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Arnold Whittick,
Città e Campagna
Capitolo IX estratto da Frederic J. Osborn, Arnold
Whittick, The New Towns. The Answer to
Megalopolis, Leonard Hill, Londra 1963
Traduzione per eddyburg_Mall di Fabrizio Bottini
The more we are together
The merrier we shall be
Canzone tradizionale (che non pretende di basarsi sulla ricerca sociologica)
Ora che la pianificazione territoriale e alcuni orientamenti sulla
distribuzione della popolazione sono riconosciuti come funzioni di
governo, occorre che si sviluppi un dibattito pubblico e fra gli esperti su
quale tipo di rapporto perseguire fra la città e la campagna. Naturalmente,
una completa riorganizzazione logica adeguata alle preferenze e
possibilità attuali è preclusa dagli ampi e durevoli insediamenti consolidati.
Ma anche se avessimo a disposizione un territorio vergine da pianificare,
non ci sarebbe modo di concepire un tipo di organizzazione tale da offrire
città ideali soddisfacenti per tutti gli individui e i temperamenti.
A differenza del paradiso di Svedenborg, il continuum nel quale
conduciamo la nostra esistenza è conformato in modo tale che la
presenza di alcune cose a noi vicine ne esclude delle altre. Dobbiamo tutti
rinunciare, per quanto ingegnosamente progettiamo, ad alcune comodità
che sarebbe bello avere vicine. Le persone più semplici, che
fortunatamente sono molte, si adeguano tranquillamente a queste
privazioni, che provano invece i più sofisticati. L’autore di questo capitolo,
ad esempio, può arrangiarsi senza andare quotidianamente alle corse dei
cani, alla sala bingo, al campo da golf, alla moschea musulmana, a
pescare trote in un torrente, a caccia di galli cedroni in brughiera, all’ufficio
di un bookmaker, a una scelta fra quaranta snack bar, cinema o locali
notturni. Sarebbe ragionevolmente soddisfatto di una casa unifamiliare
dotata di normali servizi e di un giardino di circa 800 mq, con una vista
che contenga più alberi che edifici, a una distanza di dieci minuti a piedi
(ecco il trucco) da una buona scorta di negozi, dalla New York Library, da
una spiaggia dorata che degrada in un oceano caraibicamente tiepido e
blu, da un teatro con compagnia fissa (professionale o dilettanti), dal
Prado o dal Louvre, dal Reform Club, dalla Yosemite Valley, dalla Scala,
da Snowdonia, da Alhambra e Generalife, da un pub di villaggio
frequentato da zotici di campagna, e dalle abitazioni di qualche centinaio
di amici ora malauguratamente sparse fra cinque continenti. Vorrebbe
poter cambiare occasionalmente qualcuna di queste opzioni fisse. Per
comodità desiderate meno spesso, sarebbe disposto ad andare in
macchina, in treno o in aereo da qualche altra parte. Ma gran parte di
queste modeste pretese gli sono ora negate, dalle leggi dello spazio e del
tempo.
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Quello che sarebbe possibile, per lui e molti altri comuni abitanti di città, è
di avere la desiderata casa familiare con spazio privato a giardino, e un
rapido accesso a quanto indispensabile per le comuni attività di lavoro,
spesa, istruzione, culto, sport, tempo libero, relazioni sociali, e una
piuttosto ampia (per quanto non esaustiva) varietà di attività culturali. Gli
elementi essenziali, e una buona scelta di quelli auspicabili, possono
essere offerti in una cittadina di modeste dimensioni. Doversi spostare
occasionalmente per utilizzare alcuni servizi non è fatica improba. Quello
che si può evitare, o ridurre di molto, attraverso la pianificazione è il far la
spola quotidiano avanti e indietro da gradevoli zone residenziali
scarsamente dotate di servizi urbani, verso centri dove questi servizi sono
concentrati insieme ai posti di lavoro.
L’idea, accarezzata da alcuni urbanisti dilettanti, di poter riconcentrare la
popolazione suburbana nei nuclei centrali per equilibrare l’intensa
concentrazione di affari e cultura, deve essere respinta, come irrealistica
dal punto di vista quantitativo, oltre che come sociologicamente
reazionaria. Anche per le piccole quantità in cui si riuscisse a realizzarla,
comporterebbe il sacrificio dell’ampiamente desiderato tipo di alloggio
familiare. Ci sono, naturalmente, persone che preferiscono davvero
abitare in appartamenti vicini alla serie di vantaggi offerti dal centro di una
grande città; ed è certo meglio costruire lì per loro, anziché aggiungere
qualcosa all’attuale eccesso di attività economiche e di intrattenimento
centralizzate. Ma si tratta di una piccola minoranza. E saranno tra i
beneficiati, se si troverà il modo di trasferire altrove i posti di lavoro
collocati in centro, e alcune delle persone che non condividono i loro gusti
in fatto di ambiente.
SPAZIO, TEMPO, COMUNICAZIONI
In questo contesto, occorre sottolineare i vantaggi relativi rispetto alla
stretta prossimità fisica, portati dai progressi dei mezzi di comunicazione.
In successione, il cavallo, il tram, la bicicletta, la trazione a vapore e
elettrica, l’automobile e l’aeroplano, hanno consentito a decine di migliaia,
poi a milioni, di persone, di riunirsi nelle città e nelle regioni per produrre,
distribuire, interagire in senso sia fisico che mentale. Ora una molto più
ampia possibilità di comunicazioni reciproche è offerta dagli sviluppi della
stampa (libri e giornali), dalle biblioteche, dalla posta, dal telefono e
telegrafo, dal cinema, dal grammofono e registratore a nastri, dalla radio e
televisione. Inoltre, la produzione di massa, le tecniche di imballaggio,
refrigerazione e conservazione, il trasporto rapido e le catene di
distribuzione, hanno enormemente ampliato il raggio di circolazione dei
prodotti, spesso a prezzi al dettaglio che differiscono di poco fra la grande
e piccola città, o le regioni rurali più remote.
Dunque l’uomo moderno non solo può avere a disposizione una copiosa
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quantità di beni materiali sia nella metropoli che nel piccolo centro, ma
può anche essere egualmente informato, e in contatto diretto con le
tendenze del mondo in termini di pensiero e cultura. Il rimprovero di
“provincialismo” o kleinstadterei nell’antico senso della parola non è
soltanto obsoleto; è anche (nel bene, e nel male) in via di ribaltamento. In
cittadino intelligente in una new town britannica può essere consapevole
di qualunque cosa interessante che stia emergendo a Londra, Parigi, New
York o Mosca. C’è da dubitare che un classico abitante metropolitano sia
altrettanto consapevole di quanto sta accadendo nei centri minori. Ma
potrebbe esserlo; il rischio oggi piuttosto è quello di un appiattimento
addomesticato a mode mondiali nella cultura, piuttosto che di una
arretratezza regionale o provinciale.
Crawley New Town – Piano generale
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Ai tempi di Platone contatti e scambi fra le civiltà avevano bisogno di
svilupparsi nella concentrazione di decine di migliaia di persone a
distanze percorribili a piedi l’una dall’altra, e per le questioni politiche
addirittura a portata di voce. I trasporti rapidi hanno esteso l’area della
comoda relazione fisica, stampa ed elettronica hanno eliminato i limiti
della portata di voce. Queste invenzioni dovrebbero aver emancipato,
civilizzato l’uomo, rispetto ai bisogno di ammucchiarsi vicino ai propri
simili. Ma abbiamo tristemente mal utilizzato la benedizione dei trasporti
veloci, col risultato fantastico che un lavoratore residente nei suburbi
esterni, che impiega un’ora ogni giorno da casa al posto di lavoro, può
dissipare in tutta la sua vita sino a dieci anni in settimane lavorative da 40
ore, viaggiando senza senso per 400.000 chilometri. Se avesse abitato a
quindici minuti, a piedi o coi mezzi, dal lavoro, tre quarti di questo tempo e
distanza avrebbero potuto essergli risparmiati. Avrebbe potuto, invece,
fare otto o dieci volte il giro del mondo. Oppure prendersi 16.000 ore extra
di tempo libero – otto anni, in giornate lavorative – per il giardinaggio o
altri hobbies, o coltivare l’anima in condizioni migliori di quelle di un treno
suburbano.
IL PRODOTTO FINALE: L’AMBIENTE DELLA CASA DELL’UOMO
Essendo le città necessarie, in una società industriale, il problema è di
trovare proporzioni e strutture che offrano il miglior equilibrio possibile di
vantaggi per gli esseri umani. Nessun dubbio; ma in molte discussioni
sugli obiettivi della pianificazione urbanistica, e anche delle politiche
sociali ed economiche in generale, si presta troppa poca attenzione al
prodotto finale per cui esiste il complesso apparato della civiltà: la
soddisfazione nella vita delle persone. E in particolare nella vita familiare:
perché l’homo sapiens, dopo tutto, è invariabilmente un mammifero.
L’essere umano (lui o lei) nel pieno delle sue funzioni trascorre gran parte
della sua vita in famiglia, prima come bambino cresciuto e in parte
educato dai genitori, poi come genitore, ribaltando i ruoli. I meccanismi
della sua scienza, arte, attività, scambi, istruzione, arte, politica, non sono
fini in sé, ma mezzi per la sua sussistenza, sicurezza e realizzazione
dell’esperienza personale, che per la gran maggioranza delle persone si
concentra sulla casa, o alloggio, la base dove e da cui sviluppa i propri
interessi, passioni, passatempi, escursioni e avventure, la propria
integrale consapevolezza.
Non è un caso se nella nostra epoca di crescente e diffuso benessere, di
democrazia politica, la “abitazione” sia diventata una questione pubblica di
grande rilevanza. Dopo un periodo di ossessione sul progresso scientifico,
meccanico ed economico, di immensi potenziali vantaggi ma spesso
anche di gravi squilibri, stiamo tornando verso un interesse per il prodotto
finale. Ma l’attenzione che ora si presta in Gran Bretagna e in molti altri
stati a quantità, struttura e progettazione e finiture interne degli alloggi,
non ha corrispettivo in una attenzione alle questioni spaziali che
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governano le forme e l’organizzazione del contesto generale. É ovvio che
la pianificazione urbanistica debba badare contemporaneamente sia
all’efficienza produttiva che a quanto rende possibile una piena vita
personale. Ma è questo secondo aspetto in linea di principio ad avere la
priorità: non è difendibile, il sacrificio dei fini a favore dei mezzi.
EQUILIBRIO FRA DENSITÀ ED ESTENSIONE
Anche se ora si riconoscono sia gli svantaggi della congestione urbana
che della crescita eccessiva della città, non esiste convergenza di
opinione fra gli urbanisti sull’ottimo equilibrio, o compromesso, fra densità
e diametro. Né è probabile che emerga a questo proposito una formula
scientifica esatta. La cosa essenziale, comunque, per i motivi già indicati,
è che vengano fissati limiti inferiori e superiori alle dimensioni di ciascuna
singola unità. Si tratta di una condizione necessaria, per una
pianificazione intelligente. Come scriveva F.J. Osborn nel 1934: “Sarebbe
molto meglio se gli urbanisti e chi li sostiene si dividesse, come i
Lillipuziani, nei gruppi fieramente ostili l’uno all’altro, dei Grandi-Cittadini e
Piccoli-Cittadini, Quindicimilisti, e Centomilisti, anziché restare nell’attuale
stato contemplativo di generica disponibilità: come giardinieri che
innaffiano una pianta chiedendosi se sarà una margherita o un’altea”.
L’auspicio di queste frasi si è certamente realizzato, con precisione quasi
matematica. Il Reith Committee nel 1946 raccomandava di norma per le
new towns un limite inferiore di popolazione nell’ordine dei 30.000 abitanti;
i suoi membri Scozzesi e Gallesi ritenevano che 15.000 fossero sufficienti
per alcune cittadine delle loro regioni; e se la maggioranza era favorevole
a un limite superiore di 50.000 abitanti, fino a 80.000 in un raggio di
quindici chilometri, alcuni pensavano che potessero esserci alcuni casi in
cui fosse giustificata la presenza di centri urbani considerevolmente più
vasti. Il dibattito da allora è proseguito, e probabilmente non finirà mai.
Il Comitato per le New Towns dichiara che il limite superiore di 50.000 si
basa sull’equilibrio dei fattori: (a) accettabile densità interna e (b) comoda
prossimità di case e posti di lavoro, centri servizi, scuole, aperta
campagna. Per quanto riguarda la questione vitale delle densità
residenziali, si assunse coerentemente alle preferenze più diffuse; la
previsione che il 90-95% degli abitanti delle new towns avrebbero
desiderato una casa unifamiliare si è dimostrata corretta, come mostrano
numerosi studi delle Corporation (talvolta sorprendendo i loro uffici
tecnici). Ma il Comitato non fissò comunque alcun preciso limite massimo
o ottimo di densità residenziale. Scopo principale dei calcoli era di
assicurare che i terreni individuati fossero sufficienti a consentire la
densità generale inferiore, che si calcolava in 30 persone ettaro. Si
pensava che la densità nella maggior parte dei casi potesse essere fra 33
e 38 abitanti ettaro, ma che non dovesse superare i 38.
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Crawley – Queen’s Square, grande spazio pedonale pavimentato al centro della cittadina. Il
chiosco al centro è quello recuperato dal vecchio ippodromo di Gatwick
I fattori che entrano in questi calcoli comprendono i criteri di densità netta
e di quartiere prescritti per i nuovi interventi dal ministeriale Housing
Manual del 1944, tenendo conto dell’auspicabilità che le new towns
comprendano percentuali medie di gruppi di reddito a scala nazionale, i
più agiati dei quali richiederanno abitazioni più grandi su lotti più ampi di
quanto non accada per le case pubbliche. Altri fattori sono le superfici
necessarie alle attività produttive, al commercio e tempo libero, scuole,
verde, campi da gioco, strade e percorsi pedonali; I calcoli per tutto
questo si basano su studi che hanno come fondamento le superfici
rilevate a questi scopi in città, e ove esse fossero giudicate insoddisfacenti
su specificazioni di uffici ministeriali o altri organismi come la National
Playing Fields Association. Si assunse che l’insediamento dovesse essere
compatto, per quanto lo consentiva il rispetto di buoni standards. Ma si
comprese che doveva essere consentito qualche margine riguardo
all’area teorica complessiva, per l’acquisizione dei suoli, dato che esistono
sempre elementi topografici tali da inibire una pianificazione del tutto
razionale: e che tra l’altro rendono spesso i progetti molto più interessanti.
Le densità generali del primo gruppo di new towns secondo la legge del
1946 sembrano, per quanto si possa giudicare nel momento in cui
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vengono scritte queste note, piuttosto vicine alle stime del Comitato Reith.
Ma anche se esse sono apprezzabilmente superiori alle densità della
maggior parte dei vecchi centri di dimensioni paragonabili in Gran
Bretagna, esiste la diffusa impressione che le nuove città siano troppo
aperte: che siano senza motivo e scorrettamente diffuse. Da qualche
critico è stata usata anche la derisiva definizione di “prairie planning”. Non
esistono segnali che gli abitanti in genere condividano questa impressione
di agorafobia. La gran parte delle case, in questi centri, è realizzata a
densità non inferiori – in realtà un po’ superiori – a quelle correnti degli
insediamenti di cottage di iniziativa pubblica fra le due guerre; I giardini
sono leggermente più piccoli; le strade non sono più ampie; gli spazi per
le scuole circa identici; più generosi, solo quelli per campi da gioco e
parchi. Ma anche se la media della superficie per ogni mille abitanti è la
medesima dei vecchi centri di campagna, essa è molto meno
inegualmente distribuita. Ciò riflette la più ampia distribuzione del potere
d’acquisto determinate dai recenti cambiamenti politici ed economici, dal
sistema fiscale, dallo stato sociale. Inevitabilmente si attenua il netto (in
realtà tragico) contrasto fra magnificenza e squallore delle città
sopravvissute a epoche precedenti. Le new towns non hanno gli “intimi”
cortile da slum; nessuno di quei pittoreschi ma soffocanti spazi detti Tom
All-Alone; nessun palazzo ducale, o tenuta, o viale delle dimore dei ricchi;
e nemmeno nessuna delle ville con parecchi ettari di giardino che
abbassano la densità media in molte città. A dire il vero, si potrebbero
criticare per non aver pensato abbastanza alle esigenze dei gruppi a
reddito più elevato, che chiedono e possono permettersi alloggi più grandi
su lotti più grandi.
In effetti si potrebbe dire che le vedute gradevoli di alberi, prati, fiori e
ambienti armoniosi, che nelle vecchie città sono il privilegio di pochi, nelle
new towns sono state estese a chiunque. Se nonostante i notevoli sforzi
per realizzare differenze locali nei particolari architettonici e
organizzazione spaziale, i centri hanno qualche tipo di somiglianza
generale l’uno con l’altro, lamentare questo aspetto è stupido. Si tratta del
prodotto della medesima epoca, del medesimo paese, dello stesso
contesto economico e sociale. È naturale che non possano essere diverse
nell’aspetto generale, così come sono ampiamente diverse Venezia da
San Francisco, New York da Granada, o Rothenburg da Bath. Ma una
città non è un palcoscenico organizzato per divertire una sola volta un
pubblico che cerca stimoli nuovi. L’esteta vagabondo che, una volta nella
vita, visita una città, la valuta in quanto spettacolo. Vuole qualcosa di
diverso dalla sua città. Ma l’abitante guarda i medesimi edifici giorno dopo
giorno, per anni. E questi devono piacere a lui, naturalmente. Ma non
possono produrre una sensazione costante di cambiamento. Essa deve
comunque venire dai mutamenti stagionali nella natura circostante: ecco
perché tra l’altro gli ampi spazi, i giardini e il generoso arredo a verde non
sono meno importanti della progettazione architettonica.
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Nel discutere questo argomento si deve distinguere nettamente fra
“densità massima” e “densità media”. La densità residenziale massima è
la quantità maggiore di abitanti o alloggi per ettaro, prevista o consentita
in qualunque parte della città. Questo massimo in urbanistica è spesso
prescritto a salvaguardia futura degli abitanti dai costruttori che
potrebbero, per motive commerciali, affollare troppe unità residenziali in
uno spazio; o imporre un grado di apertura dell’insediamento tale da
conservarne caratteri e valori. In qualunque città, ad ogni modo, alcuni – a
volte troppi – lotti sono edificati a densità inferiori rispetto al massimo
previsto. Dunque la densità media sarà sempre inferiore a quella massima
consentita.
Qui possiamo discutere solo brevemente il problema dei criteri di densità,
la cui formulazione e valutazione richiede lo studio di molte variabili
dimensionali. I non specialisti possono facilmente essere indotti in
confusione dalle cifre proposte loro dagli esperti, anche quando (cosa che
non si verifica proprio sempre) gli esperti sanno quello che dicono.
Per prima cosa è importante valutare i vari ambiti di spazi
dell’insediamento su cui vengono calcolate le densità urbane. Quanto si
definisce “densità residenziale netta” è la quantità di unità (persone,
alloggi, o stanze abitabili) per ettaro di superficie residenziale, comprese
le case, giardini, cortili, e i necessari percorsi stradali e pedonali di
accesso. “Densità di quartiere” è il numero di persone per ogni ettaro di
una parte di città contenente residenze, scuole locali, negozi, pubs e
alcuni altri edifici, oltre a strade, giardini e spazi di ricreazione locali.
“Densità urbana complessiva” è il numero di persone per ettaro calcolato
sull’area edificata della città, ovvero con l’esclusione della green belt.
FATTORI CHE COMPONGONO LA MASSIMA DENSITÀ
RESIDENZIALE
Una densità locale netta di 35 case familiari ettaro (comprese le strade di
accesso), o di 38 alloggi ettaro netti se si realizza il 5-10% a 100
appartamenti ettaro, contiene 100-130 ab/ha. Consente edifici da due
piani di 80-90 mq di superficie di pavimento, affacci di circa 6 metri, cortili
o giardini sul fronte profondi circa 5 metri (il minimo assoluto per ottenere
privacy rispetto a strade e marciapiedi), giardini sul retro lunghi una
ventina di metri, e sezioni stradali in media di 12 metri (che lasciano, se la
carreggiata è di 6 m, solo tre metri per lato fra marciapiede e bordo a
verde). Dunque la distanza fra opposte linee edificate di case è di una
ventina di metri: di nuovo il minimo per la privacy. Si deve lasciare un
margine del 20% per gli incroci stradali, i vuoti fra gli edifici in linea,
arretramenti minori per garantire una certa varietà. L’uso di strade più
strette a cul-de-sac aumenta la profondità potenziale di alcuni giardini (o
cortili) frontali, ma non può incrementare la densità se non si riduce la
distanza di venti metri tra le opposte facciate. Essa si può naturalmente
ridurre senza eliminare la privacy, se si eliminano anche le finestre su uno
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degli affacci, ma questo comporta altri evidenti svantaggi.
Si noti che ad una densità di 38 alloggi ettaro la maggior parte dei giardini
sul retro ha un’area di 110 mq. Aggiungiamo quella sul fronte, che è di
130 mq. Il giardino di una casa unifamiliare a superficie di pavimento
doppia (160-180 mq) a un terzo della densità (13 ab/ha) è almeno quattro
volte tanto ( 500-600 mq). La superficie di un normale orto amatoriale è di
250 mq.
Sistema pedonalizzato commerciale che collega Old Crawley High Street con Queens Square
Queste cifre (che chiunque può controllare) smontano qualunque illusione
che una densità massima residenziale netta di 38 alloggi (130 persone)
ettaro sia troppo generosa o frutto di disattenzione. Rispetto alle attuali
diffuse aspirazioni in realtà è rigida e limitativa. Il che è uno dei motivi per
cui, quando aumentano redditi e ambizioni, molte famiglie di lavoratori
comprano o affittano case in lottizzazioni realizzate da privati a densità
molto inferiori: normalmente 20 o 15 abitazioni ettaro. Gran parte delle
agenzie responsabili delle new town hanno voluto rispondere direttamente
in qualche misura anche a questa domanda di fascia superiore. D’altra
parte alcune, su pressioni mal consigliate del Ministero, hanno realizzato
grossi lotti residenziali fino a 50 abitazioni ettaro.
Non c’è bisogno di particolare intelligenza per “ottenere” una maggior
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densità residenziale. Tutto quello di cui c’è bisogno è di ridurre una o più
delle dimensioni che compongono l’insieme: affacci, distanze fra le
finestre, sviluppo longitudinale dei giardini: o aggiungere più piani agli
edifici. É vero che nessuna delle accettate dimensioni minime può vantare
validità “scientifica”; come abbiamo esposto nel Capitolo IV, si tratta di
giudizi discutibili: come del resto i criteri per gli stipendi minimi, o quelli per
un periodo minimo di vacanze, o il massimo di ore lavorative. Ma anche i
più brillanti ingegni non possono sfidare le leggi dello spazio. Un
incremento della densità residenziale reduce inesorabilmente lo spazio
libero disponibile a ciascun alloggio, o persona. Una pianificazione
grossolana, come dimostrò Unwin nel suo Nothing Gained by
Overcrowding, può essere causa di eccessivi spazi stradali – uno spreco,
perché pochi si avvantaggiano dello spazio della strada in quanto tale –
ma alla densità di 38 abitanti ettaro praticata ora non esiste certamente un
eccesso di offerta di spazi stradali per il traffico moderno e le esigenze di
sosta della auto. In realtà, c’è a malapena posto per una comoda
sistemazione dei garage domestici ora necessari.
DENSITÀ URBANE GENERALI
Le discussioni sulle maggiori densità nelle future new town si basano su
varie considerazioni, interessanti da esaminare.
Primo, più la città è compatta, più brevi le distanze fra le sue parti: fra
casa e lavoro, casa e negozi, casa e green belt. Ed entro una determinata
area e raggio, maggiore la densità, maggiore la quantità di popolazione
che è possibile prevedere. Quindi una città di 50.000 abitanti a 38 abitanti
ettaro complessivi, ha una superficie di 1.348,5 ettari, e se è vagamente
circolare un raggio (dal centro all’estremità) di 2 km. É molto allettante, il
fatto che se la densità fosse aumentata di un terzo, fino a 50 ab/ha, anche
la popolazione potrebbe crescere (sempre di un terzo) fino a 66.666,
mentre il raggio non crescerebbe per niente.
Purtroppo le modifiche conseguenti per quanto riguarda la densità
residenziale sono molto superiori a quelle complessive per la città. Non è
possibile ridurre in proporzione le zone per attività produttive, scuole,
commercio, edifici pubblici o spazi aperti. La principale riduzione ogni
1.000 abitanti deve ricadere sugli spazi della casa. Un incremento di un
terzo della densità generale, se restano inalterate le altre funzioni, dovrà
necessariamente quasi raddoppiare la densità residenziale netta: diciamo
da una media di 75 abitanti ettaro a 150 (in questo calcolo abbiamo
presunto che l’area residenziale sia circa il 50% del totale della città: una
quota piuttosto comune nei centri inglesi minori).
Invece, se la popolazione resta di 50.000 abitanti, mentre la densità
generale è aumentata da 38 a 50 e la densità residenziale è raddoppiata,
il raggio si riduce solo del 131/2% (circa 250 m).
La tabella seguente con le popolazioni, le superfici e i raggi, consente al
lettore di effettuare altri calcoli:
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Popolazione
30.000
50.000
60.000
100.000
Densità urbana generale
38 abitanti ettaro
50 abitanti ettaro
Superficie
Raggio
Superficie
Raggio
(ha)
(km)
(ha)
(km)
809
1,605
607
1,391
1.349
2,072
1.012
1,795
1.618
2,270
1.214
1,965
2.697
2,931
2.023
2,539
Utili elementi chiave per cogliere i criteri che legano dimensioni urbane,
raggio, densità e popolazione sono i seguenti:
(1) Il raddoppio del raggio quadruplica l’area e (alla medesima densità
generale) la popolazione
(2) Il raddoppio dell’area (o della popolazione alla medesima densità)
aumenta il raggio del 411/2%
(3) Aumentare la densità generale di un terzo riduce il raggio solo del
131/2%. Ma la densità netta residenziale si incrementa di molto più di un
terzo; può anche raddoppiare.
PROPORZIONE FRA CASE E APPARTAMENTI
Le quantità base di un piano residenziale così come esposte sopra, se si
accettano, implicano che la massima densità, a malapena tollerabile, per
case unifamiliari a due piani è di circa 35 abitazioni (o 113 persone)
ettaro; qualunque densità superiore a questa comporta giardini
ridottissimi, o una certa quota di edifici più alti. É possibile realizzare
appartamenti, dotati di ogni comodità salvo l’accesso diretto al terreno e
agli spazi verdi dei giardini privati, con densità molto superiori. Nelle
grandi città si costruiscono complessi a torre di 10-20 piani, con 150
appartamenti (500 persone) l’ettaro. In generale, comunque, per motive
legati ai costi di costruzione e all’accettabilità del pubblico, la densità è
nell’ordine di 100 appartamenti (332 persone) l’ettaro; ed è raro che venga
superata nei centri minori.
L’effetto di combinare in un unico insieme varie quote di case e
appartamenti è evidenziato nella tabella seguente (appartamenti a 300
ab/ha; case a 113 ab/ha):
Densità complessiva
(ab/ha)
113
125
150
150
188
250
300
Case
(113 ab/ha)
100%
84%
61%
61%
36%
12%
nessuna
Appartamenti
(300 ab/ha)
nessuno
16%
39%
39%
64%
88%
100%
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CONCLUSIONI SU DIMENSIONE E DENSITÀ
Crediamo di aver chiarito quali fattori indicano la soluzione ottima o
normale per una new town di popolazione attorno ai 50.000 abitanti e una
densità urbana di circa 38 persone ettaro. Può non essere una formula
universale, ma è utile come una sorta di dato da cui valutare vantaggi e
svantaggi muovendosi verso l’alto o verso il basso. Se, ad esempio, si
pensasse davvero vantaggioso avere un certo numero di impianti
industriali in un solo luogo, così vantaggioso in termini di efficienza
produttiva da rendere conveniente per molti dei dipendenti impiegare ogni
giorno oltre mezz’ora di viaggio, la città potrebbe essere più grande senza
necessariamente ridurre le dimensioni dei giardini. In alternativa, si
potrebbero collocare un certo numero di cittadine (sempre dotate
ciascuna di green belt) abbastanza vicine l’una all’altra da rendere più
facili gli spostamenti: il che ci sembra la soluzione più saggia. Ma non si
deve assumere che la dimensione degli impianti industriai non sia
governabile; un margine di produttività inferiore non giustifica in linea di
principio una grossa riduzione di spazio nell’ambiente residenziale: il
prodotto finale di tutta l’operazione. Inoltre alcuni industriali sostengono
che ci sono vantaggi di gestione nel contenere le dimensioni delle unità
locali. In ogni caso, la Gran Bretagna ha una gran numero di grosse città,
che non deve se non per ragioni pressanti.
Nella nostra esposizione sui temi della dimensione urbana, abbiamo
sottolineato il ruolo centrale dell’ambiente residenziale in quanto prodotto
ultimo dell’opera umana, perché le tendenze all’agglomerazione,e alcune
azioni opportuniste tese ad alleviare alcuni dei suoi inconvenienti, vanno
contro questo, che è l’interesse principale. Ribadire l’enfasi sul tema
dell’abitazione non implica però indifferenza verso gli aspetti culturali e
sociali dell’abitare. Nessuno può mettere in dubbio che siano necessarie
grandi associazioni di popolazione organizzate per rendere più facili
scambi e interazioni, ai fini di una più alta organizzazione della società.
Ma se il riorganizzarsi per una quantità superiore di centri di moderate
dimensioni e minore intensità rispetto alle città centrali può cambiare in
qualche modo l’organizzazione culturale, non c’è motivo di pensare che
se ne riduca la generale ricchezza. Certo esistono elementi indispensabili
per consenso comune, come educazione superiore, teatro, musica,
complessi commerciali, che non si sarebbero mai sviluppati o conservati
in villaggi o piccoli cittadine isolate in regioni a popolazione sparsa, perché
richiedono grandi numeri di persone specializzate in gruppi organizzati,
con costose attrezzature e edifici. Lo stesso vale per alcune istituzioni
popolarmente molto apprezzate come le corse dei cani e dei cavalli, le
sale da ballo, o (al momento attuale) le sale da bingo o il gioco delle
bocce.
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Crawley- porzione del quartiere di Southgate completato nel 1957. Al centro la scuola elementare;
a est il complesso coi negozi, la chiesa e la sala riunioni
Eppure ciò non comporta che siano necessarie città da un milione di
abitanti, a edificazione continua, per una cultura ricca e varia. Nel passato
sono stati raggiunti risultati supremi in città che oggi considereremmo
piccole. Shakespeare e i suoi famosi contemporanei trovavano attori e
pubblico in una Londra con meno di 75.000 persone (contando anche i
sobborghi, meno di 200.000); Beethoven, Schubert, Mozart, Ibsen e Grieg
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in centri anche più piccoli; Goethe e Schiller in una Weimar di 6.000
abitanti. E prima che Weimar raggiungesse i 15.000, Liszt ne aveva fatto
un centro musicale europeo, e vi si produceva Wagner's Lohengrin,
rifiutato dalle popolose capitali. I famosi centri che comprendevano tutte le
forme di cultura, dall’opera al teatro alla pittura e scultura, Firenze,
Venezia o Dresda, hanno avuto il proprio periodo di maggior gloria con
popolazioni inferiori a 200.000 abitanti. Secondo Johnson, la Londra del
XVIII secolo, all’epoca una metropoli di 500.000 abitanti, conteneva “tutto
ciò che la vita può offrire”. Se il grande Dottore sapesse anche che
conteneva altre cose, che i moralisti non avrebbero ritenuto necessarie
per una buona vita – come il famigerato Charpillon di Casanova e le
amichette di Boswell – le cronache non ce lo dicono. Non fa comunque
parte delle funzioni di un urbanista l’essere un censore morale. Il nostro
lavoro è di proporre alla società una organizzazione di città e campagna
che renda possibile una buona vita privata, un ambiente sano circostante
per tutti, un’attività economica efficiente, e una cultura collettiva ricca e
varia (professionale e dilettantistica) coerente a queste linee fondamentali.
In una nazione, non tutti vogliono condividere certe forme di carattere
culturale delle grandi metropoli, che mostrano insieme aspetti avanzati e
di degrado. Parecchi trovano molto più vantaggioso il piccolo centro, e
non pochi la profonda campagna, il più lontano possibile dalle città. Ma
anche per quelli con maggior orientamento urbano “tutto quello che la vita
può offrire” può anche essere offerto entro una galassia interregionale ben
collegata, di un milione di persone circa. I limiti che sorgono
dall’espandersi di una regione metropolitana a cinque, dieci, quindici
milioni, non sono compensati da equivalenti guadagni in termini di
efficienza economica o cultura sociale. La legge dei rendimenti
decrescenti vale anche per le dimensioni urbane, oltre che in molti altri
campi.
Harlow- la piazza del mercato (Stone Cross) al centro città (The High)
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LA MIGRAZIONE VERSO SUD DELLA GRAN BRETAGNA
Il movimento dalla campagna verso la città, comune a tutti gli stati
industrializzati, in Gran Bretagna è accompagnato da una tendenza allo
spostamento dal nord verso il sud che produce svantaggi economici ad
entrambe le estremità del processo, e che è diventata una grande
problema politico. Le sue cause sono facili da individuare, difficili da
correggere. Il clima, sempre che conti qualcosa, è un elemento
secondario: la differenza nelle temperature medie fra i centri industriali del
nord e Londra, ad esempio, non supera i 2° centigradi. Molto più
importante, il fatto che le città delle vecchie regioni della manifattura
tessile e delle miniere di carbone siano state costruite in un’epoca in cui i
livelli correnti delle abitazioni erano ai minimi, e l’attenzione ai servizi
sociali e per il tempo libero scarsa. Di importanza anche superiore la
rapida crescita delle industrie di generazione successiva, delle attività di
commercio e servizi, le caratteristiche di polo finanziario, governativo, del
lusso, della regione londinese. Dato che le regioni settentrionali non
hanno mai ricevuto una quota proporzionata di questo genere di attività, a
sostituire il declino delle antiche industrie di base, esse hanno in genere
livelli molto più elevati di disoccupazione.
Al nord c’è grande vitalità, e una ricca riserva di capacità di lavoro
manuale e intellettuale; le pressioni politiche, sostenute anche dalla
simpatia nazionale, hanno condotto vari governi a tentare di promuovere
l’insediamento di nuove attività in zone di grave disoccupazione. Si dagli
anni Trenta si è operato in questo senso, con la realizzazione di moderne
zone industriali, migliori abitazioni, incentivi finanziari alle imprese, a cui
dalla guerra si sono aggiunte le restrizioni all’ampliamento industriale nei
centri sovraffollati. Ma l’effetto complessivo di queste misure sinora è stato
inadeguato.
Cwmbran – case unifamiliari a schiera su una delle numerose pendenze collinari
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Solo negli ultimi anni si è compreso diffusamente che anemia e ipertrofia
regionali sono sintomi di un medesimo male nazionale: la maldistribuzione
di popolazione e industria. Alla fine il disagio e l’autocommiserazione di
Londra e delle West Midlands hanno aumentato la loro languida simpatia
per un impegno attivo verso il nord; un’ondata rivoluzionaria di pensiero
sta attraversando tutti i partiti politici e, non meno significativo, tutti i molti
settori dell’amministrazione che sinora aggredivano in modo indipendente
aspetti isolati del problema.
LA LOCALIZZAZIONE INDUSTRIALE E DI POPOLAZIONE
Ancora una volta la Town and Country Planning Association, con una
nuova generazione di membri entusiasti, sta offrendo una forte guida a
un’opinione pubblica autorevole. Dopo aver compiuto attenti studi
quantitativi sulla situazione a Londra, West Midlands, Nord-ovest e Nordest, tenuto una serie di conferenze locali ampiamente rappresentative,
l’Associazione ha formulato alcune proposte praticabili di decentramento e
ricostruzione basate su valutazioni realistiche della quantità di “overspill”
necessaria a un adeguato rinnovamento delle aree centrali e una crescita
futura di popolazione. Si sono misurati con l’argomento ricercatori
accademici e gruppi di studio strategici, e insieme a un fluire di libri e
opuscoli di indiscussa competenza stanno iniziando a crescere i segni del
consenso di opinione per un nuovo orientamento delle politiche
governative.
Le raccomandazioni della TCPA non delineano un ideale impossibile di
trasferimento di popolazione e industria su larga scala dalle regioni
anemiche a quelle pletoriche. Esse accettano ad esempio l’attuale peso
demografico della popolazione dell’area regionale di Londra, e
riconoscono anche se ne debba consentire un’ulteriore crescita naturale
anche se non all’interno della conurbazione, ma in nuove diffuse piccole
città oltre la green-belt, da salvaguardarsi gelosamente. Allo stesso tempo
va fatto tutto il possibile per prevenire un’ulteriore immigrazione, e per
promuovere il trasferimento delle attività industriali e terziarie verso parti
meno affollate del paese. Per riuscire in questo deciso contenimento della
crescita dei posti di lavoro all’interno e nei pressi della conurbazione,
occorre contemporaneamente creare altrove delle “calamite urbane”
potenti a sufficienza per attirare le imprese e i lavoratori, e che siano vitali
dal punto di vista economico, sociale, culturale.
Queste “calamite” devono essere pensate più come complessi regionali
che come singoli grossi centri. Alcune di esse si possono basare su nuclei
di importanza provinciale esistenti, parzialmente riurbanizzati in modo da
renderli più efficienti dal punto di vista economico, e più accettabili dal
punto di vista ambientale alle crescenti aspirazioni delle persone, con una
propria green belt e una costellazione di centri satellite. Esiste, e
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proseguirà, una forte discussione sui limiti dimensionali di questi centri
regionali e dei loro satelliti. Ma in linea di principio l’idea che sembra
emergere è quella delle “social cities” di Howard. Ad ogni modo, se si
vogliono ottenere livelli desiderabili di densità e comoda accessibilità fra
abitazioni e posti di lavoro, si deve prestare maggiore attenzione di quanto
non si faccia ora al fattore proporzioni.
In un modo che cambia, nessun libro di urbanistica può risultare
aggiornato. Mentre il presente lavoro va in stampa, il Ministry of Housing
annuncia la propria intenzione di designare altre tre new towns ai sensi
della legge del 1946, per West Midlands e Merseyside, e prevede una
seconda serie di nuovi centri per la regione londinese, oltre ai primi otto. Il
parlamento ha anche proposto alcuni limiti all’espansione degli uffici
nell’area centrale di Londra, ed è stato istituito un comitato per studiare la
possibilità di trasferimento di alcuni settori statali in altre parti del paese.
Per quanto lamentabilmente tardive e deboli queste proposte possano
essere rispetto alle necessità, esse segnano un avanzamento nel
riconoscere che questa necessità esiste.
Gli ingranaggi del progresso girano troppo lentamente: Eppur si muove!
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