I tarli
by Emilio Cecchi
Prefazione, Enzo Siciliano Sbagli. Ma non solo sbagli. Vai in biblioteca, sfoglia qualche bibliografia: informati.
Cecchi è uno che da ragazzo ha studiato da solo l’inglese: l’ha studiato facendo il corso allievi ufficiali a Firenze,
svegliandosi presto la mattina. Aveva diciotto anni, ed era il 1902. Due anni dopo traduceva Shelley. Cecchi è un
uomo che si è fatto da sé, di famiglia povera, e la vita se l’è guadagnata tutta di sua volontà: anche il francese e
l’inglese. Il padre lo aveva iscritto all’istituto tecnico, non al liceo. Allora, per farti qualche esempio: è il 1922Cecchi ha già letto Proust. Ne è affascinato, se ne occupa: ma si trattiene dietro un velo di prudenza. Ha letto però
anche l’Ulisse di Joyce, e a caldo ne scrive con un entusiasmo e una competenza travolgenti. Gli piace la Mansfield,
ma anche la principessa Bibesco. Capisce Colette come la leggesse oggi- allo stesso modo Lord Jim... [p. 14]
Il fattorino tranviario, verso mezzogiorno, quando tutti cercano di scendere senza pagare. Mosca nel caffellatte.
«La Tribuna» 28 ottobre 1921 Ci sono al mondo molti brutti mestieri, molti mestieracci: il tosatore di cani, il
bambino in fasce, e il fattorino tranviario, verso mezzogiorno, quando tutti cercano di scendere senza pagare. Ma
il mestiere più brutto di tutti, a quanto posso intendere, deve esser quello di estensore, di tenutario d’una rubrica
del genere di questa, di Libri nuovi e usati.
La posizione, la professione del critico vero e proprio è, in confronto, invidiabile. Chiuso rigidamente e, diciamo
pure, ridicolmente, dietro una visiera di austerità e di implacabile competenza, il critico vero e proprio, dopo tutto,
vien lasciato abbastanza in pace. La sua inevitabile attrezzatura paladinesca, allontana ogni confidenza troppo
precipitosa. Il critico può fare anche un piacere. Ma è più facile che dia un dispiacere. Può esser che muoia
bastonato da un autore presuntuoso e vendicativo. Ma l’estensore, tenutario, etc. d’una rubrica meno trincerata,
per solito muore soffocato di abbracci dalle migliaia d’autori troppo contentabili e conciliativi. Il critico, insomma,
se muore, muore gagliardamente nel sangue e nel fiele. Ma l’estensore, etc., morirà sempre come una mosca, nel
caffelatte. [p. 47]
Morto per morto, il poco tempo che mi rimane.
«La Tribuna»
28 ottobre 1921 Scrivo queste considerazioni assolutamente obbiettive, appollaiato su uno scaffale, con la testa
«La Tribuna»
28 ottobre 1921 Scrivo queste considerazioni assolutamente obbiettive, appollaiato su uno scaffale, con la testa
pigiata al soffitto, perché nella stanza ormai non c’è più posto, e ho dovuto arrampicarmi quassù come gli
sventurati del bernesco Diluvio di Mugello:
Vollono in sur un albero salire... etc.
Romanzi, libri di versi, opuscoli, trattati, e migliaia e migliaia d’altri prodotti d’una letteratura inesauribile quanto
modesta, hanno invaso la stanza, ricoperto il pavimento, sommerso i tavolini e le seggiole, e salgono, salgono,
ferocemente togliendomi sempre più spazio e respiro. Una spuma di biglietti da visita, si sfrangia e gorgoglia a
sommo dell’onda edace, lambendomi di tratto in tratto le scarpe, i calzoni. E da codesto mare di copertine e
fogliacci di tutti i colori, da codesto mare che fra poco m’avrà nei suoi gorghi, si leva un murmure, una voce
innumerevole, un concerto, come per estrema ironia dolce più del canto delle Sirene. Dolce nel suono, intendo.
Perché le parole non corrispondono alla musica. Che cosa dicono, infatti, le parole? Ahimè: dicono e ripetono una
cosina piuttosto antiquata:
Vogliam la recension
(anche una piccola recension).
Morto per morto, il poco tempo che mi rimane, vedrò, invece, di passarlo in compagnia di qualche libro buono. [p.
48]
Quell'emozione de' migliori tempi.
«La Tribuna»
28 ottobre 1921 Sta ormai per uscire il Notturno di Gabriele d’Annunzio. E c’è nell’aria quell’attesa,
quell’impazienza, e diciamo pure quell’emozione de’ migliori tempi, quando un libro nuovo del D’Annunzio o del
Pascoli colorava e ci rendeva memorabile almeno una stagione. Dopo tanti dolori, passioni, equivoci, salutiamo il
ritorno del grande artista alla sua arte. E prepariamoci anche, cari figliuoli, a incassare di buona voglia, non fosse
che in fatto di stile, di solidità di lavoro e di eccellenza di mestiere, un’altra dura lezione. [p. 51]
E in quest'assenza di governo anche il Papa ha freddo. Neve. Falò.
«La Tribuna»
11 febbraio 1922 Ecco il freddo davvero, e non più soltanto in allegorie concepite ad uso dei venditori di stufe e
panciotti- ecco autentiche nevi e squallori boreali! Via Nazionale sembra un reparto della banchisa antartica- e
anche questo domestico angolo di via Milano, con incrostazioni di ghiaccio e stallattiti, ha preso un aspetto di
presepe, abbastanza simpatico e nuovo nei riguardi decorativi, ma, sotto ogni altro punto di vista, pochissimo
rassicurante. Ogni porta, ogni apertura, ha il suo spiffero- e ogni spiffero una polmonite da regalarci. Motivo per
cui, tutti, anche le donne, son rimasti a casa- e i pochissimi che vanno attorno hanno un’aria preoccupata, e forse
pensano che se vien di sotto qualche valanga, oggi non si può dir neanche il solito: «governo ladro!».
Quest’assenza di governo ci consiglia d’altronde a mettere un’eccezione su questo paesaggio di universale
sciagura. Sì, tutti oggi tremano e si soffiano sulle dita. Uno solo sta caldo- per uno solo, anche oggi, è primavera:
l’on. Orlando. Egli solo si salva- per rientrare forse, fra poco, anche lui sotto la legge comune. Alla quale, come
dicevamo, niun altro in queste ore si sottrae. E anche in Vaticano, l’unica battuta di dialogo intonata, oggi, con
ogni probabilità, dovrebbe esser questa: «Gasparri, in verità, ci sembra che queste vostre romane stufe tirino
poco».
Tappiamoci dunque in casa e prepariamoci un buon ponce, piuttosto carico. Quanto a letture e carte e libri
bisogna riconoscere che la sensazione primordiale oggi è questa: che la carta è un eccellente combustibile- e
meglio di tutto può adoprarsi per accendere il fuoco. Le biblioteche oggi si concepiscono essenzialmente sotto
l’aspetto di falò. E i gravi autori si misurano, non già secondo l’estetica di Aristotile o quella di Hegel o di De
Sanctis o di Croce, ma secondo il loro probabile rendimento di calorie, togliendoli dallo scaffale e ficcandoli sulla
fiamma. [p. 71]
Caterina
«La Tribuna»
14 aprile 1922 Non credo sia diffuso, e forse neanche conosciuto, in Italia, il nome di Caterina Mansfield, che, da
circa due anni, s’è messa in prima linea fra gli scrittori di short stories, inglesi. Un racconto della Mansfield: The
doll’s house, che non ha nulla a che vedere con la Casa di bambola ibseniana, uscito nel n. 4 febbraio di
quest’anno in «The Nation»- e un articolo di J. Middleton Murry, nel n. 1 aprile dello stesso periodico, nel quale
articolo son prospettati i caratteri dell’arte della Mansfield, in confronto con l’arte di Proust, di Joyce e di altri, mi
quest’anno in «The Nation»- e un articolo di J. Middleton Murry, nel n. 1 aprile dello stesso periodico, nel quale
articolo son prospettati i caratteri dell’arte della Mansfield, in confronto con l’arte di Proust, di Joyce e di altri, mi
persuadono a tentare di volgere l’attenzione dei lettori su questa scrittrice. E se, in virtù del presente richiamo,
qualcuno vorrà ricercare almeno il volume: Bliss and other stories by Katherine Mansfield, apparso, qualche tempo
fa, per i tipi del Constable di Londra, spero che non avrà da pentirsi, e che non mi sentirò fischiar gli orecchi di
maledizioni anonime e lontane. [p. 75]
Spettacolose varianti manzoniane.
«La Tribuna»
12 gennaio 1923 Ritornando, a metà dicembre, su quella faccenda della variante al Cinque Maggio, scoperta dal
Soffici in una misteriosa ristampa delle Memorie Manzoniane del Fabris (Lugo 1908, senza nome di editore)
invitammo il nostro amico a uscir dal riserbo nel quale s’era chiuso dopo la sua scoperta- e ragguagliarci intorno
ad una rarità bibliografica, forse a tutt’altri che lui sconosciuta. Tanto più che il campo degli studi manzoniani era
stato messo tremendamente a rumore- alcuni dicevano d’aver visto altre varianti e sempre più spettacolose:
cominciava lo scoppiettio di qualche polemica- e non si sapeva come sarebbe andata a finire, se un romano
confratello della sera non avesse distratto l’attenzione degli eruditi e dei polemisti con altra variante manzoniana,
e ben più terribile di quella di Soffici. Un figlio infatti del famoso sarto dei Promessi Sposi, nel giro di poche pagine
variava sesso, cosa sempre indiscreta, anzi scandalosa, ma specialmente in un autore morigeratissimo come
pretende di essere il Manzoni. In ogni modo, questa variante sessuale ci procurò qualche giorno di tregua. Intanto
il Soffici non era rimasto sordo al nostro invito, e ci scriveva, testualmente (18 dicembre 1922), dalle solitudini di
Poggio a Cajano: «Carissimo Tarlo, Un vostro abbonato di qui mi ha fatto vedere il numero della “Tribuna” nel
quale torni ad occuparti della variante manzoniana da me segnalata agli appassionati eruditi e specialisti in
materia di testi e scrupolosità bibliografiche. M’è parso di intravedere, nella tua noterella, un certo sospetto circa
l’autenticità della mia fonte- e oggi stesso mi affretto a spedirti il libretto di Lugo, affinché tu possa esaminarlo e
farne tuo pro. – Esaminato che tu l’abbia, consegnalo all’amico Baldini, il quale mi espresse un dubbio consimile.
Baldini, poi, lo passerà al terzo incredulo: Ungaretti- e questi a chiunque non si dimostri persuaso della verità
relativa a tale faccenda. Cordialmente, tuo Soffici». Dal 19 dicembre a tutt’oggi, io e gli amici Baldini e Ungaretti,
seduti su questo canapè, stiamo aspettando l’arrivo della ristampa di Lugo- e ormai la vigilia comincia a pesarci,
per quanto abbiamo cercato di alleggerirla consumando parecchio maraschino e un numero infinito di sigarette.
Mentre uno, a turno, dormiva, gli altri due aspettavano la posta e si sorvegliavano. Per passare il tempo ci siamo
confessati tutte le nostre vite: inventandone, per farle più lunghe e divertenti, anche una buona parte. Abbiamo
scritto in collaborazione un romanzo piuttosto ardito, da vendere a beneficio dei Minorenni corrigendi. Abbiamo
fatto la piramide umana. Ci siamo rovinati a poker. Nei momenti di sconforto, Baldini cantava la romanza
dell’Ernani. Ma l’edizione di Lugo non è arrivata. Il peggio è che dal campo manzoniano, esauritosi l’interesse per il
figliuolo del sarto, giungon segni d’impazienza e malumore. Ricomincia ad apparire qualche lettera minatoria. E
stamani, non so se per la questione della variante o dell’Ernani, ci è capitata dalla finestra una grossa patata. [p.97]
Spettacolose varianti manzoniane (mi son seccato delle).
«La Tribuna»
2 febbraio 1923 Quella maledetta variante al Cinque Maggio scoperta dal Soffici, e le variazioni di sesso dei
figliuoli del sarto nei Promessi Sposi, hanno, si disse giorni addietro, cacciato il diavolo in corpo a una quantità di
lettori i quali non fanno che scriverci per additare varianti da tutte le parti. Ne hanno trovate nello Statuto, nei
cartelli delle botteghe, nel Pater Nostro, e perfino nelle diciture dei biglietti da due lire.
Chi ha la fortuna di possedere un biglietto da due lire, investighi e controlli.
A noi, questa storia delle variazioni e varianti comincia, francamente, a seccare, e tutte le lettere dei nostri lettori le
abbiamo buttate nel cestino. [p.108]
Avanti di prender penna. Coleridge oppio, molto oppio, moltissimo oppio.
«La Tribuna»
9 febbraio 1923 Qualche volta, quando mi caccio a scrivere, invita Minerva, questo colonnino di rubrica, o altre
cose della stessa specie, penso a come sarebbe stata utile, invece di tante chiacchiere critiche che furono fatte da
che mondo è mondo, un po’ di luce sui vari metodi con i quali i grandi scrittori cercavano di farsi venir la voglia di
lavorare, quando bisognava lavorassero e ne avrebbero fatto volentieri a meno. Perché potrebbe darsi che, fra i
metodi dei grandi scrittori, anche gli scrittori piccoli, minimi, o addirittura gli untorelli, trovassero qualche cosa che
fa al caso loro- senza bisogno, s’intende, d’imbarcarsi in quegli espedienti che richieggono grande apparecchio e
spese di impianto: tali la spelonca di Euripide, la poltrona e le dieci braccia di fune di Vittorio Alfieri, o la
metodi dei grandi scrittori, anche gli scrittori piccoli, minimi, o addirittura gli untorelli, trovassero qualche cosa che
fa al caso loro- senza bisogno, s’intende, d’imbarcarsi in quegli espedienti che richieggono grande apparecchio e
spese di impianto: tali la spelonca di Euripide, la poltrona e le dieci braccia di fune di Vittorio Alfieri, o la
bottiglieria di Poe e tutti i cocktails, ponci al mandarino, grappini, e via discorrendo. Ma le storie letterarie tacciono
[...] Pascal si inginocchiava e recitava una preghiera, avanti di prendere la penna, e così, presumibilmente, avranno
fatto San Girolamo e Sant’Agostino. Rousseau sembra scrittore di grandissimo impeto- ma, come Baudelaire ha
raccontato in una pagina dell’Art romantique, non sapeva rimettersi al lavoro senza aver perso a paperasser
quell’oretta o due nel cui termine, per noialtri disgraziati, è questione di vita o di morte aver finito e consegnato il
nostro manoscritto. Wordsworth riattivava l’ispirazione con interminabili passeggiate. E lo stesso faceva Nietzsche,
aggiungendoci, tutto sembra indicarlo, filtri e controfiltri d’una complessa farmacia d’eccitanti. Coleridge prendeva
dell’oppio, molto oppio, moltissimo oppio- ma questo, invece che a lavorare, finiva per deciderlo a non lavorare
affatto. Stevenson, Flaubert, Pascarella fumano da turchi. Carducci, Léon Daudet, etc. rientrano nella categoria
degli scrittori vinosi e ardenti- mentre Pascoli ha il vino opaco e sentimentale. Ma siamo, ritornati senza
avvedercene, ad annotare abitudini generiche e regimi, per di più assai dispendiosi- senza aver scoperto nessuna
di quelle ricette a esito immediato e decisivo, delle quali si parlava in principio: essenzialmente la ricetta per farsi
venir voglia di scrivere, quando non se ne ha affatto voglia... [p. 112]
Colette
«La Tribuna»
16 febbraio 1923 A quasi tutte le donne che compongono romanzi, per intenderci, sul genere dei suoi, si può
applicare quell’adorabile verso di Byron- adorabile dico- e che non si capisce nemmeno come sia riuscito a
scriverlo: Some play the devil, and then write a novel. Ma Colette, se faceva il diavolo, è certo che lo faceva senza
pensare ad altro- e meno di tutto a cavare un libro dalle sue diavolerie. Sincera, sincerona- tutta in luce, e per ciò
stesso tremendamente misteriosa e delusoria- spavalda, sfrontata e, nello stesso tempo, gelosa e casta- d’una
castità, naturalmente, come quella di chi ha moltissimo amato, ma senza perder mai il ricordo e rispetto di sé e
quello degli altri- esperta e candida- cinica e lirica- blasée e perpetuamente curiosa, stupefatta- e forse anche un
po’ stupefatta della propria curiosità- etc. etc. Nella sua infinita saggezza la Chiesa ha creduto di dover negare alle
donne, insieme a tante altre cose, la facoltà di amministrare la confessione- e, in fatto di sacramenti, se non
m’inganno, ha lasciato soltanto, per i casi urgentissimi, autorità di battezzare, anche senza sale, alle mamme, alle
nutrici e levatrici. Avrà avuto, la Chiesa, ottime ragioni, non discuto: ma è vero lo stesso che Colette è una di quelle
donne che uno ripensandoci, dice: «Mi ci confesserei volentieri». [p. 118]
Conrad. Allora il mondo s'è di nuovo slargato.
«La Tribuna»
6 aprile 1923 Del resto, le traduzioni, siano pur dovute a un Goethe, a un Baudelaire o ad uno Schwob, son sempre
traduzioni: e non bisogna troppo pretendere. Volevo dire che, sapendo uscita questa traduzione di Lord Jim, mi
son riletto il testo. Allora il mondo s’è di nuovo slargato- e di nuovo mi son ricordato che ci sono i mari e gli
oceani- le navi impercettibilmente cullate dall’acqua dei porti, e quelle che travagliano contro le grandi tempestee la luce dell’equatore al termine del viaggio delle navi, e all’estremo limite dei mari. E il ponte dei vascelli, e le
spiagge dell’equatore, fetide ancora del fango [...] In quella gloriosa Ballata alla quale si affida la sua memoria, O.
Wilde scrisse che tutti gli uomini uccidono la cosa che amano- e certi la uccidono con una parola, il vile con un
bacio, e il prode con una spada, etc. etc. Se Conrad fosse stato un lirico e ballatista, avrebbe potuto comporre
anche lui una ballata non meno gloriosa sebbene più tetra e grigia di quella del Reading Gaol. E il tema di questa
gran ballata sarebbe stato appunto quello stesso di Lord Jim- che a tutt’oggi, probabilmente, rimane, specie per la
prime duecento pagine, il capolavoro di Conrad. Una situazione centrale, una di quelle situazioni che dominano
tutta la sfera umana, e l’adombrano di fosca compassione, richiama a sé, con inesauribile vigore di definizioni, di
suggestioni, di accordi imperiosi e risonanze velate, tutta la materia del libro, penetrandola di lirismo fino nei
minimi segni. Libro rarissimo, e di quella specie che diventa sempre più rara: la trama può decadere- resta, in ogni
pagina, una rivelazione, un tocco, un indizio che vanno diritti al cuore di tutti. Perché tutti gli uomini hanno saltato
(a parte, s’intende, le settanta volte sette del giusto- e a parte il peccato originale). E i più non si son neanche mai
accorti di saltare. E certi se ne sono fatta una professione. E alcuni sono stati premiati dagli altri uomini, e molti
condannati- benché quando si ragionava di questo salto o di quello non si trattasse quasi mai di quello ch’era
stato, in realtà, il primo e vero salto. Tutti gli uomini hanno abbandonato una volta la dormente innocenza in una
barca infida sul mare. Tutti gli uomini si sono traditi e hanno tradito. Specialmente quelli che credon di no. E son
più lontani dal dolore- e dalla speranza. [p. 137]
Il cinquantenario della macchina da scrivere. Prevediamo che non mancheranno, in questi giorni, gli infatuati della
penna d’oca.
«La Tribuna»
9 novembre 1923 Ricorre, in questi giorni, il cinquantenario della macchina da scrivere. E nella presente rubrica,
dove ci si occupa di letteratura e di libri, mi sembra giusto non dimenticare strumenti e materie prime attinenti al
mestiere dello scrittore. Come oggi celebriamo il cinquantenario della macchina, un giorno dunque celebreremo il
centenario della penna stilografica, e scrupolosamente tutte le grandi date del pennino, del grattacarte e della
carta, vuoi comune, vuoi assorbente. Né si potrà trascurar la matita. Caduta in discredito, quando i romantici
ebbero smesso d’annotarsi endecasillabi sui polsini correndo lungo le rive del mare e nell’ombra dei boschi, oggi
la matita torna in onore per via delle morettiane poesie scritte col lapis, senza dire la parte che ha avuta nel
Notturno di D’Annunzio.
Ma prevediamo che non mancheranno, in questi giorni, gli infatuati della penna d’oca, della pergamena e delle
maiuscole miniate, a far sentire alti lagni. E come, dall’invenzione dell’archibugio, l’Ariosto trasse a deplorare la
decadenza della cavalleria, essi piglieranno occasione dal cinquantenario della macchina per piangere sulla
decadenza della letteratura, quasi possa incolparsi una macchina di ciò che dipende dall’uomo. [p. 166]
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