DACCI OGGI
IL NOSTRO
PANE
QUOTIDIANO
Pagine di Noticum
Missio
Supplemento n.1 a Noticum n.12 - dicembre 2011
Direttore: Crescenzio Moretti
Comitato di redazione: Paolo Annechini, Giandomenico Tamiozzo,
Ugo Piccoli, Federico Bragonzi, Beppe Magri, Maurizio Cuccolo.
Segreteria: Cinzia Inguanta
Impaginazione: Francesca Mauli
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DACCI OGGI
IL NOSTRO
PANE
QUOTIDIANO
Pagine di Noticum
Missio
In questo libro, testimonianze di missionari da:
Italia
Thailandia
Brasile
Sudafrica
Guatemala
Israele
Argentina
Sudan
Colombia
Camerun
Prefazione
La domanda di pane
Abbiamo pensato anche quest’anno di raccogliere i dossier di
Noticum in un opuscolo da inviare ai nostri lettori e a quanti sono
legati alle attività del CUM. Quest’anno ci siamo soffermati, nel dossier
allegato alla rivista nei mesi di marzo, giugno e settembre, sulla
povertà del discepolo missionario come condizione dell’annuncio
dell’Evangelo di Dio, che richiede una coraggiosa e sapiente
educazione alla domanda del vero Pane: il Pane del Vangelo, della
Giustizia, della Fraternità. All’articolo di fondo curato dal teologo don
Mario Antonelli, collaboratore presso la Fondazione CUM, abbiamo
via via raccolto varie testimonianze di missionari/e che lavorano nei
diversi sud del mondo.
Ci sembra, questo che abbiamo prodotto, un piccolo ma utile
strumento di riflessione, che la fondazione CUM utilizzerà nei suoi
incontri di formazione per i missionari in Italia e all’estero.
Buona lettura
Don Maurizio Cuccolo
Direttore CUM
IL PANE
DEL VANGELO
“Da ricco che era si è fatto povero per
arricchirci della sua povertà”
(2 Cor. 8,9ss)
Inserto marzo 2011
L’ultima chiamata
La povertà del Signore, la povertà della Chiesa
Chi è avvezzo a vicende e vicissitudini missionarie viene spesso ad
imbattersi con la visione quasi sinottica di “belle pietre e costruzioni”
e di “povere vedove”. In vista del culto e delle attività pastorali si
immaginano e assemblano le prime; memori dell’invito di Gesù si
osservano le seconde con sana inquietudine.
Dallo sguardo magistrale di Gesù trapela un tale affetto per la
vedova povera che si scorge bene la sua identificazione con quella
donna e il suo “dare tutta la vita”. Leggendo divinamente i cuori, Gesù
sentiva nei discepoli certa debolezza religiosa, ammaliati com’erano
dalla grandiosità di quanto si fa per Dio; se mette in guardia da
un’ammirazione smodata per il Tempio e le sue belle pietre, quasi
ci si possa così inebetire da smarrire la vigilanza cristiana, Gesù non
manca di allertare i suoi circa lo stile degli scribi: sempre in agguato.
Cosa guardate con ammirazione? Chi scegliete come maestro
esemplare, ora che me ne vado? Seguendo il vangelo di Marco
(12,38-44), siamo all’ultima chiamata.
Chiamare presso di sé
Per sei volte infatti nel vangelo di Marco compare il verbo “chiamare
presso di sé” riferito ai discepoli: un itinerario formativo in cui Gesù
chiama presso di sé i discepoli, invitandoli ad una prossimità speciale
con lui per istruzioni che devono essere decisive nell’avventura di
essere cristiani. Davanti alla povera vedova ecco l’ultima lezione
magistrale: l’ultima chiamata. Non bastava redarguirci circa la nota
assuefazione ecclesiastica allo stile degli scribi: il gusto compiaciuto
di vesti sontuose e saluti reverenziali, l’attaccamento ai primi posti
nella casa di Dio e nelle case degli uomini, la scaltra e professionale
consuetudine al culto di sé, servendosi di tutti e di Dio stesso e della
sua Parola. Non bastava: allora chiamò presso di sé i discepoli e
indicò loro il gesto della povera vedova. Ecco il maestro esemplare
che vi accompagnerà nel tempo del vostro andare: esattamente
come me, dando “tutta la vita”, senza indulgere a calcoli, non offrirete
il superfluo a Dio, non darete uno spicciolo a lui tenendovi l’altro
per garantirvi la vita e la gloria. Nella sua povertà, nella sua penuria,
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lei che è all’ultimo posto, lei ha gettato tutta la sua vita: come me.
Questo rimpingua il tesoro di Dio, questa è la ricchezza di Dio: quella
che Gesù ci ha testimoniato e affidato. Poveri sarete non tanto
perché non avrete nulla, ma perché continuerete a dare tutto…
Assaporare il dono, la bontà, la dolcezza, la carità
Scorgere acutamente il profilo e le forme della povertà dei discepoli
missionari e delle Chiese, Paolo ci aiuta a mandare a memoria
la lezione divina di quell’ultima chiamata di Gesù. Lui, forte di
un’evidente esperienza di povertà evangelica, vuole che la Chiesa
anche in questo brilli, riflettendo la povertà del Signore: “Conoscete
la grazia del Signore nostro Gesù Cristo che, essendo ricco, si fece
povero per voi, per farvi diventare ricchi con la sua povertà” (2Cor
8,9). Ai Corinti, sollecitati a partecipare alla carità tra le Chiese,
Paolo rammenta il principio della loro vita nuova: assaporare e
sperimentare il dono, la bontà, la dolcezza, la carità, …in una parola,
la grazia di Gesù Cristo.
In tre frasi
In tre frasi la storia di Gesù, in tre frasi l’identità di Dio che in quella
storia si rivela, in tre frasi la vera ricchezza dell’umanità nuova che
la Chiesa è. Dapprima una subordinata che indica la singolare
condizione divina di Gesù (“essendo ricco”); poi la principale con la
memoria concisa della dinamica della grazia di Gesù (“si fece povero
per voi”); infine, in una seconda subordinata, Paolo dice della finalità
della grazia, la vita divina sperimentata nella comunità (“per farvi
diventare ricchi con la sua povertà”). Al cuore della confessione
sta la decisione drammaticamente storica di Gesù di farsi povero,
decisione che abbraccia tutta la sua esistenza terrena, unica sua
dimora e unico suo sabato, scandendo i passi suoi, il suo dire nuovo,
il suo dare il corpo, gettando la vita intera, fino alla morte di croce.
Nessun “nonostante”
Sempre dobbiamo umile venerazione alla parola apostolica: senza
soffocarla sotto il peso mortale di ovvie convinzioni religiose. Poiché
istintivamente resistiamo alla forma cristologica di Dio e della sua
potenza, abbiamo ricondotto l’inaudito di questa confessione
paolina ai canoni del buonsenso religioso, persuasi che “nonostante
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fosse ricco, Gesù si fece povero”, o che “pur essendo di condizione
divina, Cristo Gesù spogliò se stesso” (cfr. Fil 2,6ss). Invece il testo
non afferma che Gesù si fa povero in deroga alle sue prerogative
divine; l’affettuosa meditazione paolina del mistero della croce non
consente di pensare lo svuotamento di Gesù e la sua povertà come
un venir via dalla sua condizione divina di Figlio, quasi che il farsi
povero contraddica la sua originaria condizione divina.
Piuttosto leggeremo che “essendo ricco”, “essendo di condizione
divina”, Gesù si fece povero, svuotò se stesso: indietro non si può
tornare. Al più Paolo ci permetterebbe di intendere un “precisamente
per il fatto di essere ricco, Gesù si fece povero”. La sua condizione
divina (la “ricchezza”) si dispiega nella dinamica di “farsi povero”:
nessun “nonostante”, nessuna concessiva! Nessuna opposizione tra
l’esistenza di Gesù, marcata a fuoco dalla povertà del servo solidale,
e la sua condizione divina; nessuna antitesi tra l’apice di questo
svuotarsi (la morte di croce) e la ricchezza divina del suo essere;
nessuna opposizione tra la “forma di Dio” e la “forma di schiavo” nella
vita di Gesù. Anzi, non si tratta solo di compatibilità: c’è in gioco
l’idea, inedita e fecondissima per la Chiesa e la sua povertà, di una
forma di schiavo, quella di Gesù, che identifica e rivela Dio, quel Dio
che sempre ci sfugge e sempre, malamente, immaginiamo.
Paolo rimprovera certi stili…
Se ascoltata con amorevole docilità, la confessione di Paolo
rimprovera certi stili che finiscono per tradire questa identificazione
tra la “forma divina” e il “farsi povero”.
Disattendendo alla Parola della Croce, accade che la povertà
divenga facoltativa, che si pensi di dire Dio e il suo Vangelo fuori
della dinamica dello svuotarsi e del donare fino alla morte di croce:
fatalmente attratti da mode di scribi che si impossessano delle case
delle vedove, obnubilati dal fascino di belle pietre scambiate per la
casa di Dio. Invece Gesù così ha testimoniato Dio e il suo agire con
gli uomini, assumendo senza sosta la forma di schiavo, in quello
svuotamento di sé dove interamente si dà in quanto interamente
si riceve. Fiorendo sulla contemplazione di questo mistero della
povertà del Signore, la testimonianza di una Chiesa povera potrà
propiziare negli uomini lo stupore per il vivere di Dio che coincide
con la forma del servizio. Ma bisogna farne tesoro e bisogna dirlo:
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che il Signore Gesù per farsi povero non ha dovuto né voluto
distaccarsi dalla ricchezza divina.
Al contrario, il massimo di attaccamento alla “forma di Dio” urge in lui
tutta la risolutezza per la povertà: il suo farsi povero avviene per una
incondizionata e coerente conformità all’identità di Dio, il Padre suo e
Padre nostro. La sua kenosis non contraddice la sua ricchezza divina;
piuttosto, la realizza in maniera radicalmente fedele, nell’obbedienza
al Padre. Lui, lui che in modo assolutamente singolare vede e sente
Dio, lui che in nostro favore ne realizza la volontà originaria, lui si
fa povero, svuota se stesso, si dà interamente, ricusando ogni gloria
mondana, ogni giaciglio compromettente, resistendo ad ogni
lusinga di avere, di potere, di apparire. Proprio per il fatto di essere
ricco, originariamente ricco della vita divina, il Signore Gesù viene
necessariamente nella piccolezza e nella povertà, da Betlemme
a Gerusalemme, dal grembo vergine di Maria al ventre nudo della
terra. Chi veramente vede e sente Dio si fa povero. Abbiamo in noi lo
stesso suo sentire (cfr. Fil 2,5)? Torneremo alla povertà di Betlemme,
torneremo alla solidarietà nascosta e discreta di Nazareth,
torneremo a peregrinare per il mondo senza “avere” dove posare il
capo, torneremo ad entrare nella città degli uomini sull’asino che il
Signore ha sciolto per noi? Volgeremo lo sguardo verso la vedova
povera che nella sua povertà ha gettato tutta la vita? Lì ci raggiunge
la ricchezza di Dio: riconosceremo lì la ricchezza del nostro vivere
divino?
Don Mario Antonelli
Teologo
Come il cammino nel deserto
Una riflessione missionaria sul mistero dell’Incarnazione
La prima cosa con la quale il missionario che parte dalla sua
terra deve confrontarsi è la novità della cultura, della lingua e
della situazione in cui viene a trovarsi arrivando nella sua “terra
di missione”. Per il missionario sacerdote c’è anche la necessità di
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inserirsi nel presbiterio e nella linea pastorale della Chiesa locale
dove lavorerà. Da un punto di vista personale deve cominciare a
mettere da parte il suo bagaglio culturale per “entrare” nella nuova
cultura. Nasce così spontaneamente la riflessione sul mistero
dell’Incarnazione. S. Giovanni, nel prologo del suo vangelo, ci
dice che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto a piantare la sua
tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). Già questa espressione ci ricorda
il cammino del popolo di Israele nel deserto e ci fa ricordare che
noi, come popolo di Dio oggi, siamo gente che sta in cammino e
che vive in un processo continuo di costruzione del nuovo, per
realizzare il progetto di Dio, il suo Regno; e l’Emmanuele, il Dio
con noi, cammina al nostro fianco.
Da ricco che era…
S. Paolo ci ricorda che Gesù, “da ricco che era, si è fatto povero
per arricchirci della sua povertà” (2Cor 8,9ss). Non solo, ma nella
lettera ai Filippesi, Paolo arriva “all’esagerazione” di dirci che Gesù
si è “svuotato del suo essere Dio” per farsi uguale a noi e assumere
la nostra natura umana (Fil 2,6-7). L’Onnipotente quindi si rivela
a noi come quello che non ha potere e il suo potere si manifesta
unicamente in questo infinito gesto d’amore. Con certezza
facciamo fatica a capire (e ad accettare, alle volte) un Dio così,
perché ce lo hanno sempre dipinto come quello che può tutto...
ma in realtà si spoglia del suo potere. Per questo, il Natale è la
festa che ci ricorda questa “pazzia amorosa” di Dio per noi. Come
una persona appassionata, alle volte fa qualche “stupidaggine per
amore”, così Dio sembra aver perduto la ragione ed ha compiuto
questo gesto da “amante appassionato” per l’umanità, svuotandosi
della sua divinità. Purtroppo noi abbiamo trasformato il Natale in
un caleidoscopio di consumismo.
Il missionario allora è quella persona che assume nella sua vita e
nei suoi atteggiamenti gli stessi atteggiamenti di Dio. Alcune cose
sono semplici conseguenze della scelta missionaria: lascia... la tua
terra, i tuoi parenti, i tuoi amici, le tue abitudini e costumi, ma il
lasciare non può essere solamente fisico, deve essere soprattutto
“creare il vuoto dentro di te” per poter accogliere e amare il
popolo che si incontrerà. Finché la missione è vista come “un dare
di chi ha a chi non ha” avremo sempre un rapporto di superiorità,
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dall’alto al basso di potere e non di fratellanza piena tra uguali.
Credo sempre più che la missione si realizza nella misura in cui ci
si “incarna” nella realtà dell´altro e se ne assume le gioie e i dolori,
le allegrie e le speranze, (cfr. GS 1) finché si diventa parte della
loro vita, come mi ha detto in Brasile un barcaiolo, una notte in
cui stavamo attraversando un fiume in piena: “vocês são gente da
gente “ che vuol dire “voi siete come sangue del nostro sangue”.
Fame di fraternità, di giustizia
La fame di pane che esiste nel mondo, in questa prospettiva,
diventa, prima di tutto, fame di fraternità, fame di giustizia, fame
di vita con dignità, rispettosa della stessa immagine di Dio che
ogni persona porta dentro di se. La proposta di Gesù si racchiude
in sintesi nella “condivisione”, dove, come per miracolo, i cinque
pani e i due pesci diventano l’alimento sufficiente per sfamare
una moltitudine (Mc 6,35-44). Il donare diventa così prima di tutto
il donarsi con la vita e la propria persona. È il farsi comunione,
imparando da Gesù che si è fatto alimento per noi. In America
Latina, come nel resto del mondo, abbiamo luminosi esempi di
missionari e missionarie che hanno donato la loro vita perché la
vita possa crescere negli altri. Il testo di S. Paolo nella II Lettera
ai Corinti fu scritta nel contesto di una colletta in favore delle
comunità più povere che stavano soffrendo la fame a causa di una
grande siccità avvenuta all´epoca. Questa condivisione dev’essere
il risultato di un atteggiamento fraterno che ci aiuta a costruire
comunione.
La povertà del missionario
La povertà del missionario è allora vivere continuamente le
dimensione del cammino nel deserto, quando la manna non
poteva essere accumulata, altrimenti marciva (Es 16). È la povertà
di chi vive sotto la stessa tenda, a cammino, facendo sempre
crescere dentro di se la fiducia estrema nella bontà e provvidenza
di Dio. È la povertà che si fa ricchezza in umanità, nel riuscire a
“vedere” le cose e la vita con altri occhi, riuscire a vedere quello che
Gesù vedeva quando lodava il Padre per le meraviglie realizzate
(Mt 11,25-27).
Quando vado in Italia e mi chiedono perché ritorno in missione
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quando ci sarebbe tanto bisogno anche là, ormai rispondo con
l’unica risposta che mi viene: “Perché voglio sempre imparare a
essere uno che cresce in umanità”.
Credo allora che è questo lo “svuotamento” che succede nella
persona e nella vita del missionario e che non è solo rinunciare
alla sicurezza dell´avere ma praticare sempre più questo “scambio”
perché così tutte due le parti possano crescere nell’essere. Se
noi sentiamo come missione di portare Gesù e farlo conoscere e
amare, e può essere anche intenzione sincera da parte nostra, è la
presenza del suo Spirito che ci fa crescere assieme in una scuola
di vita nella quale non esiste più professore e alunno, ma assieme
si è alunni e professori. È la povertà di chi deve continuamente
imparare ad essereuomo e donna, in un cammino di maturazione.
Don Pierluigi Sartorel
fidei donum in Brasile
Il pane evangelico della povertà
La condivisione come stile di vita
Il Signore nel suo Vangelo ha dichiarato beati i poveri. Come stile
d’annuncio ha chiesto ai suoi missionari di essere gente semplice,
senza il peso di sacche e bisacce, per un agire snello ed efficace.
Gesù propone uno stile di vita fondato non sull’accumulo ma sulla
condivisione: il di più e il di troppo diventa iniquo cioè non equo,
quindi malvagio.
Alla cerimonia di Invio, quando per la prima volta partivo per
L’Africa australe, mi è stato consegnato un Vangelo e i miei parenti
con i compaesani hanno messo la loro firma autografa ai lati di
alcuni brani. Molte firme si sono condensate su brani evangelici
che facevano accenno alla semplicità, alla povertà, agli ammalati,
ai sofferenti, agli emarginati, quasi come un invito a essere un loro
rappresentante in quei campi sociali che si mostrano più fragili
e più bisognosi di attenzione. A Brits, Sud Africa, ho incontrato
il povero Luiz. Un uomo finito, senza casa e senza niente. Aveva
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lavorato una vita in un hotel di nome Santa Barbara. L’hotel
chiuse e lui si ritrovò sul lastrico. Non era registrato nell’anagrafe
del comune, era entrato in Sud Africa molti anni prima quando
i confini erano poco sorvegliati e non si sa da dove. Non era in
possesso di documenti sudafricani, non si era mai interessato,
quindi non esisteva perché il suo nome non era scritto nei registri
del comune.
Mi sono letto il brano del Vangelo: “Beati i Poveri”. Per la prima
volta ho capito che non era rivolto a Luiz ma era rivolto a me,
era un invito a scendere dalla mia cavalcatura e farmi vicino fino
a immedesimarmi con lui, con il suo desiderio di protezione, di
sicurezza e di amore. Sarei io stato beato se fossi stato capace di
capire il messaggio che Dio mi lanciava attraverso di Luiz. Sarebbe
stato Beato anche Lui se io fossi stato capace di un gesto d’amore
nei suoi confronti. Si sarebbe sentito amato, capito e sostenuto.
Sarebbe stato beato perché avrebbe capito che Dio lo amava e
non lo avrebbe abbandonato. In quel momento ebbi la certezza
che Dio era lì, non solo in lui ma anche vicino a lui, come una
sfida, per invitare me a collaborare con lui a creare nuovamente
il mondo.
In quell’istante ho capito che si stavano gettando almeno nel mio
cuore le fondamenta per un nuovo sistema che dovrebbe regolare
il mondo: il condividere. Ricordo di aver scritto a molti di quelli
che avevano messo il loro nome nel Vangelo consegnatomi al
momento del mio invio in missione dicendo: Gesù sta bussando,
aiutatemi ad aprirgli la porta. La risposta non si è fatta attendere.
Ognuno ha fatto la sua parte incominciando a tirar fuori qualcosa
di buono che aveva nel cuore: l’amore. C’era, ma occorreva
una scintilla per farlo emergere. Si è scatenato così un piccolo
uragano di solidarietà che ha prodotto il miracolo dell’amore: con
beneficio di Luiz e con grande gioia di chi ha scoperto sotto le
vesti di un povero le orme della presenza di Dio. Mi sembra di
capire che l’evangelizzazione nuova o vecchia si realizza proprio
nella semplicità e nella povertà di gesti d’amore che riscaldano
chi dona e chi riceve, chi ama e chi è amato.
p. Gianni Piccolboni
missionario stimmatino
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Il riso della quotidianità
Alimento fondamentale in Asia, diventa parabola di
vita
In Thailandia parlare di pane è parlare “straniero”. Non è molto
diffuso il pane, anzi è considerato cibo prezioso o quantomeno
alla stregua di “dolce”. Piuttosto si parla di riso, da secoli. Il riso è
quotidiano, onnipresente, accompagna ogni pasto, abbordabile
da tutti, nutriente anche se monotono, facile da piantare e da
raccogliere. Basta avere acqua e pazienza. Il linguaggio così come
i ritmi delle stagioni sono legati al ciclo del riso (mangiare si dice
“mangiare riso”). C’è stato in passato anche un timido tentativo
di un sacerdote della diocesi di Chiang Mai di elaborare una
spiritualità del riso, una liturgia che abbia attenzione al lessico
del riso. Il riso non si pianta per fare business, ma per mangiare,
per vivere. Grazie al riso in Thailandia noi missionari non siamo
provocati costantemente da immagini di fame fisica e cronica.
Una scodella di riso, magari solo con erbe o peperoncino, c’è
sempre. Già questa prima osservazione mi permette di riflettere
sul senso del lavoro e del produrre. Penso alla creazione, ai suoi
doni come strumenti di vita prima che di speculazione. Non voglio
minimizzare l’ingegno umano che si attiva per creare risorse a
garanzia del futuro, e nemmeno banalizzare tutta la formazione
alla previdenza, al risparmio, al “mettere da parte qualcosa”. Certo
che tra questa gente recupero una provocazione a me utile nel
pensarmi missionario: l’evangelizzazione è per vivere non per
guadagnare. La Provvidenza è compagna di strada del missionario;
se non sul versante alimentare (godiamo di molti appoggi e stima
della gente), almeno per quanto riguarda la spiritualità. Un po’
come la manna che va assunta quotidianamente nella fiducia per
il giorno dopo.
Ciò che nutre non sempre è appetitoso
Il popolo Thai (solo i Thai?) è un popolo che ama la novità, rifugge
la monotonia, inventa stratagemmi per sfuggire alla routine, crea
occasioni per rendere saporita la quotidianità. I riti buddhisti
e le feste popolari ritmano il calendario locale. Eventi familiari
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(inaugurazione di una casa, funerale) e sociali (giorno del Re,
della Regina, del maestro, del bambino, i capodanni thai, cinesi,
occidentali...) sono momenti di grande kermesse, motivo per stare
assieme, uscire di casa, assaggiare gli infiniti tipi di cibi. Anche il
vizio contribuisce a rendere straordinaria la ferialità: si beve spesso,
si scommette su tutto: sulle formiche che corrono e sul peso dei
maiali... Insomma se la vita non è divertente non merita di essere
vissuta. Tornando al nostro riso: è buono ma monotono, non attira
l’attenzione, mattina, mezzogiorno e sera, sempre riso. Si perde il
valore del riso solo perché è privo di “novità”. Così la vita spirituale:
può essere importante, può sostenere una persona o un popolo
ma non risulta sempre “appetitosa”. In questo momento la Chiesa in
Thailandia, e noi missionari con essa, sente che la novità della fede
ha lasciato il passo alla ferialità. Le piccole comunità richiedono
stabilità, formazione, accompagnamento, consolidamento. Ne
sono coscienti i Pastori che sottolineano l’aspetto nei piani pastorali
del quinquennio e ne siamo
coscienti noi che non vediamo progressi numerici nel lavoro
pastorale.
Anche gli occhi si nutrono
Qualche missionario a suo tempo professava che non solo bisogna
essere poveri ma anche sembrarlo. Meriterebbe riprendere il senso
di tale stile apostolico in tempi come i nostri dove la suggestione
dei beni status entra nel tessuto anche del credente, il fascino della
tecnologia spacciata per utilità ma che inevitabilmente ci allontana
dalla sobrietà. In tale riflessione vorrei segnalare l’impatto che
ha sulla gente l’esempio delle migliaia di monaci buddhisti che,
scalzi e con il saio visibilmente arancione, ogni mattina questuano
il cibo. Nonostante certe contro-testimonianze è indubbio che
l’esempio di povertà da loro offerto parla al cuore della gente thai.
La povertà entra per gli occhi. Quasi a dare conferma al principio
sopra esposto, ma soprattutto a ricordare che la povertà non è solo
concetto teologico, è anche segno storico. Ai monaci un grazie per
mantenerlo attuale.
Don Attilio de Battisti
fidei donum in Thailandia
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Celebrare la trasfigurazione
Percorrendo un cammino di conversione e di povertà
Il cammino di Gesù da ricco che era fino alla povertà trova certe
similitudini con il cammino che non poche volte mi sono ritrovato
a fare verso alcune comunità situate su in montagna, come un
vero paradigma di un cammino di conversione e di povertà. È un
cammino in discesa per Gesù, è un cammino in salita per me…
allora mi faccio compagno di viaggio in una delle salite di Gesù
in montagna per comprendere con Lui la fatica e la bellezza di un
cammino fino alla cima. Come quella volta che con Pietro Giacomo
e Giovanni, Gesù sale verso il monte della trasfigurazione. Anche
io non fermandomi ai piedi della montagna, da circa tre anni vado
salendo verso un villaggio che si chiama ”Las Mesas” a due ore dalla
parrocchia incluso il tratto con il “fuoristrada”, il quale purtroppo
può arrivare solo fino ad un certo punto: resta poi un’ ora di strada
da percorrere a piedi. Il giorno che mi tocca andare nella comunità
de “Las mesas” ci si alza prima del solito, prima che salga il sole, in
modo da camminare al fresco, e limitare la fatica. La pendenza è
molto ripida, ogni 3/4 passi si sale di un metro, non ci sono molte
zone di ombra, ed arrivare il prima possibile è la preoccupazione che
spinge a camminare con una certa celerità. È comunque necessaria
almeno un sosta per riprendere fiato e riorientare la direzione, visto
che non sempre il cammino è ben tracciato. Alcune volte ci sono i
catechisti che ti accompagnano, altre, come le ultime due volte, mi
è toccata la sola compagnia del silenzio e della vista del panorama
che diventa sempre più ampio e colorato. Ad un certo punto finisce
la salita ed il cuore e l’animo si rallegrano, pur sapendo che mancano
ancora 20 minuti prima di raggiungere l’oratorio dove ti aspettano
già da un’ora. Beati loro.
Il cuore si rianima
Allora sì, che il cuore si rianima in prospettiva di un caffè caldo,
una sedia e volti da incontrare e salutare dopo circa un mese. Il
sudore abbondante fa fatica ad asciugarsi, per questo bisogna
avere pazienza ed aspettare… una vera e propria trasfigurazione,
altro che vesti splendenti e bianchissime. Finalmente si celebra
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l’incontro con la gente; le confessioni e la messa trasfigurano noi e
questo luogo, sicuramente lontano, ma non da essere dimenticato
da Dio visto la celebrazione dell’Eucaristia che abbiamo vissuto…
Abbiamo ascoltato la “Legge” e i “Profeti”, per riconoscere nel
Signore il compimento della Parola fatta carne, fatta storia, fatta
quotidianità… quello che è avvenuto nell’ultimo mese, i problemi
della comunità, la poca acqua dell’inverno passato che mette
a rischio i raccolti, la fatica degli insegnanti di arrivare fin su in
cima al villaggio, la attività di annuncio con le comunità vicine, le
catechesi settimanali attraverso le piccole comunità, la formazione
permanente dei catechisti e “delegati della parola” (figura pastorale,
responsabile della comunità) i vari appuntamenti formativi da
svolgersi giù “en el pueblo” (la sede urbana della parrocchia)... fino a
comprendere il mistero del Figlio Suo Gesù, l’Amato, ed ascoltarlo…
Ora è tempo di scendere, per un altro cammino, dall’altra parte della
montagna ci aspettano anche loro da circa un mese, per celebrare
la trasfigurazione, il volto nuovo di Cristo che sempre più assume
i contorni di una storia nuova e viva, segreta e profonda. Tanto
profonda da non poter essere rivelata, ma solo vissuta nella propria
carne. Così come il mistero di Cristo in croce, che da ricco che era si
è fatto povero proprio per la sua passione per il mondo che lo ha
portato alla passione della croce. Sono le tre del pomeriggio, ancora
mezz’ora di strada. E siamo arrivati al “fuoristrada” che mi riporta a
casa, pronti domani a riprendere il viaggio vero nuovi cammini di
conversione e di salvezza.
Don Luigi Pellegrino
fidei donum in Guatemala
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IL PANE
DELLA GIUSTIZIA
La scelta preferenziale dei poveri
Inserto giugno 2011
Perché la Chiesa del Signore sceglie
i poveri?
“La povertà del Signore è l’autentica apparizione divina
della verità”
L’incanto non si è dissolto; pur tra palpabili delusioni, il ricordo di quella
stagione porta con sé sapori di Vangelo. Sulla musica del Vaticano II,
le chiese latino-americane si erano presentate al gran ballo cattolico
come vestite a festa: e hanno incantato il mondo e infervorato i cuori,
danzando l’indimenticabile “opzione per i poveri”. Cautele e timori
(“preferenziale”, “non esclusiva né escludente”) non attenuano certo
l’impeto evangelico di questa opzione. Del resto, aprendo i lavori di
Aparecida, Benedetto XVI ribadì: “L’opzione preferenziale per i poveri
è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per
noi, arricchendoci con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9)”. Se è intrinseca alla
fede in Gesù Cristo, l’opzione per i poveri è tutt’altro che opzionale!
La Chiesa del Signore sceglie i poveri, semplicemente. Gli occhi fissi
su di Lui, la Chiesa “va e fa lo stesso”. Proprio per il fatto di essere di
forma divina, Gesù si è svuotato e ha assunto la forma di servo, in
una perfetta e drammatica corrispondenza alla sua forma originaria,
quella di Dio. Molto più che obbedienza a un comando, l’abbassarsi,
il diventare povero di Gesù è obbedienza incondizionale alla sua
forma divina: poiché, Lui ce lo ha rivelato, la forma divina è “diventare
piccolo”, “abbassarsi”, “discendere”.
Nessun distacco, quindi, dalla forma di Dio; al contrario, in nome
della conformità a Dio, per il radicale attaccamento alla forma di Dio,
ecco l’attaccamento incondizionale alla causa della salvezza degli
uomini. Condividendo singolarmente l’ardente desiderio del Padre –
la comunione con gli uomini – Gesù viene nel posto degli uomini.
Discende, sempre, fino alla fine, Figlio dell’Uomo, pane vivo, chicco
di grano, Figlio amato e fedele negli abissi del Giordano, Maestro
e Signore ad altezza dei piedi degli amici, pellegrino santo nelle
tenebre degli inferi: discese. Discese là dove gli uomini si trovano,
echeggiando in quel suo “Dove l’avete posto?” (Gv 11,34) la prima
struggente, tenerissima domanda di Dio all’uomo: “Adamo, dove sei?”.
Discese, per incontrarli tutti, per tutti attrarre e guidare al Padre, nella
vita finalmente buona e giusta dei figli. Già, dove stanno gli uomini?
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Ingenui o miopi, diremmo che stanno sulla terra, uno a fianco all’altro:
no. Gli uomini stanno nelle tenebre della sottomissione, nell’angoscia
della schiavitù, nei sepolcri della solitudine e della morte. Per via di
quell’antico contagio della superbia di Adamo e dell’invidia di Caino,
gli uomini non stanno uno a fianco all’altro, ma uno sopra l’altro, molti
sotto pochi. Sempre, i molti, stesi, piagati, prostrati, sotto i pochi, in
piedi, meglio, seduti sopra i molti.
L’ostinato permanere di Gesù nella forma di Dio, si svolge come
discendere non simulato, mai interrotto, determinato nel giungere
fino al punto più basso, dove, appunto si trovano non genericamente
gli uomini, ma quanti stanno “sotto” gli altri, gli schiacciati, gli
“scartati”, gli esausti, i dimenticati, i derubati di parola e volto, ...i
poveri. Lui discende fino alla fine: incontra loro. Vivendo del pathos
della paternità di Dio, Lui discende, Lui è il discendere di Dio. Nessuna
preferenza, nessuna selezione: Lui deve scendere, fino alla fine.
Discendere è la movenza di Dio. Incontratili lì dove dimorano, a loro
annuncia il Vangelo di Dio, a loro spezza e offre il pane, a loro schiude
gli occhi e scioglie la lingua, li benedice e protegge... che neanche il
seno di Abramo. Il ricco? Accade che, stando lì, aggirandosi con loro
in ogni sepolcro della storia e in ogni periferia del mondo, sedendo
con loro ad ogni tavola dei reietti, accade che così Gesù visita il ricco,
sempre e solo insieme al povero: e così lo ama, così lo inquieta, lo
sveglia. Per questo il ricco può intendere che non vi sono alternative:
se vuol venire dietro a Gesù e godere della vita eterna, deve venirci
insieme con il povero con il quale Gesù sta, diciamo per vocazione
e mandato divino (cfr. Lc 4,18); se vuole accogliere Gesù, deve
accogliere il povero. Se no si resta fuori, anche se si dicono preghiere
e si celebrano Messe, anche se si innalzano templi e ci si batte per la
causa di Dio: già, la causa di Dio...
La memoria evangelica del discendere del Figlio
In ogni tempo voci inconfondibili: grida che lamentano l’assenza
di Dio, diciamo la sua morte, gemiti di sofferenza che lascia la terra
ubriaca di sangue. La spada del potere e l’incenso della religione
sono implacabili, e quando stringono alleanze diaboliche, uccidono.
Uccidono Dio e gli uomini, senza vergogna. Anzi, non potendo
uccidere Dio, il quale sempre ha una riserva di vita, ecco che uccidono
quelli che più gli somigliano: i poveri. Lì si sente il grido dell’assenza
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di Dio; lì si ascolta il gemito della sofferenza di oppressi e sfruttati. La
memoria evangelica ci istruisce, senza scampo: così Gesù è “entrato
nel mondo” (cfr. Eb 10,5), discendendo, abbassandosi fino a giacere
al margine di ogni strada, fino a riposare e lottare negli inferi di chi
ormai è muto, meno che polvere: i poveri. Scendendo, costeggia
ogni margine del cammino, prossimo e solidale con ogni “Se tu vuoi,
puoi guarirmi” e sempre domandando “Cosa vuoi che io ti faccia?”.
Scendendo, vide e sentì compassione, saziò e annunciò, denunciò
la menzogna su Dio e sull’uomo, poiché di questa menzogna loro,
i poveri, sono il frutto: “sacramento del peccato del mondo”. Così in
basso che, soltanto incontrando loro, Gesù compie il suo discendere:
“Li ho visitati tutti, non ho perduto nessuno”. Nella compassione
solidale con il grido e il gemito dei poveri, Gesù testimonia la sua
divina contrarietà al peccato del mondo, non accetta il disordine e la
rovina del mondo sognato e voluto dal Padre (cfr. 1Cor 1,27).
La Chiesa che discende...
In Gesù e con Gesù non si esce dal mondo, vi si entra. Anzi, vi si discende:
senza dimenticare che il mondo è trama articolata di strutture sociali,
di vettori economici, di strategie politiche, di dinamiche culturali, di
tradizioni religiose. Scegliere i poveri significa ripensare una pastorale
più capillare e competente nel leggere, giudicare, agire nei mutati
contesti umani, più tempestiva nel riconoscere i volti dei poveri,
più disincantata nel sondare e affrontare i nessi profondi che, tra
globalizzazione e ingiustizia planetaria e locale, alimentano vecchie e
nuove forme di marginalità. La Chiesa, corpo reale di Gesù Cristo, entra
nel mondo e in esso discende così, al modo di Gesù? Siamo umanità
singolare, partecipi dell’umano singolare di Gesù? Sulle labbra di chi
soffre e spera al margine di ogni cammino tra periferie e centro del
mondo, si schiude la meraviglia che già è consolazione e liberazione?
Cominciano a sillabare: “Umani così soltanto possono essere i figli?”.
Si accende in loro l’idea giusta che questo umano identifica l’agire
di Dio, il suo discendere, il suo stesso essere? Aparecida viene a dirci
che l’opzione preferenziale per i poveri deve attraversare ogni nostra
struttura e priorità pastorale, il nostro tempo e la nostra preghiera,
i nostri piani pastorali e le nostre finanze (cfr. DA 396). Dedichiamo
tempo ai poveri, prestiamo loro amabile attenzione, li ascoltiamo con
interesse e passione, li accompagniamo con fedeltà divina, li scegliamo
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per vivere il tempo della vita nuova dei figli, “scendiamo” dove loro
giacciono, respirando con loro la polvere della marginalità, “stando
sotto” con loro, inventando da lì sotto, con loro, il mondo nuovo del
Regno dei figli, in carità e giustizia? ...invece di fermarci e sederci “sopra
di loro”, banchettando lautamente con quanti così, poveri, li hanno
resi o lasciati. “Quando dai un banchetto, invita i poveri, gli infermi, gli
zoppi e i ciechi” (Lc 14,13). La Chiesa “divinitus missa” (cfr. AG proemio)
è la Chiesa che discende: divinamente mandata. Il Signore Gesù
prospetta l’atto identificante del suo essere unto e mandato dallo
Spirito del Padre esattamente nell’evangelizzare i poveri: non altro! Il
Vangelo “a tutti” discende e passa sempre dai poveri: altrimenti non è
Vangelo, punto. L’annuncio del Vangelo ai poveri, dunque, attesta che
la Chiesa è “divinamente mandata”: non altro.
La Chiesa avvocata della giustizia e dei poveri
“Discendendo”, la Chiesa denuncia le strutture di ingiustizia e di morte,
vipere avvelenando la terra e i cuori, lupi terrorizzando e divorando
piccoli e indifesi, sfruttandoli e rendendoli “scartabili”. Quanta libertà,
quale indipendenza da vincoli e interessi per poter alzare la voce
profetica che annuncia e denuncia, difende e promuove, che unisce
forze e intelligenze sensibili e incoraggia progetti in favore della vita
degna dell’uomo! Mai si placheranno i venti sinistri, che impauriscono
rendendo la traversata una lotta. Accade che per mantenere relazioni
di reciproco interesse con le autorità pubbliche e quanti detengono
il potere effettivo, finiamo per tacere. Eppure quel “Vieni!” a Pietro e
alla Chiesa suonerà più forte di ogni vento contrario: e torneremo a
“discendere” con Lui, Chiesa “povera, missionaria e pasquale, libera
dal potere temporale e audacemente impegnata nella liberazione di
ogni uomo e di tutti gli uomini” (Medellín).
La Chiesa è “avvocata della giustizia e dei poveri”, “avvocata della
giustizia e della verità” (Discorso inaugurale di Aparecida): chi
sta nel posto di Pietro non tace. Benedetto XVI insinua quasi una
sinonimia tra “poveri” e “verità”. Optare per i poveri è optare per
la verità; discendendo dove i poveri giacciono, si coglie la verità,
la si concepisce: la verità che dalla terra germoglia, come il Figlio
dell’Uomo dal seno degli inferi. Optare per i poveri è lasciarsi attrarre
e sedurre dalla verità, quella di Dio, quella della vedova al Tempio:
che è lo stesso. Verità, forma di Dio, essere semplicemente senza
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avere nulla, poiché tutto è donato, dolce miracolo delle mani vuote.
Solo in quanto familiare con la verità di Dio e dell’uomo, la Chiesa
solidarizza con i poveri, forma un solido con loro: Chiesa dell’opzione
per i poveri, Chiesa povera, semplicemente. Che realmente “verità” e
“povertà” siano sinonimi? Il vincolo è profondo; i poveri sono epifania
di Dio, gli assomigliano spaventosamente, sono senza avere nulla.
Del resto, l’allora Card. Ratzinger scriveva che “la povertà è l’autentica
apparizione divina della verità”. Eccolo, il sogno di Giovanni XXIII: “La
Chiesa di tutti e, in particolare, la Chiesa dei poveri” (Messaggio al
mondo, 11/09/1962), la Chiesa “casa dei poveri di Dio” (DA 524).
Don Mario Antonelli
Teologo
I cristiani di Taybeh
Una comunità che non vuole arrendersi al conflitto
Settantasette. Settantasette sono i bambini nati sul checkpoint tra
Palestina e Gerusalemme. Di questi settantasette ventidue sono
morti. È da questi numeri che a Taybeh, paese palestinese di 1300
abitanti, tutti cristiani, si è deciso di cambiare. Don Raed, sacerdote
palestinese parroco del paese, ha preso l’abitudine di rispondere
sempre con l’azione alle richieste della sua gente.
Stanco di vedere i suoi parrocchiani fare di tutto per lasciare la loro
casa e andare a vivere all’estero, ha deciso di chiedere loro cosa
potesse fare per tenerli nella loro terra, per non farli scappare. “Dacci
un lavoro”, è stata la risposta. E così don Raed ha fatto. Da quella
richiesta sono nati tantissimi progetti che hanno permesso a tanti di
Taybeh di avere finalmente un lavoro.
Sì perché prima di don Raed qui non c’era assistenza sanitaria e per
trovare un ospedale occorreva andare a Gerusalemme. Ma andare a
Gerusalemme per un palestinese non è poi così facile. Devi passare
tutti i posti di blocco israeliani, devi trovare un soldato che ti faccia
entrare senza il permesso, indispensabile per passare il muro e che
non puoi avere se hai l’urgenza di curarti e di far nascere tuo figlio,
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perché per avere il lasciapassare ci vuole tempo, un motivo valido e
magari anche la giusta conoscenza. Così è nata la clinica di Taybeh, con
la sala parto, una sala operatoria per le emergenze e un laboratorio di
diagnostica.
Prima di don Raed…
Prima di don Raed non c’era una scuola efficiente, perché lo Stato
poco si cura dell’educazione. Ora sono 430 i ragazzi che frequentano
le scuole di Taybeh, provenienti da tutti i paesi vicini e di tutte le
religioni. Qui si insegna che la coesistenza pacifica è l’unica possibile
soluzione al conflitto che da tanti anni distrugge questa terra. Prima
di don Raed qui non c’era lavoro perché il 40% della popolazione
era disoccupata a causa dell’instabilità politica ed economica in cui
versa tutta la Palestina. Ma di lavoro ce ne poteva essere molto con
tutti gli uliveti che circondano le colline del paese. E quindi si è creata
una cooperativa per la produzione dell’olio perché è importante
“educare e capovolgere la mentalità del guadagnare e trasformarla
in mentalità del condividere”. All’inizio l’olio di Taybeh non aveva
mercato e veniva usato solo per pagare la retta scolastica dei propri
figli. Ma poi la parrocchia si è attivata e ora l’olio extravergine di oliva
di Taybeh viene venduto come prodotto del Commercio Equo e
Solidale sulla grande distribuzione francese e risponde ai requisiti di
qualità europei. All’olio si è aggiunta la produzione della birra, l’unica
prodotta in tutta la Palestina e per la quale quest’anno si è fatta una
fiera per attivare anche il turismo; delle lampade della Pace, che
vadano a illuminare tutte le chiese del mondo perché tutti preghino
per la Pace in Terra Santa; dei manufatti in legno d’ulivo; dei saponi e
delle creme del Mar Morto.
Ora a Taybeh c’è anche una casa per anziani
Prima di don Raed gli anziani rimanevano sulle spalle della famiglia
oppure restavano soli se i loro cari migravano all’estero. In Palestina
non c’è pensione e quindi andavano ad aumentare la povertà delle
loro famiglie. Ora a Taybeh c’è una casa di cura per anziani e malati
gravi. Tra poco verrà avviata una stazione radiofonica, l’unica cattolica
in tutta la Palestina. Si arrabbia questo dinamico parroco palestinese
con tutti i giornalisti che parlano della Terra Santa per dire che i
suoi abitanti sono dei perseguitati: “Non dobbiamo sentirci così! È
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ingiusto! Dobbiamo lottare per migliorare la nostra vita, lavorare,
risolvere i problemi quando ci sono, credere nella pace, denunciare
le ingiustizie perché una Chiesa di Gesù Cristo che non risponde
ai bisogni della sua gente e che non risponde ai perseguitati e alle
ingiustizie che la gente subisce non è una Chiesa di Gesù Cristo.” È per
questo che don Raed ha studiato negli anni la “mentalità del posto di
blocco” per sconfiggerla, perché “le leggi ingiuste sono imposte per
essere infrante”.
Don Raed si rifiuta di pensare che il soldato che gli vieta il passaggio,
perché solo in quanto palestinese non ha patente, sia un nemico. Gli
parla come a un amico, gli “dà umanità” affinché il soldato “restituisca
a me quella umanità che la legge mi toglie”. È per questo che a Taybeh
i giornalisti sono ben accetti, “che vedano che anche in Palestina si
lavora, si vive, si spera”. È per questo che i quarantamila pellegrini che
ogni anno passano da questo paese sulle colline circondato da ulivi
tornano a casa convinti che la comunità parrocchiale di Taybeh è un
grande esempio di come sia possibile lottare per la Pace con la Pace.
Benedetta Musumeci
Regalo di Pasqua nell’anno 2011
Lo speciale incontro - nella “casita” - tra la piccola Maria
e don Francesco Ballarini
Tre anni fa tre sorelline, Alejandra di 8 anni, Daiana di 6 e Maria di 5 anni,
venivano accolte nel nostro Centro Integrale Casa del Niño Lourdes
(che qui tutti noi ormai chiamiamo semplicemente e familiarmente
“Casita”). Quest’anno si è unito anche un loro fratellino, Yunior, di 5
anni. La loro mamma, tre anni fa, li ha abbandonati per unirsi con un
altro uomo. Il loro papà si è fatto carico dei suoi figli e veramente li
accompagna e li segue con grande amore e dedizione. Quando il
loro papà era venuto a bussare e a chiedere aiuto alla Casita subito
abbiamo aperto loro la porta delle attività. Vivono in due stanze non
molto lontano dalla Casita e adesso il papà, con l’aiuto del Comune,
sta cercando di costruirsi un’altra abitazione. Le bambine si inserirono
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presto con gli altri bambini. Però dopo qualche mese manifestarono
tutti i sintomi di chi è stato abbandonato. Soprattutto la più piccola,
Maria, si buttava per terra, gridava, calciava e scoppiava in un pianto
che era un grido di dolore. Molte volte mi capitava di assistere alle sue
grida di disperazione, e allora me la prendevo in braccio e la tenevo
con me anche un’ora intera e lasciavo che piangesse. Poi piano piano
si calmava e tornava alle attività con gli altri bambini. Come pure
molte volte, quando restavo a pranzo, vedevo che Maria non voleva
assolutamente mangiare. Allora la facevo sedere al mio fianco, le
parlavo, le tagliavo la bistecca e così cominciava a prendere il cibo.
Era logico che, poco a poco, si creasse un clima di fiducia da parte di
Maria nei miei confronti. Sempre, quando arrivo alla Casa del Niño, e
anche oggi che Maria ha 8 anni, è la prima che corre a salutarmi. In
questi anni Maria è cambiata moltissimo: è sempre felice e sorridente.
A scuola è stata premiata come la migliore compagna della sua classe.
Veramente si vede come il frutto dell’amore di tutti l’ha fatta rifiorire
e rinascere.
Il compleanno di Maria
Nei primi giorni di aprile, mentre stavo alla Casita, Maria mi si avvicina
e a bassa voce mi dice che il 9 di aprile avrebbe compiuto otto anni.
Spontaneamente le chiedo che regalo desiderasse ricevere e lei mi
dice che le sarebbe piaciuto avere una piccola cucina per giocare. Ne
parlo con Maria Laura, una parrocchiana, che si incarica dell’acquisto.
Sabato 9 di aprile al mattino vado a fare lezione ad un Centro di
Catechesi della Diocesi vicino alla casa di Maria. Nell’intervallo mi
carico sulle spalle il regalo e a piedi cerco la casa di Maria. Mi raggiunge
Silvita, un’operatrice del Centro, e assieme raggiungiamo la casa.
Chiamiamo e chiamiamo ma nessuno risponde. Allora bussiamo forte
ad una finestra che dà sulla strada e d’improvviso si apre una porta di
fianco: Maria esce di corsa con le sue sorelline. Non sto a descrivere
gli occhioni di Maria quando riceve il regalo. Ci salutiamo in fretta ed
io corro a terminare la lezione. La domenica mattina il papà viene alla
messa e non ha parole per ringraziarmi.
Il martedì della settimana santa avevo programmato la mia giornata:
visitare alcuni ammalati, confessare alcune persone ed altre cose.
Mi chiamano improvvisamente dalla Casita per complicazioni
riguardanti dei lavori di ristrutturazione che stiamo completando:
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l’incaricato del Municipio che doveva arrivare non arriva. Lo aspetto
fino al primo pomeriggio, invano. Il programma che mi ero prefissato
era completamente saltato e per di più avevo la netta sensazione di
non aver concluso niente. Verso le 16.30 decido di ritornare alla Casita.
Come entro in macchina vedo sul sedile davanti, al mio fianco, un
libretto che avevo lasciato il giorno prima. É un bellissimo libretto per
bambini che avevo trovato in un armadio in parrocchia, nel quale con
piccole frasi e con bellissimi disegni molto colorati si commenta la
preghiera del Padre Nostro. Sapendo che Maria quest’anno comincia
la catechesi per la Prima comunione ho pensato di donarglielo. Arrivo
alla Casita ma ormai già tutti i bambini se n’erano andati.
Scendo dalla macchina e vedo che lungo il viale ci sono ancora Maria,
Daiana e il loro fratellino Yunior in attesa del loro papà. Come Maria
mi vede, si mette a corrermi incontro. Mentre mi si avvicina le dico
“Sai, Maria, ho un piccolo regalo per te”. E lei Maria abbracciandomi
stretto mi dice, con la sua voce chiara e profonda: “Pero, Francesco,
vos sos un regalo de Dios para mi” (“Ma, Francesco, tu sei un regalo
di Dio per me”).
Resto ammutolito…
Resto ammutolito... e mi cadono le lacrime dagli occhi. È difficile
descrivere quello che ho provato in quegli attimi. Come in un film
rivedevo tutto quello che la Casita aveva significato per Maria in questi
tre anni. Credo che mai e poi mai, nella mia vita, dimenticherò quanto
mi ha detto Maria. So solo che Maria è stata come un sole dopo una
giornata grigia. Ho vissuto la settimana santa e la Pasqua con questa
frase di Maria stampata nell’anima e tutto si illuminava, tutto brillava.
E ripetutamente mi ritorna alla mente quando Gesù dice ”Ti ringrazio,
o Padre, perché hai nascosto queste cose ai saggi e agli intelligenti e
le hai rivelate ai piccoli”. Durante tutte le messe di Pasqua, della Vigilia
e della Domenica, ho raccontato alla mia gente questa esperienza
con Maria. Come Maria Maddalena corse ad annunciare ai discepoli
che Gesù era risorto, così Dio quest’anno mi aveva mandato un altro
angelo, la piccola Maria di 8 anni, per annunciarmi che Gesù è vivo e
presente.
Don Francesco Ballarini
fidei donum in Argentina
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Frammenti di resurrezione
Açailândia, Maranhão - Brasile
Ogni giorno la nostra comunità missionaria cerca segni di
resurrezione, dispersi tra i frammenti di molte battaglie, parecchie
sconfitte ed un certo senso di impotenza. Gli stessi discepoli hanno
avuto bisogno di molto tempo per comprendere ed assumere la
resurrezione di Gesù: è stato necessario raccogliere una buona serie
di indizi e testimonianze chiare.
Mi sono chiesto: in questo anno, che testimonianza di resurrezione
può dare la nostra comunità? Abbiamo qualche parola di speranza,
un messaggio concreto e fecondo da condividere? Il nostro modo
di testimoniare la resurrezione dipende molto dal tipo di morte che
stiamo sperimentando. La peggiore è la morte del sogno collettivo,
sconfitto dall’interesse istantaneo di piccoli vantaggi individuali.
È morte politica di chi desiste da uno sguardo più profondo ed ampio
e si lascia comprare o convincere da soluzioni immediate e a buon
prezzo, convenienti solo per un momento.
In questa regione giunsero, quasi contemporaneamente, imprese
ricche, voraci e determinate ad investire nelle risorse della nostra
terra; fu difficile, per la gente, resistere alla tentazione di poche
‘perline colorate’ che promettevano d’immediato. E così industrie
minerarie, di cellulosa e grandi investimenti in idroelettriche ed
allagamenti provocarono forti impatti, con il ‘rattoppo’ di pochi
progetti d’investimento sociale, puntuali e discontinui.
È risurrezione quando c’è ribellione contro la dipendenza
È resurrezione, quindi, tutte le volte che esiste una ribellione contro
questa dipendenza e, malgrado sproporzionata, la voce delle
comunità si alza per garantirne diritti e sogni. Con una immagine
biblica, è resurrezione tutte le volte che troviamo una di quelle
cinque pietre che hanno permesso al piccolo Davide di sconfiggere
(o perlomeno intontire) il gigante Golia. Se questo si ripetesse varie
volte, i ‘giganti’ di oggi si accorgerebbero poco a poco che non si
possono calpestare i territori delle comunità senza una seria ed
effettiva interazione con le popolazioni che vi abitano.
Cinque pietre, dicevamo:
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- una è stata la nostra recente partecipazione all’assemblea degli
azionisti dell’impresa multinazionale mineraria Vale, in minoranza
rappresentando le comunità più colpite dalle sue operazioni. Nel
cuore della logica incondizionata del guadagno, si sta sollevando
sempre più forte la voce di chi denuncia l’impatto socio-ambientale
ed esige rispetto per i piccoli;
- un’altra sarà la ‘Romaria da Terra e das Águas’, incontro di preghiera
e pellegrinaggio che raccoglierà nella nostra città di Açailândia
in settembre comunità cristiane del Maranhão intero: migliaia di
persone, segno di una chiesa vigilante e coraggiosa, che viene
a criticare un modello di sviluppo a senso unico, per il quale il
guadagno è privato ma gli impatti pubblici;
- un’altra sarà la recente missione, in Maranhão, della Federazione
Internazionale dei Diritti Umani, che ha studiato gli effetti nefasti
della multinazionale Vale in due casi emblematici della nostra
regione ed appoggia le rivendicazioni della gente: priorità assoluta
e condizione primaria di un reale sviluppo è il diritto alla vita, alla
salute e ad una abitazione dignitosa;
- ancora una la troviamo nei vari momenti di articolazione delle
comunità vittime di queste violazioni: si sta rafforzando una rete
di gruppi e piccole comunità che scambiano esperienze, strategie,
appoggi e solidarietà. Le imprese tendono a dividere la gente per
indebolirla, ma questo dialogo tra i movimenti rafforza la resistenza;
- una ultima è il successo di alcune azioni giuridiche o popolari
che finalmente obbligano le imprese ed il governo a rispettare gli
interessi della gente: lo sciopero dei lavoratori delle siderurgiche
e degli abitanti vittime dell’inquinamento, l’indennizzazione dei
famigliari di una persona travolta dal treno che trasporta il minerale
per l’esportazione, la condanna di Vale ad indennizzare quasi 800
famiglie tradizionali (quilombolas) a causa del conflitto su un’area di
esplorazione mineraria.
Sono questi i nostri piccoli frammenti di resurrezione; li aggiungiamo
umilmente agli altri che voi, che state leggendo, potrete incollare nel
mosaico della vita dei figli di Dio, più forte della morte che si vuole
installare in mezzo a noi!
p. Dario Bossi
missionario comboniano in Brasile
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IL PANE DELLA
FRATERNITÀ
“Beati voi poveri
perché vostro è il Regno”
Inserto settembre 2011
Beati i poveri
Una riflessione alla luce della Parola di Dio
Anni di convivenza, secondo il costume diffuso. Poi, sorpresi e
allietati dall’inedito di una Chiesa che visita e condivide il pane,
Benedita e Beto osano la novità del matrimonio secondo il
Vangelo. Nelle sere pensose, tra foresta e periferia di città, sensibili
alla voce dello Spirito, sognano, maturano, considerano, scovano
dubbi e dilatano il desiderio: “…e vorremmo che il Vangelo delle
nostre nozze fosse il brano delle Beatitudini”. Così fu. Oggi apro
questa consunta Bibbia dei miei anni brasiliani perché sia essa ad
addestrare l’intelligenza della beatitudine dei poveri: e vi vedo,
proprio sulla pagina di Mt 5, il rossetto appassionato e credente
delle labbra di Benedita. Già, quella sera delle loro nozze, dopo
la proclamazione del Vangelo, con occhi e sorriso, mi chiese
che anche lei e Beto potessero baciare quella pagina. E non fu
simulazione: resiste quel rossetto, marchiando a fuoco la lettera
della Scrittura perché venga a scaldare i cuori, attestando la
verità della beatitudine dei poveri, fissandone ed illustrandone il
paradosso: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei
Cieli.
Loro, i poveri, ci redarguiscono quando, sulle note di una retorica
insana, confondiamo l’essere “beati” con l’essere “santi”. Non solo
ogni professionista della missione ad gentes, ma chiunque con
dedizione disincantata abiti le periferie del mondo, sa molto bene
che i poveri non sono ipso facto santi. Il tempo della prossimità e le
fatiche condivise smentiscono in modo inappellabile che i poveri
siano senz’altro buoni. Del resto ci viene giustamente insegnato
che questo portale del discorso della montagna (così come la sua
redazione lucana) non tratteggia il profilo dell’uomo virtuoso, non
pretende elencare delle attitudini morali (la povertà, l’umiltà, la
mitezza, la giustizia, la purezza…) come meritevoli del Regno di
Dio. Piuttosto vi si dice di Dio e del suo operare in favore degli
uomini; in fondo, del suo modo di essere.
La misericordia e la giustizia del Regno di Dio
La beatitudine dei poveri – e la vicenda storica di Gesù che la
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incarna in modo singolare – rivela la misericordia e la giustizia del
Regno di Dio. Non risuona la raccomandazione di una disposizione
spirituale o di una postura religiosa; si parla invece di Dio e del suo
operare grazioso in favore degli uomini tutti. Felici i poveri non
già perché il Regno, la forza dell’agire grazioso di Dio sia a loro
esclusivamente riservato, a scapito dei ricchi; …ma perché l’agire
grazioso di Dio, che è per tutti, senza misura e senza flessioni,
nel povero non rimbalza contro la grassa prosperità che ottunde
l’intelligenza e pietrifica il cuore. Davvero beati i poveri – e la storia
del Povero di Nazareth lo conferma proprio nel suo esito pasquale
e nell’esultare di gioia per la rivelazione del Regno ai piccoli –
perché “costituzionalmente” aperti all’opera della grazia di Dio,
perché naturalmente consueti al chiedere e all’attendere, perché
nella notte del freddo e degli incubi la loro mano è tesa e non si
stanca.
“C’è una trasparenza della povertà”
Beati i poveri, poiché c’è una trasparenza della povertà: il povero ha
la forma del vuoto che può ricevere. Al contrario, quanto è difficile
a uno che ha ricchezze entrare nel Regno. La ricchezza, per sé, si
ritrova vertiginosamente esposta all’obesità dell’io che impedisce
di passare per la porta stretta: essa deve vigilare e duramente
lottare per riconoscere e vivere la sua intima vocazione che è la
condivisione e la solidarietà. Come potrà accadere l’esercizio del
ricevere nella gratitudine, laddove la logica dell’accumulo produce
sazietà e spegne l’attesa, riempie le bocche e le case e toglie il fiato
all’invocazione? Parliamo allora di un privilegio dei poveri: non che
Dio abbia un occhio di riguardo per loro. Il fatto è che, in quanto
poveri, essi non hanno gran ché da vedere e consumare; per
questo, mentre al ricco è difficile – e quanto! – entrare nel Regno,
accoglierne la forza trasformante, al povero è “facile”, …è meno
arduo avere un occhio di riguardo per Dio, sua speranza, suo bene.
Beati i poveri, poiché il “non avere” li cesella secondo la forma dei
“mendicanti della grazia di Dio”. E così si ritrovano “avvantaggiati”
per godere della verità di quanto, in fondo, Paolo afferma in 1Cor
13: c’è un avere (la grazia di Dio che in te si fa carità) che è un
essere, anche se non hai nient’altro; c’è un non avere (la grazia di
Dio…) che è un non essere, anche se hai tutto il resto…
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La povertà fornisce una predisposizione
Non che ciò sia scontato, ma in essi, ma nella povertà si dà come una
predisposizione: non che i poveri siano per sé bravi, ma in loro l’agire
della grazia di Dio non incontra la barriera e la potenziale opposizione
di tanti averi. La grazia più facilmente è sentita dal cuore, poiché il
cuore non è disperso in tante ricchezze, poiché il corpo non è gonfio
dai tanti banchetti né rivestito di porpora e bisso.
Eppure non basta. Anzi, se ci fermassimo qui nell’ascolto della
beatitudine dei poveri, ci rimarrebbe tutto l’imbarazzo di un equivoco
secolare: quello che nella parola di Gesù intende la legittimazione
interessata e/o rassegnata dell’insopportabile ingiustizia della
fame e della miseria, dell’indigenza e della sottomissione. Oppure
potrebbe farsi strada l’altro aspetto dello stesso equivoco: quello
secondo cui il cristiano ha il diritto di disprezzare le cose (e cibo e
vestito e casa…) o di guardarle con sufficienza. Per questo, si intende
bene la beatitudine dei poveri soltanto dicendo anche dei santi. I
santi, quelli che camminano per le strade e non temono la solitudine;
quelli che nella lingua del popolo annunciano la meraviglia che è Dio
e denunciano in faccia ai potenti ogni attentato al respiro del piccolo
e del povero. Loro, i santi, non ti raccontano il loro sforzo e il loro
sacrificio, ma ti dicono che Dio è davvero vino di festa e pane e vestito
e casa: e si percepisce al volo che questi, i santi, non conoscono
altra festa, altra gioia che quella di Dio e cercano anzitutto il pane
della grazia e lo spezzano sempre e sono vestiti di carità. Vestiti di
carità, e quindi di polvere e di sudore: e non riesci più a distinguere
il loro sudore da quello dei poveri e dei piccoli che gli si è attaccato
addosso...
I santi…
In effetti, i santi custodiscono la buona memoria della beatitudine
dei poveri. Loro sanno bene che il Regno è dei poveri, che il Regno
viene a visitare e trasfigurare la storia dei poveri. Loro sanno bene
che Dio non vuole che il paradosso della beatitudine dei poveri si
tramuti nella chimera di una promessa impalpabile. I santi e le loro
prime comunità garantivano l’oggettività di quella beatitudine, con
il coraggio della fede ne mostravano la verità: il Regno dei Cieli è la
gioia dei poveri. L’agire della grazia di Dio che istituisce la comunità
credente in quanto “vita nuova dei figli nel Figlio” sazia i poveri, ne
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inventa la gioia. A questa condizione la beatitudine dei poveri è
autentica: che la comunità dei santi anticipi in qualche modo la gioia
dei poveri, offrendo al povero Lazzaro la felicità del seno di Abramo
già qui nei suoi giorni di fame e di stenti. In qualche modo – si intende
al modo di Gesù – la comunità cristiana realizza la beatitudine dei
poveri: la profezia di Dt 15,4 (“Non ci sarà in mezzo a te nessun
povero…”) si fa storia. L’autenticità della beatitudine dei poveri
è responsabilità della comunità cristiana! Le parole di Gesù non
ingannano i poveri con il miraggio di una felicità che verrà alla fine e
le briciole vergognose di assistenzialismo ed effimere consolazioni.
I credenti
Luca conosceva bene l’oggi di Dio, grazia che si fa storia, vita nuova
delle comunità dei santi: “nessuno era bisognoso” (At 4,34), perché
tutto è posto in comune. Si pone tutto in comune perché si è
“credenti”; questa è la parola che ricorre nei tre quadri di At 2,4247; 4,32-35; 5,12-16. L’essere credenti è la ragione profonda della
comunione fraterna e della condivisione/comunione dei beni:
gioia dei poveri, il Regno per loro… e per noi. E Paolo non tace la
sua indignazione quando viene a sapere che la comunità di Corinto
non onora la sua conformità eucaristica al Corpo del Signore.
Se davvero mangiamo la cena del Signore, siamo vestiti a festa,
danziamo la carità, disegniamo la forma della croce, portiamo le
piaghe dell’umanità afflitta e disperata, ci pieghiamo a lavare i piedi
dei fratelli, siamo pane spezzato per tutti, nutrimento e consolazione
per gli affamati e i desolati: storica, memorabile anticipazione della
gioia dei poveri. Altrimenti finiamo per “disprezzare la chiesa di Dio”
e “umiliare i poveri”: e le due cose coincidono! “O volete gettare il
disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente?”
(1Cor 11,22).
Quando la Chiesa cede all’avidità e all’accumulo…
Che la Chiesa di Dio, cedendo alla logica mondana dell’avidità e
dell’accumulo, smarrisca così il suo splendore evangelico, è chiaro.
La si abbruttisce al punto da renderla irriconoscibile come Corpo
del Signore: dove le mani che tutto ricevono e tutto condividono?
Dove lo sguardo della compassione e la voce della consolazione?
Che i poveri, quelli che “non hanno niente”, se ne vadano “con
35
vergogna”, ecco questo merita un’ultima parola. I nullatenenti di
Corinto, Benedita e Beto e tanti altri, si erano accostati alla comunità
attratti dalla novità divina della condivisione, sognando il pane per
ogni giorno di stenti: come un presentimento di gioia sul palato e nel
cuore. Ed escono di casa per cercare la novità di questa comunità,
scommettendo sulla verità della beatitudine dei poveri proclamata
da Gesù, attendendone una cospicua anticipazione intorno alla
mensa della comunità, nelle case dei santi: oggi. Presumibilmente,
pure confidano quel presentimento di gioia a figli e amici, ne
osano la comunicazione e invitano alla festa, sfidando il ghigno
diffidente dei sospettosi che, forse già sanno come vanno le cose
a Corinto e altrove... Come torneranno alle loro case? Raccontando
e testimoniando che l’agire della grazia di Dio è davvero la gioia
del cuore e la sazietà dei corpi? O torneranno con la bocca ancora
vuota, le mani anche, e dovranno affrontare lo sguardo interrogativo
e deluso di figli e amici, resteranno ammutoliti dalla vergogna,
ridicolizzati da quanti volevano dissuaderli? “Dov’è il tuo Dio? Dov’è il
pane, la gioia promessa?”. Insomma umiliati, …da noi. Ma il bacio di
Benedita sulla pagina di Mt 5 non si cancella: mai.
Don Mario Antonelli
Teologo
Sud Sudan: condividere la festa con
i poveri
Juba, Sud Sudan, 11 luglio 2011
Carissimi amici,
sabato 9 Luglio 2011 il Sud Sudan ha proclamato ufficialmente, davanti
a tutto il mondo, la sua Indipendenza. È il 54° stato africano! Fin dalle
prime ore del mattino, una folla immensa ha occupato la grande
spianata del Mausoleo di John Garang, l’eroe del Sud Sudan, colui
che nel 1983 ha dato inizio alla grande ribellione contro il potere del
Nord e che è morto tragicamente nel 2005, solo 7 mesi dopo la firma
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del trattato di pace. All’aeroporto di Juba non sapevano più come
parcheggiare gli aerei che atterravano in continuazione. Ma devo
riconoscere che gli addetti ai lavori sono stati bravissimi. Finalmente
alle ore 11, dopo che tutti gli ospiti hanno raggiunto il Mausoleo,
hanno dato inizio alla grande cerimonia. Il momento più forte è stato
quando lo speaker del Parlamento ha letto la Dichiarazione ufficiale
di Indipendenza, seguita dall’innalza bandiera e dal nuovo inno dello
stato. A quel punto in tanti occhi sono comparse le prime lacrime, di
gioia, di felicità, di commozione, di dolorosi ricordi.
A quel punto l’emozione ha fatto inumidire anche i nostri occhi. Noi
non sappiamo cosa sia stata la guerra in tutti questi anni, ma siamo
testimoni degli effetti devastanti di questa guerra, siamo testimoni
della fame, della povertà, della mancanza del necessario, e già questo
ci basta, non osiamo immaginare di più, ma siamo ben consapevoli
delle sofferenze e delle privazioni che i sudanesi hanno vissuto. Ma
sabato non si poteva indulgere troppo sui ricordi tristi, la festa e la
gioia sono state dirompenti! Non so, mi sembra di non trovare le
parole giuste, per farvi gustare, comprendere le sensazioni che ho
sperimentato in questi giorni, spezzando il pane della fraternità con
questi nostri fratelli. Si respirava un’aria elettrizzante, una frenesia nel
preparare la città, ma anche se stessi, a questo grande evento. Era
l’attesa di un sogno, per cui si è pagato tantissimo in termini umani,
che diventa realtà in questo 9 luglio! Ho potuto vedere la felicità,
quella vera, che non è superficiale, evanescente, ma è la felicità
nata dalla fatica, dalla sofferenza e dall’impegno forte e costante nel
perseguirla.
In questi giorni i riflettori di tutto il mondo si sono posati su Juba e sul
Sud Sudan. Ho visto che anche il nostro Telegionale Rai ha dedicato
ben due minuti di servizio a questo evento! Scusate la polemica, ma
da un paio di mesi ho la possibilità di vedere in televisione il canale
Rai Internazionale. Alla sera, alle ore 9 sudanesi, trasmettono il TG1.
È veramente una cosa oscena. Di fronte alle grandi istanze che
vengono dal tutto il mondo (Libia, Siria, Egitto, Tunisia, Bangladesh,
Sud Sudan, solo per dire alcuni Paesi) il nostro telegiornale serale
non fa altro che interessarsi delle piccinerie da bambini dell’asilo dei
nostri politici. E quando trasmette qualcosa dall’estero, il servizio più
lungo riguarda la mostra dei cani a Parigi!!! Forse è un pò esagerato,
ma spero che abbiate capito il mio pensiero.
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Dicevo che i riflettori del mondo si sono posati, almeno per un attimo,
sul Sud Sudan. Ciò che spero è che questi riflettori non si spengano
troppo presto! Una nuova nazione che nasce ha bisogno di tanto
sostegno da parte di tutti. Spero che i Sud Sudanesi non vengano
dimenticati, così come spero però che non vengano ricordati solo per
il petrolio e le altre ricchezze che il sottosuolo ancora nasconde! Mi
piacerebbe che i Sud Sudanesi e la loro nuova Repubblica vengano
considerati come i fratelli più piccoli che hanno bisogno dell’aiuto
dei fratelli e delle sorelle più grandi per crescere.
Un abbraccio a tutti
Franca Cattorini
OVCI - La nostra Famiglia
Caracolì, Bogotà
Vivere la missione in mezzo alla gente
Suor Caterina Pintossi è una missionaria marista. Assieme ad altre
tre consorelle, da due anni vive a Caracolì, nella periferia di Bogotà.
Una zona abbandonata a se stessa, dimenticata dallo Stato, in
cui convergono migliaia di sfollati provenienti da ogni zona della
Colombia. Persone che fuggono dalla violenza, da una storia familiare
segnata da assassini, che cercano di proteggere i loro figli dalle
bande che li vogliono arruolare. Arrivano lì per ricominciare, anche
per dimenticare. Si accorgono, poi, che dimenticare è impossibile, e
che anche a Caracolì vige la legge del più forte. Ogni persona porta
infatti con sé la propria storia, i propri conflitti personali, che spesso
sfociano in una forte aggressività che rende difficile la convivenza.
Aggressività e violenza diventano degli stili di vita, nella convinzione
che solo attraverso di esse possano essere risolti i conflitti. Sia
quelli familiari, che quelli tra i diversi gruppi sociali e culturali che
si spartiscono quel territorio lacerato. In un luogo in cui lo Stato è
pressoché assente, droga e gruppi armati trovano terreno fertile per
le loro azioni. «Lo Stato qui è presente solo con dei piccoli bonifici»
spiega suor Caterina, che li considera come «un’elemosina data per
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metterli a tacere, in una situazione di odio e violenza, in cui la sola
cosa da fare è predominare». Problemi difficili da risolvere, perché
chi prova a ribellarsi, a denunciare, rischia la propria vita. In questo
scenario, le missionarie mariste si propongono di aiutare, pian piano,
un cambiamento nel punto di vista di queste persone: non più la
legge del più forte come unico credo, ma il dettato della solidarietà,
della condivisione, della fraternità, nell’ottica per cui riprendere in
mano la propria vita è possibile. Per far questo, occorre riconoscere le
conflittualità e le diversità, dando ad ognuno gli strumenti necessari
per comprendere le proprie potenzialità e svilupparle. La prima
missione di Caterina e delle altre suore mariste è di farsi presenti
in mezzo alla gente, vivendo tra di essa. Prima di loro, mai nessun
membro di un’associazione, di una ONG aveva scelto di vivere lì in
pianta stabile. Tutti, ancora oggi, vengono a svolgere la loro azione
durante il giorno, una volta alla settimana, o una al mese, per poi
ritornare alla propria abitazione, al proprio mondo.
All’inizio non è stato facile: ricorda Sr Caterina che le persone non
davano loro nemmeno il saluto e quando si avvicinavano, chiedevano
loro “Che cosa mi date?”. Con il tempo e con l’aiuto di una piccola
lotteria, le missionarie sono riuscite a entrare realmente in contatto
con gli abitanti di Caracolì, divenendo un punto di riferimento da cui
farsi ascoltare, a cui raccontare la propria storia, i propri sentimenti,
il proprio dolore. Aiutarli a far memoria della loro vita è un modo per
portarli a riconoscere e a prendere coscienza della luce e della speranza
radicate nel cuore di ognuno, fondamenti su cui ricostruire una base
per una nuova vita. Aiutarli a trovare in primis delle soluzioni alle
molte problematiche in cui vivono è un modo per responsabilizzarli
e renderli indipendenti. Le missionarie mariste sono presenti con
l’ascolto, la visita alle famiglie, l’accompagnamento dei bambini, che
spesso non riescono a frequentare la scuola perché devono badare
ai fratelli più piccoli mentre la mamma è fuori a lavorare, verso una
maggiore consapevolezza di sé e dei propri talenti.
Accanto ad un lavoro pastorale, queste missionarie portano avanti
un lavoro sociale, collaborando anche alla costruzione di un centro
formativo: la “Ciudad de Bra”. Il progetto, in fase di realizzazione,
prevede al suo interno la creazione di 4 aree (lavorativa, accademica,
missionaria spirituale e tempo libero), con attività che aiutino le
persone a sentirsi di nuovo in grado di prendere in mano la propria
39
vita. Le missionarie e tutte le persone che lavorano con loro, e da
loro si fanno accompagnare, hanno scommesso sulla creazione di
una nuova città, in cui condivisione, solidarietà, giustizia siano i valori
fondanti di ogni giorno. Per sr Caterina, il Vangelo, letto a Caracolì, dà
buone notizie, testimonia una Chiesa semplice, che sceglie l’opzione
per i poveri, facendosi realmente povera e condividendo tutto ciò
che ha. Una Chiesa che non è sinonimo di gerarchie e potere, ma
di presenza semplice che accompagna, invece di imporre, che è
realmente fraterna ed è testimonianza della possibilità dell’esistenza
di un nuovo mondo, del vero regno di Dio. Fa un certo effetto,
continua sr Caterina, leggere la pagina delle Beatitudini tra questi
versanti di Caracolì, strapieni di baracche, dove c’è un omicidio al
giorno. Fai fatica a vedere nel povero il beato se non entri nello loro
case e ti fermi con loro, e parlando con loro capisci come, dalla loro
povertà, sono molto più vicini a Dio e alla sua storia.
La Colombia ha conosciuto un’escalation di violenza in questi
ultimi decenni. La situazione colombiana, ci ricorda anche sr
Caterina, è molto critica: secondo le stime di varie organizzazioni
non governative ci sono circa 4 milioni di persone che sono state
obbligate ad abbandonare le proprie terre, circa trecentomila
morti violente l’anno, quindicimila desaparecidos ed il 40 per cento
della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Oltre a questi dati
allarmanti si ha la quasi completa assenza del diritto alla salute e
all’istruzione.
40 anni di guerra
La Colombia sta vivendo da circa 40 anni una vera e propria guerra
civile dove si fronteggiano i guerriglieri delle FARC da una parte e lo
Stato con l’esercito ed i paramilitari dall’altra.
Si sprecano le manifestazioni popolari per condannare, fermare e
denunciare, da parte della società civile, quello che viene definito il
Terrorismo di Stato. Ogni anno moltissime persone sono minacciate
di morte, innumerevoli torturati, rapiti ed infine molti omicidi
mirati (nel 2007 sono stati uccisi 70 sindacalisti) e la gran parte di
queste violenze si possono ricondurre alla polizia ed ai paramilitari.
Il 6 marzo del 2008 300 mila persone invasero le strade del paese
contro la violenza. Alcuni giorni dopo l’evento vennero uccisi
quattro organizzatori, due sono stati sequestrati e gli altri sono stati
40
minacciati di morte con lettere a loro recapitate in cui si leggeva:
“Vi colpiremo uno a uno e non permetteremo alla società civile
colombiana di alzare la testa”.
Secondo alcune stime, sempre di organizzazioni non governative,
circa il 35% dei parlamentari e senatori sono legati o fanno parte
di gruppi paramilitari. E questo certamente non aiuta a pacificare il
paese.
La redazione
I poveri di Erik
Nella chiesa Trinità di Salvador Bahia (Brasile)
In una chiesa abbandonata di Salvador Bahia, in Brasile, la chiesa
della Trinidade, Erik, un missionario pellegrino francese, ha iniziato
ad accogliere persone che vivevano sulla strada. Assieme a p. Joao e
ad altri volontari, Erik ha dato vita a una piccola comunità che vive la
dimensione della fratellanza. La chiesa della Trinidade ha oltre 300 anni
e si trova nella città bassa di Salvador, vicino al porto, lontano dalla
parte storica, più famosa e bella della città, tra droga, prostituzione
e malaffare, dove vivono gli esclusi dalla società. Da dieci anni, Erik
apre, ogni giorno, le porte della chiesa a chi vive per strada, offrendo
un’accoglienza molto semplice, ma fondamentale. «L’idea era di dire
alle persone: “stai dormendo sulla strada? Entra, sei benvenuto: porta il
tuo cartone dentro la chiesa e dormi”» racconta Erik. Ogni notte, trentaquaranta persone prendono i propri cartoni e si sdraiano tra le mura
della chiesa, sugli scalini, ovunque sia possibile trovare un giaciglio su
cui consentire al proprio corpo di riposare lontano dalla violenza della
strada. Non si richiedono documenti, non si fanno domande, non si
fanno discriminazioni. Semplicemente, si apre loro la porta, li si accoglie,
in uno spazio di confronto e di accompagnamento. Si inizia poi a
camminare con questa gente, per rendersi conto della loro situazione
e aiutarli a lavorare sulle cause dei loro problemi, in modo che, poco a
poco, possano reinserirsi nella società, trovare un lavoro, una casa, per
poter volare con le proprie ali. «Questa redenzione dei “cattivi” – dice
41
Erik – può cambiare il popolo della strada, della prostituzione e della
droga». E in questo spazio fisico, queste persone possono incontrare la
libertà, intraprendere un cammino di affrancamento dalla strada, dalla
prostituzione e dalla droga, iniziare un nuovo cammino di vita.
Accanto ad essi e a Erik, alcuni uomini e donne che hanno scelto di
rimanere nella chiesa della Trinidade per condividere la loro vita con
il popolo della strada: due sacerdoti, suore, laici, che hanno scelto
questa vita per seguire meglio il Vangelo. Tra loro, p. Giovanni Cara,
che racconta come vivere lì, tra queste persone, gli abbia insegnato
una cosa fondamentale: a fare silenzio, a tacere ed ascoltare queste
persone che, dopo aver perso tutto, cercano di recuperare la loro
dignità.
Lo scopo pastorale della comunità è permettere a tutte le persone
che vengono qui di cogliere e rendere reale l’invito che il Signore fa ai
“paralizzati” dalla vita che incontra: “alzati e cammina”, credi in te stesso,
trova in te questa forza e va’. C’è chi vive nella comunità, in questa
dimensione di fratellanza, da anni. Comune a tutti è la sorpresa di aver
trovato, finalmente, dopo anni di vita durissima sulla strada, qualcuno
capace di accoglierti e volerti bene così come sei.
La redazione
Un nuovo liceo a Mogodè
Un’opera dei fidei donum di Como, impegnati nel nord
del Camerun
Le settimane scorse, durante il corso per i partenti, hanno fatto una
visita al CUM Laura Pellizzari, Brunetta Cincera, don Corrado Necchi,
tutti fidei donum della diocesi di Como, impegnati nella diocesi di
Maroua-Mokolo, al confine con la Nigeria, dove la diocesi di Como
ha la cura di 4 parrocchie impegnando 7 persone: 4 preti, 2 laiche
consacrate, 1 laica. Nell’incontro ci hanno parlato del nuovo liceo
a Mogodè, iniziativa che ha come slogan “perché la scuola sia una
possibilità per tutti”.
Le province del nord del Camerun sono le più densamente popolare
42
e le più povere del paese. Dieci anni fa era stato fatto il calcolo che
la popolazione del Camerun sarebbe raddoppiata in 20-25 anni,
considerando la speranza di vita media (55 anni), il tasso di fertilità è
di 5/6 figli per donna e il tasso di mortalità molto ridotto, grazie ad
una sempre maggiore sensibilità alla prevenzione e alla salute. È facile
dedurre, dicono i fidei donum di Como, che la popolazione giovane
sia molto numerosa. Le province del nord, lontane dalla capitale, dai
centri amministrativi e industriali, sono le più svantaggiate. L’assenza
di risorse naturali le rende di scarso interesse politico ed economico.
Inoltre la dilagante corruzione fa si che la maggior parte dei soldi
pubblici si perdano per strada.
Nel comune di Mogodè sono state costruire recentemente cinque
scuole superiori: quattro licei e una scuola professionale. In queste
strutture le classi sono formate da 120-150 alunni, a volte anche 180,
anche se la legge prevede un massimo di 60 alunni per classe! Con
questi numeri è difficile far lezione, se poi si aggiunge, continuano i
fidei donum di Como, che i professori non sono presenti regolarmente
perché la loro retribuzione statale arriva spesso in forte ritardo, si
capisce come la qualità della scuola nel nord del Camerun sia molto
scadente. La diocesi di Maroua-Mokolo cerca di offrire, attraverso
le scuole diocesane, un insegnamento di qualità e una proposta
formativa a ragazzi e genitori che vivono in condizioni disagiate. Il
vescovo quindi ha pensato di realizzare a Mogodè una sezione staccata
del liceo già esistente a Maroua, offrendo la possibilità ai giovani del
territorio di frequentare un corso di studi superiore.
Il comune ha donato il terreno, la popolazione si è mossa per la raccolta
dei fondi necessari alla costruzione. Nell’autunno del 2008 sono iniziati
i lavori, nell’anno scolastico 2009-2010 la scuola ha aperto i battenti,
anche se ancora incompleta. Il direttore e lo staff degli insegnanti
sono locali, coordinati dall’equipe dei missionari di Como. I costo della
struttura (63 mila euro), è stato coperto per i 2/3 da risorse locali e da
1/3 dalla diocesi di Como. Così pure il costo di mantenimento annuale
della scuola: 10.000 euro dei quali 6.000 a carico delle famiglie e di
finanziatori locali, 4.000 euro a carico della Diocesi di Como. Beati i
poveri, perché riescono a trovare le strade della condivisione e della
fraternità.
Paolo Annechini
43
Sommario
- Prefazione - La domanda di pane
pag. 3
- IL PANE DEL VANGELO – inserto marzo 2011
- L’ultima chiamata
- Come il cammino nel deserto
- Il pane evangelico della povertà
- Il riso della quotidianità
- Celebrare la trasfigurazione
pag. 5
pag. 6
pag. 9
pag. 12
pag. 14
pag .16
- IL PANE DELLA GIUSTIZIA - inserto giugno 2011
- Perché la Chiesa del Signore sceglie i poveri?
- I cristiani di Taybeh
- Regalo di pasqua nell’anno 2011
- Frammenti di resurrezione
- IL PANE DELLA FRATERNITÀ - inserto settembre 2011
- Beati i poveri
- Sud Sudan: condividere la festa con i poveri
- Caracolì, Bogotà
- I poveri di Erik
- Un nuovo liceo a Mogodè
pag. 19
pag. 20
pag. 24
pag. 26
pag. 29
pag. 31
pag. 32
pag. 36
pag. 38
pag. 41
pag. 42
Ascolto assiduo della parola di Dio, celebrazione
liturgica e comunione nella carità sono, dunque,
le dimensioni costitutive della vita ecclesiale;
esse hanno un’intrinseca forza educativa, poiché
mediante il loro continuo esercizio il credente è
progressivamente conformato a Cristo. Mentre
testimonia la fede in letizia e semplicità, la comunità
diviene capace di condividere i beni materiali e
spirituali. Già così il compito educativo si mostra
quale «esigenza costitutiva e permanente della vita
della Chiesa».
Conferenza Episcopale Italiana,
Educare alla buona vita del Vangelo, n° 20
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