Il libro
Cosa fai se non puoi fidarti di qualcuno,
ma quel qualcuno ti manca come l’aria?
Un segreto terribile ha distrutto il
mondo di Blaire. Ma lei non riesce a
smettere di amare Rush, nonostante
sappia che non potrà mai perdonarlo: le
ha nascosto un’oscura verità, e brucia
ancora.
L’unica possibilità di salvezza è
ricominciare, tornare alla vecchia vita
nel suo rassicurante villaggio, a fianco
del grande amico di sempre, Cain, e
guardare avanti. Eppure le strade di
Blaire e Rush tornano a scontrarsi e
sfiorarsi, come prima, più di prima. Lei
cerca di nascondersi, di sottrarsi, di
mentire, ma sono i loro corpi e i loro
cuori a dominare su tutto… perché non
si può resistere all’irresistibile.
L’autore
Le piacerebbe passare i weekend su
yacht di lusso, a sciare oppure a fare
surf. E invece li trascorre in
Alabama, sotto le coperte, con un
Mac e usa la sua fervida
immaginazione nei romanzi che
scrive. Per Mondadori ha pubblicato
The Vincent Boys e The Vincent
Brothers.
abbi glines
IRRESISTIBIL
E
traduzione di Manuela Carozzi
Dedicato a tutte le lettrici innamorate
di Rush.
RUSH
Qualcuno bussò alla porta, poi si sentì
solo un leggero strascicare di piedi. Già
mi si stringeva il cuore. Mentre
tornavano, mia madre mi aveva
chiamato per raccontarmi cos’aveva
fatto e comunicarmi che aveva
assolutamente bisogno un drink con le
amiche. Quindi a consolare Nan avrei
dovuto pensarci io: lei non era proprio
in grado di gestire un simile stress, o per
lo meno così aveva detto.
— Rush? — mi chiamò la vocina di
Nan, accompagnata da un singhiozzo. La
piccola era in lacrime.
— Sono qui — risposi alzandomi dal
pouf a sacco su cui mi ero seduto, in un
angolo. Era il mio rifugio segreto. In
quella casa dovevi avercelo, per forza,
altrimenti eri spacciato.
I riccioli ramati si erano appiccicati
al viso umido. Il labbro inferiore
tremava, gli occhi tristi erano alzati
verso di me. Quasi mai li avevo visti
felici, quegli occhi. Mia madre dava
retta a Nan soltanto quando doveva
addobbarla ed esibirla in pubblico. Per
il resto del tempo, la piccola veniva
ignorata. Non da me, comunque, che
facevo del mio meglio per farla sentire
amata e considerata.
— Non l’ho visto. Non c’era —
sussurrò, lasciandosi sfuggire un altro
singhiozzo. Non avevo bisogno di
chiedere di chi stesse parlando. Lo
sapevo già. Mia madre si era stancata di
sentire Nan che chiedeva continuamente
di suo padre, perciò aveva deciso di
portarla da lui. Se mi avesse avvertito
prima, le avrei accompagnate volentieri.
L’espressione ferita sul viso di Nan mi
fece serrare i pugni dalla rabbia: se
avessi incontrato quell’uomo, gli avrei
spaccato la faccia. Volevo vederlo
sanguinare.
— Vieni qui — dissi tendendo le
braccia alla mia sorellina. Lei mi strinse
le sue attorno alla vita e avvolse forte.
In quei momenti era difficile respirare.
Non sopportavo la vita che le era stata
riservata. Almeno io sapevo che mio
padre mi voleva... Un po’ di tempo con
me ogni tanto lo passava.
— Ha altre figlie. Due. E sono…
bellissime. Hanno i capelli come quelli
degli angeli. E poi la loro mamma le
lascia giocare in giardino, per terra.
Avevano le scarpe da tennis. Sporche!
— Nan moriva sempre d’invidia quando
vedeva qualcuno che portava scarpe
sportive incrostate di fango: nostra
madre non le permetteva mai di farlo.
Lei doveva essere perfetta in ogni
momento. Lei un paio di scarpe del
genere poteva solo sognarselo.
— Non possono essere più belle di te
— la rassicurai, convinto di ciò che
dicevo.
Nan tirò su col naso e mi lasciò
andare. Quando rialzò la testa, i suoi
grandi occhi verdi incontrarono i miei.
— Invece sì. Le ho viste. Ho visto le
foto appese, erano insieme a un signore.
A loro vuole bene… A me no.
Non potevo mentirle. Aveva ragione,
suo padre a lei non voleva bene.
— Quel signore è un cretino. Tu hai
me, Nan. Mi avrai per sempre.
BLAIRE
Tredici anni dopo
Venticinque chilometri di distanza dal
paese potevano bastare. Nessuno si
allontanava mai così tanto da Sumit,
Alabama, solo per andare in farmacia. A
meno che, ovviamente, non avesse
diciannove anni e dovesse comprare
qualcosa da tenere nascosto al resto del
mondo. La natura di qualsiasi acquisto
presso la farmacia locale veniva infatti
puntualmente divulgata a tutti gli abitanti
nel giro di un’ora, soprattutto se non eri
sposata e avevi comprato una scatola di
preservativi o magari… un test di
gravidanza.
Appoggiai la confezione sul bancone
ed evitai di incrociare lo sguardo della
farmacista. Non sarei stata in grado di
sostenerlo; la paura e il senso di colpa
che sicuramente trasparivano dai miei
occhi non erano sentimenti che avevo
voglia di condividere con una
sconosciuta a caso. Non ne avevo
parlato nemmeno con Cain. Da quando,
tre settimane prima, avevo chiuso Rush
fuori dalla mia vita, ero lentamente
rientrata nella routine di passare tutto il
tempo con lui. Era facile: non mi forzava
mai a parlare, ma, quando ero io a
volerlo fare, era sempre disponibile ad
ascoltare.
— Sedici dollari e cinquanta —
annunciò la signora dall’altra parte del
banco. La preoccupazione nella sua
voce
era
palpabile.
Non
mi
sorprendeva: il mio era l’acquistovergogna temuto da tutte le adolescenti.
Le allungai una banconota da venti senza
sollevare lo sguardo dal sacchettino che
mi aveva messo davanti. Conteneva
l’unica risposta di cui avevo bisogno e
anche l’unica che mi terrorizzava.
Fingere di non essere in ritardo di due
settimane e comportasi come se nulla
fosse sarebbe stato più semplice. Ma
dovevo sapere.
— Ecco il resto, tre dollari e
ottantacinque — disse, e io presi le
monete dal palmo della sua mano aperta.
— Grazie — bofonchiai, agguantando
il sacchetto.
— Spero vada tutto bene — aggiunse
la signora in tono gentile. Sollevai
timidamente lo sguardo e incontrai un
paio di occhi scuri e comprensivi; era
una sconosciuta che non avrei mai più
rivisto, ma in quel momento mi aiutava
pensare che qualcuno oltre a me
sapesse. Mi faceva sentire meno sola.
— Anch’io — risposi prima di fare
dietrofront e dirigermi verso l’uscita. Un
secondo dopo ero di nuovo fuori, sotto
un caldo sole estivo.
Non avevo fatto neanche due passi
nel parcheggio quando gli occhi mi
caddero sul lato del guidatore del mio
pick-up. Cain se ne stava appoggiato
alla carrozzeria a braccia conserte.
Indossava un cappellino da baseball
grigio, con la “A” della University of
Alabama, e la visiera talmente bassa
sugli occhi che non riuscivo a vederli.
Mi fermai e lo fissai. Non avrei
potuto mentire. Ovviamente non ero
andata fin lì per comprare preservativi,
e c’era solo un’altra opzione. Anche
senza vedere il suo sguardo, sapevo che
lui sapeva.
Deglutii il groppo che mi stringeva la
gola da quando, quel mattino, mi ero
messa in macchina e avevo lasciato il
paese. Ora non eravamo più soltanto io
e la sconosciuta dietro il banco della
farmacia. Anche il mio migliore amico
sapeva.
Mi costrinsi a mettere un piede
davanti all’altro e a proseguire. Cain mi
avrebbe fatto un mucchio di domande, e
io avrei dovuto rispondere. Dopo le
ultime settimane passate insieme, una
spiegazione se la meritava. Anzi, si
meritava la verità. Ma da che parte
dovevo cominciare?
Gli andai di fronte, a pochi passi di
distanza. Ero contenta che il berretto gli
nascondesse il viso: sarebbe stato più
semplice parlare, senza vedere i suoi
pensieri riflessi negli occhi.
Restammo in piedi in silenzio.
Volevo che fosse lui a dire qualcosa per
primo, ma dopo quelli che mi
sembrarono diversi minuti trascorsi in
assoluto silenzio capii che spettava a
me.
— Come facevi a sapere dov’ero? —
mi decisi a chiedere.
— Vivi in casa di mia nonna. Mi ha
telefonato appena ti ha visto uscire con
un’aria strana. E io mi sono preoccupato
per te — rispose.
Le lacrime mi pungevano gli occhi.
Non avrei pianto per l’ennesima volta,
avevo già versato tutte le lacrime che
avevo a disposizione. Stringendo il
sacchetto con il test di gravidanza,
raddrizzai le spalle. — Mi hai seguito
— dissi. Non era una domanda.
— Certo che sì — ammise lui, poi
scosse la testa e distolse lo sguardo da
me per dirigerlo verso un punto lontano.
— Quando pensi di dirmelo, Blaire?
Gliel’avrei detto? Non lo sapevo.
Ancora non ci avevo pensato. — Non
sono sicura che ci sia già qualcosa da
dire — risposi con onestà.
Cain scosse di nuovo la testa e
soffocò una risata bassa del tutto priva
di umorismo. — Non sei sicura, eh? Sei
venuta fin qui perché non sei sicura?
Era arrabbiato. Oppure offeso? In
entrambi i casi, non ne aveva motivo. —
Finché non faccio il test non sono sicura
di niente. Ho un ritardo. Tutto qui. Non
sono tenuta a parlarne con te, non sono
affari tuoi.
Lentamente, Cain girò la testa per
portare lo sguardo all’altezza del mio.
Con la mano sollevò la visiera. Adesso
l’ombra sugli occhi era sparita, c’erano
solo dispiacere e incredulità. Avrei
preferito non guardare, era quasi peggio
che sentirsi giudicati.
— Davvero? È questo che provi?
Dopo tutto quello che abbiamo vissuto
insieme, è così che ti senti veramente?
Quello che avevamo vissuto insieme
ormai apparteneva al passato. Lui stesso
era l’incarnazione del mio passato.
Avevo sopportato molto anche da sola:
mentre lui si godeva gli anni delle
superiori, io avevo dovuto combattere
per tenere insieme i pezzi della mia vita.
Cosa pensava di aver passato, di
preciso? Sentivo che la rabbia iniziava a
farmi ribollire il sangue e, quando alzai
gli occhi, lo fulminai.
— Sì, Cain. È davvero questo che
provo. E non so cosa, secondo te,
avremmo vissuto insieme noi due.
Eravamo migliori amici, poi siamo
diventati una coppia, poi mia madre si è
ammalata. Ma a te serviva una che ti
succhiasse l’uccello, perciò hai pensato
bene di mettermi le corna. Io mi sono
presa cura di lei da sola, senza nessuno
su cui fare affidamento. Poi mia madre è
morta, e io me ne sono andata. Quelli
che ho conosciuto hanno distrutto il mio
cuore e il mio mondo, quindi sono
tornata a casa. Tu eri qui ad aspettarmi.
Non te l’avevo chiesto, ma c’eri. Per
questo ti ringrazio, Cain, ma non basta a
cancellare tutto il resto, non compensa il
fatto che, quando ho avuto più bisogno
di te, tu non ci sei stato. Perciò scusa
tanto se, adesso che mi stanno di nuovo
tirando via il mondo da sotto i piedi, non
sono corsa da te. Non te la sei ancora
guadagnata, la mia fiducia.
Avevo il fiato corto, e le lacrime che
fino a quel momento mi ero rifiutata di
versare stavano già scorrendo sul viso.
Non volevo piangere, merda! Mi
avvicinai a Cain e usai tutte le forze che
avevo per spingerlo via, così da poter
afferrare la maniglia della portiera e
aprirla. Dovevo andarmene da lì.
Andarmene da lui.
— Levati di mezzo — gridai
cercando disperatamente di aprire lo
sportello nonostante lui ci stesse ancora
appoggiato. Mi aspettavo una lite. Mi
aspettavo qualcosa di diverso dal
vedere Cain che invece faceva ciò che
gli avevo richiesto. Salii in macchina e
buttai il sacchetto della farmacia sul
sedile del passeggero, poi misi in moto
e uscii dal parcheggio in retro. Lo
vedevo, ancora lì in piedi. Non si era
spostato di molto, solo il necessario per
lasciarmi passare. Non mi stava
guardando: stava fissando l’asfalto,
come se avesse tutte le risposte. In quel
momento non potevo preoccuparmi di
Cain, dovevo andarmene e basta.
Forse non avrei dovuto parlargli
così. Forse avrei dovuto tenermi dentro
tutto, dov’era rimasto sepolto per anni.
Ma ormai era troppo tardi, mi aveva
provocata nel momento sbagliato e non
avevo intenzione di sentirmi in colpa.
Però non potevo tornare a stare da
sua nonna. Mi aveva vista uscire di
nascosto. Con tutta probabilità, Cain
l’avrebbe chiamata e le avrebbe
raccontato, se non la verità, qualcosa di
molto simile. Non avevo alternative:
avrei fatto il test di gravidanza nei bagni
di un benzinaio. Poteva andare peggio di
così?
RUSH
Una volta le onde che si frangevano
sulla battigia mi tranquillizzavano. Già
da piccolo avevo l’abitudine di andare a
sedermi in veranda per guardare
l’acqua, un metodo che mi era sempre
stato utile per ridare la giusta
prospettiva alle cose. Ma ormai non
funzionava più.
La casa era deserta. Mia madre e…
lo stronzo che avrei voluto veder
bruciare all’inferno per l’eternità se
n’erano andati non appena ero tornato
dall’Alabama, tre settimane prima. Ero
arrabbiato, confuso, fuori controllo.
Dopo aver minacciato l’incolumità
dell’uomo con cui mia madre era
sposata, li avevo cacciati entrambi di
casa. Non avevo più voglia di vedermeli
attorno. Sapevo di dover telefonare
almeno a lei, di doverle parlare, ma
ancora non me la sentivo.
Perdonare mia madre era più facile a
dirsi che a farsi. Nan, mia sorella, era
venuta da me diverse volte per pregarmi
di chiamarla. Non ne aveva colpa, ma io
non ce la facevo ad affrontare
l’argomento, nemmeno con lei. Mi
ricordava quello che avevo perso.
Quello che avevo a malapena avuto.
Quello che non mi sarei mai aspettato di
trovare.
Da dentro casa sentii provenire una
serie di colpi che interruppero il flusso
dei miei pensieri. Mi girai, sbirciai
all’interno e capii che c’era qualcuno
alla porta, perché squillò anche il
campanello. Altri colpi. Ma chi cavolo
era? Da quando Blaire se n’era andata,
nessuno era più venuto a trovarmi, a
parte mia sorella e Grant.
Appoggiai la birra sul tavolino
accanto alla poltrona e mi alzai.
Chiunque fosse, doveva avere una
ragione più che valida per presentarsi
da me senza invito. Dall’ultimo
passaggio di Henrietta, la domestica, la
casa era rimasta in ordine. Senza più
feste né vita sociale, era facile evitare di
distruggere l’arredamento, e in fondo mi
stavo rendendo conto che era molto
meglio così.
Ripresero a bussare proprio mentre
ero sul punto di spalancare la porta e
dire a chiunque mi fossi trovato davanti
di andarsene affanculo, ma all’ultimo mi
mancarono le parole. Davanti a me c’era
uno che non mi sarei mai aspettato di
rivedere. L’avevo incontrato una volta
soltanto e odiato all’istante. Invece era
lì, e mi faceva venire voglia di
prenderlo per le spalle e scuoterlo fino a
fargli sputare come stava lei. Stava
bene? Dove viveva? Dio mio, quanto
speravo che quei due non vivessero
insieme. E se lui… No, no, no, non era
successo. Lei non l’avrebbe fatto. Non
la mia Blaire.
Istintivamente strinsi i pugni.
— Ho bisogno di sapere una cosa —
annunciò Cain, l’ex ragazzo di Blaire,
mentre io lo guardavo confuso e
sbalordito. — Tu… — si interruppe per
deglutire. — Tu hai… Cazzo. — Si tolse
il berretto da baseball e si passò una
mano fra i capelli. Notai le occhiaie
scure e l’espressione stanca, anzi
esausta del suo viso.
Mi si fermò il cuore. Lo presi per il
braccio e lo scossi: — Dov’è Blaire?
Sta bene?
— Sta bene… Cioè, sì, tutto ok.
Lasciami, che mi rompi il braccio! —
sbottò lui, liberandosi con uno strattone.
— Blaire è sana e salva, a Sumit. Non è
questo il motivo per cui sono qui.
E allora cos’era venuto a fare?
L’unico legame fra noi era Blaire.
— Quando è partita da Sumit, era…
innocente. Molto innocente. Io ero stato
il suo unico ragazzo. Ne sono sicuro,
siamo stati amici per la pelle fin da
bambini, noi due. Da quando è tornata,
però, non è più la stessa: non parla, non
ne ha voglia. Io ho solo bisogno di
sapere se tu e lei… Se voi due… Ok, lo
dico e basta. Te la sei scopata?
Mi si appannò la vista e scattai in
avanti con un unico pensiero in testa:
uccidere. Cain aveva superato il limite.
Non aveva il diritto di parlare così di
Blaire. Non aveva il diritto di fare certe
domande né di dubitare della sua
innocenza. Blaire era ancora innocente,
accidenti a lui! Non poteva, no.
— Oh porca puttana! Rush, fratello,
rimettilo giù! — Quella era la voce di
Grant. La sentii, sì, ma distante, come se
uscisse da un tunnel. Io ero concentrato
sul ragazzo davanti a me, sul mio pugno
che entrava in contatto con la sua faccia
e sul sangue che gli zampillava dal naso.
Stava sanguinando, ed era giusto così.
Qualcuno doveva sanguinare, cazzo.
Due braccia serrarono le mie da
dietro e mi strapparono via da Cain, che
barcollò all’indietro, portandosi le mani
al naso con uno sguardo sconcertato
negli occhi. O meglio, in uno dei due.
L’altro era già troppo gonfio per potersi
aprire.
— Cosa cazzo gli hai detto? — gli
chiese Grant, continuando a stringermi
come una tenaglia.
— Non ti azzardare a ripeterlo,
coglione! — ruggii appena Cain aprì
bocca per rispondere. Non avrei
sopportato di sentirlo parlare così di lei.
Mi aveva affrontato come se io l’avessi
traviata, mentre ciò che avevamo fatto
non era stato né sporco né sbagliato.
Blaire
era
ancora
innocente,
incredibilmente innocente. Ciò che
avevamo fatto io e lei non cambiava le
cose.
Le braccia di Grant si serrarono
ancora più forte, voleva tirarmi contro il
suo petto. — Adesso però te ne devi
andare. Non ce la faccio a trattenerlo
ancora per molto. Ha almeno dieci chili
di muscoli più di me, e ti assicuro che
fare quello che sto facendo non è
semplice come può sembrare. Fila,
bello. E non tornare. Ti è già andata di
culo così.
Cain fece sì con la testa e tornò
vacillando alla macchina. La mia rabbia
stava sbollendo, ma non era svanita.
Avevo ancora una gran voglia di fargli
male, tanto male, per togliergli dalla
testa qualsiasi pensiero sul fatto che
Blaire non fosse più perfetta come
quando era partita dall’Alabama. Lui
non sapeva cos’era stata costretta a
sopportare. Non poteva immaginare
l’inferno che la mia famiglia le aveva
fatto passare. Voleva prendersi cura di
lei? E come? Blaire aveva bisogno di
me.
— Se ti lascio andare, pensi che lo
inseguirai in macchina oppure sei a
posto così? — mi chiese Grant,
mollando la presa.
— Sono a posto — lo rassicurai
liberandomi dalle sue braccia e
appoggiandomi
alla
ringhiera
dell’ingresso per riprendere fiato con
qualche respiro profondo. Il dolore era
tornato, in tutta la sua potenza. Ero
riuscito a seppellirmelo dentro, pulsava
solo un po’, ma rivedere quel pezzo di
merda mi aveva fatto tornare in mente
tutto. Quella sera. Quella da cui non mi
sarei mai più ripreso. Quella che mi
avrebbe segnato per sempre.
— Posso chiederti che cos’è
successo o poi sfondi il naso anche a
me? — chiese Grant, tenendosi a
distanza di sicurezza.
Lui era mio fratello a tutti gli effetti.
Quando eravamo bambini, i nostri
genitori erano sposati, e lo erano rimasti
abbastanza a lungo perché fra noi si
formasse uno stretto legame. Anche se
da allora mia madre aveva avuto un paio
di altri mariti, Grant restava un membro
della mia famiglia. E mi conosceva
abbastanza bene da sapere che si
trattava di Blaire.
— È l’ex di Blaire — risposi senza
guardarlo.
Grant si schiarì la voce. — Ah.
Quindi… è venuto qui per farsi bello
con te? Oppure l’hai ridotto in una
poltiglia sanguinolenta soltanto perché
una volta la toccava?
Entrambe le cose. Nessuna delle due.
Feci no con la testa. — No. È venuto a
farmi domande su me e lei. Affari che
non lo riguardano. Ha chiesto la cosa
sbagliata.
— Mmm, capisco. Be’, gliel’hai fatta
pagare. Ora il ragazzo ha un bel naso
rotto che fa compagnia all’occhio nero.
Finalmente sollevai la testa per
guardarlo in faccia. — Grazie per
avermi impedito di massacrarlo. Non ci
vedevo più dalla rabbia.
Grant annuì e mi fece cenno di
tornare in casa. — Dai, beviamoci una
birra e facciamoci una partita a Xbox.
BLAIRE
La tomba di mia madre era l’unico posto
che mi veniva in mente. Non avevo più
una casa. E tornare da nonna Q era fuori
questione. Era pur pur sempre la nonna
di Cain. Forse mi stava aspettando. O
forse no. Forse ora avevo perso anche
lui. Mi sedetti ai piedi della lapide,
portai le ginocchia al mento e mi
abbracciai le gambe .
Ero tornata a Sumit perché era
l’unico posto che conoscevo. E adesso
mi toccava andarmene anche da lì. Non
potevo restare. Per l’ennesima volta mi
ritrovavo con la vita ribaltata, e non ero
pronta. Da bambina, mia madre mi
portava al catechismo della chiesa
battista. Mi tornò in mente un passo
della Bibbia in cui si diceva che Dio
non dava a nessuno più di quanto
potesse sopportare… Cominciavo a
chiedermi se la regola non valesse
soltanto per chi andava a messa tutte le
domeniche e diceva le preghiere prima
di dormire, visto che a me non veniva
risparmiato proprio niente.
Piangermi addosso era perfettamente
inutile. Non potevo lasciarmi andare,
dovevo cavarmela. Punto. Stare da
nonna Q e permettere a Cain di darmi
una mano era stata una soluzione
temporanea. L’avevo capito subito,
appena messo piede nella camera degli
ospiti, che non avrei potuto trattenermi
per molto. Tra me e Cain c’era troppa
storia, una storia che non avevo
intenzione di riprendere. Il momento di
andarmene era arrivato, ma di fatto ero
ancora allo stesso punto di tre settimane
prima. Non avevo ancora risolto niente.
— Quanto vorrei che fossi qui,
mamma. Non so cosa fare e non ho
nessuno a cui rivolgermi — sussurrai,
seduta nel cimitero immerso nel
silenzio. Volevo credere che potesse
sentirmi. Non mi piaceva l’idea che
fosse sottoterra, ma dopo la morte della
mia sorella gemella Valerie io e lei ci
sedevamo sempre lì a parlarle. Mia
madre diceva che il suo spirito vegliava
su di noi, che Velerie poteva sentirci. E
ora volevo credere che valesse anche
per lei.
— Non ho più nessuno. Mi mancate
da morire. Non mi piace essere così
sola… Ho paura. — L’unico suono era il
vento che faceva stormire le foglie sugli
alberi. — Una volta mi hai detto che, se
avessi ascoltato bene, avrei sentito la
risposta in fondo al mio cuore. Sto
ascoltando, mamma, ma sono tanto
confusa. Non è che potresti aiutarmi
mandandomi dalla parte giusta?
Appoggiai il mento sulle ginocchia e
chiusi
gli
occhi,
cercando
disperatamente di non piangere.
— Ti ricordi quando mi hai detto che
dovevo dire a Cain tutto quello che
provavo? Che non mi sarei mai sentita
meglio se non mi fossi sfogata? Ecco,
l’ho fatto oggi. Anche se mi perdonerà,
fra noi non sarà mai più la stessa cosa.
In ogni caso non avrei potuto
appoggiarmi a lui, devo farcela da sola.
Ma non so da che parte cominciare!
Il semplice fatto di averle detto tutto
mi fece sentire meglio. Sapere che non
avrei ricevuto risposta non contava.
La portiera di un’auto che sbatteva
interruppe la quiete. Liberai le gambe
dalla stretta delle braccia e mi girai per
guardare verso il parcheggio. C’era una
macchina, troppo costosa per il mio
paesino. Strinsi gli occhi per vedere chi
stava scendendo e rimasi senza fiato.
Saltai in piedi. Era Bethy, era venuta fin
lì, a Sumit! Al cimitero… a bordo di una
macchina molto, molto costosa.
Aveva raccolto i lunghi capelli
castani in una coda che scendeva di lato
sulla spalla. Quando incrociò il mio
sguardo, un sorriso le spuntò sulle
labbra. Non riuscivo a muovermi, avevo
quasi paura di avere le allucinazioni.
Che cosa ci faceva Bethy in Alabama?
— È assurdo che tu non abbia il
cellulare. Come faccio ad avvertirti che
sto venendo a schiodare da qui il tuo bel
sederino, se non mi risponde nessuno?
— Non avevo la minima idea di cosa
stesse dicendo, ma sentire il suono della
sua voce mi bastò per correrle incontro
e annullare la breve distanza che ci
separava.
Bethy rise e io mi lanciai fra le sue
braccia spalancate. — Non ci posso
credere, sei qui! — esclamai,
stringendola.
— Sì, non ci credo nemmeno io. È
stato un lungo viaggio, ma per te ne
valeva la pena. E visto che avevi
lasciato il telefono a Rosemary, non
avevo altra scelta.
Avrei voluto raccontarle tutto, ma non
potevo. Non ancora. Mi serviva tempo.
Lei sapeva già di mio padre, sapeva di
Nan, ma il resto… Troppo prematuro.
— Sono così contenta di vederti qui!
Come hai fatto a trovarmi?
Lei sorrise e mi guardò inclinando
appena la testa. — Ho girato per tutto il
paese in cerca del tuo pick-up. Non è
stato molto difficile, in pratica c’è un
solo incrocio! Se avessi battuto le
palpebre una volta di troppo, l’avrei
mancato!
— La tua macchina avrà attirato molti
sguardi, passando per queste strade —
commentai osservando il bolide.
— Oh, quella è di Jace. Si guida che
è un piacere.
Allora stavano ancora insieme... Ero
felice per lei, ma allo stesso tempo
provai una fitta di dolore: Jace mi
ricordava Rosemary, e Rosemary mi
ricordava Rush.
— Vorrei chiederti come stai, ragazza
mia, ma sembri un bastone che cammina.
Cos’è, non hai mangiato nemmeno un
boccone, da quando te ne sei andata?!
I vestiti mi cascavano di dosso.
Mangiare era difficile, con quel macigno
che mi pesava sempre sul petto. — Sono
state giornate pesanti, ma sto facendo
progressi. Provo a voltare pagina, ad
accettare quello che è successo.
Bethy spostò lo sguardo da me alla
tomba alle mie spalle. A entrambe le
tombe. Vidi la tristezza sul suo volto nel
momento in cui lesse i nomi. — Nessuno
può portarti via i ricordi. Quelli
resteranno per sempre — mi disse
stringendomi una mano fra le sue.
— Lo so. Io non credo a quella gente.
Mio padre è un bugiardo, non credo più
a nessuno. Mia madre non sarebbe mai
stata capace di fare quello che dicono
loro. Se c’è qualcuno da incolpare,
quello è mio padre. È lui che ha causato
tutto questo dolore. Non lei. Lei mai.
Bethy annuì e non lasciò la presa. Il
solo fatto di avere qualcuno che mi
ascoltava e sapere che mi credeva, che
credeva all’innocenza di mia madre, era
un grande aiuto.
— Tua sorella ti somigliava molto?
L’ultimo ricordo che avevo di Valerie
era il suo sorriso. Quel sorriso
scintillante tanto più bello del mio.
Aveva denti naturalmente perfetti, non le
era nemmeno servito l’apparecchio.
Anche lo sguardo era più luminoso del
mio. Invece tutti dicevano che eravamo
identiche, che non riuscivano a
distinguerci, e mi sono sempre chiesta
come fosse possibile. Io ci riuscivo
benissimo.
— Eravamo identiche — dissi,
sapendo di mentire. Non avendoci mai
viste insieme, Bethy non poteva capire.
— Non riesco a immaginare due
Blaire Wynn. Avrete fatto strage di cuori
in questo buco di posto! — Stava
cercando di sdrammatizzare, e gliene
ero grata.
— Oh, soltanto Valerie. Io sono
sempre stata con Cain, fin da piccola.
Non ho infranto il cuore di nessuno.
Bethy sgranò appena gli occhi prima
di distogliere lo sguardo e schiarirsi la
voce. Aspettai in silenzio che mi dicesse
qualcosa. — Anche se rivederti è
fantastico e insieme potremmo mettere a
ferro e fuoco questo noioso paesello,
sappi che sono venuta per un motivo
preciso.
L’avevo immaginato, ma non riuscivo
a indovinarlo.
— Ok — risposi, in attesa di ulteriori
spiegazioni.
— Cosa ne dici se andiamo a
parlarne davanti a un bel caffè? — Fece
una smorfia e poi guardò in direzione
della strada. — Magari andiamo in quel
posto, com’è che si chiama? Dairy K?
Anche perché è l’unico che ho visto
passando.
A differenza mia, non si sentiva a suo
agio a girovagare fra le tombe. Era una
reazione normale. Io, invece, tanto
normale non ero. — Sì, va bene — dissi
andando a recuperare la borsa.
— Ecco la tua risposta — sussurrò
una voce così debole che quasi pensai di
essermela sognata. Quando mi girai per
guardare Bethy, vidi che stava
sorridendo con le mani infilate nelle
tasche davanti.
— Hai detto qualcosa? — le chiesi,
perplessa.
— Vuoi dire dopo che ho proposto di
andare da Dairy K?
Annuii. — Esatto. Hai sussurrato
qualcosa?
Bethy arricciò il naso, si guardò
attorno nervosa e fece no con la testa. —
Mmm, no… Senti, perché non ce ne
andiamo
da
qui?
—
suggerì
prendendomi per un braccio e
trascinandomi dietro di sé verso la
macchina di Jace.
Mi voltai ancora una volta per
guardare la tomba di mia madre e mi
sentii invadere da un senso di pace. Che
fosse stata…?
No. Sicuramente no. Scossi la testa,
mi rigirai e affondai sul sedile del
passeggero prima che Bethy mi
sollevasse di peso.
RUSH
Era il compleanno di mia madre. Nan mi
aveva già telefonato due volte per dirmi
di chiamarla, ma non mi sognavo
neanche di farlo, visto che se ne stava su
una spiaggia delle Bahamas con lui.
Dopo quello che era successo, lei non
aveva fatto una piega. E tanto per
cambiare se l’era filata a godersi la vita,
lasciando che i suoi figli se la cavassero
da soli.
— È ancora Nan. Le rispondo io e le
dico di lasciarti in pace? — chiese
Grant entrando in salotto con in mano il
mio cellulare che squillava.
Quei due litigavano come veri
fratelli. — No, dammelo — risposi
facendomi lanciare l’apparecchio.
— Nan — la salutai.
— Allora? Chiami o no la mamma?
Mi ha telefonato due volte per chiedermi
se ti avevo parlato e se ti ricordavi che
era il suo compleanno. Guarda che lei ti
vuole bene. Non puoi lasciare che una
ragazza rovini tutto, Rush! Mi ha puntato
contro una pistola, per l’amor del cielo!
Una pi-sto-la. È una pazza, è…
— Piantala. Non aggiungere altro. Tu
non la conosci, né la vuoi conoscere.
Quindi smettila, per cortesia. Non ho
intenzione di chiamare la mamma, la
prossima volta che le parli diglielo
pure. Non voglio sentire la sua voce e
non me ne frega un emerito cazzo né del
suo viaggio né dei regali che ha
ricevuto.
— Ahi ahi… — borbottò Grant
sprofondando sul divano davanti al mio
e buttando le gambe sul pouf.
— Non voglio credere a quello che
ho appena sentito. Io proprio non ti
capisco. Quella non può essere così
brava a…
— Nanette, piantala. Chiudiamola
qui. Chiamami solo se sei tu ad avere
bisogno di me.
Riattaccai e lanciai il telefono sul
sedile accanto al mio, per poi
appoggiare la testa sul cuscino.
— Usciamo. Andiamo a berci
qualcosa. A ballare con qualche ragazza.
Dimentichiamoci di tutta questa merda,
tutta — propose Grant. Ci aveva tentato
già diverse volte nelle ultime tre
settimane, o almeno da quando io avevo
smesso di spaccare oggetti a caso e lui
aveva ritrovato il coraggio di
avvicinarmi.
— No — risposi senza guardarlo.
Non c’era motivo di comportarmi come
se andasse tutto bene. Finché non avessi
saputo che Blaire stava bene, non sarei
mai stato bene nemmeno io. Forse non
mi avrebbe mai più perdonato. Forse
non mi avrebbe mai più rivolto neanche
uno sguardo, maledizione, ma io avevo
bisogno di sapere che si stava
riprendendo. Di sapere qualcosa,
qualsiasi cosa!
— Sono stato bravo a non
immischiarmi. Ti ho lasciato sfogare,
sbraitare contro qualsiasi cosa si
muovesse e tenere il broncio perenne.
Che cosa è successo quando sei andato
in Alabama? Perché qualcosa è
successo, di sicuro. Non sei più lo
stesso, da quando sei tornato.
Volevo bene a Grant come a un
fratello, ma non gli avrei mai e poi mai
raccontato di quella sera al motel con
Blaire. Lei soffriva e io ero disperato.
— Non ne voglio parlare. Però ho
bisogno di uscire. Non posso restare
sempre qui a fissare i muri e a ripensare
a lei… Sì, devo uscire. — Mi alzai, e
subito anche Grant schizzò in piedi. Si
vedeva che già era sollevato.
— Che cosa hai in mente? Birra,
ragazze o tutt’e due?
— Musica a tutto volume — risposi.
Non mi servivano né la birra né le
donne… Non ero ancora pronto.
— Allora dobbiamo uscire da
Rosemary. Che ne dici, andiamo a
Destin?
Gli lanciai le chiavi della macchina.
— Certo, fammi strada.
Il suono del campanello ci bloccò
entrambi. Non era finita bene, l’ultima
volta che si era presentato alla mia porta
un ospite inatteso. C’era anche un’ottima
possibilità che si trattasse della polizia,
venuta ad arrestarmi per aver aggredito
Cain. Stranamente, non me ne importava.
Ero diventato insensibile.
— Vado io — si offrì Grant,
guardandomi con aria preoccupata.
Stava pensando la stessa cosa.
Tornai a sedermi sul divano e
appoggiai i piedi sul tavolino davanti a
me. Mia madre detestava quel gesto.
L’aveva comprato durante uno dei suoi
viaggi di shopping sfrenato e se l’era
fatto spedire a casa. All’improvviso
provai un certo senso di colpa per non
averla chiamata, ma non cedetti. Da una
vita facevo di tutto per rendere felice
quella donna e mi ero sempre preso cura
di Nan. Basta, non l’avrei fatto mai più.
Era finita. Finita con quelle stronzate.
— Jace, ciao! Stavamo giusto per
uscire. Vuoi venire con noi? — esclamò
Grant facendosi da parte per lasciarlo
entrare in casa. Io non mi alzai, avrei
preferito che se ne andasse. Vedere Jace
mi faceva pensare a Bethy, la quale mi
faceva venire in mente Blaire. Niente da
fare, Jace doveva sgombrare.
— Uh, no… È che… Rush, ti vorrei
parlare di una cosa — annunciò tenendo
le mani in tasca e muovendo
nervosamente i piedi. Sembrava pronto
a schizzare fuori di casa da un momento
all’altro.
— Spara — risposi.
— Guarda che oggi non è giornata,
amico — intervenne Grant, mettendosi
davanti a Jace e concentrandosi su di
me. — Non direi che è il momento
migliore per parlargli. E comunque
stavamo per uscire. Dai, Rush, andiamo.
Jace può confessarsi anche fra un po’.
Ma ormai ero curioso. — Non sono
un pazzo omicida, Grant. Siediti,
lascialo parlare.
Lui sospirò e scosse la testa. — E va
bene. Se gli vuoi dire le tue cazzate
adesso, accomodati.
Jace guardò con aria inquieta prima
Grant, poi me. Si avvicinò e si piazzò su
una sedia a distanza di sicurezza da me.
Rimasi a guardarlo mentre si infilava i
capelli
dietro
l’orecchio,
domandandomi cosa potesse avere di
così importante da dirmi.
— La faccenda fra me e Bethy sta
cominciando a diventare seria — esordì.
Già lo sapevo. E sinceramente non me
ne fregava niente. Sentii il dolore
trapassarmi il petto e strinsi i pugni.
Dovevo concentrarmi per far entrare
aria nei polmoni. Bethy era amica di
Blaire. Sicuramente sapeva come stava
lei. — Ecco… Le hanno aumentato
l’affitto, e comunque vive in un
postaccio... Non mi piaceva lasciarla là.
Insomma, ho parlato con Woods, lui mi
ha detto che suo padre aveva un
appartamento libero, con due camere da
letto. Quindi… l’ho fatto, l’ho preso in
affitto per lei, ho pagato la cauzione e
tutto il resto. Però quando l’ho portata a
vederlo lei si è incazzata. Di brutto,
anche! Non voleva che pagassi le sue
spese, perché la facevo passare per una
di quelle. — Sospirò. L’espressione di
scuse che aveva negli occhi per me
continuava a non avere senso. Non me
ne fregava niente dei suoi casini con
Bethy, perché non lo capiva?
— Costa il doppio… O meglio,
Bethy pensa che costi il doppio
dell’affitto di prima. In realtà costa
quattro volte tanto. Ho fatto giurare a
Woods di non dire niente, pago il resto
dell’affitto senza che lei lo sappia.
Comunque. Oggi, Bethy è… andata… in
Alabama.
In
fondo
il
nuovo
appartamento le piace. Le piace l’idea
di abitare vicino al club e alla spiaggia.
Ma l’unica persona che potrebbe
prendere in considerazione come
coinquilina sarebbe… Blaire.
Mi alzai. Non potevo stare seduto.
— Ehi, ehi. Siediti — disse Grant
scattando verso di me, ma io gli feci
segno di lasciarmi stare.
— Non sono fuori di testa, ok? Ho
soltanto bisogno di respirare — mi
difesi guardando, fuori dalle porte a
vetri, le onde che si frangevano sulla
riva. Bethy era andata a prendere Blaire.
Il cuore mi batteva a mille: sarebbero
tornate insieme?
— So che fra voi due è andata a
finire male. Le ho chiesto di non partire,
ma lei si è incavolata tantissimo e a me
non piace farla arrabbiare. Ha detto che
sentiva la mancanza di Blaire e che
Blaire aveva bisogno di qualcuno. Ha
anche parlato con Woods per…
chiedergli se sarebbe disposto a ridarle
il lavoro, nel caso volesse tornare qui.
Blaire. Qui.
Non avrebbe accettato. Mi odiava.
Odiava Nan. Odiava mia madre. Odiava
suo padre. Non sarebbe mai tornata…
Ma, Dio, quanto avrei voluto che lo
facesse! Mi girai a guardare Jace.
— Non tornerà — tagliai corto. Non
c’era modo di nascondere il dolore che
mi spezzava la voce. Neanche mi
importava di farlo, non più.
Jace scrollò le spalle.
— Forse ha avuto abbastanza tempo
per riflettere. E se invece tornasse? Tu
cosa faresti? — mi chiese.
Cos’avrei fatto?
L’avrei implorata.
BLAIRE
Bethy parcheggiò davanti a Dairy K.
Notai la piccola Volkswagen blu di
Callie e decisi che non era il caso di
scendere dalla macchina. Avevo visto
Callie soltanto due volte da quando ero
tornata in paese e l’avevo trovata pronta
a cavarmi gli occhi. Puntava Cain fin dai
tempi delle superiori: adesso io ero
tornata e avevo mandato all’aria tutti i
suoi progetti su di lui. Non l’avevo fatto
apposta. Per quanto mi riguardava, Cain
era tutto suo.
Bethy fece per scendere dall’auto, ma
io la trattenni. — Restiamo a parlare in
macchina — le dissi, bloccandola.
— Ma io volevo una coppa di gelato
con gli Oreo! — protestò.
— Non posso entrare in questo
locale. Mi conoscono in troppi.
Bethy sospirò e appoggiò la schiena
contro il sedile. — E va bene, ok. Tanto
al mio sedere non avrebbero fatto bene
né i biscotti né il gelato.
Sorrisi e mi rilassai, felice che i
finestrini di quella macchina fossero
oscurati. Non ero in mostra mentre la
gente che passava si fermava a fissare la
superlusso di Jace. Nessuno, da quelle
parti, guidava modelli che potessero
anche lontanamente competere con
quello su cui eravamo sedute in quel
momento.
— Blaire, non ho voglia di girarci
troppo attorno. Mi manchi. Prima di te
non ho mai avuto una vera amica. Mai.
Poi sei arrivata tu, e te ne sei anche
andata. Non sopporto il fatto di non
averti più con me! Anche il lavoro mi fa
schifo. Non ho nessuno con cui parlare
della mia vita sessuale con Jace, né di
come lui si stia comportando bene nei
miei confronti, cosa che non sarebbe
successa se tu non mi avessi aperto gli
occhi. Blaire… Tu mi manchi e basta.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi.
Il solo fatto che qualcuno sentisse la mia
mancanza mi faceva stare bene. E poi
anche Bethy mancava a me. Mi
mancavano un sacco di cose. — Anche
tu mi manchi — risposi, sperando di non
scoppiare in lacrime in due secondi
netti.
Bethy annuì e accennò un sorriso. —
Ottimo. Perché ho bisogno che torni e
vieni a vivere con me. Jace mi ha preso
un appartamento nelle palazzine
sull’area del club, ma io mi rifiuto di
farmelo pagare da lui. Perciò devo
trovare una coinquilina. Ti prego,
torna… Ho bisogno di te! E poi Woods
mi ha promesso che è pronto a ridarti il
lavoro immediatamente.
Tornare a Rosemary? Dove c’erano
Rush… Nan… mio padre. Impossibile.
Non potevo
vederli.
Sarebbero
sicuramente venuti al club. Mio padre
avrebbe accompagnato Nan a giocare a
golf? Sarei stata in grado di sopportare
una scena simile? No. Sarebbe stato
troppo.
— Non posso — risposi con voce
strozzata. Mi sarebbe piaciuto dirle di
sì. Non sapevo dove sbattere la testa
adesso che avevo la certezza di essere
incinta, ma la realtà era che non potevo
tornare a Rosemary così come non
potevo restare lì.
— Ti prego, Blaire. Manchi anche a
lui. Non esce più di casa. Jace ha detto
che fa pena.
La ferita che avevo nel petto si
infiammò all’istante. Era dura sapere
che anche Rush stava soffrendo. Me
l’ero immaginato alle prese con le solite
feste in casa, con un nuovo capitolo
della sua vita. Non volevo che fosse
ancora triste, volevo che andasse avanti.
Forse sarei stata io quella che non ci
sarebbe mai riuscita, perché qualcosa mi
avrebbe ricordato lui per sempre.
— Non posso vederli. Nessuno di
loro. Sarebbe troppo dura, Bethy. — Mi
interruppi. Non potevo dirle della
gravidanza. Non avevo neppure avuto il
tempo di rendermene conto io stessa.
Era troppo presto per confidarsi…
Forse l’avrei fatto solo con Cain. Presto
me ne sarei andata da Sumit: avrei
raggiunto un posto dove nessuno mi
conosceva e sarei ripartita da zero.
— Tuo… padre e Georgianna non ci
sono. Se ne sono andati. Nan c’è, ma si è
calmata; penso che sia preoccupata per
Rush. All’inizio sì, sarebbe dura, ma
poi… Via il dente, via il dolore. Ti
abituerai, a loro e a tutto il resto. Senza
contare che il modo in cui a Woods si è
illuminato lo sguardo quando gli ho
detto che forse saresti tornata potrebbe
essere un’ottima distrazione! Lui
sarebbe più che interessato.
Io non volevo Woods. E niente mi
avrebbe distratto. Bethy non sapeva tutta
la verità, non potevo dirgliela. Non quel
giorno.
— Per quanto la tua proposta sia
allettante… non posso. Mi dispiace.
Ed ero dispiaciuta sul serio. Andare
a vivere con Bethy e riprendere il
lavoro al club avrebbe potuto essere la
risposta ai miei problemi, o quasi.
Bethy sospirò, delusa. Rovesciò la
testa all’indietro e chiuse gli occhi. —
Ok. Ho capito. Non sono contenta, ma ho
capito.
Le presi una mano e gliela strinsi
forte. Non avrei voluto vivere in quella
situazione. Se Rush fosse stato un
ragazzo qualsiasi con cui avevo rotto, le
cose sarebbero andate diversamente.
Invece non era così, non lo sarebbe mai
stato: lui era di più. Molto di più di
quanto potesse immaginare.
Bethy ricambiò la stretta. — Per oggi
faccio finta di niente. Ma non voglio
mettermi subito a cercare un’altra
coinquilina: ti do una settimana per
pensarci. A quel punto sì, dovrò trovare
qualcuno che mi aiuti a pagare le
bollette. Quindi? Ci penserai?
Annuì, perché sapevo che ne aveva
bisogno. Così come sapevo che la sua
attesa sarebbe stata inutile.
— Bene. Allora vado a casa a
pregare, sempre che Dio si ricordi
ancora chi caspita sono! — Mi fece
l’occhiolino e poi mi abbracciò.
— Fammi un favore, però: mangia.
Stai diventando troppo magra.
— Ok — risposi, chiedendomi se
sarebbe stato possibile.
Tornò al suo posto. — Senti, se non
hai intenzione di fare le valigie e tornare
a Rosemary insieme a me, almeno
usciamo a divertirci. Devo fermarmi a
dormire qui, altrimenti non avrei la forza
di tornare indietro. Potremmo andare in
qualche locale e poi collassare in
albergo, che ne dici?
Annuii. — Sì, buona idea. Però
niente locali country! — Non potevo
tornare in uno di quei posti, non per il
momento.
Bethy fece una smorfia. — Va bene…
Ma c’è altro da fare in questo Stato?!
Non aveva tutti i torti. — Sì…
Potremmo andare a Birmingham. È la
città più grande nei paraggi.
— Perfetto. Allora andiamo a
divertirci!
Quando imboccammo il vialetto della
casa di nonna Q, la vidi seduta fuori in
veranda a sgranare i piselli. Non mi
andava di affrontarla, ma quella donna
mi aveva offerto un tetto per tre
settimane senza chiedermi nulla. Si
meritava una spiegazione, se la voleva.
D’altra parte, non avevo la certezza che
Cain le avesse raccontato tutto: non
vedevo la sua macchina nei dintorni e ne
ero immensamente felice.
— Vuoi che resti in macchina? —
chiese Bethy. Sì, sarebbe stato tutto più
semplice, ma in ogni caso nonna Q
avrebbe voluto vederla e mi avrebbe
dato della maleducata per non aver
invitato la mia amica ad accomodarsi in
casa.
— No, puoi venire con me — le dissi
aprendo la portiera.
Bethy fece il giro davanti al cofano e
venne al mio fianco. La nonna non aveva
ancora alzato lo sguardo dai suoi piselli,
ma sapevo che ci aveva sentite. Stava
pensando a cosa dire. Cain doveva
averle già parlato… Merda.
La guardai mentre continuava ad
aprire baccelli in silenzio. Il suo
caschetto corto e candido era l’unica
cosa che riuscivo a vedere. Degli occhi,
nessuna traccia. Sarebbe stato molto più
semplice entrare in casa e approfittare
del fatto che non mi aveva ancora
rivolto la parola. Ma era casa sua. Se
aveva deciso che non mi voleva più con
sé, dovevo fare le valigie e andarmene.
— Ehi, nonna Q — dissi, fermandomi
in attesa che alzasse la testa per
guardarmi.
Silenzio. Allora ce l’aveva con me.
Era delusa, oppure furiosa: non sapevo
quale delle due. In quel momento odiavo
Cain per aver fatto la spia. Non avrebbe
potuto tenersi la bocca chiusa?
— Lei è la mia amica Bethy. Oggi è
venuta a trovarmi — continuai.
Finalmente, la nonna alzò la testa e
rivolse a Bethy un sorriso. Poi guardò
me. — Falla entrare e versale un bel
bicchiere di tè ghiacciato. Offrile anche
una delle frittelle ripiene che ho messo a
raffreddare sul tavolo. Poi torni qui e
vieni a parlarmi un secondo, ok? — Non
era una domanda. Era un ordine. Annuii
e accompagnai Bethy in casa.
— Hai fatto incazzare la vecchia? —
mi sussurrò lei quando fummo dentro, al
sicuro.
Feci spallucce. Non ne ero sicura. —
Ancora non lo so — risposi.
Raggiunsi la credenza, presi un
bicchiere alto e lo riempii di tè freddo.
A Bethy non chiesi nemmeno se lo
volesse veramente, cercavo solo di fare
quello che nonna Q mi aveva chiesto.
— Ecco qui. Beviti questo e mangia
una frittella. Io torno fra poco — dissi
prima di correre fuori. Meglio risolvere
subito la questione.
BLAIRE
Le assi di legno mi scricchiolavano
sotto i piedi mentre uscivo sulla veranda
di nonna Q. Lasciai che la porta a
zanzariera si chiudesse da sola mie
spalle e dopo averla sentita sbattere
forte mi ricordai che era molto vecchia e
che le molle si erano arrugginite tanto
tempo prima. Da bambina avevo
trascorso infiniti pomeriggi seduta su
quella veranda a sgranare piselli con
Cain e sua nonna. Non volevo farla
arrabbiare. Avevo lo stomaco stretto in
una tenaglia.
— Siediti, Blaire, e basta con quella
faccia da frigna. Dio solo sa se non ti
voglio bene come se fossi mia nipote.
Avevo persino pensato che un giorno lo
saresti diventata veramente. — Scosse
la testa. — Invece quello stupido non ce
l’ha fatta. Speravo che si svegliasse
prima che fosse troppo tardi, invece no,
vero? Sei andata via e hai trovato un
altro.
Non era ciò che mi aspettavo di
sentirle dire. Mi sedetti sulla sedia di
fronte a lei e mi misi ad aiutarla, almeno
non avrei dovuto guardarla in faccia. —
Io e Cain ci siamo lasciati tre anni fa.
Non c’entra niente con quello che sta
succedendo ora. Lui è mio amico, ecco
tutto.
Nonna Q sbuffò dal naso e cambiò
posizione sul dondolo sul quale era
seduta. — Non ci credo. Voi due da
piccoli eravate inseparabili. Anche da
bambino lui non riusciva a staccarti gli
occhi di dosso. Era divertente vedere
come ti adorava senza neppure
rendersene conto. Ma poi i maschi,
quando diventano adolescenti, perdono
quel loro romanticismo sconfinato...
Detesto pensare che sia successo anche
a lui. Detesto pensare che ti abbia perso,
ragazza. Perché per Cain non ci saranno
altre Blaire. Eri tu quella per lui.
Non aveva accennato al test di
gravidanza. Sapeva che l’avevo
comprato? Non mi andava di rivangare
il mio passato con Cain. Certo, fra noi
c’era stata una storia, ma anche tanta
tristezza e rimpianti che preferivo
dimenticare. Avevo vissuto nel mondo di
bugie costruito da mio padre. Ricordarlo
faceva male. — Cain è passato da te,
oggi? — chiesi.
— Sì. Stamattina è venuto a cercarti.
Gli ho detto che non eri ancora tornata a
casa da quando te l’eri svignata, sul
presto. Mi è sembrato preoccupato: si è
girato e se n’è andato senza aggiungere
altro. Però ho capito che stava
piangendo. Non mi pare di averlo più
visto piangere, da quando è diventato
adulto.
Aveva pianto? Chiusi gli occhi e feci
cadere i piselli nel grosso secchio di
plastica che nonna Q stava usando. Non
era previsto che Cain fosse triste. Che
piangesse. Mi aveva lasciato molto
tempo prima. Perché la stava prendendo
così male? — Quanto tempo fa è stato?
— chiesi ripensando alle ore che erano
passate da quando mi ero sfogata con lui
nel parcheggio della farmacia.
— Vediamo… Mah, direi nove ore
fa, più o meno. Era presto. Sapessi
com’era sconvolto… Almeno vallo a
cercare, parlagli. Non importa quello
che provi ora per lui, ha bisogno di
sentirsi dire che va tutto bene.
Annuii. — Posso usare il tuo
telefono? — chiesi, alzandomi.
— Certo che puoi. Intanto mangiati
una frittella. Dopo che stamattina Cain è
corso via, ne ho preparate abbastanza da
sfamare un esercito. Sono le sue
preferite — disse.
— Alla ciliegia, allora — risposi,
con lei che mi sorrideva. Quante cose
leggevo in fondo a quegli occhi.
Conoscevo Cain. Non c’era niente di lui
che potesse sorprendermi. Lo capivo,
avevamo un passato. Volevo bene alla
sua famiglia ed era chiaro che anche
loro ne volevano a me. Non c’erano
dubbi.
Bethy era in piedi dietro la
zanzariera; sorseggiava il tè e
sventolava il cellulare. Ci aveva
ascoltate, e la cosa non mi sorprendeva.
— Chiamalo. Chiaritevi — mi
suggerì.
Presi il telefono ed entrai in salotto
per avere un po’ di privacy prima di
comporre il numero di Cain. Lo
conoscevo a memoria. Era lo stesso da
quando avevamo sedici anni e lui aveva
ricevuto il suo primo cellulare.
— Pronto — disse. Già sentivo che
stava esitando. C’era qualcosa che non
andava, sembrava parlare dal naso.
— Cain? Stai bene? — gli chiesi,
improvvisamente preoccupata per lui.
Ci fu una pausa e poi un lungo
sospiro. — Blaire. Sì… bene.
— Adesso dove sei?
Si schiarì la voce. — Io? Oh, be’…
sono a Rosemary Beach.
A Rosemary? Che cosa?! Affondai
sul divano dietro di me e strinsi il
cellulare con forza. Era andato a
spifferare tutto a Rush? Il mio cuore si
schiantò contro il petto. Chiusi gli occhi.
— Perché sei a Rosemary? Ti prego,
dimmi che non… — Non riuscivo
nemmeno a pronunciarlo ad alta voce.
Non con Bethy nell’altra stanza che,
quasi sicuramente, mi stava ascoltando.
— Dovevo vederlo in faccia.
Dovevo vedere se ti amava. Avevo
bisogno di saperlo… per forza. — Che
risposta insensata.
Dall’altro capo della linea mi arrivò
una risata amara. — Sì, l’ho trovato
subito. Non è stato difficile. È un posto
piccolo, tutti sanno dove vive il figlio
della rockstar.
Oddio. Oddio. Oddio. — E… che
cosa gli hai… detto? — chiesi
lentamente, in preda al terrore.
— Niente. Non ti avrei mai fatto una
cosa del genere. Dammi un po’ di
fiducia, cavolo! Ti ho tradita perché ero
un adolescente arrapato, lo ammetto. Ma
cazzo, Blaire, quand’è che mi
perdonerai? Pagherò per quell’errore
tutto il resto della mia vita? Mi
dispiace! Mi dispiace da morire, Dio
santo! Se potessi tornare indietro,
cambierei tutto. — Si interruppe e fece
un verso come se qualcosa gli facesse
male.
— Cain. Cosa c’è che non va? È tutto
a posto? — gli chiesi. Non volevo
accettare quello che aveva appena detto.
Sapevo che gli dispiaceva, dispiaceva
anche a me. Ma la risposta era no, non
mi sarebbe mai passata. Perdonare era
un conto. Dimenticare, un altro.
— Sto bene. Sono soltanto un po’
malconcio. Diciamo solo che a quel
tizio non vado a genio…
Il tizio? Rush? Rush gli aveva fatto
del male? Non mi sembrava da lui. —
Quale tizio, scusa?
— Rush — confermò Cain con un
sospiro.
Mi cadde la mandibola e rimasi a
fissare il vuoto. Rush aveva picchiato
Cain? — Non credo di riuscire a capire.
— È tutto a posto. Ho preso una
stanza per stanotte, ci dormirò sopra.
Domani torno a casa, dobbiamo parlare.
— Cain. Perché Rush ti ha picchiato?
Seguì un’altra pausa, poi un sospiro
esausto. — Perché gli ho fatto delle
domande che secondo lui non erano
affari miei. Domani ci vediamo, ok?
Aveva fatto delle domande. Che
genere di domande?
— Blaire, non hai bisogno di
dirglielo. Mi prenderò io cura di te.
Solo che prima… io e te dobbiamo
parlare.
Si sarebbe preso cura di me? Ma
cosa stava dicendo? Non gliel’avrei mai
permesso. — Ora dove sei, esattamente?
— Boh, in un albergo appena fuori
Rosemary. In quella città pensano di
cagare profumato, tutto costa cinque
volte di più!
— Ok. Resta a letto, ci vediamo
domani — dissi prima di riagganciare.
Bethy entrò in camera. Inarcò un
sopracciglio e mi guardò impaziente.
Aveva origliato. Figuriamoci!
— Mi serve un passaggio fino a
Rosemary — le annunciai alzandomi in
piedi. Non potevo lasciare Cain solo e
dolorante in una camera d’albergo, così
come non potevo rischiare che tornasse
alla carica per parlare con Rush. Se
Bethy avesse potuto accompagnarmi,
avrei controllato come stava Cain e poi
l’avrei riportato a casa io con la sua
macchina.
Bethy annuì e mi fece un sorrisetto
timido. Si capiva che non voleva farmi
vedere quanto fosse felice di ricevere
quella richiesta. Ma non sarei rimasta,
non doveva illudersi. — Lo faccio solo
per Cain. Non voglio… non posso
restare.
Sembrava non credermi. — Certo. Lo
so.
Non ero dell’umore giusto per
cercare di convincerla. Le restituii il
telefono e andai in camera a prendere un
paio di cose.
RUSH
Grant aveva finalmente deciso di
lasciarmi in pace ed era andato a ballare
con una delle ragazze che avevano
cominciato a provarci con noi appena
avevamo messo piede nel locale. Era
venuto lì per divertirsi e anche a me era
servito uscire, ma ora avevo soltanto
voglia di andarmene. Bevvi un sorso di
birra e cercai di non incrociare lo
sguardo con nessuno. Testa bassa, faccia
scura. Non c’era nemmeno bisogno di
sforzarsi.
Le parole di Jace continuavano a
risuonarmi in testa. Avevo paura… No:
ero terrorizzato all’idea che lei potesse
davvero tornare. Avevo visto la sua
faccia quella sera, al motel. Era come…
svuotata. Le emozioni nel suo sguardo,
sparite completamente. Aveva chiuso
con me, con suo padre, con tutto.
L’amore era crudele. Fottutamente
crudele.
Sentii lo sgabello da bar accanto al
mio stridere contro il pavimento.
Qualcuno lo aveva spostato, ma non
volevo alzare lo sguardo. Non avevo
voglia di parlare con nessuno.
— Ti prego, dimmi che quella brutta
espressione sul tuo bel faccino non è per
colpa di una ragazza. Potresti spezzarmi
il cuore. — Quella voce suadente di
donna mi era familiare.
Spostai la testa il minimo
indispensabile per vedere il suo viso.
Anche se ora era più grande, la
riconobbi immediatamente. Ci sono
delle cose nella vita di un ragazzo che
non si dimenticano mai, e una di queste è
la ragazza con cui perde la verginità.
Nel mio caso, Meg Carter. Aveva tre
anni più di me ed era in visita a sua
madre quando io avevo compiuto
quattordici anni. Non era stato amore.
Una lezione di vita, piuttosto.
— Meg — dissi, sollevato che non si
trattasse dell’ennesima sconosciuta che
veniva a provarci con me.
— E si ricorda anche il mio nome.
Sono colpita — rispose sorridendo al
barista. — Un Jack e Coca, grazie.
— Un uomo non dimentica mai la sua
prima volta.
Lei si spostò sullo sgabello,
incrociando le gambe e inclinando la
testa per guardarmi meglio. I lunghi
capelli neri le ricaddero sopra una
spalla. Erano ancora gli stessi che una
volta mi avevano tanto incantato.
— La maggior degli uomini no, non
la dimentica. Ma tu hai avuto una vita
diversa dalla loro, la fama deve per
forza averti cambiato in questi anni.
— È mio padre quello famoso, non io
— ribattei. Non sopportavo quando le
ragazze volevano parlare di cose che
non conoscevano minimamente. Io e
Meg avevamo scopato un po’ di volte,
ma a quei tempi lei non sapeva un
granché di me.
— Ok, come ti pare. Allora perché
sei così triste?
Non ero triste. Ero disperato. Ma lei
non era certo la persona con cui avrei
voluto sfogarmi. — Sto bene — mentii
rivolgendo lo sguardo alla pista da ballo
nella speranza di catturare l’attenzione
di Grant. Volevo andarmene.
— Hai l’aria di uno che si è appena
preso una batosta sentimentale di
proporzioni epiche e non sa come
reagire — dichiarò lei afferrando il suo
Jack e Coca.
— Non mi sogno neanche di
discutere con te della mia vita privata,
Meg. — Lasciai che il tono di
avvertimento nella mia voce emergesse
forte e chiaro.
— Mamma mia, bello! Stai
tranquillo, non volevo farti incazzare.
Era giusto per fare un po’ di
conversazione.
La mia vita non era l’argomento
ideale per “un po’ di conversazione”. —
Allora parliamo di che tempo fa, ok? —
dissi in tono aggressivo.
Lei non rispose e io ne fui felice.
Magari si sarebbe stancata e mi avrebbe
lasciato in pace.
— Sono in città per occuparmi dei
miei nonni. Lei è malata e del resto
anche io avevo bisogno di una boccata
d’aria, sono appena uscita da un
divorzio pesantissimo. Mi serviva un
cambio di scenario rispetto a Chicago.
Mi fermerò qui almeno sei mesi. Tu
sarai sempre così irascibile oppure in un
futuro prossimo prevedi di diventare più
gentile?
Voleva rivedermi. No. Non ero
pronto. Mentre pensavo a cosa
risponderle, il telefono mi avvisò che
avevo ricevuto un messaggio. Me lo
tolsi di tasca, felice di quell’interruzione
che mi avrebbe dato il tempo di
riflettere.
Non riconobbi il numero, ma le
parole “Ciao, sono Bethy” attirarono
subito la mia attenzione. Trattenni il
fiato mentre aprivo il messaggio per
leggerlo fino alla fine.
> Ciao, sono Bethy. Se non sei un
coglione, ti dai una svegliata e fai
quello che devi fare.
Cosa intendeva? Cos’era che non
sapevo? Blaire era tornata a Rosemary?
Era questo che voleva dirmi? Mi alzai e
misi sul bancone soldi a sufficienza per
pagare la mia birra e anche il cocktail di
Meg. — Devo scappare. È stato bello
rivederti, stammi bene — la salutai
come se avessi pensato ad alta voce. Mi
buttai tra la folla e, in pista, trovai Grant
alle prese con una rossa che gli si stava
strusciando addosso senza il minimo
pudore.
Incrociammo lo sguardo e con un
cenno indicai la porta del locale. — Ora
— minacciai voltandomi verso l’uscita.
Se non avesse fatto in tempo a
raggiungermi prima che salissi sulla
Range Rover, l’avrei piantato lì. Forse
lei era tornata davvero. Dovevo
assolutamente scoprirlo. Chiedere a
Bethy cosa significasse quel messaggio
criptico sarebbe stato del tutto inutile.
BLAIRE
Diedi a Bethy uno scossone sulla gamba
per farla svegliare. Dormiva da due ore.
Eravamo appena fuori da Rosemary
Beach e volevo che si mettesse lei alla
guida, così avrei potuto cercare la
macchina di Cain nei parcheggi di tutti i
motel a buon mercato.
— Ci siamo? — mormorò, assonnata,
rimettendosi dritta sulla schiena.
— Quasi. Adesso però devi guidare
tu, io voglio vedere se riesco a
individuare la macchina di Cain.
Bethy sbuffò, esasperata. Sapevo che
la sua unica speranza era quella di
portarmi a Rosemary e convincermi a
restare. Trovare Cain era l’ultima delle
sue priorità. Non gliene poteva fregare
di meno. Invece per me era essenziale.
Noi due dovevamo parlare. Perché era
andato da Rush? Non erano affari suoi.
Speravo soltanto che non gli avesse
detto cos’avevo comprato in farmacia.
Non volevo tenere Rush all’oscuro di
tutto, ma non mi ero ancora abituata
all’idea. Avevo bisogno di tempo per
rielaborare. Capire cosa volevo fare. A
quel punto, mi sarei messa in contatto
con Rush. Invece Cain era corso da lui
come un pazzo scatenato! Non riuscivo
ancora a credere che avesse fatto una
cosa del genere.
— Accosta qui un secondo. Prima ho
bisogno di un caffellatte — disse Bethy.
Feci come mi aveva chiesto e
parcheggiai la macchina di fronte a
Starbucks.
— Tu vuoi qualcosa? — mi domandò
mentre apriva la portiera. Non ero
sicura che la caffeina facesse bene… al
bambino. Scossi la testa e aspettai che
Bethy fosse scesa dall’auto, poi mi
arresi a un singhiozzo che mi aveva
colto di sorpresa. Non avevo riflettuto
sul significato di quelle due striscioline
rosa. Un figlio. Il figlio di Rush. Mio
Dio…
Scesi dalla macchina e feci il giro
davanti al cofano per mettermi sul sedile
del passeggero. Il tempo di sedermi e
allacciare la cintura Bethy stava
tornando indietro. Sembrava già un po’
più sveglia. Allontanai ogni pensiero
riguardante il bambino e mi concentrai
su Cain. Dovevo trovarlo. Avrei potuto
rimuginare sul mio futuro, e su quello di
mio figlio, in un secondo momento.
— Ok. Ho assunto la mia dose di
caffeina, sono pronta a trovare quel
tizio.
Non la corressi. Sapevo che ormai
conosceva il nome di Cain, l’avevo
usato diverse volte in sua presenza. Ma
si rifiutava di pronunciarlo. Era la sua
forma di ribellione. Cain rappresentava
Sumit e lei non voleva che io vivessi là.
Invece di farmi arrabbiare, quella scelta
mi trasmise un senso di calore: Bethy
voleva che stessi con lei, e rendermene
conto mi faceva sentire bene.
— È uscito da Rosemary perché lì gli
alberghi costavano troppo. Quindi
adesso è in qualche motel economico. Te
ne viene in mente qualcuno? — le
chiesi.
Lei annuì, ma non mi guardò. Stava
scrivendo un messaggio. Fantastico! Io
avevo bisogno di tutta la sua
concentrazione, e lei preferiva dire a
Jace che eravamo quasi arrivate. Non
volevo che Jace sapesse niente.
Guidammo per mezz’ora, e io scrutavo
come un falco tutti i parcheggi. La
situazione cominciava a diventare
pesante: li stavamo passando in rassegna
tutti, ma io non trovavo la macchina di
Cain da nessuna parte. — Posso usare il
tuo telefono? Provo a richiamarlo e lo
avviso che lo stiamo cercando. Quando
gli spiegherò che ho fatto tutta questa
strada per lui, mi dirà dov’è.
Bethy mi passò il suo cellulare e io
digitai rapidamente il numero. Suonò
due volte.
— Pronto?
— Cain, sono io. Dove sei? Sto
girando per i dintorni di Rosemary, ma
non ti trovo da nessuna parte.
Ci fu un attimo di silenzio, e poi un
“Oh, cazzo”.
— Dai, non te la prendere. Volevo
vedere come stavi. Sono venuta qui per
riportarti a casa.
Sapevo che non sarebbe stato
entusiasta di sentire che ero di nuovo nei
paraggi di Rosemary.
— Ti avevo detto che sarei tornato a
casa dopo aver riposato, Blaire. Perché
non sei rimasta dov’eri? — L’irritazione
nel suo tono di voce mi infastidì. A
quanto pareva, la mia visita non gli
faceva piacere.
— Dove sei, Cain? — chiesi di
nuovo. Poi la sentii. Una voce femminile
in sottofondo. Una mano che copriva il
microfono. Non ci voleva un genio per
capire che Cain era in compagnia
femminile e che stava cercando di
nascondermelo. Mi faceva incavolare.
Non perché pensavo che tra me e Cain
potesse esserci ancora qualcosa, ma
perché mi aveva fatto credere di essere
solo e dolorante in una città sconosciuta.
Che coglione.
— Ascolta, Cain. Io non ho più
tempo per i tuoi stupidi giochetti. Ci
sono già passata, chiuso. La prossima
volta potresti fare a meno di fingere di
avere bisogno di me? Perché ora si
capisce benissimo che non è così.
— Blaire, no. Stammi a sentire, non è
come pensi. Dopo che mi hai chiamato
non sono più riuscito a dormire, e così
sono tornato a casa. Volevo vederti.
Dall’altro capo della linea arrivò il
grido infuriato di una donna. Stava
facendo arrabbiare chiunque fosse con
lui in quel momento. Che idiota, quel
ragazzo.
— Vai a consolare la tua amica. Non
mi servono spiegazioni. Da te non mi
serve niente. Ed è sempre stato così.
— BLAIRE! No! Io ti amo. Ti amo
tanto. Ti prego, stammi a sentire —
supplicò mentre la ragazza che era con
lui diventava sempre più isterica. —
Chiudi quella bocca, Callie! — tuonò
lui. Allora era davvero a Sumit. Con
Callie.
— Sei andato da Callie? Dici di
essere tornato a casa per non farmi
preoccupare e poi vai da Callie? Sei
ridicolo, Cain. Fai sul serio? Davvero?
Guarda, non ci sto restando male. Tu non
puoi più farmi restare male. Però, per
una volta, fermati e pensa un attimo ai
sentimenti degli altri. Continui a
prendere in giro Callie, ed è sbagliato.
Piantala di pensare con l’uccello e
cresci, una buona volta.
Riattaccai e restituii a Bethy il suo
telefono. Mi stava guardando con gli
occhi fuori dalle orbite. — È tornato a
Sumit — fu la scarna spiegazione che
fornii.
— Sì… Questo l’avevo capito —
farfugliò. Si aspettava qualcosa di più.
Si meritava qualcosa di più. Mi aveva
portata fin lì, ed era anche l’unica amica
che avevo. Cain non era un amico, non
nel vero senso della parola. Un vero
amico non avrebbe continuato a fare una
cavolata dietro l’altra come lui.
— Stanotte posso dormire a casa tua?
Non ho voglia di tornare indietro. — Me
ne sarei andata presto. — Questa notte
penso a dove andare e poi chiedo a
nonna Q di spedirmi il resto delle cose
che ho lasciato da lei. Non che abbia
molto, in ogni caso. Il mio pick-up è
arrivato alla fine dei suoi giorni, non ce
la farebbe mai a rifare un viaggio così
lungo.
Bethy annuì e mise in moto, poi entrò
in carreggiata. — Puoi fermarti da me
tutto il tempo che ne avrai bisogno.
Anche di più — rispose.
— Grazie — dissi prima di
abbandonarmi contro il poggiatesta e
inspirare una profonda boccata d’aria.
Che cosa avrei fatto?
Più respiravo, più l’odore di pancetta si
faceva intenso. Era come se mi stesse
travolgendo. Sentii la gola chiudersi e lo
stomaco contorcersi. Da qualche parte,
del grasso stava soffriggendo in padella.
Prima ancora che potessi riaprire
completamente gli occhi, avevo
appoggiato i piedi per terra e stavo
correndo in bagno.
Per fortuna l’appartamento di Bethy
non era grande e non avevo molta strada
da percorrere.
— Blaire? — mi chiamò dalla
cucina, ma io non potevo fermarmi per
rispondere.
Mi buttai in ginocchio davanti al wc
e mi aggrappai alla tazza di porcellana
con entrambe le mani, vomitando tutto
finché non feci soltanto dei conati a
vuoto. Ogni volta che pensavo di avere
finito, sentivo l’odore del grasso della
pancetta misto a quello del mio vomito e
ricominciavo da capo.
Ero così debole che il corpo mi
tremava mentre cercavo di rimettere
ancora senza però ottenere nulla. A un
tratto mi ritrovai un panno bagnato sul
viso e, accanto a me, Bethy che tirava lo
sciacquone. Mi fece appoggiare la
schiena al muro.
Tenni il panno premuto contro il naso
per non sentire l’odore. Bethy se ne
accorse e chiuse la porta del bagno
dietro di sé. Una volta acceso il
ventilatore, si mise le mani sui fianchi e
mi scrutò. Lo sconcerto nei suoi occhi
mi lasciò perplessa. Mi era venuta un
po’ di nausea: e allora? Cosa c’era di
tanto strano?
— La pancetta? L’odore di pancetta ti
ha fatto vomitare? — Scosse la testa
senza smettere di guardarmi, come se
non riuscisse a crederci. — E non
volevi dirmelo, vero? Avresti messo il
culo su un pullman e te saresti andata
chissà dove. Tutta sola. Non posso
crederci, Blaire. Che cosa è successo
alla ragazza in gamba che mi ha
insegnato a non lasciarmi usare dagli
uomini? Eh? Mi dici che fine ha fatto?
Perché sappi che il tuo piano fa proprio
schifo. Ma schifo tanto. Non puoi
scappare via come se niente fosse, tu qui
hai degli amici. Ti serviranno degli
amici e… spero tu abbia intenzione di
parlarne con Rush. Ti conosco troppo
bene per sapere che è figlio suo.
Come faceva a saperlo? Avevo
semplicemente dato di stomaco. Molta
gente lo faceva quando si prendeva un
virus. — Bethy, è un virus — mormorai.
— Non raccontarmi balle. È stata la
pancetta, Blaire. Stavi dormendo
tranquilla e beata sul divano, ma appena
ho iniziato a cucinare ti sei messa a fare
versi strani e a rigirarti. Poi sei partita a
razzo e hai vomitato anche le budella.
Non ci vuole un genio, tesoro, perciò
togliti quell’espressione scioccata dalla
faccia.
Non potevo mentirle. Era mia amica.
Forse l’unica che avevo. Mi portai le
ginocchia al mento e abbracciai le
gambe: era il mio modo di tenere
insieme i pezzi di me stessa. Quando
sentivo che il mondo attorno a me si
stava sgretolando e io non ero in grado
di tenerlo sotto controllo, mi mettevo
sempre in quella posizione.
— È per questo che Cain è venuto
qui. Ieri mi ha visto mentre compravo il
test di gravidanza. So che è quello il
motivo. Chiedere a Rush… Chiedere a
Rush che rapporto c’era fra lui e me. È
un argomento di cui mi sono rifiutata di
parlare con Cain. Poi mi sono accorta di
avere un ritardo. Di due settimane.
Pensavo che avrei fatto il test, il
risultato sarebbe stato negativo e tutto
sarebbe andato bene. — Interruppi la
spiegazione e appoggiai una guancia
sulle ginocchia.
— Il test… era positivo? — mi
chiese Bethy.
Annuii, ma non alzai lo sguardo.
— Lo avresti detto a Rush? Oppure
saresti scappata e basta?
Che cosa avrebbe potuto fare, Rush?
Sua sorella mi odiava. Sua madre mi
odiava. Loro due odiavano mia madre. E
io odiavo mio padre. Per far parte della
vita di quel bambino, Rush avrebbe
dovuto rinunciare a loro. Non potevo
chiedergli di dimenticare sua madre e
sua sorella, anche se erano perfide. Lui
le amava. Non avrebbe mai rinunciato a
Nan: avevo già avuto modo di scoprire
che, quando si era trattato di scegliere
fra me e lei, aveva scelto lei. Sempre,
fino alla fine. Fino a quando avevo
scoperto tutto. Aveva mantenuto il suo
segreto. Aveva scelto lei.
— Non posso dirglielo — risposi
sottovoce.
— E perché, scusa? Lui vorrà
saperlo. Deve tirare fuori le palle, fare
l’uomo e starti vicino. Scusa, ma il tuo
piano di fuga è una vera stronzata.
Bethy non sapeva tutto. Era a
conoscenza solo di una parte della
storia. Agli occhi di Rush, raccontarla
spettava a Nan e a nessun altro. Io però
non ero d’accordo: era anche la mia
storia.
Nan aveva ancora due genitori e un
fratello. Io non avevo nessuno. Mia
madre era morta, mia sorella era morta,
e mio padre… poteva essere morto
anche lui. Quindi quella storia era tanto
mia quanto sua. Anzi, forse persino più
mia.
Alzai la testa per guardare Bethy. Era
l’unica amica che avessi sulla faccia
della terra e, se proprio fossi stata
costretta a vuotare il sacco, l’avrei fatto
con lei.
RUSH
Erano trascorse tre settimane, quattro
giorni e dodici ore dall’ultima volta che
l’avevo vista. Da quando mi aveva
spezzato il cuore. Se avessi passato la
mattinata a bere, avrei dato la colpa
all’alcol:
doveva
essere
un’allucinazione, una di quelle assurde.
Invece no, niente. Neanche una goccia.
Non potevo sbagliarmi: quella era
Blaire. Era tornata. Blaire era tornata a
Rosemary ed era a casa mia.
La sera prima avevo girato in
macchina per cinque ore alla ricerca di
Bethy, nella speranza di essere portato
da lei. Invece non avevo trovato né l’una
né l’altra. Tornare a casa e ammettere la
sconfitta era stato doloroso. Mi ero
convinto che Bethy fosse ancora a Sumit
con Blaire; che forse, quando aveva
scritto
quel
messaggio,
era
semplicemente ubriaca.
La consumai con gli occhi. Era
dimagrita, e non ne ero contento. Non
stava mangiando? Era malata?
— Ciao, Rush — disse, rompendo il
silenzio. Sentire il suono della sua voce
mi fece quasi cadere in ginocchio. Dio
mio, come mi era mancata.
— Blaire — riuscii ad articolare,
terrorizzato all’idea di poterla far
scappare anche solo parlando.
Si mise una mano fra i capelli,
avvolse una ciocca su un dito e la tirò
verso il basso. Era nervosa. Non mi
piaceva pensare di essere io la causa
del suo nervosismo. Che cosa potevo
fare per rendere tutto più semplice? —
Possiamo parlare? — mi chiese piano.
— Sì. — Mi feci da parte per
lasciarla entrare. — Accomodati.
Lei non si mosse, e lanciò
un’occhiata oltre le mie spalle. La paura
e il dolore che le balenarono negli occhi
mi fecero imprecare in silenzio. Quella
casa era stata lo scenario della sua
sofferenza. Il luogo dove il suo mondo
era stato distrutto. Maledizione! Non
volevo che casa mia la facesse sentire
così. Non quando in quelle stanze erano
nati anche dei bei ricordi.
— Sei solo? — domandò tornando a
guardarmi in faccia.
Non voleva incontrare né mia madre
né suo padre, finalmente ci ero arrivato.
Il problema non era la casa. — Li ho
mandati via il giorno in cui te ne sei
andata — risposi, osservandola
attentamente.
Sgranò gli occhi. Perché quella
notizia la sorprendeva? Non se n’era
resa conto? Lei veniva prima di tutto e
tutti. Gliel’avevo anche detto, in quella
stanza di motel. — Ah. Non lo sapevo…
— smorzò la voce. Sapevamo entrambi
che non lo sapeva perché mi aveva
tagliato fuori dalla sua vita.
— Ci sono solo io. A parte le visite
occasionali di Grant, qui ci sono sempre
soltanto io. — Aveva bisogno di sapere
che non avevo voltato pagina. E che non
avevo la più pallida intenzione di farlo.
Blaire entrò in casa e io dovetti
serrare i pugni quando riconobbi la scia
di profumo che si era lasciata alle
spalle. Quante notti passate a sognare di
rivederla nella mia vita… Nel mio
mondo.
— Posso portarti qualcosa da bere?
— chiesi pensando a quanto in realtà
volessi supplicarla di parlare. Di restare
con me. Di perdonarmi.
Fece no con la testa e si girò per
guardarmi. — No. Sto bene. È solo che
ero da queste parti e… ecco… —
Arricciò il naso, e io dovetti resistere
all’impulso di toccarle il viso. — Hai
picchiato Cain?
Cain. Merda. Sapeva di Cain. Era
venuta lì per parlare di lui?
— Ha chiesto cose che non avrebbe
dovuto chiedere. E ha detto cose che non
avrebbe dovuto dire — risposi a denti
stretti.
Blaire sospirò. — Posso soltanto
immaginare — mormorò scuotendo la
testa. — Mi dispiace che sia venuto qui.
Agisce senza riflettere, per istinto. —
Non lo stava difendendo. Si stava
scusando per lui. Non era suo compito:
non aveva la responsabilità di
quell’idiota né la colpa del suo modo di
comportarsi.
— Non ti scusare per lui, Blaire. Mi
fai venire voglia di andarlo a cercare,
quel cretino — sbottai, incapace di
controllare le mie reazioni.
— È colpa mia se lui è venuto qui,
Rush. È per questo che mi sto scusando.
L’ho sconvolto, lui ha dedotto che fosse
tutta colpa tua e quindi è corso qui prima
di chiarire le cose con me.
Chiarire le cose con lei? Ma cosa
cazzo doveva chiarire Cain con lei? —
Deve stare alla larga. Se solo osa…
— Rush. Calmati. Siamo vecchi
amici, nient’altro. Gli ho detto delle
cose che avevo bisogno di dirgli da
tanto tempo. Non gli sono piaciute…
Sono stata crudele, ma ne avevo
bisogno. Ero stanca di proteggere i suoi
sentimenti, aveva tirato troppo la corda.
Fine della storia.
Feci un respiro profondo, ma il
martello che sentivo dentro al cuore era
sempre più rumoroso.
— Sei venuta a vedere lui? —
Dovevo sapere se era quello il motivo
della sua presenza. Se io non c’entravo
niente, il mio cuore doveva farsene una
ragione.
Invece di andare in salotto, Blaire
indietreggiò. Me ne accorsi e capii. Il
fatto che fosse venuta fin lì non
significava automaticamente che fosse
anche pronta ad affrontare le cose. Non
ancora. E forse non lo sarebbe mai stata.
— Può darsi che sia stato lui il mio
pretesto per salire in macchina con
Bethy — si interruppe e fece un sospiro.
— Ma quando sono arrivata qui, ho
scoperto che lui era già tornato in
Alabama. Sono rimasta per altri
motivi… Io… ti devo parlare.
Era venuta per parlare con me. Era
passato abbastanza tempo? Feci appello
a tutta la volontà che avevo in corpo pur
di riuscire a rimanere seduto senza
prenderla fra le mie braccia. Non mi
importava che cosa avesse da dirmi. Il
semplice fatto che avesse voluto
rivedermi per me era già abbastanza. —
Sono contento che tu sia venuta — dissi
semplicemente.
La piccola ruga in mezzo alle
sopracciglia era tornata e Blaire si
rifiutava di guardarmi in faccia — Tutto
è rimasto come prima. Non sono stata
capace di dimenticare, Rush. Non
riuscirò mai a fidarmi di te. Nemmeno…
Nemmeno se volessi. Non posso.
Che cosa cazzo voleva dire quella
frase? Il martello picchiava sempre più
forte…
— Sto lasciando Sumit. Non posso
restare là. Devo cavarmela da sola.
Che cosa?! — Ti trasferisci da
Bethy? — le domandai, chiedendomi se
fossi ancora addormentato e stessi
sognando.
— No. Non volevo. Questa mattina
però abbiamo parlato e ho pensato che
forse… se ti avessi rivisto… affrontato,
forse sarei stata in grado di rimanere un
po’ con lei. Non in via definitiva,
qualche mese al massimo. Giusto il
tempo di capire quali saranno le mie
prossime mosse.
Aveva ancora in mente di andarsene.
Dovevo fare qualcosa: avevo davanti
alcuni mesi, se fosse rimasta davvero.
Per la prima volta da quando mi aveva
detto di andarmene dal motel, sentivo di
avere ancora una speranza. — Credo
che sia giusto. Non c’è bisogno di
prendere decisioni affrettate se già qui
hai un’opportunità. — Sarebbe potuta
restare da me gratis. Nel mio letto. Con
me. Ma non potevo proporglielo: non
avrebbe mai accettato.
BLAIRE
— Lavorerò al club. Noi… ci vedremo,
ogni tanto. Preferirei trovare un lavoro
altrove, ma i soldi di quel posto mi
farebbero troppo comodo — spiegai a
Rush e, contemporaneamente, anche a
me stessa. Non sapevo con esattezza
cos’avrei detto quando mi fossi
presentata da lui. Sapevo soltanto di
doverlo affrontare. All’inizio, Bethy mi
aveva implorato di dirgli della
gravidanza. Poi, quando aveva sentito
per filo e per segno tutta la storia di
quello che era successo quel giorno con
mio padre, con Nan e con sua madre,
non era stata più tanto dalla parte di
Rush. Aveva ammesso che, in effetti, non
c’era bisogno di dirgli tutto subito.
Trovare abbastanza coraggio da
tornare in quella casa dopo il modo in
cui me ne ero andata tre settimane e
mezza prima era stato difficile. La
speranza che il mio cuore potesse
restare indifferente rivedendo il viso di
Rush era stata del tutto inutile. Avevo
sentito il petto stringersi in maniera così
implacabile che già mi ero sorpresa di
riuscire a respirare regolarmente.
Figuriamoci parlare. Ero incinta di suo
figlio… di nostro figlio. Ma le bugie.
L’inganno. Chi fosse lui realmente. Tutte
quelle cose mi impedivano di
pronunciare le parole che meritava di
sentire. Non potevo. Era sbagliato, mi
stavo comportando da egoista e lo
sapevo, ma non cambiava le cose. Forse
il bambino che portavo dentro di me non
avrebbe mai conosciuto Rush. Non
potevo lasciare che i sentimenti che
provavo per lui offuscassero le mie
decisioni per il futuro… mio o di mio
figlio. Mio padre, sua madre e sua
sorella non avrebbero mai fatto parte
della vita del bambino. Non l’avrei
permesso, era escluso.
— Certo. Sì, lavorare al club frutta
bene. — Tacque e si passò una mano fra
i capelli. — Blaire, non è cambiato
niente. Non per me. Non ti serve il mio
permesso. È esattamente quello che
voglio: riaverti qui. Rivedere il tuo
viso. Oddio, non ci riesco! Non riesco a
fingere di non essere completamente
elettrizzato ora che sei qui in casa mia!
Io invece non potevo guardarlo. Non
in quel momento. Non mi sarei mai
aspettata di sentirgli dire niente di tutto
ciò. Quella conversazione nervosa e
imbarazzata mi sorprendeva. Era…
proprio quello che volevo. Il mio cuore
non poteva accettare altro. — Devo
andare, Rush. Volevo solo essere sicura
che la mia presenza in città non ti
creasse problemi. Terrò le distanze.
Rush si mosse così in fretta che io lo
notai soltanto quando fu tra me e la
porta. — Scusami, Blaire. Scusami.
Stavo cercando di mantenere la calma,
di avere tatto, ma non ce l’ho fatta. Mi
impegnerò di più, te lo prometto. Vai a
casa di Bethy, dimenticati quello che ho
appena detto. Farò il bravo, hai la mia
parola. Solo… Non te ne andare. Ti
prego.
Cosa rispondere a una dichiarazione
del genere? Era riuscito a farmi venire
voglia di consolarlo. Di scusarmi con
lui. Era letale per le mie emozioni e per
il buonsenso. Distanza. Dovevo stare a
distanza di sicurezza da lui. Annuii e gli
girai intorno. — Allora… ci si vede —
riuscii a dire con voce strozzata prima
di aprire la porta e uscire di casa.
Non mi voltai per guardare, ma
sapevo che era rimasto a osservarmi
mentre me ne andavo. Era l’unico
motivo per cui non mi mettevo a correre.
Spazio… Avevamo bisogno di spazio. E
io avevo bisogno di piangere.
Fu come se sapesse del mio arrivo.
Avevo deciso di andare dritta in sala da
pranzo a cercare Jimmy. immaginando
che potesse dirmi lui dove trovare
Woods.
Invece eccolo lì, ad aspettarmi dietro
la porta sul retro che dava all’interno
della clubhouse.
— A volte ritornano. Onestamente
non pensavo che l’avresti fatto sul serio
— disse quando la porta si richiuse alle
mie spalle.
— Per un po’, forse — risposi.
Woods mi fece l’occhiolino, poi mi
indicò con un cenno della testa di
seguirlo in ufficio. — Andiamo a farci
una chiacchierata.
— Ok — risposi, seguendolo.
— Oggi Bethy mi ha già telefonato
due volte. Voleva sapere se ti avevo
rivisto. Essere sicura che ti avessi ridato
il posto — spiegò aprendo la porta del
suo ufficio e facendomi passare per
prima. — Quello che non mi aspettavo
era di ricevere un’altra chiamata che mi
ha molto sorpreso. Non sono passati
neanche dieci minuti. Dal modo in cui
sei schizzata fuori da qui tre settimane
fa, piantando in asso Rush, non mi sarei
aspettato di sentirlo chiamare per te.
Non che ce ne fosse bisogno, eh. Ero già
d’accordo che il lavoro sarebbe stato
tuo.
Mi fermai e girai la testa per
guardarlo. Avevo capito bene? — Rush?
— chiesi, quasi convinta di aver avuto
un’allucinazione uditiva.
Woods chiuse l’ufficio e si mise
davanti alla sua scrivania di legno
lucido dall’aria molto costosa. Si
appoggiò e incrociò le braccia davanti
al petto. Il sorriso che aveva fino a poco
prima, quando l’avevo incontrato, era
sparito,
lasciando
il
posto
a
un’espressione preoccupata. — Sì,
Rush. So che è saltata fuori la verità,
Jace mi ha accennato qualcosa. Quello
che sa, per lo meno. Ma in fondo io
sapevo già chi eri tu. O chi Rush e Nan
pensavano tu fossi. Ti avevo avvertita
che avrebbe scelto lei… Quando te l’ho
detto, in pratica lo stava già facendo.
Vuoi davvero rituffarti in questa
situazione? L’Alabama fa così schifo?
No. L’Alabama non faceva così
schifo. Ma essere una ragazza madre di
diciannove anni senza una famiglia su
cui poter contare non era una
passeggiata. Anche se non mi sognavo
neanche di parlarne con lui. — Non
direi che tornare qui sia stato facile.
Rivedere… loro lo sarà ancora meno.
Ma ho bisogno di capire che strada
prendere. Dove andare. Non c’è più
niente per me in Alabama. Non posso
rimanere là e fingere che non sia così. È
arrivato il momento di iniziare una
nuova vita, e Bethy è l’unica amica che
ho. Le opzioni a mia disposizione per
spostarmi sono un tantino limitate.
Woods fece una faccia sbalordita. —
Eeh? Ma allora io cosa sono? Un amico,
pensavo!
Sorrisi, mi avvicinai a lui e rimasi in
piedi dietro la poltrona che gli stava
davanti. — Siamo amici, sì, ma non…
Be’, non intimi.
— Non che io non ce l’abbia messa
tutta.
Una risatina mi gorgogliò nel petto, e
anche Woods sorrise. — Mi fa piacere
sentire quel suono. Mi mancava, sai?
Forse tornare indietro non sarebbe
poi stato così tremendo.
— Puoi riavere il lavoro. È tuo. Sui
cart ci sono ragazze che non valgono un
fico secco e Jimmy è ancora depresso.
Non si trova bene con gli altri camerieri.
Manchi anche a lui.
— Grazie — risposi. — Mi fa
piacere saperlo. Però con te voglio
essere onesta: tra quattro mesi me ne
vado. Non posso rimanere qui per
sempre. Ho…
— Hai una vita che ti aspetta. Sì, sì,
ho capito. Rosemary non è il posto dove
hai intenzione di mettere radici.
Messaggio ricevuto. Il lavoro è tuo per
tutto il tempo che lo vorrai.
RUSH
Prima di aprire la porta della casa di
Nan ed entrare, bussai una volta. La sua
auto era parcheggiata fuori, ma preferivo
annunciare il mio arrivo: una volta
avevo commesso l’errore madornale di
non farlo e avevo sorpreso la mia
sorellina a cavalcioni sopra un tizio.
Subito dopo quell’esperienza, mi era
venuta voglia di lavarmi occhi e
cervello con la candeggina.
— Nan, sono io. Dobbiamo parlare
— dissi a voce alta, chiudendomi la
porta alle spalle. Entrai in salotto e il
suono di più di una voce smorzata,
accompagnato da un rumore di passi in
camera da letto mi spinse quasi a girare
i tacchi e andarmene. Quasi, perché
invece non lo feci. Dovevo restare, era
importante. E poi l’ospite notturno di
Nan poteva anche darsi una mossa:
erano le undici passate.
La porta della camera si aprì e si
richiuse subito. Interessante. Chiunque
fosse lì dentro aveva intenzione di
rimanerci. Saremmo dovuti uscire sul
balcone, allora, perché io non avevo
voglia di discutere di Blaire in presenza
di estranei. Anzi, era probabile che in
realtà conoscessi il ragazzo chiuso in
camera di mia sorella, altrimenti lei non
me lo avrebbe tenuto nascosto.
— Non te l’hanno mai detto che,
prima di andare a casa di qualcuno, è
sempre meglio fare uno squillo? —
sbottò Nan, entrando in salotto. Portava
soltanto una sottoveste corta, di seta
pura. Più cresceva, più somigliava a
nostra madre.
— Nan, è quasi ora di pranzo. Non
puoi tenerti quel tizio nel letto tutto il
santo giorno — risposi spalancando le
porte che davano sul balcone con vista
sul golfo. — Ho bisogno di parlarti e
non voglio farlo con uno sconosciuto in
camera che potrebbe sentirci.
Nan alzò gli occhi al cielo e mi seguì
all’aperto. — Divertente pensare come
per settimane abbia cercato io di
convincerti a parlare con me, mentre ora
sei tu a spuntare qui dal nulla, come se
non avessi una vita sociale. Almeno io ti
chiamo prima. — Cominciava ad
assomigliare a nostra madre anche nei
discorsi.
— Sono io il proprietario di questa
casa, Nan. Posso venirci come e quando
mi pare — le ricordai. Se ne sarebbe
andata da lì a metà agosto per tornare al
college e iniziare una specializzazione
che ancora non aveva scelto. Per lei
l’università era più che altro una fonte di
eventi mondani. Sapeva che alla retta
scolastica e a ogni spesa del suo
mantenimento avrebbe pensato il
sottoscritto, che d’altra parte si era
sempre preso cura di lei in tutto e per
tutto.
— Uh, che caratteraccio. Di cosa si
tratta? Sappi che ancora non ho preso il
caffè. — Non le facevo paura. Non era
nemmeno mia intenzione, però doveva
capire che era arrivato il momento di
crescere. Non le avrei permesso di
mettere in fuga Blaire. Nel giro di un
mese sarebbe tornata al college.
Quell’anno io sarei rimasto a Rosemary,
e mia madre avrebbe dovuto scegliersi
un altro posto dove vivere. Non si
sarebbe goduta la mia villa gratis per il
resto dell’anno.
— È tornata Blaire — annunciai
bruscamente. Avevo avuto il tempo di
vedere le cose sotto un’altra luce, non
consideravo più Nan una vittima. Da
bambina, sì, lo era stata, ma al pari di
Blaire. La vidi irrigidirsi e i suoi occhi
si riempirono di lampi d’odio che,
invece di essere diretti contro
l’immagine Blaire, avrebbero dovuto
colpire suo padre. Il padre di entrambe.
— Non dire una parola. Lasciami
parlare
per
primo,
altrimenti
accompagno il tuo amichetto fuori da
casa mia. A modo mio. Sono io che ho il
coltello dalla parte del manico, Nan. La
mamma non ha nulla. Vi mantengo
entrambe e non vi ho mai chiesto niente
in cambio. Mai. Adesso, però, vi
chiederò… No, vi chiederò soltanto di
starmi a sentire e di rispettare le mie
condizioni.
La rabbia di Nan si era dileguata e
ora la ragazzina viziata se ne stava in
piedi a guardarmi. Non le piaceva
sentirsi dire cosa doveva fare. Io,
d’altra parte, non potevo incolpare mia
madre del suo comportamento, per lo
meno non del tutto. In fondo ero stato
suo complice. Nan era stata rovinata
dall’eccesso di compensazione per
quanto aveva dovuto subire da bambina.
— Io la odio — sibilò.
— Ti ho detto di starmi a sentire.
Non pensare che stia fingendo, Nan.
Perché questa volta hai mandato a
puttane una cosa di cui mi importava.
Questa volta c’entro io, perciò chiudi la
bocca e apri le orecchie.
Gli occhi le diventarono rotondi per
lo shock. Ero sicuro di non averle mai
parlato a quel modo, io stesso ero un po’
sorpreso dal mio atteggiamento. Sentire
l’odio nella sua voce diretto contro
Blaire mi aveva fatto esplodere.
— Sta da Bethy. Woods le ha ridato il
lavoro al club. In Alabama non ha più
niente e nessuno; il padre che avete in
comune non vale niente e per lei
potrebbe anche essere morto. È tornata
per vedere se riesce a inserirsi e per
riflettere su come comportarsi in futuro.
Lo stava già facendo, ma quando è
saltata fuori la verità le è crollato il
mondo addosso ed è voluta scappare. È
già un miracolo che sia tornata, cazzo. Io
la rivoglio qui, Nan! Forse tu non vorrai
sentirtelo dire, ma io la amo. E non mi
fermerò di fronte a niente per
assicurarmi che stia bene. Qui è al
sicuro e nessuno, ripeto nessuno,
nemmeno mia sorella, può farla sentire
indesiderata. Tu tornerai presto al
college. Se vuoi, puoi continuare a
covare tutto quell’odio mal riposto, ma
spero che un giorno crescerai
abbastanza da renderti conto che c’è
solo una persona da odiare, e non è
Blaire.
Nan si abbandonò su una delle sdraio
che teneva sul balcone per rilassarsi e
leggere un libro. Le volevo bene. Era
una vita che la proteggevo. Dirle una
cosa simile e minacciarla non era stato
facile, ma non potevo permetterle di
tormentare Blaire all’infinito. Dovevo
agire. Blaire stessa non mi avrebbe mai
dato un’altra possibilità, se Nan avesse
continuato a rovinarle la vita.
— Quindi scegli lei al posto mio —
la sentii sussurrare.
— Guarda che non è una gara, Nan.
Piantala di comportarti come se lo fosse.
Tu hai avuto un padre, lei l’ha perso.
Hai vinto tu. Adesso però basta.
Sollevò gli occhi, con le lacrime che
restavano intrappolate fra le ciglia. —
Lei ti ha spinto a odiarmi…
Una cazzo di telenovela. Ecco cosa
viveva Nan nella sua testa. — Stammi a
sentire. Io ti voglio bene, tu sei la mia
sorellina e nessuno potrà mai dividerci.
Però sono anche innamorato di Blaire.
Questo fatto potrebbe essere un ostacolo
non da poco ai tuoi piani di conquista e
distruzione, ma, tesoro, è ora che ti lasci
alle spalle i problemi con tuo padre. È
tornato un bel po’ di anni fa. Ho bisogno
di vederti voltare pagina.
— Ma tu dicevi sempre che la
famiglia veniva al primo posto! —
esclamò con voce strozzata.
— Non ci provare, Nan. Lo sappiamo
tutti e due che io ho davvero messo la
famiglia al primo posto, tutta la vita. Tu
hai avuto bisogno di me e io ci sono
sempre stato. Ma ora siamo adulti.
Si asciugò le lacrime che le erano
sgorgate dagli occhi e si rialzò. Non
sapevo mai se piangesse sul serio o
facesse finta, perché sembrava capace di
iniziare e smettere a comando.
— Bene. Vorrà dire che forse tornerò
al college prima del previsto. Tanto tu
qui non mi vuoi comunque. Hai scelto
lei.
— Io vorrò sempre averti vicino,
Nan. Ma stavolta voglio anche che tu
faccia la brava. Per una volta, prova a
non pensare soltanto a te stessa. Tu hai
un cuore, l’ho visto. E adesso è arrivato
il momento di usarlo.
Nan irrigidì la schiena. — Se con me
hai
finito, potresti
cortesemente
andartene da casa tua?
Annuii. — Sì, ho finito — risposi
tornando dentro. Me ne andai senza
aggiungere una parola. Sarebbe stato
necessario dar seguito a quelle minacce
e impartire a mia sorella una bella
lezione? Speravo vivamente di no.
BLAIRE
Dovevo recuperare le mie cose e
vendere il pick-up. Il mio povero
macinino non ce l’avrebbe più fatta ad
arrivare fino a Rosemary. Cain mi aveva
fatto il favore di dargli una controllata la
settimana prima, dopo che si era rotto, e
aveva detto di poterlo riaggiustare
almeno temporaneamente. Il costo di una
vera riparazione sarebbe stato maggiore
di quanto avessi potuto permettermi di
spendere. Telefonare e chiedere a nonna
Q o a Cain di spedirmi la roba e
vendere la macchina non mi sembrava
giusto. Meritavano una spiegazione…
per lo meno la nonna. Mi aveva fornito
un tetto, un letto e mi aveva anche
sfamata per tre settimane. Sarei dovuta
tornare a Sumit per fare gli ultimi
bagagli e dirle addio. Per fortuna Woods
mi aveva concesso qualche giorno per
ambientarmi prima di ricominciare a
lavorare.
Il giorno prima, Bethy era andata a
fare per me domanda di assistenza
sanitaria gratuita: era ora che mi facessi
visitare, ma non potevo permettermi un
medico privato. L’avevo anche sentita
mentre diceva a Jace che non vedeva
l’ora di incontrarlo. Purtroppo mi
rendevo conto che, da quando era venuta
a prendermi, stavo monopolizzando tutto
il suo tempo. Cominciavo a sentirmi un
peso, ed era una sensazione bruttissima.
Avrei potuto prendere un pullman: non
sarebbe costato granché e non avrei
scomodato nessuno. Decisi di aprire il
computer portatile di Bethy e controllare
gli orari online.
Qualcuno bussò alla porta e
interruppe il mio flusso di pensieri.
Abbandonai il computer e andai ad
aprire. Rush, con le mani nelle tasche
dei jeans e una delle sue T-shirt aderenti
addosso, non era esattamente quello che
mi sarei aspettata. Si tolse gli occhiali
da sole modello aviatore. Avrei
preferito che non lo facesse, perché la
tonalità argento delle sue iridi alla luce
del sole era ancora più sconvolgente di
quanto ricordassi.
— Ehi, ho visto Bethy alla clubhouse.
Mi ha detto lei che eri qui — spiegò.
Era nervoso. E io non avevo mai visto
Rush sulle spine.
— Già… Sì, Woods mi ha dato un
paio di giorni per recuperare le ultime
cose da Sumit prima di iniziare a
lavorare.
— Devi tornare a prenderle?
Annuii. — Sì, le ho lasciate là. Mi
sono portata soltanto il cambio per una
notte. Non avevo previsto di restare…
— E come pensi di andarci? Non mi
sembra di avere visto il tuo pick-up.
— Stavo giusto controllando su
Internet dove sono le stazioni dei
pullman per trovare la più vicina.
Rush fece una smorfia. — A quaranta
minuti da qui. Sempre dritto fino a Fort
Walton Beach.
Pensavo peggio.
— Non è sicuro viaggiare in pullman,
Blaire. Lascia perdere, ti accompagno
io. Dimmi di sì, per favore. Arriveremo
prima e non ti costerà niente. Così potrai
risparmiare.
In macchina con lui? Andata e ritorno
da Sumit? Era una buona idea?
— Non so… — esitai, perché
davvero non sapevo cosa fare. Il mio
cuore non era pronto per una dose così
massiccia di Rush.
— Non dobbiamo per forza
chiacchierare. Ma se ti va di farlo,
possiamo. Ti lascio scegliere la musica!
Giuro che non mi lamenterò.
Se fossi tornata in Alabama con
Rush, Cain non avrebbe fatto storie. O
forse sì. Avrebbe potuto dirgli della
gravidanza. Ma lo avrebbe fatto
veramente? In fondo non gli avevo mai
confermato di essere incinta.
— So che non riesci a dimenticare le
bugie e il dolore. Non ti sto chiedendo
di farlo. Sai che mi dispiace e che, se
potessi tornare indietro, mi comporterei
diversamente. Ti prego, Blaire, lascia
che ti porti io! Come un amico che vuole
darti una mano e proteggerti dai pazzi
maniaci che potresti ritrovarti come
compagni di viaggio.
Pensai a quanto infinitesimali fossero
le probabilità di avere davvero
problemi sul pullman. Ma poi pensai
anche che non si trattava più di
proteggere soltanto me stessa: c’era una
nuova vita dentro al mio corpo.
— Ok. Sì. Accetto il passaggio.
Jace era stravaccato sulla poltrona
imbottita blu del salotto di Bethy, con i
piedi sul pouf e lei rannicchiata sopra le
sue ginocchia. Io ero sul divano. E mi
sentivo una cavia da laboratorio, con
addosso quegli sguardi che mi fissavano
stupiti.
— Quindi a te sta bene se Rush
domani ti riaccompagna a Sumit a
prendere le tue cose? Voglio dire, non ti
sembra strano, non…? — Bethy smorzò
la voce.
Sì che sarebbe stato strano. Il solo
fatto di stargli vicino mi avrebbe fatto
male, ma il passaggio mi serviva. Bethy
doveva lavorare, non poteva prendersi
un altro giorno libero per correre in mio
soccorso. — Si è proposto lui. Mi
serviva un passaggio e ho risposto di sì.
— Tutto così semplice? Mi dici
perché non me la bevo? — chiese Bethy.
— Perché sta tralasciando le parti in
cui lui l’ha pregata e supplicata —
commentò Jace con una risatina.
Mi tirai lo scialle di lana sopra le
spalle. Avevo freddo. Nell’ultimo
periodo mi capitava spesso, ed era
strano, perché in Florida era estate. —
Non mi ha supplicata — protestai,
sentendo il bisogno di difendere Rush.
Anche se in pratica mi aveva supplicata,
non erano comunque affari di Jace.
— Sì, giusto. Se lo dici tu — disse
bevendo un sorso del tè freddo che
Bethy gli aveva preparato.
— Non sono affari nostri, Jace.
Lasciala in pace. Dobbiamo decidere
cosa fare con l’affitto di questo posto,
scade fra una settimana.
Non mi sarei fermata così a lungo.
Gliel’avevo detto. Trasferirsi in
quell’appartamento costoso non era una
buona idea: io me ne sarei andata e lei si
sarebbe dovuta accollare anche l’altra
metà delle spese.
Jace fece a Bethy il baciamano e un
sorriso. — Ti ho già detto che penserò
io a tutto. Se me lo permetterai… — Le
strizzò l’occhio e io distolsi lo sguardo.
Non mi andava di guardarli. Io e Rush
non ci eravamo mai comportati così, la
nostra relazione era stata troppo breve.
Breve e intensa. Mi chiesi come mi sarei
sentita a essere libera di rannicchiarmi
fra le sue braccia ogni volta che volevo.
Sapere di essere al sicuro e che lui mi
amava. Non ne avevamo mai avuto la
possibilità.
— Ti ho già detto che non ti lascerò
pagare l’affitto al posto mio. Mi
dispiace. Nuovo piano: Blaire, perché
domani non andiamo a caccia di
appartamenti?
Qualcuno bussò alla porta e mi
interruppe prima che potessi rispondere.
Era Grant, che entrò senza esitare.
— Ehi, non si entra in casa della mia
ragazza senza chiedere permesso.
Avrebbe potuto essere nuda! — ringhiò
Jace.
Grant alzò gli occhi al cielo e mi
lanciò un sorriso. — Ho visto la tua
macchina qui fuori, coglione. Calmati.
Sono venuto a vedere se riesco a
convincere Blaire a fare un giro con me.
— Stai cercando di farti spaccare la
faccia? — chiese Jace.
Grant sorrise e fece no con la testa,
guardando di nuovo nella mia direzione.
— Vieni, Blaire. Andiamo a farci una
passeggiata, mi racconti cosa hai fatto in
queste settimane.
Anche Grant aveva partecipato alla
farsa? Certamente sapeva tutto. Però non
potevo rifiutarmi: anche se era stato al
corrente dei vari intrighi, si era
comunque dimostrato la prima persona
gentile incontrata in quel posto. Mi
aveva fatto il pieno di benzina. Si era
preoccupato perché dormivo nel
sottoscala. Annuii e mi alzai. — A
questi due serve comunque un po’ di
privacy — dissi lanciando un’occhiata a
Bethy, che mi stava scrutando con
attenzione. Le feci un sorriso
rassicurante e la vidi rilassarsi.
— Non andare via per noi. Abbiamo
solo una settimana per decidere dove
andare a vivere — disse Bethy mentre
mi avvicinavo alla porta.
— Potete riparlarne più tardi,
Bethann. Blaire è stata via quasi un
mese, avrete sicuramente tante cose da
raccontarvi — concluse Grant aprendo
la porta per farmi passare.
— Rush si incazzerà come una bestia
— gridò Jace un attimo prima che la
porta si richiudesse, attutendo qualsiasi
cosa Bethy avesse cominciato a dire.
Scendemmo le scale in silenzio.
Quando fummo sul marciapiede, guardai
Grant negli occhi. — Ti sono mancata
oppure c’è qualcosa che mi devi dire?
— chiesi.
Lui sorrise. — Mi sei mancata. Ho
dovuto sopportare Rush in depressione
totale, quindi credimi, mi sei mancata da
morire!
Dal tono con cui parlava si capiva
che voleva farmi ridere, ma pensare a
Rush solo e depresso me lo impediva.
Anzi, faceva tornare a galla tutto quanto.
— Scusa — mormorai. Non sapevo
bene cos’altro dire.
— No, dai. Sono contento che tu sia
tornata.
Rimasi in attesa. Sapevo che c’era
dell’altro, me lo sentivo. Stava
prendendo tempo e pensai che stesse
decidendo come dire esattamente
qualunque cosa mi volesse dire.
— Mi dispiace per quello che è
successo. Per come è successo. E per
Nan. Se vuole, sa essere la ragazzina
viziata più stronza del mondo, ma ha
avuto un’infanzia veramente difficile.
L’ha segnata, in qualche modo. Se anche
tu avessi avuto Georgianna come madre,
avresti capito. Rush era un maschio,
quindi a lui non è andata così male. Ma
Nan… Cazzo, viveva in un mondo
assurdo! Non lo dico per difenderla,
solo per spiegare come stanno le cose.
Non risposi. Non avevo niente da
dire in proposito. Non provavo la
minima compassione per Nan. Cosa che
invece provavano gli uomini della sua
vita, evidentemente. Doveva essere
piacevole, per lei.
— A parte quello, si è comportata
male. Tenerti nascosto tutto è stata una
pazzia. Scusami se non ti ho detto niente,
ma onestamente non sapevo nemmeno
che fra te e Rush ci fosse qualcosa, fino
a quella sera al club in cui lui è esploso
per la scena delle lumache. Avevo
notato che gli piacevi, ma in pratica
facevi lo stesso effetto a tutti gli uomini
in paese, perciò… Pensavo che lui fosse
l’unico che non ci avrebbe mai provato,
proprio in virtù della sua lealtà nei
confronti di Nan… e sì, di quello che
rappresentavi per entrambi. — Smise di
camminare e io mi girai a guardarlo.
— Non l’ho mai visto così. Mai. È
come svuotato. Non riesco più a entrare
in contatto con lui, capisci? Non sorride.
Nemmeno finge di godersi ancora la
vita. Da quando te ne sei andata, è una
persona diversa. Anche se non è stato
sincero e all’apparenza sembrava
interessato soltanto a proteggere Nan…
voi due non avete avuto abbastanza
tempo insieme. Nan è stata una sua
responsabilità
sin
dai
tempi
dell’infanzia. Rush sapeva che era così
che doveva andare. Poi nel suo mondo
sei arrivata tu: hai sconvolto tutto da un
giorno all’altro. Se avesse avuto più
tempo, ti avrebbe raccontato tutto. Ne
sono sicuro. Ma non l’ha fatto. Non è
stato giusto per lui. Si stava
innamorando della ragazza che aveva
sempre considerato il motivo per cui sua
sorella non aveva un padre. Tutto quello
in cui credeva stava cambiando, e anche
per lui non è stato facile resistere.
Lo guardai in silenzio. Non perché
non fossi d’accordo con le sue parole:
erano tutte cose a cui avevo già pensato
da sola. Capivo cosa voleva dire. Il
problema era che… le cose non
cambiavano. Anche se prima o poi Rush
avrebbe confessato, lui restava lui e Nan
restava Nan. Gli ultimi tre anni di mia
madre su questa terra erano stati un
inferno, loro invece se l’erano spassata
fra ville di lusso e feste di ogni genere.
Il fatto che credessero alle bugie che mi
avevano raccontato era l’unica cosa che
probabilmente non avrei mai superato.
— Ecco, lo sapevo. Sono sicuro di
aver peggiorato le cose. Volevo soltanto
parlarti e farti sapere che Rush… ha
bisogno di te. È dispiaciuto. E non penso
che riuscirà mai a dimenticarti. Se
domani cerca di affrontare l’argomento,
almeno dagli retta.
— Io l’ho perdonato, Grant. Solo che
non riesco a dimenticare. Quello che
eravamo o quello che stavamo per
diventare è stato… cancellato. Non
tornerà mai più. Non posso permetterlo,
il mio cuore non me lo permetterebbe. Io
però starò sempre a sentire quello che
Rush ha da dirmi, gli voglio bene.
Grant sospirò, sconsolato. — Credo
sia meglio di niente.
Era il massimo che potevo offrire.
RUSH
Prima che potessi mettere piede giù
dall’auto, Blaire uscì dall’appartamento
di Bethy con due bicchieri di caffè in
mano. Aprii la portiera e scesi dalla
Range Rover. Aveva i capelli sciolti,
lunghi sulla schiena; mi piaceva quando
li portava così.
I pantaloncini corti le coprivano a
malapena le gambe: avercele accanto
per tutto il viaggio sarebbe stato per me
un supplizio. Pensai a come le sarebbero
saliti su per le cosce. Staccai a fatica gli
occhi da quello spettacolo e incontrai il
suo sguardo deciso: si stava sforzando
di accennare un sorriso.
— Ti ho portato del caffè, visto che
per colpa mia sei sceso dal letto molto
prima del solito. Lo so che le levatacce
non sono la tua passione. — Aveva la
voce timida, titubante. La mia missione
sarebbe stata quella di trasformarla nel
corso di quel viaggio. Volevo che Blaire
tornasse a sentirsi a suo agio con me.
— Grazie — risposi, con un sorriso
che speravo servisse a distenderle i
nervi, mentre le aprivo la portiera del
lato del passeggero. Mi ero svegliato
alle tre del mattino e non avevo più
chiuso occhio. Ero agitato. Avevo già
trangugiato due caraffe di caffè come
minimo. Però a lei non l’avrei detto: mi
aveva portato dell’altro caffè, poverina!
Sulle labbra mi comparve un sorriso
autentico. Richiusi la portiera e mi
sedetti al mio posto.
Quando la guardai, teneva il
bicchiere vicino alla bocca e beveva a
piccoli sorsi. — Se hai voglia di sentire
un po’ di musica, sappi che hai carta
bianca, come ti avevo promesso — le
ricordai. Non si mosse, ma vidi spuntare
sulle sue labbra l’accenno di un sorriso.
— Grazie. Tranquillo, me lo ricordo.
Adesso sto bene così. Scegli pure quello
che vuoi tu, io prima mi devo svegliare
come si deve.
Non mi interessava della radio.
Volevo soltanto parlarle. Di quale
argomento, non contava. Parlare con lei
era l’unica cosa importante.
— Quindi? Qual è il programma?
Cain sa che stiamo andando a recuperare
la tua roba? — chiesi.
Blaire si mosse sul sedile e io mi
costrinsi a tenere gli occhi sulla strada
anziché incollarli alle sue gambe. —
No. Volevo spiegarlo sia a lui sia a sua
nonna, che noi chiamiamo “nonna Q”.
Devo anche convincerlo a vendere il
mio pick-up e a mandarmi i soldi. È
inutile tenerlo, ormai è messo male.
In effetti quel pick-up era proprio
vecchio e pensare che Blaire non ci
sarebbe più salita era un sollievo.
D’altra parte, non ero proprio entusiasta
all’idea che non avesse un mezzo per
spostarsi. Ma non sapevo come
rimediare, visto che mai e poi mai
avrebbe accettato una macchina da me.
Forse il suo pick-up poteva essere
aggiustato e rimesso in sicurezza.
— Potrei prenderlo io e portarlo a
riparare intanto che tu fai le valigie.
Magari è solo questione di un paio di
interventi.
Sospirò. — Grazie, ma non ti devi
disturbare. Ci ha già pensato Cain. L’ha
fatto sistemare il minimo indispensabile
per poter circolare, ma ha detto che non
sarebbe durato molto. Servono più pezzi
di
ricambio
di
quanti
possa
permettermene.
Strinsi forte il volante. L’idea che
Cain si fosse preso cura di lei mi faceva
uscire di testa. Detestavo pensare che
avesse provveduto lui alla macchina.
Peggio ancora, detestavo pensare che
fosse stato lui l’unica famiglia di Blaire
quando lei ne aveva avuto più bisogno.
La mia… le aveva mandato a puttane
tutto. Io non c’ero stato per lei quando
aveva avuto bisogno di me.
— Quindi, tu e Cain…? — Cosa
cavolo stavo per chiederle? Se loro due
erano… cosa? ’Fanculo. Non volevo
neanche sentire certe cose.
— Siamo amici, Rush. Lo siamo da
tutta la vita. Quello che provo per lui
non è cambiato.
Lasciai la presa sul volante e mi
sfregai un palmo sudato sui jeans. Mi
stava facendo impazzire! Dovevo
calmarmi, se volevo farla sentire a suo
agio con me. E soprattutto dovevo
impegnarmi a non spaccare il culo a
Cain appena lo avessi visto.
Prima che potessi aggiungere altro,
Blaire allungò una mano per accendere
la radio. Trovò una stazione country
sulle frequenze satellitari, riappoggiò la
schiena al sedile e chiuse gli occhi.
Avevo investigato troppo e quello era il
suo modo gentile per dirmi di chiudere
il becco. Messaggio ricevuto.
Trascorsero trenta minuti di silenzio
prima che squillasse il mio telefono. Il
nome di Nan comparve sullo schermo
integrato nel cruscotto: maledetto
Bluetooth
che
collegava
automaticamente l’iPhone con l’auto. Di
solito era comodo, perché potevo
parlare tenendo le mani libere, ma il
fatto che Blaire potesse vedere il suo
nome non era piacevole. Non avevamo
bisogno di rivivere certi momenti: il mio
piano era dimenticare tutto almeno per
un giorno. Cliccai su IGNORA e dalla
radio ricominciarono a uscire le note di
una canzone.
Non guardai Blaire, ma sentii il suo
sguardo su di me. Era veramente dura
non incrociarlo.
— Avresti potuto parlarle. È tua
sorella — mormorò a voce così bassa
che per poco la musica non sovrastò le
sue parole.
— Sì, ma rappresenta anche una serie
di cose a cui oggi non ho voglia di
pensare.
Blaire non smise di guardarmi. Ce la
stavo mettendo tutta per fare il
disinvolto.
Accostare
di
colpo,
prenderle il viso fra le mani e dirle
quanto fosse importante per me, quanto
la amassi, non era quello di cui aveva
bisogno in quel momento.
— Sto meglio, Rush. Ho avuto tempo
per assorbire il colpo. Per farmene una
ragione. Al club mi capiterà di
incontrare Nan, ma sono pronta. Oggi mi
stai aiutando. Avresti potuto fare
qualsiasi altra cosa, invece hai scelto di
dedicare l’intera giornata a me. Non
voglio impedirti di rispondere alle
telefonate di chi ti vuole bene. Non farò
scenate.
Merda.
Fare
il
disinvolto,
figuriamoci.
Accostai
a
bordo
carreggiata e parcheggiai la Rover alla
bell’e meglio. Tenni a posto le mani, ma
dedicai ogni briciolo della mia
attenzione a Blaire. — Oggi ho scelto di
accompagnarti perché non c’è niente che
preferirei fare piuttosto che starti vicino.
Ti accompagno perché sono un uomo
disperato, che sopporterà tutto quello
che potrà sopportare se si tratta di te. —
Cedetti e le accarezzai lo zigomo con il
pollice, poi mi addentrai in quella
chioma setosa che mi aveva incantato
sin dalla prima volta in cui avevo posato
gli occhi su di lei. — Farò qualsiasi
cosa. Qualsiasi, Blaire, solo per starti
accanto. Non riesco a pensare ad altro.
Non riesco a concentrarmi su niente.
Quindi, ti prego, non credere mai di
potermi disturbare. Se hai bisogno di
me, io ci sono. — Mi interruppi.
Suonavo patetico alle mie stesse
orecchie. Le tolsi la mano dalla testa,
innestai la marcia e tornai in carreggiata.
Blaire non disse nulla. Non potevo
fargliene una colpa, avevo fatto la figura
dello squilibrato. Ora probabilmente
aveva paura di me. Io ne avrei avuta,
cazzo!
BLAIRE
Il cuore mi batteva così forte che ero
certa potesse sentirlo anche lui. Era stata
una pessima idea. Stargli vicino mi
mandava in confusione… Era facile
dimenticare chi fosse in realtà. Essere
toccata da Rush, anche se soltanto sul
viso, mi aveva fatto venire voglia di
scoppiare a piangere. Avrei voluto di
più. Mi era mancato. Mi era mancato
tutto di lui, e avrei mentito se non avessi
ammesso con me stessa che l’idea di
restargli vicino un giorno intero era stata
la causa dell’insonnia che mi aveva
tormentata per quasi tutta la notte.
Vedendo che non accennavo a
rispondere, Rush riaccese la radio.
Avrei dovuto dire qualcosa dopo il suo
discorso, ma cosa? Come facevo a
rispondere senza causare altro dolore a
entrambi? Dirgli che mi era mancato e
che lo volevo non avrebbe facilitato le
cose. Anzi, avrebbe reso tutto più
difficile.
Quando il telefono squillò di nuovo,
sullo schermo del cruscotto apparve il
nome di Grant. Rush premette un tasto e
prese in mano il cellulare.
— Ehi — disse. Gli lanciai uno
sguardo casuale, dato che non mi stava
più guardando. Le marcate linee di
preoccupazione sul suo viso mi resero
triste. Avrei voluto farle scomparire.
— Sì. Siamo in strada — rispose
dentro al microfono del telefono. — No,
non mi sembra una buona idea. Ti
chiamo quando torno. — Vidi la sua
mascella irrigidirsi e capii che,
qualsiasi cosa Grant gli stesse dicendo,
lo stava facendo arrabbiare. — Ti ho
detto di no! — esclamò, per poi
chiudere la chiamata e buttare il
cellulare nel portabevande.
— Stai bene? — chiesi prima di
poter riflettere.
Girò la testa di scatto per guardarmi.
Sembrava quasi sorpreso che gli stessi
rivolgendo la parola. — Oh, sì. Sto bene
— rispose con un tono di voce molto più
calmo, per poi rimettere gli occhi sulla
strada.
Aspettai qualche minuto, poi decisi
di replicare a quello che mi aveva detto.
Se non avessi cominciato a parlarne, fra
noi ci sarebbe stato sempre quel silenzio
imbarazzato. Anche se nel giro di
quattro mesi me ne sarei andata e non
l’avrei mai più rivisto… No, l’avrei
rivisto. Sarei stata costretta a farlo, no?
Potevo veramente vivere senza dirgli
del bambino? Rimossi l’idea. Neanche
mi ero fatta visitare. Avrei compiuto il
grande passo dopo la conferma
definitiva del medico, sebbene quel
mattino mi fosse bastato aprire il bidone
della spazzatura e sentire l’odore del
pesce fritto buttato da Jace la sera prima
per vomitare di nuovo. Normalmente
non ero così sensibile. Il tè caldo allo
zenzero che stavo bevendo quando Rush
era passato a prendermi mi aveva
aiutato a calmare lo stomaco. Potevo
fingere che il test di gravidanza si fosse
sbagliato, oppure affrontare la realtà.
— A proposito di quello che hai
detto. Ecco, io… Io non so bene cosa
rispondere. Cioè, so come mi sento e
come vorrei che le cose andassero
diversamente, ma la realtà è un’altra.
Voglio che noi due… Voglio che noi due
troviamo un modo per essere amici…
forse. Non so. “Amici” mi sembra così
triste, dopo tutto quello che c’è stato. —
Tacqui, perché il mio tentativo di
parlargli si stava trasformando in un
caos totale. Come potevamo essere
amici? Era così che tutto aveva avuto
inizio, e ora eccomi lì, innamorata e
incinta di un uomo con cui non potevo
costruire un futuro.
— Sarò qualsiasi cosa mi permetterai
di essere, Blaire. Però non escludermi
di nuovo dalla tua vita. Ti prego.
Annuii. Ok. Avrei concesso un po’ di
tempo a quell’ipotesi dell’amicizia.
Poi… Poi gli avrei detto del bambino.
Sarebbe scappato a gambe levate?
Oppure avrebbe voluto far parte della
sua vita? In un caso o nell’altro, avevo
bisogno di tempo per prepararmi. Di
sicuro non avrei permesso che mio figlio
avesse a che fare con la sua famiglia,
era fuori questione. Odiavo i bugiardi…
ma in fondo lo sarei stata anch’io,
almeno per un po’. Ero io ad avere un
segreto da nascondere.
— Ok — risposi, ma non aggiunsi
altro. Sentivo le palpebre pesanti e la
mancanza di sonno della notte
precedente, unita al fatto di non poter
bere caffè per tenermi sveglia, stava
avendo la meglio. Chiusi gli occhi.
— Aspetta, dolce Blaire. La testa ti sta
cadendo in avanti, rischi di farti venire
un crampo al collo di quelli micidiali.
Ti sto soltanto reclinando il sedile, ok?
— Un caldo sussurro mi solleticò
l’orecchio, facendomi rabbrividire. Mi
girai in quella direzione, ma ero ancora
così assonnata che non riuscivo a
svegliarmi
completamente.
Sentii
qualcosa di morbido sfiorarmi le labbra,
poi ripiombai nel mondo dei sogni.
— Devi svegliarti, dormigliona. Siamo
arrivati, ma non ho idea di dove andare.
— La voce di Rush, accompagnata dalla
sua mano che mi scuoteva delicatamente
un braccio, mi svegliò. Sfregai gli occhi
e li riaprii. Ero sdraiata. Lo guardai in
faccia e lo vidi sorridere.
— Ti saresti spezzata il collo. E poi
dormivi così bene che mi è sembrato
giusto metterti comoda. — Si slacciò la
cintura e si sporse sopra di me per
armeggiare con un bottone sul lato del
mio sedile, che tornò lentamente in
posizione verticale. Davanti a noi, il
primo semaforo di Sumit, Alabama.
— Oddio, scusami… Ho dormito
tutto il tempo! Chissà che viaggio
noioso, per te.
— Ho avuto il pieno controllo della
radio, quindi no, non mi sono annoiato!
— rispose Rush con un sorrisetto.
Guardò il semaforo. — Da che parte
vado?
— Dritto, finché non vedi una grossa
insegna di legno con dipinta una scritta a
lettere rosse che dice QUI ORTAGGI
FRESCHI E LEGNA DA ARDERE . Lì giri a
sinistra. Sarà la terza casa sulla destra,
ma bisogna andare avanti per circa due
chilometri e mezzo. Dopo cinquecento
metri circa l’asfalto diventa ghiaia.
Rush seguì le mie indicazioni e non
parlammo granché. Mi stavo ancora
svegliando e avevo lo stomaco in
subbuglio. Ero a digiuno e sapevo che
era quello il problema; in borsa avevo i
cracker di Bethy, ma non mi andava di
mangiarli di fronte a Rush. E se invece
di sistemarmi mi avessero fatto stare
male di nuovo?
Quando imboccammo il vialetto della
casa di nonna Q, io stavo sudando
freddo. Se non avessi mangiato qualcosa
al più presto, avrei vomitato, senza
ombra di dubbio. Aprii la portiera prima
che Rush potesse guardarmi in faccia:
probabilmente ero verde, o come
minimo pallida.
— Vuoi che venga con te oppure è
meglio se resto qui? — mi chiese.
— Mmm… Be’, forse è meglio se
resti — risposi. C’era la macchina di
Cain, quindi era probabile che ci fosse
anche lui. Non volevo che fra quei due
scoppiassero altre liti, né mi fidavo del
fatto che Cain avrebbe tenuto la bocca
chiusa a proposito del test di
gravidanza. Chiusi la portiera e mi
diressi verso casa.
Cain aprì la porta a zanzariera e uscì
in veranda prima ancora che potessi
mettere piede sul primo gradino. Il suo
viso era un misto di rabbia e
preoccupazione. — Perché è ancora
qui? Ti ha portata a casa, adesso se ne
può anche andare — sibilò, guardando
con aria minacciosa in direzione di
Rush. Sì, era stata davvero una
splendida idea quella di lasciarlo in
macchina. Il mio stomaco si contrasse e
dovetti lottare contro un’ondata di
nausea.
— È ancora qui perché poi mi dà un
passaggio per tornare indietro. Calmati,
Cain. Non dovete litigare. Tu sei mio
amico, lui è mio amico. Andiamo in casa
a parlare. Devo prendere le mie cose.
Cain mi fece passare e poi mi seguì
all’interno, lasciando che la zanzariera
sbattesse forte alle sue spalle.
— Cosa vuol dire che torni indietro
con lui? Allora il test era positivo?
Scappi via con lui anche se ti ha
spezzato il cuore e tre settimane fa sei
tornata qui che eri uno straccio? Mi
prenderò io cura di te, Blaire, lo sai.
Alzai le mani per fargli segno di
smettere. — Non si tratta del fatto che io
sia incinta, Cain. Lui è un amico che mi
ha dato un passaggio. Sì, siamo stati
qualcosa di più prima che…
succedessero una serie di cose, ma ora è
finita. Non sto scappando con lui.
Riavrò il mio lavoro a Rosemary e
resterò per un po’ a vivere con Bethy.
Poi andrò da qualche altra parte e
ricomincerò da zero. Non posso restare
qui per sempre, Cain.
— E perché no? Dio mio, Blaire, io
ti sposerei anche oggi! Senza fare
domande. Io ti amo, ti amo più della mia
vita. Devi saperlo. Ho combinato un
casino quando eravamo più piccoli. E
poi quella storia con Callie non significa
nulla. È soltanto una tipa come un’altra,
serve solo a distrarmi. L’unica cosa che
voglio veramente sei tu, te lo ripeto da
anni. Ti prego, ascoltami — mi
supplicò.
— Cain, piantala. Tu sei un amico.
Quello che c’era fra noi è morto tanto
tempo fa. Ti ho sorpreso con un’altra a
fare cose che non avresti dovuto fare.
Quella sera è cambiato tutto. Io ti voglio
bene, ma non sono innamorata di te e
non lo sarò mai più. Ora scusa, ma devo
fare la valigia e dare una svolta alla mia
vita.
Cain picchiò una mano contro il
muro. — Non lo dire! Non è finita. Non
puoi semplicemente andartene via per
conto tuo. Può essere pericoloso! — Si
interruppe. — Sei incinta?
Non risposi. Andai nella stanza dove
ero rimasta a dormire in quei giorni e
cominciai a fare la valigia. — Sì, lo sei
— disse seguendomi in camera.
Non risposi, mi concentrai sulle mie
cose e basta. — Lui lo sa? Il figlio della
rockstar
si
prenderà
le
sue
responsabilità? Quello sta mentendo, B.
Il bambino verrà a vivere qui e sarà lui
ad andarsene. Non sarebbe mai in grado
di gestire un figlio, non è nel suo stile.
Lo sai anche tu. Lo sa il mondo intero,
merda! Per come vive potrebbe essere
lui, la rockstar. Ho visto la sua villa
sulla spiaggia. Non è certo il tipo che ti
sta vicino quando le cose si fanno
complicate. Non ti sosterrà. Ok, forse io
avrò anche fatto una cazzata, ma non
scapperò. Ci sarò sempre.
Mi voltai di scatto. — Non lo sa, ok?
Non sono nemmeno sicura di volerglielo
dire. Non mi serve qualcuno che mi
salvi, posso farcela da sola. Ne sono
capace.
Cain fece per aprire bocca e
ribattere, ma in quell’istante entrò in
camera nonna Q. Non mi ero accorta
della sua presenza.
— Smettila di supplicarla, Cain. Chi
è causa del suo mal pianga se stesso.
Blaire ha voltato pagina, anzi il suo
cuore ha voltato pagina. Ci ha già
dimostrato di poter andare a scuola e
allo stesso tempo prendersi cura sia di
sé e di sua madre. — Spostò lo sguardo
da Cain a me, e un sorriso triste le
affiorò alle labbra.
— Mi spezza il cuore sapere che,
così giovane, hai un’altra difficoltà da
superare. Questa stanza è tua, se ti serve.
Se però sei decisa ad andartene, accetto
la tua scelta. Promettimi solo che starai
attenta. — Si avvicinò e mi strinse in un
abbraccio. — Ti voglio bene come se
fossi mia nipote. È sempre stato così,
per me — mi sussurrò all’orecchio.
Le lacrime mi velarono gli occhi. —
Anch’io ti voglio bene.
Si ritrasse e tirò su con il naso. —
Fatti sentire — mi disse prima di girarsi
per andarsene. Mi lanciò un ultimo
sguardo: — Non c’è uomo che non
meriti di sapere di avere un figlio.
Anche se non farà parte della sua vita,
deve esserne informato. Ricordatelo,
Blaire.
Uscì dalla stanza, lasciandomi di
nuovo sola con Cain. Misi anche
l’ultimo dei miei oggetti in valigia e
chiusi la cerniera. Afferrai la maniglia,
la sollevai. Nel frattempo la nausea era
peggiorata, tanto che dovetti coprirmi la
bocca con una mano.
— Cazzo, B. Almeno lasciami
portare la valigia. Non puoi sollevare
pesi. Vedi? Non ce la farai. Chi
controllerà che tu ti prenda cura di te?
Il migliore amico che avevo da tutta
la vita era tornato. Il pazzo che pensava
di essere innamorato ed era pronto a
sacrificare la sua vita non c’era più. —
L’ho detto a Bethy. Lei lo sa e in realtà
anch’io ci sto attenta. Mi ero distratta un
attimo, scusa. Anche per me è una
novità. Ah… credo di dover vomitare.
— Che cosa posso fare? — mi
chiese, con il panico negli occhi.
— Un pacchetto di cracker
aiuterebbe.
Appoggiò la valigia e corse fuori
dalla stanza per andarmeli a cercare.
Meno di un minuto dopo era già di
ritorno con un pacchetto in una mano e
un bicchiere nell’altra. — Nonna Q ti
aveva sentito. Erano già pronti sul
tavolo una confezione di cracker e un
bicchiere di ginger. Ha detto che ti
aiuterà a sistemare lo stomaco.
— Grazie — risposi sedendomi sul
letto a mangiucchiare e a sorseggiare la
bibita. Nessuno dei due parlava. La
nausea cominciò a diminuire e a quel
punto mi fermai, come l’esperienza mi
aveva insegnato a fare. Troppi cracker e
avrei ricominciato a vomitare molto
presto. Mi alzai e restituii i viveri
d’emergenza a Cain.
— Appoggiali pure lì, ci penso io più
tardi. — Mi prese la valigia. — Dammi
anche quello. Non puoi portarlo — disse
sollevando lo scatolone che ancora non
avevo svuotato da quando mi ero
trasferita lì. Mi infilai l’ultima borsa
piccola sul braccio e lui imboccò la
porta senza proferire parola. Lo seguii
pregando in silenzio che non facesse
qualcosa di stupido di fronte a Rush.
Raggiungemmo la porta a zanzariera
della veranda e lì ci fermammo.
Appoggiò a terra la valigia e mi guardò.
— Non devi andare con lui. Te l’ho
detto, posso pensarci io. Tu hai me, B.
Mi hai sempre avuto.
Cain era convinto di quello che stava
dicendo, glielo leggevo in faccia. Ma io
non ci cascavo. Se mi fosse servito un
amico, Cain ci sarebbe stato, certo, ma
lui non era il salvatore di nessuno. In
ogni caso, non mi sarebbe servito.
Avevo me stessa.
Mi tirai la borsa più su sulla spalla e
pensai attentamente a come spiegarglielo
un’altra volta. Le avevo provate tutte.
Non voleva capire la verità. Tornare
sull’argomento di come mi avesse ferita
lasciandomi sola quando mia madre
stava male avrebbe avuto come unico
risultato
quello
di
mortificarlo
ulteriormente. — Ho bisogno di farlo.
Cain emise un grugnito depresso e si
passò una mano fra i capelli. — Tu non
ti fidi di me. Non pensi che possa
davvero prendermi cura di te. E questa
cosa mi fa male, Blaire, malissimo. —
Fece una risata sconfitta. — Ma in fondo
perché dovresti? Ti ho già deluso in
passato. Con tua madre… Ero un
pivello, B. Quante volte te lo devo
ripetere che ora le cose sono cambiate?
So cosa voglio. Io… Santo cielo, io
voglio te! Ho sempre voluto te.
Mi si formò un nodo in gola. Non
perché anche io lo amassi, ma perché
comunque gli volevo bene. Cain
rappresentava una grossa parte della mia
vita. Ed era sempre stato così, da che
ricordassi. Ridussi le distanze fra noi e
gli presi una mano. — Cerca di capirmi,
ti prego. È una cosa che devo fare. Devo
affrontarla. Lasciami andare.
Cain rispose con un sospiro
esasperato. — Io ti lascio sempre
andare, B. Me l’avevi già chiesto. Io ce
la metto sempre tutta, ma tu mi stai
distruggendo lentamente.
Un giorno mi avrebbe ringraziato per
averlo lasciato. — Mi dispiace, Cain,
ma ora devo andare. Lui mi sta
aspettando.
Prese la valigia e aprì la zanzariera
con una spallata. Appena ci intravide,
Rush scese dalla Rover. — Non dirgli
niente, Cain — sussurrai.
Lui mi fece un cenno e io lo seguii
giù dai gradini. Rush ci aspettava in
fondo alle scale con lo sguardo alzato su
di me. — È questa tutta la tua roba? —
chiese.
— Sì — risposi.
Cain non accennò a consegnargli né
la valigia né lo scatolone. Un muscolo
della mascella di Rush scattò
all’improvviso, e io capii che ce la
stava mettendo tutta per mantenere il
controllo.
— Dagli la roba, Cain — lo spronai
con una piccola gomitata dietro la
schiena.
Lui obbedì con un sospiro e Rush
caricò tutto in macchina.
— Glielo devi dire — mormorò Cain
voltandosi per guardarmi.
— Lo farò, prima o poi. Devo
pensarci bene.
Guardò lontano, verso il mio pick-up.
— E quello? Lo lasci qui?
— Speravo che potessi portarlo in
officina e metterci sopra un cartello
VENDESI … Ricavarne circa un migliaio
di dollari. Ne tieni metà e spedisci a me
il resto.
Cain corrugò la fronte. — Lo vendo,
B, ma non voglio soldi. Ti manderò
tutto.
Non protestai. Lui aveva bisogno di
compiere quel gesto e io non mi sarei
opposta. — Ok, come vuoi. Ma almeno
puoi darne una parte a nonna Q? Per
avermi ospitata qui e tutto il resto?
Cain mi guardò allibito. — Sei
pazza? Vuoi che mia nonna venga fino a
Rosemary per farti le chiappe rosse?
Sorrisi, gli appoggiai le mani sulle
spalle e, sollevandomi in punta di piedi,
gli diedi un bacio sulla guancia. —
Grazie di tutto — sussurrai.
— Puoi tornare, se hai bisogno di me.
Sempre. — La voce gli si incrinò e in
quel momento seppi che me ne dovevo
proprio andare. Feci un passo indietro,
annuii e raggiunsi la Rover.
Rush mi aspettava accanto alla
portiera del passeggero aperta. Mi fece
salire e la richiuse per me. Lo guardai
mentre, girando intorno alla macchina
per raggiungere il posto di guida,
continuava a fissare Cain.
Lo stavo facendo veramente. Stavo
lasciando quello che era stato il mio
porto sicuro per compiere la prima
mossa alla ricerca del mio posto nel
mondo.
RUSH
Lei aveva l’aria di una che stava per
piangere e io avevo paura di chiederle
se stesse bene. Tanto era il mio terrore
che cambiasse idea e decidesse di
fermarsi a Sumit che non aprii bocca
finché non fummo al sicuro, fuori dal
paese. La tensione delle sue mani
intrecciate sulle ginocchia mi metteva
ansia. Volevo che dicesse qualcosa.
— Stai bene? — chiesi, incapace di
trattenermi. L’istinto di proteggerla
aveva preso il sopravvento.
Annuì. — Credo di essere soltanto un
po’ spaventata. Questa volta so che non
tornerò indietro. So anche di non avere
un padre pronto a tirarmi fuori dai guai,
cosa che rende tutto più difficile
dell’altra volta.
— Hai me — risposi.
Lei inclinò la testa di lato e mi
guardò. — Grazie. Avevo bisogno di
sentirmelo dire, in questo momento.
Wow. A saperlo prima mi sarei
registrato,
così
avrebbe
potuto
riascoltare la mia voce tutte le volte che
ne avesse avuto bisogno. — Non
pensare mai di essere sola.
Mi fece un timido sorriso e poi
ricominciò a fissare la strada. — Lo sai,
vero, che se adesso vuoi dormire posso
darti il cambio?
L’idea di essere libero di guardarla
senza dover pensare alla guida mi
tentava molto. Ma si sarebbe aspettata di
vedermi dormire, e io non avevo
intenzione di sprecare in quel modo
neanche un briciolo di tempo che potevo
passare insieme a lei. — Sto bene.
Grazie, però.
All’andata mi ero fermato a un
McDrive e avevo preso qualcosa da
mangiare senza scendere dall’auto. Lei
dormiva, e avevo preferito non
disturbarla. A quell’ora però doveva
aver fame.
— Ehi, io sto morendo di fame. Cosa
ti andrebbe di mangiare? — chiesi,
svoltando sull’autostrada che ci avrebbe
riportati in Florida.
— Mangiare? Uhm… Non so, magari
una zuppa?
Una zuppa? Una richiesta un po’
strana. Ma che diamine, se lei voleva
una zuppa, io le avrei procurato una
zuppa.
— E zuppa sia. Tengo gli occhi aperti
per vedere se passiamo davanti a un
ristorante dove potrebbero farla.
— Se tu hai tanta fame, fermiamoci
pure dove preferisci. Posso trovare
qualcosa da mangiare ovunque. —
Ancora quel tono di voce nervoso…
— Blaire, ti farò mangiare una zuppa
— dichiarai guardandola. Mi assicurai
di sorriderle, così avrebbe capito che ci
tenevo a darle la possibilità di mangiare
quello che voleva.
— Grazie — rispose tormentandosi
le mani e tenendo lo sguardo basso su di
esse.
Restammo per un po’ senza parlare,
ma era bello averla in macchina con me.
Non volevo farle pensare di dover
chiacchierare per forza.
Puntai il dito contro il cartello della
prima uscita, con indicati alcuni
ristoranti. — Sembra che qui ci siano
opzioni interessanti. Scegline una! —
proposi.
Lei scrollò le spalle. — Non è
importante. Anzi, se preferisci comprare
qualcosa al volo da poter mangiare
strada facendo, per me va bene lo
stesso.
No. Quella giornata doveva durare il
più a lungo possibile. — Ci prendiamo
una zuppa — fu la mia risposta.
Mi colse di sorpresa con il suono di
una risatina. Quando mi voltai verso di
lei, stava davvero sorridendo. Riuscire
a farglielo fare più spesso sarebbe stato
il mio nuovo traguardo.
Blaire dormiva ancora quando entrammo
del parcheggio fuori dalla casa di Bethy,
a tarda notte. Ero stato attento a
mantenere la conversazione su temi
leggeri. Dopo un po’, ci eravamo
adattati a un tranquillo silenzio e lei si
era addormentata.
Posteggiai la Rover, poi mi fermai a
osservare la mia compagna di viaggio.
In quell’ultimo tratto di strada avevo
inclinato lo sguardo un milione di volte
per vederla dormire: ora volevo qualche
minuto di libertà per poterlo fare con
tutta calma. Le occhiaie scure che aveva
sotto gli occhi mi preoccupavano. Non
dormiva abbastanza? Forse Bethy
sapeva qualcosa, avrei potuto parlarne
con lei. Chiederlo direttamente a Blaire,
in quel momento, non sarebbe stata la
mossa più saggia.
Qualcuno bussò piano al mio
finestrino. Mi girai e spostai l’attenzione
da Blaire a Jace, in piedi fuori dall’auto
con un’espressione divertita in faccia.
Aprii la portiera e scesi prima che
potesse svegliarla. Volevo farlo io,
possibilmente senza pubblico.
— Hai in programma di svegliarla
oppure stai prendendo in considerazione
l’ipotesi di un rapimento? — chiese
Jace.
— Zitto, deficiente!
Lui ridacchiò. — Bethy non vede
l’ora di rivederla per farsi raccontare
come è andato il viaggio. Ti aiuto io a
trasportare le sue cose, se tu la svegli e
la porti dentro.
— È stanca. Bethy può aspettare
domani. — Non volevo che, appena
riaperti gli occhi, Blaire dovesse subito
affrontare la curiosità della sua amica.
Era evidente che le servivano più sonno
e più cibo. Prima, quando ci eravamo
fermati, aveva a malapena toccato la sua
zuppa. Io avevo tentato di farla mangiare
anche più tardi, ma lei mi aveva
garantito di non avere più fame. Così
però non poteva andare avanti: mi
sembrava di essere tornato ai tempi dei
panini con il burro d’arachidi.
— Lo dici tu a Bethy — rispose Jace
mentre gli mettevo in mano lo scatolone
e toglievo la valigia dal bagagliaio. —
Io tengo questa, tu porti dentro quello e
nel frattempo la sveglio.
— Per caso serve un momento
d’intimità? — fece lui con un sorrisetto
beffardo. Lo scatolone gli arrivò fra le
braccia con tanta violenza da farlo
barcollare all’indietro, eppure l’idiota
continuò a soffocare dalle risate.
Lo ignorai e mi spostai sul lato del
passeggero. Svegliare Blaire e vederla
andarsene via non mi andava molto.
Anzi, solo pensarci mi terrorizzava. E se
fosse stata la fine di tutto? E se lei non
mi avesse più permesso di starle così
vicino come quel giorno? No. Non
potevo permetterlo. Mi sarei mosso
lentamente, un passo alla volta, ma avrei
fatto in modo che quella, per noi, non
fosse la fine. E ciò malgrado il fatto che
averla avuta accanto tutto il giorno
avrebbe reso veramente difficile tornare
a come stavano le cose prima.
Le slacciai la cintura. Si mosse
appena. Una ciocca di capelli le era
ricaduta sul viso, e io cedetti
all’impulso di toccargliela. Gliela misi
dietro l’orecchio. Dio, com’era bella…
Non avrei mai potuto dimenticarla, non
era possibile. Dovevo trovare un modo
per riprendermela. Per aiutarla a
guarire.
Batté le palpebre e il suo sguardo
incontrò il mio.
— Siamo arrivati — sussurrai per
non farla spaventare.
Si mise a sedere diritta e mi fece un
sorriso imbarazzato. — Scusami, mi
sono addormentata di nuovo.
— Si vede che avevi bisogno di
riposare. Non fa niente. — Avrei voluto
restare lì e tenermela in macchina, ma
non potevo. Mi spostai per lasciarla
scendere. Ero veramente a un passo dal
chiederle se il giorno dopo avrei potuto
rivederla, ma non lo feci. Non era
pronta. Dovevo lasciarle spazio. —
Allora ci vediamo — dissi, e il suo
sorriso vacillò.
— Ah, ok. Sì, ci vediamo. Grazie per
avermi aiutato, oggi. Ti restituirò i soldi
della benzina.
Figuriamoci. — Piantala, non li
voglio. È stato un piacere.
Fece per aggiungere qualcosa, ma
serrò subito la bocca. Si girò
salutandomi con un cenno serio e si
diresse verso casa.
BLAIRE
Il primo giorno di rientro al lavoro,
Woods mi assegnò alla sala da pranzo.
Turno della colazione e del pranzo:
pessima scelta. In piedi fuori dalla
cucina, mi preparai mentalmente a non
pensare all’odore. Mi ero svegliata con
la nausea e avevo fatto uno sforzo per
mandare giù qualche cracker e un sorso
di tè allo zenzero, ma già era stato
difficile così.
Appena entrata, l’odore mi avrebbe
travolto. La pancetta… Gesù, la
pancetta!
— Lo sai, tesoro, che per lavorare
non puoi stare ferma sulla porta? —
disse Jimmy, alle mie spalle. Mi girai,
distolta dalla mia battaglia interiore
grazie al suo sorriso divertito. — I
cuochi non sono tanto male e ti abituerai
in fretta a tutto quel gridare. Anzi, sappi
che l’ultima volta li hai già fatti cadere
tutti ai tuoi piedi.
Mi sforzai di sorridere. — Hai
ragione. Posso farcela. È soltanto che
non sono pronta a essere tempestata di
domande, credo. — Non era esattamente
la verità, ma nemmeno una bugia.
Jimmy aprì la porta e l’odore mi
colpì come uno schiaffo: uova, pancetta,
salsicce, grasso. Oh, no… Cominciai a
sudare freddo e sentii lo stomaco in
rivolta. — Veramente… Ecco, prima
avrei bisogno di andare in bagno — mi
scusai, prima di raggiungere il camerino
del personale più in fretta che potevo
senza mettermi a correre, altrimenti
avrei destato dei sospetti.
Chiusi a chiave la porta alle mie
spalle e mi buttai in ginocchio sulle
piastrelle gelate. Abbracciai la tazza del
wc e in un attimo rividi tutto quello che
avevo mangiato la sera prima e quel
mattino stesso.
Seguirono diversi conati a vuoto, poi
riuscii ad alzarmi. Mi sentivo uno
straccio. Mi asciugai il viso con un
tovagliolino di carta e notai che avevo
la polo bagnata di sudore, tanto che mi
stava ancora più aderente del solito.
Dovevo per forza cambiarmi.
Sciacquai la bocca con il collutorio
che c’era sul mobile del lavabo e
sistemai la polo alla bell’e meglio.
Forse nessuno se ne sarebbe accorto.
Potevo farcela: mi bastava trattenere il
respiro nei momenti in cui sarei stata in
cucina. Sì, avrebbe funzionato. Avrei
fatto la scorta di ossigeno prima di
aprire la porta e tutto sarebbe filato
liscio.
Quando spinsi la porta del bagno, mi
ritrovai faccia a faccia con Woods. Era
in piedi appoggiato contro il muro, le
braccia incrociate sul petto, e mi
guardava. Ero in ritardo.
— Scusami. Scusami, lo so che sono
in ritardo. È che mi serviva un attimo di
pausa prima di cominciare. Non
succederà più, stasera mi fermo a
recuperare e…
— Nel mio ufficio. Adesso —
ordinò, infilandosi nel corridoio.
Lo seguii, con il battito cardiaco che
cominciava ad accelerare. Non volevo
che Woods si arrabbiasse con me. Quel
lavoro era la risposta ai miei problemi,
almeno per quattro mesi. Ora che mi ero
convinta a rimanere, a decidere con
calma cosa fare dopo, non volevo più
andarmene. Non ancora.
Woods mi aprì la porta e io entrai.
— Scusami, mi dispiace veramente.
Non mi licenziare, stavo solo…
— Non ti sto licenziando — mi
interruppe.
Oh…
— Ti sei fatta visitare? Suppongo sia
di Rush. Lui lo sa? Perché se lo sa e ti
manda a lavorare qui nelle tue
condizioni andrò personalmente a
spaccargli la faccia.
Lo sapeva. No, no, no e ancora no.
Scossi la testa come una pazza. Dovevo
fare qualcosa, Woods non poteva sapere.
Nessuno doveva sapere tranne Bethy. —
Ma di cosa stai parlando?
Woods mi guardò da sotto un
sopracciglio sollevato. — Fai sul serio?
— L’incredulità nella sua voce era
angosciante. Non ci sarebbe mai
cascato, ma io avevo un bambino da
proteggere.
— No, non lo sa. — La verità mi uscì
dalle labbra prima che potessi fare
qualcosa per fermarla. — Ancora non
voglio dirglielo. Devo trovare il modo
per cavarmela da sola. Conosciamo tutti
e due Rush e sappiamo benissimo che
non sarebbe d’accordo. La sua famiglia,
poi, impazzirebbe. E io non voglio che
mio figlio venga odiato. Ti prego, cerca
di capirmi… — lo pregai.
Woods imprecò sottovoce e si passò
le mani fra i capelli. — Merita di
saperlo, Blaire.
Sì, se lo meritava. Però, quando quel
bambino era stato concepito, io ancora
non sapevo quanto fossero marci i nostri
mondi. Per noi sarebbe stato impossibile
avere una storia.
— Quelli mi odiano. Quelli odiano
mia madre. Non posso. Ti prego, dammi
il tempo di dimostrare che riesco a
farcela senza l’aiuto di nessuno. Alla
fine glielo dirò, ma quando succederà
dovrò essere in una situazione stabile,
pronta per partire. Stavolta non sono i
miei desideri o i suoi quelli che
contano… Sto facendo ciò che è meglio
per questo bambino.
Woods aggrottò ancora di più le
sopracciglia. Restammo in silenzio per
diversi minuti.
— Non mi piace questa storia, ma
non spetta a me dire la verità. Vai a
cambiarti e cerca Darla. Oggi puoi stare
sul cart. Mi farai sapere tu quando gli
odori della cucina non saranno più un
problema.
Avrei voluto gettargli le braccia al
collo e stringerlo forte. Non mi stava
costringendo a dirlo a tutti e per di più
mi stava concedendo una tregua dagli
odori della colazione. Una volta
adoravo la pancetta, ma adesso…
Proprio non la sopportavo. — Grazie. A
cena non va così male. È soltanto la
mattina e a volte il pomeriggio.
— Ricevuto. Allora ti assegnerò alla
sala da pranzo soltanto per i turni serali.
Questa settimana resti sul campo da golf,
ma stai attenta al caldo. Tieni sempre a
portata di mano un po’ di ghiaccio o
qualcosa di fresco. A Darla posso dirlo?
— No! — lo bloccai prima che
potesse aggiungere qualcosa. — Non
puoi dirlo a lei e non puoi dirlo a nessun
altro. Ti prego!
Woods sospirò, poi annuì. — E va
bene. Manterrò il tuo segreto. Ma se ti
serve qualcosa, devi farmelo sapere,
ok? Se proprio non vuoi andare da Rush,
ovvio.
— D’accordo. Grazie.
Mi fece un sorriso a denti stretti. —
Allora ci vediamo più tardi.
Ero libera di andare.
Il programma per il resto della settimana
prevedeva che lavorassi sul cart delle
bevande. Il sabato seguente sarebbe
cominciato un torneo e io avrei dovuto
lavorare tutto il giorno. Non avrei potuto
essere più felice: la paga sarebbe stata
favolosa. E anche se sul campo il caldo
era sempre intenso, sarebbe stato
comunque meglio che restare all’aria
condizionata
con
quell’odore
nauseabondo di grasso e pancetta.
Da quando me ne ero andata, al club
c’erano molte più persone. Darla mi
aveva spiegato che erano arrivati tutti i
soci che si fermavano soltanto durante le
vacanze estive. Io e Bethy guidavamo un
cart a testa, in modo da garantire
l’idratazione generale dei giocatori.
Woods veniva di rado sul campo, perciò
non avevo bisogno di nascondermi dal
suo sguardo inquisitore. Aveva da fare
in ufficio. Jace aveva confidato a Bethy
che stava cercando di dimostrare a suo
padre di essere pronto per una
promozione.
Dopo aver rifornito il cart per la
terza volta nell’arco della giornata,
tornai alla prima buca per ricominciare
il giro. Riconobbi subito la testa di
Grant da dietro. Stava giocando con…
Nan. Sapevo che quel giorno prima o
poi sarebbe arrivato, ma non ero ancora
pronta. Avrei potuto passare oltre e
lasciare che fosse Bethy a occuparsi di
loro, ma sarebbe stato come rimandare
l’inevitabile.
Mi avvicinai e Grant si girò verso di
me. Sembrava impegnato in una
conversazione seria con Nan, e
l’espressione sconfortata che aveva sul
viso non era invitante. Mi sorrise, ma si
capiva che si stava sforzando.
— Siamo a posto, Blaire. Puoi
andare alla prossima buca — gridò nella
mia direzione. La testa di Nan si voltò di
scatto al suono del mio nome e il suo
sguardo carico d’odio mi spinse a
innescare la retro all’istante. Forse il
primo istinto era stato quello giusto. Non
avrei dovuto fermarmi.
— Aspetta. Io voglio una cosa. — Il
suono della voce di Rush mi fece venire
quel tuffo al cuore di cui solo lui era
capace. Girai la testa nella sua direzione
e lo vidi correre verso di me con
indosso un paio di pantaloncini azzurri e
una polo bianca; non smetteva mai di
stupirmi il modo in cui sapeva portare
alla perfezione anche quei vestiti da
fighetto. I ragazzi dell’Alabama non si
sarebbero conciati così neanche a
pagarli: giocavano a golf con i jeans, il
cappellino da baseball e qualsiasi Tshirt o camicia di flanella fosse uscita
pulita quel giorno dalla lavatrice. Rush,
invece, faceva sembrare incredibilmente
sexy perfino quella divisa.
— Ho sete — aggiunse con un
sorriso disinvolto quando fu vicino al
mio cart. Si fermò proprio davanti a me.
Erano passati un paio di giorni
dall’ultima volta che l’avevo visto, dal
nostro viaggio insieme.
— Il solito? — gli chiesi scendendo
dal cart soltanto per stargli accanto. Lui
non si tirò indietro, e i nostri corpi erano
così vicini da potersi quasi sfiorare.
Alzai lo sguardo.
— Sì, sarebbe il massimo — rispose
senza muoversi. Teneva gli occhi puntati
sui miei. Uno dei due avrebbe dovuto
cedere e interrompere quella gara di
sguardi. Sapevo che toccava a me: non
potevo lasciargli credere che qualcosa
tra noi fosse cambiato.
Gli passai accanto e andai sul retro
del cart per prendergli una Corona. Mi
chinai per toglierne una dal ghiaccio e lo
sentii muoversi dietro di me. Accidenti.
Non mi stava facilitando le cose.
Mi rialzai e non mi voltai per
guardare. Era troppo vicino. — Che
cosa stai facendo? — gli chiesi, a bassa
voce. Non volevo che Nan o Grant ci
sentissero.
— Mi manchi — fu la sua semplice
risposta.
Chiusi forte gli occhi, feci un respiro
profondo e cercai di calmare la frenesia
che aveva provocato nel mio cuore.
Anche lui mi mancava, ma non bastava a
far sparire la verità.
Confessarglielo non sarebbe stata una
mossa intelligente. Non dovevo fargli
credere che le cose potevano tornare
com’erano prima.
— Prendi la birra e vieni qui — lo
fulminò Nan da dietro le spalle.
Quell’ordine bastò a farmi muovere; non
ero pronta a sopportare gli attacchi
verbali di Nan, non quel giorno.
— Non rompere, Nan! — ribatté lui.
Gli passai la Corona e tornai quatta
quatta sul sedile del cart. — Blaire,
aspetta — tentò di fermarmi,
seguendomi ancora una volta.
— Non farlo, ti prego — gli dissi. —
Non ce la faccio a sopportarla.
Trasalì, mi fece un cenno con la testa
e indietreggiò. Io distolsi lo sguardo e
misi in moto il cart, raggiungendo la
seconda buca senza mai girarmi.
RUSH
— Non ricordi cosa ti ho chiesto l’altro
giorno, Nan? — ringhiai contro mia
sorella quando Blaire e il suo cart
furono fuori portata.
— Eri patetico. Cercavo di aiutarti a
non fare la figura dell’innamorato
sfigato.
Mi girai e la raggiunsi a grandi passi.
Stava oltrepassando il limite. Da
bambino non avevo mai sofferto di
quella rabbia che spesso spinge i fratelli
maschi a voler fare del male fisico alle
loro sorelle, invece in quel momento
capivo cosa si dovesse provare.
Grant mi si parò davanti e formò una
barriera tra di noi. — Ehi, ehi. Stai
indietro, datti una calmata.
Spostai lo sguardo da Nan a Grant.
Cosa cazzo voleva? Lui odiava Nan!
— Levati di mezzo. Questa cosa
riguarda soltanto me e mia sorella — gli
ricordai. Non l’aveva mai difesa una
volta in vita sua. Anche quando suo
padre era stato sposato con nostra
madre, si era assicurato che tutti quanti
capissimo che lui detestava Nan. Fra
quei due non c’era mai stato neanche un
lontano sentore di fratellanza.
— E dovrai passare su di me per
arrivare a tua sorella — mi disse
facendo un passo verso di me. — Perché
in questo momento non stai pensando ai
sentimenti di nessuno, tranne che a quelli
di Blaire. Ricordati quello che significa
la sua presenza per Nan. Una volta ti
importava di lei.
Oh, cazzo. Era un’allucinazione? Da
quando in qua Grant si era messo a
difendere Nan?! — So benissimo cosa
significa Blaire per lei. Ma quello che
sto cercando di farle capire è che niente
di quanto è successo è colpa sua. Nan ha
odiato la persona sbagliata per così
tanto tempo che ora non riesce più a
dimenticarsene. E tu, invece, che
problemi hai? Sapevi già tutto! Sei stato
tu il primo a difendere Blaire quando è
arrivata qui. Non hai mai pensato che
fosse colpa sua. L’hai ritenuta innocente
sin da subito.
Grant si spostò, imbarazzato, e si girò
a guardare Nan, che nel frattempo aveva
gli occhi fuori dalle orbite. — Tu l’hai
resa debole, Rush. L’hai protetta tutta la
vita. Lei faceva affidamento su di te.
Poi, a un certo punto, hai deciso di
scaricarla e di dedicare tutte le tue
attenzioni a Blaire, pretendendo che a
Nan stesse bene. Certo, è una donna
adulta, ma è dipesa da te per così tanti
anni che non saprebbe affrontare la vita
diversamente. Se tu non fossi così
maledettamente concentrato sull’idea di
riprenderti Blaire, te ne renderesti
conto.
Spinsi via Grant e guardai mia
sorella dritto negli occhi. Non mi
serviva la sua lezione per sapere anche
da solo che c’era del vero nelle sue
parole. In fondo ero contento che quei
due avessero finalmente trovato
qualcosa in comune. Forse, dopotutto,
Grant le voleva bene. Avevamo vissuto
nella stessa casa per anni. Eravamo stati
trascurati tutti insieme.
— Io ti voglio bene, Nan. Lo sai.
Però non puoi chiedermi di scegliere.
Non è giusto.
Nan si mise entrambe le mani sui
fianchi. Era la sua posizione di sfida. —
Non puoi voler bene a entrambe. Io
quella non l’accetterò mai. Mi ha
puntato una pistola, Rush! L’hai vista! È
pazza. Voleva spararmi. Come posso
volerle bene e pretendere che lei ne
voglia a me? È assurdo.
— Non ti avrebbe mai sparato. Ha
puntato la pistola anche a Grant, se è per
quello, ma lui se n’è fatto una ragione. E
comunque sì, posso voler bene a
entrambe. In modi diversi.
Spostò lo sguardo su Grant e gli
rivolse un sorriso triste. Ancora più
strano.
— Non mi vuole ascoltare, Grant. Io
mi arrendo. Sta scegliendo l’amore che
prova per lei al posto mio e dei miei
sentimenti.
— Nan, ascoltalo tu un attimo. In un
certo senso ha ragione — le disse Grant
con un tono gentile che non gli avevo
mai sentito usare con lei. Ma cos’era, Ai
confini della realtà?!
Lei batté il piede per terra. — No. Io
la odio. Non sopporto di vederla. Ora lo
sta persino facendo soffrire, e la odio
ancora di più — gridò. Mi guardai
attorno per vedere se qualcuno l’avesse
sentita e vidi Woods che ci veniva
incontro. Merda.
Grant si girò e seguì il mio sguardo.
— Oh cavolo… — mormorò.
Woods si fermò davanti a noi e
guardò prima Nan, poi Grant e infine
me. — Ho sentito abbastanza da aver
capito di cosa state parlando — disse
tenendo lo sguardo fisso sul mio. —
Voglio essere chiaro. Siamo tutti amici
di vecchia data e conosco le dinamiche
della vostra famiglia. — Guardò per un
attimo Nan, con aria disgustata, poi di
nuovo me. — Se qualcuno ha dei
problemi con Blaire, che venga a
dirmelo. Può lavorare qui finché vuole.
Voi tre potrete anche non esserne
entusiasti, ma a me, personalmente, non
frega un bel cazzo. Fatevene una
ragione. In questo momento non ha
bisogno delle vostre menate, perciò alla
larga. Ci siamo capiti?
Lo studiai. Che cosa aveva voluto
dire? E perché stava facendo il paladino
di Blaire? La cosa non mi piaceva.
Iniziava a ribollirmi il sangue nelle
vene, perciò tenni i pugni serrati lungo i
fianchi. Pensava di poter fare la sua
mossa adesso? Saltar fuori quando lei
era debole e fare l’eroe? E no, cavolo.
Non sarebbe successo. Blaire era mia.
Woods non rimase in attesa di
risposte. Se ne andò in silenzio.
— A quanto pare hai un concorrente
— sibilò Nan.
Grant la raggiunse e le fece di nuovo
scudo con il corpo. — Adesso basta,
Nan — le sussurrò prima di guardare
me.
Mi ero stancato di tutta quella storia.
Non potevo sopportarli entrambi. Buttai
a terra la mazza da golf e corsi dietro a
Woods.
Lui mi sentì arrivare, oppure percepì la
rabbia che emanava il mio corpo, perché
si fermò un attimo prima di raggiungere
la clubhouse. Si voltò per guardarmi.
Aveva un sopracciglio sollevato, come
se fosse divertito, ma l’effetto su di me
era farmi incazzare ancora di più.
— Vogliamo tutti e due la stessa cosa.
Perché non fai qualche bel respiro
profondo e ti dai una calmata? — mi
disse incrociandosi le braccia davanti al
petto.
— Tu devi starle lontano. Mi hai
sentito? Lontano, cazzo. Blaire mi ama,
è soltanto confusa e ferita. Ed è anche
molto vulnerabile. Quindi, Signore
aiutami, ma se credi di poterti
approfittare della sua situazione giuro
che ti faccio un culo così.
Woods mi guardò con la testa
inclinata di lato e aggrottò le
sopracciglia. Il mio avvertimento non gli
aveva fatto granché effetto. Forse
dovevo farglielo io, un bell’effetto. —
So che la ami. Non ti ho mai visto
comportarti da pazzo come stai facendo
ora, perciò ti credo. Ma Nan la odia. Se
tu ami Blaire, allora la devi proteggere
dal veleno che gronda dalle zanne di tua
sorella, altrimenti dovrò farlo io.
Mi sentii come se mi avesse tirato
uno schiaffo in faccia. Prima che potessi
rispondere, aprì la porta alle sue spalle
ed entrò. Rimasi a fissare il legno per
diversi minuti prima di ricominciare a
muovermi. Avrei perso una delle due.
Volevo bene a mia sorella, con il tempo
mi avrebbe perdonato. Ma Blaire… Lei
rischiavo di perderla per sempre. Non
avrei permesso che accadesse.
BLAIRE
Bethy si avvicinò e mi strinse la mano.
Era in piedi accanto a me mentre
aspettavo seduta sul lettino del medico.
Mi avevano chiesto di fare pipì in un
barattolino e ora eravamo in attesa del
risultato ufficiale. Avevo il cuore a
mille. C’era una possibilità minima che
non fossi incinta, l’avevo letto su
Google la sera prima. Il test casalingo
poteva aver dato un falso positivo, e io
potevo essermi sentita male soltanto
perché la mia testa credeva che fossi
incinta.
La porta si aprì ed entrò
un’infermiera. Sorrideva, guardando me
e Bethy. — Congratulazioni, è positivo.
Sei incinta.
La mano di Bethy strinse la mia
ancora più forte. Dentro di me già lo
sapevo, ma sentirlo pronunciare ad alta
voce dall’infermiera rendeva tutto più
reale. Non avrei pianto. Mio figlio non
doveva sapere che avevo pianto, quando
avevo scoperto di aspettarlo. Volevo che
lui o lei si sentisse amato. Non era una
brutta notizia, non avrebbe mai potuto
esserlo. Mi serviva una famiglia, e
presto ne avrei avuta una tutta mia.
Qualcuno che mi avrebbe amato
incondizionatamente.
— Il dottore sarà qui fra pochi minuti
per qualche controllo. Dobbiamo fare
anche gli esami del sangue. Hai mai
avuto dei crampi o delle perdite?
— No. Solo tanta nausea. Gli odori
mi fanno stare malissimo — spiegai.
L’infermiera fece sì con la testa e
prese appunti sulla cartelletta. — Può
non essere piacevole, ma è un buon
segno. La nausea fa bene.
Bethy fece una smorfia. — Lei però
non l’ha vista quando le vengono i
conati. Io non ci credo che sia un buon
segno!
La donna sorrise. — Sì, ricordo
anche io quei giorni. Non è divertente.
— Spostò lo sguardo da Bethy a me. —
Il padre sarà coinvolto?
Lo sarebbe stato? Avrei potuto
dirglielo? Feci no con la testa. — No,
non credo.
Il
sorriso
triste
sul
volto
dell’infermiera mentre annuiva e
prendeva un altro appunto mi fece capire
che per lei era una scena già vista e
rivista.
— Hai usato qualche metodo
contraccettivo
al
momento
del
concepimento? Stavi prendendo la
pillola, magari? — mi chiese.
Non guardai Bethy. Forse, dopotutto,
non la volevo lì con me. Scossi la testa.
L’infermiera inarcò le sopracciglia.
— Niente? — domandò.
— No, niente. Cioè… Abbiamo usato
il preservativo un paio di volte, ma un
paio di altre no. Una volta è uscito
prima… Un’altra no.
Sentii Bethy irrigidirsi accanto a me.
Sapevo cosa stava pensando. Come
avevo fatto a essere così stupida? Avevo
evitato di raccontarle quel piccolo
particolare.
L’infermiera annuì. — Ok. Tra poco
arriva il medico — ci avvisò prima di
uscire dalla stanza.
Bethy mi tirò per il braccio,
costringendomi a guardarla. — Non si è
messo il preservativo? Ma cavolo, è
impazzito? Avrebbe dovuto arrivarci da
solo a chiederti se eri incinta. Scusa, ma
è da veri rincoglioniti! E io che ero
dispiaciuta per lui perché non sapeva
che stava per diventare papà! Invece
quello non si è nemmeno preso la briga
di mettere il preservativo! Avrebbe
dovuto telefonarti quattro settimane
dopo per assicurarsi che non ci fossi
rimasta. Che i-dio-ta.
Si era messa a camminare avanti e
indietro. La guardai in silenzio. Che
cosa avrei potuto dirle? Io ero in torto
quanto lui, in quella situazione. Ero stata
io quella che si era spogliata, gli era
saltata sopra e gli aveva fatto perdere la
testa. Non gli avevo lasciato molto
tempo per pensare. Però non intendevo
proprio condividere con Bethy i dettagli
della vita sessuale mia e di Rush, quindi
tenni la bocca chiusa.
— Se lo merita, sai? Avrebbe dovuto
verificare. Non dirlo, a quel deficiente.
Se pensa di potersene andare in giro a
usare il suo coso come gli pare, senza
nemmeno infilarselo in un pezzo di
gomma, allora io dico che può
continuare a vivere dell’ignoranza
totale. Ci penserò io a te. Insieme ce la
faremo. — In quel momento, Bethy
sembrava pronta ad affrontare il mondo
intero. Mi fece venire voglia di
sorridere. Non sarei stata a Rosemary
quando il bambino fosse nato. Mi
sarebbe piaciuto, però. Per il piccolo
sarebbe stato bello avere qualcun altro
che lo amava, Bethy si sarebbe
dimostrata una zia perfetta. Il pensiero
mi rattristò, e il sorriso scomparve.
— Mi dispiace. Non volevo turbarti
— mi disse lasciando cadere le mani
dalla
vita,
con
un’espressione
preoccupata sul viso.
— No, non è colpa tua. È solo che…
È solo che vorrei non dovermene
andare. E comunque voglio che mio
figlio ti conosca.
Bethy mi cinse le spalle e mi
abbracciò stretta. — Mi dirai dove abiti
e io verrò a trovarvi sempre. Oppure
potresti restare qui e vivere con me.
Quando il bambino nascerà, Rush non ci
sarà più. Non si ferma mai a Rosemary
oltre l’estate. Prima del suo ritorno, poi,
faremo in tempo a mettervi in
carreggiata. Tu pensaci, ok? Non
preoccuparti adesso di prendere
decisioni troppo definitive.
Rush se ne sarebbe andato? Si
sarebbe dimenticato di me e avrebbe
lasciato Rosemary? Oppure sarebbe
restato? Il cuore mi faceva male solo al
pensiero che se ne andasse. Per quanto
sapessi che tra noi due non avrebbe
funzionato, volevo che lottasse per me.
Volevo che trovasse il modo per farci
rimanere insieme, anche se mi sembrava
impossibile.
Due
ore
più
tardi
eravamo
nell’appartamento di Bethy. Il medico mi
aveva prescritto alcuni integratori
specifici e mi aveva lasciato diversi
opuscoli su come trascorrere una
gravidanza serena. Li nascosi in valigia:
in quel momento mi servivano un bagno
caldo e un bel pisolino.
Bethy bussò una volta alla porta del
bagno ed entrò. Teneva in mano il
telefono e sorrideva come una scema. —
Non ci crederai — mi disse scuotendo
la testa, completamente incredula. — Mi
ha appena chiamata Woods. Ha detto che
l’appartamento è nostro per lo stesso
prezzo che stiamo pagando ora in questa
casa. Ha detto che conviene anche a lui,
perché è utile avere due dipendenti che
vivono direttamente sul campo da golf.
Ah, ha anche aggiunto che, se rifiutiamo,
possiamo
considerarci
entrambe
disoccupate.
Mi sedetti sul wc chiuso e la guardai.
Woods lo stava facendo perché ero
incinta. Era il suo modo di aiutarmi.
Avrei avuto voglia di urlargli contro e di
buttargli le braccia al collo allo stesso
tempo. Le lacrime mi pungevano gli
occhi. — È in linea? — chiesi a Bethy
quando mi resi conto che aveva ancora
il cellulare vicino all’orecchio.
— No, questo è Jace. Ha detto che
c’entri tu. Non è che voi due… vi state
vedendo o cose del genere, vero? — mi
chiese, cauta. Sicuramente la domanda
proveniva da Jace. Lei l’aveva ripetuta
come se non credesse alle proprie
parole.
— Per favore, puoi mettere un attimo
in pausa? — le chiesi a bassa voce.
Sgranò gli occhi e annuì. Una volta
disattivato il microfono, mi fissò come
se non mi riconoscesse più. Che cosa
pensava? Che me la stessi facendo con
Woods mentre ero incinta del figlio di
Rush? Di certo no. — Bethy, lo sa.
Woods lo sa.
Giusto il tempo di elaborare il
concetto e Bethy rimase a bocca aperta.
— Come fa a saperlo?
— Mi aveva messo in sala da pranzo
per il turno della mattina. La cucina…
be’, c’era un odore pazzesco di
pancetta!
Bethy inspirò per lo stupore e mi fece
un cenno con la testa. Aveva capito.
Riattivò il microfono e concluse: —
Non c’è niente fra Woods e Blaire. Lui è
soltanto diventato suo amico e la vuole
aiutare, tutto qui.
Un secondo dopo, Bethy aveva alzato
gli occhi al cielo per qualcosa che le
aveva detto Jace. Gli diede del pazzo e
riattaccò. — Ok. Quindi lui sa che sei
incinta del figlio di Rush e ci lascia lo
stesso casa sua per due soldi? Ma questa
è la notizia più bella del mondo! Aspetta
di vedere che posto è. Se ci lascerà
restare anche dopo la nascita del
bambino, avrai una stanza grande
abbastanza per metterci anche la culla!
Sarebbe perfetto.
Non riuscivo ad arrivare tanto in là
con il pensiero. In quel momento avevo
solo bisogno di andare da Woods e
parlargli. Se me ne fossi andata nel giro
di quattro mesi, volevo che l’offerta
continuasse a valere anche per Bethy.
Dovevo assicurarmene, prima che lei si
lasciasse travolgere dall’entusiasmo.
RUSH
Jace aveva chiamato per avvertirmi che
le
ragazze
sarebbero
entrate
nell’appartamento sul campo da golf
quel giorno stesso. Non rivedevo Blaire
dalla scenata con Nan e Grant. Non che
non ci avessi provato: più volte avevo
tentato di incrociarla al club, ma senza
successo. Il giorno prima avevo chiesto
di lei persino a Darla, ma mi aveva
risposto che doveva aver sfruttato il
giorno di riposo per andare da qualche
parte con Bethy.
Accostai davanti a casa di Bethy e
notai all’istante la macchina di Woods.
Che cazzo ci faceva lui lì? Spalancai la
portiera, puntai verso l’ingresso e in
quel momento esatto sentii la voce di
Blaire. Mi girai e mi avvicinai all’auto
di Woods, finché non lo vidi appoggiato
contro il muro ad ascoltare Blaire con
un sorriso.
Un sorriso che gli avrei presto
cancellato dalla faccia.
— Se sei sicuro, allora grazie —
stava dicendo Blaire a bassa voce, come
se non volesse farsi sentire da nessuno.
— Sicurissimo — rispose Woods
prima che il suo sguardo incontrasse il
mio. Il sorriso gli scomparve
spontaneamente dalle labbra.
Blaire voltò la testa e mi vide da
sopra una spalla. Leggere lo stupore nei
suoi occhi mi fece male: forse non avrei
dovuto essere lì in quel momento. Non
volevo esplodere e farla spaventare,
però ero a tanto così da perdere
completamente il controllo. Perché
stavano parlando, loro due soli? Di cosa
era sicurissimo, lui?
— Rush? — disse Blaire,
allontanandosi da Woods e venendo
verso di me. — Che cosa ci fai qui?
Woods soffocò una risata, poi scosse
la testa e aprì la portiera della sua
macchina. — È venuto per darti una
mano, ne sono sicuro. Me ne vado,
prima che decida di sfogarsi con me.
Se ne stava andando. Bene.
— Sei venuto qui per aiutarci con il
trasloco?
—
mi
chiese
lei,
osservandomi attentamente.
— Sì, esatto — risposi. Sentii la
tensione allentarsi quando il motore
della BMW di Woods iniziò a rombare e
lui si allontanò.
— Come facevi a sapere del
trasloco?
— Mi ha chiamato Jace.
Spostava i piedi, nervosa. Non
sopportavo di essere io a farla stare
così.
— Volevo dare una mano, Blaire. Mi
dispiace per Nan, l’altro giorno. Le ho
parlato. Non farà più…
— Tu non ti preoccupare. Non devi
scusarti per lei. Non ce l’ho con te,
capisco.
No, non capiva. Glielo leggevo negli
occhi che non capiva. La presi per
mano. Avevo bisogno di toccarla in
qualche modo. Quando le mie dita le
sfiorarono il palmo, tremò, e i denti le
morsero il labbro inferiore proprio
come piaceva a me.
— Blaire — le dissi per poi
fermarmi, non sapendo cos’altro
aggiungere. La verità sarebbe stata
troppo.
Quando sollevò gli occhi dalle nostre
mani unite, dentro al suo sguardo mi
sembrò di riconoscere qualcosa di
simile al desiderio. Era proprio così?
Stavo sognando oppure Blaire… Sul
serio? Le feci scivolare un dito su per il
palmo e le accarezzai l’interno del
polso. Tremò di nuovo. E allora sì…
Rispondeva al mio tocco. Mi avvicinai e
le feci scorrere la mano su per il
braccio. Mi aspettavo di essere respinto
da un momento all’altro, di veder
tornare la distanza fra noi.
Quando arrivai abbastanza in alto da
sfiorarle il lato del seno con il pollice,
lei mi afferrò per l’altro braccio e
rabbrividì. Cosa diavolo…? — Blaire
— le sussurrai, spingendola all’indietro
finché non ebbe la schiena contro il
muro di mattoni della palazzina. Il mio
petto era a pochi centimetri dal suo.
Non mi respinse. Aveva le palpebre
pesanti mentre mi fissava il petto, e il
suo respiro era appesantito da una punta
d’affanno. Il petto spuntava dalla
scollatura del vestitino rosa chiaro,
proprio lì sotto al mio naso; saliva e
scendeva, come a volermi invitare. Un
invito impossibile, però. C’era qualcosa
che non andava.
Le appoggiai l’altra mano sulla vita e
lentamente gliela feci scivolare su per il
corpo, finché il mio pollice non si infilò
sotto il suo seno. Era nuda, aveva i
capezzoli duri ed eretti contro la stoffa
leggera dell’abito. Non potevo più
fermarmi. Le coprii il seno con tutta la
mano e lo palpai delicatamente. Blaire
gemette, le ginocchia instabili. Lasciò
ricadere la testa all’indietro contro il
muro e chiuse gli occhi. La tenni stretta e
infilai una gamba fra le sue per
impedirle di scivolare a terra.
Con l’altra mano le presi il seno
sinistro, poi iniziai ad accarezzarle i
capezzoli turgidi con i polpastrelli dei
pollici.
— Oddio, Rush… — gemette,
riaprendo gli occhi e fissandomi da sotto
le palpebre semichiuse. Cristo santo,
quella era una specie di tortura in
paradiso! Eppure non poteva essere un
altro sogno, mi sembrava troppo reale.
— Ti piace? — le chiesi, abbassando
la testa per sussurrarle nell’orecchio.
— Sì — ansimò lei, abbassandosi di
più sul mio ginocchio. Quando il suo
inguine premette contro la mia coscia,
restò senza fiato e mi strinse forte le
braccia. — Ahhhh — gridò.
Sarei venuto nei pantaloni. Non ero
mai stato così eccitato in tutta la mia
vita! C’era qualcosa di diverso in lei,
non era come le altre volte.
Blaire era… era quasi disperata: da
una parte sentivo che aveva paura, ma
dall’altra il suo desiderio era più forte.
— Blaire, dimmi tu come comportarmi.
Faccio tutto quello che vuoi, lo giuro —
le promisi baciandole la tenera pelle
dietro l’orecchio. Che buon profumo
aveva.
Le palpai di nuovo il seno e la sentii
emettere un altro gemito supplicante: la
mia dolce Blaire era eccitata da
impazzire. Ed era tutto vero, non me lo
stavo sognando. Merda…
— Blaire! — La voce squillante di
Bethy le arrivò addosso come un
secchio di acqua gelata.
Si irrigidì, si rimise dritta sulla
schiena togliendosi le mie mani di
dosso, e infine si allontanò. Non
riusciva nemmeno a guardarmi.
— Io… Ehm… Mi dispiace. Non
sapevo che… — balbettò lei prima di
scuotere la testa e correre via. Rimasi a
guardarla finché non fu sulla porta, dove
Bethy le disse qualcosa con aria seria.
Lei annuiva. Quando furono in casa,
picchiai entrambe le mani contro la
parete e mormorai una lunga serie di
parolacce, tentando nel frattempo di
tenere sotto controllo l’erezione che mi
pulsava fra le gambe.
Dopo pochi minuti la porta si riaprì
e, quando mi girai, vidi Jace che se ne
andava. Mi guardò dall’alto al basso e
fece un fischio. — Caspita, bello. Sei
veloce.
Non gli risposi nemmeno. Non
sapeva di cosa stava parlando. Blaire
moriva dalla voglia che la toccassi: non
mi aveva respinto, anzi, mi aveva quasi
supplicato in silenzio. Una reazione
assurda, ma la realtà era che lei mi
voleva. E Dio solo sapeva quanto io
volessi lei. Da sempre.
— Muoviti, qui c’è un divano da
spostare. Mi serve il tuo aiuto — sbraitò
Jace, tenendo la porta aperta.
BLAIRE
Che problemi avevo? Entrai nella
camera da letto di Bethy e mi chiusi
dentro. Mi serviva un minuto per
calmarmi. Un minuto prima ero stata
pronta a supplicare Rush di scoparmi lì
sul posto, contro il muro. Era tutta colpa
di quel sogno del cavolo… Ok, forse il
sogno della notte prima non era stato poi
così spiacevole, ma di sicuro era stato
molto, molto intenso. Solo ripensarci mi
faceva stringere le gambe.
Perché mi capitava? I sogni erotici
erano un conto, ma in quel periodo si
erano fatti talmente vividi e realistici
che in pratica venivo nel sonno. Cose da
pazzi. Mai, a Sumit, mi era capitato di
essere così arrapata. Be’, a Sumit Rush
non c’era.
Affondai sul materasso a cui Bethy
aveva tolto le coperte in vista del
trasloco. Dovevo ricompormi, prima di
rivederlo. Non era stato lui a provarci,
ero stata io a trasformarmi in un’assetata
di sesso nell’esatto istante in cui le sue
dita mi avevano sfiorato la mano. Che
vergogna… Guardarlo in faccia dopo
quello che era appena successo sarebbe
stato tremendo.
La porta si aprì e Bethy comparve
sulla soglia con un sorrisetto stampato in
faccia. Perché ora stava ridendo? Prima,
quando mi aveva beccata là fuori, si era
incavolata di brutto. — Sono gli ormoni
della gravidanza! Sono loro — annunciò
dopo aver richiuso con cura la porta.
— Che cosa? — feci, confusa.
Mi guardò divertita. — Non hai letto
gli opuscoli che il dottore ti ha lasciato?
Sono sicura che in uno almeno se ne
parla.
Ero ancora confusa. — Ah, si parla
del fatto che quando c’è Rush io non
riesco a controllarmi?
Bethy fece spallucce. — Sì, credo
che nel tuo caso si tratti di lui. Però
quando si è incinta si ha più voglia di
farlo, Blaire. Lo so perché mio cugino
faceva sempre battute su sua moglie,
diceva che non riusciva a tenere il passo
con lei eccetera eccetera.
Più voglia di farlo? La gravidanza mi
stava facendo venire più voglia di fare
sesso? Ah, benissimo.
— Probabilmente sarà un problema
solo quando ci sarà Rush nei paraggi.
Credo che sia lui l’unica persona da cui
sei attratta e che vorresti in quel senso.
Forse dovresti dirglielo, e godertela.
Non ho dubbi che ti aiuterebbe
volentieri…
Invece non potevo dirglielo. Non
ancora. Io non ero pronta e nemmeno lui.
Nan si sarebbe infuriata e in quel
momento non ero in grado di
sopportarla. E poi Rush avrebbe scelto
lei, altra cosa che non avrei potuto
tollerare. — No, non c’è bisogno che lo
sappia. Non ora. Mi passerà.
Bethy fece spallucce. — Bene. Ho
detto quello che dovevo dire. Se non
vuoi dirglielo, allora non glielo dire.
Però, quando ti partono i cinque minuti e
decidi di mettergli fuori uso il cervello,
potresti cortesemente evitare di farlo in
pubblico?! — Con un sorrisetto furbo,
aprì la porta e se ne andò.
— Prima dovete avvolgere tutto in
una trapunta! Altrimenti mi rovinate i
cuscini! — gridò Bethy ai ragazzi.
Sarei riuscita ad affrontarlo. Lui non
sapeva nulla, avrei continuato a far finta
di niente. E poi dovevo contribuire
anche io al trasloco: la scelta migliore
era andare in cucina e impacchettare
tutto.
Rush mi stava guardando. Ogni volta che
rientrava in casa per prendere qualcosa,
mi cercava con lo sguardo. Per colpa di
quelle occhiate bollenti, io avevo fatto
cadere una ciotola, rovesciato una
scatola di cereali e ribaltato un cassetto
di posate. Come facevo a concentrarmi
per non fare l’idiota impacciata, se lui
continuava a guardarmi così?
A quel giro avrei lasciato perdere la
cucina e sarei andata a imballare gli
oggetti del bagno. Gli altri volevano
spostare il tavolo e le sedie, ma io
dovevo restare da sola, altrimenti avrei
probabilmente rotto ogni singolo
bicchiere che Bethy aveva.
Entrai in bagno e, all’improvviso, un
corpo mi spinse da dietro. Il calore che
il petto di Rush emanava contro la mia
schiena mi fece tremare. Merda… Non
ce la potevo fare.
La porta si richiuse e il suono
familiare della chiave che girava nella
toppa non fece che mandarmi il cuore a
mille. Era chiaro che Rush voleva più di
quello che c’era stato prima, all’aperto,
e io ero così emozionata dal fatto di
averlo vicino che non riuscivo a pensare
lucidamente.
La sua mano mi scostò i capelli dalla
nuca e me li sistemò sopra una spalla.
Quando il calore delle sue labbra
raggiunse la mia pelle nuda, fui sul punto
di gemere. Mi prese per i fianchi con
entrambe le mani e mi tirò a sé con più
forza. — Tu mi stai facendo impazzire,
Blaire. Completamente — mi sussurrò
nell’orecchio. Ci volle tutta la forza di
volontà che avevo a disposizione per
non cedere e abbandonargli la testa sul
petto.
— Cos’era quella cosa, prima? Mi
hai fatto venire una voglia… Adesso non
riesco più a pensare. Vedo solo te.
Le sue mani mi salirono su per i
fianchi e poi arrivarono al ventre.
Quella posizione quasi protettiva, anche
se lui non aveva idea di cosa stesse
proteggendo, mi fece venire le lacrime
agli occhi. Volevo che sapesse. Ma
volevo anche che scegliesse me… e
nostro figlio. Purtroppo sapevo che non
era possibile: teneva troppo a sua
sorella. Avevo una paura folle di
ricevere io stessa quel rifiuto, ma non
avrei mai tollerato che a essere rifiutato
fosse il mio bambino.
Feci per liberarmi dal suo abbraccio,
ma le sue mani si racchiusero sul mio
seno e la sua bocca prese a
mordicchiarmi l’incavo del collo.
Ossignore… Forse con il cuore non gli
credevo, ma con il corpo… volevo
tanto. Anche solo per quella volta.
— Che cosa stai facendo? — gli
chiesi, senza fiato.
— Prego Dio che tu non mi dica di
smettere. Sono al limite, Blaire. —
Tacque, in attesa di una mia risposta.
Vedendo che non arrivava, mi abbassò
le spalline del vestito e mi lasciò a seno
scoperto. In quei giorni me lo sentivo
sempre gonfio, e anche molto sensibile.
Il reggiseno non lo portavo quasi più;
ormai era stretto, e non mi andava di
spendere soldi per comprarne un altro se
quella storia delle tettone giganti non
sarebbe durata a lungo.
— Wow… Sai che mi sembrano più
grandi
del
solito?
—
disse
massaggiandomele.
Mi bagnai le mutandine all’istante e
sentii di nuovo le ginocchia deboli. Mi
aggrappai alla parete per non cadere.
Niente mi aveva mai fatto sentire così
bene… Dalla bocca mi uscì una specie
di suono implorante, che nemmeno io
ero in grado di definire.
A un tratto Rush mi sollevò e mi fece
girare. Mi mise seduta sul mobile del
bagno e poi assalì la mia bocca con la
sua, rimettendo subito le mani sul seno.
Non sarei stata in grado di dire basta.
Volevo che succedesse esattamente come
volevo che i polmoni continuassero a
riempirsi d’aria. Prima di quel momento
non avevo mai avuto davvero bisogno
del sesso: in quel momento, invece, ero
fuori controllo.
Il bacio di Rush era selvaggio e
passionale tanto quanto lo ero io. Mi
morse il labbro inferiore, invitò la mia
lingua dentro la sua bocca e iniziò a
succhiarla. Quando mi tirò i capezzoli,
persi il controllo. Doveva togliersi
subito la maglietta. La afferrai e la tirai
finché lui non si ritrasse il minimo
indispensabile per sfilarsela dalla testa,
dopodiché la mia bocca venne divorata
di nuovo.
Con le mani faceva cose deliziose ai
miei seni e, per quanto vicino mi stesse,
non mi sembrava mai abbastanza.
Sentii bussare alla porta. Rush mi tirò
contro di sé finché il mio petto non fu
schiacciato contro il suo. Rabbrividii e
chiusi gli occhi per la scossa di piacere
che provai. — Fuori dalle palle! —
gridò a chiunque fosse là fuori.
Una risata soffocata fu l’ultima cosa
che sentimmo prima che Rush
ricominciasse a baciarmi un centimetro
dopo l’altro di pelle del collo, giù fino
alla clavicola, finché non raggiunse il
capezzolo destro. Il calore del suo
respiro mi fece tremare: gli afferrai i
capelli e gli avvicinai la testa in una
supplica silenziosa. Lui fece prima un
verso divertito, poi cominciò a
succhiarmi con foga. L’eccitazione che
sentivo in mezzo alle gambe prese
letteralmente fuoco, o almeno così mi
sembrò. Se non mi avesse trattenuta con
tutto il suo corpo, sarei potuta schizzare
su fino al soffitto.
— Oddio! — gridai, fregandomene di
essere sentita. Ne avevo bisogno e
basta. La mia reazione rese Rush ancora
più voglioso: si spostò sull’altro
capezzolo e iniziò a concedergli lo
stesso
trattamento
del
primo,
insinuandomi nel frattempo una mano tra
le cosce. L’idea che fosse vicino a
toccare quella zona bagnata e pulsante
mi spaventava e mi eccitava allo stesso
tempo. Si sarebbe accorto che c’era
qualcosa di diverso oppure no? Avrebbe
notato che anche lì sotto qualcosa era
cambiato? Quando passò le dita sulla
stoffa degli slip, smisi di pensarci.
— Cazzo, sei bagnatissima — disse,
eccitato, affondando la testa nell’incavo
del
mio
collo.
Respirava
affannosamente, come un pazzo. —
Bagnatissima — ripeté. Fece scivolare
le dita sotto l’orlo degli slip e poi nella
mia carne gonfia, facendomi scoppiare i
fuochi d’artificio dentro il corpo.
Mi aggrappai alle sue spalle. Gli
stavo affondando le unghie nella pelle,
me ne rendevo conto, ma non potevo
farci niente. Mi stava toccando. Mi
baciò dalla bocca fino all’orecchio,
solleticandomi con il suo respiro
concitato. — Che bella fica. È mia,
Blaire, sarà sempre e solo mia. —
Quelle frasi volgari e il suo dito che
entrava e usciva frenetico mi portarono
vicino al limite.
— Rush, ti prego — lo implorai
sostenendomi a lui con tutte le forze.
— Ti prego cosa? Vuoi che te la
baci? Perché sento che è calda e bagnata
da morire, e devo sentire che sapore ha.
— Mi sfilò gli slip e io sollevai il
bacino per fargli più spazio. Tirò su
anche il vestito e io le braccia, per
farmelo togliere del tutto.
— Appoggia la schiena alla parete
— mi disse facendomi spostare un po’
più indietro. Prese le gambe e me le alzò
finché, con i piedi sul ripiano, non fui
completamente esposta al suo sguardo.
— Cristo, è la cosa più eccitante che
abbia mai visto in vita mia — sussurrò
prima di mettersi in ginocchio e
affondarmi la bocca tra le cosce. Il
primo tocco della sua lingua mi mandò
in estasi.
— Oddio, Rush… Ti prego, sì, ahhhh
— gridai tenendogli la testa con una
mano per fargli capire di non fermarsi.
Non poteva, era troppo bello. Sentirlo
guizzare sopra il clitoride dava una
sensazione incredibile, che però non mi
bastava. Volevo di più. Mi esplorò di
nuovo con il dito e mi tenne aperta per
potermi leccare e baciare anche dentro.
— Mia. È mia. Non puoi più
lasciarmi, Blaire. Io ho bisogno di tutto
questo. Cazzo, se solo sapessi che odore
perfetto hai… Niente sarà mai così
perfetto per me — mormorò mentre mi
assaggiava. Ero pronta a dire di sì a
qualsiasi cosa.
— Devo entrarti dentro — disse,
sollevando gli occhi sui miei. Annuii,
incapace di fare altro.
— Non ho il preservativo. — Tacque
e strinse forte le palpebre. — Lo tiro
fuori.
A quel punto non contava più, ma non
potevo dirglielo. Annuii una seconda
volta.
In un attimo Rush era in piedi con i
jeans abbassati. Mi prese per i fianchi e
mi tirò in avanti, verso il bordo del
ripiano, finché non arrivò a sfiorarmi
con la sua erezione. L’incertezza nei suoi
occhi era inequivocabile, anche se a
parole non mi stava chiedendo niente.
Glielo presi con la mano e me lo feci
scivolare dentro.
— Oh… cazzo — gemette mentre
spingeva fino a riempirmi tutta. Ero
piena di Rush. Gli buttai le braccia al
collo e lo strinsi. Per un secondo almeno
dovevo tenerlo fermo, così. Non si
trattava più dei miei ormoni impazziti:
avere Rush dentro di me era come
sentirsi finalmente a casa. Completa. Mi
venne da piangere… Prima che potessi
mettere in ridicolo me stessa e
confondere lui, alzai la testa e gli
sussurrai all’orecchio: — Scopami.
Fu come premere il grilletto di una
pistola carica. Rush mi strinse forte i
fianchi ed emise un lamento profondo, di
gola, prima di dare il via a un energico
andirivieni dentro al mio corpo.
L’ascesa lungo la spirale del piacere che
sapevo avrei raggiunto ripartì, e a quel
punto anch’io cominciai a muovermi. Mi
godetti quel momento di resa, di
abbandono totale sul suo viso, mentre
entrambi andavamo sempre più vicini
all’orgasmo di cui avevamo bisogno.
— Io ti amo, Blaire. Ti amo così
tanto da far male — ansimò, abbassando
la testa per succhiarmi un capezzolo. Il
mio corpo esplose, gridai il suo nome.
Lui mi guardò negli occhi, fece per
uscire, ma io gli strinsi le gambe intorno
alla vita, con tutte le mie forze. Non
volevo che se ne andasse. Capì e
pronunciò il mio nome in un sussurro,
poi gettò la testa all’indietro e si svuotò
completamente dentro di me.
RUSH
Blaire mi spinse via e saltò giù dal
mobile prima ancora che potessi
riprendermi da quell’orgasmo. —
Aspetta, devo pulirti — le dissi.
Davvero, volevo solo pulirla. Mi
piaceva farlo. Anzi no, mi faceva
proprio impazzire. Sapere che ero stato
lì dentro e che mi stavo prendendo cura
di lei mi dava uno strano effetto.
— Non c’è bisogno che mi pulisci,
va bene così — rispose lei recuperando
il vestito e rimettendoselo in fretta,
evitando il mio sguardo. Merda. Allora
avevo capito male? Pensavo che anche
lei prima lo volesse. No: ne ero sicuro.
Moriva dalla voglia.
— Blaire, guardami, ti prego.
Si fermò, inspirò profondamente e
sollevò gli occhi sui miei. La tristezza
che riconoscevo nel suo sguardo era
mista ad altro. Imbarazzo? Sicuramente
no. Mi avvicinai e le presi il viso fra le
mani. — Cosa c’è che non va? Ho fatto
qualcosa che non dovevo fare? Perché
mi stavo impegnando per non perdere il
controllo. Mi stavo impegnando da
morire per fare quello che volevi…
— No. Non… non hai fatto niente di
male. — Riabbassò lo sguardo. — Ho
soltanto bisogno di pensare. Mi serve
spazio. Non volevo… Non ero… Non
avremmo dovuto farlo, ecco.
Una pugnalata al petto mi avrebbe
fatto meno male. Avevo voglia di
prenderla fra le braccia, fare il
troglodita e gridare che lei era mia e non
poteva lasciarmi. Ma così l’avrei persa.
Non potevo commettere altri errori,
dovevo lasciarla fare a modo suo.
Abbandonai le mani lungo i fianchi e
feci un passo indietro, lasciandola libera
di andarsene.
Blaire alzò la testa e mi guardò. —
Mi dispiace — sussurrò, poi aprì la
porta e corse via.
Mi aveva appena sconvolto la vita
con una serie di scene ipereccitanti e le
dispiaceva. Fantastico.
Quando finalmente trovai il coraggio
di uscire dal bagno, Blaire non c’era
più. Jace sogghignava e Bethy si inventò
delle scuse per giustificare la sua
assenza. Non volevo più restare lì.
Dopo essermi assicurato che tutte le
cose pesanti fossero state spostate e che
la valigia e lo scatolone di Blaire
fossero a posto, me ne andai. Non
potevo rimanere, con quei due che mi
guardavano. Ci avevano sentiti, Blaire
aveva fatto un casino tremendo. Non me
ne andavo per vergogna: ero soltanto
stufo di essere osservato nell’attesa che
fornissi una spiegazione.
Avevo dato a Blaire un paio di giorni
per venirmi a cercare. Lei non l’aveva
fatto e in fondo non ne ero rimasto
stupito, anche se mi ero impegnato per
concederle tutto lo spazio che potessi
sopportare. Non chiamai nessuno per
andare a giocare a golf. Non volevo
nessuno attorno, nel momento in cui
Blaire si fosse fatta rivedere. Dovevamo
parlare. Non ci volevano distrazioni né
pretesti che avrebbero potuto aiutarla a
fuggire.
Mi era sembrato un piano solido, ma
dopo sei buche e nessuna ragazza delle
bibite in vista cominciavo a nutrire dei
dubbi. Proprio mentre stavo per
raggiungere la buca successiva, sentii il
rumore del cart. Mi fermai, mi voltai. Il
sangue che aveva iniziato a pomparmi
nelle vene all’idea di rivedere Blaire,
sola, si trasformò in ghiaccio quando mi
accorsi che si trattava della bionda che
qualche volta faceva da assistente a
Bethy. Merda!
Scossi la testa e feci segno alla
ragazza di proseguire. Non volevo
prendere la mia birra da quella. Mi fece
un sorriso raggiante e passò alla buca
seguente.
— Fa caldo qui. Sicuro che non vuoi
niente? — mi chiese a un tratto la voce
di Meg. Mi girai e la vidi che mi veniva
incontro con indosso una gonnellina da
tennis e una polo entrambe bianche. Fino
a una decina di anni prima, aveva
giocato a tennis ad alti livelli.
— Ragazza del cart sbagliata —
risposi aspettando che mi raggiungesse.
— Ah, compri da una soltanto?
— Sì.
Meg fece una faccia perplessa, poi
annuì. — Capisco. Ce n’è una che ti
piace…
“Che ti piace” non andava neanche
lontanamente vicino alla verità. Mi misi
la borsa da golf in spalla e procedetti
verso la buca successiva. Non avrei
risposto a quel commento.
— Ed è anche una nota dolente… —
mi stuzzicò Meg, infastidendomi.
— O magari non sono affari tuoi.
Fece un lungo fischio. — Uuuh…
Allora è una cosa seria.
Mi fermai e la guardai negli occhi. Il
fatto di essere stata la prima donna con
cui ero andato a letto non le dava il
diritto di credere che fossimo amici o
che tra di noi ci fosse chissà quale
legame. Mi stava facendo incazzare. —
Lascia perdere — la avvertii.
Meg, rimasta a bocca aperta, si mise
le mani sui fianchi. — Oh mio Dio….
Rush Finlay si è innamorato. Porca
vacca! Non pensavo che sarei mai stata
testimone di un evento del genere!
— Sono dieci anni che non ci
vediamo, Meg. Come cavolo potresti
sapere anche solo qualcosa di me? — Il
tono scocciato della mia voce non le
fece battere ciglio.
— Stammi a sentire, Finlay. Anche se
non ci vediamo da dieci anni, non
significa che non ti abbia mai incrociato
per caso o che non abbia sentito parlare
di te. Sono tornata in città diverse volte,
ma tu eri sempre impegnato a dare feste
nella tua reggia e a scoparti i corpi
perfetti di tutte le modelle che ti
passavano sotto tiro. Non vedevo il
motivo di tornare nella tua vita. Però sì,
ti ho rivisto, e come il resto delle
persone di questo paese so che sei un
ricco, affascinante playboy che può
permettersi di scegliere solo il meglio.
Che idea superficiale. Non mi
piaceva il ritratto che aveva fatto di me.
Anche Blaire mi vedeva in quel modo?
Allora non solo non riusciva a fidarsi
del fatto che io potessi scegliere lei e
proteggerla, ma probabilmente pensava
anche che l’avrei dimenticata con la
prima che passava. No, doveva sapere
che non era così.
— È splendida. No… È perfetta.
Tutto in lei è tremendamente perfetto —
dichiarai ad alta voce, poi posai di
nuovo lo sguardo su Meg. — Non solo
la amo: le appartengo. Completamente.
Per lei farei qualsiasi cosa.
— E da parte sua non è così? — mi
chiese.
— L’ho ferita. Non nel modo che
immagini tu, però. È difficile da
spiegare…. C’è così tanto dolore in
quello che è successo che non so se
riuscirò mai a riaverla.
— È una delle ragazze del cart?
Ci teneva a insistere su quel punto.
— Sì — risposi chiedendomi se fosse il
caso di dirle chi fosse Blaire
esattamente. Dichiararlo ad alta voce
avrebbe potuto aiutarmi a dare un senso
a quella cosa. — Lei e Nan sono figlie
dello stesso padre. — Mi uscì come non
avrei voluto dirlo.
— Merda… — mormorò Meg. — Ti
prego, dimmi che non c’entra niente con
la tua perfida sorellina.
Nan non aveva molti fan. Sentire che
era stata definita “perfida” non mi fece
né caldo né freddo: in fondo se l’era
cercata lei. — No, non le assomiglia
affatto.
Meg restò un istante in silenzio e io
mi chiesi se la conversazione si sarebbe
interrotta lì. Esitò, strofinò un piede
sull’erba e si girò verso la clubhouse.
— Perché non pranziamo insieme e mi
racconti di questa situazione intricata?
Magari riesco a infonderti un po’ di
saggezza, o almeno a darti un consiglio
da donna.
Mi servivano tutti i consigli
possibili. Nella mia vita non c’erano
donne a cui potermi rivolgere per
ricevere pareri femminili. — Sì. Buona
idea. Tu mi dai consigli validi e io ti
offro il pranzo.
BLAIRE
Era il secondo giorno che mi alzavo
senza vomitare. Prima di attaccare il
turno del pranzo avevo persino chiesto a
Bethy di mettermi alla prova e cucinare
la pancetta, convinta che, sopportata
quella, niente avrebbe più potuto
fermarmi. Mi si era rivoltato lo stomaco,
mi era venuta la nausea, ma alla fine non
avevo rimesso. Stavo migliorando.
Chiamai Woods e gli assicurai che
non ci sarebbero stati problemi. Lui
accettò, perché al club erano a corto di
personale e c’era bisogno di me.
Quando entrai in cucina mezz’ora prima
di iniziare il turno, trovai Jimmy in piedi
che mi sorrideva.
— Eccola! Sono felice che ti sia
passata la gastrite. Mamma mia… Cosa
hai perso, cinque chili? Per quanto
tempo sei stata male? — Woods aveva
raccontato a Jimmy e a tutti quelli che si
erano interessati a me che avevo un
virus e mi stavo riprendendo. Avevo
fatto soltanto due turni sul campo e non
avevo mai incontrato nessuno di quelli
che lavoravano in cucina.
— Eh sì, forse ho perso qualche
chilo. Però sono sicura che presto li
rimetterò
su
tutti
—
risposi
abbracciandolo.
— Spero proprio, altrimenti ti
ingozzerò di ciambelle finché non
riuscirò a prenderti la vita tra le mani
senza toccarmi le punte delle dita.
Sarebbe successo prima di quanto
potesse immaginare. — Una ciambella
in effetti non mi dispiacerebbe!
— Affare fatto. Dopo il lavoro. Tu,
io e una scatola da dodici, di cui metà
gusto cioccolato — annunciò Jimmy
porgendomi il grembiule.
— Ci sto. Potresti venire a vedere il
mio nuovo appartamento. Adesso vivo
con Bethy nelle palazzine qui, sul campo
da golf.
Jimmy fece un’espressione incredula.
— Caspita! Che lusso…
Mi allacciai il grembiule sorridendo
e infilai penna e blocchetto delle
ordinazioni nella tasca anteriore. —
Faccio io il primo giro, se tu prepari le
insalate e il tè freddo.
Jimmy mi fece l’occhiolino. —
Aggiudicato.
Uscii nel salone e vidi che, per
fortuna, gli unici ospiti erano due signori
anziani che avevo già visto ma di cui
non ricordavo i nomi. Presi le
ordinazioni e versai a entrambi una tazza
di caffè prima di tornare in cucina a
vedere se erano pronte le insalate.
Jimmy me ne aveva preparate già due
e, quando entrai, lo trovai in piedi
pronto a porgermele. — Ecco qui,
bomba sexy.
— Grazie, meraviglia — gli risposi
correndo a portare le insalate ai signori
in sala e a raccogliere le ordinazioni dei
nuovi arrivati: un’acqua frizzante con
ghiaccio e una naturale con limone.
Nessuno, in quel posto, si accontentava
mai di un semplice “bicchiere d’acqua”.
Quando arrivai in cucina, incrociai
Jimmy che usciva. — Mi sono appena
preso le due donne che sembrano uscite
da un campo da tennis. Ah, credo di aver
visto Hillary… Non è lei la hostess,
oggi? Comunque l’ho vista parlare con
altri ospiti, quindi dovrebbe esserci un
tavolo che aspetta di essere servito.
Mi salutò e filò via.
Preparai in fretta i bicchieri d’acqua,
misi sul vassoio i due piatti di zuppa di
granchio ordinati dai signori e tornai
fuori. L’espressione scioccata di Jimmy
mi colse di sorpresa.
— Lo porto io — mi disse
togliendomi il vassoio dalle mani.
— Ma non sai neanche di chi è! Sono
capace di trasportare un vassoio, Jimmy
— risposi, alzando gli occhi al cielo.
Non sapeva che ero incinta e si
comportava lo stesso da sciocco…
Poi lo vidi. O meglio, li vidi. Jimmy
non stava facendo lo sciocco: mi stava
proteggendo. Rush teneva la testa china
in avanti mentre discuteva di qualcosa
che dava al suo viso un’espressione
assorta. La donna aveva dei lunghi
capelli scuri, ed era stupenda. Zigomi
alti e perfetti, lunghe ciglia nere che
mettevano in risalto gli occhi castani.
Avrei vomitato. Il vassoio mi tremò fra
le mani e Jimmy corse in mio aiuto. Lo
lasciai fare, altrimenti l’avrei fatto
cadere.
Rush non era mio. Ma io portavo in
pancia suo figlio. E lui non lo sapeva.
Però avevamo fatto l’amore, anzi no, mi
aveva scopata, nel bagno di Bethy
appena tre giorni prima. Faceva male,
molto male. Deglutii, ma mi sentivo la
gola semichiusa. Jimmy mi stava
dicendo qualcosa, ma io non riuscivo a
sentirlo. Ero incapace di qualunque cosa
che non fosse fissare quei due al tavolo.
Lui si stava sporgendo verso di lei come
se non volesse far sentire a nessuno le
sue parole.
A un certo punto lo sguardo di lei si
spostò da quello di Rush e finì dritto sul
mio. La odiavo. Era bellissima,
raffinata, tutto quello che non ero io. Era
una donna. Io, soltanto una ragazzina.
Una ragazzina patetica. Che doveva
assolutamente levarsi dalle scatole e
piantarla di far scenate – per quanto
mute, perché li fissavo pietrificata. La
donna mi studiò, e l’accenno di una ruga
le increspò la fronte. Non mi andava che
chiedesse a Rush di me e mi indicasse.
Mi girai e scappai via.
Non appena fui lontana dagli sguardi
degli ospiti, mi misi a correre, ma andai
a sbattere contro il solido petto di
Woods. — Ehi, tesoro. Ma dove corri?
Ancora non ce la fai a sopportare gli
odori? — mi chiese mettendomi un dito
sotto il mento e alzandomi il viso per
guardarmi in faccia.
Feci no con la testa e mi scappò una
lacrima. Non avrei pianto per la scena
che avevo visto, maledizione. Me l’ero
cercata io. Ero stata io a respingerlo, a
correre via dopo quei momenti
indimenticabili in bagno. Che cosa mi
aspettavo? Che passasse il resto dei suoi
giorni a struggersi per me? Improbabile.
— Scusami, Woods. Dammi un minuto e
torno. Te lo prometto. Mi serve soltanto
un momento per riprendermi.
Annuì e mi carezzò il braccio in
segno di conforto. — C’è Rush, di là?
— chiese, quasi esitando.
— Sì — riuscii a malapena a
rispondere mentre mi sforzavo di
scacciare le lacrime che si stavano
accumulando dentro ai miei occhi. Feci
un respiro profondo e battei le palpebre.
Non avrei ceduto, sarei riuscita a
controllare le mie emozioni.
— È con qualcuno? — si informò.
Annuii. Non volevo dirlo a parole.
— Vuoi andare nel mio ufficio a
rilassarti un attimo? Ad aspettare che se
ne vadano?
Sì. Volevo nascondermi da quello
spettacolo, ma non potevo. Dovevo
imparare a conviverci. Rush sarebbe
rimasto a Rosemary per un altro mese
soltanto, dovevo farmene una ragione.
— Posso farcela, Woods. Non me lo
aspettavo, tutto qui.
Lui distolse lo sguardo dal mio e
all’improvviso si fece severo. — Vai
via, tu. Non sei quello di cui ha bisogno,
in questo momento — dichiarò,
rabbioso.
— Toglile le mani di dosso. — Era
Rush, comparso alle mie spalle.
Mi allontanai da Woods e tenni lo
sguardo basso. Non volevo vedere Rush
e non volevo nemmeno vedere che lui e
Woods si prendevano a pugni. Woods
sembrava pronto a difendere il mio
onore, Rush… non ne avevo idea,
perché non avevo la minima intenzione
di guardarlo.
— Sto bene, Woods. Grazie. Adesso
torno al lavoro — mormorai cercando di
tornare in cucina.
— Blaire, fermati. Parliamo — disse
Rush.
— Hai già fatto abbastanza. Ma
lasciala in pace, no? Non le servono le
tue scenate, Rush, non adesso! — gli
abbaiò contro Woods.
— Tu non sai niente — rispose lui.
Woods gli si avvicinò di un passo. I casi
erano due: o gli avrebbe fatto capire
chiaramente che sapeva qualcosa,
finendo per confessargli che ero incinta,
oppure gli avrebbe tirato un cazzotto.
Dovevo intervenire e risistemare le
cose.
Mi girai e mi misi davanti a Rush,
con gli occhi rivolti verso Woods. — Va
tutto bene. Lasciami un minuto sola con
lui. Non ci sono problemi, davvero. Mi
sono semplicemente fatta un po’
prendere dalle emozioni, tutto qui — lo
rassicurai.
La mandibola di Woods si muoveva
avanti e indietro, segno che stava
digrignando i denti. Restare zitto doveva
richiedergli uno sforzo immane. Alla
fine annuì e se ne andò, furioso.
Era il momento di affrontare Rush.
— Blaire — mi disse con calma,
prendendomi per mano. — Guardami, ti
prego.
Potevo farlo. Dovevo farlo. Mi girai
lasciando la mia mano nella sua. Avrei
dovuto strapparla via, ma non ci
riuscivo. L’avevo visto con una donna
che probabilmente gli teneva caldo il
letto di notte mentre io continuavo a
respingerlo. Lo stavo perdendo. E lo
stava perdendo anche suo figlio. Ma in
fondo…
l’avevamo
mai
avuto
veramente?
Sollevai lo sguardo e incontrai il suo,
preoccupato. Ce la metteva sempre tutta
per non farmi restar male, ed era una
cosa di lui che mi piaceva molto. — Va
tutto bene. Ho esagerato. Mi hai
semplicemente… stupita, diciamo. Avrei
dovuto immaginarlo che a quest’ora
avresti già voltato pagina. È che…
— Piantala — mi interruppe,
tirandomi a sé. — Non ho voltato un bel
niente. Hai creduto di vedere una cosa
che non esiste. Meg è solo una vecchia
amica, nient’altro. Lei per me non
significa niente. Io sono venuto qui a
cercare te! Avevo bisogno di vederti e
quindi mi sono fatto una partita a golf.
Invece non c’eri, ho incontrato Meg per
caso e lei mi ha proposto di mangiare un
boccone insieme. Fine. Non avevo idea
che stessi lavorando, altrimenti non
sarei mai entrato qui. Anche se non
stavo facendo niente di male. Io ti amo,
Blaire. Non sto con nessun’altra. Non
succederà mai.
Volevo credergli. Per quanto egoista
e sbagliato fosse credere che lui mi
amasse abbastanza da non avere bisogno
di altre persone. Anche se lo stavo
respingendo. Anche se gli stavo
mentendo. Io, proprio io che odiavo i
bugiardi. Anche lui mi avrebbe odiata,
se non avessi confessato in fretta. Non
volevo essere odiata da lui, ma non
potevo nemmeno fidarmi. Mentire
migliorava le cose? Lo faceva mai?
Come avrebbe potuto lui fidarsi di me?
— Sono incinta. — Le parole mi
uscirono di bocca prima che potessi
rendermi conto di quello che stavo
dicendo. Mi coprii la bocca, scioccata,
e a Rush uscirono gli occhi dalle orbite.
Poi mi girai e corsi via come una pazza.
RUSH
Avevo i piedi incollati al pavimento.
Anche se Blaire stava correndo via,
lontano da me, non riuscivo a muovermi.
Me
l’ero
sognato?
Era
stata
un’allucinazione disperata? Ero davvero
a quei livelli?
— Se non le corri dietro tu, lo faccio
io. — La voce di Woods fece irruzione
tra i miei pensieri e mi risvegliò dallo
shock.
— Che cosa? — chiesi, guardandolo
storto. Lo odiavo. All’improvviso mi
ritrovai a immaginare come sarebbe
stato spaccargli il naso.
— Ho detto che, se non le corri
dietro tu, lo faccio io. In questo
momento le serve qualcuno. E per
quanto non vorrei che quel qualcuno
fossi tu, perché secondo me non te la
meriti, so che è di te che ha bisogno.
Lui sapeva che lei era incinta?
Cominciai a fumare dalle narici. Blaire
aveva detto a Woods che era incinta e
lui non era venuto a dirmelo?!
— Ero lì il primo mattino in cui ha
tentato di lavorare, ma l’odore della
pancetta l’ha fatta correre in bagno a
vomitare. Quindi sì, lo sapevo già.
Adesso levati quella faccia da maniaco
geloso e valle dietro. — Il tono di voce
di Woods era carico di disgusto.
— È stata male? — Io non ne avevo
saputo niente. Sentii una fitta al petto.
Era stata male, da sola. L’avevo
abbandonata mentre soffriva. Non mi
entrava più aria nei polmoni.
— Sì, testa di cazzo, è stata male!
Capita di avere la nausea, nelle sue
condizioni. Ora però sta già meglio. Ti
do ancora un secondo, poi giuro che
corro da lei. Scegli tu — mi avvertì
Woods.
Partii a razzo.
Fu soltanto quando uscii dal retro
dell’edificio e guardai su per la collina
che la vidi. Stava ancora correndo,
verso le palazzine. Tornava a casa. Le
corsi dietro. Era incinta: era giusto
correre così? E se avesse fatto male al
bambino? Doveva rallentare.
— Blaire! Fermati, aspetta — le
gridai quando fui abbastanza vicino. Lei
mi ascoltò e, quando la raggiunsi,
finalmente si fermò.
— Scusami — singhiozzò, con il viso
fra le mani.
— Scusami di cosa? — chiesi,
avvicinandomi e tirandomela contro il
petto. Non avevo più paura di
spaventarla. Non l’avrei più lasciata
andare da nessuna parte.
— Di questo. Di tutto. Del fatto che
sono incinta — sussurrò, rigida fra le
mie braccia.
Le dispiaceva… No. Non doveva
dispiacerle per una cosa simile. — Non
hai niente di cui scusarti, Blaire. Non
azzardarti a ripeterlo, hai capito?
Si appoggiò a me e sentii svanire
parte della sua tensione. — Però non te
l’ho detto.
No, non me ne aveva parlato subito,
ma la capivo. Era uno schifo, ma capivo.
— Vorrei che lo avessi fatto. Non ti
avrei mai lasciata sola con le nausee e
tutto il resto. Mi sarei preso cura di te…
Ma lo farò ora, rimedierò. Te lo giuro.
Blaire scosse la testa e mi spinse via.
— No. Non posso. Non possiamo. C’è
un motivo se non te l’ho detto. Noi
due… dobbiamo parlare.
Io mi sarei preso cura di lei e lei non
mi avrebbe lasciato. Ma se aveva
bisogno di parlare, avremmo parlato. —
Ok. Andiamo a casa tua, tanto siamo qui
vicino.
Blaire annuì e si incamminò verso
l’appartamento. Jace aveva detto che
Woods la lasciava stare lì con Bethy per
la stessa cifra che lei pagava prima,
nell’altra casa; pensava che lo stesse
facendo per qualche detrazione fiscale o
cose simili. Ora capivo… I soldi non
c’entravano: Woods lo stava facendo per
Blaire. Si era preoccupato per lei. Da
quel momento non avrebbe più dovuto
farlo, perché avrei pensato io a ciò che
era mio. Woods non mi serviva. Gli
avrei parlato più tardi, ma avrei pagato
io la differenza per la casa. Non
spettava a lui occuparsi di Blaire, lei
era mia.
La vidi chinarsi e prendere la chiave
da sotto lo zerbino. Il peggior
nascondiglio di sempre per una
chiave… Le avrei fatto notare anche
quello, più tardi. Non sarei riuscito a
dormire la notte sapendo che teneva la
chiave dell’ingresso alla portata di tutti.
Aprì la porta e mi fece entrare per
primo. — Prego.
Le passai accanto, la presi per mano.
Se anche avesse avuto voglia di
elencarmi tutti i motivi per cui non
potevamo stare insieme, mentre lo
faceva io avrei dovuto toccarla. Avevo
bisogno di sapere che stava bene. Il
contatto con la sua pelle mi
tranquillizzava.
Chiuse la porta e lasciò che la tirassi
verso il divano. Mi sedetti e me la misi
accanto. Avrei voluto tenermela sulle
ginocchia, ma il suo sguardo nervoso e
preoccupato mi frenava. Aveva bisogno
di parlare e io ero pronto ad ascoltarla.
— Avrei dovuto dirtelo prima. Scusa
se non l’ho fatto. Però l’intenzione
c’era: forse non di comunicartelo a
bruciapelo, come poco fa, ma c’era.
Volevo un po’ di tempo per decidere
come comportarmi e cosa fare nella vita.
Volevo mettere da parte dei soldi,
andarmene e ricominciare da capo. Per
il bambino. Te l’avrei detto, Rush.
Me l’avrebbe detto subito prima di
andarsene? Mi prese il panico. Non
poteva pensare certe cose! — Tu non
puoi lasciarmi — dissi con tutta la
calma di cui ero capace. Doveva
rendersene conto.
Blaire abbassò lo sguardo sulle mani.
Le nostre mani, con le dita intrecciate.
Era l’unica cosa che in quel momento mi
aiutava a mantenere la calma. — Rush
— disse con un filo di voce. — Io non
voglio che mio figlio debba mai sentirsi
indesiderato. La tua famiglia… — si
interruppe e impallidì.
— La mia famiglia accetterà quello
che io le dirò di accettare. Se non lo
faranno, prenderò te e il bambino e li
lasceremo soli a pagare tutte le bollette.
Tu vieni prima di loro, Blaire.
Lei fece no con la testa e, alzandosi,
liberò la mano dalla mia. — No. Adesso
dici così, ma so che non è vero. Non era
vero un mese fa e non è vero oggi.
Sceglierai sempre loro, anziché me. O
per lo meno sceglierai sempre Nan. Per
me va bene, lo capisco: soltanto non
riesco a conviverci. Non posso restare
qui.
Il fatto di non averle detto di suo
padre mi avrebbe perseguitato per il
resto della vita. Il mio bisogno di
proteggere Nan aveva mandato a puttane
l’unica cosa importante che c’era nella
mia vita. Mi alzai e la misi alle strette
finché non fu con la schiena contro il
muro. — Nessuno. Viene. Prima. Di. Te.
Gli occhi le brillarono di lacrime non
versate. Scosse di nuovo la testa. Quanto
odiavo il fatto che non riuscisse a
credermi!
— Ti amo. Quando sei entrata nella
mia vita, io non sapevo chi fossi. Nan
era la mia priorità. Ma tu hai cambiato
le cose, hai cambiato tutto. Te l’avrei
detto, ma mia madre è tornata a casa
troppo presto. Avevo talmente paura di
perderti che alla fine è successo
veramente. Niente ti porterà più via da
me: passerò il resto della vita a
dimostrarti che ti amo. Tu e questo
bambino — dissi toccandole il ventre
piatto e facendola tremare — venite per
primi.
— Voglio crederti — mi disse fra i
singhiozzi.
— Dammi la possibilità di
dimostrartelo. Se mi lasci, non ci posso
neanche provare. Devi stare con me,
Blaire, devi darmi una chance.
Una lacrima riuscì a liberarsi e le
rotolò giù per la guancia. — Diventerò
una cicciona enorme. I bambini
piangono tutta la notte e costano un
sacco di soldi. Non sarò più la stessa,
noi non saremo più gli stessi. Te ne
pentirai.
Proprio non capiva. Non importava
quante volte glielo dicessi: non mi
credeva e basta. Nella sua vita aveva
perso tutte le persone che aveva amato e
di cui si era fidata. Perché avrebbe
dovuto credermi? L’unico uomo della
sua vita l’aveva abbandonata. Tradita.
Non si aspettava nulla di diverso.
— Questo bambino ti ha riportata da
me. Fa parte di noi e non me ne pentirò
mai. Potrai anche diventare grossa come
una balena, ma io ti amerò lo stesso.
Un sorriso le fece capolino sulle
labbra. — Meglio evitare, però.
Feci spallucce. — Balena o no, tu sei
mia.
Il sorriso si smorzò subito. — Tua
sorella. Non sopporterà questa notizia,
me, il bambino.
Avrei pensato io a Nan. Se non se ne
fosse fatta una ragione, avrei preso
Blaire e l’avrei portata via, lontano.
Blaire ne aveva passate già troppe, non
avrei permesso a nessuno di farle del
male. — Fidati: io ti proteggerò e ti
metterò al primo posto.
Blaire chiuse gli occhi e annuì.
Sentii il petto gonfiarsi per la voglia
di gridare al mondo che quella donna
era mia, invece la sollevai di peso. —
Dov’è camera tua? — le chiesi.
— L’ultima a sinistra.
Aprii la porta, tenendo lei in braccio.
Non volevo fare l’amore, avevo soltanto
bisogno di tenermela stretta per un po’.
Però, appena entrai, restai di sasso.
Tutto sommato la camera da letto era
abbastanza grande, ma vedere una
trapunta per terra con un unico cuscino
sopra fu un colpo. Quando le avevo
aiutate a traslocare, sapevo che Blaire
non possedeva un letto e che avrebbe
dormito sul divano, ma ero stato
talmente
preso
dall’idea
di
riprendermela che avevo completamente
trascurato un suo bisogno primario.
— Il letto ancora non ce l’ho. Avrei
potuto dormire sul divano, ma ho
preferito una camera tutta mia —
mormorò cercando di scendere dalle
mie braccia. Non l’avrei lasciata
andare, me la tenevo stretta stretta
contro il petto. La sera prima, mentre io
avevo dormito nel mio matrimoniale
enorme, lei era stata sul pavimento…
’Fanculo.
— Stai tremando, Rush. Mettimi giù
— mi disse tirandomi per un braccio.
Senza obbedirle, mi girai e tornai in
salotto, poi uscii di casa. Lasciai
sbattere la porta dietro di me, la chiusi a
chiave e me la infilai in tasca. Col
cavolo che l’avrei infilata sotto quello
zerbino.
— Che cosa stai facendo? — mi
chiese.
Non avevo lì la macchina. Poco
male, mi sarei portato Blaire in braccio
giù per la collina fino alla Rover. —
Adesso andiamo a comprare un letto. Un
letto con i controcoglioni. Uno di quelli
che costano un botto di soldi! —
ringhiai. Ero furioso per essermi
dimenticato
un
particolare
così
importante. Non c’era da meravigliarsi
che fosse intervenuto Woods a prendersi
cura di lei. Io me l’ero scordato! Ma non
sarebbe più successo, perché d’ora in
poi mi sarei sempre assicurato che
Blaire avesse tutto.
— Ma non mi serve un letto costoso.
Ne comprerò uno presto, vedrai.
— Esatto, prestissimo. Stasera —
risposi chinando la testa per darle un
bacetto sul naso. — Ci penso io, devo
farlo. Devo sapere che dormi nel letto
più bello che esista sulla faccia della
terra. Ok?
Sulle labbra le spuntò un sorrisetto
timido. — Ok.
BLAIRE
A me sarebbe bastato un lettino singolo.
Rush invece insisteva per prendere un
matrimoniale, due comodini e un
cassettone con un magnifico specchio.
Avevo
commesso
l’errore
di
soffermarmi troppo a lungo su una bella
trapunta color lavanda con copricuscini
abbinati, così, prima che potessi
impedirglielo, lui aveva già comprato
tutto il set completo di lenzuola e cuscini
nuovi. Protestai con tutte le forze, ma lui
finse di non sentirmi. Mi fece
semplicemente l’occhiolino e continuò a
dare ordini al commesso.
Quando finimmo la cena, altra cosa
che non avrei neanche lontanamente
potuto rifiutare, i mobili erano già pronti
per la consegna. Tornati a casa,
trovammo Bethy sulla porta ad
aspettarci: era entusiasta.
— Grazie per avermi lasciato fare,
ne avevo bisogno. Forse tu non te ne
rendi conto, ma mi ha fatto un gran bene
— disse Rush prima che aprissi la
portiera per scendere.
Lo guardai. — Avevi bisogno di
comprarmi un’intera camera da letto
completa di biancheria di lusso? —
chiesi, perplessa.
— Sì, proprio così.
Non capivo, ma annuii. Se fare quegli
acquisti l’aveva fatto sentire meglio,
anch’io ero contenta. Ancora non
riuscivo a credere che fosse tutto mio!
Mi sarei sentita una principessa, in una
camera così. — Be’, allora grazie. Non
mi aspettavo più di un materasso… Non
ero pronta a essere viziata!
Rush si sporse verso di me e mi
diede un bacio accanto all’orecchio. —
Questo non è minimamente vicino alla
mia definizione di “viziata”. Ma ti farò
vedere presto che cosa intendo!
Provai un brivido e strinsi la
maniglia della portiera. Non gli avrei
permesso di comprarmi nient’altro.
Dovevo andarmene, ma i suoi baci tutto
attorno al mio orecchio mi impedivano
di concentrarmi.
— Andiamo a vedere com’è venuta
la stanza — propose, staccandosi.
Spazio. Mi serviva un po’ di spazio.
Se avesse continuato, sarei stata pronta a
saltargli addosso da un momento
all’altro.
Molto
male,
Blaire.
Autocontrollo,
mi
ci
voleva
autocontrollo.
Gli
ormoni
della
gravidanza erano sempre in agguato.
Rush aveva già fatto di corsa il giro
della Rover quando io aprii la portiera
per scendere. Non feci in tempo a
provvedere da me, perché lui mi prese
le mani e mi aiutò, come se non fossi in
grado da sola.
— So scendere anche per conto mio,
sai? — gli dissi.
Sorrise. — Sì, ma che divertimento
sarebbe?
Risi, feci finta di cacciarlo via e
andai da sola verso Bethy, che ci stava
guardando neanche fossimo una delle
sue telenovele preferite.
— Ehi! Camera tua sembra pronta
per finire sulla copertina di una rivista
d’arredamento! — annunciò, raggiante
come una bambina in un negozio di
caramelle. — Stanotte posso dormire
con te in quel letto da favola? Il
materasso è incredibile!
— No. Ha bisogno di riposare.
Niente amiche nel letto! — dichiarò
Rush arrivando alle mie spalle e
cingendomi la vita con fare protettivo.
Bethy abbassò lo sguardo sulla mia
pancia e poi lo riportò sul viso di Rush.
— Allora lo sai — affermò, con aria
compiaciuta.
— Sì, lo so — rispose lui. Lo sentii
irrigidirsi.
Provai una sensazione orribile. Ecco
un’altra persona a cui avevo parlato
della mia gravidanza prima di informare
lui, il padre. Aveva ogni diritto di
sentirsi offeso. Ero una bugiarda. Se ne
sarebbe reso conto e mi avrebbe
piantata?
— Bene — concluse Bethy mentre io
mi liberavo dalla stretta per entrare in
casa.
— Perché non vai a controllare che
abbiano messo tutto dove vuoi tu? — mi
propose Rush.
— Buona idea. — Lo lasciai e andai
a vedere la stanza. Se era arrabbiato con
me, gli serviva un po’ di tempo per
sbollire.
I ragazzi del mobilificio stavano
facendo un ottimo lavoro, perciò non li
disturbai. Mi andava bene dove avevano
disposto le cose. Tornai in salotto, ma,
quando sentii Bethy parlare a bassa
voce, mi fermai.
— Sta meglio. Ha avuto forti nausee,
ma sono già due mattine che non vomita
più.
— Mi chiami l’esatto istante in cui ti
sembra che non stia bene, ok? — Rush
era riuscito a far sembrare anche un
sussurro un ordine.
— Sì, ti chiamerò. Non ero
d’accordo con questa storia di tenerti
all’oscuro di tutto. Sei stato tu a
combinarla, perciò le devi stare vicino.
— Non vado da nessuna parte —
rispose.
— Sarà meglio.
Lui soffocò una risata. — Se non
vuole vivere con me, almeno ha te che la
proteggi.
— Puoi giurarci. E non pensare che
non l’aiuterò a tagliare la corda, se
manderai di nuovo tutto a puttane. Falla
soffrire e lei se ne andrà.
— No, non succederà mai più.
Provai una fitta al cuore. Volevo
credergli. Volevo fidarmi di lui. Quello
era nostro figlio: c’erano tante cose
difficili da perdonare, ma avrei dovuto
trovare il modo. Io lo amavo davvero,
ed ero sicura che lo avrei amato per
sempre.
Tornai da loro con un sorriso. —
Stanno mettendo le cose proprio dove le
volevo.
Rush mi prese fra le braccia.
Ultimamente lo faceva spesso. Non
disse nulla, mi strinse e basta. Bethy
lasciò la stanza e io ricambiai
l’abbraccio. Restammo lì in piedi, a
lungo. Era la prima volta, da tanto tempo
ormai, che non mi sentivo sola.
Rush non mi aveva chiesto di rimanere a
dormire, e io mi ero un po’ stupita.
Prima di andarsene, si era limitato a un
bacetto che non era servito molto a
raffreddare i miei sogni bollenti. Anche
quella notte mi svegliai poco prima di
un orgasmo, molto frustrata. Tirai
indietro le coperte e mi misi a sedere.
Quel giorno mi toccava il turno del
pranzo.
La sera prima avevo chiamato Woods
e mi ero scusata con lui per essergli
finita addosso, ma lui si era dimostrato
ancora una volta molto comprensivo e
mi aveva anche chiesto se andava tutto
bene. Rush era rimasto in piedi ad
ascoltare l’intera conversazione, perciò
avevo cercato di tagliare corto. Quel
giorno avrei incontrato Woods di
persona e gli avrei parlato. Mi stava
trattando davvero bene.
Ero stata assegnata alla sala da
pranzo per il resto della settimana.
L’unico giorno in cui avrei dovuto
presentarmi sul campo sarebbe stato
sabato, per via del torneo, quando tutti
avrebbero dovuto lavorare all’aperto.
Appena entrai in cucina, vidi una
scatola di ciambelle con sopra un
bigliettino. Lo presi sorridendo e lessi:
Mi sei mancata ieri sera. Non sono
riuscito a mangiarle da solo. Spero che
ora vada meglio, baci, Jimmy.
Oh, merda! Mi ero dimenticata del
nostro appuntamento goloso! L’ennesima
persona a cui dovevo delle scuse…
Prima, però, avevo bisogno di un
bicchiere di latte e di una di quelle
invitanti ciambelle.
RUSH
Mi sedetti su una delle poltrone di pelle
davanti alla scrivania di Woods, con lui
che mi stava letteralmente squadrando.
Quanto mi faceva incazzare! Ero stato io
a chiamarlo e a chiedergli di vederci.
Che cosa aveva da guardare?
— Voglio pagarti il giusto affitto per
l’appartamento — dissi. — So quali
sono i prezzi di mercato e ti ho staccato
un assegno con cui coprire un anno
intero, anche se è probabile che Blaire
non resterà a vivere lì per molto.
Appena la convincerò a fidarsi di me, le
proporrò di convivere in casa mia. —
Gli feci scivolare l’assegno sulla
scrivania.
Woods guardò prima il pezzo di carta
e poi me. — Deduco che questo sia
perché non vuoi che mi occupi io di ciò
che è tuo.
— Esatto.
Annuì e prese l’assegno. — Bene.
Non spetta a me prendermi cura di
Blaire o di tuo figlio, anche se sarei
stato pronto a farlo. Forse non mi
crederai, ma sono contento che ti abbia
detto della gravidanza. Non mandare
tutto a puttane, però: occhio a evitare
che Nan ci metta i suoi artigli.
Non avevo bisogno che fosse lui a
dirmi cosa dovevo o non dovevo fare.
Quelli non erano affari suoi. Ma non
avevo ancora finito con lui, perciò farlo
incazzare non era una buona idea.
— Woods, non voglio che lei faccia
il doppio turno fuori, al caldo. Lei si
rifiuta di non lavorare, ma tu devi
ridurle l’orario.
Incrociò le braccia davanti al petto e
si appoggiò all’indietro sullo schienale.
— Lei è d’accordo? Perché, l’ultima
volta che ho chiesto, mi sembrava di
aver capito che avesse bisogno di
lavorare più ore possibile.
— L’ultima volta che hai chiesto, io
non sapevo che portasse in grembo mio
figlio. Non deve succederle niente,
Woods. Non potrei sopportarlo.
Lui annuì ed emise un sospiro
profondo. — Bene. Concordo. Non mi
piace sentirmi dire che cosa devo fare,
ma concordo.
— Un’altra cosa — aggiunsi prima di
alzarmi. — Jimmy è gay, giusto?
Woods scoppiò a ridere. — Sì, è gay,
ma non dirlo in giro. Tante donne
vengono qui solo per vedere lui e gli
lasciano un sacco di belle mance.
Bene. Ne ero quasi sicuro, ma il suo
attaccamento nei confronti di Blaire a
volte mi preoccupava. — Ok, allora gli
do il permesso di ronzare intorno alla
mia ragazza.
Woods fece un sorrisetto. — Dubito
che potresti impedirglielo, anche
volendo!
Mentre tornavo alla Range Rover, sentii
squillare il cellulare. Mi ricordai che
Blaire non aveva più il suo con sé,
quindi non era certo lei a chiamarmi.
Stavo andando a trovarla proprio in quel
momento, avrei toccato l’argomento.
Quando guardai lo schermo, vidi che si
trattava di mia madre. Erano quattro
settimane che la ignoravo. Mi ero
ripreso Blaire, ma con lei non ero
ancora pronto a parlare. Non risposi e
mi infilai di nuovo il telefono in tasca.
Una volta a casa di Blaire, guardai
sotto lo zerbino e fui felice di constatare
che la chiave non c’era più. La sera
prima avevo parlato con lei e Bethy di
quanto rischiosa, secondo me, fosse la
loro abitudine. Bussai alla porta e sentii
dei passi. La macchina di Bethy era al
club quando io me n’ero andato, quindi
Blaire doveva essere sola. L’idea di
passare un po’ di tempo con lei e nessun
altro mi faceva sorridere.
La porta si aprì e davanti a me
comparve una Blaire in versione
“appena scesa dal letto”. In mano aveva
una ciambella. Il rossore sulle sue
guance era adorabile; la canottiera
striminzita che le copriva a malapena un
seno mozzafiato e i boxer ridottissimi
trasformavano l’adorabile in eccitante.
Entrai in casa e mi chiusi la porta
alle spalle. — Accidenti, piccola —
sussurrai trascinandola insieme a me sul
divano. — Non osare mai più aprire la
porta in queste condizioni…
Lei abbassò lo sguardo sul seno e
sorrise. — Continua a crescere,
dev’essere la gravidanza — disse, quasi
in tono di scuse. — Ancora non riesco a
rendermi conto di com’è diventato.
Le presi una ciocca di capelli e me la
avvolsi sul dito. — Non è solo la
canottiera minuscola… Ma anche questa
pettinatura sconvolta di una che è
appena scesa dal letto… Ah — dissi
facendole scivolare una mano sul sedere
coperto a malapena — anche questo ha
bisogno di stare un po’ più nascosto.
— Sai com’è, non ricevo tante visite
di mattina. — Mi sembrava felice che la
stessi toccando. Era bello sapere che le
facevo un certo effetto.
— Meglio — risposi. — Come hai
dormito nel letto nuovo? — le chiesi,
prima di mordicchiarle il lobo.
— Uh… Ho dormito… bene — mi
rispose, un po’ irrequieta. Mi staccai e
la osservai. Perché quel nervosismo?
— Bene soltanto? — chiesi, con lei
che arrossiva.
Si sfregò un piede sopra l’altro,
senza staccare gli occhi dal pavimento.
— I sogni di una donna incinta possono
essere molto… intensi.
— I sogni di una donna incinta? In
che senso, scusa? — A quel punto ero
curioso. Il fatto che fosse diventata color
peperone e avesse l’aria di essere
pronta a strisciare sotto il tavolo pur di
nascondersi da me mi stuzzicava molto.
Fece per andarsene, ma io la presi
per i fianchi e la tenni stretta fra me e il
divano. — Eh, no, bella, non te ne vai.
Non puoi lanciare il sasso e ritirare la
mano!
Blaire fece una risatina esitante, poi
scosse la testa. — Puoi anche tenermi
così tutto il giorno, tanto non te lo dico.
Le infilai una mano sotto la canottiera
e incominciai a solleticarle le costole.
Ce la stavo mettendo proprio tutta per
non concentrarmi solo su quelle
fantastiche tette sode a pochi centimetri
da me. Non volevo che Blaire pensasse
che la cercassi soltanto per il sesso.
Fino a quel momento era stato quello il
centro della nostra relazione, ma io
volevo dimostrarle che c’era molto di
più. Non contava se dopo, ripensando al
sapore che aveva due giorni prima, in
bagno, ero costretto a farmi docce
fredde e seghe a volontà.
Blaire ridacchiò e si contorse mentre
le facevo il solletico. — Basta! —
squittì, spingendosi contro di me.
Quando cercò di allontanarsi, la mia
sinistra finì sul suo seno sinistro e la
fece restare immobile. Dalla gola le uscì
un verso molto simile a un gemito. Le
passai il pollice sul capezzolo e lei fece
pressione contro di me. Niente sesso?
Col cazzo. Ma come facevo a far finta di
niente?!
— Sì, Rush. Ho bisogno che…
Bisogno di cosa? Un attimo… I
sogni… — Blaire! Hai fatto dei sogni
erotici?
Lei gemette e annuì quando le strizzai
il capezzolo fra le dita. — Sì, e sono
stanca di svegliarmi tutta eccitata —
sussurrò.
Merda. Le tolsi di mano la ciambella,
la appoggiai sul tavolo e le leccai la
glassa dalle dita. Cominciò ad ansimare.
Presi Blaire di peso e la sollevai; lei mi
cinse la vita con le gambe e io la portai
in camera sua, approfittandone per
divorarle la bocca. Stavolta c’era un bel
lettone su cui distenderla e tenerla
sdraiata tutto il santo giorno, se solo lei
avesse voluto.
La deposi sul materasso e le sfilai i
minuscoli boxer prima di salirle sopra.
— Togliti anche la canottiera — le dissi
tirandogliela sopra la testa. Mi fermai a
guardarla. Fino a una settimana prima
non avrei mai pensato di rivederla così.
Andavo a letto con l’idea di stringerla:
ora era lì sotto di me e io non volevo
fare altro se non gustarmi ogni
millimetro del suo corpo.
— Rush, ti prego, facciamolo — mi
supplicò. Per quanto volessi rimanere ad
ammirarla, lei non sembrava disposta a
permettermelo. E io, da parte mia, non
mi sognavo neanche di far aspettare una
Blaire così eccitata.
— Prima posso assaggiarti? —
chiesi, baciandole di nuovo la bocca e
poi tempestandole tutto il corpo di baci.
— Sì, qualsiasi cosa. Basta che mi
tocchi. — Sospirò, quando con la mano
trovai le sue pieghe umide e la penetrai
con un dito. — Oddio! Sì! Ahhh —
gridò appena iniziai a muovermi.
Blaire in versione assatanata sarebbe
stata uno spasso. Mi sentivo come se
avessi appena vinto alla lotteria. Le
allargai le gambe e mi abbassai per
baciarle il piccolo clitoride indurito che
si nascondeva lì sotto. Lei si inarcò e
cominciò a implorare di nuovo. Tirai
fuori la lingua e gliela passai tutta su
quel punto gonfio e dolce, finché mi
prese per i capelli con entrambe le mani
e mi tirò ancora di più contro di sé. Non
potei fare a meno di sorridere.
— Ti prego, Rush, ti prego. Sei
bravissimo, continua… — Ancora un
po’ e quelle suppliche così sensuali mi
avrebbero fatto esplodere. Volevo
entrarle dentro quanto lo voleva lei, ma
mi stavo godendo anche i preliminari.
Mentre si dimenava e mugolava nel
letto, mi concentrai sull’idea di farla
venire con la bocca. Quando finalmente
gridò il mio nome e mi avvisò che stava
per succedere, saltai su e mi strappai i
vestiti di dosso in tempo record.
I preservativi non ci servivano più.
Mi sdraiai sopra di lei e in un attimo le
fui dentro. Si aggrappò alle mie spalle e
gettò il collo all’indietro. Se le donne
incinte erano tutte così, allora perché gli
uomini non le ingravidavano di
continuo? Era troppo eccitante. Così
eccitante che non sarei durato a lungo.
— Scopami, Rush. Scopami forte —
ansimò.
— Tesoro, se continui a dirmi certe
cose, io esplodo troppo presto!
Mi fece un sorrisetto malizioso. — Ti
farò tornare duro. Te lo prometto. Ma
adesso, ti prego, scopami forte. Quando
sogno, tu sei sopra di me e mi sbatti
finché non urlo e mi aggrappo al letto
supplicandoti di continuare. Poi, un
secondo prima di venire, mi sveglio.
Non solo aveva fatto sogni erotici su
di me, ma aveva fatto sogni erotici
parecchio sconci… Mi ritrassi e la girai
a pancia in giù, poi le sollevai le anche.
— Vuoi essere scopata, dolce
Blaire? Allora io ti darò quello che
chiedi — la stuzzicai, carezzandole
lentamente il sedere nudo. Gemette, e io
le tirai uno schiaffetto sui genitali,
facendola trasalire per la sorpresa. —
Se forte è quello che vuoi, forte è quello
che avrai — promisi.
Le afferrai i fianchi e iniziai a
martellarla, rischiando di venire
immediatamente. Dio mio, era così
stretta. I gemiti di piacere sfrenati che
non riusciva a trattenere non erano certo
d’aiuto. Ricordare a me stesso che
prima dovevo far venire lei fu quasi
impossibile quando sentii i testicoli
sollevarsi e il cazzo pulsare.
— Più forte! — implorò lei, e a quel
punto persi il controllo. Cominciai a
sbatterla con la stessa voglia famelica
che stava consumando lei. Quando il suo
stretto calore cominciò a stringermi e il
mio nome le uscì disperato dalle labbra,
chiusi gli occhi e mi lasciai andare.
BLAIRE
Rush, sdraiato sulla schiena, mi tirò
verso di sé mentre io mi stavo
riprendendo da un orgasmo che mi
aveva praticamente fatto svenire. Mi
rannicchiai fra le sue braccia e sospirai.
Aveva reso molto felici tutte le parti di
me che in quel periodo smaniavano.
Anzi, più che felici. Mi sentivo
indolenzita dappertutto e mi piaceva da
impazzire.
— Mi sa che mi hai messo fuori
uso… — ridacchiò, baciandomi sulla
tempia.
— Spero proprio di no, perché
quando riavrò le forze per muovermi mi
piacerebbe farlo un’altra volta —
risposi, più dolcemente che potevo.
— Com’è che tutto a un tratto mi
sento usato?
Gli tirai un pizzicotto sulla pelle
degli addominali. — Mi dispiace, ma
con un fisico del genere che cosa
pretendi?
Rush rise e mi fece rotolare sulla
schiena per poi sovrastarmi con tutto il
suo corpo. I suoi occhi d’argento
scintillavano mentre mi guardava. —
Ah, è così?
Feci sì con la testa e non parlai. Non
volevo correre il rischio di dire
qualcosa di troppo. Come il fatto che
ero innamorata di lui, per esempio.
— Sei così bella… — mi sussurrò
abbassandosi su di me per baciarmi
come fossi una gemma preziosa.
Non ero io quella bella. Era lui. Ma
non glielo dissi: se voleva pensarla
così, be’, gliel’avrei permesso. Mi fece
scorrere le mani lungo il corpo
costringendomi a trattenere il fiato dal
piacere. — Ma ti svegli così tutte le
mattine? — chiese, con una scintilla
negli occhi.
Avrei potuto mentire, ma non ne
potevo più. — Sì. A volte anche nel
cuore della notte.
Rush mi guardò allibito. — Nel cuore
della notte?!
Era la verità.
Mi scostò i capelli dal viso. — E io
come faccio ad aiutarti nel cuore della
notte, se non sei con me? — Me l’aveva
chiesto con un tono di voce che
sembrava davvero preoccupato.
— Non vorrai mica che ti svegli tutte
le notti per fare sesso!
— Tesoro, se ti svegli eccitata io
voglio essere lì con te, pronto e
disponibile! — Abbassò di colpo la
voce e fece scivolare una mano verso il
basso, per chiuderla a coppa fra le mie
cosce. — Questa è mia, e io mi prendo
cura di tutto ciò che è mio.
— Rush — lo avvertii.
— Sì?
— Se non la pianti di dire certe cose,
giuro che ti salto addosso e ti cavalco
finché non mi implori di smetterla.
Sorrise. — Guarda che la prendo
come una promessa, Blaire.
Girai la testa per ridere e la sveglia
sul comodino catturò la mia attenzione.
Ommerda! Spinsi via Rush. — Devo
essere al lavoro fra dieci minutiii! —
strillai.
Rush si spostò e io saltai giù dal
letto, salvo poi accorgermi di essere
completamente nuda; ero nel panico, e
lui mi stava osservando con il sorriso
sulle labbra.
— Oh, fai come se non ci fossi. Da
qui si gode una vista stupenda —
commentò con un sorriso sornione.
Scossi la testa, agguantai un paio di
slip puliti, un reggiseno e volai in bagno.
— Qualcuno qui si è divertito,
oppure quel sorriso felice è per le
ciambelle che ti ho lasciato? — mi
punzecchiò Jimmy appena entrai in
cucina con un minuto di ritardo.
Mi sentivo il viso in fiamme. —
Erano buonissime! Grazie. Scusami se
mi sono dimenticata di ieri sera, ma è
stata una giornata… folle, direi —
risposi acciuffando un grembiule ed
evitando di guardarlo negli occhi.
— Tesoro, se fossi appena uscito
dalle lenzuola di Rush Finlay, nemmeno
io riuscirei a togliermi il sorriso dalla
faccia. Anzi, te lo devo proprio dire,
sono invidioso come una vipera. So
benissimo che non sono state le
ciambelle a metterti quel luccichio
soddisfatto negli occhi!
Ridacchiando, afferrai una penna e un
blocchetto. — È fantastico.
— Dai, dai, raccontami i particolari!
Pendo dalle tue labbra — mi pregò
entrando nel salone accanto a me.
— Vai a fare il provolone con le
donne e piantala di fantasticare sul
mio… mio… — Cos’era Rush, per me?
Non era il mio ragazzo. Era solo il
padre del mio bambino, e suonava
tremendamente squallido.
— È il tuo uomo. Dillo, perché è la
verità. Quel ragazzo bacia la terra dove
cammini.
Non risposi. Non sapevo cosa dire.
Alcuni tavoli si stavano già riempiendo
e io avevo un sacco di lavoro da fare.
Woods, Jace e Thad, il biondino con i
capelli mossi di cui avevo finalmente
scoperto il nome, erano seduti attorno a
uno di quelli che spettavano a me. Prima
però dovevo andare a prendere le
ordinazioni del Signor Rubacuori e dalla
compagna di turno; quel tizio era sempre
insieme a ragazze che avrebbero potuto
essere sue nipoti, ma non lo erano mai.
Stando a quello che diceva Jimmy, era
ricco da far schifo. Ciò non toglieva che
fosse vecchio. Che scena pietosa!
Prese le ordinazioni, mi diressi verso
il tavolo di Woods. Tutti e tre i ragazzi
mi sorrisero quando mi avvicinai e Thad
mi fece l’occhiolino. Era il classico
ragazzo carino a cui piaceva flirtare, e
lo sapevano tutti. Ignorarlo non era un
problema. — Buon pomeriggio, ragazzi.
Che cosa vi porto da bere? — domandai
servendo a tutti un bicchiere d’acqua.
— Stamattina sei più allegra del
solito. È bello rivederti sorridere — mi
disse Thad, bevendo un sorso.
Ero arrossita, ne ero sicura. Guardai
Woods, che nel frattempo mi stava
osservando con lo sguardo di chi la
sapeva
lunga.
Era
abbastanza
intelligente da aver capito tutto. — Per
me un caffè — fu il suo unico commento.
Fui molto contenta di vedere che non
aveva voglia di punzecchiarmi.
— Bethy non mi ha permesso di
toccare le ciambelle che ha portato
Jimmy stamattina. Non sapevo che i
dolci ti mettessero così di buonumore!
— Il sorrisetto sul viso di Jace diceva
che anche lui sapeva esattamente che
cos’era successo. Ma insomma, tutto il
club era al corrente della mia vita
sessuale? Era un argomento così
interessante?
— Sì, si dà il caso che le ciambelle
siano le mie preferite — risposi tenendo
gli occhi fissi sul blocchetto delle
ordinazioni invece di guardare i ragazzi.
— E ci credo — ridacchiò Jace. —
Per me una birra chiara, grazie.
— Ho come l’impressione di essere
l’unico escluso — si lamentò Thad
appoggiandosi sul tavolo per studiarmi
meglio.
— Stai alla larga e sbrigati a
ordinare — lo fulminò Woods.
Thad alzò gli occhi al cielo e si
appoggiò allo schienale. — Qui sono
tutti così permalosi… Una bottiglia di
acqua frizzante, grazie.
Presi un appunto e poi guardai
Woods. — Porto anche un po’ di frutta
fresca?
Annuì. — Sarebbe ottimo.
Felice di aver finito con quei tre,
tornai in cucina fermandomi strada
facendo dalla signora Higgenbotham,
che già a quell’ora voleva un cocktail
alcolico per sé e uno per la figlia, a
malapena diciottenne.
Jimmy stava rifornendo il vassoio.
Mi guardò da sopra una spalla. — Lo so
che è da impiccioni chiedertelo, ma chi
era la ragazza che Rush ha piantato qui,
ieri?
Meg. Non sapevo altro di lei.
Soltanto che si chiamava Meg ed era una
sua vecchia amica. — Oh, è una che
conosce da tanti anni. Non so molto
altro.
— Anche Woods la conosceva bene.
Dopo che voi due siete corsi via, lui è
andato a parlarle. Ho immaginato che
non fosse spuntata dal nulla, se tutti e
due la conoscevano.
Ricordai a me stessa che quella
ragazza faceva parte del passato di
Rush. Non avevo motivo di essere
gelosa, in alcun modo. Erano solo
vecchi amici e io non dovevo sentirmi
inferiore.
Appoggiai la frutta di Woods sul
vassoio insieme alle ordinazioni e tornai
nel salone.
Diedi una rapida occhiata a tutta la
stanza, poi mi girai per raggiungere il
tavolo di Woods. Lo vidi indicare con lo
sguardo un tavolo alla mia sinistra. Era
la zona di Jimmy. Lo guardai di nuovo
per capire se avesse voluto dirmi di
servire qualcuno in particolare, ma in
quell’istante incrociai lo sguardo di
Rush. Mi fermai. Lui era lì. Sulle labbra
cominciò a spuntarmi un sorriso, ma
subito mi accorsi che accanto a lui era
seduta Nan, con un ghigno rabbioso
stampato in faccia. Tornai a rivolgere
l’attenzione solo su Woods e decisi di
fingere di non aver visto nessuno.
— Ecco la vostra frutta. — Mi resi
conto da sola del tono nervoso della mia
voce e pregai che gli altri non ci
avessero fatto caso. — Ed ecco da bere.
Avete già scelto cosa mangiare? —
chiesi, sforzandomi di sorridere.
Tutti e tre mi guardarono senza
parlare, rendendo il tutto ancora più
imbarazzante. Avrei dovuto imparare ad
affrontare quelle situazioni: Nan era sua
sorella. Avere Rush nella mia vita
significava avere anche lei. Imparare a
convivere con una persona che mi
odiava sarebbe stata una parte della mia
routine quotidiana che avrei dovuto col
tempo accettare.
— È sua sorella. Se fai certe cose
con lui, devi saper gestire anche lei —
mi disse Jace, come se già non lo
sapessi. Non mi piaceva pensare che
ogni emozione che provavo fosse sotto
gli occhi di tutti. Ero sempre stata una
persona riservata, e quello era davvero
troppo.
Lo ignorai, puntai la penna sul
blocchetto e guardai decisa in direzione
di Woods. Lui si schiarì la gola e
ordinò. Finalmente anche gli altri fecero
lo stesso, senza aggiungere ulteriori
perle di saggezza.
RUSH
— Ti ho chiamato per chiederti se
venivi a pranzo con me e tu hai
accettato. Potrei avere almeno trenta
minuti della tua attenzione? Sono passate
settimane dall’ultima volta che abbiamo
trascorso un po’ di tempo insieme, da
soli. Mi manchi. — La tristezza nella
voce di Nan mi fece sussultare. Aveva
ragione. La stavo ignorando. Non
sapevo nemmeno che cosa avesse detto
dal momento in cui Blaire era entrata nel
salone. Ero stato talmente attento a
controllare che non portasse pesi e che
nessuno la trattasse male, o peggio, la
corteggiasse, da essermi dimostrato una
pessima compagnia per mia sorella.
— Sì, scusami — le dissi staccando
gli occhi dalla porta da cui mi aspettavo
di vedere uscire Blaire. — Ripetimi di
quel torneo in barca a vela che stai
facendo con quel ragazzo nuovo… Hai
detto che si chiama Charles, giusto?
Nan sorrise al suono di quel nome e
annuì. In quel momento mi ricordò la
ragazzina che proteggevo ogni volta che
si esaltava per qualcosa, non l’adulta
arrabbiata in cui si era trasformata. —
Sì. È il nipote dei Kellar. Viene da Cape
Cod ed è bravissimo con la vela.
Figurati che è venuto fin qui per l’estate
in barca. Insomma, si è iscritto a un
torneo e ora vuole che partecipi insieme
a lui. Si tratta di qualche giorno soltanto.
La ascoltai mentre parlava a fiume di
Charles e della sua barca, mettendocela
tutta per non cercare Blaire con lo
sguardo. Avevo bisogno di trovare un
equilibrio fra le due donne della mia
vita. Blaire veniva per prima, ma io
volevo bene a mia sorella e lei aveva
bisogno di me. Anche se si trattava solo
di un pranzo passato a sentire
chiacchiere sulla sua ultima conquista.
Nessun altro le dava mai ascolto,
quando parlava.
A un tratto si interruppe e vide
qualcosa alle mie spalle. — Deve
concentrarsi sul suo lavoro e piantarla
di guardare te. Dio santo, proprio non
capisco perché Woods non la licenzi una
volta per tutte.
Mi girai e vidi Woods, Jace e Thad
che sorridevano e scherzavano con
Blaire, facendola arrossire.
— Adesso non ti sta guardando. È
troppo impegnata a fare l’oca con quei
tre. A quella importa solo dei soldi…
Patetico, davvero. Quanto vorrei che
anche tu te ne accorgessi… Insomma, se
ci arrivo io!
— Nan, chiudi il becco — ringhiai.
Non volevo risponderle male, ma
sentirla sparlare di Blaire e guardare lei
impegnata a chiacchierare con tre tizi
che ci stavano sicuramente provando era
un po’ più di quanto potessi sopportare.
Ero pronto a ficcare dentro la zucca di
quei bastardi in calore che Blaire era
mia.
— E tu vuoi mollarmi per lei? Sta
flirtando, Rush. Non ci posso credere, ti
stai alzando durante il nostro pranzo per
andare a rivendicare i tuoi diritti su
quella troietta da due soldi!
La furia accesa dalla gelosia si
trasformò all’istante in odio nei
confronti di mia sorella. Quando girai di
nuovo la testa verso di lei, mi sembrò di
avere un velo rosso davanti agli occhi.
— Cosa cazzo hai detto? — le chiesi
troneggiando sopra di lei e sforzandomi
di tenere la voce bassa.
Nan aprì la bocca per controbattere,
ma io sapevo che, se avesse osato dire
ancora qualcosa di male su Blaire, avrei
davvero perso il controllo.
— Non ti azzardare. Se vuoi uscire di
qui con ancora un briciolo di dignità
addosso, allora non farlo. E se ti sento
ancora dire una cosa del genere su
Blaire, giuro che ti taglio i viveri e ti
lascio con il culo per terra. Ci siamo
capiti?!
Nan spalancò gli occhi. Non le avevo
mai parlato con quel tono, ma aveva
davvero esagerato. Saltò in piedi e buttò
a terra il tovagliolo. — Non ci posso
credere. Io sono tua sorella. Lei è
soltanto… Soltanto...
— Soltanto la donna di cui sono
innamorato. Tienilo bene a mente — la
interruppi, completando la frase al posto
suo.
Gli occhi di Nan mandarono saette.
Si voltò di scatto e uscì a passo deciso
dalla clubhouse. Non me ne importava.
Anzi, doveva andarsene, prima che
aggiungessi dell’altro. Non volevo
ferirla, le volevo bene, ma non
sopportavo più il veleno che continuava
a sputare.
Sentii una mano toccarmi il braccio e
feci uno scatto, ma poi mi accorsi che si
trattava di Blaire. I suoi occhi azzurri
erano pieni di preoccupazione. Aveva
assistito a quello che più temeva: lo
spettacolo di Nan e del suo odio. In un
certo senso capivo le ragioni di Nan, ma
vivere senza Blaire era fuori
discussione. Avevo bisogno di restare
solo.
— Scusami — le sussurrai prima di
liberarmi dalla sua stretta e di buttare
dei soldi sul tavolo per seguire Nan
fuori dalla sala da pranzo.
Passai le tre ore successive in palestra.
Quando uscii, avevo il corpo
massacrato. La rabbia però era svanita
ed era rimasta soltanto la voglia di
rivedere Blaire al più presto.
Sicuramente aveva finito il turno. Sarei
andato ad abbracciarla e a farle le mie
scuse, perché se le meritava. Non avrei
mai dovuto portare Nan a pranzo alla
clubhouse, ma l’aveva proposto lei e io
come un fesso avevo accettato. Mi ero
persino assicurato che fossimo seduti a
uno dei tavoli serviti da Jimmy, per non
mettere Blaire a disagio. Niente da fare,
era andato tutto storto comunque. Era
l’ultima volta che lasciavo Nan nei
paraggi di Blaire: mia sorella non
riusciva a farsene una ragione e la mia
donna non si meritava quel trattamento.
Bussai alla porta e aspettai. Nessuno
venne ad aprirmi. Tolsi il cellulare dalla
tasca e in quel momento mi ricordai che
non avevo un numero a cui chiamare.
Merda! Dovevo tornare a casa a
prendere l’iPhone. Avrei costretto
Blaire a ripenderselo. E se le fosse
successo qualcosa? E se fosse partita
per non tornare mai più?
— È fuori con Jimmy — mi disse la
voce di Bethy da dietro le spalle. Mi
voltai e la vidi che mi veniva incontro
dal campo da golf. — È passata dopo il
turno di lavoro e mi ha detto che lei e
Jimmy avevano un appuntamento
importante.
Perché non mi aveva avvertito?
Chiaro. Perché, anche se avesse voluto
farlo, non avrebbe saputo dove trovarmi.
L’avevo abbandonata a se stessa, ero
stato il solito, emerito coglione. —
Quando torna a casa? — domandai a
Bethy mentre lei girava la chiave nella
serratura.
Non chiesi permesso, entrai e basta.
— Oggi io e Nan abbiamo pranzato
insieme alla clubhouse. Non è andata
molto bene.
Bethy arricciò il naso, disgustata. —
Ah, sì? Che strano. Proprio non riesco a
immaginare quell’arpia di tua sorella
che fa qualcosa per offendere Blaire…
— Così dicendo, lasciò cadere la borsa
a terra e imprecò a mezza voce. — Non
deve stressarsi, lo sai. È incinta e
determinata a restare in piedi con quei
vassoi in mano tutto il santo giorno. Non
è il caso di metterci anche i tuoi drammi
familiari. La prossima volta che ti viene
in mente di passare un bel momento
felice con quella strega, ti conviene
farlo da un’altra parte.
Aveva ragione. Non avrei dovuto
permettere che Blaire rivedesse Nan.
Non avrei mai dovuto fidarmi del fatto
che mia sorella si sarebbe comportata
bene con lei, o per lo meno in maniera
civile. Era tutta colpa mia e dovevo
trovare Blaire.
— Dov’è andata?
Bethy sprofondò sul divano. — A
prendersi una pausa dalla vita di merda
che le è toccata.
Se aveva parlato con l’intenzione di
ferirmi, ci era riuscita perfettamente.
Quando la porta si aprì, ero pronto a
buttarmi in ginocchio.
— Scusa, ho fatto tardi. Siamo andati
da… — si interruppe quando i suoi
occhi incontrarono i miei. — Ehi.
— Ehi — risposi, avvicinandomi a
lei, ma senza toccarla per paura che si
ritraesse. — Scusami tanto. Andiamo in
camera tua, lascia che ti spieghi.
Fece il primo passo e mi cinse la vita
con le braccia. — Va tutto bene, non
sono arrabbiata.
Mi avrebbe consolato. Ancora una
volta. Era quello che faceva sempre,
d’altronde: preoccuparsi degli altri. —
No, non va tutto bene — risposi
prendendola per mano e conducendola
in camera sua. Lontano da Bethy, che in
quel momento non era la mia fan numero
uno.
— Vai, dagli la possibilità di
umiliarsi. Deve farlo. Anzi, sono
proprio io che ne ho bisogno.
Eccheccavolo! — esclamò dal divano,
afferrando il telecomando e liquidandoci
con un gesto stizzito della mano.
BLAIRE
Rush continuò a trascinarmi finché non
fummo chiusi in camera mia, lui seduto
sul letto e io in braccio. Prima ero un
po’ nervosa, ma ora stavo già meglio. Si
era trovato in una situazione tremenda e
Nan era fuori di sé. Sicuramente Woods
era stato contento che non fossi rimasta
coinvolta nella scenata.
— Rush, ti giuro che non ci sono
problemi. Sto bene — gli assicurai,
prendendogli il viso fra le mani. Avere a
che fare con Nan e il suo odio viscerale
faceva parte del gioco. L’avevo capito e
ci avrei convissuto, se davvero avessi
voluto Rush nella mia vita.
Scosse la testa. — Invece oggi ce ne
sono stati di problemi, eccome. Non
avrei mai dovuto accettare di pranzare
con lei. Dovevo immaginarmelo. Ho
sbagliato a pensare che si sarebbe
comportata da persona normale… Mi
dispiace tanto, piccola. Ti giuro che non
capiterà più.
Gli chiusi la bocca con la mia e lo
spinsi all’indietro sul letto. — Ti ho già
detto che è tutto ok. Adesso piantala di
scusarti — gli sussurrai, labbra contro
labbra.
Rush mi fece scivolare le mani sotto
la maglietta e trovò il reggiseno, ormai
di due taglie più piccolo del necessario.
Portarlo tutto il giorno mi lasciava segni
rossi dappertutto. Aprì il gancetto e mi
passò le dita sulla pelle.
— Ti serve un reggiseno nuovo —
disse accarezzandomi piano e facendomi
rabbrividire di piacere.
— Mmm… Se mi prometti di fare
così tutte le sere, ti giuro che non mi
serve — gli risposi chinandomi per
baciarlo di nuovo.
Si ritrasse. — Perché non me l’hai
detto? — mi chiese, preoccupato.
Dirgli cosa? Gli misi le mani ai lati
della testa e mi sollevai per stargli
sopra. — Cos’è che dovevo dirti? —
chiesi, confusa.
Rush mi fece scivolare le mani su per
i fianchi finché non furono sotto il seno,
e a quel punto dimenticai completamente
l’argomento. Che bella sensazione…
Gemetti e gli misi tutto il petto nelle
mani, pronta a implorare.
— Quel cavolo di reggiseno ti ha
inciso la pelle, Blaire. Perché continui a
portarlo? Te ne avrei comprato uno
nuovo. Anzi, ci vado subito.
Ah, stava ancora parlando del
reggiseno. — Rush, adesso voglio che
mi tocchi. Chi se ne frega del reggiseno,
dai… — Chinai la testa per
mordicchiargli la spalla e baciarlo giù
giù fino al petto.
— Mi piace, Blaire, ma non riuscirai
a distrarmi. Voglio sapere perché non mi
hai detto che andavi in giro con un
reggiseno che ti faceva male! Non
voglio che succedano queste cose.
Rialzai la testa e lo osservai. Aveva
la fronte corrugata, doveva essere
sinceramente preoccupato. Nessuno si
comportava mai così con me, non ero
abituata. Sentii il cuore gonfiarsi,
abbassai le mani e mi tolsi in un solo
gesto maglietta e reggiseno. — Rush. Mi
serve un reggiseno nuovo. Questo è
diventato
troppo
piccolo.
Mi
accompagni in un negozio di intimo? Per
piacere? — lo presi in giro mentre i suoi
palmi mi massaggiavano i seni turgidi e
mi facevano bagnare ancora di più.
— Tette perfette come queste devono
essere trattate con cura. Non posso
sopportare che soffrano — mi disse con
un sorrisetto — a meno che non ne sia io
la causa, ovviamente. — Mi strinse con
forza entrambi i capezzoli, facendomi
strillare.
— Queste sono mie, Blaire. E io mi
prendo cura di ciò che mi appartiene —
sussurrò, un attimo prima di prendere un
capezzolo in bocca.
Annuii e mi strusciai contro di lui.
Sentivo la sua erezione premere contro
il clitoride e sapevo che, se solo mi
fossi mossa un altro po’, sarei venuta
subito. Ne avevo un bisogno disperato.
— Piano, ragazza… Prima devo
toglierti i pantaloncini — mi disse
baciandomi sulla pancia con dolcezza.
Mi guardò negli occhi cominciando
lentamente a sbottonare gli shorts e a
farli scivolare giù lungo le cosce. — A
quanto pare c’è qualcuno qui che
richiede un po’ di attenzione. È tutta
gonfia e bagnata… Fradicia. Cazzo,
come mi ecciti… — mormorò
divaricandomi le gambe e studiandomi
con attenzione.
Scese sopra di me finché la sua
bocca non fu così vicina al mio clitoride
da permettermi di sentire il calore del
suo respiro. — Stanotte resto qui. Non
posso dormire sapendo che potresti
svegliarti e avere bisogno di me. Il solo
pensiero mi fa impazzire. — La sua
voce aveva raggiunto quei toni bassi che
non smettevano mai di eccitarmi. Tirò
fuori la lingua e feci in tempo a vedere il
piercing brillare alla luce prima di
sentirlo passare fra le mie pieghe umide
e poi entrare dentro di me.
Gli afferrai la testa e lo supplicai,
mentre mi regalava non uno ma due
orgasmi, dopo i quali rialzò lo sguardo e
mi rivolse un sorriso perverso. — Dà
dipendenza, Blaire. Nessuno dovrebbe
avere un sapore così pazzesco, nemmeno
tu!
Si rialzò e si tolse maglietta e boxer.
Fu di nuovo sopra di me prima che
potessi concedermi di ammirare un altro
po’ quello spettacolo.
— Voglio che mi sali sopra — disse,
baciandomi, mentre la sua erezione
scivolava fra le mie gambe e mi
solleticava fino a farmi impazzire.
Feci segno di volerlo spingere via e
lui rotolò subito sulla schiena per
permettermi di salire. Guardarlo mentre
studiava con ammirazione il mio corpo
fu uno stimolo ancora più eccitante delle
frasi sconce che mi sussurrava sempre
per farmi venire.
Sentivo di poter amare quell’uomo ed
essere felice con lui per il resto della
mia vita. Speravo soltanto di averne la
possibilità.
I giorni successivi trascorsero come in
una fiaba. Io andavo a lavorare, Rush
veniva a trovarmi e mi distraeva con la
sua presenza conturbante; insieme
andavamo a nasconderci in qualche
posto dove non avremmo dovuto essere
e facevamo sesso selvaggio prima di
tornare a casa mia o a casa sua per
rifarlo sul letto. La seconda volta era
sempre molto dolce. La prima, invece,
era intensa e disperata per entrambi. Ero
abbastanza sicura che Woods ci avesse
sentiti, il giorno in cui ci eravamo
infilati nello sgabuzzino delle scope per
strapparci i vestiti di dosso.
Stavo ancora cercando di capire se il
problema fossero gli ormoni della
gravidanza o se invece fossi destinata a
desiderare Rush in quel modo per
sempre. Gli bastava sfiorarmi per
accendermi come un fiammifero. Quel
giorno, tuttavia, ci saremmo presi una
pausa. Avrei lavorato fino a sera, c’era
il torneo annuale di golf. Per poterci
essere avevo dovuto insistere sia con
Woods che con Rush, perché secondo
loro “era troppo rischioso”. Ovviamente
ero riuscita a spuntarla.
Le nostre divise da ragazze del cart
erano state ordinate apposta per
l’evento: bianco totale, proprio come i
golfisti. Al posto degli shorts,
indossavamo gonnelline abbinate alle
polo. Jimmy faceva eccezione, lui era in
calzoncini. Era l’unico uomo sui cart e a
quanto pareva era stato oggetto di
richieste
specifiche
in
onore
dell’evento.
— Allora, ci sono quindici squadre.
Blaire, tu ti occupi delle prime tre. Tu,
Bethy, delle tre successive. E così via
con Carmen, Natalie e infine Jimmy…
Le donne ti volevano a tutti i costi.
Come sapete, questo evento durerà
l’intera giornata: fate in modo che i
golfisti si divertano e non restate mai
senza scorte. Prima di finire qualcosa,
tornate sempre a fare rifornimento. I
vostri cart sono già stati caricati con
tutte le bevande preferite dei golfisti di
cui vi dovrete occupare; usate i walkietalkie, per contattarmi in caso
d’emergenza. Ci sono domande? —
Darla, in veranda davanti agli uffici, ci
guardava con le mani sui fianchi.
— Bene. Adesso tornate ai vostri
posti. Blaire avrà da fare da subito,
mentre il resto di voi dovrà aspettare e
tenere d’occhio il tabellone per non
perdere l’inizio della partita delle sue
squadre. Se vogliono da bere, sotto con
il bere. Se vogliono da mangiare, sotto
con i vassoi. Intesi?
Intesi. Darla ci fece segno di
andarcene e tornò negli uffici.
— Detesto i tornei. Spero solo di non
dover avere a che fare con Nathan Ford.
Madonna, quanto lo odio… — brontolò
Bethy mentre andavamo a recuperare i
cart e ci assicuravamo che tutto fosse
pronto per iniziare il primo giro.
— Forse ti capiterà Jace — dissi
nella speranza di tirarle un po’ su il
morale.
Bethy corrugò la fronte. — Figurati,
zero speranze. È stata mia zia Darla a
organizzare i gruppi, di certo non ha
assegnato me alla squadra di Jace.
Ah. In tal caso a me non sarebbe
toccato
Rush.
Meglio
così,
probabilmente. Dovevo concentrarmi sul
lavoro, non su quanto stava bene lui in
pantaloncini corti e polo.
Parcheggiai il cart alla prima buca e
andai a conoscere il primo gruppo.
Erano facce familiari, giocatori piuttosto
anziani. Il lavoro sarebbe stato semplice
e le mance eccellenti. Dopo aver fornito
a tutti una bottiglia d’acqua, passai alla
squadra successiva e fui sorpresa di
scoprire che era composta da Jace, Thad
e Woods. Non me lo sarei mai aspettata.
— Ciao, ragazzi. Sono io la fortunata,
allora? — scherzai.
— Mi sarei aspettato Bethy. Uuuh, la
giornata promette proprio bene… —
commentò Thad.
— Taci — brontolò Jace tirandogli
una gomitata.
— Non sono così stupido da mettere
Bethy con Jace. Avrebbe ignorato
chiunque altro — spiegò Woods.
Diedi a tutti una bottiglia d’acqua. —
Io sono felice di servire voi tre. Anche
se non sono Bethy! — esclamai,
sorridendo a Jace.
— Se proprio non posso avere Bethy,
tu sei sicuramente la mia seconda
preferita — rispose lui ricambiando il
sorriso. Quel ragazzo mi piaceva
proprio. Dimostrando agli altri quello
che provava per Bethy, aveva dato
prova di essere una persona seria.
— Bene. E adesso vedete di
impegnarvi e di rendermi orgogliosa di
voi, ok? — li incoraggiai prima di
procedere verso il gruppo successivo.
Vidi che erano tutte donne, ma ancora
non riconoscevo chi fossero. Forse
quella bionda alta ed elegante era la
moglie del sindaco.
Dopo aver distribuito acqua frizzante
con fettine di lime, tornai alla partenza.
Era quasi ora di cominciare. Mi girai
per vedere se c’era Rush, ma non lo
trovai. Non sapevo di che squadra
facesse parte, ma sapevo che
partecipava. Immaginavo che da qualche
parte ci fosse anche Grant, ma nemmeno
di lui c’era traccia.
RUSH
Avrei ucciso Grant nel sonno. O forse lì,
in pubblico, in presenza di vari
testimoni. Buttai forte le mazze a terra e
il caddie corse subito a raccogliermele,
per fortuna: ero quasi pronto a lanciarle
contro qualcuno.
— Meg? È uno scherzo, Grant? L’hai
chiesto a Meg? — lo assalii, guardando
oltre le sue spalle in direzione di Meg,
che nel frattempo ci stava indicando.
— Dovevamo essere in tre. Tu hai
fatto incazzare Nan, ci mancava una
persona. Non era rimasto nessuno e lei
aveva voglia di partecipare. Qual è il
problema? — Grant porse la sua sacca
al caddie e mi lanciò uno sguardo
seccato.
Blaire era il problema. Non le avevo
detto che Meg sarebbe stata in squadra
con me, perché io stesso l’avevo
scoperto all’ultimo minuto. Se ora ci
avesse visto, avrebbe pensato che
gliel’avessi tenuto nascosto apposta.
Dovevo trovarla.
— Posso portarvi una bottiglia
d’acqua? — chiese una ragazza con i
capelli rossi, di cui non ricordavo il
nome, a bordo del cart assegnato a noi.
Figuriamoci se Woods mi avrebbe
abbinato a Blaire. Sarebbe stato un
vantaggio, per me. Avrei potuto
spiegarle tutto e lei avrebbe visto che
ero completamente innocente.
— Sì, Carmen. Grazie — rispose
Grant. Lui le stava rivolgendo un sorriso
raggiante e lei gli stava rispondendo
facendo
svolazzare
le
ciglia.
Probabilmente se l’era fatta. E se non
fosse stato così, sarebbe successo quella
sera stessa. — Danne una anche al
brontolone. Ha bisogno di reidratarsi —
scherzò Grant.
— Pronti a fare il culo a tutti quanti?
— disse Meg, venendoci incontro.
No, ero pronto a trovare Blaire e a
spiegarle quella situazione. Guardai la
rossa sul cart. — Scusa — le dissi. —
Sai con chi sta Blaire?
Lei mise il broncio. — Io non vado
abbastanza bene?
— Ma sì, dolcezza, sei perfetta. Solo
che lui smania per Blaire, tutto qui. Non
ha niente contro di te — le spiegò Grant
facendole l’occhiolino. Lei gli sorrise
estasiata.
— L’hanno assegnata al primo
gruppo, quello in cui credo ci sia il
signor Kerrington. Il signor Kerrington
figlio. Se non sbaglio la signora Darla
ha detto che è stata una sua richiesta
esplicita — rispose la ragazza.
Woods era una testa di cazzo. Non
avevo più dubbi.
— Buongiorno, Meg. Scusa ma
abbiamo fra le mani un Rush con la luna
storta — annunciò Grant. Meg si era
unita a noi senza che ne nemmeno me ne
fossi accorto.
— Lo vedo. Proverò a sbilanciarmi:
Blaire non sarà mica quella ragazza che
si è messo a inseguire l’altro giorno,
piantandomi in asso senza spiegazioni?
— Se ha inseguito una ragazza allora
sì, era Blaire — le confermò Grant.
Ignorai entrambi e cominciai ad
avvicinarmi all’area di partenza, quando
vidi il primo gruppo che iniziava la
partita. Il cart di Blaire si allontanò in
quell’esatto istante. Merda.
— Puoi calmarti, per favore? Non è
Blaire quella che si ingelosisce. Sei tu!
— brontolò Grant prima di bere un
sorso d’acqua.
— Ok, è un problema se sto giocando
con voi due? È di questo che si tratta?
— chiese Meg, guardandomi negli
occhi.
— Non voglio che Blaire se la
prenda — risposi senza distogliere lo
sguardo dalla direzione in cui era andata
lei.
— Ma sì, dai! È solo una partita a
golf, non un appuntamento — rispose
lei.
Aveva
ragione.
Mi
stavo
comportando in maniera ridicola. Non
eravamo più a scuola e io potevo
benissimo giocare con una ragazza.
Blaire ormai sapeva che Meg era una
vecchia amica, e poi con noi c’era
Grant. Non eravamo noi soli. Sì, forse
stavo esagerando.
— Sono un po’ teso, scusate. Hai
ragione, non c’è niente di strano —
dissi, decidendo di rilassarmi e di
godermi la giornata. Almeno Blaire era
con i primi gruppi: avrebbe finito prima
e sarebbe tornata al chiuso. Ecco perché
Woods
aveva
scelto
lei
per
cominciare… Voleva evitarle di stare
troppo al sole.
Arrivati alla sesta buca, mi ero rilassato
abbastanza da riuscire a divertirmi. A
parte preoccuparmi di tanto in tanto che
Blaire avesse troppo caldo, andava tutto
bene. Sapevo che Woods la stava
tenendo d’occhio e, per quanto la cosa
mi desse fastidio, era allo stesso tempo
anche un sollievo.
— Dai, Grant. Finora Rush è sotto di
tre e io di due. Questa è tua, amico. Ce
la puoi fare — lo stuzzicò mentre lui si
preparava a tirare un putt per il par.
Grant la fulminò con lo sguardo. Il
putt non era il suo forte e Meg non ci
aveva messo molto ad accorgersene. Se
ce l’avesse fatta, sarebbe stato un
miracolo.
— Credo gli serva un po’ d’aiuto,
Meg. Forse potresti dargli qualche
lezione — proposi.
L’espressione incazzata sul viso di
Grant ci fece morire entrambi dalle
risate. Cavolo, era troppo facile farlo
arrabbiare.
— Stai indietro, Meg. È pronto a
colpire. Se il suo putter decolla, è
meglio se non ti trovi sulla sua linea di
tiro.
Meg gli diede ascolto e si mise
accanto a me. — Davvero gli capita di
lanciare la mazza? — chiese,
sorridendo.
— Sì, ma non ti esaltare troppo. Se è
così incavolato da lanciare le mazze,
allora vuol dire che è proprio nero.
— Non ho paura. Tu hai le braccia
più grandi — commentò Meg lanciando
un altro sorriso in direzione di Grant. Lo
stava punzecchiando.
— Lui non ha le braccia più grandi!
— esclamò Grant, raddrizzandosi dalla
posizione assunta per tirare e facendo
un’espressione indispettita.
Meg allora mi strinse un bicipite. —
Mmm, già. Questi muscoli sono proprio
impressionanti. Fammi vedere che
cos’hai tu — disse a Grant per sfidarlo.
Lui si tolse di colpo la maglietta e si
mise di fronte a Meg contraendo i
muscoli. — Senti qui, piccola. Quello
non può competere con me, è soltanto un
belloccio.
Esasperato, feci per tornare al cart,
ma Grant mi trattenne. — No, caro.
Questa è una gara e io voglio vincere.
Tira fuori quelle braccia mediocri,
vediamo chi dei due è più massiccio.
Non me ne fregava niente di vincere
quella stupida gara. — Hai vinto tu,
siamo a posto così. Ha lui le braccia più
grandi, Meg — dissi liberandomi dalla
stretta.
— No, non credo. Non hai fatto il
muscolo quando ti ho toccato e sono
sicura che le tue sono più grosse —
rispose lei con un sorrisetto malizioso.
Era sicura? E allora io ero sicuro che
ascoltarla non fosse una buona idea. Non
mi pareva che stesse flirtando, ma non
ne ero poi così sicuro.
— Ma che cazzate! Piega il braccio,
Rush. Falle vedere che sono io quello
messo meglio.
— Sì, sei tu. Va bene così — ripetei.
— Contrai il muscolo, dai! — si
ostinò Grant. Si era davvero lasciato
prendere dallo spirito di competizione,
anche se l’avrei lasciato vincere
tranquillamente. Ero pronto a passare
alla buca successiva.
— E va bene — dissi. — Se può
esserti utile per il tuo putt, così
possiamo passare alla prossima buca,
faccio vedere il muscolo.
Grant sorrise e porse di nuovo il suo
braccio a Meg. A quel punto, lei
aspettava me. Piegai il muscolo e mi
lasciai toccare. Che situazione ridicola!
— Scusa, Grant, ma vince lui —
sentenziò Meg stringendomi il braccio
qualche istante più a lungo del
necessario. Me ne andai e tornai verso il
cart.
— Dai con questo putt, Grant! — gli
gridai.
— No, non hai vinto! Ti ha scelto
solo perché ti è fedele! In fondo è stata
la tua prima scopata — rispose lui.
Girai di scatto la testa per vedere se
qualcuno avesse sentito. Per fortuna
sembrava di no.
BLAIRE
Rimasi ferma mentre salivano sul loro
cart e passavano alla buca successiva.
Dovevo andare a prendere altre bibite.
Alla fine la voglia di vedere Rush aveva
avuto la meglio e per riuscirci avevo
fatto una piccola deviazione. Quando
mai… Per la prima volta in quella
settimana sentii di nuovo la nausea. Non
mi aveva confessato che Meg era stata la
sua prima volta. Aveva detto che erano
soltanto amici di vecchia data…
Sapere che genere di rapporto c’era
stato tra loro due non mi aiutava. Ero
ben consapevole che Rush vantasse una
lunga schiera di ragazze che si era
portato a letto, lo sapevo sin da quando
l’avevamo fatto la prima volta, ma
vederlo con una di loro… con quella
che era stata la prima, addirittura,
faceva male.
Meg stava civettando con lui e lui
con lei. Cercava di impressionarla con i
suoi muscoli, del resto già abbastanza
impressionanti senza doverli contrarre e
mettere sfacciatamente in mostra. Perché
aveva fatto una cosa del genere? Voleva
piacerle? Era curioso di come potesse
essere lei a letto ora, a distanza di
tempo?
Sentii lo stomaco rivoltarsi e mi
allontanai dagli alberi dietro a cui mi
ero nascosta. Non l’avevo voluto fare
apposta, avevo semplicemente preso una
scorciatoia per vedere se Rush fosse a
quella buca. Quando però l’avevo visto
sorridere a Meg e poi lasciarsi toccare
da lei, mi ero fermata. Non ero riuscita a
proseguire.
Lei faceva parte del suo mondo. Lei
si integrava perfettamente. Invece di
guidare il cart con le bibite, lei
partecipava al torneo. A me non avrebbe
potuto
chiedere
di
partecipare:
innanzitutto non sapevo minimamente
giocare, e poi in quel posto ci lavoravo.
Non potevo giocare. Che cosa ci faceva
con me? Sua sorella mi odiava. Non
potevo far parte della sua vita, non sul
serio. Sarei sempre stata una spettatrice
esterna, e odiavo il modo in cui quella
consapevolezza mi faceva sentire.
Stare con lui era pazzesco. Nella
privacy del mio appartamento o della
sua villa, fingere che potessimo essere
qualcosa di più era facile. Ma cosa
sarebbe successo quando tutti avessero
visto? Quando la mia pancia fosse stata
visibile a tutti? La gente avrebbe saputo.
Come si sarebbe comportato lui?
Avrebbe
davvero
affrontato
la
situazione?
Feci rifornimento di bibite e lasciai
la mente libera di fantasticare su tutti gli
scenari che avrebbero potuto verificarsi.
Nessuno di essi prevedeva un lieto fine.
Io non ero un membro dell’élite, ero io e
basta, sola. In quel fine settimana avevo
fantasticato sull’ipotesi di restare. Di
crescere il bambino insieme a Rush.
Vederlo con Meg mi aveva fatto male,
ma era stata la secchiata d’acqua fredda
di cui avevo avuto bisogno. Nessuno
viveva nel mondo delle fiabe. Di sicuro
non io.
Quando tornai indietro, il mio gruppo
era arrivato all’ultima buca. Sorrisi,
servii da bere e scherzai persino con i
giocatori. Nessuno avrebbe capito che
ero arrabbiata. Quello era il mio lavoro,
e l’avrei svolto con cura.
Quella sera non avrei detto niente
nemmeno a Rush, tanto sarebbe stato
inutile. Non ragionava più lucidamente.
Mi sarei limitata a prendere un po’ le
distanze: non potevo ingannare me stessa
pensando che lui fosse il mio principe
azzurro. Non ero così scema.
Non ero riuscita ad arrivare a fine
giornata senza stare male. Avevo
sofferto molto il caldo, ma non l’avrei
mai e poi mai confessato a Woods. Non
c’era bisogno che mi ritenesse incapace
di svolgere il mio lavoro. Bethy mi
stava tenendo indietro i capelli mentre
vomitavo nel wc degli uffici. Come
volevo bene a quella ragazza!
— Hai esagerato — mi sgridò
quando sollevai la testa dopo l’ultimo
conato.
Non
volevo
ammetterlo,
ma
probabilmente aveva ragione. Presi
l’asciugamano bagnato che mi porgeva e
lo usai per pulirmi il viso, sedendomi di
nuovo a terra con la schiena appoggiata
contro il muro.
— Lo so. Ma tu non dirlo a nessuno
— le ingiunsi.
Bethy mi si sedette accanto. —
Perché, scusa?
— Perché questo lavoro mi serve.
Pagano bene. Quando comincerà a
vedersi la pancia, mi serviranno tutti i
soldi che sarò riuscita a risparmiare.
Non sarà facile trovare un altro posto
quando sarò una balena.
Bethy si girò per guardarmi. — Hai
ancora in mente di andartene? E Rush?
Non volevo che se la prendesse con
lui, aveva ricominciato da poco a
dimostrarsi gentile nei suoi confronti. —
Oggi l’ho visto. Si stava divertendo.
Questo è il suo ambiente, capisci? Il
mondo a cui appartiene. Io invece
appartengo solo a me stessa, non c’entro
niente con loro.
— E lui non può dire la sua su quello
che pensi? Ti basterebbe aprire bocca
per andare a vivere in casa sua. Si
occuperebbe lui di tutto. Non dovresti
lavorare in questo club e saresti sempre
al suo fianco. Renditene conto, ti prego.
Non mi piaceva l’idea di essere
l’ennesima donna che viveva alle sue
spalle. Già c’erano sua madre e sua
sorella, non volevo diventare la terza
scroccona. Non m’importava dei suoi
soldi, m’importava di lui. — Non sono
una sua responsabilità.
— Mi permetta di dissentire,
signorina. Quando ti ha scopata e
ingravidata, sei diventata la sua
responsabilità numero uno!! — esclamò
Bethy, sconcertata.
Ricordavo com’era andata la sera
che avevamo fatto l’amore senza usare il
preservativo. Ero stata io a salirgli
sopra. L’avevo praticamente assalito.
Non era stata colpa sua… Tutte le altre
volte era stato attento, ma quella volta
non gliene avevo lasciato il tempo. Era
stato un errore mio, non suo.
— Fidati di me quando ti dico che è
stata tutta colpa mia. Tu non c’eri la sera
in cui sono rimasta incinta, io sì.
— No, non può essere tutta colpa tua.
Non si resta incinte da sole!
Non avevo intenzione di stare a
discutere. — Non dire a nessuno che ho
vomitato, per piacere. Non voglio che si
preoccupino.
— E va bene, però non ne sono
entusiasta. Se ricapita, lo dico — mi
avvertì.
Le appoggiai la testa sulla spalla. —
E va bene — mi arresi.
Mi diede una pacca sulla testa. —
Figlia mia, tu sei una pazza.
Scoppiai a ridere, perché aveva
ragione.
RUSH
Appena il torneo finì, tornai a casa a
farmi la doccia. Non rimasi nemmeno il
tempo di ricevere il trofeo per il
secondo posto, lasciai che fossero Grant
e Meg a pensarci. A me non fregava
niente: avevo partecipato soltanto
perché, già a inizio estate, avevo firmato
per partecipare insieme a Grant e a Nan.
Era una tradizione che si ripeteva ogni
anno ed era anche per una buona causa.
Quando mi ero fermato accanto agli
uffici, dove erano parcheggiati i cart con
le bevande, Darla mi aveva detto che
Blaire se n’era andata con Bethy circa
un’ora prima. Le avevo telefonato, ma
non mi aveva risposto. Forse, dopo la
doccia, quelle due sarebbero tornate da
dovunque fossero andate.
Quando arrivai, nel parcheggio vidi
la macchina di Bethy. Blaire era a casa,
grazie a Dio. Mi era mancata da morire
tutto il giorno. Bussai tre volte e aspettai
con impazienza che qualcuno venisse ad
aprirmi. Fu Bethy, con un sorriso
forzato. Non chi avrei voluto vedere.
— Ciao — dissi entrando.
— Sta già dormendo, è stata una
lunga giornata — rispose lei, ancora in
piedi sulla porta e con la mano sulla
maniglia, come se si aspettasse che me
ne andassi subito.
— Ma sta bene? — chiesi, guardando
in fondo al corridoio la porta chiusa di
camera sua.
— Sì, è soltanto stanca. Lasciala
riposare.
Non me ne sarei andato. Avrebbe
anche potuto chiuderla, quella cavolo di
porta. — Non la sveglio, però non me ne
vado. Puoi anche chiudere — misi in
chiaro prima di andare verso camera di
Blaire.
Erano appena le sei del pomeriggio,
non poteva essersi già addormentata. A
meno che non si fosse sentita male… Il
solo pensiero che quel giorno avesse
esagerato con il lavoro mi faceva venire
la tachicardia. Avrei dovuto insistere
per non lasciarla lavorare: poteva
essere pericoloso sia per lei sia per il
bambino.
Aprii piano la porta ed entrai, poi la
chiusi a chiave alle mie spalle. Blaire
era rannicchiata al centro del suo grande
letto, così grande che lei sembrava
perdercisi dentro. I lunghi capelli biondi
erano distesi a ventaglio sopra i cuscini
e una delle lunghe gambe nude spuntava
da sotto le coperte. Mi tolsi la maglietta
e la lanciai sul cassettone, poi sbottonai
i jeans e tolsi anche quelli. Rimasto in
boxer, scostai le lenzuola e mi misi
dietro il suo corpo, tirandomelo vicino;
non oppose resistenza. Un sospiro tenue
e una specie di saluto furono il suono
più adorabile che avessi mai sentito.
Sorridendo, sprofondai il viso in mezzo
alla sua nuvola di capelli e chiusi gli
occhi.
Ero nell’unico posto dove avrei
voluto essere. Feci scivolare una mano
sotto la coperta e gliela appoggiai,
aperta, sul ventre. Pensare a cosa stavo
toccando in quel momento mi
sconvolgeva.
Un fremito che mi scorreva lungo il
braccio e poi sul petto mi fece riaprire
gli occhi sorridendo. Blaire era girata
con il viso verso di me. Aveva gli occhi
aperti, mi guardava il torace e con
l’indice tracciava tanti sentieri sinuosi
sulla mia pelle, dai pettorali alle spalle
e viceversa. Sollevò gli occhi e un
timido sorriso le increspò le labbra.
— Ehi… — sussurrai.
— Ehi.
Ormai fuori era buio, ma non avevo
idea di che ora fosse. — Oggi mi sei
mancata.
Il suo sorriso si spense e anche gli
occhi corsero via da me. Non era la
reazione che mi sarei aspettato. —
Anche tu mi sei mancato — disse,
evitando di guardarmi.
Le presi il mento per farle girare il
viso. — Che cos’è successo?
Mi fece un sorriso forzato. — Niente!
Stava mentendo. Qualcosa non
andava, si capiva benissimo. — Blaire,
dimmi la verità. Sei strana. È successo
qualcosa, vero?
Tentò di allontanarsi, ma io la tenni
vicina a me. — Dimmelo, per favore.
La tensione nel suo corpo si allentò
in parte quando pronunciai “per favore”.
Dovevo tenere sempre a mente che per
lei sentirselo dire era importante.
— Ti ho visto, oggi. Ti stavi
divertendo… — si interruppe senza
completare la frase.
Era quello il problema? Ah, no.
Aveva visto Meg. — È per Meg, vero?
Scusami, ma non sapevo che sarebbe
stata in squadra con noi. È stato Grant a
chiederle di prendere il posto di Nan,
che si è tirata indietro all’ultimo minuto.
Se lo avessi saputo prima, ti avrei
avvertita di sicuro.
Di nuovo quella tensione… Merda.
Pensavo di essermi spiegato. Se l’era
presa così tanto?
— È stata la tua prima volta. — Il
tono di voce con cui Blaire aveva
parlato era stato così debole da risultare
quasi impercettibile alle mie orecchie.
Qualcuno era andato a dirglielo,
cazzo. Chi altro lo sapeva, a parte
Grant? Non ero il tipo che raccontava i
suoi trascorsi erotici ai quattro venti.
Chi poteva essere stato? Le presi il viso
fra le mani. — E tu sarai la mia ultima.
Vidi il suo sguardo ammorbidirsi.
Cominciavo a diventare bravo con le
frasi dolci; prima che arrivasse lei, non
avevo mai perso tempo a pensare di dire
alle donne la cosa giusta. Con Blaire
invece era semplice: mi bastava essere
sincero.
— Rush, io… — Si interruppe e si
contorse fra le mie braccia. — Io devo
andare in bagno — annunciò. Ero sicuro
che non fosse quella la frase che
avrebbe voluto dire veramente, ma la
lasciai andare.
Indossava una canottiera gialla e un
paio di culottes rosa, quelle che per
alcune ragazze erano un modello
sportivo,
“castigato”.
Altro
che
castigato… Sottolineavano i fianchi più
pieni del solito, e l’idea di farli piegare
in avanti sul letto e stringerli fra le mani
me lo faceva venire duro come il
marmo. Dovevo concentrarmi. Era
preoccupata per qualche motivo e non
voleva dirmi di cosa si trattava. Non
volevo vederla angosciata.
Mi suonò il cellulare e mi allungai
per prenderlo dal comodino. Era Nan,
non la persona con cui avrei avuto
voglia di parlare in quel momento.
Ignorai la telefonata e tolsi la suoneria.
Controllai l’ora: erano appena le nove e
dieci.
Blaire uscì dal bagno e mi fece un
sorriso timido. — Ho un po’ fame…
— Allora andiamo a sfamarti —
dissi alzandomi e rimettendomi i jeans.
— Devo andare al supermercato.
Volevo andarci prima, ma avevo troppo
sonno! Non ce la facevo.
— Adesso ti porto fuori a cena, poi
domani mattina andiamo a fare la spesa.
A quest’ora non c’è più niente di aperto.
Blaire non sembrava convinta. —
Guarda che a quest’ora, in paese, non
sono più aperti neanche i ristoranti.
— Il club però è aperto fino alle
undici. Lo sai anche tu. — Mi infilai la
maglietta e le andai vicino. Mi stava
osservando come se non capisse.
— Cosa c’è? — feci prendendola per
la vita e tirando il suo corpo
praticamente nudo contro il mio.
— La gente ti vedrà insieme a me.
Gente che non è tua amica — pronunciò
lentamente, come se anche lei si stesse
rendendo conto solo in quel momento di
quello che stava dicendo.
— E allora?
Girò la testa per evitare di guardarmi
in faccia. — Io lì ci lavoro. Sanno che
sono una dipendente.
Continuavo a non afferrare il
concetto. — Scusa, ma non ti seguo.
Blaire fece un sospiro esasperato. —
Non ti importa se altri membri del club
vedono che vai a cena con una dello
staff?
Restai di sasso. Eh?! — Blaire — le
dissi, con calma. Volevo essere sicuro di
aver capito bene. — Mi hai appena
chiesto se mi importa che qualcuno mi
veda cenare con te? Ti prego, dimmi che
ho frainteso.
Lei alzò le spalle.
Le tolsi le mani dalla vita e andai
alla porta. Mi stava sicuramente
prendendo in giro. Quando mai le avevo
fatto pensare di potermi vergognare di
lei?
Mi voltai per guardarla. Era a
braccia conserte e mi stava osservando.
— Quando ti ho fatto pensare di non
voler essere visto insieme a te? Perché,
se l’ho fatto, giuro che rimedierò.
Seconda alzata di spalle. — Non so.
È che non siamo mai veramente usciti
insieme per una serata di coppia… Ok,
siamo andati nel locale country, ma non
era un vero appuntamento. In genere la
tua vita sociale non include anche me.
Sentii il petto stringersi. Aveva
ragione. Non l’avevo mai portata da
nessuna parte, tranne quando l’avevo
accompagnata a comprare i mobili o a
Sumit. ’Fanculo, ero un idiota. — Hai
ragione. Faccio schifo. Non ti ho mai
portato in un posto carino — mormorai
scuotendo la testa. Fino a quel momento
non avevo mai avuto una storia seria.
Scopavo la ragazza di turno e poi la
rispedivo a casa sua.
— E così, per tutto questo tempo hai
pensato che io mi vergognassi di te? —
chiesi, senza voler conoscere verità.
Sarebbe stato come beccarsi un calcio
nelle palle.
— Che ti vergognassi no, non
proprio. Ho solo… Ho solo pensato che,
be’, io non appartengo al tuo mondo. Lo
so. Il fatto che sia incinta di tuo figlio
non significa che stiamo insieme
ufficialmente. Ti stai semplicemente
dimostrando disponibile e…
— Blaire. Ti prego. Piantala, non
posso più ascoltarti. — Annullai la
distanza che ci separava. — Tu sei il
mio mondo. Voglio che tutti lo sappiano.
Non so neanche come si organizzano gli
appuntamenti romantici, non l’ho mai
fatto! È per questo che non ti ho mai
invitata fuori. Adesso però ti prometto
che riceverai da me così tanti inviti che
tutti, in paese, sapranno che ti adoro —
giurai prendendole la mano. — Scusami
se sono un idiota.
Ricacciò indietro le lacrime e annuì.
Mi chiesi quante altre cavolate avrei
dovuto combinare prima di riuscire a far
filare tutto liscio.
BLAIRE
Quando uscii da camera mia, vidi sul
bancone della cucina il cellulare che mi
aveva comprato Rush. Quella settimana
era la terza volta che lo lasciava da
qualche parte per incoraggiarmi a
prenderlo. C’era anche un biglietto. Lo
lessi:
Pensa al bambino. Ti serve per le
emergenze.
Quello però era un colpo basso.
Sorrisi, afferrai il telefono e me lo
infilai in tasca, convinta che Rush non si
sarebbe comunque arreso finché non lo
avessi accettato. Quel giorno avevo la
seconda visita dal medico. L’avevo
detto a Rush, durante la nostra terza
uscita insieme, un lunedì sera. Ormai si
era messo in testa di portarmi fuori più o
meno tutti i giorni, tanto che ero arrivata
al punto di supplicarlo di restare in casa
a guardare un film. Era ampiamente
riuscito a convincermi: chiunque, in
paese, ci aveva visti insieme. Anzi, ero
sicura che ormai fossero stufi! Mi venne
da sorridere ancora di più.
Tolsi di nuovo il cellulare dalla
tasca: mi ero dimenticata di ricordare a
Rush della visita. Avevo un telefono,
potevo chiamarlo. Il suo nome era il
primo nella mia lista dei preferiti. Non
mi stupii.
Suonò libero tre volte prima che
rispondesse.
— Ciao, ti devo richiamare più tardi
— disse, con un tono un po’ infastidito.
— Ok, ma… — feci per ribattere un
secondo prima che coprisse il microfono
con la mano e confabulasse con qualcun
altro. Che cosa stava combinando?
— Stai bene? — mi chiese
all’improvviso.
— Sì, sto bene, ma…
— Allora ti richiamo dopo — mi
interruppe prima che potessi concludere
la frase e mise fine alla telefonata.
Rimasi seduta lì, a fissare il telefono.
Che cosa era appena successo? Forse
avrei dovuto chiedergli se stava bene
lui. Quando, dopo dieci minuti, ancora
non mi aveva richiamato, decisi che
avrei fatto meglio a prepararmi per
uscire. Sicuramente si sarebbe rifatto
vivo prima che fosse ora di andare.
Un’ora più tardi, ancora non avevo sue
notizie e non sapevo se telefonargli o no.
Forse si era dimenticato che l’avevo
cercato… Avrei sempre potuto prendere
in prestito l’auto di Bethy e andare da
sola all’appuntamento. Però lunedì,
quando gliene avevo parlato, Rush mi
era sembrato contento. Non potevo
andarmene e basta.
Digitai ancora una volta il suo
numero. Quella volta gli squilli furono
quattro.
— Che c’è?! — La voce di Nan mi
lasciò di ghiaccio. Rush era a casa di
sua sorella?
— Ehm… — Non sapevo cosa dirle.
Non poteva sapere della visita. — C’è
Rush? — chiesi, nervosa.
Nan fece una risata amara. —
Incredibile. Ha già detto che ti richiama.
Perché non lo lasci respirare? A Rush
non piacciono le persone assillanti.
Adesso è con la sua famiglia, mia madre
e mio padre sono tornati e fra poco
pranziamo tutti insieme. Quando potrà
parlarti, lo farà — concluse prima di
riattaccarmi il telefono in faccia.
Mi sedetti a peso morto sul letto.
Stava per pranzare con sua sorella, sua
madre e mio padre. Era quello il motivo
per cui mi aveva riattaccato? Non
voleva farmi sapere che era insieme a
loro. Il suo pranzo di famiglia veniva
prima di me e del bambino. Era quello
che mi aspettavo sin dall’inizio, ma poi
era stato così dolce e protettivo nei miei
confronti… Lo stavo assillando? Non
era da me, ma forse lo stavo facendo
davvero. O no?
Mi alzai e lasciai il telefono sul letto.
Non lo volevo più. Sentire la voce piena
d’odio di Nan che mi raccontava di
come stesse per mettersi a tavola con
suo padre era stato umiliante. Afferrai la
borsetta. C’era ancora tempo per
raggiungere gli uffici del club e prendere
in prestito l’auto di Bethy.
Quando arrivai, ero tutta sudata. Addio
buone intenzioni di fare bella figura con
il medico. Va be’, in fondo non era
importante. Anzi, era l’ultimo dei miei
problemi. Salii i gradini e Darla uscì
dalla porta per venirmi incontro.
— Tu oggi non sei di turno —
dichiarò appena mi vide.
— Lo so. Ho soltanto bisogno di
prendere in prestito la macchina di
Bethy. Devo andare dal medico, a
Destin, ma… ma… me n’ero
completamente dimenticata. — Odiavo
mentire, ma dire la verità sarebbe stato
insopportabile.
Darla mi studiò un istante, poi si mise
una mano in tasca e tirò fuori un mazzo
di chiavi. — Prendi la mia, tanto io
resto qui tutto il giorno. Non mi serve.
Mi venne voglia di abbracciarla, ma
non lo feci. Non sapevo come avrebbe
potuto interpretare una simile reazione
per una semplice visita medica. —
Grazie mille. Ti faccio benzina — le
assicurai.
Annuì e mi fece segno di andare.
Corsi giù per le scale e salii a bordo
della sua Cadillac, pronta a raggiungere
Destin.
Il viaggio non andò male e, una volta
arrivata, dovetti aspettare soltanto un
quarto d’ora prima di entrare nello
studio. L’infermiera era tutta un sorriso.
Prese un macchinario dotato di schermo
e mi fece sdraiare.
— Sei incinta solo di dieci settimane,
quindi per sentire il battito cardiaco del
bambino serve un’ecografia. Sentiremo
il cuore e vedremo anche una creaturina
microscopica — spiegò.
Avrei visto mio figlio e sentito il suo
cuore battere. Era vero. Le poche volte
che mi ero immaginata quel giorno, non
avrei mai pensato che sarei stata sola.
Mi ero vista in compagnia di qualcuno.
E se non avessero sentito il battito? E se
qualcosa fosse andato storto? Non avrei
voluto essere sola, se fosse successo.
Il medico entrò nello studio con un
sorriso rassicurante stampato in faccia.
— Mamma mia, che sguardo
terrorizzato. Guarda che è un momento
felice! Hai tutti i parametri in ordine,
non c’è bisogno di essere così nervosa
— disse per rassicurarmi.
— Sei all’inizio della gravidanza,
perciò non possiamo fare un’ecografia
esterna. Procederemo dall’interno,
passando attraverso la vagina. Non farà
male, sentirai solo una leggera pressione
— spiegò l’infermiera.
Non guardai. L’idea di essere
infilzata con quell’affare cilindrico non
mi piaceva per niente. Decisi di
concentrarmi sullo schermo.
— Ok, eccoci. Tranquilla, non ti
muovere — mi istruì il medico.
Guardavo lo schermo in bianco e nero,
in paziente attesa di riconoscere
qualcosa che somigliasse a un bambino.
Un piccolo battito riempì la stanza, e
fu come se il mio cuore cessasse di
funzionare.
— È…? — chiesi, incapace di
completare la domanda.
— Sì. E batte regolarmente, proprio
come deve — rispose il medico.
Fissai lo schermo e l’infermiera
indicò quello che sembrava un fagiolino.
— Eccolo, o eccola. Dimensioni
perfette per un feto di dieci settimane.
Non riuscivo a deglutire abbastanza
da sciogliere il nodo che mi stringeva la
gola. Le guance mi si bagnarono di
lacrime, ma non mi importava.
Paralizzata, non staccai gli occhi dal
minuscolo miracolo sullo schermo,
mentre il suo battito riempiva l’intera
stanza.
— Tu e il tuo bambino state
benissimo — annunciò il medico
estraendo lentamente lo strumento.
L’infermiera mi riabbassò il camice e mi
aiutò a scendere dal lettino dandomi la
mano.
—
Dopo
questo
esame
è
perfettamente normale avere qualche
piccola perdita di sangue, perciò, se
capita, non ti spaventare — mi avvertì il
medico rialzandosi e andando a lavarsi
le mani. — Continua con gli integratori
che stai già assumendo e torna a farti
vedere fra quattro settimane.
Annuii. Ero ancora stupefatta.
— Tieni — mi disse l’infermiera
porgendomi le immagini stampate
dall’ecografo.
— Posso tenerle? — chiesi
guardando le fotografie del mio
bambino.
— Certo che sì! — rispose lei,
divertita.
— Grazie! — Le studiai con
attenzione e riconobbi il fagiolino che
viveva dentro di me.
— Di niente — rispose dandomi una
lieve pacca sul ginocchio. — Adesso ti
puoi rivestire. Va tutto alla grande.
Annuii e asciugai con la mano
un’altra lacrima che aveva cominciato a
rotolarmi giù per la guancia.
RUSH
— Dov’è andata, Bethy? — chiesi
uscendo dalla stanza di Blaire e tenendo
in mano il suo cellulare. Lo aveva
lasciato sul letto.
Bethy, furiosa, tirò un calcio a un
armadietto della cucina. — Il fatto che tu
non sappia nemmeno dov’è mi porta a
odiarti ancora di più, imbecille!
Ma che cazzo aveva mai quella?
Avevo passato una giornata d’inferno.
Dire a mia madre che doveva cercarsi
un’altra casa e annunciare che avevo
intenzione di chiedere a Blaire di
sposarmi li aveva fatti uscire
completamente di testa. Be’, non tutti.
Suo padre mi era sembrato d’accordo.
Nan e mia madre… due pazze isteriche.
Avevamo litigato e urlato per ore; io mi
ero messo a lanciare minacce che avevo
tutte le intenzioni di mettere in pratica.
Lunedì, Nan sarebbe dovuta tornare
all’università; poi ci sarebbero state le
vacanze di Natale, ed ero certo che,
come tutti gli anni, le avrebbe passate
nel nostro cottage di montagna. Di solito
ci andavo anch’io con lei, ma non
quell’anno.
— Ho passato le ultime quattro ore a
cercare di sopravvivere a mia madre e a
mia sorella. Buttare Georgianna fuori di
casa e informare lei e quell’altra che ho
intenzione di chiedere a Blaire di
sposarmi non è stata quella che si
definisce una passeggiata. Perciò scusa
tanto se ora mi serve un po’ d’aiuto per
ricordarmi dov’è andata Blaire!
Bethy sbatté la bottiglietta d’acqua
che stava bevendo sul bancone della
cucina e la sua espressione feroce si
trasformò in qualcosa di più simile a una
smorfia di disgusto. Pensavo che sapere
della proposta di matrimonio l’avrebbe
resa felice. A quanto pareva, mi ero
sbagliato.
— Spero tanto che tu non le abbia
comprato un anello — fu la sua unica
reazione.
Ero stanco di quei giochetti. —
Dimmi dov’è! — tuonai.
Bethy appoggiò entrambe le mani sul
bancone e si sporse in avanti
rivolgendomi uno sguardo imbestialito
di cui nemmeno la credevo capace. —
Vai all’in-fer-no.
Merda, merda! Ma che cosa avevo
fatto?
La porta si aprì e Blaire entrò
sorridendo, finché i suoi occhi non
incrociarono i miei. A quel punto, il suo
sorriso si dileguò. Anche lei era
arrabbiata con me. Pessimo segno.
— Blaire — dissi avvicinandomi a
lei, che nel frattempo arretrava.
— No — disse sollevando entrambe
le mani e impedendomi di avvicinarmi.
Teneva in mano qualcosa, forse
fotografie. E di cosa? C’entrava il mio
passato? Era arrabbiata per colpa di
qualche ragazza con cui ero uscito tempo
prima?
— È ciò che penso che sia? — chiese
Bethy spingendomi via e correndo
incontro a Blaire. Lei annuì e le passò le
foto. Bethy si coprì la bocca con una
mano. — Oddio! Hai sentito il battito?
Al suono della parola “battito”, mi
sentii come se mi stessero aprendo il
petto in due. Finalmente avevo capito.
Mi aveva chiamato per ricordarmelo,
ma io le avevo chiuso il telefono in
faccia.
— Blaire… No, cavolo… Mi
dispiace tantissimo! Ho dovuto…
— Stare con la tua famiglia. Lo so.
Me l’ha detto Nan, quando ho
richiamato. Non voglio sentire le tue
scuse, voglio che tu te ne vada e basta.
— Aveva parlato in tono neutrale, senza
emozioni.
Tornò a rivolgere la sua attenzione
alle immagini e indicò qualcosa. —
Proprio qui, vedi? Ma ci pensi che è
dentro di me?!
Bethy spostò il suo sguardo truce da
me alla foto e un sorriso tenero le
rischiarò il viso. — È fantastico.
Erano in piedi ad ammirare le
immagini di mio figlio. Quel giorno
Blaire aveva sentito per la prima volta il
suo battito. Sola. Senza di me.
— Posso vedere? — chiesi, con la
paura di sentirmi rispondere di no o,
peggio, di essere ignorato.
Invece Blaire prese una delle
immagini da Bethy e la passò a me. —
Quella cosina minuscola che sembra un
fagiolino. Quella… è nostro figlio —
disse. Aveva esitato prima di dire quelle
ultime tre parole. Non potevo
biasimarla.
— Il cuore era a posto? Cioè, batteva
regolarmente e tutto il resto? — chiesi
fissando la foto che avevo in mano.
— Sì. Hanno detto che è tutto perfetto
— mi confermò. — Se vuoi puoi tenerla,
io ne ho altre tre. Però vorrei che adesso
te ne andassi.
Non l’avrei fatto. Neppure Bethy e
quella sua aria da cerbero mi avrebbero
fermato. Avrei detto tutto di fronte a lei,
se fosse stato necessario, ma mi
rifiutavo di uscire da quella casa.
— Oggi mia madre e tuo padre sono
tornati a casa senza preavviso. Nan
parte per il college lunedì. Mia madre
pensava che me ne sarei andato anch’io,
quindi era pronta a trasferirsi in casa
mia per il resto dell’anno. Le ho
spiegato che invece volevo restare, e
che lei doveva trovarsi un’altra casa. Ho
anche informato tutti del fatto che sarei
rimasto finché tu non avessi deciso di
andare a vivere da qualche altra parte. E
ho aggiunto che volevo sposarti. È
scoppiato l’inferno, ti avrei richiamato
non appena mia madre e Abe fossero
risaliti in macchina per andarsene fuori
città. Non volevo costringerti ad
affrontare nessuno dei due. Purtroppo,
però, mia madre non sa rinunciare alle
scenate. Nan ha fatto le valigie ed è
partita seduta stante per il college,
dicendo che non mi rivolgerà mai più la
parola. — Mi interruppi e inspirai
profondamente. — Non potrò mai farti
capire quanto mi dispiace non esserci
stato. Aver dimenticato l’appuntamento
di oggi è stato imperdonabile, me ne
rendo conto. Con te non faccio altro che
scusarmi… Vorrei riuscire a smetterla di
mandare tutto all’aria.
— Allora non stavate per pranzare
tutti insieme? — mi domandò.
— Pranzare insieme? Cosa?! Ma
figurati!
Blaire passò da una posizione
difensiva a un’altra molto più rilassata.
— Ahhh… — sospirò.
— Perché hai pensato che potessi
avere voglia di mangiare con loro? Non
ti avrei mai riattaccato il telefono per
stare con quelli!
— Nan — mi rispose lei con un
sorriso triste.
— Nan? Quando mai hai parlato con
Nan? — Ero stato con mia sorella tutta
la mattina.
— Quando ti ho richiamato. Ha
risposto lei e ha detto che non avevi
tempo da dedicarmi perché stavate per
pranzare tutti insieme.
Quella bugiarda schifosa di mia
sorella doveva ringraziare Dio di essere
in viaggio verso la East Coast, altrimenti
le avrei tirato il collo con le mie stesse
mani.
— Sei andata dal medico convinta
che avessi dato buca a te e a nostro
figlio per loro? Oh, no, no! — Spinsi
Bethy da parte e presi Blaire fra le mie
braccia. — Sei tu la mia famiglia,
Blaire. Anzi, siete tu e lui. Mi hai
capito? Oggi mi sono perso qualcosa di
speciale, e non me lo perdonerò mai.
Avrei voluto esserci anch’io, sentire con
te il battito del suo cuore. Avrei voluto
tenerti la mano mentre vedevi per la
prima volta nostro figlio.
Blaire inclinò la testa all’indietro e
mi sorrise. — Lo sai, vero, che potrebbe
anche essere femmina?
— Sì, lo so.
— Però hai detto “lui” — mi fece
notare.
Sì, avevo detto “lui”. Sorrisi e le
baciai la fronte. — Dai, andiamo in
camera tua, così mi racconti. Voglio tutti
i particolari!
Annuì e lanciò uno sguardo a Bethy.
— Tu hai intenzione di continuare a
incenerirlo con gli occhi o pensi di
perdonarlo?
Bethy fece spallucce. — Non ho
ancora deciso.
BLAIRE
Le scuole erano ricominciate. Turisti e
vacanzieri erano tornati a casa. Al club
c’era molto meno da fare, di
conseguenza le mance erano diminuite.
Dopo la sera in cui mi aveva spiegato
cosa aveva detto a sua madre, a sua
sorella e a mio padre, Rush non aveva
più nominato l’idea del matrimonio. E
non aveva più parlato neppure di loro. A
volte mi chiedevo se avesse cambiato
idea o se mi fossi semplicemente
sognata tutto.
Se non fosse stato per Bethy che ogni
settimana mi chiedeva se c’erano stati
sviluppi,
sarei
stata
convinta
dell’ipotesi sogno o allucinazione. Ogni
volta che le rispondevo di no, lei si
agitava un po’ di più. Anche il mio cuore
faceva sempre un po’ più male… La
paura era che Rush avesse cambiato
idea. Prima di sentirne parlare per la
prima volta, quella sera, io non avevo
mai preso in considerazione l’argomento
matrimonio. Credevo che avremmo
cresciuto il bambino vivendo in due
case separate. Se poi mi capitava di fare
pensieri strani, di fantasticare sul futuro,
intervenivo subito e mi davo una
regolata. Certe cose non andavano
nemmeno accarezzate con la mente.
Essendo in bassa stagione, le mie ore
di lavoro erano state ridotte e mi stavo
chiedendo se non fosse il caso di trovare
un secondo lavoro. Nella zona non c’era
molta scelta, e poi era molto probabile
che Rush non l’avrebbe presa bene.
Quando entrai in camera mia, due
cose attirarono la mia attenzione. Dei
petali di rosa sul letto e, al centro, una
busta con il mio nome scritto sopra in
bella grafia. La presi e la aprii. Era
carta di alta qualità, e in alto c’era
inciso il cognome “Finlay”.
Vediamoci sulla spiaggia.
Con amore,
Rush
Quella grafia stranamente perfetta mi
fece sorridere. Aprii l’armadio e presi
un vestito bianco con due strisce nere
lungo l’orlo. Se aveva in mente qualcosa
di romantico in spiaggia, non mi sarei
certo presentata con la divisa da lavoro.
Mi pettinai, diedi una rinfrescata al
trucco e attraversai le porte a vetri che
si affacciavano sul golfo per scendere in
spiaggia. Rush indossava un paio di
bermuda color cachi e una camicia
elegante. Ero felice di essermi cambiata.
In quel momento mi dava la schiena e
teneva le mani in tasca, fissando
l’oceano. Avevo quasi voglia di
fermarmi ad ammirare lui che ammirava
le onde, ma ero anche impaziente di
incontrarlo. Quel mattino, quando mi ero
alzata, era già uscito.
Scesi dalla passerella e camminai
sulla sabbia. La spiaggia era
stranamente deserta, c’eravamo solo noi
due. Anche se la maggior parte dei
turisti se n’era andata, il sole continuava
a splendere e il termometro segnava
trenta gradi. Abbassai lo sguardo e notai
uno strano particolare. Qualcuno aveva
scritto delle parole sulla sabbia e aveva
abbandonato un bastoncino di legno lì
accanto…
Mi fermai e lessi ad alta voce: —
Blaire Wynn, mi vuoi sposare?
Mentre ancora cercavo di rendermi
conto di cosa avessi appena detto, Rush
corse verso di me e si mise in ginocchio.
Dentro la sua mano comparve un
minuscolo astuccio. Lo aprì lentamente e
un anello con un brillante solitario
risplendette alla luce del sole. Era come
se, luccicando, stesse prendendo vita.
Stava succedendo veramente… Lo
volevo? Sì. Mi fidavo di lui?… Sì.
Rush era pronto? Non ne ero sicura.
Non volevo fosse qualcosa che faceva
solo perché si sentiva costretto. Sarebbe
stato semplice per me allungare una
mano e mettermi l’anello al dito, ma era
davvero quello che lui desiderava?
— Non sei obbligato a farlo — mi
sforzai di dirgli. Erano settimane che
non rivolgeva più la parola né a sua
sorella né a sua madre. Per quanto non
le sopportassi… Anzi no, per quanto le
odiassi, non volevo fare la parte di
quella che si metteva fra lui e la sua
famiglia.
Rush scosse la testa. — No, nessuno
mi obbliga a fare niente. Voglio passare
il resto della mia vita con te. Con nessun
altro all’infuori di te.
Le sue erano parole belle, giuste.
Eppure io continuavo a sentirmi come se
ci fosse qualcosa di sbagliato. Rush era
giovane, ricco, stupendo. Io non avevo
niente da offrirgli. Sarei stata di certo un
peso per lui, avrei cambiato tutto il suo
mondo. — Non posso farti questo. Non
posso ostacolare il tuo futuro. Tu avresti
la possibilità di fare quello che vuoi, ti
ho già promesso che farai comunque
parte della vita di nostro figlio. Sarà
sempre così, anche quando sentirai di
avere voglia di andartene. Io non te lo
impedirò mai.
— Non aggiungere una parola. Ti
giuro, Blaire, che sono a un passo dal
sollevarti di peso e scaraventarti
nell’oceano. — Si rialzò e mi guardò
dritto negli occhi. — Nessun uomo ha
mai amato una donna quanto io amo te.
Sarai sempre al primo posto e non so
cos’altro fare per dimostrarti che non ti
deluderò più. Non ti farò soffrire. Non
sarai più sola, perché io ho bisogno di
te.
Forse non era giusto e forse stavo
commettendo un errore, ma le sue parole
stavano toccando punti del mio cuore
dove ancora non era riuscito ad arrivare.
Presi l’astuccio e sfilai l’anello. — È
bellissimo — gli dissi. Era vero. Non
troppo
vistoso
né
eccessivo.
Semplicemente perfetto.
— Niente di meno sarebbe stato
degno delle tue dita — fece lui
togliendomelo di mano. Si inginocchiò
una seconda volta e mi guardò negli
occhi.
— Per favore, Blaire Wynn, vuoi
diventare mia moglie?
Lo volevo. Volevo lui.
— Sì — dissi. Mi mise l’anello al
dito.
— Grazie, grazie, grazie!!! —
sussurrò rialzandosi e catturandomi la
bocca con un bacio passionale. Era tutto
vero. Forse non lo sarebbe stato per
sempre, ma almeno in quel momento era
così. Avrei trovato il modo di lasciarlo
libero, se lo avesse voluto. Ma io lo
amavo, e quello non sarebbe mai
cambiato.
— Vieni a vivere da me — mi pregò.
— Non posso. Devo pagare la mia
metà d’affitto — gli ricordai.
— Ho pagato tutto per un anno intero.
Ogni dollaro che hai dato a Woods è
finito in un conto deposito intestato a te.
Lo stesso vale per Bethy. Ora che lo sai,
vieni a vivere da me.
Avrei dovuto mangiargli la testa, ma
in quel momento non ci riuscivo. Gli
diedi un bacio sulle labbra e annuii.
— E poi smettila di lavorare —
aggiunse.
— No — mi opposi. Quello non
l’avrei fatto.
— Ora sei la mia fidanzata. Sarai mia
moglie. Perché vuoi lavorare in un
country club? Non preferiresti occuparti
d’altro? Che ne diresti del college?
Vorresti andarci, vorresti prendere un
diploma? Non limiterò le tue scelte. Io
voglio darti di più.
Sarei diventata sua moglie. Lo
guardai, assimilando lentamente la
notizia. Non avrei dovuto abbandonare
il college come avevo fatto con la
scuola. Potevo diplomarmi e imparare
una professione.
— Sì, lo voglio. Solo… lasciami un
attimo di tempo! Sono troppe cose e
troppo in fretta! — dissi, buttandogli le
braccia al collo.
RUSH
Blaire era decisa a dare due settimane di
preavviso a Woods prima di lasciare il
lavoro. Io non avevo voluto discutere:
aveva già accettato tutte le mie proposte
e non avevo intenzione di tirare troppo
la corda. Mi misi davanti al computer,
con una tazza di caffè, in attesa che
finisse il turno.
Woods era passato a salutarmi e si
era fermato un paio di minuti, ma a parte
quello era stata una serata tranquilla.
Quasi tutti avevano lasciato il paese.
Jace continuava a farsi vedere perché
c’era Bethy, ma temevo che non avrebbe
resistito molto. Due giorni prima,
quando ci eravamo fatti una partita a
golf, non mi era sfuggita l’aria inquieta
che aveva negli occhi. Non era abituato
a fermarsi a Rosemary per più di
un’estate.
— Questa sedia è occupata? — Alzai
lo sguardo e mi accorsi che davanti a me
si stava sedendo Meg. Non ci eravamo
incrociati spesso dopo il torneo. Girai la
testa e vidi Blaire che riempiva il
bicchiere di qualcuno, senza staccarmi
gli occhi di dosso.
— Sì, è occupata — risposi senza
alzare lo sguardo.
— So che sei fidanzato con la
bionda. Lo sanno tutti. Non sono venuta
qui per provarci — dichiarò lei.
Blaire mi sorrise e poi si voltò per
tornare in cucina. Merda. Cosa voleva
dire quel sorriso?
— Porta al dito un brillante da paura.
Non ha niente di cui preoccuparsi e ne è
perfettamente
consapevole,
perciò
calmati, ragazzo mio. Ti stai agitando
per niente.
La guardai. — Sa che sei stata la mia
prima volta. Le dà fastidio.
Meg ridacchiò. — Ti posso
assicurare che i ricordi che ho io della
nostra esperienza e la realtà che sta
vivendo
lei
sono
due
cose
completamente diverse. Io mi sono presa
il
verginello
arrapato,
lei
il
professionista esperto.
Mi girai per vedere se Blaire fosse
tornata in sala. Non mi andava che
sentisse certi discorsi. — Dai, vai a
sederti da un’altra parte. È molto
emotiva in questo periodo, non mi va di
agitarla.
Nessuno sapeva che era incinta.
Volevo che fosse Blaire a decidere
quando comunicarlo ufficialmente.
— Su, su, non è fatta di porcellana.
Non si romperà. Lo sa che la tratti come
una cavolo di bambola?
— Sì, lo so. Ci stiamo lavorando su
— rispose Blaire avvicinandosi al
nostro tavolo e versandomi dell’altro
caffè. — Credo che non ci abbiano
ancora presentate ufficialmente. Piacere,
Blaire Wynn.
Meg guardò prima me, sorpresa, e
poi le rispose. — Meg Carter.
— Sono contenta di poterti
finalmente conoscere. Posso portarti
qualcosa da bere?
Non era la scena che mi sarei
aspettato. Non che non ne fossi contento,
anzi. Era la prova che stavo riuscendo a
farla sentire più sicura al mio fianco.
— Se ti chiedo una Coca Light, pensi
che lui mi tirerà un pugno? — chiese
Meg.
Blaire scoppiò a ridere. — No. Farà
il bravo, te lo prometto. — Poi guardò
me. — Hai fame?
— Sono a posto, grazie.
Soddisfatta, tornò in cucina.
— Sai che un po’ potrebbe piacermi?
È stupenda. Ma non mi sorprende: se sta
per riuscire a mettere il cappio al collo
a te, deve per forza avere tutte le carte in
regola.
Bevvi un sorso di caffè, sorridendo.
Poi mi girai di nuovo verso la porta
della cucina, aspettando di veder
ricomparire Blaire. Non vedevo l’ora di
portarmi a casa quel suo bel culo
eccitante.
Blaire non smetteva di baciarmi il collo
e di solleticarmi l’orecchio. Era molto,
molto
difficile
mantenere
la
concentrazione mentre guidavo sulla
strada del ritorno verso casa.
— Se la mia fidanzatina vogliosa non
la pianta, giuro che adesso accosto e me
la
faccio
—
la
avvertii,
mordicchiandole il labbro inferiore non
appena fu vicina alla mia bocca.
— Suona più come una promessa che
come una minaccia — scherzò lei,
infilandomi una mano fra le cosce e
chiudendola sulla mia erezione.
— Cazzo, Blaire, tu mi farai
impazzire — dissi premendole contro il
palmo.
— Se te lo succhio, pensi di riuscire
lo stesso a concentrarti sulla guida? —
mi chiese mentre iniziava a sbottonarmi
i jeans.
— Mi schianterò quasi sicuramente
contro una palma, ma in questo momento
non me ne potrebbe fregare di meno! —
risposi mentre sentivo le sue dita che mi
scivolavano sotto i boxer.
Per fortuna non fummo costretti a
tentare la fortuna, perché imboccai il
vialetto di casa e parcheggiai nel
secondo esatto in cui Blaire riusciva ad
aprirmi completamente i pantaloni.
Sentii il cellulare suonare per la terza
volta; avevo impostato la vibrazione e la
funzione “non disturbare”, così non
avrei visto neanche lo schermo
lampeggiare. Mia madre aveva già
tentato di chiamarmi prima, mentre
aspettavo Blaire, ma non ero dell’umore
giusto per risponderle. Appena la
vibrazione cessò, ne ripartì un’altra.
Maledizione.
Avevo solo due possibilità: spegnere
oppure farmi coraggio. Nel frattempo,
Blaire si era già presa il mio uccello fra
le mani, perciò pensai che la prima
opzione fosse la migliore. Abbassando
lo sguardo sullo schermo, mi accorsi che
il numero aveva un prefisso che non era
quello della nostra zona. Mi era
familiare,
ma
non riuscivo
a
localizzarlo.
— Chi è? — domandò Blaire.
— Non ne sono sicuro, ma
certamente è qualcuno che non molla.
Blaire smise di toccarmi. —
Rispondi. Farò la brava per qualche
minuto.
Accettai la chiamata. Dovevo
sbarazzarmi di quello scocciatore e
divertirmi con la mia ragazza. Prima
ancora che potessi dire “Pronto”, mia
madre cominciò a travolgermi di parole,
facendomi mancare la terra sotto i piedi.
BLAIRE
Rush era diventato pallido. Gli presi la
mano, ma lui non reagì. Se ne stava lì,
seduto ad ascoltare in silenzio la
persona all’altro capo della linea. Più
tempo passava, più lui sbiancava. Io
avevo il cuore a mille: doveva essere
successo
qualcosa
di
terribile.
Aspettavo con ansia che mi dicesse
qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non lo
fece.
— Arrivo subito — annunciò con
voce distante prima di lasciar cadere il
cellulare sulle ginocchia e togliere la
mano dalla mia stretta per afferrare il
volante.
— Che cosa è successo, Rush? —
chiesi, persino più spaventata di quando
lui era al telefono.
— Entra in casa, Blaire. Io devo
andare. Nan ha avuto un incidente in
barca a vela. — Chiuse forte le palpebre
e imprecò sottovoce. — Adesso tu devi
scendere ed entrare in casa. Ti chiamo
appena possibile, ma adesso devo
andare. Subito.
— Sì è fatta male? Non posso venire
con te?
— NO! — urlò lui, tenendo lo
sguardo fisso in avanti. — Non puoi
venire con me. Come fa a venirti in
mente anche solo di chiedermelo? Mia
sorella è in rianimazione, non reagisce.
Io devo andare da lei e tu devi scendere
da questa cazzo di macchina.
Era ferito e spaventato. Lo capivo,
però volevo stargli vicino. Lo amavo e
non volevo che affrontasse da solo quel
dolore. — Rush, ti prego, lasciami
venire con te…
—
SCENDI
DA
QUESTA
MACCHINA! — sbraitò, così forte da
perforarmi
i
timpani.
Cercai
freneticamente la maniglia della portiera
e presi la borsa.
Lui riaccese il motore e continuò a
guardare dritto di fronte a sé, con le
nocche delle mani che gli diventavano
bianche come la faccia per la forza con
cui stava stringendo il volante. Avrei
voluto aggiungere qualcosa, ma era così
sconvolto che non sapevo come avrebbe
potuto reagire. Non voleva sentirmi
parlare né guardarmi in faccia.
Non mi andava di piangere di fronte a
lui. Non era quello di cui aveva bisogno
in quel momento. Scesi dall’auto il più
velocemente possibile e, prima ancora
che
la
portiera
si
chiudesse
completamente, lo vidi innestare la
retromarcia e uscire dal vialetto di casa.
Rimasi in piedi a guardarlo mentre si
allontanava a tutto gas. Non ero in grado
di aiutarlo. E non ero gradita.
Le lacrime cominciarono a cadere
libere sulle mie guance. Rush stava
soffrendo. Mi si spezzava il cuore per
lui. Una volta arrivato in ospedale, mi
avrebbe chiamata. Sì, dovevo crederci.
Avrei voluto farlo io, chiedergli di
parlarmi, ma nelle orecchie mi
rimbombava ancora il suo grido e nel
cuore avevo la ferita delle sue parole.
Mi girai, guardai la casa. Era grande,
immensa, buia. Non aveva niente di
accogliente, senza Rush. Non mi andava
di restare lì da sola, ma non avevo la
macchina e non potevo tornare da Bethy.
Non me ne sarei mai dovuta andare da
casa sua; era troppo presto. Tutto, con
Rush, era successo così in fretta… E
adesso eravamo alla prova del fuoco.
Non ero sicura di essere pronta, non
ancora.
Proprio non me la sentivo di
telefonare a Bethy e dirle che mi serviva
un passaggio per andare al lavoro
perché Rush se n’era andato. Lo avrebbe
criticato e mi avrebbe fatto sentire
ancora peggio. Io capivo la paura di
Rush e capivo anche il modo in cui
aveva reagito, lei invece non lo avrebbe
fatto, o almeno così pensavo. Rush
aveva riguadagnato diversi punti con lei
da quando mi aveva messo l’anello al
dito, e non volevo farglieli perdere.
Aprii la borsa per prendere le chiavi
di casa, ma mi accorsi che non le
avevo…
Era
stato
Rush
ad
accompagnarmi al lavoro, non avevo
pensato che avrei potuto averne bisogno.
Alzai gli occhi su quell’edificio cupo e
fui quasi contenta di non dovermi
fermare a dormire lì dentro da sola.
Il club era a meno di cinque
chilometri da lì, avrei potuto
raggiungerlo a piedi, e l’appartamento di
Bethy si trovava subito lì accanto. L’aria
fresca della sera aveva abbassato le
temperature e tutto sommato non si stava
così male. Mi infilai la borsa sulla
spalla e mi incamminai lungo il vialetto
lastricato di mattoni per scendere in
strada.
Mi ci vollero un’ora e cinquanta
minuti per arrivare da Bethy. La sua auto
non era nel parcheggio. C’erano molte
possibilità che fosse rimasta a dormire
da Jace… Che stupida, avrei dovuto
pensarci prima. Mi fermai davanti alla
porta, rendendomi conto di non avere
più la forza di tornare indietro. La
testardaggine che mi aveva impedito di
telefonare per chiedere un passaggio si
stava ritorcendo contro di me.
Mi chinai e sollevai lo zerbino. Lì,
sul cemento, c’era la chiave di scorta.
Bethy doveva averla rimessa nel solito
nascondiglio dopo che io me ne ero
andata; aveva cambiato abitudine
soltanto perché ero stata io a
chiederglielo. Per fortuna! In ogni caso,
dubitavo che sarebbe tornata a casa
prima dell’indomani mattina, quindi non
avrei dovuto raccontarle tutta la storia
quella notte stessa.
Aprii la porta e tenni la chiave, poi
andai subito in bagno a farmi una
doccia. Rush aveva insistito con Bethy
affinché tenesse il letto che aveva
comprato per me nella mia ex camera,
invece di spostarlo nella sua dopo il mio
trasferimento. Quella sera potevo
essergliene grata.
Il mattino dopo riuscii a sgattaiolare al
lavoro senza che Bethy si fosse accorta
del mio pernottamento d’emergenza.
Non che si sarebbe arrabbiata, ma io
non ero pronta a rispondere alle sue
domande né a sentire la sua opinione.
Mi
misi
una
divisa
pulita
prendendola dall’armadietto delle scorte
e mi incamminai verso la cucina. Un
attimo prima che aprissi la porta, Woods
uscì e mi guardò negli occhi.
— Ti stavo cercando — disse,
indicando con un cenno il corridoio che
portava al suo ufficio. — Dobbiamo
parlare.
Sapeva sicuramente di Nan. A
quell’ora, tutti quelli della sua cerchia
dovevano esserne già stati informati. Mi
avrebbe chiesto notizie di lei? Speravo
proprio di no. Ammettere di non sapere
niente mi avrebbe fatto fare la figura
della menefreghista. Anche Rush lo
pensava? Spettava a me telefonargli?
Era lui quello che stava soffrendo. La
sua reazione della sera prima mi aveva
spaventata, ma se ora aveva bisogno di
me dovevo passarci sopra.
— Hai dormito? — mi domandò,
osservandomi attentamente.
Feci sì con la testa. In realtà non
avevo riposato molto bene, ma almeno
per qualche ora avevo dormito. La
camminata di quasi cinque chilometri
della sera prima aveva contribuito a
sfiancarmi al punto che, dopo essermi
sdraiata sul letto, non ero riuscita a
tenere gli occhi aperti.
Woods aprì la porta del suo ufficio e
mi fece passare; entrai e mi misi accanto
alle poltrone davanti alla sua scrivania.
Come sempre, invece di sedersi, lui si
appoggiò sul bordo del tavolo e si mise
a braccia conserte.
Una ruga gli segnava la fronte mentre
continuava a studiarmi con attenzione.
Cominciavo a chiedermi se non si
trattasse d’altro: all’inizio credevo mi
avrebbe parlato di Nan, ma forse mi ero
sbagliata. Avevo fatto qualcosa di male?
— Stamattina mi ha telefonato Grant.
È in ospedale ed è in pensiero per te. Ha
detto che Rush si è precipitato lì nel
cuore della notte, fuori di sé.
Considerato che, per la prima volta
nella vita, aveva smesso di parlare con
sua sorella, non la sta prendendo molto
bene. Grant era preoccupato di come ti
avesse lasciata, voleva sapere se stavi
bene.
Sentivo il cuore pesante. Non
sopportavo di sapere che Rush stava
soffrendo così tanto e non ci fosse niente
che potessi fare. Non mi aveva ancora
richiamata, e ne deducevo che non aveva
voglia di parlarmi. Ero io il motivo del
suo litigio con Nan. Ero io il motivo per
cui non si parlavano da settimane. Ero io
il motivo per cui stava vivendo quella
tragedia. Sentivo le lacrime pungermi gli
occhi. Per quanto mi costasse
ammetterlo, ero io la ragione per cui
Rush soffriva ancora più del dovuto per
quell’incidente. Se non avessi scatenato
la loro lite, lui ora non sarebbe stato alle
prese con il senso di colpa che invece lo
stava soffocando.
Erano quelli i motivi per cui, fra me e
Rush, non avrebbe mai funzionato.
Fingere che la fiaba fosse realtà era
stato fantastico, ma altrettanto assurdo.
Fino a quel momento avevamo
temporeggiato, poi l’amara verità – e
cioè il fatto che io non facessi parte del
suo mondo – ci era caduta addosso come
un macigno, polverizzando tutto.
In quel momento lui aveva bisogno
della sua famiglia. E io, semplicemente,
non ne facevo parte. Anzi, loro nemmeno
mi accettavano. Come avrebbero potuto?
— Io... Io non so che cosa fare —
confessai con voce strozzata, detestando
il fatto che Woods stesse per vedermi
piangere. Non volevo. Nessuno doveva
vedermi così.
— Lui ti ama — mi sentii dire con
dolcezza, anche se in fondo non ero così
sicura che Woods credesse a quello che
aveva appena detto. Non dopo gli ultimi
avvenimenti. Forse Rush aveva pensato
di amarmi, sì, ma ora come poteva
continuare a farlo? Per colpa mia si era
rivoltato contro Nan e adesso rischiava
di perderla per sempre.
— Davvero? — Era una domanda
che avevo bisogno di fare a me stessa,
più che a Woods.
— Sì. Non l’ho mai visto
comportarsi con nessuna come si
comporta con te. Adesso… Per i
prossimi giorni o magari settimane, in
base al tempo che ci vorrà, potrebbe
sembrare il contrario. Eppure lui ti ama
veramente, non lo dico per fargli un
favore. È un coglione e non gli devo
proprio nulla. Lo dico per te. È la verità
e so che ora hai bisogno di sentirla.
Feci no con la testa. No, non ne
avevo bisogno. Pensare lucidamente e
decidere cosa fosse meglio per me e mio
figlio era quello che dovevo fare.
Potevo cercare di inserire un bambino in
una famiglia che probabilmente non lo
avrebbe mai accettato? Non ce l’avrei
mai fatta io a integrarmi, figuriamoci lui.
— Non posso dirti cosa credere.
Però, se ti serve qualcosa, sono qui. So
che Rush ha un garage pieno di
macchine, ma se non vuoi guidare una di
quelle posso accompagnarti io dal
medico o a fare la spesa. Insomma: se
hai bisogno di me, chiamami.
Mancavano cinque giorni al mio
appuntamento dal dottore. Come avrei
fatto a entrare in casa? Rush poi non mi
aveva mai fatto vedere dove teneva le
chiavi delle macchine, né mi aveva dato
il permesso di usarle.
— Sono chiusa fuori casa. Quando se
n’è andato, pensavo di avere le chiavi, e
invece… — confessai.
— E dove hai dormito ieri notte,
scusa? — mi chiese distendendo le
braccia e staccandosi dalla scrivania.
Sembrava arrabbiato. Non volevo
innervosirlo,
stavo
semplicemente
descrivendo la realtà. Tutti i miei vestiti
erano a casa di Rush.
— Da Bethy.
— E come ci sei arrivata?
— A piedi.
— Blaire, cazzo! Saranno cinque
chilometri! Quando Rush se n’è andato
era già tardi. Hai un cellulare adesso,
usalo! — Stava gridando.
— Avevo voglia di camminare. Mi ha
fatto bene, perciò abbassa il tono di
voce — ribattei, determinata.
Vidi la tensione abbandonare le
spalle di Woods, che fece un sospiro. —
Mi dispiace. Non avrei dovuto
rivolgermi a te così. È che sei talmente
decisa
a
mantenere
la
tua
indipendenza… Ci riprovo, vediamo:
chiamami se ti serve un passaggio. Mi
piace pensare che siamo amici, e io i
miei amici li aiuto.
E a me degli amici servivano. —
Anche a me piace pensare che siamo
amici — risposi.
Annuì. — Bene. Ma sono anche il tuo
capo, e oggi non ti lascio lavorare. Ti
farò entrare in casa di Rush nel giro di
un’ora, ti ci porto io.
Prima che potessi chiedergli come ci
sarebbe riuscito, lui aveva già il
cellulare all’orecchio.
— È qui nel mio ufficio. È rimasta
chiusa fuori casa. — Si interruppe.
— Eh, no, invece. Ha camminato fino
all’appartamento di Bethy. Se riesci a
rintracciare la donna delle pulizie di
Rush, la accompagno io e ci facciamo
aprire la porta da lei. — Seconda pausa.
— Non c’è problema, lo faccio
volentieri. Tienimi aggiornato, vi sto
pensando. — Chiuse la comunicazione e
mi guardò. — Grant ha già chiamato la
domestica per chiederle di venire ad
aprire. Adesso vai in cucina a mangiare
qualcosa, poi partiamo. Ha detto che ci
vorranno circa venti minuti.
Non avevo fame, ma evitai di
controbattere. — Va bene. — Mi girai
per uscire ma, sulla porta, mi voltai
un’ultima volta. — Grazie, Woods.
Mi fece l’occhiolino. — È un
piacere.
RUSH
Non ero riuscito a chiudere occhio. Ero
seduto nella poltrona accanto al letto
d’ospedale in cui giaceva mia sorella
minore. Non aveva riaperto gli occhi
dall’incidente. I monitor lampeggiavano
ed emettevano suoni a intermittenza per
dirmi che era ancora viva. La sua
sagoma immobile sul materasso, con la
garza avvolta attorno alla testa e gli aghi
nelle braccia, dava l’impressione che
fosse già morta. Le ultime parole che le
avevo detto erano state dure, ma in quel
momento mi sembravano persino
crudeli. Volevo soltanto farle capire che
doveva crescere, ma adesso rischiava di
non poterlo fare mai più.
La rabbia che avevo provato appena
arrivato in ospedale era svanita l’esatto
istante in cui avevo posato lo sguardo su
di lei. Il solo fatto di vederla così ferita
e inerme mi stava uccidendo. Non
riuscivo a mangiare, non riuscivo a
dormire. Avevo soltanto bisogno che
riaprisse gli occhi. Dovevo dirle che le
volevo bene e che mi dispiaceva per lei;
le avrei promesso che mi avrebbe avuto
per sempre, a ogni costo. Poi l’avrei
abbandonata di nuovo... Perché lei non
poteva accettare Blaire.
Blaire. Stavo male a pensare a come
l’avevo lasciata. Mi aveva guardato con
gli occhi spalancati, terrorizzati. Avevo
sbagliato ancora una volta, ma io stesso
ero morto di paura alla notizia
dell’incidente. Ancora non potevo
chiamarla, non se Nan continuava a
restare in quelle condizioni. Avevo già
messo Blaire davanti a mia sorella e
quello era stato il risultato. Adesso era
Nan che veniva per prima. Se avesse
capito che ero seduto al suo capezzale,
avrebbe riaperto gli occhi, ne ero
convinto.
La porta si aprì. Era Grant. Il suo
sguardo corse subito a Nan; il dolore
che vidi lampeggiare dentro i suoi occhi
non mi sorprese. Anche se si era sempre
comportato come se lei non gli piacesse,
di fatto sapevo che le voleva un gran
bene. Da piccola, Nan era stata la
monella viziata che era impossibile non
amare. Così come era impossibile
spezzare certi legami.
— Ho appena parlato con Woods.
Blaire sta bene. Ieri notte è rimasta
chiusa fuori casa, ma ha dormito da
Bethy. Ho telefonato a Henrietta, va lei
ad aprirle. — Aveva parlato quasi
sottovoce, come se avesse avuto paura
di disturbare Nan facendo il nome di
Blaire.
L’avevo scaricata di notte sul vialetto
di casa, da sola. Grazie a Dio aveva il
cellulare. In quel momento non avrei
potuto sopportare l’idea di saperla persa
nel buio. — È arrabbiata? — Quello che
davvero volevo sapere era se fosse
arrabbiata con me in particolare. Come
poteva essere altrimenti? Quando mia
madre mi aveva detto di Nan, qualcosa
mi era scattato dentro e avevo perso le
staffe.
— Ha detto che si sarebbe preso lui
cura di lei… — disse Grant, esitando.
Sapevo cosa stava pensando: lasciare
che Woods si occupasse di Blaire era
pericoloso. Era ricco, aveva successo e
la sua famiglia non lo odiava. E se si
fosse resa conto che con me perdeva
solo tempo?
— È incinta — confessai. Dovevo
dirlo a qualcuno.
— Oh, cazzo… — mormorò lui,
lasciandosi cadere sulla sedia di
plastica rigida messa in un angolo della
stanza. — Quand’è che l’hai scoperto?
— Me l’ha detto poco dopo essere
ritornata qui.
Grant si portò una mano alla bocca e
scosse la testa. Non si aspettava una
notizia del genere. Però non sapeva
nemmeno che eravamo fidanzati…
Quando avevo chiesto a Blaire di
sposarmi, lui aveva già lasciato
Rosemary. Non l’avevo ancora avvisato.
— Allora è per questo che le hai
chiesto di sposarti? — Non era una
domanda vera e propria. Era più che
altro un’affermazione.
— E tu come fai a saperlo?!
Spostò lo sguardo su Nan. — Me l’ha
detto lei.
Nan aveva avuto bisogno di sfogarsi,
non c’era dubbio. Il fatto che però
avesse scelto Grant come confidente era
interessante,
considerato
che
normalmente quei due si prendevano per
i capelli. Capitava di rado che facessero
qualcosa insieme.
— Non ne era entusiasta, immagino
— dissi.
— No, infatti — ammise lui.
La guardai e pregai che Dio ci desse
la possibilità di fare cambio. Era
insopportabile pensare che avesse avuto
bisogno di me e io non fossi stato in
grado di aiutarla. Mi occupavo di lei da
tutta la vita, risolvevo da sempre i suoi
problemi. E adesso che più aveva
bisogno di me, l’unica cosa che potevo
fare era stare seduto a fissarla,
impotente.
— Pensa che tu sia impazzito. Se
sapesse del bambino, crederebbe che le
hai proposto di sposarti soltanto per
quel motivo.
— Però non è così. Non gliel’ho
chiesto per il bambino. L’ho fatto perché
non posso vivere senza di lei e perché
voglio che lo capisca. Ho passato tutta
la vita a rendere felice Nan. Ce l’ho
sempre messa tutta per cercare di
risolvere i suoi problemi. Per lei sono
stato un padre e una madre. Adesso che
mi sembra di aver trovato la strada per
la felicità, lei non riesce ad accettarlo.
— Sentii la gola chiudersi e scossi la
testa. Non avrei pianto. — Volevo solo
che accettasse che Blaire mi rendeva
felice…
Grant emise un forte sospiro. —
Penso che con il tempo ce la farà. Anche
lei vuole vederti felice, soltanto che ora
pensa di sapere cosa sia meglio per te.
Proprio come tu pensi di sapere cosa sia
meglio per lei. — Il tono della sua voce
quando aveva pronunciato quell’ultima
frase mi era sembrato strano. Aveva
voluto esprimere qualcosa di più
profondo di quanto avesse realmente
detto. Oppure io ero esausto e avevo un
bisogno disperato di dormire.
— Spero sia così — risposi
appoggiando la testa all’indietro sulla
poltrona e chiudendo gli occhi. — Mi
serve un pisolino. Non riesco a
continuare così, sto cominciando a
delirare.
La sedia su cui si trovava stridette
contro il pavimento quando lui si alzò e
andò verso la porta. Restai ad ascoltare
i suoi passi. — Chiedi a Blaire come sta
da parte mia, per favore — gli dissi
riaprendo gli occhi per vedere se era
ancora lì e se mi stava sentendo.
— Lo farò — mi assicurò prima di
andarsene.
Erano passati due giorni e ancora non
c’erano stati segni di miglioramento.
Nan non si svegliava. Mi ero alzato per
darmi una lavata e cambiarmi i vestiti
solo perché mia madre aveva insistito.
Non potevo vedermela con lei e allo
stesso tempo preoccuparmi di Nan,
perciò avevo obbedito pur di non
sentirla più parlare.
Quel giorno Grant era rimasto seduto
con me per quasi tutta la giornata. Non
avevamo parlato granché, ma avere
qualcuno accanto era confortante. Mia
madre aveva detto di non riuscire a
sopportare quella situazione e restava
chiusa in albergo per gran parte del
tempo. Di tanto in tanto Abe passava a
vedere come andavano le cose, ma da
lui non mi aspettavo molto di più. Da
quando stava con mia madre, non si era
più occupato della figlia con cui aveva
vissuto per tanti anni. A quell’uomo
mancava un organo vitale, il cuore.
— Oggi ho parlato con Blaire —
disse Grant rompendo il silenzio. Anche
solo sentir pronunciare il suo nome era
una fitta al cuore. Mi mancava. L’avrei
voluta lì con me, ma non avrei fatto che
mettere tutti in subbuglio. Prima veniva
Nan; quando si fosse svegliata, non
avrebbe dovuto sapere che c’era anche
Blaire. Si sarebbe rattristata e basta.
— Come ti è sembrata? — chiesi,
domandandomi se in quel momento lei
mi stesse odiando.
— Bene, direi. Forse un po’ triste. È
preoccupata per te e per Nan. Chiede di
lei prima di chiedere di te. Oggi… Oggi
ha anche voluto sapere come stava suo
padre. Non so perché gliene importi, ma
l’ha fatto.
Perché Blaire si interessava sempre
agli altri più di quanto avrebbe dovuto.
Compreso il sottoscritto. Era troppo
buona per me e io sarei riuscito soltanto
a farla soffrire. La mia famiglia non
l’avrebbe accettata. Il padre che aveva
abbandonato lei e la sua madre naturale
ora era sposato con mia madre. Ero stato
io la causa di tutto, grazie a quella
fotografia maledetta. In futuro non avrei
fatto altro che causarle dolore.
— Oggi ha un appuntamento dal
medico, Woods mi ha detto che ce la
porta lui. Lei non sa che so del bambino.
Un’altra visita che mi sarei perso.
Per quanto ancora avrebbe sopportato il
trattamento che le riservavo? Le avevo
promesso che lei e il bambino sarebbero
sempre venuti per primi, ma era già la
seconda volta che la mia famiglia
prendeva il sopravvento sui suoi
controlli medici. E poi perché la
accompagnava Woods?
— Perché va con Woods? Io ho tre
macchine ferme in garage.
Grant mi lanciò un’occhiataccia di
rimprovero. — Avrai anche tre
macchine in garage, ma non le hai mai
dato il permesso di guidarle né le hai
spiegato dove metti le chiavi, perciò non
le userà mai. È una settimana che Woods
le fa da autista, sappilo.
Merda.
— So che ti dispiace per Nan, è
come se fosse tua figlia. Sei l’unico vero
genitore che lei abbia mai avuto. Ma se
non ti riprendi e contatti Blaire, io non
sono così sicuro che, quando deciderai
di tornare a casa, lei e il tuo bambino
saranno ancora lì ad aspettarti. Ti
avverto, non voglio che mio nipote
faccia Kerrington di cognome. — Dopo
aver tirato quella stoccata, lasciò la
stanza.
BLAIRE
Seduta in sala d’aspetto, ce la mettevo
tutta per non guardare le altre donne in
gravidanza che, come me, aspettavano di
essere visitate. Eravamo tre in tutto.
Quella di fronte era rannicchiata contro
il braccio del marito, che continuava a
sussurrarle all’orecchio frasi che la
facevano sorridere. Non le staccava un
attimo la mano dalla pancia. Il suo però
non era un gesto possessivo, ma
semplicemente protettivo: un modo per
esprimere il suo desiderio di difendere
moglie e figlio.
L’altra signora era molto più in là con
la gravidanza rispetto a noi, e sentiva
muovere il suo bambino. Il marito le
teneva entrambe le mani sul pancione e
la fissava affascinato; sul suo viso c’era
una specie di espressione dolce e
riverente allo stesso tempo. Stavano
condividendo un momento prezioso e il
semplice fatto di aver guardato nella
loro direzione mi fece sentire un’intrusa.
Poi c’ero io. Con Woods. Gli avevo
detto che non doveva venire per forza,
ma lui aveva risposto che gli faceva
piacere. Di certo non l’avrei lasciato
entrare nello studio del medico, dato che
non avevo intenzione di essere vista
mezza nuda con indosso soltanto un
camice di cotone sottilissimo, però
sarebbe rimasto in sala d’attesa.
Si era versato una tazza del caffè
offerto gratuitamente ai pazienti e,
vedendo che si era limitato a un unico
sorso, avevo dedotto che il sapore fosse
pessimo. A me il caffè mancava tanto, e
probabilmente avrei trovato squisito
anche quello. Più tardi avevo deciso di
andare a comprare un po’ di
decaffeinato.
— Blaire Wynn — chiamò
l’infermiera dal vano della porta che
dava sullo studio.
Mi alzai e feci un sorriso a Woods.
— Non dovrei metterci molto.
Mi rispose con un’alzata di spalle. —
Non ho fretta.
— Può entrare anche tuo marito —
disse l’infermiera, tutta entusiasta. Mi
sentii arrossire. Non mi serviva uno
specchio per sapere che le guance mi
erano diventate paonazze.
— Lui è solo un amico — mi affrettai
a spiegare.
A quel punto fu l’infermiera ad
arrossire: evidentemente non aveva letto
nella mia scheda che ero una madre
single. — Oh, scusami tanto... Be’,
anche lui fra un po’ può entrare, se ha
voglia di sentire il battito del bambino.
Feci no con la testa. Sarebbe stato un
momento troppo intimo. Woods era un
amico, ma io non ero pronta a
condividere con lui una cosa così
importante come il battito cardiaco del
mio piccolino. Lo stesso Rush non lo
aveva ancora sentito. — No, va bene
così. Grazie.
Non mi voltai a guardare Rush perché
ero imbarazzata per entrambi. Mi stava
semplicemente dando una mano. Fare la
figura del padre non era il ruolo per cui
si era candidato.
La visita non durò molto. Stavolta
riuscii a sentire il battito senza che ci
fosse bisogno dell’ecografia interna:
sonoro e commovente come la volta
prima. La gravidanza procedeva bene e
mi lasciarono andare con un altro
appuntamento a distanza di quattro
settimane.
Quando tornai in sala d’attesa, trovai
Woods impegnato a leggere una rivista
dal titolo “Essere genitori”. Appena si
accorse di me, mi fece un sorriso
imbarazzato. — Qui non hanno molta
scelta! — si giustificò.
Trattenni una risata.
Si alzò e insieme lasciammo lo
studio.
Una volta saliti in macchina, Woods
mi chiese se avessi fame. In realtà sì, ma
più tempo passavo con lui, più mi
sentivo a disagio. Non riuscivo a
scuotermi di dosso la sensazione che a
Rush quello che stavamo facendo non
sarebbe piaciuto; in fondo non era mai
stato troppo entusiasta di vedermi
passare il tempo in sua compagnia. Quel
passaggio mi aveva fatto comodo, ma
iniziavo a pensare che prolungarlo
inutilmente fosse una pessima idea.
Sarebbe stato molto meglio chiedere a
Woods di riaccompagnarmi a casa di
Rush.
— Sono stanca morta. Potresti
portarmi direttamente a casa di Rush,
per favore? — chiesi.
— Ma certo — rispose lui con un
sorriso. Aveva proprio un buon
carattere, mi piaceva. In quel periodo
non ero dell’umore adatto a trattare con i
lunatici.
— Sei riuscita a sentirlo? —
aggiunse.
Non era una domanda a cui mi
andava di rispondere, a proposito di
lunatici. Mi limitai a fare no con la testa:
una spiegazione non gli serviva e, se
anche l’avesse voluta, peggio per lui,
perché io stessa non ce l’avevo. Due
sere prima avevo ceduto e avevo
chiamato Rush, ma era subito scattata la
segreteria telefonica. Gli avevo lasciato
un messaggio, ma non mi aveva
richiamato. Cominciavo a chiedermi se
sperasse, una volta rientrato a casa, di
non trovarmi più… Per quanto ancora
sarei dovuta restare da lui?
— Immagino che non la stia
prendendo bene. Vedrai che ti chiamerà
presto — furono le parole di Woods. Mi
era bastato sentire il suo tono di voce
per capire che non credeva nemmeno lui
a quello che aveva appena detto; il suo
era un semplice tentativo di farmi stare
meglio. Chiusi gli occhi e finsi di
dormire, così non avrebbe aggiunto
altro. Era un argomento di cui non
volevo discutere. Anzi, non volevo
discutere di niente.
Woods accese la radio e in silenzio
percorremmo il resto dei chilometri che
ci separavano da Rosemary. Quando
sentii la macchina che si fermava, riaprii
gli occhi e vidi di fronte a me la casa di
Rush. Ero tornata.
— Grazie — gli dissi, guardandolo.
Aveva l’espressione seria. Si vedeva
che stava pensando a qualcosa che non
si sentiva di condividere con me. Non
avevo bisogno di chiedergli di cosa si
trattasse: anche lui era convinto che
avrei fatto meglio ad andarmene, perché
Rush non mi avrebbe più richiamata e
c’era persino la possibilità che non
sarebbe mai tornato indietro. Non
potevo continuare a vivere in casa sua.
— Chiamami, se ti serve qualcosa —
mi disse, incrociando il mio sguardo.
Annuii, ma avevo già deciso e non
l’avrei fatto. Anche se a Rush non
importava di quello che facevo, non mi
sembrava giusto ricorrere a Woods.
Aprii la portiera e uscii. Lo salutai un
ultima volta da lontano e rientrai nella
grande casa deserta.
RUSH
Sette giorni, e ancora Nan non aveva
riaperto gli occhi. Mia madre si faceva
vedere sempre più di rado. Grant
cominciava a essere l’unico visitatore
che si fermava un po’ con me e si faceva
vedere regolarmente. Abe passava una
volta al giorno, per pochi minuti. Di
nuovo, eravamo io e Nan contro il resto
del mondo.
— Devi telefonarle — mi disse Grant
così, dal nulla. Sapevo di chi stava
parlando, Blaire era sempre nei miei
pensieri. Mi sentivo in colpa a starmene
seduto lì a fissare mia sorella e ad avere
in testa solo lei.
— Non posso — risposi, incapace di
guardarlo negli occhi. Se l’avessi fatto,
si sarebbe accorto che avevo perso le
speranze.
— Non è giusto nei suoi confronti.
Woods ha detto che non si sta facendo
vedere e che non lo chiama da tre giorni.
Cerca di tenere sotto controllo la
situazione tramite Bethy, ma nemmeno
lei è sicura che Blaire si voglia fermare
a lungo. La devi chiamare e basta.
Lasciarmi sarebbe stata la scelta
migliore di tutta la sua vita. Come
facevo a essere ciò che meritava, se
vivevo in un perenne dilemma fra lei e
mia sorella? Non ero riuscito a
proteggere Nan. Come poteva pensare
Blaire che fossi capace di farlo con lei e
con nostro figlio?
— Si merita di meglio — riuscii a
dire ad alta voce anziché continuare a
ripeterlo dentro la mia testa.
— Sì, probabilmente sì. Però vuole
te.
Dio, faceva male. Anch’io volevo
lei. E volevo anche il nostro bambino.
Volevo la vita che mi ero illuso di poter
avere. Come avrei potuto dargliela, se
mia sorella non si fosse mai più
risvegliata? Il dolore e il senso di colpa
mi avrebbero perseguitato per sempre.
Non sarei mai riuscito a essere l’uomo
che avrebbe meritato. Il tormento mi
avrebbe divorato, e sarei arrivato al
punto di essere inutile a tutti.
— Non posso — fu tutto ciò che
riuscii a dire.
Grant imprecò e si alzò di scatto in
piedi, scagliando a terra la giacca per
poi uscire dalla stanza e sbattere forte la
porta. Non capiva. Nessuno capiva.
Guardai con occhi assenti il muro
davanti a me; cominciavo a diventare
insensibile. Stavo perdendo tutte le cose
che avevo concesso a me stesso di
amare.
La porta si aprì e mi girai pensando
di rivedere Grant. Mi sbagliavo: era
Abe. Non ero dell’umore giusto per
affrontare
l’uomo
capace
di
abbandonare le due persone che amavo
di più al mondo in diversi momenti della
loro vita.
— Si può sapere perché cazzo
continui a venire qui, eh? Tanto non te ne
frega niente di niente — gli ringhiai
contro.
Abe non mi rispose. Raggiunse la
sedia che Grant aveva appena lasciato
libera e si sedette. Non era mai successo
che si fermasse a lungo, e il fatto che
sembrasse pronto a farlo proprio in quel
momento non mi piaceva affatto. Avevo
bisogno di rimanere solo.
— Sì che me ne frega, invece. Tua
madre non sa che sono qui, non
approverebbe quello che sto per dirti.
Ma io credo che meriti di saperlo.
Non c’era niente che quell’uomo
potesse dirmi e che io volessi sentire,
ma rimasi ad aspettare in silenzio. Prima
avesse parlato, prima se ne sarebbe
andato.
— Nanette non è mia figlia. Tua
madre l’ha sempre saputo. Avrebbe
preferito che fosse mia, ma quando è
rimasta incinta sapevamo entrambi che
era impossibile. Quando mi chiamò per
dirmelo, ci eravamo lasciati da più di
otto mesi. Aveva appena scoperto di
aspettare un bambino ed era spaventata.
Era ancora innamorata di tuo padre,
motivo principale per cui ci siamo
lasciati. Io non potevo essere all’altezza
di una leggenda vivente come Dean
Finlay… Volevo essere abbastanza per
qualcuno, e per Georgianna non lo sarei
mai stato. Però le volevo bene e lei era
preoccupata al pensiero di crescere un
altro bambino. Ero giovane e stupido,
perciò tornai da lei e insieme parlammo
di matrimonio. Le dissi che avevo
bisogno di pensarci. — Si interruppe e
mi guardò. Io mi stavo ancora
riprendendo dallo shock della prima
frase che aveva pronunciato.
— Quando arrivai da lei, Georgie ti
lasciava da Dean ogni volta che poteva
e continuava a uscire con le amiche
come se non fosse incinta. Non voleva
rivelare chi fosse il padre. Quando
Rebecca venne a trovarla, io ero
arrivato al limite. — Vidi il suo sguardo
intenerirsi e le palpebre chiudersi per un
istante. Non avevo mai visto quell’uomo
esprimere tanta emozione.
— Era uno splendore. Lunghi capelli
biondi che sembravano intessuti dagli
angeli, gli occhi verdi più grandi che
avessi mai visto e una dolcezza infinita.
Ti voleva bene. Non era contenta del
fatto che tua madre ti portasse sempre da
Dean, diceva che non eri al sicuro in
mezzo a quel branco di rockstar. Quando
tua madre usciva, badava lei a te. Ti
aveva cucinato dei pancake con le
orecchie di Topolino che ti erano
piaciuti un mondo. Mi sentivo attratto da
lei e non riuscivo ad andarmene via. Per
un po’, tua madre ci sfruttò entrambi.
Rebecca non voleva ripartire perché era
preoccupata per te, e io non volevo farlo
perché mi ero innamorato di lei. —
Quella non era la storia che mia madre
mi aveva sempre raccontato. Non era la
storia che mi avevano fatto credere per
tutti quegli anni, ma da quando avevo
incontrato Blaire… Da quando l’avevo
conosciuta… Aveva tutto molto più
senso.
— Una sera, tua madre tornò a casa
ubriaca. Non era incinta da molto e mi
confessò che il padre di quel bambino
era, anche quella volta, Dean. Io ero
furioso che avesse bevuto ed ero ancora
più furioso che tuo padre ci fosse
ricascato senza però volersi assumere le
proprie responsabilità. Lo chiamai e gli
dissi che volevo parlargli. L’incontro
non andò bene, lui giurò che il bambino
non era suo. Se lo fosse stato, non
avrebbe avuto problemi a riconoscerlo,
ma diceva che non era così. Georgianna
andava a letto con il cantante degli
Slacker Demon da oltre un mese... Il
figlio in arrivo era di Kiro. Be’, lo
conosci anche tu sin da piccolo.
Sappiamo tutti e due che non ha
esattamente la stoffa del padre.
Il padre di Nan era Kiro? Mi presi il
viso fra le mani, mentre alla mente
riaffioravano ricordi che credevo
sepolti. Kiro che veniva a casa nostra di
notte sbraitando e dicendo a mia madre
che lei gli aveva rubato la sua bambina.
Kiro che le dava della puttana da due
soldi e sperava che la “sua ragazza” non
sarebbe finita come lei. Avevo
dimenticato tutto. O forse l’avevo
rimosso.
— In mezzo a tutti questi problemi, io
e Rebecca ci siamo avvicinati. Dean ti
prese con sé e promise che si sarebbe
preso cura lui di ciò che era suo. Una
sera tua madre sorprese me e Becca
mentre ci baciavamo; impazzì e spinse
lei giù per le scale, chiamandola con dei
nomi che ora non voglio ripetere e
intimando a entrambi di andarcene. Così
facemmo. Becca pianse molto, perché
era preoccupata per te. Si è sempre
preoccupata per te.
Ogni volta che nominava Rebecca,
l’unica cosa che vedevo davanti agli
occhi era il viso di Blaire. Il suo viso
dolce e innocente, che mi faceva sentire
il petto sul punto di scoppiare.
— Le chiesi di sposarmi e lei
accettò. Qualche settimana dopo la luna
di miele, scoprimmo che lei era incinta
di due gemelle. Quelle bambine erano
tutto il mio mondo: veneravo loro così
come veneravo la loro madre. Non
passava un giorno senza che fossi grato
della vita che avevo ricevuto. — Si
interruppe e si lasciò sfuggire un
singhiozzo.
— Poi, un giorno, io e Val stavamo
tornando a casa dalla spesa. Le avevo
comprato un paio di scarpe da
pallavolo. Durante l’estate, a lei era
cresciuto il piede, a Blaire invece no.
Erano
pressoché
identiche,
ma
cominciavo a pensare che Blaire
sarebbe rimasta quella un po’ più
piccolina delle due. Ridevamo perché io
stavo tentando di cantare la canzone alla
radio di una di quelle stupide boy band.
Fu allora che… che non mi accorsi del
semaforo rosso. Un camion che
viaggiava a centoventi all’ora ci investì,
prendendo in pieno il lato di Val. —
Tacque per passarsi una mano sul viso e
asciugarsi le lacrime, poi emise un altro
singhiozzo.
— Avevo perso la mia bambina. Mi
ero distratto. Con lei avevo perso anche
mia moglie, che non riusciva più a
guardarmi in faccia, e l’altra mia figlia,
che era diventata soltanto l’ombra della
ragazza che era stata una volta. Poi sei
arrivato tu, con la fotografia di Nanette.
Io, invece di rimanere dov’ero ed essere
l’uomo che le mie donne meritavano,
sono scappato. Ho detto a me stesso che
loro dovevano avere più di quello che
io avrei potuto offrire. Io non sarei mai
stato in grado di perdonarmi né di
voltare pagina; continuare a vedermi le
avrebbe semplicemente fatte soffrire
ancora di più. E così le lasciai. Mi odiai
allora così come mi odio adesso. Ma io
sono un debole. Sarei dovuto rimanere.
Quando ho scoperto che Rebecca era
malata, ho cominciato a bere. Per me era
impossibile accettare l’idea di un mondo
senza di lei. Ma vedere una donna così
piena di vita, che amavo e avrei sempre
amato, deperire in un letto… sarebbe
andato oltre le mie capacità. Avevo
sepolto mia figlia. Non potevo
seppellire anche mia moglie. Ero
debole, e ho lasciato che fosse la mia
bambina a dare l’ultimo addio alla sua
mamma. Non me lo perdonerò mai — si
interruppe, sollevando finalmente gli
occhi per guardarmi.
— Quello che vedi è un uomo egoista
che pensa soltanto a se stesso. Hai
ragione. Non mi merito l’amore né il
perdono di nessuno. Non lo voglio. Nan
e tua madre mi volevano. Si
comportavano entrambe come se
avessero bisogno di me. Io con loro
potevo fingere, capisci? La verità,
invece, è che tua madre è una persona
triste e irrecuperabile quanto me; forse
per diverse ragioni, ma siamo entrambi
vuoti dentro. Tre mesi fa stavo per
sfogarmi e raccontare tutto: non ce la
facevo più a continuare con la farsa.
Volevo soltanto sedermi accanto alla
tomba di mia moglie e piangere. Poi mi
ha chiamato Blaire. Aveva bisogno di
me, ma io non avevo niente da offrirle.
Così ho mentito. Non sapevo granché
dell’uomo che eri diventato, ma di una
cosa ero certo: avevi cuore. Avresti fatto
qualsiasi cosa per tua sorella. Non
avevo il minimo dubbio che ti sarebbe
bastato mettere gli occhi su Blaire per
perdere la testa. In lei c’è lo stesso
spirito gentile di sua madre. Val era più
simile a me. Ma Blaire… Lei è la mia
Rebecca. Le somiglia così tanto!
Nessuno può starle vicino senza volerle
bene. Ero alla ricerca di una persona
forte, capace di prendersi cura di lei. E
così l’ho mandata da te. — Si asciugò il
resto delle lacrime e si alzò. Io nel
frattempo ero rimasto senza parole.
— Non diventare come me. Non
deluderla come ho fatto io. Ci si merita
solo ciò di cui ci si rende degni. Fai
quello di cui io non sono stato capace:
sii uomo. — Abe si girò e uscì senza
aggiungere una parola.
BLAIRE
Non dormivo da molto quando il
telefono squillò. Era notte fonda e
c’erano solo poche persone che avevano
il mio numero. Quando lo presi in mano,
lo stomaco mi si attorcigliò: era Rush.
— Pronto — risposi quasi spaventata
all’idea di quello che avrei potuto
sentirmi dire.
— Ciao, sono io. — Dalla voce
sembrava che avesse pianto. Dio mio,
no… Nan non poteva essere morta.
— Come sta? — chiesi, sperando che
per una volta le mie preghiere fossero
state ascoltate.
— Si è svegliata. È un po’
disorientata, ma quando ha riaperto gli
occhi mi ha riconosciuto, quindi non ha
perso la memoria.
— Oh, che bella notizia! — Mi misi
a sedere nel letto e decisi che avrei
dovuto provarci più volte con quella
cosa delle preghiere.
— Mi dispiace, Blaire. Mi dispiace
tanto. — Aveva la voce roca. Percepivo
chiaramente il dolore che pesava su
ognuna delle sue parole e non avevo
bisogno di chiedergliene il motivo. Era
finita. Soltanto che non riusciva a
dirmelo.
— Va bene. Tu prenditi cura di Nan,
ok? Sono davvero felice che si sia
ripresa, Rush. Forse tu non ci crederai,
ma ho pregato per lei. Volevo che stesse
bene. — Doveva credermi. Anche se fra
me e Nan non correva buon sangue, ero
consapevole di quanto lei fosse
importante per lui.
— Grazie — disse. — Sto tornando a
casa. Sarò lì non più tardi di domani
sera.
Non capivo se era un modo per farmi
intendere che dovevo andarmene prima
oppure se ci saremmo detti addio di
persona. Scappare sarebbe stato molto
più semplice. Evitare di affrontarlo. Già
così, al telefono, era dura. Rivedere il
suo viso sarebbe stato straziante, ma non
potevo lasciarmi distruggere: avevo un
figlio a cui pensare. Non si trattava più
soltanto di me e basta.
— Allora ci vediamo — risposi.
— Ti amo. — Quelle parole fecero
più male di qualsiasi altra cosa. Volevo
credergli, ma non bastava. L’amore che
forse Rush provava per me non era
sufficiente.
— Anch’io ti amo — dissi prima di
riattaccare e rannicchiarmi sotto la
coperta,
piangendo
addormentarmi.
fino
ad
Il campanello suonò proprio mentre
stavo uscendo dalla doccia. Agguantai i
vestiti che avevo preparato sul letto e mi
vestii in fretta, raccogliendo i capelli
dentro un asciugamano e correndo giù
per le scale.
Quando aprii la porta e mi trovai di
fronte a mio padre, non seppi cosa
pensare. Era stato Rush a mandarlo lì
perché si sbarazzasse di me? No, non ne
sarebbe mai stato capace. E allora?
— Ehi, Blaire. Sono… Sono sono
venuto a parlare con te. — Aveva l’aria
di uno che non dormiva da giorni, i suoi
vestiti erano tutti spiegazzati. Vedere in
un letto d’ospedale la figlia che amava
veramente doveva essere stato un duro
colpo per lui. Mi sforzai di respingere
l’amarezza. Non avrei pensato a quelle
cose. In fondo era anche suo padre; per
lo meno le era stato vicino in quel
momento difficile, sebbene le avesse
sconvolto tutti i primi anni di vita.
— Di cosa? — domandai, senza
muovermi di un millimetro per lasciarlo
entrare. Dubitavo potesse dirmi
qualcosa che avessi voglia di ascoltare.
— Si tratta di Nan… e di te.
Scossi la testa. — Non me ne
importa. Non ho voglia di sentire
qualsiasi cosa tu abbia da dire. Tua
figlia si è svegliata, sono contenta che
non sia morta. — Iniziai a richiudere la
porta.
— Nan non è mia figlia — disse. Le
uniche parole che avrebbero potuto
impedirmi di sbattergli la porta in
faccia. Mentre la riaprivo lentamente,
cercai di assimilare la frase che aveva
appena detto. In che senso Nan non era
sua figlia?
Lo fissai incredula. Quella storia non
aveva senso.
— Ho bisogno di dirti la verità.
Anche Rush la dirà a Nan, quando sarà
pronta. Ma con te volevo parlare io.
Che cosa sapeva Rush? Mi aveva
mentito? Non ero certa di poter
continuare a respirare.
— Rush? — chiesi, reggendomi alla
parete nel caso non fossi riuscita a
incamerare aria a sufficienza e fossi
caduta a terra a peso morto. Dovevo
sedermi.
— Gli ho raccontato tutto ieri. Hanno
mentito a lui come hanno mentito a te,
ma ora sa la verità.
La verità. Qual era la verità? C’era
davvero una verità oppure l’intera mia
esistenza equivaleva a una menzogna?
Andai a sedermi e alzai lo sguardo
sull’uomo che credevo essere mio
padre; lui entrò in casa e richiuse la
porta alle sue spalle.
— Ho sempre saputo che Nan non era
figlia mia. Quel che è peggio è che
anche tua madre lo sapeva. Hai ragione,
Rebecca non mi avrebbe mai permesso
di piantare in asso la mia fidanzata
incinta per scappare via con lei. Per
niente al mondo. Quasi non voleva che
lasciassi la mia ex ragazza in attesa del
figlio dell’ennesimo membro degli
Slacker Demon, perché era preoccupata
per il futuro di Rush! Il suo cuore era
grande come lo ricordi tu. Niente di
quello che sapevi era una bugia, Blaire.
Niente. Il mondo che conoscevi non era
un castello di carte.
— Non capisco. Io so bene che la
mamma era estranea a queste cose, non
mi sono mai nemmeno posta il dubbio.
Eppure non capisco… Se tu non sei il
padre di Nan, perché ci hai abbandonate
per loro?
— Ho conosciuto tua madre mentre
cercavo di aiutare la mia ex a venire a
capo del suo ultimo problema. Anche
Rebecca era andata a trovarla per quel
motivo, tutti e due volevamo bene a
Georgianna. Lei aveva bisogno di noi e
così abbiamo cercato di aiutarla. Poi,
mentre se ne andava in giro a far festa
fingendo di non avere un bambino
piccolo a casa e di essere incinta per la
seconda volta, io mi sono innamorato di
tua madre. Lei era tutto quello che
Georgianna non era: la adoravo e, non
so per quale motivo, anche lei si è
innamorata di me. Quando ce ne siamo
andati, Dean era venuto a prendere
Rush, e Kiro, cantante degli Slacker
Demon nonché vero padre di Nan, si era
offerto di dare una mano. Georgianna ha
scoperto di me e di Rebecca, ci ha
sbattuti fuori e noi ce ne siamo andati
più che volentieri. Tua madre però si
preoccupava per Rush, e per un po’ di
tempo ha continuato a chiamare Dean
per sapere come stava.
— La mamma conosceva Rush?! —
Ripensare a mia madre che si prendeva
cura del piccolo Rush perché i suoi
genitori erano due fuori di testa mi fece
venire le lacrime agli occhi. Allora
Rush sapeva anche da sé quanto mia
madre fosse meravigliosa, pur non
ricordandosela.
— Sì. La chiamava Beck Beck.
Preferiva lei a Georgianna, cosa che
ovviamente a Georgie non faceva
piacere. Quando riuscì a riprendersi
Rush, impedì a tua madre di andarlo a
trovare. Rebecca pianse per settimane,
angosciata per quel bambino che si era
ormai abituata ad amare. Che ci vuoi
fare, tua madre era fatta così, troppo
altruista. Aveva il cuore più grande di
chiunque altro avessi mai conosciuto…
finché ho rivisto te. Sei proprio come
lei, tesoro mio.
Sollevai le mani per impedirgli di
toccarmi. Non ci saremmo riavvicinati
per via di quella notizia. Non stavo
piangendo perché sapevo che mia madre
era innocente di ciò di cui l’avevano
ingiustamente accusata. Stavo piangendo
perché anche lei, un tempo, aveva voluto
bene a Rush. La sua infanzia non era
stata così solitaria.
— Ho quasi finito. Lasciami
concludere, poi me ne andrò e non mi
rivedrai mai più. Te lo giuro.
Sapeva che anche io stavo per
andarmene. Che fra me e Rush era finita.
La fitta di dolore che mi trapassò il petto
fu quasi insostenibile.
— È colpa mia se Val è morta. Sono
passato con il rosso. Quel giorno mi
sono distratto un secondo e ho perso una
delle mie ragazze. Non solo, ho perso
anche te e tua madre: eravate a pezzi, ed
era tutta colpa mia. Non sono stato
abbastanza uomo da restare e sopportare
di vedervi in quello stato. E così sono
scappato, ho lasciato che fossi tu a
prenderti cura di Becca quando invece
avrei dovuto farlo io. In realtà ero
troppo debole, incapace anche solo di
pensare che Becca fosse malata.
Sarebbe stata la mia fine. Ho cominciato
a bere fino a stordirmi completamente,
era l’unico modo per non provare
sentimenti. Poi mi hai telefonato e hai
detto che lei era morta. La mia Rebecca
non era più di questo mondo. Avrei
raccontato a Nan la verità su suo padre e
me ne sarei andato. Non sapevo dove,
ma a quel punto non mi importava di
vivere o morire.
«Un giorno mi hai chiamato, hai detto
che avevi bisogno di me. Io non ero più
neppure un essere umano, non valevo
nulla. Però non potevo abbandonarti, ti
avevo già fatto soffrire molto e da sola.
Ti ho mandato da Rush. Non è
esattamente il genere di ragazzo che un
padre vorrebbe per sua figlia, ma
sapevo che avrebbe visto in te quello
che io avevo visto in Becca: un’ancora
di salvezza. Una ragione per vivere, una
ragione per combattere, una ragione per
cambiare. Era forte, avrebbe potuto
proteggerti e io sapevo che, con le giuste
condizioni, lo avrebbe fatto.»
Era davvero troppo. Non riuscivo a
venirne a capo. Mi aveva mandato lui da
Rush? Dal ragazzo che adorava una
sorella che odiava me e mi incolpava di
tutti i guai della sua vita?
— Lui mi odiava — risposi. —
Odiava quello che ero.
Il sorriso di mio padre era di quelli
tristi. — Sì, odiava quello che credeva
tu fossi, ma poi ti ha conosciuto. Ti è
stato vicino, e non serviva altro. Quelle
come te sono rare, Blaire. C’era tua
madre, lei sì, ma al mondo non esistono
molte persone forti come voi due. Forti,
piene d’amore, disposte a perdonare.
Hai sempre invidiato Val perché faceva
girare la testa a tutti quanti, pensavi che
delle due fosse lei la migliore. Ma
quello che Val sapeva, e che anche io
sapevo, era che i veri fortunati eravamo
io e lei, perché nella nostra vita
potevamo contare su persone come te e
tua madre. Val ti adorava. Vedeva che
eri tu ad avere lo stesso spirito di vostra
madre. Noi vi ammiravamo entrambe.
Continuo a farlo, sai, e anche se dal
giorno in cui abbiamo perso tua sorella
non ho fatto altro che causarti dolore, ti
ho sempre voluto bene e sempre te ne
vorrò. Sei la mia bambina. Meriti tutto il
meglio di questo mondo e io il meglio
non lo sono. Me ne sto andando, non ti
disturberò mai più. Devo vivere gli anni
che mi restano da solo, ripensando
quello che avevo una volta.
L’angoscia in fondo ai suoi occhi mi
ferì l’anima. Aveva ragione. Aveva
abbandonato me e la mamma quando
avevamo avuto più bisogno di lui.
Forse, però, anche noi l’avevamo
abbandonato. Non l’avevamo seguito,
ma lasciato andare e basta. Il giorno
della morte di Valerie aveva lasciato un
segno indelebile nelle nostre vite.
Adesso, sia lei che la mamma non
c’erano più e non sarebbero mai tornate.
Però noi eravamo rimasti. Non mi
andava di vivere il resto della vita
sapendo che mio padre era chissà dove,
da solo. Mia madre non l’avrebbe
voluto. Aveva continuato ad amarlo fino
all’ultimo respiro. Anche Val non
avrebbe voluto, era sempre stata la
cocca di papà.
Mi rialzai e feci un passo verso di
lui. Le lacrime non versate che gli
gonfiavano gli occhi cominciarono a
scorrergli pian piano lungo le guance.
Era solo l’ombra dell’uomo che era
stato, ma rimaneva pur sempre mio
padre. Un singhiozzo mi scosse il petto
quando mi gettai fra le sue braccia. Nel
momento in cui le sentii stringersi
attorno a me e tenermi forte lasciai
libero sfogo a tutto il dolore che avevo
in corpo. Piansi per la vita che avevamo
perso. Piansi per lui, perché non era
stato forte abbastanza. E piansi per me,
perché era arrivato il momento.
RUSH
La casa era buia e silenziosa quando
aprii la porta ed entrai. Blaire avrebbe
davvero spento tutte le luci, se fosse
stata sola? Ero stato talmente
concentrato sull’idea di tornare a casa
da lei, dopo aver parlato con Nan, che
mi ero rifiutato di fermarmi a pensare
che potesse avermi lasciato. L’aveva
fatto sul serio?
Mi girai e salii le scale due gradini
alla volta. Arrivato in cima, cominciai a
correre. Sentivo il cuore schiantarsi
contro il petto. Non poteva essersene
andata, le avevo detto che la amavo. Le
avevo detto che stavo tornando a casa.
Doveva esserci, per forza. Dovevo
raccontarle tutto, dirle che le cose
sarebbero andate diversamente. Dirle
che mi ero ricordato di sua madre, di
quei pancake con le orecchie di
Topolino. Dirle che ero io l’uomo di cui
aveva bisogno. Sarei stato il miglior
padre che il mondo avesse mai
conosciuto, accidenti!
Spalancai la porta che dava sulle
scale per il piano superiore e salii come
un fulmine in camera mia. Dovevo
vederla. Pregavo Dio che ci fosse. Per
favore!
Il letto era vuoto. No. NO! Scrutai la
stanza in cerca delle sue cose. Qualcosa
che mi dicesse che non mi aveva
abbandonato. Perché non poteva averlo
fatto sul serio. L’avrei inseguita, mi
sarei messo in ginocchio, avrei
strisciato. Sarei stato la sua cazzo di
ombra finché non si fosse arresa,
perdonandomi.
— Rush? — La sua voce ruppe il
silenzio e le martellate che avevo in
testa. Mi girai e la vidi seduta sul
divano. Aveva i capelli tutti arruffati e il
suo viso assonnato era il ritratto della
perfezione.
— Sei qui. — Caddi in ginocchio di
fronte a lei e le appoggiai la testa sulle
ginocchia. Era rimasta. Non mi aveva
lasciato.
Mi mise le mani sulla testa e me le
fece scorrere tra i capelli. — Sì, sono
qui — rispose con voce incerta. La
stavo spaventando, ma mi serviva
ancora un minuto per rendermi davvero
conto di non essere stato lasciato. Non
avevo rovinato tutto. Non volevo
diventare come suo padre. L’uomo
smarrito e svuotato che avevo visto il
giorno prima non potevo essere io,
sebbene sapessi che, senza Blaire, sarei
finito esattamente così.
— Stai bene? — mi chiese.
Annuì, ma continuai a tenerle la testa
sulle gambe. Quando fui sicuro di
poterle
parlare
senza
perdere
completamente il controllo, sollevai la
fronte e la guardai.
— Io ti amo. — Il modo in cui
l’avevo dichiarato era talmente intenso
che sembrava quasi un’imprecazione.
L’accenno di un sorriso malinconico
le sfiorò le labbra. — Lo so, va tutto
bene. Ti capisco. Non ti costringerò a
scegliere. Voglio solo che tu sia felice,
perché te lo meriti. Ho avuto tanto tempo
per pensarci e ho capito che starò bene.
Non devi preoccuparti per me, io sono
forte, posso farcela da sola.
Non seguivo il suo ragionamento.
Farcela da sola… In che senso? —
Come, scusa? — dissi ripetendo
mentalmente le parole che Blaire aveva
appena pronunciato.
— Oggi ho parlato con mio padre. So
tutto. È difficile da capire, ma adesso ha
tutto più senso.
Abe era andato da lei? L’aveva fatto,
le aveva raccontato tutto… Allora
sapeva. In ogni caso, quello che diceva
continuava a non avere senso.
— Piccola, forse è perché negli
ultimi otto giorni non ho dormito molto,
oppure perché sono troppo contento di
averti trovata qui, però sappi che non sto
capendo niente di quello che stai
cercando di dirmi.
Una lacrima le luccicò in un occhio.
Saltai in piedi, me la presi in braccio.
Non volevo che piangesse, pensavo
l’avrebbe presa come una bella notizia:
era la conferma che sua madre era la
donna che aveva sempre conosciuto,
pura e onesta come diceva lei. Io ero
tornato ed ero pronto a essere tutto ciò
di cui avrebbe avuto bisogno nella sua
vita. Sarei morto rendendola felice.
— Ti amo, e proprio perché ti amo ti
sto lasciando. Voglio che tu dalla vita
ottenga ciò che desideri. Non ho
intenzione di farti da palla al piede.
— Cos’è che hai appena detto,
scusa? — chiesi appena mi resi conto
che aveva pronunciato la frase “Ti sto
lasciando”. Col cavolo!
— Mi hai sentito, Rush. Non rendere
le cose più difficili di quello che già
sono — sussurrò.
La guardai incredulo. Era davvero
convinta di ciò che stava dicendo.
L’avevo lasciata lì da sola a fare chissà
quali pensieri mentre ero rimasto in
ospedale a vegliare su Nan. Avrei
dovuto chiamarla, invece non l’avevo
fatto. Era ovvio che fosse confusa.
— Stammi a sentire, Blaire. Se solo
provi ad andartene, sappi che io ti
inseguirò. Diventerò la tua ombra. Non
ti perderò mai di vista, perché senza di
te non posso vivere. Ho fatto così tanti
errori che non voglio neppure mettermi a
contarli, ma ti giuro che da oggi in poi
andrà tutto bene. Questi problemi non si
presenteranno più. So che è qui che
devo stare. Basta bugie. Soltanto noi.
Tirò su con il naso e sprofondò con la
testa dentro la mia spalla. La tenni forte
tra le braccia. — Dico sul serio. Ho
bisogno di te, non puoi lasciarmi.
— Ma io non c’entro niente! La tua
famiglia mi odia. Ti renderò la vita
difficile…
Ecco dove si sbagliava. — No. La
mia famiglia sei tu. Mia madre non lo è
mai stata, né si è mai sforzata di esserlo.
Forse mia sorella non si è ancora
ripresa completamente, ma mi ha chiesto
se avrebbe fatto parte della vita di suo
nipote. Si vuole impegnare. Quanto al
fatto di rendermi la vita difficile, devi
sapere che tu, Blaire, rendi la mia vita
completa.
Le sue labbra travolsero le mie e le
sue mani si strinsero attorno al tessuto
della mia maglietta. Mi fece scivolare la
lingua in bocca finché mi persi nel suo
sapore. Mi era mancata tanto… Come
avevo potuto pensare, anche solo un
minuto, di riuscire a sopravvivere senza
quello… senza di lei? Impossibile.
BLAIRE
— Voglio fare l’amore — mi sussurrò
Rush all’orecchio mentre mi baciava
lungo la guancia e mi infilava le mani
sotto la canottiera.
— Sì — risposi afferrandogli la
maglietta e togliendogliela da sopra la
testa. Fece un risolino, alzò le mani per
agevolarmi il compito e poi spogliò
anche me.
— Cavolo, da quando me ne sono
andato questi due sono cresciuti ancora
di più — mormorò, prendendomi i seni
fra le mani. — Ma… dentro c’è già il
latte? — chiese.
— No! — risposi sghignazzando.
— Ce la sto mettendo davvero tutta
per non fare il maschio medio, ma è più
forte di me. Queste due tette mi eccitano
da morire! — ammise prima di alzare lo
sguardo su di me, da sotto le ciglia
semichiuse, e prendendo in bocca un
capezzolo.
— Oh… — gemetti afferrandogli la
testa per tenerlo fermo dov’era. Le mie
tette non erano diventate solo più grosse,
ma anche più sensibili. Ogni movimento
della sua bocca intorno al capezzolo
corrispondeva a una pulsazione del
clitoride. Era come se ci fosse un
collegamento diretto.
— Togliti quegli slip — mi disse,
con la bocca piena, tirando l’elastico.
Li presi e, con il suo aiuto, li feci
scorrere verso il basso. Quando lasciò
libero il capezzolo, fu solo per iniziare a
tormentare l’altro.
— Cazzo, Blaire — ansimò,
infilando un dito dentro di me. — È
bagnata. È sempre pronta e bagnata.
Lo presi per la fibbia della cintura e
cominciai a sbottonargli i jeans. Anch’io
volevo vederlo nudo.
— Non ancora — mi disse,
sollevandomi dalle sue ginocchia e
deponendomi sul divano. — Mi serve un
assaggio, prima.
Non gli staccai gli occhi di dosso
mentre mi divaricava le gambe e
chinava la testa per leccare il centro
esatto delle mie pieghe calde.
— Oddio, Rush! — gridai sollevando
il bacino per avvicinarmi di più alla sua
bocca. Il piercing passava e ripassava
sul clitoride ogni volta che lui faceva
guizzare la lingua. E mi faceva
impazzire.
— Mi piace quando ti contorci tutta
— commentò con un sorrisetto
malizioso. E a me piaceva quello che lui
mi faceva per portarmi a quel punto.
Il suo dito continuava a scivolare
dentro e fuori il mio calore e il piercing
non dava tregua al clitoride. Quell’uomo
selvaggio e passionale era mio. A volte
mi riusciva difficile crederci, ma ero
davvero felice di essermi presentata in
casa sua quattro mesi prima.
Si rialzò, spinse jeans e boxer verso
il basso e se li sfilò. Lo fissai. Era
meraviglioso. Lasciai che i miei occhi
indugiassero su ogni muscolo del suo
corpo: niente avrebbe potuto renderlo
più perfetto di così. Tranne… — Rush?
— Sì?
— Non è che avresti voglia di farti
un piercing anche ai capezzoli? —
chiesi, sorpresa dalla mia stessa
richiesta.
Rush scoppiò a ridere e tornò sopra
di me. — È a te che piacerebbe, vero?
Annuii, gli feci scorrere le mani su
per il petto e gli sfregai i capezzoli con i
pollici. — È che mi piacciono gli altri
piercing che già hai.
Mi baciò il collo e mi fece scorrere
una mano lungo la coscia. Arrivato sotto
il ginocchio, mi sollevò la gamba. —
Ma poi me li bacerai per farli guarire?
Perché ho come la sensazione che
faranno un male cane.
— Ti prometto che li tratterò
benissimo — lo rassicurai sorridendo.
— Tutto quello che vuoi, piccola.
Basta che tu non mi chieda di bucare
niente di niente dalla vita in giù.
Inarcai le sopracciglia. Non avevo
neanche lontanamente pensato a quello!
Prima che potessi ribattere, lo sentii
spingere dentro di me e ogni altro
pensiero mi abbandonò. Mi stava
riempiendo, allargando, e tutto nel
mondo era tornato perfetto.
— Oddio… Come hai fatto a
diventare ancora più stretta? — mi
chiese, ansimando sopra di me, con le
braccia che gli tremavano per lo sforzo
di trattenersi.
Lasciai cadere la testa all’indietro e
sollevai i fianchi. Era più bello del
solito. Non avrei mai pensato che fosse
possibile, invece… — Sono più
sensibile — riuscii a dire con un filo di
voce.
— Ti fa male? — mi chiese,
ritraendosi. Lo presi per i glutei e lo feci
tornare dentro.
— NO! È bello. Bellissimo. Più
forte, Rush. Ti prego! È incredibile.
Rush gemette e affondò per il resto
della sua lunghezza dentro di me. —
Non durerò molto. Sei troppo stretta, sto
per venire. — Smise di muoversi e poi
si ritrasse lentamente. Anche a me
mancava pochissimo, non volevo che
rallentasse. La sensazione che ogni sua
spinta mi diffondeva in tutto il corpo era
estasiante, non mi bastava mai. Lo
allontanai con tutta la forza che avevo in
corpo. Lui si mise seduto e mi guardò
mentre gli salivo in braccio e iniziavo a
oscillare sopra di lui con movimenti
veloci e decisi.
— Porca puttana! — gridò
afferrandomi i capelli a piene mani.
Salivo e scendevo rapida, mentre il
mio corpo si avvicinava ogni secondo di
più a quell’estasi che si annunciava
vicina.
— Piccola, sto per venire…
Aaaaaaaah! — urlò Rush prendendomi il
viso e baciandomi con un trasporto che
mi fece raggiungere l’apice insieme a
lui. Gridai dentro la sua bocca e tremai
di piacere mentre mi stringeva forte,
assaporandomi
la
lingua
e
accarezzandola avidamente con la sua.
Collassai sopra di lui e mi lasciai
abbracciare. Restammo a respirare
forte, in silenzio. I muscoli della vagina
continuavano a contrarsi, come se il mio
corpo stesse subendo le scosse
secondarie di un terremoto. Ogni volta
che succedeva, Rush gemeva di piacere.
Quando fui sicura di poter riprendere
a parlare, alzai la fronte e lo guardai
negli occhi. — Che cosa è appena
successo? — gli chiesi.
Lui rise e scosse la testa. — Non lo
so. Mi hai scopato fino a farmi morire!
Giuro che questa resterà negli annali….
Pensavo che di meglio non si potesse
fare, invece mi hai appena dimostrato il
contrario. Dio, eri scatenata!
Nascosi il viso contro il suo petto e
risi insieme a lui. Sì, avevo leggermente
perso il controllo.
— Prega che non sia un effetto della
gravidanza, altrimenti passerai i
prossimi trent’anni incinta!
RUSH
Stringevo la mano a Blaire mentre lei
sfogliava una rivista per neomamme.
Tutte quelle fotografie di pannolini e
altri aggeggi infantili mi mettevano una
paura folle…
Di fronte a lei non sarei mai riuscito
ad ammetterlo, ma l’idea che presto
avremmo avuto un figlio iniziava a
spaventarmi. Le tette grandi, il sesso nel
cuore della notte e il dolce
rigonfiamento dei fianchi erano dei
vantaggi così incredibili che era stato
facile dimenticare quale fosse la vera
causa.
— Blaire Wynn. — L’infermiera
chiamò il suo nome e io abbassai lo
sguardo sul diamante che le avevo
messo al dito. Ancora due settimane e il
suo cognome sarebbe cambiato. Ero
pronto. Non mi piaceva che la
chiamassero Wynn; per me lei era già
Blaire Finlay.
—
Siamo
noi
—
rispose,
sorridendomi prima di alzarsi. Ora la
pancia cominciava a vedersi. Come ci si
potesse aspettare qualcosa di più grande
di un fagiolo, quello non lo sapevo, ma
Blaire mi aveva promesso che saremmo
davvero riusciti a vedere il bambino.
Con braccia e gambe, per quanto
pazzesco potesse sembrare.
Non le lasciai la mano mentre
l’infermiera ci faceva strada verso lo
studio. Si era girata più volte verso di
me: avrebbe fatto meglio a non dirmi
che non potevo entrare, perché tanto
sarei entrato comunque. Era arrivato il
momento di vedere il mio bambino.
— Qui, prego — ci disse facendosi
da parte e lasciandoci entrare per primi.
— Spogliati completamente e indossa il
camice. Il dottor Nelson vorrà visitarti
anche oggi, però prima faremo
l’ecografia.
Per Blaire non sembrava un grande
problema dover rimanere praticamente
nuda. L’infermiera mi lanciò un’occhiata
scettica. — Ti va bene se questo resta
qui mentre ti spogli?
“Questo”? Ma cosa diavolo…?
Blaire sorrise e mi guardò. — Sì, lui
è il padre.
L’infermiera si mise dritta sulla
schiena e mi rivolse un sorriso
sollevato. — Fantastico! Non mi
piaceva pensare che una ragazza giovane
come lei dovesse fare tutto da sola.
Blaire arrossì ed entrò in un angolino
protetto da un paravento. Dopo che
l’infermiera se ne fu andata, la raggiunsi.
— Scusa, ma perché ha detto
“questo”?!
Blaire si morse il labbro inferiore e
strinse forte gli occhi. — Devo
rispondere per forza?
— Uh, sì. Soprattutto dopo che mi hai
fatto questa domanda! — Mi stavo già
preparando al fatto che la risposta non
sarebbe stata di mio gradimento...
— All’ultima visita mi ha
accompagnato Woods. Gli hanno detto
che poteva entrare e io ho risposto di no,
perché era soltanto un amico.
Me ne ero quasi dimenticato. Ora
capivo perché gli aveva chiesto un
passaggio: io non c’ero. Eppure, sapere
che un altro uomo era stato lì con lei
quando avrebbe avuto bisogno di me era
difficile da mandare giù. Mi accorsi che
era impallidita e mi chinai per darle un
bacio sulle labbra. — Dai, non ti
preoccupare. Sono io quello che
avrebbe dovuto esserci. Invece non
c’ero.
Annuì. — Mi dispiace.
— No. È a me che deve dispiacere.
La porta dello studio si riaprì
all’improvviso e io sbucai con la testa
dal camerino.
L’infermiera mi sorrise, trascinando
dietro di sé un’apparecchiatura dotata di
un piccolo schermo. — Sei andato a
controllare se era pronta? — Aveva
un’espressione divertita sul viso.
— Quasi! — risposi sbirciando di
nuovo dentro al camerino. Blaire era
diventata completamente rossa. Non
riuscii a non ridere. — Cambiati,
bambola. Io torno fuori.
Lei annuì e io la lasciai sola. Mi
avvicinai al lettino e osservai il
macchinario. — Quindi è con questo che
vedremo il bambino? — domandai,
chiedendomi come fosse possibile.
— Esatto. Blaire ha l’assistenza
sanitaria gratuita, perciò usiamo questo.
La maggior parte delle madri chiede
l’ecografia 3D, e spero che un giorno
anche chi non può permettersi
un’assicurazione privata avrà la
possibilità di vedere bene il suo
bambino. Per ora costa ancora troppo.
Rimasi di stucco. Guardai prima
l’apparecchio, poi l’infermiera. Blaire
aveva fatto domanda di assistenza
pubblica? Eh? Cosa?! Non avevo
nemmeno pensato al fatto che potesse
avere bisogno di un’assicurazione
privata… Io ero stato abituato a ricevere
sempre il meglio, senza doverci neppure
pensare.
— Vorrei il macchinario 3D. Pago
subito quello che c’è da pagare, ma
voglio il meglio che questo studio possa
offrire.
Lo sguardo dell’infermiera si
soffermò sui miei orecchini, poi sulla Tshirt che di certo aveva visto giorni
migliori. Era un regalo di mio padre, me
l’aveva data circa cinque anni prima
alla fine di un tour. Mi piaceva perché
vestiva aderente, e Blaire diceva che
stavo bene con quel genere di magliette.
— Oh, be’… Non credo che tu ti renda
conto di quanto possa costare un esame
del genere. È molto dolce da parte tua
cercare di offrire quell’esperienza a
Blaire, ma…
— Posso permettermi ogni tipo di
esame esistente. E ripeto, posso pagare
subito. Voglio per Blaire e per mio figlio
tutto il meglio che c’è.
Mentre l’infermiera apriva bocca per
tentare di ribattere, Blaire uscì dalla
stanza indossando un camice di cotone
leggero. — La prego, non si metta a
discutere con lui, altrimenti le creerà
grossi problemi. Facciamo l’esame in
3D e basta.
L’infermiera si strinse nelle spalle.
— Ok, come volete. Però mi serve un
acconto.
Aprii il portafogli e le porsi
l’American Express nera, un privilegio
di cui godevamo in pochi. Le uscirono
gli occhi dalle orbite. La prese in
silenzio e uscì dalla stanza.
— Ora dovrei dirti che una normale
ecografia sarebbe andata benissimo lo
stesso, ma… sarebbe una bugia. Ho
visto delle immagini 3D sulle riviste
specializzate e anch’io ne vorrei tanto
una così!
Blaire sorrideva come una bambina
pronta per il suo primo viaggio a
Disneyland. Cavolo, se fosse bastata a
farla sorridere sempre così, quella cazzo
di macchina 3D gliel’avrei direttamente
comprata.
— Solo il meglio per la mia ragazza
e per mio figlio. Sempre.
La porta si aprì e l’infermiera entrò
scrutandomi in cerca di chissà quale
indizio. Mi riconsegnò la carta di
credito. La presi e la rimisi nel
portafogli.
— Sei il figlio di Dean Finlay? —
chiese infine.
— Sì. E adesso vediamo il mio
bambino!
La donna annuì obbediente e si
rivolse a Blaire. — L’ecografo
tridimensionale è in una stanza a parte.
Te la senti di attraversare il corridoio
con indosso solo il camice?
— Qualcuno potrebbe vederla? —
intervenni mettendomi subito di fronte a
lei, perché, in caso di risposta
affermativa, io non me la sarei sentita di
certo.
L’infermiera aprì un armadio e ne
estrasse un lenzuolo. — Tieni, falle
mettere questo.
L’avvolsi in più giri, finché non fu
completamente coperta. Blaire si
sforzava di non ridere stringendo forte le
labbra. Le feci l’occhiolino e le diedi un
bacio sulla punta del naso.
Attraversammo un lungo corridoio,
sfilando davanti a due infermiere, a
un’altra coppia e al medico di Blaire,
che ci chiese perché ci stessimo
spostando. La nostra infermiera gli
spiegò rapidamente che avevo appena
pagato per l’ecografia 3D e lui ci seguì,
con aria molto compiaciuta, nell’altra
stanza.
Blaire si sdraiò sul lettino e io
aspettai impaziente che finissero di
prepararla. Aveva la pancia scoperta,
spalmata di gel trasparente. L’infermiera
mi guardò. — Volete conoscere il sesso
del nascituro?
— Lo chieda alla mamma — risposi,
infastidito che lo avesse chiesto prima a
me.
— Sì, mi piacerebbe — disse lei,
guardandomi in cerca di una conferma.
— Anche a me — confermai.
Il medico cominciò a muovere
qualcosa sulla pancia di Blaire e un
battito riempì la stanza. Era più veloce
del normale. — È il battito del mio
bambino? — chiesi, alzandomi in piedi
di scatto. Rimanere seduto era diventato
impossibile.
Il mio cuore stava battendo rapido
come quello che sentivo uscire dallo
schermo.
— Sì, è normale — rispose il
medico. — E qui… Sì, ecco qui il
nostro campione — annunciò.
Fissai lo schermo mentre una piccola
vita cominciava a prendere forma.
— Campione? O campionessa? —
chiese Blaire.
— Direi che si tratta senza dubbio di
un campione.
Presi subito la mano di Blaire,
incapace di staccare gli occhi dallo
schermo. Era il nostro bambino. Avrei
avuto un figlio maschio… E, ’fanculo,
avrei anche pianto.
RINGRAZIAMENTI
Devo cominciare ringraziando Keith,
mio marito, che durante la stesura di
questo libro (e di tutti gli altri) ha
sopportato la casa sporca, la mancanza
di vestiti puliti e gli sbalzi d’umore
della sottoscritta.
I mie tre tesori, che si sono sfamati
ricorrendo a pizza e surgelati vari
perché io ero troppo impegnata a
scrivere. Giuro che, una volta finito il
libro, ho preparato un sacco di
manicaretti salutari.
Elizabeth Reyes, Autumn Hull e
Colleen Hoover per aver letto e
commentato il manoscritto. Grazie per il
vostro aiuto, ragazze!
Sarah Hansen, disegnatrice della
splendida copertina originale. È un
talento, le voglio bene. Quando si esce
con lei ci si diverte sempre un sacco.
Fidatevi… Ho le prove ;-)
L’agente più in gamba mai avvistata
nell’ambiente letterario, Jane Dystel. Io
la adoro, punto. Una standing ovation
anche per Lauren Abramo, la mia agente
per l’estero che sta facendo un ottimo
lavoro per diffondere i miei libri in tutto
il mondo. È una grande.
Stephanie T. Lott: ho lavorato con
tanti editor, ma lei mi piace da morire. È
favolosa.
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modifiche.
Indice
Il libro
L’autore
Irresistibile
RUSH
BLAIRE
RUSH
BLAIRE
RUSH
BLAIRE
BLAIRE
RUSH
BLAIRE
RUSH
BLAIRE
RUSH
BLAIRE
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BLAIRE
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RINGRAZIAMENTI
Copyright
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RUSH - leggerechepassione