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Questa è un’opera di finzione.
Nomi, personaggi,
luoghi ed eventi sono il frutto della
fantasia dell’autrice
o sono usati in maniera fittizia, e
qualunque somiglianza
con persone, viventi o defunte,
aziende, eventi o località reali
è da ritenersi puramente casuale.
Titolo originale: The Good Girl
Copyright © 2014 by Mary
Kyrychenko
All rights reserved including the
right of reproduction in whole or in
part in any form.
This edition is published by
arrangement with Harlequin Books
S.A.
Traduzione dall’inglese di Daniele
Ballarini
© 2015 Newton Compton editori
s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-7586-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina,
Roma
Progetto grafico: Sebastiano
Barcaroli
Immagini: © Corbis Image
Mary Kubica
Una brava
ragazza
Per A & A
Eve
Prima
Quando squilla il telefono, sono
seduta in cucina, al tavolinetto
riservato alla colazione, e mi sto
gustando una tazza di cioccolata.
Sono sovrappensiero, dalla finestra
fisso il giardino sul retro che, nel
pieno di un autunno arrivato in
anticipo, è cosparso di foglie. Sono
perlopiù morte, sebbene alcune, pur
senza
vita,
restano
ancora
attaccate agli alberi. È pomeriggio
inoltrato. Il cielo è coperto, le
temperature stanno precipitando
sotto i dieci gradi. Non credo di
essere ancora pronta per questo, mi
chiedo come sia volato il tempo;
sembrava ieri che accoglievamo la
primavera appena arrivata e, poco
dopo, l’estate.
Lo squillo del telefono mi allarma,
sono certa che sia un venditore di
qualche call-center, perciò non mi
preme alzarmi subito. Mi godo le
ultime ore di silenzio prima che
James irrompa dalla porta e venga
a invadere il mio mondo, per cui
non voglio proprio sprecare minuti
preziosi per un’offerta pubblicitaria
che sicuramente rifiuterò.
Cessa
il
suono
irritante
dell’apparecchio,
che
però
ricomincia poco dopo. Rispondo per
un unico motivo: farlo tacere.
«Pronto», dico in tono seccato, in
piedi al centro della cucina con un
fianco poggiato all’isola.
«La signora Dennett?», mi chiede
una donna. Penso per un attimo di
dirle che ha composto il numero
sbagliato, oppure di anticipare la
sua tirata pubblicitaria con un
semplice «non sono interessata».
«Sono io».
«Signora, sono Ayanna Jackson».
Ho già sentito questo nome. Non
l’ho mai vista, ma da più di un anno
lei compare spesso nella vita di Mia.
Quante volte ho sentito mia figlia
pronunciare il suo nome… «Io e
Ayanna abbiamo fatto questo… Io e
Ayanna abbiamo fatto quello…». La
donna al telefono mi spiega che
conosce Mia, che insegnano nella
stessa scuola superiore della città,
un
istituto
dal
metodo
sperimentale. «Spero
di
non
disturbarla», aggiunge.
Prendo fiato. «No, Ayanna, sono
appena rientrata», mento.
Mia compirà venticinque anni tra
un mese, il 31 ottobre. È nata nel
giorno di Halloween, e presumo che
la sua collega abbia chiamato per
questo. Vuole fare una festa, un
party a sorpresa per mia figlia?
«Signora, oggi Mia non è venuta
al lavoro», dice.
Non è ciò che mi aspettavo di
sentire. Mi ci vuole comunque poco
per riprendermi. «Be’, sarà malata»,
esclamo. Il primo pensiero è
giustificarla;
Mia
avrà
una
spiegazione plausibile per non
essere andata al lavoro o per non
aver avvisato della sua assenza.
Mia figlia è uno spirito libero, certo,
ma anche molto affidabile.
«Non ha avuto sue notizie?»
«No», dico, ma la cosa è quasi
normale. Passiamo giorni, a volte
settimane, senza parlarci. Da
quando è stata inventata la posta
elettronica,
ci
inoltriamo
al
massimo informazioni banali via
computer.
«Ho cercato di telefonarle a casa,
ma non risponde».
«Hai lasciato un messaggio?»
«Parecchi».
«E lei non ha richiamato?»
«No».
Ascolto malvolentieri la donna
all’altro capo del filo. Fisso fuori
dalla finestra, osservo i figli dei
vicini scuotere un alberello, così che
le foglie residue cadano su di loro. I
bambini sono il mio orologio:
quando escono in cortile so che il
pomeriggio sta per terminare,
poiché è finita la scuola. Quando
rientrano in casa, sarà ora di cena.
«E al cellulare?»
«Parte la segreteria».
«Hai provato…?»
«Ho lasciato un messaggio».
«Sei sicura che non abbia avvisato
la scuola per telefono?»
«In segreteria non sanno niente».
Temo che Mia finirà nei guai. Mi
preoccupo che possano licenziarla.
Ma non mi viene affatto in mente
che possa già essere nei guai.
«Spero non siano sorti troppi
problemi».
Ayanna afferma che gli studenti
della prima ora non avevano
informato nessuno dell’assenza di
Mia, e solo alla seconda ora era
cominciata a circolare la voce che
mancava la signorina Dennett e che
non c’era una sostituzione pronta.
Per mantenere l’ordine in classe, si
era mosso il preside, mentre si
individuava un supplente. Aveva
trovato delle scritte sulle pareti,
fatte con gessetti costosissimi,
quelli comprati dalla stessa Mia
quando l’amministrazione della
scuola glieli aveva negati.
«Signora Dennett, non crede che
sia strano?», mi domanda Ayanna.
«Non è da Mia».
«Sì, ma sono certa che avrà un
motivo valido».
«Per esempio?», ribatte.
«Proverò a chiedere agli ospedali.
Ho il numero di quello nella sua
zona…».
«Già fatto».
«Allora chiamo le sue amiche»,
dico, benché non ne conosca
nessuna. Ho sentito qualche nome
di sfuggita, quelli di Ayanna e
Lauren, e so che ce n’è una dello
Zimbabwe con visto studentesco
che sta per essere rimpatriata,
sebbene mia figlia pensi non sia
giusto. Ma non le conosco, e non è
facile rintracciare il loro cognome o
i contatti.
«Già fatto».
«Si farà viva, Ayanna. Sarà un
contrattempo.
Possono
esserci
tantissime ragioni».
«Signora Dennett», insiste lei, ed
è a quel punto che lo capisco: c’è
qualcosa che non va. Mi arriva
dritto allo stomaco, e il primo
pensiero è di quando aspettavo
Mia, ero al settimo o ottavo mese di
gravidanza e lei scalciava e si
dimenava con un’energia tale da far
intuire la forma dei piedini e delle
manine sotto la mia pelle. Scosto
uno sgabello e mi metto a sedere in
cucina, pensando che mia figlia fra
pochissimo compirà venticinque
anni e io non ho ancora deciso che
regalo farle. Non ho proposto l’idea
di una festa, né suggerito di andare
tutti (io, James, Grace e lei) in un
ristorante elegante del centro.
«Quindi, cosa proponi di fare?», le
chiedo.
Colgo un sospiro dall’altra parte
del telefono. «In realtà speravo che
Mia fosse lì con lei», esclama
Ayanna.
Gabe
Prima
È buio mentre accosto l’auto al
marciapiede. Dalle finestre della
casa in stile Tudor la luce riverbera
fin sul viale alberato. Dentro, riesco
a distinguere un gruppo di persone
in attesa del mio arrivo. Ci sono il
giudice che incede a lunghi passi e
la signora Dennett, seduta sul
bordo di una poltrona imbottita, che
sorseggia qualcosa di alcolico,
almeno all’apparenza. Ci sono dei
poliziotti in divisa e un’altra donna,
bruna, che scruta dalla finestra
mentre parcheggio con calma,
ritardando la mia entrata a effetto.
I Dennett assomigliano alle altre
famiglie che vivono nel North Shore
di Chicago, i sobborghi che
costeggiano le sponde del lago
Michigan a nord della città: sono
ricchi da fare schifo. È normale
quindi che attenda sul sedile della
mia auto, anche se, in virtù del
potere che mi hanno indotto a
credere di avere, dovrei affrettarmi
verso l’enorme dimora.
Ripenso alle parole con le quali il
sergente mi aveva affidato il caso:
«Non incasini quest’affare».
Occhieggio l’imponente edificio dal
calore rassicurante della mia
macchina
sgangherata.
Dall’esterno, non appare maestoso
come immagino siano gli interni. Ha
tutto il fascino della vecchia
Inghilterra che offre lo stile Tudor:
legno e muratura, finestre strette e
tetto spiovente. Mi rammenta i
castelli medievali.
Il sergente mi ha ammonito a
tenere il segreto, ma si suppone
debba ritenermi privilegiato per
l’assegnazione di un caso di grande
importanza. Eppure, per qualche
motivo non mi sento affatto
privilegiato.
Mi
dirigo
verso
l’ingresso
principale, attraversando il prato
per salire un paio di gradini,
dopodiché busso. Fa freddo. Infilo le
mani in tasca per tenerle al caldo
durante l’attesa. Sto pensando di
essere vestito in modo ridicolmente
semplice e informale (pantaloni
color cachi e una polo sotto una
giacca di pelle), quando ricevo il
saluto di uno dei giudici di pace più
influenti della contea.
«Giudice Dennett», esordisco,
scivolando dentro. Mi comporto con
più autorità di quella che mi pare di
avere, facendo ricorso a quel
briciolo di autostima che tengo
nascosto da qualche parte per
momenti simili. Il giudice di pace è
un uomo importante, per stazza e
potere. Incasinare la faccenda mi
farebbe perdere il lavoro, nel
migliore dei casi. La signora Eve
Dennett si alza dalla poltrona e le
dico col tono più educato che riesco
a trovare: «La prego, si accomodi»,
mentre l’altra donna – più giovane,
forse poco più che trentenne,
presumo
dalle
mie
indagini
preliminari si tratti di Grace Dennett
– viene incontro a me e al giudice,
fra l’ingresso e il salotto.
«Ispettore Gabe Hoffman», dico
senza i soliti convenevoli. Non
sorrido, non porgo la mano da
stringere. La ragazza afferma
effettivamente di essere Grace; da
qualche mio lavoro precedente, so
che è una socia dello studio legale
Dalton & Meyers. Però mi ci vuole
solo un briciolo di intuito per
accorgermi che non mi piace;
quando osserva dall’alto in basso la
mia tenuta da impiegato, sfoggia
un’aria di superiorità e un tono
cinico che mi innervosiscono.
La signora Dennett parla ancora
con un marcato accento britannico,
nonostante
sappia
dalla
mia
precedente disamina dei fatti che
vive negli Stati Uniti da quando
aveva diciotto anni. Pare in preda al
panico. È la prima cosa che noto. La
sua voce è stridula, le dita
indugiano nervosamente su tutto
quanto le capiti a tiro. «Mia figlia è
scomparsa, ispettore», farfuglia.
«Le sue amiche non l’hanno vista.
Non hanno parlato con lei. Io l’ho
chiamata al telefonino, le ho
lasciato dei messaggi». Smozzica le
parole, tenta disperatamente di non
scoppiare a piangere. «Sono andata
nel suo appartamento per vedere
se c’era», aggiunge, ma poi
ammette: «Ho fatto tutto quel
tragitto in auto e la padrona di casa
non mi ha fatto entrare».
La signora è una donna da
mozzare il fiato. Non posso fare a
meno di fissare i suoi lunghi capelli
biondi scendere sull’incavo del seno
prosperoso
che
sbuca
dalla
camicetta: il primo bottone è
aperto. Avevo visto alcune sue foto,
in piedi di fianco al marito sulla
scalinata del tribunale. Ma non
rendono idea di cosa significhi
vederla in carne e ossa.
«Quand’è stata l’ultima volta che
ha parlato con lei?», chiedo.
«La settimana scorsa», replica il
giudice.
«Non
la
settimana
scorsa,
James», dice Eve, che fa una pausa,
consapevole
dello
sguardo
contrariato del marito a causa
dell’interruzione,
prima
di
continuare:
«La
settimana
precedente. Forse quella ancora
prima. Il nostro rapporto con Mia è
così, a volte passano settimane
senza che ci sentiamo».
«Quindi, la cosa non è insolita»,
indago. «Cioè, non avere sue
notizie per un certo periodo…».
«No»,
ammette
la
signora
Dennett.
«E lei, Grace?»
«Ho parlato con Mia la settimana
scorsa. Una telefonata rapida. Era
mercoledì, mi pare. O forse giovedì.
Sì, era giovedì, perché mi ha
chiamato
mentre
entravo
in
tribunale
per
un’udienza
su
un’istanza da respingere». Un
commento aggiunto appositamente
per farmi sapere che è avvocato,
come se non me l’avessero già
rivelato la giacca gessata e la
valigetta di cuoio ai suoi piedi.
«Qualcosa di insolito?»
«Mia che agisce da Mia».
«E cosa vuole dire?»
«Gabe», interviene il giudice.
«Ispettore Hoffman», affermo
deciso. Se lo devo chiamare
giudice,
lui
può
benissimo
chiamarmi ispettore, o detective.
«Mia è molto indipendente. Segue
un ritmo tutto suo, per così dire».
«Perciò, volendo fare un’ipotesi,
sua figlia manca da giovedì scorso».
«Ieri un’amica ha parlato con lei,
l’ha vista al lavoro».
«A che ora?»
«Non so… Le tre di pomeriggio».
Do uno sguardo al mio orologio.
«Dunque, è scomparsa da 27 ore?».
La signora Dennett s’informa: «È
vero che non la si ritiene scomparsa
finché
non
sono
trascorse
quarantotto ore?»
«Ovviamente no, Eve», replica il
marito con un tono tale da
umiliarla.
«No, signora», preciso. Tento di
essere il più cordiale possibile. Non
mi piace la maniera in cui il marito
la mortifica. «In realtà, nei casi di
persone scomparse, le prime
quarantotto ore sono spesso le più
importanti».
Il giudice s’intromette di nuovo:
«Mia figlia non è scomparsa. Si è
smarrita, sta facendo qualcosa di
imprudente, di irresponsabile. Ma
non è scomparsa».
«Vostro onore, chi è stato allora
l’ultimo a vederla, prima che…»,
sono un bel presuntuoso e non
posso fare a meno di dirlo, «si
smarrisse?».
È la signora Dennett a rispondere:
«Una donna di nome Ayanna
Jackson. È una collega di Mia».
«Ha
un numero al quale
contattarla?»
«Su un foglietto, in cucina».
Faccio un cenno col capo a uno
degli agenti, che va in cucina a
prenderlo.
«Mia ha mai fatto una cosa simile
in passato?»
«No, assolutamente no».
Tuttavia, il linguaggio corporeo
del giudice e di Grace Dennett
smentiscono
quest’ultima
affermazione.
«Non è vero, mamma», protesta
lei. La guardo impaziente. Gli
avvocati adorano sentirsi parlare.
«Mia è scappata di casa cinque o
sei volte. Passava le notti a fare
chissà cosa con Dio solo sa chi».
Sì, penso, Grace è una stronza. Ha
i capelli scuri come il padre,
l’altezza della madre e le fattezze
paterne. Non è un bel mix. Alcuni
direbbero che ha una forma a
clessidra, e lo direi anch’io, se mi
piacesse. Invece secondo me è
grassottella.
«Ma è una cosa diversa. Allora
andava alle superiori. Era un po’
ingenua e scapestrata, ma…».
«Eve, non sovrainterpretare», dice
il giudice.
«Mia beve?», chiedo.
«Non molto», risponde la signora.
«Eve, come fai a sapere quel che
fa Mia? Non vi parlate quasi mai».
La signora si porta una mano al
viso per tamponare il naso che le
cola, e per un attimo sono talmente
sorpreso dalle dimensioni della
gemma che ha al dito da non udire
il giudice mentre racconta borioso
come la moglie fosse riuscita, prima
che lui tornasse a casa, a farsi
passare Eddie (attenzione, qui
torno concentrato per lo stupore
che il signor Dennett non solo
chiami il mio capo per nome, ma
che
ne
conosca
anche
il
nomignolo). A quanto pare James
Dennett è convinto che la figlia si
stia dando alla pazza gioia e che
non vi sia alcun bisogno di un
interessamento delle autorità.
«Non crede che sia un caso per la
polizia?», gli chiedo.
«Assolutamente
no.
È
una
questione che deve sbrigare la
famiglia».
«Qual è l’etica professionale di
Mia?»
«Prego?»,
reagisce
Dennett,
mentre gli si formano sulla fronte
delle rughe che tenta di celare con
un gesto esasperato della mano.
«La sua etica professionale. Ha
una buona reputazione sul lavoro?
Ha mai evitato di andarci? Telefona
spesso in segreteria per darsi
malata anche se non è vero?»
«Non saprei. Ha un posto, la
pagano. Si mantiene da sola. Non
faccio domande».
«Signora Dennett?»
«Adora il suo mestiere. Lo ama.
Ha sempre voluto insegnare».
Mia è docente d’Arte. Alle
superiori. Lo appunto sul mio
taccuino per ricordarmene.
Il giudice desidera sapere se
penso che ciò sia importante.
«Forse», ribatto.
«E come mai?»
«Vostro onore, sto solo cercando
di capire sua figlia. Capire chi è,
tutto qua».
La signora Dennett sta quasi per
piangere. Le si stanno gonfiando e
arrossando gli occhi azzurri mentre
tenta pateticamente di trattenere le
lacrime. «Pensa che le sia accaduto
qualcosa?».
Rifletto tra me e me: non è questo
il motivo per cui mi ha chiamato?
Lei pensa che sia successo qualcosa
alla figlia; però dico: «Voglio agire
subito per poi ringraziare il Signore
se verrà fuori che è stato tutto un
grosso equivoco. Sono certo che sta
bene,
davvero,
ma
sarebbe
vergognoso trascurare la questione
senza approfondirla». Mi morderei
le mani se si scoprisse che qualcosa
non va.
«Da quanto tempo Mia vive da
sola?», domando.
«Fra trenta giorni saranno sette
anni», afferma la signora a
bruciapelo.
Sono stupito. «Tiene il conto? A
livello di giorni?»
«Era
il
suo
diciottesimo
compleanno. Non vedeva l’ora di
andare via di qui».
«Non voglio ficcare il naso», dico,
ma la verità è che non devo. Pure io
non vedo l’ora di andarmene di lì.
«Dove abita adesso?».
Risponde il giudice: «In un
appartamento, in città. Vicino a
Clark e Addison».
Sono tifoso dei Chicago Cubs e
quindi la cosa mi emoziona. Basta
menzionare le parole Clark o
Addison che rizzo le orecchie come
un cucciolo affamato. «Wrigleyville.
Un quartiere molto bello. Sicuro».
«Le do l’indirizzo», propone la
signora Dennett.
«Mi piacerebbe controllare, se non
avete nulla in contrario. Guarderò
se ci sono vetri rotti, segni di
effrazione alla porta».
La voce della madre trema mentre
chiede: «Ritiene che qualcuno abbia
fatto irruzione nell’appartamento di
Mia?».
Cerco di rassicurarla. «Voglio
soltanto
controllare,
signora.
L’edificio ha un portiere?»
«No».
«Un
sistema
d’allarme?
Telecamere?»
«Come facciamo a saperlo?»,
ringhia il giudice Dennett.
«Non le fate visita?», chiedo,
riuscendo a fermarmi in tempo.
Aspetto una risposta, che però non
arriva.
Eve
Dopo
Le chiudo la lampo del giaccone e
le tiro il cappuccio sulla testa, poi
camminiamo
in
mezzo
all’implacabile vento di Chicago.
«Adesso dobbiamo affrettarci»,
dico, e Mia annuisce senza
chiederne il motivo. Le raffiche
quasi ci spostano mentre ci
dirigiamo verso la monovolume di
James,
parcheggiata
a
una
quindicina di metri; le afferro il
gomito e l’unica cosa di cui sono
sicura è che se una di noi due
cadesse, si tirerebbe appresso
anche l’altra. Il parcheggio è una
lastra di ghiaccio, sono passati
quattro giorni dal 25 dicembre.
Cerco di proteggerla dal freddo e
dal vento sferzante, attirandola
verso di me e passandole un
braccio attorno alla vita per tenerla
calda, sebbene la mia corporatura
sia più esile della sua, per cui sono
certa di fallire nel mio intento.
«Torneremo
la
settimana
prossima», le dico mentre sale sul
sedile posteriore, a voce alta per
superare il suono delle portiere che
sbattono e delle cinture di sicurezza
che vengono allacciate. La radio
gracchia, il motore dell’auto fa una
fatica del diavolo in questa giornata
pungente. Mia ha un sussulto, allora
chiedo a mio marito di spegnere la
radio, per favore. Se ne sta seduta
a guardare fuori dal finestrino tre
vetture che ci accerchiano come un
branco di squali famelici; alla guida
uomini invadenti e implacabili, uno
di
loro
alza
una
macchina
fotografica, inquadra e scatta, il
flash quasi ci acceca.
«Dove diavolo sono i poliziotti
quando ce n’è bisogno?», chiede
James rivolto a nessuno in
particolare, prima di suonare così
tanto il clacson che Mia si mette le
mani sulle orecchie per non sentire
quell’orribile frastuono. Di nuovo i
lampi delle macchine fotografiche.
Le auto indugiano col motore
acceso, scaricando dal tubo di
scappamento
un
fumo
che
ingrigisce ancora di più la giornata.
Lei alza lo sguardo e vede che la
osservo. «Mi hai sentito, Mia?», le
domando in tono gentile. Scuote la
testa, e riesco appena a percepire il
pensiero fastidioso che le passa per
la mente: Chloe, mi chiamo Chloe. I
suoi occhi azzurri sono incollati ai
miei, che sono rossi e acquosi per il
tentativo di trattenere le lacrime,
una cosa normale da quando è
tornata mia figlia, anche se James è
qui, come sempre, a ricordarmi di
restare calma. Fatico a dare un
senso al tutto, atteggio il volto a un
sorriso
forzato
eppure
completamente onesto, e una frase
non detta mi riecheggia in testa:
Non riesco a credere che sei a casa.
Mi premuro di lasciarle spazio
sufficiente, non so di quanto ne
abbia bisogno, ma so bene di non
volerle stare troppo addosso.
Scorgo il suo malessere in ogni
gesto ed espressione, nel modo in
cui sta seduta, non più traboccante
di fiducia in sé, come la Mia di una
volta. Comprendo che le è successo
qualcosa di spaventoso.
Mi chiedo comunque se senta che
è accaduto qualcosa anche a me…
Mia distoglie lo sguardo. «La
prossima settimana torniamo dalla
dottoressa Rhodes», dico, e lei
annuisce. «Martedì».
«A che ora?», domanda James.
«All’una».
Lui consulta il suo smartphone con
una mano, quindi mi dice che dovrò
accompagnare da sola nostra figlia
all’appuntamento. Sostiene di avere
un processo a cui non può mancare.
Inoltre, afferma, è sicuro che io sia
in grado di gestire la situazione. Gli
dico che ovviamente ce la posso
fare,
però
mi
sporgo
per
sussurrargli all’orecchio: «Adesso ha
bisogno di te. Sei suo padre». Gli
ricordo che ne abbiamo già
discusso, ci siamo accordati e lui
me lo ha promesso. Risponde che
vedrà quel che può fare, però mi
resta un forte dubbio. A suo dire, la
sua rigida agenda professionale non
gli lascia tempo per crisi familiari
come questa.
Sul sedile posteriore, Mia guarda
dal finestrino il mondo che scorre
mentre percorriamo in fretta la I-94
per uscire dalla città. Ormai sono le
tre e mezza del venerdì pomeriggio
che precede il fine settimana di
Capodanno, per cui il traffico è in
tilt. Restiamo bloccati in un ingorgo,
aspettiamo e poi riprendiamo a
passo di lumaca, neanche cinquanta
chilometri l’ora su un’autostrada.
James non ha pazienza in queste
situazioni. Tiene gli occhi sullo
specchietto retrovisore, aspetta che
ricompaiano i paparazzi.
«Allora, Mia», esordisce James
tanto per passare il tempo. «La
strizzacervelli dice che soffri di
amnesia».
«Oh, James», imploro. «Per
favore, non ora».
Mio marito non è disposto ad
aspettare. Vuole andare fino in
fondo alla questione. Non è
nemmeno una settimana che Mia è
tornata a vivere con noi, dal
momento che non è in grado di
stare da sola. Penso al giorno di
Natale, quando la vecchia auto
bordeaux
aveva
percorso
lentamente il viale d’accesso con
Mia a bordo. Ricordo la maniera in
cui James, quasi sempre distaccato,
pressoché indifferente, si era
fiondato per essere il primo ad
accoglierla, a stringere tra le
braccia la ragazza emaciata sul
vialetto coperto di neve, come se
fosse stato lui, e non io, a
trascorrere in lutto tutti quei lunghi,
tremendi mesi.
Ma da allora ho visto quel sollievo
momentaneo di James scemare, e
Mia, con la sua smemoratezza,
diventare un fastidio per lui, come
uno dei tanti casi che si accumulano
nel suo ufficio, e non di nuovo
nostra figlia.
«Allora, quando?»
«Dopo, te ne prego. E poi, quella
donna è una professionista»,
insisto. «Una psichiatra, non una
strizzacervelli».
«Benissimo, Mia, la psichiatra dice
che soffri di amnesia», ribadisce,
ma lei non risponde. Lui la guarda
dallo specchietto retrovisore, coi
suoi occhi castano scuro che la
tengono prigioniera. Per un fugace
attimo, Mia tenta di reggere lo
sguardo, poi i suoi occhi si posano
sulle mani, dove sono attirati da
una crosticina. «Hai intenzione di
commentare?», le chiede.
«Così ha detto anche a me»,
risponde, e mi sovvengono le parole
della dottoressa che sedeva davanti
a me e a James nel suo triste ufficio
(Mia era stata invitata ad andare
nella sala d’attesa a sfogliare delle
datatissime riviste di moda). La
psichiatra ci aveva fornito la
definizione letterale di un disturbo
da stress acuto, e a me erano
venuti in mente soltanto i poveri
reduci dalla guerra del Vietnam.
James sospira. Intuisco che lui
non lo ritiene plausibile, che reputa
impossibile
che
la
memoria
svanisca nel nulla. «Quindi, come
funziona? Ricordi che sono tuo
padre e che lei è tua madre, eppure
pensi di chiamarti Chloe. Sai la tua
età, dove vivi e che hai una sorella,
ma non hai idea di chi sia Colin
Thatcher? Non sai veramente dove
sei stata negli ultimi tre mesi?».
Intervengo in difesa di Mia: «Si
chiama amnesia selettiva, James».
«Intendi dire che sceglie le cose
che preferisce ricordare?»
«Non lo fa mica lei, lo fanno il suo
inconscio, il suo subconscio, o
qualcosa del genere. Le mettono i
pensieri penosi dove non può
rintracciarli. Non è qualcosa che lei
decide di fare. È la maniera che ha
il suo organismo per aiutarla a
cavarsela».
«Cavarsela in che cosa?»
«L’intera faccenda, James. Tutto
quanto è accaduto».
Lui
vuole
sapere
come
risolveremo la questione. Non lo so
con certezza, ma suggerisco: «Col
tempo, immagino. La terapia, i
farmaci, l’ipnosi».
Lui sghignazza beffardo, pensa
che l’ipnosi equivalga all’amnesia.
«Che tipo di farmaci?»
«Antidepressivi», replico. Mi volto
e, dopo aver dato un colpetto sulla
mano di mia figlia, aggiungo:
«Forse non recupererà mai più la
memoria, ma andrà bene lo
stesso». La osservo per un attimo:
è praticamente la mia fotocopia,
sebbene più alta e giovane e, a
differenza di me, ancora molto
lontana dalle rughe e dalle ciocche
canute che stanno cominciando a
insinuarsi nella mia chioma biondo
scuro.
«E come faranno gli antidepressivi
a farle tornare la memoria?»
«La aiuteranno a sentirsi meglio».
James è sempre sincero, fino in
fondo. Uno dei suoi difetti.
«Maledizione, Eve, se non riesce a
ricordare, per cosa può stare
male?», mi chiede, dopodiché i
nostri sguardi si rivolgono fuori dei
finestrini, fermi nel traffico: la
conversazione può considerarsi
conclusa.
Gabe
Prima
La scuola in cui insegna Mia
Dennett si trova nell’area nordoccidentale di Chicago chiamata
North Center. Un buon quartiere,
per così dire, non distante da casa
sua, dove vivono soprattutto
bianchi che pagano affitti superiori
ai mille dollari al mese. Buon per
lei. Non lo sarebbe stato altrettanto
se avesse lavorato a Englewood. La
sua scuola intende offrire agli
studenti che si ritirano da altri
istituti una possibilità di recupero.
In piccole aule didattiche, si
tengono lezioni di formazione
professionale, test d’informatica, si
danno consigli di vita, eccetera. E
poi arriva Mia Dennett, insegnante
d’Arte, incaricata di portare un po’
di quell’anticonformismo che non
trova posto nelle scuole tradizionali,
quelle che prevedono più ore per
scienze e matematica, tediando a
morte sedicenni disadattati che se
ne infischiano.
Ayanna Jackson mi riceverà in
segreteria. Devo attendere un buon
quarto d’ora perché è nel mezzo di
una lezione, quindi devo starmene
su una di quelle sedie di plastica
che sembrano fatte apposta per
strizzarti. Una cosa che non mi
piace. Certo, non sono più il figurino
di una volta, ma sono convinto di
portare molto bene i miei chili di
troppo. La segretaria mi tiene
d’occhio per tutto il tempo, come se
fossi uno studente mandato in
presidenza per uno scambio di
vedute col preside. Una scena a cui
sono tristemente abituato, visto che
tanti giorni della mia carriera
scolastica li ho passati in una
situazione simile.
«Lei è quello che cerca di ritrovare
Mia», dice mentre mi presento
come l’ispettore Gabe Hoffman. Le
confermo la sua supposizione. Sono
quasi quattro giorni che nessuno la
vede o ha più parlato con lei, quindi
l’abbiamo iscritta ufficialmente tra
le persone scomparse, alla faccia
del giudice. Giornali e telegiornali
ne hanno riportato la notizia, e ogni
mattina, quando scivolo fuori dalle
coperte, mi convinco che quella
sarà la giornata in cui troverò Mia
Dennett e diventerò un eroe.
«Quando ha visto Mia per l’ultima
volta?»
«Martedì».
«Dove?»
«Qui».
Ci dirigiamo in classe, e Ayanna
(che mi prega di non chiamarla
signorina Jackson) mi invita ad
accomodarmi in una delle sedie di
plastica attaccate alla cattedra,
malridotta e imbrattata di graffiti.
«Da quanto tempo conosce Mia?».
Lei è seduta in cattedra, su una
comoda poltroncina di pelle, e io mi
sento un ragazzino, mentre in
realtà
sono
almeno
trenta
centimetri più alto di lei. Accavalla
le lunghe gambe, lo spacco della
gonna nera si apre a mostrare la
pelle. «Tre anni. Da quando Mia
insegna».
«Va d’accordo con tutti? Con gli
studenti, col personale?».
Una risposta solenne: «Non c’è
nessuno con cui lei non vada
d’accordo».
Ayanna prosegue raccontandomi
com’è Mia. Quando è arrivata in
quella scuola alternativa, aveva una
certa grazia naturale, simpatizzava
con gli studenti e si comportava
come se anche lei fosse cresciuta
per le strade di Chicago. E poi
aveva organizzato una raccolta
fondi per comprare il necessario per
gli studenti meno abbienti. «Non si
sarebbe detto che è una Dennett».
Secondo la signorina Jackson, la
maggior parte dei nuovi docenti
dura poco in quel genere di
ambiente
pedagogico.
Data
l’attuale situazione del mercato, le
scuole alternative sono gli unici
posti in cui si assumono insegnanti,
e i laureati accettano quella
posizione finché non gli si presenta
un’occasione migliore. Ma non Mia.
«Era qui che voleva stare. Mi
permetta di mostrarle una cosa»,
dice Ayanna apprestandosi a
prendere una pila di fogli da una
vaschetta sulla cattedra. Mi si
avvicina e si siede su uno dei
banchi, di fianco a me. Mi posa i
fogli
davanti
e
noto
uno
scarabocchio in pessima calligrafia,
peggiore della mia. «Stamattina gli
studenti hanno compilato la loro
parte del diario settimanale»,
spiega
mentre
esamino
con
attenzione il lavoro e noto che il
nome
della signorina Dennett
compare così tante volte che è
impossibile contarle.
«Lo facciamo ogni settimana. Il
compito di questa», continua, «era
descrivere cosa intendono fare dopo
le superiori». Mi accorgo che le
p a r o l e signorina Dennett sono
scarabocchiate su quasi ogni foglio.
«Ma il novantanove percento degli
studenti pensa solo a lei», conclude
Ayanna, e dall’avvilimento nella sua
voce capisco che anche lei non può
far altro che pensare a Mia.
«Aveva dei problemi con qualche
studente?»,
chiedo,
così
per
sicurezza. Ma so quale sarà la sua
risposta prima ancora che scuota la
testa.
«E che mi dice di un eventuale
fidanzato?», insisto.
«Immagino ce l’avesse», replica,
«se lo si può definire tale. Un Jason
qualcosa. Non conosco il suo
cognome. Niente di serio. Escono
insieme da poche settimane, forse
da un mese, non di più». Me lo
appunto. I Dennett non avevano
fatto alcun riferimento a un
ragazzo. Possibile che non lo
sappiano? Ovviamente sì. Con la
famiglia Dennett tutto è possibile,
comincio a capirlo.
«Sa come contattarlo?»
«È un architetto», dice. «Sta in
uno studio dalle parti di Wabash. Di
solito si incontrano il venerdì sera
per l’happy hour. Wabash e… Non
so, forse Wacker? Da qualche parte
lungo il fiume». Mi sembra
un’impresa rintracciarlo, ma ci
proverò.
Trascrivo
quest’informazione sul mio taccuino
giallo.
Il fatto che Mia abbia un ragazzo
difficile da trovare è per me
un’ottima notizia. In casi come
questo, è stato sempre il fidanzato.
Se trovo Jason, sono sicuro di
ritrovare anche Mia, o ciò che resta
di lei. Tenuto conto che è
scomparsa da quattro giorni,
comincio a sospettare che la storia
possa finire male. Jason lavora
dalle parti del fiume Chicago: brutta
notizia. Dio sa quanti corpi vengono
ripescati ogni anno da quelle acque.
Lui è architetto, quindi intelligente,
capace di risolvere problemi, per
esempio come scaricare un corpo di
cinquantacinque chili senza che se
ne accorga nessuno.
«Se Mia e Jason stavano
insieme», ipotizzo, «non è strano
che lui non cerchi di trovarla?»
«Crede che Jason sia implicato?».
Faccio spallucce. «So che se
avessi una ragazza e non le parlassi
da quattro giorni, mi preoccuperei
almeno un po’».
«Concordo», ammette Ayanna. Si
alza dal banco e comincia a
cancellare la lavagna. Ha tracce di
gesso sulla gonna nera. «Non ha
telefonato ai Dennett?»
«Il signore e la signora Dennett
non hanno la minima idea che
abbia un fidanzato. Per quanto li
riguarda, Mia è single».
«Non è in rapporti stretti coi
genitori. Hanno dei… contrasti
ideologici».
«Concordo».
«Non penso che parlasse con i
suoi di cose simili».
Sta sviando dall’argomento, così
tento di riportare Ayanna sul
sentiero giusto. «Però lei e Mia
siete in rapporti stretti». Me lo
conferma. «Direbbe che Mia le
racconta tutto?»
«Per quanto ne so…».
«Che cosa le diceva di Jason?».
Ayanna si rimette a sedere,
stavolta sul bordo della cattedra.
Sbircia l’orologio appeso al muro, si
toglie la polvere di gesso dalle
mani. Riflette sulla mia domanda.
«Non sarebbe durata», mi svela,
cerca le parole giuste per spiegarlo.
«Mia non s’impegna spesso, quasi
mai fa sul serio. Non le piacciono i
legami, sentirsi impegnata. È molto
indipendente, forse fin troppo».
«E
Jason
è…
appiccicoso?
Dipendente?».
Scuote il capo. «No, non è questo,
solo che non è il ragazzo adatto.
Quando parlava di lui, Mia non si
entusiasmava. Non ciarlava come
fanno le ragazze quando hanno
incontrato quello giusto. Dovevo
sempre costringerla a spifferarmi
qualcosa su di lui, e poi mi
sembrava
di
ascoltare
un
documentario: siamo andati a cena,
abbiamo visto un film… E so che lui
aveva orari terribili, una cosa che la
irritava:
mancava
agli
appuntamenti o arrivava in ritardo.
Lei detestava sentirsi vincolata ai
suoi ritmi. Quando ci sono tanti
problemi il primo mese, non è
destinata a durare».
«Quindi, è possibile che Mia
stesse pensando di lasciarlo».
«Non so».
«Ma non era felice».
«Non direi che non fosse felice»,
precisa Ayanna. «Non credo che le
importasse di esserlo o no».
«Da quel che ne sa, Jason aveva
lo stesso atteggiamento?». Dice
non di saperlo. Quando parlava di
Jason, Mia era riservata. Le
conversazioni erano distaccate: un
elenco delle cose che avevano fatto
in una particolare giornata, dati e
dettagli su di lui (altezza, peso,
colore degli occhi e dei capelli), ma
non, si noti bene, il suo cognome.
Comunque, Mia non raccontava mai
se si baciavano e non menzionava
mai quelle «farfalle nello stomaco»
(espressione di Ayanna, non mia)
che si sentono quando s’incontra
l’uomo dei sogni. Sembrava irritata
quando lui le dava buca, cosa che
secondo Ayanna accadeva spesso,
eppure non pareva eccitata le sere
in cui avevano in programma di
vedersi sul lungofiume.
«E questa sarebbe per lei la prova
del suo disinteresse?», le chiedo.
«Per Jason? Per la loro relazione?
Per tutta la faccenda?»
«Mia ci passava il tempo in attesa
che qualcosa di meglio arrivasse».
«Litigavano?»
«Non che io sappia».
«Ma se ci fosse stato un
problema, Mia gliel’avrebbe detto»,
provo.
«Mi piacerebbe pensare di sì»,
ribatte la donna, mentre il suo
sguardo si intristisce.
La campanella suona, seguita da
uno scalpiccio di passi nell’androne.
Ayanna Jackson si alza, e io colgo
l’antifona. Le dico che resterò in
contatto e le lascio il mio biglietto
da visita, invitandola a chiamarmi
se le venisse in mente qualcosa.
Eve
Dopo
Sono a metà delle scale quando
vedo quelli della troupe giornalistica
sul marciapiede di fronte a casa
nostra. Stanno in piedi tutti
tremanti, coi microfoni e le
telecamere. Tammy Palmer, della
cronaca
locale,
con
un
impermeabile beige e stivali fino al
ginocchio, staziona sul prato. Mi dà
le spalle, c’è un uomo che fa il
conto alla rovescia sulle dita (tre…
due…) rivolgendosi a lei, mentre
sento la sigla del suo programma,
prima che lei dica: «Mi trovo qui a
casa di Mia Dennett…».
Non è la prima volta che vengono.
Ormai i loro servizi si sono
diradati, i reporter cominciano a
interessarsi ad altre storie: le leggi
sulle nozze gay, la condizione
disastrosa
dell’economia…
Ma
subito dopo il ritorno di Mia si erano
accampati nei dintorni, volevano
disperatamente cogliere di sfuggita
la ragazza danneggiata, avidi di
qualsiasi brandello di informazione
da trasformare in titolone. Ci
seguivano in auto per tutta la città,
finché non rimase che rinchiudere
mia figlia in casa.
C’erano
auto
misteriose
parcheggiate lì fuori, coi fotografi
delle
riviste
spazzatura
che
puntavano dai finestrini i loro
teleobiettivi, nel tentativo di
trasformare Mia in una gallina dalle
uova d’oro. Chiudo le tende.
La vedo seduta al tavolo della
cucina. Scendo le scale in silenzio,
la osservo nel suo mondo prima di
entrarvi. Indossa un paio di jeans
strappati e un comodo maglione blu
a collo alto, che scommetto farà
sembrare meravigliosi i suoi occhi.
Dopo la doccia, ha ancora i capelli
umidi e ondulati che si stanno
asciugando sulla schiena. Sono
sconcertata dai calzini di lana
grossa che ha ai piedi e dalla tazza
di caffè attorno a cui tiene giunte le
mani.
Sente che mi avvicino e si volta.
Sì, penso tra me, il maglione a collo
alto rende bellissimi i suoi occhi.
«Stai bevendo il caffè», esordisco,
e la vaga espressione sul suo volto
mi fa capire di aver detto la cosa
sbagliata.
«Non bevo caffè?».
Ormai è una settimana che ci
vado coi piedi di piombo, tento
sempre di dire la cosa giusta,
esagerando
ridicolmente
per
metterla a suo agio. Mi sforzo, per
compensare l’apatia di James e il
marasma di Mia. E poi, quando
meno me l’aspetto, nel bel mezzo di
una conversazione apparentemente
normale, mi capita di fare una
gaffe.
Mia non beve caffè. Non ingerisce
caffeina quasi per nulla. La
innervosisce.
Però
vedo
che
sorseggia dalla tazza, pigra e
distratta; penso (e spero) che
magari un po’ di caffeina possa fare
effetto. Chi è questa ragazza debole
davanti a me, di cui riconosco il
viso, ma della quale ignoro i gesti, il
tono di voce, o il silenzio allarmante
che la avvolge come una bolla?
Ci sono milioni di cose che vorrei
domandarle. Ma non lo faccio. Mi
sono ripromessa di lasciarla in pace.
James si è immischiato più che a
sufficienza per entrambi. Lascerò la
faccenda ai professionisti: la
dottoressa
Rhodes,
l’ispettore
Hoffman e quelli che non sanno mai
quando smettere (mio marito). È
mia figlia, però non è mia figlia. È
Mia, ma non è Mia. Le assomiglia,
però indossa calzini, beve caffè e si
sveglia singhiozzando nel cuore
della notte. Risponde prima se la
chiamo Chloe rispetto a quando la
chiamo col suo nome di battesimo.
Sembra svuotata, pare che dorma
quando è sveglia, resta vigile
allorché dovrebbe dormire. Ieri
sera, quando ho azionato lo
smaltimento rifiuti, ha fatto un
balzo sulla sedia ed è scappata in
camera sua. Non l’abbiamo più vista
per ore, e quando le ho chiesto
come avesse passato il tempo, ha
saputo dire solamente «non so». La
Mia che conosco non riesce a stare
ferma tanto a lungo.
«Sembra una bella giornata»,
butto lì, ma non risponde.
Effettivamente lo sembra. Il sole
splende, però a gennaio è
ingannevole
e
di
sicuro
la
temperatura non supererà i -5 °C.
«Voglio mostrarti qualcosa», dico,
conducendola
dalla
cucina
all’attigua sala da pranzo, dove a
novembre, quando ero certa che
fosse morta, avevo sostituito una
stampa a tiratura limitata con una
delle sue opere. È il dipinto a olio di
un
pittoresco
villaggio
della
Toscana che Mia aveva copiato da
una foto dopo aver visitato la zona
insieme a noi alcuni anni fa. Aveva
steso i colori a strati, creando una
rappresentazione drammatica del
villaggio, un momento nel tempo
ora fissato dietro un pannello di
vetro. La osservo mentre guarda il
quadro e penso: Se si potesse
conservare tutto così… «Sei stata tu
a farlo», dico.
Lo sa. Questo se lo ricorda.
Rammenta la giornata in cui si mise
a sedere al tavolo della sala da
pranzo con i colori e la fotografia.
Aveva supplicato il padre di
comprarle il cartoncino e lui aveva
acconsentito, sebbene fosse certo
che la nuova passione per l’arte
sarebbe stata per la figlia una
fissazione passeggera. Quando lei
aveva finito il disegno, le avevamo
manifestato
il
nostro
apprezzamento e ci eravamo
affrettati a riporlo da qualche parte,
insieme ai costumi smessi di
Halloween e ai vecchi pattini,
inciampandovi
per caso
solo
durante la ricerca affannosa di una
sua foto per l’ispettore.
«Ricordi il viaggio che abbiamo
fatto in Toscana?», chiedo.
Avanza di un passo per far
scorrere le sue graziose dita sul
quadro. È diversi centimetri più alta
di me, ma in questa sala da pranzo
è una bambina, un uccellino che ha
appena messo le penne e non sa
ancora reggersi in piedi.
«Pioveva», replica senza staccare
gli occhi dal dipinto.
Annuisco.
«Sì,
pioveva»,
confermo, felice che se ne sia
ricordata. Ma era piovuto solo per
un giorno, per il resto eravamo stati
davvero fortunati.
Voglio dirle di aver appeso il
quadro
perché
ero
tanto
preoccupata
per
lei.
Ero
terrorizzata. Tutte le notti, per
diversi mesi, ero rimasta sveglia,
distesa nel letto, a chiedermi: Cosa
succede se…? Se non stava bene?
Se stava bene ma non l’avessimo
più trovata? Se fosse morta e non
l’avessimo
mai
saputo?
Se
l’avessimo saputo e il detective ci
avesse chiesto di identificare le sue
spoglie in decomposizione?
Voglio dire a Mia di aver appeso il
sacco di Babbo Natale al camino
nella fortunata eventualità che
tornasse, di averle comprato i regali
e averglieli incartati e messi sotto
l’albero. Voglio che sappia che
lasciavo accesa ogni notte la luce
della veranda e che l’avrò chiamata
migliaia di volte al cellulare, non si
poteva mai sapere. Magari una
volta non sarebbe scattata la voce
della segreteria. Invece avevo
ascoltato il messaggio infinite volte,
le stesse parole, lo stesso tono:
«Ciao, sono Mia. Per favore,
lasciate
un
messaggio»,
gustandomi per un attimo il suono
della sua voce. Mi domandavo cosa
sarebbe successo se quella fosse
stata l’ultima frase che ascoltavo da
mia figlia. Cosa sarebbe successo…?
Il suo sguardo è vitreo, la sua
espressione vacua. Generalmente
ha l’incarnato perfetto della pesca,
il più bello che abbia mai visto, ma
adesso il colorito roseo è scomparso
e lei è bianca come uno straccio, o
un fantasma. Quando parliamo, non
mi guarda in faccia, fissa un punto
alle mie spalle; mi attraversa, non
mi affronta direttamente. Tiene
perlopiù gli occhi a terra, fissa i
piedi o si guarda le mani, qualsiasi
cosa pur di evitare lo sguardo altrui.
E lì in piedi nella sala da pranzo, a
un tratto il suo volto perde ogni
traccia di colore. Accade in un
istante, la luce che penetra dalle
tende aperte enfatizza il suo
barcollare mentre incurva le spalle:
la sua mano scende con un
movimento rapido dal quadro della
Toscana alla pancia. Il mento si
piega sul petto, il suo respiro
diventa affannoso. Le appoggio una
mano sulla schiena (magrissima,
sento le ossa) e aspetto. Ma non
troppo, sono impaziente. «Mia,
tesoro», la chiamo. Lei però dice
che va tutto bene, che non è
niente, e io sono sicura che è colpa
del caffè.
«Cos’è successo?».
Si stringe nelle spalle, con la
mano ancora sull’addome. So che
non si sente bene. Comincia a
camminare a ritroso, per uscire
dalla sala da pranzo. «Sono stanca,
tutto qui. Devo solo sdraiarmi»,
dice, e io mi ripropongo di eliminare
dalla casa ogni traccia di caffeina
prima che si risvegli dal sonnellino.
Gabe
Prima
«Lei non è un uomo facile da
trovare», dico mentre mi accoglie
nella sua postazione di lavoro. Più
che un ufficio, è un cubicolo, però le
pareti sono più alte del normale e
offrono un minimo di riservatezza.
C’è una sedia soltanto, la sua, per
cui resto sulla soglia del cubo,
incastrato contro la parete mobile.
«Non sapevo che qualcuno mi
stava cercando».
La mia prima impressione è che
sia tronfio, un idiota pieno di sé,
come ero io anni fa, prima di
rendermi conto che avrei dovuto
essere meno presuntuoso. È un
uomo grosso e robusto, non proprio
alto. Sono certo che fa sport,
prende integratori proteici e forse
perfino steroidi.
Lo annoto sul taccuino, anche se,
per il momento, evito di farmi
scorgere da lui assorto in queste
mie
congetture.
Potrebbe
prendermi a calci in culo.
«Conosce Mia Dennett?», chiedo.
«Dipende». Si volta con la sedia
girevole e finisce di scrivere
un’email dandomi le spalle.
«Da che cosa?»
«Da chi lo vuole sapere».
Non sono troppo disposto a stare
al suo gioco. «Io», dico, tenendo in
serbo il mio asso nella manica.
«E lei è?»
«Sto cercando Mia Dennett»,
replico.
Mi rivedo in questo ragazzo: avrà
al
massimo
ventiquattro
o
venticinque
anni,
fresco
di
università, e magari crede ancora
che il mondo giri attorno a lui. «Se
lo dice lei». Io invece sono sulla
soglia dei cinquanta, e proprio
stamattina ho notato i primi capelli
bianchi. Sono convinto di dover
ringraziare il giudice Dennett per
questa novità.
Lui continua a scrivere la sua
e ma i l . E che cazzo, penso. Non
gliene frega niente che io sia lì, in
attesa di parlargli. Sbircio da sopra
le sue spalle per capire. Si tratta di
football universitario, il nome
utente del destinatario è «dago82».
Mia madre è italiana – da lei ho
preso gli occhi e i capelli neri che mi
pare affascinino tutte le donne –
quindi prendo come un insulto al
mio
popolo
quel
nomignolo
spregiativo1, benché non sia mai
stato in Italia e non conosca una
sola parola di italiano. Sto
solamente
cercando
un’altra
ragione
per
detestare
quest’individuo. «Dev’essere una
giornata
piena
di
lavoro»,
commento, con lui che sembra
scocciato che legga la sua email.
Iconizza la pagina sullo schermo.
«Chi diavolo è lei?», chiede di
nuovo.
Infilo una mano nella tasca
posteriore ed estraggo il distintivo
luccicante che adoro. «Ispettore
Gabe
Hoffman».
Abbassa
visibilmente la cresta, e parecchio.
Sorrido. Dio mio, come mi piace il
mio mestiere.
Finge stupore. «C’è un problema
con Mia?»
«Sì, ritengo che si possa dire
così».
Apetta che prosegua io. Ma non lo
faccio, proprio per irritarlo. «Che
cosa ha fatto?»
«Quando ha visto Mia l’ultima
volta?»
«Un po’ di tempo fa. Circa una
settimana».
«E l’ultima volta che ha parlato
con lei?»
«Non so. La settimana scorsa.
Martedì sera, mi pare».
«Le pare?», chiedo. Lo conferma
sul calendario. Sì, era martedì sera.
«Ma non l’ha vista martedì?»
«No, dovevo farlo, ma sono stato
costretto a disdire l’appuntamento.
Sa, il lavoro».
«Capisco».
«Cosa le è successo?»
«Quindi non la sente da martedì».
«Esatto».
«È normale? Passare quasi una
settimana senza sentirsi?»
«L’ho
chiamata»,
confessa.
«Mercoledì, forse giovedì. Non mi
ha richiamato. Ho pensato che
fosse incavolata».
«E come mai? Aveva motivo di
esserlo?».
Fa spallucce. Allunga una mano
per prendere una bottiglia d’acqua
sulla scrivania e ne beve un sorso.
«Martedì
sera
ho
annullato
l’appuntamento. Dovevo lavorare.
Al telefono è stata brusca, sa? Era
arrabbiatissima, lo capivo. Però
dovevo lavorare. Pertanto, ho
pensato che mi tenesse il muso e
non mi ritelefonasse… Non so».
«Che progetti avevate?»
«Martedì sera?»
«Certo».
«Incontrarci in un bar a Uptown.
Mia era già arrivata quando l’ho
chiamata. Ero in ritardo. Le ho
detto che non ce l’avrei fatta».
«E lei era incavolata?»
«Non era contenta».
«Perciò, martedì sera lei era qui,
al lavoro».
«Fino alle tre di notte».
«Qualcuno lo può confermare?»
«Mah, sì. Il mio capo. Stavamo
sistemando alcuni progetti per un
incontro coi clienti il giovedì. Mi
sono sentito ogni tanto con lei
durante la serata. Sono nei guai?»
«Ci
arriveremo»,
replico
seccamente, e intanto trascrivo il
dialogo con la mia stenografia che
nessuno sa decifrare. «Dov’è
andato dopo aver finito di
lavorare?»
«A casa, amico. Era notte fonda».
«Ha un alibi?»
«Un alibi?». Comincia a sentirsi a
disagio, si sposta sulla sedia. «Non
saprei, ho preso un taxi per
tornare».
«Ha la ricevuta?»
«No».
«Nel suo palazzo c’è un portiere?
Qualcuno che possa confermare che
è tornato a casa?»
«Ci sono le videocamere», dice, e
poi chiede: «Dove caspita è Mia?».
Dopo aver incontrato Ayanna
Jackson, mi ero procurato i tabulati
telefonici della Dennett e avevo
trovato chiamate quasi giornaliere a
un certo Jason Becker, poi
rintracciato in uno studio di
architettura del Chicago Loop2. Mi
sono recato da lui per capire cosa
sapesse della scomparsa della
ragazza, e quando gli avevo fatto il
nome di lei avevo subito notato
un’emozione evidente sul suo volto.
«Sì, conosco Mia», aveva detto
invitandomi verso il suo cubicolo.
L’avevo capito all’istante: gelosia.
Era convinto che fossi il suo rivale.
«È scomparsa», dico, cercando di
interpretare la sua reazione.
«Scomparsa?»
«Sì, sparita. Da martedì nessuno
l’ha più vista».
«E lei pensa che io abbia qualcosa
a che fare con questo?».
Mi irrita il fatto che si preoccupi
più della sua colpevolezza che della
vita di Mia. «Sì», mento. «Credo che
possa avere qualcosa a che vedere
con questa faccenda». Invece, la
verità è che, se il suo alibi è di ferro
come pretende lui, sono di nuovo al
punto di partenza.
«Mi serve un avvocato?»
«Pensa di averne bisogno?»
«Gliel’ho detto, stavo lavorando.
Martedì sera non ho visto Mia. Lo
domandi al mio capo».
«Lo farò», gli assicuro, sebbene
l’espressione
che
gli
passa
fugacemente sul viso mi implori di
non farlo.
I colleghi di Jason origliano.
Quando passano davanti al suo
cubicolo, rallentano il passo,
indugiano all’esterno e fingono di
conversare. Me ne fotto. Lui no. La
cosa lo fa ammattire. Si preoccupa
per la propria reputazione. Mi piace
vederlo
agitarsi
sulla
sedia,
diventare ansioso. «Le serve
altro?», chiede per accelerare le
cose. Vuole che smetta di pressarlo.
«Devo sapere che piani avevate
per martedì sera. Dov’era Mia
quando le ha telefonato. Che ora
era. Ho bisogno di vedere i suoi
tabulati telefonici. Di parlare col suo
capo per assicurarmi che lei era qui,
e di controllare col servizio di
sicurezza a che ora se n’è andato.
Mi servono le riprese delle
videocamere del suo palazzo per
verificare che è tornato a casa. Se
non ha problemi a fornirmi queste
cose, è tutto a posto. Oppure, se
preferisce, mi faccio rilasciare un
mandato…».
«Mi sta minacciando?»
«No», mento, «le illustro soltanto
le sue opzioni».
Accetta di fornirmi le informazioni
che mi servono e, prima che me ne
vada, di accompagnarmi dal suo
capo, una donna di mezz’età in un
ufficio notevolmente più grande del
suo, con finestre a tutta altezza che
danno sul fiume Chicago.
Dopo aver avuto la conferma che
l’uomo aveva sgobbato tutta la
notte, dichiaro: «Jason, faremo
tutto il possibile per ritrovare Mia»,
per ritrovarmi davanti la sua
espressione apatica prima di
andarmene.
1
Dago (guappo) è il termine con cui gli
americani indicano gli italiani e le persone
di altri Paesi latini. (n.d.t.)
2
Centro storico ed economico della città.
(n.d.t.)
Colin
Prima
Non ci vuole molto. Pago qualcuno
che resti al lavoro un paio d’ore più
di quanto vorrebbe. La seguo fino al
bar e mi metto a sedere dove posso
osservarla senza che mi veda.
Aspetto che arrivi la chiamata e,
appena viene a sapere che le ha
dato buca, mi attivo.
Non so granché di lei. Ho visto
un’immagine. Una foto indistinta
mentre esce dalla metropolitana e
si dirige verso un’auto parcheggiata
a poca distanza. Tra la ragazza e
l’obiettivo ci sono una decina di
persone, per cui attorno alla sua
faccia è stato tracciato un
cerchietto rosso. Sul retro della foto
compaiono le parole Mia Dennett e
un indirizzo. Me l’hanno data circa
una settimana fa. Mai fatto prima
una cosa simile. Furto, sì. Molestie,
anche. Non rapimenti. Però mi
servono i soldi.
È da qualche giorno che la seguo.
So dove fa la spesa, dove va a farsi
lavare i vestiti, dove lavora. Non le
ho mai parlato. Non saprei
riconoscere il suono della sua voce.
Non conosco il colore dei suoi occhi
o come siano quando ha paura. Ma
lo saprò.
Ho ordinato una birra, che non
bevo. Non posso rischiare di
ubriacarmi. Non stasera. Ma non
voglio attirare l’attenzione su di me,
quindi ho chiesto una birra per non
stare a mani vuote. Quando le
arriva la telefonata, è già seccata.
Esce all’esterno per rispondere e
rientra delusa. Pensa di andarsene,
eppure decide di finire il suo drink.
Recupera nella borsa una penna e
disegna qualcosa sul tovagliolo del
bar, mentre ascolta un testa di
cazzo che legge poesie sul palco.
Cerco di non pensarci. Di non
pensare che è carina. Ricordo a me
stesso che ho bisogno di denaro,
non lo dimentico. Non sarà difficile,
in un paio d’ore sarà tutto finito.
«È bello», dico accennando alla
salvietta. È il meglio che mi viene in
mente. Non capisco nulla di roba
artistica.
Ostenta freddezza quando mi
avvicino. Non vuole avere niente a
che fare con me. Questo mi facilita
le cose. Ha alzato appena lo
sguardo dal tovagliolo, perfino
quando le ho detto di apprezzare la
candela che ha disegnato. Desidera
che la lasci in pace.
«Grazie», dice senza guardarmi.
«Qualcosa di astratto».
La cosa apparentemente sbagliata
da dire. «Pensa che sia una
merda?».
Un altro uomo si sarebbe messo a
ridere. Avrebbe detto che scherzava
e
l’avrebbe
sommersa
di
complimenti. Ma non io. Non con
lei.
Le scivolo accanto. Con qualsiasi
altra, in qualsiasi altro giorno, me
ne sarei andato. In un altro giorno
qualunque non l’avrei nemmeno
abbordata al tavolino, non mi sarei
avvicinato a quello di una ragazza
incazzata, con l’aria da stronza.
Lascio le chiacchiere futili, i
corteggiamenti e queste boiate agli
altri. «Non ho detto che è una
merda».
Mette la mano sulla giacca. «Me
ne stavo per andare», dice. Finisce
la sua bibita e posa di nuovo il
bicchiere sul tavolino. «Il posto è
tutto per lei».
«Sembra
Monet»,
esclamo.
«Monet faceva roba astratta,
vero?».
Lo dico di proposito.
Mi guarda. Sono sicuro che è la
prima volta. Le sorrido. Mi chiedo se
quel che vede sia sufficiente per
farle togliere la mano dalla giacca.
Il suo tono si addolcisce, sa di
essere stata brusca. Forse non è
così stronza, dopotutto. Forse è solo
arrabbiata. «Monet è un pittore
impressionista»,
mi
corregge.
«Picasso, la sua è arte astratta.
Kandinsky, Jackson Pollock». Mai
sentiti nominare. Lei ha ancora in
mente di andarsene. Non me ne
preoccupo. Se decide di uscire, la
seguirò fino a casa. So dove abita.
E ho un sacco di tempo.
Quindi ci provo lo stesso.
Prendo la salvietta che ha
accartocciato e buttato in un
posacenere. Tolgo la cenere e la
stiro per bene. «Non è brutto»,
dico, piegando il disegno che infilo
nella tasca posteriore dei jeans.
Questo basta per indurla a cercare
con gli occhi la cameriera del bar;
pensa di ordinare qualcos’altro. «Lo
vuole conservare?», domanda.
«Sì».
Ride. «Nel caso che in futuro
diventassi famosa?».
Alla
gente
piace
sentirsi
importante. Lei si lascia sopraffare
da questa sensazione.
Mi rivela di chiamarsi Mia. Quando
mi chiede il mio nome, faccio una
pausa così lunga che ha il tempo di
dire: «Non immaginavo fosse una
domanda difficile». Le rispondo che
il mio nome è Owen. Spiego che i
miei genitori vivono a Toledo e che
sono cassiere in banca. Due bugie.
Non mi svela molto di sé. Parliamo
di cose impersonali: un incidente
d’auto sulla Dan Ryan, un treno
merci
che
ha
deragliato,
l’imminenza
delle
finali
del
campionato di baseball. Suggerisce
di trattare cose meno deprimenti.
Non è facile. Ordina qualcosa da
bere, due volte. Più beve e più si
apre. Ammette che il suo ragazzo le
ha dato buca. Mi racconta di lui, che
escono insieme dalla fine di agosto
e che può contare sulle dita della
mano il numero di volte che lui ha
rispettato
l’appuntamento
che
avevano
preso.
Cerca
una
comprensione che non le offro. Non
è da me.
A un certo punto scivolo sulla
panca, più vicino a lei. A tratti ci
tocchiamo, ci sfioriamo le gambe,
ma non intenzionalmente.
Mi sforzo di non pensarci. Di non
pensare al dopo. Cerco di non
pensare a me che la spingo a forza
nell’auto o che la consegno a
Dalmar. La ascolto parlare a lungo,
di cosa non lo so, perché penso solo
ai soldi. A quanto ammonterà la
somma. Questa roba (starmene
seduto con una donna in un bar e
prenderla come ostaggio per un
riscatto) non fa per me. Però
sorrido quando lei mi guarda e, se
la sua mano sfiora la mia, la lascio
fare, perché ne sono certo: questa
ragazza può cambiarmi la vita.
Eve
Dopo
Sfoglio
l’album
dei
ricordi
d’infanzia di Mia e allora mi viene
l’illuminazione: in seconda, aveva
un’amichetta immaginaria che si
chiamava Chloe.
È lì, sui fogli ingialliti dell’album;
l’ho scritto io in corsivo con
inchiostro blu, lungo il margine, tra
la sua prima frattura e una brutta
influenza che l’aveva fatta finire al
pronto soccorso. La foto di lei in
terza copre parzialmente il nome
Chloe, ma riesco a decifrarlo.
Mi soffermo su quest’immagine: il
ritratto di una ragazzina felice e
disinvolta, ancora molto lontana
dall’acne e dall’apparecchio, e da
Colin Thatcher. Sorride contenta
senza denti, sotto una massa
arruffata di capelli fiammeggianti.
La faccia è spruzzata di lentiggini,
che col tempo sono sparite, e i suoi
capelli sono leggermente più scuri
di come sarebbero diventati in
seguito. Il colletto della camicetta è
aperto e sono sicura che sulle sue
gambe magre avesse un paio di
pantacalze fucsia, probabilmente
smesse da Grace.
Scorro le foto nell’album: quella
della mattina di Natale, quando Mia
aveva due anni e Grace sette, coi
loro pigiami coordinati, mentre
James aveva i capelli unti dritti
sulla testa. I primi giorni di scuola.
Le feste di compleanno.
Sono seduta al tavolinetto dove
facciamo colazione con l’album
d’infanzia aperto davanti a me,
guardo i biberon e i pannolini di
tessuto, e vorrei tornare indietro.
Faccio
una
telefonata
alla
dottoressa Rhodes. Con mia grande
sorpresa, risponde.
Quando
le
dico
dell’amica
immaginaria, lei parte in quarta con
un’analisi psichiatrica. «Spesso,
signora Dennett, i bambini si creano
amici di fantasia per compensare la
solitudine o la carenza di amici veri
nella vita reale. E attribuiscono a
questi compagni immaginari le
qualità che desidererebbero avere
per sé, rendendoli estroversi se
sono timidi, per esempio, o grandi
atleti se sono sgraziati. Avere un
amico
immaginario
non
è
necessariamente
un
problema
psichiatrico,
purché
la fantasia
scompaia quando il bambino
cresce».
«Dottoressa»,
ribatto,
«Mia
chiamava Chloe la sua amica
immaginaria».
Si calma. «Molto interessante»,
dice, e io ammutolisco.
Questo nome mi ossessiona.
Passo la mattinata su internet a
imparare tutto quanto c’è da sapere
su Chloe. L’etimologia
greca
significa sbocciare, fiorire, crescere,
verdeggiante… a seconda del sito
che si consulta; in ogni caso i
significati sono sinonimi. In questo
periodo è uno dei nomi più diffusi,
ma
nel
1990
era
il
duecentododicesimo fra tutti quelli
imposti
alle
bambine,
dopo
Alejandra e prima di Marie. Oggi ci
sono negli USA 10.550 persone che
si chiamano Chloe. A volte si trova
la parola scritta con la dieresi sulla
E (cerco il senso dei due puntini
sulla vocale, e alla fine ne deduco
che servono solo a distinguere il
suono della O da quello della E, per
cui capisco che ho perso venti
minuti), altre volte senza dieresi. Mi
chiedo come lo scriva Mia, sebbene
non osi domandarglielo. Dove l’avrà
scovato un nome simile? Forse era
sul certificato di nascita di una delle
bambole Cabbage Patch arrivata
dal Babyland General Hospital3.
Vado sul sito internet ufficiale. Mi
stupisco dei nuovi colori di pelle dei
bambolotti di quest’anno (caffè,
crema, caffelatte), ma non ne figura
una chiamata Chloe. Forse era una
bimba, una compagna di classe di
Mia in seconda.
Allora cerco personaggi celebri
con questo nome: sia Candice
Bergen che Olivia Newton-John
hanno chiamato le loro figlie Chloe.
Che è il primo vero nome della
scrittrice Toni Morrison, anche se
dubito che Mia potesse leggere
Amatissima già in seconda. Esistono
una Chloë Sevigny (con la dieresi, o
umlaut che dir si voglia) e una
Chloe Webb (senza), ma sono
sicura che la prima sia troppo
giovane e la seconda troppo
anziana per aver potuto attirare
l’attenzione di una bambina di otto
anni.
Potrei chiederglielo. Potrei salire
al piano di sopra, bussare alla porta
della camera da letto di Mia e
domandarglielo. James farebbe
così. Andrebbe fino in fondo alla
questione. Anch’io voglio andare
fino in fondo, ma senza violare la
privacy di Mia. Anni fa avrei chiesto
consiglio a James, o il suo aiuto. Ma
anni fa.
Prendo il telefono, compongo il
numero. La voce che mi saluta è
gentile, il tono informale.
«Eve», dice, e mi sento già più
rilassata.
«Salve, Gabe».
3
Clinica di Cleveland in cui “nascono”
queste bambole. (n.d.t.)
Colin
Prima
La conduco a Kenmore, in un
appartamento all’interno di un
palazzone. Prendiamo l’ascensore
fino al settimo piano. Da un interno
esce musica ad alto volume mentre
ci dirigiamo verso la porta in fondo
al corridoio, passando su una
moquette macchiata di pipì. Apro la
porta e lei aspetta di fianco. Dentro
è buio. È accesa solo la fiammella
della
caldaia.
Attraverso
il
pavimento in parquet e faccio
scattare l’interruttore della lampada
vicino al divano. Le ombre vengono
rimpiazzate dal contenuto della mia
magra esistenza: numeri di «Sports
Illustrated», un mucchio di scarpe
addossate all’anta dell’armadio, un
panino sbocconcellato su un piatto
di plastica sopra il tavolinetto. La
osservo in silenzio mentre lei mi
squadra. Non c’è tensione. Stasera
qualche vicino ha cucinato cibo
indiano, e l’odore del curry le chiude
la gola.
«Tutto bene?», chiede, poiché
odia il silenzio pieno di imbarazzo.
Probabilmente pensa di aver
commesso un errore, che forse
dovrebbe andarsene.
Mi avvicino e faccio scorrere una
mano sui suoi capelli, afferro quelli
alla base della nuca. La fisso come
fosse una dea, e noto nei suoi occhi
il desiderio di rimanere, almeno per
un attimo. È da parecchio tempo
che non si sentiva così. Aveva
dimenticato cosa si prova ad avere
qualcuno che ti guarda in quel
modo.
Mi
bacia
e
scorda
completamente
l’impulso
di
andarsene.
Premo le mie labbra contro le sue
in una maniera allo stesso tempo
nuova e consueta. Agisco con
determinazione. L’ho fatto migliaia
di volte. Ciò la mette a suo agio. Se
fossi impacciato, rifiutando di
compiere la prima mossa, avrebbe
il tempo di ripensarci. Così, invece,
tutto accade troppo in fretta.
E poi, finisce rapidamente com’era
iniziato. Cambio idea, mi tiro
indietro, e lei mi chiede: «Che
succede?», col fiato corto. «Cosa c’è
che non va?», esclama cercando di
attirarmi di nuovo a sé. Abbassa le
mani verso la mia cintura, con dita
incerte, da ubriaca, comincia ad
armeggiare.
«È una pessima idea», dico
allontanandomi.
«Perché?», la sua voce è
supplichevole. Si attacca alla mia
camicia, disperata. Mi scosto. Poi
comincia ad accettare il rifiuto. È
imbarazzata. Si preme le mani sulla
faccia, è accaldata, sudaticcia.
Si lascia cadere sul bracciolo di
una sedia e tenta di riprendere
fiato. Attorno a lei, la stanza gira.
Lo intuisco dalla sua espressione:
non è abituata a sentirsi dire di no.
Si risistema la camicia spiegazzata,
si passa le mani sudate tra i capelli,
si vergogna.
Non so per quanto tempo
rimaniamo così.
«È una pessima idea», ripeto, e
mi viene l’improvvisa ispirazione di
raccogliere le scarpe. Le lancio
nell’armadio, un paio per volta.
Sbattono
contro
la
parete
posteriore e finiscono sulle altre.
Poi chiudo l’anta, lasciando il
mucchio dove non posso vederlo.
In lei si insinua il risentimento, e
mi domanda: «Perché mi hai
portato qui? Perché mi hai portato
qui, solo per umiliarmi?».
Rivedo la scena del bar. Immagino
i miei occhi avidi quando mi sono
sporto verso di lei per suggerire:
«Andiamo via da qui». Le ho detto
che il mio appartamento era vicino,
in fondo alla strada. Abbiamo corso
per tutto il tragitto.
La fisso. «È una pessima idea»,
ripeto. Lei si alza e prende la borsa.
Alcune
persone
passano
nel
corridoio fuori la porta, le loro risate
sono come una coltellata. Lei cerca
di camminare, perde l’equilibrio.
«Dove stai andando?», chiedo,
impedendole l’uscita col corpo.
Adesso non se ne può andare.
«A casa», esclama.
«Sei ubriaca».
«E allora?», mi sfida. Caracolla
fino a una sedia per rimettersi in
sesto.
«Non puoi andare», insisto. Non
quando sono tanto vicino, penso,
però dico solo: «Non così».
Sorride e mi dice che sono gentile.
Crede che mi preoccupi per lei. Non
sa proprio niente.
Non me ne frega un accidente.
Gabe
Dopo
Quando arrivo, Mia e Grace
Dennett sono sedute davanti alla
mia scrivania, di spalle. Grace non
potrebbe sembrare più a disagio di
così. Afferra una penna da sopra il
ripiano e toglie il cappuccio
masticato con la manica della
camicia. Mi aggiusto la cravatta a
disegno cachemire sulla camicia e,
mentre mi dirigo verso di loro,
sento che Grace mormora «aspetto
sciatto»,
«inappropriato»,
«un
pupazzo». Presumo si riferisca a
me, e dopo la sento dire che i
capelli ricci di Mia non vedono un
phon da settimane, che ha delle
borse sotto gli occhi dovute alla
stanchezza. I vestiti della ragazza
sono sgualciti, sembrano quelli di
un liceale. Lei non sorride. «È
assurdo», afferma Grace. «Vorrei
tanto che mi inveissi contro, che mi
dessi della stronza, della narcisista,
uno di quei soprannomi sgradevoli
con cui mi chiamavi prima di
incontrare Colin Thatcher».
Invece, Mia si limita a fissarla.
«Buongiorno», esordisco, e Grace
mi
interrompe
bruscamente
dicendo: «Non sarebbe possibile
iniziare? Oggi ho molto da fare».
«Naturalmente»,
concedo,
vuotando il più lentamente possibile
le bustine di zucchero nel mio caffè.
«Speravo di parlare con Mia, di
vedere se era possibile ottenere da
lei qualche informazione».
«Non vedo come possa essere
d’aiuto», sostiene Grace. Mi ricorda
dell’amnesia.
«Non
rammenta
quello che è accaduto».
Ho chiesto che Mia venisse nel
mio ufficio stamattina per provare a
rinfrescarle la memoria, per vedere
se Colin, in quel capanno fatto con i
tronchi d’albero, le avesse rivelato
qualcosa che può essere prezioso
per le indagini in corso. Siccome la
madre non si sentiva tanto bene, ha
mandato Grace al suo posto per
tenerla d’occhio, ma dallo sguardo
capisco che lei avrebbe preferito
una seduta dal dentista che stare lì
con me e Mia.
«Vorrei provare a rinfrescarle la
memoria. Vediamo se possono
servire alcune immagini».
Lei alza gli occhi al cielo e dice:
«Santo cielo, ispettore, le foto
segnaletiche? Sappiamo tutti com’è
fatto Colin Thatcher. Abbiamo visto
quelle immagini. Mia le ha viste.
Crede che non sia in grado di
identificarlo?»
«Non le foto segnaletiche», la
rassicuro, allungando una mano
verso un cassetto della scrivania
per prendere qualcosa da sotto una
scorta di fogli protocollo. Lei sbircia
per vedere di che si tratta, e rimane
sbalordita dal blocchetto di fogli da
disegno 11x14 che ho tirato fuori. È
un quaderno a spirale; i suoi occhi
scrutano la copertina per cogliere
qualche indizio, ma le parole «carta
riciclata» non le rivelano niente.
Mia, invece, ha un breve sussulto:
riconosce qualcosa che né io, né lei
sappiamo cosa sia, però un lampo
l’ha attraversata, l’ombra di una
reminiscenza,
che
scompare
altrettanto velocemente di com’era
apparsa.
Lo
percepisco
dal
linguaggio del suo corpo: si
irrigidisce, si piega in avanti,
protende le mani alla cieca verso il
quaderno e lo attira a sé. «Lo
riconosce?», chiedo, dando voce
alla domanda sulla punta della
lingua di Grace.
Mia lo tiene in mano senza aprirlo,
preferisce far scorrere le dita sulla
copertina. Non dice una parola, e
poi, dopo un minutino, scuote la
testa. È andato. Si riaffloscia di
nuovo sulla sua sedia e lascia
cadere il quaderno sulle ginocchia.
Grace lo prende, lo apre, e viene
colpita da una quantità di disegni e
schizzi della sorella. Una volta, Eve
mi aveva detto che la figlia minore
portava con sé, ovunque andasse,
un quaderno per disegnare, lasciare
una traccia di tutto, dai senzatetto
del Loop alle auto parcheggiate
nella stazione ferroviaria. È il suo
modo di tenere un diario: i luoghi in
cui si reca, le cose che vede. In
questo quaderno da disegno in
carta riciclata, per esempio, ci sono
alberi, un sacco di alberi; un lago
circondato da arbusti; un piccolo
capanno fatto di tronchi, che
ovviamente abbiamo visto tutti
nelle immagini; un gatto soriano
scheletrico che dorme in uno
spicchio di sole. Nulla di tutto
questo pare stupire Grace, almeno
finché non giunge all’illustrazione di
Colin
Thatcher
che
emerge
vistosamente dalla pagina, davanti
ai suoi occhi, proprio nel mezzo
dello schizzo, tra gli alberi e il
capanno coperto di neve. Ha un
aspetto trasandato, i capelli ricci
completamente in disordine. La
barba lunga, i jeans sbrindellati e la
felpa col cappuccio vanno oltre la
sciatteria:
sono
decisamente
sporchi. Mia aveva raffigurato un
uomo alto e possente. Si era
impegnata particolarmente sugli
occhi,
ombreggiandoli,
sottolineandone il contorno, tanto
che questi fari profondi e maliziosi
quasi
costringono
Grace
a
distogliere lo sguardo dalla pagina.
«Lo hai disegnato tu, lo sai»,
insiste, obbligando Mia a guardare il
foglio. Glielo mette in mano
affinché lo veda bene. Lui se ne sta
davanti a una stufa a legna, seduto
a gambe incrociate sul pavimento,
con la schiena rivolta al fuoco. Mia
fa scorrere la mano sulla pagina e
sfuma leggermente il tratteggio. Si
guarda i polpastrelli e vede il
residuo di matita, che strofina tra
pollice e indice.
«Qualcosa le fa suonare un
campanello?», chiedo sorseggiando
dalla mia tazza di caffè.
«Questo è…», Mia esita, «lui?»
«Se con lui ti riferisci alla canaglia
che ti ha rapita, allora, sì», dice
Grace, «è lui».
Sospiro. «È Colin Thatcher». Le
mostro una foto. Non segnaletica,
come quelle che le abbiamo fatto
vedere spesso, ma un bel ritratto di
Colin vestito bene. Gli occhi di Mia
vanno avanti e indietro, collegano
le due immagini. I capelli ricci. La
corporatura robusta. Gli occhi scuri.
La pelle ruvida e abbronzata. Le
braccia che tiene conserte, il sorriso
che si sforza di trattenere. «Lei è
un’artista», le dico.
Mia domanda: «L’ho disegnato
io?».
Annuisco. «Hanno trovato il
quaderno degli schizzi nel capanno,
coi suoi effetti personali e quelli di
Colin. Suppongo che appartenga a
lei».
«L’hai portato con te nel
Minnesota?», chiede Grace.
Mia fa spallucce. I suoi occhi sono
fissi sulle immagini di Colin
Thatcher. Ovviamente non lo sa.
Grace sa che la sorella non lo sa,
ma glielo chiede lo stesso. Pensa
esattamente quello che penso io:
questo mascalzone la sequestra, la
conduce
in
un
capanno
abbandonato del Minnesota e lei ha
la possibilità di portarsi appresso un
quaderno da disegno, e non altro?
«Cos’altro ha portato con sé?»
«Non so», dice con una voce al
limite dell’udibile.
«Be’, cos’altro avete trovato?»,
stavolta è Grace a rivolgermi la
domanda.
Osservo Mia, mi stampo in mente
la sua comunicazione non verbale, il
modo in cui le sue dita continuano a
scorrere sulle immagini che ha
davanti, la frustrazione che si sta
lentamente,
silenziosamente
facendo strada in lei. Ogni volta che
prova a rinunciare, spingendo via le
immagini, finisce per riprenderle,
come se implorasse dentro di sé,
nel suo animo: Pensa, rifletti.
«Niente di particolare», dico.
Grace si arrabbia. «Cosa significa?
Abiti, cibo, armi (pistole, bombe,
coltelli), un cavalletto da artista,
degli acquerelli. Questo», dice
strappando il quaderno da disegno
dalle mani della sorella, «è insolito.
Generalmente un rapitore non
permette a chi ha sequestrato di
disegnare le prove su un quaderno
di scadente carta riciclata». Si volta
verso Mia e spiattella l’evidenza.
«Se lui restava fermo tanto a lungo,
Mia, abbastanza da lasciarti il
tempo di disegnare questa roba,
perché non sei scappata?».
Lei fissa con espressione desolata
Grace, che sospira esasperata, fuori
di sé. Guarda la sorella minore
come se dovessero rinchiuderla in
manicomio.
Come se Mia non si rendesse
conto della realtà, non sapesse
dove si trova o perché è viva. Come
se volesse colpirla in testa per farle
tornare il senno.
Accorro in sua difesa e dico:
«Forse aveva paura. Forse non c’era
nessun posto in cui fuggire. Il
capanno è nel mezzo di una vasta
landa desolata, e d’inverno il Nord
del Minnesota assomiglia a una
città-fantasma. Probabilmente non
c’era nessun luogo dove andare. Lui
l’avrebbe ritrovata e catturata di
nuovo, e allora cosa sarebbe
successo?».
Immobile sulla sua sedia, Grace
appare contrariata, e si acciglia
mentre sfoglia le pagine degli
schizzi, nota gli alberi brulli, la neve
a perdita d’occhio, quel lago
pittoresco circondato dal bosco fitto
e… Lo tralascia quasi del tutto, per
far scorrere le pagine all’indietro e
strapparne una dalla spirale. «Ma
questo è un albero di Natale?»,
sbotta,
guardando
con
aria
inebetita quell’immagine nostalgica,
in un angolo del disegno. Il rumore
della pagina strappata fa fare a Mia
un salto sulla sedia.
Io la osservo mentre s’inquieta,
poi le poso una mano sulle sue per
tranquillizzarla.
«Certo»,
dico
mettendomi a ridere, sebbene non
sia così divertente. «Sì, ritengo che
possiamo considerarlo un fatto
straordinario, fuori del comune, o
no? Abbiamo trovato un albero di
Natale. Grazioso, davvero, se volete
sapere la mia opinione».
Colin
Prima
Quando arriva la chiamata, lei sta
lottando con il sonno incipiente. Ha
detto un sacco di volte che deve
andarsene. L’ho rassicurata, le ho
ribadito che non è necessario.
Mi ci è voluto tutto il mio
autocontrollo per staccarmi da lei.
Per volgere le spalle ai suoi occhi
supplichevoli, per sforzarmi di
lasciar perdere. C’è qualcosa di
sbagliato nel farti la ragazza che
stai per rapire.
In qualche modo, però, sono
riuscito a convincerla a rimanere.
Lei crede che sia per il suo bene. Le
ho detto che quando le sarà
passata la sbornia la accompagnerò
a prendere un taxi. Se l’è bevuta, a
quanto pare.
Squilla il telefonino. Lei non
sussulta. Mi guarda come se
immaginasse che si tratta di una
ragazza. Chi altri chiamerebbe a
notte fonda? Sono le due, ormai, e
mentre mi dirigo in cucina per
rispondere, vedo che si alza dal
divano. Cerca di ribellarsi alla
sonnolenza che sta prendendo il
sopravvento su di lei.
«Tutto a posto?», Dalmar vuole
sapere. Di lui non so altro, se non
che è appena sbarcato da una nave
ed è più nero di qualsiasi cosa
abbia mai visto. Ho già fatto altri
lavori per lui: furto e molestie, ma
mai rapimenti.
«Mmh-mmh».
Guardo
furtivamente la ragazza che se ne
sta imbarazzata in salotto. Attende
che finisca la telefonata. Poi se ne
andrà. Io mi sposto il più lontano
possibile. Per prudenza prendo la
mia semiautomatica dal cassetto.
«Alle due e un quarto», dice
Dalmar. So dove ci incontreremo: in
un vicolo buio dalle parti della
metropolitana, dove a quest’ora di
notte girano solo i barboni.
Controllo l’orologio. Dovrò fermarmi
dietro a un furgoncino grigio. Loro
prenderanno la ragazza e mi
daranno i soldi. Facilissimo. Non
dovrò nemmeno uscire dalla mia
auto.
«Alle due e un quarto», confermo.
La figlia dei Dennett pesa solo
cinquantacinque chili, è sbronza
persa e ha un’emicrania pazzesca.
Sarà facile.
Quando torno in salotto, mi dice
subito che sta per andarsene. Va
verso la porta. Le cingo la vita con
un braccio per fermarla. La trascino
via dalla porta, il braccio a contatto
con la sua pelle. «Non vai da
nessuna parte».
«Senti,
davvero»,
ribatte.
«Domattina devo lavorare».
Fa una risatina, come se fosse
divertente.
Ma c’è la pistola. La vede. E in
quel momento le cose cambiano.
L’attimo
in
cui
elabora
l’informazione e capisce cosa
diamine
sta
per
succedere,
spalanca la bocca e le scappa
un’esclamazione di sorpresa. Poi,
davanti alla pistola puntata, dice:
«Cosa vuoi fare con quella?».
Indietreggia, urta contro il divano.
«Devi venire con me». Faccio un
passo in avanti, mi avvicino.
«Dove?», chiede. Quando riesco
ad afferrarla, fa uno scatto per
allontanarsi. Con un movimento
rapido la blocco.
«Non renderlo più difficile del
necessario».
«Cos’hai intenzione di fare con
quella?». È più calma di quanto mi
aspettassi. È preoccupata, ma non
grida, non piange. Tiene gli occhi
fissi sull’arma.
«Devi solo venire con me».
L’afferro per un braccio. Lei si
dimena,
però
la
trattengo,
torcendole il braccio. Geme per il
dolore. Mi rivolge un’occhiataccia, si
sente ferita. Mi dice di lasciarla
stare, di toglierle le mani di dosso.
Nel suo tono avverto un senso di
superiorità che mi innervosisce.
Come se fosse lei a condurre il
gioco.
Cerca ancora di liberarsi, ma
scopre di non farcela. Non la mollo.
«Chiudi il becco», ordino. Le
stringo di più il polso, so di farle
male, perché le mie dita le lasciano
dei segni rossi sulla pelle.
«C’è un errore», protesta. «Stai
sbagliando tutto». Ha una strana
padronanza di sé, sebbene continui
a tenere lo sguardo incollato alla
pistola. Non saprei dire quante
volte ho sentito questa solfa. Ogni
vittima, per così dire, sostiene che
sto commettendo un errore.
«Taci». Stavolta sono più duro, il
mio tono è più deciso. La spingo
verso la parete, sbattendola contro
una lampada, che cade a terra con
un
rumore
sgradevole.
La
lampadina va in frantumi, ma la
lampada è intatta.
La blocco lì. Le dico di stare zitta.
Continuo a ripeterlo. «Chiudi quella
cazzo di bocca».
Lei non proferisce più parola.
Adesso ha un’aria impassibile,
anche se dentro di sé dev’essere
furiosa.
«Va bene», dice a un tratto, come
se fosse una sua scelta. Come se
avesse voce in capitolo. Annuisce
sprezzante. Verrà con me. Tiene gli
occhi fissi, anche se stanchi. Belli,
penso. Ha occhi azzurri notevoli. Ma
poi scaccio subito questo pensiero.
Non posso soffermarmi su stronzate
simili. Non adesso. Non prima di
consegnarla a Dalmar. Devo finire il
lavoro. Portarlo a termine, prima di
analizzarmi col senno di poi.
Mentre le tengo la pistola premuta
contro il cranio, le spiego cosa
accadrà. Verrà con me. Se grida,
premerò il grilletto. Semplice.
Ma non ha intenzione di urlare. Lo
capisco perfino io.
«La mia borsa», dice, mentre
inciampiamo nella tracolla che
aveva buttato a terra qualche ora
fa,
quando
siamo
entrati
nell’appartamento incespicando nei
nostri vestiti.
«Lascia perdere la tua fottuta
borsa», ringhio. La trascino nel
corridoio e chiudo la porta.
Fuori fa freddo. Dal lago giunge
una raffica di vento che le soffia i
capelli sulla faccia. Sta gelando. La
stringo con un braccio, ma non per
riscaldarla. Non me ne frega niente
se sente freddo. Non voglio che
scappi. La tengo talmente stretta
che il suo fianco sinistro struscia
contro il mio e ci intralciamo a
vicenda.
Camminiamo
svelti,
affrettandoci
verso
l’auto
parcheggiata sulla Ainslie.
«Sbrigati», le ripeto, anche se
sappiamo entrambi che sono io a
rallentare. Mi guardo alle spalle, per
constatare che non ci segua
nessuno.
Tiene gli occhi a terra, cerca di
evitare il vento tagliente. La sua
giacca è rimasta nell’appartamento.
Ha la pelle d’oca. La sua camicia
leggera non riesce a difenderla
dalla fredda aria d’ottobre. Per
strada stasera ci siamo solo noi.
Le apro la portiera, e lei sale in
auto. Non perdo tempo ad
allacciarmi la cintura di sicurezza.
Avvio il motore e parto, facendo
un’inversione a U e percorrendo la
strada a senso unico contromano.
Le vie sono vuote. Guido troppo
veloce, sapendo che non dovrei
farlo, però voglio chiudere questa
faccenda il prima possibile. Lei è
stranamente composta. Con la coda
dell’occhio però vedo che trema: di
freddo, di paura. Mi chiedo a cosa
pensi. Non mi supplica. Sta
raggomitolata
sul
sedile
del
passeggero del mio pick-up e
osserva la città.
Non impiegheremo molto a
fermarci dietro il furgoncino di
Dalmar; i suoi uomini le metteranno
le loro luride mani addosso per
tirarla fuori dalla mia macchina.
Dalmar è un duro. Non so cos’hanno
in programma per la ragazza. Un
riscatto. È tutto quel che so.
Trattenerla finché il padre non
sgancerà una cifra sostanziosa. Una
volta che lui avrà pagato, non so
cosa faranno. La uccideranno? La
rimanderanno a casa? Ne dubito. E
se lo faranno, sarà solo dopo che
Dalmar e gli altri se la saranno
spassata con lei.
Mi frullano mille pensieri in testa.
Adesso penso a cosa accadrà se mi
beccano. Non sarà servito a niente.
La pena per un rapimento può
arrivare a trent’anni di galera. Lo
so, ho controllato. Ci ho riflettuto
diverse volte, dopo che Dalmar mi
ha ingaggiato. Ma una cosa è
pensarci, un’altra farlo. E ora,
eccomi qui, con la ragazza nella mia
auto, a pensare al trentennio al
fresco.
Lei non vuole guardarmi. Arrivati a
un semaforo, la fisso. Tiene gli
occhi sulla strada davanti, ma so
che mi vede. So che sente il mio
sguardo su di sé. Trattiene il fiato.
Si sforza di non gridare, anche se
vorrebbe farlo. Guido con una
mano, con l’altra tengo la pistola
sulle ginocchia.
Non che m’importi granché di lei,
anzi. Il fatto è che mi chiedo cosa
accadrà quando si verrà a sapere
che ho fatto una cosa simile.
Quando il mio nome sarà legato a
un
rapimento/omicidio.
E
succederà. Dalmar non metterà mai
la firma su questa faccenda. Mi
incastrerà. Se le cose andranno
male, sarò il pesce piccolo, il capro
espiatorio, a finire sotto la scure del
boia.
Il semaforo diventa verde. Svolto
sulla Michigan. Un branco di ragazzi
ubriachi è fermo all’angolo, in
attesa dell’autobus. Fanno i buffoni,
cazzeggiano. Uno di loro inciampa
sul gradino del marciapiede. Devo
sterzare
per
non
investirlo.
«Cretino», borbotto a fior di labbra.
Lui mi fa il dito medio.
Ripenso al piano di riserva. Ne ho
sempre uno pronto, qualora le cose
si complichino. Non ho mai dovuto
servirmene. Controllo il livello del
carburante. Ce n’è abbastanza per
arrivare fuori città, come minimo.
Dovrei svoltare sulla Wacker. I
numerini
rossi
sul
cruscotto
segnano le 2:12. Dalmar e i ragazzi
aspettano già sul posto. Poteva
farlo da solo, ma non ha voluto. Lui
non vuole mai sporcarsi le mani.
Recluta qualcuno, un reietto come
me, per fare il lavoro più schifoso,
così può starsene a guardare bello
rilassato. Se le cose andassero
male, avrà sempre le mani pulite.
Niente impronte digitali sulla scena,
la sua faccia non comparirà mai
sulle prove fotografiche. Lascia che
a cadere nella rete sia il resto della
banda, ci definisce gli «operativi»,
come se appartenessimo alla
fottutissima CIA.
Saranno probabilmente in quattro
sul furgoncino, delinquenti che
aspettano di rinchiudere questa
ragazza ancora seduta vicino a me,
mentre potrebbe reagire per
salvarsi.
Ho le mani scivolose, sto sudando
come un maiale. Me le asciugo sui
jeans, poi do un pugno al volante e
la ragazza emette un grido
soffocato.
Dovrei uscire all’altezza della
Wacker, ma non lo faccio. Continuo
a guidare.
So
di
commettere
una
stupidaggine. Sono consapevole di
tutto quello che potrebbe andare
storto. Ma lo faccio lo stesso.
Guardo di sfuggita nello specchietto
retrovisore, per accertarmi che non
ci seguano. E poi giù a tavoletta.
Lungo la Michigan, fino alla Ontario,
e quando l’orologio segna le 2:15
sono già sull’interstatale 90.
Alla ragazza non dico niente,
perché non crederebbe a niente di
quel che potrei dirle.
Non mi accorgo dell’attimo in cui
succede: da qualche parte, mentre
usciamo dalla città, l’orizzonte
comincia a scomparire nel buio e gli
edifici vengono inghiottiti dalla
distanza. Lei si muove sul sedile, è
a disagio, la sua compostezza è
svanita. Guarda dal finestrino
laterale, si gira e osserva dal
lunotto posteriore la città che
sparisce. Come se qualcuno avesse
finalmente premuto l’interruttore e
adesso lei capisse cosa caspita sta
succedendo.
«Dove
stiamo
andando?», chiede
con voce
isterica. L’espressione impassibile
ha ceduto il posto agli occhi
sgranati, al volto in fiamme. Me ne
rendo conto grazie ai lampioni ai
bordi della strada, che la illuminano
più o meno ogni cinque secondi.
Per un attimo mi supplica di
liberarla. Le dico di chiudere il
becco. Non voglio neanche sentirne
parlare. Adesso però piange. È
iniziato il piagnisteo, ha aperto i
rubinetti, mi implora di lasciarla
libera. Domanda ancora: «Dove
stiamo andando?». Allora impugno
la pistola, non sopporto il suono
della sua voce, stridulo e acuto.
Voglio che la smetta. Le punto
contro l’arma e le ordino di chiudere
quella boccaccia. Obbedisce. È
calma, ma continua a piangere, si
pulisce il naso sulla manica troppo
corta, mentre ormai siamo fuori
città. Avanzando verso la periferia, i
grattacieli cedono il passo agli
alberi, i treni della Blue Line
serpeggiano in mezzo alla strada.
Eve
Dopo
Mia è seduta al tavolo della
cucina, tiene in mano una grande
busta gialla col suo nome scritto in
stampatello con una calligrafia
evidentemente maschile.
Preparo la cena per lei e per me.
Nella stanza accanto c’è la TV
accesa, che fa da sottofondo e
compensa il silenzio fra noi. Sembra
che Mia non se ne accorga, ma
ultimamente il silenzio mi snerva,
per cui comincio a fare chiacchiere
futili.
«Vuoi il petto di pollo con
l’insalata?», le chiedo; lei si stringe
nelle spalle. «Pane integrale o
bianco?», insisto, ma non risponde.
«Preparo il pollo», dico. «A tuo
padre piace». Però sappiamo tutte
e due che James non tornerà.
«Cos’è quello?», chiedo con un
cenno al pacchetto che ha in mano.
«Cosa?», replica.
«La busta».
«Ah», fa. «Questa».
Appoggio una padella sui fornelli,
sbattendola senza volere. Lei
sussulta, io mi scuso subito, assalita
dal senso di colpa. «Mia, tesoro,
non volevo spaventarti», esclamo,
ma ci impiega un po’ a calmarsi.
Dice che non sa perché si sente
così.
Una volta adorava il momento in
cui comincia a fare buio, quando
cambia il mondo esterno. Me lo
descrive anche adesso: lo sfavillio
dei lampioni e dei palazzi contro il
cielo notturno. Dice che le
piacevano
l’anonimato
della
situazione, e tutte le possibilità che
si aprono allorché il sole tramonta.
Per contro, ora il buio la terrorizza,
la spaventano le cose anonime
dall’altra parte delle tende di seta.
Mia non aveva paura, di solito. Le
piaceva vagabondare per le strade
della città anche a notte fonda, e si
sentiva perfettamente al sicuro. Mi
confida che spesso provava sollievo
perfino nel traffico più assordante,
coi clacson che strombazzavano
all’impazzata e le sirene che
ululavano tutta la notte. Adesso
invece il suono del cibo che frigge la
rende nervosa.
Mi scuso in modo esagerato, e lei
mi dice che va tutto bene. Ascolta
l a TV nell’altra stanza. Alle sette, il
notiziario della sera ha ceduto il
posto a una sitcom. «Mia?»,
chiamo, e lei si volta verso di me.
«Cosa c’è?», domanda.
«La busta», faccio un gesto e lei
se ne ricorda.
Se la rigira tra le mani. «Me l’ha
data il poliziotto», afferma.
Sto
tagliando
a
fette
un
pomodoro. «L’ispettore Hoffman?»
«Sì».
Mia scende abitualmente al
pianterreno solo dopo che è uscito
James. Resta nascosta per il resto
del tempo. Sono certa che questa
stanza le ricorda l’infanzia. Non è
cambiata da più di dodici anni: le
pareti crema, la luce soffusa. Sono
accese le candele, ho spento i
faretti sul soffitto. Il tavolo rotondo
è scuro, con le gambe ricurve, e le
sedie sono tappezzate: da bambina
lei ci passava fin troppo tempo, con
lo sguardo critico del padre
addosso. Sono sicura che si senta
piccola, incapace di stare da sola, e
che si debba sempre sorvegliarla,
cucinare
per
lei.
La
sua
indipendenza è svanita.
Ieri mi ha domandato quando può
andare
a
casa,
nel
suo
appartamento, e tutto ciò che ho
saputo risponderle è stato «col
tempo».
Io e mio marito non la lasciamo
uscire mai, a meno che non si vada
dalla dottoressa Rhodes o al
comando di polizia. A fare
commissioni, non ci si pensa
nemmeno. Per giorni è suonato il
campanello dalla mattina alla sera:
uomini e donne con microfoni e
telecamere ci aspettavano sui
gradini dell’ingresso. «Mia Dennett,
vorremmo farle qualche domanda».
Pretendevano
di
metterle
il
microfono davanti alla bocca, finché
non le ho detto di non aprire, di
ignorare del tutto il campanello. Il
telefono squillava continuamente, e
le rare volte che rispondevo l’unica
cosa che dicevo era: «Non ho
nessun commento da fare». Dopo
un paio di giorni, ho inserito
direttamente
la
segreteria
telefonica; poi, siccome il continuo
squillare mi era insopportabile, ho
staccato la presa dell’apparecchio
dal muro.
«Allora, non hai intenzione di
aprirla?», le ricordo.
Fa passare un dito sotto il lembo
adesivo e apre la busta. Dentro c’è
un solo foglio di carta. Lo estrae
delicatamente e dà un’occhiata.
Poso il coltello sul tagliere e mi
sposto verso il tavolo, di fianco a
Mia, fingendo un interesse minimo,
sebbene io sia sicura di essere la
più attenta, tra noi due.
È la fotocopia di un disegno da un
quaderno a spirale, coi cerchietti in
alto: l’originale era stato strappato
dall’attaccatura.
Ritrae
una
persona, una donna, in base a
quanto posso desumere dalla
chioma piuttosto lunga.
«L’ho fatto io», dice Mia, e le tolgo
il foglio dalle mani.
«Posso?», chiedo sprofondando in
una sedia di fianco a lei. «Perché lo
dici?», le domando con lo stomaco
in subbuglio e le mani che
cominciano a tremarmi. Mia disegna
da sempre, per quanto io possa
ricordare. È un’artista, ha talento.
Una volta le chiesi perché le
piacesse disegnare, perché lo
adorasse a tal punto. Mi aveva
spiegato che era l’unico modo per
realizzare un cambiamento: poteva
trasformare oche in cigni, una
giornata nuvolosa in una bella
mattinata di sole. Nel disegno, la
realtà non contava e non esisteva.
Eppure, questo schizzo è una cosa
totalmente diversa. Gli occhi sono
perfettamente rotondi, il sorriso è
quello che aveva imparato a
delineare alle elementari. Le ciglia
sono linee verticali. Il volto è
deforme.
«È stato preso dallo stesso
quaderno che aveva l’ispettore
Hoffman. Quello coi miei disegni».
«Ma questo non l’hai fatto tu»,
dico con certezza assoluta. «Forse
dieci
anni
fa,
quando
eri
principiante. Ma non ora. È troppo
ordinario per te. Una cosa
mediocre, al massimo».
Al segnale acustico del timer, mi
alzo in piedi. Mia riprende il foglio in
mano per guardarlo di nuovo.
«Allora perché il poliziotto me l’ha
dato?», chiede girandosi la busta
tra le mani. Le rispondo che non lo
so.
Sistemo i panini integrali su una
piastra da mettere nel forno quando
Mia mi domanda: «Allora chi l’ha
disegnato?».
Sui
fornelli
si
abbrustolisce il pollo.
Abbasso la piastra sul fondo del
forno. Giro il pollo e comincio a
tagliare a cubetti un cetriolo, come
se avessi Colin Thatcher sul tagliere
davanti a me.
Mi stringo nelle spalle. «In quel
disegno…», azzardo cercando di
non piangere. Mia è seduta al
tavolo, scruta lo schizzo, e io lo
vedo bene, chiaro come il sole: i
capelli lunghi, gli occhi rotondi, il
sorriso a forma di U. «In quel
disegno», continuo, «sei ritratta
tu».
Colin
Prima
Siamo sulla Kennedy e non mi
sono
ancora
preoccupato
di
azionare il riscaldamento. Da
qualche
parte
del
Wisconsin
accendo la radio. Dagli altoparlanti
posteriori escono le scariche delle
interferenze elettriche. La ragazza
guarda dal finestrino laterale. Non
apre bocca, è muta. Sono sicuro che
per tutta la I-90 ci hanno seguito
due fari, che però sono scomparsi
poco dopo Janesville.
Esco dalla interstatale. La strada è
buia e deserta, sembra che non
porti da nessuna parte. Mi fermo in
una stazione di servizio. Non ci sono
benzinai. Spengo il motore ed esco
a fare il pieno, prendo la pistola con
me. Tengo continuamente gli occhi
su di lei, e all’improvviso vedo un
bagliore all’interno dell’auto, la luce
di un cellulare che si accende.
Come ho potuto essere tanto
stupido? Spalanco la portiera di
scatto, la spavento a morte. Lei
trasalisce, cerca di nascondere il
telefonino sotto la camicia.
«Dammi il cellulare», ringhio.
Sono su tutte le furie per aver
scordato di buttarlo via prima di
partire.
La luce della stazione di servizio
illumina il pick-up. Lei è un disastro,
ha il trucco colato sulla faccia, i
capelli
spettinati.
«Perché?»,
chiede. So che non è così scema.
«Dammelo e basta».
«Perché?»
«Dammelo, forza».
«Non ce l’ho», mente.
«Dammi
quel
maledetto
telefono», strillo allungando una
mano per strapparglielo da sotto la
camicia. Mi dice di toglierle le mani
di dosso. Controllo l’aggeggio. Era
riuscita a selezionare la rubrica,
tutto qua. Mentre vado a riempire il
serbatoio, mi assicuro di spegnerlo
e buttarlo nell’immondizia. Anche se
gli agenti risaliranno al segnale, in
quel momento noi saremo da
tutt’altra parte.
Rovisto nel retro dell’auto per
trovare qualcosa di utile: una corda,
un cavo, un fottuto laccetto. Le lego
le mani, così forte da strapparle un
grido di dolore. «Provaci di nuovo»,
dico tornando al posto di guida, «e
ti uccido». Sbatto la portiera e avvio
il motore.
Di una cosa sola sono certo: non
appena non mi sono presentato con
la
ragazza,
Dalmar
avrà
sguinzagliato
tutti
quelli
che
conosce per darci la caccia. Ormai
avranno messo sottosopra il mio
appartamento.
Ci
staranno
cercando in lungo e in largo. Col
cavolo che torno indietro. Se sarà
tanto cretina da provarci, è morta.
Ma non permetterò che ciò accada,
rivelerebbe dove mi trovo prima che
la uccidano, e piuttosto l’ammazzo
io. Ho già fatto troppe opere
buone…
Proseguiamo in auto per l’intera
nottata. Lei chiude gli occhi,
soltanto per un paio di secondi, poi
li riapre di scatto, si guarda intorno
per accertarsi che non è un incubo.
È tutto reale: io, lo sporco pick-up, i
sedili plastificati e laceri con
l’imbottitura che esce fuori, le
interferenze
della
radio,
la
campagna sconfinata e il nero del
cielo notturno. La pistola è ancora
appoggiata sul mio grembo, so che
non ha il coraggio di allungare la
mano per prenderla, e io stringo le
mani sul volante, anche se ormai
guido più piano poiché so che non ci
inseguono.
Mi chiede solo una volta, con voce
tremante, per quale motivo mi stia
comportando così: «Perché lo stai
facendo a me?». Ci troviamo nei
pressi di Madison. Per tutto il
tragitto è rimasta in silenzio, ha
ascoltato un prete cattolico che
straparlava sul peccato originale,
uno che si mangiava una parola
ogni tre o quattro. E poi,
all’improvviso, «perché lo stai
facendo a me?», ed è quel «me»
che davvero mi irrita. Lei crede di
essere al centro della situazione, e
invece non c’entra nulla. È una
pedina, una marionetta, l’agnello
sacrificale.
«Non pensarci», le dico.
La risposta non le piace affatto.
«Non mi conosci neppure», mi
accusa con aria arrendevole.
«Ti conosco», le dico guardandola
per un attimo. Nell’auto è buio.
Riesco a scorgere solo il suo profilo,
oscurato dalle tenebre all’esterno.
«Che ti ho fatto? Cosa ti ho mai
fatto?», implora.
Non mi ha mai fatto nulla. Lo so.
Lei lo sa. Ma le dico lo stesso di
chiudere il becco. «Basta». E
siccome non lo fa, lo ripeto: «Taci,
maledizione». La terza volta, glielo
urlo: «Chiudi quella cazzo di
bocca», agitando la pistola e
puntandogliela
contro.
Sterzo
bruscamente di lato e faccio
stridere i freni. Esco dalla macchina
mentre lei continua a strillare di
lasciarla in pace.
Prendo un rotolo di nastro isolante
dal pianale del pick-up, ne strappo
un pezzo coi denti. L’aria è gelida,
si
sente
il
rumore
di
un
semiarticolato che percorre la
strada nella notte fonda. «Cosa stai
facendo?», chiede, colpendomi non
appena apro la sua portiera. Scalcia
forte e mi centra alle viscere. È
tosta, lo ammetto, ma l’unica cosa
che le riesce è di farmi incazzare.
Entro a forza nell’abitacolo, le
applico il nastro isolante sulle
labbra che ancora muove e dico:
«Te l’avevo detto di stare zitta!».
Adesso tace.
Risalgo in macchina e sbatto la
portiera, imboccando di nuovo la
corsia, alla cieca, con le gomme che
sollevano la ghiaia dal bordo
dell’interstatale.
Niente di strano, quindi, se
passano circa 150 chilometri prima
che mi informi di dover pisciare:
trova il coraggio e posa una mano
tremante sul mio braccio per
attirare la mia attenzione.
«Che c’è?», sbraito, scostando il
braccio dalla sua mano. Ormai sta
spuntando l’alba. Si dimena sul
sedile. Negli occhi le si legge il
senso di urgenza. Le strappo il
nastro isolante e lei lancia un
gemito. Fa male, un male terribile.
Bene, penso tra me. Così impara a
tenere la bocca chiusa quando
glielo dico.
«Devo andare alla toilette»,
borbotta timorosa.
Mi fermo sullo sterrato di una
piazzola per camionisti, poco fuori
Eau Claire. Il sole sta sorgendo a
est, dietro un caseificio. Una
mandria di mucche frisone pascola
nei campi. Sarà una giornata di sole
splendente, ma fa un freddo cane. È
ottobre,
gli
alberi
stanno
cambiando.
Nel parcheggio esito. È quasi
vuoto, c’è un’auto soltanto, una
station-wagon con adesivi di slogan
politici sul retro e i fari posteriori
attaccati col nastro da pacchi. Mi
batte forte il cuore. Infilo la pistola
nella cintola dei pantaloni, dietro la
schiena. Quando siamo scappati ci
ho pensato, sapevo che era una
cosa che avrei dovuto fare. Ma a
questo punto la ragazza sarebbe
dovuta essere nelle mani di Dalmar,
e io a tentare di dimenticare quel
che avevo fatto. Non ho ideato un
piano. Ma visto che è così, ci
saranno cose di cui avremo
bisogno, per esempio i soldi. Ho un
po’ di denaro con me, non
abbastanza per la fuga. Prima di
andarcene, ho svuotato il suo
portafoglio. Usare le carte di credito
è fuori questione. Prendo un coltello
dal cassetto del cruscotto e, prima
di tagliarle i legacci, dico: «Resta
vicino a me, non fare sciocchezze».
Le spiego che potrà usare il cesso
quando glielo dirò io, cioè solo
quando sarà tutto okay. Le libero le
mani. Poi taglio altri sessanta
centimetri dalla corda di riserva e
me la caccio nella tasca della
giacca.
Quando esce dall’auto, ha un
aspetto
ridicolo,
la
camicia
spiegazzata non le arriva nemmeno
ai polsi. Incrocia le braccia e se le
stringe davanti. Sente freddo e ha i
brividi. I capelli le cadono sul viso.
Tiene la testa abbassata. Ha dei
lividi sulle braccia, che si vedono
malgrado lo stupido tatuaggio
cinese disegnato nella parte interna
di uno degli avambracci.
C’è solo una donna al lavoro,
nemmeno un cliente. Lo supponevo.
Metto il braccio attorno alla ragazza
e la attiro verso di me, per far
sembrare che siamo amici. Ha il
passo esitante e non riesce a
sincronizzarlo col mio. Inciampa,
ma riesco a sostenerla prima che
cada. Con lo sguardo la minaccio di
comportarsi bene. Le mie mani su
di lei non sono un segno d’intimità,
bensì una dimostrazione di forza.
Lei lo sa, a differenza della signora
dietro il registratore di cassa.
Camminiamo su e giù per le
corsie, per essere sicuri al cento
percento che non ci siano altre
persone. Prendo un pacco di buste
da lettera. Controllo il bagno, per
assicurarmi che sia vuoto. Mi
accerto che non vi sia una finestra
da cui la ragazza potrebbe
svignarsela e poi le dico che può
pisciare. La donna alla cassa mi
lancia uno sguardo strano. Alzo gli
occhi al cielo e le racconto che la
mia amica ha bevuto troppo. Pare
che ci creda. La ragazza sembra
metterci un’eternità, e quando
guardo di nuovo dentro la vedo
davanti allo specchio che si lava la
faccia. Fissa a lungo il riflesso della
sua immagine. «Andiamo», esclamo
dopo qualche attimo.
Ci dirigiamo verso la cassa per
pagare le buste. Però non lo
facciamo. La donna è distratta,
guarda
la
replica
di
una
trasmissione degli anni Settanta in
un televisore dodici pollici. Scruto
attorno per assicurarmi che non ci
siano
le
videocamere
di
sorveglianza.
Dopodiché mi metto dietro di lei,
tiro fuori la pistola e le ordino di
vuotare la cassa coi fottuti soldi.
Non so chi abbia più paura. La
ragazza si raggela, ha il terrore
dipinto sul volto. Eccomi lì, con la
canna della pistola premuta contro i
capelli grigi di una signora di
mezz’età, e lei è una testimone.
Una complice. La ragazza comincia
a chiedermi cosa stia facendo, lo
ripete
all’infinito.
«Cosa
stai
facendo?», urla.
Le dico di tacere.
La
signora
mi
prega
di
risparmiarla. «Non mi faccia del
male, per favore, mi lasci stare». La
spingo in avanti, le ripeto di
svuotare la cassa. Lei la apre e
inizia a mettere le mazzette di
banconote in una busta di plastica
con
disegnata
una
faccina
sorridente
e
la
scritta BUONA
GIORNATA. Dico alla ragazza di
guardare fuori dalla vetrata, per
riferirmi
se
arriva
qualcuno.
Annuisce
con
espressione
sottomessa, come una bambina.
«No», balbetta tra le lacrime.
«Nessuno». Poi chiede: «Cosa stai
facendo?».
Premo la pistola ancora più forte e
intimo alla signora di sbrigarsi.
«La prego, non mi faccia del
male».
«Anche le monetine», preciso.
Sono chiuse in rotoli di carta. «Ha
pure dei francobolli?», domando. La
donna fa per avvicinare le mani a
un cassetto e io urlo: «Non tocchi
niente. Mi risponda: ha dei
francobolli?». Per quel che ne so, in
quel cassetto potrebbe esserci una
semiautomatica.
Il mio tono la fa frignare: «Nel
cassetto. Per favore, non mi faccia
del male», implora. Parla dei
nipotini. Ne ha due, un maschietto
e una femminuccia. Riesco ad
afferrare solo il nome di Zelda. Che
razza di nome stupido! Allungo una
mano nel cassetto e trovo un
contenitore di francobolli, che infilo
subito nella busta di plastica,
strappandola
alla
donna
e
passandola alla ragazza.
«Prendi questa roba», le dico.
«Rimani lì e tienila in mano». Punto
per un attimo la pistola contro di
lei, per farle sapere che non
scherzo. Lei caccia un grido e
scansa la testa, come se le avessi
già sparato.
Con la corda che ho in tasca lego
la signora. Poi, per precauzione,
sparo al telefono. Tutte e due si
mettono a strillare.
Non
posso
permetterle
di
chiamare la polizia troppo presto.
Verso l’uscita c’è una pila di
maglie. Ne afferro una e dico alla
ragazza
di
indossarla.
Sono
arcistufo di vederla battere i denti.
Mentre se la infila la scossa le
elettrizza i capelli. È la felpa più
brutta che abbia mai visto: L’ÉTOILE
DU
NORD,
qualunque
cazzata
significhi.
Prendo altri due maglioni, diversi
calzini e pantaloni termici. Oltre ad
alcune ciambelline stantie per il
viaggio.
E poi andiamo.
Nel pick-up lego ancora le mani
alla ragazza. Piagnucola di nuovo.
Le dico di trovare il modo di
chiudere la bocca, altrimenti la
troverò io, la maniera. I suoi occhi
si posano sul rotolo di nastro
isolante rimasto sul cruscotto,
quindi tace. Sa che non scherzo
affatto.
Prendo una busta e scrivo
l’indirizzo. Ci caccio dentro quanto
più denaro possibile, incollo un
francobollo in un angolo. M’infilo il
resto
dei
soldi
in
tasca.
Proseguiamo in auto finché non
vedo una cassetta blu delle poste
nella quale faccio scivolare la mia
busta. La ragazza mi guarda, si
chiede cosa diavolo stia facendo,
ma non apre bocca e io non glielo
spiego. Quando incrociamo lo
sguardo,
esclamo:
«Non
preoccuparti», e penso: Non sono
cazzi tuoi.
Non è perfetto, tutt’altro. Ma per il
momento deve bastare.
Eve
Dopo
Mi sono assuefatta a vedere le
auto di pattuglia della polizia
parcheggiate fuori da casa. Ce ne
sono sempre due, giorno e notte,
con quattro agenti in divisa, che
sorvegliano Mia. Stanno seduti sul
sedile anteriore, bevono caffè e
mangiano panini, che vanno a
comprare a turno nella vicina
gastronomia. Li osservo dalla
finestra della camera da letto,
scrutando oltre le tapparelle che
allargo con una mano. Mi sembrano
scolaretti, più giovani delle mie
figlie,
però
hanno
fucili
e
manganelli, e rispondono al mio
spiarli puntando verso di me il
binocolo. Mi convinco che non
possano sbirciare quando, tutte le
sere, smorzo le luci per cambiarmi e
indossare il pigiama, anche se in
verità non ne sono certa.
Ogni giorno Mia si siede nel
portico,
apparentemente
noncurante del freddo pungente.
Guarda a lungo la neve che
circonda la casa, come il fossato di
un castello. Osserva gli alberi spogli
che oscillano al vento. Non nota le
auto della polizia, i quattro uomini
che la studiano tutto il giorno. Le ho
chiesto di non allontanarsi dal
portico e lei ha acconsentito,
sebbene talora azzardi qualche
passo
nella
neve,
fino
al
marciapiede, da dove si spinge
verso le residenze dei Pewter e
della famiglia Donaldson. Mentre
una delle vetture la segue a passo
d’uomo, dall’altra esce un agente a
chiamarmi, e io mi precipito fuori
dalla porta, a piedi nudi, per
recuperare mia figlia che vaga.
«Mia, tesoro, dove stai andando?»,
le dico afferrandola per la manica e
riportandola indietro. Non si mette
mai un giaccone e le sue mani sono
fredde come il ghiaccio. Non sa
dove sta andando, però mi segue
docile e torna a casa; e mentre
passiamo davanti ai poliziotti, li
ringrazio, prima di ricondurla in
cucina per darle una tazza di latte
caldo. Lei la beve tutta tremante, e
quando finisce dice che vuole
mettersi a letto. La settimana
scorsa si è sentita poco bene,
voleva sempre rifugiarsi sotto le
coperte.
Oggi, però, nota per qualche
motivo le auto della polizia. Tiro
fuori la mia macchina dal garage e
imbocco la strada per portarla dalla
dottoressa
Rhodes,
che
la
sottoporrà alla prima seduta di
ipnosi. In un breve istante di
lucidità, scruta dal finestrino e
chiede: «Cosa stanno facendo
qui?», come se fossero arrivati in
quel preciso momento.
«Badano alla nostra sicurezza»,
dichiaro
diplomaticamente.
Intendevo dire la sua sicurezza,
comunque non voglio che tema per
qualche motivo di non essere al
sicuro.
«Da
cosa
ci
difendono?»,
domanda lei, girando la testa per
non perdere di vista gli agenti dal
lunotto. Uno di loro avvia la sua
macchina e ci segue lungo il
percorso. L’altro resta indietro a
tener d’occhio la casa mentre siamo
assenti.
«Non c’è niente da temere»,
replico anziché rispondere alla sua
domanda, e lei lo accetta con
riconoscenza, voltandosi a guardare
attraverso
il
parabrezza,
dimenticando del tutto che siamo
seguite e sorvegliate.
Proseguiamo lungo la strada di
quartiere. Poco traffico. Dopo due
settimane di vacanze natalizie, i
bambini sono tornati a scuola e non
perdono più tempo davanti al
giardinetto di casa a costruire
pupazzi e lanciarsi palle di neve
schiamazzando. Tutti suoni inusuali
per la nostra casa taciturna. Fuori
dalle abitazioni ci sono ancora gli
addobbi natalizi, ma i pupazzi
gonfiabili di Babbo Natale sono
ormai senza luci, adagiati sui
mucchi di neve. Quest’anno James
non ha messo le decorazioni
all’esterno, anche se io dentro casa
ho esagerato con gli addobbi, nel
caso in cui Mia fosse tornata.
Lei ha accettato di sottoporsi
all’ipnosi. Non abbiamo dovuto
forzarla o blandirla. Adesso Mia
concorda quasi su tutto. James è
ovviamente contrario, ritiene che la
terapia
ipnotica
sia
una
pseudoscienza, una cosa fasulla
come l’astrologia e la lettura della
mano. Io non so bene cosa
pensare, ma non voglio lasciare
assolutamente nulla d’intentato. Se
l’ipnosi aiuta mia figlia a ricordare
anche solo mezzo secondo dei mesi
della sua scomparsa, vale la pena
di spendere una cifra esorbitante e
trascorrere tutto quel tempo nella
sala d’attesa della dottoressa Avery
Rhodes.
Ciò che sapevo una settimana fa
su questa tecnica era davvero poco.
Dopo una nottata a navigare su
internet, ho avuto l’illuminazione.
L’ipnosi, come l’ho interpretata io, è
una condizione di rilassamento in
stato di trance, analoga ai sogni a
occhi aperti. Ciò permetterà a Mia
di perdere le inibizioni e di
sintonizzarsi col mondo esterno, in
modo che, grazie all’aiuto della
dottoressa, riuscirà a recuperare la
memoria perduta. In stato ipnotico,
il soggetto diventa enormemente
suggestionabile ed è in grado di
recuperare informazioni che la
mente
aveva
accantonato.
Ipnotizzando Mia, la Rhodes agirà
direttamente sul suo inconscio, la
parte del cervello che le occulta i
ricordi. Si tratta sostanzialmente di
indurre mia figlia in uno stato di
rilassamento profondo, affinché la
sua coscienza si addormenti, per
così dire, e la dottoressa possa
intervenire sull’inconscio. L’obiettivo
è quello di far riaffiorare nella sua
mente tutto il periodo trascorso nel
capanno, o anche solo qualche
piccolo dettaglio; dopodiché lei
saprà venire a patti con l’idea del
rapimento e guarire. Per quanto
riguarda l’indagine dell’ispettore
Hoffman, però, tutte le informazioni
così ottenute saranno preziose. Lui
vuole assolutamente cogliere ogni
indizio che Colin Thatcher potrebbe
aver lasciato nel capanno, ogni
particolare che faciliterà il suo
compito: trovare colui che ha fatto
questo a Mia.
Quando arriviamo nello studio
della dottoressa, James insiste che
entri anch’io. Vuole che sorvegli
quella «pazzoide», così definisce la
Rhodes, nel caso provasse a
«strizzare» il cervello di Mia. Mi
accomodo su una poltrona, a una
certa distanza, mentre mia figlia si
stende schizzinosamente sul lettino.
Sugli scaffali che occupano un’intera
parete ci sono dei manuali di
psichiatria. C’è una finestra che dà
sul parcheggio. La Rhodes tiene
chiuse le persiane, fa penetrare
solo una minima quantità di luce,
per cui la riservatezza è garantita.
La stanza è in penombra, prevale la
discrezione, i segreti svelati fra
queste mura sono assorbiti dalla
tinta bordeaux alle pareti e dai
battiscopa di quercia. Ma è piena di
spifferi, e mentre Mia cade
gradualmente nel sopore, mi
stringo il maglione al corpo,
cingendomi
con
le
braccia.
«Cominceremo dalle cose semplici,
con quanto sappiamo che è vero, e
vedremo dove ciò ci condurrà».
I ricordi non riaffiorano in maniera
cronologica, tantomeno sensata, e
per me rimangono un enigma,
anche molto tempo dopo essere
uscite di nuovo nel pungente freddo
invernale. Immaginavo che l’ipnosi
potesse schiudere il bunker della
sua mente, da dove in un attimo
tutti i ricordi di Mia si sarebbero
riversati sul falso tappeto persiano,
così che io, lei e la dottoressa
potessimo fiondarci su di loro e
dissezionarli uno a uno. Ma non
funziona affatto in questo modo.
Per la durata limitata dello stato
ipnotico (una ventina di minuti, non
di più), la dottoressa cerca di
scavare, con voce suadente e
armoniosa, fra gli strati del biscotto
per raggiungere il cuore di panna.
Ecco allora che si staccano le
briciole: la sensazione ruvida del
capanno, con le assi di pino nodoso
e le travi a vista, le interferenze
dell’autoradio, le note di Per Elisa di
Beethoven, il punto in cui stava un
alce.
«Mia, chi c’è nella macchina?»
«Non ne sono sicura».
«Tu sei lì dentro?»
«Sì».
«La stai guidando?»
«No».
«Chi la guida?»
«Non so. È buio».
«Che ore sono?»
«Mattina presto. Il sole sta
sorgendo adesso».
«Riesci a vedere dal finestrino?»
«Sì».
«Vedi le stelle?»
«Sì».
«E la luna?»
«Sì».
«Luna piena?»
«No».
Scuote
la
testa.
«Mezzaluna».
«Sai dove ti trovi?»
«Su un’autostrada. È piccola, solo
due corsie, attorniata dai boschi».
«Ci sono altre auto?»
«No».
«Vedi segnali stradali?»
«No».
«Senti qualche suono?»
«Interferenze. Dalla radio. C’è un
uomo che parla, ma la sua voce… Ci
sono interferenze». Mia è stesa sul
lettino, con le gambe incrociate
sulle caviglie. In queste ultime due
settimane è la prima volta che la
vedo rilassata. Ha le braccia distese
lungo i fianchi, scoperti (il pesante
maglione color crema si è sollevato
di qualche centimetro quando si è
distesa), come se fosse in una bara.
«Riesci a capire cosa dice
l’uomo?». La dottoressa parla dalla
poltrona rossiccia su cui è seduta, di
fianco a Mia. La donna è l’immagine
dell’autocontrollo.
Tutto
è
a
puntino: abiti senza alcuna piega,
non un capello fuori posto. La sua
voce è monotona, mi sento cullata
anch’io,
tanto
che
potrei
addormentarmi.
«La temperatura è sui cinque
gradi, molto sole…».
«Le previsioni del tempo?»
«È un disc-jockey, il suono viene
dalla radio. Ma le interferenze… Gli
altoparlanti
anteriori
non
funzionano. Mi arriva la voce dal
sedile posteriore».
«C’è
qualcuno
sul
sedile
posteriore?»
«No, siamo solo noi due».
«Noi?»
«Vedo le sue mani nel buio. Guida
con due mani, tiene strettissimo il
volante».
«Cos’altro puoi dirmi di lui?». Mia
scuote la testa. «Riesci a vedere
cosa indossa?»
«No».
«Ma ce la fai a vedergli le mani?»
«Sì».
«Ha qualcosa sulle mani, un
anello, un orologio? Qualsiasi
cosa…».
«Non so».
«Cosa sapresti dire delle sue
mani?»
«Sono ruvide».
«Puoi vederlo? Puoi vedere che
sono ruvide?».
Mi metto sul bordo della poltrona,
resto appesa alle ultime parole
attutite di Mia. So che mia figlia,
quella di una volta, prima di Colin,
non avrebbe mai voluto che
ascoltassi una conversazione del
genere. A questa domanda non
risponde.
«Ti sta facendo male?». Mia si
contorce sul lettino, ma non
risponde. La dottoressa insiste: «Ti
sta facendo del male? Lì, nell’auto,
o forse in precedenza?». Non arriva
nessuna risposta.
La Rhodes continua. «Cos’altro
puoi raccontarmi della macchina?».
Invece Mia afferma: «Questo non
doveva… non era previsto… che
accadesse».
«Cosa non doveva accadere?»,
chiede la dottoressa. «Cosa non era
previsto?»
«È tutto sbagliato», replica Mia. È
disorientata, la sua visione è
confusa, i ricordi casuali che
riemergono sono alla deriva nella
sua mente.
«Cosa
è
tutto
sbagliato?».
Nessuna risposta. «Mia, cosa c’è di
sbagliato? L’auto? Qualcosa al suo
interno?».
Ma lei non dice nulla. Almeno
all’inizio.
Poi
però
inspira
violentemente, quasi
con un
risucchio, e afferma: «È colpa mia.
È tutta colpa mia», e mi ci vuole
una grande forza di volontà per non
correre ad abbracciare la mia
bambina. Voglio dirle che non è
vero, che non è colpa sua. Riesco a
vedere quanto ciò la addolori, i
lineamenti
del
suo
viso
si
contraggono, le mani le si chiudono
a pugno. «Sono stata io a farlo»,
dice.
«Non è colpa tua», sottolinea la
dottoressa, la cui voce è riflessiva,
consolatoria. Afferro i braccioli della
poltrona su cui mi trovo e mi
costringo a restare calma. «Non è
stata colpa tua», le ripete.
Una volta finita la seduta, mi
avrebbe spiegato in privato che le
vittime
attribuiscono
la
responsabilità quasi sempre a se
stesse. Che questo capita sovente
alle vittime di stupro e che è il
motivo per cui viene denunciato
solo il cinquanta percento delle
violenze sessuali: la vittima ritiene
di averne la colpa. Bastava che non
fosse entrata in questo o quel bar,
che non avesse parlato con questo
o quello sconosciuto, bastava che
non avesse indossato quei vestiti
seducenti. Avrebbe detto che Mia
sta attraversando una fase naturale
che psicologi e sociologi studiano
da anni: l’autocolpevolizzazione.
«Ovviamente, se portata agli
eccessi, l’autocolpevolizzazione può
essere
devastante»,
avrebbe
chiarito, mentre Mia in sala d’attesa
aspettava che la raggiungessi.
«Ciononostante, essa può anche
impedire alle vittime di diventare
vulnerabili in futuro». Come se
quelle
parole
dovessero
confortarmi…
«Mia,
cos’altro
vedi?»,
la
dottoressa inizia nuovamente a
indagare dopo che mia figlia si è
ripresa.
Lei, all’inizio, è taciturna. La
Rhodes la interroga ancora: «Mia,
cos’altro vedi?».
Stavolta risponde: «Una casa».
«Parlami della casa».
«È piccola».
«Qualcos’altro?»
«Una piccola gradinata conduce
nella foresta. È un capanno di
legno, tronchi scuri. Quasi non lo si
scorge in mezzo a tutti gli alberi. È
vecchio. Ogni cosa è antica, i
mobili, gli accessori».
«Parlami dei mobili».
«S’incurvano. Il sofà ha la stoffa a
quadri bianchi e blu. In questa casa
è tutto scomodo. C’è una vecchia
sedia a dondolo, le lampade
riescono appena a illuminare lo
spazio. Il tavolo è piccolo e ha
gambe traballanti, è ricoperto da
una tovaglia di plastica a quadretti,
quella
che
si
usa
per le
scampagnate. I pavimenti di legno
duro scricchiolano. Dentro fa
freddo, c’è puzza».
«Di che cosa?»
«Palline di naftalina».
Quella stessa sera, dopo cena,
mentre indugiamo in cucina, James
mi chiede cosa diavolo abbia mai a
che fare il cattivo odore di naftalina
con tutto questo. Gli spiego che è
un progresso lento, ma almeno un
passo in avanti. Un inizio. Una cosa
che ieri Mia non riusciva a ricordare.
Anch’io avrei desiderato tanto
qualcosa di eccezionale: una
sessione ipnotica e Mia sarebbe
guarita. La dottoressa Rhodes
aveva percepito la mia delusione
mentre uscivamo dal suo studio,
tanto da chiarirmi che dovevamo
avere pazienza; sono cose che
richiedono tempo, e mettere fretta
alla paziente avrebbe fatto più male
che bene. James non abbocca, è
sicuro che sia una manovra per
guadagnare di più. Lo vedo
prendere con rabbia una birra dal
frigorifero e andare a lavorare nel
suo studio, mentre io mi accingo a
lavare i piatti della cena, notando
per la terza volta in questa
settimana che Mia non ha quasi
toccato le sue portate. Fisso gli
spaghetti rappresi nei recipienti di
terracotta e ricordo che erano il suo
piatto preferito.
Faccio mente locale e comincio ad
archiviare un elenco di cose: le
mani ruvide, per esempio, o le
previsioni del tempo. Passo la
nottata su internet a scovare notizie
utili. L’ultima volta che, nel
Minnesota
settentrionale,
le
temperature erano state sui 5 gradi
risaliva all’ultima settimana di
novembre, anche se l’oscillazione
fra zero e 5 gradi si era mantenuta
dal periodo della scomparsa di Mia
fino al giorno seguente alla festa
del Ringraziamento. In seguito,
erano crollate a -5, o ancor più in
basso, senza probabilmente risalire
sopra lo zero per diversi giorni.
C’era stata la mezzaluna il 30
settembre, il 14 ottobre e il 29 dello
stesso mese; poi di nuovo il 12 e il
28 novembre; comunque, Mia non
era certa che la luna fosse
esattamente a metà, per cui le date
sono solo indicative. In Minnesota
gli alci sono assai diffusi, specie
d’inverno. Beethoven scrisse Per
Elisa intorno al 1810, anche se la
sua Elisa era probabilmente una
Teresa, la donna che avrebbe
dovuto sposare in quel periodo.
Prima di coricarmi passo davanti
alla camera in cui dorme Mia. Apro
piano la porta e resto lì a guardarla,
avvolta nelle lenzuola, mentre la
coperta, gettata via durante la
notte, giace sul pavimento. La luna
entra benevola nella stanza dalle
fessure
delle
tapparelle,
illuminandola a strisce, dalla faccia
al
pigiama
pesante
color
melanzana. La gamba destra è
piegata e appoggiata su un altro
cuscino. Questo è l’unico momento
della giornata in cui è in pace. Entro
e mi muovo nella stanza per
coprirla meglio, e sento il mio corpo
mentre mi abbasso ai bordi del
letto. Il suo viso è sereno,
l’espressione rilassata; anche se
ormai è una donna, rivedo in lei la
mia bambina felice, molto prima
che me la portassero via. Averla
con me è troppo bello per essere
vero. Resterei seduta qui tutta la
notte, se potessi, per convincermi
che non è un sogno, che quando mi
sveglierò domattina Mia (o Chloe)
sarà ancora qui.
Mentre m’infilo a letto di fianco al
corpo bollente di James (l’enorme
piumino lo fa effettivamente
sudare), mi domando in che modo
mi saranno utili quelle informazioni
(previsioni del tempo, fasi lunari
ecc.). In ogni caso, le ho messe in
una cartellina, insieme alle decine
di significati del nome Chloe. Il
motivo non lo conosco, però dico a
me stessa che qualunque dettaglio
tanto importante da affiorare
durante le sedute di ipnosi cui si
sottopone Mia è evidentemente
importante anche per me: potrebbe
spiegarmi cosa le è successo tra le
pareti di legno di quel capanno
nella campagna del Minnesota.
Colin
Prima
Ci sono degli alberi, davvero tanti.
Pini, abeti, abeti rossi. I loro aghi
verdi sono saldamente attaccati ai
rami. Tutt’attorno si seccano e
cadono a terra le foglie di olmi e
querce. È mercoledì, la notte è
scesa
e
passata.
Lasciamo
l’autostrada
e
procediamo
a
velocità spedita su una strada a due
corsie. La ragazza si regge al sedile
ogni volta che c’è una curva. Potrei
rallentare ma non lo faccio perché
voglio arrivare presto. Lungo il
tragitto non c’è quasi nessuno. Di
tanto in tanto sorpassiamo un’auto,
saranno turisti che viaggiano al di
sotto del limite di velocità per
godersi il panorama. Non ci sono
stazioni
di
servizio.
Niente
drugstore.
Solo
negozietti
a
conduzione familiare. Lei guarda dal
finestrino per tutto il percorso. Sono
sicuro che pensi di trovarsi a
Timbuctù.
Non
si
premura
nemmeno di domandarlo. Forse lo
sa. Forse se ne infischia.
Ci spingiamo ancora più a nord,
fino agli angoli più remoti e
sconosciuti del Minnesota. Dopo
Two Harbors, il traffico diminuisce
ulteriormente e la mia vettura si
ritrova quasi impantanata tra aghi e
foglie. La strada è piena di buche
che ci fanno sobbalzare, io le
maledico una dopo l’altra. L’ultima
cosa di cui abbiamo bisogno è una
gomma bucata.
Qui ci sono già stato. Conoscevo il
proprietario di quell’orribile capanno
nel bel mezzo del nulla. È nascosto
tra gli alberi, e il terreno circostante
è cosparso di strati di foglie morte,
secche e scricchiolanti. Gli alberi
sono poco più che rami spogli.
Guardo il capanno: è proprio come
lo ricordavo da quando ero un
ragazzino. È una casupola fatta di
tronchi di legno, affacciata su un
lago, che sembra molto freddo,
anzi, sono sicuro che lo è. Nel
giardino ci sono sedie a sdraio di
plastica e un piccolo barbecue.
L’ambiente circostante è squallido,
una desolazione per chilometri e
chilometri, senza nessuno in vista.
Esattamente quello che serve.
Spengo il pick-up e usciamo.
Prendo dal pianale un piede di
porco e saliamo sulla collinetta, fino
al capanno. Sembra abbandonato,
come immaginavo, anche se
controllo ugualmente l’eventuale
presenza di segni di vita: un’auto
parcheggiata sul retro, ombre che
passano dietro le finestre. Niente di
niente.
Lei rimane immobile dietro il
veicolo. «Forza, andiamo», la
sollecito. Si decide a salire la decina
di gradini fino allo spiazzo
d’ingresso. Si ferma per riprendere
fiato. «Sbrigati», le dico. Potremmo
anche essere visti da qualcuno.
Busso alla porta per essere sicuro
che siamo soli. Poi dico alla ragazza
di tacere e ascoltare. Tutto è
immerso nel silenzio.
Uso il piede di porco per forzare
l’apertura. Rompo il legno. Le dico
che lo riparerò. Sposto un tavolino e
lo metto davanti alla porta per
tenerla chiusa. La ragazza va a
mettersi con le spalle contro una
parete in tronchi di pino americano.
Si guarda attorno. La stanza è
piccola. Ci sono un sofà blu
sgangherato, una brutta sedia rossa
di plastica e, nell’angolo, una stufa
a legna che non diffonde neanche
un briciolo di calore. Alcuni vecchi
scatti in bianco e nero, fatti con una
macchina a cassetta, ritraggono le
varie fasi di costruzione della casa;
ricordo che, quando ero piccolo, il
proprietario mi aveva raccontato
che le persone che l’avevano
costruita, un secolo prima, avevano
scelto il posto non per il panorama,
ma per la fila di pini che lo ripara
dai venti sferzanti a est. Come se
lui sapesse cosa frullava per la
testa delle persone, ormai morte,
che avevano eretto il capanno.
Ricordo che anche allora, mentre
osservavo i suoi capelli unti e radi,
la sua pelle rovinata, pensavo
quanto fosse imbecille.
La cucina con gli elettrodomestici
è color senape, il pavimento in
linoleum e sulla tavola c’è una
tovaglia di plastica. Ovunque
prevale la polvere. Non mancano
ragnatele, coccinelle o insetti vari
morti sui davanzali. C’è cattivo
odore.
«Dovrai abituarti», le dico. Noto il
disgusto nei suoi occhi. Sono certo
che la casa del giudice non avrà
mai quest’aspetto.
Accendo la luce e controllo
l’acqua. Il capanno era stato
preparato per l’inverno, prima che il
proprietario se ne andasse. Non ci
parliamo più, però lo tengo
d’occhio. So che il suo matrimonio è
fallito di nuovo, e che un anno fa lo
hanno arrestato per guida in stato
di ubriachezza. So che da un paio di
settimane ha preso la sua roba
merdosa e si è tolto dalle scatole,
come fa ogni autunno, per tornare a
Winona,
dove
lavora
per
l’assessorato
municipale
ai
trasporti, spala la neve e toglie il
ghiaccio dalle strade.
Strappo il telefono dalla presa e,
dopo aver trovato un paio di forbici
in un cassetto della cucina, taglio il
filo. Lancio un’occhiata alla ragazza
immobile al suo posto. Tiene gli
occhi fissi sulla tovaglia a scacchi. È
orribile, ne sono consapevole. Esco
fuori per fare pipì. Rientro subito
dopo. Lei fissa ancora quella
schifosa tovaglia.
«Perché non ti rendi utile? Accendi
il fuoco», dico.
Si mette le mani sui fianchi e mi
fissa, con quell’orribile felpa rubata
alla stazione di servizio. «Perché
non lo fai tu?», dice con voce
tremante. Le tremano anche le
mani, ma so che ha meno paura di
quel che vuol farmi credere.
Esco fuori e rientro col passo
appesantito da tre ceppi di legna da
ardere, che scarico sul pavimento,
davanti ai suoi piedi. Lei fa un
balzo. Le porgo dei fiammiferi, che
lascia cadere a terra; la scatoletta
si apre e il contenuto si sparpaglia.
Le ordino di raccoglierli e lei mi
ignora.
Deve capire che sono io a
comandare,
non
lei.
È
un
passeggero, purché tenga il becco
chiuso e faccia come le dico io, che
sono al posto di guida. Glielo faccio
notare. I suoi begli occhioni azzurri
passano
dalla
sicurezza
all’esitazione quando mi sussurra:
«Hai capito proprio male», e allora
armo minaccioso il cane della
pistola e le ordino di raccogliere i
fiammiferi e di accendere il fuoco.
Mi chiedo se ho commesso un
errore, se non sarebbe stato meglio
consegnarla
semplicemente
a
Dalmar. Non so cosa mi aspettassi
da lei, ma certamente non questo.
Non avrei mai immaginato di finire
con un’ingrata. Mi fissa. Una sfida.
Vuole capire se dentro di me
progetto di ucciderla.
Mi avvicino e le punto la pistola
alla testa.
Allora cede. S’inginocchia e
raccoglie i fiammiferi con mani
tremanti. Uno a uno. Poi li rimette
nella scatola.
Io resto fermo con la pistola
contro di lei, mentre strofina un
paio di fiammiferi sulla superficie
ruvida. La fiamma le brucia le dita
ancor prima che possa accendere il
fuoco. Si succhia il dito e ci riprova.
Prova ancora, e ancora di nuovo. Sa
che la osservo. Ormai le mani le
tremano tanto che non riesce ad
accendere quei dannati fiammiferi.
«Lascia fare a me», dico
incombendo alle sue spalle. Si tira
indietro. Accendo il fuoco senza
problemi e, sfiorandola, mi dirigo in
cucina per cercare qualcosa da
mangiare.
Non
c’è
niente,
nemmeno un pacchetto di cracker
andati a male.
«E adesso?», mi chiede, ma la
ignoro.
«Cosa
faremo qui?».
Cammino avanti e indietro nel
capanno, per controllare. L’acqua
non scorre. Sono state chiuse le
tubature per l’inverno. Però posso
ripristinarle. Una cosa rassicurante.
Lasciando il capanno, il proprietario
immaginava di tornarci solo in
primavera, il periodo in cui va in
letargo, vivendo da eremita per sei
mesi all’anno.
Sento che lei si muove inquieta, in
attesa di qualcuno o qualcosa che
venga a tirare giù la porta per
ammazzarla. Le dico di calmarsi, di
mettersi a sedere. Resta in piedi a
lungo, dopodiché appoggia una
sedia di plastica alla parete,
dall’altra parte dell’entrata, e crolla.
Attende. È assurdo vederla sulla
sedia a fissare la porta, ad
aspettare che arrivi la fine.
Cala la notte e arriva il giorno. Né
io, né lei abbiamo dormito.
Il capanno sarà gelato, d’inverno.
Non era stato progettato per essere
abitato dopo il primo di novembre.
All’interno, l’unica fonte di calore è
la stufa a legna. Nei tubi del
gabinetto c’è l’antigelo.
L’elettricità era stata staccata.
L’ho riattivata ieri sera. Ho trovato
la centralina e ho sollevato
l’interruttore. Ho sentito la ragazza
che ringraziava Dio per i 24 watt
sprigionati dalla brutta lampada sul
tavolo. Mi sono fatto strada attorno
al capanno, andando a controllare
cosa c’è nella rimessa sul retro. È
piena di robaccia inservibile che non
vorrebbe nessuno, tranne alcune
cosette che potrebbero tornare utili,
come una cassetta degli attrezzi.
Ieri ho detto alla ragazza che
doveva pisciare all’esterno. Ero
troppo stanco per occuparmi
dell’idraulica.
L’avevo
vista
scendere gli scalini, come se
andasse a gettarsi in alto mare. Si
era nascosta dietro un albero e
abbassata pantaloni e mutandine,
accovacciandosi dove riteneva che
non potessi scorgerla; poi, siccome
non si azzardava a usare le foglie,
aveva aspettato di asciugarsi
all’aria. Aveva pisciato una volta
sola.
Oggi individuo la valvola di
erogazione idrica e comincio a far
scorrere
lentamente
l’acqua.
All’inizio
spruzza
forte,
poi
ricomincia ad affluire normalmente.
Tiro lo sciacquone del gabinetto,
pulisco i lavandini e le tubature per
sbarazzarmi dell’antigelo. Nella mia
mente elenco le cose che ci
servono: materiale isolante, altro
nastro per i tubi, carta igienica,
scorte alimentari.
Lei è presuntuosa, prepotente e
compiaciuta, come una diva. Mi
ignora perché è incavolata e
impaurita,
ma
anche
perché
immagina di essere troppo per me.
È seduta sull’orrenda sedia rossa e
fissa fuori della finestra. Cosa
guarda? Niente, si limita a sgranare
gli occhi. Da stamattina non ha
detto più di due parole.
«Andiamo», esclamo io, le spiego
che riprendiamo la macchina.
Andiamo a farci un giretto.
«Dove?». Non vuole andare da
nessuna parte. Preferirebbe restare
a fissare fuori da quella cazzo di
finestra per contare le foglie che
cadono dagli alberi.
«Vedrai». È in preda al panico.
L’incertezza non le piace. Non si
muove,
mi
guarda
con
atteggiamento di sfida, ma è
un’illusione, un falso coraggio,
poiché so che è terrorizzata a
morte. «Ti va di mangiare, vero?».
Apparentemente le va.
Quindi usciamo e risaliamo nel
veicolo. Ci dirigiamo verso Grand
Marais.
Mi sto convincendo a mettere in
atto un piano: andarmene al più
presto dal Paese. La abbandonerò,
non mi serve portarmela dietro, mi
rallenterebbe soltanto. Troverò un
volo per lo Zimbabwe o l’Arabia
Saudita, una nazione che non
prevede l’estradizione. Al più
presto, dico a me stesso, lo farò. La
legherò nel capanno e scapperò a
Minneapolis, e all’aeroporto salirò
su un volo prima che lei possa
avere la possibilità di dare il mio
identikit all’Interpol.
Le dico che non posso chiamarla
Mia. Non posso farlo in pubblico,
presto si spargerà la voce della sua
scomparsa.
Dovrei
lasciarla
nell’auto,
ma
non
posso.
Taglierebbe la corda. Perciò le dico
di mettersi il mio cappellino da
baseball e di tenere gli occhi bassi,
di non stabilire un contatto visivo
con nessuno. Forse non c’era
nemmeno bisogno di precisarlo:
non alza mai lo sguardo da terra. Le
chiedo come vuole che la chiami.
Dopo un’esitazione abbastanza
lunga da irritarmi, tira fuori il nome
di Chloe.
A nessuno importa che io sia
scomparso. Se non mi presento al
lavoro, di solito pensano che non
abbia voglia di faticare. Sembra che
io non abbia amici.
Lascio che sia lei a scegliere il
brodo di pollo per il nostro pranzo.
Non mi piace proprio, ma accetto lo
stesso.
Ho
davvero
fame.
Prendiamo
una
ventina
di
scatolette: pastina in brodo di pollo,
zuppa di pomodori, mandarini,
crema di mais. Il cibo che si ritrova
in un kit di sopravvivenza. La
ragazza se ne accorge ed esclama:
«Forse non hai intenzione di
uccidermi subito», e io la rassicuro,
spiego che non ho intenzione di
farlo, almeno finché non abbiamo
finito la crema di mais.
Nel pomeriggio cerco di dormire.
Non è facile addormentarsi in questi
giorni. Ritaglio un’ora qui e un’ora
là, ma perlopiù mi risveglio con
l’idea di essere inseguito da
Dalmar, o di avere gli agenti di
polizia che bussano alla porta. Sto
sempre in allerta, scruto da ogni
finestra davanti a cui passo. Mi
guardo sempre alle spalle. Barrico
la porta prima di coricarmi, e sono
contento che qualche idiota abbia
sigillato le finestre con la vernice.
Non
pensavo
di
dovermi
preoccupare del fatto che la
ragazza volesse fuggire. Non
immaginavo che avesse dentro di
sé questa pulsione. Abbasso la
guardia, lascio le chiavi dell’auto in
bella vista, ci mancava solo questo
per incoraggiarla.
Così,
mentre
sono
mezzo
addormentato sul sofà, stretto alla
pistola, sento sbattere la porta. Mi
alzo subito, mi ci vuole un attimo
per ritrovare l’orientamento. Allora
noto
che
sta
scendendo
precipitosamente gli ultimi gradini
per accedere al vialetto di ghiaia.
Esco dalla porta, sono furibondo e
urlo. Lei zoppica. La portiera
dell’auto
è
aperta.
Entra
nell’abitacolo e prova a mettere in
moto. Non riesce a trovare la chiave
giusta. La vedo dal finestrino del
guidatore. Vedo che dà un pugno
sul volante. Mi avvicino. Ormai è
disperata, scivola dall’altra parte ed
esce dalla portiera del passeggero.
Scappa nei boschi, corre veloce, ma
io di più. I rami degli alberi
sporgono e le graffiano braccia e
gambe. Incespica su un pietrone e
cade a faccia in giù su un mucchio
di foglie. Si rialza e continua a
correre. Si sta stancando, perde
velocità. Piange, mi implora di
lasciarla stare.
Invece io sono arrabbiato.
La afferro per i capelli. Continua a
muovere i piedi, scappa ma la
strattono per la testa. Cade di
nuovo sulla terra dura. Non ha
neanche il tempo di mettersi a
piangere che la schiaccio al suolo
con tutti i miei novanta chili che
premono sul suo corpo esile.
Boccheggia,
mi
supplica
di
smetterla. Io invece non lo faccio,
sono incazzato nero. Lei piange
disperata. Le lacrime le rigano la
faccia, si mescolano col fango, col
sangue e col mio sputo. Si contorce.
Sputa contro di me. Sono certo che
si vede passare davanti tutta la sua
vita. Le dico che è veramente una
stupida. E poi le punto la pistola
alla testa e armo il cane.
Cessa di sbattersi, si paralizza.
Premo forte la canna, che le lascia
un circoletto in testa. Potrei farlo,
mettere fine alla sua esistenza.
È una cretina, una scema, una
deficiente. Mi ci vuole tutta la mia
buona volontà per non premere il
grilletto. L’ho fatto per lei. Le ho
salvato la vita. Chi diavolo crede di
essere per tentare di scappar via?
Pigio ancor più forte l’arma, le
faccio quasi penetrare la canna nel
cranio. Lei si lamenta.
«Scommetto che fa male», dico.
«Ti prego…», mi supplica, ma non
le
do
retta.
Avrei
dovuto
consegnarla quando ne avevo la
possibilità.
Mi alzo, la afferro per i capelli. Lei
strilla. «Chiudi il becco», dico. La
trascino tra gli alberi. Poi la spingo
davanti a me e le ordino di
muoversi. «Sbrigati», ma sembra
che le sue gambe funzionino male.
Inciampa, cade. «Alzati», urlo
deciso.
S’immagina cosa mi farebbe
Dalmar se mi trovasse? Una
pallottola in testa sarebbe il modo
più semplice per “scamparla”. Una
morte
facile
e
rapida.
Mi
metterebbe
in
croce,
mi
torturerebbe.
La spingo su per i gradini, la faccio
entrare nel capanno. Chiudo con
forza la porta, che però si riapre. La
sbatto con un calcio e ci addosso di
nuovo il tavolino per impedire che si
spalanchi. Spingo la ragazza in
camera da letto e le dico che, se la
sento anche solo respirare, non
rivedrà più la luce del giorno.
Gabe
Prima
Mi reco in centro con l’auto, per la
quarta volta in questa settimana,
ripromettendomi di protestare se
non mi rimborseranno i chilometri
che percorro a mie spese. Sono solo
sedici chilometri, ma con questo
traffico assurdo ci impiego quasi
mezz’ora. Ecco perché non abito in
città. Sborso di tasca mia altri
quindici dollari per il parcheggio, un
furto vero e proprio, visto che sono
passato davanti all’incrocio fra
Lawrence e Broadway una dozzina
di volte e non sono riuscito a
trovare un posto libero.
Il bar resterà chiuso per alcune
ore. Tento la fortuna, bussando alla
vetrina per attirare l’attenzione del
barista. Sta facendo il rifornimento
del bancone e so che mi sente, ma
non si muove. Busso di nuovo e
stavolta, quando volge lo sguardo
verso di me, gli mostro il distintivo.
Apre la porta. Il locale è
tranquillo, le luci sono soffuse, sono
pochi i raggi di sole che riescono a
penetrare dai vetri sporchi. Per il
resto, abbonda la polvere e ristagna
una puzza di fumo da sigaretta,
cose che nessuno nota quando
prevale l’atmosfera creata dalle
candele e dalla musica jazz.
«Apriamo alle sette», dice.
«Chi è il responsabile, qui?», gli
chiedo.
«Ce l’ha di fronte». Si volta per
rientrare nel locale. Lo seguo e
vado ad appollaiarmi su uno dei
malridotti sgabelli in vinile. Infilo
una mano in tasca per prendere
una
foto:
Mia
Dennett.
Un’immagine affascinante, una di
quelle che mi ha dato Eve la
settimana scorsa. Le ho promesso
di non perderle o danneggiarle, e
mi rincresce che si sia già
spiegazzata nel taschino della mia
camicia. Per la signora Dennett, era
la foto esemplare in cui Mia era
«tutta lei» – si era espressa così –
l’immagine specchiata della ragazza
dallo spirito libero, coi lunghi capelli
biondo scuro, gli occhi azzurri e un
sorriso diretto, onesto. È in posa
davanti alla Buckingham Fountain:
l’acqua schizza per via del vento di
Chicago e la spruzza, mentre lei
ride come una bambina.
«Ha mai visto questa ragazza?»,
domando appoggiando la foto sul
bancone. Lui la prende in mano e ci
dà un’occhiata. Gli dico di fare
attenzione. Noto subito che l’ha
riconosciuta. La conosce.
«Viene sempre qui, si siede a quel
tavolo», replica, accennando con la
testa a quello dietro le mie spalle.
«Scambiate mai due chiacchiere?»
«Sì, quando mi ordina da bere».
«Tutto qua?»
«Tutto qua. Cos’è successo?»
«Si trovava qui martedì sera?
Verso le otto?»
«Martedì sera? Amico, riesco
appena a ricordare cosa ho
mangiato stamattina a colazione.
Lei è stata qui tante volte, so solo
questo con certezza». Mi restituisce
la foto. Mi rompe le scatole il fatto
che mi abbia chiamato amico. È
umiliante.
«Ispettore», faccio notare.
«Prego?»
«Sono l’ispettore Hoffman, non un
amico». Procedo: «Può dirmi chi era
di servizio martedì sera?»
«Ma di che si tratta?», chiede
ancora. Gli dico di non preoccuparsi
di questo. Gli domando di nuovo chi
lavorava martedì sera, stavolta con
un tono bellicoso a cui non può
tener testa. Si scoccia per la mia
scortesia. Sa che, se volesse,
potrebbe cacciarmi in malo modo.
C’è solo un problema: io ho una
pistola.
Comunque,
si
ritira
nel
retrobottega buio e, quando torna a
mani vuote, dice: «Sarah».
«Sarah?»
«Sì, deve parlare con lei. Era lei a
s e r v i r e quel
tavolo»,
spiega
indicando il sudicio posto in fondo al
bar. «Martedì sera. Arriva tra
un’ora».
Resto seduto per un po’ davanti al
bancone e lo osservo mentre allinea
le bottiglie di alcolici. Lo guardo
riempire i secchielli di ghiaccio e
contare i soldi nel registro di cassa.
Cerco di parlare del più e del meno,
per fargli sbagliare il conto mentre
impila quelli che sembrano essere
migliaia
di
centesimi.
Lascio
perdere
quando
arriva
a
quarantanove. Misuro a passi il
locale.
Sarah Rohrig arriva nel giro di
un’ora, accede dalla porta principale
con un grembiule in mano. Il suo
capo la trattiene per uno scambio di
battute, durante le quali gli occhi
della donna incrociano i miei. Sul
suo volto appare un’espressione
preoccupata, un sorriso forzato. Io
mi trovo a un tavolino e faccio finta
di cercare indizi nei dintorni,
laddove tutto ciò che vedo sono una
panca in plastica e un’asse di legno
fatta passare per tavolino. Oltre a
una candelina verde decorata che
penso di sgraffignare e portarmi
via.
«Sarah?», le chiedo e lei risponde
affermativamente. Mi presento e la
invito ad accomodarsi. Le porgo la
foto di Mia. «Ha visto questa
ragazza?»
«Sì», ammette.
«Ricorda se è stata qui, martedì
scorso, verso le otto di sera?».
Dev’essere
la
mia
giornata
fortunata. La Rohrig è infermiera
professionale a tempo pieno e
lavora nel bar solo il martedì sera,
per intascare qualche dollaro in più.
Era una settimana che non metteva
piede nel locale, per cui l’immagine
di Mia ce l’ha fresca in mente.
Sostiene con sicurezza che lei era
nel bar una settimana fa, aggiunge
che lo frequenta tutti i martedì. A
volte da sola, altre volte con un
uomo.
«Perché il martedì?»
«È la serata dello slam, una
competizione tra poeti», dice,
«presumo venga per questo. Però
non sono certa che ascolti. Sembra
sempre distratta».
«Distratta?»
«Sogna a occhi aperti».
Chiedo cosa diavolo sia uno slam,
non ho mai sentito parlare di
questo tipo di poesia. Immagino le
composizioni di Yeats o di Whitman
buttate lì, ma non è questo il caso.
E l’idea di ascoltare della gente che
recita su un palco le proprie poesie
mi sconcerta ancor di più. Chi
diamine vorrà mai stare a sentire
roba simile? Pare che abbia ancora
molto da imparare su Mia Dennett.
«La settimana scorsa era da
sola?»
«No».
«Con chi era?».
Sarah riflette per un attimo. «Un
tizio. L’ho già visto qui».
«Insieme a Mia?», chiedo.
«Si chiama così?», domanda.
«Mia?».
Rispondo
affermativamente. Lei mi racconta
che la ragazza era gentile (l’uso
dell’imperfetto mi investe come un
treno merci) e sempre molto
amichevole. Lasciava buone mance.
Sarah spera che sia tutto a posto.
Ma dalle mie domande intuisce che
le cose stanno altrimenti, sebbene
non voglia sapere cosa sia
successo, per cui non glielo
riferisco.
«L’uomo con cui Mia era la
settimana scorsa… Erano venuti
insieme altre volte?».
Dice di no. Era la prima volta che
li vedeva insieme. Lui se ne stava di
solito da solo, al bar. Lo notava
perché era carino, ma in modo
enigmatico; questo me lo appunto,
dovrò cercare il significato sul
vocabolario. Mia si piazzava sempre
a quel tavolino, a volte da sola,
altre volte no. Ma il martedì
precedente erano insieme e se ne
erano andati di fretta. Sarah non sa
come si chiami l’uomo, io la esorto
a descrivermelo e lei lo fa: alto,
robusto, capelli folti e spettinati,
occhi scuri. Accetta di incontrare un
nostro ritrattista per vedere se, in
base alla sua descrizione, si riesce a
ricavare un identikit somigliante.
Le chiedo di nuovo: «È sicura che
se ne siano andati insieme? È molto
importante».
«Sì».
«Li ha visti uscire?»
«Sì, cioè quasi. Ho portato loro il
conto e, quando sono tornata, non
c’erano più».
«Le sembrava che Mia se ne
andasse di sua volontà?»
«Mi sembrava che non vedesse
l’ora di uscire di qui».
Le domando se erano arrivati al
bar insieme. Dice di no, non pensa
che lo fossero dall’inizio. Come ha
fatto lui a ritrovarsi al tavolo di Mia?
Sarah non lo sa. Le chiedo di
nuovo: conosce il nome dell’uomo?
No. C’è qualcuno che potrebbe
conoscerlo?
Probabilmente
no.
L’uomo e Mia avevano pagato in
contanti, lasciando più di cinquanta
dollari sul tavolo, cosa che Sarah
ricorda ancora perché, per cinque o
sei birre, era una mancia generosa.
Più di quanto lascino solitamente i
clienti. Ricorda di essersene vantata
in
seguito,
sventolando
la
banconota con la faccia di Ulysses
Grant davanti a tutti i colleghi.
Quando esco dal bar, controllo su
e giù per la Broadway le
videocamere di sicurezza fuori dei
ristoranti, delle banche e dei centri
yoga per trovare qualcosa che mi
faccia capire con chi era Mia
Dennett la sera del martedì in cui è
scomparsa.
Colin
Prima
Non vuole mangiare. Le ho offerto
cibo per quattro volte, lasciandole
una scodella piena sul pavimento
della sua camera. Come se fossi il
suo stupido cuoco. Lei se ne sta a
letto, sdraiata su un fianco, dà le
spalle alla porta. Quando entro, non
si muove, ma la vedo respirare, so
che è viva. Se continua così a lungo
morirà di inedia. Ora sarebbe
paradossale.
Esce dalla stanza come uno
zombie,
con
una
massa
aggrovigliata di capelli che le
nasconde la faccia. Si dirige verso il
bagno, fa quel che deve e torna
indietro. La ignoro, lei mi ignora. Le
ho detto di lasciare aperta la porta
della stanza da letto. Voglio essere
sicuro che non escogiti niente, lì
dentro; comunque non fa altro che
dormire. Fino a questo pomeriggio.
Ero stato fuori a tagliare la legna
per il fuoco. Una bella sudata! Ero a
corto di fiato. Mi ero precipitato nel
capanno avendo in mente una cosa
sola: l’acqua.
Lei era in piedi al centro della
stanza, con solo gli slip e il
reggiseno di pizzo addosso. Pareva
morta, la sua pelle aveva perso
qualsiasi traccia di colorito. I suoi
capelli erano in disordine, sulla
coscia aveva un livido grosso come
un uovo d’oca. Aveva un labbro
spaccato e un occhio nero, oltre ai
graffi che si era procurata contro gli
alberi. Dagli occhi, gonfi e iniettati
di sangue, scendevano lacrime che
le rigavano il volto dalla pelle
chiara. Era in preda alle convulsioni,
la pelle d’oca su tutto il corpo.
Avvicinandosi a me, ho notato che
zoppicava. Mi ha detto: «È questo
che vuoi?».
L’ho fissata. Ho fissato i suoi
capelli,
che
le
cadevano
disordinatamente
sulle
spalle
bianche come l’avorio. Il pallore
della sua pelle non curata. I crateri
formati dalle sue clavicole e la
forma perfetta dell’ombelico. Le sue
mutandine e le lunghe gambe. La
sua caviglia, talmente gonfia che
poteva essere slogata. Le lacrime
che colavano sul pavimento davanti
ai suoi piedi nudi, di fianco alle
unghie laccate di rosso vermiglio,
lungo le gambe talmente traballanti
che pensavo le cedessero. Ho
fissato il muco che le colava dal
naso, visto che non riusciva più a
frenare il pianto mentre allungava
una mano e, tremando, me la
posava sulla cintura, cominciando a
sganciare la fibbia. «È questo che
vuoi?», ha domandato ancora, e per
un
momento
l’ho
lasciata
armeggiare con la mia cintura. Le
ho permesso di togliermela e di
chinarsi. Le ho permesso di
sbottonarmi i jeans e di tirare giù la
cerniera. Non riuscivo a dire che
non era quello ciò che volevo. Lei
sudava e puzzava, come me del
resto. Quando mi ha toccato, le sue
mani parevano di ghiaccio. Ma non
è stato quello a dissuadermi.
L’ho
scostata
delicatamente.
«Smettila», ho sussurrato.
«Lasciami fare», ha implorato.
Pensava che sarebbe servito.
Pensava che avrebbe cambiato le
cose.
«Rimettiti i vestiti», ho detto. Ho
chiuso gli occhi, non ero in grado di
guardarla. Era in piedi davanti a
me. «Non…».
Voleva che le mettessi le mani
addosso, mi forzava.
«Basta». Non mi dava retta.
«Basta». L’ho detto con più forza,
con più energia. E ho aggiunto: «È
ora di finirla», spingendola via da
me. Le ho ripetuto di rimettersi i
suoi maledetti vestiti.
Mi sono fiondato fuori dal
capanno, ho afferrato l’ascia e ho
cominciato a tagliare di nuovo la
legna, con vigore maniacale. Avevo
dimenticato
completamente
l’acqua.
Eve
Prima
Siamo nel cuore della notte e non
riesco a dormire, come capita ormai
da una settimana. I ricordi di Mia mi
ossessionano giorno e notte, le
immagini di quando aveva un anno,
col suo costumino a pois verde oliva
e le sue cosce grassocce che
sporgevano,
mentre
tentava
inutilmente di camminare. Le
unghie laccate di rosa shocking sui
piedini da bimba di tre anni. I suoi
lamenti quando le facemmo forare
le orecchie, ma poi la sua
ammirazione per gli orecchini di
opale, restava ore a guardarsi
davanti allo specchio del bagno.
Mi trovo nella dispensa della
nostra casa oscurata, l’orologio sui
fornelli della cucina segna le 3:12.
Rovisto tra gli scaffali per prendere
la scatola di camomilla, so di averla
riposta da qualche parte, malgrado
sia sicura che ci voglia molto più di
un infuso per aiutarmi a prendere
sonno. Rivedo Mia alla prima
comunione, avevo notato il disgusto
sul suo volto quando le misero sulla
punta della lingua il Corpo di Cristo;
dopo avevamo riso sul suo letto, io
e lei, perché l’ostia era stata difficile
da masticare e inghiottire, e il vino
l’aveva quasi fatta strozzare.
E poi ne sono colpita come se mi
piovesse addosso una scarica di
mattoni, mi rendo improvvisamente
conto di questa cosa sconvolgente:
la mia bambina potrebbe essere
morta, e allora, nel pieno della
notte, lì nella dispensa, comincio a
piangere piano, cado a terra e
premo le maniche del pigiama sulla
faccia per smorzare i gemiti. La
rivedo nel costume a pois, con un
sorriso smagliante e sdentato,
mentre si aggrappa al bordo del
tavolino e si protende a fatica verso
di me, che la aspetto a braccia
aperte.
La mia bambina potrebbe essere
morta.
Faccio quel che posso per
contribuire alle indagini, eppure
tutto appare banale e inutile,
perché Mia non è a casa. Ho
trascorso un’intera settimana nel
quartiere
dove
abita
lei,
distribuendo a chiunque transitasse
da quelle parti volantini con la foto
e la scritta SCOMPARSA. Affiggevo
l’immagine di Mia ai lampioni e
nelle vetrine dei negozi, una foto su
carta rosa shocking, impossibile da
non notare. Mi sono vista con la sua
amica Ayanna per pranzo, abbiamo
ripercorso
insieme,
dettagliatamente, l’ultima giornata
di Mia, nella ricerca disperata delle
stranezze che avrebbero potuto
spiegare
la
sua
sparizione,
purtroppo invano. Sono stata in
centro con l’ispettore Hoffman,
dopo che si era procurato una
chiave dell’appartamento di Mia, e
ho controllato che non poteva
affatto dirsi la scena di un delitto.
Insieme abbiamo poi passato al
vaglio i suoi effetti personali e tutto
il
resto:
materiale
per
la
preparazione delle lezioni, rubrica
degli indirizzi, lista della spesa, cose
da fare, sperando di trovare un
indizio. Nulla.
Il detective mi telefona una volta
al giorno, anche due. Non passa
quasi mai una giornata in cui non ci
parliamo. Trovo che la sua voce, la
sua gentilezza, siano rassicuranti;
lui è sempre amichevole, anche
quando James lo punzecchia.
Mio marito sostiene che sia un
idiota.
Hoffman mi dà l’impressione di
essere la prima a venire a sapere
qualsiasi informazione, per quanto
insignificante, che gli portano sulla
scrivania; sono comunque certa che
non è vero. Lui passa al setaccio
anche le minuzie prima
di
riferirmele. Sono frammenti di
notizie che scatenano una miriade
di ipotesi nella mente di una madre.
La scomparsa di mia figlia non
smette mai di occupare i miei
pensieri. Ci penso quando vedo le
madri che tengono i figli per mano;
quando vedo i ragazzini salire
sull’autobus per andare a scuola.
Quando vedo le foto dei gatti
smarriti incollate ai pali della
strada, o sento una madre
chiamare per nome un suo pargolo.
L’ispettore vuole sapere tutto il
possibile su Mia. Rovisto tra le
vecchie foto che tengo nel
seminterrato; m’imbatto nei vecchi
costumi di Halloween, nei vestiti di
taglia minuscola, nei pattini e nelle
Barbie. So che ci sono altri casi,
altre ragazze scomparse, oltre a
Mia. Mi immagino le loro madri. So
che ci sono ragazze che non
tornano mai più a casa.
Hoffman mi ribadisce che, quando
non ci sono notizie, è una buona
notizia. Talvolta mi telefona per
dirmi che non ci sono altre
informazioni,
nel
caso
mi
preoccupassi, cosa normale per me.
Mi tratta con grande tatto,
promette di fare qualsiasi cosa per
rintracciare Mia. Glielo leggo negli
occhi quando mi guarda, o indugia
un attimo più di quanto dovrebbe,
per accertarsi che non stia per
crollare.
Però ci penso sempre a quanto sia
diventato arduo reggersi in piedi e
camminare,
a
quanto
stia
diventando impossibile vivere e
funzionare in un mondo che pensa
allo sport e alle forme di
intrattenimento, che si preoccupa di
economia e politica, mentre io
riesco a pensare solo a Mia.
Non sono stata certamente una
madre perfetta. Non c’è nemmeno
bisogno di dirlo. Non ero partita
però con l’intenzione di essere una
pessima madre. È successo e basta.
In effetti, agire in modo sbagliato
era un gioco da ragazzi rispetto al
comportarmi da vera madre, una
cosa che invece era una lotta
incessante, un conto in perdita
ventiquattr’ore al giorno. Anche
dopo aver messo le bimbe a letto,
mi tormentavo ripensando a quel
che avevo o non avevo fatto
durante le ore in cui eravamo
rimaste insieme. Perché avevo
permesso a Grace di far piangere
Mia? Perché avevo sgridato Mia per
costringerla a smettere di fare
chiasso? Perché mi rifugiavo in un
angolo tranquillo ogni volta che
potevo? Perché affrettavo le loro
giornate – forzandole a sbrigarsi –
per rimanere sola? Le altre madri
portavano i figli al museo, ai
giardinetti, in spiaggia. Io tenevo le
mie ragazze in casa il più possibile,
per non provocare scenate.
Di notte resto sveglia a chiedermi:
cosa succederà se non avrò la
possibilità di recuperare il tempo
perduto con Mia? Cosa accadrà se
non sarò mai capace di dimostrarle
che sono il tipo di madre che avrei
sempre desiderato essere? Quella
che gioca per ore e ore con le figlie,
che chiacchiera con loro, di sera, sui
ragazzi
più carini della scuola
media. Avevo sempre creduto che
sarei diventata un’amica delle mie
bambine. Immaginavo di andare a
fare le commissioni insieme a loro,
di condividere i nostri segreti, e
invece ora ho soltanto un rapporto
formale con Mia e Grace, sembra un
obbligo da parte loro. Ripasso
mentalmente tutte le cose che direi
a Mia, se potessi. Che avevo scelto
quel nome in onore della mia
bisnonna Amelia, ponendo il veto
ad Abigail, l’alternativa proposta da
James. Che il giorno di Natale,
quando lei aveva quattro anni,
James era rimasto alzato fine alle
tre del mattino per costruirle la
casa di bambole dei suoi sogni. Che
anche se i suoi ricordi del padre
sono pieni di ostilità, non erano
mancati attimi di bontà: per
esempio quando lui le aveva
insegnato a nuotare o l’aveva
aiutata a prepararsi per l’esame di
ortografia, in quarta. Che mi
addoloro tutte le volte che chiudo
un libro, prima di coricarmi,
disperata perché vorrei avere altri
cinque minuti per ridere con lei su
Harry the Dirty Dog4. Che vado in
libreria a comprarne una copia,
dopo aver frugato senza successo in
cantina per trovare quella che
aveva una volta. Che la leggo
seduta sul pavimento della sua
vecchia camera da letto, la rileggo
e poi la rileggo ancora. Che le
voglio bene. Che mi dispiace.
4
Libro per l’infanzia (1956) di Gene Zion,
illustrato da Margaret Bloy Graham. (n.d.t.)
Colin
Prima
Si nasconde tutto il giorno in
camera da letto. Non vuole uscire di
lì. Non le consento di avvicinarsi
alla porta del capanno, così resta
seduta sul letto. Siede e pensa. A
cosa, non lo so. Non me ne frega
niente.
Piange, le lacrime si spargono
sulla federa fino a inzupparla,
probabilmente. Quando va al bagno
per pisciare, ha la faccia rossa e
gonfia.
Cerca
di
farlo
sommessamente, come se io non
potessi udirla. Però il capanno è
piccolo, non vi è nulla che attutisca
i rumori.
Ha dolori in tutto il corpo. Lo vedo
dal modo in cui cammina. Non può
far forza sulla gamba sinistra per
via della ferita che si è procurata
cadendo dai gradini del capanno e
nel bosco. È claudicante, per
arrivare al gabinetto barcolla e
deve appoggiare una mano alla
parete. In bagno, fa scorrere un
dito su un livido, nero per la
congestione del sangue.
Sente che sono nell’altra stanza.
Mi muovo a lunghi passi. Taglio la
legna da ardere, abbastanza da
tenerci al caldo per tutto l’inverno.
Ma non è mai davvero caldo. Sono
sicuro che lei senta continuamente
freddo, sebbene indossi i pantaloni
termici e si rifugi sotto il piumone. Il
tepore della stufa non raggiunge la
camera da letto. Però rifiuta di
venire qui dove il calore è
sufficiente.
Immagino che il suono dei miei
passi la spaventi a morte. Ascolta
solo questi passi, in attesa che
succeda il peggio.
Cerco di tenermi indaffarato.
Pulisco il capanno. Elimino le
ragnatele e raccolgo gli scarafaggi
morti. Li getto nell’immondizia.
Spacchetto le cose che abbiamo
comprato in paese: cibo inscatolato,
caffè, dolci, sapone, nastro isolante.
Riparo la porta d’ingresso. Lavo
bene il piano di lavoro della cucina
con acqua e salviette di carta. Lo
faccio solo per passare il tempo.
Raccolgo i vestiti della ragazza dal
pavimento del bagno. Sto per
rimproverarla, voglio dirle che è
sciatta perché lascia in giro i panni
sporchi. Ma poi sento che piange.
Riempio d’acqua la vasca. Lavo
camicia e pantaloni con un pezzo di
sapone e li appendo fuori ad
asciugare. Non possiamo continuare
così. Il capanno è un espediente
temporaneo. Mi arrovello per
escogitare le prossime mosse,
vorrei averci pensato prima di
decidere di rapire la ragazza e
fuggire con lei.
Striscia di fianco a me per andare
in bagno. È piena di lividi e
zoppicante, io non sono uno che si
sente in colpa facilmente, però sono
stato io a ridurla così, là fuori, tra
gli alberi della foresta, quando
aveva tentato di scappare. Mi dico
che se l’era cercata. Mi rassicuro
pensando che almeno adesso è
tranquilla, se ne sta buona, ed è
meno sicura di sé.
Ora sa chi comanda: io.
Bevo il caffè perché l’acqua del
rubinetto fa schifo. L’ho offerto
anche a lei. Le ho offerto anche
dell’acqua, ma non la vuole. Ancora
insiste a non voler mangiare. Presto
la immobilizzerò e le caccerò il cibo
giù per la gola. Non le permetterò
di lasciarsi crepare di fame. Non
dopo tutto questo.
La mattina dopo mi invito da solo
a entrare nella camera da letto.
«Cosa vuoi per colazione?», chiedo.
È sdraiata, dà le spalle alla porta.
Quando mi sente entrare, è ancora
mezzo addormentata. Il rumore
inatteso
dei
miei
passi
e
l’esplosione delle parole nel silenzio
la costringono a uscire dalle
coperte.
Ecco
qua,
pensa,
troppo
sconcertata per udire quello che
dico.
Le s’impigliano le gambe nelle
lenzuola. Col corpo vorrebbe
scappare da quel rumore, ma i piedi
la tradiscono. Cade sul pavimento
ligneo. I suoi piedi lottano contro le
lenzuola per far presa a terra. Col
corpo si allontana il più possibile da
me. Va a collocarsi con la schiena
alla parete, stringendo ancora in
una mano tremante la biancheria
del letto.
Resto sulla soglia, indosso gli
stessi vestiti da quasi una
settimana.
Mi fissa, le si legge il panico negli
occhi spalancati, ha le sopracciglia
sollevate e la bocca aperta. Mi
guarda come se fossi un mostro, un
cannibale in attesa di mangiarla per
colazione.
«Cosa vuoi?», urla.
«È ora di mangiare».
Deglutisce. «Non ho fame», dice.
«Peccato».
Le faccio notare che non può
decidere lei.
Mi segue nell’altra stanza e mi
osserva mentre verso in una
padella quelle che si definiscono
uova, anche se hanno un odore di
robaccia inscatolata. Le faccio
abbrustolire, ma la puzza mi fa
venire i conati di vomito.
Di me, lei detesta ogni cosa. Lo
so. Glielo leggo negli occhi. Odia il
mio portamento. Odia i miei capelli
sporchi e i peli della barba che mi
vede sul mento. Odia le mie mani, il
modo in cui girano le uova nella
padella. Detesta la maniera in cui la
guardo. Odia il mio tono di voce e il
modo in cui la mia bocca forma le
parole.
Ma soprattutto ha una profonda
avversione per la pistola che ho in
tasca, la vede bene. Io comunque
la tengo continuamente addosso,
per assicurarmi che lei si comporti a
dovere.
Le dico che non ha più il permesso
di recarsi nella camera da letto. Ci
può andare solo per dormire. Tutto
qui. Per il resto della giornata,
dovrà restare sempre in vista, così
che
possa
tenerla
d’occhio.
Constaterò che mangi, beva, pisci.
Come se dovessi badare a una
ragazzina. E lei mangia come una
bambina piccola, un morsetto qui e
uno là. Afferma di non avere fame,
però si nutre abbastanza per
sopravvivere. È quel che conta.
La sorveglio di modo che non
cerchi nuovamente di andarsene,
come l’ultima volta. Prima di
coricarmi, spingo un tavolo più
grosso e pesante contro la porta,
così da udirla se prova a
svignarsela. Io ho il sonno leggero.
Mi appisolo con la pistola sotto di
me. Ho rovistato la cucina per
appurare che non ci siano altri
coltelli. Solo il temperino che tengo
sempre con me.
Lei non ha un cazzo da dirmi, e io
non ci provo nemmeno a parlare.
Perché
tentare?
Non
posso
rimanere qui per sempre. In
primavera arriveranno i turisti.
Presto dovremo tagliare la corda.
Presto io dovrò andarmene. Me la
farò,
immagino,
e
poi
la
abbandonerò per salire su un aereo
e filare via. Prima che i poliziotti mi
trovino. Prima che mi trovi Dalmar.
Dovrò scappare.
Però c’è qualcosa che mi trattiene,
che mi impedisce di prendere il volo
e andarmene via.
Gabe
Prima
Mi trovo nella cucina dei Dennett.
La signora si affaccenda al
lavandino, scrosta i residui della
cena a base di carne di maiale.
Vedo che il giudice aveva ripulito
bene il suo piatto, mentre quello
della moglie mostra ancora il filetto
e un mucchietto di piselli. Li sta
buttando via davanti ai miei occhi.
Scorre l’acqua bollente, il vapore si
diffonde nella stanza; benché tenga
le mani immerse nel liquido, pare
non avvertire il calore. Sfrega la
porcellana con una determinazione
che non ho mai visto in nessuna
lavapiatti.
Stiamo davanti all’isola, al centro
della cucina. Nessuno m’invita ad
accomodarmi. È una cucina molto
elegante, con mobili in legno di
noce e piani di lavoro in granito. Gli
elettrodomestici sono tutti di
acciaio inossidabile, compresi due
forni per i quali mia madre, italiana,
darebbe un braccio e una gamba.
Immagino
il
giorno
del
Ringraziamento
senza
la
drammatica
preoccupazione
di
mantenere ogni cosa in caldo fino
all’ora di cena, e senza lacrime
perché mio padre accennava al
fatto che le patate erano un po’
fredde.
Sull’isola della cucina, davanti a
me e al giudice, è posata
l’immagine di un uomo. È il ritratto
fatto dalla polizia, tracciato da uno
dei
nostri
disegnatori
sulle
indicazioni fornite dalla cameriera.
«Questo sarebbe l’uomo? Quello
che ha rapito mia figlia?». Mentre
tiravo fuori l’identikit dalla cartellina
marrone, Eve Dennett si era messa
a piangere. Le lacrime le rigavano il
viso. Aveva voltato le spalle alla
conversazione e cercava di perdersi
nelle faccende di casa, gemendo
piano
sul
rumore
dell’acqua
corrente.
«Martedì scorso hanno visto Mia
con quest’uomo, di sera», chiarisco,
anche se a questo punto è girata di
spalle. L’immagine davanti a noi è
quella di un tipo rude. Il suo
aspetto è piuttosto volgare, però
non assomiglia affatto agli uomini
mascherati dei film dell’orrore. Solo
che non è all’altezza dei Dennett.
Né lo sono io, del resto.
«E…?», abbozza il giudice.
«E siamo convinti che sia
coinvolto nella scomparsa della
ragazza».
Lui torreggia dall’altra parte
dell’isola, sfoggia un completo il cui
prezzo equivale a due o tre mesi
del mio stipendio. Ha la cravatta
slacciata e buttata su una spalla.
«Ci sono prove per sostenere che
Mia non è andata via con lui di sua
volontà?»
«Be’», dico, «no».
Il signor Dennett si è già messo a
bere. La scelta per questa serata è
whisky con cubetti di ghiaccio.
Penso che potrebbe essere brillo.
Parla farfugliando un po’ e ha il
singhiozzo.
«Supponiamo che Mia se la stia
spassando con lui. Che si fa?».
Mi parla come se fossi idiota. Però
ricordo a me stesso di avere la
responsabilità dell’incarico. Sono io
a poter ostentare il distintivo
luccicante. L’indagine è sotto il mio
comando, non il suo.
«Vostro onore, sono otto giorni
che è iniziata l’indagine», affermo.
«Nove da quando è stata vista Mia
per l’ultima volta. Secondo le sue
colleghe, non si assentava quasi
mai dal lavoro. Secondo sua moglie,
questo
comportamento
(inefficienza, irresponsabilità) non è
tipico del carattere di sua figlia».
Prende un altro sorso di whisky e
posa il bicchiere troppo in fretta
sull’isola. Eve trasalisce per il
rumore. «Naturalmente c’è anche la
sua
condotta
indisciplinata.
Vandalismo
e
violazione
di
proprietà. Possesso di marijuana»,
dice e poi, per rompermi le palle,
aggiunge: «Solo per nominare
alcune cose». L’espressione del suo
volto è compiaciuta, ha stampata in
faccia un’aria di superiorità. Lo
fisso, non ci sono parole. Disprezzo
la sua sicumera.
«Ho controllato gli archivi della
polizia», dico. «Non c’è niente a
carico di Mia». La sua fedina è
immacolata. Neanche una multa
per eccesso di velocità.
«In effetti, non potevano esserci
denunce, o no?», chiede lui e colgo
il sottinteso: le aveva fatte sparire.
Chiede permesso per andarsi a
versare un altro bicchiere. La
signora Dennett strofina ancora i
piatti. Mi sposto verso il lavandino e
giro il rubinetto sull’acqua fredda,
così le mani della povera donna non
si ustioneranno più.
Mi lancia un’occhiata, presa alla
sprovvista,
come
se
avesse
avvertito adesso il primo sentore di
una bruciatura, e sussurra: «Avrei
dovuto dirglielo», ha gli occhi
estremamente
tristi. Sì, penso,
avrebbe dovuto dirmelo, ma mi
mordo la lingua e la lascio
continuare. «Lui lo fa per negare la
realtà. Vorrei poter dire che è
talmente addolorato da rifiutare di
credere che Mia è davvero
scomparsa».
Il giudice torna appena in tempo
per udire le ultime parole della
confessione di sua moglie. Tutto è
calmo, ma per un secondo mi
preparo ad affrontare l’ira di Dio.
Invece, nulla, non succede niente.
«Questo comportamento di Mia
non è strano come hai indotto
l’ispettore a credere, o mi sbaglio,
Eve?», chiede.
«Oh, James», protesta lei. Si
asciuga le mani su uno strofinaccio
e aggiunge: «Quello era successo
anni fa. Andava ancora a scuola. Ha
fatto la sua parte di errori. Ma è
successo anni fa».
«E che ne sai della Mia attuale?
Sono anni che non abbiamo più
rapporti con nostra figlia. Non la
conosciamo quasi più».
«E
lei,
signor
giudice…»,
intervengo per togliere la signora
dalla graticola. Detesto la maniera
che ha di fissarla, facendola sentire
una cretina. «Cosa sa della Mia di
oggi? Qualche infrazione o illecito
che sono stati recentemente
cancellati dal casellario?», azzardo.
«Infrazioni stradali? Prostituzione?
Ubriachezza molesta?». Non devo
pensarci due volte sui motivi per cui
le sue trasgressioni giovanili sono
sparite dai registri. «Non sarebbe
stato positivo per il nome dei
Dennett, vero? E anche tutto
q u e s t ’ a f f a r e , se
alla
fine
dell’indagine si scoprirà che Mia è
da qualche parte a darsi da fare, se
la ritroveremo in perfetta forma che
se la stava spassando, non sarebbe
positivo, vero?».
Io guardo e ascolto i telegiornali,
sono informato sulla politica. So che
il prossimo novembre il giudice
Dennett dovrà ricandidarsi.
E mi ritrovo a chiedermi se la
cattiva condotta di Mia si limiti alla
sua adolescenza o se ci sia
dell’altro.
«Faccia attenzione, ispettore», mi
ammonisce il giudice, mentre sullo
sfondo la moglie piagnucola:
«Prostituzione? James!». Era solo
una mia congettura.
Lui la ignora. Lo facciamo
entrambi, mi pare.
«Sto soltanto cercando di trovare
sua figlia», ribadisco. «Perché forse
è da qualche parte a fare la
stupida. Però rifletta per un attimo
sul caso in cui non sia così. Ci pensi
bene. Cosa succederà? Sono sicuro
che, se va a finire che sua figlia è
morta, lei chiederà le mie dimissioni
o mi farà sbattere fuori».
«James», sibila la signora. Le
sono tornate le lacrime non appena
ha sentito che in una sola frase
sono stato capace di usare le parole
«figlia» e «morta».
«Chiariamo
questa
cosa,
Hoffman», esclama lui. «Lei ritrova
Mia e la riporta a casa. Viva. Tenga
ben conto di tutte le possibilità,
perché ci sono cose di mia figlia che
non si sanno e che valgono molto»,
dopodiché chiude il discorso, prende
il suo whisky e si eclissa in un’altra
stanza.
Colin
Prima
La sorprendo mentre si guarda
allo specchio del bagno. Non
riconosce il riflesso: i capelli ispidi e
la pelle trascurata, i lividi che
stanno cominciando a guarire.
Adesso sono gialli e chiazzati,
anziché gonfi e violacei.
Quando esce, la aspetto. Sono
appoggiato allo stipite della porta.
Fa un passo e sbatte contro di me,
mi fissa, come se fossi un animale
che la bracca e le sottrae l’aria.
«Non volevo colpirti», le dico
leggendole nel pensiero, ma lei non
si esprime.
Le faccio una carezza con la mano
fredda sulla guancia. Lei freme e si
tira indietro, evita il mio tocco.
«Vanno meglio», mi riferisco ai
lividi.
Mi passa davanti e se ne va.
Non so da quanto facciamo così.
Ne ho perso traccia. Cerco di
ricordare quando eravamo a lunedì
o martedì. Col tempo, i giorni
diventano uguali, non si distinguono
più uno dall’altro. Lei resta a letto
finché non la costringo ad alzarsi. Ci
sforziamo di ingoiare la colazione.
Poi lei trascina una sedia vicino alla
finestra e si siede. Fissa l’esterno.
Pensa, sogna a occhi aperti.
Desidera
ardentemente
essere
altrove.
Io penso sempre a come
andarcene di qui. Ho abbastanza
soldi da prendere un volo per
qualche posto, e allora sarà tutto
finito. Ma ovviamente non ho il
passaporto con me, e il posto più
lontano in cui possa andare è
Tecate o Calexico, in California, per
cui l’unica maniera per uscire dal
Paese sarebbe poi pagare un
trafficante messicano, o nuotare
verso l’altra riva del Rio Grande.
Riuscire a varcare i confini del
Paese è però solo una parte del
problema, per me. È tutto il resto
che non riesco a concepire.
Cammino nel capanno, medito sulla
maniera per cavarmi da questo
maledetto imbroglio, consapevole
che, per il momento, qui sono al
sicuro,
anche
se
più
ci
nascondiamo, più io mi nascondo, e
peggio sarà.
Abbiamo delle regole, dette o non
dette. Lei non deve toccare la mia
roba. Usiamo solo un pezzo di carta
igienica per volta. Cambiamo l’aria
solo quando è possibile. Usiamo il
sapone in quantità minima, per non
puzzare di sudore. Non lasciamo
che le cose imputridiscano. Non
apriamo le finestre. Né potremmo
farlo, peraltro. Se fuori del capanno
ci imbattiamo in una persona, lei si
chiama Chloe, non Mia. In realtà,
sarebbe meglio che dimenticasse
del tutto il suo nome di battesimo.
Le vengono le mestruazioni e
imparo l’interpretazione letterale
dell’espressione «usare le pezze».
Vedo il sangue in un sacchetto
dell’immondizia e chiedo: «Cosa
diavolo è questo?», ma me ne
pento
subito. Raccogliamo
il
pattume in buste di plastica bianca
che si accumulano. Ogni tanto
andiamo con l’auto a scaricarle in
un cassonetto dietro un casotto, di
solito a notte fonda per essere certi
che nessuno ci veda. Mi domanda
perché non le abbandoniamo
semplicemente all’aperto. Le chiedo
se per caso voglia farsi sbranare da
un orso.
C’è uno spiffero da una finestra,
ma la stufa contribuisce a tenerci al
caldo. Le giornate si stanno
accorciando. Fa sera sempre più in
anticipo, finché l’oscurità non
ammanta il capanno. Abbiamo la
luce elettrica, però non voglio
attirare l’attenzione su di noi.
Accendo solo una lampadina di
notte. La stanza da letto è immersa
nel buio più nero. Durante le ore
notturne, lei resta sdraiata ad
ascoltare il silenzio. Aspetta che
compaia io, in mezzo alle tenebre,
per mettere fine alla sua vita.
Durante il giorno si siede però
vicino alla finestra con lo spiffero.
Osserva le foglie che rotolano a
terra. Tutto il suolo è cosparso di
foglie in decomposizione. Non resta
nulla a celare la vista sul lago.
Ormai finisce l’autunno. Siamo
talmente a nord da lambire il
confine col Canada. Siamo persi in
un mondo disabitato, circondati
dalla desolazione più totale. Lei ne
è consapevole, come me. È per
questo che l’ho condotta qui.
Adesso l’unica vera preoccupazione
sono gli orsi. Ma poi, d’inverno, essi
andranno in letargo. Fra poco si
iberneranno nel sonno. E allora
l’unica preoccupazione per noi sarà
il gelo mortifero.
Non parliamo molto. Soltanto per
necessità: «il pranzo è pronto»; «mi
faccio un bagno»; «dove stai
andando?»; «Vado a letto». Non ci
sono scambi di battute informali.
Prevale il mutismo. A causa di
questa mancanza di conversazione,
udiamo
qualsiasi
rumore:
lo
stomaco che borbotta, i colpi di
tosse, il vento notturno che fischia
fuori del capanno, i cervi che
calpestano le foglie. E inoltre ci
sono i rumori immaginari: le
gomme delle auto sulla ghiaia, i
passi sugli scalini che portano al
capanno, le voci.
Probabilmente lei spera che siano
reali, così la sua attesa sarà finita.
La paura la ucciderà, non ci sono
dubbi.
Eve
Prima
La prima volta che misi gli occhi
su James avevo diciotto anni, mi
trovavo negli USA con delle amiche.
Ero giovane e ingenua, ipnotizzata
dall’enorme grandezza di Chicago,
dal senso di libertà che sentivo
sottopelle dal momento in cui noi
ragazze avevamo messo piede
sull’aereo.
Venivamo
dalla
campagna
inglese,
eravamo
abituate ai piccoli villaggi con poche
migliaia di abitanti, a uno stile di
vita rurale, a una comunità
semplice e dalla mentalità ristretta.
All’improvviso
ci
ritrovavamo
sballottate in un mondo nuovo,
paracadutate in una metropoli
rumorosa, e perdipiù mi innamorai
a prima vista.
A sedurmi inizialmente fu la città,
con tutte le promesse che sapeva
offrire. Gli edifici immensi, i milioni
di abitanti, l’ostentata sicurezza con
cui camminavano, l’espressione
risoluta impressa sul loro volto
quando incedevano fra le strade
animate. Era il 1969. Stava
cambiando
il
mondo
che
conoscevamo ma, se devo essere
sincera, me ne infischiavo. Ero fuori
da quel giro. La mia sola esistenza
mi eccitava, com’è normale quando
si hanno diciott’anni: il modo in cui
mi guardavano gli uomini, il modo
in cui mi sentivo portando una
minigonna, molto più corta di
quanto avrebbe mai approvato mia
madre. Ero terribilmente inesperta,
anelavo di essere donna, volevo
smettere di essere bambina.
Ciò che mi aspettava a casa, nella
campagna inglese, era stato deciso
dal destino della mia nascita: avrei
sposato uno dei ragazzi che
conoscevo da sempre, uno di quelli
che, da piccolo, alla scuola
elementare, mi tirava i capelli o mi
dava nomignoli. Non era un segreto
che Oliver Hill volesse sposarmi. Mi
aveva chiesta in moglie da quando
aveva dodici anni. Suo padre era
parroco della Chiesa anglicana, sua
madre la casalinga che non avrei
mai voluto essere: una di quelle che
obbedisce al marito come se i suoi
ordini fossero di origine divina.
James era più grande di me, e la
cosa mi emozionava; era brillante e
cosmopolita. I suoi discorsi erano
appassionanti, la gente pendeva
letteralmente dalle sue labbra, che
parlasse di politica o del più e del
meno. Era estate quando lo vidi per
la prima volta in un ristorante del
Loop, seduto a una grande tavola
rotonda con un gruppo di amici. La
sua voce rimbombava al di sopra
dei rumori del locale, e non si
poteva fare a meno di ascoltarla. Ti
conquistava con la sua eleganza e
la sua presunzione, col tono
veemente. Attorno a lui, gli occhi
degli amici aspettavano la battuta
fulminante alla fine di una storiella;
allora tutti, anche gli estranei,
ridevano fino alle lacrime. Alcuni si
mettevano perfino ad applaudirlo.
Sembrava che il suo nome fosse
arcinoto, sia da quelli seduti al suo
tavolo sia dal personale del
ristorante. Il barista chiedeva a
voce alta, dall’altra parte del locale:
«Ancora un giro di bevute, James?»,
e in un attimo i boccali di birra
riempivano la tavola.
Non potevo evitare di fissarlo.
Non ero la sola. Anche le mie
amiche non potevano fare a meno
di fissarlo, se lo mangiavano con gli
occhi. Le donne sedute vicino a lui
non perdevano occasione per
toccarlo: un abbraccio, un colpetto
sulla spalla. C’era una brunetta coi
capelli che le arrivavano al
fondoschiena che si sporgeva verso
di lui per confidargli qualcosa, ma
era un pretesto per un ulteriore
contatto. Lui era l’uomo più
baldanzoso che avessi mai visto.
Allora frequentava la facoltà di
diritto. Lo avrei appreso in seguito,
la mattina dopo, quando mi
risvegliai al suo fianco, a letto. Io e
le mie amiche non eravamo
abbastanza grandi per bere, perciò
dev’essere stata la mia infatuazione
a
indurmi
a
cedere
sconsideratamente, quella sera. Mi
ero ritrovata al suo tavolo, seduta
di fianco a lui, mentre la donna coi
capelli lunghissimi aveva assunto
un’espressione ostile e feroce
quando James mi aveva passato un
braccio sulla spalla. E poi il modo in
cui lui aveva adulato il mio accento
britannico, come se fosse la cosa
migliore al mondo dopo il pane in
cassetta…
James allora era diverso, non
l’uomo che è diventato col passare
del tempo. I suoi difetti apparivano
molto più sopportabili, la sua
spavalderia era affascinante, non
un tratto sgradevole del suo
carattere, com’è ora. Sapeva
lusingarmi da maestro, molto prima
che la sua parlantina diventasse
offensiva e intollerabile. C’è stato
un periodo nella nostra vita in cui
siamo stati felici, completamente
stregati
l’uno
dall’altra,
non
riuscivamo a non saltarci addosso…
Ma l’uomo che sposai è scomparso
del tutto.
Telefono all’ispettore Hoffman, è
la prima cosa che faccio stamattina,
dopo che James esce per andare in
ufficio. Aspetto come sempre di
udire la chiusura della serranda del
garage,
il
rumore
della
monovolume
che
scende
sul
vialetto, prima di alzarmi dal letto e
andare in cucina con la mia tazza di
caffè, avendo fissa in testa solo la
faccia dell’individuo che ha rapito
Mia. Osservo l’orologio, attendo che
la lancetta piccola completi il
percorso sul quadrante e, quando le
8:59 lasciano il posto alle 9,
compongo il numero che ormai,
dopo tutti questi giorni, mi è
diventato familiare.
Lui risponde subito con la sua
voce autorevole e professionale:
«Ispettore Hoffman». Lo immagino
all’interno della stazione di polizia,
sento sullo sfondo l’affaccendarsi
delle persone, le decine di agenti
che cercano di risolvere i problemi
altrui.
Mi ci vuole un momento per
concentrarmi e dirgli: «Detective,
sono Eve Dennett».
La sua voce si addolcisce mentre
pronuncia il mio nome: «Signora
Dennett, buongiorno».
«Buongiorno».
Lo rivedo nella nostra cucina, ieri
sera; avevo notato il suo sguardo
assente sul volto gentile quando
James gli aveva raccontato i guai
che combinava Mia. Se n’era andato
in fretta. Ancora adesso riesco a
sentire dentro di me il modo in cui
aveva sbattuto la porta. Non avevo
tentato di occultargli il passato di
Mia.
In
tutta
onestà,
il
comportamento che lei teneva non
contava nulla. Ma l’ultima cosa che
voglio è che l’ispettore nutra dei
dubbi su di me. È il mio unico
legame con mia figlia.
«Dovevo chiamare», dico, «fornire
una spiegazione».
«Per ieri sera?», chiede, e io
confermo.
«Non ne ha bisogno».
Lo faccio lo stesso.
L’adolescenza di Mia è stata
difficile, anni duri, a dir poco.
Voleva disperatamente inserirsi,
voleva essere indipendente. Era
impulsiva, in balia dei desideri, e le
mancava il buonsenso. Le amiche la
facevano sentire accettata, ma non
la famiglia. Tra i coetanei suscitava
simpatie, la cercavano tutti, e per
lei questa era una dose di
autostima. Gli amici la facevano
sentire in cima al mondo, non c’era
niente che non avrebbe fatto per
loro.
«Forse Mia era capitata nel
gruppo sbagliato di amici», dico.
«Forse avrei dovuto controllare
meglio per capire chi erano quelli
con cui trascorreva il tempo. Avevo
notato solo che i suoi temi da 7+
erano passati a 6-, e che non
studiava più al tavolo della cucina,
di pomeriggio, ma si ritirava a fare i
compiti in camera sua, dopo aver
chiuso a chiave la porta».
Mia era in piena crisi di identità.
Ciò rientrava nel suo anelito
disperato di diventare adulta, anche
se una parte di lei restava bambina,
incapace di ragionare come avrebbe
fatto in seguito. Si sentiva spesso
frustrata, pensava poco a se stessa.
E l’insensibilità di James peggiorava
le cose. Lui la paragonava
continuamente alla sorella Grace,
ormai più che ventenne e al
college,
quello
che
aveva
frequentato lui, ovviamente: stava
per laurearsi col massimo dei voti, e
con la lode. Le ripeteva che Grace
seguiva anche lezioni di latino e di
retorica
per
la
successiva
specializzazione in diritto, a cui si
era già iscritta.
All’inizio gli errori di Mia si
limitavano alla normale indisciplina
degli adolescenti: disturbare in
classe, non finire i compiti per casa.
Non invitava quasi mai le compagne
in casa. Quando venivano degli
amici o delle amiche a prenderla,
andava ad aspettarli sul vialetto e,
se spiavo dalla finestra, mi
inchiodava subito: «Cosa fai?»,
diceva con un tono di rimprovero
che una volta apparteneva solo a
Grace.
Quando la sorprendemmo a uscire
di casa nel cuore della notte, aveva
quindici anni. Era la prima di una
delle sue tante fughe. Aveva
dimenticato di staccare il sistema
d’allarme, per cui era scoppiato il
finimondo proprio mentre se la
dava a gambe.
«È una delinquente minorenne»,
disse James.
«È una ragazzina», corressi,
osservandola mentre saliva su
un’auto parcheggiata alla fine del
vialetto, senza premurarmi né del
sistema d’allarme che fischiava a
tutto spiano, né di guardare James
che malediva il congegno perché
aveva scordato la password.
Per mio marito, l’apparenza è
tutto. Da sempre. Era sempre
consapevole di dover difendere la
propria
reputazione,
pensava
costantemente a quello che la
gente avrebbe detto o creduto di
lui. Sua moglie doveva essere un
trofeo da mostrare, me lo confessò
ancor prima delle nozze e, in un
modo perverso, ero contenta di
svolgere quel ruolo. Non chiesi cosa
significasse il fatto che avesse
smesso di invitarmi alle cene coi
colleghi, o che ritenesse ormai
superfluo
che
le
bimbe
partecipassero alle feste di Natale
del suo ufficio. E poi, quando venne
eletto giudice, fu come se non
esistessimo più.
Si può quindi immaginare come si
fosse sentito James quando la
polizia locale aveva riportato a casa
da una festa una sedicenne ubriaca
e scarmigliata: lui se ne stava in
attesa davanti all’ingresso, in
vestaglia, costretto a implorare gli
agenti di non far trapelare niente.
Poi la sgridò nonostante lei stesse
ancora
male:
non
riusciva
nemmeno a tenersi la testa sulla
tazza del bagno per vomitare.
Sbraitava perché i cronisti famelici
amavano tanto sguazzare in questa
melma: «Figlia adolescente del
giudice Dennett denunciata per
consumo
illegale
di
alcol»,
avrebbero titolato.
Naturalmente, la cosa non finì sui
giornali. Lui si adoperò nel modo
giusto, fece le mosse corrette.
Adottò ogni trucco per assicurarsi
che il nome di Mia non comparisse
mai sulla stampa locale, neanche in
futuro. Lo stesso accadde quando
lei,
insieme
ai
suoi
amici
scalmanati, cercò di rubare una
bottiglia di tequila dalla rivendita di
liquori, o quando insieme agli stessi
disgraziati venne sorpresa a fumare
erba, dentro un’auto parcheggiata
dietro un centro commerciale dalle
parti di Green Bay Road.
«È un’adolescente», dicevo a mio
marito. «I ragazzi fanno di queste
cose».
Eppure, nemmeno io ne ero tanto
sicura. Malgrado tutte le sue
difficoltà, Grace non era mai stata
nei guai con la legge. Niente,
neanche una multa per eccesso di
velocità, ed ecco qui Mia, in stato di
fermo in una cella della stazione di
polizia locale, mentre James
pregava o ricattava le autorità
giudiziarie
affinché
non
la
incriminassero o cancellassero le
accuse dagli schedari. Metteva a
tacere con il denaro perfino gli altri
genitori purché non menzionassero
ai loro figli, altrettanto complicati,
le disavventure di Mia.
Però non era mai preoccupato per
lei, per le motivazioni del suo
disagio
e
quindi
del
suo
comportamento
scorretto.
Si
premurava solo per gli effetti che le
azioni di Mia avrebbero causato a
lui.
Non gli passava per l’anticamerca
del cervello che, se le avesse fatto
pagare le conseguenze delle sue
azioni, come si fa con qualsiasi
f i g l i o normale, forse sarebbero
cessate le sue intemperanze. Così,
lei poteva fare tutto quel che le
pareva senza pagarne il fio. Le
malefatte di Mia erano la cosa che
mandava più di tutto in bestia
James: per la prima volta, lei
riusciva ad attirare le attenzioni
paterne.
«Origliavo
le
conversazioni
telefoniche di Mia con le amiche e
venivo così a sapere che rubavano
gli orecchini nei negozietti, come se
non potessimo permetterci di
pagarli. Dopo che prendeva in
prestito la mia auto per un qualsiasi
motivo, l’abitacolo puzzava di fumo
di sigarette, ma ovviamente mia
figlia non fumava. E neanche
beveva…».
«Signora Dennett», mi interrompe
l’ispettore.
«Gli
adolescenti
rientrano in una categoria speciale.
Cedono alle pressioni degli amici
per conformarsi al gruppo. Sfidano i
genitori. Rimbeccano alle sgridate,
fanno esperienza di tutto quello su
cui possono mettere le mani. Noi
dobbiamo solo fare in modo che
sopravvivano a questo periodo
delicato, e senza riportarne danni
permanenti. Ciò che mi racconta di
Mia non è affatto anomalo»,
conclude.
Io ho la sensazione che direbbe
qualsiasi cosa pur di farmi stare
meglio.
«Le potrei confidare le tantissime
stupidaggini che facevo a sedicidiciassette anni», ammette. Le
snocciola una dopo l’altra: sbronze,
tamponamenti, falsificazione degli
esami, droghe leggere, quasi
sussurra nella cornetta del telefono.
«Perfino le brave ragazze hanno la
tentazione
di
rubacchiare
gli
orecchini in un centro commerciale.
Gli adolescenti ritengono di essere
invincibili e che non possa
succedere niente di male. Solo più
avanti con gli anni si accorgono che
le cose brutte accadono veramente.
I
figli
senza
difetti,
quelli
impeccabili»,
aggiunge,
«mi
preoccupano molto di più».
Gli spiego che Mia è cambiata da
quando aveva diciassette anni,
tento
disperatamente
di
presentargliela come qualcosa di
più che una minorenne con
tendenze
delinquenziali.
«È
maturata», e c’è dell’altro. Lei è
letteralmente sbocciata, è diventata
una giovane e bellissima donna. Il
tipo di donna che, da bambina,
avrei tanto voluto essere io.
«Sono certo che è così», dice, ma
non posso finirla lì.
«Ci saranno stati un paio d’anni,
forse tre, di pericolose imprudenze,
poi però lei invertì la rotta. Aveva
visto la luce in fondo al tunnel:
presto
avrebbe
compiuto
il
diciottesimo anno di età e avrebbe
potuto liberarsi di noi, una volta per
tutte. Sapeva ciò cosa voleva.
Aveva iniziato a fare progetti. Un
posto in cui vivere da sola, la
libertà. E poi voleva aiutare il
prossimo».
«Gli adolescenti», dice, e mi
riduce al silenzio perché, senza
averla mai vista, vedo che conosce
mia figlia meglio di me. «Quelli che
si cacciano nei guai e si sentono
incompresi. Come lei».
«Sì», mormoro piano, anche se
Mia non me l’ha mai detto chiaro e
tondo. Non ci siamo mai sedute a
parlare del modo in cui sarebbe
entrata in relazione coi ragazzi, o
del modo in cui lei, più di ogni altra,
avrebbe saputo capire le difficoltà
dei giovani, con le loro emozioni
contraddittorie; di quanto fosse
difficile, per loro, tornare a galla e
respirare. Non l’ho mai capito. Per
me, era una cosa superficiale, e non
riuscivo a immaginare come lei
avrebbe potuto comunicare con
loro. Questa non è una situazione
definita: bianco, o nero; ricchi, o
poveri. È implicata la natura
umana.
«James non si è mai dimenticato
l’immagine della figlia rinchiusa
nella guardina della stazione di
polizia. Per lui, contano tutti gli anni
che ha combattuto per impedire che
il nome di Mia comparisse sulle
pagine dei giornali scandalistici, e si
arrovella ancora per la delusione
che lei gli ha dato. Mia non voleva
ascoltarlo. Rifiutava di credere che
la laurea in giurisprudenza fosse la
ciliegina sulla torta della sua vita.
Per James, lei era un peso. Mio
marito non ha mai superato questa
fase, non ha mai accettato che
diventasse la donna forte e
indipendente che è oggi. Per lui,
è…».
«Una
casinista»,
l’ispettore
termina la mia frase in modo
appropriato, e gli sono grata che sia
stato lui a pronunciare quella
parola.
«Sì».
Ripenso a quando avevo diciotto
anni, alle mie emozioni che
contraddicevano
il
buonsenso.
Come sarei finita se non mi fossi
recata in quel pub irlandese del
Loop di Chicago, in quella serata di
luglio del 1969? Cosa mi sarebbe
successo se James non fosse stato
lì, se non avesse disquisito sulle
leggi antitrust, se non avessi bevuto
fino all’ultimo le sue parole, se non
fossi rimasta ammaliata quando
aveva girato lo sguardo verso di
me? Non solo per la Federal Trade
Commission, le fusioni e le
acquisizioni industriali, ma anche
per la maniera che aveva di
trasformare argomenti così aridi in
qualcosa di eccitante, facendo
brillare i suoi occhi scuri dentro i
miei?
Se l’istinto materno non mi
convincesse altrimenti, ci sarebbe
una parte di me che sarebbe
disposta a condividere il punto di
vista di James.
Ma non lo ammetterei mai.
Il mio intuito mi dice al contrario
che a mia figlia è accaduto
qualcosa. E qualcosa
sento urlare dentro
sveglia nel cuore
qualcosa è accaduto a
di brutto. Lo
di me, mi
della notte:
Mia.
Colin
Prima
Le dico che usciamo. È la prima
volta che la porto fuori dal capanno.
«Ci servono dei rami per il fuoco»,
dico. Presto nevicherà e verranno
tutti sepolti sotto la neve.
«Ma abbiamo la legna da ardere»,
dice lei. È seduta a gambe
incrociate sulla sedia, di fianco alla
finestra. Fissa le nuvole grigie,
basse e opprimenti, che sono
sospese al di sopra degli alberi.
Non la guardo. «Ne abbiamo
bisogno di più, per l’inverno».
Si alza lentamente, stirandosi.
«Hai intenzione di tenermi qui così
a lungo?», chiede, infilandosi dalla
testa il brutto felpone rossiccio. Non
le do la soddisfazione di una
risposta. Uscendo, mi metto proprio
dietro di lei. Lascio che la porta a
zanzariera sbatta quando si chiude.
Mi precede scendendo i gradini.
Comincia a raccogliere i bastoncini
da terra, ce ne sono a tonnellate,
tutti i rametti caduti dagli alberi
durante il maltempo. Sono bagnati.
Mescolati al fango e alle foglie
marce che coprono il terreno. Lei li
ammucchia in fondo ai gradini e si
pulisce le mani sui pantaloni.
Abbiamo i vestiti stesi ad
asciugare fuori. Li laviamo nella
vasca da bagno e poi li stendiamo
lì. Usiamo un pezzo di sapone,
oppure
niente.
Quando
li
indossiamo di nuovo, sono freddi e
irrigiditi, a volte ancora umidi.
Sul lago incombe una nebbia
densa, che poi si sposta verso il
capanno. Una giornata deprimente.
Il cielo è pieno di nuvole gonfie di
pioggia.
Presto
comincerà
a
piovere. Le dico di sbrigarsi. Mi
chiedo quanto dureranno gli arbusti.
Dentro il capanno abbiamo già
tanta legna da bruciare addossata a
una parete. Uscivo ogni giorno con
l’ascia, spaccavo i tronchi caduti e
tagliavo i rami più grossi. Però ho
voluto che raccogliessimo anche
questi legnetti piccoli, per non
annoiarci. Passiamo meglio il tempo
così. Lei non se ne lamenta di
certo: l’aria è fresca, e ne gode il
più possibile. Non sa se avrà mai
un’altra occasione simile.
La osservo mentre raccoglie i
rametti. Li posa su un braccio
mentre si piega per arraffarne
ancora dal terreno con l’altro.
Esegue un movimento rapido e
aggraziato. Ha legato i capelli, che
le cadono su una spalla, per avere
sempre la vista libera. Raccoglie
questa roba finché non riesce più a
tenerla su un braccio, allora si
ferma per riprendere fiato. Si stira,
tende la schiena ad arco. Poi si
abbassa di nuovo. Quando il carico
è pesante, lo ammucchia davanti al
capanno. Evita di stabilire un
contatto visivo con me, anche se
certamente sa che la osservo. Ogni
volta che scarica un mucchio, si
avventura sempre più lontano, e i
suoi occhi azzurri sono attirati dal
lago. La libertà.
Inizia a piovere. Uno scroscio
torrenziale: prima niente, dopo un
minuto siamo inzuppati. La ragazza
torna di corsa dall’estremità del
nostro terreno, con una fascina tra
le braccia. L’avevo lasciata libera di
andarci purché lavorasse. Le tenevo
gli occhi addosso, accertandomi di
poterla riprendere se ce ne fosse
stato bisogno. Non credo che farà di
nuovo la stupida.
Sto già cominciando a portare
questa legna su per i gradini e
dentro il capanno. La ammucchio di
fianco alla stufa. Lei mi segue
all’interno, scarica l’ultima fascina e
poi scende ancora gli scalini. Non
mi aspettavo questa collaborazione.
Lavora più lentamente di me. Le fa
ancora un po’ male la caviglia, ma è
da ieri che non la vedo zoppicare. Ci
sfioriamo sui gradini ed è quasi
senza pensarci che mi viene da dirle
«scusa».
Lei non risponde.
Si cambia i vestiti e li appende
all’asta delle tende, in soggiorno. Io
avevo già raccolto i panni stesi
all’esterno e li avevo appoggiati
dentro. Col tempo, li asciugherà il
fuoco, se non altro. Il capanno
gronda
umidità.
Fuori,
la
temperatura sarà scesa di dieci
gradi. Rientrando, abbiamo lasciato
impronte sporche e bagnate. I
rametti stillano acqua piovana sul
pavimento di legno. Le dico di
trovare uno straccio nel bagno e di
pulire il più possibile. Il resto si
asciugherà, prima o poi.
Preparo la cena. Lei si dirige in
silenzio verso la sua sedia e scruta
la pioggia dalla finestra. Le gocce
tamburellano sul tetto, un rumore
continuo. Un paio dei miei pantaloni
appesi all’asta delle tende le rovina
il panorama. Il mondo è soffocato
dalla nebbia, prevale l’indistinto.
Mi cade di mano una tazza e lei
ha un sussulto, mi squadra con
occhi accusatori.
Faccio rumore, lo so. Non tento
nemmeno di fare piano. Le scodelle
sbattono sul piano di lavoro, chiudo
gli sportelli con forza. Ho il passo
pesante. Mi cadono di mano i
cucchiai, che ticchettano sul piano
di lavoro arancione scuro. Sulla
stufa comincia a bollire la pentola,
da cui esce dell’acqua.
Scende la sera. Consumiamo il
pasto in silenzio, grati per il rumore
della pioggia. Guardo dalla finestra
il buio che conquista il cielo.
Accendo la lucina e inizio ad
alimentare il fuoco coi rametti. Lei
mi controlla di sottecchi, mi chiedo
cosa possa vedere.
All’improvviso sento un rumore
all’esterno e balzo in piedi,
intimandole di fare silenzio, benché
lei non abbia aperto bocca. Prendo
la pistola e la stringo forte in mano.
Sbircio fuori dalla finestra e noto
che il vento ha fatto cadere il
barbecue: che sollievo!
Lei mi fissa, guarda come sposto
le tende per controllare il prato, per
maggiore
sicurezza.
Potrebbe
esserci qualcuno. Richiudo le tende
e mi rilasso. Lei mi osserva ancora,
nota sul mio maglione una macchia
che sta lì da due giorni, i peli scuri
sul dorso delle mie mani, la
maniera disinvolta con cui tengo la
pistola, come se non avesse la
capacità di metter fine alla vita di
una persona.
La guardo e dico: «Cosa c’è?». È
seduta in modo scomposto di fianco
alla finestra, come al solito. Ha i
capelli lunghi, ondulati. Stanno
guarendo le abrasioni sul volto,
però nei suoi occhi permane la
paura. Ancora sente l’arma che le
avevo premuto contro la tempia e
sa, mentre mi fissa da tre metri di
distanza, che lo rifarò, è solo
questione di tempo.
«Cosa stiamo facendo qui?»,
chiede. Una frase intenzionale,
pronunciata con forza. Finalmente
ha avuto il coraggio di domandarlo.
Voleva farlo dal momento in cui
siamo arrivati.
Il mio sospiro è lungo, esasperato.
«Non preoccuparti», dico dopo una
pausa. Una risposta spiccia ed
estemporanea per metterla a
tacere.
Invece non tace: «Cosa vuoi da
me?».
Il mio volto è ingessato in
un’espressione impassibile. Non
voglio aver niente a che fare con
lei. «Niente», rispondo. Attizzo il
fuoco spostando i legnetti. Non la
guardo nemmeno.
«Allora lasciami andare».
«Non posso». Mi tolgo una maglia
e la poso ai miei piedi sul
pavimento, di fianco alla pistola. Il
fuoco riscalda il capanno, almeno
qui. La stanza da letto è fredda. Di
solito, lei s’infila sotto le coperte
con maglione, pantaloni termici e
calzini, eppure rabbrividisce a lungo
prima di addormentarsi.
Lo so perché mi sono messo a
osservarla.
Mi chiede di nuovo cosa voglia da
lei. È ovvio che voglio qualcosa,
sostiene. Perché mai l’avrei portata
via dal mio appartamento per
tenerla lì?
«Mi avevano commissionato un
lavoro. Rapirti e lasciarti dalle parti
di
Lower
Wacker.
Dovevo
consegnarti a qualcuno. Tutto qua.
Poi avrei dovuto sparire».
La Lower Wacker Drive è il tratto
finale di una strada su due livelli,
nel centro storico di Chicago, e ha
una galleria talmente lunga che non
saprei dire quanto.
Glielo vedo negli occhi, lo
sconcerto. Distoglie lo sguardo,
fissa dalla finestra il buio della
notte.
Ci
sono
parole
che
non
co m pre nde : lavoro, consegnarti,
sparire. Per lei era più realistico
pensare che tutto questo fosse
successo per caso. Che un pazzo
l’avesse sequestrata così, per
scherzo.
Dice che l’unica cosa che sa della
Lower Wacker è che era solita
andarci con la sorella quando erano
ragazzine, le piaceva vederla
illuminata da luci verdi fluorescenti,
che adesso non ci sono più. È il
primo ricordo personale che mi
racconta.
«Non capisco», dice, aspettando
disperata una risposta.
«Non conosco tutti i dettagli.
Riscatto», dico. Mi sto arrabbiando,
non ne voglio discutere.
«Allora perché siamo qui?». I suoi
occhi implorano una spiegazione. Mi
guarda
con
un
misto
di
disorientamento, frustrazione e
presunzione.
Una domanda maledettamente
azzeccata, penso.
Avevo controllato le notizie su di
lei online, prima di catturarla. So
qualcosina sul suo conto, sebbene
lei ritenga che non sappia un
accidente. Ho visto le foto della sua
famiglia, mondani come sono coi
loro abiti firmati, ricchi e incazzati
allo stesso tempo. So quando il
padre era diventato giudice. So
quand’è che si deve ripresentare
alle elezioni. Ho visto dei filmati su
di lui, diffusi in rete. So che è uno
stronzo.
Si assomigliano tutti in famiglia.
Le voglio dire di lasciar perdere.
Di chiudere il becco. Invece dico:
«Ho cambiato idea. Nessuno sa che
siamo qui. Se lo sapessero, ci
ucciderebbero. Tutti e due».
Si alza e prende a gironzolare
nella stanza. Cammina a passi
leggeri, tiene le braccia avvolte al
corpo.
«Chi?», mi chiede. Quelle parole,
«ucciderebbero, tutti e due», le
tolgono il respiro. La pioggia cade,
se possibile, ancora più forte. Lei si
piega per udire bene le mie parole.
Sono in piedi sul pavimento di legno
del capanno ed evito il suo sguardo
avido di risposte.
«Non preoccuparti», dico.
«Chi?», insiste.
Allora le riferisco il nome di
Dalmar. Più che altro per indurla al
silenzio. Le racconto del giorno in
cui lui mi aveva scovato e dato una
foto di lei. Mi aveva detto di trovare
la ragazza e consegnargliela.
Lei mi volta le spalle e mi lancia in
tono accusatorio: «Allora perché
non l’hai fatto?».
Vedo l’odio che la pervade tutta,
dalla testa ai piedi, e penso che
avrei dovuto farlo. Avrei dovuto
cederla a Dalmar ed eclissarmi. A
quest’ora sarei a casa, pieno di
soldi con cui saldare conti e
bollette, per il vitto e i debiti. Non
dovrei premurarmi di quel che ho
lasciato dietro di me, di come le
cose stanno andando avanti, a
casa, del modo in cui lei potrà
sopravvivere, e di quello con cui la
avvicinerò prima di scappare. Mi
ritrovo a pensare continuamente a
queste cose. Mi tengono sveglio
tutte le notti. Quando non sono in
ansia per quel che mi faranno
Dalmar o la polizia, penso a lei, da
sola in quella vecchia casa. Se
avessi consegnato la ragazza,
com’era mio dovere, tutto questo
sarebbe già finito. L’unica cosa di
cui dovrei preoccuparmi sarebbero i
poliziotti alle mie calcagna. Ma non
è una novità.
Non rispondo alla sua sciocca
domanda. È qualcosa che lei non ha
bisogno di sapere. Non ha bisogno
di sapere perché ho cambiato idea,
o perché l’ho portata qui.
Per contro, le racconto ciò che so
su Dalmar. Non so perché lo faccio.
Forse perché sappia che non sto
scherzando. Così, avrà paura.
Capirà che stare lì con me è
l’alternativa migliore, la sola
alternativa.
Gran parte di quello che so su
Dalmar
sono
informazioni
di
seconda mano. Voci secondo le
quali lo si ritiene un ex bambinosoldato, uno di quelli che, in Africa,
subivano il lavaggio del cervello e
venivano indotti a uccidere. Si
racconta che avesse picchiato un
uomo d’affari in un magazzino
abbandonato, dalle parti del West
Side, perché non gli ripagava un
debito. Che avesse ucciso un
ragazzino di nove o dieci anni
perché i genitori non erano in grado
di versare il riscatto; dopo averlo
freddato, aveva spedito ai genitori
le foto per girare il coltello nella
piaga, per provare un piacere
perverso.
«Solo bugie», dice lei. Però ha il
terrore negli occhi. Sa che non
mento.
«Come fai a esserne certa?»,
chiedo. «Hai un’idea di quel che ti
avrebbe fatto se ti avesse messo le
mani addosso?».
Torture e violenza carnale sono le
cose che mi vengono in mente. Lui
ha una tana a Lawndale, un tugurio
a South Homan dove sono stato un
paio di volte. È lì che immagino
avrebbe rinchiuso la ragazza, in
quella casa di mattoni con la
scalinata rotta che conduce al
portone. Un tappeto pieno di
macchie.
Le
prese
degli
elettrodomestici
staccate
e
inservibili
perché
all’ultimo
proprietario, insolvente, era stato
tolto il diritto di riscatto dell’ipoteca.
Infiltrazioni d’acqua dal soffitto,
pareti ammuffite. I vetri infranti
delle finestre rimpiazzati da pannelli
di plastica. Lei, al centro di una
stanza, legata e imbavagliata. In
attesa, solo in attesa. Mentre
Dalmar e i suoi scagnozzi si
sarebbero divertiti con lei. E anche
dopo il pagamento del riscatto da
parte del giudice, immagino che
Dalmar avrebbe detto a uno dei
suoi di ammazzarla. Eliminare le
prove. Di scaricarla in un cassonetto
in città, magari nel fiume. Le
racconto queste cose e poi dico:
«Una volta entrata in questo tipo di
casini, non c’è verso di uscirne».
Lei non apre bocca. Non fa parola
di Dalmar, sebbene io sappia che
pensa a lui. So che ha stampata in
testa la sua immagine mentre spara
a un bambino di nove anni.
Gabe
Prima
Il sergente mi dà il via libera per
far trasmettere l’identikit del
rapitore nei telegiornali del venerdì
sera. Cominciano a pervenire
informazioni. Tanta gente chiama il
numero d’emergenza per dirci di
conoscere il nostro uomo. Solo che
per alcuni si chiama Tom e per altri
Steve. Una certa signora è convinta
di essere stata sulla metropolitana
con lui la sera prima, ma non può
giurarci (C’era una donna insieme a
lui? No, era solo). Un altro tizio
sostiene che il ricercato lavorava
come custode nell’edificio di State
Street, ritiene che sia di origine
ispanica, mentre io devo ribadirgli
che non lo è. Ho delegato la
gestione di questa linea rossa a un
paio di reclute: devono passare al
setaccio le informazioni attendibili
da quelle che porterebbero in un
vicolo cieco. La mattina dopo, il
succo della questione si riduce a
questo: o nessuno ha idea di chi sia
l’uomo dell’identikit, oppure lo si
conosce sotto un numero tale di
falsi nomi e pseudonimi da
costringere una caterva di poliziotti
a ricerche inutili per il resto
dell’anno. Rendermene conto mi fa
impazzire. Il nostro individuo
potrebbe essere più esperto di
quanto credessi.
Rifletto a lungo su di lui. Riesco a
immaginare molte cose sul suo
conto senza averlo mai conosciuto,
senza nemmeno sapere il suo
nome. Non ci sono dei fattori precisi
che inducono una persona a darsi a
comportamenti
violenti
o
antisociali. Spesso è l’insieme delle
circostanze. Sono certo che le sue
condizioni socioeconomiche non lo
collocano nello stesso ambiente
della famiglia Dennett. Immagino
che non abbia mai frequentato
l’università, o che abbia avuto
problemi a trovare un lavoro e
tenerselo stretto. Suppongo che, da
piccolo, non abbia avuto legami
forti con molti adulti. Forse non ne
ha avuto nessuno. Probabilmente si
sentiva alienato. Forse i suoi
genitori non lo consideravano e fra
loro c’erano problemi coniugali.
Potrebbe anche aver subìto degli
abusi. Forse non si dava abbastanza
peso alla sua istruzione, e nella sua
famiglia mancava l’affetto. Nessuno
gli rimboccava le coperte prima di
dormire, né gli leggeva dei libri,
forse.
Presumibilmente
non
andavano a messa, o non erano
religiosi.
Non è detto che, da piccolo, fosse
crudele con gli animali domestici.
Magari era iperattivo e faticava a
concentrarsi. Probabilmente era
depresso, violento o antisociale.
Forse si sentiva alla deriva,
incapace di controllarsi. Non ha mai
imparato a essere flessibile. Non sa
cosa
siano
l’empatia
e
la
comprensione. Non sa
come
risolvere una divergenza senza
sferrare un pugno o puntare una
pistola.
Ho seguito dei corsi di sociologia e
conosciuto un numero sufficiente di
detenuti che coincidono tutti con
queste caratteristiche particolari.
Non è detto che il rapitore assuma
stupefacenti, però potrebbe averlo
fatto. Forse non è cresciuto nelle
case popolari, o forse sì. Non è
scontato che faccia parte di una
banda criminale, comunque non lo
escluderei del tutto. E nessuno può
dire se i suoi genitori possedessero
un’arma.
Presumo tuttavia che non sia mai
stato molto coccolato. A tavola, la
sera, prima di consumare il pasto,
la sua famiglia non pregava mai.
Non facevano scampagnate, né si
stringevano tutti insieme sul divano
per guardare un film in TV.
Suppongo che il padre non lo abbia
mai aiutato a fare i compiti di
aritmetica. La mia ipotesi è che
almeno una volta uno dei genitori si
sia dimenticato di andarlo a
prendere all’uscita della scuola.
Immagino che, a un certo punto
della sua vita, nessuno facesse più
attenzione a quello che guardava
alla televisione. E sono certo che
qualcuno di cui si fidava, che
avrebbe dovuto sapersi comportare
meglio, lo abbia schiaffeggiato.
Faccio zapping: i Bulls stanno
facendo schifo, Illinois ha appena
perso coi Badgers5. Una pessima
serata televisiva per me. Prima di
fermarmi su It’s the Great Pumpkin,
Charlie Brown, ripeto un altro giro
sui circa duecento canali del mio
apparecchio (chi ha detto che i soldi
non fanno la felicità?): per mia
grande fortuna, m’imbatto nella
faccia del giudice Dennett che tiene
una conferenza stampa all’interno
del telegiornale delle sei. «Che
cazzo?», sbotto prima di alzare il
volume per sentire bene. Di norma
accanto a lui ci dovrebbe essere
l’ispettore incaricato delle indagini –
verrebbe da pensare – che se non
altro avrebbe dovuto essere al
corrente della conferenza stampa.
Invece, al mio posto c’è il sergente,
amicone del giudice da quando
questi aveva lavorato nell’ufficio del
procuratore
distrettuale,
molto
prima che si dedicasse al privato.
Dev’essere bello avere amici in
posti altolocati. L’insigne Eve
compare a fianco del marito, gli
tiene la manina (sono sicuro che sia
una cosa preparata, perché non
avevo mai notato gesti affettuosi
tra loro); Grace, accanto alla
madre, ammicca alle telecamere,
come se fosse l’occasione per il suo
debutto da attrice. Il giudice
sembra veramente addolorato per
la scomparsa della figlia, e non c’è
dubbio che qualche avvocato o
consigliere
politico
gli
abbia
suggerito cosa dire o fare nei più
piccoli particolari: per esempio,
tenere la moglie per mano, o
cadere in qualche lapsus volontario
per poi fingere di tornare padrone
di sé, sebbene io non lo abbia
ancora mai visto perdere la calma.
Un giornalista tenta di rivolgere una
domanda, ma gli negano il
permesso, e il portavoce della
famiglia
interviene
per
accompagnare dal marciapiede
all’interno della loro dimora il
giudice, la moglie e la figlia. Il
sergente resta in onda abbastanza
a lungo da annunciare a tutto il
mondo di aver sguinzagliato i suoi
detective migliori affinché risolvano
il caso, come se questo dovesse
rabbonirmi, prima che la scena torni
in uno studio televisivo di Michigan
Avenue.
Qui
un
mezzobusto
ricapitola le vicende del rapimento
di Mia, mostrando per un attimo
sullo schermo anche l’identikit
dell’uomo
che
cerchiamo.
Dopodiché si passa al devastante
incendio di un grattacielo nel South
Side.
5
Nel primo caso si tratta di baseball, nel
secondo di football. (n.d.t.)
Colin
Prima
Mi rincresce farlo, ma non c’è altro
modo. Non mi fido di lei.
Aspetto che sia entrata nel
gabinetto e poi la seguo con una
corda. Avevo anche pensato al
nastro isolante sottratto a Grand
Marais, ma non ce n’è bisogno. Non
c’è nessuno nei dintorni che possa
udire i suoi strilli.
«Cosa stai facendo?».
È davanti al lavandino che si
strofina i denti con un dito. Col
terrore negli occhi, mi guarda
entrare nel bagno con la corda,
senza che mi abbia chiamato.
Prova a fuggire, ma la intrappolo
fra le mie braccia. È semplice. In
questi giorni è fragile, non tenta
nemmeno di opporsi. «Non ci sono
altre maniere», dico, e lei dà in
escandescenze, mi accusa di essere
bugiardo, un testa di cazzo. Le lego
la corda ai polsi, poi la fisso alla
base del lavandino. Roba da boyscout. Non uscirà mai di lì.
Prima di andarmene, mi assicuro
di chiudere la porta d’ingresso a
chiave.
Ho imparato gran parte di quel
che so negli scout, da ragazzino. Il
maestro di quarta era un capo
scout,
nel
periodo
in
cui
m’importava ancora veramente di
quello che gli insegnanti pensavano
di me.
Non ricordo neppure quante
medaglie mi sono guadagnato: tiro
con l’arco, escursionismo, canoa,
campeggio, pesca, tecniche di
pronto soccorso. Ho imparato a
sparare col fucile, a capire quando
c’è brutto tempo in arrivo, a
sopravvivere in una bufera di neve,
ad accendere il fuoco, a fare i nodi
(nodo sabaudo, nodo inglese, nodo
di sicurezza). Non si sa mai quando
possano tornare utili queste cose.
Avevo quattordici anni, scappai di
casa col mio amico Jack Gorsky, un
ragazzo polacco che abitava in
fondo alla via. Siamo stati
irrintracciabili
per
tre
giorni.
Eravamo riusciti ad arrivare fino a
Kokomo, poi i poliziotti ci hanno
trovato accampati in un cimitero
abbandonato, tra tombe secolari. Ci
eravamo ubriacati con la bottiglia di
vodka della signora Gorsky che Jack
aveva messo nel suo zaino prima di
uscire di casa. Era marzo. Avevamo
acceso un fuoco solo con la legna. Il
mio amico era inciampato su una
pietra e si era sbucciato il
ginocchio. Io glielo avevo medicato
con le garze e il contenuto della
cassetta di pronto soccorso che mi
ero portato dietro.
Una volta provai ad andare a
caccia con Jack Gorsky e suo padre.
Avevo dormito a casa loro, e ci
svegliammo alle cinque di mattina,
ci vestimmo e ci inoltrammo nei
boschi. Loro erano cacciatori
professionisti con tutto l’occorrente:
fucili e balestre, binocoli, visori
notturni, munizioni. Io ero un
dilettante, mi ero messo un
maglione verde bosco che avevo
acquistato da Wal-Mart il giorno
prima. Jack e il padre avevano le
tute mimetiche che il signor Gorsky
aveva riportato dalla guerra del
Vietnam. Lui individuò un cervo
dalla coda bianca, un animale
splendido, un maschio con palchi
ramificati da cui non riuscivo a
staccare gli occhi. Era la prima volta
che cacciavo. Il signor Gorsky
pensava che toccasse a me sparare
il primo colpo. Così mi accovacciai
per mettermi in posizione e presi di
mira il cervo, fissando quegli occhi
neri che mi sfidavano a sparare.
«Prenditi il tuo tempo, Colin»,
disse il padre. Ero certo che
vedesse quanto mi tremava il
braccio, come se fossi una
femminuccia. «Attenzione!».
Mancai di proposito il bersaglio,
spaventando il bellissimo esemplare
e facendolo fuggire.
Il signor Gorsky disse che
accadeva a tutti così, che la
prossima volta sarei stato più
fortunato. Jack mi dette del
finocchio. Poi fu il suo turno. Vidi il
mio amico sparare a un cerbiatto
proprio in mezzo agli occhi,
dopodiché mamma cerva guardarlo
morire.
La volta seguente che mi
invitarono a caccia dissi che ero
malato. Qualche tempo dopo, non
molto, Jack venne chiuso in
riformatorio
perché
aveva
minacciato un professore con la
pistola del padre.
Sto percorrendo la County Line
Road, dopo aver superato la Trout
Lake Road, quando me ne rendo
conto: potrei proseguire e non
tornare indietro. Oltre Grand
Marais, via dal Minnesota, fino al
Rio Grande. La ragazza è legata,
non c’è verso che possa scappare.
Non può chiamare la polizia e
tradirmi. Anche se riuscisse a
slegarsi, cosa impossibile, le ci
vorrebbero ore per raggiungere a
piedi un posto civile. Nel frattempo,
io sarei già in South Dakota, o da
qualche parte nel Nebraska. La
polizia diramerebbe un «avviso a
tutte le unità», ma tutto quello che
la ragazza sa di me è che dovrei
chiamarmi Owen, per cui ho buone
possibilità di cavarmela, a meno
che non si sia stampata in mente il
numero di targa. Mi crogiolo in
quest’idea: abbandonare lo schifoso
capanno e scomparire. Eppure, ci
sono
tantissime
cose
che
potrebbero
andare
storte.
È
probabile che la polizia ormai
sappia che sono con lei. Forse
hanno scoperto il mio nome. Forse
hanno già diramato davvero un
avviso a tutte le loro unità sul mio
conto. Forse lo stesso Dalmar ha
già fatto una soffiata alle autorità
per vendicarsi.
Ma non sono queste le idee che
mi trattengono dal filarmela. Vedo
la ragazza legata al lavandino del
cesso, in una zona disabitata, per
tutta la bassa stagione. Non la
troverebbe nessuno. Se non dopo
essere morta di fame. Se non a
primavera, al ritorno dei turisti,
attirati verso il capanno dall’odore
della putrefazione.
Ecco cosa mi tiene in carreggiata.
Uno dei motivi che mi impediscono
di darci un taglio e svignarmela,
sebbene ne sia tentato. E forse ne
abbia bisogno. Anche se so che
qualsiasi giorno di permanenza in
più è un ulteriore chiodo che sigilla
la mia bara.
Non so per quanto tempo sono
rimasto fuori. Sicuramente ore.
Quando torno, chiudo la porta con
forza. Mi presento sulla soglia del
bagno con un coltello. Noto che la
ragazza comincia ad avere paura,
ma non dico nulla, mi abbasso
verso di lei e taglio la corda con cui
l’avevo legata. Le allungo una mano
per aiutarla a rimettersi in piedi. Lei
mi spinge via, io perdo l’equilibrio e
sono costretto ad appoggiarmi alla
parete. Lei è malferma sulle
gambe, si passa le mani sui polsi
segnati dalla corda.
«Perché ci hai provato?», chiedo,
afferrandole le mani per guardare
meglio. Era stata accovacciata tutto
il giorno a tentare di slegarsi.
Mi colpisce più forte che può. Poca
roba. Le afferro un braccio per farla
smettere. Le faccio male, me ne
accorgo dal modo in cui si
immobilizza.
«Pensavi che ti avrei abbandonata
qui?», esclamo. La allontano da me
con decisione e dico: «La tua faccia
compare in televisione, non potevo
portarti con me».
«L’ultima volta mi hai portato».
«Adesso sei conosciutissima».
«E tu?»
«Non gliene frega un cazzo a
nessuno di dove sono».
«Sei un bugiardo».
Vado in cucina a sistemare le
cose. Le sporte di carta vuote
cadono a terra. Altra roba da
ardere. Si accorge della nuova
canna da pesca che ho appoggiato
di fianco alla porta.
«Dove sei stato?»
«A procurarmi questa roba». Sono
brusco, sto andando fuori di testa.
Caccio il cibo in scatola nella
dispensa, sbatto gli sportelli. Poi mi
fermo. Smetto di riporre le cose e
mi fermo a guardarla. Non capita
spesso. «Se avessi voluto ucciderti,
saresti già morta. Là fuori c’è un
lago che sta gelando. Non ti
ripescherebbero fino alla prossima
primavera».
Nella
caligine
pomeridiana,
guarda dalla finestra il lago gelato.
Il pensiero del suo corpo inanimato
sotto la superficie lacustre le fa
venire i brividi.
E poi lo faccio.
Prendo la pistola dall’armadietto,
lei si volta per scappare. Le
agguanto un braccio e le metto con
forza l’arma nelle mani. La cosa ci
sorprende entrambi. La sensazione
della pistola, del metallo pesante,
la immobilizza. «Prendila», insisto.
Non vuole. «Prendi la pistola», urlo.
Lei la tiene nella sue mani tremanti
e per poco non la fa cadere a terra.
Le afferro le mani e gliele stringo
attorno all’arma. La costringo a
posare l’indice sul grilletto. «Qui, lo
senti? Ecco come si fa a sparare. La
punti contro di me e fai fuoco. Credi
che ti stia mentendo? Credi che
voglia farti del male? È carica.
Prendi la mira e sparami».
Se ne sta con l’arma in mano,
imbambolata. Si sta chiedendo cosa
diavolo sia successo. La solleva per
un attimo, sente che il suo peso è
molto maggiore di quel che
credeva. La punta contro di me e io
la guardo negli occhi, sfidandola.
Spara, dài, ammazzami. Non sa
sostenere lo sguardo, le sue mani
tengono la pistola in modo incerto.
Non ha la forza dentro di sé per fare
fuoco. Lo so. Eppure, mi meraviglio.
Rimaniamo così per una ventina di
secondi, trenta forse, prima che lei
abbassi l’arma ed esca dalla stanza.
Eve
Dopo
Mi racconta il sogno che ha fatto.
La vecchia Mia non mi avrebbe
detto molto di quello che le frullava
per la testa. Ma quest’esperienza
onirica la tormenta, si tratta di un
sogno ricorrente che afferma di fare
da non so quante notti, sempre
identico, almeno a sentire lei. Si
vede seduta su una sedia da
giardino in plastica bianca, dentro
l’unico stanzone di un piccolo
capanno. La sedia è addossata alla
parete opposta rispetto alla porta
d’ingresso, e lei vi si accoccola, con
una coperta ruvida buttata sulle
gambe. Sente freddo da morire,
trema in modo incontrollabile,
sebbene
sia
profondamente
addormentata, col corpo stanco
pencolante sul bracciolo. Indossa
una brutta felpa bordeaux che ha
ricamato sul davanti una strolaga
maggiore, con le parole L’ÉTOILE DU
NORD6 cucite sotto.
Nel sogno, vede se stessa mentre
dorme. Il buio del capanno la
avvolge e la soffoca. Avverte
l’inquietudine
e
qualcos’altro,
qualcosa di più. Paura, terrore,
brutti presagi.
Sussulta quando lui le tocca un
braccio. Mi dice che la sua mano è
fredda come il ghiaccio. Sente di
avere la pistola in grembo,
appoggiata sulle gambe intirizzite,
formicolanti. È sorto il sole, che
splende dalle finestre luride; le
vecchie tende a quadri sono tirate.
Afferra l’arma, la punta contro di lui
e solleva il cane. La sua
espressione è agghiacciante. Mia
non sa niente sulle armi. Tutto ciò
che sa, dice, gliel’ha insegnato lui.
Si sente maldestra con la rivoltella
pesante nelle mani che tremano.
Però nel sogno si rende conto di
essere molto decisa: potrebbe
benissimo
sparargli.
Certo,
potrebbe mettere fine alla sua vita.
Lui è tranquillo, non si muove.
Lentamente si raddrizza, fino a
ergersi dritto davanti a lei. Appare
riposato, sebbene gli occhi mostrino
ancora un certo disagio: le
sopracciglia aggrottate, lo sguardo
cupo con cui reagisce ai suoi occhi
irremovibili. Non si è rasato, da
giorni la peluria gli cresce incolta
sul viso, ora ha barba e baffi. È
appena uscito dal letto. Ha la faccia
segnata dalle pieghe delle lenzuola
e gli occhi ancora assonnati. I
vestiti sono sgualciti perché ci ha
dormito. Si mette a una certa
distanza dalla sedia da giardino, ma
lei riesce comunque a sentire il suo
fiato mattutino.
«Chloe», la chiama con la sua
voce tranquillizzante. Lei dice che è
gentile e rassicurante, e benché
siano entrambi consapevoli che
potrebbe strapparle l’arma dalle
mani tremanti per ucciderla, non ci
prova nemmeno. «Ho preparato le
uova».
Poi si sveglia.
Secondo me, ci sono due cose che
spiccano con particolare evidenza
nel sogno: la scritta sulla felpa
(L’ÉTOILE DU NORD) e le uova.
Ovviamente oltre al fatto che Mia
(nom de plume Chloe) brandisce
un’arma. Nel pomeriggio, dopo che
mia figlia si rifugia in camera per
uno dei suoi tanti sonnellini,
accendo il mio computer, clicco su
un motore di ricerca e digito la
frase in francese che dovrei
ricordare dai tempi delle superiori
(un milione di anni fa) ma che non
rammento bene. Una delle prime
occorrenze fa riferimento alla stella
polare come motto dello Stato del
Minnesota.
Se il sogno è un ricordo, non
un’effettiva esperienza onirica, ma
la reminiscenza del tempo trascorso
in Minnesota, perché lei brandisce
una pistola? Ma soprattutto, perché
non se ne è servita per ammazzare
Colin Thatcher? Com’è andata a
finire questa vicenda? Ho bisogno di
saperlo.
Mi tranquillizzo con la congettura
che il sogno sia solo un simbolo. Mi
metto a cercare il significato dei
sogni, focalizzandomi sulle uova.
M’imbatto in un manuale di
interpretazione
onirica
e
la
definizione comincia a mettermi
sulla pista giusta. Immagino Mia in
quello stesso momento, sdraiata
nel suo letto, rannicchiata in
posizione fetale, sotto le coperte.
Mi ha detto di non sentirsi bene
quando è salita in camera; ormai
me lo ripete spesso, e lo attribuisco
allo stress e all’affaticamento di
questi ultimi mesi. Però adesso
comprendo che potrebbe esserci
dell’altro. Mi si bloccano le dita sulla
tastiera, comincio a piangere. È
davvero possibile?
Si presume che le nausee
mattutine (in gravidanza) siano
ereditarie. Io stessa ero stata male
da cani quando aspettavo le
ragazze, specie la prima volta con
Grace. Si dice che funzioni così.
Passavo giorni e notti a vomitare in
bagno, fino a quando non mi
rimaneva altro da rimettere che la
bile. Ero sempre stanca, provavo un
senso di sonnolenza mai conosciuto
prima; il solo fatto di aprire gli occhi
esauriva le mie forze. James non
capiva. Naturalmente, non avrebbe
potuto: era una cosa che nemmeno
io avrei capito, finché non ci sono
passata, alla fine sopravvivendo,
sebbene in quegli attimi desiderassi
solo morire.
Secondo
il
manuale
di
interpretazione onirica, le uova in
un sogno potrebbero indicare
qualcosa di nuovo e fragile. La vita
che prende forma.
6
La strolaga è il simbolo dello stato del
Minnesota, il cui motto è, appunto,
l’espressione francese che significa «stella
polare», o del Nord. (n.d.t.)
Colin
Prima
Mi sono svegliato presto e sono
uscito con la canna da pesca,
spingendomi fino al lago con tutta
l’attrezzatura comprata nel negozio.
Avevo speso una fortuna per
l’occorrente, aggiungendoci anche
una trivella per quando il lago si
congelerà.
Non
che
abbia
intenzione di rimanere qui tanto a
lungo.
Lei si è infilata un maglione e
viene verso il lago. Ha ancora i
capelli bagnati dopo essersi lavata,
e le punte si stanno increspando a
causa dell’aria fredda. Mentre si
avvicina, è tutto calmo. Il sole sta
sorgendo
adesso.
Sono
sovrappensiero,
cerco
di
convincermi che a casa vada tutto
bene. Tento di cancellare il senso di
colpa con una sorta di autolavaggio
del cervello: nel frigo c’è cibo a
sufficienza, lei non è ancora caduta
e non si è rotta un’anca. E proprio
mentre me ne sto persuadendo,
nella mia mente s’insinua un nuovo
timore: ho dimenticato di accendere
il riscaldamento, per cui dopo
creperà dal freddo, oppure lei ha
lasciato la porta aperta e qualche
animale potrebbe essere entrato.
Dopodiché prevale la razionalità, e
a ragione: ho effettivamente acceso
il riscaldamento, ci metto dieci
minuti per rivedermi mentre giro la
manopola sui venti gradi.
Ormai dovrebbero essere arrivati
anche i soldi, a sufficienza per
mantenerla. Almeno per un po’.
Ho portato dal capanno una sedia
da giardino e mi riposo con una
tazza di caffè appoggiata ai miei
piedi. Mentre lei si avvicina al lago,
osservo come si è vestita. I suoi
pantaloni non bastano a bloccare il
vento. Sugli alberi non ci sono più le
foglie a rallentarlo: le sferza i
capelli gelati contro la faccia, s’infila
su per le gambe dei calzoni color
cachi e giù per il collo della camicia.
Sta già tremando tutta.
Avevo acceso il riscaldamento,
naturalmente. Venti gradi.
«Cosa fai qui fuori?», chiedo. «Ti
si congeleranno le chiappe».
Tuttavia si siede in riva al lago,
senza che l’abbia invitata a farlo.
Potrei dirle di rientrare in casa, ma
taccio.
Il terreno è umido. Lei si porta le
ginocchia al petto e si abbraccia le
gambe per tenersi calda.
Non parliamo. Non ne abbiamo
bisogno. Lei è contenta solo per il
fatto di starsene all’aperto.
Il capanno manda cattivo odore,
di muffa e stantio. Penetra nel naso
perfino dopo tutti questi giorni,
quando credevamo di esserci
abituati. Dentro è altrettanto freddo
che fuori. Dobbiamo risparmiare il
più possibile la legna per l’inverno.
Fino ad allora, accendiamo la stufa
solo di notte. Durante il giorno la
temperatura all’interno precipita
verso i dieci gradi. So che lei non
sente mai caldo, sebbene si vesta
con diversi strati. In queste zone
del Nord, l’inverno è inclemente,
raggiunge livelli cui non siamo
abituati. Fra pochi giorni sarà
novembre, l’ultimo periodo di calma
prima delle bufere.
Un branco di strolaghe maggiori si
alza dalla superficie dell’acqua
diretto a Sud. Sono le ultime
rimaste
a
queste
latitudini
settentrionali: i pulcini nati la scorsa
primavera e che solo ora hanno
acquisito la forza necessaria per
completare il lungo viaggio. Gli altri
se ne sono già andati.
Scommetto che lei non ha mai
pescato. Io invece sono bravo, lo
faccio da quand’ero piccolo. Tengo
la canna ferma, il corpo immobile.
Osservo
il
galleggiante
sulla
superficie
dell’acqua.
Lei
è
abbastanza saggia da tener chiusa
la bocca. Sa che il suono della sua
voce
spaventerebbe
i
pesci,
facendoli scappare.
«Tieni», dico, tenendo la canna in
equilibrio tra le ginocchia. Mi tolgo il
giaccone impermeabile con il
cappuccio e glielo passo. «Mettitelo
prima di congelarti».
Non sa cosa dire. Non mi ringrazia
nemmeno. Non facciamo queste
cose. Infila le braccia nelle maniche
troppo ampie per lei e, dopo un
momento, smette di tremare.
Solleva il cappuccio sulla testa e si
ripara dal freddo. Io non sento
freddo. E comunque non lo
ammetterei.
Abbocca un pesce. Mi alzo in piedi
e strattono la lenza, poi comincio a
riavvolgere il filo, tirando l’aspo per
tenerlo teso. Quando l’animale
emerge dall’acqua, dimenandosi per
salvarsi la vita, lei si volta. Deposito
il pesce al suolo e osservo le sue
contorsioni prima che tiri le cuoia.
«Adesso puoi guardare», dico. «È
morto».
Ma non ce la fa. Non guarda.
Almeno fino a quando le blocco la
vista. Mi chino sul pesce e gli tolgo
l’amo dalla bocca. Poi infilo una
nuova esca e le porgo la canna.
«No, grazie», dice.
«Hai mai pescato?»
«No».
«Non sono cose che si insegnano
nell’ambiente da cui vieni».
Sa cosa penso di lei. Una ragazza
ricca e viziata. Deve ancora
dimostrarmi di essere diversa.
Mi strappa la canna di mano. Non
è avvezza a farsi dire dagli altri
cosa fare. «Sai cosa stai facendo?»,
chiedo.
«Posso immaginarlo», ribatte. Ma
non ne ha la minima idea, per cui
sono costretto ad aiutarla a lanciare
la lenza. Si mette a sedere sul
bordo del lago e aspetta. Vorrebbe
che i pesci scappassero. Mi
accomodo sulla mia sedia e prendo
un sorso di caffè ormai freddo.
Passa un po’ di tempo. Non so
quanto. Rientro per fare pipì e
prendere altro caffè. Quando torno,
lei si dice sorpresa che non l’abbia
legata a un albero. Il sole è alto,
fatica a scaldare la giornata. Non è
sufficiente.
«Ritieniti fortunata».
Dopo un po’ le chiedo di suo
padre.
All’inizio non reagisce, fissa
l’acqua stagnante. Persa tra le
lunghe ombre degli alberi sul lago e
il cinguettio degli uccelli. «Cosa vuoi
sapere?», chiede.
«Com’è fatto?», domando. Anche
se in realtà lo so. Voglio solo
sentirlo da lei.
«Non mi va di parlarne».
Restiamo in silenzio per qualche
momento. Poi è lei a romperlo.
«Mio padre è nato ricco», spiega.
«In una famiglia ricca da sempre».
Di antico lignaggio. Oggi hanno
tanti di quei soldi da non sapere
cosa farne. «Basterebbero per
sfamare una piccola nazione»,
aggiunge. Però non lo fanno, se li
tengono tutti per loro.
Mi dice che suo padre ha un
lavoro importante. Lo so. «La gente
lo conosce», precisa. «Tutto questo
lo ha fatto diventare spocchioso. E il
suo desiderio inestinguibile di
accumulare sempre più soldi lo ha
corrotto. Non dubito che possa fare
cose illecite, per esempio accettare
mazzette, ma non lo hanno mai
beccato.
Per
lui
l’immagine
personale è tutto», soggiunge.
Dopodiché si mette a raccontarmi
della sorella, Grace. Come suo
padre, è una persona vuota,
edonista e pretenziosa. La guardo e
mi pare che sua sorella non sia
l’unica ad avere questi tre difetti. È
la figlia di un ricco bastardo. La vita
le è stata servita su un piatto
d’argento, è nata con la camicia.
So di lei più cose di quante possa
immaginare.
«Pensa quello che ti pare», dice,
«ma io e mio padre siamo di una
pasta diversa». Molto diversa,
puntualizza. Mi racconta che non è
mai andata d’accordo con lui. Né da
piccola, né ora. «C’è poco dialogo. A
volte ci parliamo, ma è una finta,
un artificio. Nel caso che qualcuno
controlli».
Grace, l’avvocatessa, è la cocca
del paparino. «Lei è tutto quello che
io non sono mai stata», dice. «È
l’immagine specchiata del babbo,
che a me non ha voluto pagare
l’istruzione universitaria, mentre a
mia sorella ha assicurato sia la
laurea, sia la specializzazione in
diritto. Le ha comprato un
appartamento in centro, cosa che
avrebbe potuto pagarsi da sola. Io
invece spendo 850 dollari al mese
per l’affitto, e spesso il mio conto è
in rosso. Ho chiesto a mio padre di
fare una donazione alla scuola in
cui insegno. Avrebbe anche potuto
garantire una borsa di studio
annuale. Si è messo a ridere. E poi
Grace lavora in un grande studio
legale del centro. Ai clienti che
chiedono una consulenza fa pagare
più di 300 dollari l’ora. Nel giro di
un anno farà carriera e diventerà
ancora più importante. Lei è tutto
quello che mio padre avrebbe
desiderato che fossi anch’io».
«E tu?»
«Io sono l’altra, quella ai cui errori
doveva rimediare».
Afferma che il padre non si è mai
interessato a lei. Per esempio,
quando aveva cinque anni e si era
esibita
in
uno
spettacolino
estemporaneo. Né quando ne aveva
diciannove ed era riuscita a far
esporre il suo primo quadro in una
galleria d’arte. «In compenso, la
sola presenza di Grace lo mette di
buonumore. Lei è brillante, come
lui, ha la parlantina, i suoi discorsi
sono concreti, non tendono agli
aspetti “illusori” delle cose, come
ama dire lui. La “grande illusione”
che coltivo da quando ho deciso di
diventare
un’artista.
O
la
concezione “illusoria” della realtà
che ha mia madre».
La cosa che mi fa arrabbiare è che
lei parla come se avesse dovuto
subire tutte le ingiustizie di questo
mondo, come se la sua vita fosse
piena di durezze e delusioni. Non ha
la minima idea di cosa voglia
davvero dire
avere
sfortuna.
Ripenso alla roulotte color menta, a
quando fummo costretti a osservare
da una specie di rifugio l’infuriare
della tempesta che spazzava via la
nostra
casa.
«Dovrei
forse
compatirti?», chiedo.
Un
uccellino
comincia
a
gorgheggiare. Da lontano un altro
risponde al suo richiamo.
La sua voce è bassa. «Non ti ho
mai
domandato
di
provare
dispiacere per me. Mi hai fatto una
domanda, ti ho dato una risposta»,
spiega.
«Ti
stai
autocommiserando,
vero?»
«Non c’entra niente».
«Sempre la vittima». Ostento
indifferenza. La ragazza non sa un
cazzo di cosa sia la vera sfortuna.
«No», ribatte, gettandomi la
canna da pesca tra le mani.
«Tieni», dice. Si abbassa la lampo
del giaccone, se lo toglie e lo
scaraventa a terra accanto a me. Io
lo lascio lì. Non apro bocca. Rimane
esposta all’aria fredda. «Torno
dentro», dice.
E supera il pesce morto, i cui occhi
la fissano con disprezzo per averlo
lasciato spirare.
Sarà a cinque metri da me quando
le dico: «E a proposito del
riscatto?»
«In che senso?», chiede. Si ferma
all’ombra di un grande albero, con
le mani sui fianchi. I capelli le
svolazzano attorno nella fredda aria
d’ottobre.
«Tuo padre lo avrebbe pagato?»,
chiarisco. Se lui la detesta come lei
vuol far credere, non avrebbe
scucito un centesimo per riaverla.
Lei ci riflette, so che è così. È una
domanda estremamente pertinente.
Se il padre non avesse pagato il
riscatto, lei sarebbe morta.
«Immagino che non lo sapremo
mai», dice, e poi se ne va. Sento il
crepitio delle foglie sotto i suoi
passi, poi il cigolio della zanzariera
che si apre, più lontano. Infine la
porta sbattere. So di essere solo.
Gabe
Prima
Sto percorrendo in auto il viale
alberato più bello al mondo. Aceri
rossi e tremuli pioppi gialli formano
una volta sulla strada angusta
coperta dalle loro foglie. È presto
per chi va in giro a chiedere
«dolcetto o scherzetto», quei piccoli
disadattati saranno ancora a scuola
per un altro paio d’ore. Ma le case
da un milione di dollari li aspettano,
immerse nei loro meravigliosi
giardini, dai prati che avrebbero
proprio bisogno di un tagliaerba…
anche se qui nessuno si abbassa a
falciarli. Addobbati con balle di
fieno, spighe di grano e zucche
tonde e perfette.
Il postino si avvicina alla cassetta
dei Dennett proprio mentre sto
arrivando sul vialetto ammattonato.
Metto la mia auto schifosa di fianco
alla stupenda berlina della signora
Dennett
e
lo
saluto
amichevolmente con la mano, come
se abitassi lì, poi mi dirigo verso la
cassetta postale, una costruzione
vera e propria, più spaziosa del mio
gabinetto.
«Buongiorno», dico, allungando
una mano per farmi dare la posta di
oggi.
«Buon pomeriggio», replica lui
mentre mi deposita in mano una
gran quantità di corrispondenza.
È freddo qui fuori. Una giornata
uggiosa. Come sempre: da quel che
mi ricordo, tutti gli Halloween sono
così. Le nuvole grigie si abbassano
fino al suolo, tanto da non
distinguere più la differenza tra
cielo e terra. Infilo la posta sotto
l’ascella e mi ficco le mani in tasca
prima di raggiungere l’entrata.
Ogni volta che arrivo, la signora
Dennett spalanca la porta con
slancio ed entusiasmo, ha il fervore
dipinto sul volto finché non mi vede.
Allora il sorriso scompare, le si
spegne lo sguardo. Qualche volta
emette anche un sospiro.
Non la prendo come un’offesa
personale.
«Oh», dice. «Ispettore».
Ogni
volta
che
suona
il
campanello è sicura che sia Mia.
Indossa un grembiule color
senape sopra un completo da yoga.
«Sta
cucinando?»,
chiedo,
cercando di non soffocare per
l’odore. O sta cucinando o qualche
animaletto è entrato in cantina e ci
è morto.
«Ci
provo».
Mi
sta
già
abbandonando, lascia aperta la
porta. Ride nervosa, mentre la
seguo in cucina. «Lasagne», dice,
affettando una mozzarella enorme.
«Le ha mai preparate?»
«La mia specialità è la pizza
surgelata», dico scaricando la posta
sull’isola.
«Ma
le
risparmio
l’esperienza».
«Oh, grazie», ribatte, posando il
coltello e prendendo la distinta
delle spese mediche coperte
dall’assicurazione. Si eclissa per
cercare un tagliacarte con cui aprire
la busta, mentre sui fornelli le
salsicce cominciano a bruciarsi.
Sulle lasagne so un paio di
cosette. Da bambino, avrò visto mia
madre prepararle un milione di
volte. Le stavo tra i piedi, giocando
sul pavimento della nostra piccola
cucina, mentre si affaccendava ai
fornelli («Sono pronte? Non sono
ancora pronte?»).
Pesco un cucchiaio di legno dal
cassetto dei Dennett e do una
rimestata.
«Cosa
stavo…»,
chiede
distrattamente la signora rientrando
nella stanza. «Oh, ispettore, non
doveva…», continua, e io le dico
che non è niente. Poso il cucchiaio
accanto alla padella. Lei fa una
cernita della posta arrivata.
«Ha mai visto tanto ciarpame?»,
mi domanda. «Cataloghi. Bollette.
Un sacco di gente che vuole i nostri
soldi. Ha mai sentito parlare…»,
alza la busta per leggere meglio il
nome
dell’opera
pia,
«della
sindrome di Mowat-Wilson?»
«Mowat-Wilson?», ripeto. «Mi pare
di no».
«La sindrome», ripete, sistemando
la busta su una pila di carte che
presumibilmente
finiranno
nel
superplanning attaccato alla parete.
Ero convinto che i postulanti della
Mowat-Wilson sarebbero finiti tra la
carta da riciclare, invece può darsi
che presto riceveranno un assegno.
«Il giudice deve aver fatto qualcosa
di speciale per meritarsi un piatto di
lasagne», ipotizzo. Mia madre le
prepara continuamente, non c’è
niente di speciale. Ma per gente
come Eve Dennett immagino che un
pasto fatto in casa come questo sia
un evento raro. Ovviamente anche
per via delle probabilità di
sopravvivenza: dall’aspetto, posso
ritenermi fortunato che non mi
abbia invitato a rimanere per
assaggiarle. Sono un esperto in
stereotipi, e come cuoca la signora
Dennett mi pare alquanto limitata.
Al massimo conoscerà una ricetta
con il pollo e forse saprà anche far
bollire l’acqua. Non di più.
«Non sono per James», dice lei
mentre si affaccenda ai fornelli
dietro di me. Mi sfiora con la
manica di una maglia nera
elasticizzata, ma sono certo che
non se n’è accorta. Io sì. Continuo
ad avvertire il contatto per alcuni
secondi perfino dopo che lei si è
spostata. Poi versa in padella una
gran quantità di cipolle, che
sfrigolano.
So che è il compleanno di Mia.
«Mi dica, signora».
«Non le avrei fatte», assicura,
completamente
impegnata
a
rosolare la carne: è una sorta di
trasformazione per lei che fino a
due secondi prima se ne infischiava
altamente. «E non ho intenzione di
piangere».
È allora che noto i palloncini sparsi
dappertutto, vanno dal magenta al
verde lime. I suoi colori preferiti, a
quanto pare.
«Sono per lei», spiega. «Mia adora
le lasagne. Qualsiasi tipo di pasta.
Era l’unica che finisse tutto quanto
avevo cucinato. Non che mi aspetti
che arrivi all’ultimo momento. So
che non accadrà. Ma non potevo…».
La sua voce s’incrina. Vedo le sue
spalle tremolare e le salsicce
assorbire le lacrime. Facile dare la
colpa alle cipolle, eppure non lo fa.
Distolgo lo sguardo. Mi concentro
sulla mozzarella. Lei prende uno
spicchio d’aglio e comincia a
schiacciarlo col palmo della mano.
Non sapevo che conoscesse questa
tecnica. Pare che l’aglio faccia
molto bene alla salute. Lo mette
nella padella, dopodiché lei prende
dalla dispensa una gran quantità di
condimenti (basilico, finocchio, sale
e pepe) e li rovescia sul piano di
lavoro in granito. Il barattolo del
sale sporge dal bordo e cade sul
pavimento di legno. Non si rompe,
ma il sale si versa. Fissiamo il
mucchietto di cristalli bianchi a
terra e pensiamo la stessa cosa:
porta male. Sarà per sette anni?
Non saprei. Comunque dico: «Spalla
sinistra».
«Sicuro che non sia la destra?»,
chiede. C’è panico nella sua voce,
come se questo piccolo incidente
dovesse determinare il ritorno – o il
mancato ritorno – di Mia a casa.
«La sinistra», replico, certo di
avere ragione, ma poi per
accontentarla
aggiungo:
«Al
diavolo, meglio lanciarne un pizzico
anche dietro la destra. Giusto per
essere sicuri».
Lancia il sale e si pulisce le mani
sul grembiule. Mi chino per
raccogliere il contenitore mentre lei
si abbassa per pulire il sale da
terra. È un attimo, ci urtiamo con la
testa. Lei si preme una mano sul
punto dolente e io mi ritrovo ad
accarezzargliela. Le domando se sta
bene, le porgo le mie scuse. Ci
rialziamo in piedi e, per la prima
volta, la vedo ridere.
Santo cielo, è bellissima, anche se
la sua risata è incerta, sembra che
stia per scoppiare a piangere da un
momento all’altro. Una volta uscivo
con una ragazza con un disturbo
bipolare. Poteva essere tanto
euforica da voler conquistare il
mondo e subito dopo talmente
depressa da non voler nemmeno
alzarsi dal letto.
Mi chiedo se il giudice Dennett, da
quando è iniziata questa storia,
abbia messo almeno una volta un
braccio attorno alle spalle della
moglie per dirle che si sarebbe
sistemato tutto.
Quando si riprende, le dico:
«Immagini che Mia ritorni stasera,
che si presenti alla porta e non ci
sia niente da mangiare».
Scuote il capo. Non riesce proprio
a immaginarselo.
«Perché ha scelto di fare il
detective?», mi domanda.
Niente di speciale nella mia
scelta. Mi pare quasi imbarazzante.
«Mi hanno promosso perché ero un
buon agente. Ma sono diventato
poliziotto perché un compagno di
università aveva deciso di iscriversi
all’accademia di polizia. Non ho
saputo far altro che imitarlo».
«Però le piace il suo mestiere».
«Sì, mi piace».
«Non è deprimente? Io non riesco
a sopportare i telegiornali della
sera».
«Anche noi abbiamo brutte
giornate», dico, ma poi mi accingo
a elencarle tutti gli aspetti positivi
che mi vengono in mente. Far
chiudere
un
laboratorio
di
metanfetamine. Ritrovare un cane
smarrito. Acciuffare un ragazzino
che va a scuola con un coltello nella
borsa. «Ritrovare Mia», concludo,
ed evitando di dirlo ad alta voce
penso: Se riesco a liberarla e a
riportarla a casa, se riesco a
risvegliare la signora Dennett
dall’incubo in cui vive, vale la pena
di fare il mio lavoro. Dimenticherei
tutti i casi irrisolti, tutte le
malefatte che succedono ogni
giorno in questo fottuto mondo.
Lei torna a occuparsi delle
lasagne. Le spiego che vorrei porle
alcune domande. La osservo
versare la pasta, la carne e il
formaggio in un tegame, mentre
parliamo di una ragazza di cui
appaiono magicamente sempre più
foto in giro per la casa ogni volta
che varco la porta d’ingresso.
Mia che sorride mezzo sdentata il
suo primo giorno di scuola.
Mia con un bernoccolo enorme
sulla testa.
Mia con il costumino e le
gambette magre in bella vista, coi
bracciali come salvagente.
Mia che si prepara al ballo
studentesco di fine anno.
Nemmeno due settimane fa, non
si sarebbe neanche detto che Grace
Dennett avesse una sorella minore.
Adesso sembra che Mia sia l’unica
presenza in questa casa.
Colin
Prima
Ho la fortuna di possedere un
orologio col datario. Altrimenti
saremmo entrambi perduti.
Non lo faccio come prima cosa al
mattino. Lei non mi parla da
ventiquattr’ore. È incazzata perché
ho ficcanasato, ma soprattutto
perché lei mi ha spifferato
parecchie cose. Non vuole farmi
sapere niente di sé, ma io ne so
abbastanza.
Aspetto di finire la colazione.
Aspetto fin dopo il pranzo. La lascio
col broncio per un bel pezzo. Mi
tiene il muso girando per il capanno
a compatirsi. Fa una smorfia. Non le
passa nemmeno per l’anticamera
del cervello che preferirei essere in
tanti altri posti, mica qui, perché
questa è la sua disgrazia, solo sua.
O almeno così crede.
Non sono uno a cui piacciono le
ostentazioni. Aspetto che abbia
finito di lavare i piatti. Si sta
asciugando le mani in un panno di
spugna, quando lo faccio cadere sul
ripiano accanto a lei.
«È per te».
Rivolge un’occhiata al quaderno
da disegno. Per farci degli schizzi.
Con dieci matite automatiche.
«Le mine sono tutte lì. Non finirle
subito».
«Che
roba
è?»,
chiede
scioccamente. Ma lo sa bene.
«Qualcosa per passare il tempo».
«Ma…», s’interrompe, non sa
finire. Prende il quaderno e fa
scorrere una mano sulla copertina.
Sfoglia
la
pagine
bianche
immacolate. «Ma…», balbetta, non
sa cosa dire. Vorrei che non dicesse
nulla. Non c’è bisogno di parole fra
noi, adesso. «Ma… perché?»
«È Halloween», dico, in mancanza
di una risposta migliore.
«Halloween», borbotta a mezza
voce. Sa che c’è dell’altro. In fondo,
non si compiono venticinque anni
tutti i giorni. «Come facevi a
saperlo?».
Le mostro il mio segreto, il piccolo
31 sull’orologio che ho rubato a un
fesso.
«Come facevi a sapere che è il
mio compleanno?».
Il tempo trascorso a navigare su
internet prima di rapirla sarebbe la
risposta più onesta. Però non voglio
rivelarglielo. Non è necessario che
sappia che l’ho pedinata per giorni
prima del sequestro, che la
tallonavo mentre si recava al lavoro
e quando tornava a casa, che la
spiavo dalla finestra della sua
camera da letto.
«Ricerche».
«Ricerche», ripete.
Non mi ringrazia. Parole del
genere
(grazie,
per
favore,
scusami) sono segni di pace, e
ancora non siamo a quel punto.
Forse non ci arriveremo mai. Tiene
il quaderno da disegno vicino a sé.
Non so perché l’ho fatto. Ero stufo
di vederla ciondolare o fissare
oziosamente fuori dalla finestra,
quindi ho speso cinque dollari per
carta e matite, e sembra che le
abbia
regalato
una
giornata
meravigliosa. Nei
negozi
dei
dintorni non li hanno neanche i
taccuini per disegnare, così ho
dovuto guidare fino a Grand Marais
e sono entrato in una cartolibreria
dopo averla legata al lavandino del
gabinetto.
Eve
Prima
Organizzo una festa per il suo
compleanno, non si sa mai. Invito
James, Grace e i parenti acquisiti: i
genitori di James e i suoi fratelli con
le loro mogli e i figli. Mi spingo fino
al centro commerciale e le compro
dei regali che lei adorerebbe. Non è
difficile:
più
che
altro
abbigliamento, felpe e maglioni col
collo largo, oltre alla bigiotteria
voluminosa che va di moda adesso.
Da quando Mia è apparsa nei
telegiornali, appena metto piede
fuori di casa tutti vogliono notizie.
Nel negozio di alimentari, le donne
mi fissano, sussurrano dietro le mie
spalle. Preferisco gli sconosciuti agli
amici e ai vicini di casa, che
vogliono parlarne. Non ce la faccio
a parlare di mia figlia senza
scoppiare in lacrime. Mi affretto a
lasciare il parcheggio per evitare di
essere ripresa dai furgoni delle
televisioni, che ci seguono ovunque.
All’interno del centro commerciale,
la cassiera esamina la mia carta di
credito e si chiede se il nome
Dennett sia quello della ragazza di
cui si parla tanto in TV. Mento, fingo
di non saperne niente perché
fornire qualunque spiegazione mi
sconvolgerebbe.
Impacchetto i regali e impilo le
scatole col grosso nastro rosso.
Preparo tre teglie di lasagne e
compro il pane per le bruschette.
Preparo l’insalata e vado al forno a
ritirare una torta con mousse al
cioccolato. La preferita di Mia.
Compro venticinque palloncini e li
dissemino per tutta la casa.
Appendo un terribile striscione con
la
scritta BUON COMPLEANNO, che
abbiamo da quando le ragazze
erano piccole, e metto un CD jazz
rilassante.
Non
viene
nessuno.
Grace
sostiene di avere un appuntamento
col figlio di un suo socio, però non ci
credo.
Anche
se
non
lo
ammetterebbe mai, in questi giorni
è sulle spine, sa bene che quanto
riteneva essere solo un espediente
della
sorella
per
attirare
l’attenzione invece è qualcosa di
più. Ma preferisce fingere, piuttosto
che ammettere di essersi sbagliata:
assume un’aria di indifferenza,
come se il destino di Mia non la
riguardasse.
Eppure,
quando
parliamo e le sfugge il nome della
sorella, dal tono della sua voce
capisco che la sua scomparsa la fa
soffrire.
James si ostina a dire che non si
può organizzare una festa se manca
il
festeggiato.
Perciò,
senza
informarmi,
telefona
ai
suoi
genitori, a Brian e a Marty, per dire
a tutti che questa faccenda è una
farsa, che non c’è alcuna festa. Però
me lo riferisce solo alle otto di sera,
quando rientra dal lavoro e, vista la
quantità di pasta sull’isola della
cucina, sbotta: «Cosa diavolo hai
preparato a fare tutte quelle
lasagne?»
«La
festa»,
rispondo
ingenuamente. Forse sono in
ritardo.
«Non c’è nessuna festa, Eve»,
dice.
Si versa l’ultimo bicchierino di
liquore prima di ritirarsi nel suo
studio, come fa sempre, ma a un
tratto si ferma a guardarmi. Una
cosa rara, che mi guardi. La sua
espressione è inconfondibile: occhi
afflitti, pelle aggrinzita, labbra
tirate. Si avverte dal suo tono di
voce, sommesso e confidenziale.
«Ti ricordi il sesto compleanno di
Mia?», chiede. Certo. Sono stata
tutto il giorno seduta a ripescare le
foto dei compleanni, tutte le feste
arrivate e passate in un baleno.
Tuttavia mi stupisce che se lo
ricordi.
Annuisco. «Sì, allora Mia voleva un
cane». Un mastino tibetano, per la
precisione, un fedele cane da
guardia, con tanto pelo, soggetto a
muta. Di solito può pesare più di
cinquanta chili. Ma non ci sarebbe
stato nessun cane. James lo aveva
subito messo in chiaro. Né per quel
compleanno, né mai. Mia aveva
reagito con uno scoppio di pianto
isterico,
e
il
padre,
che
abitualmente avrebbe ignorato quei
capricci, aveva speso una fortuna
per regalarle un esemplare di
peluche che aveva dovuto ordinare
in un negozio di giocattoli a New
York.
«Non credo di averla mai vista più
felice di allora», dice, ricordando
come Mia stringesse contenta il
molosso impagliato di novanta
centimetri, cingendolo con le
braccia. È a questo punto che mi
rendo
conto
di
quanto
sia
preoccupato. Per la prima volta, si
preoccupa per la nostra bambina.
«Ce l’ha ancora il cane di
peluche», gli faccio notare. «Di
sopra, in camera sua», aggiungo, e
lui annuisce, lo sa.
«La vedo ancora», ammette, «era
euforica quando entrai nella stanza
col mastino di peluche nascosto
dietro la schiena».
«Le piaceva moltissimo», dico,
dopodiché lui si rifugia nel suo
studio e chiude solennemente la
porta.
Mi
sono
completamente
dimenticata
di
comprare
le
caramelle per i bambini del
vicinato. Da una certa ora comincia
a suonare il campanello e, sperando
stupidamente che siano i parenti
acquisiti, vado ad aprire ogni volta.
All’inizio sono la signora pazza che
regala le monete del salvadanaio,
ma da metà serata in poi inizio a
distribuire le fette della torta di
compleanno. I genitori che sono
all’oscuro mi guardano storto, quelli
che
sanno
mi
fissano
con
compassione.
«Qualche
buona
nuova?»,
domanda una vicina, Rosemary
Southerland, che passa coi nipotini,
troppo piccoli per suonare da soli ai
campanelli altrui e declamare
«dolcetto o scherzetto».
«Nessuna novità», rivelo con le
lacrime agli occhi.
«Preghiamo per voi», dice,
aiutando i piccoli, travestiti da
Winnie the Pooh e Tigro, a
scendere i gradini.
«Grazie», replico, ma penso che
tanto non serve a un bel niente.
Colin
Prima
Le dico che può uscire. È la prima
volta che la lascio andar fuori da
sola. «Resta dove ti posso vedere»,
aggiungo. Sto coprendo le finestre
con dei fogli di plastica, in vista
dell’inverno. Mi ci vuole una
giornata intera. Ieri ho stuccato
bene tutte le porte e le finestre. Il
giorno precedente ho isolato le
tubature. Mi ha domandato perché
lo facessi, e l’ho guardata come se
fosse
cretina.
«Così
non
scoppiano», ho detto. Non è che
voglia rimanere per tutta la
stagione invernale, ma finché non
mi viene in mente un’opzione
migliore abbiamo poche altre
possibilità.
Lei indugia davanti alla porta.
Tiene il quaderno da disegno in
mano. «Non vieni?»
«Ormai sei grande», dico.
Si avventura fuori, fermandosi sui
gradini. La tengo d’occhio dalla
finestra, non le conviene tentare
troppo la fortuna.
Ieri sera è nevicato un po’. Il
terreno è coperto di aghi di pino
marroni e di funghi che presto
moriranno. Sul lago ci sono lastre di
ghiaccio. Niente di grave, a
mezzogiorno saranno già sciolte.
Ma è il segno che l’inverno è
prossimo.
Lei spazza i gradini per liberarli
dalla neve, si siede e apre il
quaderno
da
disegno
sulle
ginocchia. Ieri siamo usciti insieme
ad ammirare il lago. Ho pescato
una trota mentre lei disegnava una
decina
di
alberi
con
linee
frastagliate che attraversavano il
terreno.
Non so quanto tempo rimango a
osservarla dalla finestra. Non che
abbia paura che scappi, ormai sa
cosa
le
conviene
fare, ma
comunque la sorveglio. Noto che le
si arrossa la pelle per il freddo e
che la brezza le scompiglia i capelli.
Lei se li sistema dietro l’orecchio,
sperando di trattenerli, ma non
funziona. Non tutte le cose possono
essere contenute. Osservo le sue
mani che si muovono sulla
superficie del foglio. Rapide, agili.
Con carta e matita, lei assomiglia a
come mi sento io con un’arma:
padrone
di
me,
capace
di
controllare e dominare le cose. È
l’unico momento in cui è sicura di
sé. È questa fiducia in sé che mi
tiene incollato alla finestra, oltre al
fatto di non perderla di vista.
Immagino il suo viso, che non vedo
essendo voltata di spalle. Non è
niente male da guardare.
Apro la porta ed esco sbattendola;
lei sussulta, si gira per capire cosa
diavolo voglio. Sul foglio di carta
che ha davanti c’è un lago con la
superficie increspata dal vento. Su
una lastra di ghiaccio trasparente è
appollaiato un gruppetto di oche.
Finge che io non sia lì, ma so che
la mia presenza le rende arduo far
altro se non respirare.
«Dove hai imparato a farlo?»,
chiedo. Intanto osservo il lato
esterno di porte e finestre, in cerca
di eventuali fessure.
«A
fare
cosa?»,
domanda,
coprendo il disegno con la mano per
non farmelo vedere.
Smetto di controllare gli infissi.
«Pattinare sul ghiaccio», commento
sarcastico. «Secondo te?»
«Ho imparato da sola», dice.
«Per il gusto in sé?»
«Immagino di sì».
«Perché?»
«E perché no?».
Comunque, mi racconta che ci
sono due persone che deve
ringraziare
per il
suo talento
artistico: un professore delle medie
e Bob Ross7. Non so chi sia
quest’ultimo, così me lo spiega.
Dice che piazzava il cavalletto e i
colori davanti alla televisione per
disegnare secondo le istruzioni che
dava lui. Grace la criticava,
suggerendole di uscire a farsi una
vita. La definiva una perdente. La
madre faceva finta di non sentire
questi scambi di battute. Poi mi
dice che aveva già cominciato a
disegnare in precedenza, nascosta
in camera sua con gli album da
colorare.
«Niente male», commento, senza
guardare né lei né il disegno. Sono
impegnato a raschiare via il vecchio
stucco bianco da una finestra. Le
schegge cadono ai miei piedi,
formando
un
mucchietto
sul
terreno.
«Come fai a saperlo?», ribatte.
«Non hai guardato».
«Ho guardato».
«No»,
dice.
«Riconosco
l’indifferenza, ci sono abituata, l’ho
vista per tutta la vita».
Sospiro e impreco a bassa voce.
Lei continua a tenere la mano sul
disegno. «Allora dimmi, di cosa si
tratta?», chiede.
«Cosa diavolo intendi?»
«Che ho rappresentato?».
Smetto di occuparmi dello stucco
e comincio a fissare le oche, che se
ne vanno una dopo l’altra.
«Quelle», dico, e lei tace. Mi sposto
verso un’altra finestra.
«Perché me lo hai comprato?»,
domanda
poi
sollevando
il
quaderno.
Mi interrompo di nuovo per
fissarla. So quello che pensa lei:
Meglio lo stucco di me.
«Perché fai queste domande del
cazzo?», replico acido, riducendola
al silenzio. Comincia a tratteggiare
il cielo, bassi nubi stratificate in
movimento. A un certo punto
aggiungo: «Così non devo farti da
baby-sitter. Così stai zitta e la
smetti di rompermi le scatole».
«Oh», fa lei. Si alza e rientra in
casa.
Ma non è tutta la verità.
Se avessi voluto evitare di farmi
rompere le scatole, avrei comprato
altra corda per legarla al lavandino
del bagno. Se avessi voluto che
restasse sempre zitta, avrei usato il
nastro isolante.
Ma se avessi voluto scusarmi, le
avrei comprato quel quaderno da
disegno.
Quand’ero un adolescente, tutti
avrebbero scommesso che sarei
finito in quella maniera. Mi cacciavo
sempre nei guai. Picchiavo i
ragazzini e litigavo con gli adulti.
Saltavo le lezioni, non superavo i
test. Alle superiori, la consulente
dell’orientamento scolastico suggerì
a mia madre di portarmi da uno
psicologo. Sosteneva che avessi dei
problemi a gestire la rabbia. Mia
madre le spiegò che, se avesse
passato tutto quello che avevo
passato io, anche lei sarebbe stata
arrabbiata.
Mio padre se n’era andato di casa
quando avevo sei anni. Ci era
rimasto abbastanza perché me lo
ricordassi, ma non tanto da
prendersi cura di me e della
mamma. Ricordo bene le botte, non
solo le liti. I miei genitori si
picchiavano e si lanciavano gli
oggetti. Di notte, fingevo di dormire
quando sentivo i cocci. Porte
sbattute e insulti reciproci urlati a
squarciagola. Ricordo le bottiglie di
birra vuote e i tappi che gli uscivano
dalle
tasche
dei
pantaloni,
nonostante lui affermasse di essere
sobrio.
A scuola mi facevo coinvolgere
nelle
risse.
Avevo
mandato
affanculo il prof di matematica
perché ripeteva che non avrei mai
combinato niente di buono. Avevo
detto all’insegnante di biologia delle
superiori di andare a farsi fottere
perché era convinta di potermi
aiutare a superare l’esame nella
sua materia.
Non volevo che qualcuno si
interessasse a me.
Mi sono ritrovato per caso in
questa vita. Facevo il lavapiatti in
un ristorante snob del centro. Avevo
tutto lo schifo degli avanzi dei pasti
altrui sulle mani, bruciate dall’acqua
bollente mentre impilavo i piatti
puliti
provenienti
dal
nastro
trasportatore. Dita ustionate, fronte
grondante di sudore. Il tutto per un
salario da fame e una parte delle
mance delle cameriere. Avevo
chiesto di fare qualche ora di
straordinario, dicendo che ero a
corto di soldi. Il capo mi aveva
risposto: «Lo siamo tutti». Gli affari
andavano a rilento, però lui
conosceva un posto dove avrei
potuto ottenere un prestito. Non
era una banca. Credevo di saper
gestire la cosa. Avrei potuto
ottenere una cifra non esagerata,
da coprire con il salario successivo,
e invece non andò così. Non riuscii
nemmeno a pagare gli interessi.
Trovammo un accordo. C’era un
pezzo grosso che era in debito dieci
volte più di me: se fossi riuscito a
obbligarlo a pagare, mi avrebbero
estinto il debito. Allora mi presentai
in quella casa di Streeterville, legai
la moglie e la figlia alle seggiole del
salotto di antiquariato e, puntando
una pistola alla testa della donna,
lo vidi estrarre le banconote nuove
di zecca dalla cassaforte, nascosta
dietro una riproduzione delle Ninfee
di Monet.
Ero entrato nel giro.
Qualche settimana dopo, mi scovò
Dalmar. Non lo avevo mai visto né
conosciuto. Mi trovavo in un bar a
pensare agli affari miei quando
entrò. Ero il nuovo teppistello del
quartiere, il loro passatempo.
Pareva che tutti avessero qualche
incarico da darmi. Perciò, quando
Dalmar disse che un tizio gli aveva
rubato della roba, fu evidente che
dovevo essere io a preoccuparmi di
recuperarla. Mi ricompensarono
generosamente. Adesso potevo
pagare l’affitto, prendermi cura di
mia madre, mangiare.
Ma più guadagnavo, più sapevo di
appartenere ormai a qualcun altro,
non a me stesso.
Lei si allontana ogni giorno di più
dal capanno. Una volta scende tutti
gli scalini, il giorno dopo arriva fino
a dove c’è l’erba. Oggi si spinge fino
al terriccio, pur sapendo che
rimango seduto alla finestra a
osservare quello che fa. Si mette a
sedere sul terreno gelido e duro,
disegna fino a intorpidirsi i muscoli.
Immagino l’aria fredda che le
irrigidisce le dita. Non riesco a
vedere cosa disegna, ma lo
intuisco: tronchi e cortecce, i rami
spogli ora che le foglie sono
scomparse. Tratteggia un albero
dopo l’altro. Non spreca nemmeno
un centimetro della preziosa carta.
Chiude il quaderno e prova a
spingersi fino al lago, per sedersi a
riva, da sola. Vedo che raccoglie dei
sassi, cerca di farli saltare sulla
superficie dell’acqua. Affondano
tutti. Passeggia lungo il bordo
lacustre. Non troppo lontano. Alcuni
metri più in là, dove non era mai
arrivata.
Non penso che voglia scappare,
però all’improvviso non mi va più di
stare da solo dentro il capanno. Lei
si volta per lo scricchiolio delle
foglie alle sue spalle. Vado verso il
lago, con le mani infilate nelle
tasche dei jeans e il colletto del
giaccone alzato per proteggermi dal
freddo.
«Mi controlli?», domanda prima
che la raggiunga.
Mi fermo dietro di lei. «Ne ho
bisogno?».
Restiamo l’uno di fianco all’altra,
senza parlare. La sfioro con il
braccio, e lei si sottrae. Mi chiedo
se sarebbe in grado di ritrarre
questa scena, sul quaderno, intendo
dire. La forma del lago azzurro e le
foglie sparse a terra. Gli alberi
sempreverdi e i pini scuri. Il cielo
immenso. Sarebbe capace di
disegnare il vento che sferza ciò che
resta degli altri alberi? Saprebbe
raffigurare l’aria fredda che ci divora
mani e orecchie fino a farle
bruciare?
Comincio ad allontanarmi. «Vuoi
fare una passeggiata, vero?»,
chiedo, siccome non mi pare che mi
segua. È così. «Allora, andiamo»,
concludo, anche se resto sempre
due passi avanti a lei. Tra noi non
c’è niente, solo aria senza vita.
Non so quanto sia esteso questo
lago. È grande. Non so quanto
possa essere profondo nel punto più
basso. Non ne conosco il nome. Non
c’è spiaggia, la linea della costa è
frastagliata, con promontori rocciosi
a strapiombo sull’acqua tutt’intorno.
Sotto i nostri piedi, le foglie
scricchiolano come pezzetti di
polistirolo. Lei fatica a tenersi in
equilibrio sul terreno accidentato.
Non la aspetto. Camminiamo a
lungo, finché non vediamo più il
capanno tra gli alberi. Sono certo
che le faranno malissimo i piedi,
con quelle scarpe ridicole, le stesse
che aveva all’inizio. Stravaganti
scarpe da lavoro. Però l’aria fresca
e l’esercizio fisico le fanno bene. Un
bel cambiamento rispetto al suo
poltrire
pieno
di
autocommiserazione
dentro
il
capanno.
Mi chiede qualcosa, ma non la
sento. Aspetto che mi raggiunga.
«Cosa c’è?», domando di scatto.
Non sono uno che si perde in
convenevoli.
«Hai fratelli?»
«No».
«Sorelle?»
«Ma tu devi sempre parlare?»,
chiedo.
Mi supera e comincia a fare strada
lei. «E tu devi sempre essere così
sgarbato?», domanda. Non replico.
Questi sono i nostri dialoghi.
Il giorno dopo esce ancora, vaga
senza meta nei dintorni del
capanno. Non è tanto stupida da
spingersi dove non potrei vederla.
Non ancora, perché sa che
perderebbe questo privilegio.
Ha paura dell’ignoto. Forse di
Dalmar, oppure di quel che le farei
se provasse a fuggire. È il timore a
mantenerla nel mio campo visivo.
Potrebbe mettersi a correre, ma
non c’è alcun posto in cui scappare.
Ha la pistola, potrebbe spararmi.
Tuttavia, non ha ancora capito
come far funzionare l’aggeggio. Per
quanto la riguarda, vale la pena
tenermi vicino solo per quello.
Però finché possiede l’arma non
dovrò più ascoltare le sue
lamentele. Per il momento va bene
così. Può uscire dal capanno
nell’aria fredda a congelarsi le
chiappe. Può disegnare tutto il
giorno quel cazzo che le pare.
Ritorna molto prima di quanto mi
aspettassi. Tiene in braccio un
gatto sudicio. Non che mi facciano
schifo i gatti, solo che il cibo è
scarso, il calore è poco. Qui non c’è
spazio sufficiente per due, figurarsi
per tre. E io non voglio dividere
niente.
Mi implora con gli occhi.
«Se rivedo ancora quella bestia»,
dico, «le sparo».
Non sono nella disposizione giusta
per agire da buon samaritano.
7
Robert Ross (1943-1995), pittore e
conduttore del programma televisivo The
Joy of Painting. (n.d.t.)
Gabe
Prima
Dopo aver atteso quella che ci
sembrava un’eternità, anche se
erano solo tre settimane, ci arrivò
l’informazione giusta: una donna
indiana che viveva in un grattacielo
di Kenmore era sicura che il
ricercato fosse un suo vicino di
casa. Sembrava che si fosse
assentata per un certo periodo dalla
città ed era la prima volta che
vedeva la sua faccia in televisione.
Prendo quindi con me i rinforzi e
mi reco di nuovo in centro. Il
palazzone si trova precisamente a
Uptown, di sicuro non il miglior
quartiere della città, ma nemmeno
il peggiore. Tutt’altro. A metà
strada fra chi non può permettersi
le zone di lusso, come Lakeview o
Lincoln Park, e quelle dove vivono
gli immigrati arrivati da poco. Una
variegata diversità. I ristoranti
etnici sono allineati lungo le strade,
non solo quelli cinesi o messicani: ci
sono anche locali marocchini, etiopi,
vietnamiti. A prescindere da tale
promiscuità, quasi metà della
popolazione di Uptown è ancora di
pelle bianca. Girare qui di notte è
tuttora relativamente tranquillo.
Peraltro, Uptown è nota per la vita
notturna, pullula di bar e teatri
storici. Molti personaggi famosi vi si
sono esibiti davanti a persone
insignificanti come me.
Trovo
l’appartamento
e
parcheggio in seconda fila, l’ultima
cosa che voglio fare è regalare altri
spiccioli al municipio di Chicago per
la sosta dell’auto. Io e un’agente
dai tratti virili entriamo nell’edificio
e prendiamo l’ascensore giusto. Non
risponde nessuno, la porta è chiusa
a chiave. Ovviamente preghiamo la
padrona di casa di farci entrare. È
una signora anziana che si trascina
a stento e si rifiuta di darci la
chiave. «Di questi tempi non ci si
può fidare di nessuno», dice.
Sostiene che l’appartamento è
affittato a una donna chiamata
Celeste Monfredo, ha dovuto
cercarne il nome nel suo archivio.
Non sa nulla di lei, tranne che versa
l’affitto puntualmente.
«Naturalmente potrebbe esserci
qualcuno in subaffitto».
«Come facciamo a saperlo?»,
chiedo.
L’anziana signora fa spallucce.
«Impossibile. Gli inquilini possono
subaffittare
l’appartamento
o
pagare per recedere dal contratto».
«Non
ci
sono
moduli
da
riempire?». Io non posso comprare
in farmacia nemmeno uno spray
nasale se non metto per iscritto il
mio nome…
«Non che io sappia. Basta che gli
inquilini continuino a versarmi la
pigione. Se succede qualcosa, è un
loro problema. Non mio».
Le prendo le chiavi di mano e
m’introduco nell’appartamento. La
padrona s’intrufola insieme a noi: le
devo ripetere più volte di non
toccare niente.
Non saprei dire cosa mi colpisce
innanzitutto:
una
lampada
rovesciata, le luci accese in pieno
giorno, o il contenuto di una borsa
da donna sparso sul pavimento.
Estraggo dalla mia tasca un paio di
guanti di gomma e perquisisco
l’appartamento. Una pila di lettere
è appoggiata sul banco della
cucina, sepolta sotto il libro di una
biblioteca che doveva essere
restituito tempo fa. Controllo il
destinatario e noto che tutte le
lettere sono state inviate alla
casella postale di un certo Michael
Collins. La mia collaboratrice si
infila i guanti di gomma e mette le
mani nella borsa; ci trova un
portafoglio e una patente di guida.
«Mia Dennett», esclama ad alta
voce leggendo l’intestazione, anche
se ovviamente ce l’aspettavamo.
«Voglio i tabulati telefonici», dico.
«E le impronte digitali. Dobbiamo
ispezionare
l’intero
edificio.
Perquisire ogni appartamento. Ci
sono videocamere di sicurezza?»,
domando alla padrona di casa.
Risponde affermativamente. «Mi
serve tutto quello che ha dal primo
di ottobre».
Esamino le pareti. Cemento.
Nessuno deve aver sentito nulla di
ciò che è accaduto nella stanza.
Colin
Prima
Vuole sapere quanto mi hanno
pagato per l’affare. Fa troppe
domande.
«Non sono stato pagato un bel
niente», le ricordo. «Mi danno la
mia parte se porto a termine il
lavoro».
«E quanto ti hanno offerto?»
«Non sono affari tuoi», dico.
Siamo nel gabinetto, pensa un
po’. Lei ci sta entrando, io sto
uscendo. Non mi scomodo a dirle
che l’acqua è gelata.
«Mio padre ne è al corrente?»
«Te l’ho già detto, non lo so».
Si doveva chiedere il riscatto al
padre, questo lo sapevo. Ma non ho
assolutamente idea di quello che ha
fatto Dalmar quando non gli ho
consegnato la ragazza.
Ha l’alito pesante di chi si è
appena svegliato, i suoi capelli sono
un dedalo di biondo scuro.
Mi chiude la porta in faccia e la
sento aprire il rubinetto. Cerco di
non immaginarla mentre si spoglia
e scivola nell’acqua ghiacciata.
Quando esce dal bagno, si sta
ancora asciugando le punte dei
capelli con un telo. Io sono in
cucina a mangiare cereali, müsli e
latte in polvere. Ho dimenticato il
gusto del cibo genuino. Ho sparso
sul tavolo i soldi rimasti e li sto
contando.
Lei
adocchia
le
banconote. Non siamo al verde.
Non ancora. Questo è positivo.
Mi confida di aver sempre pensato
che qualche ex galeotto incallito
potesse sparare al padre sulla
scalinata del tribunale. Ma dalla sua
voce
deduco
una
versione
leggermente diversa: non pensava
che potesse accadere, lo sperava.
Resta in piedi nella stanza, vedo
che trema, ma non si lamenta per il
freddo. Non stavolta.
«Prima di diventare giudice di
pace, era stato avvocato civile, si
occupava di class-action, denunce
per violazioni dell’uso di amianto.
Non si premurava mai di stare dalla
parte del giusto. La gente moriva di
malattie
orribili
(asbestosi,
mesotelioma) e lui si adoperava per
far risparmiare anche un solo
dollaro alle grandi aziende. Non
parlava mai di lavoro. “Informazioni
confidenziali fra cliente e avvocato”,
diceva, ma so che era una scusa
per la reticenza, punto e basta. Io
però entravo di soppiatto nel suo
studio, di notte, quando dormiva.
All’inizio curiosavo per trovare le
prove di una sua relazione
extraconiugale, nella speranza che
mia madre lo lasciasse. Ero piccola,
avrò avuto tredici-quattordici anni.
Non avevo idea di cosa fosse un
mesotelioma. Però sapevo leggere
bene. Sputare sangue, palpitazioni
cardiache, bozzi sotto la pelle. La
metà dei pazienti muore entro un
anno dalla diagnosi. Non è neppure
necessario lavorare a stretto
contatto con l’amianto: mogli e figli
dei malati morivano perché esposti
ai vestiti di questi ultimi. Più mio
padre
aveva
successo
come
avvocato
e
più
venivamo
minacciati. Mia madre riceveva
lettere minatorie. Sapevano dove
abitiamo. Ci telefonavano. C’erano
degli uomini che speravano che io,
Grace e mia madre andassimo
incontro a una morte dolorosa come
quella delle loro mogli e dei loro
bambini. Poi è diventato giudice. La
sua faccia compariva sempre nei
telegiornali. Sulla stampa c’erano
dei grandi titoli col suo nome. Lo
importunavano di continuo, ma
dopo un po’ smettemmo di prestare
attenzione a quelle minacce senza
conseguenze dirette. Anzi, lui se ne
vantava. La cosa lo faceva sentire
importante. Più gente faceva
incazzare e meglio svolgeva il suo
lavoro».
Non c’è niente da aggiungere. Non
me ne intendo di questa robaccia.
Non sono bravo nelle chiacchiere e
di certo non sono incline alla
compassione. In realtà, non so
niente del criminale che può aver
pensato
fosse
suo
interesse
minacciare la figlia di un bastardo.
Così vanno i nostri affari. Quelli
come me li tengono all’oscuro.
Eseguiamo un compito senza
saperne i motivi. Così, non potremo
mai accusare nessuno. E comunque
io non lo farei. So cosa mi
succederebbe se lo facessi. Dalmar
mi aveva ordinato di sequestrare la
ragazza, non gli avevo chiesto
perché. In tale maniera, se la
polizia mi avesse beccato e
sottoposto a interrogatorio, non
avrei
saputo
rispondere
alle
domande subdole. Né so chi ha
commissionato a Dalmar questo
lavoro. Non so cosa vogliono dalla
ragazza. Dalmar mi aveva detto di
prenderla, e io avevo eseguito.
Ma poi ho cambiato idea.
Sollevo lo sguardo dalla mia
scodella e poso gli occhi su di lei. Mi
supplica con un’occhiata di dire
qualcosa, di fare la confessione
finale che spiegherebbe tutto, per
lei. Ciò la aiuterebbe a capire la
ragione per cui si trova qui. Perché
lei e non quella stronza di sua
sorella? Perché lei e non quel
giudice arrogante che è suo padre?
È disperata, vorrebbe una risposta
esplicativa. Come mai tutto può
cambiare in un batter d’occhi? La
sua famiglia. La sua esistenza. Ma
si arrovella invano, se pensa che io
conosca la risposta. Sbaglia se
crede che un tipo abietto come me
possa aiutarla a vedere la luce.
«Cinquemila», dico.
«Come?». Non era questo che si
aspettava di sentire.
Mi alzo dalla sedia e la faccio
strisciare sul pavimento di legno. I
miei passi sono pesanti. Sciacquo la
scodella sotto l’acqua del rubinetto.
La poso nel lavandino facendola
sbattere e lei sussulta. Mi volto
verso di lei: «Mi hanno promesso
cinquemila dollari».
Eve
Prima
Mi sembra di sprecare le giornate.
Faccio spesso fatica a uscire dal
letto e, quando mi alzo, il mio
primo pensiero va a Mia. Tutte le
notti mi sveglio singhiozzando e,
per non disturbare James, mi
affretto a scendere al pianterreno.
Di giorno è una pena continua.
Vado al supermercato e sono certa
di vedere mia figlia che fa la spesa
tra lo scaffale dei cereali, mi fermo
appena in tempo per non gettare le
braccia al collo di una sconosciuta.
Quando vado a riprendere l’auto, mi
sembra di essere a pezzi, ci impiego
più di un’ora a lasciare il
parcheggio: m’incanto a osservare
le madri che entrano nel negozio
coi figli, tengono loro la mano
mentre attraversano la piazzola;
altre mettono quelli più piccoli sul
seggiolino del carrello.
Sono cinque settimane che vedo
la faccia di Mia e l’identikit di
quell’uomo apparire sugli schermi
televisivi. Ma ormai ci sono cose più
importanti
che
accadono nel
mondo. Un vantaggio e uno
svantaggio,
presumo,
perché
ultimamente i cronisti sono meno
invadenti. Non mi braccano davanti
a casa, non mi seguono quando
esco
per
le
commissioni.
L’accerchiamento e le richieste di
interviste sono in fase calante:
posso aprire le tende delle stanze
senza vedere decine di giornalisti
accampati sul marciapiede. Eppure
questo cambiamento m’inquieta,
ormai il nome della mia bambina
suscita apatia, sono stanchi di
aspettare il titolo da prima pagina
che potrebbe non avverarsi mai:
«Mia Dennett torna a casa», oppure
«Mia Dennett trovata morta». Mi
sembra che sia tutto deciso, come
le nubi nere che oscurano una
giornata invernale. Non verrò mai a
sapere niente. Penso alle famiglie
che recuperano i resti dei loro cari
dopo
dieci,
vent’anni
dalla
scomparsa, e temo che sarà così
anche per me.
Quando sono stanca di piangere,
mi faccio prendere dalla furia,
rompo i calici di cristallo italiano
tirandoli contro il muro, e dopo
spacco tutte le stoviglie della nonna
di James. Urlo con quanto fiato ho
in gola, lancio grida selvagge che
non mi appartengono.
Raccolgo i cocci prima che rientri
mio marito e nascondo i milioni di
pezzi
di
vetro
nel
bidone
dell’immondizia, sotto un filodendro
morto, così lui non può vederli.
Trascorro un pomeriggio intero a
osservare i pettirossi che migrano a
Sud, in posti come il Mississippi, per
l’inverno. Arrivano nella veranda sul
retro, grassi e infreddoliti, a fare
scorte di tutto quanto gli è possibile
reperire per il lungo viaggio. Piove,
e ci sono vermi ovunque. Li osservo
per ore, sono triste quando se ne
vanno. Passeranno mesi prima del
loro ritorno, le loro pance rossastre
riporteranno la primavera.
Un’altra
volta
arrivano
le
coccinelle. Sono migliaia, prendono
il sole nel cortile sul retro. È l’estate
di san Martino: fa caldo, le
temperature sono risalite sopra i 15
gradi, splende il sole. La tipica
giornata che si vorrebbe sempre in
autunno, i colori della natura sono
al loro meglio. Cerco di contarle
tutte, ma loro si disperdono, e ne
arrivano altre, per cui è impossibile
tenere il conto di quante siano. Non
so
per
quanto
tempo
mi
intestardisca a farlo. Mi chiedo cosa
faranno le coccinelle durante
l’inverno. Moriranno? E poi, alcuni
giorni dopo, quando la terra è
coperta dalla gelata, ripenso alle
coccinelle e mi viene da piangere.
Mi torna in mente Mia quand’era
bambina. Penso alle cose che
facevamo. Vado al parco giochi
dove ero solita portarla mentre
Grace era a scuola. Mi siedo
sull’altalena. Con la mano sposto la
sabbia nella cassetta, poi mi
accomodo su una panchina e fisso i
bambini. Guardo le madri fortunate
che hanno ancora i loro figli a cui
badare.
Ma soprattutto penso alle cose
che non ho fatto. A quando
rimanevo zitta se James sgridava
Mia perché 7 non era un bel voto
nei test di chimica, a quando lei ci
portò
a
casa
un
dipinto
impressionista da mozzare il fiato,
su cui si era impegnata più di un
mese, e lui l’aveva derisa: «Se
avessi dedicato lo stesso tempo alla
chimica, adesso avresti un bel 9 in
questa materia». Io li avevo solo
guardati di sottecchi, incapace di
intervenire. Per timore che James si
arrabbiasse, non ero stata capace
di consolare Mia dalla sua
delusione.
E quando lei lo informò che non
aveva affatto intenzione di iscriversi
a giurisprudenza, lui disse che non
aveva la possibilità di scegliere
altro. Mia aveva diciassette anni,
era nel pieno della tempesta
ormonale
e
mi
implorava:
«Mamma». Era disperata, voleva
che, almeno per una volta, mi
imponessi. Avevo continuato a
lavare i piatti, pur di eludere il loro
scontro. Ricordo la disperazione sul
volto di mia figlia, la contrarietà di
James. Scelsi il minore dei due
mali.
«Mia», dissi. Non dimenticherò
mai quel giorno. Sullo sfondo, lo
squillo del telefono, sebbene
nessuno di noi vi prestasse
attenzione. L’odore di qualcosa che
avevo bruciato in cucina, la fredda
aria primaverile che entrava da una
finestra che avevo aperto per far
sparire quella puzza. Il sole
indugiava ancora, era una cosa che
valeva la pena di commentare, se
non fossimo stati preoccupati per
Mia.
«Per lui è molto importante», le
dissi. «Vuole che tu diventi come
lui».
Lei era uscita furibonda dalla
cucina e, di sopra, aveva sbattuto la
porta della sua camera.
Sognava
di
studiare
all’Art
Institute
di
Chicago,
voleva
diventare un’artista. Era tutto ciò
che le interessava fare, da sempre.
James invece si opponeva.
Da quel giorno Mia iniziò il conto
alla rovescia per il suo diciottesimo
compleanno, preparava le cose che
avrebbe portato via con sé al
momento della partenza.
Oche e anatre volano sopra di me.
Mi stanno lasciando tutti.
Mi domando se Mia, da qualche
parte, stia osservando il cielo, se
stia vedendo la medesima cosa.
Colin
Prima
Abbiamo tempo per pensare, ne
abbiamo un sacco.
Quello stupido gatto continua a
gironzolare da queste parti, ora sa
che la ragazza è disposta a
sacrificare parte dei suoi pasti per
lui. Lei ha trovato una coperta
tarlata nell’armadio e, con una
scatola vuota presa dal pianale del
pick-up, ha creato una specie di
cuccia per quella bestia. Ogni
giorno gli porta del cibo.
Gli ha trovato perfino un nome:
Canoa. Non che si sia presa la briga
di dirmelo, però l’ho sentita
stamattina che lo chiamava, perché
non aveva dormito nella scatola.
Adesso è preoccupata.
Vado al lago e mi siedo là, pesco
tranquillamente. Mangerei trote per
il resto della vita se ciò significasse
non dover più ingurgitare qualcosa
di liofilizzato.
Il più delle volte prendo lucci, poi
occhiogrigi. A volte trote. I lucci li
distinguo per le macchie chiare, e
perché sono i primi ad abboccare. Il
lago si riempie ogni anno, così trovo
avannotti e pesciolini di pochi mesi.
Il persico è quello che mi fa
arrabbiare di più. Finché non lo tiro
fuori dall’acqua, scommetterei che è
il doppio di come poi si rivela.
Brutto bastardo.
Passo gran parte del tempo a
riflettere sul modo in cui ce la
caveremo. Sul modo in cui mi
salverò da questo casino. Comincia
a scarseggiare il cibo, il che vuol
dire tornare in un negozio. Ho i
soldi. Solo che non so quanto ci
vorrà prima che qualcuno mi
riconosca.
E cosa faccio della ragazza,
quando esco? La scomparsa della
figlia di un giudice è una notizia da
prima pagina, ci scommetterei
qualsiasi
cosa.
Qualunque
commessa di negozio la riconoscerà
e chiamerà la polizia.
Il che mi induce a chiedermi: La
polizia ha scoperto che ero con lei
la sera della sua scomparsa? La mia
faccia e la sua sono su tutti i fottuti
canali televisivi? Forse è un fatto
positivo, mi dico. Non per me, se
ciò significa che verrò catturato. Ma
se Valerie vede i miei connotati in
televisione, saprà che sono la
persona implicata nella scomparsa
di una donna di Chicago, e si darà
da fare. Saprà che non potrò essere
dove serve a garantire che ci sia
cibo in tavola e che le porte siano
chiuse. Saprà quel che occorre fare.
Quando la ragazza è distratta, tiro
fuori dal mio portafoglio una
fotografia. È logorata dal tempo,
rovinata sui bordi dalle tante volte
che l’ho tirata fuori e rimessa
dentro. Mi chiedo se e quando sarà
arrivato il denaro che ho rubato
durante la sosta a Eau Claire. Mi
chiedo se sa che proviene da me.
Al momento del recapito, si sarà
accorta che sono nei guai:
cinquecento dollari o più infilati in
una busta senza indicazione del
mittente.
Ma non sono un sentimentale, mi
basta sapere che lei sta bene.
Non è che sia sola. O almeno è ciò
che mi ripeto. La vicina passa ogni
settimana, raccoglie la posta e
controlla come sta lei. Vedranno i
soldi. Passata la domenica, non
vedendomi, lo sapranno. Se non
hanno già notato la mia faccia in TV.
Se Valerie non l’ha già vista e non è
andata da lei a controllare, ad
assicurarsi che stia bene. Cerco di
convincermi: c’è Valerie. È tutto
okay.
Quasi quasi ci credo.
Quella sera, più tardi, stiamo
all’esterno. Provo a grigliare il pesce
per la cena. Purtroppo, non
abbiamo la carbonella, quindi cerco
qualcos’altro per accendere il fuoco.
La ragazza siede sulla veranda,
avvolta in una coperta. Si arrovella
per il gatto, vuole sapere dove si
trovi. Sono due giorni che non lo
vede, si preoccupa. Comincia a fare
sempre più freddo. Prima o poi il
gatto morirà.
«Immagino che tu non sia un
cassiere di banca», dice.
«Cosa credi?», chiedo.
Lo prende come un no.
«Allora cosa fai?», domanda.
«Lavori?»
«Lavoro».
«Una roba legale?»
«Faccio quel che serve per
sopravvivere. Come te».
«Non penso», commenta.
«Come mai?»
«Io mi guadagno da vivere
onestamente. Pago le tasse».
«Come fai a sapere che io non le
pago?»
«Tu paghi le tasse?», si stupisce.
«Lavoro»,
ribadisco.
«Mi
guadagno di vivere in modo onesto.
Pago le tasse. Ho pulito i pavimenti
dei cessi in un’agenzia immobiliare.
Ho fatto il lavapiatti, ho scaricato le
casse dai camion. Lo sai quanto
pagano di questi tempi? Salario
minimo. Hai un’idea di cosa
significhi sopravvivere col salario
minimo? Faccio un doppio lavoro,
tredici o quattordici ore al giorno.
Così pago l’affitto e compro da
mangiare. Le persone come te,
cosa fanno? Otto ore al giorno più
le ferie annuali».
«Io insegno anche alla scuola
estiva», interviene lei. Una cosa
stupida da dire. Lo sa da sola, ancor
prima che glielo faccia capire con lo
sguardo.
Lei non sa un’acca di queste cose.
Non
riesce
nemmeno
a
immaginarsele.
Alzo gli occhi al cielo, alle nuvole
scure che minacciano non pioggia,
ma neve, che presto arriverà. Lei si
stringe la coperta addosso. Trema
per il freddo.
È consapevole che non le
permetterò mai di scappare. Ho da
perdere più io di lei.
«Hai fatto altre volte questa
cosa», afferma.
«Fatto cosa?»
«Rapimenti. Puntare la pistola alla
testa di qualcuno». Non è una
domanda.
«Forse sì, forse no».
«Non mi hai sequestrata come
uno alle prime armi».
Ho acceso il fuoco, metto i pesci
sulla griglia e vedo che cominciano
a cuocere.
«Non ho mai dato fastidio a
nessuno che non lo meritasse».
Però lo so anch’io che non è vero.
Giro i pesci. Si cuociono più in
fretta di quanto desideri. Li sposto
sul margine della graticola, per
evitare che si brucino.
«Potrebbe essere peggio», le
assicuro. «Molto peggio».
Mangiamo all’aperto. Lei siede a
terra, con la schiena appoggiata
alle assi dello steccato. Le porgo
una sedia, mi ringrazia ma la rifiuta.
Allunga le gambe davanti a sé,
incrocia le caviglie.
Il vento soffia tra gli alberi. Ci
voltiamo entrambi a osservare le
foglie che perdono la loro presa sui
rami e cadono al suolo.
Ed è allora che li sentiamo, i passi
sulle foglie secche che coprono il
terreno. È il gatto, penso subito, ma
poi mi accorgo che sono troppo
pesanti e decisi per quella bestiola
rinsecchita. Scambio un’occhiata
con la ragazza, mi porto l’indice alle
labbra
e
sussurro:
«Shh».
Dopodiché mi alzo e tasto la cintola
dietro la schiena, per cercare una
pistola che non c’è.
Gabe
Prima
Aspettavo per parlare coi Dennett,
prima volevo avere dei fatti in
mano,
ma
le
cose
vanno
diversamente. Sono alla mia
scrivania e sto masticando un
panino unto con una fettina di
manzo quando Eve Dennett si
presenta alla centrale di polizia;
chiede all’addetto alla ricezione di
potermi parlare. Mi sono appena
pulito il grasso dalla faccia con dei
tovagliolini di carta quando la vedo
lì davanti a me.
È la prima volta che viene in
centrale, e sembra proprio fuori
posto. Lei è tutt’altra cosa rispetto
agli ubriaconi e ai disgraziati che
ciondolano da queste parti.
Sento il suo profumo da lontano.
Sfila contegnosa davanti agli occhi
dei poveri stronzi seduti nello
stanzone, invidiosi nel vedere i suoi
tacchi alti fermarsi davanti a me.
Sanno tutti che il caso Dennett è
nelle mie mani, ed è ancora aperta
la scommessa sul mio eventuale
fallimento. Perfino il sergente era
disposto a puntarci dei soldi: diceva
che la posta in palio gli avrebbe
fatto comodo quando io e lui ci
saremmo ritrovati senza un lavoro.
«Salve, ispettore».
«Signora».
«È da qualche giorno che non ci
sentiamo», aggiunge. «Mi chiedevo
se ci fossero… notizie».
Ha un ombrello che gocciola sul
linoleum. La tempesta che infuria
fuori le ha scompigliato i capelli. È
una giornata orribile, fredda e
ventosa.
Non
da
trascorrere
all’aperto.
«Avrebbe
potuto
telefonare», dico.
«Sono
uscita
per
delle
commissioni», spiega, ma so che
mente. Oggi non uscirebbe nessuno
di casa, se non obbligato. È una di
quelle giornate in cui chi può resta
a casa in pigiama davanti alla
televisione.
La accompagno nella stanza dove
facciamo gli interrogatori e la invito
ad accomodarsi. Un posto squallido,
male illuminato, con un grosso
tavolo al centro e un paio di sedie
pieghevoli. Lei lascia l’ombrello a
terra ma tiene stretta la borsa. Le
chiedo di darmi il cappotto, ma non
vuole. Qui dentro fa freddo,
l’umidità penetra nelle ossa.
Mi siedo davanti a lei e metto sul
tavolo la cartella coi dati del caso.
Noto che posa gli occhi sulla
copertina marrone.
Mi concentro soprattutto sui suoi
occhi
azzurri.
Stanno
già
cominciando a gonfiarsi di lacrime.
Più passano i giorni e più mi ritrovo
a pensare a cosa succederà se non
riuscissi a rintracciare Mia. È
evidente che la signora Dennett sta
crollando, ogni giorno di più. Ha gli
occhi gonfi e stanchi, come se non
dormisse da tempo. Non voglio
nemmeno pensare a come si ridurrà
se la figlia non tornasse più a casa.
Penso sempre a questa donna,
giorno e notte, la immagino sola e
smarrita nella sua residenza, a
lambiccarsi il cervello sugli orrori
che potrebbero aver inflitto alla sua
bambina. Avverto un bisogno
fortissimo
di
proteggerla,
di
rispondere alle domande impellenti
che la tengono sveglia di notte: chi,
dove e perché?
«Stavo per chiamarla», affermo
con calma. «Ero proprio in attesa di
buone notizie».
«È accaduto qualcosa», dice lei.
Non è una domanda. È come se
sapesse che è successo qualcosa, e
quello è il motivo che l’ha portata in
centrale. «Qualcosa di brutto». Posa
la borsetta sul tavolo e ci infila una
mano per prendere un fazzolettino.
«Ci sono notizie, ma per il
momento niente di grave. Non ho
ancora vagliato bene cosa possano
implicare». Se fosse qui, il giudice
Dennett mi criticherebbe subito
aspramente. «Crediamo di sapere
con chi era Mia prima di sparire»,
dico. «Una persona ha identificato
la
foto
che
abbiamo
fatto
trasmettere dai telegiornali; quando
siamo
stati
nell’appartamento
dell’uomo, abbiamo trovato alcuni
effetti personali di Mia, la sua
borsetta e una giacca». Apro la
cartellina e sparpaglio delle foto sul
tavolo,
quelle
scattate
nell’appartamento dalla poliziotta
che mi aveva accompagnato. La
signora Dennett prende in mano
l’istantanea della borsa, una di
quelle tracolle da fattorino enormi.
Si trovava sul parquet, ne erano
usciti un paio di occhiali da sole e
un portafoglio verde. Eve si
tampona gli occhi col fazzoletto.
«Riconosce qualcosa?», chiedo.
«L’avevo scelta io, la borsa.
Gliel’ho comprata io. Lui chi è?»,
domanda, senza pause tra un
pensiero e l’altro. Esamina anche le
altre foto, una per volta, poi le
mette in fila. Incrocia le braccia sul
tavolo.
«Colin
Thatcher»,
scandisco.
Avevamo analizzato le impronte
digitali rilevate nell’appartamento di
Uptown e identificato l’uomo; ogni
altro nome che compariva in
quell’appartamento
(posta,
telefonino
ecc.)
era
uno
pseudonimo, un falso. Avevamo
confrontato le segnaletiche degli
arresti precedenti con lo schizzo del
ritrattista forense. Bingo.
Vedo che le tremano le mani,
anche se tenta di controllarsi. Senza
pensarci, tendo un braccio verso di
lei per tranquillizzarla. Sento che ha
le dita gelate, prima che lei possa
ritrarle,
nella
speranza
di
dissimulare la paura che prova.
«Ci sono delle riprese delle
videocamere di sicurezza. Mia che
entra nell’appartamento con Colin,
verso le undici di sera, e poi delle
sequenze
successive,
quando
lasciano l’edificio».
«Voglio vederle», dice con mia
grande sorpresa. La sua reazione è
decisa, diversa dal suo abituale
comportamento.
«Non credo sia una buona idea»,
ribatto. L’ultima cosa che Eve deve
vedere ora è la maniera in cui
l’uomo ha scaraventato Mia fuori
dell’edificio e il terrore negli occhi
della figlia.
«È un brutto spettacolo», ne
deduce.
«È inutile», mento. «Non voglio
che
si
faccia
un’impressione
sbagliata». Ma nella fretta con cui
l’uomo esce dall’ascensore, facendo
attenzione che nessuno veda
qualcosa, o nella paura impressa
negli occhi della ragazza non vi è
nulla di ambiguo. Lei piange; lui
articola delle frasi, che sono certo
contengano parolacce. È accaduto
qualcosa in quell’appartamento.
Anche le riprese di quando erano
arrivati
sono
eloquenti:
due
piccioncini che non vedevano l’ora
di farsi una sveltina.
«Ma lei era viva?»
«Certo».
«Lui chi è?», domanda. «Questo
Colin…».
«Colin Thatcher». Lascio la mano
della signora e armeggio ancora
nella cartella. Tiro fuori la fedina
penale dell’uomo. «È stato già
arrestato per vari reati, piccoli furti,
violazioni di proprietà, possesso di
marijuana. Ha scontato pene
detentive
per
spaccio
di
stupefacenti e lo si deve ancora
interrogare su un fatto in cui è
implicata la criminalità organizzata.
Secondo l’ufficio di sorveglianza
della libertà vigilata, si è reso uccel
di bosco alcuni anni fa e
attualmente è ricercato».
Non saprei descrivere l’orrore
impresso negli occhi azzurri della
donna. In quanto ispettore di
polizia,
sono
assuefatto
a
espressioni come «violazione di
proprietà»,
«criminalità
organizzata»
e
«ufficio
di
sorveglianza della libertà vigilata».
La signora Dennett, invece, le ha
sentite solo nelle repliche di Law &
Order. Non riesce ad afferrare bene
il quadro generale. Comunque, la
terrorizza il fatto che sua figlia sia
nelle mani di un delinquente di tale
risma.
«Cosa vorrà da Mia?», mi chiede.
Mi sarò posto quell’interrogativo un
migliaio di volte. Il crimine casuale
è piuttosto raro, generalmente le
vittime conoscono il loro aguzzino.
«Non saprei», ammetto. «Non ne
ho idea, ma le prometto che lo
scoprirò».
Colin
Prima
La ragazza posa il piatto sul
pavimento di legno di fianco a sé,
poi si alza per venirmi vicino;
guardiamo
entrambi
oltre
lo
steccato, verso la foresta fitta da
cui emerge una donna. Una
cinquantenne coi capelli corti e
scuri, con indosso un paio di jeans,
una camicia di flanella e gli scarponi
da escursione. Agita la mano come
se ci conoscesse, mentre mi viene
in mente che possa essere una
trappola.
«Oh, grazie al cielo», esclama la
donna
entrando nella
nostra
proprietà senza chiedere permesso.
Uno sconfinamento, un’invasione
abusiva del nostro spazio. Qui non
doveva esserci nessuno. Mi sento
soffocare, mi manca l’aria. La donna
tiene una borraccia d’acqua in
mano. Ha l’aspetto di una che ha
camminato per cento e più
chilometri.
«Possiamo aiutarla?», le parole mi
escono di bocca prima di poter
riflettere e decidere quello che
conviene fare. Il mio primo pensiero
sarebbe di prendere la pistola ed
eliminarla. Scaricare il suo corpo nel
lago e scappare. Ma non ho più
l’arma e non so dove la ragazza la
nasconda. Comunque, potrei legarla
e passare al setaccio il capanno per
trovarla. Sotto il materasso, in
camera da letto, oppure in una
fenditura tra i tronchi delle pareti.
«Ho una gomma a terra, sulla
strada a quasi un chilometro da
qui», dice. «Il vostro capanno è la
prima casa abitata. Ho cominciato a
camminare…», aggiunge, poi si
ferma a riprendere fiato. «Vi
dispiace se mi siedo per riposare?»,
chiede. Quando la ragazza annuisce
appena, crolla sull’ultimo gradino e
tracanna dalla borraccia come se
vagasse nel deserto da giorni.
Allungo una mano per afferrare
quella della ragazza e la stringo fino
a strapparle un gemito.
Dimentichiamo del tutto la nostra
cena. Ma ce la rammenta la donna.
«Mi dispiace di avervi interrotto»,
soggiunge, indicando i piatti sul
pavimento. «Volevo sapere se
potete aiutarmi a cambiare la
gomma. O magari a chiamare
qualcuno. Qui il mio telefonino non
ha campo», dice tenendolo in alto
per farcelo vedere. Ripete le scuse
per averci interrotto. Non ha idea
del casino in cui si sta infilando.
Non sta certo disturbando solo la
nostra cena.
Guardo negli occhi la ragazza. Ora
ha una possibilità, penso. Potrebbe
dire qualcosa alla donna, spifferarle
che sono un pazzo che l’ha rapita,
che la tiene prigioniera nel
capanno. Trattengo il fiato, temo
che possa andare storto un mucchio
di cose: la ragazza che mi tradisce,
la donna che potrebbe essere
un’esca per catturarmi. Forse agisce
sotto copertura, oppure per Dalmar.
O potrebbe anche essere una
semplice telespettatrice, che prima
o poi si accorgerà che quella è la
ragazza scomparsa.
«Non abbiamo un telefono», dico,
memore di aver lanciato il cellulare
di Mia nel bidone dell’immondizia, a
Janesville, e aver tagliato il filo del
telefono fisso subito dopo essere
arrivati. Né posso farle mettere
piede nel capanno e vedere come
viviamo da settimane: come due
evasi in fuga. «Però posso
aiutarla», aggiungo controvoglia.
«Non vorrei darvi fastidio»,
precisa la donna, mentre la ragazza
si affretta a dire: «Io resto qui a
lavare i piatti», chinandosi subito
per raccoglierli dal pavimento.
Non glielo permetterò mai, cazzo.
«Meglio se vieni anche tu», le
intimo. «Potrebbe servirci il tuo
aiuto».
Al contrario, la donna insiste: «Per
carità, non voglio trascinarvi fuori
tutti e due di notte», stringendosi
addosso la camicia di flanella per
sottolineare quanto faccia freddo.
Ma naturalmente non posso
lasciare sola la ragazza, anche se la
donna assicura di essere un’ottima
assistente. Mi prega di non
trascinarmi
dietro
la
mia
«fidanzata» in una sera come
quella. È da brividi, ribadisce, e
presto sarà notte.
Però non posso lasciarla sola, se
lo faccio potrebbe scappare. Già me
la immagino fiondarsi nei boschi e
allontanarsi per un paio di
chilometri prima che io finisca di
cambiare la gomma e torni indietro.
E poi sarebbe già buio e non avrei
alcuna chance di riacchiapparla.
La donna si scusa per avere
creato quest’inconveniente. Penso
di usare le mani per strozzarla:
basta comprimere la giugulare per
bloccare l’afflusso di ossigeno al
cervello. Forse è proprio quello che
dovrei fare.
«Ma io laverò solo i piatti…»,
obietta la ragazza, calma. «Così
non dovremo più pensarci dopo»,
aggiunge, lanciandomi uno sguardo
allusivo, come se volesse passare
con me la notte.
«Credo debba venire anche tu»,
ripeto gentilmente, posandole una
mano sul braccio, come se l’idea di
separarmi
da
lei
mi
fosse
insopportabile.
«Una fuga romantica?», azzarda la
donna.
«Qualcosa del genere», rispondo,
poi mi volto verso la ragazza e
sussurro, poco conciliante: «Forza,
vieni anche tu!». Mi avvicino al suo
orecchio
e
aggiungo
piano:
«Altrimenti la donna non esce viva
di qui». Per mezzo secondo, resta
immobile, raggelata. Poi posa i
piatti a terra e ci dirigiamo verso il
pick-up; io e la donna davanti, lei si
raggomitola dietro. Tolgo in fretta i
residui di corda e di nastro isolante
dal sedile del passeggero, sperando
che la donna non li abbia notati. Li
caccio nel vano portaoggetti e
chiudo la portiera, dopodiché mi
rivolgo a lei con un bel sorriso:
«Dove andiamo?».
Durante il tragitto ci racconta di
venire dal sud dell’Illinois. Insieme
a qualche amica si era sistemata in
un cottage, poi erano andate in
canoa sulle Boundary Waters.
Estrae
una
fotocamera
dalla
borsetta e ci mostra le immagini
digitali
delle
quattro
signore
attempate: sono sulla canoa, col
cappello da sole, o trincano vino
attorno a un fuoco. Questo mi fa
stare già meglio: non è una
trappola. Ci sono le foto a provarlo.
Era uscita in canoa con le amiche,
sulle Boundary Waters.
Lei però si premura di dirmi, come
se me ne fregasse qualcosa, che
aveva deciso di restare un altro
paio di giorni. È divorziata da poco
e non ha fretta di tornare in un
appartamento vuoto. Una divorziata
da poco, penso. Nessuno la aspetta
a casa. Passerà del tempo prima
che qualcuno si metta a cercarla e
ne
denunci
la
scomparsa;
sicuramente alcuni giorni, se non di
più. Abbastanza per darmi agio di
fuggire, di essere già lontano
quando qualcuno s’imbatterà nel
suo cadavere.
«E poi, proprio mentre progettavo
di rituffarmi nella civiltà», racconta,
«la gomma a terra. Devo averla
bucata su una pietra appuntita, o
sarà stato un chiodo».
La ragazza partecipa, cordiale:
«Probabile». Io faccio fatica anche
solo ad ascoltare. Ci arrestiamo
dietro la sua utilitaria. Prima di
uscire dalla macchina, controllo
rapidamente la fitta boscaglia
circostante: scruto nei più piccoli
recessi degli arbusti per vedere se
ci sono poliziotti, fucili, binocoli. Mi
assicuro che la gomma sia bucata
davvero. Lo è. Se fosse stato un
agguato, non si sarebbero affidati a
un piano tanto complicato per
fregarmi. In tal caso, non appena
uscito dal mio veicolo mi avrebbero
sbattuto con la faccia a terra, e
qualcuno sopra di me mi avrebbe
messo le manette ai polsi.
Vedo la donna che mi guarda
mentre arraffo alcuni attrezzi dal
pianale del pick-up; poi mi accingo
a togliere il coprimozzo e ad
allentare i bulloni, sollevando l’auto
col cric e sostituendo lo pneumatico
con la ruota di scorta. Le due donne
parlano di canoa, dei boschi del
Minnesota settentrionale, del vino
rosso, di un alce che la donna
aveva visto durante il viaggio, un
maschio dai palchi enormi che
errava fra gli alberi. Sono sicuro che
si sta sforzando di ricordare se ci ha
visti in televisione o no. Ma mi
ripeto che è stata per un po’ nel bel
mezzo del nulla con le amiche;
aveva
pagaiato,
aveva
campeggiato, aveva bivaccato e
bevuto vino. In tali occasioni non si
guarda la televisione.
Metto una torcia elettrica in mano
alla ragazza e le dico di reggerla.
Ormai è buio e non ci sono lampioni
da queste parti. Incrociando i suoi
occhi, la minaccio con lo sguardo,
ricordandole di evitare termini come
«pistola», «rapimento» e «aiuto».
Le ucciderei tutte e due. Io lo so, mi
chiedo se lei ne sia consapevole.
Allorché la donna ci domanda
informazioni sul nostro viaggio,
vedo la ragazza impietrirsi.
«Fino a quando resterete?»,
s’informa.
Siccome lei non risponde, sono io
a dire: «Una settimana più o
meno».
«E da dove venite?», domanda.
«Green Bay», rispondo.
«Ma davvero?», si stupisce. «Ho
visto la targa dell’Illinois e
pensavo…».
«Non sono ancora riuscito a
cambiarla, tutto qua», spiego,
maledicendomi mentalmente per il
mio errore.
«Siete
originari
dell’Illinois?»,
insiste.
«Sì», dico, senza aggiungere da
dove veniamo di preciso.
«A Green Bay vive un mio cugino;
in effetti, molto vicino, a Suamico».
Mai sentito parlare di questo buco
in culo al mondo. Eppure, lei
continua a cianciare. Il cugino è
preside in una scuola media. Lei ha
i capelli castani molto corti, come
quelli di una vecchia. Se la
conversazione langue, si mette a
ridere. Una risata nervosa. Poi cerca
un altro argomento da trattare.
Qualsiasi cosa. «Siete tifosi dei
Packers, la squadra di football?»,
chiede, e io confermo, mentendo.
Sistemo il più rapidamente
possibile la ruota di scorta, poi
abbasso il cric, stringo i bulloni e mi
rialzo a guardare la donna, in
dubbio se lasciarla andare via e
farla tornare nella civiltà, dove
potrebbe scoprire chi siamo e
avvertire la polizia. L’alternativa
sarebbe spaccarle la testa con la
chiave inglese e abbandonarla per
sempre nei boschi.
«Non sapete quanto apprezzi quel
che avete fatto», esclama, e io
penso a mia madre, abbandonata
nei boschi a diventare cibo per gli
orsi, allora annuisco e le dico che
non è niente. È così buio che riesco
appena a vederla e lo stesso vale
per lei. Stringo la chiave inglese in
mano, penso con quanta forza
dovrei colpirla per ucciderla. A
quante volte dovrei farlo. Mi chiedo
se sarebbe in grado di reagire,
oppure se cadrebbe subito giù,
tirando le cuoia.
«Se non vi avessi incontrato, non
so cosa avrei fatto». Avanza di un
passo per stringermi la mano e
aggiunge: «Credo di non aver
capito bene i vostri nomi».
Tengo stretta la chiave inglese.
Molto meglio che ucciderla a mani
nude. Molto meno personale. Non
dovrei fissarla negli occhi mentre
oppone resistenza. Un colpo ben
assestato e sarà tutto finito.
«Owen», dico, stringendo la sua
mano fredda, «e questa è Chloe»,
mentre la donna afferma di
chiamarsi Beth. Non so quanto
tempo rimaniamo così, in piedi sulla
strada buia, senza aggiungere altro.
Mi batte forte il cuore quando
vedo un martello nella cassetta
degli attrezzi. Forse potrebbe
funzionare meglio.
Ma poi avverto la mano della
ragazza sul mio braccio e sento le
sue parole: «Dovremmo andare».
Mi volto verso di lei e capisco che
mi legge nel pensiero, anche perché
ha notato come stringo la chiave
inglese,
pronto
a
colpire.
«Andiamo», ripete, conficcandomi
le unghie nella pelle.
Rimetto la chiave inglese nella
cassetta degli attrezzi, che sistemo
sul pianale del pick-up. Osservo la
donna mentre sale nella sua auto e
se ne va lentamente, coi fari che si
perdono nella folta vegetazione.
Ansimo, le mie mani sono
sudatissime quando apro la portiera
dell’auto ed entro per riprendere
una respirazione normale.
Eve
Dopo
Siamo seduti nella sala d’attesa,
io, Mia e James; lei sta in mezzo a
noi due, come la farcitura di crema
al latte degli Oreo. Me ne sto in
silenzio a gambe accavallate, con le
mani intrecciate sulle ginocchia.
Osservo un’illustrazione sulla parete
di fronte, uno dei tanti Norman
Rockwell in questa stanza: un
vecchio che applica lo stetoscopio
alla bambola di una ragazzina.
James è seduto con una caviglia sul
ginocchio, e intanto sfoglia le
pagine
di
«Parents».
Sbuffa
impaziente, io lo prego di calmarsi.
Aspettiamo da più di mezz’ora la
dottoressa, che è la moglie di un
giudice amico di mio marito. Mi
chiedo se Mia non ritenga strano il
fatto che tutte le copertine delle
riviste che ci sono in giro ritraggano
dei neonati.
La gente la squadra, cominciano i
commenti a bassa voce, sentiamo il
nome di Mia sulla bocca di perfetti
sconosciuti. La rassicuro con dei
colpetti sulla mano, le dico di non
agitarsi, suggerisco di ignorarli,
però anche a me riesce difficile
farlo. James va dalla segretaria per
accelerare le cose, e la donnetta coi
capelli rossi scompare per accertarsi
del motivo del ritardo.
Non abbiamo svelato a nostra
figlia la vera ragione per cui oggi
siamo qui. Non le abbiamo riferito i
miei sospetti. Le abbiamo solo
detto che eravamo preoccupati
perché ultimamente accusava dei
malesseri, e James aveva suggerito
una dottoressa dal cognome russo,
quasi impossibile da pronunciare.
Mia ci aveva spiegato di avere il
suo dottore di fiducia, nel cui
ambulatorio in centro si recava
saltuariamente ormai da sei anni;
ciononostante, il padre aveva
insistito, dicendo che la dottoressa
Wakhrukov era meglio. E a nostra
figlia non era venuto in mente che
la donna potesse essere una
ginecologa e un’ostetrica.
L’infermiera chiama il suo nome,
anche se ovviamente quando dice
«Mia», James deve darle un
colpetto con il gomito per ottenere
la sua attenzione. Lei posa la rivista
sulla sedia e io la guardo con occhi
dolci, chiedendole se vuole che
l’accompagni. «Se ti fa piacere»,
dice,
mentre
aspetto
la
disapprovazione di James, che
invece tace.
L’infermiera fissa Mia mentre la
pesa e le prende l’altezza. La
guarda come se fosse una celebrità,
anziché la vittima di un crimine. «Ti
ho vista in televisione», dice, ma le
parole
le
escono
in
modo
imbarazzato, quasi fosse incerta se
le ha pronunciate davvero o sono
rimaste nella sua testa. «Ho letto la
tua storia sui giornali».
Noi due non siamo sicure di quello
che si possa dire. Mia ha visto un
sacco di articoli che avevo ritagliato
durante la sua assenza. Avevo
cercato di nasconderli, però lei li ha
trovati lo stesso una volta che
cercava ago e filo in un cassetto del
mio comò per riattaccare un
bottone della camicetta. Non volevo
che vedesse quegli articoli per
paura che potessero ferirla. Invece
lei se li è letti uno per uno, finché
non l’ho interrotta, per cominciare
io stessa a leggerle le storie sulla
sua scomparsa, sulla polizia che
sospettava di un uomo e, col
passare del tempo, sui timori per la
sua possibile morte.
L’infermiera la invita ad andare in
bagno per orinare in un contenitore.
Pochi
minuti
dopo
torna.
L’infermiera le misura la pressione
sanguigna e le prende i battiti del
polso, poi le dice di spogliarsi e di
indossare un camice. Aggiunge che
la dottoressa arriverà a breve;
mentre Mia si spoglia, io mi volto.
La Wakhrukov è una donna triste
e austera, ormai vicina ai sessanta.
Entra nella stanza in modo brusco e
dice a Mia: «Quando hai avuto le
ultime mestruazioni?».
A lei deve sembrare strana quella
domanda. «Non ne ho… idea», dice,
al che la dottoressa annuisce, forse
rammentando solo a quel punto
l’amnesia di cui soffre mia figlia.
Dice che eseguirà un’ecografia
transvaginale: copre una sonda con
una sorta di preservativo che
spalma di gel. Ordina a Mia di
appoggiare i polpacci sulle staffe e,
senza altre spiegazioni, inserisce la
sonda. Mia sussulta e vuole sapere
cosa le sta facendo, non sa come
collegare quest’esame al grande
affaticamento che prova, alla
svogliatezza che le rende quasi
impossibile alzarsi dal letto al
mattino.
Resto in silenzio. Vorrei essere in
sala d’attesa con James, ma mi
ripeto che Mia ha bisogno di me, e
allora comincio a guardarmi intorno,
distogliendomi dall’esame intrusivo
della dottoressa nonché dall’ovvio
disagio e sconcerto di mia figlia.
Capisco che avrei dovuto rivelarle i
miei
sospetti,
spiegarle
che
l’affaticamento
e
le
nausee
mattutine non sono sintomi di un
disturbo acuto dovuto allo stress.
Anche se forse non mi avrebbe
creduto.
La stanza in cui si svolge l’esame
è sterile e asettica come la
dottoressa. C’è abbastanza freddo
da uccidere tutti i germi. Mia ha la
pelle d’oca. Il fatto che sia
completamente nuda, a parte il
camice di carta, non aiuta di certo.
Sul soffitto ci sono luci al neon
molto forti, che mettono in risalto
ogni capello grigio sulla testa della
dottoressa. Lei non sorride, ha
zigomi alti e il naso sottile da russa,
ma quando parla non ha un accento
slavo. «Confermo la gravidanza in
corso», dichiara, come un fatto
conclamato, come se Mia lo
sapesse già. Sento le gambe cedere
e vado a sedermi su una sedia, che
probabilmente è destinata ai futuri
papà inorgogliti.
Non a me, la sedia non era
destinata a me.
«Il battito cardiaco si comincia a
sentire intorno al ventiduesimo
giorno. Non è sempre possibile
rilevarlo subito, ma qui è evidente.
Piccolo, ma evidente. Vede?»,
chiede a Mia mentre sposta lo
schermo per mostrarglielo. «Questo
guizzo,
questo
movimento?»,
prosegue, puntando un dito su una
macchia scura, quasi immobile.
«Come?», domanda Mia.
«Qui, vediamo se è possibile
scorgerlo
meglio»,
dice
la
dottoressa spingendo la sonda
ancor più a fondo. Mia si contorce
per il dolore e il disagio, mentre la
russa la invita a rimanere ferma.
Tuttavia, la domanda di mia figlia
implicava una cosa diversa da
quella immaginata dalla dottoressa.
Non è che lei non riuscisse a vedere
dove puntava il dito. Mia si porta
una mano sulla pancia.
«Non può essere».
«Qui», ripete la dottoressa,
dopodiché estrae la sonda e porge
a Mia un pezzetto di carta
plastificata, un quadretto grigio,
bianco e nero che figurerebbe bene
fra l’arte astratta. È una foto, molto
simile a quella della stessa Mia
quando non era ancora nata.
Stringo la borsetta tra le mani
tremanti, rovistando dentro in cerca
di un fazzolettino.
«Cos’è questo?», chiede Mia.
«Il
bambino.
La
stampa
dell’ecografia». Poi le dice di alzarsi,
mentre si toglie il guanto di gomma
e lo getta in un cestino. Le sue
parole sono neutre, come se
ripetesse
una
lezione
per
l’ennesima volta: Mia dovrà tornare
in visita una volta al mese, fino alla
trentaduesima settimana, poi ogni
quindici giorni. Ci saranno esami da
fare: analisi del sangue, anche
l’amniocentesi se vuole, e il test
dell’intolleranza al glucosio, oltre a
quello
per
l’infezione
da
streptococco di gruppo B.
Verso la ventesima settimana di
gravidanza, se lo desidera potrà
conoscere il sesso del nascituro. «È
interessata a saperlo in anticipo?»,
le domanda.
«Non saprei», è tutto quanto
riesce a dire Mia.
La Wakhrukov s’informa se mia
figlia abbia altre curiosità da
soddisfare.
Ne
avrebbe
una,
sebbene trovi appena la voce per
formularla. Si schiarisce la voce e ci
prova, la sua domanda è poco più
che un sussurro: «Sono incinta?».
Sarebbe il sogno di tutte le
ragazze che si realizza. Cominciano
a pensarci fin da giovanissime,
ancora prima di sapere come si
fanno i bambini. Si baloccano con le
bambole,
le
accudiscono
e
fantasticano sul nome. Mia da
piccola preferiva nomi sofisticati:
Isabella, Samantha, Savannah. Poi
ci fu la fase in cui dovevano finire
sempre con I: Jenni, Dani, Lori. Non
le veniva mai in mente che avrebbe
potuto partorire un maschio.
«Sì, di circa cinque settimane».
Non doveva succedere così.
Appoggia una mano sulla pancia,
sperando di percepire qualcosa: il
battito cardiaco, un calcetto. È
troppo presto, eppure sperava di
sentire una vibrazione dentro di sé.
Niente di niente. Lo intuisco dal suo
sguardo quando si volta e mi vede
in lacrime. Si sente vuota,
evanescente.
Mi dice: «Non può essere. Non
posso essere incinta».
La dottoressa prende uno sgabello
girevole e si siede. Copre le gambe
di Mia con il camice e poi dice,
stavolta in tono più cortese: «Non
ricordi come sia accaduto?».
Mia scuote la testa. «Jason»,
azzarda, ma ci ripensa. «No, sono
stata con lui diversi mesi fa». Li
conta sulle dita: settembre, ottobre,
novembre,
dicembre,
gennaio.
«Cinque mesi», conclude. I conti
non tornano.
E ovviamente io so che Jason non
può essere il padre del bambino.
«Hai tempo per decidere cosa
preferisci fare. Ci sono varie
opzioni». La dottoressa porge a Mia
degli opuscoli: adozione, aborto. Le
parole
la
colpiscono
come
schioppettate, la confondono.
La dottoressa manda a chiamare
James, lasciando a Mia il tempo di
rivestirsi, prima che l’infermiera
arrivi con lui. Mentre aspettiamo,
chiedo a mia figlia di poter vedere
l’ecografia. Me la porge, ripetendo
meccanicamente «non può essere».
Ed è allora, prendendo in mano la
riproduzione fotografica di mio
nipote, carne della mia carne,
sangue del mio sangue, che scoppio
a piangere. James entra nella
stanza e il mio pianto si tramuta in
lamento. Cerco di trattenere le
lacrime, ma mi è impossibile.
Strappo un pezzo di carta dal
dispenser a parete e mi asciugo gli
occhi. Quando torna la dottoressa,
non ce la faccio più a tacere e
sbotto: «Ti ha stuprata, quel
bastardo ti ha violentata».
Ciononostante, Mia non prova
ancora niente.
Colin
Prima
È arrivato l’inverno. Al nostro
risveglio stava nevicando e la
temperatura all’interno del capanno
era scesa di una decina di gradi.
Non abbiamo l’acqua calda. Lei si
mette addosso vari strati di vestiti.
Due paia di pantaloni termici e quel
felpone bordeaux mezzo sformato.
S’infila un paio di calzini di lana,
sostenendo di odiarli, ma senza le
si congelerebbero i piedi. Ripete di
aver sempre detestato i calzini,
anche quando era piccolissima. Se li
toglieva rabbiosamente dai piedini
e li lanciava sul pavimento fuori
della culla.
Non ho mai ammesso di sentire
freddo anch’io, però adesso si gela,
maledizione. Appena alzato, ho
acceso il fuoco. Ho già bevuto tre
tazze di caffè. Sono seduto al
tavolo, con davanti a me una
vecchia cartina geografica degli
Stati Uniti lacera. L’ho presa nel
vano portaoggetti del pick-up,
insieme a una penna che scrive a
malapena con cui traccio un cerchio
intorno al nome delle strade
migliori per allontanarci da questo
postaccio. Mi sono fissato col
deserto, da qualche parte fra Las
Vegas e Baker, in California. Un
posto caldo. D’acchito progetto di
deviare verso Gary, nell’Indiana, per
evitare d’incorrere nelle pattuglie
autostradali che possono localizzare
e identificare l’auto. Potrei anche
abbandonarla e rubarne un’altra,
sperando che non denuncino il
furto. Oppure si potrebbe salire su
un treno merci. Se già ci cercano, ci
saranno
blocchi
stradali
dappertutto, specie dalle parti di
Gary, nel caso avessi il fegato di
avvicinarmi a casa mia. Forse la
polizia la sorveglia. Magari hanno
piazzato una squadra attorno alla
vecchia casa di Gary, aspettano che
ci passi o faccia una mossa
sbagliata.
Maledizione.
«Andiamo da qualche parte?»,
chiede la ragazza guardando la
cartina, mentre io la ripiego e la
metto via.
Non mi degno di risponderle.
«Vuoi un caffè?», propongo invece,
consapevole che non potremmo
resistere a lungo nel deserto. Le
possibilità di una vita normale
sarebbero praticamente azzerate, ci
rimarrebbe solo la prospettiva della
sopravvivenza. Allora decido che
non possiamo dirigerci verso le
zone desertiche. L’unica scelta che
rimane è espatriare. Non abbiamo
soldi sufficienti per prendere un
volo, per cui, a mio avviso, restano
due opzioni: verso Nord o verso
Sud, il Canada o il Messico.
Ma per espatriare ovviamente ci
servono i passaporti.
È allora che lo capisco: devo
darmi da fare.
Lei scuote la testa.
«Non bevi caffè?»
«No».
«Non ti piace?»
«Non assumo caffeina».
Mi racconta che aveva bevuto il
caffè per molto tempo, benché la
facesse agitare e innervosire. Non
riusciva a stare ferma. Poi l’euforia
svaniva e un forte affaticamento
prendeva il suo posto. Così,
prendeva un’altra tazza di caffè. Un
circolo vizioso. «E se evitavo la
caffeina», aggiunge, «mi venivano
emicranie spaventose che mi
toglievano
le
forze,
e
che
passavano solo se scolavo una
lattina di Mountain Dew8».
Gliene verso comunque una tazza.
Lei prende tra le mani il recipiente
caldo e avvicina la faccia al bordo.
Il vapore sale verso il suo viso. Sa
che non dovrebbe, ma lo fa lo
stesso: si porta la tazza alle labbra
e le appoggia per un attimo. Poi
beve
un
sorso,
bruciandosi
l’esofago.
Tossisce.
«Attenzione», dico troppo tardi.
«È bollente».
Non ci sono cose da fare se non
stare seduti a guardarci negli occhi.
Perciò, quando mi propone di farmi
un ritratto, accetto. Non c’è molto
altro da fare, qui.
In realtà, non vorrei dire di sì.
All’inizio non è difficile, ma poi
vuole che stia fermo, guardi dritto
davanti a me e sorrida.
«Basta», sbotto. «Mi sono rotto».
Mi alzo. Col cavolo che me ne
resterò lì a sorridere per un’altra
mezz’ora.
«Va bene», dice conciliante, «non
sorridere.
Non
guardarmi
nemmeno. Resta solo fermo,
seduto».
Mi piazza davanti al fuoco,
premendomi le sue dita ghiacciate
sul petto. Mi fa abbassare sul
pavimento. Sfioro quasi la stufa con
la schiena. La fiamma per poco non
mi fa un buco nella maglia, e
comincio a sudare.
Ripenso all’ultima volta che mi ha
toccato. La disperazione delle sue
mani quando voleva spogliarmi. E
all’ultima volta che l’ho toccata io:
un sonoro schiaffo in faccia.
La stanza è tetra, i tronchi di pino
che formano le pareti e il soffitto
escludono ogni spiraglio di luce. Li
conto: sono esattamente quindici in
altezza. Non c’è sole che possa
penetrare dalle piccole finestre.
La guardo. Non è brutta, tutt’altro.
La
prima
sera,
nel
mio
appartamento, era bellissima. Mi
fissava con quei suoi occhi azzurri
senza sospettare nulla, senza
immaginare neanche per un attimo
che,
dentro
di
me,
avevo
architettato questa cosa.
Sta seduta sul pavimento con la
schiena appoggiata al sofà, le
gambe raccolte e il quaderno da
disegno sulle ginocchia. Prende una
matita dal mazzo ed estrae la mina.
Inclina la testa, i capelli cadono di
lato. Con gli occhi traccia la forma
del mio viso, la curva del mio naso.
Non so perché, ma mi viene
l’impulso di picchiare l’uomo che
stava con lei, prima di me.
«L’ho pagato», confesso. «Il tuo
ragazzo, gli ho dato cento dollari
perché si trattenesse al lavoro
quella sera».
Non mi aveva domandato il
motivo e io non glielo avevo detto.
Quel vigliacco mi aveva strappato i
soldi di mano ed era scomparso nel
nulla. Non le dico che l’avevo
affrontato a muso duro nel bagno,
con in mano una pistola.
Con cento dollari, oggi, si possono
comprare molte cose.
«Doveva lavorare», dice.
«È quello che ha raccontato a te».
«Jason fa sempre gli straordinari».
«Questo è quello che dice».
«È la verità».
«Forse, a volte».
«Ha successo».
«Nel mentire».
«Quindi l’hai pagato. E allora?»,
scatta.
«Perché sei voluta venire a casa
mia?», indago.
«Prego?»
«Perché ci sei venuta, quella
sera?». Deglutisce a fatica e non
risponde.
Finge
di
essere
concentrata sul disegno, tratteggia
furiosamente le linee sulla pagina.
«Non mi pare una domanda
difficile», commento.
Gli occhi le si riempiono di
lacrime. Una vena le pulsa sulla
fronte. Comincia a sudare e le
tremano le mani. È furibonda.
«Ero ubriaca».
«Ubriaca».
«Sì, lo ero».
«Perché questo sarebbe l’unico
motivo per cui una come te
andrebbe a casa di uno come me,
non è vero?»
«Perché è l’unico motivo per cui io
andrei a casa con te».
Mi osserva, e mi chiedo cosa
vede. Cosa crede di vedere. Pensa
che io sia insensibile alla sua
indifferenza, ma si sbaglia.
Mi tolgo il maglione e lo lascio
cadere vicino ai miei stivali
pacchiani. Ho una canottiera e un
paio di jeans, senza i quali non mi
ha mai visto probabilmente. Traccia
il mio volto sul foglio, linee e ombre
inquiete per rappresentare il
demonio che vede davanti al fuoco.
Certo, quella sera aveva bevuto
qualche
bicchiere,
però
era
abbastanza lucida per sapere ciò
che stava facendo, per accettare
con piacere le mie mani su di lei.
Ma questo ovviamente era accaduto
molto prima che si rendesse conto
di chi ero in realtà.
Non so quanto tempo restiamo in
silenzio. Sento il suo respiro, il
rumore della mina che graffia la
superficie del foglio. Mi sembra di
avvertire anche i suoi sentimenti:
rabbia e ostilità.
«Assomiglia alle sigarette o alla
marijuana», dico infine.
La frase la sconcerta. «Cosa?».
Non smette di disegnare, fa quasi
finta di non ascoltare. Ma in realtà
presta grande attenzione.
«La mia vita, quello che faccio. Si
sa che fanno male la prima volta
che le provi. Le sigarette. L’erba.
Ma ci si convince che va tutto bene,
che è tutto sotto controllo. Una
volta, poi basta, solo per fare
quell’esperienza. E all’improvviso ti
ci ritrovi dentro, non è più possibile
uscirne neanche volendo. Non era
tanto perché mi serviva il denaro, il
che è vero. Quanto perché se
tentavo di uscirne mi avrebbero
ucciso. O qualcuno avrebbe fatto la
spia sul mio conto e sarei finito in
galera. Non esisteva la possibilità di
dire di no».
Smette di disegnare. Mi chiedo
cosa dirà. Un commento da
saccente, ne sono sicuro. E invece
no. Non dice niente. Ma scompare
la vena sulla sua fronte, le sue mani
smettono di tremare. I suoi occhi
non sono più lucidi. Mi guarda e
annuisce.
8
Bevanda gasata, commercializzata dalla
Pepsi Cola. (n.d.t.)
Eve
Dopo
Dall’atrio vedo James che si lancia
verso la camera di Mia con grande
furia. Il rumore dei passi pesanti
fuori della porta la sveglia e la fa
sussultare. Si siede, probabilmente
con gli occhi sbarrati dalla paura e il
cuore che le batte all’impazzata nel
petto, come capita quando si è
terrorizzati. Le ci vuole un attimo
per rendersi conto di dove si trova:
quel che resta del suo guardaroba
adolescenziale
ancora
appeso
nell’armadio, il tappeto di iuta e un
poster di Leonardo DiCaprio che
aveva incollato alla parete quando
aveva quattordici anni, tutte cose
familiari. Ricorda dove si trova. È a
casa, al sicuro. Nasconde la faccia
tra le mani e comincia a piangere.
«Devi vestirti», dice James.
«Andiamo dalla strizzacervelli».
Dopo che lui esce dalla stanza,
entro e aiuto Mia a scegliere un
completo coordinato. Cerco di
placare le sue paure, ricordandole
che qui a casa è al sicuro. «Nessuno
ti può far del male», la rassicuro,
sebbene nemmeno io ne sia tanto
certa.
In auto, Mia mangia un pezzetto
di pane tostato che le ho portato.
Non lo vuole neanche, ma io mi
volto
continuamente
e
la
incoraggio:
«Forza,
un
altro
boccone», come se avesse di nuovo
quattro anni. «Ancora un piccolo
morso».
Ringrazio la dottoressa Rhodes
per averci trovato un buco di
mattina presto nella sua agenda.
James la requisisce per dirle
qualche parola in privato, mentre io
aiuto Mia a togliersi il cappotto,
dopodiché la dottoressa e mia figlia
scompaiono in un’altra stanza.
Stamattina
la
Rhodes
si
soffermerà sul nascituro. Mia nega
che un feto si stia formando nel suo
grembo. E suppongo che sia anche
il mio atteggiamento. È appena in
grado di pronunciare la parola
«bambino». Quasi le rimane in gola,
e ogni volta che io o James tiriamo
fuori l’argomento, lei giura che non
può essere vero.
Così, abbiamo pensato che
sarebbe stato utile farla parlare con
la psichiatra, che è imparziale. La
Rhodes le ribadirà le opzioni
disponibili, anche se immagino già
la reazione di Mia: «Le mie opzioni
per cosa?», al che la dottoressa
dovrà ricordarle del feto.
«Chiariamolo subito, Eve», mi dice
mio marito dopo che Mia e la
dottoressa si sono chiuse nell’altra
stanza. «L’ultima cosa che vogliamo
è che lei porti a termine la
gravidanza di un figlio avuto da
quell’individuo. Dovrà abortire, al
più presto». Indugia, riflette sulla
possibile organizzazione della cosa.
«Quando
la
gente
chiederà,
racconteremo che il bambino non ce
l’ha fatta. Lo stress di questa
situazione», precisa. «Non è
sopravvissuto».
Non commento. Non ce la faccio.
Osservo James che tiene una
mozione in limine sulle ginocchia.
Legge il documento con più
attenzione di quella che dedica alla
figlia e al nipote non ancora nato.
Cerco di convincermi che si sta
comportando bene. Ma non ne sono
sicura. Non è stato sempre così.
Non è
sempre
stato tanto
disinteressato alle questioni di
famiglia. Nei pomeriggi di calma,
quando lui è al lavoro e Mia
schiaccia un pisolino, vado a
riesumare i nostri ricordi più
piacevoli con le ragazze: vecchie
foto in cui lui tiene in braccio Grace
o Mia in fasce, filmini amatoriali in
cui gioca con loro, lo riascolto
cantargli la ninnananna. Allora era
diverso. Rammento i primi giorni di
scuola delle nostre figlie e le loro
feste di compleanno, giornate
speciali a cui James non sarebbe
mancato per nulla al mondo.
Recupero le foto in cui insegna loro
a usare la bicicletta senza rotelline,
in cui nuotano insieme in una
splendida piscina d’albergo o
ammirano i pesci in un acquario.
Lui proviene da una famiglia ricca
sfondata. Suo padre è avvocato,
come lo era suo nonno, e forse
anche il bisnonno, questo non lo so
onestamente. Suo fratello Marty è
un deputato dello Stato, mentre
Brian è uno dei più famosi
anestesisti della città. Le figlie di
Marty (Jennifer ed Elizabeth) sono
avvocati, una nel ramo industriale e
l’altra nel diritto d’autore. Anche
Brian ha avuto il privilegio di avere
degli eredi: un figlio è un legale
esperto in diritto societario, un altro
dentista e il terzo neurologo.
James fa di tutto perché la sua
immagine non ne esca offuscata.
Non lo ammetterebbe mai, però è
sempre stato in competizione coi
fratelli: fanno a gara per chi
guadagna di più e per chi è il più
potente fra loro; ognuno vuole
essere il Dennett più importante
dello Stato.
E James non ha mai concepito
l’idea di arrivare secondo.
Il pomeriggio scendo spesso nel
seminterrato e passo al setaccio le
vecchie scatole di scarpe dove
abbiamo accumulato le fotografie,
per dimostrare a me stessa che
quei momenti di amore paterno
sono stati reali, seppur passeggeri.
Non immaginavo di ritrovare un
disegno che Mia ha fatto a cinque
anni con mano incerta, con tanto di
scritta TI VOGLIO BENE, PAPÀ. La figura
più alta e quella più bassa si
tengono per mano (anche se le dita
non sono disegnate) e i sorrisi sulle
loro
facce
sono
esagerati.
Tutt’attorno al foglio lei aveva
appiccicato una trentina di adesivi
rosa e rossi a forma di cuore. Una
sera, dopo che era tornato
dall’ufficio, glielo avevo mostrato, e
lui si era messo a studiarlo a lungo,
per poi portarselo nello studio e
fissarlo con una calamita allo
schedario nero.
«È per il bene di Mia», dice
spezzando il silenzio assordante.
«Le serve tempo per guarire».
Non lo so, forse le cose stanno
diversamente.
Vorrei dirgli che esistono altre
maniere. Per esempio, l’adozione.
Mia potrebbe dare il figlio a una
famiglia che non può averne e
renderla molto felice. Ma mio
marito valuta le cose altrimenti: per
lui ci sarebbero sempre degli
inconvenienti. Cosa succederebbe
se l’adozione non andasse a buon
fine? Se
i
genitori
adottivi
decidessero di non volere più il
neonato? Se il bambino nascesse
con un difetto genetico? Se, una
volta cresciuto e diventato adulto,
cercasse Mia e le rovinasse di
nuovo la vita?
Per contro, l’aborto sarebbe una
soluzione facile e rapida. Così la
vede James. E chi se ne frega del
senso di colpa che ossessionerebbe
nostra figlia per il resto della vita…
Quando finisce la seduta con Mia,
la
dottoressa
Rhodes
la
accompagna nella sala d’attesa e,
prima di congedarci, le posa una
mano sul braccio, dicendole: «Non è
una cosa che devi decidere oggi,
subito. Hai molto tempo a
disposizione».
Io invece capisco dal suo sguardo
che James ha già deciso.
Colin
Prima
Non riesco a dormire, e non è la
prima volta. Ho provato a contare
le pecore, i maialini, qualsiasi cosa,
perciò adesso misuro con i passi la
stanza. Ogni notte è una fatica.
Ogni notte penso a lei. Ma stanotte
è ancora peggio, perché la data sul
mio orologio mi ricorda che è il suo
compleanno. Così, penso a lei tutta
sola, a casa.
È buio pesto, ma all’improvviso
sento dei passi nella stanza che non
sono i miei.
«Mi hai spaventato a morte»,
dico. Riesco appena a scorgere il
suo profilo nel buio.
«Mi dispiace», mente la ragazza,
che poi chiede: «Cosa stai
facendo?». Mia madre brontolava
sempre per il mio passo pesante.
Diceva che avrei potuto svegliare i
morti.
Non accendiamo la luce e ci
scontriamo a causa dell’oscurità. Ma
non ci scusiamo. Proseguiamo nella
nostra direzione.
«Non riuscivo a prendere sonno»,
spiego. «Sto cercando di schiarirmi
le idee».
«Su cosa?», chiede lei.
All’inizio
taccio.
Non
voglio
dirglielo, non ha bisogno di saperlo.
Ma poi glielo spiego. È così buio che
posso fingere che lei non sia lì.
Comunque, non è per questo, il
motivo è diverso. Ha qualcosa a che
fare col modo in cui ha detto «non
importa» prima di dirigere i passi
fuori della stanza. Allora mi è
venuta voglia di raccontarglielo, di
farla rimanere nella stanza.
Le dico che mio padre ci ha
abbandonato quando ero piccolo,
ma che comunque non aveva
importanza. Era come se non ci
fosse
mai
stato.
Beveva.
Frequentava i bar e scommetteva.
Eravamo a corto di soldi anche
senza bisogno che lui li sprecasse.
Inoltre era un puttaniere e un
truffatore. Le dico che ho imparato
a vivere nel modo più duro: non
sempre c’era cibo in tavola o acqua
calda per il bagno. E peraltro
nessuno mi faceva il bagno. Avrò
avuto tre-quattro anni.
Mio padre aveva un brutto
carattere. Era irascibile e mi
impauriva da matti quando ero
piccolo. Con me più che altro
urlava, non parlava. E poi picchiava
mia madre. L’ha fatto parecchie
volte.
Capitava che lavorasse, ma
perlopiù era
disoccupato. Lo
licenziavano spesso perché non
arrivava in orario, o perché si
presentava
ubriaco,
oppure
insultava il capo.
La mamma lavorava come un
cane. Non era mai a casa perché
fino alle cinque di pomeriggio
faticava in panetteria e poi la sera
faceva la barista, in un locale dove
gli uomini le mettevano le mani
addosso e la chiamavano «tesoro»
o «bambola». Mio padre le dava
della troia. «Una troia buona a
nulla», diceva.
Le racconto che mia madre mi
comprava i vestiti nei negozi
dell’usato, che nei giorni di raccolta
dell’immondizia perlustravamo la
città per caricare nella nostra auto
qualsiasi cosa trovassimo. Siamo
stati
sfrattati
diverse
volte.
Dormivamo in macchina. Prima di
scuola, ci affrettavamo verso una
stazione di servizio, così potevo
intrufolarmi nei gabinetti per
lavarmi i denti. Alla fine, gli
inservienti capirono l’antifona e ci
dissero che avrebbero chiamato gli
sbirri.
Racconto tutte le volte che, nei
negozi di alimentari, aiutavo la
mamma a fare la spesa.
Avendo una ventina di dollari in
tutto, metteva nel cestino il
necessario: latte, banane, scatole di
cereali. Alla cassa però il totale
superava sempre i venti dollari,
anche se ci eravamo sforzati di
calcolare bene, a mente. Allora
dovevamo scegliere cosa scartare
(cereali
o
banane?),
mentre
qualche
rompicoglioni
che
aspettava in fila sbuffava, ci diceva
di sbrigarci. Ricordo che una volta
dietro di noi c’era un cretino della
mia stessa scuola. La voce si sparse
e dovetti sorbirmela per due
settimane: ripetevano che la
mamma di Thatcher non aveva
abbastanza soldi per comprare le
fottute banane!
Adesso sto zitto, e lei non dice
niente. Qualsiasi altra ragazza
avrebbe detto di essere tanto
dispiaciuta o una cosa per
dimostrare
solidarietà,
oppure
avrebbe commentato su quanto
dovesse essere stata dura per me.
Ma lei no. Non perché non sia
capace di immedesimarsi, ma
perché sa che non è la compassione
quello che cerco o di cui ho bisogno.
Non avevo mai raccontato a
nessun altro la storia di mio padre.
Né quella di mia madre. Ora l’ho
fatto. Forse per la noia, non so.
Eppure, mi sembra che vi sia
dell’altro, che questa ragazza abbia
qualcosa che mi aiuta a confidarmi,
che mi invoglia a parlare, che mi
induce a liberarmi del peso che mi
opprime. E magari, forse, dopo
potrò dormire.
«Quando avevo cinque o sei anni,
lei cominciò a tremare, prima le
mani», proseguo. Quindi iniziò ad
avere problemi sul lavoro. Le
cadevano le cose, versava da bere
dappertutto. Nel giro di un anno
cominciò a trascinare i piedi, non
riusciva più a camminare dritta. Poi
quasi si immobilizzò, braccia e
gambe praticamente bloccate. La
gente la fissava, le diceva di darsi
una mossa. Lei smise di sorridere,
quasi non batteva più ciglio. Cadde
in depressione. Non ce la faceva più
a tenersi il lavoro. Era troppo lenta,
troppo maldestra.
«Il
morbo
di
Parkinson»,
interviene la ragazza, e io annuisco,
anche se lei non mi può vedere. La
sua voce è talmente vicina che
potrei toccarla, però non vedo
l’espressione del suo volto. Non
riesco a cogliere la commozione nei
suoi occhi azzurri.
«Così dicevano i dottori». Quando
ero alle medie, dovevo già aiutarla
a infilarsi i vestiti, sempre maglioni,
perché altrimenti avrebbe avuto
difficoltà con le cerniere lampo.
Arrivato alle superiori, dovevo
portarla anche in bagno. Non
riusciva più a usare un coltello, non
ce la faceva più a scrivere il suo
nome.
Per attenuare i sintomi, assumeva
delle medicine, che però avevano
forti effetti collaterali. Nausea,
insonnia, incubi. Allora smise di
prenderle. A quattordici anni
cominciai
a
lavorare,
mi
ammazzavo di fatica ma non
guadagnavo mai abbastanza. Mio
padre nel frattempo se ne era
andato. Non appena la mamma si
era ammalata, lui aveva preso il
volo. Quando divenni maggiorenne
lasciai la scuola e me ne andai di
casa. Pensavo che in città avrei
potuto accumulare più soldi. Le
spedivo tutto il possibile per pagarsi
l’assistenza sanitaria e comprare
qualcosa da mangiare. Così non
sarebbe finita per strada. Però i
soldi non erano mai sufficienti.
Poi un giorno, facevo il lavapiatti
in un ristorante, chiesi al capo se
potevo fare degli straordinari
perché ero quasi al verde, e lui mi
disse: «Non lo siamo tutti?». Gli
affari andavano a rilento, comunque
sapeva da chi avrei potuto ottenere
un prestito.
E il resto è storia nota.
Gabe
Prima
Rintraccio una parente di Colin a
Gary: Kathryn Thatcher, è sua
madre.
Avevamo
trovato
un
cellulare nascosto in un cassetto
della sua cucina (intestato a Steve
Moss, altro nome di Colin) e ci
eravamo subito adoperati per
recuperare le chiamate effettuate.
Quasi ogni giorno lui telefonava a
una donna di mezz’età residente a
Gary, nell’Indiana. L’altra cosa che
aveva attirato la mia attenzione
erano state tre chiamate a un
cellulare con scheda prepagata, la
sera in cui era scomparsa Mia, oltre
a una decina di telefonate ricevute
dallo stesso numero nelle prime ore
della mattinata seguente. Metto al
lavoro i tecnici per scaricare la
segreteria, dopodiché ce ne stiamo
lì tutt’orecchi ad ascoltare i
messaggi. Un tipo vuole sapere
dove diavolo sia la ragazza, la figlia
del giudice, e perché Thatcher non
l’abbia consegnata. Non ha un tono
amichevole,
sembra
parecchio
arrabbiato. Incazzato.
Devo quindi dedurne che Colin
Thatcher lavora per qualcun altro.
Ma chi?
Cerco di rintracciare il proprietario
di questo telefonino con scheda
prepagata. So che era stato
acquistato in un negozio di
casalinghi a Hyde Park. Ma il
proprietario del locale, un indiano
che conoscerà al massimo tre
parole di inglese, non ha idea di chi
l’abbia comprato. Sembra che sia
stato pagato in contanti. La mia
solita fortuna.
Decido di interrogare la madre. Il
sergente vorrebbe usare la sua
influenza per servirsi di un agente
del posto, ma io mi oppongo: lo
farò io stesso.
Gary non gode affatto di buona
fama, qui a Chicago. Lo si considera
un posto infernale, in cui gran parte
della popolazione crepa di fame. Ci
abita una fetta notevole di
afroamericani, e ci sono enormi
acciaierie che scaricano fumi tossici
nell’aria situate intorno al lago
Michigan.
Il sergente vuole venire con me,
ma lo convinco a non farlo e ci vado
da solo. Non voglio spaventare la
povera donna, che in tal caso non
aprirebbe bocca. Ho commesso
l’errore di rivelare alla signora
Dennett che il mio viaggetto è
programmato per oggi. Non che
abbia chiesto di accompagnarmi,
però me l’ha fatto capire con
un’allusione.
Le
ho
posato
delicatamente una mano sul braccio
e le ho promesso: «Sarà la prima
che informerò».
Mi ci vogliono un paio d’ore. Sono
un’ottantina di chilometri, ma la
gran quantità di autoarticolati che
percorrono la I-90 mi costringe a
rallentare, a procedere ai quaranta
all’ora. Faccio lo sbaglio di fermarmi
in un posto dove servono caffè
senza che si debba uscire dall’auto,
e quasi me la faccio addosso prima
di arrivare a destinazione. A Gary
mi fermo in una stazione di servizio,
felice di avere un arsenale sotto i
vestiti.
Kathryn Thatcher vive in una
fattoria celeste. L’abitazione è
vecchia, risale come minimo agli
anni Cinquanta. Il prato non è stato
falciato e le erbacce crescono
ovunque. Le piante nei vasi sono
morte.
Busso alla zanzariera e attendo
sul passetto di cemento, che
avrebbe un disperato bisogno di
qualche riparazione. Una giornata
fosca, tipica del novembre qui nel
Midwest. Che cosa noiosa: con 5
gradi si sente freddo, e tra un paio
di mesi pagheremo per avere
temperature simili. Siccome non
risponde
nessuno,
apro
la
zanzariera e busso alla porta di
legno con una ghirlanda appesa a
un chiodo arrugginito. La porta è
aperta. Cede nonostante il mio
tocco
sia
stato
leggero.
Maledizione. Forse sarei dovuto
venire col sergente. Metto la mano
sulla pistola, entro in punta di piedi
e chiamo: «Signora Thatcher!».
L’ingresso è talmente datato che mi
sembra di stare a casa di mia
nonna:
tappeti
polverosi,
rivestimenti in legno, carta da
parati strappata e mobili sparsi, il
tutto assolutamente
privo di
qualunque criterio estetico, come
ad esempio la tappezzeria a fiori
abbinata a un rivestimento in pelle
grigio talpa, peraltro strappato.
Mi
tranquillizza
un
ronzio
proveniente dalla cucina. Ripongo la
pistola nella fondina per non
spaventare a morte la donna, poi
mi cadono gli occhi su una foto che
ritrae Colin Thatcher e quella che
presumo sia Kathryn, tutta in
ghingheri, in una cornice sopra un
televisore 27 pollici. L’apparecchio è
acceso ma senza sonoro, sullo
schermo passano le immagini di
una telenovela.
«Signora Thatcher», chiamo, di
nuovo senza ottenere risposta.
Seguo il ronzio in cucina e busso
allo stipite, fermandomi sulla soglia
dopo aver osservato per un attimo
le dita tremanti della donna che
tentano per una, due, tre volte di
togliere l’involucro di plastica del
contenitore del suo pasto. Sembra
talmente anziana da poter essere la
nonna di Colin, tanto che mi chiedo
se non mi sia sbagliato. Indossa
una vestaglia e delle pantofole
sfilacciate ai piedi; è senza calze, e
preferisco non pensare che non
abbia niente sotto.
«Signora», dico, procedendo sul
pavimento in vinile. Stavolta si gira:
è sbalordita dalla presenza di uno
sconosciuto in casa; perciò tiro fuori
il distintivo per rassicurarla che non
sta per essere ammazzata.
«Santo
cielo»,
farfuglia,
mettendosi la mano tremante sul
cuore. «Colin?»
«No,
signora»,
esclamo
avvicinandomi a lei. «Mi permetta»,
aggiungo, prima di strappare
l’involucro del contenitore davanti a
lei e buttarlo in un secchio
stracolmo di rifiuti dietro la porta. È
un pasto da microonde per bambini,
con crocchette di pollo, mais e un
dolce al cioccolato.
Allungo
una
mano
per
stabilizzarla. Con mia grande
sorpresa, lei accetta il mio aiuto.
Non ce la fa a tenersi in equilibrio,
sia che cammini sia che debba solo
stare in piedi. Si sposta con
movimenti molto cauti, senza
alcuna espressione sul volto.
Cammina ricurva, trascinando i
piedi, mi pare che debba cadere da
un momento all’altro. Dalla bocca le
cola un filo di saliva.
«Mi chiamo Gabe Hoffman, sono
ispettore di polizia. Devo…».
«Colin?»,
domanda
ancora,
stavolta
è
piuttosto
un’implorazione.
«Signora», dico, «si sieda, per
favore». La aiuto a mettersi seduta,
le porto il contenitore col pasto e
recupero una forchetta dal cassetto;
però le mani le tremano talmente
da non consentirle di infilarsi il cibo
in bocca. Allora afferra la crocchetta
direttamente con le dita.
Sembra una donna anziana, sulla
settantina, ma se è davvero la
madre di Colin avrà probabilmente
poco più di cinquant’anni. Ha i
capelli bianchi, anche se nella foto
di non tanto tempo fa che ho visto
nell’altra stanza, erano castani.
Sembra che sia dimagrita, la
vestaglia le sta grande, è pelle e
ossa. Sul piano di lavoro è allineata
una serie di confezioni di medicinali,
oltre a frutta marcia in un cesto. E
naturalmente non mancano i lividi e
i bernoccoli sparsi qua e là sul suo
corpo: la conseguenza, presumo, di
cadute recenti.
So che tutto ciò ha una
spiegazione, il nome della malattia
ce l’ho sulla punta della lingua.
«Ha visto Colin?», le chiedo.
«Tutte le settimane. Falcia
l’erba».
Guardo fuori della finestra e vedo
il giardino pieno di foglie secche.
«Viene qui a darle una mano?»,
continuo. «Sistema il prato, va a
fare la spesa…». Dice che lo fa.
Torno a guardare la frutta marcita
sul piano di lavoro, coperta da
un’infinità di moscerini. Mi permetto
di curiosare nel freezer e nel
frigorifero e trovo una sporta di
pere congelate, una busta di latte
scaduto, un paio di contenitori di
cibo precotto. La dispensa è
altrettanto desolata: solo alcuni
barattoli di minestra che la signora
non è in grado di aprire, oltre a dei
cracker.
«È
lui
a
portar
fuori
l’immondizia?», chiedo.
«Sì».
«Da quanto tempo la aiuta? Un
anno? Due?»
«Era ancora un bambino quando
mi sono ammalata. Suo padre…», le
si affievolisce la voce.
«Se n’è andato», finisco la frase
per lei.
Annuisce.
«Adesso Colin abita con lei?».
Scuote la testa. «Viene a farmi
visita».
«Ma non questa settimana?»
«No».
«La settimana scorsa?».
Non lo sa. Nel lavandino ci sono
pochissime
stoviglie,
mentre
l’immondizia è stracolma di piatti di
carta. Sarà stato lui a incoraggiarla
in questo senso: quelli di carta sono
di certo più facili da gestire per lei.
«Però le fa la spesa, le pulizie
e…».
«Fa tutto».
«Certo, eppure non viene qui da
un po’ di tempo, vero, signora
Thatcher?».
Il calendario appeso al muro è
rimasto al mese di settembre. Il
latte nel frigorifero è scaduto il 7
ottobre.
«Vuole che le porti fuori la
spazzatura?», domando. «Vedo che
è piena».
«Grazie», dice.
Il suo tremore è spaventoso, mi
mette a disagio, non riesco a
guardarla.
Afferro il sacco dell’immondizia
lurido, lo tiro fuori dal secchio ed
esco dalla porta di servizio. Che
puzza! Scendo di corsa i tre gradini
e lo sistemo nel baule della mia
auto, lo butterò poi. Mi assicuro che
nessuno mi veda e vado a curiosare
nella
cassetta
della
posta,
prendendo quello che c’è dentro: un
mucchio
talmente
alto
da
traboccare quasi sulla strada. C’è
anche una cartolina del servizio
postale che esorta il residente ad
andare a ritirare altra posta in un
ufficio apposito. Il postino avrà
stipato tutto il materiale possibile,
finché non era rimasto più spazio.
Torno dentro e vedo la signora
alle prese col mais. Una cosa
insopportabile. Nessuno dovrebbe
faticare tanto per nutrirsi. Mi
avvicino a quella donna gracile e le
dico: «Lasci che l’aiuti». Prendo la
forchetta e la imbocco. Lei ha un
momento di esitazione. Piuttosto
che vedere il giorno in cui qualcuno
dovrà
imboccarmi
per
farmi
mangiare, preferisco morire.
«Dov’è Colin?», mi chiede.
Continuo a imboccarla molto
lentamente, un boccone per volta.
«Non lo so, signora. Temo che
Colin possa essere nei guai.
Abbiamo bisogno che lei ci aiuti».
Prendo una foto di Mia Dennett e la
mostro alla donna. Le chiedo se l’ha
mai vista prima.
Chiude gli occhi. «In televisione»,
esclama, «L’ho vista alla TV… È la…
Dio mio, Colin, il mio Colin», e
comincia a singhiozzare.
La rassicuro, dicendole che non
sappiamo nulla di preciso. Solo
congetture: Mia potrebbe essere
con lui, oppure no. Anche se io so
che è così.
Le spiego che ho bisogno del suo
aiuto per ritrovarlo. Che vogliamo
essere certi che lui e Mia stiano
bene, che non si siano cacciati nei
guai, però non ci crede.
Ha perso interesse per il cibo. Il
suo corpo deformato si accascia sul
tavolo, e lei ripete più volte il nome
di Colin, rispondendo così a tutte le
domande che le pongo.
«Signora Thatcher, sa dirmi se c’è
un posto dove potrebbe rifugiarsi
suo figlio se ne avesse bisogno?»
«Colin».
«Può darmi i recapiti di suoi amici
o familiari? Chiunque possa aver
contattato se si fosse trovato nei
guai. Suo padre? Ha uno schedario,
una rubrica degli indirizzi?»
«Colin».
«Per favore, cerchi di ricordare
quand’è stata l’ultima volta che vi
siete parlati. Lo ha sentito di nuovo
dopo la sua ultima visita? Magari
per telefono…».
«Colin».
È inutile, non sto concludendo
niente.
«Signora, ha qualcosa in contrario
se perquisisco la casa? Vedrò se c’è
qualcosa che possa aiutarmi a
ritrovare suo figlio».
È come rubare le caramelle a un
bambino. Un’altra madre avrebbe
chiamato subito un avvocato o
chiesto di vedere il mandato di
perquisizione. Ma non lei. Sa cosa le
succederà se Colin non torna a
casa.
La lascio in lacrime in un angolo
della cucina e mi scuso.
Supero la sala da pranzo, un
bagnetto di servizio, la camera da
letto principale e finisco nella
stanza del diciassettenne Colin
Thatcher, con le pareti blu scuro, i
gagliardetti
dei
White
Sox
(perbacco!) e i manuali delle
superiori mai restituiti. Nell’armadio
ci sono ancora alcuni vestiti: una
maglia da football e un paio di
jeans strappati; sul pavimento, un
paio di scarpe da calcio coi tacchetti
sporchi. Alle pareti sono appesi con
puntine da disegno dei poster di
atleti degli anni Ottanta, mentre
sull’anta interna dell’armadio, dove
la madre non andava a vedere,
campeggia un inserto centrale di
un’ammiccante Cindy Crawford.
Piegata ai piedi del letto c’è una
coperta lavorata all’uncinetto da
Kathryn quando le sue mani la
assistevano ancora; su una parete
c’è un buco, opera probabilmente di
un pugno di Colin durante un
momento di rabbia. Sotto la finestra
c’è un termosifone, mentre in una
cornice di fianco al letto compare la
foto di Colin in fasce insieme a una
bellissima Kathryn e a un pezzetto
della testa di un uomo: il resto è
stato strappato.
Torno indietro e continuo a
perlustrare. Gironzolo nella camera
principale, con il letto sfatto che
puzza di sudore. Vestiti sporchi
ammucchiati in un angolo. Le tende
sono chiuse, è buio. Schiaccio
l’interruttore, ma la lampadina è
fulminata.
Tiro
la
cordicella
nell’armadio e una debole luce
rischiara appena la stanza. Ci sono
foto di Colin in ogni fase della sua
vita. Non mi pare molto diverso da
me. Un tipico fagottino grassoccio,
diventato
poi
adolescente
appassionato di football e in seguito
il ricercato n. 1 d’America. Ci sono
dei denti di leone sottovetro: forse
li aveva raccolti per la madre da
ragazzino. C’è il disegno di un
omino stilizzato. Il suo? E un
cordless a terra. Lo raccolgo e lo
rimetto sulla sua base. È scarico, ci
vorranno ore per ricaricare la
batteria.
Mi dico di controllare i tabulati
telefonici. Prendo in considerazione
la
possibilità
di
richiedere
l’autorizzazione per mettere delle
microspie.
Nell’ingresso faccio scorrere le dita
sui
tasti
di
un
pianoforte
impolverato. È scordato, ma il
suono attira la signora Thatcher,
che arriva trascinandosi. Ha ancora
il mais incollato al mento. Mette un
piede in fallo e riesco a prenderla
prima che cada.
«Colin», ripete per l’ennesima
volta mentre la depongo sul divano.
La esorto a sdraiarsi e le sistemo un
cuscino sotto la testa. Trovo il
telecomando e attivo il sonoro alla
TV. Chissà da quanto tempo la
guardava senza.
Ci sono degli album di ritagli
allineati in uno scaffale di quercia,
uno per ogni anno di Colin fino al
tredicesimo. Ne prendo uno e
sprofondo in una poltrona di pelle.
Sfoglio le pagine. I boy-scout,
compiti in classe e pagelle. Una
collezione di foglie raccolte durante
le passeggiate pomeridiane. Ritagli
di giornale. Cartoncini segnapunti
per il minigolf. Un lista di regali per
il Natale. Una cartolina spedita alla
signora Thatcher da Grand Marais,
Minnesota, con un francobollo da
quindici centesimi incollato di
sbieco in un angolo. Sulla cartolina
compare la data «1989», con
l’immagine di una foresta, un lago e
la natura circostante. Due sole
frasi: «Il babbo rompe, mi manchi».
Ci sono foto a bizzeffe, perlopiù
vecchie e ingiallite, che ormai
cominciano a curvarsi.
Resto il più possibile con la
signora Kathryn. Ha bisogno di
compagnia. Anzi, molto di più: ha
bisogno di qualcosa che non le
posso dare. L’ho già salutata e le ho
promesso di rimanere in contatto
con lei, ma non me ne vado. I pasti
precotti finiranno presto, e le
basterà una bella caduta per farle
venire una commozione cerebrale
che metterà fine alla sua esistenza.
«Signora, non posso lasciarla qui»,
ammetto.
«Colin», sussurra.
«Lo so», dico. «È Colin a prendersi
cura di lei, però adesso non c’è, e
lei non può rimanere sola. Ha una
famiglia, signora? C’è qualcuno a
cui posso telefonare?».
Interpreto il suo silenzio come un
no.
Ciò mi induce a riflettere: se Colin
si prendeva cura della madre
sofferente da tanto tempo, cosa
potrebbe averlo costretto ad
abbandonarla?
Prelevo alcuni vestiti dall’armadio
della signora e li metto in una
valigia. Non dimentico le confezioni
di medicinali. A Gary c’è un ricovero
per anziani. Per il momento può
andare.
Le dico che andiamo a fare un
giretto. «No, per favore», mi
supplica mentre la conduco verso
l’auto. «Voglio restare qui, non
voglio andare via».
Le copro la vestaglia con un
cappotto, ma le lascio le pantofole
sfilacciate ai piedi.
Lei protesta nella maniera più
veemente che le è possibile, che
non è poi granché. So che non
vuole andare via, non vuole lasciare
la sua casa, ma io non posso
abbandonarla lì.
Un vicino esce sulla veranda per
vedere chi è che fa tanto chiasso.
Alzo una mano e dico: «Va tutto
bene»,
mostrandogli
il
mio
distintivo.
La faccio accomodare nell’auto e
mi sporgo verso di lei per allacciarle
la cintura di sicurezza. Piange.
Guido in fretta, ma nel rispetto dei
limiti, così in pochi minuti tutto sarà
finito.
Penso a mia madre.
Nel parcheggio, un inserviente mi
aspetta con una sedia a rotelle e
poi preleva la signora Thatcher
dall’auto, che sembra un animale
impagliato in braccio a un bambino.
Dopo averlo visto spingere la
carrozzella all’interno dell’edificio,
sgommo via dal posteggio.
In seguito, mi metto a cercare nel
sacco dell’immondizia con un paio
di guanti di lattice. Un mucchio di
robaccia, tranne lo scontrino di un
benzinaio datato 29 settembre (alla
signora era stata ovviamente
revocata la patente di guida) e
quello di un negozio di alimentari,
con la stessa data, per un totale di
32
dollari.
Sufficiente
per
sopravvivere una settimana. Colin
Thatcher progettava di tornare
entro otto giorni. Non aveva
intenzione di sparire.
Rovisto fra la posta. Bollette,
bollette e ancora bollette. Avvisi
scaduti. Quasi nient’altro.
Ripenso a quella cartolina, a tutti
quegli alberi. Mi viene in mente che
Grand Marais potrebbe essere un
bel posticino da visitare in autunno.
Colin
Prima
Le dico che mia madre si chiama
Kathryn, le mostro una foto che
conservo gelosamente nel mio
portafoglio. È un’immagine molto
vecchia, scattata una decina di anni
fa. Lei dice che rivede i miei occhi in
quelli di mia madre, la serietà e il
mistero. Il sorriso della mamma è
forzato, a causa di un dente storto
che la imbarazzava.
«Quando parli di lei», mi dice,
«sorridi». I capelli di mia madre
sono scuri, come i miei. Lisci come
spaghetti. Pure quelli di mio padre.
I miei ricci, invece, sono un mistero,
la conseguenza di un gene
recessivo, suppongo. Non ho mai
conosciuto i miei nonni, non so se
avevano capelli ricci.
Per diverse ragioni, non posso
tornare a casa, ma il motivo che
non rivelo mai è che la polizia mi
vuole mettere al fresco. Avevo
ventitré anni quando ho violato la
legge per la prima volta. È successo
otto anni fa.
Avevo cercato di vivere nel modo
giusto, volevo rispettare le regole,
ma la vita ha preso un’altra piega.
Scassinai una stazione di servizio e
spedii ogni dollaro rubato a mia
madre affinché potesse comprarsi le
medicine. Qualche mese dopo lo
feci di nuovo per pagare le parcelle
mediche. Capii che vendendo droga
avrei potuto intascare più soldi,
quindi lo feci per un certo periodo,
finché non mi pizzicò un agente
sotto copertura e dovetti passare
diversi mesi in galera. Dopodiché
provai di nuovo a restare pulito ma,
quando mia madre ricevette un
avviso di sfratto, mi feci prendere
dalla disperazione.
Non capisco perché sono tanto
fortunato, perché i poliziotti ci
mettano un sacco di tempo prima di
inchiodarmi. Dentro di me, spero in
parte che ci riescano, così non
dovrò più fuggire, nascondermi
sotto nomi falsi.
«Quindi…», dice lei. Siamo fuori,
passeggiamo nel bosco. È una mite
giornata
novembrina,
le
temperature si mantengono ancora
sui 5 gradi, lei indossa il mio
giaccone, con le mani affondate
nelle tasche e il cappuccio sulla
testa. Non ho idea da quanto tempo
stiamo
camminando,
però
il
capanno
è
ormai
invisibile.
Calpestiamo tronchi caduti, e
sposto i rami di un sempreverde per
evitarle di zigzagare fra abeti
balsamici alti venti metri. Ci
inerpichiamo sulle collinette e per
poco non cadiamo nei fossi.
Calciamo via le pigne e ascoltiamo
il richiamo degli uccelli. Ci
appoggiamo a un tronco per
riprendere fiato.
«Quindi, non ti chiami Owen».
«No».
«E non vieni da Toledo».
«No».
Però non le dico il mio nome.
Le racconto che una volta mio
padre mi aveva portato lì, nel
Minnesota, lungo il Gunflint Trail.
Confesso che il capanno appartiene
a lui, che l’aveva ricevuto in eredità
dalla sua famiglia, che lo possedeva
da chissà quanto tempo. Aveva
incontrato una donna. «Non so cosa
ci trovasse lei in quel bastardo»,
dico. «So che non è durata». Non ci
parlavamo da anni e avevo
dimenticato quasi tutto di lui.
Poi, una volta, mi invitò a fare
questo viaggetto. Affittammo una
roulotte, arrivammo nel Minnesota
dall’abitazione che aveva a Gary.
Questo succedeva molto prima che
si trasferisse a Winona per lavorare
nel dipartimento dei trasporti. Non
volevo andarci, ma la mamma mi
disse che era mio dovere. Pensava
ingenuamente che mio padre
volesse sistemare le cose con me,
invece si sbagliava di grosso. «La
donna aveva un figlio della mia età,
un mezzo scemo. Mio padre aveva
progettato una bella vacanza,
qualcosa da fare tutti insieme. La
donna, suo figlio e io. Voleva
impressionarla. Mi aveva promesso
una
bicicletta
se
mi
fossi
comportato bene. Tenni la bocca
chiusa per tutto il tempo. Mai vista
la bicicletta». Le dico che da allora
non l’ho più rivisto. Comunque lo
tengo d’occhio, non si sa mai.
Lei dice che non comprende come
faccia a orientarmi fra i boschi. Le
rispondo che mi viene naturale.
Innanzitutto, perché sono stato un
boy-scout, e poi ho una capacità
innata di intuire dove sono il Nord e
il Sud. Infine, perché ho trascorso
molto tempo a vagare nei boschi:
da piccolo, avrei fatto qualsiasi cosa
pur di stare lontano dai miei
genitori che litigavano.
Lei regge il mio passo tra gli
alberi, non si stanca.
Come fa una ragazza cresciuta in
città a conoscere tutti i nomi degli
alberi?
Me li indica uno a uno (abete
balsamico, abete rosso, pino), come
se fosse una merdosa lezione di
biologia. Sa che le ghiande sono i
frutti della quercia, e che i frutti
degli aceri planano a terra come dei
piccoli elicotteri.
Certo, non ci vuole un genio per
saperlo. Solo che non me ne ero
mai interessato, almeno prima di
vedere le sue mani che lasciano
cadere i semi e i suoi occhi che
fissano
meravigliati
il
loro
atterraggio a elica.
Mi insegna delle cose senza
averne l’intenzione. Ripete che
quegli elicotteri sono le samare, che
quel pettirosso è un maschio. Trova
ingiusto che nel regno animale la
bellezza appartenga solitamente al
sesso maschile, mentre le femmine
sono poco appariscenti. Leoni,
passeri, anatre, pavoni. Non avevo
mai notato tale differenza. Non lo
troverebbe tanto ingiusto se non
fosse stata fregata da tutti gli
uomini della sua vita.
Dice di non aver mai saputo
esprimere bene il modo in cui la
faceva sentire suo padre. Afferma
che comunque non l’avrei capito,
perché lui non l’aveva mai
picchiata, né le aveva mai fatto
passare una notte all’addiaccio. Non
l’aveva nemmeno mai mandata a
dormire senza cena.
In classe, ha uno studente che si
chiama Romain, un ragazzo nero
che dorme in un rifugio per
senzatetto,
dalle
parti
della
periferia
nord.
A
lui
piace
frequentare la scuola, sebbene
nessuno lo obblighi. Ha diciotto
anni, è deciso a prendere il diploma
perché non si accontenta della
licenza media. Passa le giornate a
studiare come un matto, la mattina
va scuola e il pomeriggio si spacca
la schiena a pulire le strade della
città. La sera va a chiedere
l’elemosina in centro. Lei si era
offerta come volontaria per aiutare i
senzatetto di quel rifugio, voleva
vedere la realtà di quel posto. «Per
due ore ho tolto la muffa dal
formaggio
dei
panini
preconfezionati», racconta. Ma il
suo gesto ha permesso alle persone
di avere qualcosa da mangiare.
Forse lei non è, come presumevo,
chiusa e interessata solo a sé.
Conosco la sensazione che danno
gli sguardi sfuggenti, o di chi ti
guarda senza vedere niente.
Conosco il tono sprezzante nella
voce, so come ci si sente quando si
è traditi e disillusi, quando qualcuno
che potrebbe darti il mondo rifiuta
perfino
di
concedertene
un
pezzetto.
Forse non siamo tanto diversi, in
fondo.
Gabe
Prima
Controllo i tabulati telefonici di
Kathryn
Thatcher.
Nessuna
chiamata dubbia da rilevare.
L’ultima volta che ha parlato col
figlio è stato quando lui le ha
telefonato da un cellulare registrato
a nome di Steve Moss, alla fine di
settembre.
Il
resto
erano
televenditori, agenzie di recupero
crediti e segretarie di studi medici
che le ricordavano appuntamenti a
cui la donna non si presentava.
Chiamo al ricovero per anziani di
Gary. L’inserviente s’informa se
sono un familiare, rispondo di no, e
loro non mi considerano. In
sottofondo sento le urla di un
vecchio. Preferisco non pensare alla
signora Thatcher in mezzo a quel
frastuono. So che ne sarà sconvolta.
Mi consolo all’idea che la nutrono,
la curano e la tengono pulita.
Mi dico che non sono suo figlio.
Non è mia la responsabilità.
Eppure, non riesco a scacciare
dalla mente l’immagine di mia
madre nella sua vestaglia, seduta
su un letto sfondato, mentre fissa
nel vuoto da una finestra sporca:
sola, senza speranze, mentre un
vecchio sdentato grida nel salone.
Le infermiere sottopagate la
ignorano.
L’unica
prospettiva
decente è quella del giorno in cui
morirà.
Il caso di Mia Dennett viene
trattato
tutte
le
sere
nei
telegiornali, anche in seguito alle
pressioni del padre giudice, ma non
c’è ancora alcuna pista.
M’informo
presso
la
motorizzazione, ma non ci sono
veicoli a nome di Colin Thatcher o
Steve Moss, e neanche sotto quello
di Kathryn Thatcher. Abbiamo
contattato
chiunque
fosse
rintracciabile e potesse conoscere
Colin. Pochi amici, solo un paio di
compagni delle superiori che non gli
parlano da anni. A Chicago vive una
sua ex, che non sono certo lui non
pagasse in cambio di prestazioni
sessuali. Su di lui, non sa dirmi
niente di carino. È una donna
perduta, non ha altro da offrirmi se
non una sveltina, nel caso fossi
interessato, ma non lo sono. Alcuni
docenti della sua scuola mi dicono
che Colin era un ragazzo sfortunato,
altri lo descrivono come un
disadattato. I vicini della madre
confermano che lui va spesso a
trovarla, le porta fuori l’immondizia
e tiene in ordine il giardino. Tutto
qua. Il vicinato non sa cosa succede
dentro quella casa. Però mi
riferiscono che guida un pick-up. Di
che colore? La marca? Il modello?
Pare che non lo sappia nessuno. O
le risposte si contraddicono. Il
numero di targa neanche a
parlarne…
Ogni tanto mi viene in mente la
cartolina da Grand Marais. Cerco
questo porto lacustre su internet,
ordino online opuscoli dalle agenzie
di viaggio. Calcolo la distanza da
Chicago, mi spingo perfino a
chiedere
le
riprese
delle
videocamere lungo il tragitto,
benché non sappia bene cosa sto
cercando.
Sono in un vicolo cieco. L’unica
cosa da fare è aspettare.
Colin
Prima
Ho di nuovo fortuna, perché la
ragazza è ancora addormentata
quando sento raspare alla porta.
Mi spavento a morte, ovviamente.
Scatto dal floscio sofà e mi accorgo
di non avere la pistola. È l’alba, il
sole sta sorgendo proprio adesso.
Scosto le tende per guardare, ma
non vedo nulla. Al diavolo, penso.
Apro la porta e scopro che il fottuto
gatto, sparito da giorni, ci ha
portato un topo morto. Ha un
aspetto miserevole, quasi come
quello del roditore decapitato che
tiene tra le zampe insanguinate.
Prendo il gatto in braccio, dopo mi
occuperò anche del sorcio. Per il
momento, userò il felino come
pegno. Un intervento divino, se
credessi in queste cose. La dispensa
è stata spazzolata. Non ci resta
niente da mangiare. Se non vado
presto in un alimentari, creperemo
di fame.
Non aspetto che si svegli. Entro
nella stanza da letto e dico: «Vado
in città».
Lei si mette a sedere. È confusa e
si stropiccia gli occhi.
«Che ore sono?», chiede, ma
ignoro la domanda.
«Lui viene con me». Il gatto
miagola,
attirando
la
sua
attenzione. Lei si allarma. Allunga
una mano per prenderlo, faccio un
passo indietro. Il piccolo bastardo
mi pianta gli artigli nel braccio.
«Dove l’hai…?»
«Se sarai ancora qui quando
torneremo, non dovrò ucciderlo».
Poi me ne vado.
Mi precipito in città. Raggiungo i
110 su un tratto di strada il cui
limite è 80. Ci scommetto le palle
che la ragazza non farà nessuna
stupidaggine, eppure non riesco a
togliermi dalla mente l’immagine
del capanno invaso di piedipiatti in
attesa del mio ritorno.
Passo davanti a due negozi di
abbigliamento prima di arrivare a
Grand Marais. Cerco sempre di
confondere le acque, non sono mai
stato due volte nello stesso posto.
Non voglio che qualcuno mi
riconosca.
Comunque, l’unica cosa che ho in
testa adesso sono i generi
alimentari che mi devo procurare.
Conosco un tipo che fornisce
passaporti falsi, è uno specialista.
Trovo un telefono a gettoni fuori un
negozio di ferramenta e recupero
un paio di monetine nelle tasche.
Spero di non commettere un errore.
Non ci vogliono tre minuti, come
dicono
in
televisione,
per
rintracciare una chiamata. Gli
operatori sono in grado di farlo
nello stesso istante in cui si
connette la linea. Non appena
digito il numero. O basta che Dan
spifferi agli agenti di aver ricevuto
una mia telefonata e domattina
tutta la polizia sarà ammassata
davanti alla ferramenta per darmi la
caccia.
Ma
che
scelta
mi
resta?
Cercheremo di superare l’inverno, e
poi che succederà? Saremo fregati.
Se a primavera saremo ancora vivi,
non ci sarà più nessun posto in cui
nasconderci.
Di conseguenza, inserisco le
monetine nell’apparecchio e digito il
numero.
Al mio ritorno, lei si fionda sui
gradini coperti di neve per
strapparmi lo stupido felino dalle
mani.
Mi grida in faccia che tanto non
sarebbe scappata. Mi insulta per
aver minacciato il gatto. «Come
potevo esserne sicuro?», le chiedo.
Dal sedile posteriore del pick-up,
scarico le buste di carta col cibo in
scatola. Ne ho riempite una decina
di barattoli vari. Ecco qua, mi sono
detto, questo è l’ultimo viaggio in
città. Finché non saranno pronti i
passaporti,
ingoieremo
zuppe
liofilizzate, fagioli in scatola e
pomodori pelati. Oltre a quello che
riuscirò a pescare nel lago.
Mi stringe il braccio, obbligandomi
a guardarla. La sua presa è forte.
«Non me ne sarei andata», ripete.
Mi sottraggo alla stretta e dico:
«Non potevo rischiare». Salgo gli
scalini, lascio fuori lei e il gatto.
Vuole far entrare anche l’animale.
Ogni giorno è più freddo. Non
sopravvivrà all’inverno.
«Nemmeno per sogno», protesto.
Lei insiste: «Lui sta dentro». È
perentoria.
Sta cambiando qualcosa.
Le racconto di quando, da
ragazzo, lavoravo con mio zio. Ne
parlo malvolentieri. Però c’è un
limite al silenzio che si può
sopportare.
Cominciai a lavorare per il fratello
di mia madre quando avevo
quattordici anni. Era un uomo dalla
pancia gonfia di birra che mi faceva
fare il suo lavoro e, alla fine della
giornata, intascava il novanta
percento dei proventi.
Nella mia famiglia, nessuno ha
frequentato l’università. Nessuno.
Forse un lontano cugino o qualcosa
di simile. Ma nessuno di quelli che
conosco. Siamo tutti operai. I miei
parenti lavorano perlopiù nelle
industrie siderurgiche di Gary. Sono
cresciuto in un ambiente nel quale,
in quanto bianco, ero in minoranza
e dove un quarto della popolazione
viveva sotto la soglia di povertà.
«La differenza tra me e te», dico,
«è che io sono cresciuto con niente,
né speravo di avere di più. Sapevo
che non lo avrei ottenuto».
«Però sognavi certamente di
diventare qualcosa?»
«Aspiravo a mantenere lo statu
quo. Non volevo cadere più in basso
di quel che ero già. Ma poi l’ho
fatto».
Louis, mio zio, mi aveva insegnato
a riparare i rubinetti, a installare le
caldaie, a imbiancare le pareti, a
ripescare uno spazzolino da denti
dalla tazza del cesso. A falciare
l’erba dei prati, a riparare le
serrande dei garage, a cambiare la
serratura di casa alle persone che
cacciano l’ex convivente. Louis si
faceva pagare venti dollari l’ora, e a
fine giornata mi mandava a casa
con trenta dollari in tasca. Sapevo
che mi imbrogliava. A sedici anni mi
ero
già
messo
in
proprio.
Comunque, il lavoro era saltuario,
avevo bisogno di qualcosa di più
stabile. A Gary il tasso di
disoccupazione è molto alto.
Mi chiede con quale frequenza io
faccia visita a mia madre Kathryn.
Quando pronuncia il suo nome,
prima mi irrigidisco e poi mi calmo.
«Ti preoccupi per lei, vero?»,
chiede.
«Finché sono qui non posso
aiutarla».
Allora capisce.
«I soldi», esclama. «I cinquemila
dollari…».
Sospiro. Ammetto che erano per
mia madre. Lei non vuole prendere
le medicine, a meno che non sia io
a
costringerla.
Afferma
di
dimenticarsene, mentre in realtà
non vuole subire gli effetti
collaterali o indesiderati. Dico alla
ragazza che di solito vado da lei
ogni domenica. Separo per mia
madre i farmaci nel dispenser, vado
a fare la spesa, tengo pulita la
casa. Ma lei avrebbe bisogno di
molte altre cose, di qualcuno che la
segua continuamente, non solo di
domenica.
«Un ricovero per anziani», dice. In
effetti, volevo portarcela, e i
cinquemila dollari erano destinati a
quello scopo. Adesso però quella
somma è svanita, perché d’impulso
avevo deciso di salvare lei; così, in
un attimo, oltre a fregarmi da solo,
avevo coinvolto nella disgrazia
anche mia madre.
Ma in fondo so bene perché l’ho
fatto. E la ragazza non c’entra
niente. Se mia madre avesse
scoperto che ero stato io a rapire
inizialmente la figlia del giudice –
magari ritrovata morta quando
tutto fosse finito – sarebbe
comunque crepata di dolore. I
cinquemila dollari non avrebbero
contato niente. Mia madre sarebbe
morta dentro e avrebbe perso ogni
interesse per la vita. Non mi ha
allevato per diventare un simile
ceffo. A questo non avevo mai
pensato, prima di far salire la
ragazza sul mio pick-up. Allora la
chimera dei soldi aveva ceduto il
posto alla realtà: la ragazza in
lacrime di fianco a me, l’immagine
degli scagnozzi di Dalmar che la
strappano di forza dal sedile, i
trent’anni di galera. Mia madre
sarebbe morta molto prima del mio
rilascio. A cosa sarebbe servito?
Comincio a camminare per la
stanza. Sono nervoso. Non ce l’ho
con lei, ma con me stesso. Le
chiedo: «Che uomo metterebbe la
madre in un ricovero perché non ne
può più di curarla a casa?».
È la prima volta che mi mostro
vulnerabile.
Sono
in
piedi
nell’angolo, appoggiato alla parete
di pino, mi premo una mano sulla
testa per via di un’emicrania
persistente. La guardo negli occhi
comprensivi e le ripeto la domanda:
«Sul serio, che uomo metterebbe la
madre in un ricovero perché non ne
può più di curarla a casa?»
«Ci sono dei limiti a ciò che si può
fare».
«Io posso fare di più», ribatto. Lei
rimane vicino alla porta d’ingresso,
osserva cadere i fiocchi di neve. Il
gatto le gironzola attorno ai piedi,
vuole uscire. Ma lei non glielo
permetterà. Non stasera.
«Davvero, puoi fare di più?».
Le dico che delle volte, la
domenica, quando arrivo, mi
sorprende il fatto di vederla ancora
viva. La spazzatura trabocca. Non
ha mangiato, i pasti che le avevo
lasciato nel frigo sono intatti. La
porta d’ingresso spesso è aperta,
talvolta il forno è acceso. Le avevo
proposto di venire a stare da me,
ma aveva rifiutato. Quella era la
sua casa, non voleva andarsene da
lì. Ci aveva vissuto tutta la sua vita,
ci era cresciuta.
«Ci sono i vicini», aggiungo. «Una
signora va a vedere come sta una
volta alla settimana, ritira la posta,
controlla
che
abbia
cibo a
sufficienza. Ha settantacinque anni,
ma se la cava molto meglio di lei.
Ognuno però ha la sua vita cui
pensare. Non posso pretendere che
siano gli altri a preoccuparsi al
posto mio». Le spiego che ci
sarebbe anche mia zia, Valerie, che
abita a Griffith, nelle vicinanze. Di
tanto in tanto va a darle una mano.
Spero che Valerie abbia intuito
qualcosa: la telefonata di un vicino,
la mia faccia in televisione. Spero si
sia accorta che mia madre è sola e
si sia affrettata a fare qualcosa,
qualunque cosa, per rimediare alla
situazione.
Mia madre non sapeva niente
dell’ospizio, però non ha mai voluto
essere un peso per gli altri. Era il
meglio che potessi escogitare, un
compromesso.
Tuttavia sono consapevole che il
ricovero
per
anziani
è
un
compromesso di merda. Nessuno
vuole viverci. Ma quali opzioni
migliori ci sono?
Prendo rabbiosamente il mio
giaccone dalla spalliera di una
sedia. Ce l’ho con me stesso. Ho
deluso e abbandonato mia madre.
Mi metto le scarpe in fretta, infilo le
braccia nelle maniche del giaccone.
Non guardo la ragazza, quasi la
travolgo mentre mi dirigo verso la
porta.
«Sta nevicando», dice. Si sposta
lentamente, mi appoggia una mano
sul braccio per cercare di fermarmi.
«Nessuno si azzarda a uscire in una
notte come questa».
«Me ne frego». La spingo via e
apro la porta. Solleva il gatto tra le
braccia per impedirgli di scappare
fuori. «Ho bisogno di una boccata
d’aria, maledizione», dico sbattendo
la porta.
Eve
Prima
Poco
dopo
il
giorno
del
Ringraziamento una donna cuoce
nel forno a microonde il suo
bambino di tre settimane e un’altra
squarcia la gola alla figlia di tre
anni. Non è giusto. Perché queste
madri ingrate avevano la fortuna di
avere in casa la loro benedizione,
mentre la
mia
me l’hanno
strappata? Sono stata altrettanto
pessima, come madre?
Il giorno del Ringraziamento il
clima era primaverile: temperatura
sui quindici gradi, parecchie ore di
sole. Venerdì, sabato e domenica
idem, anche se abbiamo mangiato
gli avanzi del tacchino farcito e del
purè di patate, che sono piatti
tipicamente
invernali.
Qui
a
Chicago, ci si sta preparando al
peggio.
Le
previsioni
meteo
annunciano bufere e tempeste in
arrivo, forse fin da giovedì
prossimo.
Nei
negozi
hanno
esaurito le scorte di acqua
imbottigliata, la gente si appresta a
rifugiarsi in casa. Dio mio, penso,
siamo in inverno, è la stessa cosa
ogni anno, mica la bomba atomica.
Approfitto del relativo tepore per
decorare la casa. Certo, non sono
allegra, né in spirito natalizio, però
ci provo lo stesso, tanto per
combattere la noia e gli orribili
pensieri che mi ossessionano. Non
che James lo noti, e a me non
interessa,
ma
per
ravvivare
l’atmosfera nel caso Mia torni. Se
fosse qui con noi, per Natale, lei ne
sarebbe contenta: l’albero, le luci,
la calza dei regali della sua infanzia
ormai logora, con l’angelo ricamato
che sta perdendo i capelli.
Bussano alla porta. Mi agito
subito, ormai è normale, penso che
possa essere lei.
Mi impiglio nel filo delle lucine
natalizie che stavo provando a
dipanare. Non so come fanno a
formarsi tutti quei nodi, nei
contenitori di plastica che teniamo
in soffitta, eppure ogni anno siamo
sicuri di ritrovarli, come l’impietoso
inverno di queste lande. Lo stereo
trasmette canzoni natalizie di
tradizione celtica, fra cui Carol of
the Bells. Indosso un pigiama di
seta a righe, composto da giacca
con bottoni e calzoni allacciati con
un cordoncino. Sono appena le
dieci, per cui è ancora accettabile
essere in tenuta da notte, almeno
per la mia mentalità, anche se il
caffè sta diventando tiepido e il
latte comincia a rapprendersi. La
casa è nella confusione più totale:
contenitori di plastica rossi e verdi
sparsi dappertutto coi coperchi
gettati
alla
rinfusa,
i
rami
dell’albero di Natale artificiale che
montiamo ogni anno, da quando io
e James abitavamo in affitto in un
appartamento di Evanston e lui non
si era ancora laureato in legge.
Tutto ammucchiato in salotto. Ho
rovistato
nelle
scatole
delle
decorazioni che si sono accumulate
negli anni, dalle palline «Baby’s 1st
Christmas» ai bastoncini caramellati
che le ragazze avevano realizzato in
terza elementare. Tutti oggettini
che non erano mai riusciti a
guadagnare
la
dignità
dell’esposizione
sull’albero
e
rimanevano
nelle
scatole
a
impolverarsi. Io insistevo sempre
per addobbarlo con molto sfarzo, in
modo che gli ospiti potessero
ammirarlo qualora ne avessimo
avuti per una festa. Sdegnavo il
ciarpame con cui gli altri riempivano
le loro residenze nel mese di
dicembre, i pupazzi di neve e la
chincaglieria accumulata per anni.
Ciononostante, quest’anno ho
deciso di appendere tutte le
decorazioni delle ragazze.
Mi alzo da terra, lascio perdere le
luci. Ho visto che l’ispettore
Hoffman sbircia da dietro il vetro.
Gli apro la porta e sono investita da
una ventata d’aria fredda.
«Buongiorno, signora Dennett»,
dice, entrando subito dentro.
«Buongiorno, ispettore». Mi passo
una mano fra i capelli spettinati.
Il suo sguardo perlustra la casa.
«Siamo alle decorazioni, mi pare».
«Ci provo», spiego. «Ma le luci
sono tutte aggrovigliate».
«Be’», esordisce togliendosi la
giacca. «Sono un esperto nello
sciogliere i nodi dei fili delle luci
elettriche. Permette?», mi chiede, e
io accetto con un ampio gesto della
mano, contenta che ci sia qualcuno
a finire questa scocciatura.
Gli offro un caffè, consapevole che
accetterà, perché lo fa sempre: ci
vuole anche la panna e molto
zucchero. Sciacquo la mia tazza e la
riempio di nuovo, tornando in
salotto con entrambe le mani
occupate. Lui è inginocchiato sul
pavimento, con la punta delle dita
separa delicatamente i fili delle luci.
Appoggio la sua tazzina su un
sottobicchiere sopra il tavolino e mi
siedo a terra per dargli una mano. È
venuto per parlarmi di Mia.
S’informa su una certo paesino del
Minnesota. Ci sono mai stata? E
Mia? Gli dico di no.
«Perché?», domando.
«Semplice
curiosità»,
si
schermisce. Sostiene di aver visto
delle foto di questa cittadina,
sembra graziosa. Un porto lacustre
a una sessantina di chilometri dal
confine canadese.
«Ha qualcosa a che vedere con
Mia?», lo incalzo. E sebbene lui ci
provi, non riesce a eludere la
domanda. «Di che si tratta?»,
insisto.
«Una
semplice
intuizione»,
ammette. «Non ho ancora nulla.
Però
voglio
approfondire
la
questione», e siccome i miei occhi
implorano
una
spiegazione,
promette: «Lei sarà la prima a
esserne informata».
«Grazie», dico dopo un attimo di
esitazione, so che l’ispettore è
l’unico a preoccuparsi tanto per mia
figlia, come me.
Sono quasi due mesi che Gabe si
presenta inaspettatamente a casa
mia. Ci viene ogni volta che ne ha
voglia: una domanda urgente su
Mia, un’ipotesi che gli è venuta in
mente di notte. Si irrita se lo
chiamo «detective», e d’altronde io
mi irrito se mi chiama «signora
Dennett». Eppure, manteniamo una
parvenza di formalità, anche se
dopo settimane che analizziamo la
vita di Mia nei minimi dettagli ormai
dovremmo darci del tu e chiamarci
per nome. Lui è molto bravo a
parlare del più e del meno, a
saltare di palo in frasca. James non
è ancora certo che non sia un
cretino. Io invece penso che sia
molto dolce.
Fa una pausa dal groviglio di fili e
allunga una mano per afferrare la
tazza di caffè, ne beve un sorso. «Si
dice che cadrà tanta di quella
neve…», cambia subito argomento.
Per contro, io mi fisso sul paesino:
Grand Marais.
«Come minimo trenta centimetri,
se non di più», lo assecondo.
«Sarebbe bello avere la neve per
Natale».
«Come no», ne convengo. «Ma
non accade mai. Forse sarebbe il
segno di una benedizione, o forse,
con tutti gli spostamenti e le
commissioni che bisogna fare in
questo periodo, è meglio che non
nevichi».
«Sono sicuro che avrà finito di
sbrigare tutte le commissioni molto
prima del 25».
«Lei crede?». Sono sorpresa dalla
sua supposizione, e aggiungo: «Non
ho tante persone a cui fare regali.
Solo James e Grace, e… Mia».
Lui non commenta, e rimaniamo
un istante in silenzio, per rispetto
verso di lei. Dovrebbe essere un
momento di disagio, eppure è
accaduto tante di quelle volte negli
ultimi tempi, ogni volta che se ne
pronuncia il nome… «Lei non mi
sembra una che rimanda le cose»,
dichiara dopo un attimo.
Rido. «Ho troppo tempo a
disposizione
per
potermi
permettere di rimandare», gli
spiego, ed è la verità. Con James al
lavoro per l’intera giornata, cos’altro
dovrei fare se non andare in giro
per negozi a comprare regali?
«Ha sempre fatto la casalinga?»,
mi chiede, e io mi raddrizzo,
meravigliata, quasi a disagio; come
diavolo abbiamo fatto a passare
dagli addobbi natalizi e il tempo a
questa confidenza? Odio la parola
casalinga. Fa tanto anni Cinquanta,
è obsoleta. Inoltre, ha una
connotazione negativa che forse
non aveva una sessantina di anni
fa.
«Cosa intende con casalinga?»,
replico, e poi aggiungo: «Abbiamo
la donna delle pulizie, non lo sa?
Talvolta cucino, ma di solito James
torna tardi e finisco per mangiare
da sola. Non credo quindi si possa
dire che pensi alla casa. Forse lei
intendeva se sono sempre stata
disoccupata».
«Non volevo offenderla», si
affretta a ribattere. È imbarazzato,
siede di fianco a me sul pavimento,
separa le luci. Sta facendo degli
evidenti progressi, se la cava molto
meglio di me. Davanti a lui si
stende un filo quasi privo di nodi,
per cui si accinge a testarlo nella
presa del muro. Sono meravigliata
nel vedere che si accendono tutte.
«Bravo», mi complimento, e poi
fingo: «Non sono offesa». Gli do un
colpetto rassicurante sulla mano,
cosa che non avevo mai fatto,
nessun gesto che potesse annullare
lo spazio fisico che ci separava.
«Per un certo periodo ho fatto
l’arredatrice d’interni», spiego.
Lui osserva la stanza, assimila i
più piccoli dettagli. In effetti ho
arredato anche questa casa, una
delle poche cose di cui vada
orgogliosa, mentre sono stata
scarsa nel mestiere di madre.
Quello era un lavoro che mi
appagava, ma con la maternità
cominciò a sembrarmi lontanissimo:
da quando erano nate le bambine,
la mia esistenza era mutata e mi
ritrovavo a dover cambiare i
pannolini, o a lavare il parquet
sporco di rimasugli di purè.
«Non
le
piaceva?»,
chiede
Hoffman.
«Assolutamente, lo adoravo».
«Cos’è successo? Se non sono
troppo ficcanaso…». Penso che lui
abbia un bel sorriso, dolce e
giovanile.
«Sono arrivate le figlie», dico in
tono leggero. «Cambiano tutto».
«Ha sempre voluto dei bambini?»
«Immagino di sì. Li sognavo da
quando ero piccola, è una cosa
comune a tutte le donne».
«L’istinto
materno
è
una
vocazione? Una cosa per cui le
donne sono state programmate
dalla natura?»
«Mentirei se dicessi che non ero
felicissima quando mi sono accorta
di essere incinta di Grace. Mi
piaceva avere la pancia, sentirla
muoversi dentro di me». Lui
arrossisce,
s’imbarazza
per
quest’improvvisa rivelazione intima.
«Quando nacque, fu un richiamo
alla realtà. Avevo sognato di cullare
la mia bambina per addormentarla,
di calmarla col suono della mia
voce. Invece dovetti affrontare notti
insonni, nervosismo dovuto alla
mancanza
di
riposo,
pianti
ininterrotti che non riuscivo a
calmare in nessuna maniera. E poi
anni di fatiche per insegnarle a
mangiare, di capricci e bizze
infinite, non mi rimaneva nemmeno
il tempo per limarmi le unghie o
truccarmi. James rimaneva in ufficio
fino a tardi e, quando rientrava, non
gli andava molto di occuparsi di
Grace, se ne lavava le mani della
sua educazione. Quello spettava a
me, ventiquattr’ore al giorno, un
mestiere
sfibrante,
privo
di
riconoscimenti, e lui alla fine non
capiva perché non avevo avuto il
tempo di andare in lavanderia a
ritirare i suoi vestiti, o di piegare la
montagna biancheria pulita».
Cala il silenzio. Stavolta il disagio
è palpabile. Ho detto troppo, sono
stata eccessivamente sincera. Mi
alzo, comincio a montare i rami sul
tronco
dell’albero
di
Natale.
L’ispettore finge di ignorare la mia
confessione, stende ordinatamente
i fili delle luci in righe parallele. Ce
ne sono in quantità, più che
sufficienti per decorare l’albero, per
cui mi chiede se può aiutarmi, e io
accetto.
Quando abbiamo quasi finito di
disporre le luci sull’albero, mi butta
lì: «Ma poi è arrivata Mia, e a quel
punto doveva essere diventata
brava nel mestiere di madre».
So che voleva
essere un
complimento, eppure sono colpita
dal fatto che la mia precedente
confessione lo abbia indotto a
credere non che la maternità sia un
lavoro duro di per sé, ma solo che
mi mancassero le capacità per
essere una brava mamma.
«Avevamo tentato per anni di
concepire Grace. Ci avevamo quasi
rinunciato. Dopo, credo che siamo
stati ingenui. Pensavamo che Grace
fosse il frutto di un miracolo. Di
certo non si sarebbe ripetuto, perciò
non prendevamo più precauzioni.
Invece accadde di nuovo, una
mattina
ebbi
le
nausee,
l’affaticamento. Compresi subito di
essere
incinta
un’altra
volta.
Aspettai diversi giorni prima di
rivelarlo a James. Non ero sicura
della sua reazione».
«E come la prese?».
Afferro un altro ramo dalla mano
del detective, lo metto sul tronco.
«Rifiuto, mi pare. Riteneva che mi
sbagliassi, che interpretassi male i
sintomi».
«Non voleva un altro erede?»
«Forse non voleva nemmeno la
prima figlia», ammetto.
Gabe Hoffman mi sta davanti con
la sua giacca di pelo di cammello,
che dovrà essergli costata un occhio
della testa. Sotto, indossa una
felpa, e poi una camicia elegante,
per cui non riesco a immaginare
quanto possa sudare. «Oggi è
vestito con tutti i crismi», dico,
mettendomi davanti all’albero di
Natale con il mio pigiama di seta. In
quel momento, rivolta verso la luce
del sole che entra dalle finestre, mi
sembra che lui appaia in tutta la
sua dolcezza ed eleganza.
«Tribunale, questo pomeriggio», è
tutto quel che riesce a dire, e poi
restiamo a fissarci in silenzio.
«Amo
mia
figlia»,
rivelo
all’ispettore.
«Lo so», dice lui. «E suo marito?
Le vuole bene anche lui?».
Sono
sconvolta
dalla
sua
impudenza, ma ciò che dovrebbe
offendermi e spingermi a voltargli le
spalle mi attira ancor più verso di
lui. Mi affascinano i suoi modi
diretti, perché Gabe non si perde in
chiacchiere.
Mi fissa, e sono costretta ad
abbassare lo sguardo. «Mio marito
vuole bene solo a se stesso»,
confesso. Sulla parete più lontana
c’è una foto incorniciata: io e James
il giorno del matrimonio. Ci siamo
sposati in un’antica cattedrale
cittadina. Erano stati i suoi genitori
ad accollarsi le spese esorbitanti,
laddove la tradizione avrebbe
voluto che fosse mio padre a
provvedere. I Dennett non lo
avrebbero mai permesso. Non per
gentilezza,
anzi,
ma
perché
altrimenti le nostre nozze sarebbero
state dozzinali, un’umiliazione di
fronte
alle
loro
conoscenze
altolocate.
«Non era questa la vita che avevo
sognato quand’ero ragazza». Lascio
cadere i rami dell’albero a terra.
«Chi sto ingannando? Quest’anno
non avremo nessun Natale. James
sosterrà di dover lavorare, sebbene
sia certa che non sarà il lavoro a
occuparlo, mentre Grace starà con i
genitori dell’uomo con cui sta
uscendo, che io ancora non
conosco. Io e James ceneremo
insieme il giorno di Natale, come
tanti altri giorni dell’anno. Sarà una
cosa ordinaria. Staremo seduti e
rumineremo in silenzio prima di
ritirarci per la notte, ognuno in
camera sua. Io telefonerò ai miei
genitori, ma mio marito mi dirà di
sbrigarmi, perché le chiamate
internazionali
costano.
Poco
importa», concludo. «Tanto tutto
quello che vogliono sapere sono le
novità su Mia, una questione che
tutti
mi
ricordano
continuamente…».
Tento
di
riprendere fiato. Alzo una mano:
basta. Scuoto la testa e volto le
spalle all’uomo che mi fissa con uno
sguardo compassionevole che mi fa
vergognare. Non ce la faccio a
proseguire. Non riesco a finire.
Sento che mi batte forte il cuore.
La pelle è appiccicosa, comincio a
sudare. Faccio fatica a respirare.
Avverto il bisogno irresistibile di
gridare.
È così che comincia un attacco di
panico?
Eppure,
quando
le
braccia
dell’ispettore
mi
avvolgono,
sparisce ogni sintomo. Lui mi
avvinghia da dietro. Il ritmo del mio
cuore rallenta fino a tornare
normale. Lui appoggia il mento
sulla mia testa, e io riprendo a
respirare, l’ossigeno mi riempie i
polmoni.
Non dice che andrà tutto bene,
perché forse non sarà così.
Non mi promette di ritrovare Mia,
perché forse non potrà farlo.
Ma mi tiene così stretta che per
un attimo le emozioni si placano. La
paura e la tristezza, il rimpianto e il
disgusto. Le assume su di sé per un
istante, raccogliendole tra le sue
braccia ed evitandomi di essere la
sola a dover sostenere quel
fardello.
Mi giro verso di lui e abbandono il
viso sul suo petto. Le sue braccia
esitano, dopodiché mi stringono nel
mio pigiama di seta. Profuma di
schiuma da barba.
Mi accorgo di mettermi in punta di
piedi per avvicinare il volto al suo.
«Signora
Dennett»,
protesta
piano. Mentre bacio le sue labbra,
mi ripeto che non è stato lui a
volerlo. È una cosa allo stesso
tempo nuova, eccitante e disperata.
Allora stringe un lembo del mio
pigiama tra le mani e mi attira a sé.
Gli allaccio le braccia al collo, faccio
scorrere le dita tra i suoi capelli.
Sento l’odore del caffè che ha
bevuto.
Ricambia il bacio. Solo per un
attimo.
«Signora Dennett», sussurra di
nuovo, portando delicatamente le
mani
sui
miei
fianchi,
per
allontanare il mio corpo da sé.
«Eve, per favore», dico, e lui si
scosta, passando il dorso della
mano sulle labbra. Compio un
ulteriore, vano tentativo di attirarlo
a me.
Ma non mi vuole.
«Signora Dennett, non posso».
Il silenzio dura un’eternità.
Abbasso lo sguardo. «Dio mio,
cos’ho fatto?», sussurro.
Non sono abituata a queste cose.
Non l’ho mai fatto, io sono integra e
virtuosa.
Questo
è
un
comportamento infedele… di cui lo
specialista è James.
Una volta avevo sempre lo
sguardo degli uomini addosso.
Pensavano che fossi davvero
bellissima. Se attraversavo una
stanza al braccio di James, ogni
uomo e la relativa compagna
invidiosa si voltavano a guardarmi.
Sento
ancora
le
braccia
dell’ispettore che mi stringono, con
compassione
e
desiderio
di
rassicurazione, avverto con forza il
suo calore. Ma adesso si allontana,
e mi ritrovo a fissare il pavimento.
Mi solleva il mento, mi costringe a
guardarlo. «Signora Dennett», dice,
ma non riesco a guardarlo, mi
vergogno di vedermi riflessa nei
suoi occhi. «Eve», insiste. Lo fisso,
e non vedo disprezzo né rabbia.
«Non c’è cosa al mondo che vorrei
fare di più, ma le circostanze…».
Annuisco. Lo so. «Sei un uomo
d’onore», esclamo. «O un gran
bugiardo».
Mi accarezza la nuca. Chiudo gli
occhi e cedo al suo tocco. Lui mi
attira a sé. Depone un bacio sulla
mia testa, fa scorrere una mano sui
capelli e sulla schiena.
«Nessuno mi obbliga a venire qui
due o tre volte alla settimana. Lo
faccio di mia iniziativa, perché
desidero vederti. Potrei telefonare,
invece vengo per vedere te».
Rimaniamo in quella posizione per
un minuto, poi dice che deve
andare in tribunale, in centro. Lo
accompagno alla porta, lo seguo
con gli occhi mentre se ne va, poi
resto ferma davanti al vetro gelido,
a fissare la strada alberata finché la
sua auto sparisce.
Colin
Prima
La chiamano «Alberta clipper». È
un’area di bassa pressione a
spostamento rapido che si verifica
quando l’aria calda dell’oceano
Pacifico si scontra con le montagne
della British Columbia. Allora si
formano venti di caduta che hanno
la forza di uragani e portano aria
boreale verso Sud.
Appena due giorni fa non sapevo
niente di queste cose. Finché la
temperatura all’interno del capanno
non è precipitata così in basso da
indurci ad accendere per qualche
minuto il riscaldamento del pick-up
e riscaldarci lì. Avevamo bisogno di
scongelarci. Ci siamo avventurati
nel freddo pungente per rifugiarci
nel veicolo. Lei camminava dietro di
me, per proteggersi dal vento. Le
portiere
erano
praticamente
bloccate dal gelo. Una volta dentro
l’abitacolo, ho acceso la radio e le
previsioni parlavano, appunto, di
questo fenomeno che prende il
nome dalla provincia canadese di
Alberta. Si stava abbattendo proprio
in quel momento sulla nostra zona,
infieriva con bufere di nevischio e
venti incredibilmente gelidi. Dalla
mattina le temperature erano scese
probabilmente di dieci gradi o più.
Non credevo che l’auto si sarebbe
messa in moto. Ho lanciato qualche
imprecazione mentre lei recitava
varie Ave Maria, ma alla fine è
andata. Ci è voluto un po’ prima che
il riscaldamento si accendesse e
l’aria calda uscisse dalla griglia, ma
poi ce l’abbiamo fatta.
«Da quant’è che hai questo pickup?», chiede. Secondo lei, ha più
anni
dei
suoi
studenti.
Gli
altoparlanti
anteriori
non
funzionano. I sedili sono rotti.
«Da troppo tempo», dico. Le
previsioni meteo sono seguite dagli
annunci pubblicitari. Sposto la
manopola della radio e passo dalla
musica country a Per Elisa di
Beethoven. Che sfiga! Ci riprovo e
m’imbatto in una stazione che
trasmette classici del rock. Sono
soddisfatto e abbasso il volume.
Fuori il vento ulula, e fa oscillare il
veicolo. Deve soffiare ai cento
all’ora.
Ho la tosse e mi cola il naso. Mi
dice che è colpa della passeggiata
nel freddo della sera precedente,
ma secondo me non ci si ammala
così.
Poi mi volto dall’altra parte e
tossisco. Ho gli occhi pesanti, non
mi sento bene.
Guardiamo fuori dai finestrini. Gli
alberi vacillano sotto le sferzate del
vento impetuoso. Da una quercia
vicina si stacca un ramo che
colpisce la macchina. Lei sussulta e
mi guarda. Dico che va tutto bene,
che presto sarà tutto finito.
Mi chiede quale sia il mio piano,
fino a quando ho intenzione di
tenerla nel capanno. Le confesso
che non lo so. «Ci sono alcune cose
che devo risolvere prima di
andarcene», spiego. So che, quando
ce ne andremo, lei verrà con me.
Questo è fin dove riesco a
spingermi riguardo i giorni che
restano: quando tagliare la corda e
dove dirigerci. Le temperature in
rapido calo rendono evidente il
fatto che non possiamo più restare
qui. Ho detto a Dan di procurarci
passaporti falsi, e lui mi ha risposto
che gli occorre del tempo. Ma non
so quanto, fuori dalla ferramenta
col telefono a gettoni avevo
insistito, gli avevo detto che non ne
abbiamo molto. «Richiamami tra un
paio di settimane, vedrò quel che si
può fare», aveva assicurato.
Quindi, per il momento dobbiamo
aspettare. Ma non glielo rivelo, la
lascio nella convinzione che non ho
la minima idea di come fare.
Alla radio passano i Beatles. Dice
che le ricordano sua madre.
«Quando io e Grace eravamo
piccole, ascoltava sempre i loro
dischi. Le piaceva la loro musica,
ma soprattutto era un modo per
restare in contatto con la cultura
britannica. Adorava tutte le cose
inglesi: il tè, Shakespeare, i
Beatles».
«Perché non parli mai di tua
madre?», le chiedo.
Afferma di essere certa di averne
parlato. «Ma forse solo di sfuggita.
Lei è così, non è mai sotto la luce
dei riflettori. Non c’è mai molto da
dire. È tranquilla, sottomessa,
malleabile».
Metto le mani davanti alla griglia
da cui esce il calore, cercando di
assorbirne il più possibile. «Cosa
crede che ti sia accaduto?»,
domando.
Riesco a percepire l’odore del
sapone che le resta sulla pelle, a
me non succede. Un profumo acre,
come quello delle mele.
«No so», replica. «Non ci ho
pensato».
«Ma lo sa che sei scomparsa».
«Forse».
«Ed è preoccupata».
«Non saprei», riflette.
«Come mai?».
Ci pensa. «L’ultimo mese mi ha
telefonato un paio di volte. Io però
non l’ho richiamata, e lei non voleva
disturbarmi. Perciò ha lasciato
perdere».
Ma sostiene di avere dei dubbi.
Dice che ha pensato spesso a cosa
avrebbero creduto gli altri il giorno
del suo compleanno, o quando non
aveva partecipato alla cena del
Ringraziamento. Si domanda se c’è
qualcuno che la sta cercando. Se si
sono accorti che è sparita. «Mi
chiedo se la polizia sia già al lavoro
o se la mia scomparsa rientri solo
nelle chiacchiere dei curiosi. Mi
hanno sostituito e ho perso il mio
lavoro?
Mi
hanno
tolto
l’appartamento per non aver pagato
l’affitto?».
Le dico che non ne so niente.
Forse gliel’hanno tolto. Ma cosa
conta adesso? Non può mica
tornare a casa. E nemmeno
riprendere a insegnare… «Però ti
vuole bene», aggiungo. «Tua
madre».
«Sicuro», dice. «È la mia
mamma».
Poi
comincia
a
raccontarmi di lei.
«Mia madre è figlia unica»,
spiega.
«È
cresciuta
nel
Gloucestershire, in un piccolo
villaggio sonnolento con gli antichi
cottage di pietra, quelli coi tetti
spioventi. Ci vivono i miei nonni. Il
loro cottage non è niente di
speciale, è antiquato, disordinato,
una cosa che mi faceva venire i
nervi. Mia nonna è una che non
butta via niente, mio nonno è il tipo
d’uomo che beve fino a cent’anni.
Puzza di birra, anche se in modo
gradevole, e i suoi baci sono
sempre umidi e alcolici. Sono i tipici
nonni: lei sa cucinare come
nessun’altra donna al mondo, lui sa
raccontare per ore delle storie
affascinanti sulle guerre che ha
combattuto. La nonna mi scrive
delle lettere, lunghi papiri su carta
per appunti, in una calligrafia
perfetta, un corsivo che sembra
danzare sulla pagina; d’estate ci
metteva dentro dei fiori di ortensia
rampicante che ho sempre adorato,
colti dalla meravigliosa pianta che
sale sulle pareti del cottage e ormai
ne ricopre anche il tetto».
Mi dice che, quand’era piccola, la
mamma le cantava Lavender’s Blue.
Mai sentita, la informo.
Ricorda
di
essere
cresciuta
insieme alla sorella. Una volta,
avevano giocato a nascondino;
mentre Grace chiudeva gli occhi e
contava fino a venti, lei era andata
in camera da letto e si era messa
gli auricolari. «Mi ero nascosta
nell’armadio», dice. «Ci tenevamo
un
sacco
di
biancheria
ammucchiata. Ho aspettato che mi
trovasse». Era rimasta seduta lì
dentro per più di un’ora, aveva
quattro anni.
Alla fine fu la madre a trovarla,
dopo aver cercato in tutta
l’abitazione da cima a fondo.
Ricorda il cigolio della porticina
dell’armadio che si apriva. Lei
mezzo addormentata. Gli occhi
della madre che pareva volessero
scusarsi e il modo in cui poi lei
l’aveva cullata, continuando a
ripeterle: «Tu sei la mia piccola
bambina», in un modo che lei trovò
misterioso.
Ricorda che la sorella non veniva
quasi mai sgridata o ripresa.
«Doveva scusarsi», racconta, «e lo
faceva, ma con aria di superiorità».
Anche all’età di quattro anni si
accorgeva che non c’erano vantaggi
nell’essere buoni. Però lei voleva
essere
buona.
Me
lo
dice
apertamente, faceva di tutto per
essere una brava bambina.
Dice che quando a casa era sola
perché la sorella era a scuola o da
qualche parte a giocare, e il padre
stava per i fatti suoi, lei e la madre
bevevano il tè. «Era il nostro
segreto. Mi scaldava il sidro di mele
e preparava per sé un infuso che
teneva
nascosto
per
queste
occasioni. Mangiavamo insieme un
sandwich con burro d’arachidi e
marmellata che lei tagliava a
strisce. Bevevamo col mignolo
alzato e ci chiamavamo con nomi
affettuosi (tesoro, amore), mentre
mi raccontava le cose magiche che
accadevano nel regno inglese,
come se ogni giorno principi e
principesse passeggiassero ancora
sulle vecchie strade acciottolate».
Mi spiega che il padre odia
l’Inghilterra. Aveva costretto la
madre a adeguarsi alla cultura
americana, a perdere il senso della
sua civiltà europea. Era una sorta di
imperialismo, un rapporto basato su
dominio e subordinazione.
Quando parla di lui fa delle
smorfie. Ma non apposta, credo. Mi
pare che non se ne accorga, però le
fa. E poi il rapporto fra i suoi
genitori non è l’unico a basarsi sulla
forza.
Fuori è scuro, buio pesto, visto
che non c’è luna. La luce
nell’abitacolo mi permette di vedere
solo il suo profilo, il riflesso del
bagliore negli occhi.
Aggiunge: «La mamma ha quasi
perso del tutto l’educazione inglese,
vive qui da quando era più giovane
di me. Papà l’aveva obbligata a non
usare più i termini inglesi nei casi in
cui ci siano corrispettivi americani.
Non so quando accadde, quando
smise di usare le parole che aveva
imparato crescendo, ma di sicuro a
un certo punto della mia infanzia».
Le chiedo chi pensa che la stia
cercando. Di certo si saranno
accorti che è scomparsa.
«Non so». Comunque presume
che qualcuno ci sia. «Le mie
colleghe saranno preoccupate, i
miei studenti. Ma in famiglia…
onestamente non lo so. E tu?», mi
chiede. «Chi ti sta cercando?».
Mi stringo nelle spalle. «Non
gliene frega niente a nessuno di
me».
«Tua madre», dice.
Mi giro a guardarla, non apro
bocca, nessuno dei due sa se è una
domanda oppure no. Ciò che so è
che sento un cambiamento dentro
di me ogni volta che mi guarda.
Non mi attraversa più con gli occhi,
come se non mi vedesse. Adesso,
se parla, mi fissa sempre. Odio e
rabbia sono spariti.
Le accarezzo una guancia con la
mano riscaldata dalla griglia. Le
sistemo una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Avverto che la sua
guancia si appoggia fiduciosa alla
mia mano. Non si ritrae.
Poi le dico: «Dovremmo rientrare.
Più rimaniamo qui e più ci sarà
difficile farlo».
Lei si muove lentamente, esita.
Penso voglia dire qualcosa, come se
ce l’avesse sulla punta della lingua.
Ed è allora che tira in ballo
Dalmar.
«Cosa c’entra Dalmar?», le chiedo.
Lei non risponde. Rimugina su
qualcosa. Per esempio, come abbia
fatto a finire nel capanno. O almeno
penso. Come mai la figlia di un
giudice ricchissimo finisce per
nascondersi in una casa di legno
schifosa con me?
«Lasciamo perdere», fa. Ha
riconsiderato la questione, non ne
vuole più parlare.
Potrei insistere, ma decido di non
insistere. Parlare di Dalmar è
l’ultima cosa che voglio ora.
«Torniamo dentro», propongo.
Lei
annuisce.
«Va
bene,
andiamo». Apriamo le portiere,
lottando contro la forza delle
raffiche contrarie. Riprendiamo la
strada verso il capanno buio e
freddo; una volta dentro, sentiamo
solo l’ululato del vento.
Gabe
Dopo
Sfoglio le pagine del quaderno da
disegno, cerco disperatamente degli
indizi, e a un certo punto ci arrivo:
quel fottuto gatto. Personalmente,
odio i gatti. La loro elasticità mi
spaventa a morte. Hanno la
tendenza ad appisolarmisi in
grembo, quasi certamente perché
sanno di farmi un dispetto. Perdono
i peli ed emettono quel rumore
quando fanno le fusa.
Il mio capo mi sta addosso, vuole
che risolva il caso una volta per
tutte. Ripete che sono settimane
che Mia Dennett è tornata a casa e
ancora non ho fatto un passo in
avanti verso la scoperta di chi ha
organizzato
tutto
questo.
Il
problema è semplice: l’unica che
può aiutarmi è lei. Ma lei riesce a
ricordarsi a malapena come si
chiama, dal momento che ha
dimenticato tutti i particolari dei
suoi ultimi mesi di vita. Devo
rinfrescarle la memoria.
E a quel punto m’imbatto nel
disegno del gatto. Mia madre dice
sempre a mio padre che preferisce
lo schnauzer a lui. Io sono stato
obbligato a convivere con un
pappagallo. La mia vicina di casa
sbaciucchia continuamente il suo
barboncino. La gente ha un
rapporto strano con gli animali
domestici. Io sono diverso: l’ultimo
animaletto da compagnia che ho
avuto è finito nello sciacquone del
bagno.
Così telefono a un tipo del
Minnesota per chiedergli un favore.
Gli spedisco per fax il disegno,
dicendogli che cerchiamo un gatto
soriano bianco e grigio, tigrato, che
pesa circa quattro chili. Lui manda
da Grand Marais un agente al
capanno per dare un’occhiata.
Non ci sono gatti, ma impronte di
animali sulla neve sì. Su mio
suggerimento (non che sia un colpo
di genio), lascia una ciotola di cibo
e una di acqua, che probabilmente
si congeleranno durante la notte.
Meglio di niente. Gli chiedo di
tornare la mattina dopo per vedere
se il gatto ha mangiato. In questo
periodo dell’anno la caccia dà scarsi
risultati, e quel maledetto animale
sentirà sicuramente freddo. Il mio
amico dice che cercare gatti randagi
non è l’unica priorità che hanno.
«E quali sono le altre?», azzardo.
«Arrestare chi supera la quantità
massima di trote pescabili?». Gli
ricordo che si tratta di un caso di
sequestro di persona, di cui hanno
parlato tutti i giornali della nazione.
«Va bene, va bene», replica lui.
«Ti aggiorno domattina».
Colin
Prima
Le rivelo che il mio secondo nome
è Michael, in onore di mio padre.
Lei non conosce ancora il mio nome
vero, mi chiama Owen, quando
deve farlo. Io di solito non la
chiamo per nome. Non ce n’è
bisogno. Ho una cicatrice sul
fondoschiena che ha visto una volta
mentre uscivo dalla vasca da
bagno. Me ne chiede conto. Le dico
che è il morso di un cane ricevuto
da piccolo. Della cicatrice sulla mia
spalla, però, non voglio parlare.
Non mi dilungo nemmeno sulle ossa
che mi sono rotto: la clavicola in un
incidente stradale da ragazzino, il
polso mentre giocavo a football e il
naso in una rissa.
Quando rifletto, mi accarezzo la
barba.
Se
sono
arrabbiato,
cammino a passi lunghi. Faccio di
tutto per tenermi occupato. Non mi
piace restare seduto per più di
qualche minuto se non ho un
motivo:
alimentare
il
fuoco,
mangiare, dormire.
Le racconto com’è cominciata
questa storia. Un uomo mi aveva
offerto cinquemila dollari per rapirla
e consegnarla sulla Lower Wacker
Drive. Allora non sapevo nulla su di
lei. L’avevo vista in fotografia e poi
l’avevo pedinata per giorni. Non era
una cosa che desideravo fare. Non
ero stato al corrente del piano fino
alla sera decisiva. Finché non mi
telefonarono per darmi le istruzioni.
Così funziona: meno ne sai e meglio
è. Le altre volte era stato diverso,
ma in quest’occasione la somma di
denaro in ballo era superiore a
qualunque cifra precedente. La
prima volta mi ero attivato solo per
ripagare un prestito, «per non farmi
prendere a calci in culo», le dico. In
seguito, l’avevo fatto per poche
centinaia di dollari, a volte un
migliaio. Le dico che Dalmar è
soltanto un intermediario, gli altri si
celano dietro una cortina di fumo.
«Non so assolutamente chi paga i
conti», preciso.
«E ti disturba?», chiede.
Faccio spallucce. «Questa è la
realtà».
Dovrebbe detestarmi per ciò che
le ho fatto. Per averla portata lì.
Però comincia a intuire che la mia
decisione potrebbe averle salvato la
vita.
Per il mio primo lavoro dovevo
trovare un certo Thomas Ferguson.
Ero incaricato di fargli sputare i
soldi di un suo debito di notevole
entità. Era un uomo ricco, bizzarro a
suo
modo. Un genio
della
tecnologia che era emerso negli
anni Novanta. Aveva il debole delle
scommesse. Aveva contratto un
prestito ipotecario, e con le
scommesse aveva perso la sua casa
quasi per intero. Poi aveva
sperperato anche il fondo per gli
studi universitari del figlio, poi le
obbligazioni che i suoceri avevano
lasciato in eredità a sua moglie e a
lui. Quando se n’era accorta, la
donna aveva minacciato di lasciarlo.
Allora lui aveva chiesto altri soldi ed
era andato a spenderli nel casinò di
Joliet per recuperare tutte le
perdite. Ironia del caso: a Joliet,
Ferguson guadagnò una fortuna,
però non estinse mai il suo debito.
Scovarlo fu un gioco da ragazzi.
Ricordo che mi tremavano le mani
mentre salivo i gradini della sua
casa nel quartiere di Streeterville.
Non volevo cacciarmi nei guai.
Suonai
il
campanello.
Un’adolescente aprì appena la porta
e io la travolsi. Erano le otto di una
sera d’autunno, ricordo che faceva
freddo. La casa era quasi al buio. La
ragazzina si mise a urlare, la madre
accorse e insieme si rifugiarono
sotto una vecchia scrivania, perché
avevo tirato fuori la pistola. Dissi
alla donna di chiamare il marito.
Quel vigliacco ci impiegò cinque
minuti buoni per portare lì le sue
chiappe. Si stava nascondendo al
primo piano. Avevo preso tutte le
precauzioni: tagliato i fili del
telefono e bloccato la porta
secondaria. Non se ne sarebbe
andato. Eppure, Ferguson aspettò
tanto da darmi il tempo di legare
moglie e figlia, e quando comparve
tenevo la canna della pistola
puntata contro la tempia della
donna. Sosteneva di non avere
soldi. Neanche un centesimo a suo
nome. Non poteva essere vero,
ovviamente.
All’esterno
era
parcheggiata una Cadillac nuova di
zecca, che aveva registrato a nome
di lei.
Giuro alla ragazza di non aver mai
ucciso nessuno. Né quella volta, né
mai.
Parliamo di stupidaggini, per
passare il tempo.
Le dico che quando dorme russa.
Lei esclama: «Non saprei, non
ricordo quand’è stata l’ultima volta
che qualcuno mi ha visto dormire».
Tengo sempre le scarpe ai piedi,
anche se sappiamo di non dover
andare da nessuna parte. Anche
quando le temperature precipitano
sottozero e non ci muoviamo da
davanti al fuoco.
Lascio gocciolare l’acqua dai
rubinetti, le dico di non stringerli.
Se si congela l’acqua, i tubi
scoppieranno. Mi domanda se
creperemo di freddo. Rispondo di
no, ma non ne sono tanto certo.
Sono annoiato, per cui la chiedo di
insegnarmi a disegnare. Strappo
una pagina dopo l’altra, perché i
miei schizzi fanno schifo. Li getto
nel fuoco. Provo a farle un ritratto,
lei mi mostra come gli occhi devono
essere centrati. «Di solito gli occhi
sono allineati con la parte superiore
delle orecchie, e il naso con la parte
inferiore», spiega. Mi chiede di
osservarla bene. Con le mani,
divide la sua faccia in sezioni. È una
brava maestra. Penso ai suoi allievi.
Probabilmente le vogliono bene. A
me non piaceva nessuno dei miei
professori.
Ci riprovo. Quando ho finito, le
sembra di assomigliare al pupazzo
della signora Potato Head. Strappo
la pagina dal quaderno a spirale e
vorrei gettarla nel fuoco, ma lei me
la prende.
«Nel caso un giorno tu diventassi
famoso», scherza.
In seguito la nasconde dove non
posso trovarla. Sa che, se la
trovassi, la butterei nel fuoco.
Eve
Dopo
James mi ha tartassata per tutto il
weekend con le sue allusioni sottili;
diceva che Mia sarebbe ingrassata,
che nel suo utero stava crescendo il
figlio del peccato. Gli ho detto di
smetterla, ma lui ha ignorato le mie
suppliche.
Mia
deve
ancora
accettare l’idea di avere una vita
dentro di sé. Io sapevo che aveva le
nausee mattutine e l’avevo sentita
vomitare nel bagno. Avevo bussato
alla porta per domandarle se
andava tutto bene, ma lui mi aveva
spostato con la forza. Mi ero
aggrappata allo stipite per non
cadere, fissandolo sbigottita.
«Non hai da fare delle spese?», ha
sbraitato.
«La
manicure,
il
podologo. Qualcosa?».
Sono contraria all’aborto, per me
è un omicidio. Dentro di lei sta
crescendo un figlio, a prescindere
dal pazzoide che ha contribuito al
concepimento. Un feto col battito
cardiaco, a cui si stanno formando
braccia e gambe, col sangue che gli
scorre nel corpicino, che sarà quello
di mio nipote.
James non mi ha mai lasciato sola
con Mia. L’ha tenuta chiusa in
camera sua per quasi tutto il fine
settimana, le ha riempito la testa
con i libri del movimento abortista,
con gli opuscoli presi nelle cliniche
della città, con gli articoli stampati
dai siti internet. Lui sa qual è la mia
opinione
sull’interruzione
di
gravidanza. In senso generale,
siamo entrambi conservatori dal
punto di vista politico, ma adesso
che cresce un figlio illegittimo nella
pancia di nostra figlia lui butta al
vento ogni approccio razionale. C’è
solo
una
cosa
che
conta:
sbarazzarsi di quella nuova vita. Ha
deciso di coprire le spese per
l’intervento. Me lo ha detto a mezza
voce, come se parlasse a se stesso.
Vuole
sborsare
personalmente
quella cifra perché non vuole che le
fatture arrivino mai all’assicurazione
sanitaria. Per lui, non devono
r i m a n e r e tracce
di
questa
situazione.
«Non puoi costringerla a farlo,
James», gli ho detto domenica sera.
Mia non stava bene. Lui le ha
portato dei cracker in camera. Non
le ha mai rivolto questo tipo di
attenzioni. Lei non era scesa per
cenare con noi, e non era un caso:
ero certa che James l’avesse chiusa
in camera per impedire che io la
influenzassi.
«Lei vuole farlo».
«Perché le hai detto che deve».
«È ancora una bambina, Eve, non
ricorda come abbia fatto a rimanere
incinta di quel bastardo. Sta male,
ha sofferto tanto. Per il momento,
non è in grado di decidere».
«Allora
aspetteremo»,
ho
suggerito, «finché non sarà in
grado. Abbiamo tutto il tempo».
In effetti, è così. Abbiamo
settimane, anche di più. Invece mio
marito la pensa diversamente.
Vuole subito l’aborto.
«Maledizione, Eve», ha detto
infuriato, facendo stridere la sedia
per lasciare la tavola. Poi si è
eclissato senza finire la minestra.
Stamattina ha tirato Mia giù dal
letto prima che finissi la mia tazza
di caffè. Sono seduta al tavolo della
cucina quando lo vedo spingerla
sulle scale, facendola quasi cadere.
Lei indossa dei vestiti scoordinati,
sono sicura che lui abbia preso i
primi che trovava nei cassetti,
obbligandola a metterseli.
«Cosa stai facendo?», chiedo,
mentre lui prende rabbiosamente
un cappotto dall’armadio, insistendo
perché lei se lo metta. Mi precipito
nell’ingresso, la tazza di caffè
scivola dal bordo del tavolo e si
frantuma in mille pezzi sul parquet.
«Ne abbiamo già parlato», dice.
«Siamo tutti d’accordo. Noi tutti»,
mi fissa per costringermi a
convenirne.
Aveva già chiamato al suo amico
giudice per fare in modo che la
moglie, la dottoressa Wakhrukov,
gli rendesse un grande favore. L’ho
sentito
ancora
al
telefono
stamattina presto, alle sette, che
pronunciava la frase «radiazione
dall’albo», il che mi ha indotto a
fermarmi davanti alla porta del suo
studio. Si praticano gli aborti in
varie cliniche della città, ma
secondo me non negli ambulatori di
ginecologhe
rispettabili.
La
Wakhrukov lavora per mettere al
mondo i bambini, non per eliminarli.
Tuttavia, l’ultima cosa che mio
marito vuole è che qualcuno lo
sorprenda a entrare in una qualsiasi
clinica per aborti trascinandosi
dietro la figlia.
Somministreranno a Mia dei
sedativi per tranquillizzarla, così
non potrà opporsi nemmeno se lo
volesse. Le dilateranno la cervice,
le infileranno qualche strumento per
risucchiare
fuori
il
feto,
strappandolo via dall’utero come
con un aspirapolvere.
«Mia, tesoro», dico, prendendole
una mano. È fredda come il
ghiaccio. Lei è confusa, mezzo
addormentata, non ancora padrona
di sé. Peraltro, non lo è mai stata
da quando è scomparsa. La Mia che
conoscevo è diretta ed esplicita, ha
convinzioni forti e decise. Sa quel
che vuole e riesce anche a
ottenerlo. Non ascolta mai i consigli
del padre, perché lo giudica un
uomo freddo e discutibile. Però
adesso è inebetita, priva di
emozioni, e lui ne approfitta. L’ha
quasi ipnotizzata, lei è sotto il suo
influsso. Non le permette di
prendere una decisione in questa
faccenda. Ma sarà una scelta che lei
dovrà portarsi dietro per tutta la
vita. «Vengo anch’io», dico.
James mi sbatte addosso a una
parete, mi punta contro un dito e
mi ordina: «No, tu stai qui».
Lo spingo via e vado a prendere il
mio cappotto.
Lui mi sbarra la strada.
Mi strappa il cappotto di mano e
lo getta a terra. Afferra Mia per un
braccio e la trascina verso la porta.
Il vento di Chicago penetra
nell’atrio di casa, mi colpisce le
braccia e le gambe nude, fa
svolazzare la mia camicia da notte.
Tento di raccogliere il cappotto,
intanto urlo: «Non devi farlo, Mia,
non sei costretta», lui però mi
trattiene, e siccome non la smetto,
mi spintona al punto di buttarmi a
terra. Sbatte la porta prima che
possa riprendere fiato e rialzarmi.
Raccolgo tutte le forze e guardo
dalla finestra l’auto che esce dal
vialetto.
«Nessuno
ti
può
costringere, Mia», grido ancora,
sebbene sappia che lei non può più
sentirmi.
Giro lo sguardo verso il portachiavi
a muro in ferro battuto e noto che
mancano le mie chiavi: James deve
averle prese per tentare di tenermi
lontana.
Colin
Prima
Un paio di giorni e l’influenza mi è
passata. Il primo giorno mi sono
sentito davvero di merda, ma
proprio quando cominciavo a
disperarmi, mi si è aperto il naso e
ho ricominciato a respirare bene.
Sono fatto così. Per lei è
leggermente
diverso.
Me
ne
accorgo dalla tosse che ha.
Ha iniziato a tossire poco dopo di
me. Non dei colpi secchi come i
miei, bensì qualcosa di più
profondo. La costringo a bere
l’acqua del rubinetto. Non sono un
medico, non ne so granché, ma
potrebbe farle bene.
Sta veramente male. Glielo leggo
in faccia. Ha lo sguardo spento, le
lacrimano gli occhi. Ha il naso
arrossato e screpolato dalla carta
igienica, i piedi continuamente
ghiacciati. Si mette a sedere
davanti al fuoco con la testa
appoggiata al bracciolo di una
sedia, persa in un luogo remoto
dove non è mai stata prima.
Nemmeno quando le puntavo la
pistola alla tempia.
«Vuoi andare a casa?», chiedo.
Cerca di schermirsi, ma so che
piange. Vedo le lacrime che le
rigano le guance, prima di cadere
sul pavimento.
Solleva il capo. Si pulisce la faccia
con la manica. «Non mi sento tanto
bene», mente. È chiaro che vuole
andare a casa. Il gatto vuole stare
sempre sul suo grembo. Non so se
ciò dipenda dalla sua coperta o dal
fatto che cucini davanti al fuoco.
Forse è per pura devozione.
Maledizione, come faccio a saperlo?
Mi rivedo mentre le puntavo la
pistola alla testa. La immagino
sdraiata sui sassi, circondata dalle
foglie. In questi giorni non ce la
faccio a scacciare quest’immagine
dalla mente.
Le tasto la fronte e mi rendo
conto che scotta.
Dice di essere sempre stanca. Fa
fatica a tenere gli occhi aperti;
quando si riprende, sono sempre
pronto con un bicchiere d’acqua,
che le faccio bere.
Mi racconta che sogna sua madre,
di adagiarsi sul divano della sua
famiglia, come faceva da piccola
quand’era malata. Sogna di farsi
coccolare avvolta in una coperta
che portava sempre con sé. A volte
la
madre
gliela
metteva
nell’asciugatrice per alcuni minuti,
così si riscaldava. Le preparava un
toast alla cannella e rimaneva a
vegliare su di lei, prima guardando i
cartoni animati e poi, quando fu più
grande, le telenovelas. C’era
sempre un succo di frutta da bere. I
liquidi servono a reidratarsi, le
ricordava la madre. «Devi bere».
Mi dice che è sicura di vedere la
madre nella cucina del capanno,
con la sua vestaglia di seta e le
pantofole che sembrano scarpe da
ballerina. C’è una canzone di
Natale, un pezzo di Ella Fitzgerald.
La madre canticchia sottovoce. C’è
profumo di cannella nell’aria.
Chiama la madre, ma quando si
volta vede me e scoppia a
piangere.
«Mamma», singhiozza. Era certa
che sua madre fosse lì.
Attraverso la stanza e le appoggio
una mano sulla fronte. Si sottrae, la
mia mano è come il ghiaccio.
«Scotti», dico, e le porgo un
bicchiere di acqua tiepida.
Mi siedo di fianco a lei, sul sofà.
Tiene il bicchiere contro le labbra
ma non beve. È sdraiata su un
fianco, ha la testa posata su un
cuscino che ho preso dal letto. È
sottile come un foglio di carta. Mi
chiedo quante persone ci abbiano
appoggiato la testa prima di lei.
Raccolgo la coperta, che era caduta
a terra, e la copro. La lana è ruvida
e le graffia la pelle.
«Grace era la prediletta di papà,
io la preferita della mamma»,
esclama all’improvviso. Come se se
ne fosse appena accorta, in un
momento di lucidità. La madre
accorreva nella sua stanza quando
aveva gli incubi. La abbracciava
forte – sente ancora la sensazione –
e la proteggeva dall’ignoto. La
rivede mentre la spinge sull’altalena
quando Grace era a scuola. «Rivedo
il suo sorriso, sento ancora la sua
risata. Mi amava moltissimo, solo
che
non
sapeva
come
dimostrarmelo», dice.
La mattina, si lamenta per il mal
di testa e di gola, la tosse che la
tormenta. Non protesta però, me lo
dice solo perché sono io che glielo
chiedo.
Le fa male anche la schiena. A un
certo punto cambia posizione sul
sofà e si addormenta a pancia in
giù. Brucia come il fuoco dell’inferno
quando la tocco, sebbene tremi
tutta,
come
se
stesse
per
congelarsi. Il gatto le cammina sulla
schiena finché non lo caccio via.
Allora si rifugia dietro il divano.
Nessuno mi ha mai amato tanto.
Nel sonno bofonchia di cose
lontane da qui: un uomo in tuta
mimetica, dei graffiti su un muro di
mattoni, fatti illegalmente con
bombolette spray, wild-style e tag
illeggibili. Vernice nera e gialla.
Lettere
grosse,
intrecciate
tridimensionalmente.
Le lascio il mio posto sul sofà.
Ormai sono due notti che dormo su
una sedia. Sul letto starei più
comodo,
ma
non
voglio
allontanarmi troppo. Resto sveglio a
causa di quella tosse maledetta,
anche se in qualche modo riesce a
riposare lo stesso. Di solito è il naso
chiuso a svegliarla, l’insopportabile
incapacità di respirare bene.
Non so che ore sono quando dice
che deve andare in bagno. Riesce a
mettersi in piedi, ma dal modo in
cui si muove è facile capire che le
duole ogni muscolo del corpo.
Fa qualche passo, ma le mancano
le forze.
«Owen», riesce a sussurrare.
Allunga una mano verso la parete,
afferra il vuoto e crolla a terra.
Non credo di essermi mai mosso
tanto rapidamente in vita mia. Non
ce l’ho fatta a evitarle la caduta,
però ho evitato che sbattesse la
testa su qualche spigolo.
Resta priva di sensi al massimo un
paio di secondi. Quando rinviene,
mi chiama Jason. Pensa che sia lui.
Potrei incavolarmi, invece la aiuto a
rialzarsi
e
l’accompagno
al
gabinetto, le abbasso i pantaloni e
la metto seduta sul water. Poi la
riporto sul sofà e la copro bene.
Una volta mi ha domandato se ho
una fidanzata. Le avevo risposto di
no, che ci avevo provato in
un’occasione ma che per me non
funzionava.
Le avevo chiesto di questo suo
ragazzo. L’avevo incontrato nel
cubicolo di un cesso pubblico e lo
avevo detestato al primo sguardo. È
il tipo di bastardo che si comporta
da duro. Crede di essere superiore
a tutti gli altri, ma invece è un
vigliacco. Assomiglia a Thomas
Ferguson, e sarebbe capace di
lasciare che un altro uomo le punti
una pistola alla testa.
La guardo dormire. La tosse
sembra un rantolo. Ascolto il suo
respiro corto, vedo che il petto si
solleva e si abbassa in modo
irregolare.
«Cosa vuoi sapere?», aveva detto
a proposito del suo ragazzo.
Tutto a un tratto non mi
importava più.
«Niente», avevo risposto. «Lascia
stare».
«Perché ci credo a quello che hai
detto», aveva aggiunto.
«In che senso?»
«Che lo hai comprato coi soldi. Ti
credo».
«Davvero?»
«La cosa non mi sorprende».
«Perché lo dici?».
Si era stretta nelle spalle. «Non lo
so, in realtà».
So che non posso lasciare che le
cose vadano avanti così. Lei
peggiora ogni giorno. Ha bisogno di
prendere
degli
antibiotici,
è
evidente, altrimenti potrebbe anche
morire. Non so proprio che fare.
Eve
Dopo
Non può restare da sola,
assolutamente. Esco di casa non
appena James ritorna senza Mia al
seguito. Non c’è niente più
importante di lei. Sono certa che si
trovi all’angolo di una strada,
abbandonata da suo padre, senza
mezzi per tornare a casa.
Gli urlo in faccia, chiedendogli
come abbia potuto fare questo a
nostra figlia.
L’aveva lasciata uscire da sola
dallo studio medico, ad affrontare il
freddo terribile di gennaio, ben
sapendo che non è in grado di
prepararsi neppure la colazione,
figurarsi ritrovare la via di casa.
Lui afferma che è lei la testarda.
Mia non aveva voluto sentire
ragioni a proposito di quel dannato
figlio. Dice che aveva rifiutato di
abortire, che era scappata dallo
studio della ginecologa non appena
l’infermiera l’aveva chiamata.
James sbraita e si rifugia nel suo
studio, non si accorge che sto
preparando la valigia e sto
scendendo piano le scale per
andarmene.
Non ci credevo molto. E invece,
mentre strappavo dalle mani di
James le chiavi della mia auto e
facevo più volte il giro intorno allo
studio medico, Mia era riuscita a
rifugiarsi nel suo appartamento.
Adesso si sta scaldando un
barattolo di minestra sui fornelli. Il
suo pranzo.
Mi apre la porta, mi fiondo ad
abbracciarla, la stringo più forte che
posso. Se ne sta nel suo
appartamentino,
quello
che
chiamava la sua casa. È da molto
che non ci abita più. Le piante sono
aggrappate alla vita per un filo, e
c’è polvere ovunque. Sa di nuovo,
un odore che rivela che il posto è
stato disabitato a lungo. Il
calendario sul frigorifero in cucina è
fermo
al
mese
di
ottobre,
l’immagine risplende di foglie rosse
e arancioni. La segreteria telefonica
continua
a
emettere
segnali
acustici; ci saranno migliaia di
messaggi che aspettano di essere
ascoltati.
Mia ha molto freddo, ha dovuto
camminare e poi aspettare un taxi.
Dice che non aveva un soldo per
pagare la corsa. Nell’appartamento
si gela. Si è messa la sua felpa
preferita, quella col cappuccio,
sopra a una camicetta leggera.
«Mi dispiace tanto, perdonami», le
ripeto all’infinito. Ma lei sta bene.
Mi tiene a distanza e chiede cos’è
successo. Allora le dico di James.
Sono io a perdere il controllo, a
cadere a pezzi. Mi prende la valigia
di mano e la porta nella stanza da
letto.
«Allora rimani qui», afferma. Mi fa
sedere sul divano e mi posa una
coperta sulle ginocchia, poi va in
cucina a finire di preparare la
minestra: brodo di pollo, dice,
perché le ricorda casa.
Mangiamo la nostra minestra,
dopodiché
mi
racconta
cos’è
successo nell’ambulatorio della
ginecologa. Si accarezza la pancia e
si raggomitola su una sedia.
Tutto stava procedendo come
programmato. Dice che si era
convinta ad abortire, mancava
poco, e poi tutto sarebbe finito.
James era seduto vicino a lei,
leggeva una rivista di diritto e
aspettava il suo turno. Dopo pochi
minuti l’ostetrica russa si sarebbe
sbarazzata del feto.
«Però c’era un bambino con sua
madre», dice. «Avrà avuto quattro
anni». Mi racconta della donna, con
una pancia grossa come un pallone
da basket. Il piccolo giocava con le
sue macchinine, le faceva correre
su e giù per le zampe delle sedie
della sala d’attesa. «Vruum, vruum,
vruum…». Gliene era caduta una tra
i piedi di James e quel bastardo
aveva avuto il coraggio di calciarla
via coi suoi mocassini italiani, senza
mai alzare gli occhi dalla rivista.
«Dopo ho sentito la madre»,
continua Mia, «vestita con una
graziosa salopette di jeans e
piuttosto in difficoltà, dire al figlio:
“Owen, vieni qui”. Lui si è
precipitato verso di lei e ha
cominciato a far correre la
macchinina sul pancione della
madre,
poi
l’ha
abbracciata,
dicendo: “Ciao, piccolo”, al suo
fratellino non ancora nato». Si
ferma a riprendere fiato e infine
ammette: «Owen. Non sapevo cosa
significasse, ma di certo qualcosa.
Non riuscivo a staccare gli occhi dal
bambino. “Owen”, continuavo a
borbottare, e la madre e il piccolo si
sono voltati a guardarmi».
James le aveva domandato cosa
stesse facendo e lei gli aveva
spiegato di avere l’impressione di
un déjà-vu. Era come se fosse stata
già lì. Ma cosa significava?
Allora si era sporta dalla sedia per
dire al bimbo che le piacevano le
sue macchinine. Lui gliene aveva
fatta vedere una, ma la madre si
era messa a ridere e aveva
esclamato: «Owen, non credo che
voglia vederle». Invece Mia lo
voleva. James l’aveva sgridata,
invitandola a restituirla al bambino.
Però lei desiderava tanto restare
vicino a quel piccolo. Diceva che il
suono del suo nome le toglieva il
respiro. Owen.
«Ho preso in mano uno di quei
giocattolini, un camioncino viola, e
gli ho ripetuto che mi piaceva,
gliel’ho passato sulla testa e lui si è
messo a ridere. Ha detto che presto
avrebbe avuto un fratellino, Oliver».
A quel punto era apparsa sulla
soglia l’infermiera per chiamare
Mia, e James era balzato in piedi di
scatto, sollecitandola ad alzarsi.
L’infermiera l’aveva chiamata di
nuovo, fissandola negli occhi. James
aveva ripetuto diverse volte il suo
nome, cercando di tirarla per un
braccio, e le aveva urlato in faccia
per ricondurla alla disciplina, come
solo lui sa fare. Le aveva ricordato
ancora una volta che era il suo
turno.
Mia mi dice: «La madre ha
chiamato Owen, io gli accarezzavo i
riccioli, non so chi fosse più
atterrito, se lei o papà, ma al
bambino quel gesto piaceva, perché
mi ha sorriso e io l’ho ricambiato.
Poi ho rimesso le due macchinine
nelle sue mani e mi sono alzata
dalla sedia». Mi racconta che James
aveva emesso un sospiro di
sollievo: «Finalmente, era ora». Ma
non lo era. Mia aveva preso il suo
giaccone e gli aveva sussurrato:
«Non posso farlo».
Era sgattaiolata verso l’uscita. Lui
l’aveva inseguita, naturalmente,
protestando,
urlando
e
minacciandola. Le ripeteva di
ripensarci, ma lei non poteva. Non
sapeva dare significato a quel fatto.
Owen. Non sapeva perché quel
nome significasse tanto per lei.
Sapeva solo che non era ora che il
feto morisse.
Colin
Prima
Sono le due di notte quando
vengo svegliato dal suo urlo. Mi
alzo dalla poltrona e vedo che
indica qualcosa nel buio pesto, una
cosa che non c’è.
«Mia», dico, anche se non riesco a
farle distogliere lo sguardo. «Mia»,
ripeto con forza. Ho un tono deciso,
ma sono spaventato a morte. I suoi
occhi sono colmi di lacrime, fissano
qualcosa.
Mi
allungo
verso
l’interruttore, accendo la luce e mi
rassicuro: siamo soli. Poi mi
inginocchio davanti al sofà. Le
prendo la testa fra le mani e la
costringo a guardarmi. «Mia»,
insisto, ma lei si divincola.
Dice che c’era un uomo alla porta,
con un machete e una bandana
rossa sulla fronte. È isterica. Sta
delirando. Può descrivere l’uomo
dettagliatamente, ha anche un buco
sulla coscia destra dei jeans. Un
nero, con una sigaretta tra le
labbra. La cosa che mi preoccupa di
più è il calore che emana il suo
viso. Quando finalmente mi vede,
ha lo sguardo vitreo, dopodiché
appoggia la testa sulla mia spalla e
comincia a piangere.
Apro l’acqua della vasca da bagno
e la riempio. Non ho farmaci. Niente
per far abbassare la febbre. È la
prima volta che sono contento che
l’acqua
sia
solo
tiepida.
È
abbastanza calda per impedire che
vada in ipotermia e abbastanza
fredda per non farle venire un
colpo.
La aiuto a mettersi in piedi. Si
appoggia a me e la porto di peso
nel bagno. Mentre le tolgo i calzini,
si siede sul water. Trema quando i
piedi nudi toccano le mattonelle.
«No», implora.
«Andrà tutto bene», dico, ma
mento.
Chiudo il rubinetto e la rassicuro
che rispetterò la sua privacy, invece
lei
allunga
una
mano
per
trattenermi: «Non andartene».
La osservo mentre con una mano
tremante tenta di sbottonarsi i
pantaloni color cachi. È debole e si
appoggia al lavandino per riuscirci.
La aiuto a slacciare un bottone. Le
sfilo i pantaloni. Poi le tolgo anche i
pantaloni termici e le lego una
maglia attorno ai capelli.
Geme mentre si cala nell’acqua
della vasca. Porta le ginocchia al
petto e le fa sbucare dalla
superficie dell’acqua. Abbassa la
testa verso le ginocchia e le
sfuggono i capelli di lato, le si
bagnano le punte. M’inginocchio
davanti alla vasca e inzuppo un
asciugamano per strofinarla. Lei
non smette di tremare.
Cerco di non guardarla. Alzo gli
occhi al cielo, almeno ci provo; poi
mi stimola a parlare, fa di tutto per
evitare di sentire freddo. Tento di
non immaginare le cose che non
vedo. Di non pensare alla sua pelle
diafana o alla curva della sua spina
dorsale. Non voglio fissarle i capelli
che
nuotano
sulla
superficie
dell’acqua.
Le parlo della donna che abita
nell’appartamento davanti al mio.
Una settantenne che riesce sempre
a chiudersi fuori dalla porta quando
porta la spazzatura nello scivolo in
fondo al corridoio.
Le racconto di come mia madre
avesse tagliato la faccia di mio
padre da tutte le foto di famiglia. Le
immagini delle loro nozze le aveva
gettate nel tritadocumenti. Aveva
lasciato che tenessi solo uno scatto
di lui, ma dopo che avevamo
smesso di parlarci lo usavo come
bersaglio per le freccette.
Le dico che da piccolo speravo di
giocare nel campionato di football
americano. Nel ruolo di ricevitore
esterno, come Tommy Waddle.
Le spiego che so ballare il fox-trot
perché me l’ha insegnato mia
madre. Ma non mi farei mai vedere
da nessuno. Di domenica, se si
sentiva bene, ascoltava Frank
Sinatra e facevamo quattro salti
nella stanza. Ormai sono di gran
lunga più bravo io. L’aveva
imparato dai suoi genitori. In quei
tempi molto duri, non c’era niente
di meglio da fare. Era veramente
una vita durissima. Mi diceva
sempre che non sapevo cosa
significasse essere poveri in canna,
perfino nel periodo in cui per
dormire dovevo raggomitolarmi nel
sacco a pelo, sul sedile posteriore
della nostra auto.
Le confido che, se fosse per me,
vivrei sempre in un posto come
quello, in mezzo alla natura. La
città non fa per me, tutta quella
fottutissima gente.
Ciò che non le dico è che la prima
sera lei mi sembrava bellissima.
L’avevo osservata in quel bar, da
sola, nascosta dalle luci soffuse e
dal fumo di sigarette. Ero rimasto
incantato più a lungo di quanto
potessi
permettermi.
Non
le
racconto che la luce della candela le
faceva brillare il viso, che la
fotografia che mi avevano dato non
le rendeva giustizia. Queste cose le
tengo per me. Non le spiego come
mi sento quando mi guarda, o che
di notte sento la sua voce in sogno
che mi perdona. Non le confesso
che mi dispiace, davvero. Non le
dico quanto ammiri la sua bellezza,
anche quando si guarda allo
specchio e odia l’immagine che
vede.
È stanca di tremare. Noto che
chiude gli occhi, come se volesse
dormire. Le metto una mano sulla
fronte e mi convinco che la febbre è
scesa. La sveglio. La aiuto a
mettersi in piedi nella vasca. La
avvolgo in un telo ruvido e la faccio
uscire. La aiuto a vestirsi dopo aver
cercato gli abiti più caldi, dopodiché
le asciugo le punte dei capelli. Si
sdraia sul sofà, davanti al fuoco che
sta cominciando a spegnersi, perciò
aggiungo un ramo sui ciocchi. Prima
che possa coprirla, si è già
addormentata, sebbene continui a
tossire. Mi siedo vicino a lei, mi
sforzo di non assopirmi. Osservo il
suo petto alzarsi e abbassarsi, so
che è viva.
A Grand Marais ci sono dei dottori.
Le spiego che bisogna andarci. Lei
vorrebbe obiettare qualcosa. «Non
possiamo», dice. Insisto che occorre
farlo.
Le ricordo che si chiama Chloe.
Penso a come camuffarci. Le chiedo
di raccogliersi i capelli, magari in
una crocchia, una cosa che non fa
mai. Lungo il tragitto mi fermo in
una drogheria e compro un paio di
occhiali da vista. Le dico di
metterseli. Non è un granché, ma
basterà. Io mi calco in testa il
cappellino dei Sox.
Le dico che pagheremo in
contanti. Niente detrazione fiscale.
Le ricordo di non parlare più di
quanto sia necessario. Me la
sbrigherò io.
Ci serve solo una ricetta.
Guido
in
paese
per
una
mezz’oretta, prima di decidere
quale dottore consultare. Lo scelgo
in base al nome. Kenneth Levine è
troppo formale. Questo bastardo si
addormenta tutte le sere davanti al
telegiornale,
penso.
C’è
un
ospedale, ma proseguo: troppa
gente. C’è un dentista, un
ginecologo. Opto per una donna –
Kayla Lee – medico di famiglia, con
un parcheggio vuoto davanti
all’ambulatorio. C’è la sua piccola
auto sportiva posteggiata. Poco
pratica per la neve già abbondante.
Dico a Mia che non ci serve il
miglior medico disponibile, solo uno
che sappia scrivere una ricetta.
La aiuto ad attraversare il
parcheggio.
«Fa’
attenzione»,
ripeto. Uno strato di ghiaccio
ricopre il terreno. Pattiniamo quasi
fino al portone. Non le passa quella
tosse cattiva, anche se mi ha detto
di sentirsi meglio: una bugia.
Lo studio è al primo piano, sopra
una copisteria. Entriamo e saliamo
la stretta scalinata. Mi dice che è
rincuorante trovarsi in un posto
riscaldato. Sembra un paradiso. Mi
chiedo se creda in queste stronzate
religiose.
C’è una signora dietro una
scrivania, canticchia una merdosa
canzone natalizia. Invito Mia a
sedersi. Si soffia il naso con un
fazzolettino di carta. La segretaria
alza la testa: «Poverina», esclama.
Mi faccio dare i fogli e mi
accomodo su una sedia bariatrica.
Mia riempie i moduli. Riesce a
ricordare che si chiama Chloe, ma
al momento di scrivere il cognome
si blocca.
«Permetti che faccia io?», chiedo.
Le tolgo la penna di mano e lei
resta a guardare mentre scrivo
Romain. Invento un indirizzo. Lascio
in
bianco
le
informazioni
sull’assicurazione sanitaria. Porto
questi documenti alla segretaria e
le comunico che pagheremo in
contanti. Poi mi siedo di fianco a
Mia e le domando se si sente bene.
Le prendo la mano. Intreccio le dita
alle sue, stringo un po’ e dico:
«Andrà tutto bene, vedrai».
Lei immagina che sia una finzione
per la segretaria, ma quello che non
sa è che sono un disastro come
attore, non so fingere.
La signora ci porta in un’altra
stanza e controlla i parametri vitali
di Mia. La stanza è piccola e ci sono
animali dipinti sulle pareti, un vero
murales. «La pressione sanguigna è
bassa», dice. Il battito del polso e il
ritmo del respiro sono elevati.
Febbre a 40. «Poverina», ripete. Ci
informa che la dottoressa arriverà
presto. Non so da quanto tempo
aspettiamo. Mia siede sul bordo del
tavolo e fissa gli stravaganti animali
(leoni e tigri), mentre io misuro la
stanza a lunghi passi. Vorrei
andarmene il prima possibile. Lo
dico almeno tre volte.
Kayla Lee bussa ed entra con
calma. È di buonumore, ha i capelli
scuri, non biondi come avevo
immaginato. Speravo in una bionda
svampita.
La dottoressa parla ad alta voce,
si rivolge a Mia come se avesse tre
anni. Si piazza su una sedia girevole
e si avvicina a lei, che tossisce. È
conciata male. Ma forse la malattia
aiuta a nascondere il fatto che è
spaventata a morte.
La Lee ci chiede se ci ha già visti.
Mia non sa che dire, per cui
intervengo.
Sono
sorprendentemente calmo: «No»,
dico. «Siamo pazienti nuovi».
«Allora,
Chloe,
qual
è
il
problema?»,
chiede
dando
un’occhiata al modulo.
Mia si sta stancando. Non riesce a
sostenere
lo
sguardo
della
dottoressa. Sono certo che Kayla
senta la puzza di sudore dei nostri
vestiti, gli stessi che indossiamo
tutti i giorni, al punto che non ci
accorgiamo più dell’odore che
emanano. Mia tossisce. È una tosse
canina, sembra di sentire abbaiare
un branco di terrier. La sua voce è
roca, la sta perdendo.
«Tossisce così da circa quattro
giorni»,
intervengo.
«Febbre,
brividi. Le avevo proposto di venire
qui venerdì pomeriggio, ma non ha
voluto, pensava fosse un semplice
raffreddore».
«Affaticamento?».
Mia annuisce. Le spiego che è
sonnolenta, apatica, che è svenuta
in casa. La dottoressa prende
appunti.
«Vomito?»
«No».
«Diarrea?»
«No».
«Diamo un’occhiata», dice e punta
subito una luce in un occhio di Mia,
nel naso e dentro le orecchie. Le
dice di aprire la bocca e tirare fuori
la lingua, le palpa le ghiandole. Poi
con lo stetoscopio le ausculta il
torace. «Fa’ un bel respiro». Io
intanto continuo a camminare
nervosamente.
Lei
passa
ad
auscultare la schiena. Fa stendere
Mia. Poi la fa sedere di nuovo e la
picchietta sul petto, restando in
ascolto.
«Sospetto una polmonite. Fumi?»
«No».
«Hai avuto attacchi d’asma?»
«No».
Analizzo l’opera d’arte alla parete.
Una giraffa a pallini, un leone la
cui criniera assomiglia a quegli
aggeggi a forma di cono che
mettono ai cani per impedirgli di
leccarsi. Un elefantino celeste che
sembra appena uscito da una sala
parto.
«C’è parecchia robaccia nei tuoi
polmoni, per parlar chiaro. La
polmonite
è
un’infiammazione
provocata da un’infezione. Le
secrezioni bloccano e restringono le
vie aeree. Perfino un semplice
raffreddore può decidere di fissarsi
a livello dei bronchi, e questa è la
conseguenza», conclude, passando
una mano davanti agli occhi di Mia.
La dottoressa odora di profumo.
Continua a parlare anche quando
Mia tossisce.
«Ci vogliono degli antibiotici»,
prosegue. Riflette sulle possibilità,
su cosa scrivere nella ricetta. «Ma
prima di tutto vorrei avere una
conferma della diagnosi con una
lastra al torace».
La faccia di Mia sbianca, come se
avesse perso ogni traccia di vita.
Non
possiamo
assolutamente
mettere piede in un ospedale.
«Apprezzo la sua scrupolosità», mi
affretto a dire. In un ospedale ci
vedrebbero decine di persone, se
non di più.
Mi stampo un sorriso ipocrita sulla
faccia e confesso di essere
disoccupato.
Non
abbiamo
assistenza sanitaria. Non possiamo
permetterci il lusso di spendere i
due o trecento dollari che ci
costerebbero le radiografie.
Mia comincia a tossire tanto che
temiamo possa vomitare. La
dottoressa le riempie un bicchiere
di plastica e la fa bere.
«Va bene», dice; scrive la fottuta
ricetta e lascia la stanza.
La
rincontriamo
nell’ingresso,
mentre usciamo. È piegata sulla
cartella medica a nome di Chloe
Romain, sta scrivendo. Il camice le
arriva fino agli stivali di cuoio da
cowboy, sotto indossa un brutto
vestito e ha ancora lo stetoscopio al
collo.
Siamo quasi sulla porta quando ci
ferma e dice: «Sicuro che non
l’abbia già vista? Il suo viso mi è
familiare». Non guarda Mia, si
rivolge a me.
«No», taglio corto. Non ho bisogno
di essere gentile. Ho avuto quel che
volevo.
Fissiamo una visita di controllo per
Chloe, un appuntamento a cui lei
non andrà mai.
«Grazie, dottoressa», dice Mia
mentre la spingo piano oltre la
porta.
Arrivati al posteggio, le dico che è
andata bene. Abbiamo la ricetta. È
tutto quel che serve. Sulla strada
del ritorno, deviamo per una
farmacia. Lei mi aspetta in auto,
mentre io entro, contentissimo di
trovare una sedicenne mezzo fatta
alla cassa e un farmacista nel
retrobottega che non alza mai la
testa.
Faccio
ingoiare
una
compressa a Mia ancora prima di
lasciare il parcheggio, poi vedo con
la
coda
dell’occhio
che
si
addormenta. Mi tolgo il giaccone e
la copro per non farle sentire
freddo.
Gabe
Prima
Faccio visita a Kathryn Thatcher
nel suo nuovo alloggio ormai da
diversi giorni. La prima volta mi
sono presentato come suo figlio, e
la segretaria mi ha detto: «Grazie al
cielo è venuto, parla sempre di lei»,
dopodiché mi ha accompagnato
nella sua stanza. Ho letto negli
occhi di Kathryn la delusione nel
vedere me, ma era talmente
contenta di avere un po’ di
compagnia da non rivelare che
avevo mentito. Adesso la curano
bene, è quasi autonoma. Divide la
camera
con
una
donna
di
ottantadue anni, malata terminale,
a cui resta poco da vivere. È
talmente imbottita di morfina da
non rendersi nemmeno conto di
dove si trovi, ed è certa che la
Thatcher si chiami Rory McGuire.
Non viene a visitarla nessuno.
Tranne me, nessuno viene neppure
dalla signora Thatcher.
Scopro che le piacciono i romanzi
gialli. Vado in libreria e compro tutti
i bestseller che trovo. Mi siedo sul
bordo del suo letto e glieli leggo.
Non so leggere bene ad alta voce.
Cioè, non so leggere bene in
generale, forse non ho mai
imparato a farlo come si deve.
Comunque, mi accorgo che anche a
me piacciono i gialli.
Le porto le crocchette di pollo,
sebbene sia vietato. Appena
possiamo ce ne finiamo dieci pezzi
in due, oltre alle patatine fritte.
Le ho portato anche un mio
vecchio lettore CD e abbiamo preso
alcune raccolte di canzoni natalizie
in prestito dalla biblioteca. Dice che
nel ricovero non sembra che sia
Natale; riesce a vedere la neve
fuori della finestra, ma dentro tutto
è come sempre. Di sera, prima di
andarmene, accendo la musica per
evitarle di ascoltare i rantoli della
sua compagna di stanza.
I giorni alterni in cui non vado
dalla Thatcher li trascorro con Eve.
Accampo le scuse più stupide per
presentarmi continuamente alla sua
porta.
È
dicembre
inoltrato,
l’inverno si avvicina, e lei si rabbuia.
Dice che è un malessere emotivo
stagionale, o come caspita si
chiama. S’immalinconisce ed è
perennemente stanca. È triste, si
mette a sedere davanti alla finestra
e osserva la neve che cade.
Trovo piccole informazioni nuove,
vere o presunte, per darle
l’impressione che il caso non sia
finito in un vicolo cieco, che non
brancoliamo nel buio.
Le insegno a fare le lasagne come
mia
madre.
Non
la
voglio
trasformare in una cuoca, ma
magari è l’unico modo per indurla a
mangiare qualcosa.
Mi dice che il marito torna a casa
sempre meno. Lavora fino a tardi, a
volte fino alle dieci o alle undici di
sera. La notte scorsa l’ha passata
fuori di casa. Ha detto di aver
lavorato
l’intera
nottata
per
mettersi in pari con le istanze
giudiziarie, una cosa che, secondo
Eve, non aveva mai fatto prima.
«Che cosa pensi?», le chiedo.
«Stamattina aveva l’aria tesa. È
passato a cambiarsi».
Cerco di attingere alle mie grandi
capacità investigative per capire
come mai non pianti il marito.
Finora non l’ho capito.
«Quindi, era effettivamente in
ufficio», ne deduco.
Molto improbabile, ma se questo
può far sentire meglio Eve, amen.
Non alludiamo mai al bacio che ci
siamo scambiati. Tuttavia, ogni
volta che la vedo immagino le sue
labbra sulle mie. Se chiudo gli occhi
ne avverto ancora il sapore, ormai
riconosco il suo profumo, e
addirittura l’odore del sapone con
cui si lava le mani.
Mi chiama Gabe e io la chiamo
Eve. Stiamo fisicamente vicini, più
di quanto facessimo prima.
Adesso, quando apre la porta, vi è
in lei un moto di felicità, non solo la
delusione perché non le sto
riportando la figlia. Il moto di
felicità è per me.
Eve mi prega di portarla al
ricovero per anziani, ma so che
sarebbe una situazione ingestibile
per lei. Vorrebbe parlare con la
signora Thatcher, da madre a
madre. Pensa che la donna
potrebbe rivelarle qualcosa che non
le va di dire a me. Eppure, glielo
nego. Mi domanda che aspetto
abbia Kathryn, le spiego che è una
donna forte e orgogliosa. Eve mi
dice che anche lei era forte, a
corromperla
sono
state
le
porcellane raffinate e gli abiti
firmati.
Non appena la malattia sarà sotto
controllo, la Thatcher sarà dimessa
e andrà a stare da sua sorella, che
abita da quelle parti. È una donna
che sembra non aver mai visto i
telegiornali negli ultimi mesi. L’altro
giorno le ho telefonato su richiesta
di Kathryn: non aveva idea che il
nipote si fosse dato alla macchia e
non sapeva un accidente del fatto
che erano in atto le ricerche di Mia
Dennett.
Mi hanno già assegnato altri casi
da risolvere. Un incendio in uno
stabile, probabilmente di natura
dolosa; una denuncia di alcune
ragazzine scatenate a carico di un
loro professore delle superiori.
Ma di sera, quando rientro nel mio
appartamento, bevo per riuscire a
prendere sonno, e una volta
addormentato vedo l’immagine di
Mia nelle sequenze del video di
sorveglianza, mentre viene scortata
da un irritante Colin Thatcher.
Immagino che anche Eve sia
depressa, che pianga prima di
assopirsi. E ricordo a me stesso che
sono l’unico a poter mettere fine a
tutto ciò.
Mi reco in visita all’ospizio un
martedì pomeriggio. Nevica, e
Kathryn mi chiede della vicina di
casa, Ruht Baker. «Lei sa che sono
qui?». Io mi stringo nelle spalle,
non lo so. Non ho mai sentito
parlare di questa donna, anche
detta Ruthie. Mi dice che è quella
che va da lei ogni settimana, nei
giorni in cui Colin non può farle
visita. Ritira la posta tutti i giorni
feriali e poi gliela consegna. La
cassetta delle lettere era stracolma,
tanto che lo sportellino non si
chiudeva neanche più. In effetti,
avevo dovuto spingermi
fino
all’ufficio postale di Gary con una
delega per ritirare tutto quello che il
postino non aveva più potuto
infilare dentro. Parlo con i vicini, ma
non rintraccio nessuna Ruth (o
Ruthie) Baker. Eppure, la signora
Thatcher insiste a dire che Ruth
abita nella casa bianca in stile Cape
Cod, in fondo alla strada. E allora
mi ricordo del cartello VENDESI che
avevo già notato. Nessuno aveva
risposto al campanello.
Faccio delle ricerche e trovo
l’annuncio funebre della prima
settimana di ottobre. Vado a
prendere il registro dei decessi e
vedo che Ruth Baker è morta di
infarto alle 17:18 del 7 ottobre.
Kathryn non lo sapeva. La Baker
doveva sorvegliarla in assenza di
Colin. Suppongo che, ovunque si
trovi adesso, lui non sappia che la
settantacinquenne a cui aveva
lasciato in custodia la madre è
deceduta.
Decido di occuparmi della posta.
Prendo il mucchio di lettere
recuperate dalla cassetta della
Thatcher e all’ufficio postale e le
divido in base alla data del timbro.
C’è un vuoto evidente dalla
scomparsa di Mia fino all’inizio delle
bollette e degli avvisi di pagamento
scaduti. Circa cinque giorni. Mi
domando chi possa mai avere
quella posta mancante. Torno
nell’abitazione di Ruthie Baker e
busso alla porta. Nessuna risposta.
Per cui rintraccio una sua parente,
una donna della mia età, la figlia di
Ruth, che abita a Hammond con
marito e figli. L’indomani suono alla
loro porta.
«Posso aiutarla?», dice stupita nel
vedere il distintivo che tiro fuori.
«Ruth Baker è sua madre?»,
chiedo ancor prima di presentarmi.
Lo conferma. Quando un poliziotto
si presenta alla porta di casa di
qualcuno, tutti si chiedono subito
cosa sia accaduto…
Dimentico di farle le condoglianze.
Vado direttamente al sodo, ho un
solo pensiero in testa: trovare Mia.
«Credo che sua madre ritirasse la
posta di una sua vicina di casa,
Kathryn Thatcher», dico, e vedo che
un’ombra di disagio e di senso di
colpa le attraversa il volto.
Comincia a profondersi in scuse
infinite. Lo so che è dispiaciuta,
però so anche che ha paura di finire
nei guai. In fondo, il furto postale è
un reato, e io sono pur sempre un
agente che la interroga sulla porta
di casa.
«Scusi… solo che siamo stati
molto indaffarati», dice. «Tutte le
disposizioni… il funerale, il trasloco
delle sue cose». Aveva visto la
posta. Ci sarà passata davanti un
milione di volte, quando entrava o
usciva dalla casa della madre; era
ammucchiata su un tavolino di
legno, proprio nell’ingresso. Solo
che non aveva mai trovato il tempo
di
restituirla
al
legittimo
proprietario.
Seguo il minivan della donna fino
alla via in cui vive Kathryn.
Accostiamo al marciapiede della
casa di Ruth ed entriamo nel
vialetto; la donna corre a prendere
la posta. La ringrazio e gliela
strappo di mano, fermandomi lì
sulla ghiaia a rovistare fra le
lettere. Il menu di un ristorante
cinese, una bolletta dell’acqua,
pubblicità di generi alimentari, altre
bollette e una busta rigonfia
indirizzata a Kathryn Thatcher,
senza indicazione del mittente. Una
scrittura frettolosa. La apro e
dentro trovo un bel mucchietto di
contanti. Nessun foglio, nessun
indirizzo per la restituzione. Me la
rigiro tra le mani. Leggo il timbro
postale (Eau Claire, Wisconsin),
lancio le altre scartoffie sul sedile
del passeggero della mia auto e
sgommo a tutta velocità. In
centrale mi collego online per
esaminare una mappa. Seguo la
strada da Chicago a Grand Marais.
Ci siamo. Proprio lì, dove la I-94
prosegue verso Ovest fino a St.
Paul, Minneapolis e la US Highway
53 piega a Nord, e poi di nuovo a
Ovest per entrare nel Minnesota
settentrionale, c’è la città di Eau
Claire, nel Wisconsin, ad appena
cinque ore da Grand Marais.
Contatto il funzionario, Roger
qualcosa, responsabile del distretto
del Minnesota nord-orientale. È
convinto che io sia sulla pista
sbagliata, però farà lo stesso un
controllo scrupoloso. Gli dico che gli
spedirò per fax un identikit, per
maggiore sicurezza. I connotati di
Colin Thatcher sono stati diffusi in
TV solo in tre Stati contigui. Le
stazioni televisive del Minnesota e
del resto del mondo non hanno la
minima idea di chi sia. Ma presto lo
sapranno.
Colin
Prima
L’antibiotico comincia a fare
effetto e stanotte sembra che lei
stia già meglio. Certo, la tosse
imperversa ancora, ma la febbre è
scesa parecchio. Non ha più
l’aspetto di uno zombie, pare
tornata fra i vivi. Si sente meglio, e
vedo che qualcosa è cambiato. Mi
dico che dipende dagli antibiotici,
ma so anch’io che non è vero. È
calma e tranquilla. Le chiedo se va
meglio, lei dice che ancora non si
sente tanto bene. Non vuole
mangiare. Cerco di convincerla a
ingoiare qualcosa, lei si limita a
fissare fuori della finestra. Il silenzio
pervade il capanno, un silenzio
imbarazzante che ci pesa addosso.
Provo a chiacchierare, ma lei non
collabora, risponde a monosillabi.
Dice che moriremo di freddo, che
odia la neve, che se mangerà
ancora brodo di pollo vomiterà.
A questo punto perderei le staffe,
di solito. Le direi di chiudere la
bocca, le ricorderei di averle salvato
la vita. La costringerei a bere il
brodo, anche a costo di cacciarglielo
giù nella gola a forza.
Non ne vuole sapere nemmeno di
disegnare.
Le
domando
se
preferisce andare fuori, la giornata
è meno fredda rispetto alle ultime,
ma non mi dà soddisfazione. Io
esco lo stesso, lei non si sposta di
un millimetro durante la mia
assenza.
Non sa prendere una decisione.
Non vuole mangiare il brodo di pollo
con la pastina. Lo so. Quindi le
presento altre opzioni per la cena.
Le elenco tutto quello che c’è nella
dispensa. Afferma di infischiarsene.
Tanto non ha fame.
Dice che è stanca di tremare
continuamente, stanca dello schifo
che mangiamo, dei barattoli di
sbobba che fanno passare per
alimenti. Il solo odore del cibo
inscatolato la fa rimettere.
È stanca della noia. Stufa di non
avere assolutamente niente da
fare, un giorno dopo l’altro, senza
soluzione di continuità. Non vuole
fare altre passeggiate in una landa
fredda, dimenticata da Dio. Non ha
alcuna intenzione di tracciare un
altro disegno.
Ha le unghie rovinate, i capelli
unti, talmente aggrovigliati che
pensa di non poterli più spazzolare.
Siamo immersi nella nostra puzza,
anche se ci sforziamo di farci il
bagno quasi tutti i giorni in quella
vasca sporca.
Allora le dico che se mi beccano,
mi chiudono in galera. Chissà fino a
quando… Trent’anni? Ergastolo? Ma
non è questo, le dico. Il numero
degli anni non conta niente, non
c’entra
col
discorso.
Non
sopravvivrei
comunque
alla
detenzione. Ogni criminale conosce
qualcuno che è al fresco. In un
penitenziario sarei già morto.
Qualcuno provvederebbe.
Non è una minaccia. Non sto
cercando di farla sentire in colpa.
Solo che le cose stanno così.
Neanch’io vorrei restare nel
capanno. Penso di continuo a
quando Dan si farà vivo coi
passaporti, a come recuperarli
senza che mi prenda la polizia. Il
cibo è scarso, le notti sono sempre
più fredde, finché una mattina non
ci sveglieremo più. So che il
momento di andarcene è adesso.
Prima che finiscano i barattoli di
cibo, prima che finisca il denaro.
Prima di congelarci e morire.
Lei lascia che sia solamente io a
preoccuparmene. Dice che in non
c’era mai stato nessuno a farlo per
lei.
Penso a tutte le cose che
potrebbero andare storte. Morire di
stenti. Congelati. Essere beccati da
Dalmar. Rintracciati dalla polizia. È
pericoloso tornare a casa. È
pericoloso restare qui. Lo so io, e lo
sa
lei.
Ma
ora
la
mia
preoccupazione principale è non
averla con me.
Gabe
Dopo
Che ci crediate o no, hanno
trovato
lo
stupido
gatto.
L’animaletto si nascondeva in una
rimessa dietro il capanno, gli si era
congelato il culo e stava tirando le
cuoia. Non aveva niente di che
nutrirsi, per cui non era riuscito a
resistere ai croccantini che gli
avevano portato gli agenti. Ma di
sicuro non voleva entrare nella
gabbia, a detta loro, perché aveva
lottato coi denti e gli artigli per non
farsi mettere dentro, e aveva
continuato anche dopo che lo
avevano intrappolato. Il felino era
stato messo su un turboelica fino a
Minneapolis, poi su un aereo di
linea diretto a O’Hare, lo scalo di
Chicago. Quel bastardo viaggia più
di me! Sono andato a prenderlo
stamattina
per
portarlo
dai
Dennett, dove ho scoperto, guarda
un po’, che Eve e Mia non c’erano
più.
Allora
mi
sono
diretto
a
Wrigleyville e ho sorpreso con un
gatto soriano malnutrito le due
donne alle dieci di mattina che
mangiano ciambelle e bevono caffè.
Sono
entrambe
in
pigiama,
guardano la televisione.
Quando arrivo, qualcuno sta
uscendo dal portone, quindi non
citofono. Voglio fare loro una
sorpresa.
«Buongiorno», dico a Mia sulla
porta.
Non mi aspettava. Eve si alza dal
divano e si sistema i capelli
arruffati. «Gabe», dice, infilandosi la
vestaglia.
Provo
a
lasciare
il
gatto
nell’ingresso, ma non appena Mia
mi ringrazia per il caffè e le
ciambelle che ho portato, la
bestiola comincia da agitarsi
forsennatamente, artiglia le sbarre
della gabbia ed emette rumori che
non ho mai sentito prima da un
gatto. La mia sorpresa va così a
farsi friggere.
Eve impallidisce. «Cos’è questo
chiasso?», chiede. Io prendo
l’animale e chiudo la porta.
Secondo recenti ricerche, chi vive
con un animale domestico è meno
ansioso, ha la pressione sanguigna
più bassa, e perfino un tasso di
colesterolo inferiore. È più rilassato,
meno stressato, quindi gode di uno
stato di salute migliore. A meno che
non abbia un cane che piscia
continuamente dove gli pare o
riduce a brandelli i mobili.
«Che cosa ci fa col gatto?», chiede
Eve. È chiaramente perplessa e
pensa che io sia fuori di testa.
«Questo animaletto?», replico.
Faccio il finto tonto. Mi accovaccio e
apro la gabbia, prendendo il felino
in braccio. Lui mi pianta gli artigli
nella pelle. Merda! «Lo custodisco
per un mio amico. Spero che non le
dispiaccia. Qualcuno è allergico ai
gatti?», domando posandolo a terra
e guardando Mia negli occhi.
Quella palla di pelo va verso di lei
e inizia a strusciarsi attorno alle sue
gambe, non la smette più. Miagola,
fa le fusa.
Eve si mette a ridere. Si passa
una mano tra i capelli. «Sembra che
tu abbia un amico», dice alla figlia.
La ragazza mormora qualcosa
sottovoce, come se provasse a
pronunciare una parola nuova,
dopodiché la sputa fuori, facendoci
rimanere a bocca aperta. Lascia che
il gatto si strusci su di lei per non so
quanto tempo, mentre Eve parla del
debole dell’animale per i piedi di
Mia.
«Che cosa ha detto?», le chiedo
quando lei si abbassa per prenderlo
e stringerlo tra le braccia. Non la
graffia. Si strofinano il naso a
vicenda, e poi lui le dà un colpettino
con il muso.
«Le ho sempre detto che avrebbe
dovuto tenersi un gatto in casa»,
Eve continua a cianciare.
«Mia?», insisto.
Mi guarda con le lacrime agli
occhi. Sa che io so, e che ho fatto
questo per un motivo preciso.
«Canoa», sussurra. «Ho detto
Canoa».
«Canoa?»
«Si chiama così».
Non poteva chiamarsi Max o Fido?
Canoa? Che razza di nome è?
«Mia, tesoro…». Eve le si avvicina,
ora sa che sta accadendo qualcosa
di importante. «Chi è che si chiama
Canoa?», chiede. La sua voce è
calma, come se si rivolgesse a una
bambina con problemi mentali. È
sicura che la figlia stia farneticando,
forse un effetto collaterale del
disturbo acuto da stress. Io invece è
la prima volta che sento Mia dire
qualcosa di sensato.
«Eve»,
dico
sollevando
delicatamente la sua mano dal
braccio della figlia. Prendo dalla
tasca del mio cappotto il fax che
avevo inviato alla polizia di Grand
Marais, mostrandole lo schizzo che
ritrae
perfettamente
Canoa.
«Questo»,
dico
mettendoglielo
davanti agli occhi, «è Canoa».
«Ma allora non è…».
«C’era una rimessa», interviene
Mia, senza rivolgerci lo sguardo. È
tutta concentrata sul felino. La
madre mi strappa il disegno dalle
mani. Adesso sa. Ha guardato e
riguardato quel quaderno con gli
schizzi, ogni figura, perfino quella di
Colin Thatcher, che
mi
ha
confessato le faceva venire gli
incubi di notte. Ma del gatto si era
dimenticata. Sprofonda nel divano.
Mia racconta: «C’era una rimessa
dietro il capanno. Viveva lì dentro.
L’avevo trovato mentre dormiva in
una canoa arrugginita. La prima
volta si è spaventato. Avevo aperto
la porta per dare un’occhiata e lui è
fuggito terrorizzato da un buco nella
rimessa, scomparendo a razzo nei
boschi. Pensavo non sarebbe più
tornato. Ma aveva fame e io
lasciavo fuori del cibo. Lui diceva
che non gli passava nemmeno per
l’anticamera
del
cervello
di
permettermi
di
tenerlo
nel
capanno».
«Chi lo diceva?», le chiedo.
Ovviamente lo so. Avrei dovuto fare
lo strizzacervelli di professione.
Però la sua risposta mi giunge
inattesa.
«Owen», dice, dopodiché scoppia
in singhiozzi e si appoggia con una
mano alla parete per reggersi.
«Tesoro, chi è Owen? Non c’è
nessuno che si chiama così. L’uomo
del capanno? Quell’individuo? Ma si
chiama Colin Thatcher…».
«Eve», mi intrometto. La mia
autostima
aumenta
in modo
esponenziale. Sono riuscito in
quello che non sa fare nemmeno un
cultore della materia. Ho fatto sì
che Mia si collocasse nel capanno
con un uomo di nome Owen e un
gatto di nome Canoa. «Quell’uomo
ha un sacco di pseudonimi, Owen
era probabilmente uno dei tanti. C’è
qualcos’altro che ricorda, Mia? Può
darmi qualche informazione su di
lui?»
«Dovremmo
telefonare
alla
dottoressa Rhodes», mi interrompe
Eve. So che le sue intenzioni sono
buone, che agisce nell’interesse
della
figlia, ma
non posso
permettere che ciò accada. Lei
prende la sua borsetta, io la chiamo
per nome. Ormai sono successe
delle cose fra noi, e Eve sa che può
fidarsi di me. Non danneggerò Mia.
Lei mi guarda e io scuoto la testa.
Non adesso, stiamo
facendo
progressi.
«Diceva di odiare i gatti, che se lo
avesse visto nel capanno gli
avrebbe sparato. Non diceva sul
serio, altrimenti non l’avrei fatto
entrare».
«Aveva una pistola?»
«Sì».
Certo che ce l’aveva. Lo so, non è
difficile da immaginare.
«Aveva paura di lui, Mia? Temeva
che potesse spararle?».
Annuisce. «Sì». Poi si blocca.
«No». Scuote la testa. «Non saprei.
Penso di no».
«Ma certo che avevi paura, tesoro,
lui aveva una pistola! Ti aveva
rapita».
«La minacciava con l’arma?»
«Sì». Riflette. Si sta svegliando da
un sogno e tenta di rammentare i
dettagli. Riesuma pezzi e brandelli,
mai il quadro intero. Conosciamo
tutti questo fenomeno. A livello
onirico, la nostra casa è una casa,
ma non proprio quella reale. C’è
una donna che non assomiglia alla
nostra mamma, però sappiamo che
lo è. Poi una volta svegli, il sogno
sembra perdere il suo significato.
«Mi tratteneva, fuori, nei boschi. Mi
aveva puntato la pistola alla
tempia. Era fuori di sé. Urlava».
Scuote il capo con forza. Le si
rigano le guance di lacrime. La
madre è scossa, un fascio di nervi,
devo mettermi in mezzo a loro due
per trattenerla.
«Perché?», chiedo. La mia voce è
calma, tranquilla. In una vita
precedente,
forse
ero
uno
strizzacervelli.
«È colpa mia, tutta colpa mia».
«Qual è la sua colpa, Mia?»
«Avevo cercato di dirglielo».
«Dirgli cosa?»
«Non voleva ascoltare. Aveva la
pistola, continuava a puntarmela
contro. Sapevo che, se qualcosa
andava storto, mi avrebbe uccisa».
«Gliel’aveva
detto?
Che
se
qualcosa andava storto l’avrebbe
ammazzata?».
No, no. Fa segno di no. Mi guarda
dritto negli occhi. «Lo indovinavo
dal suo sguardo». Dice che aveva
avuto paura di lui, già quella sera
nel bar. Aveva lottato contro quella
sensazione, ma il timore era
rimasto. Ripenso al jazz bar di
Uptown, al proprietario con la
calvizie incipiente e alla candelina
verde. Lì Mia aveva incontrato Colin
Thatcher la prima volta, cioè Owen.
Secondo la testimonianza della
cameriera, Mia se ne era andata in
tutta fretta, di sua spontanea
volontà. Mi tornano in mente le
parole della cameriera: «Mi è
sembrato che non vedesse l’ora di
uscire di qui. Non ho notato
nessuna paura.
«E poi», geme Mia, «tutto ha
preso una piega sbagliata. Volevo
dirglielo, ci ho provato. Ma ero
terrorizzata. Aveva la pistola, e
sapevo che se qualcosa andava
storto mi avrebbe uccisa. Ci ho
provato…».
«Colin Thatcher», la interrompo.
«Owen, lui l’avrebbe uccisa se
qualcosa fosse andato storto?».
Annuisce, poi scuote rapidamente
la testa. «Sì, no». È confusa. «Non
so», farfuglia.
«Cosa aveva cercato di dirgli?»,
chiedo,
ma
lei
cambia
atteggiamento,
nega,
è
scoraggiata, sembra ostacolata da
qualcosa; non ricorda più quel che
voleva raccontare.
Molti pensano che la paura
inneschi due reazioni naturali
alternative: lotta o fuga. Eppure,
quando ci si trova davanti a una
situazione difficile, esiste una terza
reazione:
il
congelamento
o
immobilità. Come fanno i cervi
davanti alle luci delle auto: si
immobilizzano.
Lo
dimostrano
anche le espressioni di Mia («avevo
paura», «cercavo di dirglielo»).
Nessuna reazione di lotta o fuga: si
era irrigidita. Era terrorizzata,
l’adrenalina le pompava nelle vene,
però lei non era stata in grado di
fare alcunché per salvarsi la vita.
«È tutta colpa mia», ripete.
«Cosa è colpa sua?», insisto, e mi
aspetto di ricevere le stesse
risposte di prima.
Però stavolta lei dice: «Avevo
tentato di scappare».
«E lui l’ha ripresa?».
Annuisce.
Ritorno alla sua precedente
dichiarazione. «Fuori, nei boschi?»,
chiedo. «E lui era furibondo perché
aveva tentato di fuggire? Quindi, le
ha puntato contro la pistola, le ha
detto che se ci avesse riprovato…».
«Mi avrebbe uccisa».
Eve è a bocca aperta, solleva una
mano a coprirla. È chiaro che lui
aveva minacciato di farla fuori. È
così che fanno i ceffi di quel calibro.
Sono sicuro che sia accaduto molte
volte.
«Cos’altro
diceva?»,
azzardo
ancora. «Che ricorda?». Mia scuote
la testa, non le viene in mente
niente.
«Canoa»,
suggerisco.
«Aveva detto che gli avrebbe
sparato se l’avesse visto nel
capanno, ma non l’ha fatto. Ricorda
se il gatto era nel capanno?».
Lei accarezza il pelo della
bestiola. Non mi guarda. «Diceva
che mi era rimasto vicino per giorni
interi. Non mi abbandonava mai».
«Chi non l’abbandonava?», chiedo.
«Diceva che nessuno lo aveva mai
amato tanto. Nessuno gli era stato
così devoto».
«Come chi?».
Mi guarda. Che scemo, dicono i
suoi occhi. «Canoa».
Allora comprendo: se la vista del
gatto è sufficiente a farle riportare
a galla tante cose, quali ricordi
potrebbero riesumare riportarla in
quella casupola di tronchi di legno?
Devo trovare la persona che le ha
fatto questo; fino ad allora non sarò
certo che lei e sua madre siano al
sicuro.
Colin
Prima
Le dico che usciamo per una
passeggiata. Fuori è buio, sono le
dieci di sera.
«Adesso?», chiede, come se
avessimo di meglio da fare.
«Adesso».
Cerca di protestare, ma non glielo
permetto. Non stavolta.
Le infilo il mio giaccone e ci
avviamo. La neve cade lenta, le
temperature oscillano intorno allo
zero. I fiocchi depositati sul terreno
sono leggeri, perfetti per fare delle
palle e lanciarsele. Mi ritorna in
mente il parcheggio delle roulotte,
quando facevo battaglie a colpi di
palle di neve coi pezzenti delle altre
roulotte, prima che la mamma
comprasse una casa che non fosse
mobile.
Lei mi segue sui gradini. Arrivata
in fondo, si ferma per osservare. Il
cielo è nero. Il lago buio. Sarebbe
tutto scuro, se non fosse per il
candore della neve. Lei apre il
palmo rivolto all’insù, altri fiocchi le
cadono sui suoi capelli e sulle ciglia.
Io tiro fuori la lingua per
assaggiarla.
La notte è silenziosa.
Qui la neve rende tutto più
luminoso. Fa un freddo pungente,
ma non è gelido. Una di quelle sere
in cui la neve ti fa quasi sentire
caldo, in qualche modo. Lei è
ancora in fondo ai gradini. La neve
le arriva alle caviglie.
«Vieni qui», dico. Calpestiamo il
manto bianco fino alla schifosa
rimessa sul retro. Devo forzare la
porta per aprirla, liberandola dalla
neve che la ostruisce. Mica facile.
Mi aiuta a tirare, poi quando
siamo dentro chiede: «Cosa stai
cercando?»
«Questo»,
dico
sollevando
un’ascia. Mi sembrava di averla già
vista lì dentro. Due mesi fa avrebbe
senz’altro creduto che servisse per
farla fuori.
«A cosa serve?», chiede senza
traccia di paura.
Ho un piano.
«Vedrai».
Ormai ci saranno dieci centimetri
di neve, forse più. Ci sguazziamo
coi piedi e ci inzuppiamo il fondo
dei pantaloni. Camminiamo per un
po’, fino a non scorgere più il
capanno. Siamo in missione, una
cosa di per sé rivitalizzante.
«Hai mai tagliato il tuo albero di
Natale?», domando.
Mi guarda come se fossi pazzo,
come se solo i bifolchi a cui manca
qualche rotella si mettessero a
tagliare i loro alberi di Natale.
Ma poi vedo sparire la sua
esitazione, e sento che dice: «Ho
sempre voluto tagliare il mio albero
di Natale». Le si illuminano gli
occhi, come a una bambina.
Mi racconta che a casa sua erano
sempre artificiali. Gli alberi veri
sporcano. Sua madre non li avrebbe
mai comprati. A Natale, in casa sua,
non c’era gioia. Tutto era fatto per
le apparenze. E poi lo addobbavano
con quelle decorazioni di cristallo:
la sgridavano se si avvicinava a
meno di un metro dall’albero.
Le dico che può sceglierlo lei,
quello che preferisce. Mi indica un
abete di quasi due metri.
«Riprova». Anche se lo fisso per
un attimo e penso che potrei
farcela.
Mi convinco che si sta divertendo.
Non le importa del freddo, né della
neve che le entra nelle scarpe.
Sostiene che le si stanno gelando le
mani, me le preme sulle guance,
ma non sento nulla, perché sono
altrettanto ghiacciate.
Le racconto che, da piccolo, io e
mia madre non festeggiavamo il
Natale. Certo, mi portava a messa,
ma non ci bastavano i soldi per i
regali, l’albero, le decorazioni e
tutto il resto. Non ho mai voluto che
si sentisse in colpa per questa
mancanza. Lasciavo che il 25
dicembre arrivasse e passasse,
come qualunque altra giornata. Al
ritorno in classe, gli altri si
vantavano dei regali ricevuti. Io
inventavo
qualcosa,
non
mi
compativo. Non sono mai stato uno
che si compatisce.
E poi le spiego di non aver mai
creduto in Babbo Natale. Mai nella
vita.
«Che cosa volevi?», mi chiede.
Un
padre,
qualcuno
che
provvedesse a me e mia madre,
così non avrei dovuto farlo io. Però
le dico che volevo un videogioco
dell’Atari.
Trova un albero adatto. Un metro
e mezzo di altezza. «Vuoi provarci
tu?», le chiedo porgendole l’ascia.
Ride, prendendola in mano. Un
suono che non avevo mai udito. Dà
un colpo alla pianta. Dopo altri
quattro o cinque tentativi mi
restituisce l’ascia. Esamino la base
dell’albero: lo ha appena intaccato.
Sembra un lavoro per niente facile.
Le consiglio di scostarsi mentre mi
impegno a buttarlo giù. Lei osserva
con gli occhi spalancati di una
bambina di cinque anni. Mi
galvanizzo, che figura se non ci
riesco.
Il mondo tace. Ogni cosa è
immersa nel silenzio, nella pace.
Sono sicuro di non aver mai passato
una notte simile. Mi confida che è
impossibile credere che da qualche
parte del mondo infuri la guerra,
che della gente stia morendo di
stenti, che ci siano dei bambini
abusati. Siamo lontani, estranei alla
civiltà. Dice: «Due figurine in un
globo di neve che un bambino ha
rovesciato». Me lo immagino: noi
due che arranchiamo su montagne
di ceramica mentre la neve
luccicante scende nella nostra bolla.
Mi pare di sentire in lontananza il
verso di un gufo. Mi fermo e dico:
«Shh». Restiamo per un attimo ad
ascoltare. È qui che migrano
d’inverno i gufi delle nevi. Noi
avvertiamo un gran freddo, ma loro
vengono qui per stare al caldo. Lei
osserva il cielo e guarda le nuvole
inondarci di neve.
L’albero è pesante. Lo trasciniamo
insieme, lei davanti, io dietro. Lo
facciamo scivolare sul manto
nevoso, ma quattro o cinque volte
cadiamo bocconi. Abbiamo le mani
così intirizzite che quasi non
riusciamo ad afferrare il tronco.
Arrivati al capanno, prendo
l’albero dalla base e, camminando
all’indietro, lo sollevo su per i
gradini. Lei rimane in fondo. Finge
di aiutarmi, ma sappiamo entrambi
che il suo contributo è nullo.
Lo facciamo entrare dalla porta e
lo puntelliamo contro una parete.
Crollo dalla fatica. L’albero peserà
una settantina di chili, carico di
neve com’è.
Mi tolgo le scarpe bagnate, che
lancio da una parte, e bevo un po’
d’acqua dal rubinetto della cucina.
Lei accarezza gli aghi. Annusa il
legno, sa di linfa. È la prima volta
che nessuno di noi due si lamenta
per il freddo. Abbiamo le mani
spaccate, il naso e le guance rossi.
Ma sudiamo sotto gli strati di
vestiti. La fisso, vedo che il freddo
l’ha colorita.
Vado in bagno per lavarmi e
cambiarmi. Lei asciuga l’umidità sul
pavimento. Riesco a sentire la linfa
appiccicosa dell’abete sulle mani.
Inspiro a fondo.
Poi crollo di nuovo sul sofà.
Lei va in bagno per togliersi i
vestiti bagnati e asciugarsi. S’infila
un altro paio di pantaloni termici
che aveva steso alla tenda della
finestra, e quando torna fa:
«Nessuno mi aveva mai regalato un
albero».
Ravvivo il fuoco mentre lei
attraversa la stanza. Osserva le mie
mani che manovrano i ciocchi. Dice
che faccio tutto così, con una certa
perizia pratica, ma fingendo di non
averla. Non rispondo.
Torno a sedermi sul sofà e mi
metto una coperta sulle gambe.
Appoggio i piedi sul tavolinetto.
Ancora non ho recuperato il ritmo
regolare di respirazione.
«Non so cosa darei per una birra»,
affermo.
Lei resta lì a guardarmi per non so
quanto tempo. Sento i suoi occhi su
di me.
«Anche tu?», aggiungo.
«Una birra?»
«Certo».
«Sì», conferma.
Ripenso a noi due seduti uno di
fianco all’altra a bere la birra in quel
bar. Le chiedo se lo ricorda e dice di
sì. Le pare sia accaduto un milione
di anni fa, molto prima che
qualcuno facesse luce nel nostro
mondo.
«Che ore sono?», domanda.
Ho l’orologio sul tavolino di fianco
a me. Mi piego in avanti per
controllare e la informo che sono le
due di notte.
«Sei stanco?», chiede.
«Un po’».
«Grazie
per l’albero», dice.
«Grazie per aver regalato un albero
a entrambi», aggiunge. Non vuole
essere presuntuosa.
Lo fisso, appoggiato lì alla parete
di legno. È storto, brutto, però lei
dice che è perfetto.
«No», la contraddico. «È per te,
così la smetti di tenere il muso
lungo».
Le prometto di trovare delle luci.
Non so come farò, ma glielo
prometto. Lei mi dice di non
preoccuparmi: «Va benissimo così».
Io invece voglio addobbarlo.
Mi chiede se uso mai la
metropolitana
nel
centro
di
Chicago, la famosa L. Le rispondo
ovviamente di sì. Nessuno può
spostarsi in centro altrimenti. Lei
dice di usare spesso la Red Line.
Volare sottoterra, come se in
superficie non imperversasse tutta
quella baraonda.
«Prendi mai l’autobus?», chiede.
Mi domando dove voglia andare a
parare. «A volte».
«Esci, frequenti i bar, roba
simile?»
«Qualche volta». Faccio spallucce.
«Non è il mio ambiente».
«Ma ci vai?»
«Ogni tanto».
«Vai mai al lago?»
«Conosco uno che ha una barca a
Belmont Harbor». Voglio dire un
delinquente della mia risma, uno
che lavora per Dalmar e vive nella
barca, un cabinato di seconda mano
che tiene sempre ormeggiato col
pieno di carburante, nel caso
avesse bisogno di scappare in
fretta. Inoltre ci tiene un sacco di
provviste, da sostentarsi per un
mese, se capitasse di fare il giro dei
Grandi Laghi, fino in Canada. Così
vive la gentaccia come noi, sempre
pronta a fuggire.
Annuisce.
Belmont
Harbor,
naturalmente. Afferma di passare
continuamente da quelle parti.
«Potrei averti già visto. Magari ci
siamo incrociati per strada, sullo
stesso autobus. O forse mentre
aspettavamo la stessa corsa della
metro».
«A Chicago vivono milioni di
persone».
«Eppure…».
«Va bene, forse. A cosa vuoi
alludere?»
«Stavo solo fantasticando…», la
sua voce si affievolisce.
«Cosa?», chiedo.
«Se ci saremmo mai conosciuti, se
non fosse stato per…».
«Questo?». Scuoto la testa. Non
voglio fare la figura del coglione. È
la verità. «Probabilmente no».
«Non ci credi?»
«Non ci saremmo mai incontrati».
«Come fai a saperlo?»
«Non ci saremmo mai incontrati»,
ribadisco.
Distolgo lo sguardo, mi tiro la
coperta sulle spalle e mi sdraio sul
fianco.
Le chiedo di spegnere la luce e,
sentendola attardarsi in cucina,
dico: «Non vai a dormire?»
«Come fai a esserne sicuro?»,
riattacca.
Non mi piace la piega che sta
prendendo la conversazione.
«Che differenza fa?», domando.
«Mi avresti rivolto la parola se ci
fossimo
veramente
incontrati?
Quella sera, mi avresti rivolto la
parola se non fossi stato obbligato
a farlo?»
«Innanzitutto non sarei stato lì, in
quel bar».
«Ma… se ci fossi stato».
«No».
«No?»
«Non
ti
avrei
presa
in
considerazione».
Il rifiuto è come uno schiaffo in
faccia, per lei.
«Oh».
Attraversa la stanza e spegne la
luce. Però non posso troncare lì.
Non posso lasciarla andare a letto
contrariata.
Nel buio, ammetto: «Non è come
pensi tu».
Resta sulla difensiva. Ho ferito i
suoi sentimenti. «Che cosa penso?»
«Non ha niente a che vedere con
te».
«Ma certo che ce l’ha».
«Mia…».
«Allora?»
«Mia».
«Che cosa?»
«Non ha niente a che vedere con
te. Non significa nulla».
Non è vero. Per lei significa
qualcosa. La sento muoversi per la
stanza, quando ammetto: «La
prima volta che ti ho vista uscivi dal
tuo appartamento. Ero seduto
dall’altra parte della strada, sui
gradini
di
una
casa
quadrifamigliare, aspettavo. Avevo
visto una tua fotografia. Ti avevo
chiamato dal telefono a gettoni
all’angolo. Avevi risposto e io avevo
riagganciato subito. Così, sapevo
che c’eri. Non so quanto ho
aspettato, quarantacinque minuti,
un’ora. Dovevo sapere in cosa mi
stavo cacciando. Poi ti ho vista dalla
finestrella di fianco all’entrata, che
saltellavi giù dalle scale con gli
auricolari. Hai aperto il portone e ti
sei fermata ad allacciarti una
scarpa. Nel frattempo memorizzavo
la tua acconciatura, il modo in cui i
capelli ti cadevano sulla spalle,
prima che li legassi sulla nuca. È
passata una donna con quattro o
cinque cani. Ti ha rivolto la parola,
tu le hai sorriso, e dentro di me ho
pensato di non aver mai visto
niente di altrettanto… non so… di
altrettanto bello in vita mia. Sei
scomparsa di corsa in fondo alla
strada, nel frattempo io ti
aspettavo. Osservavo i taxi che
passavano, frotte di persone che
tornavano a casa a piedi dopo
essere
scese
alla
fermata
dell’autobus dietro l’angolo. Erano
le sei, forse le sette di sera.
Cominciava a imbrunire. Il cielo era
quello tipico autunnale, fantastico.
Sei tornata a piedi. Mi sei passata
davanti diretta dall’altra parte della
strada, ringraziando un taxi che
aveva
rallentato
per
farti
attraversare. Ero quasi certo che mi
avevi visto. Poi hai preso la chiave
e sei entrata, e io non potevo più
vederti.
Vedevo
la
finestra
illuminata
e
il
tuo
profilo.
Immaginavo
quel
che
facevi
all’interno. Immaginavo di stare lì
dentro con te, a come sarebbe
stato se non avessi dovuto fare
quello che ho fatto».
Resta in silenzio. Dopodiché
sostiene di ricordarsi di quella sera.
Non aveva dimenticato il cielo
vibrante, la luce del sole morente.
Dice che il cielo era color cachi e
sangria, sfumature di rosso che solo
Dio è capace di impastare. Inoltre
ricorda «i cani, tre labrador neri e
un golden retriever, e la donna, in
tutto una quarantina di chili, che si
facevano sballottare dai guinzagli
aggrovigliati». Ricorda anche la
telefonata, che allora l’aveva
lasciata indifferente. Le viene in
mente che se ne stava seduta e si
sentiva sola, perché quel cretino del
suo ragazzo doveva lavorare, ma
soprattutto perché era contenta che
dovesse lavorare.
«Non ti ho visto», sussurra.
«Altrimenti me lo ricorderei».
Si china sul sofà, di fianco a me.
Io sollevo la coperta e la accolgo.
Mi preme la schiena sul petto,
aderiamo completamente. Sento il
battito del suo cuore. Sento il
sangue pulsarmi nelle orecchie. Fa
rumore, sono sicuro che lo sente
anche lei. Le sistemo meglio la
coperta. Frugo con la mano e trovo
la sua, le nostre dita s’intrecciano.
La sua stretta mi rassicura. Dopo un
po’, la mia mano smette di tremare.
Faccio scivolare il braccio sulla sua
clavicola. Lei si accomoda in tutti gli
spazi
vuoti
tra
noi,
finché
diventiamo una cosa sola. Appoggio
la testa su un viluppo di capelli
biondo scuro, abbastanza vicino da
farle sentire il mio alito sulla pelle,
rassicurandola così che siamo vivi,
sebbene facciamo fatica a respirare.
Cadiamo nell’oblio, in un mondo
dove non conta nient’altro, se non
noi due.
Quando mi sveglio, lei non c’è.
Non avverto più la sua pressione
contro di me. Mi manca qualcosa,
anche se solo poco prima non c’era
niente.
La vedo all’esterno, seduta. Si sta
gelando le chiappe. Ma pare che
non le importi.
Ha una coperta sulle spalle, ai
piedi si è messa le mie scarpe. Una
misura sproporzionata. Ha levato
con i piedi la neve dai gradini,
anche se i lembi della coperta
toccano il suolo e si stanno
bagnando.
Non esco subito.
Preparo il caffè. Prendo il mio
giaccone. Mi muovo coi miei tempi.
«Ehi», esclamo uscendo a piedi
nudi. Le porgo una tazza di caffè.
«Forse questo ti riscalderà».
«Oh», sussulta. Si accorge che
sono scalzo e dice: «Le tue scarpe»,
ma la fermo prima che possa
togliersele. Dico che non mi
servono, che mi piace vederle
addosso a lei. E che mi piace che si
fosse sdraiata di fianco a me. Potrei
abituarmici.
«Fa freddo, qui», dico. In effetti, si
gela.
Saranno
cinque
gradi
sottozero.
«Davvero?», chiede.
Non rispondo.
«Ti lascio sola», propongo.
Presumo che chi decide di stare a
congelarsi le chiappe in una
giornata simile è perché vuole
restare da solo.
Non che sia accaduto niente, ma il
fatto
di
rimanere
per
ore
appiccicato a lei, senza altri scopi,
solo per starle vicino, per godere la
sensazione della sua pelle morbida
e il rumore del suo respiro mentre
russa: questo sì che è accaduto.
«Ti si stanno surgelando i piedi».
Me li guardo. Sono su uno strato
di neve e ghiaccio. «Hai ragione»,
convengo, e mi volto per rientrare
nel capanno.
«Grazie per il caffè».
Non so cosa altro mi aspetti che
dica, ma sicuramente mi aspetto
qualcosa.
«Di niente». E sbatto la porta.
Non so quanto tempo passi,
abbastanza da farmi incazzare. Ce
l’ho con me perché sono arrabbiato
con lei.
Dovrei fregarmene. Non dovrei
attribuire alcuna importanza a
questa cosa.
Ma poi ricompare. Ha le guance
rosse per il freddo. I capelli sulle
spalle. «Non voglio restare da
sola», dice. Fa cadere la coperta
sulla soglia. «Non ricordo quand’è
stata l’ultima volta che qualcuno mi
ha detto che sono bella», dice.
Bella non le rende affatto
giustizia.
Ci fissiamo a lungo, da una parte
all’altra della stanza, assaporando
quella sensazione. Sforzandoci di
respirare.
Viene verso di me. Le sue mani mi
toccano con prudenza. L’altra volta
l’avevo respinta, ma allora era
diverso.
Era una donna diversa.
Io ero un uomo diverso.
Faccio scorrere le dita tra i suoi
capelli. Le mie mani scendono sulle
sue braccia.
Memorizzano le sue dita e la
forma della sua schiena. Lei mi fissa
con uno sguardo che non avevo mai
visto, né in lei né in nessun’altra
donna. Fiducia, rispetto, desiderio.
M’imprimo
nella
mente
ogni
lentiggine, ogni macchiolina sul suo
viso. Imparo la forma delle sue
orecchie, e le passo un dito sulle
labbra.
Mi prende per mano e mi conduce
nella camera da letto. «Non sei
obbligata a farlo», dico. Non è più
mia prigioniera. Voglio solo che lei
abbia voglia di essere qui.
Indugiamo sulla soglia. Cerca le
mie labbra con le sue, le tengo la
testa tra le mani. Le accarezzo i
capelli. Lei intreccia le braccia
dietro la mia schiena. Non mi molla.
Ciò che cambia è il modo in cui ci
tocchiamo. C’è contatto, una cosa
che solitamente evitavamo. Ci
sfioriamo a vicenda se dobbiamo
entrare in una stanza. Lei passa le
dita tra i miei capelli. Io lascio la
mia mano a indugiare sulla sua
schiena. Lei segue i contorni del
mio viso. Condividiamo lo stesso
letto.
Con le mani e con le dita
memorizziamo ciò che non possono
memorizzare
gli
occhi.
Un’irregolarità del cuoio capelluto,
punti di pelle secca.
Non c’è nulla di frivolo in tutto ciò.
Non flirtiamo. Siamo già oltre. Non
rivanghiamo
le
relazioni
sentimentali del passato. Non
cerchiamo di ingelosirci a vicenda.
Non inventiamo nomignoli affettuosi
con cui chiamarci. Non usiamo la
parola «amore».
Passiamo il tempo. Parliamo.
Raccontiamo le cose strane che si
vedono in città. I senzatetto che
vanno in giro coi carrelli per la
spesa. Gli invasati religiosi che
camminano col crocifisso sulla
schiena. Idioti.
Mi domanda qual è il mio colore
preferito. Dico che non ce l’ho un
colore preferito. Allora qual è il mio
piatto preferito, e io verso una
cucchiaiata di brodaglia nella
scodella: «Tutto, tranne questo»,
dico.
Mi chiede cosa le sarebbe
successo se non fossimo venuti qui.
Se l’avessi consegnata e mi fossi
preso la ricompensa per il
rapimento.
«Non lo so», ammetto.
«Sarei morta?».
Impariamo
cose
che
non
conoscevamo: il contatto della pelle
ci aiuta a riscaldarci; gli spaghetti in
scatola sono buoni coi fagioli
precotti; in due si sta comodi su
quella poltrona sgangherata.
Mi fissa con quei suoi occhi,
pretendono una risposta. «Non lo
so», ripeto. Immagino la scena
mentre la strappano dalla mia auto
e la gettano nel furgoncino. Le
legano le mani e le bendano gli
occhi. Sento che urla e piange.
Scosto la scodella, non ho fame.
Ho perso l’appetito.
Lei sta in piedi e prende la mia
ciotola. Afferma che stasera i piatti
li lava lei, io le stringo piano il polso
e dico: «Lascia stare».
Ci accomodiamo davanti alla
finestra per ammirare la luna, una
scheggia nel cielo. Le nuvole sono
in movimento, a tratti la coprono.
«Guarda quante stelle», dice.
Conosce i nomi delle costellazioni:
Ariete, Fornace, Perseo. Dice che a
Chicago esprimeva i suoi desideri al
passaggio degli aeroplani perché,
rispetto alle stelle, ce n’erano molti
di più nel cielo notturno.
Certe volte è troppo distante,
anche se siamo nella stessa stanza.
Mi insegna a contare fino a cento
in spagnolo. Io le insegno a ballare
il fox-trot. Quando il lago ghiaccia
del tutto, peschiamo praticando un
foro sulla superficie. Non rimaniamo
mai fuori per troppo tempo. Non le
piace restare ferma a osservare.
Cammina sul lago come se Mosè
avesse diviso le acque per lei. Ama
la neve appena caduta. Talora
notiamo impronte di animali.
Talvolta sentiamo in lontananza il
rumore dei gatti delle nevi. Quando
è diventata un ghiacciolo, rientra
nel capanno. Allora mi sento solo.
La porto fuori. Prendo con me la
pistola. Ci inoltriamo un po’ nei
boschi, verso un posto talmente
desolato che di sicuro nessuno udrà
lo sparo.
Le dico che desidero impari a
sparare, o almeno come usare
quest’arma. Gliela poggio sui palmi
aperti, come fosse un gioiello
prezioso.
Lei non la vuole nemmeno
toccare.
«Prendila», sussurro.
«Perché?», chiede.
«Non si sa mai».
Voglio che impari a sparare, così
saprà difendersi.
«Ci sei tu per questo».
«E se una volta non ci fossi?»,
chiedo. Le sistemo una ciocca di
capelli dietro l’orecchio gelato. Ma il
vento gliela scompiglia di nuovo. «È
scarica».
Stringe l’arma tra le mani. È
pesante, il metallo è freddo.
Le sistemo l’indice sul grilletto e il
pollice verso il basso. Siccome
tengo la mia mano sulle sue, è
sicura che andrà tutto bene. Che
sarà una cosa giusta. Ha le mani
fredde, come le mie. Ma mi
accettano senza riserve, non come
una volta, quando mi evitava.
Le spiego le parti della pistola: il
tamburo, la canna e il ponticello.
Estraggo dalla tasca dei jeans un
caricatore e le mostro come si fa a
inserirlo. Le elenco i tipi di arma
esistenti:
fucile,
rivoltella
e
semiautomatica. Questa è una
pistola semiautomatica. Quando si
spara un colpo, il caricatore ne
inserisce un altro nella camera di
scoppio. Basta premere il grilletto.
Le dico di non puntare mai l’arma
contro qualcuno se non intende
ucciderlo.
«L’ho
imparato
nel
modo
peggiore», dico. «Quando avevo
sette anni, forse otto. Nel quartiere
c’era un ragazzino, e suo padre
possedeva un revolver. Se ne
vantava continuamente. Pensavo
fosse un bugiardo e glielo dissi. Lui
volle dimostrarmelo, per cui un
giorno andai a casa sua, dopo la
scuola. Non c’era nessuno. Il padre
teneva l’arma carica in un comodino
senza serratura. La presi dal
cassetto come un giocattolo.
Giocammo un po’ a guardie e ladri.
Lui era la guardia, però la pistola
l’avevo io. Quando disse: “Mani in
alto!”, io mi voltai e gli sparai».
Restiamo nel freddo pungente.
Ricordiamo le volte in cui lei fissava
atterrita il tamburo della pistola.
Senso di colpa, dispiacere. Sono
sicuro che me li legge negli occhi.
Sono sicuro che senta la sincerità
nel mio tono di voce quando
affermo: «Non ti avrei uccisa».
Le
stringo
la
mano
convulsamente, alla cieca.
«Ma avresti potuto farlo», dice.
Sappiamo entrambi che è vero.
«Sì», devo ammettere. Non sono
uno che si scusa. Ma sono certo che
lei sappia interpretare la mia
espressione.
«Però era diverso», aggiunge.
«In che senso?».
Mi metto dietro di lei, le sollevo il
braccio e miriamo insieme un
tronco. Le allargo le gambe e le
insegno come deve reggersi in
piedi, poi armiamo il cane e
premiamo il grilletto. Un rumore
assordante. Il rinculo la fa quasi
cadere. La corteccia dell’albero
esplode.
«Perché se ne avessi avuto la
possibilità, anch’io ti avrei ucciso»,
dice.
Ecco come abbiamo risolto le cose
che erano accadute fra noi nei primi
giorni. Ecco come compensiamo
tutte le parole cattive e meschine
che ci siamo detti, i pensieri orribili
che ci ossessionavano. È il modo in
cui cancelliamo l’odio e la violenza
dei primi giorni e delle prime
settimane dentro il capanno, fra le
pareti di legno che sono diventate
la nostra casa.
«E il tuo amico?», chiede.
Accenno alla pistola che tiene in
mano e stavolta la incoraggio a
provare da sola. «Fortunatamente
per lui, da piccolo avevo una
pessima mira. La pallottola gli
sfiorò un braccio. Solo un graffio».
Eve
Vigilia di Natale
Gabe mi ha chiamato presto,
stamattina, per dirmi che stava
arrivando. Erano le cinque e mezza
quando il mio cellulare ha squillato
e, a differenza di James che stava
dormendo come un angioletto, ero
sveglia
già
da
alcune
ore,
tormentata da un’altra notte
insonne. Non mi do la pena di
svegliarlo. Prendo la vestaglia ed
esco.
Ci sono notizie. Sono ferma sui
gradini, tremo dal freddo, aspetto
che l’auto di Gabe entri nel vialetto
coperto di neve. Sono appena
passate le sei, è ancora buio. Le
decorazioni natalizie dei vicini
illuminano il cielo notturno: gli
alberi addobbati che luccicano dalle
finestre delle abitazioni, le candele
tremolanti sui davanzali. Dai camini
escono mulinelli di fumo nell’aria
gelata.
Mi stringo ancor più forte la
vestaglia e aspetto. Lontano si
sente passare un treno che
sferraglia verso la città. Non c’è
nessuno che lo attende sulla
piattaforma, all’alba di questa
domenica mattina che è la vigilia di
Natale.
«Cosa c’è?», chiedo non appena
esce dall’auto. Viene dritto verso di
me, non chiude nemmeno la
portiera.
«Andiamo dentro». Mi prende per
mano e mi conduce dove è più
caldo.
Ci sediamo su un divano di velluto
bianco, molto vicini. Quasi non ci
accorgiamo di toccarci con le cosce.
È buio in casa, è accesa solo la luce
della caldaia in cucina. Non voglio
svegliare
James,
parliamo
a
sottovoce.
C’è un’espressione strana nei suoi
occhi, qualcosa di nuovo.
«È morta», mi arrendo.
«No», dice, ma poi si corregge e,
fissandosi le mani, ammette: «Non
lo so. In una cittadina del
Minnesota nord-orientale vive la
dottoressa Kayla Lee. Non volevo
darti false speranze. Una settimana
fa abbiamo ricevuto una sua
telefonata, aveva visto la faccia di
Mia nei telegiornali e l’aveva
riconosciuta come una delle sue
pazienti. Sono passate settimane,
forse un mese, da quando Mia è
stata lì per un consulto. Ma è sicura
che fosse lei. Tua figlia si è
presentata con uno pseudonimo:
Chloe Romain».
«Una dottoressa?»
«La Lee ha detto che era con un
uomo. Colin Thatcher. Ha detto che
era malata».
«Malata?»
«Polmonite».
«Polmonite».
Se non viene curata, la polmonite
può causare avvelenamento del
sangue, può provocare difficoltà o
incapacità respiratorie. Senza cure,
una persona potrebbe anche
morirne.
«La dottoressa le aveva fatto una
ricetta e l’aveva congedata. Le
aveva chiesto di farsi rivedere entro
una settimana. Mia non si è
presentata all’appuntamento».
Gabe sostiene di avere la
sensazione ricorrente che si trovino
a Grand Marais. È un’intuizione, una
cosa viscerale…
«Cosa ti fa credere che siano a
Grand Marais?», chiedo, ricordando
la volta in cui si era presentato qui
e mi aveva domandato se ne avevo
mai sentito parlare.
«Una cartolina che ho trovato
casualmente in casa della signora
Thatcher. Da Colin a sua madre.
Per un ragazzo che non lasciava
quasi mai la casa, mi ha colpito
notevolmente. È un ottimo posto in
cui nascondersi. E poi c’è dell’altro»,
aggiunge.
«Cosa?», pendo dalle sue labbra.
Mia aveva avuto una ricetta, ma
non è detto che sia andata in
farmacia. Non è detto che abbia
ingerito le compresse per curarsi.
«Ho parlato con Kathryn Thatcher
e fatto delle ricerche sulla sua
famiglia. Sembra che abbiano ormai
da anni una capanno a Grand
Marais. Kathryn non ne sa granché,
non ci è mai stata. Ma il suo ex
marito ci portava Colin da piccolo. È
una residenza estiva, per così dire,
disabitata per gli altri mesi
dell’anno. Ho chiesto a un
funzionario locale di andare a darci
un’occhiata, lo ha fatto e ha visto
un pick-up rosso con targa
dell’Illinois che era parcheggiato
fuori».
«Un pick-up rosso», ripeto. Gabe
mi ricorda che i vicini della Thatcher
erano certi che Colin avesse un
veicolo simile.
«E allora?», chiedo ansiosa.
Si alza. «Vado lì, con la mia auto,
stamattina. Stavo per salire su un
aereo, ma non è una buona idea,
niente rotte dirette, e fra scali e
soste…».
Mi alzo per accompagnarlo.
«Vengo anch’io. Metto qualcosa
nella borsa…».
Cerco di muovermi, lui però mi
blocca dalle spalle.
«Non puoi venire», dice con
tenerezza. Afferma che è solo
un’intuizione, una possibilità. Non ci
sono
prove.
Il
capanno
è
attualmente sotto controllo. Non ci
sono nemmeno certezze che Mia sia
lì dentro. Colin Thatcher è un uomo
pericoloso, ricercato per vari delitti.
«Certo che posso», grido. «È mia
figlia».
«Eve».
Ho la voce rotta. Mi tremano le
mani. Sono mesi che attendo
questo momento ma, adesso che è
arrivato, non sono certa di essere
pronta. Tante cose potrebbero
andare storte. «Ora ha bisogno di
me. Sono sua madre, Gabe. È mio
dovere proteggerla».
Mi abbraccia, una stretta vigorosa.
«È mio dovere proteggere te», dice.
«Fidati. Se Mia è lì, la riporterò a
casa».
«Non posso perderla ora», piango.
I miei occhi si soffermano su una
foto di famiglia scattata alcuni anni
fa: James, Grace, io e Mia.
Sembriamo tutti essere stati
costretti a posare, abbiamo il
sorriso
stampato
ma
siano
accigliati, gli
occhi
guardano
altrove. Solo Mia pare felice.
Perché? Non le abbiamo mai dato
motivo di esserlo.
Gabe mi bacia sulla fronte e
prolunga questo gesto d’affetto,
sento le sue labbra premute sulle
rughe della pelle.
Siamo in questa posizione quando
James scende impacciato le scale,
con addosso solo un pigiama
aderente di tartan.
«Cosa
diavolo
succede?»,
domanda.
Sono la prima a staccarmi.
«James»,
grido
correndogli
incontro. «Hanno trovato Mia».
Ma lui ignora il mio approccio, il
suo sguardo mi evita. «Ed è così
che ci dà la notizia?», dice in tono
di
sfida,
deridendo
Gabe.
«Mettendo le mani addosso a mia
moglie?»
«James», ripeto prendendogli la
mano affinché capisca: nostra figlia
tornerà presto a casa. «Hanno
ritrovato Mia».
Lui però reagisce lanciando uno
sguardo altero in direzione di Gabe.
Non mi guarda. «Ci crederò quando
la vedrò», esclama ed esce dalla
stanza.
Colin
Prima
Sull’albero di Natale ci sono le
luci. Non le dico come sono finite lì.
Sostengo che non le piacerebbe
saperlo. Le ho accennato che lo
svantaggio altrui viene a nostro
vantaggio.
Secondo lei, sono meravigliose di
notte,
quando
spegniamo
l’interruttore
principale
e
ci
sdraiamo vicini, al buio, rischiarati
solo dal fuoco e dalle lucine
sull’albero.
«È perfetto», dice.
«Non abbastanza», correggo.
«Cosa intendi? È perfetto».
Tuttavia, sappiamo tutti e due che
non lo è.
La cosa perfetta è il modo in cui
mi guarda, la maniera in cui
pronuncia il mio nome. Il modo in
cui mi accarezza i capelli, anche se
mi pare che non sia consapevole di
farlo. Il modo in cui facciamo
l’amore tutte le sere. Il modo in cui
mi sento: realizzato. La cosa
perfetta è la maniera in cui a volte
sorride
e
altre
volte
ride
fragorosamente.
Il
fatto
che
possiamo dire tutto quello che ci
passa per la mente, oppure
rimanere seduti per ore senza
interrompere il silenzio.
Di giorno il gatto ci ronza attorno.
Di notte dorme con noi, sul cuscino
di lei, dove c’è un briciolo di calore.
Le dico di cacciarlo via, ma lei non
vuole. Allora lei mi si avvicina,
viene a condividere il mio cuscino.
Dà al gatto gli avanzi, che lui
divora. Però sappiamo che, siccome
la dispensa si sta svuotando, dovrà
decidere: o lui o noi.
Chiacchieriamo del luogo in cui
vorremmo andare se ne avessimo
l’occasione.
Elenco tutti i posti caldi che mi
vengono in mente. «Messico,
Costarica, Egitto, Sudan».
«In Sudan?»
«Perché no? Lì si crepa dal caldo».
«Senti tanto freddo?», chiede. Io
me la metto sulle ginocchia.
«Così va meglio», dico.
Le domando dove vorrebbe
recarsi, se riusciremo mai ad
andarcene di lì.
«Un paesino in Italia», dice. «Una
città
fantasma,
quasi
completamente abbandonata, dove
restano solo gli ulivi e circa
duecento anime, con un castello
medievale e una vecchia chiesa».
«È lì che vuoi andare?», sono
sorpreso. Mi aspettavo Machu
Picchu o le Hawaii. Roba di questo
genere.
Invece capisco che è un’idea
ponderata.
«È un posto in cui potremmo
rintanarci.
Un
mondo
senza
televisione, né tecnologia. Si trova
in Liguria, la regione italiana che
confina col sud della Francia.
Saremmo a pochi chilometri dalla
riviera. Potremmo campare coi frutti
della terra e coltivare quello che
mangeremo.
Non
dovremo
dipendere
da
nessuno.
Non
dovremmo
preoccuparci
della
polizia, di qualcuno che ci possa
rintracciare…». La guardo dubbioso.
«Pensi che sia una sciocchezza»,
aggiunge.
«Penso che la verdura fresca
sarebbe un bel cambiamento, dopo
questi pomodori precotti».
«In effetti, odio i pomodori in
scatola», ammette.
Confermo, li avevo comprati solo
perché avevo fretta.
«Potremmo acquistare un rustico,
uno di quegli antichi casolari di
granito, che avranno cento o
duecento
anni.
Ammireremmo
panorami mozzafiato, magari fino al
mare, col tempo buono. Potremmo
allevare gli animali, mangiare cibo
sano».
«L’uva?»
«Sì, un bel vigneto. Cambieremo i
nostri nomi, cominceremo una
nuova esistenza, da zero».
Mi appoggio sui gomiti. «La tua
nuova identità?»
«Cosa vuoi dire?»
«Il nome che prenderesti».
Risposta ovvia: «Chloe».
«Chloe, ecco chi sarai», dico. Lo
osservo. Ricordo che qualche mese
fa, quando andavamo a Grand
Marais,
l’avevo
costretta
a
scegliersene uno, e lei aveva
escogitato questo pseudonimo.
«Perché Chloe?», chiedo.
«Cosa intendi?»
«Quella volta, quando ti spiegai
che non potevi più essere Mia,
avevi pensato a Chloe».
«Oh», esclama mettendosi a
sedere. La mia maglietta le ha
lasciato delle pieghe sulla pelle del
volto. Ha i capelli sciolti, le arrivano
fino a metà schiena. Forse anche
più giù. Mi aspetto una risposta
semplice. Mi piaceva, una cosa
simile. Ma ne vengo a sapere di più.
«Una ragazza che avevo visto alla
televisione», afferma.
«Cosa vuoi dire?».
Chiude gli occhi, so che non vuole
rivelarmelo. Però parla lo stesso:
«Avevo sei o sette anni. La mamma
era in cucina, ma aveva lasciato
accesa la TV, c’era il telegiornale.
Stavo colorando. Lei non sapeva
che
prestavo
attenzione.
Un
programma su un viaggio scolastico
di
gruppo,
nel
Kansas
o
nell’Oklahoma, mi pare. Una banda
di ragazzini in una corriera, forse
andavano a una gara. A questo non
facevo caso. La corriera prese a
sbandare e precipitò in un burrone.
Una decina di bambini morti,
insieme all’autista. Poi apparve la
famiglia, una mamma, un papà, e
due ragazzi grandi, di diciotto o
diciannove anni. Me li rivedo ancora
adesso. Il padre, magro e quasi
calvo, i due figli, entrambi alti e
snelli, sembravano giocatori di
baseball, coi capelli rossicci. La
madre pareva che l’avesse investita
un autotreno. Piangevano tutti,
nessuno escluso, davanti a quella
piccola casetta bianca. Questo
attirava la mia attenzione. Il fatto
che piangessero. Avevano il cuore
infranto. Erano distrutti dal dolore.
Osservavo soprattutto il padre, ma
anche gli altri, il modo in cui
singhiozzavano senza vergognarsi
per la figlia o la sorella morta
nell’incidente. Era finita in fondo al
burrone perché l’autista si era
addormentato al volante. Aveva
quindici anni, ma ricordo bene che il
padre
gemeva
per
la
sua
“bambina”. Non la smetteva di
raccontare
quanto
fosse
straordinaria, anche se le cose che
diceva (che era gentile e sapeva
suonare il flauto, sebbene non fosse
un
genio)
non
erano
necessariamente straordinarie. Per
lui però lo erano. Continuava a
ripetere: “La mia Chloe, la mia
bambina”. Quello era il suo nome:
Chloe Frost. Non riuscivo a pensare
ad altro che a lei. Volevo essere nei
suoi panni, avere qualcuno che
soffrisse per me nel modo in cui la
sua famiglia pativa per lei. Piansi
per lei per giornate intere. Le
parlavo,
quando
ero
sola.
Intrattenevo conversazioni con la
mia amica morta, Chloe. La
disegnavo. Decine di disegni di
Chloe, coi suoi capelli rossicci e gli
occhi color caffè». Si passa una
mano tra i capelli e distoglie lo
sguardo, in modo
umile
e
impacciato. Imbarazzato.
Poi ammette: «La invidiavo,
davvero. Ero gelosa di lei che era
morta, perché da qualche parte
c’era qualcuno che la amava più di
quanto amassero me». Esita, poi
soggiunge: «È una follia, lo so».
Invece scuoto la testa e faccio:
«No», perché so che è quello che
vuole sentirsi dire. E penso a
quanto dovesse essere stata sola
durante l’infanzia. Tanto da voler
essere l’amica morta che non aveva
neppure conosciuto. Io e mia madre
non abbiamo mai avuto granché,
ma non siamo mai stati soli.
Lei cambia discorso. Non vuole
parlare più di Chloe Frost.
«E tu chi sarai?», mi chiede.
«John?», azzardo. Non potrei
essere più lontano da un John
qualsiasi.
«No», fa, e pensa a una risposta
tanto ovvia quanto quella di Chloe.
«Sarai Owen. Anche perché non
conta più, ormai. Non è il tuo vero
nome».
«Lo
vuoi
sapere?», chiedo.
Scommetto che ci ha pensato
migliaia di volte. Scommetto che ha
cercato di indovinare quale possa
essere il mio vero nome. Mi chiedo
se abbia mai immaginato di
chiedermelo.
«No», ripete, «perché per me
questa è la tua identità. Tu sei
Owen». Afferma che qualsiasi cosa
fossi prima di questo non conta
niente.
«E tu sarai Chloe».
«Sarò Chloe».
In quel momento, Mia cessa di
esistere.
Eve
Dopo
Mi consiglio con la dottoressa
Rhodes, la quale mi spalleggia, alla
condizione
che
possa
accompagnarci. Compro i tre
biglietti per l’aereo con la carta di
credito che condivido con James. Il
distretto copre i costi di Gabe.
Torneremo nel capanno in cui Mia
è stata tenuta prigioniera per tutto
il tempo. Spero che la visita la aiuti
a recuperare la memoria, a
ricordare qualcosa del periodo di
cattività. Se basta il gatto a farle
tornare in mente Colin, non riesco a
immaginare cosa potrà provocare la
casupola.
Io e Mia prepariamo una valigia
per entrambe, non abbiamo molte
cose. Non dico a James dove stiamo
andando. Mia prega Ayanna di
badare a Canoa per qualche giorno,
e la collega accetta volentieri.
Ronnie, suo figlio di nove anni, è
felice di avere la compagnia di un
gatto. Sulla strada per l’aeroporto
chiamiamo un taxi per farci portare
verso il suo appartamento. Mia si
separa da Canoa per la seconda
volta, con grande difficoltà. Mi
chiedo cosa sia successo la prima
volta che lo ha lasciato.
L’aeroporto è un posto orribile per
una persona nelle sue condizioni.
Un rumore assordante, migliaia di
persone, altoparlanti, aerei che
solcano il cielo. Mia è tesa e
nervosa, lo si vede bene, benché
sia stretta fra me e la Rhodes, e io
la tenga sottobraccio. La dottoressa
le suggerisce una dose di Valium,
che ha portato nella sua valigia,
non si sa mai.
Gabe si sporge. «Cos’altro ha
messo lì dentro?», chiede. Siamo
seduti tutti e quattro allineati, al
terminal.
«Altri
sedativi»,
replica.
«Tranquillanti più forti».
Lui si rilassa, prende il giornale
che qualcuno ha dimenticato.
«Non ci sono rischi?», chiedo. «Per
il…».
«Per il bambino», Mia finisce la
frase senza scomporsi. Non ero
riuscita a pronunciare la parola.
«Ecco», dico, umiliata dal fatto
che lei ci sia riuscita.
«Non ce ne sono», ci rassicura la
dottoressa. «Almeno per una
somministrazione. Ma suggerirei di
non assumerlo spesso durante la
gravidanza».
Mia ingoia la pastiglia con un
sorso d’acqua, poi aspettiamo.
Quando annunciano il nostro volo, è
pressoché assopita.
Voleremo fino a Minneapolis-St.
Paul, scalo con sosta di tre quarti
d’ora, prima di proseguire per
Duluth, Minnesota, dove un amico
di Gabe, l’ispettore Roger Hammill,
ci accompagnerà in auto fino a
Grand Marais. Gabe dice che è un
suo amico, ma colgo una nota di
scherno nella sua voce quando
parla di questo detective. L’aereo
decolla presto, alle nove di mattina,
e sale verso un cielo terribilmente
freddo: sappiamo che sarà una
giornata lunghissima. L’unica cosa
positiva è che Mia dorme.
Io sono seduta al suo fianco. Lei è
vicina all’oblò, io ho il posto lungo il
corridoio. Dall’altra parte dello
stretto passaggio c’è Gabe, che un
paio
di
volte
mi
rassicura
toccandomi il braccio e chiedendomi
se è tutto okay. Di fianco a lui c’è la
dottoressa Rhodes, persa in un
audiolibro, con le cuffie che le
tappano le orecchie. Il resto dei
passeggeri non fa caso a noi.
Confabulano, s’intrattengono sul
tempo che fa, sulle condizioni della
neve per gli sciatori, sui voli in
coincidenza
che
non
devono
perdere. Una donna recita il Padre
Nostro mentre l’aereo decolla, poi
prega affinché l’atterraggio avvenga
in tutta sicurezza. Tiene il rosario
fra le mani tremanti. Il comandante
annuncia che sarà un volo pieno di
turbolenze e ci invita quindi a
restare seduti.
Mia
si
risveglia
prima
dell’atterraggio a Minneapolis, ma
l’agitazione la sconvolge di nuovo.
Domando alla psichiatra quando
dovrà assumere altri farmaci, ma lei
consiglia
di
attendere;
Mia
dev’essere lucida per tutto il
pomeriggio. Mentre aspettiamo la
nostra coincidenza, Gabe le passa il
suo iPod, scegliendo la musica più
gradevole per attutire gli altri
rumori.
Mi chiedo cosa succederà quando
arriveremo. Mi basta pensarci per
sentirmi male. Rivedo la reazione di
Mia davanti al gatto. Come si
comporterà nel momento in cui
scopriremo il sito in cui è stata
relegata per tutto quel tempo? Da
quando è tornata a casa, ha fatto
progressi; li dimenticherà?
Chiedo permesso perché devo
andare al bagno, così la Rhodes va
a sedersi al mio posto, per non
lasciare sola Mia. Uscendo dal
gabinetto, vedo che Gabe mi
aspetta. Mi lancio verso di lui, che
mi sostiene e mi dice: «Tutto
questo molto presto sarà finito.
Fidati».
Mi fido.
A Duluth un uomo che si presenta
come ispettore Hammill ci scorta
fino alla monovolume del distretto
di polizia. Gabe lo chiama Roger.
Mia si dice lieta di conoscerlo,
sebbene l’ispettore mi avverta che
non è la prima volta che si vedono.
È un uomo con una pancia
incredibile, avrà la mia età ma
sembra molto più anziano, il che mi
ricorda che anch’io invecchio giorno
dopo giorno. All’interno della
monovolume è appesa con lo scotch
la foto di sua moglie: una bionda
decisamente obesa, circondata da
una mandria di monelli. Ne hanno
sei, uno più grasso e corpulento
dell’altro.
Io, Mia e la dottoressa scivoliamo
sul sedile posteriore, mentre Gabe
si mette di fianco a Roger. Mi hanno
invitato a sedermi davanti, ma sono
felice di rifiutare: non mi sentivo
all’altezza di due chiacchiere
informali col guidatore.
Il tragitto supera le due ore. Gabe
e Hammill si perdono in ciance
oziose sul mestiere di poliziotto.
Cercano di surclassarsi a vicenda, e
intuisco subito che l’ispettore non
va d’accordo con il collega. La sua
voce è poco amichevole, talvolta le
risposte sono brusche, anche se
restano sul livello di una certa
educazione, per rispetto di noi
donne. Cerca di rivolgere la parola
a me o a Mia più del nostro
guidatore, e per il resto del
percorso rimaniamo in silenzio,
mentre Hammill si lancia in un
soliloquio sui Timberwolves, che
quest’anno hanno battuto due volte
i Chicago Bulls. Non conosco lo
sport professionistico, pallacanestro
inclusa.
Gran parte del viaggio si dipana
sulla Highway 61, un lungo tratto
costeggia il Lago Superiore. Mia
tiene gli occhi fissi sull’acqua. Mi
chiedo se abbia già visto quel
posto.
«Qualcosa di familiare?», Gabe le
chiede spesso. Le pone gli
interrogativi che io non ho mai il
coraggio di rivolgerle.
In precedenza, la psichiatra gli
aveva detto di non curiosare con
troppa insistenza. Gabe le aveva
risposto che doveva portare a
termine il suo lavoro; mentre quello
della dottoressa consisteva nel
raccogliere i pezzi dopo che erano
caduti.
«Tenuto conto che la distanza
minore fra due punti è una linea
retta», dice Hammill rivolgendosi a
Mia dallo specchietto retrovisore,
«avrebbe dovuto percorrere questa
strada».
Superiamo
Grand
Marais
e
imbocchiamo un tracciato chiamato
Gunflint Trail.
Hammill è una miniera di
informazioni, sebbene poche cose di
quel che dice mi siano nuove, dato
che da quando è tornata Mia ho
memorizzato ogni dettaglio di
questa strada secondaria nelle mie
notti insonni. Proseguiamo su una
stradina
a
due
corsie,
addentrandoci
nella
Superior
National Forest, siamo attorniati da
più vegetazione di quanto abbia
mai visto. Ormai il verde è quasi
scomparso, sepolto sotto cumuli di
neve; riemergerà con la primavera.
Le piante sempreverdi accolgono la
neve tra i loro aghi, sembrano
crollare sotto il suo peso.
Proseguendo il viaggio, noto che
mia figlia assume una postura più
rigida, i suoi occhi sono in maggiore
sintonia con l’ambiente esterno,
non ha più lo sguardo vitreo che le
avevo visto recentemente; ora ha
una consapevolezza che attesta il
suo interesse.
La dottoressa Rhodes la istruisce
negli esercizi di visualizzazione e in
un’affermazione
positiva
da
reiterare: «Posso fare questo». Mi
sembra di sentire James, che la
sbeffeggiava per le sue tecniche
irrazionali.
«Riconosce qualcosa, adesso?»,
Gabe chiede a Mia girandosi sul
sedile. Lei scuote la testa. È
pomeriggio inoltrato, le tre, forse le
quattro, il cielo si sta già
oscurando; abbondano le nuvole.
Sebbene il riscaldamento dell’auto
sia
sempre
accesso,
mi
si
cominciano a intirizzire mani e
piedi. Il riscaldamento non regge la
competizione con la temperatura
esterna, abbondantemente sotto
zero.
«È stata fortunata a uscirne al
momento giusto», dice Hammill a
Mia. «Non sarebbe sopravvissuta
all’inverno».
Il pensiero mi fa rabbrividire. Se
Colin Thatcher non l’avesse uccisa,
lo avrebbe fatto Madre Natura.
«Ah»,
bofonchia
Gabe
per
alleggerire
l’atmosfera.
Nota
qualcosa in me che non gli piace
affatto. «Ma forse Mia ti stupirebbe,
lei è una che non si arrende.
Giusto?»,
dice
facendole
l’occhiolino. Poi muove solo le
labbra senza proferire parola:
Questo puoi farlo. Nel frattempo, le
gomme della monovolume si
fermano su un mucchio di neve e ci
ritroviamo di fronte a uno squallido
capanno in tronchi di legno.
Lei ha visto le fotografie. Tante
volte
l’ho
ritrovata
quasi
addormentata a fissare le immagini
del capanno o gli occhi vacui di
Colin Thatcher, ma sembrava che
non vedesse niente. Adesso però
vede qualcosa. L’ispettore Hammill
apre la portiera e Mia esce dal
veicolo come se fosse attirata da un
magnete, per cui devo fermarla.
«Aspetta, prendi il cappello», dico,
«anche la sciarpa», perché qui si
gela talmente che basta l’aria per
ghiacciare la pelle. Lei pare invece
del tutto inconsapevole del freddo,
così che devo costringerla a
indossare i guanti, come se avesse
ancora cinque anni. Il suo sguardo è
calamitato dal capanno, dai pochi
gradini che conducono dal sentiero
innevato a una porta, davanti alla
quale è stato messo un nastro di
sbarramento giallo. I gradini sono
coperti di neve, ma si notano
ancora delle impronte, e le tracce
degli
pneumatici
sul
vialetto
d’accesso indicano che qualcuno è
rimasto lì fino all’ultima nevicata. La
neve ammanta ogni cosa: il tetto,
l’ambiente spoglio attorno alla
casupola. Mi chiedo come si
sentisse Mia arrivando in questo
posto, che è così remoto da far
pensare di essere gli ultimi abitanti
sulla Terra. Se ci penso, mi
vengono i brividi.
C’è il lago che ho visto nei suoi
disegni, che si sarà ghiacciato
chissà quante volte, è improbabile
che avvenga il disgelo, se non a
primavera.
Sono tanto sgomenta da queste
sensazioni
di
solitudine
e
disperazione da non accorgermi che
Mia sale i gradini con grande
familiarità, come se fosse a suo
agio. Il primo a raggiungerla è
Gabe, che si offre di aiutarla. I
gradini sono bagnati e scivolosi,
occorre fare attenzione.
Arrivati in cima, aspettano che
Hammill apra la porta. Io e la
dottoressa
seguiamo
a
poca
distanza.
L’ispettore spinge la porta e la
sentiamo cigolare. Tutti noi ci
affanniamo a lanciare un’occhiata
dentro, ma è Gabe, con la sua
buona creanza, a dire a Mia: «Prima
le signore», sebbene sia lui a
mettersi subito alle sue spalle.
Gabe
Vigilia di Natale
Da qualche parte nel Minnesota,
comincia a nevicare. Guido il più
velocemente possibile, ma non è
abbastanza. Non è agevole vedere
dal
parabrezza,
malgrado
i
tergicristalli si spostino rapidissimi.
Questo è il sogno di ogni bambino:
la neve il giorno della vigilia per un
bianco Natale. Staserà arriverà
Babbo Natale, coi regali sulla slitta
da distribuire a tutti i bimbi e le
bimbe.
Telefona l’ispettore Hammill. Ha
un paio di agenti che tengono sotto
sorveglianza il capanno. Me l’ha
detto, è una casupola persa nei
boschi. Però non hanno visto
nessuno arrivare o andarsene, né
hanno notato movimenti di persone
all’interno.
Nel frattempo, ha deciso di riunire
una squadra per circondare il luogo:
una decina dei suoi uomini migliori.
Un affare grosso, da queste parti
non è roba di tutti i giorni.
Penso a Eve. Ripeto mentalmente
mille volte le cose da dirle, la
parole da usare per darle la
splendida notizia. Ma poi realizzo
che le notizie potrebbero essere
negative, che Mia magari non si
trova nel capanno, o che potrebbe
non sopravvivere al tentativo di
salvataggio. Possono andare storte
un milione di cose.
Quando raggiungo la costa del
Lago Superiore, i ragazzi di Roger
diventano
inquieti.
Ne
ha
sguinzagliato un gruppetto in mezzo
ai boschi. Delimitano la zona. Sono
armati con la massima potenza di
fuoco che può sfoggiare il distretto.
Hammil si sente in missione.
Sembra che abbia qualcosa da
dimostrare.
«Nessuno spari un colpo finché
non entro lì», dico mentre accelero
a tutto gas su una strada stretta e
innevata. Le gomme slittano, faccio
fatica a recuperare il controllo
dell’auto. Sono spaventato a morte.
Ma la cosa che mi preoccupa di più
è la boria di Hammill. Lui, ancor più
di me, è uno ligio al senso del
dovere, con la possibilità di
sfoderare una pistola.
«Hoffman, è la vigilia di Natale, e
i miei ragazzi hanno una famiglia da
rivedere».
«Sto facendo il possibile».
Tramonta il sole, adesso è buio.
Sono a tavoletta. Attraverso gli
stretti passaggi, i rami potrebbero
svellermi il tetto dell’auto, da
quanto pendono appesantiti dalla
neve. Parecchie volte rischio di
impantanarmi perché le ruote
scivolano,
slittano,
non
mi
permettono
di
procedere.
Quest’auto schifosa sarà la mia
rovina.
Vado più veloce che posso, so che
devo mettere le mani su Colin
Thatcher prima che lo faccia
Hammill. Impossibile prevedere ciò
che farà quell’individuo.
Colin
Vigilia di Natale
Questo pomeriggio sono tornato
in città per telefonare a Dan. È
tutto pronto, si può procedere. Ci
vedremo il 26 a Milwaukee, è il
meglio che possa fare. Lui non
poteva arrivare in auto fino a Grand
Marais. Lo aveva messo subito in
chiaro.
È il mio regalo di Natale per lei,
una sorpresa per la festa di domani.
Ce ne andremo al tramonto e
viaggeremo per l’intera nottata, è la
maniera meno rischiosa. Suggerisco
di incontrarci allo zoo. Un bel luogo
pubblico, aperto anche per le feste
natalizie. Ci ho pensato mille volte.
Ci fermeremo nel posteggio. Lei si
nasconderà dietro al recinto dei
primati, io incontrerò Dan davanti a
quello dei lupi. La riprenderò
quando lui se ne sarà andato e sarò
certo che nessuno ci sta pedinando.
Di lì la strada più rapida per
arrivare in Canada passa per
Windsor, nell’Ontario. Ci arriveremo
e poi ci spingeremo il più lontano
possibile, in base al rifornimento di
benzina che potremo fare coi soldi
rimasti. Per adesso bastano. Dopo,
quando saranno finiti, vivremo sotto
pseudonimo. Mi troverò un lavoro.
Ho
commissionato
a
Dan
un’identità falsa anche per la
mamma e, quando sarà possibile,
gliela farò avere. Dovrò risolvere
pure questo aspetto.
Questa sarà l’ultima notte nel
capanno. Lei non lo sa. Sto già
dicendo segretamente addio alle
cose.
Domani sarà Natale. Ricordo che
da ragazzino il 25 dicembre uscivo
presto la mattina. Prendevo un
dollaro e due centesimi dagli
spiccioli che tenevamo in un
salvadanaio e arrivavo fino alla
panetteria all’angolo della strada,
aperta
fino
a
mezzogiorno.
Fingevamo che fosse una sorpresa,
ma non lo era mai. La mamma
restava a letto finché non mi
sentiva rientrare di soppiatto.
Non andavo mai direttamente in
panetteria. Ero molto curioso,
guardavo dalle finestre aperte gli
altri bambini del quartiere, volevo
vedere cosa avevano ricevuto come
regalo. Fissavo per un attimo i loro
volti felici e sorridenti, poi
calpestavo stancamente la neve e,
lungo la strada, pensavo: Affanculo
tutti.
I campanellini delle renne alla
porta sulla panetteria annunciavano
la mia entrata alla signora
incartapecorita che ci lavorava da
sempre. Indossava il cappellino
rosso di Babbo Natale e diceva:
«Oh, oh, oh». Le chiedevo due
paste al cioccolato da cinquantuno
centesimi, e lei me le metteva in un
sacchettino bianco di carta. Tornavo
a casa, dove la mamma preparava
due tazze di cioccolata calda e
consumavamo la nostra colazione,
fingendo che non fosse Natale.
Fisso fuori dalla finestra. Penso a
mia madre, sperando che stia bene.
Domani sarà la prima volta in più di
trent’anni che non mangiamo
insieme uno di quei dolci al
cioccolato del 25 dicembre.
Se riesco a recuperare carta e
penna, le scriverò un biglietto e lo
lascerò in una buca delle lettere di
Milwaukee. Le dirò che Chloe sta
bene, così quegli sfigati dei suoi
genitori si metteranno l’anima in
pace, se gliene frega qualcosa.
Quando il biglietto sarà recapitato,
noi saremo già fuori del Paese. E
non appena saprò come risolvere la
questione, riuscirò a far espatriare
anche la mamma.
Chloe mi abbraccia da dietro,
chiede se sto aspettando Babbo
Natale.
Penso a cosa cambierei, se
potessi, ma non cambierei nulla.
L’unico rimpianto è non avere con
me anche la mamma. Ma non avrei
potuto farlo senza mettere in
p e r i c o l o questo. Un giorno ci
riuscirò. Così scaccio anche il mio
senso di colpa. Non so come o
quando. Mica è facile procurarsi
un’identità falsa per mia madre
senza che mi scoprano, e nemmeno
mandarle denaro sufficiente per un
volo. Ma un bel giorno…
Mi volto e la prendo in braccio, in
tutti i suoi quarantacinque chili. Ha
perso peso, i pantaloni le cadono
dai fianchi. Se li risistema sempre
per non farli scivolare. Guance
incavate,
occhi
che
perdono
brillantezza. Così non può durare.
«Sai cosa voglio quest’anno per
Natale?», domando.
«Cosa?»
«Un rasoio», dico. Mi pettino
barba e baffi con le dita. Li odio. Mi
fanno schifo. Penso a tutto ciò che
migliorerà quando saremo fuori da
questo Paese. Non sentiremo più
freddo, perdio. Ci faremo la doccia
con sapone vero. Potrò radermi i
peli sulla faccia. Potremo uscire nel
mondo, insieme. Non dovremo
nasconderci, anche se ci vorrà
un’eternità prima di sentirsi al
sicuro.
«Mi piace», scherza lei sorridendo.
Quando ride, tutte le tessere
tornano al loro posto.
«Bugiarda», l’accuso.
«Allora ne ordineremo due», dice,
facendomi sfiorare la peluria sulle
sue gambe.
«E tu cosa vuoi come regalo da
Babbo Natale?», chiedo.
«Niente», dice d’impulso. «Ho
tutto quel che mi serve». Appoggia
la testa sul mio petto.
«Bugiarda», ripeto.
Si tira indietro e mi guarda. Ciò
che vuole, dice, è apparire bella e
graziosa. Per me. Farsi una doccia,
profumarsi.
«Sei già bellissima», dico, e lo
penso davvero. Ma lei mi dà del
bugiardo. Afferma di non essersi
mai sentita così brutta in vita sua.
Le prendo il viso tra le mani. È
imbarazzata, cerca di sottrarsi, ma
la costringo a guardarmi. «Sei
molto carina», ribadisco.
Annuisce. «Va bene, va bene», si
arrende e poi mi accarezza la
barba. «E a me piace la tua barba».
Ci fissiamo per un attimo.
«Un giorno», le prometto, «potrai
profumarti e tutto il resto».
«Okay».
Elenchiamo le cose che faremo un
bel giorno. Usciremo a cena,
andremo al cinema. Tutte le cose
che il resto del mondo fa ogni santo
giorno.
Dice di essere stanca e si ritira
nella stanza da letto. So che è
triste. Parliamo del futuro, ma
dentro di sé è convinta che non
esisterà mai un’eventualità simile.
Raccolgo le nostre cose, cerco di
essere silenzioso. Le accantono sul
bancone, le sue matite e il
quaderno da disegno, quel che
resta dei soldi. Bastano due minuti
per mettere assieme le cose che
contano. In fondo, ho bisogno solo
di lei.
Poi, per la noia, con un coltello
affilato incido le parole SIAMO STATI
QUI sul piano di lavoro della cucina.
Poco spazio tra le lettere, tutt’altro
che un capolavoro. Appoggio il mio
giaccone sull’incisione, così lei la
vedrà solo al momento della
partenza.
Ricordo la prima notte passata nel
capanno. Siamo stati qui, penso,
ma adesso che ce ne andiamo
siamo diversi.
Osservo
il
tramonto.
La
temperatura all’interno precipita.
Alimento il fuoco con altra legna.
Guardo
i
minuti
scorrere
sull’orologio. Quando ormai la noia
sta per uccidermi, comincio a
preparare la cena. Minestrina in
brodo di pollo. Mi riprometto che
questa è l’ultima volta che mangerò
questa sbobba.
È allora che sento il rumore.
Eve
Dopo
Mia è stata già qui. Se ne rende
conto immediatamente.
Dice che c’era un albero di Natale,
ora non c’è più. Nella stufa
scoppiettava sempre il fuoco, ma
ora tutto tace. C’era un odore molto
differente da quello attuale, adesso
si sente solo la puzza pungente
della candeggina.
Dice di vedere delle immagini:
barattoli di minestra sul piano di
lavoro e nella dispensa, anche se
ormai non ci sono più. Sente il
rumore dell’acqua che scorre dal
rubinetto, il fracasso delle scarpe
pesanti sul pavimento di legno; noi
restiamo in silenzio, la fissiamo
come falchi, con la schiena
appoggiata contro una parete di
tronchi.
«Sento la pioggia cadere sul
tetto», dice, «e vedo Canoa
zampettare da una stanza all’altra».
Segue con gli occhi il percorso
immaginario, dalla stanza alla
camera da letto, come se stesse
davvero osservando il gatto, mentre
noi sappiamo di averlo lasciato in
custodia ad Ayanna e a suo figlio.
Poi dice di udire il suo nome.
«Mia?», chiedo con un filo di voce,
ma lei scuote la testa. No.
«Chloe», mi ricorda, si posa una
mano sul lobo dell’orecchio e
sorride: ora tutto il suo corpo è in
pace, per la prima volta dopo tanto
tempo.
Ma il sorriso si spegne presto.
Colin
Vigilia di Natale
Mia madre diceva che ho un udito
finissimo, come un pipistrello, non
mi sfugge niente.
Non capisco cosa sia il rumore,
però mi fa balzare in piedi. Spengo
l’interruttore della luce e il capanno
piomba nell’oscurità. In camera da
letto, Chloe comincia ad agitarsi,
cerca di orientarsi al buio. Mi
chiama. Siccome non rispondo
subito, insiste. Adesso ha paura.
Scosto la tenda dalla finestra. È la
debole luce lunare a permettermi di
scorgere qualcosa. Ce ne saranno
quasi una decina, di auto della
polizia, e almeno il doppio di
agenti.
«Maledizione».
Lascio la tenda, mi affretto a
chiamarla.
«Chloe, Chloe». Lei salta su dal
letto, una scarica di adrenalina le
percorre il corpo mentre si risveglia
a fatica.
La strappo dal letto, portandola
verso la parte della stanza senza
finestre.
Piano piano diventa del tutto
cosciente. Mi afferra una mano, mi
conficca le unghie nella pelle. Sento
che trema. «Cosa succede?», chiede
con voce esitante. Le lacrime le
scendono dagli occhi. Sa cosa sta
andando storto.
«Sono arrivati», dico.
«Dannazione», geme. «Dobbiamo
scappare!». Scivola via da me e
corre verso il bagno. Immagina che
possiamo
squagliarcela
dalla
finestra, che sia possibile fuggire in
qualche modo.
«Non ce la faremo», dico. La
finestra è bloccata, non si aprirà
mai. Lei ci prova lo stesso. La
afferro per trascinarla via. Il mio
tono è calmo: «Non possiamo
fuggire da nessuna parte».
«Allora resisteremo», propone. Mi
passa davanti. Cerco di evitare le
finestre, anche se il buio all’interno
del capanno ci rende invisibili.
Lei piange, afferma di non voler
morire. Tento di spiegarle che sono
i poliziotti, i maledetti poliziotti, ma
non ascolta le mie parole.
Ripete all’infinito di non voler
morire. Lacrime copiose sulle sue
guance. Crede che sia Dalmar.
Non riesco a pensare con
chiarezza. Scruto dalla finestra, le
ripeto che non possiamo fuggire da
nessuna parte. Non è possibile
scamparla. Sono troppi. Non
funzionerà mai. Peggioreremmo
soltanto le cose.
Lei prende comunque la pistola
nel cassetto. Sa come usarla. La
prende, seppur con mani tremanti.
Inserisce il caricatore.
«Chloe», dico con tenerezza, la
mia voce è un sussurro. «Non
servirà a niente».
Lei mette il dito sul grilletto.
Regge l’arma con entrambe le
mani. La tiene stretta.
«È finita, Chloe».
«Per favore», implora. «Dobbiamo
combattere. Non possiamo lasciare
che finisca così». È frenetica, folle.
Isterica. Io sono stranamente
calmo.
Forse perché sapevo che prima o
poi saremmo giunti a questo punto.
Comunichiamo senza bisogno di
parole. La guardo negli occhi, pesti
e sconfitti. Piange, le cola il naso.
Non so quanto tempo trascorra.
Dieci secondi, o dieci minuti.
«Lo faccio da sola», dice, ormai
esasperata. È furibonda perché non
lo faccio io al posto suo. Vedo che
la pistola le trema nelle mani. Non
ci riesce. E se ci prova, finirà per
uccidersi. «Ma la tua mira…».
Non dice nulla. Interpreto la sua
espressione: sfiducia, disperazione.
«Non importa», esclama dopo un
po’. «Lo farò da sola».
Ma non glielo consento. «Va
bene», dico, e mi allungo per
toglierle l’arma di mano.
Non posso permettere che finisca
così. Non con lei che mi supplica di
salvarle la vita, e io che mi rifiuto di
farlo.
Le luci dei proiettori illuminano il
capanno. Ci accecano. Siamo
davanti
alla
finestra,
completamente esposti. Io ho la
pistola in mano. Ho lo sguardo
fermo, lei invece ha gli occhi
spalancati dalla paura. La luce la fa
sussultare e cadere su di me. Faccio
un passo in avanti per occultarla
alla vista. Alzo una mano per
coprire la luce.
La mano con l’arma.
Gabe
Vigilia di Natale
Mi chiama Hammill per dire che i
suoi uomini li hanno individuati.
«Cosa significa?», chiedo.
«Ci ha sentiti».
«Potete vedere bene?», chiedo.
«Sì, è sicuramente lui», replica. «È
Thatcher».
«Che nessuno spari», ordino. «Che
nessuno si muova finché non arrivo
io. Mi hai capito?». Lui risponde di
sì, ma so che dentro di sé non
gliene frega un cazzo. «Ho bisogno
di prenderlo vivo», aggiungo, però
adesso non mi sente. Ci sono
interferenze sulla linea, mi pare che
Hammill sia lontanissimo. Dice che
ha con sé i cecchini migliori.
Cecchini?
«Che nessuno spari», ripeto
all’infinito. Mettere le mani su
Thatcher per me sarebbe come
svolgere solo la metà del mio
compito, l’altra metà consiste nel
trovare chi lo ha ingaggiato.
«Evitate il fuoco. Di’ ai ragazzi di
non sparare».
Hammill è troppo impegnato ad
ascoltare il suono della propria
voce, non mi presta la minima
attenzione. Dice che è buio dentro il
capanno, anche se hanno i visori
notturni. Riescono a scorgere la
ragazza, che appare terribilmente
impaurita.
Dopo
una
pausa,
Hammill aggiunge: «Hanno una
pistola», e io sento un tuffo al
cuore.
«Che nessuno spari», ripeto
mentre comincio a vedere il
capanno, nascosto tra gli alberi.
Avranno parcheggiato una marea di
auto, lì davanti. Ci si può
meravigliare che Colin li abbia
sentiti?
«Ha la ragazza con sé».
Una piccola derapata sulla neve
mi induce a fermarmi, consapevole
che non è più possibile procedere.
«Sono qui!», urlo al telefonino.
Affondo i piedi nella neve sporca.
«Lui ha una pistola».
Abbandono il cellulare e continuo
a correre. Li vedo allineati dietro le
auto, tutti aspettano il primo sparo.
«Che nessuno spari», grido quando
il rumore sordo di un colpo mi
costringe ad arrestarmi di botto.
Eve
Dopo
Non sono sicura di quel che mi
aspettavo quando siamo tornati al
capanno.
All’aeroporto
avevo
elencato a Gabe tutte le prospettive
peggiori che potessi concepire: Mia
che non ricordava nulla, settimane
di psicoterapia vanificate, e la
definitiva perdita di autocontrollo
da parte sua.
La
guardiamo
tutti
mentre
perlustra l’interno della casupola,
una baracca in mezzo ai boschi del
Minnesota. Fa scorrere lo sguardo
su ogni cosa. Non ci vuole molto
prima che i ricordi la travolgano, e
mentre Gabe le chiede per
l’ennesima volta: «Mia, ricorda
qualcosa?», capiamo di dover fare
attenzione alle domande che le
poniamo.
Il suono che sento uscire dalla
bocca di mia figlia non l’avevo mai
udito prima, sembra analogo a
quello degli animali agonizzanti. Lei
cade in ginocchio in mezzo alla
stanza.
Urla,
emette
versi
incomprensibili. Singhiozza, scoppia
in un pianto dirotto e selvaggio di
cui non la credevo capace, e a quel
punto mi metto a gemere anch’io.
«Mia,
tesoro»,
mormoro,
desiderando
solo
di
poterla
abbracciare.
La dottoressa Rhodes mi consiglia
invece di essere prudente. Mi
trattiene
con
una
mano,
impedendomi di consolarla. Gabe si
avvicina e ci dice piano che in quel
punto del pavimento, dove si è
chinata
Mia
in
preda
alle
convulsioni, era stato trovato, meno
di un mese prima, un corpo
insanguinato.
Coi suoi begli occhi azzurri, Mia si
rivolge angosciata all’ispettore e lo
investe: «L’ha ucciso, l’ha ucciso
lei», non la smette di ripeterlo.
Piange, delira, è isterica, afferma di
vedere il sangue che sgorga a fiotti
dal corpo e penetra nelle fessure
del pavimento. Rivede il gatto che
fugge, lasciando tracce delle sue
impronte insanguinate in tutta la
stanza.
Sente il colpo che spezza il
silenzio della stanza, e sussulta.
Rivive quel momento fatidico,
percepisce il rumore dei vetri
infranti a terra.
Dice che lo vede cadere. Vede il
suo corpo diventare flaccido e
cadere a terra. Ricorda i suoi occhi
spenti, il suo corpo disteso in modo
innaturale, sghembo. Lei aveva il
sangue sulle mani e sui vestiti. «C’è
sangue dappertutto», singhiozza
disperata, toccando il pavimento.
La Rhodes sostiene che si tratta di
un episodio di psicosi. Scosto la
dottoressa per andare a consolare
mia figlia. Quando sono quasi su di
lei, Gabe mi abbraccia per
fermarmi.
«Dappertutto.
Sangue
rosso
ovunque.
Svegliati!».
Mia
schiaffeggia il pavimento e poi
raccoglie le ginocchia al petto,
cominciando
a
dondolarsi
furiosamente. «Svegliati! Dio mio,
per favore. Non lasciarmi».
Gabe
Vigilia di Natale
Non sono il primo a entrare nel
capanno. Localizzo il faccione di
Hammill tra la folla. Lo prendo per il
bavero e gli chiedo cosa cazzo è
successo. Normalmente potrebbe
prendermi a calci in culo, se
volesse. Ma questo non è un giorno
come gli altri, oggi sono un ossesso.
«Stava per ucciderla».
Dichiara che Thatcher non gli
aveva lasciato scelta.
«Questo lo dici tu».
«Sei fuori della tua giurisdizione,
coglione!».
Un agente di diciotto o diciannove
anni, con l’aria di chi vuole fare
carriera, esce dal capanno e dice:
«Quel bastardo è morto», e
Hammill alza il pollice in segno di
assenso.
Qualcuno
applaude,
dev’essere
il
cecchino,
un
giovanotto troppo stupido per
riflettere. Mi ricordo di quando
avevo vent’anni, l’unica cosa che mi
interessava era mettere le mani su
un’arma. Oggi il pensiero di usarla
mi spaventa a morte.
«Che problema c’è, Hoffman?»
«Lo volevo vivo».
Stanno tutti entrando nella
casupola. Un’ambulanza si fa strada
fra la neve, le sirene ululano,
osservo le luci rosse e azzurre
alternarsi nel buio della notte. Gli
infermieri si affannano, scaricano
una barella e faticano a farla
procedere sulla neve.
Hammill segue i suoi agenti
all’interno. Si fiondano sui gradini e
varcano la porta. I proiettori
illuminano
l’ambiente,
finché
qualcuno non è tanto saggio da
accendere la luce. Trattengo il
respiro.
Non ho mai incontrato Mia
Dennett. Dubito che lei abbia mai
sentito il mio nome. Non sa
assolutamente che, da tre mesi,
l’unico pensiero che ho è per la sua
situazione, che è sua la faccia che
vedo tutte le mattine quando mi
sveglio e tutte le sere quando mi
metto a dormire.
Mia esce dal capanno scortata da
Hammill, che la stringe talmente
forte
da
farla
sembrare
ammanettata. È coperta di sangue:
mani e vestiti, perfino sui capelli. Le
ciocche bionde sono screziate di
rosso. È pallida, cadaverica per lo
spavento, livida sotto l’odiosa luce
del proiettore, che nessuno ha
avuto la grazia di spegnere. È un
fantasma, uno spettro, l’espressione
del suo volto è vuota. La luce è
accesa, ma dentro non c’è nessuno.
Le si ghiacciano le lacrime sulle
guance mentre scende i gradini e
Hammill la lascia libera di reggersi
da sola.
«Prima me ne occupo io», dice
allontanandola da me. Gli occhi di
lei mi guardano di sfuggita. Io ci
vedo Eve trent’anni fa, prima di
James Dennett, di Grace e di lei,
prima di me.
Figlio di puttana.
Se non temessi di spaventare Mia,
lo prenderei a calci nel sedere. Non
mi piace il modo in cui la tocca.
Dentro il capanno vedo il corpo di
Colin Thatcher disteso in modo
scomposto. Un paio di volte,
quando ero agente della stradale,
avevo dovuto estrarre un cadavere
da un’auto incidentata. Non è
possibile descriverlo. La sensazione
della carne morta: il freddo e la
rigidità nel momento in cui l’anima
se ne va. Gli occhi, aperti o chiusi,
senza vita. Quelli di Colin sono
aperti. La sua carne è fredda. Mai
visto tanto sangue. Gli abbasso le
palpebre e dico: «Piacere di
incontrarti,
finalmente,
Colin
Thatcher».
Penso a Kathryn, sua madre, in
quello schifoso ricovero per anziani.
Immagino l’espressione del suo viso
segnato dalla malattia quando le
darò la notizia.
I colleghi di Hammill si stanno già
attivando: fotografie della scena del
crimine, impronte digitali, raccolta
delle prove.
Non so cosa pensare di questo
posto. Un locale inadatto a viverci,
come minimo. C’è puzza. Non so
cosa
mi
aspettassi.
Uno
schiacciatesta
o
uno
spaccaginocchia
da
torture
medievali? Catene e mazzafrusto?
O le manette, se non altro? Ciò che
vedo è un locale brutto, con un
fottuto albero di Natale. Il mio
appartamento è comunque peggio.
«Guarda qui», dice qualcuno
facendo cadere a terra un parka. Mi
accosto coi crampi alle gambe.
Sulla formica hanno inciso le parole
SIAMO STATI QUI. «Cosa ne deduci?».
Faccio scorrere le dita sulla scritta.
«Non so».
Hammill entra nel capanno. La
sua voce è così forte da resuscitare
i morti. «È tutta per te», mi dice
mentre assesta un calcio a
Thatcher, non si sa mai.
«Cosa dice?», chiedo per amor di
conversazione. Non me ne frega
niente di quel che ha detto a lui.
«Sbrigatela da solo», sbraita. Nel
suo tono c’è qualcosa che suscita il
mio interesse. Ostenta il suo sorriso
arrogante (so qualcosa che tu non
sai) e aggiunge: «È buono».
Mi chino su Thatcher per dargli
un’ultima occhiata. Giace senza vita
sul pavimento di legno, non ci sono
dubbi. «Che cosa hai fatto?», chiedo
piano, poi mi precipito fuori.
Lei è seduta nell’ambulanza,
un’infermiera se ne sta occupando.
Le hanno messo sulle spalle una
coperta di lana. Vogliono assicurarsi
che nessuna goccia di tutto quel
sangue sia sua. Adesso l’ambulanza
ha smesso di ululare, luci e sirene
sono spente. Però c’è il rumore
delle persone che parlano, qualcuno
ride.
Mi avvicino. Lei guarda nel vuoto,
lascia che l’infermiere la visiti,
sebbene rabbrividisca ogni volta
che viene sfiorata.
«È freddo qui fuori», dico per
attirare la sua attenzione. Ha i
capelli che le coprono il volto,
occultandole
la
visuale.
Ha
un’espressione ineffabile, non riesco
a decifrarla. Del sangue secco (o
congelato?) le inzacchera la pelle. Il
muco le cola dal naso. Prendo dalla
tasca un fazzoletto e glielo metto in
mano.
Non mi sono mai preoccupato
tanto per una persona che non
conosco.
«Dev’essere sfinita, questa è stata
un’odissea. La riporteremo a casa.
Presto, glielo prometto. Conosco
qualcuno che non vede l’ora di
sentire la sua voce. Io sono
l’ispettore
Gabe
Hoffman,
la
stavamo cercando da tempo».
Mi è impossibile credere che è la
prima volta che ci vediamo. Mi pare
di conoscerla meglio della metà dei
miei amici.
Alza gli occhi e mi guarda per
mezzo secondo, poi si accorge del
sacco vuoto di plastica per cadaveri
che stanno prendendo. «Non ha
bisogno di guardare», dico.
Ma il problema non è il sacco in
sé. È lo spazio. Lei ha lo sguardo
perso nel vuoto. L’ambiente pullula
di persone che vanno e vengono.
Perlopiù sono uomini, c’è solo una
donna. Parlano dei progetti per il
Natale: la messa e la cena coi
parenti acquisiti, il dover rimanere
alzati fino a tardi per aspettare
l’arrivo del giocattolo che la moglie
ha comprato online. Tutte cose che
vanno fatte.
In qualsiasi altro caso mi sarei
congratulato («dammi il cinque!»)
per il lavoro portato a termine, ma
questo non è un caso qualunque.
«L’ispettore Hammill le ha fatto
alcune domande. Anch’io ne avrei
qualcuna, ma posso aspettare. So
che non è stato facile… per lei». Mi
viene in mente di accarezzarle i
capelli o darle una pacca su una
mano, di fare un gesto semplice per
riportarla in vita. Ha lo sguardo
perso. Appoggia la testa sulle
ginocchia piegate, non profferisce
parola. Non piange. Ma questo non
mi sorprende, visto che è sotto
shock. «So che per lei è stato un
incubo. Anche per la sua famiglia.
Tante persone si sono preoccupate.
La riporteremo a casa in tempo per
il Natale. Lo prometto», dico. «Ce la
riporterò io direttamente». Non
appena
me
ne
daranno
l’autorizzazione, io e Mia faremo il
lungo viaggio in auto fino a casa,
dove Eve l’aspetterà a braccia
aperte, davanti alla porta. Prima
però
dovremo
fermarci
nell’ospedale più vicino per un
esame completo. Spero che nessun
giornalista sia stato avvisato, di non
vedere l’assembramento dei cronisti
nel parcheggio dell’ospedale, coi
loro microfoni e le videocamere, e
la raffica di domande.
Lei non apre bocca.
Penso di chiamare Eve al cellulare
e di lasciare che sia la stessa Mia a
comunicarle la buona notizia. Mi
caccio le mani in tasca, ma dov’è il
mio telefonino? Maledizione, troppe
cose contemporaneamente. Lei non
è pronta, però Eve sta sulle spine,
attende mie notizie. Presto.
«Cos’è
successo?»,
chiede
finalmente con voce flebile Mia.
È ovvio, penso. È successo tutto
così in fretta. Cerca di dare un
senso al tutto, se ci riesce.
«Lo hanno beccato», dico. «È
tutto finito».
«Tutto finito». Le parole escono di
bocca pesanti e scivolano sulla
neve.
Si guarda attorno. Osserva tutto
come se fosse la prima volta. Forse
è la prima volta che esce dal
capanno?
«Dove sono?», sussurra.
Scambio
un’occhiata
con
l’infermiera, che si stringe nelle
spa lle. Be’, penso, questo è più
affar suo che mio. «Mia», ritento.
La seconda volta che pronuncio il
suo nome, mi appare stordita. Lo
ripeto per la terza volta, perché non
mi vengono altre parole. Cos’è
accaduto? Dove sono? Queste
erano le domande che pensavo di
porre io a lei.
«Non mi chiamo così», dice a
bassa voce.
L’infermiera mette via i suoi
strumenti. Vuole che la controlli un
medico, anche se per il momento la
trova in buono stato. Ci sono segni
di malnutrizione, ferite in corso di
guarigione, ma niente che sia un
rischio vitale immediato.
Deglutisco. «È il suo nome, lei si
chiama Mia Dennett. Non ricorda?»
«No». Scuote la testa. Il fatto non
è che non ricordi, ma che è certa
che mi sbagli. Mi si avvicina, come
se volesse rivelarmi un segreto: «Mi
chiamo Chloe».
L’ispettore Hammill ci passa
davanti e pronuncia una frase
odiosa: «Te l’avevo detto che era
buono». Sogghigna mentre abbaia
ordini
ai
suoi
sottoposti:
«Sbrigatevi, così finiamo in tempo».
Gabe
Dopo
Alloggiamo in un albergo di Grand
Marais, una specie di locanda
tradizionale sul Lago Superiore,
sulla cui insegna vistosa si vantano
di offrire gratis la colazione
continentale. Non c’è volo di ritorno
fino alla mattina seguente.
La dottoressa Rhodes ha dato a
Mia un sedativo che l’ha messa al
tappeto. La porto io nel letto
matrimoniale della stanza che
divide con Eve. Noi rimaniamo nella
hall a parlare un po’.
Eve è un fascio di nervi. Sapeva
che era un errore farlo. Si spinge
quasi a darmi la colpa, riuscendo a
fermarsi in tempo. «Prima o poi la
cosa sarebbe affiorata», decide
infine, sebbene io non sappia dire
se ci creda davvero o se voglia
tranquillizzarmi.
Più tardi le spiegherò come stanno
le cose, cioè che non era stato Colin
Thatcher a ideare il sequestro di
Mia. C’è qualcuno, ancora in libertà,
che la sta cercando, per cui occorre
che sua figlia sia lucida il più
possibile al fine di rintracciare
questa persona. Colin dovrebbe
avergliene parlato, averle spiegato
l’intera questione.
Eve è addossata alla parete della
hall con carta da parati color
pastello. La dottoressa si è
cambiata, adesso indossa un paio di
pantaloni comodi e le pantofole. Si
è raccolta i capelli in un severo
chignon che le scopre la fronte alta.
È in piedi, tiene le braccia conserte
e dice: «La definizione esatta è
sindrome di Stoccolma, capita
quando le vittime si affezionano ai
sequestratori. Si legano a loro
durante la prigionia e, alla fine, li
difendono e hanno paura della
polizia che viene a liberarle. Non è
affatto insolito. La casistica è
ampia. Anche nelle situazioni di
abusi domestici, di minori violentati,
di incesti. Sono sicuro che le è
successo spesso, ispettore: una
donna chiama in centrale per dire
che il marito la picchia, ma quando
arrivano gli agenti lei se la prende
con loro e difende il coniuge.
Affinché si sviluppi la sindrome di
Stoccolma, bisogna che vi siano
alcuni prerequisiti. Mia doveva
sentirsi
minacciata
dal
suo
aggressore,
come
in
effetti
sappiamo che era. Avrebbe dovuto
sentirsi isolata dagli altri, ma non
da lui. Anche questo è appurato.
Doveva
ritenersi
incapace
di
sfuggire alla situazione, e questo va
da sé. Infine, occorreva che
Thatcher le avesse dimostrato un
minimo di umanità, per esempio…».
«Non lasciarla morire di fame»,
provo a ipotizzare.
«Esatto».
«Darle dei vestiti, proteggerla dal
freddo»,
potrei
continuare
all’infinito. Per me è sensato.
Ma non per Eve. Aspetta che la
Rhodes si congedi e vada in camera
sua per la notte, dopodiché dice
quello che pensa: «Lo amava», col
tono della madre che ha intuito
tutto.
«Eve, io ritengo che…».
«Lo amava».
Non l’ho mai vista così sicura di
sé. Si ferma sulla soglia della
camera per osservare Mia mentre
dorme. La guarda come se fosse la
sua nuova bambina da proteggere.
Si infila nel letto matrimoniale,
vicino a Mia. Io dormo nell’altro
letto matrimoniale, sebbene abbia
una stanza tutta per me. È stata
Eve a pregarmi di rimanere.
Chi sono io per metterlo in
discussione?, penso mentre scivolo
tra le lenzuola. Non so niente
dell’amore e dell’innamoramento.
Nessuno di noi due prende sonno.
«Non
sono
stato
io
ad
ammazzarlo», ripeto a Eve, ma
conta poco, perché qualcuno l’ha
fatto.
Eve
Dopo
Mia appare smarrita durante
l’intero volo di ritorno. Ha scelto il
posto vicino all’oblò e appoggia la
fronte al vetro freddo. Se tentiamo
di rivolgerle la parola, non reagisce,
ogni tanto la sento piangere. Vedo
le lacrime che scendono sulle sue
guance e le cadono sulle mani.
Provo a consolarla ma mi respinge.
Una volta sono stata innamorata:
era talmente tanto tempo fa che
non me lo ricordo. Ero rapita
dall’uomo affascinante che avevo
conosciuto in un ristorante in città,
mi seduceva al punto che mi pareva
di camminare a un metro da terra.
Adesso quell’uomo non c’è più, ciò
che resta fra di noi sono le
recriminazioni e i sentimenti feriti.
Non me lo hanno tolto, sono io che
me ne sono distaccata, tanto da
non riuscire più a vedere il suo volto
giovanile
o
il
suo
sorriso
affascinante. Eppure, fa ancora
male.
La dottoressa Rhodes si congeda
da noi all’aeroporto. Vuole rivedere
Mia domattina. Abbiamo deciso di
aumentare le sedute a due volte la
settimana. Il disturbo acuto da
stress è una cosa, la sofferenza
un’altra.
«È troppo da sopportare, per una
persona», mi dice la psichiatra,
mentre ci sporgiamo a guardare Mia
che lascia scivolare una mano sulla
pancia. Il nascituro non è più un
peso, bensì l’ultima traccia di lui,
qualcosa a cui aggrapparsi.
Penso a cosa le sarebbe successo
se avesse abortito. Forse sarebbe
davvero impazzita definitivamente.
Recuperiamo l’auto di Gabe nel
parcheggio. Si è offerto di
accompagnarci a casa. Tenta
goffamente di prenderci tutte le
valigie, non vuole che io mi sforzi.
Mia cammina più velocemente di
noi e fatichiamo a tenere il suo
passo. Lo fa per non vedere il
disagio sulla mia faccia o per non
guardare negli occhi l’uomo che
ritiene abbia ucciso il suo amore.
Per l’intero tragitto resta in
silenzio sul sedile posteriore.
Gabe le chiede se ha fame, ma lei
non risponde nemmeno.
Le domando se è abbastanza
caldo, e mi ignora.
Il traffico non è eccessivo. È una
domenica molto fredda, di quelle in
cui si preferisce rimanere a letto. La
radio è accesa, col volume basso.
Mia si distende sul sedile e dopo un
po’ si addormenta. Noto che i
capelli scompigliati le coprono le
guance rosee, ancora intirizzite per
l’aria invernale. Le palpebre si
muovono, le immagini le riempiono
la mente mentre il corpo dorme.
Cerco di dare un senso al tutto:
com’è possibile che una come Mia si
sia innamorata di uno come Colin?
Poi il mio sguardo si posa
sull’uomo che è di fianco a me, uno
talmente diverso da James da
rendere comica la situazione.
«Lo lascio», rendo ufficiale la
notizia, senza mai distogliere gli
occhi dalla strada davanti a noi.
Gabe tace, ma quando posa la
mano sulla mia, dice tutto quel che
c’è bisogno di dire.
Ci fa scendere davanti al portone,
vorrebbe aiutarci a portar su le
cose, però glielo risparmio, lo
rassicuro che possiamo farcela.
Mia comincia a entrare. La
osserviamo in silenzio. Gabe dice
che
tornerà
domattina.
Con
qualcosa per lei.
Appena il pesante portone si
chiude e lei non ci può più vedere,
Gabe vuole baciarmi, ignorando
bellamente i pendolari che tornano
a casa lungo i marciapiedi e i taxi
che
sfrecciano
sulla
strada
trafficata. Lo fermo con le mani sul
suo petto. «Non posso», dico. Fa
più male a me che a lui, lo vedo che
mi studia per ottenere una
spiegazione, se ne chiede la
ragione coi suoi occhi teneri, poi
comincia ad annuire piano. Non è
una cosa contro di lui, però è ora
che stabilisca le mie priorità. Sono
sballate da troppo tempo.
Mia mi racconta il rumore del
vetro infranto. Di quando lo aveva
visto boccheggiare per prendere
fiato. Sangue dappertutto, mentre
lui annaspava e lei non poteva far
altro che guardarlo cadere.
Si sveglia nel suo letto, strilla. Non
faccio in tempo a entrare nella
stanza che cade sul pavimento, si
getta su qualcuno che non è lì.
Mormora il suo nome: «Per favore,
non lasciarmi», dice e poi va a
rigirare le coperte e il materasso, lo
cerca ovunque. Butta all’aria le
lenzuola, le strappa. «Owen», grida
disperata. Poi mi sposta dalla soglia
da cui osservavo la scena straziante
e fa appena in tempo ad arrivare in
bagno per vomitare.
Tutti i giorni questa storia.
Certe volte la nausea mattutina
non è così forte. Ma allora, sostiene
Mia, è ancora peggio, perché
quando non si preoccupa per questo
costante malessere le viene in
mente che Owen è morto.
Rimango a osservarla. «Mia»,
dico. Farei di tutto per guarirla dal
dolore, però non c’è niente che si
possa fare.
Quando è pronta, mi racconta gli
ultimi momenti dentro al capanno,
gli spari che sembravano fuochi
artificiali, la finestra infranta, i vetri
a terra, l’aria invernale che
penetrava. «Il rumore mi aveva
terrorizzato, i miei occhi saettavano
verso l’esterno, poi udii Owen
rantolare. Ansimava il mio nome:
“Chloe”. Faticava a respirare, le
gambe cominciarono a cedere. Non
sapevo cosa fosse accaduto»,
piange, scuote il capo, rivive quel
momento, anche se mentalmente lo
rivivrà centinaia di volte al giorno.
Le metto una mano sulla gamba
per fermarla. Non c’è bisogno di
raccontare altro, ma lei prosegue.
Lo fa perché ne sente l’impulso,
perché la sua mente non riesce più
a
trattenere
le
scene
che
riaffiorano. Erano rimaste sopite e
adesso riemergono come lava da un
vulcano.
«Owen?», sbotta ad alta voce,
intrappolata in un momento avulso
dal presente. «La pistola gli cadde
con un tonfo sul pavimento.
Tendeva le mani verso di me. C’era
sangue ovunque. Gli avevano
sparato. Cercai di sostenerlo, il suo
peso era enorme. Crollò a terra.
Caddi su di lui. “Owen, mio Dio,
Owen!”», singhiozza.
Dice che in quell’attimo ha visto la
costa frastagliata della riviera
ligure. Proprio in quel momento. Le
barche che veleggiano lente al
largo del Mar Ligure, le cime aguzze
delle Alpi marittime e degli
Appennini. Vedeva un rustico di
pietra tra le colline, dove loro due
faticavano nel verde lussureggiante
delle campagne, fino a spezzarsi la
schiena. Lei e l’uomo noto col nome
di Owen. Immaginava che non
fossero più in fuga. Erano a casa.
Alla fine, aveva visto dei bambini
correre nell’erba alta, o tra i filari.
Avevano occhi e capelli scuri come
quelli di lui, e infilavano parole
italiane (bambino, allegro, vero
amore) in un inglese sempre più
lontano.
Mi racconta di come gli sgorgava il
sangue. Di come si spargeva sul
pavimento, del gatto che correva
per la stanza, delle sue zampette
che lasciavano impronte rosse a
terra. E i suoi occhi guizzano di
nuovo nella camera, come se
accadesse qui, adesso, sebbene il
gatto
resti
appollaiato
sul
davanzale della finestra, simile a
una statua di porcellana.
Dice che il suo respiro era lento,
sempre più affaticato. Il sangue
continuava a spandersi a terra. «Poi
gli occhi rimasero fissi, il petto
immobile. “Sveglia, sveglia”, lo
scuotevo. “Dio mio, svegliati, per
favore. Non lasciarmi, te ne
prego”», singhiozza tra le lenzuola.
Dice che lui aveva smesso di
muovere le gambe proprio mentre
spalancavano la porta del capanno.
C’era stata una luce accecante e
una voce rude che le ordinava di
allontanarsi dal cadavere.
«Per favore, non lasciarmi»,
piange.
Ogni mattina si sveglia urlando il
suo nome.
Dorme in camera da letto. Io
srotolo il futon e mi corico nel
soggiorno. Non vuole aprire le
tende, non accetta che il mondo
entri lì. Le piace restare al buio,
così
può
credere
che
sia
continuamente
notte,
per
ventiquattr’ore, e cedere alla
depressione. Riesco a malapena a
darle qualcosa da mangiare. «Se
non lo fai per te», tento, «fallo
almeno per il bambino che
nascerà». Dice che è l’unico motivo
per cui continua a vivere.
Mi confida che non ce la fa ad
andare avanti. Non lo ammette
quando è lucida, ma quando
singhiozza,
travolta
dalla
disperazione. Pensa alla morte, alle
maniere che avrebbe per uccidersi.
Me le elenca tutte. Io mi riprometto
di non lasciarla mai da sola.
Il lunedì mattina Gabe arriva con
uno scatolone di cose prese dal
capanno. Le aveva trattenute come
reperti della scena del crimine.
«Volevo restituirle alla madre di
Colin», dice, «ma poi ho pensato
che
forse
lei
voleva
darci
un’occhiata».
Sperava in una tregua. Ha
ottenuto da Mia soltanto uno
sguardo di rimprovero, e la solita
invocazione («Owen») fra i denti.
Quando riesco a trascinarla fuori
dalla camera da letto, si siede
davanti alla televisione con sguardo
assente. Devo prestare attenzione
a quel che segue. I telegiornali la
sconvolgono, specie quando parlano
di morte, omicidi, pregiudicati.
Le dico che non è stato Gabe a
sparare a Owen, e lei commenta
che non è importante. Non significa
niente, è morto. Non è che detesti
Gabe per questo, è che non sente
niente. La sua anima è solo un
immenso vuoto. Io giustifico quel
che lui ha fatto, che tutti noi
abbiamo fatto. Cerco di convincerla
che la polizia è intervenuta per
proteggerla. Che avevano trovato
un pregiudicato armato e la sua
vittima.
Più che altro, Mia incolpa se
stessa. Dice che è stata lei a
mettergli la pistola in mano. Di
notte piange a dirotto, chiede
scusa. La dottoressa Rhodes le
spiega quali sono le fasi del dolore
e della sofferenza: rifiuto e rabbia.
Un bel giorno, le assicura,
interverrà
l’accettazione
della
perdita.
Ha aperto lo scatolone portato da
Gabe e ha tirato fuori una felpa col
cappuccio. Se l’è messa sulla faccia,
ha chiuso gli occhi e odorato il
tessuto. Era evidente che volesse
tenerla. «Mia, tesoro», le ho detto,
«lascia che la lavi». Puzzava
terribilmente, ma lei non ha lasciato
che gliela togliessi di mano.
«Non farlo», insisteva.
Dorme tutte le notti con quella
felpa, finge che siano le braccia di
Owen a coccolarla.
Lo vede dappertutto: in sogno, e
anche quando è sveglia. Ieri ho
insistito per andare a fare una
passeggiata. Per essere gennaio,
era una giornata accettabile.
Avevamo bisogno di aria fresca.
Eravamo
rinchiuse
nell’appartamento da diversi giorni.
Lo avevo ripulito, avevo scrostato la
vasca da bagno che nessuno usava
da mesi. Avevo potato le piantine
con le forbici dentellate, buttando le
foglie morte nel bidone della
spazzatura. Ayanna ci aveva
procurato
alcune
cose
al
supermercato: latte, succo d’arancia
e fiori freschi, su mia richiesta
specifica; volevo qualcosa per
ricordare a Mia che la vita continua.
Ieri si è infagottata in una grande
giacca presa dallo stesso scatolone
confiscato da Gabe, e siamo uscite.
In fondo alle scale, si è fermata a
fissare un luogo immaginario,
dall’altra parte della strada. Non so
per quanto sia rimasta incantata
così, poi l’ho presa per un braccio e
le ho detto: «Camminiamo un po’».
Non riuscivo a capire cosa stesse
osservando, non c’era niente di
particolare, solo un palazzo a
quattro piani coi ponteggi dei
muratori.
A Chicago, l’inverno è rigido. Ma
ogni tanto il buon Dio ci regala
qualche grado sopra lo zero, forse
per rammentarci che le disgrazie
vanno e vengono. Saremo stati sui
tre gradi, così ci siamo avventurate
fuori, era una di quelle giornate in
cui i più temerari vanno a correre in
pantaloncini corti e magliette di
cotone
a
mezze
maniche,
dimenticando che, in ottobre,
eravamo atterriti da temperature
simili.
Siamo rimaste nei quartieri
residenziali, perché pensavo che ci
sarebbe stato meno chiasso. Poco
distante, si sentiva il rumore della
città a mezzogiorno. Lei trascinava i
piedi. Girato l’angolo per Waveland,
è andata a sbattere contro un
giovanotto. Forse avrei potuto
evitarlo, se non mi fossi fermata ad
ammirare una decorazione natalizia
ancora appesa a una balconata,
mezzo nascosta tra i cumuli di neve
sporca, quasi sciolti, che mi hanno
fatto presentire la primavera. Il
giovanotto era carino e aveva un
cappellino da baseball con la visiera
sugli occhi. Mia era distratta. Si è
piegata in due dal pianto.
Lui non riusciva a capirne il
motivo. «Mi dispiace», ripeteva, e io
gli ho detto di non preoccuparsi.
Era lo stesso cappellino che Mia
aveva ritrovato nello scatolone, e
che tiene sul letto.
Il dolore e le nausee mattutine la
fanno correre in bagno tre, quattro
volte al giorno.
Gabe è venuto questo pomeriggio,
deciso più che mai a chiarire le
cose. Fino a
oggi
si
era
accontentato di brevi visite, al solo
scopo di riconciliarsi. Però mi
ricorda che la minaccia ai danni di
Mia è ancora in atto e che la scorta
dei
poliziotti
con
le
auto
parcheggiate
fuori
del
suo
appartamento non può essere
eterna. Si è messo a sedere con lei
sul futon.
«Mi parli di sua madre», dice Mia.
Questo si chiama compromesso.
L’appartamento
misura
circa
quaranta metri quadrati. C’è il
soggiorno con il futon e un piccolo
televisore; lei lo tira fuori quando
deve ospitare qualcuno. Ho pulito il
bagno diverse volte ma ancora non
mi sembra a posto. Ogni volta che
faccio la doccia, la vasca si riempie
d’acqua. La cucina è minuscola, ci
sta appena una persona. Il
radiatore capita che non riscaldi
affatto la stanza, oppure che porti
la temperatura ai 30 gradi.
Pranziamo sul futon, che non
riponiamo quasi mai, perché poi lo
uso di notte come giaciglio.
«Kathryn», replica Gabe. Se ne sta
seduto goffamente sul bordo del
futon. Sono giorni ormai che Mia mi
chiede della madre di Colin. Non
sapevo cosa dire, tranne che Gabe
ne avrebbe saputo più di me. Non
ho mai conosciuto la signora
Thatcher, anche se fra pochi mesi
avremo entrambe un nipote. «È una
donna malata», dice. «Ha il
Parkison in fase avanzata».
Mi eclisso in cucina, fingendo di
lavare i piatti.
«Lo so».
«Adesso viene curata. Vive in un
ospizio, non può badare a se stessa
da sola».
Mia gli domanda chi l’ha portata
all’ospizio. Per quel che ne sapeva
Colin (Owen), la madre si trovava
ancora nella propria casa.
«Ce l’ho portata io».
«Ce l’ha portata lei?», ripete.
«Sì», confessa Gabe. «La signora
aveva bisogno di cure continue».
Questa, per lei, è una nota di
merito.
«Lui se ne preoccupava molto».
«Ne aveva ben donde. Ma adesso
sta bene», la rassicura l’ispettore.
«L’ho accompagnata io al funerale».
Fa una pausa per darle il tempo di
digerire la cosa. Gabe mi aveva
raccontato delle esequie. Pochi
giorni dopo il ritorno di Mia a casa.
Noi eravamo occupati con la
dottoressa Rhodes, e avevamo
scoperto che il rumore del
frigorifero spaventava a morte la
nostra bambina. Gabe aveva
ritagliato il necrologio da un
giornale di Gary e me l’aveva
portato. Mi aveva consegnato anche
il programma della cerimonia
funebre, con quella foto lucida in
bella vista, un bianco e nero su
fondo di cartoncino avorio. Allora
ero arrabbiata per il fatto che Colin
Thatcher ricevesse una sepoltura
con tutti i crismi. Avevo gettato il
programma nel fuoco del camino,
osservando il suo volto andare in
fiamme. Speravo che succedesse la
stessa cosa a quell’uomo tra le
fiamme dell’inferno.
Smetto per un momento quello
che sto facendo e aspetto di sentire
il pianto di Mia, che però non arriva.
Lei tace.
«È andato al funerale?»
«Sì. È stato dignitoso, come
dev’essere».
L’immagine di Gabe ne guadagna
enormemente. Sento che il tono di
Mia cambia, che non trasuda più
disprezzo per lui. Si addolcisce, non
ha più un atteggiamento diffidente.
Io invece resto in cucina con un
piatto di ceramica in mano,
immagino Colin bruciare all’inferno
e desidero disperatamente poter
ritrattare quel mio desiderio.
«E la bara era…».
«Chiusa. Ma c’erano le fotografie.
E un sacco di gente. In tanti lo
amavano, più di quanto si
immagini».
«Lo so», sussurra.
Silenzio. Più di quel che riesco a
sopportare. Mi asciugo le mani sui
pantaloni. Quando ficco il naso nel
soggiorno, vedo che Gabe siede
molto vicino a Mia, la quale ha
appoggiato la testa sulla sua spalla.
Lui la cinge con un braccio, lei
piange.
Vorrei intromettermi, essere io
quella che offre la spalla a Mia, ma
non oso.
«Ora la signora Thatcher vive con
la sorella, Valerie. Segue le cure e
riesce a gestire meglio la malattia».
Vado a nascondermi in cucina,
fingo di non ascoltare.
«L’ultima volta che l’ho vista»,
afferma Gabe, «c’era… speranza».
Poi la esorta: «Mi dica come è finita
in quel capanno».
Lei dice che queste sono le cose
più facili da spiegare.
Trattengo il respiro. Non so se ho
voglia di sentire il racconto. Mia gli
dice quel che sa, che lui era stato
ingaggiato per rapirla e consegnarla
a un uomo di cui non sapeva
niente. Però lui non ce l’aveva fatta,
quindi l’aveva portata in un posto
dove riteneva che sarebbero stati al
sicuro. Io sospiro. Lui l’aveva
portata in un posto dove lei sarebbe
stata al sicuro. Tutto sommato,
forse, non era pazzo.
Mia dice qualcosa a proposito del
riscatto. Una cosa che ha a che
vedere con James.
Rientro in soggiorno, dove posso
ascoltare bene. Nel sentire il nome
di James, Gabe si alza concitato dal
futon e comincia a misurare la
stanza a lunghi passi. «Lo sapevo»,
ripete diverse volte. Guardo mia
figlia seduta sul futon e penso che,
una volta, suo padre era in grado di
proteggerla.
Esco
dall’appartamento, cerco sollievo
nella fredda giornata invernale.
Gabe mi vede andarmene, sa che
non può consolarci entrambe allo
stesso tempo.
La sera, quando lei si corica, la
sento rigirarsi varie volte. Piange e
invoca il suo nome. Resto fuori della
sua stanza, vorrei far sparire tutto,
ma so di non poterlo fare. Gabe
dice che non c’è niente che posso
fare. «Resta lì con lei», mi ripete.
Mia
afferma
che
potrebbe
affogarsi nella vasca da bagno.
Tagliarsi le vene con un coltello.
Oppure mettere la testa nel forno.
Buttarsi
nella
tromba
dell’ascensore.
Gettarsi
sui
binari
della
metropolitana, di notte.
Gabe
Dopo
Mi procuro un mandato per
perquisire l’ufficio del giudice
Dennett. Lui è fuori di sé. Mi
accompagna il sergente, che cerca
di appianare il diverbio, ma James
se ne sbatte, e lui dice che se
restiamo
a
mani
vuote, ci
ritroveremo entrambi disoccupati.
Eppure non restiamo a mani
vuote. Negli archivi personali del
giudice, chiusi a chiave, scopriamo
tre lettere minatorie, con richieste
di riscatto. Nelle lettere, gli autori
affermano di avere Mia nelle loro
mani; per la sua liberazione,
vogliono una vagonata di soldi,
altrimenti divulgheranno a tutto il
mondo che nel 2001 Dennett aveva
accettato una mazzetta di 350.000
dollari per emettere una sentenza
favorevole in un caso di mafia. Un
ricatto.
Ci metto un po’ di tempo
(interrogatori e indagini varie), ma
alla fine riusciamo a identificare gli
artefici di questa richiesta fallita di
riscatto, fra cui Dalmar Osoma, il
somalo
a
capo
del
piano.
Approntiamo una squadra speciale
per rintracciarlo.
Mi darei una pacca sulla spalla per
complimentarmi, se ci arrivassi.
Lascio che lo faccia il sergente.
Per quanto attiene al giudice
Dennett, è lui a ritrovarsi senza
lavoro. Lo hanno radiato dall’albo.
Comunque, questa è l’ultima delle
sue preoccupazioni. Mentre aspetta
il processo ai suoi danni, deve
pensare
alle
accuse
di
inquinamento delle prove e intralcio
alle
indagini.
Hanno
aperto
un’inchiesta sullo scambio di favori
in rapporto alla mazzetta citata.
Scommetto che se l’è intascata.
Altrimenti perché avrebbe messo le
lettere nel suo archivio, senza
nemmeno
immaginare
che
qualcuno le avrebbe cercate?
Lo interrogo prima che lo mettano
al fresco. «Lo sapeva», dico
incredulo, «l’ha sempre saputo che
Mia era stata rapita».
Che razza di padre farebbe una
cosa simile alla figlia?
La sua voce vibra ancora di
egoismo, ma per la prima volta vi
percepisco anche una traccia di
vergogna. «Non all’inizio», dice. È
nella guardina della centrale, in
stato di fermo. Dennett dietro le
sbarre, un’immagine che sognavo
da quando si erano incrociate le
nostre strade. È seduto sull’orlo
della branda, fissa la tazza del
cesso, sa che prima o poi dovrà
pisciare davanti a tutti.
Sono sicuro che è la prima volta
che è sincero.
Dice che all’inizio era certo che
Mia fosse da qualche parte a
combinare stupidaggini. Era nella
sua natura. «Era già scappata di
casa». Poi erano arrivate le lettere.
Non voleva che si sapesse che era
un corrotto, che tanti anni prima
aveva accettato delle mazzette. Lo
avrebbero radiato dall’albo. Eppure
sostiene, e per un attimo gli credo,
che non voleva accadesse nulla di
male alla figlia. Avrebbe versato il
riscatto per la sua liberazione, oltre
che per indurli a tacere. Però aveva
preteso la prova che lei fosse
ancora viva. Non gliel’avevano data.
«Perché»,
dico,
«non
ce
l’avevano». La teneva prigioniera
Colin
Thatcher,
il
quale
presumibilmente le aveva salvato la
vita.
«Pensavo che fosse morta»,
spiega.
«Allora?»
«Se era morta, nessuno avrebbe
saputo quel che avevo fatto»,
ammette con un’onestà che non mi
sarei aspettato da lui.
Onestà e rimorso? Era dispiaciuto
di ciò che aveva fatto?
Penso a tutti i giorni che era
rimasto a casa con Eve, a tutte le
notti in cui aveva condiviso il letto
con lei, nella convinzione che Mia
fosse morta.
Eve ha chiesto il divorzio e, una
volta ottenutolo, ha ricevuto metà
dei beni posseduti dall’ex marito.
Una quantità di denaro sufficiente
per cominciare una nuova vita
insieme a Mia.
Epilogo
Mia
Dopo
Sono seduta nello studio poco
illuminato della dottoressa Rhodes
e le racconto i fatti di quella sera.
Cadeva la pioggia, fitta e pesante,
io e Owen eravamo nella stanza,
era buio, ascoltavamo le gocce
battere sul tetto del capanno.
Eravamo stati fuori a raccogliere la
legna da ardere, la pioggia ci aveva
inzuppati prima che potessimo
rientrare. «Quella», le dico, «fu la
sera in cui cambiò qualcosa fra me
e Owen. Allora compresi perché mi
trovavo lì, in quel capanno, con lui.
Non voleva farmi del male», spiego
ricordando il modo in cui mi
guardava coi suoi occhi scuri e seri,
e diceva: «Nessuno sa che siamo
qui.
Se
lo
sapessero,
ci
ucciderebbero. Tutti
e
due».
All’improvviso mi ero sentita parte
di qualcosa, non ero più sola
com’ero sempre stata nella vita.
«Owen
mi
stava salvando»,
aggiungo. Allora era cambiata ogni
cosa.
Da quel momento non avevo
avuto più paura. Avevo capito.
Lo racconto alla dottoressa, le
parlo di Owen, del capanno, della
nostra vita lì dentro. «Lo amavi?»,
mi chiede, e io annuisco. Mi si
riempiono gli occhi di tristezza, la
dottoressa strappa un fazzoletto di
carta dalla scatola sul tavolino che
ci separa, lo prendo e mi asciugo le
lacrime.
«Raccontami le tue sensazioni,
Mia», riprende subito. E dico che lui
mi manca, che avrei desiderato non
riacquisire più la memoria, così da
restare all’oscuro, inconsapevole del
suo decesso.
Ma ovviamente c’è dell’altro,
molto di più.
Ci sono cose che non confiderei
mai a un dottore.
Posso dirle di essere sempre
triste, tutti i giorni, ma non posso
parlarle del mio senso di colpa.
Della consapevolezza di essere
stata io a portare Owen in quel
capanno, e a mettergli la pistola in
mano. Se gli avessi detto la verità,
avremmo potuto escogitare un
piano. L’avremmo fatto insieme. Ma
all’inizio, ero troppo spaventata da
ciò
che
poteva
farmi
per
confessargli la verità, e in seguito
non potevo svelargliela per timore
che le cose cambiassero.
Lui non mi avrebbe protetta da
mio padre o da Dalmar, se fosse
stato tutta una farsa, un imbroglio
pianificato a tavolino. Ho passato la
vita nella disperazione, cercando
qualcuno che si prendesse cura di
me. Ed ecco arrivare lui.
Non potevo lasciarmelo scappare.
Passo la mano sulla pancia
cresciuta a dismisura e sento i calci
del
bambino.
Dalle
finestre
appannate, vedo che è arrivata
l’estate, col caldo e l’umidità che
rendono
difficoltoso
respirare.
Presto nascerà, il ricordo di Owen, e
io non sarò più sola.
Conservo
nella
mente
un’immagine di diversi anni fa. Sono
alle medie e torno orgogliosamente
a casa con un compito a cui avevo
preso il massimo dei voti, che la
mamma si affretta ad attaccare allo
sportello del frigo con una stupida
calamita a forma di ape che le
avevo regalato io per Natale.
Rientra mio padre e vede il
compito. Ci dà un’occhiata e poi le
dice: «Dovrebbero licenziare il
professore di inglese. Mia ormai sa
distinguere fra there e their, vero?».
Usa il foglio come sottobicchiere e,
prima di fuggire dalla stanza, vedo
le gocce d’acqua che colano sulla
carta.
Avevo dodici anni.
Ripenso a
quel giorno di
settembre, quando ero entrata in
uno squallido bar. Il tempo era
buono, quasi estivo, ma dentro era
tetro, praticamente vuoto. Il tipico
bar alle due del pomeriggio, appena
un paio di clienti silenziosi ai loro
tavoli, che affogavano i propri
dispiaceri in cicchetti di bourbon e
whisky liscio. Era un buco all’angolo
di un isolato con edifici coperti da
graffiti. In sottofondo, la musica.
Johnny Cash. Ero fuori del mio
quartiere, a Lawndale, molto più a
sud-ovest; guardandomi attorno, mi
ero accorta di essere l’unica bianca
nel bar. Lungo il bancone erano
allineati sgabelli di legno, alcuni col
sedile spaccato, altri con gli
schienali sgangherati, e addossate
alla parete c’erano bottiglie di alcol
su ripiani di vetro. L’aria era
impregnata di fumo, fitto come
nebbia. La porta era aperta da una
sedia, eppure esitava a entrare
anche l’aria di quell’autunno tiepido
e soleggiato. Il barista, un uomo
calvo col pizzetto, mi aveva fatto un
cenno per sapere cosa volevo.
Avevo chiesto una birra ed ero
andata nel retro, verso un tavolino
nei pressi del gabinetto degli
uomini, dove lui mi aveva indicato.
Appena l’avevo visto, mi si era
chiusa la gola e avevo cominciato a
respirare a fatica. Aveva gli occhi
neri come il carbone, la pelle scura
e gommosa come gli pneumatici
delle auto. Era seduto, concentrato
su una birra. Indossava la giacca di
una mimetica, che in una giornata
simile era inutile, io la mia me l’ero
levata e legata alla vita.
Gli avevo domandato se era lui
Dalmar; mi aveva osservato per
qualche istante, scrutando con gli
occhi color antracite i miei capelli
ribelli, la determinazione nel mio
sguardo. Poi aveva squadrato il mio
corpo, la camicia in tessuto Oxford
e i jeans. Aveva visto la mia tracolla
nera e il parka allacciato ai fianchi.
Non ero mai stata così sicura
come in quel momento.
Non aveva né ammesso né negato
di essere Dalmar, mi aveva
domandato invece cosa avessi per
lui. La sua voce era profonda e
l’accento africano. Dopo aver
raccolto il coraggio per sedermi
davanti a lui, avevo notato che era
enorme, molto più grande di me, le
mani il doppio delle mie: le avevo
notate quando aveva afferrato la
busta che avevo preso dalla
borsetta e posato sul tavolo. Era più
scuro di un orso bruno, con la pelle
più nera del dorso di un’orca
assassina, un maschio alfa, che non
ha altri predatori che lo braccano.
Mentre sedeva di fronte a me, in
quel locale dalle scarse pretese,
sapeva di essere in cima alla
gerarchia della catena alimentare,
mentre io ero una semplice alga.
Mi aveva chiesto il motivo per cui
doveva fidarsi di me, come faceva a
essere sicuro che non lo stessi
ingannando. Mi ero fatta coraggio e
gli avevo risposto con aria
impassibile: «Come faccio a sapere
io che lei non mi inganna?».
Si
era
messo
a
ridere
sguaiatamente, quasi come un
pazzo, e aveva detto: «Ah, certo.
Ma, vedi, c’è una differenza.
Nessuno inganna Dalmar».
Allora avevo capito che, se
qualcosa fosse andato storto, lui mi
avrebbe uccisa.
Tuttavia, non mi ero fatta
impaurire.
Lui aveva preso i fogli dalla busta:
le prove, che avevo in mano da
circa sei settimane, il tempo che mi
era servito per riflettere su cosa
farne. Rivelare tutto alla mamma o
andare alla polizia sarebbe stato
banale, troppo facile. Doveva
esserci di più, una punizione
orrenda
per
un
crimine
raccapricciante.
La
radiazione
dall’albo non compensava una
paternità schifosa, ma la perdita di
un’enorme somma di denaro e la
rovina
della
sua
splendida
reputazione ci andavano vicino.
Molto vicino.
Non era stato facile procurarseli.
Questo è sicuro. Ero casualmente
venuta in possesso di alcuni
documenti chiusi a chiave in un
archivio, una sera che lui aveva
trascinato mia madre a una cena di
beneficenza al Navy Pier: gli era
costata 500 dollari a sostegno di
u n a ONG che si occupava di
sostenere la carriera scolastica dei
bambini poveri; una cosa assurda,
ridicola, se pensavo al modo in cui
si era comportato riguardo alla mia
carriera scolastica.
Ero andata a casa dei miei quella
sera, avevo preso sulla Purple Line
fino a Linden, dopodiché avevo
chiamato un taxi. Ci ero andata con
la scusa del computer rotto; mia
madre mi aveva concesso di usare il
suo, vecchio e lento, suggerendomi
di portare qualcosa per trascorrere
anche la notte da loro, e io avevo
accettato. Naturalmente, non sarei
rimasta là. Mi ero portata una
sacca, per non destare sospetti, il
modo perfetto per trafugare le
prove, dopo qualche ora di ricerca
accurata fra le carte del suo studio.
Allora avevo chiamato un altro taxi
ed
ero
tornata
nel
mio
appartamento, poi avevo acceso il
mio
computer
perfettamente
funzionante e mi ero messa a
cercare gli investigatori privati per
trasformare i miei sospetti in prove
effettive.
Il mio scopo non era l’estorsione.
Non proprio. Cercavo qualsiasi cosa:
evasione fiscale, contraffazione di
documenti, spergiuro, molestie,
eccetera. Invece avevo trovato le
prove di un’estorsione. Gli estremi
di un trasferimento di 350.000
dollari su un conto offshore, che
mio padre teneva in una busta
sigillata dello schedario chiuso a
chiave. Io, assistita dalla fortuna,
avevo scovato la chiave nascosta in
un oggetto di antiquariato (una
scatoletta di tè) che lui aveva
ricevuto da un uomo d’affari cinese
una decina di anni prima. Era in
mezzo alle foglie di tè. Piccola,
argentata, sublime.
«Come funziona la cosa?», avevo
chiesto a Dalmar, l’uomo di fronte a
me. Non sapevo bene in che modo
definirlo. Un sicario, un assassino su
commissione? Comunque è quello
che fa. Mi aveva dato il suo nome
un vicino di casa dalla dubbia
reputazione, più volte scontratosi
con la legge, tanto che la polizia si
presentava spesso di notte nel suo
appartamento. Un millantatore, il
tipo a cui piace dilungarsi sui passi
falsi della sua vita salendo le scale
fino al terzo piano. La prima volta
che avevo parlato con Dalmar dal
telefono a gettoni all’angolo della
strada per fissare l’appuntamento,
mi aveva domandato come volevo
che uccidesse mio padre. Gli avevo
spiegato che non lo volevo morto. Il
mio
progetto
sarebbe
stato
peggiore, per lui: rovinargli la
reputazione,
umiliarlo,
fargli
perdere la faccia, sputtanarlo,
ridurlo a vivere tra i reietti che lui
stesso condannava alla galera.
Quello, per mio padre, sarebbe
stato molto peggio, come essere
scaraventato in purgatorio: l’inferno
sulla Terra.
Dalmar si sarebbe trattenuto il
sessanta percento, io il quaranta.
Avevo accettato, anche perché non
ero nelle condizioni di trattare. E
poi il quaranta percento della
richiesta
di
riscatto
erano
comunque un sacco di soldi. Per
essere esatti, 80.000 dollari. Avevo
in mente una donazione anonima
alla mia scuola con la mia parte.
Avevo previsto tutti i dettagli,
preparato ogni cosa in anticipo. Non
sarei semplicemente scomparsa,
occorrevano delle prove, nel caso
della
successiva
indagine:
testimoni,
impronte
digitali,
registrazioni video, roba del genere.
Non avrei chiesto chi, cosa o
quando; doveva intervenire il
fattore sorpresa, affinché in quel
momento il mio comportamento
sembrasse naturale, quello di una
donna terrorizzata, vittima di un
piano per il suo sequestro. Avevo
scovato un monolocale in pessime
condizioni dalle parti di Albany Park,
su a nord-ovest. Mi sarei nascosta lì
mentre i professionisti (Dalmar e i
suoi compari) avrebbero portato a
termine il resto. Questo era il piano.
Col contante ricevuto come anticipo
da Dalmar, avevo pagato già tre
mesi di affitto, fatto scorte d’acqua,
frutta sciroppata, pasti e filoni di
pane congelati, per non aver
bisogno di uscire. Avevo comprato
carta igienica, tovaglioli e materiale
da disegno, per non correre il
rischio di essere vista. Una volta
pagato il riscatto e messe in piazza
le azioni sporche commesse da mio
padre, la polizia sarebbe venuta a
liberarmi in quel lurido monolocale:
lì mi avrebbero ritrovata, legata e
imbavagliata, coi miei rapitori già in
fuga.
Dalmar voleva sapere chi avrebbe
dovuto
essere
la
persona
sequestrata, cioè per chi doveva
chiedere il riscatto. Lo avevo fissato
negli occhi neri da serpente, avevo
osservato il suo cranio pelato e la
cicatrice di una decina di centimetri
che gli sfregiava la guancia – un
solco nella pelle, nel punto in cui
immaginavo che la lama (di un
machete
o
un
coltello
a
serramanico) gli avesse intaccato la
superficie esterna, più vulnerabile,
creando però all’interno un uomo
granitico.
Mi ero guardata attorno per
constatare che fossimo davvero
soli.
Tranne
una
cameriera
ventenne in jeans e top fin troppo
attillato, erano tutti uomini; tutti
neri, io ero l’unica bianca. Un uomo
appollaiato su uno sgabello davanti
al bancone era caduto a terra,
ubriaco fradicio, poi si era rialzato,
barcollando verso il gabinetto degli
uomini. L’avevo osservato mentre
mi passava davanti e poi spingeva
la grossa porta di legno, dopodiché
avevo riportato lo sguardo negli
occhi seri e spietati di Dalmar.
E gli avevo detto: «Io».
Ringraziamenti
Innanzitutto mi preme ringraziare
Rachael Dillon Fried, la mia straordinaria
agente letteraria, che ha creduto talmente
in questo romanzo da incoraggiarmi
sempre. Non potrò mai ringraziarti
abbastanza, Rachael, per il sostegno
immancabile e le ore di duro lavoro, ma
soprattutto per aver fatto sì che
quest’opera non rimanesse fra i documenti
inediti archiviati nel mio computer. Se non
fosse stato per te, tutto ciò non sarebbe
successo!
Erika Imranyi, la mia editor, si è
prodigata in modo eccezionale per l’intero
processo editoriale. Non avrei potuto
trovare una persona più perfetta per
questo lavoro. Sono state le tue brillanti
idee, Erika, a conferire la forma definitiva a
questo romanzo, e io sono orgogliosa del
risultato. Riconosco il mio debito di
gratitudine nei tuoi confronti per avermi
concesso quest’occasione e incoraggiato a
fare del mio meglio.
La mia riconoscenza va inoltre alla
Greenburger Associates e alla Harlequin
MIRA per aver contribuito allo sforzo.
Un grazie anche agli amici e ai familiari,
specie quelli che non sapevano che avevo
scritto un romanzo, che mi hanno
supportato e hanno risposto con orgoglio;
in particolare, mamma e papà, gli
Shimanek, le famiglie Kahlenberg e
Kyrychenko, nonché Beth Schillen per il suo
parere onesto.
Grazie infine a mio marito Pete, che mi
ha dato l’opportunità di realizzare un
sogno, e ai miei figli, che forse sono i più
emozionati per il fatto che la loro mamma
ha scritto un libro!
Indice
Eve. Prima
Gabe. Prima
Eve. Dopo
Gabe. Prima
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Gabe. Prima
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Eve. Dopo
Colin. Prima
Gabe. Dopo
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Eve. Vigilia di Natale
Colin. Prima
Eve. Dopo
Gabe. Vigilia di Natale
Colin. Vigilia di Natale
Eve. Dopo
Colin. Vigilia di Natale
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Gabe. Dopo
Eve. Dopo
Gabe. Dopo
Epilogo. Mia. Dopo
Ringraziamenti
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Una brava ragazza