Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e
accadimenti sono prodotti dell’immaginazione dell’autore o sono
utilizzati in maniera fittizia. Ogni somiglianza a eventi, luoghi o
persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. È proibito qualsiasi
utilizzo non autorizzato del materiale presente in questo libro, sia
totale che parziale.
Copyright © 2014 by Austin Grossman.
All rights reserved.
TITOLO ORIGINALE: YOU
Mulholland Books / Little, Brown and Company
Hachette Book Group
237 Park Avenue, New York, NY 10017
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Mulholland Books is an imprint of Little, Brown and Company,
a division of Hachette Book Group, Inc. The Mulholland Books
name and logo are trademarks of Hachette Book Group, Inc.
Edizione italiana a cura di: Multiplayer.it Edizioni
Coordinamento: Alessandro Cardinali, Francesco Giannotta
Traduzione: Veronica La Peccerella
Revisione: Giovanni Grotto
Impaginazione: Andrea Turrini
Cover:
Stampato in Italia presso Grafiche Diemme - Perugia
Prima edizione italiana: Maggio 2014
Finito di stampare nel Maggio 2014
ISBN: 978-8-8635526-1-4
http://edizioni.multiplayer.it
A tutti coloro che creano giochi
Perché sono azioni che un uomo potrebbe mimare;
ma io ho tal cosa dentro me che è al di là di ogni
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—WILLIAM SHAKESPEARE, AMLETO
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PUBBICITÀ BLACK ARTS STUDIOS
GAMELORDS MAGAZINE, MAGGIO 1992
PRIMA PARTE
IL GIOCO DEFINITIVO
Capitolo uno
“Allora, qual è il gioco definitivo secondo te?”
La faceva suonare come una domanda perfettamente
normale, e immagino che in quel contesto lo fosse. Il mio lungo
pomeriggio di colloqui si era ridotto a un dialogo con quei due
estranei. Un tipo alto, sulla ventina, con la faccia spigolosa e i
capelli già grigi legati in una coda di cavallo, che pronunciava
ogni cosa con estrema precisione, come se parlasse a un
programma di riconoscimento vocale ipersensibile: l’altro che
non arrivava al metro e sessanta, moro, con i capelli lunghi
e ondulati tipo Gesù e una maglietta nera scolorita, data
1988, che recitava CTHULHU FOR PRESIDENT. PERCHÉ
SCEGLIERE IL MALE MINORE?
“Ok”. Deglutii. “Com’è che lo definireste esattamente?”
Nessuna delle domande che mi avevano posto era come me
l’aspettavo. Per lo più si era trattato di esoterici esperimenti
mentali: “Come trasformeresti Orgoglio e pregiudizio in un
videogame?”, e “Se dovessi aggiungere un comando a Pac-Man,
cosa vorresti che facesse?”, oppure indovinelli tipo:
“Come mai quando Mario salta può cambiare direzione a
mezz’aria?” E ora questa.
“Hai presente, il gioco che faresti se avessi carta bianca”,
spiegò il designer con i capelli lunghi.
“Dimentica il budget”, aggiunse il tipo basso. “Hai tu il
comando. Puoi fare qualunque cosa! Il miglior videogame
di sempre!”
Aprii la bocca per rispondere e poi mi fermai. Era chiaramente
una domanda buttata lì per chiudere il pomeriggio in allegria,
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Austin Grossman
e quindi era strano che la mia mente si fosse svuotata davanti
all’unico quesito al quale avrei dovuto saper rispondere,
dato che stavo facendo un colloquio per un lavoro come
game designer.
Avevo trascorso le ultime ore in uno stato di lieve shock
intellettuale. Ero arrivato con quaranta minuti di anticipo
all’indirizzo che un manager mi aveva dato al telefono – un
anonimo complesso di uffici all’estremo limite della Red Line,
oltre Harvard e Porter, dove Cambridge svaniva totalmente
estinguendosi in parcheggi vuoti e ristoranti sul lato sbagliato
di Alewife Brook Parkway, e poi nelle paludi, con le loro
acque salmastre e le specie vegetali protette come il calamo
aromatico e la pontederia.
Oltre le paludi c’erano le colline boscose e i sobborghi,
Arlington e Belmont e Newton, dove sono cresciuto. Alewife
era costruito per essere un punto di scambio tra Cambridge
e la periferia vera e propria. Era anche la sede di interi acri di
spazio per uffici preteso da compagnie hi-tech nate dalla ricerca
accademica e fondate dal dipartimento di difesa, da scuole di
specializzazione in IT, da uffici per le risorse umane, agenzie
immobiliari e commercialisti. Ritornare lì mi faceva sentire
come se ce l’avessi fatta nella grande città, e ora fossi sul punto
di andare di nuovo alla deriva nel nulla. Era lì che la software
house Black Arts Studios aveva iniziato la sua attività.
Questo edificio in particolare era stato costruito nei primi
anni Ottanta, quando il dipartimento della difesa finanziava
ancora compagnie hi-tech con progetti astrusi. Le pesanti
porte di vetro conducevano a un atrio su tre piani e a un cortile
con fontana, piastrelle dalle morbide tinte mediterranee e
un’incongrua vegetazione a foglia larga in stile finto tropicale.
Aveva un odore umido, da serra, persino nella tarda primavera
stranamente fredda del 1997; i lucernari ghiacciati lasciavano
filtrare una luce eternamente tenue. Circa metà dello spazio
degli uffici sembrava vuoto.
Black Arts era al terzo piano. Non c’erano cartelli o numeri
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sulla porta, e così vagai avanti e indietro lungo la galleria finché
vidi la scritta “BLACK ARTS” segnata con un pennarello nero
su un foglio di carta, che era attaccato con lo scotch all’interno
di una finestra di vetro rinforzato con della rete metallica.
Non c’era nessun campanello. Attraverso il quadrato di vetro
potevo vedere un’area di ricevimento vuota, e dietro di essa
un’entrata aperta che conduceva a un ufficio mal illuminato.
Non mi sentivo esattamente a mio agio nei colloqui di
lavoro, e stavolta era persino peggio, perché conoscevo già
quelle persone, e anche piuttosto bene. Ci eravamo incontrati
tutti al liceo, quattordici anni prima. Adesso avrei chiesto un
lavoro nell’azienda che avevano creato. Darren e Simon erano
i cofondatori.
Erano amici da tempo immemore, da sempre. Simon
me lo ricordavo piccolo e con i capelli scuri, il viso tondo,
la pelle olivastra che pareva non aver mai visto la luce del
sole. Indossava camicie a scacchi e pantaloni di velluto a
coste, e sembrava perennemente imprigionato in un corpo da
ragazzino – a quindici anni ne dimostrava dodici. In teoria
era molto intelligente, ma per qualche ragione non seguì mai
i corsi avanzati. Era patetico, talmente goffo da sconfinare
quasi nell’inquietante. La gente andava raccontando che
aveva costruito delle bombe artigianali e che una volta aveva
hackerato i voti di un ragazzo sul computer della scuola.
Ridevano di lui, ma non in sua presenza.
Darren era più alto, aveva la faccia da cavallo e una
corporatura decentemente atletica. C’era stato un anno
in cui aveva partecipato alle gare di corsa, ma arrivato
al liceo si fece crescere i capelli, mollò l’atletica e i corsi
avanzati, trovò una vecchia giacca dell’esercito e cominciò
a indossarla continuamente.
Erano un’istituzione, uno alto e l’altro basso, lo stesso
tipo di perdente in due gusti diversi. Li vedevi tornare a
casa a piedi ogni giorno, le mani di Simon che modellavano
l’aria. Di cosa parlavano? Fumetti, film, battute che si
portavano dietro dalla quarta elementare e che capivano
solo loro? Un’altra amicizia tra adolescenti, un altro piccolo
universo misterioso.
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Austin Grossman
Li avevo conosciuti alla presentazione di un corso di
programmazione e sei anni dopo erano leggende, i due ragazzini
scoppiati che avevano fondato una casa di produzione di
videogiochi ed erano diventati ricchi. Ancor più dei soldi era
allettante l’idea che avessero trasformato i videogame nel loro
lavoro, persino prima che fosse chiaro che quella dei giochi per
computer stava diventando un’industria, un business grande
quanto il cinema, o ancora di più secondo alcuni. Simon e
Darren facevano soldi... beh, in modo veramente figo.
Anche Don e Lisa andarono con loro – diventarono ricchi,
restarono lì, vinsero. Nel frattempo io proseguii con una
laurea in Inglese, un anno di scuola di legge, uno stage in un
giornale fallito di Dallas, subaffitti a Cambridge, nel Queens,
a Somerville, San Francisco (un nuovo inizio!), Austin,
Madison e, prossimamente, nel bel mezzo del nulla.
Simon non prese mai la laurea. Morì quattro anni fa, in un
ridicolo incidente che ebbe il risultato di far piazzare delle
telecamere di sicurezza dentro i pozzi degli ascensori di tutti
gli edifici di quel campus. Che non era neanche il suo.
La gente aveva già iniziato a parlare di lui come di un
genio pari a Bill Gates o Steve Jobs, e di cosa avrebbe potuto
fare se fosse sopravvissuto. Il software che lasciò al mondo
era ancora all’avanguardia, in un certo senso, anche se lo
aveva scritto negli anni Ottanta, prima che i videogiochi
fossero in 3D, prima dei drive per CD, prima della grafica
fotorealistica. Il motore si chiamava WAFFLE, ed era una
pozione miracolosa di simulazione di mondi e generazione
procedurale di contenuti, ossia ciò che spinse i giochi della
Black Arts prima al successo di critica, poi al guadagno e infine
alla fama. Era ancora alla base di ogni gioco che facevano:
aveva uno strano x-factor geniale, non era mai stato sorpassato
e neanche duplicato. Prima di morire, Simon stava lavorando
a un progetto che secondo lui avrebbe costituito la prossima
generazione della tecnologia. Usò la parola “definitivo” più
di una volta – in effetti, proprio nel titolo del suo progetto
di ricerca (che doveva finalmente valergli una laurea al MIT;
gliel’avevano anche offerta, una volta, ma lui non aveva
mai dato seguito alla cosa). “Il gioco definitivo: un solido
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schema per la Narrazione Generata Proceduralmente”.
C’era stata persino una conferenza stampa, ma non ne era
mai stata trovata neanche una copia. L’idea era ancora
nell’aria alla Black Arts, come il teorema di Fermat della
tecnologia videoludica.
Dovrei aggiungere che la gente aveva l’impressione che
Simon si fosse ucciso, oppure che fosse morto come parte di
un gioco. È così che la notizia venne riportata dalla maggior
parte dei giornali: “Morte di un gamer al campus”, come se
una frase del genere avesse senso. Più di una testa di cazzo
di professore di psicologia disse cose come: “Non è insolito,
per coloro che si definiscono ‘gamer’, perdere la capacità di
distinguere tra ciò che è gioco... e ciò che è realtà”.
Prima di tutto, questo è un punto di vista francamente
idiota. Gli appassionati di videogiochi non restano uccisi
né impazziscono più spesso di chiunque altro. È solo che la
gente lo sottolinea quando succede. Secondo, Simon aveva
una vocazione, era una delle poche persone che avessi mai
incontrato di cui si potesse dirlo senza alcun dubbio.
Non aveva poco contatto con la realtà, le era semplicemente
contrario. Terzo, vaffanculo la realtà. Se a Simon non piaceva
il mondo in cui era cresciuto, aveva tutta la mia solidarietà e
comprensione. Andai al suo funerale, come fecero i suoi molti
amici. Non si trattava di un qualche zoccolo duro di giocatori
incalliti; e poi, alla fin fine, anche un tizio in kilt che si presenta
come “Griffin” può a buon diritto sentirsi sconvolto per la
morte di un amico in un ridicolo incidente.
Quando venni a sapere che Simon era morto, cercai di trovare
qualcosa di appropriato da sentire. Quello che effettivamente
provai non era lodevole. Non eravamo più amici dall’inizio
degli anni Ottanta, ed ero ancora abbastanza giovane da
considerare la morte di qualcuno che conoscevo come una cosa
nuova, come se fosse solo un altro aspetto dell’eccentricità o
del genio di Simon. Un altro posto in cui era arrivato prima di
noi. Mi dispiaceva non essere rimasto in contatto con lui, mi
doleva perché entrambi avevamo giurato di fare l’impossibile.
Era l’unico voto che avessi mai fatto, e non ero riuscito a
rispettarlo, mentre Simon – beh, era questo il punto... In parte
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Austin Grossman
ero lì perché volevo sapere cos’era successo esattamente, fino a
che punto si era spinto Simon.
Entrai. C’era odore di vernice fresca, potevo sentire qualcuno
che rideva.
“Ciao?”, chiamai verso il buio.
Un adolescente con una maglietta nera guardò fuori.
La sua corporatura aveva delle proporzioni da casa degli
specchi – era alto quanto me, però era grosso il doppio, un
ragazzo corpulento con le braccia e il petto di un linebacker.
“Oh hey. Sei Russell?”
“Sì, sono io”, risposi sollevato.
“Io sono Matt. Aspetta un attimo”. Si voltò e gridò verso il
corridoio: “È qui!”
Mi fece entrare in una stanza che si rivelò grande quasi
come metà del terzo piano dell’edificio. Era una caverna in
penombra, tenuta nella semioscurità dalle veneziane alle
finestre. Da ciò che potevo vedere era per lo più un open space.
Lattine di bibite gassate e quantità industriali di pop-corn erano
ammucchiate negli angoli, insieme a una palla da yoga, a pile
di manuali illustrati a colori e a quella che pareva essere una
balestra funzionante. Parevano i residui di una festa tenuta
nel fine settimana da una banda di ragazzini di dieci anni
terribilmente ricchi. In effetti c’era un uomo rannicchiato
sotto una scrivania, in un sacco a pelo blu rigonfio.
Una giovane donna con i capelli biondi legati in complicate
trecce, un vestito batik e dei sandali era seduta con le spalle al
muro e batteva sulla tastiera di un laptop, ignorandomi.
Mentre aspettavo che Matt ritornasse osservai una parete
con copertine di riviste incorniciate e premi “Game of the
Year”. Mi avvicinai a uno dei computer che mostrava quella
che all’inizio credetti la scena di una battaglia spaziale in
un film, ma quando toccai il mouse la telecamera fece una
panoramica e io mi resi conto che era un gioco, un vero
mondo tridimensionale in cui si poteva navigare. Non avevo
seguito molto i videogame negli ultimi anni, dopo che
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avevo lasciato il college. Si erano trasformati in qualcosa di
totalmente diverso, mentre non stavo guardando?
Ero nato nel 1969, l’età perfetta per tutto ciò che aveva
a che fare con i videogiochi. Significa che avevo otto anni
quando uscì la console Atari 2600, undici quando nacque
Pac-Man e diciassette ai tempi di The Legend of Zelda.
I Personal Computer arrivarono proprio mentre i nostri
cervelli stavano entrando nel primo fermento dello sviluppo
cognitivo, giusto in tempo per marchiarci a fuoco. Era il 1978
quando presero a far uscire dalla classe i bambini nel bel mezzo
della mattinata. Una donna dell’ufficio del preside (di cui non
seppi mai il nome) li chiamava fuori con discrezione, due alla
volta, in ordine alfabetico, e tornavano un quarto d’ora dopo.
Quando arrivò il nostro turno, andai con un ragazzo di nome
Shane. Sentii un formicolio d’eccitazione per la particolarità
del momento, l’interruzione della routine. Venimmo condotti
lungo il corridoio per sederci in un angolo dell’ufficio della
segreteria, davanti a un aggeggio a forma di scatola che si
rivelò essere un computer. Era nuovo, un Commodore PET.
Il case del PET era un tutt’uno: monitor, tastiera e un drive
per cassette integrato che formavano una piramide tronca
ed enigmatica. Era un oggetto alieno, visibilmente costoso,
futuristico in modo accecante in una stanza che puzzava del
mimeografo usato per stampare opuscoli monocromatici di
un pallido viola – una macchina azionata da una manovella
nello stesso modo in cui si faceva alla fine dell’Ottocento,
quand’era stata inventata.
La donna ci fece sedere e si allontanò in silenzio. Io e Shane
ci guardammo. Non so cosa provasse lui, ma dentro di me
iniziò a smuoversi una consapevolezza: loro non sapevano
cosa fosse quella macchina. Gliel’avevano data, ma non
erano capaci di usarla. Non faceva granché. Non capiva né
le imprecazioni né le parole normali. Ci giravano un paio
di giochi: Snake e Lunar Lander. Dopo un quarto d’ora la
signora ci riportò in classe e fece uscire altri due bambini,
che avrebbero digitato altre parolacce.
Eppure fu probabilmente il gesto più generoso e umile che
abbia ricevuto da un adulto nei sedici anni passati a scuola.
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Austin Grossman
Quella donna ci stava semplicemente lasciando soli con il
nostro futuro, un futuro di cui lei non sarebbe stata parte.
Non sapeva cosa fosse né cosa farne, ma stava cercando di
darlo a noi.
Quel mezzo crebbe insieme a noi. I giochi arcade ebbero un
boom alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, portando
alla diffusione delle sale giochi, costruite in grandi magazzini
riadattati e uffici con affaccio sulla strada, che facevano soldi a
quarti di dollaro – un torrente di monetine rese scivolose dal
sudore di mani adolescenti. Erano i cugini scemi e più cool
del PET, così tranquillo e diligente. I videogame avevano il
passo da bullo e l’insolenza becera del flipper, con in più l’aura
inevitabilmente nerd dell’high-tech digitale.
Ero più grande quando iniziai ad andare nelle sale giochi,
forse avevo undici anni. Mi rilassavo in quell’oscurità tiepida
e rumorosa, il muro di suono degli arcade e l’aria calda che
sapeva di sudore, adolescenti ed elettronica. Il buio era rotto
solo dai tubi di neon, dalle sfere da discoteca sfaccettate
e dalla luce del botteghino dove si cambiavano i soldi.
Quando ci si guardava intorno, era come vedere trenta cartoni
della Warner Bros contemporaneamente, ma iperluminosi e a
velocità raddoppiata.
Il livello della tecnologia implicava che i personaggi fossero
disegnati su griglie di pixel da 8X12: una scala primitiva,
stranamente potente, con cani, postini e robot che divenivano
luminosi pittogrammi sospesi nel buio. Le storie, sbrigative e
buttate giù alla bell’e meglio, sembravano aver tirato fuori una
vivida e capricciosa creatività dalle menti dei programmatori
e degli ingegneri della prima ora. Quelle stesse limitazioni
proiettarono i giochi in strani spazi non prospettici. Titoli come
Berzerk e Wizard of Wor erano ambientati in un luminoso
scenario à la Escher in cui una prospettiva aerea si combinava
con quella laterale.
E le trame, con la loro logica onirica... Mondi in cui
toccare qualunque cosa significava morte istantanea, in cui i
funghi sono amici e le tartarughe nemiche. In ognuno di essi
percepivo la presenza di una logica profonda che esisteva
appena al di là dello schermo, ognuno era un quadro dai
YOU - Crea il tuo Destino
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colori accesi, che raccontava una storia non del tutto spiegata:
perché sono un idraulico che lotta con uno scimmione per una
principessa? Perché sono un triangolo solitario che combatte
contro una flotta di quadrati? Chi lo ha deciso?
Gli adulti detestavano stare lì dentro. Gli dava il mal di testa,
e poi li faceva sembrare stupidi, mentre tutti noi sapevamo già
come giocare e cosa fare perché stavamo crescendo insieme
a una tecnologia di cui capivamo le regole nascoste.
Nel vorticoso brodo primordiale di bambini e adolescenti, gli
ormoni e la tecnologia si stavano combinando per formare
una nuova idea culturale. C’erano giorni in cui passavo fino a
tre ore lì dentro, dopo la scuola, vagamente consapevole del
fatto che eravamo le prime persone in assoluto a fare quelle
cose. Sentivamo qualcosa che loro non avevano mai sentito,
un collegamento fisico al mondo della finzione, che attraverso
i muscoli scheletrici del braccio passava per il joystick
arrivando fino al minuscolo tizio sullo schermo – una persona
in un mondo immaginario. Era grezzo ma reale: ci eravamo
costruiti un avamposto nell’ostile, inaccessibile mondo
dell’immaginazione, come se avessimo fatto dondolare una
batisfera nel buio schiacciante dell’oceano profondo, un
reame fino ad allora inaccessibile all’umanità. Era questo
che i videogiochi erano diventati. I computer avevano avuto
origine nella crittografia militare – in un certo senso, ogni
videogame rappresenta la conquista, da parte del desiderio di
espressione umana, di un apparato militare per decifrare codici.
Avevamo fatto questo, avevamo preso quell’idea e l’avevamo
trasformata in qualcosa che i suoi creatori non avevano mai
immaginato: la nostra personale, incandescente mitologia.
Un’estate delle scuole medie finalmente ebbi un Apple IIe,
un grosso cuneo beige di plastica con computer e tastiera
in un solo pezzo, e uno schermo monocromatico a nove
pollici. Scoprii il brivido criminale di usare programmi come
Locksmith per duplicare giochi protetti su floppy disk da 5.25’’,
e il trucco di sfruttare entrambi i lati del disco incidendo una
mezzaluna da una parte con un buca-fogli.
L’idea di simulare un mondo alternativo aveva conquistato
migliaia di cervelli promettenti. Fu il progetto Apollo della
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Austin Grossman
nostra generazione, anche se forse l’analogia più adatta sarebbe
con il progetto Manhattan: perché tutti volevano partecipare
e ogni anno la tecnologia migliorava e diventava più veloce.
Potevo sentirla, l’opportunità, la fortuna di una generazione
nata insieme a una nuova forma artistica – proprio come Orson
Welles era nato al momento giusto per fare Quarto Potere e
definire così la grandezza di un medium. Era un’occasione per
impossessarsi della rivoluzione artistica del nostro tempo, come
Jane Austen o D.W. Griffith avevano fatto con il proprio.
Quando avviavo un gioco, la schermata di caricamento
mostrava la firma dell’hacker che l’aveva craccato – nomi
come Mr. Xerox, The Time Lord, Mr. Krac-Man. Chi erano
queste persone, chi craccava i giochi? E soprattutto, chi li
faceva? Come diavolo si poteva ottenere un lavoro del genere?
Era tempo di scoprirlo. Era tempo di dire qualcosa.
Adesso avevo un pubblico di cinque o sei persone. Era tutto il
giorno che la gente entrava e usciva svogliatamente dalla sala
conferenze per ascoltare o fare qualche domanda. Tutti uomini,
però, finché non arrivò Lisa. La terza fondatrice della Black
Arts aveva l’aspetto che ricordavo: pallida, con una grande
fronte che la faceva sembrare un alieno da cartone animato.
Aveva abbandonato i vestiti a fiori in favore di un’enorme
T-shirt nera tipo tenda. La ricordavo ai tempi del liceo, in quei
viaggi in macchina per tornare a casa alle due o alle tre del
mattino: d’inverno guidava con il finestrino abbassato e il
riscaldamento sparato al massimo.
“Il gioco definitivo”, dissi. “Posso fare tipo... qualunque cosa?”
Loro annuirono. Io mi sentii ridicolo. Il gioco definitivo era
quello in cui galoppavo per le strade in sella a un rinoceronte
rosa alto una trentina di metri, inseguendo i miei nemici?
Quello in cui i pezzi degli scacchi prendevano vita e parlavano
in strane rime? Oppure era semplicemente un gioco in cui
vincevo sempre?
“Rilassati, amico”, disse il tizio basso. “Qualunque cosa ti
piaccia. Il tuo gioco”.
YOU - Crea il tuo Destino
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Era difficile dire cosa ci fosse di particolarmente strano in
quei due. Magari il fatto che, anche se tutto in loro gridava
“sfigato”, non sembrava importargliene, anzi tenevano un
portamento da re in T-shirt...
“Allora... Ok, ok. Si gioca a scacchi, no? Ma tutti i pezzi
sono dei mostri, e quando ne prendi uno devi... davvero...
combatterci?” Perché mi stavano guardando così?
“Intendi come in Archon? Quello per il Commodore 64?”
“Uhm. Esatto”. Lisa aggrottò le sopracciglia ancora un po’.
Un tizio con la barba, più in fondo, alzò gli occhi al cielo,
come se non credesse a che razza di perdente fossi. Indossava
un cappello da giullare. Eravamo arrivati a questo.
Quello che avrei voluto dire, senza riuscirci, quello che
sentivo davvero aveva a che fare con ciò che provai scendendo
dall’auto quella fredda mattina di settembre, il mio primo
giorno a Dartmouth, il primo giorno in cui avevo avuto
l’opportunità di essere una persona nuova e di far funzionare
le cose dopo l’inferno del liceo. Quanto avrei voluto tornare
a quel momento! Simon e Darren avevano scelto di essere,
come dire, grandi, e io non l’avevo fatto, mi ero comportato
da bravo soldatino e avevo tentato di diventare adulto,
dimenticandomi della donna della segreteria, del computer
PET e di cosa significasse vedersi offrire il futuro.
Prima di andarmene mi fermai da Don, il quarto fondatore
e attuale CEO dell’azienda. A differenza degli altri impiegati
aveva un vero ufficio, in una stanza laterale, con una finestra
panoramica che guardava sulla distesa buia dell’area di lavoro.
“È bello rivederti”. Mi strinse la mano con forza, un saluto
da adulti. “KidBits, giusto? Come stai?”
Era persino più alto di come lo ricordavo. Si era fatto
crescere la barba, e gli si addiceva.
“Bene, bene. Darren è qui?”, domandai
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Austin Grossman
“È ancora in Nepal. È lo stesso di sempre. Allora, vuoi
davvero lavorare qui?”, mi domandò. Questo era il momento
per cui mi ero preparato meglio: avevo persino fatto delle
prove davanti allo specchio. Distolsi lo sguardo e scivolai in
un falso atteggiamento noncurante.
“Mi sa di sì, Don. Il diritto sta diventando un po’ noioso –
vorrei passare ad altro, capisci?”
“Design? Programmazione? Produzione?”
“Design, direi. Ma anche produzione. Non sono sicuro.
Come programmatore faccio schifo più o meno come sempre”.
“Jared ti ha fatto la domanda sul gioco definitivo?”
“Già. Era una buona domanda”.
“Lo è, vero? Credo che ti chiameremo”.
“Grazie, amico”. Ci stringemmo di nuovo la mano.
Mentre uscivo incrociai Lisa, che aveva l’aria di tornare da
una sosta al distributore automatico. “Bella risposta”, disse.
“Archon”. Negli anni Ottanta non sapevano ancora cos’era
l’Asperger, altrimenti gliel’avrebbero affibbiata.
“Grazie”, risposi. “Ci vediamo”.
Volevo fermarmi per dare un’altra occhiata ai giochi, ma non
avevo pretesti per farlo, così mi avviai nel freddo della sera.
Fuori continuai a pensare a come sarebbe stata la mia vita
se fosse divenuta un videogame. Il gioco più palloso di
tutti i tempi.
“Sei in un parcheggio mezzo vuoto accanto a
un palazzo di uffici in una periferia del
Massachusetts. Il colloquio è finito e il sole sta
tramontando. Cosa fai adesso?”
GUARDA
“Puoi vedere le auto che accendono i fari
mentre risalgono la collina della Route Two e poi
iniziano la lenta discesa verso Cambridge, per
imboccare la rotatoria di Alewife. Inizia a fare
freddo. Non hai nessun posto dove andare”.
YOU - Crea il tuo Destino
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INVENTARIO
“Un logoro portafoglio di cuoio. Indicazioni
per arrivare all’ufficio scritte sul retro di un
volantino per un reading di poesie aperto a tutti.
Un blazer blu navy. Ti sei vestito in maniera del
tutto esagerata per l’occasione”.
OVEST
“Cammini lungo la pista ciclabile. Passi dietro
a un ristorante di pesce. La maggior parte
dei terreni intorno al parcheggio non è mai
stata edificata. Qui crescono liberi dei lillà,
piccole querce ed erba alta. Dove credi di andare
esattamente?”
OVEST
“Riesci a stento a sentire l’autostrada alle
tue spalle, e presto il suono svanisce del tutto.
Puoi ancora vedere il sole attraverso i rami sopra
la tua testa. Stranamente, trovi dei binari che
attraversano il sentiero. Da quando qui c’è una
linea ferroviaria? Non viene usata da molto tempo,
ma la segui comunque. Camminare ti tiene al caldo.
Le querce crescono tra le traversine. In alcuni
punti riesci a stento a trovare il binario in
mezzo alla terra e alle foglie. Presto o tardi
imboccherai una svolta, troverai Massachusetts
Avenue, prenderai un autobus per tornare a Cambridge
e fine della storia. Mah. Secondo te, comunque,
perché devi interpretare questo personaggio?”
OVEST
OVEST
OVEST
“Dio, cammineresti per sempre se servisse ad
andarsene da qui. I binari ti portano su una
salita, e poi vedi un’altalena attraverso una fila
di alberi. Sei sul retro di una scuola elementare,
ed è lì che ti colpisce il ricordo, quello che ti
ha tormentato tutto il tempo. Sono passati anni
dall’ultima volta che ci hai pensato, ma ritorna,
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Austin Grossman
lo respiri a pieni polmoni come l’odore di tappeto
bruciato della macchina con cui Darren ti portava
in giro”.
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