Associazione per la tutela e promozione della famiglia ONLUS - 73040 MELISSANO (Le)
Via E. Berlinguer, s.n. - www.associazionefamilia.it
Associazione “Familia”
ONLUS
Via E. Berlinguer, s.n. - 73040 MELISSANO (Le)
www.associazionefamilia.it
Pubblicazione curata da:
Katiuscia Antonaci
Elisa Giuranno
Tiziana Manco
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“... sperimentiamo ogni giorno un bisogno elementare
di essere ben piantati su un terreno solido,
proprio come un albero, in cui l’espansione della chioma
cresce in rapporto alla crescita equilibrata delle radici.
Abbiamo il potere di far crescere
le nostre radici, oppure di farle regredire...”
Come riportato nell’atto costitutivo e nello statuto, “Familia” è
un’Associazione di famiglie per la ….FAMIGLIA! In quindici anni di attività
il sodalizio ha operato, anche in collaborazione con la Comunità Civile (enti,
organismi, associazioni, gruppi), non solo per promuovere l’istituto familiare,
ma ha cercato vieppiù di tessere anzitutto un’esperienza di … famiglie che si
incontrano tra di loro. E’ in questa ottica fattiva che “Familia” si è strutturata
con : “incontri per riflettere”, opera di “sensibilizzazione”, “partecipazione
e collaborazione” anche nel campo delle politiche sociali, “momenti insieme”
e il “fare insieme” fra genitori e figli.
Da diversi anni ormai ci si è interrogati sull’importanza e le modalità più
proprie per trasferire alle giovani generazioni la “sapienza” della storia della
nostra terra e delle radici: obiettivo utile anche per rinsaldare il senso di
appartenenza in noi adulti.
Così, a partire dalla rivisitazione (e ri-costruzione!) dei giocattoli e giochi
di un tempo, ci si è cimentati – genitori e figli - nello sperimentare la coltivazione
(sul “campo”!), la conservazione e preparazione dei cibi e sapori della nostra
terra e tradizione. Esperienze davvero partecipate, entusiasmanti, gioiose e dal
sapore squisitamente…. familiare e comunitario. Da qui ha preso poi le mosse
il progetto “Egheme’” (“Terra mia”) nel tentativo di “radicarci” ancor più
nella nostra Terra.
“Eghemè” nasce dall’esigenza, come famiglie, di conoscere il nostro Salento
e di riscoprirne la sua storia. Vi è infatti e magari in forma inconscia la
percezione, tra noi salentini, di abitare ed appartenere ad una terra da sempre
“marginale”, non soltanto dal punto di vista geografico ma anche storico,
sociale, culturale. Questo convincimento sembra trovare conferma nella
constatazione che quasi mai abbiamo avuto modo di riscontrare sui testi
scolastici di eventi e luoghi che riguardavano il nostro “tacco”.
Ad un livello più ampio e diffuso questa nostra iniziativa vuole essere
invece - in un mondo sempre più globalizzato in cui ogni confine e differenza
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sembrano affievolirsi - un tentativo di risposta all’esigenza, comunque
irrinunciabile, di ogni persona di essere radicata saldamente al proprio territorio
e alla propria cultura.
Così attraverso la visita dei luoghi che in modo più significativo rendono
testimonianza delle diverse vicende storiche che hanno caratterizzato il Salento,
abbiamo cercato di cogliere le ragioni e le origini della nostra cultura,
“azzardandoci” - forse ingenuamente ed arbitrariamente - ad evidenziare i
tratti più caratteristici della nostra “identità”.
Il percorso si articola quindi in diverse tappe:
- il Museo Paleontologico di Maglie che raccoglie testimonianze della
presenza umana, sulla nostra terra, sin dalla preistoria;
- il Parco Archeologico di Manduria che racchiude i resti dell’antica
città dei Messapi: uno dei primi popoli che occuparono il nostro territorio;
- Brindisi: importante città portuale durante il periodo Romano;
- la città di Otranto, punto di riferimento geografico e culturale della
nostra penisola denominata infatti per secoli “Terra d’Otranto”;
- la città di Nardò definita l’”Atene delle Lettere”;
- la città di Lecce che durante il Regno dei Borboni non temendo
confronti, per la sua bellezza architettonica e per il livello di vita civile e
sociale, ricevette l’appellativo di “piccola Napoli”, essendo città del regno
seconda solo a Napoli, la capitale.
Questo opuscoletto non ha certo la pretesa di fornire informazioni esaustive
o inedite sulla storia salentina: sono evidentemente altre le fonti a cui attingere
al riguardo. Esso vuole essere semplicemente uno strumento per comunicare
l’esperienza di famiglie che attraverso questo percorso di riscoperta delle
proprie radici storiche, hanno voluto interrogarsi sulla “salentinità”, sperando
magari di poter suscitare e stimolare nei propri figli, un’attenzione ed un amore
più grande e consapevole per la propria terra: il Salento. Anche perché…non
si può amare veramente ciò che non si conosce.
Il Gruppo di Lavoro
Katiuscia Antonaci
Elisa Giuranno
Tiziana Manco
Punto di partenza, in questo percorso
di riscoperta delle nostre radici è stato:
il Museo di Maglie.
Il Museo è ospitato nel palazzo
Sticchi, una splendida villa del primo
Novecento. E’ stato fondato nel 1960
dal Gruppo Speleologico Salentino ed
inizialmente la sua direzione è stata
affidata a Decio De Lorentiis, alla cui
memoria oggi è intitolato.
Il Museo si articola in diverse sale, in cui
vengono ricostruite e ripercorse, con l’utilizzo
di linguaggi diversificati, le misteriose tappe
evolutive che a partire dal famoso “BIG BANG”
(evento ritenuto all’origine della Terra) videro
“protagonista” il Salento meridionale nel lungo
cammino verso la “storia”.
Nella I e nella II sala, le rocce calcaree e i
fossili marini, raccontano la storia geologica del
Salento. Qui troviamo anche resti di mammouth,
ippopotami, rinoceronti, pinguini: animali di
ambienti climatici diversi da quello
attuale ma che testimoniano
l’alternarsi anche sul nostro territorio
di clima caldo a clima freddo.
Nelle sale III, IV e V sono raccolte
le testimonianze della presenza
dell’uomo già nel Paleolitico medio
(circa 80.000 anni fa). Si trattava
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probabilmente di ominidi appartenenti alla specie “uomo di Neanderthal”,
mentre la specie dell’homo Sapiens Sapiens si sarebbe diffusa nel Paleolitico
superiore e nel Neolitico.
Infine nella VI sala è possibile
ammirare ceramiche, vari oggetti in
osso e in metallo risalenti alla prima
Età dei Metalli nonchè le ricostruzioni dei grandi villaggi costieri.
I fossili e tutto ciò che è esposto
nel museo è stato rinvenuto nelle
numerose grotte naturali di cui è ricco
il nostro territorio. Tra tutte va ricordata la Grotta dei Cervi di Porto Badisco che rappresenta uno dei siti
archeologici più suggestivi e spettacolari del Salento ed anche il più imponente
d’Europa.
Palazzo Sticchi ospita anche, al piano superiore, la Biblioteca Comunale
fondata nel 1666 dal sacerdote Francesco Piccinno a cui è intitolata. E’ la più
antica biblioteca pubblica della Puglia: intento del suo fondatore era infatti
che magliesi e forestieri potessero usufruirne.
La Biblioteca conserva antichi incunaboli e pregevoli pubblicazioni del
Seicento e del Settecento.
Riflessioni in
Alla fine della prima tappa del percorso, diverse e positive sono state le
impressioni emerse tra i partecipanti all’esperienza. Senz’altro, grandi sono
state la sorpresa e la gioia che ha suscitato la scoperta che la nostra terra ha
origini così antiche, risalenti persino alla preistoria (anche se mai sui libri
di scuola sia stato fatto cenno ai nostri siti archeologici). Ciò ci ha inorgogliti
ed ha accresciuto forse anche la nostra “autostima” di Salentini.
Così pure la presenza di una Biblioteca pubblica sin dal ‘600 testimonia
che la nostra non è stata solo terra di contadini, ma anche di “menti illuminate”
che si sono prodigate per l’emancipazione e il benessere di queste genti.
L’esperienza è stata vissuta con entusiasmo anche dai bambini che si sono
subito informati sulla data del prossimo appuntamento. Tutti, grandi e piccoli,
abbiamo respirato durante la giornata trascorsa insieme “aria di casa” : non
è certamente un risultato trascurabile, viste le finalità ultime della nostra
Associazione.
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Per conoscere, più da vicino, uno dei più
antichi popoli che si sono stanziati nel Salento,
ci siamo recati a Manduria. Questa città infatti
è sede di un esteso Parco Archeologico Messapico.
I Messapi, popolo di stirpe Illirica proveniente da una regione un po’ più a nord
dell’attuale Albania, sono sbarcati sulle nostre
coste intorno al 1000 a.C. e sovrapponendosi
con facilità ad una popolazione primitiva, hanno
dato vita a diversi villaggi tra cui Manduria.
Secondo alcuni studiosi il nome Messapi significa “popolo tra due mari” quasi ad esprimere l’esigenza di queste genti di volersi
identificare perfettamente con la nostra penisola
salentina. I Messapi sono stati degli ottimi viticoltori, in grado di produrre un
vino migliore di quello dei Romani e dei Greci: coltivavano anche l’olivo, si
dedicavano alla pastorizia e soprattutto all’allevamento dei cavalli. Il nome
della città di Manduria, sembra infatti derivare proprio da “mandura”: stalla
di cavalli. Le donne messapiche (che sedevano a tavola insieme agli uomini,
a differenza di quelle romane e greche) sembra siano state delle donne forti
e abbiano avuto un ruolo importante nella società, certamente meno subordinato
rispetto a quello avuto dalle donne di
altri popoli del tempo. Le donne messapiche sapevano già usare il telaio,
come è testimoniato dai diversi “pesetti”
ritrovati nei corredi funebri. Un altro
oggetto molto presente nelle tombe delle
donne è la “trozzella”: vaso tipicamente
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messapico dall’ampio collo e dai lunghi manici.
Molto temute nell’antichità sono state le
armate di cavalleria messapiche, anche se i
Messapi erano gente pacifica che non ha
cercato mai di soggiogare altri popoli per
espandere il proprio dominio, impegnandosi fermamente però a difendere la
propria terra sino all’ultimo respiro. Della civiltà dei Messapi in definitiva
resta molto da scoprire poichè la loro scrittura non è stata ancora oggi decifrata.
Nel Parco Archeologico è possibile osservare i resti della triplice cinta
muraria che i Messapi, in momenti successivi, hanno costruito per difendere
la città dai continui attacchi della vicina colonia greca di Taranto. Si tratta di
mura megalitiche costruite con grossi massi a forma di parallelepipedo, disposti
con il lato minore in facciata ed il lato più largo all’interno, con diversi passaggi
sotterranei che collegano la parte interna delle mura con quella esterna.
In prossimità delle mura sono state rinvenute vere e proprie necropoli con
tombe scavate nelle roccia dalle caratteristiche le più diverse.
Interessante è pure il “Fonte di Plinio”, così denominato perché Plinio il
Vecchio ne parla nel suo libro ”Storia Naturale”. Questo monumento è
costituito da un vasto speco sotterraneo in parte artificiale, a cui si accede da
una scalinata scavata nella roccia. Nel centro sorge una costruzione muraria
di forma circolare che affianca una vaschetta in cui sfocia una vena d’acqua
perenne. Tutta l’acqua che filtra dalle pareti in un continuo gocciolare si
raccoglie in una vaschetta naturale e da lì, per
mezzo di un condotto sotterraneo, giunge nella
vasca al centro della grotta principale. Questo
fenomeno idraulico Plinio lo chiama
“miraculum” non trovando spiegazioni su
come l’acqua pur venendo continuamente
prelevata conservasse sempre lo stesso livello.
Tutti queste testimonianze archeologiche
dimostrano che la civiltà messapica, magari
pur non raggiungendo il livello di quella greca,
era comunque molto evoluta.
Abbiamo visitato anche, il Museo della Civiltà
del Vino Primitivo ubicato all’interno del
Consorzio Produttori Vini, nella parte
più vecchia dello
stabile della cantina.
Qui sono stati raccolti oggetti e
utensili vari, che
danno testimonianza della civiltà
contadina nel Salento dalla metà
dell’800 ai primi del ‘900. Si tratta di oggetti di vita quotidiana, ma anche di
attrezzi di lavoro del contadino di un tempo. E’ anche possibile osservare
l’evoluzione a cui è andata incontro la tecnologia, nel settore della vinificazione
e dell’enologia, proprio dai diversi torchi e attrezzature agricole qui esposte
che evidenziano il cambiamento nel tempo del ciclo di produzione del vino,
che insieme all’olio, costituiscono i prodotti principali della nostra agricoltura.
Riflessioni in
Ciò che maggiormente ci ha colpito dei Messapi, è questo loro attaccamento
alla terra che hanno sempre difeso con tutte le loro forze. Anche noi, Salentini
del terzo millennio, avvertiamo molto vivo questo sentimento e per quanto
statico, poco incline al cambiamento possiamo giudicare il modo di vivere
qui nel Salento, tuttavia avvertiamo forte - magari in determinate circostanzeil richiamo della nostra terra. Ancora oggi come i Messapi, ci sentiamo gente
pacifica che non cerca mai di imporre la propria cultura agli altri, ma che
anzi accoglie il forestiero con ospitalità, facendolo sentire a casa. Ci sembra
che questo sia facilmente palpabile da chi viene a visitare il Salento e poi
magari…se ne innamora!
Infine vorremmo fare un apprezzamento alle donne salentine che come
quelle messapiche, senza mettersi in mostra o assumere posizioni di potere,
sanno tessere reti di rapporti di amicizia, solidarietà, aiuto reciproco, dentro
e fuori i gruppi organizzati e che ne costituiscono poi la trama vera del vivere
sociale.
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Eccoci giunti alla terza tappa del nostro percorso: Brindisi, città che raggiunge
il suo massimo splendore durante l’impero romano.
Grazie alla sua posizione geografica, alla conformazione del porto e alle
condizioni climatiche, Brindisi è stata il teatro di numerosi e determinanti
episodi; la città ha spesso recitato il ruolo di protagonista principale nella
grande storia, rappresentando da sempre il più importante terminale verso
l'Oriente.
Infatti nel 267 a.C. i romani si impadronirono della città facendone una
colonia e il loro principale scalo commerciale e militare con l'Oriente. La città
fu collegata alla capitale con la
via Appia e la via Traiana. Vi
costruirono templi, terme,
l'anfiteatro, foro, caserme, accademie, la zecca e l'acquedotto.
Brindisi, dunque, era luogo di
passaggio e questo portò i suoi
abitanti a tramutare quel naturale
atteggiamento di fierezza, che quasi sconfinava
nel sospetto verso il non conosciuto, in una
dolcezza e ospitalità quasi accattivante.
Importante testimonianza del periodo romano sono le Colonne, da sempre il simbolo
della città di Brindisi, conosciute, forse erroneamente come simbolo del termine dell'antica
via Appia, rappresentavano in realtà un riferimento portuale per i naviganti dell'epoca.
Delle due colonne gemelle originarie, realizzate dopo le metà del II secolo con un marmo
proveniente dalla Turchia, solo una e' integra
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ed è sormontata da un capitello decorato
con foglie di acanto e dodici figure a mezzo
busto. Dell'altra colonna, caduta nel 1528,
e' visibile la sola base e uno dei rocchi;
la restante parte fu donata alla citta' di
Lecce per onorare il patrono S. Oronzo il
quale avrebbe liberato la nostra Provincia
dalla peste del 1656 (oggi forma una parte
della colonna di S.Oronzo a Lecce).
Altra testimonianza della dominazione
romana è l’ area archeologica dell'antico e suggestivo rione denominato San
Pietro degli Schiavoni, dove sulle fondamenta del nuovo Teatro (sospeso
sugli scavi) e' visibile una zona di epoca romana, con un complesso termale,
alcune abitazioni e una larga strada basolata
sulla quale è suggestivo immaginare il
brulicare delle genti di un tempo che con
la loro operosità svolgevano le attività
quotidiane.
A testimoniare il ruolo principale che
Brindisi ha continuato ad avere nel corso
delle diverse epoche storiche e dominazioni
si erge il Castello Svevo, detto anche
"castello grande" o "di terra" (per distinguerlo da quello aragonese o "di mare"), voluto nel 1227 da Federico II
come residenza fortificata propria e per le sue guarnigioni. Dal 1909 è utilizzato
dalla Marina Militare.
Alla imponenza delle mura difensive del castello fa da contraltare il resto
del territorio brindisino, quasi ad evidenziare la naturale fierezza e “difesa”
verso l’esterno che si contrappone
all’obbligata apertura e tolleranza verso
gli altri. Disseminate di testimonianze
architettoniche che ricordano le alterne
vicende in cui la città fu protagonista, le
stradine del centro storico sembra custodiscano gelosamente chiesette, templi,
resti di un importante passato che si in-
castrano tra le abitazioni dei residenti, i quali, vedendoci passare, ammiccano
sorridenti. Ed è in questo scenario che, improvvisamente appare ai nostri occhi
il tempio di San Giovanni al Sepolcro (o chiesa del Santo Sepolcro): è una
costruzione a forma circolare edificata, sul finire dell'XI secolo, per volontà
del normanno Boemondo. L'interno, a pianta a staffa di cavallo - formata da
due cerchi concentrici di colonne che ricorda quella del Santo Sepolcro in
Gerusalemme, è sostenuto da otto colonne dal fusto liscio con pregevoli
capitelli con foglie di acanto alternate a capitelli cubici; il tetto originale a
volta è stato sostituito da quello attuale in legno.
Sulle pareti affreschi con immagini di santi risalenti al XII-XV secolo, tra
questi la "Deposizione" databile ai primi del '300.
Riflessioni in
La città di Brindisi sembra testimoniare l’ingresso del Salento nella “Grande
Storia”: quella dell’Impero Romano, popolo potente e dominatore del mondo
allora conosciuto.
Tra le diverse rovine romane presenti nella città, ciò che ci ha colpito
particolarmente è stata l’area archeologica: resti di una tipica cittadina
romana con le sue caratteristiche terme e le strade laterali che si immettono
perpendicolarmente su quella principale.
In quanto cultura di dominatori, quella romana ha influenzato in modo
significativo la popolazione salentina che nel suo piccolo, ha saputo però
contribuire ed incrementare la “ricchezza” dell’Impero, grazie alla sua
laboriosità e l’ottimale sfruttamento delle risorse della terra. Non a caso il
Salento e tutta la Puglia erano ritenute da Roma una preziosa riserva di vino,
olio e cereali e Brindisi col suo porto, il più importante centro di commercializzazione di queste produzioni.
Dalla riflessione comune è emerso ancora una volta come – seppure in uno
stato di occupazione – l’accoglienza e l’ospitalità siano peculiarità proprie
del carattere del salentino, capace anche di mediare ed integrare elementi di
culture diverse con la propria, in un atteggiamento di apertura nei confronti
di ciò che è “altro”. Tale capacità assume particolare importanza proprio in
questo nostro tempo, dove il Mediterraneo sembra ritornato ad essere crocevia
di gente di diversa provenienza.
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Non poteva mancare nel
nostro percorso “Otranto”,
uno dei nostri luoghi più
significativi e le cui vicende
storiche hanno influito
sensibilmente sulla evoluzione culturale di tutto il
Salento. L’origine del nome della città è molto antica. Si ritiene che derivi
dal latino Hydruntum, un
fiumicello che attraversa la
valle dell’ Idro.
E’ il punto più orientale
d’Italia. Questa sua naturale
posizione di ponte sul
Mediterraneo ne ha fatto,
da sempre, la “terra di
passaggio e collegamento”
tra Oriente ed Occidente.
Per millenni interi popoli ne hanno attraversato
il breve tratto di mare lasciando le proprie tracce:
dal più grande “santuario”
dell’età della pietra (le grotte di Badisco), ad una concentrazione di dolmen
e menhir pari soltanto a quella della Bretagna, inoltre testimonianze grecobizantine, messapiche, romane, e tante altre che raccontano una storia
millenaria.
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Otranto fu per molti secoli il centro politico, culturale e commerciale del
Salento.
Nel 151 A.C. diventò municipio romano; nel 162 D.C. ottenne di battere
moneta propria. Con la divisione dell’impero romano in Occidente ed Oriente,
Costantinopoli insedierà ad Otranto i suoi funzionari e il ruolo della città
crescerà al punto che Japigia, Messapia, Salento e Calabria prenderanno il
nome di Terra d’Otranto. Durante la dominazione bizantina quindi Otranto
visse un periodo di trionfo. Nel periodo a cavallo dell’anno mille le città
pugliesi godettero maggiormente della cultura Bizantina sul piano civile,
culturale, giuridico e religioso.
Otranto è stata la città bizantina
più importante del Salento, e divenne centro di irradiazione culturale e tale fu per secoli.
Il nostro viaggio nella storia
della città è iniziato in Piazza dell’
Orologio, dove abbiamo ammirato
un gioiello di arte bizantina: la
Chiesa di San Pietro.
E’ uno dei monumenti nel suo
genere più importanti in Italia. La tradizione vuole che la fondazione della
chiesa sia legata al passaggio di San Pietro in Otranto nel suo viaggio verso
Roma. La data della costruzione è incerta e si colloca fra i secoli V-VIII e XIXII. Questa meravigliosa opera d’ arte è dovuta all’ attività febbrile e pregnante
di un grande movimento religioso medievale: quello dei monaci BasilianoBizantini. Alla fine dell’XI secolo D.C., infatti, nasce fuori dalla città l’Abazia
di S. Nicola di Casole, (cripta bizantina) che divenne il più importante centro
del monachesimo italo-greco in Puglia, il più ricco monastero dell’Italia
meridionale. Dalla sua ricchissima biblioteca uscirono molti testi che attestavano
il profondo legame con l’Oriente.
L’aspetto che colpisce subito entrando nella chiesa è l’atmosfera cromatica
intensa; l’azzurro, il giallo, il rosso sono i colori salentini usati da questi
grandi artisti. Tutte le pareti sono adorne di affreschi, tutti di pregevole fattura.
La chiesa è a croce greca con cupola centrale. A conferma del profondo
legame con l’oriente l’altare è rivolto ad est. Nell’abside posteriore c’è una
apertura tonda sempre rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione,
durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell'edificio
attraverso l'apertura desse inizio alla Pasqua. Anche l’uso del materiale da
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costruzione conferma l’ integrazione fra le culture: è stata utilizzata la pietra
leccese affiancata da altri materiali tipici dei bizantini come il cemento. Si
praticava il rito greco e rimase legata a tale rito per lunghissimo tempo, ben
oltre la dominazione Bizantina, quando era predominante il rito cattolico.
Questo ci conferma un dato storico-etnologico che caratterizza da sempre
Otranto: il convivere di diverse culture nello stesso territorio senza grandi
conflitti.
Sarebbe troppo lunga la descrizione artistica della chiesa e la lasciamo a
chi è più competente; a noi è sembrata come un libro di devozione.
Il nostro itinerario continua con la visita alla Cattedrale.
Percorrendo una piccola stradina all’improvviso si apre davanti a noi una
piazza nella quale si erge una facciata in stile romanico pugliese, con un
bellissimo rosone a 16 raggi con fini trafori gotici e 16 transenne convergenti
al centro secondo l’arte gotico-araba.
La cattedrale è stata edificata nel periodo di dominazione normanna tra il
1080 e il 1088 durante il papato di Urbano II, la cattedrale dell’ Annunziata
è la più grande chiesa di Puglia.
Sorge sulla linea in cui il sole lega l’est con l’ovest, Roma con Bisanzio,
a testimonianza del ruolo di anello di congiunzione svolto dalla città e dalla
chiesa di Otranto. La cattedrale raccoglie nella sua struttura elementi normanni,
arabi e greci, rimarcando ancora una volta il crogiolo di culture presente
nella città.
All’interno ci accoglie un’atmosfera severa e solenne. Tanti sono gli elementi
pregevoli ma in particolare due attraggono la nostra attenzione: la “cappella
dei Martiri” e il “mosaico”.
In fondo alla navata di destra, dietro ad un cancello di ferro e ottone, è
situata la cappella dei Martiri a pianta
ottagonale.
Nelle sette grandi teche di vetro,
si conservano le ossa dei beati Martiri
di Otranto, impressionante testimonianza di fede cristiana, che i nostri
bambini guardano esterrefatti. Sono
i resti di 800 e più cittadini trucidati
dai Turchi sul colle della Minerva il
14 agosto 1480, per non aver voluto
rinnegare la fede cristiana. Fu Alfonso d’Aragona a far costruire la cappella
dei Martiri e, per esaltarne la memoria nel Regno di Napoli, trasferì parte dei
loro resti nella chiesa di Santa Caterina a Formiello (Napoli), dove ancora oggi
vengono venerati. Nell’altare, dietro una lastra di vetro, c’è un grosso cippo
di pietra che, secondo la tradizione, fu usato per il martirio. Durante quel
massacro le cronache raccontano che un turco, tal Bersabei, si convertì nel
vedere il modo in cui gli otrantini morivano per la loro fede e subì anche lui
il martirio impalato dai suoi stessi compagni d'arme.
Di straordinaria bellezza artistica e importanza storica è il mosaico pavimentale che copre 600 metri quadri di superficie, ed è fra le opere musive più
grandi al mondo. Il mosaico venne commissionato dal primo vescovo latino
della città, Gionata, fu incellato da maestranze guidate dal monaco basiliano
Pantaleone proveniente dal vicino monastero di Casole. Fu realizzato dal
1163 al 1165. Vi sono simbologie e leggende attinenti al sacro, al cristianesimo
universale che esprimono una cultura latina che i normanni introducono in
una Otranto ancora profondamente legata all’oriente. Il mosaico risulta essere
una mirabile sintesi di diversi elementi culturali quali quelli pagani (attraverso
i segni zodiacali), quelli cristiani (con le scene bibliche), quelli cavallereschi
(attraverso le figure di cicli cavallereschi di Re Artù, Carlo Magno), ed infine
quella orientale.
Il mosaico, il cui tema dominante è l’Albero della Vita, si sviluppa altissimo
nella navata centrale dall’ingresso al
presbiterio, e si ripete in forma più ridotta,
nelle navate del transetto. Il mosaico
racconta la storia dell’uomo, da Adamo
ed Eva al 1165, senza discriminazione
di razza o di colore di pelle, credi politici
e religiosi. Modellato sulla storia della
salvezza è come una monografia illustrata del mondo di allora. Una storia
raccontata con un linguaggio allegoricosimbolico. E’ come un poema in tre
cantiche: Creazione, Redenzione e Resurrezione, il Mosaico è unico per i suoi
contenuti.
I bambini sono stati rapiti dalla de-
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scrizione che la guida ha fatto delle
fantastiche creature rappresentate nel
mosaico!
Pantaleone, uomo enciclopedico e
spirito assimilatore, ci dà una visione
unitaria del mondo e della vita in una
cornice di fede profonda espressione del
mondo medievale. Offre un libro di pietra
al popolo, e questi che non sa leggere,
guardando il mosaico della sua Cattedrale,
apprende attraverso le figure e riceve un messaggio di salvezza e di luce
eterna. Questo grande significato d’insieme è espressione dell’umanesimo
salentino.
Alcuni studiosi, fra i quali il Gianfreda, parlano di sorprendenti analogie
fra il mosaico di Otranto e la Divina Commedia.
La descrizione che la guida ci ha fatto del mosaico ha sollecitato anche in
noi la curiosità e ci siamo chiesti : Dante, durante il suo esilio conobbe il
mosaico? E fu per lui motivo di ispirazione? Sono bastate queste domande
a farci sentire orgogliosi di appartenere a questa terra.
In realtà le analogie ci sono. Tre sono i regni e le cantiche della Divina
Commedia: tre le partizioni del mosaico, una per navata. Identica è la concezione
della storia come storia sacra (gesta dei per homines). In entrambe le opere
vi è la commistione di mondo cristiano e pagano. Bibbia sacra e Bibbia profana
si danno la mano. Insomma, ciò che colpisce è che l’idea complessiva delle
due opere è la stessa. Sono due poemi di fede e di scienza, di arte e cultura
testimonianza di una civiltà in cammino, due sintesi del pensiero umano che
caratterizzano il periodo in cui sono nate.
Ambiente molto suggestivo ci è sembrato poi quello della cripta sotto la
cattedrale. Ha sessantotto colonne monolitiche di marmi diversi collegate da
volte a crociera e sormontate da capitelli in stili differenti. Una curiosità è
costituita dal conto delle colonne, perche’ ogni volta che si cerca di contarle
cambiano di numero in base al punto dal quale si contano, guardate da una
certa angolazione sono settantadue contando anche quelle addossate alla
parete.
Riflessioni in
Otranto ci è apparsa città aperta all’influenza di altre civiltà ma che ha
comunque conservato e coltivato, nei secoli, la sua identità forte e fattiva,
rinforzata dall’ atto eroico dei suoi martiri. La memoria del martirio si è
impressa nella tradizione popolare che ogni anno li celebra e ne rinnova il
ricordo. Questo legame con le tradizioni, la religiosità e la celebrazione dei
Santi è elemento comune a tutto il Salento . Otranto è un concentrato di
eccezionale e quotidiano che si può cogliere per tanti segni: eleganza mai
vistosa, rilassamento senza sciatteria . La città è discreta anche nell’allegria.
Impregnata della cultura greca che ha sicuramente influito sull’ evoluzione
di tutto il popolo salentino.
Abbiamo colto in Otranto un messaggio di grande “tolleranza” verso
culture e religioni diverse. Lo si legge nella contemporanea pacifica presenza,
per lungo tempo, del rito greco (chiesa di San Pietro), di quello cattolico e
di comunità ebraiche. Lo straniero che arriva ad Otranto non si sente mai
solo perché trova qualcosa della sua cultura; la cattedrale infatti nella sua
struttura e nel mosaico usa un linguaggio universale con elementi di diverse
culture. Tolleranza quindi, ma anche accoglienza nei confronti dello straniero
ci sembrano elementi caratteristici della salentinità. Abbiamo preso maggiore
consapevolezza di quanto ricca sia la nostra terra. Il mosaico della cattedrale
è ritenuta una delle pagine più superbe e meglio conservate dell’intelligenza,
della cultura e dell’arte indigena. Ci affascina e ci rende orgogliosi, che
un’opera così mirabile sia stata realizzata nel nostro Salento e che si sia
conservata nonostante la valanga dell’ invasione turca. Ci sembra che questa
suggestiva ipotesi possa rendere un po’ di giustizia al Sud d’Italia, forse una
delle regioni più incomprese, meno conosciute e peggio giudicate.
La suggestiva ipotesi delle analogie fra il mosaico e l’ opera dantesca ci
fa sentire la presenza del Salento nella Divina Commedia e ci fa ricordare
l’umanesimo di questa nostra terra, che precede, di circa tre secoli, quello
nazionale.
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Tra le peculiarità del popolo
salentino non
poteva passare
inosservato il
suo forte senso
religioso che pervade ogni azione del vivere quotidiano.
Per tale ragione, abbiamo pensato di visitare la città di Nardò che, non a
caso, è anche Sede Vescovile.
Fu definita “l’Atene delle lettere” per l’azione svolta dai monaci greci i
quali aprirono una famosa scuola scriptoria; ma fu quando venne conquistata
dai Normanni che vide il sorgere di numerosi insediamenti benedettini. Questo
popolo intendeva infatti incrementare i rapporti con la chiesa latina, proprio
attraverso i benedettini per spezzare l’egemonia della chiesa greca. Tuttavia,
i normanni rimasero affascinati dalla superiorità culturale bizantina e la
favorirono non mostrando più gli iniziali pregiudizi verso i monasteri greci.
Monaci greci, bizantini erano una forte presenza sul territorio cosicché la
componente religiosa ha finito per essere momento integrante del vivere
quotidiano delle popolazioni del luogo, infatti, la città antica vedeva la chiesa
e poi il castello come gli elementi attorno ai quali si sviluppava.
All'inizio del 1000 d.C., quando
i Normanni conquistarono la città,
giunsero i Benedettini cui fu affidata l’antichissima abbazia di S.
Maria de Nerito – probabilmente
esistente già nel XI sec. - sulle cui
spoglie venne costruita l’odierna
Cattedrale dedicata a Maria SS.
Assunta che presenta interventi di
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epoche diverse e pregevoli opere tra cui il Cristo Nero in legno (sec. XII),
resti di affreschi del XII e XV sec. e l’abside affrescata dal maestro Cesare
Maccari nel ‘900.
Agli inizi del 1400 Nardò divenne diocesi. Svariati ordini religiosi fecero
capo al territorio neretino: i Francescani, i Domenicani e le Clarisse di Santa
Chiara.
Gli ordini religiosi, il loro aumentare di numero e il loro diffondersi
influenzarono significativamente l’edilizia sacra: molte chiese e conventi
furono costruiti e restaurati grazie all'opera di artigiani locali con una enorme
capacità manuale.
Infatti, percorrendo le stradine della città si viene spesso sorpresi dalle
innumerevoli chiese che compaiono all’improvviso e sembra infrangano l’aria
con i loro bassorilievi dalle forme sinuose: la Cattedrale, la maestosità delle
chiese barocche dell'Immacolata, di Santa Teresa, di San Domenico.
Degno di nota è anche il palazzo del municipio ( antico castello
degli Acquaviva, del
secolo XV completato
nel secolo XVI) e le
numerose case e palazzi barocchi che
contribuiscono a dare
alla città una particolare
ed elegante impronta
architettonica.
A testimoniare il
fatto che ad ogni evento veniva naturale attribuire un significato religioso c’è
la Guglia dell’Immacolata che si innalza al centro di piazza Salandra, voluta
dal popolo in segno di ringraziamento per il pericolo scampato in seguito al
terremoto del 1743 e fu ultimata nel 1769. Alta 19,00 m., con forma piramidale
e pianta ottagonale, è costruita in pietra di carparo; nella parte inferiore sorregge
quattro statue di santi in pietra leccese e sulla sommità è posta la statua
dell’Immacolata Concezione in marmo.
Riflessioni in
Il forte senso religioso che da sempre caratterizza la cultura salentina è
particolarmente evidente e palpabile nella cittadina di Nardò con le sue
numerose chiese e monumenti sacri. Anche qui sembra risaltare la capacità
dei salentini di integrare la cultura orientale con quella occidentale. Per lungo
tempo infatti anche a livello religioso, Oriente e Occidente, cultura greca e
latina convivono. A testimonianza di ciò basti qui ricordare come protettore
dell’intera diocesi sia venerato proprio S. Gregorio Armeno.
Di Nardò non può poi non colpire l’eleganza architettonica della città,
frutto delle capacità e abilità manuali degli artigiani locali: un modo quasi
tangibile di esprimere la sensibilità e la coscienza delle genti salentine.
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Continua il nostro viaggio
nella storia e la nostra immaginaria macchina del tempo ci porta
nel 1500 salentino, a Lecce: VIª
e ultima tappa del nostro percorso.
Dopo l’oscurità del Medioevo
la città rifiorì, come centro culturale e umanistico, nel XV secolo sotto la monarchia aragonese.
Nel 1463 Lecce passò sotto
il Regno di Napoli e divenne il
centro culturale più vivo del
Mediterraneo. Durante il dominio spagnolo nel Cinquecento e nel Seicento,
la città si distingue sempre più dal punto di vista culturale, sociale, architettonico
e urbanistico diventando la seconda città del Regno e durante i Borboni, Lecce
viene definita “piccola Napoli”. La massima espressione di questo periodo
è il famoso Barocco leccese.
Come spesso accade,
l’evoluzione di un territorio è
legata anche a menti brillanti, e
a Lecce ce ne furono molte…
come Ferrante Loffredo, marchese di Tricarico che diede un
grande impulso allo sviluppo
della città, così come era accaduto nel 1400 con un’altra figura
di rilievo: Maria d’ Enghein.
Maria, donna affascinante e di
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alta statura morale era dotata di
particolari doti amministrative
e legislative che ne hanno fatto
un mito nella storia locale.
Ferrante Loffredo fu promotore dell’assetto urbano e
igienico della città, dello sviluppo monumentale e culturale,
del miglioramento abitativo e
dell’importanza strategica. Fu
brillante magistrato, fervido
militare e studioso delle lettere: con lui si perseguirono obiettivi quali
l’incremento delle istituzioni civili, dei cenacoli culturali e artistici.
Lecce divenne capoluogo di tutta la Puglia (1539) e una delle più importanti
città del Regno.
I caratteri essenziali della città che si delinearono in questo periodo e si
ritrovano ancora oggi pressocchè immutati. In questo periodo Lecce si arricchì
di stupendi edifici e monumenti in arte barocca, la città aveva cambiato il suo
essere: era diventata un punto di riferimento per l’arte nell’intero panorama
nazionale. E’ in questo periodo che vennero edificati il castello di Carlo V,
Porta Napoli, Chiesa di S. Croce, S. Irene, le chiese di S. Teresa, S. Chiara,
S. Angelo, il Palazzo dei Celestini e la splendida Piazza Duomo, il punto in
cui si concentrano numerosi monumenti armoniosamente legati da un solo
stile: il Barocco.
Sorsero le Accademie: occasione e luoghi di incontro fra le diverse esperienze
letterarie, filosofiche e scientifiche e che rendono ragione della colta Lecce
moderna.
Il seicento è il secolo eletto per la città: le si rivolgono interventi di
potenziamento urbanistico, di esaltazione architettonica ed estetica. Un ruolo
incisivo nel tessuto urbano lo svolsero gli ordini religiosi. Il potere della chiesa
si evidenzia col numero delle chiese concentrate nel centro storico (40). Verso
il 1630 nella città erano già presenti 17 conventi maschili e 8 femminili. Il
tessuto sociale della città era rappresentato da ecclesiastici, da nobili e borghesi
arricchiti, inerti e improduttivi, da letterati e intellettuali legati alla corte
spagnola e ne condividevano la politica di duro fiscalismo che portava privilegi
a loro e al clero, a danno però del ceto civile e del popolo costretto alla
subordinazione e alla miseria.
La nostra visita inizia da Porta Napoli che i leccesi edificarono nel 1548
in onore dell’imperatore Carlo V come segno di riconoscenza per aver
edificato il sistema difensivo contro la minaccia orientale.
Carlo V fece costruire la cinta muraria, il castello e tutto il sistema difensivo
costiero, con le torri e le masserie fortificate. Tale Porta è detta anche Arco
di Trionfo e venne eretta in posizione privilegiata davanti alla strada che
conduceva a Napoli. L’opera viene attribuita all’architetto Gian Giacomo
dell’Acaya, autore anche del Castello. Davanti a questa porta si apriva un
grande spazio dove si svolgevano le esercitazioni militari e si radunavano i
soldati e la cavalleria in caso di attacco.
La nostra visita è proseguita nelle strade del centro storico: è stato come
immergersi in un museo a cielo aperto, dove la pietra leccese è il denominatore
comune di palazzi, chiese, fortificazioni.
Guardandosi intorno si comprende come il barocco leccese sia una manifestazione culturale e artistica unica nel suo genere, un tempo come oggi. Nasce
dalla fusione dell’estro pratico e dalla creatività concettuale dei maestri
scalpellini leccesi con la cultura dell’epoca. Grandi opere d’arte sono uscite
da abili mani, grazie anche all’ utilizzazione di una grande risorsa naturale
del territorio: la pietra leccese, o marmo povero.
In fondo, caratteristica peculiare dei salentini è proprio quella di guardare
al territorio per utilizzare al meglio le sue risorse. Quello che in altre città
è lavoro a mosaico o a stucco, a
Lecce diviene paziente opera di
scalpellini che merlettano, attorcigliano, ornano, grazie alla malleabilità della pietra locale, di origine
calcarea che asseconda l’estro degli
artisti, ed alla caratteristica capacità
di indurirsi col tempo, e assumere
quelle tonalità calda e dorata insieme. E’ come se la città fosse stata
rivestita da una veste dalle ricche
e finissime decorazioni di notevole
bellezza ed eleganza. La città insomma ci appare come un grande
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teatro di pietra con mascheroni che si
affacciano grotteschi dai portali dei palazzi,
balconi in pietra ricamata, volute, figurazioni di santi, cariatidi, tiare papali, putti,
canestri ricchi di fiori e frutti, in un insieme
elegante, armonico mai eccessivo o volgare.
La maggior parte di noi conosceva già
la Basilica di S. Croce, ma siamo ancora
una volta rimasti colpiti dall’ impatto visivo
della facciata che rappresenta la più bella
e celebre espressione del barocco locale per l’elaborato apparato decorativo.
Colpisce il ricercato repertorio ornamentale, la ricchezza e la varietà delle
decorazioni: è un’esplosione della fantasia che prende forma nella docile pietra
locale. Non si riesce a decifrare subito tutte le figure. Vi sono figurazioni
fantastiche legate al medioevo: mostri, sirene, cariatidi, arpie, tutto ciò sorprende
mirabilmente chi guarda. Al di là delle considerazioni di ordine architettonico
e artistico, ci ha colpiti il simbolismo legato al barocco: il trionfo delle verità
del cristianesimo sui miti pagani. Ne è un esempio la colonna inglobata, a
lato della facciata, che rappresenta il paganesimo imprigionato nel pilastro
della virtù. L’interno della chiesa è molto composto ed equilibrato e ricorda
le chiese rinascimentali, composto da tre navate. Molto ricchi di decorazioni
sono gli altari. Attiguo alla chiesa è l’ex Convento dei Celestini.
Il complesso della Piazza del Duomo, sembra quasi nascosto e ci appare
all’improvviso. L’ingresso, per la sua forma a cannocchiale sembra quasi un
invito e l’intera piazza…un abbraccio. Un portone in rovere chiudeva, un
tempo, l’ingresso sormontato da un orologio e dallo stemma del Principe di
Taranto. Centro della vita ecclesiastica , in questo cortile la prima domenica
di novembre si svolgeva la “fiera dei panieri” o “spasa di Monsignore”, istituita
nel 1452 da G.A. Orsini del Balzo, che eliminò le tasse sulle mercanzie: si
vendevano frutta e giocattoli poveri, come carretti di legno e trottole.
I mercanti, in segno di riconoscenza verso il Vescovo che metteva a
disposizione il Cortile, offrivano un regalo presentandolo su un vassoio,
chiamato in dialetto “ spasa”. La Cattedrale è fra i più famosi monumenti
leccesi, ricostruita quasi completamente nel 1659 su una preesistente chiesa
del 1114. Singolare la presenza di due facciate monumentali.
Il campanile, con i suoi 72 metri di altezza domina il mare e sembra decollare
verso il cielo. L’architetto G. Zimbalo, riprodusse il pastorale del Vescovo.
Completano la Piazza il Palazzo del Vescovo di architettura molto elegante
e il Palazzo del Seminario che è una delle più belle facciate barocche esistenti
in città. Nel cortile , sorge il fastoso pozzetto, dalla vera ovale, simile ad un
cesto di frutta.
Per capire le scelte dei soggetti delle decorazioni del barocco che ricorrono
in tutti i monumenti bisogna entrare nell’anima profonda del Salento. La terra
è vista come un grembo materno che dona o nega i suoi frutti secondo il volere
di Dio che così premia o punisce per l’obbedienza ricevuta. Ecco spiegata
l’abbondanza delle decorazioni di frutta e fiori: segni della grazia divina. Alla
base di questa esuberanza decorativa vi è la restaurazione cattolica. La chiesa,
sconfitto il pericolo musulmano, celebra la propria vittoria, per cui nelle
decorazioni compaiono tiare e pastorali, spade incrociate e motivi di chiara
simbologia spirituale e cristiana.
Riflessioni in
Lecce è il nostro capoluogo, quindi tutti noi ci siamo stati chissà quante
volte ma la visita come associazione e quindi in un clima gioviale e familiare,
ci ha consentito di coglierne l’anima, ma anche la sua unicità nell’esplosione
del Barocco che è espressione del modo d’essere della città e della regione
che essa rappresenta: il Salento.
Lecce ci è apparsa come la leggenda racconta: “C'era una volta una
fanciulla dell'antica dinastia solare del Sibar di nome Lycia. Di lei se ne
innamorarono tutti, perché ricordava, con le sue sembianze, arcaici miti
orientali dedicati al sole. Architetti, arredatori, scalpellini, fabbri tutti fecero
a gara per abbellirla e fare di lei una leggiadra fanciulla ammirata e riconosciuta
unica in tutto il Regno. Anzi, dotti e letterati, professionisti e scienziati si
impegnarono a fondo per divulgare ovunque e rendere famoso il suo nome.
Ancora oggi il sole, sorgendo, sembra arrestare un momento il suo corso per
contemplare estatico il meraviglioso spettacolo del quale esso stesso partecipa
inconsapevolmente”.
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