Redazionale
Incontro un giorno un mio amico, iniziamo a
parlare.
Lui, il passato, non lo vuole proprio sentire
nominare.
Riprendere le tradizioni, gli usi, i costumi e
ripercorrere il modo di vivere nei nostri nonni, quello
che hanno fatto è, secondo lui, un oltraggio al nostro
presente e al nostro futuro.
Il suo ragionamento, mentre parlava, da alcuni
punti di vista non faceva una piega: il presente, così
confuso e contraddittorio, dice lui, ha bisogno di
tutto il nostro sostegno per essere vissuto. No?
Quel giorno stesso, forse per uno strano scherzo
del destino, incontro per strada una conoscente che,
desiderosa di sfogarsi con qualcuno (chissà da quanto
tempo non lo faceva), ha iniziato a farmi dono dei
suoi racconti intercalando, ogni dieci minuti, la frase:
“eh, fija mia..stine meju quando stine pesciu”;
avvertivo come la sensazione che la signora avesse
tanto bisogno di parlare e rievocare il passato per
demonizzare il tempo presente.
Se da un lato i suoi racconti affascinanti e contorti
avevano attirato la mia attenzione, dall’altro il mio
presente (l’appuntamento? Ma che ora è??? Mamma
mia, sono in ritardo!!) tardava ad arrivare.
Il giorno dopo, forse un mercoledì, controllo la
mia posta elettronica ed eccolo lì il tanto atteso
articolo di Valeria per nuovAlba: un meraviglioso
viaggio sulla storia della “scrittura” che parte dal
1800 passando per un presente ormai già troppo
passato.
Ho subito pensato che questo era un altro segno:
se una giovane ragazza ha sentito la necessità di
confrontarsi con il passato a tal punto da scriverlo,
il tutto condito con una certa sobrietà e naturalezza,
qualcosa voleva sicuramente significare.
Il mio pensiero, piano piano, iniziava a prendere
forma.
Qualche giorno dopo è arrivato l’articolo di
Antonio a chiarirmi quasi definitivamente le idee:
ma qualcuno si è ricordato che il 15 Settembre 1888
è ricorso l’anniversario della fondazione della Banca
Popolare di Parabita?
Inizio a leggere con un certo interesse: Salvatore
Laterza consigliere.
Penso: sarà un mio lontano (molto lontano)
parente? Una strana voglia di “canoscenza” mi spinge
a rinchiudermi nel mio studio: luce soffusa e silenzio
disarmante a sfogliare un libro desideroso di essere
letto. Ancora il passato che ritorna: ma che sta
succedendo, mi chiedo?
È venerdì: in televisione danno un programma
carino che si chiama “I Migliori Anni” presentato
da Carlo Conti.
Il programma finisce: il conduttore legge dei
messaggini che i telespettatori hanno inviato durante
1
la trasmissione; tutti devono iniziare con l’espressione
“Noi che…”.
Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano
quando il piede cresceva…
Noi che il motorino “Ciao” si accendeva
pedalando…
Noi che giocavamo a nomi, cose, animali, città…
(e la città con la D era sempre Domodossola)…
Noi che ci mancavano sempre quattro figurine
per finire l'album Panini…
Noi che le cassette se le mangiava il mangianastri,
e ci toccava riavvolgere il nastro con la bic…
Noi che guardavamo “La casa nella prateria”
anche se metteva tristezza...
Noi che ci emozionavamo per un bacio su una
guancia…
Noi che si andava in cabina a telefonare…
Noi che c'era la Polaroid e aspettavi che si vedesse
la foto...
Noi che se guardavamo tutto il film delle 20:30
eravamo andati a dormire tardissimo...
Noi che quando a scuola c'era l'ora di ginnastica
partivamo da casa in tuta…
Noi che se a scuola la maestra ti dava un ceffone,
la mamma te ne dava due!
Noi che se a scuola la maestra ti metteva una nota
sul diario, a casa era il terrore!
Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca,
mica su Google!
Noi che il “Disastro di Cernobyl” voleva dire che
non potevamo bere il latte la mattina...
Noi che si poteva star fuori in bici il pomeriggio…
Noi che sapevamo che ormai era pronta la cena
perché c'era Happy Days…
Noi che se la notte ti svegliavi e accendevi la tv
vedevi il segnale di interruzione delle trasmissioni
con quel rumore fastidioso...
Noi che avere un genitore divorziato era
impossibile…
Noi che non era Natale se alla tv non vedevamo
la pubblicità della Coca Cola con l'albero…
Ora il mio pensiero è nitido e, sinceramente,
inizio ad avere un pò di paura: ho 27 anni e mi ritrovo
ad avere già nostalgia di quello che succedeva
pochissimi anni fa…
Mio Dio!! Ma quanto stiamo andando “veloci”
e soprattutto dove stiamo andando?
È Natale e molte famiglie a causa della “velocità”
non saranno al completo quest’anno: un pensiero va
a loro e a tutti coloro che hanno ancora tempo per
vivere.
Prendiamocelo tutto, apriamo la vita al nostro
futuro, ma ogni tanto voltiamoci indietro per capire
che il nostro passato, così com’era, non era poi così
male.
Serena Laterza
Buon Natale a tutti voi da parte della Redazione di nuovAlba.
nuovalba
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2
Poesia
Natale 2008 a Parabita
di Aldo de Bernart
a fra Francesco La Vecchia OP rettore Basilica Maria SS. della Coltura - Parabita
Un tocco alla porta
un bambino sul limitare
di un vecchio casolare
sulla serra
te Santu Latteri,
dove ieri
un'ipogea abbazia basiliana,
oggi caverna abbandonata
senza una data
se non quella tramandata
del XII secolo.
Fantastico,
il ricordo di un presepe
di tronchi di pino
con un Gesù Bambino
di terracotta delle fornaci
delle monache
di S. Anastasia di Matino,
che con i monaci
di S. Eleuterio di Parabita
avevano buon convicinato tanto
ca lu ciucciu te S. Nastasìa
caricu scia (di acqua)
e caricu vania (di legna).
Entra, bambino.
Chi sei? E da dove vieni?
Sei troppo infreddolito.
Riscaldati vicino al focolare
per pregare
nella notte Santa.
Hai fame?
E' buono il pane condito
con l'odore dell'olio
della lampada.
Sono povera.
Non ho altro.
Solo tanto amore.
Guarda le luci sotto
al paese.
Sembra proprio un presepe,
Parabita.
Quanta luce in questo casolare!
Ma tu chi sei?
- Gesù Bambino
2008-.
Dicembre, oltre ad essere un mese scandito dalle Feste Natalizie, è il mese in cui tutti fanno un bilancio
delle attività svolte negli ultimi 12 mesi. Anche nel 2008 l’Associazione Culturale Progetto Parabita si è
data tanto da fare per promuovere il territorio, valorizzando quelle che sono le risorse intrinseche del nostro
paese. Con il libro “Traini te maravije. Misteri te culori te tanti jaggi” abbiamo voluto rendere omaggio
ai tanti anni di lavoro e dedizione del prof. Giuseppe Greco, artista e poeta nostro compaesano. Una raccolta
di poesie e dipinti che, il 5 luglio scorso nell’atrio del castello, ha attirato tantissima gente da tutto il Salento.
Un altro libro che sicuramente affascinerà è “La musica celata” dello scrittore Pierpaolo Pala, che sarà
illustrato il giorno 20 dicembre all’interno della Basilica di Maria SS. della Coltura. Un’emozionante
descrizione di come l’autore sia riuscito a scovare una musica (e non solo) all’interno del Cenacolo di
Leonardo da Vinci.
La nostra Associazione non si è dedicata solo ai libri e alla rivista nuovAlba, quadrimestrale che ormai
conoscete bene da un po’ di anni, ma anche all’organizzazione di momenti di condivisione e spensieratezza
all’interno della stessa Associazione. La gita a Taranto e Grottaglie nella scorsa primavera, è stato un modo
per conoscere nuovi luoghi, conoscersi meglio con gli altri associati e anche divertirsi.
Contiamo anche per il 2009 di presentare tante altre interessanti novità, come ad esempio la prima Guida
Turistica di Parabita. Un lavoro che siamo già entusiasti di proporre, oltre che per la quantità delle
informazioni che forniremo al turista, anche per la condivisione e la collaborazione del progetto con altre
realtà associative di Parabita: Pro Loco, Emergenze Sud-Presidi del libro e A.Do.Vo.S. Questo e tanto altro
ha in serbo l’Associazione Progetto Parabita.
Infine, colgo l’occasione per ringraziare il consiglio direttivo, la redazione di nuovAlba, i soci e tutte
le persone che ci sono vicine. A Voi tutti, UN SERENO NATALE E UN FELICE 2008!
Il Presidente
AlessandroTornesello
nuovalba
12/2008
Presepi
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Il presepe dei Borboni e i costumi
popolari del Regno di Napoli nel
Settecento
L’
allestimento dei presepi a Napoli è
un’usanza, forse, pre-borbonica, però sta
di fatto che fu Carlo III ad introdurre nella
Capitale del suo regno la moda del presepe
come teatro-diorama del vissuto festoso del
ventre della città. Un diorama in cui ogni tratto della
fisionomica trovò espressione, ora estasiata e sempliciotta, ora furbesca e maliziosa, in questo o quel personaggio che si “festinava” a far visita al Divin Neonato
per recargli qualche dono o per sollazzarlo con zampogne e pifferi o con clownesche macchette, un’arte,
questa, in cui ogni napoletano è tuttora un artista.
La scenografia del presepe in ogni chiesa, grande
o piccola, e, soprattutto, nelle case private, fossero
sontuose dimore gentilizie, o abitazioni più modeste,
divenne un fatto di costume di tal portata, che non
poche famiglie si indebitavano pur di poter ostentare
uno status symbol di prestigio attraverso la maestosità
dello scoglio (la struttura paesaggistica), la ricercatezza
nella ricostruzione delle rovine classiche, la raffinatezza
e il realismo dei tratti somatici dei personaggi – capolavori del Celebrano, del Sammartino e dei loro allievi
– la preziosità delle sete e delle passamanerie di San
Leucio, nonché dei complementi preziosi, vere miniature
dell’arte orafa partenopea.
Il Perrone ci presenta il presepe della Reggia:
“… e Carlo III lo faceva costruire sotto i suoi occhi,
ed aggiustava perfino qualche pezzo di sasso di proprio
pugno. Tutti gli oggetti di che formavasi quel Presepe,
cioè pastori, animali e finimenti furono conservati nella
Reggia di Caserta fino al 1840. Verso detta epoca Re
Ferdinando II in occasione dell’apertura della linea
ferroviaria Napoli-Caserta ordinò che si fosse ricostruito
l’antico Presepe di casa Reale, onde attirare molta
gente. Per vieppiù arricchirlo fece compra di altri
pastori ed animali presso scultori ed antiquari della
Città…Dimesso detto presepe, vennero riposti tutti i
pastori, animali ed altro, dentro scaffali nel detto palazzo
e vi restarono fino al 1879, nel quale anno i migliori
oggetti furono…trasportati nel Real Palazzo di Capodimonte, ove attualmente si osservano situati entro
scaffali a lastre”. A. Perrone, Il Presepe a Napoli,
(riedizione di un opuscolo del 1896 a cura di Alessandro
Laporta, con introduzione di Franco Mancini), Lecce,
Argo, 1994; p.21.
Salito al trono Ferdinando IV, figlio di Carlo, l’idea
di presepe che il nuovo re forse ebbe, non era più tanto
la limitata ricostruzione plastica della scena della
Natività, quanto la “presepizzazione” di una vasta area
naturale, grande quanto un regno, il Regno di Napoli.
Amante, come era, della spettacolarizzazione di ogni
evento, al quale, sempre, dava un taglio particolarmente
“napoletanesco”, immaginò – è una mia suggestiva
supposizione! – tutto un presepe, dalla Sicilia fino ai
limiti con lo Stato Pontificio. Un presepe in cui la
dimora della famiglia di Nazareth coincidesse con la
di Enzo Pagliara
Reggia di Napoli e la Sacra Famiglia si identificasse
con la Famiglia Reale, non tanto per una sua particolare
esigenza devota, quanto per una sorta di autocelebrazione su un Reame tra i più fastosi del Settecento
europeo, almeno nella façade. Egli pensò come personaggi di quel presepe tutti i regnicoli, con le loro fogge
tipiche del giorno della festa: nasceva così il progetto
di catalogare “li vestimenta” delle città, dei paesi e
delle contrade del Regno.
Un progetto ambizioso, faraonico si potrebbe dire, stanti tutte le
difficoltà legate alla
scarsezza di strade comode o comunque carrozzabili, malsicure per le
minacce dei briganti,
impraticabili in alcuni
periodi dell’anno a causa
delle intemperie. Eppure
i pittori costumisti Alessandro d’Anna e Xavier
della Gatta prima, e Antonio Berotti Stefano
Santucci, poi, non volendo deludere il loro
Sovrano, intrapresero quel
viaggio irto di incognite.
L’impresa durò dal 1783 al 1797 circa: non si sa
con precisione quanti luoghi visitarono e quante realtà
ritrassero, e non si sa nemmeno se il progetto prevedeva
la catalogazione di tutti i paesi o solo di quelli che
avevano fogge particolari. Sta di fatto che per il Salento
leccese Cfr. AA.VV., Il Costume Popolare Pugliese,
modi di vestire, Galatina, Congedo Editore, 2001. E,
inoltre. AA.VV., Il Costume Popolare Pugliese ai tempi
dei Borbone, Galatina, Congedo Editore, 2001, (in
Biblioteca Comunale di Tuglie), ad esempio, non tutti
i paesi ebbero il privilegio della dedica di una gouache
e per il nostro territorio oltre a Gallipoli, cui vennero
dedicati degli acquerelli vivacemente variopinti, i soli
paesi del suo entroterra ad essere illustrati furono
Matino e Tuglie, con costumi sia maschili che femminili,
ma con sole immagini bicolori, forse perché le fogge
non erano particolarmente vistose dal punto di vista
cromatico.
Da quella stagione così ricca di immagini popolari
i cartapestai e i pupari salentini presero spunto per dare
un’impronta realista ad una tradizione che tuttora
continua, apprezzata soprattutto dai cultori dell’arte
presepiale, che amano i manufatti artigianali, talvolta
imprecisi o con qualche difetto, anziché i dozzinali
prodotti “stampati”con tratti più da fumetto che ad
“immagine e somiglianza” dell’uomo di argilla al quale
Dio soffiò l’alito di vita, come la Bibbia racconta sulla
storia dell’umanità.
nuovalba
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Personaggi
P. Serafino da Parabita
e la sua famiglia
di Ortensio Seclì
a p. Tommaso Leopizzi
E’
senza dubbio un personaggio straordinario
P. Serafino da Parabita del quale, fortunatamente, il paese natale ricorda la fama
con l’avergli intitolato una via: non una
strada di periferia, nascosta alla quasi
totalità degli abitanti, ma una di quelle arterie che un
tempo era il cuore pulsante della comunità parabitana,
una strada sulla quale si sviluppava il commercio e
avveniva il flusso dei devoti visto che metteva in
comunicazione quella che era la più antica chiesa di
Parabita, S. Giovanni Battista, con S. Maria dell’Umiltà
che, se non proprio coeva alla prima, di poco ad essa
più giovane. Strada che al tempo in cui il nostro nasceva
era indicata alternativamente della Piazza o del Convento (dei Domenicani).
Molti si sono spesso chiesto chi era padre Serafino
da Parabita, e che cosa rappresentava per il paese da
meritarsi un posto di primo piano nella toponomastica
stradale del luogo.
Ora, finalmente, le nebbie che hanno da sempre
avvolto il personaggio e la sua famiglia si sono diradate
alla lettura di un atto di battesimo avvenuto a Gallipoli
il 14 marzo 1710:
“Nell’anno del Sig.re mille settecento e diece a di
quattordici marzo il P.re Provinciale frà Serafino
Valiano da Parabita Riformato, con licenza del Prereverendis.mo S. Vicario, ha battezzato uno figliuolo
nato à di tredeci d. dal sig. Enrigo Rocci di Gallipoli,
e da Livia Boncore di d.ta Città allo quale gli fu posto
nome Gaetano, Giacom’Ant.o, Pascali Urbano, il
com.re fu il Magnifico Francesco Rocci di Gallipoli
hodierno Sindico di questa Città, e la comare fu D.na
Camilla d’Amore marchesa di Uggento, in persona di
Veneranda Musurù di Gallipoli.”
Aveva aperto gli occhi quindi il 13 novembre 1656
Parabita, Palazzo De Ramis
nuovalba
12/2008
in seno alla famiglia del notaio Antonio Valiano (Barbarano 1623 c. - Gallipoli 27.3.1688) il quale, dal Capo
di Leuca, si era portato a Parabita dove aveva sposato
Livia De Ramis di antica e nobile famiglia dalle origini
spagnole. Quarto di sei figli, fu battezzato con il nome
di Martino Biagio e crebbe in seno ad una famiglia
religiosissima la cui fede è testimoniata dal quattrocentesco fregio prospicente il balcone della dimora avita,
raffigurante la deposizione al sepolcro del Cristo morto
sorretto dagli angeli, e l’Annunciazione, casa in cui
verosimilmente nacque o dove, comunque, crebbe
nutrendosi di quel clima fatto di profonda spiritualità.
La famiglia De Ramis era, infatti, assidua frequentatrice
delle funzioni religiose che avvenivano nella chiesa
dell’Immacolata, considerata dai parabitani “chiesa dei
nobili”, dove preferiva che si celebrassero i matrimoni
dei propri familiari.
Nel 1669 i Valiano emigrarono a Gallipoli dove il
padre continuò a fare il notaio e dove i figli si istruirono:
Silvestro (Parabita 22.1.1647 - Gallipoli 8.4.1709) fu
sacerdote, mentre l’altro fratello Giuseppe Donato
(Parabita 19.3.1651 - Gallipoli 18.1.1710) fu dottor
fisico.
Il desiderio che provava di servire Cristo spinse
Martino Biagio a vestire l’abito francescano e assumere
il nome di Serafino, e fu un “santo monaco” come lo
ebbero a definire i suoi contemporanei. Dal 1700 al
1705 fu custode e guardiano del convento di Gallipoli,
ma ciò non gli impedì di recarsi periodicamente a Roma
dove, per un sessennio, ricoprì l’incarico di segretario
generale della Serafica Riforma. La stima che si
guadagnò dai superiori fece sì che fosse incaricato di
visitare la Provincia francescana di Genova e successivamente quella delle Marche, dove rimase due anni
fortificando la sua fede in preghiera sulla tomba del
suo conterraneo S. Giuseppe da Copertino.
Il 9 febbraio 1708, nel
Capitolo che si tenne
nella Casa di S. Antonio
a Taranto, fu elevato alla
carica di Provinciale per
il triennio 1708-1711 ma
dimorò quasi in pianta
stabile nel Convento di
S. Francesco d’Assisi di
Gallipoli dove operò un
ampliamento dell’edificio
innalzando nuovi locali e
arricchendolo di affreschi
claustrali tanto lodati da
Personaggi
Padre Bonaventura Quarta da Lama che ebbe a qualificarli “una divotissima Galleria”. E’ per opera sua
che la chiesa fu arricchita di numerose opere d’arte e
il Convento fu dotato di una grande sala biblioteca
nella quale sistemò non solo il patrimonio librario già
esistente, ma anche la sua libreria privata comprendente
volumi di casa De Ramis e Romanelli, famiglie parabitane con le quali era imparentato.
Dotato di spiccata intelligenza capì i tempi e seppe
prevedere e accettare i cambiamenti che il Settecento
imponeva prepotentemente con il progresso tecnologico.
Seppe perciò risolvere, in maniera egregia, il delicato
problema della “lana gentile” che aveva fatto originare
non poche controversie tra i frati.
Parabita, Chiesa del Crocifisso:
Albero raffigurante la totalità dei santi e delle monache dell’Ordine Francescano
“Epilogus totius Ordinis Seraphici patri Francisc”.
Appunto il progresso tecnologico aveva portato a
produrre, grazie a telai più moderni, un tessuto più fine
che ben si prestava a confezionare tonache più leggere,
il che aveva portato alcuni frati ad abbandonare le
tonache confezionate con lana “cordellata”, ruvida e
più “vile”, prodotta dai telai degli stessi conventi,
facendo gridare allo scandalo i frati tradizionalisti che
vedevano compromesso il voto di povertà che tanto
caratterizzava l’Ordine dei Minori Riformati. La querelle
si trascinava già da tempo ed era tanto veemente che
P. Bonaventura Capodiferro da Gioia del Colle, eletto
provinciale nel 1706, l’anno successivo, non volendo
partecipare alla polemica e non sapendo come risolvere
il problema, rinunciò all’incarico. Si giunse a coinvolgere la Sacra Congregazione dei vescovi e lo stesso
Pontefice Clemente XI, per cui si ottenne un drastico
decreto: “sotto pena di scomunica” fu ordinato che i
frati “sia di giorno che di notte, indossassero abiti,
cappucci e mantelli lavorati nei telai conventuali”.
Ancora una volta, gli oltranzisti difensori della
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tradizione, per nulla propensi ad accettare le novità del
progresso, avevano avuto la meglio e il biennio che
seguì con il provincialato di P. Antonio Trammizzi da
Matera fu caratterizzato da una calma apparente; ma
la crisi economica che imperversava all’epoca, e la
carestia che si faceva sentire in tutta Europa, spinse,
nel 1710, P. Serafino, all’epoca ministro della Provincia
di S. Nicolò di Puglia, a fare richiesta al re di Spagna
Carlo III di “una limosina di 30 cantare l’anno” di
stoffa per l’uso dei frati. Ottenuto ciò, inoltrò richiesta
al vicecommissario generale per poter accettare tale
dono, motivando che sarebbe stato disdicevole rinunciarvi in quanto sarebbe tornato “a discapito indicibile
dei poveri Conventi”.
Oltretutto era risaputo che, a causa della crisi economica, non si potevano far funzionare in maniera
efficiente gli opifici tessili della provincia francescana.
Inoltre Padre Serafino era convinto che l’introduzione
dell’uso della lana gentile non avrebbe leso il principio
di povertà francescana per cui si adoperò con tutte le
energie a rivoluzionare il saio del suo Ordine, cosa che
gli riuscì “con suo grand’onore e fatica” e, dopo
alterne vicende, finalmente, nel 1720 si ebbe il trionfo
del buon senso con la conferma dell’uso del “vestimento
gentile” perché “conforme allo spirito di povertà”.
Un altro aspetto caratterizzante la dimensione della
sua spiritualità è la devozione all’Immacolata che, se
per i frati Minori Riformati era una normalità, per
Padre Serafino era una particolarità straordinaria. Egli,
nella sua fanciullezza aveva partecipato con assiduità
alle funzioni religiose che si tenevano nella chiesa della
Beatissimae Virginis Mariae Sine Labe Concettae di
Parabita ed è da credere che sia stato proprio ciò a
fargli scegliere l’abito francescano e non quello domenicano visto che a Parabita erano presenti unicamente
i Padri Predicatori che tanta stima godevano tra la
popolazione. Una volta a Gallipoli prese a cuore lo
sviluppo e l’affermazione della Confraternita
dell’Immacolata della quale fu rettore, promuovendo
al contempo la realizzazione della Statua
dell’Immacolata “con tutto il lavoro d’intorno”.
Assidua frequentatrice delle varie funzioni religiose
che si tenevano dai frati fu sua sorella Anna Maria che,
nata a Parabita il 7 novembre 1664, visse come monaca
bizoca in Gallipoli dove, assistita spiritualmente da
fra’ Bonaventura da Gallipoli, morì il 13 gennaio 1704.
Negli ultimi anni padre Serafino, oltre a ricoprire
la carica di custode, fu lettore emerito e morì nel
Convento di Gallipoli il 15 dicembre 1726. Il 13 aprile
successivo, in Nardò, nella chiesa di S. Antonio da
Padova, i frati riformati diedero inizio alla celebrazione
di cento messe in suo suffragio.
BIBLIOGRAFIA
E.Pindinelli: Francescani a Gallipoli - Dal restauro alla
memoria, Corsano, Alezio, 2005.
Fra Bonaventura Quarta da Lama: Cronica de’ Minori
Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò, Chiriatti,
Lecce, 1724.
Benigno F. Perrone: Storia della Serafica Riforma di S.
Nicolò in Puglia, Biemme, Bari,1982.
nuovalba
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Contributi
La donna del monumento
di Luigi Scorrano
N
on c’è luogo d’Italia in cui non sorga un
monumento, grande o piccolo, brutto o
bello o, almeno, passabile che ricordi i
caduti delle due guerre mondiali. Della
prima in particolare, quella che per la sua
immanità fu detta “la grande guerra” quando non
s’immaginava il peggio che sarebbe venuto poi. Commissionati ad artisti illustri o a mestieranti della scultura,
i monumenti hanno tutti una loro storia che sarebbe
interessante ricostruire: per alcuni questo lavoro è stato
fatto e per un riferimento d’area (della nostra area
voglio dire) basterà ricordare il bel lavoro, documentatissimo, di Luigi Marrella (L. Marrella, I percorsi
della Vittoria. Casarano, uno scultore, un monumento,
Barbieri, Manduria, 1997).
A volte il monumento è un semplice cippo recante
un’iscrizione, a volte l’iscrizione completa ciò che il
monumento, per mezzo di altri elementi (statue, simboli
vari) intende significare. Con le iscrizioni bisogna
procedere avvedutamente, affinché l’entusiasmo non
detti una sorta di istigazione a qualche azione poco
commendevole. Tristano Bolelli, che tenne cattedra di
Storia della lingua italiana, ha narrato in proposito, in
un suo libro (T. Bolelli, Parole in piazza, Longanesi
& C., Milano, 1984, p. 77), un gustoso aneddoto: «A
Calci, vicino a Pisa, figurò (non so se sia stata modificata) la breve ma significativa scritta sul monumento
ai soldati vittime della Guerra 1915-1918: “Calci ai
Caduti”».
I monumenti vengono interpretati nelle loro figure:
talvolta l’immagine è quella di un soldato ferito a morte
che si accascia al suolo, sorretto da una figura simbolica
(la patria); talvolta il senso del manufatto celebrativo
è riassunto nella presenza di figure muliebri rappresentanti preferibilmente la Vittoria o l’Italia. Non sembra
che vi siano molte deroghe a questa sorta di rappresentazioni obbligate.
Anche Tuglie ha il suo monumento ai Caduti, opera
di un insigne scultore ruffanese operante tra la fine
dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento,
Antonio Bortone (1884 – 1938), autore di altri monumenti di identico tema, affini anche nell’impianto
architettonico: quelli di Ruffano (1924) e di Calimera
(1927). A proposito di quello di Tuglie, Ilderosa Laudisa
osservava: «In quello di Tuglie [monumento] ripropose
in modo quasi perfettamente identico la figura allegorica
del monumento al Capponi; ciò fa ritenere che dovette
prendere il calco, che portò con sé a Lecce» (I. Laudisa,
L’opera di Antonio Bortone, in Pro Loco Ruffano [a
c. di], Antonio Bortone (Ruffano 1844 – Lecce 1938),
Conte, Lecce, 1988, p. 29). L’ipotesi della studiosa è
che il modello della figura di donna, utilizzato a Firenze
per la statua al marchese Gino Capponi, fosse stato
riutilizzato per la figura muliebre del monumento
tugliese. Per pronunciata che possa esserne la somiglianza, un elemento differenziante non poteva non
costituire un tratto importante sia per l’individuazione
della figura sia per l’interpretazione di essa.
Infatti: chi è la donna del monumento ai Caduti di
Tuglie?
A un’osservazione veloce, e un po’ distratta, dato
l’argomento, la donna che depone la corona d’alloro
su un ripiano marmoreo della costruzione fa pensare
all’Italia (personificata) che rende omaggio ai suoi figli
tugliesi caduti per difenderla. La solennità della posa,
la serenità che emana dalla figura composta (sia pure
secondo collaudati canoni accademici), il gesto lento
e faticoso con il quale la corona viene deposta porta
quasi spontaneamente ad individuare nella donna
un’immagine della patria.
Ma si osservi meglio un particolare decisivo: la
corona che cinge la testa della donna e ciò che in essa
vi è raffigurato. I particolari hanno la loro importanza,
e non vanno trascurati. Se l’immagine fosse quella
dell’Italia, avremmo una corona turrita, come nelle
convenzionali rappresentazioni che conosciamo. Questo
manca.
La corona ha l’aria d’un manufatto semplice ed
elegante: non una corona di torri che dica dominio e
forza, ma una semplice corona quale si addice
all’immagine solenne della persona allegorica rappresentata.
Tuglie, Monumento ai Caduti del Bortone
nuovalba
12/2008
Contributi
Il particolare decisivo occorre andarlo a cercare
nella decorazione che si trova nella parte centrale della
corona (foto di Massimo Melica). Al centro della faccia
della corona non c’è, ad esempio, lo stemma sabaudo
come ci si aspetterebbe in una statua raffigurante l’Italia
(l’Italia ancora guidata dai Savoia). C’è, invece, lo
stemma civico di Tuglie: immagine riconoscibilissima
che si può riscontrare con quella che orna la torre civica
o, più recente, quella che troneggia in una stanza del
Comune. Non si può mettere in dubbio che ciò che è
rappresentato nella corona della donna è lo stemma
civico di Tuglie. Questo nega la possibilità di individuare
con l’Italia la figura femminile del monumento.
Chi è, dunque, questa donna?
La risposta è semplice e non può che essere quella:
è l’allegoria del paese o, meglio, della comunità tugliese
che rende un doloroso, benché composto, omaggio ai
suoi cittadini caduti sui campi di battaglia. Che cosa
indusse Antonio Bortone a riprodurre nella corona della
donna lo stemma del paese al quale era destinato il
monumento? Fu un’intuizione dell’artista o un suggerimento della committenza? Come che siano andate le
cose, la soluzione data dall’artista al suo lavoro appare
originale e ricca di significato. Era l’umile comunità
7
locale, benché travestita dall’artista in vesti e panneggi
classicheggianti, a presentarsi – per così dire – all’altare
(i teatri di guerra) dove si era consumato il sacrificio
di tante giovani vite. Nell’atteggiamento della donna
c’è un composto dolore, una rassegnata presa d’atto di
quelli che sono i risultati dei conflitti. Una rassegnazione
sottolineata dal gesto molle e stanco col quale la corona
d’alloro viene deposta sul monumento. Non ci sono i
trionfalismi così ovvii in tanti altri monumenti. Per la
sua Ruffano l’artista aveva scolpito una Vittoria alata,
una figura che sembrava additare una ricchezza
d’avvenire. I due monumenti, quello di Tuglie e quello
di Ruffano, sono dello stesso anno (1924). Anche questa
coincidenza può essere letta al di là d’un fatto casuale.
Nello stesso anno l’artista proponeva a due comunità
cittadine lo stesso tema (l’omaggio ai Caduti) declinandolo in modalità opposte, ma entrambe vere e necessarie: la compostezza del dolore come invito, sì, a non
dimenticare ma anche come suggerimento a porre fine
ai lutti delle nazioni e delle patrie (fosse, quello deposto,
l’alloro ultimo!) ma anche a guardare fiduciosamente
al futuro come guardava l’alata fanciulla del monumento
di Ruffano, la Vittoria giovane e balzante che scrutava
fiduciosa l’avvenire.
Editoria
Di Parabita e
di Parabitani
…è il titolo che Paolo Vincenti, ruffanese di nascita e
parabitano di elezione, storico collaboratore di nuovAlba,
fine conoscitore della storia e della cultura della nostra
città e del Salento, ha dato alla sua raccolta –edita da
Il Laboratorio per la collana di studi e ricerche “La
Meridiana”- di scritti su Parabita e sui parabitani, da
lui pubblicati dal 2003 ad oggi sui numerosi giornali e
riviste salentine (compresa nuovAlba).
La raccolta tocca molti punti salienti della nostra cultura,
da noi tanto gelosamente custodita ma golosamente e generosamente studiata ed approfondita
dal Vincenti come da tanti altri studiosi non parabitani.
E’ particolarmente coinvolgente l’introduzione, curata dallo stesso autore, che tocca in poche
righe tutto il territorio parabitano ed i suoi cittadini tra i più illustri (escluso il sottoscritto,
immeritatamente inserito tra di essi).
Paolo Vincenti, insieme a tanti altri nostri cultori (per citarne alcuni, già riportati nel libro:
Ortensio Seclì, Mario Cala, Aldo de Bernart, Aldo D’antico) può essere considerato a buona
ragione un appassionato cantore della nostra storia e delle più alte pagine della cultura parabitana.
G.P.
nuovalba
12/2008
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Emozioni
Quella valigia blu dalla
fodera bianca
di Alessandro Cavalera
Q
uasi che il tempo si fosse fermato lì, in quel
gradito trofeo di una, l’ennesima, raccoltapunti.
Giorni fa l’ho tirata fuori, dopo anni, quella
valigia blu, dalla fodera bianca, capiente più
delle apparenze, che per prima mi aveva accompagnato
nei primi passi della mia “nuova vita romana”.
Il motivo della nostra prematura separazione aveva
trovato idoneo addebito nel suo carente equilibrio in
moto, e questo mi costringeva, nei continui spostamenti,
a tragicomici slalom ed improbi giochi di forze, che
rendevano ancor più gravosi i lunghi trasbordi peninsulari.
Pesava, quella valigia, ben oltre il previsto, e seguiva
le sue indomabili tangenti, zeppa com’era di sogni,
timori ed aspirazioni, oltre che lenzuola, maglie e
qualche foto custodita con maniacale cura.
Quattro anni dopo, anche qualcosa in più, un nuovo
viaggio insieme , quasi a segnare, così per caso, un
nuovo inizio, o la fine di un primo, indimenticabile,
percorso.
Quattro anni vissuti densamente, intensamente,
quasi che al tempo si dovesse chiedere pazienza durante
il giorno, per poter graffiare ancora un po’ di luce, di
suono, di colore, e nelle ore notturne indomabile fretta.
Una vita fa, eppure sembra ieri, ed è oggi, a rincorrere,
sperare, e lasciarsi trasportare da disegni, insegne,
segnali. E stare lì, con gli occhi ed i pensieri persi nel
nulla, specchiandosi senza volerlo nel vetro appannato
di un autobus, rigato dalla pioggia d’autunno e irradiato
da fari alogeni, freddi e profondi quanto basta per
essere odiati. E domandarsi perché qui, perché ancora,
perché non altro od altrove, e se è questa la vita che si
vuole, carica di emozioni ma latente, latitante di sincere
vibrazioni.
Dove sta scritto che il proprio futuro debba proprio
passare dal dover per forza rinunciare a qualcuno,
qualcosa, godendo di facili illusioni?
Una vita fuorisede, e già la parola di per sé, a
pensarci bene, suona avulsa da uno stato di razionale
stabilità. F U O R I S E D E. Mah! E allora, quale
futuro? Ma, soprattutto: dove? Dove raggiungere il
giusto equilibrio, abbattere la contraddizione di uno
stato stazionario instabile?
Le prospettive di noi giovani salentini sparsi per lo
stivale (e non solo) sembrano inseguire un punto di
non ritorno, quasi che una nuova diaspora debba essere
sopportata ad ogni costo; quasi che non bastassero le
innumerevoli, passate navigazioni verso lidi lontani di
flotte di braccia, sguardi, sorrisi, cicatrici ad espiare
l’unica colpa, o forse il privilegio, di essere nati in un
lembo di terra maledetto, selvaggio eppure tanto incantatore…
Il desiderio di tornare divampa nelle membra, e
divora ogni istante di più le interiora, perché viscerale,
nuovalba
12/2008
sanguigno, come la radice dell’ulivo che, subdola,
sommessa e devastante, sconquassa le zolle crepate de
terra russa.
Tornare, per distruggere dal di dentro quello stato
di epicurea atarassia, perché il segreto della felicità
non risieda nel distacco da qualunque coinvolgimento
troppo intenso o vincolante, ma piuttosto germogli
dalla passione smodata per la propria realtà, nella quale
riversare ogni ambizione, sogno, prospettiva.
Sognare di essere, nel proprio piccolo, fermento
vivo di una terra che non ha nulla da invidiare per
storia, cultura, tradizioni, ma ch’è restia, volente, a
straripare nel futuro, convinta com’è della propria
intatta bellezza.
Tornare, umilmente pretendendo che ci siano le
condizioni per affermare la propria unicità, puntando
in punta di piedi i piedi davanti ad un archetipo per cui
è un dovere piegarsi ed adeguarsi all’ignoranza,
all’abuso, allo scempio, ed incanalarsi nella stessa
carrara.
Tornare, propositivi e sognatori, scavando nel cuore
dei dilemmi, trovandone le soluzioni.
E se la speranza è sempre la stessa, ogni giorno
sempre più forte, la realtà si erge davanti, e ti rimbalza
indietro, nonostante tu stringa, fiero, tra le mani, timbri
e carte filigranate in quantità e qualità, scritte col sudore,
la determinazione, il desiderio di riscatto che solo una
donna e un uomo del Sud sanno avere.
Tornare, ma di sogni e di parole quasi non si campa.
Quella valigia blu, dalla fodera bianca, oggi è
parcheggiata lì nel ripostiglio. Freme, ed io con lei,
per iniziare un nuovo viaggio, per disegnare le sue
parabole distorte, pirotecniche, snervanti, ma che
quando riprendono la via di casa, La casa, hanno tutto
un altro sapore, divertente ed a tratti giocoso.
L’oggi è ancora qui: gli occhi ed i pensieri persi nel
nulla, il vetro appannato di un autobus, rigato dalla
pioggia d’autunno e irradiato da fari alogeni, freddi e
profondi quanto basta per essere odiati.
Ma domani, chissà…
Racconto inedito
9
In Otranto
di Luigi Pisanelli
C
amminava sempre come se stesse iniziando
un rituale tribale in onore del Dio degli stanchi.
Probabilmente era sempre stanco. Semplicemente. E soprattutto non partecipava mai alle
discussioni, di qualsiasi specie fossero. Calcistiche, amorose, scolastiche, familiari, politiche.
Era come se niente lo interessasse al punto da
partecipare al discorso con una parola.
Eppure c’era chi sosteneva di averlo sentito intessere
interessanti discorsi sulle discipline meditative del
lontano oriente. Argomenti tipo i sette chakra, la kundalini, l’ommm e cose altissime di questo tipo. Ma
forse sono solo leggende.
Io per certo so che si stupiva della così scarsa
presenza di pescherie a Otranto. In effetti se ne contano
veramente poche. - Invece a Gallipoli ne è pieno.
Perché? Non c’è lo stesso pesce nell’Adriatico come
nello Ionio?- diceva come se stesse indagando
sull’esistenza dei buchi neri nell’universo.
Abbiamo trascorso più di una sera a discutere di
queste problematiche ittico-geografiche, se così si può
dire e poi, chissà perché, si passava ad analizzare la
gente del posto, come se ci fosse un arcaico nesso di
causalità tra la fauna marina e gli abitanti della terraferma. - Otranto è una città molto diversa da Gallipoli.
Più borghese, più signorile, più elegante. Come dire:
Otranto è Clark Gable, Gallipoli è John Wayne –
- Otranto è una sinfonia di Vivaldi, Gallipoli è un
cd dei Sud Sound System - ribattei io provando a far
valere le mie conoscenze musicali che mi sembravano,
sull’argomento in questione, non meno arbitrarie delle
sue conoscenze cinematografiche. - Otranto è più vicina
a Wagner che a Vivaldi. Più sontuosa, più maestosa. E
Gallipoli mi ricorda più Pino Daniele che i Sud. Se
Pino Daniele fosse stato di queste parti probabilmente
avrebbe scritto “Gallipoli mille colori…Gallipoli mille
paure… Gallipoli ‘na carta sporca e nisciunu se na
futte…”- sentenziò lui come se avesse espresso l’ovvietà
del secolo condita da ghirigori pop un tantino forzati.
Pino Daniele quella sera mi restò sul gozzo.
Ecco, Roberto pareva trovare una valvola di sfogo
ai suoi pensieri soltanto se si trattava di argomenti che
prescindessero dalla quotidianità. Non gli interessava
il calcio, era impermeabile all’amore, la scuola era una
noia mortale e sulla famiglia preferiva glissare come
se lui fosse nato per partenogenesi in un campo di
cavoli.
Non riuscimmo a dipanare la matassa delle pescherie. Arrivammo a presumere che lo Ionio e l’Adriatico
sono mari molto diversi. Il primo placido e indolente.
Il secondo sempre agitato, un mare che stordisce col
suo vento. E i pesci preferiscono il mare quieto, lì si
fanno pescare più volentieri.
- Otranto è una città di terra, attenta a difendersi,
e la sua storia lo dimostra bene Passeggiammo per quella città di terra ammirando
gli angoli e le ombre che stavano silenti solo per
distrarre i visitatori da un rumore assordante. La storia
di Otranto è un rumore perpetuo. Ma se si è distratti
non lo si può sentire. Il castello era il severo guardiano
di quest’ordine disarticolato.
- Sir Horace Walpole vide questo castello e, nel
1764, scrisse il primo romanzo gotico della storia della
letteratura. Lo chiamarono romanzo medievale all’inizio
e molti critici lo definirono una banale prosa romantica
assurda e tronfia. In seguito fu rivalutato alla grande,
come meritava -.
E comunque Roberto chiosava le sue reminiscenze
letterarie mentre continuava a passeggiare stancamente.
Come al solito. Io mi limitai a scrutare il castello in
questione con una certa riverenza.
Dopo andammo al pub ad interrogarci sul perché
il mio cellulare non inviava MMS. Certi argomenti,
sui bastioni di Otranto, acquistano una certa levatura.
Fuori la foschia calava densa e compatta e le luci
arancione delle barche provenienti dal mare davano
l’idea di un occhieggiare quasi materno, comunque
familiare. Sui bastioni di Otranto, una sera d’ottobre,
sembra di stare in un grande liquido amniotico. Ci si
sente un po’ esposti ma protetti. Roberto guardava il
mio stesso orizzonte preso da chissà quali pensieri. Il
suo sguardo era un baluginare di riflessi. C’erano la
foschia densa, le luci delle barche, la luna pallida e
nella testa, forse, un canto di sirene.
Mentre lo guardavo pensavo a come fosse possibile
che l’amore di una ragazza non attecchisse su di lui.
- Com’è triste Otranto se non hai un amore - sussurrai,
evitando accuratamente di approfondire l’argomento
per evitare nuove disquisizioni pseudo-musicali che
mi sarebbero rimaste indigeste. Conoscerà Aznavour?
- Sono stato con una ragazza due anni fa, ma è
durata solo un mese. Le ragazze hanno troppe pretese,
troppe paranoie. E io sono una persona semplice e non
mi va di sfasciarmi la testa per loro - A quel punto si
girò verso la mia faccia sorpresa. - Ma…sono un mondo
a parte, va bene…però secondo me vale la pena conoscerle, cercare di capire…- Tempo perso - mi disse e trascinò la sua camminata
stanca verso nord est. Sembrava il capitano Achab
arreso davanti allo strapotere di Moby Dick e io non
ci potevo credere che Achab si arrendesse a Moby
Dick. Non ci posso credere.
- Come si chiamava lei? –
- Martina –
-Ah, bel nome –
-Ma non era “com’è triste Venezia (se non hai un
amore)”?- Si, era Venezia - Ah, bella città –
Conosceva Aznavour.
Otranto ci salutò senza salutarci. Il mare era una
tavola nera.
nuovalba
12/2008
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Libero web
Gli scribacchini ieri e oggi: la
scrittura attraverso i secoli
di Valeria Nicoletti
“
L’ispirazione non ammette preavvisi”, scriveva
Garcìa Marquez. Tuttavia, la scrittura obbedisce
a diverse istanze. Dona conforto ad animi
derelitti, placa le ossessioni di mani inquiete e di menti
turbate e si fa tramite e alleato di chi ha sete di dire e
raccontare.
I viaggiatori francesi dell’800 erano accusati di essere
scribacchini ossessivi. Arrivati in Italia, annotavano
qualsiasi cosa vedessero nel Bel Paese, le stravaganze e
le bizzarrie di una nazione ancora vacillante, denigrandola
per le piaghe che già dal ‘700 la affliggevano: ciceroni,
insetti e albergatori. A compensare e risollevare la reputazione di quella che già allora era un’Italietta in mano
ai potenti, troneggiava lo straordinario patrimonio artistico
e letterario di un popolo che è sempre stato, proverbialmente, di poeti
Leggendo i fitti taccuini degli avventurosi francesi,
qualcuno potrebbe rimproverarli di aver pensato troppo
ad annotare e poco a vedere, di aver perso l’occasione di
godere delle gioie del viaggio e dei dolci piaceri che
l’Italia poteva offrire. Tuttavia, nonostante l’immagine
romantica del viaggiatore disteso sulle dolci colline italiche
a prendere appunti abbia il suo fascino, era compito, non
sempre ingrato, del precettore occuparsi del “carnet de
voyage”, mentre i nobili rampolli gozzovigliavano nei
salotti letterari tra il fruscio di una gonna e una discussione
filosofica sull’europeismo nascente.
Ogni tappa, ogni sensazione, ogni impressione della
lunga traversata dell’avvincente “grand tour” che toccava
quasi ogni porto del Vecchio Continente era messa nero
su bianco. Qualcuno disse, infatti, che viaggiare senza
scrivere sarebbe stato un delitto, ma ancor più vivere
senza prendere nemmeno un appunto sarebbe stato imperdonabile.E di certo non saranno colpevoli i miliardi
di blogger e scribacchini virtuali che affollano la rete.
Dall’800 ai tempi di “digito ergo sum”, di moltiplicazione di identità, in tempi di imperante soggettivismo
dell’informazione, la scrittura sembra essere diventata il
passe-partout per la popolarità, il mezzo sicuro per guadagnarsi il proprio posto al sole nello sterminato spazio
del web. Un’ineludibile esigenza di obiettività impone di
considerare entrambe le facce della medaglia. E sebbene
la prima sia sconfortante, ossia la proliferazione di inconsistenti e vacui diari on-line, cronache banali e insignificanti
di giornate tutte uguali, parole pretenziose e vanesie, è
innegabile che in un Paese ancora assediato dalla censura,
la censura più subdola, quella che non si vede e si fa
strada nell’ombra, la libertà di parola abbia fatto un
notevole passo avanti.
Tanto notevole che anche ai piani alti è arrivato il
sentore di pericolo, di anarchia derivante da quest’enorme
massa, non controllata, di notizie, informazioni, opinioni,
autorevoli e non. Risale all’anno scorso, infatti, il decreto
Levi-Prodi, un vano tentativo di regolamentare qualsiasi
forma di “attività editoriale”, blog compresi, in un apposito,
quanto macchinoso e patetico, Registro per gli Operatori
delle Comunicazioni; proposta tornata in auge quest’anno
quasi scopiazzata da quella dell’anno precedente che
colpisce non più i singoli blog personali, ma chiunque
faccia “disinformazione” svelando altarini e mettendo le
pulci nell’orecchio, a destra e a manca, anzi alla destra
e alla sinistra, e chiunque ricavi dal suo blog un minimo
nuovalba
12/2008
reddito d’impresa, clausola questa che si presta a molteplici
interpretazioni. La politica contro la scrittura on-line,
quindi. In barba alla libertà di parola e al buon vecchio
Voltaire che aveva giurato di difendere fino alla morte la
libertà d’espressione di chiunque, pur non condividendone
il pensiero. Anche questa proposta di legge, tuttavia,
etichettata come legge ammazza-blog, è stata inesorabilmente ritirata davanti alle proteste mosse dal grande
esercito del web 2.0, dai gruppi anti-censura su Facebook
alle urla di disappunto sui blog istituzionali.
Sfuggita alle fauci di una politica sempre più brancolante nel buio del burocratese e invischiata in queste inutili
velleità di regolamentazione, la rete, rivoluzionaria sin
dagli esordi e per adesso ancora libera, aggiunge ogni
giorno migliaia e migliaia di posti a tavola per i nuovi
convitati al grande banchetto della scrittura on-line.
Dal ricettario sul web agli onirici blog fotografici,
capolavori sul web di fantasia e talento, dalle cronache
di adolescenti tormentati ai democratici blog collettivi
dove ciascuno “posta” il suo intervento, nel grande paradiso
della scrittura libera ce n’è per tutti i gusti e tutti i palati,
per la gioia di splinder, livejournal, blogspot e tutti gli
altri enormi concessionari di domini.
In questo sconfinato universo, ci si può anche perdere
tra le vite e le emozioni di sconosciuti e, presi per mano
dai link che conducono da un sito all’altro, si finisce
impigliati in un infinito rosario di esistenze assaporate
solo per il tempo di un click.
Sorge spontaneo l’interrogativo: ma dove finisce la
voglia di esprimersi, di alzare la propria voce e dove inizia
la fame di notorietà che, inevasa nella vita reale, si sfoga
nel compiaciuto e compiacente mondo del web? Quando
questa inesauribile voglia di comunicare, che ha messo
le radici su internet proprio per raggiungere più coscienze,
si è tradotta in incapacità di comunicare nel mondo reale?
Quando, come, ma soprattutto perché si è passati dalla
comunicazione all’alienazione? Forse da quando un profilo
o un avatar, costruiti meticolosamente, ci rappresentano
meglio di quello che siamo nella realtà; o da quando è
più facile raccontarsi attraverso album di foto pubblicati
sul web; o ancora da quando diventare amici significa
accettare un altro nome sulla propria pagina personale.
Un quadro a dir poco sconfortante. Tuttavia, una fiducia
imperterrita nelle possibilità e nell’eterna bontà delle
intenzioni dell’uomo, in fondo ce l’aveva anche Anna
Frank, dovrebbe indurre a soprassedere, a chiudere non
solo un occhio ma tutti e due davanti a quest’era del
monitor, che sembra aver invaso ogni momento della
nostra giornata.
“Non importa quello che avete da dire, ditelo”. Con
le dovute eccezioni, e ricordando che in molti paesi del
mondo la libertà di parola è ancora una lontana utopia,
queste sembrano parole da tenere a mente. Di fronte alla
censura di cinquemila siti iraniani, di fronte all’omicidio
di scrittori e giornalisti, e al bavaglio, metaforico e non,
con cui si cerca di fermare la verità, chi può mettere nero
su bianco pensieri e opinioni, idee ed emozioni dovrebbe
approfittare, con intelligenza, di questa possibilità. Non
ci resta quindi che affidarci al buon senso degli uomini
e sperare in un futuro più reale e meno virtuale dove il
web fornisca agli uomini solo la sua migliore risorsa: la
libertà.
Personaggi
11
Consegna dell’Apollo d’argento
alla memoria di Aldo Vallone
di Paolo Vincenti
“Ricordando Aldo Vallone”. Nell’ambito della rassegna “Incontri
d’Archivio”, organizzata dall’associazione culturale Il LaboratorioArchivio Storico Parabitano, si è tenuta, giovedi 4 dicembre 2008, la
consegna dell’Apollo d’Argento alla memoria di Aldo Vallone, nell’atrio
del Palazzo comunale di Parabita.
Aldo Vallone, insigne dantista e storico della letteratura italiana, è
morto nel 2002, all’età di 86 anni. Grandi sono i suoi meriti nell’ambito
degli studi e dell’esegesi dantesca e numerosissimi i suoi contributi, su
riviste o in volume, tutti accompagnati da una grande fortuna critica.
La portata dello studioso galatinese è tale che il Laboratorio, e
segnatamente il suo Direttore Aldo D’Antico, ha pensato bene di illustrarne
la memoria, con un sentito omaggio da parte della città di Parabita, allo
studioso e all’uomo Aldo Vallone, membro di varie accademie, nazionali
ed internazionali, e docente di Letteratura Italiana presso le Università
di Bari, Napoli e Lecce. Alla serata di consegna hanno partecipato
Giancarlo Vallone, figlio del grande Aldo, docente di Storia delle Dottrine
Politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce, Luigi Scorrano, critico letterario
e collaboratore di Aldo Vallone alla stesura di un importante commento della Divina Commedia di Dante,
monumentale opera pubblicata, in due volumi, negli Anni Ottanta, e il Presidente della Provincia di
Lecce, Sen. Giovanni Pellegrino. Alla fine degli interventi di Vallone e Scorrano, i quali hanno tenuto
delle dotte relazioni, è toccato al Presidente della Provincia Giovanni Pellegrino consegnare l’Apollo
d’argento alla memoria del professor Vallone, nelle mani del piccolo Aldo, dieci anni, figlio di Giancarlo
e quindi nipote di “cotanto” nonno.
A coordinare i lavori Aldo D’Antico. Vi è stato anche un breve saluto da parte del Sindaco di Parabita,
Adriano Merico. Gli Apollo, come ha spiegato il professor D’Antico, sono delle fusioni in argento che
riproducono una moneta, dell’88 a.C., ritrovata nel territorio archeologico di Bavota, l’antichissima
Parabita: questa moneta, coniata probabilmente dalla Zecca di Bavota, reca su un lato una testa di Apollo
Vejove e sull’altro lo stemma civico di Parabita con la variante di un uccello al posto dell’angelo.
Molto significativa è la consegna di questi riconoscimenti a quelle personalità, non solo parabitane
ma anche salentine, che con il loro esempio hanno portato in alto il nome della nostra terra. In questo
senso, meritava certamente un riconoscimento ufficiale dalla città di Parabita la fama nazionale di un
letterato come Aldo Vallone, Medaglia d’oro per i Benemeriti della Scuola, Cultura ed Arte e Medaglia
d’oro per i suoi studi danteschi anche dal Comune di Firenze e dalla Società Dantesca Italiana.
L’Apollo d’argento è già andato alla memoria di altri concittadini illustri di Parabita del passato, come
il grande economista Francesco Marzano, Alfredo De Gregorio, luminare del diritto commerciale, e
Vittore Fiore, parabitano onorario, meridionalista e ottimo poeta civile; ma è stato consegnato anche ad
alcuni giovani parabitani che si sono fatti valere per le loro capacità professionali, quale incoraggiamento
a continuare sulla strada intrapresa con sempre maggiori risultati.
nuovalba
12/2008
12
Ricorrenze
Un anniversario dimenticato (?)
di Antonio Nicoletti
S
pesso è il caso che ti pone davanti a ricordi,
a volte sbiaditi, altre volte bene impressi nella
mente ma temporaneamente celati… Quando
questi ricordi si affacciano, prepotenti,
all’attenzione, è inevitabile che si scateni un
processo di riflessione: si tratti di un rapporto affettivo,
di ricordi di scuola, di litigate o, più semplicemente di
emozioni!...
Alla guida della mia bistrattata auto, in compagnia
di un collega di lavoro, si parlava di Banche: argomento
quanto mai di attualità in questo periodo nero per la
finanza mondiale. Non ricordo esattamente come, ma
il mio pensiero è arrivato alla Banca Popolare Pugliese
e, soprattutto, a una delle sue progenitrici: la gloriosa
Banca Popolare di Parabita! È stato un istante, la
mia mente si è riaperta su una data: “15 settembre
1888”!
Sono passati esattamente 120 anni (!) da quando,
in quelle lontane “…ore 5 pomeridiane, in Parabita,
Provincia di Lecce, nella sala della Scuola Maschile,
via Piazza…” per rogito del notaio Giuseppe Ferrari,
veniva stilato l’atto costitutivo di una “Società Anonima
Cooperativa per l’esercizio del Credito, denominata
Banca Popolare Cooperativa di Parabita, con sede in
Parabita”… Sono passati, anonimamente, 120 anni
dalla fondazione di uno dei Fiori all’occhiello di Parabita, forse l’espressione più concreta del fervore e dello
sviluppo della società illuminata e neo imprenditoriale
della Parabita ottocentesca! Va bene che la società di
oggi ci impone di guardare sempre in avanti, per non
perdere il filo del continuo aggiornamento e il “treno”
della Globalizzazione, ma non si può MAI DIMENTICARE il passato, soprattutto quando questo è ricco
di gloria e soddisfazioni!
Nella Parabita di fine ottocento, una classe dirigente
e professionista, estremamente lungimirante e formata
negli ambienti Napoletani, aveva l’ardire di fondare
uno dei primissimi Enti di Credito Popolare della
Provincia: all’epoca, in tutta Italia, il numero delle
Banche Popolari non raggiungeva le 30 unità, di cui
oltre il 75% si trovavano al Nord Italia!
Provate solo ad immaginare quanto notevole è stato
quell’atto, quanto moderno e innovativo (e di conseguenza positivo e determinante) fu per Parabita avere
un punto di riferimento per il credito popolare, distinto
e notevolmente più conveniente di quanto non fossero
mai stati in passato i “censi bollari” settecenteschi o
il Monte dei Pegni… Quanto beneficio hanno avuto
gli imprenditori e i lavoratori agricoli o, molto più
semplicemente, tutte le famiglie che vi si sono rivolte
per le piccole e grandi necessità di tutti i giorni! Un
fatto eccezionale che raccolse immediatamente consensi
in tutto il circondario e che, in breve tempo, portò
all’apertura di due sportelli decentrati a Casarano e
Maglie, centri già allora molto attivi dal punto di vista
commerciale ed imprenditoriale, per evitare ai clienti
di ricorrere a frequenti e scomodi spostamenti verso
la sede di Parabita.
nuovalba
12/2008
I 52 fondatori della neonata Banca ebbero la capacità
di creare basi solide, mediante la continua sottoscrizione
di azioni, aperta a tutti coloro che avessero almeno “25
lire” da impiegare (tanto era il valore nominale delle
azioni), e grazie ad una guida accorta e sapiente affidata
al Presidente Giuseppe Ferrari e al primo consiglio
di amministrazione formato da (qui corre l’obbligo di
ricordarli tutti): Rosario Marzano vice presidente;
Giovanni Vinci, Luigi Muja, Domenico Ferrari,
Donato Pierri, Giuseppe Giannelli, Giuseppe Muja,
Lucio Barone e Salvatore Laterza, consiglieri. Come
sindaci furono eletti: Vincenzo Garzia, Vito Cherillo,
Francesco Caggiula (effettivi), e: Francesco Leopizzi
e Giuseppe Solidoro (supplenti). Grande merito va
anche alla prima direzione della Banca, che venne
affidata a quel Francesco Marzano, insigne giurista
ed economista, autore del primo trattato italiano di
Scienza delle Finanze, che si confermò persona altamente preparata ed estremamente “umana”.
Nelle intenzioni dei fondatori c’era l’obiettivo di
far crescere il territorio ed i suoi abitanti e di valorizzare
Parabita come centro propulsore per l’economia locale
e salentina tutta. Obiettivo raggiunto ampiamente nella
storia ultra centenaria di quella Banca che, nel tempo,
seppe espandersi nel Salento, grazie ad acquisizioni e
fusioni che la portarono man mano a mutare il nome,
dapprima aggiungendovi il predicato “di Aradeo” e
poi, in seguito all’acquisizione della “Banca Popolare
di Ceglie Messapica”, assumendo il nome di “Banca
Popolare di Lecce”, nome con cui si intendeva dare
un più ampio respiro alla dimensione non più strettamente locale dell’Istituto.
Proprio in occasione della mutazione del nome,
coincidente con il centenario della Fondazione della
primigenia Banca, in quel più recente 1988, l’allora
Presidente, Dott. Luigi Vinci, sulle pagine di quella
splendida opera che rimane “Paesi e Figure del Vecchio
Salento” (più volte citata in questo intervento), affermava che “…rimane ferma la intenzione dell’Istituto,
che ho l’onore di presiedere, di rendere omaggio a
Ricorrenze
13
tutte le sedi in cui opera, quale atto di promozione
culturale e di identificazione sociale nel segno di uno
stile ormai collaudato in un secolo di vita”.
Ora che ormai da oltre 14 anni la “vecchia” Banca
Popolare di Parabita, fondendosi con la Banca Popolare Sud Puglia, ha assunto la denominazione di Banca
Popolare Pugliese, affermandosi tra i gruppi bancari
più importanti del Sud Italia, vogliamo credere e sperare
che questo “stile” non sia andato perduto e che, a questa
ricorrenza, venga dato il giusto risalto ed il dovuto
ricordo. Un invito, quindi, più che un monito, alla
dirigenza attuale dell’Istituto, per ricordare il lavoro
di 120 anni di storia: siamo ancora in tempo, la Banca
aprì lo sportello il 1° gennaio 1889, e qualcosa di bello
si può ancora preparare.
Probabilmente sarà irripetibile e inarrivabile
l’iniziativa di “Paesi e Figure del Vecchio Salento”,
lavoro da cui non si può prescindere per affrontare uno
studio completo dei centri salentini contenuti nell’opera,
ma non può essere abbandonata nel dimenticatoio la
memoria di quell’atto coraggioso, di un gruppo di
persone, che credette nello sviluppo economico e sociale
di questo estremo lembo d’Italia, distinguendosi in
Terra d’Otranto, per industria ed intraprendenza, e che
quel lontano 15 settembre 1888 “…alle ore 5 pomeridiane, in Parabita…” non redassero un semplice “atto
notarile” ma scrissero un “pezzo di storia” che deve
rimanere indelebile nella memoria di tutti i parabitani,
passati, presenti e, soprattutto, futuri!
Editoria storica
Quarta tappa del viaggio tra l’editoria e la pubblicistica locale
Poeti parabitani (parte seconda)
N
ell’elenco dei più grandi poeti che Parabita
abbia mai avuto, non può mancare il
“maestro” Rocco Cataldi. La sua poesia ha
attraversato gli ultimi sessanta anni del
secolo scorso, ed ancora oggi rivive attuale
e “vera” come nei giorni in cui è stata scritta. In più di
mezzo secolo si racconta una poesia, quella di Rocco
Cataldi, maestro di vita e di cultura, poeta del mondo
contadino.
E’ datata marzo 1949 la prima opera pubblicata dal
poeta parabitano, il quale dalle rovine di una guerra
appena conclusa trovava l’ispirazione per far conoscere
la sua lirica, la sua “nobile” penna. “Parabbita è chiantata
su n’artura/ E se standicchia janca cu lle vie/ Te menzu
monte finu a lla pianura/ Tra fiche, ficalindie e tra
l’ulì'ece…”. E’ il verso con cui Cataldi, allora appena
ventiduenne, apre “Rrobba Noscia” (Castrovillari,
Editrice Bruzia, 1949) riservando un doveroso atto
d’amore alla terra natìa, alla sua Parabita che ha sempre
amato, ed alle tradizioni della quale si è costantemente
riferito nella lunghissima sua produzione poetica tra
pubblicazioni edite in lingua ed in vernacolo.
La poesia ereditata da Rocco Cataldi oggi si legge
con quella semplice particolarità che ha contraddistinto
l’intera opera letteraria del “maestro”, costituita da un
narrare per la gloria dell’animo, per il gusto di dare ad
una penna e ad un foglio il libero sfogo alle emozioni.
Giacché tutto quanto è stato venalmente guadagnato
per l’ingegno della sua arte e per le sue rime, Rocco
di Daniele Greco
Cataldi lo ha generosamente sempre
devoluto in beneficenza.
Cataldi ha saputo
dare corpo alle passioni di una lirica che
racconta le minute
vicende di una storia
contadina che, come
tutte le vicende legate
alla terra, è povera
nella materia, ma
ricca, ricchissima, nei
valori. Ed è per questo
che la sua arte è diretta e naturale, per
quel saper raccontare
con praticità fatti e situazioni che circondano, avvolgono
e spesso travolgono la quotidianità della vita.
Sono, quelle di Cataldi, parole che incorniciate dal
dialetto parabitano incidono ed aggrediscono maggiormente. E quindi diventano vive, come le poesie che
disegnano.
Per tutto questo la cultura parabitana deve molto al
“suo” poeta. Ad un maestro di vita, di cultura e di
umiltà. Che alla vita di artista ha dato tanto. Ricevendo
in cambio molto, molto più di “nu nome onurato e na
poesia”. (4. continua)
nuovalba
12/2008
14
Ambiente
Inciviltà Parabitana: discariche
e sporcizia “Made in Parabita”
di Alessandro Tornesello
N.
I.M.B.Y. (acronimo inglese di: “Not in my
back yard”…tradotto in italiano: “non
dietro il mio giardino”)
L’acronimo inglese N.I.M.B.Y. è la spiegazione dei problemi che hanno recentemente ridotto in ginocchio Napoli e la Campania.
Nessuno vuole una discarica vicino il suo giardino!
Ancor di più se parliamo di mega discariche per tonnellate di immondizia!
A Parabita “è stata avviata una procedura
alternativa”: ossia, centinaia di piccoli cumuli di rifiuti
speciali disseminati nelle nostre stupende (ormai non
più!) campagne, e anche a ridosso di alcune zone
produttive o addirittura abitate!
Televisori, frigoriferi, mobilia, lavandini, materassi,
pneumatici e soprattutto ancora tante lastre di amianto!
Nonostante l’agevolazione allo smaltimento,
l’amianto, materiale cancerogeno, è sempre più depositato ai bordi delle strade o addirittura in altre proprietà,
per far si che venga prelevato senza dover pagare un
soldo. Non solo il problema amianto! I vecchi elettrodomestici ad esempio. Quanti di noi sanno che si
possono far prelevare a domicilio in particolari giorni?
E i materassi o le batterie delle auto? Non perdiamo
tempo a farci domande: “buttiamo tutto in una discarica
“regolarmente” abusiva!” Questo ahimè, è il pensiero
di molti nostri concittadini!
Eppure la colpa non è tutta loro!
Da novembre dello scorso anno è partita la campagna per la raccolta differenziata porta a porta. Nonostante le prime difficoltà, grazie ad una forte sensibilizzazione, e alla paura generata dal caso “Napoli e
Campania”, ora la gente risponde positivamente e la
percentuale dei rifiuti differenziati aumenta sempre
più. L’eliminazione totale dei vecchi cassonetti e dei
grossi contenitori per la differenziata, mettono però in
crisi tantissima gente!
Il televisore rotto nel mio bidoncino verde non va!!!
...allora lo butto in campagna! Questo è il pensiero
errato di qualcuno di noi!
nuovalba
12/2008
Ritengo che sarebbe stato ideale far partire, parallelamente alla raccolta porta a porta, la realizzazione
di un’isola ecologica permanente, in cui il cittadino
deposita il rifiuto speciale, che viene poi raccolto e
smaltito da ditte competenti. In molte città, l’isola
ecologica ha drasticamente ridotto la quantità di discariche abusive, rendendo anche un comodo servizio alla
cittadinanza. Nel caso in cui il Comune non disponga
di spazi propri per la suddetta realizzazione, ha il
dovere, insieme a una ditta specializzata, di avviare
una raccolta differenziata porta a porta anche per il
rifiuto speciale, magari effettuandola solo in certi giorni
e con certe modalità!
Anche in questo caso è fondamentale un’adeguata
comunicazione, da parte dell’Amministrazione Comunale e della ditta appaltatrice del servizio, a sensibilizzare
la gente a rispettare queste semplici regole.
Consentitemi di parlare di un altro problema relativo
alla “spazzatura parabitana”…anzi, non chiamiamola
spazzatura perché difatti non viene più spazzata!
A parte qualche strada principale che viene pulita
dal mezzo meccanico, il quale è costretto anche ad uno
slalom tra le auto parcheggiate, tutte le strade meno
trafficate sono invece invase da carta, plastica e tanta
tanta erbaccia!
Conseguenza: ognuno di noi si deve adoperare
quotidianamente a ripulire lo spazio antistante il proprio
portone di casa!... e personalmente, spero che qualche
mio vicino vinca finalmente al “Gratta e Vinci” per
non dover raccogliere i pezzi dei suoi biglietti perdenti,
strappati e gettati per strada! Tutto ciò non è solo una
questione amministrativa e/o organizzativa, è anche
una questione di civiltà ed educazione verso la propria
terra, e ognuno di noi deve contribuire a renderla più
pulita!
A Parabita, ci sono tante persone, professionisti,
volontari e realtà associative che spendono tempo,
denaro ed energie per valorizzare e rilanciare il territorio;
ed è mortificante essere criticati da amici e turisti che
amano Parabita e il Salento, per le colpe di chi non ha
rispetto per gli altri…e nemmeno per se stesso!
Ambiente
15
Per rendere un fine a questo articolo, il sottoscritto
e la redazione di nuovAlba vi fornisce delle INFORMAZIONI che vi saranno SICURAMENTE UTILI.
Numero verde IGECO: 800 968 979
per particolari esigenze
di smaltimento di rifiuti speciali.
oppure
Depositate fuori casa il vostro rifiuto speciale il
mercoledì sera, avvisate l’Ufficio di Polizia Municipale e il rifiuto sarà prelevato il giovedì mattina.
Collaboriamo tutti per una Parabita più pulita!
Volontariato
Come vola il tempo
Q
uante volte vi è capitato di riflettere su un
determinato fatto, avvenimento, momento bello
o brutto della vostra vita e come per incanto
vi accorgete che è trascorso tanto di quel tempo
che sembra essere volato… Come vola il
tempo, è vero; però ciò significa che le giornate non
scorrono inutilmente, vuote e prive di cose da fare,
altrimenti sembrerebbero interminabili. E invece quando
si è presi dal proprio lavoro, dai propri interessi, la sera
arriva come se il giorno non ci sia stato, e non è un
male.
E’ proprio quello che è accaduto a noi volontari del
Servizio Civile Nazionale 2007/2008, vincitori del bando
“Parchi Culturali”, conclusosi da pochissimi giorni.
Quanto entusiasmo e quanta voglia di fare c’era in
ognuno di noi quel lontano 3 dicembre 2007, quando
ci presentammo al Comune di Parabita, per dare inizio
a quella che in seguito si è rivelata, forse, l’esperienza
più significativa ed interessante di ciascuno di noi, sia
sotto il profilo della crescita individuale che intellettuale.
In realtà, i buoni risultati raggiunti nell’arco di quest’anno
vanno attribuiti, oltre al nostro costante impegno in
quello che facevamo, alla figura che in tutti questi mesi
ha creduto in noi, tanto da coinvolgerci (e per questo lo
ringraziamo) nelle sue attività; attività che, anche se si
discostavano tra di esse, avevano comunque un unico
punto d’arrivo, l’amore per la Cultura.
Non avevamo idea della mole di materiale presente
nell’Archivio Storico Parabitano e di quanto, nel corso
della nostra esperienza, ne è arrivato. Dai documenti
risalenti alla fine dell’800 ai libri antichi, alla sezione
dedicata alla Questione Meridionale, a tutto ciò che
riguarda Parabita e i suoi scrittori (ricordo ancora oggi
l’espressione di ognuno di noi quando sfogliammo il
primo numero dell’“ALBA”, che emozione!), agli
oggetti, allora a noi sconosciuti, del Museo Etnografico,
a quel delizioso palmento che oggi ne è diventato un
Museo (se vi capita di andarci provate a chiudere gli
occhi e la sensazione sarà quella di tornare indietro nel
tempo, - a proposito di tempo! -, a quando le persone
vi lavoravano l’uva; luogo ancora impregnato di
quell’odore tipico del vino e, dai visi consumati dalla
fatica di quei lavoratori, potrete scorgere se l’annata
fosse stata buona o meno, e quando riaprirete gli occhi
la gioia non sarà altro di aver immaginato, seppur per
un istante, uno scorcio di vita parabitana…).
Non potremmo certamente scordare quelle
interessantissime visite guidate per il centro storico, dai
Palazzi alle Chiese, al Castello e alla sua affascinante
storia, all’unico esempio di casa cannicciata che sorge
nei pressi dell’area frequentata dai monaci basiliani più
di mille anni fa; come vola il tempo… O come potremmo
non ricordare la bellissima veduta panoramica che dal
tetto del convento degli Alcantarini, se provavi ad
allungare la mano, sembrava di bagnarsi le mani nello
Jonio…; e la Chiesa dell’Umiltà? Alcuni di noi se la
ricordavano solo per alcune feste organizzate al suo
interno quando eravamo ancora dei ragazzini… Per non
parlare poi della Grotta delle Veneri, del canale del
Cirlicì e dell’intero sito archeologico al confine con
Tuglie… E delle menti parabitane o che a Parabita ci
hanno lavorato nel corso dei secoli, chi ne sapeva
qualcosa?
Chi era Renato Leopizzi? o Alfredo De Gregorio?
Chi è stato Napoleone Pagliarulo? o Agesilao Flora? E
il Riccardi? Cosa mai fosse questo “OronteGigante”
scritto da un certo Antonino Lenio detto “Il Salentino”?
Di quante cose siamo venuti a conoscenza in un
anno e che purtroppo prima ignoravamo!
Quest’esperienza ha vinto e c’è riuscita perché noi
abbiamo voluto che vincesse. Abbiamo lavorato duro
affinché lasciassimo qualcosa alla comunità e, per
fortuna, in un modo o nell’altro, ci siamo riusciti e lo
abbiamo fatto rimboccandoci le maniche sin dal primo
giorno, immergendoci con il massimo impegno in tutte
le attività che andavamo a svolgere. Il legame d’amicizia
che si è instaurato lo porteremo come esempio ai prossimi
volontari e a tutti coloro che si trovano a lavorare in
gruppo; la collaborazione, le iniziative, gli spunti di
riflessione, i confronti di idee, in un mondo che ormai
comunica solo telematicamente, sono l’arma necessaria
affinché ci sia sviluppo, personale e collettivo, senza
mai più tralasciare la memoria storica, indispensabile
per conoscere il passato di un popolo, per correggerla
nel presente, affinché ci sia un futuro migliore per noi
e per i nostri figli.
I volontari del S.C.N. 2007/2008
nuovalba
12/2008
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