Francesca Scrinzi
PROFESSIONISTE DELLA TRADIZIONE. LE DONNE MIGRANTI NEL MERCATO DEL LAVORO DOMESTICO
La massiccia sanatoria che ha accompagnato l’ultima legge1 sull’immigrazione in Italia ha portato alla ribalta una figura, quella della «badante», che è entrata poi rapidamente nell’orizzonte del senso comune.
Le misure che hanno dato la possibilità ai lavoratori migranti assunti «in
nero» di regolarizzare la loro posizione si sono indirizzate in modo particolare alle lavoratrici – molto più numerose degli uomini – impiegate
nel settore della collaborazione familiare e dell’assistenza alle persone
anziane dipendenti o portatrici di handicap: le collaboratrici familiari (le
cosiddette «colf») nel primo caso e le lavoratrici, ribattezzate dalla legge
«badanti», nel secondo2. Questo brutto e svalorizzante termine ha nominato, facendola emergere, una realtà di dimensioni imponenti, quella
della presenza degli anziani in uno dei paesi europei più poveri di servizi pubblici per le persone dipendenti. Allo stesso tempo la sanatoria, la
più importante mai avvenuta in Europa (Reyneri 2002), ha svelato il
modo in cui il problema viene «risolto» in Italia: questa domanda di lavoro domestico e di assistenza si orienta verso il mercato del lavoro informale, e specialmente verso il lavoro delle donne migranti.
Da una parte, l’apparizione sulla scena mediatica di queste lavoratrici domestiche migranti, in attesa di permesso di soggiorno e di un regolare contratto di lavoro, costituisce un dato imbarazzante per chi in politica gioca sull’amalgama tra immigrazione, clandestinità e criminalità
(Palidda 2000). Dall’altra, essa mostra in maniera esemplare che le migrazioni funzionano come rivelatore dei processi che vanno oggi sotto il
nome di «globalizzazione», costituendo un punto di vista cruciale per
mettere queste dinamiche in prospettiva. Oggi più che mai i movimenti
Questo articolo è basato su dati in parte presentati in Scrinzi (2004). Si veda anche Scrinzi (2001). Vorrei ringraziare Olivier Ponsini per il suo aiuto.
1
Legge n. 189 del 30 luglio 2002, detta «legge Bossi-Fini».
2
Quest’ultima categoria riguarda da sola il 40% delle 700.000 domande presentate, pari a 300.000 famiglie (Ranci 2002).
POLISπóλιςς, XVIII, 1, aprile 2004, pp. 107-136
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migratori sono un fenomeno trasversale, che si radica a tutti i livelli –
economico, politico, sociale, simbolico – nelle società di partenza e di
arrivo, come materializzazione dei rapporti che collegano le diverse regioni del mondo. In alcune analisi (Mezzadra 2001), la migrazione è vista come un intreccio contraddittorio tra la domanda soggettiva di diritti,
in primo luogo quello alla libertà di movimento, e l’esistenza oggettiva
di confini che si moltiplicano fuori e dentro le società.
D’altra parte, la presenza massiccia di lavoratori e specialmente di
lavoratrici migranti in questo settore interroga il femminismo e la ricerca
di genere. Quest’ultima emerge poi negli studi più recenti di lingua inglese (Haraway 1991; bell hooks 1998; Braidotti 2002) come critica dei
posizionamenti in punti di vista situati. All’origine della teoria femminista occidentale stava – negli anni settanta – la rivendicazione di una valenza nuova dei rapporti tra i sessi, che andava oltre la sfera domestica e
familiare, facendola implodere. Il «genere» era allora un modo di parlare delle società capitaliste, del loro sistema di produzione e del mercato
del lavoro, dell’istruzione e della scienza. Quello che potremmo chiamare «femminismo postmoderno» si spinge più in là e rinnova profondamente la teoria femminista per ripensare il corpo, il lavoro, la diversità
nel momento della crisi delle grandi partizioni (maschile/femminile, tradizione/modernità, ecc.) con cui le società occidentali hanno organizzato
il reale. Intesi in questo senso, gli studi di genere mirano, ad esempio, ad
analizzare l’intreccio dei rapporti di genere con le differenze di classe e
di nazionalità. Razzismo e sessismo appaiono d’altronde strettamente
articolati, l’uno essendo veicolo dell’altra forma di discorso.
Sulla base di queste premesse appare necessario integrare l’analisi
del razzismo e dei rapporti sociali legati alle migrazioni nella ricerca
femminista, ma anche – in sociologia delle migrazioni – assumere una
prospettiva di genere per leggere il femoneno migratorio, chiave delle
dinamiche dell’economia contemporanea.
1. Il mercato del lavoro domestico in Italia
Analizzare le migrazioni in un’ottica femminista implica il fatto di
rilevare come le migrazioni connettano i rapporti di genere esistenti nelle società di partenza e di arrivo, e di operare una critica delle retoriche
xenofobe e differenzialiste che tenga conto anche della loro dimensione
di genere. La divisione sessuale del lavoro e la redistribuzione del lavoro domestico, una questione politicamente centrale per le femministe
occidentali, si sono rivelate uno degli ambiti in cui i rapporti tra uomini
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
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e donne presentano più resistenza al cambiamento. Il lavoro domestico
si conferma oggi come un luogo cruciale del riprodursi dell’asimmetria
di potere esistente tra uomini e donne. Solo di recente in Italia si sono
alzate alcune voci3 che ricordano come molte donne italiane abbiano
trovato una (parziale e non sempre facile) soluzione al problema della
divisione del lavoro all’interno delle famiglie nella delega della «cura»
alle donne migranti.
I paesi dell’Unione Europea sono società sempre più vecchie e piuttosto povere di servizi per la cura dei bambini e delle persone dipendenti, a fronte di una domanda crescente nel settore. Queste tendenze si intrecciano con la presenza di un gran numero di migranti che la stretta
sulle politiche di immigrazione dei vari paesi contribuisce a spingere nel
mercato del lavoro informale4, in Italia particolarmente rilevante (Palidda e Dal Lago 2001). Diverse ricerche hanno mostrato che in Europa
l’impiego «in nero» dei lavoratori migranti, in particolare nell’edilizia,
nell’agricoltura, nell’industria della confezione e nel cosiddetto «terziario umile», è paradigmatico dello sgretolarsi del sistema dei diritti del lavoro e della banalizzazione delle forme illecite di impiego (Morice 1997).
L’inserimento dei lavoratori migranti nell’economia sommersa si spiega
anche con il quadro istituzionale in cui si inscrive la riproduzione dei
rapporti economici informali (Reyneri 1998): la tolleranza delle autorità
verso le pratiche illegali nelle assunzioni e nei rapporti di lavoro si accompagna a un orientamento nella gestione dei titoli di soggiorno che
associa sempre più strettamente il rinnovo del permesso all’esistenza di
un contratto di lavoro, con il risultato paradossale di favorire l’irregolarità.
In Italia, l’ampiezza del settore domestico informale è stata portata
alla luce dalla regolarizzazione. I tempi lunghi della sanatoria hanno poi
fatto la loro parte: un buon numero di lavoratori che avevano fatto domanda di regolarizzazione ha perso il posto di lavoro prima che la loro
posizione venisse «sanata». Nel settore domestico, infatti, la precarietà è
la regola, e perdere frequentemente il posto di lavoro per la morte o la
guarigione della persona assistita è del tutto normale. Alcune testimonianze che ho raccolto mostrano, invece, che alcune lavoratrici hanno
approfittato della regolarizzazione per abbandonare il servizio domestico. Normalmente la mobilità professionale di colf e badanti è limitata,
3
Vedi il sito web: www.puntodipartenza.org. Uno dei primi testi ad accennare alla questione è Vicarelli (1994).
4
Le stime valutano 1.500.000 lavoratori «irregolari» nel settore, mentre i tre
sindacati confederali parlano di tre persone assunte in nero per ogni colf in regola (Costa 2001).
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infatti, al passaggio dal lavoro fisso a quello a ore. Inoltre, nei casi in cui
il lavoro è svolto giorno e notte da persone che vivono al domicilio dei
datori di lavoro5, esso può dare luogo a rapporti personalistici che per di
più si sviluppano in situazioni di forte isolamento. Queste condizioni di
vita e di lavoro sono state documentate anche da altre ricerche realizzate
in Italia e in diversi paesi europei (Andall 2000; Anderson 2000; Parreñas Salazar 2001). Alcune inchieste parlano di giornate di lavoro di sedici ore per uno stipendio mensile di 600 euro (Dal Lago e Quadrelli
2003), ma spesso le badanti sono a disposizione ventiquattro ore su
ventiquattro, per uno stipendio che va dai 500 agli 800 euro, uscendo di
casa solo per fare la spesa6. Anche nei casi in cui è stato stipulato un regolare contratto, la relazione totalizzante che si instaura tra la lavoratrice
e la persona assistita – spesso l’unica che le badanti abbiano occasione
di sviluppare in Italia – riduce fortemente lo spazio della contrattazione.
Il fattore determinante nel profilarsi di rapporti che si possono definire paraservili (paga inferiore ai minimi legali, forte isolamento, assenza di contrattazione) resta però la precaria condizione sociale e giuridica
specifica dei migranti, che sono spesso «clandestini» oppure, come accennavo, «regolari» a rischio di scivolare nell’illegalità una volta perso
il lavoro. Per quanto riguarda il settore domestico, anche la realtà degli
abusi sessuali appare legata soprattutto a forme di «transazione» in cui il
datore di lavoro promette un impiego o la regolarizzazione in cambio di
prestazioni (Fondazione Lelio Basso 2001).
Come ho suggerito, l’istituzionalizzazione del ricorso al «lavoro
domestico migrante» rinvia allo stato delle politiche sociali e di welfare
esistenti nel paese. L’Italia è attualmente un esempio significativo delle
politiche di privatizzazione della sanità e dei servizi di cura e assistenza.
Questo settore è interessato da processi di ridefinizione del rapporto tra
stato e cittadini e tra pubblico e privato che tendono ad assegnare alla
famiglia un ruolo vicario nell’offerta di servizi alle persone. La famiglia
offre prestazioni gratuite e al tempo stesso è un soggetto consumatore di
servizi offerti sul mercato. Questo nuovo «modello di welfare» «fa emergere una logica dei vasi comunicanti: ciò che si sopprime nei servizi
pubblici riappare nell’ambito della famiglia. Alcuni aiuti economici sono previsti per la persona (implicitamente una donna) che rinuncia a la5
L’orario di lavoro supera spesso le 80 ore settimanali (Fondazione Lelio
Basso 2001).
6
Queste cifre derivano da una ricerca-azione i cui risultati non sono ancora
stati pubblicati, condotta in diverse città toscane dalla rete «Punto di partenza»
(www.puntodipartenza.org).
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vorare, ma anche a servirsi di un asilo, per occuparsi dei figli» (Del Re
1996, 179). Nell’ultimo anno il comune di Milano ha messo in atto la
distribuzione di «buoni sociali» per le famiglie con persone dipendenti,
aiuti finanziari che però non sono vincolati a un uso specifico, come per
esempio l’assunzione di una «badante»7.
2. Retoriche della schiavitù
Questi rapporti di lavoro paraservili non sono il prodotto di comportamenti socialmente marginali, né sono confinati ad ambienti particolarmente benestanti, abituati a vedere i domestici come un bene imprescindibile. Per comprendere il posto dei lavoratori domestici nella società è necessario tenere conto di chi sono i loro datori di lavoro.
In Italia, il lavoro domestico si è radicalmente trasformato nel giro
degli ultimi decenni, e con esso le caratteristiche sociologiche delle persone che vi fanno ricorso. Il numero di coloro che in Italia assumono
una colf – potendoselo permettere anche grazie ai bassi costi del lavoro
nero – è aumentato notevolmente negli ultimi venti anni. Nello spazio
temporale di meno di una generazione la società italiana ha visto la rinascita del settore del lavoro domestico «fisso», qualcosa che fino all’inizio degli anni ottanta era riservato alle famiglie dell’alta borghesia e costituiva un segno di forte distinzione sociale. Le italiane che venivano
dalle campagne del Nord Italia, dal Sud e dalle Isole sono state progressivamente sostituite dalle giovani donne immigrate, che spesso hanno
livelli di istruzione medi o elevati, anche superiori a quelli dei datori di
lavoro (Iref Acli-Colf 1999).
In realtà, le condizioni «paraservili» dei lavoratori domestici migranti hanno avuto fino ad oggi una scarsa visibilità sia nei media sia nella
letteratura specialistica. Queste vengono spesso presentate solo nelle loro manifestazioni estreme e più vistose, che in alcuni paesi europei passano sui giornali e alla televisione sotto il nome di «nuova schiavitù».
Mentre il ritiro del passaporto e le violenze fisiche sono situazioni poco
diffuse, la norma consiste probabilmente nella quotidianità di forme di
ricatto apparentemente blande, di allusioni che suonano minacciose.
Come mostrano i dati che ho raccolto, il trattamento delle badanti può
essere visto come un razzismo condito di buoni sentimenti, a metà strada
tra il paternalismo e l’espressione degli stereotipi razzisti più espliciti.
Esso passa per l’ambiguità estrema di situazioni in cui le badanti, per
7
Delibera della giunta regionale lombarda n. 11.555 del 13 dicembre 2002.
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sostenere l’isolamento, si abituano a considerare l’anziano che accudiscono come il loro padre o il loro nonno, trovandosi poi di fronte alla
sua morte.
In Francia, la mediatizzazione dei casi di «schiavitù moderna» o
«domestica» ad opera del Comité contre l’esclavage moderne (Ccem),
fondato all’inizio degli anni novanta, ha costituito un punto di partenza
per una serie di azioni giudiziarie contro i datori di lavoro «schiavisti»,
dando alle «vittime» la possibilità di un risarcimento materiale. Attività
simili si stanno sviluppando in altri paesi europei, tra cui l’Italia. Queste
azioni, senza dubbio importanti, hanno però contribuito a deviare l’attenzione pubblica dall’intreccio di dinamiche che legano le politiche dell’immigrazione a quelle del lavoro e che costituiscono il quadro in cui si
inscrive questa «nuova domesticità».
Benché negli anni novanta in Francia il settore dei servizi alle persone sia stato oggetto di politiche di defiscalizzazione e di emersione del
lavoro nero, oltre che di apertura del mercato alle imprese8 (Le Feuvre e
Parichon 1999), non c’è alcun riconoscimento ufficiale da parte dello
stato del ricorso alla manodopera migrante in questo settore. La riorganizzazione dei servizi a domicilio è stata messa in atto facendo ricorso
all’argomento della «conciliazione tra vita professionale e familiare», un
tema introdotto nell’agenda politica dalle donne presenti nelle istituzioni. Contemporaneamente, i casi di «schiavitù domestica» sono stati accompagnati da una retorica tesa a presentare le migranti come vittime di
datori di lavoro senza scrupoli, generalmente benestanti, appartenenti al
corpo diplomatico e provenienti da paesi arabi o africani.
In questa rappresentazione il lavoro domestico forzato, basato sul
sequestro del passaporto e sulla minaccia di una denuncia alle autorità,
appare un fenomeno importato da paesi in cui condizioni del genere sarebbero diffuse verso i paesi europei in cui esse sarebbero invece un’eccezione. Il trattamento che è stato fatto di questi casi ha poi evidenti
contenuti di genere, perché riproduce un’immagine della mascolinità e
della femminilità appiattita sul dualismo «criminale violento/vittima
passiva». Esso assegna a queste rappresentazioni di genere un’identità
etnicizzata, racchiudendole in uno spazio isolato dal resto della società
d’arrivo (la casa del padrone, microcosmo esotico trapiantato in Europa). Il testo di presentazione del sito web del Ccem recita: «Le vittime
della schiavitù non sono più l’appannaggio dei paesi in via di sviluppo.
8
Le misure varate dal governo francese per «normalizzare» il settore domestico sono state presentate dal Parlamento europeo come un modello da esportare in altri paesi dell’Unione Europea (Parlement européen 2000).
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
113
Oggi esse viaggiano con i loro padroni, e si trovano a migliaia nei paesi
industrializzati, private della loro identità, dignità e integrità fisica. Situazioni intollerabili si perpetuano nel mondo ed estendono le loro ramificazioni fino in Europa»9. D’altra parte, l’insistenza sulla categoria
della «vittima» può essere vista come una risposta al problema maggiore
che gli attivisti del Ccem devono affrontare: l’assenza di strumenti giuridici adatti. Per agire legalmente è necessario fare ricorso, infatti, agli
articoli sul sequestro di persona oppure al diritto del lavoro, poiché la
schiavitù è ormai scomparsa dal diritto francese (Vaz Cabral 2002).
Anche se l’aperto riconoscimento del ricorso alla manodopera straniera e l’estrema visibilità delle badanti sono una specificità dell’Italia e
di altri paesi dell’Europa meridionale, i diversi elementi di questa vicenda ricordano da vicino la maniera in cui è costruito il cosiddetto «traffico» della prostituzione nel discorso istituzionale, ma anche in quello di
una parte dell’associazionismo italiano cattolico e femminista (Andrijasevic 2003). In questo tipo di narrazione, la descrizione delle prostitute provenienti dai paesi dell’Est europeo unicamente come vittime
passive di trafficanti loro connazionali svolge la funzione di esaltare la
centralità del modello di emancipazione delle donne europee, istituendo
una frontiera tra le «donne europee» e quelle cui questo doppio status è
negato. Essa oscura, inoltre, il fatto che per molte donne i circuiti della
prostituzione sono le sole agenzie di emigrazione disponibili per entrare
nell’Unione Europea.
Lungi dal negare la realtà drammatica delle storie di queste donne,
vorrei suggerire che moralizzare il sistema della prostituzione vedendone unicamente le pratiche violente, come anche limitare l’attenzione
verso il fenomeno del lavoro domestico migrante ai casi sensazionali di
«schiavitù moderna», sono modi per non ammettere che questi movimenti di persone rispondono a bisogni quotidianamente espressi dalle
società europee. Vedere la colf e la «prostituta» come facce della stessa
medaglia non significa semplicemente alludere al fatto che queste sono
le due attività remunerate svolte oggi in Italia dalla grande maggioranza
delle donne migranti. Nella realtà, esse si intrecciano nei percorsi di vita
di alcune (Maluccelli 2002). Opposte invece l’una all’altra nelle rappresentazioni dominanti, queste figure sono i poli «abietti» (Butler 1993)
che contengono e delimitano l’idea della femminilità «rispettabile», due
elementi di una stessa economia discorsiva che costruisce, intrecciandole, l’idea di una differenza culturale naturalizzata, l’identità europea e i
rapporti di genere. Quest’ordine discorsivo ha specifiche ricadute di ge9
Vedi: www.ccem-antislavery.org.
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nere: la retorica sulle vittime e sui fenomeni del «traffico» e della «schiavitù moderna» permette ad alcune donne europee di detenere posizioni
di potere all’interno delle istituzioni dei paesi dell’Unione Europea, oltre
che una posizione di autorità discorsiva, a partire dalla quale viene istituita una norma sull’«essere donna ».
3. Il genere dell’esclusione
Da circa due decenni a questa parte le società europee sono toccate
da processi diffusi di etnicizzazione, che le interessano a tutti i livelli
(Réa 1998). I rapporti sociali, politici ed economici tendono ad essere
letti attraverso le categorie della «differenza culturale» e dell’«appartenenza etnica». La presenza crescente di una popolazione di individui
«cittadini a metà», sprovvisti di diritti politici e spesso anche sociali, e i
fenomeni di discriminazione che colpiscono i cittadini europei di origine
straniera nei paesi di più antica immigrazione sono accompagnati dallo
sviluppo di discorsi che vedono intrecciarsi la produzione culturale, mediatica e politica, e che tendono a legittimare questa subalternità (Dal
Lago 1999). Le interviste e le osservazioni che presento in questo articolo rendono conto dei contenuti di genere delle costruzioni discorsive
della «razza» nell’ambito specifico del mercato del lavoro domestico italiano. In particolare, l’osservazione delle interazioni tra operatrici del collocamento e della formazione, da una parte, e donne migranti alla ricerca di un posto di lavoro, dall’altra, costituisce un punto di vista privilegiato per la ricognizione delle articolazioni tra «femminilità» e «razza».
Lungi dal ridursi alla manifestazione di una credenza individuale, a
una variabile nei sondaggi d’opinione, il razzismo mostra negli studi di
tipo etnografico la sua natura pratica e banale, il suo inscriversi nei gesti
e nelle attività della vita di tutti i giorni. Il termine «razza» diventa pertinente a partire dal momento in cui i processi di differenziazione di
certe classi di individui si situano nella prospettiva di una «genealogizzazione del sociale» (Balibar e Wallerstein 1997), che porta a stigmatizzarli come portatori di una «differenza culturale» inassimilabile, un’idea
che è alla base delle retoriche dei partiti «anti-immigrazione» emersi nel
corso degli anni novanta in Italia e in altri paesi europei. La «cultura» vi
è intesa come un’identità essenzializzata e statica, sottratta alla storicità
dei rapporti sociali.
Nei centri genovesi di collocamento e di formazione professionale
che ho frequentato e in cui ho realizzato le osservazioni, il pubblico è
costituito quasi interamente da donne, per lo più ecuadoregne, peruvia-
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
115
ne, cilene, tunisine, marocchine, albanesi e dei paesi della ex-Jugoslavia,
ma provenienti anche da alcuni paesi africani, come la Somalia10.
Genova, con le sue 10.951 domande presentate11, è tra le città italiane che hanno espresso una richiesta consistente di regolarizzazioni12. Benché il lavoro etnografico nel suo insieme sia stato realizzato in maniera
sistematica in tutti i servizi di collocamento che erano attivi in quel periodo in città, esso non ha alcuna ambizione rappresentativa. La maggior
parte dei contatti tra i datori di lavoro italiani e i lavoratori migranti si realizza, infatti, per vie del tutto informali (di solito tramite conoscenze personali), mentre questa ricerca ha riguardato unicamente gli aspetti più
formalizzati dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro domestico13.
A livello micro, «differenza culturale» e «differenza sessuale» sono categorie che vengono messe in gioco per gestire le situazioni di «facciaa-faccia» nelle interazioni che hanno luogo durante le attività di collocamento e di formazione professionale. Le nozioni di «femminilità» e di
«cultura», intese come identità essenzializzate, informano le pratiche
delle operatrici, finendo spesso per proporre e legittimare una definizione asimmetrica dei rapporti tra italiane (operatrici e datrici di lavoro) e
migranti. In particolare, il fatto che sia nel pubblico sia tra gli operatori
le donne costituiscano la maggioranza14 non solo riflette l’effettiva pre10
Questi – oltre a Cina, Filippine e Sri Lanka – sono i paesi da cui vengono
in maggior numero le donne migranti residenti a Genova. In questo testo mi limito a presentare alcuni dati che riguardano un servizio di collocamento (AcliColf, operatrici n. 1 e n. 2) e due servizi di formazione professionale per lavoratrici domestiche frequentati esclusivamente da stranieri, in larga maggioranza da
donne. I due «centri di formazione» (associazione Api-Colf – operatrice n. 3 – e
parrocchia – operatrici n. 4, n. 5 e n. 6) però funzionano anche, in maniera più
informale, come servizi di collocamento. Le sei operatrici citate svolgono lavoro
volontario nei tre i centri, i quali sono tutti legati alla chiesa cattolica. Nel panorama cittadino Api-Colf sembra entrare in contatto – per lo meno per quanto riguarda il servizio di collocamento – con un minor numero di donne migranti rispetto ad Acli-Colf, che appare più organizzata e meglio conosciuta. Nell’articolo sono anche presentati estratti di due interviste in profondità a donne
migranti residenti a Genova. Tutti i nomi di persona qui usati per definire operatrici e donne in cerca di lavoro sono di mia invenzione.
11
Vedi il sito web: www.caritasroma.it.
12
Il lavoro etnografico che presento è stato realizzato prima dell’ultima regolarizzazione, da gennaio a giugno del 2001.
13
I centri in cui ho svolto il lavoro etnografico hanno poi in comune alcune
caratteristiche: essi sono privati, non-profit, ad orientamento cattolico e basati
sul volontariato – tratti particolarmente significativi per la mia analisi.
14
Ho incontrato un unico operatore maschio, volontario in un servizio di
collocamento, ma si occupava solo della parte amministrativa e non di accogliere e intervistare le donne in cerca di lavoro. Gli uomini migranti alla ricerca di
116
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ponderanza delle donne nel settore, ma mette in luce che, come i rapporti
tra datrice e lavoratrice domestica, anche i rapporti che precedono il servizio domestico avvengono prevalentemente «tra donne» (Rollins 1990).
Poiché la responsabilità del lavoro domestico è assegnata a loro, sono di
solito le donne a gestire le lavoratrici domestiche. Il fatto che queste siano sottoposte ad altre donne – ad individui che detengono sì un potere,
ma di seconda classe – contribuisce a svalorizzarle ulteriormente.
Al contrario, tradizionalmente la presenza di un domestico è servita
alle donne benestanti a riprodurre allo stesso tempo la loro posizione
nella società e la loro identità femminile. Un’importante tradizione di
studi storici, antropologici e sociologici sul servizio domestico15 ne ha
mostrato la funzione di riproduzione dei rapporti di genere, classe e
«razza». La presenza di due donne, da una parte e dall’altra di questa
relazione asimmetrica, fa sì che per legittimare l’ineguaglianza o gli
abusi si faccia ricorso agli stereotipi sulla benevolenza femminile e sulla
pretesa complicità che legherebbe padrona e domestica nel desiderio
comune di assicurare il lavoro riproduttivo nella casa.
Nei casi presentati più avanti, i meccanismi di depersonalizzazione
tipici del rapporto servile e del servizio domestico si combinano con
quelli che caratterizzano l’illegittimità sociale dei migranti. Un esempio
di questi meccanismi di depersonalizzazione è la pretesa che «le marocchine amano fare le pulizie» (op. 1). Anche se nel testo questo aspetto
appare relativamente secondario, posto sullo sfondo piuttosto che al
centro della scena, i dati mostrano anche che le donne migranti mettono
in discussione le rappresentazioni dominanti che si incarnano nelle pratiche delle operatrici e che le dipingono come subalterne. Esse le sfidano
apertamente oppure ne assumono alcuni elementi manipolandoli, con lo
scopo di trovare un posto di lavoro.
Benché sia possibile isolare una serie di elementi discorsivi che nei
luoghi del mio lavoro etnografico vengono usati per gestire le interazioni con i lavoratori domestici migranti in generale, la categoria «colf»
corrisponde a una realtà sociale eterogenea. I lavoratori domestici stranieri in Italia sono una popolazione estremamente varia per genere, nazionalità, condizione giuridica, livello di studio, estrazione sociale, percorso personale e lavorativo. Alcune colf intrattengono buoni rapporti
con i datori di lavoro e si dicono relativamente contente della loro situazione; altre sono vittime di violenza fisica e sessuale. Alcune passano
un lavoro da colf o badante incontrati nel corso del lavoro etnografico non arrivano alla decina.
15
Si veda la bibliografia di Sorgoni (2000).
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
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tutto il loro tempo in casa; altre lavorano ad ore, gestendo diversi impieghi per volta. Alcune sono «in regola»; altre «clandestine».
Le interviste che qui uso interessano due donne piuttosto giovani e
con un livello di studio piuttosto elevato, che nei rispettivi paesi d’origine hanno avuto esperienze professionali lontane dal servizio domestico. In questo senso esse riflettono abbastanza bene il profilo sociologico
delle colf in Italia quale emerge da diverse ricerche. Anche l’impronta
cattolica dei centri che sono stati oggetto del lavoro etnografico è un elemento caratteristico del mercato del lavoro domestico italiano. Da una
parte, l’associazionismo cattolico e le strutture legate alla chiesa hanno
avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nell’offrire diversi servizi
ai migranti, a fronte del vuoto legislativo e politico lasciato dallo stato e
del ritardo con cui questo ha riconosciuto il fenomeno dell’immigrazione. Dall’altra, la chiesa cattolica ha assunto storicamente come una
delle sue missioni l’assistenza e la tutela delle donne che andavano «a
servizio» presso le famiglie borghesi delle città (Sarti 1994).
4. Il collocamento. Al mercato delle impressioni
Le relazioni tra donne migranti e operatrici italiane mi appaiono, da
un lato, come un riflesso della manipolazione delle identità di genere, di
classe e dell’idea di «cultura» che costituiscono il cuore del servizio
domestico, dall’altro come uno dei luoghi di costruzione di questi stessi
rapporti di lavoro. Le operatrici ricevono, infatti, le telefonate dei datori
di lavoro potenziali, trascrivendone le richieste. Queste annotazioni riguardano il quartiere di residenza, il tipo di prestazione richiesta (babysitting, assistenza a una persona dipendente, pulizie), gli orari e lo stipendio proposto ma anche, in maniera esplicita, il corpo e il carattere
delle lavoratrici, la loro età, la nazionalità e il colore della loro pelle:
«qualcuno di cui ci si può fidare», «onesta», «seria», «molto paziente»,
«per nulla suscettibile», «gentile», «bene educata», «affidabile», «meglio se italiana», «solo se italiana», «sudamericana», «giovane ragazza
dell’Est», «che non sia di colore», «anche di colore», «giovane donna di
circa venticinque anni», «di più di trent’anni», «tra trenta e quarant’anni», «niente donne giovani», «donna matura», «non troppo giovane», «abbastanza giovane».
I criteri indicati nei minimi dettagli dai datori di lavoro per descrivere la colf o badante che vorrebbero trovare mostrano fino a che punto
questo rapporto di lavoro sia atteso e vissuto come un rapporto personale, in cui una delle due persone coinvolte si sente legittimata a scegliere,
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giudicare e controllare l’altra. Anche nelle conversazioni telefoniche, le
parole con cui vengono descritte le lavoratrici che sostano nel corridoio
in attesa della «chiamata» fanno l’effetto di parole che descrivono una
mercanzia. Si fa la promozione del corpo delle donne o di alcune parti di
esso, e le migranti in attesa sono descritte con queste frasi: «mani abili»,
«una persona di sana e robusta costituzione», «è robusta, forte, ha
un’espressione onesta». In questa operazione retorica tipica del discorso
razzista, gli individui vengono ridotti alla funzione che viene loro assegnata, incarnata da una parte del loro corpo: le loro qualità personali,
morali e intellettuali e la loro identità sociale vengono ricondotte a un
dato fisico o biologico. In altri casi vengono esaltate le loro qualità
«femminili»: «dolce, gentile, molto paziente», «è una bella ragazza, pulita, ordinata, si presenta bene», «di buon carattere».
In queste interazioni le operatrici hanno una parte ambivalente, come
si conviene alla loro posizione di interfaccia tra domanda e offerta di lavoro. Esse contribuiscono ad alimentare la discriminazione e la legittimano, trascrivendo i desiderata di chi telefona e assumendoli come criteri per orientarsi nell’incrocio tra domanda e offerta, quando non sono
esse stesse a fare appello alla «razza». In questi casi, esse chiedono ai
datori potenziali se hanno particolari «problemi di etnia» (op. 1).
Ha problemi di nazionalità? (op. 1)
Se si trattasse di una persona di colore, o africana, le andrebbe bene lo stesso?
(op. 2)
Le categorie della «razza» vengono mobilitate dalle operatrici anche
nell’assegnazione di una candidata a un certo posto di lavoro invece che
a un altro. Il collocamento attiva un repertorio di associazioni tra l’idea
della «razza» e della «cultura», da una parte, e determinate competenze
al lavoro, dall’altra. Queste categorie «razzizzanti» sono in parte il frutto
del lavoro di collocamento stesso, e vengono usate per orientare le migranti nei diversi settori del mercato del lavoro domestico. Le competenze domestiche e di cura non sono viste semplicemente come dati
della «femminilità», ma come la «vocazione culturale» naturalizzata
delle donne migranti.
Tu sei perfetta per le pulizie, come tutte le marocchine (op. 2).
Voi senegalesi, siete davvero eccezionali con i bambini (op. 1).
Le sudamericane hanno molta umanità, sanno entrare in contatto con l’anziano.
Sanno sacrificarsi, si affezionano (op. 1).
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
119
Dall’altra parte, però, le operatrici tengono a fare il proprio lavoro,
che consiste nel trovare un impiego alle candidate. Nel periodo in cui ho
frequentato il centro, le volontarie parlavano di una scarsa domanda di
lavoro a fronte di un gran numero di donne alla ricerca di un posto. In
queste condizioni esse sono forse più propense ad aggirare i pregiudizi
più esplicitamente xenofobi espressi dagli italiani. Pur accettando senza
discutere l’espressione di «preferenze» di pelle o di nazionalità, esse
possono talvolta adottare strategie che le neutralizzano. In questi casi le
operatrici mettono alla prova chi telefona per capire fino a che punto è
possibile mettere in atto queste strategie, con l’obiettivo di collocare una
lavoratrice. A una datrice di lavoro che vuole un’italiana, si propone una
sudamericana ma «abbastanza bianca» (op. 1), scartando però a priori
tutte le candidate «nere». In un caso simile, le due operatrici discutono
sulla maniera migliore di appaiare lavoratrici e famiglie, scambiando le
loro impressioni sulle donne intervistate nel corso della giornata:
Per la signora con i due bambini pensavo a un’italiana… (op. 1).
Oppure quella che sembra un’italiana, quella che è sposata con un italiano,
quella dovrebbe andare bene… (op. 2).
La flessibilità delle categorie «nera», «bianca», «sudamericana», «italiana» ne mostra il carattere artificiale e contingente. Non si tratta evidentemente di essere di nazionalità italiana, ma piuttosto di mimare i segni corporei – indicatori materiali di qualità morali – che contrappongono le donne migranti alle italiane.
Il collocamento consiste nella classificazione e ri-classificazione
delle lavoratrici migranti, persone che nell’ambito delle società d’arrivo
sono oggettivate, in diverse situazioni, come corpi «etnicamente» marcati. La società dominante si pone come referente culturalmente neutro
mentre attribuisce ai soggetti razzizzati una diversità «etnica» (Guillaumin 1972). La stessa asimmetria si esprime nel ricorso differenziale alle
categorie della modernità e della nazionalità (per definire «noi») e dell’«etnia» (per definire gli «altri»). Le pratiche del collocamento attivano
dunque le diverse connotazioni, socialmente costruite, di questi corpi e i
diversi registri in cui essi si mettono in scena e in cui vengono negoziati
nelle interazioni. La materia di cui questi corpi sono costituiti e perfino
il loro «colore» sono dati anche dalle loro «appendici», dai loro gesti,
dai vestiti di cui essi sono ricoperti, dai consumi cui questi corpi sono
legittimati, dagli spazi cui essi hanno o non hanno diritto (Quadrelli
2001; Romero Bachiller 2003). In un’altra conversazione tra le due operatrici, la donna sudamericana in questione «sembra un’italiana perché è
120
Francesca Scrinzi
sposata con un italiano» (op. 2), passando così paradossalmente dall’altra parte della frontiera tra domestica e «signora». In questo gioco, che
vede impegnate non solo le operatrici del collocamento ma anche, come
si vedrà più avanti, le donne alla ricerca di un lavoro, la «differenza» è
costruita secondo una logica che induce una visibilità esasperata dei
corpi per suggerirne poi l’illegittimità nello spazio pubblico e nella società, rendendoli così «invisibili».
Così, la teoria femminista ha mostrato che la femminilità delle donne
«occidentali» e «bianche» è stata storicamente costruita non solo in opposizione all’idea di virilità, ma anche in relazione alla sessualità e alla
femminilità delle donne «nere», delle colonie o più recentemente dei paesi
«in via di sviluppo». Nella seconda metà dell’Ottocento per esempio, il
movimento per l’emancipazione femminile in Inghilterra era strettamente legato alle dottrine imperialiste della superiorità razziale bianca.
La rivendicazione di diritti per le donne si basava sull’idea che esse erano le madri e le riproduttrici della razza che era a capo dell’impero
(Bhavnani 1999). In questo senso, la «razza» e la classe possono definirsi in termini di comportamenti femminili appropriati o rispettabili.
5. Affari di famiglia
A dispetto della flessibilità e della disinvoltura con cui le operatrici
manipolano l’idea di «cultura», è generale la loro tendenza a vedere le
migranti che vengono a cercare un impiego come persone oppresse dalla
povertà e bisognose di aiuto, delle «donne in via di sviluppo». Questo
può essere in parte riconducibile al fatto che il collocamento si basa
quasi esclusivamente sul volontariato: nelle interazioni, le operatrici
fanno valere una sorta di «logica della ricompensa», ponendosi spesso e
in maniera esplicita come coloro che aiutano qualcuno da cui ci si
aspetta una reazione di gratitudine.
Un effetto importante di questo modo di costruire il rapporto con le
donne migranti è quello di oscurarne la dimensione economica e lavorativa. Le parole di un’ex-lavoratrice domestica italiana in pensione che
gestisce un’associazione di categoria evocano, tra l’altro, lo scarto che
separa la vecchia generazione delle colf italiane dalle migranti attuali:
Avevamo ottanta domande e su trecento, quattrocento persone non siamo riuscite a piazzarne neanche una, perché non avevano le competenze necessarie,
mancavano di professionalità. Tanto più che nel caso delle straniere abbiamo a
che fare con una richiesta di denaro più che di lavoro. La prima cosa che dicono
è: «quant’è lo stipendio?». Rifiutano un milione e mezzo per un lavoro 24 ore su
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
121
24; chiedono almeno un milione e ottocentomila lire. Anch’io ho fatto questo
lavoro, sono arrivata a Genova nel 1954, venivo dall’appennino emiliano per lavorare e due milioni non li ho mai guadagnati… Abbiamo preparato le italiane
apposta per questo lavoro; gli stranieri non possono rifiutarlo semplicemente
perché non hanno voglia di imparare a farlo. Sono aggressivi, dispotici, arrivano
in Italia e vogliono comandare; allora io li metto alla porta. Ne ho il diritto, sono
stata un’immigrata anch’io (op. 3).
In quest’altro caso la «disponibilità» è presentata come una qualità
necessaria a svolgere l’attività, e il fatto di contestare gli abusi dei datori
di lavoro sui migranti è stigmatizzato come un segno di incapacità professionale, e quindi sanzionato.
L’operatrice n. 1 dice: «Al massimo, c’è un lavoro con una persona anziana, non
arrivano a 800.000 lire al mese, sono nove ore al giorno. Se vuoi, te lo do». La
donna, di nazionalità eritrea, si lamenta dello stipendio insufficiente. Dice che
nell’hotel in cui lavora ci sono degli italiani che guadagnano tre milioni al mese
mentre lei ne guadagna uno, eppure fanno lo stesso lavoro. L’operatrice risponde che non le crede e che la donna si sta sicuramente sbagliando. Questa urla
che è tutto vero e che lei non chiede tre milioni come gli altri ma almeno un milione e mezzo. L’operatrice risponde «non c’è lavoro per te, anzi non c’è lavoro
per quelli che hanno questo tipo di problemi…» e la invita ad andarsene.
Come osservatrice, ho avuto modo di assistere e di partecipare alle
conversazioni in cui le operatrici valutano le candidate. Alcuni dei motivi per cui le operatrici mostrano di non apprezzare certe donne è il fatto
che abbiano un aspetto trascurato, che vengano accompagnate dal marito, che usino la lingua materna per parlare tra loro, ma soprattutto il
fatto che domandino informazioni sullo stipendio o si lamentino di non
essere pagate abbastanza. Il fatto che le lavoratrici parlino di denaro in
termini rivendicativi sembra essere considerato un’ingratitudine da parte
loro o, peggio, una mancanza di professionalità.
Le operatrici esprimono invece apprezzamento per le candidate alludendo al fatto che sono ordinate e «si presentano bene» (op. 2), che «si
sanno accontentare» (op. 1) e «non fanno storie» (op. 1), mentre si lamentano di qualcuna che «non è mai contenta» dal punto di vista del
trattamento economico (op. 2). Le volontarie hanno l’impressione di
svolgere bene il proprio lavoro se possono essere utili a chi è nel bisogno. Le persone che rinfacciano un trattamento indegno sovvertono
invece il ruolo stesso delle operatrici, e al tempo stesso le attese miserabiliste che riguardano le candidate in quanto migranti.
Quella che ho chiamato «logica della ricompensa» (protezione versus gratitudine) sottende una definizione del rapporto di lavoro domestico come «affare di famiglia», un tratto che è messo in luce da tutte le ri-
122
Francesca Scrinzi
cerche sul servizio domestico. Un’organizzazione londinese di lavoratrici domestiche migranti distribuisce un opuscolo con informazioni e consigli che possono aiutare ad evitare gli abusi: ad esempio, verificare l’esistenza di uno spazio nella casa a disposizione della sola lavoratrice e insistere fin dal primo incontro sui limiti tra lavoro e tempo libero16. Se le
lavoratrici domestiche sono da valutare non semplicemente come lavoratrici ma soprattutto come persone, se il tempo e lo spazio del lavoro
hanno confini labili ed elastici e tendono a pervadere l’intera esistenza
della lavoratrice oscurando la sua vita privata, è proprio la costruzione
di pubblico e privato come due ambiti nettamente separati che fonda le
razionalizzazioni che giustificano lo sfruttamento. Chi parla è una suora
che si incarica di trovare personale sudamericano per i suoi parrocchiani:
La gente mi dice: «preferisco che sia lei a consigliarmi una persona». Io le conosco come persone e non solo come lavoratrici… non tutte in realtà, ma insomma. Pensano che le donne che io gli consiglio siano le migliori… (op. 4).
Ad esempio, una lavoratrice può essere considerata «una di famiglia» quando le si chiede di lavorare anche il fine settimana, ma torna ad
essere una dipendente se le capita di arrivare in ritardo al lavoro. È in
questa ambiguità che si gioca e si consolida il potere nel rapporto di lavoro. Ecco le parole di una donna italiana che, scontenta della colf assunta, si reca al centro di collocamento per trovarne un’altra:
È importante che sia qui senza famiglia perché, detto tra di noi, la donna che ha
una famiglia… ha una famiglia! Questa ragazza ha un po’ troppa famiglia, ha un
po’ troppi problemi; se le chiedo di restare anche il sabato, non può.
Si dice che il lavoro è difficile e perciò valorizzante perché per svolgerlo non basta l’esperienza; ci vogliono qualità e capacità «umane»
(femminili) e personali, che dipendono dal carattere della persona: docilità, pazienza, modestia, dedizione, spirito di sacrificio. D’altra parte,
nelle interviste alle operatrici il servizio domestico è visto nella tradizionale funzione di inserimento sociale assegnata al lavoro: esso è allora
inteso come qualcosa che i migranti devono imparare a svolgere correttamente perché si compia un processo di integrazione.
L’inserimento nella società italiana, come il rapporto di lavoro che
deve favorirlo, è quindi definito nei termini di un rapporto privato che si
inscrive in uno spazio pensato come una «comunità domestica». La metafora della società come comunità retta da «leggi naturali», in cui i mi16
Vedi il sito web: www.solidar.org, in particolare la rubrica «Respect».
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
123
granti appaiono come «ospiti» tollerati per il tempo in cui sono graditi, è
diffusa e radicata nell’uso giornalistico, politico e quotidiano, senza peraltro avere alcun fondamento etico né giuridico (Sayad 1999). Ora, per
molte lavoratrici domestiche che lavorano «fisse» nella casa dei datori di
lavoro, l’Italia è davvero la casa degli italiani, e viceversa: per molti
datori di lavoro i rapporti con i migranti che vivono in Italia si riducono
alla relazione di servizio domestico, segnato dalle rispettive posizioni di
potere. Tutto questo rilancia l’idea dell’accoglienza – nella casa privata
come nella casa nazionale degli italiani – come favore.
In particolare, per coloro che non hanno trovato un alloggio o che
sono appena arrivate, un’offerta di lavoro come badante 24 ore su 24
può essere assunta come un atto di generosità verso qualcuno che si trova nel bisogno. Come testimoniano diverse operatrici, alcuni datori di
lavoro pensano di potersi limitare a un pagamento in natura, assicurando
vitto e alloggio. Di fatto, la caratteristica richiesta più di frequente dai
datori di lavoro che si rivolgono ai servizi di collocamento è che la lavoratrice domestica sia libera da impegni familiari di qualsiasi tipo. E, in
effetti, alcune ricerche mettono in luce che il lavoro domestico significa
spesso per le donne migranti rinunciare ad avere una vita privata e ad
occuparsi dei propri figli, che devono affidare ad altre donne nel paese
di partenza o mettere in istituto limitandosi ad incontrarli nel loro giorno
libero (Hondagneu-Sotelo 1997).
A proposito dell’ambigua nozione di «integrazione», Sayad (1994)
ha sottolineato come il miglior modo di depoliticizzare una questione sia
quello di assegnarle un significato morale. Invece di parlare dei diritti
dei migranti, si tende così a porre l’accento sui doveri delle istituzioni
della società d’arrivo al loro riguardo, facendo dei migranti l’oggetto
della missione umanitaria delle società di arrivo invece che i soggetti di
una domanda di diritti. Insomma, le razionalizzazioni basate sullo stereotipo della naturale «umanità» delle badanti non sono mai separate dalla
considerazione del loro essere migranti. In questa visione, la famiglia di
cui le colf e le badanti hanno bisogno per integrarsi è la famiglia italiana
dei datori di lavoro, oppure, in altre interviste (op. 3), il centro di collocamento stesso:
Chi viene qui a cercare lavoro non deve iscriversi, ma noi vogliamo mantenere
un contatto con loro. Dopo, quando hanno trovato un lavoro, noi facciamo in
modo che i rapporti si mantengano e gli chiediamo di pagare una quota, 60.000
lire all’anno, che gli permette di partecipare a diverse attività, anche ricreative,
che organizziamo. Io glielo dico sempre: dovete considerarci la vostra famiglia
qui in Italia (op. 3).
124
Francesca Scrinzi
In passato le ragazze che venivano dalla Sardegna restavano con una famiglia
tutta la vita. Oggi invece non si instaura più questo legame affettivo; una volta
che hanno messo da parte un po’ di denaro, ritornano a casa loro e si ritrovano
senza un lavoro. Non vogliono più vivere con la famiglia, preferiscono affittare
un appartamento da sole; allora il denaro non basta, fanno arrivare un’amica ma
poi finiscono per litigare, non funziona, capisci, non va bene. Oltretutto fanno
venire i figli, così devono pagare degli affitti incredibili per stare in tre persone
in un’unica stanza (op. 2).
6. «La parola “diritti” sulla bocca»
L’altra faccia di questo atteggiamento «maternalistico» è la creazione di un ambiente in cui le relazioni personali sono del tutto indistinguibili da quelle «di lavoro». Le donne frequentano i centri di collocamento
per cercare un impiego ma trovano il tempo per fare nuove conoscenze.
In realtà, nel settore domestico stabilire contatti con un gran numero di
persone è in sé un modo per aumentare le possibilità di trovare lavoro.
D’altra parte, negli incontri con le operatrici la storia personale delle
candidate occupa una parte importante: i figli, la situazione economica e
familiare, la presenza di un altro stipendio in famiglia. Al di là delle
questioni di orario e delle informazioni sull’esperienza lavorativa, questi
criteri orientano le scelte delle operatrici. Si cerca di trovare un posto a
coloro ne hanno più bisogno, anche a dispetto della loro scarsa esperienza o abilità. Allo stesso tempo, queste informazioni e altre più personali sono sciorinate di fronte ai datori di lavoro potenziali come elementi necessari per decidere dell’assunzione. Di fatto, si forniscono loro
le risorse necessarie ad esercitare una forma supplementare di controllo
nei confronti della lavoratrice domestica, confermando la loro posizione
di potere. L’asimmetria che fonda il rapporto di servizio domestico si
esprime anche in un diverso trattamento della privacy dei datori di lavoro e delle migranti, visto che nessuna informazione di tipo privato sulle
famiglie viene data alle lavoratrici.
Nel centro di collocamento, ogni giorno sfilano almeno una ventina
di candidate. Una per volta entrano nelle due stanze dove si trovano le
operatrici, mentre le altre aspettano il loro turno nel corridoio. Le operatrici parlano tra loro delle candidate indicandole con il loro nome, un
segno particolare o un particolare della loro vicenda personale, o la presenza di un figlio durante il colloquio. Quando mi è stato chiesto di sostituire una delle due operatrici per un giorno, ho ricevuto diverse donne
migranti e riempito le loro schede. Le «novizie» rispondevano alle mie
domande sugli orari e il tipo di lavoro desiderato, poi se ne andavano
rapidamente. Le «anziane» scambiavano poche parole con me per poi
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
125
tornare a fare la coda: volevano essere ricevute dall’operatrice che conoscono e che le conosce. In questo senso, il lavoro delle candidate è farsi
conoscere e restare visibili, per lo meno nella memoria delle operatrici;
quello delle operatrici consiste nell’aggiornare continuamente il «catalogo». Questa loro attenzione selettiva si rifà a sua volta alle costruzioni
di genere dominanti che associano il femminile in un contesto di migrazione al bisogno e allo status di vittima.
Le migranti però resistono a queste raffigurazioni. Talvolta nel corso
delle interazioni con le volontarie e più spesso nei rapporti con i datori
di lavoro, esse propongono una visione del rapporto di lavoro come relazione simmetrica. La sociologia interazionista ha mostrato che le pratiche di definizione della realtà hanno un carattere morale, perché mirano ad imporre un’interpretazione naturale della situazione e implicano il
diritto degli individui a essere trattati in maniera conforme al ruolo che
incarnano e che viene loro riconosciuto nel corso dell’interazione (Goffman 1959). Il contenuto morale dei microrituali della quotidianità passa
per la dimensione delle aspettative che riguardano la condotta degli attori. Come si è visto, le lavoratrici domestiche che avanzano la pretesa di
intrattenere rapporti di lavoro e non di servizio con le datrici di lavoro, e
che rifiutano le immagini miserabiliste che circolano nei centri di collocamento, negano il ruolo stesso delle operatrici e il senso del loro lavoro, imperniato sull’idea dell’assistenza e della ricompensa, e provocano
perciò reazioni di sdegno e vera irritazione.
Le straniere che «hanno sempre la parola “diritti” sulla bocca» (op.
2) cercano di imporre definizioni alternative della situazione: reciprocità, pari dignità, rapporto contrattuale, non pertinenza della morale. D’altronde, il fatto che i migranti si pongano come soggetti che esprimono
una forte domanda di diritti è un dato dalle dimensioni strutturali. Come
ho già accennato, le colf non vengono da mondi molto diversi rispetto a
quelli in cui si trovano a lavorare. Una ricerca condotta a Roma nel 1998
mostra che su mille lavoratrici domestiche, italiane e straniere, solo il
9,6% delle italiane – contro il 35,5% delle straniere – aveva un titolo di
studio superiore (Acli Ires 1998). Quello che segue è un brano estratto
dalla prima delle due interviste a lavoratrici domestiche che utilizzo in
questo saggio. Maria ha ventisei anni, viene dall’Ecuador. Al momento
del nostro primo incontro non ha alcun titolo di soggiorno e lavora come
assistente per le persone anziane.
Sono in Italia da quattro anni, sono contabile, ho fatto due anni di università, economia, ho lavorato in una banca e poi in un albergo, nell’amministrazione. Ho
sempre voluto andare all’estero, partire, stare lontana dalla mia famiglia… Non
è stato per necessità economica perché la mia famiglia è abbastanza benestante.
126
Francesca Scrinzi
Frequentavo un corso di lingua italiana, mi hanno proposto di andare in Italia,
ho pensato: perfetto, è proprio quello che sto studiando. Ne ho parlato con i
miei, ho detto: imparo un’altra lingua, metto in pratica quello che ho studiato.
Loro non erano d’accordo, ma alla fine mi sono detta: voglio fare questa esperienza e la farò… Mi sono sentita spesso ferita per il fatto che la signora parlava
sempre del mio paese come se vivessimo nelle caverne, ma una volta le ho dimostrato che ho fatto degli studi. Una volta non riusciva a leggere una cosa, le
ho detto: lasci, glielo leggo io. Gliel’ho letto, in inglese, lei non parla neanche
l’italiano, parla solo il dialetto genovese, e anche quello… Mi dice: non sai mica
leggere… impossibile! Da quel momento ha cominciato a rispettarmi… Al telefono parlava male di me, credeva che non capissi, diceva: «gli stranieri sono
tutti degli idioti», diceva che ero una poveraccia, un’ignorante che non capiva
niente, ma si sbagliava perché invece capivo tutto… e glielo ho fatto capire
chiaramente. Lavoravo da «fissa», guadagnavo 700.000 lire al mese, quella
controllava tutto, il cibo, quanta acqua usavo per lavarmi… Una volta mi sono
tolta una soddisfazione: la coppia per cui lavoravo doveva andare in Perù, li ho
invitati a casa mia in Ecuador, gli ho detto: telefonatemi quando sarete arrivati.
Sono venuti a casa mia, erano stupefatti, sono rimasti a bocca aperta. Mi hanno
chiesto: ma perché sei venuta in Italia a fare il lavoro che fai? E io gli ho risposto: è perché questa non è la mia casa, è la casa dei miei genitori.
Allo stesso modo, nel gestire la loro presenza di fronte alle operatrici, le migranti investono le frontiere «interne» che definiscono i loro
corpi come corpi marcati. Esse assumono in maniera strumentale alcuni
elementi della retorica che circola nelle pratiche e nei discorsi del collocamento: una donna peruviana presentatasi al colloquio con un neonato
in braccio mi mette in guardia contro quelle che mentono raccontando di
avere dei bambini piccoli da mantenere. In questo modo e in altri ancora
(la religione cattolica, le condizioni economiche difficili), esse investono sulla propria visibilità e su un’immagine che considerano utile a promuovere la loro ricerca di un posto di lavoro.
7. La formazione. Professioniste della tradizione
Il primo dei due servizi di formazione professionale per colf e badanti di cui tratterò si tiene nei locali di una parrocchia. Ne è responsabile una suora (op. 4), rientrata in Italia dopo una lunga permanenza in
Africa come missionaria. I «corsi» hanno un carattere molto informale e
si alternano ad alcune attività ricreative e alle pratiche religiose. La responsabile è affiancata da una formatrice di nazionalità peruviana (op.
5), che lavora come colf e che tiene alcuni corsi in lingua spagnola.
Le donne che frequentano i corsi sono quasi esclusivamente peruviane ed ecuadoregne, provenienti da paesi dove il cattolicesimo è la religione ufficiale. Attraverso la messa in scena anticipata delle interazioni
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
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– fisiche e discorsive – che vedranno protagoniste le lavoratrici domestiche nel luogo di lavoro (sollevare un anziano costretto a letto, preparare un pasto), i corsi di formazione finiscono per suggerire alle lavoratrici codici di presentazione di sé modellati dal valore della deferenza.
Ad esempio, per imparare la lingua italiana vengono simulate conversazioni con «la signora». Come nelle pratiche del collocamento, questa deferenza, vista come una competenza professionale, è costruita come
un’attitudine dettata da criteri «etnici» naturalizzati. In questo esempio,
la formatrice peruviana si rivolge al pubblico composto unicamente da
donne, alla presenza della responsabile del corso:
Operatrice n. 5: «Gli italiani sono abituati alla nostra onestà. Se al lavoro ci
comportiamo con serietà, va tutto bene. Ma sennò, la prima volta può passare liscia, ma la seconda non passa liscia. Dobbiamo comportarci onestamente. Non
ci piace il modo di fare europeo, vero suora [la responsabile del corso]? Allora
insegniamo ai nostri figli i nostri valori e continuiamo nelle nostre tradizioni.
Non bisogna dare del tu alle persone, tranne che ai bambini. Bisogna dire sempre “signore” e “signora”».
Una donna del pubblico: «Ma a me loro danno del tu!».
Operatrice n. 5: «Perché questa è l’abitudine italiana, ma noi invece dobbiamo
mantenere i nostri valori, le nostre tradizioni».
L’«abitudine italiana» e la «tradizione sudamericana» sono inventate e
fittizie, anche se si appoggiano a tratti reali cui vengono assegnati significati: per esempio, l’uso delle formule di cortesia che, secondo le formatrici, resiste nei paesi sudamericani mentre si sta perdendo in Italia. Secondo la responsabile, l’adesione alla «tradizione sudamericana» si manifesta
con atteggiamenti di deferenza (uso unilaterale del «lei») verso i datori
di lavoro. Le migranti sono esortate a conservarsi integre, culturalmente
e moralmente. Infatti, l’autenticità culturale è letta come integrità morale, ed entrambe sono poste come condizione del successo professionale.
Anche qui, come in alcune osservazioni sul collocamento, la definizione della professionalità della colf è costruita come disponibilità, qualità personale e allo stesso tempo «etnica». In questa visione, la riuscita
o il fallimento della migrazione dipende dalla capacità che hanno le
donne di mantenere la loro presunta identità culturale. La migrazione
viene presentata come un problema, fonte di disordine morale, come una
condizione a rischio di sfociare nella criminalità per gli uomini e nella
prostituzione per le donne. Nelle parole della responsabile, il centro si
propone esplicitamente di farsi carico di questo rischio e di realizzare
l’integrazione delle donne migranti nella società italiana. Di fatto, esso
suggerisce loro che l’invisibilità è una condizione di vita normale, fino a
proporlo come status cui aspirare, perché socialmente vincente.
128
Francesca Scrinzi
Operatrice n. 5: «Bisogna tenere i propri problemi per sé, dimenticarli quando si
è al lavoro. Tanto è inutile riversarli sulla signora.»
Operatrice n. 4: «Sì, non parlate dei vostri problemi, sennò i datori di lavoro potrebbero dire: sono persone senza moralità.»
Operatrice n. 5 : «Non bisogna mai aprire la porta agli estranei, a meno che la
signora non abbia dato l’autorizzazione, e mai toccare gli oggetti di casa, specialmente il denaro, anche se ci sono delle cose che ci piacciono. Tenere lo
scontrino di tutto quello che compriamo, non comprare nulla per noi o soltanto
se la signora ci ha detto che possiamo farlo. Se la signora è anziana e controlla
la quantità di cibo, non bisogna mangiare troppo.»
Operatrice n. 3 : «È vero, certe volte le persone anziane hanno di queste manie, che
la lavoratrice domestica non deve mangiare… Se la signora è avara, bisogna parlarne con i figli e mangiare nelle propria camera, di nascosto se è necessario.»
In effetti, la nuova domanda di sicurezza tende ad additare i migranti
come problema di ordine pubblico, proprio nel momento in cui questi
acquistano una visibilità nello spazio urbano. Le interviste a funzionari
di polizia raccolte da Salvatore Palidda (2000) raccontano come nelle
città la semplice presenza di un individuo percepito come «immigrato»
scateni l’allarme e induca a far intervenire le forze dell’ordine. Al contrario, la percezione tollerante della loro presenza è legata all’uso «appropriato» degli spazi pubblici cittadini e soprattutto alla possibilità di
passare inosservati. I filippini a Milano rappresentano un esempio di inserimento mediato dalla chiesa e caratterizzato dall’invisibilità sociale
(Lainati 2000).
Nei corsi di formazione di cui sono stata osservatrice partecipante,
l’uso del tempo libero e le forme di socialità esterne alla parrocchia dei
migranti ecuadoregni e peruviani (l’alcool, la musica e il ballo nei giardini pubblici) erano fortemente stigmatizzate. L’uso unilaterale delle
forme di cortesia descritto sopra rinvia, d’altronde, alla metafora della
famiglia e all’equazione «servi = bambini», mentre la docilità e l’accettazione di una posizione subalterna sono presentate come un tratto culturale «sudamericano» che testimonierebbe, tra l’altro, il fatto che gli stranieri sono moralmente migliori degli italiani.
Questa idea è parte di una narrazione più ampia sulla società italiana,
l’immigrazione e il cambiamento sociale. Vi si legge una rappresentazione valorizzante della «differenza culturale»: in questa visione nostalgica le migranti sono chiamate a far rivivere l’ordine sociale di un passato ormai trascorso. Il contenuto positivo dello stereotipo non impedisce comunque che esso si situi in una logica di esclusione. Nelle parole
di un’operatrice di un centro di collocamento:
Donne migranti e mercato del lavoro domestico
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Alla fine sono soddisfatti, dicono: sono più umane, gli anziani muoiono tra le loro braccia, noi abbiamo perso questa umanità (op. 6).
Le pratiche della formazione mettono in scena non solo le frontiere
tra lavoratrici migranti e datori di lavoro italiani, ma anche quelle tra i
migranti stessi, evocando le diverse «comunità etniche» come altrettanti
attori in competizione sul mercato. Per la responsabile del secondo corso
di formazione, tenuto da un’associazione di categoria, uno degli obiettivi dichiarati del corso è la formazione di «leader etnici» che rappresentino le varie «comunità» e collaborino con l’associazione, vista come
rappresentante della società italiana.
Noi italiani siamo per l’integrazione, ma bisogna anche volerla, non possiamo
essere solo noi a cambiare le nostre abitudini. Noi come associazione abbiamo
formato i capi delle varie etnie, perché non possiamo continuare noi italiani a
fargli da balia. Vanno scelte tra di loro le persone che dimostrano maggiore volontà, perché facciano un corso per diventare i leader della loro comunità. È
questa l’integrazione (op. 3).
La definizione di «integrazione» che emerge da queste interviste, basata sull’assegnazione dei migranti a «comunità etnico-religiose», ha
come corollario la classificazione delle diverse «comunità» secondo un
ordine gerarchico (Van Dijk 1987) e la rivalità e la competizione tra
queste e le «comunità» patrocinate.
Non dite ai datori di lavoro che prendete il posto e poi non vi presentate, se non
volete che poi non vogliano più i sudamericani. Io ho delle domande, do i vostri
nomi e i numeri di telefono, ma poi non vi chiamano più. Si rivolgono ad altri
centri frequentati da altre comunità etniche; cercano persone che vengono da un
altro continente (op. 4).
8. Il diritto di dire: «sono stanca»
Le stesse donne migranti possono assumere la concorrenza sul lavoro sotto forma di rivalità «etnica». Samia è marocchina, ha 35 anni. Dopo la maturità è partita con la sorella per Parigi, con l’idea di continuare
degli studi in arredamento e architettura di interni. Allo scadere del visto
turistico, ha lavorato come babysitter e colf poi, sempre in nero, come
operaia in un atelier di assemblaggio di materiali elettronici. Dopo alcuni anni ha sposato un marocchino che lavora in Italia e lo ha raggiunto a
Genova, dove è poi riuscita a regolarizzarsi. Attualmente lavora come
colf a ore. In questo brano dell’intervista, Samia parla della sua esperienza in due dei centri che sono stati teatro delle mie osservazioni.
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Anche io sono andata da suor Benedetta; all’inizio è davvero brava, così dolce,
gentile: «figlia mia, per me siete tutti uguali, il colore della vostra pelle o la vostra religione non mi interessa, per me è lo stesso». Ma dopo che ti ha trovato un
lavoro: «soprattutto stai attenta, devi avere pazienza, anche se ti pagano poco,
anche se il lavoro non ti piace non fa nulla, devi sopportare tutto perché di lavoro ce n’è poco…». Se una marocchina va a lamentarsi perché non è soddisfatta,
lei le dice che deve rassegnarsi, ma se è una sudamericana a non volerne più sapere di lavorare fissa, le trova subito un altro posto… Noi non abbiamo il diritto
di dire: sono stanca… In un centro di collocamento mi hanno detto: tu sei musulmana, i musulmani si aiutano tra di loro e gli italiani vengono dopo per loro… Ma questo non c’entra niente: io sono venuta per cercare del lavoro! Prima
mi fa riempire la scheda, mi chiede tutte le informazioni, mi chiede da quanti
anni sono in Italia, se ho dei bambini, d’accordo… E poi mi chiede: ma tu sei
musulmana? Perché so che i musulmani si aiutano molto tra di loro, che prima ci
siete voi e poi i cristiani. Le ho risposto che è vero, non potevo dire di no, è la
mia religione. Ma che cosa c’entra con il lavoro? Allora mi fa: ti dico questo
perché al contrario noi aiutiamo tutti, cristiani e musulmani. Le dico: ah, bene,
grazie. Poi mi dice: in ogni caso, ti dico subito che non c’è lavoro, ho il tuo numero, se mi chiamano per un lavoro ti telefono. Sei disponibile ad andare «fissa»? No. A finire tardi la sera? No. A lavorare nel fine settimana? No. Le ho
detto che non posso neanche lavorare prima delle otto e trenta di mattina, perché
devo accompagnare il bambino all’asilo. Lei ma ha detto: sono orari un po’ difficili! E perché poi? Anche il datore di lavoro ha degli orari, degli impegni, dice
«da quest’ora a quest’ora», e per noi è la stessa cosa.
Ancora una volta, abbiamo a che fare con la rivendicazione di un
rapporto paritario e contrattuale tra le due parti. Come emerge da altre
interviste, Samia prospetta una realtà ideale in cui datore di lavoro e colf
scambiano le rispettive posizioni. Ai datori di lavoro che reagiscono duramente alla domanda di un aumento o all’abbandono del posto per uno
migliore, le migranti rispondono semplicemente che nelle stesse condizioni essi sarebbero indotti a fare le stesse scelte.
9. «Ho bisogno di te»
I dati che ho presentato mostrano come nei luoghi del collocamento
e della formazione professionale per lavoratori domestici vengono elaborate e attivate categorie che assegnano le migranti a una differenza
culturale – naturalizzata – facendone il referente di una femminilità «altra» rispetto a quella delle italiane. Inoltre, nel settore domestico il lavoro è trattato secondo un registro moralizzante che finisce per oscurare la
dimensione sociale, politica ed economica del fenomeno, e soprattutto le
condizioni strutturali in cui esso si inscrive, date dalle politiche sull’immigrazione. Questa visione si incarna nelle pratiche che ho analizzato,
ma è diffusa anche nel discorso politico-istituzionale e in quello associa-
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tivo (Andall 2000). Le badanti sono accolte in Italia in virtù della loro
funzione di sostitute delle donne italiane, le quali delegano alle straniere
il lavoro di riproduzione che nella società viene loro assegnato. In questa visione, l’accento è posto sui bisogni delle italiane nella società in
trasformazione (l’ingresso massiccio delle donne sul mercato del lavoro,
il diffondersi delle famiglie monoparentali), mentre scompaiono le domande – politiche, economiche, personali – delle lavoratrici domestiche:
la comune identità di genere è vista come un canale di incontro «interculturale», e l’attività delle migranti nelle case italiane come una condizione della loro integrazione nella società.
«Viva gli anziani», la campagna della Comunità di Sant’Egidio per
la sanatoria delle badanti, centrata sul diritto degli anziani all’assistenza
a domicilio, costituisce un esempio di questa costruzione discorsiva. Il
logo della campagna, che mostra una donna anziana «bianca» e al suo
fianco una giovane donna, forse del Sud-est asiatico, porta la scritta «Ho
bisogno di te», inducendo un’ambiguità su chi delle due sia portatrice
del «bisogno». La rappresentazione del fenomeno delle badanti come
una realtà nata dal felice incontro di due solitudini ha più a che fare con
l’idea dell’ospitalità e del dono che con quella dei rapporti di lavoro:
Immigrati-anziani, un binomio dunque di reciproca necessità, come conferma
anche l’83enne portavoce di «Viva gli anziani»: «Sono vedova da oltre 23 anni e
vivo da sola, desidero rimanere nella mia casa sino alla fine perché solo fra
quelle mura mi identifico e mi sento sicura. Ma per farlo c’è bisogno degli immigrati, così come loro hanno bisogno di noi per costruire un futuro ai loro cari.
E allora perché ostacolare questo scambio?»… Al bisogno assistenziale vero e
proprio per chi non è autosufficiente, si accompagna anche quello più prettamente umano e legato alla solidarietà verso chi vive in un’oscura solitudine17.
Un’altra azione pubblica, questa volta organizzata da un gruppo di
donne migranti, ha reso visibili le implicazioni di genere delle costruzioni sulla «razza». Nel giugno del 2002, mentre si tiene il dibattito
parlamentare sulla legge Bossi-Fini, alcune donne di diverse nazionalità
residenti a Milano si organizzano per protestare contro la nuova legge
manifestando davanti al Palazzo di Giustizia. Il loro appello allude al
ruolo che gli stati e le società di arrivo hanno spesso assegnato alle donne migranti, quello di guardiane della tradizione, a metà strada tra questa
e la modernità, ma anche di riproduttrici e di mediatrici con le «comunità» straniere (Gaspard 1996). Esso si chiude con queste parole:
17
«Immigrati e anziani: “Questa legge calpesta la solidarietà”», in «Il Mattino» di Padova, 22 dicembre 2001. Vedi il sito web della campagna www.santegidio.org, in particolare la rassegna stampa. Si veda anche Sarti (2003).
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[Le donne migranti] non medicheranno le ferite che altri infliggono alla convivenza umana, non indoreranno le pillole per una società ostile… Con la barbarie
non saremo né materne, né benevole. Noi non saremo servili.
La tendenza ad immettere sul mercato le attività di riproduzione sociale non si accompagna al miglioramento generale delle condizioni di
lavoro (Vega 2000). Come nel passato, è la cittadinanza che viene evocata o nascosta nelle pieghe della domesticità. Assegnati a un’infanzia
senza fine, i domestici sono stati per lungo tempo esclusi dai diritti politici. Nel XIX secolo la domesticità metteva in scena la tensione tipicamente moderna tra la dipendenza extra-economica e lo statuto di cittadino-lavoratore, e la commistione tra i legami e i luoghi familiari e professionali (Fraisse 1998). Oggi, il lavoro domestico si situa più chiaramente
nell’ambito del mercato, ed è allo stesso tempo interessato da una deriva
verso forme di dipendenza e di invisibilità giuridica e sociale che sono
legate alla precaria condizione dei migranti nelle società europee.
Le voci delle lavoratrici domestiche migranti impongono alla politica e alla teoria femminista di riaprire la riflessione sul capitolo sempre
attuale dell’ineguale divisione sessuale del lavoro e di discutere le nuove
frontiere del lavoro domestico, integrando nell’analisi le categorie della
«razza». Non solo la massiccia presenza di lavoratori migranti nel nuovo
mercato dei servizi domestici ma anche le radicali trasformazioni del sistema di produzione, innervate dai modelli di genere, richiedono la rielaborazione di nozioni, come «lavoro domestico» o «lavoro di riproduzione», sviluppate dal pensiero femminista in contesti sociali ed economici ormai superati. Infine, per la ricerca che si occupa di studiare le
migrazioni, il «lavoro domestico migrante» costituisce un’occasione per
approfondire l’analisi della sedimentazione del genere nelle costruzioni
della «razza» e della «cultura»: un compito indispensabile per comprendere nelle loro molte dimensioni i processi di produzione e di spiazzamento dei confini in atto nel mondo contemporaneo.
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