Il Museo dell’Emigrazione della Gente di Toscana nasce nel 2004 con l’obiettivo di studiare
e valorizzare la storia dell’emigrazione toscana all’estero. L’allestimento attuale del museo
integra ed arricchisce la mostra fotografica “Gente di Toscana” con documenti ed oggetti di
particolare interesse.
Il percorso inizia nel loggiato dell’ala restaurata del castello, di fronte alla scala in pietra
che conduce ai piani superiori.
Qui un planisfero, nel quale sono rappresentate in forma di raggi solari le principali
direttrici dell’emigrazione toscana nel mondo, mostra le destinazioni scelte dal maggior
numero dei nostri emigranti. Si notano i Paesi più conosciuti e famosi come la Svizzera, la
Francia, il Belgio e la Gran Bretagna in Europa, l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti nel
continente americano, ma la mappa rivela come i toscani abbiano deciso di insediarsi
anche in Australia, Sud Africa, Canada, Cile, Venezuela e Messico. In tutte queste nazioni
esistono attualmente associazioni di toscani all’estero.
Entrando nella prima stanza, tre pannelli sulla destra mostrano paesi e città corrispondenti
a luoghi della Toscana dai quali più massicce furono le partenze: Pontremoli e Fivizzano in
Lunigiana, Bagni di Lucca in Garfagnana, Serravalle nel Pistoiese, Portoferraio all’Isola
d’Elba.
Nelle bacheche poco più avanti sono in esposizione documenti, oggetti e curiosità relative
agli spostamenti, ai viaggi ed alle diverse professioni svolte dagli emigranti nei luoghi dove
vissero temporaneamente o decisero di stabilirsi in maniera definitiva.
Nella prima, in basso, si trova l’occorrente per la preparazione del viaggio: un biglietto
della Navigazione Generale Italiana, la maggiore organizzazione armatoriale all’inizio del
Novecento; un passaporto del 1913, nel quale si possono notare le particolari avvertenze
indicate per gli emigranti; un atlante, comprato negli Stati Uniti da un cavatore emigrato
da Carrara ed alcuni libretti pubblicitari di piroscafi e transatlantici, tra i quali il Rex, Il
Conte di Savoia, l’Augustus. Il Rex, varato nel 1931 e divenuto la nave ammiraglia della
flotta, vinse due anni più tardi il Nastro Azzurro, battendo il record di velocità della
traversata atlantica che deteneva il transatlantico tedesco Bremen. Una stampa del Conte
Grande mostra infine uno dei transatlantici più famosi della tratta Genova-Napoli-New
York negli anni Venti e Trenta.
In alto si può notare una raffigurazione del porto di Genova, dal quale cominciarono già a
metà dell’Ottocento a transitare ingenti masse di emigranti, le cui mete privilegiate erano
l’Argentina, l’Uruguay, il Brasile e gli Stati Uniti.
A lato è collocato invece il passaporto di Giovanni Travaglini, contadino lunigianese che
nel 1846 si reca nel Bresciano per la sfogliatura del gelso. Questa attività, legata
all’industria della seta molto fiorente nella Lombardia di metà Ottocento, richiedeva
manodopera stagionale in grande quantità e diventava un polo d’attrazione molto noto per
i lavoratori che ricercavano fuori dal proprio paese possibilità di guadagno in grado di
integrare il magro reddito delle famiglie.
Nella seconda bacheca si trova, in basso, una delle cassette in legno che i venditori
ambulanti utilizzavano per il trasporto delle loro merci. Questo genere di attività era il
mestiere di chi, senza una precisa qualifica, partiva da alcune aree del territorio della
Lunigiana, in particolare da Mulazzo, Bagnone e Filattiera per dedicarsi alla vendita di
maglieria e chincaglieria, dirigendosi per lo più nelle città dell’Italia settentrionale, in
Francia ed in Svizzera.
A lato si trova un “carnet” del 1906 rilasciato nel dipartimento delle Ardenne in Francia ad
Antonio Lazzarelli ed alla moglie Maria Bertoni che autorizzava i due merciai ad esercitare
il commercio ambulante nella regione per sei mesi. Da notare, a fianco delle informazioni
personali, un estratto della legge francese sull’attività di saltimbanchi, suonatori d’organo,
musicanti e cantori ambulanti nel quale si scoprono aspetti curiosi dell’attività di queste
persone: la fascia oraria giornaliera durante la quale era loro permesso esercitare la
professione, il divieto di utilizzare bambini di età inferiore ai sedici anni durante gli
spettacoli, l’impossibilità di predire il futuro ed interpretare i sogni per le strade.
In alto, la ricevuta del vaglia utilizzato da Giovanni Tonelli per inviare 50 lire da New York
al cognato Lino Marzocchi, che viveva in Piemonte, evidenzia come sviluppato e frequente
fosse il trasferimento di denaro da una sponda all’altra dell’oceano.
Di fianco un album fotografico ricorda il traforo del Loetsbourg, opera alla quale presero
parte molti lavoratori emigrati da tutto l’Appennino toscano. Negli ultimi decenni
dell’Ottocento molta manodopera, qualificata e non, si diresse infatti verso la Svizzera, la
Germania e l’Austria dove si stavano realizzando grandi opere pubbliche. La maggior parte
dei lavoratori partiti dalla Toscana furono impiegati proprio come operai nei cantieri per la
costruzione della rete ferroviaria e per lo scavo dei trafori.
Nella terza bacheca si trovano, in basso, strumenti ed oggetti utilizzati da Lino Tonarelli
venditore ambulante originario di Lusignana nel Comune di Filattiera in Provincia di
Massa Carrara. Egli comincia l’attività negli anni Venti al seguito di altri del paese che
commerciano in oro ed oggetti preziosi. Messosi in proprio, si crea una clientela
affezionata alla quale vende occhiali, anelli, catenine, braccialetti, orologi, provvedendo
anche alla riparazione degli stessi.
Si può notare uno strumento per la misurazione della vista dove il cliente posava l’occhio
sull’oculare mentre sull’asta graduata veniva fatta scorrere la scritta fino a quando non
risultava a fuoco, determinando così la scelta degli occhiali migliori al caso; una cassettina
contenente il necessario per la sostituzione dei vetri degli orologi; il campionario di vetrini
per orologi; diversi altri strumenti strumenti per la riparazione.
In alto si trovano invece stampe ed oggetti vari venduti dai merciai lunigianesi in Francia
nel corso degli anni Trenta.
Proseguendo il percorso dei pannelli della mostra si incontrano le storie di alcune
personalità toscane che, nel periodo precedente le partenze di massa della fine
dell’Ottocento, si sono indirizzati verso le più diverse parti del mondo.
Alessandro Malaspina, sulla scia dei grandi navigatori, compie, per conto della Compagnia
delle Filippine, un viaggio commerciale attorno al mondo e nel 1788 propone al governo
spagnolo di organizzare una spedizione politico-scientifica che tocchi tutti i possedimenti
spagnoli d'America e d'Asia. La spedizione salpa da Cadice il 30 luglio 1789 e vi rientra il 21
settembre 1794, dopo sessantadue mesi di navigazione. Alessandro Malaspina viene
accolto con grandi onori all’Escorial dal re Carlo IV.
Filippo Mazzei, originario di Poggio a Caiano, vicino Firenze, viaggiatore e commerciante
di idee illuministe, parte nel 1773 per l’America, con un gruppo di contadini al seguito, per
impiantare in Virginia i sistemi di produzione agricola tipici della Toscana. Qui diventa
amico di Thomas Jefferson e contribuisce alla stesura della Costituzione Americana.
Negli stessi anni scultori ed ornatisti originari di Carrara come Giuseppe e Carlo Franzoni,
Giovanni Andrei e Francesco Iardella si recano a Washington per la realizzazione delle
decorazioni scultoree del Campidoglio.
Nel corso dell’Ottocento sono poi sempre più numerose gli uomini che si allontanano per
periodi più o meno lunghi dai loro paesi, spinti dalla necessità di trovare lavoro oppure dal
desiderio di fare fortuna.
Spesso si tratta di spostamenti tra aree diverse dell’Italia: dalle pendici degli Appennini,
dove lo sfruttamento della terra non fornisce risorse adeguate a rispondere alle esigenze
della popolazione, ci si dirige verso le aree pianeggianti della valle padana o della
maremma che invece richiedono la presenza di un numero sempre maggiore di braccia,
oppure verso la Corsica, facilmente raggiungibile dal porto di Livorno.
A partire sono in maggioranza contadini, che si allontanano dai paesi per una parte
dell’anno per farvi ritorno dopo alcuni mesi e ripetere il percorso l’anno successivo.
Premessa e condizione indispensabile dei viaggi d’emigrazione è di certo l’apertura di
nuove vie di comunicazione, siano esse le strade carrozzabili ed i valichi montani oppure
ferrovie o nuove rotte marittime. Molti emigranti si muovono a piedi dalle zone dove non
esiste la ferrovia e dove non ci sono altri mezzi di trasporto a buon mercato e raggiungono
direttamente i luoghi di destinazione, dopo giorni o settimane di cammino, oppure le più
vicine città o paesi provvisti di stazioni ferroviarie e porti d’imbarco.
Il viaggio in treno diventa sempre più diffuso verso la fine dell’Ottocento sia per la rapidità
degli spostamenti che per la graduale discesa dei costi. In treno si raggiungono i grandi
cantieri ed i bacini industriali europei, i porti di Livorno e Genova all’inizio del Novecento
o le diverse destinazioni transalpine durante il secondo dopoguerra.
I trasferimenti per mare hanno come mete principali le Americhe o l’Australia, essendo le
destinazioni africane molto meno significative in tutti i periodi dell’emigrazione toscana.
Dagli anni Settanta dell’Ottocento, di pari passo con l’affermazione del “sogno americano”
e dell’intensificarsi delle partenze, i prezzi cominciano a scendere rendendo la traversata
dell’Atlantico più vantaggiosa di un viaggio in treno verso l’Europa del Nord.
La realtà del viaggio è comunque molto dura: ancora nei primo anni del Novecento si può
rimanere sulla nave dai venti ai quaranta giorni, le persone sono alloggiate in stanze
affollatissime e sovente prive di ricambio d'aria, le condizioni igieniche molto precarie, in
molti si ammalano ed i medici di bordo poco riescono a fare per bloccare le epidemie. Le
condizioni di viaggio migliorano solamente dagli anni Venti, quando ormai i grandi flussi
sono diminuiti e comincia il viavai dei rimpatri, dei ricongiungimenti e dei ritorni.
Gli interessi delle compagnie di navigazione sono decisivi per stimolare ed indirizzare le
partenze. Il traffico degli emigranti si inserisce in una rete di porti e trasporti che è già
molto sviluppata all’inizio dell‘Ottocento. Le grandi compagnie di navigazione straniere
sono le prime ad aprire agenzie ed a fare scalo nei maggiori porti italiani sono, ancora alla
fine del secolo, prevalentemente navi inglesi o tedesche, come quelle della Cunard Line o
della White Star Line. Gli armatori italiani cominciano ad interessarsi seriamente al
redditizio trasporto d’emigrazione solamente dopo gli accordi con alcuni governi
sudamericani per i trasporti cosiddetti “prepagati” verso Argentina e Brasile, nazioni
desiderose di ricevere manodopera in quantità ed in seguito alla concessione di sussidi da
parte dello Stato Italiano.
La crescente numerosità delle partenze è oggetto di studi e tentativi di rilevazione fin dai
primi decenni dell’Ottocento, quando le classi governanti cominciano ad occuparsi del
fenomeno con preoccupazione o semplice curiosità. Molti guardano con sospetto sia alla
mobilità di gruppi cospicui di persone sia alle possibilità di avanzamento sociale che
persone appartenenti a classi subalterne possono acquisire attraverso le vie
dell’emigrazione, altri temono che l’abbandono dei campi da parte dei contadini porti ad
aumenti salariali che non si intendono concedere, alcuni guardano invece con interesse
alla dinamica sociale che conduce all’espatrio masse così ingenti di uomini e donne.
Nel periodo preunitario sono in realtà soltanto i censimenti degli stati del centro e del nord
della penisola ad occuparsi di chi lascia la propria abitazione per periodi più o meno
lunghi, mentre in epoca unitaria bisogna attendere il 1876 perché l’ufficio nazionale di
statistica ne organizzi una sistematica rilevazione.
Solitamente, si distinguono quattro fasi nella storia dell’emigrazione italiana, distinte da
situazioni sociali, politici ed economici che hanno condizionato partenze, destinazioni,
modalità di viaggio, rimpatri o stanziamenti nei luoghi di accoglienza.
Nel periodo 1876 – 1900 i flussi migratori sono significativi, è il periodo delle migrazioni
sovvenzionate verso Brasile ed Argentina anche se gli Stati Uniti sono già una meta molto
ambita. Molti emigranti si rivolgono tuttavia verso Francia, Germania, Svizzera ed Austria
dove si realizzano grandi opere pubbliche e c’è notevole richiesta di manodopera.
Lo stato liberale, dopo un’iniziale tentativo di “scoraggiamento” delle partenze, persegue
una politica aperta alle dinamiche del mercato del lavoro internazionale e garantisce una
minima legislazione in materia, dando ampi spazi di manovra agli interessi delle grandi
compagnie di navigazione. A partire sono per lo più settentrionali, veneti e friulani in
maggioranza ma anche lombardi e piemontesi, che valicano le Alpi o decidono di
imbarcarsi verso le destinazioni transoceaniche.
Dall’inizio del secolo fino allo scoppio della guerra mondiale, l’Italia, seppur tardivamente
rispetto ad altre nazioni europee, comincia ad imboccare la via dell’industrializzazione, ma,
quasi paradossalmente, è proprio in questo periodo che si registra il maggior numero di
partenze, incentivate dalla forte attrazione esercitata dagli Stati Uniti e dalle significative
richieste di manodopera di altri Paesi europei. A partire sono in questi anni molti
meridionali con meta preferita New York e le altre città della costa orientale degli Stati
Uniti.
Nel periodo che segue il conflitto, molti emigranti trovano condizioni più difficili di
mobilità: gli Stati Uniti, dapprima con una legge sulle quote d’ingresso e poi con una
sull’alfabetizzazione, bloccano i flussi dall’Italia, mentre l’instaurazione del regime fascista
conduce a restrizioni sulle possibilità di spostarsi agevolmente.
Nonostante l’Argentina rimanga una tra le mete più ambite, le destinazioni europee
tornano a prevalere su quelle transoceaniche ed ad esercitare una notevole attrazione è
particolarmente la Francia che garantisce discrete condizioni di lavoro agli stranieri ed è
accogliente nei confronti degli esuli e dei fuoriusciti per motivi politici. A muoversi sono in
questo periodo per lo più emigranti provenienti da regioni settentrionali, che rientrano
periodicamente a casa dopo aver messo da parte risparmi attraverso il lavoro all’estero.
Terminata la politica antimigratoria del regime fascista, i governi repubblicani dalla fine
degli anni ’40 non scoraggiano l’emigrazione, ma, particolarmente in un’ottica europeista,
la interpretano come uno strumento per dare risposte al problema della disoccupazione
italiana. Con questo genere di approccio lo stato “assiste” le migrazioni verso il Belgio,
dove c’è grande richiesta di lavoratori nelle miniere di carbone e verso Francia e Germania,
dove il boom economico del dopoguerra richiede lavoratori da diverse nazioni
mediterranee. Nonostante le destinazioni extraeuropee diventino meno richieste, sono
ancora molti a dirigersi verso il sud America, numerosi i ricongiungimenti familiari negli
Stati Uniti e si aggiungono inoltre alle destinazioni tradizionali, paesi come il Canada, il
Sud Africa, l’Australia. A spostarsi sono nuovamente molti emigranti provenienti dalle aree
più povere della penisola: le isole, il meridione, il veneto e le aree appenniniche.
Riprendendo il percorso della mostra si notano immagini legate alle attività dei nostri
emigranti negli Stati Uniti: boscaioli, manovali, minatori, costruttori di ferrovie, ma anche
uomini dotati di professionalità, come gli scalpellini di Carrara o del pistoiese, i librai
lunigianesi, i figurinai ed i panificatori lucchesi, imprenditori che si affermano con
successo nelle più diverse attività.
Quando i paesi di destinazione decidono di limitare i massicci arrivi, le strutture
predisposte per l’accoglienza si trasformano in luoghi di sosta obbligata, come ad Ellis
Island, una piccola isola di fronte a New York, diventata il luogo dove tutti gli immigrati
provenienti dall’Europa devono transitare per avere accesso legale negli Stati Uniti.
Chiamata anche "la porta d’oro" o “l'approdo della speranza" vi passano tra il 1892 ed 1954
oltre dodici milioni di persone. Funziona come un centro di prima accoglienza dove
uomini, donne, bambini vengono sottoposti ad esami fisici e psicologici, durante i quali si
cerca di appurare l’assenza di malattie come la tubercolosi, l'epilessia, il tracoma. Per i non
idonei c'è ovviamente il ritorno in patria sulla stessa nave che li ha trasportati in America.
La nazione che, all’inizio del Novecento, riceve manodopera in grande quantità sono
proprio gli Stati Uniti: si tratta soprattutto di giovani maschi di origine contadina che
cercano un lavoro temporaneo per racimolare soldi finalizzati all’estinzione di un debito o
all’acquisto di terreni in patria. Alcuni si fermano, richiamando mogli e figli, ma la maggior
parte rientrano dopo periodi di permanenza più o meno lunghi. Si tratta di persone che
svolgono mestieri non qualificati: costruiscono ferrovie e strade, scavano gallerie oppure
sono impiegati nell’edilizia e nell’estrazione mineraria. Alcuni dimostrano tuttavia
iniziativa imprenditoriale impiantando aziende agricole, negozi, attività artigianali e
commerciali.
Prima di entrare nella seconda stanza, è possibile osservare una bicicletta Donizetti degli
anni quaranta che veniva utilizzata dai venditori ambulanti lunigianesi per il trasporto
della loro merce. Da notare gli spazi ricavati sopra le due ruote per caricare il più possibile
il mezzo.
Entrando nella seconda stanza si trova a sinistra un pannello che propone immagini
dell’emigrazione verso il Brasile, una delle mete più importante dell’emigrazione italiana
durante l’Ottocento.
Qui gli arrivi di manodopera europea sono “sovvenzionati” dai proprietari delle grandi
piantagioni di caffè, preoccupati di mantenere alti i livelli di produzione dopo l’abolizione
della schiavitù nel 1888 e dalla volontà delle classi dirigenti brasiliane di cominciare un
popolamento più sistematico dell’immenso Paese. Ad imbarcarsi per Santos, il porto di San
Paolo, con biglietti prepagati alle compagnie di navigazione italiane, sono quindi per lo più
intere famiglie, alle quali vengono affidati lotti di terreno da riscattare in rate dopo i primi
raccolti.
La colonizzazione agricola da buoni risultati, particolarmente nelle aree del sud del Paese,
dove il clima è più simile a quello europeo, mentre il duro lavoro delle piantagioni di caffè,
oltre a deludere le speranze di molti arrivati, causa il loro rapido spostamento verso le
grandi città della costa, che cominciano ad accoglierne in gran numero.
La grande carta del pannello si riferisce alle esplorazioni svolte da Adamo Lucchesi,
originario della Garfagnana che, dopo aver lavorato su un battello fluviale che naviga i
corsi d’acqua di Uguruay e Paraguay, effettua una serie di spedizione nella zona dell’Alto
Paranà e guida nel 1883 il famoso esploratore piemontese Giacomo Bove sino alle cascate
del Guayrà.
Le bacheche di fronte all’ingresso della stanza presentano l’attività dei librai originari della
Lunigiana, i quali cominciano l’attività di vendita ambulante come merciai, per poi
specializzarsi nel corso degli anni e delle generazioni nel settore librario. Partivano a
primavera da Montereggio, Parana, Pozzo e Mulazzo con destinazione le città e le
campagne del nord Italia, vendendo all’inizio per lo più lunari, almanacchi, quaderni,
piccole pubblicazioni casa per casa o cascina per cascina, ma da ambulanti diventano ben
presto bancarellai sostando nelle fiere e nei mercati dove è possibile fare buone vendite.
Successivamente alcuni diventano grossisti e distributori per le grandi case editrici
nazionali, molti aprono librerie ed i più fortunati ed intraprendenti svolgono per proprio
conto attività editoriale. Nella bacheca, a sinistra, si trovano pubblicazioni di alcuni di loro.
In basso, libri delle Edizioni Fogola, casa editrice della Libreria Dante Alighieri di Torino,
gestita tutt’oggi dai nipoti di Giovanni Battista Fogola, che, dopo anni di commercio
ambulante, apre, nel 1911, in piazza Carlo Felice tre chioschi per la vendita di libri.
A fianco i “Dialoghi” di Platone, stampati a Piacenza da Carlo Tarantola, editore che si
occupa anche di volumi enciclopedici con una particolare predilezione per l’arte.
In alto si trovano pubblicazioni della Gitamo, di Costantino Tarantola che comincia
giovanissimo vendendo libretti d’opera di fronte al teatro di Modena e continua
sviluppando l’attività del padre Luigi, che, originario di Montereggio, si stabilisce insieme
alla moglie nella città emiliana. Costantino, oltre alla vendita, è rappresentante di case
editrici emiliane in molte aree del nord e centro Italia ed a sua volta, negli anni ’40,
pubblica collezioni di racconti per bambini, manuali di lingua e libri di poesie della
Gitamo, Giovanni Tarantola Modena. Da notare le “farfalle”: brevi storie per bambini che
avevano la funzione di supportare i testi scolastici ed invitare alla lettura.
Nell’altra bacheca sono collocati libri stampati dalla famiglia Maucci in Italia, Spagna ed
America. Originari di Parana in Lunigiana hanno come vero e proprio “pioniere”
Emanuele, che, emigrato nel 1872 in Argentina per fare il venditore ambulante di libri,
diviene in pochi decenni uno dei più grandi editori del continente americano. Trasferitosi a
Barcellona nel 1892, fonda la Casa Editrice Maucci, che stampa 25 mila volumi alla
settimana, 1 milione e 300 mila libri all’anno. All’inizio del Novecento la famiglia Maucci è
ramificata in tutto il mondo di lingua spagnola: Emanuele a Barcellona; i cognati
Alessandro e Paolo a Città del Messico; Luigi, Carlo, Giovanni Battista e Giacomo a Buenos
Aires; altri a L’Avana ed a Caracas; in questi luoghi realizzano edizioni economiche dei
grandi autori classici della letteratura mondiale e le diffondono dal Messico all’Argentina,
da Cuba alla Spagna dando un notevole impulso all’alfabetizzazione delle masse ed alla
diffusione della cultura.
Il percorso dei pannelli prosegue presentando l’emigrazione in Sud America. Molti sono i
lavoratori toscani che emigrano in Uruguay, dove possono operare marmisti ed intagliatori
grazie al boom dell’edilizia della fine dell’800, che offre prospettive non solo a manovali,
carpentieri e muratori, ma anche ad artisti capaci di decorare con statue, stucchi e fregi i
nuovi palazzi della capitale.
Gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento vedono infatti a Montevideo il fiorire di
laboratori e botteghe di artigiani, che funzionano da continuo richiamo per altri lavoratori
intenzionati a lasciare l’Italia. In molti giungono anche per la presenza delle cave di Nueva
Carrara, dove viene richiesta molta manodopera per l’estrazione, il taglio e la scultura del
pregiato marmo che viene poi utilizzato per la costruzione degli edifici di Montevideo.
I toscani non tardano a dirigersi anche verso l’Argentina, dove, dagli anni ’80 dell’800
cominciano ad arrivare le “golondrinas”, lavoratori stagionali, per lo più giovani, maschi e
di origine contadina, che, attraverso l’emigrazione a catena, sono attratti dalle possibilità di
lavoro e rapido guadagno con l’ottica di rientrare in patria dopo avere messo da parte una
certa fortuna. Nel corso degli anni sono poi in tanti a fermarsi, scoperte le buone
possibilità di lavoro e di avanzamento sociale offerte da una giovane nazione che cresce in
molti settori dell’economia. Come in Brasile ed in Uruguay, molti toscani colonizzano aree
spopolate del paese, compiono esplorazioni, dissodano e coltivano grandi estensioni di
“pampa”, sono attivi nell’artigianato e nel commercio, fondano vere e proprie città,
raggiungendo tutti gli angoli della nazione, dalla Patagonia alle foreste del nord, dalla coste
atlantiche alla catena andina.
In questo periodo, quando sono per lo più gli uomini ad essere i protagonisti dei flussi
migratori, le donne hanno la possibilità di spostarsi qualora richiamate dal marito o per
svolgere professioni solitamente poco retribuite come sarta, stiratrice, mondina,
bracciante.
L’attività femminile più remunerativa è sicuramente quella della balia da latte. Nonostante
il dolore ed il senso di colpa per aver lasciato il proprio neonato, molte donne scelgono
questa strada per la prospettiva di ottenere alti compensi in un breve periodo di tempo.
Poche sono le ragazze che affrontano la scelta di una gravidanza finalizzata ad un introito
economico, per lo più si tratta di giovani madri che, in accordo con mariti, si dedicano al
baliatico per un’improvvisa difficoltà della famiglia. Le balie toscane sono inoltre molto
ricercate perché, oltre a togliere alle madri naturali di ricca famiglia il peso
dell’allattamento, uniscono ad una buona salute fisica una parlata corretta dell’italiano, del
cui apprendimento tutti possono beneficiare.
Una professione del tutto particolare è anche quella dei figurinai. Originari della Val di
Lima e della media Valle del Serchio nella Lucchesia, i figurinai sono tra i primi artigiani
migranti italiani a muoversi nel continente ed oltre. Organizzati in “compagnie” con un
“capo” e diversi garzoni, raggiungono le località più lontane per produrre e vendere statue
di gesso. Ci sono i “gittatori”, coloro che preparano e colano il gesso negli stampi, pittori e
decoratori, che rifiniscono ed abbelliscono le statue ed infine quelli che vanno in giro a
venderle. I loro soggetti più comuni sono i santi, le personalità maggiormente note, gli
animali, ma realizzano in realtà ogni tipo di soggetto e, dopo una fase pionieristica in cui
svolgono la funzione di veri e propri apripista per l’insediamento successivo di immigrati
italiani, si stabiliscono in città o paesi impiantando botteghe e laboratori. Verso la fine
dell’Ottocento, i più capaci ed intraprendenti, aprono fabbriche in varie località d’Europa e
del mondo nelle quali realizzano prodotti di alto livello qualitativo e di vario genere e
dimensione.
Verso la fine dell’800 si comincia a dirigere anche verso la Germania un discreto numero
di persone, che, a motivo del rapido sviluppo industriale di fine secolo, da paese
esportatore di manodopera si è tramutato in pochi anni in esigente importatore di braccia.
I toscani non si occupano solo nelle industrie siderurgiche e tessili, dove esiste grande
richiesta a molti livelli, ma lavorano nell’edilizia, nel commercio ambulante e
nell’estrazione mineraria.
L’emigrazione italiana di massa verso la Gran Bretagna comincia all’inizio dell’Ottocento
quando le maggiori città dell’Inghilterra sono percorse da un così grande numero di
suonatori e venditori ambulanti originari di Stati della penisola che “italiano” diventa quasi
sinonimo di organettista o musicante di strada. Al di fuori di queste professioni girovaghe
tuttavia, l’emigrante italiano di quell’epoca non trova in Gran Bretagna quelle possibilità
occupazionali che vengono offerte dalle grandi opere pubbliche che si avviano nel
continente ed inoltre un ampio serbatoio di manodopera “nazionale” ed a buon mercato è
sempre costituito dall’immigrazione irlandese. E’ nel Novecento tuttavia che gli italiani (tra
i quali molti toscani) impiantano diverse attività commerciali e di ristorazione a Londra e
nei maggiori centri del Paese fornendo dapprima servizi alla nicchia etnica italiana e poi
aprendo botteghe, bar, caffetterie, gelaterie e ristoranti per ogni tipo di clientela.
Dalla Lunigiana e dalla Garfagnana particolarmente, sono molte le famiglie che hanno un
buon successo in questo genere di attività, favorendo, attraverso le catene migratorie, un
costante afflusso di lavoratori per buona parte del secolo.
Il mestiere dei suonatori ambulanti non richiedeva particolari competenze, poteva quindi
essere praticato da tutti ed offriva guadagni che andavano ben oltre le remunerazioni di un
qualsiasi bracciante o operaio di fabbrica. Quando si impone l’uso dell’organo a manovella
non sono nemmeno necessarie particolari abilità strumentali, basta azionare un dispositivo
meccanico per riprodurre la musica. Questi artisti girovaghi, al pari di ammaestratori di
animali, orsanti, giocolieri e burattinai, battono città e campagne di mezza Europa
chiedendo offerte ed elemosine per i propri spettacoli di strada. Spesso conducono con sé
garzoni che li aiutano in varie attività o gli fanno portare a loro volta un organetto. Dalla
prima metà dell’800, molti sono quindi coloro che si danno a questo avventuroso e
redditizio lavoro, svolgendo anche il ruolo di informatori sulle offerte e possibilità di lavoro
altrove per tutti coloro che sono desiderosi di partire.
Nell’ultimo pannello si trova una carta della Francia che presenta gli spostamenti di un
suonatore ambulante lunigianese fra il 1882 ed il 1886. Sotto ci sono alcune immagini del
libretto delle autorizzazioni che gli venivano rilasciate per esercitare la propria professione
nei centri abitati della Francia. Si tratta, in genere, di permessi giornalieri per suonare il
piano, annotati l'uno di seguito all'altro e dove spiccano i timbri dei paesi e delle città
attraversate.
Terminato il percorso espositivo, è necessario uscire nel cortile e salire al primo piano del
castello attraverso la scala in pietra che si trova a lato della porta di accesso alla prima
stanza.
Giunti al primo piano si entra nella grande sala. Sulla destra si trova la sezione della
mostra dedicata all’emigrazione di carattere politico. Già a cavallo tra Ottocento e
Novecento, in piena epoca liberale, ai lavoratori che espatriano, si aggiungono gli esuli
politici, in maggioranza socialisti e anarchici, che dopo i primi moti insurrezionali
subiscono un irrigidimento delle autorità ed atteggiamenti repressivi. Questo fenomeno si
intensifica durante il ventennio fascista, quando anche i comunisti si aggiungono a coloro
che devono fuggire a motivo delle persecuzioni cui sono soggetti per la loro attività politica
e sindacale. La Francia appare il Paese più accogliente e, dopo la vittoria del Fronte
Popolare alle elezioni del 1936, l'attività degli esuli conduce anche ad un avvicinamento tra
i movimenti operai dei due Paesi.
Alberto Meschi, anarchico, autodidatta, emigra nel 1905 in Argentina, dove diventa uno
dei più seguiti dirigenti libertari e sindacali. Espulso nel 1909, rientra a Carrara dove dirige
la Camera del lavoro e guida le lotte dei cavatori apuani e dei lavoratori della Versilia.
Aggredito a più riprese dai fascisti, è costretto nel maggio del 1922 a riparare in Francia. A
Parigi è tra i fondatori della Concentrazione antifascista e della Lega italiana per i diritti
dell’uomo. Nel 1936 combatte in Spagna nella Colonna Rosselli, sino alla caduta della
Repubblica.
Luigi Campolonghi, pontremolese, deve riparare a Marsiglia in seguito al proprio attivismo
politico e fonda un foglio socialista l'«Emigrante», collabora all' «Avanti», al «Petit
Provençal» ed è corrispondente per diversi altri quotidiani italiani.
Rientrato in Italia, continua l’attività giornalistica in patria rimanendo corrispondente
estero e finendo per stabilirsi a Parigi, in contatto sia con gli ambienti radicali e socialisti
francesi che con il variegato arcipelago dell’associazionismo italiano. Dopo l’avvento del
fascismo in Italia, si adopera per l’unità di tutte le forze antifasciste in Francia, fonda la
Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo ed è fra i protagonisti durante il promettente periodo
dei fronti popolari.
Alceste de Ambris, anch’egli lunigianese, dirige dal 1907 la Camera del Lavoro di Parma
nel periodo delle tumultuose lotte tra padronato e leghe contadine finchè deve riparare in
Svizzera per evitare l’arresto. Dalla Svizzera passa in Brasile, dove rimane per più di due
anni. Rientra nel 1911 a Lugano ed inizia a svolgere un’intensa attività politica rivolta alla
situazione italiana. Nel 1913 viene eletto deputato a Parma e può rientrare in Italia. Attivo
nella campagnia interventista, volontario in guerra, vicino al fascismo “diciannovista”, si
reca a Fiume dove assume l’incarico di capo di Gabinetto di Gabriele D’Annunzio.
Rientrato a Parma, orienta l’organizzazione sindacalista su una linea di opposizione al
movimento fascista. Aggredito a Genova da una squadra di fascisti, agli inizi del 1923
ripara in Francia. A Parigi da vita ad un consorzio di cooperative di lavoro che procura
occupazione a numerosi fuoriusciti provenienti dall’Italia.
Giovanni Rossi è un anarchico pisano vicino al pensiero di Bakunin ed inizia una feconda
attività di giornalista e saggista, pubblicando numerosi pamphlet ed articoli con lo
pseudonimo di Càrdias. In un opuscolo intitolato “Un comune in riva al mare” presenta il
progetto di creazione di una “colonia sperimentale socialista” in un paese dell’America
Latina e nel 1888, insieme a 250 militanti reclutati in diversi circoli anarchici del centro
Italia, salpa da Genova con destinazione lo stato brasiliano del Paraná, dove fonda la
“Colonia Cecilia”.
Pietro Gori, aderente al movimento anarchico pisano di fine Ottocento, ne diventa una
delle personalità più influenti scrivendo opuscoli e tenendo conferenze. Traferitosi a
Milano, inizia la carriera di avvocato nello studio di Filippo Turati e continua la militanza
anarchica e socialista, non senza fatica, a motivo dei continui fermi ed arresti da parte delle
autorità. Accusato di essere uno degli ispiratori dell’assassinio del presidente francese Sadi
Carnot, fugge a Lugano, da cui ripara a Londra attraverso la Germania ed il Belgio. Dopo
un periodo di permanenza in Inghilterra si reca in America del Nord, dove continua la sua
attività politica e divulgativa.
Il primo dopoguerra è caratterizzato dalle aumentate difficoltà ad entrare negli Stati Uniti,
che finiscono per stornare i flussi migratori verso altre destinazioni americane o europee.
Nel continente è la vicina Francia a costituire il maggiore polo di attrazione per gli
emigranti toscani a motivo della sempre forte richiesta di manodopera che esercita e della
parità di trattamento in materia di lavoro, assistenza, pensionamento, che riconosce anche
ai lavoratori stranieri.
Il lavoro dei carbonai e dei boscaioli, sebbene molto faticoso e non sempre redditizio,
veniva svolto da secoli dagli abitanti della Montagna Pistoiese, che non solo garantivano il
riscaldamento delle città della zona, ma dovevano assicurare il combustile per le armerie
dei granduchi di Toscana. Verso la fine dell’Ottocento, con le partenze degli emigranti per
le destinazioni più varie, sono molti quelli che portano con sé le preziose competenze
maturate in anni di attività ed esercitano il mestiere all’estero, prevalentemente in Corsica,
Francia ed America del Sud.
I numeri e le cause dell’emigrazione sono spesso servite, tanto allo Stato Liberale quando
al Regime fascista, per giustificare le imprese coloniali. In realtà gli italiani che scelgono
come destinazioni le terre conquistate in Africa non sono molti, di certo senza paragone
rispetto a quelli che si rivolgono ad altre mete, nonostante l’emigrazione verso queste aree
sia stata, in alcuni periodi, favorita ed aiutata. Pochissimi sono gli italiani in Somalia ed
Eritrea alla fine dell’800, pochi quelli in Libia dopo la guerra del 1911, soltanto alla fine del
Ventennio e dopo gli sforzi di colonizzazione da parte del regime con la retorica del “posto
al sole”, si contano parecchie migliaia di persone insediate.
Terminata la Seconda Guerra Mondiale, che interrompe per alcuni anni i flussi
d’emigrazione, si riparte nella seconda metà degli anni ’40 per quei luoghi nei quali ci sono
offerte di lavoro o conterranei accoglienti, con attività già avviate oppure in grado di
instradare in una professione consolidata.
L’emigrazione dalla Montagna Pistoiese nel corso del Novecento è spesso legata in maniera
stretta alle possibilità di impiego alla SMI, la Società Metallurgica Italiana che produce
armi ed era il più grande stabilimento industriale della zona. Nei periodi bellici forte è la
produzione e la richiesta di lavoratori, ma tra il 1946 ed il 1948 il ridimensionamento del
personale è drastico ed attraverso accordi tra la SMI stessa ed alcune aziende svizzere,
molti operai sono spinti a trovare occupazione in industrie elvetiche che richiedono
manodopera specializzata.
Fino agli anni Settanta la Svizzera sarà una delle destinazioni principali per moltissimi altri
emigranti toscani. In grande maggioranza impiegati nell'edilizia, in ambito industriale o
alberghiero, sono attratti dai forti differenziali salariali e rimangono all'estero il tempo
necessario ad accumulare risparmi. Molti sono stagionali, non possono cambiare né lavoro
né padrone ed a loro è vietato farsi raggiungere dalla famiglia; altri sono lavoratori generici
che abitano in baracche e dopo 5 anni diventano annuali, con un permesso di soggiorno
rinnovabile appunto ogni anno. Le mogli devono ottenere un permesso di soggiorno
singolo, legato ad un posto di lavoro per potersi ricongiungere al marito. Gli alloggi sono
pochi e molto cari, inoltre i pregiudizi anti italiani rendono molto difficoltosa la stipula di
contratti d'affitto, se non c’è un padrone a fare esplicitamente da garante. In tanti
rimediano quindi sistemazioni più o meno improvvisate senza nemmeno la possibilità di
portare i figli che rimangono in Italia presso familiari o vengono introdotti in Svizzera
clandestinamente.
Accordi bilaterali tra Italia e Belgio sono siglati nel 1946 per portare duemila lavoratori
italiani a settimana a lavorare nelle miniere dei bacini carboniferi di Liegi. Per il governo i
vantaggi sono molteplici: le clausole prevedono la possibilità di acquistare carbone ad un
vantaggioso prezzo di mercato, si fa fronte alla crescente e socialmente pericolosa
disoccupazione, valuta straniera giunge ad ingrossare le rimesse degli emigranti ed a
puntellare il momento di crisi economica del dopoguerra. Viene così organizzato un
efficace reclutamento nelle campagne e nelle città, che fa convogliare i lavoratori nella
stazione di Milano dove un treno inviato dal Belgio provvede al trasferimento fino a Liegi.
Dopo viaggi estenuanti, che possono durare anche 52 ore, gli italiani vengono alloggiati in
baracche di legno e mandati al lavoro il giorno successivo all'arrivo. Per coloro che si
rifiutano di scendere nelle miniere l'accusa di rescissione del contratto è immediata e ne
segue il rimpatrio con convogli speciali.
Nonostante le dure condizioni di lavoro, gli incidenti frequenti e la paga non molto alta i
flussi verso il Belgio continuano per anni e si interrompono solamente dopo la tragedia di
Marcinelle, quando centotrentasei lavoratori italiani muoiono in seguito ad un incendio
scoppiato per cause fortuite.
Dal 1956, anno della tragedia di Marcinelle, molti lavoratori cominciano a preferire al
Belgio, l’emigrazione in Germania, dove, il boom economico del dopoguerra, è il motore di
una massiccia richiesta di manodopera dai paesi mediterranei. A partire sono, per lo più,
maschi adulti che si muovono senza famiglia nei luoghi dove serve personale non
qualificato nei settori edile ed industriale. La maggiore richiesta di persone viene infatti
dalle grandi fabbriche della produzione fordista di auto, macchinari, elettrodomestici ed
altri beni di consumo.
L'emigrazione ha per lo più carattere temporale, i lavoratori sono giovani e celibi o
comunque non accompagnati dal coniuge ed hanno come prospettiva il rientro dopo un
periodo di accumulazione di risparmi all'estero. Inoltre, gli emigranti sono percepiti in
Germania come ospiti temporanei, “gastarbeit”, per i quali non viene favorita
l'integrazione, ma piuttosto un soggiorno temporaneo con la poco allettante prospettiva di
un immediato rientro in caso di termine della necessità di manodopera.
Negli anni del boom economico del dopoguerra le occupazioni lavorative dei toscani che
hanno scelto la via dell’espatrio sono fra le più varie: nei diversi settori delle professioni,
soprattutto artistiche, al lavoro come operai, come tecnici, nei vari ambiti industriali, nelle
costruzioni di grosse infrastrutture anche in aree lontane come Sud Africa e Australia.
Particolarmente in questo Paese, l’apertura a flussi d’emigranti dall’Italia è notevole.
I nostri lavoratori si insediano nelle principali città, Sidney e Melbourne prima di tutto, ma
anche a Perth nella costa occidentale del continente, mentre alcuni sono impiegati nella
costruzione di strade, ferrovie, linee elettriche, nonché nella viticoltura e nelle attività
legate all’allevamento di bestiame.
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