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8/14 aprile 2016
Ogni settimana
il meglio dei giornali
di tutto il mondo
n. 1148 • anno 23
Slavoj Žižek
L’insostenibile
leggerezza della volgarità
internazionale.it
Filippine
Frequenze
pericolose
3,00 €
Panama papers
L’epicentro
dell’evasione
Se arriva
l’automobile
che si guida
da sola
L’auto senza conducente cambierà
gli spostamenti, le città,
l’economia. E i grandi gruppi
automobilistici
sono entrati in competizione
con Google e Apple
8/14 aprile 2016 • Numero 1148 • Anno 23
“Le buone maniere contano”
Sommario
slAvoj ŽiŽek A pAgiNA
La settimana
8/14 aprile 2016
Ogni settimana
il meglio dei giornali
di tutto il mondo
n. 1148 • anno 23
Slavoj Žižek
L’insostenibile
leggerezza della volgarità
internazionale.it
Filippine
Frequenze
pericolose
scandalo
3,00 €
Panama papers
L’epicentro
dell’evasione
Se arriva
l’automobile
che si guida
da sola
L’auto senza conducente cambierà
gli spostamenti, le città,
l’economia. E i grandi gruppi
automobilistici
sono entrati in competizione
con Google e Apple
iN copertiNA
Nessuno al volante
L’auto senza conducente cambierà gli spostamenti, le città,
l’economia. E i grandi gruppi automobilistici sono entrati in
competizione con Google e Apple (p. 40).
Illustrazione di Jean Jullien
Giovanni De Mauro
AttuAlità
16 L’epicentro
dell’evasione
Vox
frANciA
20 Lavoro
L’Express
europA
22 Migranti
24
Le Monde
NagornoKarabakh
Politkom
AsiA e pAcifico
26 Le conseguenze
politiche
dell’attentato
di Lahore
The New York Review
of Books
Americhe
30 L’ombra dei
Fujimori sul voto
in Perù
El Espectador
visti dAgli Altri
34 Perché l’Italia
36
ha fretta
di intervenire
in Libia
Politico.eu
Lo scandalo
che scuote
il governo Renzi
Financial Times
brAsile
48 Dilma Roussef
scieNzA
94 Se Hansen
e l’arte di
sopravvivere
Gatopardo
ha ragione
siamo nei guai
The Christian
Science Monitor
scieNzA
56 Cambio di terapia
New Scientist
ecoNomiA
e lAvoro
98 Atene protesta
filippiNe
con il Fondo
monetario
Financial Times
60 Frequenze
pericolose
The California
Sunday Magazine
portfolio
cultura
78
66 Il sogno
e l’incubo
Omar Imam
Cinema, libri,
musica, arte
Le opinioni
ritrAtti
72 Amanda
12
Domenico Starnone
33
Amira Hass
Odendaal
Trouw
38
David Randall
80
Gofredo Foi
viAggi
82
Giuliano Milani
86
Pier Andrea Canei
infuocato
The Globe and Mail
93
Tullio De Mauro
74 Sul cratere
ArchitetturA
76 Costruire
l’impossibile
Financial Times
le rubriche
12
Posta
15
Editoriali
103 Strisce
105 L’oroscopo
pop
90 L’insostenibile
leggerezza
della volgarità
Slavoj Žižek
106 L’ultima
Articoli in formato
mp3 per gli abbonati
le principali fonti di questo numero
Gatopardo È un mensile messicano di attualità e reportage sull’America Latina. L’articolo a pagina 48 è uscito nel numero di marzo 2016 con il titolo Dilma y
el arte de sobrevivir. New Scientist È un settimanale britannico d’informazione e divulgazione scientiica. L’articolo a pagina 56 è uscito il 2 marzo 2016 con il
titolo Cancer’s penicillin moment: drugs that unleash the immune system. Politkom È un sito d’informazione politica indipendente fondato nel
2001. L’articolo a pagina 24 è uscito il 4 aprile 2016 con il titolo Nagorno-Karabakhskij “razogrev” na fone pereformatirovanija postsovetskogo
prostranstva. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
5
internazionale.it/sommario
Da un certo punto di vista non c’era bisogno
di studiare i dodici milioni di documenti (tra
cui quasi cinque milioni di email) raccolti nei
2.600 gigabyte di ile digitali dei Panama
papers per immaginare che Vladimir Putin,
i parenti del presidente siriano Bashar al
Assad, i familiari del leader cinese Xi Jinping
o i capi di stato e di governo di paesi come
l’Arabia Saudita, il Pakistan e l’Ucraina
avessero nascosto enormi ricchezze nei
paradisi iscali di quattro continenti.
Basta uscire di casa per rendersi conto che
viviamo in un mondo retto da un sistema
intrinsecamente ingiusto e disuguale, dove
pochissime persone accumulano immense
fortune alle spalle della stragrande
maggioranza della popolazione: lo scandalo è
esibito in modo permanente, esposto alla luce
del sole. Però è anche vero che una cosa è
immaginare, o sospettare, e un’altra è capire,
avere le prove, e soprattutto togliere anche
quell’ultimo velo che tenta di nascondere
agli occhi dei cittadini e del isco
l’accaparramento sistematico. E poi c’è
lo sforzo congiunto di 376 giornalisti di 108
quotidiani, settimanali e televisioni in 75
paesi, per quella che il direttore di Le Monde
ha deinito una tappa fondamentale “nella
storia della cooperazione tra mezzi
d’informazione internazionali per far luce sui
meccanismi opachi dei paradisi iscali”. Un
modo per distribuire il lavoro di ricerca e
analisi dei dati, ma anche per ridurre il rischio
di ritorsioni (portare un giornale in tribunale
è facile, farlo con più di cento diventa
un’impresa). Perché collaborare tra loro è
l’unica arma che hanno i giornalisti per
combattere l’equivalente di una guerra
asimmetrica. u
Immagini
Dopo il corteo
Parigi, Francia
2 aprile 2016
Attivisti del movimento Nuit debout in
place de la République, a Parigi. La mobilitazione è cominciata al termine della manifestazione del 31 marzo contro
la riforma del lavoro voluta dal governo
del primo ministro socialista Manuel
Valls. Dopo il corteo, centinaia di persone hanno organizzato un presidio
permanente in piazza, con incontri e
dibattiti pubblici, ispirato all’esperienza degli indignados spagnoli. Il 5 aprile il
movimento si è allargato ad altre città
francesi, tra cui Nantes, Strasburgo e
Tolosa. Foto di Philippe Brault (Vu/Karma press photo)
Immagini
Il crollo
Calcutta, India
1 aprile 2016
Il 1 aprile un tratto lungo cento metri di
un viadotto nel quartiere di Bara Bazar,
a Calcutta, è crollato uccidendo 27 persone e ferendone un centinaio. La polizia ha arrestato otto dirigenti dell’impresa edile che ha realizzato l’infrastruttura. Sono accusati di omicidio, tentato
omicidio e associazione a delinquere.
Foto di Bikas Das (Ap/Ansa)
Immagini
I resti di Palmira
Palmira, Siria
31 marzo 2016
Il 27 marzo le truppe del governo siria­
no, con l’aiuto di quelle russe, hanno ri­
conquistato Palmira, il sito archeologico
protetto dall’Unesco e occupato nel
maggio del 2015 dal gruppo Stato isla­
mico. I jihadisti hanno distrutto i princi­
pali monumenti del sito, considerando­
li un’espressione di idolatria. In
quest’immagine si vede cosa resta del
tempio di Bel, mentre il fotografo Jo­
seph Eid tiene in mano un suo scatto del
2014 che mostra com’era l’ediicio pri­
ma dell’occupazione dello Stato islami­
co. Foto di Joseph Eid (Afp/Getty Images)
[email protected]
Teoricamente
u Credo che l’editoriale di
Giovanni De Mauro su Florence Hartmann sia fazioso.
Innanzitutto, Hartmann ha
consapevolmente violato un
obbligo di segretezza che riguardava dei documenti ritenuti conidenziali dal Tribunale penale internazionale per
l’ex Jugoslavia (Tpij). Ho lavorato presso il tribunale e sono
venuta a contatto con informazioni classiicate come
conidenziali. Per quanto la
sete di verità possa guidare le
azioni di un individuo, a maggior ragione un giornalista,
non sta né a Florence Hartmann né a me giudicare se
certi documenti sono segretati legittimamente o no. Ed è isiologico e necessario che il
tribunale punisca chiunque
decida arbitrariamente di rivelare informazioni che sa essere conidenziali. Suggerire
che l’arresto della Hartmann
sia stato intimidatorio contro i
giornalisti nei civilissimi Paesi
Bassi mi fa onestamente sorridere. Hartmann si trovava davanti all’ingresso del tribunale
che l’aveva condannata e se
qualcuno ha compiuto un gesto di sfregio è stata lei. Nessuno dovrebbe essere detenuto nelle condizioni degradanti
cui è stata sottoposta Hartmann. Però la diferenza tra
lei e Ratko Mladić è che lei è
stata condannata diversi anni
fa dal Tpij, mentre Mladić è
innocente ino a sentenza di
condanna.
Alessandra Spadaro
Un muro in Europa
u Tempo fa mi chiedevo come
facesse uno stato come Israele
a essere in guerra da settant’anni ed essere una democrazia. Mi ha risposto il vostro articolo “Israele contro
tutti” (Internazionale 1144).
Anche noi stiamo costruendo
muri, sfruttando popoli più
deboli, provocando terrorismo e derive antidemocratiche. Chiederemo alla Turchia
di diventare più democratica
per avvicinarsi all’Europa?
Forse non sarà necessario,
perché nel frattempo saremo
diventati sempre più simili al
paese che si trova al 146° posto al mondo per libertà di
stampa e rispetto dei diritti
umani, e che oggi è nostro alleato nell’apartheid.
Angelo Rete
Paradisi artiiciali
u Mi ha colpito lo stupore generale per le rivelazioni dei
Panama papers. Che il paese
sia un paradiso iscale era noto, così come il fatto che potenti, inanzieri, industriali e
vip vari nascondono parte della propria fortuna nei paradisi
iscali. Forse la mia reazione è
dovuta al fatto che leggo assiduamente Internazionale. Appena letta la notizia dei Panama papers ho ripensato a
un paio di articoli che avete
pubblicato l’anno scorso: un
reportage su Panamá nel numero 1098 e uno su vari paradisi iscali nel numero 1108.
Ecco spiegato il mio mancato
stupore per le rivelazioni dei
Panama papers. Deriva dal
vostro ottimo lavoro.
Marco Massimiliani
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Web internazionale.it
Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli
Piccoli schermi
Mio iglio di cinque anni ha
un’ossessione per il mio
smartphone. Mi devo
preoccupare?–Ambra
Giorni fa mia iglia di otto anni
ha disegnato un concerto pop.
Le cantanti sul palco, contornate di luci e ballerini, erano in
parte ofuscate da una miriade
di quadratini con piccolissime
facce all’interno. “E questi cosa sono?”, le ho chiesto. “I telefoni”, mi ha risposto lei come
se fosse la cosa più ovvia del
mondo. “E questo qui?”, ho
chiesto indicandone uno più
grande. “Quello è un tablet,
12
papà!”. C’è poco da fare: per i
nostri igli gli schermi dei telefonini sono parte integrante di
un concerto. E della vita in genere. Me l’ha confermato un
altro scambio di battute con
mia iglia: “Papà, che signiica
‘telefonino’?”, mi ha chiesto.
Quando gliel’ho spiegato, mi
ha risposto: “Ah, vuol dire telefono quindi”. Sono rimasto un
secondo interdetto ed è intervenuta la sorella: “No, ma tanto tempo fa si chiamava telefono quello per tutta la famiglia,
che era solo uno e bisognava
dividerselo”. Preistoria, insomma. Oggi, prima ancora
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
dei nostri igli, quelli ossessionati dal cellulare siamo noi. La
banca, il giornale, gli acquisti,
gli amici: la nostra vita passa
dallo smartphone e i bambini,
afamati di scoperta, ne sono
attratti come se fosse una inestra sul mondo. Invece di preoccuparci della loro curiosità
verso il telefono o il computer,
dovremmo limitare il tempo
che passiamo davanti allo
schermo quando siamo con i
bambini. Per insegnargli che il
mondo si esplora soprattutto
dal vivo.
[email protected]
Parole
Domenico Starnone
Le manovre
di Renzi
u La ministra Guidi ha fatto
una telefonata che il presidente del consiglio ha giudicato
inopportuna. La parola era più
che adeguata. “Opportuno”,
“inopportuno” hanno a che
fare con “porto”, e se essere
opportuni signiica saper individuare il momento in cui le
cose possono andare in porto,
essere inopportuni comporta
invece sbagliare quel momento e inire sugli scogli. Guidi è
inita sugli scogli, cioè nelle
orecchie dei magistrati, e
quindi è stata senza dubbio
inopportuna. Il male cioè non
era il porto, ma un errore di
manovra. Cosa che il presidente del consiglio ha ribadito. La meta è giusta, ha detto,
e lui intende assumersi ino in
fondo, eroicamente, la responsabilità di mandare in
porto di tutto, seppur tra gli
scandali e la salute a rischio,
per il bene dell’Italia. Dice
tante cose, il premier, per il
bene dell’Italia. Disse a suo
tempo a Letta di star sereno, e
Letta oggi, in tv, sembra sicuramente più sereno di lui. È un
uomo giovane, parla un buon
italiano senza toni smargiassi,
si esprime in inglese assai meglio di Alberto Sordi. Certo
non è uno che fa rivoluzioni, e
perciò a Renzi, qualche tempo
fa, sembrò opportuno farlo
fuori. Ma oggi che le rivoluzioni del premier appaiono controrivoluzioni all’altezza dei
veleni reali e metaforici di
sempre, viene il dubbio che
per la gestione corrente della
tragedia italiana fosse meno
inopportuno Letta.
Editoriali
I conini non sono uguali per tutti
“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”
William Shakespeare, Amleto
Direttore Giovanni De Mauro
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6 aprile 2016
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In un mondo in cui le reti di comunicazione si sviluppano rapidamente, per molti di noi i conini
contano sempre meno. Eppure oggi siamo davanti a due fatti che ci ricordano l’importanza dei
conini e mettono in dubbio l’idea di un mondo
postnazionale. Alle frontiere sudorientali
dell’Unione europea i migranti e i profughi vengono rispediti in Turchia in base a un accordo appena entrato in vigore. Da lì, secondo alcune fonti, potrebbero essere costretti a tornare nei paesi
in guerra da cui avevano cercato di fuggire. Nello
stesso tempo, un’enorme fuga di documenti ha
rivelato che alcuni degli uomini più ricchi del
mondo hanno sfruttato i conini nazionali per sottrarre i loro patrimoni al isco. Anche se in modi
diametralmente opposti, per i miliardari e i profughi i conini nazionali contano ancora in un mondo globalizzato.
Per essere nati nel posto sbagliato, i siriani devono afrontare la violenza del loro governo, le
bombe straniere, i terroristi e le milizie. Di fronte
al loro esodo in Europa orientale i conini sono
stati fortiicati come si faceva in passato: con muri, ilo spinato e guardie armate. I Panama papers,
invece, dimostrano che il denaro viaggia molto
più liberamente. In questo caso i conini nazionali ofrono riparo dal isco: alcuni paesi hanno creato apposite strutture per accogliere i capitali in
fuga. Gran parte di questo movimento di denaro
è legale. “Le società ofshore non sono illegali.
Per alcune transazioni sono una scelta logica”,
sottolineano i giornalisti che hanno pubblicato i
Panama papers.
Per gli esseri umani attraversare un conine
non è illegale se sono in fuga dalla persecuzione.
Al contrario, è un diritto garantito dalle leggi internazionali. Anche partire per salvare la propria
vita e quella della propria famiglia è una scelta
logica. La diferenza è che la fuga delle persone è
frutto di una crisi, mentre la fuga dei capitali è
frutto di un’opportunità. E il mondo è molto più
disposto a favorire la seconda. u as
L’occasione delle rinnovabili
The New York Times, Stati Uniti
Alcuni leader mondiali, soprattutto in paesi in via
di sviluppo come l’India, sostengono da anni che
non riescono a ridurre le emissioni di gas serra
perché sono costretti a usare combustibili inquinanti come il carbone per produrre energia a basso costo. Ma questo argomento è sempre meno
valido, perché i costi delle fonti rinnovabili come
il solare e l’eolico continuano a scendere.
Secondo uno studio delle Nazioni Unite, nel
2015 per la prima volta le fonti rinnovabili sono
state responsabili della maggior parte della nuova
potenza energetica installata nel mondo. Più di
metà dei 286 miliardi di dollari investiti nel solare, nell’eolico e in altre rinnovabili sono stati spesi in paesi emergenti come la Cina, l’India o il
Brasile. Se si escludono i grandi impianti idroelettrici, il 10,3 per cento dell’elettricità prodotta nel
2015 proveniva da fonti rinnovabili, circa il doppio rispetto al 2007. Dal 2009 il costo della produzione di energia è sceso del 61 per cento per i pannelli solari e del 14 per cento per le pale eoliche.
Secondo alcune stime nel 2020 in India l’energia
solare potrebbe costare il 10 per cento in meno
rispetto a quella prodotta bruciando carbone.
Questi segnali positivi suggeriscono che è
possibile ridurre le emissioni di gas serra più velo-
cemente ed economicamente del previsto, e fanno sperare che sia possibile raggiungere l’obiettivo issato a dicembre alla conferenza di Parigi:
contenere l’aumento della temperatura globale al
di sotto della soglia oltre la quale il mondo andrebbe incontro a devastanti conseguenze come
l’innalzamento del livello dei mari, inondazioni,
siccità e carestie.
Gli enormi ostacoli incontrati a Parigi rimangono. Uno è tecnico: le batterie necessarie a compensare l’incostanza delle fonti rinnovabili sono
ancora piuttosto costose. Un altro è inanziario:
nonostante la crescita degli investimenti privati
nelle rinnovabili, i paesi industrializzati non hanno mantenuto l’impegno preso nel 2009 di fornire cento miliardi di dollari all’anno per inanziare
le rinnovabili nei paesi poveri. Il terzo ostacolo è
politico. Alzare il prezzo dei combustibili fossili
incoraggerebbe gli investimenti nell’energia pulita, ma negli Stati Uniti una tassa sulle emissioni
rimane un’ipotesi molto lontana.
La diminuzione del costo delle rinnovabili è
un chiaro incentivo. La prospettiva di disporre di
energia a basso prezzo e allo stesso tempo salvare
il pianeta dovrebbe spingere i politici a intraprendere azioni più coraggiose. u f
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Attualità
L’epicentro
dell’evasione
Matthew Yglesias, Vox, Stati Uniti
Foto di Gabriele Galimberti e Paolo Woods
I Panama papers confermano
una realtà che era nota da
tempo: i governi occidentali
non hanno intenzione di colpire
le persone e le aziende che
evadono le tasse
l nome dello studio legale Mossack Fonseca era conosciuto bene
dagli esponenti dell’élite inanziaria e politica mondiale. Ora, grazie ai più di undici milioni di documenti riservati di cui è entrato in
possesso l’International consortium of investigative journalists (Icij), un consorzio
con sede negli Stati Uniti, quel nome è destinato a diventare ancora più noto. Centinaia di giornalisti in molti paesi stanno
spulciando i documenti, che sono stati chiamati Panama papers.
Le attività dello studio legale Mossack
Fonseca sono diverse e ramiicate su scala
internazionale, ma nascono tutte da un’unica specializzazione: aiutare organizzazioni
e cittadini stranieri a creare società di comodo a Panamá a cui intestare la loro ricchezza mantenendo segreta l’identità dei
veri proprietari. Dalla sua nascita, nel 1977,
lo studio ha portato i suoi interessi fuori dallo stato centroamericano, aprendo più di
quaranta uici in tutto il mondo e aiutando
clienti di vari paesi a lavorare con società di
comodo, non solo a Panamá ma anche alle
Bahamas, nelle Isole Vergini Britanniche e
in altri paradisi iscali.
I documenti svelano i particolari di alcune attività poco trasparenti legate a persone
vicine al presidente russo Vladimir Putin,
fanno riferimento a scandali in alcuni paesi
in via di sviluppo e hanno già provocato una
crisi politica in Islanda. Ma, soprattutto, offrono un quadro dettagliato di una realtà
I
16
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
banale che era sotto gli occhi di tutti: mentre erano impegnati in uno sforzo sempre
più complesso e intenso di cooperazione
internazionale per oliare le ruote del commercio globale, i paesi più ricchi e inluenti
hanno scelto di consentire ai loro cittadini
più ricchi di sottrarre i propri patrimoni al
fisco ricorrendo a società di comodo
all’estero. In questi anni le élite politiche
occidentali non hanno fatto niente per impedire a paesi come Panamá di compromettere l’integrità del sistema iscale globale, soprattutto perché le élite economiche
occidentali erano contrarie.
Cos’è una società di comodo? E a cosa
serve? A volte una persona, un’azienda o
un’istituzione può voler comprare o possedere beni tenendo segreta l’identità del vero compratore o proprietario.
La motivazione più comune è il segreto
industriale. In generale alle aziende non
piace rendere pubblico quello che stanno
facendo: in questi casi l’uso di società di comodo per determinati progetti che ancora
non possono essere annunciati è uno strumento utile.
Le società di comodo spesso sono usate
per semplici motivi di privacy. Le transazioni immobiliari, per esempio, solitamente
sono di dominio pubblico. Perciò se un atleta, un attore o un altro personaggio famoso
vuole comprare una casa senza che il suo
nome compaia sui documenti, paga un avvocato chiedendogli di creare una società
di comodo che si occupi dell’acquisto.
Ricchezza in aumento
Ma, come succede in tutti gli ambiti, la riservatezza può avere anche scopi illeciti.
Questo è particolarmente vero per le società di comodo create nei centri internazionali del segreto bancario. Questi centri garantiscono un livello di anonimato e di opacità che va ben oltre la diicoltà di cercare
su internet il nome del vero proprietario di
quelle società. Per esempio, la moglie da
cui state divorziando non può mettere le
mani sul denaro depositato in un conto di
cui né lei né il suo avvocato conoscono l’esistenza o che non possono ricondurre a voi.
Se c’è una procedura fallimentare in atto,
questo conto diventa inaccessibile ai vostri
creditori. In tutti questi casi una società panamense segretamente controllata da voi e
Da sapere Soldi in paradiso
u Il 3 aprile 2016 sono stati
difusi i risultati di
un’inchiesta svolta da quasi
400 giornalisti in tutto il
mondo sulla base di più di
undici milioni di documenti
trapelati dalla Mossack
Fonseca, uno studio legale
con sede a Panamá. I
cosiddetti Panama papers
rivelano i meccanismi che
politici e personaggi pubblici
di vari paesi hanno usato per
nascondere le loro ricchezze
nei paradisi iscali. Ecco
alcune delle informazioni più
rilevanti emerse inora.
u Alcune persone legate al
presidente russo Vladimir
Putin controllano beni
ofshore per un valore di circa
due miliardi di dollari.
u Il primo ministro islandese
Sigmundur Davíð
Gunnlaugsson avrebbe
usato una società ofshore per
nascondere milioni di dollari
d’investimenti nelle principali
banche islandesi durante la
crisi inanziaria. Il 5 aprile
Gunnlaugsson si è dimesso.
u La famiglia di Nawaz
Sharif, primo ministro del
Pakistan, possiede proprietà
immobiliari per milioni di
dollari tramite conti ofshore.
u Dopo essere entrato in
carica come presidente
dell’Ucraina, Petro
Porošenko si era impegnato
a vendere l’azienda Roshen,
ma sembra invece che abbia
girato le sue partecipazioni a
una società ofshore da lui
controllata.
u Il presidente argentino
Mauricio Macri ha fatto
parte del consiglio direttivo di
una società ofshore con sede
alle Bahamas quando era
sindaco di Buenos Aires.
u Lo studio Mossack Fonseca
ha lavorato con almeno 33
persone e società inserite
nella lista nera degli Stati Uniti
per i legami con i
narcotraicanti messicani,
organizzazioni terroristiche o
con paesi stati sottoposti a
sanzioni.
u Le autorità giudiziarie di
vari paesi, tra cui Stati Uniti,
Francia, Germania, Australia,
Austria, Svezia, Italia e i Paesi
Bassi hanno aperto delle
inchieste.
INStItUtE
Panamá, marzo 2015
che detiene azioni, obbligazioni e altri titoli
finanziari per conto vostro può essere lo
strumento ideale.
Allo stesso modo, se avete guadagnato
molti soldi in modo illegale (per esempio
prendendo tangenti o spacciando droga),
dovete cercare di usare quei soldi senza attirare l’attenzione. Una società ofshore è
perfetta: non solo aiuta a evitare i controlli
in tempo reale, ma una volta che il trucco
viene scoperto e voi scappate all’estero o
inite in galera, le autorità non possono portarvi via i beni intestati a quella società.
Ma se i vari sistemi di riciclaggio dei proventi delle attività criminali sono il modo
più eclatante di usare le società di comodo,
quello a cui servono è soprattutto l’elusione
iscale. Come mi ha spiegato qualche anno
fa un gestore di conti bancari offshore,
“quando la gente pensa al segreto bancario
immagina terroristi e traicanti di droga,
ma la realtà è che ci sono tanti ricchi che
non vogliono pagare le tasse”. E il sistema
va avanti perché in occidente ci sono tanti
politici che non hanno particolare interesse
a fargliele pagare.
Nei più di undici milioni di documenti in
possesso dell’Icij c’è molto materiale. Le
informazioni più rilevanti emerse inora riguardano alcune persone legate a Putin, il
primo ministro islandese Sigmundur Davíð
Gunnlaugsson, la famiglia di Nawaz Sharif,
primo ministro del Pakistan, e il presidente
ucraino Petro Porošenko. I nomi dei politici
fanno più notizia, ma tra i documenti trapelati c’è anche il memorandum di un socio
dello studio Mossack Fonseca che svela una
verità più noiosa ma ugualmente importante: “Il novantacinque per cento del nostro
lavoro consiste nel vendere auto per eludere le tasse”.
È diicile sapere con precisione quanti
soldi ci siano nei paradisi iscali ofshore.
Gabriel Zucman, un professore di economia all’università della California a Berkeley che ha analizzato il tema nel libro The
hidden wealth of nations, stima che la cifra
complessiva sia di almeno 7.600 miliardi di
dollari. È più dell’8 per cento della ricchezza
mondiale. E il dato è in continua crescita:
Zucman calcola che negli ultimi cinque anni la ricchezza ofshore sia aumentata di
circa il 25 per cento. Buona parte di quest’aumento è dovuto ai lussi di “nuovo denaro”
proveniente dalla Cina e da altri paesi in via
di sviluppo, dove i cittadini possono avere
fondati timori sulla stabilità politica e lo stato di diritto.
Ma in altri casi è semplicemente una
questione di avarizia. Nei Panama papers
c’è anche il nome di Ian Cameron, defunto
padre del primo ministro britannico David
Cameron. Lo studio Mossack Fonseca lo
aiutò a creare una società d’investimenti
nelle Isole Vergini Britanniche, dove non
sarebbe stata soggetta all’imposta sulle imprese del Regno Unito né a quella sui proitti. Si tratta di una scelta perfettamente legale, che per altro non richiede alcun segreto.
È tipica delle società d’investimento con
dipendenti che lavorano o risiedono a New
York e a Londra e che per motivi iscali preInternazionale 1148 | 8 aprile 2016
17
Attualità
18
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
Panamá, marzo 2015
INStItUtE
feriscono avere la sede in posti come le
Isole Cayman. Siccome queste società non
possiedono grandi patrimoni materiali,
possono avere la sede legale in qualsiasi
paese, e ovviamente scelgono di stabilirsi
in giurisdizioni dove non devono pagare le
tasse.
Viene da chiedersi perché i leader mondiali non facciano niente per affrontare
questa situazione. In realtà, entro certi limiti qualcosa è stato fatto. Con la guerra al
narcotraico e, più recentemente, la guerra al terrorismo, sono aumentate le pressioni su tutti i paesi per modiicare le loro
regole bancarie così da ridurre il riciclaggio
internazionale. Di recente l’Unione europea è riuscita a convincere la Svizzera a
cambiare le sue leggi per facilitare il compito delle istituzioni europee impegnate a
perseguire gli evasori iscali.
Ma c’è una bella diferenza tra l’evasione iscale – cioè riiutarsi di pagare le imposte che per legge si devono pagare e poi
usare i conti segreti per cercare di nascondere il denaro e farla franca – e l’elusione,
cioè pagare persone intelligenti che aiutino a trovare e a sfruttare le scappatoie legali per ridurre al minimo le tasse da pagare. È perfettamente legale, per esempio,
creare un hedge fund in un paese che non
prevede l’imposta sul reddito delle società
anche se tutti i dipendenti e gli investitori
del fondo vivono negli Stati Uniti. E, in
molti casi, è legale anche aprire una società di comodo a Panamá intestandole buona parte del patrimonio di famiglia.
L’elusione esiste in ogni sistema iscale,
ma il motivo per cui continua a crescere
senza ostacoli è che i politici dei paesi più
inluenti hanno lasciato che succedesse.
Con l’economia globale che diventa sempre più integrata, i paesi ricchi hanno creato un “codice della strada” economico a
cui i paesi e le multinazionali straniere devono attenersi per accedere al mercato e
arricchirsi. Se oggi non esiste uno standard
globale di tassazione sui redditi delle società e sui redditi di capitale è perché non è
una priorità politica. Su questo tema non
c’è la stessa mobilitazione istituzionale che
c’è per il narcotraico o il terrorismo.
La difusione dei Panama papers è importante per le informazioni speciiche che
contengono, ma più in generale perché i
documenti spostano l’attenzione su quello
che “tutti sanno”, e possono mettere pressione su chi detiene le leve del potere ainché faccia qualcosa. u fas
Putin, i russi
e il complotto occidentale
Gazeta, Russia
Secondo le autorità di Mosca
i Panama papers sono una
macchinazione statunitense. Per
le tv pubbliche semplicemente
non esistono. E i cittadini non
hanno più la forza d’indignarsi
cosiddetti Panama papers sono stati
resi pubblici il 3 aprile e hanno suscitato scandalo in tutto il mondo. Per
ironia della sorte in Russia sono stati
accolti con entusiasmo da Edward
Snowden, ex collaboratore dei servizi segreti degli Stati Uniti e attualmente rifugiato a Mosca. Snowden li ha definiti la più
grande fuga di informazioni riservate nella
storia del giornalismo.
Nelle società ofshore citate nei documenti sono state trovate tracce di soldi di
dodici tra uomini d’afari e funzionari russi, per una somma complessiva di due miliardi di dollari. Una parte delle rivelazioni
riguarda le operazioni condotte da un ami-
I
co di lunga data del presidente Vladimir
Putin (un’amicizia che non viene smentita
dal Cremlino), il violoncellista Sergej Roldugin.
La Francia, il Regno Unito, i Paesi Bassi
e altri paesi hanno già dichiarato di voler
avviare inchieste sulle informazioni ricevute. La procura generale dell’Ucraina ha invece dichiarato che non ci sono motivi suficienti per aprire un’indagine sul presidente Petro Porošenko, anche lui coinvolto
nell’inchiesta giornalistica. Solo in Russia,
però, si aferma che i documenti sono falsi e
che distorcono la realtà.
La televisione di stato ha parlato dei Panama papers sottolineando esclusivamente
il coinvolgimento del presidente ucraino,
mentre ha mantenuto un completo silenzio
sul coinvolgimento dei cittadini russi. Dmitrij Peskov, portavoce della presidenza russa, ha dichiarato che si tratta di un attacco
contro Putin, aggiungendo poi che la pubblicazione dei documenti è una ritorsione
contro i successi ottenuti dalla Russia nel
conlitto in Siria. Per quanto riguarda l’or-
ganizzazione che ha realizzato l’indagine,
Peskov (citato nei Panama papers) ha osservato: “È evidente che ne fanno parte
molti giornalisti la cui professione principale non è il giornalismo. Ci sono molti ex collaboratori del dipartimento di stato americano, della Cia e di altri servizi segreti”.
In ogni caso le autorità di Mosca non
sembrano troppo preoccupate per le possibili reazioni dei russi. I fatti di cui la televisione non parla semplicemente non esistono. E i grandi canali televisivi inora hanno
completamente taciuto sul capitolo russo
dei Panama papers. Inoltre, la cifra di cui si
è parlato, due miliardi di dollari, non è tale
da far indignare il cittadino russo medio.
Ormai da tempo i russi non si scandalizzano più per questi “movimenti di capitali”.
Senza conseguenze
L’inchiesta non inluirà sulle elezioni presidenziali, che si terranno nel 2018, né su
quelle legislative, in programma il prossimo
settembre. Il voto per la duma non interessa
a nessuno, visto che la televisione non ne
parla. D’altronde è ormai da tempo che il
Cremlino e l’opinione pubblica non reagiscono nemmeno alle denunce di corruzione fatte periodicamente dal blogger Aleksej
Navalnij.
I Panama papers non incideranno neanche sulle relazioni internazionali della Rus-
sia, visto che i documenti riguardano una
rete inanziaria con ramiicazioni in tutto il
mondo, e non esclusivamente Mosca. Diicilmente le rivelazioni sul coinvolgimento
indiretto di alcuni leader politici avranno
efetti concreti. Dopo un’inchiesta realizzata dalla Bbc a ine gennaio, un rappresentante del ministero delle inanze statunitense aveva accusato Putin di corruzione,
ma questo non ha impedito la visita del segretario di stato John Kerry a Mosca, il 23
marzo, né la collaborazione tra i due paesi
per risolvere il conlitto siriano. Sui social
network sta già circolando un commento
sarcastico, che potrebbe diventare realtà:
“In seguito alla pubblicazione dei Panama
papers in Islanda ci saranno dimissioni, in
Cina fucilazioni, in Arabia Saudita silenzio
assoluto, in Ucraina scandali e accuse reciproche. In Russia verranno invece avviati
processi contro l’opposizione, sarà chiuso
qualche altro sito web e i mezzi d’informazione che hanno accolto l’inchiesta con entusiasmo avranno problemi”.
I Panama papers diicilmente cambieranno la Russia, come le rivelazioni di Wikileaks non hanno cambiato il mondo. La
minaccia maggiore per la Russia oggi non è
costituita da documenti che svelano la corruzione della sua leadership, ma dalle conseguenze a lungo termine della sua politica
interna ed estera. u af
Dall’Islanda Il primo leader a cadere
Coinvolto nello scandalo dei
Panama papers, il primo
ministro islandese Sigmundur
Davíð Gunnlaugsson si è
dimesso il 5 aprile. Secondo
l’inchiesta dell’International
consortium of investigative
journalists, sua moglie è
titolare di una società
ofshore nelle Isole Vergini
Britanniche che avrebbe fatto
afari con le banche islandesi
fallite durante la crisi del
2008. Subito dopo la
pubblicazione delle
informazioni contenute nei
Panama papers, migliaia di
persone si erano radunate
davanti al parlamento di
Reykjavík per chiedere le
dimissioni di Gunnlaugsson.
Come scrive il quotidiano
Fréttablaðið, l’ormai ex
primo ministro ha chiesto al
vicepresidente del suo partito,
Sigurður Ingi Jóhannsson, di
sostituirlo “per un periodo di
tempo indeinito”, e ha
proposto di sciogliere il
parlamento e di indire nuove
elezioni. Quest’ultima ipotesi
è stata però respinta sia dal
presidente, Ólafur Ragnar
Grímsson, sia da Bjarni
Benediktsson, ministro delle
inanze e leader del Partito
per l’indipendenza (che
governa insieme al Partito
progressista di
Gunnlaugsson). Secondo un
sondaggio pubblicato il 6
aprile dal quotidiano
Morgunblaðið, se si votasse
oggi il Partito pirata sarebbe
la prima forza del paese con il
43 per cento dei consensi (alle
legislative del 2013 aveva
ottenuto il 5,1 per cento dei
voti), seguito dal Partito per
l’indipendenza, con la metà
dei voti. I progressisti
sarebbero relegati al quinto
posto, con meno dell’8 per
cento dei voti (nel 2013
avevano ottenuto il 24,4 per
cento). Dopo tre giorni di
manifestazioni, quella che
Morgunblaðið deinisce “la
più importante protesta
politica nella storia del paese”
costituisce “un monito rivolto
a tutti i partiti ainché
rispettino l’etica pubblica e la
volontà democratica della
popolazione. Gli islandesi
stanno cominciando a
rendersi conto del loro potere,
un potere che può garantire al
paese la democrazia in modo
permanente. Perché questo è
il nostro paese, ed è dovere di
noi islandesi fare in modo che
i valori fondamentali siano
rispettati, soprattutto in
parlamento”. u gpa
Cina
Afari di famiglia
Hong Kong Economic
Journal, Hong Kong
Panama papers hanno portato alla luce informazioni che mettono in imbarazzo alcuni importanti leader cinesi, a cominciare dal presidente Xi Jinping. I documenti rivelano che Deng Jiagui, cognato del presidente, ha creato due
società ofshore nelle Isole Vergini Britanniche nel 2009, quando Xi faceva parte del comitato permanente del politburo, il più importante organo del Partito
comunista. Già nel 2012 un’inchiesta di
Bloomberg News sosteneva che Deng e
sua moglie possedessero centinaia di milioni di dollari in immobili, partecipazioni
azionarie e altre attività.
Queste rivelazioni sono un problema
per Xi, visto che il presidente ha lanciato
una campagna senza precedenti contro la
corruzione, prendendo di mira molti
esponenti del Partito comunista, del governo, delle forze armate e di aziende
statali.
Nei Panama papers compaiono anche
i nomi di alcuni familiari di Zhang Gaoli e
Liu Yunshan, entrambi nell’attuale comitato permanente del politburo, che avrebbero creato società di comodo nei paradisi iscali per nascondere i loro patrimoni.
Dai documenti emerge anche il nome di
Li Xiaolin, la iglia dell’ex premier cinese
Li Peng.
Per i cittadini cinesi non è illegale creare un’azienda ofshore. Tuttavia, il Partito comunista sconsiglia ai suoi funzionari
di approittare della posizione che occupano e prevede che i loro familiari non
approittino dei loro contatti privilegiati.
Nonostante questo, spesso i cittadini più
ricchi e inluenti acquistano quote di partecipazione in società ofshore per nascondere le loro attività illegali, come il
riciclaggio di denaro e l’evasione iscale.
Ma la maggioranza della popolazione cinese non si accorgerà nemmeno dello
scandalo. Negli ultimi giorni le autorità
hanno fatto in modo che tutte le notizie
sui Panama papers fossero cancellate dai
mezzi d’informazione e dai social
network.u fp
I
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
19
Francia
Le notti in piedi
di Parigi
Dopo il corteo del 31 marzo
contro la riforma del lavoro,
centinaia di manifestanti hanno
occupato place de la République.
Una mobilitazione che ricorda
quella degli indignados spagnoli
A
ndranno a dormire solo se costretti con la forza. Sono già diverse notti che alcune centinaia
di manifestanti occupano place
de la République a Parigi. La mobilitazione
è cominciata subito dopo la grande manifestazione del 31 marzo contro il disegno di
legge sulla riforma del diritto del lavoro, voluto dal governo del primo ministro socialista Manuel Valls e presentato dalla ministra
Myriam El Khomri. Determinati a reagire
contro “questo mondo che loro costruiscono con accanimento per noi, ma in realtà
contro di noi”, alcune centinaia di manifestanti hanno occupato la piazza che, dopo
gli attentati di Parigi del gennaio 2015, è diventata il simbolo della memoria collettiva
del paese. Non se ne andranno facilmente:
la sera di sabato 2 aprile erano ancora in
molti.
Ma chi c’è dietro questo movimento, che
porta il nome di un hashtag, #NuitDebout
(Notte in piedi), ed è già stato paragonato a
quello degli indignados spagnoli, che occuparono le piazze di Madrid e Barcellona nel
maggio del 2011? Il 31 marzo gli appelli alla
mobilitazione sono stati lanciati in tutta la
Francia, da Parigi a Lione, da Marsiglia a
Tolosa ino a Caen. Su Facebook l’evento
era collegato a un nuovo progetto sulla convergence des luttes, la convergenza delle diverse battaglie politiche che attraversano il
paese. Il programma aveva cominciato a
prendere forma in una riunione che si era
tenuta a Parigi alla ine di febbraio.
Far convergere le lotte. Per i partiti, i sindacati, i militanti e i semplici cittadini la
sida non era semplice. Il trauma degli attentati dello scorso anno e il prolungamento dello stato d’emergenza voluto dal presi-
20
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
dente François Hollande avrebbero potuto
avere la meglio sulle ambizioni degli attivisti. Ma poi è arrivata la grande mobilitazione contro la riforma del lavoro, che ha riportato i francesi in piazza. Giovedì 31 marzo in
tutto il paese hanno manifestato 1,2 milioni
di persone (quasi 400mila, secondo la polizia). Le proteste hanno coinvolto anche licei
e università.
Grazie padrone
Arrivata la sera, quando di solito i cortei si
disperdono, a Parigi diverse centinaia di
persone hanno deciso di dirigersi a place de
la République per una prima notte d’occupazione, accompagnata da eventi e dibattiti pubblici. Galvanizzati dalla giornata di
mobilitazione, i manifestanti hanno risposto anche all’appello che a metà marzo aveva lanciato il collettivo Convergence des
Da sapere
La protesta della Nuit debout
u Il 31 marzo 2016 centinaia di migliaia di
persone sono scese in piazza in tutta la Francia
per protestare contro la proposta di legge sulla
riforma del diritto del lavoro voluta dal governo
del primo ministro socialista Manuel Valls e
presentata dalla ministra del lavoro Myriam El
Khomri. Al termine della manifestazione, a
Parigi alcune centinaia di persone hanno
organizzato un presidio in place de la
République, ispirato all’esperienza degli
indignados spagnoli. L’iniziativa ha preso il
nome di Nuit debout (Notte in piedi).
Nonostante i tentativi di sgombero, il 6 aprile la
mobilitazione era ancora in corso.
u Il 5 aprile a Parigi sono state organizzate due
nuove manifestazioni contro la legge Khomri.
In tutto il paese sono scesi in piazza circa 25mila
manifestanti, soprattutto studenti universitari e
delle scuole superiori. Ci sono stati scontri con
la polizia e più di 150 persone sono state
fermate. Il giorno seguente le principali
organizzazioni degli studenti sono state
ricevute dai ministri del lavoro, dell’istruzione e
della gioventù. La discussione della legge
Khomri all’assemblea nazionale comincerà il 3
maggio. Le Monde
MEyER (TENDANCE FLoUE/LUzPHoTo)
Lucas Godignon, L’Express, Francia
Place de la République, a Parigi,
il 1 aprile 2016
luttes, nato in un’assemblea di militanti di
sinistra organizzata nel palazzo della borsa
del lavoro di Parigi il 23 febbraio. Dietro
all’evento c’erano la rivista di sinistra Fakir
e il suo direttore François Ruin, regista del
documentario Merci patron! (Grazie padrone), su una coppia che rimane disoccupata
dopo la delocalizzazione della fabbrica in
cui lavorava.
I sindacalisti, i militanti ambientalisti e
gli intellettuali che quella sera si sono riuniti, hanno afrontato una questione importante: come far paura al potere? Cercando
di costruire delle iniziative comuni contro
l’“oligarchia” che “si è impadronita
dell’economia, della stampa, della giustizia
e del governo”, ha risposto il sito di Fakir.
Alla serata hanno partecipato anche gli
operai in lotta della fabbrica di pneumatici
Goodyear di Amiens e gli ambientalisti che
si oppongono alla costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, nei Paesi
della Loira, e sono intervenute alcune importanti personalità della sinistra radicale,
come l’economista Frédéric Lordon. Quella sera è stata creata la pagina Facebook
Convergence des luttes, con l’obiettivo di
organizzare per il 31 marzo un evento in grado di riunire insieme una serie di rivendicazioni diverse: sociali, ambientaliste e con-
L’opinione
Il naufragio di Hollande
Grégoire Biseau, Libération, Francia
La rinuncia al progetto
di revocare la cittadinanza
alle persone condannate per
terrorismo è una grave
sconitta per il presidente
n disastro. Probabilmente nella storia politica francese non
succederà più che un’iniziativa di un presidente della repubblica
abbia un esito così diverso da quello
immaginato originariamente. Dopo
gli attentati del 13 novembre 2015
François Hollande aveva fatto appello
all’unità nazionale per ricompattare
un paese traumatizzato. Alla ine ha
raccolto solo il riiuto del suo stesso
schieramento, lasciando ai francesi lo
spettacolo desolante dei suoi intrighi
politici. Cercando di inserire nella costituzione la possibilità di revocare la
cittadinanza francese alle persone con
doppia nazionalità condannate per
terrorismo, Hollande ha puntato sulla
forza dei simboli. L’iniziativa doveva
migliorare il paese, mentre ha inito
per umiliarlo.
Per settimane la Francia ha discusso di una questione inverosimile: meglio negare l’uguaglianza dei cittadini
francesi davanti alla legge oppure creare degli apolidi, violando così l’articolo
U
tro la tendenza “securitaria” del governo.
È stato lanciato un primo appello e, un passo alla volta, il progetto della #NuitDebout
ha preso forma. Con uno slogan preciso:
“Dopo la manifestazione contro la riforma
del lavoro, non si torna a casa”. Come si
legge sul suo sito, il collettivo Convergence
des luttes è formato da “donne e uomini di
tutte le origini, semplici cittadini/e, militanti del mondo associativo o politico, riuniti spontaneamente intorno al dibattito
creato dal ilm Merci patron! di François
Ruin”.
Come a Madrid
La sera del 31 marzo Merci patron! è stato
proiettato in place de la République.
Frédéric Lordon ha preso la parola per dire
a chi era in piazza che forse questa volta
“stiamo davvero riuscendo a costruire qualcosa”. In un appello video lanciato dalla
piazza ha poi aggiunto: “Fatene parte e unitevi a noi”.
Nella notte tra giovedì e venerdì a place
de la République sono intervenuti, tra gli
altri, Sophie Tissier, una lavoratarice precaria del canale televisivo Direct 8 che ha appena vinto un processo contro il suo ex datore di lavoro, e un militante spagnolo che
nel 2011 aveva partecipato al movimento
degli indignados e a Parigi ha dispensato
consigli agli attivisti francesi. Olivier Besancenot, portavoce del Nuovo partito an-
ticapitalista (Npa), dal suo account su Twitter ha difuso foto della mobilitazione e inviti a scendere in piazza. Non è mancato
ovviamente nemmeno François Ruin. E
un ruolo importante lo hanno avuto i comuni cittadini, che hanno denunciato “l’islamofobia sempre più diffusa”, una classe
politica ormai “scollegata” dalla gente e un
governo che “impoverisce i più poveri”.
Professori, studenti, lavoratori: tutti
desiderosi d’esprimersi, di costruire qualcosa o semplicemente di ritrovarsi insieme. Ricordano in qualche modo i rivoluzionari del Cairo o gli attivisti di Occupy Wall
15 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? In tutta questa sceneggiata Hollande è ovviamente il primo
sconitto. Pensava che non sarebbe stato troppo rischioso proporre una misura voluta dall’opposizione e sostenuta
dall’opinione pubblica, ma a quanto
pare non aveva capito il punto essenziale: non si tocca la costituzione se
non si hanno convinzioni o princìpi solidi. In questa scommessa c’erano troppi calcoli politici, troppi secondi ini. La
scarsa chiarezza mostrata dal presidente poteva solo generare confusione, disordine e rabbia.
Il gioco della destra è stato altrettanto squallido. La segreta speranza di
far cadere Hollande ha inito per avere
la meglio su ogni altra considerazione.
Da questo fallimento, insomma,
nessuno può sperare di ottenere qualche tornaconto politico. Tranne forse
Marine Le Pen. Le leader del Front national ha sostenuto la revoca della cittadinanza. L’opinione pubblica l’ha seguita. E il progetto è fallito per colpa
dell’Umps (la sigla con cui Le Pen indica il blocco politico che sarebbe formato dalla destra gollista dell’Ump e
dai socialisti, Ps).
Hollande non avrebbe potuto fare
di meglio per regalare credibilità al
Front national. u adr
street e della Puerta del Sol di Madrid.
Ma cosa succederà ora a questi indignati francesi? Alle sei di mattina di sabato 2
aprile i poliziotti della Crs, la Compagnie
républicaine de sécurité, sono arrivati per
sgomberare la piazza, come avevano fatto il
giorno prima. Gli organizzatori hanno risposto che non stavano facendo nulla di illegale e hanno mostrato un’autorizzazione
rilasciata dalla prefettura. Ma non è servito
a molto. I manifestanti sono stati indirizzati “con fermezza” verso le stazioni della
metropolitana. Poche ore dopo erano di
nuovo in piazza. u f
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
21
xxxxxxxxx ETIENNE DE MALGLAIVE (GETTy IMAGES)
Europa
Profughi a Mitilene, sull’isola di Lesbo, il 5 aprile 2016
Frontiere chiuse
dopo l’intesa sui profughi
Adéa Guillot, Le Monde, Francia
Il 4 aprile, in seguito all’accordo
tra Unione europea e Turchia,
sono cominciate le espulsioni
dei migranti sbarcati in Grecia.
Ma le nuove procedure per i
rimpatri sollevano diversi dubbi
a mattina di lunedì 4 aprile una
nave della compagnia Erturk è
partita dal porto dell’isola greca
di Chio con 66 migranti a bordo,
imbarcati senza particolari incidenti e accompagnati ognuno da un poliziotto. L’imbarcazione era diretta a Dikili, sulla costa
turca. Alcuni migranti erano ammanettati.
Ma presto le manette gli sono state tolte,
hanno assicurano le autorità greche. Lo
stesso giorno 136 persone sono partite da
Lesbo, sempre dirette in Turchia. La loro
nazionalità non è stata resa nota.
Come previsto dall’accordo concluso il
18 marzo tra Ankara e l’Unione europea, il 4
aprile la Grecia ha cominciato a rimandare
i migranti in Turchia. Secondo l’intesa, vanno espulse tutte le persone arrivate in modo
irregolare in Grecia dopo il 20 marzo, compresi i richiedenti asilo siriani. In cambio,
L
22
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
per ogni siriano espulso, un altro sarà accolto nell’Unione direttamente dai campi profughi turchi, ino a un massimo di 72mila
persone. I primi 35 richiedenti asilo siriani
sono già arrivati ad Hannover, in Germania. Tra il 4 e il 6 aprile, invece, circa 500
migranti hanno lasciato l’isola di Lesbo a
bordo di due navi noleggiate dall’agenzia
Frontex, che si occupa della gestione delle
frontiere esterne dell’Unione. Altri duecento sono partiti da Chio. “Si tratta di persone
che non hanno presentato domanda d’asilo
in Grecia”, spiega una fonte della polizia.
sposterà altrove”, dice un amico di Sharrkar. “No, no, ci rimanderanno in Turchia
perché non abbiamo fatto domanda d’asilo”, risponde un altro. Ormeggiato a pochi
metri da qui, un catamarano della compagnia turca Erturk attira la curiosità di tutti.
“Vogliono rimandarci indietro con questa
barca così piccola?”, chiede Abdallah Alkiem, un infermiere siriano di 25 anni. In effetti è proprio questa l’imbarcazione partita
il 4 aprile alla volta di Dikili.
Secondo la nuova legge greca sul diritto
d’asilo, approvata il 1 aprile, possono essere
rimandati in Turchia i migranti che non
fanno richiesta d’asilo in Grecia o la cui domanda di protezione viene respinta. Il governo greco aferma che la legge rispetta
pienamente la convenzione di Ginevra del
1949, ma l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso
più di una preoccupazione. “Ci sono problemi nelle procedure per la richiesta d’asilo.
Chiediamo ad Atene di garantire che ogni
richiesta sia valutata individualmente e che
il diritto all’appello sia rispettato”, ha detto
Katerina Kitidi, portavoce dell’Unhcr a
Chio. “E poi bisogna garantire condizioni
di accoglienza dignitose, privilegiando le
soluzioni che non prevedono la detenzione”. In efetti dal 20 marzo le strutture di
accoglienza, i cosiddetti hot spot, si sono
trasformate in centri di detenzione. Qui sono rinchiusi i nuovi arrivati – 1.700 solo a
Chio – inché le loro richieste d’asilo non
vengono esaminate. “Per trenta volte ho
bussato alla porta dell’uicio che si occupa
di esaminare le nostre domande, e per trenta volte mi hanno detto di tornare più tardi.
Sono 15 giorni che va avanti così!”, racconta
Sharrkar Habib. u adr
L’opinione
Detenuti e innocenti
Nessuna sicurezza
I profughi hanno paura di essere rispediti in
Turchia. “Mi riiuto categoricamente di tornarci”, aferma Sharrkar Habib, un pachistano di 27 anni che fa parte del gruppo di
700 migranti che il 1 aprile hanno forzato la
recinzione del centro di accoglienza Vial di
Chio. “Ho passato sei mesi a lavorare come
scaricatore di porto a Istanbul e alla ine il
capo non mi ha pagato, minacciando di denunciarmi alla polizia. La Turchia non è un
paese sicuro. E poi so che mi rimanderanno
in Pakistan. Se mi obbligano a imbarcarmi,
mi butto in mare!”.
“Ho sentito dire che stanotte la polizia ci
u “La crisi dei migranti ha riacceso il dibattito
sull’ingresso di Ankara nell’Unione europea”,
scrive il quotidiano The Malta Independent.
“Le gravi violazioni dei diritti umani che si
consumano in Turchia – contro i giornalisti
dell’opposizione e, in particolare, i curdi – sono
largamente ignorate in occidente, perché
l’appartenenza alla Nato dà ad Ankara uno
status privilegiato. Ma gli attivisti per i diritti
umani hanno ragione a sollevare dubbi sul fatto
che la Turchia sia considerato un ‘paese terzo
sicuro’, dove l’Europa può rimandare in tutta
sicurezza i profughi in fuga dalla guerra. I
politici europei che accettano questa soluzione
sono completamente fuori strada”.
Europa
VAhAN STEPANyAN (PAN PhOTO/AP/ANSA)
Un militare della repubblica del Nagorno-Karabakh, 4 aprile 2016
Il ritorno della violenza
in Nagorno-Karabakh
Sergej Markedonov, Politkom, Russia
La ripresa degli scontri nel
territorio conteso tra Armenia e
Azerbaigian dimostra che le
tensioni tra l’occidente e la
Russia stanno rendendo lo
spazio eurasiatico meno sicuro
L’
escalation del confronto armato
in Nagorno-Karabakh ha nuovamente richiamato l’attenzione sul Caucaso. Gli incidenti dei
giorni scorsi vanno interpretati tenendo
presenti i cambiamenti avvenuti di recente
nello spazio postsovietico, in particolare il
conlitto in Ucraina e le tensioni nei rapporti tra l’occidente e la Russia. Sotto questo
proilo, è particolarmente rilevante la questione del riconoscimento da parte di Bruxelles e Washington del ruolo della Russia
in Eurasia. Uno dei fattori che più ostacolano una soluzione deinitiva del conlitto in
Nagorno-Karabakh è l’indisponibilità delle
parti in gioco a fare compromessi. L’Armenia e l’Azerbaigian rimangono su posizioni
massimaliste, con il risultato che tutto si
traduce in un gioco a somma zero.
Il Nagorno-Karabakh non è mai stato il
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
teatro di un conlitto a distanza tra la Russia
e gli Stati Uniti. A causa della crisi ucraina,
tuttavia, i rapporti tra l’occidente e il Cremlino sono nettamente peggiorati. E alcune
importante questioni su cui erano stati fatti
progressi, come l’Afghanistan e il Medio
Oriente, oggi rimangono bloccate. Questa
situazione spinge i “partiti della guerra”
dello spazio eurasiatico a lanciarsi in azioni
rischiose, nella speranza che, al momento
decisivo, né la Russia né l’occidente abbiano la volontà o il coraggio di agire per evitare un conlitto su scala più ampia. Anche i
contrasti tra Russia e Turchia inluiscono
negativamente sulla situazione in NagornoKarabakh e alimentano nuovi focolai di
tensione nei paesi del Caucaso e dell’Asia
centrale che hanno stretti rapporti sia con
Mosca sia con Ankara. La Turchia non può
essere considerata all’origine dell’intensiicazione del conlitto, ma è evidente che ha
tutto l’interesse a vedere ridimensionato il
ruolo del Cremlino.
Sarebbe però ingenuo pensare che l’inas p r i m e n t o d e l la s i t u a z i o n e i n
Nagorno-Karabakh causi problemi solo a
Mosca. Promosso dall’occidente e non lontano dalla zona degli scontri, anche l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan potrebbe risen-
Da sapere
u Tra il 1988 e il 1994 Armenia e Azerbaigian
hanno combattuto per il controllo del NagornoKarabakh, una provincia a maggioranza armena
in territorio azero. La guerra si è interrotta con
una tregua nel 1994, ma le tensioni sono continuate. Oggi il Nagorno-Karabakh è una repubblica autoproclamata indipendente, sostenuta
dall’Armenia ma non riconosciuta uicialmente
dalla comunità internazionale.
u Il 2 aprile 2016 sono ripresi i combattimenti tra
le forze azere e quelle del Nagorno-Karabakh. In
quattro giorni di scontri, i più gravi dal 1994, i
morti sono stati più di settanta. La sera del 4
aprile le autorità di Baku e di Stepanakert hanno
annunciato un accordo di cessate il fuoco. Afp
tirne. Nelle vicinanze dell’autoproclamata
repubblica del Nagorno-Karabakh corre
inoltre il conine con l’Iran, la cui importanza per il Caucaso e il Medio Oriente non va
sottovalutata. A sviluppare contatti con Teheran non è interessata solo Erevan, che da
tempo ha relazioni cordiali con la repubblica islamica, ma anche Baku e Ankara, come
testimoniano le recenti visite nella capitale
iraniana del presidente azero Ilham Aliev e
del premier turco Ahmet Davutoğlu.
La situazione non è tranquilla nemmeno
nelle zone limitrofe alla regione caucasica.
In Donbass il conlitto non è ancora risolto,
e di tanto in tanto ci sono scontri. Nella repubblica autoproclamata della Transnistria, in Moldova, l’Unione europea sta
dando prova di maggiore, soprattutto in
campo economico. Ma anche qui i problemi
rimangono.
Complessivamente la mancanza di una
collaborazione pragmatica tra l’occidente e
la Russia non aiuta ad attenuare le turbolenze nello spazio postsovietico, dove abbondano i conlitti irrisolti o latenti. I recenti scontri in Nagorno-Karabakh fanno capire che l’unica alternativa al caos è un rinnovato impegno a cooperare da parte di Mosca, di Washington e dell’Europa. u af
Germania
ex jUGoslavia
l’assoluzione
di Šešelj
Un alleato terribile
Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha assolto da tutte le accuse il nazionalista serbo Vojislav Šešelj
(nella foto). L’ex leader del Partito radicale serbo era accusato
di aver commesso crimini contro l’umanità in Bosnia Erzegovina e Croazia. Per questi capi
di accusa era stata chiesta una
condanna a 28 anni di reclusione. Šešelj era in libertà per motivi di salute dal 2014 dopo essersi consegnato volontariamente al Tribunale nel 2003. Il
sito Slobodna Bosna riferisce
la sua ultima provocazione:
“Šešelj ha annunciato che parteciperà alla campagna elettorale nella Repubblica Serba di
Bosnia ed Erzegovina e che visiterà presto Sarajevo, per fare
una passeggiata in centro”.
polonia
in piazza
per l’aborto
Decine di migliaia di persone
hanno manifestato il 3 aprile a
Varsavia (nella foto) per difendere il diritto all’interruzione di
gravidanza. La protesta è stata
organizzata dopo che la prima
ministra Beata Szydło, del partito nazionalconservatore Pis,
aveva dato il suo appoggio a un
referendum per introdurre il divieto totale di aborto in Polonia,
paese che sul tema ha già una
legge tra le più severe d’Europa.
Secondo il settimanale Polityka, “è una bugia dire che il numero degli aborti può essere ridotto con pene più dure”. Dietro
il referendum “c’è la chiesa, che
vuole imporre la sua visione della giustizia e della società”.
“Il presidente turco Recep Tayyip
Erdoğan ha il senso dello stato di un
sultano, non certo di un leader
democratico, eppure oggi è uno dei
politici più importanti del
continente”, scrive Der Spiegel.
“Erdoğan può permettersi di
provocare o usare la cancelliera
tedesca Angela Merkel e l’Unione
europea, perché sa bene che senza di lui l’accordo sui
profughi fallirebbe e i leader europei non saprebbero più
come gestire le persone che arrivano dalla Siria o
dall’Africa, se non alzando muri che segnerebbero la ine
dell’Europa come società aperta”. Negli ultimi mesi
Erdoğan non ha perso occasione per “dare prova del suo
potere ai tedeschi. Il 19 febbraio, per esempio,
l’ambasciatore tedesco in Turchia, Martin Erdmann, è
stato chiamato al ministero degli esteri per rendere conto
di alcuni materiali didattici per gli insegnanti del land
Sassonia-Anhalt in cui si parla del genocidio degli armeni
del 1915 e che contengono una vignetta su Erdoğan”. Il 22
marzo Erdmann è dovuto tornare al ministero per un
servizio della tv pubblica tedesca considerato ofensivo.
Erdoğan ha chiesto che il video fosse ritirato. ◆
finlandia
spaGna
Trattative
ininite
A più di tre mesi dalle elezioni,
la Spagna è ancora senza governo. I socialisti del Psoe non riescono a concludere un accordo
con Podemos e Ciudadanos, soprattutto per “le divergenze tra
questi due partiti emergenti”,
scrive El País. Secondo un sondaggio pubblicato da El Mundo, le intenzioni di voto per i popolari sono in aumento, come
quelle per Ciudadanos. Il Psoe è
stabile, e Podemos è in calo. Su
Público, un altro sondaggio rivela che solo il 3 per cento degli
intervistati “è preoccupato per
l’assenza di un governo”.
Welfare
sperimentale
Nel 2016 il governo inlandese
del primo ministro liberale Juha
Sipilä lancerà un progetto pilota
per sperimentare l’introduzione
del reddito di cittadinanza. Al
programma parteciperanno
1.500 persone, che riceveranno
ino a 750 euro al mese a integrazione del loro reddito e in sostituzione dei beneit precedenti. Come spiega il sito statunitense Vox, “la Finlandia non sta
per adottare il reddito di base
universale. Farà invece l’esperimento metodologicamente più
completo, rigoroso e aidabile
mai condotto sul tema. E se la
prova darà risultati positivi, potrà proseguire il percorso inizia-
to, anche se ci vorranno comunque anni per arrivare al reddito
di cittadinanza per tutti. Già il
progetto, tuttavia, è molto importante”. Anche secondo il
quotidiano inlandese di centrosinistra Aamulehti l’esperimento è interessante, ma non
bisogna essere troppo ottimisti:
“Il reddito di cittadinanza non è
la soluzione a tutti i problemi.
Tuttavia, se il welfare può essere
riformato incoraggiando la gente a lavorare, accorciando i periodi di disoccupazione e rendendo il sistema più eiciente,
allora vuol dire che siamo sulla
strada giusta”. Più scettico il tabloid Ilta Sanomat: “Il problema è semplice: non ci sono abbastanza soldi per inanziare il
reddito di base universale. E una
soluzione parziale non farà che
complicare le cose”.
MARko DJURICA (REUTERS/CoNTRASTo)
ALIk kEPLICz (AP/ANSA)
Der Spiegel, Germania
in breve
Cipro Il 5 aprile il primo ministro della Repubblica Turca di
Cipro Nord, Ömer kalyoncu, si
è dimesso a causa delle divergenze sulla politica economica
all’interno della coalizione al
potere.
Turchia Il 31 marzo sette poliziotti sono morti in un attentato
a Diyarbakır rivendicato dall’ala
militare del Partito dei lavoratori del kurdistan (Pkk). Il 5 aprile,
in un discorso tenuto ad Ankara,
il presidente Recep Tayyip
Erdoğan ha proposto di privare
della cittadinanza turca i sostenitori del Pkk, compresi giornalisti e intellettuali.
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Pakistan
K.M. ChAuDARy (AP/ANSA)
Una veglia per le vittime di Lahore, 30 marzo 2016
Le conseguenze politiche
dell’attentato di Lahore
Ahmed Rashid, The New York Review of Books,
Stati Uniti
L’attacco di Pasqua ha rotto
il fragile equilibrio di potere tra
governo e militari in Pakistan.
L’esercito ha deciso d’imporsi
sul primo ministro Sharif,
considerato troppo debole
attentato suicida che la domenica di Pasqua ha provocato la
morte di 74 persone in un parco
di Lahore, nel Punjab, ha suscitato condanne in tutto il mondo. Tra le vittime ci sono 29 bambini, e molti dei 370 feriti
fanno parte della minoranza cristiana del
paese. Meno evidente, ma altrettanto devastante, è stato l’effetto dell’attentato sui
L’
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rapporti tra l’esercito e il governo del Pakistan, un efetto che ora minaccia di alimentare l’instabilità del Punjab.
Al centro di questa crisi ci sono due uomini: il generale Raheel Sharif, comandante in capo dell’esercito, e il primo ministro
Nawaz Sharif, capo del governo. Negli ultimi 18 mesi i due Sharif (nessuna parentela)
hanno mantenuto un’esile intesa politica:
l’esercito (in qualche modo consultandosi
con il primo ministro) controllava la politica
estera e nucleare del paese e la strategia antiterrorismo a Karachi, a sud, e lungo il conine con l’Afghanistan, a nord. Il governo,
invece, controllava l’economia e soprattutto il Punjab, la regione d’origine del primo
ministro e la più popolosa del paese. L’attività antiterrorismo in Punjab era aidata
alla polizia locale anziché all’esercito.
L’accordo tra militari e governo si è interrotto poche ore dopo l’esplosione del 27
marzo. Quasi immediatamente l’esercito
ha dichiarato di aver assunto il controllo
della sicurezza nella provincia, assestando
un colpo forse fatale all’immagine già in declino del primo ministro Sharif. L’esercito
ha invitato i mezzi d’informazione a sottolineare che gli ordini per le operazioni in
Punjab ora sono impartiti direttamente dal
generale Sharif e non dal primo ministro. Di
fatto, l’esercito non ha alcun diritto, costituzionale o riconosciuto dalla legge per intervenire nel Punjab. Al contrario, per giustiicare questa ingerenza sarebbe necessario
un invito da parte del governo, ma negli ultimi giorni, mentre nella provincia sono
state arrestate centinaia di persone, il generale e il primo ministro non si sono visti né
sentiti, alimentando l’incertezza. Scuri in
volto e trascinati davanti alle telecamere
dopo l’attentato, i ministri (e il primo ministro, nel suo discorso uiciale) non hanno
fatto alcun riferimento all’intervento
dell’esercito in Punjab.
È evidente che nel paese in guerra contro gli estremisti non c’è alcun coordina-
mento né una strategia comune. Il risultato
è una drammatica rottura dei rapporti tra
l’esercito e il potere civile. Dopo il 1958 situazioni simili hanno spinto i militari a imporre la legge marziale in quattro occasioni.
L’esito di questa crisi sarà fondamentale per
il futuro della politica antiterrorismo (e della democrazia stessa) in Asia meridionale e
in quella centrale.
Fino all’attentato del 27 marzo il primo
ministro Sharif era riuscito a respingere i
tentativi del generale di assumere il controllo della sicurezza in Punjab, inclusa una
richiesta diretta nel maggio del 2015. Ora
però la posta in gioco nella provincia è molto più alta, per entrambi gli Sharif. Negli
ultimi diciotto mesi l’esercito si è mosso con
decisione per schiacciare i taliban pachistani e le diverse fazioni attive a Karachi, nella
provincia di Khyber Pakhtunkhwa e nelle
aree tribali al conine con l’Afghanistan. Ma
oggi è il Punjab lo snodo centrale del terrorismo in Pakistan. La provincia ospita circa
60 gruppi estremisti, più di 20mila scuole
religiose, le madrase, alcune delle quali formano un gran numero di militanti e ideologi estremisti.
Area strategica
Dagli anni ottanta molti gruppi estremisti
pachistani sono stati sponsorizzati e addestrati dai servizi segreti ainché combattessero per il controllo del Kashmir indiano o,
a volte, attaccassero altri obiettivi indiani.
Oggi l’esercito non li sostiene quasi più, ma
il vero test della determinazione del generale Sharif nella lotta al terrorismo è sempre
stato il Punjab. Davvero l’esercito è pronto
ad attaccare i suoi vecchi alleati estremisti
in una situazione che si fa sempre più complessa? Molti dei gruppi più pericolosi che
operano in Punjab stanno cercando di rovesciare lo stato. Tra questi c’è Jamaat-ulAhrar, il gruppo responsabile dell’attentato
al parco di Lahore. Jamaat-ul-Ahrar è un
gruppo dichiaratamente settario che ha
preso di mira soprattutto l’esercito e i cristiani. Ma il Punjab ospita anche decine di
gruppi ostili all’India, in passato sostenuti
dall’esercito. Tra questi c’è Lashkar-e taiba
(Let), l’organizzazione (ben armata e addestrata) responsabile degli attacchi del 2008
a Mumbai e considerata un gruppo terrorista dall’Onu e dagli Stati Uniti.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre
2001, il Let è stato aiutato dalle istituzioni
statali e dall’esercito a trasformarsi in un’organizzazione islamica beneica, ma ha con-
tinuato a mantenere un’ala militante anche
dopo gli attentati di Mumbai. Anche se
l’esercito ha impedito al Let e ad altri gruppi
di compiere attentati in India, molti militanti del gruppo stanno combattendo in
Afghanistan al ianco dei taliban o stanno
aiutando i gruppi estremisti uzbechi e tagichi a riorganizzarsi in patria. Alla luce di
questa attività, l’esercito sa di non poter
portare la pace nel paese, difendere i conini e tenere sotto controllo la pace fredda
con l’India ino a quando non metterà ine
al terrorismo radicato in Punjab. Inoltre i
militari hanno subìto una forte pressione
internazionale per aver favorito questa proliferazione di militanti armati. Ora che
l’esercito ha assunto unilateralmente il controllo della sicurezza in Punjab, è fondamentale capire se i militari selezioneranno
i gruppi estremisti da attaccare o se adotteranno una politica “senza favoritismi”, come promette da tempo il generale Sharif.
Inoltre, l’esercito arruola gran parte del suo
mezzo milione di efettivi proprio in questa
provincia e ora i generali temono che un ulteriore aumento dell’estremismo in Punjab
possa “contagiare” i soldati.
Per il primo ministro Nawaz Sharif il
Punjab è altrettanto importante. Dagli anni
ottanta, quando Nawaz Sharif e suo fratello
Shehbaz furono piazzati al potere da un regime militare, e dopo la vittoria di Nawaz in
tre elezioni, i due fratelli hanno mantenuto
il controllo politico del Punjab, una provincia caratterizzata da un alto livello di corruzione. Oggi Shehbaz è il capo del governo
eletto della provincia. Tuttavia, dopo essere
diventato primo ministro per la terza volta,
Nawaz Sharif ha dilapidato il suo capitale
politico. Il premier ha dimostrato di essere
un leader incompetente, troppo debole per
avviare le riforme necessarie e non abba-
stanza astuto da tenere testa all’oliata macchina militare del paese. Gran parte dell’attività di governo è gestita dalla sua famiglia
anziché dai ministri, dal parlamento o da
altre istituzioni. Sharif è stato indulgente
con i gruppi estremisti – alcuni dei quali
mantengono stretti legami con il suo partito, la Lega musulmana pachistana – perché
sperava di convincerli a risparmiare il Punjab dagli attacchi, ma oggi questa politica si
è rivelata chiaramente fallimentare. Nel
frattempo le altre tre province del paese,
controllate dai partiti d’opposizione, non
tollerano più l’attenzione speciale che il governo riserva al Punjab.
Gli altri fronti
Negli ultimi giorni le tensioni tra l’esercito e
il governo sono aumentate anche su altri
fronti, inclusi i rapporti diplomatici con
l’Iran. Durante la crisi degli attentati di Lahore, infatti, l’esercito ha fatto sapere di
aver catturato una spia indiana che lavorava
per destabilizzare la provincia del Belucistan. A quanto pare l’uomo, Kulbhoshan
Yadav, è un uiciale navale in pensione e ha
vissuto molti anni in Iran, da dove poi si è
spostato in Pakistan.
Non poteva capitare in un momento
peggiore. Il presidente iraniano Hassan Rohani aveva appena compiuto la sua prima
visita di stato in Pakistan e il premier Sharif
stava negoziando contratti per acquistare
petrolio, gas ed elettricità dall’Iran. Afermando la sua autorità in politica estera, il
generale Sharif ha attaccato gli iraniani accusandoli di aver ospitato spie indiane e
annunciando nel frattempo la cattura della
spia. Gli iraniani hanno lasciato il paese infuriati (anche se Rohani ha negato lo scontro) mentre il premier pachistano ha dimostrato di nuovo di non avere il controllo
della situazione. Al momento è molto diicile prevedere come evolveranno le cose.
Forse stavolta i militari si accontenteranno
degli enormi poteri che hanno già acquisito
e non sentirà la necessità di ricorrere a un
colpo di stato. L’esercito potrebbe ritirare le
sue forze dalla provincia dopo una breve
ofensiva dimostrativa. Resta il fatto che la
leadership politica pachistana è stata messa
pesantemente in discussione, e il futuro
della democrazia in uno dei paesi più popolosi dell’Asia è sempre più incerto. u as
Ahmed Rashid è un giornalista pachistano. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Pericolo Pakistan (Feltrinelli 2013).
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asia e Paciico
asia
Abdulla Yameen
thailandia
Poteri
straordinari
VInCent thIAn (AP/AnSA)
lo spettro dell’is
La giunta militare ha assegnato
all’esercito poteri di polizia. Con
un ordine esecutivo del primo
ministro, l’ex generale Prayuth
Chan-ocha, i sottotenenti potranno fermare sospetti, arrestarli e interrogarli senza un
mandato o l’autorizzazione di
un tribunale. La norma, deinita
dal Bangkok Post “un afronto al
sistema giudiziario”, lascia ampio margine di arbitrarietà ai
soldati, scrive Asia Sentinel.
“Il piano per mantenere la dittatura continua”, commenta un
analista di Bangkok. Le stesse
élite che nel maggio del 2014
hanno appoggiato il golpe contro il governo di thaksin Shinawatra sono sempre più scettiche
sull’operato della giunta, sia sul
piano politico sia su quello economico, conclude Asia Sentinel.
Lo spettro del gruppo Stato islamico
(Is) preoccupa, in misura diversa,
anche i paesi asiatici e the Diplomat
analizza la situazione nella regione.
L’Asia centrale non è un terreno di
reclutamento molto fertile per l’Is. Si
calcola che i 2-3mila cittadini
centrasiatici partiti per unirsi all’Is
siano soprattutto lavoratori emigrati
in Russia che – lontano dalle famiglie e dalle comunità, e
sottoposti a condizioni di vita e di lavoro dure in un
ambiente xenofobo – sono particolarmente vulnerabili al
potere attrattivo dell’Is. Ma in diversi paesi la minaccia
estremista è usata dai governi autoritari per limitare la
libertà di culto e ostacolare gli oppositori. Mosca ne ha
approittato per giustiicare il suo crescente aiuto militare
ai paesi della regione. In Pakistan e Afghanistan la
presenza di gruppi jihadisti è tale da rendere diicile per
l’Is mettere radici. I paesi del sudest asiatico non
sembrano troppo allarmati dato che dagli anni novanta
sono alle prese con gruppi estremisti locali. In Cina la
minaccia dell’Is ha fornito alle autorità un’ulteriore
giustiicazione delle misure repressive contro gli uiguri. ◆
maldive
la protesta
dei giornalisti
Il 3 aprile la polizia di Male è intervenuta con violenza contro
un gruppo di giornalisti che aveva organizzato un sit-in davanti
all’uicio del presidente Abdulla Yameen, scrive il Maldives
Independent. I motivi della
protesta erano vari e legati alle
restrizioni alla libertà di stampa
nell’arcipelago: la chiusura, su
ordine di un tribunale, del quotidiano più vecchio del paese; una
proposta di legge per rendere la
difamazione reato penale; l’inchiesta senza esito sul rapimento del giornalista Ahmed Rilwan, scomparso da seicento
giorni; e il divieto di accesso ai
tribunali per alcune tv e testate.
Sedici dei giornalisti che protestavano sono stati arrestati per
resistenza a pubblico uiciale.
bangladesh
Chittagong, 4 aprile 2016
Helen Clark
corea del sud
elezioni
rivelatrici
28
in breve
AfP/GettY IMAGeS
Le elezioni legislative del 13
aprile saranno un test cruciale
per gli eventuali candidati a
prendere il posto della presidente Park Geun-hye, il cui mandato scade all’inizio del 2018, scrive l’agenzia Yonhap. I sudcoreani voteranno per eleggere trecento parlamentari, suggerendo
così chi potrebbe insediarsi alla
Casa Blu. Il favorito sembra essere l’ex leader del maggior partito d’opposizione, Moon Jae-in,
che però non si pronuncia su
una sua possibile candidatura.
StePhAne De SAkutIn (AfP/GettY IMAGeS)
The Diplomat, Giappone
la polizia spara sui manifestanti
La polizia ha sparato il 6 aprile su diverse migliaia di persone che a
Gandamara, sulla costa bangladese, protestavano contro la costruzione di due centrali a carbone. Gli impianti, inanziati dalla Cina,
dovrebbero fornire elettricità alla città di Chittagong, in espansione.
Almeno quattro persone sono rimaste uccise.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
Nuova Zelanda Il 4 aprile l’ex
premier di centrosinistra helen
Clark ha annunciato la sua candidatura a segretaria generale
delle nazioni unite, dopo la ine
del mandato di Ban ki-moon.
Birmania Il 5 aprile il parlamento ha approvato una legge
che introduce una carica simile
a quella di premier per Aung San
Suu kyi (consigliera di stato).
Suu kyi sarà anche ministra degli esteri.
Cina Il generale in pensione
Guo Boxiong, che ha occupato
cariche molto importanti ino al
2012, è inito sotto inchiesta per
corruzione.
Americhe
JANINE COStA (REUtERS/CONtRAStO)
Keiko Fujimori a Lima, il 31 marzo 2016
L’ombra dei Fujimori
sul voto in Perù
El Espectador, Colombia
La favorita alle elezioni
presidenziali del 10 aprile è
Keiko Fujimori. Suo padre, che
ha governato il Perù dal 1990 al
2000, è in carcere per crimini
contro l’umanità e corruzione
a politica è entrata di colpo nella
vita di Keiko Fujimori. Diventò
la irst lady del Perù a soli 19 anni, nel 1994, dopo che la madre
Susana Higuchi annunciò il divorzio da Alberto Fujimori, all’epoca presidente del
paese. Higuchi sostenne di essere stata
torturata con delle scariche elettriche per
aver denunciato episodi di corruzione nel
governo del marito. Nel 2000, pochi giorni
dopo che il padre aveva rinunciato alla presidenza con un fax spedito dal Giappone,
Keiko abbandonò il palazzo del governo da
un’uscita secondaria. Andò a studiare negli Stati Uniti e ci rimase ino al 2005, quando il padre fu arrestato mentre si trovava in
Cile e lei diventò la leader del fujimorismo.
L’anno successivo si candidò in parlamento e fu eletta.
Alle elezioni presidenziali del giugno del
L
30
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
2011 Keiko Fujimori ha perso al secondo
turno contro Ollanta Humala. Ma la leader
di Fuerza popular è la favorita alle elezioni
del prossimo 10 aprile, con il 37 per cento di
preferenze nei sondaggi. E in caso di vittoria sarebbe la prima donna a diventare presidente del paese. Eppure per molti peruviani un successo di Keiko Fujimori sarebbe
un passo indietro, un ritorno “all’epoca
buia” della storia recente del Perù.
Quasi nessun rimpianto
Il riferimento è al governo di Alberto Fujimori (1990-2000) e, in particolare, a quello che successe dopo il cosiddetto autogolpe, il colpo di stato del 5 aprile 1992 condotto da Fujimori con il sostegno delle forze
armate. Il presidente sciolse il parlamento
e assunse il controllo del potere giudiziario. Inoltre rese più facile il controllo
dell’apparato statale, perseguitò l’opposizione e violò in modo difuso i diritti umani. Nel 1993 fu approvata una nuova costituzione che permetteva la rielezione immediata del presidente.
Secondo le organizzazioni che lottano
per la difesa dei diritti umani, “ancora oggi
il paese vive le conseguenze di quel giorno
del 1992”: limitazioni alle libertà indivi-
duali, corruzione diffusa, controllo dei
mezzi d’informazione. Il 5 aprile del 2014
l’ex dittatore si è difeso in una lettera scritta dal carcere, dove sta tuttora scontando
una condanna a 25 anni per corruzione e
crimini contro l’umanità. Fujimori sosteneva che il golpe del 1992 non era stato rovinoso per la democrazia peruviana. Anzi,
secondo lui era stato “un momento di svolta che aveva aperto la strada dello sviluppo
e della crescita economica”.
A due anni di distanza, queste parole
preoccupano i milioni di peruviani contrari alla candidatura di Keiko Fujimori. Alla
ine di gennaio la candidata di Fuerza popular ha preso le distanze dal padre e ha
assicurato che, se si fosse trovata al suo posto, “lei non avrebbe mai sciolto il parlamento”.
Il 5 aprile, il 24° anniversario del golpe
del 1992, in varie città del paese sono state
organizzate manifestazioni contro Keiko
Fujimori e in difesa della democrazia. Dopo aver perso le elezioni nel 2011 contro
l’attuale presidente Ollanta Humala, Keiko
Fujimori ha adottato la strategia già usata
dal padre: è andata a visitare gli angoli più
isolati delle Ande per regalare cibo, pentole, cucine a gas, uniformi scolastiche e
scarpe ai cittadini più poveri.
Secondo gli ultimi sondaggi, la iglia
dell’ex dittatore è imbattibile, almeno al
primo turno. Il candidato di destra, l’economista Pedro Pablo Kuczynski, e la candidata di sinistra Verónika Mendoza, del
Frente amplio, lottano per il secondo posto. Se Fujimori non otterrà il cinquanta
per cento dei voti più uno, si andrà al ballottaggio. u fr
Da sapere
Ultime notizie
u Il 3 aprile 2016 i dieci candidati principali alle
elezioni presidenziali del Perù si sono
confrontati in un dibattito televisivo. La
favorita, Keiko Fujimori, del partito Fuerza
popular, ha irmato un documento con cui si è
impegnata a rispettare le istituzioni
democratiche e i diritti umani, e a non ripetere
il golpe con cui, nel 1992, il padre Alberto
Fujimori sciolse il parlamento. Fujimori ha
anche assicurato che non userà il potere
politico per concedere beneici ai suoi familiari.
Il primo turno delle elezioni per scegliere il
successore di Ollanta Humala (Partido
nacionalista peruano, sinistra) si svolgerà il 10
aprile. L’eventuale ballottaggio è previsto per il
5 giugno. Afp, Bbc
Stati Uniti
STATI UNITI
Conquiste
salariali
NICARAGUA
Laramie, Wyoming, 5 aprile 2016
MATTheW STAver (BLOOMBerG vIA GeTTY IMAGeS)
“Nel 2009 la proposta di portare
il salario minimo a 15 dollari
sembrava un’idea populista irrealizzabile, sei anni dopo è diventata una delle maggiori conquiste della sinistra statunitense”,
scrive The Atlantic commentando la decisione della California e dello stato di New York di
aumentare il salario minimo.
“In entrambi gli stati i provvedimenti sono il frutto di un compromesso tra i democratici e i
repubblicani. In California la
paga oraria arriverà a 15 dollari
entro il 2022. Nella città di New
York il salario arriverà a 15 dollari entro il 2018, mentre nello stato sarà portato a 12,50 dollari entro il 2020. Ma sono provvedimenti importanti, perché miglioreranno la condizione di almeno cinque milioni di persone”. Secondo il New York Times, molti politici hanno ormai
capito che per rilanciare l’economia bisogna migliorare le
condizioni salariali.
STATI UNITI
Sanders vince in Wisconsin
Il 5 aprile Bernie Sanders ha battuto hillary Clinton nelle primarie
del Partito democratico in Wisconsin, uno stato con una lunga tradizione di movimenti di sinistra. “Il senatore ha conquistato gli elettori denunciando la perdita di posti di lavoro che ha colpito la classe
operaia”, scrive The Nation. Il senatore del vermont ha vinto in sei
degli ultimi sette stati dove si è votato, dando slancio alla sua candidatura in vista delle decisive primarie di New York del 19 aprile.
Nelle primarie repubblicane in Wisconsin Ted Cruz ha battuto Donald Trump, rendendo la corsa alla nomination ancora più incerta.
Leggi
pericolose
Nell’ultima settimana in North
Carolina ci sono state manifestazioni contro una legge, approvata dal parlamento dello
stato, che secondo molti attivisti
colpisce i diritti della comunità
lgbt. Tra le altre cose, la legge
impone alle persone transgender di usare bagni o spogliatoi
pubblici che corrispondano al
loro sesso di nascita. “Il provvedimento è stato criticato anche
da molte aziende, tra cui Facebook e Google, e dalla lega di
basket professionistico (Nba),
che chiedono al governatore di
abrogare la legge”, scrive il Los
Angeles Times. Negli stessi
giorni il governatore del Mississippi ha ratiicato una legge che
permette alle aziende di non
prestare i loro servizi ai gay e ai
transgender.
Colombia
La pace con l’Eln
Il canale
che non c’è
Semana, Colombia
La costruzione di un canale
transoceanico tra l’Atlantico e il
Paciico, annunciata dal presidente del Nicaragua Daniel Ortega nel giugno del 2013, è a un
punto morto. “I lavori sono stati
inaugurati alla ine del 2014
dall’imprenditore cinese Wang
Jing”, scrive La Nación, “ma
quasi un anno e mezzo dopo il
progetto è ancora circondato dal
mistero. Ortega non ha più accennato al Gran canal e non ci
sono segnali di avanzamento
dei lavori: nel punto in cui Wang
ha posato la prima pietra, continuano a pascolare le mucche”.
Secondo alcuni esperti, l’opera
non si farà. Ma nel dubbio gli
ambientalisti e la popolazione
locale continuano a protestare.
“Pochi credevano che l’esercito di
liberazione nazionale (eln) si sarebbe
seduto al tavolo dei negoziati con il
governo”, scrive Semana. “Ma dopo
anni di tentativi falliti, inalmente il
30 marzo la seconda guerriglia
colombiana ha annunciato da
Caracas che è ora di mettere ine al
conlitto interno ed entrare nella
legalità”. Al di là delle dichiarazioni d’intenti, secondo
Semana il dialogo tra Bogotá e l’eln comincia perché
conviene a entrambe le parti: il presidente Juan Manuel
Santos, impegnato nei negoziati a Cuba con le Farc,
vorrebbe discutere la pace con tutti e due i gruppi. Da
parte sua, l’eln non ha interesse a rimanere nella selva
senza le Farc, visto che può contare su poco più di mille
guerriglieri, e quindi non ha né i mezzi né le risorse per
imporsi come alternativa al potere. Ma nonostante le
buone premesse iniziali, il cammino non sarà facile. u
IN BREVE
Canada Il Saskatchewan party,
la formazione conservatrice del
premier provinciale Brad Wall,
ha vinto le elezioni del 4 aprile
nel Saskatchewan.
Stati Uniti Il 4 aprile la corte suprema ha bocciato all’unanimità un ricorso presentato da due
cittadini del Texas, e appoggiato
dal Partito repubblicano, per
modiicare l’attuale sistema di
ripartizione delle circoscrizioni
elettorali. Il risultato sarebbe
stato di limitare l’inluenza degli
ispanici per favorire i bianchi.
u Il 4 aprile due detenuti libici
di Guantanamo sono stati trasferiti in Senegal.
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Africa e Medio Oriente
AfOLABI SOtUNDE (REUtERS/CONtRAStO)
Sudafrica
IN BREVE
Il parlamento salva Zuma
Deputati del partito d’opposizione Ef, il 5 aprile 2016
Nuovi casi
di abusi
Il 31 marzo le Nazioni Unite
hanno aperto un’inchiesta su
dei nuovi casi di violenze sessuali nella Repubblica Centrafricana attribuite ai soldati francesi della missione Sangaris e ai
caschi blu burundiani e gabonesi. In particolare, scrive Jeune
Afrique, alcuni soldati francesi
avrebbero costretto delle minorenni a fare sesso con degli animali. Intanto a Kinshasa, nella
Repubblica Democratica del
Congo, è cominciato il processo
contro tre caschi blu congolesi
della minusca, la missione di
pace dell’Onu nella Repubblica
Centrafricana, accusati di stupro o tentato stupro.
SIRIA
RODgER BOSCH (Afp/gEttY ImAgES)
REP. CENTRAFRICANA
Il 5 aprile il presidente sudafricano Jacob Zuma è scampato
a una procedura di destituzione promossa in parlamento
dal partito d’opposizione Democratic alliance (Da). Il
partito di Zuma, l’African national congress (Anc), ha
protetto il presidente grazie all’ampia maggioranza
parlamentare di cui dispone. Il 31 marzo, scrive il Mail &
Guardian, la corte costituzionale aveva stabilito che
Zuma ha violato la costituzione riiutandosi di rimborsare
allo stato alcune spese, non legate alla sicurezza, sostenute
per rinnovare la sua residenza privata e costruire, tra le
altre cose, una piscina. u
Arabia Saudita Il 5 aprile il
gruppo Stato islamico (Is) ha rivendicato l’uccisione di un colonnello della polizia in un attacco a Riyadh. Il 2 aprile un altro poliziotto era morto in un attentato dell’Is nella capitale.
Burundi Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il 1 aprile una risoluzione
che apre la strada a una presenza militare dell’Onu nel paese.
L’obiettivo è mettere ine alle
violenze postelettorali.
Ciad Il 10 aprile si svolgerà il
primo turno delle elezioni presidenziali. Il capo di stato Idriss
Déby punta a ottenere un quinto
mandato.
Congo Il 4 aprile migliaia di
abitanti di Brazzaville hanno lasciato le loro case quando alcuni
miliziani ninja, già attivi all’epoca della guerra civile, hanno attaccato degli ediici pubblici. Le
violenze, che hanno causato 17
morti, sono probabilmente legate alla rielezione del presidente
Denis Sassou Nguesso.
Kenya La Corte penale internazionale (Cpi) ha prosciolto il 5
aprile il vicepresidente William
Ruto dalle accuse di crimini
contro l’umanità.
Da New York Amira Hass
Abbattuto
un aereo
Il vittimismo e la rabbia
Il 5 aprile il fronte al nusra, la iliale di Al Qaeda in Siria, ha abbattuto un aereo da guerra siriano nel nord del paese e ha catturato il pilota, scrive il quotidiano
libanese Daily Star. Il giorno
prima gli Stati Uniti avevano annunciato l’uccisione del portavoce del fronte e di altri venti
jihadisti in un raid nella provincia di Idlib. Il 5 aprile le autorità
di Damasco hanno invece accusato il gruppo Stato islamico di
aver usato il gas mostarda nei
combattimenti vicino a Deir Ezzor. Intanto l’Onu ha annunciato che i negoziati di pace riprenderanno a ginevra l’11 aprile.
Il pubblico presente nell’aula
magna della City university di
New York era composto per il
99 per cento da ebrei, venuti
per ascoltare sette scrittori discendenti di sopravvissuti
all’olocausto. Nella sala non
c’era neanche un afroamericano, e questo mi ha fatto pensare che forse la comunità ebraica non era riuscita a presentare il genocidio come una calamità universale. Ho assistito
alla conferenza per motivi antropologici, per osservare questa comunità benestante che si
abbandona al vittimismo e
sfrutta la memoria per ini politici. “Non c’è mai stato niente di peggio dell’olocausto”, ha
detto un relatore arrivato dalla
Svezia. L’ho trovata una dichiarazione un po’ ottusa, anche perché pronunciata in un
paese dove lo spettro della
schiavitù è ancora presente.
Il giorno dopo a un evento
alla Columbia university il
pubblico era composto in
maggioranza da neri. I relatori
erano il professor Cornell
West e il reverendo Jesse Jackson. West ha elogiato il “fratello Bernie” (Sanders) per la sua
sida al consumismo. Smentendo le previsioni, Jackson
non ha appoggiato apertamente Hillary Clinton, ma si è
limitato a chiedere ai neri di
andare a votare. Quando gli
hanno chiesto di commentare
l’invito di Obama ai neri a migliorare la loro condotta al lavoro e in famiglia, West ha risposto con rabbia: “Il presidente dovrebbe occuparsi della condotta di Wall street”. E
Jackson: “Non dobbiamo sottovalutare i devastanti efetti
della schiavitù sul nostro popolo”. u as
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AFP/GETTy IMAGES
Pulizia delle strade a Bengasi, 4 marzo 2016
Perché l’Italia ha fretta
d’intervenire in Libia
Alberto Mucci, Politico.eu, Belgio
Più che alla minaccia del gruppo
Stato islamico, l’impegno
del governo italiano è dovuto
all’urgenza di fermare i migranti
e tutelare gli interessi dell’Eni
L’
Italia sta facendo di tutto per
stabilizzare la Libia, in modo da
proteggere i suoi interessi economici e scongiurare un’altra
crisi migratoria sulle sue coste. Non sarà un
compito facile, visto il caos che imperversa
nel paese nordafricano dal rovesciamento
di Muammar Gheddai nel 2011. Ma Roma
è sempre più preoccupata che ci siano nuovi
arrivi di migranti: da quando l’accordo tra
Unione europea e Turchia sul rimpatrio dei
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
profughi è entrato in vigore il 4 aprile e la
rotta dei Balcani è stata chiusa, l’Italia è tornata a essere la prima meta di chi cerca rifugio in Europa.
Negli ultimi due anni sono aumentate le
divisioni tra le fazioni in lotta, e la Libia si è
spaccata tra due governi: quello di Tobruk,
riconosciuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli sostenuto dal Congresso generale nazionale (il parlamento
che ha riiutato di sciogliersi dopo le elezioni del 2014) e dalla coalizione islamista Alba libica. Il 30 marzo nella capitale è sbarcato un terzo governo sostenuto dalle Nazioni
Unite, dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, con l’Italia in prima linea. A dicembre
le Nazioni Unite erano riuscite a ottenere il
sostegno di alcuni deputati dei due parlamenti rivali alla formazione di un esecutivo
di unità nazionale. Il nuovo governo è guidato da un tecnocrate semisconosciuto,
Fayez al Sarraj. I suoi sostenitori sperano
che riesca a mettere ine alle rivalità e alle
lotte intestine, e a salvare il paese dal caos
di cui ha approittato il gruppo Stato islamico (Is). I jihadisti hanno conquistato giacimenti e terminal petroliferi, e un vasto territorio costiero che gli permette di controllare il traico di migranti.
Il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ripone molte speranze in Al Sarraj, che ha lavorato al ministero dell’edilizia
sotto Gheddai ed è stato scelto come soluzione di compromesso perché non era ailiato a nessuna delle fazioni in lotta. Renzi
vuole ristabilire tra Italia e Libia una cooperazione come quella che c’era ai tempi di
Gheddai, con un leader libico capace di affrontare i traicanti di esseri umani e allo
stesso tempo sconiggere l’Is. “Speriamo di
concludere nuovi e migliori accordi con il
governo di unità nazionale”, ha dichiarato il
sottosegretario italiano all’interno Domenico Manzione, che ha minimizzato i contatti tra il governo italiano e Al Sarraj. “Per
adesso abbiamo avuto solo contatti informali con il governo di Tobruk”.
In attesa di vedere se il governo di unità
nazionale riuscirà a sopravvivere, l’Italia ha
avviato i contatti con altri paesi della rotta
mediterranea, per evitare che con il miglioramento delle condizioni meteorologiche i
migranti ricomincino ad arrivare sulle sue
coste. A marzo il ministro dell’interno italiano Angelino Alfano ha irmato con l’Albania un accordo di cooperazione contro il
traico di migranti, in base al quale Tirana
si è impegnata a raforzare i controlli. Trattative simili sono in corso con il Montenegro. All’ultimo Consiglio europeo, quando
è stato concluso l’accordo con la Turchia,
Renzi ha chiesto che le concessioni fatte ad
Ankara in cambio della cooperazione nel
ridurre i lussi di migranti verso la Grecia
siano estese ad altri paesi esterni all’Unione, come l’Albania e il Montenegro, se un
altro paese dell’Unione si trovasse nella
stessa situazione di Atene.
Il numero di migranti che raggiungono
l’Italia dalla Libia sta aumentando. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite
per i rifugiati (Unhcr) a marzo sono arrivate
8.405 persone, quasi il triplo rispetto allo
stesso periodo del 2015. Molte di più sono
pronte a partire dalle coste libiche, anche se
il numero varia a seconda delle stime: 36mila secondo l’Unhcr, ottocentomila secondo
il ministro della difesa francese Jean-Yves
Le Drian. Secondo l’Unhcr l’anno scorso
153.841 persone hanno raggiunto l’Italia
dalla Libia. Nei primi tre mesi del 2016 ne
sono arrivate 18.400, rispetto alle 10.615
dello stesso periodo del 2015.
Dal maggio scorso la marina militare
italiana è alla guida dell’operazione Soia,
una missione di pattugliamento nelle acque
internazionali al largo della Libia che coinvolge 22 paesi. In dieci mesi sono state salvate 11.500 persone, arrestati 58 presunti
scaisti e distrutte 98 imbarcazioni. I numeri sarebbero più alti se la missione potesse
operare più vicino alla costa e inseguire i
traicanti nelle acque libiche, ma questo
può avvenire solo se il governo sostenuto
dalle Nazioni Unite sarà al potere e chiederà aiuto. Il governo di Al Sarraj avrebbe anche l’autorità per chiedere un intervento
occidentale contro l’Is, e quasi sicuramente
ne avrà bisogno.
Secondo un rapporto della Global initiative against transnational organized crime,
nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traico di esseri umani.
Con il calo del prezzo del petrolio quest’attività potrebbe diventare una delle princi-
pali fonti di inanziamento per il gruppo.
“Non gestiscono loro il traico, ma tassano
quelli che lo fanno”, aferma Tom Keatinge,
del Royal united services institute. Il prezzo
per la traversata dalla Libia all’Italia varia
da 800 a 1.200 dollari a testa. La maggior
parte dei profughi viene dall’Eritrea, dalla
Somalia e dall’Africa subsahariana, ma con
la chiusura della rotta balcanica sono sempre di più i siriani e gli afgani che cercano di
raggiungere l’Europa attraverso la Libia.
Presenza strategica
Per gestire la crisi dei migranti l’Italia ha
bisogno di una Libia stabile. Ma a parte il
presidente statunitense Barack Obama,
pochi leader sembrano interessati a un altro intervento militare nel paese nordafricano. La riluttanza di molti paesi europei
sembra dovuta al fatto che ci sono poche
probabilità che sul lungo periodo la situazione si stabilizzi abbastanza da permettere
opportunità d’investimento. Ma in Libia
l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha qua-
Da sapere
Lo sbarco di Al Sarraj
30 marzo 2016 Il governo di unità nazionale
guidato da Fayez al Sarraj, sostenuto dalle
Nazioni Unite, arriva a Tripoli da Tunisi via
mare dopo vari tentativi bloccati dalle milizie
fedeli al Congresso generale nazionale (Gnc) e
al governo islamista.
31 marzo L’Unione europea impone delle
sanzioni contro il premier del governo islamista
Khalifa al Ghweil, il presidente del Gnc Nuri
Abusahmain, e il presidente del parlamento di
Tobruk Aguila Saleh, per aver ostacolato
l’insediamento del governo di unità nazionale.
1 aprile Al Ghweil lascia Tripoli.
6 aprile Il governo islamista si dimette per
evitare nuove violenze. Afp
si un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno
regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è
forse il principale motivo degli sforzi di Roma per paciicare il paese nordafricano, con
o senza alleati. La produzione libica è cresciuta, passando dai 240mila barili al giorno di prima della guerra a una media di
trecentomila barili al giorno nel 2015. L’anno scorso l’azienda italiana ha annunciato
di aver scoperto altri due giacimenti al largo delle coste libiche. L’Eni vuole quel petrolio, ed è per questo che il governo italiano sta cercando di tenere a distanza la
Francia e il Regno Unito, i due paesi europei più favorevoli a un nuovo intervento.
Roma teme che Parigi e Londra possano
usare un’azione militare per avanzare delle
rivendicazioni sulle risorse naturali della
Libia. “Il governo vede con sospetto un intervento francese e britannico in Libia”, ha
dichiarato Massimo Artini, vicepresidente
della commissione difesa del parlamento
italiano. “E il motivo è l’Eni”.
Ma l’Italia sa che non può stabilizzare la
Libia da sola. Per questo Renzi deve assicurarsi un ruolo di primo piano sia nello sforzo
internazionale di installare un governo a
Tripoli e difenderlo dalle milizie rivali e
dall’Is, sia nelle operazioni navali contro i
traicanti di esseri umani. “L’Italia può seguire un’unica strategia”, sostiene Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore della
difesa italiana ino al 2011. “Dev’essere in
prima linea nella coalizione, anche se non è
la sua opzione preferita”.
In questo il governo italiano ha il pieno
sostegno degli Stati Uniti: il segretario di
stato John Kerry ha più volte lodato la leadership di Renzi sulla Libia. Roma ha appoggiato i bombardamenti statunitensi
contro l’Is, ma c’è il timore che il gruppo potrebbe rispondere a ulteriori attacchi facendo partire migliaia di migranti verso l’Italia.
Nonostante questo, a Roma sono già in corso i preparativi per l’intervento e le sue conseguenze. “C’è consenso sul fatto che bisogna fare qualcosa”, dice Artini, ma non su
cosa: dichiarare una no-ly zone? Mandare
un contingente? Addestrare l’esercito libico? Secondo l’ex inviato delle Nazioni Unite
in Libia Bernardino León, “devono essere i
libici a combattere l’Is. Una presenza militare straniera potrebbe aumentare le tensioni invece di ridurle”. u gac
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AUGUSTo CASASoLI (A3/CoNTRASTo)
Roma, 27 maggio 2015. Federica Guidi e Matteo Renzi a palazzo Chigi
Lo scandalo che scuote
il governo Renzi
James Politi, Financial Times, Regno Unito
Le dimissioni della ministra
Federica Guidi potrebbero avere
un impatto sulle elezioni
amministrative e sul referendum
contro le trivellazioni
l 31 marzo il governo presieduto da
Matteo Renzi è stato scosso dalle improvvise dimissioni della ministra
dello sviluppo economico Federica
Guidi, sospettata di essersi adoperata per
far approvare un progetto petrolifero dal
quale il suo compagno avrebbe tratto un
vantaggio economico.
Guidi ha annunciato la sua decisione in
una lettera indirizzata a Renzi, mentre il
premier italiano era negli Stati Uniti. Nella
lettera Guidi ha scritto: “Sono assolutamente certa della mia buona fede e della
correttezza del mio operato. Credo tuttavia
necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni”.
Renzi ha risposto che “rispettava” e “condivideva” la sua decisione, elogiandola per il
lavoro “serio, deciso e competente di questi
anni”. A spingere la ministra a dimettersi è
I
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
stata la pubblicazione di una conversazione
intercettata alla ine del 2014, in cui Guidi
assicurava al suo compagno, Gianluca Gemelli, che la legge di stabilità per il 2015
avrebbe contenuto un emendamento per
accelerare la ripresa della produzione nel
giacimento petrolifero di Tempa Rossa, in
Basilicata. Il progetto è gestito dalla compagnia petrolifera francese Total, e Gemelli
era interessato ai lavori perché era coinvolto in due subappalti.
I partiti di opposizione italiani hanno
chiesto le dimissioni di Guidi e quelle di
Maria Elena Boschi, la ministra delle riforme e dei rapporti con il parlamento, citata
nella telefonata intercettata. Guidi rassicurava il suo compagno afermando che Boschi era d’accordo sull’approvazione
dell’emendamento.
Boschi è anche al centro delle polemiche esplose nel 2015 per il salvataggio da
parte del governo della Banca Etruria, un
istituto inanziario in cui il padre occupava
una posizione di rilievo.
“Sono tutti collusi, tutti complici, con le
mani sporche di petrolio e denaro”, ha twittato Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 stelle, il secondo partito italiano.
Le dimissioni di Guidi non sono il primo
scandalo che scuote il governo Renzi. Nel
2015 Maurizio Lupi, ministro dei trasporti e
delle infrastrutture, era stato costretto a dimettersi dopo che era stata scoperta una
rete di corruzione che riguardava alcuni dei
progetti di infrastrutture più redditizi del
paese. Ma il caso Guidi potrebbe avere conseguenze maggiori perché è scoppiato in
prossimità delle elezioni amministrative di
giugno e del referendum sulle riforme costituzionali previsto in autunno, due test
molto importanti per il governo Renzi.
Inoltre, il presunto tentativo della ministra dello sviluppo economico di favorire un
progetto petrolifero potrebbe danneggiare
il governo in vista del referendum del 17
aprile sul rinnovo delle concessioni per lo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi al
largo delle coste italiane. Mentre i partiti di
opposizione, compresi i cinquestelle, stanno chiedendo agli italiani di votare contro il
rinnovo, il Partito democratico invita gli
elettori all’astensione per far fallire il referendum, che per essere valido richiede la
partecipazione di più del 50 per cento degli
aventi diritto. Lo scandalo che ha coinvolto
la ministra Guidi potrebbe incoraggiare le
persone ad andare a votare. u bt
Da sapere
Una settimana diicile
u 31 marzo 2015 Federica Guidi, ministra
dello sviluppo economico, si dimette dopo la
pubblicazione di un’intercettazione telefonica
in cui dice al suo compagno di aver fatto
inserire nella legge di stabilità per il 2015 un
emendamento che lo favorisce.
u 4 aprile La ministra dei rapporti con il
parlamento Maria Elena Boschi, che ha inserito
l’emendamento, viene ascoltata dai magistrati
a palazzo Chigi.
u 5 aprile Il Movimento 5 stelle presenta una
mozione di siducia al governo Renzi.
Il Sole 24 Ore, Ansa
Gli altri afari sporchi
del petrolio
E. Sylvers e S. Kent, The Wall Street Journal, Stati Uniti
Le compagnie petrolifere Shell
ed Eni sono indagate dalla
procura di Milano perché
sospettate di aver pagato delle
tangenti al governo nigeriano
a procura di Milano sta indagando sulle responsabilità della Shell
in un caso di corruzione che coinvolge l’Eni. I magistrati stanno
cercando di capire se una parte degli 1,3 miliardi di dollari pagati dalla Shell e dall’Eni
per una concessione petrolifera al largo delle coste nigeriane può essere considerata
una tangente. A febbraio la polizia italiana
e quella olandese hanno fatto una perquisizione congiunta nella sede della Shell
all’Aja. Il 30 marzo la compagnia petrolifera
ha confermato di aver ricevuto un avviso di
garanzia dalla procura italiana in relazione
a questa vicenda e che la sua sede è stata
“visitata” dalle autorità olandesi. La società
anglo-olandese ha anche detto che sta collaborando con gli inquirenti.
Dal 2011 la Shell e l’Eni hanno una concessione per lo sfruttamento di un enorme
giacimento nell’oceano Atlantico, chiamato Opl 245, che si ritiene possa produrre nove miliardi di barili di petrolio. Il progetto è
molto importante per entrambe le aziende,
che da molti anni hanno rapporti commerciali con la Nigeria.
La Shell aveva dimostrato per la prima
volta il suo interesse per l’Opl 245 nel 2001,
quando aveva acquistato una quota della
concessione dalla Malabu Oil & Gas,
un’azienda privata nigeriana che a sua volta
aveva ottenuto la concessione mentre il paese era sotto la dittatura militare. Il nuovo
governo aveva revocato la concessione alla
Malabu per darla solo alla Shell, dando il via
ad anni di battaglie legali.
Alla ine la Malabu aveva raggiunto un
accordo con il governo, ottenendo la restituzione della concessione. A quel punto la
Shell aveva deciso di abbandonare le battaglie legali contro la Malabu e aveva ac-
L
quistato la concessione insieme all’Eni,
pagando 1,3 miliardi di dollari al governo
nigeriano.
I magistrati italiani stanno indagando
per capire dove sono andati a inire quei soldi e se la Shell e l’Eni ne conoscevano la destinazione. Secondo il fascicolo della procura, il governo nigeriano avrebbe trasferito
solo una parte della somma alla Malabu e
quindi “si sospetta che una fetta fosse destinata ai suoi funzionari pubblici”.
La Malabu non è indagata, ma nel 2014
la procura di Milano ha aperto un’inchiesta
sull’Eni e il suo amministratore delegato
Claudio Descalzi per corruzione internazionale con riferimento all’Opl 245. L’Eni e
Descalzi hanno negato qualsiasi illecito.
La società ha sempre sostenuto di aver versato direttamente la somma al governo
nigeriano e di non essere responsabile
dell’uso che ne è stato fatto. Anche la Shell
ha dichiarato che la cifra concordata è stata
pagata al governo e che per sapere che ine
ha fatto bisognerebbe chiederlo alle autorità nigeriane e alla Malabu. Quest’ultima
si è rifiutata di rilasciare qualsiasi commento. Adesso la lunga disputa sull’Opl
245 rischia di gettare una nuova ombra sugli investimenti della Shell in Nigeria, dove
è presente da ottant’anni ed è la maggiore
investitrice straniera nel settore petrolifero. L’anno scorso, la Shell ha ricavato circa
il 10 per cento della sua produzione dalla
Nigeria e il paese rimane uno dei suoi pilastri, anche se negli ultimi anni la società ha
venduto una parte dei suoi giacimenti nel
delta del Niger, dopo che erano stati oggetto di attacchi e di furti.
Secondo la procura italiana, la Shell,
che nel 2011 aveva già fatto forti investimenti per ampliare il giacimento, avrebbe
pagato molto meno della metà della cifra
versata al governo nigeriano. I magistrati
sospettano che la maggior parte della somma sia inita in tangenti, il che potenzialmente rende la Shell corresponsabile della
corruzione. u bt
Energia
Produzione sospesa in val d’Agri
A. Rascouet e C. Albanese, Bloomberg, Stati Uniti
La sospensione della produzione nel centro oli di Viggiano, in provincia di Potenza, il
grande impianto dell’Eni in
val d’Agri, avrà un efetto “trascurabile” sui guadagni della
compagnia petrolifera, perché
spesso l’Italia consente di riprendere i lavori durante le inchieste, ha dichiarato Giuseppe Rebuzzini, un analista della Fidentiis Equities. “Presumo sia questione di giorni o
settimane, poi l’Eni potrà riprendere la produzione nel
giacimento della val d’Agri”
ha aggiunto, sottolineandone
l’importanza economica per
la Basilicata.
La produzione è stata interrotta il 31 marzo quando le
autorità italiane hanno sequestrato una parte dell’impianto
nell’ambito di un’inchiesta
sullo smaltimento dei riiuti.
L’Eni ha afermato che sta collaborando con gli inquirenti e
ha chiesto di poter riavviare la
produzione per far tornare al
lavoro il personale. La compagnia petrolifera non ha voluto
rilasciare commenti sull’impatto economico della sospensione. Anche la Shell ha
una quota dell’impianto.
L’anno scorso il cantiere
navale della Fincantieri di
Monfalcone, vicino Trieste,
ha potuto far ripartire la produzione una settimana dopo
che l’autorità giudiziaria aveva aperto un’inchiesta sullo
smaltimento dei riiuti. La
stessa cosa è successa nell’impianto dell’Ilva di Taranto. “È
probabile che permetteranno
anche all’Eni di riprendere la
produzione”, ha detto Rebuz-
zini. Il giacimento della val
d’Agri produce circa 75mila
barili di greggio al giorno che,
secondo i dati resi noti
dall’Eni, nel 2014 hanno costituito circa il 40 per cento della
produzione complessiva di
gas e petrolio della compagnia
petrolifera in Italia. Nel 2014
l’Eni ha prodotto globalmente
1,6 milioni di barili al giorno.
Secondo la società di servizi inanziari Natixis, in questo momento gli investitori
sono più interessati alle decisioni dell’Eni per quanto riguarda i giacimenti di gas scoperti in Egitto e in Mozambico. “Sono notizie più importanti di quella della ripresa
della produzione di petrolio in
val d’Agri”, ha dichiarato al telefono l’analista della Natixis
Baptiste Lebacq. u bt
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
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Le opinioni
Il futuro dei giornali
nell’era di internet
David Randall
ecentemente sono stato invitato a una diani nazionali e locali è solo una minima percentuale
festa piuttosto speciale. Ormai da anni di quella che era un tempo. Nel 2008 i giornali coprivaquando vengo invitato a una festa pro- no il 27,3 per cento del mercato pubblicitario. Oggi quel
vo un vago senso di terrore, e se fosse dato è sceso all’11,4 per cento, un calo di più del cinstata un’occasione normale avrei cer- quanta per cento in sette anni. I nuovi beneiciari della
cato come al solito una scusa per non pubblicità sono Google e Facebook, che non danno laandare. Ma era una festa in onore dell’ultimo numero voro a un solo giornalista. Nel 2015 Google ha incassato
del mio vecchio giornale, l’Independent on Sunday, che 44,5 miliardi di euro solo con gli annunci.
Quasi tutti i giornali hanno pensato che la risposta
non esiste più ed è andato a raggiungere nella grande
fosse prendere il lavoro dei giornalisti e pubblicarlo gradiscarica del cielo le altre pubblicazioni defunte.
È stato l’evento più triste a cui abbia mai partecipato tuitamente online. L’idea era che a coprire i costi sarebin un pub di Londra, non tanto perché i giornalisti più bero stati gli incassi pubblicitari. Speranza vana: i giorgiovani mi hanno chiesto se sapevo di qualche oferta di nalisti di un quotidiano nazionale costano molto, la
lavoro e quelli più anziani mi hanno detto che non sape- pubblicità online invece no. Per comprare una doppia
pagina a colori sul giornale britannico più
vano se avrebbero mai trovato un altro
venduto, il Daily Mail, ci vogliono 105miposto. Il motivo non era neanche la mor- Per chi è cresciuto
la euro. Un banner sul suo sito, Mail Onte del mio settimanale (il quotidiano The pensando che
line, costa solo 28 euro ogni mille visuaIndependent sopravvive solo online). Era il libero accesso
lizzazioni. È il sito d’informazione più
il pensiero che in tutto il mondo le forze a un’informazione
visitato al mondo, ma i suoi incassi pubche ne hanno provocato la ine stanno di qualità fosse
blicitari sono un settimo di quelli del
indebolendo il giornalismo professionale un diritto umano
e la sua funzione di controllo sui potenti, fondamentale, dover giornale cartaceo.
Il terzo problema è che ormai esistoche considero essenziale per ogni demo- pagare i contenuti
no gli adblocker, software che bloccano
crazia.
sarà uno shock.
la pubblicità online. E stanno diventando
La meno temibile di queste forze è la
Ma sarà inevitabile
molto popolari. L’anno scorso nel Regno
tendenza dei giornali a ridurre il numero
Unito il loro uso è aumentato dell’82 per
di giornalisti mentre i governi, le amministrazioni locali e altri servizi pubblici tendono ad as- cento. In Francia un terzo degli utenti di internet ha insumere sempre più addetti alle pubbliche relazioni per stallato un adblocker, mentre i produttori di smartphocurare la loro immagine e, se necessario, insabbiare er- ne stanno inserendo questo software nei sistemi operarori e negligenze. Trent’anni fa, quando dirigevo un tivi. L’azienda statunitense Pagefair ha calcolato che
giornale della provincia inglese, avevamo ventuno cro- nel 2015 questi programmi hanno fatto perdere circa
nisti. A quel tempo nessun ente pubblico aveva un ui- 19,5 miliardi di euro agli editori. Ora questi ultimi stancio di pubbliche relazioni, e noi parlavamo direttamen- no cominciando a installare software che individuano
te con i funzionari e i politici. Oggi quello stesso giorna- gli adblocker e impediscono l’accesso a chi li usa, ma
le ha solo cinque cronisti, che non parlano più con i subito sono stati creati software per ingannare gli antiafunzionari ma con i loro uici stampa. Attualmente nel dblocker e convincerli che non c’è nessun adblocker.
Per gli editori l’unica soluzione è far pagare i conteRegno Unito ci sono 37mila addetti stampa e altrettanti giornalisti, la maggior parte dei quali non sono repor- nuti tramite paywall o singoli pagamenti. Prendiamo
ter. Per ogni giornalista che cerca di capire cosa succede per esempio il Times e il Guardian. Negli ultimi dieci
ci sono diversi addetti alle pubbliche relazioni a impe- anni il Times ha perso centomila copie, ma grazie al
dirglielo. Meno informazioni, meno motivi per com- paywall sul sito è riuscito a chiudere in pareggio. Invece
il Guardian, che ha un ottimo sito gratuito, ha visto le
prare i giornali, meno democrazia.
La seconda forza è internet, che per i giornali ha sue vendite passare da 400mila a 165mila copie e l’ancambiato tutto, soprattutto per quanto riguarda la pub- no scorso ha perso 72,2 milioni di euro, cioè duecentoblicità. Prima del web per pubblicare un quotidiano o mila euro al giorno. Per chi è cresciuto pensando che il
un settimanale bisognava investire milioni. La rete ha libero accesso a un’informazione di qualità fosse una
abbattuto questo ostacolo, e ora ci sono molti più posti sorta di diritto umano fondamentale, dover pagare i
dove si può fare pubblicità. I giornali non sono più il contenuti sarà uno shock. Ma sarà inevitabile. Altriprincipale veicolo per gli annunci, in particolare quelli menti il futuro del giornalismo, e delle inchieste e della
di automobili, case e oferte di lavoro. Nel Regno Unito vigilanza sul potere da cui dipende la democrazia, sarà
e in tutte le economie avanzate la pubblicità sui quoti- decisamente cupo. u bt
R
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
DAVID RANDALL
è stato senior editor
del settimanale
Independent on
Sunday di Londra. Ha
scritto quest’articolo
per Internazionale.
Il suo ultimo libro è
Tredici giornalisti
quasi perfetti (Laterza
2007).
In copertina
Nessuno al v
Der Spiegel, Germania
Foto di Alícia Rius
L’auto senza conducente promette di cambiare non
solo il modo in cui si spostano le persone, ma l’intera
società. Intorno a questo prodotto sta nascendo una
competizione tra i grandi gruppi automobilistici
tradizionali e colossi hi-tech come Google e la Apple
no spettacolo sensazionale sta andando in scena lungo le strade di
Mountain View, ma quasi nessuno ci fa caso. Solo qualche turista emozionato scatta foto con il telefono quando
l’auto senza conducente di Google gli passa
accanto. La vettura è riconoscibile dal radar
grosso come un pallone sul tetto. Da più di
tre anni questi veicoli percorrono ogni giorno le strade della cittadina californiana,
dove si trova la sede di Google e dove sta
nascendo qualcosa d’incredibile: un’auto
che si muove senza l’intervento umano, ma
solo grazie a un software. Quando si entra
in una di queste Lexus Toyota modiicate,
però, si rimane sorpresi da quanto sia poco
appariscente. Certo, si aida la propria vita
a un algoritmo che ha il completo controllo
dell’auto ed è basato sui milioni di dati forniti di secondo in secondo dal radar. Ma per
il resto cambia poco. L’auto decelera rapidamente e frena con dolcezza, senza scatti
e senza scossoni. Con spostamenti luidi
passa sulla corsia di sinistra appena compare un ciclista, e aspetta che i veicoli in arrivo
sulla corsia opposta siano passati prima di
superare un cantiere. Trasporta i passeggeri dolcemente. Per ogni emergenza, al posto di guida è seduto un ingegnere di Google, che però non tiene le mani sul volante
né il piede sull’acceleratore e non interviene mai.
Più di novemila chilometri a est, sull’A8
tra Denkendorf e Stoccarda, in Germania,
Wolfgang Bernhard, responsabile del settore camion e autobus della Daimler, toglie
le mani dal volante quando arriva alla velocità di 80 chilometri all’ora e allunga il brac-
U
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cio per prendere la sua tazza di cafè. Anche
lui sta viaggiando su un mezzo senza conducente. L’Actros della Mercedes è un camion da quaranta tonnellate e ha un motore
di quattrocento cavalli. Una mandria di elefanti azionata da un pilota automatico. Il
sistema sviluppato dalla Daimler mantiene
la distanza di sicurezza, rallenta, frena e
curva mentre Bernhard beve il cafè.
La casa automobilistica tedesca ha
aspettato molto tempo prima di raccogliere
la sida della Silicon valley, poi si è lanciata
con tutte le sue energie nella corsa per lo
sviluppo di veicoli automatizzati. “Non
possiamo lasciare tutto a Google”, dice
Bernhard. È quasi euforico a bordo del “primo autocarro automatizzato” del mondo,
come lo pubblicizza la Daimler. Bernhard è
convinto che già tra un paio d’anni i camionisti non saranno più costretti a issare la
carreggiata per ore. Potranno fare altro
mentre il conducente automatico è al volante. E dato che il computer non si stanca,
non s’arrabbia quando l’auto davanti a lui
va troppo piano e commette comunque
meno errori, gli incidenti diminuiranno. Il
camion senza conducente salverà vite
umane e permetterà di risparmiare sui costi
di riparazione, sui tempi morti dovuti ai
guasti e sui premi assicurativi.
Fino a qualche anno fa Google e la
Daimler non avevano molto in comune.
Oggi, invece, competono in uno dei mercati più interessanti del futuro. Non passa settimana senza che qualcuno annunci di voler investire ancora più soldi nelle auto
senza conducente e di voler produrre prima
degli altri un modello di serie. Secondo
Elon Musk, il fondatore della Tesla, le auto
saranno completamente automatizzate già
Le foto di questo articolo sono tratte
da un lavoro di Alícia Rius intitolato
Abandoned places, una serie di scatti
sul fascino dei posti abbandonati.
nel 2017. La Nissan vuole lanciare auto senza conducente nelle strade di Tokyo nel
2020. La Toyota ha investito più di un miliardo di dollari nello sviluppo delle mac-
volante
chine del futuro. Anche la Apple sta lavorando a un’auto elettrica senza conducente.
Nome in codice: Titan. La tecnologia è così
matura che la guida automatizzata in autostrada è già una realtà. Presto l’uso di sistemi di assistenza alla guida in condizioni di
traico intenso sarà dato per scontato. Resta da capire se questa tecnologia sarà abbastanza avanzata da permettere al guida-
tore di concentrarsi senza alcun rischio sul
cellulare o su un ilm, mentre l’auto si aggira in autonomia nel centro di una città in
cerca di un parcheggio. E poi, è davvero
questo quello che vogliamo? In fondo l’eliminazione del conducente non è una semplice questione tecnica, in particolare per i
tedeschi, così orgogliosi della loro industria
automobilistica. Quando in Germania si
parla di libertà, ci si riferisce anche alla libertà di sfrecciare senza limiti di velocità
sull’autostrada o di tagliare agilmente le
curve. L’automobile sarà ancora il simbolo
dell’avventura quando guidarla sarà eccitante come viaggiare su un autobus di linea? Il rapporto che molte persone hanno
con l’automobile non si può spiegare razionalmente. Anzi, l’auto è l’oggetto quotidiaInternazionale 1148 | 8 aprile 2016
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In copertina
no per eccellenza in cui l’irrazionalità è
vissuta ancora con disinvoltura. È proprio
questa la sua forza. Secondo Oliver Blume,
amministratore delegato della Porsche,
viaggiare sui veicoli automatizzati è “afascinante come calcolare il tempo di cottura
delle uova con un Rolex”. L’ex campione
del mondo di rally Walter Röhrl dice che
non userà mai un’auto senza conducente.
“Voglio essere io il capo e che sia merito
mio se la macchina si comporta bene”.
Ma al di là del piacere di guidare, la strada verso l’auto senza conducente tocca altre questioni importanti: cosa succede se
un hacker altera il sistema di guida? Chi è
responsabile se un robot provoca un incidente? È giusto aidare a un algoritmo la
propria vita e quella di altre persone? Come
fa una macchina a decidere su questioni
etiche? E come sarà il traico del futuro?
Oltre alla gara tra gli ingegneri, c’è anche quella tra le industrie: produttori automobilistici afermati contro aziende tecnologiche. La Daimler, la General Motors, la
Toyota, la Nissan, la Bmw, l’Audi e la Ford
sono le case automobilistiche a cui è stata
lanciata la sida. Google, la Apple e la Tesla
le sidanti. Questo duello globale può essere descritto attraverso l’esempio della
Daimler e di Google.
In apparenza tutti parlano della stessa
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cosa, ma l’idea dell’auto senza conducente
può avere diverse basi ilosoiche. Google
pensa al suo veicolo soprattutto all’interno
delle città e lo vede come un mezzo assolutamente autonomo che cambierà la mobilità a livello mondiale. Secondo la Daimler,
invece, l’algoritmo darà una mano nei momenti in cui la guida è faticosa e noiosa ed
eviterà gli incidenti, ma alla ine il guidatore sarà sempre un essere umano. Google
sta concentrando la sua ricerca su un’auto
di piccole dimensioni alla portata di tutti. Il
suo obiettivo non è creare un’auto computerizzata di nuova generazione, ma un robot guidatore. La Daimler vuole introdurre
le innovazioni prima come accessori di lusso nelle auto di fascia alta, per poi estenderle agli altri modelli, come ha fatto in passato
con l’airbag, l’abs e l’alzacristalli elettrico.
La posta in gioco è alta per tutti: per la
Germania e il Giappone, che sono grandi
produttori di automobili, si tratta di tutelare le aziende nazionali e i pilastri dell’economia. In Germania un posto di lavoro su
sette dipende dal settore automobilistico.
I grandi cambiamenti tecnologici hanno
già spazzato via molte aziende che sembravano immortali. “Dimostreremo che si
può resistere”, dice Dieter Zetsche, il presidente del consiglio d’amministrazione
della Daimler. Google e la Apple vogliono
invece dimostrare una volta per tutte che
nell’era digitale le industrie tradizionali
avranno sempre meno potere. L’obiettivo
della Silicon valley è mostrare che con la
tecnologia è possibile davvero migliorare il
mondo. È per questo che Google sta investendo nelle auto senza conducente: la riduzione degli incidenti mortali, del traico, delle auto in città, dei tempi morti dovuti agli ingorghi, delle emissioni di gas
tossici. Questo elenco di obiettivi dimostra
chiaramente che l’auto è il simbolo dei problemi della nostra epoca. Ora si trasformerà in una soluzione?
Nel 2009, quando Google ha cominciato a lavorare alle auto senza conducente, gli
esperti prendevano in giro l’azienda californiana. I manager dell’industria automobilistica liquidavano con un sorriso i pionieri come Sebastian Thrun. “Centinaia di
persone hanno cercato di convincermi che
costruire un’auto senza conducente è impossibile”, dice Thrun. Esperto di robotica,
48 anni, Thrun è il padre della Google Auto.
È nato a Solingen, in Germania, ha frequentato l’università a Hildesheim e poi a
Bonn ha conseguito un dottorato in informatica. Negli anni novanta si è trasferito
negli Stati Uniti e ha diretto il dipartimento
di intelligenza artiiciale alla Stanford university. Lì ha cominciato a studiare le auto
Google viaggiavano per chilometri e chilometri sulle strade della California. C’è voluto un po’, ma alla ine si sono svegliati anche
a Stoccarda e nel 2013 i vertici della Daimler hanno dichiarato che tra i loro obiettivi
prioritari ci sarebbero stati l’abbattimento
delle emissioni e la produzione di auto senza conducente.
Il colmo dell’ironia è che a Stoccarda
erano già arrivati a questo punto venticinque anni prima. Alla ine degli anni ottanta
la Daimler lanciò il progetto Prometheus: i
ricercatori non dovevano semplicemente
sviluppare un nuovo modello di auto, ma
cercare soluzioni ai problemi dell’umanità.
Gli ingorghi nelle città, per esempio, si potevano risolvere con delle auto in grado di
volare. Evitare gli incidenti era un altro
obiettivo. Anche se i loro colleghi li prendevano in giro, i ricercatori facevano progressi. Dotarono prima un camion e poi una
Mercedes Classe S di videocamere, di un
sistema di elaborazione delle immagini e di
un computer, in modo che un pilota automatico potesse frenare, accelerare e manovrare il veicolo. Erano gli albori della guida
autonoma, e la Mercedes fece grandi passi
avanti. Ma poi fu data la priorità ad altri
obiettivi. All’improvviso il progetto di fondersi con la Chrysler diventò il traguardo
più importante. Gli investimenti nei progetti di ricerca dai risultati troppo incerti
furono interrotti. Oggi non c’è più traccia
della fusione con la Chrysler, ma ci sono
ancora le idee di quegli ingegneri.
senza conducente e ha messo insieme una
squadra con cui nel 2005 ha partecipato a
un concorso del ministero della difesa statunitense. L’obiettivo era attraversare il
deserto per 213 chilometri con un’auto senza conducente. La squadra di Stanford ha
vinto ed è stata subito arruolata da Larry
Page, uno dei fondatori di Google, che ha
assegnato a Thrun una decina di collaboratori e lo ha incaricato di costruire un’automobile che si guidasse da sola capace di
percorrere 1.500 chilometri sulle autostrade e sulle strade provinciali della California. Il veicolo è stato realizzato in quindici
mesi. Per Thrun quel progetto era sempre
stato un no brainer, un’impresa scontata.
“Nel novecento non c’è stata nessuna invenzione che abbia cambiato la società più
dell’automobile”, dice il ricercatore. La probabilità che un’auto senza conducente svolga un ruolo altrettanto determinante nel
nuovo millennio è quindi molto alta.
Cafè in piedi
Da sapere
Nuovi modelli
DR (2)
Dieter Zetsche accoglie i visitatori con un
paio di jeans slavati, la camicia con il colletto aperto e una giacca. Siamo a Untertürkheim, un quartiere di Stoccarda, in un palazzo di uici annesso alla fabbrica della
Mercedes Benz. Al terzo piano le inestre
che si estendono dal pavimento al soitto
permettono di vedere da fuori l’interno degli uici. Nel corridoio i manager bevono
cafè in piedi accanto a tavolini alti. Il piano
dirigenziale deve dare un’impressione di
apertura e comunicatività.
“Per la seconda vita dell’automobile vogliamo essere all’avanguardia come per la
prima”, dice Zetsche. Sono passati centotrenta anni da quando Carl Benz e Gottlieb
Daimler misero in strada la prima automobile. Nel museo della fabbrica, a pochi metri da qui, sono esposti il brevetto originale
e la prima autovettura. Ma ora bisogna decidere se il futuro sarà scritto a Stoccarda o
nella Silicon valley.
Zetsche ammette che la Daimler aveva
sottovalutato gli sidanti. Lui stesso scherzava dicendo che una Google Auto avrebbe
avuto “più o meno l’aspetto di un modulo
lunare”. Ma poi sono arrivati una serie di
colpi. Per cominciare, un’altra azienda appena entrata nel settore ha fatto fare una
iguraccia all’industria automobilistica: la
Tesla ha presentato la Model S, un’auto
sportiva elettrica capace di percorrere cinquecento chilometri con una ricarica, raggiungendo velocità elevate e senza emissioni inquinanti. Successivamente anche la
Apple ha deciso di sviluppare un’auto, e nel
frattempo i tanto derisi moduli lunari di
In alto, un progetto di auto senza
conducente della Apple.
In basso, invece, un prototipo della
Google Self-Driving Car.
Se la mobilità viene rivoluzionata, cambia non solo il traico, ma tutto il mondo in
cui viviamo. La nostra quotidianità, il nostro modo di lavorare e di rilassarci. La ferrovia ha reso possibile l’urbanizzazione,
l’automobile l’individualizzazione tipica
della modernità e l’invenzione dell’aeroplano il turismo di massa. Gli spostamenti
delle persone sono diventati così importanti negli ultimi cento anni che oggi tutte le
metropoli ne sono sofocate. Un fenomeno
cominciato come una benedizione per
l’umanità, oggi è considerato una maledizione. Cosa succederà con l’auto senza
conducente? Risolverà i problemi del traico o ne produrrà di nuovi? Le persone che
useranno le auto senza conducente nel
frattempo leggeranno le email, giocheranno a un videogioco o guarderanno un ilm.
Le auto che non richiedono concentrazione
saranno usate diversamente, questo è certo. Solo che nessuno sa come. Forse nelle
auto del futuro si viaggerà più spesso in
compagnia di altri. Forse si collegheranno i
trasporti pubblici urbani con i veicoli senza
conducente o si condivideranno di più le
stesse auto. Ma forse ognuno considererà
la propria auto senza conducente come una
metropolitana personale ed eviterà i mezzi
pubblici, perché l’alternativa sarà altrettanto comoda. “La questione più afascinante
riguarda il modo in cui le persone reagiranno quando potranno usare il tempo degli
spostamenti per qualcos’altro”, osserva
Barbara Lenz, una ricercatrice specializzata in traico stradale che lavora presso il
Centro tedesco per la navigazione aerea e
spaziale di Berlino. A quanto pare, la maggior parte delle persone non avrebbe alcuna intenzione di sfruttare in modo produttivo gli spostamenti. Lenz ha svolto un’indagine sulle attività che le persone preferirebbero fare su un’auto senza conducente.
Le risposte non contemplano né i ilm né
internet né le telefonate né tantomeno il
lavoro. Quasi tutti dicono che preferirebbero sfruttare quei momenti per godersi il panorama fuori dal inestrino.
È questo che ha in mente l’altro fondatore di Google, Sergey Brin, quando dice di
voler regalare all’umanità più tempo? Per
lui il miglioramento della sicurezza è solo
un primo passo. Brin vuole restituire
all’umanità i paesaggi e gli spazi urbani che
oggi sono occupati da garage e parcheggi.
Vuole creare un avvenire in cui ci siano
molte meno auto. Ma un risultato del genere è pensabile solo se l’automobile del futuro prenderà il posto del 100 per cento dei
guidatori umani.
Quest’idea potrà essere realizzata solo
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quando il volante non sarà più necessario e
l’auto si cercherà un parcheggio da sola o si
metterà in moto da sola per raggiungere i
suoi passeggeri. Ed è questa l’idea che cercano di realizzare nell’ediicio basso e anonimo in cui si trova il reparto automobilistico di Google. In fondo a un lungo corridoio,
una pesante porta di metallo a due battenti
si apre su una sala di montaggio. Disposte
in una ila ordinata, ci sono una decina di
auto bianche che sembrano un incrocio tra
una Smart un po’ grassoccia e un maggiolino Volkswagen schiacciato in una pressa.
Nei veicoli a due posti non c’è il cruscotto, e
soprattutto non c’è il volante. È questo
l’obiettivo di Google: l’auto completamente
automatizzata, un veicolo assolutamente
nuovo, non un modello convertito come le Lexus Toyota usate
per la fase sperimentale.
Le Google Auto hanno un
aspetto grazioso, più che ipermoderno e avveniristico. “Abbiamo
scelto consapevolmente di non produrre
una Batmobile, che molti percepirebbero
come minacciosa”, spiega Chris Urmson, il
ricercatore che ha sostituito Thrun nel ruolo di direttore tecnico del progetto automobilistico nel 2014. Anche lui ha un dottorato
in robotica, ma è un tipo molto diverso dal
suo carismatico predecessore: giovanile e
cordiale, Urmson è una persona pragmatica. È uno che deve saper portare un progetto alla maturità necessaria per il lancio sul
mercato.
Facciamo un giro di prova nel complesso dell’azienda: il piccolo veicolo elettrico a
due posti si orienta senza problemi evitando i ciclisti, frenando con decisione quando
altri mezzi compaiono all’improvviso, curvando e accelerando ino a circa quaranta
chilometri all’ora.
È un’esperienza molto diversa da quella
delle normali auto senza conducente, dove
il volante sembra mosso da una mano invisibile, come se qualcuno ci stesse giocando.
Le Google Auto senza volante richiedono
una iducia assoluta nella tecnologia, dal
momento che non c’è modo d’intervenire.
È proprio questo l’obiettivo degli ingegneri
dell’azienda californiana. Gli esperimenti
degli ultimi anni hanno dimostrato che i
guidatori fanno fatica ad aidarsi alla tecnologia se devono essere costantemente
pronti a prendere l’iniziativa in caso
d’emergenza.
In fondo, osserva Urmson, la scelta della soluzione più radicale è una questione di
sicurezza. Se un guidatore deve assumere il
controllo all’improvviso mentre sta scrivendo un’email o sta guardando un ilm, la
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situazione diventa pericolosa. Tutti i produttori di auto sono d’accordo sul fatto che
gestire il passaggio di consegne tra essere
umano e macchina non sarà facile. Per questo Google vuole eliminare il problema alla
radice.
D’altra parte è lecito dubitare della sensatezza di questa opzione, anche se Google
dovesse riuscire a convincere i politici.
L’ente californiano per la viabilità ha presentato un progetto di legge che autorizzerà
i veicoli che si guidano da soli a circolare
sulla rete stradale solo se potranno essere
controllati da una persona.
L’aspetto decisivo da chiarire è se l’idea
di Brin sia davvero auspicabile e per quale
motivo la quantità di automobili e soprattutto di viaggi in auto dovrebbe
ridursi, dal momento che l’auto
recupererà la sua attrattiva. Di
recente Travis Kalanick, il fondatore del servizio di trasporto privato Uber, ha assicurato che l’industria automobilistica non deve aver paura dei modelli di car sharing e dell’auto
senza conducente. Se gli spostamenti saranno più comodi, ha spiegato Kalanick, le
persone che viaggeranno in auto aumenteranno. Nessuno può sapere quale sarà l’entità di questo aumento. Un paio di punti
percentuali in più non sarebbero un problema. Ma cosa succederà, chiede Lenz, la
studiosa esperta di traico stradale, “se non
ci preoccuperemo più del tempo che trascorriamo in auto” o se saremo disposti a
fare i pendolari anche per due ore al giorno,
perché l’automobile è comoda come la nostra casa ed è collegata in rete come un uicio? Le campagne si urbanizzeranno più
rapidamente?
Da sapere
Il mercato cinese
u Anche diverse aziende cinesi hanno deciso
di investire nelle auto senza conducente. Anzi,
scrive il New York Times, secondo gli esperti
“in Cina ci sono condizioni più favorevoli, sia
perché c’è un maggiore sostegno da parte dello
stato, sia perché nel paese asiatico non si è mai
afermata pienamente l’idea di libertà e
possesso associata in occidente alle auto. Uno
studio del Boston Consulting Group prevede
che tra quindici anni la Cina sarà il principale
mercato delle auto senza conducente”. Il
colosso di internet Baidu ha stretto un accordo
con la Bmw e vuole introdurre mezzi di
trasporto pubblico automatizzati entro due
anni. Baidu ha già ottenuto il sostegno di
diverse autorità locali in Cina, sia per la
modiica del codice stradale sia per la
realizzazione di nuove infrastrutture.
Forse il problema degli scenari del futuro pubblicizzati da Google e dalle case automobilistiche tradizionali è che propongono proprio l’auto come soluzione dei problemi di mobilità: un po’ come negli anni
sessanta, quando si pensava che bastasse
allargare le autostrade e le strade urbane
per permettere al traico di scorrere liberamente.
Certe visioni fanno davvero pensare a
quest’approccio. L’auto di famiglia senza
conducente sarà costantemente in uso:
prima accompagnerà i bambini a scuola,
poi i genitori in uicio, il pomeriggio porterà i bambini a fare sport e la sera andrà a
prendere le pizze prima di girare a lungo in
cerca di un parcheggio. “Naturalmente sono assurdità”, commenta Lenz. “Sta di fatto che, soprattutto nelle città, probabilmente oggi si rinuncia a fare dei viaggi in
auto che si farebbero se guidare non fosse
così stressante”.
Per evitare che la comodità delle auto
senza conducente produca una nuova congestione stradale, dice Lenz, sono necessari due presupposti: i veicoli senza conducente dovranno essere collegati alla rete
dei trasporti pubblici urbani e dovranno
essere usati da più persone. “Se ancora più
gente se ne andrà in giro nella sua auto privata, invece di un progresso avremo un regresso”.
Scettici ed euforici
Forse l’aspetto più interessante dei progetti
lanciati in tutto il mondo è il fatto che le parti interessate devono mettersi completamente in discussione. Il punto non è solo
che l’industria tradizionale si è svegliata: gli
euforici diventano scettici, gli scettici diventano euforici e, soprattutto, gli avversari imparano l’uno dall’altro, diventando nel
corso della gara molto più simili di quanto
pensino.
I dirigenti di Google stanno accantonando l’idea di rendere felice il mondo da
soli. Per il prototipo senza volante, per
esempio, l’azienda californiana ha scelto di
non progettare in autonomia tutti i componenti e ha stretto accordi con molti fornitori dell’industria automobilistica. Il ruolo di
queste aziende, dice Chris Urmson, “non è
da sottovalutare”.
I fondatori di Google hanno sempre saputo che sarebbe stato difficile produrre
un’auto. Ma solo nel corso dell’ultimo anno, quando l’azienda ha sviluppato i primi
prototipi, hanno capito definitivamente
che non potevano realizzare il progetto da
soli. Lo scorso ottobre Sergey Brin ha dichiarato: “Non abbiamo intenzione di di-
ventare fabbricanti di auto: stiamo dedicando molte energie alla collaborazione
con i nostri partner”.
Anche la Daimler ha imparato rapidamente la lezione e ha seguito l’esempio dei
concorrenti. Soprattutto su un punto deve
cambiare completamente prospettiva. Da
tempo l’azienda tedesca non ha come unica
linea di pensiero le innovazioni tecniche
imposte dall’alto. Gli ingegneri non credono più solo alla tesi dell’evoluzione dell’automobile. Ritengono anche possibile, seguendo la stessa ilosoia di Google, una rivoluzione in cui l’auto senza conducente
faccia la sua comparsa quasi dal giorno alla
notte. E la Daimler si sta attrezzando per
questo scenario con un proprio settore di
ricerca e sviluppo.
Misurazione della distanza
A pochi chilometri dal quartier generale di
Google c’è un’altra auto senza conducente
che si aggira per le strade senza dare troppo
nell’occhio. Da fuori sembra una normale
Classe S nera. I sensori per la misurazione
ottica della distanza e della velocità sono
inseriti nella parte anteriore della carrozzeria. Dietro il parabrezza è nascosta una termocamera. “La nostra ambizione è di mantenere un’estetica anche nelle auto senza
conducente”, spiega Axel Gern, che sorride
soddisfatto della frecciata lanciata alla concorrenza.
Gern dirige il programma delle automobili senza conducente della Daimler: la linea “rivoluzionaria”, la definisce. Nella
sede di Stoccarda, invece, hanno adottato
in parallelo l’approccio “evolutivo”, che
punta a dare sempre più autonomia ai modelli di serie. “In questo modo in autostrada
si va molto lontano”, dice Gern. Ma la sua
Classe S attraversa luoghi abitati proprio
come la Google Auto.
Quand’è che la Daimler riuscirà a produrre in serie un’automobile completamente automatizzata? “Nel 2030 sarà sicuramente fattibile”, risponde Gern seduto
sul sedile del passeggero della Sunny, come
viene chiamata in azienda la Classe S autonoma. Accanto a lui il volante gira da solo,
mentre l’auto esce con cautela dal complesso dell’azienda per poi accelerare rapidamente ino al limite di velocità di circa quaranta chilometri all’ora.
Gern sta lavorando a un nuovo prototipo: una Classe E dotata di più sensori. “La
curva d’apprendimento è sempre enorme”,
commenta il dirigente, sia per i robot sia per
gli ingegneri. “La complessità è tale che oggi non posso ancora dire di sapere esattamente quello che dobbiamo fare”. Interpretare correttamente a livello ottico i se-
gnali stradali, per esempio, è più diicile di
quanto si pensasse. Perciò prima che l’auto
raggiunga un semaforo, una voce sintetica
conferma che le videocamere hanno visto
bene: “Luce del semaforo verde”.
La Classe S è più confortevole della
Google Auto, ma è anche meno fluida.
Quando curva per immettersi nell’uscita
dell’autostrada, fa una breve frenata improvvisa. I sensori si sono confusi, forse
perché sta piovigginando: l’acqua in movimento è un problema. I robot preferiscono
viaggiare con il bel tempo. Per Gern è evidente che “il robot dev’essere almeno bravo come un guidatore umano”. E l’impresa
è ardua perché, secondo le statistiche, sulle
autostrade tedesche gli incidenti gravi con
danni alle persone si veriicano solo ogni
12,3 milioni di chilometri.
Quella della sicurezza è la questione
fondamentale che deciderà il futuro
dell’auto senza conducente. Nessuno vuole
commettere errori, e questo può produrre
anche situazioni buffe. Come al Salone
dell’auto di Francoforte nel settembre del
2013. In quell’occasione Zetsche, il presidente della Daimler, voleva dare una dimostrazione delle competenze di guida autonoma della sua azienda e si è fatto scarrozzare sul palco seduto sul sedile posteriore
di una Classe S senza conducente. Gli sviInternazionale 1148 | 8 aprile 2016
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luppatori, però, non si idavano ancora della loro creazione, e quindi dietro i sedili
anteriori era nascosto un ingegnere che in
caso d’emergenza poteva azionare il freno
con un tasto. “Immagini cosa sarebbe successo se l’auto si fosse improvvisamente
diretta a tutta velocità contro il pubblico”,
dice un manager della Mercedes. L’ingegnere non è dovuto intervenire, ma la prospettiva agghiacciante di un’auto che uccide una persona mentre è impostata sul pilota automatico continua a ossessionare i
tecnici di Google e della Daimler. “C’è una
bella diferenza tra una situazione in cui
una persona viene uccisa da un’altra persona e una in cui viene uccisa da una macchina”, osserva Oliver Bendel, studioso di informatica aziendale presso la Fachhochschule Nordwestschweiz. Esperto di etica
delle macchine, Bendel si confronta da anni con i dilemmi morali che l’auto senza
conducente pone.
Lui stesso ha concepito delle macchine
etiche, come il robot aspiratore Ladybird,
che si ferma di fronte alle coccinelle. Lo
considera soprattutto un esperimento per
stabilire ino a che punto le macchine possano essere addomesticate e civilizzate.
Quella che può sembrare solo una stranezza nel caso di Ladybird, diventa una questione sociale con i droni militari, i robot
usati in medicina e le auto senza conducente. Secondo Bendel, la difusione delle auto
robot dipende anche dalla possibilità di dare una risposta soddisfacente a questi dubbi
etici. Bendel diida delle visioni ottimistiche dell’industria. “Non voglio vedere il
giorno in cui qualcuno dovrà dire ai genitori di un bambino: quest’auto ha ucciso vostro iglio, in piena coscienza e allo stato più
avanzato della tecnica”. A chi si rivolgeranno i parenti quando non ci saranno più esseri umani a cui dare la responsabilità?
Al ministero dei trasporti tedesco a Berlino stanno elaborando le soluzioni più
pragmatiche possibili. Le misure immaginate servono a evitare che un software attribuisca più valore a una vita umana che a
un’altra. A livello ilosoico un’equazione
del genere non sarebbe risolvibile: un premio Nobel ha più diritto di vivere di un delinquente? L’obiettivo è vietare agli sviluppatori di creare degli algoritmi che valutino
la vita umana. L’auto senza conducente
non dovrebbe essere in grado di stabilire se
sia meglio mettere in pericolo un gruppo di
anziani o un bambino.
Pensare alle macchine e all’etica nello
stesso contesto è complicato. Un essere
umano può compiere azioni sbagliate perché può infrangere le regole che conosce.
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Un robot agisce invece sempre in base a
com’è stato programmato. Rispetta tutte le
norme che conosce. Non passerà mai con il
semaforo rosso e non è neanche in grado di
ignorare di sua spontanea volontà un segnale se prima ha imparato il codice stradale. L’essere umano interpreta le regole nel
modo che gli sembra più sensato, e attraversa la linea continua di mezzeria se trova
dei lavori in corso sulla sua corsia. Il robot si
ferma aspetta che i lavori iniscano.
Ma se il computer viene modiicato, non
è neanche capace di capire se è usato come
una macchina di morte. Invece nei casi in
cui l’essere umano agisce d’istinto o smette
di intervenire per paura, il computer ha
sempre la possibilità di calcolare migliaia
di opzioni in pochi millisecondi. Il paradosso è che spesso per l’essere umano un inci-
650
mila
Sono i chilometri percorsi nel 2015 dagli
ingegneri di Google a bordo di auto senza
conducente
dente non è un dilemma etico, perché non
c’è tempo per prendere una decisione. Una
macchina ha quasi sempre il tempo che occorre, e se uccide una persona è per una
decisione automatica. Ma il comportamento di una macchina dev’essere stato programmato da qualcuno. “Non credo che
siamo in grado di creare macchine abbastanza complesse da poter prendere una
decisione adeguata in qualsiasi situazione”,
commenta Bendel.
Nuove decisioni
Al di là delle questioni etiche, anche dal
punto di vista tecnico la prima diicoltà è
rappresentata dal fatto che il traico stradale è un fenomeno imprevedibile che impone continuamente nuove decisioni. Le
situazioni che si presentano in strada sono
così numerose che non ci si può limitare a
programmare le macchine dandogli delle
semplici istruzioni. “Non possiamo compilare un manuale in cui sia scritto: se uno
skateboard inisce sulla carreggiata, reagisci così”, osserva Urmson. L’auto deve decidere da sola come reagire. Deve imparare
“a essere lessibile”, spiega l’ingegnere di
Google. Dev’essere intelligente, confrontare le informazioni con le esperienze precedenti e interpretare correttamente le
nuove condizioni. Non è una cosa facile neanche per i migliori informatici. Le auto
senza conducente hanno bisogno soprat-
tutto di una cosa: esercizio. Con ogni chilometro percorso nella fase sperimentale,
imparano qualcosa di nuovo. Nel 2015 gli
ingegneri di Google hanno viaggiato per
650mila chilometri in California e in Texas.
Ma i tragitti più lunghi sono quelli che i veicoli percorrono con un simulatore: cinque
milioni di chilometri al giorno.
Tempo fa Zetsche ha viaggiato sulla
Google Auto a San Francisco. Ha visitato
molte aziende della Silicon valley ed è rimasto impressionato: “Quei ragazzi sono
più capaci e ambiziosi di quanto pensassimo”. D’altra parte il presidente della Daimler ha la sensazione che “anche loro tengano in grande considerazione la nostra capacità di sviluppare e produrre auto”.
Per la Mercedes-Benz l’esperienza nella
produzione di auto è un vantaggio e allo
stesso tempo un problema. Nel consiglio
d’amministrazione dell’azienda ci sono
esperti di auto che possono discutere di sospensioni nei minimi dettagli. Ma quando
si tratta di tecnologie digitali, le competenze si trovano molto più in basso nella gerarchia aziendale. Esperti di computer, ingegneri informatici e studiosi d’intelligenza
artiiciale sono tutti giovani “non ancora
daimlerizzati”, spiega Zetsche. In futuro
avranno più responsabilità.
Il gruppo deve cambiare. Nella produzione di veicoli continuerà a osservare il
principio secondo cui o si raggiunge la massima qualità o è meglio rinunciare. Ma altri
settori si muoveranno come le startup dove, per citare Zetsche, “non si mette tutto
doppiamente in sicurezza”. Con le app, per
esempio, a volte bisogna accontentarsi di
un grado di perfezione del 90 per cento.
Lo sviluppo delle auto senza conducente accelera questa trasformazione. La
Daimler, per esempio, collabora con la
Bmw e l’Audi ai servizi della Here, un’azienda un tempo legata alla Nokia che produce
carte topograiche estremamente precise,
una premessa importante per la guida senza conducente. La Daimler avrebbe potuto
anche comprare le carte da Google, ma non
voleva dipendere dalla concorrenza. Inoltre, voleva ofrire ai guidatori qualcosa che
con Google non possono ottenere facilmente: il controllo dei propri dati. I clienti
della Daimler potranno decidere cosa fare
delle informazioni sui loro itinerari, sul loro
stile di guida e sui tempi dei loro viaggi raccolti dall’auto robot.
La Daimler non vuole guadagnare dalla
vendita di questi dati, né sfruttarli, per
esempio, per fare pubblicità agli albergatori che pagano di più. Nel settore automobilistico molti sostengono che in realtà per
Google il punto non sono le auto, ma i dati
raccolti dal veicolo. È immaginabile che li
userà per pubblicizzare assicurazioni, al­
berghi, ristoranti, officine meccaniche:
un’attività che promette fatturati miliar­
dari.
I manager dell’industria automobilisti­
ca sono convinti che le aziende digitali fun­
zionino così, ma Page e Brin si presentano
come persone decise a cambiare il mondo,
oltre che a ricavare proitti dalla loro attivi­
tà. La riduzione drastica degli incidenti
mortali è soprattutto una strada promet­
tente per raggiungere il loro obiettivo di­
chiarato: far progredire la civiltà attraverso
la tecnologia. Si pongono anche il problema
di quando e come l’auto senza conducente
diventerà redditizia, ma questi aspetti sono
secondari. Come dice Thrun, “se si cambia
il mondo si diventa ricchi, basta non fare
stupidaggini”.
Le aziende nuove del settore, come
Google e la Apple, sono avvantaggiate dal
fatto che, oltre all’auto senza conducente,
un’altra tecnologia sta trasformando il set­
tore: il motore elettrico. Questa invenzione
rende improvvisamente superluo un pro­
dotto importante dell’ingegneria automo­
bilistica tedesca: il motore a scoppio, con le
sue pompe d’iniezione, le valvole, i turbo­
compressori e tutti i meccanismi connessi.
Le auto elettriche non hanno più bisogno di
tutto questo.
Lo sviluppo della propulsione elettrica e
dell’auto senza conducente cambia le rego­
le del gioco. Decenni d’esperienza nella
tecnologia tradizionale non contano più
niente. Per i nuovi arrivati come Google, la
Apple o la Tesla non è mai stato così facile
sidare i produttori afermati. Ma questo
non signiica che abbiano già vinto la corsa
al futuro della mobilità. Come in ogni rivo­
luzione tecnologica, ci saranno vincitori e
vinti, ma probabilmente su entrambi i fron­
ti. Zetsche dice: “Non credo che tutti i nuo­
vi arrivati avranno successo, ma neanche
che tutti i vecchi protagonisti sopravvivran­
no”. Magari Google svilupperà un sistema
di controllo migliore, che a un certo punto
sarà installato sui veicoli di quasi tutti i pro­
duttori. Allora potrebbe ottenere margini
di proitto simili a quelli che gli garantisce il
suo motore di ricerca. I produttori di auto
sarebbero declassati a fornitori di carrozze­
rie e dovrebbero accontentarsi di utili risi­
cati. Ma poi forse la Apple lancerà un soft­
ware superiore insieme a una iCar, che tra­
volgerà il settore come l’iPhone ha fatto con
la telefonia mobile. O invece avrà la meglio
una delle vecchie case automobilistiche,
come la Daimler.
Ma che implicazioni ha per il guidatore
questa corsa alla produzione dell’auto sen­
za conducente? All’inizio guidare diventerà
più facile e la sicurezza aumenterà. Le auto
freneranno se un pedone attraverserà la
strada di corsa o se un altro veicolo non da­
rà la precedenza. Manterranno la distanza
di sicurezza dall’auto che le precede, con­
trolleranno il volante nel traico e parcheg­
geranno da sole. E quando saranno in grado
di viaggiare in piena autonomia? Allora
l’auto sarà ancora un’auto? In che modo
questa rivoluzione tecnologica cambierà il
veicolo che da generazioni è simbolo di li­
bertà e indipendenza? L’automobile diven­
terà parte integrante della rete dei trasporti
pubblici?
“Non sarà più necessario possedere
un’auto”, aferma Brin. “Le automobili ver­
ranno semplicemente a prenderci”. Secon­
do Google, flotte di navette robotizzate
permetteranno di eliminare gli ingorghi
stradali e di ridurre l’inquinamento.
Zetsche, però, non crede davvero che
l’auto privata sia in via d’estinzione e che
non guideremo più. Accanto al veicolo sen­
za conducente, dice, ci sarà sempre l’auto­
mobile in cui qualcuno mette le mani sul
volante e accelera con il piede: “Cosa c’è di
più bello che guidare una cabriolet su una
strada di campagna piena di curve e inon­
data di sole?”. u fp
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Brasile
MaurIcIo LIMa (The New York TIMes/coNTrasTo)
Dilma Roussef durante un’intervista a Brasília, il 3 giugno 2014
Dilma Roussef
e l’arte di sopravvivere
Arturo Lezcano, Gatopardo, Messico
L’opposizione vuole metterla in stato d’accusa e i cittadini la contestano. Ma la
presidente del Brasile è stata una guerrigliera e non ha intenzione di arrendersi
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mentore Luiz Inácio Lula da Silva. Che la
sua immagine di dirigente tenace sia ormai
sfumata e che la sua onestà vacilli non per
quello che ha fatto, ma per quello che ha nascosto. Invece, secondo i sostenitori, la presidente sopravviverà agli attacchi.
Ideologia e tempo libero
il 13 dicembre 2015. Sul lungomare di Copacabana, a Rio de
Janeiro, migliaia di persone
camminano grondando di sudore sotto il sole a picco. Tutti
accompagnano con furia rivendicativa le grida che escono dagli altoparlanti del camion in testa al corteo, scortato da venditori ambulanti di magliette e
adesivi con la frase “Fóra Dilma”, fuori
Dilma.
È la quarta ondata di manifestazioni
contro la presidente del Brasile, Dilma
Roussef. Nel 2015, il primo anno del suo
secondo mandato, la crisi economica ha
travolto il paese. L’azienda petrolifera statale Petrobras ha dovuto fare i conti con
è
l’avvio, nel 2014, dell’indagine lava jato
(autolavaggio) su una gigantesca rete di
corruzione e di tangenti tra la compagnia e
la classe politica brasiliana, tra cui molti
dirigenti del Partito dei lavoratori, al governo. La popolarità di Roussef ne ha risentito. Nel frattempo a ottobre la corte dei conti ha bocciato il bilancio dell’esecutivo per
irregolarità iscali. Questo è stato il motivo
uiciale per l’apertura di una procedura di
messa in stato di accusa della presidente,
che potrebbe portare alla ine anticipata del
suo mandato. Il 2 dicembre 2015 il presidente della camera, Eduardo Cunha, ha
annunciato che avrebbe accettato la richiesta di messa in stato di accusa. Roussef si è
difesa pubblicamente: “Il mio passato e il
mio presente testimoniano l’indiscutibile
rispetto che ho delle leggi e della cosa pubblica”, ha detto.
La storia di Dilma Roussef è quella di
una sopravvissuta, che ha ricoperto la carica più importante del paese dopo aver percorso tutte le tappe possibili per un personaggio politico della sua generazione: militante universitaria, guerrigliera clandestina
processata e incarcerata durante la dittatura, ministra statale, ministra federale e inine presidente. La sua storia le è valsa la fama di lady di ferro e maga della sopravvivenza. Secondo i sondaggi, oggi la maggioranza dei brasiliani è contraria al governo di
Roussef. Lei si appella alla legittimità delle
urne e deinisce “colpo di stato” la procedura di destituzione avviata contro di lei. Se il
governo non riuscirà a ottenere 172 voti
contro la messa in stato d’accusa (un terzo
della camera più un voto), la proposta passerà al senato e Roussef sarà allontanata
dalla sua carica. Ma la presidente conida
nella sua storia di lotta per restare a galla.
Le proteste contro la sua gestione potrebbero far pensare che Roussef sia un albero pericolante. I detrattori sostengono
che l’inizio del suo mandato, nel 2010, sia
stato solo un prolungamento di quello del
Dilma Vana Roussef è nata il 14 dicembre
1947 nella città di Belo Horizonte, nello
stato di Minas Gerais. Il suo secondo nome
è un omaggio alla sorella minore del padre,
Pedro Roussef. Nato nel 1900 in Bulgaria
e registrato all’anagrafe come Pétar
Roussev, nel 1929 era fuggito in Francia
per motivi ignoti e aveva cambiato il suo
cognome eliminando la v e aggiungendo
due f: Roussef. Dopo la seconda guerra
mondiale si era trasferito in Brasile e lì avevano cominciato a chiamarlo Pedro. Poi
quell’uomo pallido e imponente, che aveva
lasciato una moglie e un iglio in Bulgaria,
si era innamorato della iglia di un allevatore di bestiame. Lei si chiamava Dilma
Jane e aveva vent’anni quando i due si erano sposati. I igli erano arrivati subito: Igor,
Dilma, solo undici mesi dopo il primogenito, e Zana, quattro anni dopo.
Ma la vita spensierata della famiglia inì
all’improvviso nel 1962. Un sabato, rientrando a casa, Pedro si sentì male. Era un
fumatore incallito e morì la sera stessa a
causa di un infarto. Lasciò una fortuna e un
vuoto nella famiglia, soprattutto nella iglia
maggiore Dilma, che aveva quattordici anni e cominciava a cambiare, da bambina
agiata a ragazza inquieta. La scuola che frequentava, Nossa senhora de Sion, fu venduta, e lei si trasferì nell’istituto pubblico
più famoso di Belo Horizonte, il Colégio
estadual central, dove studiavano i igli della borghesia progressista di Belo Horizonte.
In quel momento la scuola era anche l’incubatrice di un movimento studentesco che,
poco dopo, avrebbe imbracciato le armi.
Roussef superò l’esame di ammissione e
cominciò gli studi in un periodo fondamentale per il paese: il marzo del 1964. Due settimane dopo un colpo di stato militare instaurò in Brasile una dittatura che durò per
21 anni, ino al 1985.
Belo Horizonte era una città cosmopolita. “La casa dei Roussef era uno dei pochi posti in cui si potevano trovare i libri di
Jorge Amado. Per questo c’incontravamo
sempre lì”, ricorda Helvécio Ratton, cineasta, ex guerrigliero esule e amico della
presidente, parlando dello scrittore comunista perseguitato negli anni trenta nel suo
stesso paese. “L’impressione era che a Belo Horizonte le disuguaglianze sociali non
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Brasile
VINCENT CATALA (VU/KARMA PRESS PHOTO)
Rio de Janeiro, 2015
fossero profonde come in altre grandi città
brasiliane”, prosegue. “Era una città in
movimento, connessa al resto del mondo,
e la strada e i bar erano luoghi importanti.
Tutto succedeva lì”.
In quella città si formò El clube da esquina, un collettivo musicale che univa la musica popolare brasiliana con i Beatles, e il
jazz con l’eredità latinoamericana. Era guidato da Milton Nascimento e da tre fratelli,
i Borges. Uno di loro, Márcio, era compagno
di scuola e amico di Dilma Roussef. Trascorrevano insieme molti pomeriggi. “L’ho
conosciuta a casa di un amico che faceva
parte del movimento studentesco. Indossava l’uniforme della scuola, una gonna grigia
e la camicia bianca con la cravatta”, racconta Márcio.
In quel periodo il tempo libero e l’ideologia andavano di pari passo, e la lotta armata cominciava a emergere come l’unica
forma possibile di resistenza alla dittatura
militare instaurata con il colpo di stato del
31 marzo 1964. Come avrebbe ricordato
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Roussef decenni dopo, quando era ormai
presidente, le inluenze più importanti di
quella generazione arrivavano da ambiti
diversi: l’esistenzialismo, la nouvelle vague e la rivoluzione cubana. In quel contesto nacquero bar come il Butcheco, un locale nascosto e senza insegna che serviva a
inanziare la Polop, l’organizzazione rivoluzionaria marxista politico e operaia dove
Rousseff cominciò la sua militanza, nel
1965.
Colpo di fulmine
Cláudio Galeno Linhares era tornato a Belo
Horizonte, la sua città natale, dopo essere
stato detenuto per un periodo in un carcere
di Rio de Janeiro alla ine del 1964, per attività sovversive. Linhares viveva nella pensione Odete, frequentata dai gruppi di sinistra della città e da alcune ragazze del Colégio estadual central che militavano nel
movimento studentesco. Tra di loro c’era
anche Dilma Roussef. Cominciarono a frequentarsi quando Linhares era già impe-
gnato nella lotta armata. Si sposarono nel
1967. La madre di Roussef regalò ai due un
appartamento dove vissero prima normalmente e poi in clandestinità.
Dilma Roussef s’iscrisse alla facoltà di
economia, la più rinomata dell’università
federale di Minas Gerais.
“Quello che facevamo in quegli anni
era il risultato di un ambiente scosso dal
fermento politico e culturale”, racconta
Ratton. “Proprio qualche giorno fa ripensavo al passato e mi domandavo perché
sono entrato in un’organizzazione rivoluzionaria. Credevo di poter trasformare il
Brasile, come insegnava il libretto di Jules
Régis Debray”.
Quel “libretto” s’intitola Rivoluzione nella rivoluzione? e l’autore era un giovane
giornalista francese che viveva in America
Latina e propugnava la lotta armata di piccoli gruppi guerriglieri che avrebbero “innescato il motore della rivoluzione”. I giovani militanti di Belo Horizonte, quasi tutti
borghesi, erano d’accordo con Debray. Per
fare la resistenza armata servivano i soldi,
così loro cominciarono a rapinare le banche. Secondo la versione più difusa, nella
Polop Roussef si occupava della stampa
clandestina del giornale O Piquete. Ha
sempre negato di aver partecipato agli assalti alle banche.
Quando la Polop si sciolse, tutti entrarono in un nuovo gruppo, il Comando di liberazione nazionale (Colina). Era il 1968 e
l’obiettivo era prendere le armi per arrivare
al potere. Ma la dittatura aveva altri piani: il
13 dicembre il regime emanò l’Atto istituzionale numero 5, noto come AI-5, che autorizzava il presidente della repubblica, un
militare, a sciogliere il parlamento. Le camere furono chiuse quello stesso giorno,
inaugurando l’epoca più buia della storia
recente del Brasile.
Nel gennaio del 1969 un attacco realizzato dai guerriglieri del Colina si concluse
con l’arresto di un amico di Dilma Roussef
e di Cláudio Galeno. Loro due scapparono
a Rio de Janeiro sotto la protezione dell’organizzazione guerrigliera e si rifugiarono in
un appartamento. Poco dopo Galeno fu di
nuovo trasferito a Porto Alegre, mentre
Roussef restò a Rio per occuparsi della logistica: armi, soldi e documenti. Nel corso
di una riunione ebbe un colpo di fulmine:
lui si chiamava Carlos Franklin Paixão de
Araújo, aveva 31 anni, era iglio di comunisti
ed era stato nelle carceri della dittatura.
Araújo andò a vivere nello stesso appartamento di Roussef.
Lo racconta per telefono da Porto Alegre: “La chiamavamo tutti Estela, non conoscevo il suo vero nome. Io ero Max. C’incontrammo per la prima volta durante una
riunione per preparare l’uniicazione del
Colina con il Vpr, un altro gruppo. Fu un
colpo di fulmine anche per me. Il giorno
dopo le dissi che la trovavo attraente, lei
rispose che era sposata, ma la passione ebbe la meglio e poco dopo andammo a vivere insieme”.
Dilma Roussef e il suo nuovo compagno entrarono nel gruppo Vanguarda armada revolucionária Palmares, e lì Roussef
ricoprì un ruolo di primo piano. Il Var-Palmares decise di trasferirla a São Paulo, alla
ine del 1969, mentre Max restava a Rio de
Janeiro. “Passarono poco più di due mesi da
quando se ne andò da Rio a quando fu arrestata”, ricorda Araújo. “Solo allora venni a
sapere il suo vero nome: Dilma Roussef ”.
Tutti i demoni del passato di José Olavo
Leite Ribeiro rispuntano fuori quando questo ex militante parla delle torture. Le chiama o pau, letteralmente “il palo”.
“Per molti anni mi sono sentito in col-
pa”, dice. “Usavano questa tecnica: ogni
giorno ti facevano scrivere la tua storia a
mano. Tu scrivevi, e se c’era una divergenza
qualsiasi con la versione precedente ti torturavano. Se dimenticavi o cambiavi qualcosa, ti torturavano, con o pau”.
“E perché si sentiva in colpa?”.
“Perché non avrei dovuto parlare, ma
non ero pronto a morire per la causa. Cominciavano a picchiarti nel momento in cui
inivi in carcere e non la smettevano ino a
quando non confessavi qualcosa”.
Olavo sopporta un altro peso: la sua dichiarazione causò l’arresto di una compagna che poi sarebbe diventata la presidente
del Brasile. Conobbe Dilma Roussef (con i
nomi di Luiza, Vanda, Estela e Patrícia) nel
1969. Secondo Olavo, era la leader del VarPalmares a São Paulo.
“Lavorai per lei quattro mesi. Era una
militante molto attiva e intelligente. Dal
punto di vista intellettuale non era brillante,
ma studiava e leggeva moltissimo, e si faceva notare”, aferma.
All’inizio del 1970 Olavo fu arrestato a
São Paulo. Dopo due settimane in carcere
era molto indebolito: aveva subìto continue
torture ed era stato chiuso in una cella senza luce. Il 16 gennaio lo lasciarono uscire
per dargli la possibilità di mostrare “il punto”, cioè il posto in cui si dava appuntamento con gli altri guerriglieri.
“Dilma Roussef fu arrestata perché io
mi presentai con la polizia nel luogo in cui
dovevo incontrarla”, dice Olavo.
Matrimonio in carcere
La foto più famosa della presidente è quella che le fu scattata nel gennaio del 1970
all’interno del dipartimento di ordine politico e sociale, subito dopo il suo arresto.
Nell’immagine si vede Roussef con i capelli corti e un paio di occhiali con una
montatura di plastica nera e lenti spesse.
In mano ha un cartello con il numero 3023.
Fu l’inizio della permanenza di Roussef
nelle carceri brasiliane: due anni e dieci
mesi che cominciarono con la tortura.
Rousseff ha raccontato apertamente
quell’esperienza solo nel 2003, al giornalista Luiz Maklouf Carvalho: “Per prima cosa
c’era la palmatória, una specie di racchetta
di legno con il manico lungo che serviva per
colpire e stordirti. Poi mi chiedevano di togliermi i vestiti e mi mettevano nel pau de
arara, una barra di ferro a cui venivo legata
per i polsi e per le ginocchia. Poi la barra era
sistemata tra due tavoli per farmi pendere a
un palmo da terra. C’era anche la cadeira do
dragão, la sedia elettrica. Mi colpivano con
continua a pagina 52 »
Da sapere
Un paese
diviso
l 3 aprile 2016 la presidente del Brasile Dilma Roussef ha ribadito sulla
sua pagina Facebook che non si dimetterà. La dichiarazione è arrivata
all’indomani della pubblicazione di un
editoriale della Folha de S.Paulo, uno
dei quotidiani più inluenti del paese, favorevole alle dimissioni della presidente
“perché sono venute meno le condizioni
per governare il paese”.
Roussef afronta una procedura di
messa in stato di accusa per una presunta
violazione della legge nella gestione del
bilancio del 2014: secondo l’opposizione,
ha truccato i conti pubblici per nascondere la reale ampiezza del deicit e favorire la
sua rielezione alle elezioni dell’ottobre del
2014. La presidente ha risposto alle accuse
dichiarando che la procedura “non ha nessun fondamento legale” e nasconde un
“tentativo di colpo di stato istituzionale”.
La situazione di Roussef si è complicata ancora di più il 29 marzo, quando il Partito del movimento democratico brasiliano (Pmdb, centro) ha annunciato la
sua uscita dalla maggioranza di governo.
La decisione del Pmdb potrebbe rivelarsi
decisiva per il futuro della presidente, che
deve ottenere 172 voti su 513 alla camera
per impedire che la richiesta di messa in
stato d’accusa passi al senato. I militanti
del Partito dei lavoratori (Pt, sinistra),
di cui Roussef fa parte e che è al governo
da tredici anni, hanno convocato varie
manifestazioni in sostegno della presidente. Una parte del paese, però, è delusa dalla sua gestione e dall’enorme scandalo di
corruzione che ha coinvolto l’azienda petrolifera statale Petrobras e la classe politica brasiliana, tra cui molti dirigenti del
Pt. Il 4 marzo il giudice Sérgio Moro, che
dal 2014 conduce l’inchiesta lava jato (autolavaggio), ha autorizzato l’interrogatorio
dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da
Silva, prelevato dagli agenti federali a casa sua. Per alcuni Moro ha abusato del suo
potere. Il 17 marzo Lula ha prestato giuramento come capo di gabinetto nel governo di Roussef, scatenando le proteste di
una parte del paese, convinta che fosse un
modo per evitare l’arresto e ottenere l’immunità. La nomina è stata sospesa il giorno dopo da un giudice del tribunale supremo federale. u
I
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51
Brasile
le scariche elettriche ovunque: piedi, mani,
interno cosce e orecchie. Sulla testa era terribile. Anche sui capezzoli. Era impossibile
trattenere l’urina e le feci. I primi giorni ero
esausta, svenivo perché non resistevo a tutte quelle scariche. Avevo emorragie. Quando mi lasciavano in pace tremavo di freddo,
perché ero nuda. E poi ricominciavano”.
“Mi arrestarono ad agosto”, ricorda
Araújo. “Mi tennero in carcere per 75 giorni e poi mi portarono davanti a un giudice,
dove rividi Dilma per la prima volta. Entrambi fummo trasferiti in un altro carcere e a quel punto conobbi sua madre. Si chiamava Dilma
anche lei, e durante le visite diventò amica di mia madre. C’erano un padiglione maschile e uno
femminile, le persone sposate potevano
vedersi in privato. Noi però non eravamo
sposati. Per questo le nostre madri cercarono di fare pressione sul direttore del carcere: volevano farci incontrare. Un giorno,
forse per stanchezza, il direttore le prese
come testimoni e ci sposò. Il nostro certiicato di matrimonio è irmato dal direttore
di una prigione della dittatura militare”.
Roussef fu condannata a sei anni di prigione. Il tribunale superiore militare ridusse la sua pena a tre anni, che diventarono
due anni e dieci mesi. Alla ine del 1972 uscì
dal carcere. Aveva 25 anni.
Quando tornò in libertà anche Araújo,
insieme cominciarono una nuova vita a
Porto Alegre. Nel 1976 ebbero la loro unica
iglia, Paula, mentre la loro carriera decollava: Carlos forniva assistenza legale alle
persone indigenti, Roussef era tirocinante
alla Fondazione di economia e statistica
(Fee) dello stato di Rio Grande do Sul, ma
perse il lavoro quando il suo nome comparve su una lista di proscrizione dei quadri
guerriglieri reinseriti nei posti pubblici. Decise quindi di riprendere gli studi di economia. Intanto continuava la militanza da casa: il suo appartamento si trasformò nel ritrovo dei movimenti a favore delle elezioni
dirette, dei gruppi sindacali e del Movimento democratico brasiliano (Mdb), un partito
di opposizione alla dittatura.
Si avvicinava la ine degli anni settanta
e la dittatura continuava in una versione
sempre più edulcorata. Le elezioni erano
rimandate, ma i leader dell’opposizione in
esilio potevano rientrare in patria. Tra loro
c’era anche lo storico dirigente di sinistra
Leonel Brizola. Insieme a lui, Dilma
Rousseff e Carlos Araújo parteciparono
alla rifondazione del Partito laburista brasiliano, il Ptb. Nel 1980 fondarono il Partito democratico laburista. Dilma faceva
52
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
parte del consiglio comunale e cominciava
a tessere i suoi legami politici. Intanto il
regime si sgretolava: nel 1985 cominciò la
transizione a un governo civile. Roussef
ottenne la sua prima carica uiciale come
assessora al bilancio e, dal 1988, non abbandonò più l’amministrazione pubblica:
fu direttrice generale del consiglio comunale di Porto Alegre, presidente della Fee
dal 1990 al 1993 e ministra dell’energia,
delle miniere e delle comunicazioni dello
stato di Minas Gerais. Quest’incarico fu
riconfermato nel 1999, quando
si fece notare da Luiz Inácio Lula
da Silva.
Sul piano personale le cose
non andavano bene. Una crisi irreversibile la spinse a mettere alla
porta il marito. Poco dopo, Roussef ebbe
una relazione con un ingegnere, Luiz Oscar
Becker. È l’unico uomo, oltre ai suoi due
mariti, a cui si sa che Roussef fu legata.
La guerriera
Nel frattempo il Brasile stava cambiando.
Dopo la ine della dittatura si erano susseguiti governi di centrodestra e Lula si stava
facendo conoscere alla guida del Partito dei
lavoratori (Pt). Dopo aver perso tre elezioni,
il leader del Pt vinse quelle del 2002. S’insediò come presidente nel gennaio del 2003 e
nominò ministra federale per le miniere e
l’energia una completa sconosciuta per i
brasiliani: Dilma Roussef.
Nel 2008, quando lei era capo di gabinetto, un politico dell’opposizione la costrinse a ricordare gli anni della dittatura. Il
7 maggio 2008 si riunì la commissione che
indagava su presunte irregolarità durante il
mandato dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso (1995-2003). Quel giorno
Da sapere
Andamento dell’economia
Variazione annuale del pil brasiliano, %
9
6
3
0
-3
2003
2005
2007 2009
2011
2013
2015*
*Stime. Fonte: The Economist
Roussef era al centro dell’attenzione. Davanti a lei, il senatore conservatore José
Agripino Maia insinuò che Rousseff non
stesse dicendo la verità. Il senatore metteva
in dubbio la sua parola a causa di un’intervista in cui lei raccontava di aver mentito durante gli interrogatori della dittatura per
non consegnare alla polizia i suoi compagni
di guerriglia. Roussef ascoltò con attenzione il discorso del senatore. Quando prese la
parola, disse a voce alta: “Sono stata tre anni in carcere e sono stata barbaramente torturata, senatore. All’epoca chi veniva interrogato e diceva la verità rischiava di compromettere la vita dei suoi compagni. Sono
orgogliosa di aver mentito, perché mentire
sotto tortura non è facile. Davanti alla tortura, chi ha coraggio e dignità mente. Questo
dialogo è democratico, non è un dialogo tra
il mio collo e la forca. Qualsiasi paragone
tra la dittatura e la democrazia può arrivare
solo da chi non dà valore alla democrazia.
Credo che nel 1970 io e lei attraversassimo
momenti diversi della nostra vita”.
Nei primi anni da presidente Lula aveva
girato per il paese inaugurando cantieri e
distribuendo abbracci a sindaci e governatori. Roussef era stata al suo ianco, sempre composta e seria. Nel 2005 era scoppiato il caso mensalão, il primo grande scandalo di corruzione dell’era Lula (i deputati di
altri partiti avevano ricevuto pagamenti
mensili in cambio di voti a sostegno del governo). Molti parlamentari del Pt erano
stati coinvolti, ma Roussef ne era uscita
raforzata e aveva preso il posto dell’allora
capo di gabinetto José Dirceu, che si era dimesso a causa dello scandalo. Era il giugno
del 2005 e Roussef sarebbe rimasta in carica fino alla fine del secondo mandato di
Lula, nel 2010.
Nonostante le accuse di corruzione che
pesavano sul governo, infatti, nel 2006 Lula fu rieletto. La situazione economica del
paese era buona e i brasiliani riconoscevano all’ex sindacalista di essere riuscito a
ridurre la povertà estrema. Il Brasile fu
scelto come sede per i Mondiali del 2014 e
per le Olimpiadi del 2016. Superò perino
la crisi internazionale del 2008, anche grazie a un fattore che sancì il successo deinitivo di Dilma Roussef: il programma di
accelerazione della crescita (Pac). Lula voleva che Roussef riunisse in questo programma i grandi progetti infrastrutturali,
soprattutto quelli per le reti fognarie e per i
complessi abitativi. L’ambizione era investire ino al 2010 più di cento miliardi di
dollari in lavori pubblici che lasciassero
un’eredità visibile, in particolare nelle aree
più povere del paese.
VINCENT CATALA (Vu/KARmA PRESS PhoTo)
La spiaggia di Macumba a Rio de Janeiro, 2015
Roussef era sulla cresta dell’onda. Lo
capì anche Lula, che cominciò a parlare con
i suoi collaboratori della possibilità di sceglierla come candidata alla presidenza per
il Partito dei lavoratori.
Sapendo di dover afrontare una campagna elettorale, Roussef si sottopose ad alcuni interventi chirurgici: si operò agli occhi
e fece un lifting per ridurre le rughe e le occhiaie. La sua candidatura fu lanciata uicialmente nel luglio del 2010, con Lula in
camicia rossa che alzava il braccio della sua
prescelta e un’ovazione travolgente alla
convenzione nazionale del Pt.
Una democrazia forte
Prima che succedesse tutto questo,
Roussef aveva incontrato l’ex marito Carlos Araújo e la iglia, per dirgli che aveva una
malattia grave: “Ci dette appuntamento e ci
confessò di avere un tumore”, ricorda
Araújo. Tutto era nato dalla scoperta di un
piccolo rigoniamento sotto l’ascella, durante una visita di controllo del dottor Ro-
berto Kalil, lo stesso di Lula. Il 3 aprile 2009
Roussef era stata ricoverata per farsi togliere un nodulo di due centimetri. La diagnosi del linfoma era stata confermata e la
notizia era stata data ai giornalisti. Roussef
si era presentata in tv all’ora di punta, sul
canale Rede Globo. “Afronto questa malattia per uscirne più forte”, aveva dichiarato.
E così aveva fatto, senza nascondere la chemioterapia, la caduta dei capelli, la parrucca e il gonfiore provocato dai farmaci.
All’inizio del 2010, prima di lanciare uicialmente la sua candidatura, la malattia
era stata dichiarata in remissione. E lei aveva detto in un’intervista: “Il cancro spaventa perché è associato alla morte. La mia
esperienza è stata quasi opposta: per me il
tumore è legato alla capacità di superare le
diicoltà”.
La sua immagine pubblica si raforzò e,
in campagna elettorale, fu presentata come
la “guerriera” che esce vittoriosa da ogni
sida senza mai farsi abbattere.
Lula da Silva è stato un elemento fonda-
mentale nella campagna elettorale di Dilma Roussef del 2010. Iniammava le masse
nei comizi, criticava i rivali e parlava di
Roussef come presidente quando non la
conosceva quasi nessuno. Le strade erano
piene di manifesti dell’ex presidente e leader del Pt in compagnia della sua ministra
più potente. Così le percentuali di sostegno
a Roussef sono salite ino all’euforica serata del 31 ottobre 2010 nel palazzo di Alvorada a Brasília, quando è stata annunciata la
sua vittoria al ballottaggio con il 56 per cento dei voti, contro il 44 per cento ottenuto
da José Serra, del Partito socialdemocratico
brasiliano (Psdb, di centrodestra).
Intorno a mezzanotte Roussef è uscita
dalla stanza dove aveva seguito le elezioni
per andare al centro congressi. Lì l’aspettavano simpatizzanti, compagni di partito e
giornalisti provenienti da tutto il mondo.
Nel tragitto dall’ascensore al palco,
Roussef ha distribuito baci e abbracci tra
stelle, bandiere rosse e slogan sindacali.
Quando è arrivata sul palco tutto è diventaInternazionale 1148 | 8 aprile 2016
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Brasile
to molto più neutro. Nel suo primo discorso
da presidente, trasmesso in diretta su tutte
le tv principali del paese, ha dichiarato:
“Lancio un appello alle aziende, ai politici,
alle chiese e all’università perché lottino
contro la disuguaglianza. Non potremo darci pace ino a quando ci saranno brasiliani
che hanno fame o vivono per strada”.
Il suo programma prevedeva una lunga
lista di proposte sociali, educative e sanitarie: eliminare la povertà estrema, dotare di
acqua potabile tutta la popolazione, costruire istituti professionali e migliaia di asili,
espandere i centri per l’assistenza sanitaria
in tutto il Brasile. E anche una serie di misure macroeconomiche per favorire la crescita senza perdere di vista il controllo dell’inlazione. Un anno dopo il suo arrivo al palazzo del Planalto, la popolarità di Roussef
aveva raggiunto indici superiori anche a
quelli del suo mentore. L’ombra lunga
dell’ex presidente Lula, però, comportava
l’accettazione di molti dirigenti che arrivavano dalla sua gestione. Ma è stato subito
chiaro che la presidente non era il tipo da
fare concessioni. Roussef ha mostrato in
dall’inizio la sua faccia più severa: nel primo
anno di mandato ha chiesto le dimissioni di
sette ministri accusati di corruzione. Tutti
avevano ricoperto ruoli importanti durante
i governi di Lula.
Nonostante i dati incoraggianti dei sondaggi, il governo non è riuscito a far crescere il paese al ritmo dei dieci anni precedenti:
il 2,7 per cento nel 2011, lo 0,9 per cento nel
2012. Queste cifre sono state interpretate
dal governo come una conseguenza della
crisi internazionale del 2008. L’economia
brasiliana ha rallentato e gli investimenti
sono diminuiti.
Nel gennaio del 2013 una protesta contro l’aumento delle tarife dei trasporti pubblici urbani si è estesa in poco tempo a tutto
il paese. A São Paulo il rialzo del biglietto
era stato del 7 per cento, una percentuale
inferiore all’inlazione di quell’anno. Ma,
secondo i manifestanti, dover pagare ancora di più per un servizio pubblico di per sé
già caro era una cosa inaccettabile. Quel
germe di protesta, che aveva come bersaglio sindaci e governatori, è arrivato ino
alla presidente. Il culmine è stato raggiunto
quando sono venuti a galla gli sprechi per
l’organizzazione dei Mondiali e delle Olimpiadi. Secondo i manifestanti, che all’inizio
erano soprattutto studenti di sinistra, il paese aveva bisogno di scuole e ospedali, non
di stadi. Il 18 giugno più di un milione di
persone hanno manifestato in quattrocento
città. Le conseguenze sono state immediate: il giorno dopo i governi di undici grandi
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
città hanno fatto marcia indietro, rinunciando all’aumento delle tarife per i trasporti pubblici.
Il 21 giugno Dilma Roussef ha dato ragione ai manifestanti in un discorso trasmesso dalla tv nazionale: “Le dimensioni
delle manifestazioni confermano l’energia
della nostra democrazia, la forza della voce delle piazze e la civiltà della nostra popolazione. La mia generazione sa quanto ci
sia costato tutto questo. Ora voglio dire che
il mio governo sta ascoltando i manifestanti. È bello vedere così tanti giovani e adulti
che difendono un paese migliore. Il Brasile
è orgoglioso di loro”.
Chiunque si sarebbe
dato per vinto con la
metà dei problemi
che ha lei
Questo gesto di apertura verso chi protestava non è comunque riuscito a impedire la difusione del malcontento.
“Dilma Roussef ha tagliato i ponti con
la società, non ascolta i movimenti sociali
critici, parla solo con i settori che sono dalla sua parte. Per questo non è nelle condizioni politiche per guidare i cambiamenti
chiesti dal Brasile”, aferma Apolo Heringer Lisboa, ex guerrigliero, uno dei fondatori del Pt e oggi ambientalista critico nei
confronti della gestione di
Roussef.
Pelle dura
I movimenti ecologisti hanno
sempre rimproverato alla presidente di non occuparsi abbastanza delle
questioni ambientali. Secondo Roussef il
completamento della centrale idroelettrica di Belo Monte, la terza diga più grande
del mondo, fornirebbe al Brasile un iume
di megawatt puliti e rinnovabili a basso costo. Ma per farlo bisogna distruggere migliaia di ettari di foresta e allontanare decine di comunità indigene che vivono lungo
il iume Xingu, senza nessuna garanzia di
eicienza. Inoltre nel 2015 Roussef ha nominato ministra dell’agricoltura Kátia
Abreu, in prima linea nella difesa dei grandi proprietari terrieri e quindi ostile al movimento dei Sem Terra.
Presto è aiorato un altro problema: la
corruzione. Prima con la sentenza deinitiva del caso mensalão, nel 2013, che ha confermato la condanna di vari pezzi grossi
del Partito dei lavoratori. Poi, nel 2014, con
l’avvio dell’inchiesta lava jato, ancora in
corso. Le indagini sulla malversazione sistematica di fondi dell’azienda petrolifera
statale Petrobras hanno spinto Roussef a
smentire di essere mai stata a conoscenza
di attività illegali (dal 2003 al 2010 Roussef
è stata presidente del consiglio d’amministrazione della Petrobras). Alti dirigenti
della compagnia e politici del suo partito
ricevevano tangenti dalle maggiori società
di appalti del paese in cambio di contratti
sostanziosi. “Non credo che la presidente
sia coinvolta personalmente ma sapeva
quello che faceva il suo partito”, sostiene
Apolo Heringer Lisboa. Molti testimoni
invece non hanno dubbi circa l’onestà della presidente: “È una donna che ha sempre
combattuto, solidale, onesta e sempre preoccupata delle disuguaglianze sociali”,
sostiene Eleonora Menicucci de Oliveira,
sua amica personale e ministra per le donne ino all’ottobre del 2015.
Si sa poco della vita privata attuale della
presidente. Oggi Dilma Roussef, vicina ai
settant’anni, ha la pelle sempre più dura,
anche per le diicoltà che vive il suo governo. Nel 2014 il paese è stato colpito dalla
crisi economica e la crescita è stata quasi
nulla. La produzione industriale si è ridotta
di un terzo, i consumi sono crollati, mentre
sono aumentati i prezzi ed è cresciuta la disoccupazione. Quell’anno, in piena crisi
internazionale del petrolio, e a due mesi
dalle elezioni, il Brasile è entrato in recessione. Sembrava che la rielezione non fosse
alla portata di Roussef e in efetti
è stata la campagna elettorale più
combattuta della storia democratica del paese, con dibattiti accesi
tra la stessa Roussef, Aécio Neves e Marina Silva, che aveva preso il posto di Eduardo Campos, morto il 13
agosto in un incidente di elicottero. Ma la
strategia dello specialista in campagne elettorali del Pt João Santana (che sarebbe poi
stato arrestato alla ine di febbraio del 2016
nell’ambito dello scandalo lava jato) – attaccare per non doversi difendere – ha funzionato. Roussef è stata presentata come una
donna coraggiosa, che aveva sidato la dittatura. E al ballottaggio del 26 ottobre ha
vinto contro Aécio Neves per tre milioni di
voti, che in Brasile sono solo tre punti percentuali. Hanno votato per lei più i brasiliani poveri di quelli ricchi, il nord più del sud.
“È impossibile che una persona che ha
fatto militanza negli anni sessanta non sia
una politica solida”, aferma il ministro della comunicazione sociale Edinho Silva.
“Roussef ha ottime capacità gestionali, ma
è anche una grande leader. Se è diventata
presidente, è stato grazie al suo percorso da
VINCENt CAtALA (Vu/KARMA PRESS PhOtO)
L’avenida Presidente Vargas a Rio de Janeiro, 2015
militante. Ecco perché in questo momento
diicile è lei a guidare le politiche del governo”. Secondo i suoi collaboratori, Roussef
non ha un buon carattere: vuole che le cose
siano fatte esattamente come dice lei. Come ha detto una volta un deputato del Pt a
São Paulo: “È molto democratica, se tu sei
d’accordo con lei al cento per cento”.
Il 26 ottobre 2014, la sera della vittoria,
davanti alla spaccatura evidente dell’elettorato, Roussef si è presentata con un atteggiamento sincero: “Voglio essere una presidente migliore di quanto non lo sia stata inora”. Il giorno della sua investitura ha
chiesto un patto contro la corruzione e il sostegno del parlamento.
Ma non ha ottenuto nessuna delle due
cose. Anzi, i problemi si sono aggravati. Neanche il nuovo gabinetto, in cui spiccava un
ministro dell’economia neoliberista, Joaquim Levy, ha fatto cambiare andamento
all’economia. Levy ha promosso manovre
iscali per correggere gli errori di gestione,
ma ha incontrato la resistenza di alcuni set-
tori del Pt che l’hanno accusato di accelerare la recessione. E nel dicembre del 2015 si è
dimesso.
Il 2015 è stato l’anno più diicile per Dilma Roussef da quando è presidente. Si calcola che l’economia brasiliana si sia contratta circa del 3 per cento. Secondo le previsioni fatte a gennaio dalla Banca centrale
brasiliana, nel 2016 l’economia del paese si
ridurrà del 2,95 per cento. I dati del Fondo
monetario internazionale parlano del 3,5
per cento.
Oggi il Brasile è in caduta libera per una
combinazione di fattori economici e politici
che stanno provocando un efetto domino.
Scende il pil, aumentano l’inlazione e la
disoccupazione. Lo stato interviene, ai mercati non piace, crolla la borsa, diminuisce il
rating e sprofonda il dollaro. Si tagliano gli
stipendi, gli impieghi pubblici e i bilanci,
aumentano le tasse, ne risentono i programmi sociali. Nell’anno delle Olimpiadi,
il paese che ha speso dieci miliardi di dollari per preparare l’evento taglia gli investi-
menti alle infrastrutture e agli stadi. Il Brasile è passato dalla crescita più grande e sostenuta tra i paesi emergenti alla peggiore
crisi dagli anni trenta. Da una stabilità politica inedita, con un partito di sinistra al potere per più di dieci anni, all’ingovernabilità. Ma Roussef resta al suo posto, anche se
è sempre più alle strette e aspetta l’esito della procedura di messa in stato di accusa. Chi
la conosce dice che è a suo agio nelle situazioni diicili e quando qualcuno la sida la
sua testardaggine la spinge a contrattaccare. È più brava di fronte alle avversità e di
solito le supera a testa alta.
“Sa quello che vuole e non si lascia dominare dagli eventi”, aferma l’ex marito
Araújo. “Chiunque si sarebbe dato per vinto
con la metà dei problemi che ha lei, ma Dilma non è così. E non lo sarà mai”. u fr
L’AUTORE
Arturo Lezcano è un giornalista freelance
nato a La Coruña, in Spagna, nel 1976. Vive
a Rio de Janeiro.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
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Scienza
Cambio
di terapia
Andy Coghlan, New Scientist, Regno Unito
uando nel 2013 le hanno
diagnosticato un melanoma maligno in fase avanzata, Vickie Brown è rimasta
sconvolta. Anche con le
migliori cure disponibili in
quel momento, quasi tutte le persone con
una diagnosi simile alla sua non sopravvivevano per più di sei mesi. Poi è arrivata la
svolta. Attraverso l’ente beneico Melanoma Uk, Brown è stata invitata a partecipare
al test clinico di un farmaco sperimentale
presso l’ospedale Royal Marsden di Londra.
I medici le hanno somministrato tre infusioni endovenose a settimana per diverse
settimane. Dopo la seconda, i noduli che
sentiva in gola e nel petto erano scomparsi.
“Ero emozionatissima”, dice Brown, che è
ancora viva a tre anni dalla diagnosi iniziale. “Il medico dice di non aver mai visto un
risultato simile in così poco tempo”.
I risultati ottenuti da Brown saranno stati anche straordinari, ma il suo non è un caso isolato. Altre persone che hanno partecipato a test clinici simili sono ancora vive,
dieci anni dopo aver ricevuto prognosi
sconfortanti. A questi nuovi farmaci sono
stati dedicati articoli con titoli ottimistici su
molti giornali, soprattutto dopo che Jimmy
Carter, ex presidente degli Stati Uniti, ha
annunciato che sono state proprio queste
medicine a rimuovere le lesioni da melanoma al cervello, potenzialmente letali.
Questa nuova generazione di farmaci
anticancro, chiamati inibitori dei
Q
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
checkpoint immunitari, sta ottenendo risultati così spettacolari che gli scienziati la
considerano una svolta epocale. “Un tempo
il melanoma e il tumore ai polmoni equivalevano a una condanna a morte, ma oggi
non è più così”, ha afermato Gordon Freeman del Dana-Farber cancer institute di
Boston. “È una vera rivoluzione. E siamo
solo all’inizio”.
La storia di questa cura è cominciata negli anni sessanta, quando il medico giapponese Tasuku Honjo seppe che un suo compagno di studi era morto per un tumore allo
stomaco. “Da quel momento in poi”, racconta oggi, “il mio sogno è sempre stato
curare il cancro”.
Il sogno cominciò a prendere forma nel
1992, quando Honjo lavorava come immunologo all’università di Kyoto e cercava di
capire come e perché i linfociti T – le cellule
immunitarie che riconoscono e attaccano
le cellule anomale – a volte si autodistruggevano. Aveva scoperto una proteina che si
produceva sulla supericie di alcuni linfociti T e sospettava che avesse a che fare con
quel processo. Perciò l’aveva chiamata
“Programmed cell death-1”, o PD-1.
Per capire cosa facesse esattamente la
PD-1, Honjo disattivò il gene responsabile
di quella proteina nei topi e riscontrò che gli
animali sviluppavano malattie autoimmuni
come l’artrite, la degenerazione del tessuto
cardiaco e l’osteoartrite. Questo faceva
pensare che la PD-1 contribuisse a impedire
al sistema immunitario di andare fuori con-
SCIEnCE PHoTo LIBRARy/ConTRASTo
Alcuni farmaci riescono a combattere i tumori
stimolando il sistema immunitario. Il metodo non
sempre funziona, ma per molti studiosi potrebbe
segnare una svolta nella lotta al cancro
trollo. “Il sistema immunitario ha bisogno
di freni e di acceleratori, e la PD-1 era chiaramente un freno”, dice Honjo. Così si chiese se il sistema immunitario potesse essere
scatenato contro il tumore bloccando la
PD-1 con un farmaco.
Pazienti liberati
L’idea che i farmaci possano aumentare la
capacità del sistema immunitario di combattere il cancro, la cosiddetta immunoterapia, è oggetto di intense ricerche da decenni. In teoria il nostro sistema immunitario dovrebbe farlo da solo. Ma uno dei motivi per cui il tumore riesce a difondersi in
tutto il corpo è la sua capacità di acquietare
il sistema immunitario. Perciò nella mag-
Un linfocita T (evidenziato in giallo) attacca la cellula di un cancro alla prostata
in vita dopo dieci o undici anni”. Superati i
tre anni, sembra che il cancro non torni,
dice Wolchok.
Ma anche se nel 2011 gli Stati Uniti ne
hanno approvato l’uso contro il melanoma,
l’ipi presenta livelli di tossicità che molte
persone trovano intollerabile. Tra i suoi effetti collaterali sono state registrate iniammazioni polmonari ed epatiti. Alcuni pazienti sono morti. Il problema è che l’ipi toglie un freno importante al sistema immunitario, lo fa lavorare freneticamente e fa in
modo che anche le cellule sane siano esposte agli attacchi, come succede nella chemioterapia standard. Quindi c’era bisogno
di una strategia più mirata.
Togliere il freno
gior parte dei casi si usa la forza bruta, distruggendo le cellule tumorali con i farmaci
o le radiazioni. Questo tipo di cure spesso
funziona ma non è mirato, con il risultato
che insieme alle cellule tumorali danneggia
anche quelle sane. Inoltre, non è in grado di
stare al passo con il cancro, che si evolve
continuamente in risposta agli attacchi che
riceve. Per questo sarebbe meglio trovare
un modo per annullare l’efetto che le cellule cancerose hanno sul sistema immunitario, risvegliando quest’ultimo e costringendolo a fare il suo lavoro. È stata tentata la
strada di vari vaccini e stimolatori, ma nessuno ha funzionato in modo costante.
Poi, nel 2010, sono stati resi noti gli eccezionali risultati del test di un farmaco
chiamato ipilimumab, abbreviato in “ipi”,
che esercitava efetti mai visti sul melanoma, il tipo più aggressivo di tumore della
pelle. A un anno dalla ine del test, circa metà dei soggetti che avevano partecipato allo
studio erano ancora in vita, e il 24 per cento
lo era anche l’anno successivo, un risultato
quattro volte migliore di quello delle chemioterapie standard.
Ma soprattutto, alcune persone che
avevano partecipato al test sembravano
essersi completamente liberate del tumore. “Circa il 20 per cento dei pazienti è vissuto più di tre anni”, dice Jedd Wolchok del
Memorial Sloan-Kettering cancer center
di New York, uno dei medici più impegnati
nei test del farmaco. “Alcuni sono ancora
E qui è entrato in scena Honjo. Dato che la
PD-1 è un “ricettore” prodotto solo dalle
cellule immunitarie, la sua équipe ha pensato che dovesse esserci qualcosa che si legava alla sua molecola e l’attivava. Honjo ha
mandato campioni di PD-1 a Freeman e ai
suoi colleghi, a Boston, che l’hanno messa a
confronto con varie proteine prodotte dalle
cellule umane per vedere se si stabiliva un
legame. Hanno scoperto così che attirava
una molecola oggi nota come PD-L1 (programmed death ligand-1).
I ricercatori hanno anche scoperto un’altra cosa importante: le cellule cancerose
spesso producono PD-L1. “Le prime in cui
abbiamo trovato la proteina sono state le
cellule del cancro alle ovaie e al seno”, dice
Freeman. “Poi lo abbiamo trovato in molte
altre cellule cancerose, e ci siamo resi conto
che veniva prodotto per stimolare la PD-1 e
attivare il freno immunitario. A quel punto
tutto è stato chiaro”. Freeman, Honjo e le
loro équipe hanno scoperto che sulla supericie delle cellule tumorali la PD-L1 stabiliva una tregua “stringendo la mano”, cioè
legandosi, alla PD-1. In questo modo fermava l’attacco immunitario, permettendo
al cancro di proliferare.
Bloccando la PD-1 sarebbe stato possibile fermare il cancro? Per veriicare questa
ipotesi, Honjo ha provato a impiantare tumori umani senza PD-1 nei topi. E, come
immaginava, i tumori non crescevano. Il
passo successivo è stato creare gli anticorpi
capaci di contrastare la PD-1, per vedere se
erano in grado di difendere le cellule dal
cancro “rilasciando il freno”. E in effetti
funzionavano, anche se non quanto l’eliminazione totale del gene. Ma questo bastava
a dimostrare che era possibile stimolare il
sistema immunitario.
Tuttavia, queste scoperte non hanno
suscitato grande interesse, perché tutti eraInternazionale 1148 | 8 aprile 2016
57
Scienza
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Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
PD-1, è già allo studio un secondo tipo di
farmaci che bloccano l’altro partner, la molecola di PD-L1 sulle cellule tumorali. Finora quello che ha ottenuto risultati migliori è
stato l’atezolizumab, prodotto dalla Genentech e dalla Roche: ha infatti dimostrato di
essere in grado, in media, di allungare la
vita dei pazienti di quasi otto mesi più del
docetaxel, il miglior farmaco attualmente
disponibile.
Il lato negativo
Ma c’è anche un lato negativo: questi farmaci funzionano solo su alcune persone.
“Nei casi di tumore ai polmoni, due o tre
pazienti su dieci hanno reagito molto bene,
sono rimasti stabili per parecchio tempo”,
dice Julie Brahmer della facoltà
di medicina dell’università Johns
Hopkins di Baltimora, nel Maryland, e una delle coordinatrici dei
test sulla PD-1. “Ma al momento
la maggior parte dei malati di
cancro ai polmoni non sta rispondendo a
questa terapia”.
Esiste anche un altro grande interrogativo: perché i farmaci non sembrano funzionare su alcuni dei tumori più difusi, come
quelli alla prostata, al colon e al seno?
Un’ipotesi è che più il cancro muta e meglio
è, perché dà al sistema immunitario più
bersagli “anomali” su cui puntare. Questo
potrebbe spiegare perché con il melanoma
e con il cancro ai polmoni e ai reni si ottengono risultati migliori. A causa dell’esposizione ai raggi ultravioletti, al fumo o alle
tossine, probabilmente questi tumori hanno più mutazioni di quelli che nascono in
tessuti più isolati dall’ambiente esterno.
Un modo per aumentare l’eicacia dei
Da sapere
Costi in aumento
Spesa annuale pro capite per i farmaci usati
nelle terapie oncologiche, in dollari. Fonte: Institute
for healthcare Informatics
100
2014
2010
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no presi dall’ipi. “Ho cercato di convincere
l’industria farmaceutica, ma ho incontrato
enormi diicoltà”, racconta Honjo. La situazione è cambiata quando si è scoperto
che gli efetti nocivi dell’ipi spesso superavano i suoi beneici. Alla ine l’industria farmaceutica si è dedicata al metodo basato
sulla PD-1, molto più mirato e fondato
sull’interazione tra sistema immunitario e
cellule tumorali.
Oggi i farmaci che gli oncologi trovano
più promettenti sono gli inibitori della PD-1.
E in testa a tutti ci sono il nivolumab o “nivo” e il pembrolizumab o “pembro”, il farmaco usato per Jimmy Carter.
Questi farmaci costringono il sistema
immunitario ad attaccare le cellule cancerose ma non i tessuti sani, quindi
sono più eicaci e meno aggressivi dell’ipi. “Hanno pochissimi
effetti collaterali”, dice James
Larkin, oncologo del Royal Marsden, che ha avuto in cura diverse persone colpite da melanoma e cancro
ai reni – compresa Vickie Brown – con nivo,
pembro e ipi. “Ma , in generale, l’aspetto
più incoraggiante di questi nuovi farmaci è
che c’è tra il 30 e il 40 per cento di probabilità in più che gli efetti durino anni e non
mesi”, dice.
Finora nei test clinici i risultati ottenuti
con il nivo e il pembro sono sempre stati migliori di quelli prodotti sia dall’ipi sia dai tipi
più avanzati di chemio e radioterapia, e
spesso hanno raddoppiato la riduzione del
tumore e la sopravvivenza del paziente con
efetti collaterali molto meno pesanti. A luglio del 2014 il nivo ha ottenuto l’approvazione ufficiale dal ministero della salute
giapponese per il trattamento dei melanomi con metastasi. Poco dopo i due farmaci
sono stati approvati anche negli Stati Uniti.
Sembrano anche promettenti per il trattamento della forma più comune di cancro ai
polmoni, uno dei tumori che causa il maggior numero di decessi.
Uno dei motivi per cui questi farmaci si
stanno rivelando così eicaci è che mobilitano il sistema immunitario e gli permettono di evolversi continuamente per tenere
sotto controllo il tumore, impedendogli di
sfuggire alla localizzazione e alla distruzione anche se sviluppa centinaia di mutazioni. “Il sistema immunitario non vede un
solo bersaglio sul tumore, ne vede dieci, o
forse cinquanta, e spara a raica piuttosto
che un colpo alla volta”, dice Freeman. “È
molto più diicile sfuggire a una mitragliatrice”.
E mentre sia il nivo sia il pembro interrompono “la stretta di mano” bloccando la
farmaci potrebbe essere usarli insieme. Finora i risultati migliori sono stati ottenuti
considerando il nivo e l’ipi per il trattamento del melanoma. Quasi il 60 per cento dei
pazienti ha reagito bene e il tumore si è ridotto di oltre il 30 per cento, più di quando
viene usato solo il nivo (44 per cento) o solo
l’ipi (19 per cento). Nel 12 per cento delle
persone alle quali è stata somministrata la
combinazione – 36 pazienti in tutto – il tumore è completamente sparito. I risultati
preliminari hanno anche dimostrato che
l’80 per cento dei pazienti a cui erano stati
somministrati i due farmaci insieme erano
ancora vivi due mesi dopo il trattamento.
VickyBrown ha partecipato proprio a un
test di questo tipo. I farmaci hanno fatto
sparire il suo tumore, anche se all’epoca
non lo sapeva. Tuttavia, la sua storia conferma che, anche se sono più eicaci di altre
terapie, queste combinazioni non funzionano sempre. Due anni dopo il trattamento
combinato, Brown ha scoperto che erano
comparse nuove masse tumorali nei suoi
polmoni. Poco dopo è stata la prima persona al mondo a ricevere la terapia per la seconda volta. Questo è successo nel settembre del 2015, e a febbraio ha ricevuto la bella
notizia che il suo cancro si è stabilizzato.
“Sono stata molto fortunata per aver avuto
un’altra opportunità”, dice.
Un sistema ancora migliore sarebbe
quello di combinare i nuovi farmaci con altri tipi di terapie, come la radio o i vaccini, e
varie aziende farmaceutiche lo stanno sperimentando. Molti trattamenti tradizionali
spaccano le cellule bersaglio come se fossero dei martelli, aferma Dan Chen, responsabile della ricerca sui tumori della Genentech. Producendo più detriti, potrebbero
aprire la strada agli inibitori PD-1, mettendo a disposizione del sistema immunitario
bersagli che altrimenti rimarrebbero nascosti nei tumori.
Nessuno ha ancora tutte le risposte, ma
molti hanno la sensazione che per la lotta al
cancro questa sia una svolta decisiva. “Praticamente abbiamo scoperto l’equivalente
per il cancro della penicillina”, sostiene
Chen. Anche se non era in grado di curare
tutte le infezioni, la penicillina ha aperto la
strada a tutta una generazione di antibiotici
che ha cambiato la medicina per sempre,
consegnando alla storia infezioni che prima
erano mortali.
Se questo è vero, molti tipi di tumori potrebbero diventare un ricordo. Anche altri
ricercatori sono abbastanza ottimisti. “Non
vorrei dirlo, ma potrebbe essere veramente
un momento decisivo. È un momento molto emozionante”, dice Brahmer. u bt
Filippine
Elgin Damasco conduce la sua trasmissione del mattino, Puerto Princesa, Filippine, ottobre 2015
Frequenze
pericolose
Saul Elbein, The California Sunday Magazine, Stati Uniti. Foto di Jes Aznar
Le Filippine sono uno dei paesi
più pericolosi al mondo per i
giornalisti. Specialmente per
quelli che lavorano alla radio
A
ppena il programma di
Elgin Damasco inisce,
le guardie del corpo lo
accompagnano fuori dal
suo studio fortiicato ino alla macchina e lo
portano a casa attraverso le strade ombrose
di Puerto Princesa, la capitale della provincia occidentale di Palawan. Lui se ne sta
nascosto lì ino alla mattina dopo. La polizia
60
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
lo ha avvertito che alcuni uomini si aggirano intorno a casa sua. “Non sono nemmeno
libero di andare al centro commerciale”,
dice. Ma tra le pareti di cemento del suo studio radiofonico, quest’uomo di 32 anni dal
viso di cherubino si sente al sicuro. La sua
voce è collegata alla più potente trasmittente dell’isola. Ogni giorno torna alla carica,
come dice la sigla del suo programma, “per
difendere i deboli e criticare i corrotti”. Dalle 16 alle 17.30 dei giorni feriali, nessuno
può metterlo a tacere.
Oggi, come per tutto l’inverno, ce l’ha
con Edward Hagedorn, che è stato sindaco
di Puerto Princesa per quasi vent’anni. Nel
2002 cacciò dall’incarico il suo successore
e tornò a guidare la città per altri nove anni.
In seguito ha cercato di assegnare l’incarico alla moglie. Ma il vicesindaco – che è anche il cognato della moglie di Hagedorn,
come spesso accade nella politica da telenovela delle Filippine – ha deciso che voleva lui quell’incarico, e nel 2013 ha vinto le
elezioni.
Ora i sostenitori di Hagedorn stanno
cercando di ottenere la destituzione del
nuovo sindaco. Nelle Filippine nessuna
competizione politica è degna di questo
nome senza una guerra radiofonica all’ultimo sangue. Per Elgin Damasco, quello di
Hagedorn è un chiaro caso di corruzione.
“Abbiamo bisogno di un cambiamento”,
dice, “e dobbiamo cambiare”. Seduto davanti a un enorme microfono che gli na-
sconde quasi completamente il viso, intervalla il suo lungo monologo con statistiche
prese dalla pila di documenti che ha davanti. Accusa la famiglia Hagedorn di appropriazione indebita, furto di terre e omicidio. Come se non bastasse ci aggiunge le
recenti dichiarazioni di un sacerdote che si
è schierato dalla parte del sindaco: “Gli
sgherri di Hagedorn vogliono che crediamo al loro capo più che a un servo della
chiesa, un servo di Dio!”.
Elgin Damasco ha tutte le ragioni per
essere spaventato. Dopo la Siria, l’Iraq e la
Somalia, le Filippine sono uno dei posti più
pericolosi al mondo per i giornalisti. Secondo il Centro per la libertà di stampa ilippino, dal 1986, quando cadde la dittatura di
Marcos e fu restaurata la democrazia, ne
sono stati uccisi almeno 168. Circa la metà
erano giornalisti radiofonici indipendenti
come Damasco. Quando lui ha cominciato
ad attaccare Hagedorn, gli omicidi dei
giornalisti seguivano già lo schema attuale:
appena il giornalista lascia lo studio gli si
avvicinano due uomini in moto, il passeggero spara, il giornalista cade e la motocicletta sfreccia via. Non si saprà mai chi ha
pagato il sicario.
Damasco ha preso il posto di “Doc”
Gerry Ortega, ucciso nel 2011 perché come
lui usava il microfono per attaccare la dinastia che controlla l’isola. Mentre la voce di
Damasco si difonde per Puerto Princesa, il
fantasma di Ortega si aggira nello studio e
gli ricorda quanto è importante e pericoloso questo lavoro. Una volta finito il programma – un’ora e mezza quasi ininterrotta
di diretta – Damasco zuppo di sudore nonostante l’aria condizionata al massimo si
stravacca sul divano. Le guardie del corpo
lo aspettano fuori. “Forse la prossima volta
che sentirete parlare di me sarò morto”, dice con cupa fierezza. Poi scoppia in una
lunga, sonora risata.
Onde in paradiso
Per buona parte della sua storia, Palawan è
stata considerata dagli abitanti delle isole
principali un inferno malarico, un posto
dove mandare criminali e lebbrosi. Ma negli ultimi vent’anni le cose sono cambiate,
perché grazie alla sua bellezza surreale
l’isola è diventata una meta turistica molto
popolare. Di recente, sia Condé Nast Traveller sia Travel & Leisure l’hanno dichiarata l’isola più bella del mondo. Per tutto il
2010, sei mattine alla settimana, la voce
calda e avvolgente di Ortega è uscita dalle
radio di tutta l’isola per ricordare al pubblico che non tutto andava bene a Palawan. Il
suo programma cominciava sempre nello
stesso modo, con una serie di richiami di
animali seguita da una voce che diceva in
tagalog: “Palawan, l’ultimo regalo della natura alle Filippine, oggi è al centro di dissensi e polemiche. La più ricca provincia
del paese è stata distrutta dai corrotti e dai
criminali. Ascoltate Ramatak!”.
Il titolo del programma, Ramatak, ha un
suono onomatopeico. Dalla torre di trasmissione sopra lo studio di Ortega, la stessa che oggi trasmette la voce di Damasco,
usciva un efetto sonoro simile a quelli dei
western americani: un colpo di frusta, un
cavallo che nitrisce, zoccoli al galoppo. Era
Ortega che cavalcava contro i bandidos. Il
segnale in modulazione di frequenza sorvolava le foreste vergini e le spiagge di sabbia bianca, le paludi di mangrovie e le rocce
Da sapere
Verso il voto
u Il 9 maggio 2016 le Filippine voteranno per
eleggere il nuovo presidente. Dopo sei anni, il
mandato di Benigno Noynoy Aquino sta per
scadere e non potrà essere rinnovato. Secondo i
sondaggi di inizio aprile, i favoriti sono la
senatrice Grace Poe e il sindaco di Davao
Rodrigo Duerte. Poe, al senato dal 2013, è la
iglia adottiva di due star del cinema locale e
punta sulla lotta alla povertà e alla corruzione.
Duerte, noto per il pugno di ferro contro la
criminalità, non ha però esperienza di governo
a livello nazionale né in politica estera, mentre
una delle questioni che il paese dovrà
afrontare nel prossimo futuro è il confronto
con Pechino nella contesa sulle isole nel mar
Cinese meridionale. L’ex banchiere Mar
Roxas, il candidato sostenuto dal Partito
liberale di Aquino, per ora ha scarse possibilità
di vittoria, come Jejomar Binay, leader
dell’opposizione ed ex avvocato difensore dei
diritti umani, accusato di corruzione.
East Asia Forum
carsiche. Una volta arrivato alla costa, veniva ripreso dalle nuove torri di trasmissione che lo trasformavano in onde medie e lo
facevano rimbalzare ino ai campi di riso,
alle baie dei pescatori e ai pulmini che servivano le località turistiche di El Nido. Ed
ecco Doc Gerry, il più grande giornalista
radiofonico di Palawan, che si annunciava
sulla sigla della serie tv statunitense Hawaii
Five-O.
Il suo vero nome era Gerardo Ortega,
ma nessuno lo chiamava così. Alla radio
era Doc Gerry, in onore dei suoi studi di
veterinaria. Praticava il bodybuilding, era
un convinto ambientalista e un cristiano
rinato. A 47 anni aveva la fama di essere un
ribelle, uno che denunciava a voce alta la
corruzione sull’isola. Negli anni novanta,
quando il disboscamento illegale a monte
aveva sporcato l’acqua del suo allevamento di coccodrilli, si era messo a perlustrare
le colline, con qualsiasi soldato abbastanza
sciocco da seguirlo, armato di fucili della
seconda guerra mondiale. I taglialegna
avevano fucili d’assalto. Morire per Palawan e le Filippine, aveva detto una volta a
una delle iglie, era il modo migliore di morire.
Feudalesimo moderno
Dietro l’apparente democrazia, le Filippine, dai baranggay (la divisione amministrativa più piccola) alla presidenza, sono un
regime corrotto e feudale. Ogni atto politico, o quasi, è il risultato di decenni di intricate lotte intestine tra le dinastie che regnano sulle isole. Lo stesso Ortega apparteneva a una famiglia di politici anche se di
secondo piano. Suo padre era stato sindaco
di un piccolo comune vicino a Puerto Princesa ino a quando era stato ucciso a coltellate per una disputa di gioco durante un
combattimento tra galli. Ortega sognava di
costruire a Palawan il tipo di democrazia
che aveva visto negli Stati Uniti, un paese in
cui i politici, nonostante tutti i loro difetti,
in genere si assumevano le loro responsabilità senza rubare soldi pubblici per arricchire le famiglie.
Buaya, coccodrillo, è il termine che nello slang locale indica un poliziotto o un politico corrotto. La camera dei deputati, per
esempio, viene chiamata “la fattoria dei
coccodrilli”. Nel suo primo programma radiofonico, quando ancora si occupava
dell’allevamento, Ortega diceva sempre, in
tono addolorato, che quell’uso della parola
era un’ofesa per i poveri buaya. In fondo
loro chiedevano da mangiare solo una volta
al mese.
Nelle Filippine ci sono circa seicento
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Filippine
stazioni radio, quasi tutte piccole e tenute
insieme con la speranza e lo scotch. Per pagare le spese, molte danno in concessione
“blocchi” (blocks, in inglese) di ore ai cosiddetti blocktimer, giornalisti freelance. Nelle
campagne, dove la radio è il mezzo d’informazione più difuso, i blocktimer sono le
uniche fonti di notizie e di critiche ai politici. Nei casi migliori, le loro trasmissioni
sono un mix d’intrattenimento, informazione e pettegolezzi. A volte sono demagoghi. Alcuni sono giornalisti seri che producono programmi simili allo statunitense 60
minutes. Altri sono fanatici che inveiscono
contro la corruzione e il degrado ambientale. Altri ancora lavorano per le famiglie che
governano le Filippine. Un bravo blocktimer
– uno capace di suscitare polemiche, attirare il pubblico e trovare sponsor – può guadagnare un discreto stipendio.
Ci si può idare di loro? Diicile dirlo.
la dinastia che controllava Coron, un villaggio di pescatori e centro turistico della
zona nord dell’isola. Su Reyes circolavano
da anni strane voci. Si parlava di un suo
amico colpito da una pallottola alla testa
durante una battuta di caccia quando erano
giovani. Reyes sosteneva che era stato un
incidente. Si sospettava che facesse regolarmente uso di cocaina. Di notte, nel bar
che frequentava a Puerto Princesa, a volte
la sua maschera da uomo afascinante cadeva e rivelava, come mi ha detto un giornalista, “una faccia da assassino”.
Le origini della faida
Nessuno sa con precisione com’era cominciata la faida tra Ortega e Reyes. Nel 2000
Reyes, che all’epoca era vicegovernatore
dell’isola, era stato promosso grazie a un
colpo di fortuna perché il governatore era
morto in un misterioso incidente aereo.
La campagna radiofonica di Ortega
terrorizzava la sua famiglia, tutti gli
chiedevano di smettere. Stava
attaccando troppe persone pericolose
Un sistema politico fondato sul doppio gioco e sui complotti crea una società paranoica. Quel rapporto federale che il blocktimer
sta leggendo, per dimostrare che un certo
politico ha rubato i soldi destinati alla costruzione di una strada, è un documento
vero o è stato inventato da uno dei suoi rivali? E il giornalista che denuncia la corruzione da chi è pagato? Spesso da un politico
che ha comprato lui come potrebbe comprare un sicario. Per esempio, un politico
come José Alvarez, l’uomo più ricco di Palawan.
Alvarez, un irascibile uomo d’afari sulla settantina, nel 2008 si lanciò in una campagna per conquistare il posto di governatore e sottrarre l’isola al controllo delle famiglie che, secondo lui e Ortega, la stavano
saccheggiando. Dato che non aveva mai
fatto politica, strinse un’alleanza con
Edward Hagedorn, che era già stato sindaco di Puerto Princesa. Anche Alvarez costruì una sua stazione radio e una serie di
torri di trasmissione a onde medie, creando
la più potente rete di emittenti che Palawan
avesse mai avuto. E nel 2010 ofrì un lavoro
a Doc Gerry Ortega, già noto per i suoi princìpi e per il suo odio verso la corruzione.
Per capire come mai Ortega lo accettò,
bisogna sapere che aveva litigato ferocemente per quasi dieci anni con il famoso e
carismatico governatore Joel T. Reyes, del-
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Quello stesso anno, Ortega era entrato in
politica e aveva conquistato un seggio nel
consiglio provinciale. Quello che vide lo
disgustò: non solo la piccola corruzione
delle note spese goniate ma addirittura un
complotto, orchestrato da Reyes, per appropriarsi dei diritti di sfruttamento di un
grande pozzo di gas naturale al largo della
costa. Nel 2004 Ortega si presentò alle elezioni per il posto di governatore sidando
Reyes. Perse e attribuì la sua sconitta alla
capacità del suo avversario di comprare
voti.
Poco dopo, un suo amico giornalista fu
assassinato. Ortega si ritirò dalla vita pubblica e convinse sua moglie Patria a iscriversi a un corso di infermieristica con lui.
Avrebbero potuto trasferirsi negli Stati
Uniti “o in un altro paese del primo mondo” e lasciarsi alle spalle Palawan. Durante
quel periodo trascorso lontano dalla vita
pubblica, dice la iglia Michaella, Ortega si
rese conto che essere un outsider non era
suiciente. Se voleva cambiare la politica
dell’isola, doveva allearsi con una delle
grandi famiglie. Finì il corso ma non sostenne mai l’esame. Quando Patria gli
chiese il motivo, le rispose che non avrebbe
mai potuto essere felice in un altro posto.
“Cosa potevo fare?”, ricorda lei. Rimase a
guardarlo mentre avviava una serie di progetti che avrebbero permesso di distribuire
in tutta l’isola la nuova ricchezza portata
dal turismo. Ma, con l’avvicinarsi delle elezioni del 2010, si era preisso un obiettivo
ancora più ambizioso: mettere ine al sistema dinastico di Palawan.
Diverso dagli uomini che amano bere e
divertirsi, Alvarez sembrava una brava persona. Si era fatto da sé passando dalla povertà a un impero di concessionarie di auto
sparse in tutto il sudest asiatico. Perino i
suoi rivali politici lo ammiravano perché, si
diceva, si faceva le valige da solo, si stirava
le camicie e si svegliava all’alba per lucidarsi le scarpe. Come molti miliardari entrati
in politica, Alvarez prometteva di governare Palawan con il rigore di un uomo d’afari.
Dato che era ricco, non sarebbe stato tentato di rubare. Avrebbe costruito un modello
di governo democratico eiciente, dedicando i suoi ultimi anni di vita attiva a Palawan, per scontare il fatto che in passato
aveva saccheggiato le sue foreste.
Alvarez doveva muoversi rapidamente.
Il mandato di Reyes scadeva nel 2010. I
membri delle coalizioni politiche ilippine
spesso aggirano il problema delle scadenze scambiandosi di posto. Reyes aveva in
progetto di presentarsi alle elezioni per un
seggio al congresso, mentre la persona che
in quel momento lo occupava, Abraham
Mitra, avrebbe concorso per la carica di
governatore (dettaglio da telenovela: Mitra era iglio del padrino di Ortega). Ortega
pensò che la candidatura di Alvarez alla
carica di governatore fosse la migliore occasione per sconiggere la fazione di Reyes.
“Aveva detto ad Alvarez: ‘Non posso
essere il suo portavoce e al tempo stesso
sostenerla alla radio. Devo essere neutrale’”, racconta Joey Mirasol, un altro giornalista che Ortega aveva reclutato per la
campagna di Alvarez. Spesso gli accordi
tra politici e giornalisti possono essere facilmente rinnegati. Secondo Mirasol, il loro non faceva eccezione. “Alvarez versava
una somma a una delle sue fondazioni come voce deducibile dalle tasse”, dice. “La
fondazione ci assumeva come consulenti,
e noi pagavamo le ore di trasmissione alla
stazione di Alvarez. Uscivano da una tasca
ed entravano dall’altra”. A detta di Mirasol,
lui e Ortega ricevevano dalla fondazione
40mila pesos (circa un migliaio di euro) al
mese ciascuno.
Il programma di Ortega durava tre ore
ed era un misto di varietà e notizie scandalistiche. Passava dagli scherzi alle accuse,
discutendo e litigando con una serie di caricature interpretate dalla sua spalla, Boy
Bonoan. Attaccava i mercanti di riiuti, le
Puerto Princesa, ottobre 2015
società minerarie e chiunque altro stesse
rovinando le bellezze naturali di Palawan.
Ma il suo obiettivo principale erano Reyes
e Mitra. Giorno dopo giorno insisteva sui
soldi che si erano intascati mentre le strade
e le scuole dell’isola cadevano a pezzi e due
terzi degli abitanti non avevano l’elettricità. E ripeteva che Alvarez era l’unico uomo
in grado di salvare l’isola dalla rovina.
Alla ine, pagate tutte le mazzette e contati i voti, Mitra batté per un soio Alvarez
e diventò governatore, ma al congresso
Reyes non ce la fece. L’alleanza tra Alvarez
e Hagedorn si stava delineando. Molti
sull’isola ne attribuivano il merito, o la colpa, a Ortega. A maggio Reyes tornò a Coron. Se avesse acceso la radio, avrebbe
sentito Ortega che, dalla stazione di Alvarez, chiedeva instancabilmente il suo arresto. “Non sono i soldi di tua madre”, dice
Ortega in una trasmissione andata in onda
il 17 gennaio 2011. “Non sono i tuoi soldi.
Sono i nostri soldi. Perciò non puoi usarli
per scommettere sui combattimenti di galli o con le tue amanti”. Poi si rivolge a Boy
Bonoan. “Quell’uomo ha delle amanti?”.
Sì, risponde Bonoan, ce l’ha. “Ha dei galli
da combattimento?”. Sì, dice Bonoan, ha
anche quelli. “Ha uno yacht?”. Oh, sì, ce
l’ha. “E allora perché non va in prigione?”.
E Bonoan risponde: “È quello che si chiedono tutti, Doc. Ma lui continua a rubare
sorridendo”.
La campagna radiofonica di Ortega terrorizzava la sua famiglia, tutti gli chiedevano di smettere. Stava attaccando troppe
persone pericolose, non solo Reyes ma anche gli industriali del legname e le società
minerarie. Tutti pensavano che stava rischiando grosso. Un mese dopo le elezioni,
due giornalisti furono assassinati nella
stessa settimana in posti diversi del paese.
L’anno prima, sull’isola di Mindanao, alcuni miliziani privati avevano rapito e ucciso
32 giornalisti. Patria Ortega cominciò a lasciare in giro per casa articoli che parlavano di giornalisti assassinati. “Gli dicevo:
‘Gerry, adesso smettila’, ma lui non mi
ascoltava”, racconta. “Lui rispondeva:
‘Questo è il mio momento, è il mio momento’”. Quando lei insisté perché assumesse qualcuno per proteggerlo, lui scelse
suo cugino, un buono a nulla, dice Patria,
“più un amico che una vera guardia del
corpo”. La mattina del 24 gennaio, Ortega
entrò in un negozio vicino alla clinica veterinaria della moglie per comprare un vestito a una delle iglie. Non vide il ragazzo che
si nascondeva in uno spiazzo vuoto dall’altra parte della strada con una maglietta
sulla faccia. Non si girò quando l’uomo cominciò ad attraversare tra i risciò a motore
che afollavano la via, alzò la pistola e gli
sparò alla nuca. Mentre Ortega cadeva a
terra, il sicario scappò lungo la Palawan
north highway correndo a zigzag tra le
macchine.
Stili diversi
Quando Ortega fu assassinato, Elgin Damasco viveva sull’isola di Mindanao e dirigeva una stazione della Radio Mindanao
Network di proprietà della famiglia Alvarez. Era un uomo dell’azienda. Aveva cominciato come reporter non retribuito
quando era ancora alle superiori e aveva
fatto carriera ino a diventare prima direttore del notiziario, poi dj in un programma
musicale e infine conduttore di un programma tutto suo. Dopo la morte di Ortega, Alvarez gli ofrì la direzione della stazione di Puerto Princesa. Quando Damasco arrivò a Palawan, l’isola era ancora
scossa dall’omicidio. La storia avrebbe dovuto concludersi con la fuga del killer, ma
questo era andato a imbattersi in due poliziotti. Quando lo avevano interrogato, aveva rivelato il nome del capo della sua squadra di sicari, il quale a sua volta aveva confessato chi li aveva assunti: Reyes.
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Filippine
attaccare e ha vietato le interviste ai portavoce dei suoi avversari. Così poco dopo le
elezioni, Damasco si è inalmente stancato
di prendere ordini da Alvarez. Si è scusato e
ha presentato le dimissioni per andare a lavorare in un’emittente dall’altra parte della
città, dove paga per andare in onda. Da quel
momento in poi è diventato un blocktimer
come Ortega.
Per molto tempo l’immagine di Doc
Gerry con la mano sul cuore ha troneggiato
su un cartellone sbiadito sulla strada che
esce da Puerto Princesa. Una scritta a lettere cubitali chiedeva in tagalog “giustizia
per Doc Gerry”. “A volte mi chiedo se valeva la pena di fare tutto quel lavoro”, dice
Patria Ortega. “Probabilmente, per lui come persona sì. Ora è in paradiso e tutti lo
ricordano come un eroe. Ma anche la sua
famiglia ha pagato, non solo lui”.
Puerto Princesa, ottobre 2015
Alvarez e Hagedorn fecero di tutto perché il caso non fosse insabbiato. Hagedorn
andò addirittura sull’isola di Luzon con gli
uomini della polizia nazionale per riportare personalmente a Palawan il capo della
squadra di sicari. Alvarez si occupò della
famiglia di Ortega ed entrambi pagarono
gli avvocati che alla ine convinsero il tribunale regionale a emettere un mandato
d’arresto nei confronti di Reyes. Nel 2012,
prima che il mandato fosse emesso, Reyes
e suo fratello presero un aereo da Manila e
sparirono, lasciando in diicoltà la loro fazione. E Damasco riprese il lavoro di Ortega. Per essere sicuro che si capisse, mantenne la sigla di Hawaii Five-O. Ma i due
conduttori avevano stili diversi. Mentre
Ortega era un incrocio tra un banditore e
un predicatore di strada, Damasco sembrava un cronista sportivo, leggeva i rapporti della polizia come se fossero descrizioni di una partita di calcio.
Mentre Ortega, nonostante qualche
compromesso, cercava di veriicare i fatti,
Damasco aveva la fama di essere meno
scrupoloso. Non aveva la vena comica di
Ortega, era un critico serio, spesso molto
duro, e mirava essenzialmente a un pubblico che condivideva già le sue idee. Eppure
fu lui a portare Alvarez alla vittoria. Durante la campagna elettorale per la carica di
governatore del 2013, mentre il candidato
teneva comizi in tutta l’isola per spazzare
via gli ultimi resti della fazione di Reyes,
Damasco esaltava lui e il suo alleato Hagedorn. Sottolineava tutto quello che avevano fatto per liberare l’isola dalla corruzione
e quello che stavano facendo per la famiglia Ortega, e insisteva sull’importanza di
inire il lavoro cominciato da Doc Gerry.
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Nel vuoto lasciato dalla frettolosa partenza di Reyes, avevano cominciato a circolare delle voci. Era impossibile non accorgersi che a trarre vantaggio dalla morte
di Ortega era stata soprattutto una persona: José Alvarez, che aveva perso un giornalista ma guadagnato un martire. Nella
cultura politica dell’isola ossessionata dai
complotti, molti non hanno resistito alla
tentazione di fare il passo successivo e
pensare che fosse stato Alvarez, o forse
Hagedorn, a ordinare l’assassinio di Ortega, usando il giornalista come “agnello
sacriicale”, per sconiggere la dinastia di
Reyes e assumere il controllo dell’isola (il
fatto che non esistesse nessuna prova di un
coinvolgimento di Alvarez o Hagedorn
nell’omicidio non ha scoraggiato questa
ipotesi). Alla ine Alvarez ha vinto le elezioni sconiggendo Mitra con il 70 per cento dei consensi.
Chi aveva visto come Alvarez gestiva le
sue società è rimasto un po’ sorpreso quando si è rivelato un dittatore. Dopo aver basato la sua campagna elettorale sull’ambientalismo, ha approvato la costruzione di una
centrale a carbone nella città natale di Ortega. Quando gli studenti della vicina università hanno protestato, ha annullato le
loro borse di studio. Ha aidato molte delle
cariche politiche dell’isola ai suoi parenti.
La iglia è sindaca di San Vicente, suo fratello sta cercando di farsi eleggere sindaco di
El Nido e suo nipote è diventato deputato.
Inoltre, anche se pubblicamente va dicendo
il contrario, ha smesso di pagare gli avvocati che si occupano del caso Ortega. Ha cominciato a interferire anche con la gestione
della vecchia stazione radio di Ortega. Ha
mandato sms ai giornalisti per indicargli chi
Interessi stabili
Nel settembre del 2015, Patria ha ricevuto
una notizia che non sperava quasi più di
ricevere. La polizia tailandese ha arrestato
Joel Reyes e suo fratello a Phuket. Sono
stati estradati e adesso sono in attesa di
giudizio nel carcere di Puerto Princesa.
Anche se una cosa del genere non ha precedenti – nessun politico ilippino è mai
stato condannato per aver ordinato l’omicidio di un giornalista – non si capisce che
diferenza potrebbe fare un verdetto di colpevolezza. Dal carcere i fratelli Reyes si
sono candidati alle elezioni per le cariche
di sindaco e vicesindaco di Coron. I ilippini dicono che in politica non esistono amicizie stabili, solo interessi stabili, e l’alleanza tra Alvarez e Hagedorn non è durata.
Alla ine del 2014, quando Hagedorn ha
lanciato la campagna elettorale per prendere il posto del sindaco di Puerto Princesa, Alvarez si è schierato dalla parte del
primo cittadino in carica. Molti sono convinti che lo abbia fatto per tenere Hagedorn lontano dal potere e consolidare il
proprio.
L’inverno scorso, quando la campagna
elettorale si è riscaldata, Damasco ci si è
tufato attaccando Hagedorn e la sua famiglia. Dice che anche Ortega avrebbe fatto
così. Ma lui non è altrettanto indipendente. Non lavora più nella stazione radio di
Alvarez, ma usa la sua emittente, e Alvarez
gli ha assegnato alcuni agenti della polizia
provinciale come guardie del corpo. Non
può permettersi di contrariarlo. Perciò,
ogni giorno va in onda e porta avanti la sua
crociata contro gli scagnozzi di Hagedorn
e per il cambiamento che Palawan meriterebbe. u bt
Portfolio
Il sogno
e l’incubo
Il fotografo Omar Imam ha
esplorato, in modo ironico e
simbolico, i sentimenti più profondi
dei rifugiati siriani che vivono
nei campi in Libano
on il progetto Live, love, refugee ho
esplorato la condizione psicologica
dei rifugiati siriani in Libano, che
cercano di tirare avanti nonostante
la guerra e la lontananza dalle loro
case”, spiega Omar Imam. “È un’evocazione visiva del
loro dolore, che convive con la speranza di ricostruirsi
una vita in un posto nuovo. Le persone che ho incontrato stanno vivendo un incubo, ma non hanno mai rinunciato alla loro dignità di esseri umani”. La visione di
Imam ribalta la rappresentazione tipica dei rifugiati
siriani, coinvolgendoli in un processo di catarsi che si
basa sui loro sogni e sulle loro paure più profonde. Le
immagini sono simboliche e surreali, e mostrano uomini e donne che hanno perso le loro radici e lottano
ogni giorno per sopravvivere.
Più di un milione di rifugiati siriani sono arrivati in
Libano dall’inizio della guerra. u
“C
Omar Imam è un fotografo e regista siriano. Ha lasciato Damasco nel 2012 e oggi vive a Beirut.
Dovevamo nutrirci d’erba. Non riuscivo a
mandarla giù, ma dovevo sforzarmi per dare il
buon esempio ai bambini.
Aminah, 40 anni, con uno dei suoi igli. Sirianapalestinese, vive in una tenda nel campo
profughi di Bekaa, nel nord del Libano. È
scappata con i igli dal campo palestinese di
Yarmuk, nella parte sud di Damasco, durante
l’assedio del 2013, quando centinaia di persone
morirono di fame. Suo marito è rimasto invece
bloccato a Damasco perché il governo libanese
aveva chiuso la frontiera. Durante l’assedio di
Yarmuk e nei due mesi successivi Aminah ha
perso 70 chili (passando da 115 a 45). Per la
tensione non riusciva più a mangiare.
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Portfolio
In Libano mi sono ritrovata a vivere in spazi
ristretti. Oggi quando sto all’aria aperta provo
un senso di ansia.
Noi uomini non contiamo più niente. I nostri
testicoli sono in pericolo.
Hael, 45 anni. Hael era un medico, ma ha lasciato il
lavoro dopo la morte del iglio di sette anni. “I
miliziani hanno fatto una retata nel nostro
quartiere e hanno portato via i miei fratelli. Ho
riconosciuto il corpo di uno di loro solo da un
tatuaggio. Sarei morto se non fosse stato per la
prontezza di mia moglie. Ha mentito ai soldati per
salvarmi la vita. Poi qui nel campo è cambiato
tutto. Noi uomini abbiamo perso potere. Le nostre
mogli non ci obbediscono più perché sono loro a
ricevere gli aiuti umanitari. Se provo ad andare io
all’Unhcr o dalle ong, si riiutano di darmi lo
scatolone con il cibo”.
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Portfolio
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Ma almeno, prima del divorzio, teneva i molestatori
lontano da me e dalle nostre iglie.
Sopra: Rawd, 43 anni. Divorziata e madre di
cinque iglie, due delle quali sposate. “Il ruolo
degli uomini è cambiato durante la rivoluzione.
Mio marito aveva paura di uscire a causa dei
checkpoint, quindi dovevo fare tutto io. Una volta
un uomo mi ha detto che mi avrebbe trovato un
lavoro, ma in cambio avrei dovuto passare la notte
con lui”.
Dato che mia moglie non può vedere, le racconto io la
trama delle sue serie tv preferite. A volte cambio un
po’ la storia per farla contenta.
A sinistra: Bassam, 39 anni. “Sono rimasto
ustionato quando avevo due anni. Per questo mio
padre ha lasciato mia madre. Alla ine ho sposato
una donna che non poteva vedere il mio volto
sfregiato. È cieca e anche un po’ sorda. Qui nel
campo è stata visitata dai medici delle ong, che
hanno studiato il suo caso a fondo. Alla ine ci
hanno lasciato questo bastone”.
Da sapere
La mostra e il festival
u Live, love, refugee di Omar Imam è in mostra all’Aria
art gallery a Firenze dal 9 al 27 aprile 2016.
L’esposizione, realizzata con il sostegno di The arab
fund for arts and culture (Afac), fa parte della settima
edizione del festival Middle East now, che si è aperto
a Firenze il 5 aprile (e si concluderà il 10 aprile). Il
festival, che quest’anno ha come tema “Live & love
Middle East”, esplora il Medio Oriente
contemporaneo attraverso i racconti e le storie
personali di chi lo vive e lo ama, tra cinema,
documentari, arte, musica, cibo, incontri e altri eventi.
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Ritratti
Amanda
Odendaal
Trasporto
eccezionale
Niels Posthumus, Trouw, Paesi Bassi
Foto di Bram Lammers
Guidare un camion per
settimane dal Sudafrica allo
Zambia, attraverso migliaia
di chilometri di deserto:
una ragazza vuole dimostrare
che può farlo meglio
degli uomini
l parcheggio è un angolo di terra
bruciata. È un pomeriggio autunnale di caldo torrido a Petit, quaranta chilometri a est di Johannesburg. Da sotto un camion
sporgono tre gambe, due nere e
una bianca, e una protesi d’acciaio. “Da
qualche parte c’è una perdita d’olio”, si sente. Amanda Odendaal, 26 anni, sbuca da
sotto il camion. Ostenta un portamento
mascolino: capelli corti crespi e mani nere,
imbrattate d’olio. Ride: “Fin da quando ero
bambina la gente che non mi conosceva si
chiedeva se ero un ragazzo o una ragazza”.
Poi spunta anche Joe Odendaal, suo padre. “Sono stata adottata”, dice Amanda
per spiegare il colore diverso della loro pelle. “Spesso la gente ci guarda con tanto
d’occhi”, dice la ragazza ridendo: “Un
bianco senza una gamba, con una iglia nera e chiaramente lesbica”. Joe ha perso la
gamba destra quando il suo camion è stato
I
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crivellato di proiettili durante la guerra civile in Mozambico nel 1991. “Mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, dice con tono pacato. “Ma il lavoro
in una zona di guerra era pagato molto bene. Per quello ero lì”.
Joe, 63 anni, è la prova vivente di quanto sia pericoloso fare il camionista nell’Africa meridionale. Eppure Amanda ha deciso
di seguire le orme del padre. Una scelta inconsueta per una donna cresciuta in un
paese conservatore come il Sudafrica. “Ho
cominciato un anno fa”, racconta. “Presto
mio padre andrà in pensione, e io voglio
rilevare la sua attività”.
Joe sorride, ma molti amici di Amanda
non erano così entusiasti della sua scelta.
Tutta sola attraverso l’Africa meridionale,
su un veicolo enorme, lontana da casa per
settimane e circondata da uomini? Un lavoro troppo pesante per una donna. E soprattutto troppo pericoloso.
Amanda sale nell’abitacolo che sarà la
sua casa per un mese. Tra una settimana
partirà per Lusaka, in Zambia. Si siede al
volante e ci mostra l’interno del camion.
“Qui è dove dormo”, dice, indicando un
materasso alle sue spalle. “Ho tutto a portata di mano: vitamine, antidoloriici, sapone, zanzariera e spray antizanzare”. Dovrà sostare diversi giorni al conine tra il
Botswana e lo Zambia, dove il controllo dei
documenti è particolarmente lento. “Si
parcheggia lungo il iume Zambesi. E lì è
pieno di zanzare”.
Finora ha sempre percorso la strada da
Johannesburg a Lusaka insieme al padre.
Sono 1.800 chilometri tra Sudafrica, Botswana e Zambia. “Cerco di insegnarle come rendere questo lavoro il più sicuro possibile”, dice Joe. “Quali strade deve prendere, quanto deve guidare per raggiungere
prima del tramonto un posto tranquillo dove dormire, di chi può idarsi e di chi no”.
In Africa meridionale le rapine ai camion sono frequenti. “Certo che sono preoccupato”, ammette Joe. “Amanda è la mia
unica iglia. Ma sono orgoglioso che si opponga agli stereotipi. Perché una donna
non dovrebbe guidare un camion?”.
“In Sudafrica la società è dominata dagli
uomini”, si lamenta Amanda in tono deciso. “Dicono che una donna deve occuparsi
delle faccende domestiche. Ma io non sono
d’accordo. Spesso ricevo dei commenti per
strada, certo. Mi chiedono cosa ci faccio su
un camion o mi dicono che dovrei starmene
a casa a cucinare. Gli uomini cercano di
passarmi avanti nella ila alla frontiera. In
Botswana e in Zambia però incrocio anche
uomini che quando passo alzano il pollice
in segno di approvazione”.
Mentre attende il suo turno alla frontiera Amanda legge. The covenant, un romanzo
storico di James A. Michener ambientato in
Sudafrica, è appoggiato sul cruscotto. La
sera spesso si fa una birra con i colleghi maschi. “È facile fare amicizia sulla strada. La
maggior parte degli uomini inisce per accettarmi dopo un po’”, dice. Le è capitato
spesso di ricevere proposte di matrimonio,
in particolare da uomini zambiani. “Anche
se sanno che sono lesbica ci provano comunque”.
Stupri correttivi
In Botswana e nello Zambia l’omosessualità è un reato. Eppure Amanda non mente
quasi mai sul suo orientamento sessuale.
“Nello Zambia inirei in prigione se la polizia mi sorprendesse a fare sesso con una
donna. Per cui sono costretta all’astinenza”,
ride. “Ma non mi nascondo. Gli uomini mi
guardano spesso con stupore. È un tabù. Ma
più che altro ci scherzano sopra. Al massimo si divertono a stuzzicarmi, ma non ho
mai subìto aggressioni”.
In Sudafrica è diverso, nonostante sia
l’unico paese africano a riconoscere i matrimoni gay. Amanda sospira: “È terribile qui.
Mi sento più libera quando sono oltre il conine. Il Sudafrica ha una costituzione progressista, ma questo non vuol dire che an-
che la sua cultura lo sia. Non si può imporre
per legge alla gente di avere vedute più
aperte”. Il problema è che spesso in Sudafrica non ci si limita alle aggressioni verbali.
Se si escludono le zone di guerra è il paese
con il più alto numero di stupri al mondo e
uno di quelli in cui la violenza contro gli
omosessuali è più frequente. Gli “stupri
correttivi” sono frequenti soprattutto nelle
township e nelle aree rurali.
Amanda ne fatto le spese in prima persona. “Mi ha assalita con un coltello”, racconta indicando la cicatrice sulla gamba.
Come molte vittime, anche lei conosceva
il suo aggressore. “Pensavo che fosse un
amico. Mi idavo di lui”. Ha sporto denuncia, ma l’uomo è stato liberato quasi subito.
In Sudafrica solo il 5 per cento delle denunce per violenze sessuali porta a una condanna. Amanda è stata violentata appena
un anno fa, eppure non ha paura di dormire
sul camion. Anzi, paradossalmente questo
l’ha aiutata a superare la paura. “E poi mi
sono completamente liberata del disagio
per il mio orientamento sessuale”.
Quand’era più giovane Amanda ha avuto una crisi d’identità: nera, ma con un padre bianco. Un padre biologico che se n’era
andato dopo aver messo incinta sua ma-
dre. Una madre biologica che l’aveva data
in adozione quando aveva tre mesi. Una
madre adottiva che era morta quando lei
aveva quattordici anni. E poi l’omosessualità. Così si è rifugiata nella droga: cocaina
ed eroina.
Il padre non ha mai avuto problemi con
il suo orientamento sessuale. “Mi ha detto
solo: ‘L’importante è che tu sia felice’. Sono
stata davvero fortunata”. Ma la sua confusione era forte, e le mancava sua madre. A
causa del lavoro Joe era sempre lontano e
non si è reso conto delle diicoltà della iglia. “Quando inalmente me ne sono accorto, ormai la situazione era irrecuperabile”, racconta. “Rubava tutto quello che c’era
“La libertà della strada
vuota. Fare nuovi
incontri. Vedere posti
dove non sono mai
stata. Perché dovrebbe
essere riservato solo
agli uomini?”
da rubare per comprare la droga. E l’ho dovuta cacciare di casa”.
Amanda ha vissuto per strada, fino a
quando è inita in ospedale per overdose.
Joe le ha dato una seconda possibilità, e così
è tornata a vivere con lui. “Avevo bisogno di
un obiettivo nella mia vita”, dice Amanda.
Quest’obiettivo è diventato proseguire l’attività del padre.
Gli sguardi di disapprovazione, la morte
della madre, la droga, lo stupro: ora Amanda porta tutto con sé, come un bagaglio
mentale, nei suoi viaggi attraverso il deserto del Kalahari. “Mi piace guidare”, dice.
“La libertà della strada vuota, tutta per me.
Scrivere e leggere quando devo aspettare .
Fare nuovi incontri. Visitare posti dove non
sono mai stata prima. Perché dovrebbe essere riservato solo agli uomini?”. Amanda
sogna un camion nuovo, più facile da guidare, senza perdite d’olio. E fantastica su
come ingrandirà l’azienda e sugli altri autisti che dovrà assumere. Tutte donne, ovviamente. “Non è solo una questione di parità”, spiega ridendo. “Le donne sono migliori. Gli uomini arrivano spesso in ritardo e
hanno sempre una scusa pronta. Noi donne
siamo disciplinate e puntuali. Sono qualità
essenziali in questa professione”. u gn
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Viaggi
Sul cratere
infuocato
Una corsa nel deserto del
Karakum, in Turkmenistan,
per ammirare le iamme
di un giacimento di gas che
brucia da quarant’anni
S
frecciamo nel deserto del Karakum inseguendo il tramonto, lanciati a tutta velocità
sulla strada per l’inferno. Secondo il vecchio adagio dovrebbe essere lastricata di
buone intenzioni, ma la nostra non è afatto lastricata. La jeep solleva una scia di
sabbia. Mi tengo stretto al sedile mentre il
nostro autista turcmeno guida a velocità
folle, con la radio a tutto volume sintonizzata su un mix di europop e vibranti archi
orientali. Mentre aggiriamo le colline vediamo dei tubi in disuso e altri materiali
per l’estrazione. Poco dopo avvistiamo un
cammello solitario in cima a una montagnola color rame. Entrambi scompaiono
nella polvere a mano a mano che ci avviciniamo al cratere infuocato. Alla vista delle
iamme, il nostro piccolo gruppo – un misto
di viaggiatori inglesi e canadesi – ha un sussulto di emozione. “Inferno, arriviamo!”,
dice il mio vicino di sedile.
Siamo in Turkmenistan, paese al centro dell’Asia che sfoggia attrazioni dal sublime allo stravagante. Terra di passaggio
dell’antica via della seta, un tempo il Turkmenistan era la repubblica più meridionale
dell’Unione Sovietica, e Mosca sfruttava
senza ritegno le sue ricche riserve di gas
naturale. Dopo la caduta del comunismo,
il paese è stato governato da una serie di
dittatori eccentrici. Il primo, Saparmyrat
Ataýewiç Nyýazow, morto nel 2006, si era
nominato presidente a vita e aveva deciso
di dare ai mesi dell’anno i nomi dei suoi familiari. Ovunque aveva fatto erigere statue
d’oro che lo raiguravano. L’attuale presidente Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow ha proseguito nel solco auto-
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ritario del suo predecessore, accontentandosi però di un culto della personalità più
moderato e favorendo una maggiore apertura del paese. Questo nuovo atteggiamento sta attirando un inconsueto lusso di turisti.
Arrivato dall’Uzbekistan, comincio la
mia avventura turcmena a Kunya-Urgench,
nell’estremo nord. Era una delle principali
tappe della via della seta, una cittadina dove oriente e occidente s’incontravano per
gli scambi commerciali e che tra il decimo
e il sedicesimo secolo vide iorire mercati,
moschee e madrasse. Con la prosperità,
però, arriva anche la fama, e non sempre è
una buona notizia. Nel 1221 Kunya-Urgench
fu distrutta dall’esercito di Ghengis Khan e
poi, dopo la ricostruzione, fu nuovamente
rasa al suolo nel quattordicesimo secolo dal
condottiero e generale turco Tamerlano,
che poi partì con le migliori menti della città alla volta della capitale Samarcanda.
“Kunya-Urgench non si è mai veramente
ripresa”, ci dice Rusty, la nostra guida. “Il
tempo, la sabbia e il vento l’hanno trasformata in un cimitero naturale”.
Attrazioni insolite
Alcuni dei monumenti più belli della città,
oggi patrimonio dell’umanità dell’Unesco,
sono stati recuperati dai sovietici, che li
hanno disseppelliti da metri di sabbia. Passeggiamo tra le moschee e gli antichi mausolei dalle cupole decorate con intricati
mosaici. Una donna e i suoi due bambini
camminano intorno a una moschea, accarezzando i mattoni mentre concludono il
loro giro contemplativo. Arriviamo all’ediicio più alto di Kunya-Urgench, un minareto di sessanta metri leggermente inclinato
da una parte che si protende verso il cielo
azzurro. Rusty ci spiega che è stato danneggiato dai terremoti.
Durante una successiva visita alla capitale Aşgabat, mi accorgo di come la posizione geograica, a cavallo di una grande
faglia, abbia segnato il Turkmenistan moderno. Nel 1948 Aşgabat fu distrutta da un
NICK HANNES (HOLLANDSE HOOGTE/CONTRASTO)
Tim Johnson, The Globe and Mail, Canada
gigantesco terremoto in cui morirono più
di centomila persone, pari ai due terzi della
popolazione. In seguito è stata ricostruita
dai sovietici e poi rifatta da Nyýazow a sua
immagine e somiglianza.
La città è nel Guinness dei primati per la
più alta concentrazione mondiale di ediici
rivestiti di marmo bianco: 543, la maggior
parte costruiti da Nyýazow. È una specie di
parco a tema del totalitarismo. Abbondano
i ministeri, molti costruiti in modo da rappresentare la loro funzione: quello delle
comunicazioni ricorda vagamente un telefono cellulare. Tra le tante attrazioni insolite, c’è la ruota panoramica al chiuso più
grande del mondo. Mentre tra i monumenti il più impressionante è il gigantesco Arco
della Neutralità (che la guida Lonely Planet deinisce “grande in modo imbarazzante”) sormontato da una statua d’oro di
Nyýazow, che si credeva il dio del sole. La
statua è stata progettata in modo da ruotare e seguire il percorso del sole nel cielo.
La maggiore attrazione del Turkmenistan, però, è ancora lì in mezzo al deserto,
Turkmenistan. Il cratere di Derweze
Informazioni
pratiche
u Arrivare ll prezzo di un volo dall’Italia per
Aşgabat (Turkish Airlines, Lufthansa) parte
da 898 euro a/r.
u Escursione L’agenzia di viaggi Intrepid
travel (intrepidtravel.com) ofre per 1.575 euro
un tour di 15 giorni con partenza da Aşgabat,
capitale del Turkmenistan, e arrivo a Taškent,
capitale dell’Uzbekistan (o viceversa). Il giro
include la visita al cratere di Derweze,
un’escursione nella regione di KunyaUrgench e una visita guidata alla capitale
turcmena. È un itinerario avventuroso che
prevede molti spostamenti con la jeep e
pernottamenti in tenda nel deserto.
u Leggere Colin Thubron, Il cuore perduto
dell’Asia, Tea 2013, 10 euro.
u La prossima settimana Viaggio in
Gambia e in Senegal. Ci siete stati, avete
dei libri da consigliare? Scrivete a
[email protected].
più o meno a metà strada tra Aşgabat e
Kunya-Urgench. Il cratere di gas naturale
di Derweze si trova in prossimità del centro geograico del paese.
Nei primi anni settanta i geologi sovietici, convinti di aver trovato un giacimento
petrolifero, cominciarono le trivellazioni
sul posto. Con loro grande sorpresa, però,
colpirono una gigantesca sacca di metano.
La terra si squarciò, creando una voragine
larga settanta metri e profonda trenta. I
geologi fecero poi l’ulteriore errore di dare
fuoco al cratere, pensando di riuscire a
bruciare tutto il gas nel giro di poche settimane.
Più di quarant’anni dopo, il Derweze –
soprannominato “la porta dell’inferno” –
continua a bruciare. È un’attrazione soprattutto per i nuovi turisti della regione, ma se
lo si vuole vedere al tramonto, poi bisogna
passare la notte nel deserto. Rusty ferma la
jeep in una spianata tra due colline: è uno
dei posti più desolati che abbia mai visto e
sarà la nostra sistemazione per la notte. Siamo lontani dalla strada e a otto chilometri
dal cratere che sputa gas. “È un posto sicuro, da queste parti non ci sono predatori,
solo scorpioni, lucertole, serpenti, ghepardi, leoni e draghi”, dice Rusty con un sorriso
befardo. Vuole essere spiritoso, ma nessuno ride.
Il cratere, in realtà, attira alcune forme
di fauna selvatica. Diversi visitatori raccontano di aver visto centinaia o addirittura
migliaia di ragni sprofondare negli abissi,
probabilmente attirati dalla luce. Ci hanno
avvertito di stare a tre metri dall’orlo del
cratere (alcune zolle secche possono spaccarsi e precipitare all’interno) ma il sito non
è regolamentato: non ci sono percorsi prestabiliti né barriere di sicurezza. Come i ragni, tutti siamo attirati dal bagliore.
Appena scendo dalla jeep corro verso il
bordo del cratere per scrutare l’interno, ma
vengo travolto da una folata di vento e gas
talmente rovente che devo toccarmi le sopracciglia per assicurarmi di non essermele bruciate. Mi aspettavo la puzza di uova
marce dello zolfo, invece il gas è quasi inodore. E quando il vento cambia direzione e
spazza il cratere, sui nostri volti arriva
un’ondata di calore intensa, secca, simile a
una sauna. Le folate sono calde e sofocanti; il gas naturale non è tossico ma elimina
l’ossigeno, rendendo diicile respirare.
Il tempo passa in fretta. Faccio diverse
volte il giro del cratere tenendomi pericolosamente vicino al bordo e per ammirare
meglio il panorama mi metto sopra una
piccola sporgenza di terreno, rinforzata
con dei vecchi tubi. Il pericolo fa parte
dell’emozione: il terreno potrebbe cedere
in qualsiasi momento, facendomi precipitare tra le iamme. Mi sento un po’ come
Indiana Jones, anche se sto facendo una
passeggiata.
Torniamo verso la spianata dove passeremo la notte. Ascoltiamo di nuovo quelle
strane canzoni alla radio mentre una luna
quasi piena illumina il deserto. Ho la sensazione di aver visitato una terra strana o
forse un altro pianeta. Probabilmente il gas
o l’adrenalina hanno alterato le mie percezioni, ma continuo ad avvertire il bagliore
ino al nostro ritorno. u fas
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Cultura
Zaha Hadid nel 2006
EwAN BAAN
PEtER MARLOw (MAGNUM/CONtRAStO)
Architettura
Costruire
l’impossibile
Edwin Heathcote, Financial Times, Regno Unito
Zaha Hadid, architetta
irachena naturalizzata
britannica, è morta il 31 marzo.
Rimane la sua arte visionaria
“S
e fossi stata un uomo”, mi
ha detto una volta Zaha
Hadid, “secondo voi mi
avrebbero chiamato diva?
No, avrebbero parlato solo
di architettura”. Naturalmente Hadid è stata la più grande diva dell’architettura. Ma è
stata anche una creatrice originale e visionaria. Hadid era sempre, inevitabilmente,
etichettata come “il più grande architetto
donna”, ma pochissimi uomini sono stati in
grado di esprimere l’unicità del suo stile, la
genialità scultorea delle sue opere o la forza
assoluta del suo carattere.
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Pochi sono stati in grado di inventare
un’architettura completamente nuova. Hadid l’ha fatto. I suoi primi progetti, espressi
con tratti vivaci su sfondi neri, erano frammentati e frastagliati, città appuntite sospese che ricordavano l’astrazione pura del
suprematismo sovietico. Quando però ha
cominciato a costruire in grande, qualcosa
è cambiato. Sono sparite le punte acuminate e i volumi frastagliati, ed è emersa un’architettura luida in cui il paesaggio si ritrovava aggrovigliato nella struttura, le pareti
si trasformavano in pavimenti e rampe e
passerelle giravano all’esterno di volumi
eccentrici creando un dinamismo spettacolare. Essere in un ediicio di Zaha Hadid signiicava far parte di un movimento teatrale, diventare parte del lusso della modernità. Zaha Hadid nacque nel 1950 a Baghdad,
in una famiglia ricca e politicamente impegnata. Suo padre era un economista ed
Pierrevives a Montpellier, in Francia
esponente di spicco della sinistra progressista irachena. Zaha frequentò un collegio
cattolico e poi l’università americana di
Beirut, dove si laureò in matematica. Nel
1972 arrivò a Londra per studiare presso la
pionieristica Architectural association. Lì
incontrò il suo mentore, Rem Koolhaas, con
cui avrebbe lavorato nel primissimo periodo dell’Oma, lo studio, oggi notissimo, di
Koolhaas. Già prima di fondare uno studio
tutto suo, Zaha Hadid si fece conoscere nel
mondo dell’architettura. Il suo primo vero
impatto lo provocò sulla carta, in libri e riviste in cui i suoi progetti e i suoi disegni delineavano un nuovo mondo, fatto di forme
luttuanti e panorami urbani frammentati e
visionari.
Ma nonostante una reputazione sempre
più forte, il suo studio fece fatica ad aggiudicarsi commissioni. E forse non c’è da stupirsi, visto che i suoi lavori apparivano spesso irreali e diicilmente ediicabili. Il progetto per un hotel dalla bellezza inquietante
sul Victoria Peak di Hong Kong è uno dei
disegni più inluenti dell’era moderna, un
accenno a quella mescolanza tra topograia
e interni che avrebbe realizzato in seguito.
Una delle sue prime commissioni, una
stazione dei pompieri alla periferia di Basilea (1994), inì in un famoso fallimento. Era
un ediicio del tutto inadeguato ai suoi scopi
e, dopo essere stato assorbito dal Vitra design museum, diventò una famosa attrazione turistica. Quando Hadid vinse la gara
EWAN BAAN
L’Heydar Aliyev centre a Baku, in Azerbaigian
per la progettazione di un teatro dell’opera
nella baia di Cardif (1995), le autorità la
boicottarono, ritenendo il suo progetto ina­
datto e irrealizzabile. Fu una grande delu­
sione per Hadid, ma la sua determinazione
ne uscì raforzata.
La seppia aerodinamica
Le prime commissioni davvero importanti
arrivarono nel nuovo millennio. Ci furono il
Rosenthal centre for art di Cincinnati
(2003), un edificio cubico che sembra
un’espressione scultorea della griglia stra­
dale della città, e una sinuosa seggiovia in
cemento a Bergisel, in Austria (2002). Il
Bmw central building a Lipsia (2005) pose
ine a qualunque critica sull’irrealizzabilità
dei suoi progetti: la catena di produzione
veniva trattata alla stregua di un’opera tea­
trale dalla coreograia complessa. La Eve­
lyn Grace academy (2011), un’impressio­
nante e rainata scuola di Brixton, a Lon­
dra, è uno dei rari ediici che Hadid realizzò
nella sua città d’adozione.
L’architetta si deinì sempre un’outsid­
er (sebbene disponesse di ricchezze perso­
nali e fosse la prima donna a essersi aggiu­
dicata il premio Pritzker e quattro meda­
glie d’oro del Royal institute of british ar­
chitects), e si sentiva poco amata a Londra.
Forse lamentarsene tanto era solo un mo­
do per mettere in scena la sua petulanza: in
apparenza Zaha Hadid era pungente, in
realtà era molto calorosa e spassosa.
Il suo momento di gloria a Londra arrivò
nel 2012, con l’apertura dell’Aquatics centre
per le Olimpiadi. Un ediicio straordinario,
con un tetto che somiglia a una sorta di sep­
pia aerodinamica. Il trampolino, da solo, è
più bello della maggior parte degli ediici
contemporanei del Regno Unito.
Riverita più all’estero che in patria, per
lei l’opportunità di costruire in grande giun­
se dai luoghi più remoti e più improbabili.
L’Heydar Aliyev centre in Azerbaigian
(2012) sembra una pura curva matematica
trasposta in architettura, mentre il teatro
dell’opera di Guangzhou (2010) continua a
somigliare al set di un ilm di fantascienza
ancora oggi, a più di dieci anni dalla sua
progettazione. Il suo ediicio più bello rima­
ne forse il Phaeno science centre di Wolf­
sburg, in Germania (2005), una struttura in
cemento che succhia tutto il paesaggio nel­
le sue pareti ed emerge dalle strade della
città e dal paesaggio industriale.
In seguito Zaha Hadid diversiicò la sua
attività occupandosi un po’ di tutto, dalle
scarpe ai vasi, con disegni sempre ricono­
scibili e accattivanti, portando un’estetica
d’avanguardia nei tavolini da soggiorno e
dentro gli armadi.
Il suo studio, gestito insieme al collabo­
ratore di sempre Patrick Schumacher (che
forniva una base più teorica al suo talento
visuale), aveva la sede principale in un col­
legio vittoriano a Clerkenwell, Londra. Il
metodo dello studio era radicalmente inno­
vativo nell’uso che faceva della tecnologia e
dell’ingegneria, portando forme apparen­
temente impossibili in città reali.
Il lavoro di Zaha Hadid si riconosce
all’istante: è sorprendente e quasi sempre
stimola discussioni. Nel 2015 l’architetta
lasciò a metà un’intervista per un canale
radio della Bbc dopo l’insinuazione che lo
stadio progettato per i mondiali di calcio in
Qatar avesse provocato la morte di alcuni
operai (i cantieri sul posto non erano ancora
cominciati). E la decisione del governo
giapponese di non aidarsi a lei per lo sta­
dio olimpico di Tokyo e di optare per un pro­
getto più economico fu per Hadid un duro
colpo. Un altro suo ediicio in Cina, le tre
torri del Wangjing Soho di Pechino (2014),
era stato praticamente copiato da un’altra
parte, e la copia era stata completata prima
dell’originale.
Zaha Hadid era afranta per la distruzio­
ne di Baghdad, la sua città natale, e aveva
ricevuto l’incarico di costruire una nuova
banca nazionale e un nuovo parlamento per
la capitale irachena. Il suo studio continue­
rà a costruire in tutto il mondo e le visiona­
rie strutture che saranno ediicate divente­
ranno tutte un monumento al suo genio e
alla sua originalità.
Zaha Hadid è morta d’infarto dopo es­
sere stata ricoverata per una bronchite in un
ospedale di Miami, negli Stati Uniti. Non
era sposata e non aveva igli. A parte i suoi
ediici. u gim
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Cultura
Cinema
Dagli Stati Uniti
I ilm italiani visti da
un corrispondente straniero.
Questa settimana Vanja
Luksic del settimanale francese L’Express.
Crisi ai vertici della Disney
78
Con una mossa che ha sbalordito l’industria del cinema,
Thomas Staggs si è licenziato
da direttore operativo della
Disney, dopo che il consiglio
di amministrazione non gli ha
garantito che avrebbe preso il
posto di Bob Iger come amministratore delegato. Per la prima volta da decenni, infatti, la
Disney sceglierà un nuovo
amministratore delegato al di
fuori dal suo bacino di dirigenti. Staggs, 55 anni, lascerà l’incarico il 6 maggio e abbando-
Thomas Staggs
nerà l’azienda a settembre.
Circola la teoria che un ruolo
nella sua decisione lo abbiano
avuto anche i ritardi e i costi
sbalorditivi del nuovo parco
Disneyland di Shanghai, che
dovrebbe essere inaugurato a
giugno. L’incertezza sulla successione colpisce la Disney in
un momento particolarmente
delicato. Nonostante il successo di Star Wars: il risveglio della
Forza, gli investitori non sono
soddisfatti di come l’azienda si
sta muovendo sul fronte televisivo. Alla prima del Libro della giungla, l’attuale amministratore delegato Bob Iger si è
riiutato di commentare la notizia. Si è limitato a dire ai
giornalisti: “Avevo pensato di
non venire ma sono talmente
fan del ilm che gli avrei fatto
un torto non presentandomi”.
Alan Horn, presidente della
Walt Disney Studios, ha detto
solo: “L’ho saputo poco fa. Sto
cercando di venirne a capo”.
Cynthia Littleton, Variety
Massa critica
Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo
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Un bacio
Di Ivan Cotroneo
Con Rimau Grillo Ritzberger,
Valentina Romani , Leonardo
Pazzagli. Italia, 2016, 101’
●●●●●
Il terzo ilm di Ivan Cotroneo,
uno dei registi e sceneggiatori
italiani più interessanti del
momento, è tratto da un suo
libro omonimo, scritto cinque
anni fa, ispirato a un brutto
fatto di cronaca statunitense.
Siamo in un liceo di Udine
che, non a caso, ha l’aspetto di
una fabbrica. Arriva un nuovo
allievo, Lorenzo (Rimau Grillo Ritzberger), appena adottato da una coppia piena di buone intenzioni. A scuola lui capisce subito di essere sbarcato
in un universo ostile e si rifugia in un mondo di fantasia
tutto suo. È un ragazzo molto
bello e non nasconde agli altri
di essere gay. E questo non
viene accettato in un ambiente in cui dominano bullismo e
omofobia, due sintomi di un
fenomeno che sembrava in regressione qualche decennio
fa. La schiavitù del conformismo oggi sembra ancora più
forte che in passato, in un
mondo sempre più omologato
e controllato dai social network. Lorenzo diventerà amico di altri due “emarginati”
del liceo, Blu (Valentina Romani) e Antonio (Leonardo
Pazzagli). Ma la forza
dell’amicizia non basterà. O
forse sì. Ci sono infatti due inali, perché il cinema è magia.
Il bacio è un ilm che rimane
nella mente e nel cuore. Anche per la felice scelta dei tre
giovani attori.
Thomas Staggs, direttore
operativo della Disney, si licenzia dopo meno di un anno di lavoro
PHELAN M. EBENHACk (AP/ANSA)
Italieni
Media
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BrookLyn
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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
I consigli
della
redazione
Love & mercy
Bill Pohlad
(Stati Uniti, 120’)
In uscita
Il cacciatore e la regina
di ghiaccio
Di Cedric Nicolas-Troyan
Con Chris Hemsworth,
Charlize Theron. Stati Uniti,
2016, 114’
●●●●●
Eccolo. Il sequel/prequel meno atteso della stagione. Il cacciatore e la regina di ghiaccio riesce a essere ancora più visivamente elaborato e ancora
più noioso del predecessore,
Biancaneve e il cacciatore. Già
quattro anni fa questa inutile
rilettura, tutta efetti speciali e
banalità, della favola di Biancaneve è stata un terribile
spreco di talento da parte di
Charlize Theron. Quest’anno
le cose peggiorano perché al
talento sprecato di Theron si
aggiunge quello dei bravissimi
nani (Nick Frost, Rob Brydon,
Sheridan Smith e Alexandra
Roach). I due protagonisti
sembrano essersi laureati alla
scuola di eloquio britannico di
Russell Crowe e i superpoteri
della regina dei ghiacci sono
una via di mezzo tra Frozen e
Siberius degli Incredibili. Questo ilm è una guerra atomica
di noia. Speriamo davvero che
i misteri lasciati aperti sul inale restino tali e che ci sia una
cessazione delle ostilità.
Peter Bradshaw,
The Guardian
Mister Chocolat
Di Roschdy Zem
Con Omar Sy, James Thiérrée.
Francia, 2016, 110’
●●●●●
Non è più al top. Il suo numero da clown non fa ridere più
nessuno. Footit si sente un
ferro vecchio. Ma un giorno, in
un piccolo circo, ha una visione. Gli appare un eccezionale
uomo nero, un ex schiavo arrivato a Parigi da Cuba. Footit
pur amando i bei ragazzi (lo
scopriamo più tardi in una scena inutilmente esplicita) lo
guarda con interesse puramente professionale. E coglie
nel segno: in pochi mesi Rafael
Padilla, detto Chocolat, diventerà l’idolo della Parigi di ine
ottocento. Roschdy Zem cerca
di mostrare l’ambiguità della
risata che Chocolat suscitava
nella società dell’epoca. Il pubblico lo adora ma vuole sempre vederlo malmenato alla ine delle sue scenette. Rafael
però si sente un vero attore e
quando decide di debuttare
sotto la direzione di un vero regista, nell’Otello, il suo sogno
naufraga miseramente. La folla lo vuole solo fantoccio, non
attore tragico. E da star, Chocolat diventa un esiliato. Un
ilm pieno di momenti drammatici, realizzato con cura e
passione con un forte messaggio antirazzista.
Pierre Murat, Télérama
dR
dR
Mister Chocolat
Il condominio
dei cuori infranti
Samuel Benchetrit
(Francia/Regno Unito, 100’)
Mister Chocolat
Roschdy Zem
(Francia, 110’)
Una notte con la regina
Di Julian Jarrold
Con Sarah Gadon, Bel Powley,
Jack Reynor, Rupert Everett.
Regno Unito, 2015, 97’
●●●●●
Una notte con la regina è una
favola pensata per tutti quegli
adulti che hanno il batticuore
ogni volta che sentono parlare
della famiglia reale britannica. È una storia di fantasia ambientata nella giornata della
vittoria dell’8 maggio 1945,
che segue le principesse Elizabeth e Margaret (19 e 14 anni)
in libera uscita serale da Buckingham palace per la prima
volta nella loro vita. Il ilm, un
discendente scapestrato di Vacanze romane, consolida il cliché popolare di una Elisabetta
matura e posata e una Margaret più scavezzacollo. Un
aspetto piacevole del ilm è
che descrive bene un’epoca,
prima dei paparazzi e dei telefonini, in cui le celebrità potevano uscire in incognito e svelarsi solo quando volevano. C’è
anche un lato oscuro: le due
principessine entrano in contatto con criminali, malfattori
e ubriaconi ma ne escono sempre illese. Le performance delle protagoniste rendono gustoso un ilm che, in sé, è solo fuffa per appassionati dei reali.
Stephen Holden,
The New York Times
Ancora in sala
La comune
Di Thomas Vinterberg
Con Trine Dyrholm, Ulrich
Thomsen, Helene Reingaard
Neumann. Danimarca, 2016,
111’
●●●●●
L’amore libero si paga a caro
prezzo in questa tragicommedia del candidato
all’Oscar Thomas Vinterberg.
Il regista prende spunto dalla
sua infanzia passata in una
comune hippy nella Copenaghen degli anni settanta ma
anche da Tempesta di ghiaccio
di Ang Lee e Together di Lukas Moodysson. La comune è
comunque un ilm molto più
gentile, e decisamente leggero per gli standard sia del regista sia del cinema danese in
genere. È molto divertente e
intrattiene come una sitcom
televisiva, ma come ilm serio
è stranamente zoppicante.
Non c’è nessun contesto sociopolitico, solo qualche vago
accenno al Vietnam e al femminismo. I pochi momenti
drammatici sono un po’ goi
e fuori fase con il tono generale del ilm, che risulta un
racconto convenzionale di
un’epoca che certamente non
lo era.
Stephen Dalton,
The Hollywood Reporter
Una notte con la regina
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
79
Cultura
Libri
Dal Regno Unito
I libri italiani letti da un
corrispondente straniero.
Questa settimana
Frederika Randall, del settimanale statunitense The Nation.
Letture per piccoli ribelli
Giordano Meacci
Il cinghiale che uccise
Liberty Valance
Minimum fax, 452 pagine,
16 euro
● ● ●●●
Il 99,9 per cento delle specie
animali è da sempre tra noi,
eppure fa al massimo da comparsa nelle nostre commedie
umane. Giordano Meacci invece ha immaginato un altro
mondo, un piccolo paese solo
apparentemente antico tra
Umbria e Toscana, dove uno
degli esseri senzienti è un imponente cinghiale rosso che
capisce e ragiona con la lingua
degli umani. Con Apperbohr,
così si chiama l’animale, entriamo nell’anima cinghialese
e impariamo anche la sua lingua (awgr = cane) grazie a un
glossario in appendice. Conosciamo il suo amore per la bella Llhojoo-wrahh, partecipiamo mentre lui e la sua banda
raccolgono provviste per l’inverno, ascoltiamo dalle inestre le conversazioni dei sapiens e scopriamo così anche i
segreti umani. Gli Alti sulle
Zampe sono ritratti con dovizia di particolari, anche troppi:
tra i cento personaggi umani
in uno Spoon River di tre generazioni ci sono il diciottenne
ossessionato da John Ford
(quindi Liberty Valance) e il
sessantenne inguaiato dal gioco. Come nel western classico,
c’è un conlitto per controllare
territorio e risorse, non solo
tra umani ma anche tra mammiferi. Inutile dire che, alla ine, è la specie Sus a conquistarsi la simpatia del lettore.
80
I inalisti del premio Little
rebels: libri per bambini a
contenuto sociale o politico
Sono stati annunciati i inalisti
della quarta edizione del Little
rebels award. Il premio, lanciato dal distributore di libri per
l’infanzia Letterbox library, è
destinato alla letteratura per
bambini da zero a dodici anni
che promuove la giustizia sociale e l’uguaglianza. I inalisti
sono tre racconti per bambini
e tre libri illustrati. I’m a girl! di
Yasmeen Ismail parla di una
bambina che cresce felice e libera da sterotipi di genere,
mentre l’anarchico Uncle Gob
and the dread shed di Michael
Rosen prende di mira con acuta ironia il sistema scolastico.
Kerry Mason di Letterbox library ha detto: “Quest’anno
per la prima volta la giuria è
dR
Italieni
I’m a girl di Yasmeen Ismail
stata sommersa di proposte.
Evidentemente oggi si è sviluppato un gusto per i libri per
bambini capaci di comunicare
in modo immediato e originale un messaggio sociale anche
diicile. I candidati di
quest’anno prendono in giro le
istituzioni, criticano aspra-
mente le grandi aziende e cercano di rispondere a domande
profonde del tipo: chi sono
io?”. Il vincitore del premio
Little rebels sarà annunciato il 7
maggio alla Goldsmith university di Londra.
Emma Bowden,
The Guardian
Il libro Gofredo Foi
La pazzia di esistere
Simona Vinci
La prima verità
Einaudi, 398 pagine,
20 euro
“Ognuno racconta i suoi
mostri, e i sogni, gli incubi, i
desideri, la sua versione dei
fatti e hanno tutti ragione
perché una prima verità non
esiste da nessuna parte. È
tutto vero, anche quando non
lo è”, conclude Simona Vinci
nel romanzo con cui torna in
libreria dopo anni di assenza,
e che forse rimarrà, con quello
di Meacci, il più bello di questa
stagione. Non si inirebbe di
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
parlarne, perché va oltre la
letteratura ma restando alta
letteratura. Evoca la storia di
un manicomio (fondato nel
1959) che ha dato di che vivere
agli abitanti dell’isola greca di
Leros, ma che nel 1989, grazie
a un articolo dell’Observer, fu
oggetto di uno scandalo
internazionale e
dell’intervento di un gruppo di
allievi dell’indimenticabile
Franco Basaglia. È attorno al
lavoro di una ragazza del
gruppo che il romanzo cresce,
elaborando storie di adulti e
bambini, e non solo di “matti”
ma anche di oppositori politici
dei colonnelli lì rinchiusi a
morire, storie tremende di
personaggi inventati ma
documentabili. È un grande
romanzo di struttura
complessa ma chiara, e quasi
dostoevskiano nel dire un vero
molto vero. Ed è l’occasione
per scavare, nei due capitoli
inali, sul nostro mondo, sulla
sua pazzia di ieri e di oggi.
Leros è specchio di un
universo in cui i “disturbi”
mentali riguardano tutti, sono
il nostro modo di esistere, di
fare e di farci del male. u
I consigli
della
redazione
Aleksander Hemon
L’arte della guerra zombi
(Einaudi)
Il romanzo
A Yi
E adesso?
Metropoli d’Asia, 122 pagine,
10 euro
● ● ● ●●
La storia comincia in una piccola città cinese, dove uno studente delle scuole superiori
progetta di assassinare una
compagna di classe solo per
sconiggere la noia e l’indolenza. Adesca nel suo appartamento la graziosa, popolare e
gentile Kong Jie – l’unica persona in tutta la scuola che mostri qualche interesse per lui –
e la uccide in un modo orribile.
L’assassino, che rimane per
tutto il libro il narratore senza
nome, dice tranquillamente:
“L’ho uccisa solamente per
ucciderla”. Crede che la società sia malata, che gli esseri
umani non siano altro che cadaveri in decomposizione, e si
sente impotente davanti a tutto questo. Solo dopo essere
fuggito nell’entroterra, si ferma a considerare le conseguenze delle sue azioni; e non
per la vittima o per la madre di
lei, che ha perso l’unica iglia,
ma per la vita che adesso dovrà lasciarsi alle spalle, una vita tutt’altro che piacevole. Per
aggiungere un po’ di brivido
alla sua nuova esistenza di
fuggiasco, lascia indizi alla polizia, sidandola a trovarlo. È
un gioco al gatto e al topo, in
cui lui si vede nella parte
dell’agile roditore che sfugge
alla cattura. Ma più che un romanzo su una caccia all’uomo,
E adesso? è un’indagine psicologica su una mente malata. A
dare al libro la sua energia non
sono la suspense dell’inseguimento e i colpi di scena della
trama, ma l’ardore pulsante di
DR
Nichilismo cinese
A Yi
questo diciannovenne nichilista. A Yi sa ofrire un ritratto
completo della Cina, sia della
povertà cupa e claustrofobica
della vita rurale sia della corruzione dei tutori della legge e
dei poliziotti. Il ritmo della
narrazione è a tratti insopportabilmente lento, ed è diicile
identiicarsi con un protagonista così sgradevole. Ma A Yi è
abilissimo a dar voce alla sua
creatura mostruosa, che suona
autentica nel suo cinismo da
monellaccio. L’autore, nato
nel 1976, l’anno della morte di
Mao Zedong, descrive la nuova generazione cinese cresciuta in una società ormai capitalistica, dove il collettivismo ha
ceduto il passo alla ricerca
dell’individualità a tutti i costi.
Il narratore, ossessionato da
sé, confessa di essere l’unica
persona a cui si sente veramente legato e porta tutto
questo malessere all’estremo.
E adesso? è ambientato nella
Cina contemporanea, ma la
crisi esistenziale di cui parla è
universale.
Clarissa Sebag-Monteiore,
Wall Street Journal
Simone Pieranni
Settantadue
(Alegre)
Alicia Giménez Bartlett
Uomini nudi
Sellerio, 440 pagine, 16 euro
●●●●●
Javier, giovane professore di
letteratura, è stato licenziato
da una scuola di suore. Davanti a lui si apre il mondo della
disoccupazione, dei club di
spogliarello e dei servizi sessuali per signore. Irene è una
miliardaria in crisi lasciata dal
marito per una donna più giovane, ma quello che non gli
perdona è di aver fatto di lei
un’altra donna, che ha scoperto i ragazzi di compagnia. Alicia Giménez Bartlett ha mescolato in provetta il caso del
professore licenziato e quello
della donna abbandonata, e ha
aggiunto un reagente: la crisi
economica. Due vite parallele
che si rivelano convergenti,
unite da due intermediari: un
amico di Javier, Iván, con una
sensibilità da bassifondi e un
umorismo grossolano, convinto che la dignità non sia questione di lavoro ma di denaro;
e Genoveva, una cinquantenne regina del divertimento,
che ha piantato il marito per
un ragazzo giovanissimo.
Quattro coscienze che si incrociano e si scontrano in prima persona, mentre l’autrice
rimane a margine, spettatrice
imparziale e sorridente della
commedia che mette in scena.
Alicia Giménez Bartlett è già
un classico contemporaneo:
osserva lucidamente i valori
che cambiano e si rivelano risibili, mentre il classismo e il
sessismo restano come cicatrici che a forza di vederle diventano invisibili.
Justo Navarro, El País
Mahi Binebine
Il grande salto
Rizzoli, 159 pagine, 14 euro
●●●●●
Pittore rinomato in tutto il
mondo, Mahi Binebine è an-
A cura di Malka Marom
Joni Mitchell. Both sides
(Sur)
che uno scrittore di talento
dallo stile semplice e limpido.
Ha sempre tratto ispirazione
dal suo paese natale, il Marocco. E il risultato coglie spesso
nel segno, diverte un po’, commuove molto. L’autore è solito
gettare uno sguardo introspettivo sulla società che lo circonda e a volte lo assedia. Il suo
nuovo romanzo non sfugge a
questa regola. È una visione
spietata di un universo folle,
miserabile e privo di avvenire,
che ha partorito una delle pagine più nere della storia marocchina contemporanea,
quella degli attentati del 16
maggio 2003. Binebine adotta
la voce del kamikaze che si è
appena suicidato, che torna
dall’aldilà per dare la sua versione della storia. Binebine
non perdona e non giustiica,
ma neanche colpevolizza; cerca di capire come una società
tranquilla sia potuta sprofondare in un tale orrore nello
spazio di una sera. Binebine si
soferma su una realtà crudele
per spiegare l’imperdonabile,
descrivendo le condizioni di
vita nelle bidonville di periferia come delle polveriere in attesa di una scintilla che le faccia saltare in aria. Un’autentica visione dell’orrore oferta
da uno scrittore che sa osservare e trascrivere acutamente
il tempo che passa.
Amine Rahmouni,
Le Temps
David Lagercrantz
La caduta di un uomo
Marsilio, 457 pagine, 19 euro
●●●●●
David Lagercrantz è l’autore
svedese che ha scritto il quarto
libro della trilogia Millennium
di Stieg Larsson. Il suo romanzo La caduta di un uomo è un
ibrido curioso ma riuscito. È
un’amalgama di narrativa poliziesca, psicologia e scienza.
Lagercrantz si dedica ad Alan
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
81
Cultura
Libri
Turing, il matematico che ha
aiutato a decifrare il codice segreto Enigma, in un romanzo
ambientato nel 1954 che comincia con Turing trovato
morto nella sua casa di Wilmslow. A quanto pare lo scienziato ha inventato una sua insolita tecnica di suicidio: una
mela avvelenata. Assegnato al
caso, il detective Leonard Correll apprende che Turing è stato condannato per violenze
omosessuali (in realtà Turing
fu costretto dal tribunale alla
castrazione chimica a causa
della sua sessualità). L’ipotesi
del suicidio è complicata dal
fatto che sulle attività del matematico in tempo di guerra è
stato fatto calare un velo di segretezza e i servizi di sicurezza
sono convinti che la sessualità
illegale di Turing potrebbe
averne fatto un bersaglio per le
spie sovietiche. Ma via via che
Correll si avvicina a sciogliere
il mistero, è preso di mira dalle
stesse persone che hanno distrutto Turing. Il tratto più riuscito del libro è l’intelligente
mescolanza di due forme narrative: la biograia simpatetica
di un personaggio storico realmente esistito, e trattato in
modo ingiusto dal sistema, e
un’indagine in cui un poliziotto testardo cerca di combattere l’intransigenza più crudele.
Barry Forshaw,
The Independent
Naomi J. Williams
Navi perdute
Neri Pozza, 394 pagine, 18 euro
●●●●●
Nell’agosto del 1785 due navi
francesi, la Boussole e l’Astrolabe, salparono da Brest sotto
il comando di Jean-François
de Galaup de Lapérouse. A
bordo c’erano 225 uomini, non
solo gli uiciali e l’equipaggio
ma anche ingegneri, artisti,
preti e uomini di scienza, equipaggiati con gli strumenti più
rainati. Il loro viaggio doveva
essere una circumnavigazione
del pianeta per battere il capitano Cook, una ricerca della
conoscenza a maggior gloria
della Francia. Il 10 marzo
1789, quasi quattro anni dopo
la partenza, la spedizione era
diretta alle isole Solomon.
Non se ne seppe più niente.
Nel 1791 il governo lanciò una
missione di ricerca, ma non si
trovò traccia né delle navi né
degli uomini, scomparsi nel
nulla. La storia, o piuttosto le
storie, di questa impresa sfortunata sono l’argomento del
notevole esordio di Naomi J.
Williams. In una serie di narrazioni sovrapposte, una per
ciascuno dei luoghi dove le navi gettarono l’ancora, l’autrice
descrive il viaggio dai punti di
vista di diversi componenti
della spedizione e di coloro
che incontrarono. È un romanzo che confonde il conine tra
storia e inzione narrativa. La
struttura a episodi sottolinea
le forze centripete che agiscono in ogni impresa di gruppo, e
ricorda che il passato non è
una narrazione unica. Alcuni
capitoli, però, barcollano sotto
il peso di un’eccessiva erudizione storica.
Clare Clark, The Guardian
Non iction Giuliano Milani
PhILIPPE MATSAS (OPALE/LEEMAGE/LUzPhOTO)
Crescere meno crescere tutti
Massimo Livi Bacci
Il pianeta stretto
Il Mulino, 168 pagine, 14 euro
Secondo Massimo Livi Bacci,
profondo conoscitore della
demograia mondiale, se ino
a qualche decennio fa ci si
preoccupava troppo delle
conseguenze della crescita
della popolazione planetaria,
oggi forse ci si preoccupa
troppo poco. L’assemblea
generale delle Nazioni Unite
ha approvato un’agenda 2030
per lo sviluppo sostenibile che
prevede diciassette obiettivi,
in cui l’emergenza
82
demograica di fatto non
compare. Si tratta invece di un
problema pressante perché le
dinamiche demograiche che
agiscono in maniera diversa
nelle varie parti del mondo
inluenzano le disuguaglianze,
e dunque i conlitti. In molte
regioni esiste ancora il rischio
di una “trappola malthusiana”,
ovvero di un ciclo perverso in
cui l’aumento della fecondità
si accompagna alla
diminuzione del benessere
dovuta a povertà e malattie. È
molto probabile che
continuerà ad aumentare la
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
popolazione delle grandi
metropoli e che andrà
ampliandosi il divario tra un
nord sempre più vecchio e un
sud del mondo sempre più
giovane. Eppure, secondo Livi
Bacci, abbiamo già le
conoscenze per far fronte a
queste emergenze, sappiamo
quali sono le politiche con cui
questi rischi possono essere
gestiti e governati. Gli ostacoli
sono l’assenza di una vera
rilessione, capace di andare al
di là degli slogan politici, e lo
scarso coordinamento
internazionale. u
Europa dell’est
Aleksandar Gatalica
À la guerre comme
à la guerre!
Belfond
La ine della belle époque e la
grande guerra raccontati attraverso una narrazione corale.
Gatalica è nato a Belgrado nel
1964.
Velibor Čolić
Manuel d’exil
Gallimard
Il narratore racconta i suoi primi anni di esilio, dopo aver disertato dall’esercito bosniaco
in cui aveva trascorso cinque
mesi d’inferno. Čolić è nato
nel 1964 in una piccola città
della Bosnia ora distrutta e vive in Francia.
Dana Grigorcea
Das primäre Gefühl der
Schuldlosigkeit
Dörlemann Verlag
Victoria, un’impiegata, assiste
a una rapina. Per riprendersi
dal trauma si concede una vacanza e approitta per vagabondare per Bucarest e indagare sul passato della città.
Grigorcea è nata a Bucarest
nel 1979 e vive a zurigo.
Andrea Salajova
Eastern
Gallimard
Martin, ballerino e coreografo
a Parigi, ritorna al suo villaggio slovacco per vedere il nonno morente. Salajova è uno
scrittore e cineasta slovacco
che ora vive in Francia.
Maria Sepa
usalibri.blogspot.com
Cultura
Libri
Ragazzi
Ricevuti
Un morbido
dittatore
Fabrizio Piumatto
Urlo graico
Nerosubianco, 199 pagine
20 euro
Il terzo volume di un’antologia che raccoglie le notizie
più importanti dell’anno sotto forma di commento graico. Un notiziario originale e,
paradossalmente, meno urlato dei notiziari tradizionali.
Olivier Tallec
Luigi I. Re delle pecore
Lapis, 34 pagine,
14,50 euro
Non pensiamo troppo spesso
alle pecore. Certo le vediamo.
Per esempio quando sfrecciamo in autostrada. Sono lì placide, lanose e morbide. Anche
loro però non pensano tanto a
noi. Per loro è importante
brucare l’erba. Devono immagazzinare energia. Ed è così
che Olivier Tallec si immagina un gregge, intento a brucare, sguardo in giù, occhi issi
sull’erba. Ma cosa succederebbe se una di queste pecore
alzasse lo sguardo? Cosa succederebbe se il vento dispettoso mettesse una corona in
testa a una pecora? Succederebbe che avremmo una nuova storia da raccontare, esattamente quella di Luigi I, re
delle pecore. Visto che la corona ce l’ha già, Luigi si cerca
uno scettro. Perché se no come governa? E poi cerca un
trono, e inine si trova pure un
bel letto. Perché se deve essere ossequiato deve averne uno
tanto bello da togliere il iato.
Ed è così che Luigi comincia a
sognare cose ancora più grandi. Balli faraonici, guerre apocalittiche, dimore immense. E
da lì il passo che lo porta a diventare un tiranno, una sorta
di Napoleone delle pecore, è
breve. Ma quando il suo ego
diventa ingestibile il vento rimette (per fortuna!) tutto in
discussione. Un albo vivace e
rainato che è soprattutto una
presa in giro del potere e delle
sue derive. Premiato con il
Prix Jeunesse nel 2014.
Igiaba Scego
Emmeline Pankhurst
La mia storia
Castelvecchi, 238 pagine,
17,50 euro
L’autobiograia dell’attivista
britannica che ha guidato il
movimento delle sufragette
all’inizio del novecento.
Fumetti
Il viaggio degli eterni esuli
Naji al-Ali
Filastin
Eris, 224 pagine,
17 euro
Il libro che omaggia il
vignettista satirico palestinese
Al-Ali, tra i più importanti del
mondo arabo e non solo, aiuta
certo a capire la questione
palestinese nel corso del
tempo, ma aiuta anche a
capire meglio la condizione
degli oppressi. E la condizione
umana nel dolore. Esule in da
bambino, per molto tempo
rifugiato nei terribili campi di
accoglienza delle Nazioni
Unite (questione più che mai
d’attualità), era iglio degli
ultimi: a essere ospitati in quei
campi erano infatti i contadini.
L’immagine-feticcio che
ricorre nel libro è quella di
Handala, il bambino calvo e
scalzo, disegnato di spalle e a
braccia conserte: Vauro, nella
prefazione, ci ricorda che
“Handala è un bambino che
non ha sorriso. Per questo
non mostra a nessuno il suo
viso”, soltanto quando la terra
palestinese sarà libera potrà
rivelarlo. O rivelarsi. La
rivelazione e la igura
cristologica e del profeta
attraversano le vignette
insieme alla sensazione di
essere sempre immersi in un
limbo nero, plumbeo. Le
immagini, un concentrato di
simboli da lasciare storditi,
accompagnano un senso di
predestinazione: come il
bambino palestinese della
storia, Al-Ali è sempre stato
inseguito e sempre ha dovuto
andare via, senza pace. Prima
in Libano, poi in Kuwait,
inine a Londra. Poi, nel 1987,
una pallottola sparata con il
silenziatore ha messo ine al
suo viaggio. Ma non alla sua
forte voce (graica).
Francesco Boille
Rodolfo Walsh
Il violento mestiere
di scrivere
La nuova frontiera, 224 pagine
12,50 euro
Articoli, lettere e reportage
giornalistici scritti tra il 1953 e
il 1977 raccontano le condizioni sociali e politiche che
portarono alla grande catastrofe argentina del 1976 .
Carlo Cottarelli
Il macigno
Feltrinelli, 176 pagine
15 euro
Guida al debito pubblico in
Italia: come si forma, come si
accumula e perché è così dificile ridurlo.
Michael Pollan
Una seconda natura
Adelphi, 309 pagine
22 euro
Un divertente trattato di giardinaggio empirico-teorico.
Alla ricerca di una terza via
tra chi intende il giardino come algida perfezione di curatissimi prati suburbani e chi lo
vede come selvaggio e romantico ritorno alla natura.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
85
Cultura
Musica
Dal Regno Unito
I Cani
Pozzuoli (Na), 8 aprile
duelbeat.it
Bologna, 15 aprile
locomotivclub.it
Jeremy Corbyn al festival di Glastonbury
Nada
Savona, 9 aprile
cgilsavona.it
Iosonouncane
Ravenna, 9 aprile
bronsonproduzioni.com
Cosmo
Napoli, 9 aprile
laniicio25.it
Micah P. Hinson
Segrate (Mi), 10 aprile
circolomagnolia.it
Torino, 11 aprile
cinemamassimotorino.it
Ravenna, 12 aprile
bronsonproduzioni.com
Roma, 13 aprile
monkroma.club
Foligno (Pg), 14 aprile
spaziozut.tumblr.com
Ursula Rucker
Catania, 10 aprile
zoculture.it
MAURICIo SANTANA (GETTy IMAGES)
Florence & The Machine
Casalecchio di Reno (Bo),
13 aprile
unipolarena.it
Torino, 14 aprile
palaalpitour.it
Florence & The Machine
86
Il leader del partito laburista britannico salirà sul palco invitato dal musicista e
attivista Billy Bragg
Jeremy Corbyn parlerà al fe­
stival musicale che si terrà
come ogni estate a Glaston­
bury, dal 22 al 26 giugno. A in­
vitarlo è stato il cantautore
britannico Billy Bragg. Cor­
byn, che è stato eletto presi­
dente del partito laburista il
12 settembre 2015, parlerà per
conto della campagna per il
disarmo nucleare dal Left
Field, uno dei palchi allestiti
dal festival. Dando l’annun­
cio sul sito dell’evento, Billy
Bragg ha scritto: “L’elezione
di Corbyn a leader del partito
IAN FoRSyTh (GETTy IMAGES)
Dal vivo
Jeremy Corbyn
laburista ha galvanizzato una
nuova generazione di attivisti
e quest’anno lanceremo una
piattaforma per discutere te­
mi di giustizia sociale, di eco­
nomia, di genere e soprattutto
ci apriremo alle possibilità di
autentico cambiamento che
potrebbero veriicarsi con un
governo guidato da Corbyn”.
Un portavoce del leader labu­
rista ha dichiarato al Mirror:
“Jeremy è da sempre un fan
di Glastonbury e non vede
l’ora di partecipare come
ospite”.
Il fondatore del raduno,
Michael Eavis, ha aggiunto:
“Il palco Left Field è stato
creato da me e da una coope­
rativa di lavoratori volontari
che cura il servizio bar di di­
versi festival. È lì che abbia­
mo sostenuto, da subito, le
campagne per il disarmo nu­
cleare e per i lavoratori delle
miniere, che sono stati an­
nientati negli anni ottanta
dalle politiche di Margaret
Thatcher”.
Luke Morgan Britton,
NME
Playlist Pier Andrea Canei
Mostri mediterranei
1
Bebawinigi
Cugino Itt
“Una sorta di Tom Waits
al femminile”: attrice polistru­
mentista cantante, Virginia
Quaranta si cimenta in un ep
di avventurosa afabulazione.
Film espressionisti ambientati
in alveari postindustriali, car­
toni animati dark dell’est euro­
peo, membri della famiglia
Addams che sacriicano ani­
mali e corde di violini scordati.
E via associando liberamente,
inché poi magari viene voglia
di Burt Bacharach, o di un
mondo normale. Però lei ci sa
fare: tenere a mente per even­
tuali colonne sonore noise di
corti giapponesi con tafani
meccanici in stop motion.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
2
Lenula
Mostri
Dai freak show agli
X‑Men, la mutazione adole­
scenziale passa per creature
che esprimono il proprio anta­
gonismo in sembianze orribili,
con la stessa energia del rock
più duro. Il groove brindisino
dei Lenula è di quelli da band
rodate (apripista di Diafram­
ma, Massimo Volume, Nobrai­
no), massiccio e articolato,
muscolare ma non grezzo, con
il tastierista che pigia il basso
come un allievo di Ray Manza­
rek. Nell’album Niente di più
semplice sono come quelle
band di una volta, capaci di ca­
vare ogni sfumatura di blues
da pochi ingredienti.
3
McKenzie
Fenice
Tre calabresi in saletta a
fare il power trio: pestano con
perizia, dimentichi del disagio
là fuori e s’inventano storie
“non troppo leggere”, per for­
tuna in italiano, per un ep regi­
strato in casa con una protesi
dentaria in copertina. È l’equi­
valente noise della marmellata
di ortiche, sembra di vedere le
etichette scritte a mano col
pennarello. Artigianato sonoro
per 22 minuti dove “si parla di
dinamiche relazionali che im­
provvisamente non funziona­
no più”. Risorgono dalle ceneri
anni novanta, e sembrano i tre
draghi della regina bionda di
Trono di spade, da piccoli.
Classica
Scelti da Alberto
Notarbartolo
Nikolaus Harnoncourt
Beethoven: sinfonie
n. 4 e 5
(Sony Classical)
ria vudù e Pran ka mwen da
grandi voci femminili. Il risul­
tato è un incantesimo potente.
Neil Spencer, The Observer
Album
Pet Shop Boys
(dopo due ep e una cassetta
che li riproponeva insieme a
tracce nuove) ed è una meravi­
glia. Carr passa con scioltezza
da un cantato profondo ed
espressivo a un rapping crudo,
ed eccelle in entrambi. I brani
parlano di rimozione e isola­
mento, sono dolci e dolenti ma
allo stesso tempo forti e solidi.
In my neighborhood, Next stop e
Dominatrix pullulano di vita;
Fire, Live again e Forget that I
bruciano come carboni spenti.
Kiid lascia senza parole.
James Rettig, Stereogum
Lakou Mizik
Wa di yo
(Cumbancha)
●●●●●
Lakou Mizik è una band multi­
forme nata dopo il terremoto
che ha devastato Haiti nel
2010. Mentre la piccola repub­
blica caraibica precipitava nel
caos e si difondeva il colera, i
musicisti Steeve Valcourt e Jo­
nas Attis hanno pensato a una
band che fosse un antidoto ai
tempi duri, quasi un simbolo di
rinascita nazionale, e che met­
tesse insieme varie compo­
nenti e anime della musica
haitiana. Oggi nove musicisti
appartenenti a generazioni di­
verse presentano il loro album
di debutto: un’opera allegra,
piena di vita, con tante voci e
idee che richiamano il sound
dei cori di chiesa e del carne­
vale in strada. Anba siklon è ar­
ricchita da un tocco di zydeco,
Zao pile te da raiche di batte­
Nisennenmondai
#N/A
(On U Sound)
●●●●●
Una sorta di techno minimale
suonata da una formazione di
rock classico: il trio chitarra,
basso e batteria. Dio solo sa
Dr
Mal Devisa
Kiid
(autoproduzione)
●●●●●
Mal Devisa è il progetto di
Deja Carr, un’artista di
Northampton, nel Massachu­
setts, che ora come ora incarna
la musicista: ininitamente
brillante, e attiva nel circuito
dei concerti più che in quello
delle label. Ascoltate dal vivo,
le sue canzoni sono una rivela­
zione. E lei, armata solo di bas­
so e tastiera, appare imponen­
te. Kiid è il suo primo disco
The Last Shadow Puppets
Everything you’ve come
to expect
(Domino)
●●●●●
Il secondo album di The Last
Shadow Puppets, il supergrup­
po di Alex Turner (Arctic Mon­
keys) e Miles Kane, è proprio
quello che ci aspettavamo. So­
no intelligenti canzoni pop
rock con un’atmosfera anni
settanta e testi su amori deso­
lati. Ma nonostante la forza dei
singoli elementi, è come se in­
sieme non funzionassero be­
ne. Gran parte dell’album sa­
rebbe perfetto per il prossimo
ilm su James Bond, però que­
sta grandiosità non è abba­
stanza. I testi sono sorpren­
dentemente generici per un
autore come Turner. Alla ine,
Everything you’ve come to expect
è prodotto bene e riserva mo­
menti divertenti, ma chi si
aspettava uno degli album
dell’anno rimarrà deluso.
Mac Gushanas, Earbuddy
Dr
Pet Shop Boys
Super
(X2)
●●●●●
Se si dovesse immaginare una
canzone che rappresenti l’es­
senza dei Pet Shop Boys, nulla
funzionerebbe meglio di The
pop kids, il loro ultimo singolo.
È la storia di due amici che si
conoscono all’università a
Londra all’inizio degli anni no­
vanta, vanno a ballare insieme
e sposano il loro amore quasi
trascendentale per la musica
pop. La canzone è una celebra­
zione dell’amicizia e della
complicità che nascono
dall’amore per la stessa musi­
ca. Ed è la migliore introduzio­
ne a Super, il secondo album
prodotto dal duo con Stuart
Price (Madonna, New Order).
Anche negli anni ottanta i Pet
Shop Boys erano unici, sempre
capaci di raccontare storie da
quattro minuti con precisione
ed empatia. E su Super lo fanno
ancora egregiamente. Escapi­
smo, avventura, reinvenzione
e complicità sono le qualità
che hanno fatto entrare i Pet
Shop Boys nella storia del pop.
E loro rimangono, ora e per
sempre, i pop kids.
Dorian Lynskey,
The Guardian
Howard Griiths
Weber: ouvertures
(Cpo)
The Last Shadow Puppets
Ton Koopman
Telemann: Tafelmusik
(Erato)
perché alcuni gruppi la fanno,
ma bisogna ammettere che il
risultato non è male. In Giap­
pone questo genere di musica
esiste dal 1999 grazie al trio
femminile Nisennenmondai.
Accordi ridotti al minimo, bas­
so e batteria che marciano or­
dinatamente come in autostra­
da, mentre la chitarra emette
suoni rumorosi. La musica del
nuovo album delle Nisennen­
mondai, #N/A, sembra un in­
sieme di cerchi concentrici ri­
petuti meccanicamente. Il di­
sco è nobilitato dagli interventi
del leggendario produttore
dub e reggae Adrian Sher­
wood, anche se la sua inluen­
za è poco visibile.
Der Standard
Nicholas Walker
Balakirev: l’opera per
pianoforte, vol. 2
Nicholas Walker, piano
(Grand Piano)
●●●●●
Il nome di Milij Balakirev
(1837­1910) è ancora famoso,
ma le sue composizioni sono
quasi completamente dimenti­
cate. L’albero che nasconde la
foresta è Islamey, che attira an­
cora i virtuosi in cerca di side.
Per fortuna la sfavillante sona­
ta in si bemolle minore conti­
nua a interessare qualche pia­
nista, tra i pochi capaci di veni­
re a capo della sua immensa
diicoltà tecnica. Nicholas
Walker l’aveva messa nel pri­
mo volume di questa integrale,
mentre nel secondo si concen­
tra sui pezzi brevi composti tra
il 1898 e il 1906, durante la stu­
pefacente estate indiana del
sessantenne Balakirev. E lo fa
sempre con una nostalgia ele­
gante e slancio energico. Con­
siderando quanto poco capita
di ascoltare questa musica, è
un cd molto utile, oltre che pia­
cevolissimo.
Bertrand Boissard,
Diapason
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
87
Cultura
Arte
Giochi da bambini
Negli ultimi anni c’è stato un
boom dell’arte infantile sul
mercato internazionale. Non
si tratta dell’elaborazione di
esperienze traumatiche legate
alla propria infanzia, né di autentici lavori di bambini, ma
di una vera narrativa legata ai
sogni puerili. Dai iori di Takashi Murakami ai giocattoli
di Jef Koons, ino agli scivoli o
alle giostre di Carsten Höller, i
prezzi sono volati alle stelle e
quella che prima era un’eccezione ormai è una tendenza.
Per gli artisti è un rifugio in un
mondo che evade le regole.
Per i collezionisti è un investimento sicuro e un lusso rainato. È interessante notare
come sia i collezionisti sia gli
artisti, siano prevalentemente
uomini.
Die Zeit
Areej Kaoud, The artist hard at work (2016)
DANIEllA BAPTISTA
Un genio ritroso
David Hammons, Mnuchin
Gallery, New York, ino al 27
maggio
Una retrospettiva concisa,
quasi un campionario, di opere importanti di David Hammons. A 72 anni di età, e quaranta di carriera, l’artista afroamericano ha sempre scelto
di esporre poco. Hammons rifugge dal mondo dell’arte ma
allo stesso tempo lo ammalia
tanto da essere quasi considerato un mondo dell’arte a sé.
Sfuggente e unico, è un oracolo satirico e un sottile esteta
della scultura postminimalista. Commedia e tragedia si
alternano nelle sue opere. In
the hood è una foresta di cappucci neri stagliati contro una
parete bianca, un’installazione intelligente e minacciosa al
tempo stesso. Traveling è una
grisaglia ottenuta facendo ripetutamente rimbalzare un
palla sporca di “terra di Harlem” su un foglio bianco.
The New Yorker
Dubai
Aria nuova alla iera degli Emirati
Art Dubai
artdubai.ae
In una lettera del 1970, il poeta statunitense George Oppen
scriveva alla sorella: “Il problema è la felicità, non c’è
nessun altro problema dal
punto di vista politico”. Oppen, che era comunista, sarebbe stato sorpreso di scoprire
che il primo ministro degli
Emirati Arabi Uniti e governatore di Dubai, lo sceicco
Rashid al Maktoum, è d’accordo con lui e ha nominato
un ministro per la felicità.
Chiunque abbia dormito in un
letto di Plot, l’installazione di
Sreshta Rit Premnath realizzata per l’ultima edizione di
Art Dubai, sicuramente non
parlerebbe di felicità. Si tratta
di un grande pannello che da
una parte mostra un cartellone della società di costruzioni
Damac, e dall’altra alcune
cuccette usate dai migranti
che lavorano nei cantieri edili
degli Emirati. Plot è una delle
otto installazioni di Project, la
sezione non proit della iera
Art Dubai. Questo lavoro è un
atto di denuncia sia delle condizioni dei lavoratori negli
Emirati sia una presa d’atto
della polemica sollevata dalle
dichiarazioni antimusulmane
di Donald Trump, in seguito
alle quali il suo partner di Dubai Damac, ha temporaneamente tolto il suo nome dai
cantieri per salvare la faccia.
Giunta alla sua decima edizione, la rassegna si è raforzata.
Quest’anno erano presenti
non solo gallerie (94 da 40 paesi), ma anche convegni, premi, residenze, ilm e programmi radio. Un gran risultato,
anche se ogni opera deve ancora passare l’esame dell’autorità per la cultura e le arti,
prima di essere esposta.
Financial Times
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
89
Pop
L’insostenibile leggerezza
della volgarità
Slavoj Žižek
ochi mesi fa, Donald Trump veniva rego- dubbio queste afermazioni, facendo notare che la conlarmente paragonato senza troppi riguardi versazione tra Al Husseini e Hitler non può essere veria un uomo che defeca rumorosamente icata, e che le uccisioni di massa di ebrei europei per
nell’angolo di una stanza dove si sta svol- mano delle unità mobili di sterminio delle Ss erano cogendo una festicciola elegante. Gli altri minciate già da un pezzo quando i due uomini s’inconcandidati repubblicani alla presidenza de- trarono. Non dovremmo farci ingannare sul signiicato
gli Stati Uniti sono migliori? Probabilmente ricordiamo di dichiarazioni come quelle di Netanyahu: sono un evitutti la scena del Fantasma della libertà di Buñuel in cui dente segnale della regressione della nostra sfera pubil rapporto tra mangiare e defecare è rovesciato: gli in- blica. Accuse e idee che ino a oggi erano coninate nel
vitati sono seduti sulle tazze del gabinetto intorno al mondo oscuro delle oscenità razziste si stanno afertavolo, assorti in una piacevole conversazione, e quan- mando nella narrazione uiciale.
Il problema qui è quella che Hegel chiamava Sittlich­
do vogliono mangiare chiedono a bassa voce alla domestica “dov’è quel posticino?” e si appartano in una keit: l’eticità, l’ampio retroterra di norme (non scritte)
stanzetta sul retro. I dibattiti dei candidati repubblica- della vita sociale, la densa sostanza etica che ci dice cosa possiamo e cosa non possiamo fare.
ni, per prolungare la metafora, non sono
forse come la riunione nel ilm di Buñuel? Qualunque cosa sia, Queste regole oggi si stanno disintegrando: quello che ino a vent’anni fa era semE lo stesso non vale forse per molti im- Trump non è un
portanti politici del pianeta? Erdoğan pericoloso outsider. plicemente impossibile dire in un dibattito pubblico oggi può essere detto con
non stava forse defecando in pubblico La funzione delle
assoluta impunità. Può sembrare che
quando, in un attacco di paranoia, ha li- sue “simpatiche”
quidato chi critica la sua politica nei con- provocazioni e delle questa disintegrazione sia controbilanciata da una maggiore correttezza politifronti dei curdi come traditore e agente sue uscite volgari è
ca, che prescrive esattamente cosa non si
straniero? Putin non stava defecando in
mascherare la
può dire, ma un esame più attento rende
pubblico quando (con una volgarità ben
normalità del suo
evidente come le regole del politically
calcolata, che puntava ad accrescere la
programma
correct partecipino allo stesso processo di
sua popolarità in patria) ha minacciato
disintegrazione della sostanza etica. Per
un oppositore della sua politica in Cecenia di castrazione farmacologica? Sarkozy non stava provare questo punto, basta ricordare l’impasse della
defecando in pubblico quando, nel 2008, aggredì un correttezza politica: la necessità di regole appare quanagricoltore che si riiutava di stringergli la mano dicen- do l’eticità non scritta non è più in grado di normare con
do “Casse-toi, alors, pauvre con!” (una traduzione eicacia le interazioni quotidiane. Invece di costumi
edulcorata potrebbe essere: “Levati di mezzo, povero spontanei rispettati in modo automatico, abbiamo così
idiota!”, ma il vero signiicato è molto più vicino a qual- regole esplicite (i neri diventano “afroamericani”, grasso diventa “con problemi di peso”, tortura diventa “teccosa del tipo: “Togliti dalle palle, coglione!”)?
L’elenco potrebbe continuare. In un discorso al nica d’interrogatorio raforzata” e, perché no, stupro
Congresso sionista mondiale, il 21 ottobre 2015 a Geru- potrebbe diventare “tecnica di seduzione raforzata”).
salemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netan- Il punto cruciale è che la tortura – la violenza brutale
yahu ha lasciato intendere che Hitler voleva solo cac- praticata dallo stato – è diventata pubblicamente accetciare gli ebrei dalla Germania, non sterminarli, e che fu tabile nel momento stesso in cui il linguaggio pubblico
Haj Amin al Husseini, gran mufti palestinese di Geru- è stato reso politicamente corretto per proteggere le
salemme, a persuaderlo che gli ebrei andavano elimi- vittime dalla violenza simbolica. Questi fenomeni sono
nati. Netanyahu ha descritto uno scambio tra i due lea- due facce dello stesso problema.
Possiamo individuare fenomeni simili in altri settoder, avvenuto nel novembre 1941, in cui Al Husseini
avrebbe detto a Hitler di non espellere gli ebrei dall’Eu- ri della vita pubblica. Quando è stato annunciato che,
ropa, altrimenti “verranno tutti qui in Palestina”. Stan- da luglio a settembre 2015, negli Stati Uniti sudoccidendo a Netanyahu, Hitler a quel punto avrebbe chiesto: tali si sarebbe tenuta Jade helm 15, una grande esercita“Allora cosa dovrei farne?”, al che il mufti avrebbe ri- zione militare, la notizia ha sollevato immediatamente
sposto: “Bruciarli”. Molti dei maggiori studiosi israelia- il sospetto che si trattasse di un complotto federale per
ni dell’Olocausto hanno immediatamente messo in mettere il Texas sotto la legge marziale in diretta viola-
P
SLAVOJ ŽIŽEK
è un ilosofo e
studioso di
psicoanalisi sloveno.
Il suo ultimo libro
pubblicato in Italia è
Problemi in paradiso.
Il comunismo dopo la
ine della storia (Ponte
alle Grazie 2015). Il
titolo originale di
questo articolo è
The simple art of
defecating in public.
90
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
Manuele FIor
zione della costituzione. In questa paranoia complotti­
sta ritroviamo tutti i soliti sospetti, Chuck norris com­
preso. Il più folle di tutti è il sito all news Pipeline, che
ha collegato le esercitazioni alla chiusura di diversi
grandi magazzini Walmart in Texas: “Questi enormi
negozi potrebbero presto essere usati come ‘centri di
distribuzione di generi alimentari’ e come sede del
quartier generale delle truppe d’invasione dalla Cina,
che vogliono disarmare gli americani uno a uno prima
che obama lasci la Casa Bianca, come Michelle ha pro­
messo ai cinesi”. Quello che rende sinistra l’intera vi­
cenda è la reazione ambigua dei più insigni repubblica­
ni del Texas: il governatore Greg abbott ha ordinato
alla guardia di stato di monitorare le esercitazioni,
mentre il senatore Ted Cruz ha chiesto più dettagli al
Pentagono.
Trump è l’espressione più pura di questa tendenza
allo svilimento della nostra vita pubblica. Cosa fa per
rubare la scena nei dibattiti pubblici e nelle interviste?
ofre un cocktail di volgarità politicamente scorrette:
attacchi razzisti (contro gli immigrati messicani), so­
spetti sul luogo di nascita di obama e sulla sua laurea,
sortite di pessimo gusto sulle donne, ofese agli eroi di
guerra come il senatore John McCain, e via così. Queste
rozze battute vogliono indicare che Trump se ne ini­
schia delle false buone maniere e “dice apertamente
quello che pensa” (come molte persone qualunque). In
breve, fa chiaramente capire che, nonostante i suoi mi­
liardi, lui è un uomo volgare come tutti noi comuni
mortali.
Ma queste volgarità non devono trarci in inganno:
qualunque cosa sia, Trump non è un pericoloso out­
sider. Semmai, il suo programma è perino abbastanza
moderato (e riconosce molte conquiste dei democrati­
ci). la funzione delle sue “simpatiche” provocazioni e
delle sue uscite volgari è proprio mascherare la norma­
lità del suo programma.
Il suo segreto è che se per miracolo vincesse non
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
91
Pop
Storie vere
Una corte d’appello
della Florida ha
ordinato alla contea
di Marion di
annullare la sentenza
contro Joshua
Andrew Chandler e
scarcerarlo. L’uomo
era stato assolto da
un’accusa di
detenzione di
metanfetamina, ma
condannato per
possesso di strumenti
per il consumo di
stupefacenti. Lo
strumento in
questione era una
banconota da un
dollaro. La corte ha
stabilito che “la
dichiarazione dei
testimoni, secondo
cui la banconota
arrotolata viene usata
abitualmente per
inalare sostanze
stupefacenti, non è
suiciente per
giustiicare una
condanna”.
cambierebbe niente, a diferenza di Bernie Sanders, il
democratico di sinistra il cui vantaggio cruciale sulla
sinistra liberale politicamente corretta è che comprende e rispetta i problemi e i timori degli operai e degli
agricoltori. Il duello elettorale davvero interessante sarebbe quello tra Trump come candidato repubblicano e
Sanders come candidato democratico.
Ma perché parlare di buone maniere e comportamenti civili, oggi che ci troviamo di fronte a quelli che
sembrano problemi reali molto più pressanti? Perché le
buone maniere contano, in situazioni di tensione sono
una questione di vita e di morte, una linea sottile che
separa la civiltà dalla barbarie. Negli ultimi episodi di
volgarità pubblica c’è un elemento su cui vale la pena di
sofermarsi. Negli anni sessanta, le sporadiche volgarità erano associate alla sinistra: gli studenti rivoluzionari usavano spesso il linguaggio comune per enfatizzare
la loro opposizione alla politica uiciale e al suo eloquio
forbito. Oggi il linguaggio volgare è quasi esclusivamente una prerogativa dell’estrema destra, e la sinistra
viene a trovarsi nella sorprendente posizione di paladina del decoro e della civiltà. Per questo la destra repubblicana moderata e razionale è nel panico: dopo l’uscita
di scena di Jeb Bush, sta disperatamente cercando un
volto nuovo. Ma il vero problema non è il candidato: è la
debolezza intrinseca della posizione moderata razionale. Il fatto che la maggioranza non si lasci convincere
dalla narrazione capitalistica razionale e sia molto più
incline ad appoggiare una posizione populista e antielitaria non va liquidato come un esempio della rozzezza
delle classi inferiori: i populisti colgono giustamente
l’irrazionalità di questo approccio razionale, e la loro
rabbia contro istituzioni anonime che decidono della
nostra vita in modo non trasparente è pienamente giustiicata. u gc
La bellezza triste
di Bruxelles
Antonio Muñoz Molina
ANTONIO
MUÑOZ MOLINA
è uno scrittore e
giornalista spagnolo.
Il suo ultimo lavoro
pubblicato in Italia è
Il vento della luna
(Mondadori 2008).
Questo articolo è
uscito sul País con
il titolo Bruselas.
92
i avevano parlato così male di
Bruxelles che la prima volta che
ci sono andato non l’ho riconosciuta. Era grigia, mi avevano
detto, piovosa, noiosa, una roccaforte della burocrazia europea.
Sono arrivato di mattina e c’era il sole. Era una giornata
fresca di primavera. Alloggiavo all’hotel Metropole,
dove ci sono saloni profondi pieni di colonne, un bar
con i divani e i tavoli di marmo e inestre enormi per
guardare la gente seduta fuori o che passa per strada.
Nella hall del Metropole c’è una grande foto in bianco
e nero dei partecipanti al primo congresso Solvay di isica, che si tenne qui nel 1911, con la partecipazione di
Albert Einstein e Marie Curie tra le tante eminenze
M
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
della scienza europea presenti per discutere del conlitto nascente tra isica newtoniana e isica quantistica.
Da una camera ai piani alti dell’hotel Metropole si vede
una piazza allungata come un boulevard, alberi enormi, cornicioni di ediici che potrebbero essere parigini,
mansarde e tetti di ardesia. Gli ediici dell’Unione hanno l’aspetto lussuoso, impersonale e generico di buona
parte dell’architettura recente, ma il centro della città è
un concentrato dei tratti migliori di una capitale europea: le piazze storiche, i vicoli dei vecchi artigiani e dei
negozi, i viali borghesi, gli ediici enfatici dell’ottocento e degli inizi del novecento, le buone librerie, i ristoranti dalla solidità francese o iamminga.
Per alcuni giorni ho visitato la città in compagnia di
mio iglio maggiore, che in quel periodo stava facendo
un tirocinio alla Commissione europea. Ho partecipato a un festival letterario organizzato dalla splendida
libreria Passa Porta; quando c’era il sole mi godevo
l’aria pulita e mite, e quando si metteva a piovere mi
godevo anche la pioggia, che è sempre una novità gradita per uno spagnolo abituato all’asprezza della siccità. Ho bevuto birra, ho mangiato in ristoranti eccelsi,
ho passeggiato in gallerie coperte da soitti di vetro
traslucido che ospitavano librerie dell’usato e negozi
di dischi ben forniti. Come ormai succede in ogni capitale europea, in giro si vedevano molti spagnoli giovani, molto intraprendenti, alcuni lanciati nell’incerta
avventura di trovare lavori che da noi non esistono e
altri con una posizione all’altezza dei loro meriti: professori, burocrati dell’amministrazione europea, ricercatori. Un giorno dovremo raccontare la storia di
questa nuova diaspora spagnola con i suoi dispiaceri e
le sue preziose conquiste, una diaspora di gente che va
incontro al mondo con una buona formazione, un’ampiezza di vedute ormai quasi congenita, una prospettiva vitale ed europea.
A Bruxelles ho visto quadri degli antichi maestri
iamminghi e di René Magritte, e ho trovato un negozio
straordinario specializzato nei mondi di Tintin. Mi sono tornati in mente due belgi altrettanto degni d’ammirazione, Jacques Brel e Georges Simenon, e l’immagine
sepolcrale e deserta della città dipinta da Joseph Conrad nelle prime pagine di Cuore di tenebra: la sede di
un’impresa coloniale genocida in Congo, la spoliazione imperialista come sfondo inconfessabile dell’opulenza europea, stazioni di treni e boulevard, teatri
dell’opera o palazzi di giustizia e musei eretti sfruttando e uccidendo africani presieduti con dignità regale
da re Leopoldo I.
Al tramonto, donne musulmane velate dalla testa ai
piedi scendevano le scale mobili della metropolitana.
Persone che conoscevano bene la città ci parlavano di
quartieri poveri e ostili come ghetti. A Bruxelles salta
agli occhi l’idea di Europa, il suo artiicio e la sua necessità, la sua fragilità, il rumore sordo, come di placche
tettoniche, prodotto dal suo passato di conlitti: le rivoluzioni liberali, le guerre, la lunga vergogna del colonialismo, la chiarezza scientiica del congresso Solvay
e la profonda irrazionalità dei movimenti nazionalistici e xenofobi. Nelle belle piazze europee gremite di bar
all’aperto furono costruiti patiboli e roghi per gli eretici.
Su queste strade acciottolate dove passeggiare è un
piacere passarono camion militari tedeschi con gli al­
toparlanti e i soldati di pattuglia che abbattevano con
il calcio della pistola le porte di chi era stato segnalato.
Nelle dolci pianure verdi del Plat pays di Brel, che oggi
si possono ammirare dal inestrino di un treno perfet­
to, solo un centinaio d’anni fa c’erano trincee piene di
fango e crateri meteoritici lasciati dalle bombe che ca­
devano nel mezzo del niente. Proprio nella capitale di
un sistema votato all’abolizione delle frontiere rispun­
ta, quasi in supericie, la vecchia diatriba dell’identità.
Dovevo parlare a un evento pubblico, e uno degli orga­
nizzatori mi ha chiesto che lingua avessi intenzione di
usare. Spagnolo e inglese andavano bene, mi ha detto,
ma non il francese: scegliendo il francese avrei dato
l’impressione di prendere parte a favore dell’identità
vallone e francofona contro quella iamminga.
Quel giorno ho detto che la cosa che mi piace di più
dell’idea di Europa è un aspetto che per altri è la sua
maggiore debolezza, o il suo difetto: il fatto di essere
completamente artiiciale, di non basarsi su mitici
legami di sangue, su una lingua primigenia o sulla leg­
genda di una comunità originaria. Nessuno si porterà
la mano al cuore davanti a una bandiera europea, nes­
suno piangerà commosso ascoltando il suo inno.
Gli hooligan ubriachi alla ine di una partita di calcio
non si avvolgeranno in bandiere europee. Ma per mol­
te persone della mia generazione, l’Europa è tangibile
quanto una boccata d’aria. Eravamo cresciuti in una
dittatura claustrofobica, e l’Europa si spalancò davan­
ti ai nostri occhi come uno spazio illimitato di cittadi­
nanza, nel rispetto delle libertà personali e di un prin­
cipio di equità sociale. Noi spagnoli non eravamo sicu­
ri della nostra capacità di mantenere la pace, e l’Euro­
pa è sempre stata per noi garanzia di misura e primato
della legge.
Adesso alla televisione e sui giornali vedo immagi­
ni angoscianti di Bruxelles, ascolto grida di paura e di
JIM HARRISON
Poesia
era un romanziere,
poeta e sceneggiatore
statunitense. Nato
l’11 dicembre 1937, è
morto il 26 marzo
2016. Questa poesia è
tratta dalla sua ultima
raccolta, Dead man’s
loat (Copper Canyon
Press 2016).
Traduzione di
Francesca Spinelli.
Uccelli
Gli uccelli volano convulsamente
nel temporale appena scoppiato, il
primo dopo settimane. Se la stanno
spassando. Mi sa che li raggiungo.
Jim Harrison
dolore, esplosioni, raiche di spari, sirene e allarmi.
Per me è diicile immaginare il caos e il panico in una
città così tranquilla, così incline alla noia delle dome­
niche uggiose, alle placide passeggiate all’ombra degli
alberi e alle chiacchiere ai tavoli all’aperto. Nelle piaz­
ze semideserte ci saranno camion blindati della poli­
zia, e quando arriverà la notte s’imporrà un silenzio da
coprifuoco. Le donne velate di nero gireranno l’angolo
più furtivamente e scenderanno di corsa le scale della
metropolitana. José Ignacio Torreblanca ha denuncia­
to l’incapacità europea di assumere un atteggiamento
chiaro, fermo e comune contro il terrorismo, e la capi­
tolazione davanti alle iniziative nazionali, che ci inde­
boliscono invece di renderci più eicaci.
Come la democrazia spagnola, anche l’Europa uni­
ta ha molti più beneiciari che difensori. La furia dei
nostri nemici dovrebbe essere un indizio del valore di
tutto ciò di cui godiamo senza rendercene conto. L’Eu­
ropa è passeggiare senza paura per Bruxelles, in un
mattino umido di sole e poche nuvole sparse, tra sco­
nosciuti che sono nostri improbabili compatrioti.
L’Europa è anche essere consapevoli di tutta la razio­
nalità e di tutto il coraggio di cui avremo bisogno per
difendere questi doni. u fr
Scuole Tullio De Mauro
Pigmalione e le tecnologie
La bambina che ti regala, a te che
insegni, un lampo di luce dei suoi
occhi nel momento in cui capisce
davvero che 0,21 è molto più gran­
de di 0,13240, e da quel momento
camminerà spedita nel mondo dei
decimali e, poi, delle frazioni. Il
bambino che viene a chiederti
una spiegazione e se tu lo ascolti e
lodi il suo dubbio non lo dimenti­
cherà più. Queste cose una scuola
di macchinette non le potrà mai
dare, ai maestri, naturalmente, e
agli alunni. Come molti ci fanno
ricordare, da Ovidio a Bernard
Shaw, Pigmalione grazie all’amo­
re diede vita alla fanciulla marmo­
rea di una sua scultura. Quello che
le scienze dell’educazione chia­
mano “efetto Pigmalione”, il su­
scitare la vita dell’intelligenza con
un’approvazione, ma anche spe­
gnerla con la disattenzione o lo
spregio (basta uno sguardo, un
cenno), una scuola senza inse­
gnanti non potrà conoscerlo.
La newsletter Toile de l’éduca­
tion di Le Monde ha rilanciato la
preoccupazione espressa da Jean
Tévelis in un suo blog e nei suoi li­
bri di successo sull’educazione
scolastica e familiare. L’ultimo li­
bro, A l’école des mômes, alla scuola
dei bambinetti, alza il tiro contro
tendenze ministeriali che mirano
a meccanizzare l’insegnamento e
hanno l’efetto di creare una scuo­
la di cancres, di scansafatiche, ma­
gari automatizzati. Apprendere e
insegnare si sviluppano bene in
un ambiente phyrtual, come dice
Alfonso Molina, dove il virtual
delle tecnologie integra potente­
mente ma non cancella il rapporto
reale, isico, tra le persone. u
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Scienza
PAuLINE ASkIN (REuTERS/CONTRASTO)
Un pinguino di Adelia in Antartide orientale
Se Hansen ha ragione
siamo nei guai
Story Hinckley, The Christian Science Monitor, Stati Uniti
Sta per succedere, avverte
il climatologo James Hansen:
lo scioglimento dei ghiacci non
solo farà salire il livello dei mari,
ma modiicherà le correnti
oceaniche, stravolgendo il clima
ames Hansen è uno dei più grandi
climatologi dei nostri tempi? Speriamo di no. L’ex scienziato della
Nasa è noto per le sue previsioni accurate e precoci. Nel 1988 annunciò alla
commissione del senato statunitense per
l’energia e le risorse naturali che il riscaldamento globale era imputabile per il 99 percento alle attività umane. Se oggi nessuno
si stupisce, trent’anni fa attribuire con certezza la colpa all’umanità era una novità.
Con la sua sicurezza incrollabile, Hansen
turbò scienziati e politici.
Ora ha turbato di nuovo gli scienziati
con uno studio sul cambiamento climatico,
uscito su Atmospheric Chemistry and Physics, che va in controtendenza. “I costi economici e sociali della perdita di funzionalità
di tutte le città costiere sono incalcolabili”,
spiega Hansen insieme a 18 coautori. “A no-
J
94
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
stro avviso, una strategia fondata sull’adattamento a simili conseguenze è inaccettabile per la maggior parte dell’umanità, per
cui riteniamo fondamentale capire meglio
e al più presto l’entità della minaccia”.
Secondo gli autori dello studio, limitare
l’aumento delle temperature globali entro i
due gradi al di sopra del livello preindustriale non basta: l’ultima volta che la Terra si
riscaldò così tanto – 120mila anni fa – le conseguenze furono devastanti. In parole povere, Hansen sostiene che le emissioni di
gas serra che intrappolano il calore hanno
causato un aumento della temperatura che,
a sua volta, ha provocato il rapido scioglimento dei ghiacci. L’acqua così prodotta ha
accelerato lo scioglimento dell’Antartide e
della Groenlandia e, prima o poi, rallenterà
o fermerà del tutto le correnti oceaniche
responsabili della ridistribuzione del calore
nel pianeta. Quando avvenne 120mila anni
fa, il livello del mare si alzò tra i sei e i nove
metri scatenando cicloni così violenti da
provocare una pioggia di macigni sulle Bahamas, dice Hansen.
“In primo luogo le nostre conclusioni
indicano che l’obiettivo di limitare a due
gradi l’aumento del riscaldamento globale,
dato a volte già messo in discussione, non
garantisce alcuna sicurezza”, spiegano
Hansen e i colleghi. “In secondo luogo lo
studio suggerisce che la temperatura globale dell’aria in supericie, anche se è un importante strumento diagnostico, è un indicatore imperfetto della ‘salute’ del pianeta
perché il veloce scioglimento dei ghiacci ha
un efetto refrigerante che dura a lungo”.
“In terzo luogo oggi non solo abbiamo le
prove dei cambiamenti che cominciano a
veriicarsi nel sistema climatico, ma possiamo associare questi cambiamenti all’ampliicazione di alcuni fenomeni”, aggiungono gli autori. “Esiste la possibilità, il pericolo reale, di consegnare ai giovani e alle generazioni future un sistema climatico incontrollabile. Il messaggio dei climatologi
alla società, ai politici e all’opinione pubblica è questo: siamo in una situazione di
emergenza globale”.
Mentre previsioni simili di altri climatologi si riferiscono ai prossimi secoli, quelle
di Hansen si riferiscono ai prossimi decenni. Se ha ragione, è davvero un’emergenza
globale. L’eventuale riorganizzazione del
mondo, però, dipende dalla iducia che stavolta scienziati e politici avranno in lui. Michael Mann, climatologo dell’università
della Pennsylvania, ha detto al New York
Times: “Se ignoriamo Hansen lo facciamo
a nostro rischio e pericolo”. u sdf
Da sapere
Dai millimetri ai centimetri
u uscito in anteprima a luglio del 2015,
l’articolo di James Hansen aveva suscitato
molte perplessità: perché era stato divulgato
prima di passare per il processo di revisione
(peer review) ed essere pubblicato su una rivista
scientiica, e perché era stato accusato di essere
altamente speculativo e di non essere sostenuto
dagli altri studi. Ora, però, la versione rivista,
uscita su un giornale di settore, è
sostanzialmente uguale alla precedente: quasi
nessuna delle afermazioni dell’équipe di
Hansen è stata modiicata. Inoltre, un nuovo
studio, appena uscito su Nature, va nella stessa
direzione. Secondo l’équipe di Rob DeConto,
dell’università del Massachusetts ad Amherst, il
livello dei mari si alzerà di un metro entro il
2100, anche se l’aumento delle temperature
rimarrà entro i due gradi. E se farà più caldo, gli
oceani potrebbero innalzarsi di due metri.
“Oggi si misura l’aumento del livello dei mari in
millimetri all’anno in tutto il pianeta”, ha detto
DeConto. “Noi invece parliamo di un possibile
aumento in centimetri all’anno dovuto al solo
scioglimento dei ghiacci antartici”.
Psicologia
GENETICA
Fungicidi
sotto controllo
La faccia che dice no
Un mondo
sovrappeso
I dati raccolti in 186 paesi tra il
1975 e il 2014 rivelano che
l’obesità e il sovrappeso colpiscono nel mondo più persone
della denutrizione. Se la tendenza continua, entro il 2025
l’obesità potrebbe riguardare
globalmente il 18 per cento degli uomini e più del 21 per cento
delle donne. Tuttavia, in asia
meridionale circa un quarto
della popolazione è sottopeso,
una condizione comune anche
in africa centrale e orientale,
scrive The Lancet.
Obesità nel mondo, %
1975
Uomini
2014
Donne
0
3
6
9
12
15
Cognition, Stati Uniti
un viso con la fronte aggrottata, le
labbra strette e il mento alzato
trasmette un messaggio universale di
riiuto. L’espressione sarebbe comune
a persone di culture diverse, che la
userebbero per raforzare il “no”
detto a voce. In un esperimento,
condotto su 158 studenti
dell’università statale dell’Ohio, negli
Stati uniti, è stato chiesto a volontari di madre lingua
inglese, spagnola, cinese o che comunicavano in lingua
dei segni di rispondere a domande costruite per suscitare
reazioni negative, come: “uno studio indica che i costi
dell’istruzione dovrebbero aumentare del 30 per cento.
cosa ne pensi?”. I volontari tendevano a manifestare la
loro disapprovazione con un’espressione particolare,
simile per tutti, che comunicava un insieme di disgusto,
rabbia e disprezzo. Secondo i ricercatori, questa
espressione non serve solo per esternare la propria
contrarietà, ma diventa una parte della comunicazione
verbale. L’espressione è usata come un marcatore, un
“no”, reso attraverso i muscoli del viso, che modiica il
signiicato di quanto detto a parole, e nel caso della lingua
dei segni può sostituire la parola “no”. Secondo i
ricercatori, l’espressione del viso potrebbe avere un
signiicato evolutivo. u
Paleoantropologia
IN BREVE
Linguistica L’università svedese di Lund recluta gatti domestici e rispettivi proprietari
per condurre una ricerca
sull’inluenza della cadenza
dialettale nella comunicazione
dei felini. Oltre a decifrare i signiicati dei miagolii, Susanne
Schötz, esperta di fonetica,
vuole capire se i gatti li modulano in modo diverso a seconda
del tono e dell’accento dei loro
padroni.
Salute La struttura di zika è
molto simile a quella dei virus
dello stesso gruppo. Tuttavia, è
diversa una regione da cui probabilmente dipende la capacità
dello zika di infettare le cellule
umane. Questa scoperta potrebbe aiutare a sviluppare un
vaccino e terapie. Il ceppo virale studiato è quello isolato nella
Polinesia francese nel 20132014, scrive Science.
ASTRONOMIA
Un sistema
con tre soli
LIanG Bua Team
SALUTE
ThOmaS PeTer (reuTerS/cOnTraSTO)
I fungicidi della famiglia delle
strobilurine, usati in agricoltura
da vent’anni, potrebbero far male alla salute. I ricercatori
dell’università del north carolina, negli Stati uniti, hanno osservato in cellule nervose di topo coltivate in vitro ed esposte
alle strobilurine delle modiicazioni genetiche tipiche dell’autismo e di malattie neurodegenerative come l’alzheimer. Inoltre,
hanno riscontrato un eccesso di
radicali liberi, molecole molto
reattive che danneggiano il dna
e i meccanismi cellulari interni.
Questi risultati, precisano gli
autori su Nature Communications, non dimostrano che questi fungicidi causino l’autismo,
ma che possono danneggiare i
neuroni. e resta da capire se la
quantità di strobilurine assimilata dal corpo umano causa gli
stessi danni osservati in provetta sui topi.
L’H. loresiensis è più vecchio
L’Homo loresiensis potrebbe essere più antico del previsto. una nuova datazione dei fossili trovati nella grotta di Liang Bua (nella foto),
sull’isola indonesiana di Flores, ha permesso di stabilire che l’ominide si è estinto già cinquantamila anni fa, probabilmente con l’arrivo
nella regione dell’Homo sapiens, e non undicimila anni fa, come inora ipotizzato. Secondo Nature, l’Homo loresiensis non avrebbe quindi convissuto con le popolazioni umane, mentre non è escluso che
abbia interagito con i denisoviani, altri ominidi arcaici estinti . u
È stato trovato alla distanza di
680 anni luce dalla Terra un sistema solare con tre stelle: una
è più luminosa del Sole e le altre
due, considerate in precedenza
un’unica stella, formano un sistema binario. Del sistema fa
parte Kelt-4ab, un pianeta gigante gassoso simile a Giove.
Secondo l’Astronomical
Journal, sistemi con tre stelle
erano già noti, ma lo studio di
Kelt-4 potrebbe aiutare a capire
meglio la loro dinamica.
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95
Il diario della Terra
Ethical living
Grecia
5,2M
Stati
Uniti
6,2M
Pakistan
Economia
circolare
Giappone
6,0M
Pakistan
Guatemala
42,8°C
Kolda,
Senegal
Palau
Sudan
Indonesia
5,1M
17S
Vanuatu
7,2M
Australia
-72,2°C
Vostok,
Antartide
FAyAz AzIz (REUTERS/CoNTRASTo)
guito, in Guatemala, si è risvegliato proiettando cenere a
quattromila metri d’altitudine.
Cicloni Il ciclone 17S si è
formato nell’oceano Indiano
centrale.
Peshawar, Pakistan
Coralli La barriera
corallina australiana è a
rischio a causa della temperatura troppo alta del mare, che
ha provocato lo sbiancamento
dei coralli. Il fenomeno ha
colpito il 95 per cento della
barriera tra Cairns e la Papua
Nuova Guinea.
Alluvioni Almeno 92 persone sono morte nelle alluvioni e nelle frane causate dalle
forti piogge che hanno colpito
il nordovest del Pakistan.
Circa 1.200 case sono state
danneggiate.
Siccità L’arcipelago di Palau, nell’oceano Paciico, ha
proclamato lo stato d’emergenza per una grave siccità
causata dal fenomeno meteorologico del Niño. u Quattrocentomila persone hanno bisogno di aiuti alimentari a causa della siccità che ha colpito il
Sudan.
Vulcani Il vulcano Santia-
96
Ratti Un’invasione di ratti
ha spinto le autorità di
Peshawar, in Pakistan, a
Uccelli Il gruccione e il luì
piccolo sono tra gli uccelli europei che trarranno vantaggio
dal cambiamento climatico,
mentre la peppola e la cincia
alpestre ne saranno danneggiate. Anche negli Stati Uniti
sono state individuate alcune
specie aviarie favorite dal
cambiamento, confermando
la validità del modello che
prevede la risposta dei diversi
tipi di uccelli all’aumento
delle temperature, scrive
Science.
Lady Elliot Island, Australia
DAVID GRAy (REUTERS/CoNTRASTo)
Terremoti Un sisma di magnitudo 7,2 sulla scala Richter
è stato registrato al largo
dell’arcipelago di Vanuatu.
Non ci sono state vittime. Altre
scosse sono state registrate
nell’isola indonesiana di Sumatra, in Giappone, in Grecia
e in Alaska.
ofrire ino a tre euro agli
abitanti per ogni animale
ucciso. Negli ultimi tre anni
cinque neonati sono morti a
causa dei morsi dei roditori.
Biodiversità Dalle foreste primordiali alle barriere coralline, circa la metà dei siti naturali patrimonio dell’umanità dell’Unesco
sono minacciati dalle attività industriali, come l’esplorazione di
gas e petrolio e l’estrazione mineraria, dal disboscamento illegale
e dalla pesca eccessiva. Secondo il Wwf, 114 siti, sui 229 classiicati
per il loro habitat naturale, la lora e la fauna, sono a rischio.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
u Il pensiero di Walter Stahel,
architetto e ingegnere svizzero
al quale si deve il concetto di
“economia circolare”, può essere riassunto così: riusa quello che puoi, ricicla quello che
non può essere riusato, ripara
quello che può essere aggiustato, rigenera quello che non
può essere riparato. Stahel
stesso ha deciso di applicare
questi principi alla sua auto,
che dopo trent’anni di servizio
aveva bisogno di attenzioni.
Dopo due mesi e cento ore di
lavoro la macchina è tornata
alla sua “bellezza originaria”,
scrive l’architetto su Nature.
Il problema è il dominio
dell’economia lineare, spiega
Stahel. Questo modello è come un iume, che scorre trasformando le risorse naturali
in materie prime e in prodotti
da vendere al dettaglio. Al termine del processo la proprietà
e le responsabilità legate ai rischi e alla produzione dei riiuti sono trasferite al compratore
inale. È un modello eiciente
per superare la scarsità, ma
dissipa risorse in mercati spesso saturi. L’economia circolare
è invece come un lago. La rigenerazione dei beni e dei materiali aiuta la creazione di posti
di lavoro e fa risparmiare energia, riducendo il consumo di
risorse e i riiuti. Pulire una
bottiglia di vetro e riusarla è
più veloce ed economico che
riciclare il vetro o produrre
una nuova bottiglia. Un ulteriore passo avanti è l’economia basata sull’aitto, il prestito e la condivisione. Per facilitare la transizione Stahel consiglia misure come l’aumento
delle tasse sulla produzione e
la riduzione di quelle sulla riparazione.
Il pianeta visto dallo spazio 20.03.2016
eArthobservAtory/NAsA
Neve di primavera sulle Alpi
Monaco
Zurigo
Berna
Ginevra
Lubiana
Milano
Venezia
Nord
100 km
u A metà marzo le ultime nevicate di primavera hanno imbiancato le Alpi. Nonostante il
sole, le temperature sui pendii
più alti sono rimaste abbastanza
basse da preservare il manto nevoso. Le Alpi si estendono per
1.200 chilometri in otto paesi e
sono la catena montuosa più
lunga entro i conini europei,
con oltre cento vette che superano i quattromila metri.
Nell’inverno 2015-2016 la
neve è arrivata tardi. Qualche
nevicata a novembre – il consueto inizio della stagione – è
stata seguita da settimane di
temperature al di sopra della
media. Molte località non hanno avuto neve ino ai primi giorni dell’anno nuovo. L’andamento climatico si è normalizzato a
gennaio e a febbraio, e la consistente nevicata di marzo – in alcune zone tra i quaranta centimetri e il metro – ha riacceso le
speranze del turismo invernale.
Questo andamento, come
quello del 2014-2015, rientra
nella tendenza a lungo termine
delle Alpi europee. Per buona
parte del ventesimo secolo la
Lo spettroradiometro
Modis, a bordo del satellite
Terra della Nasa, ha
scattato questa foto delle
Alpi quasi senza nuvole il
20 marzo 2016 .
u
neve è leggermente aumentata
o si è mantenuta stabile. Negli
anni ottanta e novanta, invece,
la copertura nevosa media ha
cominciato a ridursi e la piovosità è aumentata alle altitudini
minori, tendenza che si è protratta in questo secolo. Anche se
la supericie media coperta dalla neve in un qualunque inverno
non è cambiata molto, lo spessore e la durata del manto nevoso sono diminuiti soprattutto a
sudest e a sudovest e sotto i
duemila metri.–Mike Carlowicz
(Nasa)
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
97
Economia e lavoro
ALkIS koNSTANTINIDIS (REUTERS/CoNTRASTo)
Atene, Grecia
Atene protesta
con il Fondo monetario
gio del paese da parte dell’eurozona. La
scadenza imminente ofrirebbe all’Fmi un
maggior potere contrattuale e gli permette­
rebbe di strappare concessioni alla Germa­
nia sulla cancellazione del debito, che il
fondo considera essenziale per una ripresa
a lungo termine della Grecia.
Il 2 aprile l’episodio ha reso necessaria
una riunione d’emergenza dei più impor­
tanti ministri greci e ha spinto Tsipras a scri­
vere a Lagarde per esprimere la sua “pro­
fonda preoccupazione”. Nella lettera il
premier greco aferma che è in gioco “la
possibilità della Grecia di idarsi e di conti­
nuare a negoziare in buona fede” con l’Fmi.
Nella sua risposta, Lagarde avverte che la
reazione dei greci alla trascrizione ha incri­
nato a sua volta la iducia dell’Fmi. “Ma do­
po aver rilettuto, ho deciso di permettere
alla nostra squadra di tornare ad Atene per
portare avanti i colloqui”, ha scritto. Poi,
con una frecciata al modo in cui la Grecia ha
gestito la questione, ha aggiunto che l’Fmi
“negozia in buona fede, senza minacce e
senza far circolare documenti riservati”.
Discutere con Merkel
J. Brunsden e K. Hope, Financial Times, Regno Unito
Secondo un documento difuso
da Wikileaks, il Fondo vuole
spingere la Grecia sull’orlo
dell’insolvenza per avere più
forza nei negoziati sul
salvataggio del paese
hristine Lagarde, la direttrice del
Fondo monetario internaziona­
le (Fmi), ha respinto deinendo­
le “assurdità” le accuse della
Grecia secondo cui l’Fmi starebbe cercan­
do di spingere Atene verso l’insolvenza. In
una lettera al primo ministro greco Alexis
Tsipras, Lagarde ha difeso i collaboratori
dell’Fmi al centro di un caso scoppiato in­
torno a un documento fatto arrivare alla
stampa il 2 aprile. Si tratta della trascrizione
di una teleconferenza avvenuta a metà
marzo in cui due funzionari dell’Fmi discu­
tono dei negoziati per il salvataggio della
Grecia.
Tsipras ha dichiarato che la trascrizione
della teleconferenza, pubblicata da Wiki­
leaks, sollevava dei dubbi sul fatto che Ate­
ne possa continuare a trattare con i due
funzionari intercettati: Poul Thomsen, di­
C
98
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
rettore del dipartimento europeo dell’Fmi,
e Delia Velculescu, responsabile del pro­
gramma greco del fondo monetario. Lagar­
de ha risposto che la sua squadra “è formata
da personale esperto che gode della mia
piena iducia e del mio appoggio persona­
le”. La direttrice dell’Fmi si è ben guardata
dall’accusare Atene di aver spiato i suoi fun­
zionari, ma ha avvertito Tsipras che “è fon­
damentale che le sue autorità garantiscano
un contesto in cui sia rispettata la riserva­
tezza delle discussioni tra i funzionari”.
I contrasti sono stati causati da alcuni
commenti contenuti nella trascrizione. I
due collaboratori dell’Fmi esprimono fru­
strazione sulla lentezza del processo con
cui l’Unione europea concederà alla Grecia
una cancellazione parziale del debito pub­
blico. Thomsen e Velculescu accennano al
fatto che in passato i governi dell’eurozona
hanno rimandato decisioni importanti ino
a quando il governo greco non si è trovato
sull’orlo dell’insolvenza.
La Grecia ha interpretato queste osser­
vazioni come un piano dell’Fmi per far du­
rare ino a luglio – cioè quando Atene dovrà
versare la prossima rata per rimborsare il
suo debito – i negoziati in cui l’istituto dovrà
decidere se partecipare all’ultimo salvatag­
Il caso della teleconferenza è il segnale più
evidente del fatto che l’Fmi vuole aidare
interamente all’Unione europea il salvatag­
gio da 86 miliardi di euro della Grecia, libe­
randosi di un piano molto criticato. Secon­
do il documento, a un certo punto Thomsen
ha proposto di discutere con la cancelliera
tedesca Angela Merkel, per costringerla ad
accettare la cancellazione del debito o a
permettere all’Fmi di uscire dal program­
ma. Nella sua lettera Lagarde ha conferma­
to che, a suo parere, la Grecia è “ancora
molto lontana dalla messa a punto di un
programma coerente da presentare al co­
mitato esecutivo”.
“Il vero conlitto è quello tra la Germa­
nia e l’Fmi”, ha commentato Mujtaba Rah­
man, analista dell’Eurasia Group. “E dato
che senza l’Fmi il salvataggio è impossibile,
alla ine la Germania accetterà la riduzione
del debito”. Ad Atene diversi osservatori
sospettano che Tsipras sia responsabile del­
la divulgazione del documento. “La reazio­
ne del governo fa pensare che l’esecutivo
stia cercando di creare una crisi a tavolino
per costringere l’Fmi a ritirarsi dal program­
ma, nella speranza di raggiungere un accor­
do a condizioni più convenienti con l’Unio­
ne europea”, ha detto Miranda Xafa, ricer­
catrice del Centre for international gover­
nance innovation. u fp
Stati Uniti
L’isola
in ripresa
YIANNIs koUrtoGLoU (reUters/CoNtrAsto)
Cape Greco, Cipro
New York, Stati Uniti. La borsa di Wall street
LUCAs JACksoN (reUters/CoNtrAsto)
Il 31 marzo, a quasi tre anni dal
crollo del sistema bancario che
ha portato il paese sull’orlo
dell’insolvenza, Cipro è uscita
uicialmente dal programma di
aiuti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, la cosiddetta troika. L’isola, scrive Le Monde,
“ha usato 7,5 miliardi dei dieci
concessi”. In cambio il governo
di Nicosia ha ristrutturato le
banche, facendo partecipare ai
costi, per la prima volta nell’eurozona, i clienti degli istituti con
depositi superiori ai centomila
euro. Non sono mancate le misure d’austerità, come tagli tra il
15 e il 30 per cento agli stipendi
dei dipendenti pubblici e una
serie di privatizzazioni. Dopo le
soferenze iniziali – nel 2013
l’economia si è contratta del 5,4
per cento, mentre il rapporto tra
il deicit e il pil è arrivato all’8,9
per cento – l’isola si è ripresa,
“dimostrando una straordinaria
capacità di resistenza”: nel 2015
il pil di Cipro è aumentato
dell’1,5 per cento, il rapporto tra
deicit e pil è sceso all’1 per cento e il paese è tornato a inanziarsi sui mercati. Il segreto di
questa ripresa, spiega il quotidiano francese, è la capacità
dell’isola di puntare su nuovi
settori, per esempio quello dei
servizi di consulenza alle imprese. A questo bisogna aggiungere
le imposte societarie molto basse e la disponibilità di manodopera qualiicata e a basso costo.
ARMI
Fusione fallita
Il 6 aprile la casa farmaceutica statunitense pizer e quella irlandese
Allergan hanno abbandonato l’accordo di fusione siglato a febbraio.
La decisione, spiega il Financial Times, è arrivata dopo che il dipartimento del tesoro degli stati Uniti ha annunciato nuove regole
per rendere più diicili le operazioni con cui le aziende statunitensi
si trasferiscono in paesi dove pagano meno tasse: un provvedimento nato proprio in seguito alle polemiche suscitate dalla fusione tra
pizer e Allergan. L’obiettivo dell’accordo era far nascere una società con sede in Irlanda, che ha un regime iscale più vantaggioso di
quello statunitense. In Irlanda le imposte societarie arrivano al 12,5
per cento, mentre negli stati Uniti sono intorno al 30 per cento.
Crescita
senza sosta
Nel 2015 la vendita di armi a livello globale è cresciuta dell’1
per cento, raggiungendo il valore di 1.700 miliardi di dollari. Lo
conferma l’ultimo rapporto
dell’ong svedese sipri. “Le vendite sono aumentate soprattutto
nell’europa dell’est, in Asia e in
Medio oriente”, spiega Die Tageszeitung, “mentre hanno subìto una lessione in America
Latina e, per la prima volta in
undici anni, in Africa”. Nell’europa dell’est la spesa è cresciuta
del 7,5 per cento, “con tassi a
doppia cifra nei paesi che coninano con la russia, come
l’Ucraina e la polonia”. Gli stati
Uniti si confermano prima potenza militare con una spesa di
600 miliardi di dollari. Al secondo posto c’è la Cina, che nel
2015 ha speso 215 miliardi.
Variazione delle spese militari, %,
per regione, 2014-2015
Media mondiale
Nordamerica
America Latina
e Caraibi
Cina
Europa
centrale e occidentale
Scioperi nel settore pubblico
Europa orientale
Asia e Oceania
FoNte: sIprI
CIPRO
Africa
Made In China, Australia
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Negli ultimi mesi in Cina sono
aumentate le proteste dei lavoratori,
sia nel settore privato sia in quello
pubblico. “Le recenti agitazioni dei
dipendenti delle aziende di stato, in
particolare, fanno pensare a
un’imminente impennata degli
scioperi nel settore pubblico cinese”,
scrive Made In China, una nuova
rivista trimestrale australiana che si occupa di lavoro,
società civile e diritti in Cina. “per molti versi gli ultimi
scioperi ricordano le dure proteste registrate alla ine degli
anni novanta, quando le autorità cinesi stavano attuando
una profonda ristrutturazione dell’economia. tra il 1997 e
il 2003 pechino chiuse o privatizzò un gran numero di
aziende di stato, lasciando a casa tra i 25 e i 40 milioni di
lavoratori. e spingendo decine di migliaia di persone a
scendere in piazza”. ◆
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IN BREVE
Spagna Nel 2015 il governo di
Madrid ha registrato un deicit
pubblico pari al 5,1 per cento, al
di sopra dell’obiettivo del 4,2 per
cento concordato con l’Unione
europea. In particolare, le spese
sono state superiori di dieci miliardi di euro rispetto al limite
issato da Bruxelles.
Arabia Saudita entro il 2020
l’Arabia saudita raforzerà il suo
programma d’austerità aumentando le entrate ino a cento miliardi di dollari. Il paese mediorientale intende triplicare le entrate pubbliche diverse da quelle
del greggio e risanare così il bilancio dello stato.
Internazionale 1148 | 8 aprile 2016
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L’oroscopo
Rob Brezsny
Il pittore francese Henri Matisse è considerato uno dei
grandi dell’arte moderna. Dopo aver compiuto ottant’anni continuò a creare meraviglie che, per usare le
parole di un critico, sembravano “venire dalla primavera del
mondo”. Anche se le sue opere erano uniche, ammetteva volentieri di essere stato inluenzato da altri artisti, ma custodiva gelosamente la forza primitiva della sua innocenza e del suo stupore
infantile. “Studia, impara, ma conserva la tua ingenuità originaria”, diceva. “Deve rimanere dentro di te, come il desiderio di bere nell’ubriacone e l’amore nell’innamorato”. Tieni a mente questo consiglio nel prossimo futuro.
TORO
Kurt Gödel, nato sotto il segno del Toro, è stato uno dei
più grandi logici della storia. La
sua padronanza assoluta del pensiero razionale gli permise di esercitare un’importante inluenza sul
pensiero scientiico del novecento.
Ma Gödel aveva anche una tale
paura di essere avvelenato che non
mangiava niente che non fosse
stato cucinato dalla moglie. Una
delle possibili morali di questa storia è che razionalità e irrazionalità
si mescolano facilmente. La prossima settimana sarà il periodo ideale per cercare di capire se questo
fenomeno riguarda anche te. Avrai
una straordinaria capacità di distinguere tra le due cose e potrai
fare i primi passi per liberarti dalle
tue paure e dalle tue sciocche superstizioni.
ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI
GEMELLI
Per un periodo Albert Einstein insegnò all’istituto di
studi avanzati di Princeton. Una
volta uno studente si lamentò del
fatto che le domande dell’esame
fossero le stesse dell’anno precedente. Einstein ammise che era vero, poi aggiunse: “Ma quest’anno
tutte le risposte sono diverse”. C’è
una situazione simile nella tua vita. Anche nel tuo caso le domande
dell’esame inale sono praticamente le stesse dell’anno scorso,
ma tutte le risposte sono cambiate.
Divertiti a sciogliere gli enigmi.
CANCRO
Il tuo oracolo personale per
le prossime settimane è una
iaba di 2.600 anni fa. Fu scritta
dal greco Esopo, ma poi è stata
tradotta in tante lingue. All’inizio
della storia, un cane trova a terra
un pezzo di carne cruda. Stringe
trai denti il suo tesoro e corre verso casa per goderselo in pace.
Lungo la strada passa su una tavola di legno che attraversa un ruscello. Guardando giù, vede il suo
rilesso nell’acqua, pensa che ci
sia un altro cane con in bocca un
altro pezzo di carne e, nel tentativo di strapparglielo, lascia cadere
il suo, che viene portato via dalla
corrente. Morale della favola: “Attento a non perdere quello che hai
di concreto cercando di aferrare
le ombre”.
LEONE
“Non mi perdo mai perché
non so dove sto andando”,
diceva il poeta giapponese Ikkyū
Sōjun. Non ti consiglierei di assumere questo atteggiamento per
sempre, ma penso che per il momento sia perfetto per te. Secondo
le mie proiezioni, potrai apprendere proprio quello che ti serve semplicemente vagabondando senza
meta, spinto dalla gioiosa curiosità
per tutte le belle cose che vedi,
senza curarti di quello che signiicano. P.S. Non ti preoccupare se la
mappa che consulti non sembra
corrispondere al territorio che stai
esplorando.
VERGINE
“Se tutte le azioni che gli
esseri umani possono compiere fossero sport olimpici”, ha
chiesto Reddit ai suoi utenti, “in
quale vinceresti una medaglia?”.
Un uomo di nome Hajimotto ha risposto che la sua specialità olimpica è sognare a occhi aperti. “Posso
isolarmi dal mondo e fantasticare
per ore”, ha detto. “Mi aiuta molto,
soprattutto quando devo fare la ila”. Di solito voi Vergini non siete
campionesse di sogni a occhi aperti, ma nelle prossime settimane ti
invito ad allenarti in questo sport.
Sarà un periodo favorevole per lasciar vagare liberamente la tua immaginazione.
BILANCIA
Nel suo libro Strange medicine, Nathan Belofsky ci
racconta alcune curiose pratiche
mediche del passato. Nell’antico
Egitto, per esempio, la soluzione
per il mal di denti era ingoiare un
topo morto. E se un paziente aveva la cataratta, il medico gli spruzzava schegge di vetro arroventate
negli occhi. Quei rimedi erano
peggiori dei mali che avrebbero
dovuto curare. Ti consiglio di evitare “cure” di questo genere nei
prossimi giorni. Sarà un buon periodo per cercare di guarire, ma
dovrai stare molto attenta ai rimedi che sceglierai.
SCORPIONE
Nella sua poesia The Snowmass cycle, Stephen Dunn
aferma che prima di morire
ognuno “dovrebbe provare il doppio fuoco di quello che vuole e
non dovrebbe avere”. Prevedo che
presto avrai un’ottima opportunità per farlo, Scorpione. Ebbene sì,
la considero ottima, forse addirittura meravigliosa, anche se all’inizio potrebbe essere dolorosa. Cerca di essere riconoscente per questa rivelazione di un intenso desiderio che non ti farebbe bene soddisfare.
SAGITTARIO
“Quando ripenso alla mia
vita mi rendo conto che gli
sbagli che ho commesso, le cose
che rimpiango davvero, non sono
gli errori di giudizio ma i fallimenti emotivi”. Lo ha detto la scrittrice Jeanette Winterson e io lo ripeto a te in un momento in cui hai
bisogno di sentirtelo dire. Ora sei
abbastanza forte e coraggioso da
riconoscere che forse non stai facendo tutto il possibile per coltivare la tua intelligenza emotiva.
Se scoprirai di non tenere abba-
stanza alle cose importanti della
tua vita, dovrai fare qualche grosso cambiamento.
CAPRICORNO
La psicanalista Jennifer
Welwood sostiene che spesso la causa della rabbia sia la tristezza. La sensazione di perdita,
la delusione e l’angoscia sono
emozioni primarie, la rabbia è solo una reazione. Ma la tristezza
spesso ci fa sentire vulnerabili,
mentre la rabbia ci dà almeno l’illusione di essere forti, e quindi
molti di noi la preferiscono. Secondo Welwood, prendere atto
della tristezza ci permette quasi
sempre di comprendere meglio la
nostra situazione e spesso ci ofre
l’opportunità di avviare una profonda trasformazione di noi stessi. Ti invito ad applicare queste rilessioni alla tua vita. È il momento giusto.
ACQUARIO
“Di solito le cause delle
azioni umane sono immensamente più complesse e varie
delle spiegazioni che ne diamo in
seguito”, scriveva Fëdor Dostoevskij nel romanzo L’idiota, e voglio
ricordartelo giusto in tempo. Nelle
prossime settimane per te sarà
particolarmente importante non
sempliicare troppo quando giudichi le motivazioni degli altri, sia di
quelli che rispetti sia di quelli di
cui non ti idi completamente. Se
vuoi portare avanti i tuoi progetti,
la tua empatia deve avere molte
sfumature.
PESCI
“Pensare che l’amore sia
una fatica è sicuramente
meglio che vederlo come un’eterna beatitudine che non richiede
nessuno sforzo”, dice lo scrittore
Eric LeMay. Spero che tu ne tenga
conto nelle prossime settimane,
Pesci. Sarà il momento giusto per
fare un tremendo sforzo in favore
di tutto quello che ami, per sudare
e per lottare in modo da creare una
versione più nobile e più profonda
dei tuoi rapporti essenziali. Ma ricordati che il carburante di
quell’intenso lavoro dev’essere la
tua creatività. Mentre sudi e lotti,
gioca e sperimenta.
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internazionale.it/oroscopo
ARIETE
COMPITI PER TUTTI
Commenta questa frase di Bertrand
Russell: “L’universo è pieno di cose magiche
in paziente attesa che le nostre facoltà
mentali si ainino”.
ANDeel, mADA mASR, egITTo
L’ultima
un cameriere al presidente egiziano Abdel fattah al Sisi.
“Scusate ragazzi, chi paga per tutto questo casino?”.
DIlem, lIbeRTé, AlgeRIA
kRoll, le SoIR, belgIo
Panama papers: paradisi iscali e Isole Vergini.
“Dove ci si iscrive?”.
mAC, DAIly mAIl, RegNo uNITo
un mondo ofshore.
“Noi fuggiamo dai paesi tassati. e voi?”.
“Cerchiamo di andarci”.
fINCk
Auto senza guidatore.
“Non così veloce! occhio al ciclista. un po’ a sinistra. frena…
frena idiota! Attento, c’è un cane…”.
“Sto cercando di decidere tra acqua e luce del sole”.
Le regole Karaoke
1 Se canti Adele come prima canzone, la tua voce e la tua serata iniscono lì. 2 Con un po’ di alcol ti sciogli,
con troppo alcol non leggi più i testi delle canzoni. 3 Ti fanno notare che il karaoke si canta in gruppo?
Tu fagli notare che in ogni gruppo c’è una Diana Ross. 4 Non farti cogliere impreparato: quando tocca a te
scegliere la canzone devi avere subito chiaro qual è il tuo pezzo forte. 5 A interpretare una canzone d’amore
sono capaci tutti: il professionista lo fa piangendo. [email protected]
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Il potere delle donne single