Jay Baren
presenta
IL PESCATORE DI BARBATI
Versione Release Candidate soggetta a tentativi di revisione.
(Potrebbe contenere refusi, ripetizioni, periodi sconnessi e vuoti spazio-temporali)
antoniobracciale.altervista.org
“A tutte quelle persone che hanno compreso che la vita non ha
un senso.”
Copertina a cura dell'autore.
A Valentina e Giuseppe.
La narrazione che sta per iniziare è frutto della speculazione
più profonda della fantasia dell'autore. Qualsiasi riferimento a
fatti realmente accaduti o a personaggi realmente esistiti potrebbe essere puramente casuale.
AVVERTENZA: contiene linguaggio esplicito. Se ne consiglia
la lettura a un pubblico maturo.
1.
“Che succhiavo caramelle in classe!”
(R.P. McMurphy)
E
sistono cose nella vita di tutti i giorni che non si vedono
ad occhio nudo. Loro esistono, ci sono, ma non si vedono. Come quelle scritte sugli specchi che ricompaiono
soltanto quando si lascia aperto il rubinetto dell'acqua calda.
Un volta su quello del bagno della mia ragazza mi apparve la
scritta: “Questa notte sei stata fantastica”. Da allora mi resi
conto che certe cose è meglio non vederle.
“Il carceriere sulla porta a destra, il carceriere sulla porta a sinistra”. C'era buio tutto intorno e un silenzio innaturale, quasi
mortale, interrotto soltanto da un costante gocciolio che
s'infrangeva ossessivamente sullo stesso punto. Un tanfo irriconoscibile aggredì il mio respiro, poi di colpo la trascendenza
del sogno rallentò le pulsazioni e mi ridiede pian piano ossigeno.
Mi svegliai di soprassalto. Ero ansioso e sudato. Avevo dormito all'incirca un paio d'ore e sentivo il cervello gonfiarsi sotto il peso di un ciarpame di nozioni incomprensibili. Pareva
che qualcuno lo avesse scambiato per una pattumiera e con degli scarponi da trekking si fosse ostinato a spingere più a fondo
l'immondizia che continuava sovente a tracimare.
Il dolore alla testa era lancinante, non era stata una buona
idea ubriacarsi la sera prima dell'esame, ma la tensione
m'impedì di mantenere la posizione orizzontale: non sarei rimasto a letto un secondo di più. Lanciai un'occhiata all'ora, era ancora presto. I cancelli si sarebbero spalancati alle 11,00.
Alcuni cancelli si spalancano solo per i dannati, un po' come
1
quello sul quale s'inarcava la scritta “Arbeit macht frei”. È
vero, ci sono varie tipologie di dannati; diversi gradi di fustigazione per peccati mai commessi, ma chi è stato prigioniero nelle patrie Università conosce bene il senso di terrore e smarrimento che si prova negli attimi prima di un esame, qualsiasi
esso sia. A volte la geometria di questi attimi può arrivare a delineare ipotenuse lunghe un semestre; altre, addirittura un triennio. “Che sarà mai? Se non lo passo, lo rifarò!” No. Non è così
semplice. Il sistema ti entra talmente in profondità, e con una
tale violenza, da portarti a sovvertire le regole del buonsenso.
Si finisce per credere che anche alla morte ci sia rimedio, tranne che a un esame andato male. Ti assale quella sconcertante
sensazione che l'orrore possa ritornare dal passato da un momento all'altro. Le uniformi a strisce, lo Zyklon B, i reticolati di
ferro spinato e i forni crematori non sono visibili, non li puoi
vedere, il tuo occhio non li percepisce, eppure essi trovano una
fervida dimora nell'archetipico tormento di uno spirito sotto
esame.
Una volta mi capitò di vederla per davvero la scritta, fu
un'allucinazione momentanea che anticipò la prova di Diritto
Privato. Se ci ripenso, quasi riesco a rivederla: “Studium macht
frei”.
Il caldo opprimente aveva seminato percolato sulla mia pelle: appiccicosa e nauseabonda.
Non si sfugge al caldo opprimente, come non si sfugge
all'ultima sessione di esami. Il tempo non si lascia soggiogare,
non lo freghi in nessun modo; lui sa sempre dove venirti a cercare. Uno pensa di poterlo controllare, di essere padrone delle
proprie scelte, ma poi, quando meno te lo aspetti, quel giorno
arriva improvviso e secco, come la circoncisione del piccolo
Giona. E a nulla serve l'autocommiserazione; frasi del tipo “Se
avessi avuto un giorno in più”, sono patetiche e di un'umiliazione sconcertante.
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Una bottiglia vuota di Ballantine's sul tavolo richiamò le attenzioni del mio olfatto; l'afferrai e ne inalai i vapori: “Buongiorno tesoro”. Poi accesi il fornello per dare uno scopo alla
moka preparata la sera prima.
Alcuni dinamismi sono in grado di sgrassare il senso di obesità di certe giornate. L'aroma del caffè appena fatto – per
esempio – mi trasporta verso quei luoghi dimenticati ai quali
cerco sempre di ricongiungermi. Per me è una droga, non lo
nascondo. Come la sigaretta mattutina del dopo caffè. Superata
la tregua del sonno, con i polmoni casti come quelli di un neonato, il fumo che scende giù ti riporta alla sensazione della prima aspirata. Si ritorna indietro, al tempo in cui eri adolescente
e avevi scelto di avvelenarti perché i tuoi amici lo facevano.
Anche se dopo le prime boccate te ne sbattevi che gli altri lo
facessero o meno, desideravi solo un anfratto lungo le strade di
campagna per fumartene una in santa pace. Mi faceva impazzire il retrogusto amaro che accompagnava quel lieve stordimento di testa. Era come un varco che conduceva dall'altra parte –
break on trough to the other side – la scoperta che il tuo corpo,
trattato con le dovute accortezze, poteva sperimentare esperienze extra. Ed era così che incominciavi a idolatrarne ogni parte:
il filtro, la cartina, la qualità del tabacco. All'epoca non ero
consapevole che sarebbero bastate poche cicche per farmi entrare nel girone della dipendenza. Ma pazienza, anche chi non
fuma ha le mie stesse identiche probabilità di crepare da un
momento all'altro.
Feci una doccia veloce e la barba con il rasoio elettrico. La
valigia era pronta. Infilai bermuda, maglietta e infradito. Controllai per l'ennesima volta di aver preso biglietti e documenti,
dopodiché mi apprestai a varcare l'uscio di casa. Non guardai
l'ora, non avrebbe fatto differenza, sapevo di essere in largo anticipo. Nello scendere le scale notai che la porta del monolocale annesso all'abitazione era aperta. La richiusi istintivamente.
All'interno c'erano ancora provviste e altro materiale di scarto,
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tipo scarpe maleodoranti e libri ormai dismessi che avevano finito di dare il loro contributo alle apprensioni studentesche.
Malgrado il fardello del bagaglio e della canicola opprimente, procedevo spedito senza curarmi dei passanti. Qualcuno mi
salutò: «Meeek!», ma ero troppo concentrato sul ripasso mentale per poter ricambiare.
Quelli del corso mi avevano soprannominato “Mek” – abbreviazione di “McMurphy” – (come il protagonista del film di
Forman) perché mi ero iscritto a Novembre, fuori tempo massimo. Ero l'ultimo arrivato in parole povere. E considerato che il
nomignolo affibbiato alla mia facoltà era “State Mental Hospital” – veramente triste, lo so – come si poteva impedire ai pensieri associativi di ridefinire la goliardia? In tutta sincerità,
però, quell'appellativo non mi dispiaceva per niente; e siccome
il mio modo di fare non si discostava poi di molto dal personaggio in questione, godevo pure di una certa stima; e anche
questo non mi dispiaceva per niente.
Scivolai lungo via Garibaldi senza ravvedermi dell'imbarazzante e denso sudore raggrumato sulla fronte. Oltre all'ansia
non avvertivo nessuna altra sensazione; soltanto il logorante
vuoto del ripetitivo. La scena di un film rivista all'infinito, dove
tu sei l'attore principale, e ogni stramaledetto fotogramma inizia a tentarti con la mania del suicidio. Ero talmente teso e assorbito dalle farneticazioni di autori pre e post non so cosa, che
mi persi le linee mozzafiato di Giulia. Mi salutò, ma quel soffice velluto canoro accarezzò il mio udito troppo tardi.
“Che idiota!” Pensai. Poi, passandomi un palmo sulla fronte,
mi resi conto che da lei non avrei potuto pretendere altro che
atti di asettico autoerotismo. Fine del corteggiamento, bye bye
farfallina.
Niente ci rende più idioti degli autori pre e post non so cosa,
è la pura verità: se ci fosse anche una minima possibilità che, di
punto in bianco, il tuo quoziente intellettivo si decida a voler risalire la china, loro te lo fottono definitivamente. È scientifico.
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“Poco male”, ormai i giorni da studente attempato erano al
termine e ad ogni modo, come qualcuno aveva cantato, “...gli
orizzonti perduti non ritornano mai”.
Dal bar all'angolo proveniva l'irritante e compulsiva nenia
del TG: “Ancora scontri tra manifestanti e forze dell'ordine nelle principali città del Paese. Il bilancio è salito a 29 vittime e
oltre 300 feriti”. Per un istante la mia coscienza si portò le
mani sul viso. Iniziò a rammaricarsi, voleva convincermi che il
mio posto fosse altrove: a lottare tra le file dei manifestanti incazzati, e non in quello sterile circolo di anime morte. “Sono
un codardo!”, pensavo, “Sei un codardo!”, ripeteva lei. “Cerco
sempre di sopprimere l'azione innalzando inutili barricate di
parole.”, “Sì, è vero, sei un vigliacco!”, rimbrottò la mia coscienza. Ma io non mi ci sentivo, ero soltanto molto depresso e
rassegnato, imprigionato in un sistema che non avevo contribuito a costruire, o forse sì. E come il povero Winston, quello
di 1984, anche io mi vedevo accecato dai riflettori del Ministero dell'Amore. Ma malgrado la luce fosse abbagliante, e il desiderio d'amore sempre crescente, riuscivo a sfogarmi solo attraverso estenuanti sedute di masturbazione. E questo mi rendeva
ancora più depresso e rassegnato. Non che le ragazze disdegnassero la mia compagnia, tutt'altro, il fatto è che per disinibirmi esageravo col bere e crollavo sempre prima di sbottonarmi le braghe.
Un giorno mi ubriacai di brutto e andai a letto con una del
corso di Filosofia. Ci andai a letto nel senso che, appena mi
buttai sul materasso, russai come un verro per 12 ore di fila. La
mandai in bianco per dirla tutta. Lei reagì maluccio e mi tolse il
saluto. Qualche giorno dopo trovai un biglietto di una pesantezza unica infilato nella tasca posteriore dei miei jeans:
“Il senso d'inutilità e d'impotenza sono inganni che concediamo a noi stessi per illuderci di non avere colpe. Essi ci rendono schiavi della speranza che ci coccola nell'inferno delle
aspettative e di quei desideri, talmente legittimi quanto impos5
sibili, per i quali bisogna sempre attendere il domani affinché si
realizzino. E andiamo avanti così, giorno dopo giorno, fino a
quando il domani apparterrà a qualcun altro, perché nel frattempo la speranza ci avrà consumati del tutto.”
Non fui mai in grado di comprenderne il significato. Per me
una che scrive certa roba ha deciso di mettersi a fare l'autostop
sulla strada che conduce alla demenza. E si sa, se ti ostini a tirar fuori il pollice, c'è il concreto rischio che prima o poi qualcuno si fermi.
Oltrepassai l'Università per Stranieri e proseguii salendo
verso piazza Morlacchi.
L'Università per Stranieri: l'unica struttura, nel raggio di 50
km, dove ci si poteva iscrivere agli esami tramite internet. Una
frode, un inganno bello e buono per far credere al mondo che
anche noi siamo in grado di killare un processo tramite terminale unix. Beh, non è così, gli unici processi che siamo bravi a
terminare sono quelli cognitivi. Oppure quelli a carico dei padroni, che non passano mai in giudicato.
Il calore – insopportabile – creava ondulature sfocate
sull'asfalto. Mi paralizzava i polmoni spezzandomi il fiato.
Avevo fatto proprio un bell'affare. L'ultimo esame, la bestia
nera, quello che dal primo giorno di corso ti osserva famelico
da dietro le sbarre del giudizio: è una tigre che attende impaziente lo scatto liberatorio della serratura. T'illudi che lasciandolo per ultimo, nel tempo possa mutare forma, assumere connotati più gentili, e invece eccolo lì, ad aspettarti impaziente,
più vorace che mai.
Tracimavo sudore. Quel sudore allegro però, che non emana
subito il suo olezzo fastidioso, ma che si lascia ricordare gelandoti a poco a poco la schiena. Poi d'un tratto mi accorsi che
l'ansia stava insolitamente svanendo. Se avessi perso
quell'occasione sarebbe stato traumatico. La tesi era al “sicuro”
su qualche polveroso scaffale della segreteria già da un pezzo.
Un eventuale passo falso avrebbe allungato i tempi di almeno 6
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mesi e dissipato mine sotto quei pochi centimetri di autostima.
La bocciatura: roba da apocalisse del sé. Ma stranamente avevo
acquistato tranquillità. D'altronde anche i condannati a morte
prima dell'esecuzione appaiono insolitamente calmi. Forse perché a ucciderli non è tanto la scossa elettrica, o il veleno che gli
scorre nelle vene, ma l'attesa, l'interminabile attesa.
All'entrata del Caffè Morlacchi mi fermai come al solito a
scambiare due chiacchiere con la ragazza del bar. Da lei attingevo informazioni del tipo: “Incendio al dipartimento di Filosofia.” Oppure: “Strutture chiuse causa ordigno bellico inesploso.” O persino: “Professore inciampa e crepa.” Fantasie utopiche; per lo più necessità di quelli come me, che ai libri preferivano sostituire i boccali di Stout. Miracoli che, tuttavia,
nell'insensato e potente allucinogeno della quotidianità, potevano pur sempre accadere.
Laura. Due occhi cristallini incastonati nel riverbero di una
pelle perennemente esposta ai raggi del sole. La ragazza di cui
ti fidi dal primo “ciao” e che non tradisce mai le iniziali impressioni. Nonostante avesse un corpicino davvero ben fatto, e
un visino alla Mary Jane, non mi era mai riuscito di fare pensieri impuri su di lei. Nei suoi confronti provavo un affetto fraterno. Forse perché era molto simile, sia nell'aspetto che nel
modo di fare, a una mia vecchia e cara compagna uccisa da un
cocktail di chemioterapici. O magari perché quando avevi bisogno di parlare, lei sapeva ascoltarti per davvero, e non è mai
saggio innamorarsi di una che sa ascoltarti, perché c'è il rischio
che possa diventare sorda da un momento all'altro. Probabilmente si trattava di vero amore, ecco, però è pur vero che quando le cose te le ritrovi un po' troppo sotto il naso non riesci proprio a vederle. Ma pazienza. Resta il fatto che nel mio immaginario erotico, le sue morbide labbra non erano mai state deflorate dal mio glande, e questo rendeva il nostro legame ancora
più intimo.
«Come stai?»
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«Come uno che è appena tornato da un mega concerto degli
Uriah Heep!»
«Stanotte...»
«Cosa?»
«Niente.»
C'è da dire che quando conversavamo i nostri visi tendevano
ad attrarsi l'un l'altro. Sicuramente era solo una mia impressione, ma i suoi occhi emanavano una luce diversa quando stava
con me. Erano in molti a sbavarle dietro, ma quella maschera
che regola i rapporti professionali lei se la toglieva solo in mia
presenza. Mi apriva il suo cuore, e io il mio, e la cosa mi piaceva.
«Forse non hai capito che questo è l'ultimo esame. Dopodiché bye bye baby!»
«Sì, sì... bye bye baby. Ma non hai saputo?»
«Cosa?»
«Ma possibile che sei sempre così disinformato?»
«Mi precludo apposta ogni tipo di informazione, altrimenti
non avrebbe più senso parlare con te.»
«Scemo!»
«Dai racconta.»
«Questa notte è stata assassinata una ragazza. Proprio vicino
casa tua.»
«Ma... dici sul serio?»
«Già. Brutta storia.»
«Ma come...?»
«È stata decapitata e stanno ancora cercando la testa.»
«Assurdo!»
Sentii come se il cuore avesse saltato un paio di battiti. Questo genere di notizie mi devasta; annienta la mia capacità di sopravvivere. Ebbi l'istinto di scaraventare la valigia in faccia al
primo assistente che sarebbe passato di lì, e di correre a casa di
quella povera ragazza per raccogliermi attorno ai suoi cari nella
mestizia di un pianto cronico.
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«Ma era del posto?»
«No, straniera. Francese forse... mi sembra, ma non ne sono
sicura.»
Avevo conosciuto una francese al corso di Linguistica. Una
studentessa Erasmus con la fissa del premio Pulitzer. Delphine
si chiamava. Aveva il naso all'insù, ma senza puzza sotto. Sempre disponibile e carina. Una volta mi sorprese, avevamo appuntamento per uno scambio di appunti e lei lo annullò inviandomi un sms scritto in modo perfetto. Ho sempre dimenticato
di chiederle se l'avesse aiutata qualcuno; tra le schiere dei miei
conoscenti non c'era nessuno che avesse un palato così fine per
la sintesi.
La notizia della ragazza decapitata mi aveva talmente stravolto che per un attimo l'artiglio meccanico dell'esame allentò
la presa. Ma certi momenti dissociativi ci brutalizzano al ritorno, perché rendono l'immediato peggiore di come lo avevamo
lasciato.
«Tutto bene?»
…
«Sì, sì tutto bene. È solo che avverto un po' di nausea.»
«Ti faccio un The al limone?»
«Ma no figurati, è già passata. Grazie comunque. A proposito, sai che ore sono?»
«Le undici meno un quarto.»
«Accidenti, devo scappare.»
Lasciai Laura ai suoi caffè macchiati e mi diressi verso il
patibolo.
Il Dipartimento di Psicologia aveva un aspetto tetro. Una
vecchia e robusta inferriata asserragliava un portico angusto.
Attraversata la soglia del cigolante cancelletto, dopo quattro
passi precisi sbattevi il grugno contro un possente, ma decrepito portone. All'interno, con le sue piccole aule semi buie, appariva come un centro detentivo. Quasi sicuramente in passato
era stato un manicomio criminale. Lì dentro le lobotomie erano
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una morbosa pratica quotidiana.
Salendo le scale mi imbattei in alcuni visi sgonfi e masticati
dalla tensione. Erano i dannati. Li riconoscevi subito. Chiesi a
uno di loro se sapeva a che piano si tenessero le esecuzioni, «al
terzo» rispose con voce tronca e tremula.
Ad attendere fuori dall'aula non c'erano molti studenti, e
questo lo apprezzai. Domandai se il professore fosse già arrivato, «no, ma c'è l'assistente» fu la risposta corale.
Il professor Lallemi. Con la sua aria che trasmette sicurezza.
Tipica caratteristica degli assassini seriali. Mi evocava un po' le
fattezze di Andrej Čikatilo. Ti illude, ti fa credere di essere suo
figlio, e quando inizi a convincerti di esserlo veramente, ti infilza il gancio tra le vertebre, ti appende alla trave, e ti sventra
come un maiale.
La vocina nella mia mente ritornò: “Il carceriere sulla porta
a destra, il carceriere sulla porta a sinistra”, indefessa, come un
mantra. Poi si dissolse all'istante quando s'infranse contro la
voce gracchiante dell'assistente: «Il professor Lallemi mi ha appena informata che arriverà in ritardo di mezz'ora». Pensai che
avrei dovuto cogliere l'occasione al volo. E così feci.
L'assistente era una biondina con due occhietti azzurri e
smarriti, sembravano finiti nelle sue orbite accidentalmente,
per un beffardo scherzo del destino. Non incuteva per niente timore, a differenza di molti altri della sua schiatta. Avrei recitato
la parte del treno perduto e lei si sarebbe fatta intenerire dalle
mie suppliche. Ovviamente doveva esserci il benestare degli
astanti, ma quelli erano troppo terrorizzati per opporre la benché minima resistenza. Tuttavia, se qualche stronzetto avesse
fatto ostruzionismo lo avrei incenerito con un solo sguardo.
“Patetiche matricole”.
Le feci gli occhi teneri, da cucciolo indifeso, e le indicai la
valigia usandola come arma di persuasione.
«Mi scusi, io ho inviato un'email al professore chiedendogli
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la cortesia di poter essere interrogato per primo... ho il treno
che mi parte a mezzogiorno!»
Mi guardò come se fossi un'edizione limitata del “Manuale
delle giovani Marmotte”.
«Se a loro sta bene...» Indicò con il mento gli altri detenuti.
Passarono secondi interminabili, ma, come volevasi dimostrare, nessuno proferì parola. Non poteva essere altrimenti. La
maggior parte degli studenti che sta per finire sotto il braccio
violento della cultura cerca di tirare a sé più tempo possibile.
Un misero e insignificante minuto ha più valore del culo di
Scarlett, e non ne ho mai compreso le ragioni. Io sono sempre
stato dell'idea che è meglio togliersi il pensiero subito. Zac! E il
dente cariato è solo un brutto ricordo. L'attesa, oltre a farti
perdere il treno, ti divora quel poco di raziocinio rimasto. Nemmeno una sbronza di etere ti rende tanto bizzarro. Se qualcuno
ti dice che la storia di “Biancaneve e i sette nani” è soltanto
propaganda nazista, tu rispondi che è una teoria certamente interessante, e che bisogna necessariamente approfondire. Dopo
l'esame s'intende. L'attesa dell'esame è come un crampo al cervello, ti immobilizza sulla periferia della ragione rendendoti
schifosamente vulnerabile.
L'espediente riuscì, ma il mio stato d'animo ripiombò in corto circuito, l'ansia riprese a galoppare e le mie mani s'imperlarono di sudore, e questo era certamente un brutto segno. Gli autori, le teorie, le correnti di pensiero, il paradigma di Kuhn, la
Gestalt, tutto dissolto, niente di niente, tabula rasa, buio pesto.
Il trucco è quello di distrarsi, di raffigurare immagini disturbanti, come il seno nudo di tua nonna o cose così. Ma non ci si riesce quasi mai. Continuavo a chiedermi per quale motivo la psiche si diverta con certi giochetti. Ha delle brame scopofili degne del più pervertito frequentatore di peep show. Ci gode a vederti soffrire. A volte sa essere davvero una gran puttana, e tu ci
devi stare.
“Il carceriere sulla porta a sinistra, il carceriere sulla porta a
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destra.” Cosa stava a significare quella vocina stridula? E da
quale oscura voragine del mio cervello proveniva?
«Prego si segga.» Accondiscese l'assistente biondina.
Ebbi un attimo di esitazione, ma una volta posato il sedere
su quella seggiola cenciosa (sullo schienale della quale un UniPOSCA nero aveva inciso le parole “Coraggio... fatti ammazzare”), tutto tornò ad essere meravigliosamente cristallino. Gli
autori, le teorie, le correnti di pensiero, il paradigma di Kuhn,
la Gestal, erano lì, nuovamente davanti a me, pronti per essere
branditi come coltelli affilatissimi, per sgozzare assistenti e
professori. Fatta eccezione per la biondina. Lei sarebbe stata risparmiata.
Mi interrogò su cinque libri, quattro dei quali scritti da Lallemi, assegnandomi un voto per ciascuno. Venne fuori una media del 24, e per me fu un successo, considerato che mi sarei
venduto per un 18. Le domande rimasero agonizzanti sulla cattedra, non poterono niente contro i miei coltelli affilatissimi.
Era stato un vero e proprio bagno di sangue. Avevo vinto. Alle
mie spalle si alzò un timido coro di ovazione. Mi voltai e con
occhio truce feci intendere chi era che comandava. “Matricole
inutili”.
«Devi aspettare il professore per la verbalizzazione.»
“Fanculo il prof.” pensai, “sono laureato ormai”. Era come
se mi fossi liberato di 3 anni di rifiuti radioattivi seppelliti illegalmente nel mio intestino. Mi sentivo leggerissimo, inalavo
idrogeno e fluttuavo. La mia mente si trasferì inevitabilmente
al di là delle mura; proiettata verso il mio tanto atteso viaggio
in solitaria. Già avvertivo sotto i piedi quella sensazione di piacevole dolore procurata dai ciottoli levigati dell'Isola, e assaporavo la freschezza dell'acqua turchese del suo frastagliato mare.
Il professore arrivò precisamente mezz'ora dopo le undici.
Era stato puntualissimo nel suo ritardo. Confabulò con l'assistente e mi chiamò a sé. Tese il palmo e gli consegnai il libretto. Mi guardò con un piglio trasversale, come a dire “Sei riusci12
to a liberarti di noi eh?”, poi annotò il voto, mi strinse la mano,
e me la restituì con tanto di «Complimenti!», anche se apparve
alquanto annoiato.
Mentre camminavo fui nuovamente aggredito dai morsi della nausea. Il mio stomaco iniziò a contrarsi e a frignare. Malgrado il caldo torrido avevo smesso di sudare. Qualcosa non
andava. Mi ci voleva una bevanda fresca; se non altro, avevo
un'immediata impellenza di festeggiare con qualcuno. I miei
amici erano tornati ai loro ovili già da un pezzo, stessa sorte era
toccata ai miei coinquilini, e io che ero sotto l'effetto del trionfo
post esame avvertivo una pesante crisi da salamelecchi. Avevo
bisogno di un goccetto.
«Mi ci vuole una bevuta.» Appena mi vide, Laura si ritirò in
viso.
«Stai bene?»
«Mai stato meglio. Ventiquattro.»
Scavalcò il bancone, mi gettò le braccia al collo e, per la prima volta nella storia della nostra morigerata amicizia, mi baciò
sulle labbra.
«Dobbiamo festeggiare, offro io!» Disse concitata. I suoi occhi erano più brillanti di un diamante appena tagliato.
Era ancora presto per bere, ma centellinammo ugualmente
quattro caipirinhe a testa. Parlammo di sesso e di musica classica. Mi descriveva minuziosamente i genitali dei suoi amanti e a
ognuno di loro associava una sinfonia. Disse che non era ancora riuscita a provare la “Cavalcata delle Valchirie”, ma che in
compenso qualche “Nona Sinfonia” l'aveva avuta. Si riteneva
molto fortunata perché, civettando con le sue quattro amiche
oche, aveva scoperto che in giro c'era un pietoso proliferare di
“Sonate al chiaro di luna”. Mi faceva morire dal ridere la sua
maniera di esporre quel tipo di argomentazioni. La salutai che
ero ubriaco perso, lasciandola con la promessa che ci saremmo
rivisti a settembre per il gran finale. Mi guardò come una fan13
ciulla che sta per rifilarti un dispetto, poi posò nuovamente le
sue labbra sulle mie e le nostre lingue si sfiorarono. Durò un
istante, in cui avvertii un inconsueto disagio, ma poi un brivido
si inerpicò lungo la schiena e mi procurò piacere. Era strano
però, quasi promiscuo: perversione e candore al tempo stesso.
Ebbi come la sensazione di essere stato toccato nelle parti intime da mia madre. Stranezze. Stranezze da stress post esame.
Infine mi fece scivolare le mani lungo le guance e, illuminata
da un'espressione che grondava miele da tutti i pori, disse:
«Ti ucciderai se continui a bere così!»
E io non capii cosa avesse voluto realmente dire.
Corso Vannucci visto in prospettiva è imponente. Dà quasi
l'impressione di essere stato scolpito direttamente nella roccia
viva. La freddezza della pietra sale su sprezzante e beffarda
fino a intimorire il cielo chimico e opalescente che si sgretola
all'orizzonte. Lungo la sua maestosa lingua basolata la gente
pare voler recidere il frenetico e maniacale frenulo del quotidiano. Lì si ferma a guardare, ma mai a osservare. Le persone
vagano, ma raramente sanno dove stanno andando. L'ago della
loro bussola, da qualunque parte lo si rivolga, segna imperterrito lo stesso punto cardinale. Non distinguono più lo schifo dalla bellezza, ed è così che la vetrina di Foot Locker diviene attrazione più ambita del cantastorie sotto Palazzo dei Priori.
Ciononostante ogni singolo passante ha una funzione fondamentale all'interno di quello spazio: contribuisce a dissacrare
l'anima di Corso Vannucci, e di conseguenza a renderla più terrena.
Fuori dalle edicole i titoli erano eloquenti.
“EFFERATO OMICIDIO NELLA NOTTE”
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“RAGAZZA BARBARAMENTE
ASSASSINATA”
“RITROVATA IN UNA POZZA DI SANGUE”
“VIOLENTATA E UCCISA. SI CERCA IL
COLPEVOLE”
Certo non era la prima volta che qualche studentessa ci rimettesse le penne. Insomma eventi delittuosi in passato c'erano
già stati, ma adesso si avvertiva la sensazione che la faccenda
fosse diversa. Non si trattava del solito giochetto erotico, a base
di alcol e droghe, sfuggito al controllo dei partecipanti. No,
questa volta chi aveva ucciso lo aveva fatto con tutti i crismi.
Si ipotizzava che gli assassini fossero più di uno, ma la cosa
che incuteva un certo terrore era la pianificazione, la premeditazione e la consapevolezza, la lucida costruzione della
macchina di morte. Il modo in cui, coscientemente, quel coltello lungo 40 cm era lentamente penetrato nella carne della giovane vittima, più e più volte, dilaniandone tessuti e arterie,
sventrandone l'esistenza, come si fa con quei poveri agnellini
durante il periodo pasquale. Nessuna remore, nessuna esitazione, si era passati semplicemente a macellare carne umana come
se lo scenario notturno fosse trasmutato nel mattatoio del genere umano.
Il mefitico e dolciastro sapore della morte si avvertiva ovunque. Era impregnato sui palazzi, per i vicoli, nei bar, era impresso negli occhi della gente, e trasudava dalla pelle delle istituzioni che, come al solito, brancolavano nel buio. Il mostro
era in agguato, pronto a colpire ancora e nella maniera più efferata. Tutti si chiedevano chi sarebbe stata la prossima vittima.
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2.
“Esisteva una maniera di fregare il potente e si chiama Rock 'N Roll.”
(Dewey Finn aka Signor S.)
A
l tabaccaio feci una scorta di tabacco NAS, filtri e cartine, e già che c'ero, presi il giornale locale, “Il Grifone
Quotidiano”, quantomeno avrebbe alleggerito l'attesa
durante il lungo viaggio che mi aspettava.
Arrivato a Piazza Italia riuscii a salire sul C appena in tempo; direzione Fontivegge. Presi posto accanto a una grassa signora di mezza età. Aveva una faccia buffa, perfettamente tonda e liscia. Sembrava la reincarnazione del pennello più estremista di Botero. Ogni tanto mi scrutava con piglio inquisitorio,
e deglutiva spesso, come a volersi scusare di tutto quell'eccesso
di grasso.
Dietro di noi un gruppetto di matricole continuava a discutere animatamente sull'omicidio. «Io l'ho vista ti dico. L'ho vista
ieri sera fuori il Rock Castle». Uno di loro pareva intento a esibire certe affermazioni come se fossero l'ultimo ritrovato delle
tendenze giovanili. Bimbi del cazzo, è questo il fatto.
Sfogliai il giornale per farmi un'idea meno caotica sugli
eventi.
“BRUTALE ASSASSINIO ALLA CORTE DI
RAFFAELLO”
Ero consapevole che il mio prof. di “Storia del Giornalismo”
fosse un emerito coglione, di quelli unti dal Signore, e quel titolo me ne dava un'inutile conferma. L'eunuco era il direttore
de “Il Grifone Quotidiano”, ma nessuna etichetta sarebbe stata
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più appropriata di... beh, lasciamo perdere. Il fatto è che quando il voyeurismo più insulso si accoppia al campanilismo più
becero, allora ne viene fuori roba come questa: l'arte, a sua insaputa, si sporca le mani di sangue.
Lessi le prime righe e mi accorsi che la signora stava sbirciando. Iniziò a lanciare i suoi ecumenici proclami con degli
«Eeehhh!» sospirati, distillati da tenui spruzzi di saliva. «Che
brutto mondo!», ripeteva.
«Oggi non è più come una volta. Puttane, puttanieri e droga.
È l'inizio della fine.»
Le mie scatole si riempiono sempre a dismisura difronte alla
retorica, specialmente a quella di carattere clericale, allora risposi a tono.
«Signora, se lei guardasse meno stronzate in tivù e si facesse
più spinelli, ci sarebbe sicuramente meno droga in giro, tuttavia
le verrebbe anche più voglia di scopare con suo marito e di
conseguenza il numero di puttane e puttanieri si ridurrebbe drasticamente.»
In verità non lo dissi, ma mi sarebbe piaciuto farlo. Sono
sempre stato un po' codardo sotto questo punto di vista. Mi limitai a dire:
«Sono anche loro creature di Dio!»
Mi guardò come se avessi sputato sul crocifisso che le pendeva dal collo.
«Guardi io so soltanto che non c'è più religione.»
«Questa è una bellissima notizia signora, purtroppo, ahimè,
non credo sia così. La religione esiste ed è la principale causa
della sua obesità.» Avrei voluto dire anche questo, ma non lo
feci. Però mi scappò istintivamente:
«Signora, se a questo mondo fossimo tutti preti e suore...
non esisterebbe più nessuno.»
Si raccolse in una claustrale riflessione, che minacciava la
fuoriuscita dell'ennesima stronzata, dopodiché disse:
«Lei ha bisogno di aiuto figliuolo.»
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«Non avevo dubbi signora. Lo sa? Stavo per dirle la stessa
cosa.»
Mi alzai e cambiai di posto. Era una balenottera in avaria, e
non c'era spazio per entrambi lì. I miei valori di zuccheri nel
sangue scendono drasticamente quando mi ritrovo a tu per tu
con il bigottismo dell'ultima ora. Mi girava la testa e avevo
un'opprimente sensazione di vomito, ma cercai di ricompormi
perché nel frattempo l'autobus stava per arrivare a destinazione.
Ripiegai il giornale e lo riposi nello zaino. Fuori dai finestrini
un carosello di blindati delle “forze dell'ordine” iniziò a rubare
la scena a tutto il resto; non che questo avesse da offrire chissà
che cosa, ma sicuramente era sempre meglio dello scempio al
quale stavo assistendo. Non erano lì per la ragazza assassinata.
Figuriamoci cosa gliene fregava di una poveraccia del volgo.
Erano lì per le proteste, e, come da loro migliore tradizione, per
fare quadrato attorno ai criminali di regime. Vidi tre soldatini
blu, in tenuta antisommossa, spaccare la testa di un ragazzo che
indossava una maglietta bianca, divenuta ormai rossa; avrà
avuto una ventina d'anni. Poi un anziano signore, con la fronte
grondante litri di sangue, mi lanciò uno sguardo segnato
dall'incomprensione.
Mentre il bus attraversava silenzioso quella cortina di fumogeni, lacrime e devastazione, assistevo impotente al parossismo
di una società spolpata dagli squali del baccanale di Stato. Il
popolo era esausto di quel sopruso e i crampi della fame iniziavano a cannibalizzare il tessuto stesso della sopravvivenza.
Succede che quando lo stomaco è vuoto, perché non gli è rimasto da digerire nient'altro al di fuori dell'angostura, la rabbia
trasmuta in violenza. E se non c'è una Madre Teresa pronta a
convincerti di stare buono e mansueto, perché solo ai poveri
apparterrà il regno del cielo, allora al brontolio perpetuo si sostituiscono dapprima gli slogan, dopodiché le molotov. A quel
punto può finire solo in due modi: o si diventa più schiavi, oppure si muore. Arriva sempre un tempo in cui vivere vuol dire
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rivoluzione, e rivoluzione annientamento.
Evidentemente, però, quei cagnolini con i loro manganelli
lunghi e i caschetti a tono, dovevano mangiare buoni avanzi se
si accanivano tanto brutalmente nei confronti della povera gente, che era lì a manifestare lo sdegno anche per loro conto. Ma
far capire certe cose a un soldatino blu è come voler centrare
una mosca con il proprio piscio. Dopo un po' ci rinunci.
E io? Ovviamente me ne fregavo. Il popolo è affetto dal
morbo della resistalpotentosi, è sempre in guerra contro il potere, ma è perdente per natura. Non ha i mezzi necessari per resistere al potente, e io non avevo nessuna intenzione di farmi fracassare la testa inutilmente.
In quel marasma generale dimenticai di dare la buona novella a mia madre.
«Pronto mamma, puoi chiamarmi dottore adesso.»
All'inesistente entusiasmo nella sua voce si unì la solita giaculatoria stereotipata.
«Mi raccomando, stai attento, tira una brutta aria.»
«Non ti preoccupare mamma, terrò gli occhi aperti.»
«Non metterti in mezzo ai casini come al tuo solito.» Era già
salita sul pulpito.
«Non mi ci metto mamma, stai tranquilla.»
«Stai tranquilla, stai tranquilla, ma come ti sarà passato per
la mente di andartene in giro per il mondo tutto solo, proprio
non lo so. Di questi tempi poi.»
«Mamma non è il mondo, è soltanto l'Isola, sono solo poche
ore di traghetto.»
«Se non vai controcorrente non ti diverti vero?» Adesso era
quasi arrivata sul soglio pontificio.
«Mamma ne abbiamo già parlato, questo è il mio viaggio,
me lo sarò pure meritato no?»
«Va bene, va bene, fai come credi, tanto è inutile parlare con
te... [omissis]»
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«Dai mamma ti aggiorno.»
«Ciao, e stai attento.»
«Sì, ciao ciao.»
Le parole di mia madre mi misero di cattivo umore, lei aveva questa straordinaria capacità: rendermi nervoso anche nelle
situazioni di gioia. Certo, chiamare quella lì “situazione di gioia”, era un po' da audaci prestigiatori, ma ero pur sempre a un
passo dalla laurea, e ciò non toglie che lei andava su di giri anche se un uovo alla coque passava la cottura, o se il caffè sapeva di bruciato.
Ai tempi in cui frequentavo le scuole superiori ero solito
fare tardi a lezione. La mamma ogni mattina veniva a darmi la
sveglia e io sistematicamente indugiavo; volevo gustarmi quei
5 minuti in più, quando il sapore del sonno si scioglie in bocca.
Sapore che diveniva amaro come il fiele perché lei andava nel
panico e mi buttava giù dal letto con i suoi modi isterici. Perdeva il controllo per soli 5 dannatissimi minuti. Lei è sempre stata
schiava dell'orologio: ha permesso al concetto di tempo di sostituirsi a quello di bellezza. Io non lo farò mai, continuerò ad
arrivare in ritardo.
La stazione era presidiata da manifestanti e forze dell'ordine.
Sulla facciata si leggevano scritte come “POLIZIA ASSASSINA” e “ACAB”. Al di là, sui binari, una densa colonna di fumo
nero sfiatava verso l'alto mescolandosi all'azzurro pallido del
cielo.
Quando scesi dall'autobus la mia gola annaspò e iniziai a
tossire violentemente. Gli incendi appiccati dai più
“facinorosi”, mescolati ai gas urticanti, rendevano l'aria irrespirabile. Partire in treno sarebbe stato impossibile, già lo era in
condizioni normali. I treni di Stato non avevano mai brillato
per la loro efficienza, figurarsi con quel teatrino infernale; per
questo avevo provveduto in anticipo ad acquistare un biglietto
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per il trasporto alternativo.
Il capolinea degli autobus si trovava di fronte la stazione.
Con la zavorra della valigia non fu per niente facile districarsi
in quella bolgia fratricida. Un lacrimogeno, sparato ad altezza
d'uomo, mi sfiorò il viso. Prima di augurare una morte atroce
all'artefice di quel vile gesto, pensai di aver avuto una gran botta di fortuna. Poco dopo riuscii a raggiungere la fermata del
bus, mostrai il biglietto al controllore e salii a bordo.
Presi posto accanto a una ragazza suppergiù della mia età,
che quasi sicuramente tornava a casa per le vacanze estive. Mi
guardò perplessa, come a dire: “Hai visto che cazzo di
casino?”. Ricambiai lo sguardo per farla sentire meno sola.
Partimmo subito dopo, anche se ebbi la sensazione di essere
rimasto lì per anni. Quella carneficina mi provocava conati di
vomito, ma non potevo farci niente. Ero consapevole che altri
giovani, in quella giornata, avrebbero perso la vita. Però non
mi sentivo in colpa. Nessuno ti costringe a rimanere in un luogo che non senti più tuo. Che, anzi, non ti vuole più. Non ci
sono manette strette ai nostri polsi, né catene alle nostre caviglie. Se la società ti rifiuta, allora rifiutala: scappa via. La violenza non concede benefici, è uno sfogo momentaneo che offre
pretesti per inasprire le leggi sulla libertà personale. La cosa
più saggia è spolpare il ventre della Nazione svuotandolo della
nostra presenza.
Viaggiavamo da ormai tre ore e invano avevo cercato di
prendere sonno. Continuavo a ripensare all'effetto che avrebbe
potuto avere quel lacrimogeno se si fosse infranto sul mio volto. Mi era passato all'altezza della tempia destra a una velocità
impressionante. Avevo sentito soltanto un sibilo che mi aveva
squassato i capelli con tutta la sua violenza. Sarei potuto morire. Pochi centimetri più in qua e i vermi avrebbero iniziato a
sfregarsi le mani.
E se fossi morto per davvero? La morte! Una parola che temiamo eccessivamente. Sarà che ci siamo sempre posti la do21
manda sbagliata. Se anziché cercare di dare una risposta al senso della vita ci fossimo degnati di comprendere appieno il senso della morte, ai funerali ci dispereremmo di meno. Io credo
che la vera morte sia la totale perdita di quel tempo che ci permette di pensare ancora come bambini.
Quando ero piccolo successe una cosa alquanto strana. Il televisore in cucina si ruppe. Allora chiesi a mia madre come mai
non si accendesse più, mentre quello della sala sì. Lei cercò di
spiegarmi la cosa a modo suo; rispose che quello della cucina
era morto, invece quello della sala era vivo, e che avrebbero
dovuto sostituire quello morto. Ma io non capivo. Come poteva
accadere che la stessa “cosa” fosse morta in cucina, ma continuasse a vivere in sala? Al che, dopo un fitto bombardamento
di domande, mia madre cedette: “Questo è solo un oggetto tesoro, ciò che lo fa vivere è la corrente elettrica”. A quel punto,
ancora più confuso replicai: “Ma mamma, se muoiono entrambi, muore anche la corrente elettrica?”. “No!” rispose lei, “La
corrente elettrica continua a vivere, anche se noi non la vediamo.”
Allora capii.
Tirai fuori il giornale dallo zaino e iniziai a sfogliarlo. Mi
resi conto che buona metà dell'inchiostro era stato sprecato per
seguire quell'unica matrice granguignolesca: il caso della ragazza assassinata. Addirittura un paio di psichiatri, nella parte
dedicata all'editoriale medico, si erano seduti attorno al fuoco
per contendersi, a colpi di dottrine, il pentolone bollente.
Lessi con attenzione tutti gli articoli, ognuno dava una sua
interpretazione dei fatti, ma in quel mare magnum di caracollanti analisi c'era qualcosa che non mi tornava. Era come se
quelle parole, quelle minuziose descrizioni, fossero incomplete.
Ogni elemento era lì davanti ai miei occhi. Osservavo la scena
del delitto: le mortali spoglie di quella povera ragazza erano ricoperte da un lenzuolo bianco. Vedevo il suo piede scivolato
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accidentalmente fuori. Distrazione degli inquirenti, oppure
morbosa brama sensazionalistica. Il sopraggiunto rigor mortis
mi faceva sentire vuoto. Vedevo gli schizzi di sangue sul muro,
sul letto, sul pavimento, e riuscivo persino a sentirne il lezzo
dolciastro.
Non c'è che dire, gli scribacchini di regime erano stati abili
nel narrare la vicenda e a ricostruirne vividamente l'ambientazione. Ma un dettaglio continuava inesorabilmente a sottrarsi.
E quella sensazione d'incompiuto mi logorava. Sentivo che
qualcosa di molto importante non si trovava dove doveva essere.
Intanto la ragazza al mio fianco si era appisolata. Raggomitolata sul suo lato destro; il capo poggiato allo schienale e rivolto verso di me. I nostri visi di tanto in tanto s'incontravano,
oppure ero io che inconsciamente ne guidavo l'incontro. A intervalli regolari i suoi capelli venivano a strofinarsi delicatamente sulle mie spalle. Emanavano un buon odore, un misto di
lavanda e mango, che faceva irruzione nelle mie narici con pretese afrodisiache totalmente fuori luogo. Iniziai ad osservarla e
mi resi conto che era molto bella. Aveva un corpo slanciato e
sodo, e seni troppo generosi per sormontare una vita tanto stretta. Sul suo viso dolce e levigato qualche lentiggine si divertiva
a farsi scoprire. Il suo naso non era piccolo, ma perfettamente
in tono con il resto dei lineamenti. E la sua bocca né troppo
carnosa né troppo sottile. Aveva il labbro inferiore leggermente
pronunciato e richiamava a sé gran parte dell'attenzione
concentrata sul volto. Era quasi irresistibile come richiamo. Mi
venne la tentazione di morderlo, ma tra la tentazione e il
tentativo c'è sempre stata di mezzo l'ingombranza della razionalità.
Dopo un po' mi accorsi che una ciabatta infradito le era scivolata dal piede. E per me il piede di una donna è sempre stato
oggetto di analisi. Perché ne costituisce l'essenza, è la prova del
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nove. Lì risiede tutta la sua carica erogena. Spesso mi erano capitate tra le mani ragazze che all'apparenza parevano insipide,
avevano ben poco da raccontare, ma che una volta denudati i
piedi divenivano delle Moane. Il suo piede era perfetto.
L'armonia di un 38 circa unita all'illice di Venere. Le dita ben
formate, le unghie curate e senza smalto (cosa che apprezzo
particolarmente), e a delineare la pianta c'era un impercettibile
strato di sporco; sicuramente il risultato di una passeggiata a
piedi scalzi. Mi assalì il desiderio di leccarglieli fino a tirare a
lucido il lerciume. Dovevo provarci. Iniziai a sfiorarla con il
mellino. Dapprima simulai lo sballottamento del mezzo di locomozione, e quando appurai che non c'era stato rifiuto, continuai a sfregarla con tutte le dita. Sembrava apprezzare, mi dette
l'impressione che stesse cercando più contatto. Ci stavamo studiando. Analizzavamo le reciproche reazioni. Dopo poco la
sentii gemere, come se stesse sognando qualcosa di piacevole.
Non mi feci sfuggire l'occasione, le posai la bocca sul labbro
inferiore e glielo succhiai. Le nostre lingue s'intrecciarono. Lei
teneva gli occhi socchiusi e mugolava, mentre il mio mento si
bagnava della sua saliva. Il mio pene s'irrigidì e iniziò a premere contro il tessuto, quasi a strapparsi i nervi. Quel lieve dolore fu ancora più eccitante. Presi la sua mano e la posai proprio lì, sulla mia carne dura. Mi sbottonò lentamente e un po' di
polluzione le unse le dita. Si piegò in avanti e sentii le morbide
pareti della sua gola pomparmi tutt'intorno. Un calore quasi insopportabile mi squassò i lombi sacrali. Nel bel mezzo di
quell'assurdo e improvvisato amplesso, dalla sua bocca uscirono parole incomprensibili: “Sfusa! Sfusa! Sfusa!”. Poi incessanti scossoni iniziarono ad oltraggiare la mia spalla sinistra.
Non capivo; c'era lei sulla mia sinistra, ma in quel momento era
impegnata nella frequentazione della mia zona pelvica. Ancora
scossoni, sempre più prolungati, sempre più decisi, “Sfusa!
Sfusa! Sfusa!”. D'un tratto risalì nuovamente quella stridula vocina: “Il carceriere sulla porta a sinistra, il carceriere sulla porta
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a destra”. Spalancai gli occhi di scatto. Lei mi stava affianco,
aveva una mano sulla mia spalla e un tramezzino in bocca di
traverso.
«Sfusa... ehm scusa, mi dispiace di averti svegliato, ma
l'autista ha appena annunciato che stiamo per arrivare a destinazione.»
Mi guardava con un sorrisetto malizioso e imbarazzato,
come se avesse decifrato la sequenza criptata del mio sogno.
Mi sentii depredato della mia intimità. Violare il sogno altrui è
come spiarlo mentre si masturba. Tuttavia mi mostrai cortese,
giusto per ripagarla della bellezza dei suoi occhi, che finalmente riuscivo a vedere.
«Ah, bene, era ora.» Dissi, mostrando il mio interesse fuoriuscito da uno sbadiglio.
«Sei del posto?» Bofonchiò, mentre continuava a infierire
sul tramezzino.
«No. Non sono di qui. E tu?»
«Nemmeno io.» E se la ridacchiò.
Indossava una camicetta color panna, probabilmente un po'
troppo sbottonata, perché attirò inevitabilmente il mio sguardo
sull'insenatura del suo seno. Fu allora che notai il cimelio attorno al suo collo. Era una collana a cerchi concentrici, sicuramente d'argento, con, all'estremità di quello più esterno, un piccolo delfino pendente, anch'esso d'argento. Per non apparire
sfrontato e impudente cercai di dissimulare:
«Bello! Lo hai preso da [omissis]?» In verità, su quel suo
collo tanto esile, stonava un pochino.
«No. Non l'ho preso da [omissis]» E continuò a ridacchiare.
La camicetta le si infilava senza grinze in uno short di jeans
attillatissimo, che scendeva poco più sotto dell'inguine. Aveva
delle gambe perfettamente dritte e muscolose, e pensai subito
che doveva trattarsi di un'atleta. Sicuramente praticava qualche
disciplina agonistica. Non era un fisico da palestra quello lì.
Magari una pallavolista, o una nuotatrice, considerato che an25
che di spalle non scherzava affatto. Continuavo a ripetermi:
“questa ragazza è davvero splendida”, e nel frattempo aspettavo il momento in cui si fosse voltata per offrire il suo fondo
schiena alle attente valutazioni dei miei occhi. Se anche il suo
sedere si fosse accordato al resto di quel suo lagunare profilo,
allora mi sarei ritrovato in una posizione favorevole all'esternazione di volgarità tutte maschili. Non attesi molto prima che le
continue rivoluzioni del suo corpo divenissero acerbe rivelazioni. Si alzò per dirigersi verso l'autista. E fu un peccato constatare che il suo sedere, rapportato a quelle rotondità dominanti,
soffrisse di piattolossia. Un neo evidente, non c'è che dire, che
inesorabilmente determinò la sua caduta verso un piano più terreno; sicuramente alla mia portata. Nonostante tutto la sua figura restituiva un'eccedenza di grazia, troppo pregiata per fare da
pendant alle mie generose maniglie dell'amore. Mi ricordai di
quando quella volta Sandra – promessa attrice – mi disse:
“Scoperei sicuramente di più se voi uomini vi faceste intimorire di meno dal mio aspetto fisico!”. E io pensai di rimando:
“Mi ha appena detto che se ci provo lei ci sta!”, ma non ci provai comunque.
Quando tornò a sedere era ancora intenta a leccarsi il musetto. Una briciola sul suo labbro superiore fece di lei un omaggio
all'innocenza. Provai tenerezza. Poi con le dita mi spolverai i
baffi per richiamare la sua attenzione. Lei capì, e quando si
portò la mano sulla bocca, divertita disse:
«Ops! Mi sento spesso ripetere che quando mangio sembro
un maschiaccio.»
Allora, con una puntina di ruffianeria risposi:
«Meglio maschiaccio che aristocratica no?»
«Decisamente!» replicò lei, e i suoi grandi occhi azzurri divennero ancora più azzurri.
«A me invece dicono che quando mangio perdo qualsiasi
parvenza umana.»
«Mangi davvero tanto? A vederti s'intuisce che la cosa non ti
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dispiaccia.»
A quelle parole, molto probabilmente, arrossii eccessivamente e lei se ne accorse.
«No, scusa... scusa, ma non volevo dire che... insomma... io
non penso che tu sia grasso... eh... sì... ma che a pranzo con te
di sicuro non ci si annoia.» Con uno spericolato gioco di parole
era riuscita a collocarsi magistralmente su un livello ancora più
dominante.
«Non devi mica giustificarti, non mi sono mica offeso.»
«Non mi giustifico affatto, è solo quello che penso. Insomma spesso mi capita di stare a tavola con quelle sguaiate delle
mie amiche, che si mettono a contare i noccioli di oliva per sapere quante calorie hanno preso, e ti assicuro che è davvero avvilente. Non credi?»
Ritornai al mio colorito originale.
«Assolutamente!» Risposi entusiasta. Quasi a chiedere perdono per l'imbarazzo di prima.
«E poi io ho una mia teoria sai? È infallibile.»
«Interessante. Racconta.» Risposi incuriosito.
«In parole povere da come una persona mangia, che sia
uomo o donna, riesco a calcolare la sua carica erogena con un
margine di errore ridottissimo. Insomma, capisco subito cosa
gli piace e cosa non gli piace fare a letto.»
«Veramente sorprendente, non c'è che dire. Ma dimmi, funziona anche con quello che uno beve?»
Tergiversò per un istante.
«Uhmmm, ti posso assicurare che il metodo è infallibile con
qualsiasi tipo di alimento.»
«Beh, ma se uno beve un po' troppo collassa e addio... no? A
me è capitato tante volte che non ricordassi assolutamente
niente dopo una bevuta pesante. Spesso sono crollato prima di
sbottonarmi i pantaloni.»
«Sì, sì, quello sì... però...» Stava cercando di metterci una
pezza.
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«Però cosa?»
«Nel senso, la valutazione va fatta in base a determinati fattori. Insomma, non vuol dire che se uno s'ingozza sa anche fare
l'amore, non è quello il punto. Ti faccio un esempio, secondo i
miei studi chi mangia da Mcdonald's soffre di eiaculazione precoce e ha pochissima fantasia.»
«Per forza ti fanno mangiare merda.» Esclamai con convinzione.
«Sì, ok, però...»
«No, dico sul serio. I loro hamburger sono composti
all'ottanta per cento da escrementi animali.»
«Bleaaa! Che schifooo! Ma davvero?»
«Giuro!»
«Oddio mi viene il voltastomaco se penso che stavo con uno
che adorava mangiare lì.»
«Orrendo. E com'era?»
«Cosa?»
«Lui.»
«In che senso?»
«A letto dico.»
«Era un dirigente della Società Borse di Studio. Eiaculazione precoce e creatività zero.»
«Beh, menomale che succede solo da McDonald's allora!»
Dissi io.
«Eh, te lo avevo detto!» E precipitò in una risata contagiosa
che si condensò in goccioline dorate attorno alle sue ciglia.
«Comunque ti dico che anche io ho riscontrato delle affinità
con la tua teoria. Stavo con una ragazza che mangiava solo insalata e ti giuro non riuscivo mai a capire quando raggiungeva
l'orgasmo. Era frigida come un ghiacciolo. Una volta lo facevamo da quasi un'ora, allora le dissi, scusa ma sono esausto, e lei
rispose, sì anche io, e comunque non riesco mai ad andare oltre
le tre volte. Ci rimasi come un salame.»
«Vedi? Però almeno per voi è diverso, anche se beccate
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quella frigida non si sottrae mai, ma quando ti capita l'eiaculatore solitario, che dopo trenta secondi si è svuotato per benino e
inizia a fare i cerchietti con il fumo della sigaretta, c'è solo da
strapparsi i capelli.»
«Già...»
Ci sintonizzammo sullo stesso piano vibrazionale, imprigionati ognuno nella frequenza dell'altro. Pochi battiti erano bastati per trasformare la pupa in farfalla, e tra di noi si era instaurato un legame sinergico e troppo prematuro. Lei mi appariva incantevole e rara come un'eclissi di sole, ed era talmente schietta
e sincera che riusciva ad annodarmi le viscere come poche avevano saputo fare. Senza rendermene conto mi ritrovai alle pendici delle sue labbra, che mi scaricavano addosso i bacilli
dell'attrazione, ma non mi sentivo catturato dalla sua carne,
bensì dal suo spirito. Nei suoi occhi lucenti e limpidi mi immersi per dissetare l'arsura degli amori andati a male. I suoi
lunghi capelli ambrati parevano colate di miele di castagno sul
candido simulacro del suo viso. Dal mio basso ventre malevoli
bollicine d'ossigeno risalirono, e fluttuarono fino ad addensarsi
sul pomo d'Adamo. Continuavo a deglutire come quel ciccione
di Mike davanti all'espositore del Dunkin' Donuts e i palmi delle mani trasmutarono in rive lacustri. Avevo desiderio di lei; un
atipico desiderio di lei; e sentivo sulla lingua l'ermetico sapore
agrodolce della sua giovinezza.
«Comunque io sono Eva.»
Protese verso di me le sue dita affusolate e l'agitazione iniziò a rosicchiarmi i polsi. Avrei fatto una pessima figura se le
avessi bagnato la mano di sudore. Così l'afferrai delicatamente
per i fianchi e le sfiorai le guance con le labbra.
«Ti sembrerà insolito, ma evito le strette di mano quando mi
presento a una donna.»
«Galante.»
«No, è solo per accertarmi se mi piace il suo profumo.»
«Wow, niente male come tecnica.» Disse, mentre un'espres29
sione meditativa si inginocchiò sulle sue gote. Poi riprese:
«E il mio profumo ti piace?»
Ebbi la sensazione di essere il romanzo più letto dalla notte
dei tempi. Sapevo cosa le passava per la mente, ogni pensiero
attraversava la sericea lamina dei suoi occhi, però feci giusto in
tempo a rimediare una spicciola ilarità da minus habens.
«Il tuo profumo è vagamente somigliante a quello di un Big
Mac!»
Funzionò. Rise a crepapelle, dopodiché disse:
«Allora anche tu mangi da Mcdonald's?» E continuò a fare
sfoggio delle sue meravigliose fossette. Poi aggiunse:
«Che soggetto che sei!»
«Faccio del mio meglio!»
In quel gioco di sguardi e reciproche manifestazioni d'affetto, non ci eravamo accorti che l'autobus fosse arrivato a destinazione. I passeggeri continuavano ad urtarci, ma non per sdegno nei nostri confronti, cercavano soltanto di farsi largo per
poter scendere. Una corda si strinse con violenza attorno alla
mia gola e la botola della forca si aprì inavvertitamente sotto i
miei piedi: il pensiero di non poterla rivedere mai più mi
segava il collo. Il tormento mi assaliva senza tregua, provocandomi leggeri attacchi d'asma. Cercai di dissimulare, li feci divenire sintomi connessi all'eccessiva canicola, ma anche il più
grande attore, prima o poi, inciampa contro le luci della ribalta
e perde stima di sé se non riesce a pronunciare la battuta decisiva.
La seguii nella discesa e nel frattempo pensavo che sono gli
istanti più innocui ad arrecare il dolore più intenso: un sussulto
del cuore, un battito di palpebre, possono essere catalizzatori di
tragiche, seppur soavi, sofferenze. D'istinto realizzai che il tempo non sarebbe servito a mitigare certe nostalgie. L'aiutai a tirar
fuori la valigia dal bagagliaio e arrivò il momento dell'abbandono. Rimanemmo a fissarci l'un l'altra, occhio contro occhio,
pupille sulle pupille, ma il protagonista principale era sempre e
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solo il silenzio.
Non mi rimasero che gonfi sospiri da concedere alla tragedia dell'amore. L'avrei perduta in quel capolinea di autobus, per
sempre, come un meraviglioso sonetto appena composto e scivolato accidentalmente nel fragore delle onde. Non c'erano più
poesie da sussurrare, ma soltanto vane attese che deliziavano i
pagliacci della speranza. Il mio cuore pulsava, ma non c'era
più. Capii che lei stava provando le mie stesse sensazioni e
questo rese tutto più grigio. “Ora librati farfalla, e non voltarti,
altrimenti le mie ali si polverizzeranno e nemmeno in sogno
potrò venire a cercarti.”
Si avvicinò con il viso, ma io indietreggiai di riflesso. Lei rimase spiazzata da quella mia reazione. Mi guardò di traverso,
con un sopracciglio inarcato e un sorriso artificiale. Le porsi la
mano.
«Scusa, ma quando do l'addio ad una donna evito sempre di
sentirne il profumo.»
Il suo sorriso divenne sincero, ma si spense di malinconia.
«È stato bello conoscerti.»
«È stato bello anche per me.»
Mi strinse la mano con una tale forza, che quasi sembrò di
voler trasferire una parte di sé all'interno del mio sangue.
«Allora, ci si vede in un'altra vita.»
«In un'altra vita.» Dissi.
«Addio.»
«Bon voyage.» Risposi, mentre un rospo di 10 chili mi dilaniava la trachea.
Ebbe un attimo di esitazione, le estremità della sua bocca ripiegarono leggermente verso l'alto, poi aggiunse:
«Se vai sull'Isola, devi assolutamente vedere Barbati.»
Accennai un sì con il capo e ripresi a morire dentro me stesso.
Si allontanò senza indugi, non cedette alla tentazione di
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voltarsi indietro. Le sue linee perfette scomparvero al di là delle barricate della polizia preposte alla protezione del complesso
ferroviario, che in tutto il paese era divenuto il principale obiettivo della rivolta.
Restai ancora lì, nel bel mezzo dei tumulti, non avevo voglia
di proseguire. Se un lacrimogeno mi avesse frantumato il volto
ne avrei accolto la devastazione con scarso interesse. Forse, addirittura, ne sarei stato compiaciuto. Quel furtivo incontro si
era trasformato nell'istantanea bellezza delle meteore: il tempo
di un intensissimo sguardo e poi l'eterna scomparsa. E la bocca
rimase asciutta nonostante il suo famelico volere.
Le sirene divennero silenziose e la folla un nugolo di bambagia. Sentivo il corpo richiudersi al suo interno fino a scomparire. Ero divenuto etereo, invisibile, come Cotenna di Bisonte e
Jack Crabb nel massacro di Sand Creek. Provavo soltanto un
vuoto spasmodico, saturo di singulti d'amarezza e di bile, che
alterava il ph della mia lingua, inacidendo la saliva. E la mia
anima premeva contro le pareti del corpo, desiderosa di venirne
fuori per poterla raggiungere con uno schiocco di dita. Persi la
conta di quante volte avevo desiderato che si voltasse per correre verso di me; per sentire la stretta delle sue braccia attorno
al collo e il sapore della sue labbra sulle mie: “Questo è il mio
numero di telefono, chiamami appena puoi!”. Ma non c'erano
stati ripensamenti, né baci, né numeri di telefono, soltanto la
desolazione di un porto che mi avrebbe condotto alla deriva.
Lontano da lei; dal suo immacolato attracco. Per sempre.
32
3.
“Io amo Topolino più di qualsiasi donna che abbia mai conosciuto.”
(Walter Elias Disney)
S
olcavamo il mare da quattro ore, ma i lineamenti illuminati del continente erano ancora ben marcati. Sul ponte
la gente si era accampata alla meglio: un'accozzaglia di
sacchi a pelo, plaid, scarpe maleodoranti e zaini, rivestiva
l'intera superficie ferrosa; ed era veramente ardua impresa poter
passeggiare senza finire per calpestare qualcuno. Io ero stato
fortunato, avevo trovato posto al bar. In un angusto metro quadro avevo sistemato il bagaglio e nello stesso spazio avrei dato
ristoro alle mie doloranti membra. Non era il massimo, ma
quantomeno potevo riposare al coperto, e a ricoprire il pavimento c'era la moquette, anziché gelide lastre di metallo. Mi
sentivo esausto, ma non riuscivo a dormire, così trascorrevo il
tempo rollando tabacco e bevendo birra scadente del discount:
osservando il mare che, per una sorta di inversione geofisica, si
confondeva con il blu scuro della notte camuffandosi nel cielo
stellato.
L'aria era densa e fresca e, malgrado lo sgradevole lezzo
prodotto da quell'orda di incivili passeggeri, di tanto in tanto un
leggero spruzzo di salsedine veniva a destarmi, concedendomi
quel tormentato gioco di memorie al quale non ci si può sottrarre, nemmeno infliggendosi bruciature sulla pelle.
La mia sigaretta si era spenta e con lei anche la maggior parte delle mie convinzioni. Ignoravo per quale motivo mi costringessi a proseguire quel viaggio, se tutto il mio desiderio era
concentrato altrove. Più di una volta avevo voltato le spalle alla
Superfast, specie quando, al controllo bagagli, alcuni ragazzi
erano stati malmenati e arrestati, perché trovati in possesso di
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materiale scottante. “Propaganda terroristica”, così si era
espresso un delirante burattino della Digos: pittoresco rappresentate dell'estremo clima di tensione che l'occidente, con i
suoi canini ormai cariati e caduchi, stava attraversando. Il suo
fetido disprezzo verso i più basilari diritti della persona mi aveva provocato il voltastomaco, e avrei goduto a rigettargli in faccia fino all'ultima goccia di acido gastrico per vedere i suoi occhi liquefarsi. Di fronte all'espressione glaciale del suo sguardo
avevo girato i tacchi, ma un altro logopedista delle forze
dell'ordine mi aveva bloccato, credendomi un complice. Ero
stato tacciato per un pericoloso “sovversivo”; che non ero, ma
se lo fossi stato la definizione più calzante sarebbe stata “partigiano”. Provai una soddisfazione inaudita quando ebbe finito di
rivoltarmi come un calzino senza trovarmi niente addosso. Le
sue mani si erano messe a strisciare nella valigia, tra le mie
mutande, alcune delle quali ancora sporche, ma avevano inevitabilmente impattato contro il vuoto della delusione. “Baciami
il culo” pensai. E mentre lo guardavo allo stesso modo con cui
si può contemplare una chiazza di catarro sull'asfalto, le sue
corde vocali vibrarono ad una frequenza sconosciuta, quasi
elettronica, “è pulito”.
Sì, io ero pulito; lui invece il risultato di una carogna in un
continuo ciclo putrefattivo.
“Il carceriere sulla porta a sinistra, il carceriere sulla porta a
destra”, ancora quella subdola vocina. Sbarrai gli occhi in preda al terrore. Un sibilo acutissimo e prolungato mi aveva quasi
lacerato i timpani. Restai sorpreso nel vedere un'ordinarietà
quasi banale scorrere davanti ai miei occhi. Sulla mia destra
una festosa famigliola si godeva le ore notturne giocando a poker. Ai piedi dei tavoli qualcuno dormiva, altri parlavano, altri
ancora continuavano a tracannare vodka. Guardai l'orologio,
erano appena trascorse le 3.00, e l'arrivo era previsto per le
6.00. Avevo sete, afferrai la borraccia, ma quel fondo d'acqua
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rimasto servì solo ad acuire il senso di arsura.
Che cosa era stato quel suono? L'intensità e le violente vibrazioni mi avevano svegliato bruscamente. Di cosa si era trattato? Di nulla, una mia costruzione mentale, non poteva essere
altrimenti, considerato che il resto dei viaggiatori non ne era
stato turbato. Eppure avvertivo la strana sensazione che qualcosa d'insolito fosse accaduto. Cercai di non pensarci. Il bar era
chiuso, feci un giro per trovare un distributore di bevande. Ce
n'era uno vicino ai bagni, ma era stato saccheggiato pesantemente e non aveva più riserve d'acqua. Così, dopo aver girovagato a vuoto sul ponte, e rischiato più volte il linciaggio, decisi
di inoltrarmi nel locali inesplorati della nave.
I corridoi erano stretti, e se mi fossi imbattuto in un passante
sarei stato obbligato a procedere di fianco, strofinando la schiena contro le porte delle cabine letto: vista l'ora mi sarei beccato
certamente qualche insulto.
Dagli oblò risaliva il frusciare lento e armonico delle onde, e
la penombra, di colore rosso sangue per via delle luci d'emergenza, mi procurava un anomalo malessere. Stavo battendo il
sentiero sbagliato, non c'erano distributori di bevande lì; ciò
nonostante qualcosa mi spingeva a proseguire. Scesi l'ultima
rampa di scale, imboccai il corridoio del primo livello e
proseguii sospinto da una sorta di sussurrio emotivo; quel genere di richiamo che, il più delle volte, non nasconde niente di
buono dietro l'angolo. Ora il sottile sciabordio delle onde era
divenuto più crudo e meccanico, evolveva verso un fastidioso
brusio, che iniziò a saltellare sulle mie tempie provocandomi
un'emicrania lancinante. Mi sentivo come se fossi sotto l'effetto
di un potente barbiturico; afferrai la mia fronte ed ebbi
l'impressione che degli aculei metallici spuntassero fuori dal
cranio. Mi pareva di impazzire. Iniziai la ricerca di una cura
praticando lunghi e profondi respiri: inspiravo ed espiravo lentamente, tentando di scacciare il panico. Poi, all'improvviso, il
frastuono cessò e quel senso di implosione mentale si dissolse
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del tutto. Qualcosa aveva catturato la mia attenzione: un flebile
fascio di luce proveniente da una porta semi chiusa in fondo al
corridoio. Mi avvicinai con addosso il desiderio di spiare, facendo attenzione a non fare il benché minimo rumore. Trattenni
il respiro e infilai un occhio all'interno. La cabina era stretta e
avvolta da una luminosità soffusa, l'oblò era spalancato, e una
tendina, oltraggiata dall'azione del vento, continuava a disegnare spirali nel vuoto. Sul comodino una lampada con la testa rivolta verso il basso, sembrava voler concedere il meritato risalto alla scena saliente. Il letto era sfatto e dava testimonianza di
un rapporto sessuale molto spinto che si era appena consumato.
Dai quattro angoli spuntavano delle strisce di stoffa strappate,
saldamente legate alla rete sottostante: erano state utilizzate
come legacci per immobilizzare. Le lenzuola logore e stropicciate presentavano delle leggere striature rossastre; a una prima
occhiata non riuscii a capire se si trattasse di sangue o di rossetto. A terra, sopra un piccolo tappeto verde, due profilattici consumati continuavano a rilasciare il loro liquido seminale, che, a
contatto con il manto sintetico, pareva quasi ribollire. Sulla parete, subito sotto l'oblò, vidi l'impronta insanguinata di una
mano. Un'improvvisa e violenta eccitazione mi aggredì. Era
una stranezza preoccupante, ma non riuscivo a liberarmene in
nessun modo. Iniziai a massaggiarmi il pube, il mio pene tirava
i calci come un neonato precoce che scalpita per fuoriuscire dal
ventre materno. Mi guardai furtivo attorno, lo tirai fuori e mi
masturbai velocemente. Un brivido mi paralizzò il coccige e
per un attimo la vista si annebbiò. Ero venuto sul battente della
porta e continuavo ad ansimare come un prete bavoso avvinghiato al tenero culetto di una sedicenne. Quando gli occhi ripresero a mettere a fuoco spazi e dimensioni, notai un particolare che in tutto quel tempo mi era sfuggito. Lo stupore fu talmente dirompente, che la nostalgia mi spense nuovamente le
pupille; poi le riaccese. Qualcosa sul comodino. Non poteva essere vero, non potevo non averlo visto. Forse la mente mi di36
leggiava con beffarde allucinazioni, eppure quell'oggetto era lì,
non evaporava, era materia compatta e inanimata proprio davanti a me. Entrai nella cabina in punta di piedi, evitando di
calpestare lo schifo che c'era a terra. Lo afferrai e lo esaminai
con minuzia, era sfacciatamente uguale, era lo stesso, era la
stessa identica collana che avevo visto al collo di lei: Eva.
“Eva!”, sospirai. Come ci era finita lì quella collana? Ma soprattutto, cosa era successo in quella cabina? Ero così confuso
che il panico si ripresentò più molesto di prima. Provai a riprendere fiato, dovevo restare calmo, se avessi perso la lucidità
avrei rischiato di contaminare quel posto, e se fosse stata la
scena di un crimine avrei mandato tutto in malora. “Calmati,
devi calmarti”, ma il sudore continuava a rigarmi il viso. Riposi
nuovamente la collana al suo posto e mi allontanai frettolosamente, avevo bisogno di una rinfrescata, dovevo trovare un bagno, dopodiché sarei ritornato per cercare di vederci meglio.
Infilai la testa sotto il rubinetto. L'acqua era ghiacciata, la
sentivo infiltrarsi nei pori della pelle fino a congelarmi le ossa.
Per lungo tempo restai in quella posizione innaturale: piegato
in avanti con il naso immerso nel buco del lavandino a inalare i
miasmi dello scarico. Gli scrosci violenti che scendevano lungo
le guance praticavano un effetto waterboarding. Stavo rischiando l'annegamento, ma dovevo costringermi a quell'estremo trattamento, perché solo in quel modo avrei ridimensionato il mio
stato mentale. Le lancette dell'orologio percorsero chilometri
prima che il cuore si portasse su regimi ordinari; a breve anche
le mani persero quell'adultera esaltazione. Mi guardai allo
specchio, le goccioline che solcavano la mia faccia le sentivo
penetrare in profondità, come lamette affilate che recidono nervi e muscoli. Mi osservavo scrupolosamente, analizzando ogni
singolo tratto somatico, ma non riuscivo più a vedermi. “Che
c'è dentro quella zucca marcia che non funziona mai? Mamma
e papà ti hanno fatto mancare il loro affetto da bambino?”
L'altoparlante annunciò l'imminente arrivo sull'Isola, quelle
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modulazioni elettroniche mi fecero rinsavire. Dovevo darmi
una mossa, abbandonai di corsa il bagno, avrei dovuto recuperare il bagaglio, ma nei miei pensieri c'era solo lei. Mi
precipitai alla cabina, ma con sconcertante stupore trovai la
porta chiusa a chiave. La cosa non aveva senso, non poteva
averlo. Spinsi con tutte le mie energie, ma ebbi come l'impressione che, al di là, qualcuno la tenesse bloccata. Anche la maniglia lo era. Cercai di forzare la serratura, ma la sensazione fu la
stessa: un ostacolo dall'interno neutralizzava i miei sforzi. Bussai con violenza, “c'è qualcuno? Aprite!”, ma a rispondere fu
l'eco della mia voce che continuò a sobbalzare per il corridoio.
Non passò molto prima che i passeggeri, con i loro borsoni, mi
travolgessero come un fiume in piena sballottandomi sulla
sponda opposta. L'altoparlante continuava il suo sermone: “Si
pregano i gentili viaggiatori di scendere il prima possibile, la
nave salperà tra dieci minuti”. Non ce l'avrei mai fatta a risalire
la corrente, visto il continuo riversarsi di quel dirompente torrente umano. Altro non rimaneva che tornare alla mia postazione per recuperare le mie cose, ammesso che fossero sopravvissute a quello straripamento. A fatica riuscii a riportarmi all'ultimo piano, la mia valigia era intatta, una donna del personale di
bordo, con un accento indecifrabile, iniziò a esercitare una
pressione oltremodo ingiuriosa: “Si sbrighi signore, la nave sta
per ripartire. Si sbrighi signore, faccia presto signore, rischia di
rimanere a bordo”, la guardai imbestialito, ma non se ne accorse, o fece finta, dopodiché mi affrettai ad abbandonare il piroscafo.
Nello scendere i gradini come se fossero scivoli acquatici,
andai a sbattere contro un uomo dall'aspetto inquietante. Era
vestito di nero e indossava una camicia bianca, sembrava un
becchino e risvegliò in me gesti scaramantici; mi grattai i testicoli. Quel menagramo indossava occhiali a specchio e aveva
una pelle talmente nera che pareva averla immersa nel bitume.
Era alto, ma non tanto, e i suoi lineamenti marcati avevano un
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intaglio quasi artificiale. Mi guardò inespressivo, i suoi occhi
erano celati dalle lenti, ma dietro di esse percepii soltanto il
vuoto. Sfilò dall'interno della giacca alcuni volantini formato
lettera e me ne ficcò uno tra le mani, dopodiché, con l'asetticità
di una voce registrata, disse: “Ti aspettiamo!”. Rimasi impietrito nel vederlo andare via, poi guardai il volantino; c'era una
scritta stagliata su un panorama paradisiaco che recitava: “Paleokastritsa! Non solo mare... Rivelazione!”. “Strani tipi qui”
pensai.
I miei piedi toccarono terra che il portellone anteriore della
nave aveva già iniziato la risalita. Il sudore sembrava essere
l'unica reazione chimico-biologica che il mio organismo avesse
mai prodotto in vita sua. Erroneamente avevo creduto di trovare un clima meno asfissiante, ma sull'Isola l'umidità raggiungeva percentuali molto elevate e il sole, alle 6.00 del mattino, era
già esageratamente cocente. Me ne stetti a riflettere sulla piattaforma preposta allo sbarco; davanti agli occhi avevo ancora la
bizzarra scena della cabina. Quante possibilità c'erano che
quella collanina, così particolare e unica, potesse appartenere
ad un'altra persona? Quante probabilità che un esemplare della
stessa serie fosse venuto a trovarsi quel giorno proprio su quella nave? Più che di risposte, cercavo di convincermi che tutto
rientrasse nella naturale banalità degli eventi, “è normale, è tutto miserabilmente normale”, continuavo a ripetermi.
La folla attorno a me si era dissolta come un formicaio raggiunto improvvisamente da un tizzone incandescente. In lontananza qualcuno era ancora in attesa dell'ultimo autobus. La
lancetta delle ore si era spostata sulle 7.00 e non sapevo ancora
quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Dovevo cercare un
alloggio e un mezzo di trasporto. Pensai che con un po' di
furbizia avrei potuto usufruire clandestinamente delle navette
messe a disposizione dalle agenzie di viaggi. D'altronde, considerato il vociferare su un presunto sciopero dei tassisti per via
dall'aumento della benzina, non vi era altro modo per allonta39
narsi dal porto.
Mi imbattei in un gruppetto di ragazzi con un accento tipico
del sud. Chiesi come si fossero organizzati per trovare una
stanza e mi fu risposto che l'agenzia li aveva sistemati in un residence presso Ipsos. Mi finsi avvilito per fare breccia sui loro
sentimenti, e funzionò, si offrirono di procurarmi un passaggio
in nero. “Ti mischierai al gruppo e salirai a bordo con noi”, mi
rassicurò un ragazzino con i capelli alla Elvis, che indossava un
paio di mocassini bianchi intenzionati ad esaltare delle gambe
perfettamente depilate. “Che cazzo” pensai, “e questo mi tocca
pure ringraziarlo”. Per darsi un tono più trionfale, aveva pensato bene di farsi tatuare un noto Padre Barbuto sul polpaccio destro. Fu davvero impresa ardua impedire alle mie espressioni
facciali di divenire un grande classico di Buster Keaton. Il resto
della marmaglia, sul piano ornamentale, aveva impressionanti
analogie con lui, ma la cosa non aveva poi molta importanza, li
avrei sfruttati solo per quell'occasione, dopodiché mi sarei dileguato con tanto di sorrisi e gentilezze.
Il trucchetto riuscì; mimetizzato in quell'orda di cervelli belluini mi ritrovai ad occupare il posto finestrino in penultima
fila. Il loro incessante berciare, però, mi sodomizzava il cervello; quel barbaro frastuono era violenza allo stato puro per le
mie povere orecchie. Per quanto, l'aria condizionata aveva
restituito una buona dose di edulcorante al mio spirito.
Cercai di rilassarmi il più possibile, dovevo tenere sgombra
la mente e meditare sui pericoli che potevano celarsi dietro una
vacanza pianificata male e, per giunta, assediata da un'emotività intenzionata a stringere coltelli tra i denti. Eva poteva attendere, afferrai il fradicio pensiero di lei e lo misi ad asciugare
sul quel sottilissimo filo delle attese, destinato comunque a
spezzarsi nel momento in cui i problemi di forza maggiore
avrebbero cessato la loro azione distrattiva.
La strada era un obeso serpente d'asfalto che dalla grigia gri40
glia urbanizzata strisciava lento verso una dimensione più agreste. I mostri di cemento man mano si diradavano, lasciando il
posto alla natura incontaminata e selvaggia. Nell'incantevole
intreccio tra montagna e macchia mediterranea si alternavano
in dissolvenza spiagge candidissime e uliveti secolari. Un paradiso inverosimile interrotto qua e là da vecchi esercizi commerciali abbandonati, testimoni imbavagliati dell'occidentale declino economico.
Il tragitto fu breve: dopo un quarto d'ora superammo Dassia
e ci venne incontro il lungomare di Ipsos. Ebbi subito l'impressione che quel posto fosse una discarica di turismo malsano. La
prima cosa che mi colpì fu l'esagerato numero di scooter ossessionati ad esfoliare il manto stradale dal suo già consunto catrame, mostrando un totale disinteresse per la meravigliosa acqua
turchese a pochi palmi di distanza. Era il caos più rappresentativo, un lercio girotondo di villeggianti impazziti. L'incarnazione di tutto ciò che un visitatore non dovrebbe mai essere. Non
potevo restare lì per nessuna ragione al mondo.
Quasi alla fine della strada l'autobus svoltò sulla sinistra e
dopo una cinquantina di metri si arrestò. L'autista annunciò gli
appartamenti Michalis e il cordone umano iniziò la discesa verso quel pandemonio. Salutai i ragazzi cercando di mostrarmi riconoscente, ma ebbi l'impressione che nessuno volesse avere
più niente a che fare con me; avrei dovuto ringraziarli anche
per questo, inconsapevolmente mi avevano tolto dall'imbarazzo di rifiutare categoricamente un ulteriore gesto d'aiuto.
Ritornai sul lungomare alla ricerca di un ufficio turistico.
Alle 8.00 del mattino i marciapiedi erano già gremiti. Si aveva
come l'impressione che quel mefitico trambusto andasse avanti
da settimane senza sosta. Patetici adolescenti si davano il turno
in quella che aveva tutta l'aria di essere una roulette russa dello
sballo. Alcuni rientravano dalla nottata con le facce sconvolte,
altri inauguravano le prime luci del giorno con la medesima
espressione sul volto. Piccole troiette in calore sculettavano so41
pra passerelle di vomito che si alternavano a pantani di piscio;
e i maschi, come tori eccitati al pensiero della monta, annusavano la scia delle loro vagine ancora incrostate di sperma. Le
esalazioni mi logoravano le narici e mi mandavano in tilt lo
stomaco. Il calore era insopportabile e l'eccessivo scalpitare dei
tubi di scappamento ne metteva in risalto le venefiche intenzioni. Ero appena arrivato, ma mi sentivo lì già da troppo tempo,
avevo bisogno di rifiatare, la spuma argentea delle onde era un
richiamo irresistibile, ma il peso schiacciante della valigia frenava cinicamente il mio istinto. Ossigeno, mi mancava ossigeno, da lì a poco di me sarebbe rimasto solo vapore acqueo e rigagnoli di grasso grondanti nei tombini.
Fui tratto in salvo dal tempestivo intervento di Sofia.
«Hai bisogno di mano. Sofia aiuta you!»
Un angelo aveva scelto di mortificarsi in quella bolgia.
«Sei una visione?»
Sofia rise, era greca anche nella risata.
«Sofia visto te laggiù from here e capito subito che you cercava aiuto.»
«È proprio così evidente, vero?»
«Tu posa valigia qui e venire dentro con me così parla con
calma.»
Posai la valigia fuori dal suo ufficio e la seguii all'interno.
Non c'era l'aria condizionata, in compenso un pungente odore
di citronella ristagnava su ogni superficie. Serviva per tenere
lontano le zanzare che, a quanto pare, erano più temute dei calabroni. Il locale era allestito con pezzi di mobilia riciclata qua
e là, e sulle pareti c'erano cartine geografiche e foto di luoghi
incantevoli dell'Isola: in alcune compariva anche lei.
Seduta dietro una vecchia scrivania Sofia si accese una sigaretta. Il suo aspetto era decisamente esotico, aveva un fisico
asciutto e la sua pelle bronzea faceva risaltare una leggera peluria dorata. I capelli ricci e biondi le donavano un'aria sbarazzina e giovanile, anche se le rughe sul volto raccontavano
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tutt'altra storia sulla sua effettiva età. Un denutrito bichini rosa
le stringeva il seno e le piccole pieghe di ciccia sulla sua pancia
mi riportarono ai pizzicotti della mia nonna adottiva. Per aggiungere un tocco di professionalità alla sua immagine le era
parso doveroso indossare uno short di lino color sabbia che, di
certo, non l'avevano aiutata nello scopo. Mi piacque da subito, i
suoi occhi abbaglianti trasmettevano tranquillità e baldoria al
tempo stesso, e aveva un modo di parlare singolare e
divertente.
«Ok, Sofia parla tua lingua così così, tu avere bisogno di alloggio.»
«Oh sì, sono partito un po' all'avventura e quindi sto cercando una sistemazione, te ne sarei grato.»
«Tu non preoccupare, Sofia qui per questo. Poi a Sofia piace
voi altri quindi aiuta volentieri.»
Prese alcuni opuscoli da un cassetto e me li mise sotto il
naso, poi li sfogliò lentamente, come se stesse accarezzando
qualcosa di piacevole al tatto, e mi elencò tutte le soluzioni ancora disponibili. Non che ce ne fossero molte viste il periodo.
«Questi molto belli.»
«Va bene Sofia però avrei da chiederti una cortesia.»
«Dimmi amòre.»
«Non ci sarebbe qualcosa più fuori mano?»
«Dici non qui ma più verso campagna?»
«Esatto.»
«Beh certo, costa anche meno, Sofia crede che tu piace stare
qui.»
«Certo che mi piace, ma quando rientro preferisco la tranquillità.»
«Ipsos casino vero? Tutti gente che strilla, anche di notte.»
«Beh! È anche giusto, insomma vengono qui per divertirsi.»
«E tu non qui per divertire? Qui tante ragazze, tu bello ragazzo, tu divertire tanto con loro.»
«Ti ringrazio Sofia spero di divertirmi tanto allora.»
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Sofia sorrise e un alone di nostalgia le sollevò gli zigomi.
Quella sua espressione si profilò come una denuncia sull'avanzare incontrastato dei suoi anni.
«Ragazze di oggi fare tanto rumore ma a letto no brave.
Loro fare amore per noia no per passione.»
«Credo anche io sai?»
«Sì, loro solo fare papera e basta e imbroglia voi maschi.»
«Che ci vuoi fare Sofia? Noi di fronte a quella cosa lì non
capiamo più niente.»
«Lo so, lo so, Sofia sa che voi non capire più niente, quando
era bella Sofia faceva impazzire tutti uomini.»
La replica mi venne istintiva, e in buona fede.
«Beh, a me di certo Sofia non dispiacerebbe.»
S'irrigidì.
«Sofia ringrazia ma a Sofia non piace questo.»
«Sì ma io non volevo... io intendevo...»
«Oh tu non preoccupa, Sofia capire.»
Figuriamoci se ci stavo provando, il pensiero non mi era
sfiorato nemmeno per un istante. O forse sì?
Mi sistemò in un monolocale presso Agios Markos, piccola
località collinare a un paio di chilometro da Ipsos. Il posto non
era male se non fosse stato per il fatto che dovetti mettermi subito all'opera con detersivi e spugnette in acciaio. I 30mq più
fetenti che avessi mai visto, c'era il lercio ovunque, che come
un'entità aliena ricompariva dopo ogni passaggio di straccio,
pareva un sortilegio. Passai il resto della giornata a pulire, ma
quella sensazione di sporco stagnante divenne sottocutanea e
non andò via, nemmeno dopo la doccia. Dovetti accontentarmi
però, d'altronde potevo godere di una vista incantevole. Il balconcino dava su un'enorme radura verdeggiante imprigionata in
una circolare fronda boschiva, e all'orizzonte, verso il mare, le
iridescenze arancioni delle luci ricordavano i residui di un
fuoco appena stinto, rendendo quella visione primitiva e fatata.
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Fu lì che feci i preparativi per una bella cenetta. Nel pomeriggio, oltre ai detersivi, avevo acquistato un po' di vettovaglie,
spendendo decisamente troppo considerata la mia predilezione
per le sottomarche. Soltanto per il vino non avevo badato a spese: un Syrah del 2008 avrebbe dato la meritata consacrazione a
quella che era la mia prima notte sull'Isola.
Insieme all'ultimo bicchiere di vino svanì anche il pensiero
di Eva. Ero ubriaco e stanco, mi gettai sul letto e staccai la spina.
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4.
“...tu sei talmente brutto che sembri un capolavoro d'arte moderna!”
(Sergente Istruttore)
Q
uando le porte si chiusero bruscamente fui assalito dal
terrore, sentii soltanto il rimbombo degli scatti della serratura riecheggiare nella densità di un buio primordiale.
Non riuscivo a capire dove mi trovassi e perché; poi notai una
feritoia in alto, dalla quale scendevano tenui zampilli di luce, e
mi resi conto di essere rinchiuso in una cella carceraria. Quel
fragile chiarore non era sufficiente a stemperare l'oscurità che
dominava su ogni cosa; nemmeno le mani davanti al mio volto
erano distinguibili. Provai a cercare nelle tasche, ma non c'erano accendini, né fiammiferi.
Tentai di muovermi carponi per trovare l'orientamento, ma
una misteriosa forza mi trattenne, impedendomi di raggiungere
le pareti. Sotto i palmi la sensazione di gelo trasmessa dalla
pietra levigata mi obbligava a un tremore continuo. D'un tratto
avvertii una presenza. Un respiro lento e affannoso mi fece trasalire e l'orrore mi paralizzò fino al collo. “C'è qualcun altro
qui?”, provai a chiedere con un fil di fiato, ma a spezzare
l'inquietante silenzio era sempre quel sibilo asmatico che andava man mano aumentando. “Perché sono qui? Cosa volete da
me?”, l'angoscia mi stava consumando, ma non avrei risolto le
cose singhiozzando come un moccioso. Provai ad alzarmi e in
quell'istante qualcuno mi afferrò per le spalle e mi spinse
nuovamente a terra. “Resta seduto!”, tuonò una voce spettrale.
Un brivido mi dilaniò la schiena, poi le mie papille esplosero in
mille pezzi.
Mi svegliai in una pozza di sudore e ancora in preda al pani46
co, avevo dormito così profondamente da non accorgermi di
essere stato martoriato dalle zanzare. Il mio corpo era completamente ricoperto dalle punture di quelle maledette. Mi infilai
di corsa sotto la doccia per alleviare il fastidio e in quell'istante
notai qualcosa di molto strano: sulla mensola, sotto lo specchio, era poggiato un assorbente tampax. Possibile che durante
tutto il tempo passato a lustrare quel tugurio non mi fossi accorto della sua presenza? In verità era del tutto plausibile, non
era la prima volta che l'eccessiva stanchezza mi giocava brutti
scherzi. Non lo gettai, qualcosa mi diceva che poteva tornare
utile.
Sul balcone i residui della cena erano divenuti terra di saccheggio, il ronzio di vespe e calabroni mi metteva in agitazione. Quel brulicare di strisce gialle e nere era meraviglioso ma
altrettanto letale. Diedi una ripulita senza dare troppo
nell'occhio, se avessi risvegliato il loro istinto primitivo mi
avrebbero fatto a pezzi.
Riempii la caldaia della moka, ma solo quando l'acqua raggiunse la valvola di sicurezza mi resi conto che avevo dimenticato di comprare la materia prima. Mi vestii alle svelta e uscii
di casa.
Il Bar era fatiscente e il caffè faceva schifo, oltretutto costava decisamente troppo, l'ospitalità non era stata un granché, ma
il transito in quella bettola mi era servito per aggiornarmi sugli
ultimi tumulti in patria. Dalla televisione appresi che la situazione era più grave di come l'avevo lasciata, e iniziavano a girare strane voci: c'era il rischio che sarebbero saltati i collegamenti marittimi. La cosa era improbabile, ma nel caso in cui si
fosse concretizzato tale scenario c'era pur sempre la Ryan sulla
quale poter fare affidamento.
Considerato che il primo ostacolo – quello dell'alloggio –
era superato, rimaneva quello del trasporto, non volevo essere
vincolato agli orari dei mezzi pubblici, quindi l'unica cosa da
fare era noleggiare uno scooter. Chiesi informazioni ad alcuni
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ragazzi incontrati per strada e mi indirizzarono verso il punto
più vicino. Il gestore aveva più o meno la mia età, era bassino
con gli occhi azzurri e i capelli biondi, non sembrava greco, ma
qualcosa tipo ucraino. Si dimostrò gentile, forse anche per il
fatto che gli ero sembrato simpatico, e mi fece lo sconto
sull'affitto settimanale. Mi consegnò le chiavi di un Peugeot
Elyseo da rottamare, se fosse stato un cavallo la cosa più saggia
sarebbe stata abbatterlo, ma considerato i maltrattamenti che
avrebbe subito non ebbi remore sul suo cagionevole stato di salute. Saltai in sella e mi diressi verso il primo benzinaio. Con
10 euro il carburante quasi traboccò.
Ipsos era un microcosmo della terra dalla quale ero fuggito,
si sentiva parlare la mia lingua ovunque e anche i menù esposti
fuori i ristoranti erano scritti nella mia lingua. Persino la fisicità
e lo stile di vita del luogo erano sfacciatamente compatibili. Insomma, in quale altro posto avrei potuto trovare un mare incontaminato brutalizzato dal traffico più esasperante? Non aveva senso stare lì. Ero partito alla ricerca di un po' di pace e non
avevo nessuna intenzione di avere a che fare con quella
gentaglia. Il paradiso si trovava altrove, e lo avrei raggiunto
galoppando più veloce del vento.
Prima ancora di ruotare al massimo la manopola dell'acceleratore, le mie mani si infilarono d'istinto nelle tasche. Avevo indosso i bermuda del giorno precedente e ne tirai fuori quello
strano volantino, ormai stropicciato: “Paleokastritsa! Non solo
mare... Rivelazione!”
L'estate era un nettare taumaturgico per tutti quegli animi bisognosi di avventura, e io, seppur calpestato dai turbamenti del
cuore, l'avrei succhiato fino a rimanerne soffocato. Detesto
l'inverno, o almeno molti aspetti di esso: ho sempre ritenuto
stupido e insensato il fatto di dover trovare un po' di tepore
contribuendo allo sversamento di greggio nel già contaminato
sistema ecologico planetario. Per rinfrancarmi preferisco assa48
porare bevande ghiacciate anziché bollenti, ed espressioni
come “al calduccio sotto le coperte” per me sono truffaldine,
non innescano alcun senso di benessere al mio spirito.
Quando l'enorme pitone d'asfalto si diradò, serpentelli meno
velenosi diedero il benvenuto alle ruote del mio ronzino, e i
miei occhi si ammannirono a colori più tenui e affastellati.
Avevo percorso all'incirca una ventina di chilometri a tavoletta
su una strada a scorrimento veloce, e adesso ero giunto sul versante opposto dell'Isola. Qui le stradine si facevano più strette e
rassicuranti, e le foglie di ulivo, che irrompevano dagli argini
della strada, quasi mi sferzavano il viso. Rallentai prima di un
bivio, le indicazioni stradali mi suggerirono che mancavano ancora 2 chilometri per Paleokastritsa: li avrei percorsi in contemplazione ammirando le meraviglie di quella nuova frontiera. Così facendo avrei dato modo al mio Elyseo di riprendere
fiato.
Il tragitto era quasi desolato, di tanto in tanto una macchina
si metteva sulla mia traiettoria cercando di sorpassarmi – impresa ostica, considerati i numerosi tornanti e la risicata ampiezza della strada – ma quell'apprensione, che spesso si prova
quando hai alle calcagna lo stronzo alla guida di un SUV, non
mi sfiorava minimamente. Per questo motivo anziché accelerare addirittura rallentavo. Nessuno abusava mai del clacson, tantomeno mi faceva sentire un rifiuto della società solo perché
avevo deciso di rispettare i limiti di velocità, anzi, quasi tutti si
prodigavano in ammiccamenti di complicità, come a dire “godiamoci in pace questo paradiso finché dura”, cosa che era decisamente nelle mie intenzioni. E mentre il vento, come un fazzoletto di seta, mi rinfrescava il viso, fantasticavo sulle sperate
avventure. Pensavo che sarebbe stato davvero il massimo se
all'improvviso mi fosse sbucata davanti Eva. L'avrei tirata in
sella al mio destriero e insieme avremmo esplorato gli anfratti
più remoti dell'Isola. Ci saremmo tuffati dalle scogliere più alte
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e avremmo fatto snorkling, poi verso sera ci saremmo rilassati
su una delle tante incantevoli spiagge, avremmo fatto il bagno
nudi, e magari avremmo potuto fare anche l'amore. Io avrei cucinato per lei, ci saremmo ubriacati di ottimo vino e avremmo
fatto nuovamente l'amore, e così via, tutti i giorni della nostra
permanenza. Purtroppo, in cuor mio sentivo che questo film
non sarebbe mai arrivato ai titoli di testa. Era perfetta la location, erano perfette le luci, forse era perfetta anche la regia, ma
il cast non era al completo, mancava lei, la diva, la Gianna di
My Sassy Girl, la regina del grande schermo, quella che una
volta entrata nell'inquadratura ti porta su, all'incirca a tre metri
di altezza, e ci resti fino a quando non vedi scorrere i titoli di
coda. Questo era stata Eva per me, in quei pochi istanti trascorsi insieme mi aveva fatto perdere il contatto con la realtà; mi
aveva cambiato dentro e di conseguenza non riuscivo a vedere
l'esterno come lo avevo sempre visto. Malgrado fosse iniziato
come uno sterile desiderio sessuale, tutto era stato compromesso nel momento in cui eravamo scesi dal predellino di quel
dannato autobus. Ogni mio respiro si riempiva di lei: il tempo
insieme era stato poco, ma molto mi era rimasto da dover ricordare. Quello strano episodio sulla nave, poi, mi aveva scosso e
reso irrequieto. Cosa era realmente accaduto in quella cabina?
Perché la collana di Eva si trovava lì dentro? Forse avevo sognato, forse avevo immaginato tutto, oppure no: c'era una remota possibilità che Eva fosse arrivata sull'isola insieme a me.
Ma era davvero improbabile considerato che l'avevo vista sparire in direzione opposta al porto.
Prima di arrivare in spiaggia mi fermai in un negozietto di
souvenirs per acquistare una guida dell'Isola. I cartelli stradali
potevano servire a farmi arrivare nel luogo prestabilito, ma i
luoghi sono solo punti di arrivo e non sempre offrono le gratificazioni che uno si aspetta. Le distanze da coprire erano considerevoli, e per ottimizzare il tempo a disposizione mi conveniva pianificare meticolosamente il percorso in modo da poter
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escludere a priori le zone meno interessanti. Lo avrei fatto con
calma in spiaggia, magari sorseggiando una birra gelata.
Subito dopo un tornante trovai un'area di sosta dove mi fermai ad ammirare il panorama e a fumare una sigaretta. La
natura selvaggia iniziava a contaminarsi di strutture turistiche.
La strada andava via via allargandosi e gli arbusti e i vecchi recinti, che fino a quel momento ne avevano delimitato gli argini,
lasciarono il posto a negozietti di vario genere. Qua e là, verso
la zona montuosa, si sparpagliavano diverse tipologie di alberghi, e la gente in costume e ciabatte formava lunghi cordoni
umani che strisciavano lenti lungo le discese sterrate che conducevano alla spiaggia. Nonostante tutto, era la quiete ad avere
un ruolo predominante, e fu subito chiaro il fatto che quel tipo
di turismo non aveva niente da spartire con quello che avevo
lasciato a Ipsos.
La mia vista si posò su una baia meravigliosa, puntellata da
scogli di diverse dimensioni che svettavano sulla superficie turchese dell'acqua. Sul lato destro un'imponente parete rocciosa
si affossava in mare e la sua irregolare morfologia offriva piattaforme naturali ai bagnanti che continuavano a sfruttarle come
trampolini da tuffo.
Quella visione di spruzzi e anelli argentei – che si schiudevano poco alla volta – e i lineari battiti di piume verso l'orizzonte, mi fecero bramare il dono delle ali. Stormi di gabbiani si
divertivano a fare Michelangelo sulla volta celeste del cielo;
nelle loro intenzioni c'era forse una sorta di critica del regno
animale nei confronti della pop art. Se fossi stato anch'io un uccello avrei potuto librarmi e raggiungere quell'estrema sorgente
di purezza con una sola planata. L'impellente desiderio di trasformazione mi diede modo di riflettere su alcune teorie razziste: la mia è una razza inferiore, perché incapace di volare.
Punto. Non siamo altro che dei patetici bambini capricciosi, il
cui passatempo preferito è lo sterminio di massa.
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Avevo dimenticato i tempi in cui era possibile abbandonare
lo scooter nelle zone antistanti la duna (senza dover spendere
un patrimonio per il parcheggio) e scendere liberamente in
spiaggia con la stessa disinvoltura di Noemi che sculetta in passerella. Dalle mie parti le spiagge erano divenute un bene di
lusso, alcune erano state addirittura recintate e, oltre al parcheggio, bisognava pagare persino il pedaggio. Quell'oltraggiosa politica balneare aveva proliferato impunemente negli anni,
rendendo una giornata di mare una prelibatezza per pochi eletti.
Qualsiasi diritto della persona era stato soppresso. Sull'Isola,
invece, le spiagge rimanevano ancora libere e si poteva addirittura piantare l'ombrellone tra quelli dei lidi proprietari. E la
cosa generava in me disorientamento e stupore: è sorprendente
come ci si possa abituare alla schiavitù arrivando persino a
considerare aberrante la libertà. Mi faceva strano non dover
cercare un parcometro da dover riempire di spiccioli, e ancora
più curioso era il fatto di non dover chiedere il permesso a nessuno per potermi accampare. Lì il termine “spiaggia privata”
era da considerarsi un'espressione delirante frutto di un pesante
shock post insolazione. “Libertà... un sogno per molti, un interesse per pochi”.
La caletta si estendeva per un centinaio di metri, era piccola,
ma davvero incantevole. I ciottoli levigati ricoprivano l'intera
superficie, e donavano un effetto massaggiante e rilassante ai
piedi. Soltanto a riva si potevano trovare piccoli lembi di spiaggia sabbiosa. Mi sistemai sull'estremo fianco est per trovare riparo dai raggi solari. In quel posto la scogliera faceva sentire la
sua presenza: saliva talmente in alto da proiettare un'ombra
oscura e densa abbastanza ampia, nonostante il picco massimo
del sole. La mia pelle era bianca cadaverica e se non avessi
preso precauzioni il rischio di ustione sarebbe stato elevato.
Non avevo con me né ombrellone né crema protettiva e di questo ne avrei dovuto rendere conto.
Passai il tempo ad osservare gli altri bagnanti, cercando di
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carpirne la nazionalità e le abitudini. Notai che, fatta eccezione
per quelli che potevano godere dei lettini, tutti gli altri non usavano teli da mare, ma una stuoia di paglia delle medesime dimensioni; il che aveva un senso, considerato che attutivano meglio il contatto con i sassi, e che si asciugavano molto in fretta.
Feci anche caso al fatto che, tranne me, ognuno aveva il suo
ombrellone, di quelli piccoli con l'asta sottile per agevolarne il
fissaggio nella ghiaia. Di tanto in tanto mi tuffavo nell'acqua
gelida e cristallina per rinfrancarmi dal caldo torrido; e mentre
quello scenario marittimo scorreva davanti ai miei occhi, sulla
guida turistica tracciavo il percorso dei posti che avrei visitato.
Solo quando arrotolai l'ennesima sigaretta mi resi conto che
l'arsura iniziava a raschiarmi la gola e che era arrivato il momento di una bella birra ghiacciata.
L'una era appena trascorsa. In un chioschetto lì vicino ordinai una Mythos da 66 e una specie di sandwich al prosciutto.
Non ci fu bisogno di parlare in inglese, anche da questa parte
gli Isolani erano poliglotti: perfettamente in grado di comprendere ed esprimersi nella mia lingua. Nel loro modo di guardarmi, però, c'era una sorta di avversione, mi facevano sentire
come se avessi sconfinato in una zona off limits, ma non me ne
feci un cruccio, ero consapevole di come la mia gente fosse
malvista al di fuori dei confini di Ipsos.
Finito il pasto mi appisolai e per la prima volta sognai Eva.
Lei faceva il bagno in quell'oasi di beatitudine, nuotava con
movenze decisamente innaturali; troppo perfette, troppo fluide,
sembrava il risultato finale di un esperimento genetico che aveva incrociato la donna con il delfino. Indossava una camicia da
uomo bianca sbottonata all'altezza del sesso, e quel tessuto bagnato metteva ancora più a nudo la perfezione statuaria del suo
corpo. I grandi capezzoli e la peluria scura del suo sesso annientarono lo sfondo, e la natura dovette cedere a lei lo scettro
degli sguardi. Venne verso di me con l'eleganza di una tigre,
poi si chinò lenta e mi baciò sulle labbra.
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Mi svegliai che erano quasi le 19.00 e mi fu subito chiaro
che l'incuria verso la mia persona mi avrebbe fatto patire le
pene dell'inferno. Avevo la parte davanti del corpo ustionata.
Le spalle e il viso erano talmente arse che nel toccarli avvertivo
al tatto la carne viva. I brividi mi attraversavano la pelle e i muscoli fino a conficcarsi nelle ossa. Mentre cercavo di verificare
i danni passandomi i palmi sulle parti interessate ebbi la sensazione di essere osservato. Mi guardai attorno, la spiaggia si era
quasi svuotata. Un gruppetto di ragazzi, all'incirca a venti metri
di distanza da me, si stava godendo lo spettacolo; ero consapevole di cosa stessero pensando: “Non vorremmo essere nei tuoi
panni amico”. Tra di loro c'era addirittura qualcuno che se la ridacchiava. Accennai un sorriso imbarazzato, mi sentivo stupido
e me ne vergognai. Poi uno di loro si alzò e venne verso di me.
Per cercare di togliermi dall'imbarazzo dissi: «Bel casino
vero?»
«E già... bel casino» rispose lui, imitando una smorfia di dolore. «È da un po' che ti osservo e non so per quale motivo non
sia venuto a svegliarti. Sono uno stupido, ti chiedo scusa anche
da parte loro» e indicò il resto della comitiva.
«Figurati, ci mancherebbe, lo stupido sono io che ho preso
sonno sotto questo sole. Dalle mie parti dopo le tre inizia ad
addolcirsi, ma qui a quanto pare scotta ancora adesso.»
«Prima regola d'oro: se non vedi dei letti attorno a te allora
non è un posto sicuro per dormire.»
«Ce ne sono altre?» Domandai divertito.
«Certamente. Ma una cosa per volta. Comunque dovresti
metterci qualcosa se non vuoi passare la notte in bianco. Credo
che Rachel abbia la cura che fa per te.»
«Ma io... non vorrei... insomma disturbare.»
«Ma che disturbo?» Ribatté sorridendo, poi insistette affinché mi unissi al suo gruppo.
Mi presentò agli altri e alla famosa Rachel; era una tipa con
la fissa delle piante medicamentali e aveva un aspetto decisa54
mente mutuato a quello degli indiani d'America. Due trecce
lunghissime le scendevano sulle spalle e una bandana di lino le
fasciava il capo. La sua pelle era abbronzatissima, e se non fosse stato per il suo accento tedesco l'avrei sicuramente scambiata per una dominicana. «Guarda cosa ti sei combinato?» Disse
con tono confidenziale.
«Lo so, sono un disastro.»
«Non ti preoccupare, adesso ci pensa Rachel» esclamò, avvolgendomi nella sicurezza del suo timbro di voce.
Infilò la mano in una borsa termica e ne estrasse delle foglie
di aloe avvolte nella pellicola per alimenti. Ne prese una e con
un coltellino la incise delicatamente fino a separare due metà
perfettamente uguali. Poi iniziò a raschiarle e fece colare il liquido gelatinoso in un bicchiere di vetro.
«Dici che funziona?» Chiesi, più che altro per rompere il silenzio.
«Più di quanto immagini» replicò quasi infastidita.
«Non sarebbe meglio un po' di Nivea o roba del genere?»
«Stai scherzando spero!»
In verità sì, stavo scherzando, avevo presente il tipo e per
rendere meno disagevole quell'attesa, provavo a fare il simpaticone e a stuzzicarla.
«Lascia stare quella merda, contiene paraffina, un derivato
del petrolio, ti devasta la pelle.»
«Beh, però la usano tutti.»
«Anche il petrolio lo usano tutti, ma potresti mai dire che sia
innocuo?»
«Effettivamente...»
«Ecco, adesso sta buono e lascia fare a me.»
Continuò la sua operazione di raschiatura, e mentre ammiravo il suo lavoro meticoloso e quasi amorevole, gli altri raggiunsero a nuoto una piattaforma di legno galleggiante e iniziarono
una gara di tuffi, che consisteva nell'eseguire capriole perfette.
I più bravi erano Markus, il ragazzo con il quale avevo parlato
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in precedenza, e una ragazza che a malapena aveva ricambiato
il mio saluto. Pilar, mi parve di aver detto di chiamarsi.
«Tu sei tedesca?» Le chiesi per scambiare due chiacchiere.
«Sono austriaca.»
«Fredda l'Austria eh?»
«Non più di molte persone. Ci sei stato?»
«Qualche anno fa sono stato a Vienna di passaggio. Molto
bella.»
«La bellezza è un'illusione.»
Pensai che era un tantino presto per avventurarmi in disamine filosofiche. Nonostante tutto cercai di stare al suo gioco.
«Ma non sempre le illusioni sono spiacevoli.»
«Beh, dimmene una piacevole allora?» Disse di rimando.
«Uhm, vediamo... i film in 3D.»
Rachel scoppiò a ridere, mi lanciò uno sguardo di approvazione, poi mi pregò di stendermi pancia in su per agevolare
l'applicazione dell'estratto di aloe.
«Ma io veramente...»
«Non dirmi che ti vergogni!»
Uno degli aspetti che mi fa arrossire maggiormente è il pensiero che una ragazza appena conosciuta possa toccarmi i rotoli
di ciccia sulla pancia o magari le maniglie dell'amore. Loro ci
godono – queste cose le fanno impazzire – ma per me sono optional sgradevoli che ho sempre cercato di camuffare attraverso
penosi trucchetti. Anche se in estate l'occultamento forzato diviene pressoché impossibile. Rachel, però, ci sapeva fare e mi
mise subito a mio agio. Persino il suo mutismo era accomodante, ed è raro poter condividere il silenzio con un estraneo senza
sentirsi di troppo, o in dovere di pronunciare una qualsiasi
stronzata.
«Va bene, abusa pure del mio corpo.»
Come una mamma che spalma olio d'oliva sul culetto del
proprio bambino, così Rachel stese quell'unguento sulle parti
nude del mio corpo a rischio eritema. Passò il suo delicato mas56
saggio ovunque ve ne fu bisogno, fino ad arrivare sul mio viso.
Era la prima volta che una perfetta sconosciuta si mettesse ad
accarezzarmi premurosamente con una tale naturalezza. La
cosa, a essere sincero, non mi imbarazzò per nulla. Quando
ebbe finito mi prodigai in ringraziamenti, ma mi fece intendere
che per lei alcune azioni erano spontanee e che le mie cerimonie erano poco gradite.
Il sole era appena tramontato e gli altri avevano raggiunto il
loro alloggi, soltanto Markus si trattenne ancora un po' per invitarmi a trascorrere la serata insieme. Mi turbò il pensiero che
la mia catapecchia fosse distante una buona mezz'ora di viaggio, e lo feci presente con un certo allarmismo. Accettò il mio
rifiuto, ma mi fece promettere che ci saremmo rivisti, disse che
quando mi andava sapevo dove trovarli. Infine, aggiunse
un'informazione non richiesta:
«Se non ti va di fare chilometri per trovare un posto tranquillo, poco più avanti di Ipsos trovi Barbati, è una spiaggetta
molto carina e tranquilla.»
Eva mi aveva già parlato di quella località.
Il ritorno fu traumatico, il sole si era eclissato cedendo
all'imbrunire il dettato di nuove regole climatiche. La sola Tshirt non bastò ad attenuare la brezza fredda, che unita al senso
di gelo provocato dalla cura naturale di Rachel, mi faceva battere i denti. Appena giunto a casa l'unico modo per ritrovare la
pace fu sotto gli spruzzi caldi della doccia, che malauguratamente lavarono via anche il miracoloso unguento curativo.
Prima di arrivare a Ipsos avevo fatto una breve sosta a Dassia per comprare dei viveri, qualche zampirone e una bomboletta di Autan, non volevo ripetere l'esperienza della sera precedente. Sulla strada principale c'era un Market che pareva essere
la meta obbligata per tutti quei villeggianti dell'ultima ora, bisognosi di foraggio. Il parcheggio era gremito di scooter e il via
vai di gente carica di bustoni della spesa furono quel leitmotiv
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dissuasivo che mi spinse a cercare oltre. Mi intrufolai in un vicolo, agli angoli del quale capeggiavano due negozietti di souvenirs. Poco più giù trovai una bottega che, nonostante l'aspetto
anonimo, pareva essere ben rifornita. Fu lì che conobbi
Angelos, il proprietario, con il quale ebbi uno scambio di
battute sui luoghi dell'Isola che meritavano particolari attenzioni. Disse che i depliant turistici hanno questi nomi proprio perché si rivolgono ai turisti, e che se avessi voluto visitare zone
davvero interessanti avrei fatto bene a dargli ascolto. La cosa
accrebbe in me quello spirito pionieristico che dalla scoperta
del mio pisellino non mi aveva mai più abbandonato, e mi sentii attraversato da una sorgente di sapere e conoscenza, alla
quale solo a pochi eletti è consentito l'accesso. Ascoltai molto
attentamente i suoi consigli, l'Isola non aveva segreti per lui, e
io ne feci tesoro. Fu davvero molto cortese nei miei confronti e
prima di andare via mi regalò un accendino con la scritta “I
Love Isola”, di quelli con il cuore al posto della scritta “Love”.
Angelos era di media altezza e aveva uno stile hawaiano. Indossava una camicia a mezze maniche dai toni sgargianti e i
suoi capelli erano corti, neri e riccioluti. Gli occhiali da vista
sulla sua faccia scarna lo mettevano in connessione con il pensiero filosofico dei suoi antenati. Avevo trovato il mio negoziante di fiducia, nonché alto consigliere, e anche queste piccolezze per me avevano il sapore di una valorosa conquista.
D'altronde, chi di noi non si è sentito un po' più adulto solo per
essersi svuotato la vescica per strada?
58
5.
“La cellulite è una malattia, un medicinale può combatterla.”
(Somatoline aka Televisione)
Q
uella mattina mi svegliai senza punture di zanzara, di
contro le scottature del giorno prima mi provocavano
brividi lancinanti. Il desiderio era quello di strapparmi la
carne di dosso. Indossai il costume e uscii alla svelta, avevo bisogno di prendere aria e di fare un tuffo in acque gelide quanto
prima. Per strada la vista delle piscine nei residence mi faceva
venire l'acquolina in bocca.
Entrai nel solito bar, di certo non per il suo rinomato caffè,
più che altro per aggiornarmi sulla rivolta civile che era in corso in terra natia. Bevvi la solita ciofeca e dalle poche informazioni che giunsero al mio orecchio mi parve di capire che la situazione sugli scontri fosse notevolmente peggiorata. Era decisamente una buona notizia. Il sistema doveva crollare.
Me ne andai ramingo sullo scooter, ma questa volta mi diressi verso nord, prendendo per buono il suggerimento di Markus. Anche se, a dire il vero, a fare capolino erano state le parole di Eva.
Barbati non era molto lontana da Ipsos. Le salite, i tornanti e
la splendida vegetazione mi inebriarono per una decina di minuti circa, dopodiché la zona montuosa invertì la pendenza e
mi condusse verso gli accessi alla spiaggia. Lungo la strada ce
n'erano molti, in prevalenza sterrati, ma preferii raggiungere
terre meno sdrucciolevoli. Imboccai una ripida discesa asfaltata, fiancheggiata da villette e ristoranti, e subito arrivai
all'ombra di un piccolo boschetto antistante la spiaggia. Qui
c'erano dei chioschi in legno molto eleganti, e i tavolini, disposti ordinatamente su ampie pedane di legno, nonostante la gio59
vane ora erano in prevalenza occupati. Sicuramente verso pranzo sarebbero stati saccheggiati, quindi li esclusi categoricamente come punti di ristoro; inoltre avevano un'aria decisamente
troppo blasonata, di quelle che fanno impallidire il portafoglio.
Avrei provveduto al pranzo più tardi. Parcheggiai il motorino
sotto un albero e mi spinsi in perlustrazione, anche qui c'era un
dominio assoluto di ciottoli, ma leggermente più grandi rispetto
a quelli di Paleokastritsa. La spiaggia era lunghissima e l'acqua
inevitabilmente meravigliosa. Da quel punto era possibile osservare i confini frastagliati dell'isola che dalla zona nord di
Kalami si estendevano a sud verso Kerkyra – conosciuta anche
come Isola City. Al largo le barche a vela di passaggio rendevano la scena un capolavoro pittorico, al di là di esse c'erano le
invisibili sponde continentali. Angelos mi aveva parlato poco
di Barbati, forse perché la riteneva un po' troppo melensa per i
suoi canoni, ma ciò che i miei occhi stavano osservando andava forse in contrasto con alcuni suoi stereotipi. Barbati era
splendida.
Alla vista di quella moltitudine di bagnanti mi resi conto di
non avere con me gli utensili necessari per trascorrere una giornata di mare senza troppi sbattimenti. Togliersi la maglietta sarebbe stato un suicidio, così mi sedetti al tavolino di un chioschetto in penombra e ordinai da bere. Venni a scoprire che
sull'Isola, nelle ore diurne (e anche notturne), la gente ama bere
Ouzo, un distillato secco al sapore di anice, che allungato con
acqua e ghiaccio svolge la doppia azione di dissetante e disinibitore. A giudicare dagli sguardi lucidi e ricurvi, e dalle grida
spassose, pareva proprio che la cosa funzionasse. Era quello
che mi ci voleva: un graduale riduttore di lucidità, anche per lenire la brace che sfrigolava incessante sulla mia carne. Ne bevvi un paio e nel frattempo ricevetti la telefonata di mia madre.
Il primo squillo riattivò in me il senso del possesso e compresi
quanto fosse aberrante la presenza di un telefonino cellulare in
quell'estatica dimensione. Si finse emancipata, ma nonostante
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tutto non fece altro che inciampare sulle sue solite manie nevrotiche. Disse che era preoccupata per me, per via dei “moti
rivoluzionari”, ma le feci presente che i miei piedi toccavano
terre non interessate dal fenomeno e che tuttalpiù dovevo essere io a preoccuparmi per lei. Mi esortò a tornare il prima possibile, ma ovviamente non avevo nessuna intenzione di starla a
sentire. Mandato giù l'ultimo sorso capii che era arrivato il momento di riattivarsi. L'Ouzo aveva fatto effetto. Tornai allo
scooter e risalii sulla strada principale alla ricerca di un negozietto di alimentari. Ce n'era uno all'incirca a una ventina di
metri. Comprai del pancarrè e una confezione di formaggio a
fette. Per non farmi mancare nulla presi anche un paio di lattine
di Mythos da 33 e una confezione di tabacco Black Devil. Solo
dopo aver pagato feci caso al reparto “mare”, dove mi vennero
incontro le famose stuoie di paglia e gli ombrelloni in miniatura. In mancanza del naturale unguento di Rachel fui costretto a
prendere anche della crema protettiva. Ritornai in spiaggia e mi
scelsi un angolino nei pressi del Boat Hire, era la zona meno
affollata. Fissai l'ombrellone e mi sbarazzai della T-Shirt. Erano
le 11.00 ma il sole già picchiava come uno squadrista. Sentivo i
suoi raggi profanarmi da ogni dove, rimbalzavano sull'acqua e
sui ciottoli e si conficcavano nella mia carne cruda. I brividi
strisciavano sottopelle, su e giù, come malevole lucertoline, su
e giù. Stavo rischiando troppo; mi impiastricciai con quella
schifezza chimica. Non potevo fare altrimenti, Rachel avrebbe
capito, o forse no.
Fui costretto a mandare giù le birre tutte d'un fiato; da lì a
breve sarebbero divenute brodaglia. La miscela alcolica iniziò
a farsi sentire e il sudore prese a scorrere a fiumi, ne avevo la
fronte inzuppata. Il caldo era davvero nefasto, ma io lo adoravo. Mi tuffai nell'acqua viva di quel posto e ne sentii la sua anima rigenerante. Era come se tutte le energie spese negli anni ritornassero dal passato per congiungersi ai punti nevralgici del
mio corpo. Avrei voluto rimanerci in eterno, ma le evidenti
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grinze sui polpastrelli mi suggerirono che poteva bastare.
Quando venni fuori realizzai che era trascorsa più di un'ora, e
in quell'ora io non avevo avuto corpo, né mente, ma ero stato
soltanto un puntino di vita fuso in una conferenza energetica di
livello superiore.
Prima di potersi immergere in quella meravigliosa sorgente,
paragonabile soltanto alle lacrime di Dio, bisognava attraversare un nugolo di ciottoli scivolosi che, seppure levigati, procuravano un intenso dolore che dalla pianta del piede si propagava
al resto del corpo. Era il prezzo da pagare per poter godere di
tanta magnificenza. Forse erano stati messi lì proprio per ricordare a tutti che a questo mondo la bellezza ha un prezzo.
Nel pomeriggio scrissi una poesia. Non avevo carta e penna,
quindi fui costretto a improvvisare, annacquando la mia vena
artistica attraverso mezzi poco convenzionali: il mio telefonino.
Ero contrariato nei miei confronti, ma nemmeno potevo permettere che il tempo cancellasse dalla mia mente quel rigetto di
emozioni. La lirica e le osservazioni più melodiose saltano fuori sempre nei momenti meno opportuni. Mi succede sovente
nelle fasi prima del sonno, quando questo diviene schiacciante
e non ho la forza necessaria per afferrare il taccuino. Mi tornò
alla mente un passaggio di Tropico del Cancro in cui Miller sosteneva che le idee migliori gli venivano per strada, quando era
lontano dalla sua macchina da scrivere, e che avrebbe dovuto
assumere una segretaria che lo seguisse solo in quelle occasioni, per appuntare i suoi pensieri su carta.
È davvero buffo come a volte l'atto del concentrarsi sia soltanto un deterrente alla creazione artistica, mentre i migliori
componimenti siano frutto di continue e meccaniche distrazioni. Tuttavia i fiori di loto, è risaputo, crescono nel fango, e oltrepassando la grettezza di quel ridicolo tastierino riuscii e tirare fuori una cosa come questa:
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Terra, non sono degno del tuo sangue,
sono tuo figlio è vero,
ma quale figlio si gusta lo stupro della propria madre?
Quale figlio si masturba su tale scempio?
Non posso vivere dentro di te, madre,
senza provare pena e dolore per me stesso.
Non ho braccia per abbracciarti,
non ho occhi per piangerti,
ma soltanto un cuore per ammazzarti.
Terra tu sei mia madre,
ma io non sono il frutto del tuo ventre,
e se nella tua natura si cela il mio odio,
nel tuo amore si schiude la mia condanna.
In serata, dopo aver fatto ritorno a casa, l'avrei trascritta sul
mio moleskine, che avevo ribattezzato “The Great Gig in the
Sheet”.
Erano appena trascorse le 17.00, quando un ragazzo dai
modi effeminati venne a chiedermi un accendino. La questione
è che per un fumatore, degno di tale nome, l'accendino è come
una protesi, in mancanza di esso si vive in situazioni di profondo disagio. Si può fumare anche senza sigarette, ma se non hai
un accendino, non fumi. Di accendini ne avevo sempre più di
uno, e ne regalai uno a quel ragazzo, che apprezzando particolarmente il gesto mi invitò a tirare un po' d'erba. Io rifiutati, ma
lui non si diede per vinto e venne a sdraiarsi sotto il mio ombrellone con uno spinello infilato in bocca. Non che la cosa mi
dispiacesse, d'altronde le vacanze in solitaria servono anche a
questo, ad ampliare la propria rete di conoscenze, ma non ho
mai amato particolarmente chi si autoinvita. In verità capii quasi immediatamente che era perfettamente in grado di farsi perdonare la sfrontatezza. Disse di chiamarsi Pedro e che per il secondo anno di seguito trascorreva le vacanze sull'Isola. Era ma63
gro e alto, aveva i capelli lunghi e raccolti in una coda di cavallo che gli carezzava la schiena. Il suo volto abbronzato e scarno
contrastava con le sue labbra carnose, e la barba incolta tentava
faticosamente di camuffare la sua femminilità. Mi raccontò dei
suoi viaggi in giro per il mondo ed ebbe da ridire sul fatto che
l'unico popolo che gli aveva fatto pesare la sua “diversità” (e
non solo verbalmente) era quello al quale appartenevo. La cosa
non mi sorprese per niente, però tentai di dire la mia.
«Sai, credo che già il fatto di identificarci in una nazione o
in un popolo ci renda troppo trogloditi. Insomma i gorilla del
Congo si sentono forse diversi da quelli Nigeriani? E questi ultimi hanno forse pregiudizi nei confronti di quelli del Ruanda?
Non vedo per quale ragione dobbiamo portarci continuamente
appresso la zavorra delle nostre radici. Siamo esseri umani,
stop. Quindi anche la tua affermazione la trovo un tantino razzista. In fondo siamo tutti un po' razzisti. Io per esempio sono
razzista con i razzisti. È l'odio che ci frega, se crediamo di
sconfiggerlo con altro odio siamo solo degli illusi, l'odio si
sconfigge solo con l'amore.»
Pedro si sentì spiazzato dalla mia risposta, iniziò a umettarsi
le labbra e a mordersi nervosamente l'unghia del pollice. Sulla
sua espressione si tracciò un lungo punto di domanda e i suoi
occhi apparvero più brillanti. Tentava di ragionare su una risposta che non fosse banale. Aspirò con voracità lo spinello, ne
vidi la punta gonfiarsi e ardere velocemente, e sentii lo scoppiettio dell'erba seguito dal suo intenso odore. Poi con un gesto
aggraziato me lo porse.
«D'accordo, però non puoi negare che esistano caratteri
comportamentali diversi all'interno dei gorilla stessi, e questi
caratteri potrebbero estendersi fino a rappresentare intere culture.»
«Non lo nego, ma qui la questione è diversa, quando un carattere è imposto, quando per millenni ci viene programmata la
coscienza, allora un determinato comportamento diviene ge64
netico e siamo sempre meno colpevoli per esso.»
«Quindi vorresti dirmi che la vostra coscienza è stata programmata e la nostra no?»
«Non esattamente, anche la vostra è stata programmata, ma
con un linguaggio di programmazione diverso, quasi sicuramente meno invasivo.»
«Non mi convince molto.»
«Va bene, ti faccio una domanda. Da voi ci sono spiagge nudisti?»
«Certo!»
«Da noi no, ti sei mai chiesto il perché?»
«In verità no, ma forse ho capito dove vuoi arrivare. Se non
ci limitassimo a ragionare secondo una logica binaria molto
probabilmente riusciremmo a immaginare il mondo a colori.»
L'erba iniziava a rincoglionirci di brutto e fu chiaro a entrambi che avevamo trovato un punto di congiunzione su
quell'argomento; continuarlo sarebbe stato inutile, ma nonostante tutto volle ugualmente omaggiarmi con un'ultima riflessione, che a essere sinceri non capii.
«Sai? Alcuni luoghi sono raggiungibili soltanto attraverso la
linea di sangue!» E non aggiunse altro.
Devo ammettere, però, che la compagnia di Pedro fu davvero piacevole, si capiva che era una persona molto colta e caritatevole. I suoi gesti, le sue movenze, facevano rifulgere la bontà
e la bellezza che erano in lui. Probabilmente aveva sofferto
molto per il suo modo di amare. Chissà quanta gente gli aveva
sbattuto in faccia quel falso disonore? L'ipocrisia che nel suo
cuore c'era soltanto aberrazione e depravazione. Come se
l'amore fosse a senso unico e percorrerlo dal verso opposto
avrebbe comportato l'annullamento dell'amore stesso. Ma chi
ha amato veramente sa benissimo che la sua corsia conduce in
un luogo soltanto: all'amore. E lì, dove eravamo noi, si libravano eterne le strofe di Saffo, che ci facevano sognare e sentire al
sicuro.
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Ci scambiammo i numeri di telefono, disse che era solito
passare le serate nei locali di Ipsos. Sapevo che non avrei mai
messo piede in quelle bettole, ma non mi andò di metterlo al
corrente sulle mie tendenze. Lo salutai dicendo che ci saremmo
rivisti in giro. Quando il boschetto alle mie spalle lo inghiottì
insieme alla sua piccola comitiva, il sole era alto nel cielo e
mostrava ancora un certo vigore. Erano quasi le 18.00 e lo spinello mi aveva seccato la gola, avevo sete e dopo un po' anche
lo stomaco iniziò a borbottare.
Al bar presi un panino al prosciutto e la solita Mythos, ma
non mi sedetti, preferii consumare il pasto sotto l'ombrellone.
La spiaggia si era quasi svuotata, adesso i raggi solari avevano
perso perpendicolarità, arrivavano obliqui, e l'aria si faceva fresca. Non avvertivo più quei brividi di gelo provocati dalle scottature, l'erba aveva fatto effetto, e la mia pelle era in via di guarigione. Il mare aveva cambiato tonalità, passando dal turchese
al verde smeraldo, ed erano sempre meno le persone che ne approfittavano per il bagno di chiusura. Mandai giù l'ultimo sorso
di birra e fu allora che lo vidi: un uomo dall'aspetto tarchiato e
scuro di carnagione comparve dal cancelletto di un piccolo recinto sulla duna, e si diresse verso la riva. Lì si sedette su una
seggiola portatile e suoi occhi si sintonizzarono con l'orizzonte.
Aveva i capelli ricci e consumati dal sole, e sul volto – bruciato
– il tempo aveva scavato solchi marcati ma gentili. Accese una
sigaretta e senza mai toglierla di bocca iniziò a consumarla. Il
fumo che gli usciva dalle narici era così denso che, prima di
dissolversi, ristagnava per un po' attorno alla sua faccia, formando dei nembi in miniatura che lentamente risalivano lungo
la sua folta barba. Sarebbe stato impossibile per chiunque non
venirne accecato, eppure lui non emetteva nemmeno una smorfia di fastidio. Era un uomo rozzo e aggraziato al tempo stesso.
Proiettava un'aura di saggezza e antichità, e i suoi movimenti
plastici catturavano l'attenzione degli sguardi più disinteressati.
La sua sagoma caricava di poesia la dialettica di quei fondali
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sempre più affamati di bellezza. Avvertii l'inconsueta sensazione che senza di lui tutto il resto fosse destinato a scomparire da
un momento all'altro. Non riuscivo a smettere di osservarlo. Se
la bellezza è negli occhi di chi guarda, allora perché chi guarda
non la riconosce quasi mai? Quell'uomo rappresentava tutto ciò
che avevo sempre desiderato essere: purezza.
Da una piccola cassetta da pesca tirò fuori della lenza,
all'estremità della quale era fissato un amo. Ci infilzò con accuratezza un verme e poi con un movimento rotatorio e deciso del
braccio destro lanciò il filo che, sotto il peso del piombo, raggiunse una distanza sbalorditiva. Poco dopo iniziò a tirarlo a sé
e sui ciottoli bagnati prese a dimenarsi un piccolo pesce. Lo afferrò con delicatezza e allo stesso modo sfilò via l'amo dalla
sua bocca, dopodiché lo gettò in un secchio di plastica semitrasparente, che coprì con uno straccio di lino. Andò avanti così
per tutto il tempo, e dopo circa una mezzora quel contenitore
era già pieno a metà. Non avevo mai visto una cosa del genere.
Era come se l'unica ragione di vita di quei pesci fosse quella di
essere catturati da quell'uomo. Facevano a gara a chi abboccava
per primo. Se non fossi stato lì ad assistere in prima persona
avrei fatto fatica a crederci. Rimasi ammutolito ad ammirare
quel capolavoro antropico, rapito dalla perfezione di ogni suo
statuario movimento. Anche nel suo modo di fumare c'era una
sorta di trasmissione serafica. A dire il vero, era il fumo stesso
ad assumere sembianze magiche, sembrava un'identità vivente
che si premurava di carezzargli delicatamente la bianca barba.
Quando ebbe finito il cielo si era quasi spento, i chioschi sulla
spiaggia avevano acceso le lanterne e la notte ridisegnava il suo
meraviglioso manto con pennellate più piatte a toni scuri. Ancora una volta avevo perso la cognizione del tempo e attorno a
me non ci fu più anima viva, ma non mi sentivo ancora pronto
per abbandonare quel luogo. Dovevo aspettare che lo facesse
prima lui. E così fu. Si alzò, richiuse la seggiola e sistemò le
sue cose, poi afferrò il secchio colmo di pesci e si diresse in di67
rezione della duna. Prima di oltrepassare il cancelletto, però,
esitò un attimo, si voltò verso di me e il suo sguardo mi attraversò gelido. Sentii la punta di un chiodo rigarmi la schiena.
Poi scomparve nel buio.
Forse mi aveva lanciato quell'occhiata perché gli era sembrato insolito che in spiaggia fossi rimasto solo io, sta di fatto
che mi aveva messo in apprensione. Come dire, era stato inquietante, e per un istante avevo avvertito turbamento nei suoi
pensieri. Quel finale inaspettato mi aveva raccontato qualcosa
di nuovo, che non ero stato in grado di comprendere attraverso
il semplice meccanismo dell'osservazione. La sensazione che
avevo percepito non era casuale. Da lì a breve, avrei dovuto
iniziare a rifletterci.
Quando mi avviai verso casa era quasi notte. Le vette delle
montagne si sfumavano di un arancione acceso e il vento ululava tra gli alberi. Erano arrivati gli incendi, adesso si vedevano,
come era divenuto udibile il rombo costante dei Canadair che
continuavano la loro parata per spegnerli. Quella sera cucinai le
pennette con olive e capperi che, accompagnate da una bottiglia di vino scadente, consumai sul terrazzino. Il vento soffiava
forte, ruggiva tra le foglie e graffiava l'erba. Sembrava come se
la vallata fosse divenuta una torta di compleanno gigante, sulla
quale Eolo continuava infaticabile a soffiarci sopra per spegnere le candeline. E mentre quell'aspro fruscio mi rinfrescava la
pelle, pensavo a Eva. Non riuscivo proprio a fare a meno del
suo richiamo. La sua immagine come un'edera si era avvinghiata alle pareti della mia mente divenendo sempre più nitida.
Pensavo alla sua lingua dentro la mia bocca e il suo corpo
schiacciato contro il mio; sentivo l'umido calore del suo ventre
e la mia bocca colma dei suoi capezzoli. Non ce la feci a tenere
a freno quella mano: andai in bagno e mi scaricai nel lavandino. Stranamente, però, avvertii un profondo senso di disturbo.
Ero stanco e non avevo voglia di uscire. Stetti fino a tardi a
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respirare quel vento salmastro e dopo un po' il pensiero di Eva
fu sostituito da quello del pescatore. L'inquietudine salì nuovamente. Chi era quell'uomo? E perché mi aveva serbato quello
sguardo? Mi sentivo confuso, ma allo stesso tempo la sua figura mi rapiva, come se tra noi ci fosse un ignoto legame.
Verso le 2.00 la coppietta dell'appartamentino accanto rincasò, erano ubriachi fradici perché quell'ora tarda non costituì un
deterrente alle loro sgangherate risate ed effusioni. Spensi le
luci e mi godetti i loro lenti vagiti: il respiro affannoso di lei si
faceva sempre più crescente e di tanto in tanto una pronuncia
francese alterava il tono della sua voce. La notte amplificava i
suoni e potevo sentire tutto, come se la loro foia si stesse consumando nella mia stanza. Dopo un quarto d'ora vennero
insieme, il loro piacere esplose nella notte, dopodiché il silenzio ripiombò su ogni cosa. Provai invidia. Volevo essere lui e
desideravo che lei fosse Eva, ma mi sarebbero bastati soltanto
abbracci, carezze e sussurri, senza sesso. E con questo pensiero
mi addormentai.
Il giorno seguente decisi di tornare a Paleokastritsa, era arrivato il momento di irrobustire i rapporti interpersonali. Feci
tappa presso un negozio di souvenirs a Ipsos, avevo bisogno di
un paio di occhiali da sole. Il tragitto era lungo e l'ultima volta
gli insetti mi avevano devastato gli occhi. All'entrata c'era un
espositore di quelli girevoli stracolmo di Ray Ban modello vintage, ce n'erano per tutti i gusti. Per 5 euro avrei fatto questa
pazzia. Ne acquistai un paio di colore giallo, e presi anche un
cappello tipo safari. Mi sarebbe piaciuto prendere il panama,
ma avrebbe stonato parecchio.
Arrivai a Paleokastritsa verso le 10.00 del mattino. Markus e
gli altri erano già in spiaggia. Mi venne incontro con un sorriso
sfarzoso, pareva che ci conoscessimo da una vita, e anche il resto della comitiva parve meno distaccata dell'ultima volta. Rachel mi chiese come andavano le mie ustioni e io risposi che
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stavano guarendo, ma evitai di dirle che ero stato costretto ad
applicare una paio di volte la Nivea. Non me la volevo inimicare. Tranne Pilar, Markus e Rachel, gli altri erano fidanzati.
C'erano Cristian e Ginger, inglesi solo nell'aspetto. Poi Alex e
Manu, miei compaesani, ma trapiantati in Olanda, e infine Peter e Lena, tedeschi, ma con una padronanza della mia lingua
da far invidia a un insegnante di Lettere. A fine giornata avrei
scoperto che queste ultime due coppie sarebbero partite il mattino successivo per nuove mete. Pilar era carina, il suo viso
gentile stonava decisamente con la sua voce rauca e mascolina.
Aveva un fisico asciutto e sodo, capelli bruni, e occhi celesti
che esaltavano una pelle scurissima. Il suo modo di gesticolare
pareva quello di una bambina. Rimarcava con le mani ogni
concetto incidendolo nell'aria, come a volerlo fissare con chiarezza per non essere fraintesa.
La giornata trascorse tra una chiacchiera e un tuffo, cercai di
farmi conoscere più a fondo; scavai nel mio passato per offrire
loro racconti anche molto intimi. D'altronde nessuno custodisce
meglio un segreto di un conoscente passeggero. Gli dissi della
mia condizione di orfano, e che ricordavo poco e niente della
mia prima infanzia. Però evitai di mostrargli l'unico cimelio
che a essa mi legava: un piccolo delfino d'argento, sul quale era
incisa un'iscrizione “╙╞╝╢╘╦”. Non avevo mai saputo cosa
significasse, e nemmeno mi ero mai premurato di scoprirne il
significato. Avevo sempre rifiutato di indagare, era come se
quegli strani segni racchiudessero un segreto che una volta
svelato avrebbe potuto arrecare delusione e sofferenza.
Perferivo relegarlo nel limbo delle fantasie e dei sogni mai
avverati. La prima volta che la mia madre adottiva lo posò tra
le mie mani mi trasmise un gelo penetrante, quasi mi intorpidì
le dita. Avevo cinque anni a quei tempi, e l'unica cosa che disse
fu: «Questo ti lega al tuo passato. Tienilo sempre con te!». Solo
questo disse. Ma io sapevo che i legami sono fatti di carne e
pianti, e che nessun metallo avrebbe mai potuto riempire il
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vuoto degli affetti perduti. Non lo feci vedere a nessuno perché
era troppo caro per me, e non volevo che fosse oggetto di analisi e osservazioni. Tanto nessuno ti capisce mai e si finisce sempre con l'essere compatiti. E io detesto essere compatito.
Anche loro si sbottonarono parecchio, qualcuno addirittura
ironizzò sulle qualità sessuali del proprio partner. Poi, quando
l'enfasi si posò, li misi al corrente delle rivelazioni di Angelos e
mi fu risposto che quei posti li conoscevano bene, e che se li
avessi onorati con la mia amicizia, erano previste nuove tappe
alle quali avrei potuto partecipare.
Verso il tardi Markus mi invitò nuovamente a trascorrere la
serata insieme, disse che avevano organizzato una festicciola a
casa di Cristian e Ginger e che non potevo mancare. Dopo
qualche esitazione accettai, anche se feci presente di non avere
nessun cambio da indossare per la serata. Ma per lui cose del
genere non avevano importanza alcuna, diceva che l'importante
era esserci e non apparire.
All'imbrunire risalimmo e fui ospite di Markus, Rachel e Pilar. Alloggiavano in una villetta che si affacciava sul mare. Le
vetrate del soggiorno si soffermavano dapprima su un piccolo,
seppur sontuoso giardino, dopodiché si sporgevano pian pian in
avanti per offrire il costante spettacolo delle acque cristalline di
Paleokastritsa, e della folta vegetazione di uliveti secolari che
la sormontava.
Markus mi prestò una camicia bianca a righe grigie, disse
che gli andava grande e che a me sarebbe calzata a pennello.
Poi prese un bermuda elasticizzato provvisto di retina, e mi
fece presente che avrei potuto indossarlo senza mutande. Lo
ringraziai e mi precipitai in bagno per fare la doccia. Si capiva
che quello fosse il bagno dove era solito rinfrancarsi Rachel,
non c'erano flaconi di shampoo e bagnoschiuma, ma soltanto
saponi naturali. Avvertivo un'intensa fragranza di lavanda, e
soltanto quel profumo era sufficiente a farmi sentire pulito. Il
dentifricio era ayurvedico e sulla confezione primeggiava la
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scritta “No fluoride”. Poi c'erano oli idratanti a base di canapa
indiana e altre essenze naturali. Rachel praticava il culto del
benessere fisico e spirituale.
Approfittai di quel ben di dio e quando uscii da sotto la doccia mi sentii rinvigorito. Anche le scottature andavano pian piano risanandosi.
Raggiunsi gli altri in soggiorno e bevemmo del vino bianco,
Pilar non era ancora pronta così ci incamminammo verso casa
di Cristian e Ginger da soli; lei ci avrebbe raggiunta in seguito.
Quando arrivammo c'era pochissimo movimento, d'altronde
erano appena trascorse le 21.00. La loro bicocca non aveva
niente da invidiare a quella di Markus e le altre, forse le mancava la vista sul mare, ma in compenso era provvista di un
grande giardino con piscina. I ragazzi erano ancora affaccendati nei preparativi e ci invitarono a bere e stuzzicare qualcosa dal
buffet. Iniziammo a mandare giù Ouzo allungato con acqua e
ghiaccio, e a mangiare tramezzini e altri snack, ma nonostante
il cibo nello stomaco, quella miscela di Ouzo e vino iniziò a
farsi sentire. Mi girava la testa e avvertivo un forte senso di
stordimento. In quello stato di esaltazione quasi ipnotica i flash
si susseguirono uno dopo l'altro e da lì a poco mi ritrovai accerchiato da facce sorridenti e mani palpeggianti che continuavano
a spintonarmi. La musica suonata ad alto volume mi toglieva la
possibilità di dialogo e a malapena percepivo le voci. Le parole
si dissolvevano lentamente, tramutandosi in sussurri in lontananza. Per tutta la serata avevo avvertito una presenza costante
e familiare lì vicino, ma non riuscivo a capire di chi si trattasse.
La sentivo; era amichevole, ma ero troppo ubriaco per darle un
volto. Lo stereo stava suonando una sorta di techno remix di
“Shook me all night long”. Di tanto in tanto Markus mi afferrava un braccio e iniziavamo a saltare sui quei bassi che facevano
vibrare il pavimento. Improvvisamente successe qualcosa che
mi fece trasecolare e il cuore si schiacciò contro la gola. Nel
mio limitato e sfocato campo visivo fece la sua apparizione il
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collo di una ragazza che indossava quella collana. «Eva!» sospirai. Era Eva, per un attimo mi era passata davanti. Tentai di
sciogliere il nodo che mi teneva attanagliato a quel groviglio
umano, dovevo assolutamente trovarla. Ma mi sentivo esausto,
un'artificiale fiacchezza sopraggiunse, e una volta venuto fuori
da quell'orda di corpi sudati sprofondai su una poltrona di vimini in giardino. L'ultimo ricordo, prima di collassare, fu una
mano femminile che infilò l'ennesimo bicchiere tra le mie
mani; dopodiché il nulla.
La presenza alle mie spalle si fece più inquietante e minacciosa. Il buio sempre più denso e l'aria limacciosa e irrespirabile. Odore di morte e putrefazione. Quella voce sottile e acida
era il soffio del demonio, racchiudeva in sé l'orrore secolare
della tortura. Le sue vibrazioni erano come una lama sfilata
violentemente dalla colonna vertebrale di un martire.
Un'energia malvagia mi attanagliava, era come se fossi legato, ma non vedevo catene ai miei polsi, tanto meno alle caviglie. Le mie labbra erano cucite, sentivo lo spago che le attraversava e la carne strapparsi. Potevo emettere solo un mugolio
di dolore e sapevo che parlare non sarebbe valso a nulla. Avrei
soltanto dovuto attendere delle istruzioni che dopo un periodo
dolorosamente lungo arrivarono.
«In questa cella vi sono due porte presidiate da due guardiani», farneticò quella voce stridula e spettrale, «una di esse non
è chiusa a chiave». Adesso un cono di luce soffusa iniziò a
scorrere piano sul pavimento, si allargò sempre di più, e lentamente raggiunse le pareti e poi le porte. Davanti a esse si materializzarono due grossi uomini che indossavano un saio nero,
avevano il capo coperto dal cappuccio. I loro volti mi fecero
sprofondare nel terrore più organico: non ne avevano. La loro
faccia era una superficie di carne simmetrica, piatta e inespressiva. Niente occhi, né naso, né bocca, non v'era traccia alcuna
di quelle rassicuranti irregolarità e imperfezioni che contraddi73
stinguono il viso umano. L'angoscia mi fece piegare in avanti
con un fendente sferrato allo stomaco. Poi la voce riprese il suo
delirio.
«Per tornare a essere libero devi riuscire a capire quale di
esse è aperta, ma per farlo ti è concessa una sola domanda da
poter porgere ai guardiani. C'è una cosa importante che devi sapere, uno dei due dice sempre la verità, e l'altro sempre la bugia, quindi rifletti attentamente su cosa chiedere». La luce si ritirò riconsegnandomi nuovamente alle tenebre.
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6.
“La fede è bella, coltivatela, ma non spacciatela per la verità.”
(Bill Hicks)
Sentivo la gola ardere e le tempie pulsare. Di nuovo
quell'orrendo incubo. La testa mi scoppiava, pareva un'incudine
brutalizzata da un maniscalco impazzito. Soltanto quando misi
a fuoco l'interno della stanza mi resi conto di essere nel mio alloggio. Come ci ero finito? Come avevo fatto a guidare in quello stato per l'intero tragitto? Non ricordavo niente. Assolutamente niente. Anche se altre volte mi erano capitate amnesie
dopo una sbronza, c'era qualcosa che non tornava. Era improbabile che avessi fatto tutta quella strada senza mai perdere il
controllo del mezzo. Qualcuno mi aveva accompagnato, non
poteva essere altrimenti. Non ci diedi peso, avrei iniziato a considerarlo un problema soltanto dopo i necessari trattamenti post
sbornia. Scolai un litro d'acqua tutto d'un fiato e mi infilai sotto
la doccia. Mi sentivo a pezzi e lo stomaco mordeva per la fame.
Divorai due sandwich al prosciutto e formaggio, e mi rimisi a
letto. Avevo bisogno di riposare, soltanto dormendo sarebbe
svanita quell'insopportabile emicrania.
Riaprii gli occhi nel pomeriggio, verso le 15.00. Era tardi
ormai per raggiungere gli altri, così decisi di ritornare a Barbati
per passarci il resto della giornata. Piantai l'ombrellone nello
stesso punto della volta precedente. Alcune abitudini ci fanno
sentire al sicuro, ma mettono in risalto anche la nostra stupidità. Come quando a scuola si sceglie il banco in fondo all'aula
con l'illusione che possa metterci al riparo dalla penna blu della
sig.na Trinciabue. Invece la nostra sorte è molto meno probabilistica, perché già scritta in ordine alfabetico su un registro di
colore rosso.
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Buttai uno sguardo in giro, molto probabilmente avevo bisogno di incrociare l'espressione gentile di Pedro. Ma non c'era
traccia di lui, né dei suoi amici. Da leggere avevo soltanto la
guida turistica, così iniziai a spulciarla, pagina dopo pagina:
balzai indietro nel tempo, catapultato alle origini della cultura e
delle tradizioni dell'Isola, il tutto durò una decina di minuti circa. Di tanto in tanto mi tuffavo per arginare la canicola. La
temperatura dell'acqua ingannava l'occhio, era sempre più fredda di come la vista la percepiva. Da sotto l'ombrellone si mostrava tiepida, al massimo fresca, ma quando m'immergevo era
da paralisi. E fu ritornando dall'ennesimo tuffo, mentre osservavo la brillantezza dell'acqua che si spumava d'argento sui
sassi della riva, che gli eventi della sera precedente tornarono a
farsi vivi. La ragazza che indossava quella collana era forse
Eva? E se così fosse, era mai possibile che non mi avesse visto
e riconosciuto? Stavo esagerando! Dovevo oltrepassare quel
sentiero psicologico tortuoso e distruttivo. La collana? Era soltanto una collana, punto. E un oggetto, in quanto tale, non si
imprime tra le stringhe del dna della persona che lo indossa.
Per come la vedevo, o per come cercavo di vederla, in giro ce
ne potevano essere a centinaia, forse a migliaia, e una di queste
era sicuramente finita al collo di un'invitata alla festa. Ma malgrado i continui voli pindarici, quei pensieri mi rendevano
sempre più irrequieto e continuavano ad alterare il mio stato
emozionale. Falcidiato da quella lotta mentale, il sonno sopraggiunse nuovamente.
Ritornai allo stato conscio un'oretta più tardi, verso le 19.00.
Con il cervello ancora intorpidito da un lieve stato di anossia,
mi resi conto che il pescatore era riapparso. Era di nuovo lì, e
questa volta a due passi da me. La scena si presentava identica
alla volta precedente; si perpetuava senza sosta. La lenza entrava in quella fonte adamantina formando anelli concentrici e
dopo poco ne fuoriusciva con all'estremità la piccola preda che
si dibatteva e saltellava sulla battima. Uno dopo l'altro, il sec76
chio trasparente si riempì di pesci, che a malapena riuscivano
ad allargare le branchie. A chi era destinato quel pasto luculliano? Pensai che quell'uomo dovesse avere numerose bocche da
sfamare se era solito rincasare ogni giorno con tutto quel sontuoso bottino. E mentre fantasticavo sulla loro ultima destinazione, mi resi conto che se avessi chiesto, alla peggio avrei ricevuto in cambio un po' di scortesia da parte di un perfetto sconosciuto.
Il pescatore aveva un forte ascendente su di me, e questo influsso non riuscivo a spiegarmelo. La mia anima, con un'insistenza quasi patologica, voleva convincermi che nella sua persona fosse racchiusa la chiave per aprire le porte del mio futuro, o del mio passato. Così, con fare compassato, cercai di avvicinarmi sempre di più a lui. Mi finsi interessato alla pesca e
iniziai a scodinzolargli attorno, come quei randagi che temono
la reazione dell'uomo, ma nonostante tutto ci provano.
«È parecchio pesce!»
Mi guardò con piglio infastidito, ma subito dopo le rughe attorno ai suoi occhi si distesero e nella sua voce si palesò gentilezza.
«Già.»
Capii immediatamente che era di poche parole, ma che comunque non disdegnava la mia compagnia. Una profonda saggezza tentava di sprigionarsi dalla sua aura e se avessi voluto
liberarla completamente avrei dovuto ridimensionare le mie
tecniche di comunicazione.
«Ho partecipato a molte battute di pesca in vita mia, ma una
cosa del genere non l'avevo mai vista.»
Accennò un sorriso di favore e nel frattempo iniziò a tirare
nuovamente la lenza a sé. La tecnica consisteva nell'arrotolarla
velocemente con una mano attorno al palmo dell'altra.
«Tu peschi?» Bofonchiò con il tono di chi non smette mai di
“imparare cose nuove”.
«Più che pescare adoro guardare.»
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La mia risposta gli piacque particolarmente, perché da lì in
avanti la conversazione divenne meno sdrucciolosa.
«E poi adoro tutto ciò che ha a che fare con il mare.» Aggiunsi.
Sul suo volto i lineamenti divennero più marcati. Tra un solco a l'altro pareva fosse iniziata a scorrere una sorta di malinconia.
«Solo chi ha un animo irrequieto è amante del mare.»
La sua risposta mi sorprese, ma suscitò profonda curiosità in
me.
«Perché dice questo?»
«Perché il mare è un mistero, nasconde segreti, non conosciamo nulla di esso.»
«E sono questi segreti a renderci irrequieti?»
«No. L'ossessione maniacale di non poterli svelare ci rende
irrequieti.»
A essere sincero mi stavo un po' perdendo, non riuscivo a
seguirlo, e per un attimo pensai malignamente che la senilità è
una malattia che non risparmia proprio nessuno. Dopo un po'
guardò verso l'orizzonte, pareva d'un tratto non essere più interessato alla sua abituale attività, poi fissò nuovamente gli occhi
sulla lenza e con una voce più appesantita disse:
«L'essere umano non conosce limiti, è convinto che per trovare la pace debba sempre spingersi oltre. E invece ignora totalmente il fatto che l'equilibrio, di cui va alla costante ricerca,
è racchiuso nella banalità del suo essere.»
Il pescatore aveva un non so che di esoterico. Nella sua personalità si mescolavano magia e religione, in uno spassionato
gioco di contraddizioni. Ma c'erano alcune sfumature in quel
suo fascino primordiale che lo facevano apparire inquietante.
Erano i suoi occhi. Aveva l'aspetto di un uomo vecchio, ma il
suo sguardo era giovane, dimostrava almeno la metà dei suoi
anni effettivi. Era innaturale a tal punto da farmi rabbrividire ad
ogni sua occhiata.
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Rimasi seduto al suo fianco, in silenzio, ad ammirare quella
sua maestria nel catturare le prede. Non chiesi se avesse dei
trucchi per fare ciò, non domandai quali bocche attendevano le
delizie del suo lavoro. Preferii ascoltare sommesso il tiepido
frinire della sua anima, che come un goccia d'acqua ribelle, alimentava la progressione di quel mare misterioso – come lo
aveva definito lui.
L'imbrunire iniziò la sua lenta avanzata; la spiaggia si era
spopolata, e fu allora che le modulazioni delle sue corde vocali
interruppero quell'incanto, restituendo alla vita la delusione del
reale.
«Hai fame?» Domandò d'impulso come se fossi stato un suo
vecchio conoscente.
«Beh, è quasi ora di cena.» Risposi, forse un po' stupito.
«Bene, allora seguimi.»
In verità, fino a quel momento non avevo preso in considerazione tale possibilità, anche se immotivatamente ci avevo
sperato. Forse sentivo di doverlo conoscere meglio, e non c'era
occasione migliore di farlo nel corso di una cena insieme. Non
proferii parola, avevo il timore che qualsiasi mia aggiunta verbale lo avrebbe portato a riconsiderare la sua posizione su
quell'invito. Lo aiutai a raccattare le sue cose e con calma e disinvoltura lo seguii.
A limitare il confine tra la duna a la spiaggia pietrosa di Barbati, si incrociava una passerella di legno lunghissima. Pareva
un serpente fatto di stecche ingrigite che ondulavano da un versante all'altro del litorale. Al di là di esso, da minuscoli crateri
affossati nella sabbia, si innalzavano i pali di una sbilenca staccionata, tenuta insieme alla meno peggio da fil di ferro arrugginito. Il cancelletto – anch'esso in legno – che faceva accedere
alla proprietà del pescatore, era decrepito, e svolgeva una funzione puramente scenica. Era, però, il proscenio verso una vegetazione affastellata e di vario genere, costituita prevalente79
mente da ulivi e altri alberi da frutto. Inoltrata a una trentina di
metri dentro quella piantagione si ergeva un piccola villetta di
un verde scolorito, appena percettibile, pareva quasi bianca,
con le pareti tutte screpolate e gli spigoli sbeccati. Un'edera
secca e spoglia formava vetuste rughe sulle superfici di quel lacero cemento, mentre le innumerevoli crepe sembravano più
delle ferite da taglio, dalle quali grondavano anni e anni di storia. A prima vista mi sembrò che la casa volesse venir giù da un
momento all'altro, ma quando fui più vicino avvertii una sorta
di rinvigorimento: un'energia bianca che raccontava una versione diversa sulla sua identità. Era solidissima. L'interno odorava
di chiuso e stantio, ma quell'olezzo non era fastidioso, anzi era
a tratti rassicurante. Gli ambienti erano piccoli. Il primo che incontrai fu la cucina, la porta principale dava direttamente su di
essa. Era vecchia ma accogliente. Sul pavimento di cotto antico
e polveroso, poggiava un tavolo di legno cesellato, era abbastanza ampio e aveva le gambe ancora robuste. Le quattro sedie
ai suoi lati avevano il poggia sedere in paglia consumata, quasi
sfondata, ed erano identiche a quelle che si vedono nelle taverne di una volta. Un cucinino a legna di colore bianco smaltato,
con evidenti sbucciature nere e rugginose, sottostava a due
mensoloni scalari, che sopportavano a fatica il peso di pentoloni di rame, barattoli di metallo e di vetro, e stoviglie varie. In
un angolo in fondo c'era un piccolo caminetto che si gustava gli
ultimi avanzi di alcuni tizzoni ancora ardenti. L'unica finestra
era coperta da una tenda decorata con roselline color malva e,
nonostante il sole fosse tramontato, forniva ancora tutta la luce
necessaria all'ambiente.
Il pescatore mi pregò di mettermi a mio agio (in verità mi ci
ero sentito all'istante), poi dal vecchio e ampio lavabo di ceramica prese un bicchiere e mi versò del vino rosso. Infilò della
legna nel cucinino e su un fornello poggiò una grossa pentola
con dell'acqua, alla quale aggiunse dei pomodori tagliati,
cipolle, sedano, un generoso filo d'olio e spezie varie. Accese
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una lampada a olio e mise altri tronchi ad ardere nel caminetto.
La brace al suo interno serviva per arrostire, ma non riuscii ad
immaginare cosa. Quando il brodo iniziò a ribollire ci rovesciò
dentro l'intero secchio di pesci senza nemmeno lavarli. A quel
gesto, quasi sicuramente, seguì una mia smorfia di disapprovazione. Infine coprì il tutto con un grosso coperchio d'alluminio,
che poco dopo iniziò a sussultare e a sbuffare vapore: i profumi
si sparsero ovunque. Erano indescrivibilmente buoni. Lo erano
talmente tanto, che mi veniva da sorridere.
Mi resi conto che la cena era quasi pronta e chiesi il permesso di darmi una rinfrescata.
Il bagno aveva gli stessi tratti somatici del resto dell'abitazione. Le piastrelle erano decorate con grandi gigli rosa e sul
lavandino di marmo rosso era poggiata una grossa pietra di sapone color sabbia: inodore, ma dopo averla strofinata tra le
mani lasciò la mia pelle morbidissima. Nel ritornare in cucina
entrai “per errore” in un'angusta saletta appesantita da suppellettili antiche. C'era un divano a otto piedi, tappezzato con un
velluto cremisi e completamente consumato. Era posizionato di
fronte a una cassettiera ottocentesca sulla quale si metteva in
posa, quasi a darsi delle arie, una vecchia radio a transistor,
come quelle che si vedono nei film sulla seconda guerra mondiale. In fondo alla stanza, di fianco a una cristalliera azzoppata, notai una strettissima scala a chiocciola in ferro battuto salire su al primo piano. La curiosità arrivò improvvisa, come quel
colpo di tosse alla prima sigaretta del mattino. Salii adagio con
passo felpato, cercando quasi di scivolare sui gradini. Mi ritrovai in una stanzetta che era più o meno la riproduzione di quella del piano inferiore. C'era una porta di vetro e quando girai la
vecchia maniglia non potei evitarne lo stridore assordante. Il
piccolo corridoio era in penombra, ma riuscii a distinguere altre
due porte. Dovevano essere le camere da letto. La prima era del
pescatore, sul letto a una piazza c'erano ripiegati per bene alcuni dei suoi indumenti. Quando entrai nella seconda camera un
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fremito mi irrigidì. Al di là del letto un armadio a specchio rifletteva la cassettiera di fronte. Su di essa s'illuminava il viso di
una ragazza imprigionato in una cornice d'oro. Iniziai a sudare
e il respiro si fece precipitoso. Irruppi nella stanza e i miei occhi s'infransero contro l'incredulità. Non v'era ombra di dubbio,
quella ragazza era Eva, e la foto era stata scattata qualche anno
prima. Tremolii e fremiti si inerpicarono lungo le dita e un profondo senso di confusione mi strinse la gola. Eva? Perché Eva?
Chi era Eva? Non feci in tempo a chiedermelo che alle mie
spalle avvertii una presenza minacciosa.
«Cosa ci fai qui? Sarai mica un ladro?»
Imbarazzato cercai di costruirmi una difesa plausibile.
«Certo che no signore!»
Ma stranamente il pescatore appariva meno irritato di quanto avessi creduto. Si voltò e mi intimò di seguirlo, bofonchiando qualcosa sul fatto che la cena fosse pronta da un pezzo.
Posizionò la pentola fumante al centro della tavola e con un
mestolo malconcio riempì due scodelle di terracotta fino a farle
traboccare. Mi versai del vino, lo sorseggiai e poi iniziai a trangugiare quella brodaglia. Era ottima. Non avevo mai mangiato
una zuppa di pesce tanto buona. La cena proseguì nel totale silenzio, e il fatto che il mio comportamento impudente non lo
avesse minimamente turbato, mi suonò a dir poco insolito. Però
preferii starmene zitto, senza fare il minimo accenno a
quell'episodio, era meglio aspettare che fosse lui il primo a
sbottonarsi. Volevo evitare di innervosirlo, anche perché sarebbe stato meno problematico poter indagare su ciò che avevo visto in quella camera.
Finimmo di cenare e lui mise la caffettiera sul fornello. Il
vino iniziava a farmi girare la testa, ma al contempo stemperò
il disagio e la lingua si allentò leggermente. Quando bevo tanto
mi sento più coraggioso. Da ubriaco riesco a fare cose che da
lucido non mi sognerei mai: tipo toccare il culo alle ragazze, o
camminare sui cornicioni, o cose così. E visto che lui non mo82
strava cenni di cedimento, continuavo a bere per prepararmi ad
affrontarlo. Perché faceva finta di niente? Quale persona se ne
sta così tranquilla dopo che ti ha beccato a frugare tra le sue
cose? Quel suo modo di fare mi disorientava. Dovevo prendere
l'iniziativa per dare una svolta a quella situazione omertosa. I
miei interrogativi avevano bisogno di risposte, dovevo fare
luce su ciò che avevo visto.
Il pescatore versò del caffè bollente in una tazzina e me la
posò davanti, dopodiché ci immerse due cucchiaini di zucchero
e li mescolò lentamente. Quel tintinnio divenne fastidioso, ma
non proseguì per molto, perché poco dopo fu interrotto dalla
sua assordante rivelazione.
«La ragazza nella foto è mia nipote.»
Lo disse così, a bruciapelo, come un proiettile sparato alla
nuca da distanza ravvicinata. Quelle parole erano state talmente
improvvise e dirette, che sentii i riflessi perdersi, e il collo barcollare. Per un attimo persi il senso della logica e non avevo
idea di come far proseguire quel dialogo. Sentivo un pizzicore
allo stomaco e il mio cuore si mise a ballare. Adesso che sapevo, il pensiero di trovarmi nella casa in cui viveva (o aveva vissuto) Eva, mi faceva raggrinzire il petto. Ero a un passo da lei,
la sentivo vicina, potevo quasi toccarla e mi venne un violento
attacco di pelle d'oca.
«Lei è andata a studiare nel tuo paese, ma adesso dovrebbe
essere già a Sivota. Lavora lì nel periodo estivo. La cosa strana
è che quest'anno non si è ancora fatta vedere, né sentire, e questo non è da lei.»
Sul suo viso calò un'ombra innaturale che deformò i suoi occhi. Era l'ombra del cattivo presagio. Sorseggiò il caffè e poi
proseguì.
«Sono preoccupato, temo le sia accaduto qualcosa di
brutto.»
Quella frase allarmò anche me, e in quell'istante riapparve
davanti ai miei occhi il fantasma della raccapricciante scena
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sulla nave. Il sangue sulle pareti, i legacci fissati al letto e lo
sperma sul tappeto potevano essere l'epilogo di uno stupro che
era degenerato in qualcosa di peggiore. Era probabile che Eva
fosse salita su quella nave, ma che non ne fosse mai scesa. Magari qualcuno l'aveva gettata in mare attraverso l'oblò. Cercai
di non farmi contagiare da quegli infondati presentimenti, dovevo riprendere il controllo. Poi si materializzò l'immagine della festa. Una ragazza senza volto con al collo quella collana.
Poteva essere Eva, però se avessi detto al pescatore di aver incontrato sua nipote, molto probabilmente avrei innescato ulteriore agitazione in lui. Mi avrebbe sottoposto a un interrogatorio al quale non avrei potuto tenere testa. Temevo di azionare
una leva che non sarebbe mai stato possibile riportare nelle sua
posizione originaria. In certe situazioni gli equivoci hanno vita
facile e le accuse possono divenire fertilizzanti per gli scenari
più bizzarri. Bevvi altro vino e mi finsi calmo.
«Non deve essere preoccupato, sono sicuro che riceverà presto sue notizie.»
Ma in lui non riscontrai alcuna reazione. Sembrava una statua di cera in procinto di sciogliersi.
Si era fatta quasi mezzanotte; mi resi conto che il “meglio”
della giornata lo avevo avuto e che era arrivato il momento di
togliere il disturbo. Lo salutai con una stretta di mano, ringraziandolo per la magnifica cena. Per tutto il tempo avevo avuto
la sensazione di essere a casa e sarebbe stato taumaturgico anche per me se fossi riuscito a trasmettergli un po' di tranquillità,
ma così non fu. Quando oltrepassai la porta lui mi contemplava
con un sorriso nostalgico e quella sua espressione acuiva il mio
senso di impotenza.
La notte era un'esplosione di diamanti variopinti: un incanto
di difficile narrazione. Ma lo sarebbe stata lo stesso se tutte
quelle luci artificiali, che ne decretavano la bellezza, fossero
state spente? Se le luci delle barche, dei ristoranti e dei lampio84
ni lungo gli arenili non fossero esistite e l'unica fonte luminosa
provenisse unicamente dalla luna, quello spettacolo avrebbe
destato lo stesso clamore? Credo di no. Credo che l'essere
amanti della notte contempli la possibilità di poterla ammirare
dalla sicurezza di luci create in laboratorio. Perché ci mettono
al riparo da ciò che è sconosciuto e selvaggio: ci fanno sentire
protetti.
Se non ci fosse stato il fuoco si sarebbe scritto soltanto di
giorno, ma, a differenza della luna, a esso poche lodi sono state
tessute. Mi sono sempre chiesto per quale motivo i poeti abbiano sempre avuto questa sottomissione celebrativa nei confronti
della luna. Lì sopra non c'è un cazzo di niente, è una terra grigia e arida, c'è solo un fottuto LEM con una bandierina, ammesso che ci siano. Solo un essere ridicolo come l'uomo può
compiacersi dinanzi al patetico spettacolino di tre rincoglioniti,
travestiti da omini Michelin, che giocano a campana dove regna il nulla. La luna risplende di bellezza soltanto per merito
del sole, è questo il fatto.
Mentre battevo il sentiero del ritorno non facevo altro che
pensare alla situazione stramba nella quale ero venuto a trovarmi. Come si era potuta verificare una tale congiunzione? Nelle
storie dei casi fortuiti forse la mia aveva il primato assoluto. Il
pescatore era il nonno di Eva. Da non credere. È sorprendente
come espressioni del tipo “come un ago in un pagliaio” possano divenire ridicole agli occhi della circostanza. A volte il
mondo, più che essere piccolo, sembra proprio costruirsi attorno ai nostri pensieri.
85
7.
“Ci pensa la Bibbia che leggo tutti i giorni a mantenermi umile.”
(George Walker Bush)
L
a mattina mi svegliai con un nuovo motivetto in testa:
Sivota, Sivota, Sivota. Girava, girava, girava, come un
derviscio turbinante. Eva si trovava a Sivota? Oppure
non ci era mai arrivata? A quanto pare il pescatore riteneva
plausibile la seconda ipotesi, ma questo aveva poca importanza, se volevo scoprirlo era a Sivota che dovevo recarmi. Una
strana sensazione mi diceva che lì – a Sivota – avrei trovato
una chiave, se non quella giusta, quantomeno una chiave. Tracciai con l'indice ogni minuscolo capillare segnato sulla mappa
dell'Isola, ma di Sivota nemmeno l'ombra.
Al solito bar appresi che gli scontri in patria proseguivano
sempre più sanguinari e i timori sul blocco al traffico marittimo
continuavano a crescere. Non che me ne importasse molto, ma
saperlo in anticipo mi avrebbe consentito di avvantaggiarmi sul
trasporto alternativo. Chiesi ad alcuni ragazzi incontrati per
strada indicazioni su come arrivare a Sivota: ne ricevetti informazioni frammentarie. Dissero che era un piccolo paese costiero, di carattere prettamente turistico, situato da qualche parte
sulla costa continentale. Per un attimo mi apparve il viso contrariato di Angelos, poi mi venne in mente Sofia, lei avrebbe
potuto aiutarmi.
Quando entrai nel suo ufficio mi accolse con un sorriso smagliante, forse eccessivo. Volle sapere come mi trovassi nel mio
alloggio e con un po' di diplomazia risposi: «abbastanza bene».
Poi mi raccontò alcuni aneddoti: cose che le erano accadute.
Sinceramente ero poco interessato a quelle storie, ma il modo
che aveva di esporle avrebbe suscitato interesse anche se mi
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avesse dato lezione sui vari programmi di lavaggio della lavatrice. E comunque non mi andava di ingrigire il suo entusiasmo
e la sua solarità. La stetti ad ascoltare e soltanto dopo un quarto
d'ora si decise a chiedere ragguagli sulla mia visita. Le domandai di Sivota e mi rispose che la sua agenzia organizzava escursioni in barca e che l'itinerario prevedeva come tappa, oltre alla
famosa “Laguna Blu”, anche una sosta di circa un'oretta a Sivota. Ero titubante, quel minuscolo stralcio di tempo non
avrebbe giocato a mio favore. Se dovevo cercare Eva quasi sicuramente un'ora di tempo non sarebbe stata sufficiente, ma lei
insistette nel convincermi che fosse il modo più semplice per
arrivarci.
«Con trenta euro tu fare giornata in barca. Visitare posti stupendi. Mangiare, bere e tante ragazze.»
«Sì lo so, è allettante, ma ci fermiamo poco a Sivota. Ho bisogno di più tempo»
«Ma you perché vuole andare a Sivota?»
Per smarcarmi da quella domanda risposi:
«Devo andare a trovare un'amica.»
A Sofia si arricciarono gli occhi e un'espressione furbetta le
alterò il viso. Poi iniziò a parlare con la stessa vocetta stupida
con la quale ci si rivolge ai neonati nella culla.
«Ahhh! L'amoreee!»
«Ma no, che amore, è solo un'amica.»
«Eh Romeo, tu non imbroglia Sofia. Sofia sa. Comunque Sivota è molto piccolo paese, se tu cerca qualcuno, in un'ora tu
trova, stare tranquillo.»
Forse aveva ragione, non era il caso di barcamenarmi in
viaggi ignoti facendo a braccio di ferro con orari e coincidenze
che quasi mai coincidevano. Non ebbi altra scelta che quella di
prenotarmi per l'escursione del giorno seguente.
Era mezzogiorno e il sole picchiava forte. Una lunga corsa
in scooter mi avrebbe fatto bene. Dopo quella serata trascorsa
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con i ragazzi avevo fatto perdere le mie tracce, nemmeno un
sms di ringraziamento, e la cosa poteva risultare scortese, considerato il nostro legame appena nato. Decisi di raggiungerli.
Preparai qualche panino e, nell'evenienza che si fosse fatto tardi, portai con me l'unico indumento pesante che avevo: una felpa marrone con il cappuccio.
Lungo la strada, mentre le raffiche di vento mi schiaffeggiavano e frenavano il galoppo del mio puledro, il cruccio persistente continuava a battere sull'ignota identità di quel misterioso accompagnatore. Chi mi aveva riportato a casa la notte della
festa? E perché? Sarebbe stata la prima cosa che avrei chiesto.
Quell'enigma mi assillava, tormentandomi con regolari fremiti
di ansia.
Arrivai in spiaggia poco prima delle 13.00, ma dei ragazzi
nemmeno l'ombra. Pensai che dovevano essere ancora rintanati
nelle loro alcove a smaltire i vapori delle esuberanze giovanili.
Così, mentre li aspettavo, ne approfittai per fare qualche tuffo.
Dopo un'oretta consumai il mio pasto e bevvi un paio di Mythos, ma i ragazzi non davano ancora segni di vita, il che era
insolito. Quale ragione poteva mai tenerli lontani dal loro
habitat naturale? Era probabile che avessero semplicemente deciso di non scendere in spiaggia quel pomeriggio, ragion per
cui avrei dovuto farmi vivo io.
Non ci misi molto a raggiungere casa di Cristian e Ginger,
era quella più vicina alla spiaggia, ma quando arrivai non scorsi alcun movimento all'interno. Suonai il campanello più di una
volta e iniziai a chiamarli ad alta voce, ma niente. Non c'era
nessuno. Rimontai sullo scooter e mi diressi da Markus e le altre. Anche qui notai da subito un'insolita calma. Provai a citofonare ripetutamente, ma con scarsi risultati. Infine, proprio nel
momento in cui stavo per saltare in sella, sentii da dietro il cancelletto la voce ovattata di Markus. Non era la sua solita voce,
gli si strozzava in gola come se avesse un pelo di gatto di traverso. Aveva il volto pallido, gli occhi gonfi e incavati in un
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alone livido. Mi invitò a entrare.
«Ciao. Perché quella faccia?»
Le sue mani tremolavano e le labbra esacerbavano la disperazione: spaccate, consumate, devastate da una sorta di autofagia.
«Non sapevo come avvertirti, ma è successa una cosa...»
«Cosa?» Una frustata alla base dello stomaco mi spezzò il
fiato.
«Una cosa orribile.» Scoppiò in lacrime.
Incominciai a perdere il controllo dei nervi: grondavo sudore e avvertivo violenti strattoni agli angoli degli occhi. In
quell'istante mille pensieri mi assalirono e mi apprestai a ricevere quella notizia preparandomi agli scenari peggiori.
«Rachel!»
Pronunciò quel nome come se fosse stata l'ultima parola della sua vita. L'angoscia mi arrivò dritta nella budella e il senso
di nausea mi fece quasi perdere conoscenza.
«È successo qualcosa a Rachel?»
«È morta!» Rispose.
Quella frase cortissima si frantumò contro i miei timpani
come un piatto di cristallo sbattuto sulla pietra. Precipitai
all'istante in un baratro di dolore, stupore e incredulità. Persi la
salivazione e il senso del tatto, e fu insopportabile l'allontanamento da tutto ciò che fino a quel momento avevo ritenuto
scontato: la fortuna di invecchiare. Rachel era giovanissima, e
lo sarebbe rimasta per sempre.
Abbracciai Markus con tutto l'amore che mi scorreva nelle
vene e quando sentii i suoi polpastrelli affondare nella schiena,
solo in quel momento, capii che tra lui e Rachel c'era qualcosa
che andava ben oltre un sentimento di semplice amicizia. Assorbii la sua disperazione da ogni centro nervoso del mio corpo. Ero addolorato per lui, e per quel poco che avevo conosciuto Rachel, ero addolorato anche per lei. Rachel era un esempio
di coscienza pura e attiva, e come spesso succede a questo tipo
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di coscienza, si era spenta prima delle altre.
Dissi a Markus che forse era il caso di togliermi dai piedi,
non volevo violare il loro momento di sacralità con la morte,
ma insistette affinché rimanessi, adducendo la motivazione che
la mia presenza lo facesse sentire meglio.
I ragazzi erano seduti in salotto attorno a un tavolino di vetro, sul quale avevano sparpagliato fotografie di Rachel. Sulle
loro guance l'incomprensione e l'angoscia erano geometriche,
secche, come una porta sbattuta in faccia. Avevano i visi sbiaditi, gli occhi affossati, e le unghie consumate dalla disperazione. Evitai di pronunciare alcunché, di cadere nel tranello del
luogo comune, me ne stetti seduto in sepolcrale silenzio, cercando di controllare come potevo il respiro. Volevo eclissarmi
totalmente. Avrei preferito fondermi nel corpo di qualcuno pur
di non patire più la mia presenza. Se fossi stato a conoscenza di
una formula magica per scomparire l'avrei recitata all'istante.
“La metrica della morte non si compone di sonetti, ma di assonanze corte, come la sorte”, forse poteva essere questa la formula magica, ma non funzionò. Rimasi lì ad alimentare quel
torrente di lacrime nere, che si perdevano nel lento mugugno
dei loro affanni spezzati.
D'un tratto qualcuno ruppe la nenia.
«Rachel non avrebbe mai voluto vederci così!»
Un disco dei Daft Punk iniziò a suonare. Da lì a poco le foto
sul tavolino si sbordarono per effetto della condensa scivolata
giù dalle lattine di birra.
«A Rachel!» Continuavamo a brindare.
Soltanto dopo un “lieve” avvelenamento da luppolo, trovai
il coraggio di prendere Markus e condurlo in disparte.
«So che non è il momento adatto, ma mi sembra tutto così
assurdo. Posso sapere com'è successo?»
Esitò un attimo, poi gli venne naturale svuotare tutta la sua
rabbia.
«Quella mattina lei ancora dormiva, così sono andato nella
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sua camera per svegliarla. La chiamavo, ma non rispondeva, allora mi sono avvicinato per farle il solletico ai piedi. Lo facevo
sempre quando avevo voglia di stuzzicarla. Ma lei niente, nessuna reazione, i suoi piedi erano troppo freddi. Ho sollevato le
coperte, e l'ho vista lì, immobile, con gli occhi sbarrati e la
bava grondante dalla bocca. È stato orribile, non riesco a togliermi dalla testa quella sua espressione, un misto tra incredulità e terrore.»
Faticavo a credere alle sue parole. La bava dalla bocca?
Markus mi stava forse dicendo che Rachel era stata avvelenata?
Ma chi avrebbe mai potuto farle una cosa simile? Chi poteva
desiderare la sua morte? Stavo nuovamente lavorando troppo
con la fantasia. Le cose potevano essere molto più semplici,
magari il malore era stato causato da un blocco intestinale.
Blocco intestinale? Sì, di quelli che uccidono.
«È assurdo. E cosa avete fatto dopo?»
«Secondo te? Abbiamo chiamato la polizia!»
«Quindi c'è un'indagine in corso?»
«Lo spero!»
«Ma dall'autopsia cos'è risultato?»
«Non lo sappiamo ancora.»
Mi sentii catapultato in una di quella serie tipo “Ai confini
della realtà”. Tutta la faccenda aveva dei risvolti talmente improbabili e surreali che presi in seria considerazione la possibilità che stessi sognando. Ma non sognavo, era accaduto davvero, e per scacciare via la dama nera i ragazzi si erano ubriacati
come spugne. E io peggio di loro.
Più sballata di tutti appariva Pilar. Aveva improvvisato uno
spogliarello sul tavolo, rimanendo con addosso soltanto l'intimo, ma dopo un po' tirò via anche gli slip. A quel punto il suo
pudore si ridusse a una misera striscia di tessuto che le copriva
le tette. Sembrava indemoniata: saltava, ballava e urlava a
squarciagola. Poco dopo mi prese di mira. Iniziò a studiarmi.
Mi guardava dilatata dall'eccitazione: una lupa sbavante desi91
derosa di carne fresca. Si avvicinò: sfregò le sue parti scoperte
e umide su di me. Mi sentivo profondamente a disagio, e non
sapevo in che maniera tenerla a bada riuscendo al tempo stesso
a essere garbato.
Feci cenno a Markus di volermene andare, ma era ubriaco
perso anche lui e disse che se Pilar mi aveva messo gli occhi
addosso tanto valeva farci un pensierino. «Ogni lasciata è persa!», disse così.
Pilar mi afferrò per mano e mi trascinò di prepotenza in bagno. Ero sbronzo e fumato, mi girava la testa. Senza nemmeno
avere il tempo di rendermene conto, sentii il mio pene scaldarsi
e inumidirsi nella sua bocca. Non avvertivo alcuno stimolo
però, rimasi flaccido e gommoso. C'era qualcosa in lei che mi
disturbava. Non saprei dire se a causa del suo modo di fare o
per via del contesto. In fin dei conti era come se stessi sconsacrando il dolce ricordo di Rachel. Quello era il suo bagno e non
volevo mancarle di rispetto. Lasciai Pilar a bocca asciutta e mi
congedai tra scuse e balbettii vari. Nel venire via incrociai lo
sguardo sperduto di Markus, e con un gesto di disapprovazione
gli feci intendere che la cosa non poteva assolutamente funzionare. Mi restituì un occhiolino, quasi di ammirazione, e mi fece
cenno di aspettarlo in giardino.
Sprofondai su una poltrona di vimini, le pupille si fissarono
al cielo. Lo scrutavano. La notte appariva stupenda, ma i suoi
lineamenti erano tristi. Sul suo volto tenebroso le stelle erano
come lacrime di vetro che si staccavano ad una ad una per tagliuzzare e recidere innocenti sentimenti. E il vento, che suonava le foglie come fossero diapason, era il suo lugubre e
interminabile lamento. Avevo la pelle d'oca per il freddo, indossai la felpa e continuai a bere Mythos per riscaldarmi, ma il
gelo era dentro di me. Pensavo a Rachel, pensavo a Eva, pensavo alla vita, che era l'unico dono prezioso capace di uccidere.
Markus mi raggiunse con un'altra scorta di birra. I suoi occhi minacciavano altre lacrime. Forse dopo quanto era successo
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non aveva mai smesso di piangere.
«Vedi tutto questo? Lo odio!» Disse rivolgendosi verso gli
altri all'interno. Poi aggiunse:
«Questo non significa essere liberi, non è vivere oltre le regole. Questo è forse il modo peggiore di rendersi schiavi.»
Restai in silenzio; non ero io quello a dover iniziare la lotta
contro i demoni della solitudine, quel campo di battaglia non
aveva segreti per me, ma molto probabilmente per Markus era
la prima chiamata alle armi. Lasciai che le sue parole si muovessero senza logica, istintivamente.
«Se questa è la sofferenza allora non avevo capito un cazzo
della felicità. Non ha senso vivere con questo dolore.»
Mi accorsi che Pilar ci stava scrutando al di là del vetro. Mi
guardava in cagnesco. Voleva farmi intendere che non aveva
gradito per niente quel mio rifiuto. Forse addirittura cercava di
stimolare in me un sorta di pentimento, ma le restituii
un'occhiata biasimevole. Trovavo illogico e insensibile il fatto
che ce l'avesse con me per quel misero pompino andato a male.
Cosa si aspettava dopo quello che era successo? Aveva ragione
Markus, quell'estrema ostentazione di libertà era l'anticamera
di una prigionia ancora più dispotica.
Consumammo lentamente la birra rimasta e lasciammo che
l'oscuro abbraccio della notte cauterizzasse le nostre ferite. Ero
ubriaco, anche se non abbastanza per non avvertire la sofferenza. Quella mia e quella di Markus, che si celava dietro i singulti
del suo respiro gonfio e frammentato.
La sofferenza non lascia scampo, sarà anche stupido dirlo,
ma è così. Lei non fa prigionieri, lei ti uccide e basta. Non siamo noi a sceglierla, è lei che sceglie te. La questione è che
quando si è bambini sono i genitori a farti soffrire, se non entrambi, uno dei due è sicuro, e innocentemente continueranno a
farlo per sempre. I tuoi compagni di scuola ti faranno soffrire,
non per sempre, ma ti faranno soffrire abbastanza. La tua prima
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ragazza ti farà soffrire come un cane. E le altre dopo di lei. Il
tuo cane non ti tradirà, ma quando morirà ti farà soffrire. I tuoi
figli ti faranno soffrire, e tu farai soffrire loro, come i tuoi hanno fatto soffrire te. Il senso della vita? Magari è questo: la sofferenza. Non ne possiamo fare a meno.
All'età di dieci anni conoscevo un bambino, era uno stronzo,
di quelli nati con una rotella fuori posto, si chiamava Giacomo,
ma noi lo soprannominammo Jack, in onore allo squartatore di
White Chapel. Adorava vivisezionare qualsiasi cosa avesse
all'interno degli organi. Non ci lasciava niente, anche se la sua
vera passione erano cani e gatti. Il bastardo aveva il vizio di
sorprenderti alle spalle e strangolarti, lo faceva con una tale
violenza che per poco non ci restavi. Alcuni miei compagni
svennero. A me lo fece un paio di volte, ma in entrambe le occasioni lo presi a calci in culo. Era più minuto e basso di me,
ragion per cui non lo temevo come molti altri della mia età.
Quelli del servizio sociale dicevano che il suo comportamento
aggressivo era dovuto alla sua situazione familiare. Quelli del
servizio sociale non sanno fare altro che vomitare perle di originalità e saggezza. Figuriamoci! Avete mai conosciuto la
mamma e il papà di Hitler? Se li avessero conosciuti quelli del
servizio sociale, molto probabilmente ci saremmo risparmiati i
lager e tutta quell'immane tragedia lì. Il fatto è che io sapevo
benissimo che in lui c'era qualcosa di disumano; qualcosa di
primordiale e macabro. All'inizio proprio non riuscivo a capire
di cosa si trattasse, poi un bel giorno decidemmo che era arrivato il momento di prenderci la nostra vendetta. Lo catturammo in cinque e lo portammo in un vecchio capannone abbandonato. Lo legammo a un palo e lo spogliammo completamente.
Io non lo toccai però, non consideravo sportivo ciò che stavamo facendo, ma i più deboli, quelli che avevano subìto di più,
iniziarono a sbavare come quell'obeso di Justin al bancone
dell'Heart Attack Grill. Gli fecero di tutto, dall'umiliazione alla
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tortura, niente gli risparmiarono. Qualcuno arrivò persino a
schiacciargli i testicoli con delle pinze. In altre occasioni mi sarei intromesso per farli smettere, ma per Jack non lo feci. Quella sorta di insensibilità nei suoi confronti mi sconcertò. Certo
non si poteva dire che fossi uno stinco di santo, ma mi sono
sempre considerato una persona leale, e ho sempre cercato di
schierarmi dalla parte dei più deboli. Non passò molto prima
che quel mio cinismo trovasse una risposta. Dopo tutti quei ripetuti maltrattamenti la sua espressione era rimasta immutata:
sul suo volto non comparivano smorfie di dolore, il suo corpo
non aveva reagito ai pestaggi, e non c'era niente in lui che mostrasse pentimento o pietà. I suoi occhi continuavano ad essere
neri e profondi, inespressivi e micidiali, come quelli degli
squali; riflettevano indifferenti il sadismo delle nostre risate. Se
li fissavi a lungo, un senso di angoscia e irrequietezza ti assaliva, come succede ai cani negli istanti prima di un terremoto.
Gli estremi della sua bocca erano inarcati verso l'alto, statici,
impressi in un ghigno artificiale. Un cubetto di ghiaccio scivolò
lungo la mia fronte, intorpidendomi le tempie. Ora riuscivo a
vedere la sua vera natura. Lui era incapace di soffrire. Era vuoto come un precipizio. Nessuna informazione circa l'odio,
l'amore, il dolore e il pianto, era registrata all'interno del suo
subcosciente. Era un'anima nera, un essere che da lì a poco si
sarebbe trasformato in autentica follia omicida.
Anni dopo anche quelli del servizio sociale capirono, leggermente in ritardo, ma capirono. La vera vittima non era Jack,
ma qualcun altro. Strangolò i suoi genitori, li sistemò sul letto
davanti lo specchio: spettatori del loro stesso massacro. E gli
strappò via gli occhi con un cucchiaino da caffè. Dopodiché si
volatilizzò. Di lui si persero completamente le tracce. La sua
foto fu trasmessa a ogni stazione di polizia, alle dogane, persino all'interpol. Ma niente. Sparito. Dissolto come uno sputo
sull'asfalto rovente. Ogni tanto mi capita di pensarci. Ho come
il timore che uno di questi giorni possa tornare a reclamare san95
gue, per pretendere la soddisfazione perduta in quel vecchio capannone. Certo, conoscendo il tipo, si sarà scelto una zona di
caccia sicura. Un posto dove riuscire ad irretire le proprie prede
senza correre il rischio che qualcuno possa cercarle. Tipo barboni, tossici, extracomunitari, persone con legami familiari interrotti, quella gente lì insomma. Io spero soltanto che, se dovesse decidere di tornare, le proporzioni tra il mio fisico e il
suo siano rimaste immutate. Anche se questo, in verità, non basterebbe a mettermi al riparo dal suo istinto assassino.
Si era fatto tardi e Markus aveva collassato sulla poltrona.
Non lo svegliai; chi dorme non soffre, e nel sonno poteva trovare l'illusione della pace. Lo coprii con un plaid di pile recuperato su un divanetto lì vicino. Agli altri era toccata la stessa
sorte, non si sentiva anima viva. Le luci all'interno della casa
erano spente, tranne una lampada in cucina che donava un effetto seppia all'ambiente. Cercai di fare meno rumore possibile
e mi diressi verso il cancello. Dopo pochi passi alle mie spalle
sentii un «psss!». Mi voltai e vidi Pilar venirmi incontro. Aveva
un'espressione sgualcita, ma non appariva per niente stanca.
«Vai via da solo a quest'ora? Forse è meglio che resti a dormire qui.»
Il suo invito mi arrivò come un insulto.
«Grazie, ma non è il caso.»
Mutò atteggiamento, ora un leggero velo di pentimento ricoprì le sue fossette.
«Senti, scusami per prima, ma qui siamo un po' tutti a pezzi
per quello che è successo.»
Le diedi corda.
«Ne sono consapevole.»
«Markus amava molto Rachel, è vero, ma non dimenticare
che lei era la mia migliora amica.»
Forse fu la stanchezza, ma per un attimo le sue parole parvero sincere.
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«Non vorrei averti dato una cattiva impressione. Sai? Ognuno reagisce diversamente di fronte a una tragedia. Markus beve
e piange, io bevo e scopo il primo che mi capita. Sono fatta
così, all'alcol aggiungo il sesso, così mi scarico doppiamente.
Sì, forse agli occhi di qualcuno potrei apparire leggermente troia, ma al mondo d'oggi credo che essere considerata una puttana sia quasi un complimento.»
Quello che diceva aveva senso.
«Capisco cosa intendi, e credimi non mi sognerei mai di
giudicarti. Di sicuro in un'altra occasione non mi sarei tirato indietro.»
La frustrazione si affacciò nei suoi occhi. In essi vidi baluginare richieste di comprensione e compatimento. Ma non per i
motivi che avevo creduto.
«Magari in un'altra occasione... non avrei avuto il bisogno di
succhiartelo.»
Era riuscita a ribaltare la situazione. Quell'ultima risposta mi
aveva trasformato nel cinico e insensibile di turno. Il tipo di
persona che rifiuta una fellatio durante una veglia funebre. Che
roba. Provai irritazione e rabbia, mi venne l'impulso di dirle
“fottiti troia”, però non lo feci.
«Grazie per l'invito, ma domani ho un'escursione in barca e
devo partire presto. Sarà per la prossima volta.»
La lasciai sul ciglio del cancelletto. Lei rimase immobile a
fissarmi come se fossi una sua proprietà svenduta all'asta. Saltai in sella al ronzino e iniziai a correre attraverso quel buio
denso e pungente. Quella sensazione di impotenza, che la natura risvegliava in me, avrebbe dato modo ai miei pensieri di
reinterpretarsi. La mia mente aveva bisogno di aprirsi fino al limite come una pupilla nel buio, per poter guardare oltre, per
poter vedere ciò che non si vedeva.
La luna era sovrana, io il suo giullare, e dietro quella storia
di Rachel non si celava niente di buono.
97
8.
“...non dirmi che non bevi perché tanto, non ti crederebbe nessuno!”
(John "Johnny Boy" Civello)
E
ravamo salpati da un'oretta circa. Il sole era già alto e
rovente e i fiotti di salsedine s'impastavano sul mio
viso. Ai lati della piccola imbarcazione le pinne dei delfini tracciavano il nostro percorso spargendo briciole d'argento.
Non so per quale ragione, ma i delfini mi hanno sempre dato
un senso di sicurezza. Assorbivo i raggi ultravioletti e mi sentivo potente. I miei pensieri andavano a Rachel, Markus ed Eva,
ma stranamente non mi sentivo scosso. La vita è così: un istante che sfugge e si perde impaurito dietro il tramonto.
L'imbarcazione era di proprietà del compagno di Sofia (il
comandante). Era un vecchio peschereccio camuffato da galeone dei pirati. Non molto grande, anche se a me pareva un vascello. Aveva la bandiera nera con il teschio che sventolava
sull'albero maestro, e altre cose così. A bordo, tra equipaggio e
passeggeri, saremmo stati una trentina. La ciurma era simpaticissima e chiassosa. Oltre a Homer – il compagno di Sofia –
c'erano anche Samy e Georgios. Samy era biondissima e aveva
un fisico atletico: spalle larghe, ventre piatto, gambe muscolose
e lunghissime. Il suo corpo si incastrava perfettamente con quel
tipo di lavoro. Georgios era magro e atletico anche lui, ma aveva la pancia leggermente pronunciata: risultato di miscele alcoliche esplosive. Homer si chiamava Homer, ma era sputato a
Boe dei Simpson.
Verso le 10:30 passarono i primi giri di Ouzo mescolato con
acqua. Dopo una mezz'oretta circa, tranne un esiguo numero di
schizzinosi, eravamo tutti brilli. Mi sentivo talmente rilassato
che dimenticavo a tratti l'effettivo scopo di quel viaggio. Avevo
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deciso di restarmene in disparte e di non dare confidenza a nessuno, c'era la solita gentaglia di casa e non ci volevo avere
niente a che fare. Parlavo solo con il personale di bordo, e
Georgios, che continuava a riempirmi il bicchiere, aveva un
senso dell'umorismo di tutto rispetto e mi faceva crepare dal ridere.
Quando facemmo la prima sosta era quasi mezzogiorno.
Gettammo l'ancora in una piccola lingua di mare che separava
due atolli idilliaci. Questi parevano l'opera di un Dio bucolico
che ci teneva a ricordare a quell'immensa distesa d'acqua quanto esosi possano essere gli spettacoli agresti. Quel luogo era un
incanto. Persino i motoscafi dei furbetti, che si erano distaccati
dalla massa proletaria per darsi un tono più elitario, sembravano avere un valore in quella cornice. Avvertivo una pace quasi
violenta, difficile da descrivere: il senso del possesso distrutto e
il corpo ripulito da ogni istinto alla guerra. Si dovrebbe insegnare ai bambini a dire “è nostro” anziché “è mio”, li libereremo una volta per tutte dallo scontento della perdita, e dall'illusione della riconquista. Nuotai in quell'acqua turchese non so
per quanto tempo, era come sentirsi accarezzati dal più elevato
sermone della natura. Poi scesi giù in apnea per oltre un minuto, e quando riemersi mi resi conto di aver attraversato la placenta del mare, mi sentii imperlato del suo liquido amniotico.
Sdraiato su un angusto fazzoletto di battigia ghiaiosa avviai
il mio spirito alla meditazione. Preferivo stare in solitudine,
avevo bisogno di riflettere. Cosa avrei trovato a Sivota? Ma soprattutto, cosa avrei fatto se avessi incontrato Eva? Non lo sapevo, e mi sembrò persino assurdo di esserci diretto. Eppure
qualcosa mi diceva che quella era la strada giusta; il tragitto da
seguire. Era un istinto, come quando al cinema ci si siede vicino l'uscita di emergenza. Perché poi?
D'un tratto il mio pensiero ripiegò su se stesso e lo scenario
mutò, mostrando la sua faccia più orribile. Il mare divenne
un'immensa distesa di melma grigiastra, sulla quale galleggia99
vano resti di corpi in decomposizione. C'erano ossa e crani
dappertutto, saccheggiati da larve che formicolavano per divorare l'ultimo brandello di carne. L'odore era nauseante. Dal cielo rosso fuoco piovevano occhi, cadevano ovunque. Era impossibile camminare senza calpestarli. Li sentivo spappolarsi sotto
la pianta dei piedi, e quel ciak ciak che ne fuoriusciva era più
disgustoso del liquame che ci rimaneva appiccicato. Il sole era
nero. Un cerchio vuoto e mortale che risucchiava fuochi fatui.
Erano le ultime anime del genere umano. In un attimo ogni
cosa si era trasformata in un elogio a lei: la grande mietitrice. E
lei non si fece attendere, arrivò con il suo mantello lungo e il
cappuccio triangolare, ma senza falce. Tra le braccia teneva
stretto un neonato. Era bellissimo. Biondo e con gli occhi azzurri. Si avvicinò lentamente, e i suoi piedi si sollevarono da
terra; fluttuavano. Poi mi consegnò il bambino e disse:
«Guardati attorno. Credi sia stato io a farlo?»
Si tolse il copricapo e mi apparve Jack. Indossava degli auricolari, ma il brano che stava ascoltando si udiva benissimo,
come se fosse sparato ad alto volume direttamente dagli
altoparlanti del cielo. Era “Sinnerman” di Nina Simone.
«Jack? Sei tu?... Tu sei la morte Jack. Tu sei sempre stato la
morte!»
Indicò tra le mie braccia e quando guardai il bambino, questo s'incenerì all'istante. Sulle mie mani rimase soltanto polvere
e pelle carbonizzata.
«No! Tu sei la morte!.. Sei sempre stato tu la morte!»
M'inginocchiai ai suoi piedi e lo supplicai.
«Perdonami Jack! Perdonami Jack!»
«Guarda tra le tue mani. Credi sia stato io a farlo?... Tu sei
la morte!.. Sei sempre stato tu la morte!»
Cercai nuovamente il suo viso, avevo bisogno della sua assoluzione, ma adesso non era più lui, adesso era Eva, aveva la
faccia scarnificata. Piangeva acido e lentamente le sue guance
si corrodevano. Mi guardava impietosita, come se fossi un mar100
tire.
«Eva...!»
Un gelo devastante mi risputò alla vita. Georgios mi aveva
gettato addosso una secchiata d'acqua ghiacciata, fregandosene
altamente dei pericoli che si potevano celare dietro la fase rem.
«Se non stai attento rischi di prendere fuoco!» Disse in un
inglese maccheronico.
Avrei voluto dirgli che dal fuoco ero appena ritornato, ma
considerato il mio scarso talento per le lingue, temevo di raccontargli tutt'altra storia. Come quella volta in treno, quando un
passeggero al mio fianco mi chiese quali scuole avessi frequentato, e da lì arrivò alla conclusione che mio padre fosse un diplomatico. La parola “diploma” mi era stata fatale.
«Tra una mezz'ora si riparte.» Ci tenne a precisare Georgios.
«Va bene.» Risposi. «Ma in questa gita non si mangia mai?»
Chiesi.
«Mangeremo a bordo prima di partire per Sivota.»
Già, Sivota, me ne ero quasi dimenticato. Questione di poco
ormai e ci saremmo arrivati.
«Quanto ci vuole per arrivare a Sivota?» Non potevo non
farla quella domanda.
«Da qui un'ora e mezza circa.»
«Bene. Ci si vede a bordo. See you on board guy.»
«All right man.»
Era l'una, il sole sempre più arrogante, ma non mi dava fastidio. Adoravo quel caldo e il sudore che mi rigava il collo.
Potevo rinfrancarmi in quell'acqua cristallina senza sentirmi in
colpa per chi viveva nel deserto. Ma poi, ci vive davvero qualcuno nel deserto? Feci un altro tuffo e ritornai a distendermi
per godermi il finale. Fu nel momento in cui presi a rollarmi
l'ennesima sigaretta che successe qualcosa. Qualcosa di molto
strano. Un motoscafo sfrecciò davanti ai miei occhi e tra gli occupanti vidi Laura. Il suo volto era coperto da buffi occhiali da
101
sole e si perdeva sotto un enorme cappello di paglia. Sentii il
cuore scalpitare. Laura? Era impossibile. Perché Laura non mi
aveva detto che sarebbe venuta sull'Isola? Semplicemente perché non ci era venuta, quella cosa non aveva senso, l'avevo
scambiata per un'altra che le somigliava parecchio. Tutto qui.
Quando i miei piedi toccarono Sivota mi sentivo satollo fino
a scoppiare e anche parecchio sbronzo. A bordo erano passati
con vassoi pieni di carne arrosto e insalate varie, accompagnate
da boccali di Mythos. Quest'ultima non costituiva un problema,
il caldo eccessivo l'avrebbe fatta trasudare a breve, ma lo stomaco non si sarebbe ritirato tanto in fretta. Mi misi subito alla
ricerca, anche per incentivare la digestione, ma ebbi subito
conferma di quanto avevo già sentito: in quel posto non c'era
niente, o almeno, niente che valesse la pena di vedere.
Bar e ristoranti costeggiavano il porto quasi a strangolarlo, e
verso l'interno, da un piccolo corso centrale, si dipanavano vicoletti pieni di negozietti che spacciavano ricordini ai turisti. In
pochissimo tempo, avvilito dalla consapevolezza che stavo solo
perdendo tempo, ne setacciai anche il più insignificante anfratto.
Il rientro in barca era previsto per le 16,00 e mi era avanzata
una mezz'ora buona per non fare esattamente niente. Era stato
un fiasco, un buco nell'acqua. Eva non c'era, non lavorava più
lì. E questa era una certezza. Mi ero fatto il giro di tutti i locali
di Sivota; avevo osservato con attenzione ogni singolo viso di
ogni cameriera, commessa e quant'altro, ma in nessuno si era
manifestata l'avvenenza del suo sorriso.
Mi sedetti al bar più vicino all'attracco, tanto per non perdere di vista la barca. C'era una confusione della malora. Parevano tutti drogati di birra e gelati. Mandai al diavolo le mie ricerche e mi consolai sorseggiando del Kumquat ghiacciato. Avevo
perso le speranze, e a dire il vero non me ne fregava più niente
di niente. Riconsiderai quella mia ossessione come una stupida
102
tendenza a un romanticismo ormai demodé: patetico e demenziale. Il peggiore melò sentimentale dai tempi di Rossella fottuta O'Hara. Mi sentivo ridicolo. Tutto era cominciato con una
stupida infatuazione sbocciata su un autobus; e iniziavo a
rendermi conto che, per sbatterci la testa, mi stavo perdendo il
meglio del baccanale. Scoppiai a ridermi in faccia come un
idiota, e fu allora che attirai l'attenzione di una cameriera.
«Tutto bene signore?»
«Una meraviglia. Anzi me ne porti un altro.»
La cameriera, nonostante fosse oberata di richieste, tornò in
brevissimo tempo con un nuovo bicchiere di kumquat.
«Prego signore.»
Stavolta ci aveva aggiunto un optional però: un sottobicchiere. Su di esso era raffigurata l'effige di un delfino curvato sopra
una scritta: Al chiaro di Luna. Era strano, molto strano, non
tanto perché il delfino fosse somigliante al mio cimelio
d'argento – d'altronde i delfini sono tutti uguali – ma quanto per
quelle parole. Mi ricordavano qualcosa. Ebbi come un senso di
déjà vu. Al chiaro di Luna. Sì, era la famosa sonata di Beethoven, ma c'era dell'altro. Quel bar si chiamava così: Al chiaro di
Luna. Non era un nome insolito per un locale in riva al mare, ci
mancherebbe, ma insolita era la sensazione che mi ripiombò
addosso. L'aria divenne nuovamente pesante, non la percepivo
più come amica. Tirai fuori dalla tasca il mio prezioso oggetto
e ne analizzai ogni minimo lineamento. La somiglianza era impressionante. Ancora pensieri verso l'ignoto, che compivano
acrobazie e poi scendevano in picchiata fino a infrangersi contro le scogliere della mia paranoia. Vagavano, vagano verso
mete ottenebrate, riluttanti alla luce della scoperta. Perché le
scoperte a volte possono non piacere.
Quando la folla si diradò riuscii a scorgere qualcosa sulla
parete all'interno: un grande dipinto, sul quale si vedevano raffigurati tre soggetti. Un uomo anziano con in mano un grosso
103
pesce, e due bambini, un maschio e una femmina, abbracciati
alle sue gambe. Alle loro spalle si scorgevano i tavolini di un
ristorante con le tovaglie a scacchi bianchi e rossi. Più in alto,
un'insegna: Chiaro di Luna. Lui mi ricordò immediatamente
qualcuno di mia conoscenza. Era il pescatore. Ma perché compariva in quel quadro? E chi erano quei due bambini? Appena
la cameriera si avvicinò, istintivamente l'afferrai per un braccio.
«Mi dica signore.»
«No guardi, volevo solo chiederle un'informazione. Sa dirmi
chi è quell'uomo raffigurato nel quadro?»
«Ah quello... quello è il vecchio titolare.»
«Ma non mi sembra lo stesso posto. Il locale è diverso.»
«Il locale è stato ristrutturato pochi anni fa signore, io non
saprei dirle quando, lavoro qui solo da quest'anno. So che prima era un ristorante.»
«Capisco. E quei due bambini?»
«Ah non saprei signore, come le ho detto lavoro qui da
poco.»
«Ma lei lo conosce? Lo ha mai visto?»
«Mai visto signore.»
«E non sa a chi potrei chiedere per avere informazioni più
dettagliate?»
«Beh, sicuramente alla titolare signore, ma in questo momento non si trova qui, è in viaggio.»
«E non sa quando posso trovarla?»
«Dovrebbe tornare tra una settimana signore.»
«Capisco. La ringrazio molto.»
«Si figuri signore.»
Le lasciai una mancia sostanziosa e mi diressi verso la barca. Gli altri erano già a bordo ad aspettarmi. Appena arrivai
sentii esplodere la sirena della cabina di pilotaggio, seguita
dall'ovazione (metà stizzita e metà d'ammirazione) dei passeggeri. Poi Georgios, con una faccia alla Jerry fottuto Lewis, imi104
tò con la mano quel gesto poco cavalleresco che sta ad indicare
lo stantuffo. L'equivoco era stato divertente, anche se c'era
poco da ridere. Per quale motivo il pescatore mi aveva taciuto
quell'informazione? Certo non si può pretendere un'autobiografia completa da una persona appena conosciuta, ma non mi pareva un segreto tanto inconfessabile. D'altro canto mi aveva
parlato di Eva e di Sivota, e infilarci qualche dettaglio in più
non avrebbe ammazzato di certo nessuno. O forse sì? In verità
lui non sapeva del mio viaggio a Sivota, e come al solito stavo
lavorando un po' troppo di fantasia.
Raggiungemmo la famosa Laguna Blu dopo un'ora circa. Lo
spettacolo della natura ritornò a mostrare tutto il suo vigore.
L'unica spiaggia presente sull'isolotto era delimitata da boe
protettive che galleggiavano verso il largo: a una cinquantina di
metri da essa. Ci si poteva arrivare solo a nuoto. Il fondale era
alto una decina di metri, ma quando ti tuffavi dalle sponde dello scafo pareva quasi di sbatterci il muso. L'acqua era limpidissima. I branchi di pesci maculavano la baia con tonalità di azzurro più intenso, proiettando i riflessi cromati delle loro pinne
verso l'azzurro del cielo. Sembrava di vivere in un capolavoro
pittorico di brame integraliste. Esplosioni di colori costantemente impegnati a reinventarsi. Ed era tutto talmente reale e
sincero da far male. Ebbi la tentazione di farmi scappare
qualche lacrima, ma non lo feci, perché me ne vergognavo.
Il viaggio di ritorno sarebbe stato lungo. Lasciammo
quell'oasi nella consapevolezza di doverla rimpiangere; e mentre ci allontanavamo sempre di più, tutte quelle facce con lo
sguardo rivolto all'infinito, non mi parevano stanche, ma decisamente nostalgiche. Perché di alcune bellezze se ne può soltanto conservare il ricordo.
Verso il tardi ricevetti una chiamata da Markus – non ricordavo di avergli dato il numero di cellulare – mi chiese se pote105
va raggiungermi. Disse che voleva staccarsi dal gruppo per un
po', che la loro presenza lo faceva stare peggio. Aveva delle
cose da dirmi, ma voleva farlo in privato, a quattrocchi, senza
nessuno tra le palle. Pensai che molto probabilmente la sua
compagnia mi avrebbe fatto bene.
Quando bussò alla porta i suoi occhi erano ancora più scavati del giorno prima. Adesso i due aloni lividi erano divenuti
crateri. Provai dolore nel vederlo in quello stato. La prima cosa
che mi chiese fu se avessi qualcosa da bere. «Forse del vino»
risposi, ma gradiva roba più forte. Insistette affinché uscissimo,
e volle a tutti i costi guidare lui.
Il fanale continuava a sezionare parti di strada e di bosco.
Era buio ormai e correvamo su quelle stradine da quasi
mezz'ora. Il tramonto ridava respiro ai polmoni che l'afa aveva
congestionato durante il giorno. La notte era meravigliosa, ma
il suo fascino non riusciva a ripararmi da quel tipico turbamento che si prova allontanandosi troppo dalle zone abitate.
Dopo un po' l'oscurità si diradò e ci venne incontro un bivio.
Sopra un cartello vidi riflettersi la scritta Kassiopi, e Markus
svoltò per imboccare il viadotto principale. Ora i lampioni ci
smascheravano, non eravamo più due sagome nere e misteriose, ma dei turisti qualunque in cerca di avventure. L'asfalto a
un certo punto impattò contro un vialone di pietra lavica chiara,
all'ingresso del quale due larghi cilindri di metallo, alti un metro, s'innalzavano a presidiare la ZTL. Lì con lo scooter non si
poteva entrare. Parcheggiammo sulla banchina e proseguimmo
a piedi. Era quasi mezzanotte, ma la vita si era appena schiusa
su quel paesino. Il passeggio era fiancheggiato da locali di ogni
sorta, anche le birrerie andavano per la maggiore. Alla fine del
corso (lungo un centinaio di metri) si apriva a ventaglio un grazioso porticciolo. C'erano giardinetti tutto intorno e le persone
si rilassavano sulle panchine. Sopra le barche a vela attraccate
c'era chi faceva festa, e addirittura qualcuno pescava usando
come esca del pane raffermo. Markus si diresse verso un locali106
no dall'aspetto anonimo: luci soffuse che provenivano da lampade a petrolio. Era molto caratteristico e non troppo affollato.
Ci sedemmo ad un tavolino appartato. Da quando avevamo
piazzato il culo sulla sella del motorino, né io, né lui, avevamo
proferito parola.
«Eri mai stato qui prima?» Chiese Markus.
«No.»
«Che te ne pare?»
«Incantevole!» Risposi.
«Sai c'è un Castello Bizantino verso la collina. Se ti va, più
tardi potremmo farci un giro.»
Quel suo modo di divagare era fastidioso.
«Non mi avrai di certo portato qui per parlarmi del patrimonio artistico dell'Isola?» Rimbrottai.
«No... non ti ho portato qui per questo.»
Nelle sua voce c'era un ostacolo che tendeva a frenare le parole. Era come se avesse timore di parlare. Il suo cellulare, a intervalli regolari, emetteva un fastidiosissimo bip, la batteria si
stava esaurendo, e lui lo fissava imbambolato.
«Sai gli altri non sanno nulla.»
«Di cosa?»
«Che sono qui con te. Sono sgattaiolato via dalla finestra
della camera e ho preso l'autobus di nascosto. Lo scooter parcheggiato in giardino li convincerà che sono in camera.»
«Addirittura? Non credo ti avrebbero impedito di uscire,
magari si preoccupano per te e quindi cercano...»
«Forse non hai capito... ma non è per niente sicuro...»
Non è per niente sicuro. Cosa stava cercando di dirmi Markus? Mi dava l'impressione che qualche contatto nel suo cervello si fosse bruciato irrimediabilmente.
«Non è sicuro cosa?»
«Non è sicuro... io e te... non è sicuro.» Balbettò.
Il dolore per la perdita gli stava fottendo il cervello, lo rendeva paranoico. Non gli diedi peso e cercai di assecondarlo.
107
L'approccio migliore era quello di ingollare litri di Ouzo a secco, così ne ordinai una bottiglia da 75. I primi bicchieri li tracannò come acqua, e dopo breve i muscoli della sua faccia si
rilassarono.
«Soffri molto per Rachel?»
«Come un cane... ma...»
«Ma?»
Ingoiò un sospiro pesantissimo.
«Sai, è qui che ci siamo conosciuti.»
«Sì?»
«Quel giorno lei era seduta a questo tavolo con un'amica...
un'amica che...»
«Un'amica che?»
Prendere parte a quella conversazione stava divenendo snervante. Quel suo linguaggio telegrafico ed esitante mi innervosiva. Markus soffriva molto, si vedeva, ma c'era dell'altro; il suo
dolore andava oltre la semplice elaborazione del lutto.
«Io non ho mai creduto all'amore a prima vista, e in fin dei
conti con lei è stato così, perché quando la vidi, capii di amarla
da sempre.»
«È molto bello quello che dici.»
«Già, ma a volte dietro le belle parole si nascondono comportamenti aberranti.»
La sofferenza può farti sragionare, ma in quella sua affannosa confessione c'erano allusioni e frasi interrotte che iniziavano
a preoccuparmi. Decisi di passare la mano e cambiai argomento. Era la cosa migliore da fare. Bevemmo come ossessi, quasi
alla ricerca del coma etilico. Markus la smise con le sue farneticazioni e per il resto della serata sembrò un'altra persona. Il
dolore avrebbe cessato di predarlo per un po', e questo divenne
lenitivo anche per me. Ci inerpicammo su per la collina, il terreno era friabile e cappottammo più di una volta. Fu un bene
però, perché ci ridemmo sopra. Raggiungemmo il Castello che
era avvolto da buio tetro. Markus insistette affinché lo visitassi108
mo, così mi condusse sopra il cammino di ronda. Lui c'era già
stato, per questo riuscimmo ad arrivarci. Non si vedeva praticamente nulla. Flebili raggi di luna di tanto in tanto delineavano
qualche forma. Salì sul muretto di cinta che si affacciava sul
paese e mi invitò a fare lo stesso. Soltanto allora mi resi conto
che al di là di esso si staccava uno strapiombo di una
quindicina di metri. Quella sensazione di vuoto mi bastò per
trascinarlo giù con la forza.
«Da qui possiamo liberare il nostro spirito. Se buttiamo giù
qualcosa... qualcosa che ci lega ad un passato che non vogliamo più... questo sparirà per sempre.» Sogghignò.
«Dici?» Finsi di aver capito le sue parole.
«È sicuro!» Replicò ridacchiando.
Poi si sfilò la collana dal collo e la lanciò nel vuoto.
«Quella era di Rachel... adesso l'ho cancellata dal mio passato.»
Stramazzò in una risata isterica che divenne contagiosa. Lo
seguii a ruota libera: mi piegai in avanti per l'assenza d'aria. Ma
non ne comprendevo le ragioni. Ridevo e basta, avevo perso il
controllo di me stesso. Avevo bevuto troppo.
«Adesso tocca a te... liberati del tuo passato.»
Parassitato dal germe dell'irrazionalità afferrai istintivamente il mio delfino e glielo porsi.
«Fallo tu!»
Le tenebre erano mortali e la luna scintillava su quel piccolo
oggetto quasi a donargli vita propria. Markus lo osservava, cercando a fatica di non barcollare. Infine l'idiozia irruppe nel silenzio e la sua voce malata esplose nel delirio.
«Questo è un sacrificio a te... vergine della luna!»
Improvvisamente mi resi conto del crimine che stavo per
commettere.
«Fermati!»
Spinto da una forza subconscia e irrefrenabile il mio braccio
bloccò il suo.
109
Adesso avevo smesso di ridere; e anche lui.
«Cosa ti prende?» Disse contrito.
«Niente... non voglio più farlo! Riconsegnamelo!»
«Tieni pure il tuo stupido delfino... uomo in pantofole!»
Ora che lo avevo nuovamente tra le mani lo vedevo indifeso
e agonizzante. Mi pareva addirittura vivo; quel suo piccolo corpicino ansimava esanime e dallo sfiatatoio tenui spruzzi
d'acqua mi inumidivano i palmi. La mia immaginazione, esasperata dai veleni dell'alcol, mi giocava brutti scherzi. Scrutai
quelle minuscole fattezze come se fosse la prima volta: era così
vulnerabile. Quella scritta negli anni si era consumata quasi del
tutto, ma adesso appariva addirittura accecante sotto i riverberi
del pentimento. La confusione mentale continuava a ossessionarmi e il ricordo di Eva si ripresentò brutale. A me era successa la stessa cosa, me ne ero innamorato ancora prima di vederla. Era così, oppure stavo cercando lei solo per ritrovare me
stesso. “Dove giace la mia metà, là giace il mio cuore”, mi aveva insegnato a dire mia madre quella volta che la piccola Katie
morì.
Pregai Markus di fare ritorno e lui non fece obiezioni.
Il freddo mi faceva battere i denti, ma non lo disdegnai, se
non altro mi avrebbe fatto riprendere dalla velenosa sbronza.
Giunti a destinazione, Markus mi chiese in prestito un indumento pesante. Gli diedi la mia felpa marrone. Poi mi ringraziò
per la serata, si scusò, e mi stritolò in un abbraccio che nemmeno mia madre...
A quell'ora non c'erano mezzi pubblici. Si tenne lo scooter e
mi assicurò che lo avrebbe riportato il giorno successivo. Prima
di mettere a tavoletta l'acceleratore aggiunse: «È la punizione
per quello che abbiamo fatto!»
Di nuovo quei vaneggiamenti.
Quando ripartì, mi ricordai della sua uscita clandestina e gli
strillai: «Ti scopriranno!»
Ma ormai era già andato. Di lui rimase una flebile e treman110
te lucina rossa, che a breve si dissolse del tutto.
Cosa stava a significare “è la punizione per quello che abbiamo fatto”?
111
9.
“Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.”
(Gesù)
P
er cercare di offrire un'interpretazione personale
all'annosa questione tra il bene e il male, una volta papà
disse: «Da una parte c'è il male con la pistola, dall'altra il
bene con un fiore. Chi vince?»
Mi svegliai nel tardo pomeriggio con quelle sue parole in testa.
Avvertivo un atroce presentimento: il male era soltanto all'inizio del suo disegno distruttivo. Durante il sonno gli incubi si
erano susseguiti, ma non ricordavo niente. Ero a pezzi. Il cervello pulsava contro la calotta cranica e sentivo lo stomaco ululare. Avevo la gola arsa ed ero completamente disidratato.
Mandai giù un litro d'acqua tutto d'un fiato, poi accesi il telefonino. Mi arrivarono circa una decina di messaggi di notifica.
Qualcuno mi aveva chiamato insistentemente, ma quel numero
non era memorizzato in rubrica. Chiamai.
«Finalmente!»
La voce sembrava conosciuta.
«Posso sapere con chi parlo?»
«Sono Pilar.»
«Pilar?»
Era molto turbata.
«Markus è con te?»
«No, ci siamo lasciati stanotte verso le tre.»
«Il suo scooter è qui, ma lui non si trova.»
Decisi di non mentire, in alcuni casi è meglio non farlo, se
lo fai, ti fotti con le tue mani.
«Markus mi ha raggiunto in autobus ed è andato via con il
mio scooter.»
112
Dall'altra parte il silenzio tramutò in riflessione.
«E perché mai avrebbe fatto una cosa del genere?»
Mentii, anche se non l'avrebbe bevuta.
«Mi ha detto che non se la sentiva di guidare.»
«Uhmmm!»
Rimasi in attesa, fregandomene di ciò che le passava per la
mente.
«Ad ogni modo Markus non si trova. Tu non hai idea di
dove possa essere?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Senti, forse la cosa migliore è che tu ci raggiunga. Ti aspettiamo!»
Senza nemmeno darmi il tempo di replicare, riagganciò.
Markus era scomparso. La faccenda si faceva delicata.
Quando ci eravamo lasciati non aveva di certo l'aspetto di un
ballerino di flamenco, ma nemmeno potevo immaginare che...
I sensi di colpa mi assalirono, forse avrei dovuto costringerlo a passare la notte con me. Esasperarsi però avrebbe soltanto
peggiorato la situazione. Presi il primo autobus per Paleokastritsa e arrivai a destinazione verso le 18:00. Erano tutti a casa di
Pilar – adesso c'era rimasta solo lei. Appena mi vide si precipitò verso di me con l'espressione di chi alle parole vuole far precedere gli schiaffi.
«Che cazzo avete combinato ieri sera?»
«Niente di che... abbiamo bevuto soltanto un po'.» Risposi
atterrito.
«Ma ti sei bevuto il cervello? Non lo sai che farlo bere in
quelle condizioni può essere pericoloso?»
Ipocrita. Parlava proprio lei che aveva ancora il fiato che
puzzava del mio pisello.
«Farlo bere? Non sono mica la sua balia? Markus è adulto e
sa quello che fa.»
Gli occhi di Pilar s'infiammarono, se in quel momento avesse avuto tra le mani un coltello lo avrebbe sicuramente usato.
113
«Sei un patetico coglione!»
Non potevo permetterle di trattarmi in quel modo. In fin dei
conti, anche se mi sentivo responsabile, non c'entravo niente.
«Senti io non so che cazzo ti sei messa in testa e cosa vuoi
da me, adesso dovrei sentirmi in colpa per aver bevuto con
Markus? Mi pare che sia un vezzo che vi riesce bene a tutti, o
sbaglio? Quindi spiegami che cazzo di problema hai. Non credere che abbia dimenticato.»
Pilar si portò le mani in testa e iniziò a singhiozzare, era in
preda a un attacco di panico. Probabile che per una frazione di
secondo mi fece anche tenerezza.
«Questa mattina ho ricevuto un suo messaggio.»
[Conosco un luogo dove si cancella il passato. Devi buttarci
dentro qualcosa che ti lega a esso. Ma solo adesso capisco che
niente si lega al mio passato più di me stesso.]
Fui assalito dallo sgomento.
«A che ora l'hai ricevuto?»
«Verso le sei di questa mattina.»
«Forse so dov'è!»
«Dove?»
Pilar aveva gli occhi gonfi di lacrime.
«Vi ci porto io... sarà meglio partire subito.»
Prendemmo lo scooter di Markus; insistetti affinché guidassi
io e Pilar non fece resistenza. Christian e Ginger ci seguirono
con il loro Quad.
Kassiopi rispetto a Paleokastritsa era molto a nord, quindi
decidemmo di tagliare per la montagna. Lo splendore di cui si
fregiava il percorso non lasciava indifferenti, ma i miei nervi
avevano la stessa durezza degli ulivi secolari che ci scorrevano
davanti. Salimmo in cima, fino alla punta più estrema, e da lassù il panorama divenne qualcosa di inenarrabile. Il mio pensiero, però, era già arrivato a destinazione. In quegli attimi vedevo
il viso sfigurato di Markus impresso in ogni cosa. Sui tronchi,
sull'erba, nel vento che ingentiliva la canicola, e persino sulle
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zolle di catrame che si staccava dagli argini della strade. Nonostante tutto, il seno turgido di Pilar, che a ogni irregolarità del
manto stradale sbatteva contro la mia schiena, mi fece venire
un'erezione. Non era facile restarne indifferenti: Pilar aveva un
corpo stupendo. Di tanto in tanto mi stringeva il petto per non
sbilanciarsi e mi dava l'impressione che quegli abbracci avessero tutt'altro scopo. Lei avrebbe esorcizzato quella situazione facendosi scopare sotto un ulivo, ne ero più che sicuro. L'ultima
volta era stata fin troppo chiara. Ma malgrado cercassi di immedesimarmi in quel suo punto di vista, non riuscivo a dargli
tangibilità.
Il pendio ci condusse attraverso alcuni paesini sperduti
nell'entroterra. In ognuno di essi, sulla strada principale, c'erano piccoli banchetti allestiti da coppie di anziani che vendevano ai turisti olio e vino fatto in casa. Eravamo in viaggio
da un'ora e Pilar insistette affinché facessimo una sosta. Disse
che le si era addormentata la fica – disse così – e che aveva bisogno di bere qualcosa. Ci fermammo presso il banchetto più
fornito e domandò se avessero anche Ouzo o Kumquat. Ma non
li avevano, avrebbe dovuto accontentarsi del vino. Ne acquistò
due bottiglie e ne regalò una a Christian e Ginger, poi rimontò
in sella e disse «questa è per noi due». Dal suo timbro di voce
sembrò che avesse in mente particolari progetti per entrambi.
Il vinello aveva un sapore dolciastro, ma era abbastanza
ghiacciato da scendere giù senza intoppi. In breve tempo la
bottiglia si dimezzò e sotto quel sole cocente gli effetti si fecero
presto sentire. Come se non bastasse, mi risalì tutto lo scarto alcolico della sera precedente. Dopo poco Pilar iniziò ad accarezzarmi le cosce.
«Che cosa cerchi di fare?» Lo dissi a voce grossa perché il
vento forte divorava gran parte dei decibel.
«Voglio farlo.»
Pilar mi sbottonò la patta e si ritrovò nelle mani tutta la mia
dura incoerenza. Lì sotto ero diventato un ramo di quercia e
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provai imbarazzo. Cercai di frenare le sue mani, ma ne aveva
troppe, scivolavano come anguille. Mi girava la testa, la discesa era ripida, e se non avessi tenuto la presa salda sul manubrio
correvamo il rischio di cadere e farci seriamente male. La lasciai fare, non potevo fare altrimenti. Iniziò a masturbarmi delicatamente, poi infierì con foga. Con la mano libera si dilettò a
massaggiarmi i testicoli e dopo poco i brividi m'intorpidirono il
ventre e l'inguine. Il mio pene pulsava, lei ansimava, e i suoi
affanni si coordinarono ai miei. Quando lo sperma le scivolò
sulle dita anche il suo orgasmo oltrepassò il frastuono del vento. Eravamo venuti insieme, e mentre l'eros colava lento dal
cruscotto dello scooter di Markus, il thanatos che sarebbe sopraggiunto mi fece ammalare di rimorso.
Non proferimmo parola. Lei mi cinse la vita, ma stavolta la
sua stretta era tenera e gentile. Poggiò il suo orecchio contro la
mia spalla e se ne stette in silenzio per tutto il tempo. Forse ad
ascoltare il battito accelerato del mio cuore. Non potetti fare a
meno di chiedere scusa a Markus con la voce della mente. Ma
in fin dei conti, cosa avevamo fatto di male?
Arrivammo a Kassiopi verso le sette di sera. Conoscevo la
strada e li condussi direttamente al Castello Bizantino. Sui visi
di Christian e Ginger si erano affacciati la curiosità e il timore.
Su quello di Pilar invece non si scorgevano sbavature: a lei pareva sempre tutto normale, come se niente stesse succedendo.
Il suo modo di fare mi arrecava scompiglio, era troppo fuori
dagli schemi. Un momento prima poteva amarti, l'istante dopo
ti considerava alla stregua di un verme.
Lungo il sentiero notai subito un insolito movimento. Quelle
casacche gialle, attraversate da strisce catarifrangenti, non erano di certo indumenti adatti ai turisti. Quando fummo quasi
giunti sul luogo prestabilito il presentimento divenne certezza.
Poi terrore. C'era un presidio di poliziotti e la zona era stata circoscritta con un nastro giallo. Gli occhi di tutti si sgranarono.
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Ginger e Christian avevano capito, soltanto Pilar continuava a
rifuggire la realtà ripetendo come un disco rotto: «Cosa succede? Cosa succede?»
Un poliziotto si avvicinò e ci intimò di allontanarci, a quel
punto Pilar pretese delle spiegazioni.
«Un ragazzo si è buttato. Non potete stare qui.»
Ginger esplose in lacrime.
«Dio mio, e come sta?»
Se Pilar avesse visto quello strapiombo, non avrebbe posto
quella stupida domanda.
«Come vuole che stia signorina? È morto! Non potete stare
qui, allontanatevi»
Anche Christian e Pilar si unirono a Ginger, alternando i singhiozzi ad un pianto a tratti isterico. Cercai di mantenere la calma e feci presente agli altri che forse era il caso di mettere al
corrente la polizia dei nostri legami con Markus. A quel punto
Pilar si avvicinò a un poliziotto e dopo una breve conversazione li vidi sparire attraverso l'entrata del castello. Quando fecero
ritorno lei aveva le mani sul volto e le lacrime le trapassavano
le fessure delle dita. Venimmo richiamati tutti da una specie di
ispettore, e subito dopo fummo condotti presso la centrale di
polizia. Ci fecero salire sulle volanti e, a sirene spiegate, ci dirigemmo verso Isola City.
La questura si trovava all'interno di un palazzone medievale
che si ergeva di fronte un'antica e maestosa fortezza. Questa era
avvolta dalle acque del mare che defluivano verso il grande
porto. Nella sala d'attesa passammo in rassegna l'intero repertorio dei tic nervosi. Ognuno di noi raccontava una parte di sé attraverso le proprie manie compulsive. Le mie unghie erano ridotte così male che il rischio d'infezione iniziava a farsi concreto. Al solito, l'unica a preservare una calma fuori dal comune
era Pilar; anche se non si poteva dire che non fosse
visibilmente scossa. Ci chiamarono uno alla volta per rilasciare
117
le nostre deposizioni. Dopo Ginger toccò a Pilar. Per ultimi nella sala d'attesa rimanemmo io e Christian. Lui appariva devastato dal dolore, ma una sensazione mi diceva che quel suo
profondo stato di malessere non era dovuto soltanto alla sorte
del suo povero amico. Tremava, mugugnava e continuava a
sputare la pelle dei suoi polpastrelli ovunque: la si poteva distinguere chiaramente sul pavimento di marmo lucido. Se ne
stava in silenzio e di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate di
pentimento, era come se si stesse autoaccusando di qualcosa.
Quando anche lui rispose all'appello, capii. Prima di sparire
dietro quella porta di legno annerita, il suo sussurrò mi attraverso lo stomaco.
«Rachel ha ingerito del veleno!». E poi ancora: «Rachel ha
preso il veleno!»
Era il senso di colpa a tormentarlo senza tregua. I suoi occhi
gonfi e smarriti mi confessarono quel segreto. Ma per quale
motivo si sentiva in colpa? E perché mai Rachel avrebbe dovuto avvelenarsi? Falcidiato da quegli interrogativi l'attesa mi
parve interminabile.
L'ufficio del commissario puzzava di fumo di sigarette, ma
non era tenebroso come me lo sarei aspettato. Lui era un uomo
tozzo e aveva dei baffetti ridicoli: lunghi, sottili e arricciati in
punta. Sedeva dietro un'enorme scrivania di mogano assediata
da scartoffie di ogni tipo. Quel coacervo di pratiche gli serviva
più che altro a tenere alto il suo ego. Sulla destra, dietro una
scrivania molto più piccola, sedeva un agente che non proferiva
mai parola, si limitava solamente a dattiloscrivere la mia deposizione. Il commissario si scomodò a chiedere poche inutili
cose. Mi dava l'impressione di non aver nessuna intenzione di
portarla per le lunghe e di voler chiudere il prima possibile il
caso.
«Mi piacerebbe sapere cosa succede a voi giovani. Nel giro
di pochi giorni se ne sono ammazzati due. Dove andremo a finire mi domando!»
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Quelle sue illazioni erano a dir poco offensive.
«Scusi se mi permetto, ma chi le dà la certezza che si sia
trattato di suicidio?»
Spalancò gli occhi e cominciò ad arricciarsi nervosamente
un sopracciglio. In quel posto era lui a fare le domande e non
poteva permettersi un rovesciamento di ruolo.
«E di cosa vuoi che si sia trattato? Qui ogni estate è sempre
la stessa storia. Voi avete la testa bacata, vi drogate e bevete, e
poi non si sa cosa pretendiate dalla polizia!»
Era proprio un pallone gonfiato e m'innervosiva nel profondo.
«Ma in questi casi non si dovrebbe aprire un'indagine?»
Precipitò in una risata più grassa di lui. Si sbellicava e tossiva, e la faccia gli divenne quasi viola, poi si voltò verso lo scribacchino e disse:
«Hai sentito? Un'indagine. Il qui presente pretende un'indagine.» E continuò a sganasciarsi. «Tu ragazzo hai visto troppi
telefilm americani. Credi che coi tempi che corrono ci mettiamo a perdere tempo dietro a voi altri? Il ragazzo si è buttato, lo
capirebbe anche un bambino.»
«Sì, va bene, e la ragazza? Non mi dirà che si è avvelenata
senza motivo?»
Si gonfiò tutto e divenne ancora più scarlatto, poi strinse i
denti:
«Il motivo non serve quando uno è stupido. E per me lo siete tutti.»
È sorprendente come si possa arrivare a detestare una persona soltanto dopo il primo sguardo. O la prima parola. M'infiammò talmente i nervi della cervicale che per un attimo vidi le
mie mani attorno al suo collo e le sue palle oculari schizzarmi
in faccia.
«È inammissibile che un uomo di legge possa parlare così!»
L'ira ingrossò le vene del suo collo, erano visibili nonostante
avesse un gozzo da rospo.
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«Allora facciamo così testa di cazzo. Adesso ti faccio alcune
domande e se non mi piacciono le tue risposte, ti sbatto in custodia cautelare per tutto il tempo che riterrò opportuno. Ti piace l'idea coglione?»
Quella sua reazione rabbiosa mi atterrì e non ci misi molto a
realizzare che, se mi avessero collocato sulla scena del delitto
la stessa sera, avrei potuto pentirmi di tutto ciò che avevo detto
fino a quel momento. Abbassai la guardia.
«Abbiamo finito? Devo firmare qualcosa?»
Il commissario si voltò nuovamente verso il collega.
«Fai firmare il verbale al Tenente Colombo qua!»
Autografai la deposizione e me la detti a gambe levate. La
mia improvvisa agitazione si trasferì agli angoli della sua bocca, dove si tracciò un'espressione di disgusto.
Commissario bastardo. I soldatini blu sono tutti uguali, in
qualsiasi parte del mondo.
Quando fui per strada gli altri erano lì ad aspettarmi. La prima a farsi avanti fu Pilar. Ginger e Christian rimasero in disparte, avevano i visi tramortiti e le labbra secche.
«Che cosa ti ha chiesto quel porco?»
In effetti, riflettendoci bene “porco” era un termine adeguato.
«Praticamente nulla.»
«Ha ripetuto a tutti la stessa cosa.»
«Non so cosa abbia detto a voi... a me ha detto che siamo
degli ubriaconi-drogati e di conseguenza dei potenziali
suicidi.»
«Esattamente quello che ha detto a noi.»
Pilar aveva perso due amici nell'arco di pochi giorni, ma
dava l'impressione di esserne poco turbata. Sì, è vero, era una
gran troia, e spesso e volentieri il pregiudizio fa cadere in errore, ma la collera nella sua voce trovava più affinità con il trattamento subito in quella questura, che con la perdita dei suoi cari
compagni. “Rachel era la mia migliore amica”, così aveva det120
to, quindi le ipotesi erano due: o la sua tolleranza al lutto era
degna di Giobbe, oppure la puttana era in malafede. All'interno
del suo raggio d'azione si percepivano zone d'ombra, ero sicuro
che nascondesse qualcosa, ma in quel momento preferii non sapere.
«Quindi che cosa si fa?»
«Quindi la vacanza è finita.»
Era cinica. Addirittura peggio del commissario bastardo.
«Ma come sarebbe la vacanza è finita? Non vorrai dirmi che
ti fidi del signor spastico Giacomo?»
«No, non mi fido, ma non mi sembra che ci sia rimasto molto da fare.»
Provavo una rabbia indescrivibile, ma stavolta Pilar non
aveva tutti i torti. Anche se avevo visto tutte le puntate del
commissario Maigret, queste non mi sarebbero servite a sciogliere il nodo gordiano. Quella situazione era veramente un intrigato casino del cazzo. Il suicidio di Markus poteva anche
starci, ma la stronzata del veleno ingerito da Rachel non mi
aveva mai convinto. Ed era proprio lì l'innesco della questione:
era stata la sua morte misteriosa a provocare l'effetto domino
che aveva condotto Markus al suo ultimo gesto di follia. L'intelaiatura di quella faccenda presentava storture e cedimenti, con
gli strumenti adeguati la si sarebbe potuta raddrizzare, ma a degli ubriaconi-drogati come noi era consentito soltanto di giocare al Cluedo.
Intanto Christian continuava a fissarmi a testa bassa, e nei
suoi occhi c'era la vuota consistenza di una storia che non si
poteva raccontare. Si avvicinò un istante, le sue labbra si staccarono appena per tessere un paio di fili di saliva asciutta, ma
le parole di Pilar risuonarono come un monito.
«Sarà meglio togliere le tende.»
Poi mi guardò e disse:
«Tu come torni a casa?»
«Prenderò l'autobus.»
121
Si accostò al mio orecchio: la sua voce leggermente vibrante
di foia.
«Se pensi che tra me e te ci sia una questione in sospeso,
puoi venire a dormire da me. Sono sola adesso.»
Che gran puttana! La sua presenza mi aggrovigliava le budella e il pensiero di ciò che c'era stato tra noi due divenne nauseabondo. Di contro, un irrefrenabile desiderio mi spingeva a
violentarla lì davanti a tutti. Mandai giù la pillola senza
deglutire.
«Ti ringrazio, ma proprio non me la sento.»
Si strinse nelle spalle e con la freddezza di una katana replicò:
«Come vuoi! Andiamo ragazzi.»
Un istante dopo si erano già dileguati, ma lo sguardo ingombrante di Christian continuò a nutrire a dismisura i miei venefici presentimenti.
La sportività della morte risiede nel fatto che, pur volendo,
lei non può perdere.
122
10.
“Se rinascessi vorrei essere un virus letale per eliminare la sovrappopolazione...”
(Principe Filippo di Edimburgo - WWF)
«B
ravo, vedi di tornare in fretta, sono in apprensione. La situazione è peggiorata, la polizia sta facendo strage dei manifestanti. Ogni giorno ci
sono morti ammazzati. Ago te lo ricordi? Andavate alle Elementari insieme. Gli hanno sparato durante gli scontri, alla testa, adesso è in coma, ma pare che ci sia rimasto poco da fare.
Sua madre mi fa una pena che non puoi capire. Qui tutti dicono
che ci sarà un colpo di stato, che l'esercito prenderà il potere, io
ho solo paura per voi giovani. E non dire che sei più al sicuro lì
dove sei, io ti voglio qui con me, mi sento più tranquilla. Torna
presto. Ti aspettiamo tutti.»
“Porci schifosi!”
La vacanza (se così si poteva chiamare) ormai era giunta al
termine. Mi sentivo talmente frastornato e confuso che non riuscivo a redimere quella sensazione di totale assenza. Molto
probabilmente esiste una sensazione che non esiste: è quella in
cui non si prova più nulla, oppure si prova tutto insieme, il che
equivale a dire di non provare più nulla. Insomma erano accadute talmente tante assurdità – tragiche assurdità – che se mi
fossi svegliato di soprassalto in uno di quei centri di sperimentazione sul controllo mentale, non mi sarei sorpreso. Ma
non mi svegliai.
Avevo un irrefrenabile desiderio di piangere, contrastato dal
bisogno di esplorare, investigare, di rianimare i confini di quel
123
perimetro ombroso, oltre il quale qualche dettaglio sfuggente
riesce sempre a riaffiorare. Mi sentivo come se stessi osservando la vita attraverso uno spioncino: nel mezzo tutto si presentava nitido, ma appena il mio pensiero si defilava, ogni cosa si
sgranava fino a perdersi dietro gli angoli sfocati. La mia visione era limitata a tal punto che la totale cecità sarebbe stata un
dono, mi avrebbe concesso l'acuizione degli altri sensi.
Comprai il biglietto della nave presso un'agenzia di Isola
City (nei paraggi non c'erano strutture abilitate a tale servizio),
dopodiché presi un autobus per tornare al mio alloggio. Tanti
interrogativi si rincorrevano nella mia testa: era il caso di passare a salutare il pescatore? Dovevo metterlo al corrente del
fatto che Eva non lavorasse più a Sivota? Ma a quel punto
avrebbe avuto ancora senso? Inoltre, chi erano veramente quei
ragazzi? Perché Rachel era stata avvelenata? Markus si era gettato? Suicidi oppure omicidi? E chi era quella famosa amica di
Rachel sull'identità della quale Markus aveva esitato? E ancora
– e forse questo mi assillava più di tutti – chi mi aveva riaccompagnato a casa la sera della festa?
In serata ricevetti una chiamata da Christian, la prima cosa
che pensai fu che lui avrebbe potuto svelare il mistero
sull'ignoto accompagnatore. Mi disse che anche loro avevano
deciso di partire e che gli avrebbe fatto piacere rivedermi per
un saluto. Gli diedi appuntamento all'Easy Busy Pub per le
20.00.
Mi recai dal ragazzo che mi aveva affittato lo scooter per ritirare il documento e per metterlo al corrente sull'accaduto, ma
sapeva già tutto, la polizia era passata per notificargli il sequestro del mezzo. Non fece storie più di tanto, anche se mi sentenziò con una piccola giaculatoria sul fatto che non avrei dovuto prestare una cosa che non era di mia proprietà. A quel
punto fui costretto a mentire dicendo che mi era stato sottratto
con l'inganno. Non ero in vena di sorbirmi stupide lamentele.
Tornato all'alloggio preparai le valigie e feci una doccia ve124
loce, e soltanto allora notai che quel misterioso “Tampax” era
sparito. Mi recai all'appuntamento con Christian con qualche
minuto di anticipo. Il locale non era molto affollato, a quell'ora
la maggior parte dei turisti era ancora in spiaggia. Ordinai una
Mythos ghiacciata e, nell'attesa, mi misi a guardare la televisione. Non potevo sentire l'audio, ma era sintonizzata su quei canali internazionali tipo Sky News, dove per la maggiore andava
il casino che stava succedendo in patria. Quelle immagini erano
di una ferocia inaudita. Insomma in una guerra ci si aspetta di
vedere scorrere del sangue, ma quando un corteo si trasforma
in un mattatoio – teste spaccate, visi lacerati, lenzuoli bianchi
che ricoprono corpi – la sensazione è di puro sgomento.
Christian arrivò in perfetto orario, ma, contrariamente a
quanto avevo supposto, non volle nemmeno sedersi per bere
una birra. Richiamò la mia attenzione con dei timidi gesti, pretendendo che uscissi dal locale. L'espressione nei suoi occhi
non era cambiata, mi consegnò una busta Kodak con all'interno
delle fotografie. Mi strinse la mano, forse anche troppo, e disse:
«Sono le foto della festa. So che Markus avrebbe voluto che
ne tenessi copia anche tu. Guardale!» Dopodiché si dileguò alla
stessa velocità con cui era apparso.
Figuriamoci se ero in vena di tormentarmi dietro ai ricordi.
A dire il vero, il semplice fatto di tenere quel pacchetto tra le
mani mi trasmetteva una sorta d'insofferenza. Svuotai quello
che era rimasto nel bicchiere tutto d'un fiato e feci ritorno. Un
profondo senso di rifiuto mi spinse a occultare quelle foto: le
ficcai sul fondo della valigia, sotto i vestiti.
“Dannazione!” Avevo dimenticato nuovamente di chiedere
della sera della festa.
Cenai sul terrazzino: spaghetti al pomodoro, accompagnati
da un vino rosso locale. Faceva schifo, era dolciastro, però riuscì a distendermi la cervicale e a conciliarmi il sonno.
125
Quel piroscafo avrebbe condotto lontano il mio fisico da
quei luoghi, anche se le mie emozioni sarebbero rimaste lì per
molto tempo. Prima di salirci feci una capatina da Sofia per ringraziarla. Fu l'esatta copia di sempre. Chissà quanti ne aveva
visti arrivare e partire, e magari in segreto aveva covato delle
debolezze. Cotte estive che non si possono raccontare, se non
all'amica del cuore che ti ripete sempre: “Non sei più una ragazzina”. Le lasciai momentaneamente in custodia la valigia.
Avevo ancora un'ultima cosa da fare.
Quando entrai nel negozio Georgios andò in solluchero. La
sua faccia divenne un palcoscenico e la sua bocca si aprì come
un sipario. Alcune persone ti sono amiche da una vita anche se
le hai appena conosciute. Ricambiai le smancerie e feci un giro
tra gli scaffali per comprare un paio di bottigliette d'acqua. Presi anche qualche spuntino – non avevo nessuna intenzione di
farmi maltrattare a bordo – poi mi diressi alla cassa.
«Hai fatto il maialino e adesso ci lasci eh?»
«Non crederai mai a cosa mi è successo Georgios!»
«Eh lo so, lo so, succedono tante cose qui... cose invise ai
santi.» Sussurrò ridacchiando.
Non sarei mai riuscito, in quel misero fazzoletto di tempo, a
raccontargli la mia epopea. Perciò assecondai il suo cipiglio e
mi atteggiai a sommo conoscitore dell'organo genitale femminile. Il tempo di battere i prezzi di quei pochi articoli e sembrò
quasi che stessimo cianciando da una giornata intera.
«Quanto ti devo Georgios?»
«Sono 5 e 35, ma vanno bene 5.»
«Grazie Georgios.»
Dalla tasca presi degli spiccioli – sono sempre un po'
d'impiccio – dovevano essere sufficienti per poter pagare il
conto. Li rovesciai sul bancone e tra essi, per errore, ci finì anche il mio delfino. Istintivamente Georgios lo afferrò e iniziò a
esaminarlo. Mentre cercavo, con l'abilità di un mutilato, di
separare i minuscoli oboli l'uno dall'altro, lui disse:
126
«Ah è molto bello, e anche antico... cosa dice qui? Chia...
ro... di... lu.. na. Chiaro di luna!»
Lo zoccolo di un cavallo mi si piantò sul petto, e all'istante
l'ematoma si propagò per tutto il corpo. Nonostante i 38°, mi
vennero i brividi di freddo.
«Che cosa hai detto?» Ribattei con tono brusco.
Georgios si sgonfiò di colpo, quasi atterrito dal mio timbro
di voce non più amichevole.
«Cosa ho detto cosa?»
«Prima, cos'hai detto? Ripeti!»
«Ho detto chiaro di luna. C'è scritto qui, vedi?»
Gli strappai dalle mani il delfino. Lo avvicinai agli occhi
come a volerlo imprimere sulle cornee. Poi afferrai Georgios
per un braccio; la mia stretta fu violenta.
«Che cosa sai su questo oggetto?»
«Ahi! Ma cosa ti prende amico?»
«Cosa sai su questo delfino? Come fai a sapere che è
antico?»
«Lo so perché si vede, è argento consumato, quindi è molto
vecchio tutto qui.»
«E qui c'è scritto chiaro di luna quindi?»
«Sì!»
«Ne sei sicuro?»
«Assolutamente! Quello è il codice dei pescatori, mio nonno
mi ha insegnato tutto ciò che c'è da sapere a riguardo.»
«Codice dei pescatori...»
Lasciai tutto sul bancone e iniziai a correre a perdita di fiato,
non sapevo nemmeno dove stessi andando, ma dovevo correre.
Da lontano mi raggiunse la flebile voce di Georgios: «Hey, ma
dove vai? La tua spesaaa...».
Chiaro di Luna e Sivota. Chiaro di Luna e il pescatore. Il pescatore ed Eva. Eva e il delfino. Che cosa stava succedendo?
Più ci pensavo e più correvo, e più correvo e più mi sembrava
di impazzire. Arrivai dall'affitta scooter con il cuore a mille, ero
127
zuppo di sudore, e dalle mie labbra si profilavano solo affanni.
Per farmi rilassare ci sarebbero volute pesanti dosi di Valium, o
di Ouzo. Avrei perso la nave, i soldi del biglietto, e sarei stato
costretto a sorbirmi le filippiche di mia madre, ma non me ne
importava nulla. In quel momento avevo solo bisogno di un
pistone e due ruote. Supplicai il ragazzo che dopo quella storia
non voleva saperne, ma alla fine ebbi la meglio, aveva letto nei
miei occhi la determinazione di chi non molla. Ci accordammo
sul prezzo. Il vecchio Elyseo era decisamente più comodo di
quel trabiccolo smarmittato, ma a me interessava soltanto
spingere al massimo i suoi cilindri per raggiungere Barbati il
prima possibile.
Quando arrivai feci un breve giro di perlustrazione nella
zona dove il pescatore era solito accamparsi, ma non c'era e
non potevo aspettare la sera per beccarlo, perché come per le
volte precedenti, soltanto allora si sarebbe fatto vivo. Decisi
quindi di raggiungere la sua abitazione.
Giunto a destinazione, qualcosa mi suonò strano sin da subito: la casa appariva diversa. Sembrava completamente abbandonata da anni. Non che prima fosse l'emblema della cura e
della compattezza, ma adesso non c'era più vita. Sia all'esterno
che all'interno. Aveva l'aspetto di un decrepito vecchietto, canuto, bianco, ingobbito, i tendini posteriori del collo marcati
come un undici, le spalle anteriorizzate, e la morte che batteva
su di esse, indefessa. Mi avvicinai alla finestra e vidi solo l'esasperante precipizio del vuoto. Un involucro fatiscente dimenticato e abbandonato. Forzai la porta d'entrata. Le ragnatele avvolgevano tutto come un sudario di morte. E la ruggine aveva
divorato ogni superficie metallica; se ne poteva sentire l'odore
acidulo. Ogni angolo di quella casa era ridotto così. Anche la
camera di Eva. Era semplicemente dominata dal nulla e consumata: uno scheletro millenario.
Che cosa stava succedendo? Ma com'era possibile? Era
quella la pazzia? Riuscire a vedere nella mia mente ciò che al
128
di fuori non esiste? Mi serviva un elettroshock? Oppure soltanto adesso stavo distinguendo il reale dal visionario? Dovevo
calmarmi, non ero impazzito. Forse avevo visto più degli altri:
oltre ogni possibilità umana. Questa consapevolezza divampò
in me come un devastante incendio spirituale e in quel momento la mia visione si allargò a 360°. Se non ero morto, allora
avrei dovuto capire il prima possibile come utilizzare quella
rinnovata funzione del cervello. Quel terzo occhio. “I pazzi
sono pazzi solo perché glielo fanno credere. Psichiatria dei
miei sacri gingilli”.
Mi fermai in una vecchia taverna che sormontava una duna,
era distante un centinaio di metri dalla casa del pescatore.
Adesso mi sentivo rilassato e anche affamato. Ordinai del pesce spada ai ferri, un'insalata e del vino bianco. Poi mi resi conto che ero lì principalmente per fare delle domande. L'occasione si presentò insieme a quei tranci profumati e fumanti.
L'anziana signora doveva per forza sapere qualcosa.
«Senta una cosa.»
«Mi dica.»
«Se mi è consentito chiedere, saprebbe dirmi a chi appartiene quella casa abbandonata sulla duna? Più o meno a un centinaio di metri da qui.»
«Intende quella coperta dagli alberi?»
«Sì, proprio quella!»
«E come ha fatto a vederla scusi?»
«Mi ci ha portato il proprietario!»
L'incredulità della canuta donna sfumò man mano verso
l'ilarità. Dopodiché esplose in una risata corposa che arrivò a
sfiorare il riverbero cristallino della riva. Mi sentii in imbarazzo.
«Ma a lei va di scherzare?» E giù di nuovo a ridere. «Quella
è la casa del povero vecchio Nicholas... ci ha lasciati da un paio
di anni ormai.» E ancora sghignazzamenti.
La rivelazione non mi sorprese.
129
«E cosa mi sa dire del signor Nicholas? Aveva dei figli?»
«Il vecchio non aveva figli, o meglio, ce ne aveva uno, ma
morì annegato insieme a sua moglie in un brutto incidente in
mare. Lui si prese sempre cura della nipote. Aveva un ristorante
a Sivota, ma dopo la sua morte fu venduto... molto probabilmente la nipote ancora ci lavora.»
«E di lei cosa sa dirmi?»
«Della nipote intende?»
«Sì!»
«Ma guardi, io so solo quello che mi raccontò lui, e le assicuro, non era uno al quale piaceva fare conversazione. Di lei so
che nell'incidente sopravvisse. Tutto qui.»
«La ringrazio signora... è stata davvero molto utile!»
«S'immagini. E poi lei è simpatico, mi ha fatto ridere con la
sua strana battuta!»
Stavo iniziando a capire, anche se molti aspetti ancora non
tornavano, quella nuova facoltà mentale aveva fatto apparire i
primi puntini. Erano gettati lì a caso, senza logica, ma ora li vedevo, c'erano, e avrei dovuto soltanto iniziare a unirli. Tutto era
ancora possibile.
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11.
"Avete fotografato qualcosa di interessante?"
(Controllo Missione – Apollo 11)
Sofia mi lanciò un'occhiata di stupore, alterata da un leggerissimo strato di disappunto.
«Sofia non avere capito che tu lasciare qui valigia per giorno
intero.»
«Sì lo so Sofia, ti chiedo scusa, ma dovevo fare una cosa importantissima. Grazie di tutto.»
La strinsi forte, poi presi la valigia.
«Addio mattacchione!»
«Addio Sofia!»
Passai da Georgios per recuperare la spesa. Mi mostrai dispiaciuto per quanto era successo, ma lui aveva già dimenticato
tutto. Ci abbracciamo e gli promisi che un giorno sarei ritornato. Dopodiché presi l'autobus per il porto.
La mia vista si stava ripulendo, le pupille non erano più anisocoriche, l'inganno poteva ancora essere smascherato. Dovevo
cambiare lo schema, invertire il flusso del ragionamento. Mi
venne in mente una vecchia storiella: “Il reverendo Frank Flower voleva cambiare il mondo con un'omelia e una chitarra.
Con la prima lo fece addormentare, e con la seconda lo risvegliò. Poi capì che avrebbe potuto cambiare il mondo solo con la
sua penna, così scrisse sul muro del sagrato: per il cambiamento si accettano anche assegni.”
C'erano cose che avevo visto, ma che ancora mi rifiutavo di
vedere. Facevo molta fatica a focalizzarle. Si perdevano al di là
del ricordo, come se quest'ultimo, invece di farsi amico, si fosse schierato dalla parte della menzogna. Il fatto è che non ero
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ancora pronto.
Spesso l'istinto al non voler vedere è un meccanismo di autodifesa. La verità è disturbante, ci sconvolge a tal punto che
preferiamo riadattarla ad una realtà fraudolenta, ma più sicura.
Alla verità preferiamo di gran lunga il sentito dire. Ma i nostri
occhi non ascoltano, essi rivelano, basta istruirli a non avere
paura.
Una volta, nel bel mezzo di una discussione che aveva tutta
l'aria di divenire troppo seriosa, domandai a un mio vecchio
amico: «Perché non credi in Dio?»
Lui, quasi sorpreso, rispose: «Perché credo in ciò che vedo e
non in quello che si dice!»
A quel punto gli mostrai la pagina di un vecchio libro dove
era raffigurato un antico geroglifico egizio.
«Che cosa vedi qui?»
«Un disco volante!» Ribatté a bruciapelo, ma dopo pochi
istanti ridimensionò la sua risposta: «Vedi? Però qui dice che
questo simbolo è l'unione di...»
A quel punto lo interruppi: «Perché improvvisamente credi
in ciò che si dice?»
Da quel giorno le nostre conversazioni si limitarono alle
gioie erotiche adolescenziali che Mary Jane Ficarotta aveva saputo donarci, e ai misteri dell'universo femminile in generale.
Avevo una certezza: dovevo andare via da lì il prima possibile, perché era proprio quel luogo a precludermi la visione
d'insieme. Se la vicinanza rende più nitidi i dettagli, la distanza
ci mette in connessione con l'opera compiuta.
132
L'imbarco ci fu verso le dieci e un'oretta dopo eravamo già
in mare aperto. Mentre la nave andava, con essa anche i miei
pensieri. Le angosce, i sogni, gli amori, le illusioni, ogni sentimento pareva scisso dal passaggio di quella prora che aveva
come unico scopo il saccheggio della mia identità. In
quell'intreccio di emozioni contrastanti, la morte mi pareva
l'entità più sincera, e la lattina di birra la mia unica e sola amica. My only friend, the end.
Alle mie spalle non avvertivo più quella malefica presenza.
Le sagome possenti dei guardiani avevano cessato di esercitare
l'arcaico terrore che mi aveva trucidato durante i sonni. La carne piatta dei loro visi era solo un dettaglio di poco conto, quasi
farsesco, e sentivo in me il vigore di una rinascita. Il buio divenne illuminante, e il gelo della pietra, sotto le ginocchia, addirittura ardente. Adesso tutto mi appariva limpido e cristallino.
Una domanda mi era stata concessa e sapevo cosa chiedere.
Non importava a chi l'avessi rivolta, perché la chiave per la mia
salvezza era racchiusa nella domanda stessa.
Posai lo sguardo sul non volto del carceriere:
«Se chiedessi all'altro guardiano se la porta da lui presidiata
è aperta, cosa mi risponderebbe?»
A quel punto entrambi si dissolsero come fumo di sigaretta,
poi le serrature scattarono e le porte cigolarono fino a spalancarsi. Una luce accecante avanzò lenta e poderosa, mi avvolse
nel suo intenso mantello e mi condusse al centro della sua immensità.
Una fiamma divampò all'improvviso. Mi svegliai di soprassalto, eravamo a metà del viaggio e il mio cervello si trovava in
una fase di ciclica elaborazione.
La sera della festa mi ero addormentato su quella sedia in
giardino, e cosa avevo visto subito prima? Qualcuno mi aveva
infilato un bicchiere in mano. Chi era stato e perché? Ora ricor133
davo un altro particolare importantissimo. Prima che perdessi
completamente conoscenza, Rachel si era avvicinata e mi aveva detto: «Tu hai bevuto abbastanza per questa sera!» Dopodiché mi aveva portato via il bicchiere. La notte che Markus si
era gettato, indossava la mia felpa e guidava il mio scooter. Iniziavo a capire, i puntini pian piano si ricongiungevano. Rachel
aveva bevuto dal mio bicchiere, e in quel bicchiere era contenuto del veleno destinato a me. Ma chi aveva avvelenato la mia
bevanda? Lo stesso qualcuno che aveva seguito Markus e lo
aveva spinto giù nel precipizio, credendo che fossi io. Erano
omicidi – commissario di merda. Ma chi era stato? E perché
voleva vedermi morto? Mancava qualcosa. Dovevo concentrarmi e tornare a rivivere quegli attimi. Io e Markus eravamo seduti a quel tavolino. Durante la nostra conversazione qualcosa
mi aveva infastidito molto. Non era il suo comportamento, o almeno non solo quello, c'era dell'altro, un particolare che non
riusciva a riaffiorare. Vuoto totale. Avevo bisogno di più tempo. Ma non era quello l'unico tassello mancante. Di colpo mi
apparve Laura. L'avevo vista davvero su quel motoscafo? Su di
lei mi era rimasta addosso una strana sensazione durante tutto il
viaggio di andata. Era qualcosa che aveva detto, ma che continuava a sfuggirmi. Dovevo riflettere. Dallo zaino tirai fuori il
vecchio giornale. Lo sfogliai: pagina per pagina, parola per parola, ne analizzai anche il più insignificante trafiletto. Esaminai
ogni singola frase, e d'un tratto: bingo! Niente, non c'era scritto
da nessuna parte. Laura quel giorno aveva detto: «È stata decapitata». Queste erano state le sue parole, ora le ricordavo benissimo, erano assordanti. Ma sul giornale quel “dettaglio” non
era riportato da nessuna parte. E allora lei come faceva a saperlo? Forse la risposta era nelle foto che Christian mi aveva consegnato, ma la valigia era sepolta nella stiva. Mi toccava attendere che fossimo arrivati a destinazione.
Il pensiero di Eva ripiombò, mi pungolava, percepivo delle
violente vibrazioni dalla sua figura. Ora l'amore nei suoi con134
fronti aveva mutato aspetto, non l'amavo più come si può amare la propria compagna. Era un amore diverso, addirittura più
intenso, ma scevro dal desiderio carnale. Avevo come il presentimento che lei avesse a che fare con tutta quella storia.
Al porto non potevo mettermi a trafficare con la valigia nel
bel mezzo di quel marasma, ma nemmeno aspettare di essere
salito sul treno, anche perché da quelle foto dipendeva la mia
prossima mossa. Superai i numerosi controlli e saltai sul primo
bus in partenza.
Le strade erano mefitiche, puzzavano di gas lacrimogeno e
pneumatici bruciati. L'autobus procedeva a singhiozzo per via
dei numerosi blocchi stradali. Ogni sosta s'immortalava nella
mente sotto forma di diapositive di efferata violenza e devastazione. Sull'asfalto erano visibili bossoli di varia dimensione e
di tanto in tanto si scorgevano larghe macchie di sangue ancora
fresco. Le sirene delle camionette scavalcavano il trambusto
del traffico e sopraggiungevano come cavalli imbizzarriti per
sparire dietro la prima curva. In ogni strada c'erano celerini che
traevano in arresto i riottosi. I tonfa parevano eliche che ruotavano all'impazzata, ma non era un effetto ottico: frantumavano
ossa e strappavano via la carne. Oltrepassato l'ennesimo fermo
di polizia vidi un lenzuolo bianco a terra, era corto, il corpo che
ricopriva doveva essere quello di un bambino. Trattenuta con
forza da uno sparuto drappello di soldatini blu una donna piangeva e si disperava. Capii subito che il suo viso sarebbe stato
dilaniato da quelle lacrime fino alla fine dei suoi giorni. Tra i
passeggeri girò voce che il ragazzino fosse stato investito da
una volante durante un inseguimento. Come diavolo facessero
a saperlo, non saprei dirlo. La signora che piangeva doveva essere sua sorella, oppure sua madre. Quanto distante si trovava
l'Isola? In quel momento mi pareva che non fosse mai esistita,
che era stata soltanto una macchinazione della mia mente. Una
mente che aveva un disperato bisogno di costruirsi un finto paradiso.
135
Quando scendemmo dall'autobus fummo tutti perquisiti.
Quelle manacce, che mi palpavano incessantemente, erano disgustose. Provavo un cocente senso di rivalsa. Mi sentivo prigioniero di zombie in avanzato stato di decomposizione, e quel
micidiale liquido putrefattivo mi avrebbe sicuramente ucciso se
non fosse stato per il tempestivo intervento di George Romero
– l'autista. Orrore, provavo soltanto orrore.
Feci tappa in un bar presso la stazione. Ordinai una Nastro
Azzurro e mi sedetti a un tavolino appartato. Era arrivato il momento di mettere le mani su quelle foto. I ricordi si materializzarono all'istante. Ero lì, alla festa, tra spintoni, alitate di vodka
alla pesca e folate di marijuana. Accecato dai flash delle fotocamere. Vedevo il candore di quel collo sottile passarmi davanti agli occhi e riuscivo a distinguere la collana di Eva: “Chi
sei?”. Istantanee sfogliate lentamente, con premura, come delicati petali di rosa: “Dove sei?”. Improvvisamente un fermo immagine, in primo piano: io, Markus e Rachel, stiamo ridendo, o
strillando, o tutte e due le cose insieme. Dietro di noi, in penombra, c'è lei. Appare sgranata, ma si distingue benissimo. Al
collo indossa quella collana.
L'occhio cade sempre sui soggetti in primo piano, l'occhio a
volte è stupido, ma ormai l'avevo presa: Laura.
«Mamma sono stato contattato dalla segreteria, dicono che
se non vado il prima possibile a firmare alcuni documenti salterò alla prossima sessione di laurea. Devo andare assolutamente.
Non stare in pena mi raccomando. Ti terrò aggiornata.»
Laura? Perché si trovava lì? E come mai indossava la collana di Eva? Per quale ragione, poi, era rimasta in incognito?
Cosa aveva da nascondere? Era tutto così incasinato che sentivo la testa schiacciarsi sotto la pressione di una morsa. Mi pareva che gli occhi stessero per schizzarmi fuori dalle orbite.
Come avevo fatto a non vederla? A che ora era arrivata alla fe136
sta? Forse era rimasta in disparte ad aspettare il momento giusto per entrare in azione. E quale momento migliore se non
quello del crollo psicofisico? Gli elementi in mio possesso facevano supporre, seppur con un notevole margine di errore, che
fosse lei la responsabile di quegli omicidi. Ma perché avrebbe
dovuto farlo? E io cosa c'entravo? Niente prima di allora mi
aveva legato a quei ragazzi, e ora sentivo il rimorso nei confronti di Markus e Rachel; il pensiero che sarei dovuto morire
al posto loro mi logorava.
Ed eccomi lì, su quel treno puzzolente di piscio che mi riportava al punto d'origine. Non mi restava altro che seguire
l'istinto, ma non ero per niente sicuro che stessi facendo la cosa
giusta. Dovevo riuscire a rintracciare Laura, ma, per quanto ne
sapevo, poteva ancora trovarsi sull'Isola. Tuttavia non avevo altra scelta, lei rappresentava l'unica fonte di luce in quella trama
dai risvolti oscuri e incomprensibili. Non avevo il suo numero
di cellulare, ma se ce lo avessi avuto, cosa le avrei chiesto?
“Pronto Laura, senti, non è che per caso hai cercato di uccidermi, ma ti sei sbagliata e hai fatto fuori dei ragazzi innocenti?”
Innocenti. Ma perché io di cosa ero colpevole? I miei ragionamenti mancavano di spessore, erano troppo deboli, doveva esserci assolutamente una spiegazione plausibile e razionale. La
mia mente avanzava continue richieste di riapertura del caso; di
rettifiche. Servivano maggiori elementi indiziari. Dovevo ristabilire quell'equilibrio iniziale, da dove ogni cosa aveva avuto
inizio, sempre se un equilibrio iniziale fosse mai esistito. Trovare la lucidità per farlo non era proprio come scroccare una sigaretta in Corso Cavour. Laura era mia amica, forse l'unica
vera amica in tutto il periodo di studio universitario. Lei non mi
avrebbe mai fatto del male – questa convinzione era più un bisogno emotivo che una certezza. Avevo la necessità di crederla
dalla mia parte. Lei era la mia unica salvezza e tutte quelle insensate congetture sul suo conto mi stavano fottendo di brutto
137
il cervello.
Gli asini possono volare – nella nostra mente. Dio esiste –
nel nostro cuore. Ma chissà se nella mente dell'asino anche noi
possiamo volare. E se nel cuore di Dio anche noi esistiamo. Per
separare i neri dai bianchi avrei dovuto prima riuscire a distinguerli, ma in quel momento vedevo solo un immenso alone di
grigio. Non bisogna, però, mai smettere di credere nell'utilità
delle nostre più insignificanti azioni.
Un giorno ero in spiaggia con mia madre. Finito di mangiare
il panino gettai la carta sulla sabbia. Lei divenne rossa in viso,
ma mantenendo un certo decoro disse:
«Raccogli quella carta e buttala nel cestino!»
A quel punto pretesi delle spiegazioni, e lei, con altrettanta
calma, rispose: «Devi essere rispettoso della natura, se non la
rispetti non rispetti te stesso. La madre terra è la tua prima casa,
e tu non sporcheresti mai la tua casa, vero?»
«Sì mamma, ma guarda, è tutto sporco, se sono solo io a rispettare la madre terra, che cosa cambia? Lo sporco rimane.
Non cambia niente!»
A quel punto mia madre al culmine della sua saggezza replicò:
«Vedi tesoro... noi dobbiamo immaginarci come un esercito
di candeline delle quali di tanto in tanto se ne accende una.
Non è vero che non cambia niente... fa luce!»
In fondo al vagone c'erano sedute due ragazze che leggevano riviste gossip; continuavano a berciare: «Guarda la faccia di
'sto tizio, guarda la faccia di quest'altro». In quel momento
un'altra lampadina si accese. Presi il giornale e un nuovo elemento s'illuminò nel cono d'ombra: non c'era la sua faccia. La
faccia della ragazza assassinata non appariva in nessun articolo. La cosa era alquanto strana, considerato che la regola d'oro
138
dei pennivendoli lo impone: l'immagine della vittima te la ritrovi anche sui rotoli di carta igienica. Laura aveva detto che la ragazza era stata decapitata. I giornali non ne parlavano, ma nemmeno avevano pubblicato la sua foto, come se effettivamente
l'identità di costei fosse ignota. Inoltre aveva aggiunto che la
ragazza era francese, ma nemmeno di questo trovavo riscontro
alcuno. Lei sapeva sicuramente qualcosa su quel delitto.
Ora dovevo riuscire a tessere il legame tra i due eventi apparentemente separati fra loro. Perché quella ragazza ammazzata
era collegata con gli omicidi dell'Isola? Il sesto senso mi diceva
che a breve quella arrampicata mentale avrebbe perso progressivamente pendenza.
Intanto, mentre il paesaggio scorreva sui finestrini come in
una pellicola neorealista, il pensiero andava a Eva e a suo nonno, o a quello che poteva considerarsi il suo fantasma. Il pescatore aveva cercato di mettermi in contatto con sua nipote. Ma
perché lo aveva fatto? E perché aveva scelto me? C'era un'altra
incognita. Era incisa su quel delfino d'argento riposto nella mia
tasca: Chiaro di Luna.
139
12.
“Senza Minnie tutti i miei sogni sono diventati incubi... Apro il gas
e la faccio finita!”
(Topolino)
A
l bar in cui lavorava, Laura non c'era. Dal titolare mi
fu riferito che era andata in ferie già da una settimana.
Nonostante avessi messo in conto quella risposta, ne
rimasi comunque sconcertato, perché significava mettere un
marchio a fuoco su ogni sospetto che avevo avuto fino a quel
momento. Laura non solo si trovava sull'Isola, ma, forse, era
partita addirittura il mio stesso giorno. Cercai insistentemente
di ottenere un indirizzo o un recapito telefonico, ma fu inutile,
non volle sapere ragioni: «Sono informazioni riservate che non
possiamo rilasciare senza il consenso della persona
interessata». Chissà per quanto tempo il buffone aveva desiderato di poter dire un giorno quella frase.
Le sessioni d'esame erano agli sgoccioli e Piazza Morlacchi
si popolava di studenti terrorizzati, che fingevano con scarsi risultati di mantenere la calma. Superata la facoltà di Lettere e
Filosofia – sulla sinistra – un vecchio vicoletto si trascinava
giù. Lì in fondo c'era il dipartimento di [omissis] dove, per
puro caso, incontrai Delphine: la famosa compagna di corso, la
studentessa Erasmus con il dono della sintesi, quella con la erre
moscia e il naso all'insù, ma senza puzza sotto, che studiava
giornalismo. Disse che doveva sostenere l'esame di non so
cosa, ma che l'appello era stato rinviato per colpa di non so chi.
Questo genere di fatalità, che per gli altri studenti erano da considerarsi interventi divini, la mandavano in escandescenza.
Delphine era parigina per l'esattezza. La prima volta che la
vidi, all'inaugurazione del corso in “Storia del Giornalismo”,
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non mi fece una grande impressione. Il suo fisico eccessivamente magro faceva a pugni con quell'aria da snob, che si camuffava goffamente dietro le sottili lenti dei suoi occhiali. Il
suo viso pallido e scarno si ripiegava dietro larghe occhiaie da
intellettualoide, e quelle plateali smorfie da so tutto io perché
da noi si fa il foie gras, innescavano pulsioni poco cavalleresche. Poi però un giorno a lezione, con quella erre uvulare disse: “Come potrei credere a un cretino che crede di sapere tutto
come il professore!”. Mi fece ridere e da quel momento scoprii
tutta un'altra ragazza. Divenimmo molto amici, anche se le nostre frequentazioni si limitarono ai corridoi di facoltà, cosa che
in tutta sincerità mi dispiacque: avrei gradito approfondire con
lei argomenti di tutt'altra natura.
«Ciao Delphine! Come stai?»
«Salut mon cher! Io benissimo e toi?»
«Bene, bene, sono appena tornato da una vacanza.»
«Bien sûr! Io invece sono ancora fuori di due esami, e questi
idioti me li spostano pure. Merde!»
«Ancora non ti sei abituata al nostro sistema?»
«Jamais!»
L'incontro con Delphine era stato provvidenziale. Lei avrebbe saputo darmi sicuramente maggiori ragguagli sull'omicidio.
«Senti Delphine, dovrei chiederti delle cose.»
«Mais oui!»
«Visto che tu frequenti l'ambiente sai dirmi se ci sono novità
su quella ragazza?»
«Quelle fille?»
«La ragazza assassinata!»
«Ah quella poveretta. Quel domage! Guarda l'unica cosa che
so è che è una brutta storia. La polizia brancola nel buio, o fa
finta, e alla conferenza stampa le risposte sono state evasive e
minacciose. Capisci cosa intendo?»
«Bhe! In verità non molto.»
«È passata una settimana, ma ancora non sappiamo chi sia
141
questa ragazza. Pourquoi? Cosa stanno cercando di nascondere? Io ho provato a chiedere in questura, ma mi è stato detto
che per ragioni di sicurezza non possono rilasciare informazioni in merito alla sua identità. E come potrebbe compromettere
la sicurezza un'informazione del genere? Insomma, lei è già
morta. Quando fu scoperto l'omicidio, ai giornalisti venne negato l'accesso alla scena del crimine persino dopo l'intervento
della scientifica. Pour quel motif? L'unico giornalista che è stato autorizzato a scattare una foto, che poi è quella che continuano a propinarci, pare sia un certo Morrisini Pippo. Ho fatto delle verifiche e il tizio non risulta iscritto a nessun albo. Ho sentito dire che sia una specie di faccendiere della procura. Un lacchè... ce n'est pas possible! Insomma, questo non è un omicidio
come gli altri, c'è qualcosa di molto strano sotto. Io sospetto
che vi siano implicati personaggi eccellenti... qualche eminenza
grigia dell'ambiente universitario, il cui nome non deve venire
assolutamente a galla. Tu as compris?»
«Capisco!»
«Ma pourquoi t'interessa tanto questa storia?»
«No niente, è solo che sono partito il giorno dell'accaduto e
volevo sapere come fosse andata a finire la questione. Tutto
qui!»
«Beh, non è andata a finire per niente... e forse non finirà
mai!»
«Già!»
«Adesso devo andare. Per qualsiasi cosa hai il mio numero...
à bientôt!»
«Ciao Delphine!»
Delphine aveva avvalorato i miei sospetti. Sotto quella storia c'erano sepolti chili di letame e, per chi non aveva ancora
barattato l'olfatto con l'illusione del benessere, la puzza iniziava
a farsi sentire. Non ci si può fidare dei giornalisti, è questo il
fatto, ma di Delphine sì. Lei non rappresentava una categoria,
tantomeno un ruolo, lei era una persona della cui onestà potevo
142
essere certo. Molto probabilmente tra tutti i pennivendoli era
stata l'unica a non abbassare la guardia per condurre delle indagini parallele.
Intanto l'aria era sempre più irrespirabile, il clima d'odio e di
tensione, che continuava a crescere, divenne strumentale alle
camere dei bottoni, che potevano occultare azioni e fatti ricorrendo allo stratagemma della “sicurezza”. La parola
“sicurezza” regnava sovrana, te la ritrovavi anche nella tazza
del cesso, e ben presto si palesò come sinonimo di spietata oppressione.
Quel pomeriggio arrivò la notizia che presso la stazione di
un paesino lì vicino c'era stata una deflagrazione. Una bomba
aveva spazzato via venti anime e causato il ferimento di un
centinaio di persone. A detta di qualcuno, i dimostranti con
quell'azione insensata si erano menati la zappa sui piedi. In serata fu varato un decreto d'urgenza che dava ampi poteri alle
forze dell'ordine. Potevi essere arrestato e trattenuto in custodia
senza limiti di tempo, soltanto perché eri considerato un sospetto. Ma come si riconosce un sospetto? Dal naso? Dagli occhi?
Dalla conformazione del cranio? Dalla dimensione del suo
pene? O dalla larghezza del suo ano? In parole povere, a chi si
era arrossato veramente il culo a causa di quella bomba?
Gli studenti continuavano ad infossare la testa nei libri, le
varie associazioni che avevano aderito alla protesta si erano ritirate da tempo, mentre a farsi ammazzare ci andavano i padri e
le madri di famiglia. Gente umile, con un lavoro modesto, ruoli
ritenuti socialmente poco rilevanti, persone che non vivevano,
ma sopravvivevano. C'erano anche ragazzi di alcuni centri sociali, ma molti di loro, sotto i capelli trasandati e la maglietta
EZLN, indossavano l'intimo di Kelvin Klein.
Ai tempi che furono ebbi l'onore di conoscere il presidente
del collettivo “Sapere e Agire”, nel quale militavano ideologie
di estrema sinistra. In un paio di occasioni avevo anche avvertito sincerità nelle sue orazioni. Parole come “Colpire e Mitiga143
re”, “Essere e Guarire”, seppur effimere avevano un bel suono.
Lui era sempre in prima linea. Nei cortei il megafono parlava
solo la sua lingua, e quando c'era da occupare, il primo scarpone sulle serrature era il suo. Poi sparì, mi dissero che si era laureato – pace all'anima sua – e non lo vidi più. Un anno dopo lo
incrociai nella segreteria e nemmeno lo riconobbi. Era vestito
come un pupazzo dell'alta finanza, tant'è lo scambiai per un
professore di “Intermediazione Finanziaria”, o una porcata del
genere. Fu il mio amico Mattia ad indicarmelo:
«Quello è Niccolò! Guarda com'è cambiato!»
«Ti sbagli!» Gli risposi, «è sempre stato così!»
Quando aprii il portone di casa, una strana sensazione mi accompagnò per l'intera salita delle scale. Era successo qualcosa
lì, che continuava a sfuggirmi. Dovevo riposare, rinfrancarmi
dal caldo asfissiante. Dopo la doccia mi sdraiai sul letto. Delphine mi aveva dato un nome che mi era parso all'istante insolito: Morrisini Pippo. Chi era costui? Ne accantonai le riflessioni. In quel momento la cosa importante era riuscire a contattare
Laura. Passai nuovamente al vaglio gli articoli del giornale, ed
effettivamente Delphine aveva avuto ragione. La foto era la
stessa, replicata in risoluzioni e dimensioni diverse, ma sempre
identica, con in calce le iniziali P.M..
Per comprendere appieno alcuni eventi, soltanto apparentemente distaccati tra loro, bisogna liberare la mente. Un esercizio utile è quello di perdere completamente la concentrazione,
pensare ad altro, o, meglio ancora, evitare di pensare. L'amputazione di un dito ci costringe a rivedere le funzionalità degli
altri, così come la perdita di memoria ci offre la riscoperta da
zero di ogni singola informazione. Dovevo dimenticare.
Dal monolocale salirono strani rumori. Fui sopraffatto
dall'agitazione, ma mi feci coraggio. Nel momento in cui spa144
lancai la porta un odore intenso mi tolse il respiro. Era una miscela saccarina. Non saprei descriverla. Sibilline molecole in
movimento che si addensavano nell'aria, rendendo i polmoni
secchi e il respiro lento e ghiacciato. In un angolo intravidi una
figura, era di spalle. Mi avvicinai; l'uomo si voltò, e nel buio
fitto riconobbi il viso del pescatore: era ricoperto di numerose
escoriazioni. Con un gesto della mano indicò l'angolo opposto.
Lì vidi Eva, era splendida, più meravigliosa che mai, ma quando le fui di fronte la sua faccia divenne grigia e gli occhi si dissolsero, lasciando il posto a due orbite vuote e inespressive.
Dalla sua bocca fuoriuscivano fiotti d'acqua e alghe. Mi carezzò il viso e disse: «Tu sei ciò che senti!» Dopodiché si sciolse
come una colonna di ghiaccio investita da una tempesta di fuoco, e quel liquido refrigerante inondò i miei piedi scalzi. Mi
voltai verso il pescatore e anche lui diveniva lentamente diafano, ma prima di scomparire del tutto disse: «Non guardare...
osserva!»
Mi svegliai zuppo di sudore e con il cuore in tachicardia.
Avevo la gola arsa e un lancinante dolore alla cervicale. L'umidità era arrivata ai massimi storici e non mi dava tregua. Mi infilai sotto la doccia e mentre l'acqua puliva via la stanchezza
pensavo alle parole di Eva: “Tu sei ciò che senti”. Dovevo imparare ad ascoltare le mie sensazioni. C'è chi si eccita di fronte
alla vita, chi, invece, dinanzi alla morte. Noi siamo il frutto delle sensazioni che ci portiamo dentro.
Non sapendo come rintracciare Laura, l'unica cosa che mi
restava da fare era di ottenere informazioni in merito a quel
Morrisini Pippo.
Appena entrai nella procura percepii un fresco rigenerante;
non era per via dei condizionatori d'aria. Il palazzo era antico e
le pietre isolavano termicamente l'ambiente, cedendo una brezza apparentemente artificiale. Di contro, solo per il fatto di aver
messo piede lì dentro, mi sentivo un galeotto prossimo alla for145
ca. Dopo una lunghissima attesa riuscii a scambiare due paole
con l'impiegata dell'ufficio informazioni, che appena sentì pronunciare quel nome si rabbuiò in viso e divenne subito scontrosa.
«Non capisco perché lo cerca qui. Le sembra una redazione
giornalistica?»
«Mi è stato detto che lavora per voi.»
«E chi le ha detto una stupidaggine simile? Il signor Morrisini è un freelance, non ha niente a che fare con noi!»
«Sì, ma sarebbe così gentile da dirmi per quale testata lavora?»
«Per quanto ne so... non lavora per nessun giornale.»
«Ma la foto che è stata pubblicata...»
«Senta io non ho tempo da perdere, se non ha altro da chiedere può lasciare il posto a chi viene dopo di lei!»
La mia era stata una sciarada, una strategia attuata per convalidare i miei sospetti. Delphine aveva detto che Morrisini non
risultava iscritto all'albo dei giornalisti, però in procura era conosciuto come giornalista indipendente persino da una semplice impiegata. Questo faceva riflettere. Insomma chi era veramente questo signore? Per chi lavorava veramente? Qualcosa
mi diceva che di lui non avrei dovuto preoccuparmi perché prima o poi si sarebbe smascherato da solo.
Imboccai Corso Vannucci sotto un sole assassino, passai davanti a tutte le edicole, ma in nessuna riscontrai titoli che accennassero a quella storia. Provai a chiedere se ci fossero edizioni, anche passate, che ne avessero parlato approfonditamente. Niente. Nemmeno un trafiletto in ultima pagina. Che strano!
Era come se quel fatto di sangue non fosse mai esistito. Delphine non si era sbagliata: quella faccenda era scomoda a qualcuno e si stava lavorando per consegnarla all'oblio il prima possibile.
Mi fermai in un tabaccaio lungo Corso Baglioni per fare rifornimento. Presi una confezione di Van Nelle, filtri e cartine,
146
poi ripiegai verso casa. Nel risalire via Garibaldi acquistai del
vino rosso presso un'enoteca che aveva aperto da poco. Richiuso il portone fui di nuovo assalito da quella strana sensazione.
Mi esasperava l'incapacità di non riuscire a ricordare. Qualcosa
di estremamente importante continuava a sottrarsi.
Si era quasi fatta ora di cena. Misi sul fuoco una pentola con
dell'acqua, e in un altro pentolino versai dell'olio con uno spicchio d'aglio sminuzzato. Il peperoncino era finito, ma con quel
caldo la cosa fu addirittura provvidenziale. Gli spaghetti aglio e
olio mi avrebbero concesso quella distrazione necessaria, con
la quale avrei fatto rifiorire vergini interpretazioni.
Il vino aveva un leggerissimo retrogusto di zolfo, ma me ne
sbattevo, era fresco al punto giusto e scorreva nel gozzo come
sangue nelle vene. Il giorno dopo mi sarebbe venuto un mal di
testa atroce, ma non era quello il momento di mettersi a fare gli
schizzinosi. Il senso di stordimento alimentava il mio istinto investigativo. Ora nel piatto erano rimasti pochi rimasugli di
aglio dorato e un leggero manto d'olio brunito. Aprii la confezione di Van Nelle – uno dei migliori – e gli aromi di torba e
stallatico mi risvegliarono i sensi. Era come se stessi inalando
il peto più corposo della natura. Ne afferrai un pizzico e quella
sensazione umidiccia al tatto fu deliziosa. Poi, lentamente, ricercai la perfezione nella meccanica del rollaggio.
Fu più o meno alla quinta aspirata che la mia attenzione cadde sulla confezione di tabacco. Sotto il logo “VAN NELLE –
HALFZWARE SHAG”, la linguetta adesiva ricopriva una
minuscola iscrizione dorata: “Made in the EU under authority
of Philip Morris Products S.A. Neuchatel, Switzerland”. Avevo
capito. Stentavo a credere di esserci arrivato tanto in fretta, ma
non poteva essere altrimenti. Il vino scadente mi aveva permesso la visione attraverso i compartimenti stagni della ragione.
Mi aveva concesso la perdita di concentrazione che stavo cercando, e l'occhio era finito proprio lì. Pippo Morrisini era una
volgare e patetica caricatura linguistica del marchio Philip
147
Morris. Quella persona non esisteva, era soltanto un trucco, un
grossolano gioco di prestigio in cui erano coinvolti tutti: dal
vertice fino alla base della piramide. Però questa volta dal macabro cappello a cilindro non era stato estratto un coniglio, ma
la testa di una ragazza innocente. Pippo Morrisini non esisteva,
adesso ne ero certo.
Sfogliai per l'ennesima volta il giornale. “Non guardare...
osserva!”, così aveva detto il pescatore. Impostai il fermo immagine sulla foto più nitida. Superati i primi ostacoli visivi, le
pupille iniziarono a mettere a fuoco ogni pixel racchiuso nel
perimetro. Sì, c'era decisamente qualcosa che non tornava. I
giochi d'ombra, i chiaro scuri, erano posticci, presentavano tutti
i sintomi della manipolazione. Potevo chiaramente distinguere
una porzione di finestra che si affacciava su un esterno illuminato dalla luce diurna, ma quelle ombreggiature erano prodotte
da una fonte artificiale. La foto era stata contraffatta. Il delitto
era stato scoperto la mattina – quindi di giorno – ma quella foto
era stata scattata di notte, probabilmente subito dopo l'omicidio. Benedetto corso di fotoritocco. Adesso mancava un'ultima
cosa: convertire le parole di Eva in azioni pratiche. “Tu sei ciò
che senti”.
L'ultimo bicchiere di vino tutto d'un fiato, poi quei veli opachi, che si addensavano sulla memoria, si sfogliarono uno dopo
l'altro, rendendo sempre più vivido il ricordo. La mattina della
partenza, prima di uscire di casa, avevo notato qualcosa di insolito. Sul tavolo c'era una bottiglia vuota di whiskey e, cosa
ancora più ambigua, avevo trovato la porta del monolocale
aperta. “Tu sei ciò che senti”, ed era proprio lì, sull'uscio, che
avvertivo sovente quella strana sensazione. Mi precipitai di
corsa giù per le scale. Lo scenario che trovai all'interno fu alquanto atipico. Poggiato a terra c'era il materasso che veniva
utilizzato esclusivamente per gli ospiti dell'ultima ora. Su di
esso appariva in bella mostra un biglietto piegato.
148
Stai correndo una grave pericolo. Non partire!
07423409xx (usa cabina telefonica)
TVB
Laura
Laura? Perché avrebbe dovuto lasciami un biglietto proprio
lì, in un disimpegno della casa che raramente veniva utilizzato?
E come avrei dovuto interpretare il suo contenuto? Lei sapeva
che la mia vita era in pericolo – e questa era una certezza – ma
come faceva a saperlo? Quel vagabondaggio di pensieri e la repentina scoperta di nuovi indizi mi fecero caracollare, peggio
del vino a buon mercato che avevo tracannato. Provai a ritornare a quella famosa notte, ma non ricordavo niente. La memoria
s'interrompeva alla chiusura del libro che stavo studiando per
l'esame del giorno dopo. Chiuso il libro, si perdevano anche i
ricordi. Ora però venivo spinto verso un vuoto che avrei dovuto
assolutamente riempire. Mi trovavo su un binario morto, sul
quale la paura e il senso di confusione la facevano da padrone.
Era chiaro che non avrei potuto fare affidamento solo sulle mie
forze. Avevo bisogno che qualcuno mi rischiarisse le idee.
Quantomeno adesso avevo il numero di telefono di Laura.
149
13.
“...ma nella mia capanna non poteva scrivere film, solo racconti e
libri.”
(Holden Caulfied)
«P
ronto signora... potrei parlare con Laura? Sono un suo
amico!»
«Laura in questo momento non è in casa, ma mi ha detto di
dirti di venire a [omissis] appena ti sarà possibile.»
«Laura le ha detto di dirmi questo?»
«Sì!»
«E come fa a sapere che sia proprio io quella persona?»
«Beh, non lo so io... lo sa Laura!»
«Buonanotte...»
«Come scusi?»
«Niente signora, la ringrazi, arrivederci!»
«Arrivederci!»
Per raggiungere Laura avrei dovuto prendere il treno e il
solo pensiero mi procurava un attacco di diarrea. La stazione
era “fronte di guerra”, come in ogni città, e già una volta l'avevo scampata bella. Tuttavia non avevo altra scelta. Mi recai a
Piazza Università e presi al volo il primo autobus “C”. All'arrivo trovai uno scenario deludente. C'era una desolazione totale.
Provai rabbia, delusione, rammarico e assenza di stupore. La
battaglia era finita, e questo stava a significare che, per l'ennesima volta, avevamo perso. O meglio: il popolo aveva perso.
Non che fosse chissà quale scoperta, ma si sa, la speranza è
come un topo da laboratorio che si rifiuta di scappare dalla sua
gabbia. La speranza è puro autolesionsimo.
Il luogo mi era stato indicato si trovava distante una cin150
quantina di chilometri. In treno con quel caldo sarei morto di
sete, perciò mi fermai al bar per comprare un paio di Nastro
Azzurro. Una delle due non avrebbe tenuto la temperatura, ma
poco importava, certe volte l'importante è bere. C'erano due
bambini che per poco non si scannavano. La madre non aveva
abbastanza soldi per comprare a entrambi un Maneki Neko di
cioccolato, e loro si stavano picchiando perché si trovavano in
disaccordo sulla scelta del colore. Il più grande lo voleva nero,
mentre l'altro lo voleva bianco. Allora la madre li aveva presi a
schiaffi e non se n'era fatto più nulla. A quel punto mi fu evidente il fatto che l'odio razziale nasce da una divergenza di gusti, e che deve esserci sempre qualcuno costretto a prenderti a
calci in culo per ricordarti che stai esagerando.
Le birre diedero al mio senso del tempo una brusca pendenza: mi parve di arrivare all'istante. Poi, però, dovetti servirmi
nuovamente dei mezzi pubblici per raggiungere il luogo prestabilito. L'autobus mi lasciò su una strada sterrata. Di fronte a me
una gigantesca onda verde s'innalzò lentamente fino a infrangersi contro un vecchio casolare. Una piccola lingua di terra
bruciata divideva in due la collinetta, fino a farsi inghiottire da
un circolare cortile di ghiaia. Mi incamminai lungo il sentiero.
Ai miei lati un'immensa distesa di vitigni brulicava sotto i possenti soffi del vento. Erano uve di Sagrantino: il più delizioso
sangue di Gea.
Arrivato in cima notai subito una cura maniacale per i dettagli. L'immobile era antico, ma ristrutturato e messo completamente a nuovo. L'aia era avvolta da composizioni floreali di
variegata stirpe. Vasi ovunque: al suolo e sui davanzali delle finestre, che facevano sfoggio di petali blu e viola da sembrare
lapislazzuli. La teatralità della natura trovava il suo apice in
una pulizia quasi scenografica. Non avevo mai visto tanto candore in un esterno. E poi profumi di ogni genere – addirittura
aggressivi – che raccontavano nuove versioni sulle reali esigenze dello spirito. Esso non solo si ripuliva dallo stress urbano,
151
ma addirittura si eccitava.
Sotto il portico un cane di grossa taglia continuava a sbadigliare, mentre due gatti sornioni si strusciavano incautamente
contro il suo pelo folto e brizzolato. Un'anziana signora, con i
capelli raccolti sotto un copricapo color ambra, venne verso di
me con l'espressione di una mamma. Tra le mani reggeva a fatica un grande cesto di vimini colmo di grappoli d'uva nera.
«Tu sei... cerchi Laura vero?»
«Sì signora!»
«In questo momento è nel vigneto, puoi aspettarla qui se
vuoi, oppure ti indico la strada per raggiungerla.»
«La ringrazio signora, preferirei andarle incontro!»
«...mi raccomando fai attenzione a dove metti i piedi, è facile cadere!»
«Farò attenzione signora, grazie di tutto!»
Laura era di spalle e non mi sentì arrivare. Totalmente concentrata nella potatura di quelle piante conservava la naturalezza di chi non è consapevole di essere osservata. Aveva la fronte
fasciata da una bandana bianca e indossava un leggerissimo vestito di lino, che le lasciava spalle e gambe scoperte. Il sudore
sulla sua schiena aveva disegnato una mezza luna scura su
quella stoffa chiara, e il madore che ricopriva le sue gambe muscolose rifletteva i raggi argentei del sole. Ai piedi un paio di
stivaletti di gomma, servivano sicuramente per proteggersi dalle insidie dei campi. Dall'ultima volta che l'avevo vista il contrasto fu decisamente netto. Adesso che si era ammantata di
quella nuova luce, forse per la prima volta stavo ammirando la
sua vera forma. Quella era la Laura più autentica. Non era più
quella di prima: non la sentivo più solo come una semplice
amica. Un lieve prurito mi assediò la base del collo. Fu decisamente piacevole.
«Ciao Laura!»
Si voltò di scatto e mi scrutò come se avesse davanti uno
sconosciuto. Poi la sua espressione amalgamò insieme un piz152
zico di nostalgia, con una spolverata di sollievo.
«Finalmente sei arrivato. Stavo in ansia!»
«Ho fatto il prima possibile.»
«Già!»
«È meraviglioso qui!»
«Ti piace?»
«Ho sempre sognato di vivere in un posto del genere.»
Mentre ci scambiavamo quelle sintetiche e introverse battute, lei aveva già ripreso il suo lavoro.
«È stupendo è vero, ma per chi non ci è abituato... potrebbe
essere molto faticoso.»
«Beh, è da stupidi non abituarsi a tanta bellezza... anche se
faticosa.»
Mi guardò con occhi lucidi e arrossati, come se in essi fosse
finito un po' di terriccio.
«Hai ragione!»
«Sono stato al bar dove lavori, mi hanno detto che eri andata
in ferie.»
«Diciamo pure che ho lasciato tutto.»
«Hai lasciato il lavoro?»
«Esattamente... e anche l'Università!»
«Ma dici davvero?»
«Il solo pensiero di rimetterci piede mi esaspera!»
«E butti all'aria tutti questi anni?»
Laura abbozzò un sorriso, poi allargò le braccia al cielo e
disse:
«Cosa te ne fai di una laurea se puoi avere tutto questo!»
«Eh... sarebbe stato meglio se ci avessi pensato prima però!»
Risposi, forse un po' provocatorio.
«E per quale ragione? Non hai mai sentito l'espressione: imparare dai propri errori?»
«Giusto!»
Rimasi qualche minuto in silenzio a inebriarmi dei profumi
primitivi delle terra, mentre il mio cuore si ammalava involon153
tariamente delle sue accattivanti movenze: gesti fluidi, perfetti,
impeccabili. Quelle goccioline di sudore che dal collo le scivolavano lente lungo l'increspatura del seno pronunciato, stimolavano in me pensieri sporchi. Avrei fatto l'amore con lei in mezzo all'erba, in quell'esatto momento, per schiacciare il cinismo
del mondo che correva frenetico al di là di quel piccolo, ma immenso paradiso.
«Dobbiamo parlare Laura!»
«Lo so, ma abbiamo tutto il tempo che ci pare. Ti consiglio
di rimanere qui per qualche giorno.»
«Ma come?»
«Non farti problemi, in casa ci siamo solo io e mia nonna.»
«Ma io...»
«Ti ha detto di fare attenzione a dove metti i piedi?»
«Sì!»
«Allora vuol dire che le piaci!»
«Ma non ho il cambio con me!»
«Non ti preoccupare, qualche cosa si rimedia sempre.»
La sera cenammo all'aperto sotto la veranda, dalla quale
grondavano foglie e grappoli d'uva paglierina. L'aria era fresca
e la fragranza di citronella, che scacciava via le zanzare, pungeva ed eccitava l'olfatto. La tavola era imbandita di ogni delizia:
pomodori grossi come meloni, che la nonna di Laura aveva farcito con del riso freddo. Lattughe e rucole tenerissime, zucchine e melanzane grigliate, olio d'oliva e vino fatto in casa, basilico profumatissimo, formaggi di capra e quant'altro. Un'invasione di sapori dimenticati, che mi fece ricordare i tempi andati, quando OGM era solo il nome di una Rock Band. Forse fui
un po' impudente, ma non potei fare a meno di scolare tutta la
bottiglia di vino. Alla nonna di Laura non dispiacque però, considerato che continuava a ripetere: «Bevi, bevi, che il vino fa
sangue!» Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo a casa.
Finita la cena l'anziana signora si ritirò nella sua stanza; io e
154
Laura rimanemmo lì, al fresco, a sorseggiare dell'ottima grappa
barricata. Era arrivato il momento di affrontarci a vicenda.
«Perché mi hai lasciato quel biglietto? E perché proprio lì?»
Sulle guance di Laura si affacciarono delle tenere pieghe,
delineavano delusione, ma non risentimento.
«Non ricordi proprio niente vero?»
«No! Cos'è che dovrei ricordare?»
«È talmente tutto incasinato e inverosimile che non saprei
da dove incominciare.»
«Beh, potresti incominciare col dirmi come mai mi hai nascosto il fatto che saresti venuta sull'Isola.»
«No... non capiresti!»
«Allora prenditi tutto il tempo che vuoi, basta che mi ci fai
capire qualcosa!»
Laura si riempì i polmoni d'aria, ma ne restituì soltanto la
metà.
«Va bene, proviamoci! Quella sera ti sei presentato al bar
ubriaco perso, avevi una bottiglia di Ballantine's mezza vuota
tra le mani. Era la prima volta che ti vedevo ridotto così male la
sera prima di un esame. Continuavi a ripetere che gli studenti
di CTF sono dei criminali, degli scherani delle case farmaceutiche, e non c'era modo di farti smettere. Poi, dopo un po', uno
studente di CTF è arrivato e vi siete azzuffati. Il titolare vi ha
sbattuti fuori dal locale e io, per impedire che facessi altri danni, mi sono fatta sostituire e ti sono venuta dietro. Continuavi a
bere e io non sapevo cosa fare, poi, verso le tre, ricevo un messaggio da parte di Eva, diceva di raggiungerla all'Università per
Stra...»
Un sussulto mi scosse dalle unghie dei mignoli dei piedi
fino alla cima dell'ultimo miserabile capello.
«Evaaa...?»
«Sì... Eva!»
«Ma Eva chi?»
«Eva la mia compagna di corso, ovviamente non te la ricor155
di, vero?»
«No!»
«Te l'ho presentata una di quelle famose sere in cui, come al
solito, eri più di là che di qua!»
Non potevo crederci. Conoscevo Eva già prima di quella
volta sull'autobus, ma ne avevo rimosso completamente il ricordo.
«La raggiungemmo, ma quando arrivammo non era sola, insieme a lei c'erano quei ragazzi...»
«Quali ragazzi?»
«I tuoi amici dell'Isola!»
«Vuoi dire Markus, Rachel e gli altri?»
«Esatto! Proprio loro.»
«Non ci credo...»
«E invece è meglio che da ora in avanti tu non metta più in
dubbio quello che sto per dirti!»
«...Continua!»
«Non erano soli, insieme a loro c'era qualcuno!»
«Chi?»
«Un uomo sulla trentina, forse trentacinque, non saprei dirlo
con esattezza. Indossava un vestito nero con camicia bianca e
cravatta nera. Pareva un personaggio delle Iene di Tarantino.
Aveva il viso abbronzato e i capelli ingellati e pettinati
all'indietro, e indossava un paio di occhiali da sole a specchio.»
«Lo avevi mai visto prima?»
«No!»
«E gli altri?»
«Gli altri li avevo già visti sì, ma mai dal vivo... solo in
foto.»
«Capisco!»
Iniziavo a provare un profondo raccapriccio nei miei confronti. Sentire il racconto sull'altro me stesso uscire dalla bocca
di Laura mi imbarazzava terribilmente, oltre a farmi sentire un
completo ritardato. Era una sensazione claustrofobica e di im156
potenza – bere a tal punto da perdere il contatto con la realtà e
non ricordare più nulla. Ancora più insidiosa era la sconcertante scoperta che, oltre a Eva, anche gli altri erano già stati mie
conoscenze.
Laura continuò.
«Eva era visibilmente scossa e sotto l'effetto di qualche droga pesante. Extasy, o Lsd suppongo. La sua risata era isterica e
artificiale, però allo stesso tempo sembrava che stesse piangendo. Le sue pupille dilatate al massimo facevano orrore, era
come se volessero chiedere aiuto, ma qualcosa di sintetico al
loro interno le paralizzasse. Ogni tanto si dimenava per liberarsi dalla presa, ma gli altri non le davano tregua. Probabile che
fosse riuscita a fuggire, non saprei, e l'avessero raggiunta proprio in quel momento. Quando anche noi siamo arrivati lì!»
I suoi occhi s'inumidirono e la sua voce si spezzò, poi divenne singhiozzo.
«Erano tutti strafatti di robaccia chimica, tranne quell'uomo.
Lui era tranquillo, calmo, rilassato a tal punto da apparire inquietante. Quando ho visto Eva in quello stato ho cercato di
trascinarla via, sapevo che stava correndo un grosso rischio, ma
i ragazzi me lo hanno impedito. Ho urlato per cercare di richiamare l'attenzione di qualcuno, ma quel tizio mi ha afferrata per
un braccio, stringendomi talmente forte da lasciarmi il segno, e
con una voce metallica ha detto: non possiamo avere la presunzione di salvare gli altri quando siamo noi i primi a correre il
rischio maggiore. Così ha detto!»
Il racconto di Laura mi era entrato sotto pelle; strisciava e
sibilava procurandomi incessanti brividi di freddo. Mi sembrava tutto talmente irreale, che se non avessi rischiato veramente
di lasciarci la pelle, l'avrei creduta una schizofrenica.
«E poi?»
«E poi ho capito che quella sarebbe stata l'ultima volta che
avrei visto Eva!»
«Ma in che senso?»
157
«Ancora non ci sei arrivato?»
«...io non ci sto capendo nulla, ma a cosa dovrei arrivare?»
«Eva è quella ragazza dei giornali. Eva è morta... l'hanno
ammazzata loro!»
Uno stiletto mi trapassò un polmone e le parole divennero
asma.
«Scusa... ma... questo è assurdo!»
«Purtroppo è tragicamente reale!»
«Non è impossibile una cosa del genere!»
«Ah no?»
«No!»
«E per quale ragione?»
«Perché io ho visto... ho incontrato...»
«Chi hai incontrato?»
In quel momento mi resi conto che se le parole di Laura corrispondevano alla realtà, non avrebbe mai potuto capire ciò che
stavo per dirle. Se Eva era veramente stata ammazzata e le
avessi detto di averla incontrata sull'autobus, mi avrebbe preso
per visionario, oppure si sarebbe fatta strane idee su di me. Gli
equivoci hanno un brutto vizio: quello di metterti nei casini.
«Niente... nessuno...»
L'incontro con Eva e con suo nonno non sarebbe mai dovuto
uscire dalla mia bocca. Se non per confessarlo al mio cane,
semmai un giorno ne avessi avuto uno. Era una decisione saggia.
«Quindi mi stai dicendo che Eva è stata assassinata dai suoi
amici?»
«Io non so se siano stati loro, o chi di loro. Molto probabilmente sono stati manovrati da qualcuno che li ha indotti a farlo! Oppure lo ha fatto qualcun altro e loro hanno creduto di essere i responsabili.»
«E quindi una volta eliminata Eva, non restava che togliere
di mezzo anche i testimoni. Cioè noi due?»
«Esatto!»
158
«E addirittura mi hanno seguito fino all'Isola? Ma come facevano a sapere che ero diretto lì?»
«Lo vuoi proprio sapere?»
Cercai di ingoiare quella poca saliva che mi era rimasta sulla
lingua, poi feci scrocchiare il collo flettendo con decisione la
testa verso destra. Fui pronto a ricevere l'ennesimo atto di umiliazione.
«Sei stato tu a dirglielo, nell'arco di dieci minuti gli hai raccontato tutta la tua vita!»
«È da pazzi!»
«Tu sei pazzo sì! Non lo sapevi?»
«Ma perché complicarsi le cose? Non potevano farlo qui?»
«Sei stupido o cosa? Se lo avessero fatto qui, avrebbero alimentato più sospetti. Tre omicidi in rapida successione? Qualcuno avrebbe iniziato a pretendere seriamente delle risposte.
Per il loro losco scopo, quale posto migliore se non l'Isola? Gli
hai praticamente offerto la tua testa su un piatto d'argento. Mi
pare che tu ne abbia avuto conferma, no?»
«Sì...»
«E poi, da quel poco che so, l'Isola è un loro ritrovo abituale. Certo se avessero minimamente immaginato delle tue amnesie etiliche... sicuramente non si sarebbero scomodati.»
Laura rimarcò quelle ultime parole con incisività, quasi cinicamente; nelle sue intenzioni c'era una palese volontà di farmi
del male. Probabilmente ci riuscì, oppure no. Mi sentivo perplesso, vuoto, spento, e in quello stato d'animo difficilmente
qualcuno avrebbe potuto ferirmi. Ma forse sì... lei poteva ancora farlo.
«E poi?»
«Dopo si sono dileguati. Io non sapevo cosa fare, ero in preda al panico. Non potevo lasciarti solo nello stato in cui eri,
non era una mossa saggia. Ti ho accompagnato a casa e tu hai
preteso che rimanessi con te. Continuavi a ripetere che dovevamo dormire insieme, ma che soltanto nel monolocale c'era un
159
letto matrimoniale e che avremmo dovuto trasferirci lì. E dopo
tutto quel teatrino non riuscivi ancora a mollare quella bottiglia
di merda!»
Esitai a sferrare la domanda da mille punti. Questa volta temevo di ferirla io. Una ragazza che tiene a te particolarmente,
non accetta facilmente il fatto che tu non ricordi di averci fatto
l'amore. Rimasi a guardarla con aria sottomessa, aspettando il
momento giusto per ricevere un ulteriore smacco.
«Perché mi guardi così?» Un sorrisetto malizioso comparve
sull'altare del suo mento. «Vuoi sapere se c'è stato qualcosa tra
noi due?»
Ero afflitto, qualsiasi monosillabo sarebbe uscito dalla mia
bocca in quel momento, sarebbe stato inaccettabile e offensivo
nei suoi confronti. La sua misericordia mi liberò dall'impaccio.
«No... non abbiamo fatto l'amore!» E se non avessi avuto lo
sguardo rivolto verso il basso, avrei potuto giurare che nella
continuità del suo sospiro si fosse spezzato un rammarico.
«Quando ci siamo infilati nel letto hai attaccato con le storie
sugli alieni. Dicevi che ogni venerdì notte vengono a prelevarti
per condurre degli esperimenti su di te, per questo motivo il sabato mattina ti senti a pezzi, per via dell'anestesia che ti iniettano.»
Laura scosse la testa e si lasciò andare in un quasi sorriso.
«Ma quando è stata l'ultima volta che ti sei svegliato di sabato mattina? Quelle poche volte che questo miracolo si è compiuto è stato perché la sera prima non eri uscito. L'anestesia degli alieni non c'entra niente, e tu lo sai benissimo... è l'alcol del
venerdì sera ad ucciderti!»
Mi aveva pugnalato di nuovo, ma non potevo farci nulla, ero
sotto accusa legittimamente. Le sue dolci e pacate sentenze erano forse la prova di quanto lei tenesse a me più di quanto io tenessi a me stesso.
Dopo un breve riflessione, Laura proseguì.
«Comunque, per farla breve, dopo un po' hai iniziato a rus160
sare. Io sono rimasta con te fino alle sei senza chiudere occhio,
dopodiché ti ho lasciato il biglietto perché ero certa che il giorno dopo non avresti ricordato niente, e sono andata via. Sicuramente ti sarai svegliato dopo un po', e non avendo la più pallida
idea di cosa ci facessi lì, sei ritornato in camera tua.»
Avevo la gola secca nonostante continuassi a bagnarmela
con la grappa. C'erano ancora degli aspetti poco convincenti,
cose che non quadravano. Non che non mi fidassi di lei,
tutt'altro, ma dovevo arrivare fino in fondo a quella faccenda se
volevo avere la certezza di potermi fidare al cento per cento.
«Sì... ma ci sono ancora delle cose che... non mi sono chiare!»
«Cosa?»
«Perché hai detto che Eva era stata decapitata? Come facevi
a saperlo?»
«Volevo studiare la tua reazione, capire se avessi letto o
meno il biglietto! Nel loro gergo, decapitare una persona sta a
significare annientarne l'identità!»
«Ma quando hai capito che non era così, perché non me ne
hai parlato la mattina stessa?»
«Forse non ti rendi conto, ma questa storia è più grande di
noi. La mattina stessa ci stavano già pedinando, era meglio per
entrambi non destare sospetti, lasciare che le cose andassero
come dovevano andare.»
«Sì... ma tu... perché eri sull'Isola?»
«Non ci arrivi vero?»
«No!»
«Ero sull'Isola per te, io volevo proteggerti! Sono io che ti
ho accompagnato a casa quella famosa sera!»
Seguire il suo discorso era un'impresa titanica. Facevo una
fatica immane a sintonizzarmi sui suoi ragionamenti, a tratti
improbabili.
«Hai preso tu il Tampax?»
«Sì!»
161
«...e per quale motivo avresti corso un tale rischio per me?»
Si asciugò una scintilla di luce sulla guancia, poi partorì uno
sterile sospiro:
«Perché sono innamorata di te stupido coglione cinico che
non sei altro!»
Laura si coprì gli occhi con la punta delle dita e scoppiò a
piangere. Le lacrime comparivano lentamente da sotto le sue
mani e scivolavano fino a bagnarle le labbra. La sua confessione fu del tutto inaspettata per me. E nonostante arrancassi a
credere a quell'improvvisa dichiarazione d'amore, mi sentivo
uno squallido narcisista, che aveva barattato il dono dell'intelligenza e della sensibilità con un flacone di Rimmel e una cassa
di birra. Nessuna preghiera mi avrebbe assolto dalla mia ipocrisia. Nemmeno legandomi un cilicio attorno ai testicoli sarei
stato minimamente vicino alla punizione esemplare che meritavo. E pensare che per trovare un minimo di redenzione, mi sarebbe bastato fissare dei limiti a quella bottiglia tanto desiderata, quanto condannata.
Nelle parole di Laura c'era stata sincerità, questo non lo si
poteva negare, ma nelle sue ricostruzioni dei fatti un alone di
incompiutezza mi lasciava ancora dubbioso. Erano molte le
tessere che mancavano per completare il mosaico, ma mi conveniva aspettare, non forzare troppo la chiave nella serratura,
per evitare che si spezzasse. Quelle rivelazioni erano sopraggiunte troppo in fretta, e si erano addossate l'una sull'altra fino
a divenire un unico pezzo informe, sottraendomi la possibilità
di analizzarle singolarmente. Era il caso di non farmi uscire
nemmeno una parola riguardo la collana di Eva. Per quanto mi
fosse evidente il movente del suo assassinio, una sorta di presentimento mi istigava a temporeggiare. La notte avrebbe portato consiglio.
Strinsi il viso di Laura contro il mio petto e sentii le sue lacrime inumidirmi la pelle. Poi raggiunsi piano le sue labbra e la
162
baciai. La mia lingua massaggiò la sua con dolcezza. Sapeva di
grappa e fumo di sigaretta: mi eccitò oltremodo. Le carezzai i
seni, arrotolando i suoi capezzoli tra il pollice e l'indice. Con
una mano sul coccige la spinsi con forza contro il mio sesso.
Avvolti in quella carnale danza svolazzammo nella sua camera
da letto. La spogliai senza fretta e posai le mie labbra sul suo
fiore più prezioso, succhiandone via tutto il sale, che era dolce
al tempo stesso. Leccai quella pelle nascosta fin dove un altro
orifizio s'increspò. Facemmo l'amore irraggiati dalle prime luci
dell'alba, e prima di scaricarle dentro tutto il mio sfogo, lei per
tre volte fu attraversata da quello spasmo. Esausti, ci addormentammo aggrovigliati l'un l'altra, senza renderci nemmeno
conto che i primi raggi di sole erano già arrivati a dipingere
d'oro le punte più alte del vigneto.
163
14.
"Non volevo fargli del male, volevo solo ucciderli."
(David Berkowitz, il Figlio di Sam)
I
miei occhi gonfi e lacrimanti si dischiusero che era già ora
di pranzo, lo percepii dagli intensi profumi che dalla cucina
avevano invaso ogni cosa. Non avevo fame, come al solito
ero disidratato e desideravo solo acqua. L'altra metà del letto
era vuota: Laura, molto probabilmente, a quell'ora era di ritorno dal vigneto. Provavo imbarazzo, così restai lì a morire di
sete. Mentre aspettavo che il suono di una qualsiasi voce familiare mi invitasse a prendere parte al banchetto quotidiano, i
miei occhi iniziarono a ronzare negli angoli più inesplorati.
Adesso il sole illuminava completamente la stanza e ne metteva a fuoco i singoli pezzi che costituivano la genesi di Laura.
La camera da letto di una persona non ne rappresenta solo il
vissuto, ma anche i segreti, quel lato nascosto della sua personalità, al quale si accede solo se invitati. Al suo interno, alcune
volte, si possono trovare cose che potrebbero non piacerci.
Le mie pupille, spinte da uno scriteriato movimento indagatore, sorvolarono ogni spazio raggiungibile. Poi di colpo si arrestarono su un riflesso. Sopra un'antica scrivania di mogano
c'era un cofanetto rosa, dal quale pendeva un oggetto metallico,
impossibile da analizzare dalla mia postazione. I raggi di sole
rimbalzavano su di esso spingendosi fino alle mie palpebre,
rendendolo praticamente indistinguibile. Mi alzai dal letto per
vederci meglio, ma nel momento in cui allungai la mano per
prenderlo, la voce di Laura si frappose tra me e quel piccolo
corpo lucente, impedendomi il compimento del gesto.
«È pronto in tavola, non scendi?»
Si avvicinò con un sorrisetto tutto pepe e mi baciò, mordic164
chiandomi il labbro inferiore. Non saprei, ma forse fu un modo
per dire: “Davvero niente male!”, Oppure: “Ti mangerei!”. Certe esternazioni femminili sono degli anticoagulanti per un ego
maschile con tendenze trombotiche. Poi per rimarcare il suo
apprezzamento, impugnò delicatamente il mio pene, assieme al
resto del pacchetto, e mi trascinò con sé.
Mangiai soltanto un po' di pane con del pomodoro, e dopo
pranzo accompagnai Laura nel vigneto. Se dovevo restare lì per
qualche giorno, tanto valeva rendersi utili.
Laura mi insegnò a potare la vite e a capire il grado di maturazione dell'acino. Disse che per ottenere la perfezione lo zucchero deve prevalere nettamente sull'acidità, ma non annullarla
del tutto. Ogni chicco che ingoiavo stimolava nuove voglie, il
pensiero vagabondava mercenario fino alle luci dell'alba, e
all'odore penetrante della sua vagina. Mi sentivo sbronzo di
vita, ma cercavo di tenere l'illusione a distanza di sicurezza:
quell'effetto sarebbe potuto passare da un momento all'altro.
Aveva avuto ragione lei, era alquanto faticoso lavorare sotto
il sole cocente, la terra era dura, ma provavo un senso di libertà
assoluta, che mi catapultava sulle rive di Barbati. Eravamo sudati: il nostro respiro lento e affannoso ci rese nuovamente prigionieri dell'eccitazione. Facemmo l'amore lì, tra l'erba. In quel
momento sapevo che, malgrado la possibilità di poterlo rifare,
non sarebbe mai stata la stessa cosa: era un istante unico. Da
ogni poro del suo corpo sgorgava il succo zuccherino di
quell'uva, lo sentivo in gola; e le sue labbra (quelle di sopra e
quelle di sotto) rilasciavano verità, arte, passione e delirio. I
suoi seni si rimodellavano sotto le mie mani ancora incredule, e
le sue unghie tracciavano leggeri solchi di carne lungo la mia
schiena. Mai e poi mai avrei potuto permettere che si perdesse
anche una sola goccia di quegli attimi.
Rimanemmo nudi sull'erba senza il timore di essere visti,
senza vergognarci della morale che anni e anni di insegnamento ci avevano inculcato. Stavamo riscoprendo la bellezza dei
165
nostri corpi, la naturalezza dell'esistere. Staccai un grappolo e
lo posai sul suo sesso: iniziai a succhiarne gli acini. Il profumo
della sua pelle rendeva più intense quelle sfumature di sapore.
In quell'istante avrei voluto essere minuscolo come una formica, per entrarle dentro e spingermi ad esplorare ogni anfratto
della sua caverna. Desideravo viaggiare dentro di lei per scoprire come ogni cosa aveva avuto inizio, lì, in quel luogo, dove
il male non aveva ragione di esistere.
I giorni trascorsero in fretta, poi un mattino ricevetti una
chiamata dalla segreteria. La voce femminile mi intimò di consegnare il libretto universitario quanto prima, altrimenti per me
non ci sarebbe stata alcuna sessione di laurea. Salutai Laura dicendole che ci saremmo rivisiti per cena, o al massimo per il
giorno seguente. Lei si mostrò turbata e contrariata, ma non fui
in grado di comprenderne le ragioni. Forse non voleva che la
lasciassi sola, oppure temeva che potesse accadermi qualcosa.
Prima o poi, anche se a malincuore, sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto attraversare i confini di quell'incantevole
microcosmo.
Passai a casa per recuperare il libretto e ne approfittai per
prendere anche degli indumenti. Le mutande da donna che ero
stato costretto a indossare non erano il massimo in fatto di comodità. Non notai niente di strano, tutto era rimasto come lo
avevo lasciato. Sul tavolo della cucina c'era ancora il giornale
aperto e la busta con all'interno le fotografie. Posando gli occhi
su di essa, però, accusai un tremendo fremito di ansia. Mi tornarono alla mente le parole di Eva: «Tu sei ciò che senti!».
Avevo la sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante:
non avevo osservato con attenzione quelle foto. Probabile che
in esse si celassero nuove rivelazioni. Mi sedetti e con calma le
sfogliai, analizzandole attentamente. Non c'era niente di nuovo,
nessuna anomalia evidenziabile. Poi, però, mi resi conto che
quell'esame era incompleto. I negativi all'interno della busta
166
non coincidevano con il loro numero. Tre di esse non erano state sviluppate. Senza rifletterci più di tanto mi precipitati presso
il fotografo più vicino. Ce n'era uno a pochi passi da casa che
faceva proprio al caso mio, l'insegna recitava “Foto in
mezz'ora”. Lasciai in consegna il lavoro e mi diressi verso la
segreteria, avrei ritirato gli sviluppi al ritorno.
In segreteria ci volle più tempo di quanto avessi ipotizzato;
c'era il solito inspiegabile marasma e le file chilometriche agli
sportelli non defluivano mai. La mattinata passò così, per la
consegna di uno stupido libretto e, di conseguenza, il negozio
chiuse. Avrei dovuto aspettarne la riapertura alle 17.00 del pomeriggio.
Mi allestii un pranzetto veloce con quello che era sopravvissuto nel frigo, dopodiché feci una doccia lampo e mi buttai sul
letto per un breve riposino. Stavo per prendere sonno quando
sentii degli strani rumori provenire dal pianerottolo. Qualcuno
stava forzando la maniglia. Scesi di corsa e spalancai il portone: al postino venne quasi un infarto. Mi consegnò una lettera,
era indirizzata a me, ma non c'era il mittente. Ritornai a distendermi sul letto, poi aprii quella missiva. Al suo interno soltanto
un semplice foglio A4 bianco, senza nessuna scritta, completamente vuoto. Chi l'aveva mandato e che cosa stava a significare? Di primo acchito pensai ad uno scherzo idiota, ma immediatamente dopo mi sovvenne che il messaggio fosse anche sin
troppo chiaro: “sappiamo chi sei e dove trovarti, ma tu non sai
niente di noi”. Era un avvertimento. Mi conveniva tornare alla
svelta da Laura. Presi le mie cose, comprese le foto, e scesi per
strada. Avrei aspettato l'apertura del negozio stando tra la gente,
era sempre meglio che restarsene intrappolati tra quattro mura.
Mi sedetti al tavolino di un bar e ordinai un chinotto. A fianco a me c'erano due ragazze che congetturavano sul futuro dispotico della nazione. Quella più carina continuava a ripetere
che sarebbe stato meglio lasciare il paese: «Me ne vado in
America da mia zia, prima che ci fanno tutti secchi!» Così di167
ceva. Poi successe qualcosa che risvegliò una preziosa reminiscenza. Il suo cellulare era scarico ed emetteva un fastidioso e
ininterrotto bip. «'Sto coso sta per spegnersi!» Borbottò seccata
la fanciulla. Avevo già sentito quel suono stridulo la sera in cui
mi trovavo con Markus nel locale di Kassiopi. Adesso ricordavo: anche il cellulare di Markus era scarico, da lì a poco si sarebbe spento. Erano appena le 2.00 di notte, allora come aveva
fatto a inviare il messaggio a Pilar verso le 6.00 del mattino?
Semplice, non era stato lui. Un altro pezzo del puzzle si era incastrato. I casi erano due: o Pilar aveva ucciso Markus e poi orchestrato quella sciarada, oppure era un messaggio dell'assassino diretto a me. Era la sua firma, un modo per farmi capire che
sarei stato il prossimo. Di certo se fosse stata Pilar ad architettare tutto, non sarebbe stata una sorpresa, ma per quale ragione
complicarsi la vita inscenando la storia del messaggio? Per
crearsi un alibi forse? Per allontanare i sospetti su di lei? Come
supposizioni calzavano a malapena, in fin dei conti l'ipotesi
suicidio sarebbe stata credibile, ci sarebbero cascati tutti, persino il commissario bastardo, come in realtà era avvenuto. Ma se
non era lei la responsabile di quei delitti, allora chi? Laura aveva detto che i ragazzi mi avevano seguito sull'isola con l'intento
di farmi la pelle, ma questo non era accaduto, anzi erano stati
loro a soccombere. E se invece le cose fossero andate diversamente? Se, a differenza di come avevo creduto, non ero io la
vittima designata, ma loro stessi? Ancora una volta la quadratura del cerchio veniva a mancare.
Ritirai le foto, ma non le esaminai subito, era meglio svignarsela alla svelta da lì. Inoltre avevo bisogno di una posizione più agevole per eseguire una perizia dettagliata. Aspettai di
essere salito sul treno.
Estrassi la prima foto dall'astuccio di carta. La suola di un
anfibio militare mi arrivò dritta nei coglioni. Su quella istantanea c'erano tutti loro in compagnia di Eva. Alle loro spalle si
distingueva chiaramente il porticciolo di Kassiopi. Lo scatto
168
era stato effettuato dal cammino di ronda del Castello Bizantino, dal quale Markus si era gettato, o era stato gettato. Si conoscevano, si conoscevano tutti da molto tempo. Markus, Rachel,
Pilar e Laura già si conoscevano. La loro frequentazione risaliva a periodi precedenti le dichiarazioni di Laura. Era forse Eva
l'amica di Rachel sulla quale Markus aveva esitato quella famosa notte? Dalla seconda fotografia scoprii l'identità
dell'autore della prima. Eva e Laura erano abbracciate all'uomo
che avevo incontrato sulla nave e che mi aveva messo tra le
mani quel volantino su Paleokastritsa. Per quanto ne sapevo
poteva trattarsi dello stesso uomo che aveva minacciato Laura
la notte del delitto. Ma c'era un “ma”: Laura non mi aveva raccontato la verità, e questo rendeva tutto più contorto, dando
adito ad assillanti sospetti. Cosa c'era veramente dietro quella
storia? E chi era quell'uomo? Forse il fantomatico Pippo Morrisini? Laura aveva detto: «Nel loro gergo, decapitare una persona sta a significare annientarne l'identità!» Nel gergo di chi?
Chi erano loro? E dove si collocava Laura nella struttura dei
loro? L'ultima foto raffigurava i primi piani di Laura ed Eva. Il
particolare che catturò immediatamente la mia attenzione furono i cimeli appesi ai loro colli. Attorno a quello di Laura pendeva la collana che avevo creduto appartenere a Eva: i cerchi
d'argento concentrici. Ma il delfino non c'era, questo era infilato in una sottile cordicina di cuoio che avvolgeva il collo di
Eva. La collana che avevo visto indosso a Eva prima, e a Laura
dopo, non costituiva un pezzo unico, ma due elementi distinti e
separati. E, probabilmente, sapevo dove cercarli.
Adesso l'inverosimile si scompigliò in nuovi interrogativi.
Perché Eva mi aveva mostrato quegli oggetti in un unico pezzo? Forse aveva voluto dirmi qualcosa in merito a Laura? Era
Laura l'artefice di quell'incomprensibile sequenza di omicidi?
Chi era veramente la ragazza con la quale avevo trascorso la
settimana più intensa e passionale delle mia vita?
169
Tornato al casolare salutai a stento l'anziana signora, che negli occhi aveva mostrato un'enfatica gioia nel rivedermi. Per
quanto fossi scosso e turbato non era mia abitudine mostrare i
segni della maleducazione. In quel momento, però, il mio solo
e unico scopo era quello di mettere le mani su quel cofanetto.
Dietro il riflesso di quella mattina doveva celarsi la risposta
alle mie domande.
Al suo interno, insieme ad altri oggetti preziosi, trovai la
collana a cerchi concentrici e il delfino d'argento. Afferrai
quest'ultimo: era l'esatta copia del mio. Sul suo ventre un'iscrizione: ╙╞╝╢╘╦. In quell'istante sentii il respiro affannoso di
Laura soffermarsi sulla soglia.
«Cosa stai facendo?» Inveì, con il tono di chi annaspa a
tenere in piedi una minaccia.
La guardai disgustato. Il pensiero di averle infilato dentro il
pene mi ripugnava. O forse no, forse desideravo farle del male,
nella maniera in cui mi veniva più spontanea in quel momento.
Volevo penetrarla da dietro, con violenza, per profanare il suo
buchetto più stretto senza nemmeno concederle il sollievo di
una goccia di lubrificante. Avrei voluto procurarle lesioni e
dolore fino a imbrattarmi del suo sangue. Ma non lo feci, anche
se quell'appetito mi ardeva in profondità... non lo feci. Le
mostrai le foto: quella della festa nella quale lei appariva con la
famosa collana al collo, e le altre che avevo appena ritirato.
«Voglio che tu mi dica tutta la verità!»
Lo sguardo di Laura si smarrì, poi divenne accecante, ma in
essi non c'era odio, soltanto la perdita della purezza. L'angoscia
le saliva su, partendo dall'utero, perché era consapevole di non
essersi mostrata onesta nei miei confronti. Il timore di aver
perso irrimediabilmente credibilità la logorava. Si sedette sul
letto con le mani conserte, quasi in preghiera. E, dopo l'ultimo
miserabile battito di palpebre, disse:
«È vero... non ti ho detto tutto.»
Profanata dalle pulsazioni accelerate del suo cuore, e
170
vilipesa dagli strattoni agli angoli delle sopracciglia, iniziò a
raccontare.
«Conoscevo bene quei ragazzi... un tempo eravamo amici.
Era stata Eva a presentarmeli la prima volta che mi invitò
sull'Isola. In seguito venni a sapere che studiavano tutti all'Università per Stranieri e quindi cominciammo a frequentarci.
Avevano delle facce pulite ed erano molto simpatici, con uno di
loro ebbi anche un storia, niente di che, una cosa passeggera.
All'inizio non avevo notato nulla di anomalo nel loro comportamento, fatta eccezione per quelle rare occasioni in cui sparivano per delle giornate intere senza lasciare traccia. Poi, però,
Eva iniziò una relazione con il Sacerdote, così lo chiamava, e
allora sorsero i primi problemi. Questo tizio non l'ho mai visto,
ne ho solo sentito parlare, ma deve essere qualcuno che sta ai
vertici di una piramide per noi incomprensibile. Roba da film.
È un pezzo grosso, vive al di sopra della legge e ha un'immunità assoluta, e con la situazione che è venuta a crearsi ha fagocitato ancor più potere. Recluta ragazzini che hanno voglia di
provare nuove emozioni e li introduce in una spirale di violenza dalla quale non torneranno più indietro. Sai tutti quei casi di
sparizione? Hanno a che fare con lui. E tutti quegli omicidi irrisolti? All'apparenza sarebbe in grado di risolverli anche Topo
Gigio, ma cadono sempre nel vuoto. Anche in quelli c'entra lui.
Facci caso, hanno tutti una matrice in comune: c'è sempre un
colpevole che non lo è mai fino in fondo. Si continua per anni a
dibattere sulla sua colpevolezza, ma non si arriva mai a niente
di concreto. Perché? Perché sono altri i veri colpevoli. Il Sacerdote, o il Principe Nero come lo chiamano gli adepti, è in
quest'ordine che agisce, ti fa credere di appartenere a un gruppo, spingendoti a commettere le peggiori aberrazioni, ma è
come in una roulette russa, chi partecipa, prima o poi muore. I
ragazzi erano entrati in questo circuito, forse per gioco, o forse
no, sta di fatto che regolarmente praticavano dei rituali in cui
venivano sacrificate delle vittime. All'inizio si tratta sempre di
171
animali, per lo più gatti. La violenza sugli animali è il tirocinio
per accedere alla violenza sugli uomini. Nella fase successiva
si passa a strappare il cuore di qualche barbone rapito in città
lontane. Oppure a estrarre feti da prostitute incinte e a nutrirsene. Gente della quale mai nessuno verrà a recriminarne la
perdita. L'ultimo passaggio consiste nell'eliminazione di un
membro del gruppo. Generalmente succede perché alcuni cedono e vogliono tirarsi fuori. Ma ovviamente è troppo tardi, non è
possibile tornare indietro. Non è un circolo di ramino quello, da
lì i segreti non possono uscire. Una volta che sei dentro appartieni a loro e basta. I seguaci fanno un uso abituale ed eccessivo di droghe dissociative, molti di loro non ricordano nemmeno di aver commesso quei crimini. Ignorano di aver fatto quello che hanno fatto. Il più delle volte non sono loro i responsabili. Questa è un'altra tecnica di liquidazione, ti fanno credere di
aver commesso un omicidio, tu finisci in galera, sei convinto di
essere stato tu, lo dichiari apertamente, ma non riuscirai mai a
ricordartene. Viste le circostanze persino il giudice meno corrotto alza le mani davanti a una confessione volontaria. Dopo
qualche anno ti assalirà qualche dubbio, ma ormai hanno gettato via la chiave. La loro è una rete capillare, hanno uomini dappertutto. Nella magistratura, nell'esercito, nella polizia, nelle
banche, nella stampa, nelle università, negli ospedali... dappertutto. Quando sei dentro ti senti protetto, li vedi come la tua
nuova famiglia, ma quando diventi pericoloso si sbarazzano di
te, non ci pensano sopra nemmeno un istante... ed è quello che
è successo a Eva. Anche se in verità, la faccenda di Eva è leggermente diversa. Lei non era ufficialmente nel gruppo, lei aveva soltanto una relazione con il Sacerdote e per puro caso aveva scoperto dei movimenti di capitali illeciti. Qualche giorno
prima del delitto mi aveva confessato di aver messo le mani su
alcune carte che dimostravano come vengono gestite le borse
di studio per permettere azioni speculative. In accordo con i dirigenti delle società erogatrici e con le banche interessate, co172
municano ai vincitori che la Guardia di Finanza, anch'essa in
parte coinvolta, sta eseguendo dei controlli sulla loro situazione
patrimoniale; così facendo bloccano l'esborso di circa la metà
dei sussidi. Quell'immensa quantità di denaro confluisce su un
deposito bancario dove inizia la manovra che frutta ingenti capitali. Ora sono certa che questo sia solo uno dei metodi utilizzati per finanziare i loro progetti oscuri, ciò non toglie che se
venisse fuori una rivelazione del genere qualsiasi copertura sarebbe a rischio, perché si attiverebbe un effetto domino che potrebbe portare a smascherarli. La verità è che Eva si fidava
troppo dei suoi amici, ma non sapeva chi fossero veramente.
Erano stati loro a presentarle il Sacerdote, e ha fatto una brutta
fine. Malgrado non avesse più famigliari in vita non è stata
martirizzata secondo il metodo classico, per lei è stato scelto di
inscenare un omicidio. Sapevano che avrebbe creato meno polverone della tradizionale sparizione. Se ancora non ci mostrano
la sua faccia è perché qualcun altro deve morire.»
Ascoltai in silenzio cercando di concentrami su ogni singola
parola, ma arrancavo a metabolizzare quel resoconto.
«E tu come fai a sapere tutto questo?»
«Alcune cose sono state loro a raccontarmele, considerato
che soffrono, anzi soffrivano, della tua stessa malattia. Quando
erano strafatti pesantemente cantavano come usignoli. Infine,
dopo l'ultima confessione di Eva, ho messo insieme i pezzi.»
«E se tutto quello che hai detto è vero, come mai noi due
siamo ancora qui?»
«L'unica cosa che so è che lo scopriremo... presto o tardi lo
scopriremo.»
«Insomma chi è che doveva morire sull'Isola?»
«Sicuramente tutti quelli che sono morti... loro non commettono mai errori!»
«E come mai Pilar no?»
Laura m'imbeccò con una smorfia di disappunto.
«Questo non puoi dirlo! Molto probabilmente è stata messa
173
a tacere anche lei.»
Guardai tra le mie mani. Contenevano la collana a cerchi
concentrici e il delfino.
«Io però non ho ancora capito cosa ci facevi la sera della festa con questi al collo.»
Laura boccheggiò, l'interrogatorio stava diventando sempre
più estenuante.
«Quella notte... la notte che c'eri anche tu... quando ho cercato di trascinar via Eva con la forza, nella confusione le ho afferrato per sbaglio la collana e mi è rimasta in mano.»
«Sì, ma non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché la
sera della festa indossavi il suo delfino?»
La sua momentanea riflessione acuì il silenzio, che durò un
attimo, ma mi diede la sensazione che ci stesse mettendo decisamente troppo a pronunciarsi.
«Perché volevo che vedessero... volevo spaventarli... terrorizzarli... ricordargli ciò che avevano fatto... provocare una reazione, qualsiasi cosa pur di portarli a commettere un passo falso. Ma ero confusa, troppo confusa e non avevo considerato
che così facendo stavo esponendo entrambi a un pericolo maggiore.»
«Perché mi hai mentito?»
Laura si alzò, si diresse verso di me, si aggrappò esausta alle
mie guance e disse:
«Perché temevo che non avresti capito!»
Non saprei dire con certezza se le sue parole mi avessero
convinto o meno, quello che so è che da quella conversazione
ne uscii distrutto e traumatizzato. Non che fossi uno sprovveduto, tutt'altro, ma sentivo che la sconcertante scoperta di quel
lato oscuro della società, che avevo sempre deliberatamente
voluto ignorare, mi avrebbe divorato l'anima a poco a poco. Mi
sentivo parte di un gioco pericolosissimo molto più grande di
me. Non avevo mai guardato il mondo attraverso gli occhi di
174
un bambino, questo è vero, ma scoprire che tutto ciò che mi
circondava era soltanto un diabolico gioco di prestigio – illusione, invenzione, apparenza, coperture, carta da parati a fiorellini che ricopre mostruose pareti di carne umana – era una verità che mi sconvolgeva a tal punto da indurmi al suicidio. Il sistema era come la faccia di un Cicisbeo, sotto il suo cerone immacolato si celava la lordura più raccapricciante.
Quella stessa sera chiamai mia madre, non riuscivo a staccare gli occhi da quei delfini che probabilmente si erano ricongiunti, e da quella scritta: ╙╞╝╢╘╦, Chiaro di luna. Il dipinto
nel locale di Sivota, il pescatore con i due bambini, il delfino al
collo di Eva. Ma chi ero effettivamente io? Mi sentivo flagellato da atroci dubbi e presentimenti. Avevo paura, ma non capivo
se a causa del mio ignoto passato, o per via della tentazione di
farlo divampare come un incendio. All'istante.
«Mamma... sì sto bene... ho una cosa importante da
chiederti!.. Chi sono effettivamente io mamma? Da dove
vengo? Dove mi avete trovato? Mamma!»
Dall'altra parte un eterno silenzio.
«Amore mio, tutto quello che posso dirti, è che un
meraviglioso giorno tu sei venuto dal mare. Io non so di
preciso chi sei... ma so che cosa sei. Tu sei la mia vita. Senza di
te tutto quello che mi resta è contare i giorni che mi rimangono.
Perché ci tieni a sapere ciò che non potrai più essere? Sono io
la tua famiglia adesso! Siamo noi la tua famiglia! Torna a
casa... ti prego!»
Un meraviglioso giorno tu sei venuto dal mare.
Seguii l'esempio di Laura e lasciai l'Università. Non mi presentai alla discussione della tesi e, al telefono, evitai di rispondere a qualsiasi numero che recasse un prefisso di zona. L'unica voce alla quale non feci mancare le mie carezzevoli vibra175
zioni fu quella di mia madre, che mi telefonava un giorno sì e
l'altro pure. Di tanto in tanto, quando lei lo permetteva, riuscivo
a parlare anche con mio padre, che cercava di intrattenermi con
discorsi da maschi, ma, in verità, non mi sentivo più maschio di
un lombrico.
Malgrado tutto, mi è quasi impossibile estrapolare dal ricordo la fotografia del mio passato senza scarabocchiare leggermente sui lineamenti dei miei genitori. Loro ti amano come
nessun altro, ma sono anche i primi sbirri che incontri nella tua
vita.
Per circa un mese rimasi confinato nel vigneto. Tutto quello
che desideravo e volevo era lì, in quel labirinto di foglie cuoriformi. Mi sentivo protetto e al sicuro. Il mio rapporto con Laura s'insaporì sempre di più. Anche se il nostro fidanzamento
non era stato ufficializzato, si poteva dire che stavamo insieme.
Eravamo uniti nel destino, ci amavamo e ci rispettavamo reciprocamente. Non serve ufficializzare l'amore: lui è quello che
è, oppure non lo sarà mai. Laura era deliziosa, e molto premurosa nei miei confronti. Le davo una mano a mandare avanti la
tenuta e la sera prima di addormentarci facevamo sempre
l'amore. Era il massimo. Un paio di volte lo rifacemmo
nell'erba e fu meraviglioso, non come la prima volta, ma fu
splendido lo stesso. Non guardavamo mai la televisione, ma
ogni tanto mi capitava di ascoltarla forzatamente. La nostra camera si trovava proprio sopra quella dell'anziana donna, che la
teneva sempre ad alto volume per via della sua ipoacusia. Fu
così che venni a scoprire che al governo si era insediato l'esercito. Alla guida del paese era stato messo un ex generale, tale
Filippo Morrisi per l'anagrafe, per tutti gli altri era semplicemente Il Generale. Una sera per puro caso passai davanti alla
stanza della nonnina. La tivù era sintonizzata su un programma
che affrontava la tematica del caso della ragazza uccisa. Adesso
la foto veniva mandata in sovrimpressione con una certa frequenza. Il viso di lei, però, non era quello di Eva, la riconobbi
176
subito, si trattava di Pilar.
Sarei rimasto lì per sempre se non fosse stato per il fatto che
una mattina ci fu recapitata una lettera. Laura in quel momento
era impegnata a fare ordine nella rimessa, ma la cosa insolita
era che quella missiva fosse indirizzata a me. L'aprii: al suo interno un semplice foglio A4 tutto bianco. C'era dell'altro però:
una fotografia. Su di essa erano immortalati Laura e
quell'uomo. Proprio lui. Quello che lei aveva confessato di aver
visto solo una volta e che l'aveva minacciata, lo stesso che avevo incontrato sulla nave. Erano avvolti in un abbraccio tutt'altro
che innocente. Lo stupore e l'angoscia mi violentarono, e
l'immediato tremore che ne conseguì fece scivolare la foto dalle mie mani. In quel momento la nonna di Laura si trovò a passare e la raccolse istintivamente.
«Ma guarda tu... Giacomo! Chissà che fine avrà fatto? Era
un così caro ragazzo!»
«Scusi signora, ma lei lo conosce?»
«Ma certo che lo conosco... è il...»
Mi guardò con un leggero imbarazzo tra le rughe.
«...era il fidanzato di Laura!»
Non saprei spiegare cosa provai in quell'istante. Forse il
cuore cessò di battere per qualche secondo. Oppure oltrepassai
quella linea di demarcazione che separa la dimensione dei vivi
da quella dei morti. Fu come un viaggio A/R per l'inferno, che
durò pochi attimi, ma che furono sufficienti a darmi una visione definita della vera natura dell'orrore.
«Quindi loro due stavano insieme?»
«Certo che stavano insieme... se non fosse stato per lui, tutto
questo ben di dio sarebbe andato perduto. Ogni cosa in malora.
Tutto le banche volevano prendersi. Ma poi lui, non so come, ci
ha salvati! È tanto un caro ragazzo!»
Non riuscivo più a distogliere lo sguardo dalla sua faccia.
Conoscevo quell'espressione, l'avevo già vista in passato; era
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drammaticamente familiare.
«Come ha detto che si chiama signora?»
«Giacomo! Si chiama Giacomo!.. È tanto un caro ragazzo!»
Un gelo improvviso m'irrigidì il corpo. Ma certo. I suoi occhi... vuoti... come la sua anima nera. Adesso che lo guardavo
meglio...
«Jack? Sei tu?... Tu sei la morte Jack. Tu sei sempre stato la
morte!»
«No! Tu sei la morte!... Sei sempre stato tu... la morte!»
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FINE
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Quesito:
Ci sono due porte e due guardie.
Dietro una porta c'è la salvezza e dietro l'altra la disperazione.
Alle due guardie puoi chiedere informazioni circa quale porta
nasconda la salvezza.
Una delle due guardie mente sempre, mentre l'altra è la verità
fatta a persona. Non sai chi delle due sia la bugiarda.
Puoi rivolgere loro una sola domanda.
Cosa fai per trovare la salvezza, ottenendo un'indicazione precisa dalle guardie?
Risposta:
Chiedi alle guardie: "Cosa mi risponderebbe il tuo compagno
se gli chiedessi dietro quale porta si trova la salvezza?". Entrambe vi indicheranno la porta della disperazione.
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Ringrazio le solite persone.
Ringrazio Iolanda, la mia ragazza, temeraria cavaliera della lotta ai refusi (e non solo), e maestra nella suprema arte della sopportazione del sottoscritto. Per la cronaca, tutto questo per me
ha un senso solo perché c'è lei.
Ringrazio Elisa, amica di sempre, anche lei oltraggiata, minacciata e spinta dal sottoscritto all'estenuante battaglia contro il
vile refuso e alla propaganda indiscriminata dell'opera in questione.
Ringrazio i miei genitori, che, malgrado le divergenze, le continue scaramucce, i punti di vista diametralmente opposti, etc.,
etc., non smetterò mai di amare.
Ringrazio mia sorella perché ogni cosa che scrivo la scrivo per
lei.
Ringrazio mio fratello perché lui è l'emblema del cambiamento. Spero si sbrighi.
Ringrazio Fabio Dessole (Furio Thot), un uomo la cui specie
credevo estinta.
Ringrazio i mitici ragazzi di mEEtale. Siete grandi.
Ringrazio le persone che non ci sono più, perché mi hanno insegnato il valore del ricordo.
Ringrazio tutti gli amici e i parenti che acquisteranno questo libro, e anche tutti quelli che non lo faranno.
Ringrazio me stesso, perché in fin dei conti il libro l'ho scritto
io.
NB: La citazione che apre il nono capitolo è veramente di mio
padre.
Maggio 2013
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