LA SANTA ALLEANZA
Un'alleanza per combattere i fermenti liberali e nazionali (dal Patto della Santa Alleanza, 1815)
Al fine di garantire stabilità all' assetto geopolitico europeo delineato a Vienna, lo zar Alessandro I di Russia
sollecita l'imperatore d'Austria Francesco I e il re di Prussia Federico Guglielmo III a sottoscrivere un patto di
alleanza che preveda l'impegno solenne a prestarsi reciprocamente «in qualunque occasione e in qualunque
luogo... assistenza, aiuto e soccorso».
Scopo principale e non esplicitamente dichiarato è tenere a freno i fermenti rivoluzionari di stampo liberale e
nazionale che si teme possano sfociare in aperta rivoluzione nei Regni come la Russia, la Prussia, l'Austria, dove gli
ideali liberali e nazionali sono soffocati dai nuovi regimi. Al patto non partecipa l'Inghilterra, che non condivide
l'intento repressivo dell'alleanza e anzi ritiene che il diffondersi di regimi liberali potrebbe rafforzare - e non
indebolire - la pace in Europa.
Definita dal rappresentante diplomatico inglese Lord Castlereagh «un'opera di sublime misticismo e idiozia»,
l'alleanza-patto pone il suo fondamento ideologico nell' unità religiosa delle nazioni cristiane: cattolici d'Austria,
protestanti di Prussia e ortodossi di Russia vengono presentati nel testo del patto come «membri di una medesima
nazione cristiana» che ha il suo supremo capo in Dio. Per sottolineare la forte coesione che sussiste tra i popoli di
Russia, Austria e Prussia, lo zar Alessandro, estensore del patto, non esita a definirli «compatrioti», facendo cosi
dell'ideale di patria - che in quegli stessi anni molti popoli d'Europa vanno scoprendo e propugnando - un uso strumentale, perfettamente in linea con gli interessi delle grandi potenze.
In nome della santissima e invisibile Trinità.
Le LL. MM. l'Imperatore d'Austria, il Re di Prussia e l'Imperatore di tutte le Russie, in seguito ai grandi avvenimenti
che hanno segnato in Europa il corso degli ultimi tre anni, e principalmente alle grazie che è piaciuto alla Divina
Provvidenza di spargere sugli Stati i cui governi hanno riposto in Essa sola la loro fiducia e la loro speranza, avendo
acquistata l'intima convinzione che è necessario stabilire il cammino da seguire dalle Potenze nei loro reciproci
rapporti, sulle sublimi verità che c'insegna l'eterna religione di Dio salvatore:
Dichiarano solennemente che il presente atto ha per solo oggetto di manifestare al cospetto dell'universo la loro
ferma determinazione di prendere per norma della loro condotta, sia nell' amministrazione dei loro rispettivi
Stati, sia nelle loro relazioni politiche con qualche altro governo, i precetti di quella santa religione, precetti di
giustizia, di carità e di pace, i quali, lungi dall' essere unicamente applicabili alla vita privata, devono al contrario
influire direttamente sulle risoluzioni dei principi, e guidare tutti i loro passi, essendo questo il solo mezzo di
consolidare le umane istituzioni e di rimediare alle loro imperfezioni.
Di conseguenza le LL. MM. hanno convenuto gli articoli seguenti:
Art. 1. Conformemente alle parole delle Sante Scritture, le quali comandano a tutti gli uomini di riguardarsi come
fratelli, i tre monarchi contraenti rimarranno uniti con legami di vera e indissolubile fratellanza, e considerandosi
come compatrioti, in qualunque occasione e in qualunque luogo si presteranno assistenza, aiuto e soccorso; e
considerandosi verso i loro sudditi ed eserciti come padri di famiglia, li guideranno nello stesso spirito di
fratellanza da cui sono animati per proteggere la religione, la pace e la giustizia.
Art. 2. Di conseguenza, il solo principio in vigore, sia fra i detti governi, sia fra i loro sudditi, sarà quello di rendersi
reciprocamente servizio, di manifestarsi con una benevolenza inalterabile le scambievoli affezioni da cui devono
essere animati, di considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana, riguardandosi i tre Principi
alleati, essi stessi, come delegati della Provvidenza a governare tre rami della stessa famiglia, cioè: l'Austria, la
Prussia e la Russia, dichiarando così che la nazione cristiana di cui Essi e i loro popoli fanno parte, non ha realmente altro sovrano se non quello a cui solo appartiene in proprietà il potere, perché in lui solo si trovano tutti i
tesori dell' amore, della scienza e della saggezza infinita, cioè a dire Dio, il nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, il
Verbo dell' Altissimo, la parola di vita.
Le LL. MM. raccomandano in conseguenza con la più tenera sollecitudine ai loro popoli, come unico mezzo di
godere di quella pace che nasce dalla buona coscienza, e che sola è durevole, di fortificarsi ogni giorno di più nei
principi e nell’esercizio dei doveri che il Divin Salvatore ha insegnato agli uomini.
Art. 3. Tutte le Potenze che vorranno solennemente approvare i sacri principi che hanno dettato il presente atto,
e riconosceranno quanto importi alla felicità delle nazioni già abbastanza agitate, che quelle verità esercitino da
ora in poi sugli umani destini tutta l'influenza che lor appartiene, saranno accolte con altrettanta premura quanta
affezione in questa Santa Alleanza.
1
LA COSTITUZIONE FRANCESE DEL 1814
Il 4 giugno 1814 Luigi XVIII di Borbone concede al popolo francese una Carta costituzionale, redatta nei giorni
precedenti da una commissione di giuristi, nella quale definisce i diritti fondamentali dei cittadini e delinea il nuovo
ordine politico della Francia. A differenza delle costituzioni dell'età rivoluzionaria, che erano sorte da assemblee
rappresentative del popolo e riconoscevano solennemente diritti oggettivi e inviolabili dei cittadini; la Charte del
1814 è octroyée, cioè concessa per libera e volontaria scelta del sovrano: essa è frutto di un atto di liberalità del re
e non trova il proprio fondamento in un diritto della nazione.
La Costituzione - di cui riportiamo il preambolo e gli articoli più significativi - è assai moderata: essa si presenta
come un tentativo di compromesso tra i vecchi principi monarchici e aristocratici e i nuovi valori emersi dalla
cultura illuministica e in parte fatti propri dalla Rivoluzione. Espliciti nel testo della Carta, sono i richiami da un lato
alla «saggezza dei re» e alla «autorità che risiede nella sua persona» e dall' altro al «voto dei popoli» e agli
«effetti crescenti dei lumi».
Sul piano dei diritti fondamentali la Carta fa proprie alcune importanti conquiste del secolo precedente, quali
l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'obbligo di contribuzione alle imposizioni dello Stato, in proporzione
ai beni, la libertà individuale, di stampa e di culto, il diritto di proprietà, esteso anche ai beni nazionalizzati durante
la Rivoluzione. Sul piano istituzionale, invece, la Carta recupera la centralità della figura del sovrano, la cui volontà
si impone su tutti i poteri: il re nomina i membri della Camera dei Pari e ha l'iniziativa legislativa, è esclusivo
titolare del potere esecutivo e i ministri sono responsabili solo dinanzi a lui, nomina i giudici. Accanto alla Camera
dei Pari (che rappresenta gli interessi dell'alta aristocrazia) vi è una Camera Bassa eletta a suffragio censitario
(essendo il censo assai alto, rappresenta gli interessi dei ceti più abbienti): il parlamento pertanto non rappresenta
il Paese reale _ povero e contadino _ ma solo un'élite aristocratica e borghese assai abbiente.
La Divina Provvidenza col richiamarci nei nostri Stati dopo una lunga assenza, ci ha imposto dei grandi obblighi. La
pace era il primo bisogno dei nostri sudditi: ce ne siamo occupati senza indugio; e questa pace tanto necessaria
alla Francia come al resto dell'Europa è firmata. Una carta costituzionale era richiesta dall' attuale stato del
Regno; noi l'abbiamo promessa e la pubblichiamo. Abbiamo considerato che, benché l'autorità tutta intera
risiedesse in Francia nella persona del Re, i nostri predecessori non avevano avuto esitazione a modificarne
l'esercizio, a secondo della diversità dei tempi; […]
Noi abbiamo dovuto, sull'esempio dei Re nostri predecessori, apprezzare gli effetti dei progressi sempre crescenti
dei lumi, i nuovi rapporti che questi progressi hanno introdotto nella società, la direzione impressa agli spiriti da
un mezzo secolo e le gravi alterazioni che ne sono risultate: abbiamo riconosciuto che il voto dei nostri sudditi per
una Carta costituzionale era l'espressione di un bisogno reale; ma cedendo a questo voto abbiamo preso tutte le
precauzioni perché questa Carta fosse degna di noi e del popolo che siamo fieri di comandare. Uomini savi, scelti
nei primi corpi dello Stato, si sono riuniti a dei commissari del nostro consiglio per lavorare a questa importante
opera. Nello stesso tempo che riconoscevamo che una costituzione libera e monarchica doveva soddisfare l'attesa
dell'Europa illuminata, abbiamo dovuto pure ricordarci essere nostro primo dovere verso i nostri popoli di
conservare, per il loro interesse, i diritti e le prerogative della nostra Corona. Abbiamo sperato che, istruiti dall'
esperienza, fossero convinti che solo l'autorità suprema può dare agli istituti da essa stabiliti la forza, la
permanenza e la maestà di cui essa stessa è rivestita; che quindi quando la saggezza dei Re si accorda liberamente
col voto dei popoli, una Carta costituzionale può essere di lunga durata; ma che, quando la violenza strappa delle
concessioni alla debolezza del Governo, la libertà pubblica non è esposta al pericolo meno dello stesso trono. […]
Cercando così di riannodare la catena dei tempi, che funesti traviamenti avevano interrotto, abbiamo cancellato
dal nostro ricordo, cosi come vorremmo che si potesse cancellarli dalla storia, tutti i mali che hanno afflitto la
Patria durante la nostra assenza. Felici di ritrovarci nel seno della grande famiglia, non abbiamo saputo rispondere
all'amore del quale riceviamo tante testimonianze che pronunziando delle parole di pace e di consolazione. Il voto
più caro al nostro cuore è che tutti i Francesi vivano da fratelli e che mai alcun ricordo amaro turbi la sicurezza che
deve tener dietro all'atto solenne che Noi oggi accordiamo loro. Sicuri delle nostre intenzioni, forti della nostra
coscienza, c'impegnamo, davanti all'Assemblea che ci ascolta, a essere fedeli a questa Carta costituzionale,
riservandoci di giurarne il mantenimento, con una nuova solennità, davanti agli altari di Colui che nella medesima
bilancia pesa i re e le nazioni. Per questi motivi noi abbiamo volontariamente, e per il libero esercizio della nostra
autorità reale accordato e accordiamo, fatto concessione ai nostri sudditi, sia per noi che per i nostri successori, e
2
per sempre della seguente Carta costituzionale
Art. 1. I Francesi sono eguali davanti alla legge, quali che siano i loro titoli e il loro rango.
Art. 2. Contribuiscono indistintamente, in proporzione dei loro beni, ai carichi dello Stato.
Art. 3. Sono tutti egualmente ammissibili agli impieghi civili e militari.
Art. 4. Parimenti garantita è la loro libertà individuale, non potendo alcuno essere posto sotto accusa né arrestato
se non nei casi previsti dalla legge e nella forma da essa prescritta.
Art. 5. Ognuno professa la propria religione con una libertà eguale e ottiene per il proprio culto la stessa
protezione.
Art. 6. Tuttavia la religione cattolica, apostolica e romana è la religione dello Stato.
Art. 7. Solo i ministri della religione cattolica, apostolica e romana, e quelli degli altri culti cristiani ricevono degli
stipendi dal Tesoro regio..
Art. 8. I Francesi hanno il diritto di pubblicare e di fare stampare le loro opinioni, conformandosi alle leggi che
devono reprimere gli abusi di questa libertà.
Art. 9. Tutte le proprietà sono inviolabili, non escluse quelle chiamate nazionali, non ponendo la legge alcuna
distinzione tra di esse.
Art. 10. Lo Stato può esigere il sacrificio di una proprietà, per motivi d'interesse pubblico legalmente constatato,
ma previa indennità.
Art. 11. Ogni ricerca sulle opinioni e sui voti emessi fino alla Restaurazione è proibita. Lo stesso oblio è ordinato ai
tribunali e ai cittadini.
Art. 12. La coscrizione è abolita. Il modo di reclutamento dell'esercito di terra e di mare è determinato da una
legge.
Art. 13. La persona del Re è inviolabile e sacra. I suoi ministri sono responsabili. Il Potere esecutivo appartiene
solo al Re.
Art. 14. Il Re è il Capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di
pace, d'alleanza e di commercio, provvede alle nomine per tutti gli impieghi dell'amministrazione pubblica, e fa gli
ordinamenti e le ordinanze necessarie per 1'esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato.
Art. 15. Il Potere legislativo viene esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei Pari e dalla Camera dei
Deputati dei dipartimenti.
Art. 16. Il Re propone la legge.
Art. 17. La proposta della legge è presentata a piacimento dal Re, alla Camera dei Pari o a quella dei Deputati.
Art. 18. L'intera legge deve essere discussa e votata liberamente dalla maggioranza di ciascuna delle due Camere,
ma dopo essere stata discussa in comitato segreto: sarà inviata all'altra Camera da quella che l'avrà proposta solo
dopo un intervallo di dieci giorni.
Art. 21. Se la proposta è adottata dall' altra Camera, essa sarà sottoposta al Re. Se viene respinta, non potrà
essere ripresentata nella stessa sessione.
Art. 22. Solo al Re spetta la sanzione e la promulgazione della legge.
Art. 23. La lista civile è fissata, per tutta la durata del Regno, dalla prima legislatura riunita dopo l'avvento del Re..
Art. 24. La Camera dei Pari è una parte essenziale del potere legislativo.
Art. 27. La nomina dei Pari di Francia spetta al Re. Il loro numero è illimitato: egli può variarne la dignità, nominarli
a vita o renderli ereditari a sua volontà.
Art. 38. Nessun deputato può essere ammesso alla Camera, se non ha l'età di quarant' anni, e non paga un
contributo diretto di mille franchi.
Art. 46. Nessun emendamento può essere fatto a una legge, se non è stato proposto o consentito dal Re, e se non
è stato rinviato e discusso negli uffici.
Art. 52. Nessun membro della Camera può, per la durata della sessione, essere messo sotto accusa né arrestato in
materia criminale, salvo il caso di flagrante delitto, se non dopo che la Camera ha prima permesso che egli venga
posto sotto accusa.
3
LIBERALI, DEMOCRATICI, SOCIALISTI
da E.J. HOBSBAWM, Le rivoluzioni borghesi (1789-I848), 1963
I TEORICI DELLA RESTAURAZIONE E LE CLASSI COLTE Le dottrine dei teorici della Restaurazione, come de Maistre e
De Bonald, pur avendo una significativa diffusione presso l'opinione pubblica europea, sono apertamente rifiutate
e criticate da una non trascurabile schiera di intellettuali, militari, patrioti, studenti e professionisti. A suscitare in
costoro il rifiuto della monarchia assoluta e l'avversione per la rinnovata alleanza tra corona, antica aristocrazia e
autorità ecclesiastiche sono proprio quegli ideali di progresso e di libertà e quei principi di sovranità popolare e di
rappresentatività che erano stati divulgati durante gli anni rivoluzionari e che sono ora esplicitamente contrastati.
DAL 1789 AL 1848: LA CONTINUITÀ DEL "FILO" REAZIONARIO In realtà il lascito della Rivoluzione francese, sulla
quale i diplomatici riuniti a Vienna credevano di aver passato un colpo di spugna, si rivela ancora vitale: nelle
esperienze e nella Costituzione del 1789-1791, in quella del 1793, nel movimento degli Eguali di Babeuf del 1795- 1
796, i nuovi difensori delle libertà e del progresso trovano
i riferimenti ideologici per dare vita ai movimenti di opposizione liberale, democratica e socialista che animeranno
la vita politica dell'Ottocento.
Nel testo che segue, lo storico Eric John Hobsbawm traccia un'efficace sintesi delle tre ideologie -liberale
moderata, radical-democratica e socialista - e, mostrando come esse affondino le proprie radici nell'esperienza
insurrezionale francese, mette in luce la continuità fra la rivoluzione del 1789 e quelle europee del 1820-1821, del
1830, del 1848.
A differenza delle rivoluzioni degli ultimi anni del secolo XVIII, quelle del periodo postnapoleonico furono volute o
addirittura preparate. Perché l'eredità più formidabile lasciata dalla Rivoluzione francese fu l'insieme dei modelli e
dei programmi che essa fornì ai ribelli di tutti i Paesi. Questo non vuol dire che le rivoluzioni del 1815- 1 848
fossero unicamente opera di pochi sobillatori in mala fede, come le spie e gli sbirri di quel periodo - una categoria
di cui si faceva larghissimo uso - pretendevano di far credere ai loro superiori. Esse avvennero perché i sistemi
politici che avevano ripreso a dominare in Europa erano sempre più inadeguati, in quel periodo di rapide trasformazioni sociali, alle condizioni politiche del continente, e perché il malcontento economico e sociale era tanto
acuto da rendere praticamente inevitabile tutta una serie di sollevazioni. Ma i modelli politici creati dalla
Rivoluzione del 1789 servirono a dare al malcontento un indirizzo specifico, a mutare l'agitazione in rivoluzione, e
soprattutto a unire tutta l'Europa in un unico movimento - o forse sarebbe meglio dire una corrente - di
sovversione.
I modelli erano diversi, anche se tutti erano scaturiti dall'esperienza compiuta dalla Francia tra il 1789 e il 1797.
Essi corrispondevano alle tre tendenze principali dell'opposizione dopo il 1815: quella libèrale moderata (o, in
termini sociali, quella dell' alta borghesia e dell'aristocrazia liberale), quella radical-democratica (o, in termini
sociali, quella della piccola borghesia, di una parte dei nuovi proprietari di fabbriche, degli intellettuali e delle
classi gentilizie1 insoddisfatte) e quella socialista (o, in termini sociali, quella dei "lavoratori poveri" o delle nuove
classi operaie industriali). Etimologicamente, sia detto per inciso, tutte queste tendenze riflettono
l'internazionalismo di quel periodo: "liberale" è un termine di origine franco-spagnola, "radicale" di origine
britannica, "socialista" di origine anglo-francese; anche "conservatore" è in parte di origine francese, ed è un' altra
prova della strettissima correlazione esistente tra la politica britannica e quella continentale nel periodo del
Reform Bill2. Il primo modello si ispirava alla rivoluzione del 1789-1791; il suo ideale politico era quel tipo quasi
britannico di monarchia costituzionale, con un sistema parlamentare basato su requisiti patrimoniali, e quindi oligarchico, che era stato introdotto dalla Costituzione del 1791 e che divenne, dopo il 1830-1832, il tipo standard di
costituzione in Francia, in Gran Bretagna e in Belgio. L'ispirazione del secondo potrebbe benissimo attribuirsi alla
rivoluzione del 1792-1793, e il suo ideale politico - una repubblica democratica, con una certa tendenza allo
"Stato assistenziale"3 e una certa animosità contro i ricchi - corrisponde alla Costituzione ideale giacobina del
1793. Ma poiché i gruppi sociali favorevoli alla democrazia radicale costituivano un insieme confuso e male
assortito, è difficile dire con precisione quale fosse il modello fornito dalla Rivoluzione francese cui essi si
1
aristocratiche
Legge elettorale approvata in Inghilterra nel 1832.
3
Uno Stato, cioè, che cerca di venire incontro alle necessità primarie dei suoi cittadini, anche attraverso mirati interventi in
ambito economico.
2
4
ispiravano. In questa forma di democrazia si combinavano infatti elementi che nel 1792-1793 si sarebbero
chiamati girondismo, giacobinismo e persino sanculottismo4, ma meglio rappresentato era forse il giacobinismo
della Costituzione del 1793. A ispirare il terzo modello furono la rivoluzione dell'Anno II e le sollevazioni post-termidoriane, soprattutto la cospirazione degli Eguali di Babeuf, l'importante insurrezione dei giacobini estremisti
e dei primi comunisti, che segna in politica l'inizio della tradizione comunista moderna. Nacque dal sanculottismo
e dal robespierrismo di sinistra, ma dal primo non ereditò che il forte odio per la borghesia e per i ricchi.
Politicamente il modello rivoluzionario babuvista seguiva la tradizione di Robespierre e di Saint-Just.
Dal punto di vista dei governi assoluti, questi movimenti erano tutti ugualmente sovvertitori della stabilità e
dell'ordine, benché alcuni fossero più degli altri intenzionalmente votati alla diffusione del caos, e alcuni fossero
più degli altri pericolosi in quanto maggiormente capaci di infiammare le masse ignoranti e impoverite. In realtà,
comunque, i movimenti di opposizione erano uniti tra loro solamente dall'odio comune per i regimi del 1815 e
dalla tradizionale solidarietà che legava tutti quelli che erano contrari, per qualunque motivo, alla monarchia assoluta, alla Chiesa e all' aristocrazia. La storia del periodo che va dal 1815 al 1848 è la storia della disgregazione di
questa unità.
4
In relazione agli orientamenti assunti dai sanculotti parigini all'interno delle sezioni elettorali e della Comune cittadina,
orientamenti solo in alcune fasi e solo parzialmente rappresentati dal gruppo dirigente giacobino.
5
L'ITALIA, UNA, REPUBBLICANA E INDIPENDENTE
da Giuseppe Mazzini, Istruzione generale per gli affratellati alla Giovine Italia, 1831
Nel 1831, quando fonda la Giovine Italia, Mazzini ha solo ventisei anni, ma recenti esperienze politiche hanno già
consolidato in lui convinzioni e ideali patriottici cui resterà fedele per tutta la vita. Particolarmente significativa è
stata in tal senso la breve militanza nelle file carbonare che da una parte gli ha mostrato i limiti di questa società
segreta (in particolare il settarismo) e dall' altro gli ha rivelato quanto illusorio sia riporre la propria fiducia nei
sovrani italiani (primo fra tutti Carlo Alberto).
Di queste esperienze si trova un chiaro riflesso nel contenuto del documento programmatico sulla cui base
nell'estate del 1831 egli si accinge a fondare la nuova associazione. L'istruzione generale per gli affratellati alla
Giovine Italia - di cui riportiamo uno stralcio - espone in modo chiaro e conciso i punti centrali del programma che
Mazzini seguirà sempre con la massima coerenza: la critica alla concezione settaria e verticistica della Carboneria
che esclude la partecipazione delle masse; l'ideale unitario, contrapposto all'ipotesi federa ti va, che 'farebbe
dell'Italia una nazione esposta alle mire egemoniche delle altre potenze; l'ideale repubblicano, sostenuto sia sulla
base di argomenti di filosofia politica (la forma repubblicana, a differenza della monarchia, favorisce uguaglianza
e rispetto dei diritti), sia attraverso richiami alla storia d'Italia.
Nel documento è costante il richiamo a due pilastri operativi del programma mazziniano: l'educazione, necessaria
per guadagnare alla causa nazionale le masse trasformandole in una forza consapevole e determinata,
l'insurrezione popolare, che affida l'intera iniziativa agli italiani, sottraendoli a rischiose intromissioni di nazioni
straniere.
La "Giovine Italia" dichiara senza reticenza, a' suoi fratelli di patria, il programma in nome del quale essa intende
combattere. Associazione tendente anzi tutto a uno scopo d'insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a
quel giorno e dopo quel giorno, essa espone i principii pe' quali l'educazione nazionale deve avverarsi, e dai quali
soltanto l'Italia può sperare salute e rigenerazione. [...] . La "Giovine Italia" è repubblicana e unitaria.
"Repubblicana": - perché teoricamente, tutti gli uomini d'una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e
dell'umanità, a esser liberi, eguali, e fratelli; e l'istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire, perché la sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, sola interprete progressiva e continua della legge
morale suprema, - perché dovunque il privilegio è costituito a sommo dell'edificio sociale, vizia l'eguaglianza dei
cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà del Paese5, - perché dovunque la sovranità è
riconosciuta esisténte in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni, la lotta riesce inevitabile tra questi
poteri, e all' armonia, ch'è legge di vita alla società, sottentra necessariamente la diffidenza e l'ostilità organizzata6
- perché l'elemento monarchico, non potendo mantenersi a fronte dell'elemento popolare, trascina la necessità
d'un elemento intermediario d'aristocrazia7, sorgente d'ineguaglianza e di corruzione all'intera nazione - perché,
dalla natura delle cose e della storia è provato, che la monarchia elettiva tende a generar l'anarchia, la monarchia
ereditaria a generare il dispotismo - perché, dove la monarchia non s'appoggia, come nel Medioevo, sulla
credenza, oggi distrutta, del diritto divino, riesce vincolo mal fermo d'unità e d'autorità nello Stato - perché la
serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente le società allo stabilimento del principio
repubblicano8, e l'inaugurazione del principio monarchico in Italia trascinerebbe la necessità d'un'altra rivoluzione
tra non molti anni.
"Repubblicana" - perché, praticamente, l'Italia non ha elementi di monarchia: non aristocrazia venerata e potente
che possa piantarsi fra il trono e la nazione: non dinastia di principi italiani che comandi per lunghe glorie e
importanti servizi resi allo sviluppo della nazione, gli affetti o le simpatie di tutti gli Stati che la compongono perché la tradizione italiana è tutta repubblicana: repubblicane le grandi memorie; repubblicano il progresso della
5
L'obiezione che viene qui sollevata è che, ponendo un sovrano al di sopra della nazione (nella quale in realtà risiede la
sovranità), si mina alle radici il fondamentale principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini.
6
In questo modo Mazzini mostra di rifiutare anche il modello della monarchia costituzionale, fondata sulla separazione dei
poteri. Più in generale è verso questo stesso principio, per altro basilare nella concezione liberale, che egli mostra una certa
diffidenza.
7
L'aristocrazia è qui concepita come un corpo intermedio al quale la monarchia non può fare a meno di ricorrere e di
appoggiarsi.
8
Mazzini tende a concepire l'evoluzione verso l'istituzione repubblicana come una inarrestabile linea di tendenza dell' epoca.
6
nazione, e la monarchia s'introdusse quando cominciava la nostra rovina e la consumò9: fu serva continuamente
dello straniero, nemica al popolo, e all'unità nazionale - perché le popolazioni dei diversi Stati italiani, che
s'unirebbero, senza offesa alle ambizioni locali, in un principio, non si sottometterebbero facilmente a un Uomo,
uscito dall'un degli Stati, e le molte pretese trascinerebbero il Federalismo - […] perché a sommuovere un intero
popolo è necessario uno scopo che gli parli direttamente, e intelligibilmente, di diritti e vantaggi "suoi" - perché,
destinati ad avere i governi contrari tutti per sistema e terrore all' opera della nostra rigenerazione, ci è forza, per
non rimanere soli nell' arena, di chiamarvi con noi i popoli levando in alto una bandiera di popolo e invocandoli a
nome di quel principio, che domina in oggi tutte le manifestazioni rivoluzionarie d'Europa10.
La "Giovine Italia" è "unitaria" - perché, senza unità non v'è veramente nazione - perché, senza unità non v'è
forza, e l'Italia, circondata da nazioni unitarie, potenti, e gelose, ha bisogno anzi tutto d'essere forte - perché il
federalismo, condannandola all'impotenza della Svizzera, la porrebbe sotto l'influenza necessaria d'una o d'altra
delle nazioni vicine - perché il federalismo ridando vita alle rivalità locali oggimai spente, spingerebbe l'Italia a
retrocedere verso il Medioevo - perché il federalismo, smembrando in molte piccole sfere la grande sfera
nazionale, cederebbe il campo alle piccole ambizioni e diverrebbe sorgente d'aristocrazia - perché, distruggendo
l'unità della grande famiglia italiana, il federalismo distruggerebbe dalle radici la missione che l'Idea è destinata a
compiere nell'umanità11 - perché la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente le società
europee a costituirsi in vaste masse unitarie - perché, tutto quanto il lavoro interno dell'incivilimento italiano
tende da secoli, per chi sa studiarlo, alla formazione dell'unità - perché tutte le obbiezioni fatte al sistema unitario
si riducono a obbiezioni contro un sistema di concentrazione e di dispotismo amministrativo12 che nulla ha in
comune coll'unità. - La "Giovine Italia" non intende che l'Unità nazionale implichi "dispotismo", ma concordia e
associazione di tutti. - La vita inerente alle località dev'esser libera e sacra. L'organizzazione "amministrativà"
dev'esser fatta su larghe basi, e rispettare religiosamente le libertà di comune; ma l'organizzazione "politica"
destinata a rappresentar la Nazione in Europa dev'essere una e centrale. Senza unità di credenza e di patto
sociale, senza unità di legislazione politica, civile, e penale, senza unità d'educazione e rappresentanza, non v'è
Nazione. […]
I mezzi de' quali la "Giovine Italia" intende valersi per raggiungere lo scopo sono l'Educazione e l'Insurrezione.
Questi due mezzi devono usarsi concordemente e armonizzarsi. L'educazione, cogli scritti, coll'esempio, colla
parola, deve conchiudere13 sempre alla necessità e alla predicazione dell'insurrezione: l'insurrezione quando
potrà realizzarsi, dovrà farsi in modo che ne risulti un principio d'educazione nazionale. [...]
Convinti che l'Italia può emanciparsi colle proprie forze - che a fondare una nazionalità è necessaria la coscienza di
questa nazionalità, e che questa coscienza non può aversi, ogniqualvolta l'insurrezione si compia o trionfi per
mani straniere - convinta d'altra parte che qualunque insurrezione s'appoggi sull'estero dipende dai casi
dell'estero e non ha mai certezza di vincere - la "Giovine Italia" è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a
farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione. La "Giovine Italia" sa che l'Europa aspetta un segnale, e che,
come ogni altra nazione, l'Italia può darlo. Essa sa che il terreno è vergine ancora per l'esperimento da tentarsi che le insurrezioni passate non s'appoggiarono che sulle forze d'una classe sola, non mai sulle forze dell'intera
nazione che ai venti milioni d'Italiani manca, non potenza per emanciparsi, ma la fede14 sola. Essa ispirerà questa
fede, prima colla predicazione, poi coi caratteri e coll'energia dell'iniziativa.
9
Nel giudizio storico qui formulato l'elemento monarchico compare nella storia italiana dopo l'esperienza repubblicana dei
Comuni e con l'avvento delle signorie, una fase valutata negativamente perché prepara la strada all' asservimento della penisola
da parte delle potenze straniere.
10
Si affaccia qui un elemento che caratterizza in modo distintivo il nazionalismo mazziniano: l'impegno per la costruzione
dell'Italia deve accompagnarsi e sostenere le analoghe rivendicazioni da parte dei popoli oppressi di tutta Europa.
11
Quella di porsi alla testa del movimento di liberazione dei popoli.
12
Ci si riferisce alle obiezioni che erano state sollevate nei confronti della concezione centralistica dello Stato, quale per
esempio si era realizzata in epoca napoleonica. Mazzini ammette la possibilità che al centralismo politico si accompagnino
forme di decentramento amministrativo.
13
Indirizzarsi verso.
14
Questa espressione tipica della religione si inserisce non a caso nel discorso mazziniano che ritiene che solo un forte
coinvolgimento emotivo e ideale di carattere religioso possa suscitare le energie del popolo italiano.
7
I LIMITI DEL PROGRAMMA MAZZINIANO
da F. DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, EDITORI RIUNITI,1973
L'INSURREZIONE GUIDATA DALL"'ALTO" Nella polemica aperta fin dal 1831 nei confronti della Carboneria, Mazzini
aveva contrapposto alla fiducia nutrita dai cospiratori in un intervento esercitato dai sovrani la necessità di
un'iniziativa insurrezionale popolare, sia pure preparata da un'opportuna opera di propaganda ed educazione.
Questa volontà di guadagnare il popolo alla causa della rivoluzione non si tradurrà però in un'effettiva
mobilitazione; le stesse esperienze rivoluzionarie di Firenze, Venezia, Roma, del 1848-1849, restano confinate alle
capitali e non si allargano alle campagne circostanti né alle province limitrofe.
UN'ANALISI SOCIO-ECONOMICA LACUNOSA Per spiegare l'inadeguata diffusione dei moti mazziniani - causa
principale dei loro esiti negativi - lo storico Franco Della Peruta riesamina criticamente il programma del pensatore
genovese. Ciò che impedisce a Mazzini di interpretare le esigenze delle masse popolari e di coinvolgerle nel
progetto rivoluzionario è il permanere in lui di un'immagine del popolo priva di precise con notazioni sociali. Il
fatto di considerare il popolo un'entità più culturale che sociale, secondo la visione introdotta dal Romanticismo,
non gli fa tenere nella giusta considerazione i temi economici - quello della riforma agraria, per esempio - che gli
avrebbero garantito un maggiore consenso sociale, soprattutto nel mondo delle campagne.
Già nella primissima fase della Giovine Italia al centro degli interessi di Mazzini sta - come è noto - la questione
della rivoluzione nazionale, dei modi cioè in cui giungere, per via rivoluzionaria, alla formazione di uno Stato
nazionale italiano indipendente e unito; e fin dal 1831, agli esordi della sua attività, nodo della questione gli
appare il rapporto rivoluzione-masse popolari. Fu evidentemente decisiva, per una simile impostazione, la riflessione sulle più recenti esperienze della storia italiana; il 1820-1821 e il 1831 avevano infatti mostrato che quei
movimenti, anche se inizialmente vittoriosi, si erano poi illanguiditi e spenti perché le masse erano rimaste
indifferenti e inerti; e la conclusione che Mazzini ne ricavava era che nessuna rivoluzione poteva essere coronata
da successo se le veniva meno 1'appoggio delle masse e che quindi i capi, per non rimanere soli sull' arena, dovevano trascinarvi anche le moltitudini. Posto dunque che la rivoluzione aveva bisogno delle moltitudini, che essa
doveva farsi con il popolo e per il popolo (intendendo per popolo, sansimonianamente15, «la classe la più
numerosa, e la più povera»), il problema fondamentale diventava l'individuazione dei mezzi adatti a sommuovere,
a suscitare le masse. E anche a questo proposito fu per Mazzini determinante la riflessione sugli avvenimenti più
recenti; a suo giudizio la ragione profonda del fallimento degli ultimi tentativi insurrezionali italiani stava nel
ristretto carattere di classe che essi avevano assunto; timorosi dell'intervento delle masse, i capi avevano
considerato la rivoluzione come un affare che riguardava esclusivamente i ceti borghesi, come una questione
meramente politico-costituzionale, che interessava soltanto i vertici della società. Le moltitudini - argomentava
Mazzini nel 1831 e nei primi mesi del 1832 - erano rimaste inerti durante i più recenti movimenti perché avevano
giudicato estranei i fini che quelli si proponevano, perché non avevano attribuito alcun valore a una costituzione
censitaria16, perché avevano sentito confusamente che quei tentativi riguardavano la «classe media» più che l'
«ultima» e che la rivoluzione «non era fatta per esse, e con esse; ma senz'esse, e con terrore anzi di risvegliarle»;
perché si trattava insomma di movimenti che erano stati diretti «al trionfo d'una classe sovra un' altra, di
un'aristocrazia nuova sovra una vecchia», senza prendersi pensiero del popolo.
E invece per spingere all' azione un popolo era necessario rendergli comprensibili i fini della rivoluzione, parlargli
dei suoi diritti e dei vantaggi che avrebbe tratto dal nuovo ordine di cose, fare leva sui suoi interessi. Nell' analisi
delle prospettive rivoluzionarie che Mazzini veniva compiendo tra il 1831e il 1832 la condizione delle
«moltitudini» era vista con occhio realistico, senza indulgenza per il mito delle «masse». Le moltitudini erano
diseducate, corrotte, abituate al giogo, perché cinque secoli di servaggio non erano passati invano; esse non
erano quindi in grado di intendere il linguaggio delle «idee», la «religione della patria», cosi che non era pensabile
di poterle scuotere con il solo grido di «guerra al barbaro». Per di più il popolo era stato reso diffidente dalle
delusioni provate nei tentativi precedenti, che non gli avevano fruttato miglioramento alcuno e che non avevano
portato ad altro risultato che all'insediamento di una nuova aristocrazia, quella dell' oro, al posto di quella del
15
Secondo, cioè, la visione espressa da Claude de Saint-Simon (1760-1825), teorico di una profonda riforma della società volta
a eliminare le più vistose sperequazioni, soprattutto quelle fra i ceti produttivi (imprenditori e lavoratori) e quelli improduttivi
(in primo luogo la nobiltà).
16
Che tendeva cioè ad attribuire i diritti politici solo ai cittadini che godevano di un certo reddito (censo).
8
sangue. Per trascinare alla lotta le masse era dunque necessario far leva sugli interessi materiali, parlare ai popoli
italiani dei vantaggi concreti che avrebbero tratto - alla fine della lotta nazionale contro lo straniero - dal nuovo
ordine di cose, convincerli che li si voleva rendere «meno miseri, meno insultati dall'opulenza, meno avviliti dagli
scienziati17, meno dominati dall' arbitrario nelle leggi». [...]
Per Mazzini, quindi, la parola d'ordine della guerra allo straniero era insufficiente all'intento di muovere le masse;
infatti gli italiani, eccettuati quelli del Lombardo-Veneto - egli osservava - non sentivano direttamente il peso del
dominio austriaco; il «barbaro», per il popolano non era tanto il soldato straniero, quanto l'esattore dei tributi, il
doganiere, il birro18, la spia, gli strumenti diretti dell' oppressione; e più che della privazione dell'indipendenza le
moltitudini si dolevano della tassa prediale19, delle gabelle, della carta bollata, del prezzo del sale, della
coscrizione, delle mille vessazioni «d'un insolente potere, d'una esosa aristocrazia», della mancanza d'ogni diritto
e rappresentanza politica. I rivoluzionari, pertanto, avrebbero dovuto «scendere nelle viscere della questione
sociale», parlare alle moltitudini «una parola di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale»;
gettare fra di loro il grido di libertà e di uguaglianza, fare apostolato di repubblica, vale a dire del governo
poggiante sulla sovranità della nazione, in cui tutti gli interessi erano rappresentati a seconda della loro «potenza
numerica» e la legge rinnegava il «privilegio», in cui non esistevano classi o individui privi del necessario e le
istituzioni erano volte principalmente «al meglio della classe più numerosa e più povera» e a promuovere
l'«associazione». [...]
Per ricondurre nella sua giusta misura il rilievo che la «socialità» della rivoluzione ha nell'insieme delle idee
mazziniane sino dalla primissima fase della Giovine Italia si deve però osservare che tale «socialità» prende subito
un carattere subordinato rispetto al fine primo ed essenziale, che è sempre l'emancipazione nazionale, il riscatto,
il risorgimento politico della nazione italiana. Se il motivo dell' appello agli interessi materiali delle masse ricorre
con insistenza, appare però chiaro, quando si tenga presente la trama in cui è inserito, che esso ha un valore
soprattutto strumentale; già nel 1831, infatti, troviamo delineata nei suoi grandi tratti quella impostazione
romantica e spiritualistica della questione rivoluzionaria alla quale Mazzini si terrà poi sempre fermo: le nazioni
cioè si rigenerano materialmente soltanto dopo che si è compiuta la loro rigenerazione morale; le rivoluzioni sono
sempre una lotta a morte tra idee contrapposte, e si realizzano più con i principi che con le baionette, prima
nell'ordine morale che in quello materiale; tra gli interessi e i principi sono questi ad avere il peso decisivo. [...]
Ma, al di là dei principi generali, come si strutturava nei dettagli il programma economico-sociale di Mazzini negli
anni della prima Giovine Italia e poi della Giovine Europa? [...] Quali le vie da battere per sviluppare il principio
dell'«associazione», realizzare l'uguaglianza e inaugurare la nuova epoca, l'epoca «sociale»?
È da rilevare anzitutto che Mazzini, anche nella fase iniziale della sua attività, si manifestava non soltanto ostile a
ogni forma di "comunismo" (e il comunismo si identificava in quegli anni con il buonarrotismo20), ma anche
contrario a qualsiasi mutazione radicale e immediata dell' assetto della proprietà, e quindi a ogni progetto di
"partage"21 o "legge agraria". «Non vogliamo sovversioni de' diritti legittimamente acquistati - dichiarava nel 1832
- non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà», e per
«legittimamente acquistati» affermava esplicitamente doversi intendere i diritti sanzionati dalla legislazione che
regolava gli interessi privati. Per Mazzini la proprietà - sono sue parole dell'inizio del I835 - era «sacra», perché
rappresentava l'individualità, la personalità dell'uomo; certamente essa era destinata a subire modificazioni
anche profonde, ma in una prospettiva lontana, alla fine dell'epoca sociale che albeggiava appena. [...]
Questa riluttanza ed esitazione a delineare più esplicitamente un concreto programma economico. sociale che
meglio rispondesse alle generali formulazioni di principio va spiegata, più che con l"'astrattezza" di cui si suole far
carico a Mazzini, con la impostazione che egli aveva dato a quello che potremmo chiamare il problema delle
"forze motrici" della rivoluzione italiana. Secondo Mazzini la rivoluzione doveva infatti essere realizzata dall'
azione congiunta dei ceti borghesi e delle classi popolari, indispensabili gli uni e le altre per il coronamento
vittorioso del moto risorgimentale; e fu suo convincimento costante che le forze popolari, nonostante la loro
massa d'urto e la loro potenziale energia, non erano in grado di portare a compimento da sole la rivoluzione
nazionale e avevano perciò bisogno di essere dirette dagli «intelletti» e dalla «classe media», perché l'iniziativa
17
Nel senso di consentire loro di colmare, almeno in parte, la forte distanza culturale che li separava dagli uomini di cultura.
Non dimentichiamo che la gran maggioranza degli abitanti della penisola era analfabeta.
18
Lo sbirro, il poliziotto.
19
Sui terreni.
20
Con il programma cioè espresso da Filippo Buonarroti (1761-1837), già seguace di Babeuf e collaboratore nella fallita
congiura degli Eguali.
21
Divisione (delle terre).
9
delle grandi battaglie rivoluzionarie non saliva dal basso verso l'alto, ma scendeva dall' alto verso il basso, dai ceti
colti, dagli uomini migliori per intelletto e per cuore alle moltitudini. Date queste premesse, è comprensibile che
Mazzini esitasse a introdurre nel suo programma misure troppo radicali ed eversive di diritti costituiti le quali,
favorendo il giuoco di quanti alla sua destra - moderati o reazionari - erano sempre pronti ad accusarlo di
"socialismo", potessero spaventare e allontanare quella «classe media» che egli voleva invece tranquillizzare.
10
IL PENSIERO DI GIOBERTI
da Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Feltrinelli, 1958
In questa pagina Candeloro illustra con grande chiarezza ma anche con estremo rigore scientifico due punti
centrali dell'opera di Gioberti: il rilievo dato all'importanza che la Chiesa e l'autorità papale potevano avere per
l'unità d'Italia e l'impiego di un linguaggio non rivoluzionario, funzionale all'esigenza di persuadere sia i sovrani sia
il clero. A essi indicava così un percorso politico gradualistico, che non li spaventasse.
Istituzione indispensabile al vero progresso dell'umanità, la Chiesa, secondo Gioberti, deve avere il suo centro
propulsore in una forte autorità papale [...] ed avere il suo principale punto d'appoggio nel popolo italiano.
Gioberti dunque, non solo collega strettamente la storia della Chiesa a quella dell'Italia secondo lo schema guelfo
ormai corrente nella storiografia cattolico-liberale, ma sostiene anche che il risorgimento della Chiesa è inscindibilmente legato al risorgimento dell'Italia. Come per Mazzini l'iniziativa rivoluzionaria dell'Italia,
sostituendosi al primato francese, doveva aprir la strada al rinnovamento politico, morale e religioso dell'Europa,
così per Gioberti il nuovo primato italiano, sostituendosi al primato francese che aveva portato al dissidio fra
religione e civiltà, doveva aprir la strada alla riconciliazione della Chiesa con la libertà e col progresso, quindi ad un
rinnovamento della Chiesa stessa. D'altra parte Gioberti giudicava indispensabile per il risorgimento d'Italia
l'alleanza del movimento liberale e nazionale col papato e col clero. Non solo dunque considerava il risorgimento
italiano come un primo passo verso la futura egemonia della Chiesa nel mondo, ma vedeva anche nella concreta
forza politica e morale della Chiesa e dell'Italia i soli mezzi per mettere in movimento la situazione italiana. In
pratica l'elemento universalistico, che ideologicamente sembrava preminente nel suo pensiero, finì per assumere
nella sua opera propagandistica e politica, a partire dalla pubblicazione del Primato fino al '48, una funzione puramente strumentale e per divenire un mito abilmente utilizzato per la soluzione del problema nazionale. [...]
Date queste premesse, non stupisce il fatto che quando nel settembre 1841 lo scrittore torinese cominciò a
stendere un opuscolo sul papato, il lavoro si allargò grandemente via via che veniva scritto e divenne un libro
imperniato sul problema italiano. Nacque così il Primato morale e civile degli Italiani, la cui prima edizione in due
tomi uscì a Bruxelles alla fine di maggio del 1843. [...]
Tutta la parte propriamente politica del Primato, con le sue reticenze, le sue cautele, le sue retoriche
esaltazioni,era insomma calcolata e dosata astutamente, «gesuitescamente», come il Gioberti stesso diceva, allo
scopo di attirare i sovrani, il clero e quelle parti della nobiltà e della borghesia che erano più legate allo stato di
cose esistente, tutte insomma le forze conservatrici per tradizione e per calcolo, al movimento moderato e
all'idea dell'unione d'Italia. Il tono conciliativo, l'abile delineazione di un possibile movimento gradualistico e
antirivoluzionario, furono gli elementi che contribuirono al successo del libro. Il quale esprimeva una tendenza
conciliatrice, che aveva indubbiamente aspetti ingenui ed anche ridicoli, ma che era largamente diffusa e
rispondeva in quel momento ad interessi reali e a sentimenti profondamente radicati.
A Gioberti va quindi il grande merito di aver saputo nel momento opportuno lanciare una formula ideologica e un
programma politico, che, sebbene fossero intessuti di vecchie idee e intorbidati da gravi equivoci, poterono
mettere in moto larghi strati dell'opinione pubblica italiana rimasti fino a quel momento inerti o addirittura ostili
al movimento nazionale.
11
LA COSTITUZIONE PIEMONTESE
Dopo aver attuato, nel corso del 1847, sotto la pressione dell' opinione pubblica piemontese, una serie di
moderate riforme (abolizione del privilegio di foro per i nobili, soppressione della censura ecclesiastica sulla
stampa), Carlo Alberto nel marzo del 1848 promulga, sull'onda delle agitazioni italiane e francesi, lo Statuto, che
prenderà il suo nome. L'intenzione del sovrano, allineata a quella degli altri sovrani della penisola, è più quella di
scongiurare il dilagare della rivoluzione che non di aderire ai principi liberali.
Il carattere moderato e per molti aspetti contraddittorio dello Statuto è confermato da numerosi altri elementi:
accanto al riconoscimento di alcuni fondamentali diritti giuridici (fra essi l'uguaglianza dinanzi alla legge, la libertà
di domicilio, stampa, associazione), non vi è altrettanta apertura verso i diritti politici (il diritto di voto resta
circoscritto a meno del 2 per cento della popolazione); i culti non cattolici vengono solo "tollerati", mentre il
cattolicesimo è dichiarato religione di Stato; il principio della divisione dei poteri è limitato dall'attribuzione al
sovrano di ampi poteri in ambito legislativo (titolari ne sono il re e le camere, una delle quali è di nomina regia), in
quello esecutivo (attribuito interamente al sovrano che nomina i ministri, responsabili del loro operato solo dinanzi
a lui e non nei confronti delle camere), in quello giudiziario (affidando al re la nomina dei giudici). Nonostante
questi limiti il fatto che, a differenza delle costituzioni concesse dagli altri sovrani della penisola, lo Statuto non
venga revocato dal sovrano all'indomani del 1848 contribuirà ad attribuire al Regno di Sardegna un ruolo decisivo
nei successivi sviluppi politici.
Con lealtà di Re e con affetto di Padre, Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai Nostri sudditi
col Nostro proclama dell'8 dell'ultimo scorso febbraio, con cui abbiamo voluto dimostrare in mezzo agli eventi
straordinari che circondavano il paese, come la Nostra confidenza in loro crescesse colla gravità delle circostanze,
e come prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore fosse ferma Nostra intenzione di
conforma. re le loro sorti alla ragione dei tempi, agli interessi e alla dignità della Nazione.
Considerando Noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto Fondamentale come
un mezzo il più sicuro di raddoppiare coi vincoli d'indissolubile affetto che stringono all'itala Nostra Corona un
Popolo, che tante prove Ci ha dato di fede, d'obbedienza e d'amore, abbiamo determinato di sancirlo e
promulgarlo; nella fiducia che Iddio benedirà le pure Nostre intenzioni, e che la Nazione libera, forte e felice si
mostrerà sempre più degna dell' antica fama, e saprà meritarsi un glorioso avvenire.
Perciò di Nostra certa scienza22, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato e
ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua e irrevocabile della Monarchia, quanto segue:
Art. I. La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono
tollerati conformemente alle leggi.
Art. 2. Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica23.
Art. 3. Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei Deputati.
Art. 4. La persona del Re è sacra e inviolabile.
Art. 5. Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra
e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio e altri, dandone notizia alle Camere
tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano24, e unendovi le comunicazioni opportune. I trattati
che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo
ottenuto l'assenso delle Camere.
Art. 6. Il Re nomina tutte le cariche dello Stato; e fa i decreti e regolamenti necessari per l' esecuzione delle leggi,
senza sospenderne l'osservanza o dispensarne.
Art. 7. Il Re solo sanziona le leggi e le promulga25.
Art. 8. Il Re può far grazia e commutare le pene.
Art. 9. Il Re convoca in ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei Deputati, ma
in quest'ultimo caso ne convoca un'altra nel termine di quattro mesi.
22
Con piena consapevolezza del significato di quanto stiamo facendo
Con questa espressione si indica il principio, che la tradizione farebbe risalire ai franchi salii, secondo cui nei regni europei
le femmine e i loro discendenti sono esclusi dalla successione al trono.
24
Si tratta di un principio apparentemente scontato, ma che consentirà ai governi di muoversi in politica estera secondo i criteri
della diplomazia segreta, senza cioè dover rendere conto delle loro scelte al parlamento, come avverrà in Italia nel 1915 alla
vigilia dell'ingresso del Paese nella Prima guerra mondiale.
25
Sono le azioni con cui le leggi diventano ufficiali e operative.
23
12
Art. 10. La proposizione26 delle leggi apparterrà al Re e a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge
d'imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato, sarà presentata prima alla Camera
dei Deputati. [...]
Art. 24. Tutti i regnicoli27, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono
egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate
dalle leggi.
Art. 25. Essi contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato.
Art. 26. La libertà individuale è garantita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi
previsti dalla legge, e nelle forme che essa prescrive.
Art. 27. Il domicilio è inviolabile. Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme
che essa prescrive.
Art. 28. La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di
preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo28.
Art. 29. Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia, quando l'interesse pubblico
legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità
conformemente alle leggi.
Art. 30. Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re.
[...]
Art. 32. È riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz' armi, uniformandosi alle leggi che possono
regolarne l'esercizio nell'interesse della cosa pubblica. Questa disposizione non è applicabile alle adunanze in
luoghi pubblici, o aperti al pubblico, i quali rimangono intieramente soggetti alle leggi di polizia.
Art. 33. Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l'età di
quarant'anni compiuti. [...]
Art. 65. Il Re nomina e revoca i suoi Ministri. [...]
Art. 68. La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch'Egli istituisce.
26
Proposta, iniziativa.
Sudditi del Regno sabaudo. L'espressione, decisamente bizzarra, esprime anch'essa una posizione di compromesso: il
termine "cittadini" avrebbe richiamato il linguaggio dei diritti universali inaugurato dalla Rivoluzione francese, mentre quello
di "sudditi" avrebbe ricordato la condizione di subordinazione dell' Ancien régime.
28
Si tratta della particolare censura preventiva (imprimatur) introdotta dalla Chiesa di Roma nel periodo controriformistico.
27
13
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testi su restaurazione e moti