la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 7/8 – luglio/agosto 2015
SPECIALE
RENATO SERRA
Il tenente che
sporse troppo
la testa
di antonio castronuovo
Renato Serra
e la generazione
‘sciupata’
di marco cimmino
Tra le prime
edizioni
di Renato Serra
di massimo gatta
Le edizioni
dell’epistolario
di antonio castronuovo
In margine allo
‘Speciale Serra’
Vittorie
dimenticate,
sconfitte celebrate
di marco cimmino
I disertori della
Grande guerra
e le forze politiche
dell’antinazione
di giano accame
ISSN 2036-1394
SPECIALE RENATO SERRA
la Biblioteca di via Senato – Milano
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VII – N.7-8/63 – MILANO, LUGLIO/AGOSTO 2015
Sommario
4 SPECIALE RENATO SERRA
IL TENENTE CHE SPORSE
TROPPO LA TESTA
di Antonio Castronuovo
13 SPECIALE RENATO SERRA
RENATO SERRA E LA
GENERAZIONE ‘SCIUPATA’
di Marco Cimmino
20 SPECIALE RENATO SERRA
TRA LE PRIME EDIZIONI
DI RENATO SERRA
di Massimo Gatta
30 SPECIALE RENATO SERRA
LE EDIZIONI
DELL’EPISTOLARIO
di Antonio Castronuovo
34 IN MARGINE ALLO
‘SPECIALE RENATO SERRA’
VITTORIE DIMENTICATE,
SCONFITTE CELEBRATE
di Marco Cimmino
38 IN MARGINE ALLO
‘SPECIALE RENATO SERRA’
I DISERTORI DELLA
GRANDE GUERRA
E LE FORZE POLITICHE
DELL’ANTINAZIONE
stralcio dal saggio di
Giano Accame Socialismo tricolore
41 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE, L’INTERVISTA
DEL MESE, POESIA E ARTE
a cura di Luca Pietro Nicoletti
e Ettore Bonessio di Terzet
58 Il libro del mese
AFFASCINANTI ITINERARI
NEL PENSIERO
DI TRADIZIONE
di Giovanni Sessa
62 Bibliofilia
UNA STRAORDINARIA
EDIZIONE BRESCIANA
RITROVATA
di Giancarlo Petrella
70 BvS: il ristoro del buon lettore
L’ANTICA CORONA
DI UN’ALTEZZA REALE
di Gianluca Montinaro
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
Si ringraziano le Aziende che sostengono
questa Rivista con la loro comunicazione
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Immagine di copertina
Elaborazione grafica dell’ultima foto
di Renato Serra e una sua pagina
autografa per il saggio del 1910
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Editoriale
Q
uando cadde, giusto cento anni fa, il 21
luglio 1915, sul monte Podgora, colpito
da un proiettile nemico, Renato Serra
aveva solo 31 anni. Era partito per il fronte non
per intima convinzione ma per intimo dovere.
Aveva lasciato la sua Cesena, affidando ai
posteri – come proprio testamento intellettuale –
l’Esame di coscienza di un letterato,
una delle più lucide riflessioni sulla letteratura,
sulla vita e (in fondo) sulla vanità dell’esistente.
I cannoni tuonavano sui confini alpini.
I soldati raggiungevano il fronte fra il tripudio
popolare. Le gesta di eroismo, le armi
e le bandiere cementavano, nel cuore degli
‘ancora giovani’ italiani, una prima e seria
coscienza nazionale condivisa, perché temprata
dal fuoco e dal sangue. Presa di coscienza che
ebbe il suo momento più alto pochi anni dopo,
nel 1921, quando il feretro di un ‘milite ignoto’
caduto nella Grande Guerra venne traslato
all’Altare della Patria.
Ma, oltre la necessità di tutto ciò, oltre
il sacrificio necessario e irrinunciabile, oltre
la «rettorica», ecco che Renato Serra nota come
il vero «beneficio della guerra, come di tutte
le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa,
un dovere che si adempie. Si impara a soffrire,
a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più
degnamente, con più seria fraternità, con più
religiosa semplicità». In sostanza a essere,
prima di tutto, uomini. E a sopportare
quotidianamente l’«illusione del tutto»,
la «tragicità della finitezza» (come scritto,
poco innanzi, da un altro giovane, Carlo
Michelstaedter) che circonda la vita umana.
Gianluca Montinaro
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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SPECIALE RENATO SERRA
IL TENENTE CHE SPORSE
TROPPO LA TESTA
La vicenda umana ed editoriale di Renato Serra
ANTONIO CASTRONUOVO
I
l 20 luglio 1915 il tenente
Renato Serra si sporse un
po’ troppo dal ciglio della
trincea scavata al Vallone dell’Acqua, pendici settentrionali
del monte Podgora, uno dei bastioni austriaci eretti a difesa di
Gorizia. Non si tratta propriamente di un monte: chi oggi sale
al pianoro della cima, dove è stato edificato un sacrario, fatica a
comprendere come un luogo
così insignificante abbia potuto
costituire il fulcro delle prime
battaglie dell’Isonzo, ma forse
l’aspetto brullo è proprio l’eredità di quelle battaglie, talmente
violente da deformare per sempre - distruggendo
la vegetazione e scavando enormi crateri - la sagoma del colle. Serra vi era di stanza come ufficiale
di uno dei reggimenti di fanteria provenienti da
Forlì e Cesena. Nell’oscurità della notte la parola
d’ordine era chiesta dalle sentinelle in dialetto romagnolo: un soldato gli gridò di abbassarsi, e
chissà se lo fece in dialetto. Troppo tardi, una palNella pagina accanto: Il secondo volume degli Scritti critici
nell’edizione della «Voce» del 1920 e Le lettere
nell’edizione della «Voce» del 1923.
In alto: l’edizione Bontempelli (Roma, 1914) de Le lettere
lottola austriaca lo centrò alla
tempia: Serra finì i suoi giorni
così, insensatamente se pensiamo a lui come pedina del grand
jeu del destino.
Era nato a Cesena nel 1884
e, dopo alcuni articoli pubblicati nella rivista «La Romagna»,
era entrato in corrispondenza
con Prezzolini, pubblicando
qualcosa su «La Voce». Tranquillo provinciale dedito al gioco delle carte, alla bicicletta e a
cornificare qualche marito geloso, si dedicò ai calmi piaceri
della Biblioteca Malatestiana
dopo averne ottenuto la direzione. Fino allo sconvolgimento del conflitto mondiale, per il quale chiese di partire come volontario. Giunse al fronte il 5 luglio 1915 e rimase ucciso in pochi giorni. Aveva 31 anni.
Serra è il letterato che nella settimana precedente la chiamata al fronte - a fine marzo del 1915
- aveva compiuto, tra l’accumularsi in città delle
tensioni, uno dei più famosi esami di coscienza
della storia intellettuale, concludendo che era necessario partire, che non era più tempo di fare letteratura, che bisognava vivere l’esperienza della
guerra da uomo comune, insieme alle migliaia di
altri soldati, senza alcun sentimento di superiori-
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In alto da sinistra: quadretto d’infanzia e adolescenza
dei fratelli Serra. Da destra: Renato, la sorella maggiore
Maria Pia, il piccolo Africo (detto Nino); la lapide
di Renato nella cappella della famiglia Serra, nel cimitero
di Cesena.
Qui sopra da sinistra: pagina autografa di Serra con testo
di commento a un concerto del pianista Carlo Bersani
tenutosi a Cesena l’11 maggio 1913; il sacrario edificato
sulla cima del Podgora, dove Renato Serra perse la vita
il 20 luglio 1915
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
tà: non poteva insomma coltivare la religione delle
lettere come se attorno non accadesse nulla di
drammatico, significativo preannuncio di ciò che
il Novecento avrebbe poi definito «impegno dell’intellettuale nella società». L’Esame di coscienza di
un letterato, sollecitato dall’urgenza della guerra,
fu pubblicato su «La Voce» un mese dopo; uscì
dunque come saggio di rivista, non come libro autonomo, e questo fu il principale destino delle edizioni di Serra in vita: articoli e saggi apparsi su
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Da sinistra: la casa natale di Serra in viale Carducci a Cesena. La camera di Renato è quella aperta al primo piano; il palazzo
di viale Carducci a Cesena, oggi
molte riviste, e pochissime cose edite in volume:
alcuni Scritti critici usciti nel 1910 presso la Casa
Editrice Italiana di Firenze, Le lettere dell’edizione
romana Bontempelli nel 1914 e una Carducciana
che morì sul nascere in una tipografia di Firenze,
con un Serra il cui pensiero era già altrove, immerso nel clima bellico che lievitava in Italia, qualcosa
di «lontano dal mio animo d’oggi», come scrisse
in una lettera a Prezzolini.
Non ricordo che qualcuno abbia tentato di
capire chi sparò dalla trincea nemica. Ma sarebbe
un giochetto storico destinato all’insuccesso: in
casi del genere l’evento è parecchio eclatante se visto dalla parte della vittima, assolutamente anonimo se osservato dalla parte dell’uccisore. Che importa chi fu? Fu la guerra, fu quella condizione che
nelle ultime righe dell’Esame Serra enuncia come
«ora di passione» che sente tutta sua, «comunque
debba finire». Finì nel peggiore dei modi, per il tenente Serra. Sulla cui morte è stato scritto molto;
fortuna vuole che egli - pur partendo col cuore
colmo di negazione per la letteratura - registrasse i
minimi eventi di quei giorni in un quadernetto,
poi pubblicato come Diario di trincea da Cino Pedrelli (2004): non è opera letteraria, ma l’ha scritta
Serra e dunque ci coinvolge, come quando egli
compie una sorta di tragica previsione e, il 9 luglio,
annota: «Bisogno di alzarsi dalla cuccia e sporger
la testa dall’apertura». Ecco: la voglia di non restare acquattato in una fossa gli costò cara.
Oggi, a cento anni da quel colpo di fucile
Steyr-Mannlicher, ricordiamo Serra come uno dei
padri della critica italiana, di quelli che, pur avendo un sapore “provinciale”, non si scordano. Se
tento di coglierne le ragioni mediante le mie personali inclinazioni, devo concludere che quando
leggo le pagine di Serra vi resto appiccicato: perché la sua critica ha il fascino della scrittura d’invenzione. Dalla lettura dei suoi saggi si eleva una
concezione di critica intrisa di autobiografia: il
saggio di Serra s’impone con l’energia di colui che
lo redige, fino a rivoltare quel pensiero che Carda-
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Da sinistra: Lo studio del direttore Serra alla Biblioteca Malatestiana di Cesena; richiesta di porto d’armi redatta da Serra il
25 novembre 1911
relli inserì tra le meditazioni del Solitario in Arcadia: «Sono rari quei critici che potrebbero sostenere un colloquio a quattr’occhi con l’autore che
hanno giudicato». Serra avrebbe potuto farlo.
La sua critica sorvola i repertori più diversi,
quello classico dei Dante e Machiavelli, quello
moderno degli Acri e Pascoli e quello dei “minori”
di Romagna: Panzini, Oriani, Beltramelli. E
quando passa da un grande a un minore sembra
che “si sprechi”, eppure non fa che preludere al
senso novecentesco della critica: valutare il testo
come sistema da cui si sviluppa un’espressione autonoma. Ogni opera possiede per il critico un nu-
cleo poetico che ne fa materia plasmabile: non è di
conseguenza un dovere guardare a Dante piuttosto che a Oriani, a Pascoli piuttosto che a Di Giacomo. La ragione intima della critica è il travaglio
del critico, è il suo essere processo e percorso: Serra guardò all’intero mondo delle lettere, indifferente alle abissali differenze tra un autore e l’altro,
perché considerò il testo come una miniera da cui
era sempre possibile estrarre qualcosa. Da questo
punto di vista si giustificano anche i suoi famosi
strafalcioni: riferendosi a Le Lettere, Montale non
ebbe remore ad affermare che in quel volumetto
non mancavano approssimazioni e ingiustizie. La
più clamorosa fu forse il giudizio liquidatorio su
Pirandello, al punto che Sciascia volle inserire
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Da sinistra: Renato Serra ai tempi dell’Università; autografo di Serra contenente un testo per una commemorazione di
Pascoli che si sarebbe tenuta alla Società Dante Alighieri di Cesena il 21 aprile 1912
l’episodio nella voce “Serra” del suo Alfabeto pirandelliano.
Amare Serra è facile, basta leggerlo e unirsi
all’onda d’interesse che egli precocemente sollevò, quando già nel 1909 Cecchi ne scrisse su «La
Voce» di settembre. Da quel momento, in un moto che deve essere stato lusinghiero per il giovane
cesenate, si attardarono su di lui nomi altisonanti:
Prezzolini, Borgese, Bontempelli, Croce; e Cesare Angelini, De Robertis, Pancrazi. Come pure
quei concittadini - Nazzareno Trovanelli e Giacomo Comandini - che si accorsero di lui e ne parlarono sui giornali di Cesena. Inevitabile che, dopo
la morte prematura, aumentasse l’attrazione verso
la sua opera e fosse realizzato l’atto di giustizia che
gli era mancato in vita: l’edizione delle opere.
E qui il discorso si fa complesso, perché la vicenda editoriale di Serra è una successione di buone volontà abbinate a occasioni mancate. La riscoperta iniziò subito: già nel 1916 Giuseppe De Robertis e Luigi Ambrosini curarono per l’editore
Treves un’edizione dell’Esame di coscienza di un letterato, con un’appendice di Ultime lettere dal campo. La «Voce» celebrò poco dopo, tra 1919 e 1923,
il collaboratore di un tempo con un’edizione in
quattro volumetti di Scritti critici, Scritti inediti e Le
lettere. Dopo alcune tappe di scritti apparsi su riviste («Pègaso», «Primato»), bisognò attendere il
1934 e 1938 per ottenere da Le Monnier - per le
cure di Ambrosini, De Robertis e Alfredo Grilli - i
volumi dell’Epistolario di Renato Serra e degli Scritti di Renato Serra, opere che andarono in ristampa
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Da sinistra: l’edizione del 1910 presso la Casa Editrice Italiana degli Scritti critici; la ristampa Le Monnier degli Scritti di
Renato Serra (1958, prima edizione 1938)
a metà degli anni Cinquanta. Altri vent’anni di relativo silenzio ed ecco nel 1974 la meritoria antologia di Scritti letterari, morali e politici curata da un
giovane Mario Isnenghi per la Nuova Universale
Einaudi. Oggi la migliore antologia di opere è
quella curata da Marino Biondi per il Ponte Vecchio col titolo Le lettere, la storia (2005).
Abbiamo dunque accesso a tutte le opere di
Serra? Nient’affatto: c’è ancora parecchio materiale inedito, mancano all’appello molti scritti di natura politica e vari articoli dispersi su riviste e giornali; così come esistono centinaia di lettere non
confluite nell’Epistolario del 1934. Pressante si è
fatto il problema di un’edizione omnia, anche per-
ché un “Comitato per l’Edizione Nazionale degli
scritti di Renato Serra” è stato regolarmente istituito nel gennaio 1981 dall’allora Ministro dei Beni
Culturali, il cesenate Oddo Biasini. Il progetto prevedeva l’uscita di nove volumi suddivisi in vari tomi. Il comitato ha lavorato, finendo poi per arenarsi: ad oggi i volumi partoriti sono tre, il n. 1 di Scritti
critici (1990), il 4 di Carducciana (1996) e il n. 7 di
Scritti filosofici (2011). Prossima è l’uscita presso le
Edizioni di Storia e Letteratura, per le cure di Marino Biondi e Roberto Greggi, di un’edizione critica dell’Esame di coscienza e del Diario di trincea
Ma se la situazione editoriale delle opere di
Serra è in sensibile ritardo, non così per la bibliografia sul soggetto, che lo storico cesenate Dino
Pieri ha messo a punto in una meticolosa Biblio-
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Sopra da sinistra: la bibliografia degli
scritti su Renato Serra curata da Dino
Pieri nel 2005; l’antologia di scritti
curata da Mario Isnenghi per la NUE
(Torino, 1974); l’antologia di scritti
curata da Marino Biondi (2005). Qui
accanto da sinistra: il Diario di trincea
curato da Cino Pedrelli nel 2004; il
primo volume dell’Edizione Nazionale
degli Scritti di Renato Serra (1990)
grafia su Renato Serra (1909-2005) uscita nelle
Edizioni di Storia e Letteratura (2005): straordinario strumento che raduna in migliaia di voci tutto quel che è stato scritto su Serra. L’editore ha
collocato il lavoro tra i “Sussidi eruditi”, ma il volume non è solo tale: ci si accorge subito che, oltre
al secolo di critica serriana, quel che viene attraversato è un secolo di storia letteraria, e il peso dell’edizione è accresciuto dalle ottanta pagine di un
pregevole saggio di Biondi, che costituisce uno
studio a se stante sulla ricezione critica di Serra.
Insomma: tutto sembrerebbe pronto per dare
compiutezza alla stanca edizione degli scritti. Servono alcuni imprudenti disposti a sporgere il capo
oltre la condizione di stasi in cui il progetto giace,
somministrandogli un’iniezione di energia. Non
c’è rischio di colpi mortali – e il centenario non
passerebbe invano.
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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SPECIALE RENATO SERRA
RENATO SERRA E LA
GENERAZIONE ‘SCIUPATA’
Riflessioni ed esami di coscienza di un letterato
MARCO CIMMINO
L
a parola che ricorre più
spesso, nelle pagine ultime di Renato Serra, vergate tra la fine del 1914 e quel 20
di luglio dell’anno successivo, in
cui la parabola terrena dello
scrittore cesenate si sarebbe interrotta, è probabilmente ‘sciupato’: questa sembra essere la cifra definitiva della riflessione di
Serra sulla vita, la morte, la guerra e, soprattutto, la sua generazione. Occasioni sciupate, vite,
carriere, fatiche sciupate. Credo
che, in ultima analisi, sia questa
la chiave di lettura dell’Esame di
coscienza che ci permetta di ricostruire, con relativa
approssimazione, lo stato d’animo e mentale del
letterato, in quella brevissima vigilia che precedette la sua morte. Dalle lettere, indirizzate ai soliti
corrispondenti, soprattutto “vociani”, Panzini, Papini, De Robertis, come da quella fondamentale
prosa che è, appunto, l’Esame di coscienza di un letterato, emerge un Serra sospeso, per così dire, tra la
quiete domestica della provincia romagnola e
l’abisso, e che si interroga, obbligatoriamente, sulle questioni realmente pregnanti dell’esistenza: come scrisse in maniera esemplare Camus, in fondo,
il solo vero problema della filosofia è la morte. Serra, quando vergò le poche pagine dell’Esame di co-
scienza, si trovava a casa, a Cesena, in convalescenza per un grave
incidente automobilistico: tuttavia, egli la guerra l’aveva già presentita ed elaborata, nei mesi trascorsi in Friuli, ad addestrare richiamati, a pochi passi dalle caserme austriache. In alcune biografie è scritto che lo scrittore sarebbe partito volontario il 20
aprile del 1915, ossia non appena
terminata la prosa oggetto di
queste righe: viceversa, egli era
già sotto le armi e il suo servizio
era stato semplicemente interrotto dal mese di riposo concessogli dopo l’incidente. Ecco, questa era la reale
condizione di spirito di Renato Serra: quella di chi
avesse appena assaggiato una pietanza dolce e amara insieme e, subito, fosse tornato alla casa, alla sua
quotidiana riflessione, attenta, apparentemente
trasognata e, invece, acutissima, sugli uomini e le
cose. Il frutto di questa riflessione non può essere
definito con i termini usati: la situazione di chi scrive non è una situazione comune, e Serra non era un
uomo comune. Pure, come vedremo, anch’egli,
tornato al proprio reparto, alla testa di ponte di
Gorizia, scrivendo a casa, esprime, con parole esatte, un sentimento della guerra e della vita che fu, se
non di tutti, almeno di molti: «qui si pensa al massi-
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Nella pagina accanto: La guerra fuori delle trincee. Un attacco di sorpresa dei nostri alpini, a circa tremila metri («La Domenica del
Corriere», disegno di Achille Beltrame, febbraio 1916). Sopra: cani da soccorso alpino dell'esercito italiano (foto d’epoca, 1916)
mo a quel che accade da un’ora all’altra; al nemico e
alla guerra non si bada neanche più; tanto è cosa naturale. L’aspirazione più ricca è un po’ d’acqua o
una caramella. Vita fanciullesca, assolutamente, se
non si vedessero queste facce scavate e invecchiate»
(lettera a Papini, 12 luglio 1915). Insomma, pare di
rileggere, fatte le debite proporzioni, talune pagine
di Borgese, quando descrive la palude in cui ristagna la vita del suo Rubè: esistenza opaca, paralizzata,
che, finalmente, proprio grazie alla guerra, riprende a scorrere, come una fiumana liberata. Oppure
certo Gadda, il Gadda meraviglioso de Il castello di
Udine, che confessa il sentimento di libertà e di leggerezza offertogli dalla sua vita militare. Ebbene,
Serra, forse, non fa neppure in tempo a provare con
nettezza questo ‘sentimento della guerra’, tuttavia,
con la sua agilità di pensiero e con la sua formidabile
capacità di precursore, ne percepisce questo lato segreto, questa impronunciabile felicità. La guerra
semplifica tutto: cancella d’un tratto le elucubrazioni e i dubbi, rende fisime stucchevoli le riflessioni filosofiche. Eppure, a casa sua, rallentato e quasi
immobilizzato dalle sue ferite, il giovane scrittore è
ancora perfettamente in grado di ragionare filosoficamente sul conflitto, già da mesi deflagrato ad occidente: «che cosa è che cambierà su questa terra
stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abban-
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Sopra a sinistra: due tragiche immagini della guerra di trincea, durante il I Conflitto mondiale (1916). A destra: un'immagine
della prima linea italiana, sul Pogdora, a quota 240; i soldati in trincea indossano le maschere antigas
donati dormiranno sotto le zolle, e l’erba sopra sarà
tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al
sole della primavere che è sempre la stessa?» (Esame di coscienza di un letterato). Pure, questa riflessione appartiene, in qualche modo, al passato, solo
poche settimane più tardi: superata dalla vita vera.
Dalla morte vera, se si preferisce: «cose semplici,
anche, perché qui si ritrova vita e gusti da ragazzi pur senza aver perduto niente di quel che eravamo
prima: si mette da parte. Ti scriverò più a lungo (a
patto di non stampare). Per ora non potrei: le prime
impressioni che ti toccano son troppo le solite; colori e suoni, sensazioni del mondo, in cui la guerra si
perde come un episodio. Ma ci son gli uomini e la
vita: cosa profonda e semplice insieme; e ci son
troppo in mezzo per potermene tirar fuori» (lettera
a De Robertis, 14 luglio 1915). Dobbiamo dedurne
che, come per molti altri aspetti della cultura del
suo tempo, Serra fu una delle voci più nitide: uno
degli interpreti più precoci: in quelle striminzite
pagine, scritte con quello stile tanto caratteristico,
per cui la stesura di getto giunge, in realtà, al culmine di lunghe riflessioni preliminari, egli racconta
un’evoluzione antropologica del tipo umano dell’intellettuale, che trascorre velocemente dalla teoria, talora bamboleggiante e talaltra eroicomica, di
certo decadentismo novecentesco, alla prassi dell’azione e della realtà, indotta, anzi, imposta dalle
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Un'immagine della battaglia del Podgora, presso Gorizia (1915)
contingenze del conflitto. Andare, restare? Bastino, per questo, le parole ammirate per Peguy, caduto in combattimento, per Rolland, per i francesi già
trascinati dal grande vortice1. L’atto, la reale presenza sul campo, sembrano dare dignità alle parole
scritte: restituiscono alla letteratura un senso civile
che aveva perduto, nelle aberrazioni del secondo
Ottocento o che, forse, non aveva mai più avuto, dai
tempi di Koerner e delle guerre napoleoniche. Serra non si lascia incantare, non corre dietro alle sirene dannunziane, che, semmai, trova insopportabili:
tuttavia, rivaluta perfino d’Annunzio, il d’Annunzio tornato in Italia, il d’Annunzio di Quarto2. Serra
è pronto per la guerra: come per una necessità stringente. Rifiuta la filosofia e l’accademia: accetta, invece, la normalità dell’azione, che non ha tempo
per la baruffe intellettuali, dovendo affrontare battaglie vere. Perfino Croce lo infastidisce, coi suoi
toni pontificanti, mentre la gente muore3. In un
certo senso, la guerra, secondo Serra, rende tutto
più serio e, contemporaneamente, rende tutto più
inutile, ininfluente, noioso, superfluo. Di qui, forse, questo ricorrere frequentemente a quell’aggettivo, ‘sciupato’, da cui siamo partiti: ora, che tutto è
reso piccino, meschino, inutile, dall’incombere di
una prova definitivamente e realisticamente seria,
l’esistenza dell’intellettuale appare ‘sciupata’,
sgualcita e al tempo stesso male utilizzata, com’è
nel significato stesso del termine, denotativamente
anfibolico. Eppure, Serra non è certamente un interventista accanito: tutto, nel suo carattere, rifugge da certa roboante prosa da Pirgopolinice. Tuttavia va, perché tutti vanno e, se l’intellettuale rimanesse ad avvolgersi come un serpente nelle proprie
carte e nei propri pensieri, perderebbe il proprio diritto di parola: pure, ognuno porta, nella vita come
nella morte, quello che è, e non altro4. Il volontarismo di Serra è privo di trombe e di timballi: prelude
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Un'immagine delle truppe alpine al fronte (foto di Domenico Ryolo, 1916)
a quell’“eroismo quotidiano” che tanta parte avrà
nell’epica neorealista. Però, prima di andare, egli
vuole, in un certo senso, mettere a fuoco le cose:
sceglie di sviscerare, con spietata precisione, i propri pensieri, la propria anima remota. Di qui deriva
la grandezza dell’Esame di coscienza: è un’opera che
sigilla, contemporaneamente, la storia di una generazione e quella personale dell’autore. Non è un testamento spirituale, perché Serra non intendeva affatto morire e, anzi, le sue pagine testimoniano degli interrogativi che egli si poneva circa il “dopo”: è,
piuttosto, un promemoria. Quasi un appunto per
quando tutto sarà finito. Così, quando tutto sarà finito e solo allora, si sarebbero tirate le somme: Serra non ci sarebbe stato, a questo redde rationem finale, tuttavia, all’alba di un conflitto che lui stesso
giudicò determinante, affermava: «che l’Italia abbia qualche cosa da fare; un dovere da compiere e
un avvenire da preparare o da assicurare, qualche
cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi
confini, sulla sua strada, lo sappiamo tutti; anche
quelli che lo negano e lo impediscono, con uno
sforzo che finisce a definire con certezza sempre più
semplice il problema presente. Ma appunto perché
questo problema è essenziale e sostanziale nella nostra storia, non possiamo credere che si esaurisca
con oggi. Quella ricostituzione della nostra gente,
intera e attraversata ancora una volta sul cammino e
contro l’urto dei vicini crescenti, quell’anticipazione del nostro avvenire per le antiche perpetuamente rinnovate vie del levante, che avremmo voluto
realizzare oggi, sono tutt’una cosa con l’Italia. E
l’Italia resta». Qui, con questo che pare un augurio
e, insieme, un monito, si concludono queste brevissime note sull’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra. Eppure, quella parola ‘sciupato’, continua a ronzarci nelle orecchie, come se non ne avessimo sviscerato appieno la valenza, la poderosa ca-
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
pacità evocativa. «Farò una morte sciupata», scrisse, altrove, il
letterato-soldato, parlando di sé
e del proprio destino, che si sarebbe chiuso il 20 luglio del
1915, sul monte Calvario (Podgora), con il sigillo di una palla
nemica in mezzo alla fronte. Il
suo destino di intellettuale e di
scrittore, invece, prosegue: Renato Serra vive ancora, nella straordinaria lucidità delle sue ultime pagine, che sono, forse, uno dei più accurati documenti psicologici ed epistemologici della guerra
italiana. E che, vale la pena di ricordarlo, ci dimostrano come la storia sia, veramente, sempre contemporanea, perfino quando si tratti di una storia,
apparentemente ‘sciupata’: «Ripugna a qualcuno di
dover concludere che in fondo in fondo tutta questa
brava gente che abbiamo d’intorno e che pare abbia
NOTE
1
«Bisognerà ricordare quello che accade anche adesso, intorno a noi, per quelli
che prendono parte, non solo come uomini
ma anche come letterati, alla guerra; e i
cronisti raccontano tante cose di professori, artisti, scrittori, che si sono spogliati
delle proprie abitudini, e vanno creando,
per i nuovi bisogni, secondo il nuovo spirito
dell’ora che passa, una letteratura nuova?
Vedete in Francia: letteratura di battaglia,
di fede, di semplicità: commediografi e letterati mondani che fanno la cronaca delle
trincee; e Barrès, Bergson, Boutroux, Claudel, Bédier; ciascuno nei giornali, nelle
conferenze, negli opuscoli s’è presa la sua
parte attiva e utile di fatica; e Rolland che
risponde a Hauptmann; e Péguy, e cento
altri, che cadono in prima fila» (R. Serra,
Esame di coscienza di un letterato).
2
Un'immagine della I Guerra Mondiale.
“Guerra modernissima”, secondo la
didascalia che accompagna questo
disegno di Achille Beltrame, apparso su
«La Domenica del Corriere», nel 1917
in pugno le sorti del nostro paese,
parlamento, stampa, professori,
Giolitti eccellente uomo, e diplomatici, preti, socialisti ancora migliori — non avranno fatto molto
male, come non erano capaci di
far molto bene; e l’ira verso di loro è tanto esagerata
quanto inutile il disprezzo. Il destino dell’Italia non
era nelle loro mani. Non avremo niente da vendicare. Quel fremito di vergogna e di rabbia, che volevamo portare chiuso nel cuore, fino al momento
dello sfogo, finisce quasi in un sorriso. E anche questa è una cosa malinconica. Una cosa sciupata. Ma
ce n’è tante!».
«Così da noi D’Annunzio, per esempio,
a cui pensiamo con un certo orgoglio e
quasi con simpatia da quando quella sua
molto privata e curiosa “cattività in Babilonia” è diventata nel corso degli avvenimenti una espressione simbolica dell’Italia
esiliata col cuore sui campi dove si difende
un’altra volta la civiltà latina; e il suo ritorno ha un significato, che ci fa sperare e dubitar tutti quanti. Certo D’Annunzio ha
guadagnato in questo momento: ha ripreso fra noi: è ritornato al posto, da cui pareva scaduto. In realtà, con tutto il favore
delle circostanze e della fortuna, non è poi
cresciuto di nulla: non ha fatto niente che
sia degno di quell’apparente ingrandimento morale: per una lettera, da Parigi assediata, ricca erotta magnificamente di colore, quante odi su la resurrezione latina, e
frasi e parole odiosamente vecchie e false;
come se niente potesse essere cambiato
mai per lui!» (op.cit.).
3
«O volete parlar di Croce, che pare impicciolito, allontanato, sequestrato in una
acredine di pedagogo fra untuoso e astioso, che si degna di consolare le nostre angosce dall’alto della sua filosofia, sicuro
che tutto alla fine è e non può essere, anche
in questa guerra, altro che bene e vantaggio e progresso» (op.cit.).
4
«Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità.
Il lavoro che uno ha compiuto resta quello
che era. Mancheremmo al rispetto che è
dovuto all’uomo e alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio
estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha
lavorato seriamente: verso chi è morto per
fare il suo dovere» (op.cit.).
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20
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
21
SPECIALE RENATO SERRA
TRA LE PRIME EDIZIONI
DI RENATO SERRA
«La guerra non cambia nulla nel mondo, neanche la letteratura»
MASSIMO GATTA
U
na manciata di anni prima, era il 20 febbraio del 1909, sulle colonne del parigino «Le Figaro» Filippo Tommaso Marinetti, pubblicando ufficialmente il suo Manifesto
del Futurismo, dichiarava al punto 9: «Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore
dei libertari, le belle idee per cui si muore e il di-
A sinistra: una famosa fotografia di Serra nel 1915. Scattata
nello studio del fotografo cesenate Augusto Casalboni, fu
inviata agli amici prima della partenza per il fronte
sprezzo della donna». Quella stessa “igiene” solo
sei anni dopo, il 20 luglio del 1915, mette fine, sul
goriziano Monte Podgora a soli 31 anni, all’esistenza di un grande letterato, Renato Serra, impegnato al fronte col grado di tenente (la sua classe
di appartenenza, 1884, era la stessa di Emilio Cecchi),1 morto per le gravi ferite riportate in combattimento.2 Il 16 maggio di quell’anno un incidente automobilistico lo aveva tenuto tra la vita e
la morte; il primo aprile viene richiamato alle armi e il 5 luglio spedito al fronte, nell’11° Reggimento Fanteria della Brigata “Casale”. Era nato a
22
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Cesena nel 1884 e in quella splendida città dirige,
dal 1909 al 1915, la storica Biblioteca Malatestiana, la sola istituzione bibliotecaria che conserva le
uniche copie, delle poche sue prime edizioni, facenti parte del “Fondo Renato Serra”, unitamente
alla sua biblioteca privata, ai manoscritti, alle lettere e alle bozze di stampa.3
Ancora alla guerra Serra dedica un bruciante
pensiero, pubblicato in quello che è considerato il
suo capolavoro, l’Esame di coscienza di un letterato,
scritto tra il 20 e il 25 marzo, nei giorni che precedono la chiamata al fronte del primo aprile, pubblicato l’anno della morte su «La Voce»,4 il celebre
periodico fondato nel 1908 da Giovanni Papini e
Giuseppe Prezzolini, e che nel 1916 cessa le pubblicazioni. Il volume viene ristampato da Treves
nello stesso 1915, postumo, a cura di Giuseppe De
Robertis e Luigi Ambrosini, con l’aggiunta delle
Ultime lettere dal Campo,5 con in copertina la dicitura: «Renato Serra, di Cesena, spento a 31 anno,
da palla austriaca a Podgora, il 20 luglio 1915». In
quelle righe Serra, quasi profeticamente scrive:
NOTE
1
Ringrazio il prof. Franco Contorbia
per l’indicazione.
2
Gli venne assegnata la medaglia
d’argento al valor militare alla memoria,
non indicata però sulla lapide.
3
L’Archivio Serra venne acquistato
dalla Regione Emilia Romagna nel 1987
dagli eredi di Stanislao Paszkowski, marito
di Viola, figlia di Giovanni Papini, e in seguito depositato presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena; su di esso cfr.
Manuela Ricci, Renzo Cremante, Il Fondo
Renato Serra della Biblioteca Malatestiana
di Cesena, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005 [Sussidi eruditi, 69]; ri-
mando anche al link: http://www.comune.cesena.fc.it/malatestiana#serra.
4
Renato Serra, Esame di coscienza di
un letterato, «La Voce», a. VII, n. 10, 1915,
pp. 610-632. Lo scritto venne stampato
anche come Estratto, Firenze, Libreria della
Voce, 1915 [una sola copia localizzata
presso la Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN].
5
Renato Serra, Esame di coscienza di
un letterato, seguito da ultime Lettere dal
Campo, a cura di Giuseppe De Robertis e
Luigi Ambrosini, Milano, Fratelli Treves
Editori, 1915, con un ritratto fotografico
di Serra e la foto della tomba in antiporta,
cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità
bibliografiche del Novecento italiano. Repertorio delle edizioni originali, Milano,
Sylvestre Bonnard, 2007, p. 851 [indicato
come “Piuttosto comune, ma abbastanza
ricercato”]. Nel 1996 venne pubblicata
un’edizione critica, Esame di Coscienza di
un letterato. Per una Storia del Testo dall’Autografo alla Stampa, a cura di Marino
Biondi e Roberto Greggi, Cesena, Il Ponte
Vecchio.
6
Con lo scrittore e giornalista Serra
aveva collaborato a Torino, dove si era trasferito da Cesena; cfr. Renato Serra, Mio
Carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini,
a cura di A. Menetti, Parma, Monte Università di Parma, 2009.
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
7
Cfr. Alberto Cadioli, Renato Serra, le
muse, la sirena, in Id., Letterati editori. Papini, Prezzolini, Debenedetti, Calvino. L’editoria come progetto culturale e letterario,
Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 69-85 [73].
8
Ibidem, p. 75.
9
Renato Serra, Carducci e Croce, «La
Voce», a. II, n. 54, 22 dicembre 1910.
10
Lo scritto Carducci e Croce fu in effetti la stampa anticipata di qualche
giorno, con scopo promozionale, del più
ampio saggio Per un catalogo, compreso
negli Scritti critici (vedi oltre). Ringrazio il
prof. Franco Contorbia per la precisazione.
11
Questi su Pascoli e Beltramelli erano
usciti in prima edizione sulla rivista «La
Romagna» nel 1909, cfr. Lucio Gambetti,
Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del
Novecento italiano, cit., p. 851. In particolare lo scritto Giovanni Pascoli, su «La Romagna», 6, serie III, fasc. 2, febbraio 1909,
pp. 65-79 e fasc. 3-4, marzo-aprile 1909,
pp. 121-142 [nel volume Scritti critici della
nota seguente il saggio occupa le pp. 553], cfr. Giulia Mandrioli, Le postille sulle
carte di Renato Serra dedicate a Pascoli e
a Kipling, Milano, ACME, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, v. LXV, fasc. III,
settembre-dicembre 2012, pp. 265-279
[266].
12
Renato Serra, Scritti critici. Giovanni
Pascoli, Antonio Beltramelli, Carducci e
23
Croce, Firenze, Casa editrice italiana [Firenze, Stabilimento Tipografico Aldino], 30
dicembre 1910 [Quaderni della Voce raccolti da Giuseppe Prezzolini, 6]; cfr. Libreria della Voce. Catalogo alfabetico delle
nostre edizioni e delle opere possedute in
numero fino al 31 dicembre 1916, Firenze,
Libreria della Voce, 1916, p. 12 (il volume
risultava in vendita al prezzo di L. 1,25);
Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p.
851 [indicato come “molto comune, ma
piuttosto ricercato”] e Olivia Barbella, I ricercati delle edizioni della Voce, «Wuz», n.
5, giugno 2002. Vedi anche Le edizioni
della «Voce». Catalogo, a cura di Carlo
24
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
«La guerra è un fatto, come tanti altri in questo
mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli
altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge;
non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente nulla, nel mondo. Neanche la letteratura».
Una ben diversa profondità da quella marinettiana,
una ben diversa consapevolezza, una ben diversa
maturità d’animo. Quella guerra incapace di cam-
Maria Simonetti, Firenze, Giunta regionale
Toscana – La Nuova Italia, 1981 [Inventari
e cataloghi toscani, 6], p. 73, n. 288. Seconda ristampa col titolo Scritti critici I.
Giovanni Pascoli, Antonio Beltramelli, Per
un catalogo (Carducci e Croce), Retractationes, Roma, Soc. An. La Voce, 1919
[Opere di Renato Serra, I], cfr. Le edizioni
della «Voce». Catalogo, cit., p. 73, n. 289 [il
volume risultava in vendita al prezzo di L.
biare alcunché, “enorme, ma è quello solo”. Un
pensiero di una bellezza tersa e come sospesa, senza
tempo, leggera, ineluttabile. La guerra che nella
sua cogenza, nella sua “esseità”, non potrebbe aggiungere, togliere, o cambiare nulla. Altro che
igiene del mondo! Una visione, la sua, che si discosta dai miti bellicistici del nazionalismo, dall’idea
della guerra come evento magico e liberatorio, dai
3]. Di questo volume, non segnalato in
Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit.,
vennero stampate anche 25 copie su carta
distinta e numerate, in vendita a L. 8 (ringrazio Lucia Di Maio della Libreria Pontremoli di Milano per l’informazione). Vedi
ancora Renato Serra, Scritti critici II-III.
Carducciana-Pascoliana, Roma, Soc. An.
La Voce, 1920 [Opere di Renato Serra, II],
cfr. Le edizioni della «Voce». Catalogo, cit.,
p. 73, n. 290.
13
Il saggio avrebbe dovuto costituire
la presentazione del primo numero della
rivista «Neoteroi» che, insieme all’amico
Ambrosini, Serra andava preparando per
l’editore Bocca; ma quando quest’ultimo
rifiutò di pubblicare la rivista lo scritto serrano verrà pubblicato sulla «Voce» del 22
dicembre 1910, anticipando la versione in-
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
25
quali lo stesso Serra si è comunque lasciato conquistare. Quella stessa guerra toglie alla letteratura
uno scrittore di enorme talento, quella letteratura
a cui va l’ultima parola di Serra, l’ultimo suo pensiero. Neppure la letteratura può essere cambiata
dalla guerra.
Insieme all’amico Luigi Ambrosini, tra il febbraio e il marzo del 1907, pensa a un progetto editoriale con l’editore Paravia per la compilazione di
un dizionario latino,6 un modo per mantenere vivo
l’interesse per il mondo editoriale, dopo alcune delusioni vissute in quello giornalistico. Ma anche
questo lavoro finisce e Serra avverte di nuovo una
certa sensazione d’inutilità. Purtuttavia, in una lettera sempre ad Ambrosini del 19 ottobre 1907,
scrive: «Nell’ultima tua […] mi parlavi di qualche
cosa da fare per Paravia. Ben volentieri, a Firenze
non meno che a Cesena. (Sarebbe il mio sogno trovare un lavoro che mi potesse dare un migliaio di
lire l’anno senza muovermi da casa». È invece un
nuovo lavoro di pura compilazione, quello che lo
occupa, nella primavera del 1908, nello spoglio
biobibliografico per un progetto del duca Caetani,
un lavoro “meccanico” che presto gli lascia di
nuovo l’amaro in bocca;7 ecco quindi che l’impiego, prima rifiutato e poi inseguito,8 come direttore alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, già
ricordato, gli offre una nuova occasione.
tegrale degli Scritti critici del ’19 [vedi nota
precedente].
14
Renato Serra, Francesco Acri, «La
Voce», a. III, n. 10, 9 marzo 1911, pp. 522523, a commento di Le cose migliori dell’Acri, edito a Lanciano da Carabba nel
1911; dell’articolo serrano ne venne stampato anche un Estratto, s.l., s.n. [localizzato nella sola Biblioteca Malatestiana di
Cesena, fonte SBN].
15
Il giovane Serra pubblica il suo primo scritto
su «La Voce» il 22 dicembre del 1910,9 dedicandolo a Carducci e Croce,10 ripubblicato ampliato
con pagine critiche dedicate a Pascoli e
Beltramelli,11 nei «Quaderni della Voce».12 Nella
seconda ristampa del 1919 degli Scritti critici compare anche il saggio Per un catalogo,13 elaborato nel
1910, dedicato all’analisi della «Collezione Scrit-
Renato Serra, La fattura. Episodio di
uno studio intorno a Gabriele D’Annunzio,
«La Voce», a. III, n. 14, 6 aprile 1911, pp.
545-547, anche di questo articolo ne
venne stampato un Estratto [localizzato
nella sola Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN],
16
Renato Serra, Ringraziamento a una
ballata di Paul Fort, «La Voce», a. VI, n. 12,
28 giugno 1914, “Nato di getto in una
mattina d’aprile del 1914, nello studio di
Serra alla Malatestiana, questo scritto conosce poi, per tre mesi, un’attenta e scrupolosa opera di rielaborazione, intesa a
equilibrarne il tono, a mezzo tra la confessione personale e l’analisi critica”, Mario
Isnenghi, in Renato Serra, Scritti letterari,
morali e politici, Torino, Einaudi, 1974, p.
[484].
17
Renato Serra, Il gruppo fiorentino,
26
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
tori d’Italia» della Laterza, diretta da Benedetto
Croce. Al celebre foglio papiniano-prezzoliniano
Serra collabora ancora con scritti su Francesco
Acri14, Gabriele D’Annunzio15 e Paul Fort,16 con
un articolo del ’15 sul gruppo fiorentino17, con una
pagina poco nota nell’Almanacco della Voce18 e appunto con l’Esame di coscienza di un letterato. Acri è
stato suo insegnante alla Facoltà di Lettere di Bologna, insieme a Carducci, Severino Ferrari e G.
Battista Gandino, ateneo dove Serra si iscrive nel
1900, laureandosi quattro anni dopo su Petrarca,
pubblicata postuma nel 1929 prima in rivista19 e, lo
stesso anno, in volume.20 Postumi escono altri suoi
scritti su Machiavelli21 e altri inediti su Kant,22 Kipling,23 D’Annunzio e Oriani;24 di notevole importanza bibliografica restano sia il volume degli
Scritti, nell’edizione del 1938,25 sia quanto pubblicato nell’Edizione Nazionale.26
Nel 1910, intanto, pubblica un saggio su Alfredo Panzini, che ha il merito di porlo per la prima
volta all’attenzione del pubblico e della critica.27 Lo
scritto rientra nella sua collaborazione critico-letteraria a «La Romagna», una rivista mensile “se-
«La Voce», a. VII, n. 9, 15 aprile 1915.
18
Almanacco della Voce, Firenze, Libreria della Voce, [Stabilimento Tipografico
Aldino], 1915; cfr. Le edizioni della «Voce».
Catalogo, cit., p. 4, n. 6.
19
Renato Serra, Dei “Trionfi” di Francesco Petrarca, «La Romagna», XVI, n. 12/3, 1929.
20
Idem, Dei “Trionfi” di Francesco Petrarca, a cura di Alfredo Grilli, Bologna, Nicola Zanichelli, 1929, stampato in 100
esemplari; per entrambe le edizioni cfr.
Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit.,
pp. 851-852. La tiratura in 100 esemplari
viene indicata come “molto rara, senza
quotazioni disponibili”.
21
Renato Serra, Pagine inedite su Niccolò Machiavelli, premessa di Plinio Carli,
«L’Orto», a. IX, n. 3, 1939, pubblicato lo
stesso anno come Estratto, Firenze, Le
Monnier, 1939; cfr. Lucio Gambetti, Franco
Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 852.
22
Al nome del filosofo tedesco è legata anche un’altra esperienza editoriale
del giovane Serra. La cura, insieme ad Armando Carlini, di una Collana dell’editore
Laterza di Bari di testi di filosofia per le
scuole: “In questa collaborazione, a Serra
non interessa tanto che il suo nome venga
pubblicato in copertina come direttore,
ma i termini del contratto editoriale propostogli: ci sarà possibilità di guadagno,
chiede ancora una volta all’Ambrosini, più
esperto di lui?”, Alberto Cadioli, Renato
Serra, le muse, la sirena, cit., p. 76. La lettera citata all’Ambrosini è ora in Renato
Serra, Epistolario, a cura di Luigi Ambrosini, Giuseppe De Robertis e Alfredo Grilli,
Firenze, Le Monnier, 1934, p. 362. I ritmi,
le scadenze, le insoddisfazioni inducono
però Serra a voler annullare il contratto
con l’editore barese, cfr. Epistolario, cit., p.
401. Questa ulteriore esperienza fallimentare di collaboratore di casa editrice gli
darà conferma del suo implicito rifiuto del
lavoro editoriale “in nome del perduto
otium umanistico; è la voglia di sentirsi libero davvero, senza impegni e scadenze,
che porta Serra a ritirarsi dall’impresa, con
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
27
miclandestina” (Cadioli) di storia e lettere edita a
Forlì nel 1904. Nel 1912, intanto, firma la prefazione a un volume di Armando Carlini su Fra Michelino e la sua eresia,28 mentre a un anno prima della
morte risale la commemorazione del suo maestro
e insegnante all’università di Bologna, Giosuè Carducci, letta la sera di sabato 21 marzo al Teatro Comunale di Cesena29 e il progetto, di cui si parla
nell’epistolario fin dal 1913, dedicato alla letteratura italiana contemporanea, sfociato nella pubblicazione delle Lettere.30 Questo progetto per
l’editore Bontempelli nasce dalle passate esperienze fallimentari col mondo editoriale (Paravia,
Laterza31). È sempre l’urgenza di soldi (a causa dei
suoi debiti di gioco) la molla che lo spinge suo malgrado ad accettare proposte anche se non pienamente condivise: Ma il bisogno di soldi si fa
urgente e da questo bisogno nasce l’accettazione
della proposta di stendere una monografia sulla letteratura contemporanea, per la collana «Italia
d’oggi» della casa editrice romana Bontempelli e
Invernizzi. Nascono dunque Le lettere, che si propongono come una preziosa testimonianza sul si-
la speranza di ricuperare, illusoriamente,
quell’otium”, Alberto Cadioli, Renato Serra,
le muse, la sirena, cit., p. 77.
23
Lo scritto su Kipling non fu pubblicato da Serra in vita, uscirà postumo nel
‘22 in due puntate su «Il Convegno», ma:
“L’edizione era gravemente scorretta, sia
per vistosi errori tipografici, sia per l’omissione di interi passaggi. Una versione più
attendibile dello studio comparve qualche
mese dopo negli Scritti inediti (pp. 27-99)
che costituiscono il IV volume delle Opere
di Renato Serra […]. Essa servì da riferimento anche per le successive edizioni del
saggio […]”, Giulia Mandrioli, Le postille
sulle carte di Renato Serra dedicate a Pascoli e a Kipling, cit., p. 266. Vedi infine
Marino Biondi, Una passione di gioventù:
il Kipling, in Renato Serra, Kipling, Sant’Arcangelo, Fara, 1996, pp. 107-154.
24
Renato Serra, Scritti inediti. Emanuele Kant. Rudyard Kipling. Di G. D’Annunzio e di due giornalisti. Intorno alla
Grandezza e decadenza di Roma di G. Ferrero. Abbozzo di un saggio su Alfredo
Oriani, Firenze, Soc. An. La Voce [Firenze,
Stabilimento Tipografico Attilio Vallecchi],
1923 [Opere di Renato Serra, IV]; cfr. Le
edizioni della «Voce». Catalogo, cit., pp. 7374, n. 291 e Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento
italiano, cit., p.851. Il saggio su D’Annunzio, insieme a molti altri, verrà ristampato
in Renato Serra, Scritti letterari, morali e
politici, a cura di Mario Isnenghi, Torino,
Einaudi, 1974, pp. 219-243.
25
Cfr. Scritti di Renato Serra, a cura di
G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, F. Le
Monnier, 1938, in 2 volumi.
26
Scritti critici (vol. 1), a cura di Ivanos
Ciani, Roma, IPZS, 1990; Carducciana (vol.
4), a cura di Ivanos Ciani, Bologna, Il Mulino, 1996; Scritti filosofici (vol. 7), a cura
di Jonathan Sisco, Bologna, Il Mulino,
2011.
27
Renato Serra, Alfredo Panzini, «La
Romagna», a. VII, serie 3, n. 5-6, maggiogiugno 1910; venne stampato anche
come opuscolo, Forlì, Stabilimento Tipografico Romagnolo, 1910; cfr. anche A.
Grilli, Serra tra Pascoli e Panzini; con pa-
28
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
stema letterario ed editoriale del primo Novecento,
osservato dal punto di vista di un «lettore umanista». Esaminando queste pagine è infatti possibile
introdurre una nuova riflessione sull’editoria libraria, e in particolare sulla narrativa e sul suo pubblico”.32 Discorso a parte merita il suo prezioso
Diario di trincea del 1915.33 Come scrive Isnenghi:
«In un libro di Luigi Ambrosini - i Racconti di
guerra 34- è compreso uno scritto importante di
Serra, il Diario di trincea,35 altrimenti inedito e, non
senza motivo, restato semisconosciuto agli stessi
studiosi del Serra. Nessun rilievo, in verità, è dato
nel volume al fatto che tra i “racconti” dell’Ambrosini se ne celi uno che non è un racconto e, soprattutto, non è dell’Ambrosini, ma di Serra. […] Ma
Ambrosini visse ancora oltre un decennio e di
quello scritto mutilato non si occupò più. Anzi, riuscì a fare di peggio: dalle carte lasciate alla sua
morte, il taccuino con l’originale del Diario di trincea - insieme ad altri manoscritti del Serra - non è
più venuto alla luce».36 Il Diario inizia il 6 luglio,
per terminare il 19 con l’appunto delle ore 19: «È
incominciato l’attacco».37 Il giorno dopo Serra
gine inedite, Firenze, Le Monnier, 1956.
28
Cfr. Armando Carlini, Fra Michelino
e la sua eresia, prefazione di Renato Serra,
Bologna, Zanichelli, 1912; la prefazione di
Serra occupa 38 pagine.
29
Renato Serra, La commemorazione
di Giosuè Carducci, «Il cittadino», a. XXVI,
n. 13, 28 marzo 1914, pp. 1-3, stampato
anche come Estratto, Cesena, s.n., 1914
[localizzato nella sola Biblioteca Malatestiana di Cesena, fonte SBN].
30
Renato Serra, Le lettere, Roma, C. A.
Bontempelli Editore [Stabilimento CromoLito-Tipografico Armani & Stein], 1914
[L’Italia di oggi. Serie 1, n. 6]; cfr. Lucio
Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano, cit., p. 851
viene colpito in combattimento, morendone.
Tra le ultime lettere che scrive dal fronte due
sono per Benedetto Croce (maestro avverso, secondo Contorbia) e Giuseppe De Robertis, più
giovane di Serra di quattro anni, che lo vede come
una sorta di fratello maggiore. Nella prima, del 13
luglio del 1915, Serra scrive tra l’altro: «Ill.mo Signor Professore, devo ancora ringraziarLa della
cortese cartolina che s’informava della mia salute.
Mi accorgo che anche alla guerra e seppelliti in una
trincea sotto il fuoco nemico, che tempesta - ma fa
più rumore che danno - da poche decina di metri
di distanza, si continua press’a poco la solita vita e
si conservano le abitudini usate: per es. quella di rispondere in ritardo. Mi scusi. Quanto a me sto benissimo ora, e non sento quasi più le conseguenze
della caduta, che potevano essere molto più serie.
Forse non potrei ancora stare in Biblioteca a scrivere come prima»;38 e a De Robertis, il giorno
dopo, scrive: «Mio caro, ti mando il mio indirizzo
(11° Fanteria, 4° Comp.ia, 12a Divisione) per avere
tue notizie, che desidero. Dimmi qualche cosa del
tuo lavoro, della Voce, del nostro mondo letterario,
[indicato come “piuttosto comune, ma
piuttosto ricercato”]; ristampa con l’aggiunta dei frammenti inediti del secondo
volume e di un indice onomastico, Roma,
Soc. An. Ed. La Voce [Firenze, Stabilimenti
Grafici Attilio Vallecchi], 1920 [Opere di
Renato Serra, III], cfr. Le edizioni della
«Voce». Catalogo, cit., p. 72, n. 287. Ultima
edizione, Ravenna, Longo Editore, 1989;
cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità
bibliografiche del Novecento italiano, cit.,
p. 852. Altre edizioni postume della corrispondenza sono le Lettere in pace e in
guerra, a cura di Milva Maria Cappellini,
prefazione di Geno Pampaloni, Torino,
Nino Aragno, 2000 e le Lettere a Fides, saetta che ferisce e vola, a cura di Renato
Turci, Bagno a Ripoli, Le Monnier, 2001,
con ritratto. La Fides del titolo era Fides
Galbucci, con la quale Serra ebbe una importante relazione amorosa, resa drammatica dal timore che la giovane ne
intrattenesse una parallela con Luigi Ambrosini, da ciò la lacerazione dell’amicizia
tra i due tra il ’13 e il ’15, con la successiva
ripresa dei contatti dopo l’incidente automobilistico a Serra avvenuto a Latisana,
già ricordato (ringrazio il prof. Contorbia
per l’utile precisazione). Per entrambe le
edizioni cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento
italiano, cit., p. 852. Infine per la bibliografia dedicata a Serra rimando alla Bibliografia su Renato Serra (1909-2005), a cura
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
29
Pagina autografa di Serra per il saggio del 1910 Per un
catalogo
degli amici vicini e lontani. In questa vita così piena
e affaccendata ci son sempre delle ore vuote: ci si
trova come ora, fermi e quieti sul margine di una
buca; voltati indietro a cercare le cose di ieri, che
sembrano così lontane. Ci si rinuncia, ma non si
dimenticano. […] Ti scriverò più a lungo (a patto
di non stampare). Per ora non potrei: le prime impressioni che ti toccano son troppo le solite; colori
e suoni, sensazioni del mondo, in cui la guerra si
perde come un episodio. Ma ci son gli uomini e la
vita: cosa profonda e semplice insieme; e ci son
troppo in mezzo per potermene tirar fuori oggi».
L’ultima lettera, poche ore prima di morire, è
invece per la madre: «Cara mamma, un saluto in
fretta anche stamattina, alzati all’alba. Niente di
nuovo: le solite vicende di temporale e di sole, e lo
spettacolo di un’azione che si intravede e si sente
rumoreggiare sui monti circostanti. Noi sempre al
nostro posto, con molte faccende dei servizi di seconda linea...».
di Dino Pieri, saggio introduttivo di Marino Biondi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005 [Sussidi Eruditi, 68] e
ovviamente all’apparato critico e paratestuale approntato da Mario Isnenghi per
gli Scritti letterari, morali e politici di Serra,
cit., anche per quanto riguarda gli scritti
non compresi in Renato Serra, Scritti a
cura di G. De Robertis e A. Grilli, cit.
31
Di certo situazioni “fallimentari” ben
distinte, se non altro perché nel caso di
Laterza fu proprio Serra a far saltare la
collaborazione con l’editore barese, con
Croce e Carlini.
32
Alberto Cadioli, Renato Serra, le
muse, la sirena, cit., p. 77.
33
A tale proposito preziosa appare la
puntualizzazione espressa da Franco Contorbia a chi scrive, con mail del 14 aprile
2015: “Il manoscritto del Diario di trincea
non è andato perduto: è sempre stato tra
le carte di Serra detenute dai suoi eredi. Il
compianto Cino Pedrelli e io l’abbiamo rinvenuto (per modo di dire, perché sapevamo che lì stava) nel lontano 1974, o
forse 1975, tra le carte di proprietà del nipote di Renato, professor Franco Serra, allora vivo e residente a Bologna. Con
inaudito ritardo Pedrelli lo ha edito trent’anni dopo, nel 2004, riproducendone in
facsimile anche l’autografo […] presso
Stilgraf di Cesena”.
34
Torino, S. Lattes & C., 1917.
35
Ora in Renato Serra, Scritti letterari,
morali e politici, cit., pp. 549-563.
36
Mario Isnenghi in Renato Serra,
Scritti letterari, morali e politici, cit., p.
[550].
37
Ibidem, p. 563.
38
In effetti la pubblicazione dell’Esame di coscienza, sulla «Voce» del 30
aprile del ’15, pare avesse avuto come
esito la lacerazione irreversibile del suo
rapporto con Croce il quale, in una lettera
pubblicata da Alfredo Grilli in Tempo di
Serra (Firenze, Vallecchi, 1961), arrivò a
parlare di letteratura onanistica riferendosi a Serra. Ringrazio il prof. Contorbia
per l’indicazione.
30
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
31
SPECIALE RENATO SERRA
LE EDIZIONI
DELL’EPISTOLARIO
La travagliata vicenda delle lettere di Renato Serra
ANTONIO CASTRONUOVO
N
el 1934, dopo un lungo
lavoro di ricerca e raccolta, veniva pubblicato a Firenze, da Felice Le Monnier, l’Epistolario di Renato Serra.
Il frontespizio indica un pool di
tre curatori, Giuseppe De Robertis, Alfredo Grilli e Luigi Ambrosini, nomi ai quali dobbiamo
però assegnare un diverso peso:
compagno di liceo e amico di
Serra, Ambrosini scomparve già
nel 1929, durante l’opera di raccolta delle lettere, e dunque la sua
“cura” va intesa come un lavoro
parziale. La curatela si concentrò
infatti nelle mani di De Robertis, cui fu di grande
aiuto Alfredo Grilli, intellettuale assai attivo nella
prima metà del Novecento nel ricostruire la vicenda di Serra, già a partire dai mesi successivi alla morte prematura del 1915: impagabile fu il paziente lavoro che egli condusse per raccogliere e ordinare i
documenti del cesenate; il suo contributo, in particolare, fu di occuparsi delle lettere inviate ad Ambrosini.
Il volume si apre con un semplice avviso Al lettore scritto da De Robertis, il quale annuncia il lavo-
Nella pagina accanto: l’ultima foto di Renato Serra.
Fu spedita dal fronte agli amici
ro dei singoli curatori: «Lunga
quanto mai, è vero, è stata la fatica
per l’ordinamento e la illustrazione di queste lettere. Quasi al compimento del lavoro, morto Luigi
Ambrosini, fu necessario cercare
chi s’assumesse il difficile incarico
di annotare le lettere del Serra a
lui, riguardanti la più parte il periodo più oscuro della sua vita; e si
trovò in Alfredo Grilli che, quanto abbia frugato, vedrà chi leggerà». Il programma era stato quello nudamente biografico: il lettore avrebbe potuto giudicare che
valeva la pena sfrondare quelle
seicento pagine, «ma noi non volevamo offrire una
raccolta di bella prosa soltanto, sibbene la storia della vita di Renato Serra, in tutta la sua verità nuda, e
proprio per effetto delle notizie più piane, prosaiche, indifferenti, contribuire alla varietà della lettura e al risalto di certe pagine superbissime».
Per quanto su piani differenziati, fu grazie al lavoro di queste figure che si giunse all’edizione di un
Epistolario che fu una sorpresa per i lettori, dato che
lumeggiava un mondo ignoto: la vita privata del giovane Serra cesenate, la sua precoce maturità, la sua
svogliatezza e generosità, l’arguzia e la sapida mescolanza tra ozio e progetti letterari. Man mano che
ci si accostava agli ultimi anni, verso il 1914 e 1915, si
32
percepiva lo sviluppo della concretezza, sul tragitto
di quel destino che portò Serra verso la tragica partenza per il fronte.
L’Epistolario nacque come una semplice brossura, che rilega però un corposo volume che supera le
600 pagine. Si confermava quel che già era noto: che
nella sua breve vita Serra aveva coltivato rapporti
con molti corrispondenti, in un affresco che diventava, di colpo, molto importante per la ricostruzione
delle sua vicenda biografica. Come molte edizioni di
lettere, anche questa ebbe moderato successo editoriale: esaurì la tiratura in vent’anni e giunse a ristampa solo nel 1953. Sembrava che il grosso delle lettere
fosse là dentro, che i giochi epistolari fossero fatti, e
invece quel volume - pur essenziale per conoscere
Serra - non rappresentava che un inizio.
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Torniamo alla premessa Al lettore e leggiamo la
conclusione, là dove viene annunciata la prossima
uscita, sempre presso Le Monnier, di due «grossi volumi di mille pagine» con le opere complete di Serra:
«Avremo così finalmente assolto il nostro compito
di editori nei riguardi di uno degli ingegni più alti e
più interi di questo primo novecento». Gli Scritti di
Renato Serra videro effettivamente la luce, a cura di
De Robertis e Grilli, ma soltanto nel 1938; erano
davvero consistenti (450 e 680 pagine circa), ma che
si trattasse di opere complete fu solo un auspicio (come
era avvenuto per la prima edizione delle opere pubblicate da «La Voce» in quattro volumetti tra 1919 e
1923). Si verificava per gli scritti di Serra quel che era
appena accaduto per l’epistolario: iniziava con quelle avventure editoriali un tragitto che si presumeva
“completo” ma che era invece assai lacunoso.
Il primo volume dell’edizione 1938 degli Scritti
si apre con un saggio di De Robertis, Coscienza letteraria di Renato Serra, che contiene qualcosa di utile al
nostro discorso. Il curatore dipinge il carattere generale delle missive di Serra: «Curiose lettere, piene di
complicate analisi, di femminili abbandoni, e reticenze superbe; piene di propositi di vita e di studi.
[...] Inquiete lettere, di un’anima soavissima, d’un intelligenza solitaria, di gusti così strani dai gusti correnti, ma che erano ben fermi, tra quegli apparenti
tentennamenti, fermi fino a parere caparbi» (p.
XXXIX). De Robertis registra anche come la ripugnanza di Serra ad aprirsi fu forse «la ragione che impedendogli di conversare con i molti, lo spinse invece a scrivere lungamente a pochi fraterni spiriti, come dicono le sue lettere» (pp. XXXVIII-XXXIX).
Ecco, l’idea che Serra avesse scritto «lungamente a
pochi fraterni spiriti» nasceva dal carattere dell’epistolario così come esso aveva visto la luce nel 1934,
con i materiali all’epoca noti. De Robertis non era
consapevole in quel 1938 del fatto che i carteggi di
Serra erano ben più vasti; non poteva certo sapere
quel che Cino Pedrelli - decano degli studi serriani avrebbe scoperto anni dopo mediante il censimento
di un più ramificato carteggio: che i corrispondenti
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
di Serra erano stati molto più numerosi di quanto
suggerisce l’Epistolario. L’edizione Le Monnier ha
infatti dato l’idea di un Serra chiuso in sé, che comunicava con poche decine di amici: oggi sappiamo che
scambiò lettere con un numero di persone ben più
ampio. Pedrelli ha contato 173 corrispondenti certi,
persone di cui si conosce almeno una lettera ricevuta
da Serra o a lui indirizzata. Il che ha un’immediata ripercussione: ogni biografia di Serra, non avendo tenuto conto dei tanti ignoti carteggi, va considerata
oggi parziale.
Il nuovo orizzonte di conoscenze è legato alle
ricerche compiute in vista di una Edizione Nazionale delle opere di Serra, che fatica a nascere ma il cui
comitato è stato insediato nel 1981. Da allora, sono
molti i documenti venuti alla luce, e tra questi le lettere - molte di più rispetto a quelle pubblicate nel
1934 - hanno un peso rilevante. Sono ad esempio
emersi carteggi di Serra con Prezzolini, Papini, Panzini, Cecchi, Pancrazi, Adriano Tilgher, Armando
Carlini e i ravennati Corrado Ricci e Santi Muratori.
Una spicchio rilevante dei nuovi carteggi è quello
con l’assiduo corrispondente Ambrosini, col quale
Serra ebbe un cospicuo scambio di lettere, interrotto
nel 1913 per una pedestre questione di gelosia. Più di
duecento pezzi di questo carteggio erano arrivati, a
partire dalla vedova Ambrosini, alle edizioni Da Silva fondate da Franco Antonicelli, nel cui lascito sono
infine emerse. Parte del carteggio (69 pezzi) è uscito
nel 2009 presso l’editrice Monte Università Parma a
cura di Andrea Menetti col titolo: Renato Serra, Mio
carissimo. Carteggio con Luigi Ambrosini (1904-1915).
L’edizione, curata con scrupolo filologico e corredata da un buon apparato di note, è assai seducente: ripercorre la vocazione letteraria dei due amici, il loro
affacciarsi alla vita, i tentennamenti di fronte alle
scelte di valore, fino all’ultima lettera di Serra, scritta
otto giorni prima di morire al fronte. Un assaggio
editoriale che fa ben comprendere come - se decollerà l’Edizione Nazionale - un epistolario come quello
pubblicato nel 1934 non avrebbe senso: sarà necessario assemblare i singoli carteggi intercorsi tra Ser-
33
ra e interlocutori. Intanto, le edizioni di lettere serriane non si sono fermate. Un esempio antologico è
il centinaio di pezzi che compone il volume Lettere in
pace e in guerra curato da Milva Cappellini con prefazione di Geno Pampaloni (Aragno Editore, 2001).
Un bel ritrovamento è stato quello compiuto da Renato Turci con le Lettere a Fides, saetta che ferisce e vola
(Quaderni della Nuova Antologia, 2001): si tratta
dello scambio epistolare con la giovane concittadina
Fides Galbucci, ultima ragazza amata da Renato. Le
lettere, infine, possono funzionare come materia
con cui ricostruire criticamente uno spicchio di biografia: è quanto ha fatto Marino Biondi in Renato Serra: biografia dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe
De Robertis, storia della fase ultima della vita di Renato, quando già aleggiava - infine enunciata nel 1915
con l’Esame di coscienza di un letterato - la consapevolezza del congedo, dagli amici e dalla vita.
34
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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IN MARGINE ALLO ‘SPECIALE RENATO SERRA’
VITTORIE DIMENTICATE,
SCONFITTE CELEBRATE
24 maggio e 25 aprile: due date, due ricordi, due Italie
MARCO CIMMINO
E
siste la storia e, poi, ci sono le storie. All’interno di
quella gran massa, magmatica e plastica, che chiamiamo
storia, fluisce una miriade di rivoli, diversi per densità, intensità,
calore: questi torrentelli di materia incandescente sono le storie, i
mille risvolti di una memoria che
mai come oggi ci appare divisiva,
frammentata, talvolta incrudelita. Perché i ricordi di una Nazione non sono mai ordinati: non occupano uno spazio determinato e
preciso, ma debordano, si dilatano e si contraggono. Esistono storie molto più ingombranti delle altre, che attirano su di sé la quasi totale attenzione
degli studiosi e della gente: vi sono, invece, storie
dimenticate, vilipese, nascoste come qualcosa di
cui vergognarsi. Alcune storie, infine, vengono
trattate come una brutta malattia o come un difetto
fisico: si tende a camuffarle o a fingere che non siano mai avvenute. Ad esempio, in Russia, per decenni, la memoria gigantesca della ‘grande guerra patriottica’, ha, di fatto, cancellato il ricordo della prima guerra mondiale, vista come una carneficina zarista: il mito fondante del popolo russo è stato, a
Nella pagina accanto: trincea italiana, sul fronte alpino
(1917). Sopra: trincee sul Podgora (1915)
lungo, la sua caparbia resistenza a
Hitler, e a farne le spese sono stati
i caduti di Gumbinnen, dei Carpazi, di Tannenberg, che sono
stati rimossi dalla memoria collettiva. Lo stesso è accaduto, ad
esempio, in Slovenia, dove la lotta partigiana ha intasato, con la
sua ingombrante epopea, la storia
contemporanea jugoslava, eclissando il ricordo dei soldati del
1914-18, come bene ha dimostrato Petra Svoljšak in un suo recente lavoro. Tutto questo è emerso
molto chiaramente da un bellissimo convegno internazionale sulle origini della prima guerra mondiale, tenutosi a Gorizia, esattamente un anno fa:
tutti i relatori, me compreso, hanno convenuto sul
fatto che ogni storia nazionale ha al suo interno
omissioni e censure, così come filoni di ricerca privilegiati ed altri del tutto negletti. In un certo senso, è la committenza politica che determina queste
scelte: quasi sempre, gli studiosi si limitano ad eseguirne le indicazioni. Non è vero che la storia venga scritta sempre dai vincitori: la scrivono comunque gli storici, che, nove volte su dieci, si adeguano
e si allineano alle posizioni espresse dal potere.
Questo fenomeno sembrerebbe affatto peculiare
delle dittature o, quantomeno, di quei regimi in
cui, in maniera conclamata, nomenklatura e intelli-
36
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Da sinistra: Gabriele d’Annunzio, fra i soldati, durante la I Guerra Mondiale; soldati alpini in trincea, mentre caricano le
munizioni, Nella pagina a destra: alcuni soldati italiani, durante il primo inverno (1915-1916) passato in trincea
gentsija procedono a braccetto. Viceversa, anche il
banale conformismo, la correttezza politica o, più
semplicemente, la moda, determinano atteggiamenti di rimozione del tutto simili, presso nazioni
sulla cui civiltà storiografica ci sentiremmo di garantire. L’Italia appartiene, purtroppo, proprio a
questo novero: il mito ossedente della Resistenza,
accompagnato dal suo corollario di miserandi interessi di bottega, ha, sostanzialmente, eclissato il
centenario della prima guerra mondiale. Il settantesimo di una sconfitta ha offuscato, per non dire ridotto nell’angolo, il centenario di una vittoria: questione, come si diceva, di ingombro. E di competenze, mi parrebbe di poter postulare: in Italia prosperano da decenni istituti di ricerca senza nessuna
scienza e senza alcun titolo, che, in realtà sono semplici macchine di propaganda, che si autoalimentano e si autolegittimano. Gli istituti per lo studio
della Resistenza sfornano decine di ricercatori di
nessuna ricerca, di accademici di nessuna accademia, cui valgono come pubblicazioni scientifiche
triti centoni a matrice operaistico-partigiana: e costoro si presentano al pubblico con la presunzione
dello storico vero e con l’autorevolezza dello studioso autentico, spacciando per storia la loro perenne, invasiva, ecolalica vulgata. Poiché è lecito
sospettare che questi sedicenti storici nulla sappia-
no di prima guerra mondiale, la loro disperatissima
difesa delle posizioni di privilegio conquistate a
suon di correttezza politica non può che basarsi sulla costante e sistematica diminuzione dell’importanza storica del centenario a favore del settantennale: del 24 maggio a favore del 25 aprile. Sarebbe
facile dimostrare come la data dell’entrata in guerra
sia, in realtà, ricorrenza ben degna di memoria: memoria coesiva, intanto e non memoria solo di alcuni, com’è nel caso della festa della Liberazione. E,
come si diceva, memoria vittoriosa: ma di questa
vittoria pare ci si debba vergognare. Non vi sono
motivazioni esegetiche o epistemologiche, non scomodiamo la dottrina storica per quello che, in realtà, è semplice e miserando interesse particolare.
Non si tratta di argomentare sulle ragioni della
guerra o sugli strumenti del comando: purtroppo,
qui non c’entrano le decimazioni o la cadornite, come si vorrebbe far credere. Si tratta, come sempre,
di piccole cose di piccoli uomini: di privilegi personali, divenuti la fortezza Bastiani della storiografia
militante. O, se preferite, della militanza tout court,
giacché la storiografia è tutt’altra cosa. Naturalmente, questa operazione di cancellazione e di svilimento dei valori del 24 maggio passa attraverso iniziative assai diverse e gode del sostegno di personaggi affatto differenti: se prendiamo, a titolo
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
esemplare, la grottesca proposta di legge che vorrebbe riabilitare i disertori del regio esercito fucilati
nel corso del conflitto, equiparandoli ai caduti nell’adempimento del dovere, vedremo che il partito
della ‘vulgata’ è piuttosto variegato. Si parte dall’Ordinario militare, monsignor Marcianò, al Capo
di Stato Maggiore, Graziano, per arrivare a deputati
e senatori, come i parlamentari del PD Rubinato,
Zanin, Scanu e molti altri. Vagli a spiegare che, in
guerra, se non puoi contare su chi ti sta al fianco, sei
già sconfitto prima di combattere. E che, come benissimo ha scritto sul «Corriere» Angelo Panebianco, mettendo sullo stesso piano chi è scappato e chi
si è fatto ammazzare per difendere la Patria, si legittima lo sfacelo e si rende strutturalmente molto
complicata ogni attività militare. Così, tra un film
che trasferisce Zelig al fronte e un libro che ci racconta la storia dei nonni in guerra, in attesa di un ricettario delle trincee o di una serie televisiva intitolata “Centobombarde”, dobbiamo assistere allo
spettacolo, triste e grottesco insieme, dell’ignoran-
37
za legiferante e dei tavoli di discussione, messi in
piedi dalle pubbliche amministrazioni per il centenario del 1915, in cui di tutto si discute, tranne che
della prima guerra mondiale e cui tutti partecipano,
tranne gli storici. Quelli veri. Chi scrive fa parte del
comitato scientifico per la valorizzazione del patrimonio storico della prima guerra mondiale della
Regione Lombardia: ebbene, finora il comitato si è
riunito una sola volta, giusto per eleggere presidente e vice. Per il resto, silenzio di tomba. In compenso, la gioiosa macchina da guerra del 25 aprile marcia che è una bellezza. Il che è precisamente quello
che ha denunciato sulla stampa nazionale Marcello
Veneziani, che fa parte del comitato presieduto da
Franco Marini, che si occupa degli anniversari della
storia nazionale. In altre parole, questo centenario,
che avrebbe potuto diventare preziosissima occasione di studio e di riflessione, verrà fagocitato da
questa elefantiaca memoria resistenziale. A tutto
vantaggio dei soliti noti e a tutto scapito, come sempre, della nostra identità nazionale.
38
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
I DISERTORI DELLA GRANDE GUERRA E LE FORZE POLITICHE DELL’ANTINAZIONE
Dopo la proposta di riabilitare i disertori, avanzata qualche tempo fa
dal Pd, e dopo le celebrazioni in sordina per il centenario dell’entrata
dell’Italia nella Grande Guerra (che
hanno sfiorato la dichiarazione del
lutto nazionale) è giusto domandarsi perché in Italia una parte delle
forze politiche si siano storicamente
poste su posizioni ‘anti-nazionali’.
Su questo argomento riproponiamo
qui uno stralcio del saggio di Giano
Accame, “Socialismo tricolore”
(Milano, Editoriale Nuova, 1983).
A
lla sensibilità odierna la cultura
che preparò ed impose l’intervento nella prima guerra mondiale appare quasi incomprensibile.
Non ne accetta più non solo il prezzo di
sacrifici umani, ma nemmeno gli obbiettivi. Va di moda, e con espressioni
spesso letterariamente molto raffinate,
persino la rivalutazione dell’impero austro-ungarico. In realtà diversi popoli
che se ne liberarono oggi appaiono
molto meno liberi di prima. Ma soprattutto stenta a capire come gran parte
della nostra cultura abbia deliberatamente preferito conquistare con la
guerra ciò che, a dar retta a Giolitti, forse si sarebbe potuto egualmente ottenere attraverso negoziati. Noi viviamo
nel mito delle mediazioni, che si propongono di aggirare senza costi di sangue le contraddizioni e i drammi della
storia. La propaganda fascista ha svolto con successo nella memoria colletti-
va il compito di una rimozione, assorbendo su di sé il vanto di aver voluto la
guerra vittoriosa. […] Il prolungamento
naturale dell’interventismo nel Fascismo e nella disfatta della seconda
guerra mondiale ha contribuito a rafforzare tra i socialisti la rivendicazione
ancor più convinta del proprio neutralismo. Mentre la comune opposizione
al Fascismo ha consentito di superare
senza un adeguato approfondimento
critico le incrinature aperte con quei
larghi settori progressisti (repubblicani,
radicali, anarcosindacalisti, nazionalliberali, socialisti eterodossi) che erano
stati la vera mente dell’interventismo: il
primo appello per l’intervento era venuto dal repubblicano Arcangelo Ghisleri. Sulla spinta giustificatrice dell’antifascismo in una parte della base socialista si è quindi insinuato un pericoloso processo psicologico, consistente
nel farsi spesso addirittura un vanto di
accuse, come quelle di diserzione, di-
sfattismo, sabotaggio, solo perché
mosse da avversari che la sconfitta del
1945 rendeva ormai superfluo confutare. […] L’irrigidimento nelle posizioni
neutraliste, poi la loro degenerazione
negli eccessi post-bellici del “biennio
rosso” aspramente deplorati da Turati,
venne inoltre esasperato in Italia da
una polemica che, prima della nostra
entrata in guerra e a differenza degli altri paesi intervenuti subito, ebbe quasi
un anno di tempo per crescere in
asprezza e avvelenarsi. Tra l’agosto del
1914 e il maggio del 1915 all’interno
della sinistra italiana i rapporti si caricarono già di quei risentimenti irrazionali che più caratterizzano le liti di famiglia. Non si discuteva di tesi politiche, ma di tradimenti. La cultura italiana, nei suoi ambienti più vivi e d’avanguardia, era in grande maggioranza interventista. Il socialismo, isolato dall’intelligenza, cadde nella psicosi dell’incomprensione. Segnaliamo qui solo
per rapida memoria l’interventismo di
Gaetano Salvemini, che all’inizio del secolo su «Critica Sociale» aveva invece
scritto contro l’irredentismo, denunciandolo come un diversivo reazionario
di cui avrebbero profittato le tendenze
più antidemocratiche e il militarismo.
A sinistra: Giano Accame
(1928-2009). Sopra: Francesco Misiano
(1884-1936), ritratto nel suo studio,
a Mosca. A destra: Arcangelo
Ghisleri (1855-1938), ritratto in una
medaglia commemorativa
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
Nel 1915 arrivò a criticare le guerre del
Risorgimento perché erano costate in
tutto solo poco più di seimila morti e
proclamò entusiasta che «la sua prima
vera, grande prova la nazionalità italianala sta dando nella guerra attuale. Qui
incomincia la nuova storia».
Il giovane Jahier mobilitava di rincalzo alcuni scritti bellicisti di Proudhon
per giustificare, con un testo socialista
alla mano da rivolgere contro i socialisti
pacifisti, la partecipazione all’ecatombe. L’esaltazione della guerra come
esperienza spirituale e ascetica era già
stata celebrata un paio di anni prima su
«La Voce» dal più brillante e moderno dei
parlamentari liberali, Giovanni Amendola: «grazie a Dio, gli uomini continueranno a scannarsi piuttosto che ad incanaglirsi». La letteratura italiana, coerente con se stessa, non ha poi dato una
sola opera di protesta contro la guerra,
che fosse paragonabile al Fuoco di Barbusse o ad All’Ovest niente di nuovo, di
Remarque. Tutt’al più c’è nel suo underground qualche poesiola della scapigliatura ottocentesca e qualche anonima canzone da osteria. Sicché in Italia si
ebbe il paradosso del solo partito socialista europeo che non avesse solidarizzato con la patria in guerra, ma anche di
quello che in questa posizione si trovò
ad avere il minor supporto tra scrittori e
artisti. Indugiando nel ricordo del proprio neutralismo il socialismo italiano si
è quindi aggrappato per anni ad un episodio culturalmente poco consistente e
ad una posizione che, sotto il profilo
dell’impegno politico, dopo essergli costata una grave spaccatura interna con
l’espulsione dell’allora direttore
dell’«Avanti!», fu caratterizzata più da
indecisione, inerzia, ambiguità di compromesso che non dalla larghezza o dal
rigore della sue visioni.
C’è poi da ricordare il caso del disertore Francesco Misiano, che destò
scandalo nel periodo postbellico allorché fu eletto deputato socialista (poi
passato ai comunisti con la
scissione del 1921 al congresso di Livorno). L’elezione di Misiano fu accolta negli ambienti
combattentistici come
una provocazione grave. Da Fiume d’Annunzio
invitò i suoi legionari a dargli la caccia: «Infliggetegli il castigo immediato, a ferro freddo». Pochi
badarono al fatto che la sua candidatura si basava su titoli diversi da quello di
disertore, avendo già alle spalle un cursus honorum di dirigente sindacale e di
partito di una certa rilevanza. Indicativa
della gravità del baratro che si stava
spalancando è la coincidenza degli opposti per cui presso l’elettorato socialista la qualifica di disertore assunse, con
segno positivo, lo stesso significato
emblematico e di sfida che vi attribuiro-
39
no i combattenti. E quindi i fascisti, che
cacciandolo dalla Camera interpretarono, dopo averla ancor più sovraeccitata,
la loro indignazione. Così le posizioni
andavano sempre più divaricandosi,
con una reciproca spinta all’estremismo. Nella mitologia delle sezioni socialiste, Misiano era il prode compagno
che aveva sfidato condanne per non
servire “la patria di Lorsignori”; che per
non dover sparare contro altri proletari
era stato costretto a scappare in Svizzera; che poi dopo la guerra era andato tra
i primi a portare la solidarietà ai Soviet
in Russia; che aveva partecipato ai moti
rivoluzionari in Germania nel 1918-19
finendovi per dieci mesi in prigione.
Quindi a suo modo un combattente non
privo di coraggio e di coerenza
internazionalista. Il premio alla coerenza dei disertori, in un paese dove cinque milioni di
uomini in armi avevano contribuito a vincere la guerra, significava
però confinare il partito in
un ghetto psicologico, tenendolo ancor più lontano di quanto non lo
fosse già nell’anteguerra da una più
matura cultura di governo. Significava
anche accentuare i motivi di divisione
tra le masse, scivolare sempre più nel
gioco al massacro di una contrapposizione non solo tra rossi e neri, ma tra
rossi e tricolori, regalando più di un argomento alla virulenta espansione fascista.
(da Giano Accame, Socialismo tricolore)
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
41
inSEDICESIMO
L E M O S T R E – L’ I N T E RV I S TA D E L M E S E – P O E S I A E A RT E
LA MOSTRA/1
“CREPITANTE E ARRUFFATO”
Serodine nel Ticino
a cura di luca pietro nicoletti
difficile resistere alla
tentazione di guardare la
pittura del Seicento con occhi
moderni, con una sensibilità verso la
sprezzatura pittorica e verso una
sintesi delle cose che non ricorra alle
categoria di segno e materia
congeniali alla pittura d’azione. Ne
offriva un caso lampante, fino a
maggio 2015, la mostra sul Late
Rembrandt tenutasi a Londra e
Amsterdam: ad uno sguardo
ravvicinato, con quella attenzione
empirica e lenticolare con cui i pittori
guardano le opere degli altri, si capiva
È
quanto quella pittura abbia avuto da
insegnare ai pittori moderni. Ci si può
chiedere allora, per esempio, quanto
Francis Bacon si trovi in Rembrandt, o
brani di questo o quel pittore,
invertendo i ruoli di dare e avere,
come se il pittore antico continuasse
a piacere per quanto vi si ritrovi di
moderno: la “fonte” visiva piace
perché fa pensare, con magnifico
anacronismo dello sguardo, ad
esperienze più vicine nel tempo.
Viene da fare riflessioni analoghe
visitando Serodine nel Ticino, ordinata
da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa
alla Pinacoteca Cantonale Giovanni
Züst di Rancate (Mendrisio). La
mostra, occasionata dalla necessità di
dare ricovero temporaneo alla grande
pala dell’Incoronazione della Vergine,
ultimo capolavoro delle breve e
fulminante carriera del pittore
ticinese, raduna nuovamente tutte le
opere sue conservatesi nel cantone
natale, la metà di quelle superstiti
della sua già esigua produzione. Il
catalogo della mostra stesso, che
indugia con un sapiente racconto
visivo in un generoso repertorio di
dettagli, talvolta legittima questa
lettura: basta vedere il particolare del
paesaggio che si apre alle spalle di
San Sebastiano della pala di Ascona,
scelto come immagine guida e
copertina del catalogo insieme al San
Paolo della stessa tela, per apprezzare
un gioco di allusioni che si proietta in
avanti verso una storia fatta di ultimi
naturalisti che fra la Lombardia e il
Ticino (nell’area dell’antica diocesi di
Sopra: Giovanni Serodine, Ritratto del padre,
1628 circa, Collezione Città di Lugano (part.)
A sinistra: Giovanni Serodine, San Pietro in
carcere, Olio su tela, Rancate (Mendrisio),
Pinacoteca Züst
42
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Da sinistra: Giovanni Serodine, Ritratto del padre, Olio su tela, 1628 circa, Collezione Città di Lugano; Giovanni Serodine, Incoronazione della Vergine,
Olio su tela, 1630, Ascona, Chiesa parrocchiale. Nella pagina accanto: Giovanni Serodine, Sacra Famiglia, Olio su tela, Ascona, Patriziato
Como), nel secondo Novecento,
avevano cercato di restituire con
colore e materia gli umori della terra
e i cieli della regione. Doveva avere in
mente qualcosa del genere anche
Giovanni Testori quando, nel 1987,
aveva parlato di una «scrittura quasi
automatica del pennello» per
descrivere la pittura del San Pietro in
carcere, la tela comprata da Giovanni
Züst nel 1948, capolavoro della sua
collezione ed ora dell’omonimo
museo, che Roberto Longhi volle
senza incertezze per l’importante
mostra su Caravaggio a Palazzo Reale
di Milano nel 1951. Era stato proprio
lui, all’inizio degli anni Cinquanta, il
primo ad accorgersi della statura di
questo pittore, presto caduto, dopo la
morte nel 1630, in un oscuro cono
d’ombra a cui aveva contribuito la
pesante ipoteca posta su di lui dal
Baglione, che lo aveva liquidato, nella
più generica antipatia per i
caravaggeschi, come pittore
«fantasioso», «bizzarro», ma
soprattutto «con poco disegno, e con
manco decoro». Eppure, aveva
osservato Longhi, Giovanni Serodine
era stato fra i più intelligenti
interpreti della lezione di Caravaggio,
il maestro mai conosciuto di persona,
di cui apprende la lezione
direttamente dalle opere viste a Roma
-dove presto la famiglia si era
trasferita dal Ticino- tornando alle
origini di un modo di operare che
aveva già trovato una vulgata con
toni retorici e concitati. Serodine,
invece, non aveva ceduto alla routine,
recuperando, con modi rudi e
sbrigativi, decisamente anticanonici,
una compostezza e sobrietà che in
Caravaggio erano state trascurate: «si
avverte», fanno notare Agosti e
Stoppa nel catalogo della mostra, «la
volontà del pittore di non adeguarsi
alla più corriva routine iconografica,
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
sottoposta a salutari scossoni».
Reinvenzioni iconografiche, del resto,
nel suo percorso non mancavano: lo
stesso San Pietro in carcere,
giustamente famoso, non si lascia
ricondurre a nessun episodio noto
della vita del Santo, che qui è
atteggiato come un San Girolamo
nello studio (e spesso lo si è confuso
con un “filosofo”), seppure con una
vena popolana certo non confacente
a un dottore della Chiesa. Eppure quel
quadro davvero, come scrisse Longhi,
è ancora oggi di un romanticismo
esplosivo, «come una capsula di
dinamite gettata in un fornello» in cui
tutto «ruota attorno alla fiamma
oscillante della candela di sego che fa
iride pallida nella testa e nella mano,
a fibre sanguinanti, del Santo, e quasi
scorteccia il tavolo, intride il muro
sudicio, arrovella i fogli del libraccio e
si indugia sul teschio orrendo
trasponendolo in una grotta preziosa,
carica di perle». Non meno
disorientante, da questo punto di
vista, era anche il ritratto del padre
Cristoforo, oggi a Lugano, ritratto di
un uomo anziano, dipinto dal figlio
ventottenne, dopo una serie di lutti
che avevano segnato profondamente
la sfortunata famiglia dei Serodine,
ma che per invenzione, scriveva
Longhi, «davvero avanzava di troppo i
suoi tempi. Un prodigio di verità
schietta, ma vista rapidamente e a
distanza; un’impaginazione anche più
moderna che nei ritratti più spinti di
Frans Hals o del Rembrandt, ancora
da venire del resto». Eppure, i primi a
capire quello che Longhi ha definito
«un fare arsiccio, crepitante,
rabbuffato», sono stati i pittori: non è
di poco conto, per la fortuna di
questo dipinto, ricordare l’amorevole
dedizione con cui un pittore
autenticamente lombardo come
Giancarlo Ossola (1935-2015) aveva
realizzato nel 1987 un d’apres grande
più o meno come l’originale, in un
momento cruciale nella storia
personale della sua pittura. In
SERODINE NEL TICINO
A cura di Giovanni Agosti
e Jacopo Stoppa
RANCATE (MENDRISIO,
SVIZZERA), PINACOTECA
CANTONALE GIOVANNI ZÜST
31 maggio – 4 ottobre 2015
43
Serodine egli aveva trovato una guida,
un punto per ripensare la propria via
verso una pittura che amava definire
“contaminata” dall’Informale.
Rimaneva in parte insoluto, e lo
rimane tuttora, un referto di stile
delle fonti a cui il giovane ticinese
aveva attinto: nella storia degli studi
furono fatti diversi tentativi di
riconoscervi apporti dell’uno o
dell’altro artista, in un giro d’orizzonte
sulla fervente e intricata situazione
della Roma di inizio Seicento. Ma non
va dimenticato, come notano i
curatori della mostra di Rancate, che
«le scelte espressive di un essere
umano, di genio per di più, non sono
una ricetta».
44
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
LA MOSTRA/2
SERIAL/PORTABLE CLASSIC
A Venezia e a Milano
ensare una mostra di arte antica
comporta il ricorso a una
competenza complessa: è
indispensabile misurarsi con la distanza
nel tempo e, soprattutto, con la
distorsione e il riuso che i secoli hanno
fatto della categoria del “Classico”. È
una storia “virtuale”, che richiede il
ricordo a meccanismi concettuali
inaspettatamente affini a quelli messi
in campo da certe esperienze artistiche
del Novecento, o meglio a certi processi
mentali che taluna arte di oggi ha
applicato a commento del presente.
Ci si accorge infatti che la storia del
classico, fuori dai termini di una “storia
dell’arte classica”, è l’esempio più
tangibile di come ogni società abbia
proiettato la propria cultura nel modo
P
di guardare e restituire l’antico.
Raccontare la storia di questa
evoluzione chiama in causa problemi,
temi e approcci diversissimi fra loro, ma
capaci di rendere visibile una storia
avvincente. Ci si deve soprattutto
confrontare costantemente, come
ricorda Salvatore Settis nella breve
guida che accompagna le mostre per la
Fondazione Prada nelle sedi di Venezia
(Portable classic)
c e Milano ((Serial
Serial
classic)
c con lo «smisurato naufragio
dell’arte antica», di cui la storiografia
recente ha fatto un punto di forza del
rovello filologico. Lo sta a indicare con
brutale immediatezza una teca messa
in apertura della mostra milanese, con
frammenti di dita, mani e arti in
bronzo: questo è quanto resta di
integro dell’autentica scultura greca;
tutto il resto che noi ne sappiamo
deriva da copie più o meno fedeli
eseguite per le più disparate
circostanze. La storia del classico,
dunque, è una storia di copie, in cui si
parla di originali perduti di cui si
ricostruisce virtualmente la originaria
conformazione attraverso le tracce che
ci lascia il passato: copie integre,
riconosciute come repliche di prototipi
antichi descritti dalle fonti (ma con che
grado di fedeltà agli originali?), come
nel caso del Discobolo di Mirone, la cui
unica copia non frammentaria fu
rinvenuta solo nel 1720 (oggi a Roma,
Museo Pio-Clementino) e che si
ritrovava anche in fantasiosi
rimaneggiamenti (il torso degli Uffizi
restaurato nelle forme di un
e o frammenti di copie che,
Endimione);
una volta accostati, possono costituire
una scultura verosimilmente coerente,
come nel caso della scultura di atleta
(probabilmente mironiana) ricostruita
Da sinistra: Veduta della mostra “Portable Classic”, co-curata da Salvatore Settis e Davide Gasparotto, Sezione: “In scala: l’Ercole Farnese”,
Fondazione Prada Venezia, 2015, Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada; Veduta della mostra “Serial Classic”, L’Apollo di Kassel,
co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada Milano, 2015, Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada
46
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Dall’alto: Veduta della mostra “Portable Classic”, co-curata da Salvatore Settis e Davide Gasparotto,
Sezione: “Emulazione: imitare l’antico nel Rinascimento”, Fondazione Prada Venezia 2015; Veduta
della mostra “Serial Classic”, L’atleta di Amelung, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola,
Fondazione Prada Milano 2015, entrambe Foto Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione Prada
nel 1927 da Walther Amelung.
Si tratta di un tema di grande
fascino, la cui complessità e difficoltà
narrativa non toglie smalto a
quell’allure che, in tempi di rinato e
ossessivo culto dell’aspetto fisico,
accorda un ampio consenso al mito
della Grecia classica. Salvatore Settis
aveva già messo in luce tutti questi
problemi nel brillante libretto sul Futuro
del classico del 2004 (Einaudi), con un
percorso a ritroso che dall’uso dei
classici nel XXI secolo risaliva a monte
alle origini del fenomeno che le due
mostre rendono visibile con un
percorso espositivo lineare e talvolta
auto-evidente, secondo due direttrici
portanti: la fortuna dei prototipi greci
tramite le loro repliche antiche, con la
conseguente ricaduta sull’uso di queste
c e la fortuna
sculture (Serial classic);
degli stessi in età moderna, passando
per il collezionismo di antichità e,
soprattutto, per il problema delle copie
in piccolo formato rispetto agli originali
(Portable classic).
c È un approccio che
porta molti concetti moderni nello
studio dell’antico: è figlio dell’età
industriale, in fondo, pensare che anche
in antico, prima della catena di
montaggio, potesse esistere una
produzione in serie; ed è una salutare
desacralizzazione, al contempo,
evidenziare che modelli spesso avvolti
di un’aura ineffabile potessero essere,
in origine, complementi da giardino. Un
altro colpo inferto a quell’immagine
aulica e irraggiungibile, memore della
soave grandezza cantata da
Winckelmann, sta nel ricordare che
quella scultura di cui oggi si ama il
diafano candore erano in realtà marmi
vistosamente colorati, con effetti che,
in ricostruzione, abbassano la
percezione alla sensibilità “pop”. Resta
da chiedersi, tuttavia, se davvero la
scultura antica fosse colorata in
maniera così pacchiana come la
propongono le ricostruzioni più
moderne, o se quelle tracce di
pigmento superstiti sugli originali non
fossero una preparazione di base per
una pittura più elaborata, fatta di
velature mimetiche di cui non resta più
nemmeno l’ombra.
Il discorso, però, si complica
ulteriormente quando la replica non è
più una copia fedele dell’originale, ma
diventa un oggetto di scala ridotta
(Portable classic).
c La mostra di Venezia
gioca proprio su questo, e lo rende
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
47
Dall’alto: Veduta della mostra “Portable
Classic”, co-curata da Salvatore Settis e
Davide Gasparotto, Sezione: “Collezionisti:
l’antico in casa”, Fondazione Prada Venezia
2015; Veduta della mostra “Serial Classic”,
Venere accovacciata, co-curata da Salvatore
Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada
Milano 2015, entrambe Foto Attilio
Maranzano, Courtesy Fondazione Prada
immediatamente visibile con un
suggestivo allestimento nel portego di
Ca’ Corner della regina intorno al
gigantesco Ercole Farnese, per decenni
una delle sculture più famose, più
guardate e più studiate dagli artisti,
con una fortuna che si traduce in un
gran numero di copie e calchi, ma
soprattutto repliche di formato
contenuto, qui proposte una di fila
all’altra in scala decrescente: la fama e
la fortuna di un modello, in fondo, si
misura sia sulla quantità sia sulla
tipologia delle repliche; e nel momento
in cui il monumento arriva alla misura
di un gadget, seppur di lusso e di
indiscussa qualità artigianale, ha
raggiunto il massimo della sua possibile
diffusione. Ecco quindi i modelli antichi
migrare dal bronzetto rinascimentale
alle ceramiche di Capodimonte del
Settecento, senza dimenticare il
collezionismo antiquario, che
letteralmente impazziva per le copie in
piccolo formato, piacevoli al tatto e
tutte da godere nel chiuso degli
studioli. La copia, oltretutto, non offre
solo variazioni epidermiche dovute al
materiale, ma porta varianti indicative
delle convenzioni che il copista ha
acquisito durante la sua formazione
accademica. Le repliche dal Laocoonte,
caso quasi da manuale di restauro
virtuale e di opera con una sterminata
fortuna moderna, ne sono un caso
SERIAL CLASSIC
MILANO, FONDAZIONE PRADA
9 maggio-24 agosto 2015
PORTABLE CLASSIC
VENEZIA, FONDAZIONE PRADA
9 maggio-13 settembre 2015
A cura di Salvatore Settis
http://www.fondazioneprada.org
esemplare: viste di tergo più repliche,
infatti, ci si rende conto che sulla
groppa muscolosa del sacerdote
troiano si esercitano le rimodulazioni
dell’anatomia esterna, fra tensione
dello sforzo e ipertrofia delle membra.
Cambiando le epoche cambia il gusto, e
cambia anche il modo di tradurre il
classico e di declinarlo nella vita
quotidiana quando il capolavoro
diventa un centrotavola, il passo
successivo, giunti al Novecento, aprirà
la grande epopea, fuori da qualsiasi
possibile aura, del kitsch.
48
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
LA MOSTRA/3
IL VIAGGIO DI PIETROGRANDE
Al Diocesano di Milano
arebbe semplicistico dividere la
storia di Benedetto
Pietrogrande, scultore veneto di
nascita (classe 1928) e lombardo di
adozione, in opere “sacre” e opere
“profane”: che si tratti di opere
destinate ai luoghi di culto o meno,
infatti, si tratterebbe di una
separazione di massima del suo
catalogo con specifici caratteri
linguistici, ma con un reciproco
scambio dialettico e una sostanziale
unità di ricerca. Dalle grandi narrazioni
religiose all’attenzione verso i dati più
feriali dell’esistenza, infatti, lo sguardo
non muta e l’attenzione si posa con la
stessa garbata e lieve sensibilità sui
temi di storia della chiesa quanto sugli
oggetti del quotidiano. A fare da
elemento di unione, di fondo, è la
stessa intenzione narrativa, che nelle
formelle e nei monumenti destinati a
chiese o istituti religiosi diventa una
necessità evidente, ma che in forma
più velata rimane sottotraccia anche
nel lavoro che Pietrogrande realizza
per se stesso.
S
In entrambi i casi, è indiscutibile
che il suo lavoro si misura in un
dialogo costante con le esperienze
della scultura del suo tempo, con
quanto a Milano e in Italia si stava
sperimentando: non è difficile, infatti,
trovare dei referenti dialettici che
consentano di mettere meglio a fuoco
i termini del suo lavoro e l’apporto
personale a modalità operative ed
espressive adottate da molti artisti
nello stesso giro di anni. Si ritorna
infatti alle poetiche dell’oggetto, del
loro uso e riuso, nel momento in cui
si incontrano le “bisacce” e i “relitti”
degli anni Settanta. C’è un momento
particolare, a Milano, in cui gli scultori
abbandonano stecca e miretta per
costruire immagini più complesse, più
di struttura che di volume,
assemblando oggetti preesistenti al
fine di ottenere un’immagine
articolata e composita. Non si
trattava, tuttavia, di semplice
assemblaggio, perché queste
composizioni ottenute grazie al
prelievo diretto di oggetti del
quotidiano passavano poi attraverso
la più tradizionale fusione a cera
persa, che consentiva una durevolezza
e un’omogeneità a materiali fragili
che altrimenti non avrebbero potuto
sostenere uno stadio di estrema
precarietà. Al tempo stesso, questi
oggetti, che fossero le foglie e i frutti
di Cavaliere, i legni e i giunchi di
Ghinzani e Fabbri (e, per una
brevissima fase, anche di
Sangregorio), i cartoni di Umberto
Milani, o le bisacce di Pietrogrande
appunto, acquistavano lo statuto e la
dignità della scultura proprio in virtù
di questa traduzione in un materiale
nobile della storia della scultura,
dando a questa la possibilità di uno
sviluppo nello spazio secondo
A sinistra: Giovanni XXIII, 1973, bronzo,
(Bozzetto per il monumento di Corsico)
A destra: L'ascolto, 1988, gesso
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
articolazioni altrimenti impensabili. A
monte, come mostra bene il
Viandante di Pietrogrande del 1967,
vero e proprio ripensamento in
scultura del tema della natura morta,
continuava ad agire sottotraccia la
lezione surrealista: proprio a partire
dagli anni Sessanta, anzi, in Italia si
era cominciato a scoprire nella sua
interezza la parabola artistica di
Giacometti. A quel punto, però, si
poneva un bivio: data una certa
modalità operativa, stava allo scultore
decidere se farne un totem o una
stele, oppure mettere insieme questi
elementi per costruire un racconto (o,
meglio ancora, alludere a un possibile
racconto). Pietrogrande sceglie senza
indugio questa seconda opzione, e
diventa più chiaro in un momento
immediatamente successivo con il
tema delle “valigie” e il ciclo dedicato
allo Sfratto: il racconto si compone
attraverso oggetti abbandonati, che
l’artista ora ha ricostruito per via di
modellato o per assemblaggio di
materiali poveri, ma con un’attenzione
che si concentra sul valore plastico
delle cose nella loro frugale, spoglia
sobrietà e nel loro stato di
abbandono. Lo mettono bene in luce i
due saggi che introducono il catalogo
della mostra antologica presso il
Museo Diocesano di Milano
(Scalpendi editore). Nel suo lavoro è
BENEDETTO PIETROGRANDE.
IN VIAGGIO
A cura di Paolo Biscottini
MILANO, MUSEO DIOCESANO
www.museodiocesano.it
29 maggio - 30 agosto 2015
costante, come osserva Elisabetta
Mero, l’intento di «rendere lirici e
monumentali oggetti poveri e di uso
comune»; al contempo, annota Paolo
Biscottini, «anche la scultura più
piccola esprime la grandezza della
speranza e la percezione dell’uomo di
sentirsi umile in mezzo agli altri». In
un certo senso, si è tentati di pensare
che Pietrogrande abbia bloccato nel
bronzo, con il suo racconto, il tema
del provvisorio e del transitorio.
Era giocoforza, a questo punto,
che lo stesso spirito rifluisse nella sua
produzione di tema prettamente
religioso. Qui, la via della modernità
aveva radici più antiche in un modo
di intendere la figura per sintesi di
volumi: le figure diventano forme
49
massicce, chiuse dentro paramenti
monolitici e dai profili evidenti, come
a tradurre in termini narrativi
l’indagine puramente formale e
linguistica postcubista. Ne è una
conseguenza diretta, quindi, che
sarebbe nato un racconto sincopato,
fatto da una costellazione di figure a
rilievo fluttuanti, in aggetto rispetto al
fondo ma pronte ad esserne
nuovamente immerse: Pietrogrande
non scelse né la via del bassorilievo
disegnato di Manzù, né quella più
didascalica, dal modellato un po’
franto ma sostanzialmente
illustrativo, di Manfrini o Minguzzi. E
non rinunciava mai, in qualsiasi
contesto, al tono dimesso, ma soave,
della poesia.
50
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
LA MOSTRA/4
NOMADISMO DI RENZO FERRARI
Antologia a Lugano
a storia artistica di Renzo
Ferrari mostra una traiettoria
irrequieta e ascendente: fino
agli esiti più maturi e
cronologicamente più vicini nel tempo,
egli ha mostrato uno slancio di
rinnovamento linguistico di rara
vitalità. Senza sedersi su formule
fortunate e consolidate, Ferrari ha
mantenuto costante ed accesa una
tensione espressiva ed emotiva
ricettiva, che si riversa sull’osservatore
come una salutare scarica elettrica,
all’urgenza del presente, in un discorso
serrato e senza sbavature che mostra
un direttrice sicura verso un’apoteosi
finale. Ne rende conto con ampiezza la
bellissima retrospettiva curata con
sensibile intelligenza da Antonia Nessi
L
e Cristina Sonderegger e transitata da
Neuchâtel a Lugano. L’ampia ma
curata selezione di opere in mostra ne
restituisce un percorso di grande
levatura, meritevole di ulteriori
riflessioni, cruciale per capire un certo
modo di intendere la pittura, in
Lombardia, nel secondo dopoguerra.
Nativo di Cadro, frazione satellite di
Lugano, la formazione di Ferrari
avviene a Milano, ma con un bagaglio
di cultura nordica inedita per i giovani
che studiavano nel capoluogo
lombardo negli anni Cinquanta:
insolita, in quel contesto, anche la
decisione di diplomarsi con una tesi
dedicata all’opera incisorea di Ensor, a
cui certo non andavano i maggiori
consensi fra i suoi coetanei. Eppure,
già questa scelta dichiarava
l’attrazione del pittore per il grottesco
e per la caricatura, per la
sgrammaticatura voluta ed
espressivamente eloquente, per un
modo tagliente di aggredire la realtà
privo di compiacimenti formali. Da
sempre, infatti, Renzo Ferrari è un
insofferente, e fin dai tempi degli
studi, dice in un’intervista ad Antonia
Nessi in catalogo, era stato alla ricerca
di un «antidoto alla noia
dell’Accademia». Di certo gli stimoli
esterni non mancavano, in una
stagione in cui anche la cultura
italiana stava scoprendo, in rapida
sequenza, Fautrier, Dubuffet, Bacon e
Sutherland, con un’irruenza a cui
bisognava tenere testa per non farsi
travolgere da eccessi di emulazione.
Ferrari è di quelli che hanno saputo
fare un uso intelligente delle loro fonti,
e con una personalità sufficientemente
marcata da farle rifluire in un’inedita
indagine visiva. Fin da subito, per lui
questo significa muoversi in parallelo
nella pittura e nell’arte a stampa,
diventando subito, come osserva
Rainer Michael Mason nel saggio
sull’opera incisa, un «incisore febbrile»
In alto: Renzo Ferrari, Notturno d’Italia,
2001-2002.
A sinistra: Renzo Ferrari, A Occidente, 1990
giochipreziosi.it
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52
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
A sinistra: Renzo Ferrari, Gaio nell’erba,
1975
che preferisce il «fa presto» ai tempi
lunghi e meditativi della calcografia
tradizionale, secondo una lezione che,
a parer suo (ed è il primo a dirlo),
chiama in causa l’esempio di Asger
Jorn. L’immaginario di Ferrari, tuttavia,
ha una dimensione urbana assente
nella generazione precedente: per lui il
quadro non è solo registro di uno
stato emotivo, né isola la figura per
RENZO FERRARI.
VISIONI NOMADI
A cura di Antonia Nessi
e Cristina Sondereggher
LUGANO (SVIZZERA) MUSEO
CANTONALE D’ARTE
www.museo-cantonale-arte.ch
16 maggio – 2 agosto 2015
restituirne il graffiante dramma
esistenziale. All’interno del quadro,
anzi, sembra voler entrare, in un nuovo
horror vacui, tutto il mondo
circostante. Il più delle volte,
specialmente nei tempi più recenti, il
quadro si risolve quindi in superficie: è
un racconto che sta sul piano della
tela, con un affastellamento visionario
di piani narrativi. Giustamente
Véronique Mauron parla in catalogo di
“straripamento spaziale”, di una
giustapposizione di «entità spaziali
autonome», il cui elemento dominante
è la chiusura: Ferrari costruisce
immagini su più livelli, delimita gli
spazi all’interno del campo e li
sovrappone come degli schermi che
proiettano su vicende irrelate e
simultanee, ma concettualmente
associate, tenendo conto, come
osserva sempre la Mauron, della
coesistenza di più fondi che portano a
intendere lo spazio come «minaccia di
fagocitazione». Tutto questo, per
Ferrari, era una diretta conseguenza di
una presa diretta sul presente, un
presente “nomade”, come suggerisce il
titolo della mostra, fatto di migrazioni
e difficili integrazioni culturali:
soltanto un linguaggio aperto a un
nuovo primitivismo, che porta nei
modi dell’informale un tono
psichedelico ed antinaturalistico, fatto
di scritte e associazioni di immagini,
poteva rendere conto di questo
cambiamento. Il mondo globale, con le
sue macchine, è molto più vicino di un
tempo.
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
ella ricorrenza del centenario
della dichiarazione di guerra
dell’Italia all’Austria-Ungheria
si è inaugurata a Cagli (Pu), nel palazzo
Berardi Mochi-Zamperoli, una ricca
mostra documentaria dal titolo “La
Grande guerra. Devastazioni e difesa
del patrimonio artistico” che rimarrà
aperta fino al 19 luglio 2015. A Stefano
Orazi, curatore della mostra e del
pregevole catalogo, abbiamo chiesto:
N
Cosa potrà ammirare il
visitatore?
La mostra, organizzata d’intesa con
la Prefettura di Pesaro e Urbino e con il
Comune di Cagli in occasione del
centenario dell’ingresso dell’Italia nel
primo conflitto mondiale, riguarda un
aspetto sostanzialmente ancora poco
noto. Attraverso 140 immagini
fotografiche dell’epoca provenienti da
varie fonti (dal Reparto fotografico del
Regio Esercito italiano al Reparto
fotocinematrografico dell’Esercito
53
L’INTERVISTA DEL MESE
LA GRANDE GUERRA IN MOSTRA
A Cagli una esposizione sulle devastazioni
belliche e sulla difesa del patrimonio
artistico durante gli anni 1915-1918
Sopra: Gorizia, La chiesa di Sant’Andrea dopo i bombardamenti (1916). In basso a sinistra:
Venezia, Palazzo Ducale, Protezione del camino dell’appartamento del Doge (1916).
Comitato di Pesaro-Urbino
dell’Istituto per la storia
del Risorgimento italiano,
Comune di Cagli
LA GRANDE GUERRA
DEVASTAZIONI E DIFESA DEL
PATRIMONIO ARTISTICO
PALAZZO BERARDI-MOCHIZAMPEROLI
22 maggio - 19 luglio 2015
ORARI
venerdì e sabato: 17-20
domenica 10-13 e 17-20
Ingresso libero
54
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Sopra da sinistra: Possagno (Treviso), La
Gipsoteca del Canova dopo il bombardamento
(1916); Ancona, Protezione dell’Arco di
Traiano (1916). A destra: Venezia, Palazzo
Ducale, Sala del Senato, Lavori di protezione
alle opere d’arte (1916)
Austro-Ungarico) vengono documentati
sia gli effetti devastanti della Prima
guerra mondiale - morti, distruzioni,
case crollate, ponti abbattuti, chiese
sventrate - sia le varie fasi di protezione
delle opere d’arte dai possibili
danneggiamenti del conflitto. Lungo il
percorso espositivo si possono persino
ammirare alcune opere originali di artisti
marchigiani provenienti da collezioni
private: dai disegni di Anselmo Bucci ai
bozzetti di Arturo Gatti, oltre a lettere e
oggetti appartenuti all’eroe cagliese
Franco Michelini-Tocci, insignito della
medaglia d’oro al valor militare.
Questa mostra, tra l’altro
premiata con la Medaglia del
Presidente della Repubblica,
trasmette quel senso di appartenenza
che negli ultimi tempi sembra essere
STEFANO ORAZI
Stefano Orazi, membro
del Consiglio di Presidenza
dell’Istituto per la Storia
del Risorgimento Italiano,
è autore di numerose
monografie, fra le quali:
Angelo Celli (1857-1914);
Paolo Cappa (1888-1956);
«Viva il Re, abbasso il Re».
Vicende giudiziarie di
repubblicani, anarchici
e socialisti (1865-1899)
nonché di molti articoli legati
alla storia politica e sociale
dell’Italia tra ‘800 e ‘900.
andato smarrito. Cosa ne pensa?
Purtroppo l’affievolirsi del
sentimento di identità nazionale è un
tratto negativo della nostra società. È
indubbio infatti che esso, da tanti italiani
avvertito fino al secondo dopoguerra, è
stato fortemente messo in discussione
negli anni ‘70 del secolo scorso
dall’allora cultura dominante della
sinistra di ispirazione marxista. Ora il
ridimensionamento dell’identità
nazionale ha tutt’altra valenza, localistica
e decostruttiva, spesso incapace di
intendere i profondi valori tramandatici
dal Risorgimento e rinsaldati nel corso
della Grande guerra. Una cosa che
francamente non può non dispiacere e
disorientare chi in essi è cresciuto e ha
creduto. Di qui la necessità di riproporre
alle giovani generazioni testimonianze
che possono sembrare lontane, ma che
fanno parte della nostra vicinissima
storia, utili dunque per comprendere in
che misura la vita di oggi sia legata alle
vicende e ai sacrifici di quegli anni,
altrettanto necessarie per recuperare la
nostra memoria in un Paese ancora
privo di una identità collettiva condivisa.
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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POESIA E ARTE
UNA RIFLESSIONE SULL’INEVITABILE
In mostra ad Alessandria
le tele di Alessandro Ceni
ettore bonessio di terzet
olmar. Polittico di Isenheim.
Vendono bellissimi fiori falsi.
Case a graticcio. Come a
inchiodare i muri altrimenti
scapperebbero. Terra di confine. Terra
contesa. Terra nera. Terra rossastra.
Profumo d’aria calda marcita. Pochi
alberi stentano. Lontano la città. La
gente che va, la gente che viene.
Pochi sostano. Pochi pensano, forse
per la calca, il caldo, i souvenirs, i
gadgets, i ricordini, gli spintoni, le
urla, il tanfo, la confusione, i vicoli...
Le strade sono polvere. Tutto è
polvere e roccia. Legno e latta. Lattine
di cola. Puzza di cuoio e piedi, gomma
e cotone. Possiamo essere ovunque.
Adesso siamo qui in queste bianche
sale coi muri spessi, grate alle
finestre. Si espone, ci esponiamo.
Denti e tronchi, mandibole e ossicini.
Se si dipinge/se si poeta non si
può fare a meno di usare materiali
per rendere visibile l’invisibile e
personale idea che l’artistapoeta
possiede. Dobbiamo ancora partire dal
discorso kandiskiano e non perché
Ceni sia sulla sua linea formale,
quanto perché, come in tutti i grandi
C
Alessandro Ceni, Doppio osso, 2001-03,
tecnica mista
artistipoeti, è presente la lotta se non
lo scontro eracliteo tra la sensibilità (il
visibile) e l’intelligenza (l’invisibile).
Picasso sapeva che nel ritratto di
Dora Maar evocante non era la
somiglianza o verosimiglianza (di
penoso ricordo manzoniano) ma
quanto egli sarebbe riuscito a dire a
dare fuori di quello che sentiva
dentro.
L’equilibrio invocato da Nietzsche.
Matisse rafforza questa posizione
quando presenta una figura
all’interno di una stanza dinanzi ad un
balcone che apre all’esterno, l’azzurro
del mare del cielo. de Staël finge di
“rappresentare” la Sicilia o Agrigento,
invero ci offre l’intimo sentimento
unitario – mente e cuore – che si
agita in lui, ci dona il suo più intimo
pensiero e giudizio di una cultura di
una civiltà, attraverso la sineddoche:
Offrire donare è correlativo
soggettivoggettivo del
contemplare; un’opera
d’artepoesia non si può che
contemplare. occorre un duro e
piacevole spaziotempo di
meditazione per capire il
significato centrale che l’autore ha
voluto consegnare al mondo,
frammisto a molteplici altri
significati che accontenteranno gli
ermeneuti. Attenti alla centralità,
al centro, direbbe Panofsky.
Abbiamo detto sineddoche ovvero
simbolo. Qualche critico ha negato
che si possa parlare di simbolismi per
l’opera di Ceni in quanto essa stessa
sarebbe una icona; l’opera di Ceni è
simbolo di se stessa ovvero sarebbe
l’archetipo di una sacralità.
Ma Ceni è un artistapoeta
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Da sinistra: Sedia d'ombra, 1995, tecnica mista; Sgabello, 2000-2002, tecnica mista
intelligente, complesso (non
complicato) e per noi i suoi segni
parola, i suoi coloriparola sono i
simboli dell’unità tra interno ed
esterno, tra quel dentro e fuori di cui
si parlava, unità inevitabile che è
l’epifania dell’artisticopoetico.
È inevitabile che Ceni ponendo i
segni come li pone, definendo e
togliendo prospettive e speranze di
comprensione, mai giocando con la
mano o la mente, obblighi ad un
cammino di trasformazione dell’Ego in
Io, alla sua scarnificazione sino alla
ALESSANDRO CENI.
LA RICERCA DELL’INEVITABILE
ILBOSCOBLU/ILCOBOLD
via Ghilini, 36 – Alessandria
4 giugno - 25 luglio
INGRESSO LIBERO
“berrymaniana crocifissione” perché il
contemplante il meditante trovi
questa unità, piccola voce divina.
Verità: non vero che è un concetto
storico che permette, oltre ogni opera
d’artistapoeta, l’avvicinamento allo
spaziotempo, al divino, all’eterno. Ceni
è all’interno di questa dimensione
spirituale, e accetta, con Auden, con
ancor maggiore rigore e costanza, che
l’artepoesia deve donare piacere,
essere utile al rinnovamento delle
coscienze, al nostro mantenerci liberi
quindi responsabili. Divini, come
eravamo, nello spaziotempo della
Poesia.
58
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Il libro del mese
Affascinanti itinerari
nel pensiero di Tradizione
L’Origine o il sempre possibile
GIOVANNI SESSA
L’
intento che muove le pagine di Itinerari nel pensiero di Tradizione è da individuarsi nel tentativo di trovare
delle uscite di sicurezza che consentano all’uomo contemporaneo di lasciarsi alle spalle il senso
di impotenza e di soggezione psicologica nei confronti della ideocrazia che sostiene gli esiti politico-sociali della Forma-Capitale
contemporanea, quella della governance. I saggi che compongono il volume si rivolgono a quanti
si pongono in posizione critica rispetto allo stato attuale delle cose.
Inutile dire che trattandosi di Itinerari nel pensiero di Tradizione, il
carattere che maggiormente
connotata il testo è quello della
viaticità: ciò evidenzia un’adesione alla constatazione heideggeriana relativa all’impossibilità di
costruire, nella fase attuale, un sistema di pensiero. L’ultimo lascito del pensatore svevo, infatti, è
un invito a produrre: “Itinerari
non opere”.
L’attuale contingenza storica, ha determinato lacerazioni e
una progressiva atomizzazione
nelle stesse aree intellettuali che
si dicono oppositive al sistema.
La malattia che a parole sostengono di aver diagnosticato, inGiovanni Sessa, “Itinerari
nel pensiero di Tradizione.
L’Origine o il sempre
possibile”, Chieti, Solfanelli,
2015, pp. 168, 15 euro
dotta dai germi dell’ economicismo utilitarista e globalizzante,
che avrebbero dovuto tentare di
lenire, in realtà svolge ormai un
ruolo destrutturante al loro interno. Mancano, per dare risposte forti, riferimenti ideali sui
quali costruire un Grande Progetto di cambiamento socio-politico. Mentre liberal-democratici e social-democratici si alternano sterilmente alla guida dei paesi d’Europa, sensibili alle intimazioni della finanza transnazionale, espropriatrice di libertà e tradizioni, i neo-marxisti hanno acquisito un timore atavico a pronunciare la parola magica che, dal
lontano 1848, lanciarono dalle
barricate: Rivoluzione. Assorbiti, non solo politicamente ma esistenzialmente dal sistema, a causa della sparizione della stessa realtà “psicologica” delle classi, i
neo-marxisti restano in attesa del
grande cambiamento prodotto
dal capitalismo cognitivo delle
nuove tecnologie. Per non parlare della crisi della principale autorità spirituale d’Occidente, la
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Ulisse legato all'albero maestro della nave ascolta il canto delle sirene (mosaico antico, IV secolo)
Chiesa cattolica. Negli ultimi anni è venuta meno la speranza di rievangelizzare il continente europeo, è fallito il progetto catecontico di Papa Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI. Gli occidentali
vivono il nichilismo, il relativismo
etico, in termini di definitiva Dimora.
I filosofi francofortesi, individuando in Odisseo-Ulisse e nel
suo incontro con le Sirene, il paradigma della cultura occidentale: avevano colto nel segno. Nel
mondo dove Dio è morto e ogni
merce è fruibile anche dalle masse
dei diseredati, ogni desiderio potrebbe venir soddisfatto. Così
non è, perché l’ottica produttivistica, domina dall’interno il Capitalista-Odisseo, il quale pur avendo la possibilità di corrispondere
al richiamo ludico del canto delle
Sirene, si fa legare all’albero maestro della nave dopo aver, con la
cera, tappato le orecchie ai Marinai-Operai. La dimensione pulsionale-creativa, rituale e libera, è
stata estromessa dal mondo moderno e l’episodio dell’Odissea
ora richiamato, lo esemplifica.
Sappia il lettore, nonostante
ciò, che in Itinerari nel pensiero di
Tradizione egli non troverà alcun
richiamo alla rivoluzione sessuale, alcuna valorizzazione del primitivismo di matrice freudiana.
Chi scrive è ben cosciente dei limiti che la critica sociale francofortese ha in sé. Per cui il riferimento ad un uomo non dimidiato
ed ad un mondo Altro ed Alto,
muove in noi dal pensiero di Tradizione. Generalmente, si tende ad
usare l’espressione “tradizionalismo integrale” per designare quegli autori che nel Novecento si sono fatti latori della prospettiva
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
Sopra da sinistra: Cesare Viazzi
(1857-1943), Le sirene in attesa di
Ulisse (1901), collezione privata;
Theodor van Thulden (1606-1669),
Ulisse affronta le Sirene e passa lo
stretto di Scilla e Cariddi, da “Les
Travaux d’Ulysse”, 1633.
A sinistra: busti ed erme di filosofi
classici, esposti in una sala della
Gliptoteca di Monaco di Baviera
che qui, in alcuni suoi aspetti, indaghiamo. Autori inattuali e critici nei confronti di ogni tratto della
realtà presente, da quello antropologico, all’esistenziale, al politico. La loro alternativa è totalizzante. La definizione pensiero di
Tradizione, che noi utilizziamo,
rimarca come tale corrente speculativa si sia sviluppata in un colloquio essenziale con la filosofia
ottocentesca e novecentesca. Ciò
consente di presentare i valori di
Tradizione al di fuori di qualsiasi
esegesi letteralista, dogmatica ed
escludente. Anzi, i cinque saggi
che compongono questa raccolta
mirano a leggere la Tradizione in
termini dinamici, fondandola su
una concezione della temporalità
non semplicemente ciclica, ma
sferica. Solo tale visione consente
di liberare l’idea di Tradizione da
quella di Passato. La Tradizione,
in quanto Origine, non è semplicemente posta alle nostre spalle.
In tale prospettiva di collocazione
retro-attiva, in qualche modo, decade l’aspetto essenziale dell’Arché. Essa non è l’Inizio, ciò che era
prima, ma qualcosa che continua a
vigere, ad essere presente, testimoniato nella storia. Come il lettore
avrà modo di constatare, niente è
più lontano da questa esegesi del
dato tradizionale, delle posizioni
meramente contemplative, fideistiche e ripetitive di certo tradizionalismo di matrice guénoniana o cattolica. La Tradizione in
quanto Origine è, per noi, come
recita il sottotitolo del volume, il
sempre possibile, tesi che permette
di porsi oltre qualsiasi deriva teorica necessitarista e incapacitante.
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la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Bibliofilia
Una straordinaria edizione
bresciana ritrovata
Falabacchio e Chattabrigha giganti, alias Morgante XXIV
GIANCARLO PETRELLA
A
nche i libri rischiano di
estinguersi. L’attenzione
loro riservata dalla censura o, al contrario, l’eccessivo
successo, con conseguente avida
lettura e passaggi di mano in mano, possono provocare il lento e
inesorabile consumo di tutte le
copie stampate. Così è accaduto
per un buon numero di edizioni
del nostro Rinascimento. Libri
che sappiamo furono effettivamente stampati, commercializzati, infine letti, ma di cui oggi
non sopravvive che una citazione
in qualche repertorio bibliografico. È il caso, per fare uno degli
esempi più eclatanti, dell’Orlando innamorato di Boiardo, la cui
prima edizione completa stampata a Scandiano nel 1495 è andata completamente distrutta.
Non è però infrequente che i liNella pagina accanto: Le battaglie
che fece la regina Antea, Brescia,
Damiano Turlini, 1549, frontespizio.
Sopra: Parmigianino (1503-1540),
Antea (1530 ca.), Napoli, Museo
di Capodimonte
bri, come i fiumi della tradizione
carsica, tornino a riaffiorare in
superficie e il mercato antiquario
restituisca l’unica copia di
un’edizione che si credeva altrimenti perduta. Se ne è offerto un
clamoroso esempio nel fascicolo
precedente di questa rivista con
l’incunabolo bresciano stampato
da Battista Farfengo La venuta del
re di Franza. Mentre quel fascicolo andava in stampa, per una
curiosa coincidenza, ho ricevuto
l’informazione che era appena
riaffiorata un’altra rarissima edizione bresciana illustrata di argomento cavalleresco (di quelle che
tanto piacquero a bibliofili del
calibro di Giuseppe Cavalieri,
Essling, Fairfax Murray, Giannalisa Feltrinelli, per fare qualche
nome) di cui già mi ero occupato
anni addietro. Così il lettore, anche su questo fascicolo, avrà a
che fare con un libro che si credeva perduto e di cui, lo dico subito,
non si conservano ufficialmente
copie in biblioteche pubbliche
italiane né tantomeno straniere.
L’oggetto dei desideri è un poemetto cavalleresco stampato a
Brescia dall’officina Turlini nel
1549, dal titolo Le battaglie che fece la regina Antea. Sembravano
essersene perse le tracce dopo la
precoce registrazione fattane dal
bibliofilo Gaetano Melzi, tramite una copia in suo possesso, a
inizio Ottocento.1 Dalla Bibliografia cavalleresca melziana la notizia era discesa, un secolo dopo,
al repertorio di libri illustrati
compilato da Max Sander che,
pur avvertendo della presenza
64
dell’edizione in due distinti cataloghi antiquari primo novecenteschi, a quell’altezza non era però
già più in grado di segnalare alcun
esemplare in biblioteche pubbliche o collezioni private.2 Ancora
alla duplice citazione bibliografica Melzi-Sander (che si riduce
poi, come detto, al solo Melzi) si
sono attenuti, in tempi più recenti, Ennio Sandal nel repertorio
delle edizioni bresciane del Cinquecento e Neil Harris, il quale
colloca la stampa bresciana a conclusione dell’elenco cronologico
di edizioni quattro-cinquecentesche de La regina Antea.3 Sul versante delle bibliografie on line,
Edit16, cui l’edizione è nota solo
tramite i repertori bibliografici
citati, non censisce alcun esemplare nelle biblioteche che aderiscono al progetto.4 L’edizione, ne
converrete, è dunque, come si di-
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
ce in questi casi, rarissima. All’improvviso però, l’inaspettata
comparsa sul mercato antiquario
francese e italiano addirittura di
due copie distinte.5 La prima, che
ha fatto una fugace comparsa nel
catalogo Figure rinascimentali del
Comico della Libreria Chartaphilus del 2007, presentava modesta
legatura novecentesca in mezza
pelle marrone e cartoncino, probabilmente non italiana e peraltro incompatibile col più raffinato gusto collezionistico otto-novecentesco. La seconda copia
transitata sul mercato francese
(dapprima nel catalogo 91 di
Pierre Berès Poésie ancienne. Suite,
Paris, 2000, n. 18, poi, dopo l’incanto della collezione Berès, in
quello Cent livres illustrés. Art &
technique della Libreria Paul Jammes), ostentava invece legatura
ottocentesca in pergamena avo-
rio con tassello in marocchino
avana al dorso e un pedigree di tutto rispetto che rimanda esplicitamente alla collezione del pittore
Charles Faifarx Murray e all’antiquario Giuseppe Martini. Proprio questa copia, nella quale va
verisimilmente identificato, a distanza di quasi due secoli, l’esemplare già di Gaetano Melzi, è infine ricomparsa (ma per poco, prima di far perdere ancora le tracce
nei rivoli del collezionismo privato) presso la rinomata Libreria Il
Polifilo di Milano. Morale: l’edizione non è affatto andata distrutta. Ne esistono ancora due
esemplari (i superstiti di una tiratura approssimativa di almeno alcune centinaia di copie), ma ancora una volta il collezionismo
privato è stato più tempestivo.
Dalle vicende collezionistiche passiamo ora alla questione
editoriale e bibliografica. Ciò costringe ad arretrare fino al primo
secolo della stampa tipografica.
La tradizione rimonta infatti a
un’edizione fiorentina sine notis e
priva di illustrazioni, ma ancora
incunabola, che proponeva all’ignaro lettore l’intero canto
XXIV del Morgante occultato
sotto il titolo, allettante come
quello di un cartoon moderno, di
Falabacchio e Chattabrigha giganti
(il nome della regina Antea compariva invece all’explicit «Finita e
la guerra di parigi fatta da Antea
Reina di babbillona»): [Firenze,
Lorenzo Morgiani e Johannes
Petri, c. 1495], in 4°, got., cc. [12],
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
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A destra: Le battaglie che fece la regina
Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549,
cc. A4v-B1r. Nella pagina accanto:
Agnolo Bronzino (1503-1572), Doppio
ritratto di Braccio di Bartolo,
soprannominato Morgante (1553),
celebre nano di corte di Cosimo I de’
Medici (Firenze, Galleria degli Uffizi).
L’ironico soprannome si ispirava al
gigante Morgante
fasc. a8 b4, testo su due colonne.6
Ne sopravvivono due soli esemplari, rispettivamente presso la
British Library e la Marciana di
Venezia.
Il nuovo poemetto di ascendenza pulciana così confezionato
pare incontrasse il gusto dei lettori, come attestano sia il manipolo di edizioni cinquecentesche
discese dalla supposta princeps
fiorentina, sia alcune tarde edizioni secentesche che bene testimoniano di una fortuna a lungo
termine: l’ennesimo longseller di
un Rinascimento editoriale di secondo piano. Melzi registra
un’edizione piacentina del 1599
per i tipi del modesto libraio-tipografo Giovanni Bazachi e due
edizioni del XVII secolo, la seconda delle quali Treviso, Girolamo Righettini, 1672.7 Fu la bottega veneziana dei Sessa, almeno
stante alle edizioni sopravvissute,
a replicare lontano da Firenze il
recente prodotto dell’editoria
fiorentina. A una precoce edizione del 1503 a firma di Giovan
Battista Sessa, malauguratamen-
te scomparsa e a noi nota solo dall’elenco di romanzi cavallereschi
stilato da Marin Sanudo,8 risponde un’edizione sine anno del figlio
Melchiorre che sopravvive nell’unicum della Fondazione Giorgio Cini di Venezia già appartenuto al principe Essling (in 4°,
rom., cc. [12], fasc. a-c4, testo su
due coll., silografie alle cc. a1r,
a2r, 18 piccole vignette a testo).9
L’edizione sottoscritta ma non
datata da Melchiorre Sessa (probabile ristampa dell’edizione paterna) si uniforma alle scelte bibliologiche fiorentine (formato
in quarto, testo disposto su due
colonne per un totale di 12 carte),
ma preferisce all’attardato carattere gotico impiegato dal Petri un
più attuale romano e soprattutto
introduce ex novo l’elemento figurativo che doveva risultare
probabilmente decisivo ai fini
commerciali. Se ha ragione Alice
nel lamentare lo scarso appeal di
un libro senza figure, come allet-
tare dunque il pubblico? Al frontespizio, au dessous du titre, fu introdotta una silografia raffigurante una donna guerriera a cavallo con scimitarra, nella quale il
lettore era chiamato a riconoscere l’eroina eponima, che atterra
un avversario di sesso maschile.
Al recto della seconda carta ricorse a un’illustrazione più generica
nel contenuto, che raffigura, in
primo piano, un drappello di cavalieri e sullo sfondo un accampamento militare e una scena di assedio a una città fortificata identificabile, tramite un cartiglio, in
Roma. A testo furono infine impiegate diciotto piccole vignette
(alcune delle quali però ripetute)
della giustezza di un’ottava assai
grossolane, riconducibili a
un’unica serie di argomento bellico-cavalleresco. L’assenza di
data al colophon, considerata la
lunga attività di Melchiorre nella
duplice veste di editore e tipografo, protrattasi in prima persona
66
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
dal 1506 almeno sino alla metà
degli anni Cinquanta, impedisce
di datare con sicurezza l’edizione. Potrebbero perciò essere persino anteriori a questa le uniche
altre due stampe veneziane note,
ossia l’edizione di Giovanni Tacuino datata 1518 segnalata da
Carlo Enrico Rava tramite un
esemplare, ora irreperibile, transitato sul mercato antiquario negli anni Venti del secolo scorso10 e
quella sottoscritta da Bernardino
Viani nel 1526 giuntaci nell’unicum della Universitätsbibliothek
di Monaco.11
Entrambe confermano la
necessità intravista da Giovanni
Battista Sessa di intercalare alle
circa 170 ottave una decina di piccole vignette che alleggerissero la
lettura, oltre a una vignetta al
frontespizio che introducesse
all’argomento invogliandone
l’acquisto. Il Viani, forse perché
sprovvistone e nell’impossibilità
di procurarsela, sostituì al frontespizio la silografia raffigurante la
regina guerriera con una silografia di seconda mano, vagamente
allusiva alla protagonista del poemetto, raffigurante una donna
NOTE
1
GAETANO MELZI, Bibliografia dei romanzi cavallereschi italiani, Milano, P. A.
Tosi, 1838, n° 515; GAETANO MELZI – PAOLO A.
TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria
in versi e in prosa italiani, Milano, G. Daelli,
1865, p. 19. Sulla collezione di Gaetano
Melzi si veda FLAVIA CRISTIANO, La Biblioteca
seduta con un’asta in pugno. Un
cartiglio al margine superiore, all’interno del quale è inserita a caratteri mobili l’indicazione «Anthea regina», attesta al contempo
la volontà di indirizzare il lettore
alla corretta comprensione di
un’illustrazione palesemente di
riuso. Non così invece alla carta
successiva (c. A2r), dove, in corrispondenza dell’incipit «Incomincia el libro della regina Anthea», è
introdotta una vignetta con monogramma ‘F’ raffigurante un re
assiso in trono sotto una tenda
aperta con un cane ai piedi, circondato da armigeri e cortigiani,
uno dei quali inginocchiato. A testo il Viani introdusse il consueto
repertorio di modeste vignette di
soggetto cavalleresco (talune ripetute), ad eccezione di una silografia di maggiori dimensioni e
più delicata fattura a c. A4v raffigurante un re che stringe la mano
a un cavaliere, accompagnata dalla didascalia esplicativa a caratteri
mobili «Carlo Magno di Pipino
Imperetore».
Nel frattempo anche a Firenze gli editori non avevano rinunciato a riproporre l’estratto
pulciano nei loro cataloghi. A
non troppa distanza dalla princeps
incunabola il poemetto è riproposto, ancora con il titolo originario di Falabacchio e Chattabrigha giganti, da una stampa primo
cinquecentesca assegnabile a
Piero Pacini per la presenza della
sua marca tipografica all’ultima
carta.12 L’unica copia a noi nota,
ora alla Colombina di Siviglia, fu
acquistata a Roma nel settembre
1515 da Hernán Colón (14881539) sul consueto mercato dei
remainders.13 L’edizione confezionata dal Pacini si distingue per
il delicato corredo iconografico,
composto da 12 silografie che già
aveva in bottega e proficuamente
impiegato in coeve edizioni di argomento simile, fra cui, ovviamente, la raffinata edizione del
Morgante maggiore sottoscritta il
22 gennaio 1501. Al capitolo
XXIV del Morgante 1501 si riscontrano infatti tutte le silografie poi impiegate anche nel poemetto di ascendenza pulciana.
L’acquirente dell’opuscoletto
smerciato col titolo di Falabacchio
e Chattabrigha, forse a sua insaputa, si trovava perciò a comprare
di Gaetano Melzi, ovvero una storia esemplare, «Bibliotheca», II, 2003, 1, pp. 57-83.
2
MAX SANDER, Le livre à figures italien
depuis 1467 jusqu’à 1530, Milan, Hoepli,
1942, n° 418.
3
ENNIO SANDAL, Dal libro antico al libro
moderno. Premesse e materiali per una indagine, Brescia 1472-1550: una verifica
esemplare, in I primordi della stampa a
Brescia 1472-1511. Atti del Convegno internazionale (Brescia, 6-8 giugno 1984), a
cura di Ennio Sandal, Padova, Antenore,
1986, pp. 227-307: 289 n° 353; ENNIO SANDAL, La stampa a Brescia nel Cinquecento.
Notizie storiche e annali tipografici:
1501-1553, Baden-Baden, V. Koerner,
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
67
Sopra da sinistra: Le battaglie che fece la regina Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549, c. A2r; Libro chiamato Fortunato
figliuolo de Passamonte, Brescia, D. Turlini, 1549, frontespizio
un capitolo del precedente Morgante istoriato che avrebbe potuto anche già possedere. A meno
che non valga invece il contrario,
ossia che il prodotto così confezionato, per così dire estratto dall’opera maggiore, fosse rivolto a
1999, n° 269; NEIL HARRIS, Marin Sanudo,
forerunner of Melzi. Parte III, «La Bibliofilia», XCVI, 1994, pp. 15-42: 30 n° B-182.
4
EDIT16 on line CNCE 57667.
5
Figure rinascimentali del Comico,
Milano, Libreria Chartaphilus, 2007, n° 29;
Cent livres illustrés. Art & technique, Paris,
Librairie Paul Jammes, 2009, n° 16.
coloro che non potevano affrontare la spesa per l’intero Morgante
1501.
Ma veniamo ora infine alla
stampa sottoscritta da Damiano
Turlini il 2 aprile 1549 di recente
riapparsa. L’esile stampa colpisce
6
G. MELZI, Bibliografia dei romanzi cavallereschi, n° 514; G. MELZI – P. A. TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria, p. 19;
SANDER n° 417; DENNIS E. RHODES, Gli annali
tipografici fiorentini del XV secolo, Firenze, L. S. Olschki, 1988, n° 287 registra l’edizione sotto il titolo Falabacchio e Chattabriga attribuendola al solo Johannes Petri
innanzitutto per la scelta di impiegare al frontespizio una cornice architettonica che mescola reminiscenze classiche a elementi
di gusto già manieristico. Pur
conforme alla tipologia che si diffonde nel Cinquecento, la solu-
e datandola c. 1498; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, n° B176 registra due soli esemplari presso la
British Library e la Biblioteca Nazionale
Marciana di Venezia; IISTC on line registra
erroneamente come due edizioni distinte
gli esemplari della Marciana e della British
Library (IISTC ip01119500 registra con
68
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
zione, che pare echeggiare quella
dei monumenti funebri con due
soldati di guardia che vegliano sul
defunto, è particolarissima per
l’esuberanza dei serti di frutta che
dipartono dalle cornucopie rette
da due soldati in corazza all’antica ed elmo (uno degli scudi ha la
protome di Medusa) antistanti il
prospetto architettonico. Il motivo ornamentale classico della
cornucopia è qui ripreso probabilmente con allusione all’abbondanza e ricchezza di Brescia.
Infatti, in bas de page, al posto dello stemma, una corona d’alloro
con bacche racchiude una divinità pagana reclinata con vessillo e
armature e il cartiglio inciso ‘Brixie’. A sua volta il titolo, composto a caratteri tipografici all’interno della cornice, sovrasta una
piccola vignetta raffigurante una
giostra fra due cavalieri, condotta
con lieve chiaroscuro, che sarà
impiegata anche a testo a c. C1r.
Damiano Turlini adotterà la stessa vignetta nel 1566 al frontespizio della fortunata Cronichetta
Gustave Dore, Bradamante e la maga
nella quale si narra il principio di
questa città di Brescia di Bernardino Vallabio.14 L’uso di questa cornice lascia sorpresi perché i Turlini erano soliti ricorrere a soluzioni simili per edizioni di prestigio
stampate su commissione, come
ad esempio i testi statutari per la
comunità bresciana, piuttosto
che per modeste edizioni di destinazione popolare. Una cornice
meno complessa con mascheroni, festoni floreali e stemma di
Brescia in bas de page contraddistingue ad esempio la sontuosa
edizione in folio degli Statuta civitatis Brixiae del 1557 e i successivi
Index decisionum ex omnibus statutis magnificae civitatis Brixiae
(1561) e Capitoli per la regulation
delle cause (1567), per essere poi
riproposta dagli eredi di Damiano Turlini ancora nella tarda edizione degli Statuta del 1621. Viceversa, è l’impostazione grafica
della carta A2r a richiamare la mise en page abituale nelle pubblicazioni di largo consumo: incipit
con titolo ripetuto (INCOMINCIA EL LIBRO || Della Regina
Anthea), seguito da una vignetta
raffigurante un drappello di armigeri davanti a una città turrita
(la stessa peraltro che campeggia
anche alla prima carta del Libro
chiamato Falconetto e del Libro
chiamato Fortunato figliuolo de
Passamonte, rispettivamente Brescia, D. Turlini, 1546 e 1549) inquadrata da quattro frammenti di
l’intestazione Luigi Pulci e titolo Falabacchio e Cattabriga giganti solo l’esemplare
della British Library e propone [Firenze,
Johannes Petri, c. 1497]; IISTC
ig00539600 registra invece sotto il titolo
Guerra di Parigi fatta da Antea Regina di
Babilonia l’esemplare della Marciana di
Venezia coi seguenti dati editoriali [Firenze, Lorenzo Morgiani e Johannes Petri, c.
1492]).
7
G. MELZI, Bibliografia, nn° 516-518;
G. MELZI – P. A. TOSI, Bibliografia dei romanzi di cavalleria, p. 19.
8
NEIL HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte II, «La Bibliofilia», XCV,
1993, pp. 101-145: 135; N. HARRIS, Marin
Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p.
30 n° B-177.
9
VICTOR MASSÉNA, PRINCE D’ESSLING, Les
livres à figures vénitiens de la fin du XVe
siècle et du commencement du XVIe, Firenze-Paris, Olschki-Leclerc, 1907-1914,
n° 2320; SANDER n° 416 ipotizza [15101525]; TAMMARO DE MARINIS, Il castello di
Monselice. Raccolta degli antichi libri veneziani figurati, Verona, Officina Bodoni,
1941, pp. 13-14 ipotizza [c. 1510]; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi.
Parte III, p. 30 n° B-178; EDIT16 B805; La
vita nei libri. Edizioni illustrate a stampa
del Quattro e Cinquecento dalla Fondazione Giorgio Cini, Mariano del Friuli, Ed.
Laguna, 2003, pp. 259-260 data [c. 1510].
Melissa, incisione tratta dall'Orlando
Furioso
luglio / agosto 2015 – la Biblioteca di via Senato Milano
cornice accostati e fregi tipografici come riempitivo, che introduce le prime quattro ottave del
cantare disposte su due colonne.
A testo Damiano Turlini adotta
invece una soluzione di risparmio, optando ancora una volta
per l’unica serie di piccole vignette di soggetto cavalleresco che
sembra possedesse (una delle
quali qui ripetuta addirittura cinque volte), come suggerisce l’impiego anche nei coevi Falconetto e
Fortunato. Unica eccezione, che
non trova conferma nell’analisi
degli altri titoli cavallereschi licenziati dall’officina Turlini, l’introduzione in bas de page a c. A4v
di una vignetta silografica a due
scomparti con didascalia «Carlo
magno di Pipino imperatore»
che raffigura l’omaggio di alcuni
doni a un re.
Perché Damiano Turlini
pubblica questo titolo nel 1549?
Se ci guardiamo attorno, editorialmente parlando, scopriamo
che la scelta del Turlini di ripubblicare nel 1549 Le battaglie che
10
CARLO E. RAVA, Supplement a Max
Sander Le livre a figures italien de la Renaissance, Milano, U. Hoepli, 1969, n°
416a; N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-180.
11
N. HARRIS, Marin Sanudo, forerunner
of Melzi. Parte III, p. 30 n° B-181.
12
SANDER n° 2634 ipotizza [Firenze,
Piero Pacini, ante 1515]; N. HARRIS, Marin
Sanudo, forerunner of Melzi. Parte III, p.
30 n° B-179 registra un unico esemplare
Charles Faifarx Murray (1849-1919),
Autoritratto, collezione privata
fece la Regina Anthea non è affatto
isolata, ma si inserisce in un catalogo editoriale, all’epoca già
piuttosto nutrito, che proprio in
quegli anni sembra andasse specializzandosi nell’offerta di titoli
cavallereschi. Nel marzo di
quello stesso 1549 dai suoi torchi uscì infatti il Libro chiamato
Fortunato figliuolo de Passamonte
di cui sopravvive una copia presso la Trivulziana.15 Il mese suc-
presso la Colombina di Siviglia.
13
Siviglia, Biblioteca Colombina, 6-328 (14): quattordicesimo titolo di una miscellanea rilegata in pergamena con tassello al dorso con titolo «Poemata Toscana
Diversorum Tom. 6». Nota d’acquisto di
Colón al verso dell’ultima carta: «Costó en
Roma 4 quatrines por sete. de 1515. Está
registrado 2212» (KLAUS WAGNER – MANUEL
CARRERA, Catalogo dei libri a stampa in lingua italiana della Biblioteca Colombina di
69
cessivo sottoscrisse l’esile poemetto Bradiamonte sorella di Rinaldo (unicum presso la Biblioteca Statale di Cremona).16 Ancora
nel 1549 mise sul mercato, forse
non solo cittadino, una terza edizioncina di soggetto non cavalleresco, ma destinata al medesimo pubblico amante delle piacevoli letture: il Dialogo de Salomone e Marcolpho.17 Si intravede, in
filigrana, una richiesta forte di
simili letture e titoli, per un pubblico forse non solo locale. È
proprio in questo clima di apparente revival cavalleresco che
Damiano Turlini, l’anno precedente, nel 1548, aveva stampato
il resoconto di una giostra svoltasi in città il 20 maggio: Gian
Giacomo Segalino, Breve trattato dell’ordine e successo della giostra
fatta nella città di Brescia nel quale
si descriveno i motti e livree così de’
cavalieri, come di altri gentilhuomini che hebbero qualche carico in
quella, con molte altre cose degne e
diletteuoli, Brescia, [Damiano
Turlini], 1548.18
Siviglia, Modena, Panini, 1991, n° 299 assegna erroneamente l’edizione [Firenze,
Johannes Petri, c. 1498]).
14
EDIT16 on line CNCE 62270.
15
Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv.
H 1759 (EDIT16 on line CNCE 57791).
16
EDIT16 on line CNCE 7414.
17
EDIT16 on line CNCE 58346.
18
EDIT16 on line CNCE 46262.
70
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
BvS: il ristoro del buon lettore
L’Antica Corona
di un’Altezza Reale
Piatti di tradizione principesca a Cervere
GIANLUCA MONTINARO
M
uovendosi da una regione all’altra del piccolo granducato di
Grimmburg, per «esercitare la
sua alta missione», il giovane principe Klaus Heinrich (protagonista
del romanzo – datato 1909 – di
Thomas Mann, Altezza Reale,
opera che la Biblioteca di via Senato possiede nella prima edizione
italiana, stampata da Mursia nel
1966) vi avrebbe certo fatto sosta.
Lui, secondogenito destinato a risollevare le sorti del minuscolo
Stato, fratello del «ritroso e altero» granduca Albrecht II, vi
avrebbe di sicuro portato, «accompagnato da Percy, il festoso
collie, e dalla contessa Lowenjoul», la dolce Imma Spoelmann.
Facendone meta di una cavalcata,
sarebbero giunti a Cervere: «Ora
prendiamo alloggio - avrebbe detto Imma - Nevvero, contessa, che
in gita bisogna prendere alloggio?
A terra, principe, ho sete». E lì
avrebbero preso alloggio, per un
sapiente rinfresco, all’Antica Corona Reale, ricevuti da Renzo e
Gian Piero Vivalda. Un locale,
l’Antica Corona Reale, che racconta, nei suoi piatti, la storia del
Piemonte. Nelle sue piccole e
Ristorante Antica
Corona Reale
Via Fossano, 13 – Cervere (Cn)
Tel. 0172.474132
confortevoli sale, arredate con
mobili antichi e preziosi tappeti,
Klaus Heinrich e Imma, al riparo
da occhi indiscreti, avrebbero
certo chiesto, dall’ampio menu, la
tartare di filetto di vitella con porri di Cervere e l’anguilla in carpione all’Arneis e spiedino alla brace.
Mentre Renzo si sarebbe certo affaccendato a comporre la sua
complessa e straordinaria finanziera in doppia cottura (un piatto
che da solo vale «l’aspra cavalcata
in mezzo a pascoli e a campi lavorati»), Gian Piero avrebbe proposto, all’augusto ospite e alla sua
compagnia, i gobbi della tradizione ai tre arrosti, serviti comme il
faut: al tovagliolo. Solo così si
possono davvero gustare la sfoglia fine della pasta e il profumato
e ricco ripieno.
Cosa avrebbero bevuto il
giovane principe e la ricca ereditiera americana? Forse un Riesling mosellano. Forse uno spätlese di Joh. Jos. Prüm. Forse un
Graacher Himmelreich… o forse un buon Barolo: con i suoi
aromi conturbanti, il tannino
gentile e ben integrato, la mineralità lunga e bilanciata. Renzo e
Gian Pietro, con lo stile che li
contraddistingue, «sarebbero
rimasti lì, per un momento, in
compagnia dei nobili ospiti, intrattenendoli con qualche parola». Poi, «garbatamente, si sarebbero ritirati», lasciando spazio alle pietanze e al «fitto conversario». Sarebbero tornati al
momento del dessert. Come non
assaggiare il flan di gianduja su
salsa al pistacchio di Bronte e
croccante alla nocciola? O la cupoletta di melagrana e pan di
spezie su vin brulé? Mentre fuori, «un sole mite illumina i prati
umidi», l’allegro gruppo avrebbe quindi ripreso la strada di casa, in sella ai loro cavalli dal lucido manto, preceduti, quasi in veste d’araldo, dall’esultante Percy. Felici della gita all’Antica
Corona Reale.
72
HANNO
COLLABORATO
A QUESTO
NUMERO
la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2015
ETTORE BONESSIO DI
TERZET
Ettore Bonessio di
Terzet è titolare della
Cattedra di Estetica presso l’Università degli Studi
di Genova, Scuola di
Scienze Sociali. Detiene
lo stesso insegnamento
anche presso la Facoltà
di Architettura. Artista e
saggista ha al suo attivo
numerose mostre e molteplici pubblicazioni, fra
cui: L’esperienza dell’arte; L’arte come forma di
sapere; Il principio della
parola; Il rasoio di Ockham; Del Frammento
Organico. Per una teoria
del discorso; Lo splendore del vuoto; I pesci gialli.
Dal 1981 dirige «Il
Cobold», rivista di estetica e spazi creativi, che dal
2009 è anche on line.
ANTONIO
CASTRONUOVO
Antonio Castronuovo (1954), bibliofilo e
saggista, dirige varie collane per la Editrice la
Mandragora di Imola e
collabora con parecchie
riviste.
Tra i suoi titoli Libri
da ridere: la vita e i libri di
Angelo Fortunato Formíggini (2005), Macchine fantastiche (2007),
Ladro di biciclette: cent’anni di Alfred Jarry
(2008), Alfabeto Camus
(2011). Traduttore dal
francese, ha da ultimo
pubblicato L’incendio e
altri racconti di Irène Némirovsky, Il cervello non
ha pudore di Jules Renard e Nuove invenzioni
e ultime novità di Gaston
de Pawlowski.
MARCO CIMMINO
Marco
Cimmino
(Bergamo, 1960). Storico, membro della Società
Italiana di Storia Militare
e socio accademico del
Gruppo Italiano Scrittori
di Montagna, si occupa
prevalentemente
di
Grande Guerra.
Collaboratore Rai,
scrive su molte testate.
Membro del comitato
scientifico del Festival Internazionale della Storia
di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto
èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009),
Da Yalta all’11 settembre
(2010) e La conquista del
Sabotino (2012), finalista
al premio Acqui Storia
2013.
MASSIMO GATTA
Massimo
Gatta
(1959) ricopre l’incarico,
dal 2001, di bibliotecario
presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli
Studi del Molise dove ha
organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali
del libro (ex libris).
Collabora alla pagina
domenicale de «Il Sole 24
Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale
della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri”
(books about books), e fa
parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri».
Numerose sono le sue
pubblicazioni e i suoi articoli.
LUCA PIETRO NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
storico dell’arte, si interessa di arte e critica del
Secondo Novecento in
Italia e in Francia.
Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti
e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata
2013).
GIANCARLO PETRELLA
Giancarlo Petrella
(1974) è docente a contratto di discipline del libro
presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel
2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di
insegnamento di Scienze
del libro e del documento.
È autore di numerose
monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini,
torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di
Johannes Lichtenberger;
Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010);
L’oro di Dongo ovvero per
una storia del patrimonio
librario del convento dei
Frati Minori di Santa Maria del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale di
Brescia» e la «Domenica
del Sole24ore».
GIOVANNI SESSA
Giovanni
Sessa
(1957), è docente di filosofia e storia nei licei, già
assistente presso la cattedra di Filosofia politica
della facoltà di Scienze
Politiche della Sapienza
di Roma e già docente a
contratto di Storia delle
idee presso l’Università di
Cassino.
Numerosi sono i suoi
scritti, alcuni dei quali
apparsi sulle riviste «Letteratura-Tradizione»;
«Palomar» e «il Borghese».
Fra i suoi volumi si ricordano: Trascendenza e
gnosticismo in E. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale; Il maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola.
GIANLUCA
MONTINARO
Gianluca Montinaro
(Milano, 1979) è docente a
contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai
rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno.
Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il
Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della
Rovere (2000); Il carteggio
di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani
(2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006);
Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere
(2009); Ludovico Agostini,
lettere inedite (2012);
Martin Lutero (2013);
L’utopia di Polifilo (2015).
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