Metauro
© 2012 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy)
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ISBN 978-88-6156-???-?
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la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
incontri
cinematografici e culturali
tra due mondi
a cura di antonio c. vitti
Metauro
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Prefazione
Maestri e cinema del passato
Perché una raccolta di saggi sul cinema, sulla letteratura e sulla cultura italiana in senso lato, scritti da critici che operano tra due mondi, e
che per giunta apparentemente non hanno un tema specifico che possa
mettere in luce l’insieme? Da questa domanda che poi è diventata una
vera sfida, è nato il seguente volume.
Sono ormai passati tanti anni dall’ultima raccolta di saggi che ho
curato, e che era nata da una collaborazione tra studiosi di cultura
italiana tra le due sponde dell’oceano Atlantico. A giudicare dalle reazioni dei lettori, dei recensori e dei colleghi che hanno utilizzato il
volume precedente, ho ritenuto opportuno che una nuova raccolta di
saggi rispecchiasse il desiderio e i bisogni di studenti e insegnanti e
che colmasse una lacuna didattica e offrisse un aggiornamento sui
nuovi film usciti in questi ultimi dodici anni, e che inoltre presentasse
un aggiornamento sulle nuove ricerche su film, registi e scrittori che
come Giose Rimanelli e Helen Barolini hanno trascorso la loro vita
artistica tra due mondi.
Il volume rispecchia anche il desiderio dei miei studenti di studiare i film del passato da prospettive diverse e di conoscere il nuovo
cinema italiano, i suoi nuovi protagonisti, le nuove tendenze e tematiche. L’iniziativa ha anche lo scopo di avvicinare gli studenti e gli studiosi alla cultura italiana della crisi economica e istituzionale e della
fine delle ideologie e del postmoderno. L’Italia vista da fuori sembra
un paese che deve reinventarsi, andare oltre l’immagine da cartolina
del passato, e lo scopo di questa raccolta era di cercare di capire come
si autorappresentasse nel nuovo millennio, ma anche com’è vista da
chi l’ama ma non la vive direttamente. Lo scopo era di confrontarsi
per capire e per realizzare un possibile processo che Andrea Camilleri
ha definito:
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Nei momenti di crisi più nera, mentre tutto crolla, la vita
comunque continua e i rapporti umani tendono a rafforzarsi:
allora da questo schifoso momento potrebbe venirne anche un
gran bene.
L’Italia da fuori sembra un paese in ginocchio e in deriva, senza guida
e senza fantasia che si barcamena tra tante difficoltà. A mio avviso il
cinema dell’oggi non riflette i trionfalismi dei politici al potere ma
sembra aver ripreso l’autobus di cui parlava Cesare Zavattini nel provocare i registi e gli sceneggiatori ad avvicinarci alla gente per non
far morire gli ideali del neorealismo. La parte del volume dedicata
al cinema contemporaneo voleva anche verificare se qualcosa fosse
cambiato dalle constatazioni fatte nel duemila dallo storico Gian Piero Brunetta che sul cinema italiano alla fine del secolo aveva scritto:
Registi e autori di soggetti e di sceneggiature sembrano aver
scelto una sorta di navigazione a vista, continuando a privilegiare storie minimaliste, in ogni caso muovendosi senza strumenti
o bussole comuni per quanto riguarda la rotta del presente.
Alla mancanza di visione di cui si lamenta Brunetta si potrebbero
aggiungere le difficoltà di distribuzione, la mancanza di dialogo tra
produttori e autori, la mancanza del sopporto critico che gli autori
lamentano nei confronti dei critici, che continuano a mandare anatemi sul nuovo cinema. In realtà c’è da chiedersi che resta del cinema e della cultura italiana oggi nel mondo della globalizzazione? Le
interviste incluse nell’ultima parte del volume pongono queste e altre
domande, ma offrono anche risposte che vanno ben oltre l’aspetto
estetico. Il regista Giuseppe Piccioni, pur consapevole delle difficoltà
del cinema italiano, parlando del Festival di Venezia e della giuria
presieduta da Quentin Tarantino, ha biasimato il riprovevole atteggiamento dei gestori del festival che invece di valorizzare al meglio il
cinema italiano assumono un comportamento così descritto:
Per assurdo chi dovrebbe, per statuto, valorizzare al meglio
il cinema italiano finisce con il fare delle scelte opinabili per
quanto riguarda le opere selezionate e anche sulla scelta dei
giurati stessi. Questo credo sia un problema perché non ci
dovrebbero essere considerazioni personali nella scelta di un
film. È sempre stata una mostra attenta ad assecondare certi
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poteri; quelle due o tre produzioni che hanno già una forza sul
mercato ne escono rafforzate quando invece la mostra dovrebbe avere un altro tipo di atteggiamento. E quindi generalmente
è una mostra vecchia dove il cinema italiano esce fortemente
sciupato, un’immagine che secondo me è molto distante dalla
realtà perché quello italiano è anche oggi un cinema che ha un
suo reale valore che in molti casi è quantomeno apprezzabile.
Malgrado tutte le critiche, a mio avviso, il cinema italiano contemporaneo sembra che aver dato una risposta forte ai critici superando
il cinema minimalista che criticava Brunetta. Benché si sia parlato e
scritto molto del neo-neorealismo o addirittura del neo-neo-neorealismo e di rinascita del cinema italiano, e si sia tentato di spiegare i
due fenomeni, per chi ha curato il volume mancava ancora una vera
discussione sugli aspetti nuovi di questa rinascita oppure svolta del
cinema italiano contemporaneo. Il volume per chi avrà la bontà di leggerlo presenta una vasta ricerca sul cinema italiano del presente e del
passato ma va anche oltre. La prima parte è infatti dedicata ai Maestri
e al cinema del passato, raccoglie un saggio sulle radici udaiste del
neorealismo di Enrico Bernard che riapre il dibattito su quell’intramontabile fenomeno culturale e artistico. Lorenzo Borgotallo presenta una lettura nuova del capolavoro I bambini ci guardano, di V. De
Sica nell’analizzare il processo sovversivo di orfanizzazione che la
storia del film presenta. Ben Lawton offre una provocante rilettura
della commedia di costume di Pietro Germi attraverso il contrasto tra
omertà e società civile. Alan Perry ci presenta un tema poco discusso,
trattando il Meridione nel contesto della Guerra Civile dalla prospettiva di Giovannino Guareschi. La commedia italiana è ben rappresentata dal saggio di Gaia Capecchi sulla “poetica dell’ovosodo” di P. Virzì
e dal saggio di Claudio Mazzola che attraverso uno studio comparativista paragona la provincialità della rappresentazione della gioventù
italiana del dopoguerra all’anticonformismo di James Dean e di Marlon Brando. Il passaggio tra il vecchio e il nuovo è presentato dallo
storico Gian Piero Brunetta con un saggio su un progetto di un film
mai realizzato di E. Olmi e la sua collaborazione con Rigoni Stern
per l’adattazione del Sergente nella neve. Peter Brunette citando B.
Bertolucci ripercorre l’importanza del cinema di Roberto Rossellini.
Partendo dai classici della letteratura occidentale, Andrea Ciccarelli ci porta alla scoperta di come il cinema italiano contemporaneo
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utilizza il viaggio e la stasi. Federico Pacchione riscopre l’influenza
di Federico Fellini nel film Stanno tutti bene di Giuseppe Tornatore.
Anthony Tamburri analizza Nuovomondo di Emanuele Crialese attraverso le opposizioni tra il Vecchio Mondo e quello Nuovo che sono
al centro del racconto filmico. Maria Rosaria Vitti-Alexander tratta di
come il cinema contemporaneo racconta il Meridione ne La terra di
Sergio Rubini. Marguerite Waller offre una lettura postcoloniale di
Luna e l’altra di Maurizio Nichetti e Vito Zagarrio nell’era del neoneorealismo trova il “neorealismo prima del neorealismo”.
In un volume che si pone di presentare anche il contemporaneo,
difatti la nuova generazione è presente con una riflessione sul documentario con La Paura di Pippo Delbono di Maura Borgonzoni. Flavia Brizio-Skov affronta il quesito se esiste un nuovo cinema politico italiano oggi, invece Tania Convertini analizzando Anche Libero
va bene di Kim Rossi Stuart, ci presenta la difficile partita familiare
dell’oggi di un padre e di un figlio.
Il documentarista Salvo Cuccia raccontando anche le sue esperienze e l’apprendistato con il compianto maestro De Seta narra come
attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore De Seta ha
mostrato la trasformazione della società e del Meridione. Cosetta Gaudenzi, con La giusta distanza di C. Mazzacurati discute di come il film
promuove artisticamente il superamento dei pregiudizi e la convivenza culturale. Roberta Rosini offre una rilettura filosofica de Il ladro di
bambini di Gianni Amelio attraverso il viaggio meridiano. Manuela
Gieri con il suo saggio sull’urgenza della storia analizza come il cinema italiano contemporaneo rivive e la storia del Paese, mentre Alicia
Vitti con Il resto di niente, Through the Lens of Antonietta De Lillo ci
riporta alla Repubblica Napoletana e a Fonseca. Paola Lorenzi illustra
Io sono l’amore del 2009 diretto da Luca Guadagnino come “Italian
Antidote to the American Cinema of Aliens, Mutants & Vampires”,
mentre Diana Parisi presenta il cinema di Mimmo Calopresti come
cinema di ricerca, riflessione, rivoluzione e dell’esserci.
La parte letteraria del volume è arricchita dal saggio di Sheryl
Postman, su La terra dei padri tra le ultime opere di Giose Rimanelli,
scrittore italiano tra i più importanti nel Nord America. Daniela Privitera con Dal silenzio imposto al riscatto della parola traccia percorsi
di sicilianità da G. Verga ad A. Camilleri. Flavia Laviosa con ritmi e
danze del Sud indica il percorso dalle periferie alla “world music” dei
musicisti mediterranei.
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Il volume offre anche due saggi critici di due noti scrittori italiani:
Giacomo Pilati riflette sul ruolo delle Siciliane metaforicamente sintetizzato con “il silenzio e l’urlo” ed Ermanno Rea ci offre una riflessione sul centocinquantesimo anniversario dell’unificazione. Helen
Barolini racconta la genesi del suo romanzo Umbertina che attraverso
le vite di tre donne di una stessa famiglia ricostruisce al femminile
la storia italo-americana dall’unificazione italiana agli anni settanta.
L’ampiezza degli argomenti affrontati dai saggi scelti ha come
scopo il tema specifico di mettere in luce nuovi aspetti del cinema e
della letteratura italiana e di arricchire e di approfondire la conoscenza d’intellettuali, film e scrittori del nostro patrimonio culturale.
Antonio C. Vitti
Bloomington, Indiana
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parte prima
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Enrico Bernard
Le radici udaiste del neorealismo
Il 9 giugno 1929 sul «Corriere d’America» a New York viene riprodotto il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione Distruttivisti
Attivisti)1 firmato da tre giovanissimi intellettuali napoletani: Carlo
Bernard (alias Carlo Bernari, l’autore dello storico romanzo Tre ope-
1 Il Manifesto dell’U.D.A. (titolo originale: Manifesto di Fondazione dell’U.D.A.
Unione Distruttivisti Attivisti, Napoli, Vico delle Fiorentine a Chiaia, 5) appare
in appendice al saggio di Rocco Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli,
SEI, 1984, pp. 151-157; qui viene citato come UDA. La data 1928 nel punto 6, si
riferisce alla fondazione del “Circumvisionismo”. Qui di seguito i nove principi
base esposti all’inizio del Manifesto e poi elaborati in cinque brevi capitoletti
ricchi di riferimenti alla cultura europea del primo Novecento:
1. Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è
stata sempre rivoluzionaria.
2. L’arte essendo l’espressione del tempo, è moda, cioè cambiamento.
3. L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della
simpatia.
4. È sbagliato dire, per es. che oggi bisogna concretizzare ciò che hanno creato
i primi futuristi. I primi futuristi non hanno lasciato niente d’incompleto, poiché
le loro opere sono perfette in relazione al loro tempo. Sono perfette perciò in
assoluto. L’imperfetto e l’incompleto in arte non esiste. In arte esiste la non arte.
5. I problemi che interessavano gli avanguardisti del 1909 sono lontani da noi
perché sono lontani da noi gli anni 1909 ecc. – e niente affatto perché i nostri
problemi artistici siano più complessi.
6. Il 1929 è un nuovo momento storico, non solo differente dal 1909, ma finanche
differente dal 1928; presuppone quindi una nuova espressione.
7. È sbagliato pensare che le realizzazioni artistiche che vanno mettiamo dai
cubisti ai surrealisti possono servire oggi come esperienza. In arte l’esperienza
non esiste poiché essa sorge dalla storia che è eternamente nuova.
8. La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte.
9. L’arte è novità, la novità è arte.
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rai del 1932-1934), dal pittore Paolo Ricci2 e dal filosofo e artista
Guglielmo Peirce, entrambi tra gli animatori del movimento dei circumvisionisti napoletani3. La critica – non solo letteraria, tranne alcune eccezioni che segnalerò subito, ma anche e soprattutto gli storici e studiosi di arti visive
e cinema, – ha fino ad ora sottovalutato o ignorato l’importanza di
questo documento.
Non se ne è parlato fino alla fine degli anni ’70, quando Rocco
Capozzi4 ha riproposto una più attenta analisi del Manifesto in relazione alla genesi del neorealismo. Ma ci sono voluti altri trent’anni
prima che la questione tornasse attuale: Francesca Bernardini nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 2005 di Tre operai
riprende l’argomento del Manifesto UDA:
Nel ’29 il Manifesto di fondazione dell’UDA […] costituisce
già nel taglio critico e polemico un punto d’arrivo e fornisce
le basi su cui si preciseranno la poetica e l’ideologia dello
scrittore: nonostante l’affermazione dell’arte come “non arte”
[…] afferma che l’arte è “espressione del tempo” storico,
assume una posizione e responsabilità politiche ben precise,
propugna una concezione materialistica della vita e dell’arte; è
anti-idealistico e anti-crociano, rifiuta l’ideologia futurista, in
particolare l’attivismo e la “religione della macchina”, guarda
con interesse alla psicanalisi, al surrealismo, alla Neue Sachlichkeit tedesca, sottopone a critica il realismo sovietico e si
ispira al costruttivismo, in particolare per il funzionalismo in
2 Cfr. Paolo Ricci, Catalogo della mostra retrospettiva con interventi e saggi vari,
Napoli, Castel Nuovo 26 giugno-28 settembre 2008, a cura di Mario Franco e
Daniela Ricci, Napoli, Electa, 2008.
3 Il gruppo circumvisionista Sodalizio fra pittori di belle speranze e di molte illusioni nacque tra il 1928 e il 1929. Tra i firmatari del primo Manifesto dei pittori
circumvisionisti (stampato in opuscolo e dopo alcuni mesi riprodotto in «Forche
Caudine», II, n. 2, Benevento, 15 gennaio 1929, p. 5) è proprio Guglielmo Peirce. Per una analisi esaustiva del movimento circumvisionista cfr. Matteo D’Ambrosio, I circumvisionisti, un’avanguardia napoletana negli anni del fascismo,
Napoli, Edizioni Cuen, 1996.
4 È da segnalare l’importanza che verrà data al documento dell’UDA soprattutto
in seguito come ha scritto Filiberto Menna per il quale il manifesto «non ebbe il
rilievo che meritava e che avrebbe certamente avuto non dico a Parigi, a Monaco,
a Berlino, ma anche a Roma o a Milano». Cfr. Filiberto Menna, Un normanno a
Napoli, in Paolo Ricci, Catalogo… cit., p.14
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senso socialista e per il possibile sviluppo di un realismo critico in cui sono centrali i temi della città e dell’industria5.
È allora di tutta evidenza che, se si intende fissare una data ed un
episodio di partenza del “neorealismo”, non è possibile ignorare il
Manifesto UDA del 1928-29. Esso viene, certo, a rompere le uova
nel paniere di una critica ormai assuefatta allo schematismo accademico, che considera il neorealismo cinematografico del dopoguerra
come una innovazione, peraltro con forti margini di autonomia, del
protorealismo letterario dei primi anni ’30. Il quale, a sua volta, sarebbe una diretta conseguenza del filone realistico-veristico derivato da
Manzoni e Verga. Questa impostazione, fuorviante, se non addirittura
erronea, nasce da un gigantesco equivoco provocato in prima battuta
da un critico, Emiliano Zazo, che, nel 1934, recensendo Tre operai
con lo pseudonimo di “Aristarco”, coniò il termine “neo-verismo”6. Il
fatto è che il “contenuto” sociale, in questo caso la fabbrica e la condizione operaia, ha finito per abbagliare i lettori poco attenti che, spesso
e volentieri, hanno sottovalutato l’importanza, sotto il piano formale,
del romanzo d’esordio di Bernari. Importanza che va fatta risalire alla
fase preparatoria teorica della fine degli anni ’20 e all’impostazione
e redazione del Manifesto UDA, il cui scopo principale è quello di
creare un’arte nuova, rivoluzionaria, in virtù dell’apporto sinergico
di tutte le arti.
Del resto, gli stessi autori, considerati artefici e protagonisti del
neorealismo italiano, hanno ripetuto, fin dai primi anni ’50, che non
basta la descrizione di un ambiente sociale, non basta l’engagment
politico-ideologico, non basta il documentarismo, cioè la rappresentazione della realtà vera, così com’è, a trasformare un’opera d’arte in
opera neorealista. Lo dice chiaramente Zavattini in un convegno nel
lontano 1953:
Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che risponde ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo
momento […] Ci sono dei film più o meno felici nell’ordine sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le
5 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, in Carlo Bernari, Tre operai,
Milano, Oscar Mondadori, 2005.
6 “Aristarco” (Emiliano Zazo), Un neo-verista: Carlo Bernard, in «L’Italia Letteraria», X, 14, 8 aprile 1934.
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vacanze del signor Hulot ma non è neorealista, di neorealista
ci sono i pensieri […] Le opere neorealiste non possono essere
che nel corso […] che si deve percorrere per avvicinarsi alla
realtà […] Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si limita al fatto così detto artistico, ma
fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali
necessità storiche […]7.
Il pensiero di Zavattini viene poi ripreso da Federico Fellini che, in un
intervento sotto forma di lettera aperta a Massimo (Mida)8 del 1955,
deve difendere La strada dagli attacchi della critica marxista italiana:
Caro Massimo, ho letto con viva attenzione la tua lettera9,
come ho letto gli articoli di alcuni critici di sinistra, ai quali
ti accordi, e spero vorrai accettare la mia franchezza se ti dirò
che le vostre critiche, o meglio i vostri rilievi, non mi sembrano persuasivi […].
E dopo aver difeso La strada dalle accuse di “monadismo” e di “individualismo”, Fellini chiarisce ulteriormente la sua posizione intorno
al neorealismo:
Secondo me il processo storico, che l’arte deve, certamente,
scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai
meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche, di
quanto voi credete: a volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico-politica, incarna, quasi
in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in
una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di
un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà social-politica
in cammino10.
7 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, relazione al Convegno sul neorealismo tenuto a Parma il 3-4-5 dicembre 1953 (pubblicata in «Rivista del Cinema
italiano», a. III, n. 3, marzo 1954, poi in Neorealismo ecc., a cura di Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 1979. La citazione è ripresa dall’antologia: AA.VV.,
Neorealismo, poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 177.
8 Federico Fellini, Neorealismo, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 15, 9 aprile 1955.
La citazione è tratta da: AA.VV., Neorealismo, poetiche e polemiche, cit., p. 196.
9 Massimo Mida, Lettera aperta a Federico Fellini, in «Il Contemporaneo», a. II,
n. 12, 19 marzo 1955.
10 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 200.
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Da questi interventi risulta evidente che l’incomprensione tra autori e critici, da cui scaturì quella polemica degli anni ’50-’60 intorno
al neorealismo (di cui – non riuscendo a giungere ad una definizione
soddisfacente – poi si preferì teorizzare la morte prematura, tanto per
far sparire col cadavere – del neorealismo – anche l’ipotesi di delitto
perpetrato dalla critica)11, riguarda appunto l’errore di partenza: quello di considerare il genere neorealista sotto l’aspetto del “contenuto”
e non della “forma” come altresì suggerito a gran voce dagli artisti
stessi. A cominciare dallo stesso Bernari che in Questioni sul neorealismo12 scrive:
Un contenuto artisticamente parlando può risultare prevedibile, quanto invece imprevedibile deve essere la forma in cui
si manifesterà; poiché tutto alla fin fine è contenuto; quel che
non è, per definizione, contenuto, può diventare tale appena
rivelato sul piano estetico da rifluire sulla stessa realtà da cui
proviene e modificarla.
Naturalmente la critica ha dovuto fare poderose marce indietro,
rimangiarsi giudizi ridicoli (la quasi stroncatura de La strada ne è un
classico esempio, ma se ne potrebbero aggiungere altri come la diffidenza e l’ostracismo contro Giuseppe De Santis13). Ma questa marcia indietro, innestata senza tener conto dell’avvertenza di Pirandello
che l’arte è forma e non contenuto14, ha cozzato nuovamente contro i
paletti della letteratura: si è così cominciato a parlare, nell’immediato
dopoguerra, di un “incunabolo” neorealista a proposito della letteratura dei primi anni ’30. In modo particolare si è usato il romanzo
11 Vogliamo ricordare i versi di Pier Paolo Pasolini In morte del neorealismo del
1960: «Tutti l’avete amato, quello stile, ai giorni / della speranza: e non senza
motivo. / Che motivo v’impedisce ora di rimpiangerlo?/ Ah, Ragione! perduta
di nuovo negli oscuri / meandri dell'irrazionalità! Elusione, / riduzione, elezione
stilistica: atti, / tutti, della resa davanti alla reazione! / Scusate… il mio cuore è
là, dentro la bara, / con quello stile… Vorrei tacere, e basta». Pier Paolo Pasolini,
La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, p. 140.
12 Carlo Bernari, Questioni sul realismo, saggio del 1953, in Non gettate via la
scala, Milano, Mondadori, 1973, p. 109.
13 Cfr. Antonio C. Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006.
14 «Chi concepisce la tecnica come alcunché d’esteriore, cade precisamente nello
stesso errore di chi concepisce come alcunché di esteriore la forma. La tecnica è
il movimento libero spontaneo e immediato della forma». Luigi Pirandello, Arte
e scienza in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, Meridiani, 2006, p. 692.
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Tre operai del 1934 di Carlo Bernari per quella subdola mistificazione del neorealismo in chiave contenutistica. Tutto ciò nonostante
le ribellioni di Bernari e di altri autori che mai accettarono di essere
considerati “neorealisti”, tantomeno “proto”, – se per neorealismo
si doveva intendere il prevalere del “contenuto”, l’impegno sociale,
sulla “forma” rivoluzionaria dell’opera d’arte. Certo, Tre operai fin
dal titolo, pareva rappresentare la “prova-provata”, malgrado le rimostranze dell’autore, di una letteratura postverista che, rappresentando
l’ambiente della fabbrica e della condizione operaia, gettava le basi
“contenutistiche” di un neorealismo in nuce. Così la critica (e si sa
che la critica cinematografica è piuttosto superficiale nei confronti
della letteratura, così come la critica letteraria guarda al cinema con
una certa altezzosa severità) ha trovato bell’e pronta la soluzione al
problema del neorealismo: un travaso contenutistico dalla letteratura
postverista e protoneorealista alla forma tipicamente neorealista del
cinema.
Le cose tuttavia, dicevo, non stanno propriamente così. Se si concepisce il neorealismo (lo dicono Zavattini e Fellini) come un “avvicinamento al reale” (Za), cioè come una forma e non come un contenuto sociale e politico (altrimenti il verismo bastava e avanzava),
allora oltre all’individuazione della scintilla neorealista (il Manifesto
UDA), bisogna poter anche evidenziare la catena di trasmissione con
cui questa nuova “forma” neorealista riuscì ad innestare il suo processo artistico.
Ora, è noto che i due “padri” fondatori del “neorealismo” in letteratura e nel cinema (Carlo Bernari e Cesare Zavattini) hanno incrociate, fin da giovanissimi come vedremo tra poco, le loro vite e i loro
destini: Zavattini fu il primo lettore nel lontano 1932 del manoscritto
di Tre operai che pubblicò, nel 1934, nella collana dei “Giovani” di
Rizzoli da lui diretta. Basta dare un’occhiata al ricco carteggio Bernari-Zavattini degli anni 1932-1938, per rendersi conto che le influenze
reciproche dei due artisti e scrittori sono molteplici. Alché è difficile
pensare che il film cult del neorealismo Ladri di biciclette, scritto da
Za per De Sica nel 1948, non abbia risentito di questi scambi tra due
menti aperte, giovani e disponibili al confronto. Tralascio una disamina di questo aspetto per esigenze di spazio, dirò solo che nell’editing
del romanzo d’esordio di Bernari, Zavattini maturò alcune osservazioni stilistiche e formali di cui poi farà uso nella stesura della sceneggiatura del capolavoro neorealista. Va da sé che l’evoluzione del
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neorealismo di Zavattini, in direzione di un surrealismo a sfondo
politico-sociale, prima favolistico poi sempre più fantastico (mi riferisco a Miracolo a Milano e a Il giudizio universale, scritti da Za per
De Sica tra il 1950 e il 1960) vanno proprio in direzione degli spunti
teorici del Manifesto udaista del ’29 – soprattutto per quanto riguarda
l’aspetto formale dello stravolgimento del reale in senso, non solo
surreale, ma addirittura metareale (l’arte intesa come potenzialità
rivoluzionaria “soggettiva” nei confronti dell’oggetto rappresentato).
Ecco allora che, in quest’ottica, anche un autore come il Fellini di 8
e 1/2, opera che sta da sempre stretta nello scarpone del neorealismo
tradizionale, contenutistico, si spiega invece perfettamente. Lo stesso
discorso vale per il cinema di Pier Paolo Pasolini, e non mi riferisco al “surreale” capolavoro neorealista che è Uccellacci e uccellini,
ma anche alle più controverse e trasgressive opere, da cui affiora una
sessualità apparentemente ossessiva che si è in parte spiegata con la
biografia stessa del poeta friulano15. In realtà, anche su questo punto,
il “sesso”, il Manifesto UDA era giunto ad una definizione teorica
estremamente e audacemente moderna:
Siccome non si può uscire dal cerchio di ferro del sesso, anche
il realismo è soggettivismo16.
Quello che sorprende – tornando al rapporto tra Bernari e Zavattini,
nella corrispondenza degli anni ’30, – è che tra i due si parla molto
del ruolo dell’immagine, di cinema e di fotografia, – meno di letteratura. Soprattutto nella prima fase del carteggio, tra la fine del ’31
e la fine del ’32, la questione al centro dei discorsi non è letteraria,
perché Zavattini conosce Bernari non tanto come “scrittore”, bensì
come un giovane intellettuale appassionato di arte. Il fatto è che Za
sente per la prima volta il nome di Bernard (che cambierà in Bernari
15 In realtà erotismo e sessualità sono elementi centrali della letteratura italiana dalle origini ad oggi. Non a caso una delle opere cinematografiche più trasgressive di Pasolini è tratta dal Decameron. Nella vasta bibliografia al proposito, cfr.
D’amore si vive. Racconti erotici da Boccaccio a D’Annunzio, a cura di Guido
Davico Bonino, Milano, Rizzoli BUR, 2009. E cfr. inoltre Parole di Eros. Erotismo e pornografia nella letteratura italiana dal Duecento al Novecento, a cura di
Riccardo Reim, Bologna, Castelvecchi, 2010.
16 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione dell’Uda
del 30 gennaio 1929, in Rocco Capozzi, Bernari tra Fantasia e Realtà, Napoli,
SEI, 1984, p. 155
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nel 1938 in seguito alle leggi razziali) collegato a due giovani artisti dell’area napoletana: il pittore Paolo Ricci e il teorico dell’arte
Guglielmo Peirce. Tutti e tre si sono fatti notare da Zavattini, che alla
fine degli anni ’20 è a sua volta un giovane intellettuale appassionato
di arte e assetato di novità, oltretutto in procinto di trasferirsi a Milano come collaboratore delle maggiori case editrici italiane, in seguito alla pubblicazione del Manifesto UDA (ripeto la sigla per esteso:
Unione Distruttivisti Attivisti) nel 1928-1929.
Anche se la critica, come dicevo, con le eccezioni di Rocco Capozzi, Eugenio Ragni17 e Francesca Bernardini e pochi altri, ha ignorato
l’importanza di questo documento, esso rappresenta il tassello fondamentale del passaggio dalle arti visive del primo ventennio del ’900
alla letteratura neorealista dei primissimi anni ’30. Si tratta di un atto
“formale” che sancisce la nascita del “neorealismo” come processo di
“avvicinamento” alla realtà, non più e non solo da un punto di vista
letterario (verismo e conseguente contenutismo), ma con la teorizzazione della sinergia di tutte le arti sul piano della forma18.
A monte del Manifesto c’è la vicinanza al gruppo dei circumvisionisti, che, superando il futurismo, ma conservando simpatie per il cubismo, già si erano rivolti all’espressionismo,
all’astrattismo, al surrealismo, al costruttivismo russo […]19.
Non aver preso in considerazione questo passaggio storico, che fonda
un nuovo modo di concepire l’arte nel rapporto tra forma e contenuto,
tra arti visive e letteratura, – quest’ultima viene trascinata nel Manifesto ad un confronto serrato sul piano dell’eikon, dell’immagine, –
ha reso possibile l’equivoco letterario-contenutistico a proposito del
neorealismo che citavo poc’anzi.
Per questo Carlo Bernari redarguiva il critico cinematografico
(Mario Verdone, tanto per non far nomi) che pensava di fargli un pia17 Eugenio Ragni, Invito alla lettura di Bernari, Milano, Mursia, 1978.
18 Nella cultura italiana permane una sorta di scetticismo nei confronti del “formalismo”, probabilmente per un retaggio critico la cui origine risale al giudizio
sul marinismo. In realtà il formalismo italiano, basti pensare a Carlo Gozzi, ha
influenzato autori e movimenti rivoluzionari del ’900, basti pensare ai formalisti russi, alla rivoluzione dada, ma anche a Brecht e a Pirandello, che hanno
considerato la “forma” (e non il contenuto) come il vero contesto rivoluzionario
dell’arte.
19 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXX.
21
cere a ingabbiarlo in una definizione, quella di autore “neorealista”,
che in realtà era, per lo scrittore, una riduzione “contenutistica” di
un’opera letteraria “formalmente” aperta alle altre arti. Non che Bernari rifiutasse il neorealismo tout-cour, ci mancherebbe!, piuttosto lo
scrittore si ribellava ad un’operazione critica che all’epoca mirava a
svalutare la libertà formale dell’arte per prediligerne l’aspetto sociale e politico, il contenuto. Di qui, negli scrittori e registi neorealisti,
nasce il dissidio con la critica allineata, prima dei fatti di Ungheria,
col Partito Comunista (vedi Fellini e il caso De Santis cui ho precedentemente accennato). Nel saggio sul realismo del 1957, poi ripreso
nel 1973, Bernari lancia un’accusa grave contro la “critica” sia cattolica che marxista:
[…] fin quando però la cultura italiana non si riconoscerà in
un comune fronte laico, ma continuerà a manipolare le verità complici, (con la complicità della Chiesa innanzi tutto, e
delle chiese in genere, ognuna delle quali sa trovare, per proprio conto o tornaconto, un'unità confessionale) non vedo vie
d’uscita entusiasmanti; non vedo cioè come questa cultura
possa sottrarsi all’azione corrosiva della controriforma che
insidia, anzi è il presupposto permanente di ogni mistificazione conservatrice. Altro che realismo e neo-realismo!20.
Comunque, a proposito della “genesi” del neorealismo nell’ambito
dell’avanguardia artistica (forma), e non nella tradizione letteraria
(contenuto), Bernari ne parla con chiarezza nell’intervista originaria
del 195721 in cui definisce il realismo socialista come:
[…] una corruzione del realismo in senso neorealistico, cioè
nel senso di un rozzo e anarchico compromesso tra aspirazioni al vero e velleità populistiche (degenerazione che ha tradito le premesse da cui parti lo stesso neorealismo, che fu un
movimento avanguardista, espressione di crisi di una società
oppressa dal fascismo, e il cui atto di nascita può collocarsi
tra il ’30 e il ’40, allorché il neorealismo significò resistenza
20 Carlo Bernari, Questioni sul neorealismo, cit. p. 111-112.
21 Carlo Bernari, Risposte a Questioni sul neorealismo in «Tempo presente», a. II,
n. 7, luglio 1957 (poi, con numerose varianti, in Non gettate via la scala, Milano,
Mondadori, 1973). L’intervista è stata riproposta in Neorealismo poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milani, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 220-224.
22
al fascismo o quanto meno agli ideali estetici propugnati dal
fascismo e miranti a una restaurazione neoclassica) […].
La definizione negativa di Bernari del realismo socialista, da lui bollato come “una corruzione del realismo in senso neorealistico”, risale al 1957, all’indomani dei fatti di Ungheria. Caspita, essa avrebbe
dovuto smuovere nugoli di studiosi e di critici alla ricerca del “vero”
fondamento del neorealismo! Si optò invece per la soluzione più
schematica e semplice possibile, quella cui accennavo all’inizio della
mia analisi, cioè il neorealismo fu preso per la sua coda “contenutistica”, e non per la sua “testa” pensante, rivoluzionaria e formalistica.
Naturalmente Tre operai ha un preciso contenuto storico e politico,
addirittura economico, ma tutto ciò è preceduto dalla “forma” nuova
che assume il romanzo, che non è più – dopo il Manifesto UDA –
quella del romanzo borghese:
Tre operai ha pertanto la funzione […] di contribuire alla rinascita del romanzo, proponendo nuovi contenuti e una forma
nuova, contrapponendosi alla tradizione del romanzo borghese, anche contemporaneo, nel quale attraverso la memoria la
soggettività dell’autore, l’“umanità” dei personaggi e la letterarietà la realtà e la situazione storica venivano sublimati
in una dimensione lirica e astratta. L’umanizzazione di cui
Bernari e Zavattini discorrono delle loro lettere consiste nel
radicare concretamente le vicende e i personaggi su un terreno
economico e politico, dell’analisi delle trasformazioni che la
tecnica dell’industria hanno comportato nella struttura e nei
rapporti sociali22.
Come si legge, la questione della forma è essenziale. Perché il
romanzo di Bernari viene subito accusato di essere “scarno”, “ridotto
all’osso”. Rimando al saggio di Francesca Bernardini per la storia
della critica a Tre operai, ma colgo qui solo un aspetto della questione: la novità dell’opera di Bernari è che non si tratta più di letteratura,
ma di qualcosa d’altro che va in direzione delle arti visive e del cinema, assumendo la caratteristica di una vera e propria sceneggiatura,
di un trattamento o di una novellizzazione di opera cinematografica23.
22 Francesca Bernardini, Introduzione a Tre operai, cit., p. XXXVIII.
23 Sui rapporti di Tre operai con le arti visive, cinema e teatro, vedi: Enrico Bernard,
Esiste un teatro neorealista?, in Ripensare il neorealismo, a cura di Antonio C.
23
Insomma di un’altra “forma” rispetto al romanzo borghese, una
forma determinata dal rapporto con le arti visive, – e va da sé che
non stiamo parlando di un astratto formalismo fine a se stesso, esagerazione o “male infantile” delle avanguardie, che Bernari in ripetuti
interventi fa ricadere nell’estetica borghese.
Di questa nuova “prospettiva”, che va in direzione delle arti visive
e delle esperienze artistiche del ’900, parla Remo Cantoni a proposito
di Tre operai, definendolo “visionario” al di là della matrice letteraria:
un libro realista, per i temi sociali che affronta, per gli
ambienti che descrive; […] ma realismo continuamente filtrato attraverso una soggettività che riduce gli oggetti a sensazioni luminose24.
Apro una breve parentesi. Il paradosso è che il primo stroncatore di
Tre operai fu Elio Vittorini, che, nel 1934, lo liquidò come un romanzo
“operaio” politicamente fallito. Il titolo della recensione di Vittorini
merita l’inciso: “Tre operai” che non fanno popolo25. Lecito domandarsi: qual è dunque la differenza tra il neorealismo contenutistico26 di
Vittorini e il neorealismo formale di Bernari? Ebbene, Vittorini, nella
prefazione de Il garofano rosso, si lascia sfuggire una frase che è tutta
un programma politico-contenutistico: «scrivo perché credo in una
[corsivo mio, N.d.R.] verità da dire»27. Ebbene, Bernari non crede,
non ha mai creduto e mai crederà nella “verità”, tantomeno in “una”
24
25
26
27
Vitti, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 17-28. Vedi anche: Enrico Bernard, Bernari e
il cinema in «Esperienze Letterarie», Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, XXXI, 2006, n. 4, pp. 5.
Remo Cantoni, Prefazione a Carlo Bernari, Tre operai, Milano, Mondadori,
1951, pp. 9-10.
E.V. [Elio Vittorini], Tre operai che non fanno popolo, in «Il Bargello», VI, 22
luglio 1934; poi in Id., Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937,
a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 1997.
Del resto, Vittorini, rifiutando nel 1947 ufficialmente le vesti di pifferaio della
rivoluzione e del Partito Comunista, ha progressivamente modificato la sua opinione sul rapporto arte-ideologia. Il suo intervento L’arte è engagement naturale
relazione tenuta nell’agosto del 1948 in occasione delle “Rencontres internationales di Ginevra”, sta in Elio Vittorini, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957
(sta anche in Neorealismo poetiche e polemiche, cit. pp. 77-83), parrebbe assumere una posizione che richiama il concetto formalistico del Bernari del 1929.
Infatti quella dell’engagement sarebbe dunque una predisposizione dell’artista
nei confronti del reale. Torneremo su questo assunto nelle conclusioni.
Elio Vittorini, Prefazione a Il Garofano rosso, Milano, Mondadori, 1948.
24
verità. Il suo marxismo è dialettico, la sua missione di intellettuale e
scrittore non è la verità, ma la crisi della verità, la critica del vero, la
ricerca come atto formale di indagine della realtà, contro ogni “massimo sistema”, che si chiami fascismo o partito comunista.
Va ricordato il caso della richiesta di iscrizione al PCI del 1944
che Bernari stracciò in seguito ad un incontro a Napoli con Togliatti,
organizzato dall’amico Paolo Ricci, in cui Bernari si vide “tagliato”
dal Migliore parte del catalogo della Biblioteca del Marxismo da lui
preparata28. Togliatti fece infatti “saltare” numerosi autori perché non
allineati o in “odore” di troskismo. Il viaggio a Napoli per incontrare il capo del PCI fu organizzato anche per discutere l’edizione
dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Anche in questo caso
il dissidio tra Bernari e Togliatti fu totale, poiché Bernari comprese
che il dirigente comunista voleva in qualche modo adattare il pensiero gramsciano alle linee del partito. È, d’altronde, interessante
notare che il punto 10 del III paragrafo del Manifesto udaista prende
le distanze dal “realismo socialista” e dall’Unione Sovietica quando,
siamo nel 1929, il mito stalinista è ancora in auge. In questo paragrafo
del Manifesto, infatti si legge:
I Sovieti, che accettarono le teorie avanguardiste prodotte
dall’esasperazione dell’idealismo individualista, oggi negano
il loro carattere rivoluzionario valutandole come reazionarie e
borghesi; e si orientano verso un puro realismo. Essi credono
nel realismo come constatazione dell’oggetto in sé; e impiegano razionalmente gli artisti ai loro bisogni di propaganda
sociale. I Sovieti sono perciò i più vicini all’annullamento
completo dell’arte. Questo movimento non è un ritorno alle
vecchie estetiche: è l’eliminazione volontaria dell’estrema
arte individualista. (Siccome non si può uscire dal cerchio di
ferro del sesso, anche il realismo è soggettivismo). I Sovieti,
che considerarono il soggettivismo come arte borghese, cadono in essa con lo stesso realismo29.
28 Su questo argomento vedi: Dario Fertilio, Togliatti censore: correggete Gramsci,
sul «Corriere della Sera» del 2 febbraio 1996, p. 3. L’articolo, che contiene alcune pagine del diario di Bernari, è stato ripreso da Luciano Canfora, sempre sul
«Corriere della Sera» il 5 dicembre 1996.
29 Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, Manifesto di Fondazione
dell’UDA del 30 gennaio 1929, cit., p. 155.
25
Questa citazione ci consente di tornare alle vicende legate al Manifesto UDA del 1929. Il sodalizio tra il pittore e storico dell’arte Paolo
Ricci e Bernari risale alla seconda metà degli anni ’20 e coinvolge,
come accennavo, anche un terzo giovane intellettuale, Guglielmo
Peirce, a sua volta filosofo e pittore. I tre amici daranno vita, proprio
negli anni in cui il regime fascista è al massimo della propaganda
ideologica, ad un movimento marxista, quindi anticrociano e, soprattutto, antifuturista. Tra il 1927 e il 1929 i tre giovani intellettuali, non
ancora ventenni, pensavano di dedicarsi a diverse ricerche e tentativi, tra cui una Storia del movimento operaio a Napoli30, opera che
mai vide la luce, ma che fornì a Bernari, impegnatosi più degli altri
due nelle ricerche storiche, il materiale e gli ambienti, oltre a quelli
notoriamente autobiografici, per le prime stesure di Tre operai (Tempo passato del 1928-29 e poi Gli stracci del 1929-1931). Tramite
Ricci, Bernari si avvicina agli artisti circumvisionisti napoletani e,
grazie all’attivissimo Peirce, al gruppo romano della “seconda ondata”, legato al futurismo. Il 18 gennaio 1929, in una serata al Circolo
Marchigiano di Roma, – presenti Marinetti e Balla e Luigi Pepe Diaz,
antifascista e comunista, rifugiatosi in seguito a Parigi, – Gustavo
Barela, leader del gruppo, legge due poesie di Bernari, Ghigliottina
e Idillio7, andate perdute. Ma in questo clima Bernari, Peirce e Ricci fondano un movimento d’avanguardia e, tornati a Napoli circa a
metà del ’29, lanciano il Manifesto di Fondazione dell’UDA (Unione
distruttivisti attivisti), che, stampato in cinquecento copie, “imbucato
e distribuito di notte”31 viene recensito da Ungaretti.
Il manifesto nacque tra la fine del ’27 e i primi del ’28; proprio
in opposizione all’ottimismo futurista. Lo concepimmo innanzitutto come testimonianza critica antifascista, in opposizione all’arte ufficiale fascista. Essendo giovani non potevamo
essere ingenerosi, per cui vedevamo fascismo dovunque. E
30 «Paolo (Ricci, N.d.R.) scriveva una storia dell’architettura, fondata su equazioni
economico-sociali; Guglielmo (Peirce, N.d.R.) un’estetica tra Aristotele e Marx;
io, da mattina a sera occupato nella bottega di tintoria, una storia della classe
operaia già arresa alle cronache delle mie giornate». Carlo Bernari, Nota ’65, in
Tre operai, cit., pp. 159-170.
31 L. Vergine, L’opposizione di alcuni artisti nella Napoli degli anni ’30 oppure I
distruttivisti-attivisti, testo di una trasmissione radiofonica del terzo canale della
Radio, 8 marzo del 1971, dattiloscritto in fotocopia, p. 1, ASNA, Archivio Paolo
Ricci, Parte Generale, 7/421.
26
bisognava abbatterlo; e come, se non prevaricando! […] Cosa
proponevamo? Non il suprematismo macchinista di stampo
futurista, che era in sé per sé un’esaltazione della macchina,
già allora tanto minacciosa; ma una coscienza tecnologica
che modificasse o tentasse di modificare anche quelle strutture ideologiche che potrebbero considerarsi sconfitte dalla
macchina. […] Ed ecco come da una simile riflessione doveva nascere il distruttivismo e l’attivismo dell’U.D.A., cioè
Unione distruttivisti-attivisti, per un’attività dello spirito non
in senso gentiliano, ma in dialettica con la natura, in dialettica
con la storia, e coscienti dei mezzi tecnologici e scientifici da
cui l’uomo d’oggi è condizionato32.
Il Manifesto affermava alla luce del marxismo e di Freud l’inutilità
dell’arte, anche di quella cosiddetta d’avanguardia, futurismo in testa,
perché destinata a diventare comunque un aspetto della cultura borghese, annunciando la fine delle arti belle e mostrando intolleranza
per ogni tipo di autorità sia in campo politico che artistico.
I distruttivisti-attivisti affermavano il primato della scienza e della tecnologia, «uniche attività capaci di sottrarsi all’asservimento di
classe e in grado di restituire un’immagine positiva del reale»33, in tal
senso essi consideravano la macchina non l’oggetto mitico dei futuristi, ma uno strumento da osservare senza enfasi:
Uno strumento in grado di trasformare i meccanismi produttivi e di eliminare lo sfruttamento presente nel mondo industriale. Colpisce, nel testo d’impronta dadaista, l’attenzione, sulla
linea di Breton e dei surrealisti, alle ricerche della psicanalisi
e al loro rapporto con l’arte moderna, mostrando un interesse
che investiva tutti i campi dell’attività culturale: dai problemi sociali che si richiamavano al marxismo all’architettura,
dall’urbanistica alla scienza, ai costumi della vita moderna34.
Il movimento non passò inosservato: Croce, nonostante la sua celebre
ostilità verso ogni novità, confidò a Francesco Flora, che glielo fece
32 Rocco Capozzi, Intervista a Carlo Bernari, «Italianistica», IV (1975), n.1, p.143144.
33 Carlo Bernari, Ricci, dattiloscritto, s.d., Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi
ASNA), Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/36.
34 Daniela Bernard, Carlo Bernari a Parigi, in «Studi novecenteschi», Pisa-Roma,
Serra Editore, XXXVI, n.78, luglio-dicembre. 2009, pp.313-346.
27
recapitare, che il manifesto era «una cosa molto seria»35, aggiungendo
la famosa frase: «Sti guaglioni non so’ fessi!»36.
Una lettura non meno superficiale del testo udaista fu quella di
Giuseppe Ungaretti che sulla rivista «Il Tevere»37 scrisse:
Sono tre pagine non stupide, scritte da persone che hanno
seguito le idee intorno all’arte di questi ultimi tempi. […]. È,
riconosciuto, l’errore romantico. Per i romantici si trattava di
liberare lo spirito dai ceppi della retorica. In realtà abbiamo
avuto questo: una serie di rivoluzioni teoriche, la durata sempre più breve di queste successive retoriche, la persuasione
sempre più insopportabile di avere tra i piedi una retorica da
mandare al diavolo. E così l’arte si è fatta moda. Cioè si è
messa a perseguire fini che sono l’opposto di questi dell’arte
e i predetti Signori non hanno torto di lanciare il manifesto
dell’antiarte. Ma ora viene il bello. I Distruttivisti-Attivisti
parlando di arte che sarebbe mutevole simpatia verso un
oggetto il quale cambia con il cambiare della simpatia stessa,
vogliono dirci che questo oggetto è la macchina. Lo aveva
detto anche Marinetti. Ma essi non considerano la macchina come una bellezza da esaltare ma come un prodotto della
nostra civiltà da sfruttare.
Il Manifesto dei tre giovani “distruttivisti-attivisti” – Bernari, Peirce
e Ricci – rappresenta, insomma, la reazione negativa, probabilmente
la prima da parte di giovanissimi intellettuali marxisti, al futurismo:
si tratta sostanzialmente, al di là della polemica tipica del tempo sulla
funzione e valore dell’arte, di una vera e propria “messa in guardia”
ideologica contro il mito della “macchina” che, disumanizzando il
lavoro e incrementando la dinamica del profitto, non può essere vista
solo come uno strumento di progresso, ma deve esserne avvertita la
minacciosa potenzialità alienante. La cultura italiana, solitamente
provinciale e un po’ miope, ha sempre insistito, tranne qualche raro
caso, sulla mancanza di sbocchi e di influenza del Manifesto dell’Uda.
Senonché, il 9 giugno 1929, come accennavo all’inizio, il Manife35 Intervista a Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte Generale, 1/80.
36 Paolo Ricci, dattiloscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci, Parte
Generale, 3/125.
37 Giuseppe Ungaretti, L’arte è novità, «Il Tevere», 19 ottobre 1929.
28
sto fu ristampato sul «Corriere d’America» a New York: la sorpresa sta nel fatto che il Manifesto sia arrivato in America subito dopo
la pubblicazione a Napoli. E se poi si collega questa data del 1929
col soggiorno parigino di Bernari del gennaio-aprile 1930 (Bernari
raggiunge gli amici artisti Paolo Ricci e Guglielmo Peirce, che già
sono nella Ville Lumiére da qualche tempo), dobbiamo rivedere – e di
molto – la tesi sulla scarsa diffusione delle idee del Manifesto UDA.
Appena giunto a Parigi infatti Bernari, ventunenne, entra in contatto
con André Breton e Ribemont-Dessaignes. Racconta Bernari:
Avevo conosciuto Ribemont-Dessaignes e, insieme, Nino
Frank, in una fredda e grigia stanzetta che affacciava su un
interno di St. Germain-des-Près; era tutta lì la redazione della
sontuosa rivista «Bifur»; dove il direttore mi riceveva con il
cappotto indosso, un cappotto marrone dal taglio antiquato.
Sulla sponda opposta Breton metteva la rivista del surrealismo al servizio della rivoluzione, per esserne ricompensato
con l’espulsione dal Partito Comunista dopo il rifiuto di compilare un rapporto sulla situazione dei gasisti in Italia. «Pensate!» mi diceva furibondo «Io! Uno scrittore! Che ne so di quel
che succede in Italia?». E io a rimproverarlo, che non avrebbe
dovuto sottrarsi al compito. Chè sarei stato ben felice se qualcuno al mio paese avesse potuto chiedermi qualcosa di simile.
Ero persuaso di dover invidiare quella libertà che consentiva
a lui di respingere una richiesta, essa stessa affermazione di
libertà38.
Il giovane scrittore napoletano incontra Breton proprio nel momento in cui l’artista, che aveva aderito nel 1927 al partito comunista
francese, si stava staccando dal gruppo e mutava l’insegna della sua
rivista da «Révolution surréaliste» a «Le Surréalisme au service de
la révolution». La lettura delle opere di Breton lo suggestionano e gli
fanno sentire attuali le riflessioni fatte a Napoli e confluite nel Manifesto UDA:
[…] le opere [di Breton e Ribemont-Dessaignes N.d.R.] lette sul posto mi avevano impressionato in quanto le vedevo
in linea con un surrealismo storico le cui radici affondavano
nei Les Chants de Maldorol per un verso, nei racconti del Poe
38 Carlo Bernari, Non gettate via la scala, Milano, Mondadori, 1973, pp. 225-226.
29
nell’altro verso, ma più che altro ciò che mi impressionava era
il filone dada che in un certo senso o forse in tutti i sensi era
stato raccolto da quella parte distruttivistica che aveva ispirato
l’Uda 1928-1929. Erano passati due anni dal manifesto Uda
(forse tre) e mi toccava, lì sul vivo, sentirne ancora l’attualità39.
Fatto sta che i due celebri esponenti del surrealismo accolgono Bernari (e le tesi dell’UDA) con grande interesse, rispondendo anche
epistolarmente ad una “Inchiesta sul surrealismo” che Bernari porta
avanti con tenacia: la corrispondenza di Bernari con Breton e Ribemont-Dessaignes è del gennaio-febbraio 193040. A testimonianza del
particolare clima di amicizia e considerazione, nonché di collaborazione, instauratosi tra Breton e Bernari, resta un frontespizio del
Manifeste du surréalisme che Breton stesso dedica cosí:
A Carlo Bernard, per simpathique homage André Breton giavier 193041.
Considerando che, contemporaneamente, a Parigi nei primi mesi degli
anni ’30 si trovano anche Paolo Ricci e Guglielmo Peirce – quest’ultimo a matita realizza una sorta di autoritratto42 del terzetto di amici,
confondendone e fondendone i lineamenti –, va da sé che i temi ancora caldi, “attuali” come riferisce Bernari, del Manifesto UDA diventino una sorta di biglietto da visita per il sodalizio. Comunque, le idee
dei giovani distruttivisti-attivisti (che nel 1929 hanno trovato anche
eco a New York) si diffondono negli ambienti intellettuali parigini43.
39 Carlo Bernari, Risposte a un’intervista sul circumvisionismo, su Tre operai e sul
soggiorno a Parigi, manoscritto originale, s.d., ASNA, Archivio Paolo Ricci,
Parte Generale, 9/482.
40 La lettera di André Breton a Carlo Bernari, datata Parigi 16 febbraio 1930, oggi
presso l’Archivio del Novecento, Roma, è stata pubblicata nel catalogo della
commemorazione Roma ricorda Carlo Bernari nel decennale della morte,
Roma, 2002.
41 Collezione privata Enrico Bernard, Roma.
42 Il ritratto a matita firmato da Guglielmo Peirce riporta la data del marzo 1930.
Collezione privata di Enrico Bernard, Roma.
43 A Parigi il 25 maggio del 1929 intanto esce il primo numero della rivista «Bifur»,
che apparve con frequenza bimestrale fino al 31 dicembre del 1929 e poi ancora,
in maniera più altalenante dal 30 aprile del 1930 al 10 giugno del 1931. Malgrado
Breton la qualificasse “remarquable poubelle”, fu senz’altro una delle più belle e
ricche riviste dell’epoca, aperta alle esperienze culturali internazionali. La tiratu-
30
E parlando dell’influenza più o meno diretta che l’udaismo esercitò, indipendentemente dalla sua fortuna letteraria, va pur detto che
in questo contesto, fra Parigi e New York, nacque la sceneggiatura di
Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, film la cui genesi ideologica e artistica risale al 1933-34. Naturalmente non si può stabilire
una relazione diretta tra la critica della “macchina industriale”, di cui
Bernari-Ricci-Peirce nel 1929 evidenziano, contro l’esaltazione del
futurismo, la mostruosità estetica ed esistenziale, e la tragica farsa
dell’omino chapliniano incastrato dalla e nella catena di montaggio.
Certo è che, se l’aria del tempo si respira nel capolavoro di Chaplin,
ad accendere il fuoco sotto la pentola a pressione della critica del
“progresso” sono stati, last but not least, proprio i tre giovani distruttivisti-attivisti napoletani!
Si può, dunque, affermare che la genesi dell’opera letteraria di
Bernari – “l’incunabolo neorealista”44, come viene definita dalla critira della rivista fu per i primi 4 numeri di 3000 copie, per i numeri 5-6-7 di 2000,
e per l’ultimo numero di 1.700 copie. La rivista era pubblicata dalla Edition du
Carrefour con sede a Parigi in Boulevard Saint-Germain, 169; direttore della rivista era Pierre G. Lévy, redattore capo George Ribemont-Dessaignes e a partire
dal secondo numero Nino Frank è segretario di redazione. Frank era anch’egli un
napoletano, di padre svizzero tedesco, rimasto fortemente attratto da Parigi come
del resto Bernari e gli altri giovani del tempo che volevano allargare i propri
orizzonti letterari e sfuggire alle miopie politiche, sociali e culturali del fascismo.
Nino Frank, in particolare trasferirà il suo incarico di segretario di redazione
direttamente da «’900» a «Bifur» dove il suo ruolo sarà ufficializzato a partire dal
secondo numero, mentre già a partire dalla prima uscita e fino all’ultimo numero
il consiglio di redazione interamente straniero sarà formato da: Bruno Barilli,
Gottfried Benn, Ramon Gomez de la Serna, James Joyce, Boris Pilniak e William
C. Williams. Grazie a un comitato così composto la rivista renderà facili i suoi
contatti con l’Italia, la Spagna, la Germania, la Russia, l’America, l’Inghilterra,
con reportages, lettere e racconti che permetteranno di offrire al lettore un visione
ampia del mondo. Con la redazione di «Bifur» Bernari viene a contatto quasi
subito recandosi in Boulevard Saint-Germain, nella redazione della rivista francese, e, analizzando la rivista, i contributi dei suoi redattori risultano evidenti le
influenze tematiche e stilistiche che esse operarono nella formazione di Bernari.
Nino Frank diventerà l’amico parigino dei giovani scrittori italiani, intermediario
culturale di rilievo tra Roma e Parigi, traduttore importante e diffusore, attraverso
le sue influenze e conoscenze negli ambienti letterari, delle opere italiane di cui
cercherà di ottenere la pubblicazione.
44 Il termine “incunabolo neorealista” viene riferito in particolare al romanzo Tre
operai di Bernari. La paternità del termine è piuttosto incerta e comunque dimostra la difficoltà della critica del dopoguerra nel catalogare un’opera poliedrica e
ricca di richiami come quella di Bernari. Con questo termine si è anche cercato di
31
ca letteraria l’evoluzione tra il 1928 e il 1934 del romanzo capostipite
del genere, Tre operai – riceve l’humus ideale, non tanto dalla letteratura dell’epoca, quanto piuttosto dalle arti figurative. Ciò avviene perché Bernari trova sponda intellettuale nei due amici pittori, e
soprattutto negli ambienti del circumvisionismo napoletano di cui
Paolo Ricci, il più anziano (anche se di poco, ma sul filo dei vent’anni
anche i mesi contano) e ideologicamente determinato del gruppo, è
diventato uno degli esponenti di spicco, mentre Peirce ne rappresenta l’anima ispiratrice in sede teorica45. Il passaggio tra il manifesto
circumvisionista del 1928 al manifesto dell’UDA del 1929, meglio
l’osmosi dal circumvisionismo, ancora ipotecato dal futurismo e da
Marinetti, all’udaismo, è una diretta conseguenza della ragion d’essere rivoluzionaria e marxista di questi giovani, che prendono le distanze dall’estetica futurista del regime fascista. E lanciano una nonestetica, una nuova ricerca di espressione della realtà, che si fonda
sulle angosce più profonde dell’individuo di fronte ai mostri del ’900,
capitalismo e fascismo, alleati nell'idolatria della “macchina” e del
progresso. Progresso antiumanistico, se privato del “sentimento”, per
privilegiarne l’aspetto totalitaristico-tecnologico, secondo la critica
udaista che non ricade nell’errore romantico del rifiuto tout-cour della
modernità, ma la “relativizza” al bisogno e all’aspetto “emotivo” del
rapporto Uomo-Natura.
Attraverso gli amici e coetanei della nuova avanguardia circumvisionista della Mostra a Capri del 1928, che coglie molti aspetti del
collegare il cinema neorealista del 1943-1948 con la precedente esperienza letteraria degli Anni Trenta, dimenticando una semplice realtà, che Bernari e Zavattini, protagonisti della letteratura italiana di quel periodo, sono stati, anche se in
diversi modi e misure, protagonisti del cinema neorealista. Il che stabilisce una
correlazione diretta tra la prima esperienza letteraria neorealista e il successivo
cinema neorealista.
45 Carlo Bernari, Carlo Cocchia, Antonio De Ambrosio, Gildo De Rosa, Mario
Lepore, Guglielmo Peirce, Luigi Pepe Diaz, Paolo Ricci: questi i nomi die giovani artisti napoletani che tra il 1928 e il 1931, partendo da un rapporto non subalterno col movimento e l’estetica futurista, tentarono di interpretare criticamente
la tradizione delle avanguardie e di collegarsi con le ricerche più innovative in
corso in Europa. La prima mostra die pittori circumvisionisti all’hotel Quisisana
di Capri, fu inaugurata da Marinetti il 19 agosto 1928 alle ore 18. Il Manifesto dei
pittori Circumvisionisti fu pubblicato in «Forche Caudine», n. 2, Benevento, 15
gennaio 1929, p. 5, a firma Cocchia, Deambrosio, Peirce. Cfr. Matteo D’Ambrosio, I Circumvisionisti, Napoli, Edizioni Cuen, 1996, pp. 338-341.
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futurismo ed in particolare della pittura di Sironi46, e con la immediatamente successiva, breve ma intensa, stagione udaista del 19291930, si delinea il percorso della formazione intorno ai vent’anni di
Carlo Bernari. Una formazione in primo luogo antiaccademica, ed
in seconda battuta pittorico-visiva, piuttosto che letteraria. E come
poteva essere altrimenti, se i compagni di viaggio (Ricci-Peirce) del
giovane Bernari erano artisti, pittori, anziché letterati? Riprendendo
una risposta a Carlo Bo47, Bernari richiama alcune tappe della genesi
di Tre operai, romanzo che la critica ha definito, ricordiamo ancora
una volta, “l’incunabolo neorealista”:
Vi è da aggiungere che mi si faceva torto nel rinfacciarmi
solo parentele letterarie, e non anche politiche, sociologiche, filosofiche: di questa specie erano allora le mie letture
più frequenti ed estese. Senza contare che pur nel mio isolamento, una scuola l’avevo anch’io dietro le spalle: una scuola
antiaccademica, è vero, ma con tutti gli ordini di studi, dal
più elementare avanguardismo di tipo surrealista e dadaista,
alle medie e superiori che battezzammo Circumvisionismo e
Costruttivismo, sino all’ultima soglia universitaria che fu per
noi l’Udaismo (da UDA – Unione Distruttivisti Attivisti, il cui
manifesto, firmato da Paolo Ricci e da Guglielmo Peirce, oltre
che da me, apparve nel 1929).
Si può dunque facilmente intuire che le radici del neorealismo affondano in un terreno ben più vasto del semplice back ground letterario:
46 Il primo accostamento della pittura di Sironi a Tre operai è di Guido Piovene
su «Pan», aprile 1934. Bernari commenta nella Nota ’65: «[…] allora mi suonò
come un affronto. Conoscevo di Sironi i manifesti celebrativi del fascismo e le
tavole con cui egli veniva illustrando, sulla rivista diretta da Mussolini, articoli
e racconti. Era naturale che travolgessi in un giudizio senza appello anche la sua
migliore pittura, dalla quale avevo tratto, pur senza volerlo, una lezione figurativa; lezione che integrava l’altra, proveniente dal cinema realista europeo o
americano, che con aria di scandalo mi si rimproverava di aver subìto. I muri
screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi che respingono
ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il
furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse
visioni congruenti al cinema di quel periodo […] Era il clima, la cultura del tempo, che si estrinsecava nei quadri, non meno che nei libri e nei film. Credevamo
di esserne fuori, di giudicarla; mentre vi eravamo immersi fino al collo, con tutti
gli entusiasmi e gli sgomenti che quella pittura c’inspirava». Carlo Bernari, Nota
’65, postfazione a Tre Operai, Milano, Mondadori, 1965, pp. 244-255.
47 Carlo Bo, Inchiesta sul neorealismo, Torino, Edizioni Eri, 1951.
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così l’idea di un travaso di linfa immediato (e un po’ scontato) dalla
letteratura verista o dal realismo, coglie solo in minima misura il bersaglio. Bernari, infatti, allarga il campo in cui vanno ricercate queste
radici, a tutta una serie di “letture” che lui stesso definisce “politiche,
sociologiche, filosofiche”. Ma la questione va ben oltre questi confini
“libreschi”: perché le origini stesse dell’incunabolo neorealista, da
cui nacque Tre operai, fu una culla in cui le arti visive, e qui stiamo
analizzando in particolare la funzione che ebbe l’arte figurativa, la
pittura, assolsero un ruolo determinante. Al punto che possiamo affermare che la formazione giovanile del “capostipite” della letteratura
neorealista, Carlo Bernari, venne pressoché ipotecata da una ricerca
artistica e teorica in cui la letteratura stessa non aveva un ruolo primario, ma venne a costituirsi in seconda battuta, cioè dopo le prime esperienze del 1928-29 dedicate all’arte. In questo senso il neorealismo,
come nuova visione e interpretazione del reale, non prenderebbe le
mosse all’interno della letteratura, ma scaturirebbe direttamente dalle
arti visive e, in questo caso, figurative.
Non è, quindi, tanto o solo di Verga che bisogna parlare come
referente culturale della nuova generazione di scrittori attivi verso la
fine del primo ventennio del ’900, bensì dell’opera pittorica, questa sì
fondamentale, di Sironi che, con le sue ciminiere, fabbriche, camion
e paesaggi industriali cupi e privi di speranza, apre le porte a nuove visioni della condizione umana. E il punto di congiunzione tra il
neorealismo “letterario” del Bernari di Tre operai e questo retroterra
pittorico-visivo sironiano, è rappresentato dagli artisti circumvisionisti
della mostra caprese del 1928, primo su tutti Crisconio, quale ideale
erede di Sironi. Tant’è vero che proprio nei primi quadri, – mi riferisco
in particolare all’olio su tavola Centrale termica dell’Ilva del 1926, –
di Paolo Ricci, che di Sironi e Crisconio fu fin da giovanissimo amico
ed estimatore, e nei dipinti del 1934 Cantata operaia di un altro artista
circumvisionista, Antonio De Ambrosio, si può toccare con mano la
vera anima del neorealismo – che si manifesta letterariamente con la
pubblicazione della stesura definitiva di Tre operai del 1934.
Che la genesi del romanzo segua le date e le tappe, fin dal 1928,
del battesimo artistico del circumvisionismo e, nel 1929, dell’udaismo, non è assolutamente una coincidenza, poiché queste esperienze
rappresentano momenti essenziali, e interconnessi, della formazione
di Carlo Bernari scrittore, pittore, fotografo, sceneggiatore, critico
d’arte e giornalista.
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Allorquando, alla fine del 1929, Zavattini comincia la sua avventura milanese presso il gruppo editoriale Rizzoli, dapprima in veste
di semplice correttore di bozze, poi come art director ed infine come
Direttore Editoriale, è – come dicevo – bene a conoscenza dell'attività teorica-artistica del terzetto di giovani napoletani. Attività che
Za, ripeto, ben conosceva, visto che il Manifesto UDA del 1929 viene recensito da Ungaretti, trova spazio sulla stampa di oltreoceano e
suscita l’interesse dei surrealisti a Parigi, – e di Breton in particolare
che risponde ad alcuni quesiti del giovane Bernari con una lunga lettera. Del resto, Zavattini è attentissimo alle novità: dall’epistolario
con Bernari-Peirce, a partire dal 1932, si ha infatti la certezza che Za
conosca bene il gruppetto di giovani artisti, e che stia tenendo d’occhio Bernari,in particolare, che proprio intorno al 1929 pubblica alcune pagine del suo capolavoro neorealista su alcune riviste letterarie
del tempo. Vedremo infatti come l’interesse di Za si focalizzi sempre
più proprio su Bernari: nelle prime lettere, indirizzate a Bernard-Peirce, Paolo Ricci non viene nominato. Poi anche il nome di Peirce andrà
via via sparendo. In una lettera del 1932 indirizzata solo a Bernard48
(che da subito è il referente privilegiato anche nell’intestazione delle
lettere), Za taglia corto circa alcune querelle letterarie, per stabilire un
contatto artistico diretto e il più ampio possibile col giovane amico:
[…] La mia cartolina un rebus? Io mi accorsi che in altre cose
si divergeva teoricamente. Poco male perché sia tu che io in
teoria siamo impegnati, come quelli che hanno fatto la polemica pro e contro la Ronda. Ma possiamo stropicciarcene. Pensa
che non ricordo neanche quali erano i punti del dissenso, ci
vuole altro: e la nostra amicizia si sta facendo su un terreno umano e, diciamolo anche se è una ripetizione, artistico.
Caso mai, io credevo di essere crociano sino ad un mese fa e
non avevo mai letto Croce. Poi mi è sembrato di non esserlo,
assolutamente. E oggi non mi ricordo più perché mi sembrò
di non esserlo. L’importante è essere sicuro su due o tre cose
fondamentali e in quelle siamo d’accordo.
In questa lettera Za comunica a Bernari, più o meno direttamente,
un’apertura di credito personale che va ben oltre i meriti teorico-artistici del gruppo udaista del ’29.
48 Lettera manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli & C. anonima per l’arte
della stampa, Milano”. Inedita (Archivio Carlo Bernari, Centro di Ricerca “La
Sapienza”, Archivio del ’900, Roma).
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Non si può stabilire con esattezza la data e l’occasione del primo
incontro tra Bernari e Zavattini, certamente tra il 1929 e il 1930. Da
Milano a Napoli passando per Firenze e Roma, gli amici in comune
e i motivi di incontri sono innumerevoli. Certo è che, ambientatosi
definitivamente a Milano verso la metà del 1930, forte del successo
di Parliamo tanto di me pubblicato Bompiani nel ’31 e ormai certo
di una sicura sponda e sostegno professionale nel mondo editoriale
(Bompiani, Rizzoli e Mondadori saranno i suoi principali sponsor),
Zavattini non dimentica gli amici più giovani Ricci, Peirce e soprattutto Bernari.
Intanto, è certo che sono Bernari e Peirce a rivolgersi a Zavattini
ai primi del 1931 per ottenere una sostegno dall’amico che ormai,
nel mondo editoriale milanese, comincia a muoversi con efficacia. È
interessante notare che la proposta indirizzata a Za ha come oggetto
i disegni di Peirce. In risposta ad una lettera di Bernari (che fa parte
di un gruppo di lettere distrutte nel 1937 dallo stesso Zavattini, per
paura di compromettersi, quando Pierce fu arrestato dai fascisti), Za
risponde con una lettera manoscritta49:
Cari amici, sono qui ancora tutto intontito dall’influenza. Per
quei disegni non c’è proprio modo di piazzarli. Il solo che
poteva pubblicarli, Piazzi, mi ha detto di no – io mi ero offerto
di farci su un articolo. Che cosa devo dirvi? Di tutto il gruppo
solo il Secolo XX50 poteva aiutarvi – ma anche là hanno paura
di andare troppo in là – Come vedete, sono inerme e non riesco a farvi guadagnare un soldo. Ripeto, provate ancora con
una novella. Ahimé, Milano è così – Vi abbraccio, scrivetemi
e non abbiate paura di disturbarmi chiedendomi questo e quello per voi: per male che vada, continuerò a far cilecca come
sino ad ora – Vostro affezionatissimo Zavattini.
Pur non avendo a disposizione i riscontri di tutte le lettere inviate da
Bernari a Zavattini, alcune come dicevamo distrutte da Za nel 1937,
si intuisce dalle risposte da Milano che alle insistenze di Bernari (e
49 Cartolina postale, manoscritta, autografa, indirizzata a “Bernard-Peirce / Via 4 Fontane / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari). Si tratta
della prima lettera in ordine cronologico pervenutaci dell’epistolario Bernari-Za.
50 «Il Secolo XX», settimanale edito da Rizzoli, “Grande rassegna d’arte, di lettere,
di politica, di scienze. Documenti rari ed esclusivi”. Zavattini vi collabora a partire dal 1929.
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Peirce, che però non sembra scrivere mai in prima persona), Zavattini
continua a farsi in quattro per aiutare gli amici, come nella missiva da
Milano del 6 agosto 193251:
Carissimo Bernard… ti assicuro che mi ricorderò di Peirce
per l’Almanacco. Quei suoi tre disegni sono ancora inutilizzati mio malgrado, bisogna aspettare. Che noia, caro Bernard,
vorrei andare a villeggiare in un bicchier d’acqua…
Zavattini incontra grandi difficoltà a “piazzare” i disegni di Peirce
(curioso il gioco di parole col suo referente, il direttore Piazzi). Il
perché è presto detto: questi disegnini sono avulsi dal contesto editoriale/commerciale dei rotocalchi e quotidiani in cui opera Za. Il quale
però manda a Bernari un messaggio preciso con l’espressione “provate ancora con una novella” suggerendo agli amici una soluzione
editoriale precisa per una “terza pagina” illustrata.
L’idea sembra funzionare tanto che da Milano giunge una conferma:
Caro Bernard 52 […] È uscita la novella, finalmente. Riceverete il modesto compenso (L. 100) in settimana. Vedrete com’è
ridotta, povera novella, con l’aggiunta e con i tali! Fatene un’altra.
I tentativi di Za di pubblicare i disegni di Peirce ottengono scarsi
risultati, ma non per questo demorde. Da Milano parte una lettera53
in data 26 ottobre 1932: la missiva contiene una proposta grafica di
come impaginare testo e disegno, idea che rivela l’attenzione di Za al
ruolo dell’immagine e dell’illustrazione del testo.
Caro B.
Peirce potrebbe fare un disegno da soggetto letterario (umoristico, comico) e tu potresti scrivere le cinque righe di com51 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima
per l’arte della stampa, Milano” indirizzata a “Sign. Carlo Bernard / via Quattro
Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, pubblicata in Carlo Bernari, Tre
operai, a cura di Francesca Bernardini, cit., p. X (Archivio Carlo Bernari).
52 Lettera manoscritta [1932], inedita, autografa (Archivio Carlo Bernari).
53 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Il Secolo Illustrato,
Secolo XX, Commedia, Novella, La Donna, Piccola, Cinema – Illustrazione,
Ragno d’Oro, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro Fontane 4
/ Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
37
mento, potrebbe essere immaginato così:
(segue esempio grafico di impaginazione disegno, a sinistra,
testo a destra, N.d.R.)
questa impaginazione non è obbligatoria faccio per chiarire la
mia proposta.
Potrebbe essere una trovata, una forma di collaborazione. Me
lo mandate subito? L’almanacco sta per andare in macchina.
Ci conto? Voglio che in qualche modo i vostri due nomi ci siano. Lasciate passare questa bufera. È una vera bufera e spero
fortemente che potrò fare qualche cosa per voi. Vi giuro che
ora non basta la buona volontà. Vi scriverò presto.
Un abbraccio vostro Za.
Dalla corrispondenza immediatamente successiva si evince che Bernari e Peirce non si stanno proponendo come, rispettivamente, autore di testi e illustratore: sembrerebbe infatti che entrambi scrivano e
disegnino – una passione quella del disegno che Bernari, come dirò,
coltiverà per tutta la vita. Da Milano in data 2 novembre 1932, Za
insiste:
Carissimi 54
grazie, ma quello dell’Italia vivente è uno stelloncino pubblicitario. Aspetto tre righe sul genere di quelle di ottobre. Come
mai?
Die vostri due pubblicherò quello coi soldi. Va bene?
Per la novella aspettate ancora due giorni. Io l’ho già letta,
ora la leggeranno gli altri. Ma so già il responso. Quasi… Sì,
accidenti a tutto il mondo. Ma sbagliate giudicando come avete fatto. Chi non lo sa che le novelle di Novella sono quel che
sono? Quando si dice: le vostre non sono adatte per l’amor di
Dio, non si tocca il merito, anzi. Quest’ultima, per esempio,
valeva un po’ più piena. Che cosa devo farvi? Io vi do le istruzioni secondo il modello che qui hanno in testa e da quello
non si muovono. Se dipendesse da me, mandatemene pure, io
farò l’impossibile ma non ricadete nell’errore di credere, ecc.
ecc. Dirò a Bompiani se può pagarvi quel disegno. Ma B. non
mollerà, lo so, perché ciascuno collabora gratuitamente, salvo
le rubriche. Insomma io sono addolorato di non potervi far
54 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima
per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro
Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
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guadagnare soldi, ma che cosa posso farci? Ditelo francamente. Io sono sempre a vostra disposizione.
Vi abbraccio vostro
Za.
La tesi secondo cui Bernari e Peirce si stiano rapportando a Za,
entrambi in qualità di artisti a tutto tondo, cioè entrambi come autori
di testi e disegni, risulta evidente da un’altra breve comunicazione di
Za datata Milano 27 dicembre 193255:
Carissimi,
grazie degli auguri, li trovo qui tornando a casa. Anche a voi.
Avete visto l’almanacco? È come è (o meglio come può essere). I disegni vostri ci sono, entrambi. Scrivetemi e io vi scriverò più a lungo. Ora sono in mezzo, e peggio, guai finanziari.
Vi abbraccio Za.
E ancora da Milano il 27 gennaio 193356 Za scrive:
Cari amici,
aspetto, se fossi in voi tenterei ancora una volta, l’ultima, una
novella per Novella, (vedeste che vi rubai un terzo di spunto in
un mio raccontino? Ma così poco che potreste non esservene
accorti, sul Fuorisacco57). Aspetto dunque i disegnini e farò
l’impossibile per il secolo XX. Il solo che, lo capite da voi,
possa ospitare il genere […].
L’abbinamento testo/disegno su cui Za insiste per una semplice ragione editoriale, dal momento che i rotocalchi cui egli fa riferimento
necessitano di quello che suol chiamarsi “alleggerimento in pagina”
della parte narrativa, spinge Bernari, che proprio tra il 1932 e il 1933
sta dedicando ogni sforzo alla riscrittura di Tre operai, ad “alleggerire” la parte “letteraria” del capolavoro del neorealismo. Nascono così
le didascalie dei capitoli del romanzo, che sono dei veri e propri sche55 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima
per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro
Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
56 Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata “Rizzoli&C. anonima
per l’arte della stampa, Milano”, indirizzata a “Sig. Carlo Bernard / Via Quattro
Fontane 4 / Roma”, data del timbro postale, inedita (Archivio Carlo Bernari).
57 Fuorisacco è una rubrica che Za teneva sul «Secolo XX».
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mi da storybord58 cinematografico, didascalie che non sono presenti
nella precedente stesura (Gli stracci).
Non è difficile immaginare la possibilità di una versione illustrata
del romanzo di Bernari utilizzando semplicemente queste didascalie
che preannunciano il contenuto dei capitoli!
I - Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro.
II - Teodoro s’è fatto licenziare per scarso rendimento. Ma ora
si accontenterebbe di un qualunque lavoro.
III - Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai
non si può essere che operai.
IV - Teodoro non ne può più: ha bisogno di Maria; ma anche
un po’ di Anna.
V - Teodoro deve prendere una decisione.
VI - Teodoro non sa far nulla di buono: e tantomeno apprezzare la povera Anna.
VII - Teodoro ha deciso, parte con Marco De Martino che gli
pare un uomo coraggioso e intelligente.
VIII - Anna è libera: se ne va a Roma, e conosce i ladri dei
poveri.
IX - Teodoro fa colpo sulla prima donna che incontra; ma forse il lavoro non è fatto per lui.
X - Di uno che cerca un pacifico lavoro la vita può farne anche
un rivoluzionario.
XI - Praticamente Teodoro impara che la mentalità e le idee
sono il frutto di determinate condizioni d’ambiente.
X - Anna trova un uomo che le vuole bene ed un impiego.
XIII - Teodoro ha studiato, s’è messo al corrente, ma i riformisti sono più forti di lui e gli fanno commettere una grande
sciocchezza.
XIV - Pippetto muore a Napoli.
XV - Teodoro fa carriera nell’industria delle conserve alimentari.
XVI - Marco trova un impiego: ed Anna muore.
XVII - Agosto-settembre 1921: occupazione delle fabbriche.
XVIII - Sbandamento.
Naturalmente c’è dietro la tecnica che risale al romanzo cinquecentesco, in particolare Rabelais, nonché il fouilletton romanzesco che Za
58 Nello storybord la sceneggiatura viene esemplificata con disegni e didascalie delle varie scene.
40
è impegnato a seguire e ad ottemperare nelle sue proposte, come si
diceva, per evidenti ragioni editoriali. La polemica su «Novella», anzi
sulle “novelle per «Novella»” è il tallone d’Achille di Za che deve far
capire agli amici la situazione e, soprattutto, che non è in discussione il
loro valore letterario. Anzi, aggiunge Za, è vero magari il contrario, che
per scrivere novelle per questi giornali non c’è bisogno di alcun valore.
Sta di fatto che, però, questa insistenza da parte del più anziano e
navigato amico accasatosi nella grande editoria milanese, convince
Bernari a rivedere molte cose della sua attività creativa. In primis
ad utilizzare la scrittura come se fosse un disegno, una illustrazione, come cogliendo l’implicito suggerimento: disegna prima con la
mente quello che stai per scrivere. Ma è comunque vero che Bernari
giungerà a questa forma nuova di rappresentazione ed interpretazione dell’oggettività, il neorealismo, attraverso il complesso delle arti
visive che intersecano la sua intera produzione letteraria. E la pittura
in particolare, come si è detto, rappresenta, sia da un punto di vista
teorico che sotto l’aspetto pratico, quel bacillo giovanile originario da
cui scaturirà l’evoluzione rapida e drastica della sua scrittura.
In conclusione: il Manifesto Uda rappresenta il tassello del passaggio
dalle arti visive, pittura e cinema59, degli anni ’20 e ’30, alla letteratura con un corto circuito parola-immagine, logos-eikon, – da cui scaturisce la scintilla di una nuova letteratura, appunto il “neorealismo”
che deve essere allora così ridefinito. Naturalmente, le questioni relative ai rapporti letteratura-cinema neorealista sono note e dibattute
ampiamente dagli stessi protagonisti ed autori del tempo. La discussione che, alla fine degli anni ’50, assunse anche toni polemici circa la
“morte” del neorealismo è conosciuta. Resta però – ripeto – ignorato
l’antefatto che ha permesso la nascita di una cultura neorealista, antefatto che affonda le sue radici nelle arti visive e che ha nel Manifesto
UDA del 1928-1929 un momento teorico essenziale.
59 L’influenza del cinema sulla letteratura del tempo è scontata, basti pensare al
romanzo di Luigi Pirandello Si gira! del 1915 riscritto e ripubblicato dall’agrigentino del 1925 col titolo I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma val la
pena ricordare che mentre in Pirandello si tratta di far letteratura partendo dal
cinema, per gli scrittori della generazione successiva, Bernari, Moravia, Alvaro
ed altri, si tratta del processo inverso, cioè di scrivere “come” per il cinema.
Trasformando altresì il “romanzo” tradizionale, anche da un punto di vista di
tecnica narrativa, in un “trattamento” vero e proprio dove la parola deve per forza
trasformarsi in immagine in movimento.
41
È in questo contesto infatti in cui i cosiddetti protoromanzi neorealisti di Moravia, Alvaro, Bernari, Pavese, Silone ed altri vengono
alla luce come un nuovo modo di fare letteratura sfruttando, non solo
e non tanto, le armi e le tecniche della “vecchia” letteratura, quanto piuttosto la forza espressiva delle immagini derivate dal rapporto logos-eikon dalle arti visive. E non è certo un caso che Bernari e
Zavattini, come Moravia ed Alvaro, si dedicarono al cinema e al teatro, alla pittura e alla fotografia con la stessa passione e forza che alla
narrativa. Realizzando così quella sintesi delle arti che Carlo Bernari
rivendicò nel 1953 con un intervento dal titolo emblematico: Cinema,
tra arte figurativa e letteratura60.
In questo intervento Bernari parla della crisi della pittura neorealista che cede il passo al scomposizione del reale e all’astrattismo (di
cui Bernari non dimentica affatto, si badi bene, i meriti e i risultati
artistici):
[…] affiora sempre un risolino di scherno sulle labbra dell’intellettuale raffinato […] quando si parla di tentativi di recupero dei contatti con la realtà, rimasta troppo fuori e troppo
distante dalla sfera delle arti figurative, per quel processo di
decantazione dei contenuti cominciato circa un secolo fa e
non ancora esaurito. Ma quale è la strada che riconduce le arti
figurative nell’ambito di quel generale processo di rinnovamento della nostra cultura che grazie alla letteratura e al cinema sembra muoversi in direzione di un realismo critico? Mi
limito qui a fare solo tre esempi su tali prese di contatto con la
realtà […]; la serie degli Orrori della oppressione nazista di
Renato Guttuso, la serie degli Orrori della guerra di Corrado
Cagli, eseguite ambedue durante la guerra, fra il ’44 e il ’45;
e la serie di paesaggi e le figure lucane dipinta da Carlo Levi
durante il suo soggiorno coatto in Lucania. Si dice anche che
la riuscita di un realismo pittorico sia problema unicamente
di linguaggio: poiché mancando oggi i mezzi espressivi adatti
si afferma che mancherebbe anche la possibilità non soltanto
di affermarsi, ma anche di estrinsecarsi. Qualcosa del genere sosteneva Domenco Cantatore quando scriveva («Cinema
nuovo», n. 9, aprile ’53) che: «a questa pittura (quella neorealistica) manca una macchina da presa efficiente o perlomeno
60 Carlo Bernari, Cinema, tra arte figurativa e letteratura, in «Rivista del Cinema
italiano», agosto 1953, pp. 7-29.
42
adeguata ai suoi propositi» […] Ma il problema del neorealismo non si limita al linguaggio: i mezzi espressivi mancano
quando manca una convinzione della necessità di ciò che si
vuole esprimere. I mezzi espressivi, allorché occorrono, allorché una verità non deformata da intenzioni propagandistiche
e commerciali s’impone alla nostra coscienza, sono sempre
pronti alla nostra coscienza. È proprio in questa direzione che
bisogna accettare l’esempio del cinema61.
Si tratta allora di cogliere l’essenza del nuovo modo di de-scrivere
la realtà: una narrazione per immagini che diventa critica della realtà
attraverso lo strumento della parola. Nel saggio del 1953 su cinema
arte e letteratura, Bernari si richiama al filone neorealista della pittura, – che a suo giudizio rischia di esaurirsi per l’esplosione delle
tendenze astrattiste, – un filone che da Sironi e Crisconio, attraverso
Paolo Ricci e i Circumvisionisti, giunge a Carlo Levi, Renato Guttuso, Domenico Cantatore, Alberto Sughi, Villoresi, Ernesto Treccani,
Emilio Greco e Domenico Purificato62. Presentando nel 1980 l’opera
pittorica di Domenico Cantatore, ad esempio, Bernari insiste sulla
dialettica logos-eikon, immagine e parola:
Il confine che separa i colori della tavolozza del pittore, dalle
parole dello scrittore è una linea sottilissima, talora invisibile.
Spesso, fra l’una e l’altra attività, pittorica o letteraria, si determina uno scambio in cui è difficile stabilire quale delle due
espressioni ha prevalso […] Vi sono comunque casi singolari
in cui lo scrittore che si dedica alla pittura, anche trasferendo
in questa attività collaterale o suppletiva gran parte del suo
mondo interiore, raggiunge talvolta traguardi di sorprendente
autonomia […] Ma accade anche l’inverso, quando è il pittore
ad invadere il campo vicino delle lettere. Il pittore allora tra61 Ivi, p. 27.
62 Bernari fu buon profeta fin dal 1950 della crisi dell’astrattismo, un tema ricorrente nei suoi interventi critici e nei cataloghi delle mostre con la sua prefazione.
Basti pensare alla recensione apparsa sul «Corriere della Sera» dell’autobiografia
del critico Renato Barilli, notoriamente considerato il cuore e la mente della Neoavanguardia (Autoritratto a stampa, Fausto Lupetti editore, 2010). Recensendo
il libro autobiografico di Barilli scrive Pierluigi Panza: «Pure la Neoavanguardia,
dopo la stagione rovente, anche sul piano sociale, degli anni Settanta perde forza,
nonostante alcuni tentativi di rilancio negli anni Novanta […] c’è chi come Eco
diventa scrittore borghese postmoderno e chi si rifugia negli studi storici, come
Barilli, che prende a rivolgersi persino a Giovanni Pascoli […]».
43
sferisce nella scrittura, insieme ad una quantità di sensazioni
visive, gran parte di quell’humus che dà vita al suo mondo
pittorico; ma in modo aneddotico, oserei dire: narrativo; ecco,
come se il pittore attingesse ad un altro cielo di verità.
Ecco dunque che il neorealismo si delinea come questa forma, questa
capacità, questa potenza, sinergica tra le arti, di rappresentare la realtà
attingendo, per dirla con le parole di Bernari, “ad altri cieli di verità”.
Va da sé che allora il rapporto col cinema63, l’immagine in movimento
che è una sintesi di arte figurativa64 e narrativa, come se le immagini
venissero messe appunto in moto dalla narrazione, costituisce il fulcro,
l’essenza del neorealismo. Un modo di rappresentare il reale che va
ben oltre il documentarismo e mette in allerta l’astrattismo con quel
monito con cui Zavattini conclude il suo discorso sul neorealismo:
Non crediate che tutto questo laboratorio (neorealista, N.d.R.)
non serva anche alle altre forme di cinema, anche a quelli non
neorealisti, in quanto sono svegliati di notte come i frati per
sentirsi dire: avvicinati alla realtà65.
63 Cfr. Domenico Purificato, Domenico Purificato e il cinema. Tra teoria e pratica,
Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis, a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzolo, pubblicato in occasione dell’omonimo incontro tenutosi a Fondi
presso il Palazzo Caetani il 23 maggio 2010. Molti scritti teorici sul rapporto
pittura cinema del pittore Domenico Purificato sembrano in qualche modo ispirati alle argomentazioni di Bernari. Del resto, tra lo scrittore Bernari e il pittore
Purificato i rapporti sono stati intensissimi a partire dai primi anni ’60. Entrambi
avevano lo studio estivo in una villetta liberty a Gaeta, in contrada Catena al
numero 1 e frequenti erano gli scambi e le visite tra i due artisti.
64 Cesare Zavattini, Il neorealismo secondo me, cit. p. 184.
65 Non c’è bisogno di ricordare, se non a piè di pagina, che Zavattini stesso fu pittore
notevole di ispirazione surrealista e che il suo cinema “neorealista” ed ideologicamente impegnato ha un’impronta surrealista inconfondibile. Questo comporta che
il neorealismo sfugge ad ogni definizione e delimitazione in un ambito preciso,
rappresenta un approccio soggettivo (del singolo artista) e critico alla realtà. Ha
quindi ragione Antonio Vitti quando propone di usare il plurale “i neorealismi” al
posto del singolare (Cfr. A. C. Vitti, Ripensare il neorealismo, Pesaro, Metauro,
2007). È del resto quanto sostiene Zavattini nel suo intervento su citato del 1953,
quando sostiene: «Partiamo tutti insieme, per esempio accordandoci sulle esigenze
fondamentali del neorealismo, mettiamo “Vita di un paesucolo”. Partiamo in venti,
tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la
direzione che crede e che può […] la partenza è comune e non si pongono limiti al
neorealista, se non quelli che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre
da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimen-
44
Questo “avvicinamento alla realtà”, inteso da Za come una predisposizione, sul piano della forma, dell’artista all’impegno, è il leitmotiv della discussione a cavallo degli anni ’50. Abbiamo visto come
Vittorini, nel passaggio storico del 1947, in seguito alla crisi della
rivista «Il Politecnico», rivendica all’artista un ruolo indipendente, se
non disimpegnato, nei confronti del contenuto – e dell’ideologia del
partito. Questa “nuova” posizione di Vittorini, che dagli stretti legami
con Togliatti passa ad una critica del cosiddetto realismo socialista, è
però già all’ordine del giorno, perché ricalca sostanzialmente le tesi
del 1929 del Manifesto udaista di Bernari & Co. Tesi che tornano di
attualità venti anni dopo con Vittorini stesso, che pure originariamente le osteggiò, Zavattini e con Fellini che, nell’intervento del 1955 in
difesa de La strada, scrive:
Se sono partito – per questa ricerca di come l’essenza del desiderio e della possibilità sociale nasca in un rapporto – da una
situazione così apparentemente inadatta, e astratta, e immediata, e squallidamente quotidiana, è perché credo che oggi il
capovolgimento da un individualismo ad un giusto socialismo,
per essere persuasivo, dev’essere tentato e analizzato come
bisogno del cuore, come impulso dell’attimo, come linea in
azione dentro il più dimesso corso della nostra esistenza66.
Va da sé che il “bisogno del cuore”, di cui parla Fellini, parte dal concetto rivoluzionario post-romantico e anti-idealistico, feuerbachiano,
di sensibilità: che nel manifesto udaista del 1929 viene concepito
come una forma di simpatia (e relativa empatia) tra il soggetto e l’oggetto della rappresentazione.
È da questo grumo sanguigno, da questo snodo del 1929, che si
dipartono dunque i nervi di quello che nel dopoguerra sarà definito
“neorealismo”.
to di quest’esperienza può infinitamente dargli». Cesare Zavattini, Il neorealismo
secondo me, cit. p. 184.
66 Federico Fellini, Neorealismo, cit. p. 199.
45
Lorenzo Borgotallo
De Sica’s The Children Are Watching Us:
A Subversive Orphanization
The traditional, bourgeois, concept of the family has been acutely defined by Italian mythologist Furio Jesi, in Germania segreta
(1967), as a closed, fortified microcosm, whose safeness and “serenity” is only apparent, insofar as the major threats to its falsely inexpugnable walls are often coming not from the outside, but from within.
Analogously, cultural studies scholar Paul Gilroy, in his seminal work
Between Camps (2000), has amply demonstrated that camp-thinking
inevitably affects even the supposed beneficiaries of the enclosed
“camp” by forcing them to exclude, amputate, or subdue, whatever
is deemed external and/or detrimental to the unity of the camp itself1.
But the “excluded” will often come back to haunt the camp, like a
Derridian ghost. According to Jesi, in fact, the fortified, bourgeois,
microcosm of the family is destined to crumble and fall precisely
because: «L’istituto matrimoniale borghese non regge all’affiorare di
forze oscure nelle quali dovrebbe invece risiedere il fondamento saldo, profondo e misterioso dell’unione sessuale» (Germania, p. 125).
By putting into question precisely the internal and external mechanisms, both social and psychological, that dominate a typical petitbourgeois family, De Sica was able to successfully portray in his
1943 movie, The Children Are Watching Us, a much larger situation
of ethical breakup. Based on Pricò, a rather conventional and larmoyant novel published by Cesare Giulio Viola in 1922, and written
with the fundamental contribution of scriptwriter Cesare Zavattini,
1 According to Gilroy, camp-thinking can be defined by «the veneration of homogeneity, purity, and unanimity that it fosters. Inside the nation’s fortifications, culture
is required to assume an artificial texture and an impossibly even consistency. Culture as process is arrested. Petrified and sterile, it is impoverished by the national obligation not to change but to recycle the past continually in an essentially
unmodified mythic form. Tradition is reduced to simple repetition» (p. 84).
46
the film actually opens up to capture and portray an entire zeitgeist,
while focusing on the powerful emotions and reactions of its five-year
old protagonist: Pricò. The little boy acts in the film as the desolate,
but uncompromising, witness to the crumbling of his own world in a
claustrophobic, petit-bourgeois context, characterized by false pretenses, subterfuges and lies, to which he can only oppose, in the end,
his ethical and subversive refusal by consciously embracing, as we
will see, the condition of the Orphan-child.
The film begins with the mother’s hard-fought decision to abandon her family and flee to Genoa with her secret lover, Roberto. The
father, incapable on his part of dealing with the scandalous situation,
leaves Pricò first with the aunt, and then with the grandmother, both
of who will turn out to be completely self-centered and pitiless. The
unexpected return of the mother, apparently repentant, is a sign of
good hope: the father is willing to forgive her for the child’s (and
the family’s) own sake and the three of them seem to find a renewed harmony, at least by the bourgeois standards of the time. But
the summer vacations spent in a rich seaside town, amongst shallow
and pretentious people, will be disastrous: tracked down by her lover,
the mother ends up abandoning a second time her child and husband.
Grief-stricken, the latter is now forced by the internal mechanisms
of a typically dignified bourgeois society to send Pricò to a boarding
school. Here, the child will soon be reached by the terrible news of
his father’s suicide, but, this time, instead of seeking comfort in his
mother’s arms, he will prefer to hug the old nanny, before turning his
back once and for all on his mother and, more metaphorically, on the
entire world she represents.
The first merit of this subtly subversive film is its overt willingness
to engage with disquieting themes and issues, such as petit-bourgeois
adultery and suicide, or the unhappiness of children, which were
deemed taboos by the Fascist censorship of the time. As Massimo
Garritano pointed out, The Children Are Watching Us can be interpreted above all as «una metafora del disfacimento del fascismo in
quanto sistema di pensiero, attraverso due gesti che appaiono “rivoluzionari” per quegli anni: l’adulterio e il suicidio» (p. 57). This is
undoubtedly true: compared to the so-called telefoni bianchi movies
of those years, evasively set in exotically distant kingdoms or unattainable past epochs, De Sica’s film appeared as an unexpected and
subversive wakeup call for the audiences of 1943. Moreover, the film
47
is particularly successful in problematizing the bourgeois triangle by
changing its focus from the usual suspects – the husband, the wife,
and the love – to the figure of the child-protagonist, who becomes
here the true bearer of the looming tragedy’s weight2.
But, besides adultery and suicide, there is also a third truly revolutionary gesture that, to my knowledge, critics have not yet underlined.
It is the ending itself, which can be interpreted here as a subversive “orphanization” of the main character: a sorrowful five-year old
who willfully turns his back once and for all on his family and on
everything it represents. Pricò’s conscious acceptance of his orphan’s
fate acquires the sense of an ethical choice, which transforms him into
a powerful symbol of revolt against the encamped, fortified, and falsely serene microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. According to Jesi, in fact, the figure of the Orphan-child as such is a cultural
leitmotiv, a powerful double-sided symbol of crisis and renewal:
Nelle grandi svolte della storia della cultura […], affiora dalle
profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale,
dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi
(Letteratura, p. 13)
Now, if we start analyzing the movie in depth, we can notice that the
opening sequence functions almost as a classical meta-narrative prologue, a sort of abridged mise an abyme of the entire film’s plot, insofar as the puppet-show actually stages and anticipates the fatal love
triangle that is about to be revealed in the movie: two men fight over
the same woman until one of them dies. The subtle connection between this scene and the movie’s plot becomes even clearer in Pricò’s
disquieting dream sequence, later on in the film, where the murderous
2 In this regard, Lino Micciché has effectively argued that The Children Are
Watching Us: «è il film della coscienza borghese in crisi, che implica la denuncia
della complicità morale col fascismo perché implica e vede criticamente la morale che la borghesia con il fascismo aveva difeso e per la quale gli aveva dato la
propria complicità […] I bambini ci guardano è in questo senso il corrispettivo
di Ossessione sia pure su una linea completamente diversa. Nel film di Visconti
la critica alla società è fatta di sangue, di sensualità esasperata, di foia delittuosa
intrisa di umori anarchici. In De Sica tutto è visto con apparente pacata delicatezza, ma non per questo con minore convinzione e meno perusuasiva efficacia» (pp.
157-159).
48
male and female puppets appear to haunt the child’s conscience as
they slowly turn into his mother and her lover, thus demonstrating
how relevant that initial scene is: an image of violence that has deeply
affected Pricò, if only unconsciously.
But the puppet-show sequence functions as a meta-narrative prologue also for a different reason, insofar as it allows De Sica to establish
right away his ethical standpoint. During the scene of the killing, in
fact, the camera suddenly cuts from the puppet-show to a little child in
the audience who starts crying and tries to hug the mother. The woman,
on her part, dismisses this reaction as a silly one and encourages the
child to look on: «No! Guarda, guarda!». We may consider it, at first,
an amusing little scene, but, at a closer look, it becomes evident that
the child’s “innocent” gaze (as well as De Sica’s camera) reads and
interprets the puppet-show for what it really is: a disquieting image
of abuse, violence, and death, strengthened by the child’s inability to
distinguish between reality and fiction. It is not simply a parodic reversal of the adulterous affair depicted in the film, it is actually the first act
of child’s abuse portrayed in the movie. Moreover, De Sica’s ethical
condemnation of the way the adult world relates to children continues,
even more significantly, in the backstage of the puppet-theater, where
we see the two puppeteers insulting and tugging ill-manneredly at a
young girl, possibly their own daughter, because they deem her too
slow in collecting the audience’s money: «Maria! Vai, stupida!».
From a purely narrative point of view, both of the above mentioned shots may actually appear irrational cuts, insofar as they add
nothing to the main plot and have no apparent cause-effect link with
the main puppet-theater sequence, but in fact they are fundamental
in portraying and assessing right from the beginning the ethical standpoint of the film. In other words, what De Sica is trying to establish
here is precisely what Deleuze calls a time-image: a mental link –
rather than an action-driven one – which makes new cerebral circuits
possible, insofar as it forces the audience to find a different type of
connection between the two shots3.
3 As stated by Deleuze in his two cinema books, the intrinsic limit of the movement-image (typical of pre WWII cinema, but still very common nowadays in
Hollywood) is its “closed-ness”, the fact that it can give only an indirect image of
time, insofar as it is governed by a strict sensory-motor schema, a link of causeeffect, that tends to close the image on itself and reinforce it as pure cliché. Nevertheless, if the sensory-motor schema jams or breaks, that is, if the single image
49
Overall, it is not by chance that the movie opens right away with
a powerful, albeit indirect, critique on De Sica’s part of the ways in
which the adult world relates to children. The title itself, The Children
Are Watching Us, can in fact be read as a heartened appeal/warning
to the sense of responsibility that each one of us must bear in his or
her relationship with children, precisely because we, as adults, should
always be held accountable for our behaviors and attitudes. One of
the most striking and revealing aspects about the film is that (with
the paradoxical exception of the painful and remorse-ridden adultery of the main plot) all the love bonds depicted by De Sica seem to
be driven either by some sort of light-hearted personal gain or by
shallow eroticism, thus appearing almost as reprehensible because of
their superficiality: from the aunt’s relationship with a much older and
richer commendatore; to the vacuous chit-chatter of the four dressmakers, commenting excitedly on the sexual revelry of one of them; to
the not-too-innocent crush of Paolina for the local pharmacist; to the
short but poignant scene of a random couple at the Alassio train station, in which the woman asks «Addio, caro. Pensami! Mi scriverai?»
and the man on the platform doesn’t even bother to answer, but asks
instead a casual question, while continuing to read his newspaper.
Interestingly enough, the one thing that all of the above mentioned
scenes have in common is the actual presence of Pricò, who functions
(together with us) as the silent witness of the vacuous world depicted
by De Sica. In the child’s presence, adults my often speak in half
sentences – like the mother, the aunt, and the grandmother – or lower
their tone of voice – like the dressmakers or Paolina – but their actions
eventually betray their true intentions in the eyes of Pricò, as well as
in our own. As stated by Deleuze in Negotiations, this type of “visionary cinema” has replaced the agent with the seer and the character
has gained in an ability to see what he has lost in action or reaction
(p. 51). In a way, what we are dealing with here, is a reinterpretation
of the child’s “innocent gaze” trope, finally capable of shedding light
from within and with honesty on the cracks that begin to appear in
the fortified walls of the Italian Bourgeoisie, in total contrast with the
models imposed up until then by the Fascist ideology. As Fellini once
is cut off from its motor development (through the use, for instance, of irrational
or less probable links), a different type of image can emerge: a pure optical-sound
image, a direct time-image, finally capable of breaking though the clichés, while
making new cerebral circuits possible.
50
said: «Neorealism is a way of seeing reality without prejudice, […]
not just social reality but all that there is within a man» (p. 152). Once
again, the ethical attempt of the film is to actively put into question
what Paul Gilroy calls camp-thinking – an all-encompassing, closed
elaboration of the real – by fostering a new way of experiencing and
experimenting with reality, that is, an actual neo-realism: a new way
of looking at the world.
In this perspective, we, as spectators, first learn about the mother’s
love affair precisely through Pricò’s eyes and the change in his facial
expression when he first “sees”, thanks to the innocence of his gaze,
the threat that the man talking to his mother in the park represents.
Analogously, Roberto’s face will express a mixed sense of surprise and guilt when, later on in the movie, he realizes that his love
effusions on the beach are being silently witnessed by Pricò, as De
Sica’s masterful use of the shot-reverse-shot technique readily reveals
to us. But it is not only the child’s gaze to be subtly subversive. His
words too tend to give an estranged image of the real, thus accomplishing the Deleuzian ideal of «being foreign in one’s own language»
(Negotiations, p. 41), while putting into question well-established and
socially accepted interpretations of the real.
At a closer analysis, we can identify several sites of subversion
in which Pricò acts as a sort of bocca della verità “mouth of truthfulness,” which inevitably forces the adults that surround him – or
the audience, at least – to think and look at the world differently. In
one of the initial scenes of the movie, for instance, we see the mother
putting to bed the little boy. Before kissing him goodnight, she makes
him recite a prayer, that is, she briskly requires him to repeat after her
every single verse of it. This closed mechanism, conceivable here as
a Deleuzian “sensory-motor schema” (Cinema 2, p. 20) transposed
into the realm of language, seems to proceed smoothly right until the
end of the prayer, when, all of a sudden, the linguistic machine jams.
Pricò, in fact, breaks loose of the sensory-motor schema first by transposing the actual words of the prayer into a purely rhythmical sound
diversion: the Italian “che ti fu” turns into the playful and nonsensical
expression “katafù”, repeated three times in crescendo. Then, most
importantly, instead of simply repeating the conclusive expression
“la pietà celeste”, the little boy adds a comment of his own: «la pietà
celeste… e rosa», insofar as “celeste” in Italian is, first of all, a synonym for the color blue. In other words, from the child’s perspective,
51
there is no specific reason why heavenly mercy should be only blue.
On the contrary, it might be both blue and pink. Of course, it is just an
image, or just an idea – as opposed to a just idea, to paraphrase French
director Jean-Luc Godard – but it is precisely this that makes it all the
more powerful and revolutionary. As Deleuze puts it:
And… and… and… is precisely a creative stammering, a
foreign use of language […] AND is neither one thing, nor the
other, it’s always in between, between two things; it’s the borderline, there’s always a border, a line of flight or flow, only
we don’t see it, because it’s the least perceptible of things.
And yet it’s along this line of flight that things come to pass,
becomings evolve, revolutions take place. […] Children are
supplied with syntax like workers being given tools, in order
to produce utterances conforming to accepted meanings. We
should take him quite literally when Godard says children are
political prisoners. (Negotiations, p. 38-41)
Now, going back to the opening of the movie, the first site of verbal
subversion in Pricò’s attitude towards the adult world appears right at
the end of the park sequence, when, after his significantly stubborn
refusal to greet Signor Roberto, he looks up at his mother and asks
her, as they are leaving: «Mamma, piangi?». Two simple but very
powerful words, capable here of breaking through the wall of hypocrisy erected by the typically dignified Bourgeois demeanor of the
mother and that inevitably force her to lie: «No, e perché dovrei?».
This same, potentially subversive, attitude of Pricò reappears again
later in the movie, when, having just recovered from his nightmarish
illness, he asks his mother for three times: «Perché non ti levi il cappello?», another simple but revealing question, which the woman is
once again incapable of answering, since it would force her to disclose the real cause of her absence.
A third, even more relevant, site of verbal subversion can be identified in Pricò’s reaction to one of Paolina’s remarks, the girl supposedly in charge of keeping him out of trouble during the time spent
at his grandmother’s place. The two of them are walking down the
street, but as they pass the pharmacy, the girl insistently turns around
to exchange a series of explicit looks with the pharmacist, who is
standing outside the shop. Pricò witnesses on his part the exchanges
but is incapable of interpreting them and looks up at the girl for an
52
explanation. Having been caught red-handed, the girl reacts with another typically dignified and bourgeois demeanor, «Non ci si rivolta
per la strada», to which Pricò readily answers: «E tu perché ti volti?».
Once again, it is just a remark, as opposed to a just remark, but precisely because of its simplicity, it is all the more powerful in exposing
the hypocrisy and double standard that the bourgeois microcosm is
more then willing to embrace and apply whenever it feels threatened,
either from the inside or from the outside.
As it appears clear from all these examples, while children do
watch and speak to us, we as adults are often unable to accept the
implications of their innocent gaze and/or deal with their inconvenient questions. Hence, Pricò’s narrative and ethical function in all of
the above-mentioned scenes is precisely that of subverting the world
that surrounds him by inadvertently denouncing its subterfuges and
mechanisms of denial. Overall, the film offers an estranged image
of the real by focusing precisely on what De Santi insightfully calls
“angelismo eversivo” (p. 37) of children, a social and ethical attitude
amply analyzed by Giorgio Agamben in his 1978 seminal work Infanzia e storia.
It is not by chance that several languages tend to refer to the world
of the child only in the negative form: “infant,” he who does not speak;
“innocent”, he who does not harm; “immature”, he who is not ripe,
thus emphasizing what a child lacks, rather than what he or she has
to offer. In other words, instead of acknowledging and cherishing the
potentialities of renewal embedded in the children’s gaze, language
and frame-of-mind, we prefer to dismiss their take on the world as
nonsense, flawed from the outset because of their supposed inexperience. It’s as if the “instability of the signifier” (p. 91), acutely identified by Agamben with every child as such, is actually too disquieting
and/or challenging for us to accept4. Nevertheless, it cannot be denied
that children are the ones who can most readily realize the Deleuzian
ideal of “being foreign in one’s own language” (Negotiations, p. 41).
As Cesare Zavattini himself never ceased to repeat in his interviews, letters, and writings:
4 According to Agamben, the “openness” of the child, conceived as an unstable
signifier, makes him or her all the more threatening for the rest of the community.
But, at the same time, «no society […] can do without its unstable signifiers and,
although they represent an element of perturbation and menace, society has to
keep watch in order for the signifying exchange not to be interrupted» (p. 91).
53
Noi li appartiamo, ma essi già vedono con i loro occhi, odono
con le loro orecchie, giudicano, i bambini ci guardano insomma e ci giudicano e noi sembriamo affannati a impedire che
esprimano questi loro giudizi, che sono spesso impressionanti,
rivelatori, geniali, pieni di una esperienza misteriosa, con un
suo tempo misterioso (qtd. in Siciliani de Cumis, p. 15)
In inaugurating their exceptionally fruitful collaboration (after their
initial, underground, contacts for Teresa Venerdì in 1941), Zavattini
gave a fundamental contribution to De Sica’s epistemological break
with the shallow, mindless, and escapist cinema of the time5. In this
perspective, the social control and morbid curiosity that animates in
the film close relatives, friends, neighbors, and hotel guests alike, is
the perfect incarnation of that “società ipocrita, bugiarda”, that De
Sica openly identified as the main target of his attack (qtd. in Savio,
p. 489), and that is here willfully portrayed in direct contrast to the
subtle subversiveness of Pricò.
Accordingly, all of the adult characters in the movie – with the
sole, albeit significant, exception of the old nanny – are portrayed
somewhat negatively. None of them, in fact, seems capable of establishing a true, compassionate, loving connection with Pricò, and this is
true not only of family members and friends, but also of all the minor
or secondary characters that punctuate the plot: from the magician at
the hotel, who is evidently annoyed by his presence («Bambino, vai
via…»), to the old lady at the railway station, who dismisses him with
an arrogant nod, to the railroader on the tracks who chases him away
(«Via da qua!»), all the way to the drunken sailor on the beach who
scares him just for fun or the two alleged representatives of the Law
who suddenly loom over the little boy as a menacing presence, rather
than a reassuring one. Moreover, Pricò’s desperate search for affection throughout the movie is significantly underlined by his repeated
requests for a simple goodnight kiss («Non mi dai un bacio?»), to
which the mother, Paolina, and possibly even Agnese, all seem oblivious, insofar as they all forget to bestow it spontaneously.
5 The title itself, for instance, was suggested to De Sica by Zavattini, insofar as it
was inspired by I nostri bambini ci guardano, a weekly column, signed by Zavattini in the late ’30s on the Italian women’s magazine «Grazia», whose official
declaration of intent already anticipated the reversed perspective that we witness
in the film: «Qui non si tratta di insegnare ai fanciulli come devono comportarsi,
bensì come voi dovete comportarvi davanti ai fanciulli».
54
Ironically enough, even the family picture that the father decides
to take on the beach to seal once and for all the renewed harmony
between the three family members is actually ruined – without them
knowing it – by a mischievous kid named Ulrico, who enters the picture behind their back and sticks his tongue out right before the click.
It is almost a bad omen of the things to come, as if De Sica wanted to
warn us that the happiness of this family reunion is only apparent and
is not destined to last for long. Moreover, the fact that the mischievous kid actually belongs to the upper class and will later answer back
to his own mother, quite aggressively «Lasciami stare! Non voglio
venire con te!», while spitefully vexing a group of younger kids, simply adds another element of ethical condemnation to the falsely glamorous society portrayed in the seaside sequence.
And yet, one of the greatest accomplishments of the Italian Neorealist experience of the 1940s has been precisely its unique ability
and willingness to acknowledge and render, both cinematographically and literarily, the actual complexity of the real. According to De
Santi, for instance: «Il realismo di De Sica non sceglie o strofineggia
una cifra formale in cui lo stile scorra sempre uguale (sia pure sempre
ad alto livello). C’è nel suo cinema una mobilità di innesti e investimenti espressivi, e anche di esiti fortuiti» (p. 40). The same could be
said about other Neorealist works of the 1940s: a movie like Roberto
Rosselini’s Rome, Open City (1945) defies all cinema genres, just like
Italo Calvino’s first novel, The Path to the Spiders’ Nests (1947) or
Pavese’s The Moon and the Bonfires (1950) do not really belong to
any readily available literary category6.
Following along these same lines, De Santi is one of the few critics to have highlighted how complex the world depicted in The Children Are Watching Us actually is. In describing the mother’s remorseridden adultery, for instance, he insightfully points out the ambiguity
of a love bond that is actually blameless, if read outside of the cultural coordinates of the time (p. 32). Similarly, he notices how De
Sica does not impose on the father the code of the betrayed husband,
which, in the Italian custom, could be viciously violent (p. 40). On the
6 In this regard, both Lucia Re’s Calvino and the Age of Neorealism: Fables of
Estrangement (1990) and Gregory Lucente’s The Narrative of Realism and
Myth: Verga, Lawrence, Faulkner, Pavese (1981) have amply demonstrated how
the abovementioned works effectively challenge the poetics of objectivity and
realism traditionally associated with Italian Neorealism.
55
contrary, the film attempts to proceed against many of the stereotypes
traditionally associated with the bourgeois love-triangle, especially
in comparison to the novel on which it is based, which is full of lateRomanticism simpering and excesses. What we are dealing with here,
then, is an attempt to present the traditional petit-bourgeois triangle
from a different perspective altogether, namely the child’s: a simple
reversal which allows, though, for a radical condemnation of clichés,
a condemnation that Deleuze justly identified as one of the main characteristics of Italian Neorealism as a whole7.
Particularly revealing, in this sense, is the sequence in which the
father is finally forced to face the truth as he reads the farewell telegram that his wife has sent him. Here, the shattering of the clichés
traditionally associated with such scenes is achieved through what
Deleuze would call a “disjunction of the sound and the visual” (Cinema 2, p. 267), insofar as the 1939 song playing in the background,
Maramao perché sei morto, does not fit the pathos of the sequence,
but it creates instead an uncanny, ironic, and incommensurable “gap”.
It is, yet again, an irrational (audio-visual) cut, capable of expressing
how complex reality actually is, while anticipating, at the same time,
the tragic death that is about to unfold. To quote Deleuze’s words:
[…] when the sound image and the visual image become
heautonomous, they still constitute no less of an audio-visual
image, all the purer in that the new correspondence is born
from the determinate forms of their non-correspondence […]
The visual image and the sound image are in a special relationship, a free indirect relationship (Cinema 2, p. 260-1).
7 In the first chapter of «Cinema» 2, Deleuze clearly states that: «a cliché is a sensorymotor image of the thing. As Bergson says, we do not perceive the thing or the
image in its entirety, we always perceive less of it, we perceive only what we are
interested in perceiving, or rather what it is in our interest to perceive, by virtue of
our economic interests, ideological beliefs and psychological demands. We therefore normally perceive only clichés» (p. 20). But one of the great merits of Italian
Neorealism is precisely that of having put into question the movement-image’s
sensory-motor schema, thus allowing the spectators to rethink their inherited and
commonsensical conceptions of the world. As Deleuze puts it, in order to grasp the
new situation brought about by WWII, it was necessary for cinema to create: «a
new type of tale [récit] capable of including the elliptical and the unorganized, as if
the cinema had to begin again from zero, questioning afresh all the accepted facts
of the American tradition. The Italians were therefore able to have an intuitive consciousness of the new image in the course of being born» («Cinema» 1, p. 211-212).
56
If the intrinsic limit of every camp-thinking attitude is its inability to account for and/or acknowledge the complexity of the real,
then The Children Are Watching Us is actually successful in breaking
through the clichés of Fascist cinema, while offering an estranged
image of the real, which enables us, in turn, to be foreign in our own
language and to free ourselves from dangerous forms of automatism.
In other words, De Sica’s art is, most importantly, an art capable of
changing the way we look at the world. Thanks to its unswerving
take on reality, considered as something intrinsically complex and
problematic, the theme of the bourgeois triangle ceases to be banal
and outworn. Once again, the ethical path chosen by the orphanized
child-protagonist functions as a powerful eye-opening experience and
a relentless wake up call for past and present audiences.
To conclude, if we are to interpret Italian Neorealism first and
foremost as an epistemological break from the Fascist frame-of-mind,
a new way of experiencing and experimenting with the world after
the closed-ness of totalitarianism, then Vittorio De Sica’s 1943 film,
The Children Are Watching Us, should be considered not a simply
proto-Neorealist endeavor, as many critics have stated in the past, but
a fully Neorealist one, precisely because of its overt willingness – and
effectiveness – in putting into question several established precepts of
Fascist camp-thinking, through the powerful prism of a subtly subversive, and highly symbolical, “orphanization” of its main character.
But if this is true, then, even the final shot of the film can be read as
an open-ending full of puissance, which does not plunge us in a desperation unredeemed by any prospect of hope, as many critics seem to
imply in their analysis, but is actually full of agency for the audience,
insofar as it calls us into action. De Santi is right when he notices that
all of reality’s contradictions are still there, and that the film doesn’t
resolve the contrast between morality and family, adults and children.
On the contrary, the film destroys a pattern, whose contradictions
cannot be overcome (p. 40). But, in my view, to cry out loud «the
Emperor has no clothes» is already a powerful and subversive act of
revolt, especially if its direct consequence is the willful and ethically
charged (self-)orphanization of the main character, who consciously
refuses in the end to be associated with the encamped, fortified, and
falsely serene, microcosm of the agonizing Italian Bourgeoisie. As
Furio Jesi puts it: «Riconoscere la malattia e la deformazione come
tali e denunciarne l’orrore nell’istante stesso in cui se ne accusa l’inevitabilità, è già un atto di superamento» (Germania, p. 95).
57
Cited Works
Agamben, Giorgio, Infancy and History: On the Distruction of Experience. Trans. Liz Heron, London, Verso, 1993.
Deleuze Gilles, Cinema 1. The Movement-Image, Trans. Hugh Tomlinson and Barbara Habberjam, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986.
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Galeta, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1989.
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sacro, il profano, Lecce, Argo, 1999.
Zavattini, Cesare, I vostri bambini vi guardano, «Grazia», 1 marzo
1938.
58
59
Ben Lawton
Divorce Italian Style:
On the Firing Line between Omertà and Civil Society
Sicily has been misunderstood as often as it has been invaded1 and yet
1 Among the seemingly countless invaders of the beautiful Mediterranean island are
the Phoenicians, the Greeks (starting around the 7th century B.C.E.), soon followed
by the Carthaginians and the Etruscans around 480 B.C.E., and the Romans around
270 B.C.E. With the advent of the Common Era, the invasions did not cease. The
Vandals arrived around 450, the Goths around 480, the Byzantines around 535, and
the Arabs, who also arrived in the island in 535, eventually ended the Byzantine
rule around the year 900. The Normans arrived in 1060 and conquered the island by
1091. In 1139 the island became a feud of the Holy See. In 1266 to Pope Innocent
IV Pope Innocent IV crowned Duke Charles I of Anjou as the king of both Sicily
and Naples. Strong opposition to the French due to mistreatment and taxation saw
the local peoples of Sicily rise up, leading in 1282 to an insurrection known as the
War of the Sicilian Vespers, which eventually saw almost the entire French population on the island killed. With the passing of the French rule Sicily came under the
house of Aragon until 1409. In 1713 Sicily was given to the House of Savoy, but
this lasted for only 7 years when they traded it for Sardinia to the Austrian Hapsburg dynasty. The island then passed to the Spanish branch of the Bourbons who
conquered Sicily and Naples. Further confusion ensued with the Napoleonic invasion of Italy. With the defeat of Napoleon, the island became part of the Kingdom
of the Two Sicilies under the Bourbons. Sicily rebelled against Naples repeatedly
and in 1948 became briefly independent. In 1860, aided more or less surreptitiously
by the newborn Kingdom of Sardinia and Piedmont and by Great Britain, Giuseppe
Garibaldi with some 1000 men came to the aid of the Sicilian uprising against the
Bourbons of Naples. After the defeat of the Bourbons, Sicilians allegedly voted
by plebiscite to join Italy. In 1866 the city of Palermo rose up against the Italians,
but the rebellion was quickly suppressed. The Mafia was first identified as such
in the 1860s and became a de facto alternative power structure in the Island. In
the 1920s, the Italian Fascist government used extreme measures to repress it and
succeeded to a considerable extent. In 1943 the Allies invaded Sicily as part of the
Second World War. As they advanced through the island, U.S. forces replaced Fascist government officials with their sworn enemies, Mafia bosses. At the same time,
Sicilians, who perceived the Italian state as just one more foreign invader, began to
agitate for independence both through the political Movimento per l’indipendenza
della Sicilia (MIS) [Movement for the Independence of Sicily] and its Esercito
60
to this day, every visitor, friendly and not, cannot resist the temptation
to comment, analyze, and criticize. This is a process that is frequently presumptuous and often somewhat akin to taking a blindfolded
stroll through an uncharted minefield. Filmmakers from around the
world have participated in this process. For the most part the “foreigners,” in this context both non-Italians and “continental” Italians2,
have simply used Sicily as an exotic setting populated by mysterious,
romantic, and all too frequently dangerous “natives”3. Italian cinema
has participated in this process with varying degrees of success determined in large measure by the acknowledgement that “continentals”
cannot possibly understand the island and its mores.
Pietro Germi’s Divorce Italian Style (Divorzio all’italiana, 1961)
is one of the few “continental” films that appear to understand the
island, precisely because it clearly expresses the limits of that understanding4. The awareness of this difficulty is best revealed by the
Northern Italian representative of the Communist Party (PCI) when
he addresses the communists of Agramonte regarding the appropriate
response to the behavior of Mrs. Cefalù:
volontario per l’indipendeza della Sicilia (EVIS) [Voluntary Army for the Independence of Sicily]. By 1950 its last military leader, Salvatore Giuliano, was tracked
down and assassinated by exponents of the Italian government and, in exchange for
special status as an autonomous region, Sicily acceded to the nominal control of the
island by the Italian state.
2 To this day, Sicilians frequently refer to mainland Italians as “continentals.”
3 For the most useful and complete list of films set in Sicilia, see: Cinema in Sicilia,
12 Sep. 2009, <http://it.wikipedia.org/wiki/Cinema_in_Sicilia>. See also Cinematograpfia Siciliana: Sicilian Cinematography, 12 Sep. 2009, <http://www.
grifasi-sicilia.com/cinematografia.html Aug 1 2009> and Cinema in Sicilia, 12
Sep. 2009, <http://www.sicilycinema.it/cinemainsicilia.htm>. A majority of the
films listed deal in one way or another with the Mafia either as criminal organization or as culture. Ironically, none list one of the first films set, at least in part, in
Sicily, Giovanni Pastrone’s colossal masterpiece, Cabiria (1914).
4 Among others that address this issue explicitly, see Francesco Rosi’s Salvatore Giuliano (1962) and Luchino Visconti’s The Leopard (Il Gattopardo, 1963). Where the
former is concerned, see the conversation between the water-seller and the reporter
discussed elsewhere in this essay. For the latter, see Chevalley, the representative
of the kingdom of Sardinia and Piedmont when he visits Prince Salina at Donnafugata. He, like so many over the centuries, arrives as a conqueror of sorts intending
to change the mores of Sicily, but he too is compelled to retreat in confusion when
confronted with a forma mentis he simply can’t understand. The fact that Sicilians,
in turn, all too frequently do not understand “Continentals” is lampooned, among
others, in Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore (1972).
61
Perché oramai è storicamente accertato che anche qui da voi
nel vostra bel sud, che io ho il piacere di visitare per la prima
volta, è giunto alfine il momento di affrontare il secolare problema dell’emancipazione della donna, così come esso è stato
affrontato e risolto per esempio dai nostri confratelli cinesi;
pertanto io vi invito ad esprimere il vostro democratico parere
sul fatto; cioè a dire, quale giudizio sereno ed obbiettivo merita la signora Cefalù. [It’s a point of fact that historically, even
here in the south, which I’m pleased to visit for the first time,
the moment’s come to face the age-old problem of women’s
emancipation as it’s been confronted and solved, for example,
by our Chinese brothers. Therefore, I invite you to express
your democratic opinion on these facts. In other words, what
is the calm, objective judgment that Mrs. Cefalù deserves?]5.
The response of the assembled forces of what the film’s voiceover has
described as the “progresso un po’ lento”, which grows in an overwhelming crescendo, is – to the amusement of movie audiences for
now almost 60 years:
BOTTANA! (Whore!)
***
Divorce Italian Style won the 1962 Cannes Film Festival Best Comedy Award, the 1963 Oscar for Best Writing, Story and Screenplay,
Written Directly for the Screen, and the 1964 British Academy of
Film and Television Awards as Best Film from any Source, in addition to numerous other nominations6. Stuart Klawans, the long-time
critic of The Nation, called it a “perfect movie” in his new essay The
Facts (and Fancies) of Murder (p. 13). I tend to agree. The story, as
described on the back cover of the Criterion Collection edition of the
film, is rather simple, although obviously fraught with possible twists
and turns. «Baron Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni) longs
5 Italian quotes from the film are taken from the script as found in Moscon and
Germi. English language translations, unless otherwise indicated, come from the
Criterion Collection edition of the film.
6 Divorzio all’italiana, Awards, 25 July 2009, <http://www.imdb.com/title/
tt0055913/awards>.
62
to marry his nubile young cousin Angela (Stefania Sandrelli), but
one obstacle stands in his way: his fatuous and fawning wife, Rosalia
(Daniela Rocca). His solution? Since divorce is illegal, he hatches a
plan to lure his spouse into the arms of another and then murder her
in a justifiable effort to save his honor». The plot is something else
entirely. As the film opens, the Baron is coming out of a W.C. on a
train7. The rest of the film, except for the last sequence, about which
more later, is an extended flashback seen, narrated, commented, and
invented, for the most part, by Don Ferdinando’s internal monolog.
While it is generally recognized as one of the foremost examples
of commedia all’italiana [comedy Italian style], its qualities as art
film have rarely been acknowledged (Rhodes)8. Among other things,
roughly at the same time as Fellini’s 8 ½, (1962) it pushes the selfreferentiality of the film and the foregrounding of the discrete constituent elements of the medium to a degree rarely if ever equaled in
commercial cinema. Intertextual literary references abound, ranging
from Marcel Proust’s A la recherche du temps perdu (Remembrance of Things Past, 1922), to Alessandro Manzoni’s I promessi sposi (The Betrothed, 1827), to Giacomo Leopardi’s Il sabato del villaggio (Saturday in the Village, 1829), Giovanni Verga’s Cavalleria
Rusticana (Rustic Chivalry, 1880), as do references to opera, Pietro
Mascagni’s Cavalleria Rusticana (Rustic Chivalry, 1890), William
Shakespeare’s Othello, and cinema, from the subtle the completely explicit. Consider, for example, the scene in which the people of
Agramonte, with the black clad women in the foreground, descend in
perfect lockstep from the church during the funeral of Don Calogero.
The scene is reminiscent of nothing so much as the Cossacks descending the Odessa steps in Battleship Potemkin (Sergei M. Eisenstein,
1925). Consider also the scene, which may be unique in the history of
cinema, in which an actor (Marcello Mastroianni as Don Ferdinando)
must leave the screening of La Dolce Vita (Federico Fellini, 1960) to
avoid seeing himself on the screen as Marcello Rubini.
In this essay I will discuss briefly only one aspect of the film’s
reflexivity – the separation and interplay between the visual image
track and the sound track – because it serves to foreground the cogni7 W.C. stands for “water closet,” or toilet. It is now found almost exclusively on the
doors of toilets on Italian trains.
8 For a useful overview see Enrico Giacovelli, La commedia all’Italiana, Roma,
Gremese, 1990.
63
tive dissonance that exists within Don Ferdinando’s mind. Throughout the film we see the almost invariably humorous juxtaposition
of sound motivated by events on-screen (what different film scholars
have called diegetic or actual or synchronous sound; henceforth, diegetic) and sound not causally motivated by events on screen (defined
as extra-diegetic or commentative or asynchronous sound; henceforth, extra-diegetic) which usually serves to comment on what we
see: for example, the violin music during a love scene. This is nothing
new, nor is the presence of external diegetic sound (we assume the
sound has a physical source off-screen: we hear an off-screen shot;
the character reacts), and internal diegetic sound or internal monolog (we hear words which, presumably, constitute the thoughts of the
character). What is revolutionary, at least in a commercial comedy is
the use of meta-diegetic sound, that is, of sound that exists somewhere between the diegetic, the extra-diegetic, and the inner diegetic9.
Consider, for example, the scene in the Agramonte church in which
we are introduced to the Cefalù family through the internal monolog
of Don Ferdinando (also known to his relatives and friends as Don
Fefè). As he is confessing his love for his cousin Angela, although
lust would better describe his urges, his wife, Rosalia, suddenly glances up at him. His internal monolog stops abruptly; then, as Rosalia
looks away, Don Ferdinando resumes his thoughts sotto voce as if to
keep her from hearing him. Or consider the sequence in which we
observe Don Ferdinando watch and listen to the peroration by lawyer
De Marzi (Pietro Tordi), in defense of Mariannina Terranova (uncredited). As Don Ferdinando drives home from the trial, we continue to
hear De Marzi’s voice as he drones on in defense of Mariannina. The
scene then cuts to Don Ferdinando’s home where, as we watch him
puttering about, we hear his internal monolog as he imagines the lawyer’s defense at his (Don Ferdinando’s) eventual trial for the murder
of his wife. Don Ferdinando rehearses various scripts in his mind, at
first in his own voice, then he invents the dialog in the voice of his
lawyer, and finally, in his own voice he rejects what he has just said.
9 Claudia Gorbman coined the expression in «Teaching the Soundtrack», Quarterly Review of Film Studies (November 1976), pp. 446-452. For a very useful
essay that expands on her taxonomy see Mladen Milicevic, Film sound beyond
reality: Subjective sound in narrative cinema, 25 July 2009, <http://filmsound.
org/articles/beyond.htm#jedan>.
64
***
One might further argue that this film is a disquisition on the creative
process, but that is a topic for some other occasion. The topic of this
essay is Germi’s Divorce Italian Style: On the Firing Line between
Omertà and Civil Society. Before I proceed I have to define my terms.
When I speak of the Firing Line in this context, I am borrowing the
expression from Pasolini’s “Cinema Impopolare” (1970)10. In that
essay Pasolini writes that art is valid only when it is revolutionary,
that is, when the artists are on the firing line, sadomasochistically
breaking the laws of the system within which they operate. Thus,
Pasolini rejected both traditional and avant-garde cinemas. Both, he
argued, are consumer products since neither challenges its respective
public.
As for Omertà and Civil Society, without getting too bogged down
in anthropology and sociology, the more widely accepted and continuingly evolving theories regarding the development of society are
predicated on the level of technology, communication, and economy
and the manner in which they affect and are affected by social inequality and the role of the state.
(1) Hunter-gatherer bands, which are generally egalitarian;
(2) horticultural/pastoral societies, which are typically tribal
and in which there are generally two inherited social classes,
chief and commoner, as instances of social rank and prestige;
(3) highly stratified structures or chiefdoms, with several inherited social classes: king, noble, freemen, serf, and slave;
(4) civilizations, with complex social hierarchies and organized institutional governments;
(5) virtual societies, societies based on online identity which
are evolving in the information age11.
10 «Nuovi Argomenti» 20 (Oct./Dec. 1970), pp. 166-176. Reprinted in Pier Paolo
Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 273-280. Translated as
The Unpopular Cinema (Pasolini, pp. 267-275). In Heretical Empiricism. Trans.
Ben Lawton and Louise Barnett. Ed. Louise Barnett. Washington, DC, New Academia Publishing, 2005. Rpt. in honor of 30th Anniversary of Pasolini’s murder.
Expanded with Pasolini’s Repudiation of the Trilogy of Life. Trans. and introd.
Ben Lawton. Original ed. Bloomington, Indiana UP, 1988.
11 Among many others see Franz Oppenheimer.
65
Parenthetically, I don’t particularly like the term “civilization” in
this context because it can lead to confusion and misunderstandings
predicated on a belief in the “progress” of civilizations and a rejection
of cultural relativism (Boas). This caveat to the contrary notwithstanding, I think that the notion of cultural evolution, taken cum granu
salis, is helpful for the purposes of my argument.
Regarding Civil Society, while «there is no universally accepted
definition of civil society», it is generally understood as voluntary
participation by average citizens and thus does not include behavior
imposed or even coerced by the state (Hauss). In other words, a civil
society can exist only when citizens agree to submit voluntarily to
democratically chosen laws, that is, when the parti voluntarily submit
their particolare to the interests of the res pubblica (Bruni).
When this voluntary compliance does not occur, regardless of the
laws that are on the books and notwithstanding the power of the state,
all you can have are conditions that range between totalitarian regimes, complete anarchy, and the kleptocracy that has brought about
the recent near collapse of world financial markets.
Given these premises we can return to Sicily. By and large, we
all are acquainted with the history of Trinacria, the three cornered
island. More than any other region of Italy, Sicily was, in the words of
Machiavelli, “stiava et vituperata” [enslaved and humiliated], (Prince
XII). As a result, it did not have its own laws – that is, again, according
to Machiavelli, the premises for the creation of a res pubblica did not
exist. In short, it remained blocked somewhere around the chiefdom
level of society. Chiefdoms frequently retain some characteristics of
tribal societies, characteristics that were already well established and
described in biblical times. These societies were essentially extended
families ruled by a patriarch. In these societies the honor of the family
was and is of paramount importance. Why? In a civil society, that is,
a society predicated on voluntary compliance with laws, the citizen
must cede willingly the monopoly on violence to the state which must,
in turn, protect its citizens. In a tribal society, where there is no state to
protect the individual, transgressions against the family and its members cannot be tolerated. No slight, however trivial, can be forgiven.
Hence, the obsession with “honor” (about which more shortly).
In Divorce Italian Style this obsession with honor is presented
as ludicrous and uncivilized. And, in a sense, this is correct because
66
Sicily had, at least in theory, been on the road to becoming a civil
society at least since the notorious plebiscite of 1860. But, as we also
all know, Sicily was not entirely a civil society for many reasons, one
among which is that, at least in the view of many Sicilians, Italy was
merely another in a long list of invaders. Thus, at least in part, Sicily
continued to be a society with tribal characteristics in which, because
of the abdication of its responsibilities by the Italian state, the people
have all too frequently adopted the Mafia as a de facto alternative
government12. After the murders of Falcone and Borsellino, the Italian government finally became more actively involved in the war
against the Mafia. One result was the arrest of Toto Riina, the Cosa
Nostra “boss of bosses” in January 1993. The Mafia reacted furiously
and violently engaging in terrorist attacks against tourist attractions
in Florence, Milan, and Rome that left 10 dead and 93 wounded. The
retaliatory direct attack by the Italian state seemed to force the Mafia
to retreat and, according to some, to be vanquished. What actually
happened was that when Bernardo Provenzano inherited the leadership mantle of Cosa Nostra in 1995, he renounced Riina’s violent
methods and like an octopus13, had the Mafia disappear into the cracks
and crevices of Italian society and go back to its principal activity:
making money, once again in collusion with representatives of the
Italian government and industry at virtually all levels. The new policy
is described by the Mafia boss Tano Cariddi in La Piovra 10:
Non serve più fare la guerra allo Stato. Basta usare le leggi
12 This tendency has been discussed in a variety of films ranging from Francesco Rosi’s Salvatore Giuliano, to Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito
nell’onore (1972), to Roberto Faenza’s Alla luce del sole (2005). The losing
struggle by Sicilians to free their island from the tentacles of the piovra (octopus) is narrated in any number of films and television shows, ranging from Un
uomo da bruciare (Valentino Orsini, 1962), Cento giorni a Palermo (Giuseppe
Ferrara, 1984), Giovanni Falcone (Giuseppe Ferrara, 1993), Il giudice ragazzino
(Alessandro Di Robillant, 1994), Cadaveri eccellenti (1999), Placido Rizzotto
(Pasquale Scimeca, 2000), to I cento passi (Marco Tullio Giordana, 2000), L’attentatuni (Claudio Bonivento, 2001), and Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò
Cosa Nostra (Andrea e Antonio Frazzi, 2006).
13 The Mafia in Italy is also called “la piovra” (the octopus), both because its tentacles seem to reach everywhere and because it has the ability to hide in virtually
invisible crevices. One of the most popular and long lasting Italian television
series, was called, La Piovra (Damiano Damiani,1984; Florestano Vancini, 1986;
Luigi Perelli, 1987-95; Giacomo Battiato, 1997-98; Luigi Perelli, 2001).
67
che ci sono e costringere il potere centrale a farne delle nuove
su misura per noi e per i nostri interessi. Non più meschine
velleità di separatismi intrisi di bassa politica e di modesto
affarismo, ma reale autonomia da ogni potere, che ci consenta di diventare il territorio più intoccabile del nuovo potere
finanziario, la capitale della nuova economia. [It is no longer
necessary to make war against the State. It is enough to use
the existing laws and force the central power to pass new ones
made to order for us and for our interests. No more pathetic ambitions of autonomy, drenched in low class politics and
cheap and unscrupulous profiteering, but real autonomy from
all powers, which consents that we become the most untouchable terriroty of the new financial power, the capital of the
new economy]14.
This is precisely the indictment issued by writer/director/producer
Salvatore Fronio, in his Vota Provenzano (2007), the documentary of
the fictional 2006 electoral campaign of Mafia boss, Bernardo Provenzano15. The filmmakers follow the fictional campaign as it proceeds from Palermo to Naples and Torino, observing the reactions
of authorities and ordinary citizens. It also focuses on products (primarily clothing) that exploit the marketing value of what might be
described as “Mafia chic”. In a bitter and ironic “j’accuse” on the
film’s web page entitled “The Mafia has been defeated. The Mafia has
won”, the director writes that association with the Mafia is no longer
detrimental to politicians or industrialists; on the contrary, if anything,
working with the Mafia now is a convenience which only foolish and
impractical persons would reject. He concludes by writing, «The only
way to fight it is to imitate it. Welcome to the twenty-first century. The
Mafia has been defeated. Hurrah for the Mafia!» (Fronio)16.
14 12 Sep. 2009, <http://it.wikipedia.org/wiki/La_Piovra_10>.
15 Translation mine.
16 Interestingly, according to, among many others, Jeff Sharlet in The Family: The
Secret Fundamentalism at the Heart of American Power (New York, Harper
Collins, 2008), the members of the secretive fundamentalist Christian organization, also known as The Fellowship, describe themselves as the Christian Mafia.
See also: 12 Sep. 2009, <http://www.youtube.com/watch?v=n3npWdChcGo>;
<http://www.harpers.org/archive/2009/07/hbc-90005375>; 12 Sep. 2009. <http://
www.insider-magazine.com/ChristianMafia.htm>.
68
***
I have repeatedly used the term “honor”, without defining it. What do
we mean by honor? Avvocato De Marzi, the lawyer of Mariannina
Terranova, the “concubine” accused of murdering her philandering
boyfriend, tells the court that Niccolò Tommaseo, in his monumental dictionary of the Italian language, defines honor as “The moral
and civic attributes that render a man respectable and respected in
the society in which he lives” (Moscon and Germi, p. 83). While
this definition does serve to convey the common understanding
of this concept in civil societies, it is not the meaning of honor in
tribal societies. In tribal societies honor is, essentially, a synonym
for respect. But how are we to understand their concept of respect?
Don Ciccio Matara, he of the mysterious and dangerous [Mafia]17
friendships, tells Don Ferdinando at the funeral of Don Calogero
(Ugo Torrente)18, «la vostra famiglia… “era” [emphasis in the original] una famiglia onorata… Tutto il paese aspetta…», [yours was
a respected family … all the town is waiting…] (p. 145). Now that
he has become cucolded, it is no longer such. In order to regain that
respect and honor he must exact revenge. Respect, in other words,
does not mean admiration predicated on attributes and actions sanctioned by law-abiding society, it means fear. It means not allowing
transgressions against one’s person or property. Where there are no
laws, no fines, and no jails, punishment for transgressions will inevitably take more violently drastic forms – hence the disproportionally high rate of homicide in Sicily. Gian Antonio Stella, L’Orda:
17 For the etymology of the word “mafia,” see Paola Ivaldi, Le origini della parola
“mafia”, dalla sua prima attestazione fino all'ingresso definitivo nel vocabolario
italiano, 12 Sep. 2009, <http://fc.retecivica.milano.it/Rete%20Civica%20di%20
Milano/le%20Associazioni/Libera/mafia%20oggi/%231328727?WasRead=1>,
and Ben Lawton, Mafia Word Origins, 12 Sep. 2009, <http://sicilianculture.com/
mafia/mafiawords.htm>.
18 Calogero is a fairly common Sicilian name. Perhaps because it was the given
name of a man who was considered by many to be the original “boss of all the
bosses” of the Mafia, Don Calogero Vizzini, or perhaps because it sounds so
“Sicilian” to “continentals,” any number of on screen mafiosi and Mafia bosses
have been called Calogero. Among the more memorable are Don Calogero Sedara, in Luchino Visconti’s The Leopard and Don Calogero Tricarico in Lina Wertmuller’s Mimi metallurgico ferito nell’onore. For many more see 12 Sep. 2009,
<http://www.imdb.com/find?s=char&q=calogero&x=0&y=0>.
69
quando gli albanesi eravamo noi (The Horde: When We Were the
Albanese, 2003) states that the murder rate was 46.9 per 100 thousand in Palermo versus 3.0 in Milan in 1881 (p. 304)19. According to
Enrico Giacovelli, at the time of the making of the film in the South
there were approximately 1600 crimes of honor a year, roughly 4 a
day. By comparison, he writes, the crimes of the Mafia were a joke
(p. 77).
Commonly understood as the code of silence, omertà actually
refers to a code of manliness (omu, hombredad) of which the code
of silence is merely one manifestation20. It implies «the categorical
prohibition of cooperation with state authorities or reliance on its services, even when one has been victim of a crime» (Paoli, p. 109).
The following, more contemporary, expanded definition of the code
of omertà is helpful:
Whoever appeals to the law against his fellow man is either a
fool or a coward. Whoever cannot take care of himself without
police protection is both. It is as cowardly to betray an offender to justice, even though his offences be against yourself,
as it is not to avenge an injury by violence. It is dastardly and
contemptible in a wounded man to betray the name of his
assailant, because if he recovers, he must naturally expect to
take vengeance himself (Porello, p. 23).
This code is in effect wherever civil society does not exist, from
Afghanistan, to Appalachia, to inner city USA where it is manifested
in the proscription against “dissing”, that is, of disrespecting.
A second related meaning of honor in tribal societies exists in relation to women. Tommaseo, writes: «Parlandosi di donna, vale Pudicizia, Castità» [Speaking of women, it means modesty, chastity] (p.
611). He then goes on to give examples:
19 Unfortunately this important work has not been translate into English. The title,
L’Orda: quando gli albanesi eravamo noi, compares Italian emigrants around the
world to the recent Albanese immigrants into Italy who are perceived and stereotyped all too often by Italians as a sort of devastating, criminal Mongol horde.
20 The theory that omertà originates from umiltà was already discarded by the first
Antimafia Commission of the Italian parliament in the 1970s, which traces the
origin to omu. See: Relazione conclusiva, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Rome, 1976, p. 10.
70
Ma trattosi egli le mentite spoglie … l’onor suo le toglie» [But,
having removed the deceitful mask … he took her honor]. (p.
611). [Ovid, Metamorphoses, 2-144].
Martire dell’onore, e della fede marital salisti, Casta Lucrezia,
ad eternarti in cielo [Martyr for honor and for marital fidelity,
you ascended, Chaste Lucretia, to become eternal in heavan].
(p. 612). [Francesco Redi, Opere. 1778, p. 173].
Filomena di Pregne era sorella. E fu che di Tereo data alla
fede, Ei le tolse l’onor d’ogni donzella a viva forza [Filomena
was Pregne’s sister. And so it happened that given into the
custody of Tereo, he forcefully took the honor of any maiden].
(p. 612). [Gabriello Chiabrera, Rime.1808. No page.]
How is a man’s honor, understood as respect in the tribal sense, connected with a woman’s honor understood as chastity? According to
Maurice Godelier and Jack Goody, with different nuances, the major
difference between our closest biological relatives (chimanzees and
bonobo) is the parental role assumed by human males, (Godelier; Goody). With the evolution from more egalitarian hunter gatherer societies
to the more hierarchical tribal and chiefdom societies women became a
means of increasing the size, power, and wealth of the extended family/
tribe, chiefdom, or feud. With the awareness of the paternal connection
with children, the chastity of women acquired importance for at least
two reasons: One, it insured that the children one raises were one’s
own. Two, chaste daughters had greater exchange value in what has
been described as the formation of intergroup alliances through marital
arrangements (Lévi-Strauss; Johnson and Earle). In short, the chastity
of women had a concrete market value. If taken by someone else (rape),
it was the equivalent of any other theft and or pillage and thus had to
be punished like any other manifestation of disrespect. If it was given
away willingly, it was essentially a destruction of paternal property, and
thus also disrespect, and had to be punished accordingly. Why women
came allegedly to identify chastity with honor is a question for another
time. One can understand that they might well treasure something that
is valued by the family. But why commit suicide (see Lucrezia) or prefer to be killed (Maria Goretti)21.
21 In 508 B.C.E., Lucretia, wife of consul Lucius Tarquinius Collatinus, was raped
by Sextus Tarquinius, son of Lucius Tarquinius Superbus, king of Rome. After
71
In the first case, there are at least two possibilities: one, the identification with the values of the father/husband is complete; two, it might
have seemed preferable to kill oneself in a manner of one’s choosing
rather than be murdered more brutally and painfully by one’s kinfolk.
Parenthetically, this is still very much a contemporary tragedy. Whether it is legally sanctioned by the Koran and Sharia is the object of
considerable debate, but there is no question that an estimated 5000
women are murdered around the world by family members for behavior that is considered to shame the family, including rape – and not
just in the Middle East22. The most bizarre instance I found concerned
a «51 year old Iraqi woman Samira Jassim, who confessed to Iraqi
police that she organized the rapes [of numerous women] so she could
later persuade each of them that to become a suicide bomber was the
only way to escape their shame»23.
The notion that rape, while obviously traumatic, is somehow a fate
worse than death seems inconceivable today. The idea that somehow
it causes a dishonor to the family of the victim boggles the mind,
and yet when I was in grade school no one suggested that there was
anything irrational about the choices of Lucrezia and Maria Goretti. In fact, they were presented as admirable role models on a par
with Patroclus, Hector, Muzio Scevola, Pietro Micca, Carlo Pisacane and the “300 giovani e forti”24. The importance of chastity and
asking her relatives to avenge her, Lucretia killed herself in their presence with
a dagger. The result was the overthrow of the monarchy, the expulsion of the
Tarquinii family, and the foundation of the Roman republic. On July 6, 1902
eleven year old Maria Goretti was murdered by 20 year old Alessandro Serenelli
because she refused to allow him to have sex with her because she believed it to
be a mortal sin. On June 24, 1950 she was declared a “saint” by Pope Pius XII,
thus becoming the youngest officially recognized saint ever.
22 “A Human Rights and Health Priority”. United Nations Population Fund, 8
Aug. 2009, <http://www.unfpa.org/swp/2000/english/ch03.html>. Retrieved on
2009-08-08.
23 Among the various sources for this see: 12 Sep. 2009, <http://www.news.com.
au/story/0,27574,25006101-401,00.html> and <http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/7869570.stm>.
24 The willingness to lay down one’s life for one’s friends (John 15:13) or for
one’s country (dulce et decorum est pro patria mori: Horace’s Odes (III, 2.13)
has always been considered the acme of human nobility. In Italian grade and
middle school these lessons were reiterated regularly with examples taken from
the past: Patroclus, who by donning Achilles’ arms to reinvigorate the flagging
Greek forces went off to certain death in battle. Hector, who left the safety of
the Trojan walls and his loving wife and child to face Achilles, enraged because
72
its economic implications are addressed explicitly in Divorce Italian
Style. Angela’s (Stefania Sandrelli) father, Don Calogero concerned
because he has become convinced, incorrectly, that his daughter has
a lover, has her examined by the midwife, and subsequently, concerned about her reliability as protector of her own honor, decides to
marry her off to a wealthy unknown against her wishes. In case we
had somehow misconstrued his concerns and his intent, Germi has
Don Gaetano Cefalù (Odardo Spadaro) say, «Mascalzone! Per soldi
la vuole sposare… Si vuole strafogare di denaro!… Speculatore!!!!»
[You scoundrel! He wants to marry her for money… he wants to gorge himself on money!… Profiteer!!! (p. 111). In the script, he adds,
«Ma che schifo che mi fai» [You disgust me] (p. 111).
As Don Ferdinando tells us after Rosalia’s flight has been discovered, and as we watch Sisina’s (Margherita Girelli) father remove her
from the household of the cornuto contento [happy cuckold]25, dishonor contaminates everyone in «casa Cefalù, diretti titolari e indiretti,
discendenti e future… insomma proprio tutti quanti, inclusa la serva»
[Cefalù houhold, direct and indirect members, descendants and future… in short, absolutely everyone, including the maid] (p. 139). In
short, the town of Agramonte believes firmly in the values of omertà
and everyone participates voluntarily in reinforcing them, from the
priest to the members of the communist party, to the senders of anonymous letters, to, eventually, the local Mafia. But Agramonte is not
completely buried in medieval mire. Both Mariannina Terranova, and
Immacolata Patanè (uncredited) kill their respective men to avenge
the insult to their honor. This is progress, slow progress perhaps, but
progress nevertheless because it implies that there is a certain reciof the death of Patroclus. Pietro Micca, a Piedmontese soldier who, in 1706,
to save the city of Turin from the invading French who had tunneled under the
walls of the city, blew up the tunnel, the French, and himself; Carlo Pisacane,
anarchist and revolutionary, attempted to liberate the peasants of the Kingdom of
Naples In 1857; he and his 300 companions (the figure was inflated in emulation
of the Spartans at Thermopylae) were butchered by local peasants convinced
by Bourbon authorities and local priests that they were bandits. Their deeds are
remembered in a poem by Luigi Mercatini [«They were 300, they were young
and strong, and they are dead…», trans. mine] that we were required to memorize
with little or no understanding of the real issues involved.
25 Agnese, Don Ferdinando’s sister, screams this, the ultimate insult in a male chauvinist society, at her brother, when he fails to avenge the honor of their family and
thus destroys her planned marriage.
73
procity of rights and duties. Woman is no longer simply chattel. To
get a sense of the extent of this progress, imagine a Taliban woman
remonstrating against her husband for any reason, much less killing
him. Another step in the long and slow progress towards becoming a
civil society has taken place in Agramonte. There are laws, expressed
in the penal code; there are policemen and a justice system in which,
the film tells us, however ironically, «la legge è uguale per tutti» [the
law is equal for everyone].
Don Ferdinando, who is a lawyer, albeit not a practicing one,
knows enough about the law to find in the Codice Rocco the article
587 which concerns the “crime of honor”. It reads:
chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della
sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor
suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette
anni [whosever causes the death of the spouse, the daughter or
the sister, at the moment of discovering the their illegitimate
carnal relationship or because of the fury caused by the offense caused to his honor or that of the family, is punished by
incarceration of from three to seven years]. (p. 84)26
Once again Germi takes liberties with reality to make his thesis even
clearer. Unlike the preceding Zanardelli code, the Rocco code did
not require that the illegitimate lovers be caught in flagranza [in the
act]. It was enough that their relationship be discovered27. But, for
the purposes of the film, Don Ferdinando feels that he must stress
the “onore offeso” [offended honor] to make up for the flagranza lost
by the elopement of the couple. Don Ferdinando believes neither in
Omertà nor in Civil Society. Caught on the firing line between these
cultures, he manipulates both with complete cynicism to achieve the
object of his desires: Angela.
My students, at least at first, tend to identify with the protagonists
of films – whether they be heroes or anti-heroes. For the most part
it does not occur to them to look critically at what is shown, to perceive that the protagonist is not necessarily a role model, no matter
26 The law went into effect in 1930 and was repealed with law n. 442 of 5 May,
1981.
27 12 Sep. 2009, < http:// www.liberliber.it/biblioteca/g/grande/l_onore/html/art_587.
htm>.
74
how physically attractive or successful. Germi was worried that his
Italian viewers had similar tendencies. To counter this state of affairs
he himself admits to err on the side of clarity where the “sugo di tutta
la storia” [the essence of all the story] is concerned (p. 45). In fact,
he has said that he is «not modern, if that means leaving everything
uncertain, the end of the film uncertain, undefined. Granted [he adds],
life is ambiguous, but I want to give a conclusion to things, a moral»
(p. 45). The moral of Divorce Italian Style, is revealed explicitly in
one of the most brilliant pans in the history of the cinema. After the
wedding, Don Fefe and Angela are on their honeymoon, on a yacht28.
He is dressed casually; she is wearing a bikini; a sailor is steering.
As she comes to lie at Don Ferdinando’s feet, he looks off into the
distance, somewhat fatuously, and we hear his interior monolog: «It’s
really true, life begins at 40». The camera pans down to reveal his
prize: the largely naked body of Angela. It caresses her face, breasts,
belly, legs, feet… and then we watch her begin to play footsie with
the sailor. This last shot in the syntagmatic ordering of the film confirms the epigrammatic wisdom of Yogi Berra when he said: «it ain’t
over till it’s over».
***
Clearly Divorce Italian Style is on the firing line in many ways, from
the quantum leap in the foregrounding of the medium to its content.
The conflict in the latter is perhaps best expressed by avvocato De
Marzi as he begins his peroration in defense of Mariannina Terranova: «Signori della corte… “bocca baciata non perde ventura!”…
Ma io vi dico, parafrasando un testo ben più alto e ben piu sacro,
“chi guarda una donna con desiderio, ha già commesso peccato nel
cuor suo!”» [Gentlemen of the court… “mouth for kisses, was never
the worse!”… But I tell you, paraphrasing a much higher and much
more sacred text, “whoever looks at a woman with desire has already
committed a sin in his heart”] (p. 82). The first quote, as we all know,
is the summation and moral of Boccaccio’s Decameron, day 2, novel
7, which reads:
28 This is stated explicitly in the script of the film.
75
Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta
era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegli credere che così
fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E perciò
si disse: – “Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova
come fa la luna”. [So she, who had lain with eight men, in
all, perhaps, ten thousand times, was bedded with him as a
virgin, and made him believe that a virgin she was, and lived
long and happily with him as his queen: wherefore ’twas said:
– “Mouth, for kisses, was never the worse: like as the moon
reneweth her course”]29.
It is difficult to find a more immanent, progressive vision of relations
between women and men. The second quote, as we also all know,
comes from Jesus’ sermon on the mount (Matthew 5, 27-30), and
concerns not just behavior (“don’t commit adultery”), but the very
surges of those desires which we hide from others and, quite frequently, from ourselves.
Citing Pasolini, I added that Germi was engaging in a sadomasochistic process. How so? Sadistic, obviously, in that the film makes
fun not just of the mores of Sicilians, but of Southern Italians in general and, to an extent, of all Italians. Germi was entirely aware of this.
As an apology of sorts, in his introduction to the script he reiterates
repeatedly his love of Sicily as well as his horror at the crimes committed in the name of “honor”. It is masochistic because, as Pasolini
pointed out, there will be those who condemn the director for washing
dirty laundry in public. Again, in his introduction to the script, Germi
writes of meeting in Catania, the city he calls the Milan of Sicily, a
woman, the proprietor of an household appliances store, a thoroughly
modern enterprise. He tells us that she repeated the old story of the
linen that should not be washed in public30 and accused the cinema
of showing only the ugly aspects of Sicily. «Everything is beautiful
29 12 Sep. 2009, < http://oaks.nvg.org/decameron1.html#2-7>.
30 «I panni sporchi si lavano in famiglia». This sentence, which has become both
famous and notorious in Italy, was allegedly uttered about Vittorio De Sica’s
Bicycle Thieves (1948) by Giulio Andreotti, then Undersecretary of the Presidency of the Ministers in the De Gasperi government. Between 1951 and 1953
he was, among other things, responsible for the supervision of entertainment in
Italy, and in particular, of the cinema. It was he who decided the level of government subsidy predicated on artistic merit for individual films. 12 Sep. 2009, <http://
www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.
html_851085929.html>.
76
here – she said – why do you defame us?” (p. 48). But, lest it be thought that Pasolini was a complete pessimist, also added “the specific
liberty of the spectator consists in ENJOYING THE FREEDOM OF
OTHERS [emphasis in the original] (Heretical Empiricism, p. 269).
Almost as an ante-litteram echo of these thoughts Germi wrote: «Or
che in Sicilia vedranno il film: spero che non si irritino e che Divorzio
all’italiana risvegli un po’ il senso del comico anche in loro. Quando
i siciliani saranno essi pure capaci di sorridere dei propri difetti, come
i genovesi scherzano sulla taccagneria ed i veneziani sulle ciacole,
credo che anche il delitto d’onore avrà i giorni contati» [Now that
they will see the film in Sicily, I hope that they will not be irritated
and that Divorce Italian Style will awken their sense of humor a bit.
When Sicilians will also be able to smile about their own defects, as
the Genoese joke about their stinginess and the Venetians about their
gossiping, I believe that the days of the crime of honor will also be
numbered] (p. 49).
Has that moment arrived? Or, as the reaction to Salvatore Fronio’s
documentary of the Vota Provenzano campaign suggests, is Sicily
still mired in tribal loyalties and Omertà which keep it from finally
fully becoming a Civil Society31?
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2009 <http://www.votaprovenzano.org/>
Germi, Pietro, “Divorce Italian Style: Special Edition of the Film.”
New York, Criterion Collection, 2005.
31 Vota Provenzano, written, edited, and directed by Salvatore Fronio, deserves to
be seen and discussed. It is available at 12 Sep. 2009, <http://www.votaprovenzano.org/>.
77
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78
—, Nuovi Argomenti 20 (Oct./Dec. 1970) 166-176. Reprinted in Pier
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Dizionario della lingua italiana, Torino [etc], Unione tipograficoeditrice.
79
Alan Perry
Giovannino Guareschi and the Italian South
in a Cold War Context
In May of 1960 the Archbishop of Bari, Monsignor Enrico Nicodemo,
successfully blocked the Socialcommunist coalition (Giunta comunale
socialista) of his city from participating in the ceremonial blessing of
the waters during the annual Saint Nicholas celebration. Soon afterwards, both Leftist and Centrist newspapers, based mainly in the South,
criticized the bishop’s action. «L’Unità» said the bishop had behaved
like Don Camillo who tried to prevent Peppone and his men from being
present at the benediction over the Po, and «Il Corriere Meridionale»
accused the bishop of intolerance and incivility (Piantedosi 18)1. But
the journalist behind Don Camillo, Giovannino Guareschi, applauded
Nicodemo’s maneuver in «Candido». In his opinion, Nicodemo had
simply defended the rightful respect due to the Church in making sure
that a religious function did not acquire a political hue – the bishop
had never aimed merely to disparage public officials. Guareschi then
publicly thanked Nicodemo for having honored the Holy Office’s longstanding decree against Communism, since he thought that so many
other prelates of late had ignored the excommunication injunction, thus
unfortunately confusing the faithful with their silence (“La bolla” 1)2.
1 In the tale La processione, first included in a longer story entitled Passa il Giro,
Don Camillo forbids Peppone and his men to march in the procession if they
carry the Communist Party flag. In protest, Peppone’s men menace the entire
town and keep people from joining the sacred rite. Don Camillo strikes out alone,
therefore, followed only by a small dog. When he gets near the Po River, Peppone and his followers attempt to block Don Camillo from proceeding closer
to the waters. But at the sight of the crucifix, they remove their hats, bow their
heads, and make way out of respect so that Don Camillo may pass. French film
director Julien Duvivier captures this moment nicely in Don Camillo (1952), the
first cinematic adaptation of Mondo piccolo.
2 Specifically, Guareschi stated: “[...] ecco il gesto dell’arcivescovo di Bari rendere
impossibile ogni equivoco. La Scomunica, uscita dalla clandestinità, agisce alla
80
Not surprisingly, Guareschi’s position in the Nicodemo affair mirrored his consistent opposition to Communism. The Left had attempted a political maneuver in Bari, and Guareschi commented accordingly. Scholars may be surprised to learn, however, that Guareschi’s
opposition to Communism, in this case, also encapsulates quite nicely
the essence of his particular political posture regarding the South:
that of a geographical area integral to the Italian state whose people,
like all Italians, were susceptible to Communism’s allure. Had the
Nicodemo affair occurred in any other part of Italy, Guareschi likely
would have responded in much the same way. In other words, Guareschi cast his gaze upon the South inclusively: he took stock of its
economic and social concerns as equal to those in other regions.
Guareschi’s Southern stance was disarmingly simple, and, as the
subject of our present inquiry, this theme deserves our attention for
several important reasons. First, such a study permits us to see just
how Guareschi saw the South as vital to Italy’s identity and economy
– Guareschi never sustained the radical notion that the South should
be abandoned or somehow geographically lopped off from the more
productive North. Indeed, the subjective idea itself of distinguishing
the North from the South and Northerners from Southerners seemed
frivolous and unproductive to Guareschi. Second, an analysis of Guareschi’s attitude toward the South allows us to grasp that he did not
see Southerners as somehow intrinsically inferior to Northerners. He
admired Southern culture, and, had he lived into the 1980s, he would
have railed against the platforms of the Lega del Nord. Finally, and
as we have already glimpsed, such an inquiry helps us to appreciate
all the more just how an anti-Communism bent animated the core of
his writing; he couched almost all discussion of the South’s economic
wellbeing in the context of opposition to Communism.
Because most readers know Guareschi as the creator of the Mondo
piccolo, we would do well to begin our survey with a consideration
of Don Camillo stories.
luce del sole. Mentre, da un lato, il diavolo socialcomunisti si veste da frate e,
con pie mossette, cerca il colloquio coi cattolici, dall’altro i cristiano-marxisti,
presi da furore aperturista, assecondano il gioco del diavolo marxista: ci voleva
proprio qualcuno che, da autorevole Sede, parlasse chiaro spiegandosi con un
esempio pratico.” (“La bolla” 1).
81
The South in Mondo piccolo:
Interestingly, of Guareschi’s 346 Mondo piccolo tales, only one story,
“Il Terrone” written in 1961, offers a full depiction of a Southerner.
The vast majority of these stories, of course, focus on the Cold War
adventures undertaken by the feisty priest Don Camillo and Communist mayor Peppone as each tries to win the hearts of their local constituents in the Bassa region of the Emilia-Romagna3. In Il Terrone,
Concetto Delisanti has immigrated to the Bassa and found clandestine
work as a farm hand, helping the landowner Bozzoni till and supervise a large tract of land. Don Camillo likes Concetto: he is affable,
seemingly devout, and a hard worker. After some time on the farm,
it comes to light that Concetto (“Il Terrone”) has had a relationship
with Bozzoni’s daughter Desolina – a woman of immense size and
strength – and she has become pregnant. Desolina wants to marry
him, but Concetto concedes that he already has a family to look after
in the South. Eventually his wife and eleven children come for him,
demanding with theatrical shrieking and wailing that Bozzoni do him
no harm. With Peppone present to ensure good public order, Concetto
manages to extricate himself from the Bozzoni family. Immediately,
he departs by train with his wife and children for the South.
Don Camillo, however, suspects a ruse. For him, some aspects of
this entire affair are shady, and he has a parishioner tail the family
to the Piacenza train station where Concetto gets off and says goodbye to his family that continues to the South. Don Camillo allows
Concetto to settle into a new place and then decides to confront him.
Concetto confesses that he really was not married after all – he had
hired a makeshift family from an employment agency in Milano to
make a huge scene at the Bozzoni farm as a way to rescue him from
3 The “Bassa,” refers to the low lying stretch of land in the Po river valley plain
that, in general terms, runs West to East from Piacenza to the small town of
Brescello, and North to South from the Po river to the Apennine Mountains. As
Guareschi states in his introduction to Don Camillo (1948): “Il Po comincia a
Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale
Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l’Appenino.
[...] il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi
Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra [... ] (Tutto don Camillo vi-vii). In Il compagno Don Camillo, a Communist
delegate from Naples takes part in the tour of the Soviet Union, but this minor
character does not shed any light on how Guareschi viewed the South.
82
his fate with Desolina. He also tells Don Camillo that he has gotten
another woman pregnant but, unlike his experience with Desolina,
he really loves her and wants to marry her. Don Camillo tells him:
«Giovanotto, il tuo sporco gioco è finito: o sposi la poveretta che hai
compromesso o ti vengo a prendere per il collo e ti faccio sposare la
Desolina» (p. 2052). Concetto swears to marry his new flame, and
two months later Don Camillo receives a letter from Naples. Concetto
lets him know that he is on his honeymoon, but that he really did not
have to marry his bride who was never pregnant. He had told this
white lie simply because he did not want Don Camillo to force him to
marry Desolina. In closing, Concetto asks him for a blessing: «Vostro
devotissimo Concetto Delisanti, che implora, come regalo di nozze,
la Vostra Benedizione» (p. 2053) Don Camillo fires off a quick letter
consisting of a single line: «Va a farti benedire!» (p. 2053).
Il Terrone provides light entertainment without moral overtones
that point to any Communist threat, and the tenor of the story is lighthearted. Guareschi does indeed employ several Southern stereotypes
to this story: Concetto is shifty, quick witted, an expert in the arte
di arrangiarsi, and sexually prolific; he is supposedly duplicitous,
promising to marry a woman he has gotten pregnant while he has a
wife and eleven children back in the South. Peppone, struck by the
size of Concetto’s family, alerts the reader to the stereotype that Southern families usually consist of many children. Furthermore, Concetto’s highly emotional wife also plays up a Southern stereotype; she
is a good band-leader who, as a wonderful actress, orchestrates the
pitched cries of her children to recover their father.
The stereotypes, however, do not indict or pillory Southerners in a
vengeful spirit, and neither does Guareschi come across as a bigot. The
comic thrust of this tale does not develop at the expense of any stereotypically Southern fault or shortcoming, but rather in Don Camillo’s
play on words in response to Concetto’s irresponsible behavior. Don
Camillo matches Concetto’s fertile imagination that allows him to get
out of a sticky situation by basically telling him to go to hell through
a blessing that Concetto himself has requested. Guareschi prizes the
comic power of the double entendre of this tale and not the stereotypes.
Having considered this tale let us now turn our attention to Guareschi’s military training, an occasion that gave him his only direct
experience of the South4.
4 As numerous sociologists and historians have indicated, the notion of “the South”
83
Guareschi’s Sojourn in Potenza
Guareschi grew up in the heartland of the Po river valley in the EmiliaRomagna. Since his family was relatively poor, he did not venture
away from home until he became a newspaper correspondent when he
traveled to Marina di Massa in Tuscany to cover two University Fascist Group (GUF) camping expeditions in 1931 and 19325. Two years
later, he journeyed much farther South, this time to Potenza where
he attended Officer’s Candidate School (Scuola Allievi Ufficiali) from
November 1934 to May 1935 when, toting his Voigtländer camera, he
captured several images of the people and local surroundings of Potenza and Melfi. Later, he placed many of the photographs he had taken in
an album, and he wrote short descriptions about the images either on
the photos themselves or directly underneath them. Guareschi’s children published these pictures in 2000 with Rizzoli’s Un po’ per gioco.
Fotoappuunti di Giovannino Guareschi.
The images indicate that the dress and habits of the local villagers touched him: he took several shots of children at play in
cobble-stoned piazzas, women washing clothes or drawing water
in traditional costume, groups of young and old Southerners lining up against sunlit walls to stay warm, orphans dressed alike who
gave the Fascist salute, and shepherds who wore full-length capes
(tabarri). The poverty of Basilicata’s residents undoubtedly struck
him and added to his nostalgia for home. For example, on the back
of one photograph of Potenza’s Modern Hotel that shows its modest
entrance blocked by a small, horse-drawn buggy he wrote: «Vedi? È
supremamente molto bello / Il ‘Gran Modern Hotel’ di Pecoriello...
/La limousine che c’è ferma dinnante /non ti par d’una grazia affascinante?/Ebbene, questa gran magnificenza/è la cosa più bella di
Potenza!/Ti spieghi quindi ben perché io adesso/Pensi con nostalgia
a bordo del Gesso!»
is subjective. Readers may find a good essay on this point with John Dickie’s
“Imagined Italies” in Italian Cultural Studies: An Introduction (1996). From all
that I gather in evaluating his newspaper articles, Guareschi understood the South
to include the islands of Sicily and Sardinia and those regions located primarily
to the South of Lazio: Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, and Campania.
5 He reported on these events for the Corriere Emiliano with “24 ore coi gogliardi
Parmensi a Marina di Massa” (1931) and “Quando piove sul bivacco dei gogliardi” (1932). Several photographs of festive dinners under large maritime pine
trees accompanied his articles.
84
Unfortunately, neither his girlfriend and future wife Ennia nor his
family members saved any of his written correspondence from this
period of time. If these documents were available, we could possibly
have an excellent window onto his personal reaction to Southerners;
however, these letters simply are not included in the vast personal
material of his archive. Thus, to comprehend Guareschi’s impressions
of the South obtained via his military training, we have to examine
carefully the captions that he used to describe his photographs and
engage in good visual analysis6. Beyond these pictures, however, the
earliest critical material that we have to surmise how Guareschi took
stock of the South comes through two short fables, one written at the
end of World War II while Guareschi was still in Sanbostel, Germany
as a newly liberated Prisoner of War, and another published two years
after his return to Italy.
Impressions of the South in Light of Reconstruction
The English Army liberated Guareschi and his compatriots in April
1945 but forced them to remain in their Prisoner of War camp until
proper means could be established to repatriate them7. During the
following weeks, life grew tense for the former inmates because it
seemed that family, loved ones, and Italians in general had forgotten
them. Homesickness became increasingly more difficult to overcome,
and certain political agitators within the camp helped to whip up trouble and dissent for their officers. Even a criminal element had grown
in size: a few soldiers turned into petty hoodlums and spent their time
stealing.
6 Guareschi also traveled with Ennia to Assisi in 1955 upon completion of his
prison sentence in order to recharge spiritually and physically. In 1963 he spent
several weeks alone in Rome to splice and edit newsreel footage that he used
for his film La rabbia. He did not leave behind any personal impressions of
Umbrians or Romans that offer insight to how he took stock of cultural habits of
Italians from different geographical areas than his own.
7 The Germans had captured Guareschi in Alessandria on 9 Sep. 1943 after he had
been recalled to active duty several months earlier. He refused to swear allegiance
to the Third Reich and later to the Republic of Salò and spent the next twenty-one
months interned in Germany and Poland. For more on this experience he shared
with more than five thousand former Italian soldiers, see Schreiber’s I militari
italiani internati nei Campi di Concentramento del Terzo Reich 1943-1945.
85
Having to face these conditions, Guareschi decided to allay tensions through entertainment in the form of radio broadcasts.He and
a few friends founded “Radio B90” in his barracks. They set up a
transmitter and placed loudspeakers throughout the camp, and then
Guareschi provided everyone an initial program of story telling, sharing humorous political commentary, letter reading, and performing
skits. As Guareschi recalled:
I programmi erano congegnati piuttosto bene perché comprendevano rapide chiacchierate orientative composte sulla base
di notizie captate attraverso la radio, piccola posta, scenette e
raccontini umoristici, le canzoni del Lager eccetera. [...] Naturalmente Radio B90, che parlava con la voce del buonsenso ed
era da tutti ascoltata, dava un tremendo fastidio agli agitatori
[...] i quali aspettavano avidamente l’occasione per crearci dei
guai. (“La Radio B90” p. 241)
That moment unfortunately came when one of the radio commentators, Lieutenant Ravaglioli, expressed an opinion concerning the
need for greater economic commerce and communication between
the North and South.
Ravaglioli’s words seem harmless enough, but we have to keep
in mind that the agitators were simply looking for an excuse to feign
offense and thus have reason to cause trouble. Here is what he said:
Il destino unitario dell’Italia esce riconfermato dalla crisi: il
Nord e il Sud hanno sofferto troppo per la reciproca mancanza. La penisola e le isole oltre che sede di un popolo che parla
la stessa lingua, sono un solo ambito economico produttivo,
un solo mercato, un solo deposito di stimoli e di idee.
Eppure il cordone allacciamento Nord-Sud non fluisce scorrevolmente. Noi stessi siamo stati testimoni di due modi di
procedere, di due temperamenti, di due ritmi diversi fra i
differenti gruppi di regioni. Memore di un’altra rivoluzione
che era stata fermata a Teano, il Meridione avrebbe dovuto
rispiegare la bandiera del Risorgimento approntando idée e
uomini onde affrancare generosamente le città settentrionali,
oppresse dal tedesco, ma due anni passarono e non sorsero
i Carnet dell’organizzazione e i trascinatori. La rivoluzione, stava invece, ancora una volta, in attesa fra Alpi e Reno,
riconfermandosi peculiare energia del settentrione. Non
86
dovremo però fare che questi due anni di inerzia siano titolo
di condanna: per noi equivalgono piuttosto all’acuto sintomo
di un male che va assolutamente risanato. Mettere a profitto terra e uomini, svegliare il traffico, iniettare la febbre alle
intelligenze, portare cioè le forze del meridione dalla potenza
all’atto. Se fosse possibile ordinare in gerarchia i problemi
della ricostruzione italiana, diremmo che questo è il principale. (“Ravaglioli” n.pag.)
Southern agitators in the camp pounced on this transmission, using it
to create further discord. They affixed a large poster on the entrance
door to Radio B90’s transmission station that read:
Cara Radio B90, per vostra buona norma trascriviamo quanto
i meridionali desiderano far conoscere al signor Ravaglioli.
Meridionali! Un microcefalo oratore da strapazzo della Radio
B90 ha usato verso di noi parole non benevole e considerazioni quanto mai offensive alla nostra dignità di italiani, alla
nostra indiscussa sensibilità di meridionali.
Fin quando detto signore non farà alla detta radio le dovete
scuse riconoscendo pienamente la sua profonda ignoranza del
Meridione e sui fatti che si sono susseguiti dal settembre 1943
in poi, noi pretendiamo che detta radio cessi la sua attività:
in caso contrario provvederemo di conseguenza.” (“La Radio
B90” p. 242)
What specifically the agitators found offensive with Ravaglioli’s
harmless transmission calling Southerns and Northerners to collaborate together remains unclear. But, the protestors showed up in
large numbers at the radio barracks and clamored to burn it down.
As Guareschi relates: «In prima fila i “civili” autoelettisi difensori
del Sud armati di bastoni e di grosse latte vuote decisi a impedire la
trasmissione e a distruggere la baracca. Dietro, gli altri ospiti del campo venuti parte per difenderci, parte per vedere come ce la saremmo
cavata e parte per assistere all’incendio della baracca». (“La Radio
B90” pp. 242-243).
Guareschi seized the occasion to calm everyone’s nerves. Having frequently read stories and vignettes to his fellow inmates during
the war as a form of entertainment, he naturally felt inclined to tell
those assembled a fable about the need for true cooperation between
87
Northerners and Southerners because they were all Italians8. Here is
the short fable I cavalli e il carro in full:
C’erano una volta due cavalli che si riposavano in un praticello. A un tratto uno dei due sospirò:
– Che vitaccia fare il cavallo! –
L’altro cavallo che era molto suscettibile drizzò le orecchie:
– Ci risiamo! – esclamò – Vuoi dire che fai tutto tue e che io
non faccio niente –
Il primo cavallo non voleva dire questo ma incominciò subito il litigio e i due turbolenti personaggi vennero presto alle
mani, anzi: agli zoccoli.
– Non è il caso che vi scaldiate così – osservò un gufo saggio
che stanziava nei paraggi.
– Possiamo fare quello che vogliamo, adesso – urlarono i due
cavalli – Siamo liberi! –
Il gufo sogghignò:
– E tutte quelle cinghie che vi fasciano il corpo? E quel morso
che avete in bocca e quelle stanghe che avete ai fianchi e quel
carro che avete dietro? –
I due cavalli rimasero un po’ male perché si erano dimenticati
di essere aggiogati a un carro. Poi si ripresero e gridarono:
– Va bene! Però sul carro non c’è più nessuno che ci prenda
a legnate. Il padrone è ruzzolato giù nel burrone. Spezzeremo
anche questi finimenti! –
In quel momento arrivò sulla groppa dei due cavalli una robusta frustrata e allora essi si volsero e videro che, sul carro, al
8 To help him survive life in the German Lagers, Guareschi had kept a daily log
of his emotions and experiences as well as a diary in which he jotted down his
attempts to come to terms with various experiences of prison life. After he had
elaborated his thoughts, he would share these reflections in public as a form of
entertainment in attempts to raise morale. He spoke about everything from hunger and longing to see his children to his conception of humor. Often the shape of
his creative resistance took the form of fanciful tales or fables. One of his fellow
prisoners, Claudio Sommaruga reflected after the war: “Giovannino Guareschi,
con le sue battute, teneva alto il nostro morale a pezzi e difendeva, serissimo,
l’inseparabile bicicletta, da un teutone privo di senso dell’umorismo che tentava di convincerlo della inopportunità di questa esportazione (“Meglio morti che
schiavi” 202). Because of Guareschi’s skill at storytelling, former internees who
lived with Guareschi in the camps have called him the “cantore collettivo” of
their travails (Nello 44). Guareschi published several of his tales and speeches
in his Diario Clandestino (1947), and Guareschi’s children published others in
Ritorno alla base (1989).
88
posto dell’antico padrone, c’era una bellissima donna vestita
di rosso, di bianco e di verde e con una stella in fronte.
– Avanti! – disse la bella signora – Muoviamoci che dobbiamo
portare i mattoni per ricostruire la casa! –
E allora i due cavalli si rimisero in cammino e conclusero
sospirando che è un mestieraccio fare il cavallo.
Proprio così: è faticoso fare gli italiani, amici miei, e il carro
bisogna tirarlo tutt’e due in modo uguale e bisogna studiar di
prendere la strada migliore, quella più breve e meno faticosa.
Non occorre mettersi a litigare per mettersi d’accordo sulla
strada da prendere.
La favoletta è finita: speriamo adesso che il sindacato dei
cavalli non insorga per dire che ho offeso i cavalli confrontandoli agli italiani.
E questo mi preoccupa perché – se incominciamo a litigare
così fra i reticolati – i cavalli avrebbero ragione. (“La Radio
B90” pp. 243-244)
Everyone readily understood the moral of the story: the North and the
South, as parts, were both equals, and they had to collaborate quite
well together in order for Italy as a whole to move forward. The fable
and allegory struck its point, and the agitators quieted down and left
peacefully.
Since Guareschi had forced everyone to reflect and use reason,
he effectively disarmed the dissenters. Twenty years later, he humorously wondered if nothing violent occurred after he had told his fable
because both Southerners and Northerners believed that, in reality
they were the horse, while their geographical cousins represented the
donkey. As he said: «E avevano ragione tutti, in definitiva, perché
aggiogati al carro dell’Italia, ci sono due cavalli che, troppo spesso, si
comportano come due asini» (p. 244).
Two years later Guareschi nicely provided an echo to I cavalli e il
carro with I punti cardinali sono sei published in Italia provvisoria,
an album that contains vignettes, stories, and newspaper clippings
of many different facets of Italian cultural life in the dopoguerra –
the black market, deep seated suspicions for former fascists, banditry,
vendettas born out of the civil war, and the growing Communist menace. If I cavalli e il carro speaks to regional equality and the need for
Northern and Southern unity, I punti cardinali sono sei addresses the
subjectivity of regional identification.
89
Fijlaos, a foreigner who makes his home near the North Pole, decides to visit Italy. He arrives in Milan and, since it is a hot, beautiful
day, tells a headwaiter in a restaurant that as meridionali, they are
very fortunate because of the weather. The waiter quickly corrects
Signor Fijlaos, informing him that he is in the North, and that Milan
is the capital of the Settentrione.
In Florence, Signor Fijlaos, takes a ride in a horse-drawn carriage,
and, also impressed by the good weather there, informs the coachman: «Beati voi meridionali». The coachman quickly turns around
and exclaims that they are in Florence and «se i punti cardinali non
sono una buggeratura, Firenze è nel settentrione» (p. 93).
Signor Fijlaos continues on to Rome, and here too he could not
contain from voicing his wonder at all of the marvelous ruins. He tells
his tour guide that he should thank God for being a Southerner and
able to have all of these attractions. But the guide, shocked at what he
hears, stops in his tracks, grievously offended, and he informs Signor
Fijlaos that he needed to get a new guide «perché lui con certa gente
non si voleva compromettere» (p. 92).
Finally, Signor Fijlaos makes it to Messina, gets off the train and
has a porter carry his baggage. Since here too natural wonders abound,
he just has to interject, «Come vi invidio, voi meridionali!». But the
porter quite emphatically explodes, «qui mica siamo a Catania! Qui
siamo nel settentrione!» (p. 93).
Traveling to Catania, he thinks that he finally has it right but is
told that Catania too was in the North and that he should not be confused with Capo Passero. Continuing on then to Capo Passero, the
Southern most point in Sicily, the lets a barber know how lucky he is
to be from the North. The barber, of course, grows indignant at such
a suggestion, and tells him: «Signore mio: noi siamo meridionali e ce
ne vantiamo!» (p. 93).
Working his way by boat back up the peninsula, Signor Fijlaos
keeps quiet with other passengers until he arrives in Naples, and realizing the number of kilometers he has traveled from Catania, he happily exclaims to the captain, «Voi settentrionali siete della gente privilegiata!» (p. 93); however, he hears this heated response: «Napoli è la
capitale del meridione! … E chi lo nega è un figlio di malafemmina!»
(p. 93).
At that point, Signor Fijlaos promises himself that he will not say
another word about his presumed geographical location until he arri-
90
ves at Monte Bianco. But, upon climbing the slopes of the mountain,
his guide begins to make small talk to him: «Vede, signore, a differenza di voi settentrionali, noi meridionali...» (p. 93).
So, when Signor Fijlaos gets back to his North Pole home, his fellow townspeople ask him to relate what Italy was like, and he responds: «L’Italia è un paese complicato perché là i punti cardinali sono
sei: un est, un ovest, due nord e due sud.» (p. 93).
The moral of this tale is also easy enough to comprehend. Through
humor, Guareschi tells us that the distinction between the North and
South geographically is quite subjective and, ultimately, makes no
sense, or, that it should make no sense and not really matter to Italians
at all. Some Southerners are indignant that they could be meridionali while others are not, and a Northerner calls himself a Southerner
since he recognizes that Signor Fijlaos comes from more northern
climes. When it comes to reconstituting a strong nation, geographical
considerations thus bear little weight.
As all of these tales illustrate, Guareschi saw the South and Southerners as a vital part of the young, post-Fascist Italian nation, and
he thought that regional distinctions between the North and the South
were absurd. For Guareschi, Italian identity and collaboration for the
good of the nation claimed primacy. Regional distinctions were relative and should mean little to Italians throughout the peninsula. As we
will see, in «Candido», Guareschi held that a strong national collaboration could best thwart the spread of Communism.
«Candido» and the Need for a Vital South
A little more than six months after he had been liberated at the end of
World War II, and at Angelo Rizzoli’s behest, Guareschi founded «Candido», a new weekly satirical newspaper with a political focus9. The
9 The satirical newspaper’s success is truly unparalleled and central to Italian Cold
War culture. In La satira politica in Italia, Adolfo Chiesa documents: «Passano
pochi mesi e «Candido» conquista decine, centinaia di migliaia di lettori, rivelandosi una delle iniziative editoriali più fortunate del dopoguerra. E nonostante il
conservatorismo, l’innato spirito reazionario del suo animatore, «Candido» resta
l’ultimo vero, grande satirico che l’Italia abbia avuto» (p. 154). Guareschi was
editor-in-chief from 1946 until 1957 but continued to contribute articles until
1961. Three days after he decided to break definitively with «Candido», the newspaper folded.
91
right wing, conservative publication spared no venom when it came
to attacking Communist rhetoric. Guareschi maintained that, just as
Fascism had duped Italians before the war, Communism robbed individuals of their personal freedom to reason as individuals. Although not
as apparent in the first years of the newspaper’s production, Guareschi
also saw the same danger in the political power of the Christian Democrats and lampooned those who blindly followed them or sought to use
ecclesiastical power to garner votes (Rossini p. 862; Chiesa p. 165).
Separatist rhetoric also vexed Guareschi. He took issue with Prime
Minister De Gasperi who espoused regional autonomy for Trentino
Alto-Adige, Aosta, Sardinia, and Sicily (Lettera ai contemporanei,
p. 3) because such a political position undermined attempts to create
a strong central government. Indeed, he opposed “divismo” of any
type, seeing separatism a force that could corrode the unity needed to
fight Communism. He articulated the main thrust of this argument in
early 1946:
Per noi l’unico vero nemico del nostro popolo è la retorica. La
retorica ubriaca le masse, di qualunque colore esse siano, e le
spinge a ricadere in errori fatali. Retorica, divismo e mancanza
di senso umoristico: ecco i nostri più grandi guai. «Candido»
vuole semplicemente aiutarvi a trovare la via dell’umorismo per
mettervi in grado di combattere la retorica. Quindi trascura gli
uomini e le loro piccole miserie personali e si rivolge solo verso
il costume. Si potrà dire che noi non riusciamo a mettere in pratica le nostre idee. Si potrà dire che la nostra voce suona gracile
in mezzo a questo vociare. Ad ogni modo l’intenzione è buona. L’inferno è lastricato di buone intenzioni, metteteci anche
le nostre. Se non altro staranno al caldo. (Sotto l’ometto p. 1)10.
10 Guareschi continued his line of thought almost two years later in December 1947
when he further delineated for his readers «Candido»’s overarching political
slant: «Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce
in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta,
l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò
con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quando, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque
sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avversari. Siamo contro ogni forma di violenza, e perciò non possiamo ammettere
nessuna guerra santa. Per noi la guerra è sempre un delitto da qualunque parte
venga dichiarata. La nostra strada è diritta e su di essa comminiamo tranquilli.
Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto” (“Sotto l’ometto” 1).
92
Guareschi parodied the rhetoric of regional separatism in a short
column he created entitled Nord-Sud and poked fun at the positions,
stereotypes and perceptions the North and South held about each
other. He signed commentary for the North as Cisalpinus and for the
South as Terronius. But only three editions of this column made it
to print – La chiesa: Nord-Sud; Il cavallo: Nord-Sud; and Il telefono: Nord-Sud – and they precede his more famous editorials Vista da
destra and Vista da sinistra that began in 1947.
In the three articles of Nord-Sud, Guareschi lays out the way the
North and South differ in their perceptions of the Church, horses, and
telephones. Cisalpinus haughtily denigrates the use of the horse, the
quality of the telephone, and the backwardness of the Church in the
South. Terronius always begins by saying that the North has yet again
gotten the better of the South – «Il Nord ci frega, fratelli!»; «Perfino
le cose della religione il Nord ci frega.» – but the South’s saints, food,
and traditions make up for any shortcomings. In ridiculing the way
both the North and South see each other, Guareschi echoed the spirit
of his two fables we analyzed above: he saw debates springing from
geographical differences as simply silly. He knew that the North and
the South had cultural and economic differences. Yet, he hoped that
his readers would understand that throughout the peninsula, a horse
was a horse, a telephone was a telephone, and the Church was the
Church. The differences in each region had no distinction: they were
irrelevant.
Guareschi communicated the force of his position directly to one
of his readers, a man from Bergamo, who had written «Candido» to
complain that the government in Rome consistently discriminated
against Bergamascans by subsidizing labor projects in the South with
their taxes. The reader wished that Italy could be divided in two south
of Florence in order to form a confederacy of northern regions based
on a Swiss model. Guareschi thoroughly chided his misguided notion:
A questo argomentare da povero diavolo si potrebbe rispondere che, quando c’è poi da farsi scannare in guerra, a rischiare la
ghirba sono le pallottole non ci vanno soltanto i bergamaschi
o i lombardi, ma anche gli abitanti di Matera e Potenza: ma
non entriamo in discussione con quella categoria di squallida
gente del Nord che afferma convinta che «se si potesse fare un
canale che divida l’Italia da Firenze in giù, dopo si organizze-
93
rebbe nel Nord una repubblica tipo Svizzera che sarebbe una
pacchia perché il Nord produce tutto». Una repubblica meravigliosa dove ognuno avrebbe 150 biciclette, 36 automobili,
200 paia di scarpe, 9.000 vestiti e una locomotiva a testa dato
che si potrebbe evitare di vendere al Sud la roba che il Nord
produce (Lettera a contemporanei, p. 3).
As we can observe, Guareschi, with a good dose of sarcasm, reminded this reader that Southerners were every bit Italian as Northerners.
In the immediate dopoguerra, «Candido» often covered Southern
banditry in a straightforward, non-sensationalistic manner in the
same vein as reporting about the violence that plagued the North. For
example, Guareschi reported these crimes that took place in the South
in the summer of 1946:
A Palermo, in seguito a voci allarmistiche, il panico piomba in una processione di 100 mila persone e non fuggi fuggi
30 rimangono ferite. Nei dintorni di Palermo fatterelli vari:
una testa recisa esposta nella piazza principale di Brizzi; un
capraio mitragliato e un commerciate pugnalato a S. Giuseppe
e a Salaparuta: la centrale elettrica di Salemi danneggiata da
banditi; l’autocorriera di Alcamo nuovamente depredata; due
corriere ripinate presso Balestrate, un cadavere mutilato non
ancora identificato a Campofiorito; due contadini assassinati
a Mazzera; carabiniere assassinato a Gela. Il sindaco di Curonia dottor Basilio Merlini rapinato e sequestrato (Cronachetta
rosa p. 2).
In the same article, he reported how Northern Italy also seemed to be
coming apart at the seams:
Sparatorie e lancio di bombe contro le caserme di Udine. Tre
uomini pugnalati in 24 ore a Trieste dove i titisti chiamano
‘reazionari fascisti’ a tutti coloro che sono favorevoli alla soluzione italiana. [...] a San Marcello Pistoiese dove tale Trincheri lancia una bomba contro il giovane Siro Lotto [...] a Susa
vola un’altra bomba a sfondo politico-passionale (p. 2).
These reports verify that he held no particular bias against Southerners
for banditry because any number of brutal partisan reprisals occurred
in the North. Indeed, agrarian lawlessness, violent strikebreaking, and
94
political assassinations provide the historical backdrop to several Don
Camillo tales.
Guareschi advocated a strong governmental campaign against the
mafia, but he doubted that a capable Minister of the Interior could
enact severe penalties against it. In one editorial, he recognized how
Mussolini had effectively damaged the mafia because Cesare Mori
had hounded Casa Nostra so methodically. He called for the government in Rome to commission another strong anti-mafia Prefect in
Sicily, one that «non si contentasse di curare i bubboni con le pezzuole calde, ma che avesse il coraggio di affondare i bisturi nelle carni,
quando è dal bisturi, e solo dal bisturi, che dipende la vita del paziente». (Paura in Sicilia p. 11). But, he questioned where such a Prefect
could be found, a person whom the mafia could not buy off and whom
the government would unstintingly continue to support:
è questo il vero problema ed è per questo che in Sicilia tutto
rimarrà, come prima. Alcuni ‘mafiosi’ andranno al confine,
altri torneranno dal confine, ma le fucilate “a lupara” seguiteranno ad uccidere ed a terrorizzare, e le nostre autorità di
polizia continueranno a svolgere le solite indagini senza concludere nulla, per il semplice fatto che esse non sono materialmente in grado di poter concludere nulla (p. 11).
Here Guareschi captures the real challenge in trying to defeat the
Sicilian mafia: without true, deep, and lasting financial, administrative, and moral assistance sponsored faithfully by Rome, the fight
against the mafia remains listless, vain and perpetually lost11.
Often in «Candido» Guareschi would take issue with the Italian
government’s strong tendency to minimize private initiative and
entrepreneurship in helping to develop the South economically. He
thought the South had tremendous potential to develop as a tourist
haven because of its striking, raw beauty. But, he opposed legislation
sponsored by Rome to develop the South’s tourism industry because
he thought that so many bills were misguided and intended rather for
personal political gain. In a 1961 published editorial, Guareschi shared his thoughts on how best to help Calabria develop economically:
11 One of the most accessible works on the Sicilian mafia that provides insight to
the tragedy of compromised government officials who collaborate with the mafia
remains Alexander Stille’s Excellent Cadavers (New York, Vintage Books,1995).
95
La Calabria come altre regioni del Sud, è la regione dell’avvenire. Sarebbe però opportuno che i nostri governanti ci pensassero ora e non domani. È ora che per il turismo si devono
creare le premesse d’un formidabile sviluppo. Così come per
l’agricoltura i cui problemi devono essere affrontati subito se
si vuole evitare d’intervenire quando oramai sarà inutile qualunque intervento. Troppa gente fugge da quelle regioni per
trovare lavoro nell’Italia settentrionale o addirittura all’estero.
Dopo tanti errori commessi negli scorsi anni è ora possibile
sapere ciò che deve essere fatto e ciò che non si deve fare.
Ma i nostri illustri governanti pensano solo alle aperture, alle
convergenze e ad altre alchimie del genere. La sua proposta
per l’olivicoltura ci sembra degna di essere presa in considerazione, se non altro come base di partenza di una concreta
discussione. Ma provi a prospettarla al nostro ineffabile ministro dell’Agricoltura. Sentirà che discorsi difficili. E tutto per
non farne niente (Strettamente confidenziale p. 15).
The errors to which Guareschi referred while addressing the economic potential of Calabria relate to the mismanagement he saw
as inherent in the Cassa del Mezzogiorno, a massive governmental
initiative that Guareschi thought was fundamentally flawed because, with central rather than local oversight, proper funds could never
reach meaningful work projects. The central administration of the
Cassa’s funds opened the door to corruption in the form of kickbacks
and political maneuvering for votes: certain construction projects
thus received funding over others that truly deserved higher priority
(Il cassone per il Mezzogiorno p. 1). Financial support for the most
necessary projects, especially water transport and highway construction, went awry, and the Cassa never truly made inroads in eliminating the misery of the South. Both the corruption and inefficiency left
the door open for local Communist Party (PCI) representatives that
could sponsor programs which resolved the problems more competently. As such, for Guareschi, the problem with allaying economic
problems in the South had little to do with the South but everything
to do with Rome:
In quanto alla guerra contro Roma [...] La combattiamo tutti noi italiani che vediamo con orrore avanzare minaccioso il
mostro dello statalismo, e sempre di più vediamo osteggiata e
svilita l’iniziativa privata. Tutti gli italiani onesti, democrati-
96
ci, liberi e veramente liberali sono contro Roma pianificatrice,
accentratrice, statizzatrice (Nord contro Sud p. 2).
All Italians – Northerners and Southerners – had to fight the corruption and mismanagement in Rome or risk total political control of
Italy by the Communists. For Guareschi, the lack of economic vitality
in the South, caused by Rome’s managerial ineptitude and corruption,
was most definitely tied to the Cold War.
In addition to the topics of Southern criminality and the Cassa
del Mezzogiorno, Guareschi also commented on the plight of Southern immigrants who migrated in droves to the North and faced the
hardships of integration and discrimination12. The particular notion
that Southerners had brought an inordinate influx of petty criminals
and undesirables to Northern cities captured Guareschi’s interest, and
in Nord e Sud, an article he wrote in 1961, he attempted to explain
the reasons that account for Southern criminality in the North. In the
process, he made a fascinating claim.
Guareschi recognized that, at least according to newspaper reports
and police blotters, recent Southern immigrants to the North had committed an inordinate amount of petty crimes, and he wondered what
really lay behind this spike in malfeasance. He wrote:
Quanti meridionali, dall’avvento dell’unità d’Italia a oggi, si
sono trasferiti quassù al Nord?
Centinaia di migliaia, milioni.
In ogni tempo l’immigrazione dal Sud sovrappopolato e povero è sempre stata massiccia, ma non s’è mai verificata una
situazione come quella d’oggi. Mai come oggi gli immigranti
meridionali hanno alimentato con le loro tristi imprese la cronaca nera. Anzi, qua da noi, come dovunque li ha portati la
loro fame, la loro intelligenza, il loro spirito d’iniziativa, gli
italiani del Sud hanno dimostrato di essere soprattutto gente
dotata di vivo ingegno, di grande spirito di sacrificio e di formidabile volontà.
12 Millions of Italians moved from one region to another, primarily from the South
to the North, during roughly a ten-year period (1953-1963) known by historians
and sociologists as “The Economic Miracle.” Huge social upheaval followed
with different cultures, customs, and dialects clashing in the urban environments
of the industrial North. Excellent studies on this phenomenon include Crainz’s
Storia del miracolo italiano (1996) and chapter seven of Ginsborg’s Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (1989).
97
Com’è che, adesso, la qualità degli immigrati meridionali
sembra violentemente peggiorata?
Dobbiamo forse concludere che il livello morale del Mezzogiorno si è abbassato?
No: si è semplicemente abbassato il livello morale dell’Italia
industriale (p. 1).
He went on to explain: «L’aria del Nord è cambiata. [...] oggi essa
risulta respirabile ai buoni e ai cattivi, agli onesti e ai disonesti, ai
laboriosi e agli sfaticati, a chi conosce un mestiere e a chi non ne
conosce. [...] Il vero guaio è che l’aria del Nord è diventata respirabile
anche per la feccia» (p. 1).
Guareschi blamed the growth of a Southern criminal element in the
North as a direct consequence of the Merlin Law that abolished regulated and legalized prostitution. This remarkable hypothesis implied
that Southern pimps would have brought their prostitutes wholesale
to the North in order to serve a greedy clientele in industrial cities:
Il male vero è che, eliminando ogni controllo sanitario e di
polizia, la legge Merlin ha “rivalutata” la prostituzione rendendola un mestiere facile, senza pericoli, altamente redditizio. Un vero “mestiere d’oro” che alletta sempre maggiore
quantità di donne.
Di conseguenza è diventata un “mestiere d’oro” anche quello
del ‘prottetore’.
Ed ecco richiamati a frotte nelle ricche città dell’Italia industriale dove ‘corre il soldo’ e la mancanza di case chiuse è
maggiormente sentita, i talent scouts, gli art manager della
prostituzione. Ecco tanto lavoro per i duri, i mafiosi e altra
feccia.
La legge Merlin, favorendo l’iniziativa privata e liberando
la prostituzione da ogni controllo statale, ha fatto della prostituzione un mestiere ricco, un’industria rispettabile. E le
mondane girano oggi al volante di scintillanti “Giuliette” e
possono permettersi di regalare “Giuliette” e appartamenti ai
loro “protettori”.
Se la cronaca nera è piena di ignobili storie di prostituzione e
di sfruttamento, ciò è dovuto principalmente alla nefasta vecchia e ai suoi compari demagoghi che, invece di curare il male
alle radici, hanno cauterizzato una piaga infettando così l’intero corpo. È uno dei tanti delitti della demagogia.
98
Non è peggiorato il Mezzogiorno: è peggiorata moralmente
l’Italia del “miracolo economico” e del “miracolismo politico” (p. 1).
Note that Guareschi does not blame the rise in criminality on the economic disparity between Southerners and Northerners. For him, Southern immigrants, who are at the bottom of the economic food chain,
do not themselves account for a greater number of crimes attributed to
them since the vast majority of Southerners are dedicated to making
an honest living. Rather, Southern crime in Northern cities finds root
in the criminal element that emigrated North which now finds a ripe
market for its various wares, especially as it relates to prostitution.
For Guareschi, an explanation of both Southern and Northern ethical
turpitude, based on market demand, better accounts for the crime.
Guareschi then links moral degradation to Communist political
opportunism:
Il PCI, che nel disordine ci sguazza, collabora validamente a
richiamare al Nord gli elementi più violenti del Sud. Gli servono maledettamente perché hanno il coltello e la pistola “facili”.
I comunisti curano amorosamente i ragazzi del Sud: ospitano fraternamente i giovani meridionali di leva nei loro circoli
rionali e vanno a visitare e a confortare i meridionali che lavorano all’estero. [...] I comunisti non dormono e, qualunque
rogna tu gratti, trovi il ‘dritto’ comunista e il fesso democristiano. (p. 1).
These thoughts reflect Guareschi’s vintage summations about the
evils that destroy the Italian society – chief among them being rampant self-gratification13. Ironically, of course, in presenting his case,
he abstains from considering how legalized prostitution itself may
be morally questionable and tied to greed. Furthermore, he does not
explain specifically how members of the PCI recruit pimps to the
13 The second half of La rabbia, a collaborative film undertaken with Pier Paolo
Pasolini in 1963, provides us with one of the best sources to understand Guareschi’s moral positions. As he wrote in his notes for the screenplay, Guareschi
prized three primary values: “La salvezza? [...] Dio, Patria, Famiglia: i luoghi
comuni che fanno ridere gli intellettuali” (Notes, n.p). The destruction of these
ideas, he believed, came at the hands of a materialistic society that was interested
in self-pleasure and forgetful of the evils generated by both rampant Capitalism
and oppressive Communism.
99
North, or how this party actually manages to inspire or sponsor criminal acts. But, he makes the case that the PCI – Italian society’s major
threat – takes advantage of the sexual egotism found in the North.
Here the Southern problem, for Guareschi, is the moral laxness created by Northern greed that has greatly benefited from the abolition
of a law and a boom in illegal prostitution. For Guareschi, the Communists, as usual, stand at the ready to take advantage of a societal
illness and to help them grow in power. Moral brokenness threatens
to engender greater Communist control.
Articles written by other journalists for «Candido» further bolster
our understanding of Guareschi’s Southern stance. As editor-in-chief,
Guareschi provided his reporters a clear indication of his particular
views on political, economic, and social issues, and, although not all
articles directly reflect his own conceptions, his journalists almost
always seconded the spirit and verve of his vision. Throughout Guareschi’s editorship from 1945 to 1957, regular reporting on the South
focused on culinary and spiritual customs, geographical wonders, and
Neopolitan music14. Of course, several essays also examined the economic challenges the South constantly faced because of flood and
earthquake recovery, political corruption, and organized crime.
The greatest coverage «Candido» provided of the South’s economic struggles occurred over fourteen separate issues, was authored by
Luigi Barone, and took place right as Guareschi faced a harsh libel
suit brought by ex-Prime Minister Alcide DeGasperi in the late winter
and early spring of 195415. Unfortunately, because his readers focused on the accusations, the trial, and Guareschi’s subsequent sentence
that sent him to jail, the full force of Barone’s exposé, entitled La
14 Several of the journalists who worked for Guareschi were Southerners. Massimo
Simili frequently covered events in Sicily and signed his articles Il Terrone dei
Mari. He refined much of his material that appeared in «Candido» and published Briganti and Baroni in 1955. Marco Zanfagna, Mario Ferraguti, Andrea del
Giudice, and Franco Pagliagno reported often in columns such as Vita segreta
(ma non troppo) della provincia italiana, «Corriere di Napoli», and «Corriere di
Sicilia». Vittorio Paliotti contributed frequently to «Candido» with Napoli è tutta
‘na canzone, a column that explored Neapolitan singers, songs, and songwriters
in great detail.
15 Both Paolo Tritto in Il destino di Giovannino Guareschi and Alessandro Gnocchi
in Giovannino Guareschi. Una storia italiana provide excellent studies of the
DeGasperi case and its accusations, proceedings and sentencing. My own analysis of the case was published in The Italianist, n. 25, 2005, ii: pp. 239-59.
100
Questione Meridionale, probably went unappreciated. Barone’s study
read today still provides masterful insight to the various problems that
continue to plague the South16.We can clearly appreciate the importance Guareschi placed upon examining the South’s economic and
social problems since he undoubtedly had to have paid Barone’s quite
well for his research and because he gave so much printed space to
Barone’s investigative reporting.
Barone tackled issues such as the failure of the Italian government
to develop industry in the South (L’automobile senza benzina); the
problem of illiteracy and the terrible physical conditions of Southern
schools (Linea Gotica anche per la Scuola); the South’s inability to
develop its tourism industry because of lack of governmental sponsorship (I miliardi dello Stato; Delitto e Rapina); the misappropriation of funding by the Cassa del Mezzogiorno (L’operazione Giraffa); and, the failure to develop adequate resources of running water
(Problema numero uno: Acqua).
The thrust of this long study aimed not to place blame on any element of the Italian government or society. Rather, Barone, and indirectly Guareschi, sought to inform readers about possible solutions to
help resolve the problems that caused Southern economic, social, and
political strife:
Finché esisterà un Nord e un Sud economico l’Italia non sarà
mai una Nazione veramente civile perché è assurdo che in uno
stesso Paese vi siano livelli di vita così disuguali e conseguentemente costumi, mentalità e aspirazioni tanto diversi. La colpa è di tutti: degli uomini del Nord e degli uomini del Sud,
delle cose, dei tempi e della fatalità, del passato e del presente.
Il contrasto tra il Nord e il Sud non è tra alacrità e pigrizia ma
tra dinamica demografica e mezzi di lavoro. Nel Sud ci sono
troppi uomini e troppi pochi mezzi. I modesti redditi del Sud
non consentono che modesti consumi e modesti risparmi, cioè
limitate possibilità di formazione di capitale e conseguentemente investimenti minimi. Bisogna trovare una soluzione.
(Nord e Sud: Attenzione! p. 22).
16 Several essays in Lumley and Morris’s The New History of the Italian South:
The Mezzogiorno Revisited (1997) provide excellent background to help readers understand the intricacies of Southern economic and social problems. John
Davis’s essay Changing Perspectives on Italy’s “Southern Problem” in Levy’s
Italian Regionalism (1996) also sheds light on these matters.
101
The moral imperative of finding a resolution to this age-old problem loomed large because of Communism. The autonomous statutes given to Sicily and Sardinia had not alleviated the travails and
suffering; in fact, they had exacerbated them, and the Communist
Party had grown larger in number in the South (Le smanie dell’autonomia p. 18). To stem this growth, the correct application of economic aid needed to take place, or the South would turn all the more
to the PCI:
I comunisti sanno che la strada della miseria è la strada maestra che li conduce a controllare le leve di comando di una
nazione, sanno che dove più arretrata è la vita politica e sociale, là il terreno è più favorevole, sanno che il comunismo è un
regime per popoli che vivano allo stato semibarbaro. Ed hanno
iniziato la loro grande battaglia; la macchina del partito si è
messa in moto, hanno inviato nel Sud i migliori funzionari,
hanno organizzato corsi specializzati per attivisti meridionali,
agiscono con prudenza, tramite le camere del lavoro, le leghe
dei contadini, le commissioni interne. (Vandea p. 23)
The problem, Barone posited, had to be solved together, «tutti quanti,
costi quel che costi», or the Communists would begin their conquest
of all of Italy from the South (p. 23). Barone thus saw the Southern
Question in terms of a potential Communist takeover, the same position, as we have observed, that his editor espoused.
Conclusion
Guareschi, a writer born and bred in the North, left a solid record of
his thoughts about Southerners and the plight of the South in photographs, published articles and editorials in «Candido», two short
fables, and a Mondo piccolo tale. These documents allow us to ascertain his belief that Southerners were a vital and integral part of the
Italian nation, and that they needed to serve Italy along with Northerners in order to ensure a strong state. For him, the idea of Italians
discriminating against each other because of regional identity was
folly because, in the end, geographical identity was fluid and subjective. The tales I cavalli e il carro and I punti cardinali sono sei especially speak to this end.
102
Furthermore, he was aware of the various stereotypes that characterized Southerners, and in Il Terrone he makes light fun of Southerners and their penchant for emotional outburst, big families, and artful
deception. But he clearly does not communicate any spite for Southerners. Other writings we have examined also confirm this point. He
did not think that Southerners had an innate and particular penchant
for crime, and he held that Northerners were just as prone to violence
because they had the same moral shortcomings and struggles.
Guareschi understood that the South faced social and economic
challenges that the North did not. The historical reasons for these
challenges, however, did not cause him to look askance at the South.
Rather, for him, finding solutions mattered: all Italians had to help the
South recover economically so that Communism did not make inroads there and then eventually take over all of Italy. Guareschi thought
that the government in Rome did very little in providing concrete
solutions to help the South because of political intrigue and corruption, and, as editor of «Candido», he exposed the rife mismanagement
of the Cassa del Mezzogiorno. The Questione del Meridione for him
was, in actuality, a question of governmental ineptitude and did not
reflect anything inherently flawed with the South or Southerners. Problems that Southern immigration caused in the North reflected shortcomings in the moral fabric of Northerners alike.
Guareschi may have hailed from the North, and the root and
branch of his greatest literary creation, the Mondo piccolo, may have
sprung from the Po river valley in the Emilia-Romagna. But, as we
have come to understand in this inquiry, Guareschi was truly inclusive in the way he viewed the South, and, in a Cold War context, he
embraced Southerners as fully Italian as he was.
Cited Works
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103
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106
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Antonio C. Vitti
La Resistenza nel cinema italiano: una memoria divisa
Ogni contrada è patria del ribelle,
Ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle
forte il cuor e il braccio nel colpir.
(Fischia il vento, testo di Felice Cascione, 1944)
Qualche badogliano propose di contrattaccare con una loro propria
canzone, ma gli azzurri, … quale canzone potevano opporre, con un
minimo di parità, a quel travolgente e loro proprio canto rosso? …
Essi hanno una canzone, e basta.
Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È
una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere,
non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a
solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone.
(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)
L’esaltazione della Resistenza come guerra patriottica (1943-45)1 ha
consentito all’Italia e agli Italiani di superare e di dimenticare rapida1 I film maggiori sulla Resistenza italiana in cui i combattenti appaino come partigiani sono:
Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945
Giorni di gloria di Luchino Visconti, Marcello Pagliero,Giuseppe De Santis e
Mario Serandrei, 1945
Paisà di R. Rossellini, 1947
Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, 1949
Il generale Della Rovere di R. Rossellini, 1960
Tutti a casa di Luigi Comencini, 1960
L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo, 1961
Una vita difficile di Dino Risi, 1961
L’oro di Roma di Carlo Lizzani, 1961
Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, 1964
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mente la storia fascista. I sacrifici degli antifascisti hanno dato all’Italia il diritto di autogovernarsi e la possibilità di essere inclusi nel club
delle democrazie del dopoguerra. Salò, l’altra faccia della medaglia,
soltanto verso la fine degli anni settanta è stato affrontato dalla storiografia italiana. Nel 1979 Gian Piero Brunetta scriveva:
“Il periodo di Salò costituisce una pagina di storia nazionale e
di storia del cinema italiano che, solo da poco, si è cominciato
a studiare … La storia di Salò costituisce quasi un linfonodo
malato e cancerogeno nel vissuto collettivo che, per un tacito
accordo tra soggetti che l’hanno vissuto, è stato rimosso dalla
memoria2.
La Resistenza come guerra di liberazione inoltre è la base della redenzione che ha risparmiato all’Italia umilianti conseguenze internazionali di stato sconfitto. Come ha affermato lo storico Renzo De Felice,
la Resistenza è stato un grande evento storico che nessun revisionismo
potrà mai negare. Nella seguente relazione saranno esaminate le rappresentazioni cinematografiche dei film più importanti che riflettono
la politicizzazione e le diverse fasi storiche in cui il cinema italiano ha
narrato la Resistenza e la lotta dei partigiani. Il primo periodo storico
in cui il cinema si è interessato della Resistenza, va dagli ultimi anni
della guerra all’immediato dopoguerra fino alle elezioni del 1948. Il
secondo comprende l’epoca della Guerra Fredda e il terzo comprende
il periodo dalla fine della Guerra Fredda, il cosiddetto Disgelo, al contemporaneo con dentro il post sessantotto e il terrorismo, il compromesso storico, la caduta del comunismo e il periodo che vede l’entrata
nel governo del Primo Ministro Silvio Berlusconi degli ex-neofascisti
di Alleanza Nazionale.
C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, 1974
Novecento di Bernardo Bertolucci, 1976
La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittori Taviani, 1982
Nemici di infanzia di Mangi 1995
Porzûs, di Martelli 1997
Piccoli maestri, di Daniele Luchetti, 1998
Il partigiano Johnny di Guido Chiesa 2000
Sangue dei vinti di Michele Soavi, 2008
Miracolo di Sant’Anna di Spike Lee, 2008
L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, 2009
2 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945.
(Roma: Editori Riuniti, Seconda edizione giugno 2001), P. 346
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Il 10 settembre 1943 Roma fu occupata dai Tedeschi. Prima della
sua liberazione, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Mario Socrate,
Aldo Scagnetti, Franco Calamandrei e Antonello Trombadori scrissero una sceneggiatura sulle attività del Gruppo d’Azione Partigiana
(GAP), partigiani urbani della capitale, lavorando segretamente nello
studio del produttore Alfredo Guarini in Via del Traforo a Roma. Il
progetto era stato promosso da Trombadori, il quale aveva esperienza
diretta della guerriglia urbana. Il progetto deve essere registrato come
uno dei primi tentativi di riprendere le attività dei partigiani a Roma,
anticipando Roma città aperta di R. Rossellini. All’interno della sceneggiatura compariva una notizia del tempo, ovvero l’incidente di
una donna colpita a morte da dei proiettili tedeschi in Viale Giulio
Cesare. La ricostruzione dell’evento fu in seguito inserita in Roma
città aperta e la scena fu interpretata da Anna Magnani.
Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, non era più possibile
impedire la produzione cinematografica e coloro che erano coinvolti nella cinematografia, appartenenti a qualsiasi movimento politico
clandestino, si unirono nel nuovo Sindacato Lavoratori del Cinema,
per dare vita ad una nuova industria cinematografica italiana. Tuttavia
gli alleati la pensavano in maniera diversa. In una direttiva consegnata dall’ammiraglio di divisione americano Emery W. Stone, dichiararono che la nuova Italia non aveva bisogno di una nuova industria
cinematografica. Affermarono inoltre che quella esistente, una creazione del fascismo, doveva essere smantellata.
Giorni di gloria e La nostra guerra entrambi del 1945 sono i
primi film documentaristici sulla Resistenza e sulla lotta antifascista.
Il primo è il risultato della collaborazione fra Giuseppe De Santis,
Marcello Pagliero, Luchino Visconti e Mario Serandrei, che si occupò del montaggio e della supervisione generale. Questo film a episodi è la celebrazione della fine del fascismo, di una ritrovata libertà e
un invito aperto ad unirsi nell’obiettivo comune di creare un futuro
migliore. Il film combina spezzoni di cinegiornale, materiale documentaristico girato durante la guerra ed episodi ricostruiti della lotta
partigiana. I commenti furono scritti da Umberto Barbaro, il quale
è anche il narratore di uno degli episodi del film. Il materiale documentaristico e le sequenze ricostruite delle lotte partigiane utilizzano
un linguaggio cinematografico molto simile a quello impiegato dai
registi durante il fascismo. Le somiglianze sono evidenti nel ritmo,
negli approcci iniziali, nei tagli e nelle soluzioni stilistiche. I parti-
110
giani in azione o mentre prendono posizione sono rappresentati in
atteggiamenti eroici, mentre il loro valore e il loro impegno sono
sottolineati dalle affermazioni retoriche del narratore. Le sequenze
che celebrano la liberazione delle città settentrionali sono anch’esse
girate nello stile dei documentari di LUCE. I partigiani che marciano sono ripresi da sotto, in inquadrature ad angolo basso, mentre la
cinepresa stacca spesso sulla folla esultante, ripresa con un’angolazione leggermente rialzata per dare l’impressione di un maggior
numero di persone e per enfatizzarne la solidarietà. Alfonso Canziani, riferendosi a Giorni di gloria,3 scrisse che probabilmente questo
segnava l’inizio della celebrazione retorica della Resistenza. Canziani aggiunse che alcune sezioni degli episodi di Visconti, Pagliero e
De Santis ostentavano una rottura con il linguaggio cinematografico
dei precedenti film sulla guerra.
Visconti ebbe la fortuna di registrare il processo di Pietro Caruso4,
capo della polizia fascista di Roma durante l’occupazione tedesca,
e la sua successiva esecuzione assieme al suo collaboratore Pietro
Koch. Le riprese del procedimento penale dimostrano l’estrema abilità di Visconti nell’elaborare una notizia di cronaca in un episodio narrativo in grado di catturare l’attenzione del pubblico. La tensione del
momento è comunicata attraverso un’alternanza di primi piani degli
accusati e dei loro avvocati con campi lunghi che rivelano le reazioni
della folla, dei testimoni e dei parenti delle vittime. Al fine di utilizzare al massimo le possibilità drammatiche del momento, Visconti
utilizza due macchine da presa. Questo gli permette di immortalare
anche il più piccolo dettaglio, come il gesto irato di una mano o le
rughe sul volto di una donna disperata. De Santis, incaricato in un
primo momento di filmare le sequenze sull’esumazione dei corpi, fu
sopraffatto dalla nausea nell’entrare nelle catacombe. Il compito fu
pertanto affidato a Marcello Serandrei e a De Santis toccò il terzo
episodio, che racconta la ricostruzione della nazione. Il tono di que3 Alfonso Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 270.
4 Luchino Visconti fu arrestato dai tedeschi durante il rastrellamento che seguì la
fucilazione di 335 ostaggi italiani alle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944. Il
massacro fu compiuto dai tedeschi come rappresaglia per gli attacchi dei partigiani contro le loro truppe appostate a Roma. Visconti, condannato a morte,
evase di prigione con l’aiuto delle guardie e, nel 1945, tornò a lavorare a teatro
fino a quando un gruppo americano di guerra psicologica gli chiese di riprendere
i processi e le esecuzioni di Pietro Koch e Pietro Caruso.
111
sta sezione è molto ottimista e mostra ciò che le nuove forze stanno
facendo per ricostruire l’Italia dalle rovine della guerra. L’influenza
del cinema realista russo è molto evidente. L’approccio utilizzato nel
descrivere la ricostruzione urbana e le tecniche con cui sono presentati i lavoratori coinvolti richiamano alla memoria Sergei Eisenstein
e Dziga Vertov. Il treno che attraversa il ponte appena ricostruito nella scena conclusiva anticipa lo spezzone del treno in Caccia tragica
(1946), primo film di De Santis, che attraverserà le pianure dell’Emilia Romagna trasportando i veterani di guerra, film che potrebbe essere anche letto come ultimo testimone delle lotte contro i fascisti e
proprietari terrieri per il mantenimento delle cooperative contadine.
Roma città aperta di R. Rossellini (1945) divenuto il manifesto
per eccellenza del cinema italiano resistenziale nel mondo coincide
con un determinato momento storico in cui il Sud è liberato, il Nord
ancora occupato e Roma è sotto l’occupazione nazista e i fascisti hanno un ruolo subordinato di collaboratori benché reggano il governo
della città. La storia del film racconta la lotta che contrappone da
una parte i Tedeschi e Fascisti contro un gruppo che lotta per la liberazione. I partigiani offrono un quadro vario delle differenti anime
della Resistenza. Il più importante antifascista è il comunista Giorgio
Manfredi (Marcello Pagliero) responsabile della giunta del Comitato
di Liberazione Nazionale interamente dedico alla lotta. Lo vediamo
in azione contro i Tedeschi per liberare il partigiano Francesco (Francesco Grandjacquet). Manfredi è torturato dal Maggiore Bergmann
(Harry Feist) ma preferisce morire che tradire i suoi compagni. Pina
(Anna Magnani) organizzatrice dell’assalto ai forni è una donna del
popolo che vorrebbe una vita normale per potersi dedicare alla famiglia. Collabora alla sconfitta dell’invasore, al fianco del suo uomo
che viene ucciso mentre lei rincorre il camion che lo deporta. Film
archetipo ma non al di fuori di ogni ideologia com’è stato sempre
ripetuto. Don Pietro (Aldo Fabrizi), il sacerdote che collabora con i
partigiani è il personaggio intorno al quale è costruito il messaggio
resistenziale del film. La scena della tortura è costruita intorno alle
parole del sacerdote che maledice i Tedeschi che cercavano di far
presa sulle diversità tra i gruppi dei partigiani. Anche i ragazzi guidati
da Romoletto, il futuro della nazione, imitano l’insegnamento degli
adulti partigiani nelle loro azioni di guerriglia, ma per gli ideali futuri
alla base della ricostruzione della nazione dovrebbero rifarsi a quelli
del mondo cattolico, riferimento esemplificato dalla Cupola di San
112
Pietro sullo sfondo mentre il gruppo dei ragazzi si allontana dal luogo
dove è avvenuta la fucilazione di Don Pietro5.
Nel 1946 esce Paisà diretto da Roberto Rossellini che rievoca
l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Settentrione. Il film è
costituito da sei episodi che seguono l’avanzata dell’esercito alleato
dallo sbarco in Sicilia, a Napoli, alla liberazione di Roma, la lotta
per la liberazione di Firenze, la pausa nel convento nell’Appennino
Emiliano e l’ultimo episodio a Porto Tolle nel Polesine prima della
fine del conflitto. La narrazione del film sacrifica la rappresentazione individuale mostrando la somma delle esperienze e il senso
dell’itinerario geografico diventa la risalita morale e la testimonianza del riscatto collettivo degli italiani nella lotta contro l’invasore tedesco. Nel quarto episodio a Firenze la liberazione della città
avviene anche per il contributo dato dai partigiani nella lotta casa
per casa. La morte di Guido annunciata da un compagno partigiano morente diventano iconografie dei giovani italiani morti per la
liberazione. Nel sesto episodio durante l’inverno del 1944, lungo
la foce del Po, la lotta vede in primo piano i partigiani insieme a
truppe di paracadutisti americani. Nella dura battaglia il film mostra
le violente rappresaglie dei nazi-fascisti, anche sui civili inermi e
sugli eroi partigiani. I cadaveri dei partigiani che galleggiano con i
cartelli attestano una rappresentazione scenica della legittimazione
del diritto nazista di giustiziare il nemico ma per i partigiani diventa
la denuncia dell’oppositore al nemico che delegittima i loro diritti.
Il partigiano in ginocchio sulla sabbia che usa l’ultimo colpo rimastogli sparandosi in bocca per non cadere nelle mani dei Nazisti,
diventa l’icona dell’autodeterminazione e del riscatto di un popolo
che lotta per la propria dignità e libertà.
Il sole sorge ancora (1947)6 di Aldo Vergano e Giorni di gloria di
L. Visconti, M. Pagliero, G. De Santis e M. Serandrei devono essere
5 Carlo Lizzani nel volume Cinema italiano, (Roma: Parenti, 1961), esaltò la forza
del film nella molteplicità dei vari elementi, donne, bambini, il prete, il comunista e tutto il quartiere che lottavano insieme per la stessa causa e definì il film la
prima testimonianza poetica della Resistenza.
6 La sceneggiatura è di Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Aldo
Vergano, tutti presenti anche nel cast: Lizzani è Don Camillo, De Santis è Tonino
(l’inserviente del conte), Vergano è un ferroviere e Aristarco figura nel gruppo
dei partigiani insieme al critico Glauco Viazzi. Il giovanissimo Gillo Pontecorvo
interpreta la parte di Pietro, l’operaio fucilato, mentre il poeta Alfonso Gatto
appare brevemente nel ruolo di un macchinista.
113
considerati tra i pochi film dell’immediato dopoguerra che a differenza degli altri film che hanno trattato la Resistenza oltre a esaltare lo
spirito di rivincita che il popolo italiano aveva dimostrato durante la
Liberazione, affrontano il problema della responsabilità storica degli
Italiani nell’avere prima appoggiato il fascismo e poi per il ruolo avuto da alleati dei nazisti. Nel primo film la Resistenza ha anche una
forte componente di lotta sociale e la borghesia è chiamata in causa
direttamente7. Per ritrovare l’impostazione storico-critica che distingue i film in questione bisogna arrivare agli anni settanta, decade in
cui il cinema italiano affronta il problema della responsabilità e si
inoltra nei controversi problemi politici di chi erano i collaboratori e
chi i veri fascisti.
Il sole sorge ancora fu finanziato dall’Associazione Nazionale
Partigiani d’Italia (ANPI) e prodotto dall’ex comandante dei partigiani, Giorgio Agliani, che fungeva da consulente e il regista Aldo
Vergano. Vergano era stato preferito a Goffredo Alessandrini perché
il primo era stato un antifascista mentre il secondo aveva avuto a che
fare con l’industria cinematografica fascista8. Alla sua uscita, il film
venne criticato per il suo eccesso stilistico, per l’uso di elementi eterodossi nel lessico del film e per la riduzione del mondo ad una lotta
manichea tra classi sociali rigide.
L’influenza dei western americani è evidente nelle scene finali
del film. Qui, sulle pianure lombarde, i partigiani organizzano l’ultima carica contro i Tedeschi. Scendendo dalle colline in groppa a
un cavallo o nascosti come indiani in mezzo a branchi galoppanti,
gli antifascisti aiutano eroicamente i contadini nella rivolta. Anche lo
stile delle riprese ricorda quello utilizzato in molti western, con una
serie di stacchi veloci fra primi piani di contadini che sparano dalle
finestre e soldati tedeschi nei cortili sottostanti. Il sole sorge ancora
(1947) come attesta il titolo, continua il discorso sulla lotta antifa7 «Il difetto organico del film non consiste, come ha scritto tanta gente, nel fatto
che la polemica sociale, che vi è sottintesa, è basata su accuse inconsistenti, su
caratteri astratti, su circostanze che non hanno riscontro […] ma nel fatto che la
fantasia, la forza motrice del regista Vergano, non sono riuscite a rendere corpulente, per dirla col Vico, efficaci e correnti quelle grottesche immagini borghesi.
Il dialogo reticente e l’interpretazione, approssimativa e distratta, non han giovato a dar carne sangue e nervi alla volonterosa, e per certi versi ispirata, regia di
Vergano» P. Bianchi, «Candido», 18 gennaio 1947. http://www.cineclub.it/cineclubnews/cn0303-i.htm
8 Giuseppe De Santis, “L’ANPI presenta,” p. 119.
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scista e sulla ricostruzione nazionale intrapreso con Giorni di gloria
dagli ex-collaboratori della redazione della rivista Cinema. Sia la trama che la sceneggiatura furono scritte da De Santis e Guido Aristarco,
che fornì informazioni di prima mano sulla Resistenza milanese, e
Carlo Lizzani, che recita anche il ruolo principale di Don Camillo,
il prete. Prima dell’inizio delle riprese De Santis, assieme a Lizzani
e a Massimo Mida Puccini, si era trasferito a Milano per rilevare la
rivista Film da Mino Doletti, ribattezzata Film d’oggi. De Santis, il
cui ruolo era prevalentemente consultivo, continuò a pubblicare occasionalmente degli articoli, uno dei quali, “La giusta via,” annunciò
Il sole sorge ancora, che considerava un punto di riferimento per il
cinema realista italiano9.
Nel 1952 in piena Guerra Fredda esce Achtung! Banditi! di Carlo
Lizzani non a caso vincitore del premio per la miglior regia al festival
di Karlovy Vary10. Ambientato sulle Alpi Liguri racconta le ultime fasi
della seconda guerra mondiale, protagonisti una brigata di partigiani
sotto il comando di Vento (Giuseppe Taffarel) e del commissario politico Lorenzo (Giuliano Montaldo) che dopo aver trovato la propria
staffetta impiccata dai nazisti, si infiltrano in una fabbrica di macchinari che nasconde un deposito di armi necessarie per continuare le
attività partigiane. Per trafugare le armi devono circonvallare i soldati
tedeschi che vogliono smantellare la fabbrica per spedire i macchinari
in Germania. I partigiani decidono che per liberare la fabbrica devo
entrarci nottetempo e attaccare i tedeschi per poi fuggire con le armi.
Eroicamente i partigiani mettono in atto il piano ma i soldati nazisti
dopo aver ammazzato il capo fabbrica uccidono anche altri partigiani
che cadono combattendo. Il colpo di scena che porterà alla vittoria
dei partigiani arriva quando gli alpini che erano al fianco dei tedeschi
si uniscono agli antinazisti e configgono il nuovo nemico e poi uniti
creano con i sopravvissuti una nuova brigata e insieme si rifugiano
in montagna. Il film deve essere annoverato come l’unico esempio di
lotta partigiana in una fabbrica luogo poco visitato dal cinema italiano.
La realizzazione del film di Lizzani è anche un’esperienza quasi irripetibile nel cinema italiano che deve essere inclusa per poter
valutare l’importanza di questo film perché aiuta anche a capire il
9 Giuseppe De Santis, citato da Mira Liehm in Passion and Defiance: Film in Italy
from 1942 to the Present, Los Angeles, University of California Press, 1984, p. 61.
10 Durante la Guerra Fredda il Festival subiva la politica culturale del regime sovietico che spesso invitava e premiava film di autori italiani vicini al PCI.
115
momento storico e la spinta ancora esistente nel cinema italiano di
sinistra. Lizzani stesso ha raccontato11 che l’idea del film nacque dopo
una proiezione de La terra trema di Luchino Visconti in cui il regista dichiarò che la trilogia di cui il film in merito apparteneva non
si sarebbe realizzata a causa di mancanza di finanziamento. Visconti aveva rinunciato a portare a termine la trilogia per mancanza di
produttori disposti a finanziare il proseguimento del progetto. Massimo Girotti e Luchino Visconti lanciarono un’iniziativa. Giuliani De
Negri e Giuseppe Dagnino furono i fondatori della cooperativa voluta
dagli operai per finanziare il film. Le quote costavano 500 lire. La
cooperativa raccolse fondi dal basso confidando in eventuali proventi per recuperare le spese. Questa coraggiosa iniziativa, nata come
risposta all’industria privata che si rifiutava di finanziare film politici,
deve essere vista come una dimostrazione del contrario di quanto si
dicesse all’epoca e si continua a scrivere riguardo al gusto del popolo
di non amare i film impegnati. Il film di Lizzani è una produzione
dal significato progressista, il frutto di una comunità e di finanziatori non tradizionali che riuscirono a produrre un film che dovrebbe
essere considerato un prodotto collettivo voluto da tanti che vollero
raccontare e testimoniare quello che avevano vissuto. L’entusiasmo
degli ex partigiani che collaborarono insieme all’iniziativa della produzione contrasta con il pessimismo dell’industria cinematografica
che all’epoca secondo la testimonianza di Lizzani stesso gli consigliava di non fare un film sulla Resistenza già considerata un argomento
anacronistico e di poco interesse pubblico12.
Nel film, le summenzionate peculiarità delle circostanze produttive e storiche influiscono sul discorso narrativo che insieme alla
visione dell’autore compaiono in una rappresentazione celebrativa
della Resistenza e dei suoi valori che prevale sulla coerenza storica.
La brigata dei partigiani è unita, non ci sono dissidi interni. Essa
affronta le difficoltà con spirito di sacrificio, dalla prima scena, sotto il mal tempo, i partigiani si sacrificano per aiutare i compagni
feriti. I giovani vogliono entrare a far parte delle bande partigiane. I capi sono democratici e i più valorosi, intraprendono le azioni
più pericolose rispettando anche chi ha meno coraggio, oppure è
11 Conversazione con Lizzani avvenuta nella primavera del 2011 presso la sua
residenza a Roma.
12 Ibidem.
116
meno temerario. Nel film si tratta con un certo riguardo anche chi
ha vissuto bene ed è forse anche stato fascista durante il Ventennio,
come si vede nelle scene nella villa con la figura dell’ambasciatore e della giovane borghese. Gli anni in cui G. De Santis dalle
pagine di Film d’oggi invocava un cinema realista in cui i conflitti apparissero anche in termini di lotta di classe, sei anni dopo gli
eventi, sembra che la lacerazione politica dell’epoca imponga una
visione onnicomprensiva ma non dialettica delle azioni e delle lotte
che portarono alla nascita dell’Italia democratica e repubblicana. In
Achtung! Banditi!, sembra quasi che gli autori vogliano annullare la
nuova realtà storica degli anni Cinquanta, idealizzando un momento
unico del passato nazionale, difatti la rappresentazione dei termini della realtà italiana coinvolta nella Resistenza, sono inclusi in
termini di classe e di regioni, creando una micro rappresentazione
di una società sociale e geografica utopica. Tra i combattenti partigiani ci sono contadini, militari meridionali, romani, liguri, piemontesi, che rappresentano laureati e le diverse componenti sociali
e di classe italiane dall’alta borghesia, ai contadini che nascondono i partigiani, incluso un’adultera proprietaria, in tal modo il film
crea utopicamente un collante ottimista tra le forze antifasciste. Tra
questo gruppo eterogeneo ci sono anche gli industriali che vogliono ribellarsi all’oppressione dello straniero. I personaggi positivi
sono italiani mentre quelli negativi sono i Tedeschi. Inoltre, quasi a
riflettere il periodo storico della Guerra Fredda e la nuova politica
governativa riguardo alla produzione cinematografica, nel film non
viene menzionata l’appartenenza politica dei brigatisti e tanto meno
si fa riferimento alla situazione politica e storica dell’epoca in cui il
film è ambientato escludendo qualsiasi riferimento ai Repubblichini
di Salò, oppure agli Alleati. Il racconto filmico mostra una visione
positiva dell’Italia nel sottolineare non soltanto l’eroismo dei partecipanti, e delle classi popolari ma anche nell’esaltazione di una coesione di unità nazionale che nel 1952 era in fase di dissolvimento.
Anche dal punto di vista stilistico la narrazione è un insieme di una
serie di contrassegni neorealistici ma che ricostruisce una storia che
racconta fatti accaduti sei anni prima e non l’attualità tanto amata da
C. Zavattini e dal primo neorealismo.
Il mito unificante della Resistenza come base dell’identità italiana era venuto meno con l’esclusione della Sinistra dal governo
voluta dagli Stati Uniti come condizione per ottenere i fondi dell’in-
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tervento economico del Piano Marshall e sigillata con le elezioni
del 1948. Un film che coglie bene questa involuzione è C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola nel mostrare il sentimento
postbellico della sinistra italiana vicina al PCI. I tre amici; Gianni
Perego (Vittorio Gassman), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) e
Antonio (Nino Manfredi) uniti durante la guerra partigiana, durante
la ricostruzione e la guerra fredda si separano e si tradiscono. Il loro
rapporto esprime la disillusione e il tradimento da parte degli intellettuali e della classe dirigente nei confronti del proletariato. Dopo il
fermo macchina che lascia Gianni mentre si tuffa in piscina, il film
in bianco e nero ripercorre brevemente gli anni della lotta armata
mettendo in risalto l’importanza che la Sinistra dava agli intellettuali, nel film questa categoria è rappresentata da Gianni Perego,
settentrionale di sinistra, il migliore dei partigiani e futura guida
del cambiamento tanto aspettato e sperato. Con la conclusione delle ostilità belliche, invece come sentenzia sarcasticamente la voce
fuori campo del narratore “scoppia la pace.” Come risultato i tre
partigiani si separano per seguire strade diverse. Nicola, intellettuale meridionale lascia Nocera Inferiore per seguire il suo sogno
di utilizzare il cinema per cambiare e migliorare la società. A Roma
vive nella sua torre d’avorio da cui critica senza offrire vere e realistiche possibilità per risolvere i problemi. Antonio (Nino Manfredi)
lavora alternativamente come portantino e infermiere in un ospedale, promozioni e retrocessioni che riflettono gli alti e bassi della
sinistra italiana. Malgrado la sua velleità rivoluzionaria, resta fedele
ai suoi amici e ai suoi ideali, dopo varie disavventure finisce con lo
sposare la donna dei suoi sogni, Luciana (Stefania Sandrelli), e alla
fine si coinvolge nel migliorare la società come si vede durante il
suo appello ai genitori che fanno la veglia con la speranza di arrivare prima degli altri ad iscrivere i propri figli alla scuola pubblica.
Gianni l’avvocato, invece, sacrifica l’amore per sposare Elide (Giovanna Ralli), la figlia di un corrotto magnate, costruttore di case, ex
fascista, ora legato alla DC e alla Chiesa, che si serve della politica
per ottenere appalti, senza rispettare le leggi, i diritti degli operai e
le regole contrattuali e approfittando del boom economico, corrompendo politici si arricchisce costruendo alloggi scadenti. Attraverso
la vita e le scelte dei tre personaggi maschili, Scola evidenzia gli
ideali traditi della Resistenza, che politicamente non si sono realizzati anche a causa dell’esclusione della Sinistra a governare l’Italia.
118
Come risultato la Nazione è diventata un paese corrotto e senza ideali. Il tradimento di Gianni e il suo matrimonio per interessi con la
figlia del Commendatore Catenacci è metaforicamente paragonabile
al tradimento della DC che per ottenere i soldi del Piano Marshall
si unisce alla politica Nord Americana tradendo gli ideali dell’Italia
democratica e repubblicana nata dalla Resistenza, usufruendo dei
voti dei Missini e dei Monarchici.
Per un film di riflessione sugli ideali traditi e non realizzati della
Resistenza come quello di Scola si è dovuto aspettare fino agli anni
settanta, difatti dopo il film già discusso di Lizzani che presentava
una coesione di unità nazionale già dissolta, la vita politica del Paese ha dovuto vedere l’insurrezione contro Fernando Tambroni13 per
rivedere sullo schermo un recupero della Resistenza come fase costitutiva della storia della Repubblica. Durante la Guerra Fredda, equivalenti ai primi quindici anni della Repubblica, la Resistenza era stata
rimossa non soltanto dal cinema, ma anche dai banchi di scuola, in
una circolare del 1955, il Ministero dell’Istruzione invitava per il 25
aprile di commemorare la nascita di Guglielmo Marconi invece della
Liberazione.
Con l’avvento del Disgelo, dopo quasi un decennio di silenzio la
Resistenza torna sul grande schermo con Tiro al piccione di Giuliano
Montaldo (1961) tratto dal romanzo omonimo di G. Rimanelli.14
La novità del romanzo che narrava la Resistenza vista da un giovane meridionale apolitico che scopre gli orrori della guerra, offriva al
cinema sulla Resistenza un’opportunità per riaprire il discorso politico
13 Il 29 aprile 1960, con l’appoggio dei missini ottenne la fiducia del Senato. Nel
maggio dello stesso anno il movimento sociale italiano decise di convocare il suo
sesto congresso a Genova, città decorata medaglia d’oro della Resistenza in cui era
partita l’insurrezione del 25 aprile. Tale decisione spinse l’opposizione a scendere
in piazza, con la conseguenza di un indebolimento del Governo Tambroni, che
aveva anche appoggiato la scelta di svolgere il precedente congresso missino a
Milano, anch’essa decorata con la medaglia d’oro e dove i missini appoggiavano
la giunta comunale democristiana fin dal ’56. La protesta si fece sentire sempre più
forte. Tambroni scelse la linea dura, originando i noti fatti di Genova del 30 giugno
1960, che si estesero rapidamente al resto del paese. Alla fine non ci fu altra scelta
che impedire il congresso del MSI. I missini votarono conseguentemente contro la
legge di bilancio del governo, facendolo cadere il governo di Tambroni.
14 Nel 1961 Dino Risi con Un vita difficile aveva narrato la storia dell’Italia dalla
Resistenza agli anni sessanta attraverso le vicissitudini di Silvio Magnozzi interpretato da Alberto Sordi, ex partigiano, comunista, che dopo aver combattuto per
un mondo nuovo vede i suoi ideali travolti al boom economico.
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e storico sul tema ma produsse un film che non accontentò nessuno e
fu accusato di ambiguità. Il film tradisce anche il contenuto/semantico
e il significante/significato del romanzo. Nel testo di Rimanelli il protagonista Marco Laudato sente gli orrori della guerra e percepisce la
sua generazione come carne bruciata mandata a scannarsi. Il giovane
ex salesiano non riesce a spiegarsi le ragioni di tanto odio e non è consapevole della realtà effettuale delle cose. L’incontro e il colloquio con
Simone, il vecchio capraio che sta per raggiungere i partigiani è rivelatore del dramma umano del giovane. Il vecchio capisce Marco ma non
può essere d’accordo con la sua incapacità di fare una scelta politica:
Tu non capisci, perciò è tutto inutile che mi spieghi meglio …
Tu provi disgusto della guerra, delle azioni che commettete
contro la gente, ma non riesci a capire come stanno le cose.
Non riesci a vedere chiaro. Perciò resti un ragazzo, figliolo, e
ti costerà caro essere stato in una guerra come questa15.
Nel film di Montaldo, invece, Marco Laudato diventa un pentito che
alla fine va dai partigiani per passare dalla parte giusta. Il film evita
di prendere in esame l’eredità fascista, il dissolversi delle certezze
istituzionali, la fedeltà al passato ed evita persino di prendere in esame l’importanza della scelta ad unirsi alla lotta armata che era stata
fondamentale nei film sulla Resistenza come guerra patriota.
Nel 1976 l’uscita di L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo
tratto dal romanzo omonimo di Renata Viganò la rappresentazione
dei partigiani si arricchisce di una nuova interpretazione. La Resistenza è vista dalla prospettiva di una lavandaia, donna anziana, analfabeta che si unisce alla lotta armata dopo la morte del marito Palita da
parte dei Tedeschi e lo fa con una decisione razionale, consapevole
di essere dalla parte della ragione, spinta da un obbligo morale. Il
film mostra che non esiste soltanto un modo di aderire alla lotta ma
tanti modi diversi e per ragioni diverse, senza ideologismo. Ingrid
Thulin interpreta benissimo il personaggio. Popolana solida, lavoratrice che vive una vita semplice dedita al marito e al lavoro dignitoso,
Agnese si unisce alla lotta antifascista emozionalmente e soltanto con
il tempo acquista una coscienza e una consapevolezza del suo ruolo di staffetta; una decisione razionale di una persona semplice ma
consapevole di essere dalla parte della ragione. Agnese si assume le
15 Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Torino, Einaudi, 1991, p. 142.
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responsabilità di staffetta ignorando la militanza politica del marito,
spinta da un obbligo morale e acquisisce autostima e competenza che
le permettono di affrontare l’avventura clandestina con successo e
una coscienza elementare del suo ruolo nella lotta. Il film si divide in
due parti, la prima segna la fine della vita familiare di Agnese, con la
distruzione della sua casa che provocano l’ingresso nella vita di partigiana. La seconda parte racconta la vita di Agnese con i partigiani
fino alla sua uccisione. La politica, per lei cose da uomini, non è alla
base della decisione dell’ex lavandaia nell’entrare nella clandestinità
ma anche senza la connotazione di eroina fa il suo dovere con dedizione. Il suo nuovo ruolo viene svolto come un nuovo compito. Le
vicende di Agnese come staffetta sono mostrate attraverso quello che
fa e come affronta i problemi e le difficoltà di tutti i giorni. La guerra
è mostrata senza atti eroici ma tenuta a distanza, vissuta da una donna qualunque che per queste sue qualità, congiunte alla realtà storica
e alle vicende personali, viene chiamata a collaborare anche perché
poco notabile ma importante per la riuscita della lotta. Mamma Agnese muore come ha vissuto senza lamentarsi, senza fare niente di eroico, infatti mantiene il suo vero nome con l’aggiunta di Mamma. Il
film segue il suo agire, la sua nuova vita, una storia dalla s minuscola
di una persona che come il titolo attesta, sa che potrebbe morire, ma
fa il suo dovere. Il film evita di mostrare gli scontri ma si sofferma sul
quotidiano mostrando un lato poco conosciuto oppure poco mostrato
della Resistenza; il ruolo avuto da tante donne. La grande novità della
narrazione sta nel mostrare che non esiste soltanto un modo di aderire
alla lotta ma tanti modi e per ragioni diverse. L’ambientazione del
film nelle valli del Comacchio, contrappone la tranquillità alla guerra
e alla morte, come se queste ultime fossero un’offesa al luogo. Altro
grande merito del film è nella scelta di una luce opaca che caratterizza
il film che contrasta con la luce abbagliante della morte di Agnese,
che assume un alto grado di simbolismo.
Nel 1982 La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani offre
una visione della Resistenza che evidenzia le divisioni che esistevano
anche in piccole comunità. La loro versione raffigura il movimento
come una guerra civile brutale, benché la storia sia narrata attraverso
la memoria di una bambina che ha assunto il ruolo dei fratelli Taviani
all’epoca ragazzi nel rinarrare per mantenere viva la memoria e insegnare ai giovani di resistere a eventuali avversità:
121
Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle
nostre spalle il boato infame della casa della nostra infanzia,
della nostra adolescenza, dei sogni e dei progetti, che veniva
distrutta come poi tante altre. Ad un tratto il nonno, vecchio
ma forte come una quercia, ex ferroviere socialista di antica
origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima al colle e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un
giorno – avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete
tutto questo in un libro perché anche chi verrà dopo sappia, e
se altre sventure dovessero colpirlo sappia anche che l’unica
risposta è resistere». I due nipoti promisero e dopo molti anni
realizzarono la promessa con La notte di San Lorenzo. Si sono
fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono calati
in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati
passa la grande storia di quei giorni16.
16 La notte di San Lorenzo
Dichiarazione di Vittorio Taviani per gli studenti della scuola italiana di Middlebury
Dopo quasi 40 anni, in un momento in cui il nostro paese, l’Italia, veniva minacciato da ombre neofasciste, sentimmo il bisogno di ricordare soprattutto ai giovani disorientati che cosa significa vivere sotto il nazi-fascismo e cosa significa
lottare per la propria libertà ieri come oggi come sempre. Ci ricordammo che i
grandi poemi omerici furono inventati quando Atene e Sparta – la grande Grecia
- avevano perso forza e fulgore e ora dopo qualche secolo sotto il triste dominio
dei Dori i giovani greci vivevano senza energia e senza speranze. Achille, Ettore,
Agamennone vennero proprio a svegliarli e a ricordare loro chi erano stati i loro
padri e a cercare di recuperare la loro grandezza. Resuscitammo così la nostra
giovinezza. Raccontando i giorni terribili e magnifici di quell’estate del 44, quando sui colli della nostra Toscana conoscemmo l’orrore della morte nazista e la
forza liberatrice dei partigiani. Giovani e non, contadini e cittadini, operai e borghesi uniti da una sola certezza: quando tutto sembra perduto, tutto si può salvare
se siamo uniti l’uno accanto all’altro in una comunità che vuole essere libera e
giusta.
Io e Paolo avevamo 14 e 16 anni circa in quell’estate del 44. La prima casa che
i nazisti segnarono con la croce verde, che significava distruzione, fu la nostra.
Nostro padre, l’Avvocato Taviani, era uno dei pochissimi antifascisti della città e
per questo fu il primo ad essere punito. La famiglia numerosissima, genitori figli
parenti e amici che per giorni e giorni si era rifugiata in una cantina nascosta,
una notte prese la via della fuga attraverso i colli toscani. Il padre aveva deciso:
«i tedeschi e il vescovo ci ordinano di andare tutti nella cattedrale – disse –. Dei
tedeschi io non mi fido e il vescovo è troppo ingenuo. Andiamo a cercare gli
americani. Laggiù ogni tanto sentite questo cupo rumore? Sono i cannoni dei
liberatori. Ognuno prenda la sua decisione, ma chi viene con me prima si vesta di
nero: dobbiamo trasformarci negli angeli o nei diavoli della notte». Metà segui-
122
Il film segue un gruppo di abitanti del piccolo paese toscano di
San Martino che appreso che le loro case erano state minate dai
Nazisti, scettici della promessa dei Fascisti che tutti i cittadini
sarebbero stati sicuri nella cattedrale, sceglie di andare incontro
agli Americani liberatori. Durante il loro cammino della speranza
incontrano una brigata partigiana ma la loro sicurezza è di breve
durata dato che si trovano intrappolati nel mezzo di un sanguinoso
scontro a fuco. I fratelli Taviani mostrano epicamente uno scontro
tra fascisti e partigiani in un campo di grano. La battaglia evidenzia
la natura del conflitto in cui amici di lunga durata e conoscenti di
tutto l’arco della vita si uccidono in nome d’ideologie diverse. La
scena più atroce coinvolge un confronto fra i partigiani e un padre
fascista con il figlio quindicenne. Immediatamente dopo la battaglia
i partigiani trovano i due fascisti nemici disarmati e che si nascon-
rono la decisione del padre, l’altra andò nella cattedrale e molti vi morirono sotto
le bombe o le mine, non si sa bene…
Mentre fuggivamo all’alba, io e Paolo sentimmo lontano alle nostre spalle il boato infame della casa della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei sogni e dei progetti, che veniva distrutta come poi tante altre.
Ad un tratto il nonno, vecchio ma forte come una quercia, ex ferroviere
socialista di antica origine contadina, fermò i due giovani nipoti in cima
al colle e disse loro: «guardate e ascoltate e promettetemi che un giorno
– avete ingegno e siete avidi di futuro – voi scriverete tutto questo in un
libro perché anche chi verrà dopo sappia, e se altre sventure dovessero
colpirlo sappia anche che l’unica risposta è resistere». I due nipoti promisero e dopo molti anni realizzarono la promessa con La notte di San
Lorenzo. Si sono fatti più piccoli di età e hanno cambiato sesso: si sono
calati in quella bambina di sei anni, attraverso i cui occhi spalancati passa
la grande storia di quei giorni.
Ho finito ma c’è ancora una cosa che voglio dirvi. Di questa promessa
mantenuta io e Paolo parlammo qui negli Stati Uniti, a New York a pochi
giorni dalla distruzione delle Torri Gemelle. Nonostante la tragedia, il
Moma volle dar corso al programma di presentazione di tutti i nostri film
organizzato da più di un anno. Alla fine della proiezione di San Lorenzo
ricordammo le parole di nostro nonno e tutti insieme, nella commozione
generale, ripensammo la promessa: Resistere.
Salina, Isole Eolie, Luglio 2011
Ringrazio Giovanna Taviani per avermi concesso di includere la lettera inviatale
dal padre in occasione della presentazione del film in questione avvenuta nel
luglio del 2011 presso la Scuola Italiana di Middlebury College.
123
dono su un albero, un partigiano spara al ragazzo che invoca l’aiuto
del padre che alla vista del figlio morto, in un atto di disperazione
si suicida.
La rappresentazione della Resistenza in questo film presenta
degli aspetti completamente diversi dai film precedenti discussi finora. Difatti attribuisce la liberazione dell’Italia principalmente alle
forze americane piuttosto che alla Resistenza. Dimostra alcuni elementi della popolazione italiana come ideologicamente allineati con i
Nazisti e in alcuni casi ancora più crudeli. A questo proposito, il film
mostra chiaramente la lotta armata italiana come una guerra civile
tra la popolazione del paese, e mostra anche il comportamento di un
sacerdote, che agisce ben diversamente da Don Camillo de Il sole
sorge ancora e da Don Pietro di Roma città aperta, e in tal modo il
film riesamina anche la cooperazione della Chiesa con il regime fascista. Inoltre La notte di San Lorenzo sfida la nozione precedente della
Resistenza come base di un’unità nazionale e mette in esame perfino
la moralità dello scontro stesso.
Notti e nebbia di Marco Tullio Giordana, miniserie prodotto
dalla Rai con la tv francese TF 1, tratto dall’omonimo romanzo di
Carlo Castellaneta del 1975, mandato in onda per la prima volta nel
1984, deve essere menzionato come primo film italiano che racconta la storia della guerra civile nel Nord Italia dal punto di vista dei
Repubblichini. Bruno Spada (Umberto Orsini) è un commissario di
polizia a capo di un ufficio politico, convinto fascista, sposato con
moglie remissiva. Conduce il suo lavoro raccogliendo delazioni e
denunciando i propri amici e non esita davanti alle torture, forte
delle sue certezze che però iniziano a vacillare davanti alla nuova
realtà presentata dai combattenti partigiani che porteranno la fine
del commissario.
Negli anni novanta la nuova rappresentazione cinematografica della Resistenza è influenzata dal libro di Claudio Pavone, Una
guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, pubblicata per la prima volta nel 1991 che aveva distinto gli eventi in
tre guerre spesso combattute dai partigiani: in guerra patriota, guerra
civile e guerra di classe, mettendo così a nudo gli aspetti laceranti
della Resistenza e suoi conflitti, rendendola indubbiamente difficile da ricostruire in una versione ufficiale che potesse mettere tutti
gli italiani d’accordo. Tale divisione è confermata dalle polemiche
che hanno accompagnato Porzûs di Renzo Martinelli del 1997. Il
124
film racconta il massacro di venti partigiani cattolici della Divisione
Ossoppo avvenuta il 7 febbraio del 1945 a Porzûs nel Friuli ad opera
di partigiani comunisti che pochi mesi dopo la fine della guerra avevano progettato di unirsi ai soldati di Tito per favorire l’instaurarsi
del comunismo in Italia.
La disillusione di tutte le parti è forse simbolicamente rappresentata dal partigiano Johnny nel film di G. Chiesa del 2000, che coglie
benissimo la casualità della guerra partigiana. Ne Il partigiano Johnny, tratto dal romanzo omonimo di Beppe Fenoglio, il regista Chiesa identifica in una minoranza della popolazione italiana che prende
consciamente in mano il proprio destino e decide di agire il recupero
della vera umanità. Chiesa che aveva già fatto un documentario su
Fenoglio, vede nella decisione dello scrittore di entrare a far parte
della lotta armata la rappresentazione dell’essere umano autentico,
che agisce razionalmente. Così Johnny il partigiano nella finzione
autobiografica esprime la sua decisione non basata sulla base dell’ideologia, ma su una visione del mondo laica, illuminista e razionalista.
Per Chiesa girare il film è ripercorrere il tentativo dell’autore nel trovare una lingua nuova per raccontare un evento senza la retorica della
guerra di popolo, facendo diventare la storia quella di un partigiano
qualunque che si scontra con gli altri partigiani politici e quasi percependo la lacerazione che accadrà nel prossimo futuro della storia
italica.
L’anno dopo esce Piccoli maestri di Daniele Luchetti, tratto dal
romanzo autobiografico di Luigi Meneghello pubblicato nel 1964
in cui l’autore rievoca la guerra partigiana come l’avevano vissuta,
sull’altipiano di Asiago e nella città di Padova, lui stesso e alcuni
suoi coetanei vicentini, perlopiù studenti ventenni. Il film racconta
anche la storia di questi giovani universitari che nel 1943 decidono di
lasciare l’università per darsi alla lotta di resistenza. Stefano Accorsi
nel ruolo di Gigi, Meneghello, Giorgio Pasotti in quello dell’amico
Enrico sono poco credibili come partigiani del 1943, appaiono troppo
ben tenuti e moderni. Il film non rende la durezza della guerra e dei
dubbi politici e le discussioni tra i partigiani che erano la parte vitale
del romanzo. Il film più che aggiungere una nuova pagina alla lotta
armata è una riflessione amara su quella tumultuosa, intensa, irripetibile stagione, piena di gioia e sofferenze.
Sebbene diretto dal regista americano Spike Lee, Miracolo a
Sant’Anna del 2008, rientra tra i film italiani sulla Resistenza essendo
125
una co-produzione italo-americana, parzialmente prodotto e distribuito da RAI cinema, include attori, personale italiano ed è stato girato in
Toscana e a Cinecittà. Se questo non bastasse un rapido sguardo alle
polemiche che ha scatenato sull’onore dei partigiani e sulle colpe dei
nazisti,17 lo farebbero rientrare pienamente tra i film che presentano
una rilettura della rappresentazione della Resistenza.
Il film è tratto dal romanzo omonimo di James McBride e racconta un episodio della guerra che si è combattuta sulle montagne
della Garfagnana, intorno al fiume Serchio nell’inverno del 1944.
La storia gira intorno a quattro GI afro-americani che fanno parte
della 92esima divisione dell’esercito americano, denominata Buffalo Soldier perché interamente composta da afro-americani, che hanno combattuto in Toscana durante la II Guerra mondiale. Il gruppo
dei quattro GI include l’idealista Sergente Aubrey Stamps (Derek
Luke), Bishop Cummings (Michael Ealy), il Sergente con i denti
d’oro, il Caporale Hector Negron (Laz Alonso); l’interprete, il gigantesco soldato semplice Sam Train (Omar Benson Miller), che hanno
con loro Angelo Tornacelli (Matteo Sciabordi), un bambino che non
parla, a causa di turbe nervose e che nasconde un segreto orribile;
è sopravvissuto alla famigerata strage in cui i Nazisti uccisero 560
civili italiani nella città di Sant’Anna di Stazzema. Nella versione di
Lee, quel massacro viene rappresentato come una risposta alle azioni
delle forze della Resistenza italiana e mostra un partigiano che ha
tradito la città in una riunione segreta con i Nazisti. L’ANPI ha accusato Lee di aver suggerito che il massacro degli SS di civili a Stazzema sia stato attivato da un tradimento di un partigiano. Giovanni
Cipolini che dirige l’associazione per la Resistenza di Pietrasanta ha
dichiarato di essere preoccupato perché quando un regista famoso fa
un film su un capitolo importante della storia, la gente crederà che la
versione sia la verità.
17 In proposito il regista americano ha dichiarato: «Come regista di questo film, sento di non dover chiedere scusa a nessuno. Ci sono diverse interpretazioni di cosa
accadde quel giorno, ma un unico fatto sicuro: il 12 agosto 1944, la Sedicesima
divisione delle SS massacrò 560 civili a Sant’Anna di Stazzema. Uomini, donne,
anziani, bambini. Questa è la sola cosa certa. Per il resto, non mi preoccupa che
la mia pellicola provochi polemiche: discutere del passato, della Seconda guerra
mondiale, è sempre un fatto positivo», http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/
spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/stazzema-miracolo/stazzema-miracolo.html.
126
Lee ha alimentato le polemiche dichiarando durante la promozione del film:
I partigiani? Spesso fuggivano, abbandonavano le popolazioni alle rappresaglie. Chi è stato partigiano sarà “suscettibile” ma capisce che il vento è cambiato, che il rispetto e
la riconoscenza per chi ha messo a rischio la sua vita per la
libertà di tutti, hanno lasciato il campo alla diffamazione e
alla ostilità.
Tale provocazione ha fatto scendere in campo Giorgio Bocca che ha
risposto per dovere storico alle accuse di Lee dichiarando:
… Un giorno della primavera del ’45 ero assieme a Livio
Bianco sul monte Tamone in val Grana da cui si vede la
pianura e la città di Cuneo. Indovinando il mio pensiero
Livio disse: «Andrà già bene se non ci metteranno in galera». I prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle
minoranze di aver avuto coraggio o semplicemente il senso di un dovere civico. Ci sono anche da noi molti antipartigiani semplicemente per una questione anagrafica, di non
aver potuto per ragioni di età partecipare alla Resistenza.
Ci sono molti antipartigiani che vedono nei partigiani un
reducismo privilegiato e fastidioso. Curioso reducismo.
Curioso privilegio. Cinque anni dopo la liberazione i carabinieri della val Maira riferivano sul mio conto a un magistrato: «Si ricorda che circolava armato con atteggiamenti
spavaldi». E anche io, come dice Spike Lee, sparavo e poi
scappavo18.
Lee è tornato a difendersi affermando:
Signor Bocca, io non sono suo nemico. Io non sono nemico
dei partigiani. Il mio discorso completo esprimeva il concetto
che i partigiani non erano universalmente amati dalla popolazione italiana. Del resto, come poteva essere diversamente,
visto che l’Italia si trovava nel pieno di una guerra civile, con
famiglie lacerate, fascisti contro partigiani? Conosco la storia. Stavo facendo un esempio di guerra con tecniche di guer18 http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/spettacoli_e_cultura/spike-stazzema/
bocca-1ott/bocca-1ott.html.
127
riglia. Le tattiche usate dai partigiani contro i nazisti sono le
stesse usate da Fidel e dal Che a Cuba, dall’Anc nel Sudafrica dell’apartheid, dai Vietcong in Vietnam, dai Mau Mau in
Kenya e dai miei antenati contro gli schiavisti in America19.
La posizione assunta dal regista americano e le polemiche confermano il cambiamento avvenuto nella rappresentazione della Resistenza.
Come quasi tutti i film sulla Resistenza dell’epoca contemporanea
questo film ha suscitato delle polemiche furiose di accuse e controaccuse. Anche se l’intenzione dichiarata di Lee fosse di raccontare una
finzione ispirata a fatti storici, con lo scopo di richiamare l’attenzione
a un fatto storicamente trascurato: il contributo dei neri durante la
guerra, in Italia si è ritrovato a difendersi dall’accusa di aver offeso il
valore storico della Resistenza.
Nel 2009 esce diretto da Giorgio Diritti, presentato al Festival
Internazionale di Roma dove vinse il Marco Aurelio d’Oro assegnato
dal pubblico. Nella versione originale il film è in dialetto bolognese
con sottotitoli in italiano e nei titoli di coda si dichiara che i personaggi e le vicende del film sono frutto di finzione, mentre lo sfondo
storico (la strage di Marzabotto) è reale. Tuttavia alcuni personaggi
del film sono realmente esistiti20. Difatti il film ambientato nel 1944
racconta gli eventi che precedono la strage di Marzabotto visti attraverso gli occhi di Martina, una bambina di otto anni che aveva smesso
di parlare. La strage è preceduta dall’arrivo del freddo che sembra
predire l’arrivo della guerra. L’invadenza dei soldati tedeschi e di
partigiani scompigliano l’ordine dettato dalle stagioni e dal lavoro
agricolo. Lo sguardo profondo di Martina accompagna lo spettatore
19 Ibidem.
20 Riporto la risposta di Diritti a Cineuropa riguardo alle ricerche fatte in merito alla
strage:
Research that, however, was conducted for The Man Who Will Come…
Yes, it was long and laborious: preparation lasted many years, during which –
along with the studies and documents – we also met with survivors and Resistance fighters, people who lived through those events. Normal people who dreamt of
living, loving, raising their children, who suddenly found themselves overwhelmed by something external the sense of which they didn’t understand. It was a
massacre of innocents, and I wanted to depict it “from below”, through the eyes
of a child, Martina, in which all viewers can see themselves.
http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024
128
attraverso la vita contadina di tutti i giorni e si sofferma sulla bellezza
delle cose e su i semplici eventi che accompagnano il corso della vita.
La quotidianità e il lieto evento della nascita del fratellino di Martina
vengono interrotti dal rastrellamento dei soldati tedeschi che fanno
una strage. Martina, illesa, torna a casa e sola accudisce il neonato
fratellino cantandogli un ninna nanna. Martina che aveva smesso di
parlare quando il precedente fratellino, le era morto in grembo, torna
a parlare con il neonato in braccio.
Diritti il regista, a differenza di Spike Lee non prende posizione,
non ci mostra che cosa sia veramente accaduto a Marzabotto per far
scattare la rappresaglia Nazista. Lo spettatore non capisce se i partigiani abbiano una responsabilità. Il film si limita a raccontare i fatti
che il regista è andato a ritrovare negli archivi. Il film si allontana dal
genere resistenziale presentando la tragedia della guerra senza assegnare colpe, oppure meriti. L’uomo che verrà è forse rappresentato
dal neonato e da Martina, entrambi scampati al massacro, e la loro
sopravvivenza rappresenta il dono della vita sopra la follia umana.
Loro diventano icone che devono insegnare alle future generazioni gli
orrori sofferti da una comunità per evitare che gli uomini continuino
ad ammazzarsi.
Per concludere, la rappresentazione cinematografica del partigiano combattente per la Liberazione in nome dell’antifascismo è
scomparsa dal grande schermo con l’avvento della Guerra Fredda e
quando è ritornata ha iniziato a mostrare le fratture che separavano le
diverse anime della Resistenza affossando il mito di una Resistenza
concorde e unanime. I film che hanno rappresentato la Resistenza
mostrano non soltanto la storiografia del movimento antifascista e
antinazista ma mostrano come il soggetto sia stato politicizzato nel
corso degli anni. Dall’esaltazione dei partigiani si è passato a una
maggiore comprensione della complessità del fenomeno fino a mettere in discussione la legittimità del mito come vera fonte dell’identità comune della nuova Italia repubblicana. Il patriottismo di tutti i
partigiani offre ancora una serie di valori unitari nazionali e di esperienze unificanti che sono degni di una società democratica e antifascista anche se si continuerà a interpretarli politicamente e da ottiche
diverse. Molti degli ultimi film sulla Resistenza spesso sembrano
mettere in cattiva luce il ruolo avuto dalle brigate comuniste che
invece all’inizio erano al centro dell’esaltazione patriottica, oppure
denunciano gli orrori della guerra senza prendere posizione oppu-
129
re dare interpretazioni politiche, inoltre le stragi naziste diventano
ammonimento universale contro la violenza21 senza ideologismi22.
Bibliografia essenziale
Battaglia Roberto, Storia della Resistenza italiana: 8 settembre 194325 aprile 1945. Torino: Einaudi, 1992.
Forgacs, David. Fascim and anti-Fascism reviewed; Generations,
History and Film in Italy after 1968 in H. Peitsch, C. Burdett and
C. Gorrara (eds) European Memories of the Second WOrl War,
Berghanhn, New Tork. 1999.
Scoppola, Pietro, 25 aprile. Liberazione, Torino: Einaudi, 1995.
21 Le risposte di Diritti alle domande del cronista di Cineuropa mettono in rilievo
l’attteggiamento dei nuovi registi verso la Resistenza. Importanti appaiono anche
le sue osservazioni sul film di Spike Lee.
Cineuropa: Why did you choose to make a film about the Monte Sole massacre?
And why do you think Italian cinema was so silent for so long on the subject?
Giorgio Diritti: Not just our cinema, but Italy itself has essentially repressed the
most heinous chapters [of its history]. It has not come to terms with what was a
civil war, albeit an undeclared one. It has preferred to make films on the stereotypes of the Resistance, or else give in to triumphalism, instead of reckoning with
the many facets of history, whose memory it is important to keep alive. Especially when it comes to events such as the Monte Sole massacre. What happened 60
years ago in Italy is happening elsewhere today, and we must stay vigil so that
civilians are always protected, and so that ideologies such as those that led to
these massacres do not take hold.
Before your film, Spike Lee also tackled these subjects. Have you seen Miracle
at St. Anna [trailer]?
Of course, but only after I finished shooting, I didn’t want to be influenced in any
way. What I can say, and I’m sorry given my admiration for Spike Lee, is that
his approach was not very historically attentive, and was instead “novel-esque”.
Its limit is that it’s not credible, it belies the difficulty an American director has
in understanding what happened in Italy, especially if lacking sufficient information. It’s as if I were to make a film about the Bronx without doing extensive
research first.
http://www.cineuropa.org/2011/it.aspx?t=interview&l=en&did=129024
22 Questo non è il caso nel film di Michele Soavi, Il sangue dei vinti del 2009,
ispirato all’omonimo libro del 2003 di Gianpaolo Pansa. In questo film la lettura
ideologica evidente in tanti film del passato sulla Resistenza è sostituita da una
falsa interpretazione della storia in cui i Partigiani e i Repubblichini sono due
facce della stessa medaglia e per condannare quelli che erano dalla parte del
giusto, si ricorre all’ipocrisia che bisogna rileggere la storia dalla parte dei vinti.
130
131
parte seconda
La commedia
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Gaia Capecchi
Virzì e la “poetica dell’ovosodo” fra riso e malinconia
1. Paolo Virzì e la nuova commedia italiana
Toscano, classe 1964, Paolo Virzì è ormai considerato uno dei legittimi eredi della «commedia all’italiana». Da essa ha mutuato la
medietas popolare, la capacità di fondere riso e malinconia, nonché
quell’affetto per i personaggi che non è mai disgiunto da uno sguardo impietoso sui loro vizi. «Scrivi quello che conosci!», gli suggerisce il suo maestro Furio Scarpelli, scomparso poche settimane fa
e indimenticato autore, con Age, di molti dei capolavori della stagione d’oro del nostro cinema (da I soliti ignoti a La grande guerra,
C’eravamo tanto amati o La terrazza). Virzì ascolta il suggerimento e
resta tenacemente attaccato a ciò che sa, che ha vissuto, che ha potuto
osservare con i propri occhi. Così lo vediamo muoversi ugualmente
bene fra i vicoli stretti e spazzati dal vento della sua Livorno – il mare
di là dal vicolo, dietro il prossimo angolo – o per le strade ampie e
monumentali di una capitale estranea, che sembra sfarsi sotto al peso
dei propri sogni, fasulli, di rivendicazione e di gloria. E i suoi film,
mentre non dimenticano il passato di Monicelli, Risi, Scola, si aprono
sempre al presente, rilasciando un ritratto amaro ma insieme anche
buffo e appassionato della contemporaneità.
Virzì si schermisce quando gli si ricorda questa eredità, eppure
non la nega. Del resto, al di là delle citazioni e degli omaggi palesi
presenti nei suoi film, il rapporto di filiazione è stretto, rintracciabile
soprattutto in quella speciale mescolanza di tragico e comico, nell’attenzione allo sfondo sociale dietro ai personaggi e nella lontananza
dal genere «alto». Certo, non si tratta di un pedissequo ricalcare le
orme dei padri; anzi, Virzì stesso dichiara:
134
Le mie differenze dalla commedia all’italiana? A volte mi sento meno riappacificato con le cose della vita, credo che anche
in Ovosodo ci sia un substrato di rabbia1.
Il fido compagno di scrittura Francesco Bruni rincara la dose:
L’accostamento con la commedia all’italiana di Monicelli,
Age, Scarpelli, mi lusinga ma credo che nel frattempo si sia
aggiunto un sentimento di pessimismo. Credo che abbia influito anche la commedia inglese alla Ken Loach2.
Insomma, la rabbia e il pessimismo si aggiungono all’atmosfera tragicomica della classica commedia all’italiana e proiettano sulle storie
del regista livornese ombre più tormentate, come si vede bene fin dal
suo esordio e come si continuerà a notare in tutti i suoi film. Si assiste
dunque a un aggiornamento moderno della commedia all’italiana, a
un suo adattamento in chiave più angosciosa a questi tempi che appaiono al regista cupi, confusi, melmosi. Eppure, il guizzo del sorriso
spunta sempre; e la lacrima non è mai separata dalla risata schietta,
cristallina.
Ne è passato di tempo dalla sua prima opera (La bella vita, 1994),
ma la luce di certe scene, l’amarezza dolciastra che resta attaccata in
gola, l’allegria triste dei sorrisi quando ci si dice addio o si prova a
dire una bugia, ecco, quelle non sono cambiate. C’è sempre quello
struggimento, quella melanconia che lucida gli occhi, a dire che sì, è
un film di Virzì che stai guardando, e di chi altri?
La sua ultima opera, La prima cosa bella (gennaio 2010) è il titolo
di una canzone di Nicola di Bari e riprende con un chiasmo evidente
quello di sedici anni fa: “bella – bella”, a incorniciare volti di uomini e donne che fanno tutto quello che possono, pur di non lasciarla
scorrere invano, la vita. In effetti il tema della bellezza del vivere
nonostante tutto, al di là dei dolori e degli inganni, anche in mezzo al
sopruso, alle botte, alle illusioni infrante, non abbandona mai i personaggi di Virzì, accompagnati sempre dall’occhio del regista che ne
osserva ogni ruga, ogni anfratto dell’animo, ogni errore e ogni attesa.
Caratteristica precipua di Virzì, infatti, è la sensibilità per il piccolo,
1 Maurizio Porro, «Corriere della sera», 7 settembre 1997.
2 Francesco Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, Recco, Le Mani, 2010, p. 168.
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l’attenzione al minuto, la capacità di cogliere le minime sfumature
dell’animo, sia esso fatto di purezza e di slanci sinceri, sia di avidità,
egoismo e bassezza. Non c’è indulgenza ma neanche giudizio, quando la macchina da presa indaga le scelte dei protagonisti, le loro vite
imperfette, perché c’è sempre la consapevolezza profonda, sgomenta
e divertita, che le stesse scelte, gli stessi errori potrebbero essere i
nostri. Anche noi vinti da quel senso di inadeguatezza, da quell’essere
fuori luogo sempre e ovunque, che è uno degli aspetti più forti di tutto
il cinema di Virzì.
Gli occhi innocenti spalancati sul mondo, impauriti eppure curiosi; la paura e l’eccitazione che prendono quando si fugge via; l’angoscia del sentirsi diversi e soli; la bellezza faticosa del vivere come
si può. Tutto ciò anima i film di un regista livornese che è arrivato
anche in America, avventurandosi in viaggi rocamboleschi e saltando
di rincorsa da un treno all’altro, come un Huckleberry Finn dei giorni
nostri.
Gli aspetti sopra descritti sono facilmente rintracciabili lungo tutta
la filmografia del regista ma i film in cui sembrano assumere un risalto più evidente sono quattro: La bella vita (1994), Ovosodo (1997),
Baci e abbracci (1999) e La prima cosa bella (2010).
2. La bella vita: «malinconia, grigiore, struggimento»
Il debutto di Virzì alla regia reca la data 1994 e il nome di una città
di porto e di mare, di metallo e d’acciaio: Dimenticare Piombino. Il
film, che esce poi nelle sale col titolo La bella vita, è interpretato dai
giovani Sabrina Ferilli, Claudio Bigagli, Massimo Ghini e racconta la
storia non nuova di un triangolo amoroso «di ambientazione popolare» (come lo definisce lo stesso Virzì), ricalcata su Romanzo popolare
di Mario Monicelli e su Dramma della gelosia di Ettore Scola: una
bella moglie annoiata che lavora come cassiera in un supermercato
tradisce il marito distratto e cassaintegrato con un amante belloccio,
fatuo come lo sbuffo di una sigaretta (non a caso, viene scelto per
lui il metonimico nome di Gerry Fumo). Anche se la vicenda ha per
sfondo la crisi dell’acciaio degli anni Novanta, le agitazioni sindacali,
la vita sempre uguale e monotona della piccola provincia, tuttavia
il film non ha specifiche velleità di denuncia: infatti non è tanto una
ricerca sociologico-politica, quanto umana, antropologica. È più che
136
altro la storia di una «piccola famiglia che va in crisi sotto i colpi della
seduzione e della recessione» (ancora Virzì); la storia di un malessere
visto dal basso, che schiaccia i tre umili protagonisti Mirella, Bruno
e Gerry, ma che potrebbe toccare benissimo a ciascuno di noi. Quello
che vuole Virzì è guardare dentro a queste persone, siano cassiere di
supermercato o conduttori televisivi da pochi spiccioli:
Degli esseri umani mi interessa soprattutto la vicenda interiore e questo può suonare strano nell’ambito della commedia.
In realtà, io ritengo che la grandezza di certi bei film italiani
venga proprio da lì: in mezzo ai lazzi e ai ritrattini ironici c’era
fondamentalmente uno sguardo triste, c’era il dolce racconto
dell’infelicità delle persone3.
Il film – che riceve a Venezia il Ciak d’oro come miglior lungometraggio del «Panorama italiano», il Nastro d’Argento e il David di
Donatello per il miglior regista esordiente – risente comunque di una
certa imperizia da opera prima, come ammette lo stesso regista:
Credo che si veda, il film è rudimentale, coi primi piani e le
scene ferme […] Forse quel film non ha proprio delle riprese
spettacolari, da mozzare il fiato, ma non mi pare nemmeno
che fossero necessarie. Servivano semmai malinconia, grigiore, struggimento4.
Ed eccolo qua, lo struggimento. Guardiamo il suo primo film e già
ci troviamo a fare i conti con uno dei sentimenti dominanti di tutta l’opera di Virzì: quella melanconia inspiegabile, quel consumarsi
del cuore, quell’arrovellarsi dell’anima che tanta parte avranno nelle
storie di tutti i personaggi futuri. La «malinconia e il grigiore» di quegli sfondi che starebbero benissimo in un romanzo di Carlo Cassola,
un autore che Virzì ama tanto, perché legato alla sua stessa forma di
«realismo esistenziale», di attenzione a ciò che sembra contare meno,
rimanere al di sotto della coscienza pratica, come egli stesso spiega:
3 Goffredo Fofi (a cura di), La tribù di sinistra e la tribù di destra, in ferie, ad agosto
– Paolo Virzì, in «La Terra vista dalla Luna », n. 15, maggio 1996, p. 63.
4 Gaia Marotta (a cura di), Per fare lo sceneggiatore bisogna avere qualcosa da
raccontare, per fare il regista bisogna essere un grande affabulatore, in <http://
www.treccanilab.com/virzi.htm, 2007>.
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La verità poetica non appartiene alla coscienza pratica, ma alla
coscienza che sta sotto, alla coscienza subliminare. L’emozione poetica è proprio di quei momenti privilegiati in cui l’attenzione pratica viene meno, si squarcia il velo opaco che
nasconde le cose e queste ci appaiono nella loro realtà.
Una poetica che si sposa bene anche con Virzì, così attento a quegli
infinitesimali «momenti privilegiati» in cui «si squarcia il velo» e si
arriva alla poesia. L’emozione poetica e quel sorriso che non si sa
se nasconde tristezza o gioia ma si apre quando, nel finale del film,
Mirella e Bruno ormai separati si scrivono raccontandosi le loro piccole minutissime vite.
3. L’Ovosodo che non va né in su né in giù
Con Francesco Bruni e Furio Scarpelli, Virzì nel 1997 scrive Nato da
un cane, sottotitolo La vita eccezionale di un ragazzo come tanti, poi
diventato La vita di rincorsa e infine Ovosodo, dal nome del quartiere
livornese Benci Centro, rinominato così perché durante il Palio marinaro i vogatori indossano una maglia bianca con una striscia gialla al
centro, che li rende simili a uova sode. Il terzo film è una delle opere più
sentite e personali del regista, che lascia trasparire numerosi elementi
biografici sia nella trama sia nell’ambientazione, una Livorno fatta tutta
di ciminiere, facce bruciate dal sole, lingue svelte e cucine con le pareti
gialle: una città di fiera tradizione comunista dove i quartieri popolari
hanno nomi esotici come Corea e Shangai. La stessa Livorno da cui
Paolo Virzì si è allontanato ragazzo per fuggire a Roma e con cui adesso, forse, tenta una prima riconciliazione. L’amico Bruni ricorda:
È una città meravigliosa, però è anche chiusa. Un luogo certamente ingenuo e naïf ma anche un posto dove è difficile
esprimersi al massimo. Nel nostro lavoro c’è un’eco di quella
sensazione di soffocamento che ci prese a un certo punto della
nostra vita5.
La città di mare fa qui da sfondo a un bildungsroman tragicomico,
5 Francesco. Bruni, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit.,
p. 184.
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tenero, sudato, dagli echi dickensiani: cresciuto in un quartiere coi
panni stesi nei cortili e le vecchie alla finestra, Piero perde la madre
da piccolo e vive con un fratello ritardato e un padre che non fa altro
se non entrare e uscire di galera. Ha un’unica amica: la sua insegnante
delle medie Giovanna (Nicoletta Braschi) che gli trasmette la passione per la lettura e sembra capirlo nel profondo. Quando arriva al
Liceo classico «Giorgio Caproni», all’Ardenza – luogo che per uno
del suo quartiere è «esotico come Beverly Hills» – Piero si sente del
tutto estraneo, diverso, isolato. Per forza, lui è cresciuto in un palazzone scrostato, fin da bambino si è dovuto scontrare con personaggi poco raccomandabili e ha mangiato la terra del polveroso cortile
comune, un posto che l’alternativo compagno di classe Tommaso
(Marco Cocci) definisce: «Bellissimo. Sembra Napoli, Berlino, Bucarest». Proprio la conoscenza con il ribelle Tommaso, capelli rasta e
perenne bisogno di soldi, farà entrare Piero in un mondo meraviglioso, eccitante e sconosciuto, fatto di corse in motorino, canne, occupazioni della scuola, ragazze; salvo poi scoprire che l’amico prediletto
è il rampollo scapestrato di un ricco imprenditore, proprietario delle
acciaierie che inquinano la parte povera della città. Fra liti, riconciliazioni, perdite, viaggi a Roma, ragazze inutilmente amate o dolcemente innamorate, Piero viene bocciato alla maturità e finisce a fare
l’operaio. In mezzo a tutto questo, c’è spazio anche per il dolore sordo
di un suicidio, quello dell’amata professoressa amica Giovanna, la cui
fragilità non ha potuto far fronte all’urto della vita. Eppure, nonostante tutto, Piero, così apparentemente disadatto a tutto se non al sogno,
non soccombe; ma anzi sposa la ragazza che lo ha sempre amato e si
dichiara, alla fine, felice:
Tutte le mattine […] Susy mi accompagna al lavoro in macchina. E tutte le mattine, che piova o ci sia il sole, lei mi dice
la stessa identica cosa: – sei sempre più bello–. E io vado a
lavorare contento. Chi lo sa, forse sono rincorbellito del tutto,
o forse sono felice…a parte quella specie di ovo sodo dentro,
che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia
come un vecchio amico.
«L’ovosodo che non va né in su né in giù». Quel groppo alla gola che
piglia e non si sa perché. Quel senso di rabbia frustrata o d’infelicità
ingollata, quella piccola rivincita personale, quella felicità tuttavia,
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fatta di nulla ma importantissima e vera per il giovane Piero che si
diverte a raccontare ai compagni operai della fabbrica Grandi speranze come fosse una soap-opera. Mentre l’ovosodo che gli balla nel
cuore e nella gola, alla fine, si rivela l’unico modo per affrontare la
vita, con qualunque faccia essa si presenti. Il titolo del film diventa
allora manifesto, dichiarazione programmatica, cifra distintiva di un
regista che cercherà sempre, nei suoi personaggi e anche nel pubblico, di tirar fuori quel magone lì, quell’inesprimibile groviglio di
emozioni compresse ma fortissime che sta nascosto dentro ciascuno
di noi.
L’esordiente Edoardo Gabbriellini è perfetto per impersonare Piero, perché ha «un volto da tunisino, egiziano, greco, palestinese. Una vera faccia da livornese arcaico, figlio di figli del popolo
mediterraneo»6 (Carlo Virzì) e nonostante non sia del tutto a suo agio
con le regole del set, apporta al film una freschezza e una verità che
colpiscono l’allora Presidente di giuria al Festival di Venezia, Jane
Campion, che tributa a Ovosodo il Gran premio speciale della giuria. Il film di Livorno ha un travolgente successo anche fuori dalla
città, racimolando nella stagione 1997-1998 oltre dodici miliardi di
lire: segno che la storia, pur parlata e vissuta in terra toscana, travalica il regionalismo per diventare universale. Livorno diventa luogo
dell’anima, entità metageografica, rifugio dell’innocenza e della ferocia giovanili. Non si parla più solo di Piero Mansani, quartiere Ovosodo, Livorno, ma di ogni giovane uomo che tenti, goffo e roccioso,
di affermare la propria «vita di rincorsa».
4. Baci e abbracci:
una comune strampalata dove «non si soffre più!»
Il magone che Piero si tiene dentro si ritrova nei personaggi buffi,
sgraziati e perdenti di Baci e abbracci, un film piccolo, diretto nel
1999 con attori quasi tutti dilettanti e ambientato nelle campagne della val di Cecina. La storia, in cui si alternano delusioni, speranze,
attese trepide e amarezze, è quella di tre ex-operai che, pensando di
trarne un grande profitto, aprono un allevamento di struzzi. Non ottenendo però i risultati sperati, Renato, uno dei tre, decide di invitare
6 Carlo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 100.
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a cena per la vigilia di Natale l’ultimo fidanzato di sua sorella, un
assessore regionale da cui spera un finanziamento. Per un equivoco,
arriva invece al casale un ristoratore sull’orlo del fallimento (Francesco Paolantoni), reduce da un tentato suicidio (uno dei tanti tentati o
riusciti nei film di Virzì). L’uomo si ambienta bene in questo clima
di festa, fra ragazzini, donne procaci, vecchi e musicisti scalcagnati
(gli Amaranto Posse, ovvero gli Snaporaz, il gruppo del fratello di
Paolo, Carlo Virzì, che fornisce una vera e propria colonna sonora in
diretta sul set). Quando, la mattina di Natale, la sua vera identità viene
smascherata, il ristoratore invece di andarsene prepara un bel pranzo:
intorno al tavolo, tutti mangiano, cantano, ridono e si scaldano; mentre fuori, dalle uova, nascono dei piccoli struzzi.
Sul set, sempre pieno di struzzi e di fango a causa dell’acqua artificiale, con gli attori imbacuccati sotto vestiti pesanti per simulare
l’inverno in piena estate e un abbondante rifornimento di bottiglie
di Lupicaia rosso del conte Rossi di Medalana, si crea un’atmosfera
conviviale da gita scolastica o da festa paesana, ideale per rappresentare la storia di questi lavoratori disoccupati che alla fine, dopo
bugie, segreti, agnizioni, trovano un momento di ritrovata, chissà se
solo momentanea, armonia. Durante le riprese, le campagne di Cecina diventano una sorta di circo permanente, di delirio organizzato
che non spaventa affatto il regista: anzi si ha l’impressione che egli
– cosa per lui non insolita ma già manifestata durante la lavorazione
di Ferie d’agosto (1995) – non voglia disciplinare il set ma immergersi nell’osservazione divertita degli attori, per sfruttarne al meglio le
dinamiche, le tensioni, le energie sotterranee. La fotografia “sporca” e
calda di Alessandro Pesci, che dà al film quel carattere invernale così
intimo e familiare, è particolarmente suggestiva in una delle scene
emblematiche del film: il momento in cui, alla sola luce di tremolanti candele, dopo canzoni di Natale e una I will survive suonata alla
chitarra, s’abbracciano e saltano tutti insieme gridando in una specie
di rito collettivo propiziatorio: «Non si soffre più! Non si soffre più!
Non si soffre più!». In quel momento allo spettatore vengono i brividi
per l’emozione, si sente anch’egli travolto da un’ondata di ottimismo stolto e vorrebbe abbracciare il suo vicino di poltrona, in preda
allo stesso struggimento scomposto dei protagonisti del film. Ed ecco,
ancora una volta ci sorprendono l’allegra mestizia o la malinconia
gioiosa. Ancora un volta l’ovosodo che resta impigliato a metà gola
non ci lascia scampo.
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5. La prima cosa bella: un’autobiografia finta e struggente
Nella primavera del 2008 a Virzì viene voglia di ricordi di giovinezza.
Sfoglia allora i vecchi album di famiglia, in cui trova le fotografie di
sua madre Franca alle prese col canto; e decide di tornare a Livorno.
Forse è pronto per recuperare quelle radici che ha, molti anni prima,
estirpato, allontanandosi da quello che lui stesso più volte ha definito un «sublime posto di merda». Diventa forte adesso il bisogno di
ritrovare se stesso, la sua famiglia, le sue vie. Nasce così, da questa
urgenza di riconciliazione definitiva, La prima cosa bella, girato a
Livorno nel 2009 e uscito nelle sale il 15 gennaio 2010. Scrivono la
sceneggiatura con lui il fedele Bruni e Francesco Piccolo, che ha già
collaborato a My name is Tanino. La storia della famiglia Michelucci,
raccontata nel film, mostra dunque una decisa ispirazione biografica:
La famiglia Michelucci non è la mia famiglia, anche se credo di avere saccheggiato tante cose della mia vita. È un’autobiografia finta, come quella praticata dai romanzieri. Bruno è
un mio alter-ego, è un eroe letterario che ha qualcosa del suo
autore. Ma è un trucco7.
Il film ci offre un racconto in apparenza tragico che si rivela però
gioioso, struggente e pieno di sentimento:
È il kolossal livornese, un film sullo struggimento della famiglia Michelucci, dove circola solo l’umanità.
Allora vediamola, la storia di questa famiglia Michelucci. Bruno
(Valerio Mastandrea) è un insegnante di lettere e vive a Milano, dove
si è trasferito dopo aver lasciato Livorno, la sua città. È un uomo tormentato e scontroso, che ha difficoltà a esprimere i propri sentimenti, fa uso di droghe e cerca di sopravvivere ai ricordi di un’infanzia
travagliata. Ciò da cui più di tutto vuole tenersi lontano è l’ingombrante madre Anna (Stefania Sandrelli), una donna esuberante e vitale, prima bellissima e adesso malata terminale, che la sorella Valeria
(Claudia Pandolfi) vuole però fargli riabbracciare prima che sia tardi. Bruno intraprende dunque controvoglia un viaggio nei luoghi del
passato che tanto ha detestato: ritorna a Livorno, rivede la bellezza
7 Paolo Virzì, in Alessio Accardo – Gabriele Acerbo, My name is Virzì, cit., p. 163.
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non voluta di quella giovane «Miss Mamma» (Micaela Ramazzotti)
che lo metteva sempre in imbarazzo, ricorda il padre manesco che li
cacciò di casa per troppa gelosia e rievoca con un dolore anche fisico
l’incoscienza gioiosa di una donna che viveva sempre sorridendo. Nel
film, costruito su un continuo alternarsi di presente e passato, «la luce
casca su Anna» – come ha dichiarato in diverse interviste il regista –;
è lei il centro vitale e luminoso di tutte le vicende. Ispirata in qualche
modo alla madre di Virzì ma ricalcata soprattutto sulla figura della
ragazza disponibile alla vita, lieve, svampita ma non sciocca che era
l’Adriana di Io la conoscevo bene (1965), Anna Nigiotti in Michelucci si staglia con nettezza vivida sullo sfondo gretto di chi la circonda:
fragile e forte della propria autenticità, è vittima della chiusura e della
malizia della gente, che non comprende la sua disperata gioia di vivere. Quando alla fine, al suo capezzale, si ritrovano figli perduti o mai
veramente partiti, si canta e ci si sposa, si soffre e si ride per l’ultima
volta, allora prende vita di fronte a noi l’immagine del tutto sconclusionata di una felicità concreta, terrena, tangibile, che forse Bruno e
Valeria credevano impossibile ma in cui Anna, invece, non ha mai
smesso di credere:
Il mio film è un inno alle persone fragili, più che alla famiglia.
Questa giovane donna, anche bischera e svitata, ha dentro la
poesia del vivere. Come diceva Tolstoj, le famiglie si somigliano, ma ogni famiglia è felice a modo suo.
Così esci dal cinema e ti sembra che la vita sia tutta lì, in quei tinelli
slavati dove accadono le cose, fra i vestiti stropicciati di due bambini
e una donna, nelle vecchie strade scrostate di Livorno o nelle feste
al mare con le lucine che dondolano. Il vento; il vento spazza tutto.
Nell’aria il sale si sente e si sente la gioia, il dolore, la malinconia che
ti spezza le vene da quanto è tanta, vigliacca, nascosta in uno zucchero filato, in un giro in motorino, in vecchie fotografie appese al muro
o nascoste nei cassetti. In un figlio ormai uomo quando si lascia con
malgarbo abbracciare dalla madre che balla. La vita è lì dove si respira forte la passione, la paura, la dolcezza, la gelosia, la disperazione
di uomini e donne che si prendono e si perdono, così, a strattoni e rincorse sotto la pioggia. È la storia di esseri forti, rocce contro tempesta
che però si spezzano; si sbriciolano fragili a terra, si decompongono
sotto la bellezza – troppa –, sotto l’amore – troppo. Ma poi ritornano
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sempre pietra e stanno in piedi o accucciati nella notte e non gliene
importa più nulla del freddo, del male, della distanza: siamo tornati
pietra, nessuno ci butta giù, noi si canta uguale, alla fine un posto
si trova. E nello struggimento della musica, della carne, di Livorno che è tutta spigoli ma pare stondata sotto la luce aranciata della
memoria, c’è questa donna che cammina inciampando; questa madre
che intrampola ovunque, vestita di fiori e sigarette rubate, coi capelli
spettinati, bagnati, a volte senza verso, che le cadono dappertutto,
addosso. Ha occhi grandi, sorride ma chissà e tutti ne pigliano un
po’– di lei –, se n’abbeverano perché lei è così: bella come son belli i
cerbiatti, le puttane, le tovaglie bianche. Che se passano davanti non
ci si può fare nulla ma vien la voglia di sventrarli, amarli, sporcarli e
tenerli per sempre appiccicati al cuore, anche se un po’ vergognandosi, svicolando di nascosto lungo i muri. È tutta una catastrofe nel suo
farsi, questa storia, un continuo spaccarsi di qualcosa, uno slabbrarsi
di vite, di famiglie, di sentimenti. Eppure tutto si ricompone: madri,
figli, fratelli, mariti, amanti. Tutto alla fine appare comprensibile, persino giusto: è l’inevitabilità del vivere grosso, quando dietro le porte
non ci si piglia solo a sberle ma anche si fa l’amore, ci si ritrova, ci si
sposa. Son dolci i bambini quando sembra che non capiscano e invece
capiscono, sono dolci ma anche tenaglie che ti stringono lo stomaco:
e lei che ride e si stupisce e ha paura ma ride sotto la frangetta piccola;
e lui che invece non ride mai e ha labbra all’ingiù e occhi neri di cane
da guardia, appostato dietro i muri, negli angoli, da dove la mamma
appare persa, fragile, sempre più bella. E insomma alla fine esci e sei
preso dalla spaventevole meraviglia del ridere quando si muore, del
cantare quando si sbaglia, del ferirsi quanto più ci si ama. Vuoi bene
a tutti, fuori nella notte, e avresti voglia di fare un bagno al mare,
proprio come Bruno nella scena finale.
Ma sì, certo, lo sai benissimo cos’è tutto questo. È il solito ovosodo. Quell’ovosodo che non va ne in su né in giù; che resta lì, a metà
gola; che ti fa ridere e piangere e sentire, ancora una volta, vivo.
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Claudio Mazzola
Gioventù bruciata all’italiana:
tra James Dean e la mamma
La fine della Seconda Guerra Mondiale segnò, per la maggioranza
delle nazioni europee, il ritorno alla normalità, politica se non economica, della fine degli anni trenta. Per l’Italia, invece, si trattò di
voltare una pagina ben più pesante; si doveva ricominciare dagli anni
venti, dagli irrisolti problemi che il paese si trascinava dall’unificazione e che il Fascismo aveva temporaneamente fatto dimenticare.
Non sorprende, quindi, che qualsiasi mutamento di tipo economico o
sociale che investì l’Europa post-bellica trovasse in Italia un terreno
molto più complesso entro il quale manifestarsi. Ad esempio, la nuova generazione, che emerse a sostituire quella che aveva messo fine
alla tragica esperienza nazi-fascista, si trovò di fronte a mutamenti
economici così radicali che l’intero tessuto sociale ne avrebbe risentito. In Italia queste novità si scontrarono da un lato con una cultura
prevalentemente di tipo contadino che da secoli era radicata su tutto il territorio italiano e dall’altra con il ruolo ostruzionista sia della
Chiesa che della Democrazia Cristiana (soprattutto dopo la vittoria
elettorale del 1948).
Il cinema, la cui popolarità nel periodo post bellico era in costante
ascesa, fu la forma artistica più sollecita a dare rilievo alle vicissitudini e alle traversie che caratterizzarono i primi passi dei giovani nella
società degli anni ‘50. Fu il cinema americano a balzare alla ribalta di
questo rinnovamento artistico; in parte perché una società come quella americana, contraddistinta da un mondo politico dinamico, dall’assenza di una rigida divisione in classi tipicamente europea e da una
cultura popolare ampiamente diffusa, aveva meno problemi a dare
spazio all’atteggiamemto ribelle di registi e attori. Il primo passo del
cinema americano di allora fu quello di rifiutare i valori tradizionali
del mondo borghese all’interno di una società capitalista già ben sta-
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bilita, valori consolidati sul grande schermo dalle grandi commedie
degli anni ‘40. Attori come Marlon Brando, Paul Newman e James
Dean, i cui ruoli cinematografici spesso si confondevano con atteggiamenti anticonformisti espressi anche nella vita privata, divennero
delle vere icone internazionali dell’inquietudine della loro generazione. Anche il cinema italiano sembrò abbracciare questi cambiamenti:
verso la metà degli anni ’50 si registro’ una vera e propria invasione di film che avevano come protagonisti giovani teenegers italiani.
Registi e produttori si accorsero che il prodotto cosidetto “giovanile”
poteva rappresentare un buon investimento finanziario e cercarono in
ogni modo di contrapporre ai nuovi eroi del cinema americano delle
icone nostrane che segnassero uno stacco sia dal Neorealismo che dal
cinema dei telefoni bianchi. I risultati, come vedremo, furono contrastanti ma comunque significativi di questa volontà di ricerca di una
propria identità attraverso un ricambio rispetto al cinema precedente.
Un classico esempio di questa ricerca è Riso Amaro di Giuseppe De
Santis, film nel quale il regista sperimenta con vari generi cinematografici mescolando un ambiente tipicamente neorealista con un’iconografia tipica del cinema americano degli anni ’40. Indimenticabili
sono le pose da vamp, stile Rita Hayward, di Silvana Mangano o le
battute da duro con la pistola in mano, alla James Cagney, di Vittorio
Gassman. Riso amaro rimase un esperimento abbastanza unico, ma
evidenziò questa necessità di trovare nuovi volti, nuovi atteggiamenti
e anche nuove modalità espressive e scatenò una vera caccia ad attori e attrici che fissassero in qualche modo delle nuove modalità di
comportamento tipicamente italiane. Ragazzi dai muscoli d’acciaio
in canottiere attillate (ma sempre un po’ galletti e soprattutto tanto
mammoni) e ragazze libere di mettere in mostra i loro seni prorompenti (ma sempre fedeli a una concezione tradizionale del matrimonio
e materne al massimo) divennero i paladini della rivoluzione culturale
che avrebbe dovuto travolgere la società italiana da nord a sud.
Nell’immaginario degli italiani, ormai alla soglia del capitalismo
moderno, la guerra, i partigiani e il Fascismo dovevano diventare solo
un lontano ricordo. Il cinema italiano apriva le porte a un’Italia diversa; niente più noiose storie di anziani pensionati senza soldi per pagare la pigione, o di padri di famiglia senza bicicletta e senza lavoro. La
nuova generazione, aliena da sensi di colpa per vent’anni di dittatura
Fascista, e con pochi ricordi delle ferite di guerra, stava prendendo in
mano le redini del paese. Il problema più grosso rimaneva il fatto che
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le condizioni socio-economiche dell’Italia non erano ancora mature
per uno strappo così deciso e quindi, alla resa dei conti, la nuova
generazione fece fatica a bruciare quello che aveva dietro di sè. Neppure la cultura, laica o cattolica che fosse, guardava con molta simpatia all’emergere della nuova generazione. Di fatto, poi, chi deteneva le leve del potere (e quindi anche la produzione cinematografica)
comprese che il miglior modo di affrontare la situazione era quello di
inglobare piuttosto che di combattere in modo aperto le nuove tendenze e i nuovi modelli comportamentali. Come fa notare Masolino
d’ Amico1, la censura non aveva ancora impostato un proprio codice
morale operativo soprattutto perché l’incertezza politica del periodo
non permetteva ancora scelte precise (anche se vi fu una chiara virata a destra dopo le elezioni del 1948). Spesso la censura si limitava
a salvaguardare certe istituzioni, quali la chiesa e le forze armate,
ritenute, dallo Stato italiano, intoccabili. In un primo tempo vennero
quindi colpiti soprattutto film d’autore, film intellettuali (cioè quelli
neorealisti) mentre per il resto si cercava di trovare dei compromessi
piuttosto che arrivare a un vero e proprio scontro frontale. Episodi
di aperta interferenza censoria come quella che impose un prologo
moralista all’inizio del film I Vinti (1952) di Michelangelo Antonioni
erano piuttosto rari e si sarebbe dovuto aspettare un clima politico più
aspro e opere ben più radicali (quali quelle di Bertolucci, Bellocchio
e Pasolini) per vedere in azione una censura attiva di stampo chiaramente politico. D’altronde registi, ma soprattutto produttori, furono
molto cauti nel non dare spazio ad argomenti che potessero incorrere
nelle pur sempre imprevedibili maglie della censura.
Gli ingredienti principali di quella che poi diventò una vera e propria formula magica furono il riprendere situazioni e aspetti del neorealismo (l’enfasi sulla gente comune, i loro problemi quotidiani, l’uso
di un linguaggio medio-basso), mettere in ridicolo certi tabù e aspetti
quasi atavici di malcostume della vita italiana (l’arte di arrangiarsi, il
familismo, il gallismo, ecc.) e infine sottolineare l’inadeguatezza del
costume degli italiani di fronte ai cambiamenti sociali post-bellici.
Potrebbe quindi sembrare che la commedia di quel periodo prendesse
l’iniziativa di mettere in un angolo e sbeffeggiare l’Italia corrotta e
arraffona offrendo quello che Peter Bondanella definisce «…a dar-
1 Masolino D’Amico, La Commedia all’italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 26.
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ker, more ironic and cynical vision of Italian life»2. In realtà, ciò che
manca a questo cinema è proprio un vero atteggiamento cinico, una
visione che evidenzi distacco e critica delle istituzioni corrotte. Gianni Canova sostiene che alla commedia all’italiana di quel periodo
manca la grinta, il desiderio di far davvero male con le risate:
[…] la nostra commedia non (ha) mai saputo nè voluto frequentare una comicità feroce come quella di Groucho Marx. È
un dato di fatto: da noi, nella maggior parte dei casi, la commedia non irride i potenti, li adula. […] celebra l’arte di arrangiarsi e la assolve ridendoci su3.
Canova mette il dito sul problema fondamentale della commedia
all’italiana, che non è tanto quello di far ridere parlando di problemi
seri, ma di ridere e compiacersi della risata, di lasciare che lo spettatore anticipi la battuta senza mai avere il coraggio di sorprederlo e
spiazzarlo con una svolta inaspettata nella trama o una battuta depistante del protagonista; di fatto la prevedibilità è l’aspetto più tipico
della commedia. Un classico esempio di questo tipo di cinema è Pane,
Amore e Fantasia (1955) il film che forse per primo (visto poi i successivi “pani, amori … e altro” che arrivarono sugli schermi negli
anni seguenti) stabilì alcuni dei parametri strutturali fondamentali su
cui la commedia all’italiana poi sarebbe maturata all’inizio degli anni
’60: stessi attori, stessi sceneggiatori, ma soprattutto stesse situazioni
ripetute all’infinito. L’esuberante sessualità della Bersagliera (una
scoppiettante Gina Lollobrigida), il comportamento impenitente da
incallito Casanova del maresciallo e l’ambigua situazione familiare
della levatrice – sola con figlio a carico – sono spunti tematici potenzialmente esplosivi nell’Italia degli anni ’50; ciò nonostante una sceneggiatura che privilegia l’effetto assicurato della ripetitività (si badi,
non della risata) affidandosi a scenette comiche innoque, una uguale
all’altra, finisce con il minimizzare ogni spunto polemico. La comicità cessa di essere una graffiante e anarchica presa in giro di un certo
malcostume della vita italiana o di un argomento tabù come il sesso e,
quasi impercettibilmente, propone lo status quo quale unica salvezza
dal caos e dal pericolo implicito nei cambiamenti. L’ordine sociale
esistente finisce sempre con il prevalere nel finale che, miracolosa2 Peter Bondanella, Italian Cinema. Continuum, New York, 1983, p. 144.
3 Gianni Canova, L’occhio che ride, Milano, Editoriale Modo, 1999, p. 5.
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mente, riappacifica tutte le parti in causa. Sicuramente meno facile è
proporre soluzioni così riassicuranti quando, oltre ai vizi e alle virtù
degli italiani, si aggiungono i problemi dei giovani alla ricerca di un
proprio ruolo nell’Italia della ricostruzione postbellica. Un caso
esemplare è Poveri ma belli (1955) di Dino Risi, dove la contrapposizione tra gioventù in fermento e la società italiana (ancora legata a
una concezione tradizionale del lavoro, della famiglia e della religione) è al centro della struttura del film. Al discorso narrativo (mise en
scene, inquadrature, movimenti di macchina e montaggio), completamente costruito su brevi scenette ricche di stereotipi culturali facilmente riconoscibili, fanno riscontro dialoghi di facile consumo che
contrappongono in modo alquanto superficiale il vecchio al nuovo.
La sicura presa sul pubblico è anche assicurata dal rigido controllo
della minima unità significante, cioè l’inquadratura, organizzata in
modo da dare massima rilevanza all’aspetto comico, alla battuta finale di ogni scenetta. Al contrario di quanto succede nei film del periodo
neorealista (in particolare Ladri di biciclette o Umberto D) in cui i
personaggi sono spesso isolati nelle inquadrature, stimolando così
una possibile identificazione tra spettatore e personaggi, nella commedia all’italiana lo spettatore resta invece escluso perché la passività
è la qualità essenziale di questa comicità. Una passività incentivata
anche dal fatto che i protagonisti non rivelano una specifica identità
propria, una loro autonomia caratteriale, ma sono invece riconoscibili per tratti stereotipici (il marito donnaiolo, la fidanzata gelosa, la
suocera guastafeste, ecc.); mascherine vuote usate e riusate senza
alcuna variazione. A fare da controparte a questi protagonisti stereotipici ruota una variegata folla di personaggi chiamati solo a fare da
supporto all’effetto comico senza che essi interagiscano realmente
con il personaggio principale stesso che, di fatto, non deve mai nè
crescere nè mutare, onde evitare di perdere la maschera comica. La
folla, quindi, ha una funzione simile a quella di un coro da operetta
che allo stesso tempo sostiene e, però, si fa anche bonariamente burla
del personaggio principale. Esattamente l’opposto di quanto succede,
per esempio, in Ladri di Biciclette e in Umberto D, in cui la folla ha
la funzione di un vero e proprio personaggio che interagisce con il
protagonista, innesca reazioni e presenta atteggiamenti che vanno
dalla solidarietà alla minaccia, sempre comunque in qualità di attiva
presenza nello sviluppo del personaggio. Nella scena finale di Ladri
di biciclette, ad esempio, quando Antonio Ricci decide di rubare una
150
bicicletta nei pressi dello stadio, ai primi piani del protagonista sempre più in difficoltà nel cercare di tenere sotto controllo la situazione,
vengono contrapposte inquadrature in campo medio-lungo della folla
che Ricci percepisce come ostile e minacciosa. Un montaggio veloce,
con alternanza di primi piani e di campi lunghi, evidenziano la tensione psicologica del momento. Ricci è combattuto tra la sua responsabilità privata di padre e quella sociale di padre-capofamiglia. Nel
momento in cui Ricci ruba la bicicletta si espone – sia con il figlio che
con la folla – e il suo personaggio muta, si trasforma; il furto della
bicicletta segnala un cambiamento in cui pubblico e privato si aprono
a una serie imprevedibile di reazioni. Nulla di imprevedibile succede
invece in Poveri ma belli, dove la folla, spesso ripresa in campi
medio-lunghi, che, come dicevamo, ha una funzione passiva. Le
inquadrature sono affollate con una miriade di personaggi, spesso
ragazzini, amici più giovani di Romolo e Salvatore, a cui questi ultimi
vorrebbero fare da modello per la loro esperienza con il mondo in
generale (e le donne in particolare). Il montaggio veloce dà maggior
risalto al dialogo che è costruito tutto attorno alla battuta finale d’effetto, quasi sempre basata sulla riaffermazione della morale comune.
La mise en scene ripropone un quadretto familiare di liti becere e
fastidiose; lo spettatore si confronta con il già visto, si accoccola
all’interno di pareti domestiche tra un vociare che non fa veramente
paura. Nessun cambiamento è sufficientemente rischioso o inquietante da mettere lo spettatore nella posizione di riflettere sulle scelte e le
opportunità di questi personaggi; la mise en scene smorza qualsiasi
potenzialità innovativa lasciando che una comicità opaca e ripetitiva
prenda il sopravvento. Un esempio classico è la prestanza fisica di
questi giovani, simbolo, in teoria, di una forza che non può più accettare compromessi, che rifiutando l’abbigliamento tradizionale ne
rifiuta anche ciò che rappresenta. La stessa potenza fisica che diventa
una parte essenziale della raffigurazione del ribelle nel cinema americano, in Poveri ma belli questo aspetto viene quasi ridicolizzato. I
prorompenti muscoli di Salvatore, che le attillatissime canottiere mettono in risalto in ogni inquadratura, non diventano simbolo di una
nuova forza, di una visione diversa della vita borghese. Anzi, in un
momento chiave del film, i muscoli di Salvatore si afflosciano allorchè il potenziale eroe diviene vittima … degli orecchioni. La cinepresa mostra impietosamente il povero Salvatore ridicolmente abbindato
come un bambino con una fascia sopra le orecchie mentre a letto,
151
impotente, è attorniato da una ciurma di ragazzini petulanti che lo
prende in giro. Salvatore pensa a quello che avrebbe potuto fare se
fosse stato in salute; situazione tipica di questi mancati eroi che pensano sempre a quello che avrebbero potuto essere e fare ma non hanno il coraggio mettere in pratica. Sono vittime della loro stessa incapacità di opporsi in modo chiaro alle ipocrisie o le ingiustizie della
società, e alla fine sperano addirittura di veder le loro doti riconosciute all’interno di quello stesso contesto socio-culturale che invece
avrebbero dovuto mettere in discussione. Il loro presunto comportamento “ribelle” (se ribelle si può chiamare la non voglia di alzarsi al
mattino, il rifiuto di aiutare in casa, o l’interesse per letture di tipo
popolari) non rivela un atteggiamento di critica nei confronti della
società; di fatto, questi giovani accettano i parametri dominanti di una
società maschilista e classisista che promuove un gallismo ridicolo e
un riverente rispetto per le classi più abbienti. Il tutto senza che questi
giovani dimostrino una componente essenziale della ribellione: la
solidarietà di gruppo. Anzi, spesso isolati e ignorati, questi giovani
divengono facile preda dell’ ironia e delle burle del resto della società.
Si riafferma quel concetto dello spettacolo popolare in cui “il diverso” (politicamente, sessualmente, economicamente) viene isolato e
deriso, riaffermando così i valori della maggioranza. In fondo i poveri di Pane, amore e fantasia sorridevano contenti nella realtà un po’
utopistica del piccolo paese abbruzzese; felici di mangiare pane e fantasia mentre il maresciallo veniva rassicurato dalla rassegnazione delle classi più basse.
Nella Roma di Risi non è cambiato molto. Non servono più i binocoli con i quali gli abitanti del paese spiavano le mosse del maresciallo perché la città si reduce a un grande palcoscenico da dove si può
comunque vedere e sapere sempre tutto di tutti. Gli appartamenti dei
due amici sono collocati uno di fronte all’altro e le loro camere da
letto sono praticamente collegate da una ringhiera esterna da dove
passano quasi tutti i personaggi principali del film. La disposizione
degli appartamenti ha un che di teatrale che ricorda certe commedie
goldoniane: il palcoscenico è il luogo della messa in pubblico di vizi e
virtù dei due protagonisti. Qualsiasi evento di rilievo succeda sembra
che si finisca per discuterlo o per commentarlo su questo palcoscenico pubblico. Per assurdo, anche gli esterni generano una certa claustrofobia in quanto Risi ha selezionato un numero limitatissimo di
ambienti, facilmente riconoscibili dallo spettatore, che danno il senso
152
di un limitato spazio d’azione. Si tratta di posti rassicuranti, famigliari, che ricorrono con particolare regolarità: il Tevere nelle vicinanze di Castel Sant’Angelo e Piazza Navona. La piattaforma sul fiume
(dove Salvatore lavora come bagnino) è frequentata da una torma di
bagnanti e l’atmosfera che si respira, con cabine, ombrelloni e musica
popolare, è quella un po’ pettegola e vacanziera, tipica delle spiagge
intorno ad Ostia. Come nel caso dei loro appartamenti, da questo palcoscenico sul fiume passano un po’ tutti i protagonisti che partecipano
a scenette tipiche delle avventure amorose da spiaggia dai risultati ben prevedibili. L’altro luogo che ricorre con frequenza è Piazza
Navona, che però ha una funzione iconografica più complessa. La
piazza rappresenta un punto di riferimento più per lo spettatore che
per i personaggi stessi. È il luogo dove iniziano o si concludono molte
delle scene chiave del film e serve a mettere a proprio agio lo spettatore che non viene mai a imbattersi in luoghi sconosciuti o minacciosi.
Dal tipo di montaggio si ha l’impressione che i luoghi importanti del
film (il negozio del padre di Giovanna, l’abitazione dei due giovani
e di Giovanna stessa) si affaccino proprio su piazza Navona. In un
modo o nell’altro, non appena i protagonisti sono ripresi in esterni la
piazza ritorna quale motivi visivo dominante. Spesso viene ripresa
in campi lunghi che permettono un facile riconoscimento delle fontane e dell’obelisco. Liti e abbracci, incontri casuali e appuntamenti
vengono consumati tra la simmetria familiare di Piazza Navona dove
Romolo e Salvatore restano pateticamente immersi in situazioni senza uscita, accontentandosi di recitare la loro parte senza fine.
Questo uso di ambienti familiari è in netto contrasto con il cinema americano di questo periodo, che, come abbiamo già detto, mette in questione l’ambiente di casa, i valori borghesi, il perbenismo
moralista al nascere della nuova realtà economica. È un cinema che
lavora prima che sul costrutto narrativo, su un lavoro attento sull’inquadratura. Enrica Capusotti rileva che nei film americani degli anni
cinquanta le primissime inquadrature spesso pongono lo spettatore
nella condizione di affrontare una diversità spaziale con cui è difficile
identificarsi. In questo caso, lo straniamento serve da vero e proprio
stimolo liberatorio. È il caso di James Dean che in apertura di Gioventù Bruciata (1955), completamente ubriaco, espone tutto il suo rifiuto
per la società e la sua disperata solitudine in una scena di imbarazzante violenza; stesso rifiuto, anche se non autolesionista come quello
di Dean, è quello di Marlon Brando che appare fin dall’ inizio nella
153
sua iconografica prestanza fisica a bordo della sua motocicletta ne Il
Selvaggio (1954). Enrica Caposutti fa notare che:
… quando il gruppo di motociclisti compare sullo schermo
è evidente che nulla potrà contrastare il fascino suscitato dai
bikers che, cavalcando fiammanti motociclette e indossando
blue jeans, giubbotti, guanti e cappelli di pelle, sono il simbolo
del piacere della rivolta4.
L’iconica immagine di Marlon Brando, pronto a percorrere lunghe
strade senza una chiara destinazione, stimola l’immaginario degli
spettatori, pronti a sognare di prendere rischi al di fuori dalla realtà
conosciuta; il cinema italiano, invece, si insabbia, si arena tra immagini che negano l’apertura verso spazi diversi e la narrazione presenta
scontri tra il nuovo e il vecchio che finiscono in burla perché non esiste neppure lontanamente un’ipotesi lontana di alternativa al tradizionale mondo del lavoro e della famiglia. In fondo, Romolo e Salvatore
si accontentano di correre dietro a qualsiasi sottana gli passi vicino ed
evitare qualsiasi fatica senza mai credere in qualcosa o qualcuno. Sor
Alvaro, il tranviere di mezza età che affitta il letto di Salvatore durante il giorno, si scontra ogni mattina con Romolo che non vuole alzarsi
perché non vuole andare al lavoro. Appena alzato, Salvatore pensa
solo alle donne e a farsi bello. Di fronte all’esausto Alvaro, (simbolo dell’onesto lavoratore tradizionale che non ha grilli per la testa)
Salvatore decanta le qualità della brillantina “Fiori d’Arabia”, che,
come lui sostiene ripetendo uno slogan pubblicitario, «…vi assicura
il successo nella vita»; poi prosegue nella sua “cavalcata rivoluzionaria” sostenendo, anche se in modo peraltro goffo e poco convincente,
tutto il suo interesse per “Cittadini dello spazio” il romanzo di fantascienza che sta leggendo e commenta dicendo: «Aho, sò forti ‘sti libri
di fantascenza». Battuta infelice perché suona completamente falsa
in bocca di Salvatore il quale, dopotutto, ha come ambizione principale quella di fare una vita tranquilla e, come dice lui stesso: «…
senza pensieri e con un sacco de soldi». Il film sembra non decidersi
se fare di Romolo e Salvatore dei giovani con qualche ambizione per
cercare di uscire dal loro ghetto culturale oppure se siano solo dei
sempliciotti di borgata da prendere in giro. Certo è che i due eroi
passano da una pessima figura all’altra; sembrano grandi playboy,
4 Enrica Caposutti, Gioventù Bruciata, Firenze, Giunti Editori, 2004, p.126.
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uomini di mondo avvezzi alla vita mondana ma in realtà non sanno
nulla del mondo che li circonda, di come vivere in società e diventano
facili vittime di chiunque incontrino. Sono ridicolizzati da Giovanna
durante il loro primo incontro quando entrano nel negozio del padre
di lei e, in assenza del padre, credono di poter sedurre facilmente la
ragazza. Quest’ultima sta al gioco e propone a entrambi di provarsi
dei pantaloni, e mentre i due si ritirano nel camerino già fantasticando
un possibile menage à trois e si autocongratulano per la facile conquista, Giovanna li ridicolizza davanti ai loro stessi amici aprendo il lato
del camerino che dà sulla strada mettendo in mostra i due galletti in
mutande pronti a un alquanto improbabile avventura galante. Durante
questa sequenza Salvatore fa una battuta che descrive benissimo il
bonario squallore in cui sguazzano i due aspiranti casanova. Di fronte
a quella che loro credono un’imminente avventura sessuale, Salvatore
dichiara di essere dispiaciuto di non essersi cambiato le mutande quella mattina. Dopo una battuta del genere è chiaro come i due giovani
siano in balia dell’intelligenza di Giovanna, la quale per quasi tutto
il film si dimostra una donna moderna, intraprendente e libera di fare
le proprie scelte. Eppure il personaggio femminile mostra una incongruenza che risulta piuttosto sorprendente e anche rivelatrice della
morale che sta dietro molte delle commedia all’italiana. Giovanna
domina con scaltrezza il rapporto con Salvatore e Romolo, mette in
mostra una capacità oratoria che intimidisce i due uomini e quando
vuole sa anche prendersi gioco di loro; nel frattempo controlla senza
troppi problemi il suo ex-fidanzato, dimostrando di sapere molto bene
quello che vuole dagli altri. A questa determinazione, però, seguono
un paio di momenti in cui Giovanna dichiara con sorprendente disperazione il proprio amore sia per Romolo che per Salvatore, sottomettendo così la sua intelligenza a quella non molto brillante dei due
ragazzotti. Atteggiamento inspiegabile non tanto perché Giovanna sia
pronta a seguire il proprio cuore quanto piuttosto perché narrativamente risulta una scelta poco credibile. Si ripresenta qui la situazione
già vista in Pane, amore e fantasia per cui, ai problemi contingenti si può porre rimedio con un pò di fiducia nella dea dell’amore e
nella buona volontà degli uomini. La sintesi di tutto è nelle parole
di Salvatore che, descrivendo il suo particolare stato euforico dovuto all’infatuazione per Giovanna – mentre dal suo balcone guarda le
stelle – rivela a Romolo che quando sei innamorato: «ti senti il cuore
pizzicare come l’acqua minerale» e aggiunge lapidario: «…facciamo
155
i bulli, le donne le prendi di petto e poi il cuore si innamora pure a
noi». E così finisce la ribellione dei poveri di Dino Risi a cui non resta
che contare sulla propria bellezza per migliorare la loro condizione e
quella dell’Italia, proprio come ai poveri affamati di Comencini non
restava che mangiare il pane con la fantasia per poter sopravvivere.
Questo buonismo mescolato a una certa dose di paternalismo nei
confronti delle classi più basse, facendo inoltre ricorso a stereotipi che
consolidavano ulteriormente pregiudizi e paure, sono ingredienti spesso presenti nella Commedia all’Italiana tra il 1955 e la fine degli anni
’60. Se fosse un atteggiamento reazionario o qualunquista oggi poco
importa, rimane il fatto che si fondava su un bozzettismo superficiale
che finiva con l’imporre una morale finale sconcertante in cui o si trova
rifugio all’interno dell’establishment pre-esistente (la Chiesa, la famiglia, il lavoro sicuro) o si finisce male (si rischia di diventare prostitute o ladri). In questa contrapposizione di valori, la città, corrotta dalla
modernità, è contrapposta al piccolo paese, dove i valori tradizionali
sono gelosamente custoditi. Che la maggioranza di questi film fosse
girata in ambienti urbani lo si deve soprattutto alla necessità di sfruttare
l’aspetto comico derivato dallo scontro tra il vecchio e il nuovo (presente in modo ovvio nelle grandi città); la morale dominante tendeva a
sottolineare come si finisce male se ci si lascia corrompere dalle nuove
idee; di fatto si ridicolizza il futuro e si sorride bonariamente al passato,
illudendosi e illudendo che il resto d’Italia vivesse ancora nell’idilliaco
mondo del piccolo paese di Pane, amore e fantasia dove non ci sono
problemi e il peggior nemico è il terremoto e non tanto la modernità.
Bisogna aspettare Fellini per veder esposte le ipocrisie e le angosce della provincia di quegli anni vengono. Nonostante con I vitelloni
(1954) lo stile di Fellini si stesse già evolvendo, allontanandosi sempre di più da trascrizioni realistiche, lo squallore della vita in provincia è colta con inusitata precisione. All’utopistica rappresentazione
di Comencini, Fellini contrappone un’abulia esistenziale di stampo
moderno che avvicina la provincia dei giovani alla grande città. Fatti
i dovuti assestamenti socio-culturali, si scopre che il gruppo che passa le giornate a guardare il mare e a immaginare avventure in luoghi
impossibili con donne altrettanto impossibili non è molto diverso da
quello che sognano Romolo e Salvatore. Unica differenza tangibile è
la presenza tra i giovani della provincia di un’illusione che la realtà
urbana ha già tradito. I vitelloni sperano ancora che vi sia una realtà
meno claustrofobica di quella che ognuno di loro vive nel loro pic-
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colo paese: Alberto sogna una Roma luculliana con fiumi di alcool,
Leopoldo sogna l’Africa di Hemingway e Moraldo, il più giovane,
accarezza costantemente l’idea di partire, anche se non sa esattamente
per dove. I cinque amici sono legati da una comune avversione verso
l’ambiente provinciale che contestano attraverso l’irrisione e la burla
contro tutto e tutti. Per alcuni di loro è chiaramente un atteggiamento
passeggero, mentre per altri è una crisi profonda che si potrarrà nel
tempo. Questa differenza all’interno del gruppo è messa in evidenza
dalla voce fuori campo, che, pur presentandosi con un “noi” che ne
indica l’appartenenza al gruppo, usa un tono ironico verso gli amici
che mette in rilievo la discrepanza che esiste tra quello che i cinque
amici sono e quello che vorrebbero essere. Nella prima sequenza del
film, la voce fuori campo presenta a uno a uno i cinque giovani, e
pare alquanto ironico che colui che viene indicato come il loro capo
spirituale, cioè Fausto, venga sorpreso dalla cinepresa proprio mentre
tenta di sedurre una ragazzina con la fidanzata lo aspetta poco lontano. Fausto affronta ogni situazione imbarazzante con assoluta sfacciataggine, come quando scopre che la sua fidanzata è incinta e non
solo decide di scappare, ma propone addirittura a Moraldo, fratello
della fidanzata, di scappare con lui. La stessa mancanza di pudore
la mostra Alberto, capace di fare del moralismo verso la sorella che
lavora e reclama la sua indipendenza, mentre lui non esita a chiederle continuamente soldi per scommettere ai cavalli. Alberto si erge a
paladino dei valori della morale comune investendosi del poco probabile ruolo di capo famiglia, ricorrendo a un’autorità che la società
gli attribuisce quasi per diritto, in quanto maschio, ma che non ha
nessuna qualità per meritarsela. Alberto teme il giudizio della società
e degli amici che, nonostante sembrino così aperti, sono ancora legati
a una morale comune che riprende posizioni chiuse e bigotte. Fausto
e Alberto sono un altro Romolo e un altro Salvatore; il loro andare
controcorrente è più che altro un atteggiamento passeggero, non è difficile prevedere che abbandonati dalla gioventù, i due ripiegheranno
su se stessi a ricalcare le orme di quanti li hanno preceduti, negli stessi
luoghi e nelle stesse situazioni. Il tempo trascorre ciclicamente e nulla
cambia; le ore, i giorni e le stagioni si susseguono senza scosse di
alcun tipo: la fine di una tipica giornata in provincia viene annunciata
con tono ironico e monocorde dalla voce fuori campo. Al momento
del loro ritorno a casa dopo un’altra giornata sprecata nel nulla, i cinque amici si ritrovano a fronteggiare i soliti problemi di genitori che si
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lamentano per orari non rispettati e per responsabilità evitate. Mentre
tutti mestamente si coricano nei loro lettucci di casa accompagnati
dalle voci di madri e zie, Moraldo, il più giovane, il più onestamente
disinamorato della realtà provinciale, si aggira senza meta per le strade vuote della cittadina. Quasi guidato inconsciamente dal desiderio
di viaggiare, si reca nei pressi della stazione dove sogna di partire
per Roma. Sono le tre e mezza del mattino e Moraldo si sorprende di
vedere un ragazzino ancora in piedi a quell’ora vicino alla stazione.
Con sua grande sorpresa però, il ragazzino gli rivela che sta andando a lavorare alla stazione. L’equivoco non fa altro che rafforzare in
Moraldo i dubbi sulle scelte possibili a disposizione dei giovani in
una piccola cittadina come la loro. La domanda che rivolge al ragazzo, sul sentirsi o meno felice, rivela il tormentato stato di Moraldo che
in realtà la domanda la fa più a sè stesso che non al ragazzino. Moraldo ha intuito che deve uscire dal circolo vizioso in cui tutto il gruppo
è chiuso; d’altro canto, però, si sente ancora legato a quell’ambiente;
per certi versi è intrappolato tra il machismo di Fausto e il mammismo di Alberto. Le vie d’uscita sono poche e difficili da perseguire;
Moraldo finisce con l’accettare certe situazioni imbarazzanti per non
dispiacere agli altri: si limita quindi ad osservare passivamente Fausto
tradire sua sorella Sandra con qualsiasi donna gli passi davanti, accetta di partecipare a uno stupido furto organizzato da Fausto per ripicca
nei confronti del padrone che l’ha licenziato e infine aiuta Alberto a
tornare a casa dopo la colossale sbronza di Carnevale nonostante la
sua fidanzata lo stia aspettando. Proprio il Carnevale è un evento particolare perché è un momento di festa caratterizzato dall’assenza di
qualsiasi regola, la normalità viene messa da parte e tutto diventa possibile e i cinque vitelloni si ritrovano sul loro terreno favorito, quello
della burla, del gioco senza regole. Questo stato euforico però non
dura, è temporaneo, ma questo loro non lo vogliono sapere. Quando tutto finisce, non sono in grado di affrontare la realtà quotidiana
che ha ripreso il sopravvento; a questo punto le due personalità più
deboli del gruppo crollano. Alberto si trascina ubriaco nella grigia
luce mattutina inveendo contro tutto e tutti, incapace di darsi pace
all’idea che le regole siano tornate a dominare il loro comportamento
e che la sorella abbia finalmente deciso di andarsene di casa; mentre
Fausto da parte sua, non se ne accorge neppure della fine del Carnevale e confonde l’atteggiamento giocoso della moglie del principale
durante la festa per un’improbabile disponibilità sessuale. Quando
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il giorno successivo Fausto azzarda ad abbracciarla, viene respinto
con forza, ed è la donna stessa a ricordargli che il carnevale è finito.
Ritratti negli ambienti domestici, i vitelloni si scontrano costantemente con le regole imposte dall’autorità a rispetto dei valori tradizionali.
Simbolicamente quando sono ripresi in esterno i cinque amici sono
costantemente isolati dalla comunità. Campi lunghi ce li mostrano
passeggiare per deserte spiagge invernali o per le vuote strade notturne della loro città. Il gruppo è estraniato dal proprio ambiente e i
cinque si trovano a loro agio lontano dai luoghi consacrati alle attività
quotidiane del paese. Vivono il loro paese in luoghi e in momenti in
cui gli altri non ci sono. Ognuno di loro ha un sentore che si potrebbe definire epidermico, quasi animale, del proprio stato, ma non sa
comprenderlo razionalmente, per questo nessuno trova il coraggio di
tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla famiglia e al paese e
alla fine tutti, tranne Moraldo, ripiegheranno su se stessi.
Il quartiere popolare di Roma o la piccola città di provincia sono
il teatro di una battaglia che i giovani combattono contro la mancanza
di opportunità, contro una moralità chiusa e becera e una sessualità
concepita ancora come imposizione di un’anacronistica predominanza maschile. Solo Moraldo, alla fine del film, ha il coraggio di prendere il treno ed andarsene lontano anche se poi il viaggio verso la
città non porta a immediati cambiamenti sostanziali. Ne La dolce vita,
Marcello (il Moraldo de I vitelloni) si dibatte nella grande città con
gli stessi problemi di insoddisfazione esistenziale di prima. Marcello
è insoddisfatto del suo lavoro (per aver successo deve fare del giornalismo di bassa lega), della sua fidanzata (che già lo tratta come se lei
fosse sua mamma) e dei rapporti superficiali con gli amici. Quando il
padre arriva improvvisamente a Roma dalla cittadina di provincia (la
Rimini di Moraldo) porta con sè ancora la mistificazione sulla vita in
città che avevano i vitelloni. Il padre si entusiasma davanti al caos,
alla vitalità, alla mondanità di Roma e di Via Veneto. È sintomatico
che Fellini ricrei una Via Veneto in studio quasi ad indicare che per
trovare una Via Veneto che potesse tener testa alle illusioni del padre,
fosse necessario inventarla: quella vera era molto meno interessante
di quella che il padre si immaginava.
La gioventù degli anni cinquanta, che spesso nel cinema americano andava incontro a una fine tragica, quasi a sottolineare la necessità
di un sacrificio per raggiungere gli scopi prefissi, nel cinema italiano
fa fatica a staccarsi da casa, a liberarsi dai tentacoli della famiglia
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e il finale, per certi versi quasi incestuoso di Poveri ma belli, dove
i due amici si scambiano le sorelle, lo sottolinea in modo piuttosto
chiaro. Non è un caso che, mentre il cinema americano stabiliva con
sicurezza delle immagini simbolo, dei personaggi di opposizione,
una frontiera da superare, il cinema italiano eleggeva a simbolo della
sua generazione il gestaccio ribelle che Alberto ne I Vitelloni fa a
dei lavoratori lungo il ciglio di una strada mentre lui e i suoi amici
sfaccendati passano in macchina. Come dice Maurizio De Benedictis:
Nel gesto-suono della pernacchia…, che in un punto Sordi
rivolge a degli operai, traspare un’ancestrale provocazione: un
mandare al diavolo non solo quelli – “lavoratori della mazza”
– ma tutti quanti, compreso il pubblico e anche chi lo compie5.
Alla gioventù italiana di quegli anni non restava che dibattersi tra la
vaga speranza che ci fosse un altrove non ben identificato e utopistico
dove le cose potessero andare meglio e il rifiuto un pò anarchico e
sterile come quello di Alberto. È significativo che quell’immagine
di Alberto entrò nell’iconografia del cinema italiano, simbolo di una
ribellione (mancata), del coraggio che svanisce di fronte alla prima
difficoltà, della totale mancanza di coerenza ideologica. Alberto,
abbindato con una sciarpa sulla testa che non lo rende certo guerriero
della nuova gioventu’, non appena raggiunto dagli operai a cui aveva
fatto il gesto, cerca mille scuse per evitare lo scontro: è l’immagine
più rappresentativa della cultura italiana di quel periodo.
Filmografia essenziale
La dolce vita, Federico Fellini, 1959.
Pane, Amore e fantasia, Luigi Comencini, 1955.
Poveri ma belli, Dino Risi, 1955.
Rebel without a cause (Gioventù bruciata), Nicholas Ray,1955.
Riso Amaro, Giuseppe De Santis, 1947.
I vitelloni, Federico Fellini, 1953.
I vinti, Michelangelo Antonioni, 1952.
The wild one (Il Selvaggio), Laslo Benedek, 1953.
5 Maurizio De Benedictis, Da Paisà a Salò e oltre: parabole del grande cinema
italiano. Avagliano Editore, Roma, 2010, p. 175.
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parte terza
Tra il vecchio e il nuovo
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Gian Piero Brunetta
Cinema nel limbo:
la storia del Sergente nella neve di Olmi e Rigoni Stern
La storia del cinema è fatta anche di progetti non realizzati, di investimenti di tempo, denaro ed energie, che, in una misura ancora non
quantificata e valutata, vengono dispersi senza lasciare tracce. Bisognerà, prima o poi, decidersi a dedicare l’attenzione che si meritano ai
progetti che hanno avuto una gestazione importante per uno sceneggiatore, un regista, un produttore e che, per una serie di motivi, non
sono mai giunti mai a vedere la luce. Vi sono film di cui è impedito
lo sviluppo già allo stato embrionale, opere interrotte in fase avanzata
di riprese (è il caso di Que Viva Mexico! di Ejzenstejn) e film che non
hanno avuto mai il battesimo della sala, anche se sono stati completati
in tutte le loro parti. Le storie di queste opere, che mi piace chiamare
ombelicali, perché fortemente legate al mondo di chi le ha concepite, o limbiche perché si situano in una zona neutra, prenatale, sono
storie in cui giocano molti fattori e molti vincoli e condizionamenti,
economici, politici, produttivi, censori. Un ruolo importante lo hanno
giocato anche spesso le leggi del caso o del caos.
Nell’opera di tutti i registi, ma anche nella storia dei grandi produttori, la storia dei film non realizzati ha un peso tutt’altro che irrilevante
per capire quella delle opere realizzate il percorso creativo e la poetica
di un autore e le relazioni tra la storia del cinema e il contesto storico
politico e culturale più generale. Pensiamo solo al blocco dei soggetti
e sceneggiature di film d’argomento resistenziale o bellico da parte del
governo agli inizi degli anni cinquanta e alle varie forme di censura
preventiva messe in atto per impedire la realizzazione di argomenti
scomodi o considerati pericolosi. Il regista Aldo Vergano non può realizzare un film sui fratelli Cervi, né uno sull’attentato Zaniboni a Mussolini. Fuga da Lipari, scritto da Salvatore Laurani e Luigi Marchi e
che parla della fuga di Emilio Lussu, Fausto Nitti e dei fratelli Rosselli
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dal confino dell’isola siciliana e della loro lotta antifascista, non trova produttori interessati. Tanto meno Il delitto sull’auto, ricostruzione
del delitto Matteotti fatta da Umberto Barbaro, Antonio Pietrangeli e
Lucio Battistrada. Il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire
adattato per lo schermo da Massimo Mida e Gianni Corbi rimane nel
cassetto. Al soggetto dedicato alla strage di Cefalonia si interessano in
molti e poi, come racconta uno degli autori, Massimo Mida «la censura americana pose il suo veto». Le soldatesse, scritto nei primi anni
cinquanta da Ugo Pirro, per ricordare le imprese più erotiche e sessuali
che militari dei soldati italiani nella campagna di Grecia vedrà la luce
solo quindici anni dopo grazie a Valerio Zurlini…
La vicenda che intendo raccontare riguarda la sceneggiatura per un
film tratto dal Sergente nella neve da parte di Ermanno Olmi, che
prende vita già nel 1959, l’anno del suo esordio nel lungometraggio
con Il tempo si è fermato. Benché non realizzato e a dispetto dell’ostinazione del regista nel cercar di trovare, lungo quasi un quindicennio,
le condizioni per farlo decollare, Il sergente nella neve rimane come
un passaggio importante, decisivo, nel romanzo di formazione artistico e umano di Olmi.Il sergente nella neveIl sergente nella neve, come
l’abbiamo conosciuto e letto nell’edizione dei Gettoni vittoriniani è
la quarta stesura di un racconto nato in forma di note di diario durante la prigionia in Germania nel 1943. Come vedremo dai documenti
già all’indomani dell’uscita della prima edizione Rigoni riceve alcune
proposte di portare il racconto sullo schermo. Ma si tratta per lo più
di proposte che cadono dopo i primi scambi di corrispondenza. Con
Olmi le cose vanno da subito in maniera diversa e la diffidenza iniziale dello scrittore lascia presto il posto alla fiducia e all’amicizia che si
consoliderà in poco tempo. È stato lo sceneggiatore e regista Ernesto
Guida a far leggere nel 1959 al giovane regista il libro di Rigoni Stern
ed Olmi ha voluto conoscerne l’autore, ne ha acquistato i diritti con
un’opzione anticipando la somma di 3.200.000 milioni di lire. Ecco
come Rigoni ha ricostruito per il catalogo di una mostra rievocativa
del circolo culturale di Padova “Il Pozzetto”, dove era andato con
Olmi nel 1960 a presentare il progetto l’incontro con il regista: «Al
principio del 1959 delle Case cinematografiche romane cointeressate nella produzione USA, o magari solamente prestanome di queste,
avevano avanzato delle proposte per avere i diritti cinematografici
del Sergente, ma contemporaneamente lo fece anche Olmi che allora
165
era un regista sconosciuto. Olmi, correndo sul tempo,venne a farmi
vedere un suo documentario e pensando a quello che gli americani
avrebbero realizzato (alpini/marines o alpini/cowboys) telegrafai al
mio editore dicendogli che se dipendeva da me, optavo per Olmi. E
l’Editore fu d’accordo».
Olmi avanza la proposta per conto di una neonata casa di produzione genovese, la Società Golden Star of Italy, fatta nascere per
iniziativa di padre Angelo Arpa, un gesuita appassionato di cinema,
che in quegli anni si è fatto conoscere per la difesa appassionata della
Dolce vita di Fellini. La Golden Star of Italy aveva prodotto, come
primo film, Era notte a Roma di Roberto Rossellini. Con esiti catastrofici al botteghino, che la porteranno al fallimento nel 1961. Dopo
aver lanciato vari ultimatum per poter iniziare le riprese entro una
certa data sembrerà chiaro ad Olmi che per tener in vita il progetto
bisogna esplorare altre strade.
Il regista – forse anche grazie alla quasi decennale attività di documentarista per conto della Montedison, che lo aveva portato a collaborare con Goffredo Parise, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich – ha
sempre creduto possibile riuscire a produrre i film lontano dagli studi
di Cinecittà, anche se per la produzione di questo film le sirene romane hanno esercitato un richiamo forte per diverso tempo. E anche la
nascita di questo progetto è coerente con la sua visione di una via
italiana alla produzione alternativa a quella romanocentrica.
Nonostante le ammirevoli capacità di riuscire a realizzare film con
budget ad economia francescana Il sergente nella neve, soprattutto
nella seconda parte, che richiedeva grande spiegamento di mezzi
militari e imponenti scene di massa, avrebbe comunque avuto bisogno di un impegno economico piuttosto consistente (erano previste
oltre diecimila comparse nel primo piano di produzione) e sicuramente al di là della portata reale dei mezzi messi a disposizione dalla
Golden Star of Italy. Mezzi che, come si è detto, svaniscono presto
spingendo Olmi a rivolgersi ad altri produttori: Dino De Laurentiis
in prima battuta e poi grazie all’entusiastica mediazione di Valerio
Zurlini, a Gustavo Lombardo della Titanus.
La sceneggiatura per il film sulla guerra di Russia, che avrebbe
dovuto costituire il secondo o il terzo lungometraggio della filmografia olmiana, rimarrà nel cassetto, oltre che per il fallimento della casa
genovese, per una serie di problemi che Olmi si troverà ad affrontare negli anni successivi, anche se proprio quegli elementi di verità
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assoluta e bilancio dei valori umani di fronte alla morte, dichiarati
quasi in forma di manifesto poetico in una delle sue prime interviste
sul progetto del film, resteranno come un punto di riferimento e ricchezza patrimoniale acquisita grazie a questo passaggio attraverso la
memorialistica di guerra. Passaggio che tornerà utile nei successivi
documentari sulla resistenza realizzati negli anni settanta con Corrado Stajano e raggiungerà una diversa e del tutto olmiana forma cinematografica quarant’anni dopo nel Mestiere delle armi.
Anche se non realizzato il progetto – che verrà abbandonato per
sempre da Olmi solo nel 1974, dopo una serie molto lunga di tentativi
andati a vuoto di realizzarlo in un paese dell’Est, se non nella stessa
Unione Sovietica – oltre che del tutto compatibile con la poetica del
giovane autore del Tempo si è fermato e de Il posto e con la sua pressoché unica capacità di rappresentare la gente di montagna senza stereotipi o deformazioni e la loro metamorfosi antropologica alle soglie
dell’industrializzazione, ci appare oggi come incontro “necessario”
nel processo di formazione e di visione del mondo di Olmi. Olmi
troverà modo di realizzare qualche anno dopo per la Rai, assieme a
Rigoni Stern, che scriverà un soggetto per la televisione e il cinema e
a Tullio Kezich, I recuperanti, ambientato nell’Altopiano di Asiago,
con personaggi che vivono recuperando residui di materiali della prima guerra mondiale e sembrano i fratelli o i compaesani degli alpini
del film sulla ritirata di Russia.
Ho scelto di ricostruire questa storia in forma cronachistica, lasciando
parlare i documenti e gli stessi protagonisti cercando di muovermi
con rispetto e partecipazione lungo un percorso tormentato, fatto di
entusiasmi e speranze, di lunghe anticamere e di brucianti delusioni,
che però ha il merito di consolidare poco alla volta un’amicizia, un
rapporto umano e un vero e proprio processo di avvicinamento creativo tra il giovane regista e Rigoni.
Per la verità, come risulta anche dal ricordo di Rigoni, la prima
proposta di riduzione cinematografica del Sergente risale già alla
metà degli anni cinquanta, precedendo dunque di quasi cinque anni
quella della Golden Star of Italy.
Eccone la cronistoria come si ricostruisce grazie ai documenti e ai
ricordi dei protagonisti: il 7 febbraio 1955 riceve una lettera da parte
di Mario Pietrucci, a nome della Compagnia Generale Cinematografica di Bologna: «Ho parlato con i miei amici produttori di Roma ed
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ho incontrato una favorevole occasione per produrre il film Il sergente della neve. Sono anche loro reduci dalla sacca e vedono la cosa
fattibile e realizzabile. È necessario che lei s’impegni con me per la
esclusività del soggetto. Mi faccia una proposta. Io ho già parlato per
una partecipazione agli utili in modo che il SERGENTMAGJU’ non
sia preso per il collo da nessuno».
La casa Editrice Einaudi, a cui lo scrittore si rivolge subito, gli
risponde a stretto giro di posta il 12 febbraio consigliandolo di rispondere «che le trattative per l’acquisto dei diritti cinematografici devono
essere svolte con noi». Passano dieci giorni e Mario Pietrucci scrive
in una seconda lettera: «Mi sono battuto e mi sto battendo per fare
il film con un produttore serio che capisca l’importanza della cosa.
Penso di essere prossimo al traguardo.
È necessario però che lei si svincoli dalla Ditta Einaudi e mi mandi
subito un’opzione per trattare con le carte in regola… ».
Passano pochi mesi e in questa fase di incertezza Rigoni decide
di chiedere aiuto al suo mentore Vittorini in cui ha piena fiducia e
gli chiede di fissargli un appuntamento con una lettera del 24 luglio:
«Caro Vittorini avrei bisogno di trovarmi con lei per avere un consiglio su certe proposte che mi sono state fatte. Si tratta di una probabile
riduzione del Sergente e data la mia incompetenza al riguardo non
saprei a chi rivolgermi. Molto probabilmente in questo periodo lei si
troverà in vacanza e allora le sarei grato se volesse indicarmi il giorno
e il periodo in cui potrò trovarla a Milano».
Il progetto con Pietrucci sembra fermarsi qui, mentre quattro anni
dopo, nel giro di pochi mesi, vengono avanzate non una, ma ben tre
proposte di acquisto dei diritti per la riduzione cinematografica.
«Sono un giovane regista avrei intenzione di realizzare un film
dal suo libro, Il sergente nella neve. – Gli scrive ai primi di dicembre
1959 Santi Colonna – Le sarei quindi grato se mi volesse concedere
un’opzione per un anno». Entro tale periodo, se il progetto andasse
in porto, il giovane si impegna a versare allo scrittore 500.000 e ad
assumerlo per la sceneggiatura. «Nel malaugurato caso – aggiunge –
invece che non riuscissi a realizzare il film Ella resterebbe libero di
poter cedere a chi vuole i diritti cinematografici del Suo libro».
Rigoni gira anche questa lettera alla casa Editrice e anche questa
proposta non procede oltre.
La seconda proposta viene da Ernesto Guida, aspirante all’esordio
registico, ma con un’ultraquindicennale esperienza di aiuto regista,
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soggettista e sceneggiatore. che scrive nel luglio del 1959 all’Einaudi
perché lo mettano in contatto con lo scrittore e poi così contatta lo
scrittore:
Caro signor Rigoni
sono interessato al suo libro Il sergente nella neve in relazione
a una possibile riduzione cinematografica. Desidererei quindi
discuterne con lei qualora, come credo, ella sia ancora titolare
dei diritti in questo campo. Non sono un produttore, bensì un
giovane regista. Sarei veramente lieto ed onorato se la mia
prima fatica potesse essere Il sergente nella neve.
Rigoni si dichiara subito disposto ad incontrarlo, sempre ricordando che il vero interlocutore è la casa editrice. Olmi appare dunque
in seconda battuta, ma subito diventa il vero interlocutore, lasciando
a Guida un ruolo tuttora difficile da mettere a fuoco con esattezza,
anche se il suo nome figura nella prima versione della sceneggiatura.
Un anno dopo la richiesta viene dalla Romor Film di Milano per
mano di un suo amministratore, l’avv. Alberto Mortara, che in data
3 agosto 1960, chiede a Rigoni se il suo libro sia «tuttora libero da
impegni», o, nel caso, se è possibile rilevarne i diritti. La risposta
immediata informa che al momento i diritti sono già venduti.
In effetti già il 26 novembre con un telegramma della casa editrice «Ricevuto proposta riduzione cinematografica Sergente tre milioni
meno commissione agenzia… preghioamovi telefonarci suo benestare stop condizioni sembraci buone et casa cinematografica idem cordialità Einaudi».
Il 12 dicembre, grazie all’intervento dell’Agenzia Letteraria Internazionale di Erich Linder, che ha controllato tutte le clausole nell’interesse dello scrittore e della casa editrice, ha chiarito i dubbi sollevati dall’autore e provveduto a riscuotere l’anticipo, Rigoni è entrato
con molta circospezione e non pochi sospetti nella nuova avventura,
ma ha firmato un primo contratto con una controparte costituita da
Ermanno Olmi e Giuseppe Tortorella per conto «di una ditta da nominarsi entro il 31 dicembre 1960».
La clausola 2 del contratto stabilisce che «qualora il primo giro
di manovella non fosse stato dato entro il 31 marzo 1960 il presente
contratto si intenderà decaduto a tutti gli effetti e la somma acquisita
resterà al cedente a titolo di risarcimento danni per la mancata rea-
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lizzazione della pellicola entro il termine concordato… ». La stessa
clausola prevede però la possibilità di prorogare il contratto con un
accordo tra le parti.
Il contratto verrà perfezionato con la Golden Star of Italy, amministrata da Giovanni Romanengo e rappresentata per delega da Gianni
Amico nella medesima forma e con le stesse clausole.
Il 23 marzo dello stesso anno è lo stesso Rigoni a informare il
suo agente letterario che per il ritardo nell’elaborazione della sceneggiatura è necessario differire la data d’inizio delle riprese: «… la
stesura della sceneggiatura non è del tutto soddisfacente alle esigenze
artistiche dell’opera che s’intende fare. Pertanto dato che un affrettato inizio nuocerebbe indubbiamente sul valore della realizzazione
credo sia necessario rimandare ad altra data l’inizio del primo giro di
manovella».
Il progetto ha ormai preso così corpo nella testa del regista e
dell’autore che insieme a Manlio Dazzi, Federico Comandini, Giorgio
Moscon e Giancarlo Fusco, vanno a presentarlo a Padova al Circolo
del Pozzetto in data 12 marzo 1960 in una tavola rotonda intitolata Il
sergente nella neve… e il cinema. Dibattito sul soggetto cinematografico tratto dal libro di Rigoni Stern.
«Davanti ad una sala gremita da uno scelto uditorio – racconta la
cronaca anonima del Gazzettino di Venezia del 13 marzo – l’uomo
del cinema ha detto di aver scelto Il sergente nella neve quale sua
prossima fatica cinematografica, perché è innamorato della storia che
si narra nel romanzo e anche perché la natura dei personaggi è rimasta
intatta. È seguita la parola di Mario Rigoni Stern, il quale ha appoggiato il giovane regista nelle sue idee dicendo che esse rispondono
effettivamente alle esigenze del libro da lui steso». Quella sera, oltre
ai relatori previsti «parlarono – ricorderà Rigoni nella testimonianza per il catalogo sulla storia del Pozzetto – Olmi, Comisso, Manlio
Dazzi, Tono Zancanaro, Cesare Cases, Giancarlo Fusco e certamente Ettore Luccini che pacatamente dirigeva il dibattito… La sera fu
particolarmente animata. Non so ma credo che una tale atmosfera sia
oggi irripetibile».
Nel corso dell’anno la Golden Star fallisce e lo scrittore invia una
prima raccomandata al curatore fallimentare chiedendo di tornare in
possesso dei diritti sulla base dell’art. 2 del contratto.
La risposta di Attilio Rossi, revisore dei conti, rivela che alcuni documenti sono andati perduti presso la casa produttrice che
170
secondo alcune testimonianze dei dirigenti della società i contratti
erano due e che il secondo, firmato da Gianni Amico per delega,
non prevedeva l’impegno a realizzare un film, ma solo ad acquisire i diritti sull’opera per un’eventuale riduzione cinematografica.
Rigoni risponde con una raccomandata molto circostanziata il 3 del
mese successivo in cui riafferma la validità del primo contratto e
la cessione dei diritti di riduzione cinematografica con la clausola
limitatoria dell’art. 2.
A dieci mesi di distanza dal contratto e di fronte a questa nuova
situazione l’avvocato Alberto Soffientini, amico di Olmi, risponde a
una lettera di Rigoni datata 30 gennaio 1961 consigliandogli di dar
mandato all’avvocato Werner di Milano di iinviare un ultimatum alla
Golden Star, scaduto il quale lo scrittore potrebbe rientrare in possesso dei diritti del libro e cederli ad altri produttore d’accordo col regista: «Ormai è passato quasi un anno dal termine stabilito nel contratto
ed anche con la proroga concessa, se il film si vuol fare entro il 1961,
il produttore dovrebbe muoversi immediatamente, se no ci troveremo
nell’impasse dell’anno scorso…».
Il I febbraio Rigoni scrive all’avvocato Werner; «La prego di voler
intervenire, nel mio interesse e in armonia con gli interessi dell’amico
Ermanno Olmi presso la società Golden Star, per ottenere che essa dia
corso, senza ulteriore indugio, all’esecuzione del film Il sergente nella neve, o, in difetto, e fermi i suoi obblighi di rimborso assunti verso
Olmi, si renda operativa la clausola di decadenza prevista dall’art. 2
del contratto.
In quest’ultimo caso io sono pronto a trasferire i diritti di utilizzazione cinematografica dell’opera a una nuova società indicatami
da Olmi al quale, come Le è noto, io ho in realtà e originariamente
ceduto i diritti stessi».
A poche settimane di distanza l’avvocato Meda di Milano scrive
una lettera a Rigoni in cui lo informa di aver fatto un primo passo per
conto di Olmi, ora impegnato nelle riprese di Due fermate a piedi
(primo titolo de Il posto) presso la Golden Star e di aver deciso di porre, in accordo con l’avvocato Warner, come termine indilazionabile il
31 marzo 1961, scaduto il quale i diritti ceduti sono da considerarsi
revocati. Gli chiede di rispondergli nel caso non sia d’accordo. Rigoni
risponde firmando una diffida alla Golden Star e dicendo all’avvocato
di dire a Olmi di «ricordarsi di Asiago, anche se sta facendo due fermate a piedi».
171
Verso la fine dell’anno i rapporti con la Titanus si infittiscono e
portano alla decisione della casa di Lombardo di assumersi l’onere
giudiziario di un’eventuale causa con la Golden Star e di giungere al
più presto ad una nuova definizione del contratto con lo scrittore. La
cosa viene confermata da Alberto Soffientini insieme ad un auspicabile ed imminente inizio delle riprese: «Ermanno la settimana ventura, al ritorno del dr. Clementelli dalla Russia (dove è andato a trattare
del film) andrà a Roma per gli ulteriori contratti e successivamente
verrai interpellato direttamente dall’Ufficio legale della Titanus per la
definizione del tuo contratto di sceneggiatura» .
Il contratto sarà firmato il 27 aprile 1962 e riguarderà il lavoro di
sceneggiatura. Il pagamento sarà dilazionato in quattro tranches, che
come si evince da alcune lettere estive a Clementelli non verrà onorato per intero, o almeno rispettato alle scadenze previste.
Con questa storia, abbastanza significativa dell’aleatorietà in quegli anni dei rapporti degli autori con le case di produzione, che spesso
vivevano lo spazio di un film, si intreccia e consolida, nonostante il fallimento del progetto, un rapporto umano che avvicina da subito scrittore e regista, mettendo in luce una straordinaria familiarità e progressiva
intimità. Mi sembra utile considerare a parte l’insieme di lettere scritte
da Olmi a Rigoni tra il 1959 e il 1963, lettere che non nascondono le
difficoltà progressive in cui il progetto s’imbatte, dopo che all’inizio
tutto sembra facile e a portata di mano, ma che ci restituiscono la fiducia del regista di portarlo prima o poi a termine, senza lasciarsi abbattere da ostacoli sempre maggiori e in apparenza insormontabili.
La prima lettera è del 16 dicembre 1959:
Caro Rigoni
come ti ha telefonato l’altro ieri la signorina non sono potuto
venire per via di queste nuove possibilità circa la realizzazione
in co-produzione con la Russia. In verità non sono molte ma
vale la pena di tentarle. Ho telefonato anche a Novello il quale
aveva ricevuto la tua lettera: si è dimostrato molto entusiasta
di poter collaborare, ma non vuole assumersi la responsabilità della scenografia perché lui non si sente preparato tecnicamente. Scrupoli da galantuomo!
Ti mando anche un pezzo di scaletta che avrei preferito raccontarti a voce, ma comunque spero sia sufficientemente chiara, dato che è stata buttata giù velocemente.
172
Il 24 dicembre dopo aver ricevuto il plico con il materiale elaborato
da Rigoni gli annuncia che nel frattempo sono successe cose interessantissime di cui parlerà nella sua venuta ad Asiago dopo Capodanno.
Verso la fine dell’anno una seconda lettera in cui informa lo scrittore chiamandolo ancora «Caro Rigoni» di essere uscito «illeso dalle
Feste e per Feste intendo capponi, panettoni, parenti carichi di dolci… Ora riprendo a lavorare al Sergente che ha avuto in questi giorni
grande interessamento da parte di tutti (Bagutta è stata la culla di
questi commenti )».
Olmi conferma la sua intenzione di recarsi ad Asiago per lavorare
alla sceneggiatura ai primi del nuovo anno.
La lettera successiva del 10 febbraio è accompagnata da una prima idea di sceneggiatura. Passano alcuni mesi e a maggio la nuova
lettera, scritta a mano, si rivolge in modo più familiare e affettuoso al
«Caro Mario» e racconta di un colloquio fruttuoso con la Golden Star
con cui è stata chiarita ogni cosa: «e quindi non si tratta che di concludere. Sono stato anche alla Lux – lo informa – ed ho avuto uno scambio di idee interessantissimo. Comunque sono indietro di 30 anni!…
Abbi fede, vecchio, intanto io faccio dire rosari a mia zia! Ciao».
Nell’agosto del 1960 arriva un’altra lettera in cui si annuncia un
nuovo contratto da parte della Golden Star: «Quante battaglie, sapessi, e non sono ancora tutte vinte».
Nell’annunciargli una sua visita ad Asiago aggiunge che «molto
probabilmente farà una capatina anche Padre Arpa, che già conosci e
che combatte la nostra battaglia (come vedi le guerre non finiscono
mai… )».
Nel frattempo una lettera di Soffientini, a nome di Olmi, informa
che sono stati presi i contatti con la Titanus e con la Dino De Laurentiis: «Zurlini ha scritto ad Ermanno ed è veramente entusiasta per la
storia e per la sceneggiatura che dichiara la più bella che abbia mai
letto». La via De Laurentiis è al momento ferma in attesa che Ermanno si decida a scegliere un produttore rispetto all’altro.
La lettera successiva di Olmi, del 22 novembre, è sorprendente in
quanto all’improvviso apre un nuovo fronte di possibile collaborazione, con la richiesta di storie nuove, non di guerra, forse più vicine
alle corde poetiche del regista: «Voglio raccogliere tutte le cose che
hai già scritte sul tuo paese. Sempre di più mi convinco dell’interesse
e della validità di un film come tu sai. Mi raccomando. Riunisci tutto
anche tu. Mandami anche Esami di concorso. E scrivi se puoi una
173
storia d’amore – ma che sia vera come sai scriverla tu. Appena ci sarà
materiale ne parlerò al noleggio. Ciao Vecio!».
Di nuovo silenzio per qualche mese ( Olmi è occupato con la postproduzione del Posto ) e poi una lettera del 31 luglio 1961: «Lombardo ha letto la sceneggiatura e ne è rimasto entusiasta (e con lui tutti
i suoi collaboratori). Mi pare molto impegnato e mi dice che farà il
possibile per farcelo fare in Russia (Io per ora non faccio commenti
date le precedenti esperienze, qui però pare tutto più serio).Conto di
venire appena terminato il lavoro di edizione del Posto».
Più amara, anche se ancora con una fiducia intatta nella possibilità
di realizzare il progetto, la lettera successiva del 13 dicembre: «Caro
Mario come pensavo per quest’anno non potremo fare Il sergente nella neve. Del resto tu sei pratico delle lunghe strade che però prima o
poi portano a casa.
Si dice in giro e con motivi precisi che la causa di questo rinvio sia
dovuta proprio a un gruppo di “nostri amici” i quali quest’anno non
potranno fare il film perché in Italia nessuno glielo vuole produrre.
Questo film venne proposto anche a Lombardo il quale si è rifiutato dicendo chiaramente che gli interessava sì un film sulla ritirata di
Russia, ma questo film era Il sergente nella neve e nessun altro.
La risposta dei russi è che il loro programma di lavoro per questa
stagione è già completo. La nostra risposta è questa: siccome desideriamo fare il film con il massimo impegno e serietà rimanderemo
di un anno l’inizio della lavorazione, sperando di poterci inserire nei
loro programmi ed a questo proposito in gennaio Lombardo andrà in
Russia e molto probabilmente anch’io. Per ora la preparazione del
film continua. Verranno definiti i primi personaggi, fatti i contratti e
tutto il resto. Mi incontrerò con dei giornalisti come ho fatto a Roma».
In effetti il regista in alternativa alla possibilità di girare il film in
Russia è andato in Slovenia e in Cecoslovacchia per trovare i luoghi
adatti a ricreare la steppa russa, ed ha anche tentato di immaginare di
poter girare per intero o in buona parte il film d’inverno sull’altipiano
di Asiago. Di questa ricerca esistono dei servizi fotografici realizzati
dallo stesso regista, che ci danno l’idea della cura e della forza poetica
con cui è entrato nel progetto.
Il contratto con la Titanus è firmato e poi perfezionato per quanto
riguarda il lavoro di sceneggiatura che nel frattempo ha raggiunto la
sua forma pressoché definitiva. Ma tra una cosa l’altra passano altri
due anni.
174
Nell’ottobre del ’63 è Rigoni a mandare ad Olmi una copia del
contratto e i dati editoriali del libro, invitandolo ad andare ad Asiago
«dove le giornate sono bellissime» e dove i lavori della sua nuova
casa, in contrada Rigoni di Sopra, proseguono «come si deve» (anche
grazie agli anticipi dati dalla Titanus). Di lì a poco anche Rigoni deciderà di costruirsi una casa accanto a Olmi sul limitare del bosco.
Il viaggio cinematografico del Sergente almeno per quanto riguarda i documenti e il diretto coinvolgimento di Rigoni si fema qui.
Olmi cercherà ancora per una decina d’anni di esplorare nuove
possibilità di realizzarlo, trovando di volta in volta nuovi ostacoli che
lo porteranno alla rinuncia definitiva verso la metà degli anni settanta.
La visione laica di Rigoni Stern, ma così influenzata dallo spirito
lucreziano, virgiliano e tolstojano, sembra trovare una naturale consonanza e congruenza con la ricerca di una religiosità immanente di
Olmi.
Il gruppo di alpini, che appartengono alla 55ª compagnia del battaglione Vestone, di cui fa parte il sergente Rigoni, ispira il giovane
regista, per il fatto di essere una microcomunità (simile ad una comunità cristiana primitiva) coesa e solidale di uomini giovani, in terra
straniera, che non conoscono le vere ragioni per cui sono mandati a
combattere, ma che pur nello stato di abbrutimento progressivo a cui
li conduce quella guerra, e nella consapevolezza che la morte li può
sorprendere in qualsiasi momento, non perdono mai né la percezione
di essere parte di un gruppo, né la loro dignità e quel carattere che si
portano dietro dalla vita civile. La condizione in cui si trovano esalta
il loro naturale senso di altruismo e solidarietà, insieme condividono
eguali valori e qualsiasi bene, eguali speranze di tornare presto a casa
dalla madre, moglie o morosa, o da chi altro hanno lasciato. E, pur in
stato di privazione di tutto, riescono a ridere, a scherzare, a mangiare
e bere insieme, a giocare alle carte e a ricreare, nei loro rifugi, non
poche condizioni quotidiane di quella vita che hanno lasciato da civili. All’interno di ogni bunker/tana non esistono i gradi e le gerarchie,
vige piuttosto, in ogni momento, il senso della sacralità dei riti di
condivisione della mensa, per lo più ricavata da prodotti razziati dalla
terra circostante, e tutti, dagli ufficiali ai semplici alpini, sono portati
a condividere anche le stesse paure e lo stesso orizzonte d’attese (per
tutti la patria è la casa, così ben identificata dal tormentone di Giuanin: «magiù, ghe rivarèm a baita?»), ad anteporre al desiderio di salvezza individuale, il senso del bene comune, la capacità di soccorrere
175
chi ne ha bisogno, di trasmettere e mantenere alto il senso di fiducia
nelle possibilità di salvarsi tutti insieme, prima che individualmente.
Il film – se ne consideriamo la sceneggiatura e le ipotesi produttive
– ha dunque ormai una forma avanzata di ideazione e progettazione cinematografica, sembra quasi nato da un processo di filogenesi e
d’evoluzione naturale dalla forma originale dell’Io narrante, che filtra
nel vissuto personale e rielabora la memoria, riportandola al presente,
alla forma di un’esperienza collettiva condivisa, narrata in terza persona, colta nella sua immediatezza e varietà di registri, ora comici,
ora drammatici, ora tragici, ora epici.
Rispetto al racconto la sceneggiatura è suddivisa in un numero di
scene eguale (ottanta e ottanta) per ognuna delle due parti, Il caposaldo e La sacca.
Nella sua forma compiuta di Opera-Mondo non realizzata e non
trascodificata, la sceneggiatura del Sergente è esemplare nella sua doppia natura, che ho voluto chiamare limbica e ombelicale. Ombelicale
per il forte legame col testo di partenza, da cui deriva i geni e i valori
profondi, e anche con la lezione del neorealismo e di Rossellini, a cui
il film sembra voler rendere implicito omaggio. E limbica perché va
ad ingrossare, come ho detto, quell’enorme giacimento di soggetti
non realizzati che si possono comunque considerare come un capitolo
importante della storia del cinema italiano, un filone aureo mai finora
studiato nel suo insieme, un termometro di energia implicita, che non
riesce a manifestarsi, per una quantità di elementi del contesto politico, economico e storico, che incidono nel processo di realizzazione di
un film, ma resta sottotraccia e agisce da struttura connettiva, in molti
casi illuminante, nell’opera dei vari autori. A distanza di poco meno
di cinquant’anni questo manoscritto si presenta ancora, così com’è,
come esempio di sceneggiatura “perfetta”, capace di sfidare il tempo
e di riuscire a parlare anche all’eventuale spettatore di oggi.
Olmi non ha voluto in passato e forse non ha avuto vere occasioni
di raccontare le ragioni della non realizzazione del Sergente che sentiva così suo, di cui riteneva di aver del tutto metabolizzato la materia umana e di cui aveva già ben immaginato i luoghi possibili delle
riprese, i personaggi scelti tra montanari e alpini piemontesi, lombardi
e veneti. Solo qualche anno fa ne ha parlato sul «Corriere della Sera»
con Barbara Palombelli (Quando la sinistra mi impediva di lavorare, «Il Corriere della Sera», 9 luglio 2005, p.36), ipotizzando, forse
per la prima volta, tra le ragioni del fallimento, anche un ostracismo
176
da parte sovietica e del partito comunista per il suo essere un autore
cattolico e come atto di protezione territoriale e ideologica del film di
De Santis, Italiani brava gente, realizzato prima dell’eventuale inizio
delle riprese del Sergente a cui come si è visto aveva già accennato in
una lettera a Rigoni. Un vulnus, dopo il quarantennio trascorso, che
non si è cicatrizzato del tutto: («Con Goffredo Lombardo, gran signore napoletano che regnava sulla Titanus, prima casa di produzione
nazionale, provammo a fare un film sulla ritirata di Russia, raccontata
nei suoi libri da Mario Rigoni Stern. Andai a cercare i luoghi adatti,
partii prima per Mosca e poi per la Cecoslovacchia e finalmente trovai il paesaggio giusto. Eppure, dopo tanti incontri, sempre con le
stesse persone, non riuscivo a capire perché mancasse sempre l’autorizzazione finale. Dopo un anno di tentativi, il mio intermediario del
PCI mi disse: ma non hai ancora capito? Tu non sei affidabile. Non ci
garantisci. E l’anno dopo, Giuseppe De Santis, iscritto al partito, girò
Italiani brava gente, lui era in linea. Io no. Rimasi addolorato allora.
Adesso sorrido»).
A mio parere si tratta di un caso di confluenza di elementi contrari
tra cui non va comunque trascurata la debolezza e l’improvvisazione produttiva iniziale della Golden Star, che sta alla base del primo
decisivo atto mancato, a cui si aggiunge con un peso determinante il
flop di Italiani brava gente di De Santis e la sfortuna di giungere in
un momento in cui l’unica memoria della guerra che sembra bene
accolta dal grande pubblico cinematografico è quella contenuta nella
commedia. La mancata mediazione da parte del PCI è assai probabile e tutto sommato prevedibile, ma non è l’elemento decisivo, se vi
fosse stata comunque la volontà di girare il film in luoghi più vicini.
Nel passaggio dal racconto di Rigoni alla sceneggiatura si procede a una trasformazione e ad una sorta di selezione e filtraggio dei
materiali originari in parte analogo all’operazione di macinatura della
segale che apre il progetto cinematografico. Considerandone la natura ibrida, il fatto che Rigoni Stern vi abbia certamente messo mano,
ma che abbia piuttosto preferito veder rispettato lo spirito delle sue
pagine e che il soggetto, pur con le molte riduzioni, sembri mantenere
i caratteri e il completo riconoscimento del suo padre naturale, lo si
potrebbe considerare opera a metà del guado tra la quinta stesura del
Sergente e il terzo lungometraggio nella filmografia di Olmi. Senza nulla voler sottrarre alla paternità dello scrittore il racconto nella
sceneggiatura, pur non avendo raggiunto una perfetta forma olmiana
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sul piano dell’opera realizzata, è stato adottato per intero dal regista
e sentito da subito come proprio, come ben si capisce dalle interviste
che il regista ha rilasciato, dai suoi ricordi, dalla scelta del materiale,
dal susseguirsi delle scene, dal tipo di sguardo che la sceneggiatura
lascia immaginare.
In ogni pagina, se si apprezza la presenza e il controllo della qualità della scrittura e dell’esattezza della ricostruzione da parte di Rigoni, si avverte come il regista abbia preso le misure di ogni elemento,
quasi riesca a pre-vederne la sua trasformazione audiovisiva.
Come ho detto dall’inizio, oltre che convinto dell’importanza dello studio delle opere non realizzate per capire certi momenti della
storia del cinema sono sempre stato anche certo che nella filmografia
di un regista si possano e debbano considerare i progetti non realizzati
quando servono a illuminarne lo sviluppo del percorso poetico, quando, come in questo caso, funzionano comunque da modificatori non
solo del lavoro, ma della vita di una persona. Olmi, in effetti, è stato
così affascinato, oltre che dal libro dal modello di vita dello scrittore
e dal suo habitat che decide di andare a vivere ad Asiago accanto a lui
e, come si è detto, ha continuato a coltivare ancora ostinatamente e
appassionatamente l’idea della realizzazione di questo film per almeno un quindicennio.
Se, come diceva Pasolini, la sceneggiatura è una struttura che vuole essere un’altra struttura, a noi, in questo caso di una struttura che
non si è mai realizzata, può interessare cogliere come avviene il passaggio di testimone tra un narratore che rinuncia alla sua presenza di
cantore di un’epopea e accetta di diventare parte di un flusso di narrazione audiovisiva in cui la sua esperienza è osservata da uno sguardo
che la vuole cogliere come parte di un’esperienza collettiva.
Questo saggio vuole ricordare, oltre che gli autori e in particolare
Rigoni, scomparso da un anno, anche il formarsi tra il regista e l’Altipiano: un amore a prima vista, che, quest’anno, festeggia le sue nozze
d’oro.
Questo articolo è una rielaborazione/riduzione, con l’aggiunta di nuovi documenti, del saggio Il sergente di Olmi e Rigoni Stern disperso
negli anni del disgelo, postfazione di Ermanno Olmi e Mario Rigoni
Stern, Il sergente nella neve. La sceneggiatura, Einaudi, Torino, 2008.
178
179
Peter Brunette
Bertolucci Was Right: We Can’t Live Without Rossellini
It’s true that, as one of Bernardo Bertolucci’s characters says in Prima
della rivoluzione, “non si può vivere senza Rossellini”, or, “we can’t
live without Rossellini”. For me, Roberto Rossellini has always been
a kind of ur-signifier for all that the Lumière Brothers’ branch of the
cinematic family has ever tried to accomplish. In my mind at least
– and I think this is what drew me to start writing about Rossellini
in 1979 – he stands in for the many permutations a certain aesthetic
stance toward the world and its cinematic representation, dubbed realism, has taken over the decades since he was born in 1906. (I should
add parenthetically that when I use his name throughout this paper I
mean, really, to invoke the entirety of that multi-faceted movement,
Italian neo-realism, for which he stands as its synecdoche).
Of course, Georges Méliès and his subsequent clan have delighted
and astonished us, as recently as James Cameron’s Avatar, and they
too are essential. In Italy, this side of the family thrives in brilliant
recent films like Paolo Sorrentino’s Il Divo, made in 2008 (that annus
mirabilis of contemporary Italian cinema), a film in which the cinematic imagination is allowed to run free and untrammeled.
Yet I can’t help thinking that the German critic and theorist Siegfried Kracauer was right when he insisted, in the subtitle of his celebrated book Theory of Film, that the true vocation of cinema was,
finally, the redemption of physical reality. After all, every other visual
art form manifests a potential for non-representational stylization,
but none, with the exception of analog photography, is so blessed
and, possibly, cursed, by its unavoidable connection with a real-world
referent, as Roland Barthes concluded in Camera Lucida.
What’s so important about Rossellini, though, is that he went
beyond mere physical reality, so supremely visible, so “superficial”
180
in the literal meaning of the word, to redeem other, felt realities as
well: the inner, particular, often invisible reality of emotion, as well
as the macro and equally invisible reality of history. Neither of these
“realities” is always visible on the surface, of course, are as real as
anything that readily gives itself to sight, even if they must be approached sideways.
Above all, Rossellini was after what he called “truth”, a word, like
Art with a capitai A, that sticks in our craw these days, or at least in
mine. [Both of these words are stili being unproblematically tossed
around by Michael Haneke, the subject of my most recent book].
I myself don’t believe such an entity as truth exists, and thus I
don’t believe it can ever be found.
Yet I do believe, as Jacques Derrida always did, despite what his
antagonists claimed, in the search for truth as the supreme motivating force behind all human intellectual and aesthetic inquiry. It’s one
ofthose “as if” situations: despite our qualms, we must proceed as if
such a thing existed or else be condemned to remain in our lonely
solipsistic basements sucking our thumbs.
We know that cinema is uniquely prepared to aid us in this “as if”
search for the truth about reality, and the inquiry continues in many
forms, long after Rossellini’s death 35 years ago. The list of his legatees is long. Nevertheless, his legacy is also a decidedly mixed one,
and it’s the contours ofthat complicated but vitallegacy that that I
want to very briefly explore today.
To begin in contemporary Italy, where the overwhelming influence of neo-realism has been as much curse as blessing, there’s the
magnificent Gomorrah directed by Matteo Garrone, which came out
in 2008, the same year as Il Divo. It’s a film of such unvarnished
power and such apparent authenticity that it can suddenly make you
wonder what you ever saw in The Sopranos and why you invested
80 plus hours of your life in that seductively entertaining and dangerously humanizing soap opera. If Gomorrah can never re-enact any
“complete” truth about the Italian under world – in this particular
instance, the Neapolitan Camorra – its sudden outbursts of inexplicable, ruthless violence convey the clear idea, readily verifiable in the
daily Italian newspaper, that they are little more than unredeemable
scum that have continued for decades to poison an entire nation. The
ostensibly neutral recording of what is simply there as an indexical
sign of the evil that lies just below the surface, clearly refers back to
181
the glories of neo-realism, as many commentators have pointed out,
and to Rossellini specifically as a key progenitor of this movement.
Rossellini thus lives on, and vitally, in his native land.
Yet not everything that looks and sounds Rossellinian, of course,
is so. Thus the contemporary Italian cinema is also capable of producing a pseudo neo-realist work like Respiro, directed by the overrated
Emanuele Crialese in 2002, a film which has been lauded by many.
The beautiful people who populate this film, especially Valeria Golino, seem like aliens who have been magically transported
direct from Planet Hollywood to gritty, real locations. Here the most
obvious, most easily replicated signifiers of neo-realism – like having
southerners say “lo saccio” instead of “lo so” – have been co-opted
purely for commerciai purposes and have little to do with any putative “search for truth”.
But then again perhaps it’s precisely on Planet Hollywood, or at
least on an independent, smaller planet nearby, that the legacy of Rossellini, broadly speaking, lives on most powerfully.
Here l’m thinking of this year’s winner of the Oscar for Best Picture, Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker. The film’s been praised, and
properly so, for the intense realism with which the life of a member
of a bomb removal squad, in Iraq, is conveyed. But realism toward
what end?
What purpose does it serve? It’s exciting, ves, and it keeps you
breathless and on the edge of your seat throughout its entire running
time, but I wonder if it does anything else with its realism. Is it ever
anything more than gripping? Is this the most that we can hope for
from Kracauer and Bazin’s dreams for a realist aesthetic? Of course
it’s true that Rossellini’s Open City is often superficially and calculatedly exciting and suspenseful, but then again it uses these Hollywood elements to arrive at something grander and more crucial than
Hollywood, a emotionally and psychologically devastating portrait of
a certain people at a certain time in history. More obviously and more
importantly, Open City, despite the fact that it’s Rossellini’s most
famous film, is also his least typical.
I think Bigelow’s intention in The Hurt Locker was to depict, if
not exactly condemn, overtly, the adrenaline high that a gung-ho character like Captain James lives for, but in this very depiction, doesn’t it replicate the same high in its audience? Doesn’t Captain James
emerge precisely as an exciting devil-may-care figure to be emulated?
182
This is of course the danger of ali committed representation, especially representation that purports to present things neutrally – that it
can easily stimulate a desire for precisely that which it may, on other
levels, seem to condemn. (Here l’m thinking of the Japanese director Kenji Mizoguchi, and Rossellini himself, depicting the travails of
women while perhaps indirectly enjoying at some subconscious level
this very administration of pain, or the supposed anti-violence of a
very violent film like Clockwork Orange, or the anti-war film Platoon
which, years ago, made the two sons of one of my students want to
join the army).
Another figure who comes to mind is the talented director Paul
Greengrass, who is probably best known for his recent Green Zone
and for his two Bourne films, ali of which star Matt Damon. More
interesting, though, are his careful re-creations of historical events,
United 93 (2006), which concerns the piane that was brought down in
Pennsylvania during the terrorist attacks of September 11, and Bloody
Sunday (2002), a dramatization of the massacre of Irish civil rights
protestors by British troops thirty years earlier. The re-creations in
both instances are meticulous and viewers experience the sensation of
having been placed in the middle of the event as it is happening. Part
of this effect arises from Greengrass’s wise, clearly neo-realistinspired choice to avoid stars or other well-known character actors in his
re-creation – I was so happy that I didn’t have to hear Tom Cruise say
“let’s roll!” – a decision that greatly heightens the sense that we are
watching a kind of magic documentary, made during the fact, rather
than after.
But, again, one wonders about the ultimate purpose of films like
these. They’re exciting, you feel like you’re really there, their surfaces positively gleam with authenticity, but is there anything else?
In fact, I think there is, because both ofthese Greengrass films carry a moral charge that, if at times somewhat inchoate or vague, can
nonetheless be felt. In fact, it is probably this very vagueness that
enhances the reality effect, for any clearer thematic statement would
tend to reveal and emphasize the film’s constructedness. This much
seems clear: Greengrass has a point of view, however unspecific, and
wants to convey a certain ambiguous IItruth” about these events. This
is exactly what Rossellini, in the majority of his films, whether based
on historical figures or completely fictional ones, was after as well.
The historical re-creations of Paisà and, somewhat more bombasti-
183
cally, of Open City, specifically, do not seem ali that different fram
what Greengrass is trying to accomplish more than sixty years later.
(Incidentally, it’s interesting how this “real” but completely accessible filmmaking, where everything is visible, has made YouTube and
other real-life videos – for example, the Iranian woman killed in the
protests, or the recently revealed video of the helicopter gunships shooting and killing reporters in Iraq – seem disappointing and unreal,
precisely because they are not available to a lacanian imaginary that
that seems to grant us a full, mastering vision in the movie theater).
One of the most fascinating things about realist films of the last
thirty years or so, is that the ubiquitous hand-held camera, heavily in
use in both Bigelow’s and Greengrass’s films, has become the chief
formai signifier of cinematic realism and, by extension, of the real
itself. Of course, the lightweight equipment that has made this technique possible was not available during Rossellini’s time and it is
interesting to speculate on whether Rossellini would have used it had
it been available when he was making films. The answer, I think, is a
definite maybe. On the one hand, the director was more than welcoming to new cinematic technology and was one ofthe first to adopt the
new zoom lens, however sparingly, in his film General della Rovere
in 1959. By the time he began making his historical docu-dramas for
television, his own manually-operated zoom, which he invented and
which he manipulated during filming, would in fact become virtually the sole camera movement used in these films. (He also liked it
because it saved on editing costs, since he could, in effect, edit “in the
camera” while shooting).
On the other hand, I think Rossellini would have rejected the aesthetic and epistemological meanings that have accrued to the use of
the device – in other words, the handheld camera as signifier of a
more direct access to the real. Rossellini’s realism, of course, was
never a function of camera technique or any strictly speaking “cinematic” technique, but always one of embodiment (in his non-professional actors), location, and mise-en-scène.
Moving from the sublime to the ridiculous, one of the more baleful offspring of the Rossellinian realist aesthetic is so-called reality
television, which seems always on the point of expiration, only to rise
from the dead once again, like the vampire craze which has begun to
threaten the hegemony of “reality” over the airwaves. What television
executives like about the genre, of course, stems not from any com-
184
mitment to the redemptive power of television as a revealer of reality,
either physical or invisible, but from the fact that reality shows are
much cheaper to produce than a dramatic show or news show.
On the other hand, what average viewers seem to enjoy most about
the genre is the unadulterated scopophilia or protected voyeurism that
it seems to allow and even foster.
Though most of the shows are in fact heavily scripted, at least in
terms of the generai direction of the plots and situations, nevertheless
audiences seem enthralled by the fast that the actual word-by-word
dialogue is not. Potentially, this could be a good thing and bring with
it a sense of Barthes’s writerly or what John Fiske would cali the
“producerly,” (even if it the writerly or producerly here is attached
to the show’s participants, a kind of intermediate group between senders and receivers, and not the spectators themselves). As such, it
could potentially represent a momentary release from the banality and
hegemony of the rigid rules of the televisual apparatus, in the largest
sense ofthat word, produced by the dominant ideology. It seems like
a case in which, according to an older terminology, parole may quite
possibly deviate from, or exceed, the langue that structures television
drama, and thus threaten it.
But what a far cry from anything ever attempted by Rossellini!
Attacking reality TV is like shooting fish in a barrel, of course, but
still. The point of most reality shows seems to be to uncover the worst,
grossest traits of human beings, not their courage, hope, and higher
aspirations, ali important values to Rossellini. Here what seems to be
chiefly sought is embarrassment and humiliation. But are these supposedly novel, endlessly mesmerizing, apparently unscripted situations
any more “real’’ than anything else? Or are they just less frequently
represented? As they have since the beginning of spectacle, viewers
seek the thrill of the forbidden, a quick glimpse of some coloring outside the lines, a brief vision, perhaps, of Lacan’s Real that however
fleetingly, appears to escape the manufactured “reality” oftelevision.
But maybe we don’t always get what we think we like. I once
tried to watch an episode of The Bachelor and I felt so bad, and more
importantly, so embarrassed, for the pathetically needy young woman
chasing an unexceptionable young man, that I was forced to change
channels.
[My discomfort watching reality shows, I hope, is one of the few
areas where I really show my age!].
185
Rossellini was a passionate defender of television, of course, and,
as president of the jury at Cannes in 1977, argued, a few weeks before
his death of a heart attack, for the Palme d’Or to be given to the Taviani Brothers’ film Padre Padrone, which was originally funded by, and
made for, RAI television. For Rossellini, ali of it was film, and what
did it matter whether it was shown on a big screen in an auditorium
or a little screen at home?
In the last part of his career, in fact, Rossellini himself turned
almost exclusively to television, making documentaries on various
historical figures such as Pascal, St. Augustine, Descartes, Socrates,
Cosimo de’ Medici, and Jesus Christ, and on subjects as disparate as
the history of the Iron Age and the contemporary art museum in the
Centre Beaubourg in Paris.
Many of these productions about the historical figures, especially, can, quite frankly, seem exceptionally longwinded and not a little
amateurish in technical execution. But Rossellini was never much
interested in a slick presentation, or in history’s surface reality in
these projects – since the reproduction of the putative physical reality of such historical periods could in any case only be conjectural
– emphasizing rather the “reality” of certain powerful ideas, elaborated in long, static discussions between characters, that have deeply
affected the progress of civilization. Here, surface reality seems to be
little more than the expendable “parergon” elaborated by Kant and
dissected by Derrida, to the real essence, the “ergon” of ideas.
Another, perhaps more diffuse Rossellinian legacy is the commitment to dead time and dedramatization, and its formai concomitant,
the long-take, that was evident as early as the late forties in the films
made with Ingrid Bergman, and of course in the sublime Europa 51
of 1952 and Viaggio in Italia of 1954. I think it is not too much to
claim that Rossellini and his ilk are largely responsible for the longtake aesthetic that dominates the films of many auteurs in Europe
and especially Asia, that unhurried glimpse of “real life” in which
“nothing happens”, but which can in fact reveal so much. In Europe, the Belgian Dardenne brothers come to mind, with their brilliant,
apparently superficial and unfocused films like La Promesse, The
Child, The Son, and Rosetta. These films manage to reveal an enti re
inner world of the individuai, and the equally invisible social world,
through their relentless focus on an apparently unimportant exterior.
In Asia, among countless examples that could be cited, l’ve recently
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re-watched Maborosi, made in 1998, the brilliant first film of Japanese director Hirokazu Kore-eda in which powerful if barely spoken
meanings are conveyed indirectly through the glimpses of banal, everyday life that slowly accrete.
The technique of focusing on the banalities of reallife, without the
addition of any overt “drama”, is of course a staple of Iranian cinema
as well. I recently re-watched Jafar Panahi’s The Circle, made in 2000,
and was impressed by its apparent aimlessness as its various “stories”
play out on the real streets of Teheran. But a closer look shows how
carefully structured the film is, in an almost literary fashion, with the
use of various motifs like the circle, smoking cigarettes, and so on.
The apparent aleatory quality that the film offers is a ruse to disguise
what is actually tightly controlled, within an “uncontrolled” context.
The greatest filmmaker in Iran, Abbas Kiarostami, of course, is the
master of this purposeful indirection. I am thinking here especially of
his 1997 masterpiece, Taste of Cherry.
But this aleatory approach is also a dangerous technique in the
hands of the untalented.
I saw a film at the Berlin Film Festival in February, which shall
go unnamed, mostly because I can’t remember the title, which largely contented itself with a lackadaisical observation of the banalities of everyday life, but which remained stubbornly at that level, in
other words, unrelievedly banal. It was literally true in this film that
“nothing ever happened”, neither on the level of plot or thematic revelation. It stands in strong contrast to a great if challenging film like the
recent Romanian production “Police, Adjective”, whose frankly quite
often annoying but finally purposeful indirection and lack of forward
progress are powerfully redeemed in the last fifteen minutes when ali
the philosophicalloose ends are brilliantly brought together.
Finally, I want to speak of an informai new movement in American
independent cinema that the New York Times’ critic A. O. Scott has
recently dubbed “Neo-neo-realism”. It’s too soon to tell, of course,
but this collection of films and filmmakers may very well turn out
to be one of Rossellini’s most significant legacies. The movement,
such as it is, is led by figures like Ramin Bahrani, the director of Man
Push Cart (2006) and Chop Shop (2008), who told Scott that he was
greatly influenced by Rossellini’s 1951 film The Flowers of St. Francis in the making of his excellent recent film Goodbye Solo. Other
key directors in this fledgling movement are Kelly Reichardt, who is
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best known for Wendy and Lucy, and Lance Hammer, who made the
powerful film Ballast, what I call the real “Precious”. Again, astute
and masterful indirection, coupled with apparent aimlessness and a
fierce commitment to the reality of specific places, make these revelatory films very special.
In an article published about a year ago in the New York Times
Magazine, Scott took issue with those who believe that, given our
current hard times, what we really need, as during the Great Depression, is the fantasy and the escapism embodied in the Fred Astaire
movies so popular at the time: «What if, at least some ofthe time, we
feel an urge to escape from escapism? For most of the past decade,
magical thinking has been elevated from a diversion to an ideologica
I principle … To counter the tyranny of fantasy entrenched on Wall
Street and in Washington as well as in Hollywood, it seems possible
that engagement with the world as it is might reassert itself as an
aesthetic strategy. Perhaps it would be worth considering that what
we need from movies, in the face of a dismaying and confusing real
world, is realism». (March 17, 2009).
As Scott summarizes his argument later in the piece, «American
film is having its Neorealist moment, and not a moment too soon».
In other words, Rossellini finally comes back again to a meretricious
and Hollywoodized America, desperately in need of redemption on so
many levels, maybe his true home after all.
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Andrea Ciccarelli
Fra viaggio e stasi:
considerazioni sul cinema italiano contemporaneo
Nel cominciare devo innanzi tutto spiegare il titolo di questo saggio.
Non intendo puntare ad esaminare se le due tematiche del titolo siano
più o meno sfruttate o presenti in momenti specifici del cinema italiano; né tantomeno proporre una verifica quantitativa che identifichi e
censisca il rapporto fra i due temi e determinati registi; ma desidero,
semmai, inquadrare in un discorso più generale il soggetto del titolo.
È mia intenzione esporre, insomma, più l’idea critica alla base di questo progetto di ricerca che non esemplificare con dei risultati parziali.
Fra i tanti approcci con cui ci si può accostare criticamente al cinema, ho scelto quello di sondare se il cinema italiano contemporaneo,
almeno in alcuni dei suoi registi più rappresentativi, mostri interesse
per i due temi o, meglio, per il contrasto che nasce fra il grande tema
del viaggio e la stasi, cioè, il suo contrario, sebbene, in un certo senso, ne sia anche il suo complemento. Perché la stasi sia il contrario
del viaggio è chiaro; perché ne sia anche complementare può esserlo
meno, visto che, solitamente, si contrappongono nettamente le due
correnti che attraversano e informano la cultura occidentale. Senza
dimenticarci che qualsiasi teoria va poi confrontata e verificata nel
concreto del linguaggio artistico a cui si fa riferimento, vorrei soffermarmi su un discorso tematico, per poter appurare se si possa far
rientrare il cinema italiano – o parte di esso – all’interno di un discorso teorico e tematico più univoco.
Il viaggio e la stasi sono due forme di conoscenza: la prima si
basa sull’esplorazione, la seconda sullo scavo interiore. Chi esplora
apprende perché confronta continuamente le proprie conoscenze con
i nuovi dati acquisiti. Il paesaggio, la flora, la fauna, gli usi, i costumi,
l’arte, la lingua, tutto è istintivamente riportato e paragonato a quanto
già si sa, arricchendone il bagaglio, sia che si tratti di accettare o di
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rifiutare la novità. L’atteggiamento sottinteso al viaggio è l’ammissione implicita che, al di fuori di sè, vi siano elementi nuovi, possibilità
di risultati diversi e, forse, migliori di ciò che si conosce. Chi è stanziale, invece, può arrivare a sviluppare una eccezionale sensibilità del
proprio territorio, di ciò che è (o dovrebbe essere) familiare; affonda
radici in profondità perché rinuncia all’esplorazione ulteriore, si blocca ai confini del proprio terreno reale e ideale: ciò che ha già visto o
quello che intravede sbirciando dal proprio rifugio (o, persino, quello che gli è stato raccontato da altri) del mondo è sufficiente a farlo
rimanere saldo, fermo nel proprio spazio che viene esaminato dal di
dentro, scrutato in verticale più che in orizzontale; come chi vive in
paese arroccato in cima a una collina. Il presupposto di chi rinuncia al
viaggio è la scarsa fiducia nella reale possibilità di trovare soluzioni
diverse da quanto già si conosce1. Ma, come accennato, viaggio e stasi sono figure fisiche e metaforiche contrapposte, ma anche complementari, perché rispecchiano impulsi diversi ma che s’intrecciano a
secondo delle circostanze. Si può viaggiare per tante ragioni diverse,
naturalmente. Perché si è forzati da eventi esterni (calamità naturali o
umane, politiche; necessità, desiderio di migliorare, etc.), con o senza
la possibilità del ritorno. La nostalgia di quanto lasciato, nel primo
caso, spinge al desiderio innato di ritornare (Ulisse); nel secondo sollecita a trovare un luogo che sostituisca quanto abbandonato (Enea).
Nell’uno e nell’altro caso, però, la riuscita del viaggio (breve o lungo,
avventuroso o lineare) dipende dalla volontà di interpretare i segni
che marcano il cammino come fonte di arricchimento personale,
assorbendoli nel proprio bagaglio d’esperienza che viene accresciuta
e modificata a secondo delle situazioni incontrate. Il viaggio fine a se
stesso, senza uno scopo (ritorno o rifondazione), o è un atto di conquista (si pensi all’Iliade), un’usurpazione, una rapina; oppure finisce
1 Sul contrasto fra il viaggiare come forma di conoscenza e il ritorno inteso come
rientro nel proprio territorio conosciuto, da cui poter ripensare e apprezzare
(anche nel senso di rifiutarle) le novità osservate vi è una bibliografia sterminata.
Qui posso rinviare ad alcuni autori che, a mio avviso, hanno colto maggiormente la conflittuale poliedricità di questo contrasto conoscitivo. Oltre ai lavori di
Magris (1982 e 1999), si veda la densa autobiografia culturale di Said (in particolare la prefazione e le pagine iniziali), The Redress of Poetry (1996) di Seamus
Heaney e L’Ignorance (2000) di Milan Kundera. So bene che quest’ultimo è un
romanzo e non un saggio, ma è un romanzo che s’interroga, forse più di altri
scritti sull’argomento, sul nodo della conoscenza affidata al contrasto fra migrazione forzata, viaggio voluto e stanzialità cercata.
191
per collimare con un vagare improduttivo, che rischia di implodere
per l’incapacità di individuare una meta o un’azione che lo giustifichi
e lo concluda, magari per poi ricominciarlo2.
Sappiamo che sin dagli esordi della cultura occidentale (Iliade e
Odissea) il movimento, il viaggio, l’esplorazione dello spazio che
si ha di fronte, che ci circonda o che possiamo solo immaginare,
diventa necessaria allegoria per un lavoro che aspiri alla narrazione
del mondo3. Fermo restando che le due figure di viaggio non sono
affatto lineari, possiamo sostenere che l’Iliade proponga un viaggio
centrifugo, che si spande verso la conquista di uno spazio nuovo,
ambito e concupito da chi non è soddisfatto dal proprio essere e dal
proprio avere (che sia rappresentato dall’ambizione di Agamennone
o dall’avidità degli altri re greci o dal desiderio di gloria di Achille
è, in un certo senso, irrilevante: sono tutte facce dello stesso impulso
di conquista)4. L’Odissea invece è centripeta, come un predatore che
gira concentricamente intorno alla vittima prescelta e la stringe sempre più nel cerchio delle sue peregrinazioni, fino a diventare tutt’uno
con essa, nella morsa della lotta fra vita e morte. Paradossalmente,
il viaggio di ritorno di Ulisse è molto più vario e molto più viaggio, insomma, che non quello sottinteso allo sbarco degli Achei sulle
sponde di Ilio – dove poi sostano e diventano stanziali, si accasano
per dieci anni in attesa di penetrare le mura invincibili della città.
2 Questa sensazione di movimento inerte, senza un preciso senso d’identità che si
vuole rinforzare o recuperare è quello che Magris chiama “odissea rettilinea”, in
cui il protagonista, non avendo punti di riferimento, non (ri)conosce e non sembra poter raggiungere un’identità diversa o più profonda di quella di partenza: la
personalità non si arricchisce, ma si sgretola nella presa di coscienza del nulla
continuo (1999, pp. 59-60).
3 Quando si parla degli albori della civiltà occidentale non si sottolinea forse a
sufficienza la sua radice fortemente mediterranea, una radice in cui la conflittualità fra il viaggio (per mare, ma non solo) e la volontà stanziale o di ritorno
è insita nella stessa conformazione geografica dei luoghi dove nasce il mito. Gli
insediamenti aggrappati in cima a scogliere, dirupi o colline che si specchiano
sul mare offrono un’immagine dissonante nei confronti dell’acqua che invita alla
navigazione e all’esplorazione.
4 Sulla conflittuale circolarità dei due poemi omerici e sulla loro presenza e influenza nella cultura italiana si veda Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero
e gli archetipi della narrazione. Milano, Mondadori, 1991. Riprendo da questo
libro, già pubblicato in forma leggermente diversa nel 1974 (Milano, Bompiani) e
poi nel vol. 5, Le questioni, della Letteratura Italiana Einaudi diretta da Asor Rosa
(Torino, 1985), le due definizioni qui usate per descrivere il moto narrativo dei due
poemi omerici.
192
Figura di questa stanzialità, necessaria alla stessa riuscita del viaggio
(la conquista di Troia), sono le navi arenate dagli stessi prìncipi Achei
che issano le loro tende intorno alle navi e ne fanno, così, la loro nuova dimora. La nave-tenda-casa diviene simbolo della temporaneità
di tale insediamento (l’agognato viaggio di ritorno è insito perfino
nella struttura stessa della costruzione), ma anche lo sgradito emblema di uno stanziamento imposto. Da questa prospettiva, l’incendio
delle navi greche da parte dei troiani, ha una doppia e contrastante
valenza, quindi: da un lato rappresenta il logico tentativo bellico di
tagliare loro la via (il mezzo) di fuga; dall’altro, un’azione che mira a
distruggere un indesiderato insediamento colonico. L’Odissea invece, anche quando narra del lungo periodo presso Calipso, lo fa come
se fosse parte di un’avventura perenne; una fonte di apprendimento
continua, insomma, che deve la sua riuscita, appunto, al necessario
susseguirsi del viaggio.
Conosciamo tutti le ragioni intrinseche alla narrazione che giustifica la saga e le avventure: Ulisse paga il fìo per aver sfidato prima Apollo, il dio sole, avendo profanato Troia; poi, per aver imbrogliato Ajace, protetto da Poseidone, signore del mare. Il sole e il
mare: senza la luce (e la verità) del primo si vaga nel buio come
un cieco; senza l’aiuto del secondo, si naufraga5. Quello che qui mi
preme ricordare è che chi (come Ulisse) si muove spinto dal nostos,
dal vento del ritorno, dalla nostalgia per la propria terra e per la
propria famiglia, finisce per partecipare – a volte controvoglia, ma
spesso volentieri – ad un peregrinare diviso in viaggi e viaggetti
punitivi e formativi, che apportano nuova conoscenza, sia del dato
oggettivo – del mondo esterno che si esplora volenti o nolenti – che
del proprio spazio interiore. Più Ulisse riflette sulle proprie esperienze esterne e più medita sulle verità del proprio cuore. L’eroe che
vuol assolutamente tornare a casa scopre e tocca lidi sconosciuti
che lo aiutano a comprendere meglio i suoi stessi confini interiori;
vuol tornare, certo, ma assapora cibi e bevande che diventano più
forte dell’assenza, cioè del desiderio di restare, di stare, una volta
riottenuta la sua posizione iniziale, all’interno di uno spazio che non
5 Potrà essere utile ricordare che, da un punto di vista dell’antropologia mitica, la
luce di Apollo rappresenta quindi la ragione, la capacità di calcolare le proprie
azioni, mentre Poseidone la fortuna, necessaria per la riuscita di ogni impresa.
Le due doti, insomma, che non difettano ad Ulisse che, diventa così emblema
sovraffino di sopravvivenza.
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può offrire altro che il conosciuto. Uno spazio in cui gli oggetti che
ritroviamo contrastano con la forza del nostos che li colorava con
tinte ben diverse, perché lontani6.
La stasi, quindi, non è solo il contrario del viaggio, ma ne è
anche complemento, anzi lo completa: quello che appare come un
conflitto insolubile di estremi opposti, si tocca e nutre entrambi gli
aspetti conoscitivi, gnoseologici della realtà. Ulisse viaggia perché
costretto; continua a viaggiare perché la nostalgia lo spinge a cercare il ritorno e, nel far così, acquista una conoscenza del mondo e di se stesso, invidiabile. Questa conoscenza – o, forse, questa
voglia di conoscenza – diventa come una proteina indispensabile
per il suo organismo, un nutriente che non c’è nei cibi di Itaca e
di cui si sente la mancanza, una volta riguadagnata la stasi cui si
ambiva fin dall’inizio. Il nostos si è rovesciato: ora, comincia a spinger via, come sappiamo da un breve, ma significativo, accenno alla
fine del grande poema. Odisseo, una volta riaccasato e ricongiunto con Penelope sente una pulsione che prelude ad un’altra, non
prevista, ma sentita partenza. La conversione da uomo di stasi a
uomo di viaggio è avvenuta interamente: non si dimentichi, infatti,
che all’inizio del poema Odisseo non ha alcuna voglia di partire
da Itaca, anzi, si finge pazzo pur di restare nella sua rocciosa isola,
ma, non riuscendo nell’inganno, è costretto a partire7. Ecco che un
personaggio stanziale, trasformato suo malgrado in viaggiatore, una
volta riacquistata la stasi di partenza non può più acquetarsi, proprio in nome di quella conoscenza data e dettata dall’avventura che
lui bandiva. Quindi, da un lato, l’assedio di Troia (a cui partecipa,
eccome, Ulisse) diviene figura (coloniale) di un viaggio di conquista che si può concretizzare solo grazie ad una stasi che strangola
lentamente la vita di chi viene invaso; dall’altro, la sua conseguenza
culturale più nota, le peripezie di Odisseo, diventa invece simbolo
di una forma di conoscenza basata sul movimento, sullo scrollarsi
6 Sull’ineluttabile confusione che la miscela di nostalgia e ricordi crea nella mente
dell’esule, oltre ai lavori citati di Kundera e Said, v. anche le pagine finali di
Esilio di Enzo Bettiza, Milano, Mondadori, 1995 (specie p. 443 e sg.).
7 Mi riferisco, naturalmente, a uno dei preamboli dell’Iliade stessa, quando Ulisse,
nel tentativo di eludere la partenza per Troia, vuol far credere a Palamede, inviato
da Agamennone, di essere impazzito e si fa trovare, tutto trasandato, che ara la
sabbia della spiaggia spargendo sale. Palamade, però, non cade nel tranello e
mette il piccolissimo Telemaco davanti all’aratro; Ulisse smette immediatamente
di arare, rivelando, così, di essere perfettamente sano di mente.
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di dosso la stasi che ci insidia. Lo status quo (ereditato o imposto)
non può cambiare se non ci si affida (e non ci si fida del) al viaggio
come veicolo di conoscenza nuova.
Il modello, sia nel suo contrasto fra viaggio e stasi, che nel suo
conflitto, viaggio di sè, esplorazione interiore e viaggio di conoscenza
oggettiva, si ripete nelle letterature occidentali moderne, naturalmente e, nella cultura italiana, è forse incarnato più di tutti dalla dicotomia
rappresentata dal binomio Dante-Petrarca. Il primo non può neppure
scrivere (la Commedia) se non parte, se non si affida ad una guida che
lo aiuti ad attraversare mondi sconosciuti che aprano dimensioni nuove (si pensi all’ultimo verso del I canto dell’inferno: «allor si mosse
e io li tenni dietro», ma si pensi anche alla spiegazione del perché si
scrive la Commedia: «ma per cercar del ben ch’io vi trovai/ dirò de
l’altre cose ch’io v’ho scorte»; la soluzione dell’esilio morale è nel
cercare e trovare una dimensione nuova). La metamorfosi, in Dante,
è vita, in altre parole. Petrarca, invece, scrive poesia proprio perché
rifiuta il nuovo, rifugge il cambiamento in nome di ciò che non è più
e che si rimpiange («la vita è breve sogno»), ma che, contrariamente
al viaggiatore Ulisse (o Dante), non si può più raggiungere se non
tramite una memoria elegiaca: l’esilio, in lui, non è transitorio, ma è
perenne. Da questa contrapposizione fra Dante e Petrarca alle umoristiche peregrinazioni finto-forzate di primo Novecento di Mattia
Pascal-Adriano Meis il tragitto è meno lungo di quel possa sembrare.
Oppure, si pensi, per restare nella tradizione poetica, alla contrapposizione fra gli allegri naufragi di Ungaretti (il quale, nonostante
le burrasche della vita prosegue il viaggio, come un vecchio lupo di
mare che sa solo ripartire: «E subito riprende/ il viaggio») e i viaggi
fortunosamente evitati negli Ossi di seppia (1925) di Montale (che,
invece, indica la salvezza proprio nelle mancate (ri)partenze: «è l’ora
che si salva solo la barca in panna./ Amarra la tua flotta fra le siepi»)8.
8 La poesia Allegria di naufragi dà il titolo provvisorio (dal 1931diventerà, L’allegria) alla raccolta di Ungaretti del 1919, che include anche le poesie pubblicate
nel libro d’esordio, Il porto sepolto (1916). La lirica citata dagli Ossi, Arremba
sulla strinata proda, appartiene proprio alla sezione che dà il titolo alla prima raccolta montaliana del 1925. La modernità affronta il dualismo fra Dante e Petrarca
condendolo con il sorriso dell’ironia e dell’umorismo che rovescia qualsiasi punto fermo per svelare come il suo contrario sia altrettanto plausibile: l’ambiguità
diventa il fulcro del discorso artistico, come si evince, ben prima che nel saggio
stesso sull’Umorismo di Pirandello (1908), dallo stesso Fu Mattia Pascal (1904),
naturalmente. Resta, comunque, una distinzione netta fra la prelavenza dell’una
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Ma questo stesso tragitto scorre su un filo logico che, dalle riflessioni estetiche sorte durante e all’indomani del primo conflitto mondiale, attraversa il fascismo per (rag)giungere sino a certa filmografia
del neorealismo, ove la tensione cinematografica nasce e cresce proprio per poter giustificare il viaggio infernale causato dalla distruzione
morale e fisica della guerra e poterlo proiettare verso un futuro, se non
proprio di speranza, comunque diverso dal tempo appena trascorso9.
Per fare un esempio su tutti, si pensi al finale di Roma città aperta,
dopo la fucilazione di don Pietro, il quale, non dimentichiamolo, è condannato per non aver tradito la fiducia di Giorgio, uno dei capi comunisti della Resistenza, ma, soprattutto, per aver sfidato dialetticamente le
asserzioni pseudo-religiose del comandante della Gestapo («Quest’uomo è un sovversivo, un senza dio, un vostro nemico!»), al quale il
sacerdote oppone la propria verità etica («Credo che chi combatta per la
giustizia e la libertà cammini nelle vie del Signore»). Mentre i bambini
dell’oratorio (a modo loro tutti partecipi alla Resistenza) si allontanano
sconsolati dal luogo dell’esecuzione, abbracciandosi e camminando a
testa china, sullo sfondo si vede la città con la cupola di san Pietro che
si staglia al centro dell’immagine. È ovviamente il simbolo della vita
spirituale votata al sacrificio per gli altri per cui don Pietro si è immolato; ma è anche simbolo di rinascita perpetua – e non necessariamente
o dell’altra corrente tematica: in entrambi i casi, il lavoro artistico è veicolo di
conoscenza che rivela la difficoltà del vivere. Ma, chi predilige prevalentemente
la corrente introspettiva sembra rassegnato a ribadire la negatività della vita; chi,
invece, vede la propria esperienza come qualcosa che possa pur sempre svelare
una seppur minima via d’uscita, tenta di indicare una strada per superare o sminuire tale negatività.
9 La seconda guerra mondiale è stato uno spartiacque etico e morale, imprescindibile, fra il prima e il dopo, per l’intera generazione intellettuale che aveva operato
fra le due guerre o aveva cominciato ad affacciarsi al lavoro intellettuale negli
anni della guerra stessa. Su questo aspetto, rinvio alle ancora attualissime pagine
scritte nel 1945 da Mario Luzi in un articolo, L’inferno e il limbo, che poi dà il
titolo al libro omonimo (1949 e, in edizione accresciuta, 1964). Luzi identifica
l’inferno con il male di vivere che ha prima causato la guerra e che è poi stato fomentato dalla guerra stessa, ma lo indica, dantescamente, come temporaneo, non importa quanto lungo l’esilio da una soluzione positiva possa essere.
Il viaggio, il tentative di trovare strade nuove è dunque la soluzione estetica da
seguire. Identifica invece il limbo con la nostalgia elegiaca (esemplata sulla poetica petrarchesca) che, avendo conosciuto il male, per rifuggerlo, si chiude nella
memoria ed evita qualsiasi tentativo di imboccare strade nuove, scavando dentro
di sè, ma schivando ogni opportunità di viaggio conoscitivo che, in tale concezione, non può che portare a fallimento.
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(o non solo) in senso religioso, ma, forse, soprattutto, in senso sociale
e umano10. Il viaggio spirituale di don Pietro corrisponde al suo cammino fisico («Non è difficile morir bene. Il difficile è vivere bene»,
risponde al cappellano poco prima di essere ucciso): è assassinato da
dove si vede sia la sua città, Roma, che ha amato e servito fino al sacrificio, ma anche la piccola città al suo interno, con la cupola enorme
evidenziata perfino dalla sua sovrapposizione con la parola “FINE” che
chiude il film11. Roma, allora, è città aperta anche e soprattutto perché
volta verso una nuova era, che non è certo profetizzata come facile o
euforica, come si evince dalla sconsolata camminata dei bambini, ma
che sarà certo migliore del male assoluto che l’aveva assediata e stretta
durante la dittatura prima e la guerra dopo. I bambini, pur ciondolanti e
tristi, si confortano l’un l’altro, e dimostrano, dunque, di essere consci
del loro ruolo di testimoni. Nonostante il dolore, devono continuare a
resistere, e devono ricordare e riportare la loro esperienza a chi non ha
visto: ma per denunciare e raccontare, non per recriminare. Denunciare
significa andare avanti, cambiare, sostituire, sperare; la mera recriminazione tiene invece fermi sul posto, è soggetta a livore impotente. Il
regista sembra suggerire come il proseguimento del viaggio della vita,
qualunque cosa ci aspetti, sia l’unico modo per onorare l’insegnamento
di don Pietro e poter così offrire a se stessi, e alle generazioni seguenti,
una vita diversa. I bambini, perciò, si avviano lentamente verso il cuore
di una città eterna e antica, ma rinnovata dal sacrificio di tante persone.
Sono essi stessi allegoria dolente di un domani incerto e difficile, ma
pur sempre differente dalla stasi letale, asfissiante, imposta dalla dittatura nazifascista. La vita come viaggio, come moto che si distacca,
senza dimenticare ma senza cadere nel rimpianto, è l’unica ipotesi che
può portare a qualcosa di nuovo12.
10 In passato, la critica, ha forse insistito un po’ troppo sia sulle presunte simpatie
marxiste (o, propriamente, per il PCI) da parte di Rossellini, che sul supposto
cattolicesimo del regista, a causa, forse, di una lettura letterale, poco dialogica,
di certe scene. Per sottolineare la complessità spirituale e tematica del film, basti
ricordare che la nobile figura di don Pietro è assistita, nei suoi ultimi momenti, da
un cappellano che, sin dai suoi primi gesti impacciati, mostra una ritualità superficiale nonchè una certa connivenza con i carnefici; le sue preghiere – contrariamente a quelle pronunciate dal martire – non hanno assolutamente nulla di spirituale.
11 Mi pare chiaro, anche, il riferimento al nome del sacerdote: come il primo degli
apostoli diviene pietra d’angolo di nuova vita, sacrificando la propria.
12 Su questo punto che ruota intorno alla necessità di proseguire il viaggio, a dispetto della forte tensione verso la stasi, rinvio, ancora una volta a Mario Luzi, in
197
Passando ai nostri giorni, possiamo chiederci se e come il cinema degli ultimi anni si collochi in questo scenario fra viaggio e stasi. Le circostanze storiche, dal dopoguerra agli anni duemila, sono
mutate drammaticamente e, paradossalmente, quanto anticipato nella prima parte del novecento si ripresenta più attuale in tempi più
vicini a noi che non nel periodo del dopoguerra, quando, per cause
di forza maggiore, prevale un dualismo più netto, come si è appena
visto. Che la dicotomia fra le due tematiche, nel mondo moderno,
non possa essere così lineare come nell’universo antico è ovvio. Ho
già accennato a Pirandello e al suo personaggio perennemente rovesciato nell’umoristico tragitto da vita a morte a vita statica in attesa
della terza e definitiva morte… La stasi e il viaggio sono appiccicate insieme come i libri incollati dall’umidità nella biblioteca che il
protagonista morto-resuscitato-ritrovato cerca di mettere, svogliatamente e casualmente, in ordine. Il punto di sutura sfuma nell’umore,
fisico e metafisico, e non si riesce più ad identificarlo in modo netto
e, tutto sommato, forse non serve nemmeno farlo una volta capito l’andirivieni del gioco della vita13. Il migliore cinema italiano
degli ultimi anni è, in buona parte, figlio del contrasto fra questi due
temi. Ci sono registi che si prestano a questa dicotomia che, spero
di aver dimostrato, è anche conseguenziale e unisce i due estremi. I
nomi sono tanti, naturalmente; qui, vorrei soffermarmi, brevemente,
su due dei principali registi contemporanei: Gabriele Salvatores e
Matteo Garrone. Il primo ha girato film, spesso tratti da romanzi
o racconti, che sono apertamente divisi fra pulsione di scoperta e
l’istintuale chiusura che, all’inizio, rifiuta la diversità proprio per
timore di doverla accettare come migliore in un inevitabile termine
di paragone con la stasi di partenza (si pensi a Marrakesh Express,
particolare alla poesia Il duro filamento (dalla raccolta del ’65 Dal fondo delle
campagne): «Passa sotto casa nostra qualche volta,/ volgi un pensiero al tempo
ch’eravamo ancora tutti./ Ma non ti soffermare troppo a lungo».
13 «Don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a
staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di
Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci,
Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova
nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo
della vita e delle avventure monacali». Non c’è forse bisogno di sottolineare che
quel “notare” serve a rammentarci, e siamo nelle primissime righe del libro, che,
riflettendo su ogni evento, si può rovesciare qualsiasi assunto.
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1989; Puerto Escondido, 1992; Io non ho paura, 2003; ma anche al
thriller Quo Vadis, Baby? 2005)14.
Garrone, anche se si pensa solo a Gomorra (2008) e ai suoi impliciti giochi fra viaggi tentati, strozzati e soppressi, gioca con entrambi
i temi, imbevendoli di sentimenti contrari e molteplici, che accennano all’impossibilità di uscire dall’inferno della camorra, se non per
una scelta imposta o individuale, che, però, resta dissonante dal resto
del tessuto societario. Il film, come il libro di Saviano da cui è tratto, è complesso e composito, visto che segue diverse storie che s’intrecciano fra di loro e che rappresentano i vari strati di penetrazione
della malavita organizzata nel napoletano (e non solo). L’ impianto
del film, che segue a fondo (ma non fino in fondo) diversi personaggi15, lo rende una delle opere recenti più simili al genere epico, con
il suo grande affresco narrativo che snocciola il caotico molteplice
della vita grazie allo sviluppo della storia del singolo. Qui, prendo ad
esempio, schematicamente, tre di questi episodi.
Gomorra si apre nello scuro più completo, con un rumore di sottofondo che, per qualche secondo, lascia pensare ad un motore, quasi
si stesse per vedere un veicolo che esce da una galleria buia. In realtà si tratta del rumore del compressore di una sala abbrozzante dove
alcuni killers della camorra, rei di voler passare ad un altro clan o di
non aver rispettato i patti, stanno per essere trucidati dai loro compari. La pellicola si chiude coerentemente con un’altra mattanza, quella
dei due giovani sconsiderati che vogliono competere con il crimine
organizzato. Il trattore che porta via i loro cadaveri nel cavo della sua
pala li depositerà, verosimilmente, in qualche buco non meno buio
dell’immagine iniziale. Il film si apre e si chiude, dunque, con il brutale ma efficace modus operandi di chi non desidera cambiamenti di
14 Puerto Escondido è tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci (1990); Io
non ho paura dal romanzo di Niccolò Ammaniti (2001) e Quo Vadis Baby? dal
romanzo di Grazia Verasani (2004).
15 Non diversamente da molte delle epopee antiche, ma con un occhio anche a quelle
moderne (Pirandello, Joyce), il film, come il libro, narra per lo più di eventi in atto,
non ancora conclusi al momento della stampa o della produzione filmica, e lascia
perciò sospese e aperte le conclusioni. Se alcuni di questi personaggi potranno o
sapranno applicare la lezione dell’esperienza esposta nel film, lo possiamo solo
dedurre. Il plot del film è complesso, come si è detto, e non si può riassumere
facilmente in poche righe. Basti sapere, per chi non ha avuto occasione di vederlo,
che segue almeno cinque storie distinte che s’intersecano sullo sfondo del dilagare
della camorra e della violenza quotidiana di certe zone del napoletano.
199
sorta; di chi sfavorisce qualsiasi moto che non riconduca al servizio di
una divinità immobile nel nome del profitto e del sopruso. L’avventura
scomposta e sguaiata dei due giovani guappi che pensano di potersi
mettere in proprio finisce in una stasi perenne, uno status quo amorale,
che conferma sia la loro evanescenza etica, infantile, che la mancanza
assoluta di ogni sentimento umano da parte di chi li uccide16. Il loro è
un finto viaggio; in realtà, sono fissi, congelati negli inferi regolati da
una prepotenza fisica ed economica che viene emulata e scimmiottata
per quello che è: falso movimento, avventura fittizia. Lo scopo, infatti,
non è quello di cercare e trovare qualcosa di diverso, che tramuti o,
almeno, modifichi in parte il punto di partenza negativo, ma, al contrario, si vogliono raggiungere solo conferme che aiutino ad entrare in un
sistema corrotto, annodato su se stesso, che non si desidera sciogliere,
ma del quale si vogliono semplicemente le chiavi.
Contraltare di questa cecità dettata da avidità, ignoranza, imitazione di falsi modelli-feticci e, alla fin fine, soprattutto dalla povertà
economica, strutturale e morale che circonda le vite violente e misere
di questi manovali del grande crimine è l’avventura di chi si ribella,
seppur in ritardo, alla stasi etica e civile prodotta dal crimine. È il caso
di Roberto, il giovane laureato che abbandona il suo ruolo di tuttofare
per il mediatore (Franco) senza scrupoli che organizza la rimozione
illegale dei rifiuti tossici. È una rivolta individuale che porta ad un
mutamento di rotta parziale (Roberto non denuncerà i soprusi di cui è
stato partecipe e testimone) e che è rappresentato, fisicamente, dal suo
scendere dal vistoso SUV di Franco per proseguire il cammino a piedi,
da solo: in questo caso, l’apprendimento di fatti ed episodi nuovi porta, almeno, all’autocoscienza di ciò che non si vuole. L’episodio che
scatena la rivolta e fa scendere Roberto da un veicolo che lo trasporta
ogni giorno sempre di più a ritroso nella disumanizzazione provocata
dalle loro azioni è significativo. La ribellione scatta quando Franco
gli chiede di gettare delle pesche che una vecchia contadina gli aveva
donato, perché contaminate dai rifiuti tossici che loro fanno scaricare
nelle campagne. La vista delle pesche gettate a terra, sul ciglio di una
desolata strada di campagna, più ancora che gli effetti terribili sulla
pelle di un operaio che era entrato in contatto con il liquido di uno dei
16 Signifiativo della miseria etica dei due ragazzi è il loro imitare gangsters da film;
un comportamento che contrasta, psicologicamente e fisicamente, con i veri
gangsters che poi li uccidono.
200
bidoni di rifiuti, innesca la molla che fa scattare la presa di coscienza
di Roberto. Il dover disonorare un dono, simbolo sincero e antico di
ospitalità, ricevuto in una delle sue esplorazioni condite dalla falsità
degli intenti che mirano a convincere delle proprie buone intenzioni
chi viene costantemente e lentamente avvelenato dagli stratagemmi
escogitati da Franco, diviene un punto antropologico di non ritorno.
Il suo lavoro, il suo vagabondare, i suoi tanti contatti con la gente,
invece di metterlo in sintonia con i luoghi che visita e le persone che
incontra, lo isolano in un’alienazione sempre maggiore. Il suo non è
un viaggio di scoperta: è un agitarsi interno di fronte alla ripetizione
ossessiva del male che perpetua. Quando finalmente lo scopre e ha
la forza di agire di conseguenza, lo fa, ripartendo grazie alle proprie
gambe, come fosse necessario riportarsi al grado zero del movimento
umano per poter scrollarsi di dosso il lerciume perpetrato anche grazie ad aerei, macchine e treni che facilitano il distacco dalla terra che
si sta avvelenando.
Infine, si pensi alla figura del sarto, Pasquale, il quale, per guadagnare qualcosa in più, ma spinto anche dall’amore per la sua professione, finisce per accettare di insegnare sartoria, di nascosto, in
una fabbrica abusiva di cinesi. Un atto sconsigliato per chi lavora in
un ambiente lavorativo che smercia grazie alla protezione (voluta o
meno) della camorra; è un’azione che vorrebbe preludere alla trasmissione di esperienze, all’insegnamento di un’arte che può cambiare la vita di altri, migliorandola. Ma questa è una sfida all’establishment di chi, pensando solo al proprio miglioramento (economico),
non gradisce alcun movimento orizzontale, che produca soluzioni
alternative. Dopo la sua prima lezione notturna, Pasquale torna a casa
all’alba e deve scansarsi per far passare, sulla statale senza marciapiedi dove vive modestamente con la sua famiglia, un camion che
sfila veloce nelle luci del primo mattino estivo. È un’immagine che
prelude al suo stesso destino. Sopravvissuto ad un attentato proprio
per aver azzardato una via non autorizzata dal mondo semi-sommerso
che regola la vita del posto, finisce per abbandonare il lavoro che ama
per fare, lui stesso, il camionista: diventa, cioè, egli stesso veicolo di
viaggio perenne, al di là di ogni metafora. Il culmine della sua storia
esistenziale è raggiunto quando, ad una stazione di servizio, vede in
televisione un abito che lui ha disegnato, indossato da una star di Hollywood (Scarlett Johansonn). La sorpresa, l’incredulità di Pasquale
nel vedere il proprio vestito in televisione, in quel contesto brillante e
201
famoso che contrasta ferocemente con la desolante anonimità del luogo dove lui si trova, è seguita da gesti e smorfie che accennano appena
ad un sorriso e trovano il loro culmine quando sale nella cabina del
grosso camion che, scopriamo proprio in quel momento, ora guida per
lavoro. Nell’accendere il motore sembra rimpiangere per un attimo le
proprie scelte, per poi ripartire senza troppi indugi. Anche in questo
caso, sembra delinearsi l’impossibilità di identificare una strada certa
che trasporti fuori dalla selva oscura del male, se non rassegnandosi
ad abbandonare per sempre la propria Itaca, rappresentata dall’amore
per il proprio mestiere di sarto, strappato per sempre, quasi fosse un
contrappasso dantesco, dalle sue abili mani ora costrette a manovrare
un volante e viaggiare avanti e indietro su percorsi prestabiliti, nei
quali, la novità, se giunge, arriva in un autogrill, da un televisore che
trasmette immagini legate ad un passato che non si può integrare con
il presente o il futuro del protagonista.
Vorrei concludere questo excursus tematico, soffermandomi brevemente su Salvatores. Nel suo caso, possiamo forse intravedere la
tentazione di accarezzare entrambi i modelli: quello più netto, di un
mondo in cui i colori sono chiari, e quello più sfumato della modernità. Basti pensare a film come Puerto Escondido o Marakkesh Express,
i cui finali, pur diversi, comprovano che la partenza, forzata (PE) o
volontaria (ME), acquista senso solo nella chiusura, ironica, del cerchio delle avventure: da una stasi che i rispettivi protagonisti non (ri)
conoscevano come tale, ad un viaggio verso un ignoto che, se non
presenta un lieto fine, presenta almeno un fine utile, sia a livello psicologico che etico17. In ogni caso, l’uscita dalla stasi è vista come
necessaria per provare ad ottenere qualcosa di altro, anche se l’ironia
e l’umorismo cambiano continuamente il risultato di questo altro.
Ma se prendiamo, per esempio, l’intera struttura del progetto di Io
non ho paura, vedremo come qui il regista si distanzi dalla maggior
realismo del libro, in cui anche i protagonisti infantili partecipano in
buona misura ad una brutalità esistenziale da cui si può solo fuggire
solo grazie al viaggio interiore, onirico, del bambino-protagonista,
Michele. Il libro è in flashback: Michele, adulto, ricorda e racconta
come e cosa abbia imparato dal suo viaggio che, prende forma, solo
17 In entrambi i film, dopo molte peripezie, i protagonisti, oltre a ritrovarsi o a trovare una nuova linfa vitale, riescono in qualche modo a far perfino del bene alla
popolazione locale.
202
perché coscienza del ricordo. Nel film, vediamo tutto in contemporanea insieme agli occhi di Michele. L’azione si svolge in un villaggio
del Sud, semi-abbandonato, dove la scarsa popolazione locale è tutta coinvolta nel rapimento di un ricco bambino milanese (Filippo).
Michele, il figlio di uno di uno dei rapitori, mentre gironzola e gioca
con gli amici, scopre casualmente il covo sottoterra dove tengono prigioniero Filippo e lo va a trovare ogni giorno, acquisendo pian piano
coscienza che deve aiutarlo a fuggire. Quando i rapitori cambiano
il covo di Filippo e Michele capisce che lo stanno per ammazzare,
Michele cerca e trova il nuovo nascondiglio e l’aiuta a fuggire appena
in tempo, rimanendo lui stesso ferito da un colpo di pistola sparato da
suo padre.
La stasi iniziale da cui i protagonisti adulti e infantili bramano di
fuggire è certamente infernale, ma ricorda anche un po’ il limbo, perché la desolazione dei luoghi e delle persone sottolinea il loro ristagnante malessere, una staticità che sembra ravvivarsi nel momento
in cui i protagonisti cominciano un delirante viaggio mentale che,
nei loro sogni strozzati, dovrebbe portarli lontano, verso l’eldorado
del Nord. Tutto questo è ben rappresentato dalla centralità feticistica
della televisione, che diventa il vero idolo cui pagare omaggio ogni
sera per vedere se il notiziario parla di loro, della loro impresa che
deve restare segreta per ovvie ragioni (il rapimento del bambino) ma
che loro vorrebbero gridare ai quattro venti per far vedere a tutti che
anche loro sono importanti, sono in viaggio verso un qualcosa di nuovo e diverso che li porterà ad un nuovo status di riconoscimenti e onori. Ma, per tornare alla realtà della storia, sono gli occhi di Michele
che ci guidano e ci raccontano in diretta i contorni e le contraddizioni
dei vari eventi e protagonisti. Michele non sente su di sè la condanna
della stasi letale che affligge gli adulti e anche alcuni degli altri bambini; lui, non diversamente dal suo coetaneo Filippo, il bimbo rapito,
viaggia continuamente con la sua fantasia sia per evitare il male che
lo circonda che per rassicurarsi un ritorno nel suo nido, nella sua Itaca
rappresentata dalla sua diroccata casetta e camera da letto. La stasi,
inconsciamente, nutre la voglia di partire ogni giorno per un’avventura diversa; avventura che, per un bambino, non avrebbe senso se
non vi fosse il punto di riferimento del ritorno assicurato. Il dramma
prende una svolta improvvisa proprio quando lui trova sia lo spazio
esterno che quello interno, rappresentato dalla sua cameretta da letto,
occupato da Sergio, il bandito venuto da Roma nel libro e dal Nord
203
(Milano) nel film. È proprio la presenza inquietante e attraente del
cattivo, Sergio, che scioglie gli ultimi dubbi di Michele e lo spinge a
prendere coscienza che quella che sembra un’avventura quotidiana,
un passatempo, deve diventare una missione, liberare Filippo; consentire anche a lui il suo nostos, il suo ritorno a casa. Proprio perché
tutto nasce da un gioco e da un vagabondaggio di bambini il film
ottiene una sua coerenza nell’equilibrio fra male e bene, fra coscienza
della colpevolezza e innocenza: il finale può non piacere nella sua
quasi edulcorata innocenza dei bambini che si toccano le mani prima di essere separati per sempre, ma è necessario per sottolineare
come il cerchio di questo viaggio di conoscenza si possa chiudere,
in qual modo positivamente, solo al loro livello, soltanto e solamente
per loro, per chi, avendo subìto il male, non lo ha ancora perpetrato,
contemplato e può ancora sperare di restare, di stare, una volta ritrovata la strada di casa.
Opere citate:
Bettiza, Enzo, Esilio, Milano, Mondadori, 1995.
Ferrucci, Franco, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della
narrazione, Milano, Mondadori, 1991.
Heaney, Seamus, The Redress of Poetry,1996.
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Said, Edward W., Out of Place, New York, Alfred A. Knopf, 1999.
204
205
Federico Pacchione
Giuseppe Tornatore in viaggio attraverso il padre
Il valore di uno studio intertestuale non risiede nell’identificazione
di un legame, ma piuttosto nella possibilità che tale legame ha di
illuminare la natura di un’opera o di un’arte. Sarà quindi importante
capire se un recupero di un certo linguaggio felliniano o il confronto
con luoghi del suo cinema indichino la presenza di una koiné, o di
un’esigenza di mercato in quanto aderenza a una formula accettata
di film d’arte, oppure attestino a un omaggio o una smorfia verso una
delle figure più rappresentative del cinema italiano come il tentativo
di attraversare e esorcizzare un modello divenuto forse opprimente e
scomodo, o ancora se gli echi felliniani sollevino una coincidenza di
ricerche parallele.
Quello di Tornatore è stato definito un cinema “filmofago” (Fittante, p. 44), e infatti dietro i suoi film si assiepano folte le memorie
cinematografiche e spiccano modelli come Ettore Scola, Francesco
Rosi e Luchino Visconti (p. 35; p. 41). Prima di questi si staglia tuttavia l’ombra lunga di Federico Fellini che per Tornatore è equivalso fin
dall’infanzia al cinema stesso e al quale egli deve l’impulso di lasciare la Sicilia per inseguire la carriera di cineasta. Tutto ciò è rievocato
da Tornatore in un’intervista della fine del 1993:
… compravo le sceneggiature dei suoi film pubblicate
dall’editore Cappelli, leggevo le sue biografie, collezionavo
le musiche di Rota, organizzavo al liceo alcuni cineforum tentando impacciate quanto appassionate introduzioni a La strada e Otto e mezzo che avevo già rivisto più volte… Mi accorgo
oggi di avere sempre nutrito un affetto particolare per i film di
Federico Fellini. (Tornatore, p. 32)
206
Tornatore doveva esprimere questa equazione tra cinema e Fellini
nel finale di Nuovo cinema paradiso, dove al termine della sequenza
dei baci, avrebbe voluto mostrare di sfuggita Fellini nei panni del
proiezionista. Fellini rifiutò giustificandosi che avrebbe distratto dal
film e consigliando a Tornatore di filmare invece sé stesso, ma di qui
nacque il loro incontro durante il quale Tornare gli mostrò il film.
Anche se il finale poi venne realizzato diversamente, la presenza di
Fellini rimane nella sequenza che mostra un pubblico intento a guardare I vitelloni, film che, come nota Bondanella, ha in comune con
Nuovo cinema paradiso il tema della maturazione e la nostalgia per
il piccolo borgo e la sua vita (p. 68). Nel ricordo del giovane regista
si coglie chiaramente l’ansia con la quale attendeva il responso del
maestro, proprio come il giudizio di un padre:
È un episodio che non dimenticherò mai… Io tremante d’emozione me ne andai in cabina e per tutta la durata del film rimasi
appiccicato alla finestrella della proiezione a spiare nel buio
i suoi movimenti, per capire quali scene del film potessero
annoiarlo o infastidirlo. In tutta la mia vita non ho mai fissato così a lungo una persona di spalle! Dopo la proiezione
s’intrattenne a parlarmi, mi incoraggiò, diede qualche piccolo
suggerimento, disse che potevo telefonargli. (Tornatore, p. 33)
Sarebbe giustificato allora chiedersi se il tema della ricerca del padre
che appartiene a Nuovo cinema Paradiso, e che è stato persino studiato secondo le categorie campbelliane del mito psicoanalitico (Thiel),
abbia già qui delle radici meta-cinematografiche. O ancora, come ha
fatto Giacomo Striuli, se dietro a Nuovo cinema Paradiso si nasconda, per le strategie metanarrative e l’enfasi posta sul ricordo e sullo
scavo nell’identità, una discendenza pirandelliana come filo conduttore tra Fellini e a Tornatore. Il passaggio da Pirandello a Fellini può
essere tuttavia saltato in questo caso in quanto Tornatore condivide
con il drammaturgo prima di tutto la sicilianità. Rimane però ormai
un dato di fatto che, per l’esplorazione meta-cinematografica sulla
natura della creatività, e cioè per il cinema nel cinema, Fellini è ormai
canone istituzionalizzato per tanti registi; in particolare penso, con
le debite differenze e cautele, a Woody Allen (Stardust Memories,
1980), Nanni Moretti, Francois Truffaut (La nuit américaine, 1973),
Bob Fosse (Sweet Charity, 1969; All That Jazz, 1979), Paul Mazursky
207
(Alex in Wonderland, 1970) e alla coppia Spike Jonze-Charlie Kaufman (Adaptation 2002). Ma ecco come direbbe Tornatore riguardo
ipotesi di influenze felliniane nel suo lavoro:
Spesso i giornalisti mi chiedono se l’opera di Fellini abbia avuto influenza sui miei film. Generalmente taglio corto con diffidenza, glisso per paura di essere frainteso, ma la vera risposta è
che il cinema di Fellini non ha influito sui miei film, ha influito
invece sulla mia volontà di fare film. (Tornatore, p. 32)
È naturale e giusto che l’artista si preservi il diritto (che è poi anche
un dovere) di testimoniare l’unicità del suo rapporto con la propria
creazione. Allo stesso modo sta allo studioso il diritto e il dovere di
constatare l’esistenza di rapporti storici e intertestuali tra le opere
d’arte di vari autori e di descriverne la natura. È inevitabile però metterci un tocco di malizia e leggere dietro il bisogno di Tornatore di
tenere i propri film lontani da quelli di Fellini l’ansia del figlio che
vuole distinguersi dal (e di fronte al) padre.
Ma gli studiosi hanno avuto poco ritegno nell’approfondire questo legame, e noi speriamo di averne ancor meno, sempre comunque
nella speranza di non “fraintendere” il regista e di ascoltarlo invece
nel suo linguaggio più intimo. Nel caso specifico e concreto di Tornatore e Fellini siamo di fronte a un rapporto artistico molto complesso
che non si può risolvere nell’idea di una filialità accondiscendente,
piuttosto il dialogo che Tornatore istaura con l’opera cinematografica
felliniana si svolge per vie che sono sia apparenti che nascoste e rivela
un rapporto non privo di conflitti, dubbi e contraddizioni.
In Stanno tutti bene, Tornatore segue la storia dolceamara di Matteo Scuro, un padre siciliano che attraversa la penisola per andare in
visita ai suoi figli dispersi in grandi città italiane quali Napoli, Roma,
Firenze, Milano e Torino. Il film viene realizzato dopo Nuovo cinema
paradiso, ma è concepito prima del 1988, ed è quindi da considerarsi
un film situato nel pieno della nascita della carriera registica di Tornatore (Vitti pp. 64-65). Non sorprende quindi che in questo film egli
faccia i conti con la figura del padre, sia quello biologico siciliano,
che quello cinematografico, ovvero Fellini, chiedendosi se quest’ultimo sia ancora un valido modello da seguire oppure no.
Nell’attraversare questo secondo livello di paternità, Tornatore si
confronta con una serie di motivi e stili di stampo felliniano e così
208
facendo dà alla luce un film che è anche tassonomia e reinterpretazione personalissima del cinema di Fellini. È stato per via di simili
elementi che alcuni critici e spettatori hanno accusato il cinema di
Tornatore di pretenziosità e falso poetismo. Rimanendo aldilà del
film, così si esprime Paolo Mereghetti nel suo dizionario:
All’opera terza, Tornatore fa un passo falso… lo stile spesso
fellineggia (la mongolfiera sulla spiaggia). Facili moralismi,
trovatine che vorrebbero fare poesia (il cervo sull’autostrada),
e tanti chiché… Mastroianni, ingrigito e imbambolato, è quasi
insopportabile. (p. 2503)
Era inevitabile quindi che Stanno tutti bene ricevesse una tale accusa,
in quanto Tornatore per attraversare Fellini non poteva che mettere
in scena il linguaggio felliniano, e quindi come koiné e insieme di
formule. Come si intende dimostrare in questo saggio, con Stanno
tutti bene non siamo di fronte a una grossolana imitazione di poetica,
ma a un doloroso e complesso tentativo di comprendere e risolvere
una paternità cinematografica, nei suoi limiti e nelle sue promesse.
Seguiamo quindi insieme alcuni dei passaggi più salienti di questo
confronto con il padre.
Come preambolo, è interessante aprire una parentesi per notare
come la relazione padre-figlio di Stanno tutti bene fosse già prefigurata
da un episodio della Dolce vita, quello della visita del padre di Marcello che presenta in modo embrionale temi che saranno poi ripresi
e sviluppati da Tornatore: il personaggio del padre commerciante1, il
suo arrivo alla grande città dalla provincia, il suo entusiasmo per cose
considerate ovvie dai giovani, l’incapacità di riavere una giovinezza
attraverso il ballo e la sessualità, e la preoccupazione di fondo sul reciproco stato di salute e felicità (la ricorrente domanda: “come stai?”).
Naturalmente Tornatore recupera anche, in Matteo Scuro, il protagonista considerato alter ego di Fellini, ovvero il provinciale inurbato
Moraldo-Marcello frutto dell’epopea eroicomica di I vitelloni, Moraldo in città, La dolce vita, e 8 1/2, incarnato soprattutto dallo stesso
1 Matteo Scuro dice di essere un commerciante di vite, lavorando all’anagrafe.
Inoltre all’origine del personaggio vi è una reale commesso viaggiatore che Tornatore osservò e di cui volle inventare la storia (Antonio C. Vitti, Dal “pedinamento” all’affabulazione cinematografica in Stanno tutti bene”, «Italica»,
vol.80, n.1, Spring, 2003, pp. 64-65).
209
Mastroianni. In La città delle donne, Fellini aveva lasciato Marcello
già invecchiato, un po’ ottuso e miope alle prese con la fantasmagoria
femminile della sua psiche. Nel finale di quel film, il protagonista si
risvegliava dal sogno con gli occhiali mezzi rotti, una lente a posto
e l’altra frantumata, con un occhio rivolto al buio interiore, l’inconscio, e l’altro al mondo esterno con una rinnovata consapevolezza di
ciò che costituisce proiezione dei suoi sogni. Tornatore insiste che
Mastroianni indossi anche nel suo film dei grossi occhiali da vista,
che a detta dell’attore stesso erano “più spessi di fondi di bottiglia”
(cit. in Dewey, p. 275).
Anche in Stanno tuttti bene, gli occhiali sono collegati allo sguardo della mente, tuttavia entrambe le lenti sono troppo spesse e trattengono perennemente lo sguardo di Matteo rivolto all’interno, nei
suoi ricordi, sogni e fantasie. Il nome stesso del personaggio bisbiglia
qualificazioni di pazzia, di oscurità, e dominato dall’aggettivo “scuro” sottolinea una cecità o un’opacità. Sia in La città delle donne
che in Stanno tutti bene, che iniziano entrambi con viaggi in treno
nell’alternarsi tra la luce e l’ombra delle gallerie dei sogni, lo sguardo
interno dietro il vetro deformante dell’occhiale è trasmesso dall’altra
lente, quella della telecamera, che ci porta in entrambi i casi a sondare
le profondità della psiche.
Di particolare rilievo è la sequenza del sogno ricorrente di Matteo
Scuro dove si recupera, attraverso i toni di un surrealismo di maniera,
il sogno iniziale di 8 ½ fondendolo a un’altra famosa visione proveniente da Giulietta degli spiriti. La fine del sogno giunge a Matteo
mentre passa la notte a casa della figlia Norma a Torino. L’ameba nera
e tentacolare sopraggiunge sulla spiaggia con lo stesso senso di ineluttabile decadenza del barcone di fantasmi bitumosi che Giulietta tira
fuori dal mare del suo inconscio. Dalla loro spiaggia daliliana fuori
dal tempo, i figli di Matteo si aggrappano e sono rapiti dall’enorme
mostro volante, contemporaneamente familiare e alieno all’isolano
Matteo Scuro come infondo gli è la modernità stessa. La misteriosa
medusa è il simbolo attraverso il quale Matteo spiega l’incognita forza che ha portato via i suoi figli (che prima si aggrappano e poi strillano aiuto). Ed è lo strattone di una corda, proprio come nel sogno di 8
½, a culminare e terminare l’ansia del sogno, ma con un’interessante
variazione.
Il sogno di 8 ½ è ripreso ma è anche rovesciato, come è reso esplicito dalla sveglia che ridesta Matteo, che segna il titolo del film letto
210
al contrario. Inoltre, mentre l’elevazione e il volo erano per Guido,
protagonista di 8 ½, elementi di serenità, per Matteo sono motivo di
terrore. Il linguaggio onirico felliniano viene quindi riadattato da Tornatore ai propri fini per esprimere la paura del protagonista di fronte
alla crescente distanza tra i suoi figli e la mitica e fantastica terra della
sua identità. Inoltre, lo spazio del volo e dell’immaginazione, proprio
come avevamo visto per gli occhiali, è esacerbato in toni negativi
e perde la sua qualità e simbologia liberatoria e salvifica. Vediamo
quindi come nel valutare lo stato di salute del suo padre cinematografico, nonché liberarsi una volta per tutte dalla sua influenza, Tornatore
decostruisce la koiné felliniana dall’interno.
Dopo aver attraversato il volo onirico, Tornatore attraversa anche
quell’energia e senso di movimento, o meglio quella qualità danzante
trasmessa dal cinema di Fellini a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, qualità
che non a caso ha favorito fino ad oggi uno scambio con il musical
di Broadway. La sequenza nella sala da ballo di Rimini è senz’altro
un momento di riflessione sull’anzianità (Vitti, p. 62), ma è anche il
marcato e fallimentare tentativo di Matteo di rivivere un’avventura
amorosa e di recuperare una vitalità giovanile, e quindi un ulteriore accenno alla stanchezza del padre cinematografico nei ultimi anni
ottanta. Come a Matteo mancano le energie per sostenere il ballo,
così viene meno la possibilità di ritornare alla danza creativa che fin
dagli anni ’60 era divenuta, per mezzo delle parole messe in bocca a
Orson Wells da Pasolini nella Ricotta, bandiera del cinema poetico di
Fellini.
E la stessa passeggiata lungo la spiaggia esistenzial-surrealista,
memore di alcune immagini ormai indelebili di I vitelloni, sembrerà
aprirsi a uno spiraglio di miracolo, una voce dal cielo che però si
appiattisce in effimera quotidianità. Il viaggio alla fonte della creatività, nella terra d’origine del padre, Rimini, si dimostra inefficace,
un sogno grigio, ottuso e muto, come le facce dei passeggeri dietro i
vetri del pulman che conferma soltanto una spenta vecchiaia (un altro
frammento del sogno che apre 8 ½). E allora il passo incalzante della
colonna sonora del film stesso, che infila le varie sequenze al ritmo
di una marcia un po’ boriosa e ridicola, è il segnale dello svolgersi di
un’epica eroicomica al centro della quale sta questa molteplice figura
di padre.
L’elaborazione e realizzazione di Stanno tutti bene, coincide con
il più drammatico nonché ultimo momento della carriera di Fellini,
211
spesso visto dagli stessi protagonisti come un punto di esaurimento e
di disfatta. Mi riferisco ovviamente a La voce della luna, anch’esso
del 1990, il film che più di ogni altro manifesta una visione registica
intrappolata in uno stato di imbarazzo e paralisi verso la realtà contemporanea, e sclerotizzata nell’iper-stilizzazione di un orientamento
autoriale che non è più in grado di attingere il suo giusto nutrimento
dall’apporto di collaboratori fedeli come Tullio Pinelli (Pinelli cit. in
Barbanente, p. 114). Per l’appunto il valore dell’ultimo film di Fellini
è proprio quello di mettere in scena l’emarginazione generazionale e
l’impasse di un’arte che non ritrova più i suoi stimoli e le sue ragioni
di essere nel mondo che una volta era il suo.
In un recente saggio, Antonio Vitti ha parlato di come dietro a
Stanno tutti bene si celi un discorso sulla perdita di presa sulla realtà del cinema nell’era della televisione, in contrasto alle prospettive
del pedinamento neoreliastico al quale il film è ricco di riferimenti.
L’impasse cinematografico di Stanno tutti bene può senz’altro essere
spiegato come lo scontro tra il pedinamento zavattiniano della realtà,
di cui il viaggio di Matteo Scuro potrebbe essere similitudine, e le
trasformazioni antropologiche e storiche che lo stesso Matteo, dietro
la lente deformata dell’occhiale/macchina da presa, fatica a guardare. Tuttavia è unendo tale prospettiva con una discussione dei forti
richiami alla ricerca cinematografica nell’inconscio del cinema di
Fellini, al suo fascino e al suo allora precario stato di salute, che si
può comprendere a fondo il significato del film e la sua collocazione
storico-culturare.
Tornatore aveva una profonda familiarità con La voce della luna,
in quanto ne aveva seguito la lavorazione sul set (Tornatore, p. 33).
Non c’è dubbio che il rifiuto e l’emarginazione dalla modernità siano al centro di entrambi i film, e con essi la nostalgia per il passato.
Non a caso, avvicinando il cinema di Tornatore a quello di Fellini,
Peter Bondanella ha parlato di un consimile cinema della nostalgia
assieme a una simile ricerca espressionistica dei visi. Se il secondo
punto ci pare meno rilevante in quando tale aspetto estetico non è di
certo un primato felliniano, l’elemento della nostalgia risulta invece
opportuno e profondo al rapporto tra questi due artisti e, come vedremo, centrale anche alla presente discussione su Stanno tutti bene.
Tornatore stesso ha sottolineato questa comunanza sulla nostalgia
della provincia:
212
Li ho sempre sentiti [i film di Fellini] molto familiari, mi trovavo assolutamente a mio agio nel vederli e rivederli, c’era
qualcosa in quel mondo di fantasmi di provincia, in quell’ironica malinconia, che mi ricordava paradossalmente Bagheria
e i personaggi della mia adolescenza. E il fatto che i suoi fantasmi romagnoli, la sua malinconia, la sua provincia, lo avessero
reso così grande nel mondo incoraggiava in qualche modo il
mio desiderio di tradire la mia provincia, di allontanarmene
per sempre, di andare altrove, dove si faceva il cinema. (Tornatore, p. 32)
È interessante notare come questo sentimento di nostalgia nasca per
Tornatore, così come poi anche per Fellini (che scelse Viterbo e Ostia
per inscenare una cittadina adriatica), da un desiderio di mantenere
le distanze. Potremmo dire allora che la nostalgia condivisa da i due
registi non desideri un ritorno ma bensì un allontanarsi, per meglio
immaginare e per meglio raccontare. Si veda poi come Patrick Rumble abbia chiamato in causa, indirettamente, l’elemento nostalgico del
cinema di Tornatore nello spiegare come il suo successo con il pubblico nord americano sia dovuto al senso di un recupero di un’autenticità
identitaria emanato da un film quale Nuovo cinema paradiso.
Ed è certamente per esprimere la distanza dalla modernità e la
nostalgia del passato che Tornatore sceglie per Stanno tutti bene uno
sceneggiatore come Tonino Guerra che, con la stessa intensità di un
Pasolini e un Volponi, ha espresso con la sua opera il massimo rifiuto
delle trasformazioni antropologiche acceleratesi dalla metà del secolo
in poi. Non solo, ma l’apporto di Guerra era anche alla radice dello
svolgimento lirico di tale motivo di nostalgia e amarezza nei film di
Fellini stesso quali Amarcord, Ginger e Fred e E la nave va. Più di
ogni altro sceneggiatore, Guerra infatti rappresenta e incarna nell’opera felliniana l’attrito con la contemporaneità, portando nello schermo
modi della sua poesia come la riscoperta di una corporalità grezza ma
proprio per questo nobile e affrancata da un’artificiale igiene moderna
(Gramigna, p. 5). La penna di Guerra si rintraccia facilmente nell’uso
simbolico dell’animale come portatore più diretto di una tale corporalità; e il cui effetto era stato trasportato nello schermo felliniano
nella forma di buoi, gabbiani e pavoni. Proprio al colorato uccello che
interrompe i fermenti della banda di giovani sotto la neve di Amarcord rimanda infatti la silenziosa e regale apparizione del cervo che
213
blocca il traffico nell’autostrada su cui Matteo Scuro viaggia con la
figlia Tosca. Questo motivo della presenza sacrale della bestia tornerà
anche nel mediometraggio di Tornatore Il cane blu, uno degli episodi
di La domenica specialmente (1991), scritto interamente da Guerra.
È interessante allora notare a quale profondità Tornatore risalga per
rapportarsi a Fellini e al suo linguaggio, ingaggiando in collaborazione uno dei fautori stessi del suo ultimo cinema quale Tonino Guerra.
Altro che falso poetismo!
Stanno tutti bene è quindi da considerarsi il momento principe di
un attraversamento, un punto di non ritorno e il passo più significativo
verso l’indipendenza dell’identità artistica di uno dei maggiori esponenti del nuovo cinema. In questo film Tornatore risolve a sé stesso
il proprio legame artistico con il cinema di Fellini, nonché la propria
posizione come regista del cinema nuovo. Si tratta della ricerca di un
chiarimento, la testimonianza di un impellente bisogno di attraversare una figura chiave e il risultato è duplice: da una parte abbiamo
un omaggio entusiasta per un cinema carico di emotività e capace di
andare nel profondo, dall’altra un allarme per la crescente separazione di questo stesso cinema dal mondo attuale. Tutto ciò implica anche
un superamento, che poi si manifesterà nel gesto spavaldo del film
seguente, Una pura formalità (1994), dove Tornatore dimostrerà di
saper affrontare il tema dell’aldilà come Fellini non ha saputo o voluto fare con il suo Mastorna. E proprio su questo set, Tornatore ricorda:
Quando giravo Una pura formalità io e Polanski ci rimandavamo in continuo battute, quiz e piccole memorie felliniane. Una
volta, dall’altro capo del set mi chiamò e mi domandò: “Asa
Nisi Masa?”. Tutti gli altri ci vedevano scambiarci questi sorrisi e cenni di intesa. (Tornatore cit. in Sesti e Crozzoli, p. 12)
È difficile giudicare se sia un bene o un male che Matteo Scuro fatichi a
riconoscere la mediocrità delle vite dei suoi figli, tuttavia è indiscutibile
che Matteo giunga alla fine del suo viaggio a delle conclusioni: ovvero
che i figli, o per lo meno i nipoti, devono essere cresciuti liberi dal peso
di gloriose quanto illusorie promesse, non a “essere qualcuno” ma a
essere “uno qualsiasi”. Il risvolto cinematografico di questa nuova prospettiva è la proclamazione del bisogno di accettare il proprio presente,
anche nei suoi aspetti meno poetici, piuttosto che fuggire in un fastoso
sogno del passato, con la consapevolezza che infondo, come scopre
214
Matteo nel sogno finale il vino, e anche il cinema, si fa con l’uva. Si
tratta di un’immagine polivalente, e senz’altro anche di un richiamo
a un’arte più radicata e spontanea. Assistendo alla propria nascita in
sogno, Matteo capirà anche che affinché i giovani crescano forti e fortunati si deve mettere in mano, la prima volta che gli si tagliano le
unghie, un milione: i nuovi registi, nei primi passi della loro crescita,
hanno bisogno solo di un po’ di incoraggiamento finanziario.
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film 2006, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005.
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216
217
Anthony Tamburri
Il Vecchio Mondo in opposizione a quello Nuovo:
la coincidentia oppositorum nel Nuovomondo
di Emanuele Crialese
«Voi siete il futuro nostro!»
Il prete di Petralia Sottana mentre saluta Rita e Rosa
Le scene iniziali di Nuovomondo di Emanuele Crialese stabiliscono le
premesse per una serie continua di contrasti che cresce ed evolve nel
corso del film. Da una parte, questi contrasti si basano su differenze
reali tra le condizioni di vita dei personaggi e quello che possono
aspettarsi negli Stati Uniti. Dall’altra, sono basati su credenze irrealistiche come, ad esempio, le enormi monete e verdure che Salvatore
e la sua famiglia vedono nelle cartoline inviate alla famiglia dagli
Stati Uniti, dove il fratello americano era emigrato anni prima. Sullo
stesso tono, troviamo anche i protagonisti a nuoto in un fiume di latte
circondati da gigantesche carote galleggianti.
Nella madrepatria
Il nostro primo incontro con la Sicilia di Salvatore avviene nel territorio
montuoso nel quale si apre il film. Un paesaggio che non potrebbe essere più lontano dalle aspettative che Salvatore e la sua famiglia nutrono
verso gli Stati Uniti. Il mondo di Salvatore è presentato allo spettatore come una zona della Sicilia arida e rocciosa, che apparentemente
non ha altro da offrire se non la speranza che le cose miglioreranno. È
questa che porta Salvatore e il figlio Angelo a scalare la montagna per
portare omaggio e chiedere soccorso alla Vergine Maria, cui è dedicato
un piccolo e scarno santuario in cima al versante grigio e pericoloso.
Salvatore è insomma alla ricerca di un qualche segno che gli confermi la validità del suo desiderio di seguire il fratello ed emigrare
negli Stati Uniti.
218
Due delle caratteristiche più salienti della scena iniziale sono (1)
cosa portano e (2) come sono vestiti. Per ovvi motivi pratici, indossano
camicie e pantaloni stracciati; sono scalzi e portano delle pietre in bocca
e, avendole portate così lontano, le loro labbra sanguinano leggermente.
Altrettanto icastica è l’inquadratura iniziale; vediamo una roccia bianca
che potrebbe essere una montagna vista da lontano; improvvisamente
appare una mano, quella di Salvatore, il quale si sta arrampicando sulla
roccia e contemporaneamente nel nostro spazio visivo appare con una
voluminosa roccia nella bocca sanguinante. Tutti questi elementi stanno chiaramente a indicare lotta e sacrificio; in senso immediato e concreto per quanto riguarda la fatica compiuta da questi due uomini nello
scalare la montagna e portare in sacrificio le pietre alla Madonna; in
senso metaforico, invece, a rappresentare sia le lunghe lotte e le sofferenze della madrepatria sia quello che li aspetta. In altre parole, la scena
assolve la doppia funzione significante di esprimere (1) nel presente, le
difficoltà che i personaggi incontrano quotidianamente in questa terra
apparentemente abbandonata da Dio, incapace di nutrire il suo popolo,
e (2) a lungo termine, sacrifici simili a quelli che faranno durante il
viaggio verso gli Stati Uniti e nelle loro vite future una volta arrivati.
Non toccano mai le pietre che portano in bocca prima di consegnarle. È come se dovessero portarle alla Madonna incontaminate da mani
umane, affinché conservino la purezza del sacrificio che stanno offrendo. Ricoperti di stracci, scalzi e lordi dalla scalata, vengono inghiottiti
da una fitta foschia man mano che s’inerpicano più alto, come se stessero entrando nella sfera del divino, aperta solo a quei mortali che ne
sono degni per mezzo del loro sacrificio. Questa distinzione, tra ciò
che è apparentemente divino e ciò che è umano, è evidenziata anche
da un’altra scena marcata dall’originale e brillante uso che Crialese fa
della macchina da presa. Mentre Salvatore e Angelo sono impegnati
nella scalata del pericoloso versante, la macchina da presa a un certo
punto indietreggia allargandosi in un lungo campo dell’intera collina
fatta principalmente di rocce marroni e grigie. Lo spettatore, qui, può a
malapena distinguere le due figure che scalano la montagna. Nel frattempo, la macchina da presa indietreggia ulteriormente in un’inquadratura a volo d’uccello dell’intero versante, lasciando i due uomini
completamente avvolti nei suoi toni marroni e grigi e in una foschia
che lentamente copre tutto il paesaggio, momento in cui il film taglia
su una nuova scena.
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Segni per/della meraviglia
Quando Salvatore e Angelo raggiungono finalmente la vetta, uno
scarno santuario con una croce fatta da tre rami, depositano le pietre,
lasciandole letteralmente cadere dalle loro bocche ai piedi del santuario, e implorano per un segno che indichi loro se restare o partire,
promettendo che non lo faranno finché non riceveranno in risposta un
qualche segno. Quel segno si materializzerà presto; prenderà la forma
di cartoline inviate dall’America. L’altro figlio di Salvatore, Pietro,
apparentemente un ragazzo muto, arriva all’improvviso con in mano
alcune cartoline spedite dallo zio americano. Sono foto truccate di
scene irrealistiche che Salvatore interpreta come un segno per partire
per gli Stati Uniti: un’immagine mostra una cipolla gigante in un carretto, un’altra un albero dei soldi, e la terza un pollo gigante.
L’ascesa dei due uomini alla vetta, alla ricerca di una giustificazione per partire alla volta del nuovo mondo, è subito giustapposta a un
esorcismo da vecchio mondo che la madre di Salvatore Fortunata, una
guaritrice locale, compie su una giovane donna che crede di essere
maledetta, apparentemente posseduta da un serpente nello stomaco.
Le due scene, una chiaramente diretta verso il nuovo mondo e l’altra fortemente radicata nel vecchio, si contrappongono e formano una
nitida coppia di opposti. Una simile coincidentia oppositorum emerge
qui anche in altra forma. Quando una delle due giovani donne destinate a partire per l’America, Rosa, porta alla madre di Salvatore una
busta contenente le cartoline suddette, Fortunata risponde: «No, no,
io non mi fido a leggere parole di carta», cui la giovane donna ribatte: «No, no, queste non sono parole di carta, queste sono cose vere».
Vengono, aggiunge quindi, dalla “terra nuova”. Una volta esaminate
le cartoline, Fortunata dice al nipote Pietro di bruciarle, cosa che naturalmente lui non fa.
La breve conversazione tra Fortunata e la giovane donna pronta a
partire per l’America è significativa per due ragioni. In primo luogo,
siamo qui testimoni di uno scontro tra la mentalità del vecchio mondo e l’avventurismo del nuovo. Fortunata è una guaritrice “naturale”
immersa nei modi del vecchio mondo legati alla natura e alla superstizione1. Il suo desiderio di rimanere tale si manifesta quando ordina
1 Più avanti nel film, quando l’intera famiglia è sul punto di abbandonare la Sicilia
e deve passare per una città, che possiamo assumere sia Palermo con la burocra-
220
al nipote di bruciare le cartoline, un atto che, per quella che possiamo
considerare la filosofia ben sistematizzata del vecchio mondo, eliminerebbe qualsiasi segno, per quanto esagerato, che possa persuadere
Salvatore a partire per il nuovo mondo. La “terra nuova” semplicemente non può coesistere col vecchio mondo, neanche in forma di
rappresentazione fotografica, perfino se truccata.
In secondo luogo, troviamo anche un elemento extra-testuale e, in
gran parte, retoricamente auto-riflessivo. Nella brevissima conversazione tra Fortunata e la giovane donna con le cartoline, capiamo che
le parole non hanno alcun valore perché Fortunata non si fida di loro:
«No, no, io non mi fido a leggere parole di carta». La giovane donna,
invece, replica, che queste non sono «parole di carta, queste sono cose
vere». In altri termini, quello che viene rappresentato con parole, il
logos, non è attendibile; non possiede alcuna valenza semiotica per
Fortunata. Invece, quello che ha valenza semiotica sia per Fortunata
sia per la giovane donna è l’immagine, il visivo; «queste sono cose
vere» perché appartengono alla sfera visiva. Ciò che è oculare è, di
conseguenza, anche percettibile, discernibile, e quindi “reale”, mentre ciò che è verbale non lo è. Il visivo in questa scena dunque sopraffà il logos2.
Proprio questo è l’elemento auto-riflessivo; Crialese racconta la
sua storia tramite le immagini, non le parole. Così facendo, adultera
anche il valore semiotico delle immagini che impiega. Sebbene siano
tutte perlopiù realistiche, colpisce la maniera con cui il regista altera
la loro combinazione. L’inizio del film suggerisce già, velatamente,
questa manipolazione. È come se Crialese, attraverso questa giovane
donna, voglia informare lo spettatore su cosa sta per vedere. Tuttavia,
facendo rifiutare a Fortunata perfino quelle immagini che le viene
zia che la caratterizza, un dottore vuole vendere a Salvatore una cura per il mutismo di Pietro. Fortunata, incredula, interviene dicendo che quello che l’uomo
cerca di rifilare è robaccia, cosa che lei sa bene dato che è una “medica,” come si
definisce lei, creando così un’ancora maggiore elasticità semiotica nei segni che
incontriamo nel film.
2 Uno potrebbe anche pensare ad altri due motivi perché le “parole di carta” non
avrebbero alcuna valenza semiotica per Fortunata. Innanzitutto, lei è analfabeta;
e non essendo in grado di leggere e, di conseguneza, non capire qualunque messaggio per iscritto, non può che non fidarsi di qualcosa che non comprende in
nessun modo. Secondo, la scrittura, specialmente ciò che potrebbe sembrare sia
ufficiale sia forestiera in ogni senso del termine, risulta ugualmente inaffidabile a
chi non vive all’interno del burocratico mondo socio-politico dell’epoca.
221
detto sono “cose vere”, Crialese sembra voler avvertire lo spettatore
che il significato apparente, soprattutto a prima vista, di alcuni segni
che incontrerà, deve essere accantonato.
L’avvertimento che il visivo può a sua volta essere oggetto di scetticismo è messo in evidenza quando ci viene detto che la seconda
giovane donna è maledetta; ha un “serpente in pancia” da quando ha
saputo che Don Ercole l’aveva promessa, insieme all’amica, a due
ricchi uomini negli Stati Uniti, che loro ovviamente non conoscono.
Fortunata stessa rafforza allora la possibilità di scetticismo semiotico
nel visivo compiendo un cosiddetto esorcismo per liberare la donna dalla maledizione. Dopo averla legata in quello che sembra uno
schema a forma di x, Fortunata porta la mano sotto il vestito della
donna, dove sembra lottare con qualcosa per un po’ di tempo, tirando
poi fuori un serpente nero. Il tutto avviene all’interno, in una stanza
scura, così non abbiamo mai una vista chiara dei dettagli della scena,
incluso del serpente. Quello che evidenzia lo scetticismo è piuttosto
la reazione stessa di Fortunata, la quale, sia prima di tirare fuori il
serpente sia subito dopo, continua a sorridere. È il secondo sorriso
a seminare scetticismo, credo, giacché la scena termina così. Allo
spettatore non resta, quindi, che riflettere meravigliato innanzitutto su
cosa è successo veramente nell’oscurità, e in secondo luogo, su cosa
voglia mai dire il sorriso di Fortunata sia per la giovane donna sia per
lo spettatore.
La calma prima della tempesta
Quando Salvatore, la sua famiglia e le due giovani future mogli destinate a sposarsi negli Stati Uniti lasciano il paese, pesa sulla scena una
calma inquietante e un cielo minaccioso; in cielo si vedono nubi scure
che portano tempesta e che, giustapposte al terreno desolato che è
all’orizzonte, possono solo far presagire allo spettatore uno sviluppo
negativo. Ma è soprattutto l’ignoto a pesare sulla scena. Sui visi dei
viaggiatori possiamo leggere smarrimento, se non paura, proprio perché non sanno ancora cosa dovranno affrontare.
Ritroviamo qui la convergenza degli opposti. Quando Salvatore,
la famiglia e le due promesse spose lasciano il paese di Petralia Sottana, s’incamminano verso la città, dove per emigrare devono ora fare
i conti con la burocrazia amministrativa. Della città colpisce subito
222
la vista di un mercato di piazza sovraffollato e la cacofonia che l’accompagna. Osserviamo che la famiglia è letteralmente sopraffatta da
questo ambiente quasi urbano rispetto alla tranquilla vita di paese che
conoscono bene. Salvatore è chiaramente preso in contropiede dalla
frenesia e dalla folla che gli sono così poco familiari. Non desidera
altro che sfuggire alla folla. Scaturisce da qui il conflitto tra i due
stili di vita: la tranquillità del paese di montagna e l’agitazione del
mercato urbano.
Degna di nota in questo contesto è anche la messa in scena della
partenza dal paese. La prospettiva della macchina da presa è, infatti,
curiosa. Posizionata alle spalle della folla, mostra le schiene di quei
paesani che rimangono mentre guardano partire Salvatore e i suoi
compagni. A un certo punto la folla esce dal paese attraversando un
piccolo passaggio ricavato in un muro di pietra; di là dal muro è visibile solo una carrozza, una netta separazione così presto nel film. In
cima alla carrozza con lo sguardo rivolto indietro c’è Salvatore che
sparisce insieme agli altri passeggeri dietro ad un muro ancora più
alto. Il dado è tratto, o perlomeno così sembra; non si può più tornare
indietro. Da questa scena, con gli alti muri in pietra e i tre asinelli,
reminiscenze dello stile di vita contadino, passiamo direttamente a
pietre molto diverse, più scure: i ciottoli della piazza del mercato che
si anima subito freneticamente come le è tipico.
Non va sottovalutato il significato di queste due superfici a questo
punto del film. In un certo senso, esse rappresentano una specie di
tabula rasa su cui i Mancuso devono ancora scrivere la loro storia.
Mentre lasciano il paese, la tabula rasa è bianca, un simbolo tra gli
altri di purezza, ma anche, dobbiamo riconoscere, un simbolo doppio,
poiché può significare sia rettitudine sia credulità, due attributi che
possono nuocere ai Mancuso3. La tabula rasa che introduce la scena
del mercato è, invece, scura, quasi nera. Ci troviamo dunque in un
regno di significanti molto diverso. In termini fisici, il nero rappresenta l’esperienza visiva di un occhio cui non arriva la luce; in termini
metaforici, quindi, l’ignoto. Il nero, però, è anche il colore dell’autorità, della solennità; non a caso è nella città che i Mancuso vengono per
la prima volta a contatto con la burocrazia e i suoi numerosi addetti.
3 Ricordiamoci che mentre nella maggior parte dei paesi occidentali il bianco è il
colore della sposa, in Oriente è associato al lutto ed ai funerali. In questo contesto, va considerato che la Sicilia, sotto molti aspetti, è il crocevia, nel bacino
meditterraneo, dove l’Oriente incontra l’Occidente.
223
Troviamo qui anche una delle scene non realistiche del film, che
è intenzionalmente comica e letteralmente vignettistica. I Mancuso si
mettono in posa dietro a una tipica sagoma di cartone; questa, però,
rappresenta una famiglia dell’alta borghesia che Salvatore, Fortunata,
Pietro e Angelo completano con i loro visi. Stranamente è proprio
qui che Lucy viene a occupare il campo visivo con i Mancuso, i quali
l’hanno incontrata prima solo indirettamente. La vediamo avvicinarsi
con calma al personaggio di Salvatore dietro alla sagoma; lo guarda
lentamente e quindi altrettanto lentamente si volge verso la macchina
da presa nel momento in cui la foto è scattata. È qui stabilita un’altra
serie di opposti. Da un lato, abbiamo una chiara distinzione tra finzione e realtà. I Mancuso, contadini, posano qui come una famiglia
alto-borghese, cosa che non sono affatto. Il contrasto è ulteriormente
messo in risalto dalla presenza di Lucy, una vera donna d’alta classe,
o perlomeno così sembra, che viene qui a contatto diretto con i Mancuso. Il contadino analfabeta, Salvatore e famiglia, si trova letteralmente spalla a spalla con l’individualista d’alta classe, Lucy, istruita,
inglese e perfino bilingue! Gli opposti non potrebbero essere più netti.
Il processo di un viaggio
Nuovomondo si occupa soprattutto dell’emigrazione italiana; l’immigrazione è invece largamente relegata in una zona extra-testuale del
film. Proprio questo contraddistingue il film – il fatto che sia più sul
viaggio verso gli Stati Uniti che sull’esperienza quotidiana degli emigranti negli Stati Uniti; li vediamo solo a Ellis Island e mai fuori da
quel fatidico porto d’entrata.
Il film ci fa testimoni del processo d’emigrazione a inizio secolo
che include la decisione dell’emigrante di lasciare la madrepatria e
le aspettative e ansie che ne risultano, così come lo smarrimento, la
confusione e la meraviglia che accompagnano lui e la famiglia. Come
mostrato in precedenza, questi sentimenti sono palesi fin dall’inizio del film: l’anticipazione prima della partenza, il senso di paura
e smarrimento che sembrano pesare sui Mancuso e le due fidanzate
mentre lasciano il paese, nonché la sensazione di sopraffazione sia al
mercato sia all’ufficio amministrativo nell’innominata città portuale
di partenza. Tutti questi elementi contribuiscono all’aura di mistero e
d’ignoto che accompagna e contemporaneamente assilla i viaggiatori.
224
Oltre alle prime, eloquenti scene della scalata, della nebbia e
dell’esorcismo – che contribuiscono all’aura di mistero, se non perfino sur-realtà, collocando la storia al limite tra il reale e il surreale –
un’altra scena ricca di significati è la partenza. Inizia con una panoramica sulla massa di persone in fila, con i Mancuso accodati in fondo.
Pietro, l’ultimo in fila della famiglia, cammina a testa alta mentre si
gira, con occhi pieni di meraviglia, pur continuando ad andare avanti.
La macchina da presa si fissa quindi sulla massa di persone sedute,
tutte in ovvia attesa di imbarcarsi su questa nave o su un’altra che
deve ancora arrivare. Intorno a loro vediamo gli intrallazzatori che
fanno gli ultimi tentativi per vendere i loro imbrogli: falsi rimedi salutari o ciondoli vari in omaggio ai santi.
A questo punto c’è un eloquente cambio di scena. Il film taglia bruscamente sull’imbarco e l’inquadratura dall’alto mostra brevemente
la fine dell’imbarco della prima classe. Il campo quindi si allarga e
sentiamo una voce chiamare la “terza classe”. Allargando ulteriormente l’inquadratura sulla grande folla della terza classe, vediamo
la ressa spintonare nello sforzo di salire a bordo. In mezzo alla calca
ci sono i Mancuso, centrali nell’inquadratura mentre arrivano sulla
passerella d’imbarco. Due riflessioni sorgono qui per lo spettatore.
Innanzitutto, vediamo Salvatore assediato ancora una volta da una
massa soffocante; prima si trattava del versante inanimato nel paese
natio, questa volta della massa animata di emigranti, tutti in partenza
per lo stesso scopo: per trovare una vita migliore negli Stati Uniti. Nel
primo caso, Salvatore letteralmente e metaforicamente scala la vetta
della montagna. Anche nel secondo caso raggiunge letteralmente la
cima, questa volta però della passerella4. Per riuscirci, deve entrare assieme agli altri viaggiatori della terza classe nella pancia della
nave e noi osserviamo ogni individuo sparire al di là della porta della
nave. Si sovrappone qui una scena dove Pietro, scrutando l’enorme e
strana struttura della nave su cui dovrebbe salire, mostra chiaramente
il timore dell’ignoto nascosto dietro la porta e si gira nel tentativo di
tornare indietro, ma viene invece tirato in avanti dal padre.
Entrambe queste azioni possono facilmente assumere significati
secondari. L’atto di attraversare la soglia che porta nella pancia della
nave, per esempio, può essere inteso come un riferimento alla sparizione dell’immigrato dalla propria patria. La prolungata assenza dal
4
Come vedremo più avanti, raggiunge la vetta anche in un altro senso, metaforico.
225
paese causerà una specie di perdita di memoria nella coscienza collettiva del paese natio e quindi l’immigrante in quanto italiano cessa di
esistere. Questa potenzialità nello stato dell’immigrante lo colloca in
uno spazio interstiziale, quel mondo di liminalità, dove l’ambiguità,
l’indeterminazione e, in senso positivo, l’apertura regnano5. Oppure, com’è forse stato il caso per l’immigrazione, ogni chiaro senso
d’identità viene relegato sullo sfondo portando a un potenziale stato
di smarrimento socio-psicologico e forse anche culturale. Quest’assalto congiunto di rimozione (vedi, essere dimenticati) e incertezza
(vedi, liminalità) induce Pietro a girare le spalle alla nave transatlantica, ormai un forte segno premonitore dell’annullamento d’identità.
Troviamo qui una delle scene più convincenti del film, la partenza
della nave dal porto. Si tratta di nuovo di una ripresa a volo d’uccello
dove le persone occupano l’intera inquadratura; la maggior parte sono
della stessa misura e solo alcune più piccole. Le persone di misura
maggiore si muovono in massa verso sinistra accompagnate da un
minaccioso suono metallico e da qualche altro rumore della nave; le
persone, invece, sulla nave e sulla banchina rimangono silenziose.
Quando la nave si allontana dal porto, il suono metallico continua
con lo stesso ritmo mentre i pistoni del motore sembrano acquistare
velocità. Ogni singola persona nella scena rimane silenziosa; l’acqua
tra la nave e il porto aumenta segnalando la separazione tra un gruppo
e l’altro, e quindi dalla patria; ciononostante i due gruppi continuano
a fissarsi di là dal divario che cresce costante. La scena taglia bruscamente sulle persone a bordo e il fischio della nave sale assordante.
Tutti i passeggeri improvvisamente guardano verso l’alto, verso la
macchina da presa; alcuni si coprono le orecchie, sempre in silenzio.
La macchina continua ancora per sedici secondi con una panoramica
dei passeggeri in coperta, calmi e silenziosi rivolti verso l’alto per poi
tagliare velocemente sulla terza classe e la loro esperienza frenetica e,
letteralmente, buia all’interno della pancia della nave.
Prima di questo cambiamento di scena, tuttavia, i nostri amici
viaggiatori si ritrovano nuovamente al centro dello schermo. Questa
volta, però, appaiono solo le tre giovani donne; le due promesse spose
stanno al fianco di Lucy, “la rossa” come l’ha chiamata il burocrate
5 Faccio ovviamente riferimento alla nozione del liminale di Victor Turner (The
Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Chicago, Aldine Transaction,
1969/1995), il quale a sua volta attingeva da Arnold van Gennep (The Rites of
Passage, Chicago, U of Chicago P, 1961).
226
a terra, la quale ora indossa dei guanti rossi sulle mani conserte che
attirano subito l’attenzione dello spettatore grazie al contrasto con lo
sfondo blu, grigio e nero. Il fatto che queste tre donne siano messe
così in evidenza invita a riflettere sulle loro possibili funzioni semiotiche. In quanto donne rappresentano, di più rispetto agli uomini, una
funzione creativa e quindi perpetuante per l’immigrato italiano negli
Stati Uniti. Sono forse loro il futuro dell’emigrazione? Stanno forse a
rappresentare coloro che troveranno successo a seguito del viaggio?
Queste sono solo alcune possibili domande; in modo retrospettivo,
risulterà poi chiara la funzione di Rita, Rosa, e Lucy nel grande disegno del piccolo mondo dei Mancuso. La loro “intentio operis” emergerà e avrà un forte impatto, inevitabilmente, sulla nostra “intentio
lectoris” in quanto spettatori6.
Quando i viaggiatori cominciano a scendere sotto coperta per
sistemarsi nei posti loro assegnati sul transatlantico, li osserviamo
mentre si assestano nella cabina di terza classe. Testimoniamo così
le condizioni di vita, l’affollamento nella terza classe, o meglio nella
stiva; facciamo conoscenza con le varie città da cui provengono gli
emigranti. L’analfabetismo dei più viene messo in evidenza e prendiamo perfettamente coscienza di quanto fosse limitato l’universo di
Salvatore, ristretto esclusivamente a Petralia Sottana, come ci fa capire quando si domanda come farà a sopravvivere durante il viaggio
dormendo in mezzo a tanti “stranieri”. Siamo in altre parole testimoni
della completa innocenza di Salvatore per quanto riguarda la conoscenza, o meglio la mancanza di conoscenza, del mondo al di fuori
del suo piccolo paese. Quest’innocenza si manifesta in varie forme.
Innanzitutto proprio quando si riferisce a tutti quegli “stranieri” portando un altro viaggiatore, Nicola Esposito, a rispondere:
Stranieri? Ma dove sono tutti questi stranieri? Qua siamo tutti
italiani. [Nicola]
Italiani? [Salvatore]
Italiani. [Nicola]
6 Dovrei forse più accuratamente affermare che la nostra “intentio lectoris” emergerà, in quanto non sarà mai possible conoscere veramente l’“intentio auctoris”
di un testo, sebbene possiamo forse connotare una “intentio operis.” Per questi tre
concetti, rimando a Umberto Eco, Intentio Lectoris: The State of the Art, «Differentia, review of italian thought», n. 2, 1988, pp. 147-68.
227
Ci sono poi anche i dubbi che nutre sulla lingua, di che cosa parli
ciascuno:
E se ci son quale lingua parlano? [Salvatore]
Perché lei non lo sa che è italiano? [Nicola]
Se lo dici tu. [Salvatore]
Considerando il coraggio dimostrato da Salvatore col desiderio e
infine la decisione di trasferire la famiglia negli Stati Uniti, la sua
limitata esperienza e conoscenza del mondo esterno sono in un certo
senso sorprendenti. Si manifesta qui anche linguisticamente con le
varie definizioni dell’aggettivo straniero: “stranieri” è usato, infatti,
per coloro che vengono da un altro paese locale, un paese che giace
nei confini geopolitici dell’Italia, piuttosto che per coloro di un altro
stato sovrano. Italiano può quindi essere inteso come l’etichetta usata
per riferirsi alla lingua comune del gruppo sulla nave, indipendentemente dalle inflessioni e accenti regionali7. Un esempio d’inflessione
particolare potrebbero essere i pronomi usati da Salvatore e Nicola. Alla domanda posta da Salvatore su quale lingua parli ciascuno,
Nicola risponde con il formale “Lei”, mentre Salvatore ribatte con il
colloquiale «se lo dici tu». Una simile distinzione in questo caso non
può che dimostrare la differenza sociale e culturale dei due uomini
in questione. Salvatore rappresenta l’immigrato genuinamente innocente e/o ingenuo, il quale, se le cose diventassero problematiche,
potrebbe facilmente diventare vittima di truffe e disgrazie.
Infine, sempre nell’ambito linguistico, assistiamo, in senso etimologico, alla confusione della lingua orale. Salvatore domanda a
Nicola, il viaggiatore più informato, quando potranno vedere «’sto
grande Luciano», al che una terza persona risponde, «no, certo vuol
dire l’oceano, il grande oceano». Questo episodio, fugace ma commovente, costituisce uno degli atti comunicativi più ricchi di significato
costruito da Crialese. Da una parte mette in risalto l’assoluta mancanza di conoscenza mondana di alcuni degli emigranti, tanto da non
essere in grado di distinguere, a livello uditivo, il suono di “grande
Luciano” da “grande oceano” (o, forse, “grande l’oceano”). Una spie7 “Italiano” può anche essere inteso come un nome/aggettivo per descrivere
qualsiasi lingua – dialetto o standard – parlato dai viaggiatori tra loro. Una tale
categorizzazione universalizzerebbe chiaramente la nozione di “dialetto” e, così
facendo, aumenterebbe anche il suo “valore” sociolinguistico.
228
gazione si trova certamente nella loro stessa lingua e nella differente
pronuncia tra dialetto e italiano standard, per cui la pronuncia dialettale di “l’oceano” può essere fraintesa col nome maschile “Luciano”. Dall’altra parte, l’episodio indica anche, a livello retorico, un
elemento auto-riflessivo sulle proprietà polisemiche della lingua per
cui un segno (“l’oceano”) viene scambiato per un altro (“Luciano”)8.
La lingua, come capiamo da questo convincente scambio, ci áncora; rivedendo il proverbiale motto di Cartesio “Cogito, ergo sum”,
potremmo proferire “Loquor, ergo sum”, una regola empirica ovvia
per quanto riguarda quest’aspetto linguistico in Nuovomondo9. Tuttavia, la lingua, come abbiamo osservato quando Fortunata dice a Rosa
che non ha fiducia nel “leggere parole di carta,” è palesemente in
stretta competizione con il visivo, se non ne è addirittura secondaria.
Lo scontro tra alfabetizzazione e analfabetismo continua; il primo
esempio vede le donne sistemarsi nei loro alloggi, dove una donna
contadina reclama come suo il letto di Lucy. Quando Lucy spiega che
si tratta del suo letto e mostra alla donna contadina la ricevuta che
lo prova, Rosa rimane momentaneamente interdetta ma acconsente,
forse alquanto seccata, affermando che non sa leggere:
Scusi, signora, questo è il mio letto. [Lucy]
No, qui ci sto io. [Rosa]
Vede, è scritto qui. [Lucy]
Non lo sacci’ a leggere io. [Rosa]
Quest’ammissione di analfabetismo sembra essere la sua giustificazione per la confusione di posto. Tuttavia è anche indicativa, ancora
una volta, dello scetticismo verso la lingua e tutto quello che essa rappresenta: indeterminatezza, ambiguità e incertezza da un lato; burocrazia e quindi potere dall’altro; in entrambi i casi, comunque, manca
un sincero legame con la realtà. Non è un caso, dobbiamo dunque
ammettere, che questo malinteso con Lucy coinvolga Rosa; era stata
infatti Rosa a portare le cartoline a Fortunata insistendo già all’inizio
del film che quelle rappresentavano “cose vere” a differenza della
inattendibile rappresentatività delle “parole di carta”.
8 Tale trasmutamento linguistico ricorderà il titolo del film di Gianni Amelio,
Lamerica.
9 Questa manipolazione della lingua va riconosciuta come opera di Criale-
se, con tutto il rispetto per Salvatore e i suoi compagni viaggiatori.
229
Il viaggio: una favola semiotica
La traversata dell’oceano è impregnata di significati di genere e classe. Finalmente al largo, i passeggeri cominciano ad apparire in coperta e troviamo Lucy che si sporge dal parapetto. Mentre alza il capo
volgendosi da una parte, appaiono il ben curato Don Luigi con due
amici, tutti estremamente ben vestiti e solerti nel salutarla da veri
gentiluomini. Lucy si gira allora nella direzione opposta, dove Salvatore e i due figli, sorpresi nell’atto di osservarla, distolgono subito
lo sguardo. Segue quasi un gioco e rimpiattino: mentre i tre uomini
si voltano di nuovo lentamente verso di lei, la scoprono già intenta a
sorridere nella loro direzione, accennando perfino un gioviale «Buon
giorno».
La scena può facilmente avere un’altra funzione semiotica, perlomeno doppia. Lucy è letteralmente intrappolata tra due uomini, Don
Luigi da un lato e Salvatore dall’altro. Si trova quindi nel mezzo tra
due “corteggiatori”, almeno in apparenza. L’essere “tra” luoghi e stati è
caratteristico del viaggio stesso e della condizione di genere. Lucy sembra rimanere l’oggetto amoroso di entrambi gli uomini, sebbene Don
Luigi assuma anche il ruolo di “organizzatore di matrimoni”, volendo essere magnanimi, introducendo Lucy al gentiluomo ben curato, il
Signor Belvedere, “il più grande rivenditore di ghiaccio a New York”.
Tale condizione offre a Lucy anche un certo privilegio, poiché le dà la
possibilità di scegliere, per quanto possa esserle difficile.
Questo doppio viaggio, fisico e di genere, è ulteriormente accentuato da un terzo elemento che è la classe sociale; assistiamo, infatti,
anche a un viaggio socioeconomico basato su chiare differenze sociali;
queste non possono essere più evidenti che nella contrapposizione tra
l’elegante gentiluomo e Salvatore con i due figli vestiti di stracci. Si
forma qui una specie di triangolo, tre possibili punti di riferimento al
cui centro c’è Lucy. La donna diventa un segno peirciano definito dalla
capacità di avere significati molteplici su livelli molteplici. È però un
segno peirciano che ricorda anche il nodo semiotico, dato che i molteplici significati possono potenzialmente cancellarsi a vicenda10. In un
certo senso, Lucy è tutto e nulla nel processo semiotico, cambiando
10 Penso qui al concetto di Floyd Merrell “one, two, three and back again”; si veda
Sensing Corporeally: Toward a Posthuman Understanding, U Toronto P, 2003,
pp. 33-51.
230
costantemente nel corso del film funzionalità significanti per il lettore. È proprio il suo essere nulla che supporta l’essere tutto11. Lucy è
genere, classe e viaggio; è il segno assoluto che ancora, in modo significativo (gioco di parole voluto), i diversi segni che costituiscono l’apparente rete semiotica del film, il suo comunicato potenziale. In questa
posizione di centralità, analoga sicuramente alla sua liminalità, Lucy
serve dunque da pilastro definitivo che lega i diversi aspetti dell’esperienza di emigrazione e/o immigrazione all’inizio del ventesimo secolo, dal generale allo specifico (ossia dal fisico all’ideologico).
L’elemento concretamente fisico del viaggio si manifesta in diversi modi nel film. Abbiamo già analizzato la partenza dal paese natio e
il conflitto tra culture esposto una volta che arrivano in città. Abbiamo inoltre visto il trattamento subito dai protagonisti quando lasciano la città (con lo spietato rivenditore di merci e intrugli miracolosi,
per mancanza di un altro termine). Abbiamo anche assistito a come i
passeggeri della terza classe in particolare si stringono in gruppi sul
porto, come forzati in gabbia spinti da una forza dominante. Queste sono solo alcune delle sfide fisiche e mentali che gli emigranti
devono affrontare. Tuttavia, uno degli episodi forse più significativi
del viaggio è la tempesta. È con questa che gli aspetti più pericolosi, quelli che possono potenzialmente mettere a rischio o trasformare
una vita, sono reificati in una serie di scene in cui i passeggeri della
terza classe vengono sballottati di qui e di là fino a perdere coscienza. Quest’aspetto della tempesta è reso efficacemente dal continuo
11 Come ho notato altrove, (Centering on Nothing: Aldo Palazzeschi and
Giorgio de Chirico Signing On, «Signifying Behavior. An International
Journal of Semiotics», 1.1, 1994, pp. 255-73, e Narrare altrove: diverse
segnalature letterarie, Firenze, Franco Cesati Editore, 2007), scrivendo
di Perelà di Palazzeschi e dei centri vuoti della poesia di Palazzechi e dei
primi dipinti di de Chirico, “questo nulla che occupa i centri dei loro testi
si presenta come una specie di combinazione di segni che sono autonomi
e, per di più, slegati da qualsiasi referenzialità concreta. Essi poi costituiscono in termini peirceiani una “libertà illimitata”, un nulla (dal latino
ne + ullus [non alcuno]), che, ciononostante, continua a significare; esso
significa nessuna (dal latino ne + ipse + unus) cosa. Nulla è la potenzialità illimitata per la generazione illimitata di alcuna cosa, ovvero non una
cosa stessa (ne + ipsa + una) – cioè, il significato, il valore semantico,
l’interpretazione, la quale è vera, per il lettore, solo in quanto essa sia
‘semioticamente reale’ (Merrell, 1991, p. 198)”.
231
cambiamento in ritmo e illuminazione: a momenti il movimento è
regolare e domina l’oscurità, altre volte, invece, c’è un rallentamento
e la luce scompare completamente, e viceversa.
Gli effetti immediati della tempesta sui passeggeri della terza
classe si rivelano anche sulla nave. Una serie d’individui comincia
ad apparire lentamente in coperta tra le macerie sparse. Ciascuno è
impegnato a trascinare o portare un malato, o forse, a nostra insaputa, un morto. Una delle tragedie di questo viaggio viene reificata
attraverso la giovane donna che trasporta un neonato morto. Vagando
smarrita, dà inizialmente il neonato a Lucy, la cui espressione indica
il fato del bambino. La madre riprende allora il neonato nelle braccia e ricomincia a vagare senza meta, questa volta verso il parapetto,
dove, pienamente cosciente di non poter conservare il figlio morto a
bordo, lo seppellisce in mare, gettandolo fuori bordo mentre crolla
a terra svenuta. Subito prima che lo getti, vediamo sullo sfondo un
cielo nuvoloso in cui sorge il sole, bloccato dalla figura della madre,
la quale ne risulta quindi oscurata con la luce solare quasi a farle da
aureola. Una tale desolazione, la madre è costretta a seppellire il figlio
in mare da sola, viene espressa in toni quasi religiosi con l’aureola,
diminuendo leggermente, perlomeno si vuole sperare, gli aspetti tragici del viaggio12.
Una tale supposizione sembra confermata dalla scena seguente.
Le donne della terza classe siedono come a catena, ognuna intenta
a spazzolare l’altra come se si stessero preparando per un qualche
evento. La panoramica ci fa prima notare una giovane donna con il
capo abbassato e subito dopo intravediamo in fila tutte e quattro le
donne che conosciamo. Da davanti a dietro, vediamo prima la donna,
impassibile, che ha dovuto seppellire in mare il figlio e che ora si fa
pettinare da Fortunata, la quale a sua volta viene pettinata da Rita;
più indietro troviamo Lucy che spazzola un’altra donna. Le quattro
donne hanno tutte una forte rilevanza. La prima significa perdita di
un figlio, una delle esperienze più struggenti del viaggio; la seconda
rappresenta il coraggio e la tenacia del vecchio mondo; la terza, come
aveva affermato il prete prima della partenza da Petralia, il futuro13; la
12 Si può considerare una diminuzione in considerazione del fatto che l’aureola
evoca la religione che per i cattolici significa il ritorno a Dio dell’anima del neonato.
13 Non dimentichiamo quello che il prete ha affermato al momento della partenza.
Per prima cosa ha chiesto a tutti, sia ai viaggiatori sia a coloro che sarebbero
232
quarta, il segno assoluto che qui, contestualizzandolo, sta per rischio,
coraggio e buona fortuna14.
Lucy e Salvatore: gli opposti si attraggono
Ulteriormente complicata dall’apparente indipendenza di Lucy, la
questione di genderè sempre centrale quando è presente durante il
film, mentre Fortunata e gli altri hanno ruoli secondari. Come notato in precedenza, l’indipendenza di Lucy e il coraggio mostrato
imbarcandosi da sola evidenziano un unico atteggiamento femminile caratteristico dell’epoca15. Una tale risoluzione è rafforzata dalla
determinazione di Lucy di avvicinarsi ai Mancuso, i quali, almeno in
apparenza, non hanno niente in comune con lei, come viene chiaramente mostrato visualmente quando Salvatore e la famiglia posano
dietro le sagome di cartone. Come notato prima, una delle numerose
coppie di opposti nella scena è naturalmente quella di Lucy – Salvatore: lei, urbana, alto-borghese, istruita, inglese e bilingue; lui, analfabeta, contadino che parla dialetto e crede nella magia della sua patria.
Dall’inizio del film ad adesso, appena prima di sbarcare ad Ellis
Island, Lucy e Salvatore sono al centro di tre scene ricche di signifirimasti indietro, di sorridere. Quindi, guardando i viaggiatori, in particolare Rita,
ha esclamato: «Voi siete il nostro futuro!». Una tale dichiarazione è ricca di significato e mette in luce una serie di domande rilevanti che fino a poco tempo fa non
erano mai state poste. Perché, ad esempio, sembra che l’Italia abbia abbandonato
la propria emigrazione storica e la progenie di coloro che partirono? Deve forse
qualcosa l’Italia a coloro i cui genitori, nonni e bisnonni lottarono sia durante
sia dopo il viaggio? Non è questo il luogo per una discussione così impegnativa,
molto deve ancora essere detto. Ciononostante, rimando il lettore a un mio precedente saggio in cui ho affrontato queste questioni: (Appunti e notarelle sulla
cultura diasporica degli Italiani d’America: ovvero, suggerimenti per un discorso di studi culturali, «Campi immaginabili» 34/35, 2007, pp. 247-64; inoltre le
ho anche discusse nel primo capitolo di questo studio.
14 Indipendentemente dal mistero che l’avvolge, (e.g. le supposizioni paesane su
chi possa essere, se esiste, il marito), Lucy è una donna in un paese straniero
(l’Italia) che decide di emigrare da sola.
15 Potremmo considerare analogo il personaggio fittizio di Umbertina nel
romanzo di Helen Barolini, Umbertina, New York, Seaview, 1979). Ciascuna donna rappresenta un tipo femminile nettamente distinto, ma accomunato dall’inusuale indipendenza per questo periodo della storia, tra la
fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
233
cati. La prima è proprio quella del ritratto di famiglia con le sagome
di cartone. La seconda ha luogo invece in coperta mentre camminano
in direzioni opposte, pur continuando a guardarsi e a farsi cenno fino
a incontrarsi, com’era inevitabile dato il loro movimento. La terza
scena avviene invece subito prima dello sbarco, dove possiamo forse
notare un cambiamento del punto di vista nel momento in cui Salvatore e Lucy hanno la conversazione più intima e personale del film.
Dopo aver visto Lucy prendere il controllo della situazione all’inizio del film, unendosi ai Mancuso sia per la foto sia come membro
del gruppo di viaggio, vediamo adesso, invece, che Salvatore comincia ad acquisire notevole coraggio. In questa seconda scena, infatti,
Salvatore nota Lucy sbirciando da dietro uno di quei grandi fumaioli sulle navi; la guarda mentre cammina lentamente, ovviamente
dall’altro lato della nave; i movimenti rallentati dalla macchina da
presa. A un certo punto, lei sparisce dietro un’altro di quei fumaioli
per riapparire subito dopo guardando direttamente verso Salvatore.
Ripetono gli stessi movimenti finché finiscono per incrociarsi, uno
di fronte all’altro. Il tutto dura due minuti cui segue una scena irrealistica. Durante questo secondo gioco a rimpiattino, quando Salvatore guarda per l’ultima volta Lucy, lo vediamo scomparire dietro un
fumaiolo ancora più grande, completamente bianco che offre così una
transizione a uno spazio vuoto in cui viene poi a galla un cappello e
pian piano comprendiamo che stiamo vedendo Salvatore emergere in
un mare di latte. Mentre si guarda attorno con sgomento, viene raggiunto da Lucy. Si sorridono e un’enorme carota passa galleggiando e
loro vi si aggrappano immediatamente; vi si appoggiano come fosse
un salvagente. La camera si ritrae e la scena finisce16.
A un secondo sguardo, notiamo che i due non si parlano mai
durante la scena. In coperta, si guardano e sorridono solamente; non
c’è nessuno scambio di parola. Naturalmente una scena simile ha dei
riferimenti intertestuali, in particolare per lo spettatore familiare col
cinema italiano. Viene subito alla mente la famosa scena in Mimì
metallurgico ferito nell’onore (1972) quando Mimì (Giancarlo Giannini) e Fiore (Mariangela Melato) conversano solo con espressioni
16 Senza dubbio la scena possiede una certa referenzialità fallica. Possiamo perfino
ripensare all’esorcismo durante il quale Fortunata toglie, o perlomeno sembra, un
serpente dalla pancia di Rita, annullando così la maledizione. Il potenziale referente fallico per entrambe le scene merita certamente uno studio approfondito,
ma in altra sede.
234
facciali e gesti17. Anche qui abbiamo una situazione molto simile; per
tutta la camminata in coperta, Lucy e Salvatore si guardano, sorridono leggermente, ma non parlano mai; perfino quando finalmente
s’incontrano, Salvatore fa solamente un cenno col cappello e sorride.
Anche in questo caso, il visivo sopraffà la parola, il logos.
È la terza scena a marcare un cambiamento decisivo nella relazione tra Lucy e Salvatore. Fino a questo momento, si sarebbe potuto
facilmente sostenere che Lucy aveva il controllo. Durante la scena
con le sagome, la vediamo invadere il loro spazio; osserviamo in
seguito come si accoda alla famiglia Mancuso. Non presenta certamente un carattere titubante. Le cose sembrano però alterarsi, seppur
leggermente e gradualmente. Sebbene sia sempre lei a prendere il
coraggio per chiedere Salvatore in matrimonio, lui si sente ormai più
sicuro e risponde immediatamente di sì, domandando solo quando e
come: «Ma certo, magari ora!». Lucy, con l’onestà e il candore che
le sappiamo propri, precisa che non lo sposa per amore, bensì che ha
bisogno di un uomo per entrare negli Stati Uniti. Salvatore, a sua volta, sicuro come prima, ribatte sullo stesso tono: «Amore, e se manco
ci conoscemo! Queste cose, ci vuol tempo. È giusto, è giusto?». Lucy
risponde con un incerto «sì», seguito subito dal gesto superstizioso
di Salvatore che le taglia un ricciolo di capelli affinché non si perdano: «Accusì non ci perdemo», le dice. Quando lei gli risponde che
non crede alla “magia”, la risolutezza di Salvatore si rivela rafforzata dall’affermazione: «Col tempo ci insegno tutto cos’è». La scena
termina con un primo piano silenzioso dei due, come se stessero per
baciarsi, ma non lo fanno, e Salvatore, almeno per il momento, sembra aver vinto questa partita.
Da qui in avanti, i loro ruoli si alternano; secondo le circostanze
uno dei due assume la posizione più attiva. Quando il nome di Lucy
non viene chiamato durante l’appello di chi deve sposarsi, è lei a farsi
avanti per dire all’ufficiale dell’immigrazione che hanno dimenticato
il suo nome. Salvatore mostra assoluta confidenza, ma il suo analfabetismo lo costringe ad appoggiarsi a Lucy, la quale spiega agli
ufficiali perché non aveva compilato i moduli necessari. In questo
nuovo mondo, Salvatore, ancora l’uomo di campagna pragmatico e
di buon senso, impara presto che dovrà per forza di cose imparare ad
17 Mimì metallurgico ferito nell’onore, dir., Lina Wertmüller, Euro International
Film, 1972.
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affrontare la lingua e la burocrazia. La sua prima reazione di fronte
ai moduli è di pensare che Lucy non voglia più sposarlo, cosa che
le chiede con apparente malcontento e delusione. Lucy prende ora
le redini della situazione e dice all’ufficiale dell’immigrazione che è
in realtà il suo ruolo nella relazione di prendersi cura di queste cose,
riempire moduli e simili.
Qualcosa d’intrigante avviene quindi in seguito. Il cappello di Lucy
cade mentre continua a riempire i moduli. Due caratteristiche fisiche
sono qui degne di nota: i capelli e i guanti rossi; ciascuno dei quali è
già stato messo in risalto, seppur brevemente. Proprio il colore rosso
evidenzia quello che possiamo tranquillamente definire la differenza
di Lucy; è una donna inglese, bilingue, e presumibilmente biculturale. Non sarebbe esagerato affermare che nel corso del film Lucy
rappresenta, tra le varie possibilità, la differenza dal vecchio mondo,
e dunque il “nuovo mondo”. Il colore in sé contrasta visivamente con
l’oscurità che sembra circondare invece i Mancuso e tutto quello che
rappresentano. È questo che rende Lucy veramente e letteralmente
un pilastro, come menzionato in precedenza. La sua domesticità con
i moduli permette sia a lei sia a Salvatore di entrare negli Stati Uniti,
da sposati, superando la burocrazia che voleva tenerli fuori dal paese.
Occupa quindi una posizione centrale; la sua liminalità costituisce un
certo privilegio che favorisce lei e chi le sta vicino. Noterei altresì che
questa liminalità è rivelata anche dal fatto che Lucy non accetti il fiore tradizionale, ma prenda invece il tubino di Salvatore, simbolo del
vecchio mondo, cosicché il vecchio e il nuovo mondo possano unirsi
come Lucy e Salvatore, ora pronti a imbarcarsi assieme per una nuova
avventura nel nuovo mondo.
La liminalità di Lucy funge semioticamente da ponte tra due culture come esemplifica perfettamente una scena breve, e apparentemente
insignificante, che precede quella discussa sopra; si tratta della scena
in cui le donne sistemano le loro cose in valigia nella sezione letto. A
un certo punto, la scena rallenta e cominciamo a sentire della musica da chiesa. È interessante notare la posizione delle quattro donne:
Lucy è al centro dello schermo, Fortunata alla sua destra (la sinistra
dello spettatore), mentre Rosa e Rita, una di fronte all’altra ma con
lo sguardo rivolto verso il basso, sono alla sinistra di Lucy (la destra
dello spettatore). Con l’avanzare della scena, a rallentatore, Rita e
Rosa rimangono nella stessa posizione. Fortunata, invece, si gira verso sinistra, mentre Lucy verso destra. A un certo punto le due donne
236
si ritrovano di fronte e sembrano farsi un cenno del capo, lentissimo,
in accordo. Non sappiamo ancora su cosa possano essere d’accordo. La scena, tuttavia, insieme allo sguardo che si scambiano, mostra
acquiescenza e non disaccordo; esaminandola ulteriormente, notiamo
che metà del viso di entrambe le donne rimane fuori dalla vista dello
spettatore. Se potessimo avvicinarle ancora, otterremmo un’immagine ancora più intrigante e significante; avremmo un viso composto
dalle due metà di queste donne, una del vecchio e l’altra del nuovo;
sullo sfondo, poi, pronte a beneficiare da questa nuova persona, da
questa nuova donna, ci sono Rita e Rosa, sul punto di andare avanti
nel modo più avvantaggioso. Le tre parti che costituiscono il segno di
Lucy, una triade di genere, classe e viaggio, confluiscono qui assieme
e lasciano presagire un esito positivo.
Il [non]arrivo
Precedentemente in questo capitolo ho dedicato una sezione al “processo” del viaggio. Come notato a quel proposito, non è tanto il viaggio di per sé a essere significativo, ma piuttosto l’esperienza di interagire col “nuovo” che si prospetta agli immigrati: in altre parole, le
persone che incontrano, le conversazioni che tengono, e i cambiamenti che risultano da queste e altri nuovi eventi.
Gli ultimi quaranta minuti circa del film sono dedicati a vari esami
fisici e psicologici sugli immigrati, così come ad altre procedure che
devono affrontare. La differenza tra il trattamento riservato alle donne
e quello agli uomini è notevole. Mentre gli uomini vengono lasciati
in un’atmosfera alquanto caotica; le donne incontrano un ambiente
più sensibile. Anche qui però molte sono le differenze culturali che
saltano all’occhio e che vanno oltre a Italia/America e città/campagna. Fortunata, ad esempio, non è abituata ad alcuni esami medici e
protesta vivamente.
C’è anche una questione di praticità, soprattutto per quanto concerne cosiddetti esami d’intelligenza, quando agli immigrati viene
chiesto di rimettere nella cornice pezzi di legno di varie forme così
da formare una superficie piatta. Salvatore costruisce invece una mini
baracca e un’altra struttura, cose che tornerebbero utili a qualsiasi
lavoratore di campagna com’era Salvatore a Petralia Sottana in Sicilia.
In risposta, lui mostra, sorridendo compiaciuto, la propria soddisfa-
237
zione nel risultato prodotto. Tuttavia, è forse ancora più significativo
osservare l’esperienza di Lucy con questo tipo di test d’intelligenza.
Lei li considera più come giochi da tavolo, come afferma e mostra
nel porre una domanda all’esaminatore avviando la seguente conversazione:
May I ask, I thought you were looking for illnesses, and contagious diseases? [Lucy] [Mi permetto di chiederLe, ma non
dovreste controllare per malattie e altri mali contagiosi?]
[Lucy]
Unfortunately, Ma’am, it has been scientifically proven that
lack of intelligence is genetically inherited, and it’s contagious,
in a way. We are trying to prevent below-average people from
mixing with our citizens. [State Examiner] [Sfortunatamente, Signora, è stato provato scientificamente che la mancanza
d’intelligenza è ereditata geneticamente ed in un certo senso è
contagiosa. Stiamo cercando di evitare che persone al di sotto
della media si mischino con i nostri cittadini. [Esaminatore
dello Stato] What a modern vision? [Lucy] [Cos’è una visione
moderna?] [Lucy]
Quello che oggi sarebbe considerato scioccante, era più che accettabile per la comunità scientifica a cavallo del secolo. In Italia c’erano
scienziati quali Cesare Lombroso e la sua nozione di determinismo
biologico, non molto diversa da quello che l’esaminatore di stato
implica nella risposta a Lucy18. Inoltre, la nozione di mescolanza razziale (miscegenation) o altro simile era anch’essa altamente scoraggiata. Difatti, durante l’esame medico delle donne, una delle infermiere americane dice a Lucy che «[i]t is highly unlikely for an English
woman to be traveling with Italians, you’ll be questioned about that»
[è molto improbabile che una donna inglese viaggi con degli italiani,
Le verranno fatte domande in proposito]19.
Questo è il “nuovo mondo” come spesso viene definito anche qui.
Certamente, la questione del vecchio contro il nuovo e di cosa questi
18 Vorrei ricordare ai lettori che Lombroso affermava l’esistenza di un archetipo di
italiano di “razza meridionale” opposto a uno “di razza settentrionale” (Si veda
La Nuova Antologia,1902).
19 La differenza etnica e il fatto che tale differenza fosse già presente nel periodo
coloniale è stata elegantemente analizzata da Stephen Steinberg nel classico: The
Ethnic Myth: Race, Ethnicity, and Class in America, Boston, Beacon P, 1981-1989.
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rappresentino è messa in rilievo quando Fortunata, chiamata al tavolo
per l’esame d’intelligenza, dice all’esaminatore di Ellis Island che sta
bene dove siede. L’aspetto più significativo di questa scena è quando
lei interroga l’esaminatore chiedendo «Che volete da noialtri?», al
che lui risponde «Them who?» [Loro chi?]. E lei allora insiste quasi
con affetto: «Tutta questa gente che è venuta dal vecchio mondo», in
quanto si vede chiaramente come parte di un mondo che è diverso
proprio perché è il “vecchio mondo”. Questa coincidentia oppositorum è consolidata in seguito dall’esaminatore stesso quando afferma
che vogliono essere sicuri che: «they are fit enough to enter the new
world” [siano idonei per entrare nel nuovo mondo» (corsivo mio)]; e
mentre la conversazione continua, l’espressione “nuovo mondo” viene ripetuta varie volte.
Queste sono solo alcune delle spiacevoli concomitanze che gli
immigrati dovevano affrontare. Umiliazione e denigrazione erano
parte integrante del sistema. Lo stesso vale anche per il riconoscimento formale dei cosiddetti accordi matrimoniali. È a causa di questi
che le donne, in particolare, sono costrette sopportare un processo
di ansia, stress e, come dimostrato qui, delusione proprio perché (1)
sono letteralmente esposte e (2) incontreranno finalmente per la prima
volta gli uomini a cui sono state promesse in spose. Mentre gli uomini
in attesa e le donne appena arrivate prendono i loro posti, esse sono
praticamente messe in mostra; e l’inquadratura è molto significativa
in quanto presa dal punto di vista degli uomini, posizionata dietro a
loro, permettendoci di vedere soltanto la cima delle teste maschili,
esponendo invece completamente le donne, molte delle quali guardano verso il basso. Questa prima presentazione delle donne en masse,
in un atteggiamento così sottomesso per di più, può significare (1)
l’opinione che gli uomini nutrono dei loro confronti, poiché condividiamo la loro prospettiva e/o (2) la loro posizione nei matrimoni
futuri.
Oltre all’ufficiale riconoscimento a Ellis Island di Lucy e Salvatore come fidanzati, diventiamo testimoni di molti altri fidanzamenti. Mentre la macchina fa una panoramica ravvicinata sulle facce
delle donne, non possiamo non notare la loro trepidazione. Rita, ad
esempio, non riesce neanche a guardare il futuro marito negli occhi;
rimane con testa e occhi chinati verso il pavimento anche da seduta.
L’opposto si verifica, perlomeno inizialmente, nella reazione di Rosa.
Scoprendo il promesso sposo molto più corto e vecchio di quanto le
239
avesse fatto credere, lo attacca urlandogli che è un mentitore disgraziato e brutto. La scenata potrebbe aver già stabilito le basi per la loro
relazione futura; non lo sapremo mai. Certamente, non avrebbe avuto
bisogno di lasciare l’Italia per questo; come lei stessa afferma, un
padre lo aveva già là. C’è poi il caso della donna spagnola promessa
a qualcuno, il quale, per sfortuna di quest’ultima, non si presentava
da qualche giorno e lei era così costretta ad aspettarlo a Ellis Island.
Finalmente, quando la donna lo implora un’altra volta ad identificarsi,
un uomo, notevolmente parecchio più giovane della spagnola, si alza
lentamente, loro si guardano, e ciascuno si rimette a sedere in silenzio
e con la testa in giù20.
Come indicato dal titolo di questa sezione, non assistiamo mai all’arrivo degli immigrati sulla cosiddetta terra ferma; li lasciamo a Ellis
Island anche alla fine del film. La maggior parte dei nostri immigrati,
in altre parole, non vedono mai veramente l’America mentre siamo
tutti insieme, protagonisti e spettatori. Quando sono ancora sulla nave
e la terra si avvicina, la nebbia è troppo densa per vedere la costa.
Perfino una volta aver apparentemente terminato il processo d’inchiesta e l’esame che li permetteranno di entrare negli States, gli uomini
si ritrovano in una stanza con alte finestre di vetro smerigliato. Per
vedere New York sono in pochi ad arrampicarsi fino in cima, dove il
vetro è liscio. Come già osservato in precedenza, Crialese offre qui
allo spettatore una scena iconica dei tre uomini, ormai solo ombre
contro la finestra illuminata; la scena ricorda un qualche dipinto classico italiano, come un trittico di tre uomini, non prodotto all’inizio del
ventesimo secolo ma piuttosto nel Rinascimento se non nel Medioevo. Anche questa, potremmo sostenere, è una forma di coincidentia
oppositorum, dove il vecchio mondo è posto in netto contrasto con il
nuovo, e gli uomini si ritrovano nel mezzo, in quello spazio liminale
dei migranti in cerca di un prefisso che non è né “e” né “im”.
A questo punto, come in un altro episodio del film, la dicotomia
“vecchio mondo/nuovo mondo” risalta e si accosta a un altro binomio di opposti “vecchia generazione/giovane generazione”. Vediamo
20 Dalla prospettiva del gender, la scena è pregna di significati e sottolinea la posizione sottomessa della donna immigrante sia per motivi economico-sociali sia
per ragioni di età, che l’uomo può pure essere di un’età maggiore a quella della
futura moglie ma non viceversa.
240
Fortunata e Pietro seduti uno accanto all’altro, silenziosi e apparentemente incapaci di comunicare finché Pietro, guardando la nonna,
le afferra il viso e scuote la testa in disapprovazione. Lei, invece, fa
un cenno d’assenso e distoglie lo sguardo. Quindi, la macchina taglia
bruscamente su un’altra scena in cui l’intera famiglia Mancuso occupa lo schermo: Fortunata, la matriarca del vecchio mondo, è al centro
circondata dal figlio e dai nipoti. Proprio adesso l’amministrazione di
Ellis Island, quindi gli Stati Uniti, “fa la parte di Dio”, come Fortunata aveva insinuato prima. Dicono a Salvatore che sua madre è troppo
debole di mente e il figlio muto, due caratteristiche per cui, secondo le
politiche degli Stati Uniti, gli immigrati vanno rimpatriati.
La risposta che offre Salvatore va ricondotta alla praticità del vecchio mondo; è questa che lo porta a fare una serie di domande per poi
offrire una soluzione elementare, logica. Con tutta questa terra e tutto
questo lavoro, infatti, perché mai lascereste fuori della gente? E se
suo figlio non sa parlare, meglio per tutti; non darà fastidio a nessuno
e non potrà neanche lamentarsi di niente. Infine, per quanto riguarda
la madre, se parla troppo come dicono21, la terrà chiusa in casa. Queste sono soluzioni semplici, pratiche, secondo Salvatore, a problemi
che lui chiaramente non considera tali. Una tale praticità da vecchio
mondo era già apparsa durante il test d’intelligenza con i pezzi di
legno da risistemare nella cornice; invece di metterli a formare una
superficie piatta, li aveva usati per costruire piccole baracche.
Se Fortunata era effettivamente una persona che parlava troppo, e
Pietro muto come tutti pensavamo fosse, la coppia di nonna e nipote
trova ora il proprio significato e capiamo così come siano inestricabilmente connessi. Per buona parte della prima metà del viaggio, Fortunata è sicuramente molto loquace e ostinata. Tuttavia, col procedere
del viaggio, sembra diventare più silenziosa; un gran numero d’immigrati è silenzioso. Il silenzio di Fortunata verso la fine del viaggio, stranamente, non le impedisce di comunicare col nipote Pietro;
cosa che avviene alcuni minuti prima della scena finale con tutta la
21 È a dir poco curioso che Salvatore faccia l’equivalenza tra “debole di mente” e
parlare troppo, mentre gli ufficiali di Ellis Island potrebbero averlo visto come
un segno di disordine, come veniva a volte caratterizzato. Atti eccessivi, in particolare se atti sociali, erano considerati come potenziali sintomi di debolezza di
mente. Rimando ad esempio a Henry Herbert Goddard, Feeble­-mindedness: Its
Causes and Consequences, New York, McMillan, 1914 e Edgar A. Doll, Clinical
Studies in Feeble-mindedness, Boston, Richard G. Badger, 1917).
241
famiglia riunita. Qui l’opposizione tra “vecchia generazione/giovane
generazione” si manifesta al meglio. Fortunata è ormai muta, capace
di comunicare con il figlio e i nipoti solo tramite espressioni facciali.
E dopo che Salvatore fa l’ultimo appello per far rimanere la madre e
il figlio negli Stati Uniti, è il figlio Pietro, il muto, e non la madre, ad
articolare verbalmente il desiderio di lei di tornare in Italia, mentre gli
altri devono rimanere negli Stati Uniti:
Papà, la nonna mi disse che vuole morire a casa. E mi disse
pure che noialtri dobbiamo stare accà.
Mentre Pietro pronuncia queste due convinzioni, Fortunata accarezza
prima il viso di Salvatore con le mani, quindi passa ad Angelo, con
lo stesso affetto, e solo alla fine arriva a Pietro, che accarezza con un
lungo sorriso. La scena riprende tutti e quattro, con Fortunata ancora
al centro; Salvatore e Angelo fissano la macchina mentre Fortunata e
Pietro guardano verso il basso. Con una dissolvenza, la scena sfocia
poi nell’ormai mitico fiume di latte in cui adesso troviamo non solo
la famiglia Mancuso, ma, di fatto, molti degli immigrati che hanno
viaggiato con loro.
La combinazione delle due affermazioni di Pietro e le sue azioni
si dimostrano due dei momenti più significativi del film dal punto
di vista degli opposti: ossia vecchio mondo/nuovo mondo e vecchia
generazione/giovane generazione. Fortunata rappresenta il vecchio
mondo e la vecchia generazione; insieme al nipote costituisce la metà
nel binomio che evidenzia la coincidentia oppositorum ormai chiaramente a due strati. È una dualità che è allo stesso tempo orizzontale
(da un mondo all’altro) e verticale (ossia cronologica, dal vecchio
al più giovane). Il nuovo mondo, in questo momento, ha un impatto
notevole su entrambi i membri della coppia. Fortunata, vecchio mondo, non può rimanere nel nuovo; supplica di tornare per poter “morire
a casa,” dove “casa” costituisce la parola chiave. Questo perché il processo del viaggio e il primo incontro col nuovo mondo, si dimostrano
antitetici all’essere di Fortunata; lei non può immaginarsi in questo
nuovo spazio. Pietro, d’altro canto, vive una specie di metamorfosi che è sia spirituale sia fisica; soprattutto in confronto alla scena
dell’imbarco, quando voleva scappare giù dalla nave, Pietro sembra
ormai tranquillo del suo fato nel nuovo mondo, capace di comunicare
sobriamente al padre il desiderio di Fortunata. La nuova capacità di
242
parlare è adesso contrapposta al mutismo selettivo di Fortunata e i
due personaggi si scambiano di posto; Fortunata, una chiacchierona,
come lo stesso Salvatore l’ha descritta, è messa a tacere nel/dal nuovo
mondo, mentre Pietro, tranquillamente silenzioso come muto selettivo nel vecchio mondo, diventa loquace nel nuovo22.
L’esistenza di paese condotta da Pietro in voluto mutismo è ora
annullata e, per prosperare nel nuovo mondo, deve adattarsi e il primo
requisito è l’acquisizione della lingua. Pietro deve adesso fare affidamento alla lingua, l’onnipotente logos, per cui, come discusso in precedenza riguardo a Tusiani, il famoso “Cogito ergo sum” di Cartesio
è nuovamente trasformato nel motto dell’immigrato italiano “Parlo,
dunque sono”. Questo viene anche sottolineato ironicamente dall’uso
di Pietro della parola “disse”. È ironico, in senso letterale, proprio
perché da quanto possiamo giudicare, il modo di comunicazione a
questo punto tra Fortunata e Pietro non è linguistico; non parlano tra
di loro, comunicano solo con espressioni facciali e gesti. Eppure, Pietro dice, «la nonna mi disse». Inoltre, l’impiego della parola dire da
parte di Pietro, «la nonna mi disse», accentua ancora di più il fatto che
Pietro fino a questo punto non ha articolato alcuna parola. In quanto
spettatori, siamo testimoni di un cambiamento ironicamente chiasmatico nel linguaggio verbale e nell’idioma dei gesti, qui nel mezzo visivo del cinema, come illustrato nello schema seguente:
22 Il mutismo selettivo è una malattia sia nei bambini sia negli adulti, i quali, nonostante il loro silenzio, sono in realtà capaci di parlare e di capire una lingua. Questo
si capisce presto essere il caso di Pietro; benchè non parli, è chiaro che può sentire
e capire cosa dicono le persone intorno a lui. Il mutismo selettivo è, tuttavia, una
condizione estremamente complessa e sconcertante. Per maggiori informazioni
su questa condizione, rimando a Sheila A. Spasaro and Charles E. Schaefer, eds.,
Refusal to Speak: Treatment of Selective Mutism in Children, Northvale, N.J.,
Jason Aronson, 1999; Norman H. Hadley, Elective Mutism, A Handbook for Educators, Counselors, and Health Care Professionals, Dordrecht & Boston, Kluwer
Academic Publishers, 1994; Thomas R. Kratochwill, Selective Mutism: Implications for Research and Treatment, Hillsdale, N.J., L. Erlbaum Associates, 1981.
243
Attraverso il personaggio di Fortunata, capiamo che quei modi
incrollabili del vecchio mondo non sono adattabili al nuovo. Non
solo lo implicano gli esaminatori di Ellis Island quando la giudicano
“debole di mente” e decidono di rispedirla indietro; la stessa Fortunata lo capisce e per questo ha deciso di tornare in Italia dove vuole
“morire a casa”. Pietro subisce una trasformazione simile. La paura
iniziale del viaggio e tutte le sue conseguenze sono ormai dissipate,
conscio di appartenere ormai al nuovo mondo – una coscienza che,
vorrei sottolineare, ha le sue origini nel vecchio mondo, ossia in Fortunata, come spiega egregiamente Pietro: “la nonna disse che vuole
morire a casa,” ma, ancora più significativo, è “la nonna” che «disse
… che noialtri dobbiamo stare accà». Ironicamente ancora una volta, quindi, non è tanto che il nuovo mondo sopraffaccia il vecchio;
piuttosto, il vecchio mondo è riuscito a capire il nuovo e l’inevitabile
necessità di adattarvisi se si desidera risiedervi per migliorare le proprie condizioni personali ed economiche.
La fine dell’inizio: tutto è possibile
Come menzionato prima, Nuovomondo si concentra sul viaggio e non
sulla vita dell’emigrante negli Stati Uniti. Il processo è al centro del
film. I Mancuso e Lucy subiscono una trasformazione durante l’esperienza migratoria che ha un impatto considerevole sul loro futuro proprio perché ha un impatto sul viaggio dall’Italia negli Stati Uniti. Attraversano e superano le prove e le tribolazioni del pericoloso viaggio,
dove una qualunque disgrazia come tempeste, malattie infettive, e violenza causata dal sovraffollamento potrebbe abbattersi in ogni momento. Sopravvivono anche alla visione “moderna” della burocrazia di
Ellis Island, con i suoi medici indottrinati nella teoria dell’eugenia che
decideva del fato di coloro che rischiavano il viaggio nella stiva della
nave; quelli che credono di essere «Gods who decide who is and is not
fit to enter» [dei che decidono chi è idoneo e chi no], come sottolinea
Fortunata alla fine, rifiutando di seguire le «rules of the new world»
[regole del nuovo mondo], come afferma l’ufficiale di Ellis Island.
L’ultima scena realistica alla fine del film, quella del ritratto di
famiglia dei Mancuso che hanno lasciato l’Italia, dissolve in un fiume
di latte. Il cambiamento porta a galla un certo numero di questioni.
Innanzitutto, la prima inquadratura è completamente bianca, una spe-
244
cie di tabula rasa su cui, metaforicamente, i nostri immigrati possono
scrivere la loro nuova storia nel nuovo mondo23. In secondo luogo,
dalla destra appare Lucy che gradualmente si dirige verso il centro.
Mentre si sistema in questa nuova posizione, tre teste finiscono per
apparire da sotto la superficie: Salvatore, Angelo e Pietro. Mentre si
assestano, si dispongono nella stessa posizione del ritratto finale dei
tre uomini e della madre/nonna. Abbiamo ora di fronte a noi il ritratto
della nuova famiglia Mancuso, quella che abiterà nel nuovo mondo.
Nelle veci di Fortunata (ossia il segno del vecchio mondo), troviamo Lucy (il segno del nuovo mondo), quel segno triangolare come
menzionato prima, la cui funzione significante è di genere, classe e
viaggio. Lei è il pilastro che rafforza i vari aspetti dell’esperienza
migratoria all’inizio del ventesimo secolo.
Per più di trenta secondi la nuova famiglia Mancuso occupa l’intero schermo, mantenendo le posizioni del ritratto originale della
vecchia famiglia, mentre sullo sfondo si sente musica del ventunesimo secolo. Una volta che quest’immagine viene impressa fermamente nella mente dello spettatore, la scena comincia ad allargarsi, e
vediamo così gli altri immigrati nel fiume di latte, o piuttosto il mare
di latte, alla fine ripreso a volo d’uccello per mostrare solo le teste/
cappelli di questi americani nuovi di zecca. Quest’angolazione serve
da perfetto contrappunto a una delle due precedenti inquadrature a
volo d’uccello. Quando la nave lascia il porto, abbiamo visto come
una moltitudine di viaggiatori emigrati, chiaramente ansiosi alza lo
sguardo verso la macchina, mentre la sirena della nave suona rumorosamente alla partenza. Non è più necessario vedere le loro facce,
dato che, dopo questa loro rinascita terrena, riceveranno nutrimento
dal fiume di latte e in seguito da latte e miele, come vuole la credenza,
per la loro rinascita spirituale. Inoltre, ed egualmente significativo nel
contesto migratorio, il fiume apocrifo di latte era anche il luogo dove
le persone erano finalmente premiate, come si legge di seguito24:
24
L’angelo mi disse un’altra volta: «Seguimi, ti farò entrare nella
città di Cristo». Stava ritto sopra il lago di Acherusa e mi fece
23 Ricordo al lettore della tabula rasa precedente, sicuramente simile a questa,
quando i Mancuso arrivano per la prima volta nella città da cui poi partono.
24 Si veda Hilda M. Ransome, The Sacred Bee in Ancient Times and Folklore, New
York: Houghton Mifflin Co., 1937, p. 280. Per maggiori dettagli, rimando al
capitolo 21, “Ritual Uses of Milk and Honey” (pp. 276-84).
245
salire su una nave d’oro; davanti a me c’erano circa tre migliaia
di angeli che cantavano un inno finché non arrivai alla città di
Cristo. […] quattro fiume la circondavano: uno era un fiume
di miele, un altro di latte, un altro di vino, un altro di olio. Dissi all’angelo: «Che cosa sono questi fiumi che girano attorno
alla città?». Mi spiegò: «Sono quattro fiumi che scorrono così
copiosi da saziare coloro che vivono in questa terra della promessa. Ecco i loro nomi: il fiume di miele si chiama Fison, il
fiume di latte Eufrate, quello di olio Geon e quello di vino Tigri.
Come coloro che, mentre vivevano nel mondo, non hanno usato
questi beni, ma se ne sono privati per il Signore Dio, così, quando entrano in questa città, il Signore offre loro queste cose con
un’abbondanza al di là di ogni misura»25. […]
Poi mi condusse dove scorreva il fiume di latte, e lì vidi tutti i
bambini che il re Erode aveva ucciso per il nome di Cristo. Mi
salutarono, e l’angelo mi disse: «Tutti coloro che preservano la
castità con la purezza, quando escono dal corpo, dopo aver adorato il Signore Dio, vengono affidati a Michele e vengono condotti
presso questi bambini; li salutano dicendo: Ecco i nostri fratelli,
amici e membra! Con loro erediteranno le promesse di Dio».
Quelli premiati nel fiume di latte sono anche quelli che vengono
ammazzati da re Erode – una metafora certamente appropriata per gli
immigrati che, come bambini, erano vittime innocenti di circostanze
al di là del loro controllo, quali disastri naturali e fattori socio-politici
del vecchio mondo ed anche del viaggio rischioso e della filosofia
basata sull’eugenia del nuovo mondo. Inoltre, al posto delle «tre
migliaia di angeli che cantavano un inno finchè non arrivai alla città
di Cristo», il film chiude con sette minuti della classica versione in 10
minuti di Sinnerman di Nina Simone, uno spiritual tradizionale della
fine del secolo, spesso cantato durante riti religiosi. I Mancuso con
tutti i fratelli e le sorelle con cui hanno fatto il viaggio si ritrovano
ora nel “fiume di latte” che “sfocia” nel nuovo mondo dove, come lo
spettatore può ora narrare semioticamente, «con loro erediteranno le
promesse» del nuovo mondo, quella “terra nuova” cui Rosa, sempre
presciente, ha fatto riferimento prima nel film26.
25 Si veda: Apocalisse di Paolo in Apocalissi Apocrife, a cura di Maria Luisa Lucca,
Milano, Sugarco Edizioni, 2000, pp. 23-31.
26 Ringrazio Alessandra Senzani per la sua traduzione italiana del mio testo originale in inglese, e, a sua volta, Roberto Dolci per la sua acuta ri-lettura del mio
saggio e le sue curiosità su alcuni punti della mia “lettura” del film.
246
247
Maria Rosaria Vitti-Alexander
Raccontare il Sud ne La terra di Sergio Rubini
Ricca la letteratura meridionalista italiana come altrettanto lo è la cinematografia che si impegna a raccontare il Sud1. Con la formula “registi meridionali” ci si vuole rifare naturalmente non ai dati anagrafici
di questi artisti ma piuttosto essa ci permette di identificare ciò che
caratterizza nell’insieme quei film che vogliono narrare il Sud: un particolare impiego di elementi psicologici, di costume, di ambiente, di
problematiche di una certa tipologia, di particolari tecniche filmiche, e
per finire l’uso didascalico e operativo programmaticamente culturali
che ne vengono fatti. Se si dovesse trarre una singola conclusione di
questi film che raccontano il Sud si dovrebbe dire che sono caratterizzati da una dialettica bifronte: da un lato si vedono intenti dichiaratamente di polemica e di denuncia, di un Sud ancora dimenticato, lontano dal modernismo odierno, di un Sud che resta tuttora un mondo in
transizione con un passato ed un presente in difficile convivenza. Ma
allo stesso tempo dall’altro lato questi film presentano polemicamente
un Sud come un mondo da tutelare anche in tutte le sue incongruenze
perché culla di atavici insegnamenti che potrebbero ridiventare guida
all’uomo tra i meandri caotici della vita moderna.
Il film in questione La terra2, di Sergio Rubini uscito nel 2006,
manifesta un’esemplificazione storico-culturale di un particolare
tempo e il suo narrare deve essere visto in due modi: il primo è da
trovarsi nella descrizione analitica della realtà sociale ed economica
del Sud; il secondo, stretto derivato del primo, studia un rapporto tra
Sud-Nord, società meriodionale e società settentrionale attraverso la
focalizzazione del singolo personaggio di Luigi De Santo.
1 Per una lista abbastanza completa di lavori che trattano del Sud rimando all’articolo di Raffaele Crovi in «Il Menabò», n. 3, 1960.
2 Il film La terra è stato girato nel paese di Mesagne provincia di Brindisi.
248
È il tema della società che apre subito il film, di un Sud in bilico tra
tradizione e progresso, fra la stagnante quotidiana realtà della piazza e
delle feste tradizionali di paese e le nuove realtà provocanti del Nord,
due condizioni che stridono mentre il tutto è rigorosamente filtrato
dalla scomoda e tormentosa presenza del camorrista Tonino, presenza
ormai onniscente ed onnipotente del paese. Ed è nella contrapposizione di queste due condizioni Nord e Sud che si evolve il film, e che fa
scattare in Luigi, immediatamente al suo arrivo, una lenta ma inesorabile riscoperta del passato e di se stesso, seguita dalla dissoluzionericostruzione di un tipico nucleo familiare di stampo meridionale.
Molti dei film che raccontano il Sud ricorrono ad una tecnica specifica: raccontano di un padre, forte come un toro e dispotico, prepotente
con i figli e la moglie; riferiscono di un figlio maggiore che si scaglia
contro tale padre per poi allontanarsi o essere forzato a farlo; narrano
di un figlio ormai grande che torna per ritrovarsi dolorosamente alle
prese con un passato e con un mondo che credeva recisi da sé e che
invece inesorabilmente lo risucchiano sia nel bene che nel male.
La terra di Sergio Rubini si attiene a queste particolarità. Il film
ha inizio con il ritorno in Puglia di Luigi, ormai un signore di mezza
età e distinto professore di filosofia a Milano. La ripresa a lungo raggio che introduce il protagonista evidenzia subito la difficoltà del suo
rientro: Luigi è solo, valigia in mano in una strada deserta che cammina lentamente verso il paese, punto invisibile all’orizzonte. Qualcuno
si è dimenticato della sua venuta? Si tratta di un ritorno non voluto? Dai flashback che hanno accompagnato Luigi nel suo viaggio si
scopre che i De Santo non sono affatto pochi, ce ne sono altri tre, due
fratelli e un fratellastro bastardo. Ma soprattutto veniamo a sapere
che il ritorno è particolarmente difficile perché crudele ed ingiusto è
stato il suo allontanamento dal paese. Un allontanamento-punizione
che si è abbattuto sul giovane liceale che aveva provato a ribellarsi
ad un padre-padrone, prepotente e violento con la moglie ed i figli, e
spudoratamente orgoglioso di avere “altre donne”. Dopo una lunga assenza dal paese nativo Luigi è tornato, ma solo
per necessità, richiamato da uno dei fratelli per regolare la proprietà di
famiglia, terra e cascina, possedimenti dei De Santo in questo paesino
del Sud, un posto che ormai Luigi sente ostile, estraneo e nemico. Possente si rivela la cinepresa di Sergio Rubini nel mettere a fuoco tutta
la forza di questi sentimenti: estraneità, spaesamento, solitudine, moti
dell’animo che sono generati certamente dalla lunga lontananza e da
249
nuove abitudini acquisite nella diversità di Milano dove ormai Luigi
vive. Allo scontro delle due realtà presenti nel subcosciente di Luigi
–l’acquisita coscienza nordica e quella latente meridionale – risulta
soprattutto solitudine e distacco come evidenzia la cinepresa con le
sue lunghe riprese e inquadrature dall’alto che mettono in risalto un
Luigi nel mezzo di una piazza strozzata da edifici, disperatamente solo
e alienato da tutto ciò che lo circonda, a telefono con quella sua altra
esistenza. Questo, il paesino meridionale è mondo del caos e dell’irrazionale, quello, Milano è regno del razionale e della compostezza,
l’unico mondo con il quale Luigi pensa ormai di riuscire a comunicare.
Solitudine ed alienazione continuano ad accompagnare Luigi al suo
rientro nella casa paterna in mezzo al paese. Ad aspettarlo trova solo
stanzoni deserti, mobili impolverati, foto sbiadite sulle pareti. Solitudine ed alienazione avviluppano Luigi al suo rientro nel cascinale di
famiglia. La ripresa a lungo raggio del casale e della terra di famiglia
porta avanti e denuncia la presente condizione di Luigi, psicologicamente piccolo e sperduto su quella che era l’aia della sua casa.
La Terra è un film di memoria, soprattutto quella di Luigi. Ma
la memoria non è un puro e semplice repertorio di cose meccanicamente registrate, essa non serve a nulla se manca la dimensione
della coscienza. E la coscicenza con la sua intenzionalità è capace di
cogliere il senso delle cose al di là della loro pura e semplice esistenza
empirica mettendo in moto la dimensione evocativa. Evocare significa testimoniare in due modi: nel modo oggettivo,
l’essere considerati testimone di qualcosa, e nel modo soggettivo, il
sentirsi testimone di qualcosa. In La terra ambedue le testimonianze,
soggettiva ed oggettiva hanno corso per Luigi.In questo film vediamo
che sono le cose che iniziano a raccontare, a parlare e che fanno di
Luigi il testimone di un passato che lui aveva creduto finito, relegato
per sempre nei meandri di ricordi dolorosi di una volta. Ed è la terra,
proprio la sua terra, che gli si era presentata al primo impatto estranea
e nemica, ad iniziare il recupero della testimonianza; sono le maestose distese di ulivi e mandorli, tesori del Sud, a riaprire dolcemente il
dialogo con il personaggio Luigi per riportarlo indietro nella memoria,
a sussurargli ricordi brutti e belli, il dolce-amaro del passato, e che
Rubini ci fa scivolare dolcemente sotto gli occhi. Sono i prodotti della
terra del Sud che scandiscono lo sviluppo della trama. È il sacco di
mandorle che offre il posto ideale dove nascondere l’arma per uccidere; è l’atavica processione degli incappucciati del Venerdi Santo,
250
identità nascosta dal cappuccio come vuole la tradizione e la solennità
dell’occasione, a procurare il momento opportuno per l’eliminazione
di Tonino, camaorrista, sfruttatore ed usuraio, anima marcia del paese.
Il filo della memoria continua a srotolarsi, e Luigi si lascia trascinare alla riscoperta di se stesso: la difficile relazione con il padre, la
dolcezza della morbida spiaggia dorata del paese, la piccola Angela
innamorata del giovanetto Luigi, la scuola. L’ingresso nella vecchia
scuola e nell’aula B prepotentemente investono Luigi con le grida di
amici di un passato creduto per sempre dimenticato, ombre sbiadite
che invece riacquistano vita e spessore. Sempre sul filo della memoria Luigi capisce che deve prolungare la sua venuta, la porta che si è
riaperta sul suo passato non può essere richiusa ora che il processo di
riappropiazione e di riconoscimento si sono messi in moto.
Ed è a questo punto che la memoria dell’offesa – del padre e
dell’imposto allontanamento dal paese -acquista dunque una duplice
valenza, come dono personale di riscoperta, e come seme che poi germoglierà in un apprezzamento per quello che il Sud può dare ai suoi
figli. L’ordine del mondo tradizionale, la sua capacità di fare storia al
di fuori della storia, il suo istintivo amore per la vita che sembra tradursi in una regola di confidenza nei semplici rapporti sociali, è tutto
quello che Luigi lentamente inizia a riafferrare e di cui si riappropria.
Con lo sviluppo del film la concretizzazione dei due mondi diversi
e in opposizione è evidente, l’altro mondo – Milano – pur senza mai
apparire viene contrapposto al paesino del Sud. Milano è l’italiano
impeccabile di Luigi, le telefonate a Laura alla quale descrive, in un
linguaggio forte ed alienante il paesino, come luogo attanagliato da
“follia totale”. Luigi mette in rilievo “l’irrazionalità”, la disarmonia
di questa sua famiglia del Sud, che gli appare estranea e diversa come
tutto il paese, come se ogni cosa fosse controllato da un frenetico
susseguirsi di eventi fortuiti e non calcolabili.
L’insofferenza, l’irrepremibile necessità di focalizzare solo “l’irrazionale”, “la follia” del paese non fanno altro che evidenziare la
presente condizione di Luigi: il lento rigurgito del suo altro Ego, che
lui credeva non esistesse più, la sua meridionalità che ormai inarrestabilmente si ripresenta. Se ne accorge subito Laura, la sua compagna di
Milano che venuta a cercarlo nel paese sembra non riconoscerlo. Se
ne accorge Tonino il mafioso che con l’intimidazione cerca di allontanarlo dal posto. Lo stridio del contrasto tra l’intellettuale del Nord,
Luigi, e il mafioso del Sud, Tonino, è forte, raggiungendo il massimo
251
una volta che quest’ultimo, anima del paese corrotta e corruttrice,
trova in Luigi suo degno contrapparte. Tonino, dopo averlo visto in
situazioni che lui considera compromettenti cerca di intimorire Luigi.
L’ultima minaccia avviene in un vicolo deserto. Tonino, circondato
dai suoi uomini blocca Luigi, gli si accosta e con il gesto intimidatorio proprio del mafioso gli morde un orecchio sussurandogli di stare
accorto perché Milano non è poi tanto lontana per una resa di conti tra
loro. La reazione di Luigi è composta di due momenti, la coscienza
dell’offesa è in un primo momento “razionalmente” dimenticata da
Luigi uomo del Nord. In un secondo momento essa riaffiora e Luigi,
tornato a capire le leggi che governano la terra del Sud, se ne riappropria, le gestisce e si vendica. Nella follia e nel caos della follia
bisogna adattarne le regole, e Luigi lo fa, razionalmente.
Il messaggio di Rubini è chiaro, non ci si può sottrarre alla propria terra. Uno ha un bell’andare via e trovarsi una terra diversa: ci
si traveste, perché sotto sotto l’impronta è quella, e quando il segnale
giusto arriva, non c’è niente da fare, si capitola. Ognuno capitola
davanti a qualcosa. Luigi capitola davanti al ricostruirsi della vecchia
autorità della famiglia d’origine. A lui, il più vecchio, e dunque capo
famiglia, ognuno dei fratelli chiede qualcosa; come repentino era stato il suo rientro in paese, allo stesso modo Luigi, improvvisamente e
senza veramente averlo voluto, si ritrova il centro. Uno alla volta tutti
si fanno avanti risucchiando Luigi nel loro mondo del Sud e in quegli
intricati legami di famiglia patriarcale:
– Aldo, il fratellastro, è rimasto il passato. Vive governato dall’antica scienza contadina che ricava dalla terra l’esistenza. E gli si fa
addosso con la difficoltà della sua situazione, il casale e la terra non
si possono vendere, lui ed altri ci vivono su e ci campano. Per Aldo,
come appunto era nel passato, ogni creatura deve restare nel proprio
ambiente, vivere secondo le leggi della morale naturale non corrette
dall’uomo – coltivare, raccogliere i frutti, allevare gli animali. Ed è
difatti il frutto di questa loro terra, un sacco di mandorle da portare ai
poveri ammalati, che regala al fratello Mario ed è proprio qui, in questo sacco che Mario trova il nascondiglio ideale per l’arma del delitto.
– Michele, coinvolto in politica si è lasciato scivolare nel mondo
dell’usura che ormai lo sta stritolando. Michele si è allontanato dalle
leggi di un mondo tradizionale, si è lasciato corrompere dal canto di
sirena della vita moderna cadendo nel baratro senza fondo dalla sua
corsa frenetica ai guadagni. 252
– Mario si è perso nell’illusione che il lavoro di volontariato, la
cura degli altri, dei diversi, dei malati mentali, possa ridargli quella
famiglia che a lui è stata negata. Mario, nella sua solitudine si cerca
nei bisognosi, diventa quel padre che lui avrebbe voluto avere, come
farà sapere al fratello maggiore, Michele che aveva cercato di fargli
da padre senza riuscirci (“Non volevo un padre come te”, gli dice
Mario senza pudore).
Un ritorno complesso abbiamo detto, che il regista scandisce con
riprese lunghe e lente, la macchina da presa che scende e sale lasciando Luigi solo, in piazze vuote, vicoli bui, case deserte. Poche sono le
scene solari, bella quella con Angela al mare, ma ciò era stato possibile prima che si venisse a conoscenza dei problemi di soldi di Michele; prima della conoscenza della desolata solitudine di Aldo infelicemente innamorato di una clandestina al servizio di Tonino; prima
ancora che si venisse a conoscenza di Mario perso nel suo sogno di
un mondo più umano. Mario, un ragazzo solo, che studia Pascal nel
tentativo di sentirsi meno solo, meno stritolato da questo Sud così difficile, sordo e incapace di riconciliare il suo passato ancora vivo ed un
presente che preme alle porte. Rubini focalizza questa situazione di
bilico quando riprende Mario all’uscita dall’Associazione dove lavora. La scena in un vicolo deserto e buio e circoscritta da palazzi e alti
muri quasi volessero schiacchiare il giovane Mario, che con occhi
ammirati rivela al fratello maggiore Luigi venuto ad incontrarlo, il
suo grande cruccio, “tu sei diverso,” gli dice, “hai avuto il coraggio
di ribellarti.” Certamente parla della ribellione al padre ma sottintesa
è la ribellione alla tirannia del Sud intero, all’assurdo dei fatti che ne
governa l’esistenza.
La terra, è un riuscito film che racconta il Sud e il suo grande
dilemma, un impasto di ieri e di oggi, quell’impasto primordiale di
cui esso è fatto: gente che pur restando in cuor suo attaccata a certe
tradizioni vuole prendere un’altra via, imparare un’altra lingua, sentirsi parte di un nuovo mondo. Ma sulla via della trasformazione c’è
oro e c’è fango. Talvolta il gioco delle apparenze fa si che una cosa
sembri l’altra e la vita diventi un grande punto interrogativo, come è
appunto successo a Michele Di Santo, il fratello più esposto alla sirena della trasformazione e che ha confuso il buono del suo mondo con
il male dell’altro, sacrificando tutto. Il Sud va capito, studiato e reinserito nel mondo di oggi. Come è stato per Luigi, un ritorno al Sud sta
a significare un viaggio di apprendimento, un rifare la strada a ritroso
253
per imparare dal Sud la sacralità della famiglia e la responsabilità
verso di essa, l’appartenenza ad un posto e la necessità di mantenere
viva la memoria di se stessi per poterne trarne forza e perseverenza.
Luigi, che si era creduto fuori da una famiglia patriarcale, estraneo
da questi fratelli che lui ha lasciato ragazzi e che ritrova uomini, è
invece vicinissimo ad essa, riconosciuta la forza primigenia del paese,
cose che si era illuso di aver dimenticato, si riavvicina e si riappropria
di persone e di problemi.
Ed è Luigi ad iniziare il processo di riavvicinamento con i fratelli
prima per sé e poi per gli altri. Si riavvicina ad Aldo, il fratellastro
che è quello che beve, gioca e va a donne eppure lavora, è divenuto il
paladino del podere di famiglia, terra e cascinale, che invece il fratello Michele vorrebbe vendere per le esigenze consumistiche del mondo moderno. Poi il riavvicinamento tocca a Michele, quello che si è
rivelato il più fragile nei confronti della vita moderna, della politica,
del lusso e del facile guadagno. Alla fine con Mario, il più giovane
e il più offeso perché lasciato solo negli anni difficili della crescita,
Luigi si fa padre, pronto a sacrificare tutto pur di salvarlo. E dunque
come l’atto supremo della rimozione di Tonino, cancro del paese, portatore di un modernismo distruttivo è toccato a Mario, il più puro dei
fratelli, così è compito di Luigi, l’intellettuale, quello che è andato
via, che ha imparato la razionalità e l’ordine a dover risolvere la difficile situazione di famiglia. Luigi, chiamato dalla severità dell’accaduto, rientra nel ruolo che gli è dovuto, della “auctoritas paterna” e
senza incertezza bara. Lo scotto da pagare è alto, tocca a quella stessa
‘roba’, terra e cascinale di famglia che aveva fatto rientrare Luigi in
paese a riscattarli. Seguendo il principio del contrappasso dantesco
la colpa deve essere espiata in ugual misura. Mario ha ucciso Tonino
per vendicare la morte di Ugo, uno dei suoi pazienti-amici handicappati, eppure la scomparsa di Tonino comprende tutti i fratelli De
Santo, per ognuno di essi viene a significare una qualche liberazione.
Per Michele, Tonino era l’incubo dell’usura e per Aldo la doppia vita
di Tania. Se il gesto di Mario ha liberato gli altri, la colpa deve essere
redenta da tutti e lo scotto può solamente venire da tutti e quattro,
ed è la terra, quella che li aveva voluti separati e nemici nella morsa
di una maledetta possidenza. Podere e casolare, “la roba” nel tipico
lessico del Sud, tutto viene ceduto alla famiglia dell’ucciso in cambio
di un fantasioso omicidio, e come fosse la fine di una maledizione, la
perdita della “terra” riporta l’unione tra i fratelli.
254
La scena di chiusura del film è rivelatrice di questa necessità di
conoscere ed imparare il Sud, con il suo passato da non dimenticare
perché sorgente di guida per un presente spesso labirinto meandrico
di troppe possibiltà. Alla domanda precisa di Laura di un coinvolgimento dei fratelli nell’omicidio di Tonino segue la risposta di Luigi
che però resta inpercettibile. La cinepresa focalizza le labbra di Luigi
che si muovono, che raccontano, che parlano, la zona luce si alterna
alla zona d’ombra passando dolcemente da chi parla a quello di chi
ascolta. Nel lungo disquisire di Luigi non si riesce a cogliere il contenuto delle parole. L’irrazionalità dell’accaduto non potrebbe essere
recepita da una mente “razionale”, una mente diversa com’è appunto
quella di Laura, meglio non sapere, un passato non si può semplicemente raccontare lo si deve conoscere e capire.
Nel romanzo Il giorno della civetta3, Leonardo Sciascia fa dire
al capitano dei carabinieri: “ Niente fantasia gli aveva raccomandato
il maggiore. Va bene, nente fantasia. La Sicilia è tutta una fantastica
dimenzione: e come si può star dentro senza fantasia?” Con La terra
siamo in Puglia ma la dimensione fantastica del Sud rimane, e di fatti
“al niente fantasia” richiesto dal capitano si riscontra solo “fantasia,”
senza la quale non si potrebbe procedere. Ed è solo ora, alla chiusa
del film che le parole pronunciate da Luigi a Laura al suo arrivo in
paese “mi sono perso” assumono il giusto significato; indubbiamente
Luigi si è perso, ma non come crede Laura con un ritorno in un paese
che lui non conosce più, piuttosto il suo perdersi è successo a Milano,
quando ha invece cercato di cancellare il suo passato, quello che lui è
veramente, annullare le radici della sua irrazionalità invece di accettarle e farle convivere con la razionalità della sua altra realtà.
Il viaggio al paese è stato uno di apprendimento e Luigi ha imparato, come ci suggeriscono le chiavi di casa che Luigi si ritrova in
tasca sul treno di ritorno per Milano. La parternza questa volta non è
per sempre. E il suo “non scappo più” detto come una promessa, è
sottolineato da una ripresa lunga della cinepresa che ne documenta in
modo arioso e liricamente efficace questa decisione: Luigi è di nuovo
circoscritto da un muro, ma questa volta non è solo, sul terrazzo è con
tutti gli altri fratelli e in lontananza la scena è accarezzata dal dolce
suono di canti dialettali. La cinepresa si allontana per poi riavvicinarsi, si alza e vola in alto, dal terrazzo chiuso spazia sui campi, abbrac3 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961, p. 34.
255
cia tutti i quattro fratelli nello stretto spazio del terrazzo, a sua volta
circondato da case, terrrazzi, muri, in un cerchio concentrico sempre
più vasto che comprende le dolci terre del Sud coperte da uliveti e
mandorleti, il Sud tutto, in un abbraccio che si ripete all’infinito. 256
257
Marguerite Waller
Il Circo Postcoloniale: Luna e l’altra di Maurizio Nichetti
(Traduzione di Nicoletta Da Ros)
What is happening to the world lies, at the moment, just outside the
realm of common human understanding. It is the writers, the poets,
the artists, the singers, the filmmakers who can make the connections,
who can find ways of bringing it into the realm of common understanding. (Arundhati Roy, 2001, p. 32)
[Quello che sta accadendo al mondo si trova, al momento, appena
fuori dalla sfera della comune comprensione umana. Sono gli scrittori, i poeti, gli artisti, i cantanti, i registi che possono creare le connessioni, che possono trovare il modo di portare ciò che accade entro i
confini della comprensione comune].
Teorizzare il postcoloniale
Nel ‘call for papers’ pubblicato dalla Modern Language Association
in occasione della conferenza del 2011, i teorici del postcolonialismo
Shu-mei Shih e Panivong Norindr espongono chiaramente il problema epistemico che ogni teorico/studioso del postcolonialismo deve
affrontare: “No two postcolonial conditions are alike”. [Non esistono
due condizioni postcoloniali uguali]. Quindi chiedono ai partecipanti
di impegnarsi a trovare risposta per una, o entrambe, delle seguenti
domande: «Can there still be gronds for “postcolonial theory”?» [C’è
ancora spazio per “la teoria del postcolonialismo”?] e «If not, what
would comparative postcolonial theory look like?» [Se no, come si
presenterebbe la teoria comparata del postcolonialismo?] Il regista/
clown Maurizio Nichetti ha proletticamente dato risposta a entrambe
le questioni in una commedia esteticamente e metafisicamente postcoloniale, Luna e l’altra (1996), apparsa durante un impeto di attività politica neofascista e anti-immigrazione in seguito alla caduta
258
del muro di Berlino, al crollo del Partito Comunista Italiano, e alla
diffusione di pratiche economiche neoliberali messe in atto da istituzioni finanziarie e commerciali internazionali. Studiosi del periodo
coloniale italiano, e delle sue conseguenze, hanno sottolineato che
uno degli aspetti più singolari di questo periodo storico è la relativa
assenza di una riflessione collettiva sull’epoca coloniale. La sconfitta militare che ha decretato la fine del colonialismo italiano dopo la
seconda guerra mondiale ha bloccato l’insorgere di movimenti anticolonialisti nelle colonie e nella penisola stessa, mentre le restrizioni
post-belliche che limitavano l’accesso agli archivi coloniali, insieme alla riluttanza a discutere della sconfitta della nazione, hanno
scoraggiato l’analisi intellettuale. Pasquale Verdicchio sostiene che
una simile amnesia circonda le violenze perpetrate dall’Italia settentrionale nei confronti del Meridione durante “l’unificazione” (BenGhiat and Fuller, 2008, pp. 1-3; Verdicchio 1997b). Anche se i film
di Nichetti non si presentano prevalentemente come cinema politico
italiano, le strategie di drammatizzazione in Luna e l’altra sono calibrate precisamente per favorire l’apertura di uno spazio postcoloniale
nel quale l’insieme delle conoscenze soggiogate dalla colonizzazione
possano galvanizzare un nuovo immaginario culturale.
Relazione barocca
La situazione specifica e locale alla quale il milanese Nichetti sembra
rispondere con Luna e l’altra è la comparsa di due nuovi partiti politici in Italia. La Lega Nord di Umberto Bossi, secessionista, xenofoba,
anti-immigrazione e anti-meridionale, ha vinto le elezioni comunali
a Milano nel 1993 e nel 1994 è diventata parte della coalizione di
governo di centro-destra guidata dal magnate della comunicazione,
e presunto predatore sessuale, Silvio Berlusconi (Andrews, 2005).
Gianfranco Fini, che nei primi anni ’90 aveva apertamente raccolto
l’eredità di Mussolini rilasciando numerose ed esplicite dichiarazioni
in favore del fascismo, più tardi ha formato e presieduto il partito
di Alleanza Nazionale, nato dall’unione di elementi del Movimento
Sociale Italiano, di matrice fascista, e della Democrazia Cristiana,
avvolta dagli scandali (Andrews, 2005, p. 18). Fini è diventato vice
Primo Ministro di Berlusconi nel 2001, fomentando le violente azioni
della polizia contro i manifestanti che si opponevano al G8 tenutosi
259
a Genova nello stesso anno1. Bossi e Fini, nonostante i loro dissidi,
firmarono la tristemente nota legge Bossi-Fini (entrata in vigore nel
2002), la più punitiva legge anti-immigrazione in Europa (Andrews,
2005, pp. 62-4; Parati, 2005, pp. 149-52; pp. 154-6).
Per dare una risposta significativa all’ascesa di nuove forme di
fascismo e xenofobia, Nichetti ambienta la narrazione di Luna e l’altra nella grigia, squallida periferia di una città del nord Italia nel 1955,
durante la depressione del dopoguerra. Indubbiamente Nichetti, il
direttore della fotografia, e la costumista, hanno lavorato incessantemente per ricreare non solo gli abiti, le pettinature e gli arredi d’epoca
per i personaggi, ma anche per dare al film lo stile e l’atmosfera tipica
dei film anni ’50 (Nichetti 1996a). Questa autenticità serve tuttavia ad
accentuare nel film il richiamo simultaneo agli anni ’90, che prende
varie forme. Prima si intravede nella figura del direttore scolastico
e del suo vice, chiara caricatura di Bossi e Fini. Poi si ritrova nella
coppia formata dal giovane circense afro-italiano e dal suo cammello,
che rievocano l’immigrazione dall’Africa del nord e sub-sahariana.
Infine, si individua in un televisore, allusione all’impero mediatico
di Berlusconi, il cui schermo, che presenta un logo statico, è fissato
intensamente da un gruppo di circensi che si chiedono se sia il caso di
utilizzare questo mezzo per risollevare le sorti dei loro mesti introiti al
botteghino. Nel film riecheggiano diversi altri momenti politicamente
importanti: l’apice dell’era coloniale italiana, rievocata con una breve
ricostruzione di una sequenza dal film di scuola antifascista Zéro de
conduite (1933) di Jean Vigo; gli anni della seconda guerra mondiale,
mostrati attraverso l’allegoria dell’inesplosa bomba tedesca sotterrata
nell’area della scuola fascista; infine, il “miracolo economico” degli
anni ’60, che trova un potente richiamo nella sequenza finale di Luna
che, come la sequenza finale del felliniano 8 ½ (1963), si svolge nella
pista di un circo. Queste sequenze, tuttavia, non sono presentate né in
modo cronologico né evolutivo.
Il termine “barocco,” nell’accezione usata dal poeta caraibico e
teorico del postcolonialismo Édouard Glissant (1997) per descrivere
la “poetica della relazione” postcoloniale, è adatto a caratterizzare la
stratificazione temporale su cui opera il film. Più semplicemente, il
1 Un manifestante fu ucciso, e ci furono centinaia di arresti. I manifestanti incarcerati, secondo la testimonianza visiva dell’autore Geoff Andrews, furono obbligati
a cantare inni fascisti (2005, p. 13).
260
film di Nichetti pianifica le sequenze temporali in modo che possano
interagire figurativamente. Secondo quanto suggerito da Glissant, il
barocco di Nichetti si potrebbe paragonare al modo in cui la disposizione delle sculture e dei dipinti in una cappella del Bernini, ad esempio, produce i propri schemi di prefigurazione e realizzazione, mentre
la struttura verticalmente palinsestica della cappella crea al contempo
un contesto spazio-temporale nel quale le diverse sequenze temporali
interagiscono le une con le altre. Durante il processo di interazione
verticale e orizzontale, le immagini e gli eventi si caricano di molteplici possibilità figurative, contestualizzandosi fluidamente l’una con
l’altra nell’immaginazione dello spettatore. Una sorta di temporalità
dello spazio – la temporalità della contemplazione dello spettatore – è
indispensabile per la messa in atto di questo processo (Alei, 2008).
Ogni momento o immagine può fornire elementi per interpretare questa dimensione figurativa, come sottolineano i fermo-immagine alla
fine del film, di cui discuterò più avanti. Nel caso del Bernini, questa dimensione figurativa è pregna di significato teologico, mentre
il barocco di Nichetti, rappresentato nel film dal circo itinerante, si
avvicina più alla soggettività nomade di Gilles Deleuze e Félix Guattari (1987). In entrambi i casi, le relazioni non sono determinate dalle
immagini; al contrario, le immagini emergono in modo contingente,
prodotte dalle loro relazioni figurative2.
Un passaggio angusto
Lo stesso Nichetti, figlio del dopoguerra nato nel 1948, ha ricevuto
l’educazione elementare negli anni ’50. In un altro film, Stefano quante storie (1993) ha esaminato la casualità degli eventi che lo hanno
portato da una prima giovinezza convenzionalmente borghese, attraverso i fermenti politici dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70, ad
approdare al teatro, all’animazione, all’interpretazione e alla regia
mentre alcuni dei suoi contemporanei entravano nelle forze dell’ordine o diventavano insegnanti, e altri ancora, apparentemente indistinguibili dal primo gruppo e da lui stesso, languivano in prigione o
2 Deleuze e Guattari usano l’esempio dell’orchidea impollinata dalla vespa per
spiegare la contingenza delle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni (la
vespa diventa orchidea; l’orchidea diventa vespa) delle relazioni rizomatiche
(1987, p. 10).
261
perdevano la vita a causa del loro attivismo contro il sistema dirigente.
Iniziando con Ratataplan (1979), Nichetti ha diretto e interpretato una
serie di brillanti commedie politico-filosofiche, portando in scena una
figura clownesca che ricorda Keaton, Chaplin, Totò e Tati; questo gli
permette di giocare con le “quivering ontologies” [ontologie frementi]
(Marciniak, 2006) prodotte dallo scavalcare i confini di ogni genere,
incluso quelli tra un decennio e l’altro (Ho fatto Splash, 1980) o tra la
Terra e lo spazio (Domani si balla, 1982). La contrapposizione si trova
in Ladri di saponette (1989) in cui Nichetti, in una parodia di se stesso,
diventa la vittima di un permeabile sistema mediatico di stampo industriale dove la coesistenza di spazi, generi, e temporalità nel paesaggio
virtuale dello schermo televisivo minaccia di ridurre tutto il significato
al livello di una pubblicità di saponette (Waller, 1997).
In altre parole, Nichetti arriva alla soglia dell’immaginario postcoloniale con l’esperienza delle sfide estetiche e concettuali che si
spiegano davanti al soggetto borghese occidentale alla ricerca di un
accesso ad un altro livello metafisico. Graziella Parati, studiosa e
sostenitrice della cultura dell’immigrazione in Italia, scrive in modo
convincente di un “narrow door” [angusto passaggio] offerto dagli
immigrati del ventesimo secolo in Italia che potenzialmente «opens
the European/Italian tradition to nonwestern traditions» [apre la tradizione Euro-italiana alle tradizioni non occidentali] (1997, p. 175). Parati e altri hanno rilevato nella presenza di lavoratori, famiglie, scrittori,
artisti e intellettuali immigrati una forza trasformatrice della propria
interpretazione della storia, della geografia e della cultura “italiani”
(Clò, 2003; Lombardi-Diop, 2010; Matteo, 1999; 2001). Ciò che ne
deriva, secondo Parati, è una dimensione non tanto “extra” nazionale, intesa come extracomunitaria, quanto piuttosto “internazionale”
– «both within the margins of the nation space and in the boundaries in-between nations and peoples» [sia all’interno dei confini dello
spazio nazionale che nei confini tra le nazioni e i popoli] (1997, p.
175, citando Homi Bhabha, 1990, p. 4). Se si legge la prima parte
dell’esposizione di Parati attraverso la lente delle formulazioni del
teorico giapponese del postcolonialismo Naoki Sakai (1997; 2006),
che si è interrogato in modo esaustivo sull’uso di termini come
“moderno” e “non occidentale” nella misura in cui questi rafforzano la divisione del mondo in “l’Occidente e il Resto,” si noterebbe
un’enfasi posta sugli incontri che avvengono negli spazi intermedi,
interazioni che si sviluppano (solo) quando i percorsi e le soggettività
262
sono stabiliti in modo non tassonomico all’interno delle cronologie,
delle posizioni e delle identità, indipendentemente dalla loro provenienza. Come Parati, anche Nichetti invoca un non-Occidente e un
non-Nord, ma, sempre come Parati, Nichetti presenta questi “altri”
spazi in modo discorsivo piuttosto che geografico, come si verifica in
ogni contesto nel quale anche il “Nord” e l’“Occidente” colonizzatore
vengono riprodotti3.
Una guida omofonica all'identità e alla diversità
Ancora prima che inizi il film, il titolo Luna e l’altra si presenta
allo spettatore come una mise-en-abyme di un gioco di parole che
de-essenzializza il titolo. Luna può anche essere udito come l’una;
quindi, “luna” (il corpo celeste) può essere allo stesso tempo sia l’una
che l’altra. Ancora più in senso lato, se il lettore/spettatore ignora lo
spazio tra le lettere e si apre uditivamente ad altre possibilità omofone, altra può trasformarsi in al tra, nel senso di “verso lo spazio intermedio,” trasformandosi in un’entità completamente differente – un
passaggio, o forse una porta, “verso lo spazio intermedio”.
Considerando la luna come vista dalla Terra (un’immagine ricorrente nel film), possiamo dedurre ulteriori suggerimenti riguardo a
dove il film può condurre lo spettatore da un punto di vista filosofico,
politico, ed estetico. Spesso consideriamo la luce proveniente dalla
luna come un fatto secondario, mera riflessione della luce del sole.
Tuttavia, l’apparizione di questo familiare corpo celeste può presentarsi in termini meno gerarchici. Le sue molteplici forme sono, dopotutto, il prodotto tanto dell’ombra quanto della luce. Inoltre, le forme
lunari, tranne quando la luna è piena, sono il risultato del nostro sguardo al contempo localizzato e simultaneo diretto sia al lato illuminato
che a quello in ombra. Da una prospettiva meno Terra-centrica, la
luce della luna e l’apparire dei suoi cicli sono ancora più relativi,
creati dall’intersezione della luce del sole con un oggetto materiale in
movimento, la luna, che a sua volta gira intorno ad un altro oggetto
materiale, la Terra, che al contempo si muove sia lungo il proprio
3 Credito va dato a Tanya Rawal per la sua analisi della produzione discorsiva del
“Sud globale” attraverso vari elementi letterari e cinematografici, come esposto
nella sua tesi di Master, What Arbitrary Assignments!: Revising the Global South
& Engendering Community (2010).
263
asse che intorno al sole. Le immagini della luna funzionano in modo
quasi analogo nel cinema, dove, in una stanza scura, i materiali che
compongono la celluloide e lo schermo insieme trasformano la luce
proveniente dal proiettore in modelli, o immagini, che acquisiscono
significato. Il film di Nichetti avvalora tutte queste interpretazioni,
non solo della luna, ma di modelli in generale – siano essi storici,
politici, sociali o culturali4.
Colonizzatori colonizzati
Il film si apre con il rumore di passi a ritmo di marcia e una voce
che intima “sinistra… sinistra”, seguito nella colonna sonora da una
fanfara e un’esecuzione dell’inno nazionale italiano (come per Luna/
l’una, qui sinistra destabilizza in modo scherzoso l’univocità de “Il
Canto degli Italiani”). Un’inquadratura totale dall’alto mostra una
cerimonia scolastica nella quale due bambini scoprono un busto in
bronzo raffigurante una giovane donna. L’elogio funebre che accompagna l’azione, durante il quale il busto viene dedicato a “ricordo
perpetuo” della maestra Luna di Capua, rivela tristemente che la
giovane donna in questione si è sacrificata per proteggere la vita dei
suoi studenti e colleghi. Al primo piano del busto si sovrappone in
dissolvenza un primo piano di Luna ancora viva, e il film intraprende
quello che a prima vista sembra un flashback postumo degli eventi
che hanno portato a questa solenne commemorazione. La narrazione, tuttavia, non ritorna al finale presentato all’inizio. Nella sua pagina web, Nichetti (1996b) scrisse in modo provocatorio, durante la
distribuzione iniziale del film: «Prima di scoprire il segreto nascosto
nell’eroica morte della maestra occorrerà far scorrere le immagini di
tutto il film... Immagini che poi sono solo ombre che si rincorrono su
uno schermo bianco». La storia e la memoria sono presentate in modo
misterioso piuttosto che esplicativo.
Due scene che hanno luogo nelle aule, una lezione di geografia
sull’Africa e una lezione su vari tipi di artiglieria, inclusa la bomba
inesplosa ancora interrata nel cortile della scuola, rievocano la com4 Cristina Lombardi-Diop fa notare che i poemi dedicati alla luna e al suo valore
filosofico dal poeta romantico Giacomo Leopardi sono possibili significati sottintesi del film (2010).
264
plicata storia geopolitica dell’Italia sia nel ruolo di soggetto colonizzatore – in Africa, Albania, nel Dodecaneso e in Croazia – che (forse in modo più ambiguo) in quello di soggetto colonizzato – prima
dall’alleato Nazista dopo la caduta di Mussolini, e più tardi, probabilmente, dall’occupazione postbellica da parte degli Americani (che
continua tutt’oggi con la presenza di numerose basi militari). Entrambi
gli aspetti della storia coloniale italiana si manifestano rapidamente
nei personaggi del film e nelle loro interazioni. Mentre viene allestito
il circo appena arrivato, due bambini, quello dalla pelle scura con il
cammello e il suo compagno dalla pelle più chiara (il figlio della donna
barbuta), vengono regolarmente iscritti a scuola, causando notevole
fastidio agli amministratori razzisti. Assegnati alla classe di Luna, i
bambini creano scompiglio, anche se comprensibilmente in quanto
Luna immediatamente gli sequestra una lanterna magica che i due
avevano rubato al mago russo del circo. Interpretando alla lettera l’ordine di Luna di scendere dal davanzale, il secondo bambino salta dalla
finestra e sale sul tetto della scuola, stimolando Nichetti a ricreare una
scena memorabile dal classico film anarchico Zéro de conduite/Zero in
condotta (1993) di Jean Vigo, in cui gli studenti bombardano genitori e
insegnanti dalla sommità del tetto della scuola il giorno della festa dei
fondatori del collegio. Questa allusione a Vigo situa Luna nel doppio
ruolo di soggetto colonizzato e colonizzatore, replicando gli schemi di
colonizzazione perpetrati e subiti dallo stato-nazione Italia sul piano
della vita professionale della donna. Nonostante venga sfruttata senza
ritegno e sia considerata un oggetto sessuale sia da parte dal preside
che dal suo vice, Luna continua ad applicare la disciplina militare della
scuola nei confronti dei suoi studenti. Anche sul piano più intimo, in
casa, in un buio appartamento seminterrato, circondata da vicini ostili
e anti-meridionali, Luna e suo padre ricreano le dinamiche della colonizzazione. La rigida e inflessibile Luna e suo padre, un napoletano
macho e avverso ai lavori di casa, ricreano un altalenante teatro granguignolesco di oppressioni e ribellioni reciproche.
La pattumiera della storia
Il bidello della scuola, Angelo Franchini, una figura clownesca di
stampo Keatoniano, interpretato dallo stesso Nichetti, non è né un
265
colonizzatore né, come clown, un efficace soggetto colonizzato.
Angelo è timidamente e profondamente innamorato di Luna, ostacolata nel contraccambiare, o addirittura notare, l’affetto di Angelo dai
suoi strenui sforzi di interpretare il ruolo di maestra perfetta. Angelo
suona il flauto in una banda composta da brizzolati partigiani comunisti reduci dalla seconda guerra mondiale che suonano i loro vecchi
inni, Bandiera Rossa e Bella ciao ai funerali dei compagni. Questa è
la stessa banda che suona l’inno nazionale alla cerimonia di commemorazione, cogliendo la casuale connotazione politica presentata dal
comando “sinistra” nella sequenza di apertura del film. L’apparentemente ovvio riferimento creato tra l’età avanzata dei membri della
banda e la caduta del comunismo italiano dopo il crollo del muro di
Berlino viene complicato in modo interessante da un secondo riferimento intertestuale a uno dei classici film politici europei dell’anteguerra. Mentre suona il flauto nella sua uniforme da bidello, il personaggio di Angelo crea un riferimento comico alla figura del tragico
aristocratico francese Capitaine de Boeldieu, ne La grande illusione
(1937) di Jean Renoir. De Boeldieu, un anacronismo nel contesto dei
massacri di massa e dei combattimenti in trincea della Grande guerra,
perde la vita suonando un ottavino per distrarre i secondini tedeschi
nell’intento di coprire la fuga di due compagni prigionieri di guerra
meno blasonati (un proletario e un ebreo). Angelo, il bidello che suona il flauto, non arriverà al punto di sacrificare la propria vita, ma alla
fine del film si troverà ad abbandonare sia il flauto che l’uniforme da
bidello per esibirsi nel circo (indossando un turbante e pantaloni alla
zuava). Se il comunismo e l’identità sociale del proletariato italiano
sono destinati a finire nella pattumiera della storia, come suggerito
dal riferimento a Renoir, allora forse il fulcro dell’azione si trova proprio nella pattumiera
Una notte buia e tempestosa
Dopo aver portato a casa la lanterna sequestrata, Luna dorme sonni agitati. Ad un tratto, durante uno dei numerosi violenti temporali
del film, un fulmine aziona lo strano congegno. L’ombra di Luna si
separa dal corpo, e la mattina dopo se ne va per la sua strada, mentre
l’ignara Luna si reca al lavoro, inconsapevole di avere perso la sua
266
ombra. L’ombra di Luna è identica alla sua proprietaria, dopo essersi tolta di dosso i residui dell’oscurità, e gode dell’essersi liberata
dal carattere oppresso e opprimente di Luna. Riesce a sorprendere
il Signor di Capua parlando il dialetto napoletano e dimostrandosi
molto affettuosa. Al calar della sera, dopo essersi sistemata nel bordello cittadino, l’ombra comunica a Luna la sua decisione di unirsi
al circo e andarsene dalla città. Perché il suo piano funzioni, tuttavia,
Ombretta (letteralmente “piccola ombra,” ma non senza una connotazione di carattere infido e cattiva reputazione) deve ridare vita al
circo, specialmente in seguito ai falliti tentativi del mago russo di
continuare la sua esibizione nello spettacolo delle ombre senza l’aiuto della sua lanterna magica, tentativi che coinvolgono Angelo in un
inquietante esibizione con il volto dipinto di nero (blackface). All’arrivo di Ombretta, gli artisti circensi ammettono che il loro programma è sorpassato, e per un momento considerano la possibilità che la
soluzione possa risiedere nell’uso della televisione – un riferimento
chiaro alla figura del magnate della comunicazione divenuto Primo
Ministro, Silvio Berlusconi. Una sequenza che mostra il logo statico
della RAI mentre cattura lo sguardo fisso e immobile del pubblico su
uno schermo claustrofobicamente piccolo rivela immediatamente le
differenze tra lo sguardo nazionalista/neofascista e quello figurale/
palinsestico. Anche i manager del circo assetati di profitti rifiutano
questa pietrificazione del corpo e dello spirito, creando la possibilità
per Ombretta di proporre un nuovo spettacolo, che si rivela essere una
radicale trasformazione del numero della lanterna magica del mago
russo, e richiede la collaborazione del proletario di turno, Angelo.
Tuttavia, prima che si possa realizzare quest’alleanza gramsciana
tra Nord e Sud, è necessario risolvere la tossica intersezione fallocentrica tra nazismo e fascismo, nazionalismo e colonialismo, sessismo
e razzismo, che permea ogni luogo nel film - la scuola, la casa, la
macelleria, il bordello, e perfino il circo. Una catena di eventi, che
culmina nell’esplosione della bomba tedesca, indirizza il film verso la
rivelazione del segreto celato sotto la morte eroica della maestra. La
morte del padre di Luna/Ombretta, di cui parlerò più avanti, dà inizio
a queste trasformazioni. A conseguenza di questo evento, Ombretta
si sostituisce a Luna in occasione della Festa dell’Albero a scuola,
durante la quale il vice preside (la caricatura di Fini) accidentalmente
dissotterra la bomba tedesca. Mentre tutti si ritraggono terrorizzati,
Ombretta raccoglie l’oggetto fallico e lo trasporta fuori dal cortile
267
della scuola, verso un orinale al lato della strada. Un’esplosione tremenda, magistralmente diretta e fotografata in una lunga sequenza, fa
saltare in aria l’orinale - il simbolo ordinario del privilegio maschile
– e sembra colpire anche Ombretta. Al contrario, Ombretta rimane
illesa, in quanto lei è “solo un’ombra”, e decide di riunirsi a Luna a
condizione che Luna abbandoni la sua tediosa carriera di maestra e
(con la scusa della “morte eroica”) si unisca al circo con Angelo. La
sequenza di chiusura del film si svolge nella pista del circo dove Luna
e Angelo inscenano una nuova e più radicale versione dell’alleanza
tra il proletariato del Nord e del Sud immaginata da Gramsci in The
Southern Question (1995).
Da qui non ci si arriva
Il processo di fare “accadere” qualcosa dal punto di vista epistemico,
però, non può essere rappresentato (il caos provocato dai temporali e
l’esplosione rappresentano questa impossibilità nel film). Lo spostamento di soggetti emarginati al centro della scena è più complicato
rispetto, ad esempio, al posizionare i due ragazzi del circo sul palco
durante la cerimonia della Festa dell’Albero, come ammesso rapidamente nel film. Quando la bomba viene portata alla luce direttamente
di fronte a loro, la loro posizione sul palco li mette in grande pericolo.
Acquisire visibilità all’interno dell’episteme che determina l’assenza e l’invisibilità dell’individuo può avere conseguenze letali. Come,
allora, può il film (e il pubblico) passare dall’“repressed inquietude”
[inquietudine repressa] dello “obsolete but arrogant, modernist, xenophobic, colonial, misogynist, patriarchal, nation-state” [stato-nazione
obsoleto ma arrogante, modernista, xenofobo, coloniale, misogino,
patriarcale] (Sakai, 1997, pp. 165-66) a un altro/altrove “postcoloniale” e non patriarcale? Il montaggio fulmineo, brillante e tentatore,
il tratto surreale di animazione, la complessità iconografica di ogni
sequenza, e la fisicità luminosa dell’interpretazione, in particolare
quella di Iaia Forte nel ruolo di Luna e Ombretta, creano una rete
seduttiva di piaceri cinematografici che permettono al film di muoversi sul piano metafisico senza che lo spettatore sia consapevole, a livello “cosciente”, di ciò che “accade”. Il processo di fare sì che qualcosa
“accada” da un punto di vista epistemico si può verificare, infatti, solo
se gli spettatori non esercitano quel tipo di “conoscenza” che sottende
268
un senso di dominio, ma solo se, come Walter Benjamin teorizzava,
sono intrattenuti in uno stato di “distrazione” (1969, pp. 240-1).
Un esempio di come gli spettatori di Nichetti siano invitati ad attivare le immagini nella sua cappella barocca ci porterà più vicini al
“segreto” accennato sul suo sito. Un colpo di tuono interrompe l’intreccio a cui stavamo assistendo, che ha come protagonista un macellaio, Tito, che è anche il direttore della banda musicale di Partigiani
con il quale Angelo suona. Tito è il proprietario del bordello locale,
che lui stesso incoraggia i membri della banda a visitare dopo le prove
nella macelleria. Dopo una delle sessioni di prova, Tito si reca a visitare la moglie di uno dei musicisti, mentre il musicista si trova in visita al bordello5. Improvvisamente la finestra dietro il letto dove Tito e
la moglie stanno per avere un rapporto sessuale diventa cornice per
la testa e le gobbe di un cammello, mentre la colonna sonora presenta
rombi di tuono accompagnati da un tema musicale vagamente mediorientale e dal suono della pioggia. Primo di numerosi temporali nel
film, questo scroscio preannuncia anche una svolta nel nostro modo
di usare e interpretare le sue immagini. L’inquadratura del cammello dall’interno della camera da letto è seguita da una scena esterna,
dove assistiamo all’arrivo in città di un corteo di camion del circo, il
cui asse si interseca perpendicolarmente con l’asse dell’inquadratura della camera da letto. Utilizzando un’intersezione “accidentale”
(piuttosto che narrativamente motivata) tra la finestra della camera e
il cammello come punto di transizione, il film intraprende una nuova
direzione narrativa che coinvolge il circo. Il divario tra le due narrazioni reindirizza la nostra attenzione allo spazio aperto tra di loro.
Spostando lo sguardo dello spettatore dalla composizione di immagini all’interno di cornici (il nostro sguardo viene allontanato proprio
prima della scena di sesso!) alla serie o flusso di immagini, raffigurata
dalla processione circense felliniana, il film costruisce un diverso tipo
di esperienza audio-visiva6. Quello che si inizia a intravvedere sono i
bordi delle scene e gli spazi che si creano tra di loro. Qui, in particolare, la nostra attenzione è diretta sul contrasto tra Tito ed i due piccoli
uomini e la donna barbuta che indirizzano il circo per le vie notturne
5 Il lavoro sessuale delle donne nel bordello “di sinistra” di Tito raffigura ironicamente un compendio del capitalismo. La forza lavoro delle donne non è solo
sfruttata per creare un prodotto, ma sono esse stesse mercificate.
6 La connessione tra Nichetti e Fellini è importante per la mia discussione, ma
questo affascinante argomento esula dallo scopo di questo saggio.
269
della città. I personaggi del circo non normativi, illuminati dai lampi
all’esterno, delimitano il sistema di identità sessuale/di genere eteronormativo, paradossalmente esemplificato dalla coppia “normale”
adultera. Il cammello finirà con l’esercitare un affascinante effetto
visivo di disgiunzione durante tutto il film, in particolare quando viene legato al di fuori della scuola – il punto di partenza per inculcare le nozioni di geografia e storiografia nazionalista che sottacciono
la violenza coloniale, epistemica ed empirica, e le sue conseguenze
sia per i soggetti colonizzatori che quelli colonizzati. L’incongruità
del cammello legato nel cortile della scuola richiama l’attenzione sui
legami storici e culturali tra Italia e Africa, in particolare quando il
vice preside nota una vecchia gavetta militare, da cui il cammello
beve acqua fangosa, credendo si tratti della bomba tedesca.
Il circo postcoloniale
Il paradigma epistemologico ed estetico del circo, sineddoticamente presenti nel cortile della scuola, è un supplemento interessante e
“pericoloso” per entrambi i paradigmi di organizzazione epistemologica e sociale inculcati dallo Stato attraverso i suoi sistemi educativi
e di intrattenimento (Derrida, 1976, pp. 141-64). Il circo, inteso come
una serie di esibizioni senza una struttura gerarchica o narrativa, ma
ognuna con una genealogia propria, propone alternative interessanti
all’esclusionismo perpetrato dalle politiche di partito, dalla geografia e
dalla storiografia nazionalista, e dalle dicotomie di realizzazione del sé
e dell’altro che continuano a perpetrare il fallocentrismo delle politiche
del potere (Trinh, 1997, p. 417). Visivamente, il tendone del circo nel
film assomiglia ad un morbido e luminoso disco volante appoggiato
delicatamente a terra sotto la luna piena. All’interno di questo spazio
itinerante, effimero, ed inclusivo, gli spettacoli sono interconnessi tra
loro attraverso molti processi: tra questi, il modo in cui gli spettacoli stessi si susseguono, la collaborazione e la convivenza degli artisti
transnazionali in una comunità la cui personalità collettiva emerge e si
adatta ai tempi e ai luoghi in cui essi si esibiscono, senza dimenticare i
diversi modi in cui ogni spettatore interseca la sequenza non-narrativa
degli spettacoli con l’angolo di visuale personale, a seconda della propria posizione nel circo. In che modo questa comunità non è, in realtà,
specchio delle comunità di spettatori per i quali si esibisce? In altre
270
parole, il circo viene relegato nella sfera del carnevalesco o dell’extraterrestre proprio perché rappresenta i meccanismi di differenza generativi, originari e privi di dicotomie, della creazione di una comunità,
un’immagine che minaccia l’egemonia dei rapporti di potere dominanti? Sul tema delle identità e delle relazioni di potere, la regista e
teorica del postcolonialismo Trinh Minh-ha ha scritto:
To raise the question of identity is to reopen the discussion
on the self/other relationship in its enactment of power relations… In such a concept the other is almost unavoidably
either opposed to the self or submitted to the self’s dominance.
It is always condemned to remain in its shadow while making
attempts at being its equal. (1997, p. 415)
[Sollevare la questione dell’identità significa riaprire la
discussione sul rapporto tra l’io e l’altro nella sua messa in
atto delle relazioni di potere… In questa concezione l’altro
è quasi inevitabilmente in opposizione all’io o sottoposto al
dominio dell’io. È sempre condannato a rimanere nella sua
ombra, mentre cerca di essere suo pari.]
Il bordello, situato tra la scuola e il circo, offre una versione “sicura” e mercificata del paradigma del circo, suggerendo che persiste
il desiderio di intrattenere ulteriori rapporti sociali polimorfi, anche
se la realizzazione di tale desiderio è possibile solo in modo molto
circoscritto e solo per maschi adulti (quasi tutti i maschi adulti nella
comunità frequentano il bordello di Tito, senza distinzione di credo
politico), e alle spese sia delle lavoratrici del sesso che delle mogli. Il
bordello è paragonabile quasi a una droga, o forse a un servizio pubblico, mantenendo (per gli uomini) un accesso sicuro a soggettività e
interazioni non-egemoniche che sono, tuttavia, sempre già ristabilite
all’interno dell’economia capitalista, patriarcale, e coloniale sia del
denaro che del desiderio che garantirà loro questo accesso. Cosa è
necessario fare per uscire da questo circuito chiuso e compiere il percorso dal bordello al circo?
Con l’arrivo del circo in città, le figure autoritarie iniziano a incontrare difficoltà, così come le incontra la narrazione lineare. I personaggi, e le narrazioni di cui credono di fare parte, iniziano ad intersecarsi,
a prescindere da quali siano, per il momento, in primo piano. Anche
Tito, che sembra ricoprire tutti i ruoli in quanto musicista, macellaio,
comunista, capitalista, compagno, e adultero, viene colto alla sprovvi-
271
sta quando tenta di palpeggiare Ombretta, apostrofandola in accordo
con i suoi due ruoli (macellaio e proprietario del bordello) come un “bel
pezzo di carne”. Con una potente ginocchiata all’inguine e uno schiaffo
dato con una fetta di carne, l’ombra della femmina subalterna rimasta
fino ad ora inosservata relega l’uomo nell’ombra extra-diegetica.
Anche il padre di Luna/Ombretta scompare, e non senza pathos.
Confortato dell’affetto di sua figlia (Ombretta), il Signor di Capua
riacquista il suo brio napoletano, avventurandosi fuori dall’appartamento per celebrare il suo trionfo artistico nel circo con una visita al bordello. Ombretta, nel frattempo, è riuscita ad istruire Angelo
nell’arte della seduzione reciproca. La riconciliazione tra padre e figlia
è insostenibile, come suggerito da questa asimmetria nella loro vita
sessuale. Il desiderio di Ombretta è incompatibile tanto con il machismo del Signor di Capua quanto lo è con il fascismo dei suoi datori
di lavoro. Inoltre, se, come sostiene Pasquale Verdicchio, l’“unificazione” d’Italia è in realtà un alibi creato dal Nord per la conquista e la
colonizzazione del Sud (1997a, pp. 1-2, 21-51), la posizione anelata
dal Signor di Capua è di per sé una posizione da soggetto colonizzato.
In realtà, il macho del Sud si trova a suo agio all’interno del fascismo
del Nord, come dimostrato dal successo elettorale del partito di Fini
nel meridione. Ma Ombretta, l’ombra, si è fatta strada da sola, perché ha abbandonato il sistema gerarchico di creazione dell’identità
che la metteva in secondo piano rispetto a Luna, e che rendeva Luna
subordinata agli uomini nella sua vita. Durante una delle esibizioni
di Ombretta e Angelo, l’ombra di papà entra improvvisamente nel
tendone da circo, si avvicina e abbraccia Ombretta, e sale verso l’alto, facendo un cenno d’addio con la mano. Nel frattempo al bordello
scoppia il pandemonio, mentre la cinepresa mostra il corpo immobile
del Signor di Capua, seduto in una vasca da bagno, ridotto al silenzio da un infarto, con un grande sorriso sul volto. Lo statico cliché
del machismo napoletano non può resistere al flusso di desideri, il
riconoscimento del piacere altrui e il piacere stesso di esserne parte
del Signor di Capua, nonostante il carattere stereotipato delle sue performance. La sua trans-figurazione – la sua capacità di attraversare
le diverse inquadrature – gli permette di unirsi ad altre figure che
potrebbero entrare o uscire in qualsiasi momento, ma non gli permette più di dominare Luna. Sulla scia della sua dipartita, la frattura tra
Luna e Ombretta inizia a sanarsi.
272
Eclissi di luna
Dove, quando, e chi siamo noi, chiede Sakai, dopo aver messo in
evidenza che termini deitticamente spazio-temporali come “occidentale” e “moderno” sono artefatti del colonialismo? (2006, p. 166).
La doppia messa in scena della morte del Signor di Capua, avvenuta
sia nel bordello che nel circo, mette in luce questa questione spinosa
che ha ossessionato la teoria postcoloniale, decostruttiva, queer, e di
frontiera, da un punto di vista sia concettuale che affettivo. Il momento culminante del film e il suo epilogo affrontano la questione di ciò
che succede ai soggetti secondari – subordinati, soggiogati, occlusi,
colonizzati – in assenza dei termini principali – il padre, il centro, il
logos, il fallo, l’Occidente, il moderno, la metropoli, la nazione. In
una sequenza speculare, il film ritorna all’enigma posto dal passaggio
dallo stadio secondario a quello primario (Luna/l’una) e al modo di
immaginare l’“altro” (l’altra/l’al tra) di questo “io”.
In una scena coreograficamente complessa tra Luna e Ombretta
che segue la morte/trans-figurazione del Signor di Capua, lo status
ontologico relativo del mondo delle ombre e di ciò che consideriamo il mondo empirico, materiale e fenomenologico è prima ribaltato, e poi reso irrilevante – non è il nodo della questione, dopotutto. Un’inquadratura d’ambientazione delle due figure nel camerino
di Ombretta al circo inquadra Luna (apparentemente) in piedi sulla
destra, rispetto alla sua doppelganger, Ombretta, seduta sulla sinistra.
Ombretta si riflette nel suo specchio da tavolo. Tuttavia, mentre Luna
si avvicina a Ombretta, le loro posizioni apparenti sono ribaltate. Lo
schermo intero, in effetti, si rivela essere uno specchio (o immagine
speculare), quando la figura di Luna viene improvvisamente eclissata dal suo stesso procedere all’interno della stanza in direzione di
Ombretta. Ciò che la doppia immagine di Ombretta rivela ora è che la
cornice nella cornice (lo specchio nello specchio) ha creato l’illusione
ottica di primo piano e sfondo, centro e margine, immagine speculare
e corpo materiale. In altre parole, i bordi, o margini, creano l’immagine in modo così fondamentale quanto l’immagine stessa determina
i bordi/margini. Gilles Deleuze, scrivendo a proposito di una nuova
generazione di immagini cinematografiche e il desiderio che è all’origine della loro creazione, allude al loro evolversi su un piano immaginario piuttosto che fenomenologico:
273
[W]e no longer know what is imaginary or real, physical or
mental… not because they are confused, but because we do
not have to know and there is no longer even a place from
which to ask. It is as if the real and the imaginary were running
after each other, as if each was being reflected in the other,
around a point of indiscernability. (1989, p. 7)
[non sappiamo più cosa sia reale o immaginario, fisico o
mentale… non perché siano confusi, ma perché non abbiamo
necessità di sapere, e non c’è più nemmeno un punto da cui
partire per interrogarsi. È come se il reale e l’immaginario si
rincorressero, come se l’uno si riflettesse nell’altro, intorno a
un fulcro di indistinguibilità].
Tuttavia, non tutti condividono l’entusiasmo di Deleuze per l’abolizione della distinzione tra il reale e l’immaginario, e tale realizzazione su carta o su film risolve le questioni create dai rapporti di forza
in gioco.
Panico epistemico
Prendo a prestito il termine “panico” nel senso elaborato da Eve
Sedgwick nella sua discussione del “panico omosessuale” in Epistemology of the Closet. Sedgwick descrive una reazione difensiva
ad una “crisi di definizione del sesso maschile” attraversata da un
individuo incerto sulla propria identità sessuale. È l’intero sistema,
però, che permette l’esistenza di questo panico “individuale” negando la possibilità di trovare identità nell’incertezza, un’incertezza che
può essere scatenata con la stessa facilità dall’interazione tanto con
le donne quanto con gli uomini, come sottolinea Sedgwick (1990, p.
20; 177 e 198). Per analogia, è più probabile che siano quelle identità
maggiormente basate su (e approvate da) un’epistemologia nazionalista/colonialista a reagire in difesa delle molteplici crisi d’identità
sofferte quando gli “altri” (usati come parametri per definire se stessi)
varcano la soglia, quando gli “stranieri” diventano residenti o addirittura cittadini. «Quando c’era “lui”» (Mussolini), farfuglia il preside
della scuola di Luna, «i cammelli restavano in Africa».
L’esibizione di Luna/Ombretta e Angelo al circo, alla fine del
film, affronta questo panico per mezzo di una refigurazione di corpi e
ombre. Nelle esibizioni precedenti, Ombretta cambiava forma dietro
274
un telo, mentre Angelo si esibiva davanti a esso. Ma Luna/Ombretta
e Angelo appaiono insieme, prima come ombre dietro il telo, e poi,
mentre avanzano per inchinarsi, come figure tridimensionali reali, a
colori. Il loro “emergere dalle tenebre”, un tropo familiare utilizzato
per il riconoscimento dei soggetti subalterni e clandestini, è, tuttavia,
rapidamente reso ironico dalle azioni buffe di due altre figure, un nuovo paio di ombre, che si intrufolano sul palco che Luna/Ombretta e
Angelo hanno appena lasciato, per mandare saluti e inchinarsi davanti ad un pubblico implicito in un altro spazio, tangente allo spazio
dell’azione reale. Quando infine le due coppie analoghe si riconoscono l’un l’altra attraverso il confine ora poroso creato dal telo, trasformano la gerarchia tradizionale dei corpi e delle ombre.
Figura 1
275
Terra di nessuno
Trinh Minh-ha scrive che «Interdependency… consists of creating a
round that belongs to no one, not even to the creator» [l’interdipendenza… consiste nella creazione di un terreno che non appartiene a
nessuno, nemmeno al Creatore] (1997, p. 418). Lo spostamento da
una a due coppie al termine di Luna e l’altra è sorprendente tanto
quanto l’apparizione della testa del cammello nella finestra della
camera da letto ha creato un terremoto cinematografico. Il film mette in scena, attraverso immagini miracolosamente efficaci e senza
pretese, l’effetto creato dal desiderio di rimozione dei termini e dei
principi di dominazione, o dalla rimozione del desiderio per questi
ultimi. Non solo non scompaiono gli spazi che possono essere accessibili attraverso l’attenta decostruzione delle dicotomie, ma questi
spazi addirittura proliferano. La descrizione “postcoloniale” fatta da
Sakai e Solomon della stessa situazione che induce il panico epistemico dall’interno del sapere “occidentale” rivela che la conoscenza
aumenta come conseguenza del voler «[to] replace the sovereignty
of bodies of knowledge with the sociality of knowledgeable bodies»
[sostituire la sovranità della conoscenza con la socialità della conoscenza] (2006, p. 18). Queste interazioni non riguardano solo le possibilità interpersonali polimorfe, ma anche imprevedibili possibilità
interconcettuali (Waller, 2005). Fra i sistemi concettuali, se non sono
immaginati come “culture” omogenee chiuse su se stesse, può crearsi
uno spazio di eterogeneità che permette la creazione di una comunità,
perché non appartiene a nessuno.
Due fermo-immagine alla fine del film emergono come tropi narrativi per la precarietà degli spazi euclidei, le inquadrature del proscenio, e le temporalità lineari di politiche, storiografie, geografie
nazionali di esclusione. In primo luogo la coppia tridimensionale
viene congelata, oscurata, e le si sovrappongono i titoli di coda. Un
momento dopo, la coppia ‘ombra’ segue la prima coppia attraverso il
fermo immagine, verso l’oscurità – la stessa fertile oscurità, come ho
spiegato altrove, verso cui Fellini indirizza i suoi circensi alla fine di
8 ½ (Waller, 2011). Creato grazie alla ripetizione di un singolo fotogramma - in termini temporali 1/24 di secondo – tante volte quante
sono necessarie per raggiungere la durata desiderata della sequenza,
il fermo-immagine dilata l’immagine di una frazione di secondo per
diventare esso stesso la cornice del continuum temporale da cui è sta-
276
to ricavato. Mette in scena il potenziale che ogni frazione di secondo
possiede, in ogni dimensione concettuale (letterale, figurale, fisica,
mentale), di assumere questo potere di focalizzazione, e viceversa, ne
sottolinea la precarietà.
Nichetti generalizza il potenziale epistemico, estetico ed affettivo
di questo “segreto,” giocando sulla teoria e la pratica dialettica del
montaggio elaborate dai suoi rivoluzionari predecessori russi, Sergei
Eisenstein, Lev Kuleshov, e altri (da cui la presenza del mago russo
con la lanterna magica). Per i primi cineasti sovietici, la potenza del
montaggio aveva a che fare con lo spostamento degli spettatori da
un piano di lettura delle immagini letterale e referenziale a un piano
concettuale in cui nuove forme di pensiero e percezione potessero
prendere forma (Eisenstein, 1977, p. 238). Ma l’obiettivo di questo
salto nella “montage understanding” [comprensione del montaggio]
come Eisenstein scrive nel suo influente saggio Dickens, Griffith, and
the Film Today, è quello di creare un nuovo realismo, che comporta
la proiezione di una nuova unità globale. Il montaggio cinematografico, il cui scopo era estendersi sinesteticamente attraverso tutti «elements, parts, and details of film-work» [gli elementi, le parti e dettagli dell’opera cinematografica] dovrebbe adoperarsi per creare «an
organic embodiment of a single idea or conception» [l’incarnazione
organica di una sola idea o concetto] (p. 255). L’ immagine a schermo
intero si trasforma in una nuova “unità”. Con il raddoppiamento e il
sequenziamento dei fermo-immagine, Nichetti rifiuta l’unità, anche
una versione dialettica di unità, come obiettivo. Nessun fermo-immagine inquadra l’altro; è lo spazio di interazione tra le inquadrature che
emerge come originario, permettendo al telo traslucido di servire da
punto di connessione piuttosto che linea di esclusione tra le figure e le
loro ombre. Il passaggio da una coppia a due consente a entrambe le
coppie non di unirsi, ma di separarsi, e dà modo a ciascuna di creare
spazio per ulteriori “altri” (il cast e la troupe, in questo caso). Sovrapposti contingentemente in entrambi gli spazi e tempi, i fermo-immagine creano un ulteriore, e più efficace ancora, “lo spazio intermedio”.
277
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Filmography
8 ½, 1963. [film] Directed by F. Fellini. Italy: Cineriz.
Ratataplan, 1979. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides Cinematografica.
Ho fatto Splash, 1980. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides
Cinematografica.
Domani si balla, 1982. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Vides
Cinematografica.
Ladri di saponette, 1989. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Bambú Cinema e TV.
Stefano quante storie, 1993. [film] Directed by M. Nichetti. Italy:
Bambú Cinema e TV.
Luna e l’altra, l996. [film] Directed by M. Nichetti. Italy: Bambú
Cinema e TV.
La grande illusion, 1937. [film] Directed by J. Renoir. France: RAC.
Zéro de conduite, 1933. [film] Directed by J. Vigo. France: Franfilmdis.
280
281
Vito Zagarrio
Il neorealismo prima del neorealismo
Continuità o rottura?
Continuità o rottura? Questo è il dilemma che si pone spesso nella storiografia italiana. Continuità o rottura tra Italia liberale e Fascismo?
Continuità o rottura tra regime fascista e “regime” democristiano? Fu
il Fascismo una “rivoluzione”, come proclamavano i quadrunviri, o
una “rivelazione”, come sosteneva Giustino Fortunato, la rivelazione
di conflitti che esistevano già nell’Italia pre-fascista?
Mi sembra ovvio, dunque, porre il problema continuità/rottura anche in ambito politico-culturale, specie in un terreno delicato
come l’analisi filmica. E vorrei capire in questo saggio quali siano
le eredità che il cosiddetto “Neorealismo” si porta dietro dal cinema
“fascista”, quali le radici che affondano nel cinema degli anni trenta
e dei primi quaranta. Gli elementi di “rottura” e di “rivoluzione” nel
fenomeno neorealista sono ovvi e ampiamente enfatizzati: la rappresentazione dei ceti meno abbienti, la fotografia del malessere sociale,
la “presa diretta” (non in senso tecnico) sulla “realtà”, l’uscita fuori
dai teatri di prosa, l’uso di attori non protagonisti, il “pedinamento” dell’uomo qualunque, del vicino di casa, il collante antifascista,
l’esaltazione della Resistenza. Ma quali sono gli elementi di “continuità” e di “conservazione”? Quanto l’“interventismo della cultura”
fascista applicato al cinema ha influito sulla nascita dei quadri del
futuro “neorealismo”?
Sul tema della continuità tra Fascismo e Neorealismo vale la pena,
ormai nel nuovo secolo, di fare una seria riflessione: se historia non
facit saltus, si deve ammettere che la – pur contraddittoria – politica
statale e industriale del fascismo ha contribuito, inconsapevolmente,
a produrre professionalità, personalità, strumenti tecnologici e lingui-
282
stici, motivazioni e retroterra teorici di fondo che saranno indispensabili alla generazione che balzerà agli onori delle cronache col Neorealismo. È anche grazie all’idea del cinema come “arma più forte”
(secondo lo slogan di Mussolini mutuato da Lenin), agli investimenti
sull’industria da parte dello Stato, ai confronti con industrie straniere
cardine come quella statunitense, quella sovietica e quella tedesca,
alla creazione di Enti e di apparati, alla fondazione di Cinecittà, del
Centro Sperimentale di Cinematografia, della Mostra di Venezia, alla
formazione di talents, vale a dire di quadri tecnici, di maestranze specializzate (non solo registi ma direttori di fotografia, montatori, scenografi, ecc.) che i vari Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis, Antonioni, Fellini, Lattuada troveranno un terreno fertile alle loro nuove
elaborazioni ideologiche e stilistiche.
I registi “neorealisti” imparano il mestiere e plasmato la propria
personalità autoriale proprio “sotto”, o “durante”, o “nonostante”, il
regime fascista. E con loro centinaia di elettricisti, macchinisti, operai
specializzati in costruzioni per il cinema, maestranze che formano il
loro talento proprio nella “cinecittà” italiana di questo periodo.
La generazione dei redenti
A volte la “continuità” viene scambiata per “opportunismo”. È il caso
di un libro, con le cui tesi non concordo ma che ha avuto un certo successo in Italia: I redenti di Mirella Serri1. I “redenti” sono gli
intellettuali degli anni trenta-quaranta che vissero una “doppia vita”:
una prima volta sotto e con il fascismo, una seconda nel dopoguerra
sotto e con l’egemonia della sinistra. Ebbene, il libro inserisce tra
gli intellettuali “che vissero due volte”, tra gli artisti che si inserirono nel processo di continuità e di redenzione, Roberto Rossellini.
Un regista, come la storia del cinema sa da sempre, la cui nascita
artistica non deve essere datata al convenzionale 1945 di Roma città aperta, alla “trilogia della guerra” neorealista (Roma città aperta,
Paisà, Germania anno zero), ma deve essere retrodatata, oltre che ai
primi esperimenti, alla “trilogia della guerra” fascista: La nave bianca, Un pilota ritorna, L’uomo dalla croce. La Serri sembra colpita
1 Cfr. Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948,
Milano, Corbaccio, 2005.
283
dall’ambiguità rosselliniana: i tre film trattano, strategicamente, di tre
“armi” della guerra fascista - la marina, l’aviazione e la fanteria -, a
Un pilota ritorna collabora nientemeno che Vittorio Mussolini, figlio
del Duce, e L’uomo della croce si distingue per il suo anticomunismo.
Come può Rossellini, nel giro di due anni, raccontare la storia di un
prete anticomunista (il protagonista de L’uomo della croce, 1943) e
poi la storia di un prete antifascista e filocomuista (il Don PietroAldo Fabrizi di Roma cità aperta, 1945?). Il capitolo della Serri su
Rossellini si conclude con una battuta (che dà poi il titolo all’intero
paragrafo): Dall’Odeon all’Odeon. Al cinema Odeon era stato proiettato L’uomo dalla croce, nella sala dell’Odeon viene proiettato, non
molti mesi dopo, Roma città aperta. «Il grande artista – nota la Serri
– seppe cogliere la realtà politica, come rilevò, un po’ maliziosamente, l’amico Amidei dopo la sua morte: “Era in fondo un realista che
sapeva stare nella realtà politica”. Dall’Odeon all’Odeon, il passo era
stato breve»2. Con Amidei, sorride e ammicca maliziosamente anche
l’autrice. E il termine scherzoso di “realista” dell’amico sceneggiatore (aggettivo che aprirebbe peraltro infinite querelles) suona come
“cinico” e “opportunista”.
È una contraddizione, certo, ma che non sta in un ventilato opportunismo di Rossellini (che pure era uomo “tattico” e intelligente venditore di se stesso: si vedano l’abilità e il tempismo nel costruire
Open City e l’operazione internazionale di Paisà), ma in una magmatica situazione storica e in una più sottile ambiguità dell’arte. È vero
che Rossellini deve essere visto in direzione di una continuità: ma la
continuità non è quella tra il regista “fascista” e il regista “antifascista”, che risulterebbe banale e sin troppo semplice; è invece quella
“poetica” ed estetica, che permette di non porre soluzioni di continuità tra un “primo” Rossellini resistenziale, un secondo esistenziale
(il periodo legato a Ingrid Bergman), un terzo televisivo, ecc. Quello
che interessa a Rossellini è un percorso coerente di ricerca interiore,
di indagine sull’anima, di coniugazione del reale col trascendentale.
Una re-visione (in questo caso la parola è adattissima) del cinema
rosselliniano permette di non appiattirlo sull’ideologia, vuoi quella
antifascista, vuoi quella cristiana. Gli studi più recenti dimostrano
che la trilogia della guerra resistenziale deve essere riletta, invece
che come cinema di denuncia o peggio come “stile documentario”
2 Mirella Serri, op. cit., p. 233.
284
(questa è una vulgata del neorealismo), come dramma universale,
complessa operazione simbolica, strategia estetica e spirituale complessa3. Come non c’è tanta differenza tra il Rossellini di Germania
anno zero e quello di Europa 51, così non c’è tanta differenza tra
L’uomo della croce e Roma città aperta. Nei film “fascisti” e bellici
come in quelli antifascisti e antibellici c’è la stessa tensione ascetica,
c’è l’attenzione alla Storia da un lato, e alle storie individuali dall’altro. La nave bianca è sì un film sulla marina italiana, ma guardata
dal punto di vista di chi soffre (protagonista è una nave ospedale, la
nave “bianca”, appunto); Un pilota ritorna è sì un film sull’aviazione, persino con l’uso di certi codici del film di guerra americano, ma
il suo nucleo è la guerra dalla parte delle vittime, non certo da quello
degli eroi: nonostante, infatti, l’impresa del protagonista che, prigioniero, ruba un aereo al nemico a ritorna in patria, il nucleo del film è
un viaggio insieme alla popolazione avversaria in guerra ma vicina
nell’umanità e nella sofferenza. Non appaiono, in questa prospettiva,
tanto differenti i due preti del ’43 e del ’45, uniti dallo steso anelito
spirituale – seppur ideologizzato.
Certo che l’esperienza sul set del Rossellini “fascista” non può
non aver formato il regista che si troverà già pronto all’indomani della liberazione per l’impresa di Roma città aperta.
Stesse considerazioni si possono fare per quanto riguarda la collaborazione di Rossellini con De Robertis, che la Serri pare vedere nel
senso di un coinvolgimento militaresco: da anni proprio Uomini sul
fondo di De Robertis, pur voluto dal Ministero della marina, è considerato un precursore del neorealismo, ed anzi – in tempi più recenti
– un esempio di possibile lettura non stereotipa del neorealismo stesso4. Quale sarebbe allora il giudizio della Serri su Blasetti, “regista
con gli stivali” del fascismo (Vecchia guardia) e poi precursore del
neorealismo (Quattro passi tra le nuvole), uomo di regime e pacifista
(le due anime convivono ne La corona di ferro), prima fascista e poi
3 Si veda Stefania Parigi (a cura di), Paisà, Venezia, Marsilio, 2005. Mi permetto
di rimandare in particolare al mio saggio, contenuto in quel volume, Uscire dal
tunnel. Il quarto episodio, p. 85.
4 Cfr. Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano Venezia, Marsilio, 1976 e AA.VV. Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943,
Ancona, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1977. Per una rilettura meno
stereotipa, devo rimandare ancora a mio saggio: Bassifondi. Appunti su due film
“fascisti” di De Robertis, in Aa.Vv., In fondo al mare…Il cinema di Francesco
De Robertis, Bari, Edizioni del Sud, 1996.
285
antifascista socialisteggiante? È anche lui, a modo suo, un “redento”, o comunque un “assolto” dalla “fonte battesimale” comunista
(si sa che Blasetti era stimato proprio dai De Santis, dagli Ingrao, dai
Visconti)?
Ho voluto chiarire la mia posizione, perché è facile essere fraintesi
quando si parla di una continuità tra Fascismo e dopoguerra. Sono
molto distante dal dilagante “revisionismo” che tende a rivalutare il
regime mussoliniano nelle sue varie componenti (cultura, società,
mass media) e porta inevitabilmente a rivedere anche la Resistenza. È
il caso, ad esempio dei best sellers di Giampaolo Pansa, ex giornalista
di «la Repubblica» e «L’Espresso», che negli ultimi anni si è dedicato
a una – a mio avviso maniacale – rilettura della Resistenza, scoprendo
i lati oscuri e meno gloriosi5: Il sangue dei vinti, in particolare, e Sconosciuto 1945 cavalcano l’ipotesi di una guerra civile dove tutti sono
colpevoli e dove i partigiani non sono più gli “eroi” della tradizionale
retorica postbellica; e si inseriscono comunque in un filone di revisionismo politico in cui si propone che i “partigiani” debbano essere
equiparati, nella memoria e nel giudizio storico, ai “repubblichini”,
morti anch’essi in nome di un “ideale”. Questo dibattito interessa da
vicino anche il cinema: Il sangue dei vinti è diventato un film, per la
regia di Michele Soavi (specialista in film di genere); dal filone-Pansa
viene anche Miracle at Sant’Anna di Spike Lee, film hollywoodiano
girato in Toscana e sponsorizzato dalla locale Film Commission, che
ha destato enormi polemiche proprio per la sua provocatoria proposta
di una Resistenza non tutta luminosa ed anzi, a volte, colpevole o
complice delle stragi naziste.
Quello che mi interessa, invece, è individuare gli elementi di continuità sul terreno della forma, del linguaggio, della grammatica filmica, della messa in scena, della rappresentazione della realtà. E in questo senso gli elementi di somiglianza, o le “tracce di Neorealismo” nel
cinema anni trenta-quaranta sono sorprendenti.
5 Cfr. I figli dell’Aquila, Milano, Sperling & Kupfer, 2002; Il sangue dei vinti,
Milano, Sperling & Kupfer, 2003; Prigionieri del silenzio, Milano, Sperling &
Kupfer, 2004; Sconosciuto 1945, Milano, Sperling & Kupfer, 2005; La grande
bugia, Milano, Sperling & Kupfer, 2006; I gendarmi della memoria, Milano,
Sperling & Kupfer, 2007; I tre inverni della paura, Milano, Rizzoli, 2008; Il
revisionista, Milano, Rizzoli, 2009.
286
La “scoperta” della continuità
Questa rilettura del cinema “fascista”, o più correttamente prodotto durante il Fascismo, è cominciata alla metà degli anni settanta,
nell’ambito di una più profonda riflessione storiografica. La riscoperta del fascismo come “regime reazionario di massa” consente in
quel periodo di mettere a fuoco gli anni trenta come nodo centrale
dello sviluppo della storia italiana - e spinge il taglio dell’analisi da
una parte verso gli “strumenti” concepiti dal fascismo in funzione del
consenso, e dell’altra verso i “contenuti” veicolati attraverso i vari
mezzi di comunicazione di massa. Asor Rosa lancia uno slogan fortunato, quello del fascismo come “totalitarismo imperfetto”6, cioè di
un regime compatto e ben direzionato in funzione del “consenso”, ma
che per far questo paga nei confronti delle aree intellettuali, lasciando
ampi spazi di autonomia e, quindi, di potenziale dissenso. Il totalitarismo italiano è «imperfetto» perché risulta, alla fine, un ampio calderone che ospita le tendenze più disperate e in apparenza opposte:
basta vedere il dibattito sulla cultura e le polemiche tra Farinacci e
Bottai sull’ “arte fascista”, ma è interessante anche la doppia strategia
verso il cinema (costruire un cinema di Stato, come vorrebbe Freddi,
o favorire gli industriali, come farà Afieri). Si accentua così l’interesse
per la politica culturale del fascismo, come momento essenziale per la
comprensione dell’impatto del regime non solo sugli intellettuali ma
sulla popolazione nel suo complesso, si punta l’indice sull’organizzazione dell’adesione a livello di massa, sulla “fabbrica del consenso”7.
Risulta subito chiaro, da tutta una serie di riflessioni che si fanno
in quel periodo, che di certo è il cinema lo strumento di indagine più
importante per investigare sulle strutture economico-politiche e sulle
componenti socio-culturali dell’Italia fascista, perché rappresenta il
mezzo di organizzazione e di diffusione della propaganda dal ruolo
più nuovo e dalla portata più ampia. Il cinema diventa così, alla metà
dei settanta, il baricentro di una ondata di studi che si trova inesorabilmente coinvolta nell’annosa polemica sulla continuazione tra pre
e post-fascismo.
6 Cfr. Alberto Asor Rosa, Storia d’Italia Einaudi, vol. IV, Dall’Unità ad oggi, 2, La
cultura, Torino, Einaudi, 1975, p. 1502.
7 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, con una
prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, 1975.
287
La verifica è nel dibattito che avviene nell’ambito della Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, momento cruciale di
svolta nella riflessione sulla storia del cinema italiano: un convegno
del 1974 (passato alla storia per il calibro dei personaggi intervenuti)
affronta il nodo storico e ancora irrisolto del Neorealismo.8 Ne discute
gli stereotipi, ne affronta, ormai finite le letture meramente ideologiche dell’immediato dopoguerra, le dinamiche autoriali e gli stili.
E finisce, inevitabilmente, col fare i conti con il cinema precedente.
Non solo quello definito, con una semplificazione, “pre-neorealista” (
i tre “casi” famosi sono i film del ’42/’43 Quattro passi tra le nuvole
di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti, più gli antesignani Sole e 1860 – ancora Blasetti –); ma anche il
cinema degli anni trenta in generale, verso cui il Neorealismo non può
non guardare indietro.
È così che, per un naturale procedere del dibattito, nel settembre
1975 il festival di Pesaro affronta il cinema fascista mettendo attorno
a una tavola rotonda gli storici del cinema e gli storici puri, coniugando l’analisi testuale dei film con l’indagine storiografica attenta
alla politica culturale fascista9. Naturalmente c’è anche un pubblico
di movie buff che vanno in delirio per le proiezioni dei film degli
anni trenta. I film “fascisti” vengono visti per la prima volta da più
di una generazione, si scopre che molti di questi prodotti non sono
poi così fascisti, e i più giovani applaudono a dive e storie sino ad
allora etichettati sotto il “periodo dei telefoni bianchi”, a film rimossi
o addirittura giudicati senza mai essere stati visti, per il solo fatto di
essere stati fatti durante il regime.
Vasto il ventaglio di posizioni, e accanite le dispute ideologiche
che coinvolgono i partecipanti alle visioni pesaresi,10 anche perché
si percepisce che la riscoperta del cinema “fascista” si inserisce nello sfondo di una più ampia reinterpretazione dei momenti fondanti
del cinema nazionale, e che va inevitabilmente a modificare i giudizi
assodati sul Neorealismo, il quale appare sempre più legato a filo doppio ai suoi antecedenti prebellici.
8 Cfr. Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio,
1976.
9 Materiali sul cinema italiano 1929-43: Blasetti, Camerini, Poggioli, Pesaro,
undicesima mostra internazionale del nuovo cinema, 1975.
10 Cfr. Steve Ricci, Cinema & Fascism, Los Angels, University of California Press,
2007.
288
Dal punto di vista dei “testi” filmici, la re-visione della kermesse
filmica di Pesaro porta alla identificazione di tre “autori”, e conseguentemente di tre linee estetiche, all’interno dell’industria cinematografica del ventennio: Blasetti, Camerini, Poggioli. Blasetti è un
inventore di Cinema, propugnatore della “Rinascita” del cinema italiano, assertore del realismo ma anche raffinato regista di commedie
sofisticate o vigoroso confezionatore di avventure, persino precursore
del “neorealismo”; Camerini è il regista di mestiere per antonomasia,
abile confezionatore delle storie piccolo borghesi di cui è eroe un attor
giovane che farà strada, Vittorio De Sica (il suo cinema sarà forse
funzionale al consenso più del cinema di propaganda vero e proprio,
come dice qualche critico, ma dimostra certo una grande padronanza
della messa in scena); Poggioli è il regista raffinato che preannuncia
le nuove stagioni autoriali del dopoguerra.
Nell’ottobre del ’76 il gotha critico italiano si ritrova a Pesaro a
dibattere sul cinema fascista, e continua la riscoperta di film mai visti,
letteralmente rimossi per trent’anni, che nel frattempo vengono riscoperti e restaurati dalla Cineteca Nazionale. Si studiano strutture narrative, topoi, figure femminili, rapporti edipici; si alternano la rilettura ideologica a quella semiotica. Un volume, edito per l’occasione,
pubblica materiali d’archivio, studia le riviste specializzate in cinema
e non, la presenza del film nei quotidiani, o nei fogli dei Guf. Salta
dunque una sorta di tappo storico e psicologico, e da ora in poi si può
vedere il cinema “fascista” senza reticenze e con, in più, il gusto della
scoperta. In questa prospettiva, si cominciano a ricercare le derivazioni mitiche, i “modelli” sottesi dal nuovo “immaginario” fascista.
E i grandi modelli di riferimento non possono che essere Hollywood
e il cinema sovietico. Su una analisi dell’influenza del cinema americano punta ad esempio uno studio di Sergio G. Germani11, la cui tesi
è che dei due miti – l’americano e il sovietico – il secondo resti solo
teorico e che il cinema italiano sia “cinema americano minore”: «si
ha un’indiretta delega al cinema americano a coprire il settore del
divertimento popolare. L’affermazione fatta nel dopoguerra da Solaroli sul “cinema americano come il vero cinema fascista”, se spogliata delle sue implicazioni moralistiche, può aiutarci ad avanzare
[…] un’ipotesi […] quella cioè del cinema italiano come “cinema
11 Sergio Grmek Germani, Cinema italiano sotto il fascismo: proposta di periodizzazione, in Materiali sul cinema italiano…, cit.
289
americano minore”, come forse il più vicino internazionalmente al
cinema americano»12. Viene fuori l’idea di una “americanizzazione”
del cinema italiano, confermata dall’evoluzione dei generi (melodramma, commedia, film di guerra, film noir), che si formano negli
anni trenta e che costituiscono gran parte dei codici testuali del cinema postbellico: «Nel cinema italiano sotto il fascismo si fa difficoltà
a trovare un modello di “cinema fascista”, nel senso in cui si può
parlare di architettura fascista o di modello cinematografico nazista
nei film di Riefenstahl […]. Il cinema italiano sotto il fascismo è stato
innanzitutto un cinema capitalistico, su cui si sono innestati i caratteri
del fascismo» 13.
De Sica prima del Neorealismo
Questa “americanizzazione” del cinema anni trenta è fondamentale se
si vuole capire non solo la commedia di Mario Camerini, ma anche
De Sica, non solo attor giovane in Camerini ma anche regista di un
certo successo ben prima dell’esplosione neorealistica. Come si concilia l’autore “impegnato” di Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto
D. con con il metteur en scène leggero ed escapista di Rose scarlatte, Teresa Venerdì, Maddalena zero in condotta, Un garibaldino
al convento? Sarebbe facile sposare la teoria dei “redenti” o degli
“opportunisti”. È probabile che anche De Sica, come Rossellini, “fiuti
l’aria” nuova, da buon imprenditore di stesso. Ma è certo che ci sia
una faticosa maturazione, dovuta al procedere della guerra, della crisi
del fascismo, e accelerata magari grazie ad incontri eccellenti, come
quello con Cesare Zavattini, che il giovane De Sica ha incontrato sul
set di Darò un milione (di Camerini).
Quanto questi film di genere (di un regista e di un attore già specialista nel campo) sono debitori nei confronti del cinema hollywoodiano? Quanto essi sono “funzionali” al fascismo, o quanto sono
invece impermeabili se non escapisti rispetto all’ideologia del regime? La questione coinvolge tutta la commedia italiana degli anni
trenta, compresa quella cameriniana di cui è stato interprete proprio
il giovane De Sica. Rimando, in questo senso, alle riflessioni fatte a
12 Ivi, p. 339.
13 Ivi, p. 359.
290
suo tempo attraverso i convegni e i volumi del Festival di Pesaro14,
e in generale alla opposta interpretazione che ha visto la commedia
vuoi “fascista”, in quanto funzionale al “consenso”, vuoi “afascista”,
poichè indisponibile ad appiattirsi sulla retorica del regime e comunque lontana dai suoi provincialismi. La cosa che stupisce, semmai, è
la totale impermeabilità di trame, personaggi, gesti e situazioni alla
tragedia della guerra che incombe sull’Europa e sul mondo.
Comunque, la commedia diretta, oltre che interpretata in prima
persona (magari solo attraverso un cammeo) da De Sica sembra voler
aprire le atmosfere italiane alle arie internazionali (generi e sottogeneri hollywoodiani), e pare sposare gli elementi tradizionali della
commedia dello scambio (nella screwball comedy o nella commedia
degli equivoci) con momenti di comicità più surreale e bizzarra. Ed è
un genere che contiene inevitabilmente degli elementi di “realismo”
quotidiano: l’edicola del Signor Max, il negozio, il bar, il taxi, l’auto, i
cartelloni pubblicitari, la Fiera di Milano de Gli uomini che mascalzoni, ecc. non possono non fare i conti anche con una realtà, pur spesso
ricostruita in Teatro di posa. Una commedia cosciente, comunque, e
matura, che sta al passo con le tendenze internazionali più alte. Ma
anche una commedia che cede il passo, presto, al dramma.
È il caso de I bambini ci guardano, fosco melodramma familiare
che è stato giustamente giudicato un caso di forte rottura rispetto al
cinema di quegli anni. Era, ad esempio, un cavallo di battaglia di
Lino Miccichè, che metteva il film di De Sica in un trittico di film del
1942-43, insieme a Quattro passi tra le nuvole di Blasetti e Ossessione di Visconti, che possono essere considerati sicuramente preneorealisti 15.Ora, il dibattito storico è andato molto avanti e non credo
più all’interpretazione di questi tre capolavori come anticipatori del
neorealismo alle porte, se non mettendo in discussione l’intera nozione di “Neorealismo”: Ossessione è un fosco melodramma, un noir di
ispirazione letteraria, una crime story che ha solo alcuni elementi neorealisti (gli esterni, l’insistenza sul paesaggio, il Po); Quattro passi…
è una favola capriana, negata solo dalla nota parentesi di inizio e fine
14 Cfr. Mino Argentieri (a cura di), Risate di regime, La commedia italiana
1930-1944, Venezia, Marsilio, 1991; Andrea Martini (a cura di), La bella
forma, Venezia, Marsilio, 1992.
15 Vedi ancora Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico
italiano, cit.
291
film, in cui il commesso viaggiatore tocca con mano la dura realtà della vita. Forse I bambini ci guardano prefigura più chiaramente
le nuove atmosfere etiche ed estetiche; si possono cogliere già qui,
nella storia disperata del bambino protagonista, gli angosciati sguardi infantili di Ladri di biciclette e di Sciuscià, ma anche le tragedie
degli Edmund di Germania anno zero (Rossellini, 1948), dei vecchibambini alla Umberto D. La forte sequenza del treno che sta per travolgere Pricò, infatti, non può non ricordare il tentativo di suicidio
nel finale del film del ’52; mentre la morbosa curiosità delle vicine, la
descrizione del condominio e lo stesso sguardo angosciato del bambino rimandano in qualche modo a Bellissima (Visconti, 1951).
Rispetto a Ossessione e Quattro passi, poi, I bambini… è meno
legato a modelli letterari, a riferimenti musicali o a codici di genere, ed è più marcatamente “realista”; anche nella descrizione della
contemporaneità, nella scelta di alcuni esterni, nella ruvidezza del
trattamento del tema. Il tono, semmai (fotografico e drammaturgico),
assomiglia più ai melodrammi – anche “popolari” – degli anni cinquanta: si veda la scena-madre finale al collegio religioso, in cui il
figlio rifiuta di abbracciare la madre, in abito di lutto ma incapace di
agire un vero sentimento di solidarietà materna.
Ma lasciando da parte l’annosa questione di una appartenenza o
meno de I bambini al clima neorealista, di certo il film di De Sica (insieme anche a quelli di Visconti e di Blasetti) descrive un Paese angosciato, dove pesano ormai le ombre della guerra, dove esplodono le
contraddizioni familiari non più risolvibili nel contesto retorico della
società. Alla donna e sposa ideale del fascismo, alle mogli che donano le vere alla patria, Visconti risponde con una donna che tradisce il
marito e istiga l’amante ad ammazzarlo, Blasetti ci fa intuire il disamore del protagonista verso la compagna aspra e irascibile, verso i gesti
intollerabili della quotidianità; De Sica rappresenta un padre non “virile”, una moglie altrettanto debole ma capace di causare una tragedia,
un bambino che assiste all’adulterio e al suicidio. Una trama, come si
vede, lontanissima dai toni sorridenti di poco tempo prima. Il tradimento della madre viene descritto in maniera moderna, quasi capito se non
giustificato nella sua appassionata sincerità, ed anche l’amante non è il
cattivo seduttore di turno, ma un uomo che soffre davvero per amore.
I bambini ci guardano è un film duro, senza happy ending possibile, non riconciliante, che segnala una cesura forte rispetto al De
Sica precedente; forse per la presenza tra gli sceneggiatori di Cesare
292
Zavattini, che da questo momento accompagnerà a lungo la filmografia di De Sica, diventandone in qualche modo co-autore16. È un
film senza De Sica attore, quasi il regista avesse pudore a mettersi
in scena in questo nuovo clima rappresentativo. Ed è un film, infine,
che evidenzia una rottura anche dal punto di vista dello stile. Bella
registicamente, ad esempio, è la scena del sogno, durante il viaggio
in treno prima del provvisorio ritorno della madre. Bellissima la lunga sequenza della fuga di Pricò che, dopo aver sorpreso la madre
ad abbracciarsi con l’amante, fugge e tenta di raggiungere il padre a
Roma; prima rischia di essere travolto dal treno, poi fugge di notte
sulla spiaggia, seguito da un lungo carrello di cui forse si ricorderà
Truffaut ne I quattrocento colpi.
Insomma, si tratta certamente di un film duro, forte, un punto di
svolta nella storia del cinema italiano, anche al di là della possibile
prefigurazione del cinema postbellico; un film che dichiara che non
c’è più niente da ridere e che la commedia non risolve più, neanche
in modo metaforico, le angosce dell’oggi. «Qui c’è gente che non ha
nessuna voglia di ridere…», dice il controllore a un gruppo di attricette del teatro “Eldorado” all’inizio de La porta del cielo.
C’è infatti, ne I bambini, un distillato di dolore puro che si riversa
direttamente ne La porta del cielo, un prodotto a cavallo tra fascismo
e dopoguerra17, che si deve inserire in questa fase della maturazione
di De Sica prima della sua esplosione postbellica.
Il film è un interessante, seppur non riuscitissimo, tentativo di
mescolamento di elementi documentari con altri di pesante teatralità.
È la storia di un doloroso convoglio di malati che si recano al santuario
di Loreto per ottenere un “miracolo”. Una sorta di travel film, un film
di viaggio fisico e metaforico, in un’Italia addolorata e funerea, pur
nella prospettiva della speranza cristiana. A ogni stazione si aggiunge
un vagone, e si aggiunge un personaggio col suo fardello di storia.
La semplice struttura della sceneggiatura, infatti (firmata anche
qui da Zavattini insieme a Diego Fabbri), permette un incrocio di
16 Il film è tratto dal romanzo di Cesare Giulio Viola Pricò, e gli altri sceneggiatori
sono, oltre allo stesso Viola e a De Sica, Aldo Franci, Gherardo Gherardi, Margherita Maglione e Cesare Zavattini.
17 La premessa del cartello iniziale, infatti, ne dichiara l’appartenenza al periodo
della “liberazione”: «Durante la prigionia di Roma, lottando contro difficoltà di
ogni genere, uomini del cinematografo italiano realizzarono questo film sospinti
dal desiderio di servire, con l’arte, la fede cristiana».
293
quattro storie principali: un ragazzo paralitico che viene “adottato”
da una donna di buon cuore (Maria Mercader); una donna che va a
pregare perché non succeda un dramma familiare (un vedovo vuole
risposarsi, i figli lo accusano di “tradire” la memoria della madre,
ma si scopre che è stata invece la madre a tradire – sessualmente – il
padre; un tema ossessivo, come si vede, l’adulterio, di questa fase di
De Sica); un pianista che ha perso l’uso di una mano e che medita il
suicidio; un uomo che accompagna un ex amico di cui ha causato la
cecità. Gli episodi sono tutti raccontati in flash back, così che il treno
diventa una sorta di contenitore di memorie, e di sogni.
Le quattro storie si concluderanno con un – relativo – lieto fine: il
ragazzo paralitico fa amicizia con un anziano handicappato e ricostruisce una sorta di “nucleo familiare”; il cieco non riacquista la vista ma
l’amicizia del suo compagno; il pianista non guarisce ma abbandona
i suoi propositi suicidi (è questo il vero miracolo) e viene guardato
con amore da una bella infermiera. E c’è anche un miracolo vero (una
vecchia che riacquista l’uso delle gambe) attorno a cui si galvanizza
l’eccitazione delirante della folla: una scena che ricorda quella del
finale di Viaggio in Italia (Rossellini, 1954), con la coppia BergmanSanders che si abbraccia in mezzo alla massa di gente intervenuta alla
processione napoletana. Anche nel film di De Sica un dolly iper-cinematografico nega l’assunto pseudo-documentaristico della sequenza.
Oscillando tra prefigurazioni del futuro e citazioni del passato, segnalo un’altra sequenza, che sembra un voluto omaggio ad Acciaio di
Ruttmann (1933): è quella – in uno dei flash back – in cui i due amici
(Massimo Girotti e Carlo Ninchi) competono per una donna; lavorano
in una fabbrica di ghiaccio e i lingotti ghiacciati vengono maneggiati minacciosamente come le lunghe barre di acciaio fuso del film di
Ruttmann. Poi l’incidente provocato dal geloso Ninchi (il vapore che
esce violentemente da una valvola), in cui Girotti (fresco protagonista
di Ossessione) perde la vista.
Con La porta del cielo si conferma che c’è stato un cambiamento
di sguardo: pur in un impianto teatrale (si veda l’uso del trasparente per mostrare i paesaggi esterni dagli scompartimenti del treno),
emergono momenti di crudo realismo anche in certi esterni ferroviari;
la fotografia è tra dramma realista e film “nero”; e come ne I bambini…, la regia si esibisce in movimenti di macchina, in invenzioni
di messa in scena da autore ormai maturo. Prendo come esempio la
lunga sequenza notturna, in cui la mdp vaga per il treno, cercando di
294
cogliere i pensieri e i sogni nascosti dei vari protagonisti. E aggiungo,
più per motivi ideologici che per la messa in scena, una sequenza in
cui emerge il conflitto di classe: un treno di ricchi si accosta a questo
treno di poveri malati, e un signore che sta mangiando nella vettura
ristorante abbassa in modo cattivo la tendina del finestrino. È una
sequenza molto simile a quella, più celebre, di Riso amaro (De Santis, 1949), in cui la mdp panoramica dal vagone letto al campo delle
mondine in cui si accinge a ballare Silvana Mangano.
A questo proposito, è incredibile come da questo gruppo di film di
De Sica si possano cogliere indizi del cinema passato e futuro, dello
stesso regista o di altri cineasti della sua generazione. A dimostrazione che c’è in questa sua fase un crocevia di ispirazioni, di intuizioni,
di citazioni, di suggerimenti per opere future; un mèlange magmatico
di fonti e modelli, di generi e codici, di arte e merce che fa capire
come il maestro di Ladri di biciclette non nasca all’improvviso, ma
porti con sé un ricco bagaglio di esperienze e di sperimentazioni del
proprio indiscutibile talento.
Altri indizi di continuità
Le tracce di una riflessione sul mondo che poi sarà raccolta dal neorealismo vanno comunque al di là della – forse ovvia – scoperta di una
continuità autoriale in Rossellini e in De Sica. C’è tutto un clima culturale in cui si possono trovare forti indizi di quella che sarà la poetica
neorealista. Anche perché tutti gli anni trenta italiani ed europei fanno
i conti con la nozione di “realismo”. Nozione ambigua, del resto, che
in Europa viene applicata dal nazismo e dallo stalinismo, ma anche
dai Fronti popolari francesi; in America dai film realisti della Warner
Bros. o dal documentario sociale. In Italia è una nozione che nelle
arti visive può essere cavalcata dal Guttuso della Crocifissione o dal
realismo filonazista propugnato da Farinacci, in letteratura da Vittorini ma anche dalle riviste fasciste, nel cinema dai comunisti Alicata e
De Santis ma anche dal cinema di propaganda (Passaporto rosso, Il
grande appello o L’assedio dell’Alcazar).
Una sorta di “neorealismo” è teorizzata da alcune riviste fasciste, nell’ambito di un variegato panorama di fogli e pubblicazioni
che indicano comunque un ampio dibattito culturale, specialmente a
295
livello giovanile. Penso soprattutto alle riviste facenti capo al gruppo
di “Strapaese” (che, contrapposto a “Stracittà” di Bontempelli, tende
a valorizzare la provincia e la “terra” contro la città e la borghesia)
e quelle ideologicamente organiche al regime (sono infatti per lo più
organi di federazione o fogli sindacali), ma caratterizzate da un’intransigenza che diventa, alla fine, critica allo Stato, oppure inserite nell’area
delle elaborazioni teoriche più avanzate del corporativismo cosiddetto
“di sinistra”. Cito su tutte «Il Selvaggio» di Maccari, «L’Italiano» di
Longanesi e, seppure non inscrivibile propriamente tra gli strapaesani, «Prospettive» di Malaparte. Tutte e tre dedicano un numero unico
al cinema. Ma mentre Maccari, leader del movimento di “Strapaese”,
snobba il cinema e lo attacca come fenomeno corruttore e perverso, la
posizione di Longanesi, direttore de «L’Italiano» è molto più articolata.
Partendo dallo stesso piano di Maccari, quello del realismo regionale,
Longanesi vi innesta però positivamente il cinema. Non è, quindi, contrario al cinema in assoluto, ma semmai a “questo” cinema, quello che
«si accontenta di ritrarre gli aspetti più sciocchi della vita italiana senza
aggiungervi un grano di intelligenza, una protesta, una critica».
«L’Italiano» dedica nel ’33 il suo numero unico al cinema18. Longanesi vi interviene in prima persona con una Breve storia del cinema
italiano e con un altro tentativo di sistematizzazione, Il film italiano.
Sostanzialmente, la “storia” di Longanesi rovescia il consueto giudizio positivo sul cinema italiano prebellico (nel senso di Prima Guerra
Mondiale): si tratta, in realtà, di un cinema piccolo borghese che continua anche nel dopoguerra. Mentre i grandi scontri di classi e di ideologie segnano il mondo, il cinema italiano si attarda in estetismi che
nascondono, sotto, le basse trame degli speculatori e dei pescecani:
Il nazionalismo, l’industria pesante, i pescecani hanno trovato la loro espressione nell’arte muta (…) Al bolscevismo e al
fascismo in lotta, si oppone un’estetica tramontata con la guerra di Libia (…) Il cinema è un ottimo investimento di capitali. Fare del cinema è una maniera come un’altra per entrare
nel giro bancario. L’arte muta è un titolo di borsa come la
Montecatini (…) Quel che si chiama il glorioso decennio della
produzione italiana cinematografica non è che un decennio di
immediata fortuna industriale19.
18 «L’Italiano», n. 17-18, 1933.
19 Ivi, p. 23, p. 24.
296
Longanesi distrugge Pittaluga, la Cines e persino Blasetti. Il suo
Sole non è altro che «una banale pellicola d’imitazione sovietica, con
butteri ragionieri e contadine di Via Veneto»; l’unica soluzione è fare
piazza pulita:
Un noto critico italiano scrisse […] che alla macchina da presa
occorreva sostituire una mitragliatrice: d’allora nulla è mutato: si tratta solo di procurare il nastro delle cartucce e quel
critico20.
La soluzione alternativa, però, esiste. Per «L’Italiano» sta nel recupero
della realtà quotidiana, degli squarci di “vero” che ci offrono gli angoli
della nostra provincia; in questo senso vanno le dichiarazioni teoriche
di Longanesi, la stessa struttura del numero unico (organizzato per far
risultare questa tesi, attraverso brani di Chaplin, Grosz, Fulop-Muller,
Kerr) e, molto indicative, le proposte di sceneggiature pubblicate, trame ricavate dalla cronaca quotidiana e dalla vita vissuta.
Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per
costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole
quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole
senza artifizi, girate quanto più si può dal vero.
È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei
cortili, nelle caserme, nelle stazioni.
Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e
osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi
attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano
naturale e logico21.
Questa è l’ipotesi radicalmente innovatrice, contro il film italiano fatto di «una serie di cartoline patinate, messe in fila». Anche l’intervento dello Stato è inutile:
Ora, in Italia, cosa può fare lo Stato? Alla testa di chi può
mettersi? Della cadente, passiva e banale cinematografia
italiana? Vuole difendere l’estetica e la morale di una cinematografia piccolo borghese, figlia delle pochades francesi?
20 Ivi, p. 28.
21 Ivi, p. 35.
297
Qualunque cosa egli faccia, non ne verrà fuori nulla: non si
tratta di organizzare22.
«Conclusione: la cinematografia italiana è un cadavere nella stiva
di una nave in cammino». Si salvano invece altri esempi di cinema:
quello comico, al quale, vistosi rifiutato dalla letteratura, «non rimase che buttarsi nelle braccia della vita»: il film americano che, come
scrive Grosz, riproduce, nei suoi topoi e nei suoi personaggi standard,
situazioni e tipi peculiari e caratteristiche della realtà del paese; il
cinema russo che «non fa la realtà, ma la rispecchia: naturalmente
l’ha rifatta in precedenza». Un cinema, questo, dal carattere collettivo, perché rispecchia il carattere del russo; un cinema che per questo
va a trovare nella vita, per la strada, i propri personaggi. «Ben spesso
si tratta di veri e propri uomini della strada»23. Si noti questa formula
che sarà poi caratteristica del Neorealismo.
Si può dire, infatti, che il Neorealismo abbia in questo numero speciale de «L’Italiano» il suo termine ante quem, la sua prima, inconscia,
formulazione teorica: nelle proposte di Longanesi, nei film dal vero e
nei motivi per un film italiano, troviamo elementi che saranno cari al
neorealismo: la bicicletta, la ferrovia, la pensione; dalle stesse fotografie (di realtà documentaria, la fiera, il dopolavoro, la conferenza,
la piazza del mercato e addirittura lo sciuscià napoletano) viene fuori
energicamente questa esigenza di “nuovo realismo”. Voglio ancora
sottolineare le sue frasi, che sembrano davvero precorrere Zavattini:
È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine di presa nelle vie, nei
cortili, nelle caserme, nelle stazioni.
Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e
osservare quel che accade durante mezz’ora, con gli occhi
attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano
naturale e logico.
È quello che ci ha raccontato Fellini a proposito dei cineasti che non
avevano bisogno di soggetti, nell’immediato dopoguerra, perché i
soggetti erano dietro l’angolo della strada24.
22 Ivi, p. 60.
23 Ibidem
24 Cfr. Federico Fellini, Intervista sul cinema, Bari, Laterza, 1976.
298
Ci sono, naturalmente, anche tutti i limiti del Neorealismo futuro:
il populismo, il paternalismo, la tendenza al bozzetto. Nel ’39 Comencini25, su «Corrente di vita giovanile» (una delle riviste “di tendenza”
più importanti nella fase finale del Fascismo), riprenderà le tematiche
di quel numero unico a proposito di Batticuore, di cui Longanesi era
sceneggiatore. Ecco il suo giudizio:
L’impressione prima era quella di uno sforzo per dimostrare
la cosa ormai ben nota, che in Italia abbondano i tipi e gli
ambienti per dare materia a un film, mentre nulla si fa di buono
seguendo la falsa via dei drammi e delle commedie convenzionali (…) Cosa ricavammo da quel numero 17-18 dell’Italiano? La certezza che Longanesi era intelligente, che aveva
anche un certo buon gusto (…) che “vedeva” certe scene con
occhio del cinema, ma infine, che non sapeva comporre un
film, e, quel che è peggio, che non s’avvedeva della insufficienza dei suoi “bozzetti”.
La tendenza a un “nuovo” realismo è dunque diffusa all’interno del
Fascismo, o almeno all’interno di alcune delle sue aree (visto che il
regime non è così compatto come potrebbe sembrare, ma composto di
tendenze variegate). Nel cinema, indizi – o “desideri” – di un “neo”
realismo si possono rintracciare – come è ormai stato studiato – in
Blasetti: negli esterni di 1860, nei dialoghi in presa diretta con l’uso
dei dialetti di quel film (si veda la sequenza in cui vari volontari in
partenza coi “mille” di ritrovano in treno); in Sole, con l’uso di uno
“stile documentario” che Bazin individuerà nel Neorealismo; in Terra
madre, che riflette l’ideologia “strapaesana” (la terra sana e la città
corrotta).
In questo film la campagna è quella difficoltosa ma virile, disagevole ma ricca di valori etici cui il proprietario alla fine ritorna; la città
è quella più easy, vissuta a ritmo di swing, ma anche tentatrice e corruttrice, incarnata dalla femme fatale. Un tema che percorerrà molto
cinema degli anni Trenta, e che si ritova anche in altre cinematografie, come quella americana dei primissimi anni del decennio. Anche
Vecchia guardia, uno dei pochissimi film che parla della Marcia su
Roma, è un film dichiaratamente e apertamente “fascista”, che però
25 Luigi Comencini, Il cinematografo a riposo, in «Corrente di vita giovanile», n.4,
1939.
299
pare più interessato alla ricostruzione della provincia, alle atmosfere
del paese, ai personaggi quotidiani riuniti attorno al negozio del barbiere, o all’osteria26.
Ma è soprattutto 1860 che diventa un enorme serbatoio di spezzoni del cinema futuro: Leda Gloria avvolta da uno scialle nero rimanda alla futura Terra trema, il rosario recitato dal prete e dai pastori
arrestati dai soldati svizzeri-borbonici ricorda Il sole sorge ancora, la
morte del garibaldino che invoca la mamma tra le braccia di Gesuzza
riporta all’episodio fiorentino di Paisà.
Questo spiega perché – anche senza ricorrere a Quattro passi tra le
nuvole – Blasetti sia stato considerato “pre-neorealista”.
Indizi forti di un nuovo realismo sono infatti – paradossalmente
ma non troppo – proprio nel cinema di fiancheggiamento, apparentemente più vicino all’ideologia fascista. Nel già citato Acciaio, per
esempio, con l’insistenza sugli elementi complementari della tradizione e della modernizzazione: l’osteria, la strada popolata di facce
antiche, da un lato, e la fabbrica di acciaio dall’altra. Nei film apparentemente di propaganda (Il grande appello, Squadrone bianco), che
contengono sorprendenti segmenti di realismo. E soprattutto nei film
para-documentaristici di De Robertis, su tutti Uomini sul fondo che
coniuga certi stereotipi del film hollywoodiano con lo stile del cinema
sovietico e con questo nuovo desiderio di “verismo” che permea la
società e i media.
È ovvio come De Robertis faccia cinema con un occhio documentario e realistico, capace di cogliere con “oggettività” dettagli tecnici
o psicologici. Basti pensare alla dovizia di particolari con cui il regista ci mostra con competenza la tecnologia usata per il salvataggio
del sottomarino in Uomini sul fondo, oppure all’attenzione per gli
interni familiari, per il contesto`antropologico del singolo marinaio
sia in questo film che in Alfa tau. Il cinema di De Robertis è un “documento” di fondamentale importanza, una fonte storica eccellente per
ricostruire non solo i mezzi tecnici della guerra di allora, ma anche
gli interni borghesi o gli spaccati sociali del paese non belligerante.
De Robertis mette al centro del suo cinema l’uomo, né più né meno
26 Persino nelle rare commedie blasettiane (insisto sugli elementi di “realismo” nella commedia) emerge una società contemporanea descritta in modo “realistico”,
seppur vista dai ceti medio-alti (si veda Contessa di Parma, con l’atelier di moda,
il calcio, le automobili, le corse dei cavalli, ecc.).
300
come suggeriva Visconti parlando di “cinema antropomorfico”27;
anche se i suoi film, come la maggior parte delle opere pre-neorealiste, vanno oggi rivisti alla luce dei modelli di cinema di allora, a fronte dei modelli di immaginario filmico di cui era permeata la cultura
di quel tempo. Ci sono sapori hollywoodiani, arie russe e francesi, in
questo film che non è solo fonte di una realtà sociale degli anni quaranta, ma anche sintesi dei miti e dell’immaginario collettivo di quegli anni. In questo senso è lampante il caso di Alfa tau, che ripropone
le ambiguità di Uomini sul fondo, con una operazione ancora più ibrida. Se lì c’era l’esercitazione prebellica, qui c’è l’azione guerresca, se
là c’era la rassicurazione sull’efficienza dei nostri mezzi, qua c’è la
rassicurazione sulla vita che continua normale nonostante la guerra.
Il film inizia e si conclude come un war film, prima filtrato dalla base
a terra e narrato dai racconti dei protagonisti, poi mostrato nella ricostruzione fiction più classica; in mezzo, invece, come racchiuso tra
due parentesi, c’è un altro film, che narra vari episodi simultanei, col
pretesto narrativo della breve licenza di alcuni ufficiali.
Insomma, il cinema di De Robertis, così come emerge da questi
due film, è un pastiche, spesso irrisolto ma certo molto interessante,
che comunque non può più essere letto solo in funzione del Neorealismo che in qualche modo precorre. C’è invece, grazie a molteplici
eredità filmiche, una poetica mista che permette di tratteggiare una
galleria di personaggi drammatici e comici, retorici e antiretorici, realistici e antirealistici, e di fornire immagini diverse del Paese. Nel mettere in scena personaggi e situazioni, De Robertis bilancia due registri
molto diversi: il realismo teorizzato in maniera sin troppo schematica,
e la fiction dotata di tutti i suoi artifici più tradizionali. Da un lato
notiamo dunque l’uso delle convenzioni generiche più stereotipate
(film hollywoodiano sul “sommergibile”, film di guerra, commedia,
melodramma), ma dall’altro prefigura Zavattini. Vediamo, in questo
senso, i titoli di testa di Alfa Tau: «In questo racconto tutti gli elementi
rispondono ad un verismo storico e ambientale. L’umile marinaio che
ne è il protagonista, ha realmente vissuto l’episodio che nel racconto
rivive. Così pure il ruolo che ogni altro personaggio ha nella vicenda,
corrisponde al ruolo che ognuno di essi ha nella realtà della vita». Verismo storico e ambientale, realtà della vita, attori non professionisti che
27 Luchino Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», nn.173-174, settembre-ottobre 1943.
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interpretano nient’altro che se stessi: c’è, come si vede, la posizione
più estrema del neorealismo, quella alla Umberto D.
Titoli simili ritroviamo ne La nave bianca di Rossellini, che di
De Robertis è stato collaboratore. L’incipit del film mostra quattro
cartelli iniziali che fanno riflettere, e gettano nuova luce anche sul
Rossellini di Paisà:
Come già in Uomini sul fondo anche in questo racconto navale tutti i personaggi sono presi nel loro ambiente e nella loro
realtà di vita e sono seguiti attraverso il verismo spontaneo
delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che
costituiscono il mondo ideologico di ciascuno.
Hanno partecipato: le infermiere del corpo volontario, gli ufficiali, i sottufficiali e gli equipaggi
Il racconto è stato realizzato sulla nave ospedaliera “Arno” e
su una nostra nave di battaglia.
Insomma – sottolinea il giovane Rossellini –, i protagonisti interpretano se stessi, il film è stato girato on location, e «sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di
quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno».
È già Neorealismo.
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parte quarta
La nuova generazione
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Maura Borgonzoni
La Paura di Pippo Delbono1:
breve riflessione sul documentario
Una coltre di primule…
Scheletri col vestito…
Quando una troupe…
Vedo la troupe in ozio…
Un solo rudere…
Ci vediamo in proiezione…
Lavoro tutto il giorno…
Supplica a mia madre
La ricerca di una casa
La realtà
(Pasolini, Poesia in forma di rosa)
Ogni anno vengono presentati nei vari festival italiani e internazionali
film che non riescono a raggiungere il grande pubblico, in parte per
il tipo di cinema che propongono, ma soprattutto perché in Italia la
distribuzione risulta difficile. In particolare, il documentario italiano,
nonostante abbia un proprio pubblico, un pubblico anzi in crescita, è
1 Pippo Delbono nasce a Varazze nel 1959. Forrmatosi sotto la guida di, fra gli
altri, Iben Nagel Rasmussen e Pina Bausch, nel 1986 fonda con Pepe Robledo La
compagnia Pippo Delbono con la quale realizza tutti i suoi spettacoli: Il tempo
degli assassini (1987), Morire di musica (1988), Il muro (1990), Enrico V (1993),
La rabbia (1995), La rabbia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini (1995), Barboni
(1997), Itaca (1998), Guerra (1998), Her Bijit (1999), Esodo (2000), Il silenzio (2000), Gente di Plastica (2002), Urlo (2004), Racconti di giugno (2005),
Questo buio feroce (2006), Obra maestra (2007), La menzogna (2008). Come
regista cinematografico, dirige Guerra (Premio Donatello 2004), Grido (2006),
Blue sofa (2009) diretto in collaborazione con Lara Fremder e Giuseppe Baresi e
vincitore del premio Clermont-Ferrand International Short Film Festival 2010. Il
sito di Pippo Delbono è www.pippodelbono.it.
306
relegato alla proiezione in sale circoscritte e spesso per periodi brevi
di tempo2. Il documentario di creazione nello specifico, il documentario cioè che predilige una originalità stilistica e un punto di vista
personale all’interno di una struttura narrativa, sta vivendo un periodo
decisamente complesso e contraddittorio. La complessità è dovuta al
fatto che alla qualità di questi documentari spesso non corrisponde un
pari riconoscimento, specialmente in Italia. Questo non vuole essere
un, seppur motivato, cahier de doléance, citando l’introduzione di
Vittorio de Seta a L’idea documentaria curato da Marco Bertozzi, tuttavia la produzione da parte degli enti statali o privati (RAI o Mediaset) è carente e la visione è condizionata da ragioni di mercato che
prediligono la distribuzione – o addirittura la sovvenzione – di film
che fanno cassetta come i “cinepanettoni”. La polemica innescata dal
giornalista del «Corriere della Sera» Paolo Mereghetti a proposito
del film Natale a Beverly Hills (Parenti 2009) non è altro che una
delle tante querelles che investono il cinema italiano, combattutto nel
tentativo di coniugare o mediare tra l’aspetto economico e quello propriamente artistico e culturale. Natale a Beverly Hills avrebbe potuto essere dichiarato “film d’essai” e in quanto tale, secondo la legge
Urbani3, avrebbe avuto diritto di ottenere quelle agevolazioni fiscali e
2 Interessante a questo proposito è l’esperienza della distribuzione di Un’ora sola
ti vorrei (Marazzi 2002) che, avendo raggiunto una certa notorietà dopo aver
vinto il Festival di Torino 2002, “[…] fece una serie di giri di proiezioni qua e là
e ogni proiezione era sempre affollatissima. Ma non ne esistono copie in 35mm,
quindi è sempre stata vista una copia in video. Per un paio di anni si andò avanti
così, noi inizialmente avevamo anche parlato con Procacci, proponendogli di
distribuire il film, ma non sene fece nulla. Poi parlammo con Mikado che decise
di fare una piccolissima uscita al cinema a Milano e a Roma […]. Avevano deciso di programmare il mio film alle ore 13 al cinema Anteo di Milano; solo che
è venuta così tanta gente che hanno ampliato la programmazione. Era ormai il
2004. Inoltre, la Marazzi continua “[…] eppure ancora ricevevo tante lettere in
cui mi dicevano ‘Ho sentito parlare del tuo film, come posso recuperarlo?’. Così
nel 2006 ci fu la proposta da parte della Rizzoli per l’edizione DVD: sono stampate novemila copie e sono state vendute tutte. […] Comunque ancora oggi mi
scrivono persone che hanno sentito parlare di questo film e non l’hanno trovato. I
canali di diffusione restano abbastanza misteriosi, non prevedibili più di tanto.”.
(Marazzi pp. 144-145)
3 A proposito della legge Urbani del 19/5/2004, Mariuccia Ciotta del «Manifesto»
afferma: «Il film che fa cassa, riempie i cinema, si assicura i passaggi in primetime, omologato agli standard tv, merita l’aiuto pubblico, gli altri sono prodotti
“ideologici”, pellicole avvelenate dallo spirito post-sessantottino, film da cineclub destinato a pubblici residuali. Con questi parametri, la legge Urbani 2004
307
monetarie nella distribuzione nelle sale, aiuti che andrebbero invece
indirizzati a sale diverse dai multiplex dove solitamente film di questo
genere vengono proiettati.
Invece “trasformando” in cinema d’essai anche i multiplex che
proiettano opere come Natale a Beverly Hills (nella stessa riunione ha già ottenuto lo stesso riconoscimento Winx Club 2) si
finisce solo per sottrarre ulteriori finanziamenti a quei piccoli
esercenti che, con un pubblico più attento alla qualità dei film
che del pop corn, sono l’ultimo baluardo per la difesa di un
cinema degno di questo nome. Altrimenti rischiano di diventare pura demagogia tutte le richieste di maggior efficienza e
moralizzazione che la Politica rivolge a questo settore: se non
si cambia al più presto questa legge, le occasioni per essere
orgogliosi della nostra cinematografia diventeranno ogni giorno più esigue. Con o senza il marchio d’essai. (Mereghetti)
Dopo ben due mesi di polemiche le commissioni ministeriali deputate all’individuazione dei film d’essai hanno definitivamente sancito l’esclusione del film a quel titolo che avevano inizialmente riconosciuto.
Il documentario ha sempre sofferto del complesso di Cenerentola.
Saranno le facce sporche “non da fiction”, come le descrive Gianfranco Pannone, che lo tengono ai margini della cinematografia italiana
(Pannone p. 39). Sarà l’assenza di un interesse della tv di stato, come
tutti i produttori lamentano (la RAI o Mediaset sono raramente presenti ai festival internazionali o europei di documentari, dove invece
la BBC e la tv francese sono di casa, investendo molto anche sui
documentari italiani), sarà che ancora l’idea di fare cinema è legata
al film di narrazione con attori e sceneggiatura. «Bene, bravo, ma ora
devi fare un film», il commento che spesso Pannone si è sentito fare,
anche dagli stessi Giuseppe DeSantis e Carlo Lizzani (Pannone p. 39).
Il documentario ha quindi vita difficile in un alternarsi di momenti più
favorevoli alla produzione a momenti di assoluto disinteresse. Dopo
mise a punto la sua formula magica per sostenere il cinema italiano, e varò il
reference system che elargiva punti a cast e produzioni “ricche”. Chi ha più punti
vince e accede alla qualifica di “film d’interesse culturale nazionale”, chi fa soldi
ne avrà ancora. A proposito di comicità sgangherata, l’ex ministro della cultura
superò Neri Parenti», (Ciotta 25/12/09), http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/12/articolo/2056/.
308
l’esperienza di Tele+ che programmaticamente produsse documentari
girati da Andrea Segre, Carlo Mazzacurati, Paolo Virzì, Silvio Soldini
e molti altri registi del panorama italiano, i quali hanno saputo imporsi anche al pubblico internazionale, rivitalizzando il documentario
italiano in “stato agonizzante” (Grosoli p. 350), la produzione ora è
di nuovo relegata alla iniziativa più sporadica e a budget più limitati.
Oggi quegli spazi marginali, anche come orari di programmazione, ma con molte possibilità creative, sono sostanzialmente
sostituiti dai canali satellitari4 sia della RAI che di altri network. Il problema di lavorare con i canali satellitari è quello
del budget: troppo esiguo, ridotto all’osso, insufficiente per
produrre un progetto di più vasto respiro. Registi e produttori
sono costretti a sforzi di fantasia pazzeschi per trovare le coproduzioni […]. Qui apro una piccola parentesi a favore di
quegli enti pubblici che in questi anni sono stati lungimiranti
e hanno aiutato molti progetti a svilupparsi, a prendere forma.
(Cannizzaro p. 359)
Lo sforzo di enti pubblici soprattutto a livello locale e regionale è
veramente encomiabile sia nel produrre e distribuire, che nella formazione di cineasti. Ne è un esempio la Cineteca di Bologna5 che
in questi ultimi anni ha contribuito nella produzione e distribuzione
di film di interesse culturale come L’uomo che verrà (Diritti 2009),
vincitore del premio Donatello 2010. Il regista di nuova generazione Gianni Zanasi, che si è formato anche grazie alla sua frequentazione della Cineteca, afferma: «[…] ho scoperto che quello era un
pezzo di Parigi incastrato a Bologna» (Zanasi p. 266). La Cineteca
ha contribuito anche alla diffusione del documentario di Pippo Delbono, riversandolo in pellicola 35mm per una più facile distribuzione
nelle sale italiane. D’altra parte, come afferma il regista Delbono, la
distribuzione diventa anche un problema di iniziativa personale. «Ci
4 Uno di questi, Current Tv, fondata da Al Gore, sta ponendosi sempre più all’attenzione del pubblico.
5 Sviluppatasi dalla Commissione Cinema della città di Bologna nata nel 1963,
la Cineteca si occupa di recuperare il patrimonio cinematografico, dialogando
con altre cineteche a livello internazionale, e della produzione e distribuzione di
film del presente, oltre che promuovere incontri a livello accademico. Ogni anno
il Festival del Cinema Ritrovato vede la partecipazione folta di un pubblico di
studiosi e di cinefili da tutto il mondo.
309
si deve inventare il metodo distributivo. Io ad esempio giro molto per
presentare il mio film. Bisogna reinventarsi il lavoro altrimenti è molto difficile se si aspetta la casa distributrice. Anche l’uso del cellulare
rientra in questa ottica» (Delbono, intervista 18/12/09).
Pippo Delbono gira La Paura (2009) con il solo ausilio di un cellulare di ultima generazione. Il regista ha intrapreso questo percorso
rispondendo ad un invito del Forum des images6 che ha fatto al regista
una proposta singolare: un telefonino con videocamera e una raccomandazione:
“Fai quello che vuoi”. Non avrei mai immaginato che si potesse fare un film con un oggetto così minuscolo. Mi sono insinuato nei miei sogni più oscuri e in quelli del mio paese. La
paura è divenuto un viaggio attraverso un presente deformato
da questo sentimento. Il telefono filmante abbatte i muri tra
me e quanti si invitano nel film, aprendo così a momenti emotivi particolari che, senza questo strumento, andrebbero persi.
(Pippo Delbono, Newsletter)
Tramite il viaggio e un carrello inusuale dato dall’uso del cellulare,
Delbono coglie una fotografia dell’Italia contemporanea in cui non
solo domina la paura, come afferma il regista stesso, ma anche un
senso di vuoto culturale preoccupante. Il cellulare fotografa scritte
razziste sui muri, vetrine lussuose che contrastano con l’immagine
dei senzatetto sdraiati sulla strada, lo schermo onnipresente della Tv
che propone programmi svilenti la dignità umana. E di dignitosamente umano rimangono il dolore dei parenti e amici di Abdul Guiebre
al funerale, i bambini del campo nomadi che insistemente richiedono
di essere fotografati con i loro cani e gli sguardi di Bobò e Gianluca, gli attori della compagnia teatrale di Delbono. Il film offre un
ritratto dell’Italia grazie all’immediatezza di un mezzo così facile da
utilizzare e ad una chiave di lettura del reale basata su un linguaggio
filmico che privilegia l’immagine con suono d’ambiente (evitando
l’intervista), la presa del suono in diretta, non disdegnando tuttavia il
commento musicale o parlato in alcuni momenti, e il montaggio per
associazioni nella ricerca di uno stile innovativo e personale. La pau6 Il Forum des images di Parigi, come la Cineteca di Bologna, si occupa della conservazione del materiale cinematografico d’archivio e della produzione di film
documentari tramite anche l’uso delle nuove tecnologie.
310
ra a pieno titolo entra nel panorama del documentario di creazione
italiano per queste sue caratteristiche di ricerca stilistica e interesse a
ritrarre il reale “coniug[ando] lo sguardo etico, capacità di esposizione e istanze espressive” (Pannone p. 37).
Il documentario di creazione, l’erede del cinema di Roberto Rossellini, Elio Petri, Carlo Lizzani, Francesco Rosi e Pier Paolo Pasolini, ha forse avuto vita difficile anche per l’assenza di una tradizione
documentaristica vera e propria, come afferma Adriano Aprà in un
suo saggio del 1995.
Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una
“terra di nessuno”, senza esperienze e tradizioni alle spalle.
Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa
strana “assenza” del documentario: da una parte la riluttanza a
usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno
nel campo del lungometraggio, la situazione è un po’ diversa,
grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e
un po’ anche all’ostinazione di alcuni critici isolati); dall’altra
l’assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema
di finzione, a cominciare dal neorealismo. (Aprà, Studi 281)
Tuttavia dalla fine degli anni ’90 il documentario italiano ha saputo
rinnovarsi, restituendo il suono in presa diretta7 ed eliminando spesso la voce fuori campo, the voice of god, limitando l’intervista, evitando un pretesa superiore oggettività e ricercando linguaggi e stili
che rendono il documentario italiano un terreno vitale di sperimentazione. È il documentario che, secondo Gianfranco Pannone, ci porta
conoscere altre realtà e apre un mondo che si focalizza sull’uomo
(Pannone pp. 33-43).
La complessità del documentario è dovuta anche dalla definizione
stessa del genere. La linea di confine che divide il documentario dal
film di narrazione si è assottigliata sempre di più: così come già Francesco Rosi aveva uno stile documentaristico nel suo Salvatore Giuliano, ora i documentari invece propogono un’ontologia e degli stili che
si allontanano molto dalla classica idea del semplice “documentare la
7 Caratteristiche che i documentari di Vittorio DeSeta avevano già dalla fine degli
anni ’50 e forse proprio per questa sua capacità innovativa è rimasto ai margini
della cinematografia italiana per molti anni.
311
realtà”, e del “basarsi sul principio, opposto a quello della finzione,
che ciò che la macchina da presa o la videocamera registra è ‘reale’.
È una vecchia storia, che data almeno da Dziga Vertov: ‘la finestra
sul mondo’ aperta dai Lumière, posto che fosse ‘oggettiva’ ha subito
negli anni una graduale erosione che ha fatto emergere a livello internazionale […] il bisogno di soggettivizzare lo sguardo sulla realtà”
(Aprà, L’idea p. 189). Pier Paolo Pasolini stesso in Comizi d’amore
(1965) si chiedeva quanto le sue interviste potessero rappresentare la
realtà italiana sulla questione sessuale, innanzitutto per uno spontaneo autoselezionarsi dei suoi intervistati che decidevano volontariamente di partecipare alla sua inchiesta e per una scelta di linguaggio
che fosse veramente adatto ad esprimere chiaramente le domande
e a riprodurre il pensiero dell’interlocutore. Anche nei documentari
successivi Pasolini, continuando questa sua riflessione sulla realtà,
dedusse che inevitabilmente essa viene interpretata anche dalla forma
espressiva con cui viene resa. L’impossibilità di uno sguardo vergine
dopo l’accumularsi di immagini e suoni riprodotti ha implicato una
riflessione sull’atto stesso del guardare: i documentari diaristici, autobiografici di narrazione che interrompono l’illusione della realtà del
cinema documentario sono sempre più presenti nel panorama italiano.
L’attenzione viene spostata “dallo sguardo al montaggio degli sguardi
(e dei suoni)” (Aprà, L’idea p. 189). La narrazione e la finzione hanno modificato il documentario italiano rifondandolo su basi nuove
che non permettono più una sua distinzione così netta dalla finzione.
Come anche Pannone afferma “Ma cos’è reale e cos’è fiction? Anche
il documentarista esprime un pensiero, una verità, dunque porta a sintesi un punto di vista personale sulla realtà, un’interpretazione che
non potrà mai restituirci la realtà oggettiva” (Pannone p. 39).
Fin dall’inizio del documentario Pippo Delbono, già regista teatrale di molti spettacoli di influenza pasoliniana e non solo (La rabbia. Un omaggio a Pier Paolo Pasolini, 1995), presenta la propria
dichiarazione di intenti nell’identificare il punto di vista soggettivo. Il
regista riprende la vetrina con i manichini esposti e rivela la propria
immagine riflessa. Nessun intenzione naturalista o presunzione di falsa oggettività dei mass-media. Egli stesso dichiara nell’intervista: “Io
cerco di cogliere la verità ma non come naturalismo. Sono i frammenti di una storia, mai naturalista. Non mi piace l’intervista. Non è
un’indagine sociologica. Sono sempre apparizioni, memoria, sogno,
dimensione pittorica” (Delbono, intervista 18/12/09). Il regista inten-
312
de quindi presentarci la propria visione di quello che è diventata l’Italia, “La saturazione visiva della società contemporanea porta il documentarista verso una scelta di carattere qualitativo. […] A distanza
di anni risulta più attuale il metodo interattivo di Jean Rouche che
quello di auto(re)-annullamento di Leackock” (Perniola pp. 219-220).
L’immagine che ne risulta è quella di una Italia nel suo cambiamento
antropologico che ci ricorda molto la visione pasoliniana del corpo
deturpato e reso simbolo dell’omologazione.
Sia il Vaticano che il Pci hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e non aver creduto alla loro possibilità di
evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo
possibile. [. . .] L’omologazione che ne è derivata riguarda tutti: popolo, borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. […] I
giovani dei campi fascisti, i giovani delle Sam, i giovani che
sequestrano persone e mettono bombe sui treni si chiamano
e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione
puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente ?ripeto? non c’è
niente che li distingua. (Pasolini, Saggi pp. 308–11)
Il corpo come identificativo di una trasformazione avvenuta a causa
del consumismo rimane sempre in primo piano. La scelta di un incipit che ci presenta, insieme alla prospettiva soggettiva, l’attrazione
esercitata dalle vetrine e dai corpi da vetrina ne sottolinea ulteriormente l’oggettivazione. Il corpo, che viene visto come strumento di
oppressione così quanto la macchina industriale alienante, si impone
nella lettura della realtà che Delbono propone. L’immagine di automi
impegnati agli attrezzi ginnici con ripresa dall’alto ci ricorda Tempi
Moderni (Chaplin 1936): le pecore ammassate, allegoria degli operai
all’entrata in fabbrica. L’ossessione dell’immagine di un corpo perfetto si contrappone all’ossessione per il cibo. Il cibo controllato, il
cibo negato, il cibo eccessivo della trasmissione sui bambini obesi.
Lo sguardo del regista si sofferma sullo schermo della Tv che trasmette il solito programma che offre consigli, da come curare la gotta
al come potare le rose. Lo zoom della camera/cellulare è sulla bocca
del medico che vomita consigli, sempre quelli, come da copione a
ricordarci quanto l’omologazione investa anche il linguaggio televi-
313
sivo. Meccanicamente le frasi di rito sull’argomento obesità si susseguono. Il contrappunto del regista consiste nel mettere in primo piano
la bocca che, se da una parte rigurgita consigli, dall’altra mima anche
l’atto della masticazione. La masticazione diventa per associazione
leit-motif. Il suono in presa diretta della continua masticazione del
regista accompagna in suoi passi mentre, spostandosi per la città,
riprende la realtà circostante. Il cibo, la masticazione sono simbolo di
una società che ingurgita tutto, acriticamente: come marionette, per
vincere l’obesità o il timore della obesità, ci sottoponiamo all’alienazione delle macchine ginniche, o acriticamente divoriamo ogni proposta televisiva, quella anche più svilente la dignità umana. Delbono
riprende momenti de La Corrida, programma televisivo per dilettanti,
commentando in voce over le immagini deliranti dei vari partecipanti,
fra i quali un uomo che imita i molteplici versi del caprone, con la
Divina Commedia. E sceglie il canto politico del Purgatorio, il IV,
con l’incontro tra Dante e Sordello, il quale in un’amara apostrofe
definisce l’Italia serva, luogo di dolore e bordello.
Il consumismo della merce, il consumare il cibo e il consumare tv
come pratica di indigestione sono ricorrenti nel film. L’ossessione per
il mangiare non è più pratica primordiale legata alla sopravvivenza,
(come anche tanta parte del cinema italiano, soprattutto la commedia,
ha presentato), ma diventa invece spreco, esibizione e spettacolo. Il
sacrificio legato alla ritualità dello spettacolo televisivo è atto metaforicamente cannibalico della divorazione dei corpi, quelli dei partecipanti agli show. Ma se in Pasolini l’atto cannibalico corrispondeva
ad una forma di ribellione in Porcile (1969) o alla sacralità dell’ultima cena come nella La ricotta (episodio in Ro.Go.Pa, 1962), nella
nostra quotidianità il mangiare ha perso quella forza ed è diventato
passivo ingurgitare. Il regista stesso in questo suo percorrere la città nell’atto della masticazione si propone come metafora del nostro
passivo ingurgitare. D’altra parte il corvo intellettuale di Uccellacci
e Uccellini (1966), colui che come maestro guidava e accompagnava
nel cammino fornendo una interpretazione critica del reale, è già stato
divorato (Bazzocchi pp. 57-82). Il documentario denuncia l’agonia
culturale italiana.
Il corpo perfetto da palestra viene dissacrato dalle immagini del
corpo del regista che si espone alla beffa. La ripresa dall’alto evidenzia le forme non propriamente scultoree di Delbono che si gonfia
smisuratamente e gioca con la propria immagine mimando una danza
314
con il proprio addome. Anche in questo momento, la dissacrazione
di memoria chapliniana8 della retorica del corpo come potere, viene
proposta per sottolineare l’insensata adorazione di un corpo apparentemente perfetto. Le immagini successive di animali imbalsamati o di
scena putrefatti o distrutti, legate alle prime immagini della palestra
dallo stesso commento musicale, la colonna sonora di Sergei Prokofiev Alexander Nevsky, indirizzano la narrazione verso una riflessione sul tema della caducità ed effimerità, del vanitas vanitatis, omnia
vanitas, ma non solo. Delbono va oltre la demistificazione per proporre l’anti-retorica del corpo: si annulla il corpo da copertina attraverso
le immagini del corpo nudo di Bobò, vissuto per quarantasei anni rinchiuso in un manicomio. “È un corpo politico, un corpo dimenticato,
un corpo pornografico. Il corpo che rappresenta la problematica dei
nostri tempi, dei trans, della moralità, del corpo bandito” (Delbono,
intervista 18/12/09).
Il montaggio delle immagini gioca un ruolo decisivo nella costruzione del film che utilizza i piani sequenza nei momenti in cui si
coglie la realtà della città o del campo nomadi di Moncalieri, ma si
avvale di un montaggio basato su corrispondenze per commentare,
criticare e offrire di nuovo una prospettiva soggettiva del regista.
L’interpretazione della realtà viene giocata su diversi piani: dal montaggio per associazioni alla Eisenstein, dove chiaramente è il giustapporsi di immagini a formare una visuale critica della realtà (penso alla
giustapposizione dei corpi-automi palestrati in fila e del corpo-individuo che afferma la propria autonomia nel deformarsi fisicamente),
al montaggio giocato più sulle corrispondenze sonore e visive (penso
alla musica di Prokofiev che collega i corpi perfetti ai corpi putrefatti)
in una specie di danza, come Pippo Delbono ha dichiarato nell’intervista. A questo proposito, volevo accennare ad una riflessione sullo
stato del documentario italiano che mi sembra cambiato dall’ultima
pubblicazione sulla teoria del documentario italiano di Marco Bertozzi. Nell’articolo molto interessante di Ivelise Perniola che tratta
da un punto di vista teoretico dell’ontologia del documentario italiano, si afferma, a proposito della voce del documentario, una certa
arretratezza del documentario che ancora non si è affrancato dalla
voce fuori campo, voce che tende al dogmatismo con un’impronta
8 Penso, fra le altre, alle immagini iniziali di Le luci della città (1931) in cui Chaplin si avvinghia alla statua appena donata ai cittadini.
315
marcatamente autoritaria. Mi sembra che ultimamente i documentari
italiani, e fra questi anche i documentari di Pippo Delbono, ma penso
anche a Un’ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2007)
di Alina Marazzi, non propongano più dogmaticamente un testo carico di “autoritarismo epistemico” (Perniola p. 223). Il punto di vista è
ovviamente presente, ma il commento è lasciato più alle immagini, al
montaggio (che tuttavia può comunque rischiare una certa ideologia e
dogmatismo, se pensiamo ad un montaggio fortemente caratterizzato
dalle concezioni di Eisenstein) o a testi di carattere personale e soggettivo, che non hanno la pretesa di autoritarismo. La scelta poi dei
suoni acusmatici, nel caso del suono della masticazione del regista, o
della lettura del testo dantesco offrono una interpretazione soggettiva
che non impone tuttavia una unidirezionalità discorsiva.
Il documentario è strutturato sulla componente montaggio senza
tralasciare tuttavia anche la componente di osservazione tramite il
carrello che, muovendosi per i luoghi, registra una realtà fortemente distopica. Ciò che vediamo cogliere dall’occhio del cellulare è la
città dello schermo, della televisione, della pubblicità o della propaganda dogmatica della chiesa. La televisione e gli schermi sono
oggetti onnipresenti. Lo schermo sembra essere diventato la nuova
imago Dei da adorare e venerare. Ci ricorda dal punto di vista scenografico e tematico Blade Runner (Scott 1982) e il testo da cui il
film è tratto, Do Androids Dream of Electric Sheep? (Dick 1968),
dove l’omologazione è data dalla produzione massificata segnata dal
sopravvento degli elettrodomestici, dalla scatola empatica di Mercer
e dagli androidi, che controllano e governano la società del cacciatore
di taglie Deckard, una volta caduta qualsiasi ideologia politica e idea
di territorialità. La tv assume una dimensione religiosa. La scena in
cui viene presentata la investizione degli educatori della diocesi di
Milano mi sembra rafforzi ulteriormente non solo l’idea di un potere mediatico che governa e determina i nostri comportamenti grazie
al fascino che esercita. Come il documentario Videocracy (Gandini
2009), La Paura ci pone di fronte alla consapevolezza di una dittatura
televisiva accentratrice, in relazione esclusiva con un pubblico che
non si accontenta più di essere tale ma ne vuole essere parte integrante, imitando, scimmiottando il modello dell’homo televisivus,
fondando la propria identità nel videor ergo sum. L’investizione degli
educatori avviene secondo i canoni di un programma televisivo alla
Festivalbar. Il ritratto felliniano della chiesa romana nella sfilata di
316
moda di Roma (Fellini 1972) presenta la stessa accattivante capacità
di madre ecclesia di trasformarsi in evento spettacolo. Ma vi è anche
un chiaro rimando alla capacità della chiesa di sapersi trasformare
all’uopo in relazione al contesto sociale in cui è immersa per mantenere un potere ideologico dogmatico inquietante. Potere ideologico
dogmatico ben rappresentato da quello – di nuovo – schermo luminoso che sovrasta la piazza in cui, come mantra, si afferma al mondo
questa visione assolutamente manichea e fondamentalista del motto
“Maybe I’m right and the world is wrong” eliminando anche ogni
traccia di dubbio con il “maybe” cancellato dalla croce. L’uso di questo specifico segno convenzionale della correzione, a mio avviso, si
carica di simbolismo: un ulteriore riferimento, non casuale, che afferma la forza della dottrina cristiana.
L’immagine della diocesi di Milano che investe i nuovi educatori della loro missione è un evento plateale, come una
trasmissione televisiva con il vescovo che ha il ruolo di conduttore televisivo. La chiesa ha adottato le stesse modalità.
Sono tutti uguali, soprattutto in questo paese dove la moda ha
la meglio. Anche la chiesa si è adattata alla moda. (Debono,
intervista 18/12/09)
Inoltre, l’accostamento delle immagini dell’investizione e della trasmissione televisiva La Corrida sottolinea ulteriormente per associazione la spettacolarizzazione della Chiesa e rende comune ad entrambi i momenti, questa volta per il tema proposto, il commento della
voce over: l’aspra condanna della Chiesa temporale da parte di Dante
nel canto VI del Purgatorio.
Il cogliere la realtà in modo casuale, così come si presenta all’osservatore, classifica lo sguardo del regista come “sguardo accidentale” (Nichols in Perniola pp. 217-218), pregno tuttavia di una valenza
etica nel momento in cui Delbono si sofferma su determinate situazioni e accadimenti e soprattutto quando le sei ore di girato, tramite montaggio, si trasformano in narrazione critica dell’Italia attuale. Sono
solo le immagini a parlare, scarne e nude con il suono in presa diretta
quando vengono ripresi i senzatetto e la città con le scritte xenofobe
sui muri, scritte che –indici forse di una insufficiente scolarizzazione
e cultura– tra il comico e il tragico presentano errori ortografici. L’interesse nel cogliere la realtà come pura immagine evitando il com-
317
mento avvicina il cinema di Debono alla concezione di cinema che
Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini avevano9. Antonioni
esprime la sua predilezione per l’immagine sulla parola, «si vuole
semplicemente indicare l’essenza del cinematografo […] nel quale
l’immagine ha una posizione preminente rispetto alla parola. […]
l’autenticità del cinematografo […] è e rimane prettamente visiva e
ritmica» (Antonioni p. 330). Se inizialmente Pasolini interpretava il
cinema come ulteriore possibilità linguistica ed espressiva, successivamente fu sempre più convinto della inadeguatezza della parola nel
poter ritrarre la realtà perché fondata su un sistema arbitrario di simboli che in quanto tali non erano la realtà, ma rimandavano ad essa.
Nel cinema invece la realtà è presenza.
Esprimendomi attraverso la lingua del cinema – che altro non
è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà – io
resto sempre nell’ambito della realtà: non interrompo la sua
continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e
arbitrario che è il sistema dei linsegni. Che per «riprodurre la
realtà attraverso la sua evocazione», deve per forza interromperla. (Pasolini, Empirismo p. 229)
Delbono, infatti, afferma:
Con cinema c’è la possibilità vera di osservare le cose. Nel
cinema c’è l’idea del viaggio: viaggio verso il fuori e verso
il dentro, entrare come sonda nell’animo umano, il lasciarsi
guardare dentro attraverso il primo piano, un gesto… Lo spazio del teatro è più verso l’esterno. Con il cinema si ritrae il
grande paesaggio (ciò che ci circonda) e il piccolo paesaggio
(noi stessi). (Delbono, intervista 18/12/2009)
Il viaggio è un tema comune ai suoi precedenti film, in particolare
a Grido (2006), film poetico sull’incontro fra Delbono e Bobò, sul
viaggio di due persone che si trovano e, citando dal film, «salvano
e vengono salvate» in un reciproco scambio di amore e condivisione. Interessante è l’uso del carrello in questa occasione. Il viaggio
interiore viene rappresentato anche dal viaggio a Napoli, città che ha
9 Pippo Delbono nell’intervista dichiara la sua predilezione per Pasolini e Antonioni tra i registi che hanno contribuito alla sua formazione (Delbono, intervista
18/12/09).
318
significato molto per il regista dal punto di vista della propria crescita. Le immagini colte dall’autobus turistico in cui si ritrae la solita
Napoli si differenziano enormemente dalla immagini girate in vespa,
alla scoperta di luoghi altri, allegoria dei luoghi interiori. Non è la
Napoli da cartolina, ma una Napoli del viaggio interiore. Così come
l’Italia de La paura è il luogo della scoperta anche della propria paura
soggettiva, di come l’Italia si è trasformata10.
Dallo sguardo accidentale che porta il regista a cogliere scorci di
realtà nel suo vagare per l’Italia, si passa ad uno “sguardo interventivo” (Nichols in Perniola pp. 217-218) e allo stesso tempo umano
quando Delbono si reca al funerale di Abdul Guiebre, il ragazzo ucciso per aver rubato una scatola di biscotti. Parlo di sguardo interventivo perché questo è l’unico momento in cui la voce del regista si fa
sentire chiaramente contro l’indifferenza delle istituzioni e anche dei
partiti di sinistra, mostrando tutta la sua indignazione. In questo frangente il cellulare si rivela strumento privilegiato di un incontro con i
volti dei presenti al funerale che probabilmente la macchina da presa,
o anche la telecamera digitale, non avrebbe permesso. Come afferma
Delbono nell’intervista, la scelta del cellulare risulta fondamentale
nel riuscire ad incontrare lo sguardo dell’altro. Il potere della nuova
tecnologia digitale sta proprio in questo essere in grado di cogliere la
realtà nell’evento non programmato e nella possibilità di mettersi in
relazione in modo più facilitato con gli altri, nel dialogo con l’altro
o semplicemente nell’osservazione non interventiva. Certamente la
tecnologia digitale non supplisce la mancanza di idée, come critica
Silvano Agosti in una intervista a proposito delle nuove tecnologie
(Agosti). Allo stesso modo, i film indipendenti possono essere girati
10 A questo proposito, il dibattito sul rapporto tra luogo e cinema è ancora attuale.
Sono trascorsi più di sessantanni da Paisà (Rossellini 1946) e il girare in luoghi altri che non siano studi o le solite locations di Roma che rendono l’Italia
immagine da cartolina è ancora atto anticonvenzionale di ribellione che vuole
dimostrare una certa filosofia di fare cinema. «Basta vedere le locations che scelgono per girare i loro film (il regista fa riferimento a Ferzan Özpetek e Cristina
Comencini n.d.r.). Non sanno che cosa è l’Italia. Sono girati in quattro angoli
di Roma. Poi vedi un film girato a Scampia e allora dici, ma l’Italia non è solo
quella dei quattro angoli. Anche Sorrentino ha girato a Roma Il Divo, ma la Roma
di Sorrentino è completamente diversa da quella ‘da cartolina” che è la loro. […]
è un discorso politico: l’idea che attraverso un certo tipo di film passa una certa
visione della realtà e del mondo». Dall’intervista di Dario Zonta al regista indipendente Daniele Gaglianone (Gaglianone p. 79)
319
anche senza questo tipo di apparato tecnico che Carlo Lizzani vede
invece come in parte risolutivo per sostenere la produzione di film
a budget limitato (Assante). Tuttavia, rimane il fatto che il digitale
rende l’accesso al mezzo filmico democratico, realizzando più facilmente la filosofia del “pedinamento” alla Cesare Zavattini.
Il documentario si conclude con le immagini di Bobò che, nudo,
fa la doccia e con le parole del regista: «vorrei essere analfabeta come
Bobò, che come il lupo, anche se lo addomestichi, guarda sempre
verso la foresta». Il commento in voce over del regista ci rende partecipi di nuovo della sua paura. Il contesto sociale italiano pare fondarsi su un sistema di valori che celebra una solidarietà di comodo, ad
esempio quella nei confronti degli animali domestici, espressa dalla
registrazione del programma televisivo Pongo e Peggy: gli animali
del cuore, mentre dimentica le condizioni di vita dei campi nomadi
e le leggi proposte dalla Lega per la raccolta delle impronte digitali
dei popoli Rom e Sinti. Il desiderio di analfabetizzazione è chiara
protesta nei confronti di quel sistema mediatico che ha svilito e deturpato il linguaggio, sproporzionato rispetto al contenuto che esprime
e specchio di superficialità e arroganza. Nella chiosa finale inoltre si
riassume la dichiarazione di intenti del regista: lo sguardo critico e
l’impegno di un cinema politico.
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322
323
Flavia Brizio-Skov
Esiste un nuovo cinema politico italiano oggi?
Premessa teorica
Esiste un nuovo cinema politico italiano oggi? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto chiedersi che cosa s’intenda per
cinema politico. Di solito per la definizione classica di cinema politico ci si rifà ad André Bazin che, nel suo famoso saggio, Che cosa è
il cinema?, analizzando le caratteristiche del cinema neorealista italiano, è stato uno dei primi ad affermare che i film di Rossellini, De
Sica, Visconti, ecc. manifestano il rifiuto di una società ingiusta ma,
invece di immergere i fatti e i personaggi di cui si racconta in una
narrativa a tesi, predisposta e quindi strumentalizzata al fine di trasmettere un certo messaggio politico-sociale, questi registi lasciano
libero lo spettatore di ricostruire il messaggio politico a posteriori.
Il film neorealista non fornisce messaggi, o risposte, secondo Bazin,
bensì costringe il lettore a interrogarsi sul “reale”. Lo spettatore non
viene pedagogicamente istruito dall’alto, ma diventa attivo artefice
della produzione del significato politico1.
L’altro esempio di cinema politico, spesso citato, è quello del
dopo-sessantotto, un cinema impegnato che si considerava parte
vitale del progetto di trasformazione socio-politica del Paese. Un
cinema che si opponeva a uno Stato poco garantista che esercitava
la censura, difendeva il grande capitale e manteneva la televisione
sotto stretto controllo. Era un “fare cinema” (come si usava scrivere
allora) che credeva in un possibile cambiamento della società, in un
futuro in cui le cose sarebbero cambiate per il meglio, in altre parole
era un “cinema militante”2. Purtroppo le cose da allora sono cambia1 André Bazin, What is Cinema?, Berkeley, CA, University of California Press,
1994, pp. 13-60.
2 Sylvia Harvey, May ’68 and Film Culture, London, BFI Publishing, 1980, pp. 3-33.
324
te: è innegabile che oggi sopravviva un territorio del dissenso, ma si
presenta spezzettato, atomizzato. Inoltre, secondo il critico francese
Jeanpierre Jeancolas, il cinema ha perso la sua funzione pedagogica, non ci si può più avvicinare alla realtà con preesistenti valori
ideologico-politici la cui validità viene dimostrata dalla storia sullo
schermo: il tempo dei programmi di partito è finito3.
Quando si parla di cinema politico oggi bisogna, intanto, prendere le distanze non tanto dalla definizione di Bazin, che per molti
versi, come vedremo in seguito, è tuttora valida, bensì dal concetto di
cinema politico post-sessantotto. Oggi il cinema politico, collocandosi all’interno della massiccia sconfitta della Sinistra storica, opera in un contesto molto diverso da quello degli anni intorno al ’68,
ragion per cui deve assumere forme diverse e deve essere giudicato
secondo altri parametri. Il nuovo cinema politico, come suggerisce
O’Shaughnessy, si colloca nella zona intermedia tra le politiche di
ieri e quelle di domani, in uno spazio in cui la lotta e la solidarietà
di classe è sparita, la classe lavoratrice è stata smantellata, la grande
narrativa di emancipazione della Sinistra crollata, e il neo-capitalismo ha trionfato4.
Si è assistito negli ultimi anni al collasso del Partito Comunista e
al declino della forza carismatica e contrattuale dei sindacati, mentre
il capitalismo si è re-inventato attraverso la tecnologia, le multinazionali e la globalizzazione. Solidarietà e lotta di classe sono espressioni dalla semantica obsoleta. De resto Badiou sostiene che la narrativa storica di emancipazione (quella della Sinistra marxista) non
può più spiegare la situazione sociale contemporanea, le masse non
si riconoscono più come soggetti politici capaci di emancipazione
attraverso la lotta, ma come individui isolati che sono personalmente
responsabili della loro emarginazione sociale. Il forte immaginario
della Sinistra che in passato ha dato significato e direzione alle lotte
operaie, e portato alla luce l’oppressione delle masse, oggi non è più
concepibile5. L’opposizione al capitale attraverso un’unica coerente
struttura – l’unica che secondo Gramsci potesse dare coerenza e forza
3 Si veda l’articolo di Jeanpierre Jeancolas sul cinema politico apparso su Positif
(434: 56-8).
4 Martin O’Shaughnessy, The New Face of Political Cinema-Commitment in
French Film since 1995, Oxford, Berghahn Books, 2007, pp. 1-34.
5 Si veda Badiou, Balibar, Rancière- Re-Thinking Emancipation by Nick Hewlett ,
London, Continuum, 2007, pp. 1-81.
325
alla lotta contro l’egemonia –, oggi non è più concepibile in quanto il
paradigma marxista, che univa il locale al nazionale-internazionale,
si è sfaldato. Oggi l’offuscamento delle classi sociali, l’uso della violenza senza il suo incorporamento in un programma di emancipazione, l’emergere di movimenti sociali vivi, ma staccati dalle istituzioni
politiche, ci pone davanti a una società frammentata6.
Recentemente però il successo di pubblico e di critica di molti
documentari, negli Stati Uniti quelli di Michael Moore, nell’ambito italiano Videocracy (2009) di Erik Gandini, Draquila (2010) di
Sabina Guzzanti e Fratelli d’Italia (2009) di Claudio Giovannesi sottolineano un rinato interesse per il “reale”7. Mentre il documentario impegnato cerca di scoprire le operazioni dei potenti, e di
documentarne l’opposizione (globalizzazione e anti-globalizzazione, fast-food e slow-food ecc.), il cinema politico invece, secondo
O’Shaughnessy, deve concentrarsi su coloro che sono vittime degli
effetti dell’economia globale, ma sono staccati dai circuiti del potere.
Nonostante le interessantissime tesi del critico inglese che costituiscano l’ossatura critica del presente saggio, ci pare che questa sua
6 Cfr. Jason Barker, Alain Badiou-A Critical Introduction, London, Pluto Press,
2002, pp. 83-149.
7 Esistono molti documentari politici di notevole interesse, si vedano, per esempio, Super Size Me di Morgan Spurlock (USA, 2004) sull’influenza venefica
del fast food sulla salute; Food, Inc. (USA, 2008) di Robert Kenner sugli abusi
dell’industria alimentare americana; An Inconvenient Truth (USA, 2006) sul global warming e Waiting For ‘Superman’ (USA, 2010) sui problemi dell’educazione,
entrambi di David Guggenheim; Inside Job (USA, 2010) di Charles Ferguson
sulle cause della crisi finanziaria americana; No End in Sight (USA, 2007) sulla condotta dell’amministrazione Bush e la guerra in Iraq; The End of the Line
(UK, 2009) di Rupert Murray sul rischio dell’estinzione entro il 2048 di molti
speci ittiche a causa di metodologie peschive scriteriate; The Cove (USA, 2009)
sullo sterminio dei delfini da parte dei Giapponesi; Black Gold (USA, 2006)
sull’industria globale del caffé; Bananas!* (Sweden, 2009) di Fredrik Gertten
sulla causa dei lavoratori delle banane nicaraguensi contro il gigante multinazionale Dole Food; e naturalmente i documentari di Michael Moore: Capitalism: A
Love Story (2009), Sicko (2007), Fahrenheit 9/11 (2004), Bowling for Columbine
(2002), and Roger & Me (1989), rispettivamente su Wall Street e il suo impatto sul governo americano a scapito della democrazia, sui servizi mutualistici
americani (HMO) e quelli, statalizzati e migliori di altri paesi, sulla strumentalizzazione dell’attentato del 9 Settembre da parte dell’amministrazione Bush a fini
militari, sulle stragi di civili ad opera di civili e sulle armi da fuoco nella società
americana, e sulla chiusura della fabbrica di Flint, Michigan, da parte della General Motors e della conseguente perdita di lavoro di 30.000 persone.
326
affermazione limiti un po’ troppo l’area del cinema politico. Se è
senza dubbio vero quello che egli afferma, ciononostante a noi sembra che gli effetti nefasti della globalizzazione possano essere osservati non solo negli strati altamente disastrati della nostra società, ma
in tutto lo spettro sociale.
Prima di passare ad esaminare alcuni esempi di nuovo cinema
politico italiano, tuttavia, è d’uopo citare un’ulteriore definizione di
cinema politico che non possiamo tralasciare in quanto ci aiuta a consolidare ulteriormente la nostra tesi, aiutandoci a capire quello che
questo cinema non è. Secondo i critici di Cahiers du Cinema bisogna
fare una distinzione all’interno del cinema politico tra i film che sembrano politici o si proclamano tali, ma non lo sono, e quelli che lo
sono veramente. I primi sono film che hanno un contenuto progressista, ad esempio parlano di uno sciopero o di una repressione di stato,
ma diluiscono la dimensione politica concentrandosi sul dramma dei
personaggi, e in pratica riproducono sullo schermo quello che il lettore già sa, lo status quo. Questi film non problematizzano il reale bensì
raccontano al lettore quello che lui già conosce. Mentre i falsi film
politici ci restituiscono il “familiare”, creando un “realismo immobile”, il vero cinema politico destabilizza quello che noi pensiamo
di sapere8. O’Shaughnessy, citando il critico di Cahiers du Cinema,
Jean-Pierre Garnier, scrive che i registi piccolo-borghesi portano lo
sfruttamento, il razzismo, la violenza urbana e le classi sociali sullo
schermo, ma solo al fine di de-politicizzare il tutto. La lotta di classe
viene dissolta in una critica a formula della borghesia, ci si concentra
sulle emozioni dei personaggi, le vere cause della disoccupazione,
per esempio, si ignorano e le questioni sociali si trasformano in fatti
personali.
Una volta stabilito che il nuovo cinema politico è un cinema che
si occupa del “reale”, secondo la definizione di Bazin e degli altri
critici citati, ci troviamo di fronte ad un ulteriore problema. Il “realismo”, cioè la riproduzione della realtà in letteratura o cinema è
ovviamente un’impossibilità, l’abisso ontologico tra la realtà fenomenica e l’arte che la ricrea è, come rileva Cassirer, incolmabile. Ne
consegue che quando parliamo di realismo nell’ambito del cinema
8 Jean-Pierre Garnier, Le social sans le politique in «L’Homme et la Societè», 142
(2001), pp. 65-89.
327
ci riferiamo soprattutto a “strategie narrative” e, pur tenendo presente che il contenuto deve aver a che fare con la realtà sociale, qui
si parla del modo in cui i mezzi tecnici del cinema possano “ricostruire la realtà”.
Nel cinema politico le caratteristiche del realismo da noi menzionate sono basicamente quelle teorizzate dal neorealismo e ormai
diventate parte del linguaggio del cinema mondiale. Il cinema neorealista/realista deve usare attori non-professionisti e nel caso ricorra
ad attori professionisti, questi dovrebbero avere parti che contrastano
con la loro persona cinematografica. Si veda come esempio classico Anna Magnani e Aldo Fabrizi che, pur essendo attori comici
del varietà e della commedia (Avanti c’è posto, 1942; Campo de’
fiori, 1943), assumono ruoli drammatico-tragici in Roma Città
Aperta (1945) di Roberto Rossellini. Inoltre, questo tipo di cinema
predilige gli esterni e la luce naturale perché, come insegnava De
Sica, bisogna mettere la cinepresa nel mezzo del flusso della vita,
nelle strade, nelle caserme, nelle stazioni… e filmare quello che fa
inorridire i nostri occhi. Insomma, le regole dettate dal neorealismo
sono, come sottolinea Bazin, “una trionfale evoluzione del linguaggio cinematografico”9. Oggi si parla di cinema politico quando il
film aspira a creare un’oggettività quasi documentaristica, mostra
preferenza per i campi lunghi e medi con profondità di campo (alla
Nanook, per intenderci), segue con la stadycam il personaggio standogli addosso e pedinandolo, quasi ‘asfisiandolo’ zavattiniamente,
ed esegue le riprese negli ambienti in cui gli eventi della storia narrata sarebbero dovuti accadere (si vedano, per esempio, i primi film
di Lars von Trier, quelli del gruppo DOGMA 95 e quelli dei fratelli
Dardenne come Rosetta, L’enfant).
Sovente questo cinema realista-politico evita anche l’happy end
del cinema hollywoodiano, preferendo una finale aperto, concetto che
Umberto Eco aveva già da tempo teorizzato nei riguardi dell’opera
narrativa.10 Infine, questo tipo di cinema dovrebbe cercare di far coincide, almeno secondo gli esempi francesi, la durata della storia narrata sullo schermo con la durata degli eventi rappresentati, rifuggendo,
per esempio, dall’uso del flash back.
Nel cinema neorealista i personaggi delle storie erano come dei
9 André Bazin, op. cit., pp. 9-30.
10 Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962.
328
topi da laboratorio intrappolati in un labirinto apparentemente governato dal caso. De Sica, per esempio, costruisce la storia di Ladri di
Biciclette come se le avventure di padre e figlio fossero governate da
un fato avverso, quindi il suo film, anche se tecnicamente frutto di
un lavoro meticolosissimo come sappiamo dalle interviste, crea nello spettatore l’illusione che tutto succeda per caso. Come suggerisce
acutamente Bazin, lo spettatore che esce dalla sala cinematografica
dopo aver visto Ladri di biciclette non arriva alla conclusione che in
questo mondo ci siano, purtroppo, dei ladri di biciclette, ma è convinto che in una società che si rispetti non ci dovrebbe essere un livello
disoccupazione tale che la perdita di una bicicletta si trasformi in tragedia per una famiglia. Se Ladri di biciclette fosse stato un prodotto
di Hollywood a metà della storia sarebbe arrivato un poliziotto buono
e super dotato alla Schwarzenegger che avrebbe arrestato i cattivi e
restituito la bicicletta al protagonista (Ricci), cosicché il film si sarebbe concluso con padre, madre e figlio che felici e sorridenti brindavano con panettone e spumante. Lo spettatore poteva quindi tornarsene
a casa contento con la coscienza tranquilla perché tutto si era risolto
per il meglio e con la certezza che in “questo mondo” le cose funzionavano come dovevano. Questo sarebbe, a nostro avviso, un esempio
di falso film politico. In un film di propaganda politica come quelli
del realismo sovietico, costruiti secondo la teoria del rispecchiamento di Lukács, le cose invece sarebbero andate diversamente11. In tale
film il nostro eroe, Ricci, non avrebbe ritrovato la bicicletta, avrebbe
cercato di rubarne una, ma mentre fuggiva, sarebbe stato ammazzato
dalla polizia. Il film si sarebbe concluso con suo figlio che si avviava
piangente e solo in mezzo a una strada, intrappolato senza speranza nel circolo vizioso della povertà e dell’abiezione causato da una
società ingiusta. Questo sarebbe ovviamente un esempio di film a
tesi. De Sica per fortuna nostra, non ha seguito nessuna delle suddette
alternative, il suo protagonista perde la bicicletta e quasi sicuramente
perderà il lavoro, ma la tesi sociale emerge a posteriori nella mente
del lettore dopo aver assistito al dramma morale, psicologico ed emotivo dei due protagonisti. Alla fine del film, infatti, padre e figlio si
allontanano mano nella mano senza bicicletta, ma con un rinnovato
patto di solidarietà umana tra di loro più stabile di prima, cosa che
naturalmente scatenerà una forte reazione emotiva nello spettatore
11 Cfr. György Lukàcs, Saggi sul Realismo, Torino, Einaudi, 1950, pp. 7-34.
329
che al colmo dell’indignazione si domanderà come sia possibile che
esistano tali ingiustizie sociali12.
Questa disquisizione su Ladri di Biciclette ci serve per sottolineare che oppressione, povertà, crimine, disoccupazione ecc. ovvero i
temi del neorealismo, sono tuttora parte della tematica dell’attuale
cinema politico. A questo punto però è doveroso fare una distinzione. O’Saughnessy nel suo illuminante libro The New Face of Political Cinema (2007) si occupa di cinema francese, e i film che cita
come esempi del nuovo cinema politico sono tutti prodotti che trattano di temi molto simili a quelli del neorealismo: le banlieue – le
zone industriali francesi dove un tempo prosperava una combattiva
classe operaia ora diventate zone di rovina, droga, degrado – l’immigrazione clandestina, i problemi d’integrazione razziale, l’emarginazione, la disoccupazione, il lavoro in nero, i sans-papiers ecc.
Indubbiamente esiste un gruppo di registi in Francia e Belgio che
hanno costruito un nuovo cinema politico trattando queste tematiche, tuttavia, dovendo considerare l’attuale cinema politico italiano
dobbiamo fare delle distinzioni.13 Per prima cosa l’Italia vive una
situazione diversa dalla Francia sia socialmente che politicamente,
inoltre pensiamo che il nuovo cinema politico non debba necessariamente parlare solo dei temi cari al neorealismo o al cinema politico francese. “Politico” è un aggettivo che incorpora il personale e
il pubblico, perché il personale è condizionato profondamente dal
pubblico come hanno insegnato le teorie femministe, e se vogliamo
scegliere come comune denominatore del cinema politico di ieri e
di oggi il binomio oppressione/ingiustizia, dobbiamo allargare le
coordinate del “reale”14.
Nel panorama del cinema italiano, esistono molti film politici che
però si allontanano dai parametri di cinema impegnato alla vecchia
maniera e sono politici in una maniera nuova, pur ricadendo perfet12 Si veda anche per un discorso più ampio sul neoarealismo, Italian Neorealism di
Mark Shiel, London, Wallflower, 2006, pp. 17-95.
13 I film che O’shaughnessy tratta sono quelli di Jean-Pierre and Luc Dardenne (La
Promesse ’97, Rosetta ‘99, Le Fils 2002, L’Enfant 2004), Reprise di Harvé Le
Roux, Robert Guédiguian (Marius and Jeanette ’96); i film di Beauvois, Jolovet,
Siri, Kassovitz (La Haine ’95), Richet, Zonca (La Vie rêvée des anges, ‘97), Laetitia Masson, Poirier, Vincent, Dumont, Cabrera ecc.
14 Cfr. Bernadette Luciano e Susanna Scarparo in The Personal is still Political:
Films ’by and for Women’ by the New Documentariste in «Italica» Vol. 87, n. 3
(2010), pp. 488-503.
330
tamente nell’”estetica del frammento” teorizzata da O’Shaughnessy.
Oggi si vive in una società dello spettacolo, dominata dal consumismo e dalla mercificazione, una società globale e frammentata. La
vecchia classe lavoratrice fautrice della resistenza collettiva e delle
trasformazioni sociali è relegata al passato. Oggi il cinema politico
può solo registrare la sconfitta e vedere tra i relitti di questo affondamento se ci sia qualcosa da salvare. Ne consegue che questo nuovo
cinema politico è condannato a registrare “frammenti di speranza,
favole del possibile, piccole narrative di resistenza, atti isolati di lotta
individuale, momenti di solidarietà circoscritta”15.
Esempio 1: Mio fratello è figlio unico
Prendiamo un film come Mio fratello è figlio unico (2007) di Daniele
Luchetti16. Il film non parla di diseredati né di zone disastrate della società, ma narra la storia di una famiglia operaio-cattolica dal
1962 al 1975, ovvero dal boom economico agli anni del terrorismo,
e riscrive la storia dell’Italia attraverso i due protagonisti del film,
Manrico e Accio, due fratelli che partecipano in campi avversi, uno
militando nella sinistra e l’altro nel partito missino, agli eventi politici del Paese, dalle lotte del ’68 al terrorismo degli anni Settanta.
Il film non segue i dettami del neorealismo, vi sono attori professionisti, è girato in interni ricostruiti in studio, non usa nessuna tecnica documentaristica (come cinepresa mobile, colori naturalistici
ecc.), ma è filmato come un dramma tradizionale. Tuttavia, ci pare
sia esemplare, giacché esibisce molte delle caratteristiche del nuovo
cinema politico. Innanzitutto, ricordiamo che la ribellione che viene rappresentata in molti film recenti italiani può essere apprezzata
solo se la si considera all’interno della perdita di una cornice politica
generale della Sinistra, una cornice che un tempo esisteva e all’interno della quale si poteva dare significato e direzione a tutte le lotte
incanalandole in una prospettiva di giustizia futura. Tuttavia, dopo
lo smantellamento della classe operaia, della lotta collettiva e la fine
della visibilità socio-politica delle classi lavoratrici, nella frammen15 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 57.
16 Il film esce nel 2007, la sceneggiatura è di Sandro Petraglia, Stefano Rulli e
Daniele Luchetti, tratto molto liberamente dal romanzo Il fasciocomunista di
Antonio Pennacchi del 2003 (Mondadori).
331
tazione sociale attuale, le lotte sociali e le ribellioni possono essere
solo di natura locale17.
A dimostrare questo sta il fatto che nel cinema politico italiano
attuale abbondano i film in cui individui o piccoli gruppi fronteggiano l’impatto della disintegrazione sociale e l’oppressione economica con poche se non nulle risorse simboliche su cui contare. Se si
guarda al cinema attuale in quest’ottica i film politici sono numerosi, si pensi, per citarne solo alcuni, a Il posto dell’anima (2003, Riccardo Milani), La febbre (2005, Alessandro D’Alatri), Tutta la vita
davanti (2008, Paolo Virzì), La nostra vita (2010, Daniele Luchetti), ecc. La ribellione violenta o meno non fa più parte di un’ottica
di emancipazione generale, la ribellione esiste solo all’interno di
una prospettiva di emancipazione locale. La lotta di oggi nel cinema
politico quindi può essere rappresentata solo frammentariamente,
per questa ragione molti film politici italiani, se giudicati secondo il
modello d’impegno tipico del passato non sembrano film militanti.
Mio Fratello è un testo esemplare, in quanto registra il disfacimento
della Sinistra dopo il ’68, mostrando come essa abbia perso forza e
la frangia estremista si sia dispersa nella lotta armata underground,
ottenendo come risultato quello di farsi sopprimere dagli apparati repressivi dello stato senza riuscire a ottenere nessun risultato
sociale tangibile. Nel film, infatti, Manrico, divenuto terrorista viene freddato dalla polizia.
Mio fratello non potrebbe essere collocato facilmente nella scuderia di film che O’Shaughnessy considera politici, perché qui non
navighiamo nelle zone altamente disastrate della società, la famiglia
protagonista del film non appartiene alla classe operaia militante, ma
a quel proletariato operaio che per decenni ha mantenuto al potere la
Democrazia Cristiana. Nella famiglia Benassi il padre, operaio in fabbrica, è un fervente e obbediente cattolico che passa tutto il suo poco
tempo libero in parrocchia; la madre, casalinga, si arrangia col lavoro
a maglia in casa per sfamare i tre figli; tutti quanti vivono in una
dimora fatiscente che nel corso del film diventa pericolante, ma non
possono permettersi di trasferirsi per mancanza di mezzi. Nonostante
questo, sia padre che madre accettano la loro condizione di “poveri”
con rassegnazione. I genitori sono rappresentativi di una larga parte
della classe lavoratrice italiana, conservatrice, cattolica, sottomes17 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 46.
332
sa, che passa dal fascismo alla Democrazia Cristiana senza in realtà
cambiare di molto la propria ideologia. Una classe lavoratrice che si
sciocca quando scoppia nel ’68 la ribellione dei figli, disapprovando
sia l’attivismo politico fascista di Accio sia quello sinistrorso di Manrico, e scandalizzandosi ancora di più per la ribellione femminista
e sessuale della figlia. Nell’Italia dei primi anni Sessanta i Benassi
rappresentano una famiglia operaia di lavoratori timorati di Dio che
si sacrificano per mandare a scuola i figli. Non dimentichiamo che se
è esistita una classe operaia attiva e combattiva nel passato, in Italia è sempre esistito uno zoccolo duro cattolico e conservatore anche
all’interno del proletariato.
Esaminando Mio fratello, inoltre, notiamo che il protagonista principale, Accio, dopo essere stato disilluso dall’ipocrisia della Destra e
non essere riuscito neppure a entrare nell’ottica della Sinistra, decide
di rifugiarsi nel latino. Accio diventa un latinista perché, amando la
verità e cercandola in un mondo che non può dargliela, finisce col
rifugiarsi nell’erudizione (appunto le traduzioni dal latino). Il giovane si diletta con una lingua “morta” dalle regole fisse, le sue traduzioni sono sintomo del bisogno di fuga dalla confusione del mondo
ipocrita, falso e violento in cui vive. La purezza d’animo di Accio è
sottolineata anche dall’incipit del film quando abbandona il seminario, riconoscendo nella sua incapacità di astenersi da “atti impuri”
l’impossibilità di una vita religiosa sincera, causando non poco disappunto nei genitori cattolico-conservatori per i quali un figlio prete “fa
sempre comodo”.
Alla fine del film, Accio, tornato a casa dopo aver assistito alla
morte del fratello ucciso dalla polizia, ormai consapevole del fatto
che la rivoluzione non si farà, compie il vero atto rivoluzionario della storia. Stanco di vivere in una casa pericolante, si ribella e decide di risolvere il problema delle case popolari non assegnate dalle
autorità competenti né alla sua famiglia né a tante altre famiglie di
lavoratori come la sua; quelli che sul fascicolo dell’Ufficio Case
Popolari sono bollati come “Ultimi”. Accio opera un atto di solidarietà collettivo, locale e circoscritto, un atto di resistenza isolato
che richiama e ricorda una solidarietà altra, ovvero la solidarietà di
massa del tempo passato. Di fronte alla sconfitta del progetto rivoluzionario del fratello – ricordiamo che Accio nel bar pochi minuti
prima dell’arrivo della polizia, chiede a Manrico: «Ma allora, la fate
’sta rivoluzione o no?», domanda che rimane senza risposta per via
333
dell’arrivo della polizia e della conseguente sparatoria – Accio non
si arrende, ma agisce. Mentre la lotta di Manrico appare come un
atto elitista, minoritario, e fondamentalmente inutile, Accio col suo
atto rivoluzionario, utile e comunitario sembra riesumare una lotta
sociale di antico stampo.
Accio testimone della sconfitta della drammaturgia di sinistra del
dopo ’68, conscio della fine del progetto estremista avvenuta con
l’eliminazione fisica degli elementi più radicali come il fratello, arriva
alla conclusione che lottare è possibile e necessario e che l’isolamento degli “Ultimi” non è inevitabile. Il giovane entra di notte nell’ufficio delle case popolari, spacca la serratura, si impossessa delle chiavi
delle case finite di costruire, ma non distribuite, telefona alle famiglie
e poi fa in modo che tutti insieme si installino negli appartamenti, così
da occuparli e ostacolare un possibile intervento della polizia. Accio
dimostra allo spettatore con il suo agire che anche agli “ultimi” spetta
il diritto di vivere in una casa decente, che le classi al fondo della
piramide sociale non sono soggetti bisognosi di aiuto e da compatire
(come invece succede nei film falsamente politici), ma sono soggetti
oppressi dal sistema. Nel risolvere la situazione di “senza tetto” di
molte famiglie come la sua, Accio salva gli “Ultimi” con un atto di
ribellione che porta a risultati concreti e tangibili e riesce a dare un
senso politico e militante alle cose.
Il film non offre politiche esplicite, se mai narra della disfatta dei
grandi paradigmi della Destra e della Sinistra attraverso la sofferenza
di individui come Accio che non sono a loro agio né nella vita privata
(si vedano i suoi difficili rapporti con la famiglia) né in quella pubblica
(si veda la marginalizzazione di Accio in tutti i gruppi politici frequentati). Il giovane appropriandosi dei beni dello stato (le case popolari),
compie un atto che implica l’equa distribuzione dei beni, cosicché alla
fine è lui il vero rivoluzionario della storia (e non Manrico). L’atto
rivoluzionario di Accio è un atto collettivo che lo avvicina a valori di
emancipazione e quindi gli conferisce una voce politica che prima non
aveva. Il nostro ‘eroe’ rifiuta il ruolo di emarginato, esce dal silenzio,
rifiuta la posizione di “ultimo” e apre uno spazio che forse lo condurrà
fuori dal suo isolamento verso la collaborazione sociale.
La lotta contro l’ingiustizia, tema fondamentale del cinema politico odierno, è centrale in Mio Fratello perché, come dice O’Shaughnessy, nell’estetica del frammento la lotta è sempre immediata
e locale. In questa estetica l’individuo, avendo perso il paradigma
334
sociale che poteva dare un senso alla sua vita, senza la fede nella lotta per un futuro migliore, è condannato a vivere nel presente in una condizione in cui ogni azione sembra senza senso. Accio
per la maggior parte del film, è un essere recalcitrante perché non
possiede un linguaggio che gli permette di esprimere il rifiuto di
quello che gli succede, ma alla fine, attraverso il suo atto coraggioso, esce dall’isolamento. La ribellione di Accio è senz’altro minimalista, localizzata, ma esprime un impegno umanitario radicale.
Accio come il fratello Manrico e la sorella Violetta, è simbolo di
una generazione alla quale sono mancate le risorse simboliche sulle
quali ordinare il mondo, visto che i paradigmi che adottano, quelli
degli estremismi del ’68, si rivelano instabili, e il paradigma del
padre, ancorato a modelli ideologici ottocenteschi e retrogradi, è
inaccettabile.
Il film non “finisce”, ma termina con una bellissima immagine di
Accio, che finalmente padrone di un balcone, il primo della sua vita,
di fronte alla vastità del mare, rivede se stesso bambino, e sorride.
Accio non ha avuto un’infanzia felice, ma sembra essere arrivato a
patti con il suo turbolento passato. Sorridendo al suo “io fanciullo”,
accetta la vita passata e allo stesso tempo guardando la vastità del
mare simbolo di infinito movimento e di libertà, sembra guardare
verso uno “spazio” in cui forse saranno possibili altri atti di rivolta
collettivi che lo spingeranno fuori dal suo isolamento verso la collaborazione sociale, verso altre rivolte grazie alle quali sarà possibile
eliminare un po’ di ingiustizia dal mondo.
Qualcuno potrebbe obiettare che il registro melodrammatico del
film contrasta con il contenuto realista del film. Invece il melodramma è, secondo noi, maieutico, esso estrae quello che altrimenti rimarrebbe nascosto. Il melodramma grazie alle strategie usate, alle forti
emozioni e ai conseguenti conflitti che si sviluppano tra i personaggi
penetra sotto la superficie delle cose e produce un “potenziamento”
del reale. Secondo Rancière con la caduta della Sinistra, l’oppressione delle masse rimane, lo sfruttamento perdura, ma il mondo è
diventato “opaco”, quello che prima era evidente nelle dinamiche tra
le classi sociali adesso è offuscato. Con la globalizzazione del capitale si è verificata una spaccatura nelle classi lavoratrici tra coloro che
hanno un lavoro fisso e quelli che non ce l’hanno. I primi sono dei
privilegiati e quindi condannati al silenzio per paura di perdere quello che hanno e i secondi sono pure condannati al silenzio perché si
335
ritrovano ad avere bisogno di assistenza e quindi sono degli “oggetti
bisognosi” e non dei “soggetti con dei diritti”. Per di più con l’avvento della società dei consumi, con il nuovo sistema di produzione
e con l’utopia pervasiva della democrazia si è verificata un’opacizzazione delle classi sociali, queste sembrano non esistere più, giacché pare che tutti appartengano a una felice “middle-class”. Stiamo
assistendo a uno strano fenomeno per cui i problemi degli “ultimi”
paiono essere di natura patologica, si opina che costoro si ritrovano
a mal partito per colpa loro, cosicché meritano solo compassione o
repressione18.
In questo nuovo cinema politico, i personaggi rifiutano posizioni “ragionevoli”, propendendo invece per posizioni emotivamente
estreme, drammatizzando le situazioni. Sempre secondo Rancière,
la voce che rifiuta il silenzio collettivo e si ribella è necessariamente
18 Cfr. Todd May, The Political Thought of Jacques Rancière, University Park, PA,
Pennsylvania Sate University Press, 2008, pp. 1-38. Secondo Rancière, la nostra
è un’epoca di passività, e di eguaglianza passiva. Noi crediamo nella creazione, preservazione e protezione dell’eguaglianza che ci è data dalle istituzioni
governative, invece dovremmo combattere per ottenere un’uguaglianza attiva.
Lo sviluppo dell’economia capitalistica è la risposta a domande che una volta
forse sembravano politiche e sociali come l’idea della distribuzione della ricchezza e dei poteri, in realtà oggi il ruolo dello stato è quello di aiutare a creare
le condizioni per un’efficiente funzionamento del mercato capitalistico, di velare
l’ineguaglianza esistente grazie al fatto che a tutti viene dato un posto nell’ordine
politico, e di assicurarsi che le divisioni politiche non si vedano, infatti a tutti viene concesso un minimo di sostentamento per sopravvivere nell’ordine economico. Nel nome del consenso, i politici cercano di ridurre le lotte sull’uguaglianza a
problemi di ordine tecnico legato al progresso economico e alla distribuzione dei
beni. Ci fanno credere che siamo tutti d’accordo e che tutti viviamo in un mondo
senza disaccordo circa quello che dovrebbe essere fatto. L’approccio tecnologico
del governo è tale che esso si preoccupa della distribuzione delle merci piuttosto che della partecipazione del popolo nella creazione delle loro vite. Quelli
che soffrono sono vittime, la soluzione è l’assistenza umanitaria, la carità invece
della solidarietà, se non addirittura l’intervento dello stato. Il popolo nel governo
tecnocratico deve riconoscere che chi governa sa più di loro (niente dissenso),
infatti, se il popolo resiste si tratta di ignoranza e non di opposizione. I cittadini
non creano le pratiche quotidiane, ma sono creati dalle pratiche quotidiane; quando i centri commerciali rimpiazzano il mercato pubblico come centro di riunione;
quando università, musei e altri centri di cultura sono governati secondo i dettami
dell’efficienza economica; quando incominciamo a pensare alle nostre vite in
termini di shopping, noi entriamo nella prospettiva economica che rinforza la
visione politica dalla quale siamo esclusi.
336
“teatrale”19. I personaggi come Accio devono uscire dal ruolo a loro
assegnato e sfidare l’ordine sociale esistente, devono diventare soggetti denuncianti in quella che viene definita come la “nuova teatralità politica”. Il cinema politico quindi, deve rendere l’oppressione
visibile, deve rendere trasparente l’opaco e assicurarsi che i problemi
dei margini vengano ricollegati al centro. Che è appunto quello che
Accio fa nel film. Accio esibisce una forte fisicità e una continua reazione sopra le righe (teatralità) verso le persone o gli ostacoli che gli
si presentano e spesso ricorre al corpo nella sua rotta di collisione col
mondo. La sua insoddisfazione personale e sociale si esprime in dialoghi feroci, gestacci e botte, che nell’infanzia rivolge alla famiglia
e, nell’adolescenza, riversa sui suoi antagonisti. Il giovane esprime,
attraverso la sua gestualità/fisicità, la sua emarginazione, il suo essere un pesce fuor d’acqua in famiglia come nel mondo. Accio entra
in collisione con famiglia e società finché arriva a una scelta fondamentale, la distribuzione delle case, un atto ribelle e liberatorio che
dà valore etico-politico al mondo privo di giustizia in cui vive. Alla
fine del film, il nostro ‘eroe’ si schiera con gli oppressi, non a parole
come il fratello, ma a fatti. Infatti, egli esce dal suo isolamento, confronta l’ingiustizia pubblicamente e vi pone “rimedio”, sfidando l’ordine esistente e riuscendo a creare un “teatro” in cui colloca al centro
del palcoscenico quello che prima non c’era, l’ingiustizia sociale.
Mio fratello non è solo la storia di Accio, ma la storia di una famiglia immersa nella Storia italiana, e come tale rende palesi diversi
punti fondamentali del nuovo cinema politico. Se le storie di famiglia
tendono a avere un risvolto conservatore, la storia di Accio invece
mette in luce come il ragazzo superi i suoi legami di sangue e si apra
verso il benessere non solo dei suoi, ma della collettività. La famiglia tradizionalmente è una forza conservatrice, lo spazio domestico
è dove si preserva la specie, dove si fa argine al mondo circostante.
Nel caso di Accio questo spazio domestico diventa il luogo in cui si
possono osservare meglio gli influssi del pubblico sui figli, dove le
ribellioni sessantottine acquistano risonanza emotiva, specialmente
quando viste attraverso le reazioni abnormi della famiglia patriarcale.
Concordiamo con O’Shaughnessy quando asserisce che il melodram19 Cfr. Nick Hewlett, Badiou, Balibar, Rancière – Rethinking Emancipation, London, Continuum, 2007, in special modo la parte intitolata Jacques Rancière:
Politics is Equality is Democracy, pp. 84-108
337
ma è diventato il veicolo ideale per ridare eloquenza e trasparenza
al reale20. Nonostante Mio Fratello non si concentri su sobborghi,
periferie, ex-zone industriali, ci pare che si concentri ugualmente sui
margini e non sul centro.
Secondo O’Shaughnessy il realismo del nuovo cinema politico
deve operare a diversi livelli: quello tematico, cioè occuparsi di temi
socio-politici contemporanei (mondo del lavoro, disoccupazione,
immigrazione, emarginazione ecc.); deve presentare immagini naturalistiche, quindi evitare pittoreschi panorami da cartolina illustrata,
in pratica deve avere un look documentaristico e presentare dei personaggi in rotta di collisione con il mondo circostante, ovvero deve
mostrare un conflitto. Inoltre, suddetto cinema dovrebbe preferire
l’uso di cineprese mobili, attori non professionisti e avere una trama
episodica con più personaggi o gruppi di individui o famiglie. Non
siamo al cento per cento d’accordo con il critico inglese, certamente
i temi sociali sono di primaria importanza, ma sulle caratteristiche
documentaristiche o le cineprese mobili non concordiamo. Mio fratello è stato girato in una cittadina della Puglia che, secondo il regista, assomiglia a Latina agli inizi degli anni Sessanta. Luchetti ha
evitato accuratamente i luoghi pittoreschi, le icone storiche tipiche
del mondo della pubblicità, i luoghi celebrati da sempre dal cinema, i
paesaggi da guida turistica. In Mio fratello le inquadrature dei monumenti sono presenti solo quando devono ricordare allo spettatore che
la cittadina è stata costruita da Mussolini, l’impronta fascista però
non si limita all’architettura, ma si estende anche all’ideologia di
molti personaggi. Le incursioni di Accio a Roma, a Genova e a Torino, avvengono in zone anonime: bar, stazioni, vie ingolfate dal traffico, in luoghi che potrebbero appartenere a qualsiasi città italiana
dell’epoca.
In questi nuovi film politici, spesso una macro-storia e una microstoria coesistono. Nel nostro caso, infatti, come è stato rilevato precedentemente, abbiamo la storia della famiglia Benassi e la Storia italiana, storia personale e storia pubblica. Sia Accio che Manrico sono
integrati in uno spazio nazionale e simbolico durante la giovinezza,
il primo facendo parte del Movimento Sociale Italiano, il secondo
del Partito Comunista. Questa integrazione però non funziona né per
l’uno né per l’altro. Il primo uscirà dal partito missino e il secondo
20 Cfr. Martin O’Shaughnessy, op. cit., p. 157.
338
entrerà nei gruppi extra parlamentari. Manrico si marginalizza in una
ribellione lontana dalla lotta di classe collettiva, il secondo, scoperto il vuoto che si cela sotto la retorica fascista, esce dal gruppo, ma
rimane un outsider. Per sottolineare questa emarginazione, il regista
fa muovere tutti i personaggi, ma soprattutto il protagonista, sempre
lontano dal centro anche negli spazi fisici delle città che attraversa
e percorre con disagio, incavolandosi col traffico, gridando insulti,
come a sottolineare la sua infelicità, la sua immersione in un localismo frammentato.
La mobilità, tipica qualità della nostra società a tecnologia avanzata, è un’altra caratteristica di questo nuovo cinema. La disponibilità finanziaria che permette alle persone di muoversi velocemente
nel mondo, esibendo una mobilità sia fisica che di classe, avviene
solo col denaro. I poveri sia letteralmente che figurativamente sono
“immobili”, imprigionati in una staticità economica che non gli permette di cambiare la loro situazione fisica – non possono andare in
vacanza, cambiare città, paese – né possono mutare la loro identità,
il loro ambiente, il loro lavoro, così come non possono muoversi a
loro agio con i propri mezzi di trasporto. I poveri devono stare a “loro
posto”, così come non possono reinventare se stessi. Accio non ha la
macchina, fa l’autostop o viaggia in autobus o in treno o va a piedi, e
la sua mobilità è limitata anche dal punto di vista sociale. La famiglia
per motivi economici costringe Accio a prendere il diploma da geometra, impedendogli di studiare nonostante sia bravissimo a scuola,
e negandogli, per mancanza di soldi, l’accesso al liceo dove pure lui
voleva andare; la famiglia gli impedisce automaticamente l’accesso
all’università e di conseguenza gli nega ogni mobilità futura. La ribellione politica di Accio e del fratello sia a Destra che a Sinistra, è un
modo per tentare di asserire il proprio diritto a cambiare il mondo,
anche se poi non ci riescono. Accio però, riabilitando gli “Ultimi”,
resiste alla sconfitta e nel suo piccolo la sovverte. Nonostante la mancanza di un paradigma politico nel quale poter inserire la sua ribellione, e la mancanza di un progetto elaborato per l’emancipazione delle
masse, Accio riesce a mutare il suo “presente” con un coraggioso atto
di solidarietà.
339
Esempio 2: Tutta la vita davanti
Un altro film in cui un piccolo gruppo fronteggia l’impatto della
disintegrazione sociale e l’oppressione economica con poche o nulle
risorse simboliche su cui contare è Tutta la vita davanti (2008) di
Paolo Virzì. Il film narra la storia di una ragazza, Marta, che laureatasi a pieni voti in Filosofia affronta il mondo del lavoro, ma non
trovando un impiego adeguato si ritrova a fare la telefonista temporanea presso una multinazionale, la Multiple, che vende aggeggi inutili alle casalinghe. La vicenda tratta della mancanza di lavoro e dello
sfruttamento dei giovani, rappresentando con acume il disfacimento
della classe lavoratrice e la vittoria del neo-capitalismo. Il film rientra nella categoria del nuovo cinema politico per ragioni diverse da
quelle esaminate nel caso di Mio fratello è figlio unico. Marta, la protagonista della storia, intelligente, istruita, vorrebbe conseguire un
dottorato in filosofia e scrivere, ma a causa della sua precaria condizione economica deve trovarsi subito un’occupazione per mantenersi. Marta possiede il logos necessario per far sentire la sua voce, ed
è appunto lei che registra l’alienazione delle sue colleghe, costrette
come lei a declamare ogni mattina slogan che celebrano il successo
individuale, alimentano la competitività, e che, in teoria, dovrebbero trasmettere felicità alle ragazze, nonostante a queste sul lavoro
vengano controllati anche i tempi delle pause bagno. Marta e le altre
venditrici telefoniche sono costrette a mostrare grande entusiasmo,
inneggiando al successo, gridando slogan di finta felicità. La ragazza, come le altre compagne, deve rinnegare il suo “io” ogni giorno e
soccombere alle esigenze del capitale, con la differenza che nel suo
caso, grazie all’istruzione, il logos le permette di dominare e incapsulare l’oppressione e poi di agire contro di essa. Il film attraverso le
vicissitudini di Marta ci conduce nella vita delle sue colleghe, delle
sue amiche e della madre single senza istruzione con figlia piccola
a carico con cui Marta condivide l’appartamento, la quale una volta
perso il lavoro non possedendo altre risorse, decide di mercificare il
suo corpo cadendo in un’alienazione peggiore di quella sofferta alla
Multiple.
Tutta la vita davanti descrive magistralmente come la multinazionale abbia creato un mondo parallelo, moderno, fuori Roma, in
una zona periferica e isolata, con un’architettura aereoportuale di
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capannoni e scale mobili che, a prima vista, crea un senso di modernità e di efficienza, mentre in realtà nasconde un mondo artificiale,
isolato dal resto della società e corrotto. In questo mondo satellitare
arrivano e partono continuamente autobus carichi di turniste (dello
sfruttamento) che si alternano. Il call center della Multiple è quindi
situato in un non-dove, nel quale i boss sono riusciti a promuovere con apparente successo, attraverso certi riti giornalieri imposti
ai lavoratori, il mito della ricchezza, della super-produttività e del
successo individuale. Il trionfo personale di chi sposa questi ideali
avviene inevitabilmente a spese di chi soccombe a questa dura logica che promuove una continua catena di oppressione: infatti, per
essere premiati bisogna buggerare le casalinghe raccontandogli storie, vendere a una classe economicamente modesta elettrodomestici
inutili, insomma truffare, con il sorriso sulle labbra, il prossimo.
Naturalmente la logica estrema del successo, il mito dello spettacolo, della ricchezza, l’ideologia che celebra le vette di successo del
vincitore, e l’idea che si debba salire sempre più in alto per raggiungere sempre maggiori profitti, ha come contropartita gli abissi dei
perdenti, la loro emarginazione, la loro alienazione e in alcuni casi
anche la loro pazzia. Dopo aver assistito alle pericolose reazioni di
coloro che incapaci di tenere un tale ritmo di produzione vengono
licenziati e finiscono per tentare di uccidersi, Marta diventa un soggetto denunciante, raccontando al sindacalista quello che succede
alla Multiple.
Tutta la vita davanti scava dietro la facciata dorata del consumismo
estremo, per rivelarne le ineguaglianze, le esclusioni e le oppressioni
che vi si celano dietro. Anche Marta a un certo punto, come Accio,
entra in rotta di collisione con questo universo lavorativo corrotto e
oppressivo e con la scelta di denunciare quello che succede alla Multiple dà valore etico-politico a un mondo privo di giustizia. Accio in
Mio fratello sceglie di agire in favore della collettività, anche Marta
lo fa, usando le parole e denunciando al sindacato e alle autorità i fatti
accaduti.
Anche in questa storia abbiamo un micro-cosmo, quello di Marta
e delle sue amiche, e un macro-cosmo quello della società dei consumi e del benessere in cui l’apparenza regna sovrana. Un mondo
in cui i perdenti vestono male, sono dimessi, mentre i vincenti sono
sempre perfettamente agghindati, sorridenti e apparentemente felici. Naturalmente la ricchezza non è la chiave della felicità indivi-
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duale, la manager delle donne (Ferrilli), all’apparenza incarnazione
perfetta della “donna arrivata”, elegante, vincente, in realtà dimostra di essere anche lei vittima dell’alienazione, della solitudine e
dell’infelicità, nonostante il successo materiale conseguito. La donna, infatti, uccide il padrone della Multiple (Ghini) che l’ha messa
incinta, ma non la ama, e con questo folle gesto dimostra che la
pazzia è un sintomo che colpisce non solo le vittime del potere, ma
anche chi lo amministra.
Come Accio anche Marta ha difficoltà di inserimento, lo spazio
fisico in cui si muove è troppo grande per lei, anonimo, impersonale,
all’interno di esso la vediamo sempre correre. Marta manifesta la sua
insoddisfazione camminando velocemente ovunque, come a cercare
di sfogare la sua frustrazione nel movimento; anche il “linguaggio
del capitale”, linguaggio della competitività e del successo, è in totale
discordanza con il linguaggio filosofico con cui Marta si esprime e
col quale, quando scrive, cerca di razionalizzare quello che vede e
sente. Se il logos filosofico aprirà a Marta probabilmente la strada
del mondo accademico, grazie alla pubblicazione del suo saggio su
Martin Heidegger e le multinazionali, il rifiuto del codice egemonico
non la porta solo a denunciare le ingiustizie, ma la conduce anche
alla scoperta della solidarietà verso le altre donne che non possiedono
alcuna “voce”, e facendosene portavoce, compie un gesto di solidarietà collettiva.
La Roma in cui Marta e gli altri personaggi si muovono è anch’essa frammentata, la Multiple come abbiamo visto è in un non–dove
periferico, staccato dalla città, ma le strade di Roma, gli uffici postali, i ristoranti potrebbero appartenere a qualsiasi zona metropolitana contemporanea. La perenne corsa di Marta trasmette al lettore il
suo essere fuori dal “centro”, immersa in un localismo frammentato,
correndo sembra cerchi di sfuggire a quella “immobilità” alla quale
la società l’ha condannata. Marta riuscirà a mutare la sua situazione
sociale e probabilmente a reinventare se stessa perché la sua cultura
le permette di farlo; la ragazza agisce, svela la natura ingiusta della
società contemporanea, rifiuta il consenso, resiste e sceglie la solidarietà umana e collettiva.
Come Mio fratello è figlio unico, Tutta la vita davanti non utilizza né l’estetica documentaristica né attori non professionisti, non è
neppure un melodramma centrato su una famiglia, ma la storia di un
gruppo di individui. È un dramma tradizionale, ma è anche un film
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politico che spinge il lettore verso un linguaggio di opposizione, a
confrontarsi con l’alienazione e la precarietà lavorativa dei giovani
oggi, un film che svela lo sfruttamento che si cela sotto il velo di
una società apparentemente felice ed economicamente florida. Accio
assegnando le case popolari e Marta denunciando la Multiple pubblicamente, scoprono l’implosione della società, rifiutano il silenzio e si
oppongono alla violenza socio-economica.
Conclusioni
Per concludere, dopo l’analisi comparata dei due film sopra citati e il
riferimento all’ermeneutica proposta da O’Shaughnessy e dagli altri
teorici, ci pare che questo nuovo cinema politico più che uno stile
cinematografico secondo i dettami del “realismo”, si avvicini agli
insegnamenti neorealisti in quanto pone al suo centro problemi eticosocio-politici. Questo nuovo cinema si allontana dalle forme estetiche
e ideologiche della cinematografica tradizionale di tipo Hollywoodiano, nonostante conservi quelle caratteristiche drammatiche indispensabili per catturare l’attenzione dello spettatore e per trasmettergli
quella dose di indignazione morale necessaria a spingerlo ad agire
nel suo sociale.
Questa nuova forma di cinema engagé propone una lettura di
quello che una certa realtà significa, di come funziona, e di come
essa possa essere cambiata. Di solito la complessità di questa “realtà” ricostruita sullo schermo è sottolineata da un’ambigua immagine
finale. Infatti, questi film raccontano “storie aperte”, che non presentano una fine nel senso tradizionale del termine; le vicende non
si risolvono, ma lasciano allo spettatore il compito di porsi quesiti,
è lui che deve formulare delle ipotesi. Del resto, la risoluzione dei
problemi sociali presentati, se e quando avvenisse, sarebbe un processo che dura nel tempo e quindi in linea di massima eluderebbe
lo spazio e il tempo filmico all’interno di un’ottica che mira al neoneorealismo21. In un certo senso questo nuovo cinema ricade nella definizione di Fernando Solanas e Octavio Getino che nel 1965
promuovevano un cinema della sovversione, ovvero un cinema che
documenta tutto quello che è “indigesto” al potere. In quest’ottica la
21 Si veda nota 22 per la definizione di neo-neorealismo.
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produzione di Hollywood è il “primo cinema”, il cinema alternativo
che oggi si chiamerebbe cinema indipendente sarebbe il “secondo
cinema”, e il cinema sovversivo sarebbe il “terzo cinema”, quello
che ha un impegno etico-politico con la vita di tutti i giorni. Diremmo quindi che molti dei nuovi film politici italiani rientrano in questa categoria di “terzo cinema”, un cinema che “svela” tutto ciò che
dalla realtà non trapela palesemente con il risultato di turbare lo
spettatore22.
22 Nel suo illuminante saggio “Strade, muri, terra, città, mare. Sud Italia e mediterraneità postmoderna nel cinema del terzo millennio”, Eusebio Ciccotti parla di
“neo-neorealismo” per il cinema italiano a partire dagli anni Ottanta, affermando
che i film in oggetto manifestano “un innegabile ‘modo oggettivo’, influenzato
dal documentario, nel filmare la realtà, simile a quello del neorealismo storico: un atteggiamento estetico che presenta alla base un comune denominatore
che potremmo chiamare modo neorealista”(California Italian Studies Journal,
escholarship.org/uc/item/7zf7j73q, 2010, pp. 13-14). Il film apripista di questo
modo sarebbe stato Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, seguito da una
quindicina di film realizzati tra Mery per sempre (1989) e Cuore cattivo (1995).
Questi film esibiscono: con-fusione dei generi, orizzontalità degli spazi fisici,
viaggio attraverso il corpo Italia, pedinamento (Zavattini), attori non professionisti, atteggiamenti documentaristici nell’ordito finzionale, uso dell’illuminazione
naturale in interni ecc. Ciccotti nel suo saggio si occupa di film che narrano del
Sud come Mio cognato (2002, Alessandro Piva), Certi bambini (2004, Andrea
e Antonio Frazzi), La guerra di Mario (2005, Antonio Capuano), Miracolo a
Palermo (2005, Beppe Cino), La terra (2006, Sergio Rubini), Galantuomini (2008, Edoardo Winspeare), Gomorra (2008, Matteo Garrone), La siciliana
ribelle (2009, Marco Amenta). Questi film come Amore tossico e i precedenti
sopra citati rientrano in quel folto gruppo di film italiani che si occupano delle
“zone” degradate della nostra società, di periferie, mafia, camorra, corruzione,
degrado, droga, povertà ecc. A nostro avviso questo filone di film, non solo esibisce un modo neorealista, ma si trova in sintonia perfetta con i nuovi film politici
francesi di cui parla O’Shaughnessy nel suo saggio, sia per stile filmico che per
contenuti. Flm come Certi bambini o La guerra di Mario, per esempio, sono
molto vicini a Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne. Tuttavia, rimaniamo dell’opinione che anche altri film italiani recenti di impianto più tradizionale come Mio Fratello è figlio unico e Tutta la vita davanti rientrino nel nuovo
cinema politico e nell’”estetica del frammento”, nonostante non seguano in tutto
e per tutto il modo neorealista e non trattino di “zone” particolarmente degradate
della nostra società.
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Tania Convertini
La difficile partita familiare di un padre e di un figlio:
Anche Libero va bene di Kim Rossi Stuart
Il calcio è una metafora della vita.
Jean Paul Sartre
Libero: sul campo di calcio e in famiglia
“Il calcio è una metafora della vita” sostiene Jean Paul Sartre1. Anche
Libero va bene, opera prima di Kim Rossi Stuart porta nel titolo, in
particolare in quel libero dal valore polisemico, il riferimento alla
lingua calcistica, che si svela solo alla fine del film quando il piccolo Tommi, protagonista insieme al padre dell’intera vicenda, ottiene
finalmente dal genitore, inizialmente contrario all’idea, di poter giocare a calcio. Tommi vorrebbe giocare come centrocampo e al padre
che gli suggerisce il ruolo di libero, risponde per l’appunto: «Anche
libero va bene». È proprio grazie a questa affermazione che lo spet1 Giorgio Casadio, nell’articolo Quando i libri facevano Goal apparso su «Il sole
24 ore» del 14 Giugno 2010 propone un interessante excursus del calcio nella
letteratura. Sono molti gli artisti che hanno trovato ispirazione nel gioco calcistico, nelle sue dinamiche e nella lingua che lo distingue. Da Leopardi con la sua
canzone A un vincitore nel pallone dedicata a Carlo Didimi di Treia, a Saba con
le sue cinque poesie sul calcio, a Montale che utilizzandolo come metafora surrealista dichiara: «Sogno che un giorno nessuno farà più goal in tutto il mondo»
e infine a Pasolini, per il quale il calcio era una vera e propria religione. L’autore
ne era affascinato al punto da scrivervi un intero saggio, analizzandone il valore
semiotico: «Il calcio» scriveva Pasolini «è un sistema di segni, un vero linguaggio, con una sua sintassi, che si esprime nella partita che, è un vero e proprio
discorso drammatico». Nel suo testo Voce e Silenzio nel cinema di Pier Paolo
Pasolini Giacomo Manzoli cita un articolo del 1971 nel quale Pasolini affronta
il tema della semiologia del calcio, definendolo un sistema di segni. L’articolo,
intitolato Una semiologia per il Goal si trova anche in Una vita futura.
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tatore attribuisce significato al titolo, inizialmente inteso esclusivamente come richiamo a più astratte e indefinite forme di libertà, che
lasciano poi spazio ad una nuova chiave di lettura dell’interazione e
delle dinamiche tra padre e figlio, del loro sguardo alla realtà e del
loro modo di rapportarsi alla vita ed interpretarla.
Il libero non ha una posizione fissa, e deve all’occorrenza sostenere l’attacco o la difesa dimostrandosi capace di agire e muoversi fluidamente. Con questa metafora il regista apre il campo (e non
mi sottraggo io stessa al linguaggio calcistico) a quella metafora che
andrà ad inserirsi efficacemente come sotto-testo del film. Padre e
figlio sono, infatti, entrambi giocatori di una partita familiare e sociale difficile e complessa.
Ciascuno a proprio modo, e dal proprio punto di vista, devono
essere in grado, come il libero del titolo, di difendere o attaccare, in
funzione di ciò che le circostanze richiedono.
La vita di questa famiglia, in cui il ruolo del padre e il suo rapporto con i figli, in particolare con il figlio maschio, costituiscono
l’elemento centrale della storia è, infatti, una gara quotidiana contro
i problemi del lavoro precario, degli affetti mancanti, e della solitudine.
La famiglia e la società in un gioco di spazi
Kim Rossi Stuart nel narrare un intreccio di affetti difficili e travagliati si fa efficacemente portavoce dei problemi sociali che affliggono le nuove famiglie italiane. Se il termine “sociale’, nella sua
accezione più ampia e tradizionale, indica quel sistema di organizzazioni e attività non strettamente legate alla vita personale dell’individuo e della famiglia, il regista dimostra, per contro, come la
distinzione tra individuale e sociale non sia affatto netta, e come la
vita della famiglia e i suoi spazi emotivi vengano influenzati dalla
società che la circonda, i suoi problemi, i suoi valori, nonché la sua
stabilità economica.
Il tema famiglia-società e individuo-socialità, viene enfatizzato
dal regista attraverso l’elaborazione del contrasto spaziale tra interno
e esterno, proposto sin dalla prima scena del film. I bambini al risveglio, colti nel loro ambiente familiare, sono, infatti, i primi ad essere
inquadrati dalla telecamera, che indugia sulla reticenza del piccolo
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Tommi ad uscire dalle coperte, sui dispetti della sorella più grande
che lo sveglia bruscamente rovesciandogli l’acqua di un bicchiere nel
letto e sui cuscini tirati scherzosamente.
Tommi inquadrato sullo sfondo della finestra
Il padre di Tommi inquadrato sullo sfondo di una finestra
Dal buio della stanza, ancora non illuminata dalla luce del giorno,
viene offerto, attraverso la finestra dalle tende semiaperte uno scorcio
dell’esterno.
È questa una delle prime immagini di contrasto interno/esterno
che il regista ci offre. La casa, l’intimità e il calore dell’ambiente
domestico in contrapposizione al mondo sociale, la scuola, il lavoro
e le istituzioni, entrambi luoghi della difficile partita familiare giocata da padre e figlio, vengono ripetutamente visualizzati dal regista
che inquadra spesso i due nella cornice di una finestra o di una porta
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o di un androne buio che si apre all’esterno, verso un mondo da scoprire e da capire.
Gli sguardi di padre e figlio, filtrano e osservano le due realtà: la
famiglia, rappresentata dalle mura e dagli ambienti domestici, con le
sue abitudini, centro di gravità degli affetti, presenti e assenti, e il sociale, costituito dall’universo esterno fatto di luoghi istituzionali, come la
scuola, o la piscina, dove Tommi è forzato dal padre a sostenere una
competizione non voluta, cercando di superare se stesso e gli altri.
L’esterno è soprattutto rappresentato da spazi aperti: il campetto, dove i bambini giocano a calcio, un ristorante in campagna, un
deserto fittizio, set improvvisato di una scena pubblicitaria nel quale
il padre lavora come operatore freelance (sinonimo di precario senza
sicurezze), e una spiaggia dove, miracolosamente, la famiglia si riunisce e ricostituisce come tale, sebbene per una sola giornata, isolata
dai problemi assillanti della quotidianità.
Tommi sul tetto del suo palazzo
In particolar modo, l’esterno è rappresentato dal tetto del palazzo,
dove il piccolo Tommi si arrampica indisturbato per osservare il
mondo dall’alto. Dal punto di vista della semiotica degli spazi il tetto
assolve alla funzione di protezione, copertura e riparo, rivestendo,
allo stesso tempo, il ruolo di linea di demarcazione ideale tra cielo e
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terra. È in questo spazio, ancora facente parte della casa, eppure al di
sopra di essa, che Tommi, nelle sue fughe pressoché quotidiane trova un suo personale rifugio e matura uno sguardo nuovo alla realtà,
attraverso l’esplorazione del senso di libertà e della prospettiva di
superiorità sui problemi del quotidiano e sul mondo che lo circonda.
In equilibrio sulle tegole, muovendosi disinvolto e sicuro davanti allo
spettatore ansioso e preoccupato per la sua sicurezza, Tommi osserva
dall’alto la strada, le case, le macchine e le persone che si fanno piccole sotto di lui in una condizione di solitudine e allo stesso tempo
di padronanza e possesso dello spazio esterno. Uno spazio che pare
appartenergli e che egli pare dominare più di quello interno, capace,
per contro, di generare in lui confusione e ansia.
Il tetto, luogo eletto di rifugio, in cui il mondo circostante, confuso
e distante, assume nitidezza attraverso le lenti di un binocolo, ha anche
un chiaro significato topologico-culturale, trovando un riferimento nei
rapporti e nelle opposizioni spaziali in cui viene rappresentata la realtà. Secondo il modello spaziale di Lotman le contrapposizioni spazio
interno vs spazio esterno, basso vs alto, vicino vs lontano e chiuso vs
aperto, sono in relazione con altre categorie oppositive come caldofreddo, sicuro-nemico, suono-silenzio, nonché alla contrapposizione
eroe dinamico-antieroe statico (pp. 261-273). Nella loro partita familiare, padre e figlio sono entrambi eroi dinamici, se pure l’uno (il figlio)
in uno stadio più evoluto dell’altro. Il padre, eroe imperfetto nelle sue
manifestazioni di debolezza e di rabbia, pronto ad un gioco all’insegna
dei cambiamenti; il figlio, eroe catalizzatore delle trasformazioni e dei
cambiamenti, capace di adattarsi alle nuove situazioni e di giocare più
ruoli allo stesso tempo, come il libero anticipato nel titolo.
I rapporti di genere
La dicotomia interno-esterno, così frequentemente proposta dal regista, se considerata come sinonimo di pubblico e privato, apre lo spazio a un’altra considerazione in merito ai rapporti di genere e ai loro
effetti sui ruoli della maternità e della paternità. Se nella famiglia tradizionale, infatti, l’uomo svolge le attività nella sfera prevalentemente pubblica e la donna in quella privata, nel nuovo modello di famiglia
italiana, che Kim Rossi Stuart propone, la polarità pubblico privato
è superata. Nel suo studio sulle interazioni tra giovani e il nucleo
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familiare il sociologo della famiglia Carmelo Carabetta fa opportunamente notare che2:
Alla stregua di un veliero in mezzo al mare sempre inquieto,
oggi la famiglia, spesso, è costretta a navigare senza equipaggio. Metaforicamente, su quel veliero, non di rado, si registra
la presenza di un solo genitore, paragonabile al comandante e
quasi sempre manca tutto l’altro equipaggio, ovvero il marito
o la moglie e i figli, in un contesto slegato dal gruppo parentale
e dalle altre storiche appartenenze, che nel passato rappresentavano una provvidenziale rete per la mediazione dei conflitti
e la risoluzione di tanti problemi. In assenza di quei rilevanti appoggi e di altri punti di riferimento certi, o quantomeno
conosciuti, il percorso di vita familiare si caratterizza come
indeterminato, confuso e sperimentale e le scelte più semplici
diventano difficili e problematiche in quanto non risolvibili con
le metodologie segnate dagli schemi culturali tradizionali (39).
È proprio questo il clima in cui si muove la famiglia che il giovane
regista propone, sofferente e alla ricerca di un equilibrio spesso irraggiungibile in cui Il padre e il bambino devono giocare “liberamente” i
loro ruoli, muovendosi tra una dimensione e l’altra e vivendone benefici e difficoltà.
Una nuova famiglia
Il privato delle mura domestiche, proposto nella prima scena del film,
può apparire, ad una prima analisi, un quadro familiare mattutino del
tutto comune: bambini al risveglio e un padre impegnato nell’incombenza, non facile, di avviare la giornata. Ma quando Tommi, undicenne poco incline a svegliarsi, si nasconde sotto le coperte e si riaddormenta, la voce fuori campo del padre, urlante e autoritaria, prende
possesso della scena.
2 Per un approfondimento delle tematiche relazionali tra giovani e famiglia si veda
lo studio sociologico Giovani cultura e famiglia, in cui Carmelo Carabetta analizza i molteplici mutamenti culturali che hanno investito l’universo familiare
e le sue componenti, prestando particolare attenzione al ruolo dei figli e ai loro
rapporti dinamici con i genitori.
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Il padre di Tommi in una scena domestica
La prevedibilità domestica, inizia a vacillare non appena l’uomo viene
inquadrato, coperto da una maglietta che gli copre solo parzialmente
le natiche nude. Il suo tono imperativo e autoritario, la voce forte e
altisonante con la quale impartisce ordini e somministra rimproveri,
appaiono in netto contrasto con il suo aspetto dimesso, trascurato e,
al tempo stesso, poco credibile. La sua posizione dietro a un asse da
stiro, nell’atto di stirarsi una camicia, il ferro in mano, brandito quasi
come un’arma, anticipano l’assenza di un perno familiare importante:
la madre.
Il regista, sottilmente ma con efficacia, pone l’accento sulla condizione della nuova famiglia italiana in cui, tra i suoi nuovi molteplici
volti, quello monoparentale è sempre più diffuso3. Tuttavia, se fino a
qualche decennio fa, come rilevano Barbagli e Saraceno4, la responsabilità dell’andamento domestico nella famiglia monoparentale era
prevalentemente femminile, oggi, all’insegna di una rivoluzione dei
rapporti di genere, sempre più padri vengono investiti del ruolo di
genitore unico. Il lavoro di cura, che per millenni è stato considerato compito femminile privilegiato, a partire dalla fisiologicità della
maternità al conseguente accudimento, alla responsabilità delle relazioni affettive e di crescita in seno alla famiglia, fino alla creazione
3 Per un approfondimento delle problematiche relative alla famiglia monoparentale si veda Corsi.
4 Per un approfondimento si veda lo studio di Marzio Barbagli e Chiara Saraceno
sullo stato delle famiglie in Italia.
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del ben noto mito di “angelo del focolare”, è ora non più appalto
esclusivo delle donne ma coinvolge, a pieno titolo gli uomini.
La madre? “Lei va e viene”
Ad enfatizzare la forte presenza paterna, e l’assenza della madre
dal quadro familiare, la telecamera di Kim Rossi Stuart si sofferma
sull’uomo, impegnato nelle sue incombenze quotidiane, dalla preparazione della colazione, al rimprovero dei bambini per il disordine
della loro camera, allo spiacevole ruolo di regolatore del tempo d’uso
del computer. Indugia poi, a sera, nel buio della camera da letto, sui
volti di padre e figli, addormentati insieme, nel letto, in un atteggiamento di intimità affettiva che insinua nello spettatore un senso di
mancanza, di vuoto e di sottile tristezza. La madre è assente e, per
usare le parole di Tommi, “lei va e viene”. La donna non è, infatti, in
grado di rimanere legata al suo ruolo di madre e moglie con le responsabilità affettive che ne derivano. È attratta da uomini più ricchi o
più interessanti e, per seguirli, si allontana ogni volta dalla famiglia,
per poi tornarvi e allontanarsene nuovamente. Infatti, quando ci siamo abituati all’ idea della sua assenza, quando l’abbiamo accettata e
razionalizzata, eccola che ricompare, prodiga di attenzioni e desiderio
di essere perdonata e reintegrata nel ruolo di madre dai propri figli.
Non importa che tipo di madre un bambino abbia perduto, o
quanto difficile sia vivere con lei. Non importa se le sue mani
lo abbracciano o gli fanno del male. Separarsi dalla madre è
peggio che essere nelle sue braccia mentre intorno esplodono
le bombe. Separarsi da lei è peggio che non stare con lei anche
se la bomba è lei. Perché la presenza della madre – di nostra
madre – significa sicurezza. La paura di perderla è il primo
terrore che conosciamo. […]. L’angoscia di separazione scaturisce dalla pura verità che, senza una figura che si occupi di
lui, il neonato morirebbe (Viorst p. 22)5.
È così che la psicoanalista Judith Viorst descrive l’abbandono subito
da parte della madre.
5 Judith Viorst, psicoanalista e scrittrice di libri per l’infanzia, ha studiato approfonditamente la relazione madre-figlio/a. Il suo testo più significativo, dal quale
citiamo è: Necessary Losses.
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Il trauma, a parere della studiosa, può provocare danni permanenti,
ferite da cui è difficile guarire. I bambini, aggiunge Judith Viorst, possono reagire diversamente all’abbandono materno e non è infrequente
assistere a reazioni di distacco e sospetto ad un eventuale ritorno della
madre. Ciò avviene quando il bambino mette in atto una chiusura dei
sentimenti affettivi allo scopo di auto proteggersi da ulteriori sofferenze (p. 23)6.
La triade madre e figli ricongiunta al ritorno della madre
È questo il caso di Tommi, che possiede l’intuito e l’esperienza di chi
è già stato abbandonato troppe volte e non può fidarsi e affidarsi, concedendosi nuovamente all’affetto della madre. Al suo ritorno teatrale di
madre pentita in cerca di perdono, Tommi reagisce con moderata cautela, pensoso e riflessivo sul da farsi, desideroso dell’abbraccio materno
ma incapace di abbandonarvisi. Viola, la sorella, alla disperata ricerca
di una figura d’identificazione femminile, accetta invece con gioia il
ritorno della madre e si schiera complice al suo fianco, anche correndo
il rischio di un ennesimo abbandono. La bambina, che nel suo tentativo di compensare la mancanza della figura materna, si era lanciata in
un’esplorazione quasi ossessiva del proprio corpo e della sessualità, è
in cerca di un modello con il quale identificarsi e la madre, con il suo
ritorno, potrebbe offrirsi come tale, colmando il vuoto esistente.
6 Citazione non testuale, parafrasata e tradotta dal testo inglese.
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Particolarmente espressiva un’inquadratura dei tre, nell’anticamera di casa, seduti su una panca, in attesa del padre e del suo giudizio. La madre e la figlia, vicine, i volti accostati in un atteggiamento
di intimità, riprendono senza difficoltà la comunicazione interrotta
dall’abbandono. A sottolineare la vicinanza tra le due, una corrispondenza di identità, sottolineata dal colore uguale dei loro maglioni che
ripropone l’eterno gioco di madre e figlia, l’una specchio dell’altra.
Tommi le osserva, silenzioso e pensoso, a dovuta distanza, timoroso
di colmare quello spazio fisico e affettivo che lo separa dalla madre.
Il volto della donna è illuminato in un gioco di luce/ombra ad evidenziare il contrasto insito nella sua natura sfuggente, il suo desiderio
di essere riaccolta e il suo costante bisogno di fuga. Il personaggio
della madre, anche nelle intenzioni del regista è complesso e pieno
di contraddizioni e, certamente, non concepito come negativo tout
court. Così Kim Rossi Stuart la descrive in un’intervista: «La madre
è il motore drammaturgico della storia. Non è una persona superficiale, una casalinga annoiata. L’ho sempre pensata complicata, ha delle
nevrosi profonde che la spingono nel baratro della voragine emotiva;
a quel punto, può solo scappare»7.
In questa partita familiare, difficile e spesso dolorosa, Kim Rossi
Stuart ha il pregio di non schierare i buoni contro i cattivi. La sua è
una storia fatta di compromessi, accettazioni, accomodamenti e scoperte graduali in cui padre e figlio, uniti da un amore profondo, giocano i loro ruoli da molteplici posizioni e punti di vista. Le violenze
verbali e fisiche, prima e istintiva reazione del padre al ritorno della
moglie, alla quale non può perdonare l’abbandono, lasciano presto il
posto al desiderio di riannodare i fili spezzati di un affetto familiare
e di un amore di coppia per la cui mancanza tutti in famiglia hanno
sofferto a lungo. Se il padre è desideroso di credere al ritorno e al
cambiamento che possono significare la ricostruzione di un quadro
familiare di normalità, Tommi, al contrario già anticipa il suo nuovo
abbandono: «tanto se ne rivà», sono le sue parole al padre quasi a
metterlo in guardia da una nuova sofferenza.
L’intermittenza del rapporto con la madre, che non è stata testimone costante della sua crescita, ha segnato Tommi in modo definitivo.
Ad una visita dal dottore la donna non è in grado di rispondere ad
7 Intervista pubblicata sul sito culturale della RAI «Italica». Riferimento completo
in bibliografia.
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una semplice domanda di routine sulle malattie infettive contratte dal
bambino. «L’ha avuta la varicella?» le chiede il medico, ma i suoi vuoti di presenze, il suo andare e venire di madre, che è uscita ed entrata
dalla vita della famiglia e dei suoi figli, non le permettono di ricordare. È il bambino che deve sopperire alla mancanza, testimoniando per
se stesso, e le proprie malattie, e assumendosi così la responsabilità
del proprio presente e del proprio passato. I segni di insofferenza che
la giovane donna ha per la vita familiare e per le sue responsabilità
non tardano a mostrarsi e, dopo una breve apparizione, foriera di una
passeggera illusione di normalità, scompare nuovamente. È proprio
Tommi, tornando a casa, una sera, a notare la finestra dalle luci spente
e a mettere immediatamente in relazione, forte delle precedenti esperienze, l’oscurità con l’assenza e l’ennesimo abbandono.
La famiglia perfetta del terzo piano
Alla famiglia sofferente, dagli affetti instabili e carenti, il regista contrappone un altro tipo di famiglia, dai rapporti stabili e sereni: la famiglia del terzo piano, significativamente posizionata, anche dal punto
di vista spaziale, in un piano di perfetta medianità ed equilibrio. Benestante, felice, ed equilibrata, la famiglia del terzo piano rappresenta
il prototipo di gruppo familiare radicato nell’immaginario collettivo.
A conferma ulteriore del suo equilibrio, tre sono i suoi componenti:
la triade mamma papà bambino, uniti in un rapporto di amore e reciproca comprensione. Tre è il numero perfetto dell’equilibrio, nonché
la tipologia di composizione più frequente della famiglia italiana formata da due genitori e un figlio unico8. Anche la famiglia di Tommi è
una triade ma, contrariamente alla famiglia del terzo piano, i membri
sono tre, a seguito di una sottrazione, e non in virtù dell’equilibrio
e della perfezione. I genitori della famiglia perfetta vanno d’accor8 Lo statistico Roberto Volpi, ha attentamente analizzato la costituzione delle famiglie italiane e afferma che: «la percentuale di coppie con un solo figlio supera
decisamente, già oggi, il 45 % di tutte le coppie con almeno un figlio. Quasi una
coppia su due tra quelle che hanno figli ha un solo figlio. Non sappiamo – sia
chiaro – se questo figlio resterà l’unico, sappiamo che se fotografassimo oggi
l’Italia delle coppie troveremmo che il figlio unico lungi dal rappresentare una
rarità è già, a questo momento, una tipologia molto frequente e che si appresta a
diventarlo ancor di più» (C’erano una volta i bambini p. 12).
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do, parlano con il figlio e tra di loro, si comprendono a vicenda e
sono felici, avendo costruito un sistema di relazioni e comunicazioni
sia affettive che fisiche, gratificanti per tutti i componenti del gruppo
familiare, contrariamente alla famiglia di Tommi, dove i rapporti quotidiani sono difficili e carichi di ansie, difficoltà, sofferenze e conflitti.
Quando Tommi entra per la prima volta nell’appartamento
dell’amico, dalle stanze ordinate, luminose e spaziose, in netto contrasto con lo spazio abitativo occupato dalla sua famiglia, sempre
nell’ombra e sommerso dal disordine, trova l’amico Antonio in un
momento di intimità fisico-affettiva con la mamma. Il bambino le sta
facendo un gentile massaggio alla schiena e tra i due corre una vibrazione di reciproca confidenza che Tommi, per conto suo, ignora e che
rimane ad osservare stupito e cosciente della mancanza.
L’amico del terzo piano e sua madre: un rapporto di intima confidenza
Quali modelli familiari per Tommi?
Se la famiglia, tra le sue molte funzioni, ha quella di offrire dei modelli a cui fare riferimento per la crescita, è evidente, dal contrasto tra i
due nuclei familiari, come per Tommi, tali modelli siano pieni di contraddizioni e problemi non risolti. La madre è immatura e incapace
di offrire garanzie. I suoi comportamenti, quando è presente in famiglia, sono all’insegna della violazione di ogni regola sociale. Il primo
effetto del suo ritorno a casa è un giorno di vacanza dalla scuola per i
bambini. Allo stesso modo, senza alcun preavviso la donna decide di
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concedere a sé e a Tommi un giorno speciale e lo sottrae, senza preavviso, nel bel mezzo della lezione, ai suoi normali impegni scolastici
e sportivi. Quando il bambino le fa notare che ha preso una multa per
divieto di sosta, la sua immediata e istintiva reazione è gettarla nel più
vicino cestino per la spazzatura, ignorandone il valore di sanzione e il
conseguente prezzo da pagare. Il padre, se pure mosso da un grande
amore verso i figli e da un costante desiderio di creare una famiglia
per loro, è incline a frequenti scatti di rabbia e amarezza nei confronti
della società che lo ha relegato in un ruolo senza sicurezze familiari
o lavorative. I bambini, tanto Tommi che Viola, sono testimoni dei
suoi scoppi d’ira, delle violente discussioni e del suo temperamento
irruento. Nell’ufficio di un cliente da cui deve riscuotere da tempo del
denaro per una parcella mai saldata, impone al figlio la vista di una
scena sgradevole e violenta. Gli insulti e la violenza fisica e verbale
producono tuttavia il risultato voluto (il cliente gli firma l’assegno
richiesto) offrendo così a Tommi l’esempio che l’attacco è il mezzo
più consono per ottenere ciò che ci spetta e difendere i nostri diritti.
Tommi e suo padre: se si gioca da liberi si vince
Lo scoppio d’ira più brusco e violento è diretto proprio a Tommi. Il
quale, nel desiderio di allontanarsi dalla realtà familiare cupa e difficile, chiede al padre di passare una settimana bianca con Antonio, il
fortunato amico del terzo piano. Il desiderio è quello, per una volta, di
sottrarsi alle preoccupazioni, alle urla, alle lotte che le giornate portano con sé per immergersi, anche se per pochi giorni, nella normalità
di un’esistenza sicura e senza scosse. Alla sua richiesta, la rabbia del
padre esplode: «Siamo sommersi dai debiti, ci stanno per togliere la
casa, sto nella merda fino a qua, e tu vuoi andare in settimana bianca?» urla l’uomo in un’esplosione di violenza fisica e verbale che tra
pugni agli oggetti che lo circondano e bestemmie, si conclude nella
cacciata di casa di Tommi, letteralmente buttato fuori dalla porta di
casa. Rabbia e disperazione hanno lo stesso volto, in questa scena, in
cui l’uomo, è incapace di controllare la sua frustrazione familiare e
sociale. Due mondi si scontrano davanti ai suoi occhi: la sua famiglia
in preda alla lotta quotidiana contro i debiti, che rischia di perdere
anche la casa, ipotecata nell’estremo tentativo di inseguire un sogno
di stabilità lavorativa, e gli altri, quelli diversi da loro, la famiglia
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borghese con i condizionatori d’aria alle finestre e la domestica che
serve a tavola, quelli che nella società hanno ottenuto il loro posto
e possono permettersi la settimana bianca, da sempre status symbol
sociale di successo. «Ma pagano loro…» dice Tommi, pensando di
mitigare la rabbia del padre e colpendolo, invece, ancora più a fondo,
nel suo amor proprio.
La violenta e incontrollata reazione che investe il piccolo Tommi, lo lascia, ancora una volta solo ad affrontare la realtà e a dover
decidere da che parte stare. Partire per la settimana bianca e lasciarsi
alle spalle, anche se per breve tempo, la difficile realtà familiare o
tornare invece tra le mura che sono la sua casa e i suoi affetti? A Tommi non interessa vincere, né stare dalla parte di quelli che vincono.
Una madre assente e inaffidabile, un padre arrabbiato e in lotta con
il mondo eppure sempre impegnato, nel bene o nel male nel difficile
e faticoso ruolo di genitore, hanno offerto a Tommi gli strumenti e
la maturità emotiva che gli permettono di muoversi nelle situazioni
della vita da libero, fluidamente, cercando nella realtà quel che c’è di
buono e adattandovisi. Per questo Tommi torna da suo padre, anche
dopo essere stato malamente cacciato di casa.
Torna per riconciliarsi, per offrirgli quel supporto che è poi la base
dei rapporti familiari, all’insegna della comprensione ma anche della mediazione, uniche condizioni per rimanere in gioco nella partita
familiare.
È in un gesto di estremo avvicinamento verso il figlio, che il padre
rinuncia ad imporgli lo sport del nuoto permettendogli di giocare a
calcio. Tommi vorrebbe giocare da centrocampo ma il padre suggerisce: «A me mi piace libero». «Anche libero va bene» è la risposta di
Tommi al padre, laddove, libero è il ruolo a cui il padre aspira e quello
che Tommi ha giocato, con naturalezza e abilità per l’intera storia.
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Volpi, Roberto, C’erano una volta i bambini, Venezia, La Nuova Italia, 1998.
360
361
Salvo Cuccia
Il cinema di De Seta e la trasformazione della società.
Dal Meridione visto da De Seta ad oggi,
attraverso la poesia del reale e il documentario d’autore
Sono passati quasi 60 anni ormai dal primo documentario di De Seta
sulla pesca del pesce spada, più di mezzo secolo lungo il quale la forma del documentario ha attraversato alterne fortune. Vinni lu tempu
di li pisci spata? è pura poesia del reale, eppure il suono e l’immagine
non venivano girati da De Seta nello stesso momento: dedicava alcuni giorni alle riprese delle immagini e altri a quelle del suono. Anni
fa il mio grande maestro “involontario” Raùl Ruiz sottolineava con
ironia il fatto che il cinema neorealista fosse tutto doppiato e non si
spiegava allora dove stava la realtà. Per un grande maestro del cinema immaginifico come lui, è pressoché impossibile parlare di realtà
in senso oggettivo e di cinema del reale tout court. Anche De Seta fu
costretto a doppiare in italiano dal sardo il suo Banditi ad Orgosolo,
opera prima vincitrice a Venezia nel 1961. Ad ogni modo De Seta con
i suoi documentari degli anni ’50 introduce nel cinema italiano una
modalità di suono dal vero – che spesso veniva escluso per dare corpo
alla voce fuori campo – che restituiva la voce ai poveri pescatori, ai
contadini, agli zolfatari siciliani, ai pastori e alle donne sarde, ai derelitti di quel sud lontano da tutto e abbandonato a se stesso. Ed è dunque portatore di una grande volontà di sguardo sul mondo dalla parte
dei poveri, dei dimenticati (come titola il suo ultimo documentario
dei 10 degli anni ’50). Il corpus dei 10 documentari è un tesoro inestimabile non solo dal punto di vista cinematografico, ma soprattutto
dal punto di vista poetico e antropologico: De Seta si accorge che quel
mondo sarà definitivamente cancellato e lo fissa per immagini e suoni
in un racconto che si snoda attraverso vari luoghi del sud, dalla Sicilia
alla Sardegna e alla Calabria, con una sensibilità nuova, inedita. Le
stesse immagini della mattanza si vedono in altri film documentari
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precedenti, come ad esempio anche quelli della Panaria film, altro
capitolo importantissimo per il cinema siciliano che si propaga per
importanza in Italia e all’estero, ma gli obiettivi sono diversi: per De
Seta i corpi, i volti, gli sguardi, il paesaggio, le azioni degli uomini si fondono in una sinfonia naturale. Il contrappunto tra il racconto della società arcaica, i suoni naturali, l’utilizzo delle tecnologie
più antiche e l’irruzione della modernità – attraverso i motori dei
pescherecci o il rumore della trebbiatrice che arriva al tramonto in
“parabola d’oro” diviene il nucleo centrale del racconto desetiano.
De seta racconta una vita che si è svolta fino a quel momento con
quelle modalità fin da 5000 anni prima e che adesso viene messa in
discussione dal nuovo che incede. Utilizza il colore e il formato largo, cinemascope, in quasi tutti i documentari, cosa che lo distingue
da tutti gli altri autori del tempo che nei documentari utilizzavano
il formato più stretto e il bianco e nero. Anche l’utilizzo di questi
elementi diversi creano una nuova sensibilità e una volontà di sperimentare, di mettersi in gioco. Qualche tempo fa ho avuto la fortuna
di incontrare un grande autore argentino, tra i fondatori del nuovo
cinema latino americano: Fernando Birri, che ha fondato la scuola
di cinema di Santa Fe e nell’85 la scuola di cinema dei tre mondi di
Cuba, voluta da Gabriel Garcia Marquez e da Fidel Castro.
Birri inizia negli anni ’50 in Italia diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia, attratto, come tanti in Sud America, dalla
nuova onda italiana di quegli anni: il neorealismo. Il cinema italiano
era altissimo e tutti ne erano affascinati, da tutte le parti del mondo.
Il neorealismo, partendo dal suo autentico seme? come mi racconta
Birri? e cioè Gramsci, prorompe per espandere le sue modalità ad
altre cinematografie anche lontane. Non per niente Birri è considerato
il fondatore del nuovo cinema argentino alla fine degli anni ’50, prendendo energia e ispirazione dallo slancio dato da film come La terra
trema e da Zavattini. E gira prima in Sicilia, proprio in questa Sicilia, tre cortometraggi di cui uno irrimediabilmente perduto, Alfabeto
notturno del 1952, sull’alfabetizzazione. Gli altri due sono Selinunte
(1951) e Immagini popolari siciliane (Sacre e Profane) (1952), questo ultimo con la co-regia di Mario Verdone, che era suo insegnante
alla scuola di cinema. È stato assistente di Cario Lizzani nel film Ai
margini della metropoli (1953), di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
nel film Il tetto (1954) e ha sceneggiato nel 1955, col regista messicano Emilio Fernández -El Indio-, un «remake» de Las abandonadas,
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mai realizzato, che avrebbe voluto girare sempre in Sicilia, a Torretta, dove vedeva le stesse donne del Messico. E in queste imprese si
lega a Vittorugo Contino, allora operatore di macchina e in seguito
fotografo di scena di De Sica e altri autori e a Enzo Sellerio, che
inizia proprio dal 1952 a fotografare. Dunque parliamo di una generazione 25/26enni, oggi ultraottantenni, che in un incontro privato
da me registrato tra Birri e Sellerio, parlano di utilizzo di tecnologie
digitali come se fossero dei giovanissimi: allora mi chiedo dove sta
la vitalità se non da quelle parti. Sellerio dice che non tornerebbe mai
più alla camera oscura avendo ottimi laboratori che gli stampano il
digitale nel suo bianco e nero! E Birri che replica dicendo che anche
lui gira in digitale! E De Seta che ha girato il suo ultimo film Lettere
da Sahara tutto in digitale, mettendosi di nuovo in gioco con le nuove
tecnologie.
E il centro di interesse per me sta proprio in questa curiosità, in
questa voglia di sperimentare di una generazione che possedeva e
possiede tuttora uno strumento oggi paradossalmente perduto per la
maggior parte dei giovani documentaristi e cineasti: la profondità
dello sguardo e la volontà di sperimentare. E non solo: la profondità dell’indagine sulla realtà che aveva il carattere dell’esattezza (per
citare uno dei parametri dettati da Calvino nelle sue Lezioni americane, perché il loro lavoro era profondamente politico, sociologico,
umano (con l’uomo al centro delle immagini, come dice De Seta)
e allo stesso tempo viscerale e istintivo. Ma di cosa è testimone De
Seta, insieme a quellidella sua generazione? È testimone dell’inizio di
quella Grande Trasformazione, come la chiama il geografo Eugenio
Turri (autore di un imperdibile saggio? Semiotica del paesaggio italiano?), Grande Trasformazione che traghetterà il nostro paese dalla
società arcaica a quella caotica e mediatica dei nostri giorni.
De Seta aveva conosciuto il gruppo della Panaria Film e ne prende
le distanze, per indole e per intenti, pur riconoscendo loro la capacità di sperimentazione pionieristica senza precedenti. Lui però punta
al racconto poetico e realistico allo stesso tempo di un mondo che
sarebbe scomparso di lì a poco, preferendo la forma del documentario
anche quando intraprenderà la strada del cinema di finzione: Banditi a
Orgosolo è girato con i pastori e le donne di Orgosolo e non con attori
professionisti. E anche a distanza di anni ripeterà l’esperienza nei primi anni Settanta con Diario di un maestro film in 4 puntate per la RAI
con i ragazzini della periferia romana, che in qualche modo contribuì
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non poco a creare un dibattito pubblico sulla scuola moderna, ricco
di polemiche provenienti da più parti. Le polemiche erano scoppiate
anche anni prima col suo secondo film Un uomo a metà, primo film
psicanalitico girato in Italia: da sinistra gli rimproveravano di aver
“tradito” il suo esordio con Banditi a Orgosolo perché si trattava di
una storia borghese in un momento in cui bisognava sostenere invece
quella lotta di classe che non poteva lasciare niente al privato. Pasolini e Moravia, voci solitarie e potenti, furono tra i pochi a difendere
il lavoro di De Seta.
Al Tribeca Festival del 2005, Scorsese invitò De seta e il sottoscritto per il suo Tribute to De Seta. De seta raccontava al pubblico dei suoi incontri con Fellini a Roma e di come Fellini avendo
conosciuto lo psicanalista che gli presentò De Seta fosse approdato
al progetto del suo magnifico 8 e 1/2. Mentre lo ascoltava, Scorsese
guardava il pubblico come volesse dire: «Guardate chi vi sto facendo
conoscere!», anche lui con lo stesso atteggiamento e la curiosità di
un giovane all’inizio della sua carriera! Scorsese mi raccontò che il
giorno prima aveva incontrato Jack Nicholson (stavano per iniziare le
riprese di The departed) che gli aveva raccontato di aver fatto un film
western che era il remake di Banditi a Orgosolo. E dunque il cinema italiano continuava ad essere un modello per altre cinematografie
e per Hollywood. E lo sarà fino alla fine degli anni ’70. Anche in
questo caso, pur trattandosi di un film fortemente autoriale, politico.
Dunque tutto cambia dagli anni ’50, quando Andreotti aveva fortemente limitato il neorealismo liquidandolo come cinema “pessimista”
che l’Italia non si poteva permettere, alla fine degli anni Sttanta che si
chiudono con l’omicidio Moro da parte delle Brigate rosse che segna
la vera fine del compromesso storico DC-PCI e l’avvento del Craxismo e del nuovo corso degli anni ’80, in cui cambiano molte cose,
fino alla caduta del muro e oltre. Sono gli anni dell’ascesa mediatica
di Berlusconi e delle sue televisioni e dunque della trasformazione del
modo di vedere la realtà. Gli sguardi iniziano ad essere sempre più
viziati dalla cattiva influenza della televisione commerciale.
Ma facendo un passo indietro, il nostro desiderio di cambiamento
si esprime nell’utilizzo del cemento e poi dell’alluminio anodizzato
materiale quest’ultimo che Woody Allen definisce diabolico addirittura – che diventano i simboli di una trasformazione che va avanti velocissima e che allo stesso tempo fa in qualche modo un passo indietro rispetto al passato perché non ha fondamenta culturali tali da
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poter durare, come i palazzi costruiti dal sacco di Palermo in poi o ai
nuovi quartieri di Napoli di cui ci parla Rosi nel suo Le mani sulla
città. È a questa nuova realtà “imprenditoriale” a cui il sud rimane
attaccato fio ai nostri giorni e con cui fa i conti continuamente.
Personalmente sono stato catturato dall’opera di De Seta per il
fatto che appartengo ad una generazione che ha vissuto sulla propria
pelle il proseguo di questa Grande Trasformazione di cui quella generazione racconta la genesi. E ho trovato nel suo cinema e nel cinema
di tanti altri di quel periodo, alcuni elementi di risposta a quello che
erano stati il mio malessere e il mio disagio adolescenziali, che non
erano un fatto solo mio intimo e personale, ma che appartenevano
alla mia generazione, che si trovava negli anni ’70 al centro di quel
trasbordo, almeno in Sicilia. Nel ’68 avevo assistito allo sbarco sulla
luna e dalle mie parti c’era stato quel terremoto che lascerà strascichi
per decenni: lì c’era Danilo Dolci che fa politica, quella vera, che
lotta per l’acqua, per i diritti fondamentali delle classi povere, per
l’alfabetizzazione, per il diritto al lavoro. E che fonda la prima radio
libera in Italia. Libera e clandestina: viene chiusa dopo meno di 48
ore ma rimane nella storia. La Radio dei poveri cristi che intende dare
voce ai poveri e ai terremotati. Il Sessantotto è anche il momento
di un altro terremoto, quello generazionale. E io mi trovavo ancora
ragazzino in un piccolo paese della profonda provincia siciliana dove
c’erano i contadini che si chiedevano come mai la Democrazia Cristiana incentrava di continuo le campagne elettorali sulla costruzione
del famigerato ponte sullo Stretto, di cui non a caso si continua a
parlare oggi. E mi è rimasta impressa come immagine di sintesi quella
di un contadino che passa con il suo mulo davanti ad un muro su cui
è affisso uno di quei manifesti con questo ponte lontano mille miglia
dal suo mondo che era circoscritto e si estendeva solo per pochi chilometri: da casa sua, stalla compresa, alla campagna dove ogni giorno
si recava per lavorare sotto il sole o sotto le intemperie. E un?altra
immagine di sintesi per me rimane quella dell’accostamento di due
mondi: le immagini di Jimi Hendrix da un lato e quella di un don di
mafia dall’altro. Mi piace condensare così quel periodo, i miei anni
’70 che per certi versi erano simili a quegli altri anni che li avevano
preceduti, perché quasi niente era cambiato.
Ho registrato tempo fa una testimonianza di un altro grande fotografo siciliano: Ferdinando Scianna, durante un suo ritorno in Sicilia
per una sua mostra che ripercorreva i suoi anni sessanta e settanta
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a Bagheria, stessa città di Guttuso e Tornatore. Città in cui muore
anni dopo Giacomo Giardina, poeta pecoraio e futurista, che quando
ero ragazzo conobbi a Godrano, paese ai limiti del bosco di Ficuzza,
ad un passo da Corleone. Luoghi del poeta che Marinetti incoronerà
futurista. E alla mostra di Scianna ho osservato a lungo il viso scavato
di Giardina nell’atto declamatorio. Era strano vederlo declamare a
Godrano negli anni Settanta tra gli allevatori e i vaccari del luogo: con
quel viso imperscrutabile andava avanti tra l’interesse di qualcuno e
l’indifferenza di altri, di cui aveva l’accortezza di non curarsi completamente. Credo che quel volto sia una testimonianza forte di un emissario di cultura, di poesia, di creatività e creazione in un microcosmo
che per assurdo ospitava tutti. Oggi invece non c’è più spazio per la
poesia e l’immaginazione e il paradosso è che viviamo in un epoca
di immagini e il grado culturale della popolazione dovrebbe quantomeno essere più elevato: ma ciò è solo un’apparenza, una formalità. Ciò che mi è rimasto impresso è il racconto di Scianna sulla partenza
e sul ritorno, di ciò che cambia e di ciò che si ritiene nella propria
memoria, immutabile e che invece si trasforma con lentezza e allo
stesso tempo con velocità. Scianna mi parla di quell’Itaca che si lascia
e che non c’è più perché vive solo nel ricordo, perché al ritorno tutto è
cambiato e niente è come te lo se immaginato negli anni e nel tragitto
di ritorno. E Scianna nasce artisticamente con il sostegno di Leonardo
Sciascia, il grande scrittore e intellettuale siciliano. E la vita letteraria
di Sciascia nasce molti anni prima proprio in quelle stanze in cui ho
incontrato Fernando Birri e Enzo Sellerio. I suoi inizi sono all’insegna del grande rapporto intellettuale e professionale con Elvira Sellerio, rapporto che si propaga nel tempo. Scianna è tenuto a battesimo
dal suo “nume tutelare” come lo definisce egli stesso, Leonardo Sciascia, il grande scrittore e intellettuale siciliano, ma anche da Cartier
Bresson e da altri intellettuali e artisti, tutti di calibro internazionale.
Mi racconta anche di aver “ritrovato” la sua Bagheria nella prima
notte passata in una Bagdad post prima guerra del golfo, tra strilli incomprensibili per i suoi compagni di viaggio (gente del nord),
che sembrano inneggiare alla guerra e all?insurrezione. Niente di tutto questo: gli strilli a lui diventano improvvisamente familiari perché riconosce in quelle voci in arabo, le voci siciliane di quelli che
“abbanniavano” i tragitti delle corriere che collegavano negli anni
’60 Bagheria a Palermo, Porticello e altri paesi vicini. E in quel luogo
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lontano ritrova improvvisamente la sua Itaca, in un altro luogo e in
un altro tempo. E Sciascia lo ritrovo invece in una collaborazione con
Folco Quilici nel suo splendido Italia dal cielo, Sicilia degli anni Settanta, in cui viene rappresentata una Sicilia ancora arcaica e piena di
difetti e tic che, vista dall’alto ritrova la sua magnificenza e che si può
osservare con distacco. La stessa cosa diceva Sciascia da Parigi: «da
qui le cose mi appaiono più chiare». È il paradosso del vivere dentro i
luoghi e le situazioni e di rivederli poi nella loro interezza da lontano,
in un gioco tra macro e microcosmi.
E Sciascia lo troviamo giovanissimo al suo debutto con gli editori
Elvira ed Enzo Sellerio, che sono i primi a pubblicare i suoi libri. Nelle stesse stanze della casa editrice in cui si animavano dibattiti intellettuali e che generavano tanta cultura, ritrovo pochi giorni fa Sellerio
con Birri a parlare degli anni ’50 come se il tempo non fosse trascorso. Scianna viaggia, tutti viaggiamo, anch’io viaggio. Forse qualcosa
si può concretizzare alla fine del viaggio, come una summa, ma è
sempre molto poco. Si può fare una sintesi, estrarre un pensiero possibile, più spesso frammenti e riflessioni sparse, da mettere insieme
a seconda della propria sensibilità. Se si cerca un senso nelle cose,
esso sfugge immediatamente, perché bisogna afferrare ciò che si vive
durante il viaggio per metterlo a confronto con ciò che si ricorda del
viaggio. Scianna mi dice che non è nella rappresentazione del tutto,
ma anche in un solo frammento di quel tutto. Per tale motivo non
ritengo mai chiusa un’opera, ma aperta a qualcos’altro che non conosciamo e che continua anche dopo l’opera stessa. C’è qualche prolungamento a cui ci porta un film o un documentario, una zona nuova, un
punto da cui ricomincia il viaggio, l’esplorazione, la sperimentazione.
Per questo un film non finisce mai.
Io la mia Itaca ideale e visionaria l’ho ritrovata in un film fondamentale di De Sica-Zavattini: Il giudizio universale. Film corale, ambientato in una Napoli in cui tutti sono intenti nei loro piccoli e grandi
traffici, tra mille contraddizioni. Film in cui si sublima ciò che da lì in
poi ho sempre pensato come momento di espressione alta: la fusione
del reale e dell’immaginifico. Una voce da quel cielo plumbeo di una
Napoli piovosa annuncia che alle 5 ci sarà il giudizio universale!
Questi elementi che si innestano e divengono uno parte dell’altro
rappresentano il sud nella sua totalità e interezza.
Un mondo fatto di crudeltà, di magia e di imbroglio. Un mondo
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fatto di credenze e di intrighi, di malandrini, fattucchiere, mafiosi,
trafficanti e povera gente, di gente normale che vuole malgrado tutto
vivere una vita “normale”, europea si dice oggi quando si parla delle
città del sud che sono diventate europee: ma non lo sono sempre state
a modo loro? Da “il pensiero meridiano” di Cassano in poi, abbiamo
sognato un sud che si tiene a parte e che ci tiene a parte della sua
ricchezza culturale e intellettuale e che contiene tutto e niente allo
stesso tempo. A me interessa più il nulla come dato culturale. Anni fa
Miriam Palma, una mia cara amica, artista della voce ineguagliabile
mise in scena uno spettacolo dal titolo I paesi del nulla, lei di Santo
Stefano Quisquina, dove c’è una grotta in cui si dice abbia albergato
Santa Rosalia, la Santuzza di Palermo: una città che ha come Santa
protettrice una Santa bionda, normanna che è anche un mito (non si sa
se sia veramente esistita, eppure fa miracoli), non può che essere pur
nella sua durezza, una città immaginifica, in cui il potere della visione dei suoi abitanti è più forte persino di quello della parola. Voglio
reinterpretare a modo mio il detto palermitano “La migliore parola
è quella che non si dice”: non rappresenta per me l’omertà solo per
come la conosciamo, ma perché il valore delle nostre visioni è così
forte che le parole a volte o sono superflue o insufficienti.
Ma per tornare ai “Paesi del nulla” proporrei oggi Villafrati, il mio
paese di origine, piccolo centro di 3000 abitanti, all’UNESCO come
patrimonio immateriale dell’umanità. E lo proporrei insieme a tutti
gli altri paesi siciliani e del sud. Il nulla è questo deserto con cui,
svoltato l’angolo della via principale, ti ritrovi a tu per tu. Un deserto
mentale e psicologico che per paradosso ti invita al superamento di
ogni cosa, di ogni difficoltà. E diviene luogo di percezione assoluta,
sotto un sole che è come una coltre beyussiana, un enorme feltro che
ricopre tutto e tutto diviene oscuro, inestricabile. E da questo celare
nasce l’espressione, l’immaginazione, il racconto. Perché sotto questa coltre è nascosto un tesoro incommensurabile. E quel nulla di cui
parla, Miriam Palma lo sintetizza in un gesto metronomico che scandisce il tempo come il direttore d’orchestra che dirige un brano di John Cage: usa le braccia come due lancette d’orologio. O come le
anziane riunite attorno ad un braciere d’inverno in un paese qualsiasi della Sicilia, che, arrivate al silenzio scandiscono le parole «ma
ccà semu» (che sta all’incirca per «beh, siamo qua», siamo ancora
vive). Tra quel “ma” e quel “ccà semu” risiede la natura della Sicilia,
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in quella memorabile pausa ripetuta tante volte, che è un sentimento di sospensione in cui tutto non avviene o forse sta per avvenire,
ineluttabilmente.
Il senso dei racconti dei miei incontri – De Seta, Turri, Scorsese,
Birri, Sellerio, Scianna, Sciascia (quest’ultimo non l’ho conosciuto ma
ho fatto un documentario diversi anni fa, che mi ha dato il senso di
un incontro a posteriori, avvenuto dopo la sua morte) e molti altri –,
intende sublimarsi in una visione del sud che per me è come un arcipelago che il cinema, la fotografia, la letteratura e le arti hanno fissato,
o hanno tentato continuamente di fissare: e le immagini si sciolgono
forse per il caldo o forse per una singolare indole autodistruttiva, o
forse per un sentimento di orgoglio che un attimo dopo diventa viltà, o
anche per una assenza. Ci assentiamo dalla nostra storia e dalla nostra
cultura e dimentichiamo. Forse è per questo che mentre la televisione
continua ad annunciare incessantemente, minuto per minuto, le sue
“verità assolute” di un mondo parallelo, come in internet si diramano
le “voci di amicizia virtuale e non reale” di Facebook – in molti oggi
dedichiamo il nostro tempo e i nostri sforzi a ridare alla luce gli elementi sparsi e reconditi del nostro modo di sentire la realtà. È il tempo,
che ci trasforma.
370
371
Cosetta Gaudenzi
Locals, Italians and Foreigners
in Mazzacurati's La giusta distanza
In La giusta distanza (2007), the director Carlo Mazzacurati demonstrates once more his fondness for the Po Valley and continues to
pursue his interest in encounters between Italians and foreigners, two
features already seen in his Notte italiana (1987), Vesna va veloce
(1996), and L’estate di Davide (1998)1. The film La giusta distanza,
which is set in Concadalbero, a little village in the Po Delta, features
three protagonists: a local eighteen-year-old named Giovanni (played
by Giovanni Capovilla), who aspires to become a journalist and narrates the whole movie with occasional comments in voiceover2; a young
substitute elementary teacher by the name of Mara (Valentina Lodovini), who has just moved to the small community from Tuscany; and a
Tunisian man, Hassan (Ahmed Hefiane), who has been a mechanic in
the area for some time. Throughout the film, Mazzacurati pays special
attention to the issues of acceptance and integration of foreigners3. In
fact, one of the major purposes of La giusta distanza, I suggest in this
essay, is to educate the audience about living together peacefully and
respectfully4. In line with such a goal, the director employs a system
1 Mazzacurati’s most recent film, La passione (2010), is also set in a small village,
this time in Tuscany, and features among its prominent characters a woman from
Eastern Europe.
2 Over the course of the movie, Giovanni tells us of his transformation from a budding correspondent providing local insights for a senior journalist from Vicenza (Fabrizio Bentivoglio), to a young columnist for a paper in the large city of
Milan.
3 In an interview published on the internet site of Italica, Mazzacurati affirmed the
following about La giusta distanza: «Volevo … dare un segno di speranza, di
comprensione per l’“altro”» («I wanted … to give a sign of hope, of understanding for the “other”»)
4 Tullio Masoni and Paolo Vecchi, authors of a monograph on Mazzacurati, have
also noticed the director’s ethical agenda (p. 17).
372
of cinematic devices which, reminiscent of Luigi Pirandello’s concept
of social mask5, and Stuart Hall’s idea of negotiation of meaning6,
progressively lead spectators to abandon pre-determined negative
judgments of the “other”. Mazzacurati begins the didactic process by
bringing to his audience’s attention the notion of reception (briefly
defined as the act of receiving and processing information), through
specific uses of the camera, such as subjective takes and shot reverse shots. Then, by employing subjective camera takes from different
perspectives, the director suggests that the significance of individuals
is not simply inherent within them, but is created within the relationship between them and their observers. Any knowledge which derives
from such a process is necessarily in constant flux and consequently
has the potential to be misleading. Finally, Mazzacurati’s movie plays
with the typical narrative structure of the Italian giallo7 – crime fiction or mystery, which deliberately presents different interpretations
of particular events and characters – so that he can offer and discard
at the same time the opinions of those characters who, relying on
prejudices and stereotypes, look at an immigrant as the more likely
offender. In outline, then, the first two sections of this essay illustrate
Mazzacurati’s discourse on immigration through a detailed formalistic discussion of early scenes in La giusta distanza, and through
an examination of the interactions of Mara and Hassan with Italian
locals and foreigners living in the village. In the third section, turning
to broader issues of interpretation, I consider the movie within the
framework of past Italian cinema and culture. Comparing La giusta
5 Pirandello has exerted a notable influence on Italian cinema thorough his theatrical
and prose works as well as through his scholarly articles on the motion pictures.
(See Manuela Gieri, Gian Piero Brunetta, and Francesco Callari.) The concept of
the social mask is treated at length in Pirandello’s novel Uno, nessuno e centomila
(1926), where the main character, Vitangelo Moscarda, slowly realizes that, far
from being a unique and a unified whole, he is essentially non-existent, a product
of the different social masks applied to him by other people in society. And when
Moscarda tries to take off such masks, he is consequently considered crazy.
6 Stuart Hall is one of the main proponents of reception theory in media studies.
According to his theory of encoding/decoding, the audience negotiates the meaning of the text, which therefore depends also on the cultural background of the
public.
7 The Italian giallo is a twentieth-century genre in literature and film, the name of
which derives from the yellow cover that the publisher Mondadori employed to
introduce an influential series of mystery novels in 1929. For a detailed discussion, see Peter Bondanella’s A History of Italian Cinema (pp. 372-75).
373
distanza to earlier films set in the Po Delta, I highlight the meticulous
intellectual achievement of Mazzacurati vis à vis his cinematic past.
I
La giusta distanza opens with an aerial view of the thick birch forest
of the Po Delta. The camera is then progressively lowered in the
direction of the horizon, slowly following the course of the river, and
gradually zooming in on a blue country bus as it leaves a little village.
In the following scene, as the focus is further limited to people, we
meet young Giovanni driving in a small vehicle, an Ape, with Bolla
(Roberto Abbiati), an eccentric man from Concadalbero. The adolescent activates the film’s plot by recounting a particular event which
changed his life, the coming of Mara to his home village. The lively
young female teacher arrived one day by bus (the same country bus
we see at the beginning of the film), and immediately became the center of the villagers’ attention. Giovanni’s narration of Mara’s arrival
is accompanied by the director with a cross-cutting cinematic technique, moving from her walking the main street of the community in
a red coat while gazing at her new neighbors, to the curious staring
directed at the young teacher by old men sitting at the local bar, by
several old ladies near their houses, by two storekeepers from behind
their windows, and by the male and female tobacconists standing next
to their shop. In this complex sequence – by recording Giovanni’s
voiceover commentary, which provides the film narrator’s own perception of reality, and by presenting in cross-cutting the reactions of
Mara to her new environment and those of the local inhabitants to her,
which encourages viewers to notice the acts of observing and being
observed – Mazzacurati cinematically suggests from the opening of
La giusta distanza that his film will also be a reflection on reception.
A similar cinematic emphasis on reception is achieved by the use
of subjective camera, not only in the sequence of Mara’s arrival, which
presents the Concadalbero inhabitants through the eyes of the teacher,
but also in other notable parts of the movie that will be investigated
below. After her arrival, Mara attracts the attention of several males in
Concadalbero: Guido, the bus driver, who helps when Mara is having
a car problem, and seems later in the film to regret being engaged to
another girl; Amos, the rich tobacconist and deep-sea fisherman, who
374
takes her on a trip around the Po Delta on his powerboat, but whom
she later dismisses as sexually aggressive, calling him “the octopus”
of Concadalbero; Bolla, who oddly or lustfully stares at the young
teacher on more than one occasion, causing her to feel somewhat uneasy; Giovanni, who while assisting the young teacher in installing her
internet connection steals her e-mail password so that he can learn
more about her; and, finally, Hassan, the foreign mechanic who falls
immediately in love with Mara and spends more than one evening
standing outside her home watching her. Mazzacurati often shoots
Mara through the eyes of the aforementioned locals, thus making her
a construction of desire.
A noteworthy instance of this phenomenon occurs in a sequence
presenting Hassan secretly watching Mara at night. While the Tunisian is hidden behind a tree next to her house, looking at the teacher
blowing her hair and smearing cream on her legs, he is in turn seen
by Giovanni, who is also furtively observing the scene, apparently
trying to discover the clandestine night visitor outside the teacher’s
home previously mentioned by her in an email to her friend Eva8. The
episode highlights, among other things, a major issue of reception
theory, that characters are active interpretations of their observers.
While Hassan provides a perspective of Mara as a sexual object, the
protagonist Giovanni adds to our view of her the aspect of apparent
victim of sexual harassment, as becomes evident from his disappointed reaction when he discovers Hassan spying on Mara. By supplying
different viewpoints on Mara, the director shows how knowledge is
somehow partial and imperfect. In addition, by inserting the layers
8 The following shots compose the peeping sequence outside Mara’s house: lowangle shot of Mara (M) from Hassan’s (H’s) point of view; zoomed low-angle
shot of M from H’s point of view; high-angle close up of black boots; close up of
Giovanni (G) coming out from behind a tree; close up of G’s back as he presumably watches H in the distance looking at M; close up of G looking ahead; close
up from G’s point of view of H’s back as he looks at M; low-angle shot of M
from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M;
low-angle shot of M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction
of H advancing towards the house; close up of G looking ahead; high-angle shot
from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of M from H’s point of
view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M; low-angle shot of
M from H’s point of view; high-angle shot from M’s direction of H looking at M;
close up of G looking ahead and leaving the scene; close up from G’s perspective
of H’s back looking at M; edit to the morning and beginning of a new sequence
with close up of G looking ahead in the direction of H’s workshop.
375
of Giovanni the character who observes Hassan watching Mara, and
Giovanni the narrator who is telling us the entire story of the film,
Mazzacurati also makes his audience aware that truth relies not only
on the partial perspective of who observes (what Giovanni the character sees might lead one to think, wrongly, that Hassan is a stalker),
but also on the time when the observation occurs (Giovanni the narrator knows much more than Giovanni the character about the intimate
relation between Mara and Hassan). A storyteller who depicts himself
in a condition of past ignorance, commenting at times in voiceover
as Giovanni does in La giusta distanza, calls to mind a notable figure
of Italian culture, the narrator of the Divina Commedia. Like Dante the pilgrim, Giovanni the storyteller in La giusta distanza serves
to underscore the importance of reception in the signifying process,
and to add layers of interpretation to the work, thereby rendering its
reception more complex9.
If we analyze the peeping sequence through the help of a psychoanalytic approach, we can begin to identify what is behind Mazzacurati’s emphasis on and manipulation of reception in La giusta distanza. In this sequence, Hassan is living a condition of film spectator
and voyeur, as discussed in Laura Mulvey’s notable essay “Visual
Pleasure and Narrative Cinema”10. The darkness of the auditorium in
which the film is shown is reproduced within the movie by the lack
of sunlight, and the illuminated windows of Mara’s house become the
screen. The director shoots and cross-cuts the sequence from three
different points of view: Hassan’s, Giovanni’s, and his own. By representing Mara through the eyes of Hassan, the director portrays his
female protagonist as a passive, sexual object that plays to and signifies male desire, a condition we see symbolically supported here by
the red color of objects inside Mara’s house11. According to Mulvey,
such depiction in film of a female character is not only “scopophilic”,
in that Mara here works for spectators as an object of sexual stimulation through sight, but it is also “empowering”, in the sense that it reaches the spectators through a subjective shot (Hassan’s eyes) which
9 On Dante and reception, see Richard Lansing’s Dante Encyclopedia under the
topic “Theory and Criticism”.
10 The influential essay was first published in 1975 in Screen and is now part of a
book collection by Mulvey (Visual and Other Pleasures, pp. 14-26).
11 The color red appears also in other scenes. For instance, Mara often wears red
clothes.
376
contributes to their identification with the male protagonist who is the
actual controller of the look. On the one hand, then, Mazzacurati has
created a partial condition of acceptance of the foreign male in his
audience. (Mara seen through Hassan’s eyes might make spectators
associate with the Tunisian and favorably regard him as a timid lover
unable to express his own feelings.) On the other hand, by adding the
point of view of the character Giovanni to the sequence, in such a way
as to make the budding journalist the major controlling figure of the
event (through whose eyes we see Hassan observing Mara), the director undermines the spectators’ recently constructed identification with
Hassan so that the Tunisian might also be seen negatively as a stalker.
In the peeping sequence described above, the director’s complex
use of subjective camera (which is a recurrent shooting technique in
film noir)12, together with other cinematic hints, such as the mysterious discovery of a murdered dog on several occasions13, slowly turn
Mazzacurati’s work into a giallo movie. (In the past, Mazzacurati has
worker for RAI as a scriptwriter for gialli.)14. In fact, La giusta distanza is also, and very importantly, a murder story. Towards the end of
the film, Mara is found dead near the river bank by her house. Suspicions of the villagers fall immediately on the Tunisian, with whom
the young teacher had spent time the evening before the murder, to
say goodbye before leaving for a new job in Brazil. Shocked and saddened by the death of his beloved Mara, Hassan attempts to defend
himself with calm and dignity in court, but ends up being convicted
of her murder and commits suicide soon thereafter. Giovanni, who
refuses to follow the advice of a senior journalist to maintain “the
right distance”, will take a personal interest in the case, eventually
clearing the mechanic’s name. The young journalist discovers that
Mara’s real killer is actually an unsuspected local of Concadalbero,
Guido, who, drunk and mistakenly thinking Mara is flirting with him,
attempts to rape her and ends up fatally pushing her and knocking her
head against a heater.
Viewing La giusta distanza through the critical filter of the Italian
12 For instance, one of the earliest uses of subjective camera was made in Rouben
Mamoulian’s Dr Jekyll and Mr Hyde (1931).
13 The case of dead dogs around the Concadalbero area arouses the investigative
instincts in the film’s characters, and audience and it insinuates the presence of
evil within the village.
14 See Filippi (p. 38).
377
giallo enriches our appreciation of the film. With its multi-layered
structure which plays with different interpretations of a particular
subject or fact, the Italian giallo becomes a cinematic device which
Mazzacurati skillfully employs to make his spectators progressively
more aware of the potentially misleading nature of the prejudicial
and stereotypical “knowledge” which guides our everyday actions.
Quite brilliantly, the director has drawn from a film genre that is selfreflexive, suggesting a similarity between the investigation undertaken by the character Giovanni and the viewing process itself. And the
final success of the budding journalist – who solves the case despite
his own initial, limited view of Hassan as a stalker and regardless
of the prejudicial opinions of the Tunisian held by the inhabitants
of Concadalbero, who conveniently prefer to place the blame of the
murder on an outsider – becomes also the success of the director, who
manages to illustrate in a convincing way how deceptive and fateful
pre-determined judgments can be15.
II
Having explored Mazzacurati’s discourse on immigration through
a detailed examination of the visual and narrative techniques of La
giusta distanza, I now investigate the same topic by means of an indepth analysis of the movie’s main characters. The various interactions among Mara, Hassan, and the villagers become pedagogical
tools with which the director achieves three major results in the film.
Through his use of these characters, Mazzacurati guides his spectators in recognizing how easily we can be misled by prejudicial views
of foreigners (accomplished also by some of the film’s cinematic
devices, as discussed above), he problematizes the basic concept of
Italian identity, and he finally provides positive and negative models
of integration.
15 Mazzacurati prepares his viewers for the exculpation of Hassan in the film’s
finale already in the second sequence, where the mechanic’s virtue is contrasted
with local corruption. After Amos visits Hassan’s workshop for a presumed problem to his car engine, the Tunisian’s local helper, who is represented as lacking
professional ethics, scolds Hassan for not taking advantage of the tobacconist
by making him pay a lot of money. Instead, the problem is solved by the foreign
mechanic in a minute at no cost.
378
Mara and Hassan represent first of all different kinds of immigrants to the village of Concadalbero, respectively, one domestic
(form Tuscany), and the other one foreign (from Tunisia). Mazzacurati’s La giusta distanza retells an old story, that of the immigrant
mistreated in an unfavorable new environment, in a clever, postmodern way, effectively pointing out the limitations of the conceptual
framework categorizing people as locals and foreigners16. Who is the
real Italian and who the real immigrant in the film? Mara is an Italian and Hassan a foreigner. But Mara is also a Tuscan and therefore
herself an outsider to the village of Concadalbero. On the other hand,
Hassan, who speaks very good Italian, has been living in Concadalbero longer than Mara and is therefore more of a “local” than she is.
The two main characters of La giusta distanza, by virtue of their complex geographical ties, call into question the very concept of Italian
identity17. More precisely, Mazzacurati’s treatment of Mara and Hassan illustrates that the epithets “local”, “Italian”, and “foreign” are
too inflexible to describe adequately the complexities of reality. Such
words exemplify people’s need to fossilize the continuous flux of life
in images of certainty and stability. And La giusta distanza clearly
shows that a staunchly conservative culture – like that of Concadalbero18, which refuses to accept its own diversity and openly rejects any
new, vital foreign influences in favor of steadiness and security – runs
the risk of becoming stagnant or decaying, an image which is evoked
towards the end of the film when the lifeless corpse of Mara is found
at the bank of the river Po, which keeps on rolling and moving.
16 A similar strategy is evident in Amara Lakhous’ Scontro di civiltà (2004), a polyphonic work in which the Algerian writer gradually demonstrates the inaccuracy
of categorizations like “Italian” and “foreign” by placing side by side narrations
of the same events under the different perspectives of immigrants and “Italians”.
17 Other Italian movies about immigrants question the concept of Italian identity.
For instance, Aine O’Healy has pointed out that Amelio’s Lamerica, through the
character of Gino, «shows a particular postmodern understanding of culture and
identity, deliberately problematizing the terms “Italian” and “Albanian” as slippery, mutable categories» (p. 253).
18 The lack of progress and evolution in Concadalbero is well illustrated by a dialogue between Giovanni and Franco, the telephone repairman. When Franco
says, «Certo che una volta qua era tutta campagna» («It’s true that this was once
all open countryside»), Giovanni amusingly replies, «Franco, qua è ancora tutta
campagna». («Franco, here it’s still all open countryside».) Franco then agrees:
«Te ne sei accorto anche tu, eh? Non è cambiato niente» («You’ve realized that
too, huh? Nothing has changed at all»).
379
Mara and Hassan share not only a similar “immigrant status” –
which, as he recognizes, arises from rather different circumstances,
since he was motivated by necessity and a basic will to survive, while
she pursues a somewhat fickle desire to enrich her experiences and
learn about the world – but they also follow a similar final path of
their lives, since after a few problematic initial encounters, they end
up having a love affair and both eventually die during the film. The
fact that Mazzacurati depicts Hassan and Mara, a man and a woman,
as partaking in a similar destiny contributes additional overtones to
the movie. Mazzacurati appears to be drawing a comparison between
the contemporary condition of foreigners in Italy with that of other
“subalterns” in this country, namely women19. Much as Gianni Amelio’s Lamerica (1994) reminded Italian moviegoers of their own past
as immigrants20, to lead them empathize with non-natives at a time
when Italians were faced with increasing waves of foreigners moving
to their country, so does Mazzacurati’s pairing of an immigrant man
with an Italian woman in La giusta distanza remind viewers of Italy’s
past and present battles for women’s rights, so as to invite us to reflect
on both categories of the “other” and treat them with respect21. The
relationship between the leading characters is then not the only aspect
of the film that points to a connection between the status of foreigners
and women. The sequence in which immigrant prostitutes are treated
poorly by local men, suggests that the fates of both categories of the
“other” are interrelated. This point is also evident, on more than one
occasion, in the wealthy tobacconist’s patronizing treatment of his
internet bride from Eastern Europe.
Indeed, intolerance is a deeply-rooted problem, very difficult to
extinguish, as the villagers of Concadalbero well exemplify in their
positive and negative interactions with Mara and Hassan. On the one
side, from the earliest scenes of La giusta distanza, we are presented
various cases of presumed integration. Hassan is the owner of a small
19 I am borrowing the term “subaltern” from the notable essay Can the Subaltern
Speak? by Gayatri Chakravorty Spivak, where the scholar posits a similarity
between the condition of women and that of immigrants.
20 See Caminati (p. 604) and Vitti (p. 252).
21 Compared to American women, Italian women obtained legal rights much later:
the vote only after the Second World War; and abortion and divorce only in the
mid seventies, when finally a new family law provided them with some economical clout within the family. See Gino Moliterno’s Encyclopedia of Contemporary
Italian Culture under the topics “woman” and “family”.
380
auto-repair shop where he works in smooth accord with a local helper22. Mohammed, his brother-in-law, is gainfully employed at a successful small restaurant. And Galja, the Rumanian wife of a wealthy
man, Amos, works in the family’s tobacco shop. Finally, at the party
celebrating Amos’ big tuna catch, Hassan’s local helper cheerfully
dances with an Asian girl who works in the village as a bartender, and
we see the male tobacconist thank the Tunisian for his prompt repair
of the stereo with a toast and an Arab song. On the other side, the film
also presents various hints that any apparent integration remains only
partial and superficial. For instance, we learn that a local inhabitant
had threatened Mohammed one night when denied a drink because it
was closing time. Many foreign prostitutes work at a local gas station,
and through Hassan’s eyes we see them treated arrogantly by Giovanni’s father. And, most importantly, after Mara’s death every inhabitant
of the village points to Hassan as the murderer.
While suggesting the lack of full integration between locals and
newcomers, Mazzacurati’s La giusta distanza also offers characters
like Mara, Hassan, and Mohammed as tentative models of genuine
friendship and harmonious coexistence. The initial point is made
through food. The substitute teacher is pleasantly surprised when she
learns that Mohammed, a Moroccan who works as a cook, makes
a very good piadina, an Italian specialty of the neighboring region
Romagna. Conversely, Mara is later astounded to learn that Hassan,
a Tunisian, claims not to remember the ingredients of couscous, a
well-known North-African dish, so she offers to prepare it herself
for one of their dates. Just as Hassan and Mohammed’s food choices
represent their respect for Italian culture and their wish to integrate
in their new country, so does Mara’s interest in a dish from Hassan’s
native land symbolize her open-mindedness and eagerness to learn
about other customs.
The willingness to assimilate to Italy embodied by Hassan and
Mohammed is evident also in matters of language and religion. Hassan for instance speaks very good Italian and, yielding to some heavy
pleading, he even drinks a glass of red wine during the celebration of
Amos’ fishing accomplishment (something discouraged by his native
22 For instance, Hassan’s local helper is respectful of the Tunisian’s privacy and
leaves his boss alone when he needs to speak with Mara at the workshop. Also,
Hassan’s helper includes the Tunisian in the life of the village by inviting him to
go out together on the weekend.
381
religion). Most importantly, Hassan justifies his readiness to integrate
to his new country after Mohammed mockingly refers to his having forgotten how to make couscous, «Ma lui vuole fare l’italiano e
dimentica di tutto» («He wants to act Italian and has forgotten about
everything»). Hassan defends himself by saying, «No, non è vero.
Ma non mi piace questa nostalgia degli stranieri. Se stai qui, stai qui
e basta» («No, it is not true. But I don’t like this nostalgia of foreigners. If you are here, you are here, and that’s it»). The Tunisian’s affirmation of his decision to place his past culture in a minor position,
it should be noted, does not imply that he considers Italian culture
superior. He is simply acting in a practical way, «If you are here, you
are here, and that’s it».
Mazzacurati’s decision to portray the Tunisian as one who dismisses the sentimental nostalgia of some of his fellow foreigners, brings
to mind contemporary literary works created by immigrants to Italy,
like the novel Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio,
written in 2004 by Amara Lakhous, an Algerian immigrant to Rome.
In Lakhous’ book, the main character Ahmed speaks, like Hassan,
very good Italian and tries to distance himself from his past and from
any strong belief in general that would restrain his individuality23.
Mirroring contemporary trends in immigrant literature, Mazzacurati
shows himself to be in tune with foreigners in Italy and to let them
speak in their own words. Moreover, there is an extent to which the
very title of his movie, La giusta distanza (The Right Distance), might
be interpreted as an allusion to the cultural dilemma that immigrants
everywhere are continuously facing: what is “the right distance”, la
giusta distanza, that one should keep from one’s own past and from
the new present? The dilemma is faced on one level by the male protagonist Hassan, who left North Africa for Italy; on another level by
the female protagonist Mara, who traveled from Tuscany to Concadalbero, and then intends to move to Brasil; and even by the narrator
Giovanni, who leaves Concadalbero for Milan.
23 Lakhous’ Ahmed in Scontro di civiltà is such an integrated immigrant that everybody thinks he is Italian.
382
III
In the two previous sections of this essay, I discussed how Mazzacurati employs certain characters, shooting techniques, and a
specific film genre to present his particular ethical response to the
contemporary social crisis of immigration in Italy. In the following
analysis, I offer a wider interpretation of La giusta distanza, placing
it within its cinematic and cultural background. By affirming in a
past interview that the “language” of cinema evolves continuously
and enriches itself because it nourishes itself from what preceded
it, Mazzacurati has revealed the possibility that his work might consciously adapt and manipulate earlier Italian movies24. Indeed, from
Marco Pettenello, one of the film’s screenplay editors, we know that
La giusta distanza was initially inspired by Antonio Pietrangeli’s
La visita (1963) – a movie set in the provincial Po Valley, dealing
with the problem of women’s solitude – but was adjusted to discuss
the broader and more contemporary issues raised by immigration in
Italy25. Of course, Pietrangeli’s work was only a partial source for
La giusta distanza, a simple point of departure for Mazzacurati’s
more complex interaction with past Italian cinema. In fact, the most
influential currents upon the film under scrutiny appear to come from
neorealist films or similar works which attempt to escape the rigidly descriptive agenda of neorealism. Accordingly, in this section, I
identify the most significant aspects of the movie which tend toward
a documentary or realistic style, and then I attempt to trace their
possible origins in the work of directors like Rossellini, Antonioni,
and Fellini. The purpose of this discussion is, among other things, to
assess to what extent interactions with past Italian films, as exemplified in Mazzacurati’s work, might contribute to the merits and limits
of contemporary cinema in Italy.
A partial interest in authenticity is evident on the part of the Italian
cineaste from the second sequence of La giusta distanza, when Giovanni’s voice-over introduces the film’s story as his own autobiographical recollection, thereby presenting it as a “true event.” Furthermore, several characters in the film are portrayed quite realistically.
Hassan, for instance, is a sort of hybrid documentary reproduction of
24 See his published interview from 1995 with Andrea Filippi (p. 56).
25 Interview published in June 2008 in «Oggi» p. 7.
383
an actual migrant to Italy26, who, after overcoming the first obstacles
of reaching his new country, and after surviving there the possible
vicious circle of crime, drugs, and violence, has managed somehow
to achieve a measure of economic security27. Of course, Hassan is also
more than a factual character, since, as illustrated above, he is portrayed as an almost impeccably good immigrant, symbolically useful for
conveying the director’s sympathetic perspective on non-natives to a
general audience, and for providing a positive model of integration
to foreigners in Italy. Such a supportive depiction of immigrants is
typical of many Italian films on immigration (but differs from the stereotypical treatment of foreigners that is still at times detectable in the
Italian mass media). This positive trend, in my opinion, is yet another
manifestation of the general tendency in some contemporary Italian
films toward civic commitment, a phenomenon observed and partly
connected to neorealism in Italian films on immigration (Amelio’s
Lamerica, Vincenzo Marra’s Tornando a casa, 2001; Francesco Munzi’s Saimir, 2004)28, in movies with a testimonial function (Francesco
Rosi’s The Truce, 1997; Roberto Benigni’s Life is Beautiful, 1998)29,
and also in anti-Mafia films with a memorialist function (Marco Tullio Giordana’s I cento passi, 2000; Pasquale Scimeca’s Placido Rizzotto, 2000)30. In this respect, at least regarding its socially-bound
subject matter, which treats a realistic event in a morally engaged
manner, La giusta distanza appears to display some similarities with
past neorealist cinematic works.
An objective echoing of Italian reality is also perceivable in Mazzacurati’s movie at the level of casting and language. The actors
playing the protagonists, for example, are either not well known
26 Luca Caminati has observed that many Italian films on migration exhibit a condition of generic hybridity, standing somewhere between fiction and documentary
(p. 597).
27 The difficult conditions faced by immigrants are extensively portrayed, for
instance, in Marco Tullio Giordana’s Quando sei nato non puoi più nasconderti
(2005).
28 See Caminati and O’Healy. For an updated list and basic report on the most significant Italian films on immigration, see Sonia Cincinelli’s I migranti nel cinema
italiano (2009).
29 Marcus has defined this trend as the “return to the social referent and to the moral
accountability of neorealism” (After Fellini p. 11).
30 See Marcus’ article In Memoriam: The Neorealist Legacy in the Contemporary
Sicilian Anti-Mafia Film (p. 290).
384
(Ahmed Hefiane), or acting for the first time in a leading role (Valentina Lodovini), or local non-professionals (Giovanni Capovilla was
chosen from among a group of adolescents attending a high school in
Veneto). The employment of some actors from the local area, and the
definite exclusion from the film’s protagonists of well-known professional performers, potentially fulfills several purposes. It allows the
director to work with actors who do not possess strong professional
connotations, so as to more easily impose his own agenda on them;
it helps direct the audience’s attention to the particularly secluded
setting of the movie; and finally it seems to satisfy the neorealist desideratum of representing reality objectively.
Similar purposes are also attained in La giusta distanza through
language. Adopting a mimetic linguistic technique, Mazzacurati produces a film which is verbally hybrid, with an almost spotless Italian
uttered by Giovanni and other educated movie characters, a standard
Italian spoken with a slight foreign accent by Hassan and Mohammed, an Arabic used among the Tunisian and his in-laws, and a local
dialect and inflection employed by some of the minor characters. The
scenes with linguistic regionalisms particularly contribute to depicting the setting as isolated and provincial, further emphasizing the
difference between natives and immigrants. The verbal encounter
between the two groups is well exemplified in an amusing sequence
where Amos, a local inhabitant, uses a dialect phrase with Hassan,
a non-native resident, as a prelude to thanking him. After driving to
Hassan’s workshop, at first upset because of a burnt smell coming
from his new car, and then relieved after learning that the particularly
bad odor was only a melted plastic sack on the exhaust pipe, Amos
utters, in a mixture of Italian and local dialect, «Che spavento fijo mi»
(“what a fright, my son”). The vernacular expression, “fijo mi”, which
is a sort of interjection, apparently adding no relevant literal meaning
to the speech, acquires in this specific dialogue with Hassan the significant value of erasing social differences between the two, treating
the Tunisian not only as one of the Concadalbero inhabitants who can
understand dialect, but also, literally, as an in-law. Ironically, Amos
shows gratitude to the foreigner through a linguistic expression which
symbolically patronizes him and obliterates his culture.
The realistic and documentary-like choices at the level of the film’s
subject, casting, and language, which I have been discussing above,
are visually complemented by the director’s on-location shootings of
385
the Po Delta. By providing yet another view of a region close to his
place of birth (Padua) – one which he has already filmed (for the first
time in Notte italiana in 1987), and which had also been shot by earlier cineastes (to name the most distinguished and relevant ones for
La giusta distanza, Roberto Rossellini and Michelangelo Antonioni)
– Mazzacurati creates a work that is both partially autobiographical
and constructed on foundations established by previous films.
One of the first films that comes to mind after watching Mazzacurati’s La giusta distanza is the Neorealist Paisà (1946), a collection
of six short stories from World War II that range in their setting from
Sicily to the Po Valley. Not only does Mazzacurati’s work share the
general location of the last episode of Paisà, the Po Delta, but, it
also treats the river as an important presence and features a dead person in it31. In Rossellini’s movie, according to Marcus, the river Po
may be symbolically associated with, among other things, historical
progress towards the Liberation of Italy (After Fellini p. 38). A similar impression is generated by Mazzacurati’s film, where movement,
represented by the rolling river from the movie’s opening scenes and
emphasized throughout by a steady depiction of moving buses, cars
and boats32, has a positive value and is contrasted with the stagnation
of an excessively conservative community. The point is forcefully
illustrated by the image of Mara’s inert corpse stranded lifeless on
the river’s bank, a tableau which recalls the cruelty of the nazis’ killings of partisans in Rossellini’s Paisà and seems to cast blame on the
conservative community of Colcadalbero. The voyages of Mara’s life
have come to an abrupt end, but the river flows on.
31 In Paisà, Dale and Cigolani free the dead body of the partisan floating in the
relentless current of the river and give it proper burial. In La giusta distanza, the
body of Mara eventually frees itself of the weight with which it had been thrown
into the river and emerges near a bank.
32 It is significant, for instance, that the film’s initial and penultimate sequences both
display an aerial view of the Po Delta, zooming in and out on a country bus first
arriving and then leaving Concadalbero. On the one hand, the aerial shots framing the beginning and closing of La giusta distanza make the area appear not only
fascinating, because of its still uncontaminated natural beauty, but also immutable, because nothing has visibly changed from the opening takes. On the other
hand, the coming and going of the bus serves as a cinematic narrative vehicle for
introducing and then leaving behind the story of a remote region of Italy as well
as symbolically suggesting the transience of the lives of men and women on earth
like Hassan and Mara, who arrive and then soon depart.
386
Another factor which seems to draw Paisà and La giusta distanza together is civic commitment. Rossellini’s film first represents the
difficulties of constructing Italian national identity through cinematic
fragmentation and mimetic portrayal of regional differences, but then
also employs its montage to suggest the concept of unity in diversity
(After Fellini p. 16). Through Paisà, Rossellini imposes on his viewers the task of interpreting the disjointed parts of the movie and constructing in their own minds a national unity, an act which exemplifies
the democratic consent needed in a nation (After Fellini pp. 16-17).
In today’s Italy – where the country’s unity is constantly called into
question by various demands for increased federalism, and where its
social equilibrium is under continuous pressure from waves of new
immigrants – Mazzacurati reconsiders and redraws Rossellini’s idea
of unity in diversity by asking his audience to expand and render
more flexible their concept of national identity to include the foreign.
There is an interesting scene in La giusta distanza which may further exemplify Mazzacurati’s desire to redraw the cinematic idea of
Italy and its territory. After a family lunch, Giovanni’s aunt Giacinta
yells at his little brother who is refusing to come down from a tree:
«vien zo delinquente che te copo! Se te caschi mi non te porto all’ospedale!» («Come down, you criminal, so I can finish you off! If you fall,
I will not take you to the hospital!»). This humorous episode, which
recalls the memorable moment in Federico Fellini’s Amarcord (1973)
when the short nun curtly demands that Titta’s uncle descend from a
tree, might invite us to reconsider that film’s depiction of the community of Rimini. In Amarcord the Riminesi are generally connoted
positively and outsiders negatively, because the latter are represented
as importers of a conservative fascist ideology33. But, more than thirty
years later, in La giusta distanza, where Mazzacurati addresses global
influences on a contemporary Italian community, those who leave the
limits imposed by the circle are portrayed positively: not only immigrants like Hassan and Mara who have left their own homeland, but
also the narrator Giovanni, who, in the film’s finale, moves to Milan,
starting the career he wanted as a journalist and becoming himself an
immigrant of sorts.
The symbolic references in La giusta distanza to Paisà and, to
33 See Cosetta Gaudenzi’s Memory, Dialect, Politics: Linguistic Strategies
in Fellini’s Amarcord.
387
a lesser extent, to the world of Amarcord, show that Mazzacurati
has attempted to maintain “the right distance” from his cinematic
past. While the cineaste seems to recognize in neorealism a powerful model of civic commitment, as typified by Rossellini’s Paisà, he
also moves beyond the seemingly outdated model of national identity
presented by that film. Likewise, La giusta distanza distances itself
from the cinematic and critical tradition of associating regionalism
with neorealism. In an interview with Francesco Gatti, the director
discusses the film’s setting at length, providing a sort of interpretative key. Mazzacurati affirms that the Po Delta was first represented
by him in Notte italiana because of the nature of its landscape, which
offered him a kind of blank sheet or studio where he could film without too many external influences. But after twenty years, the area has
acquired for him a more familiar meaning, and in La giusta distanza
in particular, it has become «Un luogo un po’ immaginario e un po’
reale, l’ultimo lembo della pianura padana quasi intatto dove si svolge lo scontro tra arcaicità e modernità». («A place which is a little
imaginary and a little real, the last nearly intact strip of the Po Valley
where the clash between archaism and modernism is occurring»)34.
Mazzacurati’s comments in this interview suggest that the village of
Concadalbero functions in La giusta distanza as a realistic but also
symbolic land which might exist almost anywhere35. Consequently,
the documentary touches in the film’s setting, far from being simply realistic descriptors recording reality objectively and recalling
neorealist paradigms, might also be interpreted as cinematic devices
employed to connote somewhat negatively the village as isolated and
conservative. Mazzacurati’s treatment of the film’s setting testifies
therefore to a complex use of the regional in Italian cinema, focusing not so much on the local as an object to be described, but rather
34 Interview with Francesco Gatti published on You Tube in 2007.
35 To complement the film’s opening sequence, the director employs as soundtrack
a hybrid music from the group Tin Hat which mostly uses jazz mixed with blues,
a folk genre that evokes the delta of another great river, the Mississippi. On one
side, this music recalls the many comparisons that twentieth-century literati like
Pier Vittorio Tondelli and Gianni Celati have drawn between the American plains
and the Po Valley. On another side, it provides the film with a connotation which
detaches it from a particular Italian region and thus makes it more universal.
From this perspective, the Po Delta becomes a non luogo, an interpretation which
is supported by an interview with the actress Valentina Lodovini (Mara) released
in the dvd extras.
388
employing it to dramatize the effects of contemporary immigration on
conservative communities36.
As suggested above, Mazzacurati redraws a link with Italy’s cinematic past while rethinking its value for a contemporary audience.
Another master of Italian cinema who has undoubtedly influenced the
director of La giusta distanza in his attempt to escape from the static
and descriptive cinematic agenda of neorealism, and who has provided a significant visual input to the director’s film, is Michelangelo
Antonioni. Indeed, the aerial shootings which start and close La giusta distanza recall Antonioni’s documentary work on the Po. On April
25 of 1939, the Ferrarese cineaste published in the journal Cinema an
article, “For a Film on the River Po,” illustrated by photographs of the
area, some of which were aerial. In 1942-43, Antonioni then shot the
documentary Gente del Po (finally edited and released in 1947), which
offered an unusual take on the region. In different ways, both Antonioni’s article and his documentary are in line with his later cinematic modernism, as Noa Steimatsky has recently pointed out (pp. 1-39).
Through particular uses of the camera, Antonioni offered a new perspective on the regional which entailed not only the realistic description
of a particular locality, but also the fragmented modernist questioning
of the conditions of perception and of narration. Though admittedly to
a lesser degree, we have a similar impression while watching La giusta
distanza. Aerial views where man is no longer the measure of all things,
such as those employed by Antonioni and Mazzacurati, symbolically
problematize our usual perspective on things. From the beginning of
La giusta distanza, aerial shots entice the audience to know more about
the area and persons hidden below, while they also suggest a broader
perspective for looking at immigrants and people in general. Antonioni’s work seems therefore to have provided Mazzacurati a visual model
which accommodates his purpose of bringing to the audience’s attention the notion of reception, as discussed above.
In conclusion, Rossellini, Antonioni, Fellini, and even Pietrangeli
serve as cinematic points of departure for Mazzacurati’s La giusta
distanza. In an earlier interview (1995), the director had expressed
the necessity of starting out from some cinematic place that counted37.
36 See for instance Giorgio Diritti’s Il vento fa il suo giro (2005).
37 In a 1995 interview with Andrea Filippi, Mazzacurati observed: «Noi abbiamo
dovuto ricollegarci al cinema degli anni ’50 e ’60 per ritrovare un filo, come se ci
fosse stato un precipizio in cui tutto è rovinato, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio
389
Much as the Medieval author Dante felt a need to cite and then to
rewrite the literary models of Virgil, Ovid, Statius, and Lucan in creating his Commedia, Mazzacurati, like other contemporary Italian
cineastes, stands in comparable need of a reliable authority, something
familiar to catch the audience’s attention, which can then be remade
and re-imagined in modern terms so as to create a continuity with the
cinematic past. As illustrated by my preceding analysis of Mazzacurati’s work, it is possible to make a film which keeps its “right distance” from the past and is neither totally subservient to it nor in total
contrast with it. The creation of a new and diverse Italian cinema does
not necessarily require the drastic measure of parricide, “uccidere i
propri padri” (“to kill one’s fathers”), as suggested so provocatively
at the 2010 Venice Cinema Festival by Gabriele Salvatores. Such a
radical approach would imply the suppression of an entire apparatus of Italian cinema as well as a valuable part of Italian culture and
history. Instead, as suggested by the preceding interpretation of Mazzacurati’s La giusta distanza, not only immigrants, but also Italy’s
cinematic past, should be viewed from “the right distance”, which is
of course difficult to define, but which excludes outright rejection and
includes a measure of sympathetic consideration.
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391
Manuela Gieri
L’urgenza della storia
nel cinema italiano contemporaneo
Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo
in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l’età della propria vita allo stesso modo
in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo
dall’esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti dell’epoca
o le opere degli storici successivi.
(Eric Hobsbawn, Il secolo breve)
È difficile mettersi d’accordo su di una data che segni l’inizio del
Risorgimento [...] perché non appena ammettiamo che l’Italia dovesse
“risorgere”, qualsiasi momento della storia della penisola può essere
considerato uno spostamento da e verso l’unità.
(Sorlin p. 103)1
Da anni rifletto su cinema e storia, ed anche, quasi conseguenza inevitabile, sulla storiografia del cinema. Da anni, rifletto sui tanti film italiani che affrontano con puntualità i nodi storici della nostra modernità, e, dunque, il Risorgimento, il Fascismo, la guerra, la Resistenza,
gli anni di piombo, ed anche, negli ultimi due decenni, il problematico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, le migrazioni,
le tante grandi questioni della nostra contemporaneità. Di recente, e
fors’anche in parte stimolata dall’incontro sul cinema italiano contemporaneo organizzato dall’Indiana University a Bloomington nella
primavera del 2011, mi sono interrogata su quella che mi è parsa una
nuova ed originale attenzione rivolta a questioni di carattere storico
1 Il testo apparve prima in inglese col titolo The Film in History: Restaging the
Past (Oxford, Basil Blackwell, 1980). Nel saggio faccio riferimento allo scritto
di Sorlin nella sua versione italiana.
392
presente nel cinema italiano dell’ultimo ventennio, ma anche a quello
che mi è sembrato un modo nuovo e diverso di affrontare la questione
della testimonianza, così come quella del ricordo e della memoria.
Testimonianza, ricordo e memoria per decenni, nel contesto della storia italiana del secondo dopoguerra, sono state questioni intimamente
legate alla più ampia problematica dell’identità nazionale. Quando
poi da essa si sono slegate, per i motivi più diversi, ecco che il nostro
cinema non riusciva più né a testimoniare né a ricordare, né ovviamente a fare del ricordo un bagaglio collettivo che potesse divenire
memoria.
Nel suo ultimo volume sul cinema italiano, Gian Piero Brunetta
si è spinto ad affermare, infatti, che la generazione degli anni ’90
«[…] sempre più deambula meccanicamente senza bussola o punti
di riferimento entro paesaggi vuoti di senso, privi di valori, come se i
personaggi fossero i superstiti di un’esplosione atomica»2. A proposito di questo, come sostenne a suo tempo Gianni Amelio, sembrerebbe
allora davvero profetica la visione apocalittica con cui Federico Fellini ci ha lasciato, e cioè La voce della luna (1990), un film che oggi
più che mai appare come il testamento ideale di un’intera generazione, e cioè quella che aveva traghettato la nazione e i suoi spettatori
fuori dalla Seconda Guerra Mondiale e nel Neorealismo, nonché poi
nel boom economico e nel grande cinema degli anni ‘60, ma che non
era forse riuscita a dare un senso a quel passaggio generazionale ed
epocale che sono stati gli anni ’70, e cioè gli anni di piombo. Come
profetico appare oggi anche lo sguardo di Michelangelo Antonioni
nei suoi lavori della tetralogia3 che riecheggiano la convinzione da
lui espressa al Festival di Cannes nel 1960, e cioè che «[…] modern
man lives in a world without the moral tools necessary to match his
technological skills; he is incapable of authentic relationships with
his environment, his fellows, or even the objects which surround him
because he carries with him a fossilized value system out of step with
the times»4; così come sempre più profetici ci appaiono i capolavori
2 Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo da La dolce vita a Centochiodi, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 628.
3 Nello specifico, L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), e Deserto
rosso (1964).
4 Michelangelo Antonioni, Festival di Cannes 1960, in George Amberg, L’Avventura: a Film by Michelangelo Antonioni, New York, Grove Press, 1969, p. 213
(«L’uomo moderno vive in un mondo privo di strumenti morali adeguati alle sue
393
che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato, sullo schermo e sulla pagina,
partendo già dal romanzo Ragazzi di vita (1955) e dai saggi contenuti
in Passione e ideologia (1948-1958), volume pubblicato nel 1960, e
dal suo film di esordio Accattone realizzato nel 1961, per finire con
l’apocalittico Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Tutte queste
opere indubbiamente straordinarie, che hanno consunstanziato di se
anni ugualmente straordinari, terminavano ponendo domande urgenti, ma che poi, troppo spesso, non hanno trovato risposte, e conseguentemente sembrano, oggi più che mai, prefigurare quel mondo che
verrà, o meglio quel mondo che è già venuto, senza offrirci però una
chiara e inequivocabile via d’uscita, nonché un’altrettanto chiara e
inequivocabile chiave di lettura del reale.
È così, poi, che andarono a trascorrere gli anni ’80, proponendo spesso sul grande schermo le storie asfittiche e “afasiche” di una
generazione di “orfani”, come le definiva Lino Micciché, cioè un
panorama sconfortante nel quale i padri continuavano a costituire per
i figli obiettivi ineguagliabili, e per i “nipoti”, orizzonti irraggiungibili, che non riuscivano più nemmeno a rappresentare exempla plausibili e perseguibili5. Si consumava così una fondamentale incapacità a
risorse tecnologiche; è incapace di rapporti autentici con il suo ambiente, con le
persone con cui si trova o addirittura con gli oggetti che lo circondano, poiché
porta in sé un sistema di valori fossilizzato, fuori passo con i tempi»).
5 Lino Micciché, Gli eredi del nulla. Per una critica del giovane cinema italiano, in
Franco Montini (a cura di), Una generazione in cinema. Esordi ed esordienti italiani 1975-1988, Venezia, Marsilio, 1988, p. 252. Per una discussione sul nuovo
cinema italiano, si vedano anche Mario Sesti, Nuovo cinema italiano. Gli autori
i film le idee, Roma-Napoli, Theoria, 1994; Vincenzo Camerino (a cura di), Il
cinema italiano degli anni ottanta...ed emozioni registiche, Lecce, Piero Manni,
1992. Si vedano altresì, il numero speciale di «Segnocinema» xiii.64, novembredicembre 1993, e particolarmente il saggio di Flavio De Bernardinis, Caro cinema italiano… (pp. 11-13) e quello di Giorgio Simonelli, Proposta decente (pp.
14-16), e pure «Segnocinema» 10.41, gennaio 1990, e specialmente l’articolo di
Marcello Walter Bruno, Introduzione al nemico. Televisione, pubblicità e nuove
tecnologie nel cinema italiano degli anni ’80 (pp.11-15), e quello di Marcello
Cella, La natura indifferente. Il paesaggio nel cinema italiano degli anni Ottanta
(pp. 16-20). Di Marcello Walter Bruno, si veda anche Meta in Italy. La via nazionale al cinema-sul-cinema, in «Segnocinema» xi.51, settembre-ottobre 1991 (pp.
10-13); e di Morando Morandini, Il regista è finito? Breve viaggio intorno agli
autori del cinema italiano degli anni ’80, in «Segnocinema» vi.22, marzo 1986
(pp. 4-6). Si veda anche «Cineforum» 29.10, ottobre 1989 e 30.7/8, luglio-agosto
1990, poiché entrambi i numeri sono dedicati al giovane cinema italiano, ed hanno signicativamente lo stesso titolo, Sperduti nel buio. Per una discussione sul-
394
ricostruire la mappa coerente di un mondo che, di conseguenza, fosse
convincente e credibile, vicino e pur anche omologo a quell’universo
‘reale’ in cui ci si muoveva con crescente difficoltà, incapaci di proiettarsi in una prospettiva che riuscisse a farsi Storia, di una generazione e della sua nazione.
Quel decennio, però, si chiudeva con una sorta di impennata del
cinema italiano, con film quali Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe
Tornatore, che nel 1989 portava alla storia di questa cinematografia
un riconoscimento internazionale che mancava da moltissimi anni,
ma anche con lavori quali Palombella rossa di Nanni Moretti che,
nello stesso anno, ricevette il plauso della critica, in primis di quella francese, sempre attenta e sensibile alle storie del nostro cinema
nazionale: in quell’anno 1989, dunque, alcuni dei registi che avevano
vissuto il loro esordio negli anni ’70 parvero indicare la strada per una
possibile ripresa della nostra pulsione al racconto di una storia che,
come sempre era stato ed è per noi, fosse sia individuale sia collettiva.
Indubbiamente, quell’anno 1989, e cioè, tra le altre cose, significativamente, la data della caduta del muro di Berlino e della fine del
“secolo breve”, come lo definì Eric Hobsbawn, pare essere anche una
delle date fondative nella storia gloriosa del nostro cinema: come lo
fu il 1908, e cioè, secondo alcuni, l’anno d’inizio di quella che fu
l’età d’oro del cinema italiano degli esordi; come lo fu il 1942, data
di apertura della straordinaria temperie neorealista con lavori quali
I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti; come
lo fu il 1959, quell’anno in cui, in condivisione con i nostri vicini
d’oltralpe, sancivamo l’esplosione del modernismo cinematografico
europeo, con lavori quali La dolce vita di Federico Fellini e L’avventura di Michelangelo Antonioni; come il 1969, l’anno in cui Fellini ci
regala il suo Satyricon, personalissimo adattamento di un prosimetro
della letteratura latina, testo lacunoso e frammentario, e Pasolini la
sua Medea, trasfigurazione idiosincratica della tragedia euripidea, e
cioè due lavori che mettono in scena l’insanabile conflitto tra l’antico
e il moderno, tentando di dare una risposta all’inesausto bisogno di
orgine che segna il percorso dell’umanità, nonché, più concretamente, alla conflittualità che stava imperversando nel contesto sociale itala rinascita del cinema italiano contemporaneo, di enorme interesse è un’intera
sezione nel numero speciale di «Cinema nuovo» 41.1, gennaio-febbraio 1992,
pp. 13-31, la sezione è intitolata Il “che fare” per il cinema italiano ed è dedicata
ad alcune interviste rilasciate da registi italiani.
395
liano contemporaneo; ed alfine, il 1989 arriva dopo quasi due decenni (gli anni ’70 e ’80) di un precario arrancare dei nostri cineasti,
sostanzialmente incapaci di ricucirsi addosso un’identità, e dunque
una storia personale e collettiva, che fosse, come dicevo, credibile e
condivisibile.
D’altronde, come ci ricorda proprio Eric Hobsbawn nel suo volume Il secolo breve:
La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni
più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento.
La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni
rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi
vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l’attività degli
storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio
di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per
questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro
necessaria funzione6.
Cercando di percorrere la strada qui indicata da Hobsbawn, e scorrendo, ad esempio, gli annali del nostro cinema nazionale a partire
da quell’anno 1989, si fanno alcune scoperte interessanti: da un lato
si può agevolmente notare come un numero consistente dei film realizzati in Italia negli ultimi vent’anni e poco più, scelgono a proprio
soggetto uno dei momenti cruciali della nostra storia moderna – sia
esso il Risorgimento, come accade nel tormentato Noi credevamo
(2010) di Mario Martone, o il Fascismo, come in Vincere (2009), racconto sapientemente diretto da Marco Bellocchio sulla controversa
figura di Ida Dalser, l’amante segreta di Benito Mussolini, sia esso la
Resistenza, come in I piccoli maestri di Daniele Luchetti nel 1998 o
ne Il Partigiano Johnny di Guido Chiesa del 2000, o la caduta della
Prima Repubblica, come accade ad esempio sia nel Caimano diretto
da Nanni Moretti nel 2006 sia nel Divo realizzato da Paolo Sorrentino
nel 2008, oppure privilegiano una delle tante questioni che più hanno
6 Eric Hobsbawn, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano,
Rizzoli, 1999, p. 13.
396
segnato il nostro percorso verso quella stessa modernità – e dunque,
gli anni di piombo in lavori quali La meglio gioventù diretto da Marco
Tullio Giordana nel 2003 o La prima linea di Renato De Maria del
2009, le migrazioni e la questione dell’integrazione (e qui l’elenco
sarebbe davvero lungo e articolato, ma vorrei ricordare almeno due
film, e cioè Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, che nel 1992 inaugura una nuova stagione filmica per la questione dell’immigrazione
e dell’integrazione culturale, a cui seguiranno nel 1994 Lamerica di
Gianni Amelio, i tanti film di Ferzan Ozpetek, e poi, sull’annosa e
dolorosa questione dell’emigrazione degli italiani in America appunto,
un film davvero particolare come Nuovomondo diretto da Emanuele
Crialese nel 2006), ma anche il rapporto difficile tra pubblico e privato, la questione meridionale nelle sue varie articolazioni, e così via.
Una visione attenta di questi lavori, obbliga lo spetttore ad altre
osservazioni, e, prima di tutto, certamente a notare come anche in
questi ultimi due decenni, così come nei quattro che li hanno preceduti, il cinema italiano si stia ancora confrontando con quella che Gianni
Canova, in un suo recente lavoro, Cinemania. 10 anni 100 film: il
cinema italiano del nuovo millennio, definisce con indubbia provocazione “la maledizione del neorealismo”, affermando poi anche quanto
segue,
il cinema italiano è ossessionato dal confronto – che a volte
assume anche i toni del rimpianto – con la stagione più alta
e più nobile della propria storia. È periodicamente indotto…
a fare i conti con le ricorrenti apparizioni di quel fantasma.
Oltre che con l’idea… che un buon film sia quello capace di
“mostrare la realtà”. Come se il cinema fosse un dispositivo inerte che sta fuori dal mondo e può tutt’al più ambire a
rispecchiarne la forma già data7.
Eppure, pur confrontandosi con la tradizione, poiché sarebbe nei fatti
impossibile fare altrimenti, mi pare che questo nuovo cinema italiano abbia superato l’ansia dell’imitazione, ed abbia invece ben chiaro
il fatto di poter fare molto di più che semplicemente ‘rispecchiare
il reale’, e fare i conti con quel ‘fantasma’, come ci insegna molto
banalmente già la visione di un film con il quale Ettore Scola chiude
7 Gianni Canova, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, Venezia, Marsilio, 2010, p.13.
397
la prima metà degli anni ’70, e cioè C’eravamo tanto amati (1974)
per poi specificarne l’argomentazione nei successivi Brutti, sporchi
e cattivi (1976), Signore e signori, buonanotte (1976), Una giornata
particolare (1977), I nuovi mostri (1977), nonché il film rivelazione
con cui apre i suoi anni ’80, e cioè La terrazza (1980)8.
Riprendendo una distinzione categoriale proposta da Paolo Bertetto, si potrebbe certo affermare allora, come fa Canova, che l’ostinato
tentativo di rispecchiamento del reale nasce dal fatto che il nostro
cinema pare abbia, coscientemente o meno, scelto di operare in un
regime dello specchio e non in quello del simulacro. A sostegno di
tale valutazione, si possono ricordare, come è stato fatto, i titoli dei
giornali che nel 2008 salutarono la duplice vittoria del cinema italiano a Cannes con Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo
Garrone. «Torna il cinema della realtà», si disse. Giustamente, però,
Canova osserva poi che
[…] quel che non si capiva (o si voleva far finta di non capire…) è che quei due film vincevano e vincono non perché
mostrano un presunto “reale” dissimulato o nascosto dagli
altri media e dimenticato dai film coevi, quanto piuttosto perché trovano entrambi una forma capace di rivelare qualcosa
del mondo a chi con quella forma entra in relazione9.
È indubbio infatti che per anni, tanta parte della critica pare attraversata dall’incapacità, o forse meglio, dalla non volontà di cogliere
la reale e sostanziale novità dei lavori di registi quali Sorrentino e
Garrone – e cioè, appunto, la ricerca formale, così come era accaduto
prima di loro, a Calopresti, e così come accadrà dopo di loro, fra gli
altri, a Giorgio Diritti (per menzionare solo due nomi di coloro di
cui si potrebbe certamente discorrere in questa prospettiva). Dunque,
pare contraddittorio affermare che «Quel feticismo della “realtà” e
quel dogma del verosimile che hanno irretito il cinema italiano per
tutta la seconda metà del Novecento» abbiano «continuato ad agire e a operare anche nel primo decennio del nuovo millennio»10, di
8 Per una discussione esaustiva di tale questione, rimando al mio Italian Contemporary Filmmaking: Strategies of Subversion. Pirandello, Fellini, Scola, and the
Directors of the New Generation, Toronto, University of Toronto Press, 1995.
9 Ibidem.
10 Ivi, p.14.
398
fatto inibendo la capacità del nostro cinema a intraprendere strade
nuove e privilegiare registri diversi – dal visionario all’onirico, dal
sublime al grottesco, e così via. Pare contraddittorio poiché invece
sembra indubbiamente vero quanto afferma sempre Canova, e cioè
che, a fronte di un decennio, quello dal 2000 al 2009, che ha visto
«il trionfo del reality show come forma compiuta di desertificazione
del reale […] il cinema italiano – per quanto possa ancora valere una
simile denominazione geografica e identitaria – si presenta come un
organismo tutt’altro che sguarnito o sprovveduto»11. E non è sguarnito e sprovveduto principalmente poiché, come si affermava qui in
precedenza, questo nostro cinema non sente più il peso di quel fantasma, ed invece questa nuova generazione, diversamente da quella che l’ha preceduta, non subisce più l’obbligo e la responsabilità
dell’imitazione.
Per questo, ad esempio, se è vero che La seconda volta (1995)
di Mimmo Calopresti è segnato dall’ossessione della cinepresa/specchio, tale desiderio ossessivo non è poi accompagnato dalla sua realizzazione, i personaggi non guardano mai veramente “in macchina”,
e il loro sguardo è sempre “decentrato”, così come decentrate sono le
loro motivazioni: ad un’azione non succede mai una reazione definita, definitiva e imprescindibile, la loro storia personale non obbedisce a quelle ragioni superiori e generali che motivavano le narrazioni
del Neorealismo, ma rispondono, se e quando rispondono, soltanto a
motivazioni private, personalissime, singolari. Per questo, interrogata
da un’amica sulle ragioni delle sue passate azioni, Lisa12 risponde
laconicamente ma con decisione «Io non mi ricordo di niente. Non
c’ho più pensato...Non ci voglio più pensare». In La seconda volta, i movimenti di macchina di Calopresti accompagnano le pulsioni dell’anima, seguono il respiro stesso, a volte rallentato e a volte
accelerato, dei suoi protagonisti, poiché la storia che qui è messa in
scena è quella del percorso personale, intimo, di chi vuole con determinazione riprendersi il proprio primo piano, la propria centralità,
dopo essere stato per anni obliteratoto, nella Storia collettiva di una
nazione in cui, per altro, si faceva fatica a riconoscersi, sia i sicari
sia le vittime, tanto che anche quei ruoli, fissati dalla Storia ufficiale,
11 Ibidem.
12 La protagonista femminile, in un passato che qui, per lei, nonostante tutto, appare
lontanissimo, aveva sparato al professore interpretato da Nanni Moretti.
399
devono, di necessità, essere rivisti, reinterpretati, alla luce di quelle
pulsioni, sotto la spinta di quei respiri.
Tesi a ridare centralità ma anche storicità allo sguardo paiono
essere tanti altri tentativi che hanno trovato spazio e forma nel nostro
cinema degli ultimi due decenni, non ultimo quello di Giorgio Diritti in un film straordinario come L’uomo che verrà. Emozionante e
appassionato, onesto e rigoroso, il film è ambientato sull’Appennino
Tosco-Emiliano, a pochi chilometri da Bologna e vicino a Marzabotto, e racconta la difficile quotidianità di una famiglia di contandini,
i Palmieri, dall’inverno del 1943 all’autunno del 1944: i nazisti presidiano ostinatamente la Linea Gotica, i partigiani tentano costantemente di sabotare le loro azioni, e a volte ci riescono, e i civili cercano di sopravvivere, subendo le intimidazioni arroganti e violente
degli uni e le richieste pressanti di partecipazione degli altri. La vita,
ovviamente, continua il suo corso: circondati dai loro famigliari, troviamo Lena che porta in grembo l’«uomo che verrà» a cui si riferisce
il titolo, e suo marito, Armando, che lotta con determinazione tra i
vincoli della mezzadria e le imposizioni dei nazisti; tutti i componenti
della famiglia Palmieri, insieme agli altri contadini che abitano nella
stessa cascina, condividono la dura vita quotidiana ma anche quello
che rimane dell’anelito alla condivisione, del desiderio tutto umano di
guardare con leggerezza al giorno, e al mondo, che verrà.
In questo affresco di vita contadina, di olmiana memoria se non
fosse per la minaccia costante della tragedia incombente, lo spettatore
è guidato dallo sguardo penetrante di Martina, la piccola figlia di Lena
e Armando, diventata muta dopo la morte di un fratellino, ed ora premurosa custode di quello in arrivo: grazie a lei veniamo a conoscenza
dei movimenti e dei comportamenti delle truppe naziste, ma anche
delle fughe precipitose dei contadini nei rifugi ritagliati nei boschi,
delle azioni dei partigiani, delle sconfitte e delle morti, ma soprattutto
dell’inevitabile intrusione della guerra, e della sua violenza, nella vita
di tutti i giorni, riuscendo così, alla fine, a dare un nome a quel senso di
tragedia incombente che segna tutta la narrazione, già allo scorrere dei
titoli di testa, sino alla sua necessaria ed inevitabile esplosione.
In un incipit che non può non riportare alla memoria l’atmosfera magica e notturna de La notte di San Lorenzo (1982) dei fratelli
Taviani, tutto è uguale perché tutto cambi: infatti, ove là era la parola (quella di una madre al suo bambino) che traghettava il racconto
da un tempo all’altro, da un luogo all’altro, qui si vuole riaffermare
400
la supremazia dello sguardo nella piena consapevolezza che «l’occhio (come la scrittura) [ha] una storia e, di conseguenza, [esistono] differenti modi di ‘valorizzare’ le immagini nella varie direzioni
del sacro, del mito, della magia o dell’arte» (Franzini pp. 60-61). È
questo il tempo dello sguardo, e in una luce magicamente blu l’occhio della cinepresa, inequivocabilmente assunto alla posizione dello
sguardo che poi scopriremo essere quello della piccola Martina, ci
conduce nell’interno silenzioso della casa, su per le scale che portano
alle povere stanze da letto. Da quel momento in poi, la cinepresa non
abbandonerà mai, o quasi mai, lo sguardo di Martina, che alla fine di
un racconto tragico e straziante, e che riassume gli eventi di Monte
Sole in cui persero la vita circa 700 persone inermi, dopo averci nuovamente riportato all’interno della casa, in un percorso speculare a
quello iniziale, con la dolorosa consapevolezza della mancanza che
è frutto di un vissuto personale, ma di una vicenda improvvisamente
riconoscibile come Storia collettiva, Martina esce all’esterno, si siede
su un tronco, spalle alla cinepresa, con in braccio il piccolo uomo che
è venuto, ritroverà la voce, e reciterà una ninna nanna dolce e antica,
rompendo per la prima volta il suo lungo silenzio di parola.
È stato da più parti definito un capolavoro questo film di Giorgio
Diritti, che si concentra sulla sofferenza e sulla disperazione di tutti
coloro che il cinismo della Storia ufficiale vuole essere «danni collaterali», e che normalmente rimangono, loro sì, soltanto fantasmi in un
racconto in cui la luce troppo spesso si fissa solamente su quei pochi
che decidono le umane sorti dei tanti. Per mostrare il dolore e la tragedia di quella moltitudine di fantasmi della Storia, Diritti rifugge da
soluzioni facili e prosaiche, non amplifica gli elementi spettacolari ed,
al contrario, privilegia uno stile asciutto, come asciutta è la sua gente, e
sceglie, dunque, il silenzio sulla parola. A quegli uomini, a quelle donne
e a quei bambini che vanno incontro alla morte, con paura e lacrime
vere, lo spettatore si affeziona, sostiene un critico, poiché ne riconosce
la semplicità, la condizione umanissima, la vita difficile, e giunge a sentire quasi l’odore di terra e di stalla che li circonda, soffrendo della loro
stessa povertà, ascoltando la durezza di una lingua, necessariamente il
dialetto (con i sottotitoli che per questo non disturbano), che ha le stesse
asperrità dei loro volti13.
13 Mereghetti afferma poi che lo stile di Diritti «sarebbe piaciuto a Bazin e a chi
come lui rivendicava al cinema la capacità di restituire sullo schermo la forza del-
401
In chiusa di questa brevissima incursione nell’evoluzione del cinema italiano degli ultimi vent’anni, vorrei ricordare le parole di Alessandro Manzoni che, ancora una volta, forse, ci può aiutare a meglio comprendere quello che a mio avviso sta avvenendo in una cinematografia
che oggi davvero non pare né afasica né asfittica né deambulante in
spazi privi di senso. Sono le parole che si leggono nella Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la Tragédie, un saggio di poetica scritto in francese da Manzoni nel 1820 e diretto al critico
Victor Chauvet in risposta alle sue critiche mosse nei confornti della
tragedia Il conte di Carmagnola (1816): «Expliquer ce que les hommes
ont senti, voulu et souffert, par ce qu’ils ont fait, voilà la poésie dramatique: créer des faits pour y adapter des sentimens, c’est la grande táche
des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours»14.
Forse allora l’esigenza del nostro cinema contemporaneo è proprio quella di ritrovare la poesia del reale—sintomo della vicinanza—
e ritrovarla in tutta la sua drammaticità, registrarne la forma e la voce,
portare sullo schermo quella moltitudine di storie multiformi e colorate che fanno davvero la storia di questa nostra bistrattata umanità, e
tentare una volta e per sempre di superare le necessarie limitazioni che
l’impulso prosastico—sintomo della distanza— impone al racconto,
non riconoscendone più né l’urgenza né la veridicità. In occasione
dell’uscita nelle sale di Nuovomondo, Emanuele Crialese incontrò la
stampa romana e in quell’occasione affermò, infatti, quanto segue:
Penso che la poesia non sia mai voluta, e guai se lo fosse. La
poesia deve nascere da sola: non si scrive mai nulla per essere
la realtà: gira dal vero, mescola volti di professionisti (Sansa, Rohrwacher, Casadio: tutti eccellenti) a altri presi sul posto (la piccola Greta Zuccheri Montanari
ma anche i tanti vecchi dei luoghi, alcuni, da giovani, testimoni del vero eccidio
nazista), evita luoghi comuni e cadute retoriche. E riesce a regalarci una delle
più belle prove di un cinema finalmente necessario, di altissimo rigore morale e
insieme di appassionante e coinvolgente forza civile. Un capolavoro». («Corriere
della sera», 20 gennaio 2010).
14 Alessandro Manzoni, Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu
dans la Tragédie, in http://www.classicitaliani.it/manzoni/chauvet3.htm: «Spiegare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che hanno fatto, in questo consiste la poesia drammatica; inventare dei fatti per adattare
ad essi dei sentimenti è, da Mademoiselle Scudéri ai giorni nostri, il grande difetto dei romanzi». Testo di riferimento Opere varie di Alessandro Manzoni, edizione riveduta e corretta dall’autore (Milano, Stabilimento Redaelli dei Fratelli
Rechiedei, 1870), pp. 395-451.
402
apprezzati a priori, sono dei segni che esprimono un’urgenza.
C’è del mistero in questo, non c’è vera consapevolezza. Tutte
le arti sono legate all’azione inconscia e inconsapevole, bisogna fidarsi di più dei propri istinti e delle proprie paure, tutto
parte dalle viscere15.
Nell’invocare la possibilità, o meglio, quasi, il proprio diritto a rappresentare ciò che si è “sentito, voluto e sofferto”, come scriveva
Manzoni, attraverso ciò che si è fatto “veramente”; nell’invocare la
sostanziale supremazia dello sguardo, e del suo potere nel tracciare la
mappa della propria rinnovata capacità di testimoniare, e dunque di
ricordare e costruire, così facendo, una propria memoria personale,
che può, ma non deve necessariamente, farsi collettiva; in questa vera
e propria ‘invocazione’ al silenzio come luogo e tempo dell’unica
verità possibile, articolata nei modi più diversi, pare risieda la forza
nuova di questo nostro cinema italiano contemporaneo.
In conclusione, mi piace ricordare le parole con cui Federico Fellini volle chiudere La voce della luna, la sua ultima fantasia registica
e quasi il suo testamento ideale, dando la parola a Roberto Benigni/
Ivo Salvini, quand’egli sussurra: «Eppure io credo che, se ci fosse
un po’ più di silenzio...forse qualcosa potremmo capire!», mentre si
dirige verso il pozzo per ascoltarne le “voci”, con lo sguardo rivolto
alla Luna.
15 Nuovomondo: incontro con Emanuele Crialese, a cura di Gabriele Marcello, 20
settembre 2006, http://www.cinefile.biz/?p=1714.
403
Paola Lorenzi
I Am Love: Italian Antidote to the Hollywood Cinema of
Aliens, Mutants & Vampires
Abstract
This essay examines how Luca Guadagnino’s I Am Love (2009), masterfully reflects a distinctive stylistic heritage common to a new generation of Italian filmmakers. Furthermore, the article explores how the
death of the American Dream and the consequent Hollywood studios’
choices were instrumental to the successful expression of uniquely
human sentiments as portrayed in I Am Love.
What is the dominant trend emerging in American cinema in the
midst of a devastating economic recession? What we are witnessing
is a massive production of films moving towards the reassuring port
of the supernatural, epic and fantastic heroes. Society is abandoned
as alternate realities are seen as the only viable retreat. In the mix of
these very peculiar worlds of avatars, flying vampires of the twilight,
X-men and monsters of all assortments, sizes and disguises, I Am Love,
represents a dramatic and vivid portrait of the landscape of human
love. It reaches the American audience’s desensitized perceptions and
reawakens their senses at last. As in one of its pivotal sequences, love
impetuously breaks out like an epidemic and contagiously envelops
its victims in a natural and almost primordial embrace. Seemingly it
is the unraveling of the finely weaved nuances of love, which capture
and mesmerize the viewers. I will explore how Luca Guadagnino’s
film, almost completely ignored in Italy, received great recognition of
critics and audiences and gained international acclaim.
As periodically happens, savvy critics attempt to resurrect the idea
of a new Italian cinema and its prominent presence in the international
markets, envisioning a new, prolific generation of Italian “auteurs” as
in the case of Life Is Beautiful (1997). Such expectations are almost
404
always followed by seasons of invisibility, longing for a much-anticipated new wave of Italian filmmakers. In a recent interview director
Quentin Tarantino stated:
The Italian films I have seen in the last three years are all the
same. They talk about boys growing up, or girls growing up,
couple having a crisis, parents or vacations of the mentally
impaired. What has happened? I so much loved the Italian
cinema of the 60s and 70s and a few films of the 80s, and now
I feel it is all over. It’s a true tragedy1.
Tarantino’s point of view, limiting the Italian cinema to its mere content, constitutes a narrow view of the most recent Italian productions.
I will establish, rather, how the contemporary Italian cinema is in fact,
the result of precise and deeply entrenched stylistic cinematic traditions and how I Am Love is a masterful interpretation of such a heritage. Paradoxically, it is Hollywood’s studio productions that lack a
human discourse, disguise a true crisis of themes and values, drown
in the shallow waters of the super hero stories and bury the American
dream beneath unreal and phantasmagoric worlds.
The Cinematic Heritage
I will proceed by isolating the most prominent models that have
marked the path of the evolution of the Italian cinematic language,
a fountain from which today’s directors such as Luca Guadagnino,
Matteo Garrone, Paolo Sorrentino and others draw from. These very
same models have shaped both Italian production companies and viewers’ choices.
The first model is the realistic movement of Roberto Rossellini,
which responded to a necessity of combining the lack of means and
the need of postwar directors to convey their ideological and artistic
vision. Rossellini, in expressing his marked documentary stylistic
preference by capturing the deepest pathos of postwar reality, transcends the mere recording of facts typical of the documentarian tradition and the restraint of the Verismo’s literary heritage. He created a
1 Baldocci, Rosa, I nuovi film Italiani? Una tragedia, «TV Sorrisi e Canzoni» 1st
June 2007: 23 Print.
405
new cinema capable of redeeming and elevating his visual narrative
beyond these limitations, thus opening a new, unparalleled horizon
in the future of Italian filmmaking with Rome, Open City (1945). He
focused on the predicaments of ordinary people and turned the camera
lens on landscapes of the Italian peninsula, until then unimaginable,
as in Paisà (1946). Attention pointed towards reality, the discovery
of unusual faces and often times unappealing places, storylines built
around marginal characters and abrupt language are also found in a
few other seminal works of the same period, as in the works of De
Sica, Sciuscià (1946), Bicycle Thief (1948), Unberto D (1952), and
Luchino Visconti’s The Earth Trembles (1948). The earlier pioneering works of Alessandro Blasetti Four Steps in the Clouds (1942),
Luchino Visconti Obsession (1943) and De Sica The Children Are
Watching Us (1943) must also be mentioned here as they paved the
way for Rossellini’s Rome, Open City.
The next model is the whimsical world brought forth by Federico
Fellini in his magical, dreaming, almost surreal narratives, derived
from the deepest dimensions of daily living. This marks the polar
opposite cinematic discourse. It is not a cinema of special effects; it
is instead the result of a creative imagination free to mix memories
and present, dreams and reality, archetypes and burlesque characters.
From this inexhaustible material he derives the recurrent presence of
symbolic places like the circus, the sea, the fog, the dream and many
unforgettable characters that characterize his cinema. It is Fellini’s
legacy and lasting tradition that has influenced, for example, Roberto
Benigni’s recent works.
The third model is a cinema targeting a larger audience, striving
to produce widely appealing and vivid entertainment, however still
refined and thought provoking. The film heritage of Mario Camerini
and Alessandro Blasetti is found in the works, crafted by true artisans,
for a broad audience enticing with a fine populist charm and laughterinducing gags. It is the high-grossing box office cinema legacy forged
by the “comedy Italian style” filmmakers such as Mario Monicelli,
Luigi Comencini, Pietro Germi, Dino Risi, Lina Wertmüller just to
mention a few.
The final model, the one more specifically reflective of Luca Guadagnino‘s I Am Love, is the one of beauty. The research of aesthetic
and artistic elements was finely celebrated in the works of Luchino Visconti, and from a polar opposite perspective, by Michelangelo
406
Antonioni. To Visconti, beauty is filling the image with opulent sets,
costumes and a lavish cast ensemble. In Antonioni’s films, beauty is
absence and space is emptiness as the narrative unfolds through slow
camera movements and their juxtaposition, characters enter and exit
the screen. Both directors are seeking to create in the audience the
perception and the direct experience of beauty.
This grouping should not be interpreted as constituting an attempt
to label into static boxes the production, the cinematic discourse of
certain filmmakers, or a rigid matrix characterizing the evolution of
Italian cinema. On the contrary, it aims to outline the prominent different sources from which our young directors have inherited their
stylistic preferences. These predilections have become an integral
part of their artistic DNA and in a sort of cross-contamination we find
transported the legacy of many of our world-renowned directors.
However, it is necessary to mention that the majority of recent
Italian cinematic productions depend upon regional commissions or
government financing. Furthermore their quality has been influenced
by the uncertainty of their distribution and/or still heavily controlled by two television giants, Mediaset and Rai. This reality has also
been confirmed by the president of Cinecittà Luce, Roberto Cicutto
when he stated, “Let’s not forget that in the eighties we had a new
development in commercial television that came when media tycoon
Mr. Silvio Berluconi set up his private television network. Instead
of generating great competition he just put a lot of money into the
market, which transformed that money into images without a good
story, without a good cast thus ruining the market. For years we could
only do the movies that Mediaset and Medusa decided to produce
and distribute. Their monopoly was something that gave the Italian
cinema more visibility as they spent more money in P&A but they
destroyed us independents because we couldn’t compete we those
giants. Now we have decided to take back our identity by telling the
politicians that we need the instruments, like tax credits, to develop
the industry. So we know why we have been trapped in this situation
yet we have a brighter future knowing that we have the variety of
directors, cast and writers. I feel in the next five years you will be
pleasantly surprised.”2
2 Cicutto, Roberto, “Cinema Italian Style: symposium on Italian Cinema”, Royce
Hall, University of California Los Angeles, Los Angeles, 9 Nov. 2010. Address.
407
Today’s Italian film productions inspired by the more commercially appealing comedy Italian style tradition are the franchise works
of Giovanni Veronesi in The Manual of Love (2005), Federico Moccia’s Sorry if I Love You (2008), Fausto Brizzi’s The Night Before
the Exams (2006) or Paolo Virzi’s Hardboiled Egg (2000), A Whole
Life Ahead (2008) and The First Beautiful Thing (2010) Italian entry for Best Foreign Language Film at the Academy Awards in 2010.
In a similar commercialized vein can be found Gabriele Muccino’s
Italian productions, The Last Kiss (2001), Remember Me My Love
(2003) and Kiss Me Again (2010), to mention a few. More artistically
complex and thematically ambitious are Giuseppe Tornatore’s Malena (2000), The Unknown Woman (2006) and the most recent Baharia
(2009), official Italian entry for Best Foreign Language Film at the
Academy Awards in 2010. The latter is a striking ensemble work that
traces back to the detailed sets, sophisticated reconstructions, impressive camera work, editing and sound mixing, found in the majestic
productions of Bertolucci’s 1900 and The Last Emperor. It is, however, lacking the same compelling narrative and cohesiveness.
The cinema of socio-political realism is evident in the recent production of Michele Placido’s Crime Novel (2005) where long chapters of Italian history are told through the eyes of a band of criminals;
or also in The Big Dream (2009), through the perception of a young
police officer during the Italian civil tumult of 1968. With a soft and
endearing voice, reminiscent of Ettore Scola’s We All Loved Each
Other so Much (1970), Marco Tullio Giordana speaks to the audience
in 2003 with The Best of Youth. Through a multiple storyline narrative, he engages in detailed character analysis and story development that spans a thirty-year period. Gianni Amelio’s Stolen Children
(1992) and Lamerica (1994) adopted both the socio-political legacy
of directors such as Pier Paolo Pasolini and Francesco Rosi and the
neo-realism of Rossellini, thus capturing in a unique style the moralsense of reality while remaining free from its aesthetic rendering.
Flourishing in the light of the cinema of social criticism is the even
stronger minimalist biting “heart-noir” of Matteo Garrone. His carefully composed monochromatic images, depicting emotionless and
never-predictable characters in their daily pathological deformity,
offer a great example of the renewed Italian cinema in The Embalmer
(2002), First Love (2004), Gomorrah (2009). This rebirth is accentuated in Paolo Sorrentino’s The Consequences of Love (2008), The
408
Family Friend (2006), and Il Divo (2009), Jury Prize Cannes film
festival winner. Sorrentino explores the psychological aspects of
interpersonal relations with marginal characters seemingly deprived
of their pathos and portrayed in their continuous progression through
life. Although Sorrentino and Garrone adopt a completely opposite
cinematic style, both Il Divo and Gomorrah make a bold claim to the
realist heritage of “denuncia”. Their films are directly related to their
venerable predecessors’ cinema of strong ethics and social commitment, yet superseding it in form and style. While Garrone celebrates
exasperation and deformities, Sorrentino depicts political engagement with a unique semiotic playfulness and esthetic exuberance.
The Fellini legacy, which could be referred to as the parable
model, is instead well preserved in Roberto Benigni’s Life Is Beautiful (1997), Pinocchio (2002) The Tiger and the Snow (2005), and in
Ermanno Olmi’s Singing behind Screens (2003) and Hundred Nails
(2007). Younger director Emanuele Crialese finds his vivid voice
swimming through the waters of myth in Respiro (2002) and surreal
places in Golden Door (2006).
It is the classic look of Visconti’s expert eye for fine details, elaborate and sumptuous sets and the almost ostentatious beauty of his
films, which we find transmuted, magically recreated in the life of
the aristocratic Recchi family in Luca Guadagnino’s I Am Love. A
thick mantel of snow covering the family villa brings back to memory the white, dusted faces of the Prince of Donnafugata in Visconti’s
The Leopard. Seemingly, the images of Milan’s Pirelli building in
Antonioni’s La Notte, or the cold, bare wall against which Lidia is
dwarfed, and her strolling away through suburbs, is renewed in the
Milano of Emma Recchi as she walks to the top of the cathedral to
find a space. The camera movement exudes meaning beyond the realism of the image itself. This self-recreating quality of Italian cinema,
capable of finding its new identity and gaining international visibility
by deeply sinking its roots in its symbolic heritage, is clearly not a
casual matter of good fortune or to the contrary a lack of captivating
content as director Tarantino stated. Rather, it lies in its carefully preserved traditions, which remain the source from which new directors
continue to derive their strength, courage and inspiration.
409
The American Dream and the super-hero’s storytelling
On the other hand, American cinema, with sixty-four productions in
2010, and an even larger number of super-heroes in 2011, excessively celebrates the death of the American dream. As the Hollywood industry is in keeping with the studio tradition of entertaining the
audience, it drifts further away from movies reflective of the present
day socio-economic status where the ideals of fairness, justice and
meritocracy are abandoned. Such productions are oriented toward
the non-threatening worlds of Pandora, werewolves, Transformers,
X-men, Wolverine, the Avengers, and Captain America, all promising
an adrenaline rush and easy entertainment. Monsters, mutants and
vampires are the new heroic symbols for all, where vast audiences
can comfortably bury their dismay, concerns and their lack of spiritual security. Hollywood has also disguised the death of the dream by
responding to a new wave of technological innovation. It has brought
forth a new industry of computer-generated images, fast syncopated
editing of apocalyptic disasters and a vast array of transmedia3 (Jenkins 21) creatures securing high-gross box office returns for studio
executives.
The American Dream can be defined as a general belief in freedom
that allows all citizens and residents of the United States to achieve
their goals through hard work - a person can prosper regardless of his
or her social or class upbringing. It implies a general opportunity of
betterment and prosperity offered to everyone without constraints of
class, caste, race, religion or ethnicity. It rests upon the liberal tradition that property leads to liberty and thus happiness. It is stated in
the Declaration of Independence: « …all men are created equal, that
they are endowed by their Creator with certain unalienable rights, that
among these are life, liberty and the pursuit of happiness». The American Dream is based upon the belief that citizens must have equal
rights, and opportunities as well as the freedom of trade and competition, which allows them to maximize their skills. Hard work is the
only variable which one must choose or not to achieve the dream. The
3 Jenkins, Purushotma, et al. Confronting the Challenges of Participatory Culture:
Media Education for the 21st at the most basic level transmedia stories or TS
«are stories told across multiple media. At the present time, the most significant
stories tend to flow across multiple media platforms» (p. 46).
410
success of one’s dream is measured by accumulated material gain and
perhaps less clearly through philanthropic endeavors - rarely through
spiritual values and service to mankind.
It is necessary to briefly outline the progression of the American
Dream in filmmaking to comprehend how the present Hollywood
productions constitute a fine attempt to turn imaginary situations into
reality and to make characters look “true” – thus concealing a powerful escape from “social attention”4.
“The Classic American Dream” is depicted in westerns and the
settlement of the frontier. This is masterfully celebrated by George Stevens’s Shane (1953), in John Ford’s My Darling Clementine
(1946) and in Howard Hawks’s Red River (1948).
The second stage could be defined as the “Corruption of the Classic Dream”. Movies such as Fred Zinnemann’s High Noon (1952),
or Sam Peckinpah’s The Wild Bunch (1969) and Martin Ritt’s Hud
(1963) are just a few examples of this stage. The frontier is settled or
nearly so, as the roots of bribery are evidenced in characters, moved
by greed and power, who battle the community and typically lose
their personal integrity.
The third stage may be called “The Defined American Dream”.
The frontier is now settled. The Dream is reborn and redefined, alive
and vibrant seems to be the future of all. Victor Fleming’s The Wizard
of Oz (1939), Vincent Minnelli’s Meet Me in Saint Louis (1944), and
the movies of the fifties in general, celebrate this ideal phase.
The fourth stage can be referred to as “The Crisis of the Dream”.
The frontier remains settled, while the institutions are shaken, sometimes working and at other times failing. Movies such as Arthur Penn’s
Bonnie and Clyde (1967), Mike Nichols’s The Graduate (1967) Francis Ford Coppola’s The Godfather (1972), Martin Scorsese’s Taxi
Driver (1976) are indicative of this stage.
The fifth stage reflects “The Dream in Terminal Crisis”. People
live in a society but find their values outside of it or within themselves. Movies such as Sam Mendes’ American Beauty (1999), Steven
Soderbergh’s Traffic (2000) and Ocean’s Eleven (2001) celebrate this
theme.
The last phase, “The Burial of the Dream” brings us to today.
4 Carpenter, Frederic, American Literature and the Dream, Philosophical Library,
New York, 1955. Print
411
Society is abandoned, new heroes and worlds are sought as the
only possible escape from failing institutions. Chris Columbus’ Harry
Potter (2001), Andrew Stanton’s Wall-E (2008), and all super-hero
movies fit this model.
The lack of a new dream reflects the general belief that the American Dream has not fulfilled its promise – coincidentally twentypercent of Americans control eighty-four percent of the American
wealth5. It generates a false sense of entitlement, and a get-rich-quick
“mind no one” mindset. The flourishing of a large number of superhero stories and fantasies of becoming an overnight millionaire reinforce this assumption while moving further away from offering any
alternative spiritual or emotional security in lieu of the material one
that the Dream has failed to fulfill. Hollywood genre storytelling of
“escapism” and the absence of a profound human discourse, has been
inadvertently a catalyst to the success and recognition of Guadagnino’s third feature film by the American public and critics. Because I
Am Love echoes of its heroine being torn between today’s dream of
material wealth, status, security, and her freedom to love, it has captivated viewers.
I Am Love: uniquely human sentiments
As I Am Love’s opening titles begin to roll over a series of tableaux
of the northern city of Milan covered in snow, we immediately have
the perception of being introduced to one of the characters. Milan,
very seldom the ideal set for a romantic drama, is a city that almost
conceals its authentic beauty behind the grey facade of its austere
architecture, which offers a bold contrast to the beauty of the interior
of its buildings. Milan represents the most developed city in Italy,
home to an almost extinct ruling class of capitalistic industrialists,
here well portrayed by the Recchi family. As the camera comes to rest
on the stark, marble steps symbolically covered by powdered dunes
of dusted snow of the impressive Villa Necchi Campiglio, built in the
1930’s by Milanese architect Piero Portaluppi, we know we are about
5 Alen, William, “American Vastly Underestimate Wealth Inequality, Support
“More Equal Distribution of Wealth”: Study, in «Huffpost Business», 23 Sept.
2010, n. pag. Web 29 March 2011.
412
to enter a very well guarded world of an Italian dynasty. The Recchi,
distinguished textile barons, are gathering to celebrate Edoardo Sr.,
the old patriarch’s birthday. Three generations are seated at the lavish
dining table, while perfectly trained, white-gloved servants carefully
ladle Ukha, a clear Russian soup as a starter to the sumptuous dinner.
The Recchi’s are old family money, as suggested by the poised manners, soft-spoken conversation, impeccable etiquette and by the abundant display of Giorgio Morandi paintings on the walls. The setting is
crowned by the patriarch’s proud speech when he rises and declares,
«We carved our name into the country’s history». This is not done
without dutiful compromise with the regime, as one brother argues in
a later scene, «While he exploited Jewish workers… that’s what we
Recchi are».
Perhaps sensing that he will soon pass away, he states, «My dear
friends, I don’t want to die», and announces the division of his empire
between his son, Tancredi, and his grandson, Edoardo Jr., Tancredi
and Emma’s son. He pompously continues while his impeccable wife
Allegra, known as Rori, nods her apparent approval. With a mixture
of shrewdness and arrogance he proclaims with King Lear intensity,
«It will take two men to replace me!» Henceforth, as in the Shakespearean drama, disruption sets in.
This is the first of a few impetuous changes the family is about to
experience. Emma and Tancredi’s daughter, Betta, decides to pursue
art studies in London, while Edoardo Jr., “Edo”, proposes marriage
to his girlfriend Eva and embarks on a business venture with a new
friend, a talented chef. The camera indulges over the deep, delicate, expressions in Emma’s eyes, looking secretly for her son’s loving
smile across the table so as to establish their deep connection. She is
the icon of the Recchis’ status; beautiful, sophisticated, distant, and
respected, she directs the house with a soft touch as if it were an innate quality. We learn she is a Russian native, clearly having married
into the family wealth, as evidenced in her friendly relationship with
their housekeeper Ida, atypical of a high-society household. «Why
don’t you dine with me this evening?» she later tells her housekeeper
friend and confidant.
Who will survive the rivalry of generations? Who will continue
the dynasty? And who is the fellow knocking at the door during the
snowy, dark night? It is the young chef Antonio, who won a car race
against Edo earlier that day. He brings a consolation present to the
413
defeated one and to the Recchi family. It is a box that could contain
anything from a peace offering to an unexpected explosive. It is, indeed, a very special cake, as is the person carrying it. So exceptional that
it compels Edo to call his mother to meet the chef. To emphasize her
emptiness, suddenly we see Emma, in a shot from above, dwarfed and
alone against the glowing carpet of the entryway. She rushes upstairs
to spy from the safety of her bedroom window, as the unexpected
visitor slips away in the fresh, falling snow. Emma’s loneliness is
again expressed through the subtleties, grace and bracing honesty of
her facial expressions.
The springtime sees Emma walking the streets of Milan, wearing
the same color of her surroundings, melting into and almost hidden in
the grayness of the city. The camera assumes her point of view reflective of Tilda Swinton’s (Emma) predilection for bold, female main
characters as she portrayed in Orlando. Emma makes a quick stop at
a drycleaner where she picks up a CD containing a note Edo forgot in
his laundered jacket. The stark geometry of Milan’s architecture evokes Antonioni’s imagery as she makes her way to the top of Milan’s
Cathedral, climbing through a forest of pinnacles and gothic spires.
The camera lingers on her slender body, her somber elegance, the
effortless flow of her clothes, reaffirming symbols of her affluence.
She sits down and reads Betta’s revealing note found inside the CD.
It is a liberating confession addressed to her brother Edo in which
she shares the joy of her new found lady-love she met in London.
Upon returning home, Betta openly discusses with Emma her newly
discovered preference. Betta, bearing an incredible resemblance to
her mother’s pale complexion and coloring, confesses to her, “It is not
a passing thing, I am sure”. Something sparks in Emma; it is indeed a
contagious fire, which not even the providential spring showers closing the scene can extinguish. Emma later joins Rori and prospective
daughter-in-law Eva, for a Recchi women’s luncheon at Antonio’s
restaurant. As Eva proves herself to be worthy of the Recchi by sharing her concern over Edo’s haste to open a restaurant with his new
friend chef Antonio, the meal, ironically signals Emma’s emotional
break from the Recchi clan. In this pivotal scene, Antonio prepares a
specific dish for each woman. The camera takes her point of view as
she is beamed alone in a halo of light in front of a perfectly composed
cluster of luscious, translucent prawns, as bright red as her renewed
wardrobe. The room’s surrounding conversations are muffled as she
414
takes her first bite and finds herself enthralled in a blissful ecstasy of
sensorial pleasure. Guadagnino echoes pervasive Renaissance paintings of religious illumination, as Emma’s face fills the screen, suggesting the reawakening of all her senses with every morsel.
In literature, a most memorable association between the sense of
taste and love remains Marcel Proust’s enchanting description of the
elation provoked by the taste of a madeleine soaked in a cup of tea6.
An exquisite pleasure had invaded my senses, something
isolated, detached, with no suggestion of its origin. And at
once the vicissitudes of life had become indifferent to me, its
disasters innocuous, its brevity illusory – this new sensation
having had on me the effect which love has of filling me with
a precious essence; or rather this essence was not in me it was
me. (1:45)
The quotation is necessary to appreciate the parallelism of Proust’s
and Emma’s experiences. They both are taken in a sudden ecstasy
without logical explanation. It is possible that Emma, in her earlier
life, was familiar with the special dish Antonio has prepared for her
and its taste viscerally brought her back to a previous life she wanted
to erase. At this point Proust begins his “recherche” to find the connection between a madeleine, a tea, and the memory of past things;
Emma instead begins the “recherche” of herself, Kitesh, the independent woman she was before marrying Tancredi. It is also peculiar that
Proust compares his elation with the effects of love and concludes by
affirming that this precious essence “was not in me, it was me.” Hence, I am love. Italo Calvino offers another interesting literary connection between the sense of taste and erotic drive in Under the Jaguar
Sun. In this short story Calvino explores the food, exotic atmosphere
and ancient rites a couple experiences during a vacation in Mexico.
The hot sauces, the spices, added to the sacred meaning of Mexican temples and human sacrifices excite in both of them the desire to
devour each other (Calvino pp. 3-29)7.
As in the magical realism of Alfonso Arau’s feature Like Water for
6 Lorenzi, Paola, trans., À la recherche du temps perdu, Du Cote de chez Swann,
Vol. 1, By Proust, Marcel, Paris, Gallimard, 1954. Print.
7 Calvino, Italo, Under the Jaguar Sun, trans. William Weaver, San Diego, Harcourt Brace, 1988. Print.
415
Chocolate (1992), the surreal power of a well-prepared dish seems
to be able to elicit from the fortunate recipient a vast array of cathartic sensations upon its consumption. Over the years this has become
almost a cinematic cliché. Emma’s awakening, as she begins to slowly recognize herself, opens the doors to Antonio’s subliminal element
of erotic suggestion so profoundly presented on her plate. The dramatic necessity given to foreseeable events is masterfully overshadowed
by the special way in which Guadagnino brings the situation to life
on screen, revealing a filmmaker with a vast emotional sensitivity,
able to evoke all senses. The narrative is, at times, elliptical and allusive as the camera indulges on an empty screen waiting for characters
to appear. In alternating long shots and extreme close ups, it retains
and conveys a human quality that instantly draws the audience into
Emma’s world.
Summertime arrives with Betta’s invitation for Emma to join her
in Nice to look for a space for her exhibit. During the drive there,
Emma’s subconscious is at work bombarded by a continuum of fragmented voices inciting her to break free from her past. She stops in
Sanremo where she knows Antonio has his organic vegetables heaven
and where he and Edo are planning to open their restaurant. John
Adams’ intricate yet non-judgmental score masterfully complements
Emma’s game of “hide and seek” with Antonio. It is carefully played
through the streets of Sanremo, where she sees him from a distance
and follows him in a crescendo of musical intensity and camera angles
reminiscent of Hitchcockian suspenseful elegance. Emma doesn’t
project her anxious feelings, rather she personifies the emotional tension preceding their sudden encounter outside of a bookstore, when
she finally bumps into her prey. Her personal transformation begins
to take place when they drive together to his farm in the surrounding
hills of Sanremo, as she abandons herself to the Amor Fati (Nietzsche
p. 223)8.
Beautifully photographed by Yorick Le Saux, enveloped in a bacchanal of light, skin, flowers, smells, sounds, insects, with the taste of
a summer in full bloom, she is finally free to accept their fated love.
Adams’ vibrating score accentuates the call to the primary senses.
The lovemaking scene is fragmented, glimpsed. The beautiful imper8 Nietzsche, Friedrich, The Gay Science, trans. Walter, Kaufmann, New York, Vintage, 1974. Print.
416
fection of her body becomes central to the frame, almost impossible
to be contained on the screen. The subtlety and suppleness of movements are captured in a montage of intertwined bodies, nature, and
pollinating insects, and it is within this naturalness she embraces the
unpredictable imperfections of life – in direct contrast to the orderly
Recchi’s world she is about to abandon. The scene is a supreme bravura of the Italian cinema and the brightness marks a definite contrast
from the dark palette defining the more somber moments at the Recchi residence. For Guadagnino the antidote to the rigid verticality of
the capitalistic and aristocratic world lies in the horizontal flow of
nature and in the couple’s blissful immersion in the natural landscape.
After their encounter Emma returns to Tancredi’s home. Swinton’s
faithful, direct, distinctive acting style embodies Emma’s happiness
rather than passion. Her actions reflect her new desires and the confinement she feels in her cushioned, insular world of wealth. She
no longer wants to be another ornament in the Recchi’s collection.
Emma is now strong enough to reclaim her identity, starting with her
first name, Kitesh, that Tancredi had carefully changed to Emma to
Italianize her persona. This is followed by different tones of orange and reds in her wardrobe and a very short haircut, all of which
underline her inner transformation. Emma had surrendered to the
enchantment of the western world as she confessed earlier to Antonio, «When I arrived in Milan I stopped being Russian» and her fascination for material security she had chosen when she married into
Tancredi’s wealth, «There was too much of everything in the street, in
the shops». With Antonio, she expresses her passion for cooking and
how she used to prepare her grandmother’s soup, Edo’s favorite dish,
Ukha, whenever she felt homesick. She then prepared for him the
family recipe sharing her expertise in rendering the broth perfectly
clear so as to reflect oneself in it.
Meanwhile in London on a business trip, against Edo’s advice and
wishes, Tancredi sells the Recchi’s company to an Indian globalist,
Mr. Kubelkian who promises to take the Recchi name and make it
global. Edo is distraught as their dynasty’s name is now reduced to a
role of a brand, moved into the realm of pure capital. However Betta
does not share Edo’s concerns, «We will be richer» she tells him. Edo
feels the rudderless change on the path of quick profit as disruptive,
and a premonitory sign of bigger disorder as he tearfully hides his
face in the housekeeper’s comforting embrace.
417
It will take the imploring invocation of Umberto Giordano’s opera
lyrics, “I am love”, that Emma watches at the opening of the third act,
to disclose the doors to the post modern melodrama. The powerful
aria suggests her inevitable destiny and carries the narrative to its
presumable conclusion9.
A dinner celebration seals the business deal, and pulls the curtains
over the personalities of these finely woven characters. Antonio, wanting to surprise Edo, prepares his favorite dish. When the perfectly
clear broth is served at the dinner table each one can see their reflected image in it. This leads Edo to the bitter realization of his mother’s
betrayal of his love. The two leave the table to confront each other in
her native language Russian, outdoor by the pool. He says, «You are
lying, you even gave him our Ukha» then switching back to Italian he
continues, «You are nothing to me». Stretching her arm to touch him,
she replies, «Trust me Edo». He, trying to abruptly avoid her, loses
his balance and hits his head against a corner of the pool. Futile are
the efforts to save his life at the hospital.
In a torrential rain after Edo’s burial, Tancredi follows Emma into
an empty church where they engage in a final, dramatic confrontation. Emma, resembling a scarecrow, stands barefoot in the middle of
the church, motionless. She stares into space, her hair, now short, is
dripping wet. He drapes his jacket over her shoulders as a large bird
suddenly flies across the ceiling dome, while he states, «We have to
carry on together». Then a second bird flies across the dome and lands
to rest on a windowsill as she utters, «I love Antonio». At this decisive
moment the drama takes expressionistic wings. Tancredi, promptly
takes back his jacket and declares her disowned with his final words,
«You don’t exist». His comment seems to echo Edo’s last sentence
«You are nothing to me». This scene represents the underlying dehumanizing effects of all forms of extreme dominations, whether economic, political or interpersonal. No further words are spoken. Emma
rushes to gather her belongings and leaves the Recchi home followed
by Betta’s approving, tearful eyes.
Guadagnino clearly condemns the disruptive capitalistic power
that the Recchi’s world represents. The very same concentration of
wealth and power is the cause of the death of the American Dream.
Without the middle class the dream can not survive. The crisis of the
9 Giordano, Umberto, La Mamma Morta, Walford Town Hall, 1954, CD.
418
Dream is the crisis of unequal wealth, which adds to the growing lack
of trust in institutions, in progress and in mankind’s future. Similarly,
the Recchi by exploiting their workers and selling their company they
grow “even richer” thus contributing to economic disparity.
As the final credits roll, a dark, blurry image of Emma and Antonio in a cave appears beneath the titles. This image is perhaps symbolic of the mythic tale of Ariadne and Dionysus, where, after Theseus
abandons Ariadne on Naxos, Dionysus offers her shelter in his cave
(Cotterell p. 83)10. With this final scene Guadagnino confirms that his
criticism is not addressed to the characters’ choices but rather to the
physical space they inhabit and which they have built for themselves.
In their bourgeois villa they are trapped in a statuary mis en scene. In
returning to nature, to the primordial order symbolized by the cave
and the two lovers clinging to one another, Guadagnino suggests his
sympathetic yet not completely benevolent outlook. The cave is also
enveloped in darkness so as to infer the momentary nature of the harmony and peace of the lover’s newfound Eden. In their embrace they
are finally at ease in the environment. Luca Guadagnino’s sensitive
and keen perfectionism exemplarily validates the model of beauty
established by Visconti and Antonioni’s indelible heritage, merging
it in an ultramodern cinematic style with a poised, at times, an even
austere classicism – recreating a remarkable piece of Italian cinema
in the new millennium.
I Am Love, with its star cast, pulsating score, meticulously creative
production designer’s representation of a social class, Oscar-nominated costumes, is a powerful ensemble piece. It is genuinely entertaining with its sumptuous viewing, dynamic listening and gourmet
tasting. Furthermore, by offering to the American audience an intensely human tale of love proves itself to be a formidable antidote to the
mainstream Hollywood cinema of monsters, mutants and vampires.
10 Cotterell, Arthur, The Encyclopedia of Mythology, New York, Smithmark Publishers, 1996, Print, p. 83.
419
Making people feel.
It is all about the transforming power of love 11
During his visit to Los Angeles for the screening of I Am Love, nominated for a 2011 Golden Globe award in the best foreign language
film category, director Luca Guadagnino graciously agreed to an
extemporaneous short interview.
PL: Did you have in mind a specific mythological meaning to the final
image of Emma and Antonio in the cave beneath the ending titles?
LG: The closing image, almost lost under the ending titles is intentionally left open to the public’s interpretation. It was not my intention
to give the image any predetermined meaning or a specific key of
interpretation, mythological or else. I wanted to force the audience to
think and to come up with their own conclusions.
PL: What do you think has been your main literary inspiration for
this movie?
LG: I love Thomas Mann’s Buddenbrook. It’s the book of my life. It
is my inspiration behind the story and the decadence of a family that
wants to stay the same. Every repressed feeling once it comes to surface really has a lot of power.
PL: How long have you been working on this film? How did this
project come to life?
LG: It goes back at least seven years, when I first worked with Tilda
Swinton on a short documentary: Tilda Swinton: The Love Factory, which is a documentary about love. The idea was entirely built
around Tilda’s character. I have been working with Tilda since our
first project together in 1999, The Protagonists. I never found that
Tilda was simply an actress. I think when I talk to her about movies it
is like talking to another filmmaker. The process of making I Am Love
was very long and very difficult, financially in particular. What I love
about this movie is that many people gathered together and brought
11 Guadagnino, Luca, Personal Interview, 15 Jan. 2011.
420
to life the idea behind the movie, which is how, the mysterious force
of love, can change everything even when you don’t think you want
to feel anymore. I wanted very much to show a woman dealing with
love and its transforming power and how then she deals with material
security, ideals, being part of a large aristocratic family, a kind of an
exile within the exile. As always, ideas transformed in the course of
their genesis and evolution.
PL: Why a Russian? Why this outsider?
LG: I always had a fascination with Russia. I once met with Giulietto
Chiesa, a journalist, who explained to me how Russian women can
be very strong, very open but also very soft, very mysterious. The
idea of this woman that thinks herself to be very integrated but still
has her individuality, an essence that you didn’t expect to be there,
and that’s what I wanted to represent. I also liked very much the idea
of contamination of places and identity, especially hers which is still
there and vibrant.
PL: What do you think of the critics comparing your work of Visconti
and even Antonioni?
LG: I am very humbled by the comparison to Visconti’s film and even
to Antonioni, I would be lying if I wouldn’t admit that I really studied
their movies, yet I think it is really important to be very meticulous and
precise about the world you want to portray. Antonioni’s Milano has
been consciously and unconsciously a great inspiration for all of us.
PL: Which painters have inspired you? Is there any painter in particular that you feel had influenced your work in I Am love?
LG: I have studied a lot of painters and their work. Paintings have
been the guide that influenced in particular, influenced the choices in
photography. Among the painters we viewed I immediately can mention the work of Giovanni Boldini and his contemporary Giuseppe
Denittis especially for his paintings of aristocracy and bourgeoisie in
general. Louise Coupe guided our choices for the images of nature
and for the factory and how to render the abstract images of lines.
I further explored and especially I studied a lot the works of Kazi-
421
mir Malevich and his view of rendering a familiar landscape into an
abstraction.
PL: What do you think about the success of your film in the US?
LG: I am always surprised by the success of my film and of film in
general, because the audience is an abstract entity and their approval and validation always remains something abstract and far remote
from the mind of the director, in particular, mine.
PL: What is your next project you are working on? A new feature
film?
LG: No, I just completed a documentary named Italian Unconscious
about the Italian war in Ethiopia.
PL: Thank you Luca and good luck at the Golden Globes.
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Thompson, Kristin and David, Bordwell, Film History. 3rd ed., New
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423
Diana Parisi
Mimmo Calopresti e il cinema dell’esser-ci.
Ricerca, riflessione, rivoluzione.
Uno dei pochi che sopravvive ancora al concetto di autore, Mimmo
Calopresti può essere definito tale grazie alla sua lotta incessante contro la diffusa incapacità di riflettere e ritrarre. La risata grassa e poco
intelligente sembra l’unica cosa che chiede il nuovo spettatore, ineducato all’immagine. Nonostante questa condizione endemica dalla quale
attualmente sembra difficile uscire – perseguire una poetica autonoma e
libera, nel cinema di Calopresti, più che un obiettivo è il diritto-dovere
di chi non si limita a fare il mestiere di regia ma il “mestiere del cinema” tout court. Allora il compito di chi “fa cinema” continua ad essere
la scoperta e la messa in scena di un pezzo di realtà. Che sia interna o
esterna, che si tratti di un paesaggio, di un volto, di uno stato d’animo,
di un sentimento o un’esistenza, ciò che bisogna mostrare è la realtà.
Cesare Zavattini sosteneva che chiunque allarga l’area della conoscenza con la macchina da presa è un autore. Tale è Calopresti, che
attraverso il suo cinema esplora e non esclude nulla aprioristicamente,
confrontandosi in modo sempre nuovo col mezzo cinematografico e
con le sue forme, aprendo i suoi film a una ricchezza di senso e di
interpretazione che li rende sempre vivi e attuali. Un cinema che si
alimenta di una dimensione autoriflessiva e in divenire senza additare,
quali soluzioni definitive, verità legate a un punto di vista che in quanto
tale è soggettivo, dunque mai assoluto. Con straordinaria abilità, Calopresti modella l’humus vivente attraverso quell’azione di antropizzazione insita in tutto il suo cinema; ci fa viaggiare nelle emozioni e nelle
circostanze più eterogenee: immagine e concetto si fondono in un mix
di contenuti emozionali, tematici e stilistici che seguono una direzione
ben precisa: si parte da una sorta di incapacità/difficoltà dell’uomo di
relazionarsi a se stesso e agli altri, e si arriva ad un’irrinunciabile e contagiosa spinta propulsiva verso il centro del mondo. Si pensi a un film
424
come La seconda volta (1995), suo lungometraggio d’esordio, dove i
personaggi sono intrappolati in un passato che nega loro la possibilità
di un incontro nuovo. Ne La parola amore esiste (1998), tutto sembra
procedere troppo lentamente. In Preferisco il rumore del mare (2000), i
personaggi compiono un ulteriore passo in avanti prendendo delle decisioni, facendo delle scelte, ma il loro background resta un fardello troppo pesante per essere lasciato alle spalle e – come i protagonisti degli
altri film – rifiutano qualsiasi tipo di aiuto rinchiudendosi nella gabbia
della reticenza. Sono tutti troppo ancorati a se stessi per sentirsi disponibili a un incontro con l’Altro. Una solitudine asfissiante e logorante
quella che oscura l’ironia latente di antieroi moderni spaventati perfino
di se stessi. La lentezza segna l’inizio di un match faticoso in cui i personaggi caloprestiani giocano in silenzio, schivandosi di volta in volta.
Questa condizione di “congelamento” si scioglie nei film successivi:
La felicità non costa niente (2003) e L’abbuffata (2007). Ci si affronta.
La paura scompare. La riflessione lascia il posto all’azione rendendo
immediatamente riconoscibile l’evoluzione linguistica dell’autore. In
campo, rapidi movimenti di macchina seguono uomini che corrono
incalzando sogni, verità, passioni. Una peculiare architettura tematica e
formale configura, dunque, la filmografia di Mimmo Calopresti. Amore, paura, solitudine, felicità, amicizia, matrimoni, tradimenti. Tutto ciò
che fa parte dell’essere umano viene messo in scena con l’abilità di chi
riesce a individualizzare l’universale e viceversa, rendendo caratteristici i tratti culturali del nord e quelli insiti nella gente del sud, camminando tra l’anonimato della città e la sua riconoscibilità, muovendosi tra il
caos ed il silenzio. Con straordinaria naturalezza, Calopresti passa dalla
difficoltà di comunicare alla difficoltà di amarsi e di incontrarsi, attraverso un cinema inquieto e introspettivo che vanta personaggi confusi,
ambigui, falliti: uomini che faticano a capire e ad esternare sentimenti
e passioni, donne fragili e insicure che cercano rifugio nella psicanalisi,
nell’amicizia, in un amore che può nascere istintivamente o può essere
costruito secondo indizi.
Per me i film sono il tentativo di mettere in scena un pezzo
di vita, sono la radiografia della difficoltà che tutti proviamo
nell’affrontare l’esistenza1.
1 Mimmo Calopresti in Incontri. Mimmo Calopresti: Preferisco il rumore del
mare, Gianni Canova, «Duel» n.78, marzo 2000, p. 30.
425
Diverse sono le tipologie di solitudine affrontate dall’autore: quella di una ragazza figlia di una mamma soffocante ma soprattutto prigioniera di ansie e ossessioni (La parola amore esiste); quella di un
uomo e una donna che si imbattono insieme e contemporaneamente
soli nel loro passato, senza trovare via d’uscita da esso (La seconda
volta); quella di un uomo in preda alla crisi dei quaranta anni che
improvvisamente destruttura un apparato sociale solido solo in superficie, sconquassando così tutto il suo environnement (La felicità non
costa niente). E ancora, l’acido solipsismo di chi ha chiuso le proprie aspirazioni in un ruolo bloccando ogni possibilità di varcare altre
soglie (L’abbuffata).
L’elemento che distingue Calopresti da altri autori – i quali si avvicinano al proprio oggetto d’analisi senza arrivare a toccarlo – è la
sua perizia nel filmare ciò che non è immediatamente visibile, ciò
che è impalpabile: il pensiero, il sentimento. Il regista riesce a catturare anche la materia onirica e la non-materia ma – parallelamente
ai suoi personaggi – cammina sempre su un terreno reale. Allora il
terrorismo è lo scenario che permette di leggere La seconda volta in
chiave politica; i gap tra regioni e generazioni presenti in Preferisco
il rumore del mare, sono tratti di un paesaggio sociale che non è affatto lontano da noi. Anche quando si mette in scena la sfera emotivopercettiva, il punto d’arrivo di un’analisi che si è poggiata su basi
nebulose e imprecise, prende la sua consistenza. Così, un pranzo in
terrazza condiviso diventa la porta per accedere alla felicità e il paradiso si fa terreno e terrestre. Tormenti e difficoltà, così come sogni
e felicità, emergono lavorando per sottrazione, spogliando qualsiasi
tipo di realtà con cui entra in contatto. I concetti e le immagini che
inondano i suoi film sono paradigmatici di un cinema che solca un
percorso sempre più aperto alla moltitudine di situazioni, tangibili e
impalpabili, concrete e astratte, che ogni uomo, a suo modo, è chiamato a vivere.
Calopresti sente l’esigenza di guidare il suo cinema anche dall’interno, di dare forma col proprio corpo a ciò che aveva concepito
mentalmente, di dare importanza alla fisicità alla maniera pasoliniana. Dopo aver interpretato personaggi minori, ne La felicità non
costa niente l’autore si riserva il ruolo del protagonista, marcando
con la sua impronta un film in cui anche il livello attoriale è soggetto
all’evoluzione-rivoluzione che costella tutto il cinema di Calopresti.
Con questa immissione della vita nel cinema e viceversa, l’autore-
426
attore dà espressione concreta al desiderio di raccontare non tanto una
vita quanto il pensiero di questa vita, incarnando qualcosa di immateriale come la felicità. Facendosi concetto, attraverso il suo personaggio, Mimmo Calopresti svela la sua Weltanschuung – fatta di quella
ribellione e di quella libertà che ritornano qualche anno dopo ne L’abbuffata, una sorta di film-verità in cui molti degli avvenimenti a cui
assistiamo sono reali.
La riflessione, dunque, avviene attraverso l’autoanalisi ma anche
attraverso la memoria. Ed ecco che questo diventa il “metodo” con
cui si intrecciano la grande Storia e le storie individuali. La seconda
volta ci riporta agli anni di piombo senza parlare del terrorismo in
maniera esplicita ma attraverso il “pedinamento” circolare di Lisa e
Alberto, protagonisti dell’episodio cardine che ha legato le loro vite
ad un’organizzazione clandestina: le Brigate Rosse. Il film mette in
scena un ritorno della e nella memoria. Una riflessione sul rimosso
di una generazione che ancora elude il cuore della questione: perché
i terroristi hanno ucciso persone senza alcuna responsabilità politica
(giornalisti, studiosi, docenti universitari, ecc.)2? Un discorso a posteriori – su un’epoca che si considera passata – elaborato secondo due
punti di vista opposti ma complementari, incarnati nei protagonisti.
Calopresti non ricerca le motivazioni che hanno spinto Lisa Venturi
ad entrare a far parte delle Brigate Rosse né, in una prospettiva più
ampia e generale, intende delineare le cause che hanno dato vita ai
movimenti terroristici; come un esploratore, egli indaga le modalità
percettive che hanno caratterizzato il vissuto di Lisa e Alberto, senza
dispensare giudizi, imputare colpe o propinare soluzioni. Con tocco
discreto e sguardo attento, passa attraverso i sentimenti senza alcuna
pretesa di tipo storico-politco, al fine di far emergere la dignità della
persona e il rispetto per essa. Lo stesso regista ha dichiarato che la sua
intenzione era dare alla vittima e alla terrorista lo stesso spazio, senza privilegiare nessuno. Partendo da questo presupposto, ha costruito
un personaggio che ha solo tentato di uccidere, che non ha portato a
compimento la sua azione e che è rimasta coinvolta nella lotta armata
in modo del tutto casuale.
Diversi critici hanno definito La seconda volta un “racconto
morale”.
2 Francesco Bolzoni, La seconda volta, «Rivista del cinematografo» n.1, gennaio
1996, p. 17.
427
Si tratta di un racconto morale, assai raro in Italia, a parte i
film di Nanni Moretti. Si tratta di un tema ancora più raro, la
cognizione del dolore, il senso di colpa, la terribile inutilità e
vanità di eventi pubblici che hanno devastato tante vite private. Un film rarissimo che trascura la cronaca per riflettere
sulla storia italiana recente; che per la prima volta descrive
l’esistenza attuale degli ex terroristi3.
Il film non vuole parlare del terrorismo, quanto dell’impossibilità di
capire fino in fondo un “buco nero” della nostra storia: non è un film
sulle ideologie, ma sulla tristezza, la solitudine, l’implacabile rimozione da esercitare nel presente. Muovendosi tra fiction e documentario, Calopresti compie un perenne moto di andata e ritorno. Da una
parte, le vicende narrate e i riferimenti alla cronaca sono del tutto credibili e rappresentativi di un pezzo di contemporaneità che ci appartiene mentre lo guardiamo; dall’altra, alla rappresentazione oggettiva
della realtà affianca la soggettività umana, con i suoi eterni istinti e le
sue incontrollabili pulsioni. Su questo doppio binario viaggiano tutti i
suoi film: La seconda volta poggia su un substrato fatto di terrorismo,
prigionia e situazione industriale italiana; la trama di Preferisco il
rumore del mare si sviluppa partendo dalla corruzione dei dirigenti
industriali del nord e dall’organizzazione mafiosa piaga del meridione; Volevo solo vivere (2006), con le sue testimonianze, ci rende partecipi di un dolore mai tramontato. La fabbrica dei tedeschi (2008),
composto da una duplice struttura, quella di finzione unita a quella
propriamente documentaristica, ha permesso all’autore di raccontare nella sua interezza il mondo delle persone coinvolte, direttamente
e non, nell’incendio avvenuto la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007
all’interno della ThyssenKrupp – fabbrica nata dalla società francese Vandel (1890) e divenuta tale dopo un secolo di incorporazioni
con altre società, compresa la Fiat. Il documentario è anche un atto
d’accusa contro i sindacati, che si occupano della politica nazionale e
dell’eventuale ripresa economica mentre la gente muore. La politica
è indifferente e l’informazione troppo veloce perché ci si possa fermare e capire veramente cosa sta succedendo. Calopresti non crede
nel cinema politico come categoria perché non esiste l’immediatezza
della rappresentazione ma crede che
3 Bruno De Marchi, Primi materiali per l’intelligenza del cinema di Mimmo Calopresti, EuresisEdizioni, Milano 1999, p. 55.
428
nel cinema il tempo non esista ed elimini sempre tutto. Al cinema una storia è sempre attuale perché racconta la vita degli
individui e questo rende di per sé ogni film sempre politico4.
Ma cosa intende Mimmo Calopresti quando parla di politica?
La politica è la capacità di mettere insieme tante persone
diverse fra loro. Tutto è politica, lo diceva persino Aristotele.
Il problema non è la politica o chi la esercita, il problema è la
politica di chi vive: uno è un mestiere, l’altra è una parte di
tutti gli esseri umani, di relazione. Per noi comunque è fondamentale, è la capacità di relazione fra le persone, di costruire
le regole dei rapporti; la politica perfetta è quella che mette
insieme interessi diversi senza sopraffazione di uno sull’altro.
Lotte che non esistono più e spazi per raccontarsi ormai scomparsi
hanno portato Mimmo Calopresti a girare nelle fabbriche, a stare in
mezzo a quegli uomini che non vengono più ascoltati e considerati e
che alla fine sono i veri produttori. Bisogna ricominciare a ribellarsi,
a dire no a ore di lavoro eccessive, mal pagate e svolte in condizioni molto pesanti e poco sicure. La fabbrica dei tedeschi è un film
realizzato per ascoltare persone rimaste sole. Con lo stesso intento
concettuale su cui ha costruito Volevo solo vivere, racconta la loro
vita, di ieri e di oggi, concentrandosi sui loro sguardi e le loro voci
ancora segnati dall’orrore, alternandoli a oggetti e fotografie che sono
squarci di vita quotidiana e attraverso i quali ci restituisce la memoria
di chi non può più esprimersi e insieme di chi è sopravvissuto. Ciò
non porta a un cinema che estetizza e quindi anestetizza, come alcuni
critici hanno sostenuto, ma a narrare emozioni con una partecipazione
discreta e con quel rispetto che l’autore nutre nei confronti dell’altro.
Occhi che sfuggono all’obiettivo della macchina da presa e mani che
si muovono nervose ci impongono l’indiscutibile presenza di eventi
che non possiamo negare né tacere, e che spogliano dolore e tragedia
di qualsiasi dimensione spazio-temporale che voglia circoscriverli.
Accanto al tentativo di ricostruire un pensiero che sembra scomparso, di non farci dimenticare che oggi il lavoro è il centro della vita
dell’uomo, si percepisce la necessità di cominciare a raccontare di
4
Mimmo Calopresti in «Corriere del Mezzogiorno» – Redazione napoletana de
«Il Corriere della Sera», 29 Marzo 2006, www.cinemaepsicoanalisi.com.
429
nuovo il lavoro, come succedeva negli anni ’60 e ’70, anni che sono
stati protagonisti di grandi trasformazioni sociali e di quella che l’autore definisce la “politica intelligente” ormai scomparsa. Decenni che
negli ultimi documentari di Calopresti non sono un semplice sfondo
su cui si muovono i “personaggi” ma veri trait d’union di quella passione estetica e quella passione politica di cui parla un grande politico
italiano appassionato di cinema come Pietro Ingrao in Anch’io ero
comunista (2011). Le lotte contro l’eredità fascista (1960-I ribelli,
2010), le provocazioni verso il regime dittatoriale di Pinochet (La
maglietta rossa, 2009), i ricordi di un tempo passato in cui la politica era speranza, possibilità di cambiamento, vocazione dell’anima
(Anch’io ero comunista), sono i primi attori di film nati dalla voglia
di ricordare momenti storici importanti e dall’esigenza di mostrare
due grandi limiti del presente: il predominio della logica economica su quella ideologica (con la conseguente inesistenza odierna di
valori non quantificabili) e la mancanza del “fare rivoluzionario collettivo” – quello della seconda metà del XX secolo, quello scritto nel
DNA della classe operaia principale oggetto di rappresentazione in
tanti documentari di Calopresti, quello che colorava la realtà torinese
nella fabbrica di Tutto era Fiat (1998) – documentario sulla storia
della più grande azienda italiana ripercorsa attraverso i racconti degli
intervistati. Dall’orgoglio dei più anziani di essere stati operai Fiat, si
passa alla rabbia e alla stanchezza causate dalle condizioni di lavoro
inaccettabili createsi negli anni ’60; agli scioperi del decennio successivo fatti per rivendicare un’umanizzazione del lavoro: aumento
del salario, riduzione dell’orario di lavoro, ritmi meno pesanti, più
diritti sindacali. Poi arriva il 1980, con i 14.000 licenziamenti effettivi
(la Fiat avrebbe voluto farne 15.000) trasformati in 23.000 provvedimenti di cassa integrazione dopo l’occupazione degli stabilimenti da
parte di quarantamila impiegati e capireparto. I quadri intermedi marciano contro gli operai per rivendicare il loro diritto di lavorare; un
gesto che segna la rottura dell’unità dei lavoratori e una svolta politica importante che vede la sconfitta dei sindacati. L’ultima tappa è il
ridimensionamento apportato negli anni ’90, quando in fabbrica non
c’è nulla di eccessivo o anormale e si ha anche il tempo per riposare.
Si è dissolto il rapporto viscerale che legava l’operaio alla fabbrica: le
testimonianze degli operai più giovani dimostrano come la fabbrica
sia solo una parte della loro vita; un lavoro come tanti altri, non più
una scelta totalizzante. «Chi lavorava alla Fiat era un uomo finito, non
430
aveva alternativa»5. Tutte le strade portavano a Mirafiori, oggi non
più così e qualcuno si chiede dove porteranno. La classe operaia ha
perso la sua identità e la fabbrica non è più il centro di costruzione del
presente e di progettualità del futuro ma un momento di transizione in
attesa di una situazione migliore: aprire un bar o diventare attore, questi alcuni sogni dei ragazzi morti nell’incendio della ThyssenKrupp,
La grande fabbrica appare come un luogo perfetto e sicuro,
che quasi si autoalimenta senza avere bisogno di risorse umane: l’operaio diviene un semplice controllore e non è più un
operatore. Ma è veramente così? I 7 morti della Thyssen ci
hanno risvegliato dal sogno e ci hanno messi davanti alla realtà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, operai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul
luogo di lavoro. Gli invisibili dell’azienda modello diventano,
in una sola notte, tragicamente visibili, non solo mostrandosi come vittime, ma facendo riapparire, in modo determinato
e concreto, la “popolazione” della fabbrica. Nessuna teoria:
possiamo entrare in contatto con quegli operai, ascoltarne i
racconti, vederne i volti. La loro storia arriva da lontano6.
La fabbrica dei tedeschi è un altro film che, con la presenza in campo del corpo dell’autore, si erge a simbolo della sua intelligenza e
della sua sensibilità, nonché della sua manifesta volontà di essere lì,
in quel luogo e in quel momento, non solo fisicamente ma prima di
tutto moralmente. Ogni cosa mostra il bisogno di condivisione di un
certo stato d’animo e di (re)azione contro una contingenza ingiustificabile, dunque il senso di una partecipazione attiva a una tragedia
insieme pubblica e privata. Un film che è un’ulteriore prova del grado
di responsabilità etico-politica che Calopresti è in grado di assumersi. Allo stesso modo, Dov’è Auschwitz (2004), documentario realizzato durante la visita nel campo di concentramento fatta dall’autore
– accompagnato da Walter Veltroni (allora sindaco di Roma), da un
gruppo di studenti romani e da sei testimoni italiani sopravvissuti al
genocidio ebraico – è il risultato di una volontà forte di parlare di
un passato caratterizzato dall’assenza di speranza e dalla morte vista
come qualcosa di naturale a cui un anche un bambino si abitua; a
5 Dal film Tutto era Fiat.
6 Cristina Cosentino, La fabbrica dei tedeschi, Roma, Rizzoli, 2008, p. 8.
431
tutto ciò, si accompagna l’intenzione di riflettere con i giovani sulla
situazione attuale, sull’esistenza di forme di discriminazione che non
cessano di colpire chi ha un diverso credo o una condizione economica disagiata. Un presente, dunque, che ci dimostra quanto il rischio
di cedere alla superficialità, deprivando azioni e sentimenti quotidiani
della loro importanza, sia lenito forse soltanto dalla minaccia della
sofferenza. E allora l’immagine, testimone della storia, deve aiutarci
a ricordare. Calopresti sfrutta fino in fondo le qualità del cinema, il
potere che ha questo mezzo di mettere insieme realtà e sentimento, di
elaborare un avvenimento che attraverso l’informazione quotidiana si
consuma in un attimo; il film invece rimane, e questo offre il tempo
necessario per non lasciarsi travolgere dal bombardamento e dall’assuefazione cui ci ha abituato la televisione. Le sue parole continuano
la critica, già intrapresa ne L’abbuffata, alla tv, o meglio a chi si lascia
imprigionare da essa, a chi la guarda senza giudizio e coscienza critica così da asservire la propria mente al potere mediatico. Attraverso i
suoi documentari, Calopresti parla, agisce, insegna; aiuta se stesso e
noi spettatori a capire e a non dimenticare ma soprattutto a combattere due dei mali peggiori della società: l’immobilismo e l’indifferenza.
L’unico strumento in grado di combattere l’ignoranza e la rimozione è
la conoscenza, la memoria. Per rendere più efficace lo sguardo rivolto
al passato, Calopresti usa spesso immagini di repertorio, portando a
galla quello che definisce “il carattere eterno dell’immagine”: tutto si
consuma troppo rapidamente mentre l’immagine prima o poi ritorna e
alla fine bisogna confrontarsi con la sua inconfutabilità. L’immagine,
conservando il suo carattere eterno, diventa il mezzo attraverso cui il
cinema di Calopresti mostra la potenza straordinaria del suo essere
sempre narrazione di storie di persone, che si tratti di fiction o di
non-fiction. Rispetto alla prima, il passo in avanti che l’autore compie
attraverso il documentario è l’aggiunta di un elemento: la concretezza
del suo essere lì di fronte agli altri. I suoi documentari guardano al
passato per cercare di comprenderlo in modo tale da dirigere meglio
il presente, in una ricerca che ha il sapore del rischio e della contaminazione, in una propensione a una rivoluzione che viene costruita
gradualmente sul confronto esistenziale, dunque sull’incontro-scontro con se stesso e con l’Altro. Calopresti cerca la forma più adatta per
non tradire quella realtà che intende comunicare allo spettatore senza
distorcere qualcosa che esiste di per sé – si tratti di uomini, luoghi o
avvenimenti. «Pasolini riusciva a raccontare quasi con misticismo la
432
vita di chi sta ai margini. Oggi ci manca questo modo di guardare gli
altri»7. Calopresti questo modo lo possiede e lo fa emergere in modo
del tutto naturale fin dai suoi primi documentari. Remzija (1992), ad
esempio, è un video-documentario in cui una nomade slava che vive
nella periferia di Torino racconta se stessa e la sua storia. Il lavoro
presenta alcune costanti metodologiche che saranno presenti nelle sue
produzioni successive e che si configurano come virtù costanti del suo
cinema: la scelta di soffermarsi sul volto e sui gesti dell’intervistato
piuttosto che narrare la sua vita attraverso le immagini del campo, dei
bambini, della sporcizia; la scarsa presenza (che negli anni è cresciuta) della figura e della voce fuori campo del regista. L’aver privilegiato questi elementi, ha fatto sì che la donna fosse guidata nel racconto
ma non costretta a seguire esclusivamente il punto di vista di chi si
trovava di fronte a lei, in ascolto alla sua storia. Le considerazioni che
vengono catturate dalla macchina da presa, sono esemplificative della
condizione a cui l’uomo non può sottrarsi: «La sofferenza è uguale
per tutti e appartiene a tutti, non fa distinzione alcuna».
Il popolo zingaro è un popolo di grande cultura, che che se ne
dica. Oggi è vero alcuni di loro si sono dati al furto. Siamo
stati noi a fare scomparire i loro mestieri. Il creare recipienti
di rame era il lavoro degli zingari. Li abbiamo sempre perseguitati. In questi giorni è stato data la cattedra a Trieste a
Santino Spinelli di lingua e cultura zingara. Se gli diamo la
possibilità di emergere non c’è nessuna razza, non c’è razza
inferiore o razza superiore. Diamogli il tempo e la possibilità.
Ho visitato un campo zingari a Roma e ho avuto l’impressione
di essere tornato ad Auschwitz. Non cerchiamo di emarginarli
ancora. Ad Auschwitz ho visto morire 9000 zingari in una notte. Famiglie che vivevano insieme nel campo affianco al mio
separati da fili spinati elettrificati [per loro non era stata decisa la soluzione finale], loro avevano tutti i capelli, cantavano, c’era gioia nel loro campo, eppure è bastata una notte… e
dopo il silenzio. Tutto il loro blocco era stato evacuato. Quella
notte in 9000 erano stati mandati nelle camere a gas. Per fare
spazio ad altri prigionieri. Ogni giorno non sapevi se saresti
stato tu il prossimo. Funzionava così ad Auschwitz8.
7 Mimmo Calopresti in YouDem, in onda Pasolini, 18 ottobre 2008, www.partitodemocratico.it.
8 Testimonianza di Piero Terracina, Io, deportato ad Auschwitz, Claudio Verniari (a
cura di), www.triangoloviola.it.
433
Remzija, così come Adriano Panatta ne La maglietta rossa, sono
uomini e donne che raccontano se stessi. L’operazione compiuta non
è dissimile a quella attuata nei film di finzione. I personaggi caloprestiani, infatti, sono “tipi” umani, “persone vere” che cercano di
affrontare il proprio disagio e l’esistenza in generale senza accontentarsi di una conoscenza limitata di se stessi e di una condizione
esperenziale superficiale. L’autore stesso afferma che i suoi lungometraggi condividono con i documentari la necessità di porre al centro
varie individualità umane: borghesi, nomadi, operai, dirigenti politici, terroristi, uomini sopravvissuti a tragedie umane come Auschwitz,
sono i volti e le voci che Calopresti mette in campo senza inficiare
il loro punto di vista, senza contaminare la loro verità, oltrepassando sempre ogni giudizio o pregiudizio, ogni stratificazione sociale
preesistente. Accanto alla ricerca c’è quindi un pensiero, una verità,
un’emozione con cui ci si deve confrontare e che attiva meccanismi
emotivi e cognitivi che costringono a mettere in discussione il proprio
vissuto. Attraverso il documentario, l’autore si avvicina al passato per
sottoporlo a nuove domande e farlo partecipe di perplessità, confusioni e dimenticanze odierne. Ci troviamo allora di fronte a un cineasta
che si assume la responsabilità di ciò che mostra e che si rivolge a uno
spettatore che non può più esimersi dal vedersi, dal riconoscersi; uno
spettatore che sembra non avere più scampo.
Lo strumento di indagine prediletto è l’apertura, ovvero la possibilità di porsi domande sempre nuove. Più si appropria del mezzo
cinematografico in maniera del tutto personale, più l’autore raggiunge
una maturità stilistico-contenutistica che innalza il livello di libertà
di un cinema volto alla ricerca permanente, aperto all’esperienza e
alla conoscenza e capace di scardinare i meccanismi della finzione;
un cinema in cui si fa evidente la capacità dell’autore di adattare lo
stile alla materia filmica senza fossilizzarsi in stilemi preconfezionati.
Tutto, nel cinema di Calopresti, ci fa muovere dalla semplice descrizione al più complesso coinvolgimento. Le persone che si buttano
a capofitto nelle situazioni più diverse, i personaggi che prendono
in considerazione le scelte più difficili, i sentimenti che trapelano
dall’osservazione del comportamento umano, sono tratti di penna che
disegnano la linea di congiunzione tra la vita e il cinema. I due termini
hanno un denominatore comune che ci “costringe” a non assopirci
di fronte alle trasformazioni cui siamo irrimediabilmente soggetti: il
movimento. Un cinema in movimento, dunque, che impressiona luci
434
e ombre della realtà per fissarle sullo schermo dell’irrealtà, l’unico
luogo in cui è possibile trattenere una verità, un racconto, una vita.
In movimento sono anche i personaggi, sempre in rotta verso il cambiamento. Dinamismo e velocità aprono La felicità non costa niente:
Velocità astratta di Giacomo Balla, unito a Marcia su Roma, ci introduce nella dimensione di azione, trasformazione e rivoluzione, che
percorrerà tutto il film, il più affascinante dal punto di vista estetico.
I movimenti sinuosi della macchina da presa seguono con leggiadria
i personaggi immersi in una Roma più che mai surreale. L’alternanza
tra soundtrack e brano di repertorio infonde all’immagine un ritmo
costante ma non monotono, restituendoci una sensazione estetica
immediata dovuta anche ai continui riferimenti all’arte: la raffigurazione della donna in volo che scorre sotto i titoli di testa, l’opera
di Giosetta Fioroni presente nella casa del protagonista, i dipinti di
Calopresti. C’è un movimento fisico che fa avanzare i personaggi
caloprestiani, sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, di migliore
rispetto a quanto già si possiede. E poi c’è un movimento intellettuale
dato da uno sguardo a metà fra l’empirico e il teoretico che s’insinua
tra le varie identità di un’Italia che conosce differenze geografiche e
conflitti generazionali: il nord della fabbrica e della corruzione, il sud
dallo sfondo mafioso e dalle bellezze naturali; il rapporto tra i ragazzi,
vero e diretto, in netta opposizione a quello tra gli adulti – vincolato dalla presenza di sovrastrutture che non consentono un contatto
così profondo e immediato da riuscire ad arrivare in fondo alle cose,
alle situazioni, ai sentimenti. Così, la messa in scena prende la forma
del suo contenuto eliminando la separazione tra i due termini: dai
movimenti di macchina che nei primi film seguono lenti i personaggi,
un’accelerazione improvvisa caratterizza i successivi, conferendo a
tutta la messa in scena un dinamismo armonico. La fotografia rispecchia i colori delle regioni italiane: dalla Torino grigia de La seconda volta e di Preferisco il rumore del mare, si passa alle sfumature
romane de La felicità non costa niente e all’azzurro che colora la
Calabria de L’abbuffata. La purezza auspicata attraverso l’esclusione
degli eccessi e della retorica, conduce a un cinema sobrio, denso di
stimoli intellettuali ed emotivi; un cinema che approfondisce la realtà
psicologica dei suoi personaggi senza cadere in facili psicologismi
e che denuncia la situazione sociale esistente evitando sociologismi
convenzionali. Calopresti non si limita a registrare ciò che vede in un
mero atto riproduttivo ma, attraverso il vedere, filma, in un perfetto
435
equilibrio tra ratio ed emozione, organizzazione e istinto, oggettività
e soggettività che gli permette di superare la soglia del visibile.
Instaurando un rapporto dialettico con la realtà che scruta, e fondendo l’uomo con l’ambiente e con la storia, Calopresti si addossa la
responsabilità di comunicare e denunciare. Lo fa adottando uno sguardo
libero, discreto e rispettoso nei confronti di chi si trova di fronte, assumendo una posizione mai ingombrante che lascia alla realtà il diritto e
il dovere di emergere in tutta la sua evidenza e la sua verità. Ciò non
gli preclude la possibilità di guidare il racconto e l’immagine attraverso
uno occhio etico ed estetico in grado di catturare l’esistente nella sua
totalità, cercando non il bello in sé ma la forza primordiale che deriva
dallo stare in mezzo alle cose. Lascia che le persone si raccontino senza
cercare di stravolgere la realtà e la verità ma non per questo ci priva di
un forte impatto emotivo che continua a costruire in montaggio, non
una semplice fase di “messa in fila” di inquadrature ma creazione di un
senso che l’autore imprime al suo film secondo una giustapposizione
concettuale delle inquadrature, mettendosi nella condizione essenziale
di ascoltare e di domandarsi fino alla fine cosa si sta raccontando e in
che modo. Per non perdere di vista questo aspetto, Calopresti si appropria della quarta dimensione anche mentre gira. Cerca di obbedire alle
leggi del set senza farsi sopraffare dai suoi ritmi ferrei e frenetici e
curando al massimo il rapporto sia con gli attori dei film di finzione, sia
con gli attori sociali con cui interloquisce nei documentari.
Una quotidianità interiore informe e caotica si materializza, facendosi figura antropomorfica, nella scelta di un cinema dell’essenza più
che dell’apparenza; in un cinema che offre solo interrogativi che ci
denudano di fronte a noi stessi. Calopresti scava negli strati più profondi perché c’è sempre un livello altro da scoprire e da vivere. Il suo
cinema è il cinema delle possibilità. Così, trasparenza e immediatezza, assenza di filtri e di confini, si rivelano assiomi fondamentali della
vita reale e filmica dell’autore.
Dietro il suo stile più volte definito semplice, dietro l’apparente
leggerezza della scrittura, si nasconde una macchina complessa ed
elegante, fatta di film mai chiarificatori e mai completamente chiusi;
film che continuano ad esistere nello spettatore oltre il tempo di proiezione; mondi reali e immaginari in cui l’importante è essere ed esserci. Questi gli elementi primari che conferiscono al cinema di Mimmo
Calopresti quel senso di “al là delle cose” per i quali è possibile definire il suo cinema profondamente e orgogliosamente “autentico”.
436
437
Roberta Rosini
Gianni Amelio e il Sud. Erranza e costituzione identitaria:
il viaggio meridiano come autoscoperta e trasformazione
del Sé in Il ladro di bambini (1992)
1. Il viaggio come ricerca identitaria
Il presente saggio muove dall’individuazione di un parallelismo tra
paesaggio geografico ed esteriore e paesaggio mentale ed interiore, della stretta interconnessione che lega esteriorità ed interiorità. Così nelle
parole della studiosa contemporanea Giuliana Bruno, che ha dedicato
il suo Atlante delle emozioni1 a questa tematica: «Il paesaggio non è
solo una questione di esteriorità: l’impatto del paesaggio si prolunga
all’interno, nel nostro paesaggio interiore. […] Esterno e interno sono
figurativamente connessi: l’immaginazione geografica include e attraversa entrambi»2. In particolare, la spazialità rimanda ad una dimensione passionale ed emotiva, che pertiene in maniera peculiare al mondo
femminile: «La cosa è particolarmente manifesta nella cultura femminile del viaggio. Qui, si è attirati verso la topografia: la terra provoca
una risposta emozionale; la geografia è un modo di esprimere i propri sentimenti»3. Il paesaggio delinea allora una geografia emozionale
come mappa di sentimenti, di pulsioni, di desideri. Lo spazio diventa il
campo in cui l’identità dell’individuo si costituisce come soggetto e la
geografia dei luoghi si traduce in una mappatura emozionale.
Dalla definizione di questa geografia emozionale a partire dalla
corrispondenza tra esteriorità ed interiorità, discende l’idea del viaggio come ricerca identitaria ed esistenziale all’interno di un processo
d’identificazione personale. Il viaggio geografico si fa allora metafora
di un viaggio psichico ed interiore, l’itinerario nello spazio esterno
1 Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni. Il viaggio tra arte, architettura e cinema,
Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2006.
2 Ivi, p. 335.
3 Ivi, pp. 335-336.
438
diventa segno di un percorso spirituale e soggettivo di autoscoperta
e trasformazione del Sé: «Il viaggio […] si rivela un viaggio di autoscoperta. In questo tipo di esplorazione il paesaggio italiano era un
sito privilegiato: […] il paesaggio italico si prestava come pochi altri
a fare da veicolo ai viaggi psichici e soggettivi»4.
La trattazione della tematica dell’erranza si rivela centrale nella
riflessione filosofica del secondo Heidegger, quando cioè, a partire
dal 1930, l’indagine del filosofo subisce una «svolta»5 (Kehre) decisiva, in quanto da analisi esistenziale per la determinazione del senso
dell’essere diviene una ricerca che riconosce all’essere stesso l’iniziativa dello svelamento dell’essere. Nella riflessione heideggeriana
sull’esistenza e la finitudine dell’uomo la condizione esistenziale
dell’uomo o esserci (Dasein) è quella di essere gettato nel mondo,
“abbandonato” da qualunque fondamento o essere metafisico. L’uomo dunque si viene a configurare non come una realtà sostanziale e
determinata, piuttosto come un ente individuato, singolo, concreto e
finito, posto di fronte a scelte, progetti e possibilità di realizzazione ed
autenticità. La caratteristica precipua dell’esistenza infatti risiede nel
fatto che essa si definisce essenzialmente come possibilità di essere:
«L’Esserci – scrive Heidegger – è sempre la sua possibilità»6. L’esistenza dunque non si caratterizza come una realtà fissa e predeterminata, ma come un insieme di possibilità fra cui l’uomo deve scegliere:
l’uomo, in quanto possibilità, è ciò che egli stesso sceglie o progetta
di essere. L’uomo o esserci così caratterizzato come progetto-gettato,
risulta non avere fondamento. Da qui discende la nullità (Nichtigkeit)
di base che lo costituisce: la «nullità esistenziale»7 dell’uomo, la
negatività strutturale dell’esistenza.
Al concetto dell’uomo in quanto esserci caratterizzato come nullità esistenziale si connette la tematica dell’erranza, intesa nel duplice
senso di errare e di errore. L’erranza, quale condizione dell’esistenza,
4 Ivi, pp. 336-337.
5 Il termine è usato dallo stesso Heidegger per indicare un riorientamento del suo
pensiero. Tra la molteplicità degli scritti della cosiddetta svolta ricordiamo come
particolarmente rappresentativi testi quali Dell’essenza della verità (1930), L’essenza della poesia di Hölderlin (1936), Contributi per la filosofia (1936-1938),
Domande fondamentali della filosofia (1937-1938), Lettera sull’umanismo
(1947), Sentieri interrotti (1950), Introduzione alla metafisica (1953), Saggi e
discorsi (1954).
6 Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, par. 9.
7 Ivi, par. 58. Ivi, p. 4.
439
è insita nella ricerca della verità. Infatti se la verità si identifica con
l’essere, allora l’uomo o esserci, ontologicamente distinto dall’essere,
in quanto gettato nel mondo e nell’esistenza, non può che configurarsi
come un errore, fuorviamento o sviamento dall’essere e la sua condizione propria e connaturata appunto come un erramento, un errare,
un vagare nell’esistenza. Così nelle parole di Heidegger, nel saggio
Dell’essenza della verità in un paragrafo intitolato per l’appunto La
non-verità come erranza:
L’irrequietezza dell’uomo, che lo spinge ad allontanarsi dal
mistero (dell’Essere) per volgersi alla realtà praticabile, e che
lo fa passare via via da un oggetto all’altro della realtà corrente, senza accorgersi del mistero, è l’errare (Irren). L’uomo
erra. Non è che l’uomo cada nell’erranza (Irre), ma si muove
già sempre nell’erranza, perché e-sistendo in-siste, e quindi
sta già nell’erranza. L’erranza, per la quale l’uomo va, non
è qualcosa che, per così dire, passi vicino all’uomo e in cui
egli a volte cada, come in una buca; al contrario, l’erranza fa
parte della costituzione intrinseca dell’esser-ci in cui l’uomo
storico è coinvolto. L’erranza è l’ambito di quella svolta nella
quale agevolmente l’e-sistenza in-sistente si perde e si sbaglia
sempre di nuovo. […] L’erranza è l’opposizione essenziale
(Gegenwesen) all’essenza iniziale della verità. L’erranza si
apre come quell’ambito aperto a ogni opposizione alla verità essenziale. L’erranza è la dimora aperta e il fondamento
dell’errore (Irrtum). L’errore non è un errore particolare, bensì
il regno (il dominio) della storia delle intricate trame di tutti i
modi dell’errare. […] L’erranza domina l’uomo e lo fuorvia8.
2. Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia
Il primo studioso che ha riconosciuto la valenza e la portata filosofica
del cinema di Gianni Amelio è individuabile in Nicola Siciliani de
Cumis. Questi mutua dal filosofo contemporaneo Eugenio Garin una
concezione “allargata” della filosofia, secondo cui bisogna ampliare
il quadro storico e teorico delle potenzialità filosofiche riconoscibili
in un’opera, estendendo in tal modo il campo di pertinenza che la
8 Martin Heidegger, Dell’essenza della verità, in Martin Heidegger, Segnavia,
Milano, Adelphi, 1994, pp. 151-152. Ivi, p. 6.
440
tradizione ha assegnato alla filosofia concepita come disciplina pura9.
Da questa definizione lata del concetto di filosofia discende il riconoscimento di una dimensione filosofica e morale propria anche del
cinema, come emerge dalla ripresa della questione posta da Carlo
Giulio Argan: «Il grande problema è, anche per il cinema, quello del
valore. Produce valore? Destituisce e sostituisce altri valori, come
quello dell’arte, o istituisce nuovi valori»10.
Il cinema stesso, in particolare quello di Amelio, va considerato
secondo Siciliani un valore e ne va riconosciuta la portata e la valenza
filosofica: il cinema dunque «come valore etico-estetico»11,
come pretesto filosofico-espressivo, come categoria eticomentale, come fatto ideologico utile a mettere in gioco e a
smascherare l’ideologia, e quindi come dimensione morale
“altra”, come dover essere del vivere quotidiano, ben oltre la
storia, la realtà, le cose, come “sono”. […] Un’idea di cinema come fatto di responsabilità […]. Il cinema, quindi, come
scepsi e come maieutica individuale/collettiva […] che dà la
scossa alla testa e al cuore, e di più alle viscere degli spettatori. Un cinema, questo di Amelio, […] come laboratorio di
prospettive morali e di valori etici12.
Con particolare riferimento al cinema di Amelio, Siciliani rileva la
presenza di valori filosofici e morali veicolati dall’opera di questo
autore, riconoscendo il valore filosofico ed etico del cinema ameliano.
Parla infatti di una filosofia dei valori insita nel cinema dell’autore e che in esso si esprime: «la filosofia dei valori che nel cinema di Amelio si esprime, ha una sua logica, intima coerenza. E va
9 Cfr. Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, in
«Cinema Nuovo», a. 45°, n. 2 (360), maggio-agosto 1996, p. 2. A sostegno di
questa tesi Siciliani cita Leopardi e il filosofo Antonio Labriola, i quali rispettivamente hanno asserito: «Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo
filosofico, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più
vita al mondo» (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori Editore,
Milano 1999, p. 466) e «alla filosofia ci si deve poter arrivare didatticamente per
qualunque via, come per qualunque via ci arrivarono sempre i veri pensatori»
(Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 6).
10 Nicola Siciliani De Cumis, Un capitolo fondamentale nella storia del criticismo
(G. C. Argan), in «Cinema Nuovo», a. 45°, n. 1 (359), gennaio-aprile 1996, p. 4.
11 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2.
12 Ivi, p. 4.
441
riconosciuto»13. Lo stesso regista assegna una valenza filosofica al
proprio cinema, nel momento in cui lo definisce luogo privilegiato di
riflessione ed analisi che indaga oltre l’apparenza del reale:
Il problema del linguaggio cinematografico è per me essenziale […] non mi serve il cinema per costruire pezzo dopo pezzo
un prodotto-film ma mi sta a cuore una dimensione stilistica
che trasformi la scrittura cinematografica in uno strumento di
analisi […] per togliere qualsiasi illusione riproduttiva e indicare quel che si nasconde sotto l’apparenza delle cose14.
In particolare Siciliani riconosce che tali valori sono presenti nel cinema di Amelio precipuamente sottoforma di sentimenti ed emozioni: i
valori nel cinema di Amelio non si caratterizzano in termini platonici
ed idealistici, «camminano invece sulle gambe degli uomini, traducendosi quindi in precisi atteggiamenti, comportamenti, sentimenti,
emozioni»15. Il cinema etico di Amelio, fondato su sentimenti e passioni, appare dunque quanto mai distante dalla concezione tradizionale della moralità basata sulla ragione: «l’infiammabilità morale brucia
sotto le ceneri della ragione»16. Questa priorità assegnata nel cinema
ameliano al sentimento e all’emozione viene collocata nel quadro di
una «poetica del disoccultamento»17, secondo cui il cinema ha la capacità di sollevare dalla realtà una sorta di velo di maya che impedisce
di vivere «senza ricatti e mistificazioni», «alla maniera degli uomini
semplici»18. Da questa poetica discende una «morale della sottrazione, della differenza»19, che sottrae i personaggi dei film ameliani dalla
realtà e dalla storia e propone le loro vicende in una chiave poetica:
È come se egli (Amelio) ci dicesse: tutto ciò che ricostruiamo
filologicamente, storicamente, di questo nostro mondo presen13 Ivi, p. 6.
14 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzoaprile 1973, pp. 157-158.
15 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2.
16 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini,
Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, Comune di Ancona, Ancona
1993, p. 12.
17 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2.
18 Gianni Amelio, Per La Città del Sole ingresso libero, in «Il Dramma», marzoaprile 1973, pp. 157-158.
19 Nicola Siciliani De Cumis, Amelio, Labriola e la laurea in filosofia, cit., p. 2.
442
te-passato in corsa verso il futuro, ha una sua intrinseca illusorietà, e a me, Amelio, non interessa impegnarmi nella “documentazione”. L’unica cosa che esiste davvero, assolutamente,
è il cinema, in quanto esiste per me; benché irreale anch’esso,
come tutte le cose di questo mondo. Il cinema è tuttavia il mio
mondo: è e non è. Tertium datur […]. È la realtà dell’emozione, del sentimento, che nessuno può negare, e che produce in
ogni caso una reazione: e, con la fondatezza dell’espressione
poetica, una sorta di recensione estetica del mondo etico20.
Il cineasta dunque non è interessato alla veridicità del racconto e a
rappresentare documentaristicamente la realtà storica, ma quella dei
sentimenti, delle passioni e delle emozioni, sempre al centro delle
sue opere: la sottrazione si rivela allora «un’acquisizione di valore»21.
Siciliani evidenzia poi come tali valori siano assegnati da Amelio
all’infanzia e all’adolescenza, intese non in senso strettamente anagrafico ma come condizione esistenziale. Queste età sono caratterizzate, secondo l’analisi del filosofo, da non consumabilità, in quanto
anche se gli adulti usano i bambini e ne abusano, questi tuttavia non
sono passivi, piuttosto la loro reazione e la loro crescita emancipa
moralmente e “salva” in un certo qual modo gli adulti; e da intransitività, nel senso che l’esperienza infantile e giovanile è irripetibile e
non trasmissibile22.
Tuttavia l’opera ameliana è lontana da qualsiasi didatticismo
e didascalismo morale. Ciò che vale per Amelio è individuabile in
elementi essenziali e fondamentali, quali la vita come «supremo
valore»23, da cui scaturisce una ricca simbologia che ritorna ripetutamente nella produzione ameliana – l’acqua, il cibo, il pane, le mani, la
lingua e le parole; il valore dell’utopia, presente più o meno esplicitamente in tutti i film; e quello dell’altrove come valore incommensurabile e ineffabile: «L’essenziale per lui (Amelio) è l’immedesimazione
nell’oggetto individuale della visione cinematografica, ed al tempo
stesso il trarsene fuori»24, come avviene per la Calabria rappresentata
esplicitamente o evocata quando viene descritta attraverso un paese straniero. Centrale nell’opera ameliana è inoltre la denuncia dei
20
21
22
23
24
Ivi, p. 3.
Ibidem.
Cfr. ivi, p. 4.
Ibidem.
Ivi, p. 6.
443
disvalori25, quali la corruzione e la volgarità celate dietro l’apparente
perbenismo: si pensi ad esempio in Il ladro di bambini alla filosofia
familistica e mafiosa del geometra Papaleo che emerge, durante la
festa al ristorante, nella discussione col carabiniere a tavola sugli abusi edilizi, o alla malignità della giovane donna che scopre e si affretta
a svelare l’identità della bambina, additandola a mostro da copertina
di rotocalco.
Il discorso narrativo dunque, nel cinema ameliano, risulta inessenziale rispetto al discorso metafisico-esistenziale: la storia serve a veicolare un significato filosofico sotteso nel racconto. Così non sempre
gli accadimenti all’interno dei film di questo autore hanno una spiegazione causale, non sempre gli eventi sono connessi da un rapporto di
causa ed effetto, piuttosto l’elemento dominante si rivela quello della
casualità. La narrazione appare dunque subordinata all’aspetto filosofico implicito che percorre sotterraneamente l’opera, di cui quello
narrativo rappresenta un’estrinsecazione.
Il pensiero filosofico insito nel cinema ameliano assume, come
si è detto, una valenza etica, si caratterizza come un vero e proprio
discorso morale. Assume in particolare una rilevanza significativa nel
cinema di Amelio lo sguardo dei personaggi, che riveste una valenza morale, in particolare quello delle figure dei bambini-adolescenti
come metafora dell’innocenza:
I protagonisti dei suoi film sono personalità introverse, silenziose, pensierose, riflessive fino ai limiti estremi del mutismo,
dell’autismo. Comunicano gli sguardi. Sguardi incrociati che
alludono o sognano, che smarriscono o rintracciano. Gli occhi
danno l’impressione d’essere intenti a cose che vale più la
pena di guardare, rispetto a quelle che al momento stanno loro
dinnanzi26.
Le lunghe inquadrature che persistono e si soffermano sui volti muti,
sugli sguardi intensi dei personaggi rappresentano il tentativo del
regista di comprendere e cogliere la loro interiorità, nei suoi risvolti
25 Per i valori filosofici presenti nell’opera di Amelio, quali il valore della vita,
l’utopia e l’altrove, e per la denuncia dei disvalori, cfr. ivi, pp. 4-6.
26 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini,
Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 12.
444
più intimi, sostanziali e autentici. In particolare lo sguardo dei personaggi lascia intravedere, rivela la loro dimensione affettiva ed emozionale: «la “descrizione” dell’emozione affiora proprio grazie alla
“scandalosa” discrezione dello sguardo»27. Si può parlare allora di
moralità dello sguardo: lo sguardo dei personaggi dei film di Amelio
è sempre uno sguardo morale. Così nell’affermare la responsabilità
del cinema nei confronti di un ordine sociale corrotto e logoro e di un
mondo di adulti inadempienti, Amelio ha reintrodotto una forza etica
nel cinema e assegnato ad esso un compito morale.
La moralità del cinema di Amelio è connessa ad un altro aspetto fondamentale quale il realismo caratteristico dell’opera di questo
autore. Il realismo ameliano, che deriva dall’influenza del cinema
degli anni Sessanta, ha come presupposto basilare la ricerca della
verità e come intento fondamentale quello di rappresentare la realtà
così come essa appare e si manifesta, di restituire allo spettatore la
verità della realtà. Questa si viene a delineare come una scelta morale:
«lo stile diventa […] indistinguibile dalla ricerca di significato, cioè
una vera e propria esperienza morale»28; e Amelio come un autore che
fa della forma una questione morale, definita dallo sguardo
sulle cose […]. In tal modo, lo stile viene restituito alla sua
sostanza, a una morale della necessità nella quale non si può
più distinguere il “fatto” e la “forma”. Non si tratta di adottare
una “espressione” in accordo con i fatti o con le esigenze di un
certo pubblico […]. Si tratta d’altro: fare dello stile la forma
di una morale29.
L’unione tra linguaggio e morale, stile ed etica discende dal neorealismo, riferimento essenziale del cinema di Amelio30: nel neorealismo
infatti «la forma cinematografica era la sintesi di una esigenza etica
27 Ivi, p. 10.
28 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema italiano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, Torini, Lindau,
1999, p. 20.
29 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 27.
30 Amelio, per questo stretto legame con il neorealismo, è stato definito come «il
regista attualmente forse più importante in Europa per la rivitalizzazione del
neorealismo», Godfrey Cheshire, L’immagine persistente, in Emanuela Martini,
Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 62.
445
e di una pressione stilistica indissociabili»31. Il cinema neorealista si
fonda infatti su una morale dello sguardo, ripresa dal nostro autore,
che impressiona la vista con il dramma della realtà; questa morale
della forma rappresenta un modo diverso di guardare e mostrare la
realtà. Il cinema neorealista, e con esso quello di Amelio, si imposta
allora su un’indistinzione tra linguaggio, realtà e morale dello sguardo. Il cinema ameliano dunque, caratterizzato dal bisogno di «rimanere sulle cose»32, si caratterizza come un cinema «concreto»:
i suoi personaggi esistono, sono di carne, anche nel disastro
della loro identità, anche nella loro afasia affettiva, anche nelle
percezioni confuse e irrisolte della loro giovinezza e nei preconcetti rigidi della loro maturità, parlano la lingua della gente
comune, si muovono in ambienti a tre dimensioni, “stanze”
riconoscibili di una geografia umana e sociale33.
Lo stesso Amelio ha rivendicato una propria collocazione realista:
«sono arrivato a considerare il realismo l’unica mia chiave di appartenenza alle cose proprio perché tutte le altre mi sono sembrate un
tradimento delle mie radici. E d’altra parte ritengo che è anche il mezzo più onesto e più pulito per rispettare queste radici: ossessivamente
riporto tutto a quelle radici»34. Rivela ancora l’autore:
il concetto che deve governare la messa in scena è il concetto
di necessità. In rapporto a che cosa? In rapporto all’emozione,
in rapporto al giusto, in rapporto al vero […]: il rispetto per il
vero, […] per il vero che sta dentro le cose che racconti […].
È il rispetto per quella verità che ti detta il modo per rappresentarla; il fine deve essere l’emozione35.
31 Maurizio Grande, L’innocenza dello sguardo non-innocente, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 29.
32 Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Poetica del ritardo. Gianni Amelio nel cinema italiano, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 20.
33 Emanuela Martini, Gianni Amelio, Milano, Il Castoro, 2006, p. 29.
34 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi,
Roma, Donzelli, 1994, pp. 60-61.
35 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a
Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio:
le regole e il gioco, cit., p. 124. Amelio per esplicitare il concetto di verità che
deve governare la messa in scena, fa riferimento al “comandamento di Renoir”:
«Per arrivare a questo, devi avvicinarti a quello che filmi con il minimo tasso di
446
Infine, alla domanda se l’impressione di realtà è la base del cinema il
regista ha risposto: «Assolutamente. Il patto è con la realtà»36. L’influsso neorealista si ripropone in Amelio anche nella scelta degli interpreti,
che sono spesso ragazzi, adolescenti o vecchi presi “dalla strada”. Così
i suoi debuttanti sono sempre «veri»37. Anche quando si tratta di attori
illustri (quali Volonté, Trintignant, Laura Betti, etc.), questi mettono al
bando ogni artificio; quando poi fa da sfondo un personaggio celebre
o storico (come Bertolucci, Herrmann, Majorana o Fermi), Amelio lo
pone al livello dello spettatore, mettendone in luce la dimensione umana e personale piuttosto che quella pubblica e storica.
Risulta poi imprescindibile, nell’analisi del cinema ameliano,
l’intimo legame tra il dato biografico e l’opera dell’autore, la stretta
interconnessione tra formazione dell’autore e formazione dei risultati cinematografici. La dimensione autobiografica è sempre presente, sottesa ed implicita nei diversi film, percorre sotterraneamente ed
influenza tutta la produzione del cineasta. L’esperienza di vita costituisce dunque la base principale del suo percorso di autore. L’opera
cinematografica del regista si configura infatti «inumidita di realismo
premeditazione; oppure, se ti avvicini all’oggetto da filmare con la premeditazione naturale che il regista deve avere, devi fare in modo che le cose, in qualche
maniera, ti si rivoltino contro. Penso che il credo di Renoir dovrebbe diventare
legge. Renoir sosteneva che la realtà che tu metti davanti alla macchina da presa
deve essere per forza una realtà pensata fino in fondo proprio per la macchina
da presa; quindi, tu devi chiudere la porta al resto delle cose, perché la vita non
si deve mischiare con il cinema. Però, aggiungeva Renoir, devi lasciare aperta
una finestra, in modo tale che la realtà della vita, le cose vere che giustamente
hai lasciato da parte, ti entrino di soppiatto e ti sconvolgano questa costruzione. Questo è probabilmente uno dei comandamenti, forse “il” comandamento
da seguire, da portare alle conseguenze estreme. […] Perciò, fermo restando che
la prima parte è fondamentale, dovrebbe diventare ancora più forte la seconda,
che probabilmente non lo è più. Il cinema, mentre prende sul serio a tutti i livelli
la prima parte del comandamento di Renoir, anche senza conoscerlo, trascura
la seconda parte. Perché spesso, facendo cinema, si fa confusione con il teatro.
Quanto è distante, invece, il teatro dal cinema… Quando sono a teatro c’è il patto
tacito, sottinteso, tra me e gli attori, il patto della finzione. […] Mentre invece al
cinema questo patto non è possibile. Nessuno al cinema riesce a farti entrare in
questo patto, nel senso che, quando la luce si spegne e lo schermo si accende, tu
devi credere che quello che c’è davanti a te stia avvenendo realmente», ivi, pp.
150-151.
36 Ivi, p. 152.
37 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, Venezia,
Marsilio, 2000, p. 28.
447
ma soprattutto intrisa di memoria, d’una moltitudine di istanti passati, di evocazioni (auto)biografiche, d’energie emozionali rimosse e
riaffiorate»38. Per penetrare autenticamente l’opera di Amelio assume
dunque un rilievo particolare la sua biografia, da cui discende un’interpretazione delle sue opere cinematografiche come elaborazione
della sua esperienza e ricerca esistenziale. Infatti
non c’è film di Amelio che non abbia per oggetto il suo mondo, che non disegni figure che attengano alla sua formazione giovanile, sofferta come a tutti gli adolescenti può toccare
in sorte, ma nel suo caso segnata da inquietudini che solo un
ragazzo del Sud, figlio dell’emarginazione, può conoscere39.
Proprio il suo essere un uomo del Sud, spiega il forte senso di solidarietà e vicinanza che lo lega agli emarginati, agli oppressi, ai deboli
e agli ultimi, protagonisti indiscussi dei suoi film, che assurgono a
detentori della moralità. Lo stesso autore ha rivelato:
Io sono nato in una comunità di poveri. Ero affratellato a tutti
quelli che avevano dei bisogni elementari, e non riuscivano se
non con grande fatica a soddisfarli. Mi sento ancora parte di
una gente che ha bisogni forti, duri, primari: il pane, le scarpe,
il vestire40.
Amelio racconta infatti un’infanzia tragica: solitudine, padre lontano
– emigrato in Sudamerica – povertà estrema e il «bisogno di sopravvivenza imposta come dovere… sei chilometri a piedi per arrivare
a scuola e eccellere, autocostrizione»41. Nella sua infanzia dunque,
come il regista ha dichiarato, «non c’erano né spensieratezza, né serenità, solo autocostrizione»42. A proposito della sua esperienza scolastica, su cui incombeva il peso della sua povertà, l’autore ha rivelato:
38 Fabio Bo, Adolescenza perduta come stato d’animo, in Fabiola Brugiamolini,
Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli (a cura di), La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., p. 9.
39 Alberto Cattini, Le storie e lo sguardo. Il cinema di Gianni Amelio, op. cit., p. 11.
40 Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit.,
p. 43.
41 Mario Sesti, Autoritratto di Gianni Amelio, intervista a G. Amelio a cura di Mario
Sesti, in Mario Sesti (a cura di), Regia di Gianni Amelio, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992, p. 8
42 Ibidem.
448
mi comportavo strabene, pur detestando la scuola. E lo facevo
per evitare che mia madre o mia nonna andassero a domandare come mi comportavo. Perché mia madre e mia nonna non
parlavano la lingua italiana, e questo per me era un elemento
di tale vergogna di cui oggi mi vergogno. Poi, all’epoca erano
molto fiscali nelle scuole, ti facevano visite mediche, avevano il terrore della tubercolosi. Gli inquisitori ogni sei mesi ti
chiedevano quante volte alla settimana mangiavi la carne; e io
dicevo sempre tutti i giorni43.
Dunque il Sud, inteso come naturalità opposta a cultura, si configura
come un “rimosso” autobiografico e personale della vita e della storia
di Amelio, che riemerge e riaffiora nei film del regista, caratterizzando tutta l’opera di questo autore. I personaggi bambini e adolescenti
di Amelio dunque replicano la sua autobiografia tragica, sono testimonianza della sua infanzia e adolescenza perdute: appaiono nei suoi
film come in una prigione, e mettono in atto sempre un estremo e
disperato tentativo di fuga.
Un altro elemento autobiografico che si rivela centrale nell’opera
di Amelio è il difficile e sofferto rapporto con il padre, da cui deriva il
desiderio struggente di paternità trasfigurato nei suoi film. A proposito dell’assenza del padre l’autore ha raccontato:
ero nella classe più importante dell’unico liceo classico di
Catanzaro, con tutti i figli più importanti, il giudice, il sindaco,
il primario chirurgo. E sul registro erano indicate le rispettive
professioni paterne e materne […]. Io avevo: Amelio Giovanni, di Giuseppe, impiegato. L’avevo detto io, perché mio padre
non c’era, mio padre stava in Argentina e io potevo spacciarlo
come impiegato. Ero l’unico figlio di impiegato; guai se avessi detto che non avevo idea di quello che faceva, che magari
stava a chiedere l’elemosina in qualche angiporto di Buenos
Aires. Nemmeno io lo sapevo, quello che faceva. Ogni tanto
da ragazzino chiedevo a mia madre: che fa papà? E lei era
vaga quando rispondeva: fa l’elettricista, fa il meccanico, guida la macchina. […] Accade che un giorno, in quarta ginnasio,
si faccia un tema: «Parla di tuo padre». Passano un paio di
giorni, il professore torna con i temi corretti e dice che c’è un
43 Emanuela Martini, Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio, intervista a
Gianni Amelio a cura di Emanuela Martini, in Emanuela Martini, Gianni Amelio:
le regole e il gioco, cit., p. 110.
449
tema straordinario, senza dire di chi è. Dice «Io vorrei leggerlo, però vorrei chiedere il permesso», e si volta verso di me:
«Posso leggere il tuo tema?». E io dico «No». E lui dice «Dobbiamo rispettarlo». A quel punto, cade il silenzio su tutta la
classe, e tutti si voltano a guardarmi. E, dopo un anno e mezzo
o due, una delle mie compagne mi ha svelato che da quel giorno tutti quanti si sono confermati nel sospetto che avevano:
che non avessi il padre, che fossi figlio di cosiddetto NN44.
Emerge dunque quello che Amelio ha definito come il suo «dramma,
del ragazzo senza padre, […] che è deriso dai compagni perché è
sospettato di essere figlio di NN»45. Così il «dramma» personale di
Amelio legato al rapporto sofferto con il padre si ripercuote sull’opera dell’autore e si ritrova, più o meno esplicitamente, in tutti i suoi
film. Il mondo poetico di Amelio infatti ruota intorno alla figura del
padre. Nei suoi film la figura paterna viene connotata negativamente e
caricata di ogni responsabilità negativa: l’autore incolpa il “padre”, o
chi ne riveste il ruolo, delle disillusioni che un “figlio” subisce. L’inadempienza paterna si concentra sul tema della cultura. Nella polarità
tra cultura e naturalità, l’autore opta per la natura e critica la cultura
in quanto ritiene, proprio per averlo sofferto in prima persona, che al
vertice della scala dei valori si trova la necessità di sopravvivere e la
vita, piuttosto che la cultura. L’inquietudine dell’adolescente-Amelio
discende dall’assenza di una figura di adulto/padre/maestro in grado
di svolgere il ruolo di guida: «Perché dove il maestro esiste, rivela il
dono maligno di ingannare e d’ingannarsi; e si deforma in una caricatura ipocrita capace di distruggere l’equilibrio fragile dell’allievo»46.
Così la figura del padre, o chi ne fa le veci, risulta inadempiente per
l’incapacità a porsi come guida: infatti l’impossibilità di avere una
guida che alla dimensione intellettiva e culturale associ anche quella
umana ed affettiva diventa la causa della profonda solitudine e del
malessere esistenziale dei piccoli protagonisti dei film di Amelio.
Questa accusa al mondo dei padri di «tarpare le ali ai figli»47 si estende fino a significare la consapevolezza dell’autore della difficoltà di
stabilire un autentico rapporto umano, che superi gli scarti generazio44
45
46
47
Ivi, pp. 110-111.
Ivi, p. 111.
Alberto Cattini, op. cit., p. 13.
Ibidem.
450
nali e le barriere di classe. Così Amelio risolve la condizione umana
nella solitudine, intesa come impossibilità e impotenza a costruire
rapporti umani autentici, solidi, pieni e definitivi. Inoltre, continuando ad attingere all’autobiografia, sostiene che tale solitudine si insedi
nel nucleo familiare, quale radice prima del dolore umano. Così la
forza di questo autore «sta non solo nel riconoscersi nelle vittime, ma
nel saper individuare e smascherare i carnefici»48.
Il tema basilare su cui sono incentrati i film di Amelio è dunque il
rapporto dialettico tra la figura dell’adulto-padre-maestro e quella del
bambino-figlio-allievo. Tale rapporto si configura come un conflitto
ovvero come distacco, freddezza, alterità, estraneità ed incomunicabilità tra queste due figure. Infatti i film dell’autore trattano i fragili equilibri tra due figure in continuo scambio e opposizione, sono costruiti
per opposizioni tra due personaggi: l’uno rappresentante l’infanzia
o l’adolescenza e l’innocenza, l’altro la maturità e la responsabilità.
Queste due figure fondamentali nei film di Amelio possono essere
considerate invero non solo e non semplicemente come due entità
anagrafiche (un bambino-adolescente, nel quale sicuramente l’autore
si riconosce maggiormente, e un uomo), ma anche e soprattutto come
le rappresentazioni divaricanti e antitetiche di un modo di sentire e
di essere dell’autore stesso. Il conflitto tra l’adulto-padre-maestro –
rappresentante la dimensione intellettiva e razionale dell’uomo – e
l’adolescente-figlio-allievo – simbolo e metafora delle passioni, delle emozioni e dei desideri – elemento basilare e portante dei film di
Amelio, non si configura cioè unicamente come un conflitto tra i due
personaggi deuteragonisti. Esso può, secondo un ulteriore e più profondo livello di lettura, essere introiettato all’interno dell’interiorità
del regista ed essere letto come una scissione tra ragione e passioni
interna all’autore stesso. La razionalità e le passioni incarnate nei vari
film dai protagonisti in rapporto dialettico devono allora essere considerate non soltanto e non semplicemente come due caratteristiche
antitetiche appartenenti a due personaggi distinti, ma vanno anche e
soprattutto concepite come due lati e aspetti interiori compresenti e
coesistenti all’interno dell’uomo, e in primo luogo dell’autore stesso
che nei suoi personaggi si identifica. Così in ognuno dei suoi protagonisti – adulto o bambino che sia – Amelio sembra ritrovare un tratto
del proprio cammino, il suo percorso di figlio e di padre.
All’interno dei film di Amelio è possibile individuare una scala
48 Ibidem
451
gerarchico-piramidale49 che costituisce la struttura filosofico-concettuale soggiacente alle opere filmiche a cui si possono ascrivere i diversi personaggi. Il vertice di tale scala gerarchica filosofica è occupato
dall’elemento metafisico-eteronomo: si tratta di un’entità e un’autorità esterna e superiore rispetto all’uomo, al soggetto individuale.
Tale elemento eteronomo, in quanto trascendente e sovrannaturale, si
configura come eterogeneo, ontologicamente distinto e contrapposto
rispetto a quello terreno, umano, naturale e finito. Questo ente esterno
all’uomo – autoproclamandosi superiore e portatore di valore – rifiuta, reprime, domina, sottomette ed annichilisce l’elemento naturale e
umano (che viene a rappresentare l’alterità, l’altro da sé, il diverso),
considerato inferiore e negativo. L’elemento eteronomo si presenta
nel film sia nell’accezione metafisico-religiosa come un’autorità teologica, che in quella positiva e statuale come un’autorità mondana. Si
tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della società
odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regista
muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e fallaci. Sulla loro trattazione è incentrata solitamente la prima parte delle pellicole ameliane: l’autorità religiosa e quella statuale-societaria
costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei
protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé.
La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dalla trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, corrispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti.
Si tratta dell’elemento terreno, umano e finito, che – rovesciando la
dicotomia tradizionale tra autorità e uomo – si riconosce autonomo.
Così la positività, la priorità di valore viene assegnata non più all’elemento trascendente, esterno e superiore rispetto alla natura e all’uomo,
ma al contrario proprio all’elemento terreno, umano, naturale e finito;
si teorizza allora il ruolo centrale e prioritario della natura, finita e
immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo. Si giunge
così all’affermazione dell’individualità e dell’autonomia personale,
ovvero al riconoscimento dell’indipendenza del soggetto individuale da qualsivoglia autorità esterna e superiore. In particolare l’essere
umano viene qui connotato in termini razionalistici: questo atto di
49 Cfr. Eugenio Lecaldano, Etica, Torino, UTET Libreria, 1995. La scala gerarchica presentata dal filosofo morale contemporaneo viene qui mutuata dal campo
dell’etica ed utilizzata in ambito estetologico.
452
supremazia è cioè assegnato all’uomo, che in quanto tale si configura
come essere razionale. Il soggetto dunque, connotato in termini razionalistici, riconosciutosi indipendente ed autonomo, rifiuta qualunque
entità e autorità esterna, superiore e trascendente rispetto alla realtà e
all’orizzonte naturale e umano, in base ad un’interpretazione secondo
cui la realtà va fondata in termini naturali, terreni e finiti.
Si istituisce inoltre un altro dualismo filosofico (analogo a questo
tra l’autorità esterna e superiore all’uomo e l’uomo inteso come essere razionale) che si caratterizza anch’esso come una contrapposizione
antitetica tra due elementi differenti ed eterogenei quali appunto la
razionalità umana da una parte e il lato naturale dell’uomo, costituito dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni,
impulsi e istinti dall’altra. Si afferma così la sostanzialità dell’anima,
dell’identità personale, ovvero la consistenza, l’unità, la coerenza e
l’ininterrotto permanere della Coscienza, dell’Io – che resta chiuso e
confinato in se stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizza dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza dalla sfera passionale ed istintiva, che viene a rappresentare allora l’alterità, l’altro da
sé, il diverso. Tale aspetto razionale dell’uomo – di cui, come abbiamo
visto, si afferma la posizione di supremazia e privilegio – rifiuta, nega,
reprime, domina, sottomette e annichilisce la dimensione corporea e
la sfera pulsionale ed istintuale – propria precipuamente dell’animalità
e definita come il lato oscuro dell’uomo, luogo dell’immoralità – ritenuta inferiore e negativa. Il concetto di razionalità umana, che si configura solitamente come tratto peculiare di uno dei due protagonisti,
è oggetto anch’esso – come il concetto di autorità – di una radicale
critica da parte del regista. Il protagonista che incarna questa facoltà, è
la figura dell’adulto che svolge una funzione di padre e insegnante. Si
entra così nel nucleo costitutivo e nel cuore poetico del cinema di Amelio, quale la trattazione del rapporto dialettico tra la figura dell’adulto/
padre/insegnante e quella del bambino/figlio/allievo. Questo rapporto
tra adulti e giovani, tra padri e figli si configura come un vero conflitto
che si risolve nella negazione, rifiuto, repressione e annichilimento del
bambino/figlio/allievo – che impersonifica la dimensione sentimentale
e istintuale – da parte dell’adulto/padre/insegnante – che esemplifica
l’aspetto razionale dell’uomo. Il protagonista che incarna la facoltà
della razionalità, ovvero la figura dell’adulto/padre/insegnante, risulta anch’essa – proprio come lo Stato e la famiglia tradizionale – una
figura inadempiente e incapace a porsi come guida. Anche il modello
453
della famiglia putativa allora, come quello della famiglia tradizionale
e biologica, si rivela inadeguato e fallace. Al centro dell’opera di Amelio, in linea con la contrapposizione dialettica tra le figure dell’adulto/
padre/insegnante e del bambino/figlio/allievo, si iscrive inoltre quella
tra cultura e natura, Nord e Sud, opulenza e miseria, classe borghese e
società contadina, presente o futuro e passato.
L’epilogo, approdo del viaggio geografico e spirituale dei protagonisti, è caratterizzato da un rovesciamento della situazione e dei ruoli.
Si assiste infatti ad un capovolgimento della tradizionale dicotomia
tra ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e
materiale. La priorità di valore viene assegnata non più alla dimensione razionale, piuttosto proprio alla sfera passionale ed istintiva, di
cui si riconosce il ruolo centrale e prioritario all’interno dell’esistenza dell’uomo. Si ha infatti la negazione della sostanzialità dell’anima,
dell’Io, dell’identità personale: l’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’alterità,
l’altro da Sé, il diverso – si rivelano un’illusione, una costruzione. La
consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé viene a dissolversi, e dunque il fondamento
stabile dell’Io, oscurato e minato, viene meno. Infatti l’alterità50 non
resta confinata, al contrario tende ad invaderci: il Sé è intessuto di altro,
è permeato dall’alterità: si assiste all’introiezione dell’altro, secondo
una concezione dividuale della soggettività. Tale alterità e diversità
consiste appunto nella sfera passionale, emotiva ed istintuale, incarnata dalla figura del bambino o dell’adolescente, che, assumendo il ruolo
di figlio ed allievo, si pone in rapporto dialettico con quella dell’adulto/padre/insegnante. Nel finale si assiste al rovesciamento della dialettica tradizionale tra adulto/padre/insegnante e bambino/figlio/allievo,
cioè al capovolgimento dei ruoli tradizionali in base ai quali l’adultopadre è la figura che insegna ed educa e il bambino-figlio quella che
impara e apprende. La figura del bambino/figlio/allievo dunque come
simbolo della diversità e come metafora dei sentimenti, delle passioni
e delle emozioni. Infatti l’alterità si configura come l’insieme di quei
sentimenti e valori propri precipuamente appunto dei più deboli, degli
50 L’alterità è costituita non solo da ciò che risulta esterno rispetto al soggetto, ma si
rivela anche interna allo stesso Sé, quale appunto l’insieme delle passioni, emozioni, pulsioni, istinti e desideri dell’individuo. Infatti il tema del rapporto con l’alterità si ritrova all’interno dello stesso Sé, le problematiche dell’intersoggettività si
rivelano una problematica intrapsichica caratteristica della stessa interiorità.
454
ultimi esemplificati per antonomasia dai bambini. Con la riscoperta
di tali valori e sentimenti – di cui si rivelano custodi per eccellenza
i bambini – e con la rivendicazione della loro centralità nell’esistenza umana, emerge l’umanesimo del cinema ameliano: il regista si fa
portavoce della rivolta degli innocenti, dei derelitti, degli emarginati e
dei diseredati e propone la riabilitazione e una vera epopea dei vinti,
dei deboli, dei semplici e degli ultimi. I vinti, i deboli e gli ultimi sono
appunto i bambini di Amelio – detentori di valori e sentimenti – che
con la loro innocenza e purezza denunciano il mondo inadempiente
degli adulti e un ordine sociale corrotto. Questi sono dunque i piccoli
eroi quotidiani celebrati da Amelio: gli emarginati, i deboli e gli innocenti che, nonostante l’indifferenza degli adulti e la corruzione delle
istituzioni, conservano l’animo di bambino.
Se i diversi personaggi possono essere collocati all’interno di questa scala gerarchica filosofica sottesa ed implicita nel cinema di Amelio, nelle opere appartenenti all’ultima fase dell’autore – a partire da Il
ladro di bambini in poi – il personaggio del protagonista-eroe si rivela
più complesso. Infatti nei lavori più recenti del regista il protagonista non è ascrivibile univocamente ad uno stadio definito, in quanto
nel dispiegamento della storia si disvela un processo di evoluzione e
crescita psicologica ed intellettiva interno all’eroe. Così nella prima
parte delle pellicole il protagonista impersonifica l’elemento eteronomo nella sua accezione positiva e statuale, in quanto, rivestendo un
ruolo istituzionale, rappresenta un’autorità mondana. Nella parte centrale della storia poi il protagonista, contestata l’autorità superiore ed
esterna, va ad incarnare l’eroe emblema di razionalità. Infine nell’epilogo si assiste al crollo e al dissolvimento dell’identità personale e
dell’unità dell’Io e all’identificazione del protagonista con l’alterità,
attraverso il riconoscimento e l’accettazione della propria dimensione
passionale ed istintuale.
Emerge allora il ruolo di primo piano e la funzione centrale che il
viaggio riveste all’interno del cinema di Amelio, quale forma di racconto privilegiata delle opere di questo autore. Il viaggio – elemento
sempre presente e centrale nel cinema ameliano – che i personaggi
intraprendono nel corso della storia non si caratterizza unicamente
come un viaggio che i personaggi compiono nell’ambiente esterno,
ma si configura inoltre come un percorso interiore e spirituale che i
personaggi, in modo particolare il protagonista, compiono all’interno
della propria soggettività ed interiorità. Il viaggio geografico si con-
455
figura dunque in Amelio come metafora di un percorso psicologico
e intellettivo di crescita ed evoluzione interno agli stessi personaggi,
di un processo d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di
autoscoperta e trasformazione del Sé.
3. Il ladro di bambini (1992)
Si intende analizzare la tematica del Sud nel film Il ladro di bambini (1992) di Amelio, in cui tale questione viene trattata in stretta connessione con quella della ricerca identitaria. Nella pellicola di Amelio
infatti la discesa nel cuore del Meridione compiuta dai protagonisti viene a caratterizzarsi proprio come una ricerca identitaria, dove il viaggio
geografico verso il Sud – immagine metaforica di una naturalità e di
valori archetipici ormai perduti – si configura come metafora di un processo d’identificazione personale e ricerca esistenziale, di un percorso
interiore e spirituale soggettivo di autoscoperta e trasformazione del Sé.
L’elemento eteronomo si presenta nel film sia nell’accezione metafisico-religiosa come un’autorità teologica, che in quella positiva e statuale come un’autorità mondana. Sulla loro trattazione è incentrata la
prima parte della pellicola: l’autorità religiosa e quella statuale-societaria costituiscono infatti il primo “incontro” e dunque la prima tappa dei
protagonisti lungo il viaggio alla scoperta, o meglio ri-scoperta, di sé.
Si tratta delle istituzioni religiose da una parte e dello Stato, della società odierna e della famiglia istituzionale dall’altra, enti verso cui il regista muove una radicale critica in quanto si rivelano inadeguati e fallaci:
Come ha detto lo stesso regista, Il ladro di bambini «è un film
sulla vergogna che non sappiamo ancora provare», ed è tante
altre cose che riguardano la nostra società, dispersa nei mille
egoismi del benessere, incerta, diffidente, incapace di guardare
se stessa con spirito critico e costruttivo e di ricercare le potenzialità di un sentimento che esprima un’autentica sensibilità
verso chi è diverso51.
La Diversità, rappresentata dalla naturalità e dalla finitezza della sfera
passionale ed emozionale, è incarnata nel film dalle figure dei bambini.
51 M. Garritano, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. Scalzo (a cura
di), op. cit., p. 149.
456
L’innocenza dei bambini costituisce in Amelio una Diversità negata,
repressa e annichilita da istituzioni religiose corrotte e inadempienti e
da un ordine sociale logoro. Infatti per quanto riguarda l’autorità teologica, gli istituti religiosi rifiutano di accogliere la bambina, visti i suoi
trascorsi52. Per quanto riguarda poi l’autorità statuale e positiva, essa è
rappresentata dalla famiglia tradizionale ed istituzionale – quale nucleo
primordiale della società – aspramente criticata e contestata dall’autore:
La figura del genitore si disintegra qui con il gesto più osceno,
quello di vendere il corpo della propria figlia. Ma non a caso il
padre non si vede, dà il seme, genera i bambini e poi sparisce.
[…] C’è questa disintegrazione dei valori che costituivano la
base della società contadina, da cui padre e madre sono usciti. L’emigrazione ha condotto all’abbandono di quei pilastri
che sono forse antichi, ma che sostenevano un modo di vivere
meno disumano53.
L’alterità della sofferenza infantile è dunque incarnata dai personaggi
dei due bambini Rosetta e Luciano, la cui fanciullezza ed innocenza sono state rubate, violate e negate. Infatti Rosetta è una bambina
di appena undici anni prostituita dalla madre. Per quanto riguarda
Luciano poi, esemplificativo di questa negazione è lo sguardo54 del
bambino che apre il film: è lo sguardo di un bambino che ha già perso
l’innocenza, lo sguardo di un bambino – come rivela lo stesso autore – «che sa tutto, che capisce tutto, e che non può dire niente […],
lo sguardo addolorato e impotente del mio piccolo protagonista, che
vorrebbe difendere le sue donne, ma non sa come fare. E allora tace.
E si ammala»55. Infatti il mutismo e la malattia (l’asma) del piccolo
protagonista – come anche il suo rapporto duro con la sorella – sono
segni sintomatici della negazione della sua infanzia.
52 «Ma non sono loro (i preti e le suore) comunque che fanno le “giornate per la
vita”, non sono loro che dicono: procreateli comunque, noi li accoglieremo tutti?», Antonio Faeti, Bambini estranei, bambini rubati. Bambini, in Emanuela
Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., pp. 52-53.
53 Jean A. Gili, Utopia di una famiglia nuova, intervista a Gianni Amelio a cura di
Jean A. Gili, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p. 146.
54 Riguardo alla rilevanza significativa e alla valenza morale dello sguardo nel cinema di Amelio cfr. § 2 Il cinema di Gianni Amelio e la filosofia.
55 Lidia Ravera, Il maschio deve stare fuori, intervista a G. Amelio a cura di Lidia
Ravera, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., pp. 136-137.
457
La sopraffazione, la violazione e l’annichilimento di questa alterità che è incarnata sempre dai più deboli, interna alle dinamiche tra
i personaggi del racconto, si riflette anche all’esterno nel paesaggio,
nello spazio filmico. L’Italia infatti, attraversata da nord a sud dai tre
protagonisti durante il loro viaggio, si configura come un’Italia devastata dal degrado culturale e dallo scempio ambientale. L’Italia appare
come «un’Italia spogliata»56, come «un’Italia adagiata nello squallore
morale, nella corruzione diffusa, nella devastazione ambientale»57,
come «l’Italia del degrado culturale e dello scempio ambientale […]
ferita nei paesaggi naturali più belli dalla cementificazione selvaggia,
dall’abusivismo edilizio, dai perenni lavori in sospeso»58, come
l’Italia distrutta e incompiuta, vacillante sulle macerie d’un
cambiamento irrimediabile, esemplificata da una casa meridionale “moderna” perennemente in costruzione e aperta ai
venti, rappresentata da ragazzi delinquenti e istituzioni indifferenti, ostili o non funzionanti, da bambini venduti e comprati che alla fine del film girano le spalle al mondo, ma non alla
speranza. […] L’Italia brutta, in cui una modernità provvisoria
e barbara si sovrappone alla bellezza classica59.
Il paesaggio appare distrutto: «la costiera, il mare sono sconciati da
una strada che puzza di camion e di macchine roboanti, di case che
nascono a caso e costruite, come il ristorante, a metà, di euforia del
denaro»60. Così «la metafora di un’Italia espropriata della propria cultura e memoria si scioglie in quanto metafora e deve essere presa alla
lettera. All’Italia è stata sottratta, per davvero, l’anima e quello che
rimane è rovina, sgretolio, cocci e frantumi»61.
Il regista, quale uomo del Sud, appare particolarmente sensibile
56 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op.
cit., p. 151.
57 U. Casiraghi, Una storia lineare e complessa, in D. Scalzo (a cura di), op. cit.,
p. 168.
58 E. Ghini, Un bambino sempre più violato, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p.
166.
59 Lietta Tornabuoni, Dove la storia si sta svolgendo…, in Emanuela Martini, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 37.
60 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p.
159.
61 F. De Bernardinis, Una poetica della sottrazione, in D. Scalzo (a cura di), op.
cit., p. 154.
458
alla tematica della devastazione e del disastro culturale e ambientale
che la filosofia del progresso, del consumo e del successo propria del
Nord ha prodotto nel Sud Italia, distruggendo e annientando i suoi
valori primigeni. Esemplificano la società capitalista odierna – oggetto appunto dell’aspra e radicale critica di Amelio – anche personaggi
minori (che compaiono più avanti nel film), che hanno sposato questa
politica consumistica ed arrivistica importata dal Settentrione rinnegando i propri valori meridionali originari: la sorella di Antonio che
sta costruendo una casa abusiva in Calabria, «tutta spinta all’avere e
con ciò stesso al distruggere»62, e i benestanti appena arricchiti volgari e corrotti che compaiono nel film durante la festa al ristorante,
come il geometra Papaleo, la cui filosofia familistica e mafiosa emerge
durante la discussione col carabiniere a tavola sugli abusi edilizi, e la
giovane donna che scopre e si affretta subito malignamente a svelare,
con una perfidia perbenistica protetta dal senso comune e socialmente
trionfante, l’identità della bambina additandola a mostro da copertina di rotocalco. A questi personaggi – emblema appunto della classe
piccolo-borghese (che vive avidamente il presente e si proietta, con i
suoi interessi egoistici capitalistici, verso il futuro) – si contrappone
quello della vecchia nonna, che, col suo orticello assediato dalla strada, simboleggia i valori tradizionali e ancestrali del passato contadino
del Sud dell’Italia: il piccolo orto si fa allora poetica metafora della
residualità del passato della tradizione contadina che, nel Meridione,
ancora sopravvive e resiste alla sterminante fagocitazione capitalista
(l’autostrada che incombe minacciosa).
Inoltre l’autorità statuale e istituzionale, quale ente esterno e superiore al soggetto individuale, è incarnata anche dall’arma dei carabinieri. Nel film compaiono infatti il collega corrotto di Antonio che lo
abbandona tradendo il servizio e il carabiniere napoletano che tenta di
“prendersi delle libertà” con Rosetta. Ma anche l’autorità punitiva della burocrazia statale impersonificata dai superiori di Antonio, i quali
nell’epilogo – che esamineremo in seguito – accusano il protagonista
(che nel corso del film va ad incarnare – come vedremo – anch’egli
l’alterità rispetto all’autorità) di essere un “ladro di bambini”, passibile del reato di sequestro di persona. È interessante notare come il
discorso dell’autorità punitiva sia pronunciato in italiano quale lin62 Goffredo Fofi, Mettiamoci a fare i bambini, in D. Scalzo (a cura di), op. cit., p.
159.
459
gua ufficiale utilizzata dalla burocrazia statale, in contrapposizione
al dialetto – a cui è affidata gran parte del film – dei protagonisti. La
contrapposizione linguistica tra l’italiano ufficiale dell’autorità e il
dialetto esemplifica l’inconciliabilità dei protagonisti con la società:
«Il valore di Il ladro di bambini risiede in primis […] nel raffigurare
la diversità dei tre protagonisti come inconciliabile con la realtà»63.
In questa prima parte della pellicola il protagonista stesso (Antonio)
è un esponente dell’autorità statuale, rivestendo il ruolo istituzionale
di carabiniere. All’inizio il carabiniere è infastidito per una missione
cui, dovendola compiere da solo, si sente impreparato. Anche i bambini gli sono ostili: Luciano, chiuso nel suo mutismo, è ostile a tutti,
specialmente alla sorella, e Rosetta, ferita e violata, riversa e palesa
la sua frustrazione nella duplicità dell’essere donna e bambina nello
stesso tempo, secondo un atteggiamento altalenante tra quello da donna, quale è stata costretta a diventare prima del tempo suo malgrado,
e quello di bambina capricciosa e aggressiva.
La parte centrale della storia è occupata poi dall’esposizione e dalla trattazione del secondo stadio della scala gerarchica filosofica, corrispondente alla seconda tappa del viaggio compiuto dai protagonisti.
Si tratta del soggetto individuale, connotato in termini razionalistici,
che si riconosce autonomo da qualsivoglia autorità esterna e superiore. Tale facoltà si configura – all’interno della parte centrale del
film ameliano – come tratto peculiare del protagonista. La figura di
Antonio, definita come «una delle più complesse e più belle espresse
dal cinema italiano dell’ultimo decennio»64, incarna infatti l’ideale
dell’eroe razionale che si riconosce autonomo ed indipendente dalla propria dimensione naturale originaria come anche dall’autorità:
allontanatosi dalla naturalità delle proprie origini per integrarsi in un
sistema istituzionale strutturato ed artefatto, si pone poi anche al di
fuori del sistema stesso e si scaglia contro di esso, contro la società e
l’autorità che lo sovrasta e lo governa. Antonio infatti dismessi i panni
del carabiniere, con la sua fierezza, la sua lealtà, la sua onestà e la sua
schiettezza, con il suo semplice e puro senso del dovere si sostituisce
ad uno Stato assente. Viene così accusato dai suoi superiori di essere
un “ladro di bambini” perché ha “rubato” alla società e al sistema
63 M. GARRITANO, La trasfigurazione poetica del quotidiano, in D. SCALZO (a
cura di), op. cit., p. 150. Ivi, p. 149.
64 Ivi, p. 149.
460
l’umanità e la dignità per i più deboli: infatti – spiega lo stesso Amelio
– «per vivere i sentimenti siamo spesso costretti a rubarli. In questo
senso Il ladro di bambini ruba qualcosa al proprio tempo, al proprio
sistema, per concedere a se stesso un’altra dignità»65. Dunque Antonio viene accusato di essere un “ladro di bambini” appunto perché
– rivela il regista –
ha fatto l’ultima cosa che può fare uno come lui, ha interpretato in modo del tutto personale la sua missione, che era
di trasferire due bambini in un istituto. Lui invece li ha fatti
dormire in un albergo perché erano stanchi, li ha portati da
sua sorella perché si riposassero, li ha fatti mangiare perché
avevano fame, si è fermato con loro al mare perché facessero
il bagno… E lo ha fatto anche per se stesso, non solo per i
bambini66.
L’idea centrale del film consiste appunto nella trattazione del rapporto
e confronto tra adulto e bambino, rapporto che si configura – spiega
lo stesso autore – come una «violenza dialettica», un’«attrazioneopposizione»67. Infatti se all’inizio il carabiniere Antonio è infastidito
dalla missione che gli è stata assegnata e i bambini gli sono ostili, a
poco a poco, nel corso del viaggio68 che i tre protagonisti sono costretti ad affrontare insieme, si assiste ad un cambiamento e ad una trasformazione del rapporto tra i personaggi. Nel carabiniere nasce un
affetto paterno per i bambini violati e questi cominciano teneramente
ad aprirsi verso di lui: Rosetta si apre al sorriso, il mutismo e l’asma
sintomatico di Luciano vanno pian piano dissolvendosi quando il
bambino inizia a considerare Antonio come il padre che gli è sempre
mancato e anche il rapporto tra i due fratelli diventa più sereno. Così
l’innocenza e la fanciullezza perdute dai due bambini vengono man
mano, nel corso del viaggio, ritrovate. Emerge dunque in Il ladro di
65 Jean A. GILI, Utopia di una famiglia nuova, intervista a G. Amelio a cura di J. A.
Gili, in D. SCALZO (a cura di), op. cit., p. 146.
66 Ibidem.
67 E. Soci, Il ladro di bambini, intervista a G. Amelio a cura di E. Soci, in D. Scalzo
(a cura di), op. cit., p. 134.
68 Emerge dunque come il viaggio, elemento sempre presente e centrale nel cinema
di Amelio, si configura come una metafora del processo psicologico di crescita
ed evoluzione del protagonista e dei rapporti e delle dinamiche interpersonali e
intersoggettive tra i personaggi (cfr. § 1 Il viaggio come ricerca identitaria).
461
bambini l’ideale utopico di una famiglia nuova, putativa, che si forma
e nasce sulle ceneri della famiglia biologica e tradizionale – criticata
e contestata, come abbiamo visto, dall’autore. Amelio infatti dichiara:
Io ho raccontato di figli che non erano figli ma era come se
lo fossero, o di figli che erano figli, ma qualcuno non li riconosceva. […] Quindi, nello stesso racconto qualcuno che non
era padre naturale dava delle cose e qualcun altro che invece
l’aveva messo al mondo le toglieva. […] La famiglia “giusta”
è quella inventata, trovata strada facendo, i cui componenti si
sono scelti69.
La scena chiave del film è infatti quella del mare – elemento fondamentale e presenza costante nel cinema ameliano – metafora dell’utopia. In questa scena tra il giovane carabiniere e i bambini, che deve
tradurre in un istituto per l’infanzia, nascono una sintonia e un’armonia che superano ogni barriera prestabilita costituita dai ruoli, dai
ceti sociali e dalle età, e rimandano ad un’età dell’oro, a un paradiso terrestre, al tempo di un’origine mitica sfiorata ma non raggiunta,
come rivela l’autore: «C’è un senso di utopia che sembra sul punto
di realizzarsi, che non si realizza, ma lascia una forte traccia di sé»70.
Dunque è presente nel film, come accade spesso nelle opere di
Amelio, un momento centrale in cui il protagonista ha portato a termine il compito che si era proposto, ha realizzato la sua missione, è convinto di aver raggiunto il suo scopo: in Il ladro di bambini la missione
del protagonista Antonio è quella di tradurre i bambini da uno stato
di infelicità e disperazione ad uno stato di realizzazione dell’essere,
di benessere e serenità. Questo momento è individuabile nella scena
in cui i protagonisti si ritrovano intorno al tavolo di un ristorante in
riva al mare a cibarsi. Si tratta di un’attività semplice, primordiale,
basilare e fondamentale – sempre centrale nei film dell’autore – che
evoca una dimensione originaria e ancestrale e crea la famiglia, è il
momento fondante della famiglia, appunto di quella famiglia che si
sceglie: padre e figlio, al di là del discorso biologico, si scelgono,
69 Emanuela Martini, Gianni Amelio, cit., p. 12 (si tratta di una dichiarazione di G.
Amelio raccolta da Emanuela Martini nel giugno 2006). Nella scelta della nazionalità delle due ragazze il regista richiama e omaggia il cinema francese.
70 Ivi, p. 112 (si tratta di una dichiarazione di G. Amelio tratta da un’intervista a
cura di Emanuela Martini).
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per cui il padre è la figura che insegna ed educa e il figlio quella che
impara e apprende. Questo film infatti, come altre opere del regista,
si fonda sulla dialettica tra la figura dell’adulto/padre/insegnante e
quella del bambino/figlio/allievo.
In questa scena emerge inoltre il realismo peculiare del cinema
ameliano: i due attori (Enrico Lo Verso che interpreta Antonio e Giuseppe Ieracitano che impersona il piccolo Luciano) sono realmente
“in presenza” e interagiscono tra di loro. Infatti la verità, ricercata dal
realismo, nasce dalla co-presenza: essa restituisce allo spettatore la
verità della realtà, in questo caso la realtà del rapporto tra due persone
– in particolare qui emerge il medesimo spirito metafisico-esistenziale che accomuna i due personaggi che dialogano insieme. In questa
scena si ritrova anche un’altra tematica centrale in Amelio quale quella del linguaggio, attraverso il racconto da parte del carabiniere di una
barzelletta. La barzelletta richiama infatti la questione linguistica in
quanto si configura come un gioco che si compie sul linguaggio: per
comprendere una barzelletta essa non va intesa in senso letterale, ma
si deve intendere e scoprire un doppio senso nascosto, l’errore71. Lo
stesso titolo Il ladro di bambini costituisce un paradosso (è paradossale infatti designare un carabiniere “ladro di bambini”), appunto un
“errore” linguistico, un capovolgimento di senso. Il discorso linguistico viene ripreso più avanti nel film quando la bambina compie un
errore linguistico dicendo «marocco» anziché «barocco»; anche nel
gioco delle carte (cronologicamente antecedente nel film) si ritrova
l’errore, in quanto tale gioco sottende la truffa basata sull’“errore”
che compie la percezione.
Nell’epilogo del film – come di consueto nel cinema ameliano – si
assiste ad un rovesciamento della situazione e dello stato di cose che
si era raggiunto. Il bambino chiede al carabiniere se gli piacciono
le due turiste francesi72, sedute ad un tavolo vicino nel ristorante: si
intravede già un capovolgimento di ruoli per cui il bambino diventa
adulto e l’adulto diventa bambino. Infatti al momento in cui il protagonista pensa di aver raggiunto il suo scopo e compiuto la sua mission
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Untitled - Giovannino Guareschi