Il libro Cosa fai se non puoi fidarti di qualcuno, ma quel qualcuno ti manca come l’aria? Un segreto terribile ha distrutto il mondo di Blaire. Ma lei non riesce a smettere di amare Rush, nonostante sappia che non potrà mai perdonarlo: le ha nascosto un’oscura verità, e brucia ancora. L’unica possibilità di salvezza è ricominciare, tornare alla vecchia vita nel suo rassicurante villaggio, a fianco del grande amico di sempre, Cain, e guardare avanti. Eppure le strade di Blaire e Rush tornano a scontrarsi e sfiorarsi, come prima, più di prima. Lei cerca di nascondersi, di sottrarsi, di mentire, ma sono i loro corpi e i loro cuori a dominare su tutto… perché non si può resistere all’irresistibile. L’autore Le piacerebbe passare i weekend su yacht di lusso, a sciare oppure a fare surf. E invece li trascorre in Alabama, sotto le coperte, con un Mac e usa la sua fervida immaginazione nei romanzi che scrive. Per Mondadori ha pubblicato The Vincent Boys e The Vincent Brothers. abbi glines IRRESISTIBIL E traduzione di Manuela Carozzi Dedicato a tutte le lettrici innamorate di Rush. RUSH Qualcuno bussò alla porta, poi si sentì solo un leggero strascicare di piedi. Già mi si stringeva il cuore. Mentre tornavano, mia madre mi aveva chiamato per raccontarmi cos’aveva fatto e comunicarmi che aveva assolutamente bisogno un drink con le amiche. Quindi a consolare Nan avrei dovuto pensarci io: lei non era proprio in grado di gestire un simile stress, o per lo meno così aveva detto. — Rush? — mi chiamò la vocina di Nan, accompagnata da un singhiozzo. La piccola era in lacrime. — Sono qui — risposi alzandomi dal pouf a sacco su cui mi ero seduto, in un angolo. Era il mio rifugio segreto. In quella casa dovevi avercelo, per forza, altrimenti eri spacciato. I riccioli ramati si erano appiccicati al viso umido. Il labbro inferiore tremava, gli occhi tristi erano alzati verso di me. Quasi mai li avevo visti felici, quegli occhi. Mia madre dava retta a Nan soltanto quando doveva addobbarla ed esibirla in pubblico. Per il resto del tempo, la piccola veniva ignorata. Non da me, comunque, che facevo del mio meglio per farla sentire amata e considerata. — Non l’ho visto. Non c’era — sussurrò, lasciandosi sfuggire un altro singhiozzo. Non avevo bisogno di chiedere di chi stesse parlando. Lo sapevo già. Mia madre si era stancata di sentire Nan che chiedeva continuamente di suo padre, perciò aveva deciso di portarla da lui. Se mi avesse avvertito prima, le avrei accompagnate volentieri. L’espressione ferita sul viso di Nan mi fece serrare i pugni dalla rabbia: se avessi incontrato quell’uomo, gli avrei spaccato la faccia. Volevo vederlo sanguinare. — Vieni qui — dissi tendendo le braccia alla mia sorellina. Lei mi strinse le sue attorno alla vita e avvolse forte. In quei momenti era difficile respirare. Non sopportavo la vita che le era stata riservata. Almeno io sapevo che mio padre mi voleva... Un po’ di tempo con me ogni tanto lo passava. — Ha altre figlie. Due. E sono… bellissime. Hanno i capelli come quelli degli angeli. E poi la loro mamma le lascia giocare in giardino, per terra. Avevano le scarpe da tennis. Sporche! — Nan moriva sempre d’invidia quando vedeva qualcuno che portava scarpe sportive incrostate di fango: nostra madre non le permetteva mai di farlo. Lei doveva essere perfetta in ogni momento. Lei un paio di scarpe del genere poteva solo sognarselo. — Non possono essere più belle di te — la rassicurai, convinto di ciò che dicevo. Nan tirò su col naso e mi lasciò andare. Quando rialzò la testa, i suoi grandi occhi verdi incontrarono i miei. — Invece sì. Le ho viste. Ho visto le foto appese, erano insieme a un signore. A loro vuole bene… A me no. Non potevo mentirle. Aveva ragione, suo padre a lei non voleva bene. — Quel signore è un cretino. Tu hai me, Nan. Mi avrai per sempre. BLAIRE Tredici anni dopo Venticinque chilometri di distanza dal paese potevano bastare. Nessuno si allontanava mai così tanto da Sumit, Alabama, solo per andare in farmacia. A meno che, ovviamente, non avesse diciannove anni e dovesse comprare qualcosa da tenere nascosto al resto del mondo. La natura di qualsiasi acquisto presso la farmacia locale veniva infatti puntualmente divulgata a tutti gli abitanti nel giro di un’ora, soprattutto se non eri sposata e avevi comprato una scatola di preservativi o magari… un test di gravidanza. Appoggiai la confezione sul bancone ed evitai di incrociare lo sguardo della farmacista. Non sarei stata in grado di sostenerlo; la paura e il senso di colpa che sicuramente trasparivano dai miei occhi non erano sentimenti che avevo voglia di condividere con una sconosciuta a caso. Non ne avevo parlato nemmeno con Cain. Da quando, tre settimane prima, avevo chiuso Rush fuori dalla mia vita, ero lentamente rientrata nella routine di passare tutto il tempo con lui. Era facile: non mi forzava mai a parlare, ma, quando ero io a volerlo fare, era sempre disponibile ad ascoltare. — Sedici dollari e cinquanta — annunciò la signora dall’altra parte del banco. La preoccupazione nella sua voce era palpabile. Non mi sorprendeva: il mio era l’acquistovergogna temuto da tutte le adolescenti. Le allungai una banconota da venti senza sollevare lo sguardo dal sacchettino che mi aveva messo davanti. Conteneva l’unica risposta di cui avevo bisogno e anche l’unica che mi terrorizzava. Fingere di non essere in ritardo di due settimane e comportasi come se nulla fosse sarebbe stato più semplice. Ma dovevo sapere. — Ecco il resto, tre dollari e ottantacinque — disse, e io presi le monete dal palmo della sua mano aperta. — Grazie — bofonchiai, agguantando il sacchetto. — Spero vada tutto bene — aggiunse la signora in tono gentile. Sollevai timidamente lo sguardo e incontrai un paio di occhi scuri e comprensivi; era una sconosciuta che non avrei mai più rivisto, ma in quel momento mi aiutava pensare che qualcuno oltre a me sapesse. Mi faceva sentire meno sola. — Anch’io — risposi prima di fare dietrofront e dirigermi verso l’uscita. Un secondo dopo ero di nuovo fuori, sotto un caldo sole estivo. Non avevo fatto neanche due passi nel parcheggio quando gli occhi mi caddero sul lato del guidatore del mio pick-up. Cain se ne stava appoggiato alla carrozzeria a braccia conserte. Indossava un cappellino da baseball grigio, con la “A” della University of Alabama, e la visiera talmente bassa sugli occhi che non riuscivo a vederli. Mi fermai e lo fissai. Non avrei potuto mentire. Ovviamente non ero andata fin lì per comprare preservativi, e c’era solo un’altra opzione. Anche senza vedere il suo sguardo, sapevo che lui sapeva. Deglutii il groppo che mi stringeva la gola da quando, quel mattino, mi ero messa in macchina e avevo lasciato il paese. Ora non eravamo più soltanto io e la sconosciuta dietro il banco della farmacia. Anche il mio migliore amico sapeva. Mi costrinsi a mettere un piede davanti all’altro e a proseguire. Cain mi avrebbe fatto un mucchio di domande, e io avrei dovuto rispondere. Dopo le ultime settimane passate insieme, una spiegazione se la meritava. Anzi, si meritava la verità. Ma da che parte dovevo cominciare? Gli andai di fronte, a pochi passi di distanza. Ero contenta che il berretto gli nascondesse il viso: sarebbe stato più semplice parlare, senza vedere i suoi pensieri riflessi negli occhi. Restammo in piedi in silenzio. Volevo che fosse lui a dire qualcosa per primo, ma dopo quelli che mi sembrarono diversi minuti trascorsi in assoluto silenzio capii che spettava a me. — Come facevi a sapere dov’ero? — mi decisi a chiedere. — Vivi in casa di mia nonna. Mi ha telefonato appena ti ha visto uscire con un’aria strana. E io mi sono preoccupato per te — rispose. Le lacrime mi pungevano gli occhi. Non avrei pianto per l’ennesima volta, avevo già versato tutte le lacrime che avevo a disposizione. Stringendo il sacchetto con il test di gravidanza, raddrizzai le spalle. — Mi hai seguito — dissi. Non era una domanda. — Certo che sì — ammise lui, poi scosse la testa e distolse lo sguardo da me per dirigerlo verso un punto lontano. — Quando pensi di dirmelo, Blaire? Gliel’avrei detto? Non lo sapevo. Ancora non ci avevo pensato. — Non sono sicura che ci sia già qualcosa da dire — risposi con onestà. Cain scosse di nuovo la testa e soffocò una risata bassa del tutto priva di umorismo. — Non sei sicura, eh? Sei venuta fin qui perché non sei sicura? Era arrabbiato. Oppure offeso? In entrambi i casi, non ne aveva motivo. — Finché non faccio il test non sono sicura di niente. Ho un ritardo. Tutto qui. Non sono tenuta a parlarne con te, non sono affari tuoi. Lentamente, Cain girò la testa per portare lo sguardo all’altezza del mio. Con la mano sollevò la visiera. Adesso l’ombra sugli occhi era sparita, c’erano solo dispiacere e incredulità. Avrei preferito non guardare, era quasi peggio che sentirsi giudicati. — Davvero? È questo che provi? Dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme, è così che ti senti veramente? Quello che avevamo vissuto insieme ormai apparteneva al passato. Lui stesso era l’incarnazione del mio passato. Avevo sopportato molto anche da sola: mentre lui si godeva gli anni delle superiori, io avevo dovuto combattere per tenere insieme i pezzi della mia vita. Cosa pensava di aver passato, di preciso? Sentivo che la rabbia iniziava a farmi ribollire il sangue e, quando alzai gli occhi, lo fulminai. — Sì, Cain. È davvero questo che provo. E non so cosa, secondo te, avremmo vissuto insieme noi due. Eravamo migliori amici, poi siamo diventati una coppia, poi mia madre si è ammalata. Ma a te serviva una che ti succhiasse l’uccello, perciò hai pensato bene di mettermi le corna. Io mi sono presa cura di lei da sola, senza nessuno su cui fare affidamento. Poi mia madre è morta, e io me ne sono andata. Quelli che ho conosciuto hanno distrutto il mio cuore e il mio mondo, quindi sono tornata a casa. Tu eri qui ad aspettarmi. Non te l’avevo chiesto, ma c’eri. Per questo ti ringrazio, Cain, ma non basta a cancellare tutto il resto, non compensa il fatto che, quando ho avuto più bisogno di te, tu non ci sei stato. Perciò scusa tanto se, adesso che mi stanno di nuovo tirando via il mondo da sotto i piedi, non sono corsa da te. Non te la sei ancora guadagnata, la mia fiducia. Avevo il fiato corto, e le lacrime che fino a quel momento mi ero rifiutata di versare stavano già scorrendo sul viso. Non volevo piangere, merda! Mi avvicinai a Cain e usai tutte le forze che avevo per spingerlo via, così da poter afferrare la maniglia della portiera e aprirla. Dovevo andarmene da lì. Andarmene da lui. — Levati di mezzo — gridai cercando disperatamente di aprire lo sportello nonostante lui ci stesse ancora appoggiato. Mi aspettavo una lite. Mi aspettavo qualcosa di diverso dal vedere Cain che invece faceva ciò che gli avevo richiesto. Salii in macchina e buttai il sacchetto della farmacia sul sedile del passeggero, poi misi in moto e uscii dal parcheggio in retro. Lo vedevo, ancora lì in piedi. Non si era spostato di molto, solo il necessario per lasciarmi passare. Non mi stava guardando: stava fissando l’asfalto, come se avesse tutte le risposte. In quel momento non potevo preoccuparmi di Cain, dovevo andarmene e basta. Forse non avrei dovuto parlargli così. Forse avrei dovuto tenermi dentro tutto, dov’era rimasto sepolto per anni. Ma ormai era troppo tardi, mi aveva provocata nel momento sbagliato e non avevo intenzione di sentirmi in colpa. Però non potevo tornare a stare da sua nonna. Mi aveva vista uscire di nascosto. Con tutta probabilità, Cain l’avrebbe chiamata e le avrebbe raccontato, se non la verità, qualcosa di molto simile. Non avevo alternative: avrei fatto il test di gravidanza nei bagni di un benzinaio. Poteva andare peggio di così? RUSH Una volta le onde che si frangevano sulla battigia mi tranquillizzavano. Già da piccolo avevo l’abitudine di andare a sedermi in veranda per guardare l’acqua, un metodo che mi era sempre stato utile per ridare la giusta prospettiva alle cose. Ma ormai non funzionava più. La casa era deserta. Mia madre e… lo stronzo che avrei voluto veder bruciare all’inferno per l’eternità se n’erano andati non appena ero tornato dall’Alabama, tre settimane prima. Ero arrabbiato, confuso, fuori controllo. Dopo aver minacciato l’incolumità dell’uomo con cui mia madre era sposata, li avevo cacciati entrambi di casa. Non avevo più voglia di vedermeli attorno. Sapevo di dover telefonare almeno a lei, di doverle parlare, ma ancora non me la sentivo. Perdonare mia madre era più facile a dirsi che a farsi. Nan, mia sorella, era venuta da me diverse volte per pregarmi di chiamarla. Non ne aveva colpa, ma io non ce la facevo ad affrontare l’argomento, nemmeno con lei. Mi ricordava quello che avevo perso. Quello che avevo a malapena avuto. Quello che non mi sarei mai aspettato di trovare. Da dentro casa sentii provenire una serie di colpi che interruppero il flusso dei miei pensieri. Mi girai, sbirciai all’interno e capii che c’era qualcuno alla porta, perché squillò anche il campanello. Altri colpi. Ma chi cavolo era? Da quando Blaire se n’era andata, nessuno era più venuto a trovarmi, a parte mia sorella e Grant. Appoggiai la birra sul tavolino accanto alla poltrona e mi alzai. Chiunque fosse, doveva avere una ragione più che valida per presentarsi da me senza invito. Dall’ultimo passaggio di Henrietta, la domestica, la casa era rimasta in ordine. Senza più feste né vita sociale, era facile evitare di distruggere l’arredamento, e in fondo mi stavo rendendo conto che era molto meglio così. Ripresero a bussare proprio mentre ero sul punto di spalancare la porta e dire a chiunque mi fossi trovato davanti di andarsene affanculo, ma all’ultimo mi mancarono le parole. Davanti a me c’era uno che non mi sarei mai aspettato di rivedere. L’avevo incontrato una volta soltanto e odiato all’istante. Invece era lì, e mi faceva venire voglia di prenderlo per le spalle e scuoterlo fino a fargli sputare come stava lei. Stava bene? Dove viveva? Dio mio, quanto speravo che quei due non vivessero insieme. E se lui… No, no, no, non era successo. Lei non l’avrebbe fatto. Non la mia Blaire. Istintivamente strinsi i pugni. — Ho bisogno di sapere una cosa — annunciò Cain, l’ex ragazzo di Blaire, mentre io lo guardavo confuso e sbalordito. — Tu… — si interruppe per deglutire. — Tu hai… Cazzo. — Si tolse il berretto da baseball e si passò una mano fra i capelli. Notai le occhiaie scure e l’espressione stanca, anzi esausta del suo viso. Mi si fermò il cuore. Lo presi per il braccio e lo scossi: — Dov’è Blaire? Sta bene? — Sta bene… Cioè, sì, tutto ok. Lasciami, che mi rompi il braccio! — sbottò lui, liberandosi con uno strattone. — Blaire è sana e salva, a Sumit. Non è questo il motivo per cui sono qui. E allora cos’era venuto a fare? L’unico legame fra noi era Blaire. — Quando è partita da Sumit, era… innocente. Molto innocente. Io ero stato il suo unico ragazzo. Ne sono sicuro, siamo stati amici per la pelle fin da bambini, noi due. Da quando è tornata, però, non è più la stessa: non parla, non ne ha voglia. Io ho solo bisogno di sapere se tu e lei… Se voi due… Ok, lo dico e basta. Te la sei scopata? Mi si appannò la vista e scattai in avanti con un unico pensiero in testa: uccidere. Cain aveva superato il limite. Non aveva il diritto di parlare così di Blaire. Non aveva il diritto di fare certe domande né di dubitare della sua innocenza. Blaire era ancora innocente, accidenti a lui! Non poteva, no. — Oh porca puttana! Rush, fratello, rimettilo giù! — Quella era la voce di Grant. La sentii, sì, ma distante, come se uscisse da un tunnel. Io ero concentrato sul ragazzo davanti a me, sul mio pugno che entrava in contatto con la sua faccia e sul sangue che gli zampillava dal naso. Stava sanguinando, ed era giusto così. Qualcuno doveva sanguinare, cazzo. Due braccia serrarono le mie da dietro e mi strapparono via da Cain, che barcollò all’indietro, portandosi le mani al naso con uno sguardo sconcertato negli occhi. O meglio, in uno dei due. L’altro era già troppo gonfio per potersi aprire. — Cosa cazzo gli hai detto? — gli chiese Grant, continuando a stringermi come una tenaglia. — Non ti azzardare a ripeterlo, coglione! — ruggii appena Cain aprì bocca per rispondere. Non avrei sopportato di sentirlo parlare così di lei. Mi aveva affrontato come se io l’avessi traviata, mentre ciò che avevamo fatto non era stato né sporco né sbagliato. Blaire era ancora innocente, incredibilmente innocente. Ciò che avevamo fatto io e lei non cambiava le cose. Le braccia di Grant si serrarono ancora più forte, voleva tirarmi contro il suo petto. — Adesso però te ne devi andare. Non ce la faccio a trattenerlo ancora per molto. Ha almeno dieci chili di muscoli più di me, e ti assicuro che fare quello che sto facendo non è semplice come può sembrare. Fila, bello. E non tornare. Ti è già andata di culo così. Cain fece sì con la testa e tornò vacillando alla macchina. La mia rabbia stava sbollendo, ma non era svanita. Avevo ancora una gran voglia di fargli male, tanto male, per togliergli dalla testa qualsiasi pensiero sul fatto che Blaire non fosse più perfetta come quando era partita dall’Alabama. Lui non sapeva cos’era stata costretta a sopportare. Non poteva immaginare l’inferno che la mia famiglia le aveva fatto passare. Voleva prendersi cura di lei? E come? Blaire aveva bisogno di me. — Se ti lascio andare, pensi che lo inseguirai in macchina oppure sei a posto così? — mi chiese Grant, mollando la presa. — Sono a posto — lo rassicurai liberandomi dalle sue braccia e appoggiandomi alla ringhiera dell’ingresso per riprendere fiato con qualche respiro profondo. Il dolore era tornato, in tutta la sua potenza. Ero riuscito a seppellirmelo dentro, pulsava solo un po’, ma rivedere quel pezzo di merda mi aveva fatto tornare in mente tutto. Quella sera. Quella da cui non mi sarei mai più ripreso. Quella che mi avrebbe segnato per sempre. — Posso chiederti che cos’è successo o poi sfondi il naso anche a me? — chiese Grant, tenendosi a distanza di sicurezza. Lui era mio fratello a tutti gli effetti. Quando eravamo bambini, i nostri genitori erano sposati, e lo erano rimasti abbastanza a lungo perché fra noi si formasse uno stretto legame. Anche se da allora mia madre aveva avuto un paio di altri mariti, Grant restava un membro della mia famiglia. E mi conosceva abbastanza bene da sapere che si trattava di Blaire. — È l’ex di Blaire — risposi senza guardarlo. Grant si schiarì la voce. — Ah. Quindi… è venuto qui per farsi bello con te? Oppure l’hai ridotto in una poltiglia sanguinolenta soltanto perché una volta la toccava? Entrambe le cose. Nessuna delle due. Feci no con la testa. — No. È venuto a farmi domande su me e lei. Affari che non lo riguardano. Ha chiesto la cosa sbagliata. — Mmm, capisco. Be’, gliel’hai fatta pagare. Ora il ragazzo ha un bel naso rotto che fa compagnia all’occhio nero. Finalmente sollevai la testa per guardarlo in faccia. — Grazie per avermi impedito di massacrarlo. Non ci vedevo più dalla rabbia. Grant annuì e mi fece cenno di tornare in casa. — Dai, beviamoci una birra e facciamoci una partita a Xbox. BLAIRE La tomba di mia madre era l’unico posto che mi veniva in mente. Non avevo più una casa. E tornare da nonna Q era fuori questione. Era pur pur sempre la nonna di Cain. Forse mi stava aspettando. O forse no. Forse ora avevo perso anche lui. Mi sedetti ai piedi della lapide, portai le ginocchia al mento e mi abbracciai le gambe . Ero tornata a Sumit perché era l’unico posto che conoscevo. E adesso mi toccava andarmene anche da lì. Non potevo restare. Per l’ennesima volta mi ritrovavo con la vita ribaltata, e non ero pronta. Da bambina, mia madre mi portava al catechismo della chiesa battista. Mi tornò in mente un passo della Bibbia in cui si diceva che Dio non dava a nessuno più di quanto potesse sopportare… Cominciavo a chiedermi se la regola non valesse soltanto per chi andava a messa tutte le domeniche e diceva le preghiere prima di dormire, visto che a me non veniva risparmiato proprio niente. Piangermi addosso era perfettamente inutile. Non potevo lasciarmi andare, dovevo cavarmela. Punto. Stare da nonna Q e permettere a Cain di darmi una mano era stata una soluzione temporanea. L’avevo capito subito, appena messo piede nella camera degli ospiti, che non avrei potuto trattenermi per molto. Tra me e Cain c’era troppa storia, una storia che non avevo intenzione di riprendere. Il momento di andarmene era arrivato, ma di fatto ero ancora allo stesso punto di tre settimane prima. Non avevo ancora risolto niente. — Quanto vorrei che fossi qui, mamma. Non so cosa fare e non ho nessuno a cui rivolgermi — sussurrai, seduta nel cimitero immerso nel silenzio. Volevo credere che potesse sentirmi. Non mi piaceva l’idea che fosse sottoterra, ma dopo la morte della mia sorella gemella Valerie io e lei ci sedevamo sempre lì a parlarle. Mia madre diceva che il suo spirito vegliava su di noi, che Velerie poteva sentirci. E ora volevo credere che valesse anche per lei. — Non ho più nessuno. Mi mancate da morire. Non mi piace essere così sola… Ho paura. — L’unico suono era il vento che faceva stormire le foglie sugli alberi. — Una volta mi hai detto che, se avessi ascoltato bene, avrei sentito la risposta in fondo al mio cuore. Sto ascoltando, mamma, ma sono tanto confusa. Non è che potresti aiutarmi mandandomi dalla parte giusta? Appoggiai il mento sulle ginocchia e chiusi gli occhi, cercando disperatamente di non piangere. — Ti ricordi quando mi hai detto che dovevo dire a Cain tutto quello che provavo? Che non mi sarei mai sentita meglio se non mi fossi sfogata? Ecco, l’ho fatto oggi. Anche se mi perdonerà, fra noi non sarà mai più la stessa cosa. In ogni caso non avrei potuto appoggiarmi a lui, devo farcela da sola. Ma non so da che parte cominciare! Il semplice fatto di averle detto tutto mi fece sentire meglio. Sapere che non avrei ricevuto risposta non contava. La portiera di un’auto che sbatteva interruppe la quiete. Liberai le gambe dalla stretta delle braccia e mi girai per guardare verso il parcheggio. C’era una macchina, troppo costosa per il mio paesino. Strinsi gli occhi per vedere chi stava scendendo e rimasi senza fiato. Saltai in piedi. Era Bethy, era venuta fin lì, a Sumit! Al cimitero… a bordo di una macchina molto, molto costosa. Aveva raccolto i lunghi capelli castani in una coda che scendeva di lato sulla spalla. Quando incrociò il mio sguardo, un sorriso le spuntò sulle labbra. Non riuscivo a muovermi, avevo quasi paura di avere le allucinazioni. Che cosa ci faceva Bethy in Alabama? — È assurdo che tu non abbia il cellulare. Come faccio ad avvertirti che sto venendo a schiodare da qui il tuo bel sederino, se non mi risponde nessuno? — Non avevo la minima idea di cosa stesse dicendo, ma sentire il suono della sua voce mi bastò per correrle incontro e annullare la breve distanza che ci separava. Bethy rise e io mi lanciai fra le sue braccia spalancate. — Non ci posso credere, sei qui! — esclamai, stringendola. — Sì, non ci credo nemmeno io. È stato un lungo viaggio, ma per te ne valeva la pena. E visto che avevi lasciato il telefono a Rosemary, non avevo altra scelta. Avrei voluto raccontarle tutto, ma non potevo. Non ancora. Mi serviva tempo. Lei sapeva già di mio padre, sapeva di Nan, ma il resto… Troppo prematuro. — Sono così contenta di vederti qui! Come hai fatto a trovarmi? Lei sorrise e mi guardò inclinando appena la testa. — Ho girato per tutto il paese in cerca del tuo pick-up. Non è stato molto difficile, in pratica c’è un solo incrocio! Se avessi battuto le palpebre una volta di troppo, l’avrei mancato! — La tua macchina avrà attirato molti sguardi, passando per queste strade — commentai osservando il bolide. — Oh, quella è di Jace. Si guida che è un piacere. Allora stavano ancora insieme... Ero felice per lei, ma allo stesso tempo provai una fitta di dolore: Jace mi ricordava Rosemary, e Rosemary mi ricordava Rush. — Vorrei chiederti come stai, ragazza mia, ma sembri un bastone che cammina. Cos’è, non hai mangiato nemmeno un boccone, da quando te ne sei andata?! I vestiti mi cascavano di dosso. Mangiare era difficile, con quel macigno che mi pesava sempre sul petto. — Sono state giornate pesanti, ma sto facendo progressi. Provo a voltare pagina, ad accettare quello che è successo. Bethy spostò lo sguardo da me alla tomba alle mie spalle. A entrambe le tombe. Vidi la tristezza sul suo volto nel momento in cui lesse i nomi. — Nessuno può portarti via i ricordi. Quelli resteranno per sempre — mi disse stringendomi una mano fra le sue. — Lo so. Io non credo a quella gente. Mio padre è un bugiardo, non credo più a nessuno. Mia madre non sarebbe mai stata capace di fare quello che dicono loro. Se c’è qualcuno da incolpare, quello è mio padre. È lui che ha causato tutto questo dolore. Non lei. Lei mai. Bethy annuì e non lasciò la presa. Il solo fatto di avere qualcuno che mi ascoltava e sapere che mi credeva, che credeva all’innocenza di mia madre, era un grande aiuto. — Tua sorella ti somigliava molto? L’ultimo ricordo che avevo di Valerie era il suo sorriso. Quel sorriso scintillante tanto più bello del mio. Aveva denti naturalmente perfetti, non le era nemmeno servito l’apparecchio. Anche lo sguardo era più luminoso del mio. Invece tutti dicevano che eravamo identiche, che non riuscivano a distinguerci, e mi sono sempre chiesta come fosse possibile. Io ci riuscivo benissimo. — Eravamo identiche — dissi, sapendo di mentire. Non avendoci mai viste insieme, Bethy non poteva capire. — Non riesco a immaginare due Blaire Wynn. Avrete fatto strage di cuori in questo buco di posto! — Stava cercando di sdrammatizzare, e gliene ero grata. — Oh, soltanto Valerie. Io sono sempre stata con Cain, fin da piccola. Non ho infranto il cuore di nessuno. Bethy sgranò appena gli occhi prima di distogliere lo sguardo e schiarirsi la voce. Aspettai in silenzio che mi dicesse qualcosa. — Anche se rivederti è fantastico e insieme potremmo mettere a ferro e fuoco questo noioso paesello, sappi che sono venuta per un motivo preciso. L’avevo immaginato, ma non riuscivo a indovinarlo. — Ok — risposi, in attesa di ulteriori spiegazioni. — Cosa ne dici se andiamo a parlarne davanti a un bel caffè? — Fece una smorfia e poi guardò in direzione della strada. — Magari andiamo in quel posto, com’è che si chiama? Dairy K? Anche perché è l’unico che ho visto passando. A differenza mia, non si sentiva a suo agio a girovagare fra le tombe. Era una reazione normale. Io, invece, tanto normale non ero. — Sì, va bene — dissi andando a recuperare la borsa. — Ecco la tua risposta — sussurrò una voce così debole che quasi pensai di essermela sognata. Quando mi girai per guardare Bethy, vidi che stava sorridendo con le mani infilate nelle tasche davanti. — Hai detto qualcosa? — le chiesi, perplessa. — Vuoi dire dopo che ho proposto di andare da Dairy K? Annuii. — Esatto. Hai sussurrato qualcosa? Bethy arricciò il naso, si guardò attorno nervosa e fece no con la testa. — Mmm, no… Senti, perché non ce ne andiamo da qui? — suggerì prendendomi per un braccio e trascinandomi dietro di sé verso la macchina di Jace. Mi voltai ancora una volta per guardare la tomba di mia madre e mi sentii invadere da un senso di pace. Che fosse stata…? No. Sicuramente no. Scossi la testa, mi rigirai e affondai sul sedile del passeggero prima che Bethy mi sollevasse di peso. RUSH Era il compleanno di mia madre. Nan mi aveva già telefonato due volte per dirmi di chiamarla, ma non mi sognavo neanche di farlo, visto che se ne stava su una spiaggia delle Bahamas con lui. Dopo quello che era successo, lei non aveva fatto una piega. E tanto per cambiare se l’era filata a godersi la vita, lasciando che i suoi figli se la cavassero da soli. — È ancora Nan. Le rispondo io e le dico di lasciarti in pace? — chiese Grant entrando in salotto con in mano il mio cellulare che squillava. Quei due litigavano come veri fratelli. — No, dammelo — risposi facendomi lanciare l’apparecchio. — Nan — la salutai. — Allora? Chiami o no la mamma? Mi ha telefonato due volte per chiedermi se ti avevo parlato e se ti ricordavi che era il suo compleanno. Guarda che lei ti vuole bene. Non puoi lasciare che una ragazza rovini tutto, Rush! Mi ha puntato contro una pistola, per l’amor del cielo! Una pi-sto-la. È una pazza, è… — Piantala. Non aggiungere altro. Tu non la conosci, né la vuoi conoscere. Quindi smettila, per cortesia. Non ho intenzione di chiamare la mamma, la prossima volta che le parli diglielo pure. Non voglio sentire la sua voce e non me ne frega un emerito cazzo né del suo viaggio né dei regali che ha ricevuto. — Ahi ahi… — borbottò Grant sprofondando sul divano davanti al mio e buttando le gambe sul pouf. — Non voglio credere a quello che ho appena sentito. Io proprio non ti capisco. Quella non può essere così brava a… — Nanette, piantala. Chiudiamola qui. Chiamami solo se sei tu ad avere bisogno di me. Riattaccai e lanciai il telefono sul sedile accanto al mio, per poi appoggiare la testa sul cuscino. — Usciamo. Andiamo a berci qualcosa. A ballare con qualche ragazza. Dimentichiamoci di tutta questa merda, tutta — propose Grant. Ci aveva tentato già diverse volte nelle ultime tre settimane, o almeno da quando io avevo smesso di spaccare oggetti a caso e lui aveva ritrovato il coraggio di avvicinarmi. — No — risposi senza guardarlo. Non c’era motivo di comportarmi come se andasse tutto bene. Finché non avessi saputo che Blaire stava bene, non sarei mai stato bene nemmeno io. Forse non mi avrebbe mai più perdonato. Forse non mi avrebbe mai più rivolto neanche uno sguardo, maledizione, ma io avevo bisogno di sapere che si stava riprendendo. Di sapere qualcosa, qualsiasi cosa! — Sono stato bravo a non immischiarmi. Ti ho lasciato sfogare, sbraitare contro qualsiasi cosa si muovesse e tenere il broncio perenne. Che cosa è successo quando sei andato in Alabama? Perché qualcosa è successo, di sicuro. Non sei più lo stesso, da quando sei tornato. Volevo bene a Grant come a un fratello, ma non gli avrei mai e poi mai raccontato di quella sera al motel con Blaire. Lei soffriva e io ero disperato. — Non ne voglio parlare. Però ho bisogno di uscire. Non posso restare sempre qui a fissare i muri e a ripensare a lei… Sì, devo uscire. — Mi alzai, e subito anche Grant schizzò in piedi. Si vedeva che già era sollevato. — Che cosa hai in mente? Birra, ragazze o tutt’e due? — Musica a tutto volume — risposi. Non mi servivano né la birra né le donne… Non ero ancora pronto. — Allora dobbiamo uscire da Rosemary. Che ne dici, andiamo a Destin? Gli lanciai le chiavi della macchina. — Certo, fammi strada. Il suono del campanello ci bloccò entrambi. Non era finita bene, l’ultima volta che si era presentato alla mia porta un ospite inatteso. C’era anche un’ottima possibilità che si trattasse della polizia, venuta ad arrestarmi per aver aggredito Cain. Stranamente, non me ne importava. Ero diventato insensibile. — Vado io — si offrì Grant, guardandomi con aria preoccupata. Stava pensando la stessa cosa. Tornai a sedermi sul divano e appoggiai i piedi sul tavolino davanti a me. Mia madre detestava quel gesto. L’aveva comprato durante uno dei suoi viaggi di shopping sfrenato e se l’era fatto spedire a casa. All’improvviso provai un certo senso di colpa per non averla chiamata, ma non cedetti. Da una vita facevo di tutto per rendere felice quella donna e mi ero sempre preso cura di Nan. Basta, non l’avrei fatto mai più. Era finita. Finita con quelle stronzate. — Jace, ciao! Stavamo giusto per uscire. Vuoi venire con noi? — esclamò Grant facendosi da parte per lasciarlo entrare in casa. Io non mi alzai, avrei preferito che se ne andasse. Vedere Jace mi faceva pensare a Bethy, la quale mi faceva venire in mente Blaire. Niente da fare, Jace doveva sgombrare. — Uh, no… È che… Rush, ti vorrei parlare di una cosa — annunciò tenendo le mani in tasca e muovendo nervosamente i piedi. Sembrava pronto a schizzare fuori di casa da un momento all’altro. — Spara — risposi. — Guarda che oggi non è giornata, amico — intervenne Grant, mettendosi davanti a Jace e concentrandosi su di me. — Non direi che è il momento migliore per parlargli. E comunque stavamo per uscire. Dai, Rush, andiamo. Jace può confessarsi anche fra un po’. Ma ormai ero curioso. — Non sono un pazzo omicida, Grant. Siediti, lascialo parlare. Lui sospirò e scosse la testa. — E va bene. Se gli vuoi dire le tue cazzate adesso, accomodati. Jace guardò con aria inquieta prima Grant, poi me. Si avvicinò e si piazzò su una sedia a distanza di sicurezza da me. Rimasi a guardarlo mentre si infilava i capelli dietro l’orecchio, domandandomi cosa potesse avere di così importante da dirmi. — La faccenda fra me e Bethy sta cominciando a diventare seria — esordì. Già lo sapevo. E sinceramente non me ne fregava niente. Sentii il dolore trapassarmi il petto e strinsi i pugni. Dovevo concentrarmi per far entrare aria nei polmoni. Bethy era amica di Blaire. Sicuramente sapeva come stava lei. — Ecco… Le hanno aumentato l’affitto, e comunque vive in un postaccio... Non mi piaceva lasciarla là. Insomma, ho parlato con Woods, lui mi ha detto che suo padre aveva un appartamento libero, con due camere da letto. Quindi… l’ho fatto, l’ho preso in affitto per lei, ho pagato la cauzione e tutto il resto. Però quando l’ho portata a vederlo lei si è incazzata. Di brutto, anche! Non voleva che pagassi le sue spese, perché la facevo passare per una di quelle. — Sospirò. L’espressione di scuse che aveva negli occhi per me continuava a non avere senso. Non me ne fregava niente dei suoi casini con Bethy, perché non lo capiva? — Costa il doppio… O meglio, Bethy pensa che costi il doppio dell’affitto di prima. In realtà costa quattro volte tanto. Ho fatto giurare a Woods di non dire niente, pago il resto dell’affitto senza che lei lo sappia. Comunque. Oggi, Bethy è… andata… in Alabama. In fondo il nuovo appartamento le piace. Le piace l’idea di abitare vicino al club e alla spiaggia. Ma l’unica persona che potrebbe prendere in considerazione come coinquilina sarebbe… Blaire. Mi alzai. Non potevo stare seduto. — Ehi, ehi. Siediti — disse Grant scattando verso di me, ma io gli feci segno di lasciarmi stare. — Non sono fuori di testa, ok? Ho soltanto bisogno di respirare — mi difesi guardando, fuori dalle porte a vetri, le onde che si frangevano sulla riva. Bethy era andata a prendere Blaire. Il cuore mi batteva a mille: sarebbero tornate insieme? — So che fra voi due è andata a finire male. Le ho chiesto di non partire, ma lei si è incavolata tantissimo e a me non piace farla arrabbiare. Ha detto che sentiva la mancanza di Blaire e che Blaire aveva bisogno di qualcuno. Ha anche parlato con Woods per… chiedergli se sarebbe disposto a ridarle il lavoro, nel caso volesse tornare qui. Blaire. Qui. Non avrebbe accettato. Mi odiava. Odiava Nan. Odiava mia madre. Odiava suo padre. Non sarebbe mai tornata… Ma, Dio, quanto avrei voluto che lo facesse! Mi girai a guardare Jace. — Non tornerà — tagliai corto. Non c’era modo di nascondere il dolore che mi spezzava la voce. Neanche mi importava di farlo, non più. Jace scrollò le spalle. — Forse ha avuto abbastanza tempo per riflettere. E se invece tornasse? Tu cosa faresti? — mi chiese. Cos’avrei fatto? L’avrei implorata. BLAIRE Bethy parcheggiò davanti a Dairy K. Notai la piccola Volkswagen blu di Callie e decisi che non era il caso di scendere dalla macchina. Avevo visto Callie soltanto due volte da quando ero tornata in paese e l’avevo trovata pronta a cavarmi gli occhi. Puntava Cain fin dai tempi delle superiori: adesso io ero tornata e avevo mandato all’aria tutti i suoi progetti su di lui. Non l’avevo fatto apposta. Per quanto mi riguardava, Cain era tutto suo. Bethy fece per scendere dall’auto, ma io la trattenni. — Restiamo a parlare in macchina — le dissi, bloccandola. — Ma io volevo una coppa di gelato con gli Oreo! — protestò. — Non posso entrare in questo locale. Mi conoscono in troppi. Bethy sospirò e appoggiò la schiena contro il sedile. — E va bene, ok. Tanto al mio sedere non avrebbero fatto bene né i biscotti né il gelato. Sorrisi e mi rilassai, felice che i finestrini di quella macchina fossero oscurati. Non ero in mostra mentre la gente che passava si fermava a fissare la superlusso di Jace. Nessuno, da quelle parti, guidava modelli che potessero anche lontanamente competere con quello su cui eravamo sedute in quel momento. — Blaire, non ho voglia di girarci troppo attorno. Mi manchi. Prima di te non ho mai avuto una vera amica. Mai. Poi sei arrivata tu, e te ne sei anche andata. Non sopporto il fatto di non averti più con me! Anche il lavoro mi fa schifo. Non ho nessuno con cui parlare della mia vita sessuale con Jace, né di come lui si stia comportando bene nei miei confronti, cosa che non sarebbe successa se tu non mi avessi aperto gli occhi. Blaire… Tu mi manchi e basta. Sentii le lacrime pungermi gli occhi. Il solo fatto che qualcuno sentisse la mia mancanza mi faceva stare bene. E poi anche Bethy mancava a me. Mi mancavano un sacco di cose. — Anche tu mi manchi — risposi, sperando di non scoppiare in lacrime in due secondi netti. Bethy annuì e accennò un sorriso. — Ottimo. Perché ho bisogno che torni e vieni a vivere con me. Jace mi ha preso un appartamento nelle palazzine sull’area del club, ma io mi rifiuto di farmelo pagare da lui. Perciò devo trovare una coinquilina. Ti prego, torna… Ho bisogno di te! E poi Woods mi ha promesso che è pronto a ridarti il lavoro immediatamente. Tornare a Rosemary? Dove c’erano Rush… Nan… mio padre. Impossibile. Non potevo vederli. Sarebbero sicuramente venuti al club. Mio padre avrebbe accompagnato Nan a giocare a golf? Sarei stata in grado di sopportare una scena simile? No. Sarebbe stato troppo. — Non posso — risposi con voce strozzata. Mi sarebbe piaciuto dirle di sì. Non sapevo dove sbattere la testa adesso che avevo la certezza di essere incinta, ma la realtà era che non potevo tornare a Rosemary così come non potevo restare lì. — Ti prego, Blaire. Manchi anche a lui. Non esce più di casa. Jace ha detto che fa pena. La ferita che avevo nel petto si infiammò all’istante. Era dura sapere che anche Rush stava soffrendo. Me l’ero immaginato alle prese con le solite feste in casa, con un nuovo capitolo della sua vita. Non volevo che fosse ancora triste, volevo che andasse avanti. Forse sarei stata io quella che non ci sarebbe mai riuscita, perché qualcosa mi avrebbe ricordato lui per sempre. — Non posso vederli. Nessuno di loro. Sarebbe troppo dura, Bethy. — Mi interruppi. Non potevo dirle della gravidanza. Non avevo neppure avuto il tempo di rendermene conto io stessa. Era troppo presto per confidarsi… Forse l’avrei fatto solo con Cain. Presto me ne sarei andata da Sumit: avrei raggiunto un posto dove nessuno mi conosceva e sarei ripartita da zero. — Tuo… padre e Georgianna non ci sono. Se ne sono andati. Nan c’è, ma si è calmata; penso che sia preoccupata per Rush. All’inizio sì, sarebbe dura, ma poi… Via il dente, via il dolore. Ti abituerai, a loro e a tutto il resto. Senza contare che il modo in cui a Woods si è illuminato lo sguardo quando gli ho detto che forse saresti tornata potrebbe essere un’ottima distrazione! Lui sarebbe più che interessato. Io non volevo Woods. E niente mi avrebbe distratto. Bethy non sapeva tutta la verità, non potevo dirgliela. Non quel giorno. — Per quanto la tua proposta sia allettante… non posso. Mi dispiace. Ed ero dispiaciuta sul serio. Andare a vivere con Bethy e riprendere il lavoro al club avrebbe potuto essere la risposta ai miei problemi, o quasi. Bethy sospirò, delusa. Rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. — Ok. Ho capito. Non sono contenta, ma ho capito. Le presi una mano e gliela strinsi forte. Non avrei voluto vivere in quella situazione. Se Rush fosse stato un ragazzo qualsiasi con cui avevo rotto, le cose sarebbero andate diversamente. Invece non era così, non lo sarebbe mai stato: lui era di più. Molto di più di quanto potesse immaginare. Bethy ricambiò la stretta. — Per oggi faccio finta di niente. Ma non voglio mettermi subito a cercare un’altra coinquilina: ti do una settimana per pensarci. A quel punto sì, dovrò trovare qualcuno che mi aiuti a pagare le bollette. Quindi? Ci penserai? Annuì, perché sapevo che ne aveva bisogno. Così come sapevo che la sua attesa sarebbe stata inutile. — Bene. Allora vado a casa a pregare, sempre che Dio si ricordi ancora chi caspita sono! — Mi fece l’occhiolino e poi mi abbracciò. — Fammi un favore, però: mangia. Stai diventando troppo magra. — Ok — risposi, chiedendomi se sarebbe stato possibile. Tornò al suo posto. — Senti, se non hai intenzione di fare le valigie e tornare a Rosemary insieme a me, almeno usciamo a divertirci. Devo fermarmi a dormire qui, altrimenti non avrei la forza di tornare indietro. Potremmo andare in qualche locale e poi collassare in albergo, che ne dici? Annuii. — Sì, buona idea. Però niente locali country! — Non potevo tornare in uno di quei posti, non per il momento. Bethy fece una smorfia. — Va bene… Ma c’è altro da fare in questo Stato?! Non aveva tutti i torti. — Sì… Potremmo andare a Birmingham. È la città più grande nei paraggi. — Perfetto. Allora andiamo a divertirci! Quando imboccammo il vialetto della casa di nonna Q, la vidi seduta fuori in veranda a sgranare i piselli. Non mi andava di affrontarla, ma quella donna mi aveva offerto un tetto per tre settimane senza chiedermi nulla. Si meritava una spiegazione, se la voleva. D’altra parte, non avevo la certezza che Cain le avesse raccontato tutto: non vedevo la sua macchina nei dintorni e ne ero immensamente felice. — Vuoi che resti in macchina? — chiese Bethy. Sì, sarebbe stato tutto più semplice, ma in ogni caso nonna Q avrebbe voluto vederla e mi avrebbe dato della maleducata per non aver invitato la mia amica ad accomodarsi in casa. — No, puoi venire con me — le dissi aprendo la portiera. Bethy fece il giro davanti al cofano e venne al mio fianco. La nonna non aveva ancora alzato lo sguardo dai suoi piselli, ma sapevo che ci aveva sentite. Stava pensando a cosa dire. Cain doveva averle già parlato… Merda. La guardai mentre continuava ad aprire baccelli in silenzio. Il suo caschetto corto e candido era l’unica cosa che riuscivo a vedere. Degli occhi, nessuna traccia. Sarebbe stato molto più semplice entrare in casa e approfittare del fatto che non mi aveva ancora rivolto la parola. Ma era casa sua. Se aveva deciso che non mi voleva più con sé, dovevo fare le valigie e andarmene. — Ehi, nonna Q — dissi, fermandomi in attesa che alzasse la testa per guardarmi. Silenzio. Allora ce l’aveva con me. Era delusa, oppure furiosa: non sapevo quale delle due. In quel momento odiavo Cain per aver fatto la spia. Non avrebbe potuto tenersi la bocca chiusa? — Lei è la mia amica Bethy. Oggi è venuta a trovarmi — continuai. Finalmente, la nonna alzò la testa e rivolse a Bethy un sorriso. Poi guardò me. — Falla entrare e versale un bel bicchiere di tè ghiacciato. Offrile anche una delle frittelle ripiene che ho messo a raffreddare sul tavolo. Poi torni qui e vieni a parlarmi un secondo, ok? — Non era una domanda. Era un ordine. Annuii e accompagnai Bethy in casa. — Hai fatto incazzare la vecchia? — mi sussurrò lei quando fummo dentro, al sicuro. Feci spallucce. Non ne ero sicura. — Ancora non lo so — risposi. Raggiunsi la credenza, presi un bicchiere alto e lo riempii di tè freddo. A Bethy non chiesi nemmeno se lo volesse veramente, cercavo solo di fare quello che nonna Q mi aveva chiesto. — Ecco qui. Beviti questo e mangia una frittella. Io torno fra poco — dissi prima di correre fuori. Meglio risolvere subito la questione. BLAIRE Le assi di legno mi scricchiolavano sotto i piedi mentre uscivo sulla veranda di nonna Q. Lasciai che la porta a zanzariera si chiudesse da sola mie spalle e dopo averla sentita sbattere forte mi ricordai che era molto vecchia e che le molle si erano arrugginite tanto tempo prima. Da bambina avevo trascorso infiniti pomeriggi seduta su quella veranda a sgranare piselli con Cain e sua nonna. Non volevo farla arrabbiare. Avevo lo stomaco stretto in una tenaglia. — Siediti, Blaire, e basta con quella faccia da frigna. Dio solo sa se non ti voglio bene come se fossi mia nipote. Avevo persino pensato che un giorno lo saresti diventata veramente. — Scosse la testa. — Invece quello stupido non ce l’ha fatta. Speravo che si svegliasse prima che fosse troppo tardi, invece no, vero? Sei andata via e hai trovato un altro. Non era ciò che mi aspettavo di sentirle dire. Mi sedetti sulla sedia di fronte a lei e mi misi ad aiutarla, almeno non avrei dovuto guardarla in faccia. — Io e Cain ci siamo lasciati tre anni fa. Non c’entra niente con quello che sta succedendo ora. Lui è mio amico, ecco tutto. Nonna Q sbuffò dal naso e cambiò posizione sul dondolo sul quale era seduta. — Non ci credo. Voi due da piccoli eravate inseparabili. Anche da bambino lui non riusciva a staccarti gli occhi di dosso. Era divertente vedere come ti adorava senza neppure rendersene conto. Ma poi i maschi, quando diventano adolescenti, perdono quel loro romanticismo sconfinato... Detesto pensare che sia successo anche a lui. Detesto pensare che ti abbia perso, ragazza. Perché per Cain non ci saranno altre Blaire. Eri tu quella per lui. Non aveva accennato al test di gravidanza. Sapeva che l’avevo comprato? Non mi andava di rivangare il mio passato con Cain. Certo, fra noi c’era stata una storia, ma anche tanta tristezza e rimpianti che preferivo dimenticare. Avevo vissuto nel mondo di bugie costruito da mio padre. Ricordarlo faceva male. — Cain è passato da te, oggi? — chiesi. — Sì. Stamattina è venuto a cercarti. Gli ho detto che non eri ancora tornata a casa da quando te l’eri svignata, sul presto. Mi è sembrato preoccupato: si è girato e se n’è andato senza aggiungere altro. Però ho capito che stava piangendo. Non mi pare di averlo più visto piangere, da quando è diventato adulto. Aveva pianto? Chiusi gli occhi e feci cadere i piselli nel grosso secchio di plastica che nonna Q stava usando. Non era previsto che Cain fosse triste. Che piangesse. Mi aveva lasciato molto tempo prima. Perché la stava prendendo così male? — Quanto tempo fa è stato? — chiesi ripensando alle ore che erano passate da quando mi ero sfogata con lui nel parcheggio della farmacia. — Vediamo… Mah, direi nove ore fa, più o meno. Era presto. Sapessi com’era sconvolto… Almeno vallo a cercare, parlagli. Non importa quello che provi ora per lui, ha bisogno di sentirsi dire che va tutto bene. Annuii. — Posso usare il tuo telefono? — chiesi, alzandomi. — Certo che puoi. Intanto mangiati una frittella. Dopo che stamattina Cain è corso via, ne ho preparate abbastanza da sfamare un esercito. Sono le sue preferite — disse. — Alla ciliegia, allora — risposi, con lei che mi sorrideva. Quante cose leggevo in fondo a quegli occhi. Conoscevo Cain. Non c’era niente di lui che potesse sorprendermi. Lo capivo, avevamo un passato. Volevo bene alla sua famiglia ed era chiaro che anche loro ne volevano a me. Non c’erano dubbi. Bethy era in piedi dietro la zanzariera; sorseggiava il tè e sventolava il cellulare. Ci aveva ascoltate, e la cosa non mi sorprendeva. — Chiamalo. Chiaritevi — mi suggerì. Presi il telefono ed entrai in salotto per avere un po’ di privacy prima di comporre il numero di Cain. Lo conoscevo a memoria. Era lo stesso da quando avevamo sedici anni e lui aveva ricevuto il suo primo cellulare. — Pronto — disse. Già sentivo che stava esitando. C’era qualcosa che non andava, sembrava parlare dal naso. — Cain? Stai bene? — gli chiesi, improvvisamente preoccupata per lui. Ci fu una pausa e poi un lungo sospiro. — Blaire. Sì… bene. — Adesso dove sei? Si schiarì la voce. — Io? Oh, be’… sono a Rosemary Beach. A Rosemary? Che cosa?! Affondai sul divano dietro di me e strinsi il cellulare con forza. Era andato a spifferare tutto a Rush? Il mio cuore si schiantò contro il petto. Chiusi gli occhi. — Perché sei a Rosemary? Ti prego, dimmi che non… — Non riuscivo nemmeno a pronunciarlo ad alta voce. Non con Bethy nell’altra stanza che, quasi sicuramente, mi stava ascoltando. — Dovevo vederlo in faccia. Dovevo vedere se ti amava. Avevo bisogno di saperlo… per forza. — Che risposta insensata. Dall’altro capo della linea mi arrivò una risata amara. — Sì, l’ho trovato subito. Non è stato difficile. È un posto piccolo, tutti sanno dove vive il figlio della rockstar. Oddio. Oddio. Oddio. — E… che cosa gli hai… detto? — chiesi lentamente, in preda al terrore. — Niente. Non ti avrei mai fatto una cosa del genere. Dammi un po’ di fiducia, cavolo! Ti ho tradita perché ero un adolescente arrapato, lo ammetto. Ma cazzo, Blaire, quand’è che mi perdonerai? Pagherò per quell’errore tutto il resto della mia vita? Mi dispiace! Mi dispiace da morire, Dio santo! Se potessi tornare indietro, cambierei tutto. — Si interruppe e fece un verso come se qualcosa gli facesse male. — Cain. Cosa c’è che non va? È tutto a posto? — gli chiesi. Non volevo accettare quello che aveva appena detto. Sapevo che gli dispiaceva, dispiaceva anche a me. Ma la risposta era no, non mi sarebbe mai passata. Perdonare era un conto. Dimenticare, un altro. — Sto bene. Sono soltanto un po’ malconcio. Diciamo solo che a quel tizio non vado a genio… Il tizio? Rush? Rush gli aveva fatto del male? Non mi sembrava da lui. — Quale tizio, scusa? — Rush — confermò Cain con un sospiro. Mi cadde la mandibola e rimasi a fissare il vuoto. Rush aveva picchiato Cain? — Non credo di riuscire a capire. — È tutto a posto. Ho preso una stanza per stanotte, ci dormirò sopra. Domani torno a casa, dobbiamo parlare. — Cain. Perché Rush ti ha picchiato? Seguì un’altra pausa, poi un sospiro esausto. — Perché gli ho fatto delle domande che secondo lui non erano affari miei. Domani ci vediamo, ok? Aveva fatto delle domande. Che genere di domande? — Blaire, non hai bisogno di dirglielo. Mi prenderò io cura di te. Solo che prima… io e te dobbiamo parlare. Si sarebbe preso cura di me? Ma cosa stava dicendo? Non gliel’avrei mai permesso. — Ora dove sei, esattamente? — Boh, in un albergo appena fuori Rosemary. In quella città pensano di cagare profumato, tutto costa cinque volte di più! — Ok. Resta a letto, ci vediamo domani — dissi prima di riagganciare. Bethy entrò in camera. Inarcò un sopracciglio e mi guardò impaziente. Aveva origliato. Figuriamoci! — Mi serve un passaggio fino a Rosemary — le annunciai alzandomi in piedi. Non potevo lasciare Cain solo e dolorante in una camera d’albergo, così come non potevo rischiare che tornasse alla carica per parlare con Rush. Se Bethy avesse potuto accompagnarmi, avrei controllato come stava Cain e poi l’avrei riportato a casa io con la sua macchina. Bethy annuì e mi fece un sorrisetto timido. Si capiva che non voleva farmi vedere quanto fosse felice di ricevere quella richiesta. Ma non sarei rimasta, non doveva illudersi. — Lo faccio solo per Cain. Non voglio… non posso restare. Sembrava non credermi. — Certo. Lo so. Non ero dell’umore giusto per cercare di convincerla. Le restituii il telefono e andai in camera a prendere un paio di cose. RUSH Grant aveva finalmente deciso di lasciarmi in pace ed era andato a ballare con una delle ragazze che avevano cominciato a provarci con noi appena avevamo messo piede nel locale. Era venuto lì per divertirsi e anche a me era servito uscire, ma ora avevo soltanto voglia di andarmene. Bevvi un sorso di birra e cercai di non incrociare lo sguardo con nessuno. Testa bassa, faccia scura. Non c’era nemmeno bisogno di sforzarsi. Le parole di Jace continuavano a risuonarmi in testa. Avevo paura… No: ero terrorizzato all’idea che lei potesse davvero tornare. Avevo visto la sua faccia quella sera, al motel. Era come… svuotata. Le emozioni nel suo sguardo, sparite completamente. Aveva chiuso con me, con suo padre, con tutto. L’amore era crudele. Fottutamente crudele. Sentii lo sgabello da bar accanto al mio stridere contro il pavimento. Qualcuno lo aveva spostato, ma non volevo alzare lo sguardo. Non avevo voglia di parlare con nessuno. — Ti prego, dimmi che quella brutta espressione sul tuo bel faccino non è per colpa di una ragazza. Potresti spezzarmi il cuore. — Quella voce suadente di donna mi era familiare. Spostai la testa il minimo indispensabile per vedere il suo viso. Anche se ora era più grande, la riconobbi immediatamente. Ci sono delle cose nella vita di un ragazzo che non si dimenticano mai, e una di queste è la ragazza con cui perde la verginità. Nel mio caso, Meg Carter. Aveva tre anni più di me ed era in visita a sua madre quando io avevo compiuto quattordici anni. Non era stato amore. Una lezione di vita, piuttosto. — Meg — dissi, sollevato che non si trattasse dell’ennesima sconosciuta che veniva a provarci con me. — E si ricorda anche il mio nome. Sono colpita — rispose sorridendo al barista. — Un Jack e Coca, grazie. — Un uomo non dimentica mai la sua prima volta. Lei si spostò sullo sgabello, incrociando le gambe e inclinando la testa per guardarmi meglio. I lunghi capelli neri le ricaddero sopra una spalla. Erano ancora gli stessi che una volta mi avevano tanto incantato. — La maggior degli uomini no, non la dimentica. Ma tu hai avuto una vita diversa dalla loro, la fama deve per forza averti cambiato in questi anni. — È mio padre quello famoso, non io — ribattei. Non sopportavo quando le ragazze volevano parlare di cose che non conoscevano minimamente. Io e Meg avevamo scopato un po’ di volte, ma a quei tempi lei non sapeva un granché di me. — Ok, come ti pare. Allora perché sei così triste? Non ero triste. Ero disperato. Ma lei non era certo la persona con cui avrei voluto sfogarmi. — Sto bene — mentii rivolgendo lo sguardo alla pista da ballo nella speranza di catturare l’attenzione di Grant. Volevo andarmene. — Hai l’aria di uno che si è appena preso una batosta sentimentale di proporzioni epiche e non sa come reagire — dichiarò lei afferrando il suo Jack e Coca. — Non mi sogno neanche di discutere con te della mia vita privata, Meg. — Lasciai che il tono di avvertimento nella mia voce emergesse forte e chiaro. — Mamma mia, bello! Stai tranquillo, non volevo farti incazzare. Era giusto per fare un po’ di conversazione. La mia vita non era l’argomento ideale per “un po’ di conversazione”. — Allora parliamo di che tempo fa, ok? — dissi in tono aggressivo. Lei non rispose e io ne fui felice. Magari si sarebbe stancata e mi avrebbe lasciato in pace. — Sono in città per occuparmi dei miei nonni. Lei è malata e del resto anche io avevo bisogno di una boccata d’aria, sono appena uscita da un divorzio pesantissimo. Mi serviva un cambio di scenario rispetto a Chicago. Mi fermerò qui almeno sei mesi. Tu sarai sempre così irascibile oppure in un futuro prossimo prevedi di diventare più gentile? Voleva rivedermi. No. Non ero pronto. Mentre pensavo a cosa risponderle, il telefono mi avvisò che avevo ricevuto un messaggio. Me lo tolsi di tasca, felice di quell’interruzione che mi avrebbe dato il tempo di riflettere. Non riconobbi il numero, ma le parole “Ciao, sono Bethy” attirarono subito la mia attenzione. Trattenni il fiato mentre aprivo il messaggio per leggerlo fino alla fine. > Ciao, sono Bethy. Se non sei un coglione, ti dai una svegliata e fai quello che devi fare. Cosa intendeva? Cos’era che non sapevo? Blaire era tornata a Rosemary? Era questo che voleva dirmi? Mi alzai e misi sul bancone soldi a sufficienza per pagare la mia birra e anche il cocktail di Meg. — Devo scappare. È stato bello rivederti, stammi bene — la salutai come se avessi pensato ad alta voce. Mi buttai tra la folla e, in pista, trovai Grant alle prese con una rossa che gli si stava strusciando addosso senza il minimo pudore. Incrociammo lo sguardo e con un cenno indicai la porta del locale. — Ora — minacciai voltandomi verso l’uscita. Se non avesse fatto in tempo a raggiungermi prima che salissi sulla Range Rover, l’avrei piantato lì. Forse lei era tornata davvero. Dovevo assolutamente scoprirlo. Chiedere a Bethy cosa significasse quel messaggio criptico sarebbe stato del tutto inutile. BLAIRE Diedi a Bethy uno scossone sulla gamba per farla svegliare. Dormiva da due ore. Eravamo appena fuori da Rosemary Beach e volevo che si mettesse lei alla guida, così avrei potuto cercare la macchina di Cain nei parcheggi di tutti i motel a buon mercato. — Ci siamo? — mormorò, assonnata, rimettendosi dritta sulla schiena. — Quasi. Adesso però devi guidare tu, io voglio vedere se riesco a individuare la macchina di Cain. Bethy sbuffò, esasperata. Sapevo che la sua unica speranza era quella di portarmi a Rosemary e convincermi a restare. Trovare Cain era l’ultima delle sue priorità. Non gliene poteva fregare di meno. Invece per me era essenziale. Noi due dovevamo parlare. Perché era andato da Rush? Non erano affari suoi. Speravo soltanto che non gli avesse detto cos’avevo comprato in farmacia. Non volevo tenere Rush all’oscuro di tutto, ma non mi ero ancora abituata all’idea. Avevo bisogno di tempo per rielaborare. Capire cosa volevo fare. A quel punto, mi sarei messa in contatto con Rush. Invece Cain era corso da lui come un pazzo scatenato! Non riuscivo ancora a credere che avesse fatto una cosa del genere. — Accosta qui un secondo. Prima ho bisogno di un caffellatte — disse Bethy. Feci come mi aveva chiesto e parcheggiai la macchina di fronte a Starbucks. — Tu vuoi qualcosa? — mi domandò mentre apriva la portiera. Non ero sicura che la caffeina facesse bene… al bambino. Scossi la testa e aspettai che Bethy fosse scesa dall’auto, poi mi arresi a un singhiozzo che mi aveva colto di sorpresa. Non avevo riflettuto sul significato di quelle due striscioline rosa. Un figlio. Il figlio di Rush. Mio Dio… Scesi dalla macchina e feci il giro davanti al cofano per mettermi sul sedile del passeggero. Il tempo di sedermi e allacciare la cintura Bethy stava tornando indietro. Sembrava già un po’ più sveglia. Allontanai ogni pensiero riguardante il bambino e mi concentrai su Cain. Dovevo trovarlo. Avrei potuto rimuginare sul mio futuro, e su quello di mio figlio, in un secondo momento. — Ok. Ho assunto la mia dose di caffeina, sono pronta a trovare quel tizio. Non la corressi. Sapevo che ormai conosceva il nome di Cain, l’avevo usato diverse volte in sua presenza. Ma si rifiutava di pronunciarlo. Era la sua forma di ribellione. Cain rappresentava Sumit e lei non voleva che io vivessi là. Invece di farmi arrabbiare, quella scelta mi trasmise un senso di calore: Bethy voleva che stessi con lei, e rendermene conto mi faceva sentire bene. — È uscito da Rosemary perché lì gli alberghi costavano troppo. Quindi adesso è in qualche motel economico. Te ne viene in mente qualcuno? — le chiesi. Lei annuì, ma non mi guardò. Stava scrivendo un messaggio. Fantastico! Io avevo bisogno di tutta la sua concentrazione, e lei preferiva dire a Jace che eravamo quasi arrivate. Non volevo che Jace sapesse niente. Guidammo per mezz’ora, e io scrutavo come un falco tutti i parcheggi. La situazione cominciava a diventare pesante: li stavamo passando in rassegna tutti, ma io non trovavo la macchina di Cain da nessuna parte. — Posso usare il tuo telefono? Provo a richiamarlo e lo avviso che lo stiamo cercando. Quando gli spiegherò che ho fatto tutta questa strada per lui, mi dirà dov’è. Bethy mi passò il suo cellulare e io digitai rapidamente il numero. Suonò due volte. — Pronto? — Cain, sono io. Dove sei? Sto girando per i dintorni di Rosemary, ma non ti trovo da nessuna parte. Ci fu un attimo di silenzio, e poi un “Oh, cazzo”. — Dai, non te la prendere. Volevo vedere come stavi. Sono venuta qui per riportarti a casa. Sapevo che non sarebbe stato entusiasta di sentire che ero di nuovo nei paraggi di Rosemary. — Ti avevo detto che sarei tornato a casa dopo aver riposato, Blaire. Perché non sei rimasta dov’eri? — L’irritazione nel suo tono di voce mi infastidì. A quanto pareva, la mia visita non gli faceva piacere. — Dove sei, Cain? — chiesi di nuovo. Poi la sentii. Una voce femminile in sottofondo. Una mano che copriva il microfono. Non ci voleva un genio per capire che Cain era in compagnia femminile e che stava cercando di nascondermelo. Mi faceva incavolare. Non perché pensavo che tra me e Cain potesse esserci ancora qualcosa, ma perché mi aveva fatto credere di essere solo e dolorante in una città sconosciuta. Che coglione. — Ascolta, Cain. Io non ho più tempo per i tuoi stupidi giochetti. Ci sono già passata, chiuso. La prossima volta potresti fare a meno di fingere di avere bisogno di me? Perché ora si capisce benissimo che non è così. — Blaire, no. Stammi a sentire, non è come pensi. Dopo che mi hai chiamato non sono più riuscito a dormire, e così sono tornato a casa. Volevo vederti. Dall’altro capo della linea arrivò il grido infuriato di una donna. Stava facendo arrabbiare chiunque fosse con lui in quel momento. Che idiota, quel ragazzo. — Vai a consolare la tua amica. Non mi servono spiegazioni. Da te non mi serve niente. Ed è sempre stato così. — BLAIRE! No! Io ti amo. Ti amo tanto. Ti prego, stammi a sentire — supplicò mentre la ragazza che era con lui diventava sempre più isterica. — Chiudi quella bocca, Callie! — tuonò lui. Allora era davvero a Sumit. Con Callie. — Sei andato da Callie? Dici di essere tornato a casa per non farmi preoccupare e poi vai da Callie? Sei ridicolo, Cain. Fai sul serio? Davvero? Guarda, non ci sto restando male. Tu non puoi più farmi restare male. Però, per una volta, fermati e pensa un attimo ai sentimenti degli altri. Continui a prendere in giro Callie, ed è sbagliato. Piantala di pensare con l’uccello e cresci, una buona volta. Riattaccai e restituii a Bethy il suo telefono. Mi stava guardando con gli occhi fuori dalle orbite. — È tornato a Sumit — fu la scarna spiegazione che fornii. — Sì… Questo l’avevo capito — farfugliò. Si aspettava qualcosa di più. Si meritava qualcosa di più. Mi aveva portata fin lì, ed era anche l’unica amica che avevo. Cain non era un amico, non nel vero senso della parola. Un vero amico non avrebbe continuato a fare una cavolata dietro l’altra come lui. — Stanotte posso dormire a casa tua? Non ho voglia di tornare indietro. — Me ne sarei andata presto. — Questa notte penso a dove andare e poi chiedo a nonna Q di spedirmi il resto delle cose che ho lasciato da lei. Non che abbia molto, in ogni caso. Il mio pick-up è arrivato alla fine dei suoi giorni, non ce la farebbe mai a rifare un viaggio così lungo. Bethy annuì e mise in moto, poi entrò in carreggiata. — Puoi fermarti da me tutto il tempo che ne avrai bisogno. Anche di più — rispose. — Grazie — dissi prima di abbandonarmi contro il poggiatesta e inspirare una profonda boccata d’aria. Che cosa avrei fatto? Più respiravo, più l’odore di pancetta si faceva intenso. Era come se mi stesse travolgendo. Sentii la gola chiudersi e lo stomaco contorcersi. Da qualche parte, del grasso stava soffriggendo in padella. Prima ancora che potessi riaprire completamente gli occhi, avevo appoggiato i piedi per terra e stavo correndo in bagno. Per fortuna l’appartamento di Bethy non era grande e non avevo molta strada da percorrere. — Blaire? — mi chiamò dalla cucina, ma io non potevo fermarmi per rispondere. Mi buttai in ginocchio davanti al wc e mi aggrappai alla tazza di porcellana con entrambe le mani, vomitando tutto finché non feci soltanto dei conati a vuoto. Ogni volta che pensavo di avere finito, sentivo l’odore del grasso della pancetta misto a quello del mio vomito e ricominciavo da capo. Ero così debole che il corpo mi tremava mentre cercavo di rimettere ancora senza però ottenere nulla. A un tratto mi ritrovai un panno bagnato sul viso e, accanto a me, Bethy che tirava lo sciacquone. Mi fece appoggiare la schiena al muro. Tenni il panno premuto contro il naso per non sentire l’odore. Bethy se ne accorse e chiuse la porta del bagno dietro di sé. Una volta acceso il ventilatore, si mise le mani sui fianchi e mi scrutò. Lo sconcerto nei suoi occhi mi lasciò perplessa. Mi era venuta un po’ di nausea: e allora? Cosa c’era di tanto strano? — La pancetta? L’odore di pancetta ti ha fatto vomitare? — Scosse la testa senza smettere di guardarmi, come se non riuscisse a crederci. — E non volevi dirmelo, vero? Avresti messo il culo su un pullman e te saresti andata chissà dove. Tutta sola. Non posso crederci, Blaire. Che cosa è successo alla ragazza in gamba che mi ha insegnato a non lasciarmi usare dagli uomini? Eh? Mi dici che fine ha fatto? Perché sappi che il tuo piano fa proprio schifo. Ma schifo tanto. Non puoi scappare via come se niente fosse, tu qui hai degli amici. Ti serviranno degli amici e… spero tu abbia intenzione di parlarne con Rush. Ti conosco troppo bene per sapere che è figlio suo. Come faceva a saperlo? Avevo semplicemente dato di stomaco. Molta gente lo faceva quando si prendeva un virus. — Bethy, è un virus — mormorai. — Non raccontarmi balle. È stata la pancetta, Blaire. Stavi dormendo tranquilla e beata sul divano, ma appena ho iniziato a cucinare ti sei messa a fare versi strani e a rigirarti. Poi sei partita a razzo e hai vomitato anche le budella. Non ci vuole un genio, tesoro, perciò togliti quell’espressione scioccata dalla faccia. Non potevo mentirle. Era mia amica. Forse l’unica che avevo. Mi portai le ginocchia al mento e abbracciai le gambe: era il mio modo di tenere insieme i pezzi di me stessa. Quando sentivo che il mondo attorno a me si stava sgretolando e io non ero in grado di tenerlo sotto controllo, mi mettevo sempre in quella posizione. — È per questo che Cain è venuto qui. Ieri mi ha visto mentre compravo il test di gravidanza. So che è quello il motivo. Chiedere a Rush… Chiedere a Rush che rapporto c’era fra lui e me. È un argomento di cui mi sono rifiutata di parlare con Cain. Poi mi sono accorta di avere un ritardo. Di due settimane. Pensavo che avrei fatto il test, il risultato sarebbe stato negativo e tutto sarebbe andato bene. — Interruppi la spiegazione e appoggiai una guancia sulle ginocchia. — Il test… era positivo? — mi chiese Bethy. Annuii, ma non alzai lo sguardo. — Lo avresti detto a Rush? Oppure saresti scappata e basta? Che cosa avrebbe potuto fare, Rush? Sua sorella mi odiava. Sua madre mi odiava. Loro due odiavano mia madre. E io odiavo mio padre. Per far parte della vita di quel bambino, Rush avrebbe dovuto rinunciare a loro. Non potevo chiedergli di dimenticare sua madre e sua sorella, anche se erano perfide. Lui le amava. Non avrebbe mai rinunciato a Nan: avevo già avuto modo di scoprire che, quando si era trattato di scegliere fra me e lei, aveva scelto lei. Sempre, fino alla fine. Fino a quando avevo scoperto tutto. Aveva mantenuto il suo segreto. Aveva scelto lei. — Non posso dirglielo — risposi sottovoce. — E perché, scusa? Lui vorrà saperlo. Deve tirare fuori le palle, fare l’uomo e starti vicino. Scusa, ma il tuo piano di fuga è una vera stronzata. Bethy non sapeva tutto. Era a conoscenza solo di una parte della storia. Agli occhi di Rush, raccontarla spettava a Nan e a nessun altro. Io però non ero d’accordo: era anche la mia storia. Nan aveva ancora due genitori e un fratello. Io non avevo nessuno. Mia madre era morta, mia sorella era morta, e mio padre… poteva essere morto anche lui. Quindi quella storia era tanto mia quanto sua. Anzi, forse persino più mia. Alzai la testa per guardare Bethy. Era l’unica amica che avessi sulla faccia della terra e, se proprio fossi stata costretta a vuotare il sacco, l’avrei fatto con lei. RUSH Erano trascorse tre settimane, quattro giorni e dodici ore dall’ultima volta che l’avevo vista. Da quando mi aveva spezzato il cuore. Se avessi passato la mattinata a bere, avrei dato la colpa all’alcol: doveva essere un’allucinazione, una di quelle assurde. Invece no, niente. Neanche una goccia. Non potevo sbagliarmi: quella era Blaire. Era tornata. Blaire era tornata a Rosemary ed era a casa mia. La sera prima avevo girato in macchina per cinque ore alla ricerca di Bethy, nella speranza di essere portato da lei. Invece non avevo trovato né l’una né l’altra. Tornare a casa e ammettere la sconfitta era stato doloroso. Mi ero convinto che Bethy fosse ancora a Sumit con Blaire; che forse, quando aveva scritto quel messaggio, era semplicemente ubriaca. La consumai con gli occhi. Era dimagrita, e non ne ero contento. Non stava mangiando? Era malata? — Ciao, Rush — disse, rompendo il silenzio. Sentire il suono della sua voce mi fece quasi cadere in ginocchio. Dio mio, come mi era mancata. — Blaire — riuscii ad articolare, terrorizzato all’idea di poterla far scappare anche solo parlando. Si mise una mano fra i capelli, avvolse una ciocca su un dito e la tirò verso il basso. Era nervosa. Non mi piaceva pensare di essere io la causa del suo nervosismo. Che cosa potevo fare per rendere tutto più semplice? — Possiamo parlare? — mi chiese piano. — Sì. — Mi feci da parte per lasciarla entrare. — Accomodati. Lei non si mosse, e lanciò un’occhiata oltre le mie spalle. La paura e il dolore che le balenarono negli occhi mi fecero imprecare in silenzio. Quella casa era stata lo scenario della sua sofferenza. Il luogo dove il suo mondo era stato distrutto. Maledizione! Non volevo che casa mia la facesse sentire così. Non quando in quelle stanze erano nati anche dei bei ricordi. — Sei solo? — domandò tornando a guardarmi in faccia. Non voleva incontrare né mia madre né suo padre, finalmente ci ero arrivato. Il problema non era la casa. — Li ho mandati via il giorno in cui te ne sei andata — risposi, osservandola attentamente. Sgranò gli occhi. Perché quella notizia la sorprendeva? Non se n’era resa conto? Lei veniva prima di tutto e tutti. Gliel’avevo anche detto, in quella stanza di motel. — Ah. Non lo sapevo… — smorzò la voce. Sapevamo entrambi che non lo sapeva perché mi aveva tagliato fuori dalla sua vita. — Ci sono solo io. A parte le visite occasionali di Grant, qui ci sono sempre soltanto io. — Aveva bisogno di sapere che non avevo voltato pagina. E che non avevo la più pallida intenzione di farlo. Blaire entrò in casa e io dovetti serrare i pugni quando riconobbi la scia di profumo che si era lasciata alle spalle. Quante notti passate a sognare di rivederla nella mia vita… Nel mio mondo. — Posso portarti qualcosa da bere? — chiesi pensando a quanto in realtà volessi supplicarla di parlare. Di restare con me. Di perdonarmi. Fece no con la testa e si girò per guardarmi. — No. Sto bene. È solo che ero da queste parti e… ecco… — Arricciò il naso, e io dovetti resistere all’impulso di toccarle il viso. — Hai picchiato Cain? Cain. Merda. Sapeva di Cain. Era venuta lì per parlare di lui? — Ha chiesto cose che non avrebbe dovuto chiedere. E ha detto cose che non avrebbe dovuto dire — risposi a denti stretti. Blaire sospirò. — Posso soltanto immaginare — mormorò scuotendo la testa. — Mi dispiace che sia venuto qui. Agisce senza riflettere, per istinto. — Non lo stava difendendo. Si stava scusando per lui. Non era suo compito: non aveva la responsabilità di quell’idiota né la colpa del suo modo di comportarsi. — Non ti scusare per lui, Blaire. Mi fai venire voglia di andarlo a cercare, quel cretino — sbottai, incapace di controllare le mie reazioni. — È colpa mia se lui è venuto qui, Rush. È per questo che mi sto scusando. L’ho sconvolto, lui ha dedotto che fosse tutta colpa tua e quindi è corso qui prima di chiarire le cose con me. Chiarire le cose con lei? Ma cosa cazzo doveva chiarire Cain con lei? — Deve stare alla larga. Se solo osa… — Rush. Calmati. Siamo vecchi amici, nient’altro. Gli ho detto delle cose che avevo bisogno di dirgli da tanto tempo. Non gli sono piaciute… Sono stata crudele, ma ne avevo bisogno. Ero stanca di proteggere i suoi sentimenti, aveva tirato troppo la corda. Fine della storia. Feci un respiro profondo, ma il martello che sentivo dentro al cuore era sempre più rumoroso. — Sei venuta a vedere lui? — Dovevo sapere se era quello il motivo della sua presenza. Se io non c’entravo niente, il mio cuore doveva farsene una ragione. Invece di andare in salotto, Blaire indietreggiò. Me ne accorsi e capii. Il fatto che fosse venuta fin lì non significava automaticamente che fosse anche pronta ad affrontare le cose. Non ancora. E forse non lo sarebbe mai stata. — Può darsi che sia stato lui il mio pretesto per salire in macchina con Bethy — si interruppe e fece un sospiro. — Ma quando sono arrivata qui, ho scoperto che lui era già tornato in Alabama. Sono rimasta per altri motivi… Io… ti devo parlare. Era venuta per parlare con me. Era passato abbastanza tempo? Feci appello a tutta la volontà che avevo in corpo pur di riuscire a rimanere seduto senza prenderla fra le mie braccia. Non mi importava che cosa avesse da dirmi. Il semplice fatto che avesse voluto rivedermi per me era già abbastanza. — Sono contento che tu sia venuta — dissi semplicemente. La piccola ruga in mezzo alle sopracciglia era tornata e Blaire si rifiutava di guardarmi in faccia — Tutto è rimasto come prima. Non sono stata capace di dimenticare, Rush. Non riuscirò mai a fidarmi di te. Nemmeno… Nemmeno se volessi. Non posso. Che cosa cazzo voleva dire quella frase? Il martello picchiava sempre più forte… — Sto lasciando Sumit. Non posso restare là. Devo cavarmela da sola. Che cosa?! — Ti trasferisci da Bethy? — le domandai, chiedendomi se fossi ancora addormentato e stessi sognando. — No. Non volevo. Questa mattina però abbiamo parlato e ho pensato che forse… se ti avessi rivisto… affrontato, forse sarei stata in grado di rimanere un po’ con lei. Non in via definitiva, qualche mese al massimo. Giusto il tempo di capire quali saranno le mie prossime mosse. Aveva ancora in mente di andarsene. Dovevo fare qualcosa: avevo davanti alcuni mesi, se fosse rimasta davvero. Per la prima volta da quando mi aveva detto di andarmene dal motel, sentivo di avere ancora una speranza. — Credo che sia giusto. Non c’è bisogno di prendere decisioni affrettate se già qui hai un’opportunità. — Sarebbe potuta restare da me gratis. Nel mio letto. Con me. Ma non potevo proporglielo: non avrebbe mai accettato. BLAIRE — Lavorerò al club. Noi… ci vedremo, ogni tanto. Preferirei trovare un lavoro altrove, ma i soldi di quel posto mi farebbero troppo comodo — spiegai a Rush e, contemporaneamente, anche a me stessa. Non sapevo con esattezza cos’avrei detto quando mi fossi presentata da lui. Sapevo soltanto di doverlo affrontare. All’inizio, Bethy mi aveva implorato di dirgli della gravidanza. Poi, quando aveva sentito per filo e per segno tutta la storia di quello che era successo quel giorno con mio padre, con Nan e con sua madre, non era stata più tanto dalla parte di Rush. Aveva ammesso che, in effetti, non c’era bisogno di dirgli tutto subito. Trovare abbastanza coraggio da tornare in quella casa dopo il modo in cui me ne ero andata tre settimane e mezza prima era stato difficile. La speranza che il mio cuore potesse restare indifferente rivedendo il viso di Rush era stata del tutto inutile. Avevo sentito il petto stringersi in maniera così implacabile che già mi ero sorpresa di riuscire a respirare regolarmente. Figuriamoci parlare. Ero incinta di suo figlio… di nostro figlio. Ma le bugie. L’inganno. Chi fosse lui realmente. Tutte quelle cose mi impedivano di pronunciare le parole che meritava di sentire. Non potevo. Era sbagliato, mi stavo comportando da egoista e lo sapevo, ma non cambiava le cose. Forse il bambino che portavo dentro di me non avrebbe mai conosciuto Rush. Non potevo lasciare che i sentimenti che provavo per lui offuscassero le mie decisioni per il futuro… mio o di mio figlio. Mio padre, sua madre e sua sorella non avrebbero mai fatto parte della vita del bambino. Non l’avrei permesso, era escluso. — Certo. Sì, lavorare al club frutta bene. — Tacque e si passò una mano fra i capelli. — Blaire, non è cambiato niente. Non per me. Non ti serve il mio permesso. È esattamente quello che voglio: riaverti qui. Rivedere il tuo viso. Oddio, non ci riesco! Non riesco a fingere di non essere completamente elettrizzato ora che sei qui in casa mia! Io invece non potevo guardarlo. Non in quel momento. Non mi sarei mai aspettata di sentirgli dire niente di tutto ciò. Quella conversazione nervosa e imbarazzata mi sorprendeva. Era… proprio quello che volevo. Il mio cuore non poteva accettare altro. — Devo andare, Rush. Volevo solo essere sicura che la mia presenza in città non ti creasse problemi. Terrò le distanze. Rush si mosse così in fretta che io lo notai soltanto quando fu tra me e la porta. — Scusami, Blaire. Scusami. Stavo cercando di mantenere la calma, di avere tatto, ma non ce l’ho fatta. Mi impegnerò di più, te lo prometto. Vai a casa di Bethy, dimenticati quello che ho appena detto. Farò il bravo, hai la mia parola. Solo… Non te ne andare. Ti prego. Cosa rispondere a una dichiarazione del genere? Era riuscito a farmi venire voglia di consolarlo. Di scusarmi con lui. Era letale per le mie emozioni e per il buonsenso. Distanza. Dovevo stare a distanza di sicurezza da lui. Annuii e gli girai intorno. — Allora… ci si vede — riuscii a dire con voce strozzata prima di aprire la porta e uscire di casa. Non mi voltai per guardare, ma sapevo che era rimasto a osservarmi mentre me ne andavo. Era l’unico motivo per cui non mi mettevo a correre. Spazio… Avevamo bisogno di spazio. E io avevo bisogno di piangere. Fu come se sapesse del mio arrivo. Avevo deciso di andare dritta in sala da pranzo a cercare Jimmy. immaginando che potesse dirmi lui dove trovare Woods. Invece eccolo lì, ad aspettarmi dietro la porta sul retro che dava all’interno della clubhouse. — A volte ritornano. Onestamente non pensavo che l’avresti fatto sul serio — disse quando la porta si richiuse alle mie spalle. — Per un po’, forse — risposi. Woods mi fece l’occhiolino, poi mi indicò con un cenno della testa di seguirlo in ufficio. — Andiamo a farci una chiacchierata. — Ok — risposi, seguendolo. — Oggi Bethy mi ha già telefonato due volte. Voleva sapere se ti avevo rivisto. Essere sicura che ti avessi ridato il posto — spiegò aprendo la porta del suo ufficio e facendomi passare per prima. — Quello che non mi aspettavo era di ricevere un’altra chiamata che mi ha molto sorpreso. Non sono passati neanche dieci minuti. Dal modo in cui sei schizzata fuori da qui tre settimane fa, piantando in asso Rush, non mi sarei aspettato di sentirlo chiamare per te. Non che ce ne fosse bisogno, eh. Ero già d’accordo che il lavoro sarebbe stato tuo. Mi fermai e girai la testa per guardarlo. Avevo capito bene? — Rush? — chiesi, quasi convinta di aver avuto un’allucinazione uditiva. Woods chiuse l’ufficio e si mise davanti alla sua scrivania di legno lucido dall’aria molto costosa. Si appoggiò e incrociò le braccia davanti al petto. Il sorriso che aveva fino a poco prima, quando l’avevo incontrato, era sparito, lasciando il posto a un’espressione preoccupata. — Sì, Rush. So che è saltata fuori la verità, Jace mi ha accennato qualcosa. Quello che sa, per lo meno. Ma in fondo io sapevo già chi eri tu. O chi Rush e Nan pensavano tu fossi. Ti avevo avvertita che avrebbe scelto lei… Quando te l’ho detto, in pratica lo stava già facendo. Vuoi davvero rituffarti in questa situazione? L’Alabama fa così schifo? No. L’Alabama non faceva così schifo. Ma essere una ragazza madre di diciannove anni senza una famiglia su cui poter contare non era una passeggiata. Anche se non mi sognavo neanche di parlarne con lui. — Non direi che tornare qui sia stato facile. Rivedere… loro lo sarà ancora meno. Ma ho bisogno di capire che strada prendere. Dove andare. Non c’è più niente per me in Alabama. Non posso rimanere là e fingere che non sia così. È arrivato il momento di iniziare una nuova vita, e Bethy è l’unica amica che ho. Le opzioni a mia disposizione per spostarmi sono un tantino limitate. Woods fece una faccia sbalordita. — Eeh? Ma allora io cosa sono? Un amico, pensavo! Sorrisi, mi avvicinai a lui e rimasi in piedi dietro la poltrona che gli stava davanti. — Siamo amici, sì, ma non… Be’, non intimi. — Non che io non ce l’abbia messa tutta. Una risatina mi gorgogliò nel petto, e anche Woods sorrise. — Mi fa piacere sentire quel suono. Mi mancava, sai? Forse tornare indietro non sarebbe poi stato così tremendo. — Puoi riavere il lavoro. È tuo. Sui cart ci sono ragazze che non valgono un fico secco e Jimmy è ancora depresso. Non si trova bene con gli altri camerieri. Manchi anche a lui. — Grazie — risposi. — Mi fa piacere saperlo. Però con te voglio essere onesta: tra quattro mesi me ne vado. Non posso rimanere qui per sempre. Ho… — Hai una vita che ti aspetta. Sì, sì, ho capito. Rosemary non è il posto dove hai intenzione di mettere radici. Messaggio ricevuto. Il lavoro è tuo per tutto il tempo che lo vorrai. RUSH Prima di aprire la porta della casa di Nan ed entrare, bussai una volta. La sua auto era parcheggiata fuori, ma preferivo annunciare il mio arrivo: una volta avevo commesso l’errore madornale di non farlo e avevo sorpreso la mia sorellina a cavalcioni sopra un tizio. Subito dopo quell’esperienza, mi era venuta voglia di lavarmi occhi e cervello con la candeggina. — Nan, sono io. Dobbiamo parlare — dissi a voce alta, chiudendomi la porta alle spalle. Entrai in salotto e il suono di più di una voce smorzata, accompagnato da un rumore di passi in camera da letto mi spinse quasi a girare i tacchi e andarmene. Quasi, perché invece non lo feci. Dovevo restare, era importante. E poi l’ospite notturno di Nan poteva anche darsi una mossa: erano le undici passate. La porta della camera si aprì e si richiuse subito. Interessante. Chiunque fosse lì dentro aveva intenzione di rimanerci. Saremmo dovuti uscire sul balcone, allora, perché io non avevo voglia di discutere di Blaire in presenza di estranei. Anzi, era probabile che in realtà conoscessi il ragazzo chiuso in camera di mia sorella, altrimenti lei non me lo avrebbe tenuto nascosto. — Non te l’hanno mai detto che, prima di andare a casa di qualcuno, è sempre meglio fare uno squillo? — sbottò Nan, entrando in salotto. Portava soltanto una sottoveste corta, di seta pura. Più cresceva, più somigliava a nostra madre. — Nan, è quasi ora di pranzo. Non puoi tenerti quel tizio nel letto tutto il santo giorno — risposi spalancando le porte che davano sul balcone con vista sul golfo. — Ho bisogno di parlarti e non voglio farlo con uno sconosciuto in camera che potrebbe sentirci. Nan alzò gli occhi al cielo e mi seguì all’aperto. — Divertente pensare come per settimane abbia cercato io di convincerti a parlare con me, mentre ora sei tu a spuntare qui dal nulla, come se non avessi una vita sociale. Almeno io ti chiamo prima. — Cominciava ad assomigliare a nostra madre anche nei discorsi. — Sono io il proprietario di questa casa, Nan. Posso venirci come e quando mi pare — le ricordai. Se ne sarebbe andata da lì a metà agosto per tornare al college e iniziare una specializzazione che ancora non aveva scelto. Per lei l’università era più che altro una fonte di eventi mondani. Sapeva che alla retta scolastica e a ogni spesa del suo mantenimento avrebbe pensato il sottoscritto, che d’altra parte si era sempre preso cura di lei in tutto e per tutto. — Uh, che caratteraccio. Di cosa si tratta? Sappi che ancora non ho preso il caffè. — Non le facevo paura. Non era nemmeno mia intenzione, però doveva capire che era arrivato il momento di crescere. Non le avrei permesso di mettere in fuga Blaire. Nel giro di un mese sarebbe tornata al college. Quell’anno io sarei rimasto a Rosemary, e mia madre avrebbe dovuto scegliersi un altro posto dove vivere. Non si sarebbe goduta la mia villa gratis per il resto dell’anno. — È tornata Blaire — annunciai bruscamente. Avevo avuto il tempo di vedere le cose sotto un’altra luce, non consideravo più Nan una vittima. Da bambina, sì, lo era stata, ma al pari di Blaire. La vidi irrigidirsi e i suoi occhi si riempirono di lampi d’odio che, invece di essere diretti contro l’immagine Blaire, avrebbero dovuto colpire suo padre. Il padre di entrambe. — Non dire una parola. Lasciami parlare per primo, altrimenti accompagno il tuo amichetto fuori da casa mia. A modo mio. Sono io che ho il coltello dalla parte del manico, Nan. La mamma non ha nulla. Vi mantengo entrambe e non vi ho mai chiesto niente in cambio. Mai. Adesso, però, vi chiederò… No, vi chiederò soltanto di starmi a sentire e di rispettare le mie condizioni. La rabbia di Nan si era dileguata e ora la ragazzina viziata se ne stava in piedi a guardarmi. Non le piaceva sentirsi dire cosa doveva fare. Io, d’altra parte, non potevo incolpare mia madre del suo comportamento, per lo meno non del tutto. In fondo ero stato suo complice. Nan era stata rovinata dall’eccesso di compensazione per quanto aveva dovuto subire da bambina. — Io la odio — sibilò. — Ti ho detto di starmi a sentire. Non pensare che stia fingendo, Nan. Perché questa volta hai mandato a puttane una cosa di cui mi importava. Questa volta c’entro io, perciò chiudi la bocca e apri le orecchie. Gli occhi le diventarono rotondi per lo shock. Ero sicuro di non averle mai parlato a quel modo, io stesso ero un po’ sorpreso dal mio atteggiamento. Sentire l’odio nella sua voce diretto contro Blaire mi aveva fatto esplodere. — Sta da Bethy. Woods le ha ridato il lavoro al club. In Alabama non ha più niente e nessuno; il padre che avete in comune non vale niente e per lei potrebbe anche essere morto. È tornata per vedere se riesce a inserirsi e per riflettere su come comportarsi in futuro. Lo stava già facendo, ma quando è saltata fuori la verità le è crollato il mondo addosso ed è voluta scappare. È già un miracolo che sia tornata, cazzo. Io la rivoglio qui, Nan! Forse tu non vorrai sentirtelo dire, ma io la amo. E non mi fermerò di fronte a niente per assicurarmi che stia bene. Qui è al sicuro e nessuno, ripeto nessuno, nemmeno mia sorella, può farla sentire indesiderata. Tu tornerai presto al college. Se vuoi, puoi continuare a covare tutto quell’odio mal riposto, ma spero che un giorno crescerai abbastanza da renderti conto che c’è solo una persona da odiare, e non è Blaire. Nan si abbandonò su una delle sdraio che teneva sul balcone per rilassarsi e leggere un libro. Le volevo bene. Era una vita che la proteggevo. Dirle una cosa simile e minacciarla non era stato facile, ma non potevo permetterle di tormentare Blaire all’infinito. Dovevo agire. Blaire stessa non mi avrebbe mai dato un’altra possibilità, se Nan avesse continuato a rovinarle la vita. — Quindi scegli lei al posto mio — la sentii sussurrare. — Guarda che non è una gara, Nan. Piantala di comportarti come se lo fosse. Tu hai avuto un padre, lei l’ha perso. Hai vinto tu. Adesso però basta. Sollevò gli occhi, con le lacrime che restavano intrappolate fra le ciglia. — Lei ti ha spinto a odiarmi… Una cazzo di telenovela. Ecco cosa viveva Nan nella sua testa. — Stammi a sentire. Io ti voglio bene, tu sei la mia sorellina e nessuno potrà mai dividerci. Però sono anche innamorato di Blaire. Questo fatto potrebbe essere un ostacolo non da poco ai tuoi piani di conquista e distruzione, ma, tesoro, è ora che ti lasci alle spalle i problemi con tuo padre. È tornato un bel po’ di anni fa. Ho bisogno di vederti voltare pagina. — Ma tu dicevi sempre che la famiglia veniva al primo posto! — esclamò con voce strozzata. — Non ci provare, Nan. Lo sappiamo tutti e due che io ho davvero messo la famiglia al primo posto, tutta la vita. Tu hai avuto bisogno di me e io ci sono sempre stato. Ma ora siamo adulti. Si asciugò le lacrime che le erano sgorgate dagli occhi e si rialzò. Non sapevo mai se piangesse sul serio o facesse finta, perché sembrava capace di iniziare e smettere a comando. — Bene. Vorrà dire che forse tornerò al college prima del previsto. Tanto tu qui non mi vuoi comunque. Hai scelto lei. — Io vorrò sempre averti vicino, Nan. Ma stavolta voglio anche che tu faccia la brava. Per una volta, prova a non pensare soltanto a te stessa. Tu hai un cuore, l’ho visto. E adesso è arrivato il momento di usarlo. Nan irrigidì la schiena. — Se con me hai finito, potresti cortesemente andartene da casa tua? Annuii. — Sì, ho finito — risposi tornando dentro. Me ne andai senza aggiungere una parola. Sarebbe stato necessario dar seguito a quelle minacce e impartire a mia sorella una bella lezione? Speravo vivamente di no. BLAIRE Dovevo recuperare le mie cose e vendere il pick-up. Il mio povero macinino non ce l’avrebbe più fatta ad arrivare fino a Rosemary. Cain mi aveva fatto il favore di dargli una controllata la settimana prima, dopo che si era rotto, e aveva detto di poterlo riaggiustare almeno temporaneamente. Il costo di una vera riparazione sarebbe stato maggiore di quanto avessi potuto permettermi di spendere. Telefonare e chiedere a nonna Q o a Cain di spedirmi la roba e vendere la macchina non mi sembrava giusto. Meritavano una spiegazione… per lo meno la nonna. Mi aveva fornito un tetto, un letto e mi aveva anche sfamata per tre settimane. Sarei dovuta tornare a Sumit per fare gli ultimi bagagli e dirle addio. Per fortuna Woods mi aveva concesso qualche giorno per ambientarmi prima di ricominciare a lavorare. Il giorno prima, Bethy era andata a fare per me domanda di assistenza sanitaria gratuita: era ora che mi facessi visitare, ma non potevo permettermi un medico privato. L’avevo anche sentita mentre diceva a Jace che non vedeva l’ora di incontrarlo. Purtroppo mi rendevo conto che, da quando era venuta a prendermi, stavo monopolizzando tutto il suo tempo. Cominciavo a sentirmi un peso, ed era una sensazione bruttissima. Avrei potuto prendere un pullman: non sarebbe costato granché e non avrei scomodato nessuno. Decisi di aprire il computer portatile di Bethy e controllare gli orari online. Qualcuno bussò alla porta e interruppe il mio flusso di pensieri. Abbandonai il computer e andai ad aprire. Rush, con le mani nelle tasche dei jeans e una delle sue T-shirt aderenti addosso, non era esattamente quello che mi sarei aspettata. Si tolse gli occhiali da sole modello aviatore. Avrei preferito che non lo facesse, perché la tonalità argento delle sue iridi alla luce del sole era ancora più sconvolgente di quanto ricordassi. — Ehi, ho visto Bethy alla clubhouse. Mi ha detto lei che eri qui — spiegò. Era nervoso. E io non avevo mai visto Rush sulle spine. — Già… Sì, Woods mi ha dato un paio di giorni per recuperare le ultime cose da Sumit prima di iniziare a lavorare. — Devi tornare a prenderle? Annuii. — Sì, le ho lasciate là. Mi sono portata soltanto il cambio per una notte. Non avevo previsto di restare… — E come pensi di andarci? Non mi sembra di avere visto il tuo pick-up. — Stavo giusto controllando su Internet dove sono le stazioni dei pullman per trovare la più vicina. Rush fece una smorfia. — A quaranta minuti da qui. Sempre dritto fino a Fort Walton Beach. Pensavo peggio. — Non è sicuro viaggiare in pullman, Blaire. Lascia perdere, ti accompagno io. Dimmi di sì, per favore. Arriveremo prima e non ti costerà niente. Così potrai risparmiare. In macchina con lui? Andata e ritorno da Sumit? Era una buona idea? — Non so… — esitai, perché davvero non sapevo cosa fare. Il mio cuore non era pronto per una dose così massiccia di Rush. — Non dobbiamo per forza chiacchierare. Ma se ti va di farlo, possiamo. Ti lascio scegliere la musica! Giuro che non mi lamenterò. Se fossi tornata in Alabama con Rush, Cain non avrebbe fatto storie. O forse sì. Avrebbe potuto dirgli della gravidanza. Ma lo avrebbe fatto veramente? In fondo non gli avevo mai confermato di essere incinta. — So che non riesci a dimenticare le bugie e il dolore. Non ti sto chiedendo di farlo. Sai che mi dispiace e che, se potessi tornare indietro, mi comporterei diversamente. Ti prego, Blaire, lascia che ti porti io! Come un amico che vuole darti una mano e proteggerti dai pazzi maniaci che potresti ritrovarti come compagni di viaggio. Pensai a quanto infinitesimali fossero le probabilità di avere davvero problemi sul pullman. Ma poi pensai anche che non si trattava più di proteggere soltanto me stessa: c’era una nuova vita dentro al mio corpo. — Ok. Sì. Accetto il passaggio. Jace era stravaccato sulla poltrona imbottita blu del salotto di Bethy, con i piedi sul pouf e lei rannicchiata sopra le sue ginocchia. Io ero sul divano. E mi sentivo una cavia da laboratorio, con addosso quegli sguardi che mi fissavano stupiti. — Quindi a te sta bene se Rush domani ti riaccompagna a Sumit a prendere le tue cose? Voglio dire, non ti sembra strano, non…? — Bethy smorzò la voce. Sì che sarebbe stato strano. Il solo fatto di stargli vicino mi avrebbe fatto male, ma il passaggio mi serviva. Bethy doveva lavorare, non poteva prendersi un altro giorno libero per correre in mio soccorso. — Si è proposto lui. Mi serviva un passaggio e ho risposto di sì. — Tutto così semplice? Mi dici perché non me la bevo? — chiese Bethy. — Perché sta tralasciando le parti in cui lui l’ha pregata e supplicata — commentò Jace con una risatina. Mi tirai lo scialle di lana sopra le spalle. Avevo freddo. Nell’ultimo periodo mi capitava spesso, ed era strano, perché in Florida era estate. — Non mi ha supplicata — protestai, sentendo il bisogno di difendere Rush. Anche se in pratica mi aveva supplicata, non erano comunque affari di Jace. — Sì, giusto. Se lo dici tu — disse bevendo un sorso del tè freddo che Bethy gli aveva preparato. — Non sono affari nostri, Jace. Lasciala in pace. Dobbiamo decidere cosa fare con l’affitto di questo posto, scade fra una settimana. Non mi sarei fermata così a lungo. Gliel’avevo detto. Trasferirsi in quell’appartamento costoso non era una buona idea: io me ne sarei andata e lei si sarebbe dovuta accollare anche l’altra metà delle spese. Jace fece a Bethy il baciamano e un sorriso. — Ti ho già detto che penserò io a tutto. Se me lo permetterai… — Le strizzò l’occhio e io distolsi lo sguardo. Non mi andava di guardarli. Io e Rush non ci eravamo mai comportati così, la nostra relazione era stata troppo breve. Breve e intensa. Mi chiesi come mi sarei sentita a essere libera di rannicchiarmi fra le sue braccia ogni volta che volevo. Sapere di essere al sicuro e che lui mi amava. Non ne avevamo mai avuto la possibilità. — Ti ho già detto che non ti lascerò pagare l’affitto al posto mio. Mi dispiace. Nuovo piano: Blaire, perché domani non andiamo a caccia di appartamenti? Qualcuno bussò alla porta e mi interruppe prima che potessi rispondere. Era Grant, che entrò senza esitare. — Ehi, non si entra in casa della mia ragazza senza chiedere permesso. Avrebbe potuto essere nuda! — ringhiò Jace. Grant alzò gli occhi al cielo e mi lanciò un sorriso. — Ho visto la tua macchina qui fuori, coglione. Calmati. Sono venuto a vedere se riesco a convincere Blaire a fare un giro con me. — Stai cercando di farti spaccare la faccia? — chiese Jace. Grant sorrise e fece no con la testa, guardando di nuovo nella mia direzione. — Vieni, Blaire. Andiamo a farci una passeggiata, mi racconti cosa hai fatto in queste settimane. Anche Grant aveva partecipato alla farsa? Certamente sapeva tutto. Però non potevo rifiutarmi: anche se era stato al corrente dei vari intrighi, si era comunque dimostrato la prima persona gentile incontrata in quel posto. Mi aveva fatto il pieno di benzina. Si era preoccupato perché dormivo nel sottoscala. Annuii e mi alzai. — A questi due serve comunque un po’ di privacy — dissi lanciando un’occhiata a Bethy, che mi stava scrutando con attenzione. Le feci un sorriso rassicurante e la vidi rilassarsi. — Non andare via per noi. Abbiamo solo una settimana per decidere dove andare a vivere — disse Bethy mentre mi avvicinavo alla porta. — Potete riparlarne più tardi, Bethann. Blaire è stata via quasi un mese, avrete sicuramente tante cose da raccontarvi — concluse Grant aprendo la porta per farmi passare. — Rush si incazzerà come una bestia — gridò Jace un attimo prima che la porta si richiudesse, attutendo qualsiasi cosa Bethy avesse cominciato a dire. Scendemmo le scale in silenzio. Quando fummo sul marciapiede, guardai Grant negli occhi. — Ti sono mancata oppure c’è qualcosa che mi devi dire? — chiesi. Lui sorrise. — Mi sei mancata. Ho dovuto sopportare Rush in depressione totale, quindi credimi, mi sei mancata da morire! Dal tono con cui parlava si capiva che voleva farmi ridere, ma pensare a Rush solo e depresso me lo impediva. Anzi, faceva tornare a galla tutto quanto. — Scusa — mormorai. Non sapevo bene cos’altro dire. — No, dai. Sono contento che tu sia tornata. Rimasi in attesa. Sapevo che c’era dell’altro, me lo sentivo. Stava prendendo tempo e pensai che stesse decidendo come dire esattamente qualunque cosa mi volesse dire. — Mi dispiace per quello che è successo. Per come è successo. E per Nan. Se vuole, sa essere la ragazzina viziata più stronza del mondo, ma ha avuto un’infanzia veramente difficile. L’ha segnata, in qualche modo. Se anche tu avessi avuto Georgianna come madre, avresti capito. Rush era un maschio, quindi a lui non è andata così male. Ma Nan… Cazzo, viveva in un mondo assurdo! Non lo dico per difenderla, solo per spiegare come stanno le cose. Non risposi. Non avevo niente da dire in proposito. Non provavo la minima compassione per Nan. Cosa che invece provavano gli uomini della sua vita, evidentemente. Doveva essere piacevole, per lei. — A parte quello, si è comportata male. Tenerti nascosto tutto è stata una pazzia. Scusami se non ti ho detto niente, ma onestamente non sapevo nemmeno che fra te e Rush ci fosse qualcosa, fino a quella sera al club in cui lui è esploso per la scena delle lumache. Avevo notato che gli piacevi, ma in pratica facevi lo stesso effetto a tutti gli uomini in paese, perciò… Pensavo che lui fosse l’unico che non ci avrebbe mai provato, proprio in virtù della sua lealtà nei confronti di Nan… e sì, di quello che rappresentavi per entrambi. — Smise di camminare e io mi girai a guardarlo. — Non l’ho mai visto così. Mai. È come svuotato. Non riesco più a entrare in contatto con lui, capisci? Non sorride. Nemmeno finge di godersi ancora la vita. Da quando te ne sei andata, è una persona diversa. Anche se non è stato sincero e all’apparenza sembrava interessato soltanto a proteggere Nan… voi due non avete avuto abbastanza tempo insieme. Nan è stata una sua responsabilità sin dai tempi dell’infanzia. Rush sapeva che era così che doveva andare. Poi nel suo mondo sei arrivata tu: hai sconvolto tutto da un giorno all’altro. Se avesse avuto più tempo, ti avrebbe raccontato tutto. Ne sono sicuro. Ma non l’ha fatto. Non è stato giusto per lui. Si stava innamorando della ragazza che aveva sempre considerato il motivo per cui sua sorella non aveva un padre. Tutto quello in cui credeva stava cambiando, e anche per lui non è stato facile resistere. Lo guardai in silenzio. Non perché non fossi d’accordo con le sue parole: erano tutte cose a cui avevo già pensato da sola. Capivo cosa voleva dire. Il problema era che… le cose non cambiavano. Anche se prima o poi Rush avrebbe confessato, lui restava lui e Nan restava Nan. Gli ultimi tre anni di mia madre su questa terra erano stati un inferno, loro invece se l’erano spassata fra ville di lusso e feste di ogni genere. Il fatto che credessero alle bugie che mi avevano raccontato era l’unica cosa che probabilmente non avrei mai superato. — Ecco, lo sapevo. Sono sicuro di aver peggiorato le cose. Volevo soltanto parlarti e farti sapere che Rush… ha bisogno di te. È dispiaciuto. E non penso che riuscirà mai a dimenticarti. Se domani cerca di affrontare l’argomento, almeno dagli retta. — Io l’ho perdonato, Grant. Solo che non riesco a dimenticare. Quello che eravamo o quello che stavamo per diventare è stato… cancellato. Non tornerà mai più. Non posso permetterlo, il mio cuore non me lo permetterebbe. Io però starò sempre a sentire quello che Rush ha da dirmi, gli voglio bene. Grant sospirò, sconsolato. — Credo sia meglio di niente. Era il massimo che potevo offrire. RUSH Prima che potessi mettere piede giù dall’auto, Blaire uscì dall’appartamento di Bethy con due bicchieri di caffè in mano. Aprii la portiera e scesi dalla Range Rover. Aveva i capelli sciolti, lunghi sulla schiena; mi piaceva quando li portava così. I pantaloncini corti le coprivano a malapena le gambe: avercele accanto per tutto il viaggio sarebbe stato per me un supplizio. Pensai a come le sarebbero saliti su per le cosce. Staccai a fatica gli occhi da quello spettacolo e incontrai il suo sguardo deciso: si stava sforzando di accennare un sorriso. — Ti ho portato del caffè, visto che per colpa mia sei sceso dal letto molto prima del solito. Lo so che le levatacce non sono la tua passione. — Aveva la voce timida, titubante. La mia missione sarebbe stata quella di trasformarla nel corso di quel viaggio. Volevo che Blaire tornasse a sentirsi a suo agio con me. — Grazie — risposi, con un sorriso che speravo servisse a distenderle i nervi, mentre le aprivo la portiera del lato del passeggero. Mi ero svegliato alle tre del mattino e non avevo più chiuso occhio. Ero agitato. Avevo già trangugiato due caraffe di caffè come minimo. Però a lei non l’avrei detto: mi aveva portato dell’altro caffè, poverina! Sulle labbra mi comparve un sorriso autentico. Richiusi la portiera e mi sedetti al mio posto. Quando la guardai, teneva il bicchiere vicino alla bocca e beveva a piccoli sorsi. — Se hai voglia di sentire un po’ di musica, sappi che hai carta bianca, come ti avevo promesso — le ricordai. Non si mosse, ma vidi spuntare sulle sue labbra l’accenno di un sorriso. — Grazie. Tranquillo, me lo ricordo. Adesso sto bene così. Scegli pure quello che vuoi tu, io prima mi devo svegliare come si deve. Non mi interessava della radio. Volevo soltanto parlarle. Di quale argomento, non contava. Parlare con lei era l’unica cosa importante. — Quindi? Qual è il programma? Cain sa che stiamo andando a recuperare la tua roba? — chiesi. Blaire si mosse sul sedile e io mi costrinsi a tenere gli occhi sulla strada anziché incollarli alle sue gambe. — No. Volevo spiegarlo sia a lui sia a sua nonna, che noi chiamiamo “nonna Q”. Devo anche convincerlo a vendere il mio pick-up e a mandarmi i soldi. È inutile tenerlo, ormai è messo male. In effetti quel pick-up era proprio vecchio e pensare che Blaire non ci sarebbe più salita era un sollievo. D’altra parte, non ero proprio entusiasta all’idea che non avesse un mezzo per spostarsi. Ma non sapevo come rimediare, visto che mai e poi mai avrebbe accettato una macchina da me. Forse il suo pick-up poteva essere aggiustato e rimesso in sicurezza. — Potrei prenderlo io e portarlo a riparare intanto che tu fai le valigie. Magari è solo questione di un paio di interventi. Sospirò. — Grazie, ma non ti devi disturbare. Ci ha già pensato Cain. L’ha fatto sistemare il minimo indispensabile per poter circolare, ma ha detto che non sarebbe durato molto. Servono più pezzi di ricambio di quanti possa permettermene. Strinsi forte il volante. L’idea che Cain si fosse preso cura di lei mi faceva uscire di testa. Detestavo pensare che avesse provveduto lui alla macchina. Peggio ancora, detestavo pensare che fosse stato lui l’unica famiglia di Blaire quando lei ne aveva avuto più bisogno. La mia… le aveva mandato a puttane tutto. Io non c’ero stato per lei quando aveva avuto bisogno di me. — Quindi, tu e Cain…? — Cosa cavolo stavo per chiederle? Se loro due erano… cosa? ’Fanculo. Non volevo neanche sentire certe cose. — Siamo amici, Rush. Lo siamo da tutta la vita. Quello che provo per lui non è cambiato. Lasciai la presa sul volante e mi sfregai un palmo sudato sui jeans. Mi stava facendo impazzire! Dovevo calmarmi, se volevo farla sentire a suo agio con me. E soprattutto dovevo impegnarmi a non spaccare il culo a Cain appena lo avessi visto. Prima che potessi aggiungere altro, Blaire allungò una mano per accendere la radio. Trovò una stazione country sulle frequenze satellitari, riappoggiò la schiena al sedile e chiuse gli occhi. Avevo investigato troppo e quello era il suo modo gentile per dirmi di chiudere il becco. Messaggio ricevuto. Trascorsero trenta minuti di silenzio prima che squillasse il mio telefono. Il nome di Nan comparve sullo schermo integrato nel cruscotto: maledetto Bluetooth che collegava automaticamente l’iPhone con l’auto. Di solito era comodo, perché potevo parlare tenendo le mani libere, ma il fatto che Blaire potesse vedere il suo nome non era piacevole. Non avevamo bisogno di rivivere certi momenti: il mio piano era dimenticare tutto almeno per un giorno. Cliccai su IGNORA e dalla radio ricominciarono a uscire le note di una canzone. Non guardai Blaire, ma sentii il suo sguardo su di me. Era veramente dura non incrociarlo. — Avresti potuto parlarle. È tua sorella — mormorò a voce così bassa che per poco la musica non sovrastò le sue parole. — Sì, ma rappresenta anche una serie di cose a cui oggi non ho voglia di pensare. Blaire non smise di guardarmi. Ce la stavo mettendo tutta per fare il disinvolto. Accostare di colpo, prenderle il viso fra le mani e dirle quanto fosse importante per me, quanto la amassi, non era quello di cui aveva bisogno in quel momento. — Sto meglio, Rush. Ho avuto tempo per assorbire il colpo. Per farmene una ragione. Al club mi capiterà di incontrare Nan, ma sono pronta. Oggi mi stai aiutando. Avresti potuto fare qualsiasi altra cosa, invece hai scelto di dedicare l’intera giornata a me. Non voglio impedirti di rispondere alle telefonate di chi ti vuole bene. Non farò scenate. Merda. Fare il disinvolto, figuriamoci. Accostai a bordo carreggiata e parcheggiai la Rover alla bell’e meglio. Tenni a posto le mani, ma dedicai ogni briciolo della mia attenzione a Blaire. — Oggi ho scelto di accompagnarti perché non c’è niente che preferirei fare piuttosto che starti vicino. Ti accompagno perché sono un uomo disperato, che sopporterà tutto quello che potrà sopportare se si tratta di te. — Cedetti e le accarezzai lo zigomo con il pollice, poi mi addentrai in quella chioma setosa che mi aveva incantato sin dalla prima volta in cui avevo posato gli occhi su di lei. — Farò qualsiasi cosa. Qualsiasi, Blaire, solo per starti accanto. Non riesco a pensare ad altro. Non riesco a concentrarmi su niente. Quindi, ti prego, non credere mai di potermi disturbare. Se hai bisogno di me, io ci sono. — Mi interruppi. Suonavo patetico alle mie stesse orecchie. Le tolsi la mano dalla testa, innestai la marcia e tornai in carreggiata. Blaire non disse nulla. Non potevo fargliene una colpa, avevo fatto la figura dello squilibrato. Ora probabilmente aveva paura di me. Io ne avrei avuta, cazzo! BLAIRE Il cuore mi batteva così forte che ero certa potesse sentirlo anche lui. Era stata una pessima idea. Stargli vicino mi mandava in confusione… Era facile dimenticare chi fosse in realtà. Essere toccata da Rush, anche se soltanto sul viso, mi aveva fatto venire voglia di scoppiare a piangere. Avrei voluto di più. Mi era mancato. Mi era mancato tutto di lui, e avrei mentito se non avessi ammesso con me stessa che l’idea di restargli vicino un giorno intero era stata la causa dell’insonnia che mi aveva tormentata per quasi tutta la notte. Vedendo che non accennavo a rispondere, Rush riaccese la radio. Avrei dovuto dire qualcosa dopo il suo discorso, ma cosa? Come facevo a rispondere senza causare altro dolore a entrambi? Dirgli che mi era mancato e che lo volevo non avrebbe facilitato le cose. Anzi, avrebbe reso tutto più difficile. Quando il telefono squillò di nuovo, sullo schermo del cruscotto apparve il nome di Grant. Rush premette un tasto e prese in mano il cellulare. — Ehi — disse. Gli lanciai uno sguardo casuale, dato che non mi stava più guardando. Le marcate linee di preoccupazione sul suo viso mi resero triste. Avrei voluto farle scomparire. — Sì. Siamo in strada — rispose dentro al microfono del telefono. — No, non mi sembra una buona idea. Ti chiamo quando torno. — Vidi la sua mascella irrigidirsi e capii che, qualsiasi cosa Grant gli stesse dicendo, lo stava facendo arrabbiare. — Ti ho detto di no! — esclamò, per poi chiudere la chiamata e buttare il cellulare nel portabevande. — Stai bene? — chiesi prima di poter riflettere. Girò la testa di scatto per guardarmi. Sembrava quasi sorpreso che gli stessi rivolgendo la parola. — Oh, sì. Sto bene — rispose con un tono di voce molto più calmo, per poi rimettere gli occhi sulla strada. Aspettai qualche minuto, poi decisi di replicare a quello che mi aveva detto. Se non avessi cominciato a parlarne, fra noi ci sarebbe stato sempre quel silenzio imbarazzato. Anche se nel giro di quattro mesi me ne sarei andata e non l’avrei mai più rivisto… No, l’avrei rivisto. Sarei stata costretta a farlo, no? Potevo veramente vivere senza dirgli del bambino? Rimossi l’idea. Neanche mi ero fatta visitare. Avrei compiuto il grande passo dopo la conferma definitiva del medico, sebbene quel mattino mi fosse bastato aprire il bidone della spazzatura e sentire l’odore del pesce fritto buttato da Jace la sera prima per vomitare di nuovo. Normalmente non ero così sensibile. Il tè caldo allo zenzero che stavo bevendo quando Rush era passato a prendermi mi aveva aiutato a calmare lo stomaco. Potevo fingere che il test di gravidanza si fosse sbagliato, oppure affrontare la realtà. — A proposito di quello che hai detto. Ecco, io… Io non so bene cosa rispondere. Cioè, so come mi sento e come vorrei che le cose andassero diversamente, ma la realtà è un’altra. Voglio che noi due… Voglio che noi due troviamo un modo per essere amici… forse. Non so. “Amici” mi sembra così triste, dopo tutto quello che c’è stato. — Tacqui, perché il mio tentativo di parlargli si stava trasformando in un caos totale. Come potevamo essere amici? Era così che tutto aveva avuto inizio, e ora eccomi lì, innamorata e incinta di un uomo con cui non potevo costruire un futuro. — Sarò qualsiasi cosa mi permetterai di essere, Blaire. Però non escludermi di nuovo dalla tua vita. Ti prego. Annuii. Ok. Avrei concesso un po’ di tempo a quell’ipotesi dell’amicizia. Poi… Poi gli avrei detto del bambino. Sarebbe scappato a gambe levate? Oppure avrebbe voluto far parte della sua vita? In un caso o nell’altro, avevo bisogno di tempo per prepararmi. Di sicuro non avrei permesso che mio figlio avesse a che fare con la sua famiglia, era fuori questione. Odiavo i bugiardi… ma in fondo lo sarei stata anch’io, almeno per un po’. Ero io ad avere un segreto da nascondere. — Ok — risposi, ma non aggiunsi altro. Sentivo le palpebre pesanti e la mancanza di sonno della notte precedente, unita al fatto di non poter bere caffè per tenermi sveglia, stava avendo la meglio. Chiusi gli occhi. — Aspetta, dolce Blaire. La testa ti sta cadendo in avanti, rischi di farti venire un crampo al collo di quelli micidiali. Ti sto soltanto reclinando il sedile, ok? — Un caldo sussurro mi solleticò l’orecchio, facendomi rabbrividire. Mi girai in quella direzione, ma ero ancora così assonnata che non riuscivo a svegliarmi completamente. Sentii qualcosa di morbido sfiorarmi le labbra, poi ripiombai nel mondo dei sogni. — Devi svegliarti, dormigliona. Siamo arrivati, ma non ho idea di dove andare. — La voce di Rush, accompagnata dalla sua mano che mi scuoteva delicatamente un braccio, mi svegliò. Sfregai gli occhi e li riaprii. Ero sdraiata. Lo guardai in faccia e lo vidi sorridere. — Ti saresti spezzata il collo. E poi dormivi così bene che mi è sembrato giusto metterti comoda. — Si slacciò la cintura e si sporse sopra di me per armeggiare con un bottone sul lato del mio sedile, che tornò lentamente in posizione verticale. Davanti a noi, il primo semaforo di Sumit, Alabama. — Oddio, scusami… Ho dormito tutto il tempo! Chissà che viaggio noioso, per te. — Ho avuto il pieno controllo della radio, quindi no, non mi sono annoiato! — rispose Rush con un sorrisetto. Guardò il semaforo. — Da che parte vado? — Dritto, finché non vedi una grossa insegna di legno con dipinta una scritta a lettere rosse che dice QUI ORTAGGI FRESCHI E LEGNA DA ARDERE . Lì giri a sinistra. Sarà la terza casa sulla destra, ma bisogna andare avanti per circa due chilometri e mezzo. Dopo cinquecento metri circa l’asfalto diventa ghiaia. Rush seguì le mie indicazioni e non parlammo granché. Mi stavo ancora svegliando e avevo lo stomaco in subbuglio. Ero a digiuno e sapevo che era quello il problema; in borsa avevo i cracker di Bethy, ma non mi andava di mangiarli di fronte a Rush. E se invece di sistemarmi mi avessero fatto stare male di nuovo? Quando imboccammo il vialetto della casa di nonna Q, io stavo sudando freddo. Se non avessi mangiato qualcosa al più presto, avrei vomitato, senza ombra di dubbio. Aprii la portiera prima che Rush potesse guardarmi in faccia: probabilmente ero verde, o come minimo pallida. — Vuoi che venga con te oppure è meglio se resto qui? — mi chiese. — Mmm… Be’, forse è meglio se resti — risposi. C’era la macchina di Cain, quindi era probabile che ci fosse anche lui. Non volevo che fra quei due scoppiassero altre liti, né mi fidavo del fatto che Cain avrebbe tenuto la bocca chiusa a proposito del test di gravidanza. Chiusi la portiera e mi diressi verso casa. Cain aprì la porta a zanzariera e uscì in veranda prima ancora che potessi mettere piede sul primo gradino. Il suo viso era un misto di rabbia e preoccupazione. — Perché è ancora qui? Ti ha portata a casa, adesso se ne può anche andare — sibilò, guardando con aria minacciosa in direzione di Rush. Sì, era stata davvero una splendida idea quella di lasciarlo in macchina. Il mio stomaco si contrasse e dovetti lottare contro un’ondata di nausea. — È ancora qui perché poi mi dà un passaggio per tornare indietro. Calmati, Cain. Non dovete litigare. Tu sei mio amico, lui è mio amico. Andiamo in casa a parlare. Devo prendere le mie cose. Cain mi fece passare e poi mi seguì all’interno, lasciando che la zanzariera sbattesse forte alle sue spalle. — Cosa vuol dire che torni indietro con lui? Allora il test era positivo? Scappi via con lui anche se ti ha spezzato il cuore e tre settimane fa sei tornata qui che eri uno straccio? Mi prenderò io cura di te, Blaire, lo sai. Alzai le mani per fargli segno di smettere. — Non si tratta del fatto che io sia incinta, Cain. Lui è un amico che mi ha dato un passaggio. Sì, siamo stati qualcosa di più prima che… succedessero una serie di cose, ma ora è finita. Non sto scappando con lui. Riavrò il mio lavoro a Rosemary e resterò per un po’ a vivere con Bethy. Poi andrò da qualche altra parte e ricomincerò da zero. Non posso restare qui per sempre, Cain. — E perché no? Dio mio, Blaire, io ti sposerei anche oggi! Senza fare domande. Io ti amo, ti amo più della mia vita. Devi saperlo. Ho combinato un casino quando eravamo più piccoli. E poi quella storia con Callie non significa nulla. È soltanto una tipa come un’altra, serve solo a distrarmi. L’unica cosa che voglio veramente sei tu, te lo ripeto da anni. Ti prego, ascoltami — mi supplicò. — Cain, piantala. Tu sei un amico. Quello che c’era fra noi è morto tanto tempo fa. Ti ho sorpreso con un’altra a fare cose che non avresti dovuto fare. Quella sera è cambiato tutto. Io ti voglio bene, ma non sono innamorata di te e non lo sarò mai più. Ora scusa, ma devo fare la valigia e dare una svolta alla mia vita. Cain picchiò una mano contro il muro. — Non lo dire! Non è finita. Non puoi semplicemente andartene via per conto tuo. Può essere pericoloso! — Si interruppe. — Sei incinta? Non risposi. Andai nella stanza dove ero rimasta a dormire in quei giorni e cominciai a fare la valigia. — Sì, lo sei — disse seguendomi in camera. Non risposi, mi concentrai sulle mie cose e basta. — Lui lo sa? Il figlio della rockstar si prenderà le sue responsabilità? Quello sta mentendo, B. Il bambino verrà a vivere qui e sarà lui ad andarsene. Non sarebbe mai in grado di gestire un figlio, non è nel suo stile. Lo sai anche tu. Lo sa il mondo intero, merda! Per come vive potrebbe essere lui, la rockstar. Ho visto la sua villa sulla spiaggia. Non è certo il tipo che ti sta vicino quando le cose si fanno complicate. Non ti sosterrà. Ok, forse io avrò anche fatto una cazzata, ma non scapperò. Ci sarò sempre. Mi voltai di scatto. — Non lo sa, ok? Non sono nemmeno sicura di volerglielo dire. Non mi serve qualcuno che mi salvi, posso farcela da sola. Ne sono capace. Cain fece per aprire bocca e ribattere, ma in quell’istante entrò in camera nonna Q. Non mi ero accorta della sua presenza. — Smettila di supplicarla, Cain. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Blaire ha voltato pagina, anzi il suo cuore ha voltato pagina. Ci ha già dimostrato di poter andare a scuola e allo stesso tempo prendersi cura sia di sé e di sua madre. — Spostò lo sguardo da Cain a me, e un sorriso triste le affiorò alle labbra. — Mi spezza il cuore sapere che, così giovane, hai un’altra difficoltà da superare. Questa stanza è tua, se ti serve. Se però sei decisa ad andartene, accetto la tua scelta. Promettimi solo che starai attenta. — Si avvicinò e mi strinse in un abbraccio. — Ti voglio bene come se fossi mia nipote. È sempre stato così, per me — mi sussurrò all’orecchio. Le lacrime mi velarono gli occhi. — Anch’io ti voglio bene. Si ritrasse e tirò su con il naso. — Fatti sentire — mi disse prima di girarsi per andarsene. Mi lanciò un ultimo sguardo: — Non c’è uomo che non meriti di sapere di avere un figlio. Anche se non farà parte della sua vita, deve esserne informato. Ricordatelo, Blaire. Uscì dalla stanza, lasciandomi di nuovo sola con Cain. Misi anche l’ultimo dei miei oggetti in valigia e chiusi la cerniera. Afferrai la maniglia, la sollevai. Nel frattempo la nausea era peggiorata, tanto che dovetti coprirmi la bocca con una mano. — Cazzo, B. Almeno lasciami portare la valigia. Non puoi sollevare pesi. Vedi? Non ce la farai. Chi controllerà che tu ti prenda cura di te? Il migliore amico che avevo da tutta la vita era tornato. Il pazzo che pensava di essere innamorato ed era pronto a sacrificare la sua vita non c’era più. — L’ho detto a Bethy. Lei lo sa e in realtà anch’io ci sto attenta. Mi ero distratta un attimo, scusa. Anche per me è una novità. Ah… credo di dover vomitare. — Che cosa posso fare? — mi chiese, con il panico negli occhi. — Un pacchetto di cracker aiuterebbe. Appoggiò la valigia e corse fuori dalla stanza per andarmeli a cercare. Meno di un minuto dopo era già di ritorno con un pacchetto in una mano e un bicchiere nell’altra. — Nonna Q ti aveva sentito. Erano già pronti sul tavolo una confezione di cracker e un bicchiere di ginger. Ha detto che ti aiuterà a sistemare lo stomaco. — Grazie — risposi sedendomi sul letto a mangiucchiare e a sorseggiare la bibita. Nessuno dei due parlava. La nausea cominciò a diminuire e a quel punto mi fermai, come l’esperienza mi aveva insegnato a fare. Troppi cracker e avrei ricominciato a vomitare molto presto. Mi alzai e restituii i viveri d’emergenza a Cain. — Appoggiali pure lì, ci penso io più tardi. — Mi prese la valigia. — Dammi anche quello. Non puoi portarlo — disse sollevando lo scatolone che ancora non avevo svuotato da quando mi ero trasferita lì. Mi infilai l’ultima borsa piccola sul braccio e lui imboccò la porta senza proferire parola. Lo seguii pregando in silenzio che non facesse qualcosa di stupido di fronte a Rush. Raggiungemmo la porta a zanzariera della veranda e lì ci fermammo. Appoggiò a terra la valigia e mi guardò. — Non devi andare con lui. Te l’ho detto, posso pensarci io. Tu hai me, B. Mi hai sempre avuto. Cain era convinto di quello che stava dicendo, glielo leggevo in faccia. Ma io non ci cascavo. Se mi fosse servito un amico, Cain ci sarebbe stato, certo, ma lui non era il salvatore di nessuno. In ogni caso, non mi sarebbe servito. Avevo me stessa. Mi tirai la borsa più su sulla spalla e pensai attentamente a come spiegarglielo un’altra volta. Le avevo provate tutte. Non voleva capire la verità. Tornare sull’argomento di come mi avesse ferita lasciandomi sola quando mia madre stava male avrebbe avuto come unico risultato quello di mortificarlo ulteriormente. — Ho bisogno di farlo. Cain emise un grugnito depresso e si passò una mano fra i capelli. — Tu non ti fidi di me. Non pensi che possa davvero prendermi cura di te. E questa cosa mi fa male, Blaire, malissimo. — Fece una risata sconfitta. — Ma in fondo perché dovresti? Ti ho già deluso in passato. Con tua madre… Ero un pivello, B. Quante volte te lo devo ripetere che ora le cose sono cambiate? So cosa voglio. Io… Santo cielo, io voglio te! Ho sempre voluto te. Mi si formò un nodo in gola. Non perché anche io lo amassi, ma perché comunque gli volevo bene. Cain rappresentava una grossa parte della mia vita. Ed era sempre stato così, da che ricordassi. Ridussi le distanze fra noi e gli presi una mano. — Cerca di capirmi, ti prego. È una cosa che devo fare. Devo affrontarla. Lasciami andare. Cain rispose con un sospiro esasperato. — Io ti lascio sempre andare, B. Me l’avevi già chiesto. Io ce la metto sempre tutta, ma tu mi stai distruggendo lentamente. Un giorno mi avrebbe ringraziato per averlo lasciato. — Mi dispiace, Cain, ma ora devo andare. Lui mi sta aspettando. Prese la valigia e aprì la zanzariera con una spallata. Appena ci intravide, Rush scese dalla Rover. — Non dirgli niente, Cain — sussurrai. Lui mi fece un cenno e io lo seguii giù dai gradini. Rush ci aspettava in fondo alle scale con lo sguardo alzato su di me. — È questa tutta la tua roba? — chiese. — Sì — risposi. Cain non accennò a consegnargli né la valigia né lo scatolone. Un muscolo della mascella di Rush scattò all’improvviso, e io capii che ce la stava mettendo tutta per mantenere il controllo. — Dagli la roba, Cain — lo spronai con una piccola gomitata dietro la schiena. Lui obbedì con un sospiro e Rush caricò tutto in macchina. — Glielo devi dire — mormorò Cain voltandosi per guardarmi. — Lo farò, prima o poi. Devo pensarci bene. Guardò lontano, verso il mio pick-up. — E quello? Lo lasci qui? — Speravo che potessi portarlo in officina e metterci sopra un cartello VENDESI … Ricavarne circa un migliaio di dollari. Ne tieni metà e spedisci a me il resto. Cain corrugò la fronte. — Lo vendo, B, ma non voglio soldi. Ti manderò tutto. Non protestai. Lui aveva bisogno di compiere quel gesto e io non mi sarei opposta. — Ok, come vuoi. Ma almeno puoi darne una parte a nonna Q? Per avermi ospitata qui e tutto il resto? Cain mi guardò allibito. — Sei pazza? Vuoi che mia nonna venga fino a Rosemary per farti le chiappe rosse? Sorrisi, gli appoggiai le mani sulle spalle e, sollevandomi in punta di piedi, gli diedi un bacio sulla guancia. — Grazie di tutto — sussurrai. — Puoi tornare, se hai bisogno di me. Sempre. — La voce gli si incrinò e in quel momento seppi che me ne dovevo proprio andare. Feci un passo indietro, annuii e raggiunsi la Rover. Rush mi aspettava accanto alla portiera del passeggero aperta. Mi fece salire e la richiuse per me. Lo guardai mentre, girando intorno alla macchina per raggiungere il posto di guida, continuava a fissare Cain. Lo stavo facendo veramente. Stavo lasciando quello che era stato il mio porto sicuro per compiere la prima mossa alla ricerca del mio posto nel mondo. RUSH Lei aveva l’aria di una che stava per piangere e io avevo paura di chiederle se stesse bene. Tanto era il mio terrore che cambiasse idea e decidesse di fermarsi a Sumit che non aprii bocca finché non fummo al sicuro, fuori dal paese. La tensione delle sue mani intrecciate sulle ginocchia mi metteva ansia. Volevo che dicesse qualcosa. — Stai bene? — chiesi, incapace di trattenermi. L’istinto di proteggerla aveva preso il sopravvento. Annuì. — Credo di essere soltanto un po’ spaventata. Questa volta so che non tornerò indietro. So anche di non avere un padre pronto a tirarmi fuori dai guai, cosa che rende tutto più difficile dell’altra volta. — Hai me — risposi. Lei inclinò la testa di lato e mi guardò. — Grazie. Avevo bisogno di sentirmelo dire, in questo momento. Wow. A saperlo prima mi sarei registrato, così avrebbe potuto riascoltare la mia voce tutte le volte che ne avesse avuto bisogno. — Non pensare mai di essere sola. Mi fece un timido sorriso e poi ricominciò a fissare la strada. — Lo sai, vero, che se adesso vuoi dormire posso darti il cambio? L’idea di essere libero di guardarla senza dover pensare alla guida mi tentava molto. Ma si sarebbe aspettata di vedermi dormire, e io non avevo intenzione di sprecare in quel modo neanche un briciolo di tempo che potevo passare insieme a lei. — Sto bene. Grazie, però. All’andata mi ero fermato a un McDrive e avevo preso qualcosa da mangiare senza scendere dall’auto. Lei dormiva, e avevo preferito non disturbarla. A quell’ora però doveva aver fame. — Ehi, io sto morendo di fame. Cosa ti andrebbe di mangiare? — chiesi, svoltando sull’autostrada che ci avrebbe riportati in Florida. — Mangiare? Uhm… Non so, magari una zuppa? Una zuppa? Una richiesta un po’ strana. Ma che diamine, se lei voleva una zuppa, io le avrei procurato una zuppa. — E zuppa sia. Tengo gli occhi aperti per vedere se passiamo davanti a un ristorante dove potrebbero farla. — Se tu hai tanta fame, fermiamoci pure dove preferisci. Posso trovare qualcosa da mangiare ovunque. — Ancora quel tono di voce nervoso… — Blaire, ti farò mangiare una zuppa — dichiarai guardandola. Mi assicurai di sorriderle, così avrebbe capito che ci tenevo a darle la possibilità di mangiare quello che voleva. — Grazie — rispose tormentandosi le mani e tenendo lo sguardo basso su di esse. Restammo per un po’ senza parlare, ma era bello averla in macchina con me. Non volevo farle pensare di dover chiacchierare per forza. Puntai il dito contro il cartello della prima uscita, con indicati alcuni ristoranti. — Sembra che qui ci siano opzioni interessanti. Scegline una! — proposi. Lei scrollò le spalle. — Non è importante. Anzi, se preferisci comprare qualcosa al volo da poter mangiare strada facendo, per me va bene lo stesso. No. Quella giornata doveva durare il più a lungo possibile. — Ci prendiamo una zuppa — fu la mia risposta. Mi colse di sorpresa con il suono di una risatina. Quando mi voltai verso di lei, stava davvero sorridendo. Riuscire a farglielo fare più spesso sarebbe stato il mio nuovo traguardo. Blaire dormiva ancora quando entrammo del parcheggio fuori dalla casa di Bethy, a tarda notte. Ero stato attento a mantenere la conversazione su temi leggeri. Dopo un po’, ci eravamo adattati a un tranquillo silenzio e lei si era addormentata. Posteggiai la Rover, poi mi fermai a osservare la mia compagna di viaggio. In quell’ultimo tratto di strada avevo inclinato lo sguardo un milione di volte per vederla dormire: ora volevo qualche minuto di libertà per poterlo fare con tutta calma. Le occhiaie scure che aveva sotto gli occhi mi preoccupavano. Non dormiva abbastanza? Forse Bethy sapeva qualcosa, avrei potuto parlarne con lei. Chiederlo direttamente a Blaire, in quel momento, non sarebbe stata la mossa più saggia. Qualcuno bussò piano al mio finestrino. Mi girai e spostai l’attenzione da Blaire a Jace, in piedi fuori dall’auto con un’espressione divertita in faccia. Aprii la portiera e scesi prima che potesse svegliarla. Volevo farlo io, possibilmente senza pubblico. — Hai in programma di svegliarla oppure stai prendendo in considerazione l’ipotesi di un rapimento? — chiese Jace. — Zitto, deficiente! Lui ridacchiò. — Bethy non vede l’ora di rivederla per farsi raccontare come è andato il viaggio. Ti aiuto io a trasportare le sue cose, se tu la svegli e la porti dentro. — È stanca. Bethy può aspettare domani. — Non volevo che, appena riaperti gli occhi, Blaire dovesse subito affrontare la curiosità della sua amica. Era evidente che le servivano più sonno e più cibo. Prima, quando ci eravamo fermati, aveva a malapena toccato la sua zuppa. Io avevo tentato di farla mangiare anche più tardi, ma lei mi aveva garantito di non avere più fame. Così però non poteva andare avanti: mi sembrava di essere tornato ai tempi dei panini con il burro d’arachidi. — Lo dici tu a Bethy — rispose Jace mentre gli mettevo in mano lo scatolone e toglievo la valigia dal bagagliaio. — Io tengo questa, tu porti dentro quello e nel frattempo la sveglio. — Per caso serve un momento d’intimità? — fece lui con un sorrisetto beffardo. Lo scatolone gli arrivò fra le braccia con tanta violenza da farlo barcollare all’indietro, eppure l’idiota continuò a soffocare dalle risate. Lo ignorai e mi spostai sul lato del passeggero. Svegliare Blaire e vederla andarsene via non mi andava molto. Anzi, solo pensarci mi terrorizzava. E se fosse stata la fine di tutto? E se lei non mi avesse più permesso di starle così vicino come quel giorno? No. Non potevo permetterlo. Mi sarei mosso lentamente, un passo alla volta, ma avrei fatto in modo che quella, per noi, non fosse la fine. E ciò malgrado il fatto che averla avuta accanto tutto il giorno avrebbe reso veramente difficile tornare a come stavano le cose prima. Le slacciai la cintura. Si mosse appena. Una ciocca di capelli le era ricaduta sul viso, e io cedetti all’impulso di toccargliela. Gliela misi dietro l’orecchio. Dio, com’era bella… Non avrei mai potuto dimenticarla, non era possibile. Dovevo trovare un modo per riprendermela. Per aiutarla a guarire. Batté le palpebre e il suo sguardo incontrò il mio. — Siamo arrivati — sussurrai per non farla spaventare. Si mise a sedere diritta e mi fece un sorriso imbarazzato. — Scusami, mi sono addormentata di nuovo. — Si vede che avevi bisogno di riposare. Non fa niente. — Avrei voluto restare lì e tenermela in macchina, ma non potevo. Mi spostai per lasciarla scendere. Ero veramente a un passo dal chiederle se il giorno dopo avrei potuto rivederla, ma non lo feci. Non era pronta. Dovevo lasciarle spazio. — Allora ci vediamo — dissi, e il suo sorriso vacillò. — Ah, ok. Sì, ci vediamo. Grazie per avermi aiutato, oggi. Ti restituirò i soldi della benzina. Figuriamoci. — Piantala, non li voglio. È stato un piacere. Fece per aggiungere qualcosa, ma serrò subito la bocca. Si girò salutandomi con un cenno serio e si diresse verso casa. BLAIRE Il primo giorno di rientro al lavoro, Woods mi assegnò alla sala da pranzo. Turno della colazione e del pranzo: pessima scelta. In piedi fuori dalla cucina, mi preparai mentalmente a non pensare all’odore. Mi ero svegliata con la nausea e avevo fatto uno sforzo per mandare giù qualche cracker e un sorso di tè allo zenzero, ma già era stato difficile così. Appena entrata, l’odore mi avrebbe travolto. La pancetta… Gesù, la pancetta! — Lo sai, tesoro, che per lavorare non puoi stare ferma sulla porta? — disse Jimmy, alle mie spalle. Mi girai, distolta dalla mia battaglia interiore grazie al suo sorriso divertito. — I cuochi non sono tanto male e ti abituerai in fretta a tutto quel gridare. Anzi, sappi che l’ultima volta li hai già fatti cadere tutti ai tuoi piedi. Mi sforzai di sorridere. — Hai ragione. Posso farcela. È soltanto che non sono pronta a essere tempestata di domande, credo. — Non era esattamente la verità, ma nemmeno una bugia. Jimmy aprì la porta e l’odore mi colpì come uno schiaffo: uova, pancetta, salsicce, grasso. Oh, no… Cominciai a sudare freddo e sentii lo stomaco in rivolta. — Veramente… Ecco, prima avrei bisogno di andare in bagno — mi scusai, prima di raggiungere il camerino del personale più in fretta che potevo senza mettermi a correre, altrimenti avrei destato dei sospetti. Chiusi a chiave la porta alle mie spalle e mi buttai in ginocchio sulle piastrelle gelate. Abbracciai la tazza del wc e in un attimo rividi tutto quello che avevo mangiato la sera prima e quel mattino stesso. Seguirono diversi conati a vuoto, poi riuscii ad alzarmi. Mi sentivo uno straccio. Mi asciugai il viso con un tovagliolino di carta e notai che avevo la polo bagnata di sudore, tanto che mi stava ancora più aderente del solito. Dovevo per forza cambiarmi. Sciacquai la bocca con il collutorio che c’era sul mobile del lavabo e sistemai la polo alla bell’e meglio. Forse nessuno se ne sarebbe accorto. Potevo farcela: mi bastava trattenere il respiro nei momenti in cui sarei stata in cucina. Sì, avrebbe funzionato. Avrei fatto la scorta di ossigeno prima di aprire la porta e tutto sarebbe filato liscio. Quando spinsi la porta del bagno, mi ritrovai faccia a faccia con Woods. Era in piedi appoggiato contro il muro, le braccia incrociate sul petto, e mi guardava. Ero in ritardo. — Scusami. Scusami, lo so che sono in ritardo. È che mi serviva un attimo di pausa prima di cominciare. Non succederà più, stasera mi fermo a recuperare e… — Nel mio ufficio. Adesso — ordinò, infilandosi nel corridoio. Lo seguii, con il battito cardiaco che cominciava ad accelerare. Non volevo che Woods si arrabbiasse con me. Quel lavoro era la risposta ai miei problemi, almeno per quattro mesi. Ora che mi ero convinta a rimanere, a decidere con calma cosa fare dopo, non volevo più andarmene. Non ancora. Woods mi aprì la porta e io entrai. — Scusami, mi dispiace veramente. Non mi licenziare, stavo solo… — Non ti sto licenziando — mi interruppe. Oh… — Ti sei fatta visitare? Suppongo sia di Rush. Lui lo sa? Perché se lo sa e ti manda a lavorare qui nelle tue condizioni andrò personalmente a spaccargli la faccia. Lo sapeva. No, no, no e ancora no. Scossi la testa come una pazza. Dovevo fare qualcosa, Woods non poteva sapere. Nessuno doveva sapere tranne Bethy. — Ma di cosa stai parlando? Woods mi guardò da sotto un sopracciglio sollevato. — Fai sul serio? — L’incredulità nella sua voce era angosciante. Non ci sarebbe mai cascato, ma io avevo un bambino da proteggere. — No, non lo sa. — La verità mi uscì dalle labbra prima che potessi fare qualcosa per fermarla. — Ancora non voglio dirglielo. Devo trovare il modo per cavarmela da sola. Conosciamo tutti e due Rush e sappiamo benissimo che non sarebbe d’accordo. La sua famiglia, poi, impazzirebbe. E io non voglio che mio figlio venga odiato. Ti prego, cerca di capirmi… — lo pregai. Woods imprecò sottovoce e si passò le mani fra i capelli. — Merita di saperlo, Blaire. Sì, se lo meritava. Però, quando quel bambino era stato concepito, io ancora non sapevo quanto fossero marci i nostri mondi. Per noi sarebbe stato impossibile avere una storia. — Quelli mi odiano. Quelli odiano mia madre. Non posso. Ti prego, dammi il tempo di dimostrare che riesco a farcela senza l’aiuto di nessuno. Alla fine glielo dirò, ma quando succederà dovrò essere in una situazione stabile, pronta per partire. Stavolta non sono i miei desideri o i suoi quelli che contano… Sto facendo ciò che è meglio per questo bambino. Woods aggrottò ancora di più le sopracciglia. Restammo in silenzio per diversi minuti. — Non mi piace questa storia, ma non spetta a me dire la verità. Vai a cambiarti e cerca Darla. Oggi puoi stare sul cart. Mi farai sapere tu quando gli odori della cucina non saranno più un problema. Avrei voluto gettargli le braccia al collo e stringerlo forte. Non mi stava costringendo a dirlo a tutti e per di più mi stava concedendo una tregua dagli odori della colazione. Una volta adoravo la pancetta, ma adesso… Proprio non la sopportavo. — Grazie. A cena non va così male. È soltanto la mattina e a volte il pomeriggio. — Ricevuto. Allora ti assegnerò alla sala da pranzo soltanto per i turni serali. Questa settimana resti sul campo da golf, ma stai attenta al caldo. Tieni sempre a portata di mano un po’ di ghiaccio o qualcosa di fresco. A Darla posso dirlo? — No! — lo bloccai prima che potesse aggiungere qualcosa. — Non puoi dirlo a lei e non puoi dirlo a nessun altro. Ti prego! Woods sospirò, poi annuì. — E va bene. Manterrò il tuo segreto. Ma se ti serve qualcosa, devi farmelo sapere, ok? Se proprio non vuoi andare da Rush, ovvio. — D’accordo. Grazie. Mi fece un sorriso a denti stretti. — Allora ci vediamo più tardi. Ero libera di andare. Il programma per il resto della settimana prevedeva che lavorassi sul cart delle bevande. Il sabato seguente sarebbe cominciato un torneo e io avrei dovuto lavorare tutto il giorno. Non avrei potuto essere più felice: la paga sarebbe stata favolosa. E anche se sul campo il caldo era sempre intenso, sarebbe stato comunque meglio che restare all’aria condizionata con quell’odore nauseabondo di grasso e pancetta. Da quando me ne ero andata, al club c’erano molte più persone. Darla mi aveva spiegato che erano arrivati tutti i soci che si fermavano soltanto durante le vacanze estive. Io e Bethy guidavamo un cart a testa, in modo da garantire l’idratazione generale dei giocatori. Woods veniva di rado sul campo, perciò non avevo bisogno di nascondermi dal suo sguardo inquisitore. Aveva da fare in ufficio. Jace aveva confidato a Bethy che stava cercando di dimostrare a suo padre di essere pronto per una promozione. Dopo aver rifornito il cart per la terza volta nell’arco della giornata, tornai alla prima buca per ricominciare il giro. Riconobbi subito la testa di Grant da dietro. Stava giocando con… Nan. Sapevo che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato, ma non ero ancora pronta. Avrei potuto passare oltre e lasciare che fosse Bethy a occuparsi di loro, ma sarebbe stato come rimandare l’inevitabile. Mi avvicinai e Grant si girò verso di me. Sembrava impegnato in una conversazione seria con Nan, e l’espressione sconfortata che aveva sul viso non era invitante. Mi sorrise, ma si capiva che si stava sforzando. — Siamo a posto, Blaire. Puoi andare alla prossima buca — gridò nella mia direzione. La testa di Nan si voltò di scatto al suono del mio nome e il suo sguardo carico d’odio mi spinse a innescare la retro all’istante. Forse il primo istinto era stato quello giusto. Non avrei dovuto fermarmi. — Aspetta. Io voglio una cosa. — Il suono della voce di Rush mi fece venire quel tuffo al cuore di cui solo lui era capace. Girai la testa nella sua direzione e lo vidi correre verso di me con indosso un paio di pantaloncini azzurri e una polo bianca; non smetteva mai di stupirmi il modo in cui sapeva portare alla perfezione anche quei vestiti da fighetto. I ragazzi dell’Alabama non si sarebbero conciati così neanche a pagarli: giocavano a golf con i jeans, il cappellino da baseball e qualsiasi Tshirt o camicia di flanella fosse uscita pulita quel giorno dalla lavatrice. Rush, invece, faceva sembrare incredibilmente sexy perfino quella divisa. — Ho sete — aggiunse con un sorriso disinvolto quando fu vicino al mio cart. Si fermò proprio davanti a me. Erano passati un paio di giorni dall’ultima volta che l’avevo visto, dal nostro viaggio insieme. — Il solito? — gli chiesi scendendo dal cart soltanto per stargli accanto. Lui non si tirò indietro, e i nostri corpi erano così vicini da potersi quasi sfiorare. Alzai lo sguardo. — Sì, sarebbe il massimo — rispose senza muoversi. Teneva gli occhi puntati sui miei. Uno dei due avrebbe dovuto cedere e interrompere quella gara di sguardi. Sapevo che toccava a me: non potevo lasciargli credere che qualcosa tra noi fosse cambiato. Gli passai accanto e andai sul retro del cart per prendergli una Corona. Mi chinai per toglierne una dal ghiaccio e lo sentii muoversi dietro di me. Accidenti. Non mi stava facilitando le cose. Mi rialzai e non mi voltai per guardare. Era troppo vicino. — Che cosa stai facendo? — gli chiesi, a bassa voce. Non volevo che Nan o Grant ci sentissero. — Mi manchi — fu la sua semplice risposta. Chiusi forte gli occhi, feci un respiro profondo e cercai di calmare la frenesia che aveva provocato nel mio cuore. Anche lui mi mancava, ma non bastava a far sparire la verità. Confessarglielo non sarebbe stata una mossa intelligente. Non dovevo fargli credere che le cose potevano tornare com’erano prima. — Prendi la birra e vieni qui — lo fulminò Nan da dietro le spalle. Quell’ordine bastò a farmi muovere; non ero pronta a sopportare gli attacchi verbali di Nan, non quel giorno. — Non rompere, Nan! — ribatté lui. Gli passai la Corona e tornai quatta quatta sul sedile del cart. — Blaire, aspetta — tentò di fermarmi, seguendomi ancora una volta. — Non farlo, ti prego — gli dissi. — Non ce la faccio a sopportarla. Trasalì, mi fece un cenno con la testa e indietreggiò. Io distolsi lo sguardo e misi in moto il cart, raggiungendo la seconda buca senza mai girarmi. RUSH — Non ricordi cosa ti ho chiesto l’altro giorno, Nan? — ringhiai contro mia sorella quando Blaire e il suo cart furono fuori portata. — Eri patetico. Cercavo di aiutarti a non fare la figura dell’innamorato sfigato. Mi girai e la raggiunsi a grandi passi. Stava oltrepassando il limite. Da bambino non avevo mai sofferto di quella rabbia che spesso spinge i fratelli maschi a voler fare del male fisico alle loro sorelle, invece in quel momento capivo cosa si dovesse provare. Grant mi si parò davanti e formò una barriera tra di noi. — Ehi, ehi. Stai indietro, datti una calmata. Spostai lo sguardo da Nan a Grant. Cosa cazzo voleva? Lui odiava Nan! — Levati di mezzo. Questa cosa riguarda soltanto me e mia sorella — gli ricordai. Non l’aveva mai difesa una volta in vita sua. Anche quando suo padre era stato sposato con nostra madre, si era assicurato che tutti quanti capissimo che lui detestava Nan. Fra quei due non c’era mai stato neanche un lontano sentore di fratellanza. — E dovrai passare su di me per arrivare a tua sorella — mi disse facendo un passo verso di me. — Perché in questo momento non stai pensando ai sentimenti di nessuno, tranne che a quelli di Blaire. Ricordati quello che significa la sua presenza per Nan. Una volta ti importava di lei. Oh, cazzo. Era un’allucinazione? Da quando in qua Grant si era messo a difendere Nan?! — So benissimo cosa significa Blaire per lei. Ma quello che sto cercando di farle capire è che niente di quanto è successo è colpa sua. Nan ha odiato la persona sbagliata per così tanto tempo che ora non riesce più a dimenticarsene. E tu, invece, che problemi hai? Sapevi già tutto! Sei stato tu il primo a difendere Blaire quando è arrivata qui. Non hai mai pensato che fosse colpa sua. L’hai ritenuta innocente sin da subito. Grant si spostò, imbarazzato, e si girò a guardare Nan, che nel frattempo aveva gli occhi fuori dalle orbite. — Tu l’hai resa debole, Rush. L’hai protetta tutta la vita. Lei faceva affidamento su di te. Poi, a un certo punto, hai deciso di scaricarla e di dedicare tutte le tue attenzioni a Blaire, pretendendo che a Nan stesse bene. Certo, è una donna adulta, ma è dipesa da te per così tanti anni che non saprebbe affrontare la vita diversamente. Se tu non fossi così maledettamente concentrato sull’idea di riprenderti Blaire, te ne renderesti conto. Spinsi via Grant e guardai mia sorella dritto negli occhi. Non mi serviva la sua lezione per sapere anche da solo che c’era del vero nelle sue parole. In fondo ero contento che quei due avessero finalmente trovato qualcosa in comune. Forse, dopotutto, Grant le voleva bene. Avevamo vissuto nella stessa casa per anni. Eravamo stati trascurati tutti insieme. — Io ti voglio bene, Nan. Lo sai. Però non puoi chiedermi di scegliere. Non è giusto. Nan si mise entrambe le mani sui fianchi. Era la sua posizione di sfida. — Non puoi voler bene a entrambe. Io quella non l’accetterò mai. Mi ha puntato una pistola, Rush! L’hai vista! È pazza. Voleva spararmi. Come posso volerle bene e pretendere che lei ne voglia a me? È assurdo. — Non ti avrebbe mai sparato. Ha puntato la pistola anche a Grant, se è per quello, ma lui se n’è fatto una ragione. E comunque sì, posso voler bene a entrambe. In modi diversi. Spostò lo sguardo su Grant e gli rivolse un sorriso triste. Ancora più strano. — Non mi vuole ascoltare, Grant. Io mi arrendo. Sta scegliendo l’amore che prova per lei al posto mio e dei miei sentimenti. — Nan, ascoltalo tu un attimo. In un certo senso ha ragione — le disse Grant con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare con lei. Ma cos’era, Ai confini della realtà?! Lei batté il piede per terra. — No. Io la odio. Non sopporto di vederla. Ora lo sta persino facendo soffrire, e la odio ancora di più — gridò. Mi guardai attorno per vedere se qualcuno l’avesse sentita e vidi Woods che ci veniva incontro. Merda. Grant si girò e seguì il mio sguardo. — Oh cavolo… — mormorò. Woods si fermò davanti a noi e guardò prima Nan, poi Grant e infine me. — Ho sentito abbastanza da aver capito di cosa state parlando — disse tenendo lo sguardo fisso sul mio. — Voglio essere chiaro. Siamo tutti amici di vecchia data e conosco le dinamiche della vostra famiglia. — Guardò per un attimo Nan, con aria disgustata, poi di nuovo me. — Se qualcuno ha dei problemi con Blaire, che venga a dirmelo. Può lavorare qui finché vuole. Voi tre potrete anche non esserne entusiasti, ma a me, personalmente, non frega un bel cazzo. Fatevene una ragione. In questo momento non ha bisogno delle vostre menate, perciò alla larga. Ci siamo capiti? Lo studiai. Che cosa aveva voluto dire? E perché stava facendo il paladino di Blaire? La cosa non mi piaceva. Iniziava a ribollirmi il sangue nelle vene, perciò tenni i pugni serrati lungo i fianchi. Pensava di poter fare la sua mossa adesso? Saltar fuori quando lei era debole e fare l’eroe? E no, cavolo. Non sarebbe successo. Blaire era mia. Woods non rimase in attesa di risposte. Se ne andò in silenzio. — A quanto pare hai un concorrente — sibilò Nan. Grant la raggiunse e le fece di nuovo scudo con il corpo. — Adesso basta, Nan — le sussurrò prima di guardare me. Mi ero stancato di tutta quella storia. Non potevo sopportarli entrambi. Buttai a terra la mazza da golf e corsi dietro a Woods. Lui mi sentì arrivare, oppure percepì la rabbia che emanava il mio corpo, perché si fermò un attimo prima di raggiungere la clubhouse. Si voltò per guardarmi. Aveva un sopracciglio sollevato, come se fosse divertito, ma l’effetto su di me era farmi incazzare ancora di più. — Vogliamo tutti e due la stessa cosa. Perché non fai qualche bel respiro profondo e ti dai una calmata? — mi disse incrociandosi le braccia davanti al petto. — Tu devi starle lontano. Mi hai sentito? Lontano, cazzo. Blaire mi ama, è soltanto confusa e ferita. Ed è anche molto vulnerabile. Quindi, Signore aiutami, ma se credi di poterti approfittare della sua situazione giuro che ti faccio un culo così. Woods mi guardò con la testa inclinata di lato e aggrottò le sopracciglia. Il mio avvertimento non gli aveva fatto granché effetto. Forse dovevo farglielo io, un bell’effetto. — So che la ami. Non ti ho mai visto comportarti da pazzo come stai facendo ora, perciò ti credo. Ma Nan la odia. Se tu ami Blaire, allora la devi proteggere dal veleno che gronda dalle zanne di tua sorella, altrimenti dovrò farlo io. Mi sentii come se mi avesse tirato uno schiaffo in faccia. Prima che potessi rispondere, aprì la porta alle sue spalle ed entrò. Rimasi a fissare il legno per diversi minuti prima di ricominciare a muovermi. Avrei perso una delle due. Volevo bene a mia sorella, con il tempo mi avrebbe perdonato. Ma Blaire… Lei rischiavo di perderla per sempre. Non avrei permesso che accadesse. BLAIRE Bethy si avvicinò e mi strinse la mano. Era in piedi accanto a me mentre aspettavo seduta sul lettino del medico. Mi avevano chiesto di fare pipì in un barattolino e ora eravamo in attesa del risultato ufficiale. Avevo il cuore a mille. C’era una possibilità minima che non fossi incinta, l’avevo letto su Google la sera prima. Il test casalingo poteva aver dato un falso positivo, e io potevo essermi sentita male soltanto perché la mia testa credeva che fossi incinta. La porta si aprì ed entrò un’infermiera. Sorrideva, guardando me e Bethy. — Congratulazioni, è positivo. Sei incinta. La mano di Bethy strinse la mia ancora più forte. Dentro di me già lo sapevo, ma sentirlo pronunciare ad alta voce dall’infermiera rendeva tutto più reale. Non avrei pianto. Mio figlio non doveva sapere che avevo pianto, quando avevo scoperto di aspettarlo. Volevo che lui o lei si sentisse amato. Non era una brutta notizia, non avrebbe mai potuto esserlo. Mi serviva una famiglia, e presto ne avrei avuta una tutta mia. Qualcuno che mi avrebbe amato incondizionatamente. — Il dottore sarà qui fra pochi minuti per qualche controllo. Dobbiamo fare anche gli esami del sangue. Hai mai avuto dei crampi o delle perdite? — No. Solo tanta nausea. Gli odori mi fanno stare malissimo — spiegai. L’infermiera fece sì con la testa e prese appunti sulla cartelletta. — Può non essere piacevole, ma è un buon segno. La nausea fa bene. Bethy fece una smorfia. — Lei però non l’ha vista quando le vengono i conati. Io non ci credo che sia un buon segno! La donna sorrise. — Sì, ricordo anche io quei giorni. Non è divertente. — Spostò lo sguardo da Bethy a me. — Il padre sarà coinvolto? Lo sarebbe stato? Avrei potuto dirglielo? Feci no con la testa. — No, non credo. Il sorriso triste sul volto dell’infermiera mentre annuiva e prendeva un altro appunto mi fece capire che per lei era una scena già vista e rivista. — Hai usato qualche metodo contraccettivo al momento del concepimento? Stavi prendendo la pillola, magari? — mi chiese. Non guardai Bethy. Forse, dopotutto, non la volevo lì con me. Scossi la testa. L’infermiera inarcò le sopracciglia. — Niente? — domandò. — No, niente. Cioè… Abbiamo usato il preservativo un paio di volte, ma un paio di altre no. Una volta è uscito prima… Un’altra no. Sentii Bethy irrigidirsi accanto a me. Sapevo cosa stava pensando. Come avevo fatto a essere così stupida? Avevo evitato di raccontarle quel piccolo particolare. L’infermiera annuì. — Ok. Tra poco arriva il medico — ci avvisò prima di uscire dalla stanza. Bethy mi tirò per il braccio, costringendomi a guardarla. — Non si è messo il preservativo? Ma cavolo, è impazzito? Avrebbe dovuto arrivarci da solo a chiederti se eri incinta. Scusa, ma è da veri rincoglioniti! E io che ero dispiaciuta per lui perché non sapeva che stava per diventare papà! Invece quello non si è nemmeno preso la briga di mettere il preservativo! Avrebbe dovuto telefonarti quattro settimane dopo per assicurarsi che non ci fossi rimasta. Che i-dio-ta. Si era messa a camminare avanti e indietro. La guardai in silenzio. Che cosa avrei potuto dirle? Io ero in torto quanto lui, in quella situazione. Ero stata io quella che si era spogliata, gli era saltata sopra e gli aveva fatto perdere la testa. Non gli avevo lasciato molto tempo per pensare. Però non intendevo proprio condividere con Bethy i dettagli della vita sessuale mia e di Rush, quindi tenni la bocca chiusa. — Se lo merita, sai? Avrebbe dovuto verificare. Non dirlo, a quel deficiente. Se pensa di potersene andare in giro a usare il suo coso come gli pare, senza nemmeno infilarselo in un pezzo di gomma, allora io dico che può continuare a vivere dell’ignoranza totale. Ci penserò io a te. Insieme ce la faremo. — In quel momento, Bethy sembrava pronta ad affrontare il mondo intero. Mi fece venire voglia di sorridere. Non sarei stata a Rosemary quando il bambino fosse nato. Mi sarebbe piaciuto, però. Per il piccolo sarebbe stato bello avere qualcun altro che lo amava, Bethy si sarebbe dimostrata una zia perfetta. Il pensiero mi rattristò, e il sorriso scomparve. — Mi dispiace. Non volevo turbarti — mi disse lasciando cadere le mani dalla vita, con un’espressione preoccupata sul viso. — No, non è colpa tua. È solo che… È solo che vorrei non dovermene andare. E comunque voglio che mio figlio ti conosca. Bethy mi cinse le spalle e mi abbracciò stretta. — Mi dirai dove abiti e io verrò a trovarvi sempre. Oppure potresti restare qui e vivere con me. Quando il bambino nascerà, Rush non ci sarà più. Non si ferma mai a Rosemary oltre l’estate. Prima del suo ritorno, poi, faremo in tempo a mettervi in carreggiata. Tu pensaci, ok? Non preoccuparti adesso di prendere decisioni troppo definitive. Rush se ne sarebbe andato? Si sarebbe dimenticato di me e avrebbe lasciato Rosemary? Oppure sarebbe restato? Il cuore mi faceva male solo al pensiero che se ne andasse. Per quanto sapessi che tra noi due non avrebbe funzionato, volevo che lottasse per me. Volevo che trovasse il modo per farci rimanere insieme, anche se mi sembrava impossibile. Due ore più tardi eravamo nell’appartamento di Bethy. Il medico mi aveva prescritto alcuni integratori specifici e mi aveva lasciato diversi opuscoli su come trascorrere una gravidanza serena. Li nascosi in valigia: in quel momento mi servivano un bagno caldo e un bel pisolino. Bethy bussò una volta alla porta del bagno ed entrò. Teneva in mano il telefono e sorrideva come una scema. — Non ci crederai — mi disse scuotendo la testa, completamente incredula. — Mi ha appena chiamata Woods. Ha detto che l’appartamento è nostro per lo stesso prezzo che stiamo pagando ora in questa casa. Ha detto che conviene anche a lui, perché è utile avere due dipendenti che vivono direttamente sul campo da golf. Ah, ha anche aggiunto che, se rifiutiamo, possiamo considerarci entrambe disoccupate. Mi sedetti sul wc chiuso e la guardai. Woods lo stava facendo perché ero incinta. Era il suo modo di aiutarmi. Avrei avuto voglia di urlargli contro e di buttargli le braccia al collo allo stesso tempo. Le lacrime mi pungevano gli occhi. — È in linea? — chiesi a Bethy quando mi resi conto che aveva ancora il cellulare vicino all’orecchio. — No, questo è Jace. Ha detto che c’entri tu. Non è che voi due… vi state vedendo o cose del genere, vero? — mi chiese, cauta. Sicuramente la domanda proveniva da Jace. Lei l’aveva ripetuta come se non credesse alle proprie parole. — Per favore, puoi mettere un attimo in pausa? — le chiesi a bassa voce. Sgranò gli occhi e annuì. Una volta disattivato il microfono, mi fissò come se non mi riconoscesse più. Che cosa pensava? Che me la stessi facendo con Woods mentre ero incinta del figlio di Rush? Di certo no. — Bethy, lo sa. Woods lo sa. Giusto il tempo di elaborare il concetto e Bethy rimase a bocca aperta. — Come fa a saperlo? — Mi aveva messo in sala da pranzo per il turno della mattina. La cucina… be’, c’era un odore pazzesco di pancetta! Bethy inspirò per lo stupore e mi fece un cenno con la testa. Aveva capito. Riattivò il microfono e concluse: — Non c’è niente fra Woods e Blaire. Lui è soltanto diventato suo amico e la vuole aiutare, tutto qui. Un secondo dopo, Bethy aveva alzato gli occhi al cielo per qualcosa che le aveva detto Jace. Gli diede del pazzo e riattaccò. — Ok. Quindi lui sa che sei incinta del figlio di Rush e ci lascia lo stesso casa sua per due soldi? Ma questa è la notizia più bella del mondo! Aspetta di vedere che posto è. Se ci lascerà restare anche dopo la nascita del bambino, avrai una stanza grande abbastanza per metterci anche la culla! Sarebbe perfetto. Non riuscivo ad arrivare tanto in là con il pensiero. In quel momento avevo solo bisogno di andare da Woods e parlargli. Se me ne fossi andata nel giro di quattro mesi, volevo che l’offerta continuasse a valere anche per Bethy. Dovevo assicurarmene, prima che lei si lasciasse travolgere dall’entusiasmo. RUSH Jace aveva chiamato per avvertirmi che le ragazze sarebbero entrate nell’appartamento sul campo da golf quel giorno stesso. Non rivedevo Blaire dalla scenata con Nan e Grant. Non che non ci avessi provato: più volte avevo tentato di incrociarla al club, ma senza successo. Il giorno prima avevo chiesto di lei persino a Darla, ma mi aveva risposto che doveva aver sfruttato il giorno di riposo per andare da qualche parte con Bethy. Accostai davanti a casa di Bethy e notai all’istante la macchina di Woods. Che cazzo ci faceva lui lì? Spalancai la portiera, puntai verso l’ingresso e in quel momento esatto sentii la voce di Blaire. Mi girai e mi avvicinai all’auto di Woods, finché non lo vidi appoggiato contro il muro ad ascoltare Blaire con un sorriso. Un sorriso che gli avrei presto cancellato dalla faccia. — Se sei sicuro, allora grazie — stava dicendo Blaire a bassa voce, come se non volesse farsi sentire da nessuno. — Sicurissimo — rispose Woods prima che il suo sguardo incontrasse il mio. Il sorriso gli scomparve spontaneamente dalle labbra. Blaire voltò la testa e mi vide da sopra una spalla. Leggere lo stupore nei suoi occhi mi fece male: forse non avrei dovuto essere lì in quel momento. Non volevo esplodere e farla spaventare, però ero a tanto così da perdere completamente il controllo. Perché stavano parlando, loro due soli? Di cosa era sicurissimo, lui? — Rush? — disse Blaire, allontanandosi da Woods e venendo verso di me. — Che cosa ci fai qui? Woods soffocò una risata, poi scosse la testa e aprì la portiera della sua macchina. — È venuto per darti una mano, ne sono sicuro. Me ne vado, prima che decida di sfogarsi con me. Se ne stava andando. Bene. — Sei venuto qui per aiutarci con il trasloco? — mi chiese lei, osservandomi attentamente. — Sì, esatto — risposi. Sentii la tensione allentarsi quando il motore della BMW di Woods iniziò a rombare e lui si allontanò. — Come facevi a sapere del trasloco? — Mi ha chiamato Jace. Spostava i piedi, nervosa. Non sopportavo di essere io a farla stare così. — Volevo dare una mano, Blaire. Mi dispiace per Nan, l’altro giorno. Le ho parlato. Non farà più… — Tu non ti preoccupare. Non devi scusarti per lei. Non ce l’ho con te, capisco. No, non capiva. Glielo leggevo negli occhi che non capiva. La presi per mano. Avevo bisogno di toccarla in qualche modo. Quando le mie dita le sfiorarono il palmo, tremò, e i denti le morsero il labbro inferiore proprio come piaceva a me. — Blaire — le dissi per poi fermarmi, non sapendo cos’altro aggiungere. La verità sarebbe stata troppo. Quando sollevò gli occhi dalle nostre mani unite, dentro al suo sguardo mi sembrò di riconoscere qualcosa di simile al desiderio. Era proprio così? Stavo sognando oppure Blaire… Sul serio? Le feci scivolare un dito su per il palmo e le accarezzai l’interno del polso. Tremò di nuovo. E allora sì… Rispondeva al mio tocco. Mi avvicinai e le feci scorrere la mano su per il braccio. Mi aspettavo di essere respinto da un momento all’altro, di veder tornare la distanza fra noi. Quando arrivai abbastanza in alto da sfiorarle il lato del seno con il pollice, lei mi afferrò per l’altro braccio e rabbrividì. Cosa diavolo…? — Blaire — le sussurrai, spingendola all’indietro finché non ebbe la schiena contro il muro di mattoni della palazzina. Il mio petto era a pochi centimetri dal suo. Non mi respinse. Aveva le palpebre pesanti mentre mi fissava il petto, e il suo respiro era appesantito da una punta d’affanno. Il petto spuntava dalla scollatura del vestitino rosa chiaro, proprio lì sotto al mio naso; saliva e scendeva, come a volermi invitare. Un invito impossibile, però. C’era qualcosa che non andava. Le appoggiai l’altra mano sulla vita e lentamente gliela feci scivolare su per il corpo, finché il mio pollice non si infilò sotto il suo seno. Era nuda, aveva i capezzoli duri ed eretti contro la stoffa leggera dell’abito. Non potevo più fermarmi. Le coprii il seno con tutta la mano e lo palpai delicatamente. Blaire gemette, le ginocchia instabili. Lasciò ricadere la testa all’indietro contro il muro e chiuse gli occhi. La tenni stretta e infilai una gamba fra le sue per impedirle di scivolare a terra. Con l’altra mano le presi il seno sinistro, poi iniziai ad accarezzarle i capezzoli turgidi con i polpastrelli dei pollici. — Oddio, Rush… — gemette, riaprendo gli occhi e fissandomi da sotto le palpebre semichiuse. Cristo santo, quella era una specie di tortura in paradiso! Eppure non poteva essere un altro sogno, mi sembrava troppo reale. — Ti piace? — le chiesi, abbassando la testa per sussurrarle nell’orecchio. — Sì — ansimò lei, abbassandosi di più sul mio ginocchio. Quando il suo inguine premette contro la mia coscia, restò senza fiato e mi strinse forte le braccia. — Ahhhh — gridò. Sarei venuto nei pantaloni. Non ero mai stato così eccitato in tutta la mia vita! C’era qualcosa di diverso in lei, non era come le altre volte. Blaire era… era quasi disperata: da una parte sentivo che aveva paura, ma dall’altra il suo desiderio era più forte. — Blaire, dimmi tu come comportarmi. Faccio tutto quello che vuoi, lo giuro — le promisi baciandole la tenera pelle dietro l’orecchio. Che buon profumo aveva. Le palpai di nuovo il seno e la sentii emettere un altro gemito supplicante: la mia dolce Blaire era eccitata da impazzire. Ed era tutto vero, non me lo stavo sognando. Merda… — Blaire! — La voce squillante di Bethy le arrivò addosso come un secchio di acqua gelata. Si irrigidì, si rimise dritta sulla schiena togliendosi le mie mani di dosso, e infine si allontanò. Non riusciva nemmeno a guardarmi. — Io… Ehm… Mi dispiace. Non sapevo che… — balbettò lei prima di scuotere la testa e correre via. Rimasi a guardarla finché non fu sulla porta, dove Bethy le disse qualcosa con aria seria. Lei annuiva. Quando furono in casa, picchiai entrambe le mani contro la parete e mormorai una lunga serie di parolacce, tentando nel frattempo di tenere sotto controllo l’erezione che mi pulsava fra le gambe. Dopo pochi minuti la porta si riaprì e, quando mi girai, vidi Jace che se ne andava. Mi guardò dall’alto al basso e fece un fischio. — Caspita, bello. Sei veloce. Non gli risposi nemmeno. Non sapeva di cosa stava parlando. Blaire moriva dalla voglia che la toccassi: non mi aveva respinto, anzi, mi aveva quasi supplicato in silenzio. Una reazione assurda, ma la realtà era che lei mi voleva. E Dio solo sapeva quanto io volessi lei. Da sempre. — Muoviti, qui c’è un divano da spostare. Mi serve il tuo aiuto — sbraitò Jace, tenendo la porta aperta. BLAIRE Che problemi avevo? Entrai nella camera da letto di Bethy e mi chiusi dentro. Mi serviva un minuto per calmarmi. Un minuto prima ero stata pronta a supplicare Rush di scoparmi lì sul posto, contro il muro. Era tutta colpa di quel sogno del cavolo… Ok, forse il sogno della notte prima non era stato poi così spiacevole, ma di sicuro era stato molto, molto intenso. Solo ripensarci mi faceva stringere le gambe. Perché mi capitava? I sogni erotici erano un conto, ma in quel periodo si erano fatti talmente vividi e realistici che in pratica venivo nel sonno. Cose da pazzi. Mai, a Sumit, mi era capitato di essere così arrapata. Be’, a Sumit Rush non c’era. Affondai sul materasso a cui Bethy aveva tolto le coperte in vista del trasloco. Dovevo ricompormi, prima di rivederlo. Non era stato lui a provarci, ero stata io a trasformarmi in un’assetata di sesso nell’esatto istante in cui le sue dita mi avevano sfiorato la mano. Che vergogna… Guardarlo in faccia dopo quello che era appena successo sarebbe stato tremendo. La porta si aprì e Bethy comparve sulla soglia con un sorrisetto stampato in faccia. Perché ora stava ridendo? Prima, quando mi aveva beccata là fuori, si era incavolata di brutto. — Sono gli ormoni della gravidanza! Sono loro — annunciò dopo aver richiuso con cura la porta. — Che cosa? — feci, confusa. Mi guardò divertita. — Non hai letto gli opuscoli che il dottore ti ha lasciato? Sono sicura che in uno almeno se ne parla. Ero ancora confusa. — Ah, si parla del fatto che quando c’è Rush io non riesco a controllarmi? Bethy fece spallucce. — Sì, credo che nel tuo caso si tratti di lui. Però quando si è incinta si ha più voglia di farlo, Blaire. Lo so perché mio cugino faceva sempre battute su sua moglie, diceva che non riusciva a tenere il passo con lei eccetera eccetera. Più voglia di farlo? La gravidanza mi stava facendo venire più voglia di fare sesso? Ah, benissimo. — Probabilmente sarà un problema solo quando ci sarà Rush nei paraggi. Credo che sia lui l’unica persona da cui sei attratta e che vorresti in quel senso. Forse dovresti dirglielo, e godertela. Non ho dubbi che ti aiuterebbe volentieri… Invece non potevo dirglielo. Non ancora. Io non ero pronta e nemmeno lui. Nan si sarebbe infuriata e in quel momento non ero in grado di sopportarla. E poi Rush avrebbe scelto lei, altra cosa che non avrei potuto tollerare. — No, non c’è bisogno che lo sappia. Non ora. Mi passerà. Bethy fece spallucce. — Bene. Ho detto quello che dovevo dire. Se non vuoi dirglielo, allora non glielo dire. Però, quando ti partono i cinque minuti e decidi di mettergli fuori uso il cervello, potresti cortesemente evitare di farlo in pubblico?! — Con un sorrisetto furbo, aprì la porta e se ne andò. — Prima dovete avvolgere tutto in una trapunta! Altrimenti mi rovinate i cuscini! — gridò Bethy ai ragazzi. Sarei riuscita ad affrontarlo. Lui non sapeva nulla, avrei continuato a far finta di niente. E poi dovevo contribuire anche io al trasloco: la scelta migliore era andare in cucina e impacchettare tutto. Rush mi stava guardando. Ogni volta che rientrava in casa per prendere qualcosa, mi cercava con lo sguardo. Per colpa di quelle occhiate bollenti, io avevo fatto cadere una ciotola, rovesciato una scatola di cereali e ribaltato un cassetto di posate. Come facevo a concentrarmi per non fare l’idiota impacciata, se lui continuava a guardarmi così? A quel giro avrei lasciato perdere la cucina e sarei andata a imballare gli oggetti del bagno. Gli altri volevano spostare il tavolo e le sedie, ma io dovevo restare da sola, altrimenti avrei probabilmente rotto ogni singolo bicchiere che Bethy aveva. Entrai in bagno e, all’improvviso, un corpo mi spinse da dietro. Il calore che il petto di Rush emanava contro la mia schiena mi fece tremare. Merda… Non ce la potevo fare. La porta si richiuse e il suono familiare della chiave che girava nella toppa non fece che mandarmi il cuore a mille. Era chiaro che Rush voleva più di quello che c’era stato prima, all’aperto, e io ero così emozionata dal fatto di averlo vicino che non riuscivo a pensare lucidamente. La sua mano mi scostò i capelli dalla nuca e me li sistemò sopra una spalla. Quando il calore delle sue labbra raggiunse la mia pelle nuda, fui sul punto di gemere. Mi prese per i fianchi con entrambe le mani e mi tirò a sé con più forza. — Tu mi stai facendo impazzire, Blaire. Completamente — mi sussurrò nell’orecchio. Ci volle tutta la forza di volontà che avevo a disposizione per non cedere e abbandonargli la testa sul petto. — Cos’era quella cosa, prima? Mi hai fatto venire una voglia… Adesso non riesco più a pensare. Vedo solo te. Le sue mani mi salirono su per i fianchi e poi arrivarono al ventre. Quella posizione quasi protettiva, anche se lui non aveva idea di cosa stesse proteggendo, mi fece venire le lacrime agli occhi. Volevo che sapesse. Ma volevo anche che scegliesse me… e nostro figlio. Purtroppo sapevo che non era possibile: teneva troppo a sua sorella. Avevo una paura folle di ricevere io stessa quel rifiuto, ma non avrei mai tollerato che a essere rifiutato fosse il mio bambino. Feci per liberarmi dal suo abbraccio, ma le sue mani si racchiusero sul mio seno e la sua bocca prese a mordicchiarmi l’incavo del collo. Ossignore… Forse con il cuore non gli credevo, ma con il corpo… volevo tanto. Anche solo per quella volta. — Che cosa stai facendo? — gli chiesi, senza fiato. — Prego Dio che tu non mi dica di smettere. Sono al limite, Blaire. — Tacque, in attesa di una mia risposta. Vedendo che non arrivava, mi abbassò le spalline del vestito e mi lasciò a seno scoperto. In quei giorni me lo sentivo sempre gonfio, e anche molto sensibile. Il reggiseno non lo portavo quasi più; ormai era stretto, e non mi andava di spendere soldi per comprarne un altro se quella storia delle tettone giganti non sarebbe durata a lungo. — Wow… Sai che mi sembrano più grandi del solito? — disse massaggiandomele. Mi bagnai le mutandine all’istante e sentii di nuovo le ginocchia deboli. Mi aggrappai alla parete per non cadere. Niente mi aveva mai fatto sentire così bene… Dalla bocca mi uscì una specie di suono implorante, che nemmeno io ero in grado di definire. A un tratto Rush mi sollevò e mi fece girare. Mi mise seduta sul mobile del bagno e poi assalì la mia bocca con la sua, rimettendo subito le mani sul seno. Non sarei stata in grado di dire basta. Volevo che succedesse esattamente come volevo che i polmoni continuassero a riempirsi d’aria. Prima di quel momento non avevo mai avuto davvero bisogno del sesso: in quel momento, invece, ero fuori controllo. Il bacio di Rush era selvaggio e passionale tanto quanto lo ero io. Mi morse il labbro inferiore, invitò la mia lingua dentro la sua bocca e iniziò a succhiarla. Quando mi tirò i capezzoli, persi il controllo. Doveva togliersi subito la maglietta. La afferrai e la tirai finché lui non si ritrasse il minimo indispensabile per sfilarsela dalla testa, dopodiché la mia bocca venne divorata di nuovo. Con le mani faceva cose deliziose ai miei seni e, per quanto vicino mi stesse, non mi sembrava mai abbastanza. Sentii bussare alla porta. Rush mi tirò contro di sé finché il mio petto non fu schiacciato contro il suo. Rabbrividii e chiusi gli occhi per la scossa di piacere che provai. — Fuori dalle palle! — gridò a chiunque fosse là fuori. Una risata soffocata fu l’ultima cosa che sentimmo prima che Rush ricominciasse a baciarmi un centimetro dopo l’altro di pelle del collo, giù fino alla clavicola, finché non raggiunse il capezzolo destro. Il calore del suo respiro mi fece tremare: gli afferrai i capelli e gli avvicinai la testa in una supplica silenziosa. Lui fece prima un verso divertito, poi cominciò a succhiarmi con foga. L’eccitazione che sentivo in mezzo alle gambe prese letteralmente fuoco, o almeno così mi sembrò. Se non mi avesse trattenuta con tutto il suo corpo, sarei potuta schizzare su fino al soffitto. — Oddio! — gridai, fregandomene di essere sentita. Ne avevo bisogno e basta. La mia reazione rese Rush ancora più voglioso: si spostò sull’altro capezzolo e iniziò a concedergli lo stesso trattamento del primo, insinuandomi nel frattempo una mano tra le cosce. L’idea che fosse vicino a toccare quella zona bagnata e pulsante mi spaventava e mi eccitava allo stesso tempo. Si sarebbe accorto che c’era qualcosa di diverso oppure no? Avrebbe notato che anche lì sotto qualcosa era cambiato? Quando passò le dita sulla stoffa degli slip, smisi di pensarci. — Cazzo, sei bagnatissima — disse, eccitato, affondando la testa nell’incavo del mio collo. Respirava affannosamente, come un pazzo. — Bagnatissima — ripeté. Fece scivolare le dita sotto l’orlo degli slip e poi nella mia carne gonfia, facendomi scoppiare i fuochi d’artificio dentro il corpo. Mi aggrappai alle sue spalle. Gli stavo affondando le unghie nella pelle, me ne rendevo conto, ma non potevo farci niente. Mi stava toccando. Mi baciò dalla bocca fino all’orecchio, solleticandomi con il suo respiro concitato. — Che bella fica. È mia, Blaire, sarà sempre e solo mia. — Quelle frasi volgari e il suo dito che entrava e usciva frenetico mi portarono vicino al limite. — Rush, ti prego — lo implorai sostenendomi a lui con tutte le forze. — Ti prego cosa? Vuoi che te la baci? Perché sento che è calda e bagnata da morire, e devo sentire che sapore ha. — Mi sfilò gli slip e io sollevai il bacino per fargli più spazio. Tirò su anche il vestito e io le braccia, per farmelo togliere del tutto. — Appoggia la schiena alla parete — mi disse facendomi spostare un po’ più indietro. Prese le gambe e me le alzò finché, con i piedi sul ripiano, non fui completamente esposta al suo sguardo. — Cristo, è la cosa più eccitante che abbia mai visto in vita mia — sussurrò prima di mettersi in ginocchio e affondarmi la bocca tra le cosce. Il primo tocco della sua lingua mi mandò in estasi. — Oddio, Rush… Ti prego, sì, ahhhh — gridai tenendogli la testa con una mano per fargli capire di non fermarsi. Non poteva, era troppo bello. Sentirlo guizzare sopra il clitoride dava una sensazione incredibile, che però non mi bastava. Volevo di più. Mi esplorò di nuovo con il dito e mi tenne aperta per potermi leccare e baciare anche dentro. — Mia. È mia. Non puoi più lasciarmi, Blaire. Io ho bisogno di tutto questo. Cazzo, se solo sapessi che odore perfetto hai… Niente sarà mai così perfetto per me — mormorò mentre mi assaggiava. Ero pronta a dire di sì a qualsiasi cosa. — Devo entrarti dentro — disse, sollevando gli occhi sui miei. Annuii, incapace di fare altro. — Non ho il preservativo. — Tacque e strinse forte le palpebre. — Lo tiro fuori. A quel punto non contava più, ma non potevo dirglielo. Annuii una seconda volta. In un attimo Rush era in piedi con i jeans abbassati. Mi prese per i fianchi e mi tirò in avanti, verso il bordo del ripiano, finché non arrivò a sfiorarmi con la sua erezione. L’incertezza nei suoi occhi era inequivocabile, anche se a parole non mi stava chiedendo niente. Glielo presi con la mano e me lo feci scivolare dentro. — Oh… cazzo — gemette mentre spingeva fino a riempirmi tutta. Ero piena di Rush. Gli buttai le braccia al collo e lo strinsi. Per un secondo almeno dovevo tenerlo fermo, così. Non si trattava più dei miei ormoni impazziti: avere Rush dentro di me era come sentirsi finalmente a casa. Completa. Mi venne da piangere… Prima che potessi mettere in ridicolo me stessa e confondere lui, alzai la testa e gli sussurrai all’orecchio: — Scopami. Fu come premere il grilletto di una pistola carica. Rush mi strinse forte i fianchi ed emise un lamento profondo, di gola, prima di dare il via a un energico andirivieni dentro al mio corpo. L’ascesa lungo la spirale del piacere che sapevo avrei raggiunto ripartì, e a quel punto anch’io cominciai a muovermi. Mi godetti quel momento di resa, di abbandono totale sul suo viso, mentre entrambi andavamo sempre più vicini all’orgasmo di cui avevamo bisogno. — Io ti amo, Blaire. Ti amo così tanto da far male — ansimò, abbassando la testa per succhiarmi un capezzolo. Il mio corpo esplose, gridai il suo nome. Lui mi guardò negli occhi, fece per uscire, ma io gli strinsi le gambe intorno alla vita, con tutte le mie forze. Non volevo che se ne andasse. Capì e pronunciò il mio nome in un sussurro, poi gettò la testa all’indietro e si svuotò completamente dentro di me. RUSH Blaire mi spinse via e saltò giù dal mobile prima ancora che potessi riprendermi da quell’orgasmo. — Aspetta, devo pulirti — le dissi. Davvero, volevo solo pulirla. Mi piaceva farlo. Anzi no, mi faceva proprio impazzire. Sapere che ero stato lì dentro e che mi stavo prendendo cura di lei mi dava uno strano effetto. — Non c’è bisogno che mi pulisci, va bene così — rispose lei recuperando il vestito e rimettendoselo in fretta, evitando il mio sguardo. Merda. Allora avevo capito male? Pensavo che anche lei prima lo volesse. No: ne ero sicuro. Moriva dalla voglia. — Blaire, guardami, ti prego. Si fermò, inspirò profondamente e sollevò gli occhi sui miei. La tristezza che riconoscevo nel suo sguardo era mista ad altro. Imbarazzo? Sicuramente no. Mi avvicinai e le presi il viso fra le mani. — Cosa c’è che non va? Ho fatto qualcosa che non dovevo fare? Perché mi stavo impegnando per non perdere il controllo. Mi stavo impegnando da morire per fare quello che volevi… — No. Non… non hai fatto niente di male. — Riabbassò lo sguardo. — Ho soltanto bisogno di pensare. Mi serve spazio. Non volevo… Non ero… Non avremmo dovuto farlo, ecco. Una pugnalata al petto mi avrebbe fatto meno male. Avevo voglia di prenderla fra le braccia, fare il troglodita e gridare che lei era mia e non poteva lasciarmi. Ma così l’avrei persa. Non potevo commettere altri errori, dovevo lasciarla fare a modo suo. Abbandonai le mani lungo i fianchi e feci un passo indietro, lasciandola libera di andarsene. Blaire alzò la testa e mi guardò. — Mi dispiace — sussurrò, poi aprì la porta e corse via. Mi aveva appena sconvolto la vita con una serie di scene ipereccitanti e le dispiaceva. Fantastico. Quando finalmente trovai il coraggio di uscire dal bagno, Blaire non c’era più. Jace sogghignava e Bethy si inventò delle scuse per giustificare la sua assenza. Non volevo più restare lì. Dopo essermi assicurato che tutte le cose pesanti fossero state spostate e che la valigia e lo scatolone di Blaire fossero a posto, me ne andai. Non potevo rimanere, con quei due che mi guardavano. Ci avevano sentiti, Blaire aveva fatto un casino tremendo. Non me ne andavo per vergogna: ero soltanto stufo di essere osservato nell’attesa che fornissi una spiegazione. Avevo dato a Blaire un paio di giorni per venirmi a cercare. Lei non l’aveva fatto e in fondo non ne ero rimasto stupito, anche se mi ero impegnato per concederle tutto lo spazio che potessi sopportare. Non chiamai nessuno per andare a giocare a golf. Non volevo nessuno attorno, nel momento in cui Blaire si fosse fatta rivedere. Dovevamo parlare. Non ci volevano distrazioni né pretesti che avrebbero potuto aiutarla a fuggire. Mi era sembrato un piano solido, ma dopo sei buche e nessuna ragazza delle bibite in vista cominciavo a nutrire dei dubbi. Proprio mentre stavo per raggiungere la buca successiva, sentii il rumore del cart. Mi fermai, mi voltai. Il sangue che aveva iniziato a pomparmi nelle vene all’idea di rivedere Blaire, sola, si trasformò in ghiaccio quando mi accorsi che si trattava della bionda che qualche volta faceva da assistente a Bethy. Merda! Scossi la testa e feci segno alla ragazza di proseguire. Non volevo prendere la mia birra da quella. Mi fece un sorriso raggiante e passò alla buca seguente. — Fa caldo qui. Sicuro che non vuoi niente? — mi chiese a un tratto la voce di Meg. Mi girai e la vidi che mi veniva incontro con indosso una gonnellina da tennis e una polo entrambe bianche. Fino a una decina di anni prima, aveva giocato a tennis ad alti livelli. — Ragazza del cart sbagliata — risposi aspettando che mi raggiungesse. — Ah, compri da una soltanto? — Sì. Meg fece una faccia perplessa, poi annuì. — Capisco. Ce n’è una che ti piace… “Che ti piace” non andava neanche lontanamente vicino alla verità. Mi misi la borsa da golf in spalla e procedetti verso la buca successiva. Non avrei risposto a quel commento. — Ed è anche una nota dolente… — mi stuzzicò Meg, infastidendomi. — O magari non sono affari tuoi. Fece un lungo fischio. — Uuuh… Allora è una cosa seria. Mi fermai e la guardai negli occhi. Il fatto di essere stata la prima donna con cui ero andato a letto non le dava il diritto di credere che fossimo amici o che tra di noi ci fosse chissà quale legame. Mi stava facendo incazzare. — Lascia perdere — la avvertii. Meg, rimasta a bocca aperta, si mise le mani sui fianchi. — Oh mio Dio…. Rush Finlay si è innamorato. Porca vacca! Non pensavo che sarei mai stata testimone di un evento del genere! — Sono dieci anni che non ci vediamo, Meg. Come cavolo potresti sapere anche solo qualcosa di me? — Il tono scocciato della mia voce non le fece battere ciglio. — Stammi a sentire, Finlay. Anche se non ci vediamo da dieci anni, non significa che non ti abbia mai incrociato per caso o che non abbia sentito parlare di te. Sono tornata in città diverse volte, ma tu eri sempre impegnato a dare feste nella tua reggia e a scoparti i corpi perfetti di tutte le modelle che ti passavano sotto tiro. Non vedevo il motivo di tornare nella tua vita. Però sì, ti ho rivisto, e come il resto delle persone di questo paese so che sei un ricco, affascinante playboy che può permettersi di scegliere solo il meglio. Che idea superficiale. Non mi piaceva il ritratto che aveva fatto di me. Anche Blaire mi vedeva in quel modo? Allora non solo non riusciva a fidarsi del fatto che io potessi scegliere lei e proteggerla, ma probabilmente pensava anche che l’avrei dimenticata con la prima che passava. No, doveva sapere che non era così. — È splendida. No… È perfetta. Tutto in lei è tremendamente perfetto — dichiarai ad alta voce, poi posai di nuovo lo sguardo su Meg. — Non solo la amo: le appartengo. Completamente. Per lei farei qualsiasi cosa. — E da parte sua non è così? — mi chiese. — L’ho ferita. Non nel modo che immagini tu, però. È difficile da spiegare…. C’è così tanto dolore in quello che è successo che non so se riuscirò mai a riaverla. — È una delle ragazze del cart? Ci teneva a insistere su quel punto. — Sì — risposi chiedendomi se fosse il caso di dirle chi fosse Blaire esattamente. Dichiararlo ad alta voce avrebbe potuto aiutarmi a dare un senso a quella cosa. — Lei e Nan sono figlie dello stesso padre. — Mi uscì come non avrei voluto dirlo. — Merda… — mormorò Meg. — Ti prego, dimmi che non c’entra niente con la tua perfida sorellina. Nan non aveva molti fan. Sentire che era stata definita “perfida” non mi fece né caldo né freddo: in fondo se l’era cercata lei. — No, non le assomiglia affatto. Meg restò un istante in silenzio e io mi chiesi se la conversazione si sarebbe interrotta lì. Esitò, strofinò un piede sull’erba e si girò verso la clubhouse. — Perché non pranziamo insieme e mi racconti di questa situazione intricata? Magari riesco a infonderti un po’ di saggezza, o almeno a darti un consiglio da donna. Mi servivano tutti i consigli possibili. Nella mia vita non c’erano donne a cui potermi rivolgere per ricevere pareri femminili. — Sì. Buona idea. Tu mi dai consigli validi e io ti offro il pranzo. BLAIRE Era il secondo giorno che mi alzavo senza vomitare. Prima di attaccare il turno del pranzo avevo persino chiesto a Bethy di mettermi alla prova e cucinare la pancetta, convinta che, sopportata quella, niente avrebbe più potuto fermarmi. Mi si era rivoltato lo stomaco, mi era venuta la nausea, ma alla fine non avevo rimesso. Stavo migliorando. Chiamai Woods e gli assicurai che non ci sarebbero stati problemi. Lui accettò, perché al club erano a corto di personale e c’era bisogno di me. Quando entrai in cucina mezz’ora prima di iniziare il turno, trovai Jimmy in piedi che mi sorrideva. — Eccola! Sono felice che ti sia passata la gastrite. Mamma mia… Cosa hai perso, cinque chili? Per quanto tempo sei stata male? — Woods aveva raccontato a Jimmy e a tutti quelli che si erano interessati a me che avevo un virus e mi stavo riprendendo. Avevo fatto soltanto due turni sul campo e non avevo mai incontrato nessuno di quelli che lavoravano in cucina. — Eh sì, forse ho perso qualche chilo. Però sono sicura che presto li rimetterò su tutti — risposi abbracciandolo. — Spero proprio, altrimenti ti ingozzerò di ciambelle finché non riuscirò a prenderti la vita tra le mani senza toccarmi le punte delle dita. Sarebbe successo prima di quanto potesse immaginare. — Una ciambella in effetti non mi dispiacerebbe! — Affare fatto. Dopo il lavoro. Tu, io e una scatola da dodici, di cui metà gusto cioccolato — annunciò Jimmy porgendomi il grembiule. — Ci sto. Potresti venire a vedere il mio nuovo appartamento. Adesso vivo con Bethy nelle palazzine qui, sul campo da golf. Jimmy fece un’espressione incredula. — Caspita! Che lusso… Mi allacciai il grembiule sorridendo e infilai penna e blocchetto delle ordinazioni nella tasca anteriore. — Faccio io il primo giro, se tu prepari le insalate e il tè freddo. Jimmy mi fece l’occhiolino. — Aggiudicato. Uscii nel salone e vidi che, per fortuna, gli unici ospiti erano due signori anziani che avevo già visto ma di cui non ricordavo i nomi. Presi le ordinazioni e versai a entrambi una tazza di caffè prima di tornare in cucina a vedere se erano pronte le insalate. Jimmy me ne aveva preparate già due e, quando entrai, lo trovai in piedi pronto a porgermele. — Ecco qui, bomba sexy. — Grazie, meraviglia — gli risposi correndo a portare le insalate ai signori in sala e a raccogliere le ordinazioni dei nuovi arrivati: un’acqua frizzante con ghiaccio e una naturale con limone. Nessuno, in quel posto, si accontentava mai di un semplice “bicchiere d’acqua”. Quando arrivai in cucina, incrociai Jimmy che usciva. — Mi sono appena preso le due donne che sembrano uscite da un campo da tennis. Ah, credo di aver visto Hillary… Non è lei la hostess, oggi? Comunque l’ho vista parlare con altri ospiti, quindi dovrebbe esserci un tavolo che aspetta di essere servito. Mi salutò e filò via. Preparai in fretta i bicchieri d’acqua, misi sul vassoio i due piatti di zuppa di granchio ordinati dai signori e tornai fuori. L’espressione scioccata di Jimmy mi colse di sorpresa. — Lo porto io — mi disse togliendomi il vassoio dalle mani. — Ma non sai neanche di chi è! Sono capace di trasportare un vassoio, Jimmy — risposi, alzando gli occhi al cielo. Non sapeva che ero incinta e si comportava lo stesso da sciocco… Poi lo vidi. O meglio, li vidi. Jimmy non stava facendo lo sciocco: mi stava proteggendo. Rush teneva la testa china in avanti mentre discuteva di qualcosa che dava al suo viso un’espressione assorta. La donna aveva dei lunghi capelli scuri, ed era stupenda. Zigomi alti e perfetti, lunghe ciglia nere che mettevano in risalto gli occhi castani. Avrei vomitato. Il vassoio mi tremò fra le mani e Jimmy corse in mio aiuto. Lo lasciai fare, altrimenti l’avrei fatto cadere. Rush non era mio. Ma io portavo in pancia suo figlio. E lui non lo sapeva. Però avevamo fatto l’amore, anzi no, mi aveva scopata, nel bagno di Bethy appena tre giorni prima. Faceva male, molto male. Deglutii, ma mi sentivo la gola semichiusa. Jimmy mi stava dicendo qualcosa, ma io non riuscivo a sentirlo. Ero incapace di qualunque cosa che non fosse fissare quei due al tavolo. Lui si stava sporgendo verso di lei come se non volesse far sentire a nessuno le sue parole. A un certo punto lo sguardo di lei si spostò da quello di Rush e finì dritto sul mio. La odiavo. Era bellissima, raffinata, tutto quello che non ero io. Era una donna. Io, soltanto una ragazzina. Una ragazzina patetica. Che doveva assolutamente levarsi dalle scatole e piantarla di far scenate – per quanto mute, perché li fissavo pietrificata. La donna mi studiò, e l’accenno di una ruga le increspò la fronte. Non mi andava che chiedesse a Rush di me e mi indicasse. Mi girai e scappai via. Non appena fui lontana dagli sguardi degli ospiti, mi misi a correre, ma andai a sbattere contro il solido petto di Woods. — Ehi, tesoro. Ma dove corri? Ancora non ce la fai a sopportare gli odori? — mi chiese mettendomi un dito sotto il mento e alzandomi il viso per guardarmi in faccia. Feci no con la testa e mi scappò una lacrima. Non avrei pianto per la scena che avevo visto, maledizione. Me l’ero cercata io. Ero stata io a respingerlo, a correre via dopo quei momenti indimenticabili in bagno. Che cosa mi aspettavo? Che passasse il resto dei suoi giorni a struggersi per me? Improbabile. — Scusami, Woods. Dammi un minuto e torno. Te lo prometto. Mi serve soltanto un momento per riprendermi. Annuì e mi carezzò il braccio in segno di conforto. — C’è Rush, di là? — chiese, quasi esitando. — Sì — riuscii a malapena a rispondere mentre mi sforzavo di scacciare le lacrime che si stavano accumulando dentro ai miei occhi. Feci un respiro profondo e battei le palpebre. Non avrei ceduto, sarei riuscita a controllare le mie emozioni. — È con qualcuno? — si informò. Annuii. Non volevo dirlo a parole. — Vuoi andare nel mio ufficio a rilassarti un attimo? Ad aspettare che se ne vadano? Sì. Volevo nascondermi da quello spettacolo, ma non potevo. Dovevo imparare a conviverci. Rush sarebbe rimasto a Rosemary per un altro mese soltanto, dovevo farmene una ragione. — Posso farcela, Woods. Non me lo aspettavo, tutto qui. Lui distolse lo sguardo dal mio e all’improvviso si fece severo. — Vai via, tu. Non sei quello di cui ha bisogno, in questo momento — dichiarò, rabbioso. — Toglile le mani di dosso. — Era Rush, comparso alle mie spalle. Mi allontanai da Woods e tenni lo sguardo basso. Non volevo vedere Rush e non volevo nemmeno vedere che lui e Woods si prendevano a pugni. Woods sembrava pronto a difendere il mio onore, Rush… non ne avevo idea, perché non avevo la minima intenzione di guardarlo. — Sto bene, Woods. Grazie. Adesso torno al lavoro — mormorai cercando di tornare in cucina. — Blaire, fermati. Parliamo — disse Rush. — Hai già fatto abbastanza. Ma lasciala in pace, no? Non le servono le tue scenate, Rush, non adesso! — gli abbaiò contro Woods. — Tu non sai niente — rispose lui. Woods gli si avvicinò di un passo. I casi erano due: o gli avrebbe fatto capire chiaramente che sapeva qualcosa, finendo per confessargli che ero incinta, oppure gli avrebbe tirato un cazzotto. Dovevo intervenire e risistemare le cose. Mi girai e mi misi davanti a Rush, con gli occhi rivolti verso Woods. — Va tutto bene. Lasciami un minuto sola con lui. Non ci sono problemi, davvero. Mi sono semplicemente fatta un po’ prendere dalle emozioni, tutto qui — lo rassicurai. La mandibola di Woods si muoveva avanti e indietro, segno che stava digrignando i denti. Restare zitto doveva richiedergli uno sforzo immane. Alla fine annuì e se ne andò, furioso. Era il momento di affrontare Rush. — Blaire — mi disse con calma, prendendomi per mano. — Guardami, ti prego. Potevo farlo. Dovevo farlo. Mi girai lasciando la mia mano nella sua. Avrei dovuto strapparla via, ma non ci riuscivo. L’avevo visto con una donna che probabilmente gli teneva caldo il letto di notte mentre io continuavo a respingerlo. Lo stavo perdendo. E lo stava perdendo anche suo figlio. Ma in fondo… l’avevamo mai avuto veramente? Sollevai lo sguardo e incontrai il suo, preoccupato. Ce la metteva sempre tutta per non farmi restar male, ed era una cosa di lui che mi piaceva molto. — Va tutto bene. Ho esagerato. Mi hai semplicemente… stupita, diciamo. Avrei dovuto immaginarlo che a quest’ora avresti già voltato pagina. È che… — Piantala — mi interruppe, tirandomi a sé. — Non ho voltato un bel niente. Hai creduto di vedere una cosa che non esiste. Meg è solo una vecchia amica, nient’altro. Lei per me non significa niente. Io sono venuto qui a cercare te! Avevo bisogno di vederti e quindi mi sono fatto una partita a golf. Invece non c’eri, ho incontrato Meg per caso e lei mi ha proposto di mangiare un boccone insieme. Fine. Non avevo idea che stessi lavorando, altrimenti non sarei mai entrato qui. Anche se non stavo facendo niente di male. Io ti amo, Blaire. Non sto con nessun’altra. Non succederà mai. Volevo credergli. Per quanto egoista e sbagliato fosse credere che lui mi amasse abbastanza da non avere bisogno di altre persone. Anche se lo stavo respingendo. Anche se gli stavo mentendo. Io, proprio io che odiavo i bugiardi. Anche lui mi avrebbe odiata, se non avessi confessato in fretta. Non volevo essere odiata da lui, ma non potevo nemmeno fidarmi. Mentire migliorava le cose? Lo faceva mai? Come avrebbe potuto lui fidarsi di me? — Sono incinta. — Le parole mi uscirono di bocca prima che potessi rendermi conto di quello che stavo dicendo. Mi coprii la bocca, scioccata, e a Rush uscirono gli occhi dalle orbite. Poi mi girai e corsi via come una pazza. RUSH Avevo i piedi incollati al pavimento. Anche se Blaire stava correndo via, lontano da me, non riuscivo a muovermi. Me l’ero sognato? Era stata un’allucinazione disperata? Ero davvero a quei livelli? — Se non le corri dietro tu, lo faccio io. — La voce di Woods fece irruzione tra i miei pensieri e mi risvegliò dallo shock. — Che cosa? — chiesi, guardandolo storto. Lo odiavo. All’improvviso mi ritrovai a immaginare come sarebbe stato spaccargli il naso. — Ho detto che, se non le corri dietro tu, lo faccio io. In questo momento le serve qualcuno. E per quanto non vorrei che quel qualcuno fossi tu, perché secondo me non te la meriti, so che è di te che ha bisogno. Lui sapeva che lei era incinta? Cominciai a fumare dalle narici. Blaire aveva detto a Woods che era incinta e lui non era venuto a dirmelo?! — Ero lì il primo mattino in cui ha tentato di lavorare, ma l’odore della pancetta l’ha fatta correre in bagno a vomitare. Quindi sì, lo sapevo già. Adesso levati quella faccia da maniaco geloso e valle dietro. — Il tono di voce di Woods era carico di disgusto. — È stata male? — Io non ne avevo saputo niente. Sentii una fitta al petto. Era stata male, da sola. L’avevo abbandonata mentre soffriva. Non mi entrava più aria nei polmoni. — Sì, testa di cazzo, è stata male! Capita di avere la nausea, nelle sue condizioni. Ora però sta già meglio. Ti do ancora un secondo, poi giuro che corro da lei. Scegli tu — mi avvertì Woods. Partii a razzo. Fu soltanto quando uscii dal retro dell’edificio e guardai su per la collina che la vidi. Stava ancora correndo, verso le palazzine. Tornava a casa. Le corsi dietro. Era incinta: era giusto correre così? E se avesse fatto male al bambino? Doveva rallentare. — Blaire! Fermati, aspetta — le gridai quando fui abbastanza vicino. Lei mi ascoltò e, quando la raggiunsi, finalmente si fermò. — Scusami — singhiozzò, con il viso fra le mani. — Scusami di cosa? — chiesi, avvicinandomi e tirandomela contro il petto. Non avevo più paura di spaventarla. Non l’avrei più lasciata andare da nessuna parte. — Di questo. Di tutto. Del fatto che sono incinta — sussurrò, rigida fra le mie braccia. Le dispiaceva… No. Non doveva dispiacerle per una cosa simile. — Non hai niente di cui scusarti, Blaire. Non azzardarti a ripeterlo, hai capito? Si appoggiò a me e sentii svanire parte della sua tensione. — Però non te l’ho detto. No, non me ne aveva parlato subito, ma la capivo. Era uno schifo, ma capivo. — Vorrei che lo avessi fatto. Non ti avrei mai lasciata sola con le nausee e tutto il resto. Mi sarei preso cura di te… Ma lo farò ora, rimedierò. Te lo giuro. Blaire scosse la testa e mi spinse via. — No. Non posso. Non possiamo. C’è un motivo se non te l’ho detto. Noi due… dobbiamo parlare. Io mi sarei preso cura di lei e lei non mi avrebbe lasciato. Ma se aveva bisogno di parlare, avremmo parlato. — Ok. Andiamo a casa tua, tanto siamo qui vicino. Blaire annuì e si incamminò verso l’appartamento. Jace aveva detto che Woods la lasciava stare lì con Bethy per la stessa cifra che lei pagava prima, nell’altra casa; pensava che lo stesse facendo per qualche detrazione fiscale o cose simili. Ora capivo… I soldi non c’entravano: Woods lo stava facendo per Blaire. Si era preoccupato per lei. Da quel momento non avrebbe più dovuto farlo, perché avrei pensato io a ciò che era mio. Woods non mi serviva. Gli avrei parlato più tardi, ma avrei pagato io la differenza per la casa. Non spettava a lui occuparsi di Blaire, lei era mia. La vidi chinarsi e prendere la chiave da sotto lo zerbino. Il peggior nascondiglio di sempre per una chiave… Le avrei fatto notare anche quello, più tardi. Non sarei riuscito a dormire la notte sapendo che teneva la chiave dell’ingresso alla portata di tutti. Aprì la porta e mi fece entrare per primo. — Prego. Le passai accanto, la presi per mano. Se anche avesse avuto voglia di elencarmi tutti i motivi per cui non potevamo stare insieme, mentre lo faceva io avrei dovuto toccarla. Avevo bisogno di sapere che stava bene. Il contatto con la sua pelle mi tranquillizzava. Chiuse la porta e lasciò che la tirassi verso il divano. Mi sedetti e me la misi accanto. Avrei voluto tenermela sulle ginocchia, ma il suo sguardo nervoso e preoccupato mi frenava. Aveva bisogno di parlare e io ero pronto ad ascoltarla. — Avrei dovuto dirtelo prima. Scusa se non l’ho fatto. Però l’intenzione c’era: forse non di comunicartelo a bruciapelo, come poco fa, ma c’era. Volevo un po’ di tempo per decidere come comportarmi e cosa fare nella vita. Volevo mettere da parte dei soldi, andarmene e ricominciare da capo. Per il bambino. Te l’avrei detto, Rush. Me l’avrebbe detto subito prima di andarsene? Mi prese il panico. Non poteva pensare certe cose! — Tu non puoi lasciarmi — dissi con tutta la calma di cui ero capace. Doveva rendersene conto. Blaire abbassò lo sguardo sulle mani. Le nostre mani, con le dita intrecciate. Era l’unica cosa che in quel momento mi aiutava a mantenere la calma. — Rush — disse con un filo di voce. — Io non voglio che mio figlio debba mai sentirsi indesiderato. La tua famiglia… — si interruppe e impallidì. — La mia famiglia accetterà quello che io le dirò di accettare. Se non lo faranno, prenderò te e il bambino e li lasceremo soli a pagare tutte le bollette. Tu vieni prima di loro, Blaire. Lei fece no con la testa e, alzandosi, liberò la mano dalla mia. — No. Adesso dici così, ma so che non è vero. Non era vero un mese fa e non è vero oggi. Sceglierai sempre loro, anziché me. O per lo meno sceglierai sempre Nan. Per me va bene, lo capisco: soltanto non riesco a conviverci. Non posso restare qui. Il fatto di non averle detto di suo padre mi avrebbe perseguitato per il resto della vita. Il mio bisogno di proteggere Nan aveva mandato a puttane l’unica cosa importante che c’era nella mia vita. Mi alzai e la misi alle strette finché non fu con la schiena contro il muro. — Nessuno. Viene. Prima. Di. Te. Gli occhi le brillarono di lacrime non versate. Scosse di nuovo la testa. Quanto odiavo il fatto che non riuscisse a credermi! — Ti amo. Quando sei entrata nella mia vita, io non sapevo chi fossi. Nan era la mia priorità. Ma tu hai cambiato le cose, hai cambiato tutto. Te l’avrei detto, ma mia madre è tornata a casa troppo presto. Avevo talmente paura di perderti che alla fine è successo veramente. Niente ti porterà più via da me: passerò il resto della vita a dimostrarti che ti amo. Tu e questo bambino — dissi toccandole il ventre piatto e facendola tremare — venite per primi. — Voglio crederti — mi disse fra i singhiozzi. — Dammi la possibilità di dimostrartelo. Se mi lasci, non ci posso neanche provare. Devi stare con me, Blaire, devi darmi una chance. Una lacrima riuscì a liberarsi e le rotolò giù per la guancia. — Diventerò una cicciona enorme. I bambini piangono tutta la notte e costano un sacco di soldi. Non sarò più la stessa, noi non saremo più gli stessi. Te ne pentirai. Proprio non capiva. Non importava quante volte glielo dicessi: non mi credeva e basta. Nella sua vita aveva perso tutte le persone che aveva amato e di cui si era fidata. Perché avrebbe dovuto credermi? L’unico uomo della sua vita l’aveva abbandonata. Tradita. Non si aspettava nulla di diverso. — Questo bambino ti ha riportata da me. Fa parte di noi e non me ne pentirò mai. Potrai anche diventare grossa come una balena, ma io ti amerò lo stesso. Un sorriso le fece capolino sulle labbra. — Meglio evitare, però. Feci spallucce. — Balena o no, tu sei mia. Il sorriso si smorzò subito. — Tua sorella. Non sopporterà questa notizia, me, il bambino. Avrei pensato io a Nan. Se non se ne fosse fatta una ragione, avrei preso Blaire e l’avrei portata via, lontano. Blaire ne aveva passate già troppe, non avrei permesso a nessuno di farle del male. — Fidati: io ti proteggerò e ti metterò al primo posto. Blaire chiuse gli occhi e annuì. Sentii il petto gonfiarsi per la voglia di gridare al mondo che quella donna era mia, invece la sollevai di peso. — Dov’è camera tua? — le chiesi. — L’ultima a sinistra. Aprii la porta, tenendo lei in braccio. Non volevo fare l’amore, avevo soltanto bisogno di tenermela stretta per un po’. Però, appena entrai, restai di sasso. Tutto sommato la camera da letto era abbastanza grande, ma vedere una trapunta per terra con un unico cuscino sopra fu un colpo. Quando le avevo aiutate a traslocare, sapevo che Blaire non possedeva un letto e che avrebbe dormito sul divano, ma ero stato talmente preso dall’idea di riprendermela che avevo completamente trascurato un suo bisogno primario. — Il letto ancora non ce l’ho. Avrei potuto dormire sul divano, ma ho preferito una camera tutta mia — mormorò cercando di scendere dalle mie braccia. Non l’avrei lasciata andare, me la tenevo stretta stretta contro il petto. La sera prima, mentre io avevo dormito nel mio matrimoniale enorme, lei era stata sul pavimento… ’Fanculo. — Stai tremando, Rush. Mettimi giù — mi disse tirandomi per un braccio. Senza obbedirle, mi girai e tornai in salotto, poi uscii di casa. Lasciai sbattere la porta dietro di me, la chiusi a chiave e me la infilai in tasca. Col cavolo che l’avrei infilata sotto quello zerbino. — Che cosa stai facendo? — mi chiese. Non avevo lì la macchina. Poco male, mi sarei portato Blaire in braccio giù per la collina fino alla Rover. — Adesso andiamo a comprare un letto. Un letto con i controcoglioni. Uno di quelli che costano un botto di soldi! — ringhiai. Ero furioso per essermi dimenticato un particolare così importante. Non c’era da meravigliarsi che fosse intervenuto Woods a prendersi cura di lei. Io me l’ero scordato! Ma non sarebbe più successo, perché d’ora in poi mi sarei sempre assicurato che Blaire avesse tutto. — Ma non mi serve un letto costoso. Ne comprerò uno presto, vedrai. — Esatto, prestissimo. Stasera — risposi chinando la testa per darle un bacetto sul naso. — Ci penso io, devo farlo. Devo sapere che dormi nel letto più bello che esista sulla faccia della terra. Ok? Sulle labbra le spuntò un sorrisetto timido. — Ok. BLAIRE A me sarebbe bastato un lettino singolo. Rush invece insisteva per prendere un matrimoniale, due comodini e un cassettone con un magnifico specchio. Avevo commesso l’errore di soffermarmi troppo a lungo su una bella trapunta color lavanda con copricuscini abbinati, così, prima che potessi impedirglielo, lui aveva già comprato tutto il set completo di lenzuola e cuscini nuovi. Protestai con tutte le forze, ma lui finse di non sentirmi. Mi fece semplicemente l’occhiolino e continuò a dare ordini al commesso. Quando finimmo la cena, altra cosa che non avrei neanche lontanamente potuto rifiutare, i mobili erano già pronti per la consegna. Tornati a casa, trovammo Bethy sulla porta ad aspettarci: era entusiasta. — Grazie per avermi lasciato fare, ne avevo bisogno. Forse tu non te ne rendi conto, ma mi ha fatto un gran bene — disse Rush prima che aprissi la portiera per scendere. Lo guardai. — Avevi bisogno di comprarmi un’intera camera da letto completa di biancheria di lusso? — chiesi, perplessa. — Sì, proprio così. Non capivo, ma annuii. Se fare quegli acquisti l’aveva fatto sentire meglio, anch’io ero contenta. Ancora non riuscivo a credere che fosse tutto mio! Mi sarei sentita una principessa, in una camera così. — Be’, allora grazie. Non mi aspettavo più di un materasso… Non ero pronta a essere viziata! Rush si sporse verso di me e mi diede un bacio accanto all’orecchio. — Questo non è minimamente vicino alla mia definizione di “viziata”. Ma ti farò vedere presto che cosa intendo! Provai un brivido e strinsi la maniglia della portiera. Non gli avrei permesso di comprarmi nient’altro. Dovevo andarmene, ma i suoi baci tutto attorno al mio orecchio mi impedivano di concentrarmi. — Andiamo a vedere com’è venuta la stanza — propose, staccandosi. Spazio. Mi serviva un po’ di spazio. Se avesse continuato, sarei stata pronta a saltargli addosso da un momento all’altro. Molto male, Blaire. Autocontrollo, mi ci voleva autocontrollo. Gli ormoni della gravidanza erano sempre in agguato. Rush aveva già fatto di corsa il giro della Rover quando io aprii la portiera per scendere. Non feci in tempo a provvedere da me, perché lui mi prese le mani e mi aiutò, come se non fossi in grado da sola. — So scendere anche per conto mio, sai? — gli dissi. Sorrise. — Sì, ma che divertimento sarebbe? Risi, feci finta di cacciarlo via e andai da sola verso Bethy, che ci stava guardando neanche fossimo una delle sue telenovele preferite. — Ehi! Camera tua sembra pronta per finire sulla copertina di una rivista d’arredamento! — annunciò, raggiante come una bambina in un negozio di caramelle. — Stanotte posso dormire con te in quel letto da favola? Il materasso è incredibile! — No. Ha bisogno di riposare. Niente amiche nel letto! — dichiarò Rush arrivando alle mie spalle e cingendomi la vita con fare protettivo. Bethy abbassò lo sguardo sulla mia pancia e poi lo riportò sul viso di Rush. — Allora lo sai — affermò, con aria compiaciuta. — Sì, lo so — rispose lui. Lo sentii irrigidirsi. Provai una sensazione orribile. Ecco un’altra persona a cui avevo parlato della mia gravidanza prima di informare lui, il padre. Aveva ogni diritto di sentirsi offeso. Ero una bugiarda. Se ne sarebbe reso conto e mi avrebbe piantata? — Bene — concluse Bethy mentre io mi liberavo dalla stretta per entrare in casa. — Perché non vai a controllare che abbiano messo tutto dove vuoi tu? — mi propose Rush. — Buona idea. — Lo lasciai e andai a vedere la stanza. Se era arrabbiato con me, gli serviva un po’ di tempo per sbollire. I ragazzi del mobilificio stavano facendo un ottimo lavoro, perciò non li disturbai. Mi andava bene dove avevano disposto le cose. Tornai in salotto, ma, quando sentii Bethy parlare a bassa voce, mi fermai. — Sta meglio. Ha avuto forti nausee, ma sono già due mattine che non vomita più. — Mi chiami l’esatto istante in cui ti sembra che non stia bene, ok? — Rush era riuscito a far sembrare anche un sussurro un ordine. — Sì, ti chiamerò. Non ero d’accordo con questa storia di tenerti all’oscuro di tutto. Sei stato tu a combinarla, perciò le devi stare vicino. — Non vado da nessuna parte — rispose. — Sarà meglio. Lui soffocò una risata. — Se non vuole vivere con me, almeno ha te che la proteggi. — Puoi giurarci. E non pensare che non l’aiuterò a tagliare la corda, se manderai di nuovo tutto a puttane. Falla soffrire e lei se ne andrà. — No, non succederà mai più. Provai una fitta al cuore. Volevo credergli. Volevo fidarmi di lui. Quello era nostro figlio: c’erano tante cose difficili da perdonare, ma avrei dovuto trovare il modo. Io lo amavo davvero, ed ero sicura che lo avrei amato per sempre. Tornai da loro con un sorriso. — Stanno mettendo le cose proprio dove le volevo. Rush mi prese fra le braccia. Ultimamente lo faceva spesso. Non disse nulla, mi strinse e basta. Bethy lasciò la stanza e io ricambiai l’abbraccio. Restammo lì in piedi, a lungo. Era la prima volta, da tanto tempo ormai, che non mi sentivo sola. Rush non mi aveva chiesto di rimanere a dormire, e io mi ero un po’ stupita. Prima di andarsene, si era limitato a un bacetto che non era servito molto a raffreddare i miei sogni bollenti. Anche quella notte mi svegliai poco prima di un orgasmo, molto frustrata. Tirai indietro le coperte e mi misi a sedere. Quel giorno mi toccava il turno del pranzo. La sera prima avevo chiamato Woods e mi ero scusata con lui per essergli finita addosso, ma lui si era dimostrato ancora una volta molto comprensivo e mi aveva anche chiesto se andava tutto bene. Rush era rimasto in piedi ad ascoltare l’intera conversazione, perciò avevo cercato di tagliare corto. Quel giorno avrei incontrato Woods di persona e gli avrei parlato. Mi stava trattando davvero bene. Ero stata assegnata alla sala da pranzo per il resto della settimana. L’unico giorno in cui avrei dovuto presentarmi sul campo sarebbe stato sabato, per via del torneo, quando tutti avrebbero dovuto lavorare all’aperto. Appena entrai in cucina, vidi una scatola di ciambelle con sopra un bigliettino. Lo presi sorridendo e lessi: Mi sei mancata ieri sera. Non sono riuscito a mangiarle da solo. Spero che ora vada meglio, baci, Jimmy. Oh, merda! Mi ero dimenticata del nostro appuntamento goloso! L’ennesima persona a cui dovevo delle scuse… Prima, però, avevo bisogno di un bicchiere di latte e di una di quelle invitanti ciambelle. RUSH Mi sedetti su una delle poltrone di pelle davanti alla scrivania di Woods, con lui che mi stava letteralmente squadrando. Quanto mi faceva incazzare! Ero stato io a chiamarlo e a chiedergli di vederci. Che cosa aveva da guardare? — Voglio pagarti il giusto affitto per l’appartamento — dissi. — So quali sono i prezzi di mercato e ti ho staccato un assegno con cui coprire un anno intero, anche se è probabile che Blaire non resterà a vivere lì per molto. Appena la convincerò a fidarsi di me, le proporrò di convivere in casa mia. — Gli feci scivolare l’assegno sulla scrivania. Woods guardò prima il pezzo di carta e poi me. — Deduco che questo sia perché non vuoi che mi occupi io di ciò che è tuo. — Esatto. Annuì e prese l’assegno. — Bene. Non spetta a me prendermi cura di Blaire o di tuo figlio, anche se sarei stato pronto a farlo. Forse non mi crederai, ma sono contento che ti abbia detto della gravidanza. Non mandare tutto a puttane, però: occhio a evitare che Nan ci metta i suoi artigli. Non avevo bisogno che fosse lui a dirmi cosa dovevo o non dovevo fare. Quelli non erano affari suoi. Ma non avevo ancora finito con lui, perciò farlo incazzare non era una buona idea. — Woods, non voglio che lei faccia il doppio turno fuori, al caldo. Lei si rifiuta di non lavorare, ma tu devi ridurle l’orario. Incrociò le braccia davanti al petto e si appoggiò all’indietro sullo schienale. — Lei è d’accordo? Perché, l’ultima volta che ho chiesto, mi sembrava di aver capito che avesse bisogno di lavorare più ore possibile. — L’ultima volta che hai chiesto, io non sapevo che portasse in grembo mio figlio. Non deve succederle niente, Woods. Non potrei sopportarlo. Lui annuì ed emise un sospiro profondo. — Bene. Concordo. Non mi piace sentirmi dire che cosa devo fare, ma concordo. — Un’altra cosa — aggiunsi prima di alzarmi. — Jimmy è gay, giusto? Woods scoppiò a ridere. — Sì, è gay, ma non dirlo in giro. Tante donne vengono qui solo per vedere lui e gli lasciano un sacco di belle mance. Bene. Ne ero quasi sicuro, ma il suo attaccamento nei confronti di Blaire a volte mi preoccupava. — Ok, allora gli do il permesso di ronzare intorno alla mia ragazza. Woods fece un sorrisetto. — Dubito che potresti impedirglielo, anche volendo! Mentre tornavo alla Range Rover, sentii squillare il cellulare. Mi ricordai che Blaire non aveva più il suo con sé, quindi non era certo lei a chiamarmi. Stavo andando a trovarla proprio in quel momento, avrei toccato l’argomento. Quando guardai lo schermo, vidi che si trattava di mia madre. Erano quattro settimane che la ignoravo. Mi ero ripreso Blaire, ma con lei non ero ancora pronto a parlare. Non risposi e mi infilai di nuovo il telefono in tasca. Una volta a casa di Blaire, guardai sotto lo zerbino e fui felice di constatare che la chiave non c’era più. La sera prima avevo parlato con lei e Bethy di quanto rischiosa, secondo me, fosse la loro abitudine. Bussai alla porta e sentii dei passi. La macchina di Bethy era al club quando io me n’ero andato, quindi Blaire doveva essere sola. L’idea di passare un po’ di tempo con lei e nessun altro mi faceva sorridere. La porta si aprì e davanti a me comparve una Blaire in versione “appena scesa dal letto”. In mano aveva una ciambella. Il rossore sulle sue guance era adorabile; la canottiera striminzita che le copriva a malapena un seno mozzafiato e i boxer ridottissimi trasformavano l’adorabile in eccitante. Entrai in casa e mi chiusi la porta alle spalle. — Accidenti, piccola — sussurrai trascinandola insieme a me sul divano. — Non osare mai più aprire la porta in queste condizioni… Lei abbassò lo sguardo sul seno e sorrise. — Continua a crescere, dev’essere la gravidanza — disse, quasi in tono di scuse. — Ancora non riesco a rendermi conto di com’è diventato. Le presi una ciocca di capelli e me la avvolsi sul dito. — Non è solo la canottiera minuscola… Ma anche questa pettinatura sconvolta di una che è appena scesa dal letto… Ah — dissi facendole scivolare una mano sul sedere coperto a malapena — anche questo ha bisogno di stare un po’ più nascosto. — Sai com’è, non ricevo tante visite di mattina. — Mi sembrava felice che la stessi toccando. Era bello sapere che le facevo un certo effetto. — Meglio — risposi. — Come hai dormito nel letto nuovo? — le chiesi, prima di mordicchiarle il lobo. — Uh… Ho dormito… bene — mi rispose, un po’ irrequieta. Mi staccai e la osservai. Perché quel nervosismo? — Bene soltanto? — chiesi, con lei che arrossiva. Si sfregò un piede sopra l’altro, senza staccare gli occhi dal pavimento. — I sogni di una donna incinta possono essere molto… intensi. — I sogni di una donna incinta? In che senso, scusa? — A quel punto ero curioso. Il fatto che fosse diventata color peperone e avesse l’aria di essere pronta a strisciare sotto il tavolo pur di nascondersi da me mi stuzzicava molto. Fece per andarsene, ma io la presi per i fianchi e la tenni stretta fra me e il divano. — Eh, no, bella, non te ne vai. Non puoi lanciare il sasso e ritirare la mano! Blaire fece una risatina esitante, poi scosse la testa. — Puoi anche tenermi così tutto il giorno, tanto non te lo dico. Le infilai una mano sotto la canottiera e incominciai a solleticarle le costole. Ce la stavo mettendo proprio tutta per non concentrarmi solo su quelle fantastiche tette sode a pochi centimetri da me. Non volevo che Blaire pensasse che la cercassi soltanto per il sesso. Fino a quel momento era stato quello il centro della nostra relazione, ma io volevo dimostrarle che c’era molto di più. Non contava se dopo, ripensando al sapore che aveva due giorni prima, in bagno, ero costretto a farmi docce fredde e seghe a volontà. Blaire ridacchiò e si contorse mentre le facevo il solletico. — Basta! — squittì, spingendosi contro di me. Quando cercò di allontanarsi, la mia sinistra finì sul suo seno sinistro e la fece restare immobile. Dalla gola le uscì un verso molto simile a un gemito. Le passai il pollice sul capezzolo e lei fece pressione contro di me. Niente sesso? Col cazzo. Ma come facevo a far finta di niente?! — Sì, Rush. Ho bisogno che… Bisogno di cosa? Un attimo… I sogni… — Blaire! Hai fatto dei sogni erotici? Lei gemette e annuì quando le strizzai il capezzolo fra le dita. — Sì, e sono stanca di svegliarmi tutta eccitata — sussurrò. Merda. Le tolsi di mano la ciambella, la appoggiai sul tavolo e le leccai la glassa dalle dita. Cominciò ad ansimare. Presi Blaire di peso e la sollevai; lei mi cinse la vita con le gambe e io la portai in camera sua, approfittandone per divorarle la bocca. Stavolta c’era un bel lettone su cui distenderla e tenerla sdraiata tutto il santo giorno, se solo lei avesse voluto. La deposi sul materasso e le sfilai i minuscoli boxer prima di salirle sopra. — Togliti anche la canottiera — le dissi tirandogliela sopra la testa. Mi fermai a guardarla. Fino a una settimana prima non avrei mai pensato di rivederla così. Andavo a letto con l’idea di stringerla: ora era lì sotto di me e io non volevo fare altro se non gustarmi ogni millimetro del suo corpo. — Rush, ti prego, facciamolo — mi supplicò. Per quanto volessi rimanere ad ammirarla, lei non sembrava disposta a permettermelo. E io, da parte mia, non mi sognavo neanche di far aspettare una Blaire così eccitata. — Prima posso assaggiarti? — chiesi, baciandole di nuovo la bocca e poi tempestandole tutto il corpo di baci. — Sì, qualsiasi cosa. Basta che mi tocchi. — Sospirò, quando con la mano trovai le sue pieghe umide e la penetrai con un dito. — Oddio! Sì! Ahhh — gridò appena iniziai a muovermi. Blaire in versione assatanata sarebbe stata uno spasso. Mi sentivo come se avessi appena vinto alla lotteria. Le allargai le gambe e mi abbassai per baciarle il piccolo clitoride indurito che si nascondeva lì sotto. Lei si inarcò e cominciò a implorare di nuovo. Tirai fuori la lingua e gliela passai tutta su quel punto gonfio e dolce, finché mi prese per i capelli con entrambe le mani e mi tirò ancora di più contro di sé. Non potei fare a meno di sorridere. — Ti prego, Rush, ti prego. Sei bravissimo, continua… — Ancora un po’ e quelle suppliche così sensuali mi avrebbero fatto esplodere. Volevo entrarle dentro quanto lo voleva lei, ma mi stavo godendo anche i preliminari. Mentre si dimenava e mugolava nel letto, mi concentrai sull’idea di farla venire con la bocca. Quando finalmente gridò il mio nome e mi avvisò che stava per succedere, saltai su e mi strappai i vestiti di dosso in tempo record. I preservativi non ci servivano più. Mi sdraiai sopra di lei e in un attimo le fui dentro. Si aggrappò alle mie spalle e gettò il collo all’indietro. Se le donne incinte erano tutte così, allora perché gli uomini non le ingravidavano di continuo? Era troppo eccitante. Così eccitante che non sarei durato a lungo. — Scopami, Rush. Scopami forte — ansimò. — Tesoro, se continui a dirmi certe cose, io esplodo troppo presto! Mi fece un sorrisetto malizioso. — Ti farò tornare duro. Te lo prometto. Ma adesso, ti prego, scopami forte. Quando sogno, tu sei sopra di me e mi sbatti finché non urlo e mi aggrappo al letto supplicandoti di continuare. Poi, un secondo prima di venire, mi sveglio. Non solo aveva fatto sogni erotici su di me, ma aveva fatto sogni erotici parecchio sconci… Mi ritrassi e la girai a pancia in giù, poi le sollevai le anche. — Vuoi essere scopata, dolce Blaire? Allora io ti darò quello che chiedi — la stuzzicai, carezzandole lentamente il sedere nudo. Gemette, e io le tirai uno schiaffetto sui genitali, facendola trasalire per la sorpresa. — Se forte è quello che vuoi, forte è quello che avrai — promisi. Le afferrai i fianchi e iniziai a martellarla, rischiando di venire immediatamente. Dio mio, era così stretta. I gemiti di piacere sfrenati che non riusciva a trattenere non erano certo d’aiuto. Ricordare a me stesso che prima dovevo far venire lei fu quasi impossibile quando sentii i testicoli sollevarsi e il cazzo pulsare. — Più forte! — implorò lei, e a quel punto persi il controllo. Cominciai a sbatterla con la stessa voglia famelica che stava consumando lei. Quando il suo stretto calore cominciò a stringermi e il mio nome le uscì disperato dalle labbra, chiusi gli occhi e mi lasciai andare. BLAIRE Rush, sdraiato sulla schiena, mi tirò verso di sé mentre io mi stavo riprendendo da un orgasmo che mi aveva praticamente fatto svenire. Mi rannicchiai fra le sue braccia e sospirai. Aveva reso molto felici tutte le parti di me che in quel periodo smaniavano. Anzi, più che felici. Mi sentivo indolenzita dappertutto e mi piaceva da impazzire. — Mi sa che mi hai messo fuori uso… — ridacchiò, baciandomi sulla tempia. — Spero proprio di no, perché quando riavrò le forze per muovermi mi piacerebbe farlo un’altra volta — risposi, più dolcemente che potevo. — Com’è che tutto a un tratto mi sento usato? Gli tirai un pizzicotto sulla pelle degli addominali. — Mi dispiace, ma con un fisico del genere che cosa pretendi? Rush rise e mi fece rotolare sulla schiena per poi sovrastarmi con tutto il suo corpo. I suoi occhi d’argento scintillavano mentre mi guardava. — Ah, è così? Feci sì con la testa e non parlai. Non volevo correre il rischio di dire qualcosa di troppo. Come il fatto che ero innamorata di lui, per esempio. — Sei così bella… — mi sussurrò abbassandosi su di me per baciarmi come fossi una gemma preziosa. Non ero io quella bella. Era lui. Ma non glielo dissi: se voleva pensarla così, be’, gliel’avrei permesso. Mi fece scorrere le mani lungo il corpo costringendomi a trattenere il fiato dal piacere. — Ma ti svegli così tutte le mattine? — chiese, con una scintilla negli occhi. Avrei potuto mentire, ma non ne potevo più. — Sì. A volte anche nel cuore della notte. Rush mi guardò allibito. — Nel cuore della notte?! Era la verità. Mi scostò i capelli dal viso. — E io come faccio ad aiutarti nel cuore della notte, se non sei con me? — Me l’aveva chiesto con un tono di voce che sembrava davvero preoccupato. — Non vorrai mica che ti svegli tutte le notti per fare sesso! — Tesoro, se ti svegli eccitata io voglio essere lì con te, pronto e disponibile! — Abbassò di colpo la voce e fece scivolare una mano verso il basso, per chiuderla a coppa fra le mie cosce. — Questa è mia, e io mi prendo cura di tutto ciò che è mio. — Rush — lo avvertii. — Sì? — Se non la pianti di dire certe cose, giuro che ti salto addosso e ti cavalco finché non mi implori di smetterla. Sorrise. — Guarda che la prendo come una promessa, Blaire. Girai la testa per ridere e la sveglia sul comodino catturò la mia attenzione. Ommerda! Spinsi via Rush. — Devo essere al lavoro fra dieci minutiii! — strillai. Rush si spostò e io saltai giù dal letto, salvo poi accorgermi di essere completamente nuda; ero nel panico, e lui mi stava osservando con il sorriso sulle labbra. — Oh, fai come se non ci fossi. Da qui si gode una vista stupenda — commentò con un sorriso sornione. Scossi la testa, agguantai un paio di slip puliti, un reggiseno e volai in bagno. — Qualcuno qui si è divertito, oppure quel sorriso felice è per le ciambelle che ti ho lasciato? — mi punzecchiò Jimmy appena entrai in cucina con un minuto di ritardo. Mi sentivo il viso in fiamme. — Erano buonissime! Grazie. Scusami se mi sono dimenticata di ieri sera, ma è stata una giornata… folle, direi — risposi acciuffando un grembiule ed evitando di guardarlo negli occhi. — Tesoro, se fossi appena uscito dalle lenzuola di Rush Finlay, nemmeno io riuscirei a togliermi il sorriso dalla faccia. Anzi, te lo devo proprio dire, sono invidioso come una vipera. So benissimo che non sono state le ciambelle a metterti quel luccichio soddisfatto negli occhi! Ridacchiando, afferrai una penna e un blocchetto. — È fantastico. — Dai, dai, raccontami i particolari! Pendo dalle tue labbra — mi pregò entrando nel salone accanto a me. — Vai a fare il provolone con le donne e piantala di fantasticare sul mio… mio… — Cos’era Rush, per me? Non era il mio ragazzo. Era solo il padre del mio bambino, e suonava tremendamente squallido. — È il tuo uomo. Dillo, perché è la verità. Quel ragazzo bacia la terra dove cammini. Non risposi. Non sapevo cosa dire. Alcuni tavoli si stavano già riempiendo e io avevo un sacco di lavoro da fare. Woods, Jace e Thad, il biondino con i capelli mossi di cui avevo finalmente scoperto il nome, erano seduti attorno a uno di quelli che spettavano a me. Prima però dovevo andare a prendere le ordinazioni del Signor Rubacuori e dalla compagna di turno; quel tizio era sempre insieme a ragazze che avrebbero potuto essere sue nipoti, ma non lo erano mai. Stando a quello che diceva Jimmy, era ricco da far schifo. Ciò non toglieva che fosse vecchio. Che scena pietosa! Prese le ordinazioni, mi diressi verso il tavolo di Woods. Tutti e tre i ragazzi mi sorrisero quando mi avvicinai e Thad mi fece l’occhiolino. Era il classico ragazzo carino a cui piaceva flirtare, e lo sapevano tutti. Ignorarlo non era un problema. — Buon pomeriggio, ragazzi. Che cosa vi porto da bere? — domandai servendo a tutti un bicchiere d’acqua. — Stamattina sei più allegra del solito. È bello rivederti sorridere — mi disse Thad, bevendo un sorso. Ero arrossita, ne ero sicura. Guardai Woods, che nel frattempo mi stava osservando con lo sguardo di chi la sapeva lunga. Era abbastanza intelligente da aver capito tutto. — Per me un caffè — fu il suo unico commento. Fui molto contenta di vedere che non aveva voglia di punzecchiarmi. — Bethy non mi ha permesso di toccare le ciambelle che ha portato Jimmy stamattina. Non sapevo che i dolci ti mettessero così di buonumore! — Il sorrisetto sul viso di Jace diceva che anche lui sapeva esattamente che cos’era successo. Ma insomma, tutto il club era al corrente della mia vita sessuale? Era un argomento così interessante? — Sì, si dà il caso che le ciambelle siano le mie preferite — risposi tenendo gli occhi fissi sul blocchetto delle ordinazioni invece di guardare i ragazzi. — E ci credo — ridacchiò Jace. — Per me una birra chiara, grazie. — Ho come l’impressione di essere l’unico escluso — si lamentò Thad appoggiandosi sul tavolo per studiarmi meglio. — Stai alla larga e sbrigati a ordinare — lo fulminò Woods. Thad alzò gli occhi al cielo e si appoggiò allo schienale. — Qui sono tutti così permalosi… Una bottiglia di acqua frizzante, grazie. Presi un appunto e poi guardai Woods. — Porto anche un po’ di frutta fresca? Annuì. — Sarebbe ottimo. Felice di aver finito con quei tre, tornai in cucina fermandomi strada facendo dalla signora Higgenbotham, che già a quell’ora voleva un cocktail alcolico per sé e uno per la figlia, a malapena diciottenne. Jimmy stava rifornendo il vassoio. Mi guardò da sopra una spalla. — Lo so che è da impiccioni chiedertelo, ma chi era la ragazza che Rush ha piantato qui, ieri? Meg. Non sapevo altro di lei. Soltanto che si chiamava Meg ed era una sua vecchia amica. — Oh, è una che conosce da tanti anni. Non so molto altro. — Anche Woods la conosceva bene. Dopo che voi due siete corsi via, lui è andato a parlarle. Ho immaginato che non fosse spuntata dal nulla, se tutti e due la conoscevano. Ricordai a me stessa che quella ragazza faceva parte del passato di Rush. Non avevo motivo di essere gelosa, in alcun modo. Erano solo vecchi amici e io non dovevo sentirmi inferiore. Appoggiai la frutta di Woods sul vassoio insieme alle ordinazioni e tornai nel salone. Diedi una rapida occhiata a tutta la stanza, poi mi girai per raggiungere il tavolo di Woods. Lo vidi indicare con lo sguardo un tavolo alla mia sinistra. Era la zona di Jimmy. Lo guardai di nuovo per capire se avesse voluto dirmi di servire qualcuno in particolare, ma in quell’istante incrociai lo sguardo di Rush. Mi fermai. Lui era lì. Sulle labbra cominciò a spuntarmi un sorriso, ma subito mi accorsi che accanto a lui era seduta Nan, con un ghigno rabbioso stampato in faccia. Tornai a rivolgere l’attenzione solo su Woods e decisi di fingere di non aver visto nessuno. — Ecco la vostra frutta. — Mi resi conto da sola del tono nervoso della mia voce e pregai che gli altri non ci avessero fatto caso. — Ed ecco da bere. Avete già scelto cosa mangiare? — chiesi, sforzandomi di sorridere. Tutti e tre mi guardarono senza parlare, rendendo il tutto ancora più imbarazzante. Avrei dovuto imparare ad affrontare quelle situazioni: Nan era sua sorella. Avere Rush nella mia vita significava avere anche lei. Imparare a convivere con una persona che mi odiava sarebbe stata una parte della mia routine quotidiana che avrei dovuto col tempo accettare. — È sua sorella. Se fai certe cose con lui, devi saper gestire anche lei — mi disse Jace, come se già non lo sapessi. Non mi piaceva pensare che ogni emozione che provavo fosse sotto gli occhi di tutti. Ero sempre stata una persona riservata, e quello era davvero troppo. Lo ignorai, puntai la penna sul blocchetto e guardai decisa in direzione di Woods. Lui si schiarì la gola e ordinò. Finalmente anche gli altri fecero lo stesso, senza aggiungere ulteriori perle di saggezza. RUSH — Ti ho chiamato per chiederti se venivi a pranzo con me e tu hai accettato. Potrei avere almeno trenta minuti della tua attenzione? Sono passate settimane dall’ultima volta che abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme, da soli. Mi manchi. — La tristezza nella voce di Nan mi fece sussultare. Aveva ragione. La stavo ignorando. Non sapevo nemmeno che cosa avesse detto dal momento in cui Blaire era entrata nel salone. Ero stato talmente attento a controllare che non portasse pesi e che nessuno la trattasse male, o peggio, la corteggiasse, da essermi dimostrato una pessima compagnia per mia sorella. — Sì, scusami — le dissi staccando gli occhi dalla porta da cui mi aspettavo di vedere uscire Blaire. — Ripetimi di quel torneo in barca a vela che stai facendo con quel ragazzo nuovo… Hai detto che si chiama Charles, giusto? Nan sorrise al suono di quel nome e annuì. In quel momento mi ricordò la ragazzina che proteggevo ogni volta che si esaltava per qualcosa, non l’adulta arrabbiata in cui si era trasformata. — Sì. È il nipote dei Kellar. Viene da Cape Cod ed è bravissimo con la vela. Figurati che è venuto fin qui per l’estate in barca. Insomma, si è iscritto a un torneo e ora vuole che partecipi insieme a lui. Si tratta di qualche giorno soltanto. La ascoltai mentre parlava a fiume di Charles e della sua barca, mettendocela tutta per non cercare Blaire con lo sguardo. Avevo bisogno di trovare un equilibrio fra le due donne della mia vita. Blaire veniva per prima, ma io volevo bene a mia sorella e lei aveva bisogno di me. Anche se si trattava solo di un pranzo passato a sentire chiacchiere sulla sua ultima conquista. Nessun altro le dava mai ascolto, quando parlava. A un tratto si interruppe e vide qualcosa alle mie spalle. — Deve concentrarsi sul suo lavoro e piantarla di guardare te. Dio santo, proprio non capisco perché Woods non la licenzi una volta per tutte. Mi girai e vidi Woods, Jace e Thad che sorridevano e scherzavano con Blaire, facendola arrossire. — Adesso non ti sta guardando. È troppo impegnata a fare l’oca con quei tre. A quella importa solo dei soldi… Patetico, davvero. Quanto vorrei che anche tu te ne accorgessi… Insomma, se ci arrivo io! — Nan, chiudi il becco — ringhiai. Non volevo risponderle male, ma sentirla sparlare di Blaire e guardare lei impegnata a chiacchierare con tre tizi che ci stavano sicuramente provando era un po’ più di quanto potessi sopportare. Ero pronto a ficcare dentro la zucca di quei bastardi in calore che Blaire era mia. — E tu vuoi mollarmi per lei? Sta flirtando, Rush. Non ci posso credere, ti stai alzando durante il nostro pranzo per andare a rivendicare i tuoi diritti su quella troietta da due soldi! La furia accesa dalla gelosia si trasformò all’istante in odio nei confronti di mia sorella. Quando girai di nuovo la testa verso di lei, mi sembrò di avere un velo rosso davanti agli occhi. — Cosa cazzo hai detto? — le chiesi troneggiando sopra di lei e sforzandomi di tenere la voce bassa. Nan aprì la bocca per controbattere, ma io sapevo che, se avesse osato dire ancora qualcosa di male su Blaire, avrei davvero perso il controllo. — Non ti azzardare. Se vuoi uscire di qui con ancora un briciolo di dignità addosso, allora non farlo. E se ti sento ancora dire una cosa del genere su Blaire, giuro che ti taglio i viveri e ti lascio con il culo per terra. Ci siamo capiti?! Nan spalancò gli occhi. Non le avevo mai parlato con quel tono, ma aveva davvero esagerato. Saltò in piedi e buttò a terra il tovagliolo. — Non ci posso credere. Io sono tua sorella. Lei è soltanto… Soltanto... — Soltanto la donna di cui sono innamorato. Tienilo bene a mente — la interruppi, completando la frase al posto suo. Gli occhi di Nan mandarono saette. Si voltò di scatto e uscì a passo deciso dalla clubhouse. Non me ne importava. Anzi, doveva andarsene, prima che aggiungessi dell’altro. Non volevo ferirla, le volevo bene, ma non sopportavo più il veleno che continuava a sputare. Sentii una mano toccarmi il braccio e feci uno scatto, ma poi mi accorsi che si trattava di Blaire. I suoi occhi azzurri erano pieni di preoccupazione. Aveva assistito a quello che più temeva: lo spettacolo di Nan e del suo odio. In un certo senso capivo le ragioni di Nan, ma vivere senza Blaire era fuori discussione. Avevo bisogno di restare solo. — Scusami — le sussurrai prima di liberarmi dalla sua stretta e di buttare dei soldi sul tavolo per seguire Nan fuori dalla sala da pranzo. Passai le tre ore successive in palestra. Quando uscii, avevo il corpo massacrato. La rabbia però era svanita ed era rimasta soltanto la voglia di rivedere Blaire al più presto. Sicuramente aveva finito il turno. Sarei andato ad abbracciarla e a farle le mie scuse, perché se le meritava. Non avrei mai dovuto portare Nan a pranzo alla clubhouse, ma l’aveva proposto lei e io come un fesso avevo accettato. Mi ero persino assicurato che fossimo seduti a uno dei tavoli serviti da Jimmy, per non mettere Blaire a disagio. Niente da fare, era andato tutto storto comunque. Era l’ultima volta che lasciavo Nan nei paraggi di Blaire: mia sorella non riusciva a farsene una ragione e la mia donna non si meritava quel trattamento. Bussai alla porta e aspettai. Nessuno venne ad aprirmi. Tolsi il cellulare dalla tasca e in quel momento mi ricordai che non avevo un numero a cui chiamare. Merda! Dovevo tornare a casa a prendere l’iPhone. Avrei costretto Blaire a ripenderselo. E se le fosse successo qualcosa? E se fosse partita per non tornare mai più? — È fuori con Jimmy — mi disse la voce di Bethy da dietro le spalle. Mi voltai e la vidi che mi veniva incontro dal campo da golf. — È passata dopo il turno di lavoro e mi ha detto che lei e Jimmy avevano un appuntamento importante. Perché non mi aveva avvertito? Chiaro. Perché, anche se avesse voluto farlo, non avrebbe saputo dove trovarmi. L’avevo abbandonata a se stessa, ero stato il solito, emerito coglione. — Quando torna a casa? — domandai a Bethy mentre lei girava la chiave nella serratura. Non chiesi permesso, entrai e basta. — Oggi io e Nan abbiamo pranzato insieme alla clubhouse. Non è andata molto bene. Bethy arricciò il naso, disgustata. — Ah, sì? Che strano. Proprio non riesco a immaginare quell’arpia di tua sorella che fa qualcosa per offendere Blaire… — Così dicendo, lasciò cadere la borsa a terra e imprecò a mezza voce. — Non deve stressarsi, lo sai. È incinta e determinata a restare in piedi con quei vassoi in mano tutto il santo giorno. Non è il caso di metterci anche i tuoi drammi familiari. La prossima volta che ti viene in mente di passare un bel momento felice con quella strega, ti conviene farlo da un’altra parte. Aveva ragione. Non avrei dovuto permettere che Blaire rivedesse Nan. Non avrei mai dovuto fidarmi del fatto che mia sorella si sarebbe comportata bene con lei, o per lo meno in maniera civile. Era tutta colpa mia e dovevo trovare Blaire. — Dov’è andata? Bethy sprofondò sul divano. — A prendersi una pausa dalla vita di merda che le è toccata. Se aveva parlato con l’intenzione di ferirmi, ci era riuscita perfettamente. Quando la porta si aprì, ero pronto a buttarmi in ginocchio. — Scusa, ho fatto tardi. Siamo andati da… — si interruppe quando i suoi occhi incontrarono i miei. — Ehi. — Ehi — risposi, avvicinandomi a lei, ma senza toccarla per paura che si ritraesse. — Scusami tanto. Andiamo in camera tua, lascia che ti spieghi. Fece il primo passo e mi cinse la vita con le braccia. — Va tutto bene, non sono arrabbiata. Mi avrebbe consolato. Ancora una volta. Era quello che faceva sempre, d’altronde: preoccuparsi degli altri. — No, non va tutto bene — risposi prendendola per mano e conducendola in camera sua. Lontano da Bethy, che in quel momento non era la mia fan numero uno. — Vai, dagli la possibilità di umiliarsi. Deve farlo. Anzi, sono proprio io che ne ho bisogno. Eccheccavolo! — esclamò dal divano, afferrando il telecomando e liquidandoci con un gesto stizzito della mano. BLAIRE Rush continuò a trascinarmi finché non fummo chiusi in camera mia, lui seduto sul letto e io in braccio. Prima ero un po’ nervosa, ma ora stavo già meglio. Si era trovato in una situazione tremenda e Nan era fuori di sé. Sicuramente Woods era stato contento che non fossi rimasta coinvolta nella scenata. — Rush, ti giuro che non ci sono problemi. Sto bene — gli assicurai, prendendogli il viso fra le mani. Avere a che fare con Nan e il suo odio viscerale faceva parte del gioco. L’avevo capito e ci avrei convissuto, se davvero avessi voluto Rush nella mia vita. Scosse la testa. — Invece oggi ce ne sono stati di problemi, eccome. Non avrei mai dovuto accettare di pranzare con lei. Dovevo immaginarmelo. Ho sbagliato a pensare che si sarebbe comportata da persona normale… Mi dispiace tanto, piccola. Ti giuro che non capiterà più. Gli chiusi la bocca con la mia e lo spinsi all’indietro sul letto. — Ti ho già detto che è tutto ok. Adesso piantala di scusarti — gli sussurrai, labbra contro labbra. Rush mi fece scivolare le mani sotto la maglietta e trovò il reggiseno, ormai di due taglie più piccolo del necessario. Portarlo tutto il giorno mi lasciava segni rossi dappertutto. Aprì il gancetto e mi passò le dita sulla pelle. — Ti serve un reggiseno nuovo — disse accarezzandomi piano e facendomi rabbrividire di piacere. — Mmm… Se mi prometti di fare così tutte le sere, ti giuro che non mi serve — gli risposi chinandomi per baciarlo di nuovo. Si ritrasse. — Perché non me l’hai detto? — mi chiese, preoccupato. Dirgli cosa? Gli misi le mani ai lati della testa e mi sollevai per stargli sopra. — Cos’è che dovevo dirti? — chiesi, confusa. Rush mi fece scivolare le mani su per i fianchi finché non furono sotto il seno, e a quel punto dimenticai completamente l’argomento. Che bella sensazione… Gemetti e gli misi tutto il petto nelle mani, pronta a implorare. — Quel cavolo di reggiseno ti ha inciso la pelle, Blaire. Perché continui a portarlo? Te ne avrei comprato uno nuovo. Anzi, ci vado subito. Ah, stava ancora parlando del reggiseno. — Rush, adesso voglio che mi tocchi. Chi se ne frega del reggiseno, dai… — Chinai la testa per mordicchiargli la spalla e baciarlo giù giù fino al petto. — Mi piace, Blaire, ma non riuscirai a distrarmi. Voglio sapere perché non mi hai detto che andavi in giro con un reggiseno che ti faceva male! Non voglio che succedano queste cose. Rialzai la testa e lo osservai. Aveva la fronte corrugata, doveva essere sinceramente preoccupato. Nessuno si comportava mai così con me, non ero abituata. Sentii il cuore gonfiarsi, abbassai le mani e mi tolsi in un solo gesto maglietta e reggiseno. — Rush. Mi serve un reggiseno nuovo. Questo è diventato troppo piccolo. Mi accompagni in un negozio di intimo? Per piacere? — lo presi in giro mentre i suoi palmi mi massaggiavano i seni turgidi e mi facevano bagnare ancora di più. — Tette perfette come queste devono essere trattate con cura. Non posso sopportare che soffrano — mi disse con un sorrisetto — a meno che non ne sia io la causa, ovviamente. — Mi strinse con forza entrambi i capezzoli, facendomi strillare. — Queste sono mie, Blaire. E io mi prendo cura di ciò che mi appartiene — sussurrò, un attimo prima di prendere un capezzolo in bocca. Annuii e mi strusciai contro di lui. Sentivo la sua erezione premere contro il clitoride e sapevo che, se solo mi fossi mossa un altro po’, sarei venuta subito. Ne avevo un bisogno disperato. — Piano, ragazza… Prima devo toglierti i pantaloncini — mi disse baciandomi sulla pancia con dolcezza. Mi guardò negli occhi cominciando lentamente a sbottonare gli shorts e a farli scivolare giù lungo le cosce. — A quanto pare c’è qualcuno qui che richiede un po’ di attenzione. È tutta gonfia e bagnata… Fradicia. Cazzo, come mi ecciti… — mormorò divaricandomi le gambe e studiandomi con attenzione. Scese sopra di me finché la sua bocca non fu così vicina al mio clitoride da permettermi di sentire il calore del suo respiro. — Stanotte resto qui. Non posso dormire sapendo che potresti svegliarti e avere bisogno di me. Il solo pensiero mi fa impazzire. — La sua voce aveva raggiunto quei toni bassi che non smettevano mai di eccitarmi. Tirò fuori la lingua e feci in tempo a vedere il piercing brillare alla luce prima di sentirlo passare fra le mie pieghe umide e poi entrare dentro di me. Gli afferrai la testa e lo supplicai, mentre mi regalava non uno ma due orgasmi, dopo i quali rialzò lo sguardo e mi rivolse un sorriso perverso. — Dà dipendenza, Blaire. Nessuno dovrebbe avere un sapore così pazzesco, nemmeno tu! Si rialzò e si tolse maglietta e boxer. Fu di nuovo sopra di me prima che potessi concedermi di ammirare un altro po’ quello spettacolo. — Voglio che mi sali sopra — disse, baciandomi, mentre la sua erezione scivolava fra le mie gambe e mi solleticava fino a farmi impazzire. Feci segno di volerlo spingere via e lui rotolò subito sulla schiena per permettermi di salire. Guardarlo mentre studiava con ammirazione il mio corpo fu uno stimolo ancora più eccitante delle frasi sconce che mi sussurrava sempre per farmi venire. Sentivo di poter amare quell’uomo ed essere felice con lui per il resto della mia vita. Speravo soltanto di averne la possibilità. I giorni successivi trascorsero come in una fiaba. Io andavo a lavorare, Rush veniva a trovarmi e mi distraeva con la sua presenza conturbante; insieme andavamo a nasconderci in qualche posto dove non avremmo dovuto essere e facevamo sesso selvaggio prima di tornare a casa mia o a casa sua per rifarlo sul letto. La seconda volta era sempre molto dolce. La prima, invece, era intensa e disperata per entrambi. Ero abbastanza sicura che Woods ci avesse sentiti, il giorno in cui ci eravamo infilati nello sgabuzzino delle scope per strapparci i vestiti di dosso. Stavo ancora cercando di capire se il problema fossero gli ormoni della gravidanza o se invece fossi destinata a desiderare Rush in quel modo per sempre. Gli bastava sfiorarmi per accendermi come un fiammifero. Quel giorno, tuttavia, ci saremmo presi una pausa. Avrei lavorato fino a sera, c’era il torneo annuale di golf. Per poterci essere avevo dovuto insistere sia con Woods che con Rush, perché secondo loro “era troppo rischioso”. Ovviamente ero riuscita a spuntarla. Le nostre divise da ragazze del cart erano state ordinate apposta per l’evento: bianco totale, proprio come i golfisti. Al posto degli shorts, indossavamo gonnelline abbinate alle polo. Jimmy faceva eccezione, lui era in calzoncini. Era l’unico uomo sui cart e a quanto pareva era stato oggetto di richieste specifiche in onore dell’evento. — Allora, ci sono quindici squadre. Blaire, tu ti occupi delle prime tre. Tu, Bethy, delle tre successive. E così via con Carmen, Natalie e infine Jimmy… Le donne ti volevano a tutti i costi. Come sapete, questo evento durerà l’intera giornata: fate in modo che i golfisti si divertano e non restate mai senza scorte. Prima di finire qualcosa, tornate sempre a fare rifornimento. I vostri cart sono già stati caricati con tutte le bevande preferite dei golfisti di cui vi dovrete occupare; usate i walkietalkie, per contattarmi in caso d’emergenza. Ci sono domande? — Darla, in veranda davanti agli uffici, ci guardava con le mani sui fianchi. — Bene. Adesso tornate ai vostri posti. Blaire avrà da fare da subito, mentre il resto di voi dovrà aspettare e tenere d’occhio il tabellone per non perdere l’inizio della partita delle sue squadre. Se vogliono da bere, sotto con il bere. Se vogliono da mangiare, sotto con i vassoi. Intesi? Intesi. Darla ci fece segno di andarcene e tornò negli uffici. — Detesto i tornei. Spero solo di non dover avere a che fare con Nathan Ford. Madonna, quanto lo odio… — brontolò Bethy mentre andavamo a recuperare i cart e ci assicuravamo che tutto fosse pronto per iniziare il primo giro. — Forse ti capiterà Jace — dissi nella speranza di tirarle un po’ su il morale. Bethy corrugò la fronte. — Figurati, zero speranze. È stata mia zia Darla a organizzare i gruppi, di certo non ha assegnato me alla squadra di Jace. Ah. In tal caso a me non sarebbe toccato Rush. Meglio così, probabilmente. Dovevo concentrarmi sul lavoro, non su quanto stava bene lui in pantaloncini corti e polo. Parcheggiai il cart alla prima buca e andai a conoscere il primo gruppo. Erano facce familiari, giocatori piuttosto anziani. Il lavoro sarebbe stato semplice e le mance eccellenti. Dopo aver fornito a tutti una bottiglia d’acqua, passai alla squadra successiva e fui sorpresa di scoprire che era composta da Jace, Thad e Woods. Non me lo sarei mai aspettata. — Ciao, ragazzi. Sono io la fortunata, allora? — scherzai. — Mi sarei aspettato Bethy. Uuuh, la giornata promette proprio bene… — commentò Thad. — Taci — brontolò Jace tirandogli una gomitata. — Non sono così stupido da mettere Bethy con Jace. Avrebbe ignorato chiunque altro — spiegò Woods. Diedi a tutti una bottiglia d’acqua. — Io sono felice di servire voi tre. Anche se non sono Bethy! — esclamai, sorridendo a Jace. — Se proprio non posso avere Bethy, tu sei sicuramente la mia seconda preferita — rispose lui ricambiando il sorriso. Quel ragazzo mi piaceva proprio. Dimostrando agli altri quello che provava per Bethy, aveva dato prova di essere una persona seria. — Bene. E adesso vedete di impegnarvi e di rendermi orgogliosa di voi, ok? — li incoraggiai prima di procedere verso il gruppo successivo. Vidi che erano tutte donne, ma ancora non riconoscevo chi fossero. Forse quella bionda alta ed elegante era la moglie del sindaco. Dopo aver distribuito acqua frizzante con fettine di lime, tornai alla partenza. Era quasi ora di cominciare. Mi girai per vedere se c’era Rush, ma non lo trovai. Non sapevo di che squadra facesse parte, ma sapevo che partecipava. Immaginavo che da qualche parte ci fosse anche Grant, ma nemmeno di lui c’era traccia. RUSH Avrei ucciso Grant nel sonno. O forse lì, in pubblico, in presenza di vari testimoni. Buttai forte le mazze a terra e il caddie corse subito a raccogliermele, per fortuna: ero quasi pronto a lanciarle contro qualcuno. — Meg? È uno scherzo, Grant? L’hai chiesto a Meg? — lo assalii, guardando oltre le sue spalle in direzione di Meg, che nel frattempo ci stava indicando. — Dovevamo essere in tre. Tu hai fatto incazzare Nan, ci mancava una persona. Non era rimasto nessuno e lei aveva voglia di partecipare. Qual è il problema? — Grant porse la sua sacca al caddie e mi lanciò uno sguardo seccato. Blaire era il problema. Non le avevo detto che Meg sarebbe stata in squadra con me, perché io stesso l’avevo scoperto all’ultimo minuto. Se ora ci avesse visto, avrebbe pensato che gliel’avessi tenuto nascosto apposta. Dovevo trovarla. — Posso portarvi una bottiglia d’acqua? — chiese una ragazza con i capelli rossi, di cui non ricordavo il nome, a bordo del cart assegnato a noi. Figuriamoci se Woods mi avrebbe abbinato a Blaire. Sarebbe stato un vantaggio, per me. Avrei potuto spiegarle tutto e lei avrebbe visto che ero completamente innocente. — Sì, Carmen. Grazie — rispose Grant. Lui le stava rivolgendo un sorriso raggiante e lei gli stava rispondendo facendo svolazzare le ciglia. Probabilmente se l’era fatta. E se non fosse stato così, sarebbe successo quella sera stessa. — Danne una anche al brontolone. Ha bisogno di reidratarsi — scherzò Grant. — Pronti a fare il culo a tutti quanti? — disse Meg, venendoci incontro. No, ero pronto a trovare Blaire e a spiegarle quella situazione. Guardai la rossa sul cart. — Scusa — le dissi. — Sai con chi sta Blaire? Lei mise il broncio. — Io non vado abbastanza bene? — Ma sì, dolcezza, sei perfetta. Solo che lui smania per Blaire, tutto qui. Non ha niente contro di te — le spiegò Grant facendole l’occhiolino. Lei gli sorrise estasiata. — L’hanno assegnata al primo gruppo, quello in cui credo ci sia il signor Kerrington. Il signor Kerrington figlio. Se non sbaglio la signora Darla ha detto che è stata una sua richiesta esplicita — rispose la ragazza. Woods era una testa di cazzo. Non avevo più dubbi. — Buongiorno, Meg. Scusa ma abbiamo fra le mani un Rush con la luna storta — annunciò Grant. Meg si era unita a noi senza che ne nemmeno me ne fossi accorto. — Lo vedo. Proverò a sbilanciarmi: Blaire non sarà mica quella ragazza che si è messo a inseguire l’altro giorno, piantandomi in asso senza spiegazioni? — Se ha inseguito una ragazza allora sì, era Blaire — le confermò Grant. Ignorai entrambi e cominciai ad avvicinarmi all’area di partenza, quando vidi il primo gruppo che iniziava la partita. Il cart di Blaire si allontanò in quell’esatto istante. Merda. — Puoi calmarti, per favore? Non è Blaire quella che si ingelosisce. Sei tu! — brontolò Grant prima di bere un sorso d’acqua. — Ok, è un problema se sto giocando con voi due? È di questo che si tratta? — chiese Meg, guardandomi negli occhi. — Non voglio che Blaire se la prenda — risposi senza distogliere lo sguardo dalla direzione in cui era andata lei. — Ma sì, dai! È solo una partita a golf, non un appuntamento — rispose lei. Aveva ragione. Mi stavo comportando in maniera ridicola. Non eravamo più a scuola e io potevo benissimo giocare con una ragazza. Blaire ormai sapeva che Meg era una vecchia amica, e poi con noi c’era Grant. Non eravamo noi soli. Sì, forse stavo esagerando. — Sono un po’ teso, scusate. Hai ragione, non c’è niente di strano — dissi, decidendo di rilassarmi e di godermi la giornata. Almeno Blaire era con i primi gruppi: avrebbe finito prima e sarebbe tornata al chiuso. Ecco perché Woods aveva scelto lei per cominciare… Voleva evitarle di stare troppo al sole. Arrivati alla sesta buca, mi ero rilassato abbastanza da riuscire a divertirmi. A parte preoccuparmi di tanto in tanto che Blaire avesse troppo caldo, andava tutto bene. Sapevo che Woods la stava tenendo d’occhio e, per quanto la cosa mi desse fastidio, era allo stesso tempo anche un sollievo. — Dai, Grant. Finora Rush è sotto di tre e io di due. Questa è tua, amico. Ce la puoi fare — lo stuzzicò mentre lui si preparava a tirare un putt per il par. Grant la fulminò con lo sguardo. Il putt non era il suo forte e Meg non ci aveva messo molto ad accorgersene. Se ce l’avesse fatta, sarebbe stato un miracolo. — Credo gli serva un po’ d’aiuto, Meg. Forse potresti dargli qualche lezione — proposi. L’espressione incazzata sul viso di Grant ci fece morire entrambi dalle risate. Cavolo, era troppo facile farlo arrabbiare. — Stai indietro, Meg. È pronto a colpire. Se il suo putter decolla, è meglio se non ti trovi sulla sua linea di tiro. Meg gli diede ascolto e si mise accanto a me. — Davvero gli capita di lanciare la mazza? — chiese, sorridendo. — Sì, ma non ti esaltare troppo. Se è così incavolato da lanciare le mazze, allora vuol dire che è proprio nero. — Non ho paura. Tu hai le braccia più grandi — commentò Meg lanciando un altro sorriso in direzione di Grant. Lo stava punzecchiando. — Lui non ha le braccia più grandi! — esclamò Grant, raddrizzandosi dalla posizione assunta per tirare e facendo un’espressione indispettita. Meg allora mi strinse un bicipite. — Mmm, già. Questi muscoli sono proprio impressionanti. Fammi vedere che cos’hai tu — disse a Grant per sfidarlo. Lui si tolse di colpo la maglietta e si mise di fronte a Meg contraendo i muscoli. — Senti qui, piccola. Quello non può competere con me, è soltanto un belloccio. Esasperato, feci per tornare al cart, ma Grant mi trattenne. — No, caro. Questa è una gara e io voglio vincere. Tira fuori quelle braccia mediocri, vediamo chi dei due è più massiccio. Non me ne fregava niente di vincere quella stupida gara. — Hai vinto tu, siamo a posto così. Ha lui le braccia più grandi, Meg — dissi liberandomi dalla stretta. — No, non credo. Non hai fatto il muscolo quando ti ho toccato e sono sicura che le tue sono più grosse — rispose lei con un sorrisetto malizioso. Era sicura? E allora io ero sicuro che ascoltarla non fosse una buona idea. Non mi pareva che stesse flirtando, ma non ne ero poi così sicuro. — Ma che cazzate! Piega il braccio, Rush. Falle vedere che sono io quello messo meglio. — Sì, sei tu. Va bene così — ripetei. — Contrai il muscolo, dai! — si ostinò Grant. Si era davvero lasciato prendere dallo spirito di competizione, anche se l’avrei lasciato vincere tranquillamente. Ero pronto a passare alla buca successiva. — E va bene — dissi. — Se può esserti utile per il tuo putt, così possiamo passare alla prossima buca, faccio vedere il muscolo. Grant sorrise e porse di nuovo il suo braccio a Meg. A quel punto, lei aspettava me. Piegai il muscolo e mi lasciai toccare. Che situazione ridicola! — Scusa, Grant, ma vince lui — sentenziò Meg stringendomi il braccio qualche istante più a lungo del necessario. Me ne andai e tornai verso il cart. — Dai con questo putt, Grant! — gli gridai. — No, non hai vinto! Ti ha scelto solo perché ti è fedele! In fondo è stata la tua prima scopata — rispose lui. Girai di scatto la testa per vedere se qualcuno avesse sentito. Per fortuna sembrava di no. BLAIRE Rimasi ferma mentre salivano sul loro cart e passavano alla buca successiva. Dovevo andare a prendere altre bibite. Alla fine la voglia di vedere Rush aveva avuto la meglio e per riuscirci avevo fatto una piccola deviazione. Quando mai… Per la prima volta in quella settimana sentii di nuovo la nausea. Non mi aveva confessato che Meg era stata la sua prima volta. Aveva detto che erano soltanto amici di vecchia data… Sapere che genere di rapporto c’era stato tra loro due non mi aiutava. Ero ben consapevole che Rush vantasse una lunga schiera di ragazze che si era portato a letto, lo sapevo sin da quando l’avevamo fatto la prima volta, ma vederlo con una di loro… con quella che era stata la prima, addirittura, faceva male. Meg stava civettando con lui e lui con lei. Cercava di impressionarla con i suoi muscoli, del resto già abbastanza impressionanti senza doverli contrarre e mettere sfacciatamente in mostra. Perché aveva fatto una cosa del genere? Voleva piacerle? Era curioso di come potesse essere lei a letto ora, a distanza di tempo? Sentii lo stomaco rivoltarsi e mi allontanai dagli alberi dietro a cui mi ero nascosta. Non l’avevo voluto fare apposta, avevo semplicemente preso una scorciatoia per vedere se Rush fosse a quella buca. Quando però l’avevo visto sorridere a Meg e poi lasciarsi toccare da lei, mi ero fermata. Non ero riuscita a proseguire. Lei faceva parte del suo mondo. Lei si integrava perfettamente. Invece di guidare il cart con le bibite, lei partecipava al torneo. A me non avrebbe potuto chiedere di partecipare: innanzitutto non sapevo minimamente giocare, e poi in quel posto ci lavoravo. Non potevo giocare. Che cosa ci faceva con me? Sua sorella mi odiava. Non potevo far parte della sua vita, non sul serio. Sarei sempre stata una spettatrice esterna, e odiavo il modo in cui quella consapevolezza mi faceva sentire. Stare con lui era pazzesco. Nella privacy del mio appartamento o della sua villa, fingere che potessimo essere qualcosa di più era facile. Ma cosa sarebbe successo quando tutti avessero visto? Quando la mia pancia fosse stata visibile a tutti? La gente avrebbe saputo. Come si sarebbe comportato lui? Avrebbe davvero affrontato la situazione? Feci rifornimento di bibite e lasciai la mente libera di fantasticare su tutti gli scenari che avrebbero potuto verificarsi. Nessuno di essi prevedeva un lieto fine. Io non ero un membro dell’élite, ero io e basta, sola. In quel fine settimana avevo fantasticato sull’ipotesi di restare. Di crescere il bambino insieme a Rush. Vederlo con Meg mi aveva fatto male, ma era stata la secchiata d’acqua fredda di cui avevo avuto bisogno. Nessuno viveva nel mondo delle fiabe. Di sicuro non io. Quando tornai indietro, il mio gruppo era arrivato all’ultima buca. Sorrisi, servii da bere e scherzai persino con i giocatori. Nessuno avrebbe capito che ero arrabbiata. Quello era il mio lavoro, e l’avrei svolto con cura. Quella sera non avrei detto niente nemmeno a Rush, tanto sarebbe stato inutile. Non ragionava più lucidamente. Mi sarei limitata a prendere un po’ le distanze: non potevo ingannare me stessa pensando che lui fosse il mio principe azzurro. Non ero così scema. Non ero riuscita ad arrivare a fine giornata senza stare male. Avevo sofferto molto il caldo, ma non l’avrei mai e poi mai confessato a Woods. Non c’era bisogno che mi ritenesse incapace di svolgere il mio lavoro. Bethy mi stava tenendo indietro i capelli mentre vomitavo nel wc degli uffici. Come volevo bene a quella ragazza! — Hai esagerato — mi sgridò quando sollevai la testa dopo l’ultimo conato. Non volevo ammetterlo, ma probabilmente aveva ragione. Presi l’asciugamano bagnato che mi porgeva e lo usai per pulirmi il viso, sedendomi di nuovo a terra con la schiena appoggiata contro il muro. — Lo so. Ma tu non dirlo a nessuno — le ingiunsi. Bethy mi si sedette accanto. — Perché, scusa? — Perché questo lavoro mi serve. Pagano bene. Quando comincerà a vedersi la pancia, mi serviranno tutti i soldi che sarò riuscita a risparmiare. Non sarà facile trovare un altro posto quando sarò una balena. Bethy si girò per guardarmi. — Hai ancora in mente di andartene? E Rush? Non volevo che se la prendesse con lui, aveva ricominciato da poco a dimostrarsi gentile nei suoi confronti. — Oggi l’ho visto. Si stava divertendo. Questo è il suo ambiente, capisci? Il mondo a cui appartiene. Io invece appartengo solo a me stessa, non c’entro niente con loro. — E lui non può dire la sua su quello che pensi? Ti basterebbe aprire bocca per andare a vivere in casa sua. Si occuperebbe lui di tutto. Non dovresti lavorare in questo club e saresti sempre al suo fianco. Renditene conto, ti prego. Non mi piaceva l’idea di essere l’ennesima donna che viveva alle sue spalle. Già c’erano sua madre e sua sorella, non volevo diventare la terza scroccona. Non m’importava dei suoi soldi, m’importava di lui. — Non sono una sua responsabilità. — Mi permetta di dissentire, signorina. Quando ti ha scopata e ingravidata, sei diventata la sua responsabilità numero uno!! — esclamò Bethy, sconcertata. Ricordavo com’era andata la sera che avevamo fatto l’amore senza usare il preservativo. Ero stata io a salirgli sopra. L’avevo praticamente assalito. Non era stata colpa sua… Tutte le altre volte era stato attento, ma quella volta non gliene avevo lasciato il tempo. Era stato un errore mio, non suo. — Fidati di me quando ti dico che è stata tutta colpa mia. Tu non c’eri la sera in cui sono rimasta incinta, io sì. — No, non può essere tutta colpa tua. Non si resta incinte da sole! Non avevo intenzione di stare a discutere. — Non dire a nessuno che ho vomitato, per piacere. Non voglio che si preoccupino. — E va bene, però non ne sono entusiasta. Se ricapita, lo dico — mi avvertì. Le appoggiai la testa sulla spalla. — E va bene — mi arresi. Mi diede una pacca sulla testa. — Figlia mia, tu sei una pazza. Scoppiai a ridere, perché aveva ragione. RUSH Appena il torneo finì, tornai a casa a farmi la doccia. Non rimasi nemmeno il tempo di ricevere il trofeo per il secondo posto, lasciai che fossero Grant e Meg a pensarci. A me non fregava niente: avevo partecipato soltanto perché, già a inizio estate, avevo firmato per partecipare insieme a Grant e a Nan. Era una tradizione che si ripeteva ogni anno ed era anche per una buona causa. Quando mi ero fermato accanto agli uffici, dove erano parcheggiati i cart con le bevande, Darla mi aveva detto che Blaire se n’era andata con Bethy circa un’ora prima. Le avevo telefonato, ma non mi aveva risposto. Forse, dopo la doccia, quelle due sarebbero tornate da dovunque fossero andate. Quando arrivai, nel parcheggio vidi la macchina di Bethy. Blaire era a casa, grazie a Dio. Mi era mancata da morire tutto il giorno. Bussai tre volte e aspettai con impazienza che qualcuno venisse ad aprirmi. Fu Bethy, con un sorriso forzato. Non chi avrei voluto vedere. — Ciao — dissi entrando. — Sta già dormendo, è stata una lunga giornata — rispose lei, ancora in piedi sulla porta e con la mano sulla maniglia, come se si aspettasse che me ne andassi subito. — Ma sta bene? — chiesi, guardando in fondo al corridoio la porta chiusa di camera sua. — Sì, è soltanto stanca. Lasciala riposare. Non me ne sarei andato. Avrebbe anche potuto chiuderla, quella cavolo di porta. — Non la sveglio, però non me ne vado. Puoi anche chiudere — misi in chiaro prima di andare verso camera di Blaire. Erano appena le sei del pomeriggio, non poteva essersi già addormentata. A meno che non si fosse sentita male… Il solo pensiero che quel giorno avesse esagerato con il lavoro mi faceva venire la tachicardia. Avrei dovuto insistere per non lasciarla lavorare: poteva essere pericoloso sia per lei sia per il bambino. Aprii piano la porta ed entrai, poi la chiusi a chiave alle mie spalle. Blaire era rannicchiata al centro del suo grande letto, così grande che lei sembrava perdercisi dentro. I lunghi capelli biondi erano distesi a ventaglio sopra i cuscini e una delle lunghe gambe nude spuntava da sotto le coperte. Mi tolsi la maglietta e la lanciai sul cassettone, poi sbottonai i jeans e tolsi anche quelli. Rimasto in boxer, scostai le lenzuola e mi misi dietro il suo corpo, tirandomelo vicino; non oppose resistenza. Un sospiro tenue e una specie di saluto furono il suono più adorabile che avessi mai sentito. Sorridendo, sprofondai il viso in mezzo alla sua nuvola di capelli e chiusi gli occhi. Ero nell’unico posto dove avrei voluto essere. Feci scivolare una mano sotto la coperta e gliela appoggiai, aperta, sul ventre. Pensare a cosa stavo toccando in quel momento mi sconvolgeva. Un fremito che mi scorreva lungo il braccio e poi sul petto mi fece riaprire gli occhi sorridendo. Blaire era girata con il viso verso di me. Aveva gli occhi aperti, mi guardava il torace e con l’indice tracciava tanti sentieri sinuosi sulla mia pelle, dai pettorali alle spalle e viceversa. Sollevò gli occhi e un timido sorriso le increspò le labbra. — Ehi… — sussurrai. — Ehi. Ormai fuori era buio, ma non avevo idea di che ora fosse. — Oggi mi sei mancata. Il suo sorriso si spense e anche gli occhi corsero via da me. Non era la reazione che mi sarei aspettato. — Anche tu mi sei mancato — disse, evitando di guardarmi. Le presi il mento per farle girare il viso. — Che cos’è successo? Mi fece un sorriso forzato. — Niente! Stava mentendo. Qualcosa non andava, si capiva benissimo. — Blaire, dimmi la verità. Sei strana. È successo qualcosa, vero? Tentò di allontanarsi, ma io la tenni vicina a me. — Dimmelo, per favore. La tensione nel suo corpo si allentò in parte quando pronunciai “per favore”. Dovevo tenere sempre a mente che per lei sentirselo dire era importante. — Ti ho visto, oggi. Ti stavi divertendo… — si interruppe senza completare la frase. Era quello il problema? Ah, no. Aveva visto Meg. — È per Meg, vero? Scusami, ma non sapevo che sarebbe stata in squadra con noi. È stato Grant a chiederle di prendere il posto di Nan, che si è tirata indietro all’ultimo minuto. Se lo avessi saputo prima, ti avrei avvertita di sicuro. Di nuovo quella tensione… Merda. Pensavo di essermi spiegato. Se l’era presa così tanto? — È stata la tua prima volta. — Il tono di voce con cui Blaire aveva parlato era stato così debole da risultare quasi impercettibile alle mie orecchie. Qualcuno era andato a dirglielo, cazzo. Chi altro lo sapeva, a parte Grant? Non ero il tipo che raccontava i suoi trascorsi erotici ai quattro venti. Chi poteva essere stato? Le presi il viso fra le mani. — E tu sarai la mia ultima. Vidi il suo sguardo ammorbidirsi. Cominciavo a diventare bravo con le frasi dolci; prima che arrivasse lei, non avevo mai perso tempo a pensare di dire alle donne la cosa giusta. Con Blaire invece era semplice: mi bastava essere sincero. — Rush, io… — Si interruppe e si contorse fra le mie braccia. — Io devo andare in bagno — annunciò. Ero sicuro che non fosse quella la frase che avrebbe voluto dire veramente, ma la lasciai andare. Indossava una canottiera gialla e un paio di culottes rosa, quelle che per alcune ragazze erano un modello sportivo, “castigato”. Altro che castigato… Sottolineavano i fianchi più pieni del solito, e l’idea di farli piegare in avanti sul letto e stringerli fra le mani me lo faceva venire duro come il marmo. Dovevo concentrarmi. Era preoccupata per qualche motivo e non voleva dirmi di cosa si trattava. Non volevo vederla angosciata. Mi suonò il cellulare e mi allungai per prenderlo dal comodino. Era Nan, non la persona con cui avrei avuto voglia di parlare in quel momento. Ignorai la telefonata e tolsi la suoneria. Controllai l’ora: erano appena le nove e dieci. Blaire uscì dal bagno e mi fece un sorriso timido. — Ho un po’ fame… — Allora andiamo a sfamarti — dissi alzandomi e rimettendomi i jeans. — Devo andare al supermercato. Volevo andarci prima, ma avevo troppo sonno! Non ce la facevo. — Adesso ti porto fuori a cena, poi domani mattina andiamo a fare la spesa. A quest’ora non c’è più niente di aperto. Blaire non sembrava convinta. — Guarda che a quest’ora, in paese, non sono più aperti neanche i ristoranti. — Il club però è aperto fino alle undici. Lo sai anche tu. — Mi infilai la maglietta e le andai vicino. Mi stava osservando come se non capisse. — Cosa c’è? — feci prendendola per la vita e tirando il suo corpo praticamente nudo contro il mio. — La gente ti vedrà insieme a me. Gente che non è tua amica — pronunciò lentamente, come se anche lei si stesse rendendo conto solo in quel momento di quello che stava dicendo. — E allora? Girò la testa per evitare di guardarmi in faccia. — Io lì ci lavoro. Sanno che sono una dipendente. Continuavo a non afferrare il concetto. — Scusa, ma non ti seguo. Blaire fece un sospiro esasperato. — Non ti importa se altri membri del club vedono che vai a cena con una dello staff? Restai di sasso. Eh?! — Blaire — le dissi, con calma. Volevo essere sicuro di aver capito bene. — Mi hai appena chiesto se mi importa che qualcuno mi veda cenare con te? Ti prego, dimmi che ho frainteso. Lei alzò le spalle. Le tolsi le mani dalla vita e andai alla porta. Mi stava sicuramente prendendo in giro. Quando mai le avevo fatto pensare di potermi vergognare di lei? Mi voltai per guardarla. Era a braccia conserte e mi stava osservando. — Quando ti ho fatto pensare di non voler essere visto insieme a te? Perché, se l’ho fatto, giuro che rimedierò. Seconda alzata di spalle. — Non so. È che non siamo mai veramente usciti insieme per una serata di coppia… Ok, siamo andati nel locale country, ma non era un vero appuntamento. In genere la tua vita sociale non include anche me. Sentii il petto stringersi. Aveva ragione. Non l’avevo mai portata da nessuna parte, tranne quando l’avevo accompagnata a comprare i mobili o a Sumit. ’Fanculo, ero un idiota. — Hai ragione. Faccio schifo. Non ti ho mai portato in un posto carino — mormorai scuotendo la testa. Fino a quel momento non avevo mai avuto una storia seria. Scopavo la ragazza di turno e poi la rispedivo a casa sua. — E così, per tutto questo tempo hai pensato che io mi vergognassi di te? — chiesi, senza voler conoscere verità. Sarebbe stato come beccarsi un calcio nelle palle. — Che ti vergognassi no, non proprio. Ho solo… Ho solo pensato che, be’, io non appartengo al tuo mondo. Lo so. Il fatto che sia incinta di tuo figlio non significa che stiamo insieme ufficialmente. Ti stai semplicemente dimostrando disponibile e… — Blaire. Ti prego. Piantala, non posso più ascoltarti. — Annullai la distanza che ci separava. — Tu sei il mio mondo. Voglio che tutti lo sappiano. Non so neanche come si organizzano gli appuntamenti romantici, non l’ho mai fatto! È per questo che non ti ho mai invitata fuori. Adesso però ti prometto che riceverai da me così tanti inviti che tutti, in paese, sapranno che ti adoro — giurai prendendole la mano. — Scusami se sono un idiota. Ricacciò indietro le lacrime e annuì. Mi chiesi quante altre cavolate avrei dovuto combinare prima di riuscire a far filare tutto liscio. BLAIRE Quando uscii da camera mia, vidi sul bancone della cucina il cellulare che mi aveva comprato Rush. Quella settimana era la terza volta che lo lasciava da qualche parte per incoraggiarmi a prenderlo. C’era anche un biglietto. Lo lessi: Pensa al bambino. Ti serve per le emergenze. Quello però era un colpo basso. Sorrisi, afferrai il telefono e me lo infilai in tasca, convinta che Rush non si sarebbe comunque arreso finché non lo avessi accettato. Quel giorno avevo la seconda visita dal medico. L’avevo detto a Rush, durante la nostra terza uscita insieme, un lunedì sera. Ormai si era messo in testa di portarmi fuori più o meno tutti i giorni, tanto che ero arrivata al punto di supplicarlo di restare in casa a guardare un film. Era ampiamente riuscito a convincermi: chiunque, in paese, ci aveva visti insieme. Anzi, ero sicura che ormai fossero stufi! Mi venne da sorridere ancora di più. Tolsi di nuovo il cellulare dalla tasca: mi ero dimenticata di ricordare a Rush della visita. Avevo un telefono, potevo chiamarlo. Il suo nome era il primo nella mia lista dei preferiti. Non mi stupii. Suonò libero tre volte prima che rispondesse. — Ciao, ti devo richiamare più tardi — disse, con un tono un po’ infastidito. — Ok, ma… — feci per ribattere un secondo prima che coprisse il microfono con la mano e confabulasse con qualcun altro. Che cosa stava combinando? — Stai bene? — mi chiese all’improvviso. — Sì, sto bene, ma… — Allora ti richiamo dopo — mi interruppe prima che potessi concludere la frase e mise fine alla telefonata. Rimasi seduta lì, a fissare il telefono. Che cosa era appena successo? Forse avrei dovuto chiedergli se stava bene lui. Quando, dopo dieci minuti, ancora non mi aveva richiamato, decisi che avrei fatto meglio a prepararmi per uscire. Sicuramente si sarebbe rifatto vivo prima che fosse ora di andare. Un’ora più tardi, ancora non avevo sue notizie e non sapevo se telefonargli o no. Forse si era dimenticato che l’avevo cercato… Avrei sempre potuto prendere in prestito l’auto di Bethy e andare da sola all’appuntamento. Però lunedì, quando gliene avevo parlato, Rush mi era sembrato contento. Non potevo andarmene e basta. Digitai ancora una volta il suo numero. Quella volta gli squilli furono quattro. — Che c’è?! — La voce di Nan mi lasciò di ghiaccio. Rush era a casa di sua sorella? — Ehm… — Non sapevo cosa dirle. Non poteva sapere della visita. — C’è Rush? — chiesi, nervosa. Nan fece una risata amara. — Incredibile. Ha già detto che ti richiama. Perché non lo lasci respirare? A Rush non piacciono le persone assillanti. Adesso è con la sua famiglia, mia madre e mio padre sono tornati e fra poco pranziamo tutti insieme. Quando potrà parlarti, lo farà — concluse prima di riattaccarmi il telefono in faccia. Mi sedetti a peso morto sul letto. Stava per pranzare con sua sorella, sua madre e mio padre. Era quello il motivo per cui mi aveva riattaccato? Non voleva farmi sapere che era insieme a loro. Il suo pranzo di famiglia veniva prima di me e del bambino. Era quello che mi aspettavo sin dall’inizio, ma poi era stato così dolce e protettivo nei miei confronti… Lo stavo assillando? Non era da me, ma forse lo stavo facendo davvero. O no? Mi alzai e lasciai il telefono sul letto. Non lo volevo più. Sentire la voce piena d’odio di Nan che mi raccontava di come stesse per mettersi a tavola con suo padre era stato umiliante. Afferrai la borsetta. C’era ancora tempo per raggiungere gli uffici del club e prendere in prestito l’auto di Bethy. Quando arrivai, ero tutta sudata. Addio buone intenzioni di fare bella figura con il medico. Va be’, in fondo non era importante. Anzi, era l’ultimo dei miei problemi. Salii i gradini e Darla uscì dalla porta per venirmi incontro. — Tu oggi non sei di turno — dichiarò appena mi vide. — Lo so. Ho soltanto bisogno di prendere in prestito la macchina di Bethy. Devo andare dal medico, a Destin, ma… ma… me n’ero completamente dimenticata. — Odiavo mentire, ma dire la verità sarebbe stato insopportabile. Darla mi studiò un istante, poi si mise una mano in tasca e tirò fuori un mazzo di chiavi. — Prendi la mia, tanto io resto qui tutto il giorno. Non mi serve. Mi venne voglia di abbracciarla, ma non lo feci. Non sapevo come avrebbe potuto interpretare una simile reazione per una semplice visita medica. — Grazie mille. Ti faccio benzina — le assicurai. Annuì e mi fece segno di andare. Corsi giù per le scale e salii a bordo della sua Cadillac, pronta a raggiungere Destin. Il viaggio non andò male e, una volta arrivata, dovetti aspettare soltanto un quarto d’ora prima di entrare nello studio. L’infermiera era tutta un sorriso. Prese un macchinario dotato di schermo e mi fece sdraiare. — Sei incinta solo di dieci settimane, quindi per sentire il battito cardiaco del bambino serve un’ecografia. Sentiremo il cuore e vedremo anche una creaturina microscopica — spiegò. Avrei visto mio figlio e sentito il suo cuore battere. Era vero. Le poche volte che mi ero immaginata quel giorno, non avrei mai pensato che sarei stata sola. Mi ero vista in compagnia di qualcuno. E se non avessero sentito il battito? E se qualcosa fosse andato storto? Non avrei voluto essere sola, se fosse successo. Il medico entrò nello studio con un sorriso rassicurante stampato in faccia. — Mamma mia, che sguardo terrorizzato. Guarda che è un momento felice! Hai tutti i parametri in ordine, non c’è bisogno di essere così nervosa — disse per rassicurarmi. — Sei all’inizio della gravidanza, perciò non possiamo fare un’ecografia esterna. Procederemo dall’interno, passando attraverso la vagina. Non farà male, sentirai solo una leggera pressione — spiegò l’infermiera. Non guardai. L’idea di essere infilzata con quell’affare cilindrico non mi piaceva per niente. Decisi di concentrarmi sullo schermo. — Ok, eccoci. Tranquilla, non ti muovere — mi istruì il medico. Guardavo lo schermo in bianco e nero, in paziente attesa di riconoscere qualcosa che somigliasse a un bambino. Un piccolo battito riempì la stanza, e fu come se il mio cuore cessasse di funzionare. — È…? — chiesi, incapace di completare la domanda. — Sì. E batte regolarmente, proprio come deve — rispose il medico. Fissai lo schermo e l’infermiera indicò quello che sembrava un fagiolino. — Eccolo, o eccola. Dimensioni perfette per un feto di dieci settimane. Non riuscivo a deglutire abbastanza da sciogliere il nodo che mi stringeva la gola. Le guance mi si bagnarono di lacrime, ma non mi importava. Paralizzata, non staccai gli occhi dal minuscolo miracolo sullo schermo, mentre il suo battito riempiva l’intera stanza. — Tu e il tuo bambino state benissimo — annunciò il medico estraendo lentamente lo strumento. L’infermiera mi riabbassò il camice e mi aiutò a scendere dal lettino dandomi la mano. — Dopo questo esame è perfettamente normale avere qualche piccola perdita di sangue, perciò, se capita, non ti spaventare — mi avvertì il medico rialzandosi e andando a lavarsi le mani. — Continua con gli integratori che stai già assumendo e torna a farti vedere fra quattro settimane. Annuii. Ero ancora stupefatta. — Tieni — mi disse l’infermiera porgendomi le immagini stampate dall’ecografo. — Posso tenerle? — chiesi guardando le fotografie del mio bambino. — Certo che sì! — rispose lei, divertita. — Grazie! — Le studiai con attenzione e riconobbi il fagiolino che viveva dentro di me. — Di niente — rispose dandomi una lieve pacca sul ginocchio. — Adesso ti puoi rivestire. Va tutto alla grande. Annuii e asciugai con la mano un’altra lacrima che aveva cominciato a rotolarmi giù per la guancia. RUSH — Dov’è andata, Bethy? — chiesi uscendo dalla stanza di Blaire e tenendo in mano il suo cellulare. Lo aveva lasciato sul letto. Bethy, furiosa, tirò un calcio a un armadietto della cucina. — Il fatto che tu non sappia nemmeno dov’è mi porta a odiarti ancora di più, imbecille! Ma che cazzo aveva mai quella? Avevo passato una giornata d’inferno. Dire a mia madre che doveva cercarsi un’altra casa e annunciare che avevo intenzione di chiedere a Blaire di sposarmi li aveva fatti uscire completamente di testa. Be’, non tutti. Suo padre mi era sembrato d’accordo. Nan e mia madre… due pazze isteriche. Avevamo litigato e urlato per ore; io mi ero messo a lanciare minacce che avevo tutte le intenzioni di mettere in pratica. Lunedì, Nan sarebbe dovuta tornare all’università; poi ci sarebbero state le vacanze di Natale, ed ero certo che, come tutti gli anni, le avrebbe passate nel nostro cottage di montagna. Di solito ci andavo anch’io con lei, ma non quell’anno. — Ho passato le ultime quattro ore a cercare di sopravvivere a mia madre e a mia sorella. Buttare Georgianna fuori di casa e informare lei e quell’altra che ho intenzione di chiedere a Blaire di sposarmi non è stata quella che si definisce una passeggiata. Perciò scusa tanto se ora mi serve un po’ d’aiuto per ricordarmi dov’è andata Blaire! Bethy sbatté la bottiglietta d’acqua che stava bevendo sul bancone della cucina e la sua espressione feroce si trasformò in qualcosa di più simile a una smorfia di disgusto. Pensavo che sapere della proposta di matrimonio l’avrebbe resa felice. A quanto pareva, mi ero sbagliato. — Spero tanto che tu non le abbia comprato un anello — fu la sua unica reazione. Ero stanco di quei giochetti. — Dimmi dov’è! — tuonai. Bethy appoggiò entrambe le mani sul bancone e si sporse in avanti rivolgendomi uno sguardo imbestialito di cui nemmeno la credevo capace. — Vai all’in-fer-no. Merda, merda! Ma che cosa avevo fatto? La porta si aprì e Blaire entrò sorridendo, finché i suoi occhi non incrociarono i miei. A quel punto, il suo sorriso si dileguò. Anche lei era arrabbiata con me. Pessimo segno. — Blaire — dissi avvicinandomi a lei, che nel frattempo arretrava. — No — disse sollevando entrambe le mani e impedendomi di avvicinarmi. Teneva in mano qualcosa, forse fotografie. E di cosa? C’entrava il mio passato? Era arrabbiata per colpa di qualche ragazza con cui ero uscito tempo prima? — È ciò che penso che sia? — chiese Bethy spingendomi via e correndo incontro a Blaire. Lei annuì e le passò le foto. Bethy si coprì la bocca con una mano. — Oddio! Hai sentito il battito? Al suono della parola “battito”, mi sentii come se mi stessero aprendo il petto in due. Finalmente avevo capito. Mi aveva chiamato per ricordarmelo, ma io le avevo chiuso il telefono in faccia. — Blaire… No, cavolo… Mi dispiace tantissimo! Ho dovuto… — Stare con la tua famiglia. Lo so. Me l’ha detto Nan, quando ho richiamato. Non voglio sentire le tue scuse, voglio che tu te ne vada e basta. — Aveva parlato in tono neutrale, senza emozioni. Tornò a rivolgere la sua attenzione alle immagini e indicò qualcosa. — Proprio qui, vedi? Ma ci pensi che è dentro di me?! Bethy spostò il suo sguardo truce da me alla foto e un sorriso tenero le rischiarò il viso. — È fantastico. Erano in piedi ad ammirare le immagini di mio figlio. Quel giorno Blaire aveva sentito per la prima volta il suo battito. Sola. Senza di me. — Posso vedere? — chiesi, con la paura di sentirmi rispondere di no o, peggio, di essere ignorato. Invece Blaire prese una delle immagini da Bethy e la passò a me. — Quella cosina minuscola che sembra un fagiolino. Quella… è nostro figlio — disse. Aveva esitato prima di dire quelle ultime tre parole. Non potevo biasimarla. — Il cuore era a posto? Cioè, batteva regolarmente e tutto il resto? — chiesi fissando la foto che avevo in mano. — Sì. Hanno detto che è tutto perfetto — mi confermò. — Se vuoi puoi tenerla, io ne ho altre tre. Però vorrei che adesso te ne andassi. Non l’avrei fatto. Neppure Bethy e quella sua aria da cerbero mi avrebbero fermato. Avrei detto tutto di fronte a lei, se fosse stato necessario, ma mi rifiutavo di uscire da quella casa. — Oggi mia madre e tuo padre sono tornati a casa senza preavviso. Nan parte per il college lunedì. Mia madre pensava che me ne sarei andato anch’io, quindi era pronta a trasferirsi in casa mia per il resto dell’anno. Le ho spiegato che invece volevo restare, e che lei doveva trovarsi un’altra casa. Ho anche informato tutti del fatto che sarei rimasto finché tu non avessi deciso di andare a vivere da qualche altra parte. E ho aggiunto che volevo sposarti. È scoppiato l’inferno, ti avrei richiamato non appena mia madre e Abe fossero risaliti in macchina per andarsene fuori città. Non volevo costringerti ad affrontare nessuno dei due. Purtroppo, però, mia madre non sa rinunciare alle scenate. Nan ha fatto le valigie ed è partita seduta stante per il college, dicendo che non mi rivolgerà mai più la parola. — Mi interruppi e inspirai profondamente. — Non potrò mai farti capire quanto mi dispiace non esserci stato. Aver dimenticato l’appuntamento di oggi è stato imperdonabile, me ne rendo conto. Con te non faccio altro che scusarmi… Vorrei riuscire a smetterla di mandare tutto all’aria. — Allora non stavate per pranzare tutti insieme? — mi domandò. — Pranzare insieme? Cosa?! Ma figurati! Blaire passò da una posizione difensiva a un’altra molto più rilassata. — Ahhh… — sospirò. — Perché hai pensato che potessi avere voglia di mangiare con loro? Non ti avrei mai riattaccato il telefono per stare con quelli! — Nan — mi rispose lei con un sorriso triste. — Nan? Quando mai hai parlato con Nan? — Ero stato con mia sorella tutta la mattina. — Quando ti ho richiamato. Ha risposto lei e ha detto che non avevi tempo da dedicarmi perché stavate per pranzare tutti insieme. Quella bugiarda schifosa di mia sorella doveva ringraziare Dio di essere in viaggio verso la East Coast, altrimenti le avrei tirato il collo con le mie stesse mani. — Sei andata dal medico convinta che avessi dato buca a te e a nostro figlio per loro? Oh, no, no! — Spinsi Bethy da parte e presi Blaire fra le mie braccia. — Sei tu la mia famiglia, Blaire. Anzi, siete tu e lui. Mi hai capito? Oggi mi sono perso qualcosa di speciale, e non me lo perdonerò mai. Avrei voluto esserci anch’io, sentire con te il battito del suo cuore. Avrei voluto tenerti la mano mentre vedevi per la prima volta nostro figlio. Blaire inclinò la testa all’indietro e mi sorrise. — Lo sai, vero, che potrebbe anche essere femmina? — Sì, lo so. — Però hai detto “lui” — mi fece notare. Sì, avevo detto “lui”. Sorrisi e le baciai la fronte. — Dai, andiamo in camera tua, così mi racconti. Voglio tutti i particolari! Annuì e lanciò uno sguardo a Bethy. — Tu hai intenzione di continuare a incenerirlo con gli occhi o pensi di perdonarlo? Bethy fece spallucce. — Non ho ancora deciso. BLAIRE Le scuole erano ricominciate. Turisti e vacanzieri erano tornati a casa. Al club c’era molto meno da fare, di conseguenza le mance erano diminuite. Dopo la sera in cui mi aveva spiegato cosa aveva detto a sua madre, a sua sorella e a mio padre, Rush non aveva più nominato l’idea del matrimonio. E non aveva più parlato neppure di loro. A volte mi chiedevo se avesse cambiato idea o se mi fossi semplicemente sognata tutto. Se non fosse stato per Bethy che ogni settimana mi chiedeva se c’erano stati sviluppi, sarei stata convinta dell’ipotesi sogno o allucinazione. Ogni volta che le rispondevo di no, lei si agitava un po’ di più. Anche il mio cuore faceva sempre un po’ più male… La paura era che Rush avesse cambiato idea. Prima di sentirne parlare per la prima volta, quella sera, io non avevo mai preso in considerazione l’argomento matrimonio. Credevo che avremmo cresciuto il bambino vivendo in due case separate. Se poi mi capitava di fare pensieri strani, di fantasticare sul futuro, intervenivo subito e mi davo una regolata. Certe cose non andavano nemmeno accarezzate con la mente. Essendo in bassa stagione, le mie ore di lavoro erano state ridotte e mi stavo chiedendo se non fosse il caso di trovare un secondo lavoro. Nella zona non c’era molta scelta, e poi era molto probabile che Rush non l’avrebbe presa bene. Quando entrai in camera mia, due cose attirarono la mia attenzione. Dei petali di rosa sul letto e, al centro, una busta con il mio nome scritto sopra in bella grafia. La presi e la aprii. Era carta di alta qualità, e in alto c’era inciso il cognome “Finlay”. Vediamoci sulla spiaggia. Con amore, Rush Quella grafia stranamente perfetta mi fece sorridere. Aprii l’armadio e presi un vestito bianco con due strisce nere lungo l’orlo. Se aveva in mente qualcosa di romantico in spiaggia, non mi sarei certo presentata con la divisa da lavoro. Mi pettinai, diedi una rinfrescata al trucco e attraversai le porte a vetri che si affacciavano sul golfo per scendere in spiaggia. Rush indossava un paio di bermuda color cachi e una camicia elegante. Ero felice di essermi cambiata. In quel momento mi dava la schiena e teneva le mani in tasca, fissando l’oceano. Avevo quasi voglia di fermarmi ad ammirare lui che ammirava le onde, ma ero anche impaziente di incontrarlo. Quel mattino, quando mi ero alzata, era già uscito. Scesi dalla passerella e camminai sulla sabbia. La spiaggia era stranamente deserta, c’eravamo solo noi due. Anche se la maggior parte dei turisti se n’era andata, il sole continuava a splendere e il termometro segnava trenta gradi. Abbassai lo sguardo e notai uno strano particolare. Qualcuno aveva scritto delle parole sulla sabbia e aveva abbandonato un bastoncino di legno lì accanto… Mi fermai e lessi ad alta voce: — Blaire Wynn, mi vuoi sposare? Mentre ancora cercavo di rendermi conto di cosa avessi appena detto, Rush corse verso di me e si mise in ginocchio. Dentro la sua mano comparve un minuscolo astuccio. Lo aprì lentamente e un anello con un brillante solitario risplendette alla luce del sole. Era come se, luccicando, stesse prendendo vita. Stava succedendo veramente… Lo volevo? Sì. Mi fidavo di lui?… Sì. Rush era pronto? Non ne ero sicura. Non volevo fosse qualcosa che faceva solo perché si sentiva costretto. Sarebbe stato semplice per me allungare una mano e mettermi l’anello al dito, ma era davvero quello che lui desiderava? — Non sei obbligato a farlo — mi sforzai di dirgli. Erano settimane che non rivolgeva più la parola né a sua sorella né a sua madre. Per quanto non le sopportassi… Anzi no, per quanto le odiassi, non volevo fare la parte di quella che si metteva fra lui e la sua famiglia. Rush scosse la testa. — No, nessuno mi obbliga a fare niente. Voglio passare il resto della mia vita con te. Con nessun altro all’infuori di te. Le sue erano parole belle, giuste. Eppure io continuavo a sentirmi come se ci fosse qualcosa di sbagliato. Rush era giovane, ricco, stupendo. Io non avevo niente da offrirgli. Sarei stata di certo un peso per lui, avrei cambiato tutto il suo mondo. — Non posso farti questo. Non posso ostacolare il tuo futuro. Tu avresti la possibilità di fare quello che vuoi, ti ho già promesso che farai comunque parte della vita di nostro figlio. Sarà sempre così, anche quando sentirai di avere voglia di andartene. Io non te lo impedirò mai. — Non aggiungere una parola. Ti giuro, Blaire, che sono a un passo dal sollevarti di peso e scaraventarti nell’oceano. — Si rialzò e mi guardò dritto negli occhi. — Nessun uomo ha mai amato una donna quanto io amo te. Sarai sempre al primo posto e non so cos’altro fare per dimostrarti che non ti deluderò più. Non ti farò soffrire. Non sarai più sola, perché io ho bisogno di te. Forse non era giusto e forse stavo commettendo un errore, ma le sue parole stavano toccando punti del mio cuore dove ancora non era riuscito ad arrivare. Presi l’astuccio e sfilai l’anello. — È bellissimo — gli dissi. Era vero. Non troppo vistoso né eccessivo. Semplicemente perfetto. — Niente di meno sarebbe stato degno delle tue dita — fece lui togliendomelo di mano. Si inginocchiò una seconda volta e mi guardò negli occhi. — Per favore, Blaire Wynn, vuoi diventare mia moglie? Lo volevo. Volevo lui. — Sì — dissi. Mi mise l’anello al dito. — Grazie, grazie, grazie!!! — sussurrò rialzandosi e catturandomi la bocca con un bacio passionale. Era tutto vero. Forse non lo sarebbe stato per sempre, ma almeno in quel momento era così. Avrei trovato il modo di lasciarlo libero, se lo avesse voluto. Ma io lo amavo, e quello non sarebbe mai cambiato. — Vieni a vivere da me — mi pregò. — Non posso. Devo pagare la mia metà d’affitto — gli ricordai. — Ho pagato tutto per un anno intero. Ogni dollaro che hai dato a Woods è finito in un conto deposito intestato a te. Lo stesso vale per Bethy. Ora che lo sai, vieni a vivere da me. Avrei dovuto mangiargli la testa, ma in quel momento non ci riuscivo. Gli diedi un bacio sulle labbra e annuii. — E poi smettila di lavorare — aggiunse. — No — mi opposi. Quello non l’avrei fatto. — Ora sei la mia fidanzata. Sarai mia moglie. Perché vuoi lavorare in un country club? Non preferiresti occuparti d’altro? Che ne diresti del college? Vorresti andarci, vorresti prendere un diploma? Non limiterò le tue scelte. Io voglio darti di più. Sarei diventata sua moglie. Lo guardai, assimilando lentamente la notizia. Non avrei dovuto abbandonare il college come avevo fatto con la scuola. Potevo diplomarmi e imparare una professione. — Sì, lo voglio. Solo… lasciami un attimo di tempo! Sono troppe cose e troppo in fretta! — dissi, buttandogli le braccia al collo. RUSH Blaire era decisa a dare due settimane di preavviso a Woods prima di lasciare il lavoro. Io non avevo voluto discutere: aveva già accettato tutte le mie proposte e non avevo intenzione di tirare troppo la corda. Mi misi davanti al computer, con una tazza di caffè, in attesa che finisse il turno. Woods era passato a salutarmi e si era fermato un paio di minuti, ma a parte quello era stata una serata tranquilla. Quasi tutti avevano lasciato il paese. Jace continuava a farsi vedere perché c’era Bethy, ma temevo che non avrebbe resistito molto. Due giorni prima, quando ci eravamo fatti una partita a golf, non mi era sfuggita l’aria inquieta che aveva negli occhi. Non era abituato a fermarsi a Rosemary per più di un’estate. — Questa sedia è occupata? — Alzai lo sguardo e mi accorsi che davanti a me si stava sedendo Meg. Non ci eravamo incrociati spesso dopo il torneo. Girai la testa e vidi Blaire che riempiva il bicchiere di qualcuno, senza staccarmi gli occhi di dosso. — Sì, è occupata — risposi senza alzare lo sguardo. — So che sei fidanzato con la bionda. Lo sanno tutti. Non sono venuta qui per provarci — dichiarò lei. Blaire mi sorrise e poi si voltò per tornare in cucina. Merda. Cosa voleva dire quel sorriso? — Porta al dito un brillante da paura. Non ha niente di cui preoccuparsi e ne è perfettamente consapevole, perciò calmati, ragazzo mio. Ti stai agitando per niente. La guardai. — Sa che sei stata la mia prima volta. Le dà fastidio. Meg ridacchiò. — Ti posso assicurare che i ricordi che ho io della nostra esperienza e la realtà che sta vivendo lei sono due cose completamente diverse. Io mi sono presa il verginello arrapato, lei il professionista esperto. Mi girai per vedere se Blaire fosse tornata in sala. Non mi andava che sentisse certi discorsi. — Dai, vai a sederti da un’altra parte. È molto emotiva in questo periodo, non mi va di agitarla. Nessuno sapeva che era incinta. Volevo che fosse Blaire a decidere quando comunicarlo ufficialmente. — Su, su, non è fatta di porcellana. Non si romperà. Lo sa che la tratti come una cavolo di bambola? — Sì, lo so. Ci stiamo lavorando su — rispose Blaire avvicinandosi al nostro tavolo e versandomi dell’altro caffè. — Credo che non ci abbiano ancora presentate ufficialmente. Piacere, Blaire Wynn. Meg guardò prima me, sorpresa, e poi le rispose. — Meg Carter. — Sono contenta di poterti finalmente conoscere. Posso portarti qualcosa da bere? Non era la scena che mi sarei aspettato. Non che non ne fossi contento, anzi. Era la prova che stavo riuscendo a farla sentire più sicura al mio fianco. — Se ti chiedo una Coca Light, pensi che lui mi tirerà un pugno? — chiese Meg. Blaire scoppiò a ridere. — No. Farà il bravo, te lo prometto. — Poi guardò me. — Hai fame? — Sono a posto, grazie. Soddisfatta, tornò in cucina. — Sai che un po’ potrebbe piacermi? È stupenda. Ma non mi sorprende: se sta per riuscire a mettere il cappio al collo a te, deve per forza avere tutte le carte in regola. Bevvi un sorso di caffè, sorridendo. Poi mi girai di nuovo verso la porta della cucina, aspettando di veder ricomparire Blaire. Non vedevo l’ora di portarmi a casa quel suo bel culo eccitante. Blaire non smetteva di baciarmi il collo e di solleticarmi l’orecchio. Era molto, molto difficile mantenere la concentrazione mentre guidavo sulla strada del ritorno verso casa. — Se la mia fidanzatina vogliosa non la pianta, giuro che adesso accosto e me la faccio — la avvertii, mordicchiandole il labbro inferiore non appena fu vicina alla mia bocca. — Suona più come una promessa che come una minaccia — scherzò lei, infilandomi una mano fra le cosce e chiudendola sulla mia erezione. — Cazzo, Blaire, tu mi farai impazzire — dissi premendole contro il palmo. — Se te lo succhio, pensi di riuscire lo stesso a concentrarti sulla guida? — mi chiese mentre iniziava a sbottonarmi i jeans. — Mi schianterò quasi sicuramente contro una palma, ma in questo momento non me ne potrebbe fregare di meno! — risposi mentre sentivo le sue dita che mi scivolavano sotto i boxer. Per fortuna non fummo costretti a tentare la fortuna, perché imboccai il vialetto di casa e parcheggiai nel secondo esatto in cui Blaire riusciva ad aprirmi completamente i pantaloni. Sentii il cellulare suonare per la terza volta; avevo impostato la vibrazione e la funzione “non disturbare”, così non avrei visto neanche lo schermo lampeggiare. Mia madre aveva già tentato di chiamarmi prima, mentre aspettavo Blaire, ma non ero dell’umore giusto per risponderle. Appena la vibrazione cessò, ne ripartì un’altra. Maledizione. Avevo solo due possibilità: spegnere oppure farmi coraggio. Nel frattempo, Blaire si era già presa il mio uccello fra le mani, perciò pensai che la prima opzione fosse la migliore. Abbassando lo sguardo sullo schermo, mi accorsi che il numero aveva un prefisso che non era quello della nostra zona. Mi era familiare, ma non riuscivo a localizzarlo. — Chi è? — domandò Blaire. — Non ne sono sicuro, ma certamente è qualcuno che non molla. Blaire smise di toccarmi. — Rispondi. Farò la brava per qualche minuto. Accettai la chiamata. Dovevo sbarazzarmi di quello scocciatore e divertirmi con la mia ragazza. Prima ancora che potessi dire “Pronto”, mia madre cominciò a travolgermi di parole, facendomi mancare la terra sotto i piedi. BLAIRE Rush era diventato pallido. Gli presi la mano, ma lui non reagì. Se ne stava lì, seduto ad ascoltare in silenzio la persona all’altro capo della linea. Più tempo passava, più lui sbiancava. Io avevo il cuore a mille: doveva essere successo qualcosa di terribile. Aspettavo con ansia che mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non lo fece. — Arrivo subito — annunciò con voce distante prima di lasciar cadere il cellulare sulle ginocchia e togliere la mano dalla mia stretta per afferrare il volante. — Che cosa è successo, Rush? — chiesi, persino più spaventata di quando lui era al telefono. — Entra in casa, Blaire. Io devo andare. Nan ha avuto un incidente in barca a vela. — Chiuse forte le palpebre e imprecò sottovoce. — Adesso tu devi scendere ed entrare in casa. Ti chiamo appena possibile, ma adesso devo andare. Subito. — Sì è fatta male? Non posso venire con te? — NO! — urlò lui, tenendo lo sguardo fisso in avanti. — Non puoi venire con me. Come fa a venirti in mente anche solo di chiedermelo? Mia sorella è in rianimazione, non reagisce. Io devo andare da lei e tu devi scendere da questa cazzo di macchina. Era ferito e spaventato. Lo capivo, però volevo stargli vicino. Lo amavo e non volevo che affrontasse da solo quel dolore. — Rush, ti prego, lasciami venire con te… — SCENDI DA QUESTA MACCHINA! — sbraitò, così forte da perforarmi i timpani. Cercai freneticamente la maniglia della portiera e presi la borsa. Lui riaccese il motore e continuò a guardare dritto di fronte a sé, con le nocche delle mani che gli diventavano bianche come la faccia per la forza con cui stava stringendo il volante. Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma era così sconvolto che non sapevo come avrebbe potuto reagire. Non voleva sentirmi parlare né guardarmi in faccia. Non mi andava di piangere di fronte a lui. Non era quello di cui aveva bisogno in quel momento. Scesi dall’auto il più velocemente possibile e, prima ancora che la portiera si chiudesse completamente, lo vidi innestare la retromarcia e uscire dal vialetto di casa. Rimasi in piedi a guardarlo mentre si allontanava a tutto gas. Non ero in grado di aiutarlo. E non ero gradita. Le lacrime cominciarono a cadere libere sulle mie guance. Rush stava soffrendo. Mi si spezzava il cuore per lui. Una volta arrivato in ospedale, mi avrebbe chiamata. Sì, dovevo crederci. Avrei voluto farlo io, chiedergli di parlarmi, ma nelle orecchie mi rimbombava ancora il suo grido e nel cuore avevo la ferita delle sue parole. Mi girai, guardai la casa. Era grande, immensa, buia. Non aveva niente di accogliente, senza Rush. Non mi andava di restare lì da sola, ma non avevo la macchina e non potevo tornare da Bethy. Non me ne sarei mai dovuta andare da casa sua; era troppo presto. Tutto, con Rush, era successo così in fretta… E adesso eravamo alla prova del fuoco. Non ero sicura di essere pronta, non ancora. Proprio non me la sentivo di telefonare a Bethy e dirle che mi serviva un passaggio per andare al lavoro perché Rush se n’era andato. Lo avrebbe criticato e mi avrebbe fatto sentire ancora peggio. Io capivo la paura di Rush e capivo anche il modo in cui aveva reagito, lei invece non lo avrebbe fatto, o almeno così pensavo. Rush aveva riguadagnato diversi punti con lei da quando mi aveva messo l’anello al dito, e non volevo farglieli perdere. Aprii la borsa per prendere le chiavi di casa, ma mi accorsi che non le avevo… Era stato Rush ad accompagnarmi al lavoro, non avevo pensato che avrei potuto averne bisogno. Alzai gli occhi su quell’edificio cupo e fui quasi contenta di non dovermi fermare a dormire lì dentro da sola. Il club era a meno di cinque chilometri da lì, avrei potuto raggiungerlo a piedi, e l’appartamento di Bethy si trovava subito lì accanto. L’aria fresca della sera aveva abbassato le temperature e tutto sommato non si stava così male. Mi infilai la borsa sulla spalla e mi incamminai lungo il vialetto lastricato di mattoni per scendere in strada. Mi ci vollero un’ora e cinquanta minuti per arrivare da Bethy. La sua auto non era nel parcheggio. C’erano molte possibilità che fosse rimasta a dormire da Jace… Che stupida, avrei dovuto pensarci prima. Mi fermai davanti alla porta, rendendomi conto di non avere più la forza di tornare indietro. La testardaggine che mi aveva impedito di telefonare per chiedere un passaggio si stava ritorcendo contro di me. Mi chinai e sollevai lo zerbino. Lì, sul cemento, c’era la chiave di scorta. Bethy doveva averla rimessa nel solito nascondiglio dopo che io me ne ero andata; aveva cambiato abitudine soltanto perché ero stata io a chiederglielo. Per fortuna! In ogni caso, dubitavo che sarebbe tornata a casa prima dell’indomani mattina, quindi non avrei dovuto raccontarle tutta la storia quella notte stessa. Aprii la porta e tenni la chiave, poi andai subito in bagno a farmi una doccia. Rush aveva insistito con Bethy affinché tenesse il letto che aveva comprato per me nella mia ex camera, invece di spostarlo nella sua dopo il mio trasferimento. Quella sera potevo essergliene grata. Il mattino dopo riuscii a sgattaiolare al lavoro senza che Bethy si fosse accorta del mio pernottamento d’emergenza. Non che si sarebbe arrabbiata, ma io non ero pronta a rispondere alle sue domande né a sentire la sua opinione. Mi misi una divisa pulita prendendola dall’armadietto delle scorte e mi incamminai verso la cucina. Un attimo prima che aprissi la porta, Woods uscì e mi guardò negli occhi. — Ti stavo cercando — disse, indicando con un cenno il corridoio che portava al suo ufficio. — Dobbiamo parlare. Sapeva sicuramente di Nan. A quell’ora, tutti quelli della sua cerchia dovevano esserne già stati informati. Mi avrebbe chiesto notizie di lei? Speravo proprio di no. Ammettere di non sapere niente mi avrebbe fatto fare la figura della menefreghista. Anche Rush lo pensava? Spettava a me telefonargli? Era lui quello che stava soffrendo. La sua reazione della sera prima mi aveva spaventata, ma se ora aveva bisogno di me dovevo passarci sopra. — Hai dormito? — mi domandò, osservandomi attentamente. Feci sì con la testa. In realtà non avevo riposato molto bene, ma almeno per qualche ora avevo dormito. La camminata di quasi cinque chilometri della sera prima aveva contribuito a sfiancarmi al punto che, dopo essermi sdraiata sul letto, non ero riuscita a tenere gli occhi aperti. Woods aprì la porta del suo ufficio e mi fece passare; entrai e mi misi accanto alle poltrone davanti alla sua scrivania. Come sempre, invece di sedersi, lui si appoggiò sul bordo del tavolo e si mise a braccia conserte. Una ruga gli segnava la fronte mentre continuava a studiarmi con attenzione. Cominciavo a chiedermi se non si trattasse d’altro: all’inizio credevo mi avrebbe parlato di Nan, ma forse mi ero sbagliata. Avevo fatto qualcosa di male? — Stamattina mi ha telefonato Grant. È in ospedale ed è in pensiero per te. Ha detto che Rush si è precipitato lì nel cuore della notte, fuori di sé. Considerato che, per la prima volta nella vita, aveva smesso di parlare con sua sorella, non la sta prendendo molto bene. Grant era preoccupato di come ti avesse lasciata, voleva sapere se stavi bene. Sentivo il cuore pesante. Non sopportavo di sapere che Rush stava soffrendo così tanto e non ci fosse niente che potessi fare. Non mi aveva ancora richiamata, e ne deducevo che non aveva voglia di parlarmi. Ero io il motivo del suo litigio con Nan. Ero io il motivo per cui non si parlavano da settimane. Ero io il motivo per cui stava vivendo quella tragedia. Sentivo le lacrime pungermi gli occhi. Per quanto mi costasse ammetterlo, ero io la ragione per cui Rush soffriva ancora più del dovuto per quell’incidente. Se non avessi scatenato la loro lite, lui ora non sarebbe stato alle prese con il senso di colpa che invece lo stava soffocando. Erano quelli i motivi per cui, fra me e Rush, non avrebbe mai funzionato. Fingere che la fiaba fosse realtà era stato fantastico, ma altrettanto assurdo. Fino a quel momento avevamo temporeggiato, poi l’amara verità – e cioè il fatto che io non facessi parte del suo mondo – ci era caduta addosso come un macigno, polverizzando tutto. In quel momento lui aveva bisogno della sua famiglia. E io, semplicemente, non ne facevo parte. Anzi, loro nemmeno mi accettavano. Come avrebbero potuto? — Io... Io non so che cosa fare — confessai con voce strozzata, detestando il fatto che Woods stesse per vedermi piangere. Non volevo. Nessuno doveva vedermi così. — Lui ti ama — mi sentii dire con dolcezza, anche se in fondo non ero così sicura che Woods credesse a quello che aveva appena detto. Non dopo gli ultimi avvenimenti. Forse Rush aveva pensato di amarmi, sì, ma ora come poteva continuare a farlo? Per colpa mia si era rivoltato contro Nan e adesso rischiava di perderla per sempre. — Davvero? — Era una domanda che avevo bisogno di fare a me stessa, più che a Woods. — Sì. Non l’ho mai visto comportarsi con nessuna come si comporta con te. Adesso… Per i prossimi giorni o magari settimane, in base al tempo che ci vorrà, potrebbe sembrare il contrario. Eppure lui ti ama veramente, non lo dico per fargli un favore. È un coglione e non gli devo proprio nulla. Lo dico per te. È la verità e so che ora hai bisogno di sentirla. Feci no con la testa. No, non ne avevo bisogno. Pensare lucidamente e decidere cosa fosse meglio per me e mio figlio era quello che dovevo fare. Potevo cercare di inserire un bambino in una famiglia che probabilmente non lo avrebbe mai accettato? Non ce l’avrei mai fatta io a integrarmi, figuriamoci lui. — Non posso dirti cosa credere. Però, se ti serve qualcosa, sono qui. So che Rush ha un garage pieno di macchine, ma se non vuoi guidare una di quelle posso accompagnarti io dal medico o a fare la spesa. Insomma: se hai bisogno di me, chiamami. Mancavano cinque giorni al mio appuntamento dal dottore. Come avrei fatto a entrare in casa? Rush poi non mi aveva mai fatto vedere dove teneva le chiavi delle macchine, né mi aveva dato il permesso di usarle. — Sono chiusa fuori casa. Quando se n’è andato, pensavo di avere le chiavi, e invece… — confessai. — E dove hai dormito ieri notte, scusa? — mi chiese distendendo le braccia e staccandosi dalla scrivania. Sembrava arrabbiato. Non volevo innervosirlo, stavo semplicemente descrivendo la realtà. Tutti i miei vestiti erano a casa di Rush. — Da Bethy. — E come ci sei arrivata? — A piedi. — Blaire, cazzo! Saranno cinque chilometri! Quando Rush se n’è andato era già tardi. Hai un cellulare adesso, usalo! — Stava gridando. — Avevo voglia di camminare. Mi ha fatto bene, perciò abbassa il tono di voce — ribattei, determinata. Vidi la tensione abbandonare le spalle di Woods, che fece un sospiro. — Mi dispiace. Non avrei dovuto rivolgermi a te così. È che sei talmente decisa a mantenere la tua indipendenza… Ci riprovo, vediamo: chiamami se ti serve un passaggio. Mi piace pensare che siamo amici, e io i miei amici li aiuto. E a me degli amici servivano. — Anche a me piace pensare che siamo amici — risposi. Annuì. — Bene. Ma sono anche il tuo capo, e oggi non ti lascio lavorare. Ti farò entrare in casa di Rush nel giro di un’ora, ti ci porto io. Prima che potessi chiedergli come ci sarebbe riuscito, lui aveva già il cellulare all’orecchio. — È qui nel mio ufficio. È rimasta chiusa fuori casa. — Si interruppe. — Eh, no, invece. Ha camminato fino all’appartamento di Bethy. Se riesci a rintracciare la donna delle pulizie di Rush, la accompagno io e ci facciamo aprire la porta da lei. — Seconda pausa. — Non c’è problema, lo faccio volentieri. Tienimi aggiornato, vi sto pensando. — Chiuse la comunicazione e mi guardò. — Grant ha già chiamato la domestica per chiederle di venire ad aprire. Adesso vai in cucina a mangiare qualcosa, poi partiamo. Ha detto che ci vorranno circa venti minuti. Non avevo fame, ma evitai di controbattere. — Va bene. — Mi girai per uscire ma, sulla porta, mi voltai un’ultima volta. — Grazie, Woods. Mi fece l’occhiolino. — È un piacere. RUSH Non ero riuscito a chiudere occhio. Ero seduto nella poltrona accanto al letto d’ospedale in cui giaceva mia sorella minore. Non aveva riaperto gli occhi dall’incidente. I monitor lampeggiavano ed emettevano suoni a intermittenza per dirmi che era ancora viva. La sua sagoma immobile sul materasso, con la garza avvolta attorno alla testa e gli aghi nelle braccia, dava l’impressione che fosse già morta. Le ultime parole che le avevo detto erano state dure, ma in quel momento mi sembravano persino crudeli. Volevo soltanto farle capire che doveva crescere, ma adesso rischiava di non poterlo fare mai più. La rabbia che avevo provato appena arrivato in ospedale era svanita l’esatto istante in cui avevo posato lo sguardo su di lei. Il solo fatto di vederla così ferita e inerme mi stava uccidendo. Non riuscivo a mangiare, non riuscivo a dormire. Avevo soltanto bisogno che riaprisse gli occhi. Dovevo dirle che le volevo bene e che mi dispiaceva per lei; le avrei promesso che mi avrebbe avuto per sempre, a ogni costo. Poi l’avrei abbandonata di nuovo... Perché lei non poteva accettare Blaire. Blaire. Stavo male a pensare a come l’avevo lasciata. Mi aveva guardato con gli occhi spalancati, terrorizzati. Avevo sbagliato ancora una volta, ma io stesso ero morto di paura alla notizia dell’incidente. Ancora non potevo chiamarla, non se Nan continuava a restare in quelle condizioni. Avevo già messo Blaire davanti a mia sorella e quello era stato il risultato. Adesso era Nan che veniva per prima. Se avesse capito che ero seduto al suo capezzale, avrebbe riaperto gli occhi, ne ero convinto. La porta si aprì. Era Grant. Il suo sguardo corse subito a Nan; il dolore che vidi lampeggiare dentro i suoi occhi non mi sorprese. Anche se si era sempre comportato come se lei non gli piacesse, di fatto sapevo che le voleva un gran bene. Da piccola, Nan era stata la monella viziata che era impossibile non amare. Così come era impossibile spezzare certi legami. — Ho appena parlato con Woods. Blaire sta bene. Ieri notte è rimasta chiusa fuori casa, ma ha dormito da Bethy. Ho telefonato a Henrietta, va lei ad aprirle. — Aveva parlato quasi sottovoce, come se avesse avuto paura di disturbare Nan facendo il nome di Blaire. L’avevo scaricata di notte sul vialetto di casa, da sola. Grazie a Dio aveva il cellulare. In quel momento non avrei potuto sopportare l’idea di saperla persa nel buio. — È arrabbiata? — Quello che davvero volevo sapere era se fosse arrabbiata con me in particolare. Come poteva essere altrimenti? Quando mia madre mi aveva detto di Nan, qualcosa mi era scattato dentro e avevo perso le staffe. — Ha detto che si sarebbe preso lui cura di lei… — disse Grant, esitando. Sapevo cosa stava pensando: lasciare che Woods si occupasse di Blaire era pericoloso. Era ricco, aveva successo e la sua famiglia non lo odiava. E se si fosse resa conto che con me perdeva solo tempo? — È incinta — confessai. Dovevo dirlo a qualcuno. — Oh, cazzo… — mormorò lui, lasciandosi cadere sulla sedia di plastica rigida messa in un angolo della stanza. — Quand’è che l’hai scoperto? — Me l’ha detto poco dopo essere ritornata qui. Grant si portò una mano alla bocca e scosse la testa. Non si aspettava una notizia del genere. Però non sapeva nemmeno che eravamo fidanzati… Quando avevo chiesto a Blaire di sposarmi, lui aveva già lasciato Rosemary. Non l’avevo ancora avvisato. — Allora è per questo che le hai chiesto di sposarti? — Non era una domanda vera e propria. Era più che altro un’affermazione. — E tu come fai a saperlo?! Spostò lo sguardo su Nan. — Me l’ha detto lei. Nan aveva avuto bisogno di sfogarsi, non c’era dubbio. Il fatto che però avesse scelto Grant come confidente era interessante, considerato che normalmente quei due si prendevano per i capelli. Capitava di rado che facessero qualcosa insieme. — Non ne era entusiasta, immagino — dissi. — No, infatti — ammise lui. La guardai e pregai che Dio ci desse la possibilità di fare cambio. Era insopportabile pensare che avesse avuto bisogno di me e io non fossi stato in grado di aiutarla. Mi occupavo di lei da tutta la vita, risolvevo da sempre i suoi problemi. E adesso che più aveva bisogno di me, l’unica cosa che potevo fare era stare seduto a fissarla, impotente. — Pensa che tu sia impazzito. Se sapesse del bambino, crederebbe che le hai proposto di sposarti soltanto per quel motivo. — Però non è così. Non gliel’ho chiesto per il bambino. L’ho fatto perché non posso vivere senza di lei e perché voglio che lo capisca. Ho passato tutta la vita a rendere felice Nan. Ce l’ho sempre messa tutta per cercare di risolvere i suoi problemi. Per lei sono stato un padre e una madre. Adesso che mi sembra di aver trovato la strada per la felicità, lei non riesce ad accettarlo. — Sentii la gola chiudersi e scossi la testa. Non avrei pianto. — Volevo solo che accettasse che Blaire mi rendeva felice… Grant emise un forte sospiro. — Penso che con il tempo ce la farà. Anche lei vuole vederti felice, soltanto che ora pensa di sapere cosa sia meglio per te. Proprio come tu pensi di sapere cosa sia meglio per lei. — Il tono della sua voce quando aveva pronunciato quell’ultima frase mi era sembrato strano. Aveva voluto esprimere qualcosa di più profondo di quanto avesse realmente detto. Oppure io ero esausto e avevo un bisogno disperato di dormire. — Spero sia così — risposi appoggiando la testa all’indietro sulla poltrona e chiudendo gli occhi. — Mi serve un pisolino. Non riesco a continuare così, sto cominciando a delirare. La sedia su cui si trovava stridette contro il pavimento quando lui si alzò e andò verso la porta. Restai ad ascoltare i suoi passi. — Chiedi a Blaire come sta da parte mia, per favore — gli dissi riaprendo gli occhi per vedere se era ancora lì e se mi stava sentendo. — Lo farò — mi assicurò prima di andarsene. Erano passati due giorni e ancora non c’erano stati segni di miglioramento. Nan non si svegliava. Mi ero alzato per darmi una lavata e cambiarmi i vestiti solo perché mia madre aveva insistito. Non potevo vedermela con lei e allo stesso tempo preoccuparmi di Nan, perciò avevo obbedito pur di non sentirla più parlare. Quel giorno Grant era rimasto seduto con me per quasi tutta la giornata. Non avevamo parlato granché, ma avere qualcuno accanto era confortante. Mia madre aveva detto di non riuscire a sopportare quella situazione e restava chiusa in albergo per gran parte del tempo. Di tanto in tanto Abe passava a vedere come andavano le cose, ma da lui non mi aspettavo molto di più. Da quando stava con mia madre, non si era più occupato della figlia con cui aveva vissuto per tanti anni. A quell’uomo mancava un organo vitale, il cuore. — Oggi ho parlato con Blaire — disse Grant rompendo il silenzio. Anche solo sentir pronunciare il suo nome era una fitta al cuore. Mi mancava. L’avrei voluta lì con me, ma non avrei fatto che mettere tutti in subbuglio. Prima veniva Nan; quando si fosse svegliata, non avrebbe dovuto sapere che c’era anche Blaire. Si sarebbe rattristata e basta. — Come ti è sembrata? — chiesi, domandandomi se in quel momento lei mi stesse odiando. — Bene, direi. Forse un po’ triste. È preoccupata per te e per Nan. Chiede di lei prima di chiedere di te. Oggi… Oggi ha anche voluto sapere come stava suo padre. Non so perché gliene importi, ma l’ha fatto. Perché Blaire si interessava sempre agli altri più di quanto avrebbe dovuto. Compreso il sottoscritto. Era troppo buona per me e io sarei riuscito soltanto a farla soffrire. La mia famiglia non l’avrebbe accettata. Il padre che aveva abbandonato lei e la sua madre naturale ora era sposato con mia madre. Ero stato io la causa di tutto, grazie a quella fotografia maledetta. In futuro non avrei fatto altro che causarle dolore. — Oggi ha un appuntamento dal medico, Woods mi ha detto che ce la porta lui. Lei non sa che so del bambino. Un’altra visita che mi sarei perso. Per quanto ancora avrebbe sopportato il trattamento che le riservavo? Le avevo promesso che lei e il bambino sarebbero sempre venuti per primi, ma era già la seconda volta che la mia famiglia prendeva il sopravvento sui suoi controlli medici. E poi perché la accompagnava Woods? — Perché va con Woods? Io ho tre macchine ferme in garage. Grant mi lanciò un’occhiataccia di rimprovero. — Avrai anche tre macchine in garage, ma non le hai mai dato il permesso di guidarle né le hai spiegato dove metti le chiavi, perciò non le userà mai. È una settimana che Woods le fa da autista, sappilo. Merda. — So che ti dispiace per Nan, è come se fosse tua figlia. Sei l’unico vero genitore che lei abbia mai avuto. Ma se non ti riprendi e contatti Blaire, io non sono così sicuro che, quando deciderai di tornare a casa, lei e il tuo bambino saranno ancora lì ad aspettarti. Ti avverto, non voglio che mio nipote faccia Kerrington di cognome. — Dopo aver tirato quella stoccata, lasciò la stanza. BLAIRE Seduta in sala d’aspetto, ce la mettevo tutta per non guardare le altre donne in gravidanza che, come me, aspettavano di essere visitate. Eravamo tre in tutto. Quella di fronte era rannicchiata contro il braccio del marito, che continuava a sussurrarle all’orecchio frasi che la facevano sorridere. Non le staccava un attimo la mano dalla pancia. Il suo però non era un gesto possessivo, ma semplicemente protettivo: un modo per esprimere il suo desiderio di difendere moglie e figlio. L’altra signora era molto più in là con la gravidanza rispetto a noi, e sentiva muovere il suo bambino. Il marito le teneva entrambe le mani sul pancione e la fissava affascinato; sul suo viso c’era una specie di espressione dolce e riverente allo stesso tempo. Stavano condividendo un momento prezioso e il semplice fatto di aver guardato nella loro direzione mi fece sentire un’intrusa. Poi c’ero io. Con Woods. Gli avevo detto che non doveva venire per forza, ma lui aveva risposto che gli faceva piacere. Di certo non l’avrei lasciato entrare nello studio del medico, dato che non avevo intenzione di essere vista mezza nuda con indosso soltanto un camice di cotone sottilissimo, però sarebbe rimasto in sala d’attesa. Si era versato una tazza del caffè offerto gratuitamente ai pazienti e, vedendo che si era limitato a un unico sorso, avevo dedotto che il sapore fosse pessimo. A me il caffè mancava tanto, e probabilmente avrei trovato squisito anche quello. Più tardi avevo deciso di andare a comprare un po’ di decaffeinato. — Blaire Wynn — chiamò l’infermiera dal vano della porta che dava sullo studio. Mi alzai e feci un sorriso a Woods. — Non dovrei metterci molto. Mi rispose con un’alzata di spalle. — Non ho fretta. — Può entrare anche tuo marito — disse l’infermiera, tutta entusiasta. Mi sentii arrossire. Non mi serviva uno specchio per sapere che le guance mi erano diventate paonazze. — Lui è solo un amico — mi affrettai a spiegare. A quel punto fu l’infermiera ad arrossire: evidentemente non aveva letto nella mia scheda che ero una madre single. — Oh, scusami tanto... Be’, anche lui fra un po’ può entrare, se ha voglia di sentire il battito del bambino. Feci no con la testa. Sarebbe stato un momento troppo intimo. Woods era un amico, ma io non ero pronta a condividere con lui una cosa così importante come il battito cardiaco del mio piccolino. Lo stesso Rush non lo aveva ancora sentito. — No, va bene così. Grazie. Non mi voltai a guardare Rush perché ero imbarazzata per entrambi. Mi stava semplicemente dando una mano. Fare la figura del padre non era il ruolo per cui si era candidato. La visita non durò molto. Stavolta riuscii a sentire il battito senza che ci fosse bisogno dell’ecografia interna: sonoro e commovente come la volta prima. La gravidanza procedeva bene e mi lasciarono andare con un altro appuntamento a distanza di quattro settimane. Quando tornai in sala d’attesa, trovai Woods impegnato a leggere una rivista dal titolo “Essere genitori”. Appena si accorse di me, mi fece un sorriso imbarazzato. — Qui non hanno molta scelta! — si giustificò. Trattenni una risata. Si alzò e insieme lasciammo lo studio. Una volta saliti in macchina, Woods mi chiese se avessi fame. In realtà sì, ma più tempo passavo con lui, più mi sentivo a disagio. Non riuscivo a scuotermi di dosso la sensazione che a Rush quello che stavamo facendo non sarebbe piaciuto; in fondo non era mai stato troppo entusiasta di vedermi passare il tempo in sua compagnia. Quel passaggio mi aveva fatto comodo, ma iniziavo a pensare che prolungarlo inutilmente fosse una pessima idea. Sarebbe stato molto meglio chiedere a Woods di riaccompagnarmi a casa di Rush. — Sono stanca morta. Potresti portarmi direttamente a casa di Rush, per favore? — chiesi. — Ma certo — rispose lui con un sorriso. Aveva proprio un buon carattere, mi piaceva. In quel periodo non ero dell’umore adatto a trattare con i lunatici. — Sei riuscita a sentirlo? — aggiunse. Non era una domanda a cui mi andava di rispondere, a proposito di lunatici. Mi limitai a fare no con la testa: una spiegazione non gli serviva e, se anche l’avesse voluta, peggio per lui, perché io stessa non ce l’avevo. Due sere prima avevo ceduto e avevo chiamato Rush, ma era subito scattata la segreteria telefonica. Gli avevo lasciato un messaggio, ma non mi aveva richiamato. Cominciavo a chiedermi se sperasse, una volta rientrato a casa, di non trovarmi più… Per quanto ancora sarei dovuta restare da lui? — Immagino che non la stia prendendo bene. Vedrai che ti chiamerà presto — furono le parole di Woods. Mi era bastato sentire il suo tono di voce per capire che non credeva nemmeno lui a quello che aveva appena detto; il suo era un semplice tentativo di farmi stare meglio. Chiusi gli occhi e finsi di dormire, così non avrebbe aggiunto altro. Era un argomento di cui non volevo discutere. Anzi, non volevo discutere di niente. Woods accese la radio e in silenzio percorremmo il resto dei chilometri che ci separavano da Rosemary. Quando sentii la macchina che si fermava, riaprii gli occhi e vidi di fronte a me la casa di Rush. Ero tornata. — Grazie — gli dissi, guardandolo. Aveva l’espressione seria. Si vedeva che stava pensando a qualcosa che non si sentiva di condividere con me. Non avevo bisogno di chiedergli di cosa si trattasse: anche lui era convinto che avrei fatto meglio ad andarmene, perché Rush non mi avrebbe più richiamata e c’era persino la possibilità che non sarebbe mai tornato indietro. Non potevo continuare a vivere in casa sua. — Chiamami, se ti serve qualcosa — mi disse, incrociando il mio sguardo. Annuii, ma avevo già deciso e non l’avrei fatto. Anche se a Rush non importava di quello che facevo, non mi sembrava giusto ricorrere a Woods. Aprii la portiera e uscii. Lo salutai un ultima volta da lontano e rientrai nella grande casa deserta. RUSH Sette giorni, e ancora Nan non aveva riaperto gli occhi. Mia madre si faceva vedere sempre più di rado. Grant cominciava a essere l’unico visitatore che si fermava un po’ con me e si faceva vedere regolarmente. Abe passava una volta al giorno, per pochi minuti. Di nuovo, eravamo io e Nan contro il resto del mondo. — Devi telefonarle — mi disse Grant così, dal nulla. Sapevo di chi stava parlando, Blaire era sempre nei miei pensieri. Mi sentivo in colpa a starmene seduto lì a fissare mia sorella e ad avere in testa solo lei. — Non posso — risposi, incapace di guardarlo negli occhi. Se l’avessi fatto, si sarebbe accorto che avevo perso le speranze. — Non è giusto nei suoi confronti. Woods ha detto che non si sta facendo vedere e che non lo chiama da tre giorni. Cerca di tenere sotto controllo la situazione tramite Bethy, ma nemmeno lei è sicura che Blaire si voglia fermare a lungo. La devi chiamare e basta. Lasciarmi sarebbe stata la scelta migliore di tutta la sua vita. Come facevo a essere ciò che meritava, se vivevo in un perenne dilemma fra lei e mia sorella? Non ero riuscito a proteggere Nan. Come poteva pensare Blaire che fossi capace di farlo con lei e con nostro figlio? — Si merita di meglio — riuscii a dire ad alta voce anziché continuare a ripeterlo dentro la mia testa. — Sì, probabilmente sì. Però vuole te. Dio, faceva male. Anch’io volevo lei. E volevo anche il nostro bambino. Volevo la vita che mi ero illuso di poter avere. Come avrei potuto dargliela, se mia sorella non si fosse mai più risvegliata? Il dolore e il senso di colpa mi avrebbero perseguitato per sempre. Non sarei mai riuscito a essere l’uomo che avrebbe meritato. Il tormento mi avrebbe divorato, e sarei arrivato al punto di essere inutile a tutti. — Non posso — fu tutto ciò che riuscii a dire. Grant imprecò e si alzò di scatto in piedi, scagliando a terra la giacca per poi uscire dalla stanza e sbattere forte la porta. Non capiva. Nessuno capiva. Guardai con occhi assenti il muro davanti a me; cominciavo a diventare insensibile. Stavo perdendo tutte le cose che avevo concesso a me stesso di amare. La porta si aprì e mi girai pensando di rivedere Grant. Mi sbagliavo: era Abe. Non ero dell’umore giusto per affrontare l’uomo capace di abbandonare le due persone che amavo di più al mondo in diversi momenti della loro vita. — Si può sapere perché cazzo continui a venire qui, eh? Tanto non te ne frega niente di niente — gli ringhiai contro. Abe non mi rispose. Raggiunse la sedia che Grant aveva appena lasciato libera e si sedette. Non era mai successo che si fermasse a lungo, e il fatto che sembrasse pronto a farlo proprio in quel momento non mi piaceva affatto. Avevo bisogno di rimanere solo. — Sì che me ne frega, invece. Tua madre non sa che sono qui, non approverebbe quello che sto per dirti. Ma io credo che meriti di saperlo. Non c’era niente che quell’uomo potesse dirmi e che io volessi sentire, ma rimasi ad aspettare in silenzio. Prima avesse parlato, prima se ne sarebbe andato. — Nanette non è mia figlia. Tua madre l’ha sempre saputo. Avrebbe preferito che fosse mia, ma quando è rimasta incinta sapevamo entrambi che era impossibile. Quando mi chiamò per dirmelo, ci eravamo lasciati da più di otto mesi. Aveva appena scoperto di aspettare un bambino ed era spaventata. Era ancora innamorata di tuo padre, motivo principale per cui ci siamo lasciati. Io non potevo essere all’altezza di una leggenda vivente come Dean Finlay… Volevo essere abbastanza per qualcuno, e per Georgianna non lo sarei mai stato. Però le volevo bene e lei era preoccupata al pensiero di crescere un altro bambino. Ero giovane e stupido, perciò tornai da lei e insieme parlammo di matrimonio. Le dissi che avevo bisogno di pensarci. — Si interruppe e mi guardò. Io mi stavo ancora riprendendo dallo shock della prima frase che aveva pronunciato. — Quando arrivai da lei, Georgie ti lasciava da Dean ogni volta che poteva e continuava a uscire con le amiche come se non fosse incinta. Non voleva rivelare chi fosse il padre. Quando Rebecca venne a trovarla, io ero arrivato al limite. — Vidi il suo sguardo intenerirsi e le palpebre chiudersi per un istante. Non avevo mai visto quell’uomo esprimere tanta emozione. — Era uno splendore. Lunghi capelli biondi che sembravano intessuti dagli angeli, gli occhi verdi più grandi che avessi mai visto e una dolcezza infinita. Ti voleva bene. Non era contenta del fatto che tua madre ti portasse sempre da Dean, diceva che non eri al sicuro in mezzo a quel branco di rockstar. Quando tua madre usciva, badava lei a te. Ti aveva cucinato dei pancake con le orecchie di Topolino che ti erano piaciuti un mondo. Mi sentivo attratto da lei e non riuscivo ad andarmene via. Per un po’, tua madre ci sfruttò entrambi. Rebecca non voleva ripartire perché era preoccupata per te, e io non volevo farlo perché mi ero innamorato di lei. — Quella non era la storia che mia madre mi aveva sempre raccontato. Non era la storia che mi avevano fatto credere per tutti quegli anni, ma da quando avevo incontrato Blaire… Da quando l’avevo conosciuta… Aveva tutto molto più senso. — Una sera, tua madre tornò a casa ubriaca. Non era incinta da molto e mi confessò che il padre di quel bambino era, anche quella volta, Dean. Io ero furioso che avesse bevuto ed ero ancora più furioso che tuo padre ci fosse ricascato senza però volersi assumere le proprie responsabilità. Lo chiamai e gli dissi che volevo parlargli. L’incontro non andò bene, lui giurò che il bambino non era suo. Se lo fosse stato, non avrebbe avuto problemi a riconoscerlo, ma diceva che non era così. Georgianna andava a letto con il cantante degli Slacker Demon da oltre un mese... Il figlio in arrivo era di Kiro. Be’, lo conosci anche tu sin da piccolo. Sappiamo tutti e due che non ha esattamente la stoffa del padre. Il padre di Nan era Kiro? Mi presi il viso fra le mani, mentre alla mente riaffioravano ricordi che credevo sepolti. Kiro che veniva a casa nostra di notte sbraitando e dicendo a mia madre che lei gli aveva rubato la sua bambina. Kiro che le dava della puttana da due soldi e sperava che la “sua ragazza” non sarebbe finita come lei. Avevo dimenticato tutto. O forse l’avevo rimosso. — In mezzo a tutti questi problemi, io e Rebecca ci siamo avvicinati. Dean ti prese con sé e promise che si sarebbe preso cura lui di ciò che era suo. Una sera tua madre sorprese me e Becca mentre ci baciavamo; impazzì e spinse lei giù per le scale, chiamandola con dei nomi che ora non voglio ripetere e intimando a entrambi di andarcene. Così facemmo. Becca pianse molto, perché era preoccupata per te. Si è sempre preoccupata per te. Ogni volta che nominava Rebecca, l’unica cosa che vedevo davanti agli occhi era il viso di Blaire. Il suo viso dolce e innocente, che mi faceva sentire il petto sul punto di scoppiare. — Le chiesi di sposarmi e lei accettò. Qualche settimana dopo la luna di miele, scoprimmo che lei era incinta di due gemelle. Quelle bambine erano tutto il mio mondo: veneravo loro così come veneravo la loro madre. Non passava un giorno senza che fossi grato della vita che avevo ricevuto. — Si interruppe e si lasciò sfuggire un singhiozzo. — Poi, un giorno, io e Val stavamo tornando a casa dalla spesa. Le avevo comprato un paio di scarpe da pallavolo. Durante l’estate, a lei era cresciuto il piede, a Blaire invece no. Erano pressoché identiche, ma cominciavo a pensare che Blaire sarebbe rimasta quella un po’ più piccolina delle due. Ridevamo perché io stavo tentando di cantare la canzone alla radio di una di quelle stupide boy band. Fu allora che… che non mi accorsi del semaforo rosso. Un camion che viaggiava a centoventi all’ora ci investì, prendendo in pieno il lato di Val. — Tacque per passarsi una mano sul viso e asciugarsi le lacrime, poi emise un altro singhiozzo. — Avevo perso la mia bambina. Mi ero distratto. Con lei avevo perso anche mia moglie, che non riusciva più a guardarmi in faccia, e l’altra mia figlia, che era diventata soltanto l’ombra della ragazza che era stata una volta. Poi sei arrivato tu, con la fotografia di Nanette. Io, invece di rimanere dov’ero ed essere l’uomo che le mie donne meritavano, sono scappato. Ho detto a me stesso che loro dovevano avere più di quello che io avrei potuto offrire. Io non sarei mai stato in grado di perdonarmi né di voltare pagina; continuare a vedermi le avrebbe semplicemente fatte soffrire ancora di più. E così le lasciai. Mi odiai allora così come mi odio adesso. Ma io sono un debole. Sarei dovuto rimanere. Quando ho scoperto che Rebecca era malata, ho cominciato a bere. Per me era impossibile accettare l’idea di un mondo senza di lei. Ma vedere una donna così piena di vita, che amavo e avrei sempre amato, deperire in un letto… sarebbe andato oltre le mie capacità. Avevo sepolto mia figlia. Non potevo seppellire anche mia moglie. Ero debole, e ho lasciato che fosse la mia bambina a dare l’ultimo addio alla sua mamma. Non me lo perdonerò mai — si interruppe, sollevando finalmente gli occhi per guardarmi. — Quello che vedi è un uomo egoista che pensa soltanto a se stesso. Hai ragione. Non mi merito l’amore né il perdono di nessuno. Non lo voglio. Nan e tua madre mi volevano. Si comportavano entrambe come se avessero bisogno di me. Io con loro potevo fingere, capisci? La verità, invece, è che tua madre è una persona triste e irrecuperabile quanto me; forse per diverse ragioni, ma siamo entrambi vuoti dentro. Tre mesi fa stavo per sfogarmi e raccontare tutto: non ce la facevo più a continuare con la farsa. Volevo soltanto sedermi accanto alla tomba di mia moglie e piangere. Poi mi ha chiamato Blaire. Aveva bisogno di me, ma io non avevo niente da offrirle. Così ho mentito. Non sapevo granché dell’uomo che eri diventato, ma di una cosa ero certo: avevi cuore. Avresti fatto qualsiasi cosa per tua sorella. Non avevo il minimo dubbio che ti sarebbe bastato mettere gli occhi su Blaire per perdere la testa. In lei c’è lo stesso spirito gentile di sua madre. Val era più simile a me. Ma Blaire… Lei è la mia Rebecca. Le somiglia così tanto! Nessuno può starle vicino senza volerle bene. Ero alla ricerca di una persona forte, capace di prendersi cura di lei. E così l’ho mandata da te. — Si asciugò il resto delle lacrime e si alzò. Io nel frattempo ero rimasto senza parole. — Non diventare come me. Non deluderla come ho fatto io. Ci si merita solo ciò di cui ci si rende degni. Fai quello di cui io non sono stato capace: sii uomo. — Abe si girò e uscì senza aggiungere una parola. BLAIRE Non dormivo da molto quando il telefono squillò. Era notte fonda e c’erano solo poche persone che avevano il mio numero. Quando lo presi in mano, lo stomaco mi si attorcigliò: era Rush. — Pronto — risposi quasi spaventata all’idea di quello che avrei potuto sentirmi dire. — Ciao, sono io. — Dalla voce sembrava che avesse pianto. Dio mio, no… Nan non poteva essere morta. — Come sta? — chiesi, sperando che per una volta le mie preghiere fossero state ascoltate. — Si è svegliata. È un po’ disorientata, ma quando ha riaperto gli occhi mi ha riconosciuto, quindi non ha perso la memoria. — Oh, che bella notizia! — Mi misi a sedere nel letto e decisi che avrei dovuto provarci più volte con quella cosa delle preghiere. — Mi dispiace, Blaire. Mi dispiace tanto. — Aveva la voce roca. Percepivo chiaramente il dolore che pesava su ognuna delle sue parole e non avevo bisogno di chiedergliene il motivo. Era finita. Soltanto che non riusciva a dirmelo. — Va bene. Tu prenditi cura di Nan, ok? Sono davvero felice che si sia ripresa, Rush. Forse tu non ci crederai, ma ho pregato per lei. Volevo che stesse bene. — Doveva credermi. Anche se fra me e Nan non correva buon sangue, ero consapevole di quanto lei fosse importante per lui. — Grazie — disse. — Sto tornando a casa. Sarò lì non più tardi di domani sera. Non capivo se era un modo per farmi intendere che dovevo andarmene prima oppure se ci saremmo detti addio di persona. Scappare sarebbe stato molto più semplice. Evitare di affrontarlo. Già così, al telefono, era dura. Rivedere il suo viso sarebbe stato straziante, ma non potevo lasciarmi distruggere: avevo un figlio a cui pensare. Non si trattava più soltanto di me e basta. — Allora ci vediamo — risposi. — Ti amo. — Quelle parole fecero più male di qualsiasi altra cosa. Volevo credergli, ma non bastava. L’amore che forse Rush provava per me non era sufficiente. — Anch’io ti amo — dissi prima di riattaccare e rannicchiarmi sotto la coperta, piangendo addormentarmi. fino ad Il campanello suonò proprio mentre stavo uscendo dalla doccia. Agguantai i vestiti che avevo preparato sul letto e mi vestii in fretta, raccogliendo i capelli dentro un asciugamano e correndo giù per le scale. Quando aprii la porta e mi trovai di fronte a mio padre, non seppi cosa pensare. Era stato Rush a mandarlo lì perché si sbarazzasse di me? No, non ne sarebbe mai stato capace. E allora? — Ehi, Blaire. Sono… Sono sono venuto a parlare con te. — Aveva l’aria di uno che non dormiva da giorni, i suoi vestiti erano tutti spiegazzati. Vedere in un letto d’ospedale la figlia che amava veramente doveva essere stato un duro colpo per lui. Mi sforzai di respingere l’amarezza. Non avrei pensato a quelle cose. In fondo era anche suo padre; per lo meno le era stato vicino in quel momento difficile, sebbene le avesse sconvolto tutti i primi anni di vita. — Di cosa? — domandai, senza muovermi di un millimetro per lasciarlo entrare. Dubitavo potesse dirmi qualcosa che avessi voglia di ascoltare. — Si tratta di Nan… e di te. Scossi la testa. — Non me ne importa. Non ho voglia di sentire qualsiasi cosa tu abbia da dire. Tua figlia si è svegliata, sono contenta che non sia morta. — Iniziai a richiudere la porta. — Nan non è mia figlia — disse. Le uniche parole che avrebbero potuto impedirmi di sbattergli la porta in faccia. Mentre la riaprivo lentamente, cercai di assimilare la frase che aveva appena detto. In che senso Nan non era sua figlia? Lo fissai incredula. Quella storia non aveva senso. — Ho bisogno di dirti la verità. Anche Rush la dirà a Nan, quando sarà pronta. Ma con te volevo parlare io. Che cosa sapeva Rush? Mi aveva mentito? Non ero certa di poter continuare a respirare. — Rush? — chiesi, reggendomi alla parete nel caso non fossi riuscita a incamerare aria a sufficienza e fossi caduta a terra a peso morto. Dovevo sedermi. — Gli ho raccontato tutto ieri. Hanno mentito a lui come hanno mentito a te, ma ora sa la verità. La verità. Qual era la verità? C’era davvero una verità oppure l’intera mia esistenza equivaleva a una menzogna? Andai a sedermi e alzai lo sguardo sull’uomo che credevo essere mio padre; lui entrò in casa e richiuse la porta alle sue spalle. — Ho sempre saputo che Nan non era figlia mia. Quel che è peggio è che anche tua madre lo sapeva. Hai ragione, Rebecca non mi avrebbe mai permesso di piantare in asso la mia fidanzata incinta per scappare via con lei. Per niente al mondo. Quasi non voleva che lasciassi la mia ex ragazza in attesa del figlio dell’ennesimo membro degli Slacker Demon, perché era preoccupata per il futuro di Rush! Il suo cuore era grande come lo ricordi tu. Niente di quello che sapevi era una bugia, Blaire. Niente. Il mondo che conoscevi non era un castello di carte. — Non capisco. Io so bene che la mamma era estranea a queste cose, non mi sono mai nemmeno posta il dubbio. Eppure non capisco… Se tu non sei il padre di Nan, perché ci hai abbandonate per loro? — Ho conosciuto tua madre mentre cercavo di aiutare la mia ex a venire a capo del suo ultimo problema. Anche Rebecca era andata a trovarla per quel motivo, tutti e due volevamo bene a Georgianna. Lei aveva bisogno di noi e così abbiamo cercato di aiutarla. Poi, mentre se ne andava in giro a far festa fingendo di non avere un bambino piccolo a casa e di essere incinta per la seconda volta, io mi sono innamorato di tua madre. Lei era tutto quello che Georgianna non era: la adoravo e, non so per quale motivo, anche lei si è innamorata di me. Quando ce ne siamo andati, Dean era venuto a prendere Rush, e Kiro, cantante degli Slacker Demon nonché vero padre di Nan, si era offerto di dare una mano. Georgianna ha scoperto di me e di Rebecca, ci ha sbattuti fuori e noi ce ne siamo andati più che volentieri. Tua madre però si preoccupava per Rush, e per un po’ di tempo ha continuato a chiamare Dean per sapere come stava. — La mamma conosceva Rush?! — Ripensare a mia madre che si prendeva cura del piccolo Rush perché i suoi genitori erano due fuori di testa mi fece venire le lacrime agli occhi. Allora Rush sapeva anche da sé quanto mia madre fosse meravigliosa, pur non ricordandosela. — Sì. La chiamava Beck Beck. Preferiva lei a Georgianna, cosa che ovviamente a Georgie non faceva piacere. Quando riuscì a riprendersi Rush, impedì a tua madre di andarlo a trovare. Rebecca pianse per settimane, angosciata per quel bambino che si era ormai abituata ad amare. Che ci vuoi fare, tua madre era fatta così, troppo altruista. Aveva il cuore più grande di chiunque altro avessi mai conosciuto… finché ho rivisto te. Sei proprio come lei, tesoro mio. Sollevai le mani per impedirgli di toccarmi. Non ci saremmo riavvicinati per via di quella notizia. Non stavo piangendo perché sapevo che mia madre era innocente di ciò di cui l’avevano ingiustamente accusata. Stavo piangendo perché anche lei, un tempo, aveva voluto bene a Rush. La sua infanzia non era stata così solitaria. — Ho quasi finito. Lasciami concludere, poi me ne andrò e non mi rivedrai mai più. Te lo giuro. Sapeva che anche io stavo per andarmene. Che fra me e Rush era finita. La fitta di dolore che mi trapassò il petto fu quasi insostenibile. — È colpa mia se Val è morta. Sono passato con il rosso. Quel giorno mi sono distratto un secondo e ho perso una delle mie ragazze. Non solo, ho perso anche te e tua madre: eravate a pezzi, ed era tutta colpa mia. Non sono stato abbastanza uomo da restare e sopportare di vedervi in quello stato. E così sono scappato, ho lasciato che fossi tu a prenderti cura di Becca quando invece avrei dovuto farlo io. In realtà ero troppo debole, incapace anche solo di pensare che Becca fosse malata. Sarebbe stata la mia fine. Ho cominciato a bere fino a stordirmi completamente, era l’unico modo per non provare sentimenti. Poi mi hai telefonato e hai detto che lei era morta. La mia Rebecca non era più di questo mondo. Avrei raccontato a Nan la verità su suo padre e me ne sarei andato. Non sapevo dove, ma a quel punto non mi importava di vivere o morire. «Un giorno mi hai chiamato, hai detto che avevi bisogno di me. Io non ero più neppure un essere umano, non valevo nulla. Però non potevo abbandonarti, ti avevo già fatto soffrire molto e da sola. Ti ho mandato da Rush. Non è esattamente il genere di ragazzo che un padre vorrebbe per sua figlia, ma sapevo che avrebbe visto in te quello che io avevo visto in Becca: un’ancora di salvezza. Una ragione per vivere, una ragione per combattere, una ragione per cambiare. Era forte, avrebbe potuto proteggerti e io sapevo che, con le giuste condizioni, lo avrebbe fatto.» Era davvero troppo. Non riuscivo a venirne a capo. Mi aveva mandato lui da Rush? Dal ragazzo che adorava una sorella che odiava me e mi incolpava di tutti i guai della sua vita? — Lui mi odiava — risposi. — Odiava quello che ero. Il sorriso di mio padre era di quelli tristi. — Sì, odiava quello che credeva tu fossi, ma poi ti ha conosciuto. Ti è stato vicino, e non serviva altro. Quelle come te sono rare, Blaire. C’era tua madre, lei sì, ma al mondo non esistono molte persone forti come voi due. Forti, piene d’amore, disposte a perdonare. Hai sempre invidiato Val perché faceva girare la testa a tutti quanti, pensavi che delle due fosse lei la migliore. Ma quello che Val sapeva, e che anche io sapevo, era che i veri fortunati eravamo io e lei, perché nella nostra vita potevamo contare su persone come te e tua madre. Val ti adorava. Vedeva che eri tu ad avere lo stesso spirito di vostra madre. Noi vi ammiravamo entrambe. Continuo a farlo, sai, e anche se dal giorno in cui abbiamo perso tua sorella non ho fatto altro che causarti dolore, ti ho sempre voluto bene e sempre te ne vorrò. Sei la mia bambina. Meriti tutto il meglio di questo mondo e io il meglio non lo sono. Me ne sto andando, non ti disturberò mai più. Devo vivere gli anni che mi restano da solo, ripensando quello che avevo una volta. L’angoscia in fondo ai suoi occhi mi ferì l’anima. Aveva ragione. Aveva abbandonato me e la mamma quando avevamo avuto più bisogno di lui. Forse, però, anche noi l’avevamo abbandonato. Non l’avevamo seguito, ma lasciato andare e basta. Il giorno della morte di Valerie aveva lasciato un segno indelebile nelle nostre vite. Adesso, sia lei che la mamma non c’erano più e non sarebbero mai tornate. Però noi eravamo rimasti. Non mi andava di vivere il resto della vita sapendo che mio padre era chissà dove, da solo. Mia madre non l’avrebbe voluto. Aveva continuato ad amarlo fino all’ultimo respiro. Anche Val non avrebbe voluto, era sempre stata la cocca di papà. Mi rialzai e feci un passo verso di lui. Le lacrime non versate che gli gonfiavano gli occhi cominciarono a scorrergli pian piano lungo le guance. Era solo l’ombra dell’uomo che era stato, ma rimaneva pur sempre mio padre. Un singhiozzo mi scosse il petto quando mi gettai fra le sue braccia. Nel momento in cui le sentii stringersi attorno a me e tenermi forte lasciai libero sfogo a tutto il dolore che avevo in corpo. Piansi per la vita che avevamo perso. Piansi per lui, perché non era stato forte abbastanza. E piansi per me, perché era arrivato il momento. RUSH La casa era buia e silenziosa quando aprii la porta ed entrai. Blaire avrebbe davvero spento tutte le luci, se fosse stata sola? Ero stato talmente concentrato sull’idea di tornare a casa da lei, dopo aver parlato con Nan, che mi ero rifiutato di fermarmi a pensare che potesse avermi lasciato. L’aveva fatto sul serio? Mi girai e salii le scale due gradini alla volta. Arrivato in cima, cominciai a correre. Sentivo il cuore schiantarsi contro il petto. Non poteva essersene andata, le avevo detto che la amavo. Le avevo detto che stavo tornando a casa. Doveva esserci, per forza. Dovevo raccontarle tutto, dirle che le cose sarebbero andate diversamente. Dirle che mi ero ricordato di sua madre, di quei pancake con le orecchie di Topolino. Dirle che ero io l’uomo di cui aveva bisogno. Sarei stato il miglior padre che il mondo avesse mai conosciuto, accidenti! Spalancai la porta che dava sulle scale per il piano superiore e salii come un fulmine in camera mia. Dovevo vederla. Pregavo Dio che ci fosse. Per favore! Il letto era vuoto. No. NO! Scrutai la stanza in cerca delle sue cose. Qualcosa che mi dicesse che non mi aveva abbandonato. Perché non poteva averlo fatto sul serio. L’avrei inseguita, mi sarei messo in ginocchio, avrei strisciato. Sarei stato la sua cazzo di ombra finché non si fosse arresa, perdonandomi. — Rush? — La sua voce ruppe il silenzio e le martellate che avevo in testa. Mi girai e la vidi seduta sul divano. Aveva i capelli tutti arruffati e il suo viso assonnato era il ritratto della perfezione. — Sei qui. — Caddi in ginocchio di fronte a lei e le appoggiai la testa sulle ginocchia. Era rimasta. Non mi aveva lasciato. Mi mise le mani sulla testa e me le fece scorrere tra i capelli. — Sì, sono qui — rispose con voce incerta. La stavo spaventando, ma mi serviva ancora un minuto per rendermi davvero conto di non essere stato lasciato. Non avevo rovinato tutto. Non volevo diventare come suo padre. L’uomo smarrito e svuotato che avevo visto il giorno prima non potevo essere io, sebbene sapessi che, senza Blaire, sarei finito esattamente così. — Stai bene? — mi chiese. Annuì, ma continuai a tenerle la testa sulle gambe. Quando fui sicuro di poterle parlare senza perdere completamente il controllo, sollevai la fronte e la guardai. — Io ti amo. — Il modo in cui l’avevo dichiarato era talmente intenso che sembrava quasi un’imprecazione. L’accenno di un sorriso malinconico le sfiorò le labbra. — Lo so, va tutto bene. Ti capisco. Non ti costringerò a scegliere. Voglio solo che tu sia felice, perché te lo meriti. Ho avuto tanto tempo per pensarci e ho capito che starò bene. Non devi preoccuparti per me, io sono forte, posso farcela da sola. Non seguivo il suo ragionamento. Farcela da sola… In che senso? — Come, scusa? — dissi ripetendo mentalmente le parole che Blaire aveva appena pronunciato. — Oggi ho parlato con mio padre. So tutto. È difficile da capire, ma adesso ha tutto più senso. Abe era andato da lei? L’aveva fatto, le aveva raccontato tutto… Allora sapeva. In ogni caso, quello che diceva continuava a non avere senso. — Piccola, forse è perché negli ultimi otto giorni non ho dormito molto, oppure perché sono troppo contento di averti trovata qui, però sappi che non sto capendo niente di quello che stai cercando di dirmi. Una lacrima le luccicò in un occhio. Saltai in piedi, me la presi in braccio. Non volevo che piangesse, pensavo l’avrebbe presa come una bella notizia: era la conferma che sua madre era la donna che aveva sempre conosciuto, pura e onesta come diceva lei. Io ero tornato ed ero pronto a essere tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno nella sua vita. Sarei morto rendendola felice. — Ti amo, e proprio perché ti amo ti sto lasciando. Voglio che tu dalla vita ottenga ciò che desideri. Non ho intenzione di farti da palla al piede. — Cos’è che hai appena detto, scusa? — chiesi appena mi resi conto che aveva pronunciato la frase “Ti sto lasciando”. Col cavolo! — Mi hai sentito, Rush. Non rendere le cose più difficili di quello che già sono — sussurrò. La guardai incredulo. Era davvero convinta di ciò che stava dicendo. L’avevo lasciata lì da sola a fare chissà quali pensieri mentre ero rimasto in ospedale a vegliare su Nan. Avrei dovuto chiamarla, invece non l’avevo fatto. Era ovvio che fosse confusa. — Stammi a sentire, Blaire. Se solo provi ad andartene, sappi che io ti inseguirò. Diventerò la tua ombra. Non ti perderò mai di vista, perché senza di te non posso vivere. Ho fatto così tanti errori che non voglio neppure mettermi a contarli, ma ti giuro che da oggi in poi andrà tutto bene. Questi problemi non si presenteranno più. So che è qui che devo stare. Basta bugie. Soltanto noi. Tirò su con il naso e sprofondò con la testa dentro la mia spalla. La tenni forte tra le braccia. — Dico sul serio. Ho bisogno di te, non puoi lasciarmi. — Ma io non c’entro niente! La tua famiglia mi odia. Ti renderò la vita difficile… Ecco dove si sbagliava. — No. La mia famiglia sei tu. Mia madre non lo è mai stata, né si è mai sforzata di esserlo. Forse mia sorella non si è ancora ripresa completamente, ma mi ha chiesto se avrebbe fatto parte della vita di suo nipote. Si vuole impegnare. Quanto al fatto di rendermi la vita difficile, devi sapere che tu, Blaire, rendi la mia vita completa. Le sue labbra travolsero le mie e le sue mani si strinsero attorno al tessuto della mia maglietta. Mi fece scivolare la lingua in bocca finché mi persi nel suo sapore. Mi era mancata tanto… Come avevo potuto pensare, anche solo un minuto, di riuscire a sopravvivere senza quello… senza di lei? Impossibile. BLAIRE — Voglio fare l’amore — mi sussurrò Rush all’orecchio mentre mi baciava lungo la guancia e mi infilava le mani sotto la canottiera. — Sì — risposi afferrandogli la maglietta e togliendogliela da sopra la testa. Fece un risolino, alzò le mani per agevolarmi il compito e poi spogliò anche me. — Cavolo, da quando me ne sono andato questi due sono cresciuti ancora di più — mormorò, prendendomi i seni fra le mani. — Ma… dentro c’è già il latte? — chiese. — No! — risposi sghignazzando. — Ce la sto mettendo davvero tutta per non fare il maschio medio, ma è più forte di me. Queste due tette mi eccitano da morire! — ammise prima di alzare lo sguardo su di me, da sotto le ciglia semichiuse, e prendendo in bocca un capezzolo. — Oh… — gemetti afferrandogli la testa per tenerlo fermo dov’era. Le mie tette non erano diventate solo più grosse, ma anche più sensibili. Ogni movimento della sua bocca intorno al capezzolo corrispondeva a una pulsazione del clitoride. Era come se ci fosse un collegamento diretto. — Togliti quegli slip — mi disse, con la bocca piena, tirando l’elastico. Li presi e, con il suo aiuto, li feci scorrere verso il basso. Quando lasciò libero il capezzolo, fu solo per iniziare a tormentare l’altro. — Cazzo, Blaire — ansimò, infilando un dito dentro di me. — È bagnata. È sempre pronta e bagnata. Lo presi per la fibbia della cintura e cominciai a sbottonargli i jeans. Anch’io volevo vederlo nudo. — Non ancora — mi disse, sollevandomi dalle sue ginocchia e deponendomi sul divano. — Mi serve un assaggio, prima. Non gli staccai gli occhi di dosso mentre mi divaricava le gambe e chinava la testa per leccare il centro esatto delle mie pieghe calde. — Oddio, Rush! — gridai sollevando il bacino per avvicinarmi di più alla sua bocca. Il piercing passava e ripassava sul clitoride ogni volta che lui faceva guizzare la lingua. E mi faceva impazzire. — Mi piace quando ti contorci tutta — commentò con un sorrisetto malizioso. E a me piaceva quello che lui mi faceva per portarmi a quel punto. Il suo dito continuava a scivolare dentro e fuori il mio calore e il piercing non dava tregua al clitoride. Quell’uomo selvaggio e passionale era mio. A volte mi riusciva difficile crederci, ma ero davvero felice di essermi presentata in casa sua quattro mesi prima. Si rialzò, spinse jeans e boxer verso il basso e se li sfilò. Lo fissai. Era meraviglioso. Lasciai che i miei occhi indugiassero su ogni muscolo del suo corpo: niente avrebbe potuto renderlo più perfetto di così. Tranne… — Rush? — Sì? — Non è che avresti voglia di farti un piercing anche ai capezzoli? — chiesi, sorpresa dalla mia stessa richiesta. Rush scoppiò a ridere e tornò sopra di me. — È a te che piacerebbe, vero? Annuii, gli feci scorrere le mani su per il petto e gli sfregai i capezzoli con i pollici. — È che mi piacciono gli altri piercing che già hai. Mi baciò il collo e mi fece scorrere una mano lungo la coscia. Arrivato sotto il ginocchio, mi sollevò la gamba. — Ma poi me li bacerai per farli guarire? Perché ho come la sensazione che faranno un male cane. — Ti prometto che li tratterò benissimo — lo rassicurai sorridendo. — Tutto quello che vuoi, piccola. Basta che tu non mi chieda di bucare niente di niente dalla vita in giù. Inarcai le sopracciglia. Non avevo neanche lontanamente pensato a quello! Prima che potessi ribattere, lo sentii spingere dentro di me e ogni altro pensiero mi abbandonò. Mi stava riempiendo, allargando, e tutto nel mondo era tornato perfetto. — Oddio… Come hai fatto a diventare ancora più stretta? — mi chiese, ansimando sopra di me, con le braccia che gli tremavano per lo sforzo di trattenersi. Lasciai cadere la testa all’indietro e sollevai i fianchi. Era più bello del solito. Non avrei mai pensato che fosse possibile, invece… — Sono più sensibile — riuscii a dire con un filo di voce. — Ti fa male? — mi chiese, ritraendosi. Lo presi per i glutei e lo feci tornare dentro. — NO! È bello. Bellissimo. Più forte, Rush. Ti prego! È incredibile. Rush gemette e affondò per il resto della sua lunghezza dentro di me. — Non durerò molto. Sei troppo stretta, sto per venire. — Smise di muoversi e poi si ritrasse lentamente. Anche a me mancava pochissimo, non volevo che rallentasse. La sensazione che ogni sua spinta mi diffondeva in tutto il corpo era estasiante, non mi bastava mai. Lo allontanai con tutta la forza che avevo in corpo. Lui si mise seduto e mi guardò mentre gli salivo in braccio e iniziavo a oscillare sopra di lui con movimenti veloci e decisi. — Porca puttana! — gridò afferrandomi i capelli a piene mani. Salivo e scendevo rapida, mentre il mio corpo si avvicinava ogni secondo di più a quell’estasi che si annunciava vicina. — Piccola, sto per venire… Aaaaaaaah! — urlò Rush prendendomi il viso e baciandomi con un trasporto che mi fece raggiungere l’apice insieme a lui. Gridai dentro la sua bocca e tremai di piacere mentre mi stringeva forte, assaporandomi la lingua e accarezzandola avidamente con la sua. Collassai sopra di lui e mi lasciai abbracciare. Restammo a respirare forte, in silenzio. I muscoli della vagina continuavano a contrarsi, come se il mio corpo stesse subendo le scosse secondarie di un terremoto. Ogni volta che succedeva, Rush gemeva di piacere. Quando fui sicura di poter riprendere a parlare, alzai la fronte e lo guardai negli occhi. — Che cosa è appena successo? — gli chiesi. Lui rise e scosse la testa. — Non lo so. Mi hai scopato fino a farmi morire! Giuro che questa resterà negli annali…. Pensavo che di meglio non si potesse fare, invece mi hai appena dimostrato il contrario. Dio, eri scatenata! Nascosi il viso contro il suo petto e risi insieme a lui. Sì, avevo leggermente perso il controllo. — Prega che non sia un effetto della gravidanza, altrimenti passerai i prossimi trent’anni incinta! RUSH Stringevo la mano a Blaire mentre lei sfogliava una rivista per neomamme. Tutte quelle fotografie di pannolini e altri aggeggi infantili mi mettevano una paura folle… Di fronte a lei non sarei mai riuscito ad ammetterlo, ma l’idea che presto avremmo avuto un figlio iniziava a spaventarmi. Le tette grandi, il sesso nel cuore della notte e il dolce rigonfiamento dei fianchi erano dei vantaggi così incredibili che era stato facile dimenticare quale fosse la vera causa. — Blaire Wynn. — L’infermiera chiamò il suo nome e io abbassai lo sguardo sul diamante che le avevo messo al dito. Ancora due settimane e il suo cognome sarebbe cambiato. Ero pronto. Non mi piaceva che la chiamassero Wynn; per me lei era già Blaire Finlay. — Siamo noi — rispose, sorridendomi prima di alzarsi. Ora la pancia cominciava a vedersi. Come ci si potesse aspettare qualcosa di più grande di un fagiolo, quello non lo sapevo, ma Blaire mi aveva promesso che saremmo davvero riusciti a vedere il bambino. Con braccia e gambe, per quanto pazzesco potesse sembrare. Non le lasciai la mano mentre l’infermiera ci faceva strada verso lo studio. Si era girata più volte verso di me: avrebbe fatto meglio a non dirmi che non potevo entrare, perché tanto sarei entrato comunque. Era arrivato il momento di vedere il mio bambino. — Qui, prego — ci disse facendosi da parte e lasciandoci entrare per primi. — Spogliati completamente e indossa il camice. Il dottor Nelson vorrà visitarti anche oggi, però prima faremo l’ecografia. Per Blaire non sembrava un grande problema dover rimanere praticamente nuda. L’infermiera mi lanciò un’occhiata scettica. — Ti va bene se questo resta qui mentre ti spogli? “Questo”? Ma cosa diavolo…? Blaire sorrise e mi guardò. — Sì, lui è il padre. L’infermiera si mise dritta sulla schiena e mi rivolse un sorriso sollevato. — Fantastico! Non mi piaceva pensare che una ragazza giovane come lei dovesse fare tutto da sola. Blaire arrossì ed entrò in un angolino protetto da un paravento. Dopo che l’infermiera se ne fu andata, la raggiunsi. — Scusa, ma perché ha detto “questo”?! Blaire si morse il labbro inferiore e strinse forte gli occhi. — Devo rispondere per forza? — Uh, sì. Soprattutto dopo che mi hai fatto questa domanda! — Mi stavo già preparando al fatto che la risposta non sarebbe stata di mio gradimento... — All’ultima visita mi ha accompagnato Woods. Gli hanno detto che poteva entrare e io ho risposto di no, perché era soltanto un amico. Me ne ero quasi dimenticato. Ora capivo perché gli aveva chiesto un passaggio: io non c’ero. Eppure, sapere che un altro uomo era stato lì con lei quando avrebbe avuto bisogno di me era difficile da mandare giù. Mi accorsi che era impallidita e mi chinai per darle un bacio sulle labbra. — Dai, non ti preoccupare. Sono io quello che avrebbe dovuto esserci. Invece non c’ero. Annuì. — Mi dispiace. — No. È a me che deve dispiacere. La porta dello studio si riaprì all’improvviso e io sbucai con la testa dal camerino. L’infermiera mi sorrise, trascinando dietro di sé un’apparecchiatura dotata di un piccolo schermo. — Sei andato a controllare se era pronta? — Aveva un’espressione divertita sul viso. — Quasi! — risposi sbirciando di nuovo dentro al camerino. Blaire era diventata completamente rossa. Non riuscii a non ridere. — Cambiati, bambola. Io torno fuori. Lei annuì e io la lasciai sola. Mi avvicinai al lettino e osservai il macchinario. — Quindi è con questo che vedremo il bambino? — domandai, chiedendomi come fosse possibile. — Esatto. Blaire ha l’assistenza sanitaria gratuita, perciò usiamo questo. La maggior parte delle madri chiede l’ecografia 3D, e spero che un giorno anche chi non può permettersi un’assicurazione privata avrà la possibilità di vedere bene il suo bambino. Per ora costa ancora troppo. Rimasi di stucco. Guardai prima l’apparecchio, poi l’infermiera. Blaire aveva fatto domanda di assistenza pubblica? Eh? Cosa?! Non avevo nemmeno pensato al fatto che potesse avere bisogno di un’assicurazione privata… Io ero stato abituato a ricevere sempre il meglio, senza doverci neppure pensare. — Vorrei il macchinario 3D. Pago subito quello che c’è da pagare, ma voglio il meglio che questo studio possa offrire. Lo sguardo dell’infermiera si soffermò sui miei orecchini, poi sulla Tshirt che di certo aveva visto giorni migliori. Era un regalo di mio padre, me l’aveva data circa cinque anni prima alla fine di un tour. Mi piaceva perché vestiva aderente, e Blaire diceva che stavo bene con quel genere di magliette. — Oh, be’… Non credo che tu ti renda conto di quanto possa costare un esame del genere. È molto dolce da parte tua cercare di offrire quell’esperienza a Blaire, ma… — Posso permettermi ogni tipo di esame esistente. E ripeto, posso pagare subito. Voglio per Blaire e per mio figlio tutto il meglio che c’è. Mentre l’infermiera apriva bocca per tentare di ribattere, Blaire uscì dalla stanza indossando un camice di cotone leggero. — La prego, non si metta a discutere con lui, altrimenti le creerà grossi problemi. Facciamo l’esame in 3D e basta. L’infermiera si strinse nelle spalle. — Ok, come volete. Però mi serve un acconto. Aprii il portafogli e le porsi l’American Express nera, un privilegio di cui godevamo in pochi. Le uscirono gli occhi dalle orbite. La prese in silenzio e uscì dalla stanza. — Ora dovrei dirti che una normale ecografia sarebbe andata benissimo lo stesso, ma… sarebbe una bugia. Ho visto delle immagini 3D sulle riviste specializzate e anch’io ne vorrei tanto una così! Blaire sorrideva come una bambina pronta per il suo primo viaggio a Disneyland. Cavolo, se fosse bastata a farla sorridere sempre così, quella cazzo di macchina 3D gliel’avrei direttamente comprata. — Solo il meglio per la mia ragazza e per mio figlio. Sempre. La porta si aprì e l’infermiera entrò scrutandomi in cerca di chissà quale indizio. Mi riconsegnò la carta di credito. La presi e la rimisi nel portafogli. — Sei il figlio di Dean Finlay? — chiese infine. — Sì. E adesso vediamo il mio bambino! La donna annuì obbediente e si rivolse a Blaire. — L’ecografo tridimensionale è in una stanza a parte. Te la senti di attraversare il corridoio con indosso solo il camice? — Qualcuno potrebbe vederla? — intervenni mettendomi subito di fronte a lei, perché, in caso di risposta affermativa, io non me la sarei sentita di certo. L’infermiera aprì un armadio e ne estrasse un lenzuolo. — Tieni, falle mettere questo. L’avvolsi in più giri, finché non fu completamente coperta. Blaire si sforzava di non ridere stringendo forte le labbra. Le feci l’occhiolino e le diedi un bacio sulla punta del naso. Attraversammo un lungo corridoio, sfilando davanti a due infermiere, a un’altra coppia e al medico di Blaire, che ci chiese perché ci stessimo spostando. La nostra infermiera gli spiegò rapidamente che avevo appena pagato per l’ecografia 3D e lui ci seguì, con aria molto compiaciuta, nell’altra stanza. Blaire si sdraiò sul lettino e io aspettai impaziente che finissero di prepararla. Aveva la pancia scoperta, spalmata di gel trasparente. L’infermiera mi guardò. — Volete conoscere il sesso del nascituro? — Lo chieda alla mamma — risposi, infastidito che lo avesse chiesto prima a me. — Sì, mi piacerebbe — disse lei, guardandomi in cerca di una conferma. — Anche a me — confermai. Il medico cominciò a muovere qualcosa sulla pancia di Blaire e un battito riempì la stanza. Era più veloce del normale. — È il battito del mio bambino? — chiesi, alzandomi in piedi di scatto. Rimanere seduto era diventato impossibile. Il mio cuore stava battendo rapido come quello che sentivo uscire dallo schermo. — Sì, è normale — rispose il medico. — E qui… Sì, ecco qui il nostro campione — annunciò. Fissai lo schermo mentre una piccola vita cominciava a prendere forma. — Campione? O campionessa? — chiese Blaire. — Direi che si tratta senza dubbio di un campione. Presi subito la mano di Blaire, incapace di staccare gli occhi dallo schermo. Era il nostro bambino. Avrei avuto un figlio maschio… E, ’fanculo, avrei anche pianto. RINGRAZIAMENTI Devo cominciare ringraziando Keith, mio marito, che durante la stesura di questo libro (e di tutti gli altri) ha sopportato la casa sporca, la mancanza di vestiti puliti e gli sbalzi d’umore della sottoscritta. I mie tre tesori, che si sono sfamati ricorrendo a pizza e surgelati vari perché io ero troppo impegnata a scrivere. Giuro che, una volta finito il libro, ho preparato un sacco di manicaretti salutari. Elizabeth Reyes, Autumn Hull e Colleen Hoover per aver letto e commentato il manoscritto. Grazie per il vostro aiuto, ragazze! Sarah Hansen, disegnatrice della splendida copertina originale. È un talento, le voglio bene. Quando si esce con lei ci si diverte sempre un sacco. Fidatevi… Ho le prove ;-) L’agente più in gamba mai avvistata nell’ambiente letterario, Jane Dystel. Io la adoro, punto. Una standing ovation anche per Lauren Abramo, la mia agente per l’estero che sta facendo un ottimo lavoro per diffondere i miei libri in tutto il mondo. È una grande. Stephanie T. Lott: ho lavorato con tanti editor, ma lei mi piace da morire. È favolosa. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Indice Il libro L’autore Irresistibile RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH BLAIRE RUSH RINGRAZIAMENTI Copyright