Comune di Quindici
Collana Figli Illustri
“Motti, frizzi e lazzi
quindicesi”
di Salvatore Santaniello
a cura
“Associazione San Lauro Onlus”
2012
1
Il libro è stato stampato con il
parziale contributo
dell’Amministrazione Comunale di
QUINDICI
2
PAESE MIO
Paese mio, te tengo dint’ ‘o core.
Notte, matina e sera penz’ a ‘ttè
che cosa triste quanne se sta fore,
sempe cu’ ‘na speranza ‘e te vedè.
Te porto ‘ncuollo comm’ a ‘nu cappotto
ca dà calore e vita, quann’ é vierno,
‘nu friddo atroce t’arreduce ‘e botto
‘nu piezzo ‘e ghiaccio ca te fa murì.
Me guard’attuorno e veco tanta cose,
belle, ma bell’assaje, ma nun so’ ‘e noste
nun so’ ‘ll’amice antiche ‘e tanti ‘ccose
semplici e belle pe’ te cunzulà.
Addò stà Donnalesio e Dongiuvanne,
Ricuccio, Don Alfonso e ‘Ndrea ‘o Muscio,
pe’ putè ciaciá mo’ comme a tanne
cu’ ‘na resata ca te fa svenì.
Addio nuttate belle ‘e serenate,
notte d’argiento sott’ ‘o chiaro ‘e luna
quanne cu’ ‘na chitarra, arricamate,
‘sti ‘vvoce se facevano sentì.
Addio…
Angelo Santaniello fu Ernesto
Questo testo è dedicato, specialmente, a tutti i nostri amici e
parenti Quindicesi, residenti in ogni angolo del mondo, ai quali
va un sincero abbraccio da parte di tutta la Comunità: “Siete
l’orgoglio e la fierezza di tutti noi!!!”.
3
Ogni lavoro... esige il rispetto
e la comprensione di tutti.
(P. Gorini)
4
Introduzioni
5
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COMUNE DI QUINDICI
“I popoli sono come gli uomini: quando scompaiono non
rimane più niente di loro, a meno che non abbiano avuto
l’avvertenza di lasciare la propria impronta sulle pietre
della vita.” (F. Faure)
Sicuro di interpretare i sentimenti dell’intera Compagine Amministrativa è per me un grande onore poter in parole appropriate
e consone descrivere “il cittadino”, Prof. Salvatore Santaniello, e i
doni umani e spirituali, che ha lasciato in eredità a tanti giovani,
come me, che hanno avuto l’alto piacere di conoscerlo nel corso
della sua intensa vita.
Come cittadino si è impegnato attivamente nella vita politica, ricoprendo ruoli di primo piano nel tessuto cittadino: è stato
sempre un punto di riferimento a difesa dei valori universali di
legalità e trasparenza nei momenti più bui e difficili della nostra
storia locale, quando anche bisbigliare era un diritto riservato
solo a pochi.
Come alfiere della cultura non disdegnava impegnarsi nel ruolo
di regista, soprattutto, di commedie di Eduardo de Filippo: scene
di vita che molto spesso gli rammentavano gli anni giovanili, di
quella giovinezza per molti fugace e difficile, fatta anche di privazioni, legate al tempo ed alla società, ma nello stesso tempo
dolce ricordo per chi ha cercato, come lui e tanti altri giovani con
tutte le proprie energie umane e culturali, con tutta la propria
convinzione, di costruirsi passo dopo passo un ruolo ed un futuro
degno per sé e per i propri cari.
I suoi insegnamenti, la sua risata, il suo modo di rapportarsi
gentile ed educato, mai invadente, il suo stare insieme anche
nei momenti difficili, quando l’apatia o la novità prendono il sopravvento, rappresentavano un faro nella notte che ti riportava a
casa, che aiutava ad impegnarti ancora di più in quello che facevi,
ovvero, a credere in se stessi.
È questa la sua eredità lasciata ai cittadini di Quindici ed in
particolar modo ai giovani di ogni tempo e di ogni età: credere
nelle proprie possibilità e credere ad un futuro migliore.
Grazie Salvatore!
Il Sindaco
(Avv. Liberato Santaniello)
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“Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta
l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella
mente de’ suoi? (U. Foscolo)
Illustrazione
testo
Il lavoro che presentiamo, “Motti, frizzi e lazzi quindicesi”,
illustra alcuni aspetti della vita tradizionale e popolare di Quindici.
Ne è autore il Prof. Salvatore Santaniello, Presidente dell’Associazione, un quindicese semplice, gentile e profondamente colto.
Chi gli è stato vicino, ricorda la chiarezza del suo discorrere,
la capacità introspettiva verso i suoi interlocutori, l’amore e l’attenzione per le persone semplici e sprovvedute.
Tutti lo ricordiamo per le amicizie leali e disinteressate, eccessivamente quindicesi. Legate, se si vuol fare psicoanalisi facile
e postuma, ad un’infanzia passata in parte in Collegio, l’Istituto
Vescovile di Nola, dove ogni volta che gli capitava di passare, non
poteva fare a meno di infilare uno sguardo, per spiare l’androne
ed il cortile, alla ricerca della sua vita di ragazzo.
Ultimamente si mostrava un lottatore, seppure costretto a
soccombere, poiché un male oscuro ne minava profondamente
il fisico e la psiche, tanto da non consentirgli finte temerarietà:
ognuno finisce per accettare il suo destino, non per coraggio, ma
per mancanza di alternative.
Salvatore fece di più, ciò che sapeva fare meglio: scrisse, tra
cui questo opuscolo, raccolto pazientemente dalla memoria popolare dei quindicesi, nel corso degli ultimi anni della sua breve
esistenza, che oggi vede finalmente la luce, grazie ai contributi di
Enti e di privati, per la maggior parte locali, che hanno conosciuto,
apprezzato, stimato ed amato il compianto Professore.
Ce lo consegnò personalmente qualche giorno prima del Suo
passaggio a miglior vita, in occasione dell’ultimo onomastico del
6 agosto 2008.
Ce lo affidò in originale ad uno di noi, raccomandando brevemente, con voce flebile, ma non rassegnata: “Sai cosa devi
fare!”, e poi precisando: “Vedete cosa potete fare!!!”.
Sapere di avere la sua stima era motivo di grande soddisfazione ma, al tempo stesso, anche un’assunzione di responsabilità da
parte nostra spettandoci, seppur smarriti e disorientati, il compito
di proseguire sulla strada da lui tracciata.
Immediatamente, presi dalla curiosità del contenuto, ci mettemmo a leggere i quattro quadernoni formato scolastico, vergati
personalmente dall’Autore.
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Gli scritti presentavano sia il titolo che le parti, in numero di
quattro, contenenti duecentocinquanta esemplari, unitamente a
dei fogli allegati ma non recensiti come gli altri. Dopo diverse ore
di piacevole ed intensa lettura ci rendemmo conto della preziosa
raccolta di proverbi e modi di dire popolari di uso quotidiano.
Raccogliere questi “Motti, frizzi e lazzi” della tradizione orale
e trascriverli fedelmente con le varie sfumature vernacolari, come
se fossero colti dal respiro della gente e ne esprimessero ancora
l’anima, era opera che solo un cittadino fedele ai luoghi del suo
vivere quotidiano come Salvatore poteva realizzare. I proverbi e
le massime indicano la saggezza del nostro popolo.
Il dialetto, anche se a volte salace e sboccato, non è un modo
volgare di esprimersi, ma rappresenta la tradizione del nostro popolo, il mezzo attraverso il quale si sono espressi anche i cittadini
più colti e del quale si sono serviti per tratteggiare situazioni e
concetti tra i più vicini alla vita reale.
E questo fu probabilmente il motivo per cui il Professore
Salvatore si impegnò nella realizzazione del presente lavoro, di
ricerca e conservazione della memoria dei più tipici proverbi e
modi di dire, che i nostri padri hanno usato nel genuino dialetto quindicese; salvando in questo modo tutta una tradizione di
saggezza e di arguzia, che è appartenuta ai nostri antenati e ha
contribuito a caratterizzare la nostra terra.
Ci siamo permessi di edulcorare qualche termine più sconcio
e spinto per dare la possibilità al testo di avere, soprattutto, una
funzione didattica, nell’augurata prospettiva che esso entri nelle
aule scolastiche per formare oggetto dell’apprendimento dei nostri
ragazzi, traendone ogni possibile insegnamento.
Abbiamo, inoltre, affidato le introduzioni, le presentazioni e
le prefazione ad alcuni valenti studiosi e professionisti quindicesi
e del Vallo, amici e conoscenti del Professore, per dare autorevolezza, prestigio e profondità al testo.
Insieme ai quattro quadernoni consegnatici dal Professore,
erano conservati altri tre scritti, appresso indicati, che il tempo,
purtroppo, gli ha impedito di recensire:
(1) “Mamma d’ ‘a bontà”, di Guido Sepe;
(2) “Festona”, di Angelo Santaniello;
(3) “Cacca storica”, di Leopoldo Santaniello.
Ci siamo permessi, pertanto, di aggiungerli alla raccolta, come
V Parte, facendo del nostro meglio, per renderli quanto più possibile coerenti con la stesura degli altri, così come, forse, avrebbe
fatto il Prof. Salvatore, scusandoci anticipatamente se non siamo
riusciti nell’intento.
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Abbiamo, infine, arricchito il lavoro dotando molte pagine di
circa settanta bozzetti a colori, redatti dal Prof. Manlio Mattetti,
con i suoi alunni della SMS “Leonardo da Vinci” di Avellino.
Purtroppo per motivi sia economici che tecnici abbiamo dovuto
desistere e stampare in fondo al libro una parte soltanto delle
vignette stilate (15).
Interpretando sicuramente la volontà del Professore, dedichiamo questo testo alla Comunità quindicese, unitamente alle frazioni
di Beato e Bosagro, ed ai suoi abitanti, in Italia e nel mondo, che
esortiamo vivamente a non disperdere il dialetto, retaggio della
nostra cultura e intimo legame con il nostro passato.
Ringraziamo, soprattutto, il Sindaco, Avv. Liberato Santaniello,
sempre interessato e sensibile alle iniziative culturali, e il Consiglio
Comunale, Ente Patrocinante, che con voto unanime hanno sostenuto e voluto questo testo, nonché quanti, Istituzioni e Privati,
in varia forma e modo, hanno reso possibile la pubblicazione di
questo lavoro.
Associazione San Lauro Onlus
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Lineamenti della personalità dell’Autore
Premessa
Una breve premessa mi sembra opportuna sulla fugacità del
tempo. Già Orazio, il poeta lirico di Roma, un epicureo pagano,
avvertiva la veloce fuga degli anni e la instabilità e la fugacità
ineluttabile della vita dell’uomo: Eheu! fugaces, Postume, Postume,
labuntur anni (= Ahimé! Veloci, o Postumo, Postumo, scorrono via
gli anni).1 E’ vero che il poeta latino osservava gli anni della sua
vita che si accumulavano e si precipitavano verso la vecchiaia e
verso l’indomabile morte. Laddove anche noi, quando ci volgiamo
indietro, vediamo che il tempo con la sua ineluttabilità travolge e
sommerge nel suo oblio anche la memoria dell’uomo. E se appare
ovvia la constatazione che irreparabile fugit tempus, nello stesso
istante dobbiamo ammettere che col trascorrere del tempo anche
la memoria degli eventi e delle persone a poco a poco si attutisce
e rischia di scomparire senza lasciare traccia.2
Orbene, se questa è la sorte comune degli uomini e delle loro
opere e, in genere, di tutte le vicende umane, incombe l’obbligo
ad ogni comunità civile e religiosa di conservare grato il ricordo
degli uomini, che hanno illustrato la sua storia con il contributo
della loro opera. E’ così anche per il Prof. Salvatore Santaniello,
che con la sua Raccolta di “Motti, frizzi e lazzi quindicesi” meritevolmente ha dato il suo contributo alla conservazione di quel
poco che ancora resta della “peculiarità” della nostra tradizione
dialettale locale. Illustrare questo apporto culturale al nostro
patrimonio tradizionale da parte del compianto Prof. Santaniello
sarà compito dei cari amici qui convenuti, questa sera. Tutto ciò
per non dimenticare.
L’uomo e il cristiano
Personalmente tenterò di individuare le linee direttrici e le
tappe più significative della vita dell’amico prematuramente scomparso, con cui sono vissuto per molti anni insieme, condividendo
con lui, nelle diverse fasi della sua esistenza terrena, il comune
desiderio e l’impegno di favorire la crescita e il miglioramento
civile e religioso del nostro popolo quindicese.
A tal fine ho accolto ben volentieri l’invito rivoltomi dal Prof.
Flaviano Santaniello, Presidente dell’Associazione San Lauro Onlus,
cui plaudo di cuore per la presente iniziativa culturale, perché
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intervenissi sull’Autore di questa Raccolta dialettale quindicese.
Orbene, il Prof. Salvatore Santaniello fu mio amico di sempre. E
questo è certamente il motivo principale della mia presenza, qui,
e del mio intervento: l’amicizia sincera e antica con l’Autore e
il dovere della memoria per lui da parte della nostra Comunità
civile e religiosa. E non solo. Da sempre con Salvatore condivisi la
convinzione che la differenza tra le persone la fa soltanto l’uomo
nella variegata, multiforme e confusa congerie della nostra società
contemporanea, che lo stesso Salvatore era solito dividere e qualificare in quattro categorie: Uommini, Miez’uommini, Umminicchi
e Quacquaracquà. E l’amico Salvatore, per parte sua, ci teneva tanto ad essere
e a comportarsi da galantuomo o “uomo” autentico, che si ispira
ai principi eterni della humanitas greco-romana, codificati nella
definizione dell’oratore, l’ideale figura del futuro cittadino romano,
fornitaci da Catone e da Cicerone: Orator est vir bonus et doctus,
dicendi peritus.3 Il cittadino romano è il “galantuomo”, cioè l’uomo
che è stato allevato secondo l’integrità dei boni mores, consacrati
dalla tradizione, vale a dire l’uomo dai sani principi morali e civili, l’uomo di notevole e varia cultura, con grandi doti e capacità
di comunicazione con gli altri. In altri termini l’ideale dell’uomo
autentico è l’uomo leale e onesto (bonus): e cioè uomo onesto,
leale e coerente con se stesso, in quanto dice ciò che pensa e fa
ciò che dice; uomo leale con i propri simili, in quanto non ricorre
mai alla menzogna, alla finzione né ai sotterfugi, deludendo la
fiducia riposta in lui; e infine uomo onesto e leale nei suoi rapporti
con lo stato e il bene comune della società civile.
Questo ideale di formazione umana costituì non solo il fondamento sicuro ed insostituibile della vita civile e professionale di
Salvatore, ma permeò anche il suo impegno di vita e di pratica
religiosa: la fede cristiana con i suoi evidenti risvolti pratici sottolineava che in Salvatore quell’ideale classico di humanitas, di cui
ho parlato, era stato ravvivato e sublimato dall’ideale cristiano e
dall’impegno concreto nell’osservanza dei Comandamenti e nella
pratica cristiana derivata e arricchita dalle tradizioni del nostro
popolo.
Cenni biografici
Nato a Quindici il 24 Agosto 1942, Salvatore, dopo le scuole
elementari, si avviò al Seminario di Nola, rispondendo di certo
ad un impulso interiore di chiamata al sacerdozio. Io ero già in
Seminario da qualche anno, allorquando giunse Salvatore. Uscito
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dal Seminario, egli continuò i suoi studi di Liceo e quindi di Università, laureandosi in Lettere Moderne.
a. Un appuntamento imprevisto (in Seminario)
In realtà il Prof. Salvatore Santaniello, era di qualche anno
più giovane di me. Lo conobbi fin da bambino, ma in seguito, a
cominciare dalla Scuola Media - all’epoca ancora prime tre classi
di Ginnasio -, lo ebbi compagno nel Seminario Vescovile a Nola,
dove insieme fummo incaricati, io come Prefetto e Salvatore come
mio vice-Prefetto, come responsabili della Camerata “Sacro Cuore”,
che ospitava i Seminaristi alunni del primo anno di Ginnasio, vale
a dire i più piccoli del Seminario Vescovile, avviati al sacerdozio.
Nel Seminario di Nola, in quegli anni, eravamo un gruppo di
Seminaristi di Quindici: oltre Salvatore e il sottoscritto, io conservo un grato ricordo di quegli anni legati alla figura di Don Mimì
Amelia, Don Ciro Bossone, Salvatore Grasso, Antonio Scibelli, per
tacere di quelli che giunsero in Seminario negli anni successivi.
Don Mimì Amelia e Salvatore Grasso ci avevano preceduti e quando
siamo arrivati Ciro ed io, a sera inoltrata, in Seminario, fummo
accolti con tripudio di gioia dai compianti Salvatore Grasso e da
Mimì Amelia, che ci rassicurarono subito della loro incondizionata
assistenza: Giua’ nun ti preoccupa’ pecché ca’ a comannammo nui,
ci rassicurò Salvatore Grasso, che frequentava già il V Ginnasio.
b. Un ritorno di fiamma (Salvatore Istitutore in Convitto Vescovile di Nola)
Dopo il Ginnasio a Nola, Salvatore Santaniello uscì dal Seminario per frequentare il Liceo al “Rosmini” di Palma Campania,
mentre io nel frattempo ero già passato al Seminario Regionale
di Salerno per frequentare i tre anni di Liceo classico e l’anno di
filosofia propedeutico allo studio della Sacra Teologia: le nostre
strade si divisero, pur rimanendo impegnate nello stesso indirizzo di studi classici, per incontrarsi, poi, di nuovo dopo alcuni
anni, allorquando il sottoscritto, divenuto sacerdote (1963), era
ritornato in Diocesi e collocato dal Vescovo nel Seminario di Nola
ad insegnare e a dirigere il Convitto Vescovile, nel mentre che
completava gli studi di Lettere Classiche all’Università di Napoli.
In quegli stessi anni anche l’amico Salvatore, mentre completava
i suoi studi universitari a Napoli, chiese ed ottenne di ritornare
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in Seminario come Istitutore e Prefetto disciplinare nel Convitto
Vescovile insieme con me.
Soprattutto in quegli anni, nei quali si rinsaldarono i vincoli
della nostra sincera amicizia e della nostra vicendevole stima, ebbi
modo di conoscere da vicino il giovane Istitutore che con serietà
e responsabilità si formava e si preparava alla sua professione
di docente, impegnandosi a consolidare la sua cultura per trasmetterla poi alle giovani generazioni. In seguito ci incontravamo
spesso in Paese e ci confrontavamo con lealtà sui problemi sociali
e sul dibattito culturale della nostra epoca: in queste occasioni
ricordammo sempre con piacere quegli anni trascorsi in Seminario
con tutto il carico delle vicende liete e tristi, che avevano attraversato e movimentato le giornate di quel periodo della nostra
giovane età, e in modo particolare con la notevole ricchezza delle
esperienze pedagogiche compiute insieme nel Convitto Vescovile.
Certo, erano, quelli della nostra gioventù, ancora i famigerati tempi
del plagosus Orbilius di Orazio, nei quali contava ancora la sferza
per indurre gli alunni ad imparare a memoria i versi dell’Odissea
di Omero, tradotta nell’aspro Saturnio da Livio Andronico.4 Anche
Salvatore ed io avevamo imparato a suon di busse, ed ora rendevamo quello che avevamo ricevuto.
Il docente di nuove generazioni
Compiuti gli studi universitari, Salvatore si avviò alla professione di insegnante di Lettere nella Scuola Media. In realtà, egli,
dopo i primi anni di attività nella propria Provincia, si trasferì
prima a Crema e poi a Vailate (CR), per ritornare in seguito definitivamente ad insegnare in Campania (tra Napoli ed Avellino),
nell’anno scolastico 1978-79: approdò a Capri, quindi a San Giuseppe Ves.no, a Nola, a Quindici e di nuovo a Nola). In questa
sua attività di professore, l’amico Salvatore profuse non solo le
doti della sua intelligenza, ma soprattutto le capacità umane e
spirituali del suo cuore. Sì, perché Salvatore era in modo chiaro
innanzi tutto l’uomo onesto e leale con i suoi diretti interlocutori, gli alunni e con i colleghi di scuola. Sempre in prima fila nel
prendere le difese della giusta causa sia in ambito professionale
sia in campo civile. E nell’assidua disponibilità a dare una mano
ai tanti giovani che a lui ricorrevano. Anche nella ricerca di lavoro dopo la scuola. Salvatore era davvero il docente impegnato
quotidianamente a trasmettere ai suoi ragazzi-alunni non solo il
sapere delle sue specifiche discipline, per nutrirne le loro sveglie
intelligenze, ma in modo particolare per effondere nei loro teneri
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cuori in formazione quella ricchezza di umanità e di fede, che
affiorava sempre nei suoi interventi. In realtà l’amico Salvatore
pose sempre la sua “sapienza” culturale ed umana a servizio della
nostra piccola comunità locale.
Orbene, restando in ambito dei miei studi classici, sempre a
proposito di Salvatore, mi ritorna insistente, emergendo dal mio
immaginario giovanile, la figura del grande commediografo dei
primi secoli della letteratura latina, allorquando quest’ultima andava forgiando i suoi diversi generi letterari sulle fonti originarie
della letteratura greca.
Si tratta dell’Autore latino, di origine africana, Publio Terenzio
Afro, la cui opera segna il passaggio dal mondo degli schiavi di
Plauto, alla Commedia “umana” terenziana, che trasuda humanitas da tutti i suoi pori. Ebbene, c’è nel Punitore di se stesso
(Heautontimorumenos), autentico capolavoro psico-pedagogico,
l’espressione chiara di questo ideale di umanità riconquistata, là
dove il Poeta fa dire al suo protagonista: Homo sum, humani nihil
a me alienum puto: 77 (= Uomo sono: tutto quanto appartiene
all’uomo, io non lo ritengo affatto a me estraneo).5
Con ogni probabilità fu proprio questo di Terenzio l’ideale
umano, che già brillava all’orizzonte di Salvatore e che, forse,
sollecitò il giovane Seminarista ad uscirsene dal Seminario per
incamminarsi nella professione di Insegnante, in vista di una
esistenza improntata ad un “umanesimo più integrale”. Ma una
cosa mi sembra possa affermarsi con certezza, e cioè che nella
formazione umana e culturale il mondo ideale del caro Salvatore
venne permeato e sublimato da una notevole e seria carica di
cristianesimo vissuto con pratica di fede cristiana. E questo a
partire dalla sua esperienza di Seminario, per cui la sua personale
partecipazione alla vita religiosa della nostra comunità parrocchiale
fu costante ed attiva: ancora lo contemplo seduto generalmente
in fondo al maestoso monumento architettonico costituito dalla
nostra Chiesa parrocchiale, allorquando Salvatore seguiva con
attenzione e partecipava con fede alle sacre funzioni, specie in
occasione delle feste patronali.
L’uomo e il cittadino
Ma il Prof. Salvatore, di viva e pronta intelligenza, di carattere semplice e di gioviale compagnia, pur essendo impegnato a
tempo pieno nell’attività di docente, è sempre vissuto a contatto
con la complessa realtà del nostro Paese e con la comunità dei
suoi cittadini di civiltà e tradizione contadine. Era essenziale e
15
vitale per Salvatore la partecipazione diretta alla vita cittadina,
non solo prestando la sua opera alle diverse Associazioni culturali locali (Il Faro, la Pro-loco, la Fondazione San Lauro, divenuta
poi “Associazione San ONLUS”), ma, soprattutto, dando il suo
contributo personale alle diverse Amministrazioni Comunali: in
questi diversi campi, settori non secondari del vivere civile della
sua comunità locale, il Prof. Salvatore Santaniello ha impresso e
lasciato l’impronta della sua mente e del suo cuore.
Certo, la sua umiltà e il suo carattere socievole, lo portavano
a cogliere e a sottolineare i diversi aspetti della storia del nostro
popolo: con le sue feste e le sue sciagure; con le sue gioie e i
suoi dolori.
Egli conviveva sempre con gli eventi lieti e tristi del nostro
popolo e riusciva a sdrammatizzare le situazioni difficili, evidenziando il lato comico di personaggi e di accadimenti. Anche per
questo suo modo di convivere con persone ed avvenimenti, immerso nella complessità della vita del nostro popolo quindicese,
Salvatore amava senza limiti e studiava con passione soprattutto il
teatro di Pirandello e di Eduardo De Filippo, accanto alla melodica
canzone napoletana, che egli ben volentieri “cantava” esibendosi
accompagnato da amici con chitarra e mandolino, allietando così
l’allegra comitiva dei suoi numerosi compagni ed amici.
Il Prof. Salvatore Santaniello, dopo una lunga fase di infermità
trascorsa tra una cura e l’altra di un male oscuro, venne a mancare all’affetto dei suoi e dei numerosi e cari amici, in un’afosa
giornata estiva, allorquando io ero lontano dalla Parrocchia. Era
domenica 10 agosto del 2008: San Lorenzo e Salvatore aveva
soltanto 66 anni di età. Da quel triste giorno a me è rimasto nel
cuore il vivo rammarico di non averlo potuto assistere l’amico negli
ultimi giorni della sua vita né di averlo potuto accompagnare alla
sua ultima dimora. In compenso l’ho sempre ricordato e lo ricordo
nella mia Santa Messa, al momento dei defunti, per affidarlo alla
misericordia del nostro Dio e Padre.
D. Giovanni Santaniello
Hor. Carm. II, 14, 1-4: Eheu! Fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni,
nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti, …
(= Ahimé! Postumo, Postumo, veloci scorrono gli anni, né la religione porterà
alcuna remora alle rughe e alla vecchiaia incalzante e alla morte ineluttabile, … ).
2
A tal proposito ci soccorre il libro della Sapienza (5, 9-13): La vita dell’uomo
“passa come ombra e come notizia fugace, come una nave che solca l’onda
agitata, del cui passaggio non si può trovare traccia, né scia della sua carena
1
16
sui flutti; oppure come un uccello che vola per l’aria e non si trova alcun segno
della sua corsa...; o come quando, scoccata una freccia al bersaglio, l’aria si
divide e ritorna subito su se stessa, e così non si può distinguere il suo tragitto:
così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi...”.
3
In realtà, la prima definizione dell’ideale formativo del futuro cittadino romano, quello dell’oratore, la diede Marco Porcio Catone nel De agri cultura, scritto
con intento pedagogico per il figlio Marco: Vir bonus, Marce fili, colendi peritus,
cuius ferramenta splendent (=Il galantuomo, Marco, figlio mio, è l’agricoltore,
esperto del coltivare, i cui attrezzi luccicano); e poco dopo il Censore di Roma
estendeva la sua definizione all’oratore: Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi
peritus: Il cittadino romano è il galantuomo esperto del parlare. Oltre due secoli
dopo, il grande Cicerone (De oratore, II) riprenderà la definizione catoniana,
integrandola dell’acquisizione della cultura enciclopedica tipica del suo tempo,
per cui l’ideale ciceroniano dell’oratore è: Vir bonus et doctus, dicendi peritus
(= Il galantuomo dotto, esperto del comunicare).
4
Livio Andronìco, scrittore latino di tragedie, tradusse in versi Saturnii l’Odissea di Omero, che al tempo di Orazio, due secoli dopo, si imparava ancora a
memoria nelle scuole romane. Orazio ebbe come suo primo maestro a Roma il
grammaticus di Benevento, Orbilio, uomo iracondo e manesco, che costringeva
i suoi allievi ad imparare a memoria la traduzione dell’Odissea di Omero, resa
in latino da Livio Andronico: Hor. Epist. II, 1, 69-72: “…Certo io non voglio
infierire, né intendo che siano da eliminare i poemi di Livio (carmina Livi), che
a me fanciullo dettava lo ricordo bene – Orbilio a suon di busse (memini quae
plagosum mihi parvo Orbilium dictare): ma mi stupisco che possano sembrare
corretti e belli e poco lontani dalla perfezione”.
5
Il Punitore di se stesso (Heautontimorumenos) è una delle sei Commedie di
Publio Terenzio Afro (185 ca.-159 a.C.), scritta e rappresentata nel 163 a.C. Il
protagonista, Menedemo, è un vecchio padre, che si sottopone ai più pesanti
lavori nei suoi campi per punirsi di aver costretto con i suoi rimproveri, il figlio
Clinia, innamorato di una fanciulla onesta, ma senza dote, a fuggirsene di casa
e ad arruolarsi soldato. Alla fine, Clinia ritorna ed è accolto in casa da Cremete,
amico del padre, e dal suo figlio Clitifonte, suo amico. Nel frattempo Cremete
riesce a convincere l’amico Menedemo a non ostacolare insieme i desideri dei
loro figli, Clinia e Clitifonte, che alla fine sposeranno le due ragazze che amano.
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“I proverbi sono il monumento parlato del buon senso”.
(B. Croce)
Sui
detti popolari
Quindicesi
Ogni popolazione in considerazione delle capacità possedute
dalla specie umana, è in condizione di creare cultura propria,
avendo poi potere di trasmetterla per tradizione
Sicchè tale cultura, pur non codificata in quella dotta e ufficiale, né sostenuta da grandi ingegni, ci perviene e si conserva
attraverso i rapporti umani, cioè socialmente.
Spesso ingenua e primitiva nella forma ha, tuttavia, del pittoresco, dell’espressivo.
E nella sostanza si rivela, a volte, penetrante, acuta e con
locuzioni dialettali intraducibili, additate quali caratteristiche forme
idiomatiche.
Un tipo di cultura di sensibile consistenza e di vasta diffusione,
proveniente per lo più dal mondo contadino in cui si intravede quel
naturalismo di fondo attraverso detti e proverbi sul tempo, sulle
stagioni e i loro fenomeni; autentica presa di coscienza dell’intenso vigore che si irradia dalla natura con i suoi poteri immanenti.
La cultura popolare si attesta in ogni aspetto della vita umana.
Penetra nel sacro e nel profano, nell’odio e nell’amore, indaga
sui costumi, sui pregi e sui difetti.
Non scarseggia di umorismo, né di ironia, ferisce e sana,
condanna e assolve. La cultura popolare tocca il tutto.
Così pure è nel testo quindicese del Prof. Santaniello ove
si fanno vibrare tutte le corde umane, buone e tristi che siano,
permissive ed intolleranti.
C’è il vanesio, dai vanti impossibili, che non si rende conto
della giovinezza già trascorsa da tempo, e che, ormai, per certe
pretese manca la “conditio sine qua non”.
E il rispetto per la vecchiaia si muta spesso in abuso, come
fece quell’asino codardo, della favolistica antica, che profitta della
vecchiaia del leone per dargli un calcio.
Proverbi che richiamano precedenti classici; come dire della
sapienza antica in tono popolare. Versi ancora che illustrano la
scarsa personalità di chi si vende per poco.
Del fannullone e del parassita abituati a vivere sulle spalle
altrui; dell’adulatore che con le proprie cortigianerie tenta alla
realizzazione d’un fatto concreto; del podestà borioso, incapace
18
e ridicolo nei suoi atteggiamenti di comando, e soddisfatto di chi
lo serve.
L’apparenza o l’esteriorità è solo fumo ed è contrastata dall’elogio alla mente, all’intelletto: “Tutta pomposa va l’asineria”, come
nel verso attribuito a quel trasandato, ma sapiente oratore, verso
che trova conferma anche in un sonetto petrarchesco: “Povera e
nuda va filosofia, dice la turba al vil guadagno intesa”.
Non manca il profitto, né l’egoismo in quegli amici e parenti
che ti ronzano intorno solo se possono riceverne qualcosa, ma
quando sei tu ad averne bisogno, se ne stanno alla larga.
C’è, comunque, della verità in questi detti, come ce ne sono
anche di quelli inconsistenti e puerili.
Emergono profili di personaggi tipici e curiosi; di verseggiatori
autori di strofe, talvolta, zoppicanti o cavate a forza, ma anche
verseggiatori di buon gusto con versi dal ritmo scorrevoli e con
momenti evocativi di qualche dato storico, come l’eruzione del
Vesuvio del 1906, che colpì anche i nostri paesi; come anche
scorci di vita quindicese.
La venerazione di Quindici verso la Madonna delle Grazie, che
dura ormai da un millennio, è l’essenza della fede, della religiosità
dei suoi cittadini. Il Suo carisma non può non ispirar poesia tra i
Suoi devoti con versi celebrativi della grande festa a Lei dedicata,
con musiche, luminarie e spari: una religiosità popolare fondata,
soprattutto, sulla speranza di ricever grazia dalla loro Madonna.
Anche per le vincite al lotto, si ricorre ai Santi, ma quando
il terno non arriva allora c’è chi manda al diavolo anche il Santo
con imprecazioni e bestemmie: fragilità dei sentimenti umani!
Si è convinti, infine, che il sesso è parte dominante della
nostra natura, perciò non trascurato dalla cultura popolare. Come
anche alcune azioni del corpo umano, che pur essendo inevitabili
non sono “nobili”.
Trovo, pertanto, che questa materia costituisce una parte
consistente del testo, che conferisce ad esso stesso, al di là della
natura, carattere alquanto licenzioso.
È vero che si tratta di detti popolari in lingua dialettale, ma
espressi in maniera piuttosto incontinente.
Dico ciò non per eccesso di puritanesimo che proprio non mi
sfiora, ma per quel senso di riservatezza, pur necessaria verso
certi discorsi, che pure attinenti alla natura e, quindi, irrinunciabili,
vanno tuttavia decorosamente custoditi in noi stessi.
Giudico, così, opportuna e cosciente l’accuratezza cui è ricorsa
l’Associazione per la pubblicazione del testo, di aver evitati alcuni
detti e proverbi evidentemente istintivi.
19
Intervento lodevole che consente al libro riconoscimenti di
utilità didattica per lo studio di usi, costumi, personaggi e dati
storici d’ambiente.
Pur convinto che a tanto mirasse il compilatore del testo
Prof. Salvatore Santaniello in quanto uomo di scuola, nonostante
nulla avesse tralasciato nella sua ricerca intesa a rilevare nella
sua completezza, la vita del proprio paese verso il quale risulta
essere tanto appassionato.
Pasquale Moschiano
20
“I Ritte Antiche nun falliscene maje… o no?”
I parlari volgari debbono essere
i testimoni più gravi degli antichi
costumi dei popoli, che si celebrarono
nel tempo ch’essi si formarono le lingue.
(G. Vico)
Aspetti filologici nei detti popolari
Ho tra le mani un centinaio di fogli, formato A/4.
Sono scritti a caratteri abbastanza agevoli.
Meno male, perché gli occhi non sono più quelli di una volta!
Non capisco perché siano divisi in quattro parti.
Ho capito che si tratta della bozza di un libro di prossima
pubblicazione, che dovrebbe portare il titolo di: “detti, frizzi e
lazzi quindicesi” del compianto Prof. Santaniello.
Più noto come ‘O Cumparone, il prof. (Salva) -Tore Santaniello
mi onorò della sua amicizia finché rimase su questa terra, anche
e forse soprattutto per testimoniare, ironico e sornione come solo
lui sapeva essere per inclinazione naturale e per scelta di vita, il
migliore e più consapevole oblomovismo quindicese.
Professore di scuola, filosofo di strada.
Poche note di recensione relative agli “aspetti filologici nei
detti popolari”: questo il secco e letterale invito rivoltomi dal
curatore della raccolta.
Il quale ha appena aggiunto: poche note, perché il gruppo
dei recensori è molto nutrito.
Spero che egli abbia rivolto la stessa perentoria raccomandazione anche agli altri.
Lo spero per le poche carte di Salvatore, le quali corrono
il serio rischio di essere inondate da un fiume di parole.
Sì perché: se singolarmente preso ogni recensore par che
ne sappia sempre più dell’autore, a cui non lesina consigli, rilievi
e indicazioni, cosa saranno capaci di combinare tre o quattro di
essi, incautamente messi insieme, solo Dio lo sa.
Già lo vedo Salvatore ammiccare con quel sorriso appena
abbozzato, ‘o pizzo ‘a rrisa, come per dire: “‘e chiacchiere fanno
‘e chierchie”.
In poche note evidenziare gli aspetti filologici della raccolta?
E’ ‘na parola!
A distanza di decenni, ancora mi capita di essere assalito
da quegli incubi, che, da giovane studente universitario, siste-
21
maticamente provavo ogni qualvolta mettevo piede nell’istituto
di filologia romanza.
Gli interni delle più buie, fredde e silenziose cattedrali gotiche
a confronto apparivano luminose e gaie.
Per non parlare degli inquilini: corvi dalle umane sembianze.
Lasciamo dunque le indagini filologiche e glottologiche a chi
ha tempo, competenza e spazio per farle.
Perché, tra l’altro, anche di ciò si tratta; un’analisi filologica
appena degna di questo nome, condotta, come nel nostro caso,
su un centinaio di fogli, ne produrrebbe, a voler calcolare per
difetto, almeno cinque volte tanti.
Povero Salvatore, lui che per una vita intera rimase fedele al
principio che “ ‘na parola è poca e ddoje so’ troppe”.
Tuttavia.
Per essere sempre stato incuriosito dalla tipicità della parlata
quindicese, l’occasione per farvi su qualche riflessione alla buona,
può anche essere colta.
Male che vada, essendo tra amici, certo nessuno si metterà
a cercare l’ago nel pagliaio.
Ma da dove cominciare?
Proviamo dalla pronunzia. Da dove sennò?
Nel panorama pressoché indefinito del dialetto napoletano, i
suoni del quindicese sono unici anche rispetto a quelli di paesi
limitrofi.
Non vorrei sbagliarmi, ma mi è sempre parso di cogliere, relativamente a certe e modulazioni di voce, una qualche analogia
tra il quindicese e certi “parlari” siciliani.
Si prenda ad esempio una parola semanticamente forte come
“puttana”, peraltro usata almeno quattro o cinque volte nella
raccolta.
In tutte le versioni del napoletano la vocale tonica della prima
sillaba e cioè la u ha un suono naturale e quasi disteso.
Nel quindicese invece essa vocale iniziale intanto non è u, ma
è o e il suo suono è aperto e forte più di quanto non richieda
un accento tonico.
Lo stesso avviene nel siciliano, dove peraltro la consonante
iniziale è b e non p= bïttana.
Lo scambio p/b, presente in molte altre voci quindicesi e
sicule, è tipico anche del napoletano, ma all’interno e non già
all’inizio delle parole : aprile/abbrile.
Naturalmente per dare un minimo di fondatezza a quanto stiamo sostenendo, ci sarebbe bisogno di ben altri esempi e ben altre
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prove, che però solo una frequentazione continua e sistematica
con l’una e l’altra lingua avrebbe potuto consentire di raccogliere.
Ascoltare e leggere; leggere e ascoltare in loco: alternative
non ce ne sono quando si vuole parlare sensatamente di fatti
linguistici. Ne ebbe una prova incontrovertibile anche il grande
don Lisander, il quale lungo il tragitto che lo conduceva sulle
rive dell’Arno per sciacquarvi i suoi famosi cenci linguistici, ebbe,
per essersi permesso di ordinare in una locanda un contorno di
“cornetti”, una bella lavata di testa da un cameriere infastidito
dal modo di esprimersi di quel signore del nord.
Di fagiolini vorrà dire: lo riprese con atteggiamento cattedratico
il cameriere, che senz’altro pensò, senza però avere il coraggio di
dirglielo in faccia, ma da dove scende e che lingua parla costui?
Rimandando, per ovvi motivi, ad altra occasione questo impegnativo lavoro di ricerca e di comparazione tra il quindicese e
il siciliano e ridimensionando, conseguentemente, questo poche
note al loro originario significato di impressioni sparse sul modo
di parlare a Quindici, mi sono rivolto ad un quindicese trapiantato
a Visciano per “sentirlo parlare” ed avere così spunti sufficienti
e mettere su carta qualche riflessione utile a giustificare il mio
ruolo di recensore.
Sempre sul vocalismo, l’u che diventa o lo ritroviamo in tantissime altre voci presenti nella raccolta.
Nei sostantivi e aggettivi: cocchiara, montone, banconaro,
soperchia;
nei verbi: vottato, scordà,; nell’articolo indeterminativo: ‘no
al posto del più diffuso ‘nu: ‘no cazzo, ‘no mortale, ‘no vojo.
L’inverso avviene per quel che riguarda l’articolo determinativo; spesso si trova u al posto di o: u culo; u citrulo; u zuoppo.
Da segnalare pure lo scambio u/e: peperuli, pecoriello,
pecuriello, nonché la sopravvivenza della forma a/u al posto di
a: nautu al posto di nato.
Ancor più significativo e tipico è l’uso della vocale i, che
rispetto a tutte le altre, nella parlata quindicese, fa davvero la
parte del leone, nel senso che è diffusissima.
Eccone alcuni esempi: sostantivi: surici, sciri, monico,
pinzione, nipute, zucchiro; aggettivi: cavira, scavizi; verbi: dicivo, ballino, trasino, rispunnino, cirivo, roratilo, cantino, cocino,
vivevino, mangiavino, dicevino.
Anche sul consonantismo si registrano tipicità significative.
Così mentre dappertutto o quasi la consonante b all’inizio
di parola muta in v(barca-varca);
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bacio/vaso; botte/votte) nel quindicese ciò non avviene per
alcune voci: binuto e non venuto; bottino e non vottano.
Ma il fenomeno che è parso più rilevante alla nostra superficiale
analisi è senz’altro quello del troncamento di sillabe all’inizio di
parola o se si preferisce il suo non mai avvenuto raddoppiamento.
Pur non mancando nel dialetto napoletano l’uso di elidere
consonanti (iniziali di articoli e preposizioni) di vocali (le finali si
lasciano appena sentire) e raramente anche di sillabe intere, la
tendenza più diffusa è quella del rafforzamento, del raddoppiamento
e dell’espansione di consonanti e di vocali all’inizio, al centro e
alla fine delle parola: ‘o ppane; ammore; castiello; tormiento;
guaje, staje, maje.
Controcorrente il quindicese, che in moltissime voci verbali,
soprattutto della prima coniugazione, presenta il fenomeno della
caduta di intere sillabe:
robbà(ar-rubbà), buscà(ab-buscà), bottà(ab-buttà), terrà(atterrà); cattato(ac-cattato), tacchime(at-tacchime), settà(as-settà),
sciuttà(a-sciuttà), chiappato(ac-chiappato).
Qualche voce anche della seconda coniugazione: cirire(accirere); e qualche altra non è di natura verbale: bascio(ab-bascio).
Se fin qui detto potrebbe anche bastare per dimostrare l’idea
avanti espressa della specificità del quindicese rispetto non solo
al napoletano di Napoli, ma anche a quello del Vallo di Lauro o
dell’agro nolano. Va solo meglio puntualizzato che a fare questa
differenza, più che le singole voci, è la pronuncia forte quasi aggressiva che caratterizza il quindicese.
La musicalità del napoletano, che, secondo molti, fa di esso
la lingua più evocativa e poetica che esista e che sarebbe dovuta
essenzialmente al fenomeno della metafonési, attraverso cui i suoni
forti delle vocali e delle consonanti si indeboliscono a vantaggio
di quelli più distesi e tenui, è del tutto sconosciuto al quindicese.
Nel quale, al contrario, se trasformazioni fonetiche avvengono,
è in direzione opposta, ovverosia dai suoni deboli verso quelli forti.
Per fare qualche esempio attingiamo ancora dalla raccolta
e segnatamente dal lessico familiare, anche per compensare la
scelta della prima parola oggetto della nostra analisi.
Voci come “mammita, pavito e fratimo”, che nel quindicese
hanno la i molto forte, diventano “mammeta, patrete e frateme”
del viscianese, nolano, napoletano con una e evanescente e quasi
muta.
Ed è proprio sulla presenza diffusa di vocali e sillabe toniche
che è maturata l’idea, ancora tutta da dimostrare, di talune analogie tra certe espressioni siciliane e quelle quindicesi.
24
Donde provenga questa pronuncia aggressiva è difficile dire
anche se è forte la tentazione di farla discendere, tra l’altro, dal
carattere fiero dei quindicesi, nonché dal loro isolamento fisico e
culturale.
Lontano dalle amene e fertili pianure della Campania Felix e
ancor più dall’azzurro e incantatore mare di Napoli, il quindicese
ha temprato “il suo abito fiero e lo sdegnoso “accento” a contatto
con una terra dura ed ostile, da cui a stento e con sacrifici estremi
ha tratto di che sfamarsi e vivere dignitosamente.
Da qui anche il “petto ov’odio e amor mai non s’addorme”,
il conseguente isolamento culturale, che per altri versi ha fatto
di questa una delle poche comunità ancora non omologata e antropologicamente non mutata.
Insomma antropologi e linguisti veri avrebbero di che osservare, stupirsi e scrivere a contatto con gli usi, i costumi e la
lingua dei quindicesi.
A patto, però, che vadano a Quindici e non seguano il nostro brutto esempio di leggere solo carte di cose d’altri tempi e
al più interrogare qualche quindicese trapiantato altrove e cioè
antropologicamente semi-mutato.
Queste ultime considerazioni, in mancanza di meglio, potrebbero anche fungere da conclusione di tutte le chiacchiere finora fatte,
perché se non altro, creandoci implicitamente delle attenuanti, ci
mettono a parziale riparo dalle immancabili severe critiche, che
gli studiosi veri, dopo di aver arricciato più volte il naso, di certo
muoveranno a questa specie di recensione.
Angelo La Manna
25
“La mente è come un paracadute, funziona solo quando è aperta”.
(Albert Einstein)
La
liberalità dell’intelligenza
Una mente aperta, è libera da pregiudizi e preconcetti, capace di mettersi in ascolto, di non essere quindi intransigente e
fondamentalista.
Essere aperti significa mettere in atto atteggiamenti di ascolto,
di accoglimento e di comprensione.
Per questo, la mente aperta di Salvatore Santaniello, il professore, non ha mai preteso di insegnare nulla a nessuno, fuori dal
mondo scolastico, dove pur veniva stimato per il modo di porsi
e per la serietà professionale.
Il rifiuto all’insegnamento, fuori dall’ambito scolastico, gli
proveniva dalla concezione di vita che aveva base nel rispetto
della libertà dell’individuo, laddove le scelte di vita di ciascuno
dovevano rappresentare la maturazione e la interiorizzazione delle
proprie convinzioni.
Mite, pacato e discreto non ha mai fatto pesare la propria
cultura, pur degna di nota, accettando di buon grado il confronto
con ciascuno, perchè, per sua concezione, nessuno può arrogarsi
il concetto di detenere l’unica verità.
Il punto di partenza dell’esame condotto sulla personalità
di ciascuno, da sfogo alla ricerca, perpetrata negli anni vissuti,
della conoscenza, nel più puro relativismo, sempre e comunque
incompleta, ma, per effetto ed in conseguenza della quale, non
poteva non ricevere la spinta emotiva ad andare oltre.
Configura l’appagamento momentaneo dell’Ulisse che permane negli spiriti liberi, dalla mente aperta, consapevoli perciò dei
propri limiti e dei propri dubbi; ma non per questo arrendevoli a
spiegazioni non consegnate alla propria ragione.
In questa ottica non poteva non seguire il fascino del richiamo delle espressioni dialettali, anche se caduti in disuso, che
tanta forza di rappresentazione conferivano alle nostre comunità
contadine.
Così Salvatore si andava attardando nel recuperare l’idioma
del nostro paese, territorio montano, che ha elaborato in secoli di
esperienze vissute, ora le preghiere, ora gli anatemi, ora gli sfot-
26
tò, colorando gli accadimenti giornalieri e condendo, di saggezza
e sarcasmo popolare, il tempo del taglio dei boschi, del raccolto
delle masserizie, della vendemmia, della mietitura. Ed ancora il
tempo della scannatura del maiale e dell’assaggio del vino novello.
V’è a dire che, per Salvatore, con ogni verosimiglianza, tale
ricerca conservativa è tesa sia acchè la memoria delle espressioni
non fosse perduta, sia a recuperare e ricavare da quelle radici
espressive la nostra storia fatta da immagini senza belletti e orpelli.
È qua Salvatore.
Ed è storia vera quella che lega le radici del passato ai tempi
moderni ed attuali.
Un paese senza storia, che non va alla ricerca del proprio
passato, ancorchè modernissimo, non conserva alcun valore,
alcuna memoria e con il passaggio del tempo, va perdendo la
propria individualità.
Questo, a mio avviso, è lo spirito che ha animato la ricerca
conservativa delle espressioni che leggiamo nel testo che Salvatore ci propone.
Solo conoscendo i legami con il proprio passato è possibile
guardare all’oggi e non temere il domani.
Tanto perchè, solo riscoprendo ed accettando i valori non perduti, anzi ricercati ed assorbiti, è più facile costruire solidamente
il proprio avvenire.
Questo è un insegnamento?
Se lo ritenete, Salvatore lo consegna secondo il suo stile.
Annibale Schettino
27
“Un buon nome val più di grandi ricchezze e la benevolenza altrui più dell’argento e dell’oro”
(Proverbi 22,1)
Paremiologia: personaggi, luoghi ed eventi
“Motti, frizzi e lazzi quindicesi”
nei
La rievocazione è un esercizio ambiguo: da una parte essa
non agevola il cammino dell’elaborazione silenziosa del lutto e del
dolore per la scomparsa di una persona cara o di un conoscente
o di un amico, dall’altra, attraverso la rievocazione, la mente è
costretta ineluttabilmente a recuperare brandelli di memoria. C’è,
però, un altro modo per far rivivere e rendere più fecondo il recupero della memoria di una persona scomparsa, ossia l’esercizio
della riflessione critica, che assicura la sopravvivenza di colui,
che in virtù del suo impegno intellettuale ha lasciato in eredità ai
posteri o alla sua comunità di appartenenza un prodotto culturale. Dovendo rievocare la figura del compianto Prof. Santaniello e
soprattutto tratteggiare il suo profilo di produttore culturale, non
sfoglierò l’album dei ricordi personali, ma mi affiderò all’esercizio
della riflessione critica e dell’analisi storico-filosofica. In queste
poche note viene analizzata una sua ricerca, ignota forse alla
maggioranza dei Quindicesi, ma molto interessante ai fini della
conoscenza della storia locale e del suo patrimonio linguistico ed
espressivo. Avendo preso personalmente visione della ricerca paremiologica curata dal prof. Santaniello con acribia filologica e con
la profonda passione del riesumatore di memorie patrie, ho avuto
modo di apprezzare la peculiarità del lavoro culturale, che consiste
essenzialmente nella paziente e certosina raccolta di proverbi, di
detti e di modi dire popolari, di lazzi e frizzi nati nel seno della
comunità quindicese negli ultimi due secoli, tramandati oralmente
e conservatisi nel tempo. Proverbi e modi di dire popolari, motteggi, lazzi e frizzi sono espressioni peculiari della creatività di
umili ceti sociali, sono la carta d’identità della saggezza di tante
piccole comunità rurali stabilizzate per secoli in determinate aree
geografiche. Come Leopardi nella prima metà del secolo XIX si
chiedeva quale significato potesse avere il poetare o il fare poesia
di fronte all’incalzare impetuoso del processo di industrializzazione, così oggi, in un mondo globalizzato ma lacerato da crudeli
conflitti etnici, socio-politici e religiosi e di fronte al profilarsi di
un universo interamente tecnologizzato ed informatizzato, ci si
chiede se abbia ancora un senso la ricerca paremiologica per
28
l’ “homo technologicus” contemporaneo, se sia utile riflettere criticamente sulla raccolta di detti e modi di dire popolari riguardanti
circoscritte realtà territoriali, di quale credito e di quali prestigio
sociale possa godere presso l’opinione pubblica colta uno sconosciuto paremiologo di una piccolo villaggio collinare. Non mancano
insigni studiosi, i quali ritengono che la ricerca paremiologica non
sia altro che una mera, semplicistica ed elementare espressione
della rozza fantasia popolare; essi, però, misconoscono il fatto
che da secoli profonde motivazioni etiche e culturali stanno alla
base della nascita e della fioritura della ricerca paremiologica.
Il paremiologo, infatti, riscontra e scopre anzitutto nella cultura
contadina e popolare la presenza di una vitalità creativa ed una
originaria capacità di elaborazione di espressioni culturali degne
di essere studiate e conservate. La seconda motivazione, che
conferisce un orizzonte di senso alla ricerca-raccolta dei modi di
dire e dei proverbi popolari è quella di recuperare le radici della
memoria storica ed il patrimonio linguistico ed espressivo delle
piccole comunità o dei grandi gruppi sociali demograficamente
connotati e di rivitalizzare in questo modo il senso di identità e
di appartenenza: “Dalla memoria emergono germogli di creatività/ Ripercorrono le mie orme… impolverate dal…tempo / che
tutto rimuove/ tranne la memoria”, canta un ancora sconosciuto
ed ispirato poeta palmese. Chi pretende di riscrivere ab imis la
storia, cancellando la memoria di una popolazione racchiusa nei
versi e nei canti popolari, nei racconti e nei miti, nei pensieri e
nei modi di sentire e di immaginare, è destinato allo scacco. Il
Prof. Santaniello, per mantenere viva la memoria storica e culturale della comunità quindicese, ha imboccato l’impervio sentiero
dell’esplorazione del suo patrimonio linguistico espresso nei lazzi
e nei frizzi, nei modi di dire e nei detti popolari, ovvero di quei
moduli linguistici ed espressivi che, se ben letti ed interpretati,
possono diventare fecondi stimoli culturali, veicoli di trasmissione
di simboli e di valori condivisi dalla comunità di appartenenza,
una sorta di aule decentrate per giovani studenti ed ambienti
apprenditivi ed acculturanti, perché essi sono contenitori di saggezza popolare e di risorse etiche e sociali, archivi e depositi di
conoscenze tramandate per secoli solo oralmente.
La raccolta di detti, modi dire e proverbi popolari è un’attività letteraria nota fin dai tempi antichi a numerose culture e
civiltà. Fatto tipicamente orale, i Proverbi appartengono anzitutto
alla cultura tradizionale delle classi subalterne, ma espressioni
proverbiali sono presenti anche nella letteratura colta ed alta (Si
pensi, ad esempio, al “Libro dei Proverbi” di Salomone, consi-
29
derato la somma della sapienza ebraica, o alle numerose forme
di proverbi contenute ne Le opere ed i giorni di Esiodo o negli
scritti di Catone). Furono soprattutto i romantici che nell’Ottocento insieme con la rivalutazione della cultura popolare diedero
un fervido impulso alle prime raccolte di proverbi prodotte con
criteri scientifici; un monumento in tal senso sono i quattro volumi
dei Proverbi siciliani raccolti dal noto demopsicologo e folclorista
siciliano Pitrè Giuseppe (1841-1916). Per quanto riguarda l’area campana, la ricerca-raccolta curata dal Prof. Santaniello sui
modi di dire popolari quindicesi è stata preceduta da ricerche
analoghe riguardanti altre aree geografiche. Originale, invece,
si rivela la scelta operata dal predetto docente di inserire in un
unico contenitore insieme con i detti popolari anche i lazzi ed i
frizzi, ovvero una specifica espressione linguistica elaborata dalla
comunità quindicese. Si tratta di due famiglie linguistiche distinte
per significato e per registro linguistico. Il lazzo nel suo significato
originario era una breve scena estemporanea, prevalentemente
mimica, diretta ad interrompere la monotonia nella Commedia
dell’arte; il significato originario si è poi allargato ad indicare un
atto buffonesco e scurrile (i “lazzi turpi e motti” di carducciana
memoria). Il frizzo è invece una battuta argutamente polemica
e pungente o un motto mordace. Il detto è un breve discorso,
una frase, un’affermazione, un motto, un aforisma, una facezia. Il
proverbio, che è la forma linguistica ed espressiva più conosciuta
della cultura popolare e contadina, è un detto che generalmente
condensa un insegnamento tratto dall’esperienza e che fissa in una
forma tradizionalmente codificata una regola di vita, un modello
comportamentale o un dato esperenziale. A mia memoria, in riferimento all’area campana, degne di segnalazione sono due sillogi di
modi di dire, detti e proverbi popolari concernenti rispettivamente
l’area partenopea e l’area orientale del Vesuvio (i Paesi vesuviani
confinanti con il Nolano). La prima silloge, egregiamente curata
dal magistrato napoletano Sergio Zazzera, intitolata Proverbi e
modi di dire napoletani, è una mappa e schedatura di oltre un
migliaio di detti ed adagi della tradizione partenopea, ordinata
per sezioni tematiche o argomenti (ad esempio proverbi o detti
popolari sugli animali, sul lavoro, sul culto della famiglia, sulla
religiosità, sull’amicizia ecc.), distribuiti a loro volta secondo un
ordine alfabetico. La raccolta zazzeriana è un’antologia costruita
con spirito certosino, un florilegio di detti popolari riconducibili
geneticamente ad una pluralità di contesti, da quello contadino a
quello artigiano e marinaro, che riproducono ambienti, personaggi,
comportamenti, modi di sentire e stati d’animo del macrocosmo
30
partenopeo e nei quali trova la sua più congeniale espressione
culturale ed etica la saggezza del popolo napoletano.
La seconda pregevole raccolta intitolata Proverbi e modi di
dire vesuviani, in due tomi, è stata curata dal prof. Raffaele
Urraro, insigne latinista di San Giuseppe Vesuviano. I due tomi
(uno contenente i proverbi, l’altro i modi di dire popolari) sono
una silloge di circa 4400 proverbi e modi di dire popolari tipici
della lingua vernacolare parlata nei Paesi ad Est del Vesuvio,
raccolti sulla base della trasmissione orale e memoria litica di
amici, parenti e conoscenti. Il materiale dei due tomi è organizzato non in sezioni tematiche, come fa Zazzera, ma secondo un
rigoroso ordine alfabetico. Analogamente allo Zazzera, anche lo
Urraro alle citazioni, nel gergo vesuviano dei proverbi e dei modi
di dire popolari, fa seguire sia la traduzione letterale in lingua
nazionale, per consentire al lettore di comprenderne il significato
“primo”, che sintetiche note di commento esplicativo delle voci
avverbiali, che mettono in evidenza la mediazione concettuale ed
il nesso tra l’immediato senso letterale (il significato denotativo)
ed il senso secondo, connotativi, metaforico. Nel curare la ricerca
paremiologica riguardante Quindici, il Prof. Santaniello ha tenuto
presenti le due citate silloge sia nell’abbinare il vernacolo alla
lingua nazionale che nella ricchezza dell’apparato didascalico e
delle considerazioni esplicative e di commento, che contengono
anche sapide e curiose note di colore.
Nella ricerca del compianto Professore è rappresentato un
macrocosmo zoologico ed antropologico vivo e ricco di sensibilità
e di umanità. Di questo mondo sociale gli animali, assiduamente
rievocati, non sono un mero contorno scenografico ma un punto
di riferimento essenziale delle attività lavorative ed una presenza
ineludibile per spiegare i rapporti umani e sociali vigenti nella
comunità quindicese; essi presentano un netto profilo antro­
pomorfizzante e sono considerati espressioni simboliche di valori
etici, sociali e comportamentali. Nell’antologia vengono richiamate
alcune specie ornitologiche e soprattutto si fa riferimento ad un
particolare tipo di fauna domestica, che ricorda quella esopiana
e fedriana, anche se il modo di interpretarle l’essere e l’agire è
notevolmente diverso, una tipologia di fauna domestica mansueta,
sottomessa al dominio padronale, incapace di ribellarsi, tollerante
delle fatiche e dei sacrifici imposti dall’uomo e docile strumento
della sua volontà, che non protesta mai e non concepisce la violenza, la prepotenza, il sopruso né conosce l’arte dell’inganno (come
la volpe esopica) e dell’invidia. Si tratta dei seguenti esemplari:
cane, capretto, cavallo, bue, maiale e soprattutto montone ed
31
asino; questi due ultimi animali sono efficacemente interpretati
come emblemi rispettivamente della vecchiaia e della giovinezza
(“Quanno o’ piecoro fa vecchio, o’ cane o’ piscia ‘n…o”). L’animale
più frequentemente rievocato è l’asino, che è una figura fortemente simbolica ed antropomorfizzata, ma anche l’animale più
ingiuriato e vilipeso. Sia nell’immaginario collettivo popolare che
nella produzione letteraria colta, l’asino è rappresentato come il
simbolo dell’ignoranza, della stupidità e della caparbietà (l’espressione “essere asino” o “comportarsi da asino” si dice propria di
una persona rozza ed ignorante); significativo il detto popolare
che vede nel somaro la caparbietà portata all’estremo (“Quanno
o’ ciuccio nun vò veve/ è inutile che o’ sischi”). Ancora, nel detto
“Votta o’ ciuccio addò va o’ padrone”, viene simboleggiato l’uomo
inetto, privo di autonomia e di capacità decisionale, esecutore
passivo di tutti gli ordini, pur di non aver fastidio o “rogne”. Povero asino! Mai sopruso concettuale più grave è stato perpetrato
ai suoi danni.
Si deve, infatti, al nolano Giordano Bruno la rivalutazione
dell’asinità e l’elaborazione di una teoria nella quale si stigmatizza
la propagandistica e falsa sinonimia tra crassa ignoranza ed asinità
e si condanna l’ideologica ed irrazionale identificazione tra l’asino
e la stupidità, l’ignoranza e la sciocca caparbietà. “Santa Asinità”
o “Divina Asinità” sono le espressioni che Bruno usa in alcuni suoi
famosi dialoghi (cfr. ad esempio Cabala del cavallo pegasèo con
l’aggiunta dell’asino cillenico) e nelle quali insieme con l’arcaica
ed obsoleta simbologia dispregiativa dell’asino si dà una nuova
ed originale interpretazione dell’asinità. In Bruno l’asinità non è
sinonimo di pomposo e sciocco narcisismo, né di crassa ignoranza
e nemmeno di stupida caparbietà, ma è un archetipo di solido
spessore culturale, in quanto l’asinità è il simbolo archetipico di
quella “Santa Ignoranza”, che secondo l’insegnamento della Sinagoga ebraica e della Chiesa cattolica è il veicolo di accesso al
mondo della contemplazione infusa e della eterna Sapienza divina
(“Che vi val, curiosi, studiar/ voler saper quel ch’è la natura/ Se
gli astri sono pur terra, fuoco e mare?/ La santa asinità di ciò non
cura/ Ma con mani giunte ed in ginocchio vuol star/ Aspettando
da Dio la sua ventura”).
Gli animali, però, non esauriscono l’orizzonte di riferimento
della paremiologia quindicese, nella quale frequentissimi sono
i richiami ad eventi particolari; tali sono le feste tradizionali e
religiose, gli ambienti sociali ed i luoghi di aggregazione e di
intrattenimento, le stagioni e moltissimi personaggi dai precisi
connotati storici e professionali o anonimi.
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Nella paremiologia quindicese anche alcuni eventi particolari,
rievocati e celebrati dai menestrelli e dai versificatori locali, assumono rilevante importanza per lo stretto nesso che essi hanno
con la vita sociale e con l’organizzazione comunitaria. I proverbi
e i modi di dire popolari elevano oggetti d’uso comune o figure e
tipi dell’ordinaria quotidianità a simboli di stati d’animo, di atteggiamenti e di comportamenti morali e sociali; così la tonsura o la
chierica del prete diventa simbolo di benessere e di benedizione
(“Viata a chella casa addò a chierica ‘nce trase”, ossia dove entra
il sacerdote, la famiglia è felice e benedetta da Dio); parimenti
la figura del contadino è spesso interpretata come sinonimo di
testa dura e di caparbia testardaggine (“E’ meglio sformà na capo
‘e c…o e no na capo ‘e cuozzo”, ovvero è più facile cambiare un
uomo ignorante, che la testa di un cafone o di un contadino.
La paremiologia quindicese si caratterizza per la peculiare
tendenza a dare rilievo ed eventi (sociali, religiosi o politici), che
hanno una risonanza pubblica nella vita comunitaria del paese,
a luoghi e a ambienti sociali di incontro, di aggregazione e di
intrattenimento e ad alcuni tipi o personaggi ben individuati nella
loro posizione sociale. Esigui e circoscritti sono i luoghi o gli ambienti nei quali si costruiscono e si svolgono le relazioni umane e
pubbliche e ai quali attinge la fantasia popolare o la vena poetica
dei rimatori autoctoni per strutturare modelli linguistici e generi
espressivi (cantate, strambotti, nenie, tarantelle, poesiole a rima
baciata o alternata). La regina dei luoghi più frequentemente rievocati è la cantina o l’osteria, dove si pensa di riscattare la dura
e faticosa vita giornaliera sorseggiando un bicchiere di vinello o
seppellendo pensieri e preoccupazioni nella sbronza o nell’ubriacatura momentanea.
La più celebre e declamata osteria frequentata dai Quindicesi
è quella gestita da un certo Andreamuscio, il principe degli osti,
giocatore di lotto accanito, litigioso e superstizioso, ottimo strimpellatore di chitarra con cui intratteneva i suoi avventori, il cui
profilo è delineato con tratti di straordinaria efficacia dal consimile
principe dei rimatori, il commesso comunale Don Alfonso D’Amelia.
Il ritrovarsi in una cantina per bere e sentire alla radio i numeri
del lotto sgombra la mente dai pensieri tristi e lugubri e dalle
preoccupazioni quotidiane, come recita magistralmente il distico
dettato dal citato Don Alfonso D’Amelia: “A’ vita è nu sciuscià/
e abbascio addò ‘Ndreamuscio me voglio mbriacà”). L’osteria,
come la piazza ed il quartiere , è il luogo dove la socializzazione
si esplica nella molteplicità delle sue forme, dove cioè i paesani,
spesso stanchi per la dura fatica nei campi, al termine della gior-
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nata, parlano, urlano, bisticciano, si scambiano motteggi e ironici
sberleffi, si sbronzano e ascoltano la radio.
Altri luoghi emblematici della socializzazione contadina sono i
quartieri e la piazza principale del paese (Piazza Municipio). Tra i
quartieri viene immediatamente alla mente “O’ Chiazzullo” (piccola
piazza), un noto e caratteristico quartiere quindicese, descritto
in modo affabile e con toni piacevolmente satirici e vivacemente
caricaturali dal noto versificatore Guido Sepe: “Ncuminciammo
ro Chiazzullo/ razze e zite e murticielli/ ruffiane e ghiorechere/
sulo chello sanno fa” (ovvero nel quartiere Chiazzullo c’è gente
che partecipa a tutte le feste di matrimonio e alle esequie – zite
e murticielli- , ora ridendo ed ora piangendo, ma ci sono ruffiane e criticone, e questa gente sa fare solo questo). Un ritratto
suggestivo di un intero quartiere, ben descritto e rappresentato
nei suoi ritmi di vita e nei suoi comportamenti, dove convivono
sentimenti e modi di agire contrapposti, partecipazione emotiva
ad eventi gioiosi e tristi congiunta indissolubilmente con pettegolezzi e ruffianeria, con sussurri malevoli e critiche irrazionali.
Poi c’è Piazza Municipio, crocevia importante di feste religiose,
di processioni, di manifestazioni amministrative e politiche, ma
anche luogo di comizi pubblici e di sberleffi scherzosi (a tal proposito viene rievocata la spettacolare manifestazione con ampio
coinvolgimento popolare promossa nel 1960 dalla lista vincente le
elezioni amministrative). Altri luoghi nominati sono Casamanzi (un
quartiere nella parte alta del paese), ma non mancano riferimenti
precisi alle montagne, che incoronano il paese e verso le quali
l’atteggiamento dei Quindicesi è ispirato non tanto da benevolenza e da simpatia, ma più spesso da un senso di fastidio e di
paura. La montagna nell’immaginario collettivo non é vista come
una risorsa che fornisce lavoro e risorse (legna, frutta di bosco,
produzione di nocciole e di castagne) quanto piuttosto come un
mitico gigante che incombe minaccioso sul paese e come ambiente
dove il lavoro diventa defatigante e persino letale (“Monte cirivo
a tata”, ovvero il lavoro di montagna ha ucciso mio padre). Preoccupazioni e paura sono i sentimenti più spontanei che in certi
momenti suscita la vista delle montagne, cosicché le nuvole che
si addensano sul Monte Camposummo o sul Monte Alvano sono
ritenute brutte e minacciose. Se dunque la Piazza municipale e la
cantina, persino il quartiere, sono associate all’idea della festa e
della gioia, della spensieratezza e della rottura delle convenzioni
sociali, la montagna è connessa invece all’immagine di minaccia
e di paura. Non vanno poi dimenticati i luoghi o gli ambienti istituzionali, dove la comunità svolge i suoi riti sacri, celebra le sue
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feste religiose e cittadine, esterna i suoi simboli. Di tali luoghi
istituzionali, importanza straordinaria hanno la Chiesa parrocchiale,
ambiente privilegiato in cui si manifesta la religiosità della comunità e non mero edificio architettonico da visitare, ma non si
devono dimenticare le numerose e piccole cappelle che costellano
il paese e sono dedicate al culto e alla venerazione dei Santi, un
culto fortemente radicato nella coscienza popolare e che si esprime in modo peculiare nell’organizzazione delle numerose feste e
nella celebrazione delle spettacolari processioni, le quali a loro
volta costituiscono non una estrinseca manifestazione di folclore
popolare ma un sicuro richiamo ed un momento di chiamata e
di aggregazione dei Quindicesi residenti o disseminati nelle varie
plaghe d’Italia e d’Europa. La parrocchia nei modi di dire popolari
non è solo il luogo riservato alla preghiera e al culto sacro, ma
è intesa anche come un bene patrimoniale a disposizione dell’intera comunità, come una sorta di “res omnium”, come un bene
che ogni parrocchiano potrebbe utilizzare a seconda delle proprie
necessità (“Robba ra parrocchia/ chi arrocchia arrocchia”).
I Santi più gettonati, e che occupano un posto privilegiato
nella psicologia della gente e nei profondi e sinceri sentimenti
religiosi di tutta la popolazione, sono Sant’Antonio, San Teodoro e
Sant’Aniello, ma su tutti si eleva indiscusso e prepotente il culto
della Madonna delle Grazie. Talvolta i sentimenti di devozione e
di venerazione dei Santi dei Quindicesi si estrinsecano in riti celebrativi spettacolari ed in forme di culto che ad alcuni appaiono
manifestazioni popolari di carattere paganeggiante ed espressioni
di una sensibilità religiosa ambigua e superstiziosa. A specchio
di questo modo non autentico di praticare e di vivere il culto dei
Santi, si ricorda la fulminante e feroce invettiva pronunciata dal
rimatore Don Alfonso D’Amelia contro Quindici, i Quindicesi ed i
Santi, accumunati nella medesima blasfema condanna al ludibrio
e a bruciare nella geenna eterna, solo perché questi ultimi non
hanno esaudito il suo voto e non hanno fatto il miracolo della
tanto invocata vincita al lotto:”Santo Tiroro mio, mo’ statte buono/
Chi ‘o sape quanno nce vengo nata vota/ Aggio fatto nu vuto a
Sant’Antonio/ che Quinnice cuttè adda brucià”. Ecco l’esempio di
un modello di religiosità pagana e superstiziosa, che immagina i
Santi come tappabuchi, idoli benefici e meri esecutori della volontà
degli uomini. Nella stragrande maggioranza delle manifestazioni
popolari di carattere religioso il culto dei Santi si rivela genuino
ed autentico, ispirato da sentimenti di gratitudine e di lode e da
puro senso di religiosità. Alla organizzazione delle feste e delle
processioni in onore dei Santi concorrono e partecipano tantissimi
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Quindicesi residenti o abitanti nei paesi limitrofi. Queste feste in
onore dei Santi, al di là dell’innegabile profilo folcloristico, hanno
un profondo radicamento emotivo-sentimentale e culturale nella
devozione e nella religiosità popolare. Sotto il profilo culturale, le
numerose feste organizzate e vissute dalla comunità quindicese,
sono declinate entro il perimetro di una simbologia ricca e fantasiosa ma legata anche alla tempistica stagionale.
Per completare l’affresco della paremiologia quindicese, dobbiamo avvicinarci a tutti quei personaggi, che in un modo o in
un altro agiscono sia nelle vesti di soggetti recitanti o parlanti
sia in quelle di contesti di riferimento, dando vita ed alimento
alla costruzione dei proverbi e dei modi di dire popolari. L’antropologia, in fondo, è il nucleo centrale dell’universo paremiologico
quindicese, nel quale non operano mai personaggi mitici o leggendari, fantasiosi o favolosi (come avviene in quella tipologia
di proverbi costituita dai “wellerismi”, così chiamati dal nome di
Sam Willer, personaggio del Circolo Pickwick di C. Dickens, che li
pronuncia spesso nelle pagine del romanzo, ovvero di detti sentenziosi, fatti recitare ad un personaggio storico od immaginario
o ad un animale), ma solo individui concreti e ben caratterizzati,
figure di popolani, non di rado rappresentati in maniera mordace
ed umoristica, ma sempre consapevoli del loro status sociale e
culturale, appartenenti sia al piccolo ceto impiegatizio pubblico
che agli strati sociali più bassi della popolazione. Ce ne sono di
tutti i tipi e di tutti i colori: un mondo variegato e variopinto,
una umanità sofferente, certamente dolente e precaria, ma anche
dignitosa nell’accettazione della sua condizione sociale, frugale
e parsimoniosa nei bisogni e nei consumi, ma anche desiderosa
di godere e consumare gli attimi fuggenti della spensieratezza
e della felicità momentanea, abbarbicata ai simboli presenti nel
proprio ambiente d’origine e ben piantata sul terreno dei valori
della coesione sociale e familiare e del decoro etico, poco incline
a sognare o a prefiggersi obiettivi ambiziosi di rigenerazione sociale e di cambiamento radicale. Queste figure umane assurgono
anche a tipi e a paradigmi, ma non sono macchiette e burattini
o impersonali larve di un destino atroce di dolore e di sofferenza. L’universo antropologico è costituito anzitutto da quello che
si potrebbe chiamare il popolo cantore, ovvero dalla comunità
nel suo insieme che produce anonimi canti e rime popolari nei
più differenziati registri linguistici e moduli stilistici ed espressivi
(ballate e ritornelli, nenie e tarantelle, cantate e filastrocche). C’è
ad esempio il canto popolare strutturato in una sorta di forma
epica e di racconto narrativo in versi, in cui viene rievocata una
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vicenda triste e dolorosa, lamentevole ed insieme agghiacciante,
cantata da un pastorello con uno zufolo formato da un osso non
di capra, come egli credeva, ma di un principe ucciso dal fratello
e seppellito sotto un albero. Il Prof. Santaniello annota a proposito
e con perspicacia che questo canto triste e dolente ha “reminescenze virgiliane” e “ricorda l’analogo episodio di Polidoro”. C’è un
altro canto popolare, dalle tonalità malinconiche, costruita su una
esperienza del tutto strana ed anomala, criptica e non facilmente
decifrabile nel suo autentico significato, di un altro pastorello che
cuoce una lepre incinta, dopo averla uccisa e scuoiata e dopo averne mangiata la carne, con la fiamma di vecchi libri scoperti in una
chiesa diruta ed abbandonata e che alla fine si lava con l’acqua
contenuta in una acquasantiera. Altri canti popolari, sotto forma
di filastrocche ed aventi a protagonisti i bambini, sono indirizzati
con toni canzonatori e con l’uso delle onomatopee contro figure
anonime (come la famosa “Ciccio pasticco/ Pallottole ‘n…o/ Vene
la mamma e le stova lo c…o/ Vene lo patre cu turcituro – una
robusta mazza - / Chicchi, chicchi ‘ncoppa ‘o culo”). Altrettanto
gustosa e spumeggiante è la satira contro il vanesio, lo sbruffone,
il Don Giovanni da strapazzo, che con l’inganno va alla conquista
delle ragazze inesperte, nonostante egli manchi dei veri attributi
sessuali/”Sta toletta ci dimostra/ e co’ chesta rosa ‘npietto/ che
nun trovi cchiù arricietto/ qualche nenna vuo’ ‘ngannà/ Ma sta
rosa è na parvenza/ pe’ te nce vo’ ‘ bastone/ tieni ‘u muorto int’
‘o cazone”). Né va dimenticata la divertente cantata popolare in
occasione della festa di Sant’Antonio, quando bambini e giovani,
mentre bruciavano i falò nei diversi quartieri, legavano ai bordi
delle giacche e dei cappotti un salice a forma di cappio. C’è infine
la tarantella “squisitamente quindicese”, costruita da una parte
su toni giocosi e su anafore divertenti, e dall’altra su immagini
cariche di amaro sapore moralistico, con stilettate contro le donne.
Dal poetico volksgeist all’individuazione del genius loci e dei
vati autoctoni della versificazione il passo è breve. Baldanzoso ed
impettito nella sua livrea di fustigatore dei costumi locali ed efficace
divulgatore di motteggi, di lazzi e di sberleffi contro gli accaniti ed
i troppo speranzosi giocatori di lotto, contro i servili adulatori o i
cicisbei vanagloriosi, s’avanza il sovrano dei versificatori nostrani,
il commesso comunale Don Alfonso D’Amelia (1857/1931), affetto
da cecità . La sua fervida verve poetica s’esprime efficacemente ed in modo originale in alcune invettive contro i suoi nemici
e contro gli ipocriti ed i boriosi; fra queste si deve ricordare la
notissima (citata in precedenza) invettiva contro i santi e contro
tutti i Quindicesi, l’altrettante famosa invettiva contro il malcapitato
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oste Andreamuscio, il quale osò venir meno ai principi dell’onore
e della coerenza in cambio di un lauto banchetto a base di capretto e di polli. Più fantasiosa nella costruzione delle immagini
poetiche, anche se tranciante negli accenti denigratori, è l’invettiva
dello stesso autore contro un Podestà di Quindici, originario di un
altro paese irpino, dove era allevatore e venditore di pollame, il
quale si era reso colpevole di non aver mantenuto la promessa
di corrispondergli un aumento retributivo; il motteggio ed i toni
canzonatori si evidenziano nell’abilità con cui il rimatore smonta
e destruttura la doppia personalità del povero ed ignaro Podestà,
che, pur essendo un “pogliancaro” (venditore di galline) ed un
uomo di scarso valore e prestigio sociale, si atteggia a presuntuoso generale quando esercita la sua funzione amministrativa.
Tra i rimatori che amano fustigare i costumi popolari, ma con
toni meno feroci e più dimessi e convincenti, si segnala il vecchio
maestro elementare, oriundo napoletano ed ex gesuita, detto
Tuttullo; egli, privilegia i toni pacati e temperati e non privi di
spessore etico, non quelli sguaiati e dirompenti, l’aforisma e non
l’invettiva, la denuncia non aggressiva e non urlata e la riflessione
ragionata e non il motteggio offensivo e denigratore, ama dire la
sua su tutto ciò che egli ritiene riprovevole e censurabile sulla base
della sua severa etica stoica. Di qui la denuncia dell’abbandono e
dell’emarginazione sociale dei vecchi (“Mo caggio fatto vecchio/
Me vottono o’ montone”). Di Tuttullo si ricorda poi la gustosa
satira condotta con accenti canzonatori contro i vanagloriosi e gli
incalliti apologeti delle proprie cose, di cui immagine vivente è il
vigile urbano Roberto, morto nel dopoguerra e noto per i modi
spavaldi e spocchiosi con cui vantava le sue cose, compreso il suo
cane (“Oi Robè…/Tu sto cane ca te vanti…/è nu buono nacertaro
(ossia cercatore di lucertole)/robba o’ pane che và caro”). Ma
Tuttullo è capace anche di tradurre in versi e rime dolenti eventi
terribili e cupi, come l’amarezza di una vita condotta in solitudine
e povertà e l’infausta Domenica delle Palme del 1906 in cui le
strade del paese furono invase dai lapilli e dalle dense nuvole di
polvere eruttati dal Vesuvio (Ecco l’amara rievocazione dei” mala
tempora currunt”: “So’ passati i tiempi belli/ So’ vinuti i tiempi
tristi/ Quant’è vero Gesù Cristo/ Non me pozzo cchiù bottà”).
Vivace negli accostamenti poetici delle immagini si presenta
la variegata famiglia Santaniello composta da rimatori e poeti
dilettanti di schietta origine quindicese. Ernesto Santaniello, vissuto durante il periodo fascista, fornito di discrete conoscenze
di agronomia e di buone capacità pittoriche, oltre che di una
riconosciuta ed apprezzata abilità di suonatore di chitarra, all’oc-
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correnza poeta autodidatta, è autore di un messaggio, scritto in
rima, intriso di accenti servili ed adulatori ed indirizzato al Duce
(“Vasi, suspiri a cofane/ Quanto a nu munno chino/ Mandiamo al
nostro Duce/ Benito Mussolini”) e di un mordace lazzo scagliato
contro gli scansatiche ed i nullafacenti (“Seca, seca na jornata/
ogni stronca no morcone/ Basta di’ ca’ sta Mozzone/ Che fatica
se po’ fa”, ovvero si lavora con la sega tutto il giorno, quando
c’è Mozzone, si può mai fare un lavoro produttivo?).
Angelo Santanielllo, gestore di una bottega d’arte a Nola,
eccellente suonatore di chitarra e mandolino, origini doc quindicesi, va segnalato per alcuni spunti poetici, di cui è autore, e
per la sua innata attitudine ad osservare con occhio attento, con
disincantato scetticismo e benevole ironia fatti situazioni e comportamenti umani e a tradurli in versi improvvisati. Ha lasciato in
eredità ai suoi concittadini una canzone in quartine dedicata alla
Madonna delle Grazie, affettuosamente chiamata” Mamma nosta”
e “ Mamma schiavone”, nella quale si coglie una particolare perizia
nell’utilizzo del verso in rima e dell’associazione delle immagini,
il tutto coniugato con una spiccata sensibilità religiosa e sociale
nell’interpretare i sentimenti popolari e le tradizioni folcloristiche
del suo paese d’origine. Nella poesia, enfaticamente intitolata “Festona” con accenti di sentita partecipazione emotiva e di profonda
devozione, eleva un inno di lode alla Vergine Santa, tracciandone
uno straordinario ritratto attraverso l’uso di immagini originali, di
analogie e corrispondenze di eccezionale efficacia: “Tu si’ ll’anema
eterna e sto paese../ Tu si’ comm’a na femmina cianciosa/ Ca
spanne attorno no profumo ‘e vase/ Ca’ Tu nu si’ na festa, si’
Festona”. All’inno di lode della Madonna si accompagnano l’esaltazione di una festa celebrata con sfarzo e vissuta con passione
da tutta la popolazione e l’espressione di un sincero amore per
il suo paese d’origine, del cui riscatto sociale e culturale egli si
sente cantore ed interprete e del quale con vigoroso realismo
descrittivo riesce a cogliere le autentiche vibrazioni dell’animo, la
partecipazione corale ed il manifestarsi di un puro ed autentico
senso religioso nel momento in cui la statua benedetta percorre
in processione le vie cittadine (“…e’ stu juorno: bande, cante e
suone/ Passano allere pe’ ffa stravvede”). Con il suo perspicace
intuito, il rimatore legge in modo originale il significato culturale e
sociale della processione, offrendo al lettore una nuova e personale
interpretazione del momento del passaggio della statua benedetta
per la strade del paese: il percorso trionfale della sacra immagine non è una mera ed effimera manifestazione di folclore ma un
rito purificatorio e liberatorio dal male, di religiosa emancipazione
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collettiva, di miglioramento dei modi di agire e di comportarsi di
una intera popolazione; il miracolo della purificazione generale può
essere prodotto solo da una devozione popolare pura ed autentica verso la Vergine santa (“Pecchè Sul’ Essa sape quanta guaie/
Stanne int’o pignatiello ‘e stu paese/..Mettetele ò bbuono ‘ncapa
a chesta gente/ E stu’ paese tujo, ca penza a te”).
Un’altra importante penna di dilettantismo poetico è Leopoldo
Santaniello, quindicese di nascita, emigrato in Venezuela e deceduto
a Caracas, conosciuto per la sua passione per la chitarra classica
e per il mandolino, compositore di musica, autore di una canzone
in lingua italiana di sei quartine, con uno schema ritmico fisso,
scritta con fine gusto satirico e con raffinato senso umoristico,
tutta giocata sulla capacità macchiettistica di un immaginario e
gustosissimo dialogo con un “escremento ignobile”, trasformato
poi in “cacca artistica originale e pura”.
C’è poi un Ettore Santaniello, un uomo popolare di Casa Manzi,
che in occasione di una vittoriosa elezione amministrativa del suo
gruppo politico si diletta ad improvvisare un divertente ritornello
in rima nel quale tutti gli elettori della lista vincente sono invitati
a festeggiare e a vivere spensieratamente e con allegri brindisi
quei momenti di gioia collettiva.
Infine ultimo, ma non il meno importante ed il meno noto,
siede nobilmente nel drappello dei rimatori autoctoni e dei dilettanti
della poesia vernacolare il vecchio amico Guido Sepe, simpatico ed
affabile comunicatore, consumato e provetto attore dalle mirabili
doti di gestualità mimica, versificatore fornito di acuto spirito di
osservazione. Egli si fa apprezzare per la sua spiccata abilità nel
saper cogliere i lati comici ed eccentrici ed insieme contraddittori
della realtà umana e di alcuni ambienti sociali tipici del paese d’origine e nel tradurli in moduli linguistici ed espressivi sentenziosi
ed in incisive forme gnomiche (si ricordi a proposito la già citata
satira sulle donne ro’ Chiazzullo). L’autodidatta e dilettante rimatore
è, inoltre, autore di una celeberrima canzone religiosa inneggiante
alla Madonna delle Grazie, scritta nel 1960 su incaricato ricevuto
(e poi puntualmente rispettato) dal Comitato organizzatore delle
festa patronale. La lunga canzone, strutturata su tre quintine e
sette quartine, a rima libera e con una tecnica compositiva non
sempre rispettosa delle regole canoniche, presenta interessanti
connotazioni tematiche, quali la intensa partecipazione emotiva
ai riti religiosi e alla processione, di cui sono descritti con un
sapido spirito realistico i momenti più qualificanti, lo sguardo
penetrante dell’animo che contempla e rappresenta i sentimenti
di genuina devozione del popolo festante e totalmente coinvolto
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dalla manifestazione sacra (“Si vui assistite ‘a sta processione/
Virite tanta gente a schiere sane/ Con ll’uocchie ‘nvusi e co ‘na
cera ‘mmano/ pensate rinto o’ core che ‘ve fa/ Ve vatte forte e ‘
n unse po’ calmà”. Il carattere predominante della canzone non è
costituito tanto dalla riflessione sul significato della festa e della
processione quanto, piuttosto dall’occhio clinico dell’autore che si
compiace di osservare e di descrivere la grande gioia e la partecipazione corale della massa dei devoti di qualsiasi provenienza.
La massa anonima del “popolo cantore” ed il drappello dei
rimatori locali non esauriscono l’orizzonte dell’universo antropologico rievocato dalla paremiologia quindicese. Questo universo è
affollato da una miriade di personaggi reali e concreti, colti nella
morfologica plasticità dei loro gesti e comportamenti con veloci
tratti descrittivi. Vi sono rievocate figure storicamente ed anagraficamente accertate, che hanno esercitato funzioni pubbliche ed
amministrative, come il Dott. Di Giacomo Pasquale, di Atripalda
(AV), venditore di pollame e Podestà a Quindici sotto il fascismo,
o il Cavaliere Giuseppe Ponzi e Fiore Graziano, Sindaci del paese;
ci sono i Consiglieri comunali. Prevalente, però, in questa tipologia antropologica è la foltissima schiera dei popolani e di coloro
che esercitano umili lavori artigianali o una funzione pubblica di
profilo basso ed esecutivo, ben individuati nelle loro mansioni ma
anche tipizzati ed emblematizzati. Alcuni di questi popolani sono
rappresentati in maniera ironica, altri in modo caricaturale; alcuni
ricevono l’apprezzamento ed il consenso della gente, altri (e sono
i più numerosi) appaiono come i reietti della società. L’album dei
popolani, ben individuati nei loro tratti caratteristici e nella loro
identità familiare e sociale è lungo. Tra tutti spicca il più volte
citato Andreamuscio, poi c’è un certo Milione, l’ex seminarista
Emilio, predicatore in determinate circostanze, il già citato vigile
urbano Roberto, morto nel dopoguerra, il signor Cavargna, un
grossista nolano di castagne, accorto e pignolo nel fare lo scarto
tra i prodotti buoni e quelli non commerciabili. Nell’elenco non
mancano, però, figure di popolani tragiche e dolenti, ovvero individui senza arte né parte, senza radici e senza appartenenza
ben identificabili; tali si presentano un certo Pandullo, uno sconosciuto ubriacone morto mentre dormiva accanto al fuoco, un
certo Zarafano, un anonimo personaggio dall’andamento strano
e strampalato, anch’egli morto nel dopoguerra, e poi un certo
Finella, figura di sciocco e falso millantatore, un balordo vissuto
a cavallo tra il secolo XIX e XX, che si vantava di avere sette
mogli ma che in realtà non ne aveva nessuna, ed infine un certo
Nufriello, ovvero il custode del cimitero del paese. Ci sono poi
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figure, assolutamente anonime, delle quali viene segnalato solo il
nome, come un certo Pasquale, un zi’ Giovanni, che è circondato
da una folla di amici e di parenti solo quando dà e dona; allo
stesso modo non si sa chi siano quel “Rocco che fatica” e quella
“Pizzicata che magna”, oppure la Maddalena rievocata dalla tarantella citata in precedenza, o lo smorfioso Pacchiatiello, morto agli
inizi del secolo XX, lunatico e malaticcio, o la Filumena, noto per
il suo comportamento pubblico di ancheggiatrice ed annusatrice
di tabacco.
Uno spazio rilevante occupano nella paremiologia quindicese
alcune figure di genere come i vecchi, di cui si è già detto, e
soprattutto le donne.
L’immagine della donna elaborata dalla saggezza popolare
quindicese non si discosta molto dal modello culturale del tempo
dominante sostanzialmente anche nell’Occidente capitalistico del
Secolo XIX e degli anni precedenti il Sessantotto.
Alla donna sono assegnati ruoli fissi, poco creativi, di natura
essenzialmente ed esclusivamente domestica, ma non le viene
riconosciuto mai il diritto di costruirsi un progetto di vita e di
scegliersi autonomamente il ruolo sociale e professionale meglio
rispondente alla propria personalità e ai propri talenti.
Si attribuisce alla donna la funzione biologica di produttrice
e riproduttrice della specie e quella sociale di manutentrice e garante della stabilità e della coesione familiare. Le frecciate villane
e denigratorie, i motteggi mordaci ed i lazzi sconci e turpi contro
le donne abbondano nei detti e modi di dire popolari quindicesi.
Il massimo del danno personale, sociale ed economico, che possa
capitare ad un uomo è quello di sposare una donna”brutta e senza niente” (“Lu mischiniello non canta/ e non conta/ Se l’hanno
brutta e senza niente”).
Il ritratto delle donne è avvilente e persino osceno sotto certi
aspetti: le donne sono ruffiane e criticone, irresolute e sempre
mutevoli, (“nacchipapera”, “Commo ‘e pottane ‘e Salierno”), sono
brutte come le nuvole che stazionano sui monti Camposummo ed
Alvano, sono presuntuose ed infedeli (“Valliate, zoccole”); la donna,
che non è riservata, ma che vuole fare mostra di sé, ancheggiando
pubblicamente, o è puttana o è destinata a diventarla (“Quanno
a’ femmina ‘o c..o le balla/ Si n’è puttana, diavolo falla”).
La donna è apprezzata ed acquista una certa dignità sociale
non perché possiede intelligenza o talenti intellettuali o competenze professionali o bellezza, ma solo se possiede una dote
(casa, forno, bottega) consistente, che possa garantire al marito
un’abitazione confortevole, un lavoro redditizio ed il pane sicuro:
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La donna che non sa accudire alle faccende domestiche non può
sognare né immaginare di trovare marito /”Chella se vò marità/
Manco o’ lietto sape fa/ Na ‘nzalat ‘e peparuoli/ n’ha saputo cumbinà”). In conclusione, gli oltre venti detti e modi di dire popolari
elaborati dalla comunità quindicese codificano in modo ineccepibile
il ruolo subalterno della donna all’uomo, il suo profilo di persona
docile, obbediente e sottomessa alla volontà dell’uomo e al potere
maschilista sia nella società che nella famiglia.
Vogliamo concludere la riflessione critica sulla ricerca curata
dal compianto Prof. Santaniello, interrogandoci su quale sia l’atteggiamento o il livello di partecipazione emotiva ed intellettuale
che il ricercatore assume o mostra verso la materia portata alla
luce e messa a disposizione dei lettori e degli studiosi.
Chi legge attentamente le note esplicative e di commento
genetico-storico, avverte la sensazione di trovarsi di fronte ad
un uomo solidamente radicato nel tessuto vivo della tradizioni
della sua comunità d’origine e di appartenenza, con la quale si è
sempre identificato in modo viscerale, mettendo in luce i limiti e
alcune contraddizioni ma nel contempo esaltandone soprattutto
i meriti ed i lati positivi, il sano e vigoroso realismo, i valori ed
i simboli culturali e sociali più significativi (coesione familiare e
stabilità sociale, rapporti umani caldi e sinceri, forte attaccamento
al lavoro e alle tradizioni, desiderio di miglioramento della sorte
dei propri figli ecc.
Quindici non è stato mai per il Prof. Santaniello una “città
ignobile d’Italia”, come lo era Recanati per Leopardi.
L’atteggiamento dello studioso e del ricercatore verso le abitudini ed i comportamenti dei suoi concittadini è stato sempre
ispirato ai parametri di una benevole comprensione non disgiunta,
però, da una critica intellettualmente onesta e garbata, accorta
e moderata nei toni. Il Ricercatore accarezza questo mondo polimorfo e complesso, creativo per un verso ma anche chiuso e
poco dinamico per l’altro, lo scruta con amorosa passione nei suoi
reconditi anfratti simbolici, nei suoi costumi e nelle sue abitudini
sociali, nei suoi riti ancestrali, lo osserva sempre con acuta intelligenza critica, ma anche con amara e bonaria ironia, ne esplora
gli incunaboli linguistici ed espressivi e le tipiche caratteristiche
vernacolari.
Egli è attento a tutte le modulazioni di un tessuto linguistico
costituito non di rado da arditi accostamenti di immagini e da
originali associazioni di idee e di concetti. Sotto la sua penna
questo mondo prende slancio e vitalità, si rianima, supera gli
ostacoli della sfocata e crepuscolare distanza dal tempo per di-
43
venire realtà palpitante e corposa. Questo ricchissimo patrimonio
culturale e simbolico, fatto di riti e feste, di tradizioni e abitudini,
di manifestazioni collettive e celebrazioni religiose, sarebbe rimasto sepolto dall’oblio e dal desertificante silenzio del tempo, se il
compianto ricercatore Prof. Santaniello con amore e con fervida
passione non lo avesse resuscitato.
Salvatore Santaniello
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Il detto popolare nella cultura e nell’identità di una Comunità meridionale prima dell’avvento dei mass media
‘Aggio diventato petana
Nella allegra atmosfera della cantina situata all’inizio di via
Cupa si intrecciano i discorsi degli avventori riscaldati dal fuoco
abbondante del camino e soprattutto dai bicchieri di vino, di cui
ormai qualcuno ha perso il conto: nelle fredde serate dell’inverno
quindicese è una consolazione passare qualche ora in compagnia
dei vecchi amici prima di andare a dormire per riposare il corpo,
che all’alba successiva è atteso da una nuova, dura giornata di
lavoro.
A servire i clienti di una vita c’è Serena,vedova ormai avanti
negli anni, ma ancora non abbandonata da alcuni tratti della sua
bellezza rustica: quanti ammiccamenti e quante esplicite proposte
durante gli oltre trenta anni di onorata attività di cantiniera! Tra
tutti, però, si era distinto Francèsco (da notare la e aperta della
pronuncia, quasi di intonazione milanese) e ancora adesso, già
oltrepassata la soglia della settantina, non sa rinunciare a quella che ormai è diventata una liturgia; prima di abbandonare la
cantina per tornarsene a casa ripete la sua proposta a Serena.
“Vuoi salire con me al piano di sopra?”
Inevitabile si ripete l’altrettanto rituale sghignazzata dei presenti.
Questa sera, però, il copione cambia, e inaspettatamente,
con la platealità un po’ dovuta alla sua innata vivacità, ma molto
anche alla lunga pratica di ostessa, Serena, convinta che il suo
eterno corteggiatore non è più sostenuto dai bollenti spiriti della gioventù, pronuncia un “sì”, che crea un silenzio irreale nella
cantina e lascia a bocca aperta soprattutto Francèsco, che rimane
imbambolato e si lascia docilmente prendere per mano da Serena e condurre su per la scala ripida di legno protetta da una
ringhiera di ferro battuto.
È il caso di fare un altro giro di bicchieri e, se pure for­­­
zatamente, riprendere le chiacchiere e i rumori soliti, per spezzare
quel silenzio, che poteva apparire indiscreto: uomini rozzi sì, ma
non “guardoni”.
Il silenzio, però, torna imperioso, quando lo scricchiolio del
primo gradino di legno annuncia la discesa di Francèsco: tutti gli
45
sguardi sono rivolti alla zona di luce che sta ai piedi della scala:
prima le scarpe, poi lentamente i pantaloni, poi il busto e alla
fine la faccia: rossa, attonita, delusa. E, nella attesa generale,
Francèsco sconsolato allarga le braccia ed esclama: “ ‘Aggio diventato petana”.
Nel rispondere alla richiesta dell’Associazione San Lauro di
scrivere un breve intervento, che insieme ad altri accompagni la
pubblicazione di “Detti, frizzi e lazzi quindicesi” raccolti dal compianto professore Salvatore Santaniello, ho cercato di dare un po’
di colore ad una storia raccontatami da mia madre e che mi è
tornata in mente quando, scorrendo le pagine della raccolta, ho
trovato “‘Aggio diventato petana”. E forse l’idea non è stata proprio
casuale, perché Francèsco è un antenato non molto lontano del
professore Santaniello ed alcuni anni fa Salvatore stesso, quando
mi parlò del suo lavoro di ricerca e di raccolta, accolse con favore,
forse perché un pensiero già lo coltivava, il mio invito a raccontare
le storie legate a molti dei detti popolari da lui schedati.
La scomparsa prematura forse ha impedito a Salvatore di
completare l’opera intrapresa, che sicuramente ci avrebbe dato
una ulteriore conferma delle sue doti di affabulatore arguto e
simpatico; del resto l’arguzia e la simpatia sembrano essere un
patrimonio di famiglia, che ho avuto la fortuna di sperimentare
nei tanti anni di frequentazione del fratello Antonio: una miniera
quasi inesauribile di aneddoti e storie quindicesi raccontati con
l’abilità di un consumato sceneggiatore.
Senza pretendere di proporre un saggio antropologico o sociologico, per il quale mi mancano le competenze, io penso che
la cultura e l’identità di una comunità trovi un suo forte elemento
aggregante, oltre che nelle strutture economiche e nelle espressioni
delle istituzioni, della politica, della religione, dell’arte, soprattutto
nella condivisione di un immaginario collettivo, capace di conservare memorie, trasmettere valori e resistere a quei cambiamenti
troppo repentini, che rischiano di tagliare le radici, che ci legano
al passato e che possono dare un senso più compiuto al nostro
presente e magari al nostro futuro.
I meccanismi di formazione dell’immaginario collettivo sono
diversi e legati alla evoluzione storica delle società; in estrema
sintesi indicherei tre livelli:Oralità, Letteratura, Pubblicità.
La Oralità è tipica delle società arcaiche e ad essa è affidata
la memoria e la trasmissione dei miti e delle leggende, che costituiscono il patrimonio comune, a cui attinge l’identità culturale
di un popolo: Demodoco e Femio sono i due aedi, che nei poemi
di Omero durante i banchetti raccontano storie antiche di divini-
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tà, di eroi e di gesta gloriose. La Letteratura e l’arte in generale
sono le espressioni più alte di una società evoluta, che, attraverso
i contributi più prestigiosi degli intellettuali e la diffusione degli
stessi, affidata alla trasmissione scolastica e alla circolazione dei
libri soprattutto, ma da più di mezzo secolo anche alle proposte
più intelligenti dei mezzi di comunicazione di massa, offrono storie,
immagini, personaggi e motivi, che si fissano nella coscienza e
nell’immaginario di una comunità nazionale, o transnazionale nel
caso di artisti di eccezionale valore. Nessun Italiano medio ignora
il personaggio manzoniano di Don Abbondio o non riconoscerebbe
“la Gioconda”o, ancora, le note del “Va, pensiero”.
La Pubblicità è la forma più recente di creazione dell’immaginario collettivo, con caratteristiche ben definite e profondamente
legate alla presenza debordante dei mass media nella vita quotidiana del nostro tempo. Dopo i “Caroselli” degli anni sessanta,
che pur conservavano la dignità di microstorie, che precedevano
la vera e propria pubblicizzazione di un prodotto, e dopo le divertenti animazioni di “Calimero pulcino nero” o del pistolero di
carta, che intimava a Carmencita “chiudi il gas e vieni via!”, il
linguaggio della pubblicità è andato sempre più scivolando verso
una deriva di intrigante erotismo, per cui la promozione dei prodotti
viene quasi sempre affidata a giovanotti e signorine avvenenti ed
ammiccanti, anche se si tratta solo di una colla al silicone: tra i
giovani ed i meno giovani è certamente più famosa la signorina
Belen che non il premio nobel Dario Fo.
La traccia che mi è stata proposta- “Il detto popolare nella
cultura e nella identità di una Comunità meridionale prima dell’avvento dei mass media” - esclude una riflessione più approfondita
sulla Pubblicità come veicolo di formazione dell’immaginario collettivo e richiama piuttosto la oralità soprattutto, ma anche, in
parte, la letteratura.
Il paese di Quindici dalle sue lontane ed incerte origini fino alla
fine degli anni cinquanta, quando cominciò l’emigrazione verso altri
paesi europei più forti economicamente e verso l’Italia del nord,
che si affacciava al boom economico, è stato sempre un piccolo
agglomerato di contadini ed artigiani, tra cui spiccavano pochissimi abitanti più abbienti e con qualche rudimento di istruzione.
Questa marginalità e le condizioni di arretratezza, che purtroppo
il nostro paese condivideva con tanta altra parte del territorio
italiano, soprattutto nel meridione (si pensi, per citare un esempio
letterario, al paese di Aci Trezza affrescato con tinte pittoresche
dal Verga nei “Malavoglia”), hanno segnato nei secoli lo sviluppo
47
della sua identità culturale, relegata in un microcosmo, che tuttavia
costruiva ed elaborava il proprio immaginario collettivo attraverso
le narrazioni dei “cunti”, trasmessi di generazione in generazione,
e attingendo all’antica saggezza dei proverbi arricchiti dal fiorire
di detti popolari legati a vicende e personaggi della comunità.
Nelle serate invernali, quando era proibitivo giocare per le
strade del paese, i ragazzi si riunivano intorno al focolare di una
signora anziana, per ascoltare racconti spesso spaventosi, che li
costringevano a guardare sotto il letto, prima di infilarsi tra le
coperte: proprio in quegli anni a cavallo tra i cinquanta e i sessanta, che avrebbero segnato una accelerazione nel tramonto del
mondo contadino, era famosa nel quartiere di Piediquindici una
mia prozia, soprannominata “Catarina ‘e marzo, che raccontava
raccapriccianti storie di briganti e di fantasmi.
Vorrei qui aggiungere una nota che accomuna le culture contadine nelle diverse latitudini e ampliare la dicitura “Comunità
Meridionale” della traccia. Mi è capitato di parlare spesso con un
vecchio contadino di Cassola, un paesino del Veneto, dove attualmente vivo, che spesso viene a trovarmi nel mio capanno di
caccia nelle rigide mattinate di novembre. Mi ha raccontato che
negli anni della sua giovinezza, quando il Veneto non era ancora
quello del miracolo del nord-est, durava ancora la consuetudine di
riunirsi nelle sere d’inverno nella stalla di una delle cascine, dove
adulti e bambini confluivano dalle case sparse nella campagna,
per dare vita al “filò” e cioè alla narrazione di storie interminabili tra il calore generato dalla presenza degli animali ed il forte
odore (?) del letame.
Ma, tornando a Quindici, la fantasia e l’immaginazione erano
anche stimolate da altre forme narrative, che costituivano una
mediazione tra la Letteratura e la Oralità: la Commedia dei Pupi,
attraverso un linguaggio altisonante, ma spesso storpiato dalla
scarsa familiarità dei pupari col testo scritto, facevano favoleggiare
di Orlando e di Rinaldo e concentravano tutta l’ostilità contro Gano
di Magonza (che nel dialetto diventava “Cane e maganza”). Il lascito di questa forma di intrattenimento “culturale”, lo possiamo
ancora notare nei nomi di molti paesani: Orlando, Sigismondo,
Atlante, Rizieri, Guerino, Sicurante.
E che la Letteratura facesse capolino tra espressioni proverbiali e detti popolari lo possiamo anche desumere dalla poesiola
di Don Alfonso D’Amelia, che inizia col verso “Pe nu sigaro strignisti”, nella quale la perfetta padronanza dell’ottonario, se pure
questo verso stesso è legato a ritmi popolari, dimostra una certa
familiarità anche con la cultura “alta”.
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Solo verso la metà degli anni sessanta, comunque, abbiamo
una più solida saldatura tra Oralità e Letteratura, grazie all’incremento del numero di coloro che frequentano le scuole o, alfieri
di un nuovo mondo, sono già giunti ad un diploma di scuola superiore ed in qualche caso, non sono molti in verità, alla laurea.
Avevo circa tredici o quattordici anni quando cominciai ad entrare con più frequenza nel mitico Bar Sombrero gestito da “don
Attilio” e spesso mi intrattenevo ad osservare i giocatori di poker,
che incuranti dei divieti di legge avevano sul tavolino davanti a
loro banconote dalle cinquecento alle diecimila lire, sistemate una
sull’altra in ordine di grandezza e fermate da monete allineate con
altrettanto ordine: spesso capitava a causa di un “piatto” andato
male di dover cedere con molto rammarico una banconota; ma
quando poi girava la fortuna e arrivava la giocata favorevole, nel
riappropriasi della banconota prima perduta, Salvatore Grasso, più
noto come l’avvocato Grasso (compianto compagno di bisbocce,
che si concludevano con canti accompagnati da chitarra e mandolino, ma anche di furibonde discussioni per le nostre diverse
appartenenze politiche) riponeva con gesto plateale la banconota
al suo posto ed esclamava: “Ritornava una rondine al tetto”.
Quando invece succedeva che dopo diversi giri fortunati il
mucchio di banconote e monete accumulate cominciava a diminuire fino a ridurre la sua disponibilità a pochi spiccioli, esclamava
sconsolato: “Da tanta altezza in così basso loco”. Sentii poi ripetere
quelle frasi anche da altri giocatori non istruiti come detti ormai
consolidati ed apparentemente popolari.
Solo diversi anni più tardi, quando cominciai a studiare più
seriamente la letteratura, mi resi conto che la prima frase era
un verso di Pascoli in “X agosto” e la seconda apparteneva alla
Canzone del Leopardi “All’Italia”.
Dai “Detti, frizzi e lazzi quindicesi” emerge una identità culturale legata al ritmo delle stagioni ed al ciclo produttivo della
terra (e non potrebbe essere altrimenti per una comunità fondamentalmente contadina), e nello stesso tempo appare una visione
della vita e dei rapporti umani spesso dura e senza sconti per
nessuno, il prodotto di una realtà segnata dalla difficoltà di sopravvivenza tra povertà e malattia. Ma più spesso ancora balza
in primo piano l’occhio lungo di una saggezza, che affonda le sue
radici nella notte dei tempi senza essere contaminata dai sofismi
della “cultura alta”.
Non mancano, poi, le battute argute e capaci di inchiodare
ad un gesto e ad una parola una persona per la vita e per le
future generazioni.
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Ed infine, ritornando al punto di partenza, tra le schede raccolte dal professore Santaniello si intravedono spaccati di storie
cristallizzate in un detto, minori “personaggi in cerca d’autore”,
che meriterebbero l’ispirazione e la penna di un Andrea Camilleri,
che nel suo “Il gioco della mosca” (edito da Sellerio nel 1995) ha
raccontato “storie cellulari”, come le chiama lui, in cui, associati
ad un detto popolare, rivivono luoghi, fatti e personaggi della sua
memoria, nel tentativo di strappare al tempo ed alla dimenticanza
l’identità culturale della sua comunità originaria.
“Ball’ommo, Ball’ommo, ‘issi visto a Crescenzo ro’ Pepe?”...
Ottaviano Siniscalchi
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In ricordo dell’amico Salvatore…
Chi legge questo lavoro: “Motti, frizzi e lazzi quindicesi”, lo
fa soprattutto perché ha avuto una grande stima del compianto
Professore Salvatore e lo ha annoverato tra i propri amici, non
perché lo ritenesse un genio o un grande, ma, solamente, perché
intelligente, buono, umile, altruista e popolare.
Salvatore ha voluto lasciarci messaggi e modi di dire semplici,
sani e schietti come Lui.
I temi esposti attraverso i proverbi ed i detti, quali l’amicizia,
gli animali antropomorfi, la civiltà contadina e la sua saggezza, i
personaggi popolari e popolani del passato prossimo e remoto, di
un tempo antico di Quindici ci suggeriscono e ci insegnano le opportune motivazioni esistenziali, perché possiamo trarre, tra l’altro,
indicazioni utili per il nostro breve arco vitale e quant’altro possa
servirci per capire ed affrontare il quotidiano, l’oggi e il domani.
Il Professore vuole sollecitarci, inoltre, a progettare un futuro migliore, proprio guardando dietro e dentro la società di ieri,
mediante la memoria storica, ovvero, l’esperienza, la conoscenza,
l’arguzia e gli spaccati di vita quotidiana, tendenti a conoscere
l’uomo nei suoi multiformi aspetti, ma soprattutto, il nostro “paese” e territorio, nella sua vera essenza e realtà: colto, sapiente,
genuino, laborioso ed ospitale.
Giovanni Vivenzio
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Parte I
1 - Mo c’aggio fatto viecchio
me votteno ‘o montone
stasera addo Muncicco (1)
prereca Milione. (2)
Detto di “Tuttullo” (3)
E quando uno invecchia…
“Ora che sono vecchio tutti mi accantonano, tanto è vero che questa
sera, a casa del Signor Francesco, tiene la predica un ignorantone, come
il Signor Milione”.
* * *
2 - Oi Robe’……. (4)
tu ‘sto cane ca te vanti
né de pilo, né de penna .
E’ ‘nu buono nacertaro
‘rrobba ‘o pane ca va caro.
Basta dì che è de Bastone, (5)
è ‘cchiù fesso d’ ‘o padrone.
“Tuttullo”
Per chi vanta troppo le proprie cose…
Caro Roberto…, tu che vanti tanto questo cane, (sappi) che non è né
cane da pelo, né da piuma. E’ solo un buon cercatore di lucertole, perciò, (ti) ruba il pane che (in questo momento di crisi) costa assai. Basta
dire che è di Bastone, è più fesso del padrone.
1) Muncicco: Nome composto da “monsieur”, signore e “ciccus”, cecco.
2) Milione: Il dialettale di Emilio, era un popolano ex seminarista, che il giorno
della vigilia di Natale era invitato a fare la predica del Bambino Gesù al posto
del vecchio maestro.
3) Tuttullo: Vecchio maestro elementare, morto nel primo decennio del secolo
scorso. Oriundo napoletano, ex gesuita, era famoso per la severità e anche per
la sua verve poetica.
4) Robè = Roberto – Trattasi di un vecchio vigile urbano, morto nel dopoguerra,
noto perché era solito vantare le proprie cose.
5) Bastone: Era un carrettiere morto nel dopoguerra, tonto come un bastone.
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* * *
3 - “Marzo si ‘mpogna, te fà carè l’ogne.
Marzo si ‘ngrifa, te fà carè ‘e pili”
Marzo non sempre annunzia la primavera
“Marzo se si impunta ti fa cadere le unghie (per il freddo).
Marzo, se si irrita, (come il gatto), ti fa cadere i peli.
* * *
4 - Santo Tiròro (6) mio, mò statte buono!
Chi ‘o sa’ quanno ‘nce vengo nata vota.
Aggio fatto ‘nu vuto a Sant’Antuono (7)
che Quìnnece cu’ ‘ttè adda brucià.
Don Alfonso D’Amelia (8)
Quando i Santi non fanno miracoli, meglio che bruciano…
“San Teodoro mio, addio!
Chi sa se ci tornerò più qui sopra!
Intanto ho fatto voto a Sant’Antonio, che faccia bruciare te con tutto il
paese di Quindici”.
(6) Santo Tiròro = San Teodoro, martire dei primi secoli del Cristianesimo, al
quale è dedicata una chiesa, ubicata su una collina, che ha preso il nome del
Santo.
(7) Sant’Antuono = Sant’Antonio abate, anacoreta dei primi secoli del Cristianesimo. “Protettore degli animali e del fuoco”. A Lui è dedicata una chiesa, in
una località che prende nome dal Santo.
(8) Alfonso D’Amelia: Commesso comunale, nato a Quindici il 25.08.1872 e
morto cieco in Quindici il 25 novembre 1942.
E’ il più noto poeta popolare locale.
Il lunedì in Albis, come è ancora consuetudine, il nostro si era recato con gli
amici sulla collina di San Teodoro.
Dopo mangiato si era messo a giocare e aveva perso tutti i soldi che aveva.
Da qui la feroce invettiva.
* * *
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I
5 - Pe’ ‘nu sigaro strignissi
la manella a lu rivale
né de bene, né de male
‘Ndreamù (9) parlassi ‘cchiù.
II
Co’ caprietti e co’ pollastri
è finito ogni rancore
mò nu’ sienti ‘cchiù ‘o motore
manco ‘e case scarrupà. (10)
III
Mast’Antò può sta sicuro: (11)
è firnuta ogni lagnanza,
‘o crapetto è ‘o ‘rre r’ ‘a panza
ogni cosa fa scurdà.
Don Alfonso D’Amelia
Per chi si vende per un pranzo a base di capretto…
I
“In cambio di un vile sigaro, stringesti la mano in segno di pace, del
tuo eterno nemico, e di lui non hai più parlato male.
II
Per mezzo del capretto e dei polli è cessato improvvisamente ogni rancore,
ora non senti nessun rumore (motore), nemmeno se crollassero le case.
III
Mastro Antonio, puoi essere certo, è finita ogni lagnanza, poichè il miracolo l’ha compiuto un capretto ben cucinato, che è, pur sempre, il re
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della tavola e della pancia e che, tra le altre cose, ha il merito di aver
tolto di mezzo ogni risentimento da parte del compariello oste.
(9) ‘Ndreamù = Andreamuscio- Andrea con la pancia grossa e flaccida. Era un
oste famoso del paese che suonava bene la chitarra, con la quale intratteneva
i clienti che venivano a mangiare, anche da Napoli.
(10)”manco ‘e ‘ccase scarrupà”: “nemmeno le case che crollano”. Agli inizi del
secolo un nolano, D’Alessio Antonio, era venuto a Quindici, dove aveva impiantato
la prima cabina per l’illuminazione per il mulino, posto di fronte all’osteria, per
conto di mastro Tatonno ‘o mulinaro, oltretutto, compare dell’amico dirimpettaio. La cabina era alimentata da un motore a scoppio, che faceva un rumore
infernale. Da questo la denuncia e le liti e poi la riappacificazione, ad opera
degli amici comuni, interpellati da mast’ a Tatonno, che riuscirono felicemente
nell’intento mediante un lauto banchetto a base di capretto e polli.
(11) Mast’Antonio: Mastro Antonio (Tatonno) ‘o mulinaro, uomo avveduto e di
senno, con molta disponibilità di denaro, consultatosi con l’Avv. Russo, al momento migliore legale di Lauro, gli consigliò di fare appello ad amici e conoscenti
influenti perché ritirasse la denuncia, altrimenti avrebbe dovuto delocalizzare il
rumoroso mulino fuori dal centro abitato.
* * *
I
6 - ‘Sta toletta ci dimostra
che co’ chesta rosa ‘mpietto,
tu nun truovi ‘cchiù arricietto,
qualche nenna vuo’ ‘ngannà.
II
Ma ‘sta rosa è ‘na parvenza,
pe’ te ‘nce vo’ ‘o bastone,
tieni ‘o morto ‘int’ ‘o cazone
nun te puo’ ‘cchiù persuadè.
Per un vanesio.
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Don Alfonso D’Amelia
I
Questa toeletta, con una vistosa rosa all’occhiello, ci indica (ci fa capire) che, da tempo, non trovi più pace, perché vuoi conquistare con un
inganno, qualche ragazza ancora inesperta.
II
Questa rosa però è solo apparenza esteriore,
infatti a te occorre un bastone per sollevare il tuo membro,
ormai morto da tempo, nel (tuo) pantalone.
* * *
I
7 - ‘A Triparda fa ‘o pogliancàro (12)
e ‘ccà fa ‘o podestà. (13)
E p’ ‘a gioia e p’alleria
votta ‘e pèrete via via.
II
Quanno stà ‘int’ ‘o Gabinetto
se da l’aria ‘e Diaz,
Segreta’, chillo è ‘no c…o
ciento vote ‘cchiù de te.
III
Chi le mette lo sciamisso,
chi le race lo bastone,
‘Ndreamù, chill’ è ricchione
press’ a poco comma a tè.
Una invettiva contro il Podestà.
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Don Alfonso D’Amelia
I
Ad Atripalda (AV) vende i polli,
mentre qui è, nientemeno, che il Podestà.
Per l’eccessiva gioia ed allegria,
gli scappano scorregge via via (tra la gente).
II
Quando sta nel gabinetto del suo Ufficio
si dà le arie del generale Armando Diaz,
mentre, caro segretario comunale, è solo un (c….) niente,
cento volte più di te.
III
Chi gli porge il soprabito,
chi gli dà, premurosamente, il bastone
ebbene, caro Andrea il moscio, questo è un pederasta
quasi quanto te.
12) Pogliancaro = Chi vende le galline da uova. Ad Atripalda c’erano molti allevatori e venditori di galline. L’epiteto è usato in modo dispregiativo, come per
dire “ è un pogliancaro e basta…”
13) Trattasi del Dott. Di Giacomo Pasquale, da Atripalda (AV), Podestà in Quindici dal 6 marzo 1929 al 29 maggio del 1931. Aveva promesso al nostro Don
Alfonso, commesso comunale in pensione, perché cieco, un aumento che però
non era mai arrivato. Di questa invettiva è arrivata a noi solo una parte e,
perciò, resta incompleta.
* * *
8 - “Rocco fatica e Pizzicata (14) mangia”
C’è chi lavora e chi mangia solo.
Traduzione:
“Rocco pensa solo a lavorare, mentre Pizzicata mangia senza fare niente”.
14) Pizzicata = Nomignolo che deriva dal verbo “pizzicare”, tipico dell’uccello
che, nel mangiare, usa il pizzo o il becco.
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* * *
9 - “ ‘A mogliera r’ ‘o ladro non sempe scialarrìa”.
Anche per i ladri ci sono momenti no.
“La moglie del ladro non sempre può spendere e spandere”.
* * *
10 - “Marzo si n’è capo, è cora”
Di marzo non bisogna mai fidare
“Marzo se non è la testa, è la coda (Marzo è sempre lo stesso)”.
* * *
11 - “Vasi, suspiri a còfene,
quanto a ‘nu munno chino,
mannammo al nostro Duce,
Benito Mussolini”.
Ernesto Santaniello (15)
E ce n’è una anche per il Duce.
“Baci e sentimenti affettuosi,
quanti ne può contenere il mondo,
noi offriamo con abbondanza
al Duce, Benito Mussolini”.
15) Ernesto Santaniello: Poeta autodidatta, buon pittore, con discrete conoscenze
di agronomia, ed esperto suonatore di chitarra classica. A lui si rivolse il Bersagliere Andrea Santaniello, nato a Quindici il 21 aprile 1897 e deceduto il 13
aprile 1977, che aveva avuto Mussolini come Caporale nella I guerra mondiale,
perché sollecitasse il suo commilitone, nel frattempo divenuto Presidente del
Consiglio, a sbrigare una pratica di pensione per il Santaniello Andrea, che era
tornato dal fronte ferito ad una gamba. Alla fine della missiva il poeta aggiunse
questa chiosa.
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* * *
12 - “Chisto n’è aino e nì crapetto
è ‘nu gruosso pecorone
ce vò ‘a sega e ‘o strongone (16)
e ‘a ‘ccetta p’ ‘o taglià”
Tuttullo
Doveva essere un po’ duretta quella carne.
“Questa non è carne di agnello, né di capretto,
ma di un vecchio montone,
perciò occorrono la sega lineare e quella ad arco
e un’accetta per tagliarla”.
(16) Strongone = Sega ad arco. Si manovrava in due per tagliare tronchi piccoli e medi.
* * *
13 - “Hanno trovato ‘o cocco monnato e ‘bbuono”.
Dicesi di quelli che ereditano fortune consistenti.
“Hanno trovato l’uovo sodo già pulito (e quindi devono solo mangiarlo)”.
* * *
14 - “Ce stanno ‘e campane e ce stanno ‘e pottane”
In tutti i paesi ci sono i buoni e i cattivi.
“Ci sono le campane (che emettono suoni argentini incontaminati) ma
ci sono pure le prostitute (puttane)”.
* * *
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15 - “ Anno vottato ‘a fravila ‘mmocca all’ urzo”.
E se dai qualcosa di poco consistente ad un mangione.
“Hanno lanciato solo una fragola nelle fauci di un orso. Può mai saziarsi?”.
* * *
16 - “Ricivo marzo: “Ma’, me ‘mmoro ‘e piscià”.
E ‘a pisciavo ‘ncuollo”.
Si riferisce a tutti quelli che non hanno pazienza.
“Marzo disse alla madre: mamma, ho voglia di fare pipì. E subito le
orinò addosso”.
* * *
17 - “Stipete ‘e ‘llevene pe’ aprile e ‘o ‘ppane
pe’ maggio”.
Per tutti gli scialacquatori.
“Conserva la legna per il mese di aprile – quando può fare ancora freddo – e il pane per maggio – quando le giornate sono ancora lunghe e
devi mangiare in più –”.
* * *
18 - “Quanno vierno non vernèa, ‘stata non statèa”.
Ogni cosa a suo tempo.
“Quando d’inverno non fa freddo, d’estate non fa il caldo regolare”.
* * *
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19 - “Hanno fatto ‘o scarto ‘e Cavargna” (17).
Detto popolare.
Quando si fa una selezione accurata…
“Hanno fatto una selezione accurata, come si fa da Cavargna con le
castagne”.
(17) Cavargna: era un grossista nolano, che comprava le castagne nell’avel­linese.
* * *
20 - “Tutti li culi che tante pèrete fanno
vene lo ‘iurno che cacà non pònno”.
Non consumare tutto, che domani…
“Tutti i sederi che fanno molte scorregge,
un giorno non potranno nemmeno fare cacca”.
* * *
21 - “Marzo ‘gnugni panni,
aprile non mancà,
maggio commo te pare”.
Non anticipare mai i tempi.
“Nel mese di marzo aggiungi altri indumenti – perché fa ancora freddo –, ad aprile non togliere quelli che indossi, a maggio fa come meglio
ti sembra”.
* * *
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22 - “ ‘O cavallo viecchio more ‘a casa r’ ‘o fesso”.
Stai attento a comprare le cose vecchie.
“Il cavallo vecchio muore nella stalla delle persone stolte”.
* * *
23 - “More arzo comm’ a Pandullo” (18).
Guardarsi sempre dal fuoco.
“Chi non sta attento vicino al fuoco, muore bruciato come Pan­dullo”.
(18) Pandullo: Ubriacone, morto bruciato mentre dormiva accanto al fuoco.
* * *
24 - “L’ommo c’ ‘a parola e ‘o voio co’ ‘e ‘ccorne”.
A ciascuno i propri attributi.
“L’uomo deve tenere fede agli impegni presi, come ogni bue di razza
è fornito di corna”.
* * *
25 - “Prummìtti mare e munno,
pe’ interesse lire cento.
Quanno sìmmo ‘o pagamento,
‘n’atu ‘mbruoglio si farà”
Prometti, prometti, poi si vedrà…
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Tuttullo
“Prometti mare e mondo,
per un prestito da cento lire.
Quando dovremo pagare,
accamperemo qualche pretesto”.
* * *
26 - “Palàte d’ammore so’ senza rolore”.
Se ci desse uno schiaffo una persona amata…
“Le botte ricevute, da persone amate, non procurano dolore”.
* * *
27 - “Tutta pomposa và l’asìneria, (19)
tutta stracciata và filosofia” (20).
L’asino, spesso, cerca di apparire quello che non è; il saggio, invece...
Un predicatore religioso (21)
19) Asineria: La categoria degli asini.
20) Filosofia: La categoria dei saggi.
21) Predicatore: E’ attribuita ad un Frate domenicano venuto a Quindici all’inizio
del secolo a predicare il novenario di Maria SS. Delle Grazie (31 agosto - 9
settembre). Si presentò in chiesa tutto disordinato, ma, poi sorprese tutti per
la sua dottrina e la sua oratoria.
* * *
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28 - “Amico! Entra e pensa
cortesia e non crerènza. (22)
La crerènza si farà
Quando il gallo canterà”.
In un’osteria (23).
22) Crerenza: credito.
23) Osteria: Fu rinvenuta sulla parete centrale di una vecchia osteria, sita
fuori del paese in località Casino, durante i lavori di ristrutturazione del dopo
terremoto del 1980.
* * *
29 - “Cicere e fave so’ tutti suòcci”.
Genitori e figli della stessa pasta.
“I ceci e le fave sono tutti uguali”.
* * *
30 - “Chi non tène ‘e sòrdi, non va a Montecarlo”.
Solo chi non ha soldi non gioca.
“Solo chi non ha soldi, non si reca a giocare a Montecarlo”.
* * *
31 - Rimme a chi si’ figlio
e ti rico a chi sumigli.
Rimme cu’ chi prattichi
e ti dirò chi sei.
Ci vuole poco per conoscere il carattere di una persona.
Dimmi a chi sei figlio ed io ti dico a chi somigli.
Dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei veramente.
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* * *
32 - “Riceva Giambattista (24):
tanno s’ acconcia ‘o tiempo,
quanno vène ‘o Cuorpo ‘e Cristo”
Quando comincia veramente il bel tempo?
“Giambattista soleva dire: il tempo si mette al bello solo dopo Il Corpus
Domini”.
24) Giambattista: non si sa chi sia questo Giambattista, forse il detto è attribuito
a S. Giovanni Battista oppure a Giambattista Vico.
* * *
33 - Prièviti, muònaci e cani
sempe co’ palo ‘mmani.
Come sono importune certe persone!
Preti, monaci e cani, bisogna cacciarli via con la mazza, perché o ti
importunano o ti chiedono qualcosa.
* * *
34 - “A cannelora (25): ‘state rinto e vierno fore”.
Una data che divide l’anno.
“Il giorno della Candelora entra l’estate e l’inverno (fuori) se ne va”.
25) A cannelora : la Candelora. Festa religiosa che cade il 2 Febbraio: la Chiesa
celebra la presentazione al Tempio di Gesù. Popolarmente chiamata la Candelora,
perché in questo giorno si benedicono le candele.
* * *
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35 - “Febbraio caccia ‘e vecchie r’ ‘o focolare,
si se ‘ncazza ce ‘ncasa c’ ‘o palo”.
In genere Febbraio si comporta bene, ma...
“Il mese di febbraio caccia via le vecchie dal focolare, ma se si arrabbia
ce le spinge sotto con un palo”.
* * *
36 - Marzo chiuovi, chiuovi
aprile nulla e fila
maggio nullo ragno
pe’ legnere li rovagni (26)
E per fare assai vino?
“A marzo piove in continuazione, ad aprile periodicamente, a maggio
nessuna grandinata per poter riempire le botti (di vino).
26) Rovagni: contenitori più o meno panciuti, di argilla, di legno o di ferro
smaltato, destinati ad accogliere le umane scorie organiche. Qui invece è usato
come botte.
* * *
37 - “Vale chiù ‘na chiòppeta tra marzo e aprile
che ‘e vuoi, ‘o carro e chi ‘o guida” (27).
Che cosa ha tanto valore nella vita?
“Una pioggia abbondante tra marzo e aprile vale più dei buoi, del carro
e dello stesso guidatore”.
27) Guida: Si racconta che Salomone si mise a girare con un carro dorato per
le città del suo regno, promettendo un sacco di ricchezze a chi avesse saputo
rispondere a questa domanda. Dopo lungo peregrinare, un contadino gli diede
questa risposta. Salomone, su parola di re, gli diede quanto promesso.
67
* * *
38 - “Guai quanto a ‘na ‘rena, morte mai”.
Mi possa capitare tutto, fuorchè la morte.
“Mi possano capitare tanti guai, quanti sono i granellini di sabbia su una
spiaggia, purché eviti la morte”.
* * *
39 - “Si nun si’ tortora , nun vieni a beve”.
Solo se, per miracolo, cambia la tua natura, puoi fare a
meno di certe cose.
“Solo se non sei tortorella, ma tu lo sei, non vieni a bere alla sorgente
di acqua pura”.
* * *
40 - “Quanno si’ ‘ncuneo statte, quanno si’ martiello
vatti”.
Quando devi subire subisci; ma, quando puoi, dacci sodo.
“Quando sei incudine, subisci, ma quando sei martello percuoti pure”.
* * *
41 - “O’ cornuto tène ‘na cosa soperchia”.
Il cornuto è chi ha un’appendice in più.
“Il cornuto è chi ha una cosa in più rispetto agli altri, cioè le corna”.
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* * *
I
42 - Vulimmò i’ alli vagni, oj Matalena?
Vulimmò ì alli vagni oj Matalena?
E si non ce iammo auànno, l’anno chi vene
E si non ce iammo auànno, l’anno chi vene
II
E commo ballino belle ‘ste doie sore
E comm ballno belle ‘ste doie sore
Una è toresca e n’ auta è ‘taliana
Una è toresca e n’ auta è ‘taliana
III
E moglierema a lu frisco e i’ a lu sole
Virimmo chi si busca ‘cchiù renari
IV
Lu mischiniello non canta e no’ conta
Se l’hanno data brutta e senza niente
V
Oi quanto è bella la mugliera ‘e l’auti
Oi quanto è bella la mugliera ‘e l’auti
Una tarantella squisitamente quindicese (28)
I
Vogliamo andare al mare a fare i bagni, cara Maddalena?
Se non ci andiamo quest’anno, ci andiamo il prossimo (anno).
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II
Come ballano bene queste due sorelle!
Una è bionda come una tedesca, l’altra, invece, ha il colore mediterraneo, più scuro.
III
Mia moglie lavora al fresco, io invece esposto al sole.
Eppure voglio scommettere chi dei due riesce a guadagnare più denaro.
IV
L’uomo meschino, da poco conto, non canta e non conta danaro, perché
l’hanno fatto sposare a una donna brutta e senza danaro.
V
Amico: la moglie degli altri è sempre più bella.
28) Questa tarantella era accompagnata dal suono delle “tammorre” – tamburo
a percussione manuale –.
* * *
43 - Cavalie’, mo’ scinni ‘a coppa
simmo tutti d’ ‘o partito,
nu bicchiere d’acquavita
ce vulimmo ‘mbriacà .
(Anonimo)
E dopo una vittoria elettorale (29).
Cavaliere, adesso scendi in mezzo a noi, perché siamo tutti tuoi elettori.
Noi ci vogliamo ubriacare per la gioia, con un bicchiere di acquavite.
29) Fu cantata in occasione delle elezioni a Sindaco del Cav. Giuseppe Ponzi
nel 1921.
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* * *
44 - “Pare ‘u puorco ‘e Sant ‘Antonio” (30).
Per chi è sempre pronto ad accogliere inviti.
“Sembra il maiale dedicato a S. Antonio Abate”.
30) S. Antonio Abate, anacoreta vissuto in Egitto nei primi secoli del Cristianesimo, è il protettore degli animali e ci ripara dal fuoco. Nel giorno 17 gennaio
a Quindici viene celebrata una festa con molte manifestazioni folcloristiche.
Negli anni passati, gli organizzatori della festa compravano due maialini ai quali
tagliavano le punte delle orecchie per farli contraddistinguere. I due animaletti
giravano per le vie del paese e i devoti gli davano da mangiare. Quando erano
belli e ingrassati, mediante asta pubblica, venivano venduti. Il ricavato serviva
per i festeggiamenti in onore del Santo.
* * *
45 - “Squaglia (31) commo ‘a neve ‘e marzo”.
Si dice di chi si dilegua all’improvviso.
“Scompare come la neve di marzo, che subito si scioglie al sole”.
31) Squaglia: sciogliersi, ma anche scomparire all’improvviso, svignarsela.
* * *
46 - “Fa sotta sotta, comm’ ‘a petana”.
Chi lavora sotto sotto.
Fa le proprie cose in silenzio, come la patata che si sviluppa sotto terra.
* * *
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47 - “Conta, compare, ca quinnici songo”.
Per chi conta e poi riconta.
“Caro compare, è inutile che conti e riconti, tanto le lire sempre quindici sono”.
* * *
48 - Duce! Duce!
Commo ‘nc’ ha fatto ridduce,
scavezi e scarusi
e ‘a notte senza luce, (32)
o juorno senza ‘o ‘ppane
e a sera co’ ‘ll’areoplani.
Una protesta fin troppo chiara.
Duce! Duce!
come ci hai ridotti!
Scalzi, senza copricapo
e, di notte, senza l’energia elettrica,
di giorno senza pane
di sera con gli aeroplani (di guerra).
32) Erano proteste che si cantavano nelle nostre campagne durante e dopo la
guerra.
* * *
49 - “Tira ‘e mantici (33) contro”.
Quando uno tifa contro.
“Mette in azione i mantici per produrre aria contro qualcuno”.
33) Mantici: apparecchio azionato a mano per dare fiato a strumenti musicali
come l’organo. A Quindici c’è un organo artistico a canne che veniva azionato
con un mantice, perciò l’espressione è molto ricorrente.
* * *
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50 - Quanno ‘o ciuccio non vò veve, assi voglia
r’ ‘u siscà “.
Quando una cosa non va.
Quando l’asino non vuole bere, è inutile fargli il verso per invogliarlo.
* * *
51 - Tira, compagno mio,
tira ‘sta sega
stasera ‘nge mangiammo
‘na saraca (34)
Canto popolare
Una ricompensa parca.
Caro compagno di sventura,
tira alacremente la sega.
Questa sera mangeremo
pane e sarago affumicato.
34) Saraca: il sarago affumicato. Era il pranzo dei poveri. Si riscaldava sulla
brace e si consumava innaffiato da abbondante vinello. Una scarsa ricompensa
dopo una giornata di lavoro. Il sarago è pesce pregiato, pertanto, non sembra
il nostro caso; qui si tratta, invece della sarda, pesce grasso e di poco valore.
* * *
52 - “Invece ‘e fà a ‘tte’, mammeta poteva
fà ‘no portone.
Almeno ‘nge ievimo a piscià vicino”.
Quando uno è proprio inutile.
“Invece di metterti al mondo, tua madre avrebbe fatto bene a partorire
un portone.
Ci avremmo almeno orinato vicino”.
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* * *
53 - “Quanno tieni ‘a figlia femmena,
tanto può apparentà c’ ‘o principe,
quanto co’ Zarafano. (35)
La figlia (femmina) è una spada di Damocle per i genitori.
“Quando i genitori hanno in casa una figlia da marito,
possono imparentare sia con un principe,
che con Zarafano”.
35) Zarafano: personaggio strampalato morto nel dopoguerra.
* * *
54 - “ ‘O pollastro senza centra è ‘no capone,
l’ommo senza sordi è ‘no coglione”.
Che cosa è un uomo senza soldi?
“Il pollo senza cresta è un cappone,
l’uomo senza soldi è un coglione”.
* * *
55 - “ ‘O cantiniere te caccia vuappo,
‘o barbiere te caccia giovane”.
L’ utilità del barbiere e del cantiniere.
“Il cantiniere ti fa uscire pieno di coraggio,
mentre il buon barbiere ti restituisce l’aspetto giovanile”.
* * *
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56 - “Tene sette mogliere, comm’ a Finella”.
Per chi è un Dongiovanni.
“Ha un Harem di sette donne, come Finella”. (36)
36) Finella: Un balordo vissuto tra la fine del secolo XIX e i primi del XX. A chi
gli domandava quante mogli avesse rispondeva: sette. È inutile ricordare che
non ne aveva nessuna in realtà.
* * *
57 - “ ‘Sto tempio nun finisce,
me pare ‘o Vaticano
Pascale comm’ ‘o cane,
se mette a sbraità.
Angelo Santaniello (37)
E se un’opera inizia e non finisce mai.
“Questo complesso non finisce mai,
sembra addirittura il Vaticano,
perciò Pasquale, il proprietario,
sbraita come un cane”.
37) Angelo Santaniello nato a Quindici il 16 ottobre 1924, sposato e residente
a Nola, dove conduceva, aiutato dai figli, una celebre bottega d’arte. Autodidatta, dotato di spiccate capacità poetiche, nonchè eccellenti attitudini musicali,
soprattutto, con chitarra e mandolino.
È deceduto in Nola (NA) il 14 aprile 2002.
* * *
58 - “Zi’ Giuvanni non tene niputi
ní quanno zappa , ní quanno puta.
Quanno è ‘o tiempo ‘e vennegnà
Zi’ Giuvanni accà , zi’ Giuvanni allà”.
Solo chi ha qualcosa è contornato da amici e parenti.
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“Zio Giovanni non ha nipoti
né quando deve zappare, né quando ha da potare il vigneto.
Quando è tempo di vendemmia invece
chi lo saluta di qua e chi di là.
* * *
59 - “Tre cafuni ‘ncampagna steveno,
non mangiavino e no’ vevevino
e dicevino ‘nfra re ‘lloro:
n’à fatto notte ancora”.
Per quelli che aspettano solo che passi il tempo.
“Tre contadini stavano nelle loro terre e vivevano
miseramente senza né mangiare né bere
e ripetevano spesso tra loro:
purtroppo non è ancora passata la giornata”.
* * *
60 - “Chillo gira a Lecca e a Mecca” (38)
Dicesi di chi sa tutto di tutti.
Traduzione:
“Quel signore sa tutto di tutti”.
38) Lecca a Mecca: località simboliche immaginarie. Mecca: nota località dell’Arabia Saudita, considerata la Città Santa per i Musulmani.
* * *
62 - “Quanno ‘a femmena ‘u culo le balla
si n’è pottana, riavilo fallo!
Il comportamento della donna è indicativo.
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“Quando una donna ancheggia troppo,
se non è una squillo provvederà il diavolo a farla diventare tale”.
* * *
62 - “Pasta e petane m’hanno ‘ndibbuluto
ra quanno non me mangio ‘e maccaruni.
Si a chisti aggiungi pur ‘nu cucuzziello
subito vai a fini’ addò Nufriello.” (39)
Don Alfonso D’Amelia
Quando ti preparano un cibo di scarsa sostanza.
“Da quando non ho la possibilità di mangiare pasta asciutta
e mi arrangio con pasta e patate bollite, mi sono debilitato molto.
Se a queste poi dovessi aggiungere qualche zucchina,
sei destinato, inevitabilmente, a morire”.
39) Nufriello: diminutivo di Onofrio. Era il custode del Cimitero di Quindici.
* * *
63 - “Chillo è ‘no ‘bbanconaro”.
Si dice di chi non è buono a nulla.
“E’ uno che passa da un banco all’altro, bevendo solo”.
* * *
64 - “ ‘Ttacchime mani e pieri e vottime ‘mmiezo
‘i miei”.
Stare con i propri parenti è meglio di qualsiasi cosa.
“Legami pure mani e piedi, purchè mi lasci vivere tra i miei (parenti).”
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* * *
65 - “Valléite, zoccole’ !”. (40)
Non ti esaltare troppo, le cose possono cambiare…
“Esaltati pure, femmina del topo, tanto questa tua euforia dura poco
tempo”.
40) Zoccolè: Deriva dal latino sorcula, a sua volta filiazione di sorex, topo.
* * *
66 - “Febbraio è curto e amaro”.
Febbraio è il mese più corto, ma…
“Febbraio è breve, ma ci riserva amarezze per il clima freddo”.
* * *
67 - “ ’O sfizio r’ ‘o cardillo è ‘a pappa moscia”.
Quando uno prova un piacere particolare.
“Il cardellino prova un grande piacere, quando mangia la pappa morbida”.
* * *
68 - “Quanno ‘o piecoro fa viecchio, ‘o cane
‘o piscia ‘nculo”.
E quando uno invecchia…
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“Quando il montone - maschio della pecora - invecchia, il cane gli fa
pipì addosso.
Viceversa il cane si guarda bene dall’avvicinarsi, quando il montone è
giovane, perché teme i colpi delle sue corna”.
* * *
69 - “E’ male tiempo,
però è na bella jurnata”
detto di A. Beracci (41)
Quando la salute e più importante di ogni altra cosa.
“Pur essendo un tempo freddo e piovoso, è una bella giornata, perché
possiamo godere delle semplicità della vita”.
41) A. Beracci: Antonio Beracci, di Saviano, noto imprenditore di abbigliamento,
elegante e sportivo, col figlio Lucio.
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Parte II
1 - ‘A rommenica r’ ‘e parme
era ‘e nove e nu’ luceva
era ‘a rena ca careva
te faceva ‘na pietà (1).
Detto di “Tuttullo”
Fu una domenica delle Palme terribile quella… (2).
Il giorno della domenica delle Palme del 1906, alle nove del mattino,
la luce del sole non si vedeva ancora, a causa della cenere e del lapillo
del Vesuvio, che cadevano intorno. Faceva pietà il paesaggio.
(1) Pietà: Il lapillo, accumulandosi, era un pericolo per la stabilità delle soffitte
delle case, fatte con pali e tegole.
(2) Domenica delle Palme del 1906.
* * *
2 - Chella se vo’ marità
manco ‘o lietto sape fà.
Na ‘nzalata ‘e peparuoli
n’ ha saputo cumbinà.
Lazzo popolare
Dal momento che non sa fare niente, non consigliarle di
maritarsi.
Quella ragazza si è candidata al matrimonio, anche se non sa preparare
nemmeno il letto. Addirittura non ha saputo combinare un’insalata di
peperoni, che è la cosa più facile e semplice.
* * *
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3 - Chiacchiere e tabacchere (3) vecchie
‘O banco ‘e Napule non ne ‘mpegna.
Quando occorre un pegno più consistente.
Il banco di Napoli non prende in pegno né chiacchiere né vecchio ciarpame, ma solo cose di valore e consistenza.
3) Tabacchere: tabacchiera, contenitore di legno o di alluminio in cui si conservava il tabacco di pipa o da naso.
* * *
4 - Quanno passi ‘a cinquantina
lassa a f….
e piglia ‘a cantina. (4)
…E ogni cosa a suo tempo.
Superati i cinquant’anni, lascia da parte Venere e dedicati solo a Bacco.
4) Cantina: Oggi è il luogo dove si conserva il vino, ma fino a pochi anni fa era
il locale dove si consumava il vino da soli o con gli amici.
* * *
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I parte
5 - Sciri’ (5), miezo a ‘sta chiazza tu fai festa
ca juorno sette (6) oggi è ritornato
cu’ trucchi tracchi e suoni
a ‘stu paese, nisciuno dorme
e pensa a festeggià.
Ritornello
Guarda ra coppa
viri chi vene
Tore r’ ‘o Fìngo (7)
chino re bandiere.
‘O stemmo ‘e rè
s’ha miso già
e chiave ‘mmani a Fiore (8)
a consegnà.
Santaniello Ettore fu Andrea
1960: ci fu un’elezione amministrativa memorabile.
Caro sceriffo, tu fai festa in Piazza Municipio tanto che sembra il giorno
7 settembre, con tracchi e suoni, a Quindici nessuno dorme più e pensa solo a festeggiare. Guarda da sopra Casa Manzi (la parte alta del
paese): vedi che sta venendo Tore del Fingo, coperto di bandiere. Ha
messo anche le insegne da re, per consegnare le chiavi del Comune a
Fiore Graziano, da poco eletto sindaco.
5) Scirì: sceriffo. Soprannome di Ferrentino Nicola, proprietario del bar più
vecchio di Quindici, e per l’occasione candidato Consigliere con la lista vincente
(Monarchia).
6) Iuorno sette : giorno sette. Si riferisce al 7 settembre, quando ha inizio la
festa più importante del paese che si protrae fino al giorno 10.
7) Tore r’ ‘o Fingo: Trattasi di Salvatore Santaniello fu Antonio, nato a Quindici
il 30.11.1909, deceduto in Lauro 12.12.1988, eletto consigliere con la lista vincente. Successivamente sarà anche Sindaco. Il perché Fingo? Uno zio Antonio
emigrato in America, negli ultimi anni del 1800, essendo di statura piuttosto
piccola e minuta, veniva chiamato dai nostri connazionali emigranti ignoranti
“fingo”, italianizzazione della parola inglese “finch” = fringuello”. Da ciò l’estensione a tutta la famiglia.
8) Fiore: trattasi di Fiore Graziano, Sindaco dal 1960 al 1972.
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* * *
6 - ‘O monico fotte e ‘o picuozzo pava.
Chi lavora e chi si diverte.
Il frate fa all’amore e il converso paga.
* * *
7 - Aggio fatto ‘o pirito e ‘o starnuto.
Quando le cose vanno a gonfie vele.
Ho fatto una scorreggia e, contemporaneamente, uno starnuto.
* * *
8 - L’Ascinzione e lu cuorpo de Cristo
cheste songo le feste principali.
Quali sono le feste più importanti per un cristiano?
L’ Ascensione e il Corpus Domini sono le feste principali nel calendario
cristiano.
* * *
9 - Hanno fatto r’ ‘a paglia e ‘o fieno
uno montone.
Quando si mischia il bene e il male.
Hanno mischiato indiscriminatamente, in un solo cumulo, paglia e fieno.
* * *
84
10 - Amico!
‘A vita è ‘nu sciuscio, e abbascio add’ ‘o
‘Ndreamuscio me voglio ‘mbriacà
Don Alfonso D’Amelia
Siccome la vita vola via come il vento...
Caro amico, siccome la vita vola via (come il vento), voglio ubriacarmi
(ogni sera) presso la cantina di Andreamuscio, sita giù al paese.
* * *
11 - Prata ‘ccirivo a tata.
Se puoi, evita di lavorare in montagna, perché...
Il lavoro in montagna, troppo faticoso, ha ucciso mio padre.
* * *
12 - ‘Aggio diventato petana.
Messo alla prova...
Sono diventato molle, come una patata scaldata.
* * *
13 - E’ quanto a ‘no c… e mangia quanto
a ‘no vojo.
L’appetito non si misura dal fisico.
È piccolo come il membro di un uomo, ma mangia quanto un bue.
* * *
85
14 - Chisto vino è troppo forte
senza appoggio non se po’ veve
‘o Cavaliere sa che deve
co’ qualcosa accompagnà
Don Alfonso D’Amelia
Una preghiera al Cavaliere (9).
Questo vino è troppo forte e non si può bere senza mangiare.
Il Cavaliere, pertanto, sa che deve essere accompagnato da qualcosa
di consistente.
9) Il Cavaliere è il Signor Ponzi Giuseppe, nato a Quindici l’ 11.06.1869 e morto
il 30.08.1948.
* * *
15 - Non è ‘o pizzo , ma ‘o mazzo.
Non è il posto a determinare la buona sorte di un uomo,
ma la fortuna.
Non è il posto a favorire il benessere, ma la fortuna.
* * *
16 - Era ‘no cavalluccio tanto amato, e mò
è riddutto a carrià le prete (10).
Quando la fortuna ti volta le spalle.
Era un cavallino da calesse, ben curato, ora invece è ridotto a trainare
pietre dalla cava.
10) I cavalli addetti al traino delle pietre dalle cave facevano un grande lavoro,
perché dovevano tirare dei carretti enormi.
86
* * *
17 - Figlia e ghiesce prena.
Dicesi di chi è baciato continuamente dalla fortuna.
Partorisce (un figlio), ma subito rimane gravida di nuovo.
* * *
18 - Ca vinuta ‘e Cristo fecero pace i Giurei.
Quando si uniscono tutti per fare fronte comune.
Quando venne Cristo sulla terra fecero pace tutti i giudei, in genere
divisi da odi secolari, per toglierselo dai piedi.
* * *
19 - Si ‘o ciuccio te votta ‘o cavicio, li puo’ mai
taglià ‘a cossa?
E se uno ti dà un colpo mancino?
Si può mai tagliare la gamba all’asino sol perché ti ha tirato un calcio?
* * *
20 - So’ passati i tiempi (10) belli
So’ vinuti i tiempi tristi:
quant’è vero Giesù Cristo
non me pozzo ‘cchiù bottà.
Quando “i tempi” non sono buoni…
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Detto di “Tuttullo”
Son passati i bei tempi, sono venuti giorni tristi
lo giuro su Cristo che non riesco più a saziarmi.
10) Tiempi: Dal latino, tempus-temporis: che non è il tempo così inteso in modo
letterario, ma il tempo inteso come circostanza lieta o triste che sia.
* * *
21 - Tieni ‘e mosse ‘e Pacchitiello (11)
Se uno fa lo smorfioso…
Sei uno smorfioso come Pacchitiello.
11) Pacchitiello: personaggio popolare morto agli inizi del secolo di cui non sono
riuscito a ricostruire l’identità. Ho appreso solo, che faceva lo spazzino ed era
malaticcio e lunatico.
* * *
22 - Quanno pollastri e quanno scarafuni.
Non sempre possiamo vivere nell’abbondanza.
A volte mangiamo carne di pollo ruspante, ma, nei periodi di magra, ci
toccano anche gli scarafaggi.
* * *
23 - Leccapiatti puro ‘lleccavo.
Il Signore non dimentica nessuno.
Anche il povero leccapiatti ebbe la sua porzione di brodo. E chi l’avrebbe
detto?
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* * *
24 - Chi ti sputa ‘nculo , non te vo’ verè co’ ‘e
pacche asciutte.
Sappi distinguere tra chi ti vuole aiutare e chi non.
Chi ti sputa nel sedere, non vuole vederti con le natiche asciutte.
* * *
25 - Pare l’auciello ‘e pierigrotta: ‘o pizzo ‘bbuono
e ‘e scelle rotte!
E c’è pure chi rifiuta il lavoro e pensa solo a mangiare.
Somiglia a un uccello di Piedigrotta, che poi in realtà non esiste: ha il
becco sano e le ali rotte.
* * *
26 - Tadda piglià ‘nu truono e ‘no lampo e ‘na
saetta ‘o core.
Che anatema tremendo.
Ti possano colpire al cuore, contemporaneamente, un tuono, un lampo
e una saetta.
* * *
27 - Filumè,
tu che m’ammacchi
cu ‘stu c..o e co’ ‘ste pacche?
Co’ ‘sto naso re tabbacco (12)
Filumè, tu che m’ammacchi?
E adesso che usi così sfrontatamente il tabacco da naso…
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Cara Filomena, che cosa vuoi dimostrare con il di dietro e le natiche
ancheggianti?
E, soprattutto, cosa vuoi dimostrare con il tuo naso sempre intasato di
tabacco?
12) Alla fine del secolo scorso l’uso del tabacco da naso contaminò anche le
donne che portavano nel corpetto la loro tabacchiera.
* * *
28 - Tu sciusci e i’ caviri ‘e voglio.
Tu non lavori? Io non faccio proprio niente.
Tu soffi, ma a me piace caldo il cibo.
* * *
29 - Non è merda ‘e fà pallottole.
È roba poco consistente.
Non è sterco con cui lo scarabeo può fare pallottole.
* * *
30 - È comparsa l’aria e favezo compare (13)
Che sfortuna! Che Iella!
Si è abbattuta un’aria nefasta, che spazza via tutto il bene.
13) Favezo compare: un vocabolo difficile da decifrare e non riscontrabile in
altre espressioni. Forse vuol dire: Una forza che fa comparire (compare) solo
le cose false e senza valore quindi inutili (falso).
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* * *
31 - Rorátilo comm’a ‘ssanto e fuìtilo comm’a
diavilo.
Come ci si comporta con un violento?
Adoratelo come un santo quando è presente, ma cercate di fuggirlo
come si fa col diavolo.
* * *
32 - Nicche esce ‘a ‘strazione
già sospende suoni e canti (14)
tene mente stuorti ‘e santi
e volarrìa fulminà.
Nun sia mai poi responne
‘a cognata Mariannina
tutte ‘e segge r’ ‘a cantina
le vo’ ‘ncapo scarrupà.
Don Alfonso D’Amelia
Che delusione dopo le estrazioni del lotto!
Non appena sente, alla radio, i numeri estratti sulla ruota di Napoli,
sospende ogni suono e canto.
Guarda di traverso anche i Santi - colpevoli della sua non vincita - e
vorrebbe fulminarli.
Se, per caso, interviene a placarlo la cognata Marianna, la minaccia di
fracassarle addosso tutte le sedie della cantina.
Tanta è la sua delusione.
14) Si riferisce al noto personaggio Andreamuscio, accanito giocatore di lotto
e buon suonatore di Chitarra con la quale intratteneva gli avventori nella sua
cantina.
* * *
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33 - Hanno ‘mmiscato zanco e lèvene verde.
In tale confusione, si può andare avanti?
Hanno aggiunto fango alla legna verde, da poco tagliata.
* * *
34 - So Cremente ò pignanese (15)
cu na musica giapponese
tutte ‘e vecchie r’ ‘o paese
mo ‘e facimmo arrecrià.
Lazzo popolare
E adesso voglio divertirvi un po’…
Sono Clemente da Pignano, frazione di Lauro (AV), e con una banda
di giapponesi, ho intenzione di far divertire tutti i vecchietti del paese.
15) Cremente o pignanese: Santaniello Clemente nato a Quindici il 30 luglio
1871 e morto, probabilmente nei primi anni ’50. Di professione beccaio. Era detto
pignanese, perché era stato allattato a Pignano, un paesino frazione di Lauro.
* * *
35 - Pasta e patane
fasuli e cucuzzielli
è muorto Giginiello
e jammilo a ‘tterrà.
Lazzo popolare
È morto Giginiello.
Con pasta e patata, con fagioli e zucchine, è morto Giginiello:
molo a sotterrare!
92
andia-
* * *
36 - S’è fatta notte e lo padrone chiagne
rice che è stata corta la jornata.
Detto e canto popolare
Questi padroni sono davvero incontentabili.
È sopraggiunta la notte, ma il mio padrone piange, dice che la giornata
del nostro lavoro è stata breve.
* * *
37 - È meglio a sformà ‘na capo ‘e c… e nó
‘na capo ‘e cuozzo.
È di dura cervice il cafone.
È più facile cambiare una testa di legno che non la testa di un cafone.
* * *
38 - I surici trasino rirenno e ghiescino chiagnenno.
Nella casa dell’avaro.
I topi entrano ridendo, ma escono piangendo, perché non trovano niente
da mangiare.
* * *
39 - Sona a messa: non so’ pe’ chesta.
‘Ncumincia ‘a prerica: non tengo fremia.
Vulimmo mangià? Eccomi qua.
Invitami a tavola e sono sempre pronto. Per altre cose no.
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Suona la S. Messa, ma io non sono portato per queste cose. Incomincia
la predica in Chiesa, ma io non ho la fermezza di rimanere. Vogliamo
andare a mangiare? Eccomi, sono pronto!
* * *
40 - Chi non vole ‘a carne ‘e ‘nnecchia , se mangia
chella ‘e voio.
Chi non sa apprezzare le cose buone, presto deve fare i
conti con se stesso.
Chi non vuole la carne tenera di vitella, finisce con il mangiare quella
dura di bue.
* * *
41 - Dicivo ‘a pica: è mal’arte ‘a fatica.
Rispunnivo ‘a tordèa: me metto dinto ‘a vallocca e marrecreo.
Dicivo ‘a caiazza (16): si non fatichi,
te mangi ‘e cazzi.
Se non lavori, che cosa mangi?
La gazza disse: il lavoro è una brutta arte.
Le rispose il tordo: mi metto al fresco in un burrone e mi diverto a far
niente. Disse la caiazza: se non lavori, mangi cavoli.
16) La caiazza: Un uccello che non esiste: Il termine è stato coniato per l’occasione solo per far rima.
* * *
42 - È vinuto vierno p’ ‘e mali vistuti.
L’inverno è assai più triste per coloro che non hanno da
vestire.
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È venuto l’inverno solo per coloro che non hanno di che coprirsi.
Gli altri quasi non se ne accorgono.
* * *
43 - È tuosto ‘e ‘mpigna.
Per coloro che hanno la testa dura.
Ha la testa dura come la tomaia delle scarpe del contadino.
* * *
44 - Ha fatto ‘o cunto senza ‘o tavernaro.
Quando si fanno i conti senza l’oste.
Ha fatto i conti senza l’oste.
* * *
45 - Seca, seca ‘na jornata
ogni stronca ‘no morcone!
Basta dì ca sta Mozzone (17)
che fatica se pò fà?
Ernesto Santaniello
Quando c’è lo sfaticato.
Si lavora con la sega tutto il giorno, ogni colpo cade un tronchetto!
Basta dire che qui c’ è Mozzone: si può mai fare un buon lavoro?
17) Mozzone: Nomignolo di una persona piccola di statura, quanto un mozzicone di sigaretta.
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* * *
46 - No’ ‘ffila e no’ tesse
tutti ‘sti ‘ggliommere da ro’ ‘e caccia?
Ci sono delle ricchezze che sorprendono.
Non fila e non tesse, ebbene tutti questi gomitoli di lana dove li prende?
* * *
47 - ‘E stelle ‘e vierno so’ ‘e pottane ‘e Salierno.
D’inverno non bisogna fidarsi del cielo stellato, perché…
Le stelle d’inverno sono mutevoli come le prostitute di Salerno (e di
tutto il mondo).
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Parte III
1 - “Tinivi i rienti, ma nu’ tinivi ‘o ‘ppane.
Mo’ tieni ‘o ppane, ma te manchino ‘e rienti”.
Quando a una persona manca sempre qualcosa.
“Quando eri giovane avevi i denti, ma ti mancava il pane. Oggi, vecchio,
hai il pane, ma non hai i denti per rosicchiarlo”.
* * *
2 - “Tene casa, poteca e furno”.
Quando a una ragazza non manca niente.
“Quella ragazza ha la casa non solo, ma anche la bottega e il forno
dove cuocere il pane”.
* * *
3 - “Si carte coglie e Rafaniello (1) piglia
te faccio monico ‘e ‘sta battaglia”.
Se le cose vanno per il verso giusto ne avrai da guadagnare
anche tu.
“Se il piano preparato va a buon fine e Rafaniello fa una buona vincita
a carte o al lotto, ti nomino padre spirituale di questa impresa”.
1) Rafaniello: “ravanello” (Garzanti), un tale Raffaele–Aniello = Rafaniello;
è un ortaggio che ha la forma della carota, ma è più piccolo e di color rosso
vivo. E’ riferito alle persone, quando si usa prenderle in giro. Mazz’ ‘e rafaniello!
* * *
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4 - “Va trovenno ‘a mamma:
che ‘ll’adda rà ‘a menna?”.
Quando uno è mammone.
“Cerca la mamma, che gli deve dare la poppata?”.
* * *
5 - “Posa ca pesa”.
Questa cosa non fa per te.
“Appoggia tutto a terra, perché è pesante e non è alla tua portata”.
* * *
6 - “ ‘Ndocia e ‘mmocia”.
Tu mi dai una cosa a me e io ne do una a te.
“Tu mi dai e io ti do”.
* * *
“ ‘O cane rint’ ‘o stritto te mozzica”.
Non lo mettere con le spalle al muro, perché…
“Il cane, quando non ha sfuggite, morde”.
* * *
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8 - “Gente ‘e montagna ‘e craùni ‘e castagna
non ce fa commercio, che non ce guaragni”.
Detto popolare.
Sta attento con chi concludi affari.
“Con i montanari non fare commerci, non comprare carboni di legna di
castagno; con entrambi non ci guadagni. Puoi stare sicuro!”.
* * *
9 - “Gente ‘e massaria salutila e vota via”.
Tieniti alla larga da certa gente…
“Non avere a che fare con chi abita nelle masserie (cascine), perché
diffidente, ma saluta e cambia strada”.
* * *
10 - “Aîmmo fatto ‘a fescena pampanosa”.
Dopo tanto impegno il risultato è stato molto deludente.
“Abbiamo finito di comporre una fascina piena di foglie e che, quindi,
non serve a fare fuoco consistente”.
* * *
11 - “ ‘O culo le ‘rrobba ‘a cammisa”.
Quando uno diffida di tutti.
“Ha paura che il deretano gli rubi la camicia di dietro”.
* * *
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12 - Santa Lucia: ‘no passo ‘e vallina.
Sant’Aniello: ‘no passo ‘e picuriello.
Sant’Antonio: ‘no passo ‘e voio”.
Quando e come incomincia ad allungarsi la giornata?
“Il giorno di Santa Lucia (13 Dicembre) il movimento è lento come il
passo di una gallina.
Il giorno di Sant’Aniello (14 Dicembre) è appena quanto il passo di un
agnello.
Il giorno di Sant’Antonio, (17 gennaio) invece il movimento è più sensibile, è come il passo di un bue”.
* * *
13 - “Commo ‘ndorza, storza”.
Un male come viene così se ne va: Sii tranquillo.
“Se una parte del corpo si gonfia, sta sicuro che, prima o poi, si sgonfia”.
* * *
14 - “ ‘O cavallo curto è sempe pullitro”.
Chi è piccolo di statura si mantiene a lungo giovane.
“Il cavallo di stazza corta si mantiene sempre come un puledro”.
* * *
15 - “Zi’ pre’, ‘o cappiello sta stuorto.
Accussì adda ì “.
Quando le cose non accennano a cambiare.
“Signor Curato, ha il cappello messo storto in testa. Purtroppo così deve
andare”.
100
* * *
16 - “Signore mae’, sintitime a me
ca quanno muori te vengo a verè.
Te vengo a verè pe’ sotto ‘a porta
là ce trovo ‘na capa ‘e morte”.
Una cantata per il proprio maestro.
“Caro e stimatissimo maestro ascoltatemi:
quando tu morirai, io verrò a trovarti.
Guarderò dalla fessura della porta e
là troverò un teschio al posto del tuo cadavere”.
* * *
17 - “È vinuto Natale e Santo Iusto
chi se mangia la carne e chi l’arrusto”.
È venuto Natale. Possiamo mangiare tutti.
Traduzione:
“È venuto Natale e San Giusto perciò c’è chi mangia carne di agnello,
di capretto etc. e chi si accontenta di un buon arrosto”.
* * *
18 - “Jennaro sicco, massaro ricco”.
Quando il mese di gennaio è freddo si spera in una buona
annata.
“Quando in gennaio c’è freddo secco, il contadino spera in un buon
raccolto”.
* * *
101
19 - “Tu vatti a me e i’ vatto ‘o ciuccio”.
Tu te la prendi con me e io mi scarico con gli altri.
“Tu percuoti me e io mi scarico con l’asino”.
* * *
20 - “More ‘mbriaco comm’ a Maicone”. (2)
Chi beve troppo può rimetterci la pelle.
“A furia di bere quello lì muore come Maicone”.
2) Maicone: Carrettiere e conduttore delle “diligenze” che da Quindici, alternativamente, portava a Nola e/o Avellino; personaggio popolare morto, alla fine
del secolo scorso, accanto al focolare in avanzato stato di ubriachìa.
* * *
21 - “Quanno ‘o mariuolo arrobba ‘o ladro, guaragna
‘e ‘ndulgenze”.
Capita poche volte ma…
“Quando un ladruncolo ruba a un ladro di professione, si guadagna
anche l‘indulgenza papale”.
* * *
22 - “ ‘Rrobba ‘e mangiatorio non se porta a
confessorio”.
Chi ruba qualcosa da mangiare non deve confessarsi.
“Chi ha bisogno di mangiare e ruba qualcosa da mettere nello stomaco,
lo fa per necessità e, quindi, non deve nemmeno confessare la propria
colpa”.
102
* * *
23 - “Viento che mena, lassilo menà,
sciutta ‘e cammiselle a nenna bella”.
Anche il vento ha una sua funzione, perciò…
“Lascia pure che il vento soffi,
deve asciugare le camicie alla mia piccola”.
* * *
24 - “Ha miso ’a capa a posto e ‘o cuorpo a
‘nfracetà”.
Quando uno fa dei propositi che non mantiene.
“È vero che ha messo a posto la testa, ma lascia che il suo corpo
marcisca”.
* * *
25 - “ ‘A vecchia quanno è vecchia
se conosce r’ ‘o ‘ccamminà.
A trippa se s’arrepecchia
e ‘a chitarra non vò sonà”.
Purtroppo la donna vecchia non può nascondere i suoi anni.
“Quando la donna invecchia
ha il passo malfermo.
Le si dilata il ventre
e non ha più appetiti sessuali”.
* * *
103
I
26 - “Seca, seca, mastacciccio
‘na panella e ‘no sasiccio.
La panella ‘ng’ ‘a mangiammo
e ‘o sasicchio ‘ng’ ‘u stipammo”.
“Lavora con la tua sega, caro mastro Francesco,
perché avrai come ricompensa un pezzo di pane
e una salsiccia.
Però mangeremo la “panella”
mentre la salsiccia la conserveremo per domani”.
II
“Vota, vota, San Michele
e c’ ‘u zucchiro e c’ ‘o ‘mmele.
E c’ ‘o ‘mmèle int’ ‘o palazzo
vota, vota, Justina ‘a Paccia”. (3)
“San Michele, fa’ il girotondo insieme a noi,
perché abbiamo zucchero e miele da offrirti.
Quando avremo depositato l’uno e l’altro nella tua chiesa,
con noi ballerà anche la signora Giustina, la pazza”.
Due cantate per il girotondo dei bambini.
3) Iustina ‘a pazza: Personaggio un po’ eccentrico, morta nel dopoguerra. Vendeva frutta e orzo per i bambini.
* * *
28 - “Viata a chella casa addò ‘a chierica (4)
‘nce trase”.
Il sacerdote è una vera ricchezza per la casa.
“Felice quella famiglia in cui c’è un prete”.
4) Chierica: Chierica, tonsura. Area circolare rasa sulla testa, che i sacerdoti
secolari e regolari portavano come segno distintivo del loro rango.
104
* * *
29 - “Quanno mai ‘a carne ‘e piecoro ha fatto
‘o broro”.
Dalle cose da niente non puoi cavare niente di buono.
“La carne di becco non ti permette di fare mai un buon brodo”.
* * *
30 - “Chi mangia a Carnavale e pava a Pasqua,
fa buono Carnevale e male Pasqua”.
Chi ha i debiti prima o poi deve fare i sacrifici per pagarli.
“Chi contrae prestiti a Carnevale e deve assolverli a Pasqua, fa un buon
Carnevale, ma una cattiva Pasqua”.
* * *
31 - “E’ vinuto Natale e non tengo renari:
me ‘ccatto ‘na pippa e me metto a fumà.
Quanno ‘a notte sparino ‘e botte
me piglio ‘o cappotto e me vaco a coccà”.
Canto popolare
E se non ho soldi a Natale non me ne faccio una tragedia.
“È Natale e sono al verde
compro una pipa e mi metto a fumare.
Quando di notte sparano i botti,
prendo il cappotto e me ne vado a letto”.
* * *
105
32 - “ ‘O peparuolo (5) mio è proprio ‘na ‘bbannera.
‘No sordo p’ ‘a vrisera
ci putimmo contentà”.
Canto Popolare
E questo veniva cantato mentre bruciavamo i falò di Sant’Antonio (17 gennaio).
“Il mio peperone è come una bandiera:
Possiamo accontentarci,
se vendiamo per un soldo i bracieri di carbonelle dei falò”.
5) Peparuolo: peperone. Era uno scherzo che veniva fatto il 17 di gennaio mente
bruciavano i falò in onore di Sant’Antonio. Lo scherzo consisteva nel legare ai
bordi dei cappotti o delle giacche un ramoscello di salice a forma di cappio”.
* * *
33 - “Ruocchili, figli e foglie”.
E qui son tutti uguali.
“I broccoli, i figli e le foglie non si distinguono, perché sono simili tra
loro”.
* * *
34 - “Tieni cient’anni e si’ sempe fesso”.
I fessi, purtroppo, non cambiano mai.
“Hai cento anni, ma sei sempre lo stesso fesso”.
* * *
35 - “L’ommo s’appara e Dio fa chiove”.
Quando gli uomini vanno d’accordo Dio li benedice.
106
“Gli uomini si riappacificano e Dio, come segno di approvazione, ci
manda anche la pioggia”.
* * *
36 - “Ha’ juto stocco e ha’ vinuto baccalà”.
Vai, poi torni, ma rimani sempre lo stesso.
“Quando sei partito eri uno stoccafisso, ora che sei tornato ti trovo un
baccalà”.
* * *
37 - “Luigi ‘e Pellechia era ‘o primmo ambulista:
ra che menavo ‘o cappiello a Cristo,
manco ‘n’ambo po’ fa ‘cchiù”.
Don Alfonso D’Amelia
Chi sfida Dio non fa bene nella vita.
Luigi figlio di detta Pellechia, era un accanito giocatore di lotto. Da
quando lanciò il cappello contro l’immagine di Cristo, non ha fatto più
un ambo”.
* * *
38 - “Stammo ‘nguerra co’ ‘na guagliona
acqua cavira e sapone.
‘O sapone int’ ‘a toletta
e tu tieni ‘a faccia ‘e jetteca”.
Facciamo un dispetto a una nostra amica.
“Abbiamo litigato con una ragazza,
acqua calda e sapone.
Il sapone sta nella toilette
e tu hai il volto bianco di una tisica (tubercoloide)”.
107
* * *
39 - “Scusate gente!
‘O pirito n’è fetente.
E’ ‘u c...o ‘mpirtinente
No’ pozzo riparà”.
Quando uno non riesce a trattenersi da…
“Gente, scusatemi!
La scorreggia non è una cosa che puzza.
È il mio sedere un po’ impertinente
e non posso porre rimedio”.
* * *
40 - “Jennaro è ferele, commo fa ‘a matina fa ‘a
sera”.
Il mese di gennaio è fedele con noi.
“Il mese di gennaio è sempre stabile, infatti il tempo è sempre uguale
al mattino e alla sera”.
* * *
41 - “ ‘E vierno è meglio ‘a mogliera ca ‘no
cappotto ch’ ‘e maniche longhe”.
D’inverno ti dà più calore una donna che un cappotto.
“D’inverno ti dà più calore la moglie
lunghe”.
che un cappotto con le maniche
* * *
108
42 - “La Befanìa tutte le feste vanno via.
Risponne Barbaianca: chiano chiano che
vengo io”.
Non è vero che con l’Epifania tutte le feste vanno via.
Traduzione:
“Con l’Epifania tutte le feste vanno via.
Risponde Barbabianca (6): andateci piano che ci sto io”.
6) Barbabianca è San’Antonio Abate:
* * *
43 - “Tu pigliasti rutto e ‘o vulivi sano”.
A una determinata donna: se hai preso un uomo con difetti, come pretendi che diventi improvvisamente virtuoso?
“Se lo hai sposato rotto (con tanti difetti), perché ora pretendi che sia
sano (virtuoso)?”.
* * *
44 - “ ‘Nu cuofeno ‘e sordi cummìglia ‘no panaro
‘e corne”.
I soldi coprono tutto, anche il disonore.
“Un cofano di bigliettoni copre un paniere di corna”.
* * *
109
45 - “Quaraesima secca secca
se mangiavo ‘e pacchisecche. (7)
Le ricietti: rammenne una.
Me chiavavo ‘no cavicio ‘nculo.
Le ricietti: rammenne ‘n’ata.
Me chiavavo ‘na zoccolata”.
Canto popolare
Uno strambotto per Quaresima.
“Quaresima è magra, magra,
perché si nutre di mele secche.
Io le dissi: dammene una,
ma lei mi affibbiò un calcio in culo.
Poi le dissi: dammene un’altra.
Ma lei mi colpí ripetutamente con lo zoccolo”.
7) Pacchisecche: Parti di mele essiccate.
* * *
46 - “ ‘Rrobba r’ ‘a parrocchia chi arrocchia
arrocchia”.
È roba della Chiesa, quindi può approfittarne chiunque.
“Se c’è di mezzo la proprietà della parrocchia chiunque può farla sua”.
* * *
47 - “Casa quanto capi e terra quanto scuopri”.
Non badare a una grande casa, ma a una grande terra.
“La casa sia tale quanto possa accogliere te e la tua famiglia, ma la
terra sia grande quanta ne abbraccia la vista”.
* * *
110
48 - “ ‘Ncuminciammo r’ ‘o Chiazzullo (8):
razze ‘e zite e murticielli,
ruffiane e ghiorechere,
sulo chello sanno fà.
Guido Sepe (9)
Che bella gente in quel quartiere di Quindici.
“Cominciamo a parlare del (mio) quartiere: ‘o Chiazzullo.
Qui c’è gente che partecipa a tutte le feste di matrimonio e alle esequie
dei bambini, abbozzando ora sorrisi ora lacrime di circostanza. Ci sono
ruffiane e criticone. Solo questo sanno fare bene”.
8) Chiazzullo: Piccola piazza.
9) Guido Sepe: Autodidatta dotato di una distinta vena poetica, nonché grande
intuizione ed intelligenza, autore anche di una celeberrima commovente canzone
alla Madonna delle Grazie. È nato a Quindici il 19.03.1924 e deceduto a Nola
il 22.02.1994.
* * *
49 - “Ra ‘na mala pianta po’ ‘sci’ mai ‘nu buono
frutto?”.
Da una mala pianta un cattivo frutto.
“Da una pianta cattiva, può mai venirne fuori un buon frutto?”.
* * *
50 - “Sant’Antonio cresce ‘o puorco (10)
e ‘o venne ‘a pacca e ‘ppesa
e Nannina ‘e Tore ‘e ‘Gnesa (11)
pensa sulo ‘e se ‘ngrassà.
Guido Sepe
E c’è una brava signora che pensa solo ad ingrassare.
111
“Sant’Antonio cresce il suo buon maialino
per poi rivenderlo morto e tagliato in due parti.
Intanto la signora Anna, figlia di Salvatore di Agnese
pensa solo ad ingrassare”.
10) I comitati festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) compravano due maialini ai quali venivano tagliate le orecchie, per distinguerli dagli altri. Questi
giravano per le vie del paese e mangiavano quello che gli davano i devoti. Il
17 gennaio venivano venduti all’asta. Il ricavato serviva per festeggiamenti in
onore del Santo.
11) Anna Bonavita di Salvatore, nata a Quindici il 6 luglio 1899 ed ivi
deceduta il 17 aprile 1958.
* * *
51 - “E’ brutta comm’ ‘a nuvola ‘e Campusummo”
(12).
Quando una donna è brutta somiglia al cielo plumbeo.
“È una donna brutta come le nuvolaglie che si addensano sulla cima
del monte Camposummo”.
12) Camposummo: È una montagna alta che si trova nel Comune di Quindici.
Campus summum: campo alto, in contrapposizione a Campus minor: campo
piccolo, che si trova ai piedi di detta montagna.
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52 - “E’ sale ‘e tutte ‘e maneste”.
Dicesi di chi è sempre presente.
“È un sale che condisce tutte le minestre”.
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53 - “Maggio vascio accìre ‘o voio rasso”.
Se a maggio non torna il sole sono guai seri.
“Maggio freddo (vascio, che è più vicino all’inverno che alla primavera)
uccide il bue già ingrassato (sia per il freddo che per la mancanza di
foraggio)”.
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54 - “E’ ‘na ‘nnacchipapera”.
Quando una donna è irresoluta.
“È floscia come un grosso popcorn”.
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55 - “Pecorariello ca ‘mmocca me tieni,
tienime astrinto e non me lassà.
Pe’ ‘na penna d’aciello crifone
fratimo è stato ‘no traritore.
E m’ha acciso e m’ha ammazzato
e sotto a ‘st’arbiro m’ha ‘tterrato
pe’ si piglià la mia corona”.
Canto popolare (13)
Un pastorello scopre un Caino.
“Pastorello che tieni in bocca uno zufolo fatto con un osso
del mio corpo, tienimi stretto tra le tue mani e non lasciarmi.
Per una penna di uccello grifone, mio fratello è stato un traditore.
Mi ha ammazzato e ha seppellito i miei resti mortali sotto quest’albero
per prendersi la corona di principe”.
13) È un canto tratto da un racconto popolare. Un re ha due figli e non sa a
chi lasciare il trono. Perciò li manda alla ricerca di una penna dell’uccello grifone, specie rara di volatile. Chi la trova per primo, avrà il regno. Uno dei due
la trova, ma il fratello lo uccide e lo seppellisce sotto un albero. A distanza di
anni un pastorello trova un osso e, pensando che fosse di capra, ne fa uno
zufolo che suona questo canto lamentoso e scopre così un Caino diventato re.
Ha reminiscenze virgiliane, che (a me) ricorda l’episodio di Polidoro.
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* * *
56 - “Cu’ ‘nnimmico mai pace” .
Non fare mai pace col nemico.
“Mai pace con chi ti è nemico”.
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57 - “Casa aperta è femmena spensierata”.
La donna che ha le porte di casa aperte è una sbadata.
“Se la casa ha le porte aperte, la padrona è donna spensierata”.
* * *
58 - “E’ meglio ‘nu ciuccio vivo ca ‘nu filosofo
muorto”.
I morti non possono aiutare nessuno, anche se sono geni.
Perciò…
“È preferibile un asino vivo a un filosofo morto”.
* * *
59 - “E fatti r’ ‘a pignata l’adda sapè sulo ‘a
cocchiara”.
I fatti di famiglia devono restare tra le mura di casa.
“I fatti della pignatta li deve conoscere solo la cucchiaia”.
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60 - “ ‘O meglio tiempo è chillo perzo”.
Tu non fai niente? Sí. Perché…
“È un assurdo, ma il tempo più utile è quello perduto”.
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61 - “Trasi ca so’ c’ ‘o ‘ccaso”.
Qui ce n’è anche per te.
“Accomodatevi, perché i maccheroni sono cosparsi di buon formaggio”.
* * *
62 - “Trasi, non te ‘nfonne”.
Accomodati pure, c’è posto anche per te.
“Entra, non ti bagnare che fuori piove”.
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63 - “Tene ‘a capo fresca e i pieri caviri”.
Per stare bene ha bisogno di due cose.
“Ha la testa fresca e i piedi caldi, perciò quel signore gode buona salute”.
* * *
64 - “O perziche o percoche songo”.
O l’una o l’altra.
“Se non sono pesche rosse, sono quelle gialle. Di qui non si scappa”.
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65 - “Quanno escìno ‘e prevetarielli è finita
‘a messa”.
Quando uno spende anche gli spiccioli è cattivo segno.
“Quando si ritirano i chierichetti in sacrestia sta per finire la S. Messa”.
Più comunemente questa espressione è usata quando si spendono gli
spiccioli. È segno che si è a secco.
* * *
66 - “Trenta: ‘e palle r’ ‘o tenente,
mammita ‘e sciacqua
e parito ‘e tene mente”.
Giochiamo un po’ col numero trenta.
“Le palle del tenente fanno trenta (smorfia del lotto).
Tua madre le pulisce
mentre tuo padre osserva”.
* * *
67 - “ ‘O Pataterno manna ‘e tozzile a chi non tene
i rienti”.
Spesso il Padreterno manda la fortuna a chi non ne sa
approfittare.
“Il Padreterno manda il pane duro a chi non ha denti adeguati per
mangiarlo”.
* * *
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68 - “Si ‘o Pataterno non vole l’anima, sta ‘o riàvolo
ca me preva”.
Se il Signore non vuole la mia anima, ebbene io sono disposto a darla al diavolo.
“Se il padreterno non vuole la mia anima, c’è il diavolo che mi prega
per prendersela”.
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Parte IV
1 - “Chiacchiere a vui e sordi a me”.
Mentre un predicatore parlava dal pulpito, un fedele commentava…
“A voi le mie parole, a me i vostri soldi”.
* * *
2 - “Quanno ‘a vatta manca, i surici ballino”.
Quando manca il capo ognuno fa a modo suo.
“Quando non c’è il gatto, i topi si mettono a ballare indisturbati”.
* * *
3 - “Don Michele!
‘O c…o c’ ‘a bannèra”.
Un saluto particolare per Don Michele.
“Salve, don Michele!
Il membro addobbato con bandiera”.
* * *
4 - “Fa ‘a pottana e ‘a bella ronna”.
Quando uno ha doppia personalità o si comporta in modo
equivoco.
“In pubblico si comporta da nobildonna, ma in realtà fa la prostituta”.
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5 - “Chi parla ‘nfacci n’è traritore”.
Il parlare chiaro è fatto per gli amici.
“Chi ha il coraggio di parlare francamente è assai difficile che poi tradisca”.
* * *
6 - “Escino p’ ‘a porta e trasino p’ ‘a finestra”.
Ci sono alcuni che hanno l’abilità di stare sempre in mezzo.
“Escono per la porta d’ingresso, ma entrano per la finestra di casa”.
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7 - “No’ bóttino uno si nu’ piglino tre”.
Questa vale per i calcolatori interessati.
“Non investono un euro se non sono convinti di prenderne tre”.
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8 - “ ‘U zuoppo pirdivo ‘a cossa”.
Se uno vuole farti credere che ci ha rimesso qualcosa.
“Lo zoppo veramente ci ha rimesso la gamba, perché si vede”.
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9 - “L’uosso viecchio cunnisce ‘a pignàta”.
Detto popolare
I giovani non sempre portano a termine i propri impegni.
“L’osso vecchio dà un buon condimento alla minestra cotta nella pignatta”.
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10 - “Chillo fa fruscio e rifruscio”.
Quando uno non recepisce i messaggi che gli arrivano.
“Le notizie come gli arrivano, così vanno via. Come fa il vento (fruscìo)
che arriva e passa via”.
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11 - “ ‘No padre campa ciento figli.
Ciento figli non campino ‘no padre”.
Il miracolo di essere padre.
“Un vero padre fa tanti sacrifici e dà da vivere a cento figli.
Assai spesso cento figli non sono in grado di dare da vivere al padre”.
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12 - “Ha’ vinto, ma nu’ tieni ‘a faccia ‘e curridore. (1)
“È vero che mi hai vinto, ma non hai l’aspetto di un buon
atleta”.
Hai vinto, ma non mi hai convinto.
1) Parteciparono ad una gara un anatroccolo e una lepre. L’anatroccolo, convinto, di perdere, fece appostare un suo amico sul traguardo. Quando giunse la
lepre, questo tagliò il traguardo e vinse la gara. Ma la lepre, giustamente, non
rimase convinta della vittoria del suo avversario e pronunciò questa bellissima
espressione.
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13 - “R’ ‘o tuocco esce ‘a tacca”.
In un lavoro si deve essere capaci di dare un po’ a tutti.
“Dal tronco di legno bisogna cavare i pezzi necessari per accendere il
fuoco”.
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14 - “Senza sordi non se cantino messe”;
Senza castagne non se cocino ‘e lesse”.
Senza soldi, purtroppo, non si può far niente.
“Senza soldi il prete non officia messe solenni.
Senza castagne non si possono preparare lessate.
* * *
15 - “Previte jeri e prevete ha’ rimasto”.
Sei rimasto là dove eri partito.
“Eri prete e tale sei rimasto, senza fare alcuna carriera”.
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16 - “Tene ‘a rota fresca e ‘a mogliera nova”.
E chi è più felice di uno sposino?
“Ha in tasca una buona dote e la moglie nuova di zecca”.
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17 - “ ‘O sazio non crere ‘u riuno”.
Detto popolare
Il ricco non presta ascolto alle lamentele del povero.
“Chi è sazio non crede a chi si lamenta per fame”.
* * *
18 - “ ‘E tririci ‘i giugno Sant’Antonio jetta ‘o
mantiello”.
E allora puoi togliere gli abiti pesanti, perché...
“Il tredici di giugno Sant’Antonio toglie il suo mantello, perché comincia
veramente a fare caldo”.
* * *
19 - “ ‘O vino ‘bbuono sta ‘ind’ ‘a votta peccerella”.
Spesso i piccoletti fanno le cose meglio dei grandi.
“Il buon vino sta nella botte piccola”.
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20 - “Ra che è morta ‘a criatura nu’ simmo ‘cchiù
compari”.
Da quando non hai più interesse a farti vedere, non ti sei
fatto più vivo.
“Da quando è morta la bambina, tua comarella, non siamo più padrini”.
* * *
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21 - “Quanno compare ‘a coppila ‘e Arvàno, (2)
si no’ chiove oggi chiove rimani.
È il segnale di pioggia sicura.
“Quando si presenta la nuvolaglia sul monte Alvano, se non piove oggi
di certo pioverà domani”.
2) Arvano: Pizzo di Alvano, monte che sovrasta il Comune di Quindici. E’ alto
1.133 metri. L’origine è latina: mons Albanus = monte illuminato , perché il
sole, al primo apparire, ne illumina la cima.
* * *
22 - “Mercanti e puorci, apprezzili roppo muorti”.
Non esprimere valutazioni affrettate sulle ricchezze degli
altri.
“Le stime reali dei commercianti e dei maiali si fanno dopo la loro morte”.
* * *
23 - “ ‘E tre cose tinni viri ‘cchiù ‘bbene ‘nta vita:
r’ ‘e panni spuorchi, r’ ‘e sordi ‘i spiccio,
r’ ‘a mogliera brutta”.
Detto popolare
Le cose di cui puoi disporre più facilmente nella vita.
“Di tre cose puoi fruire meglio nella vita: dei panni sporchi, perché puoi
sedere dove vuoi; della moneta spiccia, perché facilmente spendibile,
della moglie brutta, perché si suppone sempre disponibile”.
* * *
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24 - “Uommini a vino, ciento a Carlino”. (3)
Quanto vale un uomo che beve?
“Gli uomini che bevono se ne comprano cento con un carlino”.
3) Carlino: è il nome della moneta emessa a Napoli tra la fine del XIII e l’inizio
del XIV secolo. Così chiamato da Carlo I d’Angiò, re di Napoli e di Sicilia nel 1278.
* * *
25 - “Ha ‘gghiuto ‘o ‘ccaso sotta e ‘e maccaruni
‘ncoppa”.
Detto popolare
Quando vengono sovvertiti tutti i valori morali.
“Il formaggio è finito sotto e i maccheroni sopra”.
* * *
26 - “Ha avuto ‘o c…o ‘nculo e ‘a pinzione”.
Al danno è seguita anche la beffa.
“Ha avuto prima un membro nel sedere e poi la pensione per sopraggiunta vecchiaia”.
* * *
27 - “Quanno ‘o malato non trova requie è segno
‘e morte”.
Quando il malato non riposa è un brutto segnale.
“Quando il malato non riposa, la morte è vicina”.
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* * *
28 - “ ‘O cantiniere vo’ i suoni no’ ‘e canti”.
Quando mangi nell’osteria devi saldare il conto, perché…
“Il cantiniere (l’oste) vuole sentire tintinnio di soldi e non canti (chiacchiere)”.
* * *
29 - “E’ commo ‘u citrulo.
Tene i rifietti a cuofene
e fete fino ‘o c..o”.
Quel tale è pieno di difetti.
“Somiglia al cetriolo. Ha tanti difetti e puzza fin nel sedere”.
* * *
30 - “Chi non vo’ ‘e ‘ccorne, ca non se ‘nzora.
Chi non vo’ perde, ca non se ‘ssetta
a tavulino”.
Chi non vuole perdere non si siede a tavolino.
“Chi non vuole il rischio di trovarsi le corna, non deve sposarsi.
Chi non vuole perdere a carte, non deve sedere a tavolino”.
* * *
31 - “R’ ‘a Nunziata manco a voccola cova ‘ll’ove”.
C’è un giorno dell’anno in cui non si deve fare assolutamente niente.
“Il giorno dell’Annunziata nessuno fa niente, tanto che nemmeno la
chioccia cova le uova”.
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* * *
32 - “Quanno ‘u c..o sfoca, ‘u mierico schiatta”.
Se fai una scorreggia è segnale di buona salute.
“Quando il sedere sfoga, il medico crepa, perché non c’è bisogno del
suo intervento”.
* * *
33 - “T’ ha fatto mette ‘a parola ‘mmocca e ‘o
sicario ‘nc..o”.
Si dice di chi non ha personalità.
“Ti sei fatto suggerire persino le parole e ti sei fatto mettere il c… di
dietro”.
* * *
34 - “ ‘U figlio ‘e pottana sempe te votta ‘o cavicio”.
Guardati bene dal figlio di puttana.
“Il figlio di puttana è come il mulo, o prima o poi ti tira il calcio (ti
tradisce)”.
* * *
35 - “Ha’ juto arrèto arrèto, commo a tùtero ‘e
copeta” (4)
Dicesi di chi invece di progredire ha regredito nella vita.
“È sempre diminuito il tuo potere, come il torroncino che si consuma
a morsi a morsi”.
4) Tùtero ‘e copeta: è un torrone lungo circa 20 cm. di forma affusolata che
si consuma a Nola il 14 novembre, giorno di San Felice, Vescovo e Martire,
compatrono della città insieme con San Paolino.
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36 - “ ‘No mortàle ‘e pella strurìvo ‘nu pisatùro
d’abbrunzo”.
Non strafare con le donne, perché ci rimetti.
“Un mortaio di pelle ha consumato un mattarello di bronzo”.
* * *
37 - “Hanno miso ‘e cecàti a verè e i surdi a
sente”.
Qui nessuno sta al posto giusto.
“Qui hanno messo i ciechi ad osservare e i sordi ad origliare”.
* * *
38 - “Màngite carne volatile, e fosse cornacchia.
F…te ‘na femmena bella, e fosse vecchia”.
Spesso le cose più vecchie sono le più saporite.
“Mangia la carne di un volatile, anche se cornacchia, uccello longevo e
quindi più duro.
Goditi una bella donna, anche se vecchia, perciò più esperta”.
* * *
39 - “M’aggio mangiato carne criàta e no’ nata,
cotta co’ parole.
M’aggio vìppito acqua ca no’ steva nì ‘ncielo
e nì ‘nterra (5).
Da un racconto popolare
Un pastorello fece una esperienza davvero singolare.
128
“Ho mangiato carne di una lepre incinta e quindi non venuta ancora
alla luce. Questa carne l’ho cotta con la fiamma di libri vecchi bruciati
sul posto.
Ho bevuto acqua conservata in un’acquasantiera e, quindi, sospesa tra
terra e cielo”.
5) Dice un racconto popolare che un pastorello, perseguitato dal suo re, fuggì
in un paese vicino. Durante il cammino, per nutrirsi, uccise una lepre incinta.
La scuoiò e mangiò le carni anche dei figli. Le carni furono cotte con libri vecchi
che stavano in una chiesa diruta e abbandonata. Qui bevve l’acqua raccolta in
un’acquasantiera.
* * *
40 - “ ’Onna pèreta se n’è ‘gghiùta
‘nsieme a Al Capone.
Mo nun sienti ‘o sciabolone
bascio ‘a chiazza trascinà”.
Don Alfonso D’Amelia
Era davvero una coppia mai vista.
“Donna Pèreta (moglie antipatica di un Comandante della Stazione dei
Carabinieri dell’epoca) finalmente è andata via.
Adesso non si sente più la sciabola di suo marito strisciare per terra,
come, quando passava per Piazza Municipio”.
* * *
41 - “Mare a chi more e Paraviso non trova”.
E se poi uno muore e non va in Paradiso?
“È davvero sfortunato chi muore e non va in Paradiso. Egli perde la vita
e va incontro a nuovi tormenti”.
* * *
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42 - Lampa, lampa ‘a pocchia (6)
E chi ‘cchiappa sotto ‘a pocchia ?
‘Na vallina zoppa, zoppa
quante penne porta ‘ncoppa ?
E ne porta trentacinco:
uno, doje, tre, quatto e cinco”.
Tradizione popolare
E adesso un gioco per i bambini. (7)
Gira, gira la…
Chi di voi finisce tra gli artigli della…?
La… è una gallina molto zoppa
Quante piume ha addosso ?
Ne ha appena trentacinque;
Uno, due, tre, quattro e cinque”.
6) Pocchia: Forse era un uccello rapace.
7) Questo gioco si svolgeva così: si allargava la mano sinistra con la
palma in giù.
I bambini mettevano l’indice sotto la palma.
Con la mano destra si strofinava leggermente, roteando, la parte
superiore della mano sinistra e si diceva la filastrocca di cui sopra.
Al cinque, fine della conta, se i bambini riuscivano a ritirare l’indice,
vincevano il gioco.
Se invece le loro dita venivano chiuse nella mano, ricevevano uno
strappettino alle dita stesse, come una piccola punizione.
* * *
43 - “ ‘A vallina fa fessa a’ femmina, ‘o puorco fa
fesso all’ommo”.
Non sempre si guadagna a crescere gli animali.
“La gallina inganna la donna, il maiale l’uomo. Entrambi consumano più
di quanto realmente danno.
* * *
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44 - “Strisciano ‘a p……a pe’ terra, commo ‘a cana
r’ ‘a Camosa”. (8)
Si dice delle donne che la danno facilmente.
“La offrono facilmente per terra, coma la cagna della Camosa in calore”.
8) Camosa: era una popolana di facile costumi che non siamo riusciti a identificare.
* * *
45 - “Puzzi ‘a via addo passi e ‘a paglia addo
ruormi”.
Quando uno è veramente insopportabile.
“Ammorbi la strada per la quale passi e il giaciglio dove dormi”.
* * *
46 - “Pe’ fa ‘no terno ce vonno tre patatierni.
‘O Pataterno uno ‘nge ne sta
e ‘o terno nisciuno ‘o fa”.
Come è difficile fare un terno al lotto!
“Per fare un terno ci vogliono tre Padri Eterni.
Purtroppo il Padre eterno uno è, perciò nessuno fa o azzecca il terno
(al lotto ovviamente)”.
* * *
47 - “ ‘U mistière ti puzza ‘ncuollo”.
Il mestiere, a lungo andare, ti penetra nel corpo.
“Il mestiere che hai appreso da quando eri ragazzo ti puzza addosso,
come il sudore, e te lo porti sempre appresso”.
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48 - “ ‘A morte è scustumata”.
La morte non chiede permesso a nessuno.
“La morte è scostumata. Viene quando vuole senza chiedere permesso
a nessuno”.
* * *
49 - “Ciccio, pasticcio
pallottole ‘nc..o
Vene la mamma e le stoia lu c..o
Vene lo patre c’ ‘u turcituro (9)
Chiacchi, chiacchi ‘ncoppa ‘o culo”.
Lazzo popolare
Una filastrocca per il Signor Francesco.
“Caro Francesco, la tua vita è tutto un pasticcio.
Vai nel bagno e non fai il bidè tanto che ti porti pallottoline di sterco
nel sedere.
Fortunatamente provvede tua madre a pulirtelo, mentre tuo padre, irritato, ti percuote, giustamente, con una robusta mazza”.
9) Turcituro: era la parte superiore di un attrezzo agricolo, detto vivillo =
“correggiato” o “coregiato”:”antico strumento agricolo per la battitura dei cereali
costituita da due bastoni uniti da una striscia di cuoio” (Dizionario della Lingua
Italiana pag. 869 (A - Dol) 23 - Corriere Della Sera - Rizzoli Larousse). Era
legato ad un’asta tramite delle corregge di cuoio. Quando si battevano i cereali
si torceva, perciò turcituro.
* * *
50 - “Si l’ha’ ‘ccattato ciuccio, po’ mai deventà
cavallo?”.
L’uomo, come l’animale, difficilmente cambia le sue caratteristiche naturali.
“Se hai comprato un asino, non diventerà mai cavallo”.
132
* * *
51 - Chi se ‘mpaccia resta ‘mpicciato.
Conviene sempre farsi gli affari propri.
Chi si immischia negli affari degli altri, spesso ne viene coinvolto.
* * *
52 - “Quanno ‘a poteca è aperta ‘o masto fatica”.
Si dice di chi ha le brache sbottonate.
“Quando la bottega è aperta vuol dire che il maestro lavora.
Così, quando le braghe sono aperte, vuol dire che il membro è in attività.
* * *
53 - “Ogni fica quatto rotole”.
C’è sempre chi esagera nel valutare le sue cose.
“Ogni fico, per certi esageratoni, pesa quattro rotoli”.
* * *
54 - “Nisciuna Pasqua senza ‘a frasca”.
Per Pasqua gli alberi già hanno le foglie.
“Non c’è nessuna pasqua durante la quale i rami non si coprono di foglie”.
* * *
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55 - “Muori ‘ccà: nasci a ‘n’ato paese”.
Non aver paura di morire, tanto…
“Se muori qua, rinasci in un altro paese” (detto in modo ironico).
* * *
56 - “E’ meglio avè a che ‘ffà co’ ‘no nobile recarùto
ca co’ ‘no pezzente risagliùto”.
Non avere a che fare con i neo ricchi.
“È preferibile avere a che fare con un nobile decaduto, che con un
pezzente in ascesa sociale”.
* * *
57 - “Vièsti Ciccone ca pari barone”.
Vesti bene per camuffare la tua natura.
“Signor Francesco, vesti bene.
Solo così puoi nascondere la tua natura grossolana e il tuo comportamento rozzo”.
* * *
58 - “Si pezzenno vuò j, mitti ‘ll’opere e nun ci j”.
Se vuoi rovinare la tua attività…
“Se vuoi rovinarti economicamente, chiama gli operai a lavorare e poi
non controllarli”.
* * *
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59 - “ ‘E uagliuni ‘e latte mò buoni e mò sfatti”.
I lattanti hanno continue ricadute.
“I bambini lattanti ora stanno bene ed ora male”.
* * *
60 - “ ‘Ndosta chesta e ligni chesta”.
Se vuoi ottenere qualcosa devi fare la faccia dura.
“Solo se fai la faccia tosta puoi riempire la pancia”.
* * *
61 - “Che! vai a vuna’ ‘e bingàli ?”.
Quando una persona si mostra sempre indaffarata.
“Sei, per caso, impegnato a trovare i bengala dopo una gara di fuochi
pirotecnici?”.
* * *
62 - “Tene ‘a pesta ‘ncuorpo”.
Si dice di bambini che si muovono sempre.
“Ha la peste nello stomaco, che lo fa muovere continuamente.
* * *
63 - “Ajmmo fatto zìmmiri e crapietti una ‘mboletta”.
Quando si fa di ogni erba un fascio.
“Abbiamo mischiato alla rinfusa becchi (capre) e capretti senza alcuna
distinzione”.
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64 - “ ‘O cavallo ‘bbuono ‘o vanta ‘a vianòva”.
Le persone si giudicano dai fatti.
“Il buon cavallo si giudica dallo strada che percorre e in quanto tempo
la percorre”.
* * *
65 - “Te fanno vere’ i zìnghiri mète” (9).
Ti fanno vedere le cose più strane.
“Qui si vedono gli zingari che mietono il grano”.
9) È una cosa strana, perché gli zingari sono girovaghi, mentre il lavoro del
grano lo fanno le famiglie dei contadini, che sono sedentarie.
* * *
66 - “Int’a ‘no jàzzo ‘e pecore aggio ‘cchiappato a
cossa r’ ‘o cane”.
Quando uno è davvero sfortunato.
“In un ovile (gregge) ho preso il piede di un cane, che mi ha morsicato”.
* * *
67 - “Mamma m’ha ‘cciso a me
I’ aggio ‘cciso a Maggio”. (10)
“Mia madre voleva uccidermi, dandomi a mangiare una pizza avvelenata.
Ma io, per caso, l’ho data al mio asino, che è morto all’istante. Così mi
sono accorto dell’inganno e non l’ho mangiata più”.
10) Maggio: nome dell’asino.
136
Parte V
Tra i quattro quadernoni scritti, consegnatici dal Professore,
abbiamo trovato allegati tre documenti, appresso indicati, che il
tempo, sicuramente, gli ha impedito di recensire.
(1) “Mamma d’ ‘a bontà”, di Guido Sepe;
(2) “Festona”, di Angelo Santaniello
(3) “Cacca storica”, di Leopoldo Santaniello.
Ci siamo permessi di aggiungerli alla raccolta e pubblicarli
seguendo lo schema da Lui intrapreso.
Ci scusiamo con il lettore se non siamo riusciti a tratteggiarli,
così come ha fatto il Professore dell’intero lavoro.
1) Correva l’anno 1960 quando il Comitato Festa Santa Maria
delle Grazie, guidato dal Sig. Fusco Giovanni, detto “ ‘o paccione”,
affidò l’incarico al Sig. Guido Sepe, poeta autodidatta locale, di
scrivere una canzone in onore della nostra Mamma Celeste, che
puntualmente appresso riportiamo, ricordando che i versi furono
musicati sul ritmo, probabilmente, di una ballata popolare quindicese.
“MAMMA D’ ‘A BONTÀ” (1)
I
Tutto è addubbato a festa ‘stu Paese,
pare ‘na rarità, ‘nu Paraviso,
‘nu quadro ‘ncurniciato a fronne ‘e rose,
‘nu sfondo fatto apposta pe’ guardà
gente e pitturi restino a guardà
viniti rint’ ‘a Chiesa,
vinite a cuntemplà
rinto ‘o tusello ‘e raso
guardate chi ce stà
137
Mamma r’ ‘e Grazie belle,
Riggina r’ ‘a buntà
ha scisa ‘a miezo ‘e stelle
pe’ Se fa venerà...
II
Si vui assistite a ‘sta processione,
viriti tanta gente a schiere sane
cu’ ‘ll’uocchie ‘nfusi e co’ ‘na cera ‘mmano
pensate rint’ ‘o core che ve fa:
ve vatte forte e nun se pò calmà.
Giranno ‘o furastiere,
giranno p’ ‘a città
non s’ é capacitato
non sape ‘cchiù addò stà
Vui state ‘mparaviso
Ch’ ‘e Sante a ‘ffesteggià
‘o nomme ‘e ‘sta Riggina
ca nun ze pó scurdà.
III
Onore e gloria a ‘sta commissione,
jh c’ ha saputo fa co’ chesta festa:
so’ gente chine ‘e fede e divozione,
chist’anno fanno a tutti ‘mprissionà,
sta festa ch’ è difficile ‘a scurdà.
Giranno ‘o furastiere,
giranno p’ ‘a città
rimane c’ ‘o pinziere
‘n’at’anno ‘e ce turnà
P’ ‘a musica e p’ ‘o fuoco
P’ ‘a festa ca sta ‘cca
e ‘sta parate ‘e stelle
ca ‘ll’uocchi fa abbaglià.
138
‘Sta Marunnella nosta,
sta Mamma d’ ‘a bontà
ha sciso ‘a miezo ‘e stelle
pe’ se fa venerà.
Guido Sepe
1) Mamma della bontà: Il “Comitato Santa Maria delle Grazie” del 1960 era
costituito dai fratelli Sigg.ri: Bonavita Andrea e Luigi fu Paolino (‘e Palino), Fusco
Giovanni (‘o Paccione) fu Antonino, Santaniello Giulio (‘e Ciberto) di Gilberto e
Graziano Francesco (‘e Gna’ Gna’) fu Antonio. Abbiamo omesso la traduzione
perché di facile intuizione.
2) 8 settembre 1990 (2), festa di Santa Maria delle Grazie.
L’autore in questa poesia interpreta la gioia grande di ogni
quindicese, al passaggio della nostra “Mamma di Grazie, che in
quel giorno, Superba, nella Sua bellezza, percorre le vie del paese.
FESTONA
Tu si’ ‘ll’anema eterna ‘e ‘stu paese, (3)
festa d’ ‘o core mio, festa gentile
Tu si’ comm’a ‘na femmena cianciosa,
Ca spanne attuorno ‘nu profumo ‘e vase.
Dice ‘nu ditto antico, e nun se sbaglia,
Ca Tu nun si’ ‘na festa, si’ Festona,
Pirciò, ‘e ‘stu juorno: bande, cante e suone
Passano allere pe’ ‘ffà stravvede’.
E passa pe’ ‘sti vie ‘e ‘stu paese,
Sempe ‘cchiu’ bella, chesta Mamma nosta,
Mamma schiavona, ch’è padrona e tutto
E tutto po’, si ‘nce vo’ sta’ a senti’.
Pecche’ sul’Essa sape quanta guaie
Stanne int’ ‘o pignatiello ‘e ‘stu’ paese,
139
E doce doce passa ‘a mana Soia
‘Ncoppa a ‘sta piaga pe’ ‘a pute’ sana’.
Vergena Santa, Tu ca si’ riggina,
Mamma d’ ‘o Figlio Tujo, Grande e Putente
Miettele ‘o ‘bbuono ‘ncapa a chesta gente,
E ‘stu paese tujo, ca penza a Te.
Angelo Santaniello fu Ernesto
2) Il Comitato Festa era presieduto da Graziano Francesco (gnà gnà) fu Antonio e costituito da trentotto componenti( vedi testo “S. Maria delle Grazie”, di
Domenico Amelia, pag. 260, stampato dalla tipografia “C. Ferrara di Domicella
(AV), 1996”.
3) ”Paese” = Quindici. L’autore esprime tutto il suo amore per Quindici, mediante la dedica, sul retro della tela, alla sorella: “A mia sorella Assunta, con
affetto e nella speranza che sia sempre viva la fede per la Nostra Mamma di
Grazie. Questi umilissimi versi, che non vogliono avere pretese d’arte poetica,
ma esprimere, questo sì, l’immenso sconfinato amore per la mia terra”. Come
la precedente abbiamo volutamente omesso la traduzione.
L’ANTEFATTO...
Per comprendere questa poesia e gustarne tutta la parte satirica, bisogna conoscere il motivo che spinse il “poeta dilettante”
a redigerla.
Siamo nel 1962, o giù di lì, quando all’improvviso la base
militare di Puerto Cabello, in Venezuela, si sollevò contro le Autorità costituite.
L’autore, che si trovava a qualche centinaio di chilometri dal
luogo della strage, vistosi a mal partito e “trovandosi al verde”,
chiese aiuto al fratello Angelo, in Italia, perché, gli pagasse il biglietto di viaggio con la prima nave in partenza per il nostro Paese.
Questi, immediatamente, racimolò la consistente cifra (per quei
tempi corrispondente a quasi un anno di lavoro di un salariato),
ricorrendo a qualche prestito ed impegno in famiglia, la inviò non
senza trepidazione e paura al fratello in pericolo.
140
Leopoldo, incassata la robusta somma, tutto fece meno che
tranquillizzare la famiglia, tant’è dopo qualche mese scrisse una
missiva al fratello comunicandogli il repentino ripensamento,
“arredando” la lettera con una serie di parolacce, che lasciavano
chiaramente intendere che non aveva nessuna intenzione di ritornare, nè tanto meno di restituire la cifra, con tanto sacrificio
raggranellata ed impegnata dal fratello.
Questi, annichilito da tanta “gratitudine”, istantaneamente si
recò nel bagno, fece i “suoi bisogni”, per poi pulirsi con la “lettera” pervenuta, che immediatamente imbustò e spedì al mittente,
che avutala tra le mani provó meraviglia e risa tali da provocare
la “poetica” reazione, per l’esclusiva modalità di comunicazione…
CACCA STORICA
La colpa fu, è incredibile,
d’una merdina secca
dai refoli caraibici,
mutata e più risecca.
Quell’escremento ignobile
che retro mai depose,
giunse, e nell’atto impose:
silenzio, offesa, orror.
L’analizzai con scrupolo,
sapea un po’ a polenta,
trapunta di faseoli
ed a covata lenta.
Era una cacca artistica
deposta su misura,
originale e pura
come chi la effettuò.
Che picassoide mestica,
che original trovata,
141
nel ripensar rimedito:
è stata ben covata.
E applausi e evviva nascono
per l’indice indiscreto,
che si servì del retro
per favellar con me.
Leopoldo Santaniello (4) fu Ernesto
Redatta nel 1962 a Bachaquero (Estado Zulia) Venezuela.
4) Leopoldo Santaniello: nato a Quindici il 30 agosto 1934 e deceduto a Caracas (Venezuela) il 31 dicembre 1995. Poeta, scrittore
ed appassionato compositore per chitarra classica e mandolino.
Ci ha lasciato due testi in lingua spagnola (biblioteca San Lauro:
“La caida de los Brujos”, l’altro da pervenire) e molte canzoni tra
cui: “Turnammuncenne a ‘o paese”, vedi testo Prof. Buonfiglio.
142
Soci fondatori
1.
Avelli Ennio fu Edoardo
Segretario – Addetto sito
2.
Cava Amedeo di Andrea
Rapporti MIUR
3.
Fusco Antonino fu Giovanni
Revisore dei conti
4.
Grasso Fiore di Antonio
Consulenza rapporti legale
5.
Manzi Aniello 26.12.1943 fu Andrea
Bilancio-Consulenza rapporti fiscali
6.
Palmese Giuseppe fu Michele
Bilancio-Consulenza rapporti fiscali
7.
Santaniello A. Flaviano fu Salvatore
Presidente
8.
Scibelli Carmine fu Salvatore
Vice Presidente
9.
Selvestrini Carmela 09.07.1979 di Gennaro
Pubbliche Relazioni
10. Torino Michele fu Francesco
Tesoriere
143
Indice
Comune di Quindici - Sindaco Avv. L. Santaniello. .
Pag.7
Illustrazione testo - Associazione San Lauro Onlus .
»
8
Lineamenti della personalità dell’Autore
D. Giovanni Santaniello. . . . . . . . . . .
»
11
Sui detti popolari Quindicesi - Pasquale Moschiano .
»
18
Aspetti filologici nei detti popolari - Angelo La Manna »
21
La liberalità dell’intelligenza - Annibale Schettino. .
»
26
Paremiologia: personaggi, luoghi ed eventi nei “Motti,
frizzi e lazzi quindicesi” - Salvatore Santaniello . »
28
Il detto popolare nella cultura e nell’identità di una
Comunità meridionale prima dell’avvento dei mass
media - Ottaviano Siniscalchi . . . . . . . . »
45
In ricordo dell’amico Salvatore... - Giovanni Vivenzio
»
51
Parte I. . . .. . . . . . . . . . .. . . .
»
53
Parte II .. .. . .. .... ...... .
»
81
Parte III. . .. . . . . . . . . . .. . . .
»
97
Parte IV . . .. . . . . . . . . . .. . . .
»
119
Parte V
. . . .. . . . . . . . . . .. . . .
»
137
Soci fondatori.. . . . . . . . . . .. . . .
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143
Indice . . . .. . . . . . . . . . .. . . .
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144
Vignette . . . .
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145
. . . . . . . . . . .
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Finito di stampare: nella Tipolitografia “La Stampa”
impaginato da: Arcangelo Giordano - S. Giuseppe Vesuviano - Agosto 2012
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Motti, frizzi e lazzi quindicesi