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UANDO, DOPO IL GUADO
di un fiume, un roveto o
un campo di grano, la
via ridiventava visibile,
ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri,
asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel
fatidico allineamento sullo schermo
del Gps, allora anche la parte svanita
della strada si ricomponeva sulla
mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo
in cammino.
Non stavamo solo ripercorrendo
l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo
decenni di incuria e depredazione. Pa-
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trimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra
dei padri. E noi questo cercavamo,
non con la testa e forse nemmeno col
cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti — parola orrenda — ma nobilissimi organi di senso.
Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante.
Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un
simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee.
Ricordo che dopo giorni di cammino, non avevamo più bisogno di trovare noiose conferme nel selciato romano o nei marciapiedi chiamati crepidini. Ci bastava la potenza della direzione.
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RA COME SE LA STRADA CHE DOVEVAMO raccontare non fosse quel-
la riducibile alla sequenza dei monumenti e nemmeno quella
annotata in fretta nel taccuino, ma l’idea di strada, la linea in
sé, il filo rosso dell’altimetria, latitudine e longitudine, la direttrice che tagliava l’Appennino e fuori dalla quale ci sentivamo
subito inquieti. La traccia che le nostre suole indovinavano, pestando un passo doppio ogni centoquarantotto centimetri, un
millesimo di miglio romano, allo stesso ritmo delle legioni.
In molti avevano cercato di dissuaderci. Attenti, dicevano,
dopo i colli romani la traccia si perde. Troverete cemento e tangenziali, recinti privati e cani liberi. Sarà una fatica tremenda.
Se proprio volete farvi una strada romana, andate sulla Claudia
Augusta, dal Po al Danubio in Baviera, che è segnata a meraviglia. Ma noi non ci lasciavamo tentare. Non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili. Ci mandava in bestia che proprio la “Regina Viarum” si perdesse nel nulla.
Più cercavano di farci desistere, e più ci convincevamo che l’idea era buona.
Ma quelli non mollavano. Fate piuttosto il Cammino di Santiago, era il refrain, almeno
troverete compagnia. Per noi era come una puntura di vespa. Ma come? Ci proponete una
riserva indiana? A noi che si muore dalla voglia di attraversare il Paese fuori dai sentieri segnati? E poi, basta Santiago. Che noia. Possibile che non ci sia altro? Basta pellegrini, basta
Francigene. Noi eravamo solo viandanti, e volevamo una strada laica, italiana e tutta nostra. Non una moda, un’invenzione del marketing, ma una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, apostoli e puttane, pecorai e carri armati, mercanti e carrettieri. Una linea che ci possedesse.
E difatti, ora che l’abbiamo battuta metro per metro, ora che tutto è finito, non riusciamo a togliercela di testa. Sogniamo pale eoliche, serpenti nel grano, tarantole e istrici, il
trillo delle rondini a Venosa e il canto dei sanniti negli antri fra Volturno e Ofanto. «L’Appia
è una droga pesante» ghignava appena ieri uno dei compagni di viaggio con gli occhi arrossati dal computer dopo giorni di “Google street view”, a rifare a volo d’uccello la strada battuta a quota zero. Settimane dopo, ogni passo torna con nitidezza. La partenza da Roma
con l’acqua a secchi giù da porta San Sebastiano, l’antico che diventa villa privata, orna-
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di posizione della Soprintendenza, il fiato
della Camorra sulla Capitale. E avanti, il taglio obliquo dei Colli Albani, la segnaletica
che muore, lo scavalco di recinti abusivi, poi
la fucilata di cinquanta chilometri fino a Terracina, il rettilineo più lungo d’Italia.
E ancora Formia, e Mondragone, e Santa
Maria Capua Vetere, dove i comitati “Appia
Antica” non servono a difendere la via, ma a
difendersi dalla via. Posti dove Roma abita
in ogni giardino, ogni cantina e sottoscala, e
dove l’archeologo — come lo Stato e le leggi
— è più temuto della peste. Poi, la via che si
smaterializza, sorvola le montagne irpine riducendosi a concetto astratto, ipotesi o puro
fattore euclideo, avanti per una campagna
che si è mangiata quasi tutto e dove da secoli la parola “riuso” è il primo comandamento
dell’edilizia. Pezzi di lastricato romano graziosamente disposti nel prato inglese di un
giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali a segnare il confine tra poderi.
Un saliscendi dove il tracciato s’immerge
sempre più a lungo, solo per ritornare sporadicamente in superficie con gobba di capodoglio tra le convessità ondose dell’oceano.
Nelle plaghe africane dell’Apulia, ecco la
nostra marcia procedere verso il solstizio in
una luce vitrea e rovente, con la Via Regina
che per lunghi tratti diventa fatamorgana,
si fa sogno e mitologia e sete, si perde tra uliveti, campi di papaveri e aglio selvatico, ma
egualmente non ci molla, ci segue come un
fantasma meridiano, in una stupefacente
metamorfosi che ce la restituisce con nomi
sempre diversi — paracarro, rudere, campo
di frumento, strada provinciale,
fontana, metanodotto, solco
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di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, pelle di serpente
— solo per gettarsi nelle fauci infuocate del
drago, l’altoforno dell’Ilva tarantina.
Immagini. L’albergatore di Albano Laziale che ci vede arrivare fradici e chiede: «Ma
chi ve l’ha inflitta questa galera?». Le mani
grandi degli agricoltori campani, piene di fave fresche in regalo ai viandanti «nel nome
del Padreterno». Il mitico “vaffa” di un pullmino di operai verso Latina, invidia di pendolari condannati alla galera dell’asfalto.
Una macchina a San Giorgio Ionico, in piena
controra, che rallenta in una rotonda e ci allunga una bottiglia di acqua fresca come al
Tour de France. La tarantella dei campanacci al collo delle vacche di Itri che ci tagliano
la strada all’inizio della transumanza. Un pastore dalle parti di Melfi che segue il gregge
con un’auto sgangherata e chiede: «Ma chi
vi paga?». Il canto degli assetati verso l’Adriatico, «Voglio ‘o maaaare», cui segue il
grido «Jateme ‘a bbirra», fino all’arrivo col
sole allo zenit, Brindisi trentasette all’ombra, e il tuffo vestiti ai piedi della colonna terminale. La malinconia della fine, la barba
d’un mese, il sacco sfatto, l’attesa della sera
in uno svolio di rondoni, ebbri di negramaro
e finocchietto.
Era aprile, ricordo. L’idea era già chiara in
mente, e anche Alex il regista era d’accordo.
Non esiste, diceva, copione migliore di una
strada. Ero d’accordo anche come giornalista. Se non sai cosa scrivere, mi aveva insegnato anni fa Egisto Corradi, cammina e qualcosa troverai. E siccome alla mia storia mancava
un grande viaggio a piedi,
l’Appia sembrava perfetta.
Ma sapevo che da solo non ce
l’avrei fatta. Quel viaggio era
roba tosta, esigeva un navigatore
capace di decrittare ogni traccia e
isoipsa. Uno l’avevo già conosciuto, si chiamava Riccardo Carnovalini, un ligure col radar sotto i piedi, un domatore di rovi e torrenti, forse il massimo camminatore italiano. Gli telefonai, e quello disse subito sì, perché l’Appia — quel nome come un do di petto — ti conquista già col nome.
Una settimana dopo lo rividi per uno “studio di fattibilità” nella hall di un albergo davanti alla stazione di Bologna. Ci venne incontro con un sorriso mite ma pieno di orgoglio. «Io il viaggio l’ho già fatto», disse, ed
estrasse dal tascapane una diavoleria simile
a un citofono. Era il suo Gps. Spiegò che ci
aveva pigiato dentro montagne di dati. Le
carte antiche, la tracciatura dell’archeologo
Lorenzo Quilici, le tavolette al 25 mila
dell’Igm («La magnifica serie 25 V — disse
— degli anni Cinquanta»), la viabilità attuale, le ortofoto satellitari del ministero
dell’Ambiente, le notizie racimolate da un sito di esploratori del territorio chiamato
“Open street map” e da www.straderomane.it. Accese lo schermo. «La strada è già tutta qui», fece indicando una linea rossa che tagliava strade, città, linee ferroviarie, elettrodotti, navigando imperterrita verso
Est-Sud-Est.
Era lei, la fantastica diagonale d’Oriente,
aperta ventiquattro secoli prima, che andava senza deflettere, incurante dei dislivelli
con la ricerca maniacale del rettilineo tipica
di quelle teste dure dei Romani. Era il sogno,
o forse il delirio, di un cieco di nome Appio
Claudio, l’uomo che a partire dal 312 avanti
Cristo ne aveva tracciato la prima parte fino
a Capua. In tutto, trecentosessanta miglia
di ghiaia e possenti selciati, pari a cinquecentotrentatré chilometri, che però sarebbero diventati seicentoundici per noi, a causa dei numerosi ostacoli messi in mezzo dai
tempi moderni. Capannoni, tangenziali, proprietà private. Riccardo aveva studiato tutto, anche le tappe, in base ai punti di sosta reperibili e ricalcando ove possibile le stazioni
romane (NBOTJPOFT e TUBUJPOFT).
Era fatta. Saremmo partiti in quattro, a
piedi come immigrati. Quattro matti a piede libero, senza prenotazioni di alberghi e
senza auto d’appoggio. Con noi anche Irene,
veneta mezza austriaca, architetto con passione per l’ambiente, un tipo silenzioso capace di render lieve la trasferta alla più rissosa
delle compagnie. A Bologna, le sessantanove carte che Alex aveva comprato all’Istituto geografico Militare di Firenze vennero
aperte una per una, esplorate, annusate, numerate e ripiegate. Vecchie di sessant’anni,
contenevano una pazzesca quantità di informazioni e toponimi utili alla traversata. Al loro confronto, le mappe contemporanee denunciavano tutta la banalizzazione dei territori e la distanza degli Italiani dal loro Paese.
Celebrammo con un aperitivo, poi venne
la notizia a ciel sereno. Un pezzo dell’antica
via Emilia era stato appena ritrovato in via
Ugo Bassi, proprio lì a Bologna, e corremmo
a vedere. Sopra il basolato ancora sporco di
fango, tra le benne, un gruppetto di politici
e pubblici amministratori si faceva immortalare da un fotografo. Pensammo fosse per
sancire una restituzione. Invece no: serviva
solo a tombare a cuore più leggero la via appena ritrovata. Non seguì alcuna polemica.
Bologna aveva una sola paura: che l’antico
non bloccasse l’asfalto. Ricoprire, ricoprire
in fretta. Era quello l’imperativo. Era già successo a Reggio Emilia, ci dissero. Anche per
la sinistra l’antichità era un intralcio. Il
Nord era come il Sud. Eravamo davanti
all’amnesia di una nazione.
Era esattamente ciò che non volevamo accadesse con l’Appia, e così, già prima di partire, giurammo che quella fatica non sarebbe rimasta senza esito. La nostra via era un
giocattolo fantastico e bisognava a tutti i costi riaprirla ai viandanti. Lungo il cammino
il proposito divenne ossessione: lasciare
l’Appia in quello stato era un crimine. Per
riattivarla bastava poco: un buon tagliaerba, qualche passerella, una segnaletica coerente e un coordinamento governativo che
mettesse insieme i novanta comuni interessati. Era quanto bastava a far affluire centinaia se non migliaia di stranieri innamorati
delle nostra storia. Il resto poteva arrivare
anche dopo: ricupero come ospizi di caselli
ferroviari e case cantoniere, monitoraggio,
cartografia, restauro di cippi e monumenti,
messa in sicurezza del basolato. L’importante era creare subito un flusso.
Non so dire cosa mi resti più impresso di
questa avventura. Non so decidermi fra le
facce e i paesaggi, le cose viste e quelle assaggiate o solo annusate. Di certo so che
questo è stato il più terreno e insieme il più
visionario dei miei viaggi. Il cibo mediterraneo ha fatto il suo, per impastare passato e
presente. Melanzane fritte e Federico di Svevia. Aglianico e canti ebraici di Oria. Freselle al pomodoro condite con le 4BUJSF di Orazio Flacco. Vino flegreo e i canti tribali di Vinicio Capossela con la sua Banda della Posta. Lampascioni e Simon Pietro in viaggio
verso Roma. Perché il viaggio, insegna Calvino, passa anche tra le labbra e l’esofago. E
chi, viaggiando, non cambia dieta, non ha
capito nulla.
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ONKEY! COSÌ VIENE CHIAMATO uno dei più autorevoli candida-
ti al ruolo di successore di Usain Bolt: EPOLFZ, l’asino. Javon
Donkey Francis, vent’anni, ha gambe nere, lunghe e nerborute. L’anno scorso ha stabilito il nuovo record nazionale
sui 400 metri in 45”35, meno di Bolt nel 2003. Al traguardo, ha imitato il gesto della saetta con cui Bolt celebra le sue
vittorie. Per il suo allenatore, Michael Clarke, il ragazzo è
semplicemente un prodigio. «-FUT HP %POLFZ». Come tutte le sere durante i giorni feriali, Clarke impartisce direttive al suo pupillo e al resto della squadra in una pista adiacente allo stadio nazionale di Kingston, la capitale di quest’isola delle Grandi Antille. Con la camicia sbottonata fino
all’addome per affrontare la calura soffocante, l’allenatore veterano con trent’anni di
esperienza, responsabile del rinomato Calabar High School Team, rimane su una seggiolina da giardino al bordo della pista. Sotto un cielo plumbeo, giovani corridori di entrambi i
sessi con anatomie da purosangue, escono di corsa in formazione, al ritmo scandito dalla
voce grave e implacabile del signor Clarke. «Ai vostri posti… Via! Bene, bene, bene. Tempo?». La luce del sole comincia a spegnersi mentre Javon Donkey Francis, steso sopra un
lettino, aspetta che un fisioterapista finisca di stiracchiare le sue estremità per potersi unire alle esplosive serie di sprint dei suoi compagni . «Fin da piccolo sognavo di diventare un
velocista, non un calciatore», dice Donkey. «E sognavo di essere uno dei migliori. Ho organizzato la mia vita in vista di questo obiettivo. Penso che ci riuscirò. La disciplina è un fattore chiave. Voglio essere come Usain Bolt». Figlio di una guardia giurata e di una bambinaia, Donkey proviene da un’umile famiglia di cinque fratelli, che vive ancora a Bull Bay, nei
pressi della capitale. Michael Clarke l’ha preso all’amo quando è passato dal liceo Calabar,
e da allora lavora per affinare questo diamante grezzo.
Il vero Usain Bolt si allena a pochi chilometri, sull’emblematica pista blu dell’Uwi Mona
Stadium. Bolt sgobba tre ore ogni sera per
undici mesi all’anno, qui nella sede del Racers Track Club, dentro il campus dell’Università delle Indie Occidentali (Uwi nell’acronimo inglese). La Puma, che paga scarpe e magliette a Donkey Francis, versa a
Bolt 10 milioni di dollari l’anno fino al
2017, secondo 'PSCFT. Come molti altri
grandi atleti giamaicani, Francis e Bolt sono di origini modeste. La superstar mondiale viene dalla William Knibb Memorial di
Falmouth, nel Trelawny, dov’è nato, che
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conta conta 1.400 fra maschi e femmine (i
ragazzi con divise color cachi e le ragazze
con grembiule azzurro): le lezioni si tengono dentro casermoni poco illuminati e c’è
una pista di atletica dove a metà mattinata
può capitare di veder pascolare le capre.
Yohan Blake, l’altra grande star del Racers Track Club agli ordini del celebre allenatore Glen Mills, arriva sgommando sulla
sua Chrysler rossa, con musica dancehall a
tutto volume. Dopo aver parcheggiato accanto alla pista blu ed essersi sottoposto a
una breve sessione di stretching, Blake indossa occhiali da sole aerodinamici e prende a galoppare come un puledro selvaggio,
agitando contro il vento le sue braccia erculee. Un cartello accanto alla guardiola di sicurezza avverte che questo è «il terreno dove si allenano le leggende».
Sei volte campione olimpico e otto volte
campione mondiale fra il 2008 e il 2013,
Bolt non è nel momento migliore della sua
folgorante traiettoria. Ha ventott’anni, la
mezza età per un velocista: i mondiali dal
22 agosto a Pechino e l’appuntamento olimpico di Rio 2016 potrebbero essere le sue ultime grandi apparizioni. La Giamaica cerca
già successori per la leggenda: non farà fatica a trovarne, fra la sua progenie. Ne è convinto Maurice Wilson, selezionatore della
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nazionale e allenatore capo del college di
educazione fisica Gc Foster, che ha formato la maggior parte degli istruttori sguinzagliati nei college a caccia di promesse. Per il
signor Wilson, l’equazione è semplice: «Ci
sono quasi tremila atleti di alto livello su
una popolazione che arriva appena a tre milioni di abitanti. Faccia i conti lei sul nostro
talento competitivo». Come dice Edward
Shakes, direttore del Gc Foster: «Quello
che abbiamo fatto in questo Paese è prendere sul serio l’educazione fisica». E chiarisce: «Il nostro centro per la formazione di
professori dipende dal ministero dell’Istruzione. Gli atleti possono accedere a un programma di borse di studio statali: così abbiamo evitato la fuga di talenti che in passato prendevano la strada di Stati Uniti e Inghilterra. Le grandi stelle oggi vivono qui.
Il sistema che è stato introdotto fin dalle
elementari, e prolungato fino all’università, è il segreto del nostro successo. A questo bisogna aggiungere che è sufficiente dare ai bambini un paio di scarpe e farli correre. Quasi tutti quelli che arrivano in alto,
vengono da famiglie molto povere. I benestanti preferiscono golf o tennis».
Insieme a turismo, musica, zucchero e
bauxite, la produzione di velocisti è uno dei
motori principali in questa nazione dove l’a-
spettativa di vita supera i settant’anni, il
reddito pro capite annuo si aggira intorno
ai 3.800 euro e bisogna fare i conti con un indice di povertà che colpisce, fra alti livelli di
criminalità, il 17 per cento della popolazione, composta per quattro quinti da neri e
mulatti. Alle ultime Olimpiadi, Londra
2012, i giamaicani hanno portato a casa dodici medaglie, di cui quattro d’oro, nell’atletica leggera. «Vuole sapere qual è il nostro
segreto?», dice l’allenatore capo del Gc Foster, Maurice Wilson. «Guardi dentro questa borsa». Testa pelata e rotonda come
una palla da biliardo e quasi due metri di altezza, fasciati in una maglia con le insegne
del college, scruta l’allenamento della sua
squadra. I ragazzi si avvicinano, sudati e ansimanti, a una panca dove Wilson custodisce l’enigmatica borsa, contenente semplici barrette di canna da zucchero al naturale, che i giovani atleti mordicchiano prima
di avviarsi verso casa. «Si è parlato molto
dell’influenza del patrimonio genetico in
questa specialità», dice Wilson. «Qui in Giamaica la maggioranza della popolazione è
originaria dell’Africa occidentale e abbiamo un clima umido, non troppo freddo, che
aiuta ad adattarsi alle competizioni. Gli alimenti freschi che consumiamo sono un altro fattore essenziale. Ma la cosa più impor-
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60.*/*
(*"."*$" 64" tante è la struttura di ricerca e sviluppo di
talenti. Come la Spagna, che ha un sistema
rodato per scovare campioni di calcio fin da
bambini, noi l’abbiamo per velocisti».
La sede del Mvp Track & Field Club sta
nei sobborghi di Kingston, nel campus
dell’Università tecnologica della Giamaica
(Utech). La sigla del club, Mvp, sta per NB
YJNJTJOH WFMPDJUZ BOE QPXFS, massimizzare la velocità e la potenza. Il leader è un allenatore esperto dal ventre prominente e il
vocione da orco, di nome Stephen Francis.
Insieme a suo fratello Paul, Francis fondò
questo club nel 1999. Nei periodi che precedono le gare, i fratelli Francis si concentrano sulla cinquantina di atleti migliori, combinando allenamenti serali sulla pista in erba con giornate di corse dalle primissime
ore del mattino sulla pista adiacente allo
stadio di Kingston. Qui è facile incontrare,
alle sei del mattino, Shelly-Ann Fraser-Pryce, la donna più veloce della Terra.
La duplice campionessa olimpica, specialista dei cento, ha ventotto anni, è alta appena un metro e mezzo e pesa cinquantasette chili. «Anche mia madre è stata un’atleta e ha sempre odiato perdere. È una cosa che ho ereditato da lei. È qualcosa di innato nel nostro Dna, almeno nei sobborghi
dove ho passato la mia infanzia. I nostri genitori portano nel sangue la cultura dello
sforzo. Ho studiato al liceo Wolmer dove ho
cominciato a gareggiare. Grazie all’atletica, sono la prima della mia famiglia a essersi laureata. In psicologia, studiando fra le
Olimpiadi del 2008 e quelle del 2012. Il mio
sogno è diventare la prima donna a conquistare tre medaglie d’oro consecutive nei
cento metri». Francis è convinto che Shelly-Ann può farcela. Ed è convinto anche che
il ricambio generazionale è garantito. Un altro grande campione, Asafa Powell, implicato in uno scandalo di doping, non fa più
parte del suo club. «Posso dirle solo che il
suo abbandono non ha avuto nulla a che vedere con quello scandalo: è per il suo carattere che ho deciso che non volevo più essere il suo allenatore». Lei cerca di controllare
il doping? «È difficile. Su internet c’è gente
che ti consiglia di prendere questo o quest’altro. Io cerco di assicurarmi che i miei ragazzi si tengano alla larga dalle sostanze
proibite. La mia responsabilità si ferma
qui. Poi ci sono anche certi che credono di
essere più bravi di quanto siano veramente
e prendono decisioni sbagliate. Senza dimenticare l’indubbia pressione che è stata
aggiunta dalle medaglie conquistate dagli
atleti giamaicani negli ultimi anni».
«Non permetteremo che tutto quello
che abbiamo realizzato finisca per aria»,
proclama il ministro dello Sport, Natalie
Neita Headley, nel suo ufficio situato nello
stesso edificio di quello della premier socialdemocratica, Portia Simpson Miller. Il sorriso del ministro scompare quando menziono i casi di doping che hanno coinvolto Powell e Sherone Simpson – condannati entrambi a diciotto mesi – che hanno messo
in dubbio l’onorabilità dei successi internazionali dell’armata dello sprint giamaicano. «Il controllo antidoping qui da noi esiste solo da cinque anni. Però oggi i nostri
atleti sono i più testati e vigilati del mondo.
L’impegno del nostro governo è assoluto.
Stiamo parlando di un settore che ha fatto
molto per lo sviluppo dell’economia locale
e della nostra immagine nel mondo».
Se vogliamo cercare una leggenda, l’architetto di questo sistema di formazione è
Dennis Johnson. Si formò all’Università di
San José, in California. Imparò bene la lezione e la mise in pratica una volta tornato in
patria, diventando il promotore della famosa pista in erba ancora oggi utilizzata nel
campus della Utech, e trasmettendo in seguito le sue conoscenze ai due allenatori
più noti dell’isola, Francis e Mills. Con i suoi
settantasei anni, Mister Johnson indica
con orgoglio la pista in erba della Utech e riflette: «Nel 1971 non avevamo soldi per fare una pista in materiali sintetici e abbiamo optato per il prato. Oggi continuiamo a
usare l’erba perché è più morbida per le
gambe. Lo sprint non è semplicemente correre veloci, richiede la conoscenza di una
tecnica che parte dall’energia come fonte.
Bisogna imparare a massimizzare la meccanica, e al tempo stesso saperla allentare.
Quando cerco un velocista opto sempre per
il più pigro, perché sarà quello che riesce a
dosare meglio lo sforzo e a farlo esplodere
quando arriva l’ora della verità. Bilanciare
è il segreto. E anche lo sviluppo cardiovascolare, perché questa specialità coinvolge tutti i muscoli del corpo. La cosa che ho fatto è
stato contribuire a unificare un sistema
complessivo, che coinvolge le strutture
sportive e scolastiche. Secondo me abbiamo un rifornimento di velocisti garantito almeno per altri cinquant’anni».
Scende la sera sopra la pista della Utech.
Alcuni corridori si godono il fresco, dopo
aver sfacchinato per ore. Un paio di bambini piccoli, figli di uno degli atleti, gironzolano sul prato e ci ruzzolano sopra come se
fossero di gomma, ignari di ciò che il destino ha in serbo per loro.
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Dal 1918 al 1933 la Germania repubblicana
fu “il laboratorio della modernità”. Cinema, filosofia,
drammaturgia, architettura, letteratura, giornalismo,
grafica: una grande rivoluzione culturale ed estetica,
testimoniata ora da un’antologia di copertine
di quei libri. Che Hitler bruciò inutilmente
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è durata la Repubblica di Weimar. Eppure quanto accadde in Germania tra il 1918 e il 1933 fu
una vera e propria rivoluzione culturale. Un evento che per radicalità e dimensioni non trova paragoni a parte
il Rinascimento italiano. E ha trasformato quegli anni, “i ruggenti anni
Venti”, in un mito che ancora oggi ci
intriga e ci affascina almeno quanto
ci riempie di sgomento il suo traumatico epilogo: «Non vi sono due Germanie — così Thomas Mann nel celebre discorso -B (FSNBOJB F J UFEF
TDIJ tenuto alla Library of Congress di Washington nel 1945 interrogandosi sulle ragioni di quella catastrofe — l’una buona e l’altra
malvagia, ma (...) vi è una Germania soltanto, il cui bene per una
perfidia del diavolo degenerò in male».
Dunque Weimar: con una stupefacente rapidità che sorprese gli
stessi protagonisti, la Germania guglielmina uscita sconfitta dalla
Prima guerra mondiale e umiliata dalla pace “cartaginese” di Versailles si spogliò come d’incanto della sua vecchia cultura prussiana, militarista e filistea lasciando il passo a un alternativo “spirito
del tempo” cosmopolita, liberale e illuministico. Cambiò tutto: valori, costumi, comportamenti. Per tantissimi, certo, ma non per
tutti. Anzi i nemici di Weimar, nazionalisti e antisemiti, ma anche
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la maggioranza silenziosa del popolo tedesco, da subito dichiararono guerra a quella che sprezzantemente venne bollata come KàEJT
DIF 3FQVCMJL, “repubblica degli ebrei”. Una guerra condotta senza
esclusione di colpi dal settimanale %FS 4UàSNFS diretto da Jülius
Streicher poi fatto fuori nel 1934 nella Notte dei lunghi coltelli e
dalla stampa nazional-tedesca dell’impero mediatico di Alfred Hugenberg. Ma anche i difensori della repubblica ebbero la loro stampa pubblicata da potentissimi gruppi editoriali progressisti. Veri e
propri magnati come gli Ullstein la cui rivista #FSMJOFS *MMVTUSJFSUF
fu il periodico del suo genere più letto in Europa. Sempre questo
gruppo editoriale (che esiste ancora oggi) pubblicò un settimanale femminile come %JF %BNF o il mensile maschile di formato tascabile 6IV. Per le casalinghe il #MBUU EFS )BVTGSBV , i bambini si divertivano sfogliando la rivista )FJUFSF 'SJEPMJO e gli intellettuali potevano dire la loro sul 2VFSTDIOJUU, la rivista a essi dedicata.
In fondo il grande paradosso della Repubblica di Weimar — così
chiamata dal nome della bellissima città della Turingia nella quale
venne scritta la prima costituzione democratica d’Europa — sta
tutto qui: nonostante un’accanita opposizione nei suoi confronti e
un feroce terrorismo di destra (tantissime le vittime eccellenti, da
Rosa Luxemburg o Walther Rathenau per citare solo alcuni nomi)
in quegli anni ebbe luogo la più intensa «esperienza della modernità» (Marshall Berman) dell’intero Novecento. E la Germania si trasformò in un vero e proprio laboratorio nel quale tutti i canoni della cultura tradizionale e i codici artistici precedenti vennero totalmente scompaginati. Nacque il teatro politico di Brecht, Piscator e
Kurt Weill e il giornalismo di viaggio impegnato: ancora oggi i reportage, pubblicati a puntate sul 'SBOLGVSUFS ;FJUVOH, di Joseph
Roth sulla Russia diventata Unione Sovietica, ma soprattutto quelli sull’Ucraina, si leggono che è un piacere. Sull’asse Dessau-Weimar -Berlino il Bauhaus sviluppò l’esperienza della moderna architettura, anche grazie alla diffusione dell’omonima rivista che nel
1919 pubblicò il manifesto del movimento di Walter Gropius. La
/FVF 4BDIMJDILFJU definì i nuovi termini dell’estetica. Nel 1927 Rudolf Hilferding, il geniale ministro delle finanze socialdemocratico, elaborò la teoria (ancor attualissima) del “capitalismo organizzato”. E negli studi di Babelsberg, a metà strada tra Berlino e Potsdam, venne con .FUSPQPMJT celebrato l’espressionismo cinematografico. Due anni dopo, nel 1929, Erich Maria Remarque pubblicò
/JFOUF EJ OVPWP TVM GSPOUF PDDJEFOUBMF, un grandioso monumento
letterario dell’antimilitarismo: tradotto in cinquanta lingue vendette oltre venti milioni di copie nel mondo diventando il testo più
letto dopo la Bibbia. Sempre nel 1929 Alfred Döblin innalzò con
#FSMJO "MFYBOEFSQMBU[ un insuperato monumento a
Berlino, che della Repubblica di Weimar fu non solo capitale politica ma anche spirituale. Leni von Riefenstahl aveva mostrato al mondo (ma, ahimé, anche a Hitler) l’enorme potenza mediatica della fotografia e
John Heartfield si rivelò un geniale autore di fotomontaggi avendo intuito prima di tutti che «l’arte è un’arma», che le masse sono un potere e che per questo il potere ha bisogno delle masse. E i libri sono per questo
uno strumento decisivo per l’emancipazione dell’umanità. Anche se proprio il fallimento di Weimar è forse la
più clamorosa conferma che «la cultura non impedisce
la barbarie» come ha scritto ormai qualche decennio or
sono Cesare Cases nella introduzione all’edizione italiana della pionieristica ricerca -B DVMUVSB EJ 8FJNBS di
Peter Gay apparsa nel 1968. I nazisti appena giunti al
potere grazie al ricorso sistematico alla violenza, ma
anche al sostegno delle masse e degli esponenti del
“modernismo reazionario” (Jeffrey Herf) per prima cosa liquidarono come “degenerata e non tedesca” tutta
la cultura weimariana. E inscenarono in tutte le città
un rogo di libri — il più grande sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio del 1933 — «per eliminare» queste le
parole di Goebbels «con le fiamme lo spirito maligno
del passato». Fu il primo passo nella discesa agli inferi chiamata
Shoah, secondo il terribile presentimento di Heinrich Heine: «Dovunque si bruciano libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».
Ma Weimar, che Ernst Bloch aveva definito «una nuova età di Pericle», nonostante tutto ha sopravvissuto al suo tragico fallimento.
È stata più forte dei suoi nemici. L’ emigrazione in America della *O
UFMMJHFO[ ebraico-tedesca (artisti, scrittori, filosofi, registi) ha avuto, infatti, come paradossale conseguenza, la più grande trasfusione che abbia mai avuto luogo nella storia delle scienze sociali e delle arti: una osmosi, una vera e propria ibridazione il cui esito, se così possiamo esprimerci, è stato la “germanizzazione” della cultura
americana. Per formazione e cultura gli ebrei tedeschi che trovarono rifugio in America (oltre trecentomila) portarono nel loro bagaglio di profughi “visioni del mondo” caratterizzate da un profondo
scetticismo nei confronti di ogni concezione unidimensionale del
progresso e verso qualsiasi forma di fideismo scientista che, invece, era allora dominante nel mondo accademico americano. E questo ha provocato anche le risentite proteste dei sacerdoti dell’orto-
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dossia conservatrice intellettuale americana. Allan Bloom nel
1987 in -B DIJVTVSB EFMMB NFOUF BNFSJDBOB chiese agli americani
«di liberarsi una volta per tutte dalle influenze nefaste della cultura tedesca» che avrebbe trasformato la cultura americana in una
«versione alla Disneyland della Repubblica di Weimar».
Per decenni la Repubblica di Weimar è stata raccontata come
un modello paradigmatico di “autodissoluzione” di un sistema di
democrazia parlamentare. Oggi l’esperienza di Weimar non viene
più giudicata a partire solo dall’ottica del suo fallimento ma piuttosto valorizzata enfatizzando quella delle grandi innovazioni culturali e istituzionali che l’hanno caratterizzata. Non viene più esibita
come un modello politico e costituzionale fallimentare bensì come
un esperimento che ha letteralmente precorso i tempi. L’interesse
della ricerca si è spostato dalle cause del suo tragico epilogo all’importanza come laboratorio della modernità culturale. Questa è la
grande eredità di cui ha potuto fare tesoro prima la Repubblica di
Bonn e poi, dopo la caduta del Muro, la Repubblica di Berlino.
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A PRIMA VOLTA CHE LIEVEN INCONTRA ALAIN e vede quello che fa gli
dice: «Cos’è questa roba? Una stronzata!». E Alain, imperturbabile: «Davvero? Forse hai ragione, come posso migliorarla secondo te?». È l’autunno del 1983. Sono a casa di Alain, a Gand,
Belgio fiammingo. L’appartamento è piccolo, senza riscaldamento, ma la sala è abbastanza grande per ospitare una dozzina di giovani. Davanti a loro, Alain, sua sorella Pascal e due amici stanno provando le scene di uno spettacolo che vorrebbero
montare, prima o poi.
Hanno venticinque, ventisei anni. Sono un gruppo di amici
che si ritrovano tutte le notti, bevono, fumano, discutono, sognano di cambiare il mondo. Lieven ama Bob Dylan e Neil
Young, è estroverso, ironico, ha un sorriso accattivante; dopo la laurea in biologia, si guadagna da vivere vendendo assicurazioni. Alain è alto, magro e gentile, con una gran massa di capelli, ama Bach e si diverte a improvvisare teatro; di giorno lavora come ortopedagogo con i portatori di handicap, soprattutto giovani. L’incontro fra l’assicuratore e l’ortopedagogo è decisivo.
Due più diversi, non si possono immaginare. Ma da allora Lieven Thyrion, il manager, l’organizzatore ingegnoso e spavaldo,
e Alain Platel, la mente artistica, l’esploratore d’anime, il costruttore di quadri con
corpi e pensieri in movimento, non si sono
più lasciati. Hanno lavorato a fianco a fianco, alter ego l’uno dell’altro, creando quel
prodigioso fenomeno che sono i Ballets C
de la B. Nel cuore delle Fiandre Orientali, a
metà anni Ottanta, hanno scelto un nome
francese: un gesto di ribellione contro l’estenuante rivalità tra valloni e fiamminghi.
Per intero sarebbe Les Ballets de
la Compagnie de la Belgique. «Ma
Compagnie de la Belgique era lungo e suonava pretenzioso! Mi vergognavo,
non riuscivo a pronunciarlo davanti
agli organizzatori. Così lo tagliavo e mi limitavo
alle iniziali». Questo è Alain Platel, ti-
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mido, discreto e riflessivo. Come regista, è
un architetto di corpi e di energie. In
trent’anni, spettacolo dopo spettacolo, e sono ormai quasi sessanta, ha condotto i suoi
Ballets a essere il teatro danza più seguito
in Europa, i veri eredi di Pina Bausch, maestra e icona inarrivabile delle coreografie
teatrali nell’ultimo mezzo secolo. «Eh», sospira con gli occhi che brillano, «guardavi
$BGÒ .àMMFS, il suo capolavoro, e capivi che,
se sei una persona capace di trovare un linguaggio che arriva a espressioni così alte,
allora merita fare questo lavoro».
Pina Bausch ha rivelato un genere, i Ballets C de la B lo hanno reinterpretato. Così è
nata la loro danza “che è per il mondo”, dice
Platel. Nel senso anche che ci va, per il mondo: parte dall’antico monastero sede
dell’Accademia di Gand, dagli spazi severi
e luminosi della School of Arts, dove hanno
la loro sede, e diventa la danza di tutti.
Il viaggio comincia con 4UBCBU .BUFS
nell’inverno del 1984 al Newport Theatre
di Gand, che oggi si chiama Campo. Sembra ancora un magazzino di mattoni rossi.
«Era un gioco per noi e abbiamo incontrato
il nostro pubblico», racconta Platel. «Allora
si poteva sperimentare senza pensare di diventare per forza professionisti. Non avevamo grandi ambizioni, volevamo solo divertirci e vivere. Io non pensavo di lasciare il
mio lavoro di ortopedagogo e però volevo
fare teatro. Con gli anni mi sono reso conto
che ho continuato a farlo in teatro, l’ortopedagogo».
Sono subito usciti dal Belgio. Prima tournée, Olanda. Poi, Scozia, Francia, Spagna,
Inghilterra. Dopo dieci anni e dieci spettacoli, il primo grande successo che attira su
di loro gli occhi del teatro e della danza internazionali è #POKPVS .BEBNF. Porta
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la Repubblica
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menti: un po’ come il telefono senza fili, fatto con i gesti e il corpo invece che con le parole.
Così è nata #FSOBEFUKF, pièce mitica, cruda, coinvolgente, ambientata in un luna
park, sull’autoscontro, dedicata all’adolescenza. Anche 0VU PG DPOUFYU, il cui tema è
l’incontro, con nove danzatori, dotati tutti
di coperta rossa, che vivono in scena. E (BS
EFOJB, una nostalgia dolente costruita attorno a un transessuale anziano. E $PVQ GB
UBM, ispirato ai viaggi in Congo e in Palestina di Platel, dove il vero meticciato nasce
attraverso la musica, fondendo il mondo europeo e quello congolese.
L’ultimo lavoro con cui i Ballets C de la B
arrivano in Italia a fine settembre, al Festival Torinodanza, si intitola &O BWBOU NBS
DIF Lo spunto viene da un libro fotografico
di Stephan Vanfleteren su fanfare e majorette. È un contrasto tra fierezza e mostruosità. Utilizza una vera banda, una quarantina di musicisti più quattro attori.
La scena ricorda 1SPWB EPSDIFTUSB di fellini. È una prova per morire. E parte proprio
dalla registrazione di una prova d’orchestra di Leonard Bernstein, con Mahler e
Beethoven. Inizia con un convolvolo di parole in italiano, prese in prestito da Pirandello, dal suo 6PNP EBM GJPSF JO CPDDB: «La morte è passata e ha messo un fiore nella mia
bocca e mi ha detto: prenditi cura di questo
fiore, io ripasso fra otto, dieci mesi».
«Per me è uno spettacolo molto italiano,
sia come atmosfera, sia come colori», confessa Platel. «A quattordici anni, mia madre mi portava a vedere i film di Fellini, * DMP
XOT, 3PNB, 4BUZSJDPO: una meraviglia!
L’altro mio grande incontro è stato con Pasolini, con la sua arte e la sua personalità, il
suo discorso politico. Il %FDBNFSPO e 4BMÛ
sono film giganteschi che possono riempirti la vita». Pasolini e Fellini a passo di danza
e di musica. Di questo è fatto il nuovo teatro europeo che viene dal Belgio.
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l’Art Brut nella danza, l’energia grezza.
«La mia storia è un caso», sorride Platel.
«Se non avessimo creato la C de la B, io non
sarei mai uscito da Gand, al massimo sarei
arrivato al mare, a Ostenda, non troppo lontano». E invece il suo passaporto racconta
una vita ininterrotta di tournée, dal Brasile
al Libano, dal Cile al Congo, Russia, Vietnam, Giappone, Stati Uniti, e tutta l’Europa naturalmente.
«Non potevamo fare teatro, perché non
parlavamo bene, non avevamo la dizione,
non eravamo attori. Non potevamo nemmeno fare danza, negli anni Ottanta in Belgio la danza era solo Béjart. Dovevamo trovare una terza strada. Pina Bausch l’ha indicata, ispirandosi alla personalità degli uomini e delle donne con cui lavorava. Anche
noi lavoravamo con gente normale, sfruttando le loro caratteristiche fisiche. L’idea
era di condividere tutto in modo democratico, senza un capo che prendesse le decisioni. Però c’era bisogno di avere uno sguardo
da fuori, ed è toccato a me».
Racconta: «Prima di #POKPVS .BEBNF
avevo idee più precise su cosa volevo dire e
quali immagini volevo costruire. Poi è scattato qualcosa. #POKPVS, che affronta il tema della povertà, è stata la prima volta in
cui ho lavorato con professionisti e amatori
insieme, vecchi e bambini, danzatori classici e ballerini da discoteca. Non sapevo come farli interagire. Alla fine, con l’aiuto di
tutti, ho messo a punto un sistema che si ritrova in tutti i lavori successivi».
Questo è il metodo C de la B. Platel invita
a improvvisare brevi sequenze fisiche, e
ciascuno le crea in base alla propria storia
personale. Poi lui chiede di insegnare la sequenza a un altro, che deve adattarla alla
propria persona e al
proprio stile. In
questo modo
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UN PRIMO DISTRATTO SGUARDO può sembra-
re una torre panoramica, una
di quelle con il ristorante in cima
come lo Space
Needle di Seattle, negli Stati
Uniti. Invece la
torre di centocinquanta metri d’altezza che sorgerà entro il
2017 nello Skyplex, nuovo parco divertimenti
in costruzione a Orlando, in Florida, è in realtà
una montagna russa. Certo, ci sarà anche il ristorante, ma mentre tranquille famiglie pranzeranno con un panorama mozzafiato, altri
scenderanno giù in picchiata tra giri della morte e accelerazioni degne di un jet da combattimento, con velocità di oltre cento chilometri
orari. Si chiama Skyscraper e, quando sarà
completata, sarà la montagna russa più alta
del mondo. Si salirà a spirale, attorno alla colonna portante della torre, per poi scendere su binari che la avvolgono come una rete e che disegnano acrobazie impossibili, voli rovesciati, giri della morte. Il tutto a centocinquanta metri
di altezza. «Ma l’altezza non è l’unico record
che vogliamo battere», racconta Bill Kitchen,
l’ingegnere responsabile del design di Skyscraper. «L’attrazione sarà anche molto efficiente
e potrà gestire mille passeggeri ogni sessanta
minuti». Quella che nascerà a Orlando sarà la
montagna russa più alta, ma non la più veloce:
il record spetta a Formula Rossa del Ferrari
World di Abu Dhabi capace di raggiungere l’incredibile velocità di circa duecentoquaranta
chilometri orari, anche se ad altezze nettamente inferiori. Se da una parte c’è chi è convinto
che il luna park del futuro significhi costruire
attrazioni sempre più incredibili ed esagerate,
dall’altra c’è chi pensa che basti utilizzare la
tecnologia per ingannare il pubblico e fargli vivere emozioni fantastiche. «Oggi siamo in grado di poter utilizzare strumenti come la realtà
virtuale o le immagini in 4K (con una risoluzione quattro volte superiore al Full Hd dei nostri
televisori) per creare esperienze estremamente realistiche». Bei Yang è uno dei creativi del
laboratorio Disney Imagineering, uno studio dove il colosso americano sperimenta
nuove tecnologie e mette a punto le attrazioni dei suoi parchi a tema sparsi
per il mondo. «Possiamo ingannare
lo spettatore e convincerlo che sta
volando sopra il Golden Gate,
facendolo rimanere fermo
sul posto», racconta
Yang. Il riferimento è
all’attrazione Soa-
rin Over California a Disneyland, vicino Los Angeles. Il pubblico viene fatto sedere su poltrone dotate di pistoni idraulici e sospese nel vuoto. Tutto intorno diversi proiettori 4K, recentemente installati, disegnano paesaggi e immagini della California, a trecentosessanta gradi, dando la sensazione di volare sopra l’America a bordo di un aliante.
È come la realtà virtuale, solo che invece di infilare un casco in testa, si entra dentro una specie di
caverna dove ogni parete è uno schermo. Una soluzione perfetta per contenere costi e ingombri.
Oggi si possono creare “montagne russe” anche
in poco spazio. Marvel Experience, per esempio, è
un parco giochi itinerante che sta facendo il tour
degli Stati Uniti e che simula la vita di una recluta
dell’agenzia S.h.i.e.l.d. Tra le tante attrazioni, anche una montagna russa virtuale, realizzata con
schermi che avvolgono gli utenti a trecentosessanta gradi. Ci sono anche diverse postazioni dove è possibile interagire con voce e gesti, per coin-
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volgere ancora di più i ragazzi nel mondo Marvel.
Un’idea, quella dell’interazione, che sembra
prendere sempre più piede: agli Universal Studios di Orlando è possibile acquistare la bacchetta magica di Harry Potter (per soli 45 dollari) e
lanciare incantesimi mentre si esplora il castello
di Hogwarts.
«Sono circa venticinque anni che Disney sperimenta la realtà virtuale. Difficile dire quali saranno gli sviluppi futuri, ma una cosa è certa: noi saremo i primi a metterli in pratica», spiega Yang. Per
dare uno sguardo a come potrebbe essere il futuro dell’intrattenimento basta andare a Glendale,
nella sede di Disney, ed entrare nella Digital Immersive Showroom. È qui che Yang e soci testano
le nuove attrazioni dei parchi, dal negozio di gadget di Topolino all’ultima montagna russa. Si tratta di una stanza dove, in maniera simile al famoso
ponte ologrammi di Star Trek, si entra dentro ambienti virtuali, disegnati su pareti e pavimento
grazie a speciali proiettori. Ci sono sensori che riconoscono il movimento e i gesti, permettendo di
esplorare l’ambiente proiettato. «Si può rivivere
l’esperienza di un intero parco giochi in una stanza grande pochi metri quadrati», afferma Yang.
Insomma, la realtà virtuale sembra essere il prossimo step, la tecnologia a cui si guarda con maggiore interesse. Non a caso alcune voci sostengono che la stessa Disney stia preparando una serie
di applicazioni per Oculus Rift, per permettere al
pubblico di provare le attrazioni dei suoi parchi
giochi direttamente da casa: una specie di anteprima, una pubblicità interattiva per convincere
a visitare i suoi parchi a tema. C’è anche chi, come
il team inglese Atom Republic, vuole realizzare il
primo parco giochi interamente virtuale. Si chiamerà Atom Universe e funzionerà per tutti i visori di realtà virtuale in arrivo, da Oculus Rift a Project Morpheus, il visore che Sony sta sviluppando
per la PlayStation 4 e che debutterà a inizio 2016.
Ma l’avanzamento tecnologico può essere utile
anche per migliorare i servizi. Un esempio è il Magic Band di alcuni parchi americani. Poche settimane fa Disney ha annunciato che investirà un
miliardo di dollari per migliorare questo bracciale smart, che oggi serve a saltare le file e che domani potrà offrire servizi su misura per il cliente.
Si potrà, per esempio, usare il bracciale per pagare cibi e bevande, che arriveranno al tavolo senza
nemmeno dover ordinare: sarà il Magic Band a riconoscere i nostri gusti e fare le ordinazioni per
noi. Oppure usarlo come chiave per la stanza
dell’albergo o, ancora, per ricevere le foto scattate durante la vacanza direttamente sul telefono.
È tutto connesso, un servizio unico non solo per
migliorare la vita del cliente, ma anche per migliorare la gestione del parco. Grazie al Magic Band,
sostiene Disney, si diminuiscono i tempi d’attesa,
permettendo così di servire più persone. Aumentando incassi e fatturato. Questa sì che è magia.
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L’ATTROVÒ nei parag-
gi di Capo Russello.
Stava proprio sulla
spiaggia, le pietanze
erano cosa civile e
non si pagava assà. Il
problema era che tra
andare, mangiare e
tornare ci volevano
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ori e lui tutto questo
tempo non sempre ce l’aviva”. Ne *M HJSP EJ CPB, il commissario Montalbano, orfano della trattoria San Calogero, trova provvisorio conforto gastronomico in riva al mare. Perché anche l’occhio vuole la sua parte, almeno quanto il palato. E mangiare davanti a un orizzonte da cartolina
fa bene al cuore, prima che allo stomaco. Così, se il mare d’inverno induce ad azzardare pranzi in spiaggia nelle sole giornate scaldate dal sole
(mentre la cena è resa impossibile dall’umidità incombente), l’estate
divide equamente le frequentazioni culinarie QJFETEBOTMFBV: pranzi
brevi tra un bagno e una lettura sotto l’ombrellone, cene rilassate, compiute, golose. Certo, esistono e resistono gli irriducibili del fritto, gli habitué della calamarata, quelli che non rinuncerebbero mai a pranzare
con la linguina alle vongole. Capaci di sfidare il solleone che trasforma
la sabbia in supplizio, inseguendo i bagnanti fin sotto il tendone del ristorante. Perfino la qualità spesso precaria dei piatti non riesce a inficiare il rituale: un boccone e un sorso di bianco freddo rendono inequivoca-
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bilmente il senso della vacanza. Ma la sera, la sera è tutto diverso. Che
di giorno i morsi della fame siano stati soddisfatti da un pasto quasi regolare o placati da tranci di focaccia, insalatone e gelati, la cena rappresenta il momento in cui godere davvero del cibo, e possibilmente anche
del resto. Liberati dalla salsedine, incremati e (ri)vestiti, comincia la ricerca di un posto che piaccia a tutto tondo: prima scelta, la vicinanza al
mare, da sfiorare con le mani o per tuffarci lo sguardo. Il fascino della location spesso trae in inganno: incantati da un tavolino con annesso malandrino lume di candela, ingoiamo gamberetti pescati chissà quando
e rigenerati chissà come, spaghetti insipidi e una grigliata così stopposa che per ammorbidirla occorre triplicare le dosi della vinaigrette. Del
resto, in estate la richiesta di pesce è tale, che il ricorso agli stoccaggi in
freezer diventa pratica quotidiana: a fare la differenza, in questo caso,
la qualità del pesce e l’abilità del cuoco. Altri guai sono legati allo sviluppo di istamine per cattiva conservazione del pesce fresco — è appena
passata una norma che prescrive gli zero gradi nei frigoriferi industriali — ma anche l’aggiunta di conservanti, solforosa in primis, capaci di
scatenare intolleranze e allergie.
Per fortuna, le coste pullulano di piccoli grandi ristoranti col mare
dentro e fuori, dove regalarsi un NBHJD NPNFOU che delizi cuore e palato. Sono ristoranti pluri-stellati come la Torre del Saracino sulla spiaggia di Vico Equense e piccole trattorie come la Cooperativa dei Pescatori sul molo della Marina di Ravenna, fanno cucina di mercato come La
Baia di Fregene e servono solo pesce locale come La Barca, sulla riviera
di Trieste. Prenotato il locale che più vi stuzzica, non lasciatevi avvincere dalla pigrizia tardo-pomeridiana: raggiungete il ristorante all’ora
del tramonto, scegliete una buona bottiglia e regalatevi un aperitivo
sulla battigia. Astenersi se carnivori.
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A CHE MONDO È MONDO, da
che corteggiamento è
corteggiamento, da che
homo è homo, la cenetta
romantica sul mare
aveva sempre avuto un esito scontato,
come un’equazione dal risultato certo,
un VOP fisso in schedina, un rigore da
calciare a porta vuota, forte e centrale. A
colpo sicuro. Era sufficiente rispettare
semplici accortezze, l’abc del primo
incontro: camicia pulita, portafoglio
pieno per ripararsi da eventuali
figuracce, attenzione ai dettagli. Tipo:
farla accomodare, concederle la scelta
del vino, fingere familiarità col
ristoratore o caposala (“Qui a me danno
il pesciolino che ha appena portato il
pescatore, mica quello che rifiliano ai
turisti...”), evitare il risucchio coi gusci
di vongole e patelle o colluttazioni con i
crostacei, non strafogarsi, interessarsi
ai suoi discorsi come se stesse svelando
la teoria della relatività. Insomma,
bastava rimanere rilassati, decenti, falsi
come una frittura surgelata e,
soprattutto, concentrati sull’obiettivo,
per avere ottime probabilità di finire la
serata avvinghiati nella sabbia dietro al
moscone. Guarda che luna, guarda che
mare e zàcchete. La cenetta sulla
spiaggia era un luogo comune, una
capitale inespugnabile nella geografia
dell’anima, del cuore (e anche d’altro).
Era. Oggi, anche se è vero che a essere
nostalgici è più la fatica del gusto, non ci
si può esimere dal notare che perfino un
caposaldo all’apparenza indistruttibile
come questo, vacilla di fronte ai recenti
stravolgimenti sociali. Gli eventi non
preventivabili di una cena a lume di
candela, oggi come oggi, sono troppi.
Troppe le distrazioni. Per esempio, si
può incappare in un partner compulsivo
che tagga, twitta, chatta, posta la fotina
del piatto, guarda la recensioncina su
Trip, sbircia il risultato della partita. Ho
visto coppie andarsene perché non
funzionava il wi-fi del ristorante, altro
che epilogo sicuro. Ho visto ragazze
fotografare il proprio compagno con la
luna sullo sfondo che rifletteva a picco
sul mare e le stelle tutte quante che
illuminavano il cielo, ma in realtà no,
non stavano inquadrando lui: era un
selfie solitario da mandare alle amiche.
Ho visto clienti abituati da sempre a un
piatto di lenticchie improvvisarsi chef
stellati dopo un inverno di trasmissioni
culinarie di ogni genere. Ho sentito cose
che voi umani non potete nemmeno
immaginare. “Buono il gelato, peccato
un po’ freddo”; “Mi dia una brunetta di
Montalcino”; “Il mio branzino lo vorrei al
dente”; “La panna cotta mi raccomando
ben cotta”. Ho visto donne scappare
raccapricciate. Ho visto uomini tirarsi
indietro all’ultimo, perché forse non si
erano depilati il petto o l’interno coscia.
Eh sì, oggi è più difficile. Come ogni
cosa, del resto.
L’autore è ristoratore e scrittore
Il suo ultimo romanzo
è Un giorno come un altro
(Pendragon)
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Diciassette bestseller pubblicati in tutto il mondo, dieci kolossal
hollywoodiani (ed è in arrivo l’undicesimo) tratti dai suoi romanzi che raccontano passioni travolgenti, malattie, guerre.
Poi i musical, la tv, le tournée promozionali: “In Brasile devo girare con la scorta, ma anche in Italia”. Insomma: un’industria. E
quando lo trova il tempo per scrivere, allora? “Cinque pagine al
giorno, anche in limousine”. Gli ingredienti, sempre quelli: “Chi
mi compra sa che troverà una dappertutto: in aereo, sulla limousine, in una stanza d’albergo. Come dicevo,
riuscire a scrivere qualcosa tutti i giorni, facendo “mucchietti” di qualità
da stipare con un ritmo costante. Anche quando le distrazioni sono parecchie.
storia d’amore ambientata nel basta
Viaggiare così tanto, come mi capita a periodi alterni, stanca parecchio». Eh,
la vitaccia della star... «È difficile davvero per me viaggiare in Brasile senza
del corpo — sorride — o nelle Filippine, in Germania, Inghilterra, e anNorth Carolina e una giovane guardie
che in Italia! In Islanda mi adorano. Sono uno degli autori più piratati in Iran!
Traducono i miei libri di nascosto e li vendono fregandosene del copyright. Un
abbiamo commesso l’errore di intimare loro di levarli da internet, l’adonna in cui immedesimarsi. So- giorno
vessimo mai fatto... Se la sono presa parecchio a male, diciamo così, e abbiamo
subito fatto marcia indietro: “Ma no, dicevamo così per dire, fate quello che voE giù a ridere di nuovo. Come se lo spiega tutto questo successo planelo il finale è a sorpresa: happy lete...”».
tario? «Dò innanzitutto molto merito ai film e ai bravi attori che hanno recitato le mie parole: Hollywood mi ha introdotto nel mondo. Ho avuto fortuna. Però sono anche convinto che le mie storie siano belle e siano comprensibili in
end o tragedia?”
ogni cultura e linguaggio: sono storie universali, storie d’amore senza frontie-
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NEW YORK
A PIÙ L’ASPETTO DI UN ATTORE o di un fascinoso amministratore de-
legato che non di uno scrittore, quando si presenta nella hall del
Ritz Carlton. Cinquant’anni, nativo di Omaha nel Nebraska, arriva dal North Carolina dove vive: Nicholas Sparks è un vero BMM
BNFSJDBO CPZ. Autore di ben diciassette bestseller tradotti in tutto il mondo, di cui una decina sono diventati anche film hollywoodiani dai
grandi incassi, Sparks è una celebrità e un uomo ricchissimo. I suoi sono romanzoni pop densi di sentimenti tutti con la esse maiuscola, tutti travolgenti,
impetuosi: amore, fede, destino, passione. Titoli come -F QBHJOF EFMMB OPTUSB
WJUB, col quale fece il primo exploit nel 1996, seguito da -F QBSPMF DIF OPO UJ IP
EFUUP e $PNF VO VSBHBOP suonano famigliari anche a chi non ne ha mai letto
una riga. Sparks scrive storie di amori impossibili, malattie terminali, passioni al tempo della guerra, incontri che grondano di karma e destino (felici/infelici con finale catartico), e le sue ambientazioni sono in genere bucoliche: praterie, laghi, montagne, purché lontano dalle metropoli. Sparks ricorda qualche eroe romantico dei suoi libri: non sfigurerebbe accanto, per esempio, a
Kevin Costner, una delle star che hanno dato carne ai suoi personaggi melodrammatici. A proposito di grandi amori, Sparks si è da poco separato
dalla moglie Kathy, da cui ha avuto cinque figli. Emana energia, pare che
riesca comunque a dormire pacificamente otto ore a notte, e oltre alla
scrittura, mestiere da lui svolto con ferrea disciplina («Basta scrivere cin-
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que pagine tutti i giorni, ma proprio tutti i giorni, e fai il conto
delle pagine che hai scritto alla fine dell’anno», dice con pragmatismo da contabile della letteratura), si dedica a svariate
attività. È produttore cinematografico (dei film tratti
dai suoi romanzi: ora è in preparazione l’undicesimo da
-B TDFMUB), sta allestendo un musical a Broadway tratto
da -F QBHJOF EFMMB OPTUSB WJUB, sta sviluppando quattro
progetti televisivi e si dà da fare per promuovere la lettura nelle scuole. Un’industria, praticamente.
Chissà allora dove lo trova poi il tempo per quelle famose cinque pagine da buttar giù ogni giorno, per alimentare costantemente la sua multinazionale delle parole, per evitare che l’altoforno dei sentimenti non si spenga mai: «Il bello è che puoi scrivere
ra. In questo senso mi attribuisco dei meriti».
La formula Sparks, insomma, è oramai collaudata, anzi brevettata (e accettata anche dalla critica). «A scrivere un romanzo impiego sei mesi. Il resto del
tempo lo passo a promuovere quello che ho scritto e a riflettere cercando il tema e l’idea per il successivo, il feeling. Perché il feeling secondo me è tutto.
Quando becco quello giusto scrivo di getto. Non chiedetemi di rallentare e magari scrivere meglio: non potrei mai funzionare che non sull’onda del momento». Non ha mai fatto nient’altro che scrivere nella vita? «Ho fatto un po’ di tutto, ma scrivere è il lavoro senza dubbio più difficile» risponde. «Anche dopo diciassette romanzi pubblicati, lo trovo ancora difficile. Ogni tanto mi capita di
spendere un’intera giornata, intendo letteralmente ventiquattro ore, a correggere una singola pagina. Voglio dire, scrivere un romanzo rimane tuttora
per me una sfida titanica. Sì, ci sono momenti in cui vado veloce e fluido. Ma anche altri in cui per mettere giù due paragrafi mi viene l’ulcera. Se uno mi chiede come funziona il processo creativo e di scrittura, ancora non so rispondere.
È un mistero. Non sono un teorico. Scrivo partendo dalla pancia, come dicevo
prima, dalla convinzione di aver trovato l’onda giusta su cui surfare».
A quali scrittori s’ispira di più? «In termini professionali a Stephen King,
che non so come faccia, ma non soffre mai quando scrive: per me è un marziano. Ammiro la sua facilità di scrittura e la sua disciplina pazzesca, che gli viene
comunque senza grandi sforzi. Mi piace Pat Conroy, e leggo tantissimo Hemingway, seguendo la sua scuola di pensiero. Hemingway diceva: “Dietro
una lettura facile c’è sempre una scrittura dannatamente difficile”. Diceva anche che la prima stesura è sempre una cagata. E io mi ci riconosco. Tutto quello
che sembra facile è in realtà il risultato di uno sforzo enorme, da ernia del cervello e delle dita sulla tastiera. Solo Stephen King non fa fatica, e scrive una marea di cose». Una volta aveva anche tentato di incontrare il suo idolo, era il
1996 e stava facendo un tour promozionale nel Maine, dove vive King.«Mi sono fatto dare l’indirizzo di casa sua, sono andato e ho bussato alla porta» ricorda. «Anche se sulla porta c’era un grosso cartello che diceva: “Il signore e la si-
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gnora King non ricevono visitatori non annunciati”. Fatto sta che non è venuto nessuno ad aprirmi. Magari erano lì dentro che mi guardavano. Dopo un paio di minuti gli ho lasciato una copia del mio libro e me ne sono andato. Non ci
siamo mai incontrati».
Eppure, nonostante tutta questa fatica che dice di fare, Sparks riesce anche a lavorare su due libri contemporaneamente. Al momento ne
ha quasi finito uno, mentre è a metà di un altro. Nicholas Sparks dà l’impressione di essere nato col dono della grazia che emerge nei momenti
di massima pressione. Un cowboy della letteratura, dal grilletto veloce,
l’uomo da marciapiede della letteratura pop americana. O meglio ancora il NJEOJHIU NBO, con i suoi lati oscuri: «Non sono un ingenuo, e mi piace ogni tipo di storia. Anche quelle con personaggi dark, come %FYUFS del serial tv, l’assassino dalla doppia vita: fantastico. Mi è piaciuto *M TJMFO[JP EFHMJ JOOPDFOUJ, uno
dei più bei film che abbia visto. Ma ho le mie regole: deve essere originale e se c’è violenza non deve essere gratuita».
Tanta ispirazione dice di trarla dalla sua vita. A cominciare da un dramma famigliare. «La mia adorata sorella,
che è morta quindici fa, era la Jamie di * QBTTJ EFMMBNPSF.
-F QBHJOF EFMMB OPTUSB WJUB è ispirato ai nonni di Kathy,
mia moglie, e mio cognato è un cowboy che cavalca tori
come Luke in -B SJTQPTUB Ò OFMMF TUFMMF. Cerco di variare,
ma i miei lettori sanno che se comprano un mio libro ci sarà una storia d’amore, sanno che sarà ambientato quasi sicuramente in una piccola cittadina del North Carolina, sanno che ci saranno personaggi cui voler bene. Ma non sanno se
ci sarà l’happy end o una tragedia. Mi volete considerare uno
scrittore romantico? Va benissimo, mica è un’offesa. E siccome
so che tante mie lettrici sono giovani donne, potete star sicuri che
ci sarà sempre anche un personaggio con cui si potranno identificare».
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