SUSSIDIO FORMATIVO
2010
2011
FEDERAZIONE NAZIONALE
SOCIETÀ DI SAN VINCENZO DE PAOLI
CARITÀ
e MISSIONE
nelle Conferenze
Vincenziane
INDICE
PREFAZIONE
pag. 5
»
PRESENTAZIONE
7
I PARTE: SERVIZI E MINISTERI NELLA CHIESA
I. L’analisi storica
»
9
II. La riflessione teologica
» 13
III. Spunti conclusivi sulla ministerialità nella Chiesa» 17
IV. Alcune icone evangeliche per comprendere la
ministerialità
» 20
II PARTE: SERVIZIO E MINISTERO NEL CARISMA
VINCENZIANO
I. Il ministero della carità
II. Il ministero della carità nei vincenziani
III. L’icona del Buon Pastore
IV. Due modelli di carità evangelica: Vincenzo
Depaoli e Federico Ozanam
» 22
» 25
» 28
» 31
III PARTE: COMUNIONE, CORRESPONSABILITÀ E SERVIZIO
NELLA CONFERENZA VINCENZIANA
I. Una comunità di fede e di amore
»
II. Spirito di amicizia e di fraternità
»
III. Spirito di preghiera e di sacrificio
»
IV Spirito di povertà e di condivisione
»
36
39
42
45
Le foto, di Marco Bersani, sono relative alla parte celebrativa in San
Pietro del Convegno “Carità e Missione” per il 350° anniversario
della morte di san Vincenzo De Paoli e di santa Luisa De Marillac
(24-26 settembre 2010).
Supplemento a
LA SAN VINCENZO IN ITALIA n. 11-12/2010
Proprietà e Editore: Società di San Vincenzo De Paoli Consiglio Nazionale Italiano
Via della Pigna, 13/a - 00186 Roma
Direttore responsabile: Marco F. Bersani
Redazione di Roma: Via della Pigna, 13/a - 00186 Roma
Tel. 066796989- Fax 066789309 - www.sanvincenzoitalia.it
e-mail: [email protected]
Progetto editoriale: Marco F. Bersani
Grafica e fotolito: Italliani nel mondo srl
Vicolo dei Granari, 10a - 00186 Roma – Tel. 066823225 - Fax 0668136016
Stampa: Nuova Editrice Grafica s.r.l. - Via Colonnello Tommaso Masala, 42
00126 Roma
Roma, 23 novembre 2010
4 Sussidio formativo 2010/2011
PREFAZIONE
A
nche quest’anno Vi presentiamo il Sussidio
formativo che è alla base della vita della
Conferenza e del cammino spirituale di ogni
vincenziano.
Il tema di quest’anno “Carità e Missione nelle
Conferenze Vincenziane” è, a mio parere, molto
stimolante e ci spinge a notevoli riflessioni.
Per prima cosa ci invita ad una introspezione
personale del nostro essere cattolici, ci spinge sia a
meditare su quanto siamo fedeli alla Chiesa ed ai
nostri fondatori nello svolgere il nostro servizio di
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 5
carità, sia a riflettere su quanto e come siamo
testimoni di fede nella nostra quotidianità.
La condivisione poi in Conferenza ci aiuterà ad
una maggiore spinta a rinnovarci e rinforzarci nello
spirito e nel servizio ai nostri fratelli bisognosi.
Un grazie di cuore a Padre Giovanni Battista
Bergesio, Padre Giuseppe Turati ed Alessandro Floris
che con solerzia si sono impegnati in questo Sussidio
ed a voi tutti buona lettura e buon approfondimento.
Claudia Nodari
Presidente Nazionale
PRESENTAZIONE
L
o slogan dell’Anno Vincenziano ormai concluso era,
come ben ricordiamo, “SAN VINCENZO MAI COSÌ GIOVANE DOPO 350 ANNI”.
Può sembrare una battuta ad effetto… È fondata invece su una constatazione di totale evidenza, che si può
esprimere in due righe:
1. l’attualità delle opzioni di fondo di san Vincenzo: la
dignità di ogni uomo, la centralità del povero nella
Chiesa, la carità via primaria dell’evangelizzazione...
2. l’attualità delle sue intuizioni: la visita come alternativa all’istituzionalizzazione del povero, la carità come
prevenzione, la riscoperta del ministero laicale, il ruolo
della donna nella società e nella Chiesa…
Il nuovo capitolo della storia vincenziana, che si è
aperto dopo le celebrazioni giubilari, deve ripartire di qui
e proseguire nel cammino di rinnovamento: perché di qui
a cinquanta, o cento, o mille anni San Vincenzo continui
ad essere giovane!
Il presente Sussidio formativo vuole aiutarci in questo
cammino: richiamandoci innanzitutto – ogni qualvolta ci
incontriamo in Conferenza – che la vita del Vincenziano
deve avere come costante punto di riferimento Gesù Cri-
8 Sussidio formativo 2010/2011
sto, ed essere esegesi del Dio invisibile.
Infatti, solo se la San Vincenzo è memoria viva dell’esistenza, dell’azione e della carità di Gesù, incarnazione dei
suoi gesti e dei suoi comportamenti, può svolgere il suo
ministero di servizio e di evangelizzazione.
Viviamo in un tempo in cui ci sentiamo sollecitati da
molte domande e da molti interrogativi. Le sfide non provengono soltanto dal mondo esterno, ma sorgono anche
dal nostro stesso cuore e sono di diversa indole e natura:
dal calo numerico dei membri dell’associazione alla loro
fragilità, dall’invecchiamento che porta all’incertezza del
futuro alla scarsità di formazione iniziale e permanente…
Occorre che le nostre Conferenze siano in grado di
formare consorelle e confratelli appassionati, abbracciando tutte le dimensioni della persona: umana, culturale, religiosa, carismatica.
Questo opuscolo non ha certo la pretesa di assolvere da
solo a queste esigenze, ma la speranza di contribuirvi.
Lo affido perciò con fiducia all’intercessione di san
Vincenzo, del beato Federico e di tutti i santi della Famiglia Vincenziana.
Padre Giovanni Battista Bergesio
Consigliere spirituale nazionale
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 9
I Parte
SERVIZI E MINISTERI NELLA CHIESA
di Padre Giuseppe Turati
I. L’ANALISI STORICA
Gli inizi del ministero cristiano
La testimonianza del vangeli non lascia dubbi: Gesù si
scelse un gruppo particolare di “ministri” (i dodici), di cui
Pietro era il capo. Gesù li ha istituiti per organizzare il
nuovo Israele (questo significa esattamente il termine
“giudicare” che troviamo in Mt 19,28 e Lc 22,28-30) e li
ha istruiti per questo scopo.
La testimonianza evangelica si ferma qui, a questa affermazione della struttura ministeriale della Chiesa. L’evoluzione successiva di questa ministerialità avverrà a contatto con le situazioni e le esigenze dei tempi e dei luoghi.
C’è però un episodio nel vangelo di Luca che rappresenta
un orientamento decisivo per le generazioni future: quello
in cui Gesù assegna a settantadue discepoli una missione
simile a quella assegnata in precedenza ai dodici (cfr Lc
10, 1-16). È come un appello e un invito ai dodici a non
rimanere chiusi e ad aprirsi alla collaborazione di altri, per
andare incontro alle crescenti esigenze dell’evangelizzazione.
Gli Atti degli Apostoli riferiscono come i dodici risolsero i primi problemi che si presentarono loro subito dopo
la risurrezione di Gesù ad esempio scelsero Mattia, tirando a sorte, per ricostituire il numero di dodici dopo il tradimento di Giuda e la sua morte. Inoltre, per venire incontro alle necessità della comunità di Gerusalemme, i
dodici imposero le mani a sette uomini di buon reputazione, scelti tra la comunità, fra cui primeggiava il protomartire Stefano.
Queste decisioni hanno un’importanza storica e teologica grandissima: ci mostrano che i dodici, di fronte ai
sempre nuovi bisogni della Chiesa, non esitarono a creare
una nuova struttura ministeriale.
L’epoca degli Apostoli
Con l’apertura della Chiesa ai pagani comincia l’era
delle grandi missioni: è l’epoca degli apostoli (che significa “inviati”), dei missionari, che si uniscono al ministero
10 Sussidio formativo 2010/2011
dei dodici.
Sembra che l’organizzazione di questo ministero appaia per la prima volta ad Antiochia, dove la comunità era
animata da un gruppo di “profeti e dottori”. Furono questi ad inviare nell’isola di Cipro e in altre città dell’Asia
Minore Paolo e Barnaba (cfr At 13, 1-3). Così Paolo, che
nella tradizione cristiana rimarrà l’apostolo per eccellenza,
è stato in realtà l’apostolo inviato dalla comunità di Antiochia.
Una simile organizzazione la ritroviamo in uno scritto
missionario di poco posteriore, proveniente dalla regione
di Antiochia, la Didaché. In questo scritto gli apostoli sono appunto inviati di una comunità (di solito a due a
due), per annunciare il vangelo là dove ancora non è conosciuto.
Pian piano l’organizzazione della comunità diventa
complessa: apostoli, profeti e dottori sono inseriti all’interno di un quadro assai ampio e ricco di doni e di servizi.
Ogni dono è una realtà aperta, variabile secondo le esigenze della Chiesa e i suggerimenti dello Spirito. L’istituzione di tre ministeri specializzati (apostoli, profeti, dottori) è all’origine della straordinaria diffusione della comunità cristiana di Antiochia durante il primo secolo.
L’epoca dei Pastori
Alla morte dei due grandi apostoli Pietro e Paolo, il
vangelo ha già raggiunto i principali centri del bacino del
Mediterraneo, come Roma, Corinto, Efeso, Antiochia,
Tessalonica, Cesarea, Alessandria. Le comunità cristiane di
queste grandi città assicurano l’annuncio del vangelo negli
agglomerati urbani e nei villaggio circostanti. È questo il
tempo del consolidamento, nel quale si pensa soprattutto
al futuro della Chiesa. In questo contesto emerge una
struttura ministeriale che poi diventerà prima prevalente e
poi definitiva: quella formata dalla triade vescovi, presbiteri (preti), diaconi.
Questa triplice gerarchia è attestata chiaramente solo
nelle lettere di sant’Ignazio di Antiochia, nell’epoca cosiddetta sub-apostolica (II secolo).
Alcuni punti fermi
Questa evoluzione storica dei ministeri, agli inizi della
Chiesa, ci fa capire alcune caratteristiche fondamentali
della ministerialità della Chiesa.
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 11
La Chiesa non è mai stata una massa anonima, ma è
un popolo organizzato, un corpo o un edificio (come ci
dicono le stesse immagini neotestamentarie). I ministeri
sono un dono fatto alla Chiesa dallo Spirito Santo.
I ministri esercitano l’autorità di Cristo, che è l’unico
vero ministro: per questo l’autorità va considerata un servizio e non un dominio. Nella comunità ognuno ha il suo
carisma (cfr 1 Cor 7,7) e ciascuno deve vivere «secondo la
grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri come
buoni amministratori di una moltitudine grazia di Dio»
(1 Pt 4,10).
È interessante notare che nel Nuovo Testamento non si
usa mai il termine “sacerdote” per indicare i ministri della
Chiesa. Anzi, contrariamente a quanto avveniva nella tradizione giudaica, le donne hanno avuto un ruolo importante in certe comunità di provenienza ellenistica e pagana. Inoltre, ad eccezione di Paolo e Barnaba e delle figlie
dell’evangelista Filippo, sembra che i ministri della Chiesa
siano stati normalmente sposati.
L’evoluzione lungo i secoli successivi
La triplice gerarchia di cui parla san Ignazio si estenderà per tutto il sec. II ad ogni chiesa locale. Tendono invece
scomparire i profeti ed altri ministeri. Contemporaneamente si registra un uso sempre più generalizzato del vocabolario sacerdotale, prima a riguardo del vescovo, poi
anche del presbitero. I ministri tendono sempre più a separarsi dalla massa dei fedeli e a costituirsi come un mondo a se stante.
Il sorgere delle comunità rurali porta lentamente al
dissolvimento del presbiterio e a radicali novità nella vita
e nel ruolo del prete. È però interessante notare come non
si passi direttamente all’attuale formazione delle parrocchie isolate e autonome: per molto tempo rimarranno
funzionanti realtà intermedie, come le pievi (una specie di
“unità pastorali” ante litteram).
Durante il Medioevo, si distinse nettamente il ministero derivante dal sacramento dell’ordine (il cui compito
fondamentale è la consacrazione del corpo di Cristo) da
altri ministeri (predicazione e cura pastorale) che derivavano da una fonte diversa, quella della giurisdizione. Così,
si assiste a vescovi e preti che ricevono l’investitura del loro beneficio e rinviano la consacrazione per esimersi dagli
obblighi inerenti al ministero.
12 Sussidio formativo 2010/2011
Sarà il Concilio di Trento a ribadire, anche contro le posizioni protestanti, la natura sacramentale e permanente
del ministero sacerdotale. Ma dobbiamo giungere ai giorni nostri, con il Concilio Vaticano II, perché scompaia la
vecchia distinzione tra ordine e giurisdizione ed il sacerdozio ministeriale, come pure quello comune dei fedeli,
venga ricollocato nel quadro di una rinnovata ecclesiologia.
Tracce per la condivisione
1. Ogni dono è una realtà aperta, variabile secondo le
esigenze della Chiesa e i suggerimenti dello Spirito.
Siamo sensibili all’appello a non rimanere chiusi,
ma ad aprirci agli altri per andare incontro alle crescenti esigenze dell’evangelizzazione, riscoprendo la
natura missionaria del nostro impegno nella Conferenza vincenziana?
2. Nella comunità ognuno ha il suo carisma (cfr 1
Cor 7,7) e deve metterlo al servizio del bene comune.
Come viviamo questa realtà nella nostra Conferenza?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 13
II. LA RIFLESSIONE TEOLOGICA
L’analisi storica ci conduce a conclusioni che vanno
confrontate con le esigenze e le urgenze dell’attualità. Ma
non immediatamente sul piano operativo: cercheremo invece di dare ora forma sistematica ai fondamenti teologici
della ministerialità, così come emerge dalla riflessione del
Concilio Vaticano II ed è venuta a configurarsi nella prassi della chiesa postconciliare.
Il ministero di Gesù
Non si può parlare del ministero della Chiesa e nella
Chiesa, senza parlare del ministero di Gesù stesso: è il ministero che Egli ha esercitato attraverso la sua vita e la sua
morte quello che viene oggi perpetuato nella Chiesa e per
la Chiesa.
Cristo è l’unico ministro della sua Chiesa; il suo ministero è la norma di tutta la dottrina e di tutta la pratica
del ministero cristiano.
La tradizionale presentazione di Gesù come profeta,
sacerdote e pastore, usata più volte anche dal Concilio Vaticano II, è ancora valida, ma richiede qualche precisazione, soprattutto per quanto riguarda la funzione sacerdotale.
Gesù non si è mai chiamato e considerato sacerdote:
questo titolo gli è stato applicato soltanto alla fine dell’era
apostolica, con la Lettera agli Ebrei, previo però un radicale cambiamento di questo concetto rispetto all’uso che
ne faceva l’Antico Testamento.
Cristo, per il Nuovo Testamento, è il sacerdote nuovo,
colui che, rompendo gli schemi antichi, porta a compimento il vero sacerdozio. In questo perfezionamento, la
prima novità è il carattere personale dell’offerta: Cristo
non è come gli antichi sacerdoti, che offrivano doni e sacrifici esteriori, ma offre se stesso con il suo proprio sangue.
È cambiato il sacerdozio perché è cambiata l’offerta:
ora ogni sacerdozio passa tassativamente per la stessa strada. È questo esattamente il caso del sacerdozio comune
della Chiesa, che non consiste nella celebrazione di cerimonie, ma nella trasformazione dell’esistenza, aprendola
all’azione dello Spirito Santo e agli impulsi della carità divina.
14 Sussidio formativo 2010/2011
Il ministero della Chiesa
La Chiesa è, dunque, tutta intera ministeriale: è sacramento universale di salvezza, segno e strumento dell’opera
redentrice del Salvatore, popolo profetico, sacerdotale e
regale. Il ministero della Chiesa ripropone il ministero di
Cristo stesso.
Il modello parte da molto lontano: è il modello della
Chiesa degli Atti degli Apostoli, il modello che oggi viene
rappresentato con le categorie di martyria, koinonia, diakonia (tra parole greche che significano rispettivamente
testimonianza, comunione, servizio).
La ministerialità della Chiesa non è dunque da intendersi solo come la ministerialità dei singoli, nemmeno dei
singoli sommati tra loro: la Chiesa evangelizza con tutta
se stessa, come comunità di salvezza.
I ministeri nella Chiesa
Se la Chiesa è tutta quanta ministeriale, ne deriva di
conseguenze che ogni battezzato è chiamato a partecipare,
in qualche modo, a questa ministerialità.
Per prendere parte alla vita e alla missione della Chiesa,
per essere testimoni della fede, in comunione di fede e a
servizio della fede, non è necessario assumersi formalmente l’incarico di un ministero. Perché ministero significa un
servizio ben preciso e qualificato.
È essenziale il loro rapporto con il carisma: ogni ministero, dono dello Spirito Santo, nasce da un carisma. Il
ministero è il carisma che assume la forma di servizio alla
comunità e alla sua missione e che da essa è come tale accolto e riconosciuto. Si può dire che al dono interno di
grazia (carisma) corrisponde sempre una funzione esterna
di servizio (ministero).
Il ministero ordinato
Il ministero ordinato è quello fondato sul sacramento dell’ordine, conferito attraverso la preghiera
e l’imposizione delle mani.
I ministeri ordinati sono il segno e insieme la certezza che le comunità ecclesiali già esistenti e quelle
che nascono lungo i secoli si radunano e operano
come Chiesa di Gesù Cristo.
La funzione dei ministeri ordinati è quella di garantire, significare, attualizzare, storicizzare, perpetuare
l’azione di Cristo capo e pastore della Chiesa nella
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 15
linea del ministero profetico, sacerdotale e regale.
In questo senso, il ministero ordinato non può essere delegato: il capo della comunità è colui che è stato ordinato e ad essa inviato.
Tale ministero è svolto sia in persona Christi, sia in
persona Ecclesiae. Nei secoli passati, soprattutto a
partire dal Concilio di Trento, la teologia del ministero ordinato si è costruita senza riferimento alla
comunità e per una specie di deduzione diretta da
Cristo. Noi oggi non possiamo più fare questo passaggio immediato e questa deduzione verticale da
Cristo, senza interporre la Chiesa Corpo di Cristo.
I ministeri battesimali
Il ministero ordinato non monopolizza né esaurisce
la ministerialità della Chiesa: è questa una verità
che prima ancora che dal Concilio Vaticano II, deriva dallo stesso Nuovo Testamento. La Chiesa è
tutta quanta ministeriale: la concentrazione piramidale del passato è ormai irreversibilmente superata.
In questo senso, la funzione precipua del responsabile della comunità è quella di suscitare e coordinare tutti i carismi possibili all’interno della sua comunità. La sua peculiarità non è di essere la sintesi
di tutti i ministeri, ma è il ministero della sintesi.
Quanti e quali sono i ministeri che fioriscono grazie all’acqua del battesimo e che vengono chiamati,
un po’ impropriamente, ministeri laicali? Solo in
larga approssimazione potremmo tentare una classificazione generica: vengono innanzitutto i ministeri
della famiglia, della professione, dell’impegno sociale (particolarmente urgente oggi).
Poi vi sono i carismi particolari, i servizi, i ministeri
intraecclesiali, per i quali è di estrema importanza il
discernimento e la lettura dei segni dei tempi.
Quello dei ministeri e della ministerialità della Chiesa
rimane ad oggi un discorso aperto, come continuamente
aperto è il discorso sulla Chiesa. Il suo vero artefice è lo
Spirito Santo, che continua nel tempo la sua assistenza alla comunità escatologica di salvezza.
La fedeltà a Cristo si completa con la fedeltà allo Spirito Santo. La Chiesa viaggia nel tempo e nel tempo, lo Spirito suggerisce le soluzioni ai problemi emergenti, le ri-
16 Sussidio formativo 2010/2011
sposte alle domande che salgono dai bisogni degli uomini
e dalle urgenze della comunità.
È indispensabile per il credente (e ancor più per il vincenziano) tenere fisso «lo sguardo su Gesù, colui che dà
origine alla fede e la porta a compimento» (Ebr 12,4). La
ministerialità è appunto il compimento della fede, i frutti
senza dei quali la fede è morta (cfr Gc 2, 14-26).
In conclusione, il ministero di Gesù Cristo nella sua
vita storica è il punto centrale e fondamentale della ministerialità e culmina nel mistero pasquale: Egli è venuto per
servire (cfr Mt 20,28; Mc 10,45).
Questa ministerilità del Cristo si estende a tutto il suo
Corpo mistico: infatti la Chiesa ha per scopo intrinseco
questo fondamentale servizio escatologico, in tensione fra
il mondo in cui è incarnata e il regno a cui è destinata (cfr
Eb 13,10).
Tracce per la condivisione
1. Tutta la Chiesa vive la dimensione del servizio: ogni
battezzato è chiamato a parteciparvi.
Partecipiamo alla vita della Conferenza per essere
“testimoni di fede, in comunione di fede, al servizio
della fede” e non solo perché mossi da compassione
e umana solidarietà verso i poveri?
2. È indispensabile per il vincenziano tenere fisso “lo
sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la
porta a compimento” (Ebr 12,4)
Siamo coscienti che solo tenendo fisso lo sguardo
su Gesù sapremo trovare le risposte alle domande
che salgono dai bisogni degli uomini e dalle urgenze della comunità?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 17
III. SPUNTI CONCLUSIVI SULLA MINISTERIALITÀ
NELLA CHIESA
Se per secoli la ministerialità della Chiesa è stata pensata come appannaggio del clero, oggi non vi è dubbio che
riguarda anche i laici. Tuttavia, occorre guardarsi dall’idea
di una “ministerialità laicale”, quasi che i laici vivano una
loro ministerialità che si affianca a quella dei chierici. In
realtà, chierici e laici partecipano, sia pure in modi diversi,
dell’unica ministerialità della Chiesa.
Significativo, a questo riguardo, è ciò che l’apostolo
Paolo scrive nel capitolo quarto della sua Lettera agli Efesini: «È lui [Cristo] che ha stabilito alcuni come apostoli,
altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che
conviene alla piena maturità di Cristo». (Ef 4, 11-13).
In questo testo Paolo parla di un unico ministero, di
un’unica opera di diaconia. Il servizio che la Chiesa è
chiamata a rendere è dunque un’unica opera che l’apostolo presenta come l’edificazione del Corpo di Cristo: la
Chiesa è a servizio di questo progetto come colei che lo
promuove e ne testimonia la progressiva realizzazione.
Per capire il senso profondo della ministerialità della
Chiesa, occorre collocare la riflessione su di essa entro due
coordinate: il radicamento di ogni singolo ministero nell’unico e fondamentale ministero che la Chiesa svolge nella storia e il suo riferimento al concetto di dono.
La prima coordinata ci fa capire che la vocazione al
servizio, cioè alla diaconia, si esprime certamente in modi
diversi. Il primo e fondamentale modo è l’atteggiamento
costante di servizio che il cristiano è chiamato ad assumere in ogni ambito della vita, proprio in quanto discepolo
di Colui che è venuto per servire e non per essere servito.
Quando un carisma si traduce in un servizio stabile, allora
si parla di ministero. Per ministero si intende, infatti, un
servizio ecclesiale dotato di una qualche stabilità.
Si può allora ben comprendere perché la parola “ministero” viene usata, nella maggior parte dei casi, il connessione con il sacramento dell’ordine. Corrispondentemente, per “ministri” si intendono anzitutto coloro che hanno
18 Sussidio formativo 2010/2011
ricevuto appunto tale sacramento e per ministero il loro
agire secondo i dinamismi espressi nel testo della Lettera
agli Efesini.
D’altra parte, non vi è dubbio che l’opera della diaconia nella Chiesa non è appannaggio di coloro che hanno
ricevuto il sacramento dell’ordine, ma di ogni battezzato.
In particolare, nella Lumen Gentium si legge che «i laici
sono particolarmente chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui
essa non può diventare sale della terra se non per mezzo
loro» (n. 33). Un’affermazione, questa, che non va intesa
come se ci fossero due aspetti separati della ministerialità:
l’uno (appannaggio dei preti) interessato all’evangelizzazione e alla santificazione; l’altro (affidato ai laici) inteso
come animazione cristiana del mondo.
Per capire il senso di una ministerialità laicale, considerata come parte dell’unica opera della diaconia di cui parla la Lettera agli Efesini, occorre riferirsi alla seconda coordinata: il riferimento al dono. Non si può capire il servizio che il laico è chiamato ad offrire, se non si comprende
la laicità stessa come dono.
Il laico non è “colui che non ha ricevuto il sacramento
dell’ordine”, ma “colui che ha una sua specifica vocazione
(e quindi missione) nella Chiesa e nel mondo”. La laicità
è un dono che il Signore fa alla sua Chiesa per farla essere
ciò che egli le chiede di essere: sale della terra e luce del
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 19
mondo.
Pertanto, nella Chiesa ogni associazione di laici riceve
un mandato: un mandato è qualcosa che riconosce il dono che Dio fa alla sua Chiesa per compiere una sua specifica missione. In questo senso va inteso che «il vincenziano lavora nella Vigna del Signore», è «membro di un’organizzazione cristiana e laici che possiede propri modi autonomi di attività», «è partecipe (…) della vita della comunità cristiana e cerca di apportarvi la testimonianza di una
carità viva al servizio degli umili, di chi non ha voce, di coloro che non sono amati» (cfr Vademecum del vincenziano,
p. 25).
Tracce per la condivisione
1. La ministerialità è compimento della fede ed esige
un costante atteggiamento di servizio.
Viviamo questo atteggiamento in ogni ambito della
vita, affettiva, familiare, professionale e sociale?
2. La laicità è un dono che il Signore fa alla sua Chiesa perché sia “sale della terra e luce del mondo”.
Siamo consapevoli del ruolo che come laici abbiamo nella Chiesa e nella società chiamati, in virtù
del Battesimo, a compiere una missione specifica
per l’edificazione del Regno di Dio?
20 Sussidio formativo 2010/2011
IV. ALCUNE ICONE EVANGELICHE PER COMPRENDERE
LA MINISTERIALITÀ
Il “buon samaritano”
Questa parabola la conosciamo tutti e ci insegna non
chi è il nostro prossimo, ma come possiamo farci noi
prossimi agli altri.
L’evangelista Luca descrive minuziosamente i gesti
compiuti dal samaritano: prima di tutto vede il malcapitato, ne prova compassione, poi gli si avvicina, gli fascia le ferite, si prende cura di lui, portandolo alla locanda...
Il prossimo non lo si definisce in base a un criterio oggettivo, ma a partire dal nostro atteggiamento nei confronti di chi ci vive accanto.
Il samaritano (a differenza di quelli che sono passati
prima di lui) è disposto a cambiare i suoi programmi e ad
interrompere il suo viaggio…
L’essere o meno prossimi dipende dalla disponibilità a
farsi vicino: la prossimità sta nella capacità di ridurre le distanze che ci separano dalle persone, soprattutto da quelle
che hanno bisogno della compassione di Dio, riflessa nei
nostri gesti compassionevoli.
Non mancano certo esempi di persone che hanno fatto
della compassione lo stile della loro vita: sono le persone
che hanno scelto di non appartenersi e di fare delle loro
energie, del loro tempo, della loro sensibilità… un dono
agli altri, a quelli che ancora oggi la vita lascia lungo il ciglio della strada carichi di ferite e di dolore, siano essi poveri, malati, carcerati, stranieri, bambini, donne.. tutte
quelle persone che dalla vita e dalla società di oggi sono
respinte.
Lazzaro e il ricco epulone
Il ricco epulone non riesce nemmeno a vedere il povero che sta seduto alla sua porta: è come se le sue ricchezze
l’avessero reso cieco.
La sua cecità è del cuore, non degli occhi: è l’indifferenza di chi, pago di sé e dei propri beni, si è fatto un
cuore duro, incapace di vedere i piccoli e i poveri.
La parabola ci dice che occorre saper vedere i poveri
per imparare a vivere con lo stile del dono di sé, che è il
timbro spirituale del cristiano.
Leggiamo dentro il personaggio della parabola:
- in Lazzaro non possiamo non vedere i miliardi di creatu-
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 21
re che anche oggi vivono cercando di rubare le briciole
che cadono dal tavolo dei ricchi…
- nel ricco epulone sono descritte tutte le persone “importanti”, dedite a occupazioni “importanti”, che non hanno tempo di guardare altrove rispetto agli impegni della
loro vita…
La parabola ci fa pensare che noi, ricchi epuloni del
nostro tempo, siamo responsabili delle piaghe di Lazzaro:
esse sono anche il frutto dell’eccesso di abbondanza della
mensa di alcuni, sono il frutto dell’indifferenza di altri…
Il giudizio universale
Anche questa scena la conosciamo bene… La nostra
vita si decide sulla base del nostro atteggiamento nei confronti degli ultimi della terra: affamati, assetati, carcerati,
malati…: l’ultimo giorno il Signore ci chiederà conto dei
nostri fratelli e, sulla base di questo, deciderà del nostro
essere o meno degni di stare alla destra di Dio.
Dio ha il volto di ogni povero della terra: da questa
parabole impariamo che nel povero incontriamo Dio, senza saperlo e senza riconoscerlo.
A volte ci chiediamo come fare ad incontrare Dio,
quali percorsi, pensieri, preghiere dobbiamo fare… Questa parabola lo dice con chiarezza: si incontra Dio guardando negli occhi di un povero, qualunque sia la ragione
della sua povertà.
Tracce per la condivisione
1. Il “ministero dei poveri” è ministero di carità.
Il Buon Samaritano è icona di questo ministero.
Abbiamo in noi la disponibilità a farci vicini, a ridurre le distante che ci separano dalle persone?
2. Occorre saper “vedere” i poveri per imparare con lo
stile del dono di sé.
Ricordiamo il racconto di Lazzaro e del ricco Epulone.
Sappiamo vedere il povero con lo sguardo del cuore
e incontrare Dio nella sua persona?
22 Sussidio formativo 2010/2011
II Parte
SERVIZIO E MINISTERO
NEL CARISMA VINCENZIANO
di Padre Giovanni Battista Bergesio
I. IL MINISTERO DELLA CARITÀ
Nella Rivelazione
Quando il Nuovo Testamento parla di ministero, non
lo fa mai semplicemente nei termini di nuovi campi, nuove strategie e nuovi programmi, ma nei termini dell’incarnazione. La Chiesa che vuole modellare il proprio ministero su quello di Gesù non è chiamata alla “ristrutturazione”, ma a un modo radicalmente nuovo di essere Chiesa.
Un nuovo modello di amore
“La testimonianza della carità va pensata in grande”: è
una frase suggestiva del documento della Conferenza Episcopale Italiana “Evangelizzazione e testimonianza della carità”.
Ma tutti sappiamo che Qualcun’altro, molto prima dei
Vescovi italiani, pensò in modo infinito alla carità e invitò
gli uomini a considerarla come il primo e massimo dei comandamenti.
L’annuncio della carità è il leit motiv di tutta la Rivelazione, il filo conduttore della storia della salvezza. Dio
prende per mano il suo popolo e lo conduce alla graduale
scoperta dell’amore:
- un amore che è sempre creativo e fecondo (Genesi);
- che assume la responsabilità del fratello (Caino e
Abele);
- che è totalmente aperto a Dio e al prossimo (Decalogo).
La rivelazione dell’amore raggiunge il culmine quando il
mistero nascosto per secoli in Dio viene manifestato all’uomo.
Adesso, contemplando il Verbo incarnato, l’uomo impara a conoscere la ricchezza, la profondità, la grandezza
incommensurabile della carità di Dio che supera ogni
immaginazione, e scopre in Lui le fattezze di un padre, di
un fratello, di un amico, di uno sposo.
Tale rivoluzionaria concezione di Dio comporta neces-
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 23
sariamente una considerazione del tutto rinnovata della
persona del prossimo e un modo nuovo di concepire il
rapporto con lui.
È lo stesso Verbo incarnato, Gesù, che pazientemente
porta i discepoli a rivedere il loro modo di porsi di fronte
agli altri: essi dovranno evitare di fare agli altri ciò che
non vogliono venga fatto a loro; dovranno perdonare settanta volte sette, cioè sempre; dovranno benedire quelli
che li maledicono e far del bene a quelli che li odiano; dovranno arrivare addirittura al dono della vita...
Tutto ciò perchè è mutato il termine di confronto dell’amore: non più “ama il tuo prossimo come te stesso”,
bensì “amatevi come io vi ho amati”.
Il nuovo modello dell’amore umano – che è anche
l’ultimo, il definitivo – è la carità di Dio per l’uomo!
La scelta dei poveri
C’è un capitolo particolare nella Rivelazione sul ministero dell’amore. Cristo, sacramento dell’amore del Padre,
che avvicina tutti perchè è venuto per salvare tutti. C’è
tuttavia, nei suoi atteggiamenti e nel suo insegnamento,
una chiara opzione per i più poveri.
Gesù dichiara di essere stato mandato per la loro evangelizzazione, e durante tutta la sua vita li cerca, li accoglie,
annuncia loro un messaggio di salvezza al quale essi sono
molto più sensibili degli altri.
I discepoli sono così richiamati fortemente a non disprezzare il più piccolo degli uomini, ad amare anzi con
speciale amore quelli che non potranno mai contraccambiare: questo esigono la gratuità, che è una delle caratteristiche più evidenti della carità di Dio e la realtà sacramentale del povero, che è una delle verità evangeliche più
sconcertanti.
Assistita costantemente dallo Spirito di Gesù, la Chiesa
ha conservato e diffuso lungo tutta la sua storia il messaggio dell’amore per i poveri: un messaggio predicato e vissuto, un messaggio incarnato soprattutto nei santi che
hanno fatto e fanno rivivere nel mondo la carità di Cristo.
San Vincenzo Depaoli e il beato Federico Ozanam
appartengono a questa schiera.
Nella imitazione radicale di Cristo, che fu la grande
rotaia della loro vita spirituale e apostolica, hanno colto in
modo vivissimo la misericordia di Gesù verso la povertà
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dell’uomo e la sua totale disponibilità a liberarlo, e ne sono diventati impareggiabili testimoni.
Hanno pensato così in grande alla testimonianza della
carità che, dopo circa quattro secoli, il loro esempio, le loro intuizioni, i loro metodi, le loro istituzioni sono ancora
sulle frontiere più avanzate dell’amore e della solidarietà.
Per questo il solenne invito dei Vescovi non può non
trovarci consenzienti: ci ammonisce infatti a fare oggi,
meglio di ieri, ciò che siamo stati chiamati a fare fin da
principio.
Traccia per la condivisione
1. Per pensare in grande alla carità occorre possedere
lo Spirito di Dio che è spirito di amore infinito. Solo Lui può forgiare il nostro cuore modellandolo su
quello di Gesù.
Noi non dobbiamo opporre resistenza alla sua azione, anzi dobbiamo attivare costantemente la nostra
collaborazione mediante l’ascolto della Parola e la
preghiera: nella vita associativa e in quella personale.
Nel cuore di Gesù scopriamo i sentimenti dello
Spirito: benevolenza, mansuetudine, pazienza, misericordia, perdono… opposti ai sentimenti della
natura: superbia, vanità, ira, intolleranza, invidia…
La conversione del cuore di pietra in un cuore di
carne suppone una scelta radicale: la vogliamo realmente? Ci aiutiamo gli uni gli altri a camminare
per questa strada?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 25
II. IL MINISTERO DELLA CARITÀ NEI VINCENZIANI
Che cosa ci chiede la Chiesa esortandoci a pensare in
grande alla testimonianza della carità? Che cosa significano concretamente queste parole? Come possiamo realizzare l’insegnamento della Rivelazione sul ministero dell’amore?
La risposta, tutt’altro che facile nella realizzazione,
sembra scontata nella enunciazione: vivendo responsabilmente ed entusiasticamente il loro carisma, i vincenziani
sono chiamati a dare un contributo valido alla ricostruzione del tessuto ecclesiale e sociale di oggi, che non può essere rinnovato se non mediante la testimonianza della carità.
Il punto di partenza
La Chiesa è fortemente convinta che gli uomini sono
saturi di parole e fondamentalmente scettici di fronte ad
esse: anche a quelle della fede. Sollecita perciò i cristiani
ad annunciare il vangelo dell’amore soprattutto con il loro amore; a portare la Chiesa ai poveri e i poveri alla
Chiesa.
La Chiesa è chiamata a porsi sempre di più in ascolto dei
poveri, a camminare con loro, a condividerne ansie e speranze, sofferenze e lotte, ad essere presente alla loro povertà. Ma purtroppo bisogna riconoscere che i poveri non sono molto nella Chiesa e che la Chiesa rimane abbastanza
al di fuori della povertà.
In questo scenario, il ruolo che i vincenziani sono
chiamati a interpretare è di estrema importanza: essi infatti devono, per il loro carisma, mediare la distanza tra la
Chiesa e i poveri, manifestare al mondo il vero volto di
Dio che è Padre e Provvidenza, dare – secondo il vocabolario caro a san Vincenzo – Dio ai poveri e i poveri a Dio.
In una parola: farsi tutto a tutti.
Farsi tutto a tutti
«Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo
di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto
Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro
che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la
legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare
coloro che sono sotto la legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per
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salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo,
per diventarne partecipe con loro» (1 Cor 9,19-23).
Questo farsi tutto a tutti è un atteggiamento che viene
da lontano: nella comunità trinitaria il Padre si fa tutto al
Figlio e allo Spirito Santo; il Figlio si fa tutto al Padre e allo Spirito; lo Spirito Santo si fa tutto al Padre e al Figlio.
Cosi sono una cosa sola, un unico Dio in tre persone.
Questa è anche la vocazione vincenziana: ricercare la
comunione con tutti, essere una cosa sola con tutti nella
Chiesa, con i poveri, con i confratelli nella San Vincenzo.
Essere servi di tutti
Nel farsi tutto a tutti c’è un altro aspetto fondamentale: essere servi di tutti. Anche su questo punto il modello è
Dio.
Dio al servizio dell’uomo. Dio che si fa tutto a tutti
all’interno della comunità trinitaria è cosa misteriosa e
stupefacente. Ma ancora più stupefacente e incomprensibile è che Dio si faccia tutto all’uomo, e diventi servitore
degli uomini!
È ciò che accade fin da principio, nella creazione, dove Dio soffia la sua energia in una povera struttura di fango, fa sedere l’uomo al banchetto della vita e con perenne
Provvidenza lo conserva nell’esistenza, mettendo al suo
servizio tutte le molteplici realtà da Lui create.
Gesù Cristo schiavo degli uomini. La storia incredibile di un Dio servo continua e si esalta nell’Incarnazione.
Egli si è fatto letteralmente schiavo degli uomini: «Gesù
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era
venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le
vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi
versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto»
(Gv 13, 3-5).
Lavare i piedi era un servizio tipico degli schiavi, che
nessun altro avrebbe fatto. È soprattutto il segno di ciò
che Gesù è venuto a fare sulla terra, di ciò che effettivamente ha cercato per l’intera sua esistenza terrena: Egli ha
detto tutto e solo, ha fatto tutto e solo, è stato tutto e solo
ciò che serviva per il bene degli uomini.
Tra i destinatari del suo servizio i primi sono sicuramente i poveri:
- per loro ha parlato, operato, sofferto;
- con loro ha condiviso una vita dura, umiliata, sacrifi-
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 27
cata;
- per il loro bene ha insegnato, sensibilizzato e minacciato i ricchi...
- e soprattutto si è identificato con loro!
I vincenziani servitori dei poveri
Tutto quanto detto finora del modo di essere e di operare di Dio, del modo di essere e di operare di Gesù Cristo, è la premessa da cui scaturisce la ricerca del modo di
essere e di operare dei vincenziani: nei rapporti col prossimo, nella famiglia, nella comunità, e soprattutto nel mondo della povertà.
Si può articolare in alcuni punti:
a) cultura dell’accoglienza
- dare fiducia alle persone, ricercare in tutti gli aspetti
positivi;
- credere nella capacità di ripresa anche in situazioni di
degrado grave;
- impegnarsi a capire e non a giudicare, a difendere e
non a criticare;
- avere misericordia e non ritorcere come colpe le cause
di povertà;
b) liberazione dal pregiudizio e dalla falsa prudenza
non lasciarci condizionare dai pregiudizi:
- personali, dovuti all’educazione ricevuta;
- sociali, legati all’opinione degli altri su di noi;
avere il coraggio di compromettere la propria tranquillità:
- non esiste una carità comoda, di routine;
- il dono di sé e della propria vita non può mai essere
facile…
Tracce per la condivisione
1. C’è una reale corresponsabilità nelle Conferenze?
C’è un dialogo di qualità tra i Confratelli? C’è vera
amicizia e condivisione?
2. Ci sentiamo Chiesa per costruire la Chiesa: tra di
noi, nelle nostre realtà vincenziane, nelle comunità
parrocchiali e diocesane in cui siamo inseriti e anche con i poveri che visitiamo?
28 Sussidio formativo 2010/2011
III. L’ICONA DEL BUON PASTORE
C’è una splendida icona del ministero della carità: la
figura del Buon Pastore.
«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il
Padre; e offro la vita per le pecore» (Gv 10,14-15).
“Le mie pecore conoscono me”
La conoscenza di Gesù è fondamentale perché in essa
sta la vita eterna: «Questa è la vita eterna: che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv
17,3).
Per questo Gesù ci ha rivelato il Padre, il suo progetto
di salvezza, il suo amore; e ci ha rivelato se stesso: perché
in questa conoscenza, preludio alla visione beatifica del
Paradiso, sta la vita eterna.
Le parole di Gesù ci richiamano la vera finalità della
San Vincenzo:
a) L’evangelizzazione dei poveri
Oltre all’istruzione, c’è un altro tipo di conoscenza ancora più importante per la liberazione del povero: la “conoscenza” della fede, quella speciale conoscenza che è
esperienza di Dio, scoperta di Cristo e della sua parola, visione trascendente della vita, comunione coi fratelli nella
Chiesa.
Se il lavoro e l’istruzione promuovono la persona sul
piano sociale e culturale, l’incontro con Cristo la restituisce alla piena dignità di figlio di Dio e alla vera libertà.
Ecco l’assioma dei nostri Fondatori:
- Cristo è la vita dell’uomo;
- la miseria allontana l’uomo da Cristo;
- bisogna riportare Cristo al povero.
Tutti i gruppi creati da Vincenzo (missionari, suore,
volontari) – con strutture, mezzi, opere, attività diverse –
convergono in un unico sforzo e in un’unica volontà: portare ai poveri Cristo, perchè Cristo è il nome unico e definitivo della salvezza.
Dice Vincenzo ai primi preti della missione
«La nostra vocazione è dunque una continuazione
della sua o, perlomeno, le assomiglia nelle sue
circostanze. Quale felicità, fratelli, ma anche quale
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 29
obbligo di amarla! Un gran motivo di amarla è
dunque la sua grandezza: far conoscere Dio ai poveri,
annunziare loro Gesù Cristo, dir loro che il Regno dei
cieli è vicino ed è per i poveri».
Dice alle “Dame della carità”
«La confraternita della carità è stata istituita per
onorare Nostro Signore Gesù Cristo, suo patrono, e la
sua santa Madre; e per assistere i poveri malati – nei
luoghi dove è stabilita – corporalmente e
spiritualmente».
b) Dare la vita
Ma c’è un “logos” educativo più determinante e incisivo della parola predicata o scritta: quello della vita.
Gesù “cominciò a fare ed a insegnare”. Non è venuto
per parlare, anche se inviato per l’evangelizzazione dei
poveri. La sua nascita e la sua morte, la sua vita e la sua
risurrezione sono la vera Rivelazione: le parole gli servono essenzialmente per spiegare il significato dei suoi gesti.
Di san Vincenzo e del beato Federico si può dire la
stessa cosa: ciò che sono stati e ciò che hanno fatto è pedagogicamente più forte di ciò che hanno detto. Più ancora che negli scritti, ci sono maestri nella vita: se le loro
parole sono pietre, la loro vita è fuoco!
c) Il fuoco del martirio, dono totale
La carità di Gesù Cristo è una carità immolata: chi
vuole imitarla e viverla deve sottoporsi alla croce.
«Una delle prove più certe che Dio ha grandi disegni sopra una persona – scrive san Vincenzo in una lettera – è
quando le invia desolazioni su desolazioni e pene su pene».
A Vincenzo e Federico non mancarono sicuramente
questi “segni” della Provvidenza: insuccessi e umiliazioni,
persecuzioni e delusioni, perdite di beni e di persone, ingiurie e maltrattamenti, difficoltà e malattie sono un altro
aspetto di quell’amore doloroso con cui essi arrivano alla
comunione col loro Maestro crocifisso; e un altro mezzo
per evangelizzare i poveri.
La croce non è parola generica o retorica nella vita dei
due santi, concretizzata com’è nella sofferenza fisica e morale, ascetica e spirituale.
Dalla partecipazione alla croce di Cristo può e deve
alimentarsi lo spirito del martirio, che è la sublimazione
30 Sussidio formativo 2010/2011
e la perfezione della croce. Per questo i nostri santi non
hanno paura a parlare del martirio e a desiderarlo.
San Vincenzo scrive a uno dei suoi preti:
«Non posso trattenermi dal dirvi – ed è necessario che
ve lo dica con assoluta semplicità – che la vostra
narrazione ridesta in me nuovi e ardenti desideri di
andare, sia pure con tutte le mie piccole difficoltà, a
finire la mia vita lungo una siepe, lavorando in un
villaggio; e mi sembra che sarei proprio felice se
piacesse a Dio farmi questa grazia».
Fuoco della croce, fuoco del martirio: questo è il prezzo dell’amore, secondo la parola di Gesù: “non c’è amore
più grande che dare la vita per la persona amata”.
Tracce per la condivisione
1. “Andate e annunciate il Vangelo”…
Sentiamo come rivolte a noi queste parole di Gesù?
Sentiamo di tradire il nostro carisma di missionari
dei poveri, se non le prendiamo sul serio?
2. Siamo convinti che i poveri hanno bisogno soprattutto di Cristo?
Che soltanto Lui può dare loro la speranza necessaria per continuare un cammino difficile, sovente
drammatico?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 31
IV. DUE MODELLI DI CARITÀ EVANGELICA:
VINCENZO DEPAOLI E FEDERICO OZANAM
Il filo misterioso della storia
Vincenzo e Federico: due uomini diversi, vissuti in
tempi e contesti diversi, legati da un filo misterioso della
Provvidenza ad un unico spirito di carità e a un identico
impegno di amore e di servizio ai poveri.
Sono due figure fondamentali nella lunga e progressiva
storia della carità moderna, soprattutto per avere preparato, indicato e stimolato il passaggio dall’assistenza alla
promozione umana; passaggio che si potrebbe anche definire: dalla carità alla “carità-giustizia”, o più semplicemente: la carità sociale.
È un modo di esercitare la carità che rende partecipi i
poveri stessi della loro promozione, e tende alla ricerca e
alla denuncia delle cause della povertà e delle ingiustizie.
È su questo tema, in particolare, che si può scoprire la
profonda consonanza e insieme l’evoluzione intercorsa tra
Vincenzo e Federico.
La carità sociale
Questa dimensione dell’esperienza dei due santi è talmente conosciuta ed evidente, che parrebbe superfluo
parlarne. Ma non è così. Quantomeno perché, dato per
scontato il loro impegno caritativo, è interessante coglierne il significato in relazione alla concreta situazione storica nella quale esso si realizzò.
Vincenzo Depaoli
a) Il cammino verso la giustizia
Un errore grave che rischiano di commettere tutti coloro che riflettono sul passato, e perfino gli storici, è quello di giudicare il passato con criteri e parametri attuali, o
di “costringerlo” negli schemi odierni.
Così può capitare che, per amore di san Vincenzo, si
pensi di trovare in lui, nelle sue idee, nelle sue iniziative,
nella sua “dottrina” l’idea di carità politica, di giustizia sociale, di impegno e di collaborazione nelle strutture e con
le istituzioni. E ciò non è esatto.
È vero invece che tutta l’opera di San Vincenzo,
ispirata dalla carità, è andata ben oltre l’elemosina
e la mera assistenza
«Il secolo – scrive Igino Giordani – aveva esaltato
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incessantemente, in un preoccupante crescendo, la
dottrina del diritto divino dei re, e così gli uomini
perdevano il concetto di libertà ed eguaglianza.
Ebbene, attraverso Vincenzo, si ristabilì il diritto
umano di tutti gli uomini a cominciare dai più umili.
Se si vuole cogliere in una espressione la serie di
iniziative di san Vincenzo, si potrebbe definirla
ricostruzione dell’uomo: ricupero della sua dignità.
Fu perciò un santo dei tempi moderni, che ispira la
sua operosità ai bisogni attuali, che esercita un
influsso sociale, di rettifica e di impulso; fu tra i primi
a scoprire il nesso tra economia e religione; a riscoprire
che la miseria era atea e nemica della fede, che la
degradazione nell’alloggio, nel cibo, nel lavoro, nelle
epidemie traeva con sé la degradazione della morale e
della religione. Poiché si accorse che “i bisogni non
accorrevano a lui, era lui che accorreva loro incontro”.
E dappertutto fu in prima linea: nello “smantellare
l’ozio” attraverso il lavoro, nella lotta all’analfabetismo, nell’istruzione religiosa».
Nell’ottica del tempo socialmente molto limitata, san
Vincenzo arriva a delle affermazioni forti e in sintonia con
la mentalità moderna:
- “Gli obblighi di giustizia devono precedere quelli della carità”.
- “Non v’è carità che non debba essere accompagnata
dalla giustizia”.
- “Dio ci conceda la grazia d’intenerire i nostri cuori
verso tutti i miseri, e di farci credere che, soccorrendoli, facciamo opera di giustizia e non di misericordia”.
Vengono alla mente le parole del Vaticano II
«Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia
perché non avvenga che si offra come dono di carità
ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino
non soltanto gli effetti, ma anche le cause dei mali;
l’aiuto sia regolato in tal modo che coloro i quali lo
ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla
dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi».
b) La carità sociale del lavoro
Figlio di contadini obbligati a guadagnarsi il pane col
sudore della fronte, san Vincenzo ebbe sempre grande sti-
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 33
ma e grande amore per il lavoro. È una legge universale –
dice – dal momento che Dio stesso “lavora incessantemente, incessantemente ha lavorato e lavorerà”.
Non c’è dunque da stupirsi se egli riteneva che la miglior carità verso le persone valide fosse procurar loro del
lavoro.
In quest’ottica, fin dagli inizi le Compagnie della Carità raccolsero sotto la direzione d’un sacerdote e d’un maestro operaio dei ragazzi poveri dagli otto anni in su, per
dare loro una formazione professionale e una istruzione
religiosa. In questo periodo essi erano nutriti, vestiti e alloggiati; ma anche sottoposti a una disciplina severa e dolce insieme, nella quale si traduceva la mentalità del fondatore.
Attraverso queste opere di solidarietà sociale – è scritto
in uno dei regolamenti redatti dal Santo – “i ricchi s’acquistano un milione di benedizioni in questo mondo e la
vita eterna nell’altro...I poveri vengono istruiti nel timor
di Dio, ammaestrati a guadagnarsi il pane, assistiti nelle
loro infermità...E finalmente le città saranno liberate da
tanti fannulloni, tutti viziosi, e migliorate dal commercio
delle opere dei poveri”.
Federico Ozanam
Fu uomo del suo tempo, come tutti i santi.
Ma è proprio della santità l’essere, nonostante tutto,
anticipatrice delle cose che verranno. Anticipatrice non
nel senso dell’antivedere, del cogliere prima degli altri le
vie che l’umanità sarà chiamata a percorrere; ma nel senso
che tenta strade nuove, si incammina su di esse in maniera tanto decisa e convincente, da trascinare dietro di sé
molti altri e determinare così il divenire della storia.
In questa prospettiva Ozanam ha colpito, almeno
sotto due profili.
a) Il primo riguarda l’anticipazione di tematiche che diverranno poi oggetto di insegnamento magisteriale con
il Concilio Vaticano II: la vocazione dei fedeli laici alla
santità, la loro partecipazione attiva e responsabile alla
missione della Chiesa, l’indole secolare del loro ministero, la loro vocazione a cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Cioè il grande tema dell’animazione cristiana dell’ordine temporale.
34 Sussidio formativo 2010/2011
Nulla appare più attuale, oggi, di quella sua definizione della “San Vincenzo” come «una società cattolica ma
laica».
b) Il secondo riguarda, più specificamente, la sua attenzione non solo intellettuale, ma anche propositiva e
pratica, alla incipiente questione sociale. Senza dubbio
il suo pensiero e la sua testimonianza anticiparono la
grande stagione della dottrina sociale della Chiesa, che
si aprirà solo nel 1891 con la Rerum novarum di Leone
XIII.
Federico ebbe la capacità di scoprire e sperimentare vie
nuove di carità. L’esperienza di santità che egli incarnò in
modo esemplare, animò quel cattolicesimo politico-sociale che fra ottocento e novecento influì largamente sull’evoluzione dello Stato liberale verso forme solidariste e sociali.
Un aspetto peculiare che lo distinse da altri cattolici
contemporanei fu la ricerca del dialogo tra questione sociale e carità concreta. La carità per lui non era più semplicemente beneficenza, ma «lievito» che poteva fermentare l’intera società.
Né si trattava solo di dare una risposta ai bisogni immediati dell’uomo (pane, alloggio), ma di aprirsi a uno
spazio più ampio di difesa dei diritti della persona (salario
famigliare, educazione, diritti politici); così la carità acquistava una dimensione politica.
Questo ovviamente non significava far passare in seconda linea l’aiuto concreto e il rapporto personale; al
contrario, quest’ultimo era l’unica via, secondo Ozanam,
per comprendere in profondità il problema della miseria e
approntare misure adeguate per combatterla.
In un accalorato discorso ai suoi diceva:
«Sì, senza dubbio, è troppo poco consolare l’indigente
giorno dopo giorno: bisogna metter mano alla radice
del male, e attraverso sagge riforme diminuire le cause
della miseria pubblica. Ma noi crediamo fortemente
che la scienza della riforma dell’assistenza non si
apprende dai libri, ma dal soffrire lo stesso freddo dei
poveri, dallo strappare nell’effusione di un incontro
amicale il segreto di un cuore afflitto. Quando si è ben
istruiti da questo ministero, non per qualche mese ma
per lunghi anni; quando si è conosciuto il povero a
casa sua, nelle scuole, negli ospedali, e non in una sola
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 35
città ma in molte, e nelle campagne, e in tutte le
condizioni dove Dio li ha messi, solo allora si iniziano
a conoscere gli elementi di questo formidabile
problema che è la miseria: allora si ha il diritto di
proporre misure serie».
Conclusione
Così Il carisma della carità verso i poveri, varcando due
secoli, ha animato due santi, uno modello dell’altro, uno
continuatore ideale dell’altro; e, varcando ancora un altro
secolo, ha coinvolto in un unico cammino i discepoli dei
due santi, riunendoli in un’unica famiglia: la Famiglia
vincenziana.
Essa è la realtà nuova dei nostri tempi, un ulteriore
passo avanti per un miglior servizio dei poveri. Non mancano sicuramente in questa Famiglia le specificità e le differenze: ma identico è il cammino e l’impegno per l’attuazione della giustizia e della carità.
Tracce per la condivisione
1. L’evoluzione della carità vincenziana continua: da
Vincenzo a Federico, da Federico ai vincenziani di
oggi…
Siamo consapevoli che non possiamo sciupare un
patrimonio immenso di storia? E che a noi è affidato il futuro della Società?
O dimentichiamo che “non progredi, regredi est”?
2. “La giustizia è il primo gradino della carità” (Paolo
VI).
Abbiamo amore per la giustizia sociale?
Cerchiamo di essere giusti anche nella sfera privata,
coscienti che non possiamo donare tutto, come esige la carità, se non diamo il minimo come esige la
giustizia?
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III Parte
COMUNIONE, CORRESPONSABILITÀ
E SERVIZIO NELLA CONFERENZA VINCENZIANA
di Alessandro Floris
I. UNA COMUNITÀ DI FEDE E DI AMORE
«I vincenziani si riuniscono in confratelli e consorelle
alla presenza di Cristo all’interno delle Conferenze, vere
comunità di fede e d’amore, di preghiera e d’azione. È
essenziale che si tessa un legame spirituale e un’amicizia
effettiva tra i membri, e che venga definito un incarico comune al servizio degli sprovveduti e degli emarginati»
(Nouvelle Règle, n. 3.3).
Affinché si possa dar vita realmente nella Conferenza
ad una comunità di fede, occorre favorire un insieme di
convinzioni, di atteggiamenti, di rapporti interpersonali
che promuovano una cultura di comunione.1
Essa non può prescindere da alcuni valori umani, quali
l’attitudine al pensare insieme, alla condivisione dell’impegno, alla elaborazione comunitaria dei progetti, alla formulazione corretta dei giudizi sulla realtà dell’ambiente,
all’analisi delle povertà del territorio, all’adozione delle
opportune forme di intervento.
La comunione in una Conferenza comporta l’educazione alla lettura dei segni dei tempi, all’assunzione personale e diretta delle responsabilità che non ammette fughe
o deleghe.
Nella Conferenza vivono insieme (compresenza) come
membri della medesima comunità-associazione, uomini e
donne, giovani e anziani, persone che si sono consacrate a
Dio e al servizio dei fratelli attraverso la risposta alla vocazione vincenziana. Ciascuno di essi esercita il suo servizio
in ragione della diversa chiamata, e questa varietà di doni
implica la loro complementarietà.
Se la Chiesa è tutta quanta ministeriale, ne deriva
di conseguenze che ogni battezzato è chiamato a
partecipare, in qualche modo, a questa ministerialità.
Per prendere parte alla vita e alla missione della
Chiesa, per essere testimoni della fede, in comunione di fede e a servizio della fede, non è necessario
assumersi formalmente l’incarico di un ministero.
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 37
Perché ministero significa un servizio ben preciso e
qualificato.
È essenziale il loro rapporto con il carisma: ogni
ministero, dono dello Spirito Santo, nasce da un
carisma. Il ministero è il carisma che assume la forma di servizio alla comunità e alla sua missione e
che da essa è come tale accolto e riconosciuto. Si
può dire che al dono interno di grazia (carisma)
corrisponde sempre una funzione esterna di servizio (ministero).2
Il rapporto servizio (ministero) - carisma mette dunque in evidenza l’azione dello Spirito e la gratuità del dono ricevuto.
Ogni vincenziano deve essere consapevole di essere un
chiamato da Dio, non un “battitore libero” e che lo Spirito non consegna a ciascuno i suoi doni perchè li si custodisca egoisticamente, ma perché generosamente vengano
posti al servizio della comunità. Ciascuno, perciò, cosciente del dono ricevuto e prendendo atto del suo limite,
si deve aprire a quella integrazione che rende completa
nella Conferenza, la manifestazione dell’unità della comunità, che è Chiesa, cioè Corpo di Cristo.
Questa affermazione della corresponsabilità di ciascuno, pur nella varietà di doni e di compiti, è fondamentale
nell’esperienza di vita vincenziana. Corresponsabilità per
cui ognuno si fa sostegno dell’altro e porta i pesi del fratello (in latino il “portare insieme” si dice conferre, da cui
Conferenza), senza sottrarsi all’impegno personale nella
gestione della Conferenza, anche nell’assunzione di incarichi per il bene e l’utilità comuni.
Chi non si mette in gioco, accogliendo la sfida della
corresponsabilità, priva gli altri di una luce, fa abortire un
senso che nessun altro può dare, perché i carismi nessuno
li possiede tutti e nessuno ne è privo del tutto. Poiché dietro ogni servizio “ministeriale” c’è Dio che chiama e la
Chiesa che nel nome di Dio e da Lui guidata attraverso lo
Spirito, riconosce la vocazione e abilita all’esercizio di tale
ministero3 anche nel campo dell’apostolato laicale.
“Se non io, chi per me?”. È questa la domanda che
ognuno deve porsi, superando la propria singola individualità e la tentazione di delegare ad altri le proprie responsabilità, sottraendosi ai doveri che scaturiscono dall’adesione matura e convinta ad un cammino di fede e di
38 Sussidio formativo 2010/2011
servizio nella comunità-Conferenza.
Questa corresponsabilità è espressione singolare della
carità e richiede anzitutto conversione sincera e dedizione
appassionata all’ideale vincenziano vissuto nel servizio dei
poveri, “conseguenza della fede che diventa operante nella
carità”4.
La carità trova, nella vita della Conferenza, la sua prima espressione nel dono di sé, nell’accettazione della pluralità delle esperienze e nell’impegno alla costruzione del
gruppo-comunità. Così ogni presenza e ogni dono viene
valorizzato per il bene comune e diventa fermento di comunione, dove non c’è spazio per l’egoismo e la fraternità
si fa legge di incontro e di comportamento. Poiché nella
Conferenza vincenziana non ci può essere servizio senza
comunione.
«La vocazione alla comunione si esprime nella
vocazione al servizio. Lo Spirito unifica la Chiesa
nella comunione e nel servizio» (LG 4).
«L’amore si esercita concretamente nel servizio. Per
amore fatevi servi gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Come ci si può formare a questa corresponsabilità, segno di comunione e di amore?
Tracce per la condivisione
1. Sono disponibile ad accogliere i doni che lo Spirito
mi ha elargito e a metterli con gioia e generosità al
servizio del bene comune, anche nella mia Conferenza?
2. Quanto incide e in che misura trasforma la mia vita
l’esperienza di comunione e di servizio nella Conferenza? È vissuta come vocazione e missione?
3. Qual è il mio contributo alla vita della Conferenza?
Sono capace di portare i pesi con i miei confratelli e
consorelle, crescendo nella consapevolezza che essere membri della Conferenza:
- aiuta a realizzare il cammino per la propria personale santificazione;
- prolunga e amplifica l’azione personale;
- fa ognuno depositario della storia e del futuro della Società, partecipando così alla sua continuità o
al suo declino?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 39
II. SPIRITO DI AMICIZIA E DI FRATERNITÀ
La vita della Conferenza realizza anzitutto l’amicizia
cristiana tra i suoi membri.
«Bisognava formare un’associazione di mutuo
incoraggiamento per i giovani cattolici, dove si
trovasse amicizia, sostegno, esempi. Ora il legame più
forte, il principio di una vera amicizia, è la carità e la
carità non può esistere nel cuore senza spandersi
all’esterno; è un fuoco che si spegne in mancanza di
alimenti e l’alimento della carità sono le opere buone.
Se noi ci diamo appuntamento sotto il tetto dei poveri,
serve più a noi che a loro, per diventare migliori e più
amici» (A. F. Ozanam - Lettera a E. Bailly, 3
novembre 1834).
«Vi assicuro, ha detto bene Lamache, e voi lo
ringrazierete per me, queste amicizie formatesi sotto
gli auspici della fede e della carità, in una duplice
fraternità di discussioni religiose e di benefiche opere,
lungi dall’intiepidirsi a causa di una lunga assenza,
in qualche modo si raccolgono e si condensano, si
nutrono di ricordi» (Lettera a Lallier, 17 maggio
1838).
«Acquistate amicizie solide, cristiane, consolanti.
Vedrete che il vostro cuore ci guadagna ad aprirsi, che
gli antichi affetti si ravvivano al contatto con i nuovi
e che non bisogna mai dire: tre, sempre noi tre,
nient’altro che noi tre! La Società di San Vincenzo vi
prepara senza dubbio alla pia fratellanza» (Lettera
alla signorina Soulacroix, 1° maggio 1841).
Talvolta persone che un giorno sembravano legate a
noi da una stessa idea e da un comune obiettivo, si sono
allontanate a poco a poco dalla Conferenza e lo stesso ricordo di loro appare freddo e sbiadito.
Perché? In realtà spesso siamo uniti da scopi comuni,
dalla collaborazione ad attività ed iniziative, ma non da
vera amicizia.
Ma nella vita di una Conferenza Vincenziana non può
essere soltanto così: noi ci siamo uniti per aiutarci nell’esercizio di quella carità che è il fondamento della nostra
vocazione cristiana.
«Il nostro primo scopo è quello di consolidare la fede
e rianimare la carità nella gioventù, di rafforzare i
40 Sussidio formativo 2010/2011
ranghi con amicizie edificanti e solide, di formare
cioè una generazione nuova. Il primo modo di
realizzare questo disegno è radunarsi tutte le
settimane, imparare a conoscersi e amarsi …»
(Lettera ai presidenti e ai membri della Società di
San Vincenzo del Mexico - 19 settembre 1845 - n
46).
E come potremo aiutarci, se non ci vogliamo bene?
Come potremo sentire la fraternità del povero, se non ci
sentiamo fratelli tra di noi?
Fratelli, ecco la parola giusta. Fratelli che tali rimangono anche nel dissenso di qualche opinione, anche nella
diversità di carattere e di atteggiamenti. La vera vita, la fecondità di bene di una Conferenza dipende soltanto da
questa concreta esperienza di unione cristiana.
Se questa non c’è, la Conferenza può promuovere
grandi opere e servizi, ma sarà una Conferenza morta.
Porterà ai poveri soccorsi materiali, ma non gli porterà il
dono prezioso dell’amore, perché non lo possiede in sé.
Nell’introduzione al Manuale della Società di San
Vincenzo, edizione dell’aprile 1851, leggiamo:
«Sono trascorsi ben 18 anni dacché venne stabilita la
prima Conferenza di San Vincenzo De Paoli per
visitare i poveri, ed esercitare, secondo l’estensione dei
propri mezzi, le opere di misericordia (…)
Uno dei caratteri che distingue la Società è quello
della più sincera cordialità cristiana tra tutti i suoi
membri. Quando eravamo ancora in numero ristretto,
e le nostre adunanze non oltrepassavano la cerchia
della nostra intimità, era per noi una festa il giorno
della Conferenza, giacché quel giorno riuniva insieme
tutti gli amici divisi dalle occupazioni dell’intera
settimana.
Ci amiamo senza conoscerci, sappiamo intenderci
senza parlarci anche con le persone di età avanzata
venute a darci un appoggio con la loro esperienza e
uomini di condizioni le più diverse a noi associati.
Tutti ci troviamo d’accordo sul “negozio capitale della
vita”, come si esprime Bousset, cioè sul punto
importante della salute, sia in ciò che concerne
personalmente, come ciò che riguarda il nostro
prossimo.
I nostri soli legami sono dunque una reciproca
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 41
confidenza ed una cristiana amicizia e regna tra noi
la maggiore amorevolezza, né alcuno agogna
dominare sugli altri.
Cor unum et anima una.
L’amore e la pace, ecco i due beni che ci importa
conservare.
Possedendoli, come non li comunicheremo noi a coloro
che ci stanno intorno, e soprattutto a sollievo e
consolazione di quei poveri che godiamo di
avvicinare?
Chi non sa che soventi volte in casa di questi, le
materiali miserie sono le meno gravi?
Quel vecchio senza famiglia, quel fanciullo privo di
padre, soffrono indubbiamente il freddo e la fame; ma
assai più li affligge il non sentirsi stringere la mano da
un’altra mano amica; il non vedere un cuore che al
loro si apra ed il trovarsi perciò in mezzo a
spaventevole freddezza; ed è questo vuoto che i
membri della Società di San Vincenzo De Paoli
cercano di riempire.
Essi non entrano soltanto nella casa del povero con
qualche elemosina, ma soprattutto vi entrano con
cuore vivamente commosso, e dal quale, colla grazia
di Gesù Cristo, escono naturalmente soavi ed efficaci
parole, che sono veri benefizi, anzi primi tra i
benefizi, convincendo il povero, che egli più che
soccorso, più che compatito, è amato».
Tracce per la condivisione
1. Mi considero davvero un amico per gli altri confratelli? Sono capace di ascoltarli?
2. Assumo nella Conferenza atteggiamenti di rispetto,
di ricerca del dialogo, del confronto sincero e costruttivo o prevalgono in me la tentazione ad avere
il predominio sugli altri, a imporre il mio punto di
vista, ad assumere atteggiamenti di chiusura?
3. Mi sforzo di condividere con gli altri fratelli della
Conferenza le mie esperienze spirituali? Prego per
loro? Dedico del tempo ad interrogarmi sulle qualità dei miei rapporti con loro?
42 Sussidio formativo 2010/2011
III. SPIRITO DI PREGHIERA E DI SACRIFICIO
La cordialità delle nostre riunioni è frutto di fraternità
e la fraternità richiede il reciproco rispetto, la comprensione dei sentimenti altrui, la resistenza all’amor proprio.
Ma questa fraternità fondamentale è uno stato di grazia che non possiamo procurare da soli, ma si può chiedere con la preghiera. Non solo con la preghiera orale, ma
con lo spirito e la disposizione di preghiera.
Carità senza preghiera, senza viva e fiduciosa preghiera,
è un assurdo.
La preghiera è un elemento fondamentale nella Conferenza, per crescere nella comunione autentica e nella vera
corresponsabilità.
Il cammino che i vincenziani precorrono assieme verso
la santità porterà tanto più i suoi frutti quanto più la vita
intima dei membri è vissuta nella preghiera, nella meditazione delle Sacre Scritture e di altri testi edificanti, nella
pratica dell’Eucaristia, nella devozione alla Vergine Maria
sotto la cui protezione i vincenziani sono fin dalle loro
origini, e nella conoscenza e nel rispetto dell’insegnamento della Chiesa. (N.R. n. 2.2)
All’interno di tutte le Conferenze del mondo, e nella
loro vita personale, i vincenziani elevano la loro preghiera
a Dio, desiderando unirsi alla preghiera di Cristo e della
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 43
Chiesa per i loro Confratelli e per i poveri che sono “i loro
padroni” e dei quali essi desiderano condividere la sofferenza. (N.R. n. 2. 3)
Preghiera non solo come un dire e un chiedere, ma anche un ascoltare e ricevere, come meditazione, dialogo
con la Verità Redentrice.
«Noi ci aduniamo in nome di Cristo e dovunque sono
due o tre riuniti nel mio nome, Egli dice, là sono io in
mezzo a loro. Andiamo alla casa del povero come
inviati di Cristo. Ebbene, non sentiremo la necessità
di avere continuamente la mente e il cuore rivolti a
questa reale Presenza che è in mezzo a noi? Non ci
rivolgeremo a Lui per essere guidati, illuminati,
sorretti nel nostro compito?».5
Lo spirito di preghiera concretizza e si realizza pienamente in una semplice e gioiosa disposizione al sacrificio.
La Conferenza senza sacrificio – libero, volontario, generoso – non è Conferenza vincenziana.
Non solo un sacrificio che si rende operante nell’offerta che ciascuno fa nella colletta segreta al termine della riunione, ma sacrificio di attività, di energie e di affetto.
Dallo spirito di sacrificio nasce infatti lo zelo vivo ed
illuminato.
«Lo zelo deve farci accettare tutti gli incarichi che la
44 Sussidio formativo 2010/2011
Società ci affida, accettarli con impegno, abnegazione,
sia che riescano omogenei o no. Prendiamo per
esempio chi ha inclinazione per certi minuti
particolari, per cose che sembrano piccolezze, ma che
in fin dei conti sono la vita di un’opera di carità; si
adopera e riesce benissimo nell’organizzare magari
una lotteria, un mercatino; e queste cure però non gli
piacciono, e preferirebbe visitare molti poveri,
occuparsi dei fanciulli. Ebbene, malgrado la
ripugnanza che costui sente per tali opere, deve di
buon animo addossarsi l’incarico che gli viene
affidato, ed impiegarvi tanto più zelo quanto meno vi
sente inclinazione. Vi avrà maggior merito e Iddio
spargerà su di lui le più grandi benedizioni.
E se ricopriamo le cariche della Società, sia quella di
Presidente, di Segretario o di Tesoriere, mai dobbiamo
sottrarci a nessuna fatica annessa a tali uffici. Lo
abbiamo già detto e lo ripetiamo: questi “onori” sono
pesi e si devono accettare non per appagare l’amor
proprio, bensì per essere i primi ad incoraggiare i
fratelli nei momenti di tiepidezza, supplire agli
assenti e agli infermi, venire incontro in tutto alle
necessità dei fratelli della Conferenza».6
Traccia per la condivisione
1. Sono disponibile ad assumere incarichi nella Conferenza, in uno spirito di corresponsabilità, accogliendo il sacrificio come segno di comunione ed
espressione di amore oppure prevale in me la tentazione della fuga dinanzi alle responsabilità, rifiutando la logica del servo, cioè di colui che offre sé stesso
in modo disinteressato, gratuito, confidando nell’aiuto dello Spirito e nella forza della preghiera?
2. Come viviamo la vita comunitaria: c’è corresponsabilità nelle scelte? Sappiamo valorizzare le capacità e
le esperienze di ciascuno? Ci sforziamo di venire incontro agli altri, aiutando e incoraggiando chi si
trova in difficoltà?
3. Il presidente: dedica tempo ad ascoltare i confratelli? Si impegna a coinvolgerli nelle iniziative? Esercita il suo ruolo come servizio e non come autorità?
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 45
IV. SPIRITO DI POVERTÀ E DI CONDIVISIONE
«I membri della Società sono uniti dallo stesso spirito di povertà e di condivisione».
(Nouvelle Regle, n. 3.13)
La povertà non è solo una condizione economica e sociale: essa richiama anche ad una disposizione interiore,
che affonda le sue radici nel Vangelo, che investe in profondità la coscienza del cristiano, il suo stesso rapporto
comunionale con Dio, mette in discussione tutta l’esistenza terrena nella prospettiva dell’eterno e, per noi vincenziano, segna in modo determinante il nostro apostolato
caritativo.
Lo spirito di povertà è dunque per noi vincenziani,
uno spirito di partecipazione, di condivisione, che ci spinge alla solidarietà, nell’impegno per il bene comune, cioè
di ciascuno e di tutti.7
Questo significa anche che non dobbiamo però cadere
nella tentazione e nel rischio di fermarci nelle nostre Conferenze alle analisi sociologiche, per quanto utili, e alla ricerca di nuovi strumenti e metodologie di azione sociale,
anch’essi urgenti e necessari, perdendo di vista la nostra
vocazione cristiana e lo spirito autenticamente evangelico
con cui affrontare il problema della povertà.
Noi crediamo infatti che questa sia la prospettiva corretta in cui collocare la nostra vocazione: l’emarginazione
e la povertà (ogni forma di povertà: materiale, morale, spirituale) non hanno altre strade per essere affrontate e vinte
se non attraverso lo spirito di condivisione. Chi condivide
si pone in termini di parità, partecipa alla vita altrui e partecipa all’altro la propria, accetta e offre aiuto.
Antonio Federico Ozanam propone un itinerario di
formazione delle coscienze che passa attraverso la comprensione e la condivisione del dramma dei poveri, quella
che lui chiama “pedagogia della compassione”, cioè del
patire insieme. Scrive:
«Noi siamo convinti che la scienza delle benefiche
riforme non si impara sui libri e alla tribuna delle
pubbliche assemblee, ma nel salire alle soffitte del
povero, nel sedersi al suo capezzale, nel soffrire il
freddo che egli soffre, nello strappare con l’effusione di
un amichevole colloquio il segreto da un animo
desolato».
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Non si può pensare da cristiani e da vincenziani di vivere il dramma della povertà, di cercare soluzioni per le
condizioni di miseria, di entrare in dialogo con i poveri,
se non si è a nostra volta per qualche verso, poveri, se non
si prende innanzitutto coscienza della propria personale
povertà, anche se solo significasse accogliere la comune
condizione umana di fragilità e debolezza, di peccato e di
morte.
La vita da poveri come ideologia non ci appartiene.
Ognuno rinuncia a quanto può, in misura differente, a favore di chi non possiede neppure il necessario. La scelta
della povertà radicale è di pochi ed appartiene alla dimensione dell’eroismo delle virtù, che conduce alla santità di
vita. Ma non è per tutti. Cristo la vive per se stesso e la
propone come strada privilegiata che conduce a Dio.
«Per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti
uomini e donne e minaccia la pace di tutti, – afferma
Benedetto XVI – occorre riscoprire la sobrietà e la
solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso
universali. Più in concreto, non si può combattere
efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive
san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di “fare
uguaglianza”, riducendo il dislivello tra chi spreca il
superfluo e chi manca persino del necessario... La
povertà non è un valore in sé, ma essa è condizione
per realizzare la solidarietà… Così, nella Chiesa, il
voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a
tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il
primato delle ricchezze dello spirito».
Ecco la strada che noi vincenziani dobbiamo percorrere per vivere nella nostra vita e nell’esperienza della Conferenza la solidarietà come la capacità di metterci in movimento verso l’altro che soffre una situazione di disagio (la
persona bisognosa ma anche il mio confratello o consorella) attraverso un processo dinamico di prossimità che impone di non stare fermi, che non accetta distrazione,
chiacchiere o perdite di tempo, ma esige atti concreti, gesti e comportamenti che ne fanno non un’azione occasionale, ma uno stile di vita, una cultura, un modo di agire
quotidiano.
Ecco uno dei pilastri del carisma e della vocazione vincenziana: “pensare povero, parlare povero, possedere povero”.8
Carità e Missione nelle Conferenze vincenziane 47
Questo è fondamentale in san Vincenzo, in santa Luisa
de Marillac, in Federico Ozanam. Tu incominci a vivere
da povero pensando povero, cioè costruendo un pensiero
da servo, da stratega non di potenza o di sopraffazione
verso il fratello.
Significa mettersi sempre dalla parte dell’ultimo; avere
il coraggio di ammettere i propri torti; significa mettersi
in ginocchio per primi anche se il fratello non ha ragione.
Solo così puoi cambiare te stesso e salvare il mondo (la
Croce di Cristo segno e simbolo di questa logica).
Tracce per la condivisione
1. Nella Conferenza, ognuno partecipa alla vita altrui
e partecipa all’altro la propria, accetta e offre aiuto
in un rapporto di condivisione vera, prendendo coscienza della propria personale povertà e della necessità di essere egli stesso compreso,perdonato e
amato?
2. Nella nostra vita ricerchiamo uno stile sobrio ed essenziale, rifuggendo da un consumismo sfrenato e
dalla ricerca sterile del benessere, impegnandoci col
sacrificio personale per una società nuova e più giusta?
1
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4
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6
Documento Pastorale della CEI, Comunione e comunità, 1981.
P. Giuseppe Turati, I ministeri nella Chiesa, p. 14.
CEI, Rinnovamento della catechesi.
Benedetto XVI, Deus caritas est 33.
Augusto Baroni, La Conferenza di San Vincenzo.
Adolfo Baudon, Letture e consigli ad uso dei membri delle associazioni di carità, 1863.
7 Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei Socialis 38.
8 Mons. Nicola Pavoni, Conversazioni con i giovani.
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