Luogo alberato.
Desueto. Sopravvive in un toponimo che definisce un vasta superficie (ottocento ettari) situata in
pieno territorio di Esterzili ma appartenente al Comune di Seui.
Orborïada, s. f. Inizio dell’alba.
Orborïadorgiu, s. m. Annuncio
dell’alba, aurora in fieri .
Orborïai, v. Iniziare a schiarire.
Detto della notte che si dilegua.
Orborïau/ada, agg. Schiarito/a,
anche in senso met.
Orci/orcidda, escl. Ahi, grido di
dolore fisico acuto.
Orcïau, s. m. Ortica.
Ordimingiadori, s. m. Amante
delle macchinazioni.
Ordimingiai, v. Ordire, tramare, escogitare, macchinare, preparare disordinatamente.
Ordimingiau/ada, Tramato,
ordito.
PAOLO PILLONCA
Ordimingiu, s. m. Macchinazione, trama, tranello.
Ordinagu(s), s. m. Fune del
giogo di buoi. Usato prevalentemente al pl.
Ordinàrïu/a, agg. Di scarsa qualità.
Órdini, s. m. Permesso, consenso. Chen’ó. miu non depeis fàiri
nudda (senza il mio permesso non
dovete fare nulla).
Orfanai, v. Rendere orfano.
Orfanau/ada, agg. Reso/a orfano/a.
Orfania, s. f. Sin. di orfanidadi.
Orfanidadi, s. f. Orfanità. Condizione considerata il punto estremo del dolore e della tristezza,
tanto da far ritenere, soprattutto
per gli orfani di madre in tenera
età, che nelle espressioni dei loro
volti resti impresso un marchio
indelebile di dolore senza tempo,
mai elaborato pienamente. Per gli
esempi vedi alla parola successiva.
Órfunu/a, s. e agg. Orfano/a. Fut
ó. e dd’at pesau una tzia (era orfano
ed è stato allevato da una zia), un’ó.
er nodìu finas a beciu mannu (un
orfano è riconoscibile anche in
tarda età). Molto usato il dim. orfuneddu, parola pronunciata sempre
con tenerezza e utilizzata nelle
similitudini per descrivere situazioni di particolare sofferenza: est che
Mancarìas. La parlata di Seui
un’ó. (è come un orfano), parit un’ó.
(sembra un orfano), a mirada ’e ó.
(con lo sguardo dell’orfano). La
solidarietà comunitaria ha dato e
dà sempre larghe prove di cure particolari verso chi rimane vittima di
questa tragedia. S’ó. est (pron. er) de
totus (l’orfano appartiene a tutti),
detto molto diffuso.
Orgiola, s. f. Aia. Presente in alcuni toponimi (Orgiolóniga, S’Orgiola abbrugiada, S’Orgiola de Antoni Cocu, etc). La forma più diffusa nel sardo campidanese (argiola)
nella parlata di Seui non esiste.
Orgiolai, v. Impiantare l’aia,
lavorare alle operazioni di mietitura e trebbiatura. Anche nel traslato: est sempir orgiolendu (è sempre
in movimento).
Orgiu, s. m. Orzo. Presente nei
soprannomi preceduto dall’art.
det.
Orgüena/argüena, s. f. Trachea.
In senso lato, e in tono ir., vale:
voce, potenza di canto. Bella o.
(bella voce).
Origa, s. f. Orecchio. Rif. agli
uomini e agli animali.
Origa ’e procu, s. f. Borragine
(borrago officinalis). Così la descrive
Demetrio Ballicu: ”Pianta annuale
con foglie grandi e rugose, di forma
rotondeggiante che hanno l’aspetto
degli orecchi del maiale”. Da qui,
301
evidentemente, il nome origa ’e
procu (orecchio di maiale).
Origonis, s. m. Parotite, orecchioni. Su pipìu portat is o. (il
bambino ha la parotite).
Origudu/a, agg. Orecchiuto/a.
Orrobba, s. f. Roba: abiti, vesti,
etc. Nel gergo dei pastori o. indica
genericamente il bestiame posseduto. Meda o. portas? Unas centubinti
(Hai molto bestiame? Circa centoventi).
Orrobbertu, n. pr. di persona.
Roberto.
Orrobbinu, s. m. Perlina che
orna la gonna del costume tradizionale femminile. Il s. è usato
soprattutto al pl.
Orróca, s. f. Roccia.
Orròcu, n. pr. di persona. Rocco.
È il Santo patrono di Seui, ma non
ha né chiesa né festa popolare,
salvo il ricordo nei riti religiosi del
16 agosto.
Orroda, s. f. Ruota, di qualunque veicolo senza distinzione (carro, automobile, treno, aereo). Presente nei soprannomi.
Orrodai, v. Arrotare.
Orrodedda, s. f. Rotella. Anche
in senso fig., nell’espr. ir. ddi mancat cheleguna o. (gli manca qualche
rotella).
Orrodïeddu, s. m. Fusaiolo,
rotella forata al centro infilata alla
302
base del fuso per garantirne la
regolarità di movimento circolare.
Orrogaglia, s. f. Minutaglia,
materiale frantumato.
Orrogadura, s. f. Riduzione a
pezzetti, distruzione. In senso fig.
lavoro malfatto, azione priva di
discernimento. Viva a loc. avv. a o.
Orrogai, v. Fare a pezzi.
Orrogau/ada, agg. Ridotto/a in
pezzi.
Orrogu, s. m. Pezzo di qualsivoglia materia, soprattutto pane,
carne e legno.
Orröidori, agg. Roditore, che
rosica. Esiste a Seui una particolare specie di pesco detto péssïu o.
perché la polpa - di sapore assolutamente straordinario - non si
stacca facilmente dal nocciolo e
dunque va rosicata.
Orroìna, s. f. Ruggine.
Orröinai(si), v. Arrugginire,
arrugginirsi. Ancora vivo il prov.
s’òmini imbidïosu est che ferru chi
s’orroìnat (l’uomo invidioso è
come il ferro che si arrugginisce).
Orröinau/ada, agg. Arrugginito/a.
Orróiri, v. Rosicare. In senso fig.
vale: mangiare, mangiucchiare.
Nd’orróit de cosa, cussu, chi ddu
lassas (ne mangia di roba, quello,
se glielo permetti). Il part. pass. è
orrósïu.
PAOLO PILLONCA
Orroleddu, s. m. Roverella giovane.
Orròli, s. m. Roverella (quercus
pubescens). Albero non molto presente nel territorio di Seui, a differenza del leccio. La pianta è considerata invasiva e perciò tenuta a
freno nella sua espansione, soprattutto in prossimità di alberi da
frutto. La si ritiene dannosa per le
altre colture e la sua legna non è
molto apprezzata per gli utilizzi
domestici invernali.
Orromigadura, s. f. Ruminazione.
Orromigai, v. Ruminare. In
senso fig. meditare in solitudine.
Orromigau/ada, agg. Ruminato/a, meditato/a.
Orrosa/Orrosica, n. pr. di persona. Rosa, Rosetta.
Orrosa, s. f. Rosa (rosa canina).
Dà luogo ad una similitudine
divenuta nel tempo luogo comune: friscu che un’orrosa (fresco
come una rosa).
Orrosa de monti, s. f. Peonia
(paeonia officinalis), rosa di montagna frequente nel territorio di
Seui e dall’aspetto inconfondibile.
Orrosarïada, s. f. Preghiera reiterata.
Orrosarïai, v. Rosariare, pregare.
Est sempir orrosarïendu (è sempre
in preghiera).
Mancarìas. La parlata di Seui
Orrosarïau/ada, agg. Ripetuto
insistentemente, come nel rosario.
Orrosàrïu, s. m. Rosario. Il rosario della preghiera cristiana. In
senso fig. ripetizione eccessiva di
un concetto. Ddu narat a o. (lo
ripete come fosse un rosario).
Orroscèntzïa, s. f. Noia, disturbo, fastidio. Fulanu est un’o. (Fulano è una noia).
Orroscidura, s. f. Venuta a noia.
Orròsciri, v. Avere a noia, essere
stufo. Anche nella forma rifl. T’orròsciu (mi sei venuto a noia), coidu
a m’o. (mi stufo presto). Frequentissima l’espr. divenuta luogo comune o. che-i sa petza pudèscïa (venire a noia come la carne putrida).
Orróscïu/a, agg. Annoiato/a,
venuto/a noia.
Orrosïai, v. Bagnare, velare di
rugiada. Indica anche il formarsi
notturno della stessa rugiada. A
ùrtimus de äustu cumentzat a o. (a
fine agosto inizia a cadere la rugiada). Vedi orrosu.
Orrosïau/ada, agg. Bagnato/a di
rugiada, rugiadoso/a.
Orrosica, n. pr. di pers. Rosa.
Orrosina, s. f. Pioggerellina leggera e sottile, simile alla rugiada.
Orrosinai, v. Piovigginare a goccioline simili a rugiada.
Orrósïu/a, agg. Rosicato/a,
mangiato/a. Vedi orróiri.
303
Orrosonita, s. f. Rotella, rosnetta. In senso fig. sussa, percossa.
Chi intzighis ti passu s’o. (se insisti
ne buschi).
Orrostiri, v. Arrostire. Rif.
soprattutto alle carni.
Orrostiu/a, agg. Arrostito/a.
Orrostu, s. m. Arrosto. Chi
abarras cöeus un’orrogu de petza a o.
(se resti con noi cuciniamo un
pezzo di carne arrosto).
Orrosu, s. m. Riso, la pianta
erbacea e il suo prodotto.
Orrosu, s. m. Rugiada (ros,
roris).
Orrovina, s. f. Disgrazia, rovina,
fatalità.
Orrovinai, v. Rovinare, mandare
in rovina.
Orrovinau/ada, agg. Rovinato/a,
distrutto/a.
Orrù, s. m. Rovo (rubus fruticosus) arbusto spinoso per eccellenza.
Il frutto si chiama murorrùa (vedi).
Orrüargiu, s. m. Roveto. Per est.
luogo incolto e difficile da attraversare a piedi e senza protezione.
Vedi irdorrüai.
Orrubïai(si), v. Arrossare. Sa
primu dì ’e mari m’orrùbïat sa peddi
(la prima giornata di mare mi
arrossa la palle) Nella forma rifl.
vale arrossire. Chi ddu certas
s’orrùbïat inderetura (se lo rimproveri arrossisce immediatamente).
304
Orrubïastu/a, agg. Rossastro/a.
Orrùbïu/a, agg. Rosso/a.
Orruga, s.f. Vicolo, viuzza. Est
un’o. strinta, fata po is carrus (è una
viuzza adatta ai carri a buoi).
Escrescenza della pelle, porro.
Dd’at bessìu un’o. (gli è spuntato
un porro). Bruco. In s’istadi is ìligis
furint prenas de o. (d’estate i lecci
erano carichi di bruchi).
Orrùiri, v. Cadere. Nel camminare e/o nel correre a piedi, ma
anche da cavallo, dalla bicicletta,
dalla moto, da un albero, da una
roccia, da un muro o da un tetto.
In senso fig. cadere in trappola.
Chi ddi fais una troga nci orrùit che
nudda (se gli tendi una trappola ci
casca come se niente fosse).
Orrulloni, s. m. Bubbolo, sonaglio per finimenti da cavallo: sferetta di metallo dentro cui si
muove una pallina.
Orrunda, s. f. Vagabondaggio,
moto perpetuo.
Orrundai, v. Bighellonare, gironzolare, darsi alla bella vita. Est sempir orrundendu (girovaga di continuo). Frequente l’espr. orrundaorrunda, per dare il senso di una
vita in costante movimento ma
senza meta precisa.
Orrunderi/a, s. e agg. Vagabondo/a.
Orrundinina/rundinina, s. f.
PAOLO PILLONCA
Rondinina, segno distintivo del
bestiame. Gergale della burocrazia
comunale. Per i particolari vedi
rundinina.
Orrùndula, s. f. Rondine.
Orrunduledda, s. f. Rondinella.
Orrusciadori, s. f. Innaffiatoio.
Orrusciai, v. Innaffiare. Desueto.
Orruta, s. f. Caduta semplice. At
fertu un’o. (ha subìto una caduta).
Orrùtidu, s.m. Rutto.
Orrutorgia, s. f. Caduta rischiosa. Quasi un sin. di orruta, ma
indica un evento di maggiore gravità e pericolo quando si tratta di
caduta multipla, per es. in una
corsa equestre.
Orrutu/a, agg. Caduto/a. Anche
in senso fig. Part. pass. di orrùiri.
Ortali, s. m. Orto di vasta dimensione.
Ortalìtzïa, s. f. Ortaggio, verdura. È anche nome collettivo.
Ortéssïu, s. m. Clemàtide, arbusto rampicante della famiglia delle
ranuncolacee.
Una
volta,
l’iniziazione ai misteri del fumo
partiva proprio dal tralcio di questo arbusto.
Ortigai, v. Raccogliere il sughero dai sòveri con la decorticazione
del tronco.
Ortigaïu, s. m. Raccoglitore di
sughero.
Ortigau/ada, agg. Decorticato/a.
Mancarìas. La parlata di Seui
Ortigeddu, s. m. Orticello.
Ortigu, s. m. Sughero.
Ortu, s. m. Orto. La cura degli
orti è stata per secoli - e continua
ad essere, anche se in misura
ridotta - una delle principali occupazioni delle donne del paese.
Come in tutti i centri di montagna, le colture principali erano e
sono: patate, fagioli, zucchine,
cetrioli, pomodori, bietole, sedani, oltre all’aglio, la cipolla e il
prezzemolo. Un tempo era fiorente anche la coltivazione dello zafferano, ora ridotto alla marginalità. Oggi c’è da dire che le tecniche
si affinano, e non sempre sul versante della qualità dei prodotti.
Òru, s. m. Oro. Molto usato in
senso met. come sinonimo di
valore, rarità, eccellenza e simili.
Unu piciocu ’i ò. (un ragazzo
d’oro). La voc. iniziale è aperta.
Óru, s. m. Orlo, del cucito e di
qualunque altro elemento, dal
burrone (s’o. ’e sa spérruma) al
bosco (s’ó. ’e su padenti). L’espr.
boddiri ó. vale: intuire, prevedere.
Cristolu fut ingirïendu una picioca
ma nde dd’at boddìu ó. sa pobidda
(Cristoforo stava circuendo una
ragazza ma la moglie l’ha intuito).
La loc. in s’ó. - tuttora molto usata
- vale: vicinissimo. La vocale iniziale è chiusa.
305
Orus, s. m. Denari. Gergale del
gioco delle carte. Vedi cupas,
bastus e spadas.
Ossàmini/ossìmini, s. m. Ossatura.
Ossu, s. m. Osso. Indica le ossa
in genere, di uomini e animali.
Ossudu/a, agg. Ossuto/a.
Óstïa, s. f. Ostia, la particola
dell’Eucarestia.
’Ostu/bostu/a, agg. e pr. poss.
Vostro /a. Sa làcana ’osta (il vostro
confine).
Otanta, agg. num. card. Ottanta.
Otantena, s. f. Ottantina.
Otava, s. f. Ottava rima, strofe
tipica degli estemporanei.
Oténniri, v. Ottenere, guadagnare.
Otentu/a, agg. Ottenuto/a.
Otu, agg. num. card. Otto.
Otugentus, agg. num. card. Ottocento.
Otumila, agg. num. card. Ottomila.
Ou, s.m. Uovo. Usato anche il
dim. öigeddu (ovetto).
306
PAOLO PILLONCA
P
Pabassa, s. f. Uva passa.
Pabassadura, s. f. Appassimento.
Pabassai, v. Appassire, rinsecchire, raggrinzire.
Pabassau/ada, agg. Appassito/a,
rinsecchito/a, raggrinzito/a.
Pabassinu, s. m. Dolce di mandorle, nocciole e uva passa. Un
tempo calendarizzato rigidamente, lo si preparava per le ricorrenze
novembrine dei Santi e dei Morti.
Oggi si tende a non rispettare precisi rimandi temporali e lo si confeziona liberamente in tutte le stagioni dell’anno.
Pabau, avv. Pochissimo. Contrazione e corruzione di pagu-pagu.
Pabäùli, s. m. Papavero.
Padenti, s. m. Bosco fitto, foresta. Implicitamente si intende una
lecceta, o comunque un bosco con
netta prevalenza di lecci o alberi
della famiglia delle querce. A tretus
su p. est prus cracu (a tratti il bosco
si fa più fitto). Vedi ìligi.
Pagai, v. Pagare, ricompensare.
Deus ti ddu paghit (Dio ti conceda
la ricompensa).
Pagamenta, s. f. Tassa, balzello.
Pagamentu, s. m. Pagamento.
Pagau/ada, agg. Pagato/a.
Pagi, s. f. Pace. Condizione ideale di convivenza comunitaria, da
tenere sempre viva attraverso un
intreccio di relazioni costanti di
aiuto vicendevole e di scambio di
doni, anche attraverso prelibatezze
alimentari. Come nel detto antico:
chi ’olis chi sa pagi si mantengiat
/tandu unu pratu andit e unu
’engiat (se vuoi che la pace si conservi, allora fai in modo che un
piatto vada e un altro venga).
Pagïosu/a, agg. Pacifico/a, amante della pace, disponibile alla mediazione. Sono questi gli uomini e
le donne più apprezzati nel giudizio popolare e spesso chiamati a
comporre i dissidi interni al paese.
Paglia, s. f. Paglia. In senso fig.
vanagloria, narcisismo, logorrea.
Nd’iscapat de p. Sarbadori (ne fa
volare, di paglia, Salvatore).Vedi
spagliai.
Paglieri/a, s. m. Vanaglorioso,
chiacchierone, superficiale.
Pagu, agg. e avv. Poco. Come
agg. non muta desinenza se rif. a
Mancarìas. La parlata di Seui
un s. f. ( pagu genti, pagu friscura,
pagu vida (poca gente, poca frescura, poca vita).
Pagumali, avv. Menomale.
Pagu-pagu, avv. Pochissimo.
Nella parlata quotidiana la reiterazione si abbrevia in pau-pau e
anche pabau. Pres. in diversi
soprannomi formati da composti.
Pala, s. f. Spalla, dell’uomo e
dell’animale. Indica anche un terreno di altura ma assai pianeggiante. Molte usate le loc. a palas
(alle spalle, dietro) e de p. in coddu
(lett. dalla spalla all’òmero, quando si vuole indicare un gioco a
scaricabarile). Vedi coddu.
Palanchinu, s. m. Leva, palanchino di ferro.
Pàlïa, s. f. Pala. Senza specificazione ulteriore, indica la pala
metallica del muratore. Se è lignea
e destinata al forno, si chiama,
appunto, p. ’e forru. Se si parlerà
male di un morto, sarà facile sentirsi ammonire: lassaddu in pagi,
est una p. ’e terra (lascialo in pace,
è una pala di terra).
Palïetu, s. m. Bagaglio. Molto
usata l’espressione ironica si nd’at
pigau is palïetus e si nd’est andau
(ha preso con sé i bagagli ed è
andato via).
Palineddu, s. m. Canestrino di
asfodelo. Pres. nei soprannomi.
307
Palini, s. m. Canestro di asfodelo dalle pareti basse.
Palita, s. f. Piccola pala di ferro
per la brace del focolare. Indica anche l’attrezzo a manico corto del
muratore per mettere il cemento sui
muri in costruzione o restauro. Presente nei soprannomi. Dim. palitedda.
Pampa, s. f. Vampa, vampata.
Indica il crearsi della fiamma nella
prima fase della accensione di un
fuoco. Vedi fraca.
Pampada, s. f. Vampata, intervallo irregolare tra una sortita e
l’altra. Andat a pampadas (procede
per vampate).
Pampori, s. m. Sensazione di
caldo eccessivo, vampata.
Pana, s. f. Puerpera. La donna
che ha partorito di recente viene
considerata p. per la durata di quaranta giorni, il tempo ritenuto a
rischio per la sopravvivenza della
madre dopo il trauma del parto. Il
s. non assume qui il significato di
donna morta di parto e poi passata in quella sorta di limbo che sono
le rive dei fiumi, senso che invece
ha in molte altre zone dell’isola
dove sopravvive il mito delle
panas. Nella parlata di Seui pana
definisce esclusivamente la puerpera: viva e vegeta anche se comprensibilmente debole. Vedi incresïai.
308
Panateri/a, s. m. e f. Fornaio/a,
panificatore/panificatrice.
Paneri, s. m. Culo. Colorita
l’espress.: ses pighendu a p. (sei una
rottura).
Panga, s. f. Macelleria, rivendita
di carni. Desueto. Vedi spangai.
Pangargiu, s. m. Macellaio.
Desueto.
Pani, s. m. Pane. L’alimento primario della civiltà umana ha avuto
e continua ad avere anche a Seui come in tutta la Sardegna, con
particolare riguardo alle zone
interne - una larga articolazione di
saperi manuali nelle tipologie, dal
civargiu ai vari tipi di civargeddus,
a su p. bïancu, il pane candido
lavorato talvolta artisticamente
come su p. pintau, lett. il pane
dipinto, delle occasioni festive,
familiari e paesane. In passato si
confezionava anche il pane d’orzo.
Diversamente dai paesi confinanti
dell’Ogliastra, a Seui non si confeziona su pistocu, né ci sono documenti che ne provino la presenza
in passato. Numerose le espressioni legate al pane. Una delle più
usate suona p. malu (di cattiva
qualità), che in senso fig. indica la
scarsa armonia in famiglia, dovuta
principalmente al disaccordo fra i
coniugi o alle estreme necessità
materiali del nucleo familiare. Il s.
PAOLO PILLONCA
è impiegato in senso improprio
per definire la confezione di alcune specialità gastronomiche come
la cordula di pecora e di capra (p.
’e corda).
Pani ’e presta, s. m. Pane ottenuto in prestito, dunque da restituire, In senso met. debito da
pagare.
Pani ’e saba, s. m. Pane di sapa,
dolce tipico di alcune ricorrenze
rituali come quella dei Santi.
Pannigeddu, s. m. Fazzoletto.
Pannissu, s. m. Pannolino.
Pannu, s. m. Panno. Indica il tessuto che si dava in premio ai vincitori delle corse equestri e anche,
più semplicemente, il tipo di tessuto. In senso fig. vittoria, gloria.
Pannuga, s. f. Pannocchia.
Pannuga ’e coscia, s. f. Adenite,
infiammazione delle ghiandole
inguinali che fino ai primi del Novecento si curava con rituali magico-religiosi, come testimonia il
medico per antonomasia della
comunità seuese Demetrio Ballicu
(Ricordi di una fanciullezza e di
un’adolescenza lontane…, cit., pag.
18).
Pantuma, s. f. Fantasma. Figura
in
movimento,
come
un’apparizione.
Papadura, s. f. Mangiata. Frequente la loc. a p.
Mancarìas. La parlata di Seui
Papada, s. f. Mangiata, spuntino
copioso. Nos eus fatu una p. ’e petza
’e craba (ci siamo fatti una mangiata di carne di capra).
Papai, v. Mangiare, alimentarsi.
Si usa in rif. a uomini e animali.
Ma per gli uomini vale
l’ammonimento contenuto nella
vecchia esortazione: papa e citi
(mangia e stai zitto), tuttora presente nella lingua di uso quotidiano, tanto che un ristoratore seuese
ha dato questo nome al suo locale
cagliaritano. Se riferito al fuoco
vale: distruggere. Nce dd’at papau
su fogu (se lo è divorato il fuoco).
Presente nell’imprecazione su fogu
nce ddu papit (che il fuoco lo divori), sovente abbreviata in fogu ddu
papit (che il fuoco lo bruci) o più
drasticamente in fogu. Frequente
l’impiego anche come inf. sostantivato: ti depis arregulai in su p. chi
’olis curai a lestru (se vuoi guarire in
fretta ti devi regolare nel mangiare).
Papalardu, s. m. Specie di passerotto.
Papasucu, s. m. Mangiaminestra. Pres. nei soprannomi.
Papau/ada, agg. Mangiato/a.
Paperàmini, s. m. Scartoffie,
mucchio cartaceo. In senso dispregiativo.
Paperi, s. m. Carta. Indica ogni
309
tipo di materiale cartaceo, tranne
le carte da gioco e le carte bollate
dei documenti ufficiali. .
Paperotu, s. m. Pacchetto. Usato
quasi escl. al pl. Pinniga is paperotus e baidindi (raccogli armi e
bagagli e vattene).
Papingiu, s. m. Prurito forte. In
senso met. desiderio mal dissimulato, frenesia. Ndi portat de p.,
cudda (ne ha di prurito, quella).
Papu, s. m. Nòcciolo commestibile.
Para, s. m. Frate. Il frate vero e
proprio è p. ’e missa (frate da messa), il confratello questuante è p.
cicanti (fraticello questuante, laico).
Paracheddu, s. m. Ombrellino.
Paracu, s.m. Ombrello.
Paragonïai,
v.
Affrontare
un’agonia sofferta, morire fra le
sofferenze. Cussu sa morti est paragonïendudedda (quello lì sta
morendo tra mille sofferenze).
Paragonïau/ada, agg. Sofferto/a
all’estremo limite.
Paragónïu, s. m. Sofferenza estrema di un malato terminale. Desueto.
Parai, v. Allevare bestiame. At
parau crabas (si è messo ad allevare capre). Tendere. P. s’origa (tendere l’orecchio), p. unu lassu (tendere una trappola). Affrontare.
Linu at parau fronti a unu strangiu
310
chi fut prus mannu meda ’e carena
(Lino ha affrontato un forestiero
di corporatura molto superiore
alla sua). Di recente il v. è entrato
anche nel gergo del gioco del calcio. No iscìt p. nudda, cussu portieri (quel portiere non sa parare
affatto). Il dev. è paru.
Paralìmpïu, s. m. Paraninfo,
pronubo. Spesso in senso ir. E ita
’olis, a ti fàiri ’e p.? (cosa vuoi, che
ti faccia da pronubo?).
Parastagiu, s. m. Scaffale a muro
adibito a contenere soprattutto
vasellame. Piattaia.
Parau/ada, agg. Allevato/a,
teso/a. Part. pass. di parai.
Pardu, s. m. Prato, pascolo pianeggiante. Nel gergo degli agricoltori, però, il s. indicava quella parte
del territorio comunale di anno in
anno assegnata alla semina. Ne
rimane traccia anche in un toponimo, Cùcurus de p., la parte più alta
del territorio assegnato alla semina.
Pàrdula, s. f. Formaggella.
Pariga, s. f. Paio. Ma
l’indicazione non segna rigidamente il tempo né la quantità. Mi
pasu po una p. ’e dis (mi riposerò
per qualche giorno).
Paris, agg. indecl. Pianeggiante.
Logu paris è la pianura. Ddi parit
totu su logu p. (ogni terreno gli
sembra pianeggiante), per indicare
PAOLO PILLONCA
un ottimista o un facilone.
Paris, avv. Insieme. Ddu andaus
paris (ci andiamo insieme).
Pàrriri, v. Sembrare, apparire. Il
part. pass. è partu.
Pàrriri, s. m. Giudizio, parere,
opinione.
Partera, s. f. Partoriente.
Parti, s. f. Parte. Is partis depint
éssiri ugüalis. Preferenza, difesa.
Ddi ponit sempir sa p. Pres. anche
nei toponimi, indica una zona
sotto il versante sudorientale della
foresta di Montarbu.
Partida, s. f. Partita, dall’incontro di calcio alla sfida al gioco
delle carte.
Partidedda, s. f. Partitella, breve
partita.
Partiri, s. m. Partire. Con l’aus.
avere. At partìu (è partito).
Partìu/a, agg. Partito/a.
Partu, s. m. Parto.
Partu/a, agg. Sembrato/a, parso/a. Part. pass. di pàrriri.
Paru, s. m. Specie, razza di
bestiame. Su p. ’e sa craba, su p. ’e
su procu (la specie delle capre, la
specie dei maiali). Dev. di parai.
Pasai, v. Riposare, sostare. Cristolu trabbagliat totu sa dì chene p.
nudda (Cristoforo lavora tutto il
giorno senza un attimo di riposo).
Pasau/ada, agg. Riposato/a.
Pasca, s. f. Pasqua. Quella di Re-
Mancarìas. La parlata di Seui
surrezione, definita Pasca Manna,
per differenziarla rispetto al Natale,
Paschigedda (piccola Pasqua).
Pascali, s. m. Vitigno tipico che
si coltiva insieme con il cannonau
nel tentativo di rendere meno
forte e più gradevole il vino.
Paschigedda, s. f. Festività del
Natale.
Pascifera, s. m. Favoloso protettore della selvaggina (lett. conduttore di selvatici). Secondo questo
mito, vivo nei ricordi dei cacciatori più anziani, le mufle e i mufloni soprattutto, ma anche i cinghiali, in certi frangenti godrebbero della protezione di un personaggio ultraterreno che li salverebbe nei momenti peggiori.
Pàsciri, v. Pascolare. Oi is crabas
non pascint (oggi le capre non
hanno voglia di pascolare).
Condurre al pascolo. Franciscu giai
chi ddas pascit (Francesco sì che le
fa pascolare). In senso fig. coltivare
con delicatezza una relazione sentimentale. Ses pascendudidda, cudda
piciochedda (te la corteggi, quella
ragazzina).
Pascïu/a, agg. Pascolato/a.
Pasongiu, s. m. Pausa, riposo.
Vedi pasai e pasu.
Passada, s. f. Percorso pianeggiante.
Passada, s. f. Serie di colpi o
311
altro. Dd’at donau una p. ’e ciafus
(gli ha dato una serie di schiaffi).
Spesso utilizzato per metafore erotiche del tipo donai una p. de
cudda cosa (dare una serie di colpi
con quella cosa).
Passadissu, s. m. Andito. Luogo
di passaggio all’interno di una
casa.
Passai, v. Passare, trascorrere. Fui
in Gersadili e nci soi passau a
Carrighera (ero a Gersadili e mi sono spostato verso Carrighera), candu soi contonïau fut mesunoti passada (quando sono rientrato a casa
era già trascorsa la mezzanotte).
Sopportare. Ti nau ca nd’at dépïu
p., Franciscu, po mori de is figlius (ti
dico che Francesco ne ha dovuto
sopportare, per colpa dei figli).
Passau, s. m. Tempo passato.
Passau/ada, agg. Passato/a, trascorso/a, sopportato/a.
Passïali, s. m. Stabbio. Nel
gergo dei pastori, il recinto in cui
si tiene il bestiame all’aperto
durante la notte nella buona stagione.
Passïèntzïa, s. f. Pazienza. Cun
tui nci ndi ’olit aberu ’e p. (con te ce
ne vuole davvero, di pazienza). Al
pl. (is passièntzïas), significa condoglianze. Dd’apu ’onau is p. (gli ho
presentato le mie condoglianze).
Passïentzïosu/a, agg. Paziente.
312
Passillada, s. f. Passeggiata.
Passillai, v. Passeggiare.
Passillu, s. m. Passeggio.
Passìu, s. m. Vagabondaggio, il
girovagare senza meta. Est a p. (fa
il vagabondo).
Passu, s. m. Passo, varco. In
questa accezione è presente in un
toponimo famoso, Su P. malu,
mitico passaggio - strettissimo ed
estremamente rischioso - lungo
una cengia del massiccio del
Tónneri. Modo di camminare,
andatura. Bellu p. tenit, Franciscu
(Francesco ha un bel modo di
camminare), s’ebba tua non poderat
su passu de is atrus cüaddus (la tua
cavalla non regge l’andatura degli
altri cavalli).
Pasta, s. f. Pasta.
Pastasciuta, s. f. Pastasciutta.
Figura nei soprannomi.
Pastori, s. m. Pastore. Quando
non ha specificazioni, il s. si riferisce all’allevatore di pecore. Chi
alleva capre è crabargiu, chi possiede bovini bacargiu, chi bada ai
suini procargiu. Al pl. is pastoris
indica l’intera categoria degli allevatori, a prescindere dalla specie di
bestiame allevato. Per indicare un
allevatore giovanissimo, si usa il
dim. pastoreddu.
Pastorìu, s. m. Classe pastorale,
categoria dei pastori.
PAOLO PILLONCA
Pastura, s. f. Pascolo.
Pasu, s. m. Riposo, tranquillità,
relax. Dev. di pasai. Vedi pasongiu.
Patarru, s. m. Piccola carica di
esplosivo da miniera.
Patena, s. f. Medaglia. In senso
ir. spesso al dim. (patenedda), lo si
usa per definire un prosciutto
minuscolo: parit una p. (somiglia
ad una medaglietta).
Patidori/a, agg. Sofferente,
addolorato/a.
Patimentu, s. m. Sofferenza, più
morale che materiale.
Patiri, v. Soffrire, patire. Un
prov. recita: chini non patit non
podit mancu gosai (chi non soffre
non può neppure gioire).
Patìu/a, agg. Sofferto/a. Lüisa
mi parit p. meda (Luisa mi sembra
molto provata).
Patrefìlïu, s. m. Attimo, momento fuggevole (il brevissimo tempo
che si impiega a dire Pater et Filius
nelle preghiere). Si ddu est postu e
in-d-unu p. at fatu totu (ci si è
messo e in un attimo ha fatto
tutto).
Patus, s. m. Patto, accordo.
Pau-pau, avv. Contrazione-corruzione di pagu-pagu. Vedi anche
pabau.
Paùli, s. f. Palude. Pres. nella toponomastica, indica una zona
ricca d’acque - ma ora non più
Mancarìas. La parlata di Seui
paludosa - nella parte alta del territorio comunale, tra Cùcurus de
pardu e S’arenedda bïanca.
Pearbu/a, agg. Balzano/a, lett.
dalla zampa bianca. Detto dei
cavalli morelli, bai e sauri balzani
a una zampa.
Pebedda, s. f. Afta.
Pebeddosu/a, agg. Pieno/a di
vescicole.
Pecadori/a, s. e agg. Peccatore/peccatrice.
Pecai, v. Trasgredire, peccare. In
su papai, chi non biu non pecu (nel
mangiare, se non vedo non trasgredisco).
Pecau, s. m. Peccato, colpa.
Pedali, s. m. Pedale. Vedi apedalai.
Peddargiu, s. m. Commerciante
di pelli.
Peddi, s. f. Pelle. No apu ’éndïu
manc’una p. ’e crabitu (non ho
venduto neppure una pelle di
capretto). Vita. S’at sarvau sa p.
(ha salvato la vita).
Pedditzoni, s. m. Uomo male in
arnese, individuo di scarso valore.
Pedidori, s. m. Mendicante.
Pedidorìa, s. f. Accattonaggio.
Pediri, v. Chiedere per avere.
Chiedere per sapere è, invece, pregontai.
Pedìu/a, agg. Chiesto/a, richiesto/a.
313
Peghiteddu, s. m. Asinello. Dim.
scherzoso. Vedi bistratzu, burricu,
cocineddu, molenti e pegus de mola.
Pegus, s. m. Capo di bestiame in
genere (pecus). Per indicarne uno
in particolare occorre specificare:
p. de craba (capra), p. de mola
(asino), p. de ’uli (bovino), etc. Su
p. de fera è l’animale selvatico. Il s.
è indeclinabile. In senso dispregiativo vale: uomo di scarso valore,
mascalzone. Arratza ’e p. (che
razza di mascalzone).
Pèi, s. m. Piede. Numerosi i
composti: peis de coca (piedi d’oca),
peisladus (dai piedi larghi, registrato nei soprannomi), peislébïus (dai
piedi leggeri, pres. anch’esso nei
nomignoli), pèi-maduru (dai piedi
enormi), pèi-mannu (dai piedi
grandi), pèi-trotu (dai piede storti),
pèi-tundu (dai piedi tondi, asino).
Pëincareddu, s. m. Gioco infantile prevalentemente femminile,
senza alcun premio che non sia
l’onore di aver vinto. Consiste nel
segnare sul terreno un rettangolo
con sei linee divisorie orizzontali e
una verticale. I dieci quadrati così
ottenuti diventano il campo da
gioco. Ogni giocatrice avanza a saltelli su un solo piede, tenendo
l’altra gamba piegata o semipiegata.
Deve sospingere con la punta della
scarpa un sassolino - spesso un coc-
314
cio di tegola - in modo da farlo passare da una casella alla successiva
senza che si fermi mai su una linea
divisoria, pena l’uscita temporanea
dalla tenzone. Chi riesce a terminare il gioco senza errori acquisisce il
diritto, nelle giocate successive, di
avere una casella personale al cui
interno, quando vi transita giocando, può posizionare come crede,
anche usando le mani, il sasso o il
coccio per poterlo poi sospingere
più facilmente nella casella successiva. Per ottenere il diritto alla
casella personale, la giocatrice deve
però fornire un’ulteriore prova di
abilità: con le spalle rivolte al terreno di gioco, deve lanciare alla cieca
la pietruzza cercando di farla cadere non soltanto all’interno del rettangolo ma nei confini di una singola casella, senza toccare alcuna
linea divisoria.
Pena, s. f. Dolore del parto. Is
penas per eccellenza sono le doglie.
Penai, v. Soffrire le doglie del
parto. Su pipìu est su miu ca dd’apu
penau (il bambino è il mio perché
con lui ho sofferto le doglie del
parto).
Penau/ada, agg. Sofferto/a.
Pendi-pendi, loc. avv. Penzoloni.
Pèndiri, v. Pendere. Tendere a,
avere propensione per.
Pensamentu, s. m. Pensiero,
PAOLO PILLONCA
riflessione, preoccupazione, ansia.
Non mi pongias in p. (non mettermi in ansia).
Pentimentu, s. m. Pentimento.
Pentìrisi, v. Pentirsi, provare
pentimento.
Pentiu/a, agg. Pentito/a.
Pepi, n. pr. di pers. Giuseppe.
Pepineddu, n. pr. di pers. Dim.
di Pepinu.
Pepinu, n. pr. di pers. Giuseppe,
Peppino.
Perda, s. f. Pietra. Al termine generico vanno aggiunte le specificazioni del caso tutte le volte che si
vuole distinguere. P. tachina è la
pietra calcarea, p. ’e schistu lo scisto, p. ’i errìu la pietra levigata dei
fiumi, p. ’e orrodai la cote, ossia la
pietra nera ricca di quarzo granulare utilizzata dagli arrotini per
affilare le lame di coltelli, falci,
cesoie, etc. Pres. nei toponimi in
rif. ad alcune pietre della zona tra
Gersadili e Piras orrùbïas che sembrerebbero mostrare segni plurisecolari di scrittura: Perdas litaradas.
Perdali, agg. Petroso/a, di pietra.
Vivo nell’espr. beciu p. (vecchio
come le pietre).
Perdarba, s. f. Pietra bianca. Presente nella top. al plurale: Perdas
Arbas, tra Arcüerì e Orgiolóniga.
Perdargiu/ Perdïargiu, s. m.
Pietraia, pietrame. Usate entram-
Mancarìas. La parlata di Seui
be le forme, senza distinzione.
Perdedu, s. m. Pietraia, luogo
ricco di pietre. Desueto nel lessico
quotidiano, vive nella toponomastica.
Perdidori, s. e agg. Perdente.
Perdidura, s. f. Perdita, perdizione.
Perdigenti, s. e agg. Testardo fino
all’estremo, tanto da costringere
l’interlocutore a perdere il controllo di sé e rovinarsi (pèrdirisi).
Perdigi, s. f. Pernice (alectoris
barbara). Presente nei soprannomi.
Perdigoni, s. m. Pallino di cartuccia dei fucili da caccia. Apu carrigau a perdigonis (ho caricato a
pallini). Vedi aperdigonai.
Perdimentu, s. m. Perdita di
bestiame per furto subito.
Perdingianu, s. m. Melanzana.
Pèrdiri, v. Smarrire, perdere,
essere sconfitto.
Pérdïu/ pèrdïa, agg. Perduto/a.
Perdonai, v. Perdonare, scusare.
Perdonau/ada, agg. Perdonato/a, scusato/a.
Perdonu, s. m. Perdono.
Perdosu/a, agg. Pietroso/a, duro/a. Anche in senso fig., nel lessico comune come nei nomignoli,
ad indicare persone dure di comprendonio o di conformazione
fisica poco elegante. Pres. nei
soprannomi (codinedda perdosa,
315
ciocco pietroso).
Perdu, n. pr. di pers. Pietro.
Desueto.
Perdulàriu, s. m. Perdigiorno,
errabondo, ramingo.
Perduleri, s. m. Giramondo.
Perdusémini, s. m. Prezzemolo.
In senso trasl. a definire i ficcanaso e le persone che si propongono
eccessivamente.
Perefundu, s. m. Voragine, profondità. Custu nce dd’acabbat in is
perefundus de su ’nferru (questo
finirà nelle profondità dell’inferno.
Peréula (a), s. f. e avv. Giro
senza meta, vagabondaggio, disordine. Su tagliu de Giüanni est
andendu a p. (il gregge di Giovanni vaga per conto proprio).
Péritu, s. m. Perito, esperto in
grado di periziare nella materia di
competenza. Nella parlata di Seui
il s. ha l’accento sulla prima sillaba
- péritu - anziché sulla seconda
come in it.
Perìtzïa, s. f. Perizia.
Peritzïai, v. Periziare, sottoporre
a perizia.
Peritzïau/a, agg. Periziato/a, sottoposto/a a perizia.
Permanèntzïa, s. f. Permanenza,
soggiorno. Usato quasi escl. nell’augurio bona p.
Permissu, s. m. Concessione,
316
permesso.
Permìtiri, v. Permettere, concedere.
Permìtïu/a, agg. Concesso/a,
permesso/a.
Perómini, avv. Per ciascuno. De
custas duas ebbas ndi pigaus una p.
(di queste due cavalle ne prenderemo una ciascuno).
Perra, s. f. Metà. Al pl. (perras)
indica la zona inguinale, che,
appunto, divide a metà il corpo
umano. Vedi sperrai.
Perrerìa, s. f. Falsità grossa, stupidaggine enorme, cattiveria. Lett.
cosa detta a metà (vedi perra),
dunque di scarso valore.
Pèrtïa, s. f. Pertica. Il dim. è pertighita.
Pertïassu, s. e agg. Persona
testarda, dura, che si piega ma non
si spezza, come certe pertiche.
Pertùngiri, v. Bucare. Desueto,
sopravvive nel part. pass. coniugato al f. che serve a definire uno dei
segni della marchiatura del bestiame.
Pertunta, s. f. Segno identificativo del bestiame. Consiste in un
buco nell’orecchio dell’animale.
Uno dei marchi più usati, anche
perché facile da praticare e difficile da contraffare, se la pertunta è
praticata il più vicino possibile alla
testa della bestia.
PAOLO PILLONCA
Pertuntu/a, agg. Bucato/a.
Perunu/a, agg. Nessuno/a, alcuno/a. Non biu caminu p. (non
vedo alcuna strada), no ddu at p.
’essida (non c’è nessuna uscita).
Pesa, s. f. Bilancia, stadera.
Pesai, v. Pesare. Pesa cuss’angioni
(pesa quell’agnello). Levare, sollevare. S’est pesau su ’entu (si è levato il vento). Allevare. Fut orfuneddu e dd’at pesau sa pardina (era
orfano ed è stato allevato dalla
madrina). Togliere via. Pesancedda
cussa cadira (togli di mezzo quella
sedia).
Péssïu, s. m. Pesco (prunus persica). Tanto l’albero quanto il suo
frutto, la pesca.
Petenai, v. Pettinare. In senso
fig. criticare in assenza del criticato. Ddu pètenat beni-’eni (lo critica ben bene).
Petenau/ada, agg. Pettinato/a,
criticato/a.
Pètini, s. m. Pettine. In senso
fig. critica. Dd’at passau su p. (gli
ha fatto una critica radicale).
Petza, s. f. Carne. Indica genericamente la carne commestibile,
per definirne il tipo occorre un
compl. di specificazione: petza ’e
angioni, de craba, de crabitu, de
’erbèi, de lèpuri, de murva, de perdigi, de procu, de sirboni, de maglioru
(carne di agnello, di capra, di
Mancarìas. La parlata di Seui
capretto, di pecora, di lepre, di
mufla, di pernice, di cinghiale, di
vitello), etc. Per insegnare ai bambini a non essere curiosi, al primo
che vuole sapere quale tipo di
carne sia quella presente sulla tavola o infilata nello spiedo si risponde in modo scherzoso: petza ’e
mortu (carne di animale ucciso).
Altra definizione curiosa è petza ’e
’runcu (lett. carne di muso): indica
uno stato di discordia familiare e
viene usata dai mariti quando rivelano una situazione di malumore
nei loro confronti da parte delle
mogli: oi apu papau p. ’e ’r. (oggi
ho mangiato musi lunghi). In
materia di carne esiste a Seui, comprensibilmente, una lunga serie di
consuetudini e di saperi materiali e
immateriali tramandati e verificati
di continuo nell’esperienza quotidiana, che costituiscono un patrimonio di grande rilievo sociale e
antropologico.
Petza, s. f. Mezza lira.
Pìbera, s. f. Vipera. In senso fig.
persona irascibile e intrattabile.
Pibinca, s. f. Pellicina periungueale. In questo senso il s. è
desueto. Molto usato, invece, in
senso fig. per indicare una donna
noiosa e incline alle lamentazioni
Pibincai, v. Piagnucolare, piangere in maniera sommessa ma insi-
317
stente. Usato in senso ironico-sarcastico. Est a donnïora pibinchendu
(sta sempre piagnucolando).
Pibincu/a, agg. Lamentoso/a,
insistente, pignolo/a.
Pibïoni, s. m. Acino. Presente
anche come soprannome. Vedi
spibïonai.
Pibirassu/a, agg. Color pepe.
Detto del bestiame minuto.
Pìbiri, s. m. Pepe. In senso fig.
vanità, vanagloria. Cussa picioca
portat p., quella ragazza è vanitosa.
Pibirista, s. f. Palpebra.
Pibiristau/ada, agg. Con le palpebre pronunciate.
Pibiristu, s. m. Ritaglio di stoffa. Si usa quasi escl. al pl. in senso
fig. S’est posta a pibiristus (ha
indossato dei ritagli).
Pibironi, s. m. Peperone.
Pibirudu/a, agg. Pepato/a, peperuto/a.
Pibissìu, s. m. Cavalletta.
Pica, s. f. Pene, organo sessuale
m. Variante scherzosa di minca.
Vedi lilla e lillìa.
Picigadura, s. f. Attaccamento
fastidioso. Cussu si nci fait a p.
(quello lì si attacca invariabilmente).
Picigai, v. Attaccare, colpire,
attaccar briga. Linu picigat fatu
fatu cun Gisepu (Lino ogni tanto
attacca briga con Giuseppe). Nella
318
forma rifl. vale: attaccarsi a q.sa
e/o a q.no. Si picigat che una càncara ( si attacca come una zecca).
Picigau/ada, agg. Attaccato,
appiccicato/a.
Piciocaglia, s. f. Giovane generazione. Ndi pesat de tréulu totu
cussa p. (ne fanno di casino tutti
quei ragazzotti). Nome collettivo.
Piciocheddu/a, s. e agg. Ragazzino/a.
Picioconi/a, s. e agg. Adolescente.
Piciocu/a, s. e agg. Giovane.
Piconi, s. m. Superdotato. Vedi
pica. Pres. nei soprannomi.
Picu, s. m. Piccone.
Pïedadi, s. f. Pietà.
Piedosu/a, agg. Pietoso/a, degno/a di pietà.
Pigada, s. f. Presa, afferramento.
Est una p. po culu (è una presa in
giro).
Pigadorgiu, s. m. Appiglio. In
senso reale e fig.
Pigai, v. Prendere, portar via.
Pigau/ada, agg. Preso/a.
Pigi, s. f. Pece. La similitudine
più comune è nieddu che p. (nero
come la pece).
Piglia, s. f. Strato. Ma non è un
vero e proprio sing. perché viene
usato sempre al duale e al plurale
neutro (il sing. vero è pigliu).
Usato nell’espr. a dua p. (a doppio
PAOLO PILLONCA
strato).
Pigliona, s. f. Pene. Eufemismo
scherzoso.
Piglionai, v. Germogliare.
Piglionassu, agg. Tenero, appena
sbocciato, tremebondo. Si usa solo
al m. in rif. agli agnelli di pochi
giorni. Est un’angioneddu p. (è un
agnellino), anche in senso fig.
Piglionau/ada, agg. Germogliato/a.
Piglioneddu, s. m. Uccellino.
Piglioni, s. m. Uccello. Indica
genericamente i volatili, di qualunque specie siano. Diffuso
l’utilizzo in senso fig.
Pigliu, s. m. Strato, superficie.
Bogai a p., far emergere, riportare
in superficie.
Piglius, s. m. usato al pl. Pane
biscottato, sia il carasau della Barbagia, sia il pistocu dell’Ogliastra.
Pigota, s. f. Vaiuolo. Indica però
il postumo cicatriziale dell’esecuzione del vaccino contro quella
malattia.
Pilarda, s. f. Frutta secca, soprattutto fichi. Sa p. indica l’effetto
della seccatura. Ma ne esistono
anche altri tipi: p. de tamata (di
pomodori), de péssïu (di pesche),
de pira (di pere), de pruna (di prugne). Dev. di apilardai.
Pìlimu, n. pr. di persona. Priamo. Al femm. è Pìlima, al dim.
Mancarìas. La parlata di Seui
Pilimeddu/a.
Pilla, s. f. Denaro. Assunzione
recente, dalla parlata cagliaritana.
Pilledda, s. f. Piccolo pene.
Esiste anche pillelledda, una sorta
di doppio dim.
Pilloncu, s. m. Epitelio, parte
sporgente sottile di carne o di
altro alimento. Vedi spilloncai.
Pilota, s. m. Conduttore, pilota.
Pres. nei soprannomi.
Pilu, s. m. Pelo, pelame. Al sing.
si può riferire tanto agli uomini
quanto agli animali, al pl. (is pilus)
indica i capelli umani. Al sing. il s.
viene usato con met. erotica per
indicare il pube femminile.
Piluca, s. f. Capigliatura. In
senso ir. Vedi apilucai e derivati.
Pilu de tita, s. m. Mastite. Si
dice in rif. alla donna e alle femmine di tutti gli altri mammiferi.
Piludu/a, s. m. Peloso/a.
Pimpirimpà, s. m. Roba da
nulla. Indicare entità pressoché
nulle. Est un’omineddu de p. (è un
omuncolo da niente).
Pindaciu, s. m. Iettatore, portatore di sfortuna.
Pìndula, s. f. Pastiglia. Con
venatura ironica. Usato anche il
dim. pinduledda.
Pinduleri, s. m. Divoratore di
pastiglie, malato immaginario.
Pìnghili-pìnghili, s. m. Deno-
319
minazione di un gioco infantile,
tra il non sense e la filastrocca:
Pìnghili pìnghili/ a totu pìnghili/ a
totu bacu/ foglia ’e tabbacu/ foglia ’e
piroi:/ tu-tu, bessiminci foras/ de
custa ’idda/ e betimì/ unu scarteddu/
prenu de figumoru. Quest’ultima
parola - figumoru, ficodindia cambia con il mutare del giocatore
e può diventare il nome di un qualunque altro frutto.
Pingiada, s. f. Pentola. Può essere di terracotta o di metallo.
Presente nei soprannomi, anche
nel dim. m. Il s., infatti, quando è
appena più piccolo del normale,
conserva il genere f. (pingiadedda),
quando è proprio minuscolo
diventa m. (pingiadeddu).
Pinna, s. f. Penna, scrittura. No
ddi pragit sa p. (non gli piace scrivere). Piuma di uccello. Dónnïa
pinna manna portàt, cuss’àbbila
(quell’aquila aveva delle piume
enormi). Parete che serve a due
case, dunque in comproprietà. Eus
asselïau sa pinna e dd’eus pagada a
mesapari (abbiamo restaurato la
parete comune e ne abbiamo
pagata metà ciascuno).
Pinneddu (a), s. m. e avv.
Insistenza nell’attendere q.no e/o
q.sa. Est sempir igui a p. (è sempre
lì che vigila).
Pinneta, s. f. Capanna pastorale
320
a cono.
Pinnia, s. f. Piumaggio. In senso
largo, e con metafora erotica, si
usa talvolta in rif. al pube femminile.
Pinnica, s. f. Piega. In senso
reale e met. nell’accezione di: pretesto, scusa, raggiro. Ndi portat de
pinnicas, cussu (ne ha di pieghe,
quello).
Pinnigadura, s. f. Razzia, raccolta indistinta.
Pinnigai, v. Prendere, raccogliere oggetti, portar via. Si nd’at pinnigau is paperis e non s’est torrau a
biri (si è preso le sue scartoffie e
non si è più rivisto). Riunire
gente. Lüisu fut solu, tandu nd’apu
pinnigau paricius e dd’eus donau
una manu ’e agiudu (Luigi era
solo, allora ho riunito parecchie
persone e gli abbiamo dato una
mano di aiuto). Pinniga totu ca
seus andendunosindi (porta via
tutto perché stiamo per andarcene). Rubare. Linu ndi pinnigat
totu su chi bit (Lino ruba tutto ciò
che vede). Il s. dev. pinnigu è usato
soltanto nella loc. avv. a p. (fermo
a poca distanza). Vedi aciocai.
Pìnnigi, s. m. Cimice. Funge
anche da collettivo: su pìnnigi (le
cimici).
Pinnigiosu/a, agg. Pieno/a di
cimici. In senso met. spilorcio/a,
PAOLO PILLONCA
avarissimo/a.
Pinnigu, s. m. Presa, possibilità
di prendere. Usato in loc. avv. ir.
Dev. di pinnigai.
Pinninu, s. m. Pennino.
Pinnoni, s. m. Bandiera, làbaro,
stendardo.
Pinóchiu, s. m. Bugiardo,
pinocchietto. Pres. nei soprannomi.
Pintadura, s. f. Dipinto, raffigurazione, descrizione.
Pintai, v. Dipingere, raffigurare,
descrivere. Cussu muru dd’at pintau Cristolu (quel muro l’ha dipinto Cristoforo).Viva l’espr. pintu e
lintu (dipinto e leccato) per indicare somiglianza fuori del comune. Est p. e l. su babbu (è perfettamente uguale al padre).
Pintau/ada, agg. Dipinto/a, raffigurato/a. Nel gergo dei porcari,
vale chiazzato/a. Mi mancat una
mardi pintada nïedda (mi manca
una scrofa chiazzata di nero), su
procu pintau orrùbïu dd’apu ’éndïu
(quel maiale chiazzato di rosso
l’ho venduto).
Pintura, s. f. Dipinto, disegno.
Vivo nel linguaggio poetico, in rif.
alla venustà delle donne. Parit una
p. (sembra un dipinto).
Pïocu, s. m. Tacchino. Freq.
l’espressione dd’as pigau po p.
(l’hai scambiato per un tacchino)
Mancarìas. La parlata di Seui
quando si vuole dire che
l’interlocutore ha sbagliato riferimento. Fino agli anni Cinquanta
era presente nei soprannomi.
Pïoncu, s. m. Gemito, lamento
preagonico. Mórriri a pïoncus
(morire fra i gemiti).
Pïota, s. f. Piede. In questo
significato, però, è del tutto
desueto. Vive in una loc. avv. - in
p. (lett. in piedi) - per indicare
uno stato passabile di forma fisica,
a dispetto dell’età o di qualche
malattia appena superata. Parit in
p. (sembra in ripresa).
Pipa, s. f. Pipa.
Pipai, v. Fumare. Usato in senso
ironico. Si dda pipat (se la fuma).
Pipeta po ogliu, s. f. Oliatore.
Pipia, s. f. Bambina, bimba.
Scherzosamente si dice anche di
una giovane donna: bella p. (bella
ragazza). Frequente il dim. pipïedda.
Pipia, s. f. Pupilla (sa pipia ’e
s’ogu). Assai ricorrente la similitudine che utilizza questo s. per dare
più forza al concetto: m’est caru
che-i sa p. ’e s’ogu (mi è caro come
la pupilla).
Pipïaglia, s. f. Gruppo di bambini. Lo si usa di solito in tono
scherzoso.
Pipïeddu, s. m. Neonato. Dim.
di pipìu.
321
Pipiu/a, s. m. Bambino/a. Est a
sentidu ’e p. (quanto a saggezza,
somiglia a un bambino).
Pira, s. f. Pero (pyrus communis).
Il s. indica sia l’albero sia il suo
frutto, la pera.
Pirastu, s. m. Perastro, albero e
frutto. Varietà selvatica del pyrus
communis. È frequente dovunque
nel territorio comunale e nelle
proprietà private (gran parte dei
peri del paese sono frutto di innesti dai perastri). Nel passato anche
recente qualche pastore di buone
mani provvedeva da sé a costruirsi
le fiscelle per il formaggio dai
tronchi di perastro, sicuro com’era
che avrebbero avuto lunghissima
durata. Uno di costoro era
Franciscu Aresu noto Merrïoni.
Ricorre nei toponimi. I più noti
sono Su p. trotu, (il perastro storto) nella foresta di Montarbu, al
confine con il territorio di Gairo,
e Pirastus lobaus (perastri accoppiati). Meno frequente piroi, che
ricorre in un’imprecazione: tostau
che p. (che tu possa divenire duro
come il perastro)
Pireddu, s. m. Pernacchia.
Pirichitu, s. m. Dolce a base di
farina, uova, zucchero e strutto.
Pres. nei soprannomi.
Piriciolu, s. m. Vinello ottenuto
dalle vinacce già spremute e
322
mischiate con acqua. La pratica,
ovviamente, è da tempo desueta,
ma il s. è vivo nel lessico e lo si usa
quando si vuole indicare un vino
di scarsa qualità.
Piricocu, s. m. Albicocco (prunus
armeniaca). Come di norma nel
sardo, indica tanto l’albero quanto
il frutto, l’albicocca. Volg. fica. Ddi
pragit su p. (ama le donne).
Piringioni, s.m. Gelone. Usato
soprattutto al plurale, is piringionis.
Piroi, s. m. Perastro (pyrus communis, varietà selvatica). Desueto,
rispetto al più frequente pirastu,
ma vivo nell’imprecazione ancu
t’agatint tostau che p. (che ti possano ritrovare indurito come il perastro).
Pisca, s. f. Pesca, l’attivita dei
pescatori.
Piscadori, s. m. Pescatore.
Piscai, v. Pescare, esercitare
l’attività di pesca. Anche nel senso
di: rubare, scoprire, venire a sapere, cogliere in fallo etc.
Piscau, s. m. Pescato, quantità
di pesce raccolto in una uscita.
S’at pérdïu totu su p. (ha perso
tutto il pescato). Pesca.
Piscau/ada, agg. Pescato/a.
Pischeri, s. m. Avannotto, trota
piccolissima.
Pisci, s. m. Pesce.
PAOLO PILLONCA
Pisci, s. m. Piscio, orina. Vedi
lussu.
Pisciada, s. f. Minzione, pisciata.
Pisciadura, s. f. L’atto e l’effetto
dell’orinare. Il s. è anche una sorta
di variante di pisciada e viene utilizzato nella loc. a p. (a mo’ di
pisciata).
Pisciai, v. Orinare, pisciare. Nel
variegato pianeta dei nomignoli
paesani figura anche un piscia a
iscusi (piscia di nascosto).
Piscialetu, s. m. Incontinente,
che piscia il letto. Epiteto scherzoso rivolto ai bambini.
Piscialetu, s. m. Pungitopo,
cespuglio arbustivo spinoso che dà
una bacca rossa.
Pisciau/ada, agg. Pisciato/a.
Piscioni, s. m. Polpaccio. Lett.
pesce grande, data la forma del
polpaccio che potrebbe vagamente
somigliare a un pesce.
Pisciuca, s. f. Vescica. Di uomini e animali.
Pisi(a), avv. A stento.
Pìsili, agg. Delicato/a, sensibile.
Pissenti, n. pr. di pers. Vincenzo.
Nel superstrato esiste anche Vicentzu.
Pissïai, v. Provare fastidio al contatto con qualcosa che punge o
brucia. Mi pìssïat, cuddu móssïu ’e
bobboi (mi duole, quella puntura
di insetto). Traslato: provar dolore.
Mancarìas. La parlata di Seui
Pissïafoi, s. m. Forbicina, insetto dermattero dal corpo allungato
posteriormente, con una coda a
forma di pinza.
Pissigorru, s. m. Punto terminale del pane bianco da cerimonia
fatto in casa con grande varietà di
disegni, per cui nello stesso pane i
punti terminali risultavano molti.
Is pissigorrus erano, per buongustai
e bambini, le parti predilette. Vedi
spissigorrai.
Pissïosu/a, agg. Pungente, bruciante.
Pissu, s. m.. Ceppo. Unu p. ’e
sarmenta (un ceppo di vite).
Pissu, s. m. Sommità, la parte
alta di un luogo. Presente nel top.
P. ’e serra, per indicare la cresta
della montagna che sovrasta il
paese. Viva l’espr. idiomatica non
portat nin pissu ni ala (non ha né
altezza né robustezza). Vedi spissai,
spissada e spissadura. Il s. viene
spesso usato in loc. avv.
Pissu càvanu, s. m. Segno identificativo del bestiame. Consiste
nel praticare un taglio ad angolo
acuto largo, quasi retto, in un
orecchio dell’animale.
Pissus càvanus faddius, s. m.
Segno identificativo del bestiame.
Duplicazione del pissu càvanu
semplice: dei due segni, uno va
nalla parte anteriore dell’orecchio,
323
l’altro in quella posteriore. È definito anche pissus càvanus trevessus.
Pissulongu, s. m. Beccaccia.
Pistadora, s. f. Utensile ligneo
per battere il bucato.
Pistadura, s. f. Pestatura. In
senso fig. sconfitta.
Pistai, v. Pestare. Per est. sconfiggere.
Pistau/ada, agg. Pestato/a, sconfitto/a.
Pistiddu, s. m. Cervice. Vedi
spistiddai.
Pistighingiai, v. Essere in ansia,
vivere momenti di preoccupazione.
Pistighingiosu/a, agg. Ansioso/a, preoccupato/a.
Pistighingiu, s. m. Preoccupazione, rovello, ansia.
Pistiglioni, s. m. Gecco.
Pistinaga, s. f. Carota.
Pistocu, s. m. Biscotto.
Pistola, s. f. Revolver, pistola.
Pres. nei soprannomi.
Pisu, s. m. Seme.
Pisurci, s. m. Pisello. Utilizzato
soprattutto come collettivo: su p.
(i piselli).
Piticheddeddeddu/a, agg. Microscopico/a. Una sorta di triplo
diminutivo.
Piticheddeddu/a, agg. Piccolissimo/a. Doppio diminutivo.
Piticheddu/a, agg. Piccolino/a.
324
Piticu/a, agg. Piccolo/a. Vedi
impiticai.
Pitïolai, v. Mettere i campanacci
al bestiame brado. Vedi spitïolai.
Pitïolu, s. m. Campanaccio.
Pres. nei soprannomi.
Pitìu/a, agg. Piccolo/a. Variante
di piticu/a.
Pìtziri, s. m. Pinza di ferro per il
caminetto. Usato quasi escl. al pl.
is pìtziris.
Po, prep. Per. Introduce svariati
complementi: di vantaggio (dd’apu
fatu po tui, l’ho fatto per te), di
causa (po unu buciconi apu pagau
milïonis, per un pugno ho pagato
milioni), di tempo continuato (apu
trabbagliau po tres dis, ho lavorato
per tre giorni). Introduce anche
prop. e loc. causali, finali, modali e
temporali. Po no dd’àiri fatu tui
ddu depu fàiri eu (perché non l’hai
fatto tu lo devo fare io), po no nce
ddu fulïai nde ddu leu (lo porto via,
per non buttarlo), Franciscu cussu
füeddu ddu tenit po pani e po casu
(Francesco usa quella parola come
il pane e il formaggio, ossia anche a
sproposito), po imoi abarru (per
ora resto). Introduce diverse locuzioni avverbiali. Po befa, come una
beffa: custu ddu tengiu po b. (questo
lo considero una beffa). Po imoi,
per adesso, per ora, momentaneamente: po imoi no ddu andu, defatu
PAOLO PILLONCA
nd’eus a chistïonai (per ora non ci
vado, ne parleremo in seguito). Po
mori ’e Deus, per l’amore di Dio:
po m. ’e D. siat totu (sia tutto per
amore di Dio). Teni po teni, quasi
alla pari, sul punto di: fustis teni po
teni (stavamo per superarci a vicenda). Si ricorre a questa loc. anche
ironicamente, quando si vuole parlare di una sfida tra personaggi
senza spessore di virtù o assolutamente negativi. Po contai fàulas
teneus a Pissenti cun Antoni t. p. t.
(Vincenzo e Antonio, bella sfida tra
bugiardi).
Pobidda, s. f. Moglie.
Pobiddu, s. m. Marito.
Poboresa, s. f. Povertà.
Póburu/a, s. e agg. Povero/a.
Poddi-poddi, avv. Lentamente.
Póddigi, s. m. Dito. Pressoché
desueto come s. Sopravvive il v.
apoddigai.
Póddini, s. m. Crusca. Frequente l’espr. ir. crocadì in su p.
(sdràiati sulla crusca).
Poderai/apoderai, v. Tenere con
le mani. Ma anche, più in generale: sopportare.
Poderi, s. m. Potere, forza, autorità. Ndi tenit de p. cussu (ne ha
potere, quello).
Pódiri, v. Potere, avere forza.
Franciscu non podit nudda, tocat a
dd’agiudai finas e po tragai pesiged-
Mancarìas. La parlata di Seui
dus de pimpirimpà (Francesco non
ha alcuna forza, ha bisogno di essere aiutato anche per trasportare
pesi risibili). Il part. pass. è póssïu/a.
Pöesia, s. f. Canto improvvisato
in rima.
Pöeta, s. m. Poeta.
Pöita, avv. e cong. Perché.
Interrogativo: p. non benis? (perché non vieni?). Dichiarativo: no
ddu andu p. no ndi tengiu gana
(non ci vado perché non ne ho
voglia).
Polachina, s. f. Stivaletto.
Pomentu, s. m. Pavimento. Più
che altro indica la base di una
stanza rustica in terra battuta.
Pompa, s. f. Vanagloria, boria,
superbia, ostentazione.
Pompada, s. f. Pompata. Azione
irregolare, a strappi. Fait totu a
pompadas (fa tutto senza continuità).
Pompai, v. Pompare.
Pompau/ada, agg. Pompato/a.
Pompïadura, s. f. Presa forte.
Pompïai/apompïai, v. Reggere,
tenere stretto. Vedi poderai.
Pompïau/ada, agg. Tenuto/a,
retto/a.
Pomposu/a, agg. Vanaglorioso/a,
borioso/a, superbo/a. Pres. nei
soprannomi al maschile.
Pónniri, v. Mettere, porre, assegnare. A su portali ddi pongiu unu
325
luchitu (al portone metterò un lucchetto), Lina ponit is corrus a su
pobiddu (Lina mette le corna al
marito). Contribuire. Chi est po
asselïai sa crésïa poneus totus (se è per
restaurare la chiesa contribuiremo
tutti). Dare il nome. A su pipìu ddi
pongiu Antoni (al bambino darò il
nome di Antonio). Supporre. Poni
chi ti nerit ca nou (metti che ti dica
di no). A seconda del s. o dell’avv.
che lo accompagna, il v. assume vari
altri significati. Piantare. At postu
una ’ingia (ha piantato una vigna).
Appiccare. At postu fogu in padenti
(ha appiccato fuoco in foresta).
Scrivere, comporre. Lüisu ponit
cantzonis (Luigi scrive poesie/canzoni). Unito ad una loc. avv.
vale: fare progressi, migliorare. At
postu a conca (è diventato una persona
seria).
Agghindare/agghindarsi. S’est posta
in manteddu (si è agghindata con
un mantello). Sottoporre. Ddu
ponit de pari (lo prende in giro).
Apparecchiare. Pongiu sa mesa
(apparecchio
la
tavola).
Considerare. A tui non ti ponit in
contu nemus (tu non vieni considerato da nessuno), Pinu in bidda fut
unu piciocu postu in contu (Pino era
un ragazzo molto considerato dalla
comunità), etc.
Pónniri menti, v. Ubbidire.
326
Cussu piciocheddu non ponit m. a
nemus (quel ragazzino non ubbidisce a nessuno).
Ponti, s. m. Ponte stradale e ferroviario. Pres. nei toponimi: Su p.
mannu, su p. ’e Santu Cristolu, P. ’e
Boci, etc.
Ponti (in), s. e avv. Vece, posto.
In ponti miu ddu andas tui (al mio
posto ci vai tu).
Populai, v. Popolare, incrementare la popolazione.
Populari, agg. Popolare.
Popularidadi, s. f. Popolarità,
notorietà, fama.
Populeddu, s. m. Popolino.
Pópulu, s. m. Popolo, folla.
Buca ’e p. è uno che non sa mantenere un segreto.
Porceddanas, s. f. Scrofolosi.
Usato in una colorita imprecazione ellittica: is p. (che ti venga la
scrofolosi).
Porceddinu/a, agg. Maialesco/a,
suino/a. In rif. all’uso approssimativo dell’it. Chistïonat s’italïanu p.
(parla un italiano sgrammaticato).
Porceddu, s. m. Maialetto di età
inferiore a un anno. Quando si
tratta di un suino lattonzolo o di
dimensioni minuscole si usa il
dim. doppio: porceddeddu.
Porci, s. m. Porticato, portico.
Porcili, s. m. Ricovero per maiali allo stato brado. Desueto nel
PAOLO PILLONCA
parlare quotidiano, che gli preferiscde suili (vedi), sopravvive in un
toponimo - Tuvu ’e porcilis - nella
parte alta del territorio comunale,
tra Paùli ed il nuraghe di Ardasai.
Vedi tuvu.
Porta, s. f. Porta, uscio di casa.
Serra sa p. (chiudi la porta). Porta
del gioco del calcio affidata a un
guardiano che si chiama, appunto,
portiere. In p. ddu-i ’olit unu chi
siat artiteddu e non timat (in porta
ci vuole uno alto e che non abbia
paura). Vedi genna/’enna.
Portai, v. Avere con sé, portare.
Non portu ’inari (non ho soldi in
tasca). Condurre, guidare convincere, persuadere. Sa pobidda ddu
portat comenti ’olit (la moglie lo
guida come vuole). Nel gergo
degli ovili, il v. definisce la monta
degli animali nella stagione degli
accoppiamenti. Is crabas no ddas
ant ancora portadas (ancora le
capre non sono state montate).
Portali, s. m. Portone, portale,
grande porta.
Portamanteddu, s. m. Attaccapanni.
Portamenta, s. f. Monta. Riferito alla stagione degli amori del
bestiame domestico e selvatico. Is
(pron. ir) mascus de murva fut in p.
(i mufloni sono in amore).
Portamuneda, s. m. Portamo-
Mancarìas. La parlata di Seui
nete, borsellino.
Portau/ada, agg. Avuto/a.
Portato/a, montato/a.
Portebeti (porta e beti), s. m.
Chiacchierone infido, che non sa
tenere alcun segreto e parla con
tutti (lett. che porta e riporta).
Vedi betiri/’etiri.
Portellitu, s. m. Scurino, sportello, anta.
Portïeri, s. m. Portiere, guardiano della porta nel gioco del calcio.
Portu, s. m. Porto, approdo.
Non biu s’ora ’e lòmpiri a su p. (non
vedo l’ora di arrivare al porto).
Posada, s. f. Locale dei santuari
campestri adibito ai pranzi comunitari. Po su Cramu eus pràndïu in sa
posada (per il Carmelo abbiamo
pranzato nello stanzone). Rifugio di
ospitalità in altri paesi. No ddu at
bidda ania Màrïu non tengiat amigus de p. (non c’è paese in cui Mario
non abbia amici che lo ospitino).
Possessu, s. m. Possedimento,
terreno di una certa consistenza
quantitava.
Póssïu/a, agg. Potuto/a. Part.
pass. di pódiri.
Posta, s. f. Ufficio postale.
Posta, s. f. Postazione del cacciatore in attesa della selvaggina.
Gergale venatorio.
Postali, s. m. Corriera postale. Il
s. è poi passato a indicare la cor-
327
riera tout court.
Postinu, s. m. Portalettere,
postino.
Postorgiu, s. m. Luogo in cui di
solito spuntano i funghi. Gli
appassionati cercatori li conoscono e raramente ne rivelano i siti.
Postu, s. m. Impiego, posto di
lavoro fisso.
Postu/a, agg. Messo/a. Part.
pass. di pónniri.
Postura, s. f. Messa in posizione,
positura.
Potecarìa, s. f. Farmacia. Desueto.
Potecàrïu, s. m. Farmacista.
Prafata, s. f. Chiacchiericcio,
ciarla.
Prafatada, s. f. Chiacchierata.
Prafatai, v. Chiacchierare. Est
totu s’ora prafatendu (è da tempo
in chiacchiere).
Prafatau/ada, agg. Chiacchierato/a.
Prafateri/a, agg. Chiacchierone/a.
Prageri, s. m. Piacere, godimento.
Pragerosu/a, agg. Felice, entusiasta. Ndi soi p. (ne sono lieto).
Pragi-pragi, s. m. Orgasmo.
Dd’est pigau su p.-p. (ha avuto un
orgasmo).
Pragìbbili, agg. Piacevole, saporito.
328
Pràgiri, v. Piacere. Non mi pragit
a fàiri su pastori (non mi piace fare
il pastore).
Pràgïu/a, agg. Piaciuto/a.
Prama, s. f. Palma (chamaerops
humilis). Per estensione vale: vittoria, successo. In senso fig. viene
spesso riferito alla donna virtuosa.
Pramu, s. m. Palmo. Indica la
misura, corrispondente all’incirca
a 25 cm, e anche la parte inferiore
della mano. In senso met. il s. è
usato nell’espressione at postu unu
p. ’e lardu (ha messo un palmo di
lardo) nel senso di aver provato
una soddisfazione non comune,
una rivincita equiparata alla pinguedine fuori regola.
Prana, s. f. Pialla.
Pranadura, s. f. Piallatura.
Pranai, v. Piallare. Gergale dei
falegnami.
Pranau/ada, agg. Piallato/a.
Pranciadura, s. f. Stiratura.
Prancia, s. f. Ferro da stiro. Desueto. Prancia ’e forru indica il
tappo metallico della imboccatura
del forno.
Pranciai, v. Stirare i panni.
Anche in senso fig.
Pranciamentu, s. m. Stiratura.
Pranciau/ada, agg. Stirato/a.
Prandidura, s. f. Scorpacciata,
sazietà. Cussu strangiu si ’endit po
una p. (quel forestiero si vende per
PAOLO PILLONCA
una scorpacciata), de àgina si nd’at
papau a p. (ha mangiato uva a
sazietà).
Pràndiri, v. Pranzare, consumare
il pranzo. Oi non possu mancu p.
(oggi non ho neppure il tempo di
pranzare). Usato anche nella
forma rifl. S’est pràndïu ’eni ’eni (si
è saziato a dovere).
Pràndïu/a, agg. Sazio/a, satollo/a.
Praneri, agg. Piano. Pratu p. è il
piatto su cui di norma si servono i
secondi. Il piatto concavo è detto
cofudu.
Prangidori, agg. Facile al pianto,
piagnone. Vedi prantuleu, quasi
un sinonimo.
Prangiminestra, s. m. Lagnoso
(lett. che piange per una minestra), che si lamenta di tutto. Pres.
nei soprannomi.
Pràngiri, v. Piangere, lacrimare.
Per indicare un pianto senza lacrime si fa ricorso a giri di frase o a
locuzioni avverbiali.
Prangioni, s. m. Megapranzo.
Prangiu, s. m. Pranzo. Viva l’espr.
a prangius prangionis (di spuntino
in spuntino), rif. a chi ama gli
incontri conviviali. Frequenti le
espressioni a p. e a cena (per una
situazione ripetitiva) e chini ’onat p.
aspetat cena (chi offre un pranzo
aspetta una cena).
Pranta, s. f. Pianta. Dei piedi
Mancarìas. La parlata di Seui
soprattutto.
Prantadura, s. f. Atto ed effetto
del piantare.
Prantai, v. Piantare, seminare.
Fui pensendu ’e prantai dus tzinnìvurus (pensavo di piantare due
ginepri). Nella forma rifl. indica
ironicamente una sistemazione di
quasi totale immobilità. Si prantat
igui e non si tremit (si pianta lì e
non si muove più).
Prantau/ada, agg. Piantato/a,
immobile.
Prantedu, s. m. Seme di cipolla.
Presente nei soprannomi.
Prantu, s. m. Pianto. Dev. di
pràngiri.
Prantu/a, agg. Compianto/a.
Prantuleu/a, agg. Piagnucolone/a. Tendente al pianto, facile
alle lacrime.
Pranu, s. m. Pianura, altopiano.
Presente in diversi toponimi. (P.
arcu, P. àlinus, Su P. de is lépuris).
Pranu/a, agg. Facile, dritto/a,
pulito/a.
Pràpala, s. f. Palpebra.
Prapellìssïu, s. m. Balza di stoffa o pizzo utilizzata come ornamento degli abiti di donne e bambini. In senso fig. sfoggio, vanità.
Prassa, s. f. Piazza. Adobïaus a p.
de is acacias (incontriamoci nella
piazza delle robìnie). Ma anche lo
spazio davanti alla casa di ciascu-
329
no, senza bisogno di dettagli. Chi
passas in p. ti pongiu ’r gangas (se
passi davanti a casa mia ti strozzo).
Prassigedda, s. f. Piazzetta.
Prata, s. f. Argento.
Pratareddu, s. m. Piattino.
Pratera, s. f. Piattiera.
Prateri, s. m. Argentiere, argentatore, artigiano dell’argento.
Pratu, s. m. Piatto. Se ne distingono due tipi fondamentali: su p.
cofudu (il piatto fondo) per le minestre e i primi in genere e su p. praneri (il piatto piano) per i secondi.
Precisu/a, agg. Urgente, indifferibile, improcrastinabile.
Predicai, v. Predicare, esortare.
Prefagliai, v. Ornare un vestito
femminile, ma non solo, con balze
e merletti.
Prefagliau/ada, agg. Ornato/a,
abbellito/a con ornamenti.
Prefagliu, s. m. Ornamento di
vesti femminili con balze, merletti.
Preferéntzïa, s. f. Predilezione,
preferenza.
Prefèrriri, v. Preferire, prediligere.
Preferìu/a, agg. Preferito/a, prediletto/a.
Pregadoria, s. f. Preghiera.
Pregai, v. Pregare. Dd’apu pregada che una santa (l’ho pregata
come una santa), a chini pregat
Deus non negat (Dio non rifiuta
grazie a chi prega).
330
Pregantadori, s. m. Esorcista.
Pregantai, v. Pronunciare scongiuri, fare esorcismi.
Pregantau/ada, agg. Esorcizzato/a.
Pregantu, s. m. Esorcismo,
scongiuro.
Pregau/ada, agg. Pregato/a.
Pregonai, v. Bandire, mettere al
bando. Nell’imprecazione sa giustìssia ti pregonit (la giustizia ti
metta al bando).
Pregonau/ada, agg. Messo/a al
bando.
Pregoni, s. m. Bando dell’autorità politica, militare, giudiziaria.
Pregontai, v. Chiedere per sapere. Pregontasiddu, bïeus chi
t’arrespundit (prova a chiederglielo, vediamo se ti risponde).
Chiedere per avere è, invece, pediri.
Pregonta, s. f. Domanda. Desueto come dev., sopravvive copiosamente nel verbo.
Pregontau/ada, agg. Richiesto/a.
Pregu, s. m. Pidocchio.
Préïdi, s. m. Prete, sacerdote.
Prëìssa, s. f. Pigrizia, svogliatezza. Vedi imprëissai e mandronìa.
Prëissosu/a, agg. Pigro/a, fannullone/a. Vedi mandroni/a.
Prenda, s. f. Gioiello. Anche in
senso fig. Est una p. (è una persona splendida). Talvolta usato in
PAOLO PILLONCA
senso antifr. per indicare un soggetto di nessun pregio.
Prenimentu, s. m. Riempimento, ripieno. Usato soprattutto
nel gergo culinario, per definire
genericamente i vari tipi di farcitura delle carni.
Préniri, v. Riempire.
Prentza, s. f. Torchio per la spremitura dell’uva. Pres. nei soprannomi.
Prentzai, v. Torchiare, spremere
l’uva.
Prentzau/ada, agg. Torchiato/a,
spremuto/a.
Prenu/a, agg. Pieno/a, completo/a.
Presoneri, s. m. Prigioniero, carcerato.
Presoni, s. m. Carcere, prigione.
Unu p. legiu aberu, su ’e Santu
Tanïeli (bruttissimo carcere, quello di San Daniele). Usato nelle
imprecazioni e maledizioni.
Presonia, s. f. Prigionia, detenzione.
Pressi, s. f. Fretta. Una caratteristica per niente apprezzata dal giudizio comunitario sulle azioni
umane. Vedi apressibbiri, impressiri e derivati. Chi ha sempre fretta
e un impressìu.
Presta, s. f. Prestito. Vivo nell’espr. met. pani ’e presta (pane
avuto in prestito) per indicare una
Mancarìas. La parlata di Seui
colpa da scontare, così com’è
obbligatorio restituire il pane
avuto in prestito.
Prestai, v. Prestare, dare e/o ricevere in prestito. Lüisu s’at prestau
’inari (Luigi ha chiesto dei soldi in
prestito).
Presumiri(si), v. Presumere,
sopravvalutare/sopravvalutarsi.
Presumìu/a, agg. Presuntuoso/a.
Presutu, s. m. Prosciutto.
Preta, s. f. Blatta.
Pretai, v. Litigare davanti a un
giudice. Desueto.
Pretali, s. m. Sottopancia in
cuoio del basto per asini.
Pretori, s. m. Pretore.
Pretu, s. m. Dissidio, controversia davanti all’autorità giudiziaria.
Pretura, s. f. Pretura. Ufficio
giudiziario mandamentale, con
competenza sui reati minori, in
funzione a Seui per molti decenni,
fino all’abolizione di questi uffici
con la recente riforma dell’amministrazione della giustizia.
Pretzetai, v. Costringere, precettare, dare ordini perentori. Dd’at
pretzetau su babbu (è stato il padre
a costringerlo), soi obbrigau a ddu
p. (sono costretto a precettarlo).
Pretzetu, s. m. Precettazione,
costrizione, ordine prentorio. Ma
si usa anche per definire il rito
religioso del Precetto pasquale.
331
Prëubbiri, v. Vietare, proibire,
negare. Non mi ddu prëubbit
nemus (non me lo vieta nessuno).
Prëugosu/a, agg. Pidocchioso/a,
in senso met. miserabile, morto/a
di fame. Di formazione irregolare
rispetto al s. cui si riferisce (pregu).
Prigu, s. m. Disturbo, fastidio.
Pesadinci ca mi fais p. (spòstati, mi
disturbi).
Prima, s. f. Disaccordo, inimicizia, discordia. Con varie gradazioni intermedie tra funt a p. (sono in
disaccordo) e funt a p. ’e morti
(sono nemici mortali).
Primadìu/a, agg. Prematuro/a.
Detto delle primizie.
Primàisi, v. Imbronciarsi, offendersi, rattristarsi.
Primau/ada, agg. Triste, dispiaciuto come se fosse in discordia
con q.no.
Primósigu/a, agg. Permaloso/a,
suscettibile, ipersensibile, che si
offende per un nonnulla.
Primu/a, agg. num. ord. Primo/a.
Pringia, agg. Incinta, gravida.
Vedi impringiai.
Pringiamanna, agg. Gravida
ormai prossima al parto.
Prïorissa, s. f. Prioressa.
Priu/a, agg. Lento/a, tardo/a,
pesante. Di movimenti e di riflessi. Detto degli uomini e degli ani-
332
mali lenti per natura o per circostanze particolari. Pìlimu est priu
(Priamo è tardo di riflessi),
s’unturgiu candu papat si fait priu
(l’avvoltoio dopo il pasto diventa
pesante).
Procargiu, s. m. Porcaro, allevatore di maiali.
Procu, s. m. Maiale. In senso
fig. si usa per definire una persona
spregevole. Il dim. è porceddu.
Quando lo si allevava nel cortile di
casa per le provviste era chiamato
p. mannalissu.
Procumuntoni, s. m. Insetto di
colore scuro che di norma si rifugia sotto le pietre.
Procura, s. f. Procura, ufficio
giudiziario. Dd’ant interrogau in p.
(l’hanno interrogato in procura).
Delega a far da padrino. Dd’at
batïau in p. (l’ha battezzato per
procura).
Procuradori, s. m. Procuratore.
Procurai, v. Procurare, ottenere,
riuscire ad avere.
Procurau/ada, agg. Procurato/a.
Prodesa, s. f. Prodezza, per lo
più in senso ir.
Prodùsiri, v. Produrre.
Prodùsïu/a. agg. Prodotto/a.
Produtzïoni, s. f. Produzione.
Profetu, s. m. Tornaconto, utilità, vantaggio. Naramì e cali profetu nd’as tentu (dimmi quale van-
PAOLO PILLONCA
taggio ne hai ottenuto).
Profìa, s. f. Sfida, dispetto. Mi
dd’at fatu a p. (me l’ha fatto per
dispetto).
Profitài(si), v. Approfittare, avere vantaggi personali, pescare nel
torbido. Argüai a chini si ndi profitat de un’òrfunu (guai a chi approfitta di un orfano).
Profitau/ada, agg. Approfittato/a, avvantaggiato/a.
Profundidadi, s. f. Profondità.
Profundu, s. m. Luogo profondo. Usato soprattutto al pl. per
indicare le profondità misteriose
dell’ignoto e dell’irrazionale.
Profundu/a, agg. Profondo/a.
Progressu, s. m. Progresso, evoluzione.
Proi, s. m. Pro’, favore. Augurale. Bonu proi ti facat (buon pro’
ti faccia).
Pròiri, v. Piovere.
Proisina, s. f. Pioggia leggera.
Proisinai, v. Piovigginare.
Prontesa, s. f. Prontezza, rapidità.
Prontu/a, agg. Pronto/a, sveglio/a, rapido/a.
Propïedadi, s. f. Proprietà privata.
Propïetàrïu, s. m. Proprietario.
Própïu/a, agg. Piovuto/a.
Própïu, avv. Proprio, propriamente.
Prospori, s. m. Ardore, brama,
calore. No mi pongias is prosporis
Mancarìas. La parlata di Seui
de su cóidu (non farmi venire la
voglia di fare in fretta).
Protesta, s. f. Lamentela, protesta. Pres. nei soprannomi.
Protestai, v. Protestare.
Protestau/ada, agg. Protestato/a.
Protestu, s. m. Protesto.
Prùbbicu/a, agg. Pubblico/a.
Con lieve venatura di ironia e
spregio. Est una bagassa prùbbica
(è una puttana pubblica).
Pruga, s. f. Purga, lassativo.
Prugadórïu,s. m. Purgatorio, il
secondo regno dell’oltretomba cristiano, e soprattutto il rito dei
doni di novembre ai ragazzini in
suffragio delle anime purganti..
Prugadura, s. f. Primizie incompiute, ad es. le ciliegie ancora
immature. Depit èssiri cichendu prugadura (forse sta cercando qualche
frutto acerbo). Impurità del grano.
Prugai, v. Purgare. Su dotori
dd’at prugau (il medico gli ha ordinato un purgante). Ma anche pulire il grano, togliendo le impurità.
Prugau/ada, agg. Purgato/a,
ripulito/a.
Prùini, s. m. Polvere.
Prüinosu/a, agg. Polveroso/a.
Prumoni, s. m. Polmone.
Prumonita, s. f. Polmonite. Vedi
aprumonitai.
Prumu, s. m. Piombo.
Pruna, s. f. Susino (prunus dome-
333
stica) e susina, albero e frutto.
Pruniscedda, s. f. Susino e susina selvatici, albero e frutto.
Prupa, s. f. Polpa. Rif. agli animali e all’uomo. Seu ’e prupa e di
ossu che tui etotu (sono fatto di
polpa e di ossa proprio come te).
Prupu, s. m. Polpo. In senso fig.
cretino. Vedi balossu, bambassu,
càdumu, codina, codobba, conciofa,
tontu.
Prupudu/a, agg. Polposo/a.
Riferito alla carne viva e a quella
macellata. Ddu bis comenti est prupudu (lo vedi com’è polposo).
Vedi imprupìu/a.
Prus/prusu, avv. Più.
Prussïera, s. f. Polvere di carbone. Francesismo dovuto al fenomeno migratorio che nella prima
metà del secolo scorso portò molti
operai di Seui nelle miniere francesi. Come boïabbessa, brichetu, sortiri, turnichetu. Vedi aprussïerau.
Puba, s. f. Fantasma, apparizione veloce.
Pubusa, s. f. Ciuffo. Presente nel
top. Margiani p., cima della foresta demaniale di Montarbu.
Pubusau/ada, agg. Munito/a di
ciuffo. Usato prevalentemente in
senso ironico Pres. nei soprannomi.
Pudadori, s. m. Potatore, esperto di potatura.
334
Pudadura, s. f. Potatura. Operazione obbligatoria in quasi tutte
le coltivazioni, ma a tempo debito
e sempre in luna calante.
Pudai, v. Potare, tagliare i rami
in eccesso. Si tratta di
un’operazione articolata in modo
sapiente e legata all’esame delle
fasi lunari. Vari i sistemi di potatura.
Pudau/ada, agg. Potato/a.
Pudassa, s. f. Cesoia, potatrice,
arnese per potare.
Pudassedda, s. f. Cesoia da
potatura di piccole dimensioni.
Pudassoni, s. m. Cesoia da potatura più grande della pudassa.
Pudda, s. f. Gallina. P. crïadora è
la gallina ovaiola. Vivo il proverbio puddas e piciocheddus imbrutant su logu (galline e ragazzini
sporcano dappertutto). Frequente
un modo di dire concentrato in
un’immagine che dà l’idea dell’equilibrio instabile: che p. in pèrtïa
(come una gallina su una pertica).
Pres. nei soprannomi.
Puddargiu, s. m. Pollaio.
Pudda ’e abba, s. f. Gallinella
d’acqua.
Puddigedda, s. f. Gallinella.
Pudesciori, s. m. Putridume,
odore nauseabondo.
Pudèsciri, v. Rendere putrido.
Pudescit totu (rende tutto putri-
PAOLO PILLONCA
do). Nel rifl. vale imputridire. In
senso ir. nei confronti dei poltroni
che amano dormire a lungo: s’est
pudéscïu (si è imputridito) come se
il sonno eccessivo imputridisse le
persone. Viva l’espr. est pudéscïu a
bentu (puzza da lontano, lett. il
lezzo arriva con il vento).
Pudéscïu/a, agg. Putrido/a, puzzolente. T’apu orróscïu che-i sa
petza p. (mi sono stufato di te
come della carne putrida).
Pùini, s. m. Pugno. Ma nel
senso di misura, non di colpo da
sferrare, cazzotto: unu p. ’e sali (un
pugno di sale). Il colpo si chiama
punnigosu.
Pulenta, s. f. Polenta.
Pulentoni, s. m. Mangiatore di
polenta, polentone. Epiteto ir.
rivolto dai soldati sardi della
prima guerra mondiale ai loro colleghi del nord Italia, ritenuti poco
coraggiosi.
Pùliga, s. f. Masturbazione.
Pùligi, s. m. Pulce. Anche nome
collettivo: su p. (le pulci).
Pulidura, s. f. Ripulimento.
Pulimentu, s. m. Pulizia.
Puliri, v. Pulire.
Pulitzia, s. f. Pulizia.
Puliu/a, agg. Pulito/a.
Pumada, s. f. Pomata.
Pumu, s. m. Pomo.
Puncia, s. f. Chiodo.
Mancarìas. La parlata di Seui
Puncioni, s. m. Punzone, chiodo grande.
Punciudu/a, agg. Appuntito
(alla lettera: terminante a punta
come un chiodo).
Pùngiri, v. Pungere. Dd’at puntu
un’abi (è stato punto da un’ape).
Accoltellare. Fut cotu a fegi e at
puntu unu strangiu (era ubriaco
fradicio ed ha preso a coltellate un
forestiero).
Pungitu, s. m. Polsino.
Puniri, v. Punire.
Punitzïoni, s. f. Punizione,
castigo.
Puniu/a, agg. Punito/a.
Punnai, v. Dirigersi, andare in
una direzione certa. Il v. indica
l’intenzione chiara di compiere
quell’azione, anche prima del suo
inizio vero e proprio. Punnat a
contonïai (sta per tornare a casa).
Desueto.
Punnau/ada, agg. Diretto/a.
Punnigosu, s. m. Cazzotto,
pugno. Dd’at iscutu unu p. (gli ha
affibbiato un cazzotto). Il s. indica il
colpo, non l’elemento anatomico.
In questo senso, il s. seuese è pùini.
Punta, s. f. Punta, sommità.
Indica anche un dolore acuto in
una parte del corpo. Al pl. definisce le coliche. Eriseru fui totu sa dì
a puntas a brenti (ieri ho avuto
coliche addominali per tutto il
335
giorno).
Puntai, v. Puntare. Gergale dei
cacciatori.
Puntali, s. m. Puntale, appoggio.
Puntarola, s. f. Scalpello da
muratore.
Puntau/ada, agg. Puntato/a.
Puntera, s. f. Calcio dato di
punta a un pallone. Scudit/tirat
meda ’e p. (calcia/tira spesso di
punta).
Puntori, s. m. Dolore acuto,
spesso mortale. Per est. colpo apoplettico, infarto, sincope. Usato
nell’imprecazione ancu ti pighit su
p. (che ti venga un dolore mortale) o, ellitticamente, puntori. Vedi
apuntorai.
Puntu, s. m. Punto. Gergale
delle ricamatrici, con dettagliata
articolazione di varietà esecutive.
Puntu/a, agg. Punto/a, ferito/a
da arma a punta, accoltellato/a
Freq. l’espr. ir. p. e mortu (accoltellato e ucciso), per dire di una pretesa di effetto immediato in qualsiasi evento. P. e m. che-i s’abi
(punto e morto come l’ape). Part.
pass. di pùngiri.
Puntüali, agg. Puntuale, che
rispetta gli orari e le scadenze.
Puntüalidadi, s. f. Puntualità,
rif. soprattutto al rispetto di scadenze e di orari stabiliti. Virtù
336
molto apprezzata, soprattutto dai
pastori anziani. A chi non ne ha, o
non ne dimostra, sono riservate
battute di scherno: cussu sa p. dd’at
lassada in brenti ’e sa mama (quello la puntalità l’ha lasciata nel
grembo materno).
Purdedda, s. f. Callo delle mani
nella fase iniziale, al formarsi delle
vesciche.
Purdeddu, s. m. Puledro.
Cavallo di età inferiore ai tre anni,
allo stato selvatico o appena all’inizio della domatura.
Purdïadura, s. f. Marciume.
Frequente nella loc. avv. a p.,
quando non si tratta di marciume
vero e proprio.
Purdïài(si), v. Marcire. Cussu
presutu chi no ddu càstïas si purdïat
(quel prosciutto, se non stai attento, marcirà), sa linna est purdïendusì (la legna sta marcendo).
Purdïau/ada, agg. Marcio/a.
Purdoni, s. m. Grappolo. Vedi
apurdonai.
Purificai, v. Purificare.
Purificau/ada, agg. Purificato/a.
Puru/a, agg. Puro/a, senza difetti né aggiunte.
Puru, cong. Pure, anche. Ddu
andu eu puru (ci vado anch’io).
Pusti(a), avv. Dopo.
Pusticena, s. m. e avv. Dopocena.
PAOLO PILLONCA
Pusticrasi, s. m. e avv. Dopodomani. Anche in senso ir. per
rimarcare una promessa fatta e
non mantenuta. Fui aspetendu su
’ncrasi ma no est erribbau mancu su
p. (ho aspettato all’indomani, ma
non è arrivato neppure il giorno
successivo).
Pustiprangiu, s. m. Primo
pomeriggio, dopopranzo. Custu p.
andaus a su monti (nel primo
pomeriggio di oggi andremo in
campagna).
Putzinosu/a, s. e agg. Schifoso/a.
Putzu, s. m. Pozzo.
Mancarìas. La parlata di Seui
337
R
Racumandada, s. f. Raccomandata. Vedi arrecumandai e derivati
Radïeddu, s. m. Radiolina.
Ràdïu, s. m. Radio.
Radunu, s. m. Raduno.
Raga/braga, s. f. Gonnellino
d’orbace del costume maschile.
Ràfïa, s. f. Raffia.
Ragionai, v. Ragionare. Supestrato che tende ad affermarsi sulla
forma anteriore. Vedi arregionai e
arregioni.
Ragionïeri, s. m. Ragioniere.
Rapina, s. f. Rapina.
Rapinai, v. Rapinare, compiere
una rapina.
Rapinau/ada, agg. Rapinato/a.
Raportu, s. m. Rapporto, confronto. Dd’at lamau su capu a r. (il
capo l’ha chiamato a giustificarsi).
Rapresentai, v. Rappresentare.
Rapresentanti, s. m. Agente di
commercio.
Raridadi, s. f. Rarità. A biri àbbilas est una r. (è una rarità vedere le
aquile reali).
Raru/a, agg. Raro/a, difficile da
trovare. Prov. S’oru est caru ca est
raru (l’oro è caro perché è raro).
Rata, s. f. Rata.
Ratzïonamentu, s. m. Razionamento.
Ratzïoni, s. f. Razione.
Realidadi, s. f. Realtà.
Réchia, s. f. Preghiera, requiem.
Recita, s. f. Rappresentazione,
recita.
Recitadori, s. m. Attore di teatro.
Recitai, v. Recitare.
Refetzïoni, s. f. Refezione.
Regimentu, s. m. Reggimento.
Regipetu, s. m. Reggipetto.
Religioni, s. f. Religione.
Religiosu/a, agg. Religioso/a,
praticante.
Rendimentu, s. m. Rendimento, resa.
Réndiri, v. Rendere.
Rendïu/a, agg. Reso/a.
Repenti, agg. Improvviso/a. Con
la prep. de è usato avverbialmente:
su babbu fut mortu ’e repenti (il
padre era morto all’improvviso).
Reti, s. f. Rete di recinzione. In su
cungiau ddu-i pongiu una r. (metterò una rete nel mio terreno). Marcatura di un punto nel gioco del
338
calcio. At fatu una pàriga ’e retis,
una meglius de s’atra (ha segnato un
paio di reti, una migliore dell’altra).
Revudai/arrevudai, v. Rifiutare.
Revudau/arrevudau/ada, agg.
Rifiutato/a.
Revudu/arrevudu, s. m. Rifiuto,
negazione.
Ricamai, v. Ricamare. Vedi arrecamai.
Ricatai, v. Sequestrare a scopo di
estorsione.
Ricatau, s. m. Sequestrato,
ostaggio di sequestratori.
Ricatu, s. m. Sequestro di persona a scopo di estorsione.
Rigori, s. m. Rigore, serietà.
Rigori, s. m. Calcio di rigore.
Gergale del gioco del calcio.
Rigorosu/a, agg. Severo/a, rigoroso/a.
Rima, s. f. Rima.
Rimadori/a, agg. Rimatore/rimatrice.
Rimai, v. Rimare, trovare la
rima.
Rimandai, v. Rimandare a settembre. Gergale della scuola.
Rimandau/ada, agg. Rimandato/a a settembre.
Rimau/ada, agg. Rimato/a.
Ringratzïai, v. Ringraziare, rendere grazie.
Ringratzïamentu, s. m. Ringraziamento.
PAOLO PILLONCA
Ringratzïau/ada, agg. Ringraziato/a.
Risolutu, s. m. Uomo deciso,
irremovibile, impavido, temerario.
Est unu r. (è uno deciso a tutto, un
temerario).
Riveréntzïa, s. f. Omaggio,
complimento, gentilezza.
Rivolutzïoneri, s. m. Ribelle,
contestatore.
Rivolutzïoni, s. f. Rivoluzione,
disordine.
Roleta, s. f. Rotella metrica.
Romanu, n. pr. di pers. Romano.
Romanu/a, agg. Romano/a.
Romanzu, s. m. Romanzo, storia incredibile. Chene fàulas non
bessit r. (senza bugie non nascerebbe un romanzo).
Rullu, s. m. Rullo.
Rundinina, s. f. Rondinina.
Segno identificativo del bestiame.
In pratica consiste in una sorta di
giuali ma molto più piccolo come
mezzaluna sulla punta dell’orecchio dell’animale, dunque molto
facile da contraffare. Il nome
nasce dal fatto che questo segno
somiglia a una rondine in volo.
Ruspa, s. f. Ruspa.
Mancarìas. La parlata di Seui
339
S
Sa, art. det. f. La. Davanti a
vocale si apostrofa. S’abba
(l’acqua), s’anadi (l’anatra),
s’artàrïa (l’altezza, l’altitudine). Al
pl. is, come per il m. su.
Saba, s. f. Sapa, vino cotto. Pani
’e s. (pan di sapa), un dolce che
fino a pochi anni fa era preparato
ritualmente per la ricorrenza di
Santi e Defunti e per la Pasqua
d’Aprile e ora, invece, non ha più
limiti di calendario.
Sabbata, s. f. Scarpa confezionata artigianalmente e non assemblata in laboratorio. Pres. nei
soprannomi. Vedi cosingiu.
Sabbateri, s. m. Calzolaio.
Sabidorìa, s. f. Sapienza, saggezza, equilibrio interiore
Sabïori, s. m. Saggezza. Sin. del
prec.
Sàbïu/a, agg. Saggio/a.
Sabonetu, s. m. Saponetta.
Saboni, s. m. Sapone. Vivo il
prov. samunendu sa conca a su
molenti si perdit tempus e s. (lavando la testa all’asino si perde tempo
e sapone). Vedi insabonai.
Sabori, s. m. Sapore.
Saborìu/a, agg. Saporito/a, gustoso/a. Il contr. di sciaborïau/ada.
Sàbudu, s. m. Sabato.
Sacaïa, s. f. Pecora giovane.
Dim. sacaïedda. Si usa anche in
rif. alla mufla.
Sacaïu, s. m. Agnellone.
Sachiteddu/a, s. m. e f. Sacchettino.
Sachitu/a, s. m. e f. Sacchetto.
Saconi, s. m. Saccone, gran sacco.
Sacramentu, s. m. Sacramento.
Sacrificai, v. Sacrificare.
Sacrificau/ada, agg. Sacrificato,
sottoposto a sacrifici.
Sacrifìtzïu, s. m. Sacrificio, privazione, sofferenza.
Sacru/a, agg. Sacro/a.
Sacu, s. m. Sacco.
Sàddidu, s. m. Sussulto, balzo,
reazione nervosa incontrollata.
Saddidura, s. f. Sussulto prolungato.
Saddìrisi, v. Sussultare. Dd’apu
amelessau e s’est totu saddìu (l’ho
minacciato ed ha sussultato).
Tuttora vivo il prov. su cüaddu
frïau a sa sedda si saddit (il cavallo
con il guidalesco sussulta al solo
340
comparire della sella), ovviamente
in senso traslato, per dire dell’effetto perdurante di una qualsivoglia scottatura.
Saddìu/a, agg. Sussultato/a.
Safata, s. m. Vassoio.
Sagliu, s. m. Zanna di cinghiale,
molto più pronunciata rispetto a
quella del suino domestico. Quella
di maiale si chiama sanna.
Sàguma, s. f. Sagoma.
Sagumai, v. Sagomare.
Sagumau/ada, agg. Sagomato/a.
Säinada, s. f. Scuotimento, scossa, sussa. In senso fig. scorpacciata.
Ddu iat una pingiada ’e petza a
buddiu, si nd’at donau una s. chi
ddu-i nd’iat po cussu e po àtiri puru.
Säinadura, s. f. Scuotimento,
scossa ripetuta. Nella loc. avv. a s.
Säinai, v. Scuotere. Sàina sa
mata (scuoti l’albero). Lo si impiega ironicamente nel senso di: picchiare, percuotere. Giai ti sàinat
(ti picchierà sicuramente). Nel
rifl. vale anche: mangiare abbondantemente, ingozzarsi.
Säinau/ada, agg. Scosso/a, picchiato/a.
Sàinu, s. m. Scuotimento, scossa. Sinonimo di saïnadura.
Salàmini, s. m. Salame.
Salatïeri, s. m. Insalatiera vassoio. Più in generale, contenitore
per alimenti.
PAOLO PILLONCA
Salera, s. f. Saliera, piccolo contenitore per il sale. In senso fig. e
per lo più ir. vale: riserva di saggezza. In su ’atiari ’e Fulanu s’ant
iscaréscïu sa salera (nel battesimo
di Fulano hanno dimenticato la
saliera).
Sali, s. m. Sale. Quello per uso
alimentare si divide in s. fini (per
le vivande già pronte) e s. grussu
(per l’acqua di paste e minestroni). Ne esiste un terzo tipo, in
grani ridotti, per la salagione del
lardo e del prosciutto. Ma il s., al
di là dell’uso materiale, è impiegato in campo met. come sinonimo
di intelligenza e saggezza.
Salia, s. f. Saliva. Al pl. - is salìas
- indica l’accenno sprezzante ad
uno sputo per terra in replica a
una qualche affermazione offensiva. D’at betau is salìas (gli ha lanciato un accenno di sputo).
Salia longa/Saliaciu, s. m. Saliva
amara.
Salidassu/a, agg. Piuttosto salato/a.
Salidura, s. f. Salagione, salatura.
Sàligi, s. m. Salice. Presente in
un toponimo, al pl. e senza art. Sàligis -, posto quasi all’inizio della
parte bassa del territorio comunale, Monti ’e ’ossu o, nella pronuncia
di oggi, Montïossu.
Saliri, v. Salare, fare la salagione.
Mancarìas. La parlata di Seui
Depu s. is presutus (debbo salare i
prosciutti).
Saliu/a, agg. Salato/a.
Salomoni, s. m. Salomone. In
senso ir. per definire un saputello.
Saludai, v. Salutare. Sia nel
significato normale di porgere il
saluto (no ddu mancu saludat, non
lo saluta neppure) sia in quello più
recente, assunto dall’it., di perdere
una speranza e di veder svanire un
auspicio (ocannu s’andada a mari
dda saludas, quest’anno la vacanza
al mare la saluti).
Saludau/ada, agg. Salutato/a.
Saludi, s. f. Salute. Si dà come
augurio, anche nel porgere il saluto e nell’aprire un brindisi, e si
ottiene in risposta un’altra bella
parola: vida. Vivo il detto chini
tenit s. tenit dónnïa cosa (chi ha la
salute ha tutto).
Saludu, s. m. Saluto. Su s. dd’at
lassau Deus (il saluto è un dono di
Dio), ossia non si nega a nessuno.
Samunadorgiu, s. m. Lavatoio.
Samunadura, s. f. Lavatura,
lavaggio. Bonu fut cussu ’inu? Bah,
s. ’e pratus (era buono quel vino?
Macché, lavatura di piatti).
Samunai, v. Lavare, sciacquare.
Riferito alle pulizie personali. Non
mi soi nemancu samunau (non mi
sono neppre lavato), delle stoviglie
(sàmuna pratus e tassas, lava piatti
341
e bicchieri) e dei tessuti (sàmuna ’r
mantas, lava le coperte).
Samunamentu, s. m. Lavaggio
continuo.
Samunau/ada, agg. Lavato/a.
Sanadura, s. f. Castrazione.
Sanai, v. Castrare. Voce gergale
dei pastori. Unu mascu sanau (un
ariete castrato). Nel senso di guarire
la parlata di Seui non lo registra, se
non nell’espressione giai ndi sanat
(ne guarirà), in riferimento a una
faccenda provvisoriamente andata
male ma non ancora irrimediabile.
Sanatórïu, s. m. Sanatorio,
tubercolosario.
Sangeddu, s. m. Persona carica
di livore, intrattabile.
Sangìa, s. f. Ascesso purulento,
postema.
Sangradori, s. m. Salassatore,
persona pratica nel fare i salassi.
Sangradura, s. f. Salasso.
Sangrai, v. Salassare. Met. approfittare. Giai ddu sangrat (gli toglierà il sangue), custa ’orta ti sangru
’eu (stavolta sarò io a salassarti).
Sangrau/ada, agg. Salassato/a.
Sangrìa, s. f. Salasso. Frequente
anche l’uso traslato, nel senso di
scottare, colpire negli averi. Sin. di
sangradura.
Sangunau, s. m. Cognome.
Sanguneddu, s. m. Sanguinaccio di maiale.
342
Sangunera, s. f. Sanguisuga. In
senso fig. profittatore, parassita.
Est una s. (è un esoso).
Sànguni, s. m. Sangue. Lo si
impiega anche per indicare il legame di parentela. Su s. no est abba
(il sangue non è acqua). Vedi
insangüentai e derivati.
Sanna, s. f. Zanna di maiale.
Quella del cinghiale è sagliu.
Santamenti, avv. Nella maniera
più opportuna. Chi movias imoi a
su monti dda fäias s. (se partissi
adesso per la campagna agiresti nel
modo più opportuno).
Santidadi, s. f. Santità.
Santificai, v. Santificare.
Santificau/ada, agg. Santificato/a.
Santinu, n. pr. di pers. Santino.
Usato anche il dim. Santineddu.
Santu/a, s. e gg. Santo/a.
Santüanni, s. m. Comparatico,
detto San Giovanni in rif. al figlio
di Elisabetta e Zaccaria, il Battista
per eccellenza. Indica il legame
sacrale che si stabilisce tra i genitori di un battezzando (e, per
estensione, di un cresimando) e le
persone scelte per fare da padrini e
madrine in questi due sacramenti.
Il legame è immune da eventi
negativi. Se tra compari le relazioni si raffreddassero, quel vincolo
rimarrebbe comunque intangibile.
PAOLO PILLONCA
Vivo l’inciso francu su S. (fatta
eccezione per il comparatico).
Santucristu, s. m. Crocifisso.
Santumusconi, s. m. Santomoscone, persona petulante.
Santu setzi in domu, s. m. Lett.
San Siedi a Casa. Espressione
scherzosa rivolta soprattutto a
bambini che vorrebbero essere
accompagnati a una festa religiosa.
Santzinada, s. f. Scuotimento,
scossa. In senso fig. sussa. Dd’at
donau una bella s. (gli ha dato una
sussa in piena regola).
Santzinai, v. Scuotere. Vedi saïnai.
Santzinau/ada, agg. Scosso/a.
Sanu/a, agg. Sano/a, di corpo e
di mente. Cuddu no mi parit sanusanu (quello lì non mi sembra del
tutto normale), quando si vogliono porre dubbi sulla salute mentale di q.no.
Sapïenti, agg. Sapiente, saggio/a.
Sapïéntzïa, s. f. Saggezza, sapienza.
Sapiri(si), v. Accorgersi. Non si
ndi mancu sapit (non se ne accorgerà neppure), candu mi ndi soi
sapìu fut a duru (quando me ne
sono accorto era tardi).
Sapìu/a, agg. Saputello/a, presuntuoso/a, pieno/a di sé. Antoni est
unu s. (Antonio è un presuntuoso).
Mancarìas. La parlata di Seui
Sarbadori/Sarbadoricu, n. pr. di
pers. Salvatore.
Sardadori, s. m. Saldatore.
Sardadura, s. f. Saldatura.
Sardai, v. Saldare. Fuori dal
gergo della meccanica, vale: sistemare, mettere a punto. Eus a s. is
contus (sistemeremo i conti a
saldo).
Sardau/ada, agg. Saldato/a.
Sardigna, s. f. Sardegna.
Sardismu, s. m. Sardismo.
Sardista, agg. Sardista.
Sardu, s. m. Lingua sarda. Su
pipìu chistionat beni su s. (il bambino parla bene la lingua sarda).
Sardu/a, agg. Sardo/a.
Sardu, s. m. Saldo. Ti pagu a s.
(ti pago a saldo).
Sarmenta, s. f. Vite. Nome coll.
che comprende in generale tutti i
tipi di vitigni.
Sartadori, s. m. Saltatore.
Sartai, v. Saltare.
Sartàini, s. f. Padella da cucina,
impiegata generalmente per friggere. Indica anche la padella bucata che si usa per arrostire le castagne.
Sàrtidu, s. m. Salto.
Sartissu, s. m. Salsiccia.
Sartu, s. m. Territorio destinato
prevalentemente al pascolo, dunque non adibito a usi agricoli. Lo
si usa anche per definire il pascolo
343
invernale, spesso molto lontano
dai luoghi familiari. Ocannu
andaus a su sartu (quest’anno sverneremo lontano).
Sarvai, v. Salvare, aiutare generosamente in una necessità grave.
Tenia bisongiu e m’at sarvau (ero in
difficoltà e mi ha aiutato).
Liberarsi da un pericolo. Äici ti
sarvis de dannu (così possa evitare
un incidente).
Sarvamentu, s. m. Salvezza.
Sarvau/ada, agg. Salvato/a.
Sarvesa, s. f. Salvezza.
Sarvu/a, agg. Salvo/a.
Sassadura, s. f. Scorpacciata.
Sassagoni, s. m. Goloso, mangione.
Sassai/sassàisi, v. Mangiare a
dismisura, satollarsi.
Sassaluga, s. f. Lumaca senza
guscio, lumacone.
Sassaresu/a, agg. Sassarese.
Sassau/ada, agg. Satollo/a.
Saturnu/a, agg. Riservato/a,
introverso/a.
Säulada, s. f. Abbaiata.
Säulai, v. Abbaiare. In senso ir.
anche in riferimento all’uomo.
Mancai sàulis no m’ispantas (anche
se abbai non mi impressioni).
Viva l’espressione proverbiale cani
sàulat e procu papat (il cane abbaia
e il maiale mangia), per dire di
una situazione in cui qualcuno
344
approfitta a man bassa a proprio
vantaggio nonostante le proteste
altrui. Con la cons. iniziale di
suono molto forte, che non si
attenua davanti a vocale.
Sàulu/issàulu, abbaio. Su cani
fut a issàulus (il cane abbaiava di
continuo).
Sbagassai/irbagassai, v. Divertirsi, darsi alla bella vita, allo sperpero con le prostitute. Si nd’at
irbagassau ’e bellu ’inari (ne ha
sperperato di bei soldi). Vedi
bagassa.
Sbagassamentu, s. f. Dissipazione, perdita di dignità.
Sbagassau/ada, agg. Perso/a,
smascherato/a, disonorato/a.
Sbalossàisi/isbalossàisi, v. Fare il
cretino, eccedere nei comportamenti stupidi. Non t’isbalossis (non
fare lo stupido). Vedi balossu.
Sbalossamentu, s. m. Rincretinimento.
Sbalossau/ada, agg. Rincretinito/a.
Sbandai/isbandai, v. Sbandare.
Anche in senso fig.
Sbandamentu, s. m. Perdita di
equilibrio, sbandata.
Sbandau/isbandau/irbandau, s.
m. Sbandato/a. Funge anche da
agg.
Sbarcai, v. Sbarcare, approdare.
Sbarcau/ada, agg. Sbarcato/a.
PAOLO PILLONCA
Sbarcu/isbarcu, s. m. Sbarco.
Sbirru/irbirru, s. m. Martora.
Ma anche, all’italiana, sbirro, spia.
Sburzugai/irburzugai,
v.
Cacciar via, andar via. Nce ddu
’rbùrzugu (lo caccio via), giai nci
irbùrzugas de igui (presto andrai
via da lì).
Sburzugau/ada, agg. Mandato/a
via.
Scabbalàisi/iscabbalàisi, v. Sbandarsi, perdersi per strada, vagabondare.
Scabbalau/ada, agg. Sbandato/a.
Scabbessada, s. f. Colpo di
mano tra la guancia e la testa
(cabeza). Spagnolismo.
Scabbessai, s. f. Colpire con
scabbessadas.
Scabbessu, s. m. Sin. di scabessada.
Scabbùlliri, v. Recuperare,
riuscire ad avere. Il part. pass. più
frequente è irregolare: scabburtu/a.
Ma talvolta si afferma anche quello normale scabùllïu/a.
Scabudai, v. Lasciar perdere.
Scabudau/ada, agg. Trascurato/a,
abbandonato/a. Vedi càbudu.
Scacamurrada, s. f. Percossa sul
muso.
Scacamurrai, v. Colpire, percuotere sulla bocca (murru). Ma è
usato anche nel senso più esteso e
spesso traslato di bacchettare. Fut
Mancarìas. La parlata di Seui
seghendumì sa passïèntzïa e mi
dd’apu scacamurrau ’eni-’eni (mi
stava facendo perdere la pazienza e
l’ho bacchettato per benino).
Scacamurrada, s. f. Percossa
inferta sul muso.
Scadassai, v. Liberare dalla forfora. Vedi cadassa. Anche in senso fig.
Scadassau/ada, agg. Liberato
dalla forfora e, più in generale, da
situazioni scomode e/o fastidiose.
Scadassu, s. m. Liberazione
dalla forfora.
Scaddai/iscaddai, v. Scottare.
Chini iscaddat s’abba ’uddia timit
sa frida puru (chi rimane scottato
dall’acqua calda teme anche quella fredda). Vedi scramentai.
Scaddau/ada, agg. Scottato/a.
Scaddu/iscaddu, s. m. Scottatura. Per est. esperienza fallita.
Vedi scramentu.
Scadenadura/iscadenadura, s.
m. Scatenamento, liberazione dalle
catene.
Scadenai/iscadenai, v.
Scatenare, togliere la catena.
Scadenau/ada, agg. Scatenato/a,
senza catena.
Scagareddada, s. f. Sfinimento,
debilitamento.
Scagareddai, v. Indebolire, debilitare, sfinire, stremare come chi è
colpito da attacchi di diarrea
(cagaredda).
345
Scagareddau/ada, s. e agg.
Sfinito/a, debilitato/a, logorroico/a.
Scagliadura, s. f. Scongelamento,
dissolvimento. Contr. di cagliadura.
Scagliai, v. Scongelare, squagliare, liquefare. Contr. di cagliai .
Scagliau/ada, agg. Liquefatto/a.
Scala, s. f. Scala. Ddu-i tengiu su
mäistu ’e muru ca sa s. fut orrüendudendi (ho in casa il muratore
perché la scala stava cadendo a
pezzi). Passaggio, varco naturale
su una parete ripida di montagna
o collina. In questa accezione è
presente in diversi toponimi: Sa s.
’e is (pron. ir) murvas (la parete
delle mufle), nella foresta di
Montarbu, Sa s. ’e Sa Marra e Sa s.
’e sa Träia nel Tònneri.
Scaleri/iscaleri, s. m. Scalino,
gradino di scala. Frequente l’espr.
ir. no at àiri imbrunconau in is
iscaleris de s’univerisidadi (non avrà
inciampato sui gradini dell’Università).
Scalonai, v. Cogliere uva in
minigrappoli.
Scaloni, s. m. Minigrappolo
d’uva.
Scambadura/iscambadura, s. f.
Debolezza di gambe. Freq. la loc.
avv. a i.
Scambai/iscambai, v. Tagliare le
346
gambe. Ma più spesso lo si usa per
indicare l’indebolimento dell’arto.
S’abbardenti
mi
scambat
(l’acquavite mi leva la forza delle
gambe).
Scambau/ada, agg. Senza gambe, dalle gambe deboli.
Scaminai, v. Deviare dalla retta
via, perdere la strada.
Scaminamentu, s. m. Vagabondaggio, perdita della strada
giusta.
Scaminau/ada; agg. Vagabondo/a, nullafacente, persona perduta. Lett. che ha perso la strada.
Scancelladura, s. f. Cancellatura, cassazione.
Scancellai, v. Cancellare, cassare.
Scancellau/ada, agg. Cancellato/a, cassato/a.
Scàndula, s. f. Scheggia, strato,
rimasuglio, avanzo, tegola.Viva
l’impr. una scàndula ’e tronu (una
scheggia di tuono).
Scandulìgiri, v. Svergognare,
sputtanare. Lett. togliere le tegole
(scàndulas), riportare tutto alla
luce del sole.
Scanduligìu/a, agg. Svergognato/a.
Scàndulu, s. m. Vergogna, scandalo.
Scanneddada, s. f. Colpo diretto
alla tibia. Vedi cannedda.
Scanneddadura, s. f. Serie di
PAOLO PILLONCA
colpi alla tibia.
Scanneddai, v. Colpire la tibia.
Gergale del gioco del calcio.
Scanneddau/ada, agg. Colpito/a nella regione tibiale.
Scannidura, s. f. Incrinatura,
filatura.
Scanniri/iscanniri, v. Incrinare,
provocare una filatura a un contenitore vitreo.
Scannìu/iscannìu/a, agg. Incrinato/a, filato/a. Cussa tassa mi
parit i. (quel bicchiere mi sembra
filato).
Scantulada, s. f. Schiaffone,
schiaffo. Chi non fais a bonu ndi
’oddis una s. (se non ti comporti
bene becchi uno schiaffone).
Scantulai, v. Dare schiaffi.
Scantzadorgiu, s. m. Deviazione
di strada, bivio.
Scantzai/iscantzai, v. Deviare.
Anche riferito all’acqua di irrigazione, s. s’abba (deviare il corso
dell’acqua). Nella forma rifl. vale:
andare di traverso. Bufa a bellu ca
su ’inu ti podit i. (bevi adagio perché il vino ti può andare di traverso). In senso ir. quando ci si augura che una determinata azione
altrui non vada a buon fine. Custa
’orta dd’iscantzat (stavolta gli va di
traverso).
Scantzau/ada, agg. Deviato/a.
Scapai/iscapai, v. Liberare. Fut in
Mancarìas. La parlata di Seui
presoni ma dd’ant iscapau (era in
carcere ma l’hanno liberato).
Liberarsi, sospendere il lavoro.
Cumentzat a cöidu e iscapat a mesudì (inizia presto e a mezzogiorno
sospende). Perdere liquido, trasudare, liberare. Scapat ogliu, cussa
agliàuna (quella lattina perde olio).
Scapau/ada, agg. Liberato/a,
sospeso/a, trasudato/a.
Scapïadura, s. f. Slegatura, slegamento, liberazione.
Scapïai/iscapïai, v. Slegare, sciogliere, liberare da funi e/o catene.
Innanti ’e ddas tùndiri is brebeis
s’acàpiant, tùndïas chi siant si
nd’iscàpïant (prima di essere tosate,
le pecore debbono essere legate e
subito dopo la tosatura vengono
slegate). In senso fig. sciogliere da
legami magici nei rituali che lo prevedono, come quello dell’acqua,
della volpe e dell’aquila. Vedi acapïai.
Scapïau/ada, agg. Slegato/a.
Scapu/a, agg. Liberato/a, di
nuovo in libertà.
Scaratirau/ada, agg. Senza
carattere, intrattabile, inaffidabile.
Vedi caràtiri.
Scarceddu, s. m. Rifiuto. Rif. alle
persone: unu s. ’e presoni (un avanzo di galera).
Scardai/scherdai, v. Rinzeppare.
Sistemare pietre di piccola dimen-
347
sione tra cemento e pietre più
grandi sovrapposte durante la
costruzione di un muro. Gergale
dei muratori.
Scardanciladura, s. f. Sgarrettamento.
Scardancilai, v. Sgarrettare. Vedi
cardancili.
Scardancilau/ada, agg. Sgarrettato/a.
Scardangiai, v. Ripulire, togliere
su cardangiu, la sporcizia accumulata.
Scardangiamentu, s. m. Ripulimento.
Scardangiau/ada, agg. Ripulito/a.
Scardassai, v. Pulire al meglio in
una situazione divenuta difficile per
l’eccessiva sporcizia. Nd’apu scardassau ’e cosa eriseru in cussa ’omu (ho
pulito davvero molto ieri in quella
casa). Vedi incardassai e cardassu.
Scardassu, s. m. Pulizia in situazione precaria, ripulimento sommario.
Scardimentu, s. m. Infiammazione dell’inguine e di altre parti
delicate del corpo.
Scardiri(si), v. Infiammarsi una
parte del corpo in seguito a contatto o altra causa. Su cartzoni nou
ddu totu scardit (i pantaloni nuovi
gli causano un’infiammazione).
Scardìu/a, agg. Infiammato/a.
348
Scarenadura, s. f. Perdita di
forze, infiacchimento.
Scarenai, v. Far perdere forze,
fiaccare, indebolire.
Scarenau/ada, agg. Fiaccato/a,
indebolito/a.
Scarescidura, s. f. Perdita di memoria.
Scarèsciri/iscarèsciri, v. Dimenticare. M’iscarèsciu totu (dimentico
tutto). Frequenti le espressioni
scaréscïu/scarèscïa che mortu/a
(dimenticato come una persona
morta) e a sa morti scarescias (che
la morte si dimentichi di te).
Esiste anche la variante schèsciri.
Scaréscïu/iscaréscïu, s. m. Facile
all’oblio, persona che dimentica
facilmente le cose. Usato anche
come agg. Chi soffre di amnesie è
definito anche conca scarèscïa (lett.
testa che non ricorda). Esiste
anche la variante schéscïu.
Scargiadura, s. f. Pianto disperato.
Scargiàisi, v. Piangere fino a perdere il respiro. Detto soprattutto
dei bambini. Candu prangit si
scargiat in donnìa (quando piange
rimane sempre senza respiro).
Scargiau/ada, agg. Temporaneamente privo/a di respiro.
Scargiu, s. m. Gozzo. Per estensione, stomaco. S’at prenu ’eni-’eni
su s. (si è riempito ben bene lo sto-
PAOLO PILLONCA
maco), spregiativamente.
Scarigadura/iscarigadura, s. f.
Epistassi. Dd’at iscutu unu buciconi a i. (gli ha dato un pugno sul
naso, is càrigas).
Scarigai/iscarigai, v. Provocare
un’epistassi, far uscire sangue dal
naso a q.no. Dd’at iscarigau (gli ha
fatto uscire sangue dal naso).
Scarigau/ada, agg. Colpito/a da
epistassi.
Scarpinada, s. f. Fuga, camminata veloce.
Scarpinai, v. Fuggire, dileguarsi.
Scarpinau/ada, agg. Fuggito/a,
scomparso/a.
Scarrabbussonada, s. f. Ravvivamento del fuoco. Brusca cacciata
di q.no da un ambiente.
Scarrabbussonai, v. Ravvivare il
fuoco del forno o del caminetto,
in modo da sminuzzare carboni e
braci. In senso fig. cacciar via in
malo modo una persona prepotente o importuna. Chi abètïat
meda nce ddu scarrabbussonaus (se
insiste molto lo cacciamo via).
Scarrafïai, v. Graffiare.
Scarrafïau/ada, agg. Graffiato/a.
Scarràfïu, v. Graffio. Quando è
di proporzioni ridotte, lo si dice
con il diminutivo scarrafïeddu o
con l’aggiunta di una precisazione:
scarrafïeddu ’e nudda (graffietto da
niente).
Mancarìas. La parlata di Seui
Scarragiai, v. Liberare dalla terra
o altro materiale di frana come
carbone e/o detriti, disseppellire.
Cantu nd’at mortu in miniera carragiaus de craboni chi no nci funt
arrennéscïus a nde ddus s. (quanti
sono morti in miniera, sepolti dal
carbone senza che si sia riusciti a
disseppellirli). Vedi carragiai.
Scarragiau/ada, agg. Liberato/a
da detriti, dissepolto.
Scarragiu, s. m. Scavo tendente
a liberare un luogo da detriti.
Scàrriga, s. f. Scarica.
Scarrigadorgiu, s. m. Luogo in
cui si scarica.
Scarrigai, v. Scaricare. Ndi scarrigaus su fenu (scarichiamo il
fieno).
Scarrigau/ada, agg., Scaricato/a.
Scàrrigu, s. m. Scarico, operazione di scaricamente in genere.
Scarronadura, s. f. Ferita da
taglio al calcagno.
Scarronai, v. Tagliare, ferire al
calcagno. Vedi carroni.
Scarronau/ada, agg. Scalcagnato/a, ferito/a al calcagno.
Scartai, v. Scartare. Rif. sia agli
uomini, sia, soprattutto, agli animali. Ocannu depu s. paricias brebeis (quest’anno dovrò scartare
molte pecore). Si utilizza anche nel
gioco delle carte per definire
l’operazione con cui in certi giochi
349
ci si libera di una carta subito dopo
averne preso dal mazzo un’altra.
Scartau/ada, agg. Scartato/a.
Scarteddu, s. m. Cestino. In
senso fig. omùncolo.
Scartevidada, s. f. Liberazione.
Scartevidài(si), v. Liberarsi. Da
una situazione di disagio, soprattutto, ma anche da un impiccio di
ordine fisico. No est arrennéscïu a
si ndi s. (non è riuscito a liberarsi).
Scartevidau/ada, agg. Liberato/a
da un impiccio fisico.
Scartina, s. f. Cesta.
Scartu, s. m. Scarto. Est unu
pegus de s. (è un animale da scartare), definizione che si usa anche in
senso più lato, riferita alle persone
che non godono di alcuna stima.
Scartzadura, s. f. Lavoro di
zappa attorno a un ceppo di vite.
Scartzai, v. Togliere la terra intorno a un ceppo di vite facendo un
piccolo fosso per favorire il ristagno
temporaneo dell’acqua piovana.
Scartzau/ada, agg. Liberato/a
dalla terra.
Scartzonadura, s. f. Liberazione
dai calzoni.
Scartzonai, v. Togliere i calzoni.
Anche rifl.
Scartzonau/ada, agg. Prodigo/a,
generoso/a al punto da sacrificare
perfino i calzoni (cartzonis). Lett.
senza più pantaloni.
350
Scascialadura, s. f. Perdita di
tutti i molari.
Scascialai/iscascialai, v. Estrarre
tutti molari. Anche al rifl. S’est iscascialau (ha perso tutti i molari).
Scascialau/ada, agg. Privo/a di
molari.
Scassoladura, s. f. Farneticamento, uscita di senno.
Scassolai(si)/iscassolai(si), v.
Farneticare, uscir di senno. Detto
di chi è in preda a un male oscuro.
Est iscassolendusì (sta uscendo di
senno).
Scassolau/ada, agg. Farneticante,
dissenato/a.
Scastai/iscastai, v. Tralignare,
essere diverso rispetto ai propri
familiari. At iscastau (è un figlio
degenere). Lo si dice generalmente per rimarcare un peggioramento, ma lo si può utilizzare anche in
senso positivo. Vedi casta.
Scatai, v. Rilasciare squame.
Scata, s. f. Squame, di pelle
umana e animale terrestre e/o
acquatico.
Scatosu/a, agg. Squamoso/a.
Scàtula, s. f. Scatola.
Scavanada, s. f. Schiaffo in
piena guancia. Vedi càvana.
Scavanai, v. Dare schiaffi sulle
guance.
Scavitai, v. Dondolare, muovere
ritmicamente.
PAOLO PILLONCA
Scavitada, s. f. Dondolio, movimento ritmico.
Scavitadura/iscavitadura, s. f.
Effetto del dondolio.
Scavuladura/iscavuladura, s. f.
Rifiuto, il gettar via rabbiosamente q.sa.
Scavulai/iscavulai, v. Buttare,
gettar. Scavulanceddu (buttalo via).
Scavulau/ada, agg. Gettato via,
buttato/a.
Scegïai/sfegïai, v. Perdere la feccia. In senso fig.: smaltire la sbornia. At iscegïau (ora è sobrio).
Scempïai(si)/iscempïai, v. Ferire
malamente. Nc’est orrutu in-d-una
spérruma e s’est iscempïau (è caduto
in un dirupo e si è ferito gravemente). In senso fig. scimunire.
Scempiau/ada, agg. Scimunito/a.
Scetadori, s. m. Cernitore, stacciatoio.
Scetai, v. Mettere da parte il fior
di farina.
Scèti, s. m. Fior di farina.
Scetigedda, s. f. Cannella.
Schèsciri, v. Dimenticare. Vedi
scarèsciri e derivati.
Scëurrai/sfëurrai,
v.
Deferulare. Bonificare il pascolo
eliminando la ferula. Candu si
scèurrat, su logu abarrat francu
féurra po una pariga ’i annus e de
fatu torraus a cumentzai ’e bell’e
nou (quando si fa il deferulamen-
Mancarìas. La parlata di Seui
to, il terreno rimane libero dalla
ferula per qualche anno poi siamo di nuovo punto e a capo). Vedi afëurrai e féurra.
Scëurramentu, s. m. Deferulamento.
Scëurrau/ada, agg. Deferulato/a.
Su sartu nostu est totu s. (il nostro
territorio è tutto deferulato).
Schetu/a, agg. Sincero/a, schietto/a, netto/a.
Schidonada, s. f. Spiedo già
pieno di carne da cuocere arrosto.
Schidoneddu, s. m. Piccolo spiedo.
Schidonera, s. f. Rastrelliera per
spiedi.
Schidoni, s. m. Spiedo. Ancora
molto vivo nell’uso il prov. in domu
’e su ferreri schidonis de linna (in casa
del fabbro gli spiedi sono lignei).
Esiste anche la variante spidu.
Schina/ischina, s. f. Schiena,
colonna vertebrale, dorso. Soi a
dolori ’e s. (ho mal di schiena). Ma
il s. in senso met. vale: fierezza,
dignità di condotta, forza morale.
Schirrïulinu/ischirrïulinu/a,
agg. Alto/a e magro/a.
Schiscïai/ischiscïai, v. Far impazzire, far innamorare. Sa cassa
dd’at ischiscïau (la caccia l’ha fatto
uscir di senno).
Schiscïau/ada, agg. Impazzito,
innamorato, entusiasta.
351
Schiscionera, s. f. Cottura in
umido.
Schìscïu/ischìscïu, s. m. Chiodo
fisso, mania, innamoramento. Su
palloni ddi pigat a i. (il gioco del
calcio lo appassiona follemente).
Schistu, s. m. Scisto, particolare
tipo di pietra.
Schïulai, v. Garrire, emettere
versi striduli.
Schìulu, s. m. Verso stridulo di
uccello. Per est. e in senso ir. vale:
grido, urlo.
Schivai/ischivai, v. Provare nausea e disgusto. Soi acanta ’e i.
s’orrosu (il riso mi sta venendo a
nausea).
Schivau/ada, agg. Nauseato/a.
Sciabbocai, v. Scherzare a man
salva, ironizzare.
Sciabbocu, s. m. Divertimento.
Sciaborïai/isciaborïai, v. Far
perdere il sapore. No nde ddi pongias de abba in prus ca sciabòrïat
totu (non mettergli troppa acqua
perché fa perdere sapore al piatto).
Al rifl. vale: perdere il gusto.
Sciaborïau/ada, agg. Senza
sapore, privo/a di gusto. Contr. di
saborìu/a (saporito/a).
Sciacüadura, s f. Lavatura, acqua
sporca (dopo essere stata usata per
lavare i piatti).
Sciacüai/isciacüai, v. Lavare con
acqua. Ma il v. ha un largo impie-
352
go met. quando si definisce una
situazione di antagonismo acceso
nella quale uno dei contendenti
ne contesta un altro in maniera
decisa e senza peli sulla lingua. Mi
dd’at isciacüada ’eni (l’ha lavata
per bene, ossia: le ha sferrato un
attacco deciso).
Sciacüau/ada, agg. Lavato/a.
Sciaddiri/isciaddiri, v. Scomparire all’orizzonte, perdere di vista.
Dona crobba non ti nci sciaddat
(attento a non perderlo di vista),
candu mi ndi soi acatau, Gisepu nci
fut giai s. (quando me ne sono
accorto, Giuseppe era già scomparso al mio orizzonte), a mei no
mi nc’isciaddit (io non lo perdo
d’occhio). Detto anche del sole e
della luna.
Sciaddìu/a, agg. Scomparso/a
alla vista, declinato/a, perso/a di
vista. Su soli nci fut belle e i. (il sole
era quasi scomparso all’orizzonte).
Sciaferru, s. m. Austista. Desueto. Francesismo.
Sciäimentu, s. m. Perdita di
liquido.
Sciàiri, v. Perdere liquido. Detto
dei contenitori.
Sciallu, s. m. Scialle.
Scialu, s. m. Lusso, prodigalità.
Sciamigai/sfamigai, v. Sfamare.
Il verbo viene usato con marcata
venatura ironica o sarcastica.
PAOLO PILLONCA
Sciamigau/ada, agg. Sfamato/a.
Sciampugliadura, s. f. Sbatacchiamento.
Sciampugliai, v. Agitare. Riferito soprattutto a contenitori di liquidi. Arregodadì ca cussa mëigina
’olit isciampugliada innanti ’e dda
pigai (ricordati che quel farmaco
deve essere agitato prima dell’assunzione). Più in generale, lo si
impiega anche - e talvolta in senso
ir. - per indicare uno stato di agitazione fisica in seguito, ad es., a
un viaggio particolarmente veloce
e agitato in auto.
Sciampugliau/ada, agg. Agitato/a, scosso/a.
Sciampugliu, s. m. L’atto e
l’effetto di sciampugliai.
Sciancai(si), v. Sfiancare, sciancare. Anche al rifl.
Sciancau/ada, agg. Sciancato/a.
Sciapidórïu, s. m. Sciocchezza,
stupidaggine. Linu narat feti sciapidórïus (Lino dice solo sciocchezze).
Sciàpidu/a, agg. Insipido/a. In
senso fig. sciocco/a, insulso/a. Cussa
picioca est prusu s. che sàbïa (quella
ragazza è più sciocca che saggia).
Sciaputzu, s. m. Persona di poco
valore. Usato anche al dim. (sciaputzeddu) quando si tratta di persona giovane o di fisico debole.
Sciarrancadura, s. f. Lavorazione manuale della pasta su cestini
Mancarìas. La parlata di Seui
di asfodelo, graffio.
Sciarrancai/sfarrancai, v. Lavorare con le mani. Macarronis sciarrancaus sono un particolare tipo di
maccheroni di preparazione
domestica manuale, che si passano
sopra i cestini di asfodelo una
volta lavorata la pasta, prima di
ripassarli nella farina. Vedi farranca. Graffiare provocando lesioni.
Dd’at totu sciarrancau (l’ha riempito di graffi).
Sciarrancau/ada, agg. Graffiato/a.
Sciasciadura, s. f. Sfascio, guasto, disfacimento.
Sciasciai, v. Sfasciare, guastare,
rovinare. Detto delle cose ma
anche delle persone, in senso reale
e fig.
Sciasciapatata, s. f. Schiacciapatate.
Sciasciau/ada, agg. Sfasciato/a,
guasto/a, inservibile.
Sciasciu, s. m. Sfascio, confusione, caos.
Sciasolàisi, v. Dire sciocchezze,
non seguire fino in fondo un
ragionamento. Il v. potrebbe fondarsi su un’osservazione del
mondo agricolo. Se è vero che i
fagioli all’interno del baccello
sono ordinati alla perfezione dalla
natura, è altrettanto vero che
quando li si sbaccella perdono
353
l’allineamento e l’ordine complessivo. In senso met. il mancato
rispetto della logica argomentativa da parte di un individuo
potrebbe somigliare al disordine
dei fagioli sbaccellati. Sciasolai è il
risultato di un originario sfasolai,
che alla lettera significa: uscire
dallo stato di fagiolo.Vedi fasolu,
stegai e tega.
Sciasolamentu, s. m. Sbaccellamento. In senso fig. disordine
logico, sciocchezza.
Sciasolau/ada, agg. Sciocco/a,
noioso/a, inconcludente, fuori
misura.
Scibuddadura, s. f. Infiacchimento, rammollimento.
Scibuddai(si), v. Infiacchire,
infiacchirsi, rammollirsi come la
cipolla bollita. Vedi cibudda.
Scibuddau/ada, agg. Rammollito/a, fiacco/a.
Scidai/iscidai, v. Svegliare, incitare ad una maggiore concentrazione e/o grinta. Ti ndi scidu ’eu (ti
sveglierò io), Chi no nde ddu scidas, cussu s’abarrat crocau (se non
lo svegli, quello lì rimarrà a letto).
Al rifl. vale: destarsi, uscire dal
sonno. Si nd’est iscidau a cöidu (si
è svegliato presto)
Scidau/ada, agg. Destato/a, svegliato/a.
Scidu/a, s. e agg. Sveglio/a, per-
354
sona accorta.
Scïenti, s. m. Apprendista. Unu
bonu mäistu ’ogat un bonu s. (un
buon maestro tira fuori un buon
apprendista).
Scïentzïa, s. f. Scienza.
Scïèntzïau, s. m. Scienziato.
Scimingiadura/iscimingiadura,
s. f. Sindrome simile a capogiro e
vertigini. Ddi pigat a i. (gli viene
un senso come di capogiro).
Scimingiai/iscimingiai, v. Far
venire il capogiro, stressare.
Scimingiu/iscimingiu, s. m. Capogiro, vertigine.
Scimpradura, s. f. Degrado mentale.
Scimprai(si), v. Far diventare scemo. Nel rifl. vale: comportarsi male abbassandosi ad azioni o discorsi
poco corretti o comunque sciocchi.
Non ti scimpris (non fare e/o dire
sciocchezze).
Scimprau/ada, agg. Divenuto/a
sciocco/a.
Scimprigosu/a, agg. Reattivo/a,
abile.
Scimprìgu, s. m. Abilità, prontezza, capacità di reazione e di iniziativa. Di uno che si rassegna
senza reagire, incapace di qualunque presa di posizione creativa si
dice: non portat perunu s. (non ha
alcuna capacità di reazione).
Scimprórïu, s. m. Fesseria, scioc-
PAOLO PILLONCA
chezza, banalità. Scit nai feti scimprórïus (sa dire solo banalità).
Scimpru/a, agg. Sciocco/a, banale.
Scincidda/iscincidda, s. f. Scintilla. Cussa linna in sa ziminera
bogat tropu s. (quella legna nel
camino emana troppe scintille). In
senso fig. brillantezza.
Scinciddai/iscinciddai, v. Emettere scintille. Traslato: essere brillante.
Scinciddosu/a, agg. Che produce scintille (detto della legna da
ardere). In senso fig. vale: brillante, scintillante, reattivo, scoppiettante, fantasioso.
Scìngirisi, v. Togliersi i vestiti.
Scinigai/iscinigai, v. Provare
languore, con la conseguenza di
avere necessità di alimentarsi sul
momento.
Scinigau/ada, agg. Illanguidito/a semiaffamato/a. M’intendo totu s. (mi sta venendo appetito).
Scinìgu/iscinigu, s. m. Languore dovuto alla necessità di assumere alimenti in tempi brevi. Crisi
ipoglicemica.
Scinisadura, s. f. Impallidimento. Alla lettera: assunzione del
colore della cenere (cinisu).
Scinisàisi, v. Diventare pallido,
per emozione o malattia.
Scinisau/ada, agg. Pallido/a.
Mancarìas. La parlata di Seui
Lett. color cenere. Lo si rafforza
con una similitudine, s. che mortu
(pallido come un cadavere).
Scintu/a, agg. Liberato/a dai
vestiti. Part. pass. di scìngirisi.
Scioberai, v. Selezionare, scegliere tra persone o cose.
Scioberau/ada, agg. Scelto/a,
selezionato/a.
Scioberu, s. m. Scelta.
Scioginai/sfoginai, v. Far alzare
bruscamente dal letto. Vedi fogina.
Scioginamentu, s. m. Risveglio
brusco.
Scioginau/ada, agg. Destato/a
bruscamente dal sonno e fatto/a
alzare.
Sciòlliri, v. Dipanare, detto ad
es. di una matassa. In senso fig.
risolvere.
Sciòllïu/a, agg. Dipanato/a,
risolto/a.
Sciollorïai, v. Infastidire con discorsi fumosi. Al rifl. vale: perdersi
in discorsi senza senso, rincitrullirsi.
Sciollórïu, s. m. Sciocchezza,
discorso caotico, fesseria.
Sciolocada, s. f. Scemenza.
Sciolocai, v. Dire sciocchezze.
Sciolocau/ada, agg. Cretino/a,
sciocco/a.
Sciolocu, s. m. Sciocchezza, dissennatezza.
Sciopadura, s. f. Rottura, scop-
355
pio.
Sciopai/isciopai, v. Scoppiare,
rompere. Assai frequente nelle
imprecazioni contro chi alza troppo la voce: isciopa!
Sciopau/isciopau/ada, agg. Scoppiato/a.
Sciorbeddadura/isciobeddadura,
s. f. Ferimento alla fronte. Usata la
loc. avv. a i.
Sciorbeddai/isciorbeddai, v. Ferire alla fronte.
Sciorbeddau/ada, agg. Ferito/a
in fronte.
Sciorta/isciorta, s. f. Diarrea.
Sciortori, s.m. Arcolaio. Gergale
delle tessitrici. Vedi sciòlliri.
Scìpïu/a, s. e agg. Saputello/a.
Part. pass. di sciri/isciri.
Scircai/iscircai, v. Togliere i cerchi alle botti. In senso fig. devastare, rovinare.
Scircau/ada, agg. Privo/a di cerchi. Rif. principalmente alle botti
in disuso. Ma si usa anche in senso
fig. per definire un individuo non
più padrone dei propri movimenti fisici per malattia o incidente.
Sciri/isciri, v. Sapere. Dd’at iscìpiu mamma tua puru (è venuta a
saperlo anche tua madre).Usato
talvolta come inf. sostantivato. Su
s. giuat meda (il sapere giova
molto). Il part. pass. scìpiu/iscìpiu
è usato anche nel senso dell’it.
356
saputello.
Scìpïu/a, agg. Saputo/a.
Scìpïu, s. m. Saputello/a.
Scirradura, s. f. Spampanamento.
Scirrai, v. Spampanare. Gergale
dei vignaioli.
Scirrau/ada, agg. Spampanato/a.
Scïudai/sfïudai/iscïudai, v. Diventare vedovo/a. Lüisa at iscïudau
ocannu passau (Luisa è rimasta
vedova l’anno scorso).
Sciuscïai/isciuscïai, v. Disfare,
sfasciare, demolire.
Sciuscïau/ada, agg. Sfasciato/a,
diroccato/a. Cussa ’omu est totu
sciuscïada (quella casa è completamente diroccata).
Sciusciu, s. m. Demolizione,
sfascio.
Sciustigai/sfustigai, v. Provocare
senza ragione q.no. Lett.: stuzzicare con un rametto (fustiga).
Sciustigamentu, s. m. Provocazione.
Sciustigau/ada, agg. Provocato/a, stuzzicato/a.
Sciutai, v. Asciugare. Detto
principalmente dei panni stesi
dopo la lavatura.
Sciutau/ada, agg. Asciugato/a.
Sciutéi, s. m. Cacca. Ti ’ongiu
unu bellu sciutei (ti darò un bel po’
di cacca, ossia: non ti darò alcunché). Nulla. Indeclinabile.
Sciutori, s. m. Siccità, asciuttez-
PAOLO PILLONCA
za. Anche sin. di sciutéi.
Sciutu/isciutu/a, agg. Asciutto/a.
Su pannigeddu fut i. (il tovagliolo
era asciutto). Senza nient’altro.
Papu pani s. (mangio soltanto
pane, senza alcun companatico).
Scivedda, s. f. Catino di terracotta, concola.
Scivïada, s. m. Getto di liquido,
per lo più acqua. Lett. gettito di
una quantità d’acqua di quella
contenuta nel catino ligneo detto
scivu. In senso fig. vale serie di
colpi. Dd’at nau una s. ’e füeddus
(pron. füeddur) malus (gli ha detto
una serie di parolacce).
Scivïai, v. Lanciare un gettito
d’acqua contro qualcuno.
Scivïau/ada, agg. Lanciato/a.
Scivu, s. m. Catino ligneo di
media dimensione per impastare il
pane, madia.
Scocioladura, s. f. Decorticazione.
Scociolai, v. Scorticare. Rif.
soprattutto alle piante. Vedi cociolu.
Scociolau/ada, agg. Scorticato/a.
Scöadura, s. f. Taglio di coda.
Scöai, v. Tagliare la coda.
Scöau/ada, agg. Senza coda.
Scöetai, v. Scodinzolare, muovere la coda, guizzare. Togliere il sottocoda (cöeta) alla sella degli equi-
Mancarìas. La parlata di Seui
ni. Vedi coa.
Scöetamentu, s. m. Scodinzolamento.
Scöetau/ada, agg. Scodinzolato/a.
Scofada de pei, s. f. Pedata, calcio.
Scofai, v. Dar colpi.
Scofau/ada, agg. Fortunato/a.
Vedi cofa.
Scoïadori/a, s. e agg. Disfacitore
di matrimoni e/o fidanzamenti.
Caratteristica che si attribuiva a
persone viventi, ma anche a qualche Santo del calendario liturgico,
come Sant’Elena, venerata a
Sàdali. In quello stesso paese, al
contrario, San Valentino, cui è
dedicata la festa principale, è ritenuto coïadori (pronubo).Vedi coïa.
Scoïai, v. Mandare a monte un
matrimonio e/o un fidanzamento.
Scoïau/ada, agg. Separato/a dal
coniuge.
Scolletai, v. Trasportare legna da
ardere dal punto del taglio al
luogo del carico su un mezzo meccanico. Anche, ma più raramente:
trasportare pesi in genere.
Scolletamentu, s. m. Trasporto
manuale di legna da ardere da un
punto a un altro.
Scolletau/ada, agg. Trasportato/a.
Scollocai, v. Smontare, mettere
357
fuori uso.
Scollocau/ada, agg. Smontato/a.
Scollocu, s. m. Smontaggio.
Scomadura, s. f. Taglio delle
fronde.
Scomai, v. Tagliare le fronde,
svettare. Vedi coma.
Scomau/ada, agg. Svettato/a,
potato/a. In senso fig. umiliato,
ridotto a miti consigli.
Scomìniga, s. f. Scomunica. Per
est. sfortuna, disdetta.
Scominigai/iscominigai,
v.
Scomunicare.
Scominigau/ada, s. e agg. Scomunicato/a. Per est. sfortunato/a,
malfatato/a.
Sconcadura/isconcadura, s. f.
Decapitazione (conca, testa). In
loc. avv. indica una maniera di
colpire all’altezza del capo. Sa
perda nde dd’at boddiu a i. (la pietra l’ha colpito al capo).
Sconcai/isconcai, v. Decapitare,
tagliare la testa, ferire alla testa.
Sconcau/ada, s. e agg. Senza
testa. In senso fig. indica chi non
riflette sulle azioni che compie e
rischia sempre più del dovuto.
Pres. nei soprannomi al f.
Sconciaballus, s. m. Perturbatore, incline ai diverbi. Lett. che
interrompe i balli.
Sconciagiogus, s. m. Importuno.
Lett. che interrompe i giochi.
358
Sconciai/isconciai, v. Guastare,
rovinare, tendere al peggio. Su
tempus s’est isconciau (il tempo si è
messo al brutto). Slogare. M’apu
sconciau unu ’rassu (ho un braccio
slogato).
Sconciu, s. m. Slogatura, distorsione, guasto.
Sconciu/a, agg. Guasto/a.
Scopa/iscopa, s. f. Scopa, gioco
di carte.
Scorai/iscorai, v. Far provare un
dolore forte, tanto intenso da
togliere le forze e lasciare senza
fiato (lett. strappare il cuore). M’at
iscutu una calada ’e pei a sa cannedda e m’at iscorau (mi ha dato
un calcio alla tibia e lasciandomi
senza fiato).
Scoramentu, s. m. Sensazione di
dolore forte e di impotenza a reagire.
Scorau/ada, agg. Colpito/a al
cuore, stremato/a, senza fiato.
Scorgiadori, s. m. Scuoiatore,
abile a scuoiare. In senso fig. profittatore del denaro altrui.
Scorgiadura, s. f. Scuoiamento.
Scorgiai, v. Scuoiare, spellare. In
senso lato: depredare.
Scorgiau/ada, agg. Scuoiato/a,
spellato/a.
Scorporai(si)/iscorporai(si), v.
Mangiare oltre misura. Candu est
in logu ’e muntza s’iscòrporat in
PAOLO PILLONCA
donnìa (quando si trova in qualche banchetto eccede sempre nel
cibo).
Scorporau/ada, agg. Crapulone/a.
Scorradura, s. f. Scorno.
Scorrai, v. Scornare, tagliare le
corna. In senso reale e traslato.
Scorrau/ada, agg. Deluso/a,
amareggiato/a, scornato/a.
Scorrïai, v. Sfilacciare. In senso
fig. litigare, rovinare i rapporti
interpersonali. Vedi corria.
Scorrïau/ada, agg. Sfilacciato/a.
Scórrïu, s. m. Sfilacciatura di un
tessuto. Ma può indicare anche
una ferita da taglio. In senso fig.
vale: litigio, bisticcio, dissidio.
Scorrovonai, v. Frugare, muovere la terra (in genere, con le mani,
ma anche con il grugno di maiali
e cinghiali). Nella canzone Eus
agatai di Benigno Deplano, citata,
c’è una strofe che dice: Eus agatai/
totu is patateris/ ca funt is obbreris/
de Santu Lugori:/ su stadu magiori/
Bugarru e Bagianu/ is lestrus de
manu/ po scorrovonai.
Scorrovonau/ada, agg. Messo/a
sottosopra. Detto di un terreno.
Scorróvunu, s. m. Movimento
superficiale di terra. S’ortu fut totu
scorrovonau de is sirbonis (l’orto era
stato messo sottosopra dai cinghiali).
Mancarìas. La parlata di Seui
Scorrutai(si),
v.
Togliere/togliersi il lutto. Nelle
regole comunitarie il lutto perpetuo nel vestiario di una donna era
previsto soltanto per la morte del
marito, fino ad eventuali seconde
nozze, ma più di una madre non si
è mai tolta di dosso il colore nero
per la perdita del figlio. A pustis de
tres annus a Lüisa nde dd’at iscorrutada su pobiddu (dopo tre anni il
marito ha fatto togliere il lutto a
Luisa). Oggi prevale la tendenza
ad abolire il lutto perpetuo.
Scorrutau/ada, agg. Senza più
lutto.
Scorrutu, s. m. Abbandono dei
segni esterni di lutto.
Scorta, s. f. Controllo, scorta.
Scortai/iscortai, v. Controllare,
ma senza che il controllato se ne
avveda. A Linu est iscortendudeddu
’e di ora sa giustìssia (Lino è da
tempo sotto controllo da parte
delle forze dell’ordine). Non nel
senso dell’it. “scortare”.
Scortesu, s. m. Maleducato.
Linu est unu s. e non càstïat in faci
a nemus (Lino è un maleducato e
non rispetta nessuno). Il s. assume
anche il significato particolare di
crapulone, goloso, smodato nel
mangiare.
Scoscimingiai, v. Sgangherare,
rendere inservibile.
359
Scoscimingiau/ada, agg. Sgangherato/a.
Scoscimingiu, s. m. Sgangheratezza. Lo si usa in rif. a q.no che
cammina male in permanenza: est
unu s.
Scossadura, s. f. Rimozione.
Scossai, v. Rimuovere, sfavorire,
smuovere. Est una bintina ’e annus
in cussu postu e no nde ddu scossat
nemus (è da una ventina d’anni in
quell’impiego e non lo rimuove
nessuno). Contr. di acossai.
Scossau/ada, agg. Rimosso/a.
Scova, s. f. Scopa, ramazza.
Scova de orrosu è la scopa granata.
Scovadori, s. m. Spazzino, netturbino.
Scovai, v. Scopare, pulire con la
scopa. Vedi mundai.
Scovau/ada, agg. Scopato/a,
ramazzato/a.
Scovïadori, s. m. Spione, spia,
incapace di mantenere un segreto.
Scovïai, v. Confessare, svelare
un segreto, fare la spia.
Scovïau/ada, agg. Confessato/a,
svelato/a.
Scovilai, v. Togliere il raspo (su
scovili) ai grappoli d’uva.
Scovili, s. m. Raspo del grappolo dell’uva. Secondo una convinzione, e conseguente usanza,
d’élite, l’uva liberata dal raspo dà
un vino più amabile.
360
Scovita, s. f. Grosso pennello
per le operazioni di pulizia delle
pareti di un edificio.
Scovitadura, s. f. Pulitura delle
pareti di una casa.
Scovitai, v. Pulire, imbiancare le
pareti di una casa. Gergale dei
muratori. Vedi imbrachinai.
Scovitau/ada, agg. Imbiancato/a, pulito/a.
Scrabargiai, v. Smettere di fare il
capraro. Antoni scrabargiat (Antonio non farà più il capraro).
Scrabargiamentu, s. m. Abbandono del branco di capre.
Scrabïonadura, s. f. Spettinatura.
Scrabïonai, v. Spettinare. Bastat
unu ’entigeddu e mi ndi scrabionat
(un venticello è sufficiente a spettinarmi).
Scrabïonau/ada, agg. Spettinato/a, con i capelli in disordine. Ses
totu s. (hai tutti i capelli in disordine).
Scrabistai/iscrabistai, v. Togliere
la cavezza. Vedi incrabistai.
Scrabistamentu, s. m. Eliminazione della cavezza.
Scrabistau/iscrabistau/ada, agg.
Senza cavezza. In senso fig. persona priva di freni inibitori. Ninu
fait una vida scrabistada (Nino fa
una vita sregolata).
Scracagliai, v. Ridere sonora-
PAOLO PILLONCA
mente.
Scracagliu, s. m. Scoppio di risa,
risata fuori misura e/o fuori luogo.
Scrafangiadura, s. f. Screpolatura.
Scrafangiai, v. Screpolare, rendere ruvido.
Scrafangiau/ada, agg. Screpolato/a.
Scrafangiosu/a, agg. Ruvido/a.
Scrafeddai, v. Scalpellare, lavorare di scalpello.
Scrafeddau/ada, agg. Scalpellato/a.
Scrafeddu, s. m. Scalpello.
Scrafidura, s. f. Scalfitura.
Scrafingiu, s. m. Prurito. In
senso fig. desiderio intenso, smània. Ndi portat de scrafingiu, cussu
(è troppo smanioso, quello).
Scràfiri, v. Grattare, scalfire. In
senso ir. contrastare verbalmente in
maniera decisa. Oi mi ddu scrafu
(oggi lo contrasterò vivacemente).
Scràfïu/a, agg. Grattato/a, contestato/a.
Scramentai, v. Scottare, far passare la voglia di q.sa. Vedi scaddai.
Scramentau/ada, agg. Scottato/a, disilluso/a.
Scramentu, s. m. Scottatura. A
su s. no ddu-i torrat de seguru
(dopo la scottatura non ci riproverà di sicuro). Vedi scaddu.
Scramïai, v. Piangere all’improv-
Mancarìas. La parlata di Seui
viso, soprattutto dei bambini.
Scràmïu, v. Pianto subitaneo.
Scrarìa, s. f. Asfodelo secco
(asphodelus ramosus). Quando è
tenero si chiama serbussu.
Scrava, s. f. Detrito, scoria,
materiale di risulta. Fuliaminci
cussa s. (butta via quei detriti).
Scravadura, s. f. Schiodamento.
Scravai, v. Schiodare, trogliere i
chiodi. In senso lato: distaccare
con forza, strappare. Vedi incravai.
Scravamentu, s. m. Deposizione
del Cristo dalla croce nel rito del
Venerdì Santo. Vedi incravamentu.
Scravau/ada, agg. Schiodato/a.
Vedi incravau.
Sc(j)rebinadura, s. f. Cottura
eccessiva, rammollimento.
Sc(j)rebinai(si), v. Rammollirsi,
scuocersi. Tenendi cussa minestra
ca si scjrébinat (togli quella minestra dal fuoco, altrimenti si scuoce). Rammollirsi.
Sc(j)rebinau/ada, agg. Scotto/a,
rammollito/a.
Sc(j)rémpili, s. m. Persona
suscettibile e permalosa che per
un nonnulla risponde male.
Scricadura, s. f. Apertura di una
porta chiusa con il solo saliscendi.
Scricai, v. Aprire una porta utilizzando soltanto il saliscendi.
Vedi crica e cricai.
Scricamentu, s. m. Attivazione
361
del saliscendi.
Scricau/ada, agg. Aperto/a con
il saliscendi.
Scridda, s. f. Scilla (urginea
maritima). Infiorescenza simile
all’asfodelo per il modo di manifestarsi, nel senso che sboccia all’apice e migliora nettamente e di
colpo il suo aspetto. Per la sua bellezza, la scilla fin dall’antichità era
utilizzata come un amuleto dai
grandi poteri: Lo sostiene Plinio il
vecchio nella Naturalis Historia.
Scriddada, s. f. Miglioramento
chiaro e repentino nell’aspetto
fisico e nella cura della persona.
S’at donau una bella s. (si è dato
una bella rinfrescata).
Scriddai/iscriddai, v. Migliorare
di netto e quasi di colpo, progredire. Lett. aprirsi come sa scridda,
la scilla. Ddu scriddat sa pobidda
(la moglie lo migliora). Esiste
anche la forma riflessiva: as a biri
ca si scriddat Giüanni (vedrai,
Giovanni migliorerà radicalmente).
Scriddau/ada, agg. Migliorato/a
nettamente.
Scridori, s. m. Scrittore.
Scridura/iscridura, s. f. Scrittura.
Scriri/iscriri, v. Scrivere.
Scriscïoni, s. f. Cura, preoccupazione.
Scritu/a, agg. Scritto/a.
362
Scrobecadura, s. f. Scoperchiamento.
Scrobecai, v. Scoperchiare.
Scrobecau/ada, agg. Scoperchiato/a.
Scrobïai/iscrobïai, v. Dividere,
separare. Antoni fut cravendusì cun
Pìlimu, tandu si ddu est postu in
mesu Franciscu e ddus at iscrobïaus
(Antonio stava per aggredire
Priamo, allora ci si è messo di
mezzo Francesco e li ha separati).
Ma il v. indica anche una divisione di comune accordo, ad es. in
una società. Ant iscrobïau (si sono
separati). Vedi acrobïai.
Scrocorigai, v. Bocciare. Di
recente acquisizione, l’ital. zucai.
Scrocorigau/ada, agg. Bocciato/a.
Scrogai/iscrogai(si), v. Sciancare.
Usato anche al rifl. Arremundicu
s’est iscrogau (Raimondo si è sciancato). Vedi croga.
Scrogau/ada, agg. Sciancato/a.
Ma l’agg. si impiega quando la
frase assume senso dispregiativo.
Parit una pudda s. (sembra una
gallina sciancata).
Scronnai, v. Contrastare, contraddire, mancare di rispetto,
opporre/opporsi. Non bolit a ddu
scronnai nemus (non permette a
nessuno di opporsi a lui).
Scronnau/ada, agg. Contrasta-
PAOLO PILLONCA
to/a, contraddetto/a.
Sc(j)rubbicai, v. Farsi i fatti
altrui. Desueto.
Scrucuddadura, s. f. Caduta a
precipizio.
Scrucuddai/iscrucuddai, v. Cadere pesantemente, precipitare. Fut
in pissu ’e una mata e nd’est iscrucuddau a terra (era su un albero ed
è caduto pesantemente a terra).
Scrucuddau/ada, agg. Caduto/a,
precipitato/a.
Sc(j)ruma, s. f. Gruppo numeroso di persone. Ddu iat una s. ’e
piciocheddus (c’era una schiera di
ragazzini). Questo s. fa registrare
un particolare fenomeno fonetico
nel nesso sc. che nonostante la r
successiva ha la stessa pronuncia
dell’it. scena. Identico fenomeno si
verifica nel s. sc(j)rémpili (persona
suscettibile) e nei vv. sc(j)rebinàisi
(rammollirsi), sc(j)ridai (raffreddare), sc(j)rubbicai (farsi i fatti
altrui) e i loro derivati.
Scüaddigacanis, s. m. Importuno, scocciatore, bastiancontrario.
Lett. che separa bruscamente i
cani durante l’accoppiamento.
Scüaddigadura, s. f. Caduta da
cavallo. Deposizione, perdita di
poltrona, mancato successo elettorale.
Scüaddigai/iscüaddigai, v. Cadere da cavallo. In senso fig. vale:
Mancarìas. La parlata di Seui
essere deposto, perdere una carica
importante, decadere da un incarico, etc. Giai ndi scüàddigas (sicuramente cadrai), ti creis su meri ’e totu
ma chelegunu ti ndi ndi scüàddigat
(credi di essere il padrone assoluto
ma qualcuno ti farà cadere).
Scüaddigau/ada, agg. Caduto/a
da cavallo, deposto/a, sostituito/a,
trombato/a.
Scüartaradura, s. f. Squartamento.
Scüartarai/iscüartarai, v. Squartare. Usato quasi escl. nel rifl. e
nella forma rafforzata di diniego
non si ddu ’ongiu mancai si scuàrtirit (non glielo darò neppure se si
dovesse spaccare in quattro).
Scüartarau/ada, agg. Squartato/a. Usato escl. nelle imprecazioni contro chi grida in modo eccessivo.
Scuda, s. f. Maleppeggio, attrezzo da lavoro agricolo a doppia
forma e doppio uso: da una parte
una sorta di zappa, dall’altra una
specie di piccone.
Scùdiri/iscùdiri, v. Scuotere, far
cadere. A s’ìligi su landi si nde ddu
scudu cun-d-una pértïa (con una
pertica farò cadere le ghiande dal
leccio) Molto più frequente nel
senso di percuotere, picchiare.
Fulana scudit su pobiddu (Fulana
picchia il marito). Torna al signifi-
363
cato primario nella definizione di
un rituale magico-religioso per far
cadere i vermi dalle ferite del
bestiame grosso (vitelli, maiali) allo
stato brado: su ’e scùdiri (il rituale
dello scuotimento). La definizione
deriva dal fatto che lo si esegue
scuotendo una fronda di erica fiorita, nelle ore canoniche dell’alba o
del tramonto. Il dev. è scuta, il part.
pass. scutu/iscutu.
Scuditu, s. m. Parte dura del
costato dei cinghiali.
Scudu, s. m. Scudo (moneta).
Valeva cinque lire.
Scuguddadura, s. f. Liberazione
delle castagne dal riccio che le racchiude.
Scuguddai/iscuguddai, v. Togliere il riccio alle castagne. Vedi
cugudda e cuguddai. La castagna
senza più riccio è scuguddada.
Vedi cuguddai.
Scüidada, s. f. Gomitata. Vedi
cùidu.
Scüidai, v. Dar di gomito. Definisce un’azione lieve, un cenno
d’intesa e non una gomitata. Per
indicare un’azione aggressiva si
dice: dd’at iscutu unu corpu ’e
cùidu.
Scüidau/ada, agg. Colpito/a di
gomito.
Sculadura, s. f. Interruzione
brusca di q.sa, sospensione, disfa-
364
cimento.
Sculai/isculai, v. Disfare, interrompere bruscamente, sospendere,
annullare. Cussu non tenit passièntzia, nd’isculat totu inderetura (quello lì non ha pazienza e disfa subito
tutto). Rif. in particolare al gioco.
Sculau/ada, agg. Interrotto/a,
sospeso/a.
Scuncordai/iscuncordai, v. Entrare in disaccordo, litigare. Furint
amigus e ant iscuncordau (erano
amici e hanno litigato).
Scundutu/a, agg. Trasandato/a,
senza nessuno che lo/a agghindi a
dovere.
Scupai/iscupai, v. Svinare. Lett.
togliere il vino novello dalla botte.
Scupai/iscupai, v. Mischiare le
carte al termine di una partita per
poi ridistribuirle nella ”mano”
successiva. Gergale del gioco delle
carte. Vedi cupas.
Scurigadorgiu/iscurigadorgiu,
s. m. Crepuscolo, tramonto.
Scurigai/iscurigai, v. Tramontare, imbrunire. Anche in senso met.
Scurigau/ada, agg. Tramontato/a.
Scurïosu/a, agg. Scuro/a. Est
unu logu s. (è un luogo buio).
Scurìu/iscurìu, s. m. Buio. Ancora frequenti l’espr. s. che in buca
(buio come in una bocca chiusa) e
la loc. a i. (al buio).
Scurtzai/iscurtzai, v. Togliere le
PAOLO PILLONCA
scarpe. Fut dromìu, dd’ant iscurtzau e non si nd’est mancu sapìu (era
addormentato, gli hanno tolto le
scarpe senza che se ne accorgesse).
Anche nella forma riflessiva: mi seu
scurtzau (mi sono levato le scarpe).
Scurtzau/ada, agg. Senza calze.
Quasi sin. di scurtzu/a (scalzo/a).
Scurtzoni, s. m. Filare corto e
mal fatto di un orto o di una
vigna. Piccolo rettile. Rif. a persone, ne indica la bruttezza evidente.
Scurtzu/a, agg. Scalzo/a. Presente anche nei toponimi: Su
Scurtzu è una località all’interno
della Foresta di Montarbu.
Scusorgiu, s. m. Tesoro nascosto.
Anche in senso ir. per dire di un
piccolo risparmio tenuto segreto.
Scussura, s. f. Sciame di api.
Scuta/iscuta, s. f. Breve intervallo di tempo. Su muru mi nde ddu
pesu totu a i. a i. (il muro me lo
costruirò negli intervalli di tempo
libero).
Scuta/iscuta, s. f. Percossa. Dev.
di scùdiri/iscùdiri.
Scutu/a, agg. Picchiato/a, scosso/a. Part. pass. di scùdiri/iscùdiri.
Scutulada, s. f. Scossa, caduta.
Scutuladura, s. f. L’atto e
l’effetto dello scuotere.
Scutulai/iscutulai, v. Scuotere,
cadere. Chi non donas crobba
nd’iscùtulas a terra (se non stai
Mancarìas. La parlata di Seui
attento cadrai a terra).
Scutulau/ada, agg. Scosso/a,
colpito/a, caduto/a.
Seberai, v. Scegliere tra il bestiame, separare una parte del gregge.
Indica anche la scelta insita nella
divisione di un gregge tra due
pastori che decidono di non lavorare più insieme. Eus seberau,
abbiamo diviso il gregge.
Séberu, s. m. Scelta. Cussas crabas ddas at pigadas a s. (ha comprato quelle capre scegliendole
una per una).
Seda, s. f. Seta.
Sedda, s. f. Sella del cavallo e
sella del monte. Talvolta la denominazione sarda passa come calco
anche nella toponomastica italiana, come nel caso della Sella del
diavolo a Cagliari. Frequente nella
top. locale: Sedda Ussarci, Sedda
Ermeddai, etc. Vedi serra.
Seddoni, s. m Grande sella. Per
il basto si specifica: sedda ’e molenti (sella d’asino).
Sedduceddu, s. m. Sgabellino
per bimbi.
Sedduciu, s. m. Sgabello in
sughero, in ferula o in legno. .
Sédula, s. f. Lettera anonima.
Municipalismo.
Segada, s. f. Percorso contorto,
senza meta precisa. Est andendu a
segadas (percorre sentieri irregola-
365
ri), detto di uno che delinque e va
per vie oblique.
Segadorgiu, s. m. Base dei funghi, punto in cui si tagliano
durante la raccolta, traccia visibile
del passaggio dei cercatori sul terreno dopo il taglio. Apu agatau
paricius segadorgius ma cardulinu
nudda (ho trovato parecchi segni
di raccolta ma niente funghi).
Segadura, s. f. Rottura, rottura.
Segai/segari, v. Rompere. Cussa
tassa s’est segada (quel bicchiere si è
rotto). Tagliare. Apu segau sa linna
(ho tagliato la legna). In senso fig.
l’espr. s. in curtzu vale: affrettarsi,
tagliar corto. Frequente il modo di
dire segau ’e crésciri nel senso di
definito fin dai primi anni della
sua crescita. Est unu càdumu segau
’e crésciri.(è un deficiente fin dalla
nascita). Il v. riacquista quella che
era la forma antica dell’inf. presente (segari) nell’espr. segari a gorteddu (tagliare con il coltello).
Vedi fàmini.
Segamentu, s. m. Disturbo, rottura, taglio. Ma il s. è utilizzato
con complementi di specificazione ironici e volgari: s. de ancas, s.
de massa, s. de culu o anche con
ellissi del compl. stesso: est unu s.
(è una rottura di scatole).
Segau/ada, agg. Rotto/a, tagliato/a.
366
Segudai, v. Proseguire, continuare. Ségudu a trabbagliai finas a su
scurigadorgiu (continuo a lavorare
fino al tramonto). Raggiungere.
Chi ti ponit infatu ti ndi ségudat (se
ti insegue ti raggiunge).
Segudau/ada, agg. Continuato/a, proseguito/a.
Ségudu, s. m. Séguito, prosecuzione, continuazione.
Segundarïamenti, avv. Secondariamente.
Segundàrïu/a, agg. Secondario/a.
Segundu, s. m. Secondo, sessantesima parte del minuto primo.
Custu trabbaglieddu ddu facu in
pagus segundus (questo lavoretto lo
eseguirò in pochi secondi).
Segundu/a, agg. num. ord.
Secondo/a. Est erribbau s. (è arrivato secondo).
Segundu, prep. impropria.
Secondo. S. su santu sa festa (la
solennità della festa è direttamente proporzionale all’importanza
del santo).
Seguràntzïa, s. f. Garanzia, sicurezza. Po meglius s. (per maggior
sicurezza).
Seguresa, s. f. Sicurezza, tranquillità, calma. Di superstrato,
rispetto a seguràntzïa.
Seguri, s. f. Scure, accetta.
Seguru/ a, agg. Sicuro/ a, cer-
PAOLO PILLONCA
to/a.
Seiséi, s. m. Ceràmbice, insetto
nero con corna lunghe. I bambini
che lo vedevano in volo gli reiteravano una breve invocazione (s.,
ponidì) nella speranza di farlo
posare su qualcosa, per poterlo poi
scornare.
Semadura, s. f. Lesione permanente.
Semai, v. Lasciare segni e cicatrici, percuotere in modo cruento. In
senso fig. dare una lezione duratura. Chi ddu lassas fàiri cussu ndi
semat medas (se lo lasci fare, quello lì ne ferisce parecchi).
Semau/ada, agg. Pieno/a di
cicatrici.
Semenai, v. Seminare. In senso
reale e met.
Semenau/ada, agg. Seminato/a.
Sementza, s. f. Chiodino da calzolaio, il più minuto di tutti. Di
largo impiego anche il dim.
sementzedda.
Sémini, s. m. Seme, origine.
Semu, s. m. Lesione, da malattia, piaga o ferita di cui rimane
traccia indelebile in una cicatrice.
Dev. di semai.
Semucu, s. m. Sambuco (sambucus nigra).
Sentidu, s. m. Intelletto, saggezza. Non portat s., non possiede
facoltà intellettive. Ma anche nel
Mancarìas. La parlata di Seui
significato di indole, sensibilità,
sentimento. Est un’òmini de bonu s.
(è un uomo di buoni sentimenti).
Sentimentosu/a, agg. Sensibile,
facile alla commozione.
Sentimentu, s. m. Capacità di
provare emozioni e commozione,
sentimento.
Sentina, s. f. Insieme di sintomi.
Sentinai, v. Mostrare segni o
sintomi, essere segnato, essere sul
punto di. Est sentinau a ddi pónniri caglientura (inizia a mostrare i
segni della febbre).
Sentinau/ada, agg. Segnato/a,
predestinato/a ad esiti infausti.
Sentiri, v. Provare dolore per
una morte o altro dramma, commiserare, soffrire. Linu est unu
coru ’e perda, non sentit a nemus
(Lino è un cuore di pietra, non ha
pietà di nessuno).
Sentìu/a, agg. Sofferto/a. No at
s. mancu sa morti ’e sa pobidda
(non ha sofferto neppure per la
morte della moglie).
Sentzai, v. Smettere, concludere.
Non sentzat de nïai (non smette di
nevicare).
Sentzau/ada, agg. Smesso/a,
concluso/a.
Séntzïa, s. f. Gengiva.
Sentzu, s. m. Capacità di intendere e di volere. Non portat sentzu
(non capisce nulla, è incosciente),
367
est in prenu sentzu (è nel pieno
delle sue facoltà mentali). Vedi
sentidu.
Sentzu, s. m. Assenzio.
Serbidori/a, s. m. Servo/a.
Serbiri, v. Essere a servizio. Cun
tziu Franciscu, Antoni ddu at serbìu tres annus (con il signor
Francesco, Antonio ha servito per
tre anni). Servire, essere utile. Non
serbit a nudda (non serve a niente,
è inutile).
Serbiu/a, agg. Servito/a.
Serbussu, s. m. Asfodelo (asphodelus ramosus) ancora tenero. Una
volta secco, prende il nome di
scrarìa.
Sercüestai, v. Sequestrare, mettere all’asta. Indica i sequestri eseguiti dall’ufficiale giudiziario.
Tenit su prétzïu giustu non seu
mancu ’onendudì orrobba sercüestada (ha il prezzo giusto, non ti sto
mica dando roba messa all’asta).
Sercüestau/ada, agg. Sequestrato/a, messo/a all’asta.
Sercüestu, s. m. Sequestro. Ma
non quello di persona. Per il rapimento a scopo di estorsione la
parlata di Seui conserva ancora
ricatu.
Serghestanu, s. m. Sacrista,
sacrestano.
Serghestia, s. f. Sacrestia.
Serra, s. f. Sega, arnese del fale-
368
gname.
Serra, s. f. Vetta disuguale di una
catena montuosa che somiglia proprio alla lama di una sega. Pres. nei
toponimi (Pissu ’e s. e altri).
Serrachedddu, s. m. Seghetto di
dimensioni minuscole.
Serracu, s. m. Seghetto.
Serradura, s. m. Chiusura.
Serragliu, s. m. Recinto per
maiali domestici.
Serrai, v. Chiudere. Serra s’’enna
(chiudi la porta). Concludere. Dda
serraus äici (la concludiamo così).
Serrau/ada, agg. Chiuso/a.
Serregai, v. Rendere rauco. Custu
frius mi serregat (questo freddo mi
rende rauco), cöidat a si s. (per un
nonnulla gli viene la raucedine).
Serregau/ada, agg. Rauco/ a.
Serregu, s. m. Raucedine.
Sestai, v. Sestare. Gergale dei
sarti. Su ’estiri mi dd’at sestau
Eligiu (l’abito me l’ha sestato
Eligio). Usato nel linguaggio
metaforico, nel significato di tramare. Mi ddi sestu una bella troga
(gli preparo un bel tranello).
Sestau/ada, agg. Sestato, tramato/a.
Setzidorgiu, s. m. Sedile. Si riferisce alle panchine sistemate all’esterno delle case e al centro delle
piazze, ma può indicare qualunque superficie adatta a fare da
PAOLO PILLONCA
sedile.
Sètziri, v. Sedere, montare. At
sétzïu a cüaddu (è montato a cavallo). Traslato, nel senso di imbrogliare. A mei non m’at sétzïu (non
mi ha imbrogliato). Anche nella
forma rifl.: setzidì (siéditi), setzeïosì (sedetevi).
Sétzïu/a, agg. Seduto/a.
Seu, s. m. Sego. La definizione
completa è ogliu s.
Sfiligiadura/sciligiadura, s. f.
Sfelciamento.
Sfiligiai/sciligiai, v. Liberare il
terreno dalle felci.
Sfiligiau/sciligiau/ada, agg. Liberato/a dalle felci.
Sfregiai/isfregiai, v. Sfregiare,
danneggiare.
Sfregiau/ada, agg. Sfregiato/a,
ferito gravemente al volto.
Sfregiu/isfregiu, s. m. Sfregio.
In senso fig. beffa. Si dd’at fatu a i.
(gliel’ha fatto a mo’ di beffa).
Sfridai/isfridai, v. Raffreddare.
Lassa s. cussa petza (lascia raffreddare quella carne). Rabbrividire,
aver paura. Candu dd’at iscìpïu,
Lüisa s’est isfridada (quando è venuta a saperlo, Luisa ha avuto i
brividi).
Sfridau/ada, agg. Raffreddato/a,
in preda a brividi di freddo.
Sfrisciuradura, s. f. Sventramento.
Mancarìas. La parlata di Seui
Sfrisciurai/isfrisciurai, v. Sventrare, devastare internamente. Gergale della caccia. Chi ddu sparas a
perdigonis su sirboni ddu podis i. (se
lo spari a pallettoni puoi sventrare
il cinghiale). Fuori dal gergo venetorio, vale: togliere le interiora a un
capo di bestiame. Nella forma rifl.
può essere rif. anche all’uomo. S’est
isfrisciurau (si è procurato lesioni
interne mortali).
Sfrisciurau/ada, agg. Sventrato/a.
Sfrongiadura, s. f. Sfrondatura.
Sfrongiai, v. Far perdere le fronde.
Sfrongiau/ada, agg. Senza più
fronde.
Sfrutüai, v. Utilizzare la rendita,
tenere per sé il frutto di un gregge
o di altra fonte di reddito.
Sfrutüamentu, s. m. Sfruttamento, utilizzazione.
Sfrutüau/ada, agg. Utilizzato/a,
guadagnato/a.
Sfüetada/sciüetada, s. f. Frustata.
Sfüetadura, s. f. Serie di colpi
frusta.
Sfüetai, v. Colpire con la frusta.
Vedi fuetu.
Sfüetau/ada, agg. Frustato/a.
Sghinzai/isghinzai, v. Avere appetito. Ironico.
Sghinzu/isghinzu, s. m. Appe-
369
tito, fame. In senso ir. più che
altro. O ca tenis i. (mi sembra che
tu abbia appetito).
Sibbïadura, s. f. Chiusura pressoché ermetica, eccessiva. Dd’at
serrada a s. (l’ha chiusa con forza).
Sibbïai, v. Stringere eccessivamente, chiudere con forza. Detto
anche in senso dispregiativo. Candu
’essit sìbbïat sémpiri s’enna (quando
esce chiude sempre bene la porta).
Viva la loc. a sibbïadura.
Sibbïamentu, s. m. Chiusura
stretta. Sin. di sibbïadura.
Sibbïau/ada, agg. Stretto, chiuso con forza.
Sicadura, s. f. Seccagione, processo che porta l’erba a seccarsi
rapidamente.
Sicai, v. Seccare. Su ’entu basciu
at sicau totu sa pastura (il vento di
scirocco ha seccato interamente i
pascoli).
Sicau/ada, agg. Secco/a.
Sicia, s. f. Secchio.
Sicigedda, s. f. Secchiello. Dim.
di sicia.
Sicori, s. m. Siccità.
Sida, s. f. Fogliame, fronde sempreverdi. Vedi assidai.
Sïenda, s. f. Patrimonio, eredità.
Linu no est cichendu una sposa,
cicat una s. manna (Lino non cerca
una fidanzata, cerca un’eredità sostanziosa).
370
Sighidura, s. f. Raggiungimento. Freq. la loc. a s. (a seguire, in
seguito). Cumentzai a caminai,
deu facu a s. (iniziate ad andare, io
verrò in seguito).
Sighiri, v. Raggiungere. Antoni
iat mòvïu innanti meda ma Lüisu
nde dd’at sighiu (Antonio era partito molto prima ma Luigi l’ha
raggiunto), chi non cöidas, Linu ti
ndi sighit (se non ti sbrighi, Lino ti
raggiungerà). Proseguire, continuare. No mi pragit a s. in custu
trabbagliu (non mi piace continuare in questo lavoro).
Sighìu/a, agg. Raggiunto/a. Continuato/a. Eriseru a mericeddu fut
fendu abba sighìa (ieri nel tardo
pomeriggio pioveva ininterrottamente).
Signalai/signelai, v. Ferire, marchiare.
Signalau/ada, agg. Ferito/a,
lesionato/a.
Signali, s. m. Segnale, segno,
testimonianza di qualsivoglia
genere, compreso quello gergale
dei passaggi a livello della ferrovia.
Ricordo. No nd’at lassau manc’unu
po s. (non ne ha lasciato neppure
uno come segno).
Signori, s. m. Signore. Se è preceduto dall’art. det. m. sing. indica Dio. In altri casi può valere:
persona benestante dai modi
PAOLO PILLONCA
distinti e dal portamento, appunto, signorile. Quando un benestante non si comporta nei modi
dovuti decade al rango di s. burdu
(spurio) o s. càdumu (cretino).
Silicosi, s. f. Silicosi, malattia
professionale dei minatori. Nella
storia del paese gli effetti infausti
di questa patologia hanno listato a
lutto interi rioni.
Silicosu/a, agg. Silicotico/a,
affetto/a da silicosi.
Silimba, s. f. Carrubo, albero e
frutto. Dona s. a su cüaddu (dài le
carrube al cavallo).
Simana, s. f. Periodo, lasso di
tempo, intervallo. Est a simanas,
Antoni: non tenit frimesa peruna,
pigat e lassat (Antoni va a periodi,
non ha alcuna stabilità, prende e
lascia).
Sìmbula, s. f. Semola.
Simingionera, s. f. Straccio
bagnato con acqua zuccherata che
si dava da succhiare ai bambini, a
mo’ di capezzolo. Per la pronuncia
della cons. iniz. vedi sugu.
Simingioni, s. m. Capezzolo.
Sìndrïa, s. f. Anguria.
Sinnai, v. Marchiare il bestiame
con particolari segni distintivi,
una pratica ormai abbandonata
dopo la modifica delle leggi sull’abigeato.
Sinnu, s. m. Segno distintivo del
Mancarìas. La parlata di Seui
bestiame. Ciascun allevatore sceglieva tra i segni identificativi riconosciuti dagli uffici antiabigeato,
che dovevano risultare anche nelle
bollette anagrafiche del bestiame,
ora abolite. L’articolazione dei
segni era minuziosa e varia. In
ordine alfabetico, a Seui i segni
possibili per capre, maiali, pecore
e vacche erano questi sette: bogada
’e prana, giualis, pertunta, pissus
càvanus, pissus càvanus faddius,
rundinina e spissada. La descrizione di ciascun segno viene qui data
alle rispettive voci. Per evitare le
contraffazioni - sa trassinnadura che avrebbe reso assai difficile
l’identificazione degli autori di
furti di bestiame, i pastori dovevano stare attenti a definirli bene
negli orecchi dei singoli animali.
Sinóbiga, s. f. Propoli (la sostanza resinosa con la quale le api proteggono l’alveare).
Sìntzulu, s. m. Zanzara.
Sirba, s. f. Selva, foresta, bosco.
Desueto nel parlare comune,
sopravvive nel s. che definisce la
cinghialessa: mardi ’e sirba (scrofa
della foresta).
Sirbonassu/a, agg. Solitario/a,
diffidente e difficile da avvicinare.
Sirboneddu, s. m. Cinghialetto.
Definisce i cuccioli della cinghialessa fino a un anno di età, quan-
371
do il cucciolo si chiama acisorgiu ’e
sirba.
Sirboni, s. m. Cinghiale (sus sardous). Il s. si riferisce al capo adulto e definisce un selvatico da sempre estremamente diffuso nel territorio e ora in sovrannumero,
visto che da alcuni anni si avvicina
ai confini del paese devastando
vigne e altre coltivazioni. Nei racconti venatori della comunità si
parla di cacciatori assaliti da cinghiali. Ne dà notizia anche
Demetrio Ballicu (Miscellanea,
cit., pag 101) a proposito di
Vittorio Mameli, fabbro di professione, che nel 1923 gli mostrò in
ambulatorio ”una cicatrice irregolare che dalla regione pubica con
decorso obliquo si estendeva fino
al livello dell’ombelico”. Era l’esito
”di una ferita prodottagli dalla
zannata di un cinghiale, crollato
sotto una fucilata ma ancora in
vita mentre il Mameli si apprestava a vibrargli il colpo di grazia con
un coltellaccio”.
Sirili, s. m. Nerbo. In part. indica il nerbo del maiale, salato e
pepato, che si conserva per ingrassare gli utensili metallici a punta
dei falegnami, soprattutto i seghetti. Per la pron. della cons. iniz. vedi
simingioni e sugu.
Sissèlïa, n. pr. di persona.
372
Cecilia. Usato anche il dim.
Sisselïedda.
Sissi, avv. Sì.
Sissigorru, s. m. Lumaca.
Soddu, s. m. Soldo. Per est.
denaro in generale. Pepisoddu è chi
si dimostra troppo attaccato al
denaro.
Soga, s. f. Corda, fune. Vedi assogai.
Soleta, s. f. Soffitto, volta, solaio. Vedi bóvida.
Solfatai, v. Dare il solfato di
rame alle vigne per preservarle
dalla peronospera.
Solfatu, s. m. Solfato di rame,
utilizzato per le vigne.
Soli, s. m. Sole. In senso fig. persona di splendido aspetto. Bellu
che s. (bello come il sole).
Solïanu/a, agg. Soleggiato/a,
solatìo/a. Sa ’ingia ’olit posta in
logu s. (la vigna va impiantata in
zona soleggiata).
Solinïeddu, s. m. Solenero. Ir.
nel senso di donna brutta. Figura
nei soprannomi, con l’art. det.
Sonada, s. f. Suonata, concerto.
Sonadori, s. m. Strumentista,
suonatore. Di qualsivoglia strumento musicale.
Sonagliai, v. Applicare i sonagli
al bestiame.
Sonagliau/ada, agg. Munito/a
di sonagli.
PAOLO PILLONCA
Sonagliu, s. m. Campanaccio,
sonaglio.
Sonai, v. Suonare. Prova a s. is
campanas (prova a suonare le campane). Eseguire un brano musicale. Sonat unu ballu sardu cun is launeddas (esegue un ballo sardo con
le launeddas). Il v. registra anche
un uso particolare nel rifl. Sonadì
su nasu (sòffiati il naso). In senso
fig. con evidente influsso it. vale:
sconfiggere, battere in un agone,
superare nettamente. Gioghendu a
sa murra ddus eus sonaus (li abbiamo suonati al gioco della morra).
Sonau/ada, agg. Suonato/a. In
senso reale e fig.
Sonca, s. f. Assiuolo. Con la
cons. iniziale molto forte, che in
corso di frase non si attenua
davanti alla vocale. Vedi simingioni, sirili e sugu.
Sonetu, s. m. Organetto diatonico. Ma il s. indica anche il
sonetto, la strofe di 14 versi creata
in Italia da Dante Alighieri, che
nella lingua sarda di tutte le
varianti ha avuto e continua ad
avere molti cultori.
Sonnai, v. Sognare.
Sonnau/ada, agg. Sognato/a. A
Lüisa mi dd’apu sonnada notesta
passada puru (Luisa l’ho sognata
anche la notte scorsa).
Sonnighera, s. f. Dormita. In
Mancarìas. La parlata di Seui
senso ironico.
Sonnigosu/a, s. e agg. Dormiglione, incline al sonno.
Sonnu, s. m. Sonno, sogno. Mi
dd’apu’idu ’n su s. (mi è apparso in
sogno). Usata la loc. intessonnus
(nel dormiveglia).
Sonu, s. m. Rumore, suono.
Dev. di sonai.
Sopìmini, s. m. Zoppìa. Vedi
assopiai/atzopiai e tzopìmini.
Sopi-sopi, avv. Zoppicando di
continuo. Anche tzopi-tzopi.
Sopu/a, agg. Zoppo/a. Vedi
tzopu.
Sordadai, v. Fare il servizio militare.
Sordau, s. m. Soldato, milite.
Sordi, s. m. Sporcizia.
Sordigosu/a, agg. Sporco/a,
amante della sporcizia.
Sorga, s. f. Suocera. Frequente
nelle similitudini. Cussas duas certant che s. cun nura (quelle due
litigano come suocere e nuore).
Sorgu, s. m. Suocero.
Sorigai, v. Il rosicchiare dei sorci
sul formaggio e altri alimenti.
Sorigau/ada, agg. Rosicchiato/a
dai sorci. Custu casu est totu s.
(questo formaggio è rosicchiato
dai topi).
Sórigu, s. m. Sorcio, topo.
Sorresta, s. f. Cugina prima.
Vedi fradili. Sopravvive nella
373
memoria comunitaria un modo di
dire scherzoso sul versante dell’eros, in bisettenario rimato: chini
tocat sorresta non perdit dì ’e festa
(chi tocca una cugina non perde
neanche un giorno di festa).
Sorri, s. f. Sorella. Il s. si usa
spesso nelle conversazioni fra amiche che si chiamano reciprocamente sorri mia pur non essendolo, in segno di grande confidenza.
Sorruschïai, v. Russare. Sorrùschïat a grai (russa pesantemente).
Sorruschïada, s. f. Russata.
Sorrùschïu, s. m. Azione del
russare.
Sorti, s. f. Sorte, destino, fortuna. No at tentu sorti (non ha avuto
fortuna). Quando le vicende della
vita sono favorevoli si tratta di
bonasorti, quando non lo sono si
parla di malasorti. Di conseguenza, chi è baciato dalla buona stella
è bonassortau, chi ha un cattivo
destino, invece, malassortau.
Sortiri, v. Uscire. Uno dei francesismi (sortir) entrati nella parlata di Seui in seguito alla copiosa
migrazione di minatori seuesi in
Francia nei primi decenni del
secolo scorso.
Sortìu/a, agg. Uscito/a, venuto/a
fuori. De ania nd’est s. custu? (da
dove è venuto fuori questo qui?).
Soru, s. m. Siero. Nella parlata
374
seuese, diversamente da altre, indica sia il siero da cui si deve ancora
ricavare la ricotta sia quello che
rimane a ricotta ottenuta e si dà ai
maiali o si butta via. Candu cöigliat
s. meda ’olit nai ca su casu est pagu
(quando avanza del siero in quantità, significa che il formaggio è
poco). Vedi issorai. Negli ultimi
tempi il s. è entrato anche nei
soprannomi, a definire persona
decisionista dai modi sbrigativi. Il
trasferimento nei nomignoli paesani di cognomi di persone famose,
specie di uomini politici ma anche
di personaggi dello spettacolo e
dello sport, è una vecchia consuetudine del paese che già dall’inizio del
Novecento aveva creato tutta una
serie di soprannomi ispirati a persone famose, nel bene e nel male:
Cadorna, Colombo, Diaz, Garibaldi, Giolitti, Menelik, Mussolini,
Pellico, Prevosto, Su Rei, Togliatti.
Nell’ultimo mezzo secolo se ne
sono aggiunti numerosi altri, da
Carnera a Monzon, da Puskas ad
Antognoni, da Japino a Magalli,
per non dire del Bagatto, carta
numero uno del gioco del tarocchi,
fino - acquisizione freschissima - al
neo governatore della Sardegna.
Sotadura, s. f. Sollecitazione.
Sotai, v. Sollecitare, invitare,
esortare, incoraggiare fino alla
PAOLO PILLONCA
persuasione. Sotaddu a papai, su
pipiu (sollecita il bambino a mangiare), po trabbagliai cussu non
bolit sotau (per lavorare quello lì
non ha bisogno di sollecitazioni).
Sotau/ada, agg. Esortato/a, sollecitato/a. Dd’apu s. ma no m’at
bòfiu ascurtai (l’ho sollecitato ma
non mi ha voluto ascoltare).
Spaciai/ispaciai, v. Consumare,
terminare, finire, esaurire. Linu
s’at ispaciau totu su ’inari chi s’iat
postu a parti candu trabbagliàt in
Germania (Lino si è speso tutti i
soldi che aveva risparmiato quando lavorava in Germania), su lori
coidat a i. (si fa presto a esaurire il
frumento), su spàssïu est ispacendu
(il divertimento sta per finire).
Spaciau/ada, agg. Finito/a, concluso/a.
Spaciu, s. m. Spaccio.
Spadas/ispadas, s. m. Picche.
Voce gergale del gioco delle carte.
Vedi orus, cupas e bastus.
Spadentadura, s. f. Disboscamento, taglio indiscriminato.
Spadentai/ispadentai, v. Disboscare, operare un disboscamento
secondo regole che permettano
una ricostituzione boschiva. Vedi
padenti.
Spadentau/ada, agg. Disboscato/a.
Spadinu, s. m. Spaccaossa.
Mancarìas. La parlata di Seui
Spagliai/ispagliai, v. Far volare la
paglia, parlare troppo, essere logorroico. In senso fig. darsi arie, menar
vanto, millantare, eccedere nel parlare. Candu cumentzat a i. non fait
prus a ddu susténniri (quando inizia
a darsi arie diventa insopportabile).
Späinai/ispäinai, v. Sparpaglia-re,
spargere. Ispàina ’eni su talàmini in
s’ortu (spargi bene il letame nell’orto). Diffondere. Candu scit una cosa
dda spàinat in dónnïa logu (quando
sa una notizia la diffonde dappertutto), con venatura di disprezzo.
Späinau/ispäinau/ada, agg. Sparso/a, diffuso/a. Is brebèis funt ispäinadas pagu pe’ logu (le pecore sono
sparpagliate di qua e di là).
Spàinu/ispàinu, s. m. Sparpagliamento, spargimento, diffusione. Frequente la loc. avv. a ispàinu.
Spalïai, v. Spalare. Vedi pàlïa.
Spanai(si), v. Far perdere la filettatura. Cussu dadu est ispanau
(quel dado ha perso la filettatura).
Spanau/ada, agg. Senza più filettatura.
Spandessidura, s. f. Diffusione,
spargimento.
Spandèssiri/ispandèssiri, v. Spargere, diffondere. Lo si usa soprattutto quando ci si riferisce alla diffusione di notizie. Comenti ddu scit
ddu spandessit in bidda (appena lo
sa diffonde la notizia nel paese).
375
Spandéssïu/a, agg. Diffuso/a,
sparso/a.
Spangadura, s. f. Macellazione.
Spangai/ispangai, v. Macellare,
distruggere. Vedi panga. Ma con
un forte senso di disprezzo per chi
compie l’azione distruttiva.
Spangau/ada, agg. Macellato/a.
Spantadura/ispantadura, s. f.
Scoraggiamento, depressione. Custa maladia mi fait a i. (questa malattia mi fa venire lo scoraggiamento).
Spantai/ispantai, v. Meravigliare, sorprendere. M’ispantat, cussu
piciocheddu, po comenti giogat beni
a bocia (mi sorprende, quel ragazzino per come gioca bene al calcio).
Scoraggiare. Custu tempus malu
m’ispantat (questo maltempo mi
scoraggia).
Spantasïàisi, v. Spossarsi.
Spantasïau/ada, agg. Spossato/a, al limite delle proprie forze.
Spantau/ada, agg. Sorpreso/a,
meravigliato/a, scoraggiato/a.
Spantosu/a, agg. Meraviglioso/a, temibile.
Spantu/ispantu, s. m. Meraviglia. S. mannu (che meraviglia!).
Ammirazione mista, talvolta, a
timore. Po su trabbagliu chi fait ddu
portant a i. (per il lavoro che fa
viene citato ad esempio raro).
Spaparrociai(si), v. Sdraiarsi,
376
abbandonarsi. Desueto.
Spaparrociau/ada, agg. Abbandonato/a a sé stesso, sdraiato/a.
Sparadori, s. m. Sparatore, killer.
Sparai/isparai, v. Sparare colpi
di arma da fuoco. Apu ’idu una
murva ma no apu tentu coru ’e dda
s. (ho visto una mufla ma non ho
avuto l’ardire di spararle). Far scattare la molla delle trappole. In
quest’ultimo caso il v. è l’esatto
contrario di parai (tendere). Vedi
parai.
Sparalassu, s. m. Specie di passero abile ad evitare la trappola dei
lacci. Vedi lassu.
Sparatrapa, s. m. Cerotto.
Sparau, s. m. Asparago.
Sparau/ada, agg. Sparato/a,
esploso/a. Part. passa. di sparai.
Spardulai, v. Allargare in cerchio, a somiglianza delle formaggelle (vedi pàrdula). Ma il v. indica soprattutto le situazioni di
eccesso.
Spardulau/ada, agg. Allargato/a
a forma di cerchio. Per est. allargato/a a dismisura.
Sparèssiri/isparèssiri, v. Sparire,
scomparire. Finas a ocannu passau
nci ’eniat meda, a i. aici mi parit
ispantu (fino all’anno scorso veniva spesso qui, mi meraviglio che
sia scomparso in questo modo).
PAOLO PILLONCA
Sparéssïu/a, agg. Scomparso/a.
Est i. de una dì a s’atra e no dd’ant
agatau prusu (è scomparso da un
giorno all’altro e non l’hanno più
ritrovato).
Spàrgiri/ispàrgiri, v. Stendere i
panni. In questa accezione, quando non si precisa quali siano i
panni stesi, il verbo è spesso ellittico dell’oggetto. Spargere, diffondere. Candu s’ispargit unu nàrriri,
finas e in fartzu, benit mali a ddu
frimai (quando si diffonde una
diceria, anche calunniosa, è difficile da fermare).
Spariciai, v. Sparecchiare. Sparicia sa mesa (sparecchia la tavola).
Vedi apariciai.
Spariciau/ada, agg. Sparecchiato/a.
Sparrancadura, s. f. Divaricazione.
Sparrancai, v. Aprire del tutto,
divaricare, spalancare.
Sparrancau/ada, agg. Divaricato/a.
Spartu/a, agg. Sparso/a, diffuso/a, steso/a ad asciugare.
Sparu, s. m. Sparo, colpo d’arma
da fuoco.
Spassïai(si)/ispassïài(si), v. Divertire, divertirsi. Il verbo si usa
transitivamente in un’espr. tutta
particolare, s. is castangias: con
questo singolare modo di dire si
Mancarìas. La parlata di Seui
indica la tradizione che dà ai poveri la possibilità di raccogliere liberamente le castagne nelle proprietà altrui subito dopo la fine del
mese di ottobre. Molto più utilizzato intransitivamente. Spassïau ti
ses? (ti sei divertito?).
Spassïosu/a/ispassïosu/a, agg.
Divertente, amante del divertimento.
Spàssïu/ispàssïu, s. m. Divertimento. Unu s. grogu (lett. un
divertimento giallo) indica una
festa malriuscita. Il s. è usato nel
senso di giro senza meta. Andaus a
i. (andiamo in giro), est sempir a i.
(è sempre in giro).
Spëadura, s. f. Taglio delle zampe.
Spëai, v. Tagliare le zampe, privare dei piedi.
Spëau/ada, agg. Privo/a delle
zampe.
Speciali, agg. Speciale.
Specialidadi, s. m. Eccellenza,
specialità, ghiottoneria. Custu presutu est una grandu s. (questo prosciutto è una vera specialità).
Specialinu, s. m. Sciccheria,
rarità. Riferito soprattutto alle
bevande al bar, indica le scelte
insolite di qualche avventore singolare. Chi bufas su chi bufant ’s
atrus ti cumbidu, ma specialinus no
ndi pagu (se bevi ciò che bevono
gli altri ti invito, ma non sono dis-
377
posto a pagare rarità).
Speculadori/a, agg. Pettegolo/a,
curioso/a.
Speculai, v. Farsi i fatti altrui,
cercare di sapere notizie riservate
sul fronte del pettegolezzo paesano. Lüisa est una chi spéculat totu
su chi podit (Luisa è una che cerca
di sapere tutto quello che può).
Speddai/ispeddai, v. Spellare, togliere la pelle, scuoiare. Ma anche,
al rifl., lo spellarsi tipico di chi va in
spiaggia e resta per troppo tempo
sotto il sole. In is primus candu andu
a mari mi speddu (le prime volte che
vado al mare mi spello).
Speddau/ada, agg. Spellato/a.
Speddïai, v. Desiderare fortemente. Lett. non stare nella pelle
(peddi).
Speddìu/ispeddìu, s. m. Desiderio intenso. Ddi pigat a i. (lo desidera da impazzire, lett. da non star
nella pelle).
Speddutzai/ispeddutzai, v. Spellare, con cura e minuziosamente,
fare la pelle nel senso di uccidere.
In senso fig. criticare aspramente,
incalzare con pretese esagerate,
sottoporre ad analisi spietata.
Speddutzau/ada, agg. Criticato/a aspramente, ucciso/a.
Spëigai, v. Ridurre a carcassa.
Spëigau/ada, agg. Ridotto a carcassa.
378
Spéigu/ispéigu, s. m. Carcassa.
Di uomo e di animale. Est isparéssïu e no ant agatau mancu s. (è sparito e non si è trovata neppure la
sua carcassa). Apu agatau unu s. de
mascu ’e murva (ho trovato una
carcassa di muflone).
Spelliri/ispelliri, v. Presentarsi
d’improvviso e in modo inatteso.
Nd’ispellit candu mancu ti ddu
creis (si presenta all’improvviso
quando meno lo immagineresti).
Spellìu/a, agg. Ricomparso/a di
botto.
Spèndiri, v. Spendere.
Spéndïu/a, agg. Speso/a, consumato/a.
Spera, s. f. Alito di vento, soffio
leggero, spiraglio di luce tra le
nubi di un temporale.
Sperai/isperai, v. Sperare. No
isperaus prus nudda (non speriamo
più nulla).
Sperantza, n. pr. di pers. Speranza. Usato anche il dim. Sperantzedda.
Sperau/ada, agg. Sperato/a.
Sperdïai, v. Spietrare, effettuare
lo spietramento di vigne e orti.
Vedi perda.
Sperdïamentu, s. m. Spietramento.
Sperdïau/ada, agg. Spietrato/a.
Sperdimentu, s. m. Distruzione.
Spèrdiri, v. Disperdere, distrug-
PAOLO PILLONCA
gere, uccidere ripetutamente fino
a eliminare del tutto una determinata genìa.
Spérdïu/a, agg. Disperso/a, distrutto/a.
Sperdissïai/isperdissïai, v. Dilapidare. S’at isperdissïau su connotu
e no dd’at abarrau nudda (ha dilapidato il patrimonio ereditato e
non gli è rimasto nulla).
Sperdissïau/ada, agg. Prodigo/a,
spendaccione.
Sperdìssïu/isperdìssïu, s. m.
Spreco, sperpero, prodigalità, dilapidazione.
Sperefundai, v. Sprofondare,
precipitare. Vedi perefundu.
Sperefundau/ada, agg. Sprofondato/a, precipitato/a.
Sperimentai, v. Verificare.
Sperimentau/ada, agg. Verificato/a.
Sperimentu, s. m. Esperimento,
verifica.
Sperradura, s. f. Divisione in due.
Sperrai/isperrai, v. Spaccare in
due, dividere in parti uguali. Vedi
perra.
Sperrau/ada, agg. Spaccato/a.
Spérruma, s. f. Dirupo, luogo
scosceso.
Sperrumadorgiu, s. m. Precipizio, dirupo. Lett. luogo adatto alle
cadute rovinose.
Sperrumai/isperrumai, v. Far
Mancarìas. La parlata di Seui
precipitare in un dirupo. At isperrumau su cüaddu (ha fatto precipitare il cavallo in un dirupo).
Anche nel rifl.: s’est isperrumau (è
caduto in un dirupo).
Sperrumau/ada, agg. Precipitato/a in un dirupo.
Speru, s. m. Speranza. Si tratta
di voce residuale, praticamente
ristretta ad una sola espressione:
mancu s. ’e Deus o, più sinteticamente ancora, mancu s. (proprio
nulla, lett. neppure la speranza).
Dd’apu marrau sa ’ingia e no m’at
donau mancu s. (gli ho zappato la
vigna e non mi ha dato nulla).
Spesa, s. f. Spesa, uscita.
Spesai, v. Spesare.
Spesau/ada, agg. Spesato/a.
Spessadura, s. f. Taglio di legna
in pezzi di ridotte dimensioni.
Spessai, v. Tagliare in pezzi piccoli, legna da ardere soprattutto.
Spessa sa linna (prepara la legna
per il fuoco).
Spessau/ada, agg. Sminuzzato/a.
Spetai, v. Attendere, sperare.
Deus t’acantzit totu su chi spetas
(Dio ti conceda tutto ciò che
attendi).
Spetau/ada, agg. Atteso/a, sperato/a.
Spetu, s. m. Attesa fiduciosa,
aspettativa, speranza. No ndi tengiu spetu ’onu (non ne ho una
379
buona aspettativa).
Spétzïa, s. f. Specie. Est una s. ’e
bocia (è una specie di palla).
Spétzïa, s. f. Umore. Oi su pipìu
parit de mala s. (oggi il bambino
sembra di cattivo umore).
Spïai, v. Prendere la rincorsa.
Poco usato.
Spïada, s. f. Rincorsa. S’at donau
una bella s. (ha preso una bella rincorsa).
Spibïonadura, s. f. Spiluccamento.
Spibïonai, v. Togliere gli acini
dai grappoli d’uva, spiluccare.
Vedi pibïoni.
Spibïonau/ada, agg. Spiluccato/a.
Spicadura, s. f. Distacco, spiccamento.
Spicai, v. Staccare dall’appenditoio, spiccare. Il contr. di apicai
(vedi).
Spicamentu, s. m. Spiccamento.
Spicau/ada, agg. Staccato/a,
spiccato/a, preso/a, afferrato/a.
Spicigadura, s. f. Distacco, spiccamento.
Spicigai, v. Staccare. Contr. di
apicigai/picigai.
Spicigau/ada, agg. Staccato/a.
Spiciu/a, agg. Svelto/a, furbo/a,
abile, disinvolto/a.
Spiciu, s.m. Denaro in spiccioli.
Non portu s. (non ho soldi spiccio-
380
li).
Spicu, s. m. Lavanda. Diffusa
una strofe popolare di argomento
amoroso: in sa mata ’e su spicu cantat su rusignolu: su coru miu est piticu ddui capis tui solu (su una pianta di lavanda canta l’usignolo: il
mio cuore è piccolo, c’è posto soltanto per te).
Spidali/uspidali, s. m. Ospedale. La struttura medica vera e propria con possibilità di ospitare i
ricoverati.
Spidu, s. m. Spiedo. Vedi schidoni.
Spiga/ispiga, s. f. Spiga, del
grano e dell’orzo ma anche di
vegetali non coltivati.
Spigadura, s. f. Spigolatura.
Spigai, v. Spigolare. Chini non
podit messai spigat (chi non può
mietere spigola).
Spigamurra, s. f. Avena selvatica. Usato in senso ir. per dire di
un’entità di scarso valore.
Spigau/ada, agg. Spigolato/a.
Spighita, s. f. La chiusura manuale a forma di spiga dei culurgionis (ravioli di patate tipici della
cucina dell’Ogliastra e della
Barbagia meridionale).
Spillai/ispillai, v. Arraffare denaro, chiedendolo con sotterfugi
e/o moìne. Nde dd’at ispillau unu
muntoni ’e ’inari (gli ha portato
PAOLO PILLONCA
via un mucchio di soldi).
Spillau/ada, agg. Arraffato/a.
Spilloncai, v. Sbocconcellare per
un assaggio, ad es. un pezzo di
carne arrosto ancora prima che
venga sfilata dallo spiedo.
Spina, s. f. Spina. Anche in senso
met. per dire di persona difficile da
sopportare o di evento doloroso.
Spinai(si) v. Ferirsi con le spine,
riempirsi di spine. Cand’andu a
irdorrüai mi spinu totu (quando
vado a recidere i rovi mi riempio di
spine).
Spinarba, s. f. Cardo di colore
chiaro.
Spina sorigina, s. f. Pungitopo
(Ruscus aculeatus), arbusto spinoso
utilizzato per abbrostire maiali.
Spineta, s. f. Armonica a bocca.
In senso fig. donna fastidiosa e
pettegola.
Spìngiri/ispìngiri, v. Spingere.
Volg. fornicare, fare sesso. Il part.
pass. è spintu.
Spinnascu/ispinnascu, s. m.
Piccola estensione di terreno privato. In senso ir. quando ci si riferisce alla boria di certi proprietari
di terra.
Spinnïadura, s. f. Spennatura,
spiumatura, calvizie.
Spinnïai/ispinnïai, v. Spennare,
spiumare. In senso fig. ridurre in
bolletta.
Mancarìas. La parlata di Seui
Spinnïau/ada, agg. Calvo/a,
senza capelli e/o piume, spennato/a, rovinato/a.
Spinnicai/ispinnicai, t. Togliere
le pieghe. Vedi pinnica.
Spinnïociai/ispinnïociai, v. Spennacchiare.
Spìnnïu/ispinnïu, s. m. Spennamento. Per lo più in senso fig. per
dire di desiderio o dolore talmente intensi da indurre che li prova a
strapparsi i capelli.
Spinosu, s. m. Agrifoglio (ilex
aquifolium). Albero sempreverde
della famiglia delle querce, dalle
foglie spinose - da cui il nome
locale -, ha il suo habitat prediletto nei luoghi ombreggiati, dove
vive rigoglioso. Sui monti di Seui
cresce spontaneo nelle parti più
alte, in foresta demaniale e nel territorio comunale.
Spinosu/a, agg. Pieno/a di
spine, spinoso/a.
Spinta/ispinta, s. f. Spinta, spintone, aiuto. In senso reale e fig.
Nce dd’at bogau a i. (lo ha cacciato via a spintoni), dd’at donau una
bona s. (gli ha dato un grande
aiuto). Vedi spìngiri.
Spintu/a, agg. Spinto/a.
Spïotai, v, Controllare da lontano, pedinare, spiare.
Spïotamentu, s. m. Controllo a
distanza.
381
Spïotau/ada, agg. Pedinato/a,
spiato/a.
Spiriteddu/ispiriteddu, s. m.
Animosità, coraggio più apparente che reale. Mancai siat malàidu,
cuddu s. ddu poderat ancora (anche
se è malato, conserva ancora il suo
spirito animoso).
Spiritosu/a, agg. Spiritoso, giocherellone, amante degli scherzi.
Ma indica anche le persone difficilmente sopportabili.
Spìritu/ispìritu, s. m. Animo,
coraggio, animosità. Portat unu
bellu s. (ha un bel coraggio). Alcol,
spirito. Prova a testai cerésïa aresti
asuta s. (prova ad assaggiare le ciliegie selvatiche sotto spirito), m’apu
fatu unu trincu in sa camba e mi ddu
apu postu s. (mi sono procurato una
ferita alla gamba e l’ho disinfettata
con alcol). Al pl. vale: anime dei
morti, fantasmi. Nanca bit is ispìritus (dicono che veda le anime dei
morti).
Spirritu, s. m. Spigola, pesce di
piccole dimensioni. In senso fig.
persona eccessivamente magra.
Parit unu s. (sembra un pesciolino).
Spiscidai, v. Sbuffare improvviso e ripetuto, segno di irrequietezza di alcuni animali domestici e
selvatici, soprattutto della capra.
Spìscidu, s. m. Verso della capra
che segnala la presenza di mosche
382
e alri insetti all’interno del recinto
per la mungitura. Gergale del
mondo dell’ovile.
Spissada, s f. Segno identificativo
del bestiame da allevamento. Facile
da praticare in quanto consiste nel
mozzare la punta (pissu, da cui il
nome) dell’orecchio. Se ben praticato è impossibile da contraffare.
Spissadura, s. f. Taglio nella
parte superiore di un orecchio di
animale domestico da marchiare o
anche di un elemento vegetale.
Spissai/ispissai, v. Strappare o
tagliare la parte superiore (pissu) di
un arbusto.
Spissigorrai/ispissigorrai, v.
Smozzare, tagliare sulle punte.
Detto del pane bianco da cerimonia lavorato artisticamente in casa.
Siccome ogni pane aveva più di
una punta terminale, ne derivava
la necessità di ammonire i bambini a non tagliare il pane solo sulle
punte: no ispissigorrèis su pani
(non tagliate il pane solo sulle
punte). Vedi pissigorru.
Spissigorrau/ada, agg. Smozzato/a.
Spissulai, v. Pizzicare.
Spissulau/ada, agg. Pizzicato/a.
Anche in senso fig.
Spìssulu/ispìssulu, s. m. Pizzicotto. Usato anche il dim. spissuleddu/ispissuleddu nell’espr. basai a
PAOLO PILLONCA
ispissuleddus (baciare a pizzicotti).
Spistiddadura, s. f. Ferita nella
parte posteriore del capo.
Spistiddai, v. Ferire nella parte
posteriore del capo (su pistiddu è
la cervice).
Spistiddau/ada, agg. Ferito/a
alla cervice.
Spistocadura, s. f. Prima prova
dell’olio nella frittura.
Spistocai, v. Collaudare l’olio
d’oliva che si usa per la prima
volta nella frittura: consiste nell’immergervi, quando è ben caldo,
un pezzettino di pane che subito
dopo si butta via.
Spistocau/ada, agg. Collaudato/a a caldo. In senso fig. sottoposto a collaudo brusco.
Spistoradura, s. f. Scheggiatura.
Spistorai, v. Scheggiare. Detto
soprattuto delle stoviglie. Dona
crobba ca cussu pratu s’ispistorat
(stai attento, quel piatto potrebbe
scheggiarsi).
Spistorau/ada, agg. Scheggiato/a.
Spitïoladura, s. f. Privazione dei
campanacci.
Spitïolai, v. Levare i campanacci
al bestiame. Vedi e pitïolai e pitïolu.
Spitïolau/ada, agg. Privato/a dei
campanacci.
Spoladura, s. f. L’atto e l’effetto
di spolai.
Spolai, v. Uccidere il maiale fic-
Mancarìas. La parlata di Seui
candogli un coltello appuntito in
corrispondenza del cuore, in
modo da far uscire tutto il sangue.
Spolau/ada, agg. Ucciso/a con
una coltellata al cuore.
Spoporai/ispoporai, v. Evaporare, calmarsi. Fut inchïetu meda ma
giai spoporat in pressi (era molto adirato adirato ma si calmerà in fretta).
Spoporamentu, s. m. Evaporazione, sbollimento, calmata.
Spoporau/ada, agg. Evaporato/a, calmato/a.
Sporta, s. f. Cesto di vimini,
paniere.
Sposai/isposai, v. Unirsi in
matrimonio, sposarsi, sposare.
Sposau/ada, agg. Sposato/a.
Sposórïu, s. m. Cerimonia
nuziale, sposalizio.
Spossidìrisi, v. Essere pronto a
tutto, senza più padronanza di sé.
Spossidìu/a, agg. Disposto/a a
tutto, senza freni inibitori.
Sposu/isposu/a, s. e agg.
Fidanzato. Mariu at fatu a i.
(Mario si è fidanzato).
Spragargia, s. f. Chiazza. In
Tónneri ocannu ddu iat spragargias
de nì finas a primu làmpadas (nel
Tònneri quest’anno c’erano chiazze di neve fino ai primi di giugno).
Ma il s. definisce qualunque tipo
di chiazza.
Sprallaciai(si),
v.
383
Procurare/procurarsi un ematoma.
Sprallaciu, s. m. Ematoma, edema. Antoni nd’est orrutu ’e cüaddu e
s’at fatu unu s. mannu (Antonio è
caduto da cavallo e si è procurato
un vasto ematoma).
Sprama, s. f. Grande spavento.
Fui acanta ’e ndi ’oddiri una s.
(poco mancava che prendessi uno
spavento).
Spramai/ispramai, v. Spaventare, terrorizzare. Dd’at ispramau
(l’ha spaventato molto). Anche al
rifl. Chi biu canis mannus solus mi
spramu (se vedo cani di grandi
dimensioni senza padrone mi spavento moltissimo).
Spramau/ada, agg. Spaventato/a.
Sprapallociai, v. Aprire pienamente, sgranare. A bortas su pipìu
sprapallociat is ogus po nudda (talvolta il bambino sgrana gli occhi
per un nonnulla), candu si dd’apu
nau at isprapallociau is ogus (quando gliel’ho detto ha sgranato gli
occhi). Si utilizza anche in senso
fig. soprattutto al part. pass.
Sprapallociau/ada, agg. Aperto/a accondiscendente, disponibile. Cun is amigus est totu s. (con gli
amici è molto accondiscendente).
Sprëai(si), v. Inorridire, spaventarsi.
384
Sprëau/ada, agg. Inorridito/a,
spaventato/a.
Sprecu, s. m. Prodigalità, spesa
eccessiva, spreco. Ninu a ir becesas
s’er donau a su s. (Nino in vecchiaia si è dato alle spese fuori
misura).
Sprefagliai, v. Togliere gli ornamenti ai vestiti. Vedi prefagliai.
Sprefagliau/ada, agg. Privo/a di
ornamenti. Detto dei vestiti,
soprattutto di quelli femminili.
Sprefagliu, s. m. Privazione di
ornamenti.
Spreïdai(si)/ispreïdai(si),
v.
Spretare, ridurre allo stato laicale.
Muntzignori
custa
’orta
nd’ispréïdat chelegunu (il vescovo
stavolta riduce qualcuno allo stato
laicale).
Spreïdau/ispreïdau, s. m. Spretato.
Spremidura/ispremidura, s. f.
Spremitura.
Sprèmiri/isprèmiri, v. Spremere, strizzare. Is pannus ddus ia ’eni’eni sprémïus beni (i panni li avevo
strizzati benissimo), mi parit ca mi
spremu unu limoni (quasi quasi mi
spremo un limone).
Sprémïu/isprémïu/a, agg. Spremuto/a, stizzato/a.
Spreni, s. m. Milza. In senso fig.
coraggio, ardimento. Arratza ’e
spreni chi portat, cussu (che corag-
PAOLO PILLONCA
gio ha, quello).
Sprestocadura, s. f. Depressione, nevrosi, follia.
Sprestocàisi, v. Andar fuori di
testa.
Sprestocau/ada, agg. Scimunito/a.
Spreu, s. m. Spavento, orrore.
Spridadura, s. f. Emozione forte, choc.
Spridai, v. Emozionare, scioccare.
Spridau/ada, agg. Emozionato/a, spiritato/a. Contrazione da
ispiridau.
Sprigada, s. f. Specchiata.
Sprigadura, s. m. Specchiamento.
Sprigai, v. Specchiare. Al rifl. Si
sprigat a dònnïa ora (si specchia
spessissimo).
Sprigau/ada, agg. Specchiato/a.
Sprigu, s. m. Specchio.
Springiai, v. Concludere la gravidanza. Desueto.
Spronadura, s. f. Spronata, esortazione.
Spronai/ispronai, v. Toccare il
cavallo con gli speroni, spronare.
S’ebba mia non bolit ispronada (la
mia cavalla non ha bisogno di
essere spronata). In senso fig.:
esortare.
Spronau/ada, agg. Spronato/a,
esortato/a.
Mancarìas. La parlata di Seui
Sproni, s. m. Sperone, sprone.
Sprovistadura, s. f. Privazione
delle provviste.
Sprovistai, v. Privare, derubare
delle provviste.
Sprovistau/ada, agg. Sprovvistato/a, derubato/a delle provviste.
Sprugadura/isprugadura, s. f.
Sbucciatura.
Sprugai/isprugai, v. Sbucciare.
Spruga sa patata (sbuccia le patate). In senso fig. risolvere. Est una
chistioni mala a i. (è un problema
difficile da risolvere).
Sprugau/ada, agg. Sbucciato/a.
Portu unu ’enugu s. (ho un ginocchio sbucciato). Risolto/a. Bidu as
cantu cosas sprugadas (hai visto
quante cose risolte).
Sprüinadura, s. f. Spolveratura.
Sprüinada, s. f. Spolverata. In
senso met. batosta, sconfitta netta.
Chi ti ponis cun mei ndi ’oddis una
s. (se ti confronti con me prenderai una bella batosta).
Sprüinai, v. Spolverare. Maria
sprùinat in dónnïa logu (Maria spolvera dappertutto). Fig. superare
q.no in una qualsivoglia dimensione agonistica. S’est postu a cùrriri
cun mei e mi dd’apu sprüinau (si è
messo a correre con me e gli ho
tolto la polvere di dosso).
Sprüinau/ada. Spolverato/a.
Sprupadura, s. f. Spolpatura.
385
Sprupai, v. Spolpare, levare la
polpa.
Sprupau/ada, agg. Spolpato/a.
Sprumonadura, s. f. Ferita ai
polmoni.
Sprumonai, v. Ferire ai polmoni, spolmonare. Al rifl. vale: gridare e/o cantare fino a mettere i polmoni a dura prova.
Sprumonau/ada, agg. Spolmonato/a, lasciato/a senza più fiato.
Sprupadura, s. f. Spolpatura.
Sprupai, v. Spolpare.
Sprupau/ada, agg. Spolpato/a.
Spudai, v. Sputare.
Spudau/ada, agg. Sputato/a.
Spudu, s. m. Sputo.
Spuligai, v. Indebolire.
Spuligau/ada, agg. Deboluccio/a, astenico/a.
Spumadori, s. m. Mestolo bucherellato, adatto ad eliminare la
spumatura superflua dai bolliti.
Spumai, v. Schiumare. Detto di
un alimento che cuoce nell’acqua
bollente e produce schiuma e di
un cavallo che dopo una corsa è
bagnato e pieno di schiuma.
Spumau/ada, agg. Schiumoso,
con la bava alla bocca, fuori di sé
dall’ira.
Spunciai, v. Schiodare, togliere i
chiodi.
Spunciau/ada, agg. Schiodato/a.
Spuncionada, s. f. Stimolo, av-
386
vertimento.
Spuncionadura, s. f. Stimolazione ripetuta.
Spuncionai/ispuncionai, v. Levare i chiodi, schiodare. In senso
fig. incoraggiare, spronare, esortare,
stimolare. Su babbu ddu spuncionat
meda (il padre lo stimola molto).
Spuncionau/ada, agg. Stimolato/a.
Spuntai/ispuntai, v. Spuntare,
comparire all’improvviso, emergere. Nd’est ispuntau ’e suta terra (è
spuntato dal sottosuolo).
Spuntai/spuntàisi, v. Rendere
acido, inacidire.
Spuntinai, v. Fare spuntini. Per
est. organizzare riunioni conviviali.
Spuntinu/ispuntinu, a. m.
Spuntino, merenda.
Spuntu/a, agg. Inacidito/a. M’at
cumbidau a binu s. (mi ha offerto
vino inacidito).
Spusosu/a, agg. Sgarbato/a,
antipatico/a.
Sputanai, v. Svergognare, smascherare.
Sputanamentu, s. m. Smascheramento, brutta figura.
Sputanau/ada, agg. Svergognato.
Stabbacai/istabbacai, v. Tirar
fuori, rinvenire senza aver cercato.
Ia a bòlliri sciri e de uba nd’as
istabbacau cussa càvana (vorrei
PAOLO PILLONCA
sapere da dove hai tirato fuori
quella roncola).
Stabbicadura, s. f. Elevazione
dei muri divisori tra le stanze di
una casa.
Stabbicai, v. Elevare dei muri
divisori tra una stanza e l’altra
all’interno di una casa. Imoi depeus
s. (ora dobbiamo elevare i muri
interni). Vedi tabbicu.
Stabbicau/ada, agg. Diviso/a da
muri.
Stacai/istacai, v. Uscire di casa.
Cussu no istacat mai (quel tizio
non esce mai di casa). Anche staccare, ma più raro.
Stadda, s. f. Stalla.
Stafa, s. f. Staffa.
Stagliai/istagliai, v. Dividere il
gregge (tagliu) e mettersi ciascuno
per conto proprio. Nel gergo dei
pastori indica la rottura di un
accordo di lavoro comune. Fùrint
a cumpangius ma imoi ant istagliau
(erano soci ma adesso si sono
separati).
Stai/istai, v. Stare, trovarsi, essere. Indica prevalentemente le condizioni di salute ma può indicare
anche quelle economiche. Antoni
istat mali meda (Antonio sta molto male).
Stalloni, s. m. Stallone, puttaniere. Presente nei soprannomi.
Stampai, v. Bucare, forare, tra-
Mancarìas. La parlata di Seui
passare.
Stampu, s. m. Buco, grotta,
cavità. Può trattarsi di foro naturale o artificiale. Presente nei
toponimi per indicare una grotta Su Stampu - del massiccio del
Tónneri.
Stancitai, v. Togliere i chiodini
(tancitas) da tavole lignee sottili.
Stancitau/a, agg. Iracondo/a,
inaffidabile. Lett. privo di tancitas,
i chiodi che tengono unite le parti
sottili di un manufatto ligneo (ad
es. il compensato) a quelle più
corpose.
Stanga, s. f. Sbarra, spranga,
stanga.
Stangai/istangai, v. Mettere una
stanga davanti a una porta. Ma il
v. ha assunto nel tempo anche il
significato di: stangare, punire in
maniera esemplare, lo stesso che
ha in italiano.
Stangheri, s. m. Tabaccaio.
Stangiai, v. Stagnare, mettere lo
stagno, ad es. a un calderino di
rame, ma anche riparare con lo
stagno un contenitore metallico.
Stangiu, s. m. Stagno, metallo
utilizzato anche per certe saldature.
Stangu, s. m. Tabacchino.
Stantargiai(si), v. Mettere, mettersi dritto. Riferito prevalentemente a persone (Stantargiadìndi,
àlzati in piedi) ma anche a cose
387
(Stantargiandi cudda biga, metti
dritta quella trave).
Stantargiau/ada, agg. Levato/asi
in piedi.
Stantargiu/a, agg. Dritto, in
piedi. Riferito soltanto alle persone. La loc. avv. a sa stantargia vale:
stando in piedi.
Stantissai, v. Rendere noioso,
allungare troppo. Al rifl. vale: rendersi insopportabile.
Stantissamentu, s. m. Lungaggine eccessiva nel discorrere.
Stantissau/ada, agg. Logorroico,
noioso. Vedi sciasolau.
Stantissu, s. m. Eccesso nella
comunicazione verbale.
Stasiri/istasiri, v. Dimagrire,
perdere peso. Riferito alle persone.
Antoni est istasìu (Antonio è dimagrito).
Statali, s. m. Impiegato dello
Stato.
Stàtüa, s. f. Statua, simulacro. In
senso lato vale: persona fredda,
che non perde mai la calma.
Statzïoni, s. f. Stazione. Nella
parlata di Seui il s. indica esclusivamente la stazione delle ferrovie
complementari della Sardegna,
che dal 1894 - anno dell’inaugurazione della linea Cagliari-Arbatax
- in poi rappresenta la prima tappa
di un esilio raramente interrotto:
quasi sempre un luogo di partenze
388
obbligate, quasi mai di ritorni.
Dunque il s. ha in sé una venatura dolente.
Stàulu, s. m. Pavimento in legno.
Stäulufartzu, s. m. Mansarda
rustica.
Stebidai, v. Intiepidire, rendere
tiepida una bevanda o altro alimento caldo, lasciare raffreddare.
Lassaddu s. cussu cafeu, est tropu
’uddìu (lascia raffreddare un po’
quel caffè, è troppo caldo). In
senso fig. sbollire.
Stebidau/ada, agg. Intiepidito/a.
Steddau/ada, agg. Stellato/a.
Detto del cielo notturno quando è
limpido e del cavallo sauro, baio o
nero che ha una chiazza bianca
simile ad una stella (steddu) tra gli
occhi e l’inizio della criniera.
Steddu/isteddu, s. m. Stella. In
gennargiu is isteddus tenint un’atra
lugi (a gennaio le stelle hanno
un’altra luce). Il s. si utilizza largamente nella poesia e nel canto, per
definire donne di grande bellezza.
Stegai/istegai, v. Sbaccellare,
sgranare, togliere il baccello alle
leguminose: fagioli, fave, piselli,
etc. Custu fasolu ddu stegu totu
(sbaccellerò tutti questi fagioli). In
senso fig. mangiare avidamente,
essere una buona forchetta. Stegat,
cuddu piciocu, lampu! (Ma quanto
PAOLO PILLONCA
mangia quel ragazzo!).
Stemperai, v. Stemperare, raffreddare.
Stemperau/ada, agg. Stemperato/a, raffreddato/a.
Stemperïai(si), v. Svanire, decadere, perdere percezione e brillantezza.
Stemperïau/ada, agg. Svanito/a.
Stentai/istentai, v. Ritardare, far
tardi, andare per le lunghe. Bai,
ma no istentis (vai, ma non far
tardi).
Stenterïai, v. Dire sciocchezze.
Al rifl. vale rimbambirsi. Desueto.
Stentérïu, s. m. Sciocchezza, fesseria.
Stentina/istentina, s. f. Intestino, interiora. L’indicazione data
dal s. è generica, le viscere di un
animale hanno un’articolazione
lessicale assai varia e precisa.
Stentu/istentu, s. m. Ritardo
dovuto a lentezza nel procedere o
a disturbi contingenti. Pres. nei
soprannomi.
Steressai, v. Darsi alla crapula.
Steressu, s. m. Crapula, banchetto omerico o pantagruelico.
Stèrrida/istèrrida, s. f. Stesura.
Indica anche l’incipit di un canto
in rima, oltre che la parte iniziale
di un discorso.
Sterridorgiu, s. m. Giaciglio,
luogo dove ci si può sdraiare e
Mancarìas. La parlata di Seui
anche lettiera per animali.
Sterrimenta/isterrimenta, s. f.
Stesura, base, fondamento. Gergale
delle tessitrici per indicare le diversità dei fili. Indica anche la lettiera
degli animali. Apu postu fenu a i.
(ho messo del fieno per lettiera).
Sterrinai/isterrinai, v. Mettere in
posizione supina, atterrare. D’at
cafau a brassus e dd’at isterrinau (l’ha
preso per le braccia e l’ha atterrato).
Stèrriri/istèrriri, v. Stendere,
preparare, dare inizio a un’azione,
anche immateriale.
Stérrïu/stèrrïa, agg. Steso/a,
preparato/a.
Stertzada, s. f. Sterzata.
Stertzai/istertzai, v. Sterzare,
manovra al volante o sterzo.
Distinguere tra due entità simili,
animali o vegetali che siano. No
istertzat tra crabitu e angioni e tra
ìligi e orroli (non distingue un
capretto da un agnello e una roverella da un leccio).
Stertzu, s. m. Sterzo, volante.
Stesïai/istesïai, v. Allontanare,
spostare. Usato anche al rifl. In
senso fig. diradare i rapporti sociali e/o amicali. Si nc’est istesïau (si è
allontanato).
Stëuladura, s. f. Eliminazione
delle tegole da un tetto.
Stëulai/istëulai, v. Togliere le
tegole a un tetto.
389
Stëulau/istëulau/ada, agg. Senza
tegole. Cussa crobetura est i. (quel
tetto non ha tegole). Dissennato/a, senza comprendonio. Lett.
senza tegole, cioè con la testa
esposta alle intemperie. Quasi che
l’uomo stëulau fosse una casa con
il tetto privo di tegole.
Stèvini/Istèvini, n. pr. di pers.
Stefano. Frequente il dim. Stevineddu/Istevineddu.
Stïàrica, s. f. Candela di cera,
stearica.
Stibba, s. f. Riempimento. Lett.
staio. Si usa in rif. al mangiare
senza misura, nel significato di
scorpacciata.
Stibbai, v. Stipare, riempire
completamente un contenitore,
anche affastellando alla rinfusa il
contenuto. In senso fig. mangiare
a dismisura.
Stibbau/ada, Stipato/a.
Stichidorgiu/istichidorgiu, s.
m. Nascondiglio.
Stichiri/istichiri, v. Far entrare,
nascondere.
Stiddïai/istiddïai, v. Gocciolare.
Vedi istiddïai e derivati.
Stiddìu, s. m. Goccia. Riferito
all’acqua, al vino, all’olio, etc.
Stima/istima, s. f. Amore. No
ddi tenit prusu s. e po cussu no dda
ponit in perunu contu (no la ama
più e perciò non la considera
390
affatto), chi dus si stimant, is parentis non si nci depint intrai in mesu
(se due si amano, i parenti non si
debbono mettere in mezzo). Non
esiste corrispondenza alcuna con
l’it. stima, che nella parlata di Seui
si rende con cunsidéru e contu.
Stimai/istimai, v. Amare, voler
bene.
Stimau/ada, agg. Amato/a. Nei
canti popolari della culla, come
nei lamenti funebri, il vocativo
struggente coru miu s. (lett. cuore
mio amato), nella sua frequenza,
indica chiaramente il senso del
verbo e dell’aggettivo.
Stìncini, s. m. Olio di lentischio. Di norma, però, gli si premette un altro s. e allora la parola
assume valore quasi aggettivale.
Stintirigu, s. m. Intestino.
Stiponai, v. Fumacchiare.
Stiponi, s. m. Sigaretta, in senso
ir.
Stirai/istirai, v. Stirare, crescere
in altezza. Per indicare lo stiro, il
solo v. usato era pranciai, ora piuttosto in disuso.
Stirongiai/istirongiai, v. Slabbrare, stirare eccessivamente. Chi
intzighis äici, cussu maglioni ddu
stirongias totu (continuando così,
slabbrerai del tutto quel maglione).
Stirongiau/ada, agg. Slabbrato/a.
PAOLO PILLONCA
Stitai, v. Svezzare. Lett. togliere
la mammella (tita). Rif. all’uomo
e agli animali. Ndi stitu su purdeddu (svezzerò il puledro).
Stitapipius, s. m. Svezzabambini. In senso fig. persona di brutto aspetto, adatta a svezzare poppanti per la paura che incute.
Stitau/ada, agg. Svezzato/a.
Stivali/istivali, s. m. Stivale.
Nd’est torrau a bidda a i. (è ritornato in paese con gli stivali).
Stóbbili, agg. indeclinabile.
Fisso/a, sempre disponibile. In
domu ’e Maria ddu est Lina s. (a
casa di Maria c’è Lina sempre disponibile).
Stocada/istocada, s. f. Coltellata. Si funti giogaus a istocadas (si
sono accoltellati).
Stochigliai/istochigliai, v. Accoltellare.
Stochigliau/ada, agg. Accoltellato/a.
Stocu/istocu, s. m. Pugnale, coltellaccio.
Stòddiri/istòddiri, v. Togliere,
diminuire, far mancare, sottrarre.
A Ninu dd’ant istóddïu sa paga (a
Nino hanno ridotto lo stipendio),
sa funtana ’e Carrighera at istóddïu
(la fontana di Carrighera ha diminuito il suo gettito). Se ellittico
dell’oggetto, il verbo ha una
dimensione gergale nel linguaggio
Mancarìas. La parlata di Seui
erotico, in rif. alla donna infedele.
Cussa stoddit (quella toglie, sott.
qualcosa al marito).
Stóddïu/a, agg. Diminuito/a.
Stógumu/istógumu, s. m. Stomaco. Soi ’e di ora a doloris de s. (da
tempo soffro di disturbi gastrici).
Molto usate le locuzioni avverbiali
a i. ’rbùidu (a stomaco vuoto), a i.
arvolotau (con lo stomaco in subbuglio), a i. prenu (a pancia piena).
In senso fig. resistenza, capacità di
sopportazione di eventi sgradevoli
e/o persone disgustose. Nci ndi
’olit de s. po ddu ’alïai (ce ne vuole
di stomaco per sopportarlo).
Stòia, s. f. Stuoia di giunchi.
Stonadura, s. f. Stonatura.
Stonai/istonai, v. Stonare. In
senso lato, agire fuori misura.
Stonau/ada, agg. Stonato/a.
Stontonai, v. Barcollare. Usato
anche nel senso di annoiare, disturbare, scocciare. No mi stóntonis
(non mi scocciare).
Stontonau/ada, agg. Scocciato/a, annoiato/a, turbato/a.
Stóntunu, s. m. Sbandata, oscillazione.
Stori, s. m. Falco (accipiter gentilis). Figura tra i soprannomi.
Stórïa/istórïa, s. f. Storia. Ma
anche: scusa, pretesto. Lassa is i.
(lascia le scuse).
Stóricu/istóricu, s. m. Appassio-
391
nato di storia, persona colta.
Storitu, s. m. Falchetto.
Storradura, s. f. Rottura di fidanzamento.
Storrai/istorrai, v. Tornare indietro rispetto a una parola data. Si
nd’est istorrau de is füeddus (non ha
rispettato la parola). Rompere un
fidanzamento. Una ragazza non
più fidanzata è storrada. Nel secondo dopoguerra una via del centro
storico, nella parte bassa del paese
- Peis de ’idda - fu ribattezzata Via
Storra da Benigno Deplano nella
canzone Eus agatai perché vi si
erano verificate parecchie rotture
di legami amorosi.
Storrau/ada, agg. Non più
fidanzato/a.
Straciulai/istraciulai, v. Stracciare, sfilacciare, ridurre a brandelli.
Straciulau/ada, agg. Vestito/a,
coperto/a di stracci, malandato/a.
Stracu/istracu, s. m. Strappo,
sconto considerevole. Nell’espr. a
i. baratu (a prezzi stracciati).
Stradai/istradai, v. Indicare la
strada, instradare, avviare, incoraggiare agli esordi.
Stradoneri, s. m. Addetto alla
strada principale. Lo si usa in
senso ir. per definire gli oziosi che
trascorrono le giornate a passeggio.
Stradoni, s. m. Strada principale
del paese, strada larga.
392
Strafutenti, s. m. Strafottente,
arrogante, presuntuoso che parla a
vanvera.
Stragai/istragai, v. Affaticare, non
solo fisicamente. A castïai custu
pipìu m’istragat meda (badare a questo bambino mi affatica molto).
Stragau/ada, agg. Affaticato/a.
Stragasciu/istragasciu, s. m.
Rumore forte, frastuono. A duru ’e
noti apu inténdïu s. (a tarda notte
ho sentito del frastuono).
Stragu/istragu, s. m. Fatica, fisica e psicologica. M’at donau s. (mi
ha stressato).
Stramadura, s. f. Rottura della
trama.
Stramai, v. Disfare la trama.
Gergale delle tessitrici.
Stramancadura, s. f. Mancanza
improvvisa di qualcosa.
Stramancai(si), v. Mancare
all’improvviso. Detto di un capo
di bestiame come di un oggetto
domestico di uso comune.
Stramancau/ada, agg. Scomparso/a.
Stramau/ada, agg, Senza più
trama.
Strancanadura/istrancanadura,
s. f. Strappo violento. Linu est
pagu passïentzïosu, oberit totu a i.
(Lino è poco paziente, apre tutto
con strappi violenti).
Strancanai/istrancanai, v. Strap-
PAOLO PILLONCA
pare con violenza.
Strancanau/ada, agg. Strappato/a violentemente.
Strangiai, v. Ospitare un amico
forestiero.
Strangiau/ada, agg. Ospitato/a.
Strangiu/a, s. m. e agg. Forestiero/a, non appartenente al
paese, ospite. Custu est bestiàmini
s. (questo è bestiame forestiero).
Stratagliada, s. f. Strigliata,
messa in riga e perfino in ritirata.
Chi nci torrat mi ddi’ ’ongiu una
bella s. (se tornerà qui lo metterò
in riga).
Stratagliai, v. Trattar male, mettere in riga, far fuggire. Rif.
soprattutto agli animali, ma anche
alle persone. Ddu stratagliu (lo
tratto male).
Stratagliau/ada, agg. Maltrattato/a, messo/a in riga, fatto/a fuggire. Ma lo si usa anche nel senso
di malvestito/a. Oi ses totu s. (oggi
sei tutto disordinato).
Stratamegia, s. f. Strega, donna
male in arnese.
Stratamegiai, v. Ridurre q.no a
mal partito, mettere in disordine.
A-i cussa dda stratamegiant in
domu sua etotu (quella lì
l’agghindano male i suoi stessi
familiari).
Stratamegiau/ada, agg. Malvestito/a, male in arnese.
Mancarìas. La parlata di Seui
Stravanau/ada, agg. Inurbano/a,
dai modi spicci.
Strecai/istrecai, v. Schiacciare.
Nostra Segnora strecat sa conca a su
colovru (la Madonna schiaccia la
testa al serpente).
Strecau/ada, agg. Schiacciato/a.
Strecosciai/istrecosciai, v. Mettere fuori uso, sgangherare.
Strecosciant totu, mesas e cadiras
(distruggono tutto, tavoli e sedie).
Strecosciau/ada, agg. Sgangherato/a, semidistrutto/a. Cussu
cumou est i. (quel comò è sgangherato).
Strecosciu, s. m. Guasto, danno,
messa fuori uso.
Strecu, s. m. Escremento, sterco.
Stregia, s. f. Attrezzatura lignea
della cantina: botti e tini soprattutto.
Strègiri, v. Pulire, tergere. Soi
totu s’ora stregendumì su sudori
(non faccio altro che tergermi il
sudore).
Strégïu/a, agg. Pulito/a, terso/a.
Stregiu, s. m. Contenitore.
Senza ulteriore specificazione,
indica le stoviglie. Sàmuna su s.
(lava i piatti).
Stremenadura, s. f. Eliminazione dei limiti e/o dei confini.
Stremenai, v. Togliere, eliminare
i confini. Vedi atremenai e trèmini.
Stremenau/ada, agg. Privo/a di
393
confini.
Strempada, s. f. Colpo sulla
guancia. In senso lato, colpo
forte.Vedi trempa.
Strempai, v. Colpire sulla guancia.
Strempau/ada, agg. Colpito alle
guance e, più in generale, al volto.
Strempïadura, s. f. Trattamento
privo di garbo.
Strempïai, v. Trattare sgarbatamente. Dónnia ’orta chi ddu bit
ddu strémpïat (tutte le volte che lo
vede lo tratta sgarbatamente).
Strempïau/ada, agg. Trattato/a
con sgarbatezza.
Strémpïu, s. m. Sgarbatezza,
modo inurbano. Usato quasi eslusivamente nella loc. avv. de s.
(sgarbatamente).
Stria, s. f. Barbagianni, uccello
notturno. In senso fig. donna
brutta e cattiva.
Strichimiddatzu, s. m. Oggetto
di piccole dimensioni, non meglio
definito. In senso lato: minutaglia,
sciocchezza.
Striddicada, s. f. Spruzzata,
spruzzo, gettito forte.
Striddicadura, s. f. Spruzzatura
forte.
Striddicai, v. Spruzzare con forza.
Striddicau/ada, agg. Spruzzato/a.
Strìgili, agg. Snello/a, sottile,
elegante.
394
Strìgiula, s. f. Spazzola rustica
con impugnatura lignea.
Strigiulada, s. f. Spazzolatura,
spazzolata.
Strigiulai, v. Pulire con la spazzola rustica.
Strigiulau/ada, agg. Pulito con
la spazzola rustica. In senso fig.
rimproverato/a con asprezza.
Strilletu, s. m. Pugnale.
Strina, s. f. Regalo rituale. No
dd’at mai fatu una strina, mancu
candu s’est cunfirmau (non gli ha
mai fatto i regali dovuti, neanche
quando si è cresimato).
Strinai/istrinai, v. Regalare, fare
un dono. Candu at fatu sa primu
comunïoni su pardinu de ’àtïu dd’at
istrinau una pinna ’i oru (quando
ha fatto la prima comunione, il
padrino di battesimo gli ha regalato una penna d’oro).
Strinau/ada, agg. Omaggiato/a
con doni.
Stringimentu, s. m. Restringimento, restrizione.
Strìngiri, v. Stringere, restringere.
Strinta, s. f. Stretta. M’at donau
una s. e m’at cancarau unu ’rassu
(mi ha dato una stretta e mi ha
rattrappito un braccio). Anche in
senso fig. per indicare uno stato di
difficoltà.
Strintorgiu, s. m. Strettoia.
PAOLO PILLONCA
Strintu/a, agg. Stretto/a. Est unu
camineddu s. (è una stradina disagevole).
Strobbai, v. Disturbare. Il v.
definisce disturbi dovuti più a
fatalità che a volontà umana.
Strobbau/a, agg. Disturbato/a,
ostacolato/a.
Strobbu, s. m. Disturbo, inconveniente, imprevisto.Vivissima
nell’uso l’espr. äici ti campis de s.
malu (così tu possa evitare imprevisti gravi), quando si vuole rafforzare un diniego rispetto a una
richiesta o dare comunque forza a
una risposta negativa.
Strobeddada, s. f. Dipanazione
di matassa. Metaforicamente: fuga
a tutta velocità.
Strobeddai(si), v. Dipanare una
matassa intricata, mettersi in
salvo, essere svelto di gambe.
Strobeddau/ada, agg. Dipanato/a, fuggito/a di gran carriera.
Strobidura, s. f. Liberazione
dalle pastoie. Anche in senso fig.
Strobiri, v. Togliere le pastoie
(trobèas) al bestiame. Vedi trobiri.
Strobìu/a, agg. Liberato/a dalle
pastoie.
Strocidura, s. f. Imitazione, distorsione.
Stróciri/istróciri, v. Imitare, distorcere. Francu strocit beni meda: a
Giüanni ddu fait ugüali, in sa ’ogi
Mancarìas. La parlata di Seui
puru (Franco è un ottimo imitatore: sa rappresentare perfettamente
Giovanni, anche nella voce).
Strocìu/istrocìu, s. m. Imitazione, presa in giro. Ddu portant a i.
(lo prendono in giro di continuo).
Strócïu/a, agg. Imitato/a, deriso/a.
Strogadura, s. f. Dipanazione.
Strogai, v. Dipanare, svolgere.
Contr. di trogai (vedi).
Strogau/ada, agg. Dipanato/a.
Stronadura, s. f. Fastidio, confusione mentale.
Stronai, v. Rintronare, infastidire, confondere.
Stronau/ada, agg. Confuso/a,
poco padrone di sé.
Strópuddu, s. m. Parte finale
dell’intestino degli animali. In
senso fig. persona ributtante.
Strossa/istrossa, s. f. Pioggia
violenta e continua, mista a vento.
Est proendu a i. (piove a dirotto,
diluvia).
Strossai/istrossai, v. Incalzare
oltre misura, stare addosso.
Strossau/ada, agg. Incalzato
insistentemente.
Strotzinu, s. m. Strozzino, usuraio. Pres. nei soprannomi.
Strumadura, s. f. Disfacimento,
dispersione.
Strumai, v. Disfare, disperdere,
distruggere. Diversamente da altre
395
aree, a Seui il verbo non ha mai il
senso dell’it. abortire.
Strumau/ada, agg. Disfatto/a,
distrutto/a.
Strumbulai/istrumbulai, v. Pungolare. In senso reale ma anche in
quello met. Esortare con molta
determinazione. Ddu strùmbulat
beni-’eni. (lo pungola ben bene).
Strumbulau/ada, agg. Pungolato/a. Più usato in senso met. che
reale.
Strùmbulu/istrùmbulu, s.m.
Pungolo. Il bastoncino di legno
con un chiodo in punta e una frusta laterale usato dai contadini per
sollecitare i buoi a un passo più
spedito o a particolari movimenti
nel traino del carro.
Strumingiu, s. m. Annullamento, distruzione, disfacimento.
In senso reale e fig. Mai nel senso
di aborto che il s. ha in altre
zone.Vedi strumai.
Strumpadura, s. f. Caduta provocata con la tecnica della strumpa.
Strumpai/istrumpai, v. Far cadere q.no con la tecnica dello sgambetto iniziale e del successivo utilizzo delle braccia per atterrarlo. Dd’at
istrumpau che nudda (è riuscito ad
atterrarlo senza alcuna fatica).
Travolgere, anche involontariamente. Fui currendu e dd’apu strumpau
396
chene ddu ’òlliri (passavo di corsa e
l’ho travolto senza volerlo).
Strumpa/istrumpa, s. f. Gioco
di lotta sarda con la tecnica omonima. Su giogu ’e sa s. ha avuto un
notevole rilancio nelle zone interne per iniziativa di un gruppo di
giovani di Ollolai. Anche a Seui
da qualche tempo si ritorna a giogai a i.
Strumpu, s. m. Cascata. Nd’at
bessìu unu bellu s. ’e abba (ne è
venuta fuori una bella cascata).
Figura nella top. interna paesana:
Su S. è una parte del rione di Peis
de ’idda.
Struncai/istruncai, v. Stroncare.
Per est. prendere una scorciatoia.
Struncadura/istruncadura, v.
Percorso diritto, scorciatoia. Nella
loc. avv. a i. ha il duplice senso di
frettolosamente e male.
Struntzu/a, agg. Stronzo/a.
Strupïai/istrupïai, v. Colpire a
sangue, ferire.
Strupïau/ada, s. e agg. Ferito/a.
Strupìu/istrupìu, s. m. Ferita.
Con l’accento sulla penultima sillaba. In paesi non lontani da Seui,
invece, la parola ha l’accento sulla
prima sillaba (strùpiu).
Stüai, v. Aiutare nell’operazione
di scarico il portatore di un peso
sulla testa o sulle spalle. Stüamindi
(aiutami a scaricare il peso). Vedi
PAOLO PILLONCA
atüai e derivati.
Stüamentu, s. m. Operazione di
scarico effettuata a due: il portatore di peso e chi lo aiuta a sostenerlo per uno scarico morbido.
Stüau/ada, agg. Liberato/a dal
peso che aveva in testa o sulle spalle.
Studai/istudai, v. Spegnere. Rif.
al fuoco e alle lampadine. Meno
usato di irmòrriri (vedi).
Studau/ada, agg. Spento/a.
Anche in senso fig., detto di persona che ha perso la sua brillantezza.
Studenti/istudenti, s. m. Studente. Resiste a fatica la forma
arcaica istudïanti.
Studïai/istudïai, v. Studiare.
Utilizzato anche nel senso di far
studiare, mantenere agli studi.
Lüisu at istudïau totu is figlius
(Luigi ha fatto studiare tutti i suoi
figli), Pìlimu no istudïat nudda
(Priamo non studia affatto):
Studïau/istudïau, s. m. Diplomato o laureato, con un titolo di
studio, persona colta. Is istudïaus
puru abarrant chene trabbagliu
(perfino chi ha un titolo di studio
rimane senza lavoro). Usato anche
come agg. Is cosas studïadas comenti si depit abarrant ’n conca (le cose
studiate come si deve rimangono
nella memoria).
Studïosu/a, agg. Sgobbone/a,
Mancarìas. La parlata di Seui
diligente negli studi.
Stùdïu, s. m. Studio, applicazione, diligenza di indagine.
Stugiadura, s. f. Sistemazione
opportuna, messa da parte per la
conservazione.
Stugiai, v. Conservare per bene,
mettere da parte in un contenitore.
Stugiau/ada, agg. Conservato/a
per bene.
Stugiu, s. m. Barattolo. Più in
generale, recipiente adatto a contenere oggetti minuti da conservare. Vedi botu.
Stula/istula, s. f. Stoppia. Era
frequente, fino a qualche decennio fa, che d’estate, subito dopo la
trebbiatura, i porcari di Seui portassero i loro maiali a i. nella
Trexenta o nel Sarcidano.
Stulai/istulai, v. Pascolare nelle
stoppie.
Stumbada, s. f. Urto, cozzo,
scontro. At donau una s. legia cun
sa moto (ha subìto un brutto scontro in motocicletta).
Stumbai/istumbai, v. Urtare,
dar di cozzo. Da non confondere
con atumbai, riferito esclusivamente a cozzi fra animali maschi
provvisti di corna nella stagione
degli amori.
Stumbau/ada, agg. Urtato/a.
Stupadura, s. f. Eliminazione di
397
un tappo, uscita improvvisa.
Stupai/istupai, v. Stappare, levare il tappo. Nd’apu stupau cuddu
fïascu (ho tolto il tappo a quel fiasco). Uscire di fretta. Nc’istupat a
cöìdu (esce presto di casa). Venire
fuori all’improvviso. De unu matoni ’e tzìpiri mi nd’est istupau unu
margiani (da un macchione di
rosmarino mi è venuta fuori
all’improvviso una volpe).
Stupau/ada, agg. Stappato/a,
uscito/a di casa, comparso/a
all’improvviso.
Stùpidu/a, agg. Stupido/a, sciocco/a.
Sturru, s.m. Storno.
Sturrudai, v. Starnutire.
Stùrrudu, s. m. Starnuto.
Stuturadura, s. f. Stroncamento,
rottura.
Stuturai, v. Stroncare, spezzare,
rompere.
Stuturau/ada, agg. Spezzato/a.
Stùturu, s. m. Stroncamento.
Stuvuladura, s. f. Incavatura.
Stuvulai, v. Render cavo un
oggetto.
Stuvulau/ada, agg. Reso/a cavo.
Su, art. det. m. unico. Il. Su
cüaddu (il cavallo). Si apostrofa
davanti a vocale: s’onori (l’onore).
Precede gli infiniti sostantivati. Su
bufai non ti giuat (il bere non ti
giova). Al plurale - is -, unico sia
398
per il m. sia per il f., la pronuncia
varia a seconda della cons. della
parola successiva. Davanti alla b, d,
g, l, m, n, z, la s diventa r: ir ballus
(i balli), ir dannus (i danni) ir
gomaris (le comari), ir leis (le leggi),
ir manus (le mani) ir nàìbbulus (i
modi di dire), ir zucaus (i bocciati).
Davanti alla c, f, p, s, t, tz, la s dell’art. pl. unico rimane invariata: is
cüaddus (i cavalli), is féminas (le
donne, ma qui occorre precisare
che quando si parla in fretta si verifica un fenomeno fonetico tipico di
molte subvarianti del campidanese,
per cui la f si trasforma in sc dolce):
iscéminas (is féminas, le donne)
isciàulas, (is fàulas, le donne) isciunis, (is funis, le funi). Per le cons.
rimanenti: is prendas (gioielli), is
santus (i santi), is tàcinus (i rigagnoli), is tzurpus (i ciechi).
Suca, s. f. Conduzione del
bestiame domestico e incitamento
perché proceda più velocemente.
Nel gergo della caccia, sa suca è
l’opera dei battitori che aizzano i
cani perché si lancino di corsa a
stanare i cinghiali. Eus fatu una s.
manna cun canis e canargius bonus
ma de sirbonis manc’unu po signali
(abbiamo fatto una grande battuta
con cani e battitori buoni ma di
cinghiali non ne abbiamo visto
neppure uno come segno di pre-
PAOLO PILLONCA
senza).
Sucadura, s. f. Sollecitazione al
bestiame affinché proceda più
veloce, ricerca della selvaggina da
parte di battitori e cani. La loc. a
s. vale: mediante sollecitazione.
Sucai, v. Sollecitare il bestiame a
un’andatura più svelta. Pìlimu,
suca su molenti (Priamo, sollecita
l’asino), sucaddu cussu maglioru
(sollécitalo, quel vitello). Il v. indica anche l’azione di battitori e cani
alla ricerca della selvaggina.
Suchitu, s. m. Marinatura, modo di cucinare in umido lepri,
conigli, etc. Su lépuri dd’at cotu a
s. (ha cucinato la lepre in umido).
Suciadura, s. f. Succhiatura.
Suciai, v. Aspirare, succhiare.
Suciau/ada, agg. Succhiato/a.
Suciosu/a, agg. Pieno/a di succo, acquoso/a.
Suciu, s. m. Succo. In senso fig.
sostanza. No ddu at suciu (non c’è
sostanza).
Sucu, s. m. Minestrina leggera.
Desueto. Sopravvive in un soprannome, Papasucu (alla lettera: mangiaminestra).
Sucunas (de), loc. avv. Di colpo,
all’improvviso. Vedi negli esempi
alla voce de.
Sudada, s. f. Sudata, fatica
intensa, sforzo.
Sudai, v. Sudare. Per est. faticare
Mancarìas. La parlata di Seui
intensamente.
Sudau/ada, agg. Sudato/a, bagnato/a di sudore. Sudau pilu-pilu
(completamente sudato, senza
neppure un pelo asciutto. Lett.
pelo per pelo).
Sudori/suori, s. m. Sudore.
Süègiri, v. Lavorare la pasta del
pane. Part. pass. suetu.
Süercu, s. m. Ascella.
Süergiu, s. m. Quercia da sughero (quercus suber) , albero simbolo di una sorta di costante resistenziale botanica per le difese che
ha elaborato nei millenni. Non
più molto presente nel territorio
di Seui, se non in piccole macchie.
Vedi assüergiai. Presente nei toponimi: S. è una località posta sul
versante sud-ovest del salto seuese,
ad altitudine inferiore rispetto al
centro abitato, adatta anche alla
coltivazione della vite. Un tempo
dovette essere una foresta di querce da sughero. Oggi predominano
i castagni, come notò nel 1972
Demetrio Ballicu in Miscellanea
(cit., pag.155). Vedi assüergiai.
Suferèntzïa, s. f. Sofferenza,
patimento, dolore, pena.
Sufriri, v. Soffrire. Anche sunfriri e derivati.
Sufrìu/a, agg. Sofferto/a, patito/a.
Sugada, s. f. Colpo diretto sul
399
collo (sugu). La consonante iniziale conserva sempre la sua asprezza
- come una doppia s - e non si
lenisce nemmeno davanti a vocale.
Sugai, v. Decapitare, tagliare il
collo. C. s. per l’asperità della pronuncia.
Sugamentu, s. m. Decapitazione, lesione al collo.
Sugau/ada, agg. Decapitato/a,
colpito/a al collo.
Sugu, s. m. Collo.
Süidura, s. f. Succhiatura.
Sùiri, v. Succhiare. Spesso il v. è
ellittico dell’oggetto. Cuddu crabitu non süit (quel capretto non succhia il latte). In senso fig. approfittare di q.sa per averne vantaggi
materiali. Il part. pass. è sutu.
Sula, s. f. Lesina.
Sulada, s. f. Soffiata.
Suladura, s. f. Soffiata reiterata.
Nella loc. avv. a s. (mediante soffiata)
Sulafogu, s. m. Soffietto del
camino.
Sulai, v. Respirare, soffiare. Non
possu s. (non posso respirare), sula
su fogu (soffia sul fuoco). Il verbo
è usato in una metafora singolare
che suona così: s. su fridu po
’uddìu (lett. soffiare sul freddo
facendo intendere - o ritenendo
erroneamente - che sia caldo), con
due possibilità interpretative:
400
prendere fischi per fiaschi o ingannare gli altri su una determinata
questione.
Sulau/ada, agg. Soffiato/a.
Sulïai, v. Fischiare. Sùlïu is crabas (fischio alle capre), no iscìt s. (è
incapace di fischiare).
Sulïau/ada, agg. Fischiato/a,
disapprovato/a.
Sùlidu, s. m. Respiro, alito. Da
sulai.
Sulitu, s. m. Zufolo. Rustico
strumento a fiato di genesi agropastorale, ancora usato negli spettacoli di musica etnica.
Sùlïu, s. m. Fischio. Dd’apu
’etau dus sùlïus e su cani nd’est torrau (gli ho lanciato due fischi e il
cane è ritornato da me).
Sumentusa, s. f. Pecora di due
anni, dunque tosata una sola volta
(semel tonsa). Per est. si dice di
pecora molto giovane, ricorrendo
al dim. Una sumentusedda ’e
nudda (una pecorella da niente).
Si utilizza anche per indicare una
mufla di quell’età.
Sùmini, s. m. Pancetta. In senso
ironico, pinguedine. Bellu s. t’as
cuncordau (ti sei provvisto di un
bel tessuto adiposo).
Suncùrriri, v. Sopraggiungere.
Eus cumentzau in pagus ma nd’at
suncurtu atrus tres o cüatru (abbiamo iniziato in pochi ma sono
PAOLO PILLONCA
sopraggiunti altri tre o quattro)
Suncurtu/a, agg. Sopraggiunto/a, sopravvenuto/a.
Sunfriri, v. Soffrire, patire.
Sunfrìu/a, agg. Sofferto/a.
Supa, s. f. Zuppa, minestra
Supera, s. f. Zuppiera.
Superai, v. Superare.
Superau/ada, agg. Superato/a.
Superbu/a, agg. Superbo,
Suprimentu, s. m. Arrivo ritardato.
Supriri, v. Arrivare in un luogo
aggiungendosi ad altri convenuti.
Fustis in cincu, de fatu nd’est suprìu
Pilimu puru (eravamo in cinque,
poi si è aggiunto anche Priamo).
Suprìu/a, agg. Sopraggiunto/a,
arrivato/a in ritardo.
Surbidura, s. f. Aspirazione di
liquidi.
Surbiri, v. Aspirare un liquido e
inghiottirlo.
Surbìu/a, agg. Aspirato/a.
Surcu, s. m. Solco. Vedi assurcai.
Surdìmini, s. m. Sordità. Vedi
intzurdai.
Surdu/a, s. e agg. Sordo/a.
Surgimentu, s. m. Blocco dei
movimenti del corpo.
Surgiri, v. Bloccare nel libero
movimento dei muscoli. Su frius a
bortas mi surgit (il freddo talvolta
mi blocca).
Surgìu/a, agg. Bloccato/a, im-
Mancarìas. La parlata di Seui
possibilitato/a a muoversi.
Surpìmini, s. m. Cecità. Vedi
tzurpìmini e intzurpai.
Surpu/a, agg. Cieco/a. Vedi
tzurpu.
Surra, s. f. Sussa, batosta. Cussu
piciocheddu nd’at pigau su cüaddu
a fura, su babbu si nd’est acatau e
dd’at iscutu una s. (quel ragazzino
ha preso il cavallo di nascosto, il
padre se n’è accorto e gli ha dato
una sussa). Anche in senso fig.:
lezione, insegnamento. At provau
a giogai a cartas cun Antoni e nd’at
boddìu una s. (ha provato a giocare a carte con Antonio e ha preso
una batosta).
Surrai, v. Percuotere, picchiare a
lungo, dare una sussa.
Surrau/ada, agg. Percosso/a,
battuto/a. Anche in senso met.
Susu, avv. Sopra. Bessi a s. (vieni
sopra), in biginau de s. (nel rione
alto).
Suspiri, v. Aspirare, sorbire, succhiare.
Suspìu/a, agg. Aspirato/a, assorbito/a.
Suspu, s. m. Linguaggio metaforico o gergale. Si dd’at nau in s.
(gliel’ha detto sotto metafora).
Sussèdiri, v. Succedere, capitare,
avvenire. Il part. pass. è sussédïu,
prevalentemente usato per indicare qualcosa di temuto. E ita t’at s.?
401
(cosa mai ti è capitato?).
Sussédïu/a, agg. Avvenuto/a,
capitato/a, succeduto/a.
Sussulìa, s. f. Nibbio, uccello
rapace in genere. In senso fig.
donna insopportabile per la sua
aggressività verbale
Sustàntzïa, s. f. Sostanza.
Sustantzïosu/a, agg. Sostanzioso/a.
Sustenimentu, s. m. Sostento,
sopportazione, resistenza.
Sustènniri, v. Sostenere, reggere,
sopportare, resistere. Non fait a
ddu s. (non lo si può sopportare).
Susténnïu/a, agg. Sostenuto/a.
Meno usato di sustentu/a.
Sustentai, v. Sostentare, nutrire.
Sustentamentu, s. m. Sostentamento.
Sustentau/ada, agg. Sostentato/a, nutrito/a.
Sustentu, s. m. Sopportazione,
resistenza.
Sustentu/a, agg. Sostenuto/a,
sopportato/a.
Susuncu/a, s. e agg. Spilorcio/a,
taccagno/a. Giüanni est unu s.
legiu (Giovanni è un avaro della
peggiore specie).
Suta, avv. Sotto. Vedi a suta alla
voce A con relative loc. avv.
Sutana, s. f. Sottana.
Sutascala, s. m. Sottoscala.
Sutu/a, agg. Succhiato/a, sfrut-
402
tato/a. Part. pass. di sùiri.
Sû/ sua, agg. poss. Suo/a.
Sempre posposto al s. cui siriferisce. Sa tanca sua, su cüaddu sû (la
sua tenuta, il suo cavallo), is tancas
suas, is cüaddus sûs (le sue tenute, i
suoi cavalli).
Svirginadori, s. m. Sverginatore.
Svirginadura, s. f. Sverginamento, deflorazione.
Svirginai, v. Sverginare.
Svirginau/ada, agg. Sverginato/a.
PAOLO PILLONCA
Mancarìas. La parlata di Seui
403
T
Tabbacai, v. Assumere tabacco
da naso. Un’abitudine che fino a
pochi decenni fa era oggetto di
una forte critica sociale forse perché a coltivarla erano soprattutto
le donne.
Tabbacamentu, s. m. Assunzione di tabacco da naso.
Tabbachera, s. f. Tabacchiera.
Tabbachera ’e margiani, s. f.
Vescia (Lycoperdon pratense), piccolo fungo senza gambo, spugnoso, di colore bianco e di scarso
pregio che va colto appena spuntato in quanto deperisce in fretta e
si riempie di una sorta di polvere
scura che somiglia al tabacco (da
qui, evidentemente, il nome).
Tabbacona, s. f. Donna che ha il
vizio di assumere tabacco da naso.
Tabbacu, s. m. Tabacco, fumo.
Per est. sigaretta/e. Non portu t.
(non ho sigarette).
Tabbicu, s. m. Muro divisorio
tra una stanza e un’altra. Vedi stabbicai.
Taca, s. f. Intaccatura, incisione
su legno per segnare una misura.
Inferri in taca giusta (lett. trovare
la giusta incisione) vale: colpire
nel segno, trovare esattamenente
quel che si cercava.
Tachedda, s. f. Piccola incisione.
La loc. avv. ironica a t. significa a
credito. Vedi alla prep. A.
Tacheddai, v. Incidere ripetutamente il legno.
Tacheddau/ada, agg. Inciso/a.
Tacia, s. f. Chiodo per scarpe.
Le scarpe chiodate sono dette crapitas ataciadas. Vedi ataciai e derivati.
Tàcinu, s. m. Rigagnolo, ruscelletto, corso d’acqua di durata stagionale. Esiste, però, anche il
diminutivo tacineddu.
Taconi, s. m. Tacco di scarpa. Se
è piccolo si chiama taconeddu.
Tacu, s. m. Altopiano e/o catena
montuosa calcarea. Presente nella
toponomastica locale data la grande presenza di massi calcarei. Il
tacu più propriamente detto è
però la vastissima zona che va da
Gertzadili alla lunga cengia del
Tónneri, uno dei simboli del territorio di Seui.
Tàcula, s. f. Indica un insieme di
404
merli e tordi, tradizionalmente in
numero di sedici (otto per ciascuna specie), che gli uccellatori del
Campidano vendono dopo averli
lessati e spiumati. La definizione
dell’insieme suona piglionis de t. In
senso fig. il s. si utilizza per indicare una bella ragazza: arratza ’e t.
Taglieri, s. m. Tagliere. Ripiano
di legno di varie dimensioni e fatture per tagliare la carne cruda o
cotta ma anche per tagliuzzare
cipolla, aglio e quanto serve a chi
mette mano ai fornelli. In senso ir.
indica propensione alla buona
tavola.
Tagligeddu, s. m. Piccolo gregge. Per lo più con lieve venatura di
scherno verso gli allevatori ritenuti incapaci di costituirsi un gregge
rilevante.
Tagliu, s. m. Gregge, branco.
Vedi stagliai.
Talàmini, s. m. Letame. Nella
parlata di Seui prevale la forma con
metatesi delle sillabe iniziali rispetto a quella normale nella variante
meridionale (ladàmini). Vedi atalaminai.
Tamata, s. f. Pomodoro, piantina e frutto. Funge anche da nome
coll. Nd’apu’oddìu sa t. (ho raccolto i pomodori).
Tamburu, s. m.Tamburo.
Tancita, s. f. Chiodo di dimen-
PAOLO PILLONCA
sioni ridotte ma dalla testa larga e
quadrata, utile per fissare meglio
le parti lignee sottili di supporto come il compensato - al legno
vero e proprio. Vivo l’uso traslato.
Vedi stancitau.
Tanca, s. f. Terreno privato delimitato da un muro a secco o rete.
Tancadura, s. f. Serratura, chiusura.
Tanchita, s. f. Piccola estensione
di terreno privato chiuso a muro o
rete. Dim. di tanca.
Tancu, s. m. Pezzo. Si dice della
carne tagliata a pezzetti (fata a
tancus), molto spesso con una
sorta di venatura critica per la
grossolanità del taglio.
Tandu, avv. Allora. M’at nau
füeddus in prus e de t. dd’apu negau
su saludu (mi ha detto parole in
più e da allora gli ho tolto il saluto). Quando l’avv. compone da
solo un’interrogativa ellittica
(tandu?) può valere: che cosa mi
dici, che cosa hai deciso di fare?
Più spesso è la prima parola che si
scambia quando ci si rivede dopo
un po’ di tempo, per avviare il discorso: e tandu?
Tanïeli, n. pr. di pers. Daniele.
Targa, s. f. Targa, per est. marchio di riconoscimento
Targai, v. Targare. In senso lato:
marchiare per sempre.
Mancarìas. La parlata di Seui
Targau/ada, agg. Targato/a.
Tarocada, s. f. Partita a tarocchi.
Imoi feus una t. (ora ci facciano
una partita a tarocchi).
Tarocai, v. Taroccare, calare uno
dei ventuno tarocchi (sarebbero
22, in verità, con il Matto, che
però è utilizzabile soltanto da chi
se lo ritrova di volta in volta in
dote). Vedi starocai (far perdere
e/o esaurire i tarocchi).
Tarocau/ada, agg. Taroccato/a.
A orus no apu t. (a denari non ho
taroccato).
Tarocus, s. m. Tarocchi, gioco di
carte. Sulla grande diffusione di
questo particolare gioco a Seui
l’ipotesi più accreditata è che sia
stato importato alla fine del secolo
scorso da dirigenti delle ferrovie
(la linea che collega Seui a Cagliari
da un lato e ad Arbatax dall’altro
venne inaugurata nel 1894). Sta di
fatto che il gioco è tuttora molto
praticato anche dai giovani e questo costituisce perlomeno una singolarità.
Tasca, s. f. Zainetto rustico di
pelle di capra o vitello, un arnese
che per secoli è stato di uso quotidiano per pastori e cacciatori.
Oggi, oltre a resistere nella destinazione tradizionale di utilizzo, è
diventato una sorta di complemento di look personale, maschile
405
e femminile, o di arredo. Quando
è piccolo diventa taschigedda. La
parola italiana tasca, invece, nella
parlata di Seui come in tutte le
altre e pressoché senza differenze
di variante è busciaca.
Tascapani, s. m. Tascapane.
Taschinu, s. m. Borsellino.
Tasi, s. f. Verso di animale. Sa t.
’e margiani (il verso della volpe).
Ma può essere rif. anche all’uomo.
Per una persona dalle grandi capacità imitative si suole dire: fait dónnïa t. (è capace di rifare qualunque
verso, di uomo e di animale).
Tasoni, s. f. Trappola costruita
con una pietra legata a un bastone. L’espressione tentu a t. vale:
catturato con la trappola. Altrove,
in area linguistica campidanese, su
t. è invece la rete impiegata dagli
uccellatori. Ma l’uccellagione non
è, e forse non è mai stata, una pratica diffusa a Seui.
Tassa, s. f. Bicchiere. A t. a t,
Antoni si nci bufat totu sa màriga
(bicchiere dopo bicchiere Antonio
si berrà l’intera brocca)
Tassigedda, s. f. Piccolo bicchiere.
Tassoni, s. m. Bicchierone, boccale.
Tastu, s. m. Tasto.
Tàula, s. f. Tavola. Indica genericamente le tavole appena abboz-
406
zate, senza gli ornamenti del lavoro del falegname.
Täuledda, s. f. Tavoletta.
Täuloni, s. m. Tavolone.
Tebidesa, s. f. Tiepidezza.
Tebiori, s. m. Tepore, tiepidezza.
Tebi-tebi, agg. indeclinabile.
Tiepido/a. Si dice soprattutto del
latte che raggiunge la temperatura
giusta per il caglio e/o la colazione.
Techi, pr. indeclinabile. Qualunque, qualsiasi. Non ponit menti, t.
ddi nerint (non dà retta, qualunque
cosa gli dicano). Prob. una corruzione da ita chi (qualunque cosa
che).
Tecussèi, avv. Altrimenti. Beni
imoi, t. mi nd’andu (vieni subito,
altrimenti vado via).
Tedassu, s. m. Setaccio.
Tedescu/a, agg. Tedesco/a.
Tega, s. f. Baccello, l’insieme
delle due valve delle leguminose
che racchiudono il frutto vero e
proprio di fagioli, piselli, fave, carrube, etc.
Tegadia, s. f. Larva d’insetto,
tarlo. Si usa nelle imprecazioni, in
una in particolare, ellittica del
verbo: ancu sa t. (che ti si attacchi
il tarlo).
Teglia, s. f. Pietra piatta. Ma si
usa anche, più genericamente, ad
PAOLO PILLONCA
indicare una pietra da scagliare
contro q.no. La’ ca ti scudu una t.
(guarda che ti lancio un sasso).
Tela, s. f. Tela. Definisce il tessuto di cotone, lino, canapa e seta.
Telargiu, s. m. Telaio. Si tratta
del telaio tradizionale, interamente in legno, che quasi ogni famiglia dei paesi della Sardegna interiore
possedeva
per
l’autosufficienza della produzione
tessile domestica.
Telefonada, s. f. Telefonata,
chiamata telefonica.
Telefonai, v. Telefonare.
Teléfunu, s. m. Telefono.
Tèmpera, s. f. Tempra, temperamento virtuoso.
Temperai, v. Temprare, abituare. Soi temperau a bentu e soli, a ni’
e a gràndili (sono temprato al
vento e al sole, alla neve e alla
grandine). Temperare le matite. In
senso iron., dd’at temperau a corpus (gli ha dato una sussa).
Temperau/ada, agg. Temprato/a, avvezzo/a.
Temperinu, s. m. Temperino,
piccolo coltello.
Temporada, s. f. Bufera, temporale, tempesta. Indica le perturbazioni dovute alle piogge, alle nevicate e alle grandinate, ma occorre
precisare: una t. de abba, una t. de
nì, una t. de gràndili (una tempe-
Mancarìas. La parlata di Seui
sta di acqua, di neve, di grandine),
etc.
Tempus, s. m. Tempo, lo scorrere dei giorni e degli anni che nessuno può fermare. Occorre prenderlo così come arriva. Benit su t.
giustu po dónnïa cosa (arriva il
tempo giusto per ogni cosa).
L’aspetto bello, mediocre o brutto
del cielo. Il beltempo è su t. bonu,
il maltempo su t. malu. La saggezza degli anziani avverte: contras a
su t. s’òmini non podit nudda (contro il tempo l’uomo non può
nulla). Il tempo degli uomini è
misurato da ciascuno sulla stagione della propria giovinezza. Non
fut in tempus nostu (non era nel
nostro tempo).
Téndili, s. m. Tendine.
Tèndiri, v. Tendere. No mi tendit mancu sa manu (non mi tende
neppure la mano). Avere il vizio di
rubare bestiame (gergale dei
pastori). Alla lettera, il v. vale:
allungare le mani. Cussu si costumat t. (quello ha il vizio di rubare
bestiame).
Téndïu/a, agg. Teso/a.
Teni po teni, loc. avv. Quasi in
parità. Ma anche: lì per lì, sul
punto di. Espressione variamente
articolata, anche in chiave ironicosarcastica. Lüisu fut t. po t. cun
Antoni (Luigi era sul punto di rag-
407
giungere Antonio). Pressoché
intraducibile alla lettera, bisogna
ricorrere a forme perifrastiche. Per
capirci, uno dei significati del
verbo ténniri è: catturare dopo un
inseguimento. Dd’at curtu e dd’at
tentu (l’ha inseguito e raggiunto).
T. po t. indica dunque quella particolare situazione in cui è sul
punto di definirsi uno stato di
parità tra contendenti di livello
non eccelso. La loc. si usa per lo
più in rif. a situazioni di contesa
tra persone poco virtuose.
Ténniri, v. Avere, possedere, disporre. No ndi tengiu (non ne ho),
tenit dinari (ha soldi). Considerare.
Dda tenit fidada (la considera fidata), Maria a su sposu ddu tenit po
crobetori (Maria considera il fidanzato come un coperchio), Lüisu a
sa pobidda dda tenit in prusu (Luigi
considera la moglie un sovrappiù),
ti tengiu po chini sesi (ti considero
per ciò che sei), su chi m’at fatu
Pìlimu ddu tengiu po befa (la condotta di Priamo nei miei confronti
la considero una beffa). Catturare.
Apu tentu un’angioni ’e murva (ho
catturato un mufloncino), cuss’ebba
est mala a t. (quella cavalla è difficile da prendere).
Tentu/a, agg. Avuto/a, tenuto/a,
ottenuto/a.
Tenori, s. m. Canto tradizionale
408
antichissimo a quattro voci: un
solista e tre coristi, senza alcun
accompagnamento strumentale,
una delle perle più rare dell’inestimabile patrimonio tramandatoci
dai nostri antenati più lontani.
Cussu piciocu cantat beni a t. (quel
ragazzo canta bene a tenore).
Conformità. A t. de su chi mi narat
dd’arrespundu (secondo ciò che mi
dice gli darò la risposta)
Tentura, s. f. Cattura. Rif. al
bestiame che pascola dove non
dovrebbe.
Tenturai, v. Catturare un animale sorpreso a pascolare abusivamente. Su cüaddu ’e Ubbaldu dd’at
tenturau sa guardïa ’e muncìpïu (il
cavallo di Ubaldo è stato catturato
dalla guardia comunale).
Tenturau/ada, agg. Catturato/a.
Terra, s. f. Terra, il terreno che si
calpesta e si lavora, anche quello
incolto, sottosuolo compreso. Ma
nella parlata di Seui questo sostantivo indica primariamente il territorio comunale, ossia il patrimonio incommensurabile che i cittadini attuali hanno avuto in eredità
dai loro antenati nell’antica forma
del possesso e dell’uso comune. La
singolarità è data dal vincolo degli
usi civici che assegnano la proprietà esclusiva dei quattordicimila
ettari di terreno a ciascuno dei cit-
PAOLO PILLONCA
tadini residenti in parti uguali e i
tre diritti basilari ed ineliminabili
che ne conseguono: legnatico,
erbatico e ghiandatico. Questa
terra splendida, segnata da strapiombi e foreste secolari di leccio,
profonde grotte carsiche e animali
selvatici (mufloni, cinghiali, cervi,
dàini, martore, falchi e aquile
reali), accarezzata dalla neve e dal
vento e sulla quale non ha mai
avuto applicazione il famigerato
editto delle chiudende di casa
Savoia, non può essere venduta né
affittata e non è nemmeno usucapibile. Verso questa singolare
forma di proprietà esiste un sentire comune profondamente tenace,
un legame di sentimenti tanto
radicati che ricordano un rapporto filiale. Terra madre nel senso
più genuino di queste due parole,
dunque, quella di su comunali.
Una madre carissima per i figli che
l’hanno storicamente difesa:
l’ultima rivolta di popolo risale al
1973, quando gli ottocento ettari
di Orboredu, in pieno salto di
Esterzili, vennero occupati per
sottrarli a un contratto d’affitto
illegittimo stipulato dal Comune
con un allevatore forestiero. Sa t.
dd’eus connota de is antigus nostus
(la terra l’abbiamo ereditata dai
nostri antenati): è una frase che si
Mancarìas. La parlata di Seui
risente di continuo, a Seui, ogni
volta che si parla di su comunali, il
territorio comune. L’impiego
ordinario del s. dà luogo a una
lunga serie di espressioni: totus
depeus torrai a sa t. (tutti dobbiamo tornare alla terra), su primu est
de sa t. (il primo frutto è della
terra), sa t. nc’est in basciu (la terra
è in basso), per burlarsi dei poltroni che non amano adoperare la
zappa, fàiri unu e a t. (morire di
colpo), dd’at postu a t. (l’ha licenziato). Vedi aterrai.
Terramàina, s. f. Argilla.
Terramanna, s. f. Continente.
Terramannesu/a, agg. Continentale.
Terrangiu/a, agg. Direttamente
legato alla terra. Detto soprattutto
di insetti e vermi.
Terrosu/a, agg. Terroso/a.
Tertzinu, s. m. Terzino. Gergale
del gioco del calcio.
Tertzu/a, agg. num. ord. Terzo/a.
Tesoru, s. m. Tesoro.
Tessidora, s. f. Tessitrice.
Tessidura, s. f. Tessitura.
Tessingiu, s. m. Tessitura.
Tèssiri, v. Tessere. L’atto della
tessitura al telaio a mano.
Téssïu/a, agg. Tessuto/a, intessuto/a.
Testadori, s. m. Assaggiatore.
409
Testadura, s. f. Degustazione.
Testai, v. Assaggiare.
Testamentu, s. m. Testamento.
Testau/ada, agg. Assaggiato/a.
Testimongiu, s. m. Testimone.
Téula, s. f. Tegola. È anche
nome coll. Mi bisongiat t. (mi servono tegole).
Tëulaciu, s. m. Coccio di tegole. Funge da nome coll. Boddendi
cussu t. (raccogli quei cocci).
Tëulada, s. f. Copertura di tegole. È anche il nome di un paese del
Sulcis, tra i più danneggiati dalle
servitù militari in Sardegna.
Tïaglia, s. f. Tovaglia. In senso
lato - rif. a persona amante dei
festini - figura nei soprannomi.
Tiàmini, escl. Diamine.
Tïanu, s. m. Concola, generalmente di terracotta. Usato anche il
dim. tianeddu.
Tïàulu, s. m. Diavolo, demonio.
Spesso in frasi non riferite direttamente al maligno. Pesaminceddu
cussu t. ’e marroni (levami di
mezzo quel diavolo di zappa).
Ticadura, s. f. Sbiadimento,
perdita di brillantezza.
Ticài(si), v. Scolorire, perdere
brillantezza, sbiadire. Detto
soprattutto dei tessuti. Cussu lantzoru est tichendusì (quel lenzuolo
sta perdendo colore). Il v. si usa
anche in rif. all’uomo che porta
410
sul volto i segni di qualche malattia. Coment’e bentina parit ticau
(all’aspetto sembra che abbia una
malattia interna).
Ticau/ada, agg. Sbiadito/a,
compromesso/a.
Tichitaca, s. m. Ticchettio, tictac.
Tiddu, s. m. Pezzo di legno squadrato che - a seconda delle dimensioni - può servire come base per le
botti o come banco d’appoggio per
sezionare la carne macellata.
Tidili, s. m. Cercine. In senso
fig., persona di scarsissimo valore.
Est unu t. (è un miserabile).
Tidongia/melatidongia, s. f.
Mela cotogna.
Tidori , s. m. Colombaccio
(columba palumbus). Figura in un
toponimo, T. Murru (colombaccio bianco).
Tifosu/a, s. e agg. Tifoso/a,
sportivo/a.
Tifu, s. m. Tifo, salmonellosi.
Timaculu, s. e agg. Pauroso,
fifone.
Timbradori, s. m. Timbratore.
Timbradura, s. f. Timbratura.
Timbrai, v. Timbrare.
Timbrau/ada, agg. Timbrato/a.
Timbru, s. m. Timbro, bollo.
Tingia, s. f. Tigna, patologia
della pelle. Met. povertà.
Tingiosu/a, agg. Affetto/a da
PAOLO PILLONCA
tigna, tignoso/a. Tengiu is crabas
totu tingiosas (ho tutte le capre
malate di tigna). In senso fig. povero, misero, indigente. Est unu t. (è
un poveraccio).
Tìngiri, v. Tingere, colorare.
Vedi intìngiri.
Tinta, s. f. Inchiostro.
Tinteri, s. m. Calamaio.
Tintu/a, agg. Tinto/a, colorato/a.
Tira, s. f. Tiraggio, trazione.
Usato in loc. avv. Cussu calluciu
ddu portat a t. (quel cagnolino ce
l’ha sempre appresso).
Tirada, s. f. Tirata, sforzo continuato. Viva la loc. a una t.
Tiradura, s. f. Trazione.
Tiragiu, s. m. Leva militare.
Tirai, v. Tirare.
Tirau/ada, agg. Tirato/a.
Tirri, escl.. di sfida.
Tìrrïa, s. f. Sfida, pervicacia,
ostinazione. Poderat sa t. (si ostina
nella sua sfida).
Tirri marranu, s. m. Sfida aperta. Dd’at postu su t. m. (l’ha sfidato apertamente).
Tirrïosu/a, agg. Ostinato, pervicace, prepotente.
Tita, s. f. Mammella, seno. Si
usa per la femmina dell’uomo e
degli altri mammiferi.
Titìa, escl. che esprime sensazione di freddo.
Mancarìas. La parlata di Seui
Titifoddi, agg. Dalle mammelle
grandi. Gergale dei pastori, in rif.
a capre e pecore.
Titifrïus, s. m. Sensazione di
freddo, tremore. Est a t. (trema dal
freddo).
Titona, agg. Tettona. Sin. di
tituda.
Tituda, agg. Pettoruta, dai grandi seni.
Tocai, v. Toccare. L’atto e
l’effetto del venire a contatto. In
qualche caso indica il rapporto
sessuale. A sa pobidda no dda tocat
prusu (non ha più rapporti sessuali con la moglie). Assaggiare per la
prima volta il vino nuovo. Cras
tocaus su ’inu (domani assaggeremo il vino).
Tocai, v. Occorrere, bisognare.
Usato impersonalmente. At a t. a
mòviri (bisognerà partire), tocat a
coidai (occorre far presto).
Tocau/tocada, agg. Toccato/a,
rintoccato/a.
Tocu, s. m. Tocco, contatto,
tatto. Dd’apu connota a su t. (l’ho
riconosciuta appena l’ho toccata).
Tocu, s. m. Rintocco di campana, diverso a seconda dell’annuncio - lieto o triste - che deve dare.
Su tocu per eccellenza segnala un
decesso nella comunità: dd’ant
intrau su t. (gli hanno già dedicato
il rintocco).
411
Todonera, s. f. Preparazione di
cibi. Il s. è usato in senso ir. per
indicare i festini e le scorpacciate.
Todoneri, s. e agg. Goloso,
mangione, amante dei festini.
Tonaglia, s. f. Tenaglia. Presente
nei soprannomi.
Tontassu/a, agg. Piuttosto sciocco/a.
Tontesa, s. f. Scempiaggine,
sciocchezza, azione o parola maldestra, stupidaggine. Non neris
tontesas (non dire sciocchezze).
Tontidadi, s. f. Sciocchezza. Sin.
di tontesa.
Tontigeddu/a, agg. Sciocchino/a.
Tontonai, v. Socchiudere, accostare una porta senza chiuderla del
tutto.
Tontonau/ada, agg. Socchiuso/a.
Tontu/a, agg. Tonto/a. Vedi
balossu, bambassu, càdumu, codina
codobba, conciofa, prupu.
Topi, s. m. Sorcio, topo. Volg.
vagina, fica. Bellu t. (bella ragazza).
Torracontu, s. m. Tornaconto,
guadagno, lucro.
Torrada, s. f. Ritorno, rientro.
Torrada, s. f. Ritornello di una
canzone. Vedi stèrrida.
Torrai, v. Tornare, ritornare,
come verbo di moto a e da luogo.
412
Domìnigu fortzis ap’a t. a bidda
(domenica forse tornerò in paese).
Ma ha anche numerosi altri significati. Insistere. E ddu-i torrat
(ecco che insiste). Rispondere. Si
dd’apu pregontau ma Lüisu no m’at
torrau nudda (gliel’ho chieto ma
Luigi non mi ha dato alcuna
risposta). Con l’avv. mali asssume
il significato di dimagrire. Mi
paris torrau mali meda (mi sembri
molto dimagrito). Restituire. Si
ddu depu t. (glielo devo restituire).
Rinvenire da una lipotimia. Lüisu
s’est addramäinau totu in-d-una e
no arrennescia a ddu fàiri torrai
(Luigi è svenuto d’un colpo e non
riuscivo a farlo rinvenire). Vedi
addramäinàisi. Ritorcersi contro.
Ti ndi torrat in càrigas (ti si ritorcerà contro, lett. sul naso). Vedi
càriga.
Torrau/ada, agg. Ritornato/a,
restituito/a, risposto/a.
Tostadassu/a, agg. Tendente alla
durezza, piuttosto duro/a. Nella
parlata di Seui, il suffisso -assu
attenua il significato dell’aggettivo, assumendo quasi la funzione
di diminutivo. Vedi bambassu, fridassu, salidassu, etc.
Tostadura, s. f. Indurimento.
Tostai(si), v. Indurire, indurirsi.
Dd’at tostau sa ciligia (l’ha indurito la brina), cussu durci si tostat
PAOLO PILLONCA
(quel dolce si indurisce). Il part.
pass. tostau è anche sin. di cocciuto, testardo, poco intelligente,
duro di comprendonio.
Tostau/ada, agg. Duro/a.
Tostóinu, s. m. Testuggine, tartaruga.
Totoni, n. pr. di pers. Antonio,
vezzeggiativo
Totorgiai/atotorgiai, v. Attorcigliare. In senso fig. confondere,
complicare le cose.
Totorgiau/ada, agg. Attorcigliato/a.
Totorgiu, s. m. Attorcigliamento, complicazione, confusione, tranello. Lassamì is totorgius
(lasciami stare le complicazioni).
Totori, n. pr. di pers. Salvatore,
vezzeggiativo. Frequente il dim.
Totoreddu.
Trabbagliai, v. Lavorare. Rif. a
tutti i tipi di lavoro, specie a quello manuale.
Trabbaglianti, agg. Amante del
lavoro.
Trabbagliau/ada, agg. Lavorato/a.
Trabbagliosu/a, agg. Difficoltoso/a, difficile da realizzare.
Trabbagliu, s. m. Lavoro. In
bidda no nc’iat t. e est tocau a partiri (nel paese non c’era lavoro e
siamo stati costretti ad emigrare).
Ma anche difficoltà, preoccupa-
Mancarìas. La parlata di Seui
zione. A fàiri su chi ’olit dd’at a
donai t. (per fare ciò che vuole
avrà difficoltà). Faticare. Viva la
loc. a t. (a fatica).
Tradùsiri, v. Tradurre. Cussu
piciocu tradusit de paricias limbas
(quel ragazzo traduce da diverse
lingue). Decodificare, intuire,
immaginare. Su chi no m’at nau soi
arrennéscïu a si ddu t. äici etotu
(sono riuscito ad intuire ugualmente anche ciò che non mi ha
detto).
Tradùsïu/a, agg. Tradotto/a.
Anche in senso lato, come per gli
altri tempi e modi del verbo.
Tradutzïoni, s. f. Traduzione.
Tragagliai, v. Mormorare, criticare alle spalle, in assenza del criticato. Ndi tragagliat de genti, cussa
(quanta gente critica, quella).
Tragagliau/ada, agg. Criticato/a.
Tragagliu, s. m. Critica, mormorio.
Tragai, v. Trasportare. Nd’apu
tragau totu sa linna po s’ierru de su
padenti a su caminu (ho trasportato tutta la legna per l’inverno dalla
foresta alla strada).
Tragau/ada, agg. Trasportato/a.
Tragera, s. f. Nome collettivo
che indica i confettini di zucchero
tondi, minuscoli e multicolori,
che servono come ornamento di
413
alcuni tipi di dolci.
Tragiu, s. m. Modulazione di
voce, stile di canto.
Träìgiri, v. Tradire. Part. pass.
traìgïu e traitu.
Träitori, s. m. Traditore.
Träitorìa, s. f. Tradimento, inganno.
Trama, s. f. Trama, il complesso
dei fili che si intreccia con l’ordito
attraverso la spola nel telaio.
Gergale delle tessitrici.
Trampaneri, s. f. Imbroglione,
inaffidabile, ingannevole.
Tràmuda, s. f. Transumanza.
Indica l’operazione autunnale di
trasferimento del bestiame dai
pascoli alti a quelli di pianura e il
corrispondente viaggio di ritorno
sulla montagna subito dopo la
prima metà di maggio.
Trànsiri, v. Spostare. Su fosili fut
innoi, chelegunu dd’at trànsïu (il
fucile era qui, qualcuno l’ha spostato). Ma anche, più in generale:
cambiare, mutare, passare, in un
modo di dire ormai desueto: transit ora, transit puntu (passa l’ora,
sfuma l’occasione) e nell’espressione de igui non transit (da lì non si
sposta), riferito a una conclusione
obbligata, stante una determinata
premessa.
Trànsïu/a, agg. Spostato/a, cambiato/a di posto.
414
Trapa, s. f. Botola lignea. Nelle
case di una volta, che non avevano
pavimento in muratura, dava
adito ad una scala che conduceva
al piano successivo, generalmente
al pianoterra o alla soffitta.
Trassa, s. f. Furberia, imbroglio,
inganno, tranello
Trassai, v. Macchinare, imbrogliare, ingannare.
Trasseri/a, agg. Imbroglione/a,
fraudolento/a. Usata anche la
variante trassistu.
Trassinnadori, s. e agg. Falsificatore.
Trassinnadura, s. f. Contraffazione dei segni del bestiame.
Trassinnai, v. Contraffare i segni
identificativi del bestiame.
Trassinnau/ada, agg. Contraffatto/a, falsificato/a.
Trassudda, s. f. Il s. è usato
esclusivamente nella similitudine
cotu che trassudda (ubriaco fradicio). A meno che non si tratti del
nomignolo di un ubriacone rimasto famoso e nello stesso tempo
anonimo - nel senso che è impossibile dargli nome e cognome -,
così soprannominato, come avviene di frequente nella parlata di
Seui: unfrau che Lorrai, tzurpu che
tzia Tzipiredda, etc. Vedi unfrau e
tzurpu.
Trasti, s. m. Attrezzo, arnese.
PAOLO PILLONCA
Trata, s. f. Traccia, orma.
Tratabucu, s. m. Fazzoletto da
naso. Desueto.
Tratacasu, s. m. Grattugia per il
formaggio. Vedi tresinacasu.
Tratai, v. Intrattenere relazioni.
Cun cussu non tratat (con quello
non ha rapporti). Trattare. Dd’apu
’idu ’eu cun is ogus mius e comenti
ddu tratant (ho visto con i miei
occhi come lo trattano). Grattugiare. No iscìt nemancu t. su casu
(non sa neppure grattugiare il formaggio). In questa accezione vedi
tresinai.
Tratalìa, s. f. Interiora dell’agnello, del capretto e talora del
suino lattonzolo, avvolte nell’intestino ripulito degli stessi animali e
cotte arrosto. Figura nei soprannomi.
Tratamentu, s. m. Trattamento,
modo di comportarsi nei confronti del prossimo. Iat éssiri a biri su t.
(bisognerebbe vedere il comportamentu).
Traténniri, v. Trattenere, fermare, intrattenere. Il part. pass. è tratésïu e traténnïu. Vedi apoderai.
Trau, s. m. Fenditura, ferita. Per
estensione: àsola, pur sempre una
fenditura.
Trava, s. m. Pastoia di ferro.
Travas sono anche i famigerati
ferri di campagna. Di qui l’uso
Mancarìas. La parlata di Seui
della parola anche nell’imprecazione ellittica del pred. verb.: is
travas (sott. ti pongiant, ti mettano).
Trébini, s. m. Tripode in ferro
usato nei caminetti per reggere
pentole e padelle.
Trebussu, s. m. Forcone a tre
punte, tridente. Vedi atrebussai.
Tréigi, agg. num. card. Tredici.
Trèmini, s. m. Limite, confine
tra una proprietà terriera e
un’altra. Vedi atremenai.
Trèmiri(si), v. Tremare. Chi
dd’abóginas Linu si trémit (Se alzi
la voce Lino trema).
Trémïu/a, agg. Tremato/a.
Trempa, s. f. Guancia. In senso
lato indica anche quelle pareti
delle montagne che dànno l’idea
di una guancia. Vedi cùcuru, sedda
e serra.
Tremposu/a, agg. Superbo/a,
grintoso/a. Lett. che mostra la
mascella.
Trémula, s. f. Tremore, tremolìo.
Tremulanti, agg. Tremante, tremebondo.
Tremuledda, s. f. Lieve tremore.
Trenïeddu, s. m. Trenino.
Trenu, s. m. Treno. Pres. nei
soprannomi.
Tres, agg. num. card. Tre. Nella
pronuncia, in fine di frase acquista
415
la vocale paragogica (tresi): nde
dd’apu ’onau tresi (gliene ho dato
tre). In corso di frase, davanti alle
consonanti b, d, g, m, n, si muta
in r. (trer bois, tre buoi; trer dentis,
tre denti; trer gatus, tre gatti; trer
mous, tre starelli; trer nais, tre
rami). Davanti alla l si assimila:
trellobus (tres lobus, tre lacci).
Davanti a tutte le altre consonanti
conserva la s (tres canis, tre cani;
tres puddas (tre galline); tres funis
(tre funi); tres sirbonis (tre cinghiali); tres téulas (tre tegole). Pres. nei
soprannomi.
Tresinacasu, s. f. Grattugia per il
formaggio. Vedi tratacasu.
Tresinadura, s. f. Grattugiamento.
Tresinai, v. Grattugiare. Mi soi
scaréscïu ’e t. su casu (ho dimenticato di grattugiare il formaggio).
Più in generale, provocare escoriazioni. Dd’at tresinau unu ’rassu (gli
ha procurato escoriazioni a un
braccio).
Tresinau/ada, agg. Grattugiato/a, escoriato/a.
Tressa, s. f. Camminamento
stretto fra le rocce. Figura in più di
un toponimo della zona del
Tónneri, dove quei passaggi sono
frequenti e in un altro - proprio
Tressa - nella parte bassa del territorio comunale.
416
Tressai, v. Attraversare. Soprattutto in senso fig. Chi ddi tressat
fait dannu (se gliene viene voglia
fa danno). Frequente la loc. avv. de
tressu, di traverso.
Tressau/ada, agg. Attraversato/a.
Tresseti, s. m. Tressette, gioco di
carte.
Tressu/trüessu, s. m. e agg.
Traverso. Desueto.
Tretu, s. m. Spazio poco esteso.
La loc. avv. a tretus - spesso anche
reiterata - vale: parzialmente, non
del tutto.
Trëuladura, s. f. Trebbiatura.
Ma il s. viene usato in senso ironico, specie nella loc. avv. a t., per
indicare un disordine simile al
caos dell’aia.
Trëulai, v. Trebbiare. In senso
fig. portare disordine, sconvolgere, provocare caos. Anche nella
forma rifl. Si trëulat (va fuori di
sé).
Trëulau/ada, agg. Trebbiato/a.
In senso fig. travolto/a dall’ira.
Trëulera, s. f. Trebbiatura.
Tréulu, s.m. Baruffa, disordine,
sconvolgimento, confusione. Ddu
at sussédïu unu t. mannu (è scoppiata una grande baruffa).
Trevessai(si), v. Mettersi di
mezzo.
Trevessu/a, agg. Contorto/a,
PAOLO PILLONCA
cattivo/a, ostinato/a, sconcertante.
L’espr. andai a t. vale: vagare senza
meta.
Trevessura, s. f. Azione disdicevole. Fatu fatu fait cheleguna t.
(spesso commette azioni sconcertanti).
Trïateri, s. m. Teatrante.
Trïatu, s. m. Teatro. Per est.
divertimento, scherzo, spasso. Ddi
pragit a fàiri t. (gli piace scherzare
da protagonista).
Tridussa, s. f. Pecora tosata tre
volte, dunque di quattro anni.
Triga, s. f. Pergolato.
Trigiolu, s. m. Tovagliolo grezzo
in cotone o juta. Tra gli usi frequenti, quello di avvolgere su casu
in fìligi (vedi) per togliergli su
soru, il siero.
Trigu, s. m. Grano.
Trilla, s. f. Sussa, percossa. Rif.
soprattutto ai bambini. Nd’at boddìu una grandu t. (ha preso una
sussa solenne)
Trillai, v. Percuotere, picchiare
per punizione i bambini disubbidienti e/o discoli.
Trillau/ada, agg. Picchiato/a,
sempre rif. a bambini.
Trinca, s. f. Gruppo di tre diverse carte importanti dello stesso
seme oppure di tre carte uguali di
semi diversi. Gergale del gioco
delle carte.
Mancarìas. La parlata di Seui
Trincada, s. f. Bevuta.
Trincai, v. Bere. Lo si impiega
quasi escl. in tono scherzoso. Ndi
trincat de binu, cuddu (ne beve di
vino, quello).
Trincau/ada, agg. Bevuto/a.
Trincera, s. f. Ammucchiamento di neve dovuto al vento.
Trinceramentu, s. m. Trincea.
Gergale residuale dei soldati delle
ultime guerre.
Trincheteddu, s. m. Passettini
svelti di piccoli animali. Linu fut
andendu a t. ’e cani (Lino camminava a passettini svelti come un
cane).
Trinchetu, s. m. Passo svelto,
riferito soprattutto all’andatura di
animali di taglia media. Presente
nei soprannomi.
Trinciau, s. m. Tabacco trinciato.
Trincu, s. m. Ferita (leggera) da
taglio.
Trinnitai, s. m. Ornare, ingioiellare. Sarcastico. Chini trinnitat
spingit (chi ingioiella ha diritto di
fare l’amore).
Trinnitu, s.m. Ornamento,
gioiello. Usato prevalentemente in
senso ir.
Trinta, agg. num. card. Trenta.
Vivi i modi di dire su chi fait t. fait
trintunu (ciò che fa trenta fa trentuno) e su chi fait trinta fait coran-
417
ta (ciò che fa trenta fa quaranta),
nel senso di un’esortazione a non
essere pignoli.
Trinu/a, agg. Celeste. Portat is
ogus t. (ha gli occhi celesti).
Tristura, s. f. Tristezza. Si usa
anche per definire una situazione
imprevista difficile da risolvere e
piena di complicazioni gravi: est
una t. (è una tristezza). Vedi intristai.
Tristu/a, agg. Triste. La similitudine più frequente è t. che-i sa noti
(triste come la notte).
Trobea, s. f. Pastoia. Pres. nei
soprannomi.
Trobidori, s. m. Impastoiatore.
Trobidura, s. f. Impastoiamento. Competenza al limite della
specializzazione, più che mai utile
durante le operazioni di tosatura
quando occorre essere svelti nell’impastoiare le pecore per farle
trovare pronte ai tosatori.
Trobiri, v. Impastoiare. Trobi
s’ebba (metti le pastoie alla cavalla). In senso fig. vale confondere.
Al rifl. incepparsi. Si trobit füeddendu (si inceppa nel parlare).
Trobìu/a, agg. Impastoiato/a. In
senso fig.: incerto/a, insicuro/a,
balbettante.
Tróciri, v. Spostare. Troci cussa
càvana (sposta quella roncola).
Vedi trànsiri.
418
Trócïu/a, agg. Spostato/a.
Troddïai, v. Scorreggiare.
Troddïoni, s. m. Scorreggione.
In senso fig. persona di scarsissimo
valore, incapace di autocontrollo.
Tròddiri(si), v. Muovere, muoversi. Usato in senso ir. Non si
podit t. (non riesce a muoversi).
Tróddïu, s. m. Scorreggia. Met.
chiacchiera, pettegolezzo, ciarla.
Ndi ’oddit dònnïa t. (raccoglie
ogni tipo di pettegolezzo).
Troga, s. m. Imbroglio, pretesto,
raggiro, scusa, sotterfugio. Lassamì
is t. (mettimi da parte i pretesti).
Usata la loc. avv. in t. (con un
inganno).
Trogai, v. Avvolgere. Trogamiddu in-d-unu pannu (avvolgimelo
in un panno). In senso met.
imbrogliare. Dd’at trogau (l’ha
ingannato).
Trogheri, s. m. Imbroglione,
inaffidabile.
Trogiai(si), v. Vestir male sé stesso o altri, abbigliarsi sconvenientemente. E poita ti trogias aici?
(perché ti vesti così male?).
Trógulu, s. m. Persona maldestra e dal passo malfermo, che
inciampa facilmente.
Troïa, s. f. Puttana, troia.
Trona, s. f. Pulpito. Per estensione, luogo di privilegio. Giai ndi
calas de cussa t. (sei destinato a
PAOLO PILLONCA
scendere da quel pulpito).
Tronai, v. Tuonare. Indica il
fenomeno atmosferico. A primu
atongiu costumat t. meda (all’inizio
dell’autunno si verificano molti
tuoni). Candu tronat, su lampu est
(pr. er) giai calau (quando tuona,
il fulmine è già sceso).
Tronu, s. m. Tuono. Anche in
senso fig. Dàrïu fut amelessendu
lampus e t. (Dario minacciava
lampi e tuoni). Molto usata la
met. furint prus is sonus chi no is t.
(erano più i rumori che i tuoni).
Vivo nell’imprecazione ancu ti
calit t. (che ti scenda un tuono).
Trotu/a, agg. Storto/a. Met. nella
loc. avv. a t. (maldestramente).
Trubu, s. m. Getto forte d’acqua
piovana o di fonte. Cussa funtana
calat a t. (quella fontana dà un
forte getto d’acqua).
Truddoni/a, agg. Grosso/a, maldestro/a, persona dai movimenti
difficoltosi.
Trudu, s. m. Tordo (turdus philomelus o turdus musicus). In senso
fig. introverso, taciturno (rif. soltanto ai maschi).
Trüiscu, s. m. Dafne montana
(dafne mezereum), usata con
l’euforbia e la saponaria per avvelenare i fiumi.
Trulu/a, agg.Torbido/a. Cussu
’inu est t. (quel vino è torbido).
Mancarìas. La parlata di Seui
Vedi intrulai.
Trumbugliai, v. Scuotere, sconvolgere.
Trumbugliau/ada, agg. Sconvolto/a, scosso/a.
Trumbugliu, s. m. Confusione,
sconvolgimento. In sa festa ddu at
sussédïu unu grandu t. (nella festa
sono scoppiati gravi disordini).
Truma, s. f. Gruppo numeroso,
torma, comitiva. Con venatura di
spregio. Ndi ’enint sempir a trumas
(arrivano sempre in gruppi numerosi).
Truncadura, s. f. Troncamento.
Truncai, v. Troncare.
Truncau/ada, agg. Troncato/a.
Truncheddu, s. m. Piccolo
tronco.
Trunchesina, s. f. Piccola tenaglia a forma di becco di uccello
rapace utilizzata per tagliare il filo
di ferro. Tronchesina.
Trunconassu, s. m. Uomo
impacciato, grossolano. Presente
nei soprannomi.
Trunconi, s. m. Grosso tronco.
Truncu, s. m. Tronco.
Trunculimba(a), s. m. Spezzetatura di discorso, come se chi lo
pronuncia avesse la lingua mozza
(truncada). Usato nella loc. avv. a t.
Trunfa, s. f. Scacciapensieri.
Strumento musicale, secondo
alcuni di probabile origine medio-
419
rientale, costituito da una piccola
lamina in acciaio fissata a un supporto in metallo. Si suona appoggiandolo alle labbra e facendone
vibrare la làmina.
Trutera, s. f. Tegame di terracotta, zuppiera. Presente nei soprannomi.
Tudai, v. Ricoprire di terra, seppellirre.
Tudau/ada, agg. Ricoperto/a di
terra, seppellito/a.
Tüedda, s. f. Cespo di funghi
spuntati tutti insieme in numero
consistente. Eriseru apu agatau una
bella t. ’e cardulinu ’e petza (ieri ho
trovato un bel cespo di funghi da
férula).
Tui, pr. pers. Tu. Può fare da
soggetto (naramiddu t., dimmelo
tu; imoi nci ses t., adesso ci sei tu)
e da compl. (soi nendu a t., dico a
te; de t. no mi ddi àiri crétïu, da te
non l’avrei mai creduto; peus po t.,
peggio per te).
Tumbu, s. m. Canna principale
delle läuneddas, che fa da bordone. Vedi mancosa e mancosedda.
Tundidori, v. Tosatore, tonsore.
Tundidura, s. f. Rasatura di
capelli e velli. Freq. in loc. avv.
Tundimenta, s. f. Tosatura delle
pecore. Sa t. indica l’operazione
canonica, che si verifica alla fine
della primavera negli ovili, con
420
una gran festa che tradizionalmente coinvolge vicini di pascolo
e ospiti esterni. Oggi in declino
anche per l’inesistenza del mercato della lana, la si celebra come un
normale spuntino agreste.
Tùndiri, v. Tosare. Part. pass.
tùndïu/a. Si riferisce alle pecore oggi passate quasi totalmente dalle
cesoie tradizionali alle macchinette a batteria- scherzosamente
anche agli uomini. Mi parit ca mi
tundu (quasi quasi mi taglio i
capelli).
Tùndïu/a, agg. Tosato/a, rapato
a zero.
Tundu/a, agg. Rotondo/a, tondo/a. Vedi atundai.
Tùnigu, s. m. Rudere, relitto
fisico e morale. Vivo nell’espressione est unu t. ’eciu (è un vecchio
rudere).
Tupa, s. f. Macchia, nascondiglio.
Tupadura, s. f. Chiusura a tappo.
Tupai, v. Tappare, chiudere per
bene. Per est. si impiega anche per
invitare in modo brusco le persone troppo loquaci a chiudere
finalmente la bocca, nell’espr.
ellittica del compl. oggetto tupadì
(lett. tàppati, sott. la bocca).
Tupau/ada, agg. Tappato/a,
chiuso/a a dovere.
Tuponi, s. m. Tappo di dimen-
PAOLO PILLONCA
sioni superiori alla media.
Turnichetu, s. m. Tornante, curva
a gomito. Francesismo entrato nella
parlata di Seui, come altri, per effetto della migrazione massiccia di
minatori seuesi in Francia nei primi
decenni del secolo scorso. Vedi
boïabbessa, botada, brichetu, sortiri.
Turra, s. f. Mestolo. Più precisamente, turra cofuda è il mestolo
vero e proprio, turra stampada
indica invece la schiumarola. In
senso fig. deficienza, scempiaggine. Est una t. (è un cretino), ndi
portat de t. cussu (ne ha di scempiaggine, quello).
Turradori, s. m. Tostatore, tostino. Utensile cilindrico a manico
lungo, fino a non molti anni fa
comunemente usato per la tostatura del caffè e dei ceci.
Turradura, s. f. Tostatura.
Turrai, v. Tostare. Rif. principalmente al caffè, ma anche alle nocciole, etc. In senso fig. rincitrullire, deteriorare. Est totu turrau (è
completamente rincretinito).
Turrau/ada, agg. Tostato/a. In
senso fig. rimbecillito/a.
Turri, s. f. Torre.
Turronaïu, s. m. Torronaio, produttore e/o venditore di torrone.
Turroni, s. m. Mestolone. In
senso fig. deficiente, cretino.
Turroni, s. m. Torrone. Attual-
Mancarìas. La parlata di Seui
mente nessuno lo produce più, ma
tra la fine del 1800 e i primi del
secolo scorso esisteva nel paese
qualche laboratorio artigianale. Lo
testimonia una fonte affidabilissima, il medico storico di Seui
Demetrio Ballicu, in una sua pubblicazione (Brevi saggi di indole
varia, 1977, cit.). Pres. nei soprannomi.
Turta, s. f. Torta.
Tussi, s. m. Tosse. Con qualche
spec. ulteriore: t. canina, ad es., è
la pertosse.
Tùssiri, v. Tossire. Custu mengianu su pipìu no at tùssïu nudda
(stamane il bambino non ha tossito affatto).
Tùturu, s. m. Mattarello.
Tû/tua, agg. e pr. poss. Tuo/tua.
Sempre posposto al s. cui si riferisce. Is crabas tuas (le tue capre), is
procus tûs (i tuoi maiali).
Tuva, s. f. Albero cavo nella
parte iniziale del tronco.
Tùvara, s. f. Erica (Erica scoparia). La def. è generica, dell’arbusto nel suo insieme. Se invece si
vuole distinguere fra le diverse
parti dello stesso si precisa: matoni
indica l’arbusto, cambu il ramo,
codina la radice Nei rituali magico-religiosi del mondo pastorale i
rami dell’erica in fiore venivano
utilizzati, nelle ore canoniche del
421
tramonto e dell’alba, per accompagnare la pronuncia dello scongiuro nel rituale terapeutico messo
in atto per far guarire il bestiame
affetto da ferite purulente.(su ’e
scùdiri).
Tuvaredda, s. f. Prataiolo (psalliota campestris), fungo frequente
in boschi e prati nei pressi dei
macchioni di erica scoparia ma
non solo.
Tuviri, v. Rendere cavo. Detto
soprattutto del materiale ligneo. Il
part. pass. (tùvïu) lo si utilizza in
un’imprecazione-maledizione che
suona tùvïu ’e is canis (scavato dai
morsi dei cani).
Tùvïu/a, agg. Reso/a cavo.
Tuvu, s. m. Cavità fluviale che
funge da nascondiglio per i pesci.
Pìlimu piscat a manu in t. (Priamo
pesca tenendo la mano nella cavità). Luogo riparato, conca.
Presente nella toponomastica per
due località: Tuvusarci, appena
sopra Arcèli, e T. ’e porcilis, al confine con Päuli nella parte alta del
territorio comunale, zona ricchissima di lecci secolari, nel cuore del
Tacu, a oltre mille metri di altitudine.
Tuvudu/a, agg. Cavo/a.
422
PAOLO PILLONCA
TZ
Tzacada, s. f. Colpo.
Tzacadura, s. f. Fenditura, spaccatura.
Tzacài(si), v. Picchiare. Ddi tzacat de cropus (gli dà una sussa). Nel
rifl. scoppiare, dare in escandescenze. Non ti tzachis (non scoppiare).
Tzacheponi (tzaca e poni), s. m.
Gioco che consiste nel sorteggiare
inizialmente una sorta di vittima
predestinata a ricevere sul palmo
di una mano dei forti schiaffi da
uno dei partecipanti che la vittima
non vede, avendo le spalle voltate
rispetto a lui e agli altri giocatori,
e dunque deve tentare di individuare girandosi immediatamente
dopo aver ricevuto il colpo. Il colpito che indovina diventa giocatore attivo e il suo posto viene preso
dal colpitore scoperto. Un tempo
assai diffuso, ora è quasi dimenticato.
Tzàchidu, s. m. Botto, fragore,
frastuono, rumore improvviso e
violento, scoppio. Apu inténdïu
unu tz. (ho sentito uno scoppio).
Tzafaranu, s. m. Zafferano, col-
tivazione un tempo assai frequente negli orti di Seui. Viva la similitudine che-i su molenti chi non
connoscit su tz. (come il somaro
che non conosce lo zafferano), per
definire una mancata intuizione o
una svista clamorosa.
Tzapulada, s. f. Sistemazione di
toppe. Ma il s. è più usato nel linguaggio traslato per indicare una
caduta in cui viene colpito il posteriore. At fertu una tz. (è incappato
in una caduta). Anche in senso fig.
per indicare un intoppo o un
pasticcio. Bella tz. ’e cosa ant apariciau (hanno preparato un bel
pasticcio).
Tzapulai, v. Rattoppare, mettere
le toppe. Riferito soprattutto ai
pantaloni maschili.
Tzapulau/ada, agg. Rattoppato/a.
Tzàpulu, s. m. Toppa. Ma anche
nel senso di: straccio, pezzo di tela,
cotone o lana da buttare. Est prenu
’e tzàpulus (è pieno di stracci).
Tzegu/a, s. e agg. Deficiente,
stupido/a, incapace, stolto/a. Est
una tz. (è una cretina). Verosimile
Mancarìas. La parlata di Seui
il passaggio dalla sfera reale della
cecità - come in altre varianti della
lingua sarda - a quella metaforica
dell’insipienza. Ma per indicare
un non vedente si usa il s. tzurpu/surpu.
Tzeracu/a/intzeracu, s. e agg.
Servo/a. Piuttosto desueto, nella
parlata attuale gli si preferisce largamente serbidori/a.
Tzerimónïa/tzirimónïa, s. f.
Argomento di conversazione,
oggetto di discorso o di dialogo.
Nd’eus pigau tz. (abbiamo toccato
l’argomento).
Tzerimonïai/tzirimonïai,
v.
Citare in assenza dell’interessato,
riferirsi con favore ad una persona
assente. Ti tzerimonïaus fatu fatu
(ogni tanto parliamo di te).
Tzerimonïau/ada, agg. Citato/a,
nominato/a.
Tzerpi/serpi, s. m. Serpe, rettile
in genere. Per estensione definisce
qualunque animale di piccole
dimensioni ma fastidioso. Anche
in senso figurato, per indicare persona irascibile e pressoché intrattabile. Est unu tz.
Tzerrïada, s. f. Chiamata ad alta
voce.
Tzerrïadori, s. f. Strillone.
Tzerrïadura, s. f. Serie di strilli.
Pres. in loc. avv. Ddu lamat a-i tz.
(lo chiama con una serie di strilli).
423
Tzérrïai, v. Gridare, chiamare ad
alta voce, strillare. Vedi intzerrïai.
Tzerrïamentu, s. m. Alto grido.
Quasi sin. di tzerrïadura.
Tzérrïu, s. m. Grido, strillo.
Vedi intzérrïu.
Tziddica, s. f. Cispa.
Tziddicosu/a, agg. Cisposo/a.
Per est. malandato, sprovveduto.
Tzifarosa, n. pr. di persona.
Sinforosa.
Tzinnivurargiu, s.m. Ginepraio,
bosco folto di ginepri, terra adatta
al ginepro.
Tzinnìvuru, s. m. Ginepro
(juniperus oxycedrus).Il s. stavolta
indica soltanto l’albero e non il
frutto, che prende il nome di
bacaredda de tz. L’olio essenziale,
secondo Demetrio Ballicu, ӏ
dotato di triplice attivtà: diuretica,
antisettica delle vie urinarie e balsamica”. Il ginepro abbonda nella
parte alta del territorio di Seui,
talvolta anche in splendida solitudine, specie sui costoni della zona
che va da Sa funtana ’e su cróculu a
Gersadili e oltre.
Tzipirargiu, s. m. Terreno adatto alla proliferazione del rosmarino.
Tzìpiri, s. m. Rosmarino (rosmarinus officinalis), arbusto presente
in gran copia in varie zone del territorio comunale, con particolare
424
abbondanza a Monti ’e susu, zona
di S’’émida.
Tzìpula, s. f. Frittella. Usato
anche il dim. tzipuledda.
Tzïeddu, s. m. Persona anziana e
minuta.
Tzïu, s. m. Zio. Il s. definisce la
parentela in senso stretto ma è
anche epiteto di rispetto nei confronto delle persone anziane.
Tzopìmini/sopìmini, s. m. Zoppia. Gli anziani preferiscono la
forma più antica: sopìmini. Vedi
atzopïai/assopïai.
Tzopu/sopu/a, agg. Zoppo/a.
Usata dagli anziani la forma
sopu/a.
Tzucurera, s. f. Zuccheriera.
Tzucuritu, s. m. Singhiozzo.
Tzùcuru, s. m. Zucchero.
Tzudda, s. f. Setola. Vedi intzuddai.
Tzullu-tzalla, nome giocoso e
senza senso, ma presente nei
soprannomi.
Tzurfurai, v. Dare lo zolfo in
polvere alle vigne. Gergale dei viticoltori.
Tzùrfuru, s. m. Zolfo.
Tzurpìmini, s. m. Cecità. Vedi
surpìmini.
Tzurpu/a, agg. Cieco/a. Spesso
accompagnato da una similitudine: tz. che tzïa Tzipiredda (cieco
come la signora Tz.), donna di cui
PAOLO PILLONCA
oggi si ignora tutto, dunque vissuta in un tempo ormai molto lontano. Vedi intzurpai e surpu.
Mancarìas. La parlata di Seui
425
U
Ubbidïentzïa, s. f. Obbedienza.
Ubbidiri/obbidiri, v. Ubbidire,
essere ubbidiente, dar retta. Ma il
verbo più usato per dire di
un’ubbidenza è pònniri menti.
Ubbidiu/a, agg. Ubbidito/a.
Ùbbitu, s. m. Fatalità improvvisa e funesta. La voce è ridotta alla
loc. avv. est mortu ’e ùbbitu (è
morto improvvisamente).
Ufìtzïu, s.m. Ufficio. Fino a
pochi decenni fa, s’u. per eccellenza era il Comune, oggi il s. può
indicare qualunque tipo di ufficio.
Uglieras, s. f. Occhiali da vista,
ma anche - per estensione e con
tono lievemente ironico - altri tipi
di occhiali, anche da sole. Si usa
solo al plurale.
Ula, s. f. Neo, macchia sull’epidermide. Un modo di dire, tra
proverbio e filastrocca, riferito alla
donna, suona così: u. in su sugu,
pobiddu corrudu (neo sul collo,
marito cornuto).
’Uli, s. e agg. Bovino. Pegus
(pron. pegur) de ’u. (capo di bestiame bovino), petza ’e ’u. (carne
bovina), paru ’e ’u. (razza bovina)
Ùlimu, s. m. Olmo (Ulmus campestris). S’ù. ’e Paùli, nella parte alta
del territorio comunale, in un
bosco abbondante d’acqua tra
Gersadili e S’arenedda bïanca, piantato agli inizi del Novecento, è un
albero monumentale di dimensioni
così rilevanti da avere quasi assunto
il valore di vero e proprio toponimo, tanto che da qualcuno lo si
indica senza compl. di spec.
Umanidadi, s. f. Umanità, sentimento di solidarietà. In dónnïa
cosa ddu-i ’olit unu pagu ’e u. (in
ogni azione ci vuole un po’ di
umanità).
Umanu/a, agg. Comprensivo/a,
solidale, amorevole.
Umbra, s. f. Ombra. Umbra ’e
figu è la sfortuna. Vedi äumbrai.
Umbragu, s,. m. Riparo ombroso.
Umbrosu/a, agg. Ombreggiato/a.
Umidadi, s. f. Umidità.
Ùmidu/a, agg. Umido/a.
Ùmili, agg. Umile.
Umilïai, v. Umiliare, avvilire,
maltrattare.
426
Umilïatzïoni, s. f. Umiliazione,
avvilimento.
Umilïau/ada, agg. Umiliato/a,
avvilito/a, maltrattato/a.
Umilidadi, s. f. Umiltà, modestia, disponibilità verso il prossimo.
Una delle virtù più apprezzate.
Umperai, v. Adoperare, usare,
utilizzare, servirsi di. Cussu su
marroni dd’umperat pagu e nudda
(quello lì la zappa la utilizza poco
e nulla)
Umperau/ada, agg. Utilizzato/a,
adoperato/a.
Umperu, s. m. Utilizzo, uso.
Umpridori, s. m. Imbuto.
Umpridura, s. f. Riempimento.
Umpriri, v. Riempire. Si riferisce soprattutto a contenitori di
liquidi.
Umprìu/a, agg. Colmo/a, riempito/a.
Una, art. indet. f. Una.
Unas/unus, avv. Circa, suppergiù. Portu unas centunoranta crabas (ho circa 190 capre), is procus
furint unus centubinti (i maiali
erano circa centoventi).
Unda, s. f. Onda, ondata.
Ancora viva la loc. a undas, per
indicare principalmente un afflusso inatteso di persone.
Ùndigi, agg. num. card. Undici.
Unfradura, s. f. Gonfiamento.
Unfrai(si), v. Gonfiare. Anche
PAOLO PILLONCA
nel rifl. unfràisi, gonfiarsi, per
malattia o morte. Un’imprecazione
tuttora viva suona unfrau sias o
anche, ellitticamente, soltanto
unfrau (che tu possa gonfiarti). Ma
nella forma rifl. vale anche: offendersi, prender male una determinata azione. Est unfrendu e no isciopat
(cova un risentimento e non lo
manifesta palesemente).
Unfrau/ada, agg. Gonfio/a,
offeso/a. Spesso, nei malauguri,
indica il gonfiore tipico dei cadaveri in certe patologie, come nell’espr. tuttora viva u. che Lorrai
(gonfio come Lorrai), individuo
di cui si è persa la memoria comunitaria ma che certamente fu vittima di una tragedia.
Unfrori, s. m. Gonfiamento,
edema.
Unga, s. f. Unghia. Anche in
espressioni idiomatiche. Chi mi
giogas in u. as a pòdiri sciri e chini
seu (se mi arrivi a portata di mano
saprai chi sono).
Unghedda, s. f. Unghia dello
zoccolo del maiale. In senso ironico. m’at a connòsciri a s’u. ’e su pei
(mi riconoscerà dall’unghia più
piccola del piede).
Ungidura, s. f. Unzione. La loc.
a u. vale: a mo’ di unzione.
Ùngiri, v. Ungere: con grasso
animale, con olio vegetale e con
Mancarìas. La parlata di Seui
pomate. Anche in senso fig. ad
indicare la captatio benevolentiae
di q.no tramite doni di un certo
valore. Dd’ungit comenti si spetat
(lo unge alla grande).
Ungoni, s. m. Grossa unghia.
Ùnicu/a, agg. Unico/a.
Unidadi, s. f. Unità.
Unïoni, s. f. Unione, concordia.
Uniri/äuniri, v. Unire, radunare,
mettere insieme.
Unìu/a, agg. Unito/a.
Universidadi, s. f. Università.
Viva l’espr. ir. no at àiri mancu
imbrunconau in is scaleris de s’U.
(non avrà inciampato sui gradini
dell’Università).
Universu, s. m. Universo. Parit
su meri ’e totu s’u. (sembra il
padrone dell’universo intero).
Unta/giunta, s. f. Piccola quantità, manciata.
Untu/a, agg. Unto/a, sporco/a,
imbrattato/a, sozzo/a, lurido/a.
Sciacüa su pipìu ca est totu u. (lava
il bambino, è tutto sporco). Part.
pass. di ùngiri.
Unturgiu, s. m. Avvoltoio degli
agnelli (gipaetus barbutus). Molto
usato nella sfera della met. nel
senso di avido, incontentabile,
goloso, smodato nel mangiare,
etc. Chi ddu at cosa ’e papai Linu
est che-i s’u. (se c’è del cibo Lino è
come un avvoltoio).
427
Untza, s. f. Oncia. Misura di
peso corrispondente a 33,333
grammi. Nella parlata di Seui fino
a qualche decennio fa l’etto si definiva ancora tres untzas (tre once,
99,999 grammi).
Unu, art. ind. m. sing. Uno. U.
cüaddu (un cavallo), u. mascu ’e
murva (un muflone), u. sirboni
(unu cinghiale). Al contrario di
quanto avviene in it., in sardo si
apostrofa davanti a vocale:
un’amigu (un amico).
Unu, agg. num. card. Uno. Apu
comporau u. mou ’e patata (ho
comprato uno starello di patate),
m’iat a serbiri unu cüaddu ’e binu
(mi servirebbe un ettolitro di
vino). Al contrario degli altri
numerali, unu e dus sono declinabili: dunque hanno il femminile
autonomo (una picioca e duas
fèminas, una ragazza e due donne).
Unu si può usare perfino al plurale. Is unus e is atrus (gli uni e gli
altri), donamindi unus cantu
(dammene qualcuno). Vedi dus.
Urdi, s. m. Otre, in genere di
pelle di capra. In senso ir. lo si usa
per indicare un uomo piccolo e
obeso. S’est fatu a u. (è diventato
un otre).
Urdidura, s. f. L’azione dell’ordire, ordito.
Urdiri, v. Ordire, tramare.
428
Urdìu/a, agg. Ordito/a.
Urrei, s. m. Re. Presente nei
soprannomi, preceduto dall’art.
indet.
Urrendidura, s. f. Languore, sfinimento, magrezza eccessiva.
Urréndiri(si), v. Languire, sfinirsi, perdere di peso.
Urréndïu/a, agg. Magro/a, sfinito/a, macilento/a. Rif. soprattutto
al bestiame. Tenit unu tagliu ’e crabas urréndïas (ha un branco di
capre magrissime).
Ùrtimu/a, agg. Ultimo/a. La
loc. a ù. vale: in conclusione. A ù.
dd’at nau ca nce ddu depiat bogai
(alla fine gli ha detto che l’avrebbe
mandato via).
Urtzu, s. m. Orso. In senso fig.
vale: persona scontrosa e intrattabile, a somiglianza, appunto, dell’orso.
’Urulai/gurulai, v. Urlare. Desueto.
’Ùrulu/gùrulu, s. m. Urlo ripetuto. Nella loc. avv. la gutturale
iniziale rimane. S’est pesau a gùrulus. (si è messo ad urlare).
Usai, v. Utilizzare, usare, impiegare. Chiaramente di superstrato.
Nella parlata di Seui il v. radicato
è tuttora umperai.
Usàntzïa, s. f. Tradizione, usanza,
uso, costume. Innoi no ddu teneus a
u. (qui non c’è questa usanza).
PAOLO PILLONCA
Uscadura, s. f. Abbrostitura del
maiale.
Uscai/uscrai, v. Bruciare. Rif.
soprattutto all’abbrostitura del
maiale.
Uscau/uscrau, s. m. Terreno
percorso da incendio.
Uspidali, s. m. Ospedale. Vedi
spidali.
Usu, s. m. Usanza. Lo si utilizza
quasi soltanto al pl. A usus e costumus, secondo le usanze e le consuetudini. Vedi costumu.
Usura, s. f. Strozzinaggio, usura.
Usureri, s. m. Strozzino, cravattaro, usuraio.
Ùtili, agg. indecl. Utile, vantaggioso, proficuo. Vale anche affidabile. Antoni no est u. (Antonio non
serve a nulla, è inaffidabile).
Utilidadi, s. f. Utililità.
’Uturinu, s. m. Strettoia, viuzza.
Vedi guturinu.
’Ùturu s. m. Gola. Vedi gùturu.
Mancarìas. La parlata di Seui
429
V
Vacheta, s. f. Pelle bovina conciata, in uso anche nella confezione di calzature.
Vacinai, v. Vaccinare. Rif. alle
persone e al bestiame. Is crabas
ddas apu vacinadas totus (le capre
le ho vaccinate in massa).
Vacinau/ada, agg. Vaccinato/a,
sottoposta/a a vaccino.
Vacinu, s. m. Vaccino. Definisce
sia quelli animali sia quelli umani.
Vagoni, s. m. Carro ferroviario,
vagone. Esiste anche la variante
vogoni.
Validori/a, agg. Pregiato/a, valoroso/a.
Validorìa, s. f. Valore, pregio,
virtù.
Valori, s. m. Valore, prestigio,
stima.
Valorosu/a, agg. Valoroso/a.
Vanagròrïa, s. f. Vanagloria,
spocchia, narcisismo.
Vanagrorïosu/a, agg., Narcisista, spocchioso/a.
Vanidadi, s. f., Vanità, futilità,
entità effimera.
Vantana/ fantana, s. f. Finestra.
Vedi afantanai.
Varïai, v. Perdere le qualità intellettive. Po s’edadi chi tenit, non
vàrïat po nudda (nonostante l’età,
è sempre lucido di mente).
Varïau/ada, agg. Rimbambito/a,
svampito/a.
Varïatzïoni, s. f. Mutamento,
cambiamento, variazione. Era anche un’espr. gergale della burocrazia municipale riferita alle modifiche che si dovevano effettuare sulle
bollette anagrafiche del bestiame,
ora abolite dopo la depenalizzazione dell’abigeato.
Velenosu/a, agg. Velenoso/a.
Velenu, s. m. Veleno.
Vena, s. f. Vena, vaso sanguigno.
No m’agatànt sa v. po mi pùngiri
(non riuscivano a trovarmi la vena
per l’iniezione). Falda d’acqua. In
su cungiau miu ddu at una bella v.
(nel mio terreno c’è una bella
falda acquifera).
Vena, s. f. Risorsa di fantasia,
creatività, vena. Non seu in v. ’e
cantai (non ho la vena giusta per
cantare).
Vena, s. f. Avena, biada. In cussorgia no ddu at prus pastura e dun-
430
cas m’at a bènniri a maroglia a
donai unu pagu ’e v. in prus a is
cüaddus (nella nostra zona non c’è
più pascolo, dunque sarò costretto
a dare un po’ di avena in più ai
cavalli).
Vendeta, s. f. Vendetta. Di acquisizione recente. Molto utilizzata
un’espr. che definisce un comportamento turbato dal furore: parit
torrendu v. (sembra che si stia vendicando). Lo si usa anche nei confronti di chi mangia con furia.
Venga, s. f. Vendetta, risposta
spesso sproporzionata all’offesa
patita. Abarra seguru ca cussu sa v.
dda tenit giai apariciada (stai tranquillo, quello la replica ce l’ha già
pronta). La vendetta vera e propria, una volta, era regolata da una
normativa precisa sempre proporzionata al danno subìto e mai
fuori misura.
Vengadori, s. m. Vendicatore,
giustiziere.
Vengai(si), v. Vendicare, replicare in maniera eccessiva a un torto
subìto, pur grave. Nella forma rifl.
vale: accanirsi eccessivamente nella
vendetta. Si ddu est (pron er) vengau (ci si è accanito oltre misura).
Vengau/ada, agg. Vendicato/a
oltre misura e senza pietà.
Vengosu/a, agg. Vendicativo/a,
indisponibile al perdono.
PAOLO PILLONCA
Venigedda, s. f. Capillare, vaso
sanguigno periferico.
Via, s. f. Vite.
Vïai, v. Avvitare, fissare una vite.
Contr. di irvïai.
Vïau/ada, agg. Vitato/a.
Vicàrïu, s. m. Parroco, vicario.
Secondo il diritto canonico il parroco è vicario del vescovo, capo
della diocesi e delle parrocchie che
la compongono, ma nella parlata
di Seui la denominazione viene
forse dal fatto che di norma il parroco di Santa Maria Maddalena
era anche vicario dell’intera foranìa, come è tornato ad essere in
questi primi anni Duemila, in
rappresentanza del vescovo di
Lanusei.
Vicentzu, n. pr. di pers.
Vincenzo. Di superstrato rispetto
a Pissenti.
Vida, s. f. Vita, esistenza.
Notevoli gli utilizzi in chiave di
linguaggio immaginifico e poetico, specie nella lingua della poesia
d’amore.
Vilesa, s. f. Vigliaccheria, viltà,
azione inqualificabile. Vedi aviliri.
Vili, agg. Vigliacco/a, vile, persona da nulla.
Vìrgini, s. f. Vergine, illibata.
Virginidadi, s. f. Verginità.
Virtudi, s. f. Virtù, valore, qualità, capacità di azione moralmen-
Mancarìas. La parlata di Seui
te alta. Rif. anche ai poteri di alcune erbe medicinali. S’armidda
tenit paricias virtudis (il timo serpillo ha parecchie virtù medicamentose). Ma il s. evidenzia, più
che altro, le caratteristiche umane
forti, acquisite e/o spontanee,
anche se nel giudizio popolare la
virtù naturale è privilegiata. Nel
rigido controllo sociale delle
comunità dell’interno che avevano
una sorta di tribunale improprio,
informalmente costituito ma non
per questo meno rigido, sa v. è il
segno distintivo più forte e maggiormente considerato nei secoli.
Non a caso nel patrimonio gnomico una massima suona: cun sa v.
si campat in dónnïa tempus e logu
(con la virtù si campa in ogni
tempo e in ogni luogo). Vedi isvirtudai e vitzïu.
Virtudosu/a, agg. Virtuoso,
abile, affidabile, sicuro. Ma l’agg.
è di quelli pregnanti e non è articolabile in dettagli di elencazioni.
Si può dire che costituisca di per
sé una sorta di superlativo assoluto.
Vitellu, s. m. Vitello, bovino
giovane in genere. Vedi maglioru.
Vitzïosu/a, agg. Vizioso/a, difettoso/a. Il contrario di virtudosu.
Indica difetti generici e specifici
delle persone adulte. In rif. ai
431
bambini, nel significato primario
dell’it. viziato gli si preferisce afitzïau/ada (vedi). Detto del cavallo,
rimarca una pecca fondamentale
nella domatura o anche una tendenza trasgressiva innata che lo
rende parzialmente o totalmente
inaffidabile. Usata anche la variante fitzïosu/a.
Vìtzïu, s. m. Vizio, difetto, cattiva abitudine. Antoni tenit dónnïa
v. (Antonio ha tutti i vizi). Il s. è
l’esatto contr. di virtudi. Dunque
si può facilmente capire che cosa
rappresenti nel giudizio comunitario. Usata anche la variante fitzïu, che però sembra piuttosto un
esito di fonosintassi.
Vïuda/fïuda, s. f. Vedova. Vedi
scïudai/sfïudai (diventar vedova/o,
perdere il proprio coniuge).
Vïudedda, s. f. Vedova giovane,
vedovella. Ironico-sarcastico.
Vïudedda/fïudedda, s. f. Crisantemo.
Vïudedda/ fïudedda, s. f. Ballo
sardo tradizionale dal ritmo assai
movimentato, con accompagnamento di läuneddas, organetto o
fisarmonica.
Vïudu/fïudu, s. m. Vedovo.
Volanti, s. m. Volante, sterzo.
Vedi stertzu.
Volontadi/voluntadi, s. f. Volontà, impegno nell’eseguire
432
un’azione o nell’applicarsi al lavoro in generale. Dd’at fatu ’e v. sua
(l’ha fatto spontaneamente).
Volontàrïu/a, agg. Volontario/a,
in guerra come in pace.
Votai, v. Votare, scegliere un
rappresentante anche fuori dalle
cabine elettorali.
Votatzïoni, s. f. Votazione. Al pl.
vale: consultazioni elettorali. Luegu est tempus de v. (fra un po ’ arriverà il periodo delle elezioni).
Votau/ada, agg. Votato/a.
Votu, s. m. Voto, consenso
(anche al di là del riferimento elettorale vero e proprio). Indica
anche la votazione in campo scolastico. Giùlïa at pigau unu v. bellu
(Giulia ha preso un bel voto).
PAOLO PILLONCA
Mancarìas. La parlata di Seui
433
Z
Zäineddu, s. m. Zainetto. Poco
usato zàinu.
Zampillu, s. m. Zampillo, fuoruscita forte di acqua da una tubatura o da una falda. Per alcuni
decenni il paese ne ebbe uno in
piazza Rinaldo Loi, circondato di
robinie. Ora la piazza non ha né
l’uno né le altre.
Zémeru, n. pr. di pers. Zemerino. Nome più unico che raro, testimoniato nei registri dell’anagrafe
comunale di Seui nell’anno 1928.
Zeru, s. m. Zero, nulla. Deu a-i
cussu ddu contu po unu z. (io quello lì lo considero una nullità), fut
erricu ma in pagus annus est torrau
a z. (era ricco ma in pochi anni ha
perso tutto). Pres. nei soprannomi. Vedi azerai.
Zeta, s. f. Zeta, l’ultima lettera
dell’alfabeto. In senso fig. coda
della fila, ultimo posto. Ti nci
ponint in su logu ’e sa z. (ti metteranno nel posto della zeta).
Zì, escl. Fruscìo pressoché inavvertibile, nel senso di nulla.
Mancu zì ddi fait (non gli fa alcun
effetto visibile). Onomatopeico.
Zigarraïu, s. m. Sigaraio, venditore e/o fumatore di sigari.
Zigarreddu, s. m. Sigarino, mezzo sigaro.
Zigarru, s. m. Sigaro, che si
fumava anche a fogu anintru (con
il fuoco all’interno della bocca,
stratagemma attribuito ai soldati
sardi della prima guerra mondiale:
una precauzione delle ore notturne per non farsi avvistare dai
nemici e successivamente divenuta pratica estesa anche alle ore del
giorno). Usato talvolta anche per
indicare spregiativamente la sigaretta. Fulïanceddu cussu z. (butta
via quella sigaretta).
Zighirizó, s. m. Formazione
onomatopeica indicante un qualsivoglia scioglilingua. Ormai desueto nel linguaggio quotidiano, è
però rimasto nell’oasi dei soprannomi.
Zighizaga, s. m. zigzag, andatura sinuosa. Detto ironicamente
degli ubriachi. Est andendu a z.
(procede per linee curve).
Ziminera, s. f. Camino, caminetto. Usato il dim. zimineredda.
434
Zingadura, s. f. Zincatura, chiusura con lo zinco.
Zingai, v. Chiudere, sigillare
con lo zinco.
Zingau/ada, agg. Zincato/a.
Zingu, s. m. Zinco.
Zìngaru, s. m. Zingaro. Ma si
usa soprattutto nelle similitudini
che definiscono il disordine e la
scarsa pulizia personale degli individui. Stratagliau che z. (malmesso
come uno zingaro), aici brutu chi
parit unu z. (così sporco da sembrare uno zingaro).
Zinzonadura, s. f. Andamento
dell’altalena. Usata la loc. avv. a z.,
in senso reale e fig., anch’essa con
possibile met. erotica.
Zinzonai, v. Altalenare, giocare
all’altalena. In senso ir. e con met.
erotica: fare sesso. A Maria fatu
fatu ddi pragit a z. (a Maria ogni
tanto piace giocare all’altalena).
Formazione palesemente onomatopeica.
Zinzonau/ada, agg. Fatto/a giocare sull’altalena.
Zinzoni, s. m. Altalena. Su z.
arrechedit a mannus e piticus
(l’altalena è gradita a grandi e piccini). In senso fig. coito.
Zirónïa, s. f. Nerbo, frusta. Frequente l’uso traslato: punizione,
castigo anche quando non si tratta
di pene corporali vere e proprie.
PAOLO PILLONCA
Mira ca po tui ddu at z. (guarda che
per te ci sarà un castigo).
Zironïada, s. f. Nerbata, frustata.
Zironïai, v. Picchiare, colpire
con il nerbo.
Ziru, s. m. Conchiglia panciuta,
giara, orcio.
Zonzu (a), loc. avv. A zonzo, a
spasso. Giüanni est totu sa vida sua
a z. e nemus arrennescit a cumpréndiri e de ita bivit (Giovanni è tutta
la sua vita a spasso e nessuno riesce
a capire di quali risorse viva).
Zorbidadi, s. f. Balordaggine.
Zorbu/a, agg. Balordo/a, scemo/a, stupido/a.
Zorru, n. pr. di persona. Zorro.
Di assunzione comprensibilmente
recente, figura tuttavia già da
tempo nei soprannomi.
Zubbadura, s. f. Percossa. Usata
la loc. a z.
Zubbai, v. Percuotere, picchiare
Candu ddi ’eniat a tretu ddu zubbàt beni-’eni (quando gli veniva a
tiro lo picchiava per benino), chi
m’intras in manus ti zubbu (se
riesco a prenderti ti picchio), m’iat
a pràgiri a isciri e poita non fais
s’aprobbu de ’énniri a mi z. (mi piacerebbe sapere perché non provi a
venire a picchiarmi).
Zubbarìa, s. f. Rissa, percossa.
Z. è nome coll. che indica
Mancarìas. La parlata di Seui
l’articolazione dei colpi tipici di
una rissa, non esclusi quelli proibiti. Ddu at sussédïu una z. manna
(si è scatenata una grande rissa).
Zubbau/ada, agg. Picchiato/a,
percosso/a.
Zucadura, s. f. Bocciatura.
Zucai, v. Bocciare. In iscola fut
unu conca ’e molenti, domau a ddu
z. (a scuola era una testa d’asino,
avvezzo alle zucche). Di superstrato, meno diffuso di scrocorigai. Per
definire il s. it. zucca nella parlata
di Seui c’è solo crocoriga.
Zucau/ada, agg. Bocciato/a, respinto/a.
Zulù, s. m. Persona rustica. Est
unu z. (è un rusticone). Pres. nei
soprannomi.
Zumïada, s. f. Ronzio, sibilo.
Zumïadura, s. f. L’atto e l’effetto
dello scagliare con forza un oggetto. In senso fig. maniera sbrigativa
di agire.
Zumïai, v. Sibilare. In senso lato
indica il sibilo di un movimento in
velocità. Chi dda ponis a cùrriri zùmïat, cuss’ebba (se la metti a correre,
quella cavalla vola). Scagliare con
forza, affibbiare. O t’assüermas o ti
zùmïu una scavanada (o ti dài una
calmata o ti affibbio uno schiaffone).
Zumïau/ada, agg. Scagliato/a
con forza.
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Zùmïu, s. m. Sibilo. A zùmïu,
che perda scuta a frunda (con un
sibilo, come pietra scagliata con
una fionda): verso di Benvenuto
Lobina in Canzoni, naramì.
APPUNTI
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Finito di stampare nel mese di luglio 2006
presso le Grafiche Ghiani s.r.l. - Monastir (CA)
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