MOSTRA
UNIVERSITÀ CATTOLICA
DEL SACRO CUORE
Biblioteca di Ateneo
della sede di Milano
Istituto Giuseppe Toniolo
di Studi Superiori
Ente fondatore e garante
dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore
Pubbliche Relazioni
La mostra è posta sotto
l'Alto Patronato
del Presidente della Repubblica
pe rcorsi della scrittura
Mostra in occasione della 80ª edizione della
Giornata Universitaria 2004
Aula
Leone XIII
25 aprile 2004
8 maggio 2004
Il segno memoria dell’uomo:
A cura della Biblioteca di Ateneo
Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano
aprile 2004
Errata corrige
•
Presentazione
p. 3, riga 9: Alessandro Pratesi per Alessando Pratesi
•
Ringraziamenti
p. 4, riga 13: Paolo Della Grazia per Paolo Della Pergola
•
§ 4. La scrittura in Egitto
p. 12, riga 6: γράμματα ίερογλυφικά per γrάμματα ίερογλυφικά
•
§ 5. Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese
p. 15, righe 14-13 dal basso, leggere:
«rappresentare le vocali: ’ălef → alfa; hē’ → e-psilon (= “e
semplice”); hêt → ēta; yôd → iota;»
•
§ 13. La scrittura nel mondo germanico
p. 26, riga 8: aettir per settiz
Mostra
Il segno memoria dell’uomo:
percorsi della scrittura
“La capacità di esprimere il pensiero in segni grafici,
destinati a tramandarlo oltre il momento in cui viene formulato,
al di là della memoria e della stessa vita fisica di chi l’ha elaborato,
è stata sempre accolta
come espressione e misura di civiltà”.
Alessando Pratesi
Questa mostra, organizzata dalla Biblioteca dell’Università Cattolica, si propone di
illustrare il percorso della scrittura dai primi graffiti fino alla scrittura digitale.
Con questa iniziativa la Biblioteca vuole offrire al suo pubblico, oltre ai servizi
istituzionali, un’occasione culturale, e far conoscere alcuni dei suoi tesori.
Rivolgendosi in modo particolare agli studenti delle scuole superiori, la Biblioteca
desidera, con la collaborazione del corpo docente, promuovere un’esperienza
culturale che possa diventare punto di partenza per un ulteriore cammino di
conoscenza.
La storia della scrittura è antica perché antica è quella dell’uomo, e continua perché
continua l’avventura umana.
La Biblioteca di Ateneo
In questo opuscolo sono raccolti nella loro versione integrale
i testi dei pannelli della
mostra “Il segno memoria dell’uomo: percorsi della scrittura”
organizzata dalla Biblioteca dell’Università Cattolica, Sede di Milano,
con la collaborazione di alcuni Istituti e Dipartimenti dell’Università.
La Biblioteca intende così offrire al Visitatore un piccolo strumento
per ulteriori riflessioni e indagini su un tema di grande interesse
e in continua evoluzione come quello della scrittura.
Si ringraziano in particolare, per la loro generosa e insostituibile collaborazione,
Filippo Airoldi, Amedeo Alberti, Luigi Anolli, Mariavittoria Antico Gallina,
Carla Balconi, Edoardo Barbieri, Luigi Bicchieri, Gian Antonio Borgonovo,
Paolo Branca, Luciano Caramel, Giancarlo Caronni, Maria Grazia Celloni,
Chiara Colombo, Paolo Della Pergola, Maria Luisa De Natale, Mirella Ferrari,
Rosa Bianca Finazzi, Tino Foffano, Mario Iodice, Paolo Magnone,
Celestina Milani, Orsolina Montevecchi, Anna Passoni Dell’Acqua, Claudia Perassi,
Giancarlo Petrella, Chiara Piccinini, Maria Pia Rossignani, Giovanna Salvioni,
Anna Soldati, Paola Tornaghi, Alfredo Valvo
Un sentito grazie va inoltre a tutti coloro, colleghi e non, che, a vario titolo,
hanno sostenuto l’iniziativa.
Si ringrazia infine Ettore Antonini, grafico simpatico e geniale,
per il logo creato appositamente per questa Mostra.
Senza il gentile contributo del Museo e della Biblioteca del PIME,
delle Cartiere di Fabriano, dell’Istituto dei Ciechi di Milano,
del Museo bodoniano di Parma
che hanno prestato le loro collezioni di documenti,
questa Mostra sarebbe stata meno ricca.
Quasi una premessa
Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton usa più volte nei suoi romanzi
l’immagine, paradossale, di un naufrago che approda sulle coste della Gran Bretagna.
Una simile avventura unirebbe il fascino delle terre ignote alla sicurezza di essere a
casa propria. Sfogliare un atlante per cercarvi paesi lontani, o navigare nel web credo
che costituiscano un po’ esperienze simili.
Questa è la prima impressione che si ha accedendo alla mostra “Il segno
memoria dell’uomo: percorsi della scrittura”. Un gruppo di sagaci bibliotecari
dell’Università Cattolica di Milano, non senza la collaborazione di alcuni docenti
dell’ateneo, ha realizzato un viaggio ideale. Il tutto pensando a un particolare
pubblico, quello dei giovani, studenti universitari e, soprattutto, delle medie
superiori. Un viaggio nel tempo, visto che si passa dalla preistoria ai giorni nostri.
Ma anche un viaggio nello spazio, visto che si visitano i quattro angoli della terra.
Soprattutto, però, un viaggio alla scoperta dell’uomo, attraverso le tracce di sé che ha
lasciato tramite la scrittura (le scritture).
In un libro certo discutibile, ma affascinante, come Armi, acciaio e malattie.
Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Torino, Einaudi, 2001), il biologo
Jared Diamond narra come l’invenzione della scrittura sia avvenuta forse una o due
volte in modo indipendente in tutta la storia dell’umanità. Tutte le forme di
scrittura a noi note deriverebbero da tale avvenimento, occorso appunto al massimo
un paio di volte. Cosa vuol dire “inventare la scrittura”? Significa creare un sistema
di segni che possano in qualche modo fissare nel tempo il linguaggio.
Gli uomini hanno sempre parlato. Ma non hanno sempre scritto. Tanto è
vero che ogni sistema di scrittura è sempre un po’ imperfetto rispetto alla lingua che
documenta. La scrittura sorge nel momento in cui c’è qualcosa da ricordare. Il
gruppo di uomini non vive più solo del prodotto occasionale della caccia o della
raccolta. La vita non è scandita più solo dal ciclo annuale delle stagioni. Inventare il
tempo e inventare la scrittura sono un po’ la stessa cosa.
Da qui l’importanza di questa mostra, che si svolge assieme lungo le pareti e
le vetrinette di una sala e tra le pagine di una pubblicazione. Nel primo caso
comunica più sinteticamente, tramite brevi pannelli e oggetti esposti; nell’altro
attraverso un discorso articolato, che vorrebbe essere l’occasione anche di possibili
approfondimenti, o punto di partenza per altri percorsi.
Dove sta l’importanza di questa iniziativa? Nel proporre un’occasione per
riflettere su cosa significhi quello strumento che tutti usiamo, magari un po’
passivamente, e che chiamiamo scrittura. Basta pensarci un attimo ed ecco che si
scopre che la scrittura ha tanti segreti, anche per noi.
Pensavamo che i manoscritti fossero cose da Medioevo e invece tutti i giorni
ne produciamo anche noi, su quaderni e fogli di appunti. Chiamiamo “stampatello”
lo scrivere usando tutte lettere maiuscole e invece i libri stampati non sono mica
scritti così. Pensiamo che i libri che leggiamo e usiamo siano stampati coi caratteri, e
invece i caratteri da stampa non si usano comunemente più da un secolo e mezzo.
Poi la scrittura cambia. Ci sono fenomeni della scrittura tipici ad esempio
del mondo giovanile contemporaneo. C’è la scrittura abbreviata nata per scrivere gli
sms ma usata anche in altri contesti (“nn”, “xké”, “cmq”). C’è la scrittura che
mescola segni alfabetici e icone atte a rappresentare le emozioni, dette “emoticons”:
-, /. C’è la scrittura dei graffiti murari, con le sue lettere deformate fino a
raggiungere particolari effetti visivi.
Ma non si scrive sul nulla. Ci sono anche i supporti (fossero pure digitali)
che conservano la scrittura e la trasmettono. Se non ci pensiamo, i libri sono tutti
uguali. Ma basta riflettere sulla nostra esperienza normale e saltano fuori tante
differenze: ci sono libri piccoli e libri grandi, pesanti o leggeri, scritti con caratteri
chiari o illeggibili, con le figure o senza, col commento o no, su carta bella o brutta,
che si sfascicolano subito o resistono all’usura, che costano poco o tanto. Queste
differenze dettano, almeno in parte, i modi di utilizzo del libro. Se vogliamo
comprare un Pinocchio da regalare a un nostro piccolo parente o per rileggerlo noi (è
una lettura assai più interessante di quanto si possa credere…) acquistiamo delle
edizioni molto diverse.
Allora, l’azione dello scrivere, che equivale a fissare nel tempo un’idea, un
pensiero, un racconto resta come essenziale nella nostra civiltà. Esserne coscienti,
iniziare a capire il suo funzionamento, porsi delle domande sul come e perché a
esempio un testo venga scritto (e quindi divenga memoria condivisibile con altri) o
meno, è passo di una conoscenza critica della realtà che fa (o dovrebbe fare) degli
uomini adulti.
Così si comprende meglio cosa volesse dire un grande pensatore del
Novecento, Romano Guardini, quando nell’Elogio del libro scriveva :
Avete mai pensato, amici miei, che meravigliosa opera della creatività
umana è un libro? Con ciò non penso ancora affatto al suo contenuto
spirituale: l’opera del poeta, o la rappresentazione dello storico, o la
ideologia del filosofo – intendo bensì, come ho già detto, la cosa
concreta, che si può tenere in mano e che appunto si chiama “il libro”.
Chi ama il libro, prende in mano con il sentimento di una tranquilla
familiarità, quell’oggetto che così si chiama, stampato su carta o
rilegato in tela o cuoio o pergamena. Lo sente come una creatura, che si
tiene in onore o si cura, e della cui concretezza materiale si è lieti.
Anche se viviamo in una realtà nella quale altri mezzi di comunicazione
sembrano in concorrenza col tradizionale mondo del libro e della scrittura, il libro
conserva intatta la sua importanza. Cinema, musica, Internet interagiscono con le
nostre conoscenze, ma non ne sono la base primaria. Tanto è vero, che anche
l’evoluzione del computer, l’e-book, tende ad assomigliare semplicemente al solito,
vecchio e caro libro.
Grazie, dunque, a chi ha pensato e realizzato questa mostra: ci aiuta a
conoscere di più la storia dell’uomo, e quindi anche a riflettere su noi stessi e il
nostro futuro.
Edoardo Barbieri
Professore Ordinario di Bibliografia
Università degli Studi di Sassari
Indice degli argomenti secondo l’ordine espositivo dei pannelli della Mostra
A) Percorso storico
1- L’origine della scrittura
2- La scrittura in Mesopotamia: Sumer e Accad
3- Le scritture egee
4- La scrittura in Egitto
5- Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese
6- Gli alfabeti greci
7- La risoluzione delle scritture misteriose : i “decifratori”
8- I supporti scrittori dell’Antichità
9- Le scritture della Scrittura
10- La scrittura araba
11- Il mistero etrusco
12- Scritture e lingue dell’Italia antica
13- La scrittura nel mondo germanico
14- La scrittura ogamica
15- La scrittura armena
16- La scrittura glagolitica e la scrittura cirillica
17- Le scritture dell’India e dell’Indocina
18- La scrittura in Cina
19- Le scritture del continente africano
20- Le scritture del continente americano
21- L’alfabeto latino e la scrittura in epoca romana
22- La scuola e gli strumenti per la scrittura nell’antica Roma
23- La “rivoluzione” : il passaggio da rotolo a codice
24- Le scritture medievali
25- La scrittura carolina
26- Il libro e la nascita delle università
27- Dalla scrittura gotica alla scrittura umanistica
28- L’Umanesimo e la rivoluzione del canone grafico
29- L’invenzione della stampa
30- La stampa in Italia : da Subiaco a Venezia
31- La stampa a mano in Europa fino al XIX secolo
32- I materiali della stampa : i caratteri mobili e il torchio
33- I materiali della stampa : l’inchiostro e la carta
34- La calligrafia
35- La notazione numerale
36- La scrittura informatica applicata alle scienze umanistiche
37- La scrittura informatica e digitale
B) Percorso complementare
38- Scrittura e arte
39- Scrivere la musica
40- La scrittura Braille
Glossario
Spunti di approfondimento
1. L’origine della scrittura
Le scritture più antiche risalgono al terzo millennio a.C.
Ripercorrendo lo sviluppo delle conoscenze umane, gli studiosi sono concordi nel
ritenere che molte società umane erano giunte assai vicino all’invenzione della
scrittura; ed è sorprendente constatare come si siano invece fermate ad uno stadio
precedente l’invenzione dell’alfabeto.
I dipinti e i graffiti delle società primitive contengono così tanti elementi di un
sistema di scrittura che chiamarli “arte” anziché “scrittura” può sembrare una mera
distinzione terminologica.
Secondo Steven Mithen ed altri studiosi la presenza delle componenti cognitive (il
bisogno di comunicare, la manipolazione della cultura materiale, una teoria della
mente, l’abilità manuale, il pensiero simbolico, ma soprattutto il linguaggio) sarebbe
stata molto importante, ma soltanto il contemporaneo verificarsi di condizioni
socio-economiche e politiche favorevoli, come avvenne in Mesopotamia nel 3.200
a.C., portò all’invenzione della scrittura.
L’invenzione della scrittura da parte delle più antiche civiltà ha trasformato il modo
di immagazzinare, manipolare e trasmettere le conoscenze ed è pertanto alla base
della lunga evoluzione che, partendo da quelle antiche civiltà, ha prodotto il mondo
moderno; la straordinaria crescita della conoscenza a partire da quell’evento può
essere senz’altro attribuita, in gran parte, al potere della scrittura.
2. La scrittura in Mesopotamia: Sumer e Accad
Furono i Sumeri a dar vita, intorno al 3200 a.C., alla prima alta cultura urbana e a
inventare la scrittura cuneiforme. Non ci è ancora dato sapere con esattezza, quando
essi si stanziarono in Mesopotamia, tra l’odierna zona di Baghdad e la foce del Tigri
e dell’Eufrate, e da dove provenissero. E’ improbabile, comunque, che fossero i primi
colonizzatori della regione, poiché molti nomi di antichi insediamenti non sono di
origine sumerica.
Intorno al 2600 a.C., iniziò l’immigrazione di popolazioni nomadi semitiche nella
regione, gli Accadi, che, lentamente, spinsero i Sumeri sempre più verso sud. Due
popoli assai differenti, che parlavano due lingue diversissime, di origine ignota e
agglutinante, l’una, semitica e flessiva, l’altra, ma che seppero creare nella loro
interazione e integrazione una grande e duratura civiltà.
Gli Accadi non avevano una propria scrittura perciò adottarono il cuneiforme per
esprimere la propria lingua, limitandosi a “leggere” in accadico il segno cuneiforme
sumerico, così ad esempio il segno “re
re”,
re in sumerico lugal,
lugal era in accadico
pronunciato šarru.
šarru Solo con l’avvento della dinastia fondata da Sargon (2350-2140
a.C.) compaiono i primi documenti cuneiformi scritti in accadico. In questo periodo
il processo di accadizzazione s’intensificò e i Sumeri furono lentamente, ma
inesorabilmente soppiantati (il processo terminò intorno al 1900 a.C. circa):
l’ultimo periodo di grande splendore fu quello detto Neosumerico (2140-2020
a.C.) che ci ha lasciato un numero impressionante di tavolette cuneiformi in
sumerico, raccolte in numerosi archivi di documenti economici, provenienti dalle
grandi città del regno, come Ur, Umma, Lagaš, Puzrišdagan. Fu però un regno di
breve durata, a causa di forti contrasti interni e dell’arrivo degli Amorriti,
popolazioni nomadi che fondarono vari regni in Sumer, tra cui quello di Babilonia.
Anche sul medio-Eufrate si era stanziata un’altra popolazione che avrebbe presto
scritto il suo nome nella storia: gli Assiri. I periodi successivi presero nome dalla
supremazia politica e culturale di queste due culture: paleo-babilonese e paleo-assiro
(sviluppatesi intorno al 1800 a.C.), medio-baliblonese e medio-assiro (sviluppatesi
intorno al 1600 a.C.); neo-babilonese e neo-assiro (intorno all’800 a.C.).
Nonostante tutti questi stravolgimenti, la lingua sumerica sopravvisse e divenne
lingua di culto, rimanendo in vita fino a quando la scrittura cuneiforme cadde in
disuso.
Evoluzione del cuneiforme
I più antichi documenti che contengono esempi di scrittura organizzata risalgono
alla fine del IV millennio a.C. (c. 3200-3100 a.C.). Si tratta di tavolette di argilla
rinvenute presso l’antica città di Uruk (odierna Warka), situata nel sud della
Mesopotamia (odierno Iraq), sulle quali sono incise sequenze di pittogrammi
(rappresentazioni rudimentali, veri e propri disegni che riproducono un oggetto così
com’è in realtà) incolonnati e ripetuti. Si tratta di documenti economici che
menzionano quantità di beni diversi (animali, derrate alimentari e merci varie),
razioni e altro.
I segni originali avevano già in questo periodo subìto un significativo cambiamento:
erano stati ruotati verso sinistra di 90°.
La scrittura ‘protocuneiforme’ delle tavolette di Uruk ebbe un’ulteriore
trasformazione nella prima metà del III millennio a.C., quando gli scribi, per evitare
le “sbavature” provocate dallo stilo appuntito nel tracciare linee curve, ma
soprattutto per rendere più veloce la realizzazione del segno, preferirono imprimere,
con uno stilo a punta, a sezione triangolare, tratti rettilinei a forma di cuneo. E
proprio dal latino ‘cuneus’ (chiodo) deriva il suo nome la scrittura cuneiforme.
cuneiforme
Questo significativo cambiamento e l’adozione sempre più frequente di una scrittura
fonetica avviò un lento processo di semplificazione dei segni originari. Nel corso di
tre millenni essa si diffuse in tutto il Vicino Oriente e fu veicolo della cultura
mesopotamica. Oltre agli Accadi, altri popoli, come gli Ittiti o gli Elamiti,
l’adottarono per trascrivere la propria lingua, altri popoli se ne servirono per creare
nuove scritture (come l’ugaritico).
La collezione di tavolette cuneiformi
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Giustino Boson, professore di filologia semitica e assiriologia (dal 1935) presso
questo Ateneo, su segnalazione dell’insigne studioso P. Scheil, reperì a Parigi un
lotto di un migliaio di tavolette sumeriche di origine clandestina, appartenenti al
periodo della Terza dinastia di Ur (2112-2004 a.C.). Egli s’interessò
immediatamente perché il governo italiano ne curasse l’acquisto: purtroppo non fu
possibile acquisire l’intero lotto, fu allora che Boson decise di crearsi una piccola
collezione privata, acquistando per sé 73 tavolette, che studiò e successivamente
donò all’Università Cattolica. I suoi studi furono pubblicati in diversi articoli e in
una monografia, quasi ottant’anni fa. Attualmente la collezione “G. Boson” è in
corso di aggiornamento, rielaborazione e studio.
Datazione
Le tavolette, fatta eccezione per la n. 1, databile al periodo di Larsa,
Larsa e quindi di una
sessantina di anni più tarda, appartengono tutte alla Terza Dinastia di Ur di cui
sono documentati tutti i re, tranne Ur-Nammu, fondatore della dinastia:
Ur-Nammu
(2112-2095 a.C.)
Šulgi
(2094-2047 a.C.)
Amar-Suen
(2046-2038 a.C.)
Šu-Sin
(2037-2029 a.C.)
Ibbi-Sin
(2028-2004 a.C.)
Provenienza
Le tavolette appartengono agli archivi delle città di Umma (odierna Jokha) e SellušDagan (odierna Drehem), importanti centri amministrativi situati nell’Iraq
meridionale, nei pressi della capitale Ur.
Ur
Contenuti
I testi sono tutti di natura economica e riguardano in generale:
• prestito di orzo
• distribuzione di orzo e altre derrate alimentari come salari
• liste di personale
• pagamento di imposte in natura
• consegne di diverse derrate alimentari a diverso titolo (farina, latticini, sostanze
grasse, birra e simili)
• spedizione di oggetti d’oro dal palazzo reale alla città santa di Nippur.
Nippur
• provvigioni di viaggio per messaggeri
• comunicazioni di natura commerciale
3. Le scritture egee
Le scritture egee, geograficamente localizzabili nei territori che si affacciano sul
mare Egeo, si sviluppano in un arco di tempo che va dalla seconda metà del III
millennio a.C. alla fine del II millennio a.C. Scopritore e indagatore della civiltà
minoica (così come viene denominata la civiltà dell’antica Creta) fu l’archeologo
Arthur Evans, che con gli scavi iniziati nel 1899 raggiunse, in breve, ottimi risultati.
Nell’isola di Creta, celebre per gli splendidi palazzi minoici e per i prosperi
commerci con le civiltà della Mesopotamia, dell’Egitto e della Penisola anatolica,
sono attestati tre differenti sistemi di scrittura sillabica: il geroglifico cretese,
cretese la
Lineare A,
A e la Lineare B.
B
Le iscrizioni si trovano su tavolette d’argilla (documenti d’archivio), sigilli, vasi,
elementi architettonici e altri supporti, e la loro stesura nasce dalle necessità
concrete legate all’organizzazione del lavoro, alla registrazione di beni, alla
contabilità.
Il geroglifico cretese (o minoico),
minoico attestato a Creta nel Medio Minoico I e II (20001700/1600 circa), è una scrittura di tipo ideografico, allo stato attuale non ancora
decifrata. Se ne contano circa 331 testi tra documenti d’archivio e iscrizioni su
sigilli.
La Lineare A
A, scrittura sillabica frammista di ideogrammi, così chiamata da Evans per
il tracciato lineare e più semplice rispetto al geroglifico cretese e per la sua
disposizione orizzontale, è documentata tra il 1700 e il 1450 a.C. a Creta. I testi
sono 1472, e vi si contano circa un centinaio di segni, alcuni ideogrammi e un
sistema numerico decimale. Essa nasce nel periodo dei primi palazzi ma si impone
solamente nel periodo dei secondi palazzi quando sostituisce il geroglifico con cui
era coesistita per secoli; a sua volta, verrà adottata dai micenei che successivamente
creeranno la Lineare B. Sono venuti alla luce, su tavolette d’argilla e altro materiale,
più di mille testi di carattere amministrativo e religioso. Si tratta di una lingua non
ancora decifrata: tra le ipotesi si ricordano quella degli studiosi Meriggi e Palmer che
pensano al luvio e quella di Georgiev che pensa piuttosto al greco o all’ittito. Più
recente il tentativo di decifrazione avanzato da Consani e Negri.
La Lineare B
B, decifrata nel 1952 dall’architetto inglese Michael Ventris che si
avvalse, in un secondo momento, dell’aiuto del glottologo John Chadwick, è una
scrittura sillabica che semplifica la Lineare A e testimonia una lingua greca molto
antica, precedente i tempi di Omero. Essa venne utilizzata tra il 1400 e il 1150 a.C.,
e si contano circa seimila tavolette scoperte sia nell’isola di Creta sia nella Grecia
continentale, oltre ad iscrizioni dipinte su vasi. I segni sillabici sono circa 90; ad
essi si aggiungono numerosi ideogrammi e un sistema numerico di tipo decimale.
Tra le città che hanno restituito materiale si ricordano Cnosso, Cidonia, Pilo,
Micene, Tirinto, Eleusi, Tebe, Orcomeno. Le tavolette di argilla venivano iscritte
con uno stilo e poi lasciate seccare, ed erano successivamente conservate dentro casse
o ceste in stanze chiamate ‘uffici d’archivio’. Gli incendi che distrussero gli antichi
palazzi favorirono la cottura delle tavolette, che così si sono conservate fino ad oggi.
Infatti la conservazione della scrittura dipende anche dal materiale scrittorio;
scrittorio
l’argilla, ad esempio, se non viene cotta o bruciata, rimane troppo friabile. La forma
delle tavolette può variare: in genere presentano forma di pagina o di foglia e le
dimensioni sono tendenzialmente piccole. All’interno del miceneo sono individuabili
i sillabogrammi o fonogrammi (cioè segni che rappresentano delle sillabe) e gli
ideogrammi (cioè segni che esprimono dei concetti).
Una attenzione particolare merita inoltre il disco di Festòs.
Festòs E’ un disco di argilla di
colore rossastro, con un diametro di circa 16 cm. per uno spessore che varia tra 1,5 e
2 cm. Esso fu scoperto nel 1908 dall’archeologo italiano Luigi Pernier durante gli
scavi all’estremità nord-est del palazzo di Festòs. E’ scritto su entrambe le facce e
per ottenere l’iscrizione sono stati utilizzati 45 punzoni che corrispondono ai 45
segni differenti presenti sul disco. Per la prima volta nella storia sono stati utilizzati
dei caratteri mobili (punzoni) per stendere un testo che si presenta così come un
antichissimo esemplare di documento a stampa. L’andamento della scrittura è
spiraliforme (nella lettura si parte dalla periferia per raggiungere il centro). I segni
sono 242; la scrittura sembra di tipo sillabico e la sua origine è presumibilmente
egea. La natura del testo è incerta, e problematica è la sua decifrazione che,
nonostante molteplici tentativi, spesso fantasiosi e ingenui, rimane per ora
enigmatica.
Tra le scritture dell’area egea si ricorda anche il cipro-minoico utilizzato nell’isola di
Cipro tra la fine del XVI secolo e il 1050 a.C. circa. Questa scrittura sillabica, non
ancora decifrata, è testimoniata ad Enkomi, sulla costa orientale di Cipro e sulla
costa siriaca, a Ugarit. Dal cipro-minoico è derivato il sillabario cipriota classico
adottato a Cipro tra l’VIII e il VII secolo a.C. e rimasto in vigore fino al III secolo
a.C. Tale sillabario conta 56 segni di cui 5 sono vocali; la sua decifrazione è avvenuta
tra il 1872 e il 1875 per merito di George Smith che si servì di testi bilingui
fenicio-ciprioti.
4. La scrittura in Egitto
In Egitto la scrittura nacque in un’epoca grosso modo contemporanea a quella in cui
la scrittura cuneiforme si affermò in Mesopotamia (circa 3200 a.C.). Platone nel
Fedro riferisce la credenza egiziana secondo cui il dio Thot aveva inventato la
scrittura e ne aveva fatto poi dono agli uomini.
La prima scrittura che troviamo in uso nell’antico Egitto è quella geroglifica.
geroglifica La
definizione ‘geroglifici’ (dal greco γrάμματα iεroγλυφικά , cioè ‘lettere sacre incise’)
è da attribuire a Clemente di Alessandria (secolo II d.C.), il quale non
comprendendoli, e avendoli visti incisi soprattutto su monumenti di carattere
religioso, erroneamente enfatizzò questo aspetto. In realtà i geroglifici non avevano
nulla di sacro e venivano impiegati per scritti di ogni tipo.
Essi furono dapprima pittografici o ideografici (cioè rappresentavano
simbolicamente un oggetto o un’idea), successivamente anche fonetici (cioè
rappresentavano un suono della lingua parlata).
I geroglifici potevano essere letti da destra verso sinistra o dall’alto verso il basso e
viceversa, a seconda della collocazione del testo. Per scoprire in qual senso il testo
debba essere letto basta osservare la direzione dello sguardo degli esseri viventi
(uomini o animali) rappresentati.
Tale scrittura però, pur avendo un elevato numero di simboli (se ne conoscono circa
tremila), aveva una limitata capacità espressiva: non era per esempio possibile
esprimere concetti astratti o verbi.
Nel tempo la scrittura geroglifica subì delle modificazioni. Durante la III dinastia
(inizio del III millennio a.C.) comparve la scrittura ieratica (secondo Clemente
Alessandrino “lingua sacerdotale”), uno sviluppo corsivo della precedente, ossia una
semplificazione dei segni originari con lo scopo di ottenere una maggiore velocità
nello scrivere.
Essa fu in uso fino alla fine del Nuovo Regno (fine del II millennio a.C.) e venne
adoperata per redigere tutti i documenti che riguardavano la vita pubblica e religiosa.
Agli inizi si sviluppava su colonne verticali, ma successivamente si passò a una
stesura orizzontale, da destra verso sinistra. In epoca tarda lo ieratico fu usato solo
per testi religiosi.
La forma demotica ebbe origine da un’ulteriore semplificazione della ieratica, con la
differenza che, anziché semplificare singoli segni, ne venivano abbreviati gruppi
interi che apparivano come un unico segno. Essa è quindi più difficile da leggere
rispetto al geroglifico e allo ieratico.
Il demotico, venne usato dall’epoca della XXVI dinastia (VII secolo a.C.), quando fu
introdotto fino alla fine del periodo romano (IV secolo d.C.). Esso riflettè sempre
più la lingua popolare e fu la scrittura favorita dagli scribi ‘ufficiali’. Proprio per
questo motivo la demotica (dal greco δήμος = popolo) venne identificata con la
scrittura popolare.
Infine, in età romana, si andò formando la scrittura copta che troviamo in uso dal III
secolo Essa altro non era che la trascrizione della lingua egiziana in caratteri greci e
fu elaborata dagli egiziani di religione cristiana (i copti, appunto). La scrittura copta
era, come quella greca, una scrittura fonetica. Venivano utilizzate infatti le lettere
dell’alfabeto greco (comprese le vocali che nella lingua scritta egiziana non
esistevano) con l’aggiunta di pochi altri segni derivati dal demotico.
L’evoluzione della scrittura copta fu però indipendente da quella dell’alfabeto greco.
In particolare, nel IX secolo d.C., lingua e scrittura copta dovettero soccombere di
fronte a lingua e scrittura araba, pur continuando ad essere ancora in uso (veramente
assai ristretto, particolarmente a partire dal secolo XIII) fino a che dal secolo XVII,
non scomparvero completamente come scrittura e lingua vive, rimanendo tuttavia
fino ad oggi come espressione ufficiale della Chiesa copta.
La lingua e la scrittura greca in Egitto
Almeno dal VII secolo a.C. in Egitto furono note anche la lingua e la scrittura greca,
ivi introdotte dai soldati mercenari e dai mercanti (proprio a questo periodo risale
infatti la fondazione, nel delta del Nilo, di Naukratis, colonia greca di Mileto).
Nel 332 a.C., Alessandro Magno conquistò l’Egitto. Dopo la sua morte il paese
divenne un regno indipendente sotto l’autorità di Tolemeo I Sotere e il greco ne
divenne la lingua ufficiale.
Chi parlava greco restava pur sempre una minoranza, ma con un rilevante peso
sociale e politico. Il greco usato era quello della κοινή διάλεκτος, e l’alfabeto era lo
ionico di Mileto che era stato adottato per decreto in Atene nel 404-403 a.C.
Dal sec. III a.C. in poi i papiri testimoniano in Egitto la presenza diffusa della lingua
e della scrittura greca non solo in testi documentari, ma anche letterari. Le forme
grafiche in cui il greco si esprime, cioè quelle che noi diciamo maiuscole, risultano
estremamente variate: eleganti forme librarie coesistono con la scrittura ‘svelta’ dei
testi documentari. Ma accanto al greco, il demotico, insieme allo ieratico, è presente
ancora nella documentazione privata della popolazione indigena.
Quando, a partire dal 30 a.C., l’Egitto diviene provincia romana, il greco rimane la
lingua ufficiale così come per tutte le provincie orientali dell’Impero romano; nei
libri, ancora in forma di rotolo, troviamo un greco chiaro ed elegante, leggibile
ancora oggi da un ‘profano’ che conosca un po’ l’alfabeto greco nella sua forma
maiuscola.
Tra il III e il IV secolo d.C. il rotolo lascia il posto al codice per i testi letterari,
mentre le scritture corsive subiscono l’influsso delle coeve scritture latine e si
evolvono rapidamente, ma si potrà parlare di scrittura minuscola solo alcuni secoli
più tardi.
Infine, nel VII secolo d.C., il paese viene conquistato dagli arabi e la grecità si
estingue in Egitto sotto la pressione di un’arabizzazione sempre più diffusa; ma solo
nell’VIII secolo l’arabo sostituisce definitivamente il greco: esso scompare anche
come lingua parlata né si trovano più codici scritti in greco.
La collezione di papiri dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
(identificati con la sigla P.Med. = Papyri Mediolanenses) si è costituita, nel
Novecento, in periodi diversi: negli anni Venti, con le donazioni Jacovelli-Vita e
Castelli, acquisite tramite Aristide Calderini, e successivamente, in acquisto, per
opera di Orsolina Montevecchi.
Si tratta in tutto di circa un migliaio di pezzi, tutti di provenienza egiziana, per la
maggior parte scritti in greco, e in piccola parte in ieratico e copto. Tra i papiri greci
se ne contano una quarantina fra biblici, liturgici, letterari e semiletterari, tutti gli
altri sono documentari.
In buona parte i papiri sono già stati editi su Aegyptus, rivista italiana di egittologia e
di papirologia fondata nel 1920 da Aristide Calderini. I papiri documentari sono
stati ripubblicati nei vari volumi del Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten.
Alla collezione di papiri si aggiunge altro materiale antico, tutto in lingua greca
proveniente dall'Egitto, e precisamente:
una piccola collezione di ostraca
tre tabelle lignee scritte in greco, di cui una liturgica
circa duecento bolli d'anfora
sei iscrizioni greche (esposte nell’atrio della Cripta dell’Aula Magna).
5. Le scritture consonantiche della regione siro-palestinese
Il problema dell’origine dei sistemi di scrittura consonantica resta tuttora insoluto.
Nel II millennio a.C. nella regione siro-palestinese ci furono diversi tentativi di
creare sistemi di scrittura locali, come la scrittura pseudogeroglifica di Biblo (30
km. a nord di Beirut, sulla costa dell’attuale Libano), la scrittura protosinaitica e
quella delle iscrizioni palestinesi protocananaiche. Tali sistemi erano indipendenti da
quelli più antichi mesopotamico ed egiziano, benché questi, e specialmente il
secondo, abbiano esercitato la loro influenza. L’origine remota del principio
consonantico va cercata in Egitto, ma quanto al luogo e al tempo in cui tale
principio si affermò nella regione siro-palestinese le opinioni degli studiosi sono
diverse.
La scrittura ugaritica fu elaborata e usata nella città di Ugarit (attuale Ras Šamra, in
Siria): comprende 28 segni (30 computando le tre ’ălef) ed è di influenza
mesopotamica (ovvero segni cuneiformi incisi su tavolette con uno stilo). Essa è la
più antica fra quelle del II millennio a.C. ad essere stata decifrata ed è prova che il
principio consonantico esisteva già nel XIV secolo a.C.
Tra le scritture consonantiche semitiche vanno distinte la nord-semitica (la scrittura
ugaritica e la fenicia, attestata dal XIII secolo a.C., con quelle da essa derivate) e la
sud-semitica (i sistemi grafici ‘proto-arabo’ [testimoniato dal VIII-VI secolo a.C.],
nord-arabico e sud-arabico [documentati dal IX secolo a.C.]), che presentano
diversità non solo nei simboli grafici, ma anche nell’ordine di successione dei segni
dell’‘alfabeto’. L’ordine sud-semitico, testimoniato anche dalla tradizione etiopica, è
diverso da quello ugaritico e fenicio.
L’ordine dei segni nord-semitico, che non corrisponde a nessuna logica né fonetica
né grafica, è stato posto in connessione con un’origine astronomica: esso
costituirebbe una specie di ‘calendario’ che ricorda le fasi lunari e rappresenta la
situazione degli astri attorno al 2000/1600 a. C. [i 30 segni dell’‘alfabeto’
ugaritico rappresenterebbero l’intero mese lunare (compresa la fase oscura), i 22
dell’ ‘alfabeto’ fenicio solo le tre fasi luminose].
I nomi delle lettere alfabetiche ci sono conservati dalla tradizione greca, la quale ha
reso propriamente alfabetico il sistema di scrittura fenicio. Le lingue semitiche
hanno infatti un sistema fondamentalmente consonantico, mentre il greco e gli
alfabeti da esso derivati esprimono anche le vocali. Alcune consonanti fenicie, che
non avevano più corrispondenza di suono in greco, sono state utilizzate per
rappresentare le vocali: ilef → alfa; hē’ → e-psilon (= «e semplice»); Krm → »ta y{d
→ iota; ‘ayin → o-micron («o piccolo»); waw ha dato origine col suono consonantico
al digamma, con quello vocalico alla y-psilon («y semplice», rispetto al dittongo ou).
Molte lettere greche hanno nomi semitici: oltre alle già citate, lettere greche che
hanno nomi semitici sono beta, theta, kappa, lam(b)da, my, ny, pi, tau, koppa.
Anche la direzione della scrittura era originariamente uguale: da destra a sinistra,
come è rimasta per i semiti (tranne che nell’etiopica, scrittura di origine sud-arabica)
e come è attestata in Grecia in età arcaica. In Grecia poi dal V secolo a.C. divenne
usuale la direzione da sinistra a destra, dopo un periodo di transizione in cui fu
usata la scrittura «bustrofedica», così chiamata dall’espressione greca che significa
«che gira come il bue» quando ara un campo: da destra a sinistra, poi viceversa e così
di seguito.
Dalla scrittura fenicia sono derivate sia l’ebraica antica, detta paleoebraica
(documentata dall’VIII secolo a. C.), sia l’aramaica (attestata dal X secolo a.C.), che
dalla fine dell’VIII secolo è documentata anche in una forma corsiva (diffusa specie
in Assiria). Dalla scrittura aramaica delle cancellerie di età persiana tarda si
sviluppano dal III secolo a.C. varie scritture nazionali tra cui ricordiamo: la scrittura
giudaica, detta anche ‘ebraica quadrata’ per la forma dei segni (dal III secolo a.C.) e
la scrittura siriaca (la forma di nord-siriaca della zona di Edessa, dall’inizio del I
secolo d.C.).
6. Gli alfabeti greci
Gli alfabeti greci nascono da un adattamento degli alfabeti fenici. Lo storico
Erodoto (Historiae, V, 85) racconta che i Fenici, guidati da Cadmo, giunsero in
Beozia e qui portarono le lettere (τά γράμματα prima ignote ai Greci. La parentela
tra i due alfabeti risulta evidente dalla forma dei segni, dalla loro successione, dai
nomi delle lettere (in fenicio aleph, beth, gimel, delth…; in greco alpha, beta, gamma,
delta…), dalla direzione della scrittura che, nelle prime iscrizioni, scorreva da destra a
sinistra. Merito dei Greci fu aver introdotto le vocali nell’alfabeto fenicio che, invece,
possedeva solamente le consonanti. Le 22 lettere dell’alfabeto fenicio trovano
riscontro negli alfabetari greci: delle 4 sibilanti i Greci ne utilizzarono solo due, lo
zayin per la zeta, sade o sin, per il sigma; il segno fenicio het venne usato ora come
aspirata ora come eta a seconda delle località.
E’ difficile determinare con esattezza dove e quando sia avvenuta l’’invenzione’
dell’alfabeto greco. Per la localizzazione, alcuni hanno proposto i nomi di Rodi,
Tera, Creta, Cipro; bisogna comunque pensare ad un luogo di facile incontro tra
Oriente e Occidente. Per la datazione è plausibile pensare agli inizi del IX secolo
a.C. quando furono particolarmente intensi i rapporti commerciali e culturali tra i
Greci e i popoli del Mediterraneo orientale. Le più antiche iscrizioni risalgono alla
prima metà dell’VIII secolo a.C. Si pensi alla famosa iscrizione graffita sulla ‘coppa
di Nestore’ proveniente dall’antica Pithekussa; nella Grecia continentale la più antica
iscrizione è databile al 730 a.C. circa: si tratta di un testo graffito su una piccola
brocca rinvenuta nella necropoli ateniese del Dipylon. Gradualmente, con il passare
del tempo, si produssero degli adattamenti che portarono alla creazione di diversi
alfabeti locali in cui si verificò la tendenza a invertire, elaborare, modificare i segni
originari. Prevalse poi l’alfabeto usato a Mileto che prevedeva la distinzione tra suoni
lunghi e brevi ( η/ω; ε/ο). Questo alfabeto, detto milesio, venne adottato ad Atene nel
403 a.C. sotto l’arconte Euclide e, a partire dal IV secolo a.C., divenne l’alfabeto
d’uso comune in tutta la Grecia. Con il periodo ellenistico-romano si affermò una
koiné linguistica basata sullo ionico-attico a cui corrispose una koiné di scrittura
epigrafica in cui le forme delle lettere tesero ad omogeneizzarsi sempre di più.
A completamento dell’alfabeto fenicio i Greci introdussero anche appositi segni per
indicare tre consonanti aspirate (la dentale th, la gutturale kh, la labiale ph) e i nessi
consonantici ks e ps. Sulla base del loro valore fonetico lo studioso Adolph
Kirchhoff nel 1877, nell’opera Studien zur Geschichte des griechischen Alphabets, distinse due
gruppi alfabetici, quello occidentale e quello orientale. Su una cartina geografica
segnò in azzurro gli alfabeti di tipo orientale, in rosso gli alfabeti di tipo occidentale.
Gli alfabeti in cui tali segni complementari non erano attestati sono evidenziati in
verde. Alla luce delle acquisizioni più recenti la classificazione di Kirchhoff, pur
rimanendo valida nella sua impostazione, necessita di qualche correttivo.
Le lettere dell’alfabeto erano impiegate anche per esprimere i numeri e, con
modificazioni, anche per indicare le note musicali. La direzione della scrittura si
presenta o come retrograda (da destra a sinistra) o come bustrofedica (da destra a
sinistra, da sinistra a destra e viceversa) o come progressiva (da sinistra a destra).
Con il tempo si adottarono anche differenti mode grafiche in relazione alla varietà
dei supporti scrittori. Si passò da una scrittura di tipo monumentale su pietra a
scritture di tipo onciale, corsivo, minuscolo. Le scritture geometriche, armoniose e
regolari dell’Atene del V sec. a.C, sul finire del IV sec. a.C., assunsero un aspetto
caratterizzato dal rimpicciolimento delle lettere e dall’incurvamento delle linee rette.
Nel III sec. a.C. si svilupparono anche le apicature e comparvero le lettere lunate. In
età romana, intorno al III sec. d.C., sono attestate le lettere quadrate; in età imperiale
si nota anche un caratteristico allungamento verso l’alto dei tratti obliqui delle
lettere. I tratti linguistici ed epigrafici, un tempo molto più diversificati a seconda
delle peculiarità locali, tesero ormai nel periodo ellenistico-romano a standardizzarsi
secondo norme più generali e comuni.
7. La risoluzione delle scritture misteriose: i “decifratori”
I geroglifici egiziani, la scrittura cuneiforme e la lineare cretese non avrebbero mai
rivelato i loro segreti senza l’accanita pazienza di alcuni appassionati ricercatori.
Decifratori dell’incomprensibile, cacciatori di tesori oscuri, essi sono riusciti a
strappare alle tenebre importanti documenti della nostra memoria.
Champollion e i geroglifici
Jean-François Champollion (1790-1832), studioso di lingue orientali e professore
di storia, è il fondatore dell’egittologia moderna. Egli aveva un grande desiderio nella
sua vita: decifrare i geroglifici. Per riuscire nella sua impresa studiò l’ebraico, il
persiano, il siriaco, il cinese ed il copto. E i suoi sforzi non furono vani. A Parigi
ebbe occasione di vedere una copia della ‘Stele di Rosetta’. Si tratta di una spessa
pietra in basalto di colore nero sulla quale è riportato un decreto del sovrano
Tolemeo V Epifane del 196 a.C. scritto in tre differenti lingue: geroglifico,
demotico e greco. Rinvenuta a Rashid (Rosetta) durante la campagna napoleonica in
Egitto del 1799, la stele è oggi conservata presso il British Museum di Londra.
Champollion dunque, nel 1808, studiò a lungo la copia che era conservata a Parigi.
Partì dall’osservazione dei due cartigli (sorta di piccole cornici che contenevano
normalmente i nomi dei sovrani) e vide che i due nomi che in essi comparivano,
Tolomeo e Cleopatra, erano presenti anche nel testo greco. Fino ad allora però si
credeva che i geroglifici fossero ideogrammi, cioè che esprimessero un concetto.
Mettendo a confronto il testo greco con quello geroglifico Champollion contò il
numero di parole contenute nel testo greco e il numero di geroglifici e notò che
questi ultimi quantitativamente superavano i termini greci. E proprio da questo egli
intuì che ciascun geroglifico doveva avere in realtà un valore fonetico, alfabetico o
sillabico (corrispondente cioè ad una singola lettera o ad una sillaba).
E questo fu il punto di partenza.
Con un paziente lavoro di osservazione e di confronto egli giunse ad abbinare ogni
lettera o sillaba ad un geroglifico.
La brillante intuizione di Champollion fu dunque che ogni geroglifico non fosse in
realtà la rappresentazione di una immagine, ma quella di un suono. Si svelava così
uno dei più grandi misteri della storia della scrittura.
La decifrazione del cuneiforme
Fin dal Medioevo, la Terra Santa fu meta di pellegrinaggi di coraggiosi viaggiatori
cristiani che si avventuravano in quelle misteriose terre con il solo intento di visitare
i luoghi sacri; ciò che si trovava al di là di essi e del deserto siro-palestinese, non
suscitava ancora alcun interesse. Sarà Pietro della Valle
Valle, nel 1614, il primo a
intraprendere un viaggio attraverso la Mesopotamia e la Persia e a rinvenire le
vestigia di antichissime civiltà. Fu così che s’imbatté in una misteriosa scrittura
diffusa un po’ ovunque su monumenti, mattoni e mura; nei pressi di Persepoli, copiò
tre serie di “strani segni” che, successivamente, inviò a un caro amico napoletano: era
il 21 ottobre del 1621 e i primi caratteri cuneiformi avevano raggiunto l’Europa.
La decifrazione dell’antico persiano
Da quel momento in poi, copie e pubblicazioni di iscrizioni, molte trilingue, si
susseguirono per circa un secolo e mezzo, senza che ci fossero, oltre alla ormai
copiosa quantità di materiale epigrafico, significativi passi avanti nell’attribuzione o
nella comprensione delle epigrafi.
Un primo prezioso contributo venne da C. Niebuhr:
Niebuhr egli riconobbe, nelle iscrizioni
da lui copiate in Persia, tre diversi tipi di scrittura cuneiforme che corrispondevano a
tre diverse lingue: l’antico persiano, nel quale individuò 42 caratteri “alfabetici”, quindi
l’elamita e, il più difficile, composto da un elevato numero di segni, quello che sarà
definito in seguito il babilonese. Successivamente, F. Münter scoprì che il cuneo
obliquo nelle iscrizioni persiane aveva la funzione di separare le parole e ipotizzò,
inoltre, che le iscrizioni persiane appartenessero alla dinastia degli Achemenidi.
Di qui, prese avvio la ricerca del tedesco G. F. Grotefend,
Grotefend a cui si deve la prima,
seppur parziale, decifrazione del cuneiforme. Convinto della parentela tra l’antico
persiano e la lingua dell’Avesta - la raccolta di testi sacri della religione zoroastrica
persiana - ne confrontò i nomi propri, utilizzando anche le fonti greche, poiché esse
riportavano l’esatta successione dei re achemenidi. Riuscì così a isolare 15 caratteri
alfabetici, di cui 11 si rivelarono in seguito esatti. Era il 1803, ma i tempi non erano
ancora maturi: lo scetticismo e l’indifferenza del mondo accademico resero vani tutti
i suoi sforzi e la sua scoperta fu presto dimenticata.
Il 1835 è un anno decisivo per la decifrazione dell’antico persiano: H. C. Rawlinson,
Rawlinson
ufficiale dell’Armata delle Indie, scopre a Behistun un’iscrizione trilingue di
ragguardevoli dimensioni: la prima scrittura conta più di quattrocento righe, le altre
due ne contengono un numero proporzionalmente più elevato. Si tratta di un testo
commemorativo che annovera le vittorie del grande re persiano Dario I e, come tutte
le iscrizioni di questa tipologia, essa contiene numerosi nomi di persona e un certo
numero di toponimi, per buona parte allora già noti, che consentirono allo studioso
di isolare tutti i 42 segni di cui si compone l’antico
antico persiano e di completare così la
decifrazione della prima lingua. Soltanto allora, con la decifrazione della prima
scrittura, gli studiosi furono in grado di affrontare le altre due iscrizioni.
La decifrazione dell’elamita
Dalla comparazione col persiano antico, appare subito chiaro che la seconda scrittura
ha una struttura sillabica, formata da sillabe semplici o complesse, da ideogrammi.
Ma la difficoltà maggiore è dovuta al fatto che non esistono lingue a cui si possa
comparare questa seconda scrittura, che verrà definita elamita dal nome della regione,
Elam (regione a ovest del corso inferiore del Tigri, chiamata Susiana dai Romani),
in cui era in uso. Grazie ai fortunati scavi a Susa, fu possibile avere a disposizione
una copiosa documentazione in elamita che consentì l’identificazione di 111 segni.
Si deve all’inglese E. Norris la redazione della seconda colonna e la decifrazione
dell’iscrizione di Behistun.
La decifrazione del babilonese
La terza colonna annovera un numero impressionante di caratteri, se ne contano
circa cinquecento. Di una cosa, tuttavia, si era consapevoli: si trattava della scrittura
dei Babilonesi e degli Assiri. La difficoltà che i decifratori incontrarono fu dovuta
soprattutto alla complessità della lingua, che non aveva pari e non poteva essere
confrontata con nessun’altra lingua conosciuta. P. E. Botta e A. H. Layard,
Layard nel
frattempo, avevano riportato alla luce le città di Ninive, Khorsabad e Nimrud e qui
avevano rinvenuto un’ingente quantità di materiale epigrafico con caratteristiche, se
non uguali, molto simili alla terza scrittura, e questo suscitò un grande interesse
nell’ambiente scientifico.
Spetta tuttavia a E. Hincks il merito di aver intuito la struttura complessa di questa
scrittura. A causa dell’alto numero di segni non poteva trattarsi di una scrittura
alfabetica né tantomeno puramente sillabica, ma nessuno avrebbe mai potuto
immaginare che in essa potessero coesistere sistemi diversi, perfettamente integrati
in una scrittura che mescola a sillabe semplici o complesse (sillabogrammi),
logogrammi. Così, ad esempio, il segno UD può avere valore fonetico: ud, ut, tu2,
tam, par, pir, lah, lih, hiš, o logografico ud = sole, giorno; babbar = bianco, brillante;
zalag = puro. Se uno stesso segno (come nel primo caso) può avere valori fonetici
diversi (polifonia) è anche possibile che segni diversi abbiano lo stesso suono
(omofonia): così il suono GU può essere espresso da segni diversi. Inoltre, esiste
un’altra categoria di segni, detti determinativi, che, anteposti o posposti a una
parola, ne indicano la categoria di appartenenza (sesso, divinità, toponimi, piante,
materiale).
Si può immaginare lo sconcerto nel mondo accademico e anche lo scetticismo
nell’accogliere queste “ipotesi”. Occorreva una dimostrazione inconfutabile e la
fortuna volle che, nel 1857, quattro valenti ricercatori si trovassero
contemporaneamente a Londra: si trattava di H. C. Rawlinson,
Rawlinson E. Hincks, J. Oppert
e F. Talbot. Essi ricevettero l’incarico da parte della Royal Asiatic Society di
decifrare, lavorando separatamente, un’iscrizione del re assiro Tiglatpileser I,
rinvenuta nell’antica città di Assur. Quando ciascuno dei quattro studiosi, alcuni
mesi dopo, presentò alla Royal Asiatic Society la propria traduzione, fu subito
evidente la convergenza delle interpretazioni: nessuno, ora, avrebbe più potuto
confutare la scientificità del metodo d’indagine adottato. Una nuova scienza era
nata: l’assiriologia
assiriologia.
assiriologia
Ventris e la sfida della Lineare B
Anche a Creta le scritture lanciarono la loro sfida ai decifratori.
In particolare la Lineare B, dopo molti anni di ricerca, venne definitivamente
‘decifrata’ nel 1952 da Michael Ventris e John Chadwick come una forma arcaica di
greco (decifrazione di grande valore scientifico perché ottenuta senza l'aiuto di testi
paralleli, come per esempio, nel caso della stele di Rosetta). Ventris, aviatore
nell’ultima guerra mondiale, si era già occupato di criptoalfabeti. Ventris affrontò il
lavoro seguendo questa tecnica: iniziò col calcolo statistico delle percentuali dei
segni, giungendo alla conclusione che si trattava di una lingua flessiva. Dopo aver
individuato il segno più ricorrente nelle tavolette, lo associò alla lettera più
frequente in inglese (ma anche in italiano), la e; passò quindi al segno successivo, e
così via. Il computo della frequenza di un simbolo grafico fu proprio il fondamento
della decifrazione. A questo punto a Ventris non restava che provare a leggere nelle
iscrizioni della Lineare B qualche vocabolo. Da dove cominciare se non dai toponimi?
Decifrò allora, nelle tavolette di argilla, A-mi-ni-so, e di lì a poco anche Ko-no-so, ossia
Cnosso, la residenza del mitico re Minosse.
Ma ad un certo punto della sua avventura lo studioso ebbe necessità della
collaborazione di uno specialista, e il caso volle che fosse un giovane studioso di
dialetti greci, John Chadwick, il quale in seguito sarebbe diventato il principale
esegeta della Lineare B.
Ventris morì in un incidente stradale la notte del 6 settembre 1956, nei sobborghi
di Londra, a soli trentaquattro anni. Il suo amico e compagno di lavoro, John
Chadwick ha riassunto in poche parole il genio speciale di Ventris (che è poi quello
di ogni decifratore): “Michael era capace di intuire nella frastornante diversità dei
segni di quella scrittura, gli schemi e le costanti che rivelavano la sua struttura
nascosta. E’ questa qualità, il dono di cogliere l’ordine sotto le apparenze della
confusione, a rivelarsi il tratto distintivo dei grandi uomini in tutto quello che essi
hanno prodotto”.
8. I supporti scrittori dell’Antichità
Il papiro
Molto usato in Egitto, esso veniva preparato tagliando sottili strisce dal midollo
fibroso di una canna che cresceva spontaneamente nel delta del Nilo: due strati di
strisce, l’uno sovrapposto all’altro ad angolo retto, venivano compressi insieme per
formare i fogli, che potevano poi essere incollati insieme in una lunga fila per
formare un rotolo. Chi leggeva lo doveva svolgere gradualmente, usando una mano
per tenere la parte che aveva già visto, arrotolandola durante la lettura; il risultato era
che, al termine della visione, la spirale risultava capovolta e chi avesse voluto leggere
nuovamente il testo avrebbe dovuto srotolare di nuovo l’intero volume.
Si facevano fogli di diverse misure, ma in media un libro accoglieva una colonna di
testo alta tra i venti e i venticinque centimetri, con un numero di linee di scrittura
variabile tra venticinque e quarantacinque. Il testo classico che riporta la tecnica di
fabbricazione della carta di papiro è quello di Plinio (secolo I d.C.), Naturalis historia,
(XIII, 74-77; 81-82).
Gli ostraca
Un materiale scrittorio accessibile a tutti e perciò molto usato nel mondo antico,
sono gli ostraca: cocci di vasi di terracotta, raccolti tra i rifiuti e scritti nella parte
convessa. Si adoperavano per scritture di ogni genere, ma è particolarmente noto
l’uso che se ne faceva in Atene, per l’istituzione chiamata appunto ‘ostracismo’, una
sentenza di esilio decennale contro i cittadini ritenuti pericolosi per l’equilibrio
interno della vita dello Stato.
Il nome della persona da ‘ostracizzare’, seguito dalla parola ‘via’ e talora anche da
insulti, veniva scritto appunto su cocci di vaso che venivano poi depositati a
rovescio per garantire la segretezza del voto.
Le tavolette cerate
Esse vennero impiegate inizialmente in ambito greco per scrivere testi correnti e
presentano molto spesso gli stessi caratteri grafici dei papiri, cosicché sono
ugualmente oggetto dell’epigrafia e della papirologia dal punto di vista scrittorio. Ne
sono rimaste un discreto numero, provenienti da molte parti del mondo grecoromano.
Ogni tavoletta lignea presenta una faccia perfettamente liscia e l’altra delimitata da
una cornice; lo spazio rettangolare compreso all’interno di questa è di spessore
minore ed è ricoperto di cera molto dura sulla quale si scrive incidendo i segni con
uno stilo di metallo appuntito a una estremità, piatto, a spatola, dall’altra, per
cancellare eventuali errori di scrittura. Due (o più) tavolette vengono accostate
facendo combaciare i bordi rilevati, in modo che le due facce cerate rimangano
all’interno senza toccarsi.
Le etichette lignee
Servivano a contrassegnare le mummie. Esse recavano il nome, la paternità, la
maternità, il luogo di provenienza del defunto, il suo mestiere. Talora esse hanno
testi più lunghi: portano le date di nascita e di morte, ed espressioni religiose, o di
ricordo, o di affetto, e simili: sono, per la povera gente, un surrogato economico
dell’iscrizione funebre.
Le monete
Pur non potendo essere considerate “materiale scrittorio” nel senso pieno della
parola, anche le monete presentano generalmente una parte epigrafica, alla quale è
affidato innanzitutto il rilevante compito di dichiarare l’autorità emittente. Le
monete greche la enunciano al genitivo plurale (per es. “degli Ateniesi”),
sottintendendo dunque una parola come “moneta”. L’uso del genitivo singolare è
presente sulle monete dei sovrani ellenistici, sulle quali, dopo la morte di Alessandro
Magno, l’autorità emittente viene espressa anche grazie al ritratto. La monetazione
romana repubblicana, oltre all’indicazione “ROMA”, specifica anche il nome dei
magistrati addetti all’emissione delle monete; in età imperiale, invece, il Diritto
riporta il nome e le cariche ricoperte dall’imperatore (per es. Console, Pontefice
Massimo), mentre la scritta del Rovescio commenta il soggetto raffigurato. A questo
lato è spesso demandato il ruolo di amplificare aspetti dell’ideologia del potere,
celebrando le virtù e le imprese dell’imperatore. Sulle monete medievali la parte
epigrafica può sovrabbondare quella figurata, limitata talora ad una croce. Le scritte
possono anche indicare il valore delle monete, tramite un nominale (per es. “X” per
il denario romano che valeva 10 assi) e, dal XIV secolo, anche tramite il nome stesso
della moneta. Fin dal III secolo d.C. può inoltre essere segnalato il nome della città
sede della zecca. L’indicazione dell’anno di emissione è invece sporadica nel mondo
antico. La consuetudine di datare le monete in base al calendario dell’era cristiana si
diffonde in Europa solo dal XVI secolo in poi.
Queste funzioni si mantengono nel sistema dell’Euro: così il pezzo del valore di 1
Euro coniato in Italia, reca sul Diritto il valore della moneta e sul Rovescio, ai lati
dell’“Uomo di Leonardo”, la lettera “R”, iniziale della zecca di Roma, e l’anno di
emissione. Diversamente dall’Italia, alcuni Stati come la Spagna e l’Olanda, indicano
anche il nome della nazione.
I bolli
Firme, sigle, frasi, contrassegni, numeri o scolpiti o graffiti o impressi sulle più
disparate categorie di oggetti, di tutti i materiali possibili e per i più svariati usi della
vita privata, caratterizzano la vasta classe di suppellettili nota con il nome di
instrumentum domesticum. Alcune scritte sono relative alla funzione dell’oggetto (pesi,
stadere, tessere alimentari, teatrali, sigilli, anelli, anfore, ecc.), altre recano il nome
del possessore o frasi (augurali, scherzose, ingiuriose), altre ancora contengono il
nome del fabbricante. Ci troviamo in questo caso di fronte a un marchio di fabbrica,
la cui validità giuridica è dimostrata dall’interesse della giurisprudenza nella tutela
dei marchi e nella lotta contro la concorrenza sleale. Il nome del proprietario della
cava (figlina) o della fabbrica (officina), il nome del gerente, talora combinato con
quello dell’operaio sottoposto, garantiva la qualità del prodotto, la sua provenienza e
consente oggi agli studiosi di comprendere il sistema organizzativo dell’impresa nel
mondo antico.
Le epigrafi
Le epigrafi (in latino tituli) sono iscrizioni (incise, graffite o dipinte) di varia
lunghezza e contenuto realizzate su materiale di supporto duro (pietra, marmo,
bronzo, piombo, terracotta, ecc.) scelto a seconda dell’uso al quale era destinato o
per garantire la durata del testo o documento inciso. Tuttavia, in molti casi, le
vicende delle iscrizioni smentirono le previsioni: ad esempio, il bronzo, utilizzato
soprattutto per conservare i documenti ufficiali, venne fuso in età tardoantica dalle
popolazioni barbariche per altri usi pratici. Il materiale più usato era la pietra e, per
le iscrizioni di maggior pregio, il marmo, mentre per l’uso più comune (instrumentum
domesticum) si ricorreva a materiali economici e correnti come la terracotta e il ferro.
L’uso delle iscrizioni, per la loro stessa natura, era ampiamente diffuso in molti
settori della vita pubblica e privata del mondo antico, soprattuto greco e romano: in
base al loro contenuto esse si distinguono in funerarie (la stragrande maggioranza),
sacre ed ex-voto (per onorare le divinità o ringraziarle per benefici ricevuti), onorarie
(ad esempio, gli elogia di generali ed uomini di stato e le iscrizioni imperiali romane)
militari (contenenti indicazioni sui movimenti delle legioni,, la provenienza dei
militari), ecc.
La diffusione dell’epigrafia nel mondo antico è subordinata alla disponibilità o meno
di materiale scrittorio appropriato e rispecchia l’evoluzione sociale e politica: ad
esempio, le leggi scritte, incise su pietra o bronzo, ed esposte pubblicamente
garantivano una oggettività nella loro applicazione. Ai testi epigrafici si faceva
ricorso anche per ragioni propagandistiche e politiche (un caso particolare sono le
pitture parietali di Pompei) o di comunicazione individuale.
Spesso inserita in contesti monumentali, l’iscrizione era un modo di raggiungere
incisivamente un pubblico ampio, di perpetuare la propria memoria o di testimoniare
l’adesione a fedi religiose. In questo ultimo caso si faceva spesso ricorso a formule o
espressioni e a simboli iconografici che indicavano il proprio credo (per i Cristiani,
ad es., la colomba, la palma, il pesce).
L’imponenza del numero di iscrizioni rimaste (solo in ambito romano esse
ammontano ad oltre 300.000) indica l’importanza che esse hanno assunto per la
ricostruzione storica del mondo antico.
9. Le scritture della Scrittura
La Bibbia ebraica è stata tramandata in due lingue: la maggior parte in ebraico e
alcune sezioni in aramaico (Daniele 2,4 - 7,28; Esdra 4,8 - 6,18; 7,12-26 e un
versetto di Geremia 10,11). Nella Bibbia cristiana, ovvero Primo o Antico
Testamento, ci sono libri e aggiunte che non fanno parte delle scritture ebraiche, ma
provengono dal giudaismo di lingua greca, e sono inclusi nella Bibbia detta dei LXX
(dal numero leggendario e simbolico dei traduttori). Alcuni di questi libri (Sapienza,
2Maccabei e alcune ‘aggiunte’ ai libri di Ester e di Daniele) sono stati composti
direttamente in greco, altri (Tobia, Giuditta, Baruc, 1Maccabei) ci sono pervenuti in
greco, ma il testo originale era in lingua semitica (ebraico o aramaico). Il Siracide (o
Ecclesiastico), di cui ci è giunta interamente solo la versione greca, fu scritto in ebraico
e
e una buona parte di tale testo è stata rinvenuta nella G nîzâ di una sinagoga del
Cairo (1896 e 1931); altri frammenti sono stati trovati poi a Qumrân (nel 1955) e
a Masada (nel 1964), nel deserto di Giuda.
Fra i testimoni del testo biblico ebraico/aramaico che ci sono pervenuti,
distinguiamo i diretti, cioè i manoscritti in lingua originale che riproducono parti estese di
testo, e gli indiretti, cioè le antiche versioni (soprattutto in greco, latino, aramaico,
siriaco, copto, armeno, georgiano, etiopico, arabo), che ci danno il testo intero tradotto e
le citazioni (ovvero parti brevi di testo in lingua originale). I manoscritti della Bibbia
ebraica sono per la maggior parte di epoca medievale (dal IX secolo d.C.) e
presentano il testo, anche vocalizzato, in scrittura ‘quadrata’. Le grotte di Qumrân
(specie la 1 e la 4) ci hanno restituito manoscritti biblici databili sin dal II secolo
a.C. e il I d.C. sia in scrittura paleoebraica (libri del Pentateuco) sia in scrittura
‘quadrata’ (di tutti i libri biblici tranne Ester), ma del solo testo consonantico [e
della versione greca più antica, detta dei LXX, iniziata nella I metà del III sec. a. C.].
Molte varianti testuali sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento sono sorte a causa
della confusione fra lettere paleograficamente simili. Altre varianti traggono origine
dal fatto che sia in greco sia in ebraico/aramaico le lettere hanno anche valore
numerico.
10. La scrittura araba
Iscrizioni in caratteri nabateni e sudarabici risalenti al III secolo della nostra era
sono le prime attestazioni scritte della lingua araba, il cui più antico vero e proprio
documento è l’epigrafe funeraria del leggendario re-poeta Imru’ l-Qays (328 d.C.).
Dopo l’avvento dell’Islam, nel VII secolo d.C., la lingua araba ha conosciuto
un’enorme diffusione e il suo alfabeto si è imposto anche presso popolazioni che
parlavano lingue di ceppo diverso, come il persiano e il turco ottomano, di modo che
i caratteri arabi sono quelli più utilizzati al mondo, subito dopo quelli latini.
Le forme di base di tali caratteri erano in origine solo 18, ma l’introduzione dei
punti diacritici ha generato 28 segni alfabetici differenti, ciascuno dei quali può
assumere fino a 4 forme diverse a seconda della posizione che occupa rispetto ad
altri caratteri (iniziale, mediana o finale all’interno di una parola, oppure isolata). La
scrittura procede da destra a sinistra e nei testi comuni solitamente non riporta le
vocali che non sono lettere, ma segni esterni al corpo della parola. Ciò rende difficile
la lettura a chi non conosca il lessico e la grammatica, tant’è vero che un celebre
detto arabo afferma: “Bisogna che tu capisca per leggere e che tu legga per capire”.
Il divieto di raffigurare esseri animati ha indotto l’arte musulmana a sviluppare
motivi ornamentali geometrici o floreali, ma la scrittura stessa è spesso utilizzata al
medesimo scopo dando vita a una mirabile varietà di stili calligrafici che si
distinguono per raffinatezza ed eleganza.
11. Il mistero etrusco
Artefici di una delle più ricche civiltà dei tempi antichi, gli Etruschi furono le prime
genti italiche ad adottare l’alfabeto greco, che comprendeva 22 segni dell’alfabeto
fenicio più quattro segni propri dei greci. La più antica attestazione è l’alfabetario di
Marsiliana, che risale al 700 a.C. Si tratta di una tavoletta d’avorio che porta inciso
sul contorno un alfabeto completo, modello di scuola ma anche, probabilmente,
oggetto votivo. Gli Etruschi conservarono la serie alfabetica greca completa solo
negli alfabetari; nell’uso testuale invece essi adattarono l’alfabeto alle specificità della
loro lingua, abbandonando alcuni segni sentiti inutili per la fonetica dell’etrusco:
segni per indicare tre consonanti sonore <b, d, g> e quello per la vocale <o>. Una
caratteristica della scrittura etrusca è l’alternanza complementare di <k> davanti a
<a>, <c> davanti a <i, e> e <q> davanti a <u>.
A partire dal VI secolo l’alfabeto etrusco si diffuse in tutta l’Etruria propriamente
detta, e poi a nord di essa e a sud, nell’Etruria campana, con varianti locali. Sappiamo
che l’insegnamento della scrittura era praticato soprattutto presso i santuari, come
Pyrgi o Veii.
Gli Etruschi ci hanno lasciato nelle loro tombe splendide pitture e sculture. Sono
state inoltre ritrovate circa 10.000 iscrizioni che si differenziano a seconda delle
località. La lingua degli Etruschi continua tuttora a rimanere un mistero, vale a dire
che può essere letta, ma non ancora interpretata; in pratica si conoscono i suoni dei
segni alfabetici, quindi si possono ipotizzare le pronunce delle parole, ma spesso se
ne ignorano i significati. I re etruschi regnarono su Roma fino al V secolo a.C.,
quando furono cacciati dalle popolazioni che vivevano nel Lazio. Con la
romanizzazione scompare definitivamente anche la scrittura etrusca.
12. Scritture e lingue dell’Italia antica
Le lingue dell’Italia antica presentano sistemi di scrittura derivanti dall’etrusco, dal
greco e, in seguito all’espansionismo romano, dal latino.
Tra il Piemonte orientale, la Lombardia, il Canton Ticino meridionale e la Liguria
era parlato il leponzio.
leponzio Iscrizioni leponzie sono state trovate nella Val d’Ossola, nelle
zone del Lago di Como, di Lugano, Maggiore e d’Orta. Si tratta di circa una
ottantina di testi che, in prevalenza, contengono nomi propri. La scrittura è di
derivazione etrusca; l’iscrizione più lunga sembra essere quella di Prestino, presso
Como. Il gallico era parlato in Piemonte, Lombardia ed Emilia. Un’iscrizione gallica,
con alfabeto di derivazione etrusca, è stata trovata a Briona (Novara); una bilingue
gallico-latina, della seconda metà del II secolo a.C., a Todi. Nel Tirolo
settentrionale, nelle valli delle Dolomiti, a Verona, Padova e Sondrio è documentato,
con un alfabeto di derivazione etrusca, il retico. A parte sono considerate le
iscrizioni della Val Camonica, in prevalenza graffiti rupestri, che costituiscono il
camuno.
camuno Ben documentato è il venetico con documenti da Este, Padova, Vicenza,
Treviso, Oderzo, Agordine, Làgale (Cadore), Gurina (Carnia), Belluno. E’ adottata
una scrittura dalla forma documentata da iscrizioni funerarie e votive (molte
provengono dal santuario della dea Reitia). L’alfabeto è di tipo etrusco, singolare
l’interpunzione sillabica. Tra il VII secolo a.C. e il II a.C. è documentato il falisco
con iscrizioni da Civita Castellana e da Falerii Novi. Con circa 300 testi, databili tra
la fine del VI secolo a.C. e il I secolo a.C., è testimoniato il messapico,
messapico diffuso nella
penisola salentina (Lecce, Brindisi, Taranto). L’andamento di scrittura è destrorso
(da sinistra verso destra), le parole in genere non sono separate. L’alfabeto, nei suoi
tratti principali, è derivato da quello greco. Il piceno,
piceno con alfabeto di derivazione
etrusca, è conosciuto nella sua variante settentrionale con un’iscrizione scoperta a
Novilara e con frammenti da Pesaro e Fano e nella sua variante meridionale con testi
compresi in una zona tra le antiche regioni del Piceno e del Sannio. L’umbro
umbro,
umbro
realizzato in alfabeto epicorico derivato dall’etrusco e dal latino, è documentato da
sette tavole di bronzo trovate nel 1444 a Gubbio, l’antica Iguvium (da qui, tavole
iguvine), scritte su entrambi i lati. Databili intorno alla seconda metà del II secolo
a.C., scritte con caratteri epicorici o latini, costituiscono il più importante testo
rituale dell’antichità classica. L’osco
osco è redatto in tre alfabeti (greco, latino, epicorico
derivato dall’etrusco) e copre un vasto territorio che va dall’Abruzzo fino a Messina.
Sono attestati anche dialetti minori: tra di essi si ricordano quello dei Peligni,
Peligni dei
Marrucini,
Marrucin dei Vestini,
Vestini dei Volsci,
Volsci dei Marsi,
Marsi dei Sabini.
Sabini In Sicilia sono attestati, con
scrittura di tipo greco occidentale, il siculo e l’elimo
elimo.
elimo
13. La scrittura nel mondo germanico
La scrittura runica
La prima scrittura utilizzata nel mondo germanico è la scrittura runica, di tipo
alfabetico e di uso epigrafico, attestata dalla fine del II o inizio del III secolo d.C.
L’alfabeto runico germanico è detto fuþark dalle prime sei lettere che lo compongono;
i segni sono 24 e la loro successione è diversa da quella di tutti gli altri alfabeti. Il
fuþark antico è utilizzato dal 200 al 700 circa presso tutte le popolazioni germaniche.
La forma originaria delle rune, suddivisa in tre gruppi di otto era la seguente:
settiz gruppi di otto, è dovuta ad esigenze
fuþarkgw hnijïpRs tbemlŋod. La sequenza in settiz,
mnemotechiche. Nella loro forma le rune non presentano angoli retti né tratti
orizzontali per esigenze di incisione. In origine le rune erano soprattutto incise su
legno e l’incisione doveva con ogni probabilità assecondare l’andamento verticale
delle fibre del legno.
Il fuþark recente è costituito da 16 segni ma riguarda solo la Scandinavia dall’VIII
secolo in poi. Il nuovo fuþark semplificato continuerà ad essere usato per lungo
tempo e in alcune regioni svedesi si trovano attestazioni di rune fino al XV-XVI
secolo. In Inghilterra l’antico fuþark di ventiquattro segni si è arricchito di ulteriori
caratteri che riflettono l’evoluzione fonetica della lingua. L’alfabeto runico
anglosassone passò dapprima a ventotto segni per poi arrivare a trentatré. Tra le più
famose iscrizioni runiche anglosassoni si ricordano quelle del cofanetto Franks
(Northumbria, inizio VIII secolo), e quelle della croce di Ruthwell (Northumbria,
VIII secolo), entrambe di epoca cristiana.
A lungo si è discusso sulla provenienza di questi misteriosi caratteri e si può ormai
dire con certezza che derivano da alfabeti norditalici prelatini di origine etrusca e
passati al mondo germanico nel corso del I secolo a.C. quando la zona del Norico,
l’attuale Austria più una parte di Baviera e Boemia, fungeva da crocevia culturale tra
Veneti e Germani. La scrittura runica si diffonde poi verso Nord a tutto il mondo
germanico certamente seguendo la grande via commerciale dell’ambra, che collega
l’Adriatico con l’attuale Danimarca. La somiglianza con l’alfabeto greco arcaico si
spiega con il fatto che esso è stato il modello per l’alfabeto etrusco; l’identità di
alcune lettere con quelle latine è conseguenza della conquista del Norico da parte di
Roma nel 15 a.C.
In base alle conoscenze attuali sembra quindi che il fuþark sia stato creato verso la
fine del I secolo a.C. o l’inizio del I secolo d.C.
Inoltre, le iscrizioni runiche sono spesso accompagnate da alcuni simboli pre-runici
magico-rituali, antichissimi e diffusi in tutto il mondo indoeuropeo. I più frequenti
sono la ruota, il cerchio, la svastica, e rappresentano tutti la potenza irradiante del
Sole.
A conferma di questa ricostruzione è l’iscrizione dell’Elmo B di Negau, rinvenuto
nel 1811 nella Stiria (Austria orientale) e risalente all’inizio del I secolo a.C. Esso
costituisce la prima testimonianza scritta del germanico: i caratteri appartengono
all’alfabeto venetico ma il contenuto linguistico è germanico (formula di offerta alla
divinità), dal che si deduce che i Germani delle Alpi conoscevano e utilizzavano la
scrittura norditalica già nei secoli precedenti la nascita di Cristo.
L’alfabeto gotico
Anche i Goti, come tutti gli altri Germani, conoscono la scrittura nei primi secoli
della nostra era attraverso l’alfabeto runico, che per la sua natura epigrafica e il suo
uso magico-sacrale non può considerarsi adatto alla stesura di documenti letterari.
Nel IV secolo avviene presso i Goti ciò che per lungo tempo ancora non accade
altrove nel mondo germanico: nasce l’esigenza di creare un nuovo sistema grafico che
si presti alla stesura di un testo di notevole lunghezza e di facile diffusione.
L’iniziativa e il merito sono da attribuire interamente al vescovo Wulfila,
Wulfila ‘piccolo
lupo’, che per consolidare la fede ariana tra il suo popolo, convertito nel IV secolo,
ritiene fondamentale tradurre la Bibbia nella lingua gotica, impresa tanto più ardua
in quanto non esiste un alfabeto adatto allo scopo. La scrittura runica, oltre che
scomoda, risulta troppo legata al culto magico-pagano per essere un buon tramite
della nuova religione cristiana. Gli alfabeti greco e latino invece rischiano di
eliminare la specificità del gotico e di portare all’assorbimento della cultura
germanica da parte di quella classica, ben più strutturata e potente. Il fine di Wulfila,
capo politico oltre che spirituale, è quello di dotare il popolo gotico di uno
strumento culturale e religioso importante, senza per questo rinunciare alla propria
identità.
Wulfila, vescovo nel 348, nasce nel 311 e muore nel 382 a Costantinopoli. È
trilingue: oltre al gotico, sua lingua natia da parte del padre visigoto, conosce il
greco, appreso dalla madre cappadoce e indispensabile per il suo ruolo eminente in
seno alla Chiesa d’Oriente, e il latino, necessario per i contatti con la Chiesa
Cattolica e per studiare i testi classici.
Wulfila, quindi, ha a disposizione tre alfabeti diversi e non sente la necessità di
inventare alcun segno, bensì di armonizzare la scrittura onciale greca al sistema
fonetico gotico, ricorrendo in sei casi al fuþark e in due all’alfabeto latino.
L’alfabeto gotico è costituito da 25 segni alfabetici più due esclusivamente numerici
(90-900), disposti quasi nella stessa sequenza dell’alfabeto greco, del quale
mantiene anche l’abbinamento ad un nome e a un valore numerico.
Un manoscritto del X secolo circa attribuito ad Alcuino e conosciuto come Codice
140 di Salisburgo, ma ora Codice 795 della Biblioteca Nazionale Austriaca di
Vienna, contiene due alfabeti gotici, uno dei quali completo dell’unica versione
esistente dei nomi delle lettere e della traduzione in antico alto tedesco. Questo
codice è noto anche perché riporta la migliore tra le quattro versioni non epigrafiche
dell’alfabeto runico anglosassone.
Attraverso i manoscritti che contengono testi letterari gotici si conoscono due
versioni dell’alfabeto che differiscono nella grafia di tre caratteri e nel ductus:
inclinato a destra il primo, perfettamente diritto il secondo.
A parte il bellissimo Codex Argenteus, i codici scritti con l’alfabeto gotico sono quasi
sempre palinsesti del V-VI secolo, redatti in Italia e quindi ostrogotici. Quasi tutti i
manoscritti riportano parti della Bibbia tradotta nella seconda parte del IV secolo da
Wulfila, del quale non è sopravvissuto alcun testo originale ma solo copie di quasi
due secoli più tarde.
L’alfabeto gotico non sopravvive alla storia del popolo e della lingua gotica: rimane
in uso almeno fino al VI secolo e poi scompare con la fine della lingua gotica stessa e
non fu adottato da altre popolazioni germaniche.
14. La scrittura ogamica
In Irlanda, Scozia, Galles, nell’isola di Man è attestata, con circa 350 iscrizioni
comprese tra il V e l’VIII secolo d.C., la scrittura ogamica che deriva il suo nome dal
dio Ogme. La scrittura, di tipo alfabetico, è caratterizzata da incisioni in prevalenza
rettilinee che, in molteplici combinazioni, si dispongono ai lati di una linea centrale.
Il nome di ogni lettera corrisponde al nome di un vegetale, la scrittura riprende
quella latina, i segni sono 20 di cui cinque vocali e tre gruppi per un totale di
quindici consonanti che si distinguono per le combinazioni fra il numero degli
intagli (da uno a cinque) e per le quattro possibili posizioni rispetto allo spigolo
della stele che rappresenta il rigo ideale.
15. La scrittura armena
L’armeno è notato fin dal IV-V secolo d.C. in alfabeto autoctono. La fissazione per
iscritto della lingua ha coinciso con l’evangelizzazione.
Secondo la tradizione l’invenzione dell'alfabeto sarebbe da attribuire a Mesrop, detto
Mast’oc, nato verso la metà del secolo IV, morto nel 441; segretario del re armeno
Vramshapouch, e successivamente missionario, egli era conoscitore delle lingue e
letterature greca, siriaca e persiana.
L’Armenia storica si sovrappone in buona parte all’antica Urartu, ma è certo che la
conoscenza dell’urarteo era ormai andata perduta per gli Armeni. In territorio
armeno è attestato l’uso di altre lingue e scritture; vi sono state trovate anche
iscrizioni in aramaico. Il greco, d’altro canto, era ben noto alle classi dominanti;
insieme al siriaco esso era anche l’ovvio punto di partenza e di riferimento di tutta la
produzione religiosa, biblica, patristica, liturgica.
Prima dell’alfabeto inventato da Mesrop, la tradizione parla di un precedente, cioè di
un ridotto alfabeto costruito fuori dall’Armenia da un religioso di nome Daniele,
all’inizio del secolo V. Dall’alfabeto danielino sarebbe partito Mesrop,
modificandolo notevolmente, in quanto egli si era reso conto dell'inadeguatezza di
tale sistema, e aggiungendo altri segni fino ad ottenere il sistema che conosciamo.
Infatti l’alfabeto armeno mostra in modo evidente un intervento razionale e
pianificato che ha sfruttato al massimo le varianti dei tratti per ottenere 36 segni
diversi. A questi 36 segni ne sono stati aggiunti due in epoca medievale per rendere f
ed o aperta. Modellato sull'alfabeto greco, come si può notare dal fatto che il suono u
è notato con il digramma ow come in greco, l'alfabeto armeno è rigorosamente
fonetico, tendendo alla corrispondenza tra segno e suono.
16. La scrittura glagolitica e la scrittura cirillica
Alfabeto glagolitico
La scrittura glagolitica (in slavo glagolica, da glagol = parola, o glagola = disse) si
compone di 40 lettere.
E’ essenzialmente basata sulla scrittura greca minuscola del secolo IX, anche se
questa derivazione non è di immediata evidenza. Si tratta infatti di un alfabeto
complicato e singolare, che presenta un alto grado di originalità rispetto agli altri
alfabeti coevi. Oltre alla derivazione greca, sono riscontrabili in esso elementi copti
ed ebraici.
I santi Cirillo e Metodio sono unanimemente ritenuti i creatori della scrittura
glagolitica.
Essi erano nati in una famiglia greca di Salonicco (Tessalonica) ed avevano appreso
sin dall’infanzia lo slavo-macedone, a contatto con la numerosa comunità locale di
origine slava.
Nel secolo IX i santi Cirillo e Metodio diedero inizio alla evangelizzazione della
Grande Moravia, potente Stato slavo governato dal principe Rostislav. Per questa
missione essi portarono con sé il Vangelo tradotto in slavo-macedone e scritto in
glagolitico.
L’anno 863, quando Cirillo e Metodio furono inviati dall’imperatore bizantino
Michele III in Moravia, è quindi il termine cronologico ante quem della invenzione
della scrittura glagolitica.
Il glagolitico fu utilizzato prevalentemente per i testi liturgici.
Poiché secondo un principio stabilito in un concilio del secolo VIII, solo l’ebraico, il
greco e il latino potevano essere usati (in quanto lingue sacre) per fini liturgici, l’uso
liturgico del glagolitico venne in un primo tempo proibito, ma riammesso nell’880
per autorità papale.
La scrittura glagolitica presto si diffuse in altri paesi slavi, come la Serbia, la
Croazia, la Bulgaria.
Il glagolitico venne col tempo sostituito, presso i popoli slavi che lo avevano
adottato, dall’alfabeto cirillico, nato anch’esso nella seconda metà del secolo IX.
Continuò ad essere usato nella sola Croazia e lungo le sponde adriatiche fino a tempi
relativamente recenti. In questa regione soprattutto durante i secoli XV-XVI, esso fu
utilizzato non solo per i testi di carattere liturgico, ma anche per opere di contenuto
letterario e religioso.
Storicamente si distinguono due tipi di alfabeto glagolitico: la glagolica bulgara, di
forma rotondeggiante; la glagolica croata, dai caratteri più angolosi.
Alfabeto crillico
Nonostante la sua denominazione (kirilica), questo alfabeto non fu creato da san
Cirillo, mentre è stato identificato in san Clemente di Ochrida, allievo dei santi
Cirillo e Metodio, il suo probabile inventore.
Evidente è la sua derivazione dall’alfabeto greco, e più precisamente dalla scrittura
maiuscola onciale del secolo IX. Rispetto all’alfabeto glagolitico presenta una grafia
molto semplice, benché inizialmente si componesse di 43 lettere, ridotte poi a 30.
A partire dal secolo X la scrittura cirillica cominciò a sostituire il glagolitico presso i
popoli slavi da cui era stato adottato.
Verso la fine del secolo X, dopo la conversione al cristianesimo, nella Russia di Kiev,
assieme ai manoscritti bulgari contenenti i testi liturgici e le Sacre Scritture, fu
introdotta la scrittura cirillica.
In un primo tempo l’alfabeto cirillico s’impose come scrittura ufficiale della Chiesa
slava (sia ortodossa che greco-cattolica), diventando poi la scrittura nazionale degli
slavi ortodossi (Bulgari, Serbi, Russi e Bielorussi) e degli slavi di rito greco-cattolico
(Ucraini o Ruteni).
I popoli slavi facenti parte della Chiesa cattolica romana (Polacchi, Cechi, Slovacchi,
Sloveni e Croati) adottarono invece l’alfabeto latino come scrittura nazionale.
L’alfabeto cirillico si diversificò sulla base delle differenze fonetiche delle varie
lingue. Furono creati segni specifici atti ad esprimere alcuni suoni propri di una data
lingua. Si crearono così diverse scritture (russa, bulgara, serba ed ucraina) che hanno
come base comune il cirillico e che si differenziano per alcuni (pochissimi) segni o
lettere particolari.
17. Le scritture dell’India e dell’Indocina
La prima forma di scrittura del subcontinente indiano è attestata in qualche migliaio
di iscrizioni su sigilli dell’antichissima civiltà vallinda fiorita nel bacino dell’IndoSarasvatī nel III e II millennio a.C. Si tratta di una scrittura probabilmente logo-
fonetica, che ha finora resistito ai numerosi tentativi di decifrazione che si
susseguono da oltre mezzo secolo a questa parte a causa della brevità delle iscrizioni,
dell’assenza di testi bilinguie e dell’ignoranza della lingua sottostante.
Dopo un intervallo di piú di un millennio compaiono negli editti rupestri
dell’imperatore Aśoka (III secolo a.C) le prime attestazioni della scrittura che diverrà
la capostipite di tutte le scritture antiche e moderne dell’India e dell’Indocina: la
brāhmī (un’altra scrittura del medesimo periodo, la kharosthī, peculiare per la direzione
sinistrorsa unica in India, cadde ben presto in disuso). Si tratta di una scrittura
alfabetico-sillabica in cui ogni segno rappresenta una consonante accompagnata dalla
vocale implicita ‘a’. Le sillabe formate dalla medesima consonante con le altre vocali
richiedono l’uso di modificatori vocalici. Tutte le scritture indiane moderne si
basano sullo stesso principio.
La lingua delle prime iscrizioni brāhmī è una varietà di pracrito, un dialetto medioindiano del ceppo indoario della famiglia indoeuropea il cui esponente piú illustre è
il sanscrito, la grande lingua classica dell’India aria.
L’origine della brāhmī è tuttora controversa: l’ipotesi piú diffusa la riconduce a
scritture del gruppo semitico settentrionale (fenicio o aramaico) penetrate in India
nel V secolo a.C., ma non mancano tentativi di riconnetterla a sviluppi autoctoni
della scrittura vallinda. Anche nell’ipotesi di un’origine vicino-orientale, la brāhmī si è
comunque evoluta in maniera del tutto originale, adattando l’originario alfabeto
semitico sprovvisto di vocali (conformemente alla struttura esclusivamente
consonantica delle radici semitiche) alle esigenze della rappresentazione delle radici
indoeuropee in cui consonanti e vocali rivestono pari importanza. Quest’opera di
adattamento, cui ha contribuito l’antichissima tradizione degli studi foneticogrammaticali, culminati nell’opera eccezionale di Pānini (IV secolo a.C, forse il piú
insigne grammatico di tutti i tempi e di tutte le latitudini), ha prodotto un alfabeto
di circa cinquanta segni principali, organizzato secondo uno schema rigorosamente
fonetico, e capace di rappresentare i fonemi del sanscrito in maniera perfettamente
adeguata e priva di ambiguità.
Nel corso della sua evoluzione, la brāhmī ha dato successivamente origine a due rami
principali. Dal ramo settentrionale derivano tutte le scritture utilizzate per le lingue
antiche e moderne di ceppo indoario dell’India settentrionale: in particolare, la
scrittura devanāgarī (“la scrittura cittadina degli dei”) utilizzata generalmente per il
sanscrito oltre che per la hindī, la lingua ufficiale dell’Unione Indiana. Le scritture
settentrionali sono per la maggior parte caratterizzate da un tratto superiore
continuo che connette la sommità delle lettere di ciascuna parola (o gruppo di
parole) e da forme alquanto spigolose. Dal ramo meridionale derivano tutte le
scritture utilizzate per le lingue antiche e moderne di ceppo dravidico (non
indoeuropeo) dell’India meridionale e per la lingua indoaria di Sri Lanka: in
particolare, la scrittura grantha,
grantha utilizzata (ormai raramente) per il sanscrito e
soprattutto (in una sua variante) per il tamil, la lingua classica dell’India dravidica. Le
scritture meridionali non presentano il tratto superiore e hanno forme
prevalentemente tondeggianti; dispongono inoltre di segni aggiuntivi per
rappresentare fonemi ignoti all’indoeuropeo.
Da una variante di devanāgarī si è originata anche la scrittura tibetana (introdotta
intorno al VII secolo d.C. per influsso del buddhismo indiano). Da una variante di
grantha deriva invece la scrittura khmer della Cambogia (VI-VII secolo d.C.), che ha
dato origine a sua volta alla scrittura burmese (XII secolo), thai (XIII secolo) e lao
(XIV secolo).
Per effetto della dominazione islamica, un piccolo numero di lingue del
subcontinente indiano, tra cui la lingua urdū parlata in Pakistan, fa inoltre uso
dell’alfabeto arabo-persiano opportunamente adattato.
18. La scrittura in Cina
L’origine pittografica della scrittura cinese è tuttora sconosciuta: come gli egizi,
anche i cinesi attribuiscono ad essa una nascita leggendaria. All’origine vi sarebbero
tre imperatori, ed in special modo l’imperatore Huang Di, vissuto intorno al 2600
a.C., alla cui corte il cronista Cang Jie avrebbe ‘inventato’ la scrittura dopo aver
studiato i corpi celesti e gli oggetti naturali, in particolare le impronte degli uccelli e
degli animali.
I primi reperti di segni cinesi risalgono al XIV secolo a.C. e sono incisioni su
frammenti di gusci di tartaruga utilizzati per la scapulomanzia, o di ossa (per
l’osteomanzia): sono, cioè, interpretazioni oracolari delle tracce del fuoco lasciate su
tali materiali. La scrittura cinese, dunque, aveva in origine una funzione
prevalentemente rituale. Gradualmente, essa assunse anche funzioni amministrative e
culturali e per questo scopo furono usate tavolette di legno e rotoli di seta (V-III
secolo a.C.). Le tavolette erano di forma standard e contenevano un numero fisso di
caratteri. Questo determinò la regola (mantenuta tutt’oggi) di inscrivere il carattere
in un rettangolo ideale di dimensioni costanti, indipendentemente dalla sua
complessità in numero di tratti.
La prima razionalizzazione ufficiale della forma dei caratteri cinesi si ebbe durante la
dinastia Zhou (1110-722 a.C.) con la creazione dello stile del ‘Grande Sigillo’ (dà
zhuàn ). Successivamente, il ministro Li Si nel 213 a.C. realizzò i cosiddetti
caratteri del ‘Piccolo Sigillo’ (xiǎo zhuàn ). Nello stesso periodo fu inventata la
scrittura ‘a tratti’ (lì shū), la prima scrittura cinese ‘moderna’. A partire dal II
secolo d.C. nacque il kǎi shū, o ‘stile regolare’, che permetteva di cogliere in
modo preciso e distinto la struttura dei caratteri cinesi. Altri due stili si sono
sviluppati parallelamente al kǎi shū: lo xíng shū ‘stile corsivo’ e lo cǎo shū “stile d’erba”, una sorta di scrittura abbreviata, utilizzata nell’arte della calligrafia.
Il sistema di scrittura cinese in origine era costituito da ideogrammi con una forte
componente iconica. Successivamente, essi hanno acquistato anche un valore
simbolico: oggi possono essere suddivisi in caratteri ‘semplici’ e caratteri ‘composti’.
I caratteri ‘semplici’ sono rappresentazioni dirette di oggetti: ad esempio rì ‘sole’,
o dà ‘grande’; oppure sono simboli ideografici che indicano concetti astratti,
come shàng ‘sopra’. I caratteri ‘composti’ possono derivare dall’unione di due
semplici: ad esempio lóng ‘sordo’, formato dall’unione di lóng ‘dragone’ e di ěr
‘orecchio’. In generale, ogni carattere è ordinato per mezzo di una ‘chiave’ o
‘radice’, che permette di trovarlo sul dizionario e che ne dà la sfera semantica. Ad
esempio, la chiave huǒ ‘fuoco’, è presente in molti ideogrammi collegati alla sfera
semantica del fuoco: miè ‘spegnere’; dēng ‘luce’; ī ‘cenere’; yán •
‘infiammazione’; lú ‘fornello’. Il numero preciso dei caratteri cinesi non è stato
stabilito ufficialmente. Il dizionario Hànyǔ dà cídiǎn , revisionato nel
1994, ne riporta circa 56.000. Un cinese minimamente alfabetizzato, tuttavia, ne
conosce un numero molto inferiore: tra i millecinquecento e i duemila.
L’ultima riforma fatta allo scopo di semplificare e razionalizzare l’uso dei caratteri
fu messa in atto nel 1956. Alla semplificazione della scrittura corrispose l’adozione,
nel 1958, di un sistema di trascrizione ufficiale della lingua cinese per tutta la Cina:
il cosiddetto īī (lett. ‘mettere insieme i suoni’), con lo scopo di
diffondere in tutta la nazione un’unica lingua parlata, chiamata ǔōà
‘lingua comune’ (il ‘mandarino’).
Nell’area asiatica estremo e sud-orientale il sistema di scrittura cinese è il punto di
riferimento culturale: il vietnamita è stato trascritto utilizzando gli ideogrammi
cinesi fino al XVII secolo; il giapponese, oltre all’uso degli ideogrammi cinesi veri a
propri, ha elaborato due sillabari su tale base, chiamati katagana e hiragana. Nella
Corea del Sud sono in uso circa millecinquecento caratteri cinesi, che compaiono nei
giornali e nelle opere scientifiche accanto alla lingua nazionale, lo hangul.
19. Le scritture del continente africano
In Africa la maggior parte del sapere, altrove consegnato anche alla scrittura, è stato
affidato alla trasmissione orale: genealogie, cronache, diritto, regole di
comportamento, istruzioni scientifiche e linguistiche. Lo spazio lasciato al segno è
rimasto molto esiguo e a coprirlo si è provveduto attraverso sistemi grafici con
un’accentuata componente simbolica e pittografica (vedi i segni divinatori di molte
popolazioni, le pitture e le scarificazioni facciali e corporee, i simboli grafici e i
colori usati per decorare e rendere significativi oggetti d'uso, facciate di abitazioni,
capi d'abbigliamento, ornamenti, ecc.). Accanto a questi antichi sistemi ve ne sono
altri, nati in tempi relativamente recenti e come reazione a influssi esterni, che
condividono la caratteristica di essere ormai sillabici, anche se la loro origine prima è
a volte palesemente pittografica. Il più noto è quello vai (oltre 200 sillabogrammi)
ideato nel 1833 da Momolu Duwalu Bukele. Durante lo scorso secolo sono stati
creati diversi sillabari per il mende, il loma, lo kpelle ecc.
Scritture alfabetiche sono state invece elaborate per il bassa della Liberia (1920 c.), il
somalo (1920 c.), il malinke (1950), il wolof (1961) ecc.
Nel Camerun, ad esempio, è notevole la scrittura bamum creata dal sultano Njoya di
Fumban nel 1895; questa scrittura prevedeva inizialmente più di 1000 segni
pittografici, ridotti poi a 70 attraverso semplificazioni successive.
Quasi tutte queste lingue sono nate con l’obiettivo di costituire una scrittura
nazionale, non debitrice a scritture esterne (araba e latina).
Nel Nord Africa le scritture libica e berbera, nell'Africa orientale quella etiopica,
comprese solitamente tra le scritture dette alfabetiche (in realtà meglio definibili
come consonantiche), che si ricollegano alla famiglia semitica, sono invece già
documentate nei primi secoli della nostra era. Carattere di originalità ha l'alfabeto
tifinag dei nomadi Tuaregh, in tempi passati forse comune ad altri gruppi dell'area
libico-algerina.
20. Le scritture del continente americano
Le scritture dell’America meridionale
I cronisti di lingua spagnola, concordi nel negare alle popolazioni sudamericane il
possesso di una scrittura vera e propria, di fatto riferirono in seguito di forme di
scrittura indigena e di sistemi mnemotecnici in uso nell’impero incaico (secolo XVXVI), sistemi che si basano sull’associazione di un testo imparato a memoria con
pietruzze e semi vegetali di vario colore. Il sistema più complesso consiste nel
modellare in argilla, in piccole dimensioni, i pittogrammi di un testo ed applicarli ad
un supporto rigido. Ne risulta un testo tridimensionale, che viene letto esattamente
come le pittografie bidimensionali.
Le scritture mesoamericane
I simboli nelle raffigurazioni murali mostrano che la scrittura era nota in
Mesoamerica già fin dal I sec. d.C. I manoscritti mesoamericani erano eseguiti su vari
materiali : carta di fibra vegetale, per lo più una specie di Ficus, a volte trattata con
calce per sbiancarla e renderla liscia, pelle, tessuto di cotone. In seguito alla
Conquista la maggior parte di questi codici mesoamericani andò perduta o fu
volutamente distrutta dagli invasori.
I Maya
L’arco della cultura maya si estende dal sec. X a.C. fino alla Conquista.
I Maya conoscevano una scrittura elaborata che abbiamo in due versioni, una
monumentale e una nei manoscritti. La scrittura monumentale è attuata in glifi
incisi ma più spesso scolpiti in rilievo su stele, altari ecc. Ciascun glifo è composto
in modo da iscriversi in un rettangolo ad angoli arrotondati; il disegno è molto
complesso ed elaborato. I Maya erano in possesso di notevoli conoscenze
astronomiche e calendariali e la parte per noi più comprensibile dei loro testi è
proprio quella che comporta l’uso di cifre e cronogrammi. Molti dei codici maya,
sopravvissuti alla distruzione massiccia ordinata dai conquistatori, sono comunque
andati distrutti o perduti per incuria o disinteresse. Nella sua Historia (o Relacion) de
las cosas de Yucatán (circa 1566) Diego de Landa dà notizia del calendario maya, con i
nomi dei mesi e dei giorni e con i loro glifi; riporta inoltre un ‘alfabeto’ di 27 segni,
cosa molto improbabile visto che i glifi maya sono ben più numerosi. Sembra ormai
acquisito che la scrittura maya combinava i vari principi noti della pittografia con
quelli della logografia.
logografia
Scritture degli Indiani del Nordamerica
L’unica forma di scrittura conosciuta degli Indiani del Nordamerica prima del
contatto con gli Europei è quella pittografica. La attestano poche decine di winter
counts datati tra il XVIII e il XX secolo e provenienti da popoli delle Pianure e degli
Altipiani : Piedi Neri, Dakota, Kiowa ecc. Le pittografie dei winter counts, scritte in
genere con una disposizione a spirale dall’esterno verso l’interno su pelli di grandi
animali (alci o bisonti), sono quel che rimane di un doppio processo grafico-verbale.
In ogni tribù c’era un uomo specialmente deputato alle cronache : ogni nuovo anno,
dalla caduta della prima neve alla prima neve dell’anno successivo (da qui il termine
winter counts, racconti d’inverno), egli sceglieva, consultandosi con gli altri,
l’immagine che meglio sintetizzava pittograficamente l’anno appena trascorso, e
insieme formulava una breve frase che si riferiva a quell’avvenimento. Il
pittogramma veniva iscritto sul winter count, prolungando di un altro elemento la
spirale, mentre la frase veniva memorizzata.
A partire dal 1830 i missionari introdussero la scrittura tra gli Indiani delle praterie;
anche per questo l’uso dei winter counts decadde rapidamente.
21. L’alfabeto latino e la scrittura in epoca romana
Gli inizi della civilizzazione romana sono caratterizzati dai contatti con due culture:
l’etrusca e la greca. Gli Etruschi utilizzavano un alfabeto simile a quello greco,
comprendente 22 segni dell’alfabeto fenicio più 4 propri dei greci. Sembra oggi
prevalere tra gli studiosi l’ipotesi di una derivazione diretta dell’alfabeto latino da
quello etrusco, più che da quello greco: il sistema alfabetico che si impose fu
comunque quello di 23 fonemi, misti fra vocali e consonanti. Nel mondo romano
l’arte della scrittura fu per lungo tempo strumento di potere in mano ad
un’oligarchia; furono le smisurate conquiste romane che resero la scrittura una
pratica corrente e fecero sì che l’alfabeto latino fosse universalmente adottato in
tutto l’Occidente.
Alcune testimonianze di iscrizioni romane che risalgono al III-II secolo a.C.
permettono di trarre conclusioni sintetiche sui caratteri generali della scrittura.
La capostipite di tutte le scritture latine è la capitale arcaica (dal Lapis niger, la pietra
nera scoperta nel 1899 nel Foro romano con iscrizione bustrofedica, è stato
possibile ricostruire l’intero alfabeto latino arcaico) che veniva impiegata per
iscrizioni di tipo monumentale, producendo così diversi stili:
quadrata o epigrafica, scrittura elegante di grandi dimensioni e
1. la capitale quadrata,
denominata ‘quadrata’ per la regolarità delle proporzioni tra l’altezza e la
2.
3.
larghezza delle lettere (di norma eseguita su pietra con scalpello per iscrizioni
funebri, onorarie o dedicatorie)
la capitale attuaria usata per iscrizioni di tipo documentario, più agile e di forme
spontanee.
la capitale corsiva utilizzata per graffiti, di tipo attuario, ancora più spontanea
perché realizzata con strumenti scrittori diversi (pennelli, pezzetti di gesso o
carbone, con uno stilo su materia molle, calamo o fusto di canna tagliata) e su
supporti più duttili (tessuti, scorza d’albero, legno, terracotta, cera, piombo,
ecc.). Venne usata in seguito anche su papiro e impiegata come scrittura libraria
dal IV secolo d.C.
22. La scuola e gli strumenti per la scrittura nell’antica Roma
Il metodo di insegnamento della scrittura a Roma era simile a quello delle scuole
greche; lo scolaro romano tuttavia, fino al II secolo d.C., doveva apprendere in due
lingue (il greco e il latino).
Gli alunni tenevano sulle ginocchia delle tavolette di legno ricoperte di cera sulle
quali venivano tracciate le lettere con lo stilo,
stilo una sorta di bastoncino appuntito da
un capo per incidere le lettere e appiattito dall’altro per cancellare. Il maestro sedeva
in cathedra e insegnava agli studenti gli elementi formanti la lettera, l’ordine e il senso
con cui dovevano essere tracciati i tratti che la compongono (ductus
ductus)
ductus e come legare le
lettere l’una all’altra.
Si insegnava anche la tecnica della stenografia: divennero famose, riprese poi anche
dalle scuole clericali dal VII secolo, le abbreviazioni e legature chiamate note tironiane,
tironiane
dal nome di Tirone, un liberto di Cicerone che aveva ideato questo sistema
tachigrafico.
Per le scritture esposte (murarie) si usavano anche il pennello,
pennello pezzetti di gesso o
carbone adatti a scrivere sui muri.
Il calamo,
calamo il fusto di canna tagliato o le penne volatili (per lo più d’oca), si rivelarono
presto idonei a scrivere su papiro e pergamena. Dal IV secolo i termini di calamus e di
pluma si confondono e si scambiano, tanto che è impossibile stabilire quando il
calamo sia stato definitivamente abbandonato nell’uso. Le penne erano conservate in
una theca,
theca detta anche calamarium;
calamarium nel recipiente detto atramentarium c’era l’inchiostro.
Il processo di corsivizzazione della scrittura iniziato con l’impiego di supporti più
duttili della pietra o del legno favorì l’impiego di una nuova scrittura comune (per
cronache, testi di lavoro, corrispondenze, appunti).
23. La “rivoluzione”: il passaggio da rotolo a codice
Fino al III secolo avanzato il libro, nell’aspetto da noi conosciuto, rimase una rarità.
I vantaggi della forma a codice rispetto a quella del rotolo si resero da subito evidenti:
più pratico, capace, facile da consultare; le pagine numerate (dal XIV-XV secolo in
poi) rendevano più precisi i riferimenti e spesso l’aggiunta di un indice di contenuto
difendeva il testo tramandato da false aggiunte o altre manomissioni. Questi erano
argomenti molto validi in tempi in cui tanta parte della vita si imperniava
sull’autorità dei testi delle Sacre Scritture e del Codice, perciò è chiara l’importanza
della novità per la religione e per la legge. Ma fu rilevante anche per la letteratura:
poter copiare in un solo libro il contenuto di diversi rotoli significava che una
raccolta di scritti di argomento affine, o il meglio di un autore, poteva essere messa
sotto una copertina ed essere fruibile e trasportabile in una forma maneggevole.
Al papiro, che cresceva solo in alcune regioni, e al cuoio che, non avendo la stessa
duttilità, poteva essere usato come supporto di emergenza, seguì un altro materiale
scrittorio: al regno di Pergamo viene tradizionalmente attribuita l’invenzione di un
trattamento per le pelli d’animale (specialmente di montone, pecora e capra, perché
presentavano il vantaggio di poter essere scritte da entrambi i lati, ma anche gazzella,
antilope e persino struzzo) allo scopo di produrre una superficie adatta alla
scrittura. Ne risultò quello che oggi è chiamato appunto pergamena.
pergamena Per fabbricare la
pergamena il procedimento più usato era questo: si raschiavano le pelli e le si ripuliva
da ogni pelo o pezzetto di carne, poi si immergevano in un bagno di calce. Prima di
metterle a seccare su delle grate le si cospargeva di gesso che assorbiva le tracce di
grasso, e infine venivano nuovamente raschiate con una spatola. Il primo lavoro del
copista era quello di lisciare i fogli della pergamena con la lama di un coltello o con
una pietra pomice per rimuovere macchie e asperità e ottenere un levigato
leggermente granuloso che assorbisse l’inchiostro al punto giusto.
L’esperimento da principio sembrò avere vita breve; ma dai primi secoli dell’era
cristiana la pergamena diventò il materiale di uso comune per i libri: fra il II e il IV
secolo il rotolo di papiro sparì gradualmente per far posto al codice di pergamena,
cioè si adottò un libro essenzialmente simile a quello in uso anche oggi.
La maggior resistenza della pergamena la rese idonea ad essere impiegata nella
redazione di documenti destinati a durare: nell’uso diplomatico, e per documenti di
forme tradizionali, la pergamena viene adottata fino al Cinquecento.
24. Le scritture medievali
Nei manoscritti medievali troviamo grande varietà di tipi di scrittura ed in certi
momenti si verificarono canonizzazioni caratteristiche dell’aspetto e delle forme
della scrittura. Per tutto il Medioevo l’arte dello scrivere fu patrimonio quasi
esclusivo della Chiesa e venne coltivata praticamente nelle scuole annesse a cattedrali
o monasteri (scriptoria
scriptoria).
scriptoria
Sulla base comune della minuscola corsiva si svilupparono le cosiddette scritture
nazionali (dal VII all’VIII secolo).
In Italia i principali centri scrittorii furono le scuole capitolari di Ivrea, Novara,
Vercelli, Verona e Lucca, e i monasteri di Bobbio, Novalesa e Nonantola.
Importantissimo nell’Italia meridionale il centro scrittorio di Montecassino che fu il
punto di produzione della scrittura beneventana,
beneventana così chiamata perché la sua area di
diffusione coincise con il territorio dell’antico ducato di Benevento.
Tutte le scritture minuscole pre-caroline sono state identificate dalla localizzazione
geografica o per l’appartenenza ad un determinato scriptorium. E così vi fu la
merovingica in Francia, la visigotica in Spagna, la precarolina della Germania, la precarolina
svizzera,
svizzera ecc.
Accenno a parte meritano le scritture insulari (irlandese
irlandese e anglosassone)
anglosassone perché i
manoscritti inglesi e irlandesi presentano caratteri diversi. L’importazione in
Inghilterra di codici in scrittura latina si deve alla missione di quaranta monaci
diretti da Agostino, poi arcivescovo di Canterbury (fine del sec. VI).
L’’Irlanda si convertì al cristianesimo per opera di san Patrizio, che portò con sé
anche testi sacri, e vide soprattutto la diffusione della scrittura semionciale.
semionciale Arrivò
nelle isole anche la conoscenza dei sistemi abbreviativi romani, comprese le notae iuris
(abbreviazioni usate nei libri di diritto dal secolo II).
Si distinguono due tipi di scrittura: la maiuscola insulare (o insulare rotonda usata per
titoli e per codici interi, specie di carattere liturgico, che presenta spesso nei titoli un
alfabeto simile a quello delle antiche scritture runiche) e la minuscola insulare (o
insulare acuta,
acuta di uso più comune, di forme più acute, con una variante corsiva dal
tratto più libero).
25. La scrittura carolina
Il risveglio culturale e artistico che accompagnò la formazione del Sacro Romano
Impero e che va sotto il nome di ‘rinascita carolingia’ ebbe grande influenza anche
sul versante della scrittura. Il ritorno allo studio degli autori classici ebbe come
conseguenza l’imitazione delle antiche forme di scrittura.
L’incontro tra il riproporsi di maiuscole librarie e delle nuove minuscole corsive
generò uno stile di scrittura nuovo, particolarmente aggraziato e nitido alla lettura
che cominciò ad imporsi negli ultimi decenni del secolo VIII e presto sostituì tutte
le minuscole precedenti in uso nei vari paesi europei. Nel secolo IX la carolina si
diffuse nella Catalogna, nell’XI in Inghilterra e nel XII anche nel resto della Spagna.
Nata come scrittura libraria, entrò poi anche nell’uso documentario e cancelleresco.
Nell’XI secolo fu adottata anche dalla Curia romana.
Tra i principali centri scrittori si segnalano il monastero di S. Martino di Tours,
Tours le
scuole di Aquisgrana (sede imperiale), Treviri, Colonia e Magonza; i monasteri di
Fulda e Lorsch in Germania, di S. Gallo e Einsiedeln in Svizzera, le scuole cattedrali di
Verona e Vercelli,
Vercelli i monasteri di Bobbio e Nonantola in Italia.
In Francia e Germania si svilupparono anche scuole di miniatura specializzate
nell’ornamentazione dei manoscritti di questo periodo.
26. Il libro e la nascita delle università
Nel rinnovamento di civiltà che interessò tutta l’Europa durante il XII secolo fu
rilevante il progressivo diffondersi della cultura fuori dagli ambienti monastici ed
ecclesiastici. In ogni paese sorgono le Università che trasformano le città in centri di
produzione della cultura ai quali affluiscono in gran numero studenti di ogni
condizione, ecclesiastici e laici. Nel 1158 ebbe riconoscimento imperiale lo Studio
di Bologna; del 1215 sono i primi statuti dell’Università di Parigi, e poco dopo
sorge quella di Oxford. In Italia, per citare soltanto le maggiori: Padova (1222),
Napoli (1224), Roma (1303), Pisa (1340), Firenze (1349).
Si creò dunque il bisogno di moltiplicare i manoscritti per provvedere i testi
necessari all’insegnamento e si allestirono grandi officine librarie dove gli amanuensi
copiavano a pagamento. Nei centri universitari i librarii, cioè gli incaricati alla
produzione e alla vendita dei libri, si organizzavano in vere e proprie corporazioni,
sotto la sorveglianza delle autorità accademiche e coinvolgendo anche gli studenti
frequentanti. Si adottò il sistema della pecia (forse da petia, termine del latino volgare
dall’etimologia incerta): consisteva nella copia simultanea di fascicoli sciolti
(normalmente di 3 o 6 fogli) di un testo universitario; il risultato era la massima
rapidità di trascrizione e una notevole moltiplicazione dell’esemplare copiato. La
copia simultanea di esemplari diversi dello stesso testo, diviso in porzioni, diede vita
ad una vera e propria categoria a sé stante di libri, sia per il contenuto e le
caratteristiche esteriori, sia perché erano prodotti secondo norme fissate dalle
autorità accademiche.
La pagina scritta
Entro la pagina del manoscritto veniva delimitato un rettangolo, denominato
specchio di scrittura, traversato da una serie di righe tracciate con procedimenti
diversi (a piombo, a matita, a secco o ad inchiostro).
Inizialmente l’impaginazione era molto compatta, con parole e lettere serrate (nel
mondo romano era in uso anche la scriptio continua, cioè le parole non venivano
separate l’una dall’altra); poi si mirò a dividere, spaziare, evidenziare.
Il testo poteva essere disposto a piena pagina o su due colonne. Potevano essere
lasciati spazi per i capilettera decorati o miniature che solitamente venivano eseguiti
in un secondo momento.
Per i testi letterari, sacri o comunque destinati a libri preziosi, la scrittura tendeva
alla massima leggibilità, riducendo cioè al minimo fenomeni di troncamento,
abbreviazioni, ecc.
27. Dalla scrittura gotica alla scrittura umanistica
Nei secoli XII e XIII il libro cominciò a diventare un prodotto commerciale, spesso a
scapito della correttezza nella trasmissione dei testi. Si arrivò a un tipo calligrafico
duro, angoloso, adatto per manoscritti solenni e testi ufficiali. Accanto ad esso
sussisteva ancora una volta un tipo di scrittura più modesto, di ridotte dimensioni e
meno artificioso che proseguiva più direttamente l’evoluzione della ‘carolina’. Le
nuove forme vennero genericamente designate con il nome di gotica.
Fra le scritture genericamente designate col nome di gotica si distinguono:
• Textura:
Textura scrittura usata soprattutto nei manoscritti liturgici, dalle lettere grandi
e regolari
•
Littera bononiensis (dei manoscritti universitari bolognesi): di forma rotonda,
regolare ed elegante. Si diffuse in molti altri centri italiani
• Littera parisiensis (dei manoscritti universitari parigini): di ridotte dimensioni e di
esecuzione meno calligrafica
• Littera oxoniensis (dei manoscritti universitari inglesi): simile alla parisiensis ma più
serrata e con tratti meno spezzati
La minuscola gotica corsiva fu la scrittura di uso comune per i documenti, la
corrispondenza privata, i libri di conti e i registri. Se ne fece grande uso nelle
cancellerie sovrane (minuscola cancelleresca italiana) ma anche nei codici come
scrittura libraria (gran parte della letteratura italiana delle origini fu ad esempio
vergata in minuscola mercantile o mercantesca,
mercantesca una variante della cancelleresca). La
bastarda francese è un altro tipo di scrittura mista di elementi librari e corsivi,
caratteristica per l’aspetto massiccio dell’attacco delle aste discendenti che terminano
a punta verso il basso.
28. L’Umanesimo e la rivoluzione del canone grafico
La riscoperta dei classici nelle biblioteche dei monasteri e delle cattedrali, ad opera
degli umanisti del secolo XV, ripropose come canone grafico la scrittura carolina,
che era appunto la grafia con la quale tali codici erano stati esemplati tra il IX e il
XII secolo. Già Petrarca aveva biasimato la pratica contemporanea, disprezzando i
tratti spigolosi, serrati e di difficile comprensione della gotica e ne aveva adottato
una forma più rotonda e chiara. Gli umanisti si applicarono ad imitare le forme della
carolina (denominata littera antiqua in contrapposizione alla littera moderna,
moderna
rappresentata dalla gotica) introducendo e diffondendo una nuova scrittura,
l’umanistica
umanistica,
umanistica e la capitale umanistica copiata dalle epigrafi (per i titoli e laddove
occorreva una scrittura distintiva maiuscola).
Si individuano nei codici del periodo una umanistica libraria e una umanistica corsiva,
corsiva due
scritture minuscole che vennero adottate per tutto il Quattrocento. La minuscola
umanistica libraria sta all’origine del carattere tondo impiegato dai primi tipografi
italiani con l’invenzione della stampa. La corsiva deriva dall’incrocio tra la corsiva
gotica italiana e l’umanistica libraria. Usata soprattutto per documenti (anche nei
brevi pontifici) e carteggi, entrò anch’essa nell’uso tipografico più tardi, per opera di
Aldo Manuzio e diede origine al carattere che anche oggi chiamiamo corsivo (in
francese: italique).
italique
29. L’invenzione della stampa
Il passaggio dal manoscritto al libro a stampa rappresenta una svolta di enorme
importanza per la comunicazione delle idee, per la trasmissione delle opere e dei
messaggi culturali. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili si trasforma
radicalmente la metodologia della tradizione delle opere scritte, cessa quasi
completamente l’opera dell’amanuense e il libro da prodotto artigianale (ogni
manoscritto era un esemplare unico) diventa prodotto industriale e ‘uniforme’ (ogni
copia di una edizione è uguale alle altre). Gli autori non ricorrono più al copista, ma
allo stampatore, che è in grado di fornire rapidamente molteplici copie della stessa
opera e a prezzi decisamente inferiori, favorendo così la diffusione dei testi. Tuttavia
è evidente da parte del tipografo il desiderio di “imitare” formalmente con i caratteri
a stampa le scritture presenti nei codici medioevali e di utilizzare l’intero codice
come ‘modello’; il libro non era altro che il logico proseguimento ‘meccanico’ del
manoscritto - anche se, in realtà, la percentuale del lavoro dell’uomo era ancora assai
superiore a quella della macchina. Gli incunabuli erano formalmente assai simili ai
manoscritti, sia per il carattere che per la legatura: la differenza sostanziale stava
dunque nel prezzo (un quinterno manoscritto costava dieci volte di più rispetto a un
quinterno stampato!).
La stampa
Nel 1439 un orafo tedesco, Giovanni Gutenberg (1400-1468), cominciò a
sperimentare un procedimento che consentisse di far concorrenza ai copisti, e pensò
di fondere le lettere dell’alfabeto in altrettanti caratteri mobili, da combinare alla rovescia su
un piano, ricavando così la matrice per ottenere una pagina stampata; in sostanza,
l’idea era di trasformare in un carattere di metallo ciascuna delle lettere di un
manoscritto, superando in tal modo in efficienza, velocità ed economicità (i caratteri
potevano essere combinati e riutilizzati dopo la stampa di ciascuna pagina) anche la
stampa a caratteri fissi che era convissuta con il manoscritto; questo tipo di stampa
(silografia o stampa tabellare), già conosciuto in Cina probabilmente fin dal II secolo
dopo Cristo, venne praticato in Europa nei secoli XIII e XIV ottenendo stampe a un
solo foglio che riproducevano immagini sacre, calendari e carte da gioco.
Dopo dieci anni di esperimenti finalmente Gutenberg - a cui si erano associati
Giovanni Fust cittadino di Magonza e Pietro Schoeffer, copista e disegnatore che
aveva già lavorato a Parigi - produsse tra il 1452 e il 1455 le matrici per il primo
libro: si trattava di una Bibbia latina (detta Bibbia di 42 linee) in caratteri gotici - che si
ispiravano alla scrittura dei manoscritti medioevali, in particolare alla solenne
‘textura’, con forme strette, angolose dal piede uncinato. La Bibbia di Gutenberg (o
Mazarina), di cui esistono tuttora 48 esemplari, venne stampata in 190 copie a
Magonza con l’aiuto di una pressa di legno azionata a mano ottenuta adattando un
torchio per vino.
L’invenzione di Gutenberg si impose al mondo. Si calcola che già nel Quattrocento
siano state stampate 42.000 edizioni, mentre circa 520.000 titoli sono stati
stampati nel Cinquecento. Poco dopo il 1460 altri tipografi appaiono in diverse
città della Germania meridionale, espatriati da Magonza a causa della presa della città
da parte di Adolfo di Nassau. La diffusione della tipografia segue dapprima il corso
del Reno, antica e importante via commerciale, diffondendosi poi rapidamente in
tutta Europa e sostituendo quasi completamente il manoscritto. I libri stampati nel
Quattrocento vengono chiamati incunabuli, un termine convenzionale usato per la
prima volta nel 1688, dal latino “in cuna”, cioè libro neonato. Non raramente gli
incunabuli furono abbelliti da miniature nella tradizione dei codici, tanto che nella
stampa si era soliti lasciare lo spazio per le iniziali, talvolta di grandi dimensioni, che
successivamente venivano miniate. Ma venivano illustrati anche con incisioni in
legno, e sempre in legno erano incise le marche tipografiche che, verso la fine del
Quattrocento, erano usate dagli stampatori come simbolo della loro azienda e per
garantire autenticità e garantirsi da contraffazioni
30. La stampa in Italia: da Subiaco a Venezia
I primi tipografi arrivano in Italia verso il 1464, e precisamente a Subiaco, dove due
allievi di Schoeffer avevano sistemato la loro stamperia e dove prendono a modello le
scritture dei manoscritti posseduti dalla biblioteca del monastero. Qui venne creato
un nuovo carattere, il tipo romano, dalle forme tonde e dalle linee regolari, che si
ispirava alla scrittura carolina (a sua volta ripresa nel Quattrocento dalla scrittura
umanistica libraria) così chiamato perché si ispirava alla scrittura latina degli antichi
monumenti romani. La prima opera datata di tipografia italiana è il De divinis
institutionibus di Lattanzio, stampata nel 1465.
Da Subiaco l’arte della stampa si diffuse rapidamente dapprima a Roma e
successivamente in tutta Italia; ma fu a Venezia, ponte tra Oriente e Occidente, dove venne introdotta nel 1469 da Giovanni da Spira - che ebbe maggior sviluppo e
raggiunse un’altissima qualità.
A Venezia operò tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento il più
grande tipografo-editore italiano, Aldo Manuzio il Vecchio (1449-1515), umanista,
autore di una grammatica greca e traduttore dal greco, che si dedicò alla diffusione
dei testi classici - con la collaborazione di una Accademia di umanisti tra cui Pietro
Bembo ed Erasmo -, per i quali ideò una collezione di formato maneggevole,
economica, ma di alto livello. Manuzio utilizzò caratteri romani di grande
perfezione, ma soprattutto lanciò il carattere corsivo (aldino, o italique) ideato per lui
da Francesco Griffi di Bologna, che si era ispirato alla scrittura umanistica corsiva.
Capolavoro tipografico del Manuzio è il Polifilo di Francesco Colonna, pubblicato nel
1499. L’attività del Manuzio venne continuata nel Cinquecento dal figlio Paolo e dal
nipote Aldo Manuzio il Giovane.
Altro importante centro tipografico italiano del Quattrocento è Milano, dove la
stampa venne introdotta da italiani, e non da tedeschi, e dove venne per la prima
volta pubblicato a stampa un libro a caratteri greci. Sempre all’Italia si deve la
creazione dei caratteri tipografici ebraici, cui probabilmente furono interessati nel
Quattrocento gli artigiani e i finanzieri ebrei sparsi per tutta la penisola.
31. La stampa a mano in Europa fino al XIX secolo
La diffusione della stampa, se da una parte rinsalda i legami tra le nazioni europee e
fa dei prodotti della mente umana patrimonio comune, dall’altra parte sottolinea
l’esistenza delle frontiere linguistiche, in quanto presto gli autori e gli editori non
poterono più contare sul latino come lingua comune: il pubblico comincia a preferire
i libri stampati nella lingua madre. La cerchia dei lettori si allarga notevolmente e
cambia: la diffusione della lettura apre il mercato del libro a stampa anche alla gente
comune, oltre che agli studiosi, allargandolo anche alle donne e ai bambini. Il
desiderio di una informazione rapida e regolare porta alla nascita della stampa
periodica.
Dopo il ”secolo eroico”della sua invenzione, la stampa si adegua al mutare degli
indirizzi culturali e dei movimenti religiosi, Riforma, Controriforma e infine
dell’Illuminismo, cambiando di volta in volta anche formalmente, assumendo a
seconda del tipo di pubblicazione carattere di solennità o di grande semplicità e
maneggevolezza. Il libro assume per sé regole precise, definendosi sempre meglio nei
suoi elementi (frontespizio, marca tipografica, paginazione, tabelle, etc.). Nei secoli
XVII e XVIII la figura del tipografo-editore va scomparendo, e si va affermando la
divisione delle diverse competenze (disegnatore, fonditore, stampatore, editore,
libraio). Non si ha alcun sostanziale progresso nelle tecniche di composizione e di
stampa, i nuovi caratteri non nascono da originali concezioni stilistiche, ma si
limitano ad imitare e raffinare le creazioni dei secoli precedenti. Brillanti disegnatori
si dedicano a migliorare il disegno e la tecnica di fabbricazione dei punzoni e delle
matrici. Sotto il regno di Francesco I è in Francia che nasce una vera dinastia di
creatori di caratteri: sono gli Estienne, che, rifugiatisi a Ginevra, fecero di questa
città un importante centro della editoria europea. Durante tutto il Seicento si va
affermando la produzione editoriale dei Paesi Bassi, che offrono asilo ai tipografi
perseguitati dalla Controriforma e dall’Inquisizione: qui si sviluppano le grandi case
Plantin-Moretus e Elzevir che adottano i tondi e i corsivi diffusi dai punzonisti
francesi. In Francia nel 1693 l’Académie royale des sciences è incaricata di studiare le
tecniche di incisione, ed è l’incisore Philippe Grandjean che prepara una nuova serie
di sontuosi caratteri, i “romains du roi”. In Gran Bretagna è John Baskerville che nel
XVIII secolo rimedita lo stile imperante francese: l’arte tipografica diventa vero e
proprio oggetto di studio. Possiamo ricordare alla fine del Settecento i Didot in
Francia e in Italia Giambattista Bodoni. Bodoni (1740-1813), incisore e disegnatore
di caratteri, dopo il tirocinio fatto a Roma e dopo aver diretto la Stamperia ducale,
impiantò a Parma una propria tipografia, producendo stampe di gusto neoclassico
di grande regolarità, severità e accuratezza, avendo a sua disposizione un vastissimo
assortimento di caratteri (da lui prende il nome il carattere bodoni); egli teorizzò nel
suo Manuale tipografico (1788) “che i soli tipi, l’elegante distribuzione di essi, la
giusta proporzione dei margini, l’accuratezza dell’esecuzione” costituivano il pregio
di una edizione.
Nel XIX secolo, con l’avvento dei procedimenti meccanici, la tipografia, e con essa la
produzione libraria ha avuto uno sviluppo enorme, il libro è diventato un prodotto
industrializzato, ma non si è cessato, sull’esempio dei primi tipografi, di cercare un
punto di incontro tra tradizione e innovazione.
32. I materiali della stampa: i caratteri mobili e il torchio
I caratteri mobili
Per superare l’antieconomica incisione o fusione di intere pagine a metà del secolo
XV si realizzarono i caratteri mobili (cioè separati l’uno dall’altro). Era necessario
partire dai punzoni: parallelepipedi di acciaio temprato lunghi circa 45 mm. che
recavano intagliate in positivo lettere e segni ortografici precedentemente disegnati
dal tipografo. Questi venivano pressati su di una matrice di rame (più tenera) dove la
lettera risultava impressa in incavo. A sua volta la matrice veniva inserita in una forma
dove si faceva colare a caldo una lega di piombo, stagno e antimonio. Il metallo
raffreddato (carattere) veniva poi staccato dalla forma con grande abilità dal
fonditore. Con questo procedimento, usando un’unica matrice, si potevano ottenere
numerosi caratteri, che venivano poi levigati e rifiniti e allineati infine nella forma, in
modo che non si spostassero durante l’impressione. Quando la matrice si logorava a
causa delle numerose fusioni si poteva velocemente ottenerne un’altra riutilizzando
lo stesso punzone.
Nel secolo XV e all’inizio del Cinquecento il tipografo preferisce prepararsi da solo
le matrici; solo più tardi la fusione dei caratteri diventa un vero e proprio mestiere a
sé stante e il tipografo tende ad acquistarli come prodotto finito.
Se agli inizi dell’arte tipografica i caratteri tendevano semplicemente a riprodurre le
scritture manuali (gotica, rotonda, cancelleresca, scritture nazionali), col passare del
tempo lo studio dei caratteri terrà conto dei canoni della bellezza, della ricerca di
proporzione e di armonia diventando una vera e propria arte.
Il torchio
Con l’invenzione dei caratteri mobili e l’uso di inchiostri più densi e vischiosi il
tipografo preferisce ricorrere alla pressione meccanica del torchio – sostituendola a
quella manuale fino ad allora usata. Il torchio era già uno strumento familiare
all’epoca di Gutenberg; già utilizzato per usi domestici o industriali, venne adattato
all’uso tipografico e utilizzato per secoli senza variazioni strutturali importanti, ma
costantemente migliorato nei suoi elementi. Nei secoli XV e XVI era semplicemente
costituito da una struttura lignea sostenuta da montanti alti circa due metri
composta da un carrello mobile (che trasportava carta e forma fino a posizionarli sotto
la pressa, in modo da consentire l’inchiostrazione e la sostituzione di volta in volta
del foglio stampato) e dalla pressa vera e propria - detta platina - (azionata da una vite
a sua volta collegata ad una leva) che premeva il foglio di carta inumidito appoggiato
sulla forma inchiostrata (pagine composte e chiuse in un telaio). Azionare il torchio,
come si può immaginare, richiedeva un grande sforzo fisico (il lavoro combinato di
due validi artigiani consentiva di stampare anche 250 fogli in un’ora) e grande
attenzione per il corretto posizionamento della carta e per la giusta inchiostrazione,
in modo da evitare macchie e sbavature. Dal secolo XVI in poi il torchio venne
costantemente migliorato e razionalizzato dai tipografi, alcune parti in legno
vennero sostituite da altre in metallo e granito. Agli inizi del XIX secolo si
verificarono tali progressi in tutte le componenti della tecnica tipografica (carta,
composizione, inchiostro, etc.), che si sentì l’esigenza di una innovazione radicale;
venne progettata una macchina mossa dal vapore, e nel 1814 si potè stampare il
“Times” in 1500 copie all’ora.
Il torchio è tuttora usato da alcuni amatori, che nonostante le tecniche informatiche
e l’offset attualmente in uso, lo considerano strumento insuperabile per ottenere
impressioni impeccabili.
33. I materiali della stampa: l’inchiostro e la carta
L’inchiostro
L’inchiostro ‘al carbone’ (dal latino encaustum) era già conosciuto in Egitto fin dal IV
millennio avanti Cristo, e lo stesso Plinio ci riferisce di diversi metodi usati per la
sua preparazione. Ma sostanzialmente diverso dovette essere l’inchiostro tipografico
usato da Gutenberg. Infatti le soluzioni acquose con nerofumo fino ad allora usate
non potevano essere applicate in modo uniforme sulle superfici metalliche dei
caratteri. Si dovette ricorrere ad un inchiostro oleoso, mutuato probabilmente dal
mondo della pittura (la pittura a olio era già nota ai romani, e gli stessi fiamminghi
più di recente la praticavano utilizzando olio di lino e noce). Le notizie storiche
intorno all’inchiostro tipografico sono molto scarse, in quanto i tipografi erano
reticenti a diffondere le ricette che utilizzavano. Di certo l’inchiostro utilizzato da
Gutenberg e dai suoi successori era già di altissima qualità, e la stampa che ne
risultava era priva di ombre o macchie, tanto che gli incunabuli potevano gareggiare
in leggibilità e eleganza con i manoscritti del Quattrocento. Possiamo supporre che
fosse composto essenzialmente di olio di lino, trementina, e di nerofumo o
marcassite. Per spalmare in modo uniforme l’inchiostro sui caratteri veniva usato un
tampone di lana o pelo di circa 7 centimetri rivestito di pergamena appositamente
trattata.
La carta
La causa che spinse l’uomo a mettere a punto un materiale come la carta fu il
bisogno di poter disporre di un supporto comodo, maneggevole e poco costoso su
cui scrivere. La carta divenne materiale caratteristico della tipografia proprio per queste
qualità. La sua invenzione sembra essere da collocare in Cina durante il I secolo d.C.,
dove per la fabbricazione si utilizzarono dapprima ritagli di seta ridotti in pasta,
successivamente fibre di gelso e di bambù, lino, cotone, insomma materiale molto
economico; ma furono gli arabi a diffonderla in Europa già nell’XI secolo attraverso i
contatti che ebbero con la Penisola Iberica. Considerata all’inizio poco resistente,
venne per lungo tempo vietato l’uso della carta per i documenti ufficiali e
amministrativi. Tuttavia già nel XIII secolo in Italia, e precisamente a Fabriano,
erano in funzione ben otto cartiere. Furono proprio i cartai italiani a perfezionare le
tecniche di produzione, raggiungendo livelli qualitativi e quantitativi altissimi
esportando la loro produzione in tutta Europa, dominando per secoli il mercato. Alla
fine del XV secolo il primato della produzione della carta passò alla Francia, dove
diffusa era la coltivazione del lino e della canapa.
Punto di partenza per la produzione della carta furono prevalentemente gli stracci di
origine vegetale, che venivano lavati, pressati nei tini e lasciati a fermentare per
ottenere l’isolamento della cellulosa; in seguito venivano tritati e battuti da mulini a
vento o ad acqua fino ad ottenere una pasta in cui veniva immersa la forma (telaio di
legno su cui erano applicati fili metallici orizzontali e verticali – filoni e vergelle). Sulla
forma la pasta si depositava in modo uniforme e veniva poi lasciata ad asciugare. Il
foglio di carta ottenuto (che rispondeva nel formato a precise regole definite) veniva
in seguito pressato per eliminare l’acqua residua e collato con gelatina animale o
amido.
Per distinguere la propria produzione i cartai utilizzarono la filigrana, marchio di
fabbrica costituito da filo metallico piegato secondo disegni particolari e applicato
alla forma: la pasta di carta, colando, risultava meno spessa in corrispondenza del
disegno, che risultava così visibile. Una grande varietà di disegni è documentata
dall’opera del Briquet (Les filigranes, 1907): ricordiamo ad esempio la testa umana, la
croce greca, la mano guantata, la balestra di Fabriano.
34. La calligrafia
La calligrafia (secondo Plutarco “bella scrittura” o “bello stile”) è l’arte che insegna
a tracciare la scrittura, cioè a vergare e collegare, in modo regolare ed elegante, le
lettere e i numeri dell’alfabeto. La forma delle lettere dipende dallo strumento con
cui vengono tracciate (scalpello, pennello, penna, etc.) e dal materiale usato (pietra,
legno, terracotta, papiro, pergamena, carta). Per le scritture tracciate a penna il
risultato dipende dalla punta della penna usata (acuta, quadra o rotonda).
La tecnica scrittoria era molto considerata nel mondo antico, tanto che nelle civiltà
orientali pre-elleniche era riservata ai sacerdoti. Nel mondo romano esistevano dei
veri e propri ‘editori’ che riproducevano in più copie i manoscritti; un editto di
Diocleziano fissava il compenso dovuto ai copisti a seconda che scrivessero in
‘scriptura optima’ o ‘communis’. Questa vera e propria ‘arte minore’ ebbe grande
sviluppo in Occidente, ma anche in Egitto e presso gli arabi e gli ebrei, dai quali la
scrittura era considerata un dono di Dio all’uomo: grandi e celebrati furono i maestri
calligrafi arabi e nei paesi islamici l’arte della calligrafia venne tenuta in altissima
considerazione fino al secolo scorso. Data la struttura stessa dell’ideogramma, in
Cina e in Giappone la calligrafia è ritenuta vera e propria arte al livello della pittura,
e come tale onorata.
Se durante l’Impero romano la scrittura latina si caratterizzò soprattutto per le
forme solenni e l’ampiezza dei margini (grande attenzione veniva portata dai latini
alla chiarezza ed eleganza dei caratteri), durante le invasioni barbariche si cessò da
parte dei copisti di ricercare una qualche forma artistica. Fu poi la chiesa, fino alla
nascita delle università e quindi fino al secolo XII, a tenere in gran conto la scrittura
per la tradizione dei testi sacri, e fu nelle scuole annesse alle cattedrali e nei
monasteri che venne coltivata l’arte dello scrivere. Anche dopo l’avvento della stampa
per secoli è continuata la produzione di libri manoscritti (scritti eruditi, testi
proibiti per ragioni politiche o religiose, cronache, ma soprattutto libri liturgici, in
particolare corali).
Durante il XV secolo gli umanisti italiani svilupparono grande interesse per
l’estetica della scrittura, che vide fiorire studi di architettura grafica dovuti
all’interesse per l’epigrafia romana. L’interesse per l’arte dello scrivere portò a ricercare
forme eleganti e raffinate e gli stessi amanuensi di professione, per quanto
ovviamente diminuiti d’importanza, continuarono a confezionare esemplari
manoscritti accurati e lussuosi. A partire dal Cinquecento vennero stampati
numerosi trattati di calligrafia italiani (Luca Pacioli, De divina proportione, Venezia
1509, Sigismondo Fanti, Opera del modo de fare le littere maiuscole antique…, Milano
1517, Ludovico Arrighi, La operina di Ludovico Vicentino da imparare di scrivere littera
cancellarescha, Roma 1522, Giambattista Palatino, Libro nuovo d’imparare a scrivere tutte
sorte lettere antiche e moderne di tutte nationi, Roma 1540). I dettami dei calligrafi italiani
(e soprattutto romani) vennero seguiti in tutta l’Europa, a parte nei paesi di lingua
tedesca, dove si sviluppò una scuola indipendente che imponeva scritture di tipo
gotico. Sull’opera dei calligrafi si fondarono i tipografi del secolo XV per fondere i
loro caratteri (Aldo Manuzio usò i disegni dell’orafo e incisore Francesco Griffi
utilizzando la cancelleresca per il suo corsivo).
L’influenza della scrittura italica in Europa fu nei secoli successivi contemperata
dalla presenza di scritture locali, come la ‘bastarda’; solo tra il XVIII e il XIX secolo
si impose una corsiva semplice, elegante e più fluida. L’attenzione per la calligrafia
si è rinnovata tra l’Otto e il Novecento soprattutto in Inghilterra. Mentre
nell’Ottocento e fino agli inizi del Novecento la calligrafia ha costituito materia di
insegnamento nelle scuole, il diffondersi di nuovi strumenti tecnologici ha oggi
evidentemente ridotto fino quasi ad estinguerla l’importanza dell’arte calligrafica.
35. La notazione numerale
Agli inizi della civiltà per rappresentare i numeri ci si serviva di aggregati di oggetti,
corrispondenti alle unità da numerare: tacche in pezzi di legno, file o mucchietti di
pietruzze, nodi in cordicelle, ma soprattutto la mano stessa dell’uomo o le due mani
riunite.
Si può dire che ogni società aveva un proprio sistema di numerazione.
L’introduzione dei numeri arabi (o indiani, perché furono ideati in India)
nell’Europa occidentale, pur essendo una delle più importanti innovazioni che
dobbiamo al Medioevo, avvenne a prezzo di forti resistenze e opposizioni.
Secondo lo storico inglese John Barrow (1764-1848), l’avvento dei numeri indoarabi è stato la più grande rivoluzione dell’ultimo millennio. La dobbiamo a papa
Silvestro II (999-1003), eccezionalmente esperto di matematica e astronomia, che
aveva studiato in Spagna e che insegnò il nuovo modo di contare a generazioni di
ecclesiastici. Fu una battaglia epica ma alla fine i numeri arabi ebbero il sopravvento;
erano più pratici di quelli romani e funzionavano meglio.
In effetti ancora oggi, utilizziamo la numerazione romana in alcuni casi. In tale
numerazione il numero I (uno) mantiene il proprio valore di unità qualsiasi
posizione esso occupi : così, IV (quattro) vale come “uno meno cinque”, il XII
(dodici) vale uno e uno più dieci e così via. Nella numerazione indo-araba, invece, un
numero III ha un valore completamente diverso dalla somma delle singole cifre : vale
infatti centoundici e non tre, come il numero III della numerazione romana.
Proprio a causa di una differenza così grande non solo nella scrittura, ma proprio nel
modo di pensare i numeri, per lungo tempo mercanti e banchieri si opposero ai
numeri arabi. Secondo loro, i nuovi numeri si prestavano agli inganni e alle
falsificazioni, mentre quelli romani erano più sicuri.
E tuttavia, se è vero che papa Silvestro II conosceva e faceva conoscere i numeri
arabi, non fu lui a diffonderne l’uso in Europa. Ci vollero infatti almeno altri due
secoli prima che essi venissero adottati, grazie ai lavori di alcuni studiosi come lo
spagnolo Gondisalvi (sec. XII) e l’italiano Fibonacci (sec. XII-XIII). Il primo scrisse
un Libro dei numeri degli Indi e il secondo il Libro dell’abaco (antico pallottoliere o altro
primitivo strumento per far di conto), due opere che furono utilizzate per tutto il
Duecento. In esse si parlava di geometria, aritmetica, come pure di equazioni di
primo e secondo grado. Il loro successo fu dovuto quindi alla necessità dei mercanti
e dei banchieri del tempo di utilizzare tale numerazione a fini pratici. Infatti,
secondo il cronista Villani (c. 1280-c. 1348), a Firenze nel 1340 ben mille ragazzi
studiavano nelle scuole di abaco.
La numerazione araba, inoltre, fu adottata dai naviganti e dagli astronomi per i loro
calcoli.
Questa lunga evoluzione della notazione numerale ha fornito gli elementi base per la
nascita dell’informatica.
36. La scrittura informatica applicata alle scienze umanistiche
A padre Roberto Busa, nato a Vicenza il 28 novembre 1913 e gesuita dal 1933,
l’Enciclopedia Treccani attribuisce il merito di essere “riconosciuto universalmente come
il pioniere dell’informatica linguistica”.
Il suo nome è legato principalmente alla analisi linguistica computerizzata di 118
scritti tomistici e 61 opere di altri autori collegati, per un totale superiore ai 10
milioni di parole. Il monumentale lavoro, iniziato nel 1946, termina la sua prima
fase con la pubblicazione dei 56 volumi che compongono l’Index Thomisticus nel 1980:
“piú di 20 milioni di righe, quattro volte quelle dell’Enciclopedia Treccani”.
Nel 1949, l’incontro a New York con Thomas Watson sr, fondatore dell’IBM, diede
una svolta epocale al progetto di padre Busa e, insieme, all’informatica umanistica:
dai previsti 12 milioni di schede perforate si passò a 1800 nastri magnetici di 800 m
ciascuno. Attraverso varie generazioni di computer, il prodotto finale da cui fu
ricavato l’Index Thomisticus trovò posto in circa 20 nastri, per un totale di soli 16
chilometri. Da questi, finalmente, nel 1992 fu tratta la prima versione su CD-Rom
dell’Opera omnia di san Tommaso, interamente codificata e lemmatizzata.
Nel corso della sua lunga pratica di elaborazione e lemmatizzazione dei linguaggi
naturali, che prosegue ininterrotta ancora oggi, padre Busa valuta di aver trattato piú
di 22 milioni di parole in una ventina di lingue almeno, promuovendo - da autentico
‘missionario’ - la diffusione dell’informatica umanistica nei piú diversi paesi del
mondo.
37. La scrittura informatica e digitale
Le origini della scrittura digitale
Soltanto con l'invenzione della stampa tra il 1452 ed il 1455, comincia la
differenziazione tra il processo della scrittura e quello della riproduzione del testo.
Soltanto nell'Ottocento anche chi scrive comincia a far uso di una macchina,
suscitando, proprio come il computer oggi, diffidenze ed entusiasmi.
Tuttavia gli utensili che servono per scrivere a mano (penna) o per dattiloscrivere (i
tasti della macchina) hanno una caratteristica comune: agiscono immediatamente
sulla carta. La metamorfosi che conduce alla videoscrittura comincia da qui, dal
dissociare il funzionamento degli utensili dall'azione immediata sulla carta. L'altro
mutamento avviene quando alla macchina per scrivere elettrica si assegna un po' di
memoria interna per conservare solo temporaneamente quantità più o meno ampie di
testo: ciò rende più agevole fare correzioni. Infine alla memoria interna si aggiunge
una memoria esterna su supporto magnetico, una cassetta prima, poi un dischetto.
La svolta definitiva si ha quando si comincia a usare uno schermo per visualizzare la
scrittura ed infine quando queste macchine sono connesse ad un computer, che nel
frattempo, indipendentemente dalla videoscrittura ha sviluppato le proprie
tecnologie. La scrittura diventa immateriale e si affida all’onda invisibile degli
impulsi elettrici.
Lo schermo sostituisce la carta.
La comunicazione scritta è efficace soltanto se chi scrive sa affrontare con abilità i
numerosi vincoli che gli vengono imposti dalla situazione. Chi scrive è come un
centralinista nell'ora di punta, deve saper gestire contemporaneamente più esigenze.
Scrivere è dunque un'attività complessa in cui la redazione del discorso si configura
come un processo di graduale avvicinamento al testo definitivo. Questa è la tecnica
di chi scrive da professionista, qualunque sia il suo mestiere: giornalista, redattore,
scrittore, tecnico, studioso. La scrittura elettronica aiuta a gestire i molteplici vincoli
cui è sottoposto chi scrive.
La scrittura elettronica permette infatti di avere sotto gli occhi i diversi stati del
discorso così come la mente li concepisce e di far lavorare su un oggetto testo, che si
può correggere secondo propri criteri e giudizi. L'elaboratore non è una lampada di
Aladino, cioè uno strumento che pensa per chi scrive, o che elimina la fatica del
lavoro, è piuttosto uno strumento che può aiutare a rendere più produttivo l'atto
dello scrivere. Il computer permette la stesura definitiva di diverse redazioni del
testo, su cui è possibile intervenire a più riprese e con diversi obiettivi: prima
l'individuazione delle informazioni, adatte ad esporre o ad argomentare un giudizio;
poi la loro strutturazione; infine la correttezza e la cura della forma espressiva, che si
adegua al destinatario del testo e allo scopo della comunicazione.
L'elaboratore è una macchina che permette di concepire il testo come un oggetto in
lavorazione. Chi scrive con carta e penna deve organizzare nella propria mente le sue
frasi, anzi tende a "risparmiare" sulla scrittura, proprio perchè tende a limitare le
correzioni, dunque tende ad inibirsi, a scrivere mentalmente il suo testo, anziché
lavorarlo sulla carta. E' dunque sottoposto ad un lavorio di astrazione mentale che
non sempre consente di affrontare al meglio i molteplici vincoli che la scrittura in
ogni caso pone. Ebbene un sistema elettronico presenta un sicuro vantaggio: dà
consistenza materiale alla scrittura. Il testo elettronico compare rappresentato non
su carta, ma su uno schermo e, proprio per questo, può essere facilmente lavorato,
cioè corretto, modificato, rivisto. Come un oggetto materiale che prende forma sotto
gli occhi e le mani di chi lo sta pensando e scrivendo. Il testo elettronico non obbliga
a risparmiare sulla scrittura, consente di oggettivare quanto si ha in testa e proprio
per questo consente di sviluppare il discorso, tenendo conto di tutte le esigenze
comunicative che la situazione impone. Un sistema elettronico di scrittura non
equivale ad una macchina per scrivere. Dice Umberto Eco che il computer è una
macchina molto spirituale, perchè permette di scrivere quasi alla velocità del
pensiero.
1833
Macchina analitica di Babbage
1939
Entra in funzione il primo calcolatore funzionante con codice binario. L'inventore fu
il matematico George Robert Stibitz, che aveva a disposizione solo lampadine e relè
telefonici. Proprio perché il relè, per sua natura, può essere acceso o spento, il codice che ne derivò fu necessariamente quello dello "0" e "1"
1944
Entra in funzione il calcolatore elettromeccanico "Mark 1". Costruito nei laboratori
della Industrial Business Machines (I.B.M.), funziona con dei programmi registrati
su nastro perforato. Pesa quasi 5 tonnellate, e le sue 78 sezioni di calcolo sono
comandate con più di 3000 relè
1946
il matematico americano John von Neumann teorizza il funzionamento di un calcolatore tramite programmi immessi nella memoria centrale, insieme a dati da elaborare. Fino ad allora, infatti, ogni calcolatore eseguiva solo le istruzioni per le quali era
stato costruito
1956
Appare il primo hard-disk della storia. E' composto da un pila alta un metro e mezzo
contenente una cinquantina di dischi metallici larghi quasi 62 cm.: questa straordinaria superficie magnetica (quasi 14 metri quadrati) ha una capacità di ben 5
megabytes, un vero record per quell'epoca
1963
Un gruppo di ricercatori americani progetta e realizza un rivoluzionario sistema di
posizionamento rapido del cursore sullo schermo: per la sua forma particolare viene
chiamato inizialmente "mouse", nome che lo accompagnerà per il resto della sua esistenza. Tuttavia, non fu introdotto nel mercato: solamente nel 1981 fece la sua comparsa insieme ad un computer della Xerox
1964
Vengono sviluppati alcuni dei software più importanti mai immessi nel mercato. A
giugno la IBM mette a punto il primo "word processor" della storia, mentre un gruppo di ricercatori americani getta le basi del sistema OCR (riconoscimento automatico dei testi). Fu anche presentata la prima "tavoletta grafica" capace di inviare al computer i disegni tracciati sulla sua superficie da una stilo
1972
Viene annunciata la nascita del primo "floppy" disk. Il primo disco magnetico "flessibile" disponibile sul mercato ha un diametro di 8 pollici (più di 20 cm!) e può
immagazzinare fino a 120 Kb di dati
1974
La rivista americana Popular Electronics annuncia il primo microcomputer venduto
in kit: l'ALTAIR 8800
1979
Barnaby scrive l'editore di testo Wordstar
1984
APPLE commercializza Macintosh che integra interfaccia grafica e mouse
1985
ALDUS realizza il primo programma di editoria da tavolo, Page maker, permettendo
il layout di pagina e la definizione dei caratteri tipografici sul desktop
1986
Viene distribuito sul mercato "Guide", il primo programma per la realizzazione di
ipertesti studiato per i personal computers. Ideato inizialmente da Peter Brown come
progetto di ricerca presso l'Università del Kent per l'utilizzo su grandi workstation ,
venne in seguito commercializzato dalla "Office Workstations Limited" (OWL)
1994
Viene lanciato sul mercato dall'IBM un software che permette a qualsiasi PC 486 di
scrivere sotto dettatura in tempo reale. Il Personal Dictation System (IPDS) ha però
una precisione del 98%, pari a uno-due errori ogni 106 parole. Sa scrivere in inglese,
americano, francese, spagnolo, tedesco e italiano
1998
Nascono i primi dispositivi appositamente concepiti per fungere da lettori di e-book
2000
Viene presentato da Microsoft il prototipo del Tablet PC. Personal computer utilizzabile come una vera e propria lavagnetta
2001
Electronic Ink e Philips annunciano l'inchiostro elettronico
2001
Media lab MIT (Massachusets Institute of Technology) e Xerox Corporation presentano il progetto Gyricon, la carta elettronica
38. Scrittura e arte
Dal cubismo e dal futurismo, agli inizi del Novecento, nel clima delle Avanguardie
storiche, viene profondamente messa in discussione la separatezza tra parola e
immagine, che s’era imposta con la vittoria sui pittogrammi e gli ideogrammi
conquistata dagli alfabeti. Che ancorano il loro codice non più a un qualche rapporto
visivo di ‘somiglianza’ col referente, ma a quello con gli elementi fonici, fondando
così un sistema simbolico costitutivamente alieno da valenze iconiche. Di qui la
inevitabile millenaria non coincidenza tra comunicazione scritta e rappresentazione
visiva, tra letteratura e arti figurative, tra poesia e pittura.
Quando si cerca una visualizzazione del significato in rappresentazioni grafiche
figurali, nella poesia alessandrina e tardolatina o negli acrostici altomedievali, ciò
avviene sempre di fatto all’interno del cosmo verbo-letterario. Come poi in certa
poesia barocca e, tra Ottocento e Novecento, in ambito letterario simbolista, e in
molte delle stesse ‘parolibere’ e ‘parole in libertà’ futuriste, tuttavia, qui, scavalcate in
direzione di vere ‘paroleimmagini’, di parole che innovativamente si fanno immagini,
come in certe ‘tavole’ di Marinetti, ove lettere e parole trovano la loro ‘libertà’
secondo norme interne all’opera, autonome nei confronti di dipendenze semantiche
obbligate e della medesima simbolicità alfabetica.
In quelle tavole, come nei Calligrammes di Apollinaire, in contatto con cubisti e
futuristi, si verifica un radicale rimescolamento di codici: non solo la parola diviene
immagine, ma dell’immagine assume le valenze rappresentative. Si realizzano
‘contaminazioni’, analogamente praticate in pittura, nell’area cubista, ancora, e
futurista, attraverso associazioni e interferenze di parole e immagini, anche col
ricorso al collage: in Carrà o Balla come in Picasso e Braque, e poi negli sviluppi
dell’arte russa e quindi sovietica degli anni dieci e venti, dagli artisti cubo-futuristi
fino a Majakovskij. Analoghi gli sviluppi, nella diversità, in altre emergenze
dell’avanguardia della prima metà del secolo scorso, in particolare nel Dadaismo e nel
Surrealismo, dove Magritte compone nel 1929 una sorta di manifesto teoricoprogrammatico, intitolato a Les mots et les images, le parole e le immagini.
È il retroterra delle ricerche, vivacissime, diramate e numerose, che si affollano,
anche in Italia, dal secondo dopoguerra lungo gli anni cinquanta, sessanta e settanta.
Con episodi di grande rilevanza, quali la Poesia concreta, la Poesia tecnologia, la Nuova
scrittura, e in genere la cosiddetta Poesia visiva, termine che dovrebbe comprendere
tutte le ricerche in questo campo, ma che ha assunto anche un significato più
specifico in rapporto a particolari autori e vicende svoltesi dalla seconda metà degli
anni Sessanta, anche con intenzionalità ideologiche. Poi superate, negli anni settanta,
dall’accentuarsi di istanze concettuali, che hanno riportato l’accento sullo spessore
analitico, di indagine sul linguaggio – verbale, visivo, verbovisivo – , del resto sempre
presente, seppur con peso diverso, in queste esperienze.
39. Scrivere la musica
La scrittura musicale: il tentativo millenario di trasmettere la voce dello Spirito
Ogni forma di scrittura rappresenta una tappa nel cammino della consapevolezza
storica da parte dell’uomo e un tentativo di fissare il ricordo e la memoria di
avvenimenti ed episodi.
La musica nata nel contesto delle prime liturgie cristiane è un’esemplare
testimonianza di questo cammino, costellato di momenti significativi anche per
l’intera storia della musica.
Gli inni delle prime liturgie, che trovano una formalizzazione nei secoli III e IV,
sono la testimonianza di fede delle prime comunità cristiane, composti da autori che
hanno segnato la storia del pensiero ecclesiale e teologico, quali S. Agostino e S.
Ambrogio. La Bibbia è il libro a cui si fa riferimento nella stesura dei testi e le
melodie, da cui nascerà il canto gregoriano, sono semplici, senza accompagnamento
strumentale, austere per sottolineare la loro esclusiva destinazione: l’atto sacro. La
trasmissione orale delle melodie non fa perdere l’originalità dei movimenti musicali
degli anonimi compositori: ciò è dovuto anche al fatto che quelle che diverranno le
melodie del canto gregoriano si ispirano ad alcuni schemi che vengono ripetuti.
L’applicazione di tali schemi ai testi crea dei modelli musicali, poi definiti come gli
“otto toni” gregoriani: una sorta di codificazione modale ante litteram.
E’ attorno ai secoli VIII-XI che si inizia a fissare le melodie con neumi in campo
aperto: sopra i testi dei canti sacri per la liturgia vengono posti dei segni per indicare
l’andamento dei suoni da eseguirsi e il movimento melismatico (un’unica vocale
cantata da più note). Tali notazioni (oggi identificate come codici di Laon, San
Gallo, Einsiedeln, Beneventano, ecc.) non servivano però a definire l’altezza dei
suoni: l’assenza di un riferimento lasciava alla libertà dell’esecutore l’applicazione di
quella che con linguaggio moderno chiamiamo “tonalità”. Questa prima scrittura
musicale è la testimonianza della diffusione del canto sacro in tutta Europa:
l’avvento dell’unità politica e culturale rappresentata dal Sacro Romano Impero
permette la circolazione del canto in tutti i monasteri e nelle principali chiese.
E’ importante creare dei riferimenti scritti perché tale diffusione non perda le tracce
originali delle melodie.
In un secondo tempo vennero applicate ai neumi delle righe di riferimento per
delimitare l’altezza dei suoni: la riga gialla per il Do e quella rossa per il Fa.
Fa Questo
episodio diede l’idea al monaco Guido d’Arezzo (c. 990-1050) per l’aggiunta di
altre due righe: si giunse così a creare il tetragramma, prima vera codificazione
musicale universale, sul quale si potevano fissare i suoni, le altezze, le lunghezze in
modo uguale per tutti. Nascono le sette note che oggi conosciamo e l’evoluzione del
tetragramma porta alla nascita, in epoca rinascimentale, del pentagramma. Le note
ricalcano ancora i segni del canto gregoriano nello stile e nelle figure (virga, punctus,
ecc.), ma il distacco dall’antico cantus planus è ormai senza ritorno.
Nel XVIII e XIX secolo la scrittura musicale diviene non più solo una libera traccia
per l’ispirazione dell’esecutore (tale era il principio dell’improvvisazione barocca) ma
un riferimento quasi assoluto: alle note sul pentagramma si aggiungono i segni
dinamici ed espressivi. Questa evoluzione, per altro inevitabile data la diversità dei
molteplici stili musicali, segna una sorta di tentativo di intrappolare nella scrittura
tutto il linguaggio musicale, con lo scopo di dare all’esecutore ogni informazione
possibile in merito al contenuto della partitura.
Solo nel XX secolo si tornerà ad una scrittura musicale più libera, meno vincolante,
capace di tradurre sulla carta anche i nuovi suoni, le forme della dodecafonia, i ritmi
e i contenuti culturali di un secolo tormentato.
Le partiture di grandi compositori contemporanei non hanno più nulla della
partitura classica, quella dei secoli XVIII e XIX, ma la ricerca di nuovi segni
rappresenta un tentativo interessante che ci riporta all’origine del canto sacro,
quando, cioè, la voce dello Spirito era libera da codificazioni e affidata unicamente
alla trasmissione della fede nella liturgia.
40. La scrittura Braille
Il primo tentativo volto a consentire l’accesso alla lettura in modo serio ed
organizzato ai non vedenti si deve al filantropo francese Valentin Haüy (17451822), funzionario del Ministero degli Esteri. Egli ideò la lettura per ciechi a segni
orizzontali: dopo aver fabbricato delle lettere di legno, Haüy aveva in seguito fissato
su del cartone dei caratteri ordinari stampati in rilievo che formavano, così delle
sporgenze rilevabili al tatto. Facili a leggersi per i vedenti, erano invece difficili da
distinguere per mezzo dei polpastrelli delle dita; d'altra parte erano molto
ingombranti e la loro composizione richiedeva parecchio tempo. Malgrado questi
inconvenienti, l'invenzione apriva la via alla
lettura mediante il tatto.
La scuola di Haüy però non prosperò molto, ed in seguito fu unita al Ricovero per
ciechi invalidi fondato da Luigi IX, e dopo pochi anni definitivamente chiusa.
Successivamente, nella seconda metà dell’Ottocento, Luigi Ballù inventò un
ingegnoso sistema di scrittura in rilievo a punti che, se pure a costo di molta fatica,
consentiva ai non vedenti una primordiale comunicazione scritta.
Il metodo di lettura di Valentin Haüy ed il successivo sistema di punteggio di Ballù
non avevano però risolto definitivamente il problema dell’educazione dei non
vedenti: il cieco poteva infatti solo leggere, i libri erano pochi e la velocità di lettura
era inoltre bassissima.
Rivoluzionario fu il sistema di scrittura in rilievo inventato intorno al 1829 da
Louis Braille (1809-1852) per la sua perfetta aderenza alle esigenze del tatto. Il
sistema Braille è il perfezionamento di una scrittura tattile inventata da un ufficiale
dell’esercito napoleonico, Charles Barbier, che l’aveva inventata per redigere messaggi
nell’oscurità decifrabili fra ufficiali impegnati nelle campagne militari.
La sua caratteristica fondamentale è quella di essere a punti in rilievo che si incidono
procedendo da destra verso sinistra in modo che, girando il foglio, si possa leggere
normalmente da sinistra a destra. Per scrivere in Braille occorrono un’apposita
tavoletta munita di un regolo mobile ed un punteruolo. Il regolo consta di due righe
di 24 rettangoli ciascuna, in ognuno dei quali si possono incidere sei punti. I singoli
segni vengono rappresentati mediante un differente numero di punti da uno a sei, e
in totale si possono ottenere 63 segni che coprono tutte le esigenze di ogni forma di
linguaggio scritto e di tutte le segnografie matematiche e musicali.
La scrittura Braille, pur rappresentando una scoperta eccezionale, non fu subito
accettata negli istituti, che erano diretti da vedenti non favorevoli a dover imparare
una nuova scrittura. Solo intorno al 1850 il sistema di Louis Braille fu pienamente
accettato a Parigi, città dove era nato. Nel 1865 gli allievi milanesi lo accettarono
con entusiasmo mentre il Inghilterra il metodo Braille fece la sua comparsa verso il
1868.
Oggi il Braille è l’unico sistema di scrittura e lettura per ciechi diffuso in tutto il
mondo. Il Congresso Internazionale di Parigi del 1878 lo aveva infatti dichiarato
ufficiale per tutti gli stati, e l’U.N.E.S.C.O. ha un comitato apposito con il compito
di adattarlo a tutte le lingue. Anche in Cina è stato adottato facendo corrispondere i
segni Braille non agli ideogrammi, ma ai suoni da essi rappresentati.
Glossario
Apicatura:
i sottili trattini (lat. apices) che tagliano le aste delle lettere, soprattutto
delle litterae longae come I e T, nelle epigrafi romane.
Attuario:
nell’antica Roma, ufficiale dell’esercito incaricato dell’approvvigionamento,
della distribuzione dei viveri alle truppe e della registrazione delle operazioni
militari; anche lo scrivano incaricato di raccogliere i discorsi pronunciati nel senato o
nelle assemblee politiche. Da cui la scrittura di tipo attuariale, cioè per appunti,
cronache, etc.
Binario, codice:
(ingl. binary) un sistema di numerazione che abbia come sua base 2 (e non
10, come nel sistema decimale, o 16 dell’esadecimale). In esso l’informazione può
essere espressa combinando insieme in vario modo le cifre 0 e 1, il cui valore,
ovviamente, dipende dalla loro posizione nella stringa numerica. E’ il linguaggio con
cui si esprime l’informatica. Il termine è la ripresa da parte della matematica del
vocabolo binarius (deriv. di bini, ‘ a due a due’), usato però nel latino tardo per
indicare ‘doppio’.
Bolla:
il termine indica sia il sigillo autenticante un documento imperiale o
pontificio, sia il documento stesso. Le bolle papali, ovvero le comunicazioni del papa
su questioni importanti, sono rigorosamente in latino e ciascuna prende il suo nome
dalle parole d’inizio.
Breve:
termine latino medievale che indica uno scritto o una lettera pontificia,
munita di sigillo in ceralacca, meno solenne di una Bolla.
Bustrofedico:
detto riguardo all’andamento delle righe scritte sull’esempio delle iscrizioni
arcaiche, alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra. Dal greco
boustrophedon ‘ che va nella direzione del bue che ara’.
Byte (simbolo B):
gruppo di 8 bits (acronimo di binary digits). E’ una delle unità di misura usate
per indicare la quantità di informazione, per esempio, per i supporti di memoria
(Floppy disk, RAM, CD-ROM, hard disk), corrispondente alla dimensione occupata
da 1 carattere. In alcuni sistemi di codificazione vengono usati invece 2 bytes per
rappresentare un carattere ideografico cinese o di altra lingua la cui scrittura sia
tipologicamente affine alla scrittura ideografica cinese.
Calamo:
cannuccia appuntita (da intingersi nell’inchiostro) con la quale gli antichi
scrivevano sul papiro e sulla pergamena.
Cuneo:
prisma a sezione triangolare per lo più isoscele, di materiale duro, usato per
fendere, spaccare o bloccare. Realizzato come uno stilo dagli Assiro-Babilonesi e
dagli Ittiti per realizzare la scrittura cuneiforme, consistente appunto in incisioni lineari
a forma di cuneo impresse nella pietra o nell’argilla.
Demotico:
popolare, volgare. Tipo di scrittura dell’antico Egitto, derivante dalla ieratica,
di cui costituisce una forma abbreviata a partire dal VII sec. a.C. e un surrogato
normale a partire dall’età tolemaica. Da demos, popolo.
Diacritica:
L’insieme dei segni supplementari per precisare particolarità di pronuncia
non rese dai segni consueti, come il tilde nelle lingue spagnole (ñ) o la pipa delle
lingue slave ( c ) usati per le traslitterazioni fonetiche per segnalare processi di
nasalizzazione e di palatalizzazione; oppure la dieresi italiana (es. rëale) per
sottolineare il valore bisillabico del gruppo ea. Dal greco diakritikos, atto a distinguere.
Dodecafonia:
moderna tecnica di composizione musicale ideata verso il 1920 legata al
nome di Arnold Schönberg e basata sul principio dell’atonalità. In questa visione
non esistono più relazioni di importanza o funzione tra i gradi della scala ma
soltanto una libera successione di 12 semitoni sui quali poi verranno costruite le
nuove melodie.
Ductus:
indica il tratteggio dei singoli elementi della lettera, l’ordine di successione
degli stessi e anche l’andamento generale del tracciato, con riferimento ai tempi di
esecuzione (lento, veloce, etc.).
Filigrana:
impressione di un disegno, cifra o simbolo, fissata nel corso di
fabbricazione della carta, visibile in controluce. Costituisce il marchio di fabbrica
della cartiera e serve a contraddistinguere il prodotto, la qualità e la zona di origine.
Utile per datare i manoscritti e le edizioni antiche e per individuarne il luogo di
fabbricazione. Venne usata per la prima volta in Italia nel 1282 a Fabriano. Vi sono
repertori che ne censiscono oltre 16.000 tipi ( prodotti tra il secolo XIII e il secolo
XVII).
Filone:
nella fabbricazione della carta è il filo metallico disposto verticalmente che
sorregge le vergelle disposte orizzontalmente e parallele al lato maggiore del foglio. Le
impronte lasciate dai filoni si scorgono guardando la carta in controluce.
Fonetica:
Fonetica
scienza dei suoni tradizionalmente intesi, e quindi considerati isolatamente
secondo i processi delle loro singole articolazioni.
Fonetica, scrittura
scrittura:
un sistema di scrittura si dice fonetico quando i suoi segni sono concepiti per
riflettere più o meno specularmente la catena dei suoni di una data lingua; ogni
singolo elemento della scrittura rimanda quindi innanzitutto a un segmento di
suono della lingua e non ad un significato di essa.
Forma:
in tipografia indica la composizione della pagina chiusa nel telaio, pronta
per la stampa. E’ detta forma di bianca quella stampata per prima e forma di volta quella
stampata per seconda, sul lato opposto del foglio.
Glifo:
Glifo
incavo a sezione tonda o angolare, come ornamento architettonico.
Impiegato nella realizzazione della scrittura monumentale Maya.
Grafema:
in linguistica, segno che in un sistema grafico (alfabetico, sillabico o
ideografico) costituisce l’unità grafica minima. Derivato dal greco grapho, scrivere.
Ieratico:
sviluppo corsivo della scrittura geroglifica egiziana elaborato e
ordinariamente impiegato dai sacerdoti in epoca tolemaica romana. Dal greco hieros,
sacro.
Ideogramma:
simbolo grafico che rappresenta non un valore fonetico ma un’immagine o
un’idea. Da cui scrittura ideografica.
Incunabulo:
dal latino incunabula, ‘in culla, in fasce’, il termine indica i libri stampati fra il
1450 ed il 1500 incluso.
Interfaccia:
linea o superficie che costituisce un confine comune tra due entità
oggettuali, in senso concreto o figurato. Nel complesso insieme hardware e software
di un computer, indica ogni congegno – o configurazione di congegno – che
provveda a collegare due o più unità di vario genere tra di loro, a fini comunicativi o
operativi. Esempi di interfacce: porte per le unità periferiche del PC o lo schermo del
monitor. Il termine inglese ha avuto enorme diffusione a partire dagli anni ’60 del
secolo XX, inizialmente in ambiente informatico e poi in un numero incalcolabile di
altri ambienti culturali, addirittura inflazionato.
Ipertesto:
l’insieme dei file-documento, dei file-immagine e dei file-suono che, a
prescindere dalla collocazione fisica dei files componenti, può essere percorso in
modo multidirezionale dall’utente-lettore che si avvalga dei numerosi links
preconfigurati. Un ipertesto può essere tematicamente coerente (al pari di un testo,
romanzo, etc.) oppure no (ad es. una home-page che di solito presenta realtà
disparate).
Koinè diálektos:
termine greco usato per indicare una lingua comune che si sovrappone ai
dialetti locali. Per analogia, si può parlare di koiné culturale per definire una civiltà
comune accettata da popolazioni diverse.
Logografia:
termine coniato da Leonard Bloomfield (Language, New York 1933).
Scrittura in cui ogni elemento sta a simboleggiare una parola della lingua.
Lunate,
Lunate lettere (o
( lettere con gli occhiali):
sono segni di un alfabeto storico (greco, ebraico, etc.) i cui tratti terminali
sono chiusi con piccoli occhielli. La denominazione (dal francese lettres à lunettes) fu
coniata da Moïse Schwab nel 1899 per il tipo ebraico, ma si tratta di una
deformazione assai diffusa dal tardo antico al medioevo.
Matrice:
blocchetto metallico recante l’impronta di una lettera o di un fregio e, per
estensione, qualsiasi forma da cui si ottiene la stampa (lastre litografiche, zinchi,
ecc.).
Melisma:
Figurazione tipica del canto gregoriano. Dal greco mélisma, melodia.
Successione di note eseguite su un’unica sillaba.
Mnemotecnica (o mnemonica):
mnemonica :
l’insieme degli espedienti atti a facilitare, specialmente a scopo didattico, il
ricordo di dati e nozioni. Uno dei più usati è quello di mettere in versi ciò che si
deve ricordare. Un altro sistema consiste nel formare delle parole o frasi che hanno
un suono simile alle parole che si vogliono ricordare.
Nabateni, caratteri:
caratteri
scrittura adottata dai Nabatei, antica popolazione con centro nella città di
Petra, a sud-Est del Mar Morto. In origine nomadi, divenuti in seguito sedentari,
diedero vita ad un regno di notevole importanza tra il secolo II a.C. e il I d.C.
Neuma:
nella notazione musicale medievale segno grafico di forma quadrata che
indicava un certo movimento della linea melodica o un certo modo di esecuzione.
Caratteristico del canto gregoriano e della scrittura musicale precedente
all’introduzione delle indicazioni di durata, oltre che di altezza, del segno musicale.
Note tironiane:
tironiane
sistema stenografico ideato da Marco Tullio Tirone, liberto di Cicerone, per
raccogliere più facilmente i discorsi pubblici dell’oratore; consisteva in una serie di
segni tachigrafici per rendere agevole e veloce la scrittura che creavano un sistema
complesso ma capace di abbreviare tutte le parole della lingua latina. I Commentarii
notarum Tironianarum raccolgono circa 13.000 segni. Le note tironiane furono usate
nelle cancellerie fino all’epoca carolingia.
Ostrakon:
Ostrakon
Indicava in origine ‘guscio di testuggine’, ‘conchiglia’ (cfr. il lat. ostrea,
‘ostriche’) e poi ‘vaso di terracotta’, ‘coccio’. Nell’antichità i cocci erano spesso usati,
in quanto materiale di poco prezzo, come supporto scrittorio: sappiamo dell’uso
ateniese di scrivere su ostrakon i nomi dei concittadini da condannare all’esilio
(ostracismo).
Palinsesto:
manoscritto il cui testo originario è stato raschiato o tolto con un lavaggio,
per essere sostituito con un nuovo scritto. Termine che può essere esteso anche ad
altri tipi di reimpiego di fogli manoscritti (per dorsi, copertine, ecc,)
Pecia:
Pecia
nome dato nel Medioevo ad ognuno dei fascicoli formati dalla piegatura in
quattro della pezza di pergamena (o membrana) ricavata da una pelle intera, e perciò
di 8 pagine. Nella produzione libraria universitaria (secolo XIII-XIV) il testo
utilizzato per l’insegnamento era suddiviso in pecie sciolte e numerate, depositate (in
una copia ufficiale approvata dall’università) presso un funzionario (stationarius) che
le affittava agli studenti secondo le tariffe stabilite ed imposte dai commissari
nominati dall’università (petiari) con scopi di controllo. Inoltre la pecia costituiva
l’unità di misura del lavoro eseguito da un copista, che veniva retribuito secondo il
numero di pecie da lui trascritte.
Pentagramma:
serie di cinque righe orizzontali e parallele utilizzata per le scritture
musicali (dal greco pentagrammos, ‘di cinque righe’). Suo antenato fu il tetragramma
(quattro righe), oggi usato solo nella notazione del canto gregoriano.
Pittogramma:
elemento grafico legato in modo riconoscibile al significato di un termine,
più spesso ad un’area di significati, che esso sta a rappresentare. Ad esempio,
l’immagine del sole starà a significare, oltre che ‘sole’, anche ‘giorno’, ‘calore’,
‘brillare’, ecc.
Progressivo:
Progressivo
è così definito il nostro andamento di scrittura da sinistra a destra.
Punzone:
asta di acciaio duro recante all’estremità tronco-piramidale una sigla, una
lettera o un numero o altro segno particolare inciso, che serve per contrassegnare una
superficie. Con essi si preparavano le matrici per la stampa.
Retrogrado:
Retrogrado
andamento della scrittura da destra a sinistra. Dal lat. retrogradus, che
cammina in senso contrario.
Scriptio continua:
scrittura senza divisione delle parole, tipica per esempio dei codici
dell’antichità classica e indiani, ma non di tutte le tradizioni scrittorie. Nei
manoscritti greci la scriptio continua viene meno verso il III sec.
Scriptorium:
locale situato accanto alla biblioteca ove gli amanuensi svolgevano la loro
attività di copiatura, decorazione e rilegatura dei manoscritti. I principali monasteri
possedevano un proprio scriptorium posto sotto la diretta sorveglianza dell’abate o di
un magister. Durante l’alto medioevo le fondazioni ecclesiastiche furono sicuramente
gli unici centri di produzione libraria.
Silografia (o
( xilografia):
xilografia)
dal greco xylon , legno e grapho, scrivo. Arte di incidere, di intagliare su legno
caratteri e figure in rilievo. I libri antichi contenenti figure o tavole riprodotte con
tali tecniche vengono detti, dagli antiquari, ‘con legni’. L’utilizzo della silografia fu
ridotto dalla metà del sec. XVI per l’introdursi dell’incisione su metallo.
Stilo:
asticella di legno, osso od altri materiali con un’estremità appuntita e l’altra
piatta (per eradere) usata nell’antichità per scrivere sulle tavolette di argilla o di cera.
Theca libraria:
astuccio in cui venivano riposti gli arnesi per scrivere.
Tipo:
dal greco túpos, ‘colpo, impressione’; dal significato originario il termine è
passato ad indicare ‘immagine’ e poi ‘archetipo’, ‘modello’. Oggi usato come
sinonimo di carattere tipografico.
Tonalità:
Tonalità
in musica il complesso delle relazioni (intervalli) che legano una serie di
note o di accordi alla nota fondamentale (detta tonica) sulla base della scala
(maggiore o minore), da cui tonalità in do maggiore, tonalità in re minore, etc.
Torchio:
la prima macchina usata per la stampa tipografica, funzionante
manualmente. Da principio fu costruito interamente in legno (in seguito di metallo)
e conservò funzioni e fisionomia per tutti i 400 anni della sua storia, dal XV al XIX
secolo. Il principio di funzionamento del torchio fu fornito ai prototipografi
tedeschi dall’osservazione delle presse usate dai fabbricanti di vino della Valle del
Reno.
Vergella:
filo metallico teso orizzontalmente che con il filone forma la trama della rete
necessaria a trattenere l’impasto nella forma con la quale si fabbrica la carta a mano.
Spunti di approfondimento
M.ABBIATI, La lingua cinese, Cafoscarina, Venezia 1992
A.ALBERTI, Le tavolette cuneiformi della III dinastia di Ur della collezione dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano (vol. in preparazione)
A.ALBERTI, Le tavolette della III dinastia di Ur all’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano, Comunicazione al Convegno multidisciplinare e intersettoriale sulle origini del denaro,
Senago, 17 novembre 2001
V.ALLETON, La grammatica del cinese, Ubaldini, Roma 1973
L.BALDACCHINI, Il libro antico, Carocci, Roma 1998
G.BALLAIRA, Esempi di scrittura latina dell’età romana, Edizioni dell’Orso, Alessandria
1993
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asiatico, in BOCCHI-CERUTI, Origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione,
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Dalla pergamena al monitor. I tesori della Biblioteca Queriniana. La stampa, il libro elettronico,
coordinamento G.PETRELLA, La Scuola-Biblioteca Queriniana, Brescia 2004
http://www.italianisticaonline.it/e-book/forum_2003.htm
http://www.windoweb.it/edpstory_new/edp.htm
http://gircse.marginalia.it/~busani/Data_Files/Storia&Cultura.htm
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25 aprile 2004
8 maggio 2004
Il segno memoria dell’uomo:
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