Associazione nazionale
combattenti e reduci
Sezione di Scafati
Città Medaglia d’Oro alla Resistenza
BANCA DELLA MEMORIA
Diario di
GENNARO
INSERVIENTE
da Caporalmaggiore del Regio Esercito
a Sottotenente Partigiano di “Giustizia e Libertà” ( il vento del nord)
(A cura di Antonio Cimmino)
Scafati 2010
Prefazione
Continuano a pervenire documenti e fotografie per
arricchire la Banca della Memoria istituita dalla nostra Sezione
per raccogliere testimonianze dei Combattenti e Reduci.
Questo opuscolo contiene il diario dettagliato della vita
militare di Gennaro Inserviente, Socio Effettivo del sodalizio.
Una mente lucida ed un fisico ancora efficiente a discapito
dell’età, egli partecipa a tutte le manifestazioni patriottiche ed ama
raccontare le sue avventure belliche.
Avventure che bisogna tramandare alle giovani generazioni. Egli, come soldato di
artiglieria a cavallo, fu inviato in Croazia inquadrato nel C.S.I.R. (Corpo di Spedizione
italiano in Russia)
e successivamente facente parte dell’ARMIR (Armata Italiana in
Russia).
Nelle steppe russe visse la tragedia di migliaia di soldati italiani inviati a combattere
nelle fredde lande dell’est, senza equipaggiamento e senza armi adeguate al clima. Per le
sue doti militari fu promosso Caporalmaggiore.
Tornato in Patria, dopo l’8 settembre del 1943, senza pensarci due volte, invece di
aderire alla Repubblica di Salò, scelse di combattere per la libertà e la democrazia.
Nella Brigata “Giustizia e Libertà” partecipò a numerose e rischiose operazioni in
Valtellina contro i nazisti ed i fascisti repubblichini loro alleati. Coraggioso ed intelligente
si meritò sul campo il grado di Sottotenente Partigiano.
Il presente diario - inserito nella collana “Banca della Memoria” organizzata e
diretta dal dottor Antonio Cimmino, nostro Revisore dei conti - si legge tutto di un fiato e
testimonia la rettitudine morale di Gennaro Inserviente, la sua lucida determinazione in
tutte le difficili situazioni nelle quali si è trovato, la scelta di contribuire a far nascere la
democrazia in Italia e di cacciare l’invasore, partecipando da protagonista alla Guerra di
Liberazione.
Il Presidente
Cav. Uff. Francesco Bossetti
Gennaro Inserviente
Mi chiamo Inserviente Gennaro, nato a Boscotrecase (Napoli) il 22 dicembre 1921. Mio
padre si chiamava Luciano e lavorava come manovratore delle FF.SS. ed aveva partecipato alla
guerra del 1911 per la conquista della Libia (1). Mia madre si chiamava Matrone Filomena. Sono
primogenito di sei figli di cui tre maschi e tre femmine. Mia moglie si chiamava Buono Vincenza,
moglie e madre affettuosa e laboriosa come sarta. Sono padre di cinque figli, due maschi e tre
femmine e nonno di dodici nipoti, più uno di origine ucraina e spero di diventare bisnonno. Sin da
ragazzo quando frequentavo la scuola elementare ero vivace ed irrequieto, se venivo provocato,
subito reagivo e menavo le mani, per questo mi è rimasto il soprannome di “Gennaro ‘a querela”
perché ero querelato da molti genitori di ragazzi con cui avevo fatto a botte.
Il soldato il partigiano Dopo il corso di due anni di aggiustore meccanico presso l’Istituto di Avviamento
Professionale di Torre Annunziata, andai a lavorare presso l’officina meccanica dei fratelli
Ricciardi di Torre Annunziata ove si producevano proiettili per cannoni. Non mi sapevo spiegare,
allora, il senso di fastidio che provavo, e non solo io, perché ogni sabato si era obbligati ad andare
alle adunate imposte dal regime fascista per la cultura premilitare.
Io ed alcuni amici avevamo voglia di andare al mare d’estate ed in autunno in montagna, per
i campi ed i boschi alle falde del Vesuvio a cercare funghi. Alle adunate si facevano gli appelli e gli
assenti, dopo pochi giorni, venivano convocati presso la caserma dei carabinieri per giustificarsi.
Essi severamente ci dicevano di non mancare più alle adunate premiliatri onde evitare severe
conseguenze per noi ed i nostri genitori. All’epoca della dittatura fascista bisognava “credere,
obbedire e combattere” e “libro e moschetto fascista perfetto” come era scritto sui muri di tutti i
comuni d’Italia. (2)
Dopo la guerra, quando tornai dal nord Italia, ove avevo
partecipato anche come partigiano combattente nella brigata
“Giustizia e Libertà” in Valtellina, fui assunto dal comune di
Boscotrecase come vigile sanitario; con il mio stipendio ed il
lavoro di sarta di mia moglie, si viveva decorosamente. I nostri
figli hanno studiato finché hanno voluto e vestivano abbastanza
bene in considerazione dei tempi difficili dell’immediato
dopoguerra.
Sempre d’accordo con mia moglie non abbiamo mai fatto debiti che non potevamo onorare;
nei limiti del possibile, non ci siamo fatti mancare niente. Non abbiamo gettato via neanche un
tozzo di pane, ricordando i tempi della mia adolescenza quando chiedevo a mia madre un pezzo di
pane e lei mi diceva di aspettare dieci minuti in attesa che si cuocesse la pasta e patate, quasi sempre
pezzetti di pasta varia.
Città di Scafati, atrio del Palazzo comunale‐ incontro con il Sindaco dott. Pasquale Aliberti ( da sn.: M.llo Franoce Federico‐ Consigliere, Sindaco, Cav. Matteo Restaino‐Vicepresidente, Cav.Uff. Francesco Bussetti‐ Presidente, Prof. Pesce‐Storico) Gennaro Inserviente Boscotrecase 2 giugno 2010: Gennaro Inserviente con il figlio dott. Luciano --------------------------note-------------------(1) La guerra di Libia, nota anche come guerra italo-turca, fu combattuta
tra l’Italia e l’impero ottomano dal settembre del 1911 all’ottobre del
1912. L’Italia voleva allargare le sue conquiste coloniali a spese
dell’agonizzante Turchia. Oltre alla Tripolitania e alla Cirenaica
(Libia) furono conquistati l’isola di Rodi e l’arcipelago del
Dodecanneso.
(2) Ogni sabato, alle ore 13,00 dall’età di 18 anni, si
interrompeva il lavoro e ci si dedicava ad attività
addestrative di carattere premilitare, politico e
sportivo. Si trattava di un servizio preparatorio al
servizio militare. Veniva svolto anche la domenica
mattina per non far perdere ore di lavoro ai
partecipanti.
I
giovani
dovevano
imparare
a
marciare, smontare e rimontare parecchie volte il
fucile, fare esercizi ginnici.
Il fronte orientale
Del Caporal Maggiore Gennaro Inserviente 29 settembre 1940 ( Croazia)
Come cittadino di Boscotrecase, appartenevo al Distretto militare di Nola che mi assegnò la
matricola 13300. Il 29 settembre del 1940 fui chiamato per il servizio militare presso il 2°
Reggimento artiglieria a cavallo di Ferrara, reparto munizioni e
viveri con la qualifica di riparatore meccanico. E dopo un mese,
partecipai al corso di scuola guida per autocarri. La guida la
facemmo su un autocarro della prima guerra mondiale. L’11
novembre 1940 fui promosso Caporale
Questo automezzo non aveva ammortizzatori, la guida
era a destra, i freni erano meccanici a pedale, la leva per
Autocarro Fiat 18 BL‐ 1915
mantenerlo fermo durante le soste (freno a mano) era all’esterno
della cabina di guida sul lato destro, le ruote erano di gomma piena senza camera d’aria e per
metterlo in moto, si usava la manovella, faceva un rumore assordante. Comunque conseguii la
patente. In seguito arrivarono quattro autocarri nuovi ed il 2 aprile 1941 entrammo in Croazia.
Finite le ostilità in Croazia il 20 giugno del 1941, rientrammo in Italia ed il 15 luglio 1941
partimmo per il fronte russo. In Croazia ho sempre guidato l’auotocarro nuovo con molta attenzione
e senza provocare danni all’automezzo; per questo motivo in Russia divenni capo sezione del
reparto munizioni e viveri e responsabile di quattro autocarri. (1).
Durante gli spostamenti, il mio autocarro
trasportava la cucina da campo, il vettovagliamento ed i
viveri per la mensa ufficiali. Dopo circa otto mesi,
imparai a comprendere ed a parlare discretamente la
lingua russa senza far uso del piccolo vocabolario
tascabile in mio possesso. Sempre con il mio autocarro,
durante le soste con il tenente Pudoch di Napoli, addetto al vettovagliamento, si andava a ritirare i
viveri al deposito della sussistenza e, presso i colcos
russi, il mangime ed il fieno per i cavalli e qualcosa di
extra per noi. Per me e per i miei amici del reparto, non
è mai mancato nulla.
Quando entrammo in Croazia non sparammo
nemmeno un colpo perché gli Ustascia nazifascisti di
Ustascia Ante Pavelic, feroci assassini come le S.S., ci accolsero come liberatori permettendo una nostra
facile avanzata nel territorio jugoslavo. Dopo pochi giorni gli Ustascia iniziarono la pulizia etnica
contro gli slavi serbi e gli zingari. Noi italiani cercammo, nei limiti del possibile, di porre fine alle
persecuzioni contro i non croati.(2)
Famiglia serba massacrata dagli Ustascia
Durante i tre mesi trascorsi in Croazia, zona di guerra, noi soldati avevamo sempe fame
perché la razione di viveri era insufficiente. Un soldato di Palermo di nome Viviani Antonino,
grande e grosso, peloso come uno scimpanzé, si lamentava continuamente e qualche volta piangeva
perché gli faceva male lo stomaco per la fame. Un giorno si avanzò in zona di operazione per quasi
24 ore ed non fu possibile ai cucinieri preparare il pranzo, per cui fummo autorizzati a mangiare una
galletta ed una scatoletta di carne di scorta. Il giorno successivo i cucinieri prepararono pasta
asciutta ed il soldato Viviani Antonino, appena ebbe la sua razione, la strinse al petto ed alla prima
cucchiaiata nel portarla alla bocca, lanciò un urlo e con i denti piegò il cucchiaio di alluminio. In un
momento di pausa tra noi ci si domadava che attività lavorativa svolgesse da civile prima del
servizio militare. Antonino disse che faceva il pianista. Noi perplessi, conoscendo il personaggio,
dicemmo:”Com’è che fai il pianista?” e lui rispose in dialetto siciliano:”Minchia nun capiscite? Non
capite? Giro la manovella del pianino posto su un carrettino trainato da un asino; il carrettino è
condotto dal proprietario per le vie della città ed io, con il piattino in mano chiedo le monetine”. Un
giorno, in sette in libera uscita, andammo in giro a cercare qualcosa da mangiare. In una radura ai
margini di un bosco, c’era un casolare per il deposito degli attrezzi agricoli e notammo che c’erano
dei polli che razzolavano mentre i contadini stavano lavorando nei campi. A tarda sera tornammo
sul posto, su nostra sollecitazione, entrò nel pollaio attraverso un foro posto sul muro. Strisciando
sul ventre ci porse sette polli con il collo spezzato. Quando venne fuori dal pollaio, puzzava
maledettamente; era tutto imbrattato di sterco di pollo. Di mattino presto andammo in un boschetto,
attraversato un ruscello spennammo i polli, li
pulimmo e li cucinammo allo spiedo. Dopo
mangiato tornammo subito al reparto; nel
pomeriggio il proprietario dei polli venne a
reclamare al nostro comando. Il comandante
maggiore Li Donni, di origine siciliana, ci
fece schierare tutti in fila, e fatto l’appello ci
chiese chi aveva rubato i sette polli;
naturalmente nessuno rispose. L’ufficiale di
picchetto ci passò in rassegna uno per uno,
quando giunse vicino al soldato Viviani
Antonino questi, pur avendo pulito in qualche
modo l’unica divisa in panno grigio-verde che avevamo, puzzava ancora di sterco di pollo e così fu
portato davanti al comandante.
Fu invitato severamente a fare i nomi dei responsabili del furto dei polli; diede i nomi di noi
altri e, portati al cospetto del comandante, questi cominciò a gridare che noi avevamo infangato
l’onore dell’esercito italiano come ladri di polli; fece pagare dal furiere i polli al proprietario
dicendogli di trattenere i soldi dalla nostra paga. Non contento, il comandante gridò che ci avrebbe
comminato dieci giorni di prigione di rigore; questa sfuriata era per dare soddisfazione al contadino
proprietario dei polli. Ma, alla fine, non facemmo nessun giorno di prigione né fu defalcata la nosta
paga; il comandante sapeva benissimo che avevamo sempre fame.
Il 2 febbiaio 1941 fui promosso Caporal Maggiore.
Prima di rientare a Pescantina in provincia di Verona ( 20 giugno 1941), il generale di Corpo
d’Armata Gariboldi passò in rassegna il nostro reggimento destinato ad andare sul fronte russo, non
so perché si fermò, mi sorrise e con fare paterno mi accarezzò la guancia sinistra.
--------------------note-------------------------------(1) Quando nel marzo del 1941 i tedeschi invasero la Jugoslavia che
capitolò dopo soli nove giorni, l’Italia partecipò alle operazioni
militari ed alla successiva spartizione. La Germania concesse
all’Italia fascista di trattare direttamente con Ante Pavelic
diventato, nel frattempo, capo dello Stato indipendente della
Croazia. Questi era il leader del movimento terrorista Ustascia
filotedesco e filofascista.
Il 18 maggio dello stesso anno (
Trattato di Roma) , Mussolini ottenne la Dalmazia settentrionale
1Il terrorista Ante Pavelic
con la città di Spalato e la maggiore delle isole. Alla Croazia
restavano la Dalmazia meridionale con Ragusa e altre isole che furono affidate al dittatore
ungherese Horty. Le operazioni militari del Regio Esercito, che si mosse dalle basi dell’Istria, dalla Venezia
Giulia e dall’Albania, furono condotte dalla 2° Armata - formata da 9 divisioni di fanteria, 4
motorizzate e 1 corazzata- agli ordini del genarale Vittorio Ambrosio.
(2) Gli Italiani scoprirono le vere ed autentiche foibe nell'agosto 1941. Erano sull'isola di Pag, nei
due campi di sterminio per Ebrei di
Siano e Metajna. Per la prima volta gli
Italiani scoprirono cosa significava la
cosiddetta pulizia etnica.
Dal libro di Fabio Mosca “Le foibe degli
Ustascia” si apprende che la popolazione della
cittadina di Pag” inorridita dai massacri degli
ustascia chiese l'intervento degli Italiani. Gli Italiani, dopo la firma dell'Accordo con Pavelic, entrarono a
Pag, chiusero campi ustascia e deportarono gli Ebrei ad Arbe, dove li rinchiusero nel loro lager assieme
agli Sloveni e Croati rastrellati dall'esercito italiano nelle zone di guerriglia. Almeno non li ammazzarono”.
Dal succitato libro si legge ancora:” Nell'agosto 1941 il comandante del V Corpo d'Armata italiano,
generale Balocco, fece disseppellire i cadaveri di Pag
e li fece bruciare . Nelle tre fosse comuni a Siano si
trovarono 791 cadaveri, 407 maschi, 293 femmine e
91 bambini. (…). Ai primi di settembre 1941 gli
Italiani trovarono varie altre fosse comuni e
valutarono le vittime fra gli 8000 e 9000”.
( a sn.; gli taliani controllano gli effetti delle stragi
degli Ustascia).
15 luglio 1941 ( in Russia con il C.S.I.R.)
Partii da Verona per il fronte russo con il “Reggimento artiglieria celere a cavallo, secondo
reparto munizioni e viveri”, con un treno merci su cui furono caricati munizioni, cavalli grandi e
belli,
autocarri
e
tanto
vettovagliamento. Prima sosta fu la
stazione di Vienna dove fummo accolti
bene. Vi era la banda musicale, tavole
imbandite e le crocerossine austriache
che offrivano bevande e dolciumi. (1)
La seconda sosta fu Budapest
dove ci fermammo per mangiare e per
accudire i cavalli. Il giorno successivo
arrivammo a Botosani in Romania al
confine con la Moldavia dove finiva il
tratto di ferrovia. Ivi scaricammo tutto
dal treno ed incominciammo subito
l’avanzata in territorio moldavo e
bessarabico. Attraversammo due fiumi,
il Bug ed il Prut che avevano i ponti
intatti perché le truppe russe, forse nel
ritirarsi, non ebbero il tempo o gli
esplosivi per farli saltare. Così a marce
forzate arrivammo a Dnepropetrovsk in
Ucraina. (2)
Tutti i ponti sul fiume Dnepr erano distrutti, pertanto per circa un mese, il genio militare,
sotto la protezione dei nostri cannoni, riuscì a costruire un ponte di barconi. I primi a passare furono
i nostri piccoli carri armati leggeri, questi giunti sulla sponda opposta s’impatanarono perché il
terreno era paludoso. Passate tutte le truppe riprendemmo l’avanzata. Si viaggiava a tappe forzate, a
volte anche di notte. Verso la fine di settembre 1941, di mattina presto giungemmo presso la città di
Stalino, ora chiamata Donez sempre in Ucraina.
Da lontano vedemmo delle colline e dopo molte centinaia di chilometri di terreno
pianeggiante, pensammo di essere arrivati nei pressi dei monti Urali; invece le colline erano tutte di
carbon fossile.
Continuando ad avanzare senza incontrare resistenza da parte dell’esercito russo, in molti
villaggi, grandi e piccoli, ci veniva incontro la popolazione civile con in testa i pope e gli staroschi
(sacerdoti e sindaci) e tante giovani donne con vassoi colmi di pane bianco e ventresca affumicata.
Alcune ragazze sorridevano, noi avemmo l’impressione di essere benvenuti come liberatori.
Altrimenti si comportavano le truppe tedesche, specialmente le S.S. sparavano contro tutti e
tutto, bruciavano e saccheggiavano distruggendo interi paesi e facendo molte vittime innocenti. Gli
ebrei appena catturati venivano subito fucilati, mentre i giovani ucraini e russi, di ambo i sessi ed in
buona salute, venivano radunati per spedirli in Germania a lavorare con la promessa di un lavoro
normale ben retribuito. Furono, invece, trattati come schiavi, pertanto dopo la guerra, giustamente il
governo federale tedesco ha risarcito economicamente, dopo accurate indagini e accertamenti, i
superstiti e le famiglie degli operai che non ce la fecero a sopravvivere. Questa notizia me la ha
confermata la mia badante ucraina Konoba Irene ora mia legittima sposa.
1942 luglio, Dnepropetrovsk : soldati italiani con prigionieri russi e con ragazze della cittadina
Noi italiani con gli alleati tedeschi fin dal principio, non andavamo molto d’accordo. Loro
dimostravano in tutti i modi di sentirsi superiori a noi, non rispettavano i civili russi e ucraini e
neppure i nostri ufficiali. I prigionieri russi venivano maltrattati, a volte restavano senza mangiare e
se cercavano di scappare venivano sparati senza pietà. I Tedeschi erano brutali. Basti pensare che i
commissari politici dell’esercito russo che venivano fatti prigionieri, venivano subito fucilati dai
tedeschi, mai dagli italiani. Inoltre, diverse volte di mattina, poco lontano dai centri abitati sono
state trovate giovani donne uccise ed impalate, certamente non da noi. Tutti noi italiani abbiamo
fraternizzato con la popolazione civile ed anche con i prigionieri che con noi stavano bene, in ogni
caso relativamente solo perché in guerra non si sta bene.
Eccidi nazisti della popolazione civile e degli ebrei
I prigionieri non tentavano di scappare, anzi, quando si andava allo scalo merci della
stazione ferroviaria di Orlovaca; il numero dei prigionieri nostri aumentava in quanto, alcuni nel via
vai, parlando tra loro, passavano dai tedeschi agli italiani. Ricordo che una volta, dopo aver
scaricato un treno proveniente dalla Germania pieno di materiale bellico e vettovaglie, gli stessi
prigionieri dei tedeschi iniziarono a caricare i prodotti agricoli russi come patate, carote, cavoli,
cipolle, grano, granoturco, olio di semi di girasole, burro, maiali, bovini, pollame, miele. Quel
giorno successe una cosa spaventosa, per noi inconcepibile. Un prigioniero russo, in fila con gli altri
che caricavano il treno, raccoglieva del grano che cadeva da un foro del sacco del prigioniero che lo
precedeva e lo metteva in tasca.
Un soldato tedesco di guardia lo vide e con il calcio del fucile lo colpì alla testa con ferocia
e violenza spaccandogli il cranio provocando la fuoriuscita di materia cerebrale. Il povero
prigioniero cadde sul selciato e morì sul colpo. Noi soldati italiani presenti, autonomamente, in 4 o
5 aggredimmo l’assassino con calci e pugni tanto che dovettero intervenire gli ufficiali sia tedeschi
che italiani sparando in aria con le loro pistole per eviatre il linciaggio.
Con i tedeschi non correva buon sangue. Il giorno seguente il comando tedesco fece
affiggere manifesti in lingua italiana in cui si vietava a noi italiani di fraternizzare con la
popolazione civile; si vietava di recarci presso i kolchoz (depositi comunitari russi) per rifornirci di
generi alimentari e persino di prendere frutta ed ortaggi dai campi coltivati. Loro, invece, sui treni
merci di ritorno in Germania carcavano tutto ciò che razziavano e persino la terra nera e grassa
dell’Ucraina, utilissima e perfetta per le coltivazioni.
Il comando tedesco nelle retrovie del fronte, organizzò diversi campi recintati con filo
spinato e ai quattro lati pose delle torrette munite di mitragliatrici dalle quali, spesso di notte, si
sparava nel mucchio dei prigionieri se questi cercavano di scappare o si muovevano soltanto per
bisogni corporali. (3)
Mi ricordo quano ero in Croazia dove vidi dei treni merci sigillati provenienti dalla Grecia
pieni di civili ebrei diretti in Germania. In Russia il comando tedesco invitò il nostro comando a
collaborare con loro per dare la caccia agli ebrei russi, ma il nostro comando militare non accettò. I
reparti nazisti, invece, muniti di lanciafiamme bruciavano le abitazioni degli ebrei individuali anche
grazie all’aiuto di qualche spione locale; se qualcuno riusciva a fuggire salvandosi dalle fiamme,
veniva ovviamente sparato alle spalle senza pietà.
Incominciò il freddo e le tormente di neve sempre più furiose. Il fronte si fermò e così,
sospese le attività belliche, ci accasammo. Io avevo imparato abbastanza bene la lingua russa tanto
che una ragazza ucraina mi disse che ero un traditore moldavo e che avevo indossato la divisa di
soldato itaiano. Le relazioni di noi soldati con la popolazione civile col passare del tempo,
divennero sempre più affettuose e di reciproco rispetto, specialmente con le giovani donne. Feci
amicizia con una bella signora sposata con un panettiere che confezionava panini all’olio per la
mensa del generale Messe comandante del C.S.I.R. Naturalmente per tutto l’inverno 1941-42 me la
sono cavata abbastanza bene, mangiavo e dormivo al caldo e spesso in compagnia quando ero libero
dal servizio di pattugliamento notturno. In pieno inverno arrivarono dall’Italia gli scarponi chiodati
per non scivolare sul terreno ghiacciato per tutti, ma pochi pastrani foderati di pelle di pecora solo
per gli ufficiali e per i soldati che di notte facevano il pattugliamento per la sicurezza di tutti. Gli
scarponi forniti all’esercito italiano dai profittatori di guerra erano buoni per non scivolare sul
ghiaccio, ma al contatto con il fuoco, che usavamo per scaldarci i piedi, facevano sempre più male.
Tutt’ora, d’inverno, accuso dei fastidi specialmente alle dita. Questi scarponi prendevano facilmente
fuoco soprattutto le suole che erano di cartone pressato. Come si dice “ la necessità aguzza
l’ingegno”, in giro notai che la popolazione civile calzava degli stivali di feltro e calosce. In qualche
modo mi procurai gli stivali di feltro (valenghi), li calzai e così salvai i piedi dal sicuro
congelamento.
Inizio primavera 1942
Il fronte si mise in movimento, ma tutte le strade erano in terra battuta e con lo scioglimento
del ghiaccio, le strade divennero impraticabili a causa del fango melmoso, era difficile anche
camminare a piedi. Intando per il freddo, a volte anche di 40° sotto zero, i nostri grandi e belli
cavalli che dovevano trasportare i cannoni, morirono tutti. Diventarono magrissimi e giorno dopo
giorno, ai poveri cavalli cresceva solo il pelame come ai mammut e, a quel punto, furono macellati
e mangiati. Dopo una quindicina di giorni di bel tempo ed un po’ di tiepido sole, le strade si
asciugarono ed iniziò l’avanzata assieme alla divisione di fanteria rumena male equipaggiata. Come
mezzi di trasporto avevano dei carrettini trainati da piccoli cavalli che erano sopravvissuti al
terribile inverno russo, diversamente dai nostri. Vi era anche un battaglione di soldati finlandesi che
anche quando faceva molto freddo, si lavava a dorso nudo e guardava noi italiani vestiti
praticamente di tutto ciò che avevamo, con guanti e passamontagna di lana ed alcuni, come me, con
gli stivali di feltro russi.
Continuando a viaggiare a tappe forzate, spesso di notte, giungemmo nell’ansa del fiume Don a
nord-ovest di Stalingrado ormai accerchiata dai tedeschi. I nostri cannoni furono trasportati a
rimorchio degli autocarri e vennero posti sul fronte del grande fiume Don. Regnava la calma, noi
sulla sponda ovest e le truppe russe ad est. Tutti i reparti di artiglieria erano schierati in seconda
linea del fronte e noi dei reparti munizioni e viveri, in terza linea. Ogni due o tre giorni, secondo le
necessità, ero comandato a portare viveri e munizioni agli artiglieri schierati in seconda linea. Io
conduttore di autocarro e responsabile di ben quattro automezzi, viaggiavo in testa al convoglio.
Feci spostare il telone lato guida della cabina ed a turno, un soldato in piedi, con un colpo di
bastone mi segnalava la presenza di animali domestici senza custodia ad esempio pollame, oche,
anatre, maiali e bovini per rifornirci di carne fresca. Se batteva due colpi, erano aerei in vista, allora
si bloccavano gli autocarri e si scappava lontano; passato il pericolo si riprendeva la marcia.
-------------------note----------------
(1) Il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, inviato sul fronte orientale era così formato:
-Divisione autotrasportata Pasubio (79° Reggimento di fanteria, 80°
Reggimento di fanteria Roma, 8° Reggimento di artiglieria); - Divisione autotrasportata Torino (81° e 82° Reggimento di fanteria,
52° Reggimento di artiglieria);
- Divisione Celere Principe Amedeo duca d’Aosta (3° Reg. Cavalleria Savoia Cavalleria, 5° Reg. Lancieri di Novara, 3° Reg. bersaglieri, 3° Reg. artiglieria a cavallo, 3° Gruppo carri SanGiorgio); ‐ Camicie Nere Legione Tagliamento; ‐ 30° Raggruppamento artiglieria di Corpo d’Armata. Nel complesso 2 900 ufficiali, 58 800 uomini, 220 pezzi d'artiglieria, 83 aerei (51 da caccia, 22 da
ricognizione, 10 da trasporto), 5 500 automezzi, 4 600 quadrupedi, 61 carri
(2) Il CSIR partecipò, nell’ agosto 1941, assieme alla truppe tedesche, alla cosiddetta battaglia dei due
fiumi Dniestr a ovest e Bug. La pioggia abbondante aveva trasformato le immense distese russe in enormi
pantani che rallentarono la marcia delle Divisioni italiane. Il 21 agosto agosto i reggimenti della Pasubio
erano attestati sul Dniepr, nella zona di Verkhnodniprovsk, a
circa 50 km a nord-ovest della città di Dniepropetrovsk. Nei
giorni seguenti raggiunsero il Dniepr anche i reparti
motorizzati della Celere, l'artiglieria della Torino e le altre
unità motorizzate del CSIR. Il 28 agosto Benito Mussolini,
dopo avere visitato con Hitler il quartier generale del Gruppo
di Armate Sud, passò in rassegna i reparti del CSIR a
Tekusha. Soltanto il 5 settembre, dopo avere percorso quasi
mille chilometri a piedi, anche i reparti non motorizzati della
Torino (divisione autotrasportabile)
riuscirono a essere finalmente in linea sul Dniepr con il resto del
CSIR.
tedeschi erano nostri alleati di nome, ma non in realtà. C’era, del resto, astio nli italiani: molti di essi erano
telli di coloro che nella prima guerra mondiale erano moerano statiti o erano caduti prigionieri combattendo
contro i t
(3) Vincenzo Gibelli, un reduce dalla Russia; intervistato a proposito dell’antipatia con i tedeschi, così
affermò:”… ma più forte era quella antipatia per la crudeltà verso gli ebrei o i russi. Assistevano a
gesti che facevano soffrire il loro cuore: punivano a scudisciate i ragazzi o le donne che ricevevano
pane o sigarette dai nostri soldati in viaggio per il fronte. Qualcuno aveva assistito alla fucilazione di
ebrei: proprio vicino al nostro comando i tedeschi scaricavano dai camion ebrei o contadini, facevano
scavare una fossa, sparavano alla nuca quei poveretti e li seppellivano nella stessa fossa. Ci fu una sentita
protesta da parte dei soldati del nostro comando. I tedeschi continuarono le fucilazioni, ma in altre località.
Spesso i parenti dei deportati si rivolgevano a noi piangendo e disperati ci chiedevano informazioni
sui loro congiunti. A Tarassovka, non lontano da Millerovo, una colonna di contadine che tornava
dopo essere state ad acquistare farina e sale, offrendo tutto quello che potevano scambiare era
stata aggredita dai tedeschi: i nostri alpini accorsero in aiuto delle contadine e i tedeschi dovettero
fuggire. A Leopoli sfila per la Kopernikus Strasse una colonna di ebrei (tuta azzurra con la stella
di David gialla sul petto e indietro); una giovane donna al momento del passaggio davanti al
comando tappa italiano, prende la rincorsa e scappa dentro: ovviamente è inutile la protesta
dell’ufficiale tedesco di riavere la donna”.
Luglio 1942 (ARM.I.R. Armata Italiana in Russia)
Dal Comando di Divisione giunse la notizia che dovevano arrivare le divise coloniali
perché, occupate Mosca, Leningrado e Stalingrado, secondo i calcoli degli alti comandi militari
italo-tedeschi, la guerra con l’Unione Sovietica era finita. Pertanto lasciando parte delle truppe
italo-tedesche in Russia, come truppe di occupazione, il restante delle forze armate attraversando il
Caucaso, la Georgia, l’Armenia, la Siria, il Libano e la Palestina, dopo migliaia di chilometri,
doveva raggiungere l’Egitto e congiungersi con le truppe dell’Asse che, nel frattempo, stavano
occupando il deserto verso Alessandria.
Addirittura si vociferava che l’esercito giapponese che aveva occupato la Cina, doveva
giungere in nord Africa attraversando l’India, il Pakistan, l’Afganistan, l’Iran, la Giordania e la
Palestina. Così si chiudeva il cerchio ed il mondo intero sarebbe stato dominato dall’allenza italotedesca-giapponese ( Ro.Ber.To. cioè Roma-Berlino-Tokio).
Con l’arrivo in Russia dell’A.R.M.I.R. (Armata Italiana in Russia) (1) in circa dieci giorni
noi del C.S.I.R. ci ritirammo dal fronte sostituiti dai reparti delle armate appena arrivate. Avemmo
un periodo di riposo dopo circa un anno. Con gli amici fraterni del mio reparto, andammo a fare il
bagno in un laghetto vicino. Lavati e stesi i panni sull’erba ad asciugare, notanno poco lontano
anatre ed oche. Mentre ci accostavamo per catturarle, loro scappavano. A quel punto dissi:”
Facciamole calmare e chi sa nuotare sottoacqua mi segua”. Così catturammo, prendendole per le
zampe risalendo dal fondo del lago, tre oche e quattro anatre. Incominciammo a pulirle per
cucinarle. Due soldati li mandai a prendere pentole, pane, olio e sale presso amici cucinieri
chiedendo se volevano partecipare al banchetto con noi.
Ad altri tre soldati dissi:”Cercate legna secca e grandi pietre per allestire i focolai”.Mentre si
cucinava, gareggiammo per raggiungere il fondo del laghetto e portare alla superficie qualcosa che
si trovava li sotto. Meravigliati raccogliemmo dal fondo vongole veraci di acqua dolce. Ne
raccogliemmo diversi chili e cucinammo. Il laghetto era profondo circa sei metri. Gli amici
cucinieri vennero e portarono il vino.
Si mangiò e si bevve tutti contenti e soddisfatti. Incominciammo a vestirci per tornare
all’accampamento quando, erano quasi le due pomerdiane, successe il finimondo. L’esercito russo
sfondò la linea del fronte tenuta dalla Divisione Sforzesca, da pochi giorni in postazione; essa fu
denominata “ciccai” cioè “fuggire”. Alcuni ufficiali di tutte le armi, specialmente un colonnello dei
bersaglieri, dai russi chiamati “petuck” cioè “galli” per le piume sul cappello, fecero tornare indietro
i soldati che scappavano dalla prima linea; ma dopo circa mezz’ora tornarono indetro ed il
colonnello infuriato, con la pistola iniziò a sparare colpendo due
soldati perché quasi tutti avevano gettato le armi.
La compagnia di mitraglieri della Crimea, piccoli e di
pelle scura, fatti prigionieri dall’ultima carica del Reggimento
Savoia Cavalleria, cercavano di scappare e anche qualcuno di
questi fu sparato (2). La situazione divenne sempre più caotica,
intervennero gli aeroplani stukas tedeschi e per ben tre volte
lanciarono dei grappoli di razzi luminosi, ma da terra nessuno
rispose e naturalmente i piloti tedeschi sganciarono molte
bombe con le siene. Ci furono molti morti e feriti tra noi soldati
ed i nostri prigionieri. Contemporaneamente arrivarono pure le
salve dei razzi delle batterie Katiuscia. Con l’intervento massiccio dell’aviazione tedesca, le batterie
Katiuscia furono messe fuori uso ed il fronte si stabilizzò e così ripresero le normali attività.
---------note-------------- (1) L’ARM.I.R. venne costituita nel luglio del 1942 agli ordini del Generale Italo Gariboldi, dopo pochi
mesi, raggiunse la consistenza di 230.000 uomini, 16.700 automezzi,
1150 trattori d’artiglieria, 4500 automezzi, 25.000 quadrupedi, 940
cannoni, 31 carri leggeri tipo L6/40, 19 semoventi L40, 64 aerei. Designata come 8° Armata era costituita da:
-
-
Raggruppamento a cavallo Barbç
-
9° Raggruppamento artiglieria d’Armata
-
9° Raggruppamento artigllieria motorizzata
-
201° Reg. artiglieria motorizzato
-
Battaglione alpini sciatori Monte Cervino
-
Legione croata
-
156° Divisione fateria Vicenza
-
Divisioni alpine: Tridentina, Julia, Cuneese
-
Divisioni fanteria: Sforzesca, Ravenna, Cosseria
-
Raggruppamento Camicie Nere 23 marzo
Due Divisioni di fanteria tedesche ed una corazzata.
A inizio luglio l'ARMIR prese parte all'offensiva estiva tedesca denominata Operazione Blu. Il 14 luglio le
forze italiane occuparono il bacino minerario del fiume Mius, conquistando la città di Krasnyi Luch, e il 31
luglio venne superato il fiume Donetz. L'ARMIR venne proprio in questo periodo posta alle dipendenze del
Gruppo di Armate B tedesco e venne destinata alla protezione del fianco sinistro delle truppe impegnate
nella battaglia di Stalingrado Tra l'inizio e la metà di agosto l'ARMIR si schierò, infine, lungo il bacino del
Don, tra la 2ª Armata ungherese a nord e la 6ª Armata tedesca. La prima avvisaglia che quello degli italiani
non sarà un settore facile avvenne tra il 30 luglio e il 13 agosto a Serafimovich (a circa 150 chilometri a
nord-ovest di Stalingrado): qui, a un primo tentativo dei russi di oltrepassare il Don, si opposero
tenacemente i bersaglieri della Celere che pagarono un altissimo prezzo di vite umane.
(2)
Il 24 agosto il Savoia Cavalleria con i suoi seicento uomini caricò duemila russi nell'episodio di
Izbušenskij, passato agli annali come l'ultima carica della cavalleria italiana nella storia.
2 novembre 1942
Partii per l’Italia dalla Russia dopo 3 anni di servizio militare,
perché mi erano stati concessi 30 giorni di licenza straordinaria
avendo firmato una dichiarazione che mi obbligava a tornare in
Russia dove, al ritorno, avrei ricevuto il grado di sottufficiale (ero
già Caporalmaggiore) per poi restare ivi nelle truppe di
occupazione. Il viaggio durò 21 giorni in carri bestiame, faceva
molto freddo e c’era poco cibo a disposizione. Al centro dei vagoni
vi erano delle stufe e, se ti accostavi ti scaldavi davanti e sentivi
freddo alle spalle. Attraversammo la Polonia. A Varsavia, quando si
fermò il treno, una folla enorme di donne e bambini voleva da noi
qualcosa da mangiare. Il treno veniva fermato continuamente sui
binari morti per dare la precedenza ai convogli diretti al fronte. In
una delle tante fermate da un carro merci diretto in Germania,
Varsavia: stazione ferroviaria, donne e bambini affamati
prendemmo molte patate e le mettemmo a cucinare nelle gavette sulle stufe. Dopo una quindicina di
minuti, affondando le forchette nelle gavette, con nostro rammarico, notammo che c’erano rimasti
solo i gusci delle patate. Avevamo tanta fame e freddo, eravamo tutti sporchi ed infestati dai
pidocchi e ci si grattava continuamente. Si dormiva sulla paglia per stanchezza. Prima di partire io
feci un bagno caldo a casa di una amica russa, dopo gli indumenti erano puliti e stirati. Quando a
Vipiteno tutti noi reduci dal fronte russo, denudati prima di andare sotto le docce, fummo passati in
rassegna da alcuni ufficiali medici; molti soldati di pelle chiara avevano piaghe su tutto il corpo per
il continuo grattarsi. Essi furono portati in infermeria ove furono puliti, disinfettati e medicati. Così
facemmo una doccia calda medicata e ci diedero tutto il vestiario nuovo.
"Katiuscia" montate su carri 30 gennaio 1943 (ritorno a casa in licenza)
Partii e tornai a casa a Boscotrecase, in piazza S.Anna era accampato un reparto di soldati tedeschi.
1 febbraio 1943 (fine della licenza)
La sera prima di partire, vestito da militare, andai in piazza S.Anna per salutare la mia ragazza ed
alcuni amici. Davanti ad una abitazione a piano terra, notai molte persone che discutevano
animatamente, mi accostai e notai 3 militari tedeschi che volevano entrare in casa dove vi era una
signora napoletana con 2 figlie adulte, sfollate da Napoli a causa dei bombardamenti aerei. Io
mentre cercavo di fargli capire che stavano sbagliando, fui subito aggredito da loro. Reagii
immediatamente e ne atterrai due, il terzo soldato scappò; questi erano mezzi ubriachi. Poco dopo
intervenne un loro ufficiale chiedendomi se fossi un boxer. Io risposi di no e lui disse “gut” (bravo)
e mi invitò in un bar li vicino per offrirmi da bere, poi, dopo aver chiacchierato, ci salutammo e mi
augurò buon viaggio di ritorno in Russia.
2 febbraio 1943
Giunsi al Comando tappa di Udine ed invece di tornare in Russia, mi inviarono a Milano dove
incontrai alcuni reduci della disfatta in Russia. Mi dissero che durante la ritirata i nostri soldati
dovettero abbandonare gli autocarri perché privi di carburante. Alcuni di questi cercavano, invano,
di salire sugli autocarri tedeschi e questi, barbaramente, li respingevano a colpi di baionetta sulle
mani.
In seguito, sempre durante la ritirata, i soldati italiani si dovettero separare dalla truppe a piedi
tedesche perché i partigiani russi sparavano a vista non appena vedevano militari tedeschi perché
questi avevano agito barbaramente durante tutta l’avanzata. Diversamente, invece, i soldati italiani
superstiti furono aiutati dalla popolazione civile, rifocillati e fu loro indicata la strada per proseguire
la ritirata; alcuni soldati, in pessime condizioni di salute e semicongelati, si accasarono. Queste
notizie le appresi a Milano al centro raccolta reduci dai vari fronti di guerra, dal mio amico Colonna
Vincenzo di Ponticelli-Napoli, anche lui caporalmaggiore del 2° Reggimento Artiglieria Celere a
cavallo di Ferrara. Lui si pentì di non avermi ascoltato quando lo invitai a firmare per avere il mese
di licenza premio e di essermi salvato per miracolo; era molto dimagrito per le sofferenze patite
durante la ritirata dal fronte russo.
---------------note-------------------------Tra il 5 agosto 1941 e il 30 luglio 1942, il CSIR ebbe 1 792 morti e
dispersi, e 7 858 feriti e congelati. Tra il 30 luglio 1942 e il 10
dicembre 1942, l'ARMIR ebbe 3 216 morti e dispersi, e 5 734 feriti e
congelati. Le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata (11
dicembre 1942 - 20 marzo 1943), le cifre ufficiali parlano di 84 830
militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati
come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a
rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114 520 militari su
230 000 . Andarono inoltre perduti il 97% dei cannoni, il 76% di
mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l'87% degli
automezzi e l'80% dei quadrupedi. Per quanto riguarda i dispersi a
partire dal 1946 vennero rimpatriati dalla Russia 10.030 prigionieri di
guerra italiani. E’ quindi possibile calcolare che 74.800 militari italiani morirono in Russia, in quattro
distinte fasi: durante i combattimenti sul Don, durante la ritirata, durante le marce di trasferimento verso i
campi di prigionia, e durante la prigionia stessa.
IMMAGINI DELLA TRAGEDIA DELL’ARMIR NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA .
Febbraio 1943 (Fronte occidentale)
A Milano, al centro di raccolta reduci dei vari fronti di guerra fui inquadrato in una
compagnia di artiglieria di montagna someggiata con muli per trasportare cannoni e munizioni. Il
20 febbraio ci inviarono in Liguria ad Albenga per la difesa costiera. I cannoni furono piazzati a
metà collina sotto gli alberi di ulivo, la vita trascorreva tranquilla. Un solo neo, il mangiare che
preparavano i cucinieri era sempre più scarso e meno appetibile. Nel mese di maggio notai che
qualche mulo della mia sqaudra era un po’ dimagrito, indagando mi accorsi che alcuni soldati,
anche di altre squadre, non davano la razione intera di
biada ai loro muli. Parlai così con gli altri capisquadra e
convocammo i responsabili lontano dall’accampamento
speigando loro che i muli indeboliti, in caso di
spostamento, non erano in grado di trasportare i cannoni,
le munizioni e tutto il vettovagliamento. Ribadimmo che
se qualche ufficiale se ne accorgeva, ci denunciava tutti e
si correva il rischio di essere processati da un Tribunle
Militare per sabotaggio in tempo di guerra. Chiedemmo
cosa ne facevano della biadia ed essi risposero che la
vendevano ai boscaioli per i loro muli per comprare, poi,
quancosa da mangiare. Intanto i cucinieri preparavano delle brodaglie disgustose con rape, barbabietole, tubetti di
pasta ed un pezzetto di carne pro capite, il tutto mal condito. Noi mangiavamo solo il pezzetto di
carne e la brodaglia la buttavamo. Ai soldati della mia squadra dissi:”Quando andremo in libera
uscita, invece di andare in città, andremo per i campi con cautela a prendere qualcosa da mangiare”.
Trovammo dei pomodori che incominciavano a maturaree ed anche pannocchie di granoturco. In
seguito incominciò a maturare la frutta fino a tutto il mese di agosto e così facemmo una buona
dieta. Questa dieta continuò anche quando andammo alla periferia di Torino fino al 12 settembre
1943.
30 luglio 1943
Fummo mandati a Torino poiché gli operai, specialmente quelli delle officine FIAT, erano in
agitazione a causa del troppo lavoro e sfruttamento, cominciarono a scioperare perché erano quasi
tutti antifascisti.
8 settembre 1943 (Armistizio)
Ci fu l’armistizio. I nostri ufficiali di fede monarchica ci dissero di reagire se le truppe tedesche ci
avessero attaccati. Gli ufficiali di fede fascista, invece, dicevano di non reagire e quindi di deporre
le armi. Per questo, dato che l’Italia era divisa a metà, tutte le unità militari del Nord si sciolsero.
--------------------note------------------------------Il dramma dell’esercito italiano scoppia alle 19,45 dell’8 settembre 1943, quando la radio italiana divuiga il
messaggio del maresciallo Badoglio nel quale il capo del governo comunicava che l’Italia ha “chiesto un
armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate” e che la richiesta è stata accolta.
Il dramma si trasforma nel
giro di poche ore in tragedia
per centinaia di migliaia di
soldati abbandonati a se stessi
nell’ora forse più tragica
dall’inizio della guerra.
Le forze presenti ammontano
a un totale di circa 1.090.000
uomini (10 divisioni nell’italia
settentrionale, 7 al centro e 4
al sud della penisola e altre 4
in Sardegna), contro circa
400.000 soldati delle unità
tedesche; ma mentre queste
ultime sono perfettamente efficienti e fortemente dotate di mezzi corazzati, l’esercito italiano è uno
strumento bellico estremamente debole, con una buona metà delle divisioni del tutto inefficienti, scarsamente
dotate di mezzi corazzati e male armate. A queste forze, numericamente notevoli, vanno sommate le unità
italiane dislocate nei vari settori fuori dei confini metropolitani: 230 mila uomini in Francia (e Corsica),
300 mila circa in Slovenia, Dalmazia, Croazia, Montenegro e Bocche di Cattaro, più di 100 mila in Albania
e circa 260 mila soldati in Grecia e nelle isole dell’Egeo: in totale 900 mila uomini circa, in teoria una forza
formidabile, ma solo in teoria. In realtà si tratta di un esercito assolutamente inadeguato ai tempi, su cui
non si può in alcun modo fare affidamento.
Se a questa situazione si aggiunge, in quel fatidico 8 settembre, l’assoluta mancanza di direttive da parte dei
responsabili della macchina da guerra italiana (e in particolare del capo del governo Badoglio, che pure
era un militare, del gen. Ambrosio, capo di Stato Maggiore Generale, e del capo di Stato Maggiore
dell’Esercito gen. Mario Roatta) e l’imperdonabile leggerezza con cui si affronta il prevedibile momento
della resa dei conti con i tedeschi, si puo capire lo sfacelo, il crollo totale dell’esercito italiano all’indomani
dell’annuncio della firma dell’armistizio. Nella dissoluzione generale (al momento della prova, molti
comandanti sono lontani dai reparti, o se sono presenti non hanno ricevuto disposizioni), si verificano
tuttavia alcuni coraggiosi quanto inutili tentativi di opporsi all’aggressione tedesca: in Trentino-Alto Adige
e in Francia le truppe alpine reagiscono all’attacco, ma sono episodi di breve durata; i focolai di resistenza
sono spenti con spietata ferocia. In Grecia, nel desolante spettacolo del disarmo dei reparti italiani da parte
dei tedeschi, brilla il coraggio della divisione Acqui che a Cefalonia sceglie la lotta e la conseguente
autodistruzione: 9646 morti, una vendetta inutile ma feroce. 12 settembre 1943
Soldati del mio plotone mi chiesero: “Maggiore che facciamo”? Io dissi loro:” Preparate i vostri
zaini e le armi, stanotte ognuno di noi prenda muli e cavalli, si va in montagna!”, arrivati ivi
vendemmo gli animali ai contadini in cambio di indumenti civili e soldi.
Ottobre 1943
Sulle alpi piemontesi al confine franco-.svizzero ogni giorno arrivavano militari alleati scappati dai
nostri campi di concentramento. Col freddo i soldati alleati, specie quelli di pellenera e scura,
soffrivano molto più di noi. Essi erano di diverse nazionalità. Per il freddo il colore della loro pelle
diventava paonazzo. Dopo poco tempo, sicuramente con l’impegno dei governi alleati e la
collaborazione della croce rossa, passavano in Svizzera e poi furono rimpatriati. A noi ex soldati
non fu permesso e neanche potemmo espatriare in Francia perché, per colpa di Mussolini, avevano
vigliaccamente attaccato questa nazione che già era in ginocchio. Gli ufficiali del nostro esercito,
invece, considerati cittadini di serie A, erano accolti dalle autorità svizzere e di sicuro c’era un
accordo segreto con le autorità italiane ed un fondo di garanzia per il loro mantenimento.
Come dicevo non potemmo espatriare in Francia perché avevamo colpito alle spalle un popolo da
sempre nostro amico. I Masquis (partigiani francesi) in quel perido molto attivi al confine sud
franco-italiano sparavano agli italiani che cercavano di entrare in Francia.
Sui monti di Giavento e Corazze in Piemonte, restammo solo noi meridionali, quelli del nord Italia
tornarono alle loro case. Piccoli aerei tedeschi chiamati cicogne, su tutto l’arco alpino dove
presumevano ci fossero dei soldati sbandati, fecero a più riprese lanci di volantini e cartoncini
salvacondotti per farci tornare giù dai monti per tornare a casa o arruolarsi volontari. Anche noi li
raccogliemmo e ci mettemmo in cammino, costretti dal freddo e dalla fame. Prima per le campagne
chiedendo qualcosa da mangiare ai contadini, poi dove funzionavano i treni e specialmente quelli
merci che non erano scortati dalle forze armate fasciste, si viaggiava finché si poteva perché gli
aerei alleati bombardavano i nodi ferroviari ed i ponti. Con mezzi di fortuna e molte decine di
chilometri a piedi, dopo circa venti giorni, arrivammo presso Cassino. Dai monti osservammo i
movimenti delle truppe tedesche; noi eravamo in cinque, io calcolai che non era possibile
attraversare le linee del fronte né di gionro né di notte; se sfuggivi ai tedeschi, ti potevano sparare
gli alleati perché non sapevamo la parola d’ordine. Così decidemmo di tornare indietro ed accasarci
presso parenti ed amici. Io con mezzi di fortuna e treni merci, dopo 15 giorni, arrivai a Vipiteno, in
provincia di Bolzano, a casa della mia ragazza che avevo conosciuto durante la quarantena di
ritorno dal fronte russo (fortunosamente salvo perché avevo firmato una dichiarazione che mi
impegnava a tornare in Russia dopo la licenza premio di 30 giorni e avrei ricevuto il grado di
sottufficiale).
Inverno 1943-1944
La mia ragazza era bella e si chiamava Broli Dolores. Il padre di costei, impiegato comunale, mi
procurò la carta annonaria ed un lavoro. Dopo l’8 settembre la comunità austriaca dell’Alto Adige
prese il potere civile, politico e militare a scapito della comunità italiana. A me capitò più volte di
essere fermato dalla polizia austriaca e mentre controllavano i miei documenti dicevano:”
Fahrerfluct foch italien”. La sera chiesi a Dolores il significato di tali parole e lei evase la domanda
rassicurandomi; io già pensavo che non era nulla di buono, poi ebbi la conferma quando seppi il
significato.
Stanco di essere fermato quasi tutte le mattine decisi di scappare a Verona dopo aver salutato e
ringraziato la famiglia della ragazza che mi ospitò. A Verona dopo tante peripezie per vivere, mi
presentai presso l’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Aerea), una specie di protezione civile.
Qui mi dettero 3 mila lire, due coperte ed una pala. Noi dell’UNPA dovevamo intervenire per
aiutare la popolazione dopi i bombardamenti degli alleati. Presso l’UNPA incontrai Paduano
Vittorio di Trecase (Napoli) che faceva l’usciere vestito da fascista. Appena mi vide disse:”
Gennaro da dove vieni? Come stai?”. Io gli spiegai il motivo del perché ero scappato da Vipiteno.
Dopo aver cenato, Maria la padrona di casa, volle che io andassi a dormire con lei perché ero più
giovane e che Vittorio non la riscaldava. Vittorio si rammaricò ma non disse niente. Dopo due
giorni dissi a Vittorio che stavamo perdendo la guerra e sarebbe stato opportuno anche per lui
procurasi abiti civili e cercare insieme di andare in Svizzera; ma lui non se la sentiva di partire. In
giro per Verona lessi un manifesto per l’arruolamento nei bersaglieri e che davano 5 mila lire di
premio d’ingaggio. Mi presentai e fui assunto come aiutanto cuoco perché dissi che sapevo
cucinare. Quasi ogni mattina con la bicicletta da bersagliere al cui manubrio era attaccato un
borsone della croce rossa, portavo lì dentro i viveri a casa della moglie del tenente medico. Dopo
una quindicina di giorni riscossi i soldi della decade e di sera, invece di tornare in caserma,
prendemmo il treno per andare in Valtellina al confine svizzero.
Propaganda fascista per l'arruolamento nella R.S.I. e per lavorare per il Reich
Giunti a Sondrio notammo una pattuglia di fascisti sul piazzale della stazione. Invece di scendere ci
dividemmo per non dare nell’occhio e scendemmo alla stazione di Tresenda, non c’era nessun
fascista in vista. Ci mettemmo in cammino e raggiumgemmo i primi caseggiati, più in alto del
fondo valle chiedemmo, pagando, qualcosa da mangiare e se qualcuno, dietro compenso, ci
accompagnasse in Svizzera per emigrare. Un contrabbandiere di Sondrio ci accompagnò,
ovviamente era esperto della zona che lui spesso utilizzava per i suoi traffici. Il mio compaesano
Paduano Vittorio non volle venire con me in Svizzera e tornò a casa sua dopo sei mesi trascorsi
nel campo di concentramento di Coltano per i fascisti della Repubblica di Salò. Dopo 5 ore di salita
difficoltosa sul monte Disgrazia dove spesso, in alcuni tratti, eravamo su pareti quasi verticali che
traversammo grazie all’aiuto di corde metalliche e piccoli buchi nella roccia fatti dai
contrabbandieri, arrivammo in cima al monte. La nostra guida ci indicò dove iniziava il territorio
svizzero e da quel momento proseguimmo da soli. Il giorno dopo ci presentammo al comando della
polizia svizzera per essere internati; ci chiesero i documenti, ci schedarono ma, soprattutto, chiesero
armi e soldi. Noi consegnammo qualche migliaio di lire, che erano tutto quello che avevamo. Non
capivamo cosa stesse succedendo poi il capo della polizia locale, fece una telefonata e poco dopo 3
poliziotti ci scortarono alla frontiera italiana e ci esplulsero, perché eravamo per loro, soltanto dei
poveracci non graditi; altamente graditi, invece, erano quei signori che avevano e portavano ancora
denaro in Svizzera.
Gennaro
Inserviente:
Comandante
partigiano
Giugno 1944 – aprile 1945
Valtellina, passo dell’Aprica località Mortirolo,
inizio delle formazioni del primo gruppo di
partigiani (Giustizia e Libertà) a maggioranza di
soldati del sud Italia; poi vennero due polacchi,
un
greco,
un
montenegrino,
due
reduci
della
Brigata
Internazionale che combattè contro il dittatore spagnolo Francisco Franco nell’anno
1936 . Mi ricordo del socialista Ettore Mascheroni, in seguito arrivarono molti
volontari del nord Italia. A metà marzo 1945 si aggiunsero cinque soldati russi
prigionieri dei tedeschi che liberai con la mia squadra volante compiendo
continuamente atti di sabotaggio e guerriglia.
Gennaro Inserviente con i suoi compagni Giugno 1944
Tornammo in Italia fermandoci poi in Valtellina in provincia di Sondrio, sempre in
montagna. Vivevamo in delle baite, alimentandoci con frutti del bosco come mirtilli, lamponi,
fragole ed anche funghi e pinoli. I contadini locali ci aiutavano secondo le loro possibilità con pane,
polenta, burro e formaggio di loro produzione.
Intanto sui monti ogni giorno arrivava nuova gente tra cui alcuni reduci della Brigata
Internazionale che nell’anno 1936, combattè in Spagna contro il dittatore Francisco Franco (1) Si
incominciò a parlare di politica e ad armarci anche con l’aiuto dei lanci di esplosivo da collaudare
ed armi automatiche da parte di aerei inglesi che erano in collegamento via radio con un agente
inglese che era con noi. (2)
Panorama della Valtellina
Agosto 1944 (capo squadra partigiano)
Si formarono i primi gruppi di partigiani combattenti ben armati. Furono compiuti atti di
sabotaggio e guerriglia contro reparti fascisti prima e, in seguito, contro truppe naziste. In Valtellina
le Brigate nere di Alessandro Pavolini, aiutate da qualche spione locale, iniziarono a prendere in
ostaggio i familiari di alcuni partigiani della zona e li consegnavano al comando tedesco per spedirli
in Germania. Noi, a costo della vita, cercammo in tutti i modi, riuscendoci, di fare dei prigionieri tra
le truppe tedesche. Questi prigionieri li tenevamo nelle baite di alta montagna custoditi dai
carabinieri che, ormai in gran parte, aiutavano noi partigiani. Avvenivano poi gli scambi e per ogni
tedesco rilasciato tramite i sacerdoti locali, venivano rilasciati gruppi di popolazione civile anche di
10 persone. Io fui nominato Capo della squadra volante di 12 partigiani e ciò mi permetteva di avere
carta bianca per compiere qualsiasi atto di sabotaggio e di guerriglia.
Gruppi di partigiani: di vedetta ed in marcia sulle montagne 4 novembre 1944 (mancato attacco al ministro Pavolini)
Ci fu segnalato dal Comando generale partigiano di Milano che il ministro Alessandro
Pavolini, capo delle Brigate nere, doveva venire in Valtellina per organizzare l’ultima difesa di
quello che restava della Repubblica Sociale Italiana. Io e la mia squadra restammo 2 giorni interi
sotto un ponte della statale Morbegno-Sondrio. Ci alternavamo in modo tale che sempre un
partigiano fosse di turno come vedetta per controllare l’arrivo del ministro Pavolini con la sua auto
nera. La mattina del 3° giorno, verso le ore 9, fu avvistato l’arrivo di un’auto nera: non potevamo
pensare che al ministro fascista.
Gennaro Inserviente (a sn) con un compagno partigiano armati di mitra Stern ad Albosaggio‐Sondrio
Eravano sui lati della strada nascosti da una siepe, quando a circa 20 metri dall’auto
scattammo fuori per fermarla, ma questa ci sorpassò ed allora diedi l’ordine di sparare fin quando
l’auto, dopo una cinquantina di metri, dovette fermarsi. Ci accostammo con le armi puntate ma
dentro l’auto c’era l’industriale tessile Felice Fossati purtroppo appena ferito all’anca sinistra. Con
le dita gli estrassi la pallottola che non era del tutto penetrata e lo medicai quanto meglio potevo
avendo a disposizione un pacchetto di medicazione inglese. Chiesi all’autista perché non si fosse
fermato subito e lui mi rispose di non averci visto. A quel punto tornammo in montagna
tralasciando la venuta di Pavolini anche se in seguito, questa non fu più segnalata. (3)
-------note---------------------------( 1) Tra il 1936 ed il 1937, a difesa del governo repubblicano, arrivarono in
Spagna migliaia di volonatri organizzati Brigate Internazionali – divise in
battaglioni. Erano fromate da circa 60.000 uomini provenienti da 53 nazioni
dei cinque continenti. Gli italiani erano circa 4.000 inquadrati nel Battaglione
Garibaldi. Parteciparono alcuni tra i maggiori esponenti dell'antifascismo: i comunisti Togliatti, Longo e
Vidali, il socialista Nenni, il repubblicano Pacciardi. Tra gli italiani figuravano anche l'anarchico Camillo
Berneri e il dirigente di Giustizia e Libertà Carlo Rosselli, che furono tra i primi ad accorrere in Spagna e
già nell’agosto del 1936 costituirono la “Colonna Italiana Francisco Ascaso”, una formazione di circa 300
volontari di ogni fede politica
(2) Giustizia e Libertà fu attivissima nell'organizzare bande di partigiani. Numericamente, le bande di GL
(dette "gielline" o "gielliste") furono seconde dietro alle bande che si chiamavano garibaldine, riconducibili
al Partito Comunista. I partigiani giellini si riconoscevano per fazzoletti di colore verde. Tra i personaggi
più importanti di GL durante la Resistenza si possono ricordare Ferruccio Parri, nominato dal Comitato di
Liberazione Nazionale (CLN) comandante militare unico della Resistenza, Ugo La Malfa, Emilio Lussu,
Riccardo Lombardi, nominato nel 1945 prefetto di Milano dal CLN dell'Alta Italia (CLNAI). Nel gennaio
1943 fu costituito il Partito d'Azione, da componenti di GL e da altri uomini politici di orientamenti liberalsocialisti, repubblicani, socialisti e democratici. Durante la guerra partigiana, il Partito d'Azione
rappresentò l'organizzazione politica a cui facevano riferimento i combattenti partigiani di GL
F.Parri U.La Malfa E.Lussu R.Lombardi
( 3) Alessandro Pavolini, già ministro della cultura popolare fascista e, successivamente
capo delle Brigate nere, ipotizzò di organizzare con queste l’ultima resistenza dei fascisti in
Valtellina per combattere gli Alleati.
Questo progetto fu chiamato dallo stesso “Ridotto alpino repubblicano” dicendo che “ in
Valtellina si consumeranno le Termopoli del fascismo”. La proposta non ebbe seguito.
Pavolini fu giustiziato dai partigiani a Dongo il 28 aprile del 1945 ed il suo cadavere fu esposto a Piazzale
Loreto a Milano
Inizio marzo 1945 (perché uccisi un ufficiale tedesco)
Catturai con la mia squadra cinque giovani fascisti
senza sparare un colpo. Furono disarmati, li feci spogliare
lasciandoli solo in mutande e dissi loro di tornare alle loro case
perché essi la guerra l’avevano perduta. Tremavano di paura e
di freddo. A quel punto li lasciai andare e loro velocemente
scapparono fermandosi poi a poche centinaia di metri presso le
abitazioni, lungo la statale Morbegno-Sondrio. Noi li
osservavamo da lontano e vedevamo che bussavano con
insistenza per entrare in casa anche perché il clima non era il
migliore siccome iniziava a piovere e faceva freddo.
Ovviamente di fronte a quella scena tra di noi non si poteva
che ridere e, ripensandoci, ancora oggi dopo oltre 60 anni mi
viene da ridere. Poi chissà quei cittadini che shock subirono
quando, nell’aprire le porte di casa, dopo che fu bussato con
insistenza, videro i 5 giovani fascisti in mutande sotto la
pioggia.
Mentre si tornava verso il ponte sul fiume Adda per risalire in montagna, ovviamente
sempre protetti dalle siepi lungo la via statale e la ferrovia, si fermò un auto tedesca, subito
uscimmo allo scoperto per prenderli in ostaggio. Ci riuscimmo, intimai ai due occupanti di scendere
con le mani alzate.
Uno degli occupanti, un maresciallo, subito ubbidì mentre l’altro, un ufficiale, non ne voleva
sapere. Uno della mia squadra, poco esperto, si accostò troppo vicino allo sportello e l’ufficiale in
un
attimo,
riuscì
ad
afferrare
il
mitra
dell’incauto
giovane
partigiano,
scendendo
contemporaneamente dall’auto, facendolo cadere. Non ebbi tanto tempo per pensare e prima che lui
ci sparasse, fui costretto a sparargli per primo mio malgrado. Non ci piaceva uccidere. Il maresciallo
tenuto come ostaggio era austriaco e parlava e capiva la nostra lingua. Da lui mi feci dare la sua
divisa e lo feci vestire con la divisa fascista presa dai cinque giovani malcapitati. Sembrava uno
spaventapasseri perché le divise erano molto piccole per lui. A quel punto caricammo il morto in
macchina e prima di farlo partire, dissi semplicemente al maresciallo di dire la verità su quanto era
successo quando sarebbe tornato al suo comando, in modo da evitare rappresaglie contro la
popolazione civile. Penso che fece come gli fu detto perché dopo non ci fu nessuma rappresaglia e
nessun rastrellamento.
Durante la conversazione con il maresciallo austriaco, mi fu detto che l’ufficiale era ingegnere del
genio militare ed era venuto in Valtellina per allestire sistemi ed opere di difesa militare. Poi prima
di salutarci, il maresciallo convenne con me
che l’ufficiale era morto solo per colpa sua;
ci rimasi male per la morte che avevo dato a
quell’ufficiale tanto che, dopo pochi giorni,
lo confessai ad un nostro amico sacerdote,
lui mi assolse per legittima difesa.
Noi tutti della brigata “Giustizia e Libertà” e
quelli della brigata “Rinaldi” (1) ci siamo
sempre preoccupati di evitare i conflitti a
fuoco con il nemico nazifascista, ma con la
tattica di mandare in avanscoperta partigiani
vestiti con divise tedesche, qusi tutte le
azioni di guerriglia si risolsero senza
spargimenti di sangue. Noi ci spostavamo
continuamente,
accampandoci
un
pò
ovunque, sui monti a sinistra e a destra della
Valtellina dando l’impressione che fossimo
migliaia di partigiani, mentre eravamo
Tirano‐Sondrio 1944
soltanto poche centinaia. Metà del mese di marzo 1945 (nomina a vice comandante di distaccamento)
Fui nominato vicecomandante di distaccamento con il grado di sottotenente e subito, dopo
pochi giorni, mi fu segnalata la presenza sulla sponda sinistra del fiume Adda, di un soldato tedesco
con 5 operai che scavavano trincee. A circa trecento metri dalla città di Sondrio, comandati da un
sottufficiale tedesco intervenimmo con la squadra. Il tedesco, sorpreso, alzò subito le mani e fu
disarmato, lo invitai a seguirci ma lui mi fece capire che non poteva camminare mostrandomi la
gamba destra ferita sul fronte russo; io con la pistola mirai alla sua gamba sinistra e lui capì che non
scherzavo, anche zoppicando incominciò a camminare. I soldati russi prigionieri indossavano
ancora la divisa dell’esercito sovietico, a loro dissi in russo:”davai bistrò” che significa “avanti
presto”. Arrivati al nostro accampamento, a metà montagna, feci acompagnare il nostro prigioniero
nella baita in alta montagna ove erano
altri
soldati
tedeschi
custoditi
dai
carabinieri. I prigionieri erano in attesa
di essere scambiati con
gruppi di
cittadini locali tenuti in ostaggio dai
nazifascisti i quali li minacciavano di
deportarli in Germania affinché i loro
congiunti partigiani che combattevano
sulle
montagne
costituissero.
Ma
circostanti,
con
la
si
fattiva
collaborazione dei sacerdoti avvenivano
gli scambi. (2) A noi interssavano le
divise tedesche che venivano indossate
da
alcuni
partigiani
mandati
in
avanscoperta, senza destare sospetti, in
modo che le azioni di guerriglia avvenivano senza sparatorie e spargimenti di sangue. Dopo
mangiato incominciai a parlare in russo con i cinque soldati liberati, mi resi conto che erano
affidabili e felici di stare con noi, pertanto furono registrati e armati come tutti noi.
Due dei soldati russi liberati il 15 marzo: foto ricordo con dedica regalate a Gennaro
25 marzo 1945
La mattina tramite una staffetta, ci fu segnalata dal Comando generale di Milano, informato
a sua volta dai ferrovieri, la venuta in Valtellina di una tradotta di carri merci ed una carrozza di
scorta con trenta fascisti a bordo. Facemmo indossare a cinque partigiani le divise tedesche e
scendemmo a valle con due distaccamenti di partigiani al completo di circa 70 uomini. Vicino al
casello del passaggio a livello, ben in evidenza, si collocarono i cinque partigiani in divisa tedesca
per fermare il treno senza destare
sospsetti nella scorta fascista.
Noi in attesa dell’arrivo della tradotta
sistemammo, comunque, due cariche
esplosive sotto i binari a circa venti
metri dal casello ferroviario. Molto
materiale
bellico
ci
veniva
paracadutato di notte da aeroplani
inglesi,
insieme
a
mitra
Stern,
munizioni e bombe a mano; nel
frattempo decidemmo come condurre
l’azione. A capo di 34 uomini mi
appostai
sul lato destro dei binari
dove eravamo distanziati tre-quattro
metri l’uno dall’altro, dietro le siepi
pronti a scattare appena fermato il
treno; lo stesso avrebbe fatto la metà
del contingente appostato sul lato
sinistro agli ordini di un altro
comandante partigiano. Verso le ore
14,00 all’arrivo del treno, noi tutti
eravamo pronti allo scontro a fuoco.
Il Comandante Gennaro Inseviente ( 2° da sn.) a Sondrio 27 aprile 1945
Per fortuna andò tutto come previsto.
Il treno si fermò al posto giusto, i
macchinisti del convoglio sapevano cosa stava succedendo. La scorta del treno, vedendo le divise
tedesche, non si allarmò e noi contemporaneamente, saltammo fuori dalle siepi senza sparare un
colpo. Intimammo alla scorta di alzare le mani e di scendere dalla carrozza; i fascisti furono
perquisiti uno per uno e furono scortati in montagna.
La popolazione locale che aveva assistito da lontano a tutta l’operazione, ci chiese se era rimasto
qualcosa sul treno e se potevano andare a prendere ciò che trovavano. Noi, ovviamente, dicemmo
che potevano andare perché c’era ancora tanta roba. Tutti, così, si munirono di carriole, carrettini e
gerle e, di corsa, finirono di saccheggiare il treno. I fascisti furono identificati e la lista fu inviata al
Comando generale di Milano per competenza ed eventuali accertamenti e provvedimenti.
Fino al 25 aprile 1945 ai reparti partigiani arrivavano in montagna ogni giorno, nuovi volontari
mentre nei reparti fascisti si disertava.
---------------note---------------------------(1) La brigata era intitolata al comandante partigiano Riccardo Rinaldi, catturato
e fucilati dai repubblichini alla vigilia di Natale del 1944. In precedenza la
formazione era intitolata “ 40° brigata Matteotti”. La brigata era schierata
nella parte centrale della Valtellina. Era comandata da Ettore Mascheroni
(Ettore) mentre il commissaro politico era “Germano” (Germano Bodo),
Germano
entrambi ufficiali dell’esercito italiano entrambi ufficiali dell’esercito italiano.
(2) Scrive Germano Bodo (Sondrio, .provincia ieri e oggi) a proposito della collaborazione della
popolazione:” Naturalmente, per i lunghi mesi della guerriglia partigiana assolutamente decisivo fu
l’appoggio della popolazione valtellinese:non avremmo potuto reggere neanche pochi giorni senza
questo appoggio, continuo e incredibilmente generoso. Ci avevano aiutato tutti: i contadini e gli
allevatori dei centri piccoli e grandi, gli esponenti della società civile, cittadini benestanti o
poverissimi, i preti e le suore un sostegno fondamentale in una zona di salde radici cattoliche come
la Valtellina) e persino rappresentanti delle autorità locali come alcuni potestà…l’occupazione
tedesca era straordinariamente invisa alla popolazione ed aveva prodotto un irrobustimento del
sentimento patriottico con la diffusione di un desiderio di riscatto dopo l’umiliazione del disarmo e
della cattura di tanti soldati italiani in seguito all’8 settembre…”.
.
26 aprile 1945 (La Liberazione)
La mattina noi e tutti i reparti armati scendemmo a valle ed accerchiammo la città di Sondrio. Qui
fummo contattati dal comitato locale per porre fine alle ostilità dato che i fascisti e tedeschi
volevano trattare. (1) Noi eravamo d’accordo, così prima con i fascisti e dopo qualche ora con i
tedeschi, ci incontrammo a metà strada, in un casolare tre le nostre postazioni e la città. Fu nominata
una delegazione di quattro partigiani: uno del Partito d’Azione, un comunista, un popolare della
D.C. ed io come socialista. (2)
Arrivò la delegazione dei fascisti la quale
accettò le nostre condizioni di deporre
tutte le armi al centro del cortile della
prefettura e della caserma della Guardia
Nazionale
Repubblicana attentendo il
nostro arrivo.
Dopo
un’ora
e
mezza
arrivò
la
delegazione tedesca composta da un
capitano, che parlava abbastanza bene la
nostra lingua, e due sottotenenti. Alla
nostra richiesta di consegnare le loro
armi,
dissero
di
no.
Volevano
semplicemente andarsene pacificamente
per
Bormio,
S.Caterina
Valfurva,
Merano, Bolzano e passo del Brennero;
soltanto se attaccati avrebbero risposto al
La squadra del comandante Inserviente a Sondrio il 27 aprile 1945
fuoco come difesa. Il delegato comunista
non fu d’accordo ed iniziò ad alzare la
voce mentre io e gli altri due delegati, cercammo di calmarlo chiarendogli la situazione. Lo
chiamammo da parte ed io gli dissi di accettare le condizioni della delegazione tedesca perché i
tedeschi erano ancora muniti di automezzi corazzati e di armi pesanti, noi invece avevamo solo
armi leggere. In caso di uno scontro, di sicuro noi avremmo avuto la peggio unitamente alla
popolazione civile. Si sarebbe prospetatta una situazione che per noi non era affatto conveniente
dopo tanti pericoli passati già. Avevamo sofferto spesse volte la fame e tanto freddo durante
l’inverno sui monti ed era già uno strazio il prospettarsi di altri spargimenti di sangue. Fummo,
pertanto, tutti d’accordo e facemmo partire la colonna
tedesca secondo la loro proposta. Subito dopo entrammo a
Sondrio e prendemmo possesso della Prefettura e della
caserma
delle
Brigate
fasciste.
Queste
ultime
ci
aspettavano avendo rispettato gli accordi e, una volta presi,
li portammo al carcere locale. Quelli che si erano macchiati
di atrocità, furono rinchiusi nelle celle in attesa di ordini
del Comitatom di Liberazione Alta Italia.
Dopo pochi giorni fu costituito il Tribunale del popolo e
subito incominciarono i processi. C’era un solo vecchio
avvocato d’ufficio per la difesa e, tra le altre cose, io per
sei giorni lessi i capi d’accusa che erano stati preparati da
una commissione locale. Ci fu una sola condanna a morte
contro il tenente delle brigate nere Paganella reo, con la
sua squadraccia, di aver messo a ferro e fuoco il piccolo
Gennaro Inserviente alla guida di un'auto sequestrata ai tedeschi
paese di Buglio in Valtellina. In quella circostanza ci furono diversi morti tra la popolazione e ne
vennero presi moltim in ostaggio. Poi fu la volta del maggiore della Guardia Nazionale
Repubblicana, Sanna, di origine sarda. Mi ricordai di lui perché liberò una nostra giovane staffetta
di nome Irene la quale era presente in aula. La invitai a deporre e dire la verità, tanto che andò tutto
bene per il maggiore. A quel punto io, senza nulla chiedere per il mio operato durante la lotta per la
liberazione dell’Italia dal nazifascista, lasciai l’incarico per tornare a casa mia a Boscotrecase che
rividi il 10 maggio del 1945. Con me portai, durante il viaggio, le armi che avevo e come si diceva
allora:” Il vento del nord per una repubblica democratica”.
27 aprile 1945
Città di Sondrio, capoluogo della provincia liberata. Tutte le formazioni partigiane sfilarono
per il corso principale fra due ali di popolo festante e riconoscente lanciando fiori, da un vicolo
spuntò uno strano veicolo. Era un piccolo camioncino a cui erano state saldate delle lamiere
metalliche per farlo sembrare un autoblindo. Uno guidava, un altro in piedi, da un buco fatto sul
tetto della cabina di guida, indossava una vistosa camicia rossa ed agitava la bandiera italiana. Essi
cercavano di immettersi in fila tra lo spazio libero della nostra formazione e quella che ci
precedeva. Io fra gli altri, ero in prima fila e dissi:”Ma questo buffone chi è e da dove viene?”. Lui
sentì e si allontanò con i suoi amici e non si fecero più vedere in giro. Un partigiano locale che lo
conosceva, mi disse che si chiamava Carletto Fumagalli e che faceva il contabbandiere con la
Svizzera. Voglio precisare che le autorità costituite arrivarono in Valtellina dopo una quindicina di
giorni.
Liberazione di Sondrio. il Commissario politico Diego Carbonera , nome di battaglia Giorgio ( in primo piano) Alla testa della Brigata “Sondrio” della 1° Divisione Alpina Valtellina di G.L. -------------------------------------note------------------------------(1) In Valtellina, i capi fascisti decidono di trattare le condizioni di resa con il CLN locale. Le proposte
vengono offerte tramite il vescovo di Sondrio e valgono per tutte le truppe dislocate nell'intera
Valtellina. Sulla carta prevedono garanzie onorevoli per gli sconfitti: tutti coloro i quali non si siano
macchiati di reati comuni avranno un salvacondotto e saranno lasciati in libertà.
Le ultime speranze stanno svanendo, Mussolini è in mano dei partigiani e proseguire la battaglia
sarebbe un inutile e folle spargimento di sangue.
Il patto viene poi sottoscritto dal Vescovo di Sondrio che se ne fa garante.
25 aprile 1945, infatti, a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio
Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al
comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore
Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il
generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in
Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare
altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa
del Fascio. La Provincia di Sondrio fu insignita della Medaglia d’Argento al Valor militare per “ i
sacrifici delle sue popolazioni e per la sua attività nella lotta partigiana durante la seconda guerra
mondiale”
(2) Il documento ufficiale della resa fu firmato per i fascisti dal generale Onorio Onori, dal federale
Parmeggiani e dagli altri ufficiali della R.S.I. presenti. Per i partigiani firmarono il comandante di
zona avvocato Teresio Gola, rappresentante della prima divisione alpina; Maio (Mario Abiezzi) per
le divisioni garibaldine; Ettore Mascheroni, comandante della brigata Rinaldi; Bill (Alfonso Vinci)
comandate di altre formazioni garibaldine e e dall’avvocato Schena del C.L.N. di Sondrio.
2 giugno 1946 (Referendum monarchia-repubblica)
Il referendum votò a favore della repubblica, ma al sud e specialmente a Napoli ed in tutta la
Campania per la presenza di molti monarchici, di fascisti camuffati dal partito “Uomo Qualunque”
e persino di nostalgici dei Borboni, giorno dopo giorno la situazione politica peggiorava. Il re
Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto e andò via in esilio in Egitto. I sostenitori
della monarchia, nonostante la sconfitta subita, non si rassegnavano, ma si agitavano sempre più
minacciosi, bruciavano le sedi dei partiti antifascisti. Noi non potevamo restare a guardare e quindi
facevamo altrettanto, così le federazioni Socialista e Comunista erano presidiate da molti compagni
armati. Da Boscotrecase andammo a presidiare la federazione Socialista napoletana, io, Franco
Casale e Balzani Ferdinando unitamente ad altri compagni di tutte le sezioni socialiste della
provincia di Napoli per la difesa della repubblica e della democrazia.
Napoli: scontri tra filomonarchici e repuibblicani a Via Medina
12 giugno 1946
Di sera ci fu lo scontro a fuoco presso le federazione comunista e ciò causò qualche morto e
diversi feriti. Il comando alleato allora intervenne e invitò Umberto di Savoia (Re di maggio) a
dimettersi e partire per l’esilio e così andò in Portogallo con la sua famiglia il gionro 14 giugno
1946 evitando, così, una guerra civile. Umberto era succube del padre ma anche antifascista
unitamente a sua moglie la principessa Josè del Belgio. Peccato solo che non contavano niente.
Napoli: un ferito degli scontri a piazza Borsa
----------------------------------------------------------------------Un mese prima del referendum sulla scelta monarchia o repubblica, Vittorio Emanuele
III abdicò a favoe del figlio Umberto ) che regnando nei soli mesi di maggio e parte di
giugno, fu chiamato “Re di maggio”). Nella giornata del 2 giugno e la mattina del 3
giugno 1946 ebbe dunque luogo il referendum per scegliere fra monarchia o repubblica.
Il 10 giugno, alle ore 18:00, nella Sala della Lupa a Montecitorio la Corte di Cassazione
diede lettura dei risultati del referendum così come gli erano stati inviati dalle prefetture
(la repubblica ottenne 12.717.923 voti, mentre i favorevoli alla monarchia risultarono 10.719.284), senza
però procedere alla proclamazione della repubblica e rimandando al 18 giugno il giudizio definitivo su
contestazioni, proteste e reclami. Nonostante che Umberto II denunciasse brogli elettorali questi, appurato
che gli americani non lo avrebbero appoggiato e per evitare una guerra civile, lasciò l’Italia
Ritorno in Valtellina
Dal ritorno dalla Germania, dove mia moglie era andata a trovare mia figlai Lidia, ci
fermammo a San Gallo, Sait Moritz e Tirano in Valtellina per farle vedere tutti i paesi e le
montagne in cui avevo combattuto i nazifascisti rischiando la vita tante volte. In quei luoghi sono
stato fortunato e mi sono pure divertito. Ho agito sempre a favore della popolazione civile perché
loro aiutavano noi tutti in tutti i modi, fornendoci informazioni e, in caso di bisogno, viveri ed
indumenti.
Facemmo sosta ad Albosaggia in provicnia di Sondrio in cerca di Paganoni Benito, il più
giovane partigiano della mia squadra. Lì chiesi a delle donne che stavano sedute davanti ad
un’abitazione a parlare tra loro, informazioni su dove abitava il mio amico Paganoni Benito. Una
di loro si accostò alla macchina, mi riconobbe e disse:”Gennaro, tu sei il napoletano? Ne parla
ancora tutta la valle”. Ed erano passati ben 33 anni. Mia moglie buon’anima affettuosa e sospettosa,
voleva sapere di che cosa parlavano.
A casa di Benito fummo accolti con benevolenza. Dopo tanti anni anche lui era sposato, era
stato emigrante in Australia, aveva una bella casa e faceva l’autotrasportatore di gasolio con la
Svizzera.
Ricordi di Russia
Da ricerche e interviste agli ultimi reduci viventi dei campi di concentramento dell’unione
sovietica e specialmente dai racconti di Stefanile Francesco di Trecase (Napoli), internato in
Siberia, ove ha sofferto molto freddo, fame e privazioni, ho saputo che accanto al campo di
concentramento dei soldati italiani, vi era anche un campo di concentramento di donne moldave,
ucraine e russe, ree di aver fraternizazato con noi. Effettivamente noi soldati italiani abbiamo fatto
amicizia con tutta la popolazione russa.
Nell’inverno 1941/42 il fronte era fermo. Vicino Stalino, ora Donec’K, vi era un lago
ghiacciato, vi erano molti giovani che pattinavano. Io, che avevo la moto Guzzi Alce, chiesi ad un
uomo che era fermo sulla sponda del lagno se potevo transitare con la moto senza problemi. Lui mi
disse che il lago era completamente ghiacciato e che potevano transitare anche gli autocarri.
Incominciai a girare con la moto ed alcuni ragazzi si accostarono e mi chiesero il permesso di
attaccarsi dietro la moto; io acconsentii e cinque ragazzi per volta li accontetai tutti, questi felici e
contenti mi ringraziarono.
Altro reduce Lavano Giuseppe classe 1924 da Boscoreale tornò dalla prigionia dal lontano
Tagikistan dopo otto anni ed in buona salute. Io gli domandai cosa mangiava e lui mi rispose, un pò
titubante, che come tutti i prigionieri deportati in Uzbekistan e Kazakistan mangiavano le testuggini
arrostite sulla brace.
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Considerazione del curatore
Del diario di Gennaro Inserviente (ricopiato senza apportare nessuna correzione ma riportando
delle brevi note a piè di pagina) ho preso solo le parti che riguardano le vicende belliche che l’hanno visto
protagonista, tralasciando alcune pagine nelle quali, con lucida analisi, tratta di politica e storia connesse
sia al periodo della seconda guerra mondiale e sia a quello post bellico.
Ho estrapolato, però, alcuni brani che riportano aneddoti personali, specialmente quelli che
riguardano la sua passione politica e le sue scelte di campo che condivido totalmente.
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Sui comunisti (da: Cenni di storia dell’Unione Sovietica)
(…) Una sera mi recai presso la sezione del P.C.I. di Boscotrecase in cerca di un mio amico;
c’era un’assemblea politica. Quando fu pronunciato il nome di Togliatti e di Stalin si alzarono in
piedi battendo le mani i fratelli Cipriani, Fiorentino Daniele e Giovanni seguiti da tutta
l’assemblea; questo avveniva nell’immediato dopoguerra, penso anche in altre sezioni del P.C.I. Io
pensai:” Ma questi sono fanatici!”. Quando in Europa incominciarono ad arrivare le prime notizie
raccapriccianti sugli orrori commessi in Unione Sovietica, specialmente durante l’era staliniana, in
un incontro tra socialisti e comunisti, io dissi:” Meno male che noi del Fronte Popolare abbiamo
perdute le elezioni politiche del 1948”, intervenne risentito l’insegnate elementare comunista,
lettore e venditore ambulante dell’Unità, Carotenuto Angelo che mi disse:” Gennaro che stai
dicendo?” ed io risposi:” Angelo ma tu leggi solo l’Unità?”, finì la discussione e conclusi che
avevano ragione i democratici cristiani che dicevano:” I comunisti italiani avevano portato i cervelli
all’ammasso”.
I militanti comunisti di base in buona fede non sapevano cosa succedeva nell’Unione
sovietica. Palmiro Togliatti (il Migliore) non fece nulla per aiutare le famiglie dei comunisti italiani
scomparsi in Russia, eppure lui era uno dei massimi esponenti del Cominform, organismo supremo
del comunismo internazionale e neanche a favore dei soldati italiani prigionieri dei russi che fuorno
portati nel lontano Tagichistan. I pochi superstiti furono adibiti a raccogliere cotone. Uno di questi a
nome di Lavano Giuseppe classe 1924, abitante al piano-Napoli del comune di Boscoreale, è
tornato dalla prigionia dopo ben 8 anni. (…)
Sui socialisti ( da: Capitolo Tangentopoli)
Durante il periodo della guerra di Liberazione noi partigiani, tutti volontari, nei momenti di pausa si
incominciava a parlare di politca. Vennero in montagna da noi in Valtellina, due reduci della guerra
civile spagnola del 1936. Uno si chiamava Ettore Mascheroni, socialista, dell’altro non ricordo il
nome, entrambi avevavno combattuto contro il franchismo nelle Brigata Internazionale.
A me piacque l’ideale socialista fino allo scandolo di tangentopoli. Era Bettino Craxi appena eletto
a segretario del P.S.I. cambiò il simbolo del partito a me tanto caro perché rappresentava
intellettuali, operai e contadini. Ci rimasi male.
L’assassinio del fratello Giuseppe ad opera dei tedeschi ( da: Settembre 1943)
(…) Iniziarono anche i rastrellamenti dei giovani. Qundo tornai a casa a Boscotrecase dopo
circa sei anni, non trovai mio fratello Giuseppe di 18 anni, domandai ai miei genitori ed essi mi
dissero che i soldati tedeschi lo uccisero mentre scappava.
Con lo sbarco a Salerno degli Alleati anglo-americani fu liberata Napoli dopo le 4 giornate.
mio fratello Pietro di anni 17 fu picchiato da un gruppo di soldati americani perché indossava una
camiciola tinta di nero in segno di rispetto per la morte del fratello Giuseppe assassinato dai nazisti.
Stamattina mi sono alzato
o bella ciao bella ciao bella
ciao ciao ciao
stamattina mi sono alzato
e ci ho trovato l'invasor.
O partigiano, portami via
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
o partigiano, portami via
che mi sento di morir.
E se muoio da partigiano
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
e se muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.
Seppellire lassù in montagna
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
seppellire lassù in montagna
sotto l'ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
e le genti che passeranno
e diranno: o che bel fior!.
E questo il fiore del partigiano
morto per la libertà
PIETA' L'E' MORTA
Lassù sulle montagne bandiera nera:
è morto un partigiano nel far la guerra.
E' morto un partigiano nel far la guerra,
un altro italiano va sotto terra.
Laggiù sotto terra trova un alpino,
caduto nella Russia con il Cervino.
Ma prima di morire ha ancor pregato:
che Dio maledica quell'alleato!
Che Dio maledica chi ci ha tradito
lasciandoci sul Don e poi è fuggito.
Tedeschi traditori, l'alpino è morto
ma un altro combattente oggi è risorto.
Combatte il partigiano la sua battaglia:
Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia! Tedeschi e
fascisti, fuori d'Italia!
Gridiamo a tutta forza: Pietà l´è morta!
FISCHIA IL VENTO
Fischia il vento, infuria la bufera,
scarpe rotte eppur bisogna andar,
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell'avvenir.
Ogni contrada e' patria del ribelle
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle
forte il cuore e il braccio nel colpir.
Se ci coglie la crudele morte
dura vendetta verra' dal partigian;
ormai sicura e' gia la dura sorte
contro il vile che noi ricerchiam.
Cessa il vento, calma e' la bufera,
torna a casa fiero il partigian
Sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi e alfin liberi sia
Antonio Cimmino, nato a Castellammare di Stabia il 4 ottobre del 1947, è stato imbarcato su nave Volturno e nave Etna e promosso, dopo il congedo, Capo di 1° Classe. Già dipendente del cantiere navale di Castellammare di Stabia e funzionario direttivo di un’azienda di public utility, è un cultore della storia della Marina. Ha scritto diverse pubblicazioni sia di carattere socio‐sanitario e sia vertente su problematiche marinare; ha condotto un corso per tecnici navali presso l’I.T.I.S. Renato Elia di Castellammare di Stabia. È socio simpatizzante e revisore dei conti della sezione ANCR di Scafati, così come della Federazione di Napoli dell’Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti e decorati. Già vicepresidente dell’Associazione Marinai di Castellammare di Stabia, è socio effetivo dell’U.N.S.I. di Pompei e socio aggregato dell’Associazione Nazionale Combattenti Guerra di Liberazione di Castellammare di Stabia. Collabora con diverse riviste e siti per la storia della Marina e dei Marinai ( L’opinione di Stabia, il Sentiero Tricolore, Il Nastro Azzurro, www.marimai.it , www.liberoricercatore,www.l a vocedelmarinaio.com) 
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