opera
Stagione teatrale 2014-2015
TEATRO dante ALIGHIERI
Francis Poulenc
La voix humaine
Gian Carlo Menotti
The telephone
or L’Amour à trois
Fondazione Ravenna Manifestazioni
Comune di Ravenna
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
Regione Emilia Romagna
Teatro di Tradizione Dante Alighieri
Stagione d’Opera e Danza
2014-2015
La voix humaine
tragedia lirica in un atto
musica di Francis Poulenc
libretto di Jean Cocteau
The telephone
or L’Amour à trois
opera buffa in un atto
testo e musica di Gian Carlo Menotti
Teatro Alighieri
sabato 22, domenica 23 novembre
con il contributo di
partner
Edward Hopper (1882-1967),
Night Windows, 1928, olio su tela,
New York, The Museum of Modern Art.
Sommario
La locandina. ............................................................... pag.5.
5
Il libretto
La voix humaine ....................................................... pag.6.
6
Il libretto
The telephone ........................................................... pag.16.
16
Il soggetto . ................................................................... pag.25.
25
La voix humaine. La musica in una stanza
di Maria Chiara Mazzi ........................................... pag.27.
27
Lettere dall’epistolario
di Francis Poulenc .................................................. pag.33.
33
Il telefono
di Roberto Zanetti ................................................... pag.37.
37
A colloquio con Gian Carlo Menotti
di Leonardo Pinzauti ............................................. pag.43.
43
Spettatore o Voyeur?
di Sandro Pasqualetto ......................................... pag.51.
51
Riflessioni sul progetto scenografico
di Cristina Alaimo .................................................... pag.53.
53
L’editore si rende disponibile
per gli eventuali aventi diritto
sul materiale utilizzato.
Edward Hopper . ....................................................... pag.55.
55
Stampa Edizioni Moderna, Ravenna
I protagonisti .............................................................. pag.56.
56
Coordinamento editoriale
Cristina Ghirardini
Grafica Ufficio Edizioni
Fondazione Ravenna Manifestazioni
Si ringrazia il Teatro dell’Opera di Roma
e il Comunale di Firenze
per la concessione del materiale editoriale.
Foto di scena
© Franco Tutino pp. 4, 15, 50
© Cristina Alaimo pp. 26, 30, 40, 44, 48
La voix humaine
tragedia lirica in un atto
musica di Francis Poulenc
libretto di Jean Cocteau
Edizioni Ricordi Paris (rappresentante per l’Italia Casa Ricordi, Milano)
Una donna Alda Caiello
The telephone
or L’Amour à trois
opera buffa in un atto
testo e musica di Gian Carlo Menotti
Edizioni G. Schirmer, New York (rappresentante per l’Italia Casa Ricordi, Milano)
Lucy Teresa Sedlmair
Ben Emilio Marcucci
direttore Jonathan Webb
regia Sandro Pasqualetto
scene e costumi Cristina Alaimo
luci Claudio Schmid
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
il portiere Vladimiro Marisi
l’agente di commercio Alessandro Braga, Matteo Pironi
signore anziano Andrea Treré
signora anziana Lella Pizzagalli
cameriere giovane Edoardo Liverani
cameriera giovane (controfigura Lucy) Alessia Covatta
cameriera anziana Susy De Crecenzo
direttore di palcoscenico Luigi Barilone
maestro di sala Claudio Cirelli
maestro alle luci Alessio Buttazzoni
sovratitoli a cura di Enrica Apparuti
attrezzista Federica Caraboni
sarta Manuela Monti
trucco e parrucco Denia Donati
costruzione scene Veneziana Allestimenti
coproduzione Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro del Giglio di Lucca, Fondazione Teatri di Piacenza
allestimento Fondazione Teatro Comunale e Auditorium Bolzano 2010
7
La voix humaine
La scena, ridotta, rappresenta l’angolo di una camera di donna: camera scura, bluastra con un letto
in disordine sulla sinistra ed una porta socchiusa, sulla destra, che lascia intravedere la stanza da
bagno, bianca e molto illuminata.
Davanti alla buca del suggeritore, una sedia bassa ed un tavolino: sul tavolino una lampada che
diffonde una luce impietosa.
Il sipario si apre su una scena da assassinio. Davanti al letto, per terra, giace una donna che indossa
una lunga camicia: parrebbe assassinata. Silenzio. La donna si rialza, cambia posizione e rimane
ancora immobile. Infine si decide, si alza, prende un cappotto dal letto, si dirige verso la porta dopo
aver sostato per un attimo davanti al telefono. Nel momento in cui tocca il battente della porta, si
sente squillare il telefono. Lei si slancia. Il cappotto le impaccia i movimenti, lo toglie di mezzo con
un calcio. Solleva il ricevitore.
D’ora in poi parlerà ora in piedi, ora seduta, sdraiata sulla schiena, di fronte, di profilo, in ginocchio
dietro la poltrona con la testa rovesciata, appoggiata allo schienale, percorrerà a carponi la stanza
trascinandosi dietro il filo del telefono, fino da ultimo quando cadrà sul letto prona. Allora lascerà
penzolare la testa ed infine lancerà il ricevitore come un sasso.
Jean Cocteau
de l’Académie Française
Note per l’interpretazione musicale
1) Il ruolo unico de La voix humaine dovrà essere interpretato da una donna giovane ed elegante.
Non si tratta di una donna di una certa età che viene abbandonata dall’amante.
2) La durata delle corone, tanto importanti in questa partitura, dipenderà dall’interpretazione della
cantante. Il direttore d’orchestra dovrà prendere accordi ben precisi con la cantante.
3) Tutti i passaggi di canto senza accompagnamento hanno un tempo molto libero e sono in
funzione della regia. Si dovrà passare con estrema velocità dalla angoscia alla calma e viceversa.
4) L’intera opera dovrà essere immersa nella più grande sensualità orchestrale.
Francis Poulenc
8
La voix humaine
Tragedia lirica in un atto
Libretto di Francis Poulenc dall’omonima tragedia di Jean Cocteau
(traduzione italiana di Sandro Pasqualetto)
Musica di Francis Poulenc
Edizioni Ricordi Paris (rappresentante per l’Italia Casa Ricordi, Milano)
Prima rappresentazione Parigi, Opéra Comique, 6 febbraio 1959
PERSONAGGI
La voix humaine / La voce umana
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soprano lirico
(On sonne)
Allô, allô! Mais non, Madame, nous sommes
plusieurs sur la ligne, raccrochez! Vous êtes
avec une abonnée. Mais, Madame, raccrochez
vous-même! Allô Mademoiselle!
(Suona il telefono)
Pronto, pronto! Ma no, signora, dev’esserci un
contatto: metta giù! Lei parla con un’abbonata.
Ma signora la prego metta giù lei! Pronto
signorina.
Mais non, ce n’est pas le Docteur Schmit. Zéro
huit, pas zéro sept! Allô! C’est ridicule! On me
demande; je ne sais pas.
Ma no qui non è il dottor Schmit. Zero otto,
non zero sette! Pronto! È ridicolo! M’hanno
chiamato; non lo so!
(On sonne) Allô! Mais, Madame! que voulezvous que j’y fasse? Comment ma faute? Pas du
tout? Allô, Mademoiselle! Dites à cette dame de
se retirer. (Elle raccroche)
(Suona il telefono) Pronto! Ma signora, cosa
posso farci! Come colpa mia? Per niente.
Pronto signorina! Dica a quella signora di
riattaccare. (Riattacca).
(On sonne): Allô, c’est toi? Oui, tres bien. C’était
un vrai supplice de t’entendre à travers tout ce
monde... oui... oui... non... c’est une chance...
(très naturel) Je rentre il y a dix minutes. Tu
n’avais pas encore appelé? Ah! non, non. J’ai
dîné dehors, chez Marthe. Il doit être onze
heures un quart. Tu es chez toi? Alors regarde la
pendule électrique. C’est ce que je pensais. Oui,
oui, mon chéri.
(Suona il telefono) Pronto, sei tu? Sì benissimo!
Era un supplizio ascoltare la tua voce tra le
altre... sì... sì... no... è un caso... Son rientrata da
dieci minuti. Non avevi ancora chiamato? Ah!
No no. Ho pranzato fuori, da Marthe. Saranno
le undici e un quarto. Sei a casa? Allora guarda
l’orologio a pendolo. È quello che pensavo. Sì, sì,
mio caro.
Hier soir? Hier soir je me suis couchée tout de
suite et comme je ne pouvais pas m’endormir,
j’ai pris un comprimé. Non, un seul, à neuf
heures. J’avais un peu mal à la tête, mais je
me suis secouée. Marthe est venue. Elle a
déjeuné avec moi. J’ai fait des courses. Je suis
rentrée à la maison. J’ai... Quoi? Très forte...
J’ai beaucoup, beaucoup de courage... Après?
Après je me suis habillée, Marthe est venue
me prendre. Je rentre de chez elle. Elle a été
parfaite. Elle a cet air, mais elle ne l’est pas. Tu
avais raison, comme toujours.
Ieri sera? Ieri sera sono andata a letto subito
ma siccome non riuscivo ad addormentarmi
ho preso una pastiglia. No, una sola, alle nove.
Avevo un po’ di mal di testa, ma poi mi sono
ripresa. È venuta Marthe. Ha pranzato con me.
Ho fatto qualche commissione. Sono rientrata a
casa. Ho... cosa? Molto forte... ho molto, molto
coraggio... e poi? Poi mi sono cambiata, Marthe
è venuta a prendermi. L’ho appena lasciata. È
stata molto gentile. Ha quest’aria un po’... ma
non lo è. Avevi ragione come sempre.
Ma robe rose... mon chapeau noir. Oui, j’ai
encore mon chapeau sur la tête. Et toi, tu
rentres? Tu es resté à la maison? Quel procès?
Ah, oui. Allô! chéri... Si on coupe, redemandemoi tout de suite. Allô! Non, je suis là.
Il vestito rosa... il cappello nero. Sì, non ho
ancora tolto il cappello. E tu rientri adesso?
Sei rimasto sempre in casa? Quel processo?
Ah, sì! Pronto! Amore... Se ci interrompono
richiamami subito. Pronto! No, sono qui.
Le sac? Tes lettres et les miennes. Tu peux le
faire prendre quand tu veux. Un peu dur... je
comprends. Oh! mon chéri, ne t’excuse pas,
c’est très naturel et c’est moi qui suis stupide.
Tu es gentil... tu es gentil. Moi non plus, je ne me
croyez pas si forte.
Quel comédie? Allô! Qui? que je te joue la
comédie, moi! Tu me connais, je suis incapable
La busta? Le tue lettere e le mie. Puoi mandarla
a prendere quando vuoi. Non è facile... ti
capisco. Oh! Tesoro, non ti scusare, è del
tutto normale e sono io che sono sciocca. Tu
sei gentile... Tu sei gentile. Anche io, non mi
credevo così forte.
Ma quale commedia? Pronto! Cosa? Tu credi
che stia recitando, io! Tu mi conosci, sono
10
de prendre sur moi. Pas du tout... pas du
tout. Très calme. Tu l’entendrais. Je dis: tu
l’entendrais. Je n’ai pas la voix d’une personne
qui cache quelque chose. Non, j’ai decide
d’avoir du courage et j’en aurai. J’ai ce que je
mérite. J’ai voulu être folle et avoir un bonheur
fou.
incapace di addossarmi una colpa. Niente
affatto... Niente affatto. Calmissima. Lo
vedresti. Ho detto: lo vedresti. Non ho la voce
di chi nasconde qualcosa. No, ho deciso di
avere coraggio e ne avrò. Ho quello che merito.
Ho voluto esser folle e trovare una felicità
impossibile.
Chéri, écoute... allô! laisse moi parler. Ne
t’accuse pas. Tout est ma faute. Si, si.
Souviens-toi du dimanche de Versailles et du
pneumatique. Ah! Alors! C’est moi qui ai voulu
venir, c’est moi qui t’ai fermé la bouche, c’est
moi qui t’ai dit que tout m’était égal. Non, non,
là tu es injuste. J’ai, j’ai téléphoné la première,
un mardi, j’en suis sûre. Un mardi vingt-sept.
Tu penses bien que je connais ces dates par
coeur...
Tesoro, ascolta... pronto! Lasciami parlare. Non
accusarti. È tutta colpa mia! Sì, sì. Ricordati di
quella domenica a Versailles e della gomma
della macchina. Sì! Allora! Sono io che ho voluto
venire, sono io che non ti ho ascoltato, sono io
che ho detto che tutto m’era indifferente. No,
no. Ora sei ingiusto. Io ho telefonato per prima,
un martedì, ne sono sicura. Martedì ventisette.
Puoi credere che conosco tutte le date a
memoria...
Ta mère? Pourquoi? Ce n’est vraiment pas la
peine.
Je ne sais pas encore. Oui, peut-être. Oh! non,
sûrement pas tout de suite, et toi?
Tua madre? Perché? Non mi sembra veramente
il caso.
Ancora non lo so. Sì, forse. Oh! no, sicuramente
non subito, e tu?
Demain? Je ne savais pas que c’était si rapide.
Alors, attends, c’est très simple: demain matin
le sac sera chez le concierge. Joseph n’aura
qu’à passer le prendre.
Domani? Non immaginavo che fosse così
urgente. Allora aspetta, è molto semplice:
domattina la busta sarà in portineria. Joseph
può passare a prenderla.
Oh! moi, tu sais, il est possible que je reste,
comme il est possible que j’aille passer
quelques jours à la campagne, chez Marthe.
Oui, mon chéri! mais oui, mon chéri!
Oh! lo sai, è facile che resti, come è possibile
che possa andare qualche giorno in campagna
da Marthe. Sì, tesoro! ma sì, tesoro.
Allô! Et comme ça? Pourtant je parle très fort.
Et là, tu m’entends? Je dis: et là, tu m’entends?
c’est drôle parce que moi je t’entends comme si
tu étais dans la chambre. Allô! allô! Allons, bon!
maintenant c’est moi qui ne t’entends plus. Si,
mais très loin, très loin. Toi, tu m’entends. C’est
chacun son tour. Non, très bien. J’entends même
mieux que tout à l’heure, mais ton appareil
résonne. On dirait que ce n’est pas ton appareil.
Pronto! E così? Eppure parlo molto forte. E
adesso mi senti? Ho detto, e adesso mi senti?
È strano perché io ti sento come se tu fossi qui
nella camera. Pronto, pronto! Ecco! Adesso
sono io che non sento più. Sì, ma lontano
lontano. Tu invece mi senti. Un po’ per uno... No,
benissimo. Sento quasi meglio di prima, ma il
tuo telefono risuona. Si direbbe che non sia il
tuo apparecchio.
Je te vois, tu sais. Quel foulard? Le foulard
rouge. Tu as tes manches retroussées. Ta main
gauche? Le recepteur. Ta main droite? Ton
stylographe. Tu dessines sur le buvard des
profils, des coeurs, des étoiles. ah! tu ris! j’ai
des yeux à la piace des oreilles. Oh! non, mon
chéri, surtout ne me regarde pas. Peur? Non,
je n’aurai pas peur... c’est pire. Enfin je n’ai
Io ti vedo, lo sai. Quale foulard? Il foulard rosso.
Hai le maniche rimboccate. La mano sinistra? Il
ricevitore. La mano destra? La tua stilografica.
Tu disegni sul foglio dei profili, dei cuori e delle
stelle.
Ah! Tu ridi! Ho degli occhi al posto delle
orecchie. Oh! Amore, amore mio, soprattutto
non guardarmi. Paura? No, non avrò paura...
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plus l’habitude de dormir seule. Oui, oui, oui,
je te promets, je te promets, tu es gentil. Je ne
sais pas. J’évite de me regarder. Je n’ose plus
allumer dans le cabinet de toilette. Hier, je me
suis trouvée nez à nez avec une vieille dame...
Non, non! une vieille dame avec des cheveux
blancs et une foule de petites rides. Tu es bien
bon! mais, mon chéri, une figure admirable,
c’est pire que tout, c’est pour les artistes.
J’aimais mieux quand tu disais: regardez-moi
cette villaine petite gueule! Oui, cher Monsieur!
Je plaisantais. Tu es bête... heureusement que
tu es maladroit et que tu m’aimes. Si tu ne
m’aimais pas et si tu étais adroit, le téléphone
deviendrait une arme effrayante. Une arme qui
ne laisse pas de traces, qui ne fait pas de bruit.
Moi, méchante? Allô! allô, chéri!... Où es-tu?
Allô, allô, Mademoiselle, allô, Mademoiselle, on
coupe. (Elle raccroche).
è peggio. Non ho più l’abitudine di dormire da
sola. Sì, sì, sì te lo prometto, te lo prometto, sei
molto buono. Non lo so. Evito di guardarmi. Non
oso più accendere la lampada dello specchio.
Ieri mi sono trovata faccia a faccia con una
vecchia signora... no no! Una vecchia signora
con i capelli bianchi e una folla di piccole rughe.
Sei veramente buono! Ma, amore mio, una
stupenda figura è la cosa peggiore: è per gli
artisti. Preferivo quando mi dicevi: guardate là
quella mocciosetta! Sì, signor mio! Scherzavo.
Sei uno sciocco... e meno male che tu sei
maldestro e che mi ami. Se non mi amassi e
se fossi scaltro, il telefono diverrebbe un’arma
tremenda. Un’arma che non lascia tracce,
che non fa rumore. Io cattiva? Pronto! Pronto
tesoro!... Dove sei? Pronto, pronto signorina
pronto, signorina hanno interrotto. (Riattacca).
(On sonne) Allô, c’est toi? Mais non,
Mademoiselle, on m’a coupée... je ne sais pas...
c’est à dire... si, attendez... Auteuil zéro quatre
virgule sept. Allô! Pas libre? Allô, Mademoiselle,
il me redemande. Bien. (Elle raccroche).
(Trilla il telefono) Pronto! Sei tu? Ma no,
signorina: m’hanno interrotto.., non lo so, voglio
dire... sì, aspetti... quattordici due sette tre.
Pronto! Occupato? Pronto, signorina, stanno
chiamando. Bene. (Riattacca il ricevitore)
(On sonne) Allô! Auteuil zéro quat’virgul’sept?
Allô! C’est vous, Joseph?... C’est Madame.
On nous avait coupés avec Monsieur. Pas là?
Oui, oui, il ne rentre pas ce soir... c’est vrai, je
suis stupide! Monsieur me téléphonait d’un
restaurant, on a coupé et je redemande son
numéro... Excusez-moi, Joseph. Merci, merci.
Bon soir, Joseph. (Elle raccroche).
(Trilla il telefono) Pronto! Zero quattro punto
sette? Pronto! Siete voi Joseph?... La signora.
Parlavo col signore e ci hanno interrotto. Non
c’è? Sì, sì, non ritorna questa sera... è vero sono
sciocca! Il signore telefonava da un ristorante,
ci hanno interrotto e richiedo il suo numero...
Scusatemi Joseph... Grazie grazie... Buonasera
Joseph. (Riattacca)
(On sonne) Allô! Ah! chéri, c’est toi? On avait
coupé. Non, non, j’attendais. On sonnait,
je décrochais et il n’y avait personne. Sans
doute... Bien sûr... Tu as sommeil? Tu es bon
d’avoir téléphoné, très bon. Non, je suis là.
Quoi? Pardonne, c’est absurde. Rien, je n’ai rien.
Je te jure que je n’ai rien. C’est pareil. Rien du
tout. Tu te trompes. Seulement tu comprends,
on parle, on parle... écoute, mon amour. Je ne
t’ai jamais menti. Oui, je sais, je sais, je te crois,
j’en suis convaincue... non ce n’est pa ça, c’est
parce que je vien de te mentir. Là, au téléphone,
depuis un quart d’heure, je te mens. Je sais
bien que je n’ai plus aucune chance à attendre,
mais mentir ne porte pas la chance et puis je
n’aime pas te mentir, je ne peux pas, je ne veux
pas te mentir, même pour ton bien. Oh! rien de
(Trilla il telefono) Pronto! Ah! caro sei tu? Ci
hanno interrotto. No, no, aspettavo. Suonava,
io rispondevo e non c’era nessuno. Senz’altro...
sicuro... hai sonno? Ti ringrazio d’avermi
telefonato. Sei stato gentile. No, sono qui.
Come? Oh, scusami, è assurdo. Niente, no,
non ho niente. Ti giuro che non ho niente. È
uguale. Affatto. Ti sbagli. Solamente, capisci,
si parla, si parla... Ascoltami tesoro. Io non
ti ho mai mentito. Sì lo so, lo so, ti credo, ne
sono convinta... ma non è questo, è che questa
volta invece ti ho mentito. Qui al telefono, da
un quarto d’ora, ti mento. Lo so bene che non
ho più alcuna speranza, mentire non serve a
niente. E poi non mi piace mentirti, non posso,
non ti voglio più mentire, anche se fosse
per il tuo bene. Oh! Niente di grave, tesoro.
12
grave, mon chéri. Seulement je mentais en te
décrivant ma robe et en te disant que j’avais
dîné chez Marthe... Je n’ai pas dîné, je n’ai pas
ma robe rose. J’ai un manteau sur ma chemise,
parce qu’à force d’attendre ton téléphone, à
force de regarder l’appareil, de m’assesoir,
de me lever, de marcher de long en large, je
devenais folle! Alors j’ai mis un manteau et
j’allais sortir, prendre un taxi, me faire mener
sous tes fenêtres, pour attendre... eh bien!
Attendre, attendre je ne sais quoi. Tu as raison.
Si, je t’écoute, je serai sage, je répondrai à tout,
je te jure. Ici... je n’ai rien mangé. Je ne pouvais
pas. J’ai été très malade. Hier soir, j’ai voulu
prendre un comprimé pour dormir; je me suis
dit que si j’en prenais plus, je dormirai mieux et
que si je les prenais tous, je dormirais sans rêve,
sans réveil, je serais morte. J’en ai avalé douze
dans de l’eau chaude. Comme une masse. Et
j’ai eu un rêve. J’ai rêvé ce qui est. Je me suis
réveillée toute contente parce que c’était un
rêve, et quand j’ai su que c’était vrai, que j’étais
seule, que je n’avais pas la tête sur ton cou j’ai
senti que je ne pouvais pas vivre! Légère, légère
et froide, et je ne sentais plus mon coeur battre
et la morte était longue à venir et comme
j’avais une angoisse épouvantable, au bout
d’une heure j’ai téléphoné à Marthe. Je n’avais
pas le courage de mourir seule. Chéri... chéri...
Il était quatre heures du matin. Elle est arrivée
avec le docteur qui habite son immeuble.
J’avais plus de quarante. Le docteur a fait
une ordonnance et Marthe est restée jusqu’à
ce soir. Je l’ai suppliée de partir, parce que tu
m’avais dit que tu téléphonerais et j’avais peur
qu’on m’empêche de te parler. Très, très bien.
Ne t’inquiète pas.
Allô! Je croyais qu’on avait coupé. Tu est bon,
mon chéri. Mon pauvre chéri à qui j’ai fait du
mal. Oui, parle, parle, dis n’importe quoi. Je
souffrais à me rouler par terre et il suffit que
tu parles pour que je me sente bien, que je
ferme les yeux. Tu sais, quelque fois quand
nous étions couchés et que j’avais ma tête à
sa petite place contre ta poitrine, j’entendais
ta voix exactement la même que ce soir dans
l’appareil.
Solamente mentivo descrivendoti il vestito,
e dicendo che avevo cenato da da Marthe...
non ho affatto cenato, e non porto il vestito
rosa. Ho il soprabito sulla camicia perché a
forza di aspettare la tua chiamata, a forza di
guardare l’apparecchio, di sedermi, di rialzarmi,
di camminare in lungo e in largo, diventavo
pazza! Allora ho messo un soprabito e stavo
per uscire, prendere un taxi, venire sotto le
tue finestre, per aspettare... eh sì! Aspettare,
aspettare non so che cosa. Tu hai ragione. Sì,
ti ascolto, sarò ragionevole, risponderò a tutto,
lo giuro. Qui... non ho mangiato niente... Non
potevo. Sono stata molto male. Ieri sera ho
voluto prendere una pastiglia per dormire, poi
mi sono detta che se ne prendevo qualcuna
in più avrei dormito meglio e che se le avessi
prese tutte, avrei dormito senza sogni, senza
risveglio, sarei morta. Ne ho prese dodici
con dell’acqua calda. Come un masso. E
ho sognato quello che è accaduto. Mi sono
svegliata tutta felice, pensando che fosse
un sogno, e quando ho visto che era vero,
che ero sola, che non poggiavo la mia testa
sul tuo collo, ho sentito che non potevo più
vivere. Leggera, leggera e fredda, non sentivo
più battere il mio cuore e la morte tardava a
venire e poiché avevo un’angoscia spaventosa,
dopo un’ora ho telefonato a Marthe. Non
avevo il coraggio di morire da sola. Caro...
caro... erano le quattro del mattino. È venuta
qui con il dottore che abita nel suo palazzo.
Avevo più di quaranta. Il dottore ha prescritto
qualcosa e Marthe è restata fino a stasera.
Poi l’ho supplicata di andarsene, perché tu mi
avevi detto che avresti chiamato e io temevo
che lei m’impedisse di parlarti. Molto, molto
bene. Non ti preoccupare. Pronto! Credevo ci
avessero interrotto. Sei molto buono, tesoro.
Mio povero amore, al quale ho fatto tanto male.
Sì, parla, parla, dì qualunque cosa. Soffrivo da
torcermi per terra e mi basta che tu mi parli
per stare subito meglio, per chiudere gli occhi.
Sai, talvolta quando eravamo sdraiati e la
mia testa era al suo posto, contro il tuo petto,
sentivo la tua voce esattamente come stasera
nell’apparecchio.
Allô! J’entends de la musique. Je dis: j’entends
de la musique. Eh bien, tu devrais cogner
au mur et empêcher ces voisins de jouer du
gramophone à des heures pareilles.
Pronto! Sento della musica. Ho detto: sento
della musica. E allora, dovresti bussare alla
parete ed impedire ai tuoi vicini di suonare il
grammofono a queste ore.
13
C’est inutile. Du reste le docteur de Marthe
reviendra demain. Ne t’inquiète pas. Mais oui.
Elle te donnera des nouvelles. Quoi? Oh! si, mille
fois mieux. Si tu n’avais pas appelé, je serais
morte. Pardonne-moi. Je sais que cette scène
est intolérable et que tu as bien de la patience,
mais comprends-moi, je souffre, je souffre. Ce fil
c’est le dernier qui me rattache encore à nous.
È proprio inutile. Tanto domani il medico di
Marthe tornerà. Non preoccuparti. Ma sì. Lei
ti darà mie notizie. Come? Oh! sì mille volte
meglio. Se tu non m’avessi chiamata, sarei
morta. Perdonami. So che questa scena è
intollerabile e che tu hai molta pazienza, ma
cerca di capirmi, io soffro, io soffro. Questo filo
è l’ultimo che mi unisce ancora a te.
Avant hier soir? J’ai dormi. Je m’étais couchée
avec le téléphone... Non, non. Dans mon lit. Oui, je
sais, je suis très ridicule, ma j’avais le téléphone
dans mon lit. Et malgré tout, on est relié par le
téléphone. Parce que tu me parles. Voilà cinq ans
que je vis de toi, que tu es mon seul air respirable,
que je passe mon temps à t’attendre, à te croire
mort si tu es en retard, à mourir de te croire mort,
à revivre quand tu entres, et quand tu es là, enfin,
à mourir de peur que tu partes. Maintenant j’ai de
l’air parce que tu me parles.
L’altro ieri? Ho dormito. Mi sono coricata
con il telefono... No, no. Nel letto. Sì, lo so,
sono ridicola, ma avevo il telefono qui nel
letto e malgrado tutto noi siamo uniti da
quest’apparecchio. Perché tu mi parli. Sono
cinque anni che vivo di te, che sei l’aria stessa
che respiro, che passo il tempo ad attenderti,
a crederti morto se tardi, a morire nel crederti
morto, a rivivere quando arrivi e quando infine
ci sei, a morire per paura che tu riparta. Adesso
respiro perché tu mi parli.
C’est entendu, mon amour; j’ai dormi. J’ai dormi
parce que c’était la première fois. Le premier
soir on dort. Ce qu’on ne supporte pas c’est la
seconde nuit, hier, et la troisième, demain, et des
jours et des jours à faire quoi, mon Dieu? et... en
admettant que je dorme, après le sommeil il y
a les rêves et le réveil, et manger et se lever et
se layer et sortir et aller où? Mais, mon pauvre
chéri, je n’ai jamais eu rien d’autre à faire que toi.
Marthe a sa vie organisée. Seule.
Siamo d’accordo amore mio, ho dormito. Ho
dormito perché era la prima volta. La prima
sera si dorme. Quella che non si sopporta
è la seconda notte, ieri, e la terza domani,
e poi giorni e giorni a far cosa, mio Dio? E...
ammettendo ch’io dorma, col sonno arrivano
i sogni, poi il risveglio, e mangiare e lavarsi e
uscire e andare dove? Ma, mio piccolo caro, io
non mi sono occupata che di te. Marthe ha la
sua vita organizzata. Sola.
Voilà deux jours qu’il ne quitte pas l’antichambre.
J’ai voulu l’appeler, le caresser. Il refuse qu’on
le touche. Un peu plus, il me mordait. Oui, moi!
Je te jure qu’il m’effraye. Il ne mange plus. Il ne
bouge plus. Et quand il me regarde il me donne la
chair de poule. Comment veux-tu qu’il le sache?
Il croit peut-être que je t’ai fait du mal… Pauvre
bête! Je n’ai aucune raison de lui en vouloir. Je ne
le comprends que trop bien. Il t’aime. Il ne te voit
plus rentrer. Il croit que c’est ma faute. Oui mon
chéri. C’est entendu; mais c’est un chien. Malgré
son intelligence, il ne peut pas le deviner. Mais,
je ne sais pas, mon chéri! Comment veux-tu que
je sache? On n’est plus soi même. Songe que j’ai
déchiré tout le paquet de mes photographies
d’un seul coup, sans m’en apercevoir. Même pour
un homme ce serait un tour de force.
Sono due giorni che non lascia l’anticamera. Ho
voluto chiamarlo, accarezzarlo. Rifiuta che lo si
tocchi. Mancava poco che mi mordesse. Sì, io!
Ti giuro che mi spaventa. Non mangia più. Non
si muove più. E quando mi guarda mi dà la pelle
d’oca. Come vuoi che lo sappia? Crede forse
che ti abbia fatto del male… Povera bestia! Non
ho ragione di volergliene. Lo capisco troppo
bene. Ti ama. Non ti vede più rientrare. Crede
che sia colpa mia. Sì caro. D’accordo; ma è
un cane. Malgrado la sua intelligenza non può
capirlo. Ma, non lo so, caro! Come pretendi che
lo sappia? Non si è più se stessi. Pensa che ho
strappato tutto il pacchetto delle mie foto in un
solo colpo, senza rendermene conto. Anche per
un uomo sarebbe stato un atto di forza.
Allô! Allô! Madame, retirez-vous. Vous êtes
avec des abonnés. Allô! Mais non, Madame.
Pronto! Pronto! Signora riattacchi. Lei parla
con un’abbonata. Pronto! Ma no, signora.
14
Mais, Madame, nous ne cherchons pas à être
intéressants. Si vous nous trouvez ridicules,
pourquoi perdez-vous votre temps au lieu de
raccrocher?
Ma signora, non cerchiamo affatto di essere
interessanti. Se ci trova ridicoli, perché perde il
suo tempo invece di riattaccare?
Oh! ne te fâche pas... Enfin! Non, non. Elle a
raccroché après avoir dit cette chose ignoble.
Tu as l’air frappé. Si, tu es frappé, je connais ta
voix. Mais, mon chéri, cette femme doit être
très mal et elle ne te connaît pas. Elle croit
que tu es comme les autres hommes. Mais
non, mon chéri, ce n’est pas du tout pareil.
Pour les gens, on s’aime ou on se déteste. Les
ruptures sont les ruptures. Ils regardent vite.
Tu ne leur feras jamais comprendre... tu ne leur
feras jamais comprendre... certaines choses.
Le mieux est de faire comme moi et de s’en
moquer complètement.
Oh! Ma non te la prendere... Che importa.
No no. Ha messo giù dopo aver detto quella
cosa ignobile. Sembri arrabbiato. Sì, tu sei
arrabbiato, conosco la tua voce. Ma, tesoro mio,
quella donna non deve star bene, e poi non sa
niente di te. Lei crede che tu sia come tutti gli
altri. Ma no, amore mio, non è la stessa cosa.
Per la gente, ci si ama o ci si detesta. Le rotture
sono rotture. Sono dei superficiali. Tu non
riuscirai mai a fargli capire... tu non riuscirai mai
a fargli capire... certe cose. Il meglio è fare come
me e fregarsene completamente.
Oh! Rien. Je crois que nous parlons comme
d’habitude et puis tout à coup la vérité me
revient. Dans le temps, on se voyait. On puvait
perdre la tête, oublier ses promesses, risquer
l’impossible, convaincre ceux qu’on adorait
en les embrassant, en s’accrochant à eux. Un
regard pouvait changer tout. Mais avec cet
appareil, ce qui est fini est fini. Sois tranquille.
On ne se suicide pas deux fois. Je ne saurais
pas acheter un revolver... Tu ne me vois pas
achetant un revolver.
Oh! Niente. Credevo di parlare come le altre
volte, e poi mi è riapparsa la verità. Prima ci si
vedeva. Si poteva perdere la testa, scordare
le promesse, rischiare ogni cosa, convincere
chi si amava abbracciandoli e aggrappandosi
a loro. Uno sguardo poteva cambiar tutto. Ma
con questo apparecchio ciò che è finito è finito.
Sta tranquillo. Non ci si suicida due volte. Non
saprei comprare una rivoltella... tu non mi ci
vedi a comprare una rivoltella?
Où trouverais-je la force de combiner un
mensonge, mon pauvre adoré? Aucune...
J’aurais dû avoir du courage. Il y a de
circonstances où le mensonge est utile. Toi,
si tu me mentais pour rendre la séparation
moins pénible... je ne dis pas que tu mentes.
Je dis: si tu mentais et que je le sache. Si, par
exemple, tu n’étais pas chez toi, et que tu me
dises... Non, non, mon chéri! Ecoute, je te crois.
Si, tu prends une voix méchante. Je disais
simplement que si tu me trompais par bonté
d’âme et que je m’en aperçoive, je n’en aurais
que plus de tendresse pour toi.
Dove troverei la forza di escogitare una
menzogna, mio povero caro? Nessuna... avrei
dovuto essere coraggiosa. Vi sono dei casi in
cui la menzogna è inutile. Tu, se mi mentissi
per rendere la separazione meno penosa... non
dico che tu menti. Ho detto: se mentissi e io lo
sapessi. Se, per esempio, tu non fossi a casa
tua, e tu mi dicessi... no, no amor mio! Ascolta...
io ti credo. Sì, hai un tono cattivo. Dicevo
semplicemente che se m’ingannassi per bontà
d’animo e che io me ne accorgessi, non proverei
che maggiore tenerezza per te.
Allô! Allô! Mon dieu, faite qu’il redemande. Mon
Dieu, faite qu’il redemande. Mon Dieu, faite qu’il
redemande. Mon Dieu, faite qu’il redemande.
Mon Dieu, faite... (On sonne)
Pronto! Pronto! Dio mio, fa che mi richiami.
Dio mio, fa che mi richiami. Dio mio fa che mi
richiami. Dio mio fa che mi richiami. Dio mio
fa... (Suona il telefono)
On avait coupé. J’étais en train de te dire que
si tu me mentais par bonté et que je m’en
Hanno interrotto. Stavo dicendo che se
tu m’ingannassi per bontà e che io me ne
15
aperçoive, je n’en aurais que plus de tendresse
pout toi. Bien sûr... Tu es fou! Mon amour. Mon
cher amour.
accorgessi, non proverei che maggior tenerezza
per te. Sicuro... sei pazzo! Amore mio. Mio caro
amore.
Je sais bien qu’il le faut, mais c’est atroce.
Jamais je n’aurais le courage. Oui. On a l’illusion
d’être l’un contre l’autre et brusquement on
met des caves, des égouts, toute une ville entre
soi.
Lo so bene che bisogna, ma è atroce. Non
ne avrò mai il coraggio. Sì! Si ha l’illusione di
essere l’uno vicino all’altra e di colpo ci sono tra
noi delle cantine, delle fogne, tutta una città ci
separa.
J’ai le fil autour de mon cou. J’ai ta voix autour
de mon cou. Ta voix autour de mon cou.
Il foudrait que le bureau nous coupe par hasard.
Ho il filo attorno al collo. Ho la tua voce attorno
al mio collo.
Bisognerebbe che il centralino ci interrompesse
per errore.
Oh! Mon chéri! Comment peux-tu imaginer
que je pense une chose si laide? Je sais bien
que cette opération est encore plus cruelle à
faire de ton côté que du mien... Non... non... A
Marseille? Ecoute, chéri, puisque vous serez à
Marseille après demain soir, je voudrais... enfin
j’aimerais... j’aimerais que tu ne descendes
pas à l’hôtel où nous descendons d’habitude.
Tu n’est pas fâché? Parce que les choses que
je n’imagine pas n’existent pas, ou bien elles
existent dans une espèce de lieu très vague et
qui fait moin de mal... tu comprends? Merci...
merci. Tu es bon. Je t’aime.
Oh! Amore mio! Come puoi immaginare che
io pensi una cosa così brutta? So bene che
questa operazione è ancora più crudele da
compiersi da parte tua che dalla mia... No...
no... A Marsiglia? Ascoltami, amore, visto che
sarete a Marsiglia dopodomani sera, io vorrei...
insomma desidererei... desidererei che tu non
scendessi all’albergo dove andavamo sempre
noi. Non sei offeso? Perché le cose che non
riesco a immaginare per me non ci sono, o
meglio, esse esistono in una specie di luogo
vago e che fa meno male... mi capisci? Grazie...
grazie. Tu sei buono. Ti amo.
Alors, voilà. J’allais dire machinalement à tout
de suite. J’en doute. Oh! c’est mieux. Beaucoup
mieux. Mon chéri... mon beau chéri. Je suis
forte. Dépêche-toi. Vas-y, coupe! Coupe vite! Je
t’aime! Je t’aime, je t’aime, je t’aime... t’aime.
(Le recepteur tombe par terre)
Allora ecco. Stavo per dire macchinalmente: a
presto. Ne dubito. Oh! è meglio. Molto meglio.
Amore mio... mio caro amore. Sono forte. Dai,
taglia! Taglia adesso! Ti amo!Ti amo, ti amo, ti
amo... (Il ricevitore cade in terra)
16
The telephone
or L’amour à trois
Opera buffa in un atto
Testo e musica di Gian Carlo Menotti
(traduzione italiana di Sandro Pasqualetto)
Edizioni G. Schirmer, New York (rappresentante per l’Italia Casa Ricordi, Milano)
Prima rappresentazione New York, Heckscher Theater, 18 febbraio 1947
PERSONAGGI
Lucy
Ben
soprano
baritono
La scena è nell’appartamento di Lucy
18
Lucy
Oh! Just what I wanted. Thank you!
Lucy
Oh proprio quel che volevo. Grazie!
Ben
I’m so glad you like it! Now Lucy, I’ve something
to tell you. I’m going away.
Ben
Son contento che ti piaccia! Ora Lucy, ho da
dirti una cosa. Sto partendo.
Lucy
Oh, dear! When are you going?
Lucy
Oh Caro, e quando parti?
Ben
My train leaves in an hour.
Ben
Il treno parte fra un’ora.
Lucy
Oh, I’m so sorry!
Lucy
Oh, mi spiace!
Ben
But before I go I would like to ask you something.
Ben
Ma prima di partire vorrei chiederti una cosa.
Lucy
Yes, dear?
Lucy
Sì, caro?
Ben
You know how much I’ve always liked you…
Ben
Tu sai quanto mi sei sempre piaciuta...
Lucy
Yes, dear?
Lucy
Sì, caro?
Ben
Well, then… I was just wondering…that is, of
course, after I come back… if you would consider...
Ben
Bene, dunque… stavo pensando… ecco, certo,
dopo il mio ritorno… se tu considerassi…
Lucy
What, dear?
Lucy
Cosa, caro?
Ben
I don’t quite know to tell you.
Ben
Non so veramente come dire…
Lucy
Excuse me. Hello! Hello? Oh, Margaret, it’s you.
I’m so glad you called, I was just thinking of you.
It’s been a long time since you called me. Who?
I? I cannot come tonight. No, my dear, I’m not
feeling very well. When? Where? I wish I could
be there! I’m afraid I must not.
Hello? Hello? What did you say, my darling?
What did you say? Hello? Hello? Please, speak
louder! I heard the funniest thing! Jane and
Paul are going to get married next July. Don’t
you think it is the funniest thing you ever
heard? I know… of course…
And how are you? And how is John? And how is
Lucy
Scusa. Pronto! Pronto? Oh, Margaret, sei tu.
Sono contenta che mi chiami, pensavo proprio
a te. È tanto tempo che non ci sentiamo. Chi?
Io? Stasera proprio no. No, cara, non mi sento
molto bene. Quando? Dove? Vorrei proprio
esserci! Mi dispiace ma non posso.
Pronto? Pronto? Cosa dicevi cara? Cosa?
Pronto? Pronto? Parla più forte. Ho sentito la
novità! Jane e Paul si sposeranno in luglio. Non
è la cosa più buffa mai sentita? Lo so…. certo…
E tu come stai? E come sta John? E come sta
Jean? Devi salutarmeli tutti. E come sta Ursula,
e come sta Natalie, e come sta Rosalie? Spero
19
Jean? You must tell them that I send them my
love. And how is Ursula, and how is Natalie, and
how is Rosalie? I hope she’s got ten over her
cold. And how is your mother, and how is your
father, and how is dear little granny?
Ha! Ha! Ah! Ah!
Oh, dear! Well then, goodbye. Goodbye, my
dear, goodbye. I am so glad you called, I was
just thinking of you. It’s been a long time since
you called me. Yes, you already told me that.
No my darling, of course I won’t forget! Yes…
yes… goodbye, my dear, goodbye… Yes, my
darling, goodbye… Yes!
Ha! Ha! Ah! Ah! Oh, dear! That’s the funniest
thing I ever heard! And how are you, and Bets
and Bob, and Sara, and Sam? You must tell
them that I send them my love. And how is
the pussycat, how is the dog? Oh, I’m so glad!
Goodbye! Yes, Margaret! All right, all right,
goodbye! All right, all right, goodbye! Now,
Margaret, goodbye! So long.
That was Margaret!
che gli sia passato il raffreddore. E come sta la
tua mamma, il tuo papà, e la cara nonna?
Hmm! Hmm! Ah ah!
Oh mio Dio! Beh, ti saluto. Ciao, cara, ciao.
Sono contenta che tu mi abbia chiamato, stavo
pensando proprio a te. Era da tanto che non ci
sentivamo. Sì, me l’hai già detto.
No mia cara, certo che non mi dimenticherò!
Sì… sì... Ciao, mia cara, ciao… Ciao, mia cara,
ciao… Sì!
Hmm, hmm! Ah ah! Oh mamma! È la cosa più
divertente che abbia mai sentito! E tu che fai?
E Bets, e Bob, e Sara, e Sam? Devi salutarmeli
tutti. E come va il gattino? E il cane? Oh, che
piacere! Ti saluto! Sì, Margaret! Va bene,
va bene, ciao! Va bene, va bene, ciao! Ora,
Margaret, ciao! A presto.
Era Margaret!
Ben
You don’t say!
Ben
Ma no!
Lucy
Isn’t she funny!
Lucy
È così buffa!
Ben
She is a scream!
Ben
Un fenomeno
Lucy
Would you like to know what she told me?
Lucy
Vuoi che ti racconti quello che mi ha detto?
Ben
I’d love to, but not now… It is getting late and
there is so much I have to tell you.
Ben
Sarei felicissimo, ma non ora…si fa tardi e ho
ancora tanto da dirti.
Lucy
All right, go on. What is it, darling? Excuse me.
Hello? Hello? What are you saying? What
number you want? Wrong number! Why must
always they pick on me when they get the
wrong number?
Lucy
Bene, dì pure. Che c’è caro? Scusa.
Pronto? Pronto? Cosa dite? Che numero
cercate? Sbagliato numero! Perché devono
chiamare sempre me quando sbagliano
numero?
Ben
Why, indeed! But now will you please listen to
me? The time is getting shorter.
Ben
Guarda un po’. Ma adesso, per favore, vuoi
ascoltarmi? C’è sempre meno tempo.
Lucy
Would you like to know the exact time? Just wait.
Lucy
Vuoi sapere l’ora esatta… aspetta. Sono le
20
It is four fifteen and three and half seconds.
quattro e cinquanta e tre secondi e mezzo.
Ben
Thank you. But now, please listen to me?
Ben
Grazie! Ma adesso mi ascolti?
Lucy
Of course, what else have I done? Go on then?
Lucy
Certo, cosa ho fatto finora? Parla! Coraggio!
Ben
Well, as we were saying, you know how much
I’ve always cared for you… so, I was just
wondering… that is, of course, after I come
back… if you would consider… Oh, I’ll go insane!
Ben
Beh, dicevamo… sai quanto mi sei sempre
piaciuta… così, stavo pensando… ecco, certo,
dopo il mio ritorno… se tu considerassi… Oh,
divento pazzo!
Lucy
I’m sorry. Hello? Hello? Why, George, it’s you!
But why must you scream at me so! What do
you mean! Who ever told it to you? I never said
that about you! If you don’t believe me you can
call up Phyllis! How dare you say such a thing!
Stop using such language!
No… yes… no, no, I mean… I swear it isn’t true!
How can you believe that I’d say such a thing?
Now listen to me! I’m not going to stand it if you
call me names. Hello? Hello? Murder!
Lucy
Scusa. Pronto? Pronto? George, sei tu? Ma
perché mi urli così? Cosa vuoi dire! Chi te lo ha
raccontato? Non ho mai detto questo di te! Se
non mi credi puoi chiamare Phyllis! Ma come ti
permetti? Smettila di usare questo tono. No…
sì… no, no, voglio dire… Ti giuro non è così!
Come puoi credere che abbia detto questo!
Adesso ascoltami! Non resterò qui ad ascoltare
queste cose.
Pronto? Pronto? Maledizione!
Ben
Listen, Lucy, listen, now don’t you cry, don’t you
cry. There is something I must tell you.
Listen, Lucy, listen, dear, don’t you cry, don’t
you cry. Lift your face and dry yours tears.
Listen, Lucy, listen, dear, don’t you cry, don’t
you cry.
Ben
Lucy, ascolta, non piangere. C’è qualcosa che
devo dirti. Lucy, ascolta, non piangere. Alza
il viso e asciuga gli occhi Lucy, ascolta, non
piangere.
Lucy
Oh you don’t understand! Let me go and get a
handchief.
Lucy
Oh, tu non capisci. Vado a prendere un
fazzoletto.
Ben
Try again and again. What else can a man do
except wait and then try and wait and then
try once again? I’d rather contend with lover,
husband, or inlaws, than this two headed
monster who comes unasked and devours my
day. For this thing can’t be challenged, can’t be
poisoned or drowned.
It has hundred of lives and miles of umbilical
cord.
Ben
Provare ancora e ancora. Cos’altro può fare
un uomo che aspettare e tentare, una volta di
più? Preferirei battermi contro amanti, mariti,
suoceri, piuttosto che contro questo mostro
a due teste, che ti piomba addosso e rovina
i miei giorni. Questa “cosa” non può essere
combattuta, avvelenata, annegata. Ha mille vite
e kilometri di cordone ombelicale.
Lucy
You wicked man! What were you doing to it?
Lucy
Ah sciagurato! Cosa gli stai facendo?
21
Ben
I… I was only trying…
Ben
Io… io cercavo solo…
Lucy
The poor thing! Shame on you! Put them down!
Lucy
Poverino! Vergogna! Mettilo giù!
Ben
I assure you it was all in self defence.
Ben
Giuro che l’ho fatto per legittima difesa.
Lucy
You must have hit it first!
Lucy
Hai cominciato tu!
Ben
Lucy, can we two have a quiet talk?
Ben
Lucy! Possiamo parlarne un attimo?
Lucy
Yes, dear, but first I must call up Pamela.
Lucy
Sì, caro, ma prima devo chiamare Pamela!
Ben
Pamela? Why must you call her now?
Ben
Pamela? Perché devi chiamarla adesso?
Lucy
I must tell her of my quarrel with George.
Lucy
Devo dirle del mio litigio con George.
Ben
Can’t you tell her aftewards?
Ben
Non puoi dirglielo dopo?
Lucy
Oh, no, I must get hold of her before she hears it
from somebody else. It will only take a moment,
I will make it very short.
Lucy
Oh, no! Devo dirglielo prima che lo sappia da
qualcun altro. È questione d’un momento. Farò
prestissimo.
Ben
Lucy, dear, please not now, I shall soon be gone.
Can you wait until I go?
Ben
Lucy, cara, per favore non adesso, devo partire
tra poco. Non potresti farlo dopo?
Lucy
It will take me just a minute.
Lucy
È questione d’un momento.
Ben
But I have no time to lose.
Ben
Ma non ho più tempo.
Lucy
I will make it very short.
Lucy
Farò prestissimo.
Ben
Oh, all right, but please hurry!
Ben
Oh, va bene, ma per favore sbrigati!
Lucy
Hello, this is Lucy. I just had a querrel with
George… Over the telephone. Shall I tell you all
about it? It all began on a Sunday, when Jean
Lucy
Pronto, sono Lucy! Ho litigato con George… Per
telefono. Devo dirti tutto? Tutto è cominciato
una domenica, quando io e Jean siamo andate
22
and I went skating. We got on the trolley and
Meg and Molly, so we sat down next to them.
I’ve known both Meg and Molly for years, and
thought they were my friends. But what they
have done to me now I’ll never, never forget.
They started asking if I had seen George, and
now I know why. I said seen him once, that’s
all they wanted to know. So one thing led to
another, and while we gabbed about George
I told them what you told me you had heard
about him and Joe. I know I was a fool, but now
it is too late. They told him what I told them you
had told me.
a pattinare. Sul tram abbiamo incontrato Meg
e Molly così ci siamo sedute con loro. Conosco
Meggy e Molly da anni, e eravamo buone
amiche. Ma non potrò più dimenticare quello che
mi han fatto. Hanno cominciato a chiedermi se
avevo visto George, e adesso capisco il perché.
Ho detto di averlo visto una volta. Era tutto ciò
che volevano sapere. Così, una cosa tira I’altra, e
mentre parlavamo di George gli ho detto quello
che tu m’avevi detto di aver sentito su lui e Joe.
Sono stata stupida, lo so, ma ora è troppo tardi.
Loro gli hanno detto quello che gli avevo detto e
che tu dicesti a me.
Ben
I’ve waited hour after hour, but she will never
stop. I must tell her I love her, but that thing will
not let me, and now I have to go and she will
never, and she will never know.
Ben
Aspetto da ore, ma non smette più. Devo dirle
che l’amo, ma questa “cosa” non lo permette, e
ora devo partire, e lei non saprà mai.
Lucy
Of course, I said, “Oh, George, my darling, how
can you believe that I’d say such a thing, you
know that in me you have a true friend”. But he
wouldn’t believe me, and coursed me up and
down, and kept calling me names, yes, all sort of
names. And then I said, “Oh, George, my darling,
if you don’t believe me you can call up Phyllis
and ask her to tell you whether or not it is true”.
Of course I had to lie, what else was I to do? But
oh, you’ll never know how much I went through.
Lucy
Certo, ho detto: “Oh, George, mio caro, come
puoi credere che io possa dire questo di te,
sai che sono tua amica”. Ma lui non ha voluto
credermi, e me ne ha dette di tutti i colori,
mi ha offesa, sì, insultata. Così gli ho detto:
“Oh George, mio caro, se tu non mi credi puoi
chiamare Phyllis e chiederle di dirti se è vero o
no”. Certo che ho dovuto mentire, ma come fare
altrimenti? Ma oh, non immagini quanto mi ha
colpito.
Ben
I’ve waited hour after hour, but she will never
stop. I must tell her I love her, but that thing will
not let me, and now I have to go, and she will
never know.
Ben
Aspetto da ore, ma non smette più. Devo dirle
che l’amo, ma questa “cosa” non lo permette, e
ora devo partire, e lei non saprà mai.
Lucy
I thought I would die, Ah! I’m so glad that you
understand. And now, let’s say goodbye. I want
to think it over, if anything else should happen
today I promise to call you again. Goodbye,
goodbye.
Lucy
Avrei voluto morire, ah! Sono così contenta che
tu mi capisca. Adesso ti devo salutare. Voglio
pensarci su, se oggi succede qualcosa di nuovo
ti ritelefonerò. Ciao, ciao…
Ben
I heard that before. She only stops to start
again. If I stay I’ll go mad! There’s only one thing
left, there’s only one thing left.
Ben
Questa l’ho già sentita. Smette solo per
ricominciare ancora. Se resto diventerò pazzo!
Resta solo una cosa da fare, solo una cosa.
Lucy
Oh, were has he gone? He left me alone with my
Lucy
Oh, dove è scappato? M’ha lasciata sola col
23
telephone. I wonder what he wanted to tell me?
I have a feeling he had something on his mind.
Will he come back? By now he must be on the
train.
I don’t know why I feel depressed. Oh it must be
he! It must be he! Hello?
mio telefono. Chissà cosa doveva dirmi?
Mi sembrava avesse qualcosa per la testa.
Ritornerà? Ormai dev’essere già in treno. Non
so perché mi sento depressa. Oh deve essere
lui! Deve essere lui! Pronto?
Ben
Hello?
Ben
Pronto?
Lucy
Where are you, my darling?
Lucy
Dove sei, mio caro?
Ben
I’m terribly near you , right next to your ear.
Ben
Ti sono vicinissimo, proprio a fianco del tuo
orecchio.
Lucy
Did you miss your train?
Lucy
Hai perso il treno?
Ben
Not yet.
Ben
Non ancora.
Lucy
But why did you leave me, and what was the
thing you so wanted to tell me?
Lucy
Ma perché mi hai lasciato, e cos’era che dovevi
dirmi?
Ben
Will you marry me?
Ben
Vuoi sposarmi?
Lucy
Oh, Ben! Of course I will marry you! You know
that I love you. So why, my Darling, did you wait
so long to ask me what you already knew?
Lucy
Oh Ben! Certo che lo voglio! Sai che ti amo.
Allora perché, mio caro, hai aspettato tanto a
chiedermi quello che già sapevi?
Ben
Blessed invention, extend your forgiveness!
From now on this shall be that form of love wich
people call “l’amour à trois”. I must go now.
Ben
Invenzione benedetta, ti perdono! Da adesso
questo amore, la gente lo chiamerà “l’amore a
tre”. Ora devo andare.
Lucy
Oh not just yet.
Lucy
Oh, non così presto.
Ben
I’ll miss my train.
Ben
Perderò il treno.
Lucy
No, no, you still have time.
Lucy
No, no, hai ancora tempo.
Ben
Will you wait for me?
Ben
Tu mi aspetterai?
24
Lucy
Oh, Ben, of course I will wait, but please don’t
be long. I’ll wait by the phone, but darling, don’t
be long.
Lucy
Oh, Ben, certo che ti aspetterò, ma per favore
non metterci troppo. Aspetterò la tua chiamata,
ma per favore non metterci troppo.
Ben
As long as you have a phone you’ll never be
alone.
Ben
Ma fino a quando avrai un telefono non sarai
mai sola.
Lucy
And while you’re away…
Lucy
E mentre sei lontano…
Ben
Yes?
Ben
Sì?
Lucy
Don’t forget…
Lucy
Non scordare…
Ben
Your eyes?
Ben
I tuoi occhi?
Lucy
No…
Lucy
No…
Ben
Your hands?
Ben
Le tue mani?
Lucy
No…
Lucy
No…
Ben
Your lips?
Ben
Le tue labbra?
Lucy
No…
Lucy
No…
Ben
What else?
Ben
Cosa allora?
Lucy
My number!
Lucy
Il mio numero!
Ben
Your number?
Ben
Il tuo numero?
Lucy
Oh please don’t forget to call my number, my
darling, remember to call it every day.
Lucy
Oh per favore, non dimenticare di fare il mio
numero, mio caro, di farlo ogni giorno.
Ben
I’ll never forget to call your number, yes, dear,
I’ll remember to call it every day.
Ben
Non mi dimenticherò mai di chiamarti, sì, cara,
mi ricorderò di chiamarti ogni giorno.
25
Lucy and Ben
You always can reach me by ringing this
number.
Lucy e Ben
Potrai trovarmi in ogni momento, chiamando il
numero…
Lucy
You’d better write it down so you won’t forget it.
Stevedore two…
Lucy
Dovresti scriverlo per non dimenticarlo.
Stevedore due…
Ben
Stevedore two…
Ben
Stevedore due…
Lucy
three…
Lucy
tre…
Ben
three…
Ben
tre…
Lucy
four…
Lucy
quattro…
Ben
four…
Ben
quattro…
Lucy
nine…
Lucy
nove…
Ben
nine...
Ben
nove…
Lucy
O.
Lucy
zero.
Ben
O.
Ben
zero.
26
Il soggetto
La voix humaine
Al levarsi del sipario ci si trova di fronte ad una donna sola, in una camera da letto. Squilla
il telefono, lei risponde. È una telefonata che, con alcune interruzioni, si protrarrà per
tutta la durata dell’opera. La donna racconta all’uomo, che è lontano da lei da alcuni
giorni, la sua giornata trascorsa con un’amica, ma l’atmosfera si fa presto tesa a causa
delle risposte che arrivano dall’altro capo del filo. La discussione prende a svolgersi
sul doppio registro delle parole e dei toni di voce, facendoci intuire che tra i due è in
corso il tentativo di smascherare le reciproche bugie. A contribuire alle incomprensioni
sono i disturbi sulla linea, che sembrano dare il senso di una distanza più affettiva che
fisica. Dopo un’interruzione i due riprendono a discutere; adesso la conversazione verte
direttamente sulle loro menzogne. La donna dichiara di non essere stata da un’amica la
sera prima, ma di non aver fatto altro che attendere una telefonata di lui. Confessa poi
che, nel tentativo di immergersi in un sonno senza sogni, ha ingerito una dose massiccia
di sonniferi; spaventata, ha chiesto soccorso telefonando all’amica, che è sopraggiunta in
suo aiuto, con un medico, alle quattro del mattino. Mentre racconta scoppia a piangere
e confessa tutto il suo tormento per l’assenza dell’uomo. La conversazione assume
sempre più un tono disperato: la donna, dopo aver cercato di coinvolgere emotivamente
l’interlocutore nel proprio dolore, capisce che è impossibile ristabilire un vero dialogo
con lui. Il legame si è spezzato, e con esso la telefonata, che si chiude con un ripetuto “je
t’aime” della donna.
The Telephone ou L’amour à trois
Al termine di un vivace preludio, Ben arriva a casa di Lucy. Deve partire e, dopo averle
dato un regalo, la informa di avere qualcosa di importante da dirle. Suona però il
telefono e Lucy si intrattiene a lungo e piacevolmente con l’amica Margaret. Ben cerca
di riprendere il discorso, ma il telefono suona ancora: è qualcuno che ha sbagliato
numero. Ben riprova a parlare, concitato perché è tardi e rischia di perdere il treno; Lucy,
premurosa, telefona per sapere che ora è.
Ben, sempre più nervoso, tenta di riprendere il discorso, ma viene interrotto da un’altra
telefonata: è George, che accusa Lucy di aver diffuso maldicenze sul suo conto; sconvolta,
27
Lucy si allontana piangendo, mentre Ben è assalito dalla tentazione di tagliare i fili del
telefono. Lucy torna in tempo per proteggere l’amato oggetto: vuole chiamare subito
l’amica Pamela per sfogarsi con lei, mentre Ben, ormai disperato, se ne va. Lucy è rimasta
sola nel silenzio della casa. Fuori si intravede Ben, in una cabina telefonica, che compone
il numero di Lucy: riesce finalmente a parlarle e a chiederle di sposarlo.
28
La voix humaine.
La musica in una stanza
di Maria Chiara Mazzi
Sarebbe fin troppo facile ironizzare sul significato della locuzione “opera da camera”
quando ci troviamo a parlare di una pièce di teatro musicale che, in effetti, si svolge
interamente in una camera. Evitiamo perciò fin da subito l’accattivante strada del gioco
di parole per vestire i panni dei musicologi e scoprire quanta fortuna questa forma di
teatro per spazi e per organici ridotti abbia avuto nel Novecento.
Se c’è una cosa nella quale l’opera da camera differisce in maniera totale dall’opera
dell’Ottocento (di cui non è azzardato affermare che sia una palese reazione) è il fatto
che, pur nell’immediatezza, e talora nell’assenza di azione, essa richiede assolutamente
una partecipazione “attiva” del pubblico, il quale, messo davanti il più delle volte ad
un dramma di cui si rappresenta solo l’epilogo, deve ricostruirne dentro di sé tutte le
fasi non viste, ripercorrere gli stati d’animo e gli eventi che hanno portato a ciò che sta
realmente vedendo sulla scena.
Inutile dire, a conclusione di questa breve premessa, quanto questo tipo di opera, sempre
più sperimentale all’inizio del xx secolo, puntasse a ritagliarsi un pubblico elitario di
intellettuali, creando una vera e propria barriera rispetto sia al pubblico tradizionale
dell’opera romantica o verista, sia a quello, sempre più numeroso, che cominciava ad
affollare i cinematografi, nuovi palcoscenici per uno spettacolo che si sarebbe imposto in
breve tempo sul precedente.
Per quanto abbiamo detto, non ci deve stupire che uno dei centri culturali in cui questa
ricerca è fiorita più vivacemente sia stata la Parigi degli anni Venti e Trenta, dove ampia fu
la sperimentazione sia nel campo del teatro di prosa, sia in quello musicale che ad esso si
collegava.
All’inizio del Novecento la Francia vive un momento di profondo fermento artistico
e culturale, e Parigi è il punto di concentrazione e di irradiazione delle avanguardie
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letterarie ed artistiche, le quali sovente avevano le proprie radici all’estero. Proprio la
forte spinta di quelle avanguardie diede vita a cenacoli artistici che intendevano rompere
definitivamente con tutti i canoni estetici che avevano dominato nei decenni precedenti
e che essi identificavano con i termini “romanticismo”, “decadentismo”, “simbolismo”:
una tendenza che investì tutti i campi della cultura e dell’arte e alla quale si possono
ricollegare, ad esempio, movimenti come il Dadaismo e il Futurismo in letteratura, il
Cubismo in pittura, ispiratori diretti di quel “Gruppo dei sei” che nel primo dopoguerra
si affermò in campo musicale.
Fu lo scrittore Jean Cocteau, in un opuscolo del 1920 dal titolo Le coq et l’Arlequin, a chiarire
le idee basilari del Gruppo, di cui assunse la veste di corifeo nella difesa di una cultura
che, non priva di venature nazionalistiche, contrapponeva la cultura francese (il gallo)
all’eclettismo (rappresentato in senso dispregiativo dall’Arlecchino) che fino ad allora
aveva prevalso.
Si ricercano, inoltre, i “padri spirituali” del movimento, le radici vere di questa
reazione radicale alla tradizione romantica (ma anche, e forse soprattutto, a Debussy
e al debussysmo) in artisti che, pur vissuti molti anni prima, erano stati tuttavia
completamente ignorati dalla cultura ufficiale proprio per la loro originalità
anticonformistica, come era accaduto a Eric Satie. Vissuto contemporaneamente a
Debussy, il suo assoluto anticonformismo si era esplicato in uno stile scarno, essenziale,
misuratissimo, e in composizioni i cui titoli erano aperte allusioni ironiche alla
consuetudine di dare alla musica titoli immaginifici in relazione al loro contenuto.
Come Satie componeva limitando all’essenziale il materiale sonoro, così anche i giovani
compositori del Gruppo (Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre)
vogliono ora allontanarsi dalle grandi, complesse forme della tradizione per una
ritrovata semplicità, ai limiti del quotidiano. Contro la concezione mistica di Wagner,
che i componenti del sodalizio avvertivano con fastidio anche nella musica di Debussy,
il Gruppo, che come tale vive soltanto per breve tempo (fino agli inizi degli anni Venti),
cerca di rispondere concretamente all’invettiva lanciata da Cocteau: “Basta con le nuvole,
le onde, gli acquari, le ondine e i profumi notturni; per noi ci vuole una musica terrestre,
una musica di tutti i giorni”.
È dunque abbastanza chiaro che, nell’ambito di tale ricerca, uno dei generi su cui più si
puntò per un reale cambiamento di prospettiva fosse quello del teatro musicale, genere
nel quale il rinnovamento si produce nella molteplicità di elementi che alla musica è
connessa: il soggetto, il testo letterario, la scenografia, la regia.
Per ciò che riguarda i soggetti, la tendenza è verso un teatro realistico (non veristico) che
porta sulla scena storie “normali”, nelle quali lo spettatore si riconosce senza mediazioni
e la tensione deve già essere insita nella situazione (sempre una situazione limite), colta
nel momento che immediatamente precede la catastrofe.
Nel libretto diviene fondamentale l’apporto di grandi scrittori, ma in modo diverso
rispetto al passato: i testi letterari, infatti, non vengono “trasformati” in libretto,
ma utilizzati “come” libretto, o integralmente o con pochissime modifiche (di solito
apportate dagli stessi autori). Quanto poi alla scenografia (alla quale si dedicano anche
pittori di fama, ad esempio Picasso) e alla regia, l’impegno fu quello di liberare l’opera da
quei luoghi comuni e da quella “paccottiglia da palcoscenico” che aveva costituito fino a
pochi anni prima l’armamentario consueto del teatro di repertorio.
È in questo clima che opera Francis Poulenc (nato nel 1899 e morto nel 1963), compositore
che vive totalmente il vento del rinnovamento. Componente tra i più giovani del “Gruppo
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dei sei”, è quello forse più vicino, almeno all’inizio, alle idee di Satie, soprattutto nel suo
scanzonato, irriverente atteggiamento nei confronti della realtà. La preferenza decisa per
la modalità, lontana dalla ricerca atonale che invece caratterizzava le altre avanguardie
contemporanee, si accompagna a scelte che privilegiano il rapporto col testo (che egli
rende attraverso un melodismo fluido e un’eleganza fragile e raffinata) piuttosto che la
musica pura, dando luogo a una serie di lavori estremamente significativi in ambito sia
cameristico che teatrale.
Per quello che riguarda più specificamente gli ambiti e i generi musicali utilizzati da
Poulenc, vale la pena di ricordare come prolungati e vari siano stati i suoi rapporti con
la parola intonata e col teatro: se si escludono le tante raccolte di liriche, il balletto con
canto Les biches (1924) e il monologo per soprano e orchestra su testo di Cocteau La dame
de Montecarlo (1961) , il teatro musicale propriamente detto è costituito dall’opera buffa
su testo di Apollinaire Les mamelles de Tirésias (1947) e dall’opera tratta dal dramma di
Bernanos Dialogues des Carmélites (1957) , oltre che da La voix humaine (1959), tragedia lirica
in un atto sempre su testo di Jean Cocteau.
In questo percorso, Poulenc si allontanò dalle forme chiuse tradizionali (ancora presenti
in Mamelles) verso altre più fluide (in Dialogues), fino alla completa innovazione che si
coglie nella Voix humaine, dove la libertà nel rapporto musica-testo è completa e finisce
per trasformarsi in un declamato continuo, assai vicino al discorso parlato. Non è solo
un procedere nel senso dell’informale, ma anche un graduale cambiamento di modelli
e contenuti letterari: un passaggio dall’ironia alla malinconia, dalla commedia agli
aspetti più sentimentali della vicenda narrata anche attraverso strutture musicali
lineari che sostengono testi il cui significato, non più simbolico, diviene perfettamente
comprensibile ad ogni ascoltatore. Contribuisce a ciò anche la rarefazione del tessuto
strumentale; rarefazione che porterà proprio nel caso della Voix humaine a preparare
anche un’altra realizzazione, per canto e pianoforte, dall’autore non considerata come
“riduzione” ma come versione nuova e “originale” del lavoro. E ciò nella piena maturità
dell’artista: dagli anni Cinquanta, infatti, Poulenc si orienta sempre più verso organici di
piccole dimensioni, quasi più “da casa” che “da camera”, nei quali egli sembra finalmente
trovare la corda giusta per esprimere il senso di intimità familiare che ne sottende
l’utilizzazione.
La voix humaine nasce dunque, in questo contesto, come “opera da camera”, frutto di
una serie di convergenze che, a conclusione del percorso teatrale e sinfonico di Poulenc,
consentono all’autore di evitare ogni forzatura, anche quando questa sembrerebbe
inevitabile per sottolineare le tensioni drammatiche e il senso del testo.
Proprio in questo senso, anzi, La voix humaine di Poulenc si presenta come unicum,
rispetto sia alle intenzioni originarie del testo di Cocteau (preparato nel 1930), sia ai
presupposti su cui intendeva fondarsi il nuovo teatro. Avvicinandosi infatti al termine
della sua parabola creativa, il musicista decide di rivolgersi al grande pubblico,
abbandonando l’elitarietà del linguaggio, l’ermetismo simbolico dei testi e i riferimenti
a una cultura “alta” in favore dell’immediatezza dell’espressione. Se già il testo teatrale
godeva (e ha continuato a godere) di un grande favore presso il pubblico, un favore
testimoniato, per non ricordare che un esempio, dalla realizzazione cinematografica di
Rossellini con Anna Magnani protagonista, anche il lavoro di Poulenc, che analogamente
aveva i pregi della gradevolezza della brevità e della comprensibilità, si diffuse
subito in tutto il mondo dopo la prima parigina avvenuta il 6 febbraio 1959 al Teatro
dell’Opéra‑Comique.
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Tra tutti ci piace a questo punto riportare due pareri autorevoli al riguardo: quelli di
Fedele d’Amico e di Massimo Mila, in occasione della prima italiana del lavoro, avvenuta
pochi mesi dopo l’esordio parigino e affidata alla stessa interprete di quell’evento, Denise
Duval. “Una musica che avvolge le parole senza distruggerle – scrive D’Amico –, modello
di sobria, stringente acutezza. Poulenc ha immerso il testo in un’ atmosfera sonora ben
francese [...] che si riconnette a quanto di meglio ha scritto”.
Non manca tuttavia la perplessità di chi, nell’ottica del melodramma, avverte i pericoli
di un eccessivo ibridismo, che rischia di ridurre la musica a mero accessorio: “Il guaio
è che Poulenc – continua D’Amico – sembra aver sposato la disposizione sentimentale
della sua creatura in modo un po’ troppo passivo, fino a trasferirla, per così dire, dai
contenuti alla forma. Quest’opera vive infatti di un declamato appoggiato a incisi
tematici dell’orchestra estremamente brevi e timidi, che si alternano, si direbbe, senza
un piano troppo prestabilito, e saranno in tutto poco più di una mezza dozzina. Ora, che
in una certa misura un frammentarismo fosse necessario è chiaro da quanto si è detto;
ma un’opera è poi un’opera, e deve prender forma e progressione drammatica da una
dialettica di strutture musicali, che qui invece non s’avvertiva se non a tratti: e tanto più
necessaria era con un testo come questo, così rozzo e informe”.
A conclusioni non molto lontane sembra giungere Massimo Mila, che lascia però
intendere una nuova e diversa dialettica tra i generi teatrali: “Poulenc ha ritrovato
qualcosa della sua vena migliore e s’è molto onorevolmente difeso nella disperata
impresa di musicare i tre quarti d’ora del monologo telefonico di Jean Cocteau.
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La declamazione melodica segue con amorosa minuzia le accidentate fasi della
conversazione, gli scatti e le ribellioni, il tremito della passione e della disperazione
sotto la finta calma che la povera creatura cerca di imporsi, necessariamente il discorso
melodico resta sbocconcellato in piccoli frammenti, sicché non riesce a stabilirsi, nel
corso della partitura, quel crescendo psicologico, quel senso dell’ineluttabile avvicinarsi
della scadenza fatale, che invece risulta benissimo dalla sapiente orchestrazione vocale
d’una grande attrice che reciti questo monologo”.
Ben si percepisce, comunque, dalle parole dei due critici, la novità della pièce, che
Chiara Zocca descrive come “capolavoro di sintesi compositiva che contiene il pathos
dell’opera tradizionale, il gusto novecentesco per la parola, la sensualità della melodia e
dell’orchestrazione, gli elementi reali e simbolici della disgregazione nel senso formale
di frammentarietà della scrittura e in quello contenutistico di annientamento morale e
psicologico del personaggio. È palese in questo lavoro tutto il significato della definizione
di ‘dramma dell’uomo libero’, dove per mancanza di libertà si intende quella fatalità
incombente di matrice classica data dalla coercizione formale, che esclude la possibilità di
scelta e quindi di salvezza”.
Come abbiamo già accennato, La voix humaine segue scrupolosamente senza modificazioni
(pur se con alcuni tagli concordati con lo scrittore, anche revisore del lavoro) il monologo
teatrale di Cocteau. Usiamo il temine “monologo” perché è in questa forma che l’opera
appare allo spettatore: in realtà si tratta di un dialogo sottinteso, dove noi vediamo ed
ascoltiamo una donna che, al telefono, parla per l’ultima volta con l’amante che l’ha
lasciata. Le frasi dell’interlocutore vengono dunque intuite dalle parole di risposta della
donna.
Scrive ancora D’Amico: “Quello che dice questa donna è talmente generico che non
arriviamo a saperne di più: potrebbe essere giovane o vecchia, bella o brutta, viziosa
o virtuosa, raffinata o grossolana [...]. Poulenc e la Duval ne hanno cavato invece una
donna fragile e sfiorita, trepida ma pudica e sconfitta a priori: c’è da scommettere che lui,
dall’altra parte del filo, è un cinico che le ha mentito sempre [...]”.
Un’estrema scrupolosità caratterizza in questo senso l’azione del compositore, che
segue, nella costruzione della melodia, gli accenti verbali della declamazione lirica,
consentendo in tal modo all’interprete di utilizzare una vasta gamma di nuances
espressive. L’orchestra, da parte sua, ha la funzione di rafforzare questo andamento
psicologico, proponendosi in maniera evocativa attraverso l’uso sapiente delle timbriche
e il ritorno di elementi melodici quasi in funzione di Leitmotiv. Variano inoltre, quasi ad
ogni battuta, i segni di tempo e di andamento, per seguire l’apparente mancanza di logica
di un discorso determinato in realtà dalle risposte non udite dell’“altro”, in una forma di
comunicazione, come quella telefonica, interrotta più volte da interferenze e da cadute
della linea. In venticinque “fasi” psicologiche successive (è proprio “fase” il termine usato
da Poulenc), si passa dal ricordo del primo incontro e dei progetti per il futuro, a momenti
in cui la donna descrive la sua condizione attuale, il suo stato psicologico, persino il suo
abbigliamento; dalla descrizione della propria sofferenza e dall’accenno al suicidio a
considerazioni più generali sulla finzione e sulla menzogna, fino alla conclusione della
telefonata, che non rappresenta però drammaturgicamente un punto di arrivo, ma solo
la fine della conversazione. La voix humaine è dunque quanto di più lontano possiamo
immaginare da un’opera tradizionale, determinando anche una diversa modalità di
ascolto, più di attenzione che di partecipazione. Il senso di incertezza che essa riesce a
creare nello spettatore è già indotto dal fatto che si ignora il nome della protagonista
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(definita semplicemente “elle”, lei) e dal costante mantenersi sul tono del recitativo, più
o meno modulato, senza abbandonarsi mai, nemmeno alla fine, al grido liberatorio o
all’urlo disperato, lasciando intatto, sia in ciò che si vede che in ciò che si ascolta, il senso
della tensione, dell’angoscia, dell’attesa senza risoluzione e senza speranza.
In circa ottocento battute La voix humaine si presenta quindi come un’opera di carattere
essenzialmente psicologico, tanto più virtuosistica perché costruita su un solo
personaggio che agisce senza alcun apparente aiuto esterno, anzi assumendosi anche il
compito di tratteggiare il carattere dell’altro. Un “lui” la cui voce rimane, per tutti tranne
che per “lei”, solo immaginata, ma che, nondimeno, costituisce un fondamentale soggetto
drammatico nella sua presenza costruita dalle pause e dai silenzi della protagonista.
La bravura di Poulenc si mostra quindi non solo nel tratteggio della donna ma anche,
paradossalmente, in quello dell’uomo, e nell’aver reso la sua (immaginata) meschinità
con tanta chiarezza. Perché è evidente, anche nell’apparente distacco dell’autore nei
confronti del suo personaggio, che il pubblico finisce per prendere una posizione,
inevitabilmente e inequivocabilmente dalla parte della donna.
In un momento di profonda crisi del teatro musicale, ancora più grave di quella seguita
alla morte di Puccini, il tentativo di Poulenc sembra aprire una strada, anche se non del
tutto innovativa e dirompente: il suo successo e la sua presenza ancora attuale nel teatro
d’opera testimoniano la riuscita del tentativo di dare nuova vita ad un genere che si
credeva definitivamente estinto, facendo comunque appello a quegli intrecci d’amore e di
abbandono che erano appartenuti da sempre al melodramma e che avevano visto, come
protagoniste, quasi sempre le donne.
Un lavoro, quindi, che conferma la centralità femminile nel teatro musicale, a tal punto
da negare a “lei” un nome e a “lui” un volto.
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Lettere dall’epistolario
di Francis Poulenc
Francis Poulenc a Pierre Bernard
Saint Raphaël, Pasqua 1958
Mio piccolo Pierre,
che peccato essere tanto lontani seppur così vicini! Ad ogni modo, mi ha fatto piacere
sentirvi una così bella voce, da cui deduco che quest’anno non arriverete stremato ad
Avignone. Voi siete il giovane in procinto di volare in America, e io il vecchio maestro che
deve disdire la sua presenza ad Alderburgh. Di certo è che il mare mi fa malissimo. L’ho
sempre odiato in modo istintivo. Nebel aveva ragione, sono un montanaro degenerato.
Solo un’altitudine da mucche riesce a calmarmi. Me ne rendo conto quando vado da Louis.
Il silenzio e quella vista splendida mi calmano. Di certo l’agopuntore mi ha fatto bene in
profondità. È un uomo di una sottigliezza tutta orientale. Condivide in toto quel che mi
suggerisce il mio istinto: ho bisogno di tirarmi su, mi verrebbe da scrivere fin dalle ovaie.
Credetemi, a differenza di tre anni fa, ora ragiono sul mio caso con estrema saggezza. So
che non c’è nulla di organico, e che tutto il mio squilibrio dipende dalla “mente”. Chevalier
sa perfettamente che tutto è nato da un dubbio riguardo al mio mestiere. Ciò che hanno
spesso lodato come affascinante modestia, in fondo, non è altro che un complesso di
inferiorità, che in me ha assunto una forma patologica. Un esempio: incontro da Cocteau
due reporter americani che non afferrano bene il mio nome: credono sia qualcosa come
Poulens, Poulenz. Quando poi capiscono che si tratta di me, sembra gli sia stato presentato
niente meno che Wagner. Per l’imbarazzo non so dove stare. L’unica soluzione è sfoderare
la faccia tosta e salire sul palco, al pianoforte oppure a parlare. L’ho capito l’inverno scorso a
Bruxelles (Satie) e Milano (Ravel). So che ne uscirò, ma è molto difficile, ve lo assicuro.
Il nulla totale della mia fede, alla Messa di stamattina, non serve a consolarmi.
Per fortuna con il lavoro è tutto a posto. Ho scritto una breve melodia per Bathory, Une
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chanson de porcelaine (Eluard), incantevole. Ho finito le 2 Improvvisazioni (Lambiotte e Hell) e,
soprattutto, continuo a pensare a La voix humaine. Il “personaggio unico”, ahimè, sono un
po’ io: non che Louis mi abbia piantato (è un angelo), ma la vita militare me lo strapperà
via il prossimo autunno. Ma forse è meglio così. Io mi attacco troppo. Ripeto, lui è davvero
squisito. E quindi è Bérénice che dovrei recitare, e invece mi sfogo con La voix humaine.
Cocteau approva il mio progetto di strutturare il suo testo in “Fasi” (fase del cane, fase
della menzogna, fase dell’avvelenamento). Ci ho trovato dentro un sacco di cose. Tra gli
altri, due temi che i “signori” considereranno scandalosi: uno amoroso e l’altro erotico.
Per le risposte ho istintivamente trovato il ritmo. Quanto al volume orchestrale (medio)
non ho nulla da temere. L’insieme è atroce. “Lei” racconta del suo avvelenamento su un
valzer triste, tipo Sibelius.
Siccome, tra un “odio” strumentale e l’altro, si canta molto, non esiste pericolo di
fraintendimento. L’orchestra colpisce con forza. La menzogna è intollerabile (“Se tu mi
mentissi per bontà d’animo e io venissi a saperlo...”). Tutto l’insieme va contro tutte le
regole: battute raddoppiate, triplicate, ma questo stile, che meriterebbe un bello Zero, qui
diventa, credo, un elemento di successo. [...]
Jean Cocteau a Francis Poulenc
“Santo Sospir”, St Jean Cap-Ferrat
6 dicembre 1958
Mio carissimo Francis,
Consegna questa lettera alle nostre signore Karinska: loro mi capiscono ancora prima
ch’io parli. E dunque:
Il personaggio non deve avere un aspetto tragico. Non deve nemmeno apparire frivolo.
Nessuna ricercata eleganza.
La donna ha indossato quel che aveva a portata di mano, ma ora aspetta di sentire il
telefono e crede di essere osservata.
Nonostante la bugia sull’abito rosa, ha dunque una certa eleganza, quella di una giovane
donna abituata a essere elegante.
La nota tragica sarà data da uno scialle, o un soprabito, o un loden, gettato sulle spalle
senza ombra di civetteria, perché ha freddo, “freddo dentro”. È così che voglio che si
scaldi, al fuoco delle luci della ribalta.
Un abbraccio.
Jean
Ecco quindi il costume:
Se la Duval lo desidera, può aggiungere un nastro all’acconciatura. Io però non ce lo vedo.
Per l’acconciatura: la Duval può tenersi la sua, però è da un po’ che non va da un
parrucchiere a sistemarsi.
Niente gioielli. La tunica è in stoffa lucida. Se vogliamo evitare il nero, dovremo farla dello
stesso rosso sangue (piuttosto scuro) delle tende (chiamate Lavardet). Maniche lunghe e a
sbuffo, strette ai polsi. Da Karinska conoscono bene queste vestaglie da casa in stile orientale,
col colletto alto e le maniche dai lunghi tagli in verticale. Lei indossa la tunica su una camicia
bianca spiegazzata, lunga fino ai piedi, calzati da ciabattine rosse. (Non c’è niente di nudo).
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Per l’acconciatura prega la Duval di venire con te da Alexander, in Faubourg St. Honoré. Dite
che la mando io e spiegategli la situazione. A teatro, la cosa migliore è una piccola parrucca in
cui il disordine sia voluto, e voluto una volta per tutte. Alexander è un mago con i toupet.
Dì alla Duval che tutte le donne fanno resistenza ai toupet, salvo poi invocarne uno
all’ultimo minuto, in preda al panico, quando è ormai troppo tardi. Ma è così che
Alexandre è riuscito a salvare Marie Bell e le attrici di Offenbach. Non c’è niente di peggio
di una donna male acconciata! Ma è vero l’esatto contrario, se è una delle minuscole
parrucche di Alexandre ad abbellirla.
Dì ad Alexandre che voglio dei capelli rossicci, o comunque dai riflessi rossi, che lei ha
scompigliato di continuo negli ultimi giorni, passandovi e ripassandovi le mani.
È d’importanza capitale che la fronte sia ben illuminata, e lasciata ben scoperta.
Francis Poulenc a Louis Aragon
Nizza, 1 febbraio [1959]
Mio caro Louis,
di ritorno da Barcellona, dove abbiamo appena rappresentato i Dialogues des Carmélites, ho
trovato il vostro messaggio che mi chiedeva una presentazione per La voix humaine.1
Non ho il tempo materiale per scrivere un vero e proprio articolo, poiché sono a Nizza
per 24 ore per mettere a punto con Jean Cocteau gli ultimi dettagli della messa in scena.
Jean, che è appena stato male, ora, grazie a Dio, sta molto meglio, ma, per prudenza, deve
evitare di affaticarsi con un viaggio a Parigi.
È a Nizza, a inizio gennaio, che ha preparato l’intera messa in scena per Denise Duval.
Vedendolo lavorare ho avuto modo di ammirare ancora una volta la sua prodigiosa
intelligenza musicale. Infatti, anche se la sua è una messa in scena per attrice, egli ha
comunque saputo tener conto delle esigenze del canto e della musica. Le straordinarie
doti attoriali di Denise Duval, d’altra parte, gli hanno facilitato il compito. E dunque,
fatto piuttosto raro, vedremo una cantante recitare come nei teatri di prosa di boulevard.2
Per un curioso mistero, ho cominciato a collaborare con Cocteau solo dopo quarant’anni
di reciproca amicizia.
Credo mi ci sia voluta molta esperienza per rispettare la perfetta costruzione di La voix
humaine, che dev’essere, musicalmente, tutto il contrario di un’improvvisazione. Le brevi
frasi di Cocteau sono così logiche, così umane, così cariche di implicazioni, che ho dovuto
scrivere una partitura rigorosamente ordinata e piena di suspense. La musica tace nei
momenti in cui la protagonista ascolta il suo interlocutore. È l’imprevisto della risposta
musicale, poi, a suggerire quel che lei ha sentito.
Penso mi ci sia voluta l’esperienza dell’angoscia metafisica e spirituale dei Dialogues des
Carmélites per non tradire l’angoscia terribilmente umana dell’eccellente testo di Cocteau.
Spero di essere riuscito nel mio compito.
Vogliate, caro Louis, credere ancora nella mia antica, fedele amicizia.
(Estratti o lettere integrali tratte da Francis Poulenc, Correspondance 1910-1963, a cura di Myriam
Chimènes, Paris, Fayard, 1994, lettere n. 58-8 pp. 892-892, 58-9 p. 894, 58-20 pp. 902-905, 59-2 p. 907.
Traduzione italiana di Roberta Marchelli.)
1
Aragon, che era all’epoca redattore-capo di «Lettres françaises», aveva chiesto a Poulenc un testo su
La voix humaine da pubblicare prima del debutto dell’opera nel febbraio 1959. In mancanza di un vero e
proprio articolo, egli pubblicò questa lettera nel numero 759, datato 5-11 febbraio 1959.
2
NdT: con l’espressione “teatro di boulevard” si intende un teatro di puro intrattenimento (commedie
comiche o drammi mondani), che ha come destinatario principale, se non esclusivo, il pubblico borghese.
A tale pubblico, infatti, sono destinati prodotti confezionati avendo come obiettivo principale il successo
economico, e quindi presentati con attori di prestigio, allestimenti lussuosi, toilettes di grande sartoria, e
accuratamente studiati in modo da non urtare le convinzioni della clientela.
38
Il telefono
di Roberto Zanetti
Italiano per nascita ma americano per formazione – diciassettenne giunse negli
Stati Uniti per poi abitualmente risiedervi, senza mai rinunziare alla cittadinanza
italiana –, Giancarlo Menotti costituisce un “caso” musicale tra i più clamorosi
e discussi della nostra epoca. Va detto subito che in più occasioni, e nonostante
evidenti differenze di interessi e di scelte artistiche, la sua personalità ha suggerito
l’accostamento all’inglese Benjamin Britten, con cui spartisce senz’altro la fiducia nel
linguaggio musicale tradizionale e la predilezione per un teatro di proporzioni minute
ma non intellettualistico, rivolto anzi alla ricerca di nuovi pubblici. A compensazione
delle tante accese polemiche fiorite attorno alla sua vasta produzione teatrale – altri
generi compositivi sono stati per lui sempre occasionali – stanno però sia il successo
popolare arriso a parecchi suoi lavori e il ruolo storico che gli stessi – specie negli
iniziali dieci‑quindici anni – hanno avuto nell’ambiente teatrale statunitense nonché
internazionale. Un ruolo disegnato con esattezza da Eugenio Montale: “Menotti ha
rotto l’atmosfera d’imbalsamazione che circonda, in America e un po’ ovunque, il
melodramma: ha portato l’opera dal Metropolitan a Broadway; ha osato insomma
scrivere opere tascabili, opere per piccoli complessi; ha puntato decisamente su una
musica drammatica, funzionale, come prima di lui nessuno aveva tentato mai...”.
Alludeva, il poeta e critico italiano, a operine quali Amelia al ballo (1937), Il ladro e la
zitella (1939), Il telefono (1947). Ovvero al Menotti che aveva fissato un modello personale
e senz’altro moderno di opera comica, meglio di spiritosa commediola su temi e
personaggi dei giorni nostri, dove confluivano il ripensamento dello stile comico
settecentesco e la mentalità teatrale affatto novecentesca, di mordente osservazione
della realtà sociale, mentre gli eventi musicali si ispiravano a un saldo eclettismo che,
volutamente, evitava qualsiasi preoccupazione intellettuale di scuola e di tendenza.
Gli inizi di Menotti si pongono insomma sotto il segno del comico o del grottesco,
così da risultare – come suggerito da Mare Pincherle («Nouvelles littéraires», 1952) –
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“trasposizioni al nostro tempo degli intermezzi del xviii secolo, tali che verosimilmente
Pergolesi, Cimarosa, Galuppi, si compiacerebbero di riconoscervi la loro discendenza”.
A quel decennio calamitato dal comico, appartiene anche La medium (1946), a sua volta atto
unico e dunque opera tascabile. Ma nella sostanza tragedia musicale improntata a crudo
realismo e il cui clima psicologico torbido e angosciato si riterrà, in seguito, preludio al
lavoro che più compiutamente sintetizza il mondo e la concezione teatrale menottiani,
Il console. La novità di La medium, secondo Émile Vuillermoz, consiste in “brevi formule
d’incantamento, esclamazioni magiche, grida, un ellittico vocabolario da cabala, da
stregoneria”. Così – conclude lo studioso francese – “la musica non mira a convincere, a
sedurre: si dedica al magnetismo, al sortilegio”.
Il prosieguo dell’attività teatrale di Menotti – quando s’eccettuino il racconto natalizio
televisivo, specialmente dedicato ai bambini, Amahl e gli ospiti notturni (1951), il madrigale
scenico L’unicorno, la gorgona e la manticora (1956) e qualche altro lavoro più tardo ancora –
mantiene sempre i due indirizzi fondamentali, spesso con maggiori ambizioni, nonché
con dimensioni più ampie e impegnative. Il comico si volge soprattutto in commedia
satirica della civiltà moderna (L’ultimo selvaggio, 1963; Help! Help! i Globolinks, 1968;
L’uomo più importante, 1969), mentre la tragedia, anche per l’assunzione di tematiche
universali e incupendosi nei toni, guadagna in incisività ed evidenza drammatica, al
punto da far considerare Menotti da una larga parte della critica internazionale come
interprete puntiglioso del mondo contemporaneo. È senz’altro in questo settore ch’egli
ha comunque conseguito i più rilevanti successi popolari. Segnatamente con i drammi
musicali in tre atti Il console e La santa di Blecker Street, rispettivamente del 1950 e del
1954. Specialmente Il console va valutato come saggio compiuto ed esplicativo del teatro
menottiano, capace di elevare il piccolo drammatico evento quotidiano a significati di
moderna tragedia esistenziale. Alla quale – rilevava il critico del «Figaro Littérarire»,
J. Lémarchand – la musica porta una precisa funzionalità, esprimendosi in modo variato
ma “sottomesso con religione al testo e alla situazione”. Così un altro critico, H. Hell,
nella «Revue musicale», salutava Il console come esempio validissimo della concezione
che Menotti ha dello spettacolo: “l’azione, il movimento drammatico vi predominano.
Ammirevole senza riserva, il tono drammatico dell’autore, il suo infallibile senso della
dose, dell’uso degli effetti teatrali”.
Un “grande uomo di teatro” definì Menotti, proprio in un articolo su Il console apparso
nel 1951 in «Music and Letters», il critico e compositore Arthur Benjamin. E proprio in
quanto uomo di teatro e talento teatrale naturale, Menotti ha ispirato quel “caso” che,
s’è detto, è stato tra i più dibattuti dello spettacolo musicale del secondo dopoguerra,
quando diversi osservatori lo valutarono come autentica e valida alternativa al corso,
per così dire, ufficiale dell’arte contemporanea. Un “caso” – secondo Mario Medici
(«Melodramma », 1953) – incentrato appunto sull’“unico autore capace di avvincere
oggi il pubblico per tutta la durata di un suo spettacolo in musica”. Un “caso”, ancora,
fondato su una premessa indispensabile: appunto quella di riconoscere a Menotti “uno
straordinario talento di palcoscenico, un’abilità estrema nel congegnare le trame e nel
muovere i personaggi, una destrezza scaltra nell’investirli di quel tanto o di quel poco
di suono che basta a far salire il termometro dell’emozione”. Un “caso”, per concludere,
maturato dal fatto che il compositore ha saputo mettere a profitto quell’abile tecnica
teatrale, scaltrita anche dalla lezione del cinematografo, annettendovi la chiara
semplicità del linguaggio musicale, la cattivante melodiosità e il gusto per il rifacimento
stilistico. Il perfetto amalgamarsi di tutto ciò poteva certo far apparire a svariati critici
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l’artista Menotti come colui che la storia destinava a ridare all’opera in musica il
valore di spettacolo davvero attuale, così da toglierla dalla condizione museale a cui
sembrava condannata, per restituirla all’interesse immediato delle folle, ché impregnata
nuovamente d’interessi quotidiani e riferita agli aspetti più appariscenti del costume
contemporaneo.
Lo stile musicale di Menotti – nei lavori dei primi vent’anni e poi anche in seguito – risulta
interamente concentrato sull’evidenza dell’inventiva melodica, che esterna requisiti di
facile orecchiabilità, di piana e scorrevole cantabilità, assicurati anche dal rispetto dei
canoni consueti della fraseologia. Quel melodioso, quasi ininterrotto eloquio attuato
dall’immaginazione menottiana, vive di reminiscenze indubbie, quando non attua
veri e propri rifacimenti – anche a fini parodistici – del modo di esprimersi di diversi
autori del passato. Ma di un passato non poi lontanissimo. Difatti i modelli, in genere,
stanno entro la zona storica attorno al 1900, specie nel repertorio canzonistico alla
Tosti, nelle tipiche espressioni liriche del teatro italiano che suol dirsi verista (o meglio
della cosiddetta “giovane scuola”). È corretto sostenere che Menotti ha fatto proprio
segnatamente lo stile pucciniano, attualizzandolo con l’assimilazione delle maniere
della canzone americana, delle commedie musicali e del teatro commerciale di Broadway.
Sempre però Menotti – a conferma del suo muovere dall’opera in musica italiana –
tiene in vita il recitativo, a cui conferisce un’indovinata, sciolta ed efficace cadenza, così
come sa trovare l’opportuno slancio melodico richiesto dal momento scenico e tornire
le linee vocali secondo l’espressione verbale e con quel gusto per il teatro che punta
sull’immediatezza e comprensibilità della parola cantata. Nelle cosiddette “opere tascabili”,
quelle appunto risalenti al 1937-46, impiega mezzi vocali e strumentali ridotti: due o tre
voci – qualcuna in più nella Medium –, uno strumentale di tipo cameristico per organico
e trattamento (esemplare in tal senso la variante portata alla sua opera prima, Amelia al
ballo, dove l’originale complesso sinfonico risulta più che dimezzato). L’essenzialità dei
mezzi è consona ai soggetti e alla loro conduzione, esplicando quel senso della misura
che Menotti possiede in alto grado e che gli fa coerentemente combinare ed equilibrare
ogni componente drammatica e scenica e musicale nella realizzazione appunto di
quel suo teatro minuto e agile, dotato di vitalità indubbia – merito ormai ascrittogli
unanimemente – e davvero alternativo in tal senso al teatro tradizionale.
Il telefono – al solito su libretto proprio, originalmente in inglese – fa parte della trilogia
comica menottiana, unitamente ad Amelia al ballo e a Il ladro e la zitella (lavori che l’autore
ebbe a definire una volta “peccati di gioventù”). In realtà, in quanto a datazione,
appartiene a un momento successivo a quello che vide nascere le due precedenti operine.
Si pone, infatti, di fronte alla tragica Medium, con cui ha affrontato il pubblico sin dagli
esordi a New York, all’Heckscher Theater, prima, il 18 febbraio 1947, quindi all’Ethel
Barrymore Theater di Broadway, il 1o maggio dello stesso anno. Con La medium ha fatto
spesso coppia in seguito, sfruttando il notevole contrasto: opera questa immersa in
un’atmosfera quasi kafkiana, mentre da Il telefono emana una sorta di gaiezza alla Molnár.
Insieme le due operine fornivano poi l’esemplificazione pratica delle attitudini del
giovane Menotti nel comico come nel tragico, fermo restando, con l’indiscutibile efficacia
drammatica, il gusto per l’azione breve e rapida, essenziale, concisa nei mezzi e negli
svolgimenti.
La sottotitolatura di Il telefono, L’amour à trois, allude allo strano triangolo che sta alla
base della vicenda, sorta di garbata parodia di un aspetto della vita moderna, realizzata
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con mano leggera e con mentalità attuale per quella spruzzatina di spregiudicatezza e
di impegno psicologico. Un uomo, Ben (baritono), sta per dichiararsi a una donna, Lucy
(soprano), prima di partire per un lungo viaggio d’affari. Ma la ragazza è interamente
presa dal telefono, che si frappone continuamente tra i due interrompendone il dialogo.
Per risolvere l’inconveniente, l’uomo si appiglia al solo partito possibile: mentre Lucy
è impegnata nell’ennesima telefonata, esce dalla casa della ragazza e raggiunge la più
vicina cabina telefonica: di qui contatta l’amata, a cui finalmente può sussurrare il suo
amore. Una storiellina aggraziata, di minima consistenza, centrata sulle tante telefonate
della donna, ancorata insomma al banale quotidiano, ma da Menotti sfruttato abilmente
per piccoli e gustosi colpi di teatro. Così lo sketch diviene un godibile evento scenico,
come soltanto un abile reporter teatrale, segnatamente operistico, poteva confezionare,
dandogli misure e toni idonei, assicurandogli anche la musica più adatta e funzionale.
Inimmaginabile altra soluzione musicale da quella che alla tenue trama e ai suoi minuti
nodi ha assegnato il compositore, centrata appunto su flessuosi e puntuali recitativi, su
temini facili e comunicativi, su innocenti e cattivanti frasi melodiose che circolano negli
interventi dei singoli (per così dire, arie e ariette) come nel loro confrontarsi o accoppiarsi
in spediti duettini. Si hanno anche opportune spaziature strumentali e sottolineature
garbatissime, nitide, sempre efficienti. A partire dalla classicheggiante Ouverture
– costruita con un Allegro vivace, dagli incisi insistiti e ironici, con un Andantino
tranquillo e melodioso, e con quattro misure conclusive (Allegro vivace) che schiudono
il sipario. Vi senti circolare, specie nell’Allegro iniziale, un che di americano, dagli
inequivoci riflessi gershwiniani. E altrettanto efficaci i gesti strumentali che di tanto
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in tanto riferiscono il minimo cangiare delle situazioni psicologiche o evocano qualche
fatto realistico (lo squillo del telefono, la formazione del numero sull’apparecchio,
l’idea del treno e del viaggio, e così via). Ma, s’è detto, anzitutto Il telefono è vocalità, e,
con l’eccezione dei funzionali passaggi in stile recitativo, il suo incedere sta tutto nel
susseguirsi di frasi e spunti melodici, di scorrevole comunicativa e ricordevoli.
In quanto a struttura sono proprio le telefonate a ritmare il divenire dell’operina, anche
in senso musicale. Così, dopo un rapido dialogo iniziale, la musicalissima scansione
di “Hello! Hello!” – destinata a ricorrere in seguito, con mutazioni intervallari – apre
la prima telefonata, ovvero la prima aria di Lucy (“Oh! Margaret, sei tu?”). Consta
di tre sezioni – poi ripetute, ma con diversa disposizione e in modo più conciso.
L’apre un Allegro d’espressione affabile, sostenuto da una semplice formuletta
d’accompagnamento; segue un Poco meno mosso, dall’insistente e incalzante temino
vocale; quindi un Allegro con brio, dal disegno strumentale brillante, mentre la voce
emette piccoli e spaziati gesti sonori, ora semplici segni d’assenso e ora scoppi di riso, con
cui appunto Lucy reagisce a quanto gli va raccontando l’amica dall’altra parte del filo.
La seconda telefonata coincide con la seconda aria (“Hello! Hello! Ah! Bob, sei tu?”). Un
allegro agitato, dai nervosi tratti strumentali, con tremoli d’archi e brevi scoppi d’accordi
di fiati e pianoforte, che imprimono affanno e irritazione all’increspato procedere vocale.
Tutto ciò sottolinea l’alterco di Lucy con l’amico, risentito per un pettegolezzo sfuggito
alla ragazza. Subito l’affettuoso Allegretto cantilenante di Ben (“Lucy, cara Lucy”) cerca
di consolarla. Invano, ché la ragazza in pianto s’allontana. Del fatto vuole approfittare
Ben che, rimasto solo, per mezzo di una tesa declamazione ariosa esterna l’intento di
annientare il diabolico rivale (“Aspettare e tentare”). Il suo guardingo avvicinarsi al
telefono per tagliarne i fili e ammutolirlo per sempre è simulato da un furbesco fugato
di clarinetto e fagotto, a cui risponde l’allarmato, quasi disperato squillare reiterato del
telefono. Dopo poco, motivato dalla necessità di sfogare il malumore, ecco un nuovo
colloquio telefonico e, dunque, una nuova aria di Lucy (“Andai, domenica scorsa...”), che
si trasforma in seguito in aria a due e in breve duettino conclusivo. Sostenuto da uno
dei più abusati accompagnamenti di romanza (e ironica è l’attribuzione del disegno al
clarinetto, poi al flauto), in ritmo di 12/8, in tonalità di la bemolle maggiore, sull’ostinato
pedale dei bassi e quindi degli archi tutti, l’eloquio melodico di Lucy è pervaso di
tristezza, che certi urti armonici dissonanti accentuano. Segue, su un’altra abituale
formuletta d’accompagnamento, ma ormai trasposto in altra tonalità l’intervento di
Ben che, fra sé, lamenta lo scorrere del tempo e la lunga attesa che gli impone l’ennesima
telefonata di Lucy (“Sarà mezz’ora che aspetto”). Di nuovo la parola passa a Lucy (“Ed io,
gli ho detto”), mentre cresce l’inquietudine dei disegni vocali, ben coadiuvati dalle figure
strumentali. Infine si assiste al sovrapporsi delle due voci a preparazione della ripresa, in
tonalità appunto di la bemolle maggiore, ma svolta ora come duettino che fa coincidere il
congedo di Lucy dall’amica e il dileguarsi di Ben. Ancora un breve recitativo, intrecciato
con un impertinente disegnino dell’ottavino, prima del nuovo squillo del campanello
del telefono che, mettendo in eccitazione Lucy, apre il successivo episodio con funzione
di finale. All’inizio un duettino a dialogo (“Ma dove sei caro? – Ti sono vicino”), con la
dichiarazione di Ben e l’accettazione di Lucy. Subito dopo, su un languido movimento di
valzer, i due si congedano sempre sviluppando il tema del “telefono”: Lucy raccomanda
a Ben di non scordare il “numero telefonico” e di chiamarla ogni giorno, durante la sua
assenza; Ben l’assicura di avere memorizzato il numero e promette colloqui quotidiani.
Ci sembra utile riproporre uno stralcio dell’intervento che Giancarlo Menotti fece alla
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tavola rotonda sul tema “Come un compositore si pone di fronte alla propria arte”, tenuta
in occasione del Sesto Simposio Annuale dei Compositori, alla Juilliard School di New
York, il 25 marzo 1952. Con Menotti intervennero pure altri due musicisti assai noti, Roy
Harris ed Ernst Křenek.
A rischio di sembrare paradossale, direi che per me non c’è nell’artista nessun porsi di fronte alla
propria arte... Troppa gente si pone di fronte all’arte in atteggiamento bellicoso, come se l’arte
fosse una specie di drago da abbattere... Tutti questi atteggiamenti sono simboleggiati dalle
stranissime espressioni entrate nel vocabolario corrente. Una è che la musica contemporanea
dev’essere “moderna”, il che implica che l’arte deve obbedire alla moda, e che tutto ciò che non è
“moderno” è inevitabilmente antiquato...
Uno degli ingredienti essenziali perché la musica abbia un’aria moderna, per esempio, è l’uso
costante e implacabile della dissonanza. Non capisco perché la dissonanza debba essere di per
sé più emozionante o interessante della consonanza... C’è poi chi ritiene indispensabile che la
musica contemporanea sia intensa, nervosa. Ma torno a dire, perché la tensione dovrebbe essere
più interessante della perfetta serenità?
Certi compositori sostengono di scrivere per il futuro, e che soltanto allora la loro musica
sarà compresa, come se l’arte fosse una specie di prodotto commerciale che automaticamente
migliora con gli anni. Ma non c’è nessuna garanzia che il pubblico futuro sarà più intelligente o
sensibile di quello di oggi... Il passare del tempo non migliora l’arte, e non la sviluppa...
Gli artisti che si sforzano di essere originali sembrano non capire che per questo c’è un modo
solo: essere costantemente e schiettamente se stessi... I soli artisti non originali sono quelli
che assumono i tratti di altre personalità, sia che le sentano affini o meno... Non sopporto gli
artisti che dicono “piace a me e tanto basta”, perché l’arte dev’essere un atto d’amore e non una
forma di masturbazione... Le nostre scoperte interiori, per diventare opera d’arte, devono essere
comunicate e condivise. Ci accorgeremo presto che alla gente interessa più il lato dolorosamente
celato della nostra personalità che il nostro garbato comportamento sociale. Ma per poterci
rivelare per quello che siamo, dobbiamo anche accettare appunto quello che siamo, cosa
alle volte imbarazzante. Ci vuole il coraggio di un genio per affrontare il pubblico in nudità
completa...
Sono convinto che comporre sia più un atto di scoperta che di creazione e debba avere un
carattere di assoluta necessità. Per parafrasare Michelangelo: nella mente dell’artista non c’è
nulla che non sia già contenuto nel pezzo di marmo che gli sta davanti; egli non deve far altro
che eliminare il superfluo. Questo è ciò che intendo per necessario... e solo quando sentirò di
essere penetrato nelle stanze segrete del mio cuore saprò di essere diventato un compositore
originale.
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A colloquio con Gian Carlo Menotti
di Leonardo Pinzauti
“Sono talmente antiquato che mi considero un seguace di Platone”, mi dice Gian
Carlo Menotti cominciando il nostro colloquio sulla sua “poetica”. Ci eravamo dati
appuntamento dopo una rappresentazione di La Mama Reportory Theater, che al
Teatrino delle sei di Spoleto aveva realizzato in modo tutt’altro che platonico la
“domestic tragedy” Arden of Faversham: barboni scalzi, grida terribili, lotte furibonde e dal
vero, deliri sessuali e rito di castrazione, e una sorta di trenodia finale intorno al corpo
nudo di un giovane evirato (ma soltanto per finta, almeno questo) avevano suscitato
insieme sgomento ed entusiasmo. Menotti era fra gli entusiasti, e chi lo aveva visto
applaudire non avrebbe certamente pensato che quel signore in prima fila, dall’aspetto di
quarantenne (ma in realtà assai vicino ai sessant’anni) potesse affermare senza reticenza
di esser tutt’altro che propenso ad avallare le ultime avanguardie sperimentali, e di
seguire con mente scettica anche molti dei grandi nomi degli ultimi cinquant’anni,
compresi Stravinskij, Hindemith, Schönberg e tanti altri. Menotti, insomma,
“conservatore” soltanto nella sua musica, e “avanguardista” nel resto della sua attività di
uomo di teatro, di organizzatore e di uomo di gusto?
Tutto il nostro colloquio, almeno dall’inizio, sembrava sotto il segno di questa
contraddizione. Prima di lasciar parlare Menotti gli riassumo in breve le posizioni più
importanti emerse nelle dichiarazioni dei musicisti, vecchi e giovani, con i quali ho avuto
modo di intrattenermi: cerco di mettere in rilievo le affermazioni più provocatorie,
quelle sull’“anno zero”, sull’“impegno” e il “disimpegno”, sull’arte come “scoperta e
invenzione”, sulla “morte del bello”, ecc. Menotti mi ascolta, ma non si scandalizza
di questo o di quello; per il semplice fatto che, nel profondo, tutte le distinzioni
estetiche e sociologiche degli ultimi cinquant’anni di musica lo trovano ugualmente
“scandalizzato”. E nonostante le polemiche più recenti, Nono e Stockhausen, Henz e
Berio, Dallapiccola e Stravinskij provocano in lui una stessa posizione di scetticismo se
non addirittura di repulsione.
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“Vedi – mi dice – sono un antiquato rispetto a tutti questi miei illustri colleghi. Per me
l’arte esiste; e ancora nel senso di una forma di memoria che si riferisce ad un ‘mondo
di bellezza’ (chiamalo come vuoi) che aspetta di essere captato e riscoperto da noi. Per
questo dico di essere un seguace di Platone; ma del resto anche Joyce ha scritto che
l’immaginazione non è che una forma di memoria... Così, io credo nella magia di un tema,
di una melodia e nel loro potere di rispecchiare questo ‘mondo di bellezza’: non è forse
vero che una bella melodia, quando è tale, dà la sensazione di qualcosa di inevitabile?
Ebbene: tutta la mia attività di artista è in questa ricerca dell’inevitabile, non del nuovo.
Perché il compositore è una specie di rabdomante che cerca l’acqua nascosta. Non è a
casaccio, o per caso che lo scopre; deve possedere la bacchetta divinatoria. Invece siamo
arrivati, ora, a teorizzare proprio l’‘alea’, la musica affidata al caso; e si dice, anzi, che questa
è una forma di progresso rispetto al passato, come se l’arte fosse un prodotto industriale
e ‘progredisse’. L’arte invece si riferisce sempre a fattori esterni e non progredisce mai,
perché ciò che appare valido sul piano estetico nell’arte di duemila anni fa risponde alle
stesse caratteristiche di ciò che è valido anche nell’arte di oggi. L’importante, ripeto, è aver
la consapevolezza di andare in cerca dell’inevitabile: e forse in questo continua ancora ad
apparirmi estremamente vera e suggestiva una frase di Plotino, che ricordo ancora dal
tempo in cui studiavo filosofia... Non ricordo con esattezza il testo; ma la sostanza è questa:
‘Non è il flautista che crea la melodia, ma è la melodia che acchiappa il flautista’”.
– Ma i seguaci dell’alea – lo interrompo – potrebbero dirti che proprio attraverso questo
abbandonarsi al caso essi hanno la possibilità di svelare una sorta di armonia superiore,
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una “armonia delle sfere” altrimenti non attingibile... Insomma che soltanto attraverso
l’alea la “melodia” acchiappa il flautista...
“Quante volte mi hanno detto – risponde Menotti – che sono un dionisiaco! Invece no:
semmai potrei essere considerato un apollineo. Per questo io penso che quando si insiste
sull’‘alea’ si sottolinea un valore marginale, e soltanto marginale, della musica. Ma c’è
qualcos’altro, e ben più importante: l’arte è forma, è ricerca di proporzione nel ricordo,
e non basta acchiappare qua e là alla ricerca dell’‘espressione’. Per me l’arte è fatta, sì,
come dice Croce, di espressione; ma di espressione entro un giuoco, entro una forma:
una specie di sfida all’intelligenza dell’uomo... S’intende, il ‘giuoco’ presuppone che si
conoscano le ‘regole del giuoco’, altrimenti è una realtà senza senso; ma perché la fuga
sopravvive ancora? Perché ha ancora un suo valore il sonetto o la sonata? Proprio perché
esse rappresentano questo giuoco-sfida aperto alle più diverse forme di espressione...
Fra parentesi, a questa concezione dell’arte-giuoco, io ci sono arrivato molto prima
e indipendentemente dalle teorie di Huizinga e di Lévi-Strauss, i quali vorrebbero
addirittura dimostrare che tutta la civiltà nasce dal giuoco”.
– Mi pare evidente che questo discorso, che l’attuale “querelle” fra Nono e Stockhausen
sull’“eurocentrismo”, sul canto popolare e sul “colonialismo” della cultura europea
rispetto a quella di altre civiltà ti è perfettamente estraneo. Nono potrebbe dirti, ad
esempio, che non c’è nessun giuoco, nessuna sfida all’intelligenza nella canzone di un
contadino cubano.
Menotti ha una reazione immediata: “Ma se la canzone di un contadino è uguale a un Lied
di Schubert, dov’è l’arte? Certo, tutta l’arte nasce dalla vita: si tratta, però, di trasferire
gli elementi della vita a quel ‘divino giuoco’, come lo chiamo io, che trasforma le melodie
dei popoli più diversi, le loro danze, la loro sensibilità in un fatto d’arte. Altrimenti si
resta folklore... Si potrebbe perciò dire che ogni arte ha una radice nel folklore; mentre
invece questi signori, che parlano di ‘eurocentrismo’ e di ‘colonialismo’, si servono di un
linguaggio musicale che non ha alcuna radice popolare, in sostanza è rivolto soltanto
ai loro colleghi! Che senso ha tutto ciò? Vedi: io non sono comunista, ma sto leggendo
con molto interesse il Che cos’è la letteratura di Sartre, il quale dice, press’a poco, che non
esiste letteratura senza l’aiuto del lettore. Da parte mia aggiungo che bisogna comporre
non soltanto con i propri orecchi ma anche con quelli di chi ascolta; perché l’arte non è
una ricerca puramente soggettiva e solitaria, ma in fondo una forma di amore... Lo so;
molti dicono e scrivono che io scrivo musica per piacere al pubblico, e anzi che io teorizzo
questa necessità. Invece non ho scritto mai cose del genere, anche se affermo che l’artista
è una specie di profeta, ma non di quelli destinati a parlare al deserto: un profeta che deve
saper trovare chi lo ascolta, e non soltanto qualche collega o qualche critico; che deve
saper trovare e seguire la propria strada, ma in una zona dove si possa anche vivere...”.
– E allora che cosa pensi della polemica sempre ricorrente fra i seguaci di Ždanov e quelli,
per intendersi, che sostengono invece – sempre nel mondo di sinistra – la legittimità
anche politica e sociale delle opere di Luigi Nono?
“Sono polemiche ridicole, che restano in un circolo chiuso e ristretto. Il popolo non
c’entra e non sa nulla. Perché il loro ‘popolo’ è quello stesso che va da un festival
all’altro... Ma non ci vengano a raccontare storie: la gente continua ad applaudire Verdi e
Beethoven e non sa nulla di certe beghe. Vogliono Albinoni e Bach, e tengono nelle loro
stanze i manifesti della belle époque... Ma la vera tragedia sai qual è? Che non abbiamo
più pubblico; perché da troppo tempo l’uomo (comunista o fascista che sia) non ha più
il coraggio di rivelarsi, di rivelarsi nudo, di essere se stesso. Verdi, invece, ha avuto il
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coraggio anche della sua volgarità, e la gente può dire: ‘Dio l’aveva fatto così’; come di
tutti gli artisti, del resto, perché quelli veri si rivelano attraverso l’orrore, la miseria, il
buongusto, tutto quello che hanno... cioè la verità in se stessi”.
Forse Menotti pensava anche agli straccioni di La Mama Repertory Theater, o forse ha
letto nel mio volto l’intenzione di collegare le sue ultime parole con le scene viste la sera
prima al Teatrino delle sei. Si è alzato dalla poltrona, ha finito di bere un bicchiere di
champagne, e come proseguendo il suo discorso mi ha detto:
“Scrivilo pure: preferisco la volgarità di Verdi al finto intelletto di Boulez e alla sua
aristocrazia...”.
– Ma questo è un giudizio definitivo su Boulez? Non c’è nella sua attività qualcosa che ti
interessa, mettiamo il suo modo di dirigere?
“Sì, è vero, è un buon direttore d’orchestra. Ma sai che cosa dissi una volta, quando Goléa
mi aveva chiamato ‘il Puccini di poveri’? Che io preferivo essere il Puccini dei poveri,
piuttosto che il Boulez dei ricchi...”.
Il ricordo sembra divertirlo ancora. Ma prosegue:
“Ammiro Boulez dove altri lo ammirano meno, e cioè per un certo suo talentaccio
d’interprete; ma i suoi scritti, ad esempio, li trovo di una pretenziosità che rasenta il
comico, un vero précieux ridicule. Anche con Boulez i critici cadono nello stesso errore
che hanno fatto con Schönberg: tutti tendono a considerare il caposcuola viennese
come un grande intelletto, mentre era soltanto un bravo musicista, estroso e dotato
di immaginazione, ma non sempre di buon gusto. Pensa a quelle trascrizioni di Bach:
neppure Stokovski (scrivilo pure, io la penso così) è stato capace di proporre trascrizioni
così brutte... E lo stesso potrei dire per molte cose lette nella Harmonielehre, un libro
pieno di buchi e di conclusioni arbitrarie cui semmai preferisco il trattato di Hindemith.
Ma anche Hindemith rispetto a Bach! Spiegami dove sta la differenza in termini non
platonici, se ci riesci: mica nel giuoco contrappuntistico! ... Il giuoco contrappuntistico
esiste anche in Hindemith, ma a quest’ultimo purtroppo mancava la bacchetta del
rabdomante o il divino specchio. La sua musica è sempre interessante ma mai inevitabile.
Come avrebbe detto il vecchio Busoni, è soltanto la mimica del temperamento.
L’inevitabile!...”
Menotti canta l’inizio di Du bist wie eine Blume, poi accenna il monologo di Otello, “Dio mi
potevi scagliare”.
“Spiegami, spiegami: perché queste melodie funzionano? E non sono nemmeno una
melodia, se si segue il trattato di Hindemith! È che qui il bastone del rabdomante ha
funzionato, ha scoperto la vena; e invece questi della musica aleatoria, anche quando
scoprono qualcosa che luccica, non se ne accorgono... Wagner, invece, se ne accorgeva e
come: quando attacca i Maestri cantori lo sa benissimo di aver scoperto la vena giusta , e
impone agli altri la sua certezza... Pensa...”.
Si mette a cantare con entusiasmo il celebre do-sol-sol-sol, si muove, si toglie e si rimette
la giacca, aspettando un mio cenno di assenso. E invece gli domando: – Ma c’è qualche
musicista contemporaneo che ti interessa? Oppure pensi che siamo alla vigilia della
morte dello sperimentalismo, dopo di che si tornerà a comporre anche il do maggiore? E
che dici, mettiamo, di un Luciano Berio o di un Luigi Nono?
Menotti scuote la testa come per dirmi la sua perplessità e il suo atteggiamento negativo
nei confronti di tutto e di tutti. “Non sono un profeta – mi dice – ma penso che sia giunto
il momento di finirla con la regola di épater les bourgeois. Si parla di ‘musica popolare’, di
‘musica per il popolo’, e intanto l’unica veramente popolare, che funziona in Tunisia
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come al Polo Nord è il jazz. Ma anche il jazz dov’è arrivato? È diventato un fatto d’arte?
Ci ha provato Gershwin, ma con risultati parziali. Invece mi sembra sintomatico come il
nuovo folklore dei Beatles sta arrivando ad una sorta di primitivismo che piace proprio ai
più giovani. Per cui penso che probabilmente si tornerà ad una rinascita della monodia,
di una nuova monodia, semplice e chiara. Io stesso, se rinascessi ora, tenterei cose
semplici, una musica che potesse rientrare con naturalezza nelle case, perché mi sembra
che ci sia in questo senso molta attesa, specialmente da parte delle generazioni più
giovani: tutti questi giovanotti che suonano la chitarra, che sentono il bisogno di riunirsi
in nuove comunità (ma questo è un problema grandissimo, che ci farebbe discutere chissà
quanto)... Ma non sanno da dove cominciare: se uno dà a questi giovani una partitura
di Nono, che cosa ne fanno? Ed è mai possibile che la musica debba continuare ad essere
un linguaggio accessibile soltanto a chi è musicista? E poi si parla di comunismo! Ma io
quando scrivo qualcosa preferisco di suscitare qualcosa nel mio medico di Spoleto, che è
persona amabilissima, civile, ignara delle regole musicali, piuttosto che piacere a Nono o
a Dallapiccola!”.
– Eppure a Spoleto sono state programmate anche musiche di estrema avanguardia: è
venuto Berio, Pousseur, Henze...
“È vero; ma io sono uno scettico: la mia passione è la chiarezza e l’ordine, e per questo
ammiro tanto Voltaire. E siccome sono uno scettico, mi batterò fino alla morte perché
ognuno abbia la possibilità di dire quello che vuol dire. Con me, invece, questi signori
si comportano in modo ben diverso: io sono un escluso dai loro festival, e mi sembra
davvero una cosa del tutto barbara...”.
– Ma possibile che tu non abbia trovato nei musicisti degli ultimi cinquant’anni
qualcuno che ti abbia dato un’emozione, e che non abbia influito in qualche modo nel tuo
modo di comporre? Altri tuoi colleghi hanno quasi tutti un musicista del Novecento a cui
si riferiscono: ora Stravinskij, ora Shönberg, ora Webern. E tu?
“Certe cose di Stravinskij mi piacciono”, risponde Menotti con tranquillità. “Ma non le
prime. Mi piacciono quelle del periodo di Les Noces, e devo dire che anche il Sacre, tante
volte citato, non mi ha mai entusiasmato particolarmente, perché vi trovo qualcosa
di intenzionale e non di ‘inevitabile’. Del resto anche fra i musicisti del passato, c’è da
qualche tempo la tendenza a rivalutare gli eccentrici: ora si fa un gran parlare di Gesualdo
da Venosa, appunto perché certi suoi giri armonici appaiono ‘moderni’ e mandano in
sollucchero i critici. Ma come si fa ad accostare Gesualdo da Venosa a Orlando di Lasso?
Questo sì che è un grandissimo musicista, e anzi se tu mi chiedessi – come hai fatto
con altri – quali libri di musica salverei in attesa di un diluvio, direi senz’altro quelli di
Orlando di Lasso...”.
– Ma ci sono dei musicisti a cui tu devi una qualche gratitudine almeno sul piano,
diciamo così, del mestiere?
“Certamente ho anch’io i ‘miei’ musicisti, anche se non li considero più grandi di altri.
Molti si meraviglieranno di quello che sto per dire: ma su di me ha avuto una grande
influenza Domenico Scarlatti. Poi anche Schubert, che amo anche di più. E infine, per
quel che riguarda le mie opere, ha influito su di me Mušorgskij. Lo so: molti dicono che
sono un ‘pucciniano’, ma in fondo la musica di Puccini non mi commuove molto, quello
che invece ammiro in lui è la sua tecnica veramente sbalorditiva e originalissima nel
costruirsi un suo proprio ‘parlar cantando’. Le forme di Puccini sono difficilissime da
analizzare, e il suo ‘segreto’ difficile da apprendere... Io non ci sono riuscito, anche se lo
ammiro molto, e soprattutto in Bohème e in Tosca...”.
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– E il Tabarro? Piaceva anche a Pizzetti...
“Il Tabarro lo ammiro molto meno... Ma Puccini è il solo compositore che abbia creato
davvero il ‘parlar cantando’, in un modo miracoloso... È la solita storia del rabdomante, in
fondo...”.
– Ma perché, almeno finora, il teatro musicale sembra averti attratto più della musica
sinfonica e da camera? È un caso dovuto a particolari circostanze o a una scelta
precostituita?
“È una specie di destino strano, che mi segue fin dalla mia prima opera teatrale. Perché
in realtà la mia educazione con Rosario Scalero fu tutta basata sulla musica tedesca e
su quella francese. Alle sue lezioni, di opera lirica non si parlava mai. È accaduto però
che dopo la mia prima opera tutti hanno continuato a ordinarmi lavori teatrali; invece
mi piacerebbe scrivere musica da camera, e meno per l’orchestra, perché il suono della
grande orchestra – questo mostro della vita musicale americana – mi ha stancato. E poi in
fondo l’orchestra si è fossilizzata a Debussy e Ravel. Si è data troppa importanza al colore:
Bach è sempre bello su qualsiasi strumento, si può cantare...”.
– Ma anche Debussy non si può quasi mai cantare, ed è impossibile trascriverlo. Eppure...
“Capisco, capisco. E io ti dico che il suo genio ci ha portati nel vicolo chiuso in cui la
musica si dibatte da cinquant’anni... Te l’ho detto all’inizio: sono un antiquato e sono
rimasto a quel che diceva il mio maestro, che nella musica distingueva soltanto i punti di
arsi e quelli di tesi. Il che valeva anche sul piano armonico. Perché quando dicono che io
evito le dissonanze, non dicono il vero; solo che anche la dissonanza ha una funzione, deve
avere una funzione. È la tensione che precede il riposto: per fare un passo, uno prima deve
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alzare il piede e poi posarlo fermamente per terra. La musica contemporanea ha castrato
la dissonanza, le ha tolto la sua vera funzione dinamica: la maggior parte della musica di
oggi si agita, fa rumore ma non cammina”.
– Mi sembra ci sia rimasto ben poco da chiarire nella tua “poetica”. Tutto è chiaro e
coerente, e non ti offendi se ti considero un conservatore. Quindi passo alle domande di
contorno, che possono servire al tuo ritratto: per esempio, hai qualche hobby?
“Berio ha quello della pesca in mare. Dev’essere bello. Ma il mio hobby è fatto di
ambizioni segrete: quelle per cui ho cassetti pieni di poesie, di drammi, ecc. perché credo
di aver scritto qualcosa di buono, specialmente in inglese. E un altro hobby, che è poi
una specie di superstizione, è quello della lettura: finora non mi sono mai addormentato
senza aver letto qualcosa, al punto di credere che se un giorno mi addormenterò senza
aver letto sarà segno che sto per morire... e quindi cerco di leggere tutte le sere!... E poi mi
piace il tennis...”.
– Finalmente un punto di contatto con Schönberg!, gli dico.
Ma Menotti non raccoglie e continua gli ultimi particolari del suo ritratto: non gli
piacciono le automobili, non ama la velocità, disprezza le macchine sportive “che fanno
strisciare il sedere per terra”, mentre l’auto ideale, per lui, sarebbe un taxi di Londra, con
i sedili alti ed eretti. Gli domando anche se è vero che lascerà presto gli Stati Uniti per
stabilirsi definitivamente in Italia, magari come direttore artistico di un teatro italiano.
“Tutti continuano a scrivere di me chiamandomi ‘il compositore italo-americano’. Ma
io ho il passaporto italiano, e sono italiano. Quanto a trasferirmi in Italia è impossibile,
perché diventato il paese più rumoroso del mondo. In Europa, sì, tornerò, ma andrò al
nord, dove ancora c’è un po’ di tutela del silenzio; qui in Italia il silenzio è un lusso che
va al di là dei miei mezzi... Forse potrei fermarmi a Venezia, anche se il silenzio è relativo.
Comunque vedremo...”.
– E se uno ti chiedesse se sei contento di quanto hai fatto nella vita che cosa risponderesti?
“Potrei dire soltanto che, se rinascessi, non farei il festival di Spoleto. Che guai, che
pasticci... Stasera mi hanno detto che il procuratore andrà a vedere lo spettacolo del teatro
La Mama. Chissà che cosa succederà... Ma ti par possibile che io debba, poi, riempirmi
di debiti per chiamare questo o quel complesso di avanguardia: il mio guaio è sempre
lo stesso: ammiro Voltaire, amo la musica, ma sono uno scettico pieno di entusiasmo. E
l’entusiasmo mi rovina, anche con i critici! Mi definisco un malinconico Don Chisciotte,
come diceva Flaubert, per essere infelici bisogna avere almeno un filo di speranza”.
(Intervista tratta da «Nuova Rivista Musicale Italiana», 4, 1970, pp. 712-720.)
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Spettatore o Voyeur?
di Sandro Pasqualetto
La voix humaine e The Telephone, un binomio fin troppo noto e quasi scontato, tanto da
costringere chi programma le stagioni d’opera a cercare ormai altri accostamenti, a
volte azzardati. In questo caso il titolo che salta è sempre The Telephone. La voix humaine
rappresenta un pezzo di storia del teatro (prima) e della lirica (poi, con la musica di
Poulenc). Inevitabilmente, nell’accostamento “classico” con The Telephone, l’attenzione
si concentra tutta sul primo titolo (Voix) relegando il secondo quasi al ruolo di “riempi
serata”.
E un motivo c’è. Sarebbe insensato fingere che questi due titoli si fronteggino ad armi
pari o che abbiano lo stesso peso artistico e culturale. Lo spessore drammaturgico, la
forza evocativa dei due testi e della musica sono talmente differenti e lontani che il loro
accostamento rischia di creare l’effetto pastiche. Inoltre il passaggio dal drammatico al
comico è sempre teatralmente “pericoloso” (per il rischio di “rovinare” l’aura creata dal
primo) e per non riuscire mai a entrare veramente nello spirito del secondo. Davanti
a queste riflessioni, il filo di un telefono mi è sempre sembrato troppo sottile per dare
un senso e una credibilità all’unione di queste due storie. Allora perché decidere di fare
questi due titoli assieme?
Due elementi estremamente affascinanti potrebbero essere la risposta: il tempo e il luogo.
Il Tempo. Non un tempo teatrale, finto, ma due storie “in tempo reale”: un minuto sul
palco, un minuto nella vita. In The Telephone, come in una puntata di una serie televisiva,
seguiamo solo un pezzo della storia di Lucy e Ben. È un po’ come vedere un duetto di
un’opera o di un musical decontestualizzato dall’opera completa, non sapendo nulla
di quanto successo nella storia prima o dopo. Avremmo magari anche voglia di sapere
come si sono conosciuti e come vivranno poi la loro storia. Invece abbiamo diritto solo
a un pezzetto della loro vita, appena il tempo di conoscerli e ficcanasare un pochino nel
loro incontro. In La voix humaine, una storia che ognuno di noi potrebbe riconoscere in
un proprio vissuto, una donna senza nome (come il libretto impone) ci si presenta, sulla
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scena, da sola. Da dove viene Lei, qual è stata la sua vita, perché non sappiamo come
finisce la sua storia (l’autore stesso non dà una precisa indicazione per il finale), come sarà
(se ci sarà) il suo futuro?
Cos’è successo e succederà, prima e dopo il momento in cui vediamo e ascoltiamo questi
personaggi? Le risposte possibili a queste domande diventano sempre più affascinanti, e
non fanno che accrescere la mia curiosità, ma queste risposte, più che fornire soluzioni,
fanno sorgere altre domande.
Il Luogo. In un’epoca di “ipercomunicazione” potrebbe sembrare normale “intercettare”
pezzi di vita altrui in tempo reale, basta una telefonata nel treno e sappiamo tutto del
nostro vicino. E dopo che questa persona se n’è andata, non ne arriva sempre un’altra,
con nuove storie da raccontare? Quando le persone sono nascoste dal muro di una
stanza invece noi siamo per forza esclusi dalle loro vite. Allora ancora una volta noi
spettatori possiamo approfittare del nostro ruolo; giocare a guardare attraverso la parete
trasparente della “scatola scenica”. E permetterci (noi il pubblico, i guardoni, les voyeurs)
di entrare nell’intimità di una stanza chiusa, di ascoltare una conversazione e, dalla
posizione privilegiata di “osservatori”, trarre conclusioni e commentare all’uscita. Alla
fin fine, tutto il problema (come giustificare e rendere credibile l’unione dei due titoli?)
si riassumeva in poche domande: in quale luogo e in quale tempo queste storie potevano
riuscire a convivere?
Ed ecco trovato il legame: un luogo privato e pubblico nello stesso tempo, in cui noi li
possiamo spiare nella loro intimità, dal buco di una serratura e dove loro possono vivere
la loro vita. Consecutività di tempo e unione di luogo.
Allora cosa ci sarebbe di meglio che una camera d’albergo? Ed ecco che finalmente ci
ritroviamo autorizzati a poter ficcanasare liberamente nella privacy altrui.
E di colpo abbiamo voglia di conoscere questi personaggi, di ascoltare le loro storie, di
spiare tutto attraverso la parete trasparente del corridoio di quell’albergo. E se riusciamo
a credere davvero che queste due opere parlino di storie e persone vere, qual è la nostra
reazione? Possiamo sentirci a disagio, con la sensazione di ascoltare parole e confessioni
che non dovremmo poter sentire? Potremmo aver voglia di andarcene, di fare finta di
niente, di fingere di non sentire; oppure provare compassione e condividere l’umanità
della donna di Cocteau, avere voglia di sollevarla dal suo peso. O ancora potremmo
avere voglia di partecipare alla serata che sta organizzando Lucy, o partire in viaggio
con Ben, assistere al loro matrimonio. O ancora restare indifferenti o divertiti? Queste
storie poi continueranno a fine serata, nella nostra immaginazione. Così come quella del
nostro vicino di poltrona, qui a teatro, e quella delle cameriere dell’albergo in cui sono
ambientate queste storie, e quella di quella ragazza che in quell’albergo non vorrebbe
lavorare, e quella dell’Hausmeister che in quell’albergo ci ha lasciato la vita e vi ha visto
passare tante altre storie diverse.
È un gioco affascinante per chi lo osserva, una sfida coinvolgente per chi a queste storie
prova a dare vita e credibilità.
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Riflessioni sul progetto scenografico
di Cristina Alaimo
Ricevuto l’incarico di disegnare la scenografia e i costumi per uno spettacolo che accoglie
sul palco due atti unici così radicalmente diversi come La voix humaine di Poulenc e The
Telephone di Menotti, ho condotto una riflessione ed una ricerca sul contesto storico ed
estetico contemplato dai due brani. I due pezzi, da subito, mi hanno portato alla mente
gli ambienti rappresentati nei quadri di Edward Hopper.
Mentre Jean Cocteau scrive La voix humaine nel 1929, rappresentazione che ha come
argomento il dramma privato di una donna tra le quattro mura di una stanza, l’artista
statunitense Hopper si assumeva l’arduo compito di conservare, sulla tela, immagini
della banale vita della città, lasciandocele come testimonianza di quell’epoca. L’opera
dell’artista americano, come anche la scenografia di questo spettacolo, si spoglia di
paramenti e simbologie, rimanendo nuda e vuota, e l’incomunicabilità diventa soggetto
del discorso, che si rivela in un monologo a due, al telefono, in Cocteau e nelle frivole
chiacchiere al telefono di Menotti.
Nelle opere di Hopper domina una visione lontana ma attenta, uno sguardo voyeuristico
verso l’anonimato degli spazi abitati nelle spietate “macchine per vivere” che sono le
città. La poca cosa, la banalità, l’anonimato e, in primis la noia, diventeranno, vent’anni
dopo, soggetto e tema dell’esistenzialismo, proprio quando Poulenc completerà l’opera
dell’amico Jean, mettendola in musica. Le finestre dello spazio domestico diventano così
platea dalla quale, protetti, è possibile osservare le vite degli altri. Le due opere di Poulenc
e di Menotti non narrano storie importanti, se non per i protagonisti stessi. In entrambe
le pièces ci è dato di assistere a voci umane e chiacchiere protette tra pareti, che riempiono
lo spazio fino ad incanalarsi nel più sottile dei cunicoli domestici, un cavo del telefono.
Questo atteggiamento è diventato soggetto in Rear Window di Alfred Hitchcock, celebre
film del 1954, che mette il voyeurismo al centro del racconto. Nel film il protagonista,
un fotoreporter che di guerra ne ha vista abbastanza, costretto nella sedia per la sua
gamba rotta, scaccia la noia spiando il vicinato, rinunciando per questo ad una Grace
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Kelly in un vassoio d’argento. È la spettacolarizzazione del banale, un lavoro sul privato
e sull’irresistibile curiosità di guardare, non visti, l’intimità altrui, niente di nuovo, per
tanto, per chi è abituato al teatro.
La scena che ho disegnato, quindi, nata da queste riflessioni, è volutamente simile ad
un set cinematografico, ma doppio e ribaltato in modo da renderci simultaneamente
l’interno e l’esterno della stessa stanza, lasciando così aperta la possibilità di essere
osservati e osservatori. Una composizione orizzontale, panoramica da cinemascope,
dove è costruito solo ciò che rientra nell’inquadratura, dove si alternano vuoto e pieno,
concavo e convesso, dentro e fuori. Così come è evidente che i due spazi ci appaiono
simultaneamente, altrettanta è negata la necessità che esistano allo stesso tempo. Non
è dato che la vicenda di Lucy, ad esempio, succeda a quella della protagonista, anonima
ancora una volta, della voce umana, in quanto entrambe si svolgono in un tempo
imprecisato della memoria del luogo stesso.
Molti dei quadri di Hopper non sono fedeli rappresentazioni di architetture esistenti, ma
elaborazioni di schizzi eseguiti dall’auto, parcheggiata dall’artista davanti al luogo scelto,
che attirava così i sospetti e le inquietudini degli abitanti. Quando realizzava i quadri che
mi hanno ispirato la scena dello spettacolo, Hopper viveva nel quartiere di Washington
Square di New York. I quadri da me citati nel palco gli erano suggeriti dagli interni
illuminati che il pittore vedeva quando camminava di notte per le strade della città e che
successivamente ricomponeva nel suo studio, come memorie di indizi di un’indagine.
L’accostamento delle due vicende, La voix humaine e The Telephone, stimola riflessioni
sui rapporti di coppia e i diversi approcci delle due donne con l’uomo amato; devota e
struggente la prima, frivola e volubile la seconda, che fugge freneticamente dalla sola
idea di poter appartenere a qualcuno, per quanto questi sia amorevole e premuroso.
Gli alberghi nei quadri di Hopper sono stati da me scelti come luoghi di straniamento ed
esilio. Immaginando di volersi rifugiare in un luogo intimo e privato, magari evadendo
da una storia d’amore che ci consuma, spesso si decide, un po’ d’istinto un po’ per
necessità, di fare la valigia alla rinfusa per cambiare aria, poco importa la meta, meglio se
è una grande città magari al di là dell’oceano. Così si è immaginato che l’interprete della
prima pièce abbia deciso di lasciare l’Europa per rifugiarsi in una tranquilla camera al
terzo piano di un hotel di New York. La stessa camera ha ospitato Lucy, la vivace ragazza,
già emancipata, di cui Ben è perdutamente innamorato, tanto da seguirla, supponiamo,
negli spostamenti di lavoro che la ragazza volentieri conclude con serate di svago.
Volutamente, niente sul palco è spettacolare, anche quando Lucy si fa bella, lo fa per
uscire di scena.
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Edward Hopper
Summer Interior, 1909 (p. 25)
Olio su tela, New York, Whitney Museum
of American Art.
Considerato un poeta della solitudine e
dell’attesa, Edward Hopper (1882-1967) è
uno dei maggiori artisti americani del xx
secolo.
Gran parte della sua produzione pittorica
è dedicata alla rappresentazione di scene
e paesaggi urbani e le figure umane,
quando presenti, sono nettamente
distinte dal resto della composizione,
spesso caratterizzata da impianto
geometrico, contorni netti e forti contrasti
cromatici. Particolarmente intensa è la
contrapposizione, soprattutto nei dipinti
in cui una figura è collocata in un ambiente
chiuso, tra la luce brillante e l’atmosfera
malinconica della scena, che vede come
protagoniste donne sole o figure tra le
quali una vera comunicazione sembra
impossibile.
Attivo anche come disegnatore e incisore,
la gran parte della sua produzione
è conservata al Whitney Museum of
American Art di New York.
Eleven A.M., 1926 (p. 27)
Olio su tela, Washington, Hirshhorn
Museum and Sculpture Garden.
Hotel Room, 1931 (p. 33)
Olio su tela, Madrid, Museo
Thyssen‑Bornemisza.
Hotel Lobby, 1943 (p. 37)
Olio su tela, Indianapolis Museum of Art.
Studio per Morning Sun, 1952 (p. 43)
Conté cryon nera su carta, New York,
Whitney Museum of Modern Art.
Morning Sun, 1952 (p. 51)
Olio su tela, Columbus Museum of Art.
A Woman in the Sun, 1961 (p. 53)
Olio su tela, New York, Whitney Museum
of American Art.
Self-Portrait, 1925-1930 (p. 55)
Olio su tela, New York, Whitney Museum
of American Art.
Le opere di Hopper riprodotte in queste
pagine sono le seguenti:
Automat, 1927 (p. 56)
Olio su tela, Des Moines Art Center.
Night Windows, 1928 (in copertina e a p. 3)
Olio su tela, New York, The Museum of
Modern Art.
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I protagonisti
Alda Caiello
Una delle maggiori interpreti nel panorama
musicale europeo per versatilità, raffinatezza e
capacità espressive. Diplomata in Pianoforte e
in Canto al Conservatorio di Perugia, cantante
prediletta da Luciano Berio per le sue Folk Songs,
ha cantato sotto la guida di direttori quali
Berio stesso, Frans Brüggen, Myung-Whun
Chung, Valery Gergiev, Arturo Tamayo, Donato
Renzetti, Emilio Pomarico, Wayne Marshall,
Stephen Ausbury, Peter Rundel, Christopher
Franklin, Marco Angius. È invitata regolarmente
dalle maggiori istituzioni musicali europee,
tra cui il Teatro alla Scala di Milano,
Concertgebouw di Amsterdam, Wigmore
Hall di Londra, Fondazione Gulbenkian di
Lisbona, Konzerthaus e Musikverein di Vienna,
Salzburger Festspiele, Maggio Musicale
Fiorentino, Festival d’Automne di Parigi,
Festival Wien Modern, Accademia Nazionale
di Santa Cecilia di Roma, Bologna Festival,
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Biennale di München, Festival MiTo a Milano e
Torino, Ravenna Festival. Apprezzata interprete
di Luciano Berio, nel 2013 ha partecipato a
numerosi concerti in ricordo del compositore, a
Roma, Milano e Torino. Nel 2014 ha debuttato in
Il sogno di una cosa, opera di Mauro Montalbetti,
in prima rappresentazione assoluta a Brescia.
Il suo repertorio spazia da Monteverdi, Bach,
Scarlatti, Mozart, Boccherini, Pergolesi, Gluck,
Rossini, Respighi, fino a Mahler, Schönberg,
Berg, Šostakovič, e numerose partiture del
Novecento come Passaggio, Folk Songs, Recital for
Cathy, Altra Voce, O King di Berio, Pierrot Lunaire
di Schönberg, La voix humaine di Poulenc,
Medea, La pietra di diaspro, Tenebrae di Guarnieri,
il Signor Goldoni e Freud, Freud, I love you di Luca
Mosca, Gesualdo, Considered as a Murderer di Luca
Francesconi, Leggenda e Il carro e i canti di Solbiati,
L’Italia del destino di Luca Mosca. Nonché opere
di Di Bari, Nono, Bussotti, Kancheli, Sciarrino,
Dallapiccola, Lombardi, Adès, Boulez , Cattaneo,
Scelsi, Castiglioni, Maderna, Henze, Messiaen.
Ha inciso per BMG/Ricordi, CAM, Stradivarius,
Rai Trade, Col Legno, Zig Zag Territoires, Verso,
Bottega Discantica.
aggiudicandosi anche il Premio Miglior Giovane
Promessa e il Premio del Pubblico. Ha ottenuto
riconoscimenti anche al Bundeswettbewerb
Gesang di Berlino, al concorso Riccardo
Zandonai e alle Metropolitan National Council
Auditions. Ha beneficiato di borse di studio della
Johann Strauss Foundation e della Walter and
Charlotte Hamel Stiftung.
Teresa Sedlmair
Soprano dalla doppia nazionalità canadese
e tedesca, si è formata all’Università della
British Columbia, dove ha studiato con Nancy
Hermiston e ha interpretato vari ruoli, tra
cui Adele in Die Fledermaus, Lauretta in Gianni
Schicchi, il Nano rugiadoso in Hansel e Gretel,
Madame Herz in The Impresario, Papagena e
la Prima dama nel Flauto magico. Nell’ambito
dei corsi estivi di Opera Nuova, in Canada, è
stata la Regina della notte nel Flauto magico e
Clorinda nella Cenerentola. Nel 2010 si è esibita
nuovamente nel ruolo della Regina della
notte alla Gasteig Philharmonie di Monaco.
Durante gli anni di formazione è stata ammessa
all’International Opera Studio di Zurigo, dove
ha interpretato la Fanciulla Fiore nel Parsifal
del regista Claus Guth diretto da Daniele
Gatti, Alice in Le comte Ory con Cecilia Bartoli
nonché Papagena e La regina della notte in una
produzione per ragazzi del Flauto magico. Ha
collaborato con artisti quali Edith Wiens, Edda
Moser e Francisco Araiza.
È attualmente membro dell’ensemble del
Teatro di Magdeburgo, dove nella stagione
2012-2013 ha cantato come solista nei Carmina
burana e ha interpretato Tebaldo nel Don
Carlos, il Nano sabbiolino in Hansel e Gretel di
Humperdinck, Anna Kennedy in Maria Stuarda
e ha preso parte ai musical Sweeney Todd e Hello
Dolly, rispettivamente come Johanna e Minnie
Fey. È stata inoltre Blonde nel Ratto del serraglio,
Olympia nei Contes d’Hoffmann e la Seconda
Donna in The Io passion di Harrison Birtwistle.
Si esibisce spesso in Italia, dove ha debuttato
nel 2012 come Norina nel Don Pasquale per
l’Operaestate Festival a Bassano del Grappa ed
ha interpretato la Missa Sanctae Ceciliae di Nunes
Garcias con i Solisti veneti diretti da Claudio
Scimone per l’apertura del Veneto Festival.
Nel 2011 ha vinto il primo premio al Concorso
internazionale Renata Tebaldi di San Marino,
Emilio Marcucci
Nato a Fossacesia, in Abruzzo, durante gli
studi di architettura lavora in teatro nel settore
tecnico, dove incontra per la prima volta l’opera
lirica. Sotto la guida del soprano Aida Claretto
Prestia, si esibisce nel suo primo recital nel 2003.
Il debutto in scena avviene l’anno successivo con
un’opera contemporanea, L’aurora di Gerusalemme
di Andrea Arnaboldi. Lo stesso anno è finalista
al Concorso As.Li.Co e presente nella stagione
come Barone Duphol nella Traviata.
Nel 2005 avviene il debutto con il ruolo del titolo
in Falstaff, sotto la guida di Claudio Desderi, con
il quale lavora anche come Marcello in Bohème,
Don Magnifico nella Cenerentola, e Signor
Bruschino.
Nel 2007 a Pesaro avviene l’incontro con la
vocalità rossiniana, interpretando Don Profondo
nel Viaggio a Reims con l’Accademia del Rossini
Opera Festival.
Nel 2008 abbandona il settore tecnico in teatro
per dedicarsi esclusivamente alla carriera
artistica.
La sua formazione culturale-musicale si
arricchisce ulteriormente seguendo nel
2008‑2009 l’Accademia lirica di Simone Alaimo.
Sotto la bacchetta di Emanuel Siffert, debutta
nel 2008 in Don Giovanni (ruolo del titolo) e nel
2009 come Figaro nelle Nozze di Figaro. Nel 2010
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interpreta come protagonista Il barbiere di Siviglia,
nell’ambito del festival belga Zomeropera.
Nello stesso festival si esibisce nel 2011 nel ruolo
di Lescaut (Manon Lescaut) e ancora nel 2013
come Rigoletto nella omonima opera di Verdi
diretta da Enrico Delaboy.Nel 2011 veste i panni
di Nabuccodonosor, diretto da Federico Santi,
nell’ambito del Vorst Nationaal a Bruxelles. Nel
2013 avviene il suo primo incontro con Ravenna
Festival nell’ambito della trilogia verdiana.
Jonathan Webb
Dopo essere stato direttore stabile al Teatro
dell’Opera di Tel Aviv, è attualmente direttore
musicale della Camerata Strumentale Città
di Prato. Dopo la laurea all’Università di
Manchester, dove ha studiato anche pianoforte,
violino e canto corale, debutta all’Opera House
di Manchester con West Side Story. Chiamato da
Gary Bertini al Teatro dell’Opera di Tel Aviv, ha
diretto numerose nuove produzioni tra cui Der
Freischütz, Tosca, Madama Butterfly, Macbeth, Samson
et Dalila, La Juive, Faust, Cenerentola, L’Italiana in
Algeri, L’elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, Jenufa,
La piccola volpe astuta.
Quale direttore ospite ha curato al Teatro Sao
Carlo di Lisbona Ein Florentinisches Tragodie, The
Miserly Night, Il barbiere di Siviglia, La Navarraise,
Cavelleria Rusticana; al Teatro Maestranza di
Siviglia The Rape of Lucretia; a Marsiglia The
Saint of Bleeker Street; a Nizza L’Histoire du Soldat;
a Dublino Le nozze di Figaro e Falstaff; a Tenerife
The Turn of the Screw. Alla Deutsche Oper di
Berlino si è esibito in Aufstieg und Fall der Stadt
Mahagonny, La forza del destino, Carmen; a Vienna
(Volksoper) Don Pasquale, Der Zigeunerbaron, Die
Zauberflöte; a Köln La traviata. Invitato da Valery
Gergiev, ha diretto Lady Macbeth of Mtsensk in una
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coproduzione tra la Kirov Opera e la New Israeli
Opera. A Napoli (Teatro San Carlo) Elegy for Young
Lovers di Henze e Così fan tutte di Mozart; alla
Fenice Tancredi; al Massimo di Palermo Orfeo di
Gluck; al Teatro Filarmonico di Verona Le nozze
di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte; a Trento Die
Entführung aus dem Serail; a Ferrara e Modena The
Death of Klinghoffer di Adams; a Livorno e Modena
Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Ha inoltre diretto
diverse opere a Ravenna, Reggio Emilia e nei
Teatri della Toscana.
In Italia ha dedicato particolare attenzione alle
opere di Britten: The Rape of Lucretia anche al
Maggio Musicale Fiorentino e al Carlo Felice
di Genova; The Turn of the Screw al Comunale
di Bologna e al Petruzzelli di Bari; Peter Grimes
e Billy Budd al Teatro Carlo Felice di Genova;
A Midsummer Night’s Dream al Petruzzelli di Bari,
Curlew River alla Sagra Musicale Umbra.
Ha collaborato con registi quali Daniele Abbado,
Goetz Friedrich, Hugo de Ana, Robert Carsen,
Graham Vick, Pier Luigi Pizzi, Denis Krief, David
Poutney, David Alden, Chiara Muti, Andrea De
Rosa.
Ha diretto l’Orchestra di Santa Cecilia a Roma
con i Kings Singers e l’Orchestra del Maggio
Musicale Fiorentino a Firenze in occasione del
settantesimo compleanno di Henze. È stato più
volte invitato dalla Orquesta Sinfonica de Galicia
e dalla Real Filharmonia de Galicia. In Israele
ha diretto la Jerusalem Symphony Orchestra,
Israel Sinfonietta, Israel Chamber Orchestra.
Ha collaborato con numerosi solisti tra cui
Shlomo Mintz, Vadim Repin, Fazil Say, Arabella
Steinbacher, Louis Lortie, Alexander Toradze.
Ha preso parte a festival quali Caesarea, Coruña,
Wexford, Caracalla, Settembre Musica con
l’orchestra della RAI di Torino e il Liturgica
Festival di Gerusalemme. Invitato da Seiji Ozawa
al Saito Kinen Festival in Giappone, ha diretto
The Festival Orchestra e gli ensemble in tournée
in Giappone e Cina.
Ha collaborato con orchestre di giovani
strumentisti quali la Giovanile Italiana di
Fiesole, la Young Israel Philharmonic, Orchestra
e Coro giovanile di Santa Cecilia per le musiche
di Mendelssohn per Oedipus in Kolonus (in
occasione della celebrazione di “Colosseo 2000”
con l’esecuzione di un concerto-spettacolo
nell’anfiteatro per la prima volta dopo 1500
anni). Ha inaugurato la stagione sinfonica 2011
del Teatro San Carlo di Napoli con la prima
mondiale di Terra di Luca Francesconi, alla
presenza del Presidente della Repubblica.
Nel 2004 ha ricevuto il premio internazionale
“Ultimo Novecento – Pisa 2000 Nel Mondo”.
Sandro Pasqualetto
Diplomato in Pianoforte al Conservatorio di
Vicenza, dove ha studiato anche composizione,
ha frequentato corsi per maestro sostituto alla
Scuola Civica di Milano e, presso diversi docenti
privati, lezioni di tecnica vocale e un corso di
direzione d’orchestra. Dal 1996 al 2004 lavora
come pianista accompagnatore per cantanti
lirici e tra il 1998 e il 2000 come accompagnatore
pianistico presso l’Istituto musicale pareggiato
Franco Vittadini di Pavia. Nel 1997 incide alcune
arie d’opera al pianoforte con il soprano Amarilli
Nizza (il disco è recensito su «Gramophone» del
maggio 1998).
Inizia la propria attività teatrale all’Arena
Verona nel 1996, dal 1998 come assistente di
scena. Intraprende quindi, come freelance,
l’attività di direttore di scena e assistente alla
regia con una compagnia teatrale di tournée
di Milano e in parallelo per alcuni teatri lirici
e festival. Nel 2002 inizia la collaborazione
con l’Opera di Monte Carlo e da allora divide
la propria attività tra Italia e Francia come
assistente alla regia e direttore di scena. Nel 2011
è chiamato come direttore di scena stabile al San
Carlo di Napoli.
Ha collaborato con Festival des Chorégies
d’Orange, Théâtre des Champs Elysées, Château
de Versailles, Opéra National de Montpellier,
Nancy, Bordeaux, Grand Théâtre de Limoges,
Conservatorio Superiore di Musica di Parigi,
Théâtre de Saint‐Etienne, Opéra de Liége e
in Italia con i teatri di Rieti, Ravenna, Treviso,
Bolzano, Piacenza, Jesi, Spoleto, Napoli.
Ha preso parte ad alcuni concorsi di regia
lirica con progetti per Les contes d’Hoffmann e La
damnation de Faust e nel 2007 frequenta un corso
di regia teatrale al Teatro Stabile di Padova e
del Veneto. Come assistente alla regia lavora in
diverse produzioni liriche (Opera Nazionale di
Shangai e Chorégies d’Orange, Opéra de Massy,
Dubai, Martina Franca) con Marco Gandini,
Nadine Duffaut, Emmanuelle Cordoliani,
Jean‑François Vinciguerra. Nel suo percorso ha
inoltre incrociato il cammino di diversi registi
di fama come Franco Zeffirelli, Hugo de Ana,
Italo Nunziata, Nicolas Joel, Jérôme Savary e di
alcuni tra i più grandi cantanti della scena lirica
attuale.
Ha partecipato, come assistente alla regia e stage
manager, a due spettacoli allestiti a Dubai e
ha seguito per alcuni mesi nel 2003 la tournée
del musical Notre Dame de Paris. Attualmente
ha lavorato ad almeno 60 diversi titoli d’opera
per quasi un centinaio di allestimenti.
Recentemente ha messo in scena La voix
humaine e The Telephone per il teatro di Bolzano
e un Don Pasquale per l’Opera di Tours, ripresi
successivamente in diversi altri teatri, nonché
un Barbiere di Siviglia multimediale per il Teatro
di Trento.
Cristina Alaimo
Nata ad Oderzo (Treviso) nel 1975, studia
scenografia teatrale all’Accademia di Belle Arti
di Venezia. Laureata nel 1997, esordisce come
scenografa con Phonophonie di M. Kagel e Die
Rätsel von Mozart al Teatro delle Fondamente
Nuove di Venezia, in collaborazione con il Teatro
La Fenice, con la regia di Elena Barbalich.
Dopo i primi anni di lavoro come assistente
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scenografo e costumista per compagnie private
ed enti lirici italiani (Sì di Mascagni e Tosca di
Puccini, con la regia di Simona Marchini, al
Teatro la Gran Guardia di Livorno e al Festival
di San Gimignano), inizia a seguire festival
operistici in Germania, affiancando inizialmente
lo scenografo e scenotecnico Daniele Paolin. Dal
2000 vive a Düsseldorf e lavora per la Lorelay
Production e per Art Logic, firmando il progetto
del Nabucco di Verdi, con la regia di G. Roth,
rappresentato prima nell’arena di Loreley e poi
messo in scena in numerosi spazi teatrali in
tutta la Germania.
Importante per la sua formazione è il lavoro
al Teatro dell’opera di Düsseldorf dove, come
assistente agli allestimenti scenici, coordina
la creazione di spettacoli affiancando noti
scenografi e registi di fama internazionale,
tra cui Tobias Richter, F. Pabst, P. Hope. A
Düsseldorf inizia anche la collaborazione con
lo scenografo e costumista Gian Maurizio
Fercioni, con il quale crea Il capriccio di Strauss
e L’elisir d’amore di Donizetti per la Fondazione
Gran Teatro la Fenice di Venezia, lavora al Don
Giovanni di Mozart per il Festival di Strasburgo
e all’Orfeo all’inferno di Offenbach all’Opera di
Nizza.
Nel 2002 è a fianco del regista francese Jérôme
Savary, con il quale realizza spettacoli (Carmen
e Turandot) in Svizzera al teatro di San Gallo,
in Francia al teatro antico d’Orange, in
Giappone per la Japan Opera Foundation, a
Tokio nel teatro Bunkakaikan e in Corea al
teatro nazionale di Seoul. Per l’Opera di Roma
partecipa alla messa in scena di Turandot
alle terme di Caracalla, con Ezio Toffolutti e
Henning Brockhaus, seguendo sia l’allestimento
che la regia.
Di ritorno in Italia, dal 2005 collabora con
il Teatro Comunale di Bolzano, ricevendo
commissioni di progetti allestitivi e registici
quali Il filo d’Arianna (opera interamente firmata
da Cristina Alaimo), Julie di Boesmans in prima
nazionale a Bolzano con la regia di Manfred
Schweigkofler, The Telephone di Menotti e La voix
humaine di Poulenc, con la regia di Sandro
Pasqualetto.
Parallelamente prosegue il lavoro nelle arti
figurative come artista, producendo opere di
pittura, fotografia e installazioni, con mostre
personali e collettive in molte città: a Londra
la personale alla St. Martin in the Fields
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Gallery, a Venezia la collettiva della Fondazione
Bevilacqua la Masa in occasione della Biennale
Padiglione Italia e Camera 312, a Biella Sul filo
della lana a cura di Philippe Daverio, alle fiere
Artissima di Torino e Kunstmesse di Berlino,
alla Quadriennale di arti sceniche di Praga.
Lavora anche per allestimenti museali, spesso
in collaborazione con Roberta Puddu. Ha preso
parte a eventi quali l’intervento al Palazzo Reale
di Milano, alla Sala delle Cariatidi, e la mostra
Sovrane fragilità, al Lingotto di Torino.
Dedica molta energia alla didattica
dell’arte, come docente di arte e immagine e
organizzando attività laboriatoriali in ambito
teatrale e creativo, in collaborazione con musei,
enti e fondazioni, (tra cui Museo Alberto
Martini di Oderzo e il Museo per bambini di
Siena).
Claudio Schmid
Laureato in Architettura a Venezia nel 1985,
si avvicina al teatro di prosa in qualità di
tecnico luci. Dopo aver partecipato a numerose
produzioni del Teatro Stabile di prosa del Friuli
Venezia Giulia, per la regia di Antonio Calenda,
dal 1996 inizia una collaborazione con il Teatro
Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, sia per la
stagione lirica che per il Festival internazionale
dell’operetta.
Collabora con Francesco Bellotto, Hennings
Brockhaus, Luciano Cannito, Giulio Ciabatti,
Paul Curran, Gian Luigi Gelmetti, Gino Landi,
Lorenzo Mariani, Maurizio Nichetti, Federico
Tiezzi, Ivan Stefanutti, Stefano Vizioli nei
principali teatri d’opera italiani.
All’estero è invitato alle Chorégies d’Orange,
all’Opera di Santa Cruz de Tenerife, all’Opera
di Oviedo, a Tokio e Osaka, al Teatro Olimpia di
Atene e all’Hungarian State Opera di Budapest.
Dal 2009 collabora con il Donizetti Musica
Festival di Bergamo con cui si reca in tournée
in Giappone nel 2010. Nel corso delle ultime
stagioni inizia un sodalizio artistico con
Manfred Schweigkofler che lo vede a Bolzano
con Fidelio, Salome, Romeo and Juliet, a Palermo
con Der Köning Kandaules e al Teatro di San Carlo
di Napoli con Rusalka. Nel 2013 è nuovamente
alla Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi
di Trieste con La clemenza di Tito per la regia
di Jean-Louis Grinda e con il balletto Salome
per la coreografia di Emil Faski, poi a Busseto
e Piacenza per Luisa Miller, con la regia di Leo
Nucci, in occasione delle celebrazioni verdiane.
A novembre debutta a Galati in Romania e
in seguito in tour in Olanda con Aida, regia
di Francesco Bellotto. Nel 2014 è a Bilbao con
Adriana Lecouvreur per la regia di Lorenzo Mariani
e a Trieste con Madama Butterfly, regia di Giulio
Ciabatti.
Orchestra Giovanile
Luigi Cherubini
Fondata da Riccardo Muti nel 2004, l’Orchestra
Giovanile Luigi Cherubini ha assunto il nome di
uno dei massimi compositori italiani di tutti i
tempi attivo in ambito europeo per sottolineare,
insieme ad una forte identità nazionale, la
propria inclinazione ad una visione europea
della musica e della cultura. L’Orchestra,
che si pone come strumento privilegiato di
congiunzione tra il mondo accademico e
l’attività professionale, divide la propria sede
tra le città di Piacenza e Ravenna. La Cherubini
è formata da giovani strumentisti, tutti sotto i
trent’anni e provenienti da ogni regione italiana,
selezionati attraverso centinaia di audizioni da
una commissione costituita dalle prime parti di
prestigiose orchestre europee e presieduta dallo
stesso Muti. Secondo uno spirito che imprime
all’orchestra la dinamicità di un continuo
rinnovamento, i musicisti restano in orchestra
per un solo triennio, terminato il quale molti di
loro hanno l’opportunità di trovare una propria
collocazione nelle migliori orchestre.
In questi anni l’Orchestra, sotto la direzione
di Riccardo Muti, si è cimentata con un
repertorio che spazia dal barocco al Novecento
alternando ai concerti in moltissime città
italiane importanti tournée in Europa e nel
mondo nel corso delle quali è stata protagonista,
tra gli altri, nei teatri di Vienna, Parigi, Mosca,
Salisburgo, Colonia, San Pietroburgo, Madrid e
Buenos Aires.
All’intensa attività con il suo fondatore,
la Cherubini ha affiancato moltissime
collaborazioni con artisti quali Claudio Abbado,
John Axelrod, Rudolf Barshai, Dennis Russel
Davies, Gérard Depardieu, Michele Campanella,
Kevin Farrell, Patrick Fournillier, Herbie
Hancock, Leonidas Kavakos, Lang Lang, Ute
Lemper, Alexander Lonquich, Wayne Marshall,
Kurt Masur, Kent Nagano, Krzysztof Penderecki,
Donato Renzetti, Vadim Repin, Giovanni
Sollima, Yuri Temirkanov, Alexander Toradze,
Pinchas Zukerman.
Il debutto a Salisburgo, al Festival di Pentecoste,
con Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa, ha
segnato nel 2007 la prima tappa di un progetto
quinquennale che la prestigiosa rassegna
austriaca, in coproduzione con Ravenna Festival,
ha realizzato con Riccardo Muti per la riscoperta
e la valorizzazione del patrimonio musicale
del Settecento napoletano e di cui la Cherubini
è stata protagonista in qualità di orchestra
residente. Alla trionfale accoglienza del pubblico
viennese nella Sala d’Oro del Musikverein,
ha fatto seguito, nel 2008, l’assegnazione alla
Cherubini del prestigioso Premio Abbiati quale
miglior iniziativa musicale per “i notevoli
risultati che ne hanno fatto un organico di
eccellenza riconosciuto in Italia e all’estero”.
Impegnativi e di indiscutibile rilievo i progetti
delle “trilogie”, che al Ravenna Festival
l’hanno vista protagonista, sotto la direzione
di Nicola Paszkowski, delle celebrazioni per il
bicentenario verdiano in occasione del quale,
sempre per la regia di Cristina Mazzavillani
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Muti, l’Orchestra è stata chiamata ad eseguire
ben sei opere al Teatro Alighieri. Nel 2012, nel
giro di tre sole giornate, Rigoletto, Trovatore e
Traviata, in seguito riprese in una lunga tournée
approdata fino a Manama ad inaugurare il
nuovo Teatro dell’Opera della capitale del
Bahrain; nel 2013, sempre l’una dopo l’altra a
stretto confronto, le opere “shakespeariane”
di Verdi: Macbeth, Otello e Falstaff. Sempre
nell’ambito del Ravenna Festival, dove ogni
anno si rinnova l’intensa esperienza della
residenza estiva, dal 2010 la Cherubini è
protagonista, al fianco di Riccardo Muti, dei
concerti per le Vie dell’amicizia: l’ultimo, nel
2014, ai piedi del Sacrario di Redipuglia nel
centenario della Grande Guerra, insieme a
musicisti provenienti da orchestre di tutto il
mondo.
oboi/corno inglese
Marco Ciampa*, Alessandro Rauli* (anche corno
inglese)
clarinetti
Lorenzo Baldoni*, Simone Nicoletta*
clarinetto basso
Luisa Rosso
fagotti
Angela Gravina*, Andrea Mazza*
corni
Davide Bettani*, Fabrizio Giannitelli*
trombe
Nicola Baratin*, Daniele Colossi
trombone
Giuseppe Nuzzaco*
La gestione dell’Orchestra è affidata alla Fondazione
Cherubini costituita dalle municipalità di Piacenza e Ravenna
e dalle Fondazioni Toscanini e Ravenna Manifestazioni.
L’attività dell’Orchestra è resa possibile grazie al sostegno
del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali del Turismo,
Camera di Commercio di Piacenza, Fondazione di Piacenza e
Vigevano, Confindustria Piacenza e dell’Associazione “Amici
dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini”.
tuba
Paolo Bartolomeo Bertorello
timpani - percussioni
Paolo Nocentini, Saverio Rufo
arpa
Tatiana Alquati*
www.orchestracherubini.it
pianoforte
Federico Nicoletta*
violini primi
Samuele Galeano**, Lavinia Soncini, Alessandro
Cosentino, Giulia Cerra, Aloisa Aisemberg, Francesca
Palmisano, Alessandro Sgarabottolo, Elena
Meneghinello, Costanza Scanavini, Francesco Salsi
** spalla
* prima parte
violini secondi
Stefano Gullo*, David Scaroni, Maria Beatrice Manai,
Maria Giulia Calcara, Matteo Penazzi, Elisa Voltan,
Francesca Tamponi, Andrea Pasquetto
ispettore d’orchestra
Leandro Nannini
viole
Friederich Binet*, Laura Hernandez Garcia, Nicoletta
Pignataro, Davide Bravo, Francesca Profeta, Alberto
Magon
violoncelli
Peter Krause*, Valeria Sirangelo, Irene Zatta, Giada
Vettori, Veronica Fabbri, Caterina Vannini
contrabbassi
Renzo Schina*, Cecilia Perfetti, Davide Sorbello,
Matteo Panni
flauti/ottavino
Sara Tenaglia*, Gianluca Campo
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Fondazione
Ravenna
Manifestazioni
Soci
Comune di Ravenna
Regione Emilia Romagna
Provincia di Ravenna
Camera di Commercio di Ravenna
Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna
Confindustria Ravenna
Confcommercio Ravenna
Confesercenti Ravenna
CNA Ravenna
Confartigianato Ravenna
Archidiocesi di Ravenna-Cervia
Fondazione Arturo Toscanini
Consiglio di Amministrazione
Presidente Fabrizio Matteucci
Vicepresidente Mario Salvagiani
Consiglieri
Ouidad Bakkali, Galliano Di Marco,
Lanfranco Gualtieri
Sovrintendente
Antonio De Rosa
Segretario generale
Marcello Natali
Responsabile amministrativo
Roberto Cimatti
Revisori dei conti
Giovanni Nonni
Mario Bacigalupo
Angelo Lo Rizzo
* Collaboratori
Teatro di Tradizione Dante Alighieri
Stagione d’Opera e Danza
2014-2015
Direttore artistico
Angelo Nicastro
Coordinamento programmazione
e progetti per le scuole Federica Bozzo
Spazi teatrali
Responsabile Romano Brandolini*
Servizi di sala Alfonso Cacciari*
Segreteria Chiara Schiumarini*
Ufficio produzione
Responsabile Emilio Vita
Stefania Catalano, Giuseppe Rosa
Marketing e comunicazione
Responsabile Fabio Ricci
Editing e ufficio stampa Giovanni Trabalza
Sistemi informativi e redazione web Stefano Bondi
Impaginazione e grafica Antonella La Rosa
Archivio fotografico e redazione social Giorgia Orioli
Promozione e redazione social Mariarosaria Valente
Segreteria Ivan Merlo*
Biglietteria
Responsabile Daniela Calderoni
Biglietteria e promozione
Bruna Berardi, Laura Galeffi*, Fiorella Morelli,
Maria Giulia Saporetti
Ufficio Gruppi Paola Notturni
Amministrazione e segreteria
Responsabile Lilia Lorenzi*
Amministrazione e contabilità Cinzia Benedetti
Segreteria amministrativa e progetti europei
Franco Belletti*
Segreteria amministrativa Valentina Battelli
Segreteria di direzione Elisa Vanoli*, Michela Vitali
Servizi tecnici
Responsabile Roberto Mazzavillani
Assistenti Francesco Orefice, Uria Comandini
Tecnici di palcoscenico Enrico Berini*,
Christian Cantagalli, Enrico Finocchiaro*,
Matteo Gambi, Massimo Gavelli*, Massimo Lai,
Marco Rabiti, Enrico Ricchi, Luca Ruiba,
Andrea Scarabelli*, Marco Stabellini
Servizi generali e sicurezza Marco De Matteis
Portineria Giuseppe Benedetti*,
Giusi Padovano, Samantha Sassi*
www.kuni.it
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